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Università Cattolica di Seoul

Facoltà di Teologia

VIA CARITATIS
La definizione «Dio è amore» come cammino
nella storia del pensiero teologico

Studente: Fabiano Rebeggiani

Relatore: Rev. Park Junyang

Anno Accademico 2020

1
Indice Generale

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4
91

1. PUNTI COMUNI DEGLI AUTORI

SCELTI.......................................................................94

2. PUNTI DIVERGENTI DEGLI AUTORI

SCELTI...............................................................100

3. PROSPETTIVE PER UNA TEOLOGIA DELLA VIA

CARITATIS.........................................101

105

ABSTRACT…………………………………………………………………………...111

INTRODUZIONE

Blaise Pascal scriveva che «l’unico oggetto della scrittura è la carità» e che
«tutto quello che non mira alla carità ne è figura». 1 Dio è agape, è carità, è amore 2:
1
Blaise PASCAL, Pensieri, V. E. Alfieri (tr.), Bussolengo (VR): Acquarelli, 1995, p. 129.
2
Questa trilogia di termini ci accompagnerà per tutto il nostro studio ed è pertanto necessaria una
chiarificazione terminologica preliminare. Il termine originario della definizione giovannea “Dio è
amore” è espresso con il greco della koiné dal termine ἀγάπη. Questo indica l'amore altruistico,
l'amore di dedizione e, in modo particolare, l'amore di Dio per gli uomini, come ci è stato manifestato
in Gesù Cristo. Il termine caritas è stato adattato dalla versione latina del Nuovo Testamento, proprio
per tradurre il termine greco ἀγάπη. La parola caritas nella sua etimologia latina deriva dall'aggettivo
carus, che significa costoso, a caro prezzo. Questo per indicare la portata dell'amore di Dio per noi
che, nell'offerta del Figlio per riscattare gli uomini, ha pagato un prezzo carissimo (cf. 1Cor 6,20).
5
questa è l’essenza della Rivelazione cristiana. Tutto quello che viene raccontato nei
testi sacri è figura di questo amore. L’amore è un atto libero di Dio che promana dalla
sua stessa natura che è agape. Pertanto i cristiani credono in Dio che si rivela a loro
come Colui che ama. L’oggetto della fede non è un oggetto formale ma concreto, non
è una filosofia né una morale, l’oggetto della fede è una buona notizia: Dio è amore.
La rivelazione di Dio, si realizza come «atto di Dio nei confronti dell’uomo, atto che
si spiega dinanzi all’uomo e per lui (e soltanto così può trovare in lui e con lui la sua
spiegazione). Di questo atto va detto che è credibile soltanto come amore: intendiamo
l’amore stesso di Dio, la cui manifestazione è la gloria di Dio». 3 L’uomo può
comprendere se stesso soltanto nell’orizzonte dell’amore che Dio ha per lui. L’uomo è
colui che è amato da Dio. Questa è in sintesi l’antropologia rivelata. L’uomo non può
vivere senza questo amore infatti «l’amore di Dio per noi è questione fondamentale
per la vita e pone domande decisive su chi è Dio e su chi siamo noi». 4 La nostra
ragione ci può condurre fino a un certo punto nella conoscenza di noi stessi e di Dio.
Ma la mera indagine razionale lascerà sempre all’uomo interrogativi profondi su se
stesso e su quell’essere che lo ha creato. Pertanto deve esserci un’altra via di accesso a
Dio e a noi stessi. La Via Caritatis, ovvero la via dell’amore, è quel sentiero che ci
conduce alla conoscenza di Dio e di noi stessi. Infatti «tra l’amore e il Divino esiste
una qualche relazione: l’amore promette infinità, eternità – una realtà più grande e
totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere». 5 L’amore ci apre
all’eterno, al totalmente altro, alla grandezza alla quale siamo chiamati. La ragione
può solo intuirlo ma nella sua finitezza è costretta ad alzare bandiera bianca di fronte
all’eternità e infinitezza dell’amore che è Dio. Questo «unico oggetto della scrittura»,
come lo definiva Pascal, ovvero l’amore che è Dio, dopo essere stato rappresentato in
figura lungo tutta la storia della salvezza, e rivelato dalle parole e dalle opere del
Verbo Incarnato, trova il culmine della sua espressione nelle parole dell’Apostolo
Giovanni:
«Chi non ama non ha conosciuto Dio perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di
Dio per noi: Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per
lui». (1Gv 4,8-9)

L’essenza profonda di Dio così ci è rivelata. Questa definizione di Dio che ci

Infine il termine ‘amore, dal latino amor, è un termine più generale che può indicare varie forme di
amore, come l'amore tra uomo e donna, l'amore per la patria, l'amore per una determinata scienza ecc.
Tuttavia esso può essere suddiviso in tre grandi concetti, quello di αγάπη, quello di ἔρως e quello di
φιλία, che affronteremo nel corso del nostro studio.
3
Hans Urs VON BALTHASAR, Solo l’amore è credibile, M. Rettori (tr.), Roma: Ed. Borla, 1982, p.12.
4
BENEDETTO XVI, Lettera Enciclica Deus Caritas Est, (25/12/2005),Città del Vaticano, Libreria
Editrice Vaticana, 2006, p. 9.
5
BENEDETTO XVI, Lettera Enciclica Deus Caritas Est, p. 13.
6
offre San Giovanni nella sua prima lettera ci dice chi è Dio e qual è la sua relazione
con l’uomo. Dio in un certo qual modo attraverso le parole del discepolo amato ci
rivela la sua essenza e la sua esistenza, ci dice apertamente chi è in se stesso e fuori da
se stesso (ex-istere) quando si comunica all’uomo. Questa affermazione, come detto,
non viene fuori dal nulla. Essa viene intessuta accuratamente lungo i secoli nella storia
della salvezza del popolo d’Israele. Viene preannunciata dai profeti. E nella pienezza
dei tempi rivelata nel Figlio. Essa cresce e si sviluppa in seno alla Chiesa nascente nel
corso dei secoli e diviene una via percorsa da numerosi pensatori cristiani, cercatori
del Dio-Amore, rivelatoci in Cristo Gesù.

L’obbiettivo di questo studio è quello di ripercorre dall’inizio questa via, la


Via Caritatis, mettendoci in ascolto di coloro che hanno riflettuto, approfondito e
meditato Dio nella sua identità agapica. Analizzeremo pertanto tutti quegli autori che
hanno in qualche modo posto come fulcro del loro pensiero teologico Dio che si rivela
come amore. Così facendo il dato della rivelazione biblica verrà approfondito e i suoi
contenuti organizzati in maniera sistematica, al fine di poter essere utilizzati quale
materiale per una successiva riflessione teologica.

Il nostro metodo sarà quello di un’ermeneutica che mira a far rivivere i testi in
questo presente storico. Proveremo a capire come risuonino le parole di Giovanni,
Agostino, Riccardo di San Vittore ed altri autori, in questa società post-moderna,
individualista e ammalata per mancanza di amore. Pertanto il corpo del nostro lavoro
sarà organizzato attorno alla citazione delle fonti che verranno contestualizzate,
commentate ed infine sinetizzate alla fine di ogni capitolo.

La struttura del nostro lavoro si svilupperà inoltre in maniera cronologica. In


particolare analizzeremo il punto di partenza di questo cammino di approfondimento
teologico, ovvero la testimonianza di Dio offertaci dall’apostolo Giovanni. Questo
primo approfondimento sarà preceduto da un breve excursus del concetto di Dio-
Amore nell’ Antico e Nuovo Testamento, a mo’ di preparazione. La seconda tappa del
nostro viaggio sarà la teologia di Agostino di Ippona (354 ~ 430) che più di altri con
il suo pensiero ha approfondito la tematica di Dio quale amore nell’ambito della sua
riflessione trinitaria. Il terzo approdo del nostro viaggio ce lo offrirà Riccardo di San
Vittore (1110 ca ~ 1173) con la sua opera De Trinitate (1148 ~ 1162)6. In essa
osserveremo come, a partire dalla definizione di Dio-Amore dataci da Giovanni, si
possa giungere alla dimostrazione della trinitarietà di Dio. Proseguiremo il nostro
percorso osservando come questo cammino si è poi diramato nei secoli della
riflessione teologica. In particolare ci soffermeremo su alcuni autori più recenti, quali
6
Per la data di composizione da riferire al periodo tra il 1148 e il 1162 si veda: RICCARDO DI SAN
VITTORE, La Trinità, a cura di M. Spinelli, Roma: Città Nuova, 1990, pp. 30-31.
7
Sergej Bulgakov (1871 ~ 1944) e Hans Urs Von Balthasar (1905 ~ 1988) che ci
aiuteranno ad ampliare il panorama. Questo ci consentirà di avere una visione più
variegata e approfondita della tematica. Il frutto di questo nostro viaggio nel tempo lo
offriremo alla riflessione teologica, cercando di operare dapprima una sintesi del
concetto del Dio-Amore. Su tale base proveremo, in un secondo momento, ad
impostare la nostra proposta, abbozzando in grandi linee una personale interpretazione
del concetto di Dio-Amore e delle sue implicazioni nel rapporto con l’uomo e tra gli
uomini. La scelta degli autori come detto è dovuta al fatto che tutti hanno
approfondito e posto come centro della loro riflessione teologica il Dio-amore. Inoltre
il pensiero di ciascun autore e strettamente legato a quello degli altri con continui
rimandi alle opere reciproche. Agostino è lo snodo fondamentale della via caritatis.
Egli infatti riflette profondamente sulla definizione di Giovanni e offre i frutti della
sua riflessione alla posterità. Riccardo di San Vittore attinge molto da Agostino
nell’articolazione della sua teologia trinitaria. Bulgakov fa riferimento direttamente ad
Agostino nelle sue opere, mentre Balthasar cita indistintamente Agostino, Riccardo e
lo stesso Bulgakov. Tale significativa interconnessione tra le opere diquesti autori, e
soprattutto il progressivo avanzamento nell’approfondimento della tematica in
oggetto, ci fa concludere che la loro riflessione teologica si configuri proprio come
una via che tende alla conoscenza dell’essenza di Dio-amore.

Le linee di fondo che questo studio si propone di seguire sono quelle tracciate
dalla Commissione Teologica Internazionale:
«il mistero di Dio e dell'uomo si manifesta al mondo come mistero di carità. Alla luce della
fede cristiana, è possibile dedurne una nuova visione globale dell'universo. […] Al centro
d'una tale "metafisica della carità" non si colloca più la sostanza in genere come nella
filosofia antica, ma la persona, di cui la carità è l'atto più perfetto e più idoneo a condurla alla
perfezione».7

Il nostro studio si propone appunto di ripercorrere la Via Caritatis, al fine di


poter illuminare il rapporto tra Dio e l’uomo, attraverso l’elaborazione di una
metafisica della carità incentrata non soltanto sul concetto di Essere ma soprattutto sul
concetto di Dio-Amore, quale fondamento ultimo della creazione e della redenzione.
Questo lavoro non vuole essere un’opera speculativa fine a se stessa,
ma vuole al contrario porre al centro dell’attenzione l’attualità e l’importanza per
l’esistenza degli uomini di quel Dio che ci è stato rivelato come Amore. Siamo in un

7
COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Teologia, Cristologia, Antropologia, Città del
Vaticano, 1982, citato da:
www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_1982_teologia-cristologia-
antropologia_it.html, 28/10/2020.
8
contesto storico di raffreddamento globale dell’amore. Come leggiamo nel vangelo di
Matteo: «per il dilagare dell'iniquità, si raffredderà l'amore di molti» (Mt 24,12). La
secolarizzazione, alimentata da una cultura globale fondamentalmente individualista e
pagana, sta progressivamente congelando l’amore. Le persone sono più sole, le
famiglie si dividono, i figli non nascono, gli anziani muoiono da soli. Perchè non
riusciamo più ad amare? Cercheremo di rispondere a questa domanda in maniera
cristologica. Cristo è la manifestazione dell’amore del Padre per gli uomini. Cristo è la
risposta che l’uomo di oggi sta aspettando. In Cristo noi siamo amati e possiamo
amare. Vedremo come l’altro, che mi viene incontro ogni giorno sul cammino della
mia vita non è l’inferno, come diceva Sartre8, ma l’altro è Cristo, perchè voluto e
amato da Cristo stesso. Nell’amare l’altro siamo conosciuti da Dio, cioè da lui amati,
perchè nell’amore al prossimo ci uniamo al suo Figlio Gesù Cristo vivente in ogni
uomo. Questo è il cammino che con l’aiuto di Dio ci prefiggiamo di percorre e per il
quale invochiamo la grazia di Cristo al fine di illuminare le nostre menti
all’intelligenza della fede, che è conoscere Dio per poterlo amare sempre più e nutrire
con tale conoscenza le persone che Egli ci ha affidato.

Capitolo I

IL DIO-AMORE NELL’ANTICA E NELLA NUOVA ALLEANZA

1. LE IMMAGINI DEL DIO-AMORE NELL’ANTICA ALLEANZA

La definizione “Dio è amore” può essere considerata il culmine della


rivelazione divina. Tuttavia essa giunge alla fine del Nuovo Testamento, alla fine cioè
di una storia di amore che intercorre tra Dio e l’uomo. Questa storia d’amore
comprende naturalmente Antico e Nuovo Testamento e mostra come Dio prenda
l’iniziativa di un dialogo di amore con gli uomini e in nome di questo amore insegna
loro ad amarsi gli uni gli altri. 9 Quindi, anche se all’inizio dell’Antico Testamento non
abbiamo una definizione esplicita di Dio quale amore, tuttavia possiamo riscontrarne
la presenza attraverso un’analisi dettagliata degli atti divini a favore dell’uomo:
«Israele molti lineamenti dell’unico Dio li scoprì nel mondo della creazione, ma altri
non meno meravigliosi li scoprì nel mondo della sua storia, attraverso quegli eventi
con cui JHWH non cessò di ratificare l’alleanza col suo popolo» 10. Cercheremo

8
Cf. Jean Paul SARTRE, Huis clos, Paris, 1944, scena 5.
9
Cf. Claude WIENER, « Amore », Dizionario di Teologia Biblica, a cura di Leon-Dufour X.L.,
Genova, Casa Editrice Marietti, 2014, p.45.
10
Battista MONDIN, La trinità mistero d’amore, Bologna: Edizioni Studio Domenicano, 1993, p.64.
9
quindi, in queste prime righe di delineare una fenomenologia del Dio-Amore
attraverso una rassegna commentata dei racconti e delle profezie bibliche, al fine di
descriverne i tratti essenziali. Il principio che ci guiderà è quello dell’agere sequitur
esse, per il quale se l’essere di Dio è amore il suo agire è una conseguenza del suo
essere amore, poiché Dio è atto puro e la sua essenza coincide perfettamente con
l’esistenza.

1.1. LA CREAZIONE COME ATTO D’AMORE

Nell’ Antico Testamento11 l’amore di Dio per gli uomini si rivela attraverso
una serie di eventi peculiari: «iniziative divine e rifiuti dell’uomo, sofferenze
dell’amore respinto, superamento del dolore per essere all’altezza dell’amore ed
accertarne la grazia».12 La prima iniziativa del Dio-Amore che rileviamo nel testo
biblico è quella della creazione. 13 La parola amore non è esplicitamente presente nei
racconti della creazione, tuttavia la bontà con cui vengono create tutte le cose evoca
l’amore di cui Adamo ed Eva sono l’oggetto. Inoltre l’atto stesso di creare l’uomo a
sua immagine e somiglianza, afferma con maggiore chiarezza l’amore che Dio ha per
l’uomo. Dio vuole renderlo partecipe della propria natura (la natura di Dio è amore,
l’uomo partecipe della natura divina può ricambiare l’amore di Dio, e può amare il
prossimo, il creato e anche se stesso). Infine Dio dà all’uomo la libertà. Il vero amore
deve essere libero. Non si può amare per costrizione. Per questo Dio, che è amore, e
che pertanto non può non amare, vuole che la risposta dell’uomo a questo amore sia
libera. Tale risposta può configurarsi anche come un rifiuto. Ed è appunto il rifiuto il
primo colpo di scena della storia d’amore tra Dio e l’Uomo: il peccato originale (cf.
Gen 3). L’uomo attraverso il peccato recide il legame con la fonte dell’amore e
pertanto scopre di non avere più in sé quell’amore che gli consentiva di relazionarsi
armonicamente con il prossimo e col creato. L’uomo si ripiega su se stesso in maniera
egoistica, non riuscendo a soddisfare quel desiderio di amore eterno che gli è rimasto
dentro, quel desiderio che il peccato non è riuscito a cancellare fino in fondo. Quel
desiderio di pienezza che è appunto quel ricordo lontano del Dio-Amore che lo ha
creato per amarlo. L’uomo senza Dio non si riconosce più ed arriva fino al punto di
11
Jan Alberto SOGGIN, Introduzione all’Antico Testamento, Brescia: Paideia Editrice, 1987, pp. 169-
174; Gianfranco RAVASI, Introduzione all’Antico Testamento, Casale Monferrato: Piemme, 1991, pp.
50-52; PAUL-MARIE OF THE CROSS, Sprituality of the Old Testament. 2 : Divine love, London: B.
Herder Book Co, 1962, pp. 166-233; Yochanan MUFFS, Love & Joy: Law, Language, and Religion in
Ancient Israel, New York: Jewish Theological Seminary of America; Distributed by Harvard
University Press, 1992, pp. 33-38, 49-60; Hermann SPIECKERMANN, God's steadfast Love. Toward a
new Conception of Old Testament Theology, Roma: Commentarii Periodici Pontificii Instituti Biblici,
2000 (vol 81 fasc. 3), pp. 305-327.
12
Claude WIENER, « Amore », Dizionario di Teologia Biblica, p.47.
13
Cf. William GREENWAY, For the Love of All Creatures: The Story of Grace in Genesis, Gran
Rapids, Eerdmans, 2015, pp. 67-105.
10
disprezzarsi. Dio è amore perché non abbandona l’uomo caduto, ma prende di nuovo
l’iniziativa, cerca di iniziare un nuovo dialogo d’amore con l’uomo che invece vuole
perdersi.

1.2. LA CHIAMATA DI ABRAMO E LA PROMESSA QUALI SEGNI DELL’AMORE DI DIO

Questa seconda iniziativa di Dio per riconquistare il cuore dell’uomo comincia


con la chiamata di Abramo (cf. Gen 12). Dio ama Abramo e per questo lo chiama. La
chiamata è una forma di amore e di predilezione. Abramo diviene così l’amico di Dio.
L’amore di Dio per Abramo si configura sotto forma di amicizia a tal punto che
Abramo diviene il confidente dei segreti di Dio. Tale amicizia è il frutto della fede di
Abramo. Abramo crede alla promessa che Dio gli fa e decide di lasciare la propria
terra per seguirlo. C’è una risposta concreta all’amore di Dio. La fede di Abramo è il
primo passo dell’uomo sulla strada del ritorno a Dio, è il primo timido consenso al
corteggiamento di Dio dopo il grande rifiuto del peccato originale. Dio nel suo grande
amore mantiene la promessa fatta ad Abramo, dandogli Isacco (cf. Gen 21), lo
benedice, gli è propizio e lo protegge dagli altri popoli. Dio infine mette alla prova
Abramo, chiedendogli di sacrificare il figlio amato (cf. Gen 22), per farlo penetrare
più a fondo nel mistero del suo essere amore. Gli chiede di sacrificare l’amore umano
in vista di un amore più grande. Dio vuole far crescere Abramo nell’amore, fargli
capire che l’unica relazione vera che conta è quella con il Dio-Amore, fonte
dell’amore. Non si può amare un figlio di amore vero se non attraverso quell’amore
che è Dio stesso. Avviene qui una purificazione delle relazioni. Il sacrificio di Isacco è
già qui prefigurazione di ciò che Dio farà con il proprio Figlio. Dio non lo risparmierà
per amore dell’uomo. L’amore divino si configura già qui in prospettiva come
donazione e sacrificio.

1.3. IL DIO-AMORE NELL’ESODO: LA LIBERAZIONE DALL’EGITTO E LA


RIVELAZIONE DEL NOME

Nell’Esodo l’atto di amore divino si configura innanzitutto come un atto di


liberazione del popolo eletto dalla schiavitù dell’Egitto. Dio ascolta il grido del suo
popolo che soffre. Prendersi cura di chi soffre, prestare attenzione alla richiesta di
aiuto, abbassarsi al livello dello schiavo sono tutti elementi che alludono all’amore e
alla donazione di sé. Dio sceglie per la sua opera di liberazione Mosè. Vedremo come
Mosè crescerà nella relazione con Dio fino a diventarne amico e a dialogarvi faccia a
faccia (Es 33,11).
In secondo luogo la rivelazione del nome divino indica la vicinanza e
la presenza amorosa di Dio al suo popolo. Dio infatti, in maniera inaudita, rivela a
Mosè il suo nome. Dobbiamo un attimo soffermarci sulla rivelazione del nome divino

11
perché è uno snodo cruciale della riflessione teologico-filosofica sul concetto di Dio.
All’inizio del capitolo 3 dell’Esodo, Dio si presenta così: «Io sono il Dio di tuo padre,
il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,6). É dunque un Dio che
agisce nella storia. É il Dio che si è rivelato ai patriarchi. La rivelazione divina sembra
a prima vista una rivelazione narrativa, cioè Dio sembra dire: “Per capire chi sono
guarda alla storia dei tuoi antenati, guarda a ciò che ho fatto per loro e allora capirai
chi sono. Quello che sono stato, è quello che sono, è quello che sarò.” L’essenza di
Dio si esprime in una serie di atti in favore del popolo. Questa prima affermazione
prelude alla rivelazione definitiva del nome divino quando, a Mosè che gli chiedeva
quale fosse il suo nome, Dio risponde: «Io sono colui che sono (Ehyeh asher ehyeh)»
(Es 3,12). Non si tratta qui di una affermazione metafisica dell’ipsum esse subsistens,
che al limite potrebbe esserne una interpretazione platonico-aristotelica successiva, e
che comunque non corrisponde all’intento originale del testo. L’enigmatica
espressione Ehyeh asher ehyeh ha suscitato studi filologici, teologici e filosofici di
alto livello tuttavia «scarsa attenzione é stata invece dedicata alla rilevanza narrativa
dell’auto-designazione divina nel contesto dell’Esodo» 14. Inoltre, analizzando la
struttura del verbo ehyeh, si riscontra «la rilevanza temporale della forma
dell’imperfetto ehyeh, che può esprimere un passato oppure anche un presente con
aspetti di ripetizione o di durata (“ero”, “sono solito essere”) o anche un futuro
(“sarò”)»15. Pertanto qui lungi dall’abbracciare il campo metafisico, siamo nel campo
dell’esistenziale. Dio rivela all’uomo che è al suo fianco. Dio c’era, Dio c’è e Dio ci
sarà. Questa é la buona notizia che Dio rivela a Mosè. Tu guiderai questo popolo dalla
schiavitù alla libertà perché io sono con te. L’amore di Dio per il suo popolo è un
“essere con”, “un essere per” è un “esserci”.

1.4. LA MISERICORDIA E LA GIUSTIZIA QUALI ATTRIBUTI DEL DIO-AMORE

In terzo luogo l’Esodo ci presenta gli attributi essenziali del Dio-Amore,


ovvero la misericordia e la giustizia. Il concetto di misericordia in ebraico viene
espresso dalla parola hesed. Essa può essere tradotta anche come bontà, benevolenza e
fedeltà. Essa si presenta nel Pentateuco sempre accompagnata da un altro attributo
fondamentale di Dio, la Giustizia (tsedeq). Nell’Esodo leggiamo:
«Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino
alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a
mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.» (Es 20,5-6)

Il mostrare la sua bontà sembra essere abbastanza in linea con l’idea di un Dio
14
Jean Pierre SONNET, Ehyeh asher ehyeh (Es 3,14): l’«identità narrativa» di Dio fra suspense,
curiosità, e sorpresa, Roma: in “Teologia”, anno 2011, vol. 1, p.14.
15
Ibid., p.16.
12
amore. Mentre il verbo “punire” appare un po’ in antitesi con un Dio misericordioso.
Tuttavia «questi due verbi enunciano i due versanti, o meglio i poli costitutivi del
personaggio biblico di Dio. La formulazione ci richiede di non separare ciò che, in
Dio, è misteriosamente unito: quando si tratta del Dio biblico, l’attributo della
giustizia non sta senza quello della grazia (o della misericordia), e viceversa» 16. Il
verbo “odiare” che riscontriamo nel testo ci richiama a quel rifiuto di Adamo
all’amore offertogli da Dio. La punizione di Dio si configura come una correzione, un
invito alla conversione. Ma significa anche che l’uomo che rifiuta Dio si ritrova solo
per sua scelta. La sua punizione è proprio un’esistenza priva della compagnia di Dio.
Chi ama Dio, invece, accoglie il suo amore ed è amato da Dio e sperimenta quindi la
dolcezza del vivere alla sua presenza. Leggendo l’Antico Testamento si può
riscontrare come Dio passi dalla misericordia alla giustizia caratterizzando il suo
essere per una irriducibile drammaticità. Il Dio dell’Antico Testamento è un Dio
immutabile ma che tuttavia sa ravvedersi; egli «alterna le sue disposizioni più
profonde restando fedele a ciò che egli è»17. Chi ama si ravvede, sospende l’iniziale
proposito di rottura della relazione col prossimo e apre ad una possibilità di
riconciliazione. La durezza e l’inflessibilità non sono gli attributi del Dio-Amore, ma
lo sono invece la tenerezza e il ravvedimento.

1.5. L’ELEZIONE E L’ALLEANZA RIVELANO L’AMORE DI DIO PER IL SUO POPOLO

Infine nell’elezione del popolo di Israele in mezzo agli altri popoli e


nell’Alleanza del Sinai scorgiamo altri elementi essenziali che ci parlano della natura
agapica di Dio. Come vedremo nel seguente testo del Deuteronomio il criterio unico
dell’elezione di Israele è l’amore che Dio prova per lui:
«Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore, tuo Dio: il Signore, tuo Dio, ti ha scelto per
essere il suo popolo particolare fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e
vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di
tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai
vostri padri: il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla
condizione servile, dalla mano del faraone, re d'Egitto». (Dt 7,6-8)

Non vi sono criteri meritocratici nella scelta del popolo da parte di Dio. Il
popolo d’Israele non è un grande popolo. Anzi è piccolo, schiavo e circondato da
nazioni più potenti di lui. Il popolo non si distingue neanche per qualche caratteristica
peculiare che lo renda amabile agli occhi di Dio. L’iniziativa in questa storia d’amore
tra Dio e Israele è tutta di Dio. Il vero amore è disinteressato. Qui la religione naturale
16
Jean Pierre SONNET, Giustizia e Misericordia, Roma: in Civiltà Cattolica, anno 2016, vol. 1, p. 334.
17
Jean Pierre SONNET, Giustizia e Misericordia, p. 347.
13
in cui l’uomo deve compiere atti e sacrifici per accattivarsi la benevolenza del proprio
Dio appare lontana anni luce. Appare qui in forma velata ciò che Giovanni affermerà
apertamente quando scrive che «non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha
amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati»
(1Gv 4,10). L’Alleanza18 infine come ricorda Mondin «già in se stessa, è
una singolare attestazione di sollecitudine, di accondiscendenza, di predilezione, di
amore, di vicinanza, di solidarietà di Dio verso il suo popolo» 19. L’Alleanza del Sinai
lega Israele al suo Dio attraverso l’aspersione del sangue, che indica il circolare della
vita. La vita di Dio fluisce e scorre nelle vene del popolo attraverso l’osservanza dei
comandamenti. Dio ormai è in mezzo al suo popolo. Israele è chiamato ad amarlo con
tutto il suo cuore, con tutta la sua mente e con tutte le sue forze. Così facendo il
popolo vive in comunione con il suo Dio e può arrivare ad affermare: «qual grande
nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni
volta che lo invochiamo?» (Dt 4,7). L’amore si esprime anche qui come vicinanza al
popolo, come un vivere in mezzo ad esso. E questo amore di Dio non verrà meno
neanche quando il popolo se ne renderà indegno costruendo il vitello d’oro. Il tema
dell’alleanza e della fedeltà di Dio ad essa pertanto si configura come un tema
trasversale che attravera tutto l’Antico Testamento e consiste fondalmente in questo:
Dio vuole condurre gli uomini ad una vita di comunione con lui. Infatti egli «vuole
unire a sé gli uomini, facendone una comunità cultuale votata al suo servizio,
governata dalla sua legge, depositaria delle sue promesse. Il NT realizzerà appieno
questo progetto divino»20. Vediamo qui in questo senso che l’amore di Dio si manifesti
come un desiderio di essere uno con la sua creatura. Cristo realizzerà appieno tale
desiderio del Padre, dapprima attraverso l’incarnazione, prendendo la natura umana, e
poi attraverso l’inabitazione per opera dello Spirito Santo.

1.6. IL DIO-AMORE NELLA TESTIMONIANZA DEI PROFETI

Anche nei libri profetici21 troviamo attestazioni dirette, o meglio dichiarazioni


18
William DUMBRELL, Covenant and creation, a theology of the Old Testament, Grand Rapids: Baker
Book House, 1993, pp. 80-126; Michael D. GUINAN, Covenant in the Old Testament, Chiucago:
Franciscan Herald Press, 1975, pp. 17-25; Henry Jackson FLANDERS, People of the covenant: an
introduction to the old testament, New York: Oxford University Press, 1988, pp. 148-196.
19
Battista MONDIN, La trinità mistero d’amore, p. 64.
20
Jean GIBLET – Pierre GRELOT, «Alleanza», Dizionario di Teologia Biblica, p.40.
21
Abraham J. HESCHEL, The Prophets: an introduction, New York: Harper & Row, Publishers,1962,
pp. 44-60, 107-108, 153-157, 194; Hobart E. FREEMAN, An introduction to the Old Testament
prophets, Chicago: Moody Press,1975, pp. 174-175, 216; Derek KIDNER, The Message of Hosea :
love to the loveless, Leicester: Inter-Varsity Press, 1981, pp. 26-44; Michael DEROCHE, Jeremiah 2:2-
14
di amore di Dio per il suo popolo. La cosa che sorprende di più nel leggere i libri
profetici è il fatto che le dichiarazioni di amore di Dio per il suo popolo siano le più
esplicite e dirette di tutta la Bibbia. In un contesto storico in cui Israele rinnegava il
suo Dio, dandosi ai culti idolatrici, Dio, invia attraverso i profeti dichiarazioni di
amore eterne mai ascoltate prima nel corso della storia della salvezza. Nel libro di
Isaia al capitolo 54 leggiamo:
«Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti raccoglierò con immenso amore. In un impeto di
collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il
tuo redentore, il Signore. (...) Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si
allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace, dice il Signore che ti
usa misericordia» (Is 54,7-8.10).

Si parla in questi versetti di un ‘immenso amore’ e di un ‘affetto perenne’, di


una nuova alleanza che genera la pace. Israele è visto da Dio come una donna sposata
in gioventù, viene considerato come il suo il primo amore. Dio di fronte all’infedeltà
della sua sposa rinnova questa alleanza d’amore quasi non potesse fare altrimenti.
Sembra quasi che Dio non sia libero di non amare il suo popolo. Questo atteggiamento
di Dio che ama di fronte al tradimento del popolo è un indizio della sua intrinseca
natura agapica. Se Dio non fosse stato amore avrebbe potuto non amare il suo popolo.
In tal caso l’amore non sarebbe stata l’essenza di Dio ma uno dei suoi attributi di cui
egli avrebbe potuto disporre liberamente. Con Isaia queste dichiarazioni di amore di
Dio per il suo popolo assumono le caratteristiche dell’amore materno. L’amore di Dio
qui é descritto come più grande dell’amore materno: «si dimentica forse una donna del
suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se coloro
si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15). Un altro esempio di
dichiarazioni d’amore divine ci viene offerto da Geremia: «Ti ho amato di amore
eterno, per questo continuo ad esserti fedele» (Ger 31,3) in cui si evince una relazione
tra le tematiche dell’amore e della fedeltà di Dio. Ma il profeta che più di altri
proclama esplicitamente l’amore di Dio per il suo popolo è Osea 22. L’amore di Dio
viene espresso attraverso la metafora dell’amore coniugale. Leggiamo in Osea: «Ti
farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e
nella benevolenza. Ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore...e amerò
Non-amata e a Non-popolo-mio dirò: “Popolo mio”, ed egli mi dirà “Dio mio”» (Os
2,21-22.25). Vediamo come l’intento di Dio è quello di recuperare l’unità perduta con
il suo popolo. Dio vuole essere uno con il popolo. E questa unità si realizza
nell’amore, cioè in Dio. L’immagine dell’unione coniugale per designare il legame tra
3 and Israel's love for God during the wilderness wanderings, Washington D.C: Catholic Biblical
Association of America, 1983, (Vol 45: n.3).
22
DOORLY W.J., Prophet of love: understanding the book of Hosea, New York, Paulist Press, 1991,
pp. 12-66.
15
Dio e l’uomo, prelude alla potente immagine che presenterà San Paolo in Ef 5,21-33
in cui paragonerà il rapporto tra marito e moglie a quello tra Cristo e la sua Chiesa.
Inoltre Osea riprenderà anche lui il tema dell’amore materno come immagine per
descrivere l’amore di Dio per il popolo. Egli sottolinea che l’amore di Dio ha carattere
viscerale, cresce e si dilata nell’intimo di Dio, fino a sovrabbondarne e a riversarsi
sull’uomo. Leggiamo in Osea:
«Quando Israele era un fanciullo io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più lo
chiamavo, più si allontanava da me (...) Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero
per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare.
(...) Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo
alla mia ira» (Os 11, 1-2.4.8).

Nella frase “il mio intimo freme di compassione” sta tutta la cifra del concetto
di misericordia divina. Tale espressione allude inoltre in maniera esplicita alla fonte di
tale misericordia, che non può non essere che un atto di amore puro e sovrabbondante,
un atto d’amore che genera vita e che noi conosciamo come Dio. Tale concetto si
comprende meglio soffermandoci un attimo sulla etimologia ebraica della parola
rachamim.
«La parola rachamim appartenente alla tradizione biblica, racchiude in sé la radice e la pienezza
di ciò che indichiamo parlando di Misericordia. Formata da rehem (‫ )םחר‬utero e mayim (‫)םימ‬
acque ci parla di un grembo che è quello di Dio, in cui ciascuno di noi è perennemente generato.
Il vocabolo rahamim (‫ )םימחר‬è poi, sostanzialmente, il plurale di rehem, un accrescitivo che sta a
indicare l’insieme di tutti gli uteri, anzi: l’utero per eccellenza, quello appunto divino. Dio che,
radice e fonte generativa di ogni amore, come padre e madre ci plasma. Proprio attraverso la
parola rachamim conosciamo quell’accento materno di Dio che ama e che non può fare a meno di
amare; come una Madre, le cui viscere fremono di compassione e timore davanti al proprio figlio,
dinnanzi al mistero di un tu che, visceralmente parte di lei, è altro da sé...» 23.

Siamo veramente entrati, attraverso questo testo di Osea, nell’intimo di Dio e


abbiamo potuto almeno per un attimo gustare la tenerezza del suo amore, che ci
rimanda all’essenza sublime di Dio stesso: un amore esistente. In Dio non vi è una
primazia dell’essenza ontologica su quella esistenziale. Dio non è prima un essere, e
poi anche un essere che ama. Lo ripetiamo Dio è un amore esistente. Il Dio che si
rivela già nell’Antico Testamento, non ha carattere ontologico, ma relazionale e
storico. Il suo essere si svela nella narrazione di un racconto che è la nostra vita, la
vita del mondo. Il termine ‘essere’ per l’uomo che soffre è una parola vuota. Il Dio
amore che agisce nella storia concreta dell’uomo e che si relaziona con lui, è un Dio
credibile che dà senso alla vita degli uomini.
23
Maria Danuta CONTI, Rachamin le viscere materne di Dio, in Cultura Cattolica, 19 gennaio 2016,
citato da https://www.adoratrici.it/per-incontrarci/rachamim-le-viscere-materne-di-dio, 31 agosto
2018.
16
In Gioele24 l’amore di Dio per l’uomo si concretizza
nell’effusione del suo spirito su ogni uomo. Il profeta dopo essersi profuso in una
lamentazione sulla desolazione di Israele che si è allontanato da Dio (cf Gl 1),
profetizza in visione il giorno del Signore, giorno tremendo di distruzione per la
purificazione del popolo idolatra e invita il popolo alla penitenza e alla conversione
del cuore a Dio (cf. Gl 2). Dopo tutto ciò avvinene un fatto straordinario: Dio manda il
suo spirito su ogni uomo:
«Dopo questo, io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le
vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sopra gli schiavi
e sulle schiave in quei giorni effonderò il mio spirito.[...] Chiunque invocherà il nome del Signore,
sarà salvato, poiché sul monte Sion e in Gerusalemme vi sarà la salvezza, come ha detto il Signore,
anche per i superstiti che il Signore avrà chiamato» (Gl 3,1-5).

Nel giorno del Signore si realizza l’effusione universale dello Spirito. Questo
invio dello spirito su ogni uomo è stato sempre considerato dalla Chiesa come una
profezia della Pentecoste. Dio si comunica all’uomo come spirito. Attraverso lo spirito
Dio vive nell’uomo, l’amore divampa nel cuore dell’uomo. Tale dono pertanto viene
elargito senza distinzioni di classi sociali, Dio-Amore non fa discriminazioni e si offre
a tutti coloro che sono disposti a riceverlo. Inoltre a tale dono dello spirito viene
associato il carisma della profezia, attraverso sogni e visioni. Chi riceve Dio-Amore
nello spirito, viene come infiammato da tale amore e quindi non può non trasmetterlo
nella predicazione. Lo spirito è pertanto causa di rinnovamento interiore, perchè porta
Dio nel deserto dell’anima dell’uomo e fa sgorgare da esso fiumi di acqua viva. Infine
l’effusione dello Spirito e legato al concetto di salvezza. Lo spirito ci fa invocare il
nome del Signore e «chiunque invocherà il nome del Signore, sarà salvato» (Gl 3,5).
La salvezza, nella sua accezione positiva, è la presenza di Dio nell’uomo per lo Spirito
Santo. Lo Spirito, che realizza l’inabitazione di Dio-Amore nell’uomo, realizza di
fatto questa salvezza. L’amore di Dio in Gioele, pertanto, si concretizza in un giorno
storico in cui Dio decide di inviare il suo Spirito su ogni uomo, spirito a cui è
asssociata la salvezza, il carisma della predicazione e il rinnovamento interiore. Infine
nel libro di Daniele è degno di nota il fatto che l’amore è usato come argomento a cui
appellarsi a Dio nelle suppliche di liberazione a Dio. Nel capitolo 3 si invoca Dio di
non abbandonare il suo popolo per amore del suo nome e per amore dei patriarchi:
«Non ci abbandonare fino in fondo, per amore del tuo nome, non infrangere la tua
alleanza, non ritirare da noi la tua misericordia, per amore di Abramo, tuo amico, di
Isacco, tuo servo, di Israele, tuo santo» (Dn 3,34-35). Nel capitolo 9 invece si invoca
Dio di perdonare il suo popolo sempre appellandosi all’amore che Dio deve a se
stesso: «Signore, ascolta! Signore, perdona! Signore, guarda e agisci senza indugio,
per amore di te stesso, mio Dio, poiché il tuo nome è stato invocato sulla tua città e sul
tuo popolo» (Dn 9,19). Vediamo in questi due testi un duplice movimento dell’amore
di Dio. Il primo movimento è rivolto verso se stesso mentre il secondo verso il popolo
24
Elie ASSIS, The Book of Joel: a Prophet between Calamity and Hope, New York: Bloomsbury, 2013,
pp. 201-211.
17
della promessa. L’amore che Dio deve al popolo si configura come la diretta
conseguenza dell’amore che Dio a per se stesso: Dio amandosi ama. Sembra pertanto
che il popolo voglia quasi spingere Dio a volgersi a se stesso e riconoscere che la sua
natura è l’amore e che pertanto in base a tale natura non può non amarlo.

1.7. I SALMI COME LODE A DIO CHE AMA ISRAELE


Il Dio-Amore viene lodato e benedetto nei salmi 25 di Israele. Questi sono,
come sappiamo, una meditazione poetica sull’operato di Dio nella storia di Israele. Il
Dio-Amore, è vicino con atti concreti al suo popolo infatti «il Signore ridona la vista
ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto, il Signore ama i giusti» (Sal 146,8). Il Signore
vede la sofferenza del suo popolo e interviene. Non è un Dio lontano, insensibile e
indifferente. Dio è al fianco del suo popolo e lo ama e si lascia amare da chi lo vuole.
Il suo amore è eterno perché sempre durante la storia di salvezza di Israele Egli ha
compiuto meraviglie per il suo popolo. Il popolo davanti all’eternità dell’amore di Dio
è chiamato a ringraziare e a rendere lode; «Rendete grazie al Signore, perché il suo
amore è per sempre (...) lui solo ha compiuto grandi meraviglie, perché il suo amore è
per sempre» (Sal 136,1.4). Volendo dare infine una lettura d’insieme del corpo dei
salmi possiamo affermare che essendo prossima la venuta di Cristo, il giudeo devoto
che medita la Torah prende coscienza dell’amore di Dio e per questo ne loda la
misericordia, la fedeltà all’alleanza, la bontà, la grazia e la tenerezza. 26

1.8. L’AMORE DI DIO NELLA LETTERATURA SAPIENZIALE


Il Cantico dei Cantici27, scritto dopo l’esilio, rilegge questo rapporto d’amore
tra Dio e il suo popolo, purificato appunto dalla prova dell’esilio stesso, come un
alternarsi di ricerca e di possesso dello sposo e della sposa. Israele è l’amata che
sperimenta l’amore dell’amato, che è Dio, e può affermare: «Si migliore del vino è il
tuo amore» (Ct 1,2). Dio, l’amato, si sente quasi posseduto dall’amore per l’amata
tanto da affermare: «Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia sposa, tu mi hai rapito il
cuore con un solo sguardo, con una sola perla della tua collana» (Ct 4,9). Dio sembra
quasi impossibilitato a non amare l’uomo. L’amore per noi lo trascina fuori da sé in
25
Gianfranco RAVASI, Il libro dei Salmi:commento e attualizzazione, Bologna: Edizioni dehoniane,
2002, pp. 14-66; Christoph SCHROEDER, A love song: Psalm 45 in the light of ancient near eastern
marriage texts, Washington: The Catholic Biblical Association of America, 1996, (Vol 58: n.3), pp.
417-432.
26
Cf. Claude WIENER, C., « Amore », Dizionario di Teologia Biblica, p.47.
27
Gianfranco RAVASI, Il Cantico dei Cantici, Bologna: Edizioni Dehoniane, 2002; Jacob NEUSNER,
Israel's love affair with God : Song of songs, Valley Forge: Trinity Press International,1993, pp. 1-
108; Marcia FALK, Love lyrics from the bible: a translation and literary study of the Song of Songs,
Sheffield: The Almond Press,1982, pp. 54-133; Tom GLEDHILL, The Message of the Song of Songs :
the lyrics of love, Illinois: Inter-Varsity Press,1994, pp. 91-245; Robert ALTER, Strong as death is
love: the Song of Songs, Ruth, Esther, Jonah, and Daniel : a translation with commentary, New York:
W. W. Norton & Company, 2015, pp. 3-54.
18
cerca dell’amata perduta, l’umanità. Dio folle di questo amore arriverà a sacrificare il
proprio Figlio per amore dell’uomo. Per questo il cantico si conclude con una lode
dell’amore, con una descrizione di esso come una fiamma che viene dal Signore e che
divampa dal cuore di Dio:
«Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è
l’amore, tenace come il regno dei morti è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una
fiamma divina! Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo. Se uno
desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell’amore, non ne avrebbe che disprezzo» (Ct
8,6-7).

L’amore di Dio è un fuoco inestinguibile. L’amore di Dio vince la morte. Chi


porta in sé il sigillo dell’amore divino, chi è arso da questo fuoco, non gusterà la morte
e diviene lui stesso fuoco che divampa nel mondo.
Un altro mirabile esemplare della meditazione di Israele sull’essenza agapica
di Dio, ci viene offerto dal libro della Sapienza. In esso leggiamo:
«Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando
il loro pentimento. Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle
cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l'avresti neppure formata. Come potrebbe
sussistere una cosa, se tu non l'avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato
all'esistenza? Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita»
(Sap 11,23-26).

L’amore di Dio in questo testo si configura come pazienza in attesa del


pentimento. L’amore vero è paziente. Dio non punisce l’uomo ma attende il suo
ritorno. Lo aspetta fino all’ultimo minuto della sua esistenza per strapparlo da un
destino di solitudine e morte eterna. Il motivo dell’amore sconfinato di Dio per
l’uomo, secondo questo testo, sta nel fatto che noi siamo suoi. L’uomo gli appartiene
come la parte più intima del suo cuore e il cuore di Dio non avrà pace finché non ci
avrà riconquistati. Si conclude così la nostra fenomenologia del Dio-Amore
nell’Antica Alleanza. Su tali premesse e andando ben oltre alle aspettative di tali
premesse, l’amore, che è Dio, si manifesterà nel Nuovo Testamento, in una forma
inattesa e sorprendente nella figura di Gesù di Nazaret. Le sue opere e le sue parole
chiariranno definitivamente quanto visto fin qui in forma velata, e ci diranno la parola
definitiva sulla essenza agapica di Dio.

2. LA RIVELAZIONE DEL DIO-AMORE IN GESÙ CRISTO FONDAMENTO DELLA


NUOVA ALLEANZA

Al fine di sviluppare propriamente questa sezione del nostro lavoro è bene


chiarire sin da subito la metodologia che intendiamo utilizzare al fine di raggiungere
gli obbiettivi che ci siamo prefissi. Stiamo indagando la natura di Dio, per quanto ci
sia dato farlo a noi esseri umani finiti e feriti dal peccato. La stiamo indagando a
19
partire dalla Rivelazione nelle Sacre Scritture. Nella prima parte del nostro lavoro,
analizzando l’Antico Testamento, abbiamo seguito il criterio dell’agere sequitur esse,
operando così una fenomenologia dell’agire di Dio, per poter inferire qualcosa della
sua essenza intrinseca. Se l’essere di Dio è amore allora questo amore deve essere
rintracciabile negli atti di Dio in relazione all’uomo. Il risultato di questa prima analisi
è stato positivo e ci ha offerto molti indicatori utili per il proseguio della nostra
ricerca. Cioè abbiamo visto in quali forme l’essenza agapica intrinseca di Dio si sia
manifestata nella storia dell’uomo. Nell’analisi del Nuovo Testamento 28 il nostro
approccio dovrà essere necessariamente un altro. Si parte da un assunto fondamentale
irrinunciabile: il Dio-Amore si è rivelato completamente in Gesù di Nazaret:
«Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei
profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede
di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1,1-2). 

Questo testo della lettera agli Ebrei fa da perfetto collante tra Antico e Nuovo
Testamento. Si riassume in poche parole l’operato di Dio nell’Antico Testamento. Dio
aveva parlato molte volte e in diversi modi agli uomini dell’Antico Testamento, ma
ora si rivela totalmente nel Figlio. Il Figlio è la rivelazione ultima e definitiva di Dio
all’umanità. Non vi sarà più una molteplicità e una varietà di rivelazioni come nei
tempi antichi, ma Dio si rivela solo in Gesù Cristo e chi lo cerca lo può trovare solo in
Gesù Cristo. Da tale assunto che ci viene offerto nell’incipit della Lettera agli Ebrei
promana il nostro criterio di analisi. Infatti, Gesù Cristo, per mezzo del quale Dio ha
parlato ultimamente «è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza»
(Eb 1,3). Questo significa che per conoscere la sostanza di Dio, ovvero per capire di
che cosa sia fatto Dio, basta guardare a Gesù Cristo Figlio, rivelazione piena
dell’essenza del Padre. Questo sarà il nostro criterio di ricerca: guardare a Cristo. Nel
capitolo 14 del vangelo di Giovanni, Filippo chiede a Gesù: «Signore, mostraci il
Padre e ci basta» (Gv 14,8) e la risposta del Signore a Filippo rende l’idea di quello
che sarà il criterio di ricerca del nostro studio: «Da tanto tempo sono con voi e tu non
mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). Allora in
questa sezione del nostro studio guarderemo a Gesù che rivela il Dio-Amore. Questo
lavoro sarà per noi una marcia di avvicinamento alla prima tappa ufficiale della via
28
Cf. Victor Paul FURNISH, Alan RICHARDSON and Others, Love command in the New Testament,
London: SCM Press,1972, pp. 132-158; Raymond E. BROWN, The community of the beloved disciple:
the life, loves, and hates of an individual church in New Testament times, New York: Paulist
Press,1979, pp. 60-61, 87-94, 131-135; David JACKMAN, The Message of John's Letters: living in the
love of God, Leicester: Inter-Varsity Press,1992, pp. 110-132; Daniel J. HARRINGTON, Jesus the
revelation of the father's love: what the New Testament teaches us, Huntington: Our Sunday Visitor,
2010, pp. 73-86; Giovanni RINALDI, Introduzione al Nuovo Testamento, Brescia: Morcelliana,1971,
pp. 482-488.
20
caritatis, ovvero la letteratura giovannea in cui il Dio-Amore verrà presentato in
maniera non più indiretta e mediata ma verrà sigillato nella sublime affermazione
«Dio è Amore» del capitolo 4 della prima lettera di Giovanni.

2.1. IL FIGLIO DONO GRATUITO DEL PADRE

L’automanifestazione del Dio-Amore nell’invio del Figlio amato all’umanità si


sviluppa in un primo momento secondo la dinamica del dono. Dio Padre si dona nel
Figlio all’umanità gratuitamente. L’invio del Figlio è un atto di amore disinteressato
per l’uomo peccatore. Giovanni ricorda infatti che «Dio infatti ha tanto amato il
mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque creda in lui non vada perduto,
ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Il Figlio, per così dire, è offerto alla fede degli
uomini affinché possano essere salvati. La cifra dell’amore di Dio sta nel fatto che
Dio, al contrario di Abramo, non risparmia il suo unigenito Figlio, perché l’amore
puro non fa calcoli ed è libero da ogni tornaconto personale. Possiamo così dire con le
parole di Benedetto XVI che «in Gesù Cristo, Dio stesso insegue la “pecorella
smarrita”, l'umanità sofferente e perduta».29 Per questo l’Apostolo Paolo si chiede
retoricamente: «Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per
tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?» (Rm 8,32). Al dono del Figlio è
associata un’abbondanza di grazia per l’uomo. A chi accoglie il dono del Figlio nella
fede, è riservata la pienezza di vita su questa terra e la vita eterna dopo la morte. Il
dono del Figlio, che il Padre fa all’umanità, è impreziosito dall’affermazione inerente
all’amore del Padre per il Figlio stesso: « Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano
ogni cosa» (Gv 3,35) e anche «Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita per
poi riprenderla di nuovo» (Gv 10,17). Il Figlio è amato da Dio Padre che è Amore.
Vediamo così che la dinamica della donazione del Figlio presenta due aspetti
strettamente correlati dalla variabile dell’amore: Dio ama l’uomo e per questo gli dona
quel Figlio che è oggetto del suo amore e attraverso il quale rivela all’uomo stesso che
Lui è amore. Giovanni nel suo Vangelo ci spiega come il Padre ami gli uomini nel
Figlio e li inviti a partecipare di questo amore: «Come il Padre ha amato me, anche io
ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). Gesù Cristo, il Figlio unigenito di
Dio, mi ama incondizionatamente. Questo è l’annuncio sconvolgente del
cristianesimo: in Cristo Dio ti ama. Un amore che non guarda agli errori del passato
dell’uomo, ma che ama e basta, perché la natura dell’amante è l’amore stesso. Questo
amore come dono gratuito fluisce dal Padre al Figlio, e per il Figlio nello Spirito Santo
a noi uomini. L’uomo che rimane in questo amore, può amare Dio e il prossimo.
L’amore che contraddistingue Dio Padre è così espresso in una maniera insuperabile.
Si realizza la nuova alleanza e si concludono le nozze eterne tra lo Sposo e l’umanità.

29
BENEDETTO XVI, Lettera Enciclica Deus Caritas Est, p.31
21
L’accoglimento del Figlio come dono gratuito del Padre generà umiltà e rifiuta ogni
orgoglio o fierezza fondata sul proprio merito. E questo è un altro punto essenziale
della dinamica del dono gratuito di Dio: l’uomo non ha fatto niente per meritarlo.
L’amore di Dio non è una risposta a qualche atto religioso dell’uomo ma come dice
l’apostolo Paolo: «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre
eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8). Inoltre è bene ricordare
che in questa storia di amore tra Dio e l’uomo l’iniziativa è sempre di Dio infatti «non
siano stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio
come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10). Un’altra caratteristica di
questo dono del Padre è la sua definitività. Cristo è la rivelazione definitiva dell’amore
di Dio per l’uomo. Non c’è bisogno di ulteriori manifestazioni o di segni aggiuntivi:
Cristo incarnato, morto e risuscitato è il segno definitivo. Questo segno è offerto alla
fede degli uomini. L’uomo è chiamato nella fede ad accettare questa proposta d’amore
definitiva oppure a rifiutarla. Così se Dio è amore e se questo amore si offre nel Dono
del Figlio all’uomo peccatore, questo implica una risposta da parte di ogni uomo.
Nessun uomo è indifferente all’amore spinto all’estremo sacrificio di se stesso per il
bene dell’amato. Tuttavia il cuore dell’uomo è un abisso profondo e misterioso che
può produrre anche e spesso una risposta negativa a questo amore. Questo fatto
turbava molto San Francesco ad esempio e lo portava a gridare per le strade «l’Amore
non è amato». Questo è il grande mistero della libertà dell’uomo e tuttavia è esso
stesso un mistero d’amore. Quella libertà, che è dono di Dio è la leva che permette
all’uomo di partecipare alla dinamica dell’amore. Come già detto il vero amore è un
amore senza costrizioni.

2.2. CRISTO RIVELA PERFETTAMENTE IL DIO-AMORE

Abbiamo visto fin qui nel Nuovo testamento come l’amore, che è Dio, viene
manifestato nell’atto di donazione operato dal Padre che offre il Figlio all’umanità per
la sua salvezza. Tuttavia, come già accennato, è anche nella vita, nelle parole e
nell’opere di Cristo stesso che tale amore divino rifulge agli occhi del mondo. Infatti
«con la sua stessa esistenza Gesù è rivelazione concreta dell’amore, […] Gesù è Dio
che viene a vivere in piena umanità il suo amore ed a farne sentire l’appello ardente.
Nella persona di Gesù l’uomo ama Dio e ne è amato». 30 Vedremo così come questo
amore divino in Gesù si sia manifestato nella sua vita terrena, e come ancor più tale
amore sia rifulso nella sua morte in Croce.
Nell’intera vita di Gesù sono riscontrabili due movimenti che descrivono la
sua forma di amare, uno che va verso il Padre e l’altro rivolto a tutti gli uomini. La
30
Claude WIENER, « Amore » Dizionario di Teologia Biblica, p.48.
22
vita di Cristo è relazionalità totale. Cristo è sempre per l’Altro e per gli altri e mai per
se stesso. Nel rapporto col Padre vediamo che Gesù sin dall’inizio si dona totalmente
a lui. Ai genitori che lo cercavano nel tempio di Gerusalemme Gesù fanciullo
risponde: «perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del
Padre mio?» (Lc 2,49). L’amore per il Padre diviene così un occuparsi delle sue cose,
ovvero una dedizione totale alla missione che proprio il Padre gli ha affidato. Il Figlio
ama il Padre nella preghiera in cui cerca l’intima unione con lui. Sappiamo che Gesù
pregava al mattino presto (cf. Mc 1,35) e che la sua vita attiva andava di pari passo ad
una profonda vita contemplativa. La preghiera è cercare l’amato, chiamarlo, invocarlo
e una volta incontrato dialogare con lui e a lui essere unito spiritualmente. In questo
senso la preghiera si configura come una delle più alte forme di amore. Un’altra forma
di amore che riscontriamo in Gesù nei confronti del Padre è il ringraziamento.
Leggiamo nel Vangelo di Matteo: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della
terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli»
(Mt 11,25). Il ringraziamento è un moto dell’anima che, riconosciuto il beneficio
ricevuto gratuitamente, si protende verso colui che tale beneficio ha concesso, con
parole di lode e gratitudine. Con il ringraziamento Cristo esprime il suo amore al
Padre da cui è stato generato e dal quale tutto ha ricevuto. Cristo inoltre esprime
l’amore verso Dio attraverso una perfetta conformità alla sua volontà. Cristo stesso
affermerà che il suo cibo è fare la volontà di colui che l’ha mandato e di compiere la
sua opera (cf. Gv 4,34) e in un altro passo ricorda: «sono sceso non per fare la mia
volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6,38). Compiere la volontà di
Dio significa amarlo concretamente nella storia. Rinunciare alla propria volontà, ai
propri progetti, al proprio desiderio di realizzazione, per portare a compimento la
volontà di Dio nella propria vita è una forma di amore. Cristo ha portato all’estremo
questa forma di rinuncia totale a se stessi e attraverso il suo sacrificio la volontà
salvifica del Padre è giunta a compimento. Infine l’ultimo aspetto che lega il Padre e il
Figlio in una relazione d’amore profonda è quello dell’ascolto. Gesù è continuamente
in ascolto di Dio e vive della sua Parola: «colui che mi ha mandato è veritiero e le
cose che ho udito da lui, le dico al mondo» (Gv 8,26). Anche qui la disponibilità ad
accogliere la parola di Dio equivale all’essere disponibile al suo amore, alla sua guida
e alla sua istruzione. Gesù ascolta il Padre e gli uomini, la sua totale relazionalità, che
è un darsi completamente agli altri, si realizza anche attraverso la pratica dell’ascolto.
Nel rapporto con gli altri uomini riscontriamo in Gesù la totale donazione di sé. La
vita di Gesù è interamente donata non solo ai suoi amici ma a tutti gli uomini,
compresi i nemici. Nel Vangelo di Marco leggiamo infatti: «Il Figlio dell’uomo infatti
non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per
molti» (Mc 10,45). L’amore in Cristo assume la modalità del servizio e del sacrificio
di sé per gli altri. Per questo vediamo nell’agire di Gesù un amore disinteressato che si
23
concretizza nel fare il bene soprattutto a chi soffre. Egli guarisce i malati, scaccia via i
demoni, dà da mangiare alle folle affamate e le nutre soprattutto con il suo
insegnamento. Gesù si prende cura delle categorie più indegne e disprezzate della
società ebraica perciò non disdegna di mangiare con pubblicani e peccatori e non si
scandalizza di fronte ai peccati delle prostitute. Gesù inoltre ama gli scribi e i farisei
che gli erano apertamente nemici. La denuncia del loro legalismo ipocrita e privo di
carità non è altro che una chiamata a conversione, in quanto l’ammonimento e la
correzione sono anch’essi una forma d’amore. Infine l’amore di Cristo per gli uomini
si esprime attraverso la particolare chiamata alla sequela che egli fa per alcuni di essi.
Cristo li chiama gratuitamente conoscendo le loro debolezze e sapendo che
l’avrebbero tradito e abbandonato, ma l’amore che è Dio, prende su di sé il peccato
degli altri e ne trasforma i cuori attraverso il perdono e la misericordia.
Sulla croce l’amore, che è Dio, rifulge in maniera mirabile e assoluta.
Gesù stesso durante la sua vita pubblica aveva apertamente dichiarato che «nessuno ha
un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13). La
rivelazione definitiva dell’amore di Dio per l’uomo passa per il sacrificio di Cristo. Le
fasi di questa rivelazione dell’amore sono descritti da Luca come segue: «Il Figlio
dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato[…]venire ucciso e risorgere il terzo
giorno» (Lc 9,22). Amare significa portare su di sé il peccato degli altri soffrendo,
venendo rifiutato e ucciso barbaramente, per dimostrare attraverso la risurrezione che
l’amore è più forte della morte, che l’amore vince la morte, perché quell’amore per cui
si muore è Dio stesso. In un altro passo Luca è ancora più esplicito è parla della
necessità che il «Figlio dell’uomo sia consegnato in mano ai peccatori» (Lc 24,7).
L’idea del lasciarsi consegnare indica una passività assoluta di Cristo che non si ribella
ma si lascia condurre al macello come agnello mite che non apre la bocca. Cristo ci
rivela l’amore anche in questa forma per noi così incomprensibile. Non resiste al male
e fa morire il male in sé. Tale amore deve passare per la tentazione e per l’apparente
silenzio di Dio. L’amore di Cristo per gli uomini si compie nella radicale solitudine
umana e nell’abbandono di tutti. Cristo poi, con i chiodi che gli trapassano le mani e i
piedi, straziato dal dolore e quasi soffocato dal peso del suo corpo sussurra parole di
perdono per i suoi persecutori e quasi a volerli scusare dice: «Padre, perdona loro
perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Sulla croce Cristo ci mostra la forma
più alta e più difficile di amore, quello per il nemico. Per di più Cristo crocifisso rivela
che amare è obbedire alla volontà del Padre obbedendo egli fino alla morte di croce
(cf. Fil 2,8). Cristo sulla croce porta all’estremo l’amore per l’uomo, lo eleva alla vetta
più alta infatti egli ama i suoi fini alla fine (Gv 13,1). Così vediamo in Cristo
crocefisso compiuta la Legge, ovvero lo shema, che richiede ad ogni pio israelita di
amare Dio con tutto il cuore con tutta la mente e con tutte le forze (cf. Dt 6,5) e il
prossimo come se stessi. Sulla Croce la relazionalità di Cristo rifulge ancor di più in
24
tutta la sua pienezza: Cristo si offre liberamente e completamente al Padre nel
sacrificio della croce e si dona totalmente all’umanità peccatrice per redimerla,
attraverso tale sacrificio. Pertanto il Calvario può essere definito il luogo della
manifestazione perfetta dell’amore che è Dio, infatti come ricorda San Bernardo
Abate: «Attraverso le ferite del corpo si manifesta l'arcana carità del suo cuore, si fa
palese il grande mistero dell'amore, si mostrano le viscere di misericordia del nostro
Dio».31

2.3. IL DIO-AMORE RIVELATO NELL’EFFUSIONE DELLO SPIRITO

La Chiesa primitiva ha sempre considerato l’effusione dello Spirito Santo sugli


apostoli e Maria riuniti nel cenacolo, e poi in seguito sulla Chiesa stessa in ogni tempo
e in ogni luogo, come l’effusione dell’amore di Dio nel cuore dell’uomo. 32 Nella
lettera ai Romani, Paolo afferma che «la speranza poi non delude, perché l’amore di
Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato»
(Rm 5,5). Lo Spirito Santo, secondo le parole dell’Apostolo, sembra configurarsi
come il vettore di quell’amore che è Dio stesso. Ma se riflettiamo bene vi è piuttosto
un rapporto d’identità tra lo Spirito Santo e l’amore di Dio. Lo Spirito così è Dio
stesso che si dona all’uomo. Per lo Spirito il Dio-Amore diviene dimorante nell’uomo.
La presenza di Dio nell’uomo per lo Spirito Santo si ha con il battesimo. Negli Atti
degli Apostoli vediamo infatti come il sacramento del battesimo venga associato
appunto alla ricezione dello Spirito Santo (cf. At 2,38). Dio-Amore abita così
nell’uomo per il battesimo. Questo amore donatoci nello Spirito Santo distrugge il
peccato originale e ci fa nuove creature capaci di amare Dio e il prossimo. Tale amore,
che è Dio, è come un fuoco che non può non trasmettere il suo calore. È come una
forza che possiede l’uomo: «L’amore del Cristo infatti ci possiede…» (2Cor 5,14), e
pertanto l’annuncio del Vangelo diviene una necessità impellente in virtù della
presenza dell’amore di Cristo nel cuore del fedele. In questa prospettiva l’apostolo
Paolo affermerà: «annunciare il Vangelo per me non è un vanto, perché è una necessita
che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1Cor 9,16). Questa
necessità che s’impone al credente dall’interno è proprio questa presenza del Dio-
Amore nel cuore dell’uomo per lo Spirito Santo. Inoltre nessuna potenza esterna
all’uomo «potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro
Signore» (Rm 5,39). Questo amore donatoci nel Battesimo per lo Spirito Santo è un

31
SAN BERNARDO ABATE, Sermone 61,3-5, in Sermoni sul Cantico dei Cantici, vol. 2, Roma: Città
Nuova, 2008, p 151.
32
Cf. Jesus LOPEZ-GAY, Lo Spirito Santo e la missione, Roma: Pontificia Universita’ Gregoriana,
1995, pp. 11-21.
25
amore in cammino verso la pienezza dell’amore che è Dio stesso. In tale orizzonte
sempre l’apostolo Paolo affermerà: «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in
uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo
imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» (1Cor
13,12). Questo amore ci prepara all’incontro definitivo con il Dio-Amore, nel quale
anche noi ameremo come siamo stati amati da Dio in una comunione totale con la
Trinità e l’umanità intera.

2.4. L’UNITÀ E L’AMORE FRATERNO RIVELANO IL DIO-AMORE

I segni della fede cristiana adulta sono l’amore e l’unità. Gli uomini che in
Cristo si amano e in Cristo sono una cosa sola, rivelano al mondo che Dio è amore.
Questo concetto viene espresso apertamente dall’evangelista Giovanni come segue:
«E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una
sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai
mandato e che li hai amati come hai amato me» (Gv 17, 22-23).

Tale concetto viene reso in maniera ancor più chiara dalla descrizione della
prima comunità cristiana che troviamo negli Atti degli Apostoli:
«Erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e
nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli
apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro
proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2, 42-45).

Il frutto dell’accoglienza del Dio-Amore è la nascita di una comunità 33, la


nascita della Chiesa. Cessano i miracoli fisici perchè si realizza il miracolo morale:
Dio vivo in mezzo alla comunità degli uomini. Gli atti ci riferiscono infatti che «la
moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un'anima
sola» (At 4,32). L’amore di Cristo s’incarna in un gruppo di uomini e diviene
sacramento di salvezza per il mondo intero. Come si realizza tutto questo? In Cristo
siamo partecipi della natura divina che avevamo perduto col peccato originale. Il
peccato originale creando una frattura tra Dio e l’uomo, rende incapace l’uomo di
amare Dio e il prossimo. L’umanità per il peccato originale è ormai divisa. Cristo dona

33
Cf. Junyang PARK, Pneumatology: The Lord and Giver of life, Seoul: Catholic University Press,
2019, pp. 46-75 (in coreano); George PANICULAM, Koinonia in the New Testament: A dynamic
expression of Christian life, Rome: Biblical Institute Press, 1979; Pier Cesare BORI, Koinonia: L’idea
della comunione nell’ecclesiologia recente e nel Nuovo Testamento, Brescia: Paideia, 1972.
26
a noi la sua gloria come lui l’ha ricevuta dal Padre. Ci ridona l’intimità con Dio che
avevamo perduto. In virtù della natura divina che ci è data in Cristo, siamo divenuti
uno con lui. E in Cristo siamo inseriti nella trinità e fatti uno con Dio per lo Spirito
Santo. Il frutto di questa comunione dell’uomo con Dio genera l’unità fra quegli
uomini che hanno ricevuto nel battesimo la presenza di Cristo in sé per lo Spirito
Santo. La pericope di Gv 17,23 approfondisce di più il senso di questa unità e
introduce quello che in seguito verrà definito dalla teologia trinitaria con il concetto di
pericoresi.34Abbiamo qui, per così dire, due pericoresi, la prima del Figlio nell’uomo e
la seconda del Figlio nel Padre. Il fondamento dell’unità pertanto è dato dal fatto che i
cristiani compenetrati da Cristo sono inseriti in Dio, cioè nell’amore. Da questa doppia
pericoresi scaturisce la perfezione nell’unità dei cristiani. Il mondo vedendo l’unità dei
cristiani crederà che Cristo è il Figlio di Dio e che Dio ama i cristiani come ama il suo
Figlio unigenito. Cioè l’amore fraterno e l’unità dei cristiani rivelano al mondo che
Dio è amore o che, viceversa, l’amore fraterno e l’unità trovano il loro fondamento
ultimo solo in quell’amore assoluto ed esistente che è Dio. Se definiamo la fede come
quell’atto di disponibilità dell’uomo ad accogliere in sé la presenza del Dio-Amore,
allora l’affermazione che l’amore e l’unità sono i segni della fede diviene più chiara.
La presenza dell’amore di Dio nel cuore dell’uomo è la fonte dalla quale l’uomo
stesso attinge l’amore per il prossimo. L’amore cristiano è l’amore di Cristo stesso.
Nel cristiano è Cristo stesso che vive come ci ricorda l’apostolo Paolo: «Sono stato
crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,19-20). Così da
una parte amo il prossimo con l’amore di Cristo, e d’altro canto amo Cristo nel
prossimo. In virtù di tale presenza di Cristo nel cristiano e nel prossimo, e in virtù
della relazione di amore che si instaura fra loro nell’amore di Cristo, si delinea una
totale unità dei cristiani in Cristo. Tale amore e unità, che abbiamo definito come
segni della fede cristiana adulta, trovano il loro fondamento proprio in quel Dio-
Amore fonte ed origine di ogni cosa, al quale il cristiano partecipa in Cristo Gesù.

34
Il concetto di pericoresi deriva termine greco περιχώρησις, pericóresis, "penetrazione", derivato di
περιχωρέω, pericoréo, "ruotare", "movimento circolare", in latino circuminsessio, ed indica la
compenetrazione reciproca e necessaria delle tre persone divine nella Trinità, sulla base dell'unità di
essenza in Dio. Le tre ipostasi del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo "si muovono l'una nell'altra",
ossia si appartengono a vicenda. Tale termine è stato applicato alla Trinità per la prima volta da
Giovanni Damasceno: «Il rimanere e il risiedere l'una nell'altra delle tre persone significa: esse sono
inseparabili e non vanno staccate e hanno tra loro una compenetrazione (pericóresis) senza
mescolanza, non in modo che esse si fondano o si mescolino ma in modo che esse si congiungano. Il
Figlio è cioè nel Padre e nello Spirito e lo Spirito nel Padre e nel Figlio e il Padre nel Figlio e nello
Spirito senza che abbia luogo una fusione o una mescolanza o una confusione. Uno e identico è il
movimento, poiché lo slancio e il movimento delle tre persone è unico, ciò che non si può notare nella
natura creata.» (De fide orthodoxa, I, 14). Esso viene ribadito e sancito ufficialmente nel Concilio di
Firenze (1439-1442): «Per questa unità il Padre è tutto nel Figlio, tutto nello Spirito Santo; il Figlio è
tutto nel Padre, tutto nello Spirito Santo; lo Spirito Santo è tutto nel Padre, tutto nel Figlio»
(Decretum pro Iacobitis, DS 1331). 
27
2.5. IL CONCETTO DI αγάπη
    In conclusione di questo capitolo è necessario esplicitare, alla luce di quanto
rivelatoci dalla Scrittura, cosa intendiamo con il termine αγάπη. Giovanni affermando
che Dio è αγάπη cosa vuole significare? A quale forma di amore si riferisce? E questa
forma di amore come si differisce dalle altre forme di amore? Quale è in definitiva la
caratteristica peculiare dell’αγάπη che fa sì che essa possa essere associata in forma
predicativa al nome di Dio? L’apostolo Paolo nel capitolo 13 della prima lettera ai
Corinzi ci dà una descrizione di cosa è αγάπη.
«La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia
d'orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del
male ricevuto, non gode dell'ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto
spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine» (1 Cor 13, 4-8).

In queste parole vediamo in quale forma l’αγάπη si concretizzi nelle relazioni


umane interpersonali. A differenza dell’amore passionale (ἔρως) infatti, l’αγάπη si
caratterizza quale amore di dilezione, ovvero un amore che vuole il bene degli
altri. Paolo aggiunge inoltre che l’uomo senza αγάπη è nulla (cfr. 1 Cor 13,2). Sembra
quasi voler dire che questo amore ci fa essere e che attraverso questo amore facciamo
essere gli altri. È un amore fecondo che dà la vita, innestando in colui che lo riceve la
facoltà di amare a sua volta come si è stati amati. Il termine αγάπη era già in uso nella
letteratura classica greca ma con accezioni semantiche molto diverse dal significato
che gli attribuivano gli autori cristiani. 35 Nel Nuovo Testamento questo termine
designa «l’amore altruistico, l’amore di dedizione, in modo particolare l’amore di Dio
per gli uomini, quale si realizza in Cristo, e l’amore degli uomini per Dio e per il
prossimo come frutto della presenza dello Spirito in essi». 36 In questa definizione del
Mondin cogliamo appieno la dimensione relazionale complessiva del concetto di
αγάπη che unisce il Dio uni-trino agli uomini in un’unica danza d’amore. Fonte
dell’αγάπη è Dio stesso, pertanto è un amore soprannaturale che non è chiuso in se

35
Il nome greco ἀγάπη (con lettera "eta" finale) è già attestato in opere cristiane: nella Bibbia dei
Settanta (285-246 a.C.) col significato (unico) di "amore", "affezione", "oggetto di amore", "carità"; e
col significato ulteriore di agape (non tradotto in italiano), inteso come convito dei cristiani. Come
sostantivo in autori classici lo troviamo di nuovo nell’ Iliade, ἀγάπ-ἦvωρ, -oσ (III declinazione):
"amante della virilità", "virile", "coraggioso". Il verbo greco ἀγάπἀω (con lettera "omega" finale) è
abbondantemente citato in autori della Grecia Classica non cristiana, dove in modo del tutto simile al
nome da esso foneticamente e grammaticalmente derivato, può avere uno dei seguenti due significati:
1) riguardo a persone: "accolgo con amore", "tratto affabilmente", "con affetto", "amorevolmente",
"amo", "ho caro": già dal tempo di Omero e seguenti, indicando amore di protezione, cura,
benevolenza, piuttosto che passione (e perciò equivale al latino diligo, piuttosto che al verbo amo), in
Euripide (485-406 a.C.) così come nel filosofo Platone (428-348 a.C.).   2) riguardo a cose: "sono
contento", "soddisfatto" (prosatori attici); "preferisco", "tengo in maggior conto" in Demostene (384-
322 a.C.) e nell'oratore Licurgo (VIII secolo a. C.).  cfr. ROCCI, L., Vocabolario Greco-Italiano,
Società Editrice Dante Alighieri, Città di Castello (Perugia), 1993, p. 6.
36
Battista MONDIN, B., La Trinità mistero d’amore, Bologna, EDS, 2010, p. 277.
28
stesso ma aperto alla trascendenza e all’altro fino al punto di essere lieto nel
sacrificare la propria esistenza in favore di quella altrui. In tal senso l’amore può
essere considerato come estasi «come cammino, come esodo permanente dall’io
chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il
ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio»37. A tale concetto si oppone
apparentemente il concetto di ἔρως. Questo è essenzialmente «amore egoistico ed
egocentrico, è l’amore volto alla propria autorealizzazione». 38 L’ἔρως vuole possedere
l’oggetto del suo amore ed è riferibile ad una dimensione più materiale che spirituale
delle relazioni interpersonali. Da questo punto di vista l’ἔρως è visto come elemento
caratterizzante della cultura greca, mentre il concetto di αγάπη è sicuramente il fulcro
della cultura cristiana. Tale dicotomia si articola così in un rapporto di antitesi tra
quello che Giovanni chiamerà “il mondo” e la civiltà dell’amore, ovvero la schiera
degli eletti che seguono l’Agnello. Tuttavia questa contrapposizione tra ἔρως e αγάπη
è il frutto dello stravolgimento dell’ordine divino generato dal peccato originale.
Infatti l’ ἔρως e αγάπη sono due movimenti interni alla dinamica dell’amore. Entrambi
sono voluti da Dio. L’amore di Dio per il suo popolo infatti può assumere a tratti
carateristiche di ἔρως. Dio vuole possedere il suo popolo esclusivamente e non vuole
dividerlo con altri dei. Dio è geloso del suo popolo e non permette che questi lo
tradisca con gli idoli. L’ἔρως è il primo momento di questa dinamica:

«Anche se l’eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente – fascinazione per la


grande promessa di felicità – nell’avvicinarsi poi all’altro si porrà sempre meno domande
su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell’altro, si preoccuperà sempre più di lui, si
donerà e desidererà “esserci per” l’altro»39.

L’αγάπη e l’ ἔρως sono indivisibili tra loro. il primo designa il desiderio del
donarsi nell’atto di amare mentre il secondo designa il desiderio sconfinato dell’uomo
di ricevere l’amore. L’αγάπη si inserisce nell’ ἔρως purificandolo ed indirizzandolo
alla scoperta della pienezza dell’amore che dando se stesso per l’altro viene colmato
anche nel ricevere. In fine un’ultima distinzione che occorre fare è quella tra i concetti
di αγάπη e φιλία. Quest’ultimo deve essere tradotto con l’espressione “amore
fraterno” ed è riconducibile al concetto di amicizia, così come esposto da Aristotele
nell’ Etica Nicomachea. È un amore squisitamente umano che si fonda su un legame
sentimentale di affezione derivante da una comunione di interessi, passioni e opinioni.
La differenza di intensità che caratterizza αγάπη e φιλία viene resa mirabilmente ad
esempio dall’apostolo Giovanni nell’epilogo del suo vangelo in cui riporta il dialogo
tra Gesù e Pietro (Cf. Gv 21,15-19). Operata questa triplice distinzione e definita in
37
BENEDETTO XVI, Lettera Enciclica Deus Caritas Est, p.18.
38
Ibid.
39
BENEDETTO XVI, Lettera Enciclica Deus Caritas Est, p.20.
29
maniera netta cosa intendiamo per αγάπη alla luce del Nuovo Testamento siamo ben
equipaggiati per intraprendere il nostro cammino sulla via Caritatis.

Capitolo II
LA DEFINIZIONE «DIO È AMORE»
NELLA PRIMA LETTERA DI GIOVANNI

L’apostolo Giovanni è il cantore sublime del Dio che si rivela come agape. Gli
scritti dell’apostolo che posò il capo sul petto del Signore sono il culmine della
rivelazione del Dio-amore e segnano l’inizio di quel cammino intrapreso da numerosi
teologi, che chiameremo Via Caritatis. Giovanni scrive alla luce dell’esperienza della
Pasqua e dell’effusione dello Spirito Santo sulla Chiesa nascente e pertanto può
affermare che l’essere stesso di Dio è amore. Come ricorda il Catechismo infatti:
«Mandando, nella pienezza dei tempi, il suo Figlio unigenito e lo Spirito d’amore, Dio
rivela il suo segreto più intimo: è lui stesso eterno scambio d’amore: Padre, Figlio e
Spirito Santo, e ci ha destinati ad esserne partecipi» (CCC 221). Giovanni, testimone
scelto della rivelazione del Verbo proclama:

   «quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che
contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita…quello che abbiamo
veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi»
(1Gv 1,1-3).
30
1. IL CONCETTO DI αγάπη IN GIOVANNI
Quello di αγάπη è un termine caratteristico della letteratura giovannea e in
particolare delle lettere. Se analizziamo le statistiche di ricorrenza di questo termine e
delle forme da esso derivante ci accorgiamo che αγάπη ricorre 21 volte, di cui 18 in
1Gv, ἀγαπᾶν 31 volte, di cui 28 in 1Gv. Questo significa che un quinto dell’uso di
queste parole nel Nuovo testamento si trova nelle lettere di Giovanni. 40A questi
termini deve essere aggiunto il termine Ἀγαπητος che ricorre nelle lettere 10 volte. Il
significato di questo termine nel contesto del corpo giovanneo è ben descritto dalle
parole del Brown:
«Ἀγάπη non è un amore che si origina nel cuore umano e che cerca di arrivare a possedere nobili
beni necessari per la perfezione; esso è amore spontaneo, immeritato, creativo che scende da Dio
al cristiano, e dal cristiano a un altro cristiano». 41

Giovanni sa, a partire dalla sua storia, e dall’esperienza del suo popolo che la
rivelazione di Dio avviene in maniera graduale. Dio infatti entra in un dialogo
d’amore con l’uomo, si china su di lui, gli parla, lo chiama, agisce nella sua vita.
L’uomo così a partire da questa esperienza concreta di Dio riesce ad avvicinarsi,
guidato dallo Spirito, al mistero di Dio stesso. Giovanni, che ha fatto esperienza
diretta della carità, già nel suo vangelo aveva affermato che Dio, donando suo figlio,
si rivela come colui che dona per amore (cf. Gv 3,16).    
Inoltre, Giovanni nel suo Vangelo ci aveva anche descritto la vita interiore
della trinità, ovvero quel dialogo d'amore assoluto che intercorre tra il Padre e il Figlio
nello Spirito Santo, rivelando in tal modo che il Padre e il Figlio sono una cosa sola
dall'eternità (cf. Gv 10,30; cfr. 17,11.21s). Infine, nel prologo al suo vangelo,
Giovanni proclama che Gesù Cristo, il Figlio, è Dio stesso (cf. Gv 1,1) e che il Figlio
unico «che è nel seno del Padre», ci fa conoscere il Dio che «nessuno ha mai visto»
(Gv 1,18). Tutte queste affermazioni sono il preludio alla formulazione di quella che
può essere considerata la più alta affermazione della natura divina: «Dio è amore» (1
Gv 4,8.16). La pericoresi del Padre e del Figlio nello Spirito Santo è la condizione di
possibilità e il fondamento di tale affermazione. Il Figlio è nel Padre e pertanto può
rivelare al mondo l’intima natura del Padre stesso. Dio pertanto non può che essere
definito come amore, perché tutto quello che il Figlio ha detto e ha fatto durante la sua
vita terrena, è amore. Giovanni così nel suo vangelo ci spiega in maniera “tecnica”
quale teologia si celi dietro alla misteriosa identità tra il Padre e il Figlio, ovvero la
teologia dell’amore. La teologia è appunto un tentativo umano di parlare di Dio, di
rendere attraverso le parole ciò che l’uomo ha conosciuto di Dio attraverso la fede e
fra «tutte le parole umane, con le loro ricchezze e i loro limiti, è la parola “amore”

40
Cf. Raymond E. BROWN, Le Lettere di Giovanni, C. Benetazzo (tr.), Assisi: Cittadella Editrice,
gennaio 2000, p. 360.
41
Ibid.
31
quella che può lasciarci intravedere meglio il mistero di Dio Trinità, il dono reciproco
ed eterno del Padre, del Figlio e dello Spirito».42

2. UNO SGUARDO AL TESTO

Prima di offrire una riflessione teologica sul significato dell’affermazione “Dio


è amore” è opportuno effettuare una breve analisi scritturistica del testo della prima
lettera di Giovanni. Contestualizzando i versetti in questione all’interno della struttura
dell’intera opera e effettuando un’analisi semantica del testo risulterà piú facile
avvicinarsi al significato effettivo delle parole dell’Apostolo. Seguendo la posizione di
Brown e di altri autori, l’articolazione della prima lettera di Giovanni deve essere
intesa come un’imitazione del piano strutturale del vangelo di Giovanni. 43 Pertanto il
nostro testo si colloca nella seconda parte dell’opera nella quale Giovanni invita la sua
comunità all’amore reciproco, fondando tale amore nella fonte ultima dell’amore che
è Dio stesso. Questa sezione a sua volta puó essere suddivisa in cinque ulteriori
sottosezioni.44 Nella prima parte (1Gv 3,11-24) Giovanni ricorda alla comunità «il
messaggio udito da principio» (1Gv 3,11) ovvero il comandamento dell’amore
reciproco. Tuttavia l’amore del fratello è prerogativa dei risorti in Cristo. L’Apostolo
lega qui la possibilità di amare i fratelli alla partecipazione alla morte e risurrezione di
Cristo (cf. 1Gv 3,14). Solo chi ha fatto questa esperienza di svuotamento totale di se
stessi per poter essere rivestito della natura di Cristo nel battesimo, puó amare il
fratello. Il cristiano ha conosciuto l’amore pertanto può amare a sua volta il fratello. E
come lo ha conosciuto questo amore? «Nel fatto che egli (Cristo) ha dato la sua vita
per noi» (1Gv 3,16). Amare significa dare la propria vita per l’altro. Come Cristo ha
dato la sua vita per noi, così anche noi, in virtù dell’amore di Cristo, siamo chiamati
ad offrire la nostra vita per i fratelli. È importante ritenere questa definizione di cosa
sia l’amore nell’ottica poi di un’interpretazione dei versetti 1Gv 4,8.16 in cui tale
caratteristica verrà mirabilmente applicata a Dio. Dio essendo amore quindi è Colui
che si dà. Infine nella parte finale di questa sezione viene affermato il comandamento
di Dio che consiste nel credere in Cristo e nell’amore reciproco dei fratelli. La
possibilità di amare viene messa in relazione con la fede. L’uomo attraverso la fede
entra in profonda relazione con Dio in Cristo Gesù. Sappiamo che la fede è un
movimento di fiducia e di abbandono per cui l’uomo rinuncia a fare affidamento alle
proprie forze e ai propri pensieri e si rimette alla potenza e alla volontà di colui nel

42
Claude WIENER, « Amore » Dizionario di Teologia Biblica, p.48.
43
Cf. Raymond E. BROWN, Le Lettere di Giovanni, p. 19: secondo Brown la prima lettera di
Giovanni segue questo schema: Prologo (1,1-4), Parte uno (1,5 – 3,10): il Vangelo che Dio è luce, e
noi dobbiamo camminare nella luce come Gesù. Parte due (3,11 – 5,12): il vangelo che dobbiamo
amarci l’un l’altro come Dio ci ha amato in Gesù Cristo. Conclusione (5,13 – 21): un’asserzione
dello scopo dell’autore.
44
Cf. Raymond E. BROWN, Le Lettere di Giovanni, pp. 599-872: 1) Il vangelo dell’amore vicendevole
(3,11-24). 2) Gli spiriti di verità e di inganno e i loro rispettivi seguaci (4,1-6). 3)Amarsi l’un l’altro è
il modo di dimorare in Dio e di amarlo ( 4,7 - 5,4a). 4)La fede vincitrice del mondo e il ruolo della
testimonianza ( 5,4b-12). 5)La conclusione (5,13-21).
32
quale crede.45 Ora attraverso questo atteggiamento di disponibilità l’uomo è pronto ad
accogliere la presenza di Cristo in lui. E chi osserva questi comandamenti «rimane in
Dio e Dio in lui» (1Gv 3,24). E la garanzia che Cristo dimora in noi ci viene data dalla
presenza dello Spirito che abbiamo ricevuto. Tale uomo, nel quale per lo Spirito
Santo, il Padre e il Figlio dimorano in lui, è una nuova creazione, un alter Christus,
ovvero un Cristiano che può amare, cioè dare la propria vita per gli altri, perché
ancorato alla fonte che è Dio-amore. Nella seconda parte della sezione troviamo un
invito accorato al discernimento degli spiriti e un avvertimento a guardarsi dagli
anticristi e dal mondo. Di fronte all’anticristo il cristiano non deve temere perché colui
che è presente nel cuore del cristiano, ovvero quel Dio che è amore, «è più grande di
colui che è nel mondo» (1Gv 4,4).

3. LA RIVELAZIONE «DIO È AMORE» (1GV 4,7 – 5,4a)

La terza sezione (1Gv 4,7 - 5,4a) è quella in cui viene rivelato alle genti il
nome di Dio e la sua intima essenza agapica. Tale rivelazione viene effettuata usando
il metodo della dimostrazione a partire dall’argomento dell’amore fraterno. Si
potrebbe quasi intendere come una dimostrazione dal basso di ciò che è la più alta
affermazione su Dio. In questa sezione della lettera risuona fortemente l’aspetto
comunitario della teologia giovannea. Il dio-amore di Giovanni vive nell’unità e
nell’amore reciproco della comunità cristiana.

3.1. L’AMORE È DA DIO

Giovanni mette da subito in relazione l’amore di Dio con l’amore fraterno.


L’apostolo esorta il suo auditorio all’amore reciproco affermando che «l’amore è da
Dio» (1Gv 4,7b). L’espressione “da Dio”, nell’originale greco ἐκ τοῦ θεοῦ ἐστιν, può
avere due interpretazioni complentari: la prima è di origine46e indica che Dio è la fonte
dell’amore. Questo amore sgorga da Dio come da una sorgente per riversarsi nel cuore
degli uomini e pertanto, solo se si è pervasi da questo amore, è possibile amare il
fratello. La seconda è di appartrenenza e denota il fatto che l’amore è prerogativa di
Dio e quindi solo chi gli appartiene, partecipando per la fede alla natura divina, può
essere inebriato da tale amore. In questo senso il movimento dal basso verso l’alto che
caratterizza l’atto di fede viene suscitato da un desiderio di emulazione dell’amore di
Dio, cioè di amare come lui ama. Si potrebbe quasi dire in termini aristotelici che
l’amore di Dio, in questo caso, sia la causa formale dell’amore dell’uomo, mentre nel
primo caso ne sia la causa efficiente. L’apostolo prosegue nello stesso versetto
affermando che «ognuno che ama è stato generato da Dio e conosce Dio»(1Gv 4,7).
La generazione divina del cristiano è generazione dall’amore. Il cristiano che si è
conformato a Cristo con il battesimo è una nuova creatura capace di amare. L’apostolo
45
Cf. Bibbia di Gerusalemme nota a Mt 8,10.
46
Cf. Raymond E. BROWN, Le Lettere di Giovanni, p. 700.
33
Giovanni vuole dirci che «i figli di Dio manifestano se stessi nell’amore; esso è un
aspetto essenziale della loro connaturalità» 47. La conoscenza di Dio che promana
dall’atto di amare il fratello ricopre un aspetto non trascurabile nella nostra analisi.
Nell’atto di amare noi conosciamo Dio che è amore. Come è possibile questo? Ogni
uomo, credente o non credente, porta in sè scolpita l’immagine di Cristo quindi il
prossimo è un’altro Cristo. Amando il fratello, amiamo l’immagine di Cristo scolpita
in lui e in questo atto d’amore noi siamo divinizzati, siamo uno con Cristo e
conosciamo Dio. E questo avviene in maniera sincronica, cioè nell’atto di amare
Cristo nel fratello con l’amore che Cristo ha infuso nei nostri cuori con lo Spirito
Santo, diventiamo uno con Dio nella danza d’amore della Trinità. Il versetto 8 si apre
con una affermazione antitetica del versetto precedente:«chi non ama non ha
conosciuto niente di Dio» (1Gv 4,8a). Dobbiamo aggiungere, anche in riferimento a
quanto appena detto, che il verbo ‘conoscere’ nella sua accezione biblica non inerisce
principalmente la sfera gnoseologica o intellettuale, ma va inteso nel senso di
un’unione fisica o carnale (Cf. Gen 4,1; 4,17) e in senso più lato di amore e di fedeltá
come leggiamo in Osea.48Chi non ha avuto questa relazione di unione intima con Dio
semplicemente non ama perchè è disconnesso dalla fonte dell’amore. Quello che
l’apostolo vuole enfatizzare qui è la relazione tra Dio e l’uomo. Dalla qualità di questa
relazione essenziale promana la possibilità o la non possibilità di amare.

3.2. L’AMORE È DIO

La spiegazione di ciò apre il campo alla prima definizione agapica di Dio:


«perchè Dio è amore» (1Gv 4,8b). La definizione «Dio è amore » segue la forma delle
altre due descrizioni giovanee «Dio è Spirito» (Gv 4,24) e «Dio è luce» (1Gv 1,5).
Un’analisi comparata del testo greco delle tre definizioni ci dirà qualcosa di più sul
loro significato.

Dio è Spirito (Gv 4,24) πνεῦμα ὁ θεός

Dio è Luce (1Gv 1,5) ὁ θεὸς φῶς ἐστιν

Dio è Amore (1Gv 4,8) ὁ θεὸς ἀγάπη ἐστίν

Notiamo come nella formula del vangelo di Giovanni il verbo essere è


47
Raymond E. BROWN, Le Lettere di Giovanni, p. 700..
48
Os 2,22: «Ti faro mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore». In Osea la “conoscenza del
Signore” accompagna il hesed (2,21-22; 4,2; 6,6). Non si tratta d’una semplice conoscenza
intellettuale. Come Dio si fa conoscere all’uomo legandosi a lui con un’alleanza, manifestandoli per
mezzo dei suoi benefici il suo amore(hesed), così l’uomo “conosce Dio” per mezzo di un
atteggiamento che implica la fedeltà alla sua alleanza, il riconoscimento dei suoi benefici, l’amore (cf.
Gb 21,14; Pr2,5; Is 11,2; 58,2). Nella letteratura sapienziale la ‘conoscenza è quasi sinonimo di
«sapienza». Cf. Bibbia di Gerusalemme nota a Os 2,22.
34
mancante ma comunque sottointeso, mentre nelle altre due formulazioni il soggetto e
il predicato sono connessi dalla copula ἐστίν. Il verbo essere «è il verbo giovanneo
specifico per Dio e per la Parola». 49 Mentre gli uomini “hanno”, “diventano” e
agiscono, Gesù Cristo “è”. Osserviamo come nel vangelo di Giovanni il verbo essere
usato in prima persona da Gesù sia la modalità attraverso la quale Cristo rivela o
allude alla sua divinità. Le varie espressioni «Io sono ἐγώ εἰμι» richiamano infatti al
nome di Dio rivelato in Esodo 3,12 «Io sono colui che sono (Ehyeh asher ehyeh)»50.
Ma il verbo essere usato in forma di copula è anche il Verbo attraverso il quale Gesù
rivela alcuni aspetti fondamentali del suo essere. Gesù è la via, la verità e la vita (ἐγώ
εἰμι ἡ ὁδὸς καὶ ἡ ἀλήθεια καὶ ἡ ζωή).(Gv 14,6), Gesù è la luce del mondo (ἐγώ εἰμι
τὸ φῶς τοῦ κόσμου) (Gv8,12), Gesù è il buon pastore (ἐγώ εἰμι ὁ ποιμὴν ὁ καλός)
(Gv 10,14), Gesù è il pane della vita (ἐγώ εἰμι ὁ ἄρτος τῆς ζωῆς) (Gv 6,35) ecc.
Pertanto il verbo essere è rivelatore della divinità di Cristo e delle modalità attraverso
le quali questa si esplica nella storia degli uomini. Tuttavia ritornando all’espressione
«Dio è amore», essa potrebbe essere intesa a prima vista solo come una descrizione di
una qualità di Dio o come un’asserzione esistenziale riguardo all’attività di Dio nei
confronti dell’uomo. Ciò nonostante questa formula ci dice qualcosa anche sul
«mistero dell’essere proprio di Dio»51. Gesú nel Vangelo di Giovanni non parla infatti
solo dell’amore di Dio per gli uomini ma prima di tutto parla dell’amore che il Padre
ha per lui (Cf. Gv 3,35; 5,20; 10;17; 15,9). E questo amore esisteva già prima della
creazione nel rapporto tra Dio e il Verbo: «perchè mi hai amato prima della creazione
del mondo». (Gv17,24). Quindi la formula «Dio è amore» se da una parte indica
l’attività di Dio nei confronti dell’uomo, tuttavia «quell’attività è collegata a ciò che
Dio è prima della creazione»52. In sintesi possiamo affermare che il verbo essere è il
verbo attraverso il quale Gesù rivela il suo essere Dio, e chi Egli sia per gli uomini.
Quando il verbo essere mette in relazione il sostantivo Dio con il sostantivo amore,
allora significa che ogni azione di Dio è azione amorosa, ma anche che egli è amore in
se stesso. Questa seconda asserzione si chiarifica solo nella relazione di amore
personale che il padre ha per il Figlio prima della creazione del mondo.

3.3. L’AMORE DI DIO MANIFESTATO NELL’OFFERTA DEL FIGLIO

La sezione continua con il versetto 9 nel quale Giovanni spiega come si è


manifestato l’amore di Dio in noi. L’apostolo argomenta che tale manifestzione
49
Raymond E. BROWN, Le Lettere di Giovanni, p. 279.
50
Cf. Gv 4,26: Ἐγώ εἰμι, ὁ λαλῶν σοι.. Gv 8,24: ἐὰν γὰρ μὴ πιστεύσητε ὅτι ἐγώ εἰμι, ἀποθανεῖσθε ἐν
ταῖς ἁμαρτίαις ὑμῶν. Gv 8,28 εἶπεν οὖν ὁ Ἰησοῦς· Ὅταν ὑψώσητε τὸν υἱὸν τοῦ ἀνθρώπου, τότε
γνώσεσθε ὅτι ἐγώ εἰμι,. E anche Gv 18,5.8: πεκρίθησαν αὐτῷ· Ἰησοῦν τὸν Ναζωραῖον. λέγει αὐτοῖς·
Ἐγώ εἰμι.
51
Raymond E. BROWN, Le Lettere di Giovanni, p. 280.
52
Ibid.
35
avviene attraverso l’invio nel mondo del suo Figlio. E che il fine di questo invio del
Figlio è che «noi abbiamo la vita per mezzo di lui». (4,9b) La prima cosa da notare è
l’espressione «in noi - ἐν ἡμῖν». Se l’autore avesse vouluto dire “l’amore di Dio per
noi” avrebbe dovuto usare il dativo e l’uso della particella εἰς sarebbe stato più
appropriato. Pertanto attraverso l’espressione ἐν ἡμῖν l’autore voleva significare non
soltanto che l’amore di Dio si è manifestato per noi, ma soprattutto che questo amore
si manifesta in noi, nell’interiorità di ciascun uomo. L’amore di Dio si manifesta
quindi nell’incarnazione del Figlio ma anche nell’inabitazione del Figlio per lo Spirito
Santo nel cuore di ogni cristiano. Il versetto 10 mette in chiaro in quale ordine si sia
manifestato l’amore di Dio e soprattutto in quale forma: «non che noi abbiamo amato
Dio, ma che egli amò noi e mandò il suo Figlio come riparazione per i nostri peccati»
(1Gv 4,10). Ci sono due cose che si possono dire per commentare questo versetto. La
prima è che l’amore di Dio ci precede sempre. Non siamo stati noi ad amare prima
Dio di modo che l’amore di Dio avrebbe dovuto configurarsi poi come una risposta al
nostro amore. Mi spiego: non è che Dio ama solo quelli che lo amano. Dio ama tutti. Il
suo amore è incondizionato e gratuito, e non si ferma neanche davanti al peccato
dell’uomo. Questa affermazione viene a rompere ogni forma di religiosità naturale per
la quale l’uomo per ricevere l’amore divino dovrebbe offrire il suo amore umano. Dio
ci ama anche se noi non lo amiamo e continuiamo a rifiutare il suo amore attraverso i
nostri peccati. La seconda parte del versetto inerisce proprio alla questione del
peccato. Il Padre manifesta il suo essere amore inviando il suo Figlio unigenito come
vittima di espiazione per i nostri peccati. Giovanni aveva già espresso questo concetto
nel versetto 2 del capitolo secondo affermando: « È lui la vittima di espiazione per i
nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1Gv
2,2). Tuttavia il versetto 4,10 mette in connessione i due poli opposti dell’amore
divino e del peccato umano. L’amore che si spinge fino alla morte per la persona
amata vince il peccato e la morte stessa. L’amore di Dio è la medicina che cura la
piaga del peccato. E come si manifesta questo amore? Nel sacrificio estremo di Cristo
sulla croce. La concretizzazione assoluta in questo mondo dell’amore divino e la sua
forma più alta è la morte di Cristo in croce. È Cristo stesso nel vangelo di Giovanni
che ce lo dice: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i
propri amici. Voi siete miei amici…» (Gv 15,14-15). Il versetto 11 è un invito a
fondare l’amore reciproco tra i fratelli nell’amore che Dio ha avuto per noi: «diletti, se
Dio amò noi così, bisogna che noi a nostra volta ci amiamo l’un l’altro» (1Gv 4,11).
Tuttavia l’espressione «amò così» fa riferimento a quanto detto nel versetto
precedente, ovvero alla vita storica e alla morte storica di Gesù Cristo, e va
interpretata nel senso che «Dio dà il suo unico Figlio allo scopo che potessimo avere

36
vita e perdono dei peccati»53. Amare «così» come dice Giovanni, significa che anche
noi siamo chiamati ad amare l’altro come Cristo ci ha amati, cioé dando la nostra per
lui. L’amore non è qualcosa di astratto o platonico, ma un atto concreto che si compie
nella storia. Tuttavia questa storicità e concretezza dell’amore quale atto che si
realizza nella vita reale degli uomini ci fa pensare a quali rischi corra la nostra società
contemporanea che vive alienata in realtà virtuali. Inoltre questo atto richiede una
risposta e suscita imitazione. Non si può rimanere indifferenti nei confronti di un atto
d’amore. L’indifferenza stessa infatti è un atteggiamento di rifiuto dell’amore. Per di
più l’intensità del donarsi nell’atto dell’amante smuove il cuore dell’amato a prodursi
nello stesso tipo di atto, che si apre così al prossimo. Possiamo così vedere in questo
versetto i due movimenti che caratterizzano l’amore, il primo verticale, che discende
da Dio all’uomo, il secondo orizzontale che è l’amore fraterno.

3.4. DIO-AMORE IN CRISTO PER LO SPIRITO SANTO DIMORA NEL CUORE DEI
CRISTIANI

Nel dodicesimo versetto, «nessuno mai ha visto Dio. Tuttavia se ci amiamo


l’un l’altro, Dio dimora in noi; e il suo amore ha raggiunto la perfezione in noi» (1Gv
4,12), notiamo un forte richiamo al prologo del vangelo di Giovanni. Qui leggiamo
«Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è
lui che lo ha rivelato» (1Gv 1,18). Dall’analisi comparata di questi due versetti
possiamo osservare una traslazione del discorso di Giovanni dalla tematica
dell’incarnazione a quella della inabitazione. Vi è un passaggio netto dalla vita di
storica di Gesù alla vita della Chiesa. Il Figlio, che per l’incarnazione, si è fatto uomo,
ha sofferto, è morto e risorto, ora vive per lo Spirito Santo, nel cuore dei cristiani. È
per il mistero dell’inabitazione che la Chiesa diviene il corpo di Cristo su questa terra.
I cristiani amandosi reciprocamente fanno vivere Dio nei loro cuori e per questo
possono vedere Dio. Ma cosa significa la perfezione dell’amore di Dio nel cristiano?
Io credo che questa perfezione vada interpretata nell’ottica delle relazioni umane. La
relazione con Dio e la relazione con il prossimo raggiungono l’apice della perfezione
in un’anima infiammata dall’amore divino. Affermare che Dio è amore richiama
all’affermazione che Dio sia fondamentalmente relazione. Così anche l’uomo in cui
dimora l’amore di Dio diviene relazione pura, o se vogliamo un essere per l’altro.
Questa inabitazione, che prende la forma di una pericoresi umano-divina, avviene per
opera dello Spirito Santo: «Da questo possiamo conoscere che dimoriamo in lui ed
egli dimora in noi: dacché ha dato a noi del suo stesso Spirito» (1Gv 4,13). Come il
Figlio, anche lo Spirito ci è inviato dal Padre. Lo Spirito oltre a rendere possibile
l’inabitazione di Dio in noi, attesta al nostro Spirito che Dio stesso vive in noi. E non

53
Raymond E. BROWN, Le Lettere di Giovanni, p. 708.
37
solo, lo Spirito ci dice che Cristo è il salvatore del mondo inviato dal Padre: «Quanto a
noi abbiamo visto e possiamo testimoniare che il Padre ha mandato il suo Figlio come
salvatore del mondo» (1Gv 4,14).

3.5. LA FEDE COME PRESUPPOSTO DELL’INABITAZIONE DI DIO NELL’UOMO

Ma qual’è dunque il rapporto tra il Padre e il Figlio nell’orizzonte della


pericoresi umano-divina? Nel versetto 15 tale rapporto viene chiarito dall’Apostolo il
quale afferma: «Ogni qualvolta qualcuno confessa che Gesù è il Figlio di Dio, allora
Dio dimora in lui ed egli dimora in Dio» (1Gv 4,15). Si parla qui di una confessione di
fede. Il presupposto dell’inabitazione di Dio nell’uomo è la fede nella relazione di
figliolanza di Cristo rispetto a Dio. Il Figlio è della stessa natura del Padre ed è il
salvatore del mondo. Un cristiano che per la fede confessa questa verità, partecipa alla
natura divina. La fede appare qui come l’innesco del meccanismo di divinizzazione
dell’uomo. La fede ci apre le porte al mistero dell’essenza divina. La fede ci fa
raggiungere l’apice della Rivelazione poichè ci fa conoscere che Dio è amore:
«Quanto a noi abbiamo siamo arrivati a conoscere e credere l'amore che Dio ha in noi.
Dio è amore; e la persona che dimora nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui»
(1Gv 4,16). L’espressione «quanto a noi» indica che l’apostolo sta riportando
l’esperienza della sua comunità di origine. Giovanni dopo aver annunciato la verità
dell’amore di Dio a livello teorico, la conferma con la propria esperienza. Si ritorna
qui sul piano esistenziale. L’amore di Dio fin qui annunciato non è qualcosa di
aleatorio, ma un’esperienza concreta della vita di Giovanni e della vita dei suoi fratelli
di comunità. Nella forma verbale «siamo arrivati a conoscere e credere», rileviamo
due aspetti. Il primo è la gradualità della conoscenza e della fede nel Dio-Amore.
L’autore qui ci parla di un cammino da compiere o di un catecumenato da
intraprendere al fine di raggiungere la piena conoscenza e una fede assoluta in questo
amore.54 Questo cammino si fa in una comunità, dove la conoscenza dell’amore di Dio
va di pari passo con l’amore per i fratelli. I verbi conoscere e credere non vanno
interpretati in maniera sequenziale, cioè prima ho conosciuto e poi ho creduto. Ma
vanno letti a mio avviso nell’orizzonte dell’itinerario battesimale del catecumeno.
L’annuncio del kerigma chiama a conversione e suscita la fede. L’uomo che si affida a
Dio decide d’intraprendere un cammino, come fece Abramo, e durante questo
cammino conosce a livello esistenziale, in base alle opere che vede nella sua vita, che
Dio lo ama. Di pari passo con la conoscenza cresce la fede. L’uomo che si era affidato
a Dio, ora conoscendo il suo amore e la sua fedeltà, ne è sempre più avvinto, e la sua
anima, nella fede, diviene sempre più una cosa sola con Dio. Un’anima così unita a
54
Cf. Raymond E. BROWN, Le Lettere di Giovanni, p. 715: «L’autore sta di nuovo parlando della
fondamentale conoscenza e del fondamentale atto di fede implicito nella conversione / iniziazione /
battesimo».
38
Dio arriva a conoscere l’intima essenza di Dio e può pertanto affermare come
Giovanni: «Dio è amore».

3.6. «DIO È AMORE» NELLA SUA DIMENSIONE ESCATOLOGICA

Il versetto 17 rilegge quanto detto finora in relazione all’escatologia.


L’apostolo interpreta l’amore di Dio e la sua dimora in noi, proiettandolo nel giorno
del giudizio finale: «In questo l'amore ha raggiunto la sua perfezione con noi con il
risultato che possiamo avere fiducia nel giorno del giudizio, perché già in questo
mondo siamo proprio come Cristo» (1Gv 4,17). È come se Giovanni ci mettesse su
una macchina del tempo e ci spedisse diritti al giorno del nostro giudizio finale. In
quel giorno il Cristiano, che in questo mondo ha raggiunto già la misura di Cristo
capo, cioè quel cristiano nel quale vive Cristo stesso, non ha da temere circa l’esito del
giudizio. Infatti l’amore che ci ha fatto uno con Cristo in questa terra, ci spalanca
anche le porte alla comunione con la Trinità nel regno dei cieli. Chi vive in questo
amore non teme per il futuro: «L’amore non ha spazio per il timore; anzi l’amore
perfetto scaccia il timore. Poichè il timore porta con sé il castigo. L’amore non ha
raggiunto la perfezione in colui che è ancora timoroso» (1Gv 4, 18). Questo versetto
porta una buona notizia fenomenale. Gli uomini di tutte le generazioni, ma in
particolare quelli del nostro tempo vivono nel timore e nel senso di colpa per le ferite
causate dai propri peccati e da quelli degli altri. L’amore di Dio, manifestatosi in
Cristo ed effuso nei nostri cuori per lo Spirito Santo, è l’unico “psicofarmaco” che può
curare i nostri timori esistenziali. Vi è inoltre anche un invito per i cristiani stessi a
crescere in questo amore. Se c’è infatti ancora qualcuno che teme, allora l’amore di
Dio non è perfetto in lui. Nel versetto 19 Giovanni ci ricorda di nuovo che la
condizione di possibilità dell’amore umano è l’esperienza dell’amore di Dio: «Quanto
a noi, amiamo perchè egli amò noi per primo» (1Gv 4,19). Non si ama il prossimo con
le proprie forze ma in virtù dell’amore ricevuto da Cristo e che vive in noi per lo
Spirito Santo. Ancora una volta Giovanni ci presenta un’inversione dello schema
classico della religiosità naturale: non è l’uomo che si guadagna l’amore di Dio con i
propri sacrifici, non è l’uomo che si accosta a lui con le sue misere forze, ma nel
rapporto Dio-uomo l’iniziativa la prende sempre Dio. Lui offre gratuitamente l’amore
all’uomo, gli offre la possibilità di tornare alla relazione di originaria comunione che
c’era prima del peccato originale. L’uomo come detto, sostenuto dalla grazia, è
chiamato ad accogliere questo amore e da esso lasciarsi trasformare. Da questo punto
di vista il cristianesimo lungi dall’essere una stressante rincorsa all’adempimento di
precetti umani, si configura come una religione “rilassante”, in cui l’uomo è chiamato
a ricevere come dono Dio stesso e da lui essere servito.

3.7. UN COMBATTIMENTO CONTRO IL PRINCIPE DI QUESTO MONDO


39
Nel versetto 20 si fa allusione ad una impossibile coerenza tra chi dice di
amare Dio e allo stesso tempo odia il fratello: «Se qualcuno si vanta: “Io amo Dio”
mentre continua ad odiare suo fratello, è un mentitore. Perchè la persona che non ha
amore per suo fratello che ha visto non può amare il Dio che non ha mai visto» (1Gv
4,20). La parola mentitore allude a satana. L’autore ci vuole dire che chi odia il fratello
appartiene a satana e al mondo delle tenebre. Qui non si tratta d’indifferenza o di
mancanza di amore verso il fratello, ma l’apostolo parla chiaramente di odio. Se Dio è
amore e relazione totale, satana è odio puro e assoluta mancanza di relazione. Satana è
colui che divide, il diavolo55, colui che opera al fine di rompere la relazione tra Dio e
l’uomo e le relazioni tra gli uomini stessi, per renderli individui soli, in balia del suo
potere. Nel versetto 21 si fa riferimento al duplice comandamento dell’amore assai
ricorrente56nella letteratura Giovannea: «E il comandamento che abbiamo ricevuto da
lui è questo: chi ama Dio deve amare anche suo fratello» (1Gv 4, 21). Tuttavia questo
è l’unico caso in cui tale asserzione viene formulata in termini di dovere. Dio stesso è
latore di quel comandamento la cui sostanza e il cui scopo sono l’amore stesso. Il
dovere non ha, a mio parere, un accezione moralizzante, ma bensì significa che chi è
arso dal fuoco dell’amore di Dio non può non amare il fratello. Chi non ama il fratello
è perchè la fiamma di quel fuoco d’amore divino in lui non arde più. Siamo giunti
quasi alla conclusione di questa sezione e le parole del versetto 5,1 «Ognuno che
crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio», sono un richiamo al versetto 4,7
in cui leggevamo che «ognuno che ama è stato generato da Dio». L’amore e la fede
fanno degli uomini nuove creature in Dio. Il rapporto tra questi due moti dell’anima
appare molto stretto quasi che la fede fosse un prerequisito dell’amore. Chi crede può
amare. Questa fede passa attraverso l’obbedienza dei comandamenti e ha come frutto
l’amore fraterno (cf. 1Gv 5,2-3), che sgorga dall’essenza stessa di Dio e vince le forze
oscure del mondo (cf. 1Gv 5,4).

55
La parola greca διάβολος è una derivazione dal verbo greco διαβάλλω che significa
“disunisco”,”accuso”, “calunnio” ed è il contrario del verbo συμβάλλω che invece significa “unisco”,
“metto in collegamento”. Da qui il diavolo viene definito come colui che divide o anche come colui
che accusa.
56
Cf. Gv 13,34; 15,12.17; 1Gv 3,23; 2Gv 5.
40
Capitolo III
IL DIO-AMORE NEL DE TRINITATE DI SANT’AGOSTINO DI IPPONA

Il secondo pellegrino che incontriamo sulla Via Caritatis, inaugurata


dall’apostolo Giovanni, è sicuramente Agostino. Il termine Via Caritatis viene coniato
proprio dal vescovo d’Ippona nell’incipit del suo De Trinitate, nel quale leggiamo:
«Così ci metteremmo insieme sulla via della carità, alla ricerca di colui del quale è detto: Cercate
il suo volto»57.

Il De Trinitate di Agostino è appunto questo: una ricerca del volto di Dio sulla
via dell’amore. Il concetto di Dio-Amore, come vedremo, è la chiave di volta della
riflessione teologica di Agostino sulla Trinità. Egli trova nell’agapicità divina il
principio di unità del Dio trino e la condizione di possibilità di tale trinitarietà. In tale
orizzonte verrà sviluppato inoltre un altro dei capisaldi della teologia trinitaria di
Agostino, ovvero il concetto di relazione: le relazioni del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo assurgono a oggetto distintivo, per negazione, dell’unica essenza divina.
Ma senza voler anticipare troppo i contenuti della nostra trattazione, ci limiteremo a
dire in sede di presentazione che il De Trinitate si configura come la «prima
riflessione organica sulla verità centrale della fede dopo i Concili di Nicea I e di
Costantinopoli I»58. Inoltre essendo stato scritto tra gli anni 399 e 421, tale opera
attraversa l’intero percorso teologico di Agostino, beneficiando dei progressi effettuati
dello stesso nella vita spirituale e nell’intelligenza della fede. Per di più la grande
portata dell’opera viene confermata dall’enorme influsso che essa eserciterà sulla
teologia successiva ad Agostino. Tutti coloro che rifletteranno sulla Trinità in tutte le
epoche posteriori ad Agostino non potranno fare a meno che riferirsi alla sua opera. La
fortuna del De Trinitate agostiniano è tale che anche alcuni teologi ortodossi
contemporanei attingeranno ad essa per le loro speculazioni teologiche. Tra questi
colpisce in particolare il punto di vista di Sergej Bulgakov che commentando il De

57
AGOSTINO D’IPPONA, De Trinitate, I, 3, 5: «Ita ingrediamur simul caritatis viam, tendentes ad eum
de quo dictum est: Quaerite faciem eius semper».
58
Piero CODA, Dalla Trinità, Roma: Città Nuova, 2012, pp. 369-370.
41
Trinitate afferma: «Sant’Agostino fa una vera scoperta per la teologia trinitario-
pneumatologica: per primo esprime l’idea, assolutamente estranea alla teologia
orientale, della Santissima Trinità concepita come amore»59. Ed è questo il punto
centrale dell’opera di Agostino, la concezione della Trinità come amore. Questa è la
novità assoluta del suo pensiero: l’irruzione dell’amore nel contesto teologico del
tempo, intriso di filosofia neoplatonica. Agostino, come vedremo, compie il primo
passo e apre il cammino ad una visione diversa di Dio e ad un approccio relazionale
che porta già in nuce le successive speculazioni sulla intersoggettività e
interpersonalità divina. Il De Trinitate di Agostino è un’opera che trae corpo dalla sua
intima esperienza di Dio. Gli ultimi capitoli dell’opera sono una profonda meditazione
del mistero di Dio-Amore, che affonda le sue radici proprio nella vita contemplativa
del Santo. Infatti come ricorda il Trapè «anche nella sua penetrazione teologica, che fu
eccezionalmente profonda e sicura, ebbe un influsso prevalente l’esperienza
mistica»60. Nel De Trinitate non possiamo non notare inoltre l’aspetto carismatico
dell’opera che muove dalla cura pastorale di Agostino vescovo per il gregge
affidatogli. In tal senso l’opera appare come ispirata «ad Agostino da un impulso dello
Spirito al fine di adempiere un preciso servizio, a favore della Chiesa, d’intelligenza e
illustrazione della fede trinitaria»61. Infine il De Trinitate è frutto anche della intensa
vita comunitaria, nella quale viveva Agostino. L’aspetto relazionale e il tema
dell’amore reciproco nella tematica trinitaria, hanno sicuramente subito l’influsso di
tale esperienza. Ricordiamo in tal senso che la dimensione della vita comunitaria è un
evento ricorrente nella vita dei tre autori che stiamo trattando in questo lavoro:
Giovanni, Agostino e Riccardo di San Vittore vivono, e traggono ispirazione per la
propria teologia, proprio da un contesto di vita comune che è il luogo dove si
sperimenta l’amore fraterno.

1. IL METODO TEOLOGICO: REGULA FIDEI, INTELLIGENTIA FIDEI, EXPERIENTIA


FIDEI

Il metodo teologico che Agostino si propone di seguire nel De Trinitate si


compone di tre momenti: la regula fidei, l’intelligentia fidei e la experientia fidei. Tale
metodo sarà anche il criterio attraverso il quale si articoleranno via via i contenuti
dell’opera. Pertanto questi due aspetti verranno trattati insieme in questo paragrafo. La
regula fidei consiste nella assunzione del Credo professato dalla Chiesa come punto di
partenza della ricerca teologica. I contenuti della fede vengono pertanto esposti da
Agostino che, in un secondo momento, provvederà a verificare quanto professato
attraverso un’esposizione ed un’analisi della Sacra Scrittura. Tale processo si
59
Sergei BULGAKOV, S., Il Paraclito, F. Marchese (tr.), Bologna: EDB, 1971, p. 91.
60
Agostino TRAPÈ, Agostino. L’uomo, il pastore, il mistico, Roma: Città Nuova, 2001, p. 358.
61
Piero CODA, Dalla Trinità, p. 370.
42
svilupperà dal libro primo al libro quarto. In questa parte dell’opera Agostino scoprirà
nella Scrittura e nella Tradizione il tema fondamentale della relazione, che offrirà poi
alla speculazione nella fase successiva. L’intelligentia fidei, che troviamo esposta nei
libri quinto, sesto e settimo, è appunto il momento speculativo dell’opera, ovvero
quella fase in cui il teologo è chiamato a rendere ragione dei dati della rivelazione
ricavati dall’analisi della scrittura illuminata dal dogma di fede. 62Tale procedimento si
attua attraverso due strumenti fondamentali. Il primo è l’analisi logico-dialettica dei
nomi e dei concetti. In essa Agostino opera un’acuta indagine semantica e linguistica
dei termini della rivelazione. Il secondo invece è un approccio di stampo metafisico
alla questione. In particolare Agostino cerca di spiegare come i concetti della Scrittura
si riferiscano all’essere di Dio. La conclusione di tale indagine porterà Agostino a
considerare inadeguata la metafisica esistente per esprime l’essere di Dio uno e trino.
Questa inadeguatezza aprirà il campo all’approfondimento della dimensione
relazionale di Dio ma soprattutto alla scoperta della metafisica dell’amore.
L’experientia fidei è il terzo momento del metodo teologico agostiniano e va dal libro
VIII al libro XIV. In esso vengono ricondotti i primi due momenti alla contemplazione
del mistero di Dio. Esso si configura come «contatto vitale e spirituale col mistero
della Trinità»63e si esplicita nella preghiera e nel dialogo con Dio attraverso il quale
tale mistero è confessato e lodato. L’obbiettivo di Agostino attraverso questo terzo
momento della contemplazione, è quello di mostrare concretamente quale sia il luogo
in cui è possibile incontrare la Trinità. In questa parte dell’opera vengono a anche
trattate le immagini della Trinità che l’uomo può scoprire nel suo spirito. Agostino
prima di approcciare l’essenza misteriosa di Dio, decide di osservare come prima
nell’essere umano, creato ad immagine e somiglianza di Dio, siano presenti delle
tracce che ci possano condurre alla conoscenza del Dio Trinità.

2. L’AMORE COME VIA D’ACCESSO ALL’ESSERE DI DIO

Nel libro primo del De Trinitate Agostino si sofferma innazitutto su un aspetto


metodologico irrinunciabile per chi si metta in cerca della Trinità: l’amore per la
verità.64 Questo amore per la verità si fonda sull’amore che Dio ha per noi e che
suscita l’amore che noi abbiamo per lui. Per tanto la ricerca di Dio avviene già
nell’orizzonte dell’amore: l’amato che va in cerca dell’amante sulla via dell’amore. In
questo senso teologia e contemplazione vanno di pari passo e non possono essere
separate tra loro. Il teologo, solamente se unito a Dio in una relazione di amore e di
fede profonda, può affrontare il difficile tema della Trinità «poichè non c’è altro
argomento a proposito del quale l’errore sia più pericoloso, la ricerca più ardua, la
62
Cf. Piero CODA, Dalla Trinità, p. 376.
63
Piero CODA, Dalla Trinità, p. 376.
64
Cf. AGOSTINO D’IPPONA, De Trinitate, I,5,8: «rapimur amore indagandae veritatis».
43
scoperta più feconda»65. Agostino ci vuole ricordare all’inizio del nostro percorso di
ricerca che l’unione con Dio, realizzata dall’amore di Cristo effuso nei nostri cuori
dallo Spirito Santo, «è il presupposto essenziale per penetrare, secondo verità, nella
contemplazione dell’unità e della trinità di Dio»66. Il secondo presupposto del
quaerere Deum è un dialogo costante con la propria interiorità, con la parola di Dio e
con i propri fratelli:
«Se il mio sentire sarà diverso dal vero, Egli me lo rivelerà sia mediante le ispirazioni e
ammonimenti nascosti, sia mediante l’aperta testimonianza della sua parola, sia mediante i
colloqui con i fratelli»67.

Dio parla nel cuore dell’uomo attraverso lo Spirito Santo in maniera


nascosta e in maniera esplicita parla direttamente all’uomo attraverso la sua Parola
rivelata. Ma Dio parla anche all’uomo attraverso le parole di coloro che Egli ci ha
messo accanto. La teologia pertanto si sviluppa anche grazie al dialogo con i fratelli.
Questa è una delle grandi intuizioni di Agostino che proponendo come contesto di
ricerca della verità la carità fraterna, mette in risalto ancora una volta il ruolo
fondamentale della comunità. L’approccio alla Trinità, comunità di persone, diviene
più adeguato se operato, non dal singolo teologo, ma da questi inserito nel corpo
vivo di una comunità di credenti.

3. REGULA FIDEI (LIBRI I-IV)

Agostino in questa prima parte dell’opera ripercorre la Scrittura al fine di


verificare il dogma di fede che confessa Dio, uno e trino. Affronteremo questa
sezione in maniera sintetica soffermandoci solo su quegli elementi funzionali allo
sviluppo del nostro tema. La tematica di Dio-Amore, anche se non trattata
direttamente in questa sezione è comunque sempre sullo sfondo del grande tema
dell’unità delle persone divine in Dio, dell’unità tra Dio e gli uomini e dell’unità di
tutti gli uomini in Dio68. Secondo la posizione di Agostino il disegno di Dio per
l’uomo è fondamentalmente mysterium unitatis. Tale disegno si sviluppa secondo tre
fasi: la creazione, la redenzione e la partecipazione alla vita della Trinità. Colui che
porta a compimento tutte le fasi di questo disegno è Cristo, che pertanto può essere
65
AGOSTINO D’IPPONA, De Trinitate, I, 3, 5: «quia neque periculosius alicubi erratur, nec laboriousus
aliquid quaeritur, nec fructuosius aliquid invenitur».
66
Piero CODA, Sul luogo della Trinità, p.43.
67
AGOSTINO D’IPPONA, De Trinitate, I, 3, 5: «Si quid aliter sapio, id quoque mihi ipsi revelabit sive
per occultas inspirationes atque admonitiones sive per manifesta eloquia sua sive per fraternas
sermocinationes».
68
Battista MONDIN, La trinità mistero d’amore: «Agostino si colloca sin dal primo momento nella
Trinità immanente, mai disgiungendola a quellaeconomica, e muove dall’unità essenziale di Dio verso
la trinità delle Persone» p.144.
44
detto mediator unitatis, ovvero colui per mezzo del quale si realizza l’unità tra Dio e
gli uomini e tra gli uomini stessi. L’iniziale unità di Dio con gli uomini e degli
uomini tra loro è stata distrutta e gli uomini a causa del peccato si sono dispersi,
ovvero si sono allontanati dalla fonte dell’unità. Il Verbo di Dio, principio della
creazione di tutti gli uomini, e quindi anche principio di unità, viene nel mondo per
ricondurre all’unità coloro che si erano dispersi. Questa riconciliazione dell’uomo
con Dio si realizza attraverso l’invio del Figlio:
«occorreva che (...) noi liberati dalle molte cose, ci serrassimo attorno a quell’uno; che (...)
amassimo quest’uno, morto per noi nella carne senza peccato; che noi credendo in quell’uno
risorto e con lui spiritualmente risorgendo “per fede”, fossimo giustificati diventando una cosa
sola nell’unico Giusto»69.

Vediamo qui che questo ritorno all’unità avviene attraverso un atto di amore
e di fede che ci avvince a Cristo morto e risuscitato. Ritornano anche qui come in
Giovanni questi due movimenti essenziali nella relazione con Cristo, la fede e
l’amore. Amando Cristo e credendo in lui siamo fatti uno con lui e per questo
giustificati. Il concetto di salvezza e quello di unione dell’uomo a Cristo sono
praticamente identici. E questa unione a Cristo è la porta d’accesso alla vita stessa
della Trinità ed il mezzo attraverso il quale questa partecipazione alla vita trinitaria
si realizza è l’inabitazione di Cristo nell’uomo. Cristo così facendo realizza il suo
compito di mediator unitatis: « perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei
in me e io in te, siano anch'essi in noi» (Gv 17, 21). Dimorando Cristo negli uomini
e il Padre in Lui, gli uomini vengono santificati nell’unità stessa della Trinità. Gli
uomini in Cristo partecipano alla vita del Dio trino. Questa partecipazione, secondo
Agostino, avviene al livello di natura e a quello di volontà:
«Per questo sono purificati dal Mediatore per essere “una cosa sola” in lui, non solo
nell’unità della natura, nella quale da uomini mortali “diventano uguali agli Angeli”, ma
anche per l’identità di una volontà che cospira in pieno accordo alla medesima beatitudine,
fusa in qualche modo in un solo spirito dal fuoco della carità» 70.

Ed anche:
«come il Padre e il Figlio sono “una cosa sola” non solo per l’uguaglianza della sostanza, ma

69
AGOSTINO D’IPPONA, De Trinitate, IV, 7, 11: «et a multis exonerati veniremus ad unum, et multis
peccatis in anima mortui et propter peccatum in carnem morituri ameremus sine peccato mortuum in
carne pro nobis unum, et in resuscitatum credentes et cum illo “per fidem” spiritu resurgentes
iustificaremur un uno iusto facti unum».
70
Ibid., IV, 9: «unde mundatur per Mediatorem, “ut sint” in illo “unum”; non tantum per eamdem
naturam qua omnes ex hominibus mortalibus “aequales Angelis fiunt”, sed etiam per eamdem in
eamdem beatitudinem conspirantem concordissimam voluntatem in unum spiritum quodam modo
igne caritatis conflatam».
45
anche per la volontà, così questi che hanno il Figlio come Mediatore tra sé e Dio, siano “una
cosa sola” non soltanto perchè sono della stessa natura ma anche per la comunanza di uno
stesso amore»71.

La partecipazione alla vita della Trinità fa sì che gli uomini si amino tra loro
con lo stesso amore con cui si amano il Padre e il Figlio. Vi è una fusione della
volontà umana con quella divina che si realizza per mezzo dell’amore. L’espressione
quodam modo igne caritatis conflatam ci dice che la volontà dell’uomo viene in
“qualche modo” conformata a quella di Dio attraverso il fuoco dell’amore, ma non
ci dice precisamente in quale modo questo avvenga. Inoltre persiste qui ancora una
distinzione tra il piano dell’essere e quello dell’azione. Questa sintesi tra atto ed
essere si chiarirà in seguito nel libro ottavo dove si definirà l’essenza di Dio quale
Amore. Tuttavia quello che Agostino vuole dirci è la necessità che la grazia della
partecipazione alla natura divina «si faccia attiva nella mutua dilectio, creando tra i
discepoli una societas che, in Cristo mediatore, è partecipazione e dunque immagine
viva della Trinità»72. Qui Agostino con il termine dilectionis societatem sembra già
anticipare i contenuti del libro ottavo asserendo che l’amore è il principio costituente
sia della comunità cristiana, ma soprattutto di quella comunità di persone divine che
chiamiamo Trinità.

4. INTELLIGENTIA FIDEI (LIBRI V-VII)

In questa seconda parte dell’opera Agostino si propone di esporre


teologicamente, ovvero di vagliare alla luce della ragione, il dato rivelato analizzato
nella prima sezione. Questa verità rivelataci dalla Scrittura e cristallizzata nel dogma
ci dice che le tre persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo mostrano l’unità
divina essendo partecipi di una sola e medesima sostanza. Tuttavia all’interno di
questa unità originaria, conformemente al dato scritturistico, è possibile il verificarsi
di una distinzione delle persone. Questa si configura come alterità reciproca delle
persone in Dio e trova il suo fondamento nel concetto di relazione. 73 Agostino spiega
questo passaggio fondamentale già nel libro primo:
«il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo (...) non sono tre dèi, ma un Dio solo, benchè il Padre
abbia generato il Figlio e quindi non sia Figlio colui che è Padre; benchè il Figlio sia stato
generato dal Padre e quindi non sia Padre colui che è Figlio; benchè lo Spirito Santo non sia né

71
AGOSTINO D’IPPONA, De Trinitate, IV, 9: «ut quemadmodum Pater et Filuis, non tantum aequalitate
substantiae, sed etiam voluntate “unum” sunt, ita et hi inter quos et Deum “Mediator” est Filius, non
tantum per id quod eiusdem naturae sunt, sed etiam per eamdem dilectionis societatem “unum sint”».
72
Piero CODA, Sul luogo della Trinità, p.50.
73
Battista MONDIN, La trinità mistero d’amore: «L’unico principio di distinzione tra le persone, che
ne salvaguaria allo stesso tempo l’assoluta identità a livello di esssenza e di perfezioni assolute, si
poteva rinvenire nella categoria della relazione» pp.146-147.
46
Padre né Figlio ma solo lo Spirito del Padre e del Figlio, pari anch’egli al Padre e al Figlio,
appartenente con essi all’unità della Trinità»74.

L’affermazione Padre contiene in se stessa la negazione del non essere Figlio


e Spirito Santo. Lo stesso discorso vale per l’affermazione Figlio e Spirito Santo.
Ciò designa un’alterità reale in Dio senza negarne l’originaria unità. Tale concetto
appare ad un primo sguardo contraddittorio ed Agostino s’impegnerà nel libro
quinto in una difficile spiegazione metafisica al fine di rendere ragione di tale
contraddizione. Tuttavia ritengo che il concetto di alterità in Dio sia il presupposto
fondamentale per poter in seguito affermare che Dio é amore. Se non vi fossero
distinzioni in Dio, Egli sarebbe un monolite chiuso in se stesso e incapace di uscire
da sé per donarsi ad un altro. Agostino risolve la problematica della unità e della
distinzione in Dio introducendo il concetto di relazione. Egli, in questa parte, deve
fare i conti con la concezione di Dio ereditata dal platonismo, che affermava che Dio
fosse un essere immutabile e che tutto quello che viene predicato in Dio dovesse
essere sostanziale. Un predicazione accidentale, ovvero mutabile, negherebbe di
fatto l’immutabilità della sostanza divina. Quella della relazione, secondo Aristotele,
era da annoverarsi infatti tra le nove categorie degli accidenti. Agostino tuttavia,
forte del dato della Rivelazione, afferma allora che in Dio non c’è nulla che abbia
significato accidentale e pur tuttavia in Dio «non tutto ciò che si predica, si predica
in senso sostanziale»75. La relazione infatti può essere applicata a Dio in quanto non
è qualcosa di mutevole anche se essa non appartiene all’ordine della sostanza 76. In
conclusione la distinzione o alterità nell’unico Dio trova la sua possibilità di
esistenza solo se predicata secondo la categoria della relazione. In tale orizzonte Dio
si configura così come «l’Essere-Uno che come tale s’esprime nelle relazioni
reciproche di Tre distinti: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo ciascuno dei quali è
l’unico vero Dio»77. La relazione reciproca delle tre persone della Trinità è il fattore
decisivo che li distingue. Il passaggio successivo che resta ora da compiere è quello
di capire quale sia la qualità di questa relazione. La risposta a tal quesito tirerà in
ballo proprio il concetto di Dio-Amore che è al centro di questa ricerca.

74
AGOSTINO D’IPPONA, De Trinitate, I, 4, 7: «Pater et Filius et Spiritus Sanctus (...) non sint tres dii
sed unus deus, quamvis Pater Filuim genuerit, et ideo Filuis non sit qui pater est ; Filiusque a Patre sit
genitus, et ideo Pater non sit qui Filius est ; Spiritusque Sactus nec Pater sit nec Filius, sed tantum
Patris et Filii Spiritus, Patri et Filio etiam ipsum coaequalis et ad Trinitatis pertinens unitatem».
75
Ibid., V, 5, 6: «In deo autem nihil quidem secundum accidens dicitur quia nihil in eo mutabile est;
nec tamen omne quod dicitur secundum substantiam dicitur».
76
Cf. AGOSTINO D’IPPONA, De Trinitate, V, 5, 6 : «Quamobrem quamvis diversum sit patrem esse et
filium esse, non est tamen diversa substantia quia hoc non secundum substantiam dicuntur sed
secundum relativum, quod tamen relativum non est accidens quia non est mutabile».
77
Piero CODA, Sul luogo della Trinità, p.59.
47
5. EXPERIENTIA FIDEI (LIBRI VIII-XV)

Siamo nella fase decisiva della riflessione di Agostino sulla Trinità. Il


cammino percorso fin qui atteraverso le fasi della regula fidei e dell’intelligentia
fidei, ci hanno posto di fronte ad una domanda: in quale senso va compresa la
relazione tra Padre Figlio e Spirito Santo? In definitiva qual’è la ragione ultima che
rende possibile allo stesso tempo l’unità e la Trinità di Dio? La confessione di fede e
la scrittura ci hanno descritto e annunciato che Dio è l’essere, che è Uno e allo
stesso tempo Trino. La riflessione teologica ci ha aiutato a comprendere in qual
modo l’essere Uno di Dio possa venire predicato in maniera Tri-Personale,
attraverso il concetto di relazione. Per compiere un uteriore passo nella ricerca del
“volto di Dio” è necessario inabissarci nell’interiorità dell’uomo. L’uomo è stato
creato ad immagine di Dio e pertanto nell’essere dell’uomo sono presenti delle
tracce dell’essere divino. Ed è proprio seguendo tali tracce che Agostino intende
mettersi in cerca dell’essere uni-trino di Dio nel campo conosciuto della natura
umana. 78E tra le esperienze umane presenti nella natura umana quella dell’amore
risulta essere la più alta e perfetta.
«perciò in questa questione sulla Trinità e la conoscenza di Dio dobbiamo principalmente
indagare che cosa sia il vero amore, o meglio, che cosa sia l’amore, perchè non c’è amore
degno di tal nome che quello vero»79.

L’intuizione di Agostino trova riscontro inoltre nella prima lettera di


Giovanni nella quale leggiamo che « Dio è amore; e la persona che dimora
nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1Gv 4,16). Dio dimora dentro di noi,
perchè cercarlo altrove? E in che forma dimora in noi? Nella forma dell’amore.
Quando noi amiamo il fratello, in quell’amore incontriamo Dio che è amore.
Quell’amore con cui amiamo il fratello è il frutto della presenza viva del Dio-Amore
presso di noi come spiega Agostino:
«Dio gli sarà più noto che il fratello: molto meglio noto, perchè più presente; più noto perchè
più interiore; più noto perchè più certo. Abbraccia il Dio amore e abbraccia Dio con l’amore» 80.

Allora l’amore fraterno diviene la chiave per la conoscenza dell’essere


78
Battista MONDIN, La trinità mistero d’amore: «Il procedimento di andare alla scoperta delle realtà
trascendenti mediante lo studio di qualche copia sensibile era stato introdotto da platone per la
conoscenza delle idee. Più tardi era stato ripreso da Filone per lo studion del Logos e da Plotino per la
conoscenza dell’uno» p.152.
79
AGOSTINO D’IPPONA, De Trinitate, VIII, 5, 8:« Sed ex qua rerum notarum similitudine vel
comparatione credamus quo etiam nondum notum deum diligamus, hoc quaeritur».
80
AGOSTINO D’IPPONA, De Trinitate, VIII, 8, 12: «Ecce iam potest notiorem deum habere quam
fratrem, plane notiorem quia praesentiorem, notiorem quia interiorem, notiorem quia certiorem.
Amplectere dilectionem deum et dilectione amplectere deum». 
48
intimo di Dio perchè «chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio» (1Gv
4,7). Agostino procede di pari passo all’apostolo Giovanni. Le sue affermazioni
sono coerenti non solo con il dato della scrittura ma anche con quello della propria
esperienza di vita comunitaria. La regula fidei e l’experientia fidei si fondono in
questa parte del De Trinitate. Agostino si rende conto che l’amore con cui ama il
fratello non è umano. È un’amore che fa capaci di trascendere se stessi per
raggiungere l’altro81. Si apre qui un’interessantissimo spunto di riflessione: la
dimensione comunitaria nell’itinerario di vita cristiana. La vera essenza divina,
ovvero la risposta alla domanda su chi sia Dio per me, la si trova solo nella relazione
interpersonale tra i fratelli. Chi vive avulso dalle realtà comunitarie, chi fugge dalla
scomodità delle relazioni personali, in definitiva fugge dalla relazione con Dio-
amore che s’incontra nel volto del fratello che Dio stesso ci ha messo accanto. Per
questo motivo possiamo affermare che nell’amore con cui amo il fratello incontro
Dio stesso. Agostino spiega questo aspetto così:
«Questo contesto mostra in maniera sufficiente e chiara che questo amore fraterno – infatti
l’amore fraterno è quello che ci fa amare vicendevolmente – non solo viene da Dio, ma che,
secondo una così grande autorità, è Dio stesso. Di conseguenza, amando secondo l’amore il
fratello, lo amiamo secondo Dio»82.

L’amore non è solamente ex Deo ma Deum esse. Questa interpretazione che


Agostino fa della prima lettera di Giovanni ne approfondisce il senso arricchendola
di un significato fondamentale per l’esistenza umana. Attraverso l’amore del fratello
avviene la divinizzazione dell’uomo. Amando il proprio fratello l’uomo partecipa
alla natura divina che è in definitiva l’amore. L’amore di Dio si manifesta
nell’amore vicendevole tra gli uomini. Dio ama l’uomo attraverso l’uomo.
Inabitando Cristo nel cuore dell’uomo per il battesimo, questi vive la vita di Dio
nello Spirito Santo e pertanto avviene quella fusione di volontà attraverso il fuoco
della Carità, di cui ci parlava Agostino, in cui si perde il confine tra la volontà
umana e quella divina. Così l’uomo sperimenta che non è più lui che vive ma Cristo
vive in lui (Cf. Gal 2,20) e che soprattutto non è più lui che ama ma Dio stesso ama
in lui. A partire da questa esperienza dell’amore comunitario, Agostino si rimette in
cerca della Trinità. Il passaggio dall’amore fraterno alla Trinità intesa come amore
non è automatico, anche perchè l’amore umano, per quanto perfetto che sia, è
comunque un amore finito e che non può essere preso come paradigma dell’amore
trinitario. Tuttavia esso contiene un’ombra dell’originaria forma dell’amore divino.
81
Cf. Piero CODA, Sul luogo della Trinità, p.63
82
AGOSTINO D’IPPONA, De Trinitate, VIII, 8, 12: Ista contextio satis aperteque declarat eandem ipsam
fraternam dilectionem (nam fraterna dilectio est qua diligimus invicem) non solum ex Deo sed etiam
Deum esse tanta auctoritate praedicari. Cum ergo de dilectione diligimus fratrem, de Deo diligimus
fratrem».
49
Infatti se ben guardiamo al concetto di amore vi scorgiamo una struttura trinitaria:
«Ecco tre cose: colui che ama, ciò che è amato, e l’amore stesso. Che è dunque l’amore se non
una vita che unisce, o che tende a che si uniscano due esseri, cioè colui che ama e ciò che è
amato?»83.

L’amore è una vita che unisce due esseri. Sembra che l’amore così inteso
abbia un’esistenza propria. L’essere e l’amare in Dio si compenetrano fino al
fondersi configurando così Dio non come un essere che ama, ma come un amore
esistente. Tuttavia Agostino, dopo aver intravisto nell’amore il luogo dove cercare la
Trinità, si rivolge di nuovo alla natura dell’uomo per ricercare ulteriori tracce della
Trinità nel suo spirito. Sembra che per il momento Agostino non voglia andare oltre
nel ragionamento sul mistero di Dio-Amore. Pertanto dopo aver indagato nello
spirito umano le immagini possibili della Trinità, alla fine, nel libro quindicesimo
dichiara conclusa la sua ricerca che deve inchinarsi di fronte all’impenetrabilità del
mistero d’amore che è Dio.
«Ed ecco che ora, dopo aver esercitato la nostra intelligenza sulle cose inferiori, quanto era
necessario o forse più di quanto fosse necessario, vogliamo elevarci alla contemplazione di
quella suprema Trinità che è Dio e non ne siamo capaci» 84.

Tuttavia la tematica dell’amore viene ripresa nella parte conclusiva del libro
quindicesimo che è quella dedicata allo Spirito Santo. Lo Spirito Santo viene trattato
da Agostino nell’ottica dell’inabitazione divina nell’uomo. Anche qui il testo di
riferimento è la prima lettera di Giovanni in cui leggiamo: «Da questo possiamo
conoscere che dimoriamo in lui ed egli dimora in noi: dacché ha dato a noi del suo
stesso Spirito» (1Gv 4,13). Agostino pertanto individua nello Spirito Santo il mezzo
che rende possibile l’inabitazione di Dio nell’uomo.
«È lo Spirito Santo, del quale Egli ci ha dato, che fà sì che noi restiamo in Dio e lui in noi: ora
questo è opera dell’amore. È dunque lo Spirito Santo il Dio amore» 85.

Qui Agostino non afferma che solo lo Spirito Santo sia l’amore. Il suo modo
di esprimersi appare sfumato e quello che in realtà afferma è che lo Spirito Santo è il
Dio amore e che l’opera dell’inabitazione di Dio nell’uomo è opera dell’amore che

83
AGOSTINO D’IPPONA, De Trinitate, VIII, 10,14: « Ecce tria sunt, amans et quod amatur et amor.
Quid est ergo amor nisi quaedam vita duo aliqua copulans vel copulari appetens, amantem scilicet et
quod amatur?».
84
Ibid., XV, 6, 10: « Et ecce iam quantum necesse fuerat aut forte plus quam necesse fuerat exercitata
in inferioribus intellegentia ad summam trinitatem quae deus est conspiciendam nos erigere volumus
nec valemus».
85
AGOSTINO D’IPPONA, XV, 17, 31 : Sanctus itaque spiritus de quo dedit nobis facit nos in deo manere
et ipsum in nobis. Hoc autem facit dilectio. Ipse est igitur Deus dilectio».
50
si compie per mezzo dello Spirito Santo. Infatti, continua Agostino:
«lo Spirito Santo che procede da Dio, una volta dato all’uomo, l’accende d’amore per Dio e per
il suo prossimo, essendo lui stesso amore»86.

L’opera dello Spirito è rendere possibile l’osservanza dell’amore di Dio e del


prossimo. Ciò si compie in questa fusione d’amore che opera il fuoco dello Spirito
che ci fa uno con Cristo. Di conseguenza l’uomo unito a Cristo partecipa alla vita
della Trinità. Inoltre Agostino parlando dello Spirito afferma che in esso si vedrebbe
l’amore del Padre per il Figlio e quello del Figlio per il Padre. Lo stesso Spirito
quindi, come lega il Padre e il Figlio in un vincolo d’amore, allo stesso modo, effuso
nel cuore dei Cristiani, lega questi a Cristo.

In conclusione possiamo affermare che Agostino ha avuto il merito di aver


individuato nell’amore il luogo ove è possibile contemplare la Trinità. La sua grande
intuizione, favorita dalla grazia, è quella di affermare l’assoluta identità di essere e
amore in Dio87. Questo è il grande passo in avanti che Agostino fa fare alla teologia
trinitaria. Quando egli afferma nel libro sesto: «sed substantia ipsa sit caritas, et
caritas ipsa sit substantia» egli afferma che Dio è un amore sussistente, e che in lui
l’essere e l’amore si compenetrano a tal punto da fondersi. La metafisica dell’amore,
alla quale ci richiamava la Commissione Teologica Internazionale 88, trae le mosse
proprio da questa intuizione agostiniana. Inoltre, la stessa metafisica dell’amore,
risulta esistenzialmente più significativa per l’uomo, rispetto ad una metafisica
dell’essere. Io conosco Dio, non attraverso il suo essere che non vedo, ma attraverso
il suo amore che sperimento nella mia storia concreta. Non a caso la rivelazione
biblica si configura non come un manuale di metafisica, ma come il racconto di una
storia d’amore tra Dio e il suo popolo. In questo senso nella prospettiva di una
riflessione teologica che tenga conto dell’essere agapico di Dio, la dimensione
esperienziale e quella narrativa acquisiscono un ruolo fondamentale nella
definizione di chi sia Dio stesso. Inoltre Agostino apre un altro fronte di riflessione
fecondissimo ovvero quello della dimensione comunitaria dell’amore quale chiave
interpretativa della Trinità stessa. In esso troviamo vari filoni che saranno ripresi
dalla teologia successiva o che necessitano ancora di una trattazione esaustiva. Tra
questi segnaliamo quello dell’amore fraterno, che diviene il luogo in cui conosciamo
Dio, quello dell’aspetto relazionale in Dio ed infine quello dell’analogia dell’amore
interpersonale, quale chiave di lettura per rendere ragione della tinitarietà divina.

86
Ibid.:«Deus igitur Spiritus Sanctus qui procedit ex deo cum datus fuerit homini accendit eum in
dilectionem dei et proximi, et ipse dilectio est». 
87
Cf. Piero CODA, Sul luogo della Trinità, p.70.
88
Cf p. 2.
51
Tuttavia alcuni autori negano che in Agostino, attraverso l’analogia dell’amore
umano sia possibile giungere alla definizione della Trinità come comunità di
persone89. D’altro canto altri autori non escludono che tale via fosse esclusa a priori
da Agostino. Piuttosto che egli non abbia voluto procedere oltre in tale direzione.
Secondo Balthasar i motivi per i quali Agostino non abbia continuato a battere la via
dell’intersoggettività sono da ascriversi a ragioni di tipo filosofico90. Mentre Coda
sostiene che sia stato lo stesso Agostino ad arrestare la ricerca in tale ambito
ritenendo che non fosse ancora giunto il momento di penetrarne il mistero e che
forse «nonostante la geniale intuizione di Agostino, i tempi non erano ancora
maturi»91. Pertanto la via caritatis, da Agostino in poi diviene un cammino che si
apre al futuro e che dovrà essere percorso da vari viandanti al fine di arrivare ad una
conoscenza almeno approssimativa di quello che significa Dio-Amore nella trinità
delle persone e in relazione all’uomo. Ma per raggiungere tale obbiettivo sarà
necessario «guardare al culmine d’amore di Dio per l’uomo che s’esprime nel Cristo
crocifisso»92.

89
Cf. Gilbert GRESHAKE, Il Dio unitrino, C. Danna (tr.), Brescia: Queriniana, 2005: «È vero che una
fenomenologia dell’amore umano rivela la struttura trinitaria del diligens - id quod diligitur – dilectio
– chi ama, ciò che è amato, l’amore, però Agostino riferisce tale struttura che ha riscontrato all’amore
di sé, ovvero alla vita immanente della singola anima (...) Ciò significa: la massima analogia possibile
con la vita trinitaria di Dio non consiste nella communio di persone umane – ma come già brevemente
accennato – nella struttura spirituale triadica ed autoreferenziale di una singola persona» pp. 102-103.
90
Hans Urs VON BALTHASAR H.U., Gloria V: Nello spazio della metafisica. L’epoca moderna, G.
Sommavilla (tr.), Milano, Jaca Book, 1978: «Non ultima ragione fu che la dimensione
dell’intersoggettività, su cui si fonda l’etica del vangelo, non poteva trovare nel pensiero antico una
fondazione filosofica sufficiente (...) È avvenuto così che la teologia agostiniana della caritas avesse
quale sottofondo concettuale una metafisica in gran parte neoplatonica, dunque non dialogica.», p.31.
91
Piero CODA, Sul luogo della Trinità, p.70.
92
Piero CODA, Sul luogo della Trinità, p.73
52
Capitolo IV
IL DIO-AMORE NEL DE TRINITATE
DI RICCARDO DI SAN VITTORE

La via Caritatis viene ripresa nel XII secolo da Riccardo di San Vittore.
Questi si riallaccia al filone della essenza agapica di Dio, iniziato con Agostino e ivi
prematuramente interrottosi. La via battuta da Riccardo sarà quella dell’analogia
dell’amore interpersonale quale chiave di interpretazione della vita ad intra delle tre
persone della Trinità. Il pensiero teologico di Riccardo si forma nel clima di
contemplazione e di vita comunitaria dell’abbazia di San Vittore. Questa era stata
fondata da Guglielmo di Campeaux a Parigi nel 1108 e si distinguerà per oltre
mezzo secolo quale centro di intensa ricerca teologica e profonda vita spirituale. E
sono proprio questi due aspetti a caratterizzare la scuola vittorina, ovvero da un lato
la ricerca delle ragioni necessarie delle verità rivelate e dall’altro la contemplazione
di Dio nelle stesse verità credute. Dall’abbazia di San Vittore sono usciti nomi
53
eminenti della teologia medievale quali Ugo di San Vittore e Accardo, che era
contemporaneo di Riccardo e del quale Riccardo stesso ha subito l’influenza nella
stesura del suo De Trinitate. Tale contesto inoltre favoriva un fervido scambio
intellettuale e una formazione teologica rigorosa, fedele alla scrittura, ai dogmi di
fede e alla testimonianza dei Padri della Chiesa. Così i tre pilastri su cui si forma il
pensiero trinitario di Riccardo sono la vita contemplativa, la vita comunitaria e lo
studio delle fonti nell’orizzonte della tradizione viva della Chiesa. Il suo approccio
teologico, sulla scia di Agostino93, è quello della fides quaerens intellectum, che
proprio in quel periodo storico veniva ribadito da Anselmo di Aosta 94, che lo aveva
indicato quale metodo e significato della disciplina teologica. L’obbiettivo di
Riccardo e della sua opera, in linea con il pensiero della sua scuola, è quindi quello
di «illuminare con la ragione il mistero in cui crediamo», egli infatti «cerca le
“rationes necessariae” per spiegare la Trinità»95. Egli dichiara da subito il fine della
sua opera affermando di aver letto che Dio è uno nella sostanza e trino nelle
persone, tuttavia secondo il vittorino, a suffragio di questa tesi mancano
l’esposizione di prove, le verifiche sperimentali e difettano gli argomenti. Pertanto
egli si propone di aiutare con la sua opera gli spiriti in ricerca al fine di rendere
luminoso per l’intelletto le verità che noi crediamo.96 In questo capitolo
cercheremo di analizzare approfonditamente il De Trinitate di Riccardo di San
Vittore, al fine di comprendere in quale maniera il concetto di Dio-Amore plasmi
l’immagine della Trinità e rivoluzioni il concetto di persona. Il pensiero di Riccardo
infatti si contraddistingue proprio per queste due intuizioni geniali: 1)Dio non è
soltanto essere ma è soprattutto amore, 2)Dio non è un quid ma un quis, una
persona, un io che si relaziona e un tu con cui relazionarsi, ad intra e ad extra. Il
nostro studio muoverà da un’analisi rigorosa dell’opera al fine di evidenziare
proprio questi due aspetti ricollegandoli infine con i risultati del lavoro da noi svolto
fin qui.

1. PERCHÈ SCRIVERE UN DE TRINITATE?

Riccardo è un figlio del suo tempo. Oltre ad essere un uomo di profonda vita
93
Agostino viene citato 87 volte nel De Trinitate di Riccardo. Inoltre per significare il contesto
agostiniano in cui vive il nostro autore riteniamo necessario ricordare che la stessa abbazia di San
Vittore sceglie come regola comunitaria quella di Agostino.
94
Anselmo viene citato 44 volte nel De Trinitate di Riccardo di San Vittore.
95
Luis Francisco LADARIA, Il Dio vivo e vero, M. Zappella (tr.), Casale Monferrato: Edizioni Piemme,
2007, p. 285.
96
Cf. RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, I, V (tr. M. Spinelli), Roma: Città Nuova, 1990, pp.
86-87.
54
contemplativa, è anche un accademico rigoroso e ligio alla stringente logica della
speculazione medioevale. Il punto di partenza della sua argomenntazione è il fatto
che la Trinità sia una realtà necessaria e non contingente, e pertanto a partire da una
realtà necessaria se ne posso stabilire argomenti necessari.
«Sono convintissimo, infatti, che ai fini della spiegazione di qualsiasi realtà necessaria vi siano
argomenti non solo plausibili, ma anche necessari, quantunque essi, al momento, possano
sottrarsi alla nostra attenzione»97

Ci sono dunque delle ragioni necessarie inerenti alla Trinità che in questo
momento si sottraggono alla nostra attenzione. L’intento dell’opera sarà quindi
quello di svelare tali rationes necessariae. Il fine però non è soltanto speculativo ma
soprattutto mistico e pastorale. Riccardo intende confortare i credenti nella loro fede.
Egli non vuole convincere colui che non crede attraverso dimostrazioni stringenti
del mistero rivelato, ma piuttosto egli vuole fornire al credente quei chiarimenti
necessari, tali da poter condurre la sua anima alla contemplazione di quelle verità
che sono al di sopra della ragione. Pertanto il fine della riflessione teologica di
Riccardo sarà di tipo mistico piuttosto che speculativo 98. È interessante inoltre notare
come Riccardo interpreti il rapporto tra fede e ragione. La fede lungi dal voler
togliere qualcosa alla ragione sembra invece attivarne la capacità di conoscere Dio a
partire dalle realtà create. La vita eterna viene interpretata dal vittorino quale
«conoscenza di Dio» (Gv17,3). La fede così viene definita come
«l’inizio della vita interiore in noi è quindi principio e fondamento di tutto il bene, mentre la
conoscenza è il procedere verso la vita eterna. Appropiarsi con la ragione di ciò che si crede
significa dunque mettersi sul cammino della vita eterna» 99.

Si capisce pertanto come la stesura di un De Trinitate si proponga di


presentare un’immagine della Trinità che riesca a far progredire i fedeli sul cammino
verso la vita eterna, ovvero la conoscenza piena di Dio. Una volta prefissato
l’obbiettivo dello studio, è necessario capire dove poter trovare queste ragioni
necessarie della Trinità. La risposta di Riccardo è che il luogo dove risiedono queste
ragioni è la natura umana.
«In effetti, anche se l’aspetto della dissomiglianza è incomplarabilmente più vistoso di quello
della somiglianza, ciononostante esiste una certa, anzi, una notevole somiglianza fra la natura
umana e quella divina»100.

97
RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, I, 4, pp. 85-86.
98
Cf. Giulio D’ONOFRIO (ed.), Storia della Teologia del Medioevo II: La Grande fioritura, Roma:
Città Nuova, 2011, pp. 193-194.
99
Alberto COZZI, Manuale di dottrina trinitaria, Brescia: Queriniana, 2009, pp.507-508.
100
RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, VI, 1, p. 214.
55
Notiamo che Riccardo in questo aspetto segua la via dell’interiorità già
intrapresa da Agostino, che appunto cercava nell’anima dell’uomo immagini della
Trinità. D’altro canto rileviamo nel vittorino un approccio di tipo platonico alla
realtà visibile, che è vista come il riflesso della realtà invisibile e originaria che è
Dio. Dalla fusione di questi due approcci nasce una visione triadica della realtà che
vuole significare appunto l’origine trinitaria del tutto. La realtà sperimentabile
pertanto si configura sempre di tre elementi: una determinata proprietà, il suo
contrario e un terzo elemento che funge da mediatore unificando i primi due
elementi. Questo aspetto del pensiero di Riccardo sarà fondamentale ritenerlo al fine
di comprendere la struttura delle processioni divine e in generale il sottofondo
metodologico di tutta l’opera.

2. LA STRUTTURA DEL DE TRINITATE

Il De Trinitate di Riccardo di San Vittore è un’opera unica nello scenario dei


grandi trattati medievali. Se da un lato in esso si riscontra il forte influsso di
Anselmo, sia dal punto di vista metodologico che contenutistico, dall’altro
nell’opera si respira «una certa sensibilità per la bellezza e l’armonia, che in
Riccardo assume una connotazione più etica e personalista che cosmologica» 101. Lui
pensa la Trinità usando schemi interpersonali e per spiegare le relazioni interne alla
Trinità, guarda alle relazioni tra gli uomini. Da come si relazionano gli uomini si
può capire qualcosa di come si relazionano tra loro le tre persone divine. Ma a quale
tipo di relazione bisogna guardare per poter bene illuminare le relazioni divine?
All’amore. L’amore è la forma più alta e più perfetta che esista tra le relazioni
umane. Guardando all’amore tra gli uomini conosceremo l’essenza di Dio. Questo
asserto si fonda sulle stesse parole di Giovanni «ognuno che ama è stato generato da
Dio e conosce Dio»(1Gv 4,7). Anche qui, come in Agostino riaffiora la Via
Caritatis, ovvero quella via d’acceso esclusivo alla conoscenza del mistero d’amore
che è la Trinità. Inoltre nelle argomentazioni di Riccardo risuona un carattere molto
esistenziale, sconosciuto alla dialettica del tempo. Riccardo parla infatti di gioia, di
felicità e di amicizia, quali aspetti concreti delle relazioni interpersonali, che
vengono portati alla massima realizzazione nella relazionalità divina. In Dio così vi
è il massimo della felicità, del gaudio, dell’amicizia. L’uomo in questa maniera nelle
relazioni interpersonali partecipa in parte della pienezza della relazionalità divina ed
è allo stesso tempo attratto dall’origine di tale pienezza. Se io su questa terra
sperimento la felicità nel rapporto con un amico, in essa partecipo già relativamente
alla felicità del gaudio celeste e desidero raggiungere la pienezza di tale gaudio nella
101
Alberto COZZI, Manuale di dottrina trinitaria, p. 509.
56
visione beata.

2.1. IL DIO-AMORE SECONDO LA RAGIONE: PROVE DELL’ESISTENZA DI DIO

All’inizio dell’opera Riccardo cerca di spiegare il problema della


conoscenza di Dio. Poichè tale conoscenza trascende l’esperienza umana egli
propone tre vie possibili per aggirarne i limiti. La prima via procede dall’esistenza
dell’essere contingente a quella dell’essere necessario. Dall’esistenza di un essere
non eterno, come l’uomo, deduciamo per ragionamento che deve poter esistere un
essere eterno, altrimenti non vi sarebbe in noi la nozione di eternità. La seconda via
muove dalla struttura gerarchica della realtà sperimentata, all’esistenza della realtà
suprema. Riccardo dalla moltitudine di oggetti esistenti e dalla differenza di
partecipazione degli stessi alla pienezza dell essere, deduce la necessità di un essere
supremo che si ponga come vertice nella gerarchia dei gradi dell’essere. La terza,
infine, analizzando la potenza dell’essere, muove dalla realtà esistente all’origine
ultima di tale realtà. La realtà esistente è quindi debitrice dell’essere a quell’unico
essere che ha in sè la capacità di dare l’essere senza riceverlo da nessun altro 102.

2.2. DIO, UN ESSERE SEMPLICE

Nel secondo libro Riccardo analizza le proprietà di questo essere supremo.


Dio esiste per se stesso e pertanto è eterno. Dall’eternità di Dio egli arriva a dedurre
la sua immutabilità, e la sua immensità. Ma se Dio è eterno e immenso allora non
può che essere unico. Tali proprietà, secondo Riccardo, coincidono completamente
con la sostanza divina e pertanto risultano incomunicabili a qualsiasi altro essere.
Questo discorso vale anche per le proprietà come ad esempio la sapienza, la potenza
e la bontà, anch’esse coincidenti con la sostanza e anch’esse incomunicabili. Questa
coincidenza delle varie proprietà con la sostanza divina stessa, fanno di Dio un
essere semplice.

2.3. L’ESSENZA DI DIO COME AMORE COME PROVA DELLA TRINITÀ DI PERSONE

102
RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, I,12: «È dalla potenza dell’essere che riceve l’esistenza
tutto che sussiste nell’universo degli esseri. Però se tutto deriva da questa potenza, essa stessa non
esiste se non grazie a se stessa e non possiede nulla che non le derivi da se medesima... Se è da essa
che proviene ogni essere, è essa l’essenza suprema... È impossibile infatti dare qualcosa di più grande
di ciò che si possiede.», p. 91.
57
Nel libro terzo entriamo nel vivo della questione trinitaria per la spiegazione
della quale viene tirato in ballo il concetto di Dio come amore. Pertanto un’analisi
accurata di questo capitolo è di vitale importanza per lo sviluppo delle nostre
argomentazioni.
Riccardo ha trattato nei primi due libri della unità della sostanza divina e dei
suoi attributi. Nel terzo libro egli vuole «individuare ciò che si deve ritenere a
proposito della pluralità e delle proprietà delle persone divine» 103. L’argomentazione
di Riccardo muove dalla proprietà del bene nella sostanza divina. A partire dalle
conclusioni del libro precedente Riccardo può affermare che la pienezza e la
perfezione della bontà risieda nel bene supremo e perfetto che è Dio. Ma la pienezza
della bontà deve per forza comprendere in se stessa la somma carità, in quanto nulla
è migliore e più perfetto della carità. Il concetto di somma carità è quello che mette
definitivamente in moto l’ingranaggio della dinamica trinitaria di Riccardo:
«Ora, di nessuno si dice che possiede la carità nel vero senso della parola per il fatto che ama
esclusivamente se stesso; quindi è necessario che l’amore, per poter essere carità, sia rivolto
verso un altro. Di conseguenza, qualora manchi una molteplicità di persone, non può esservi
alcun posto per la carità»104.

Il ragionamento di Riccardo è molto lineare. Se concepiamo Dio come un


monolite solitario, la rivelazione scritturistica di Dio che è amore diviene
contraddittoria. Pertanto nel concetto di caritas egli rinviene già una di quelle
rationes necessariae che stava cercando per provare la trinitarietà di Dio. Notiamo
inoltre che i termini per rendere il concetto di amore, si stratifichino in due livelli,
quello della dilectio che deve diventare caritas. Nell’uscire dall’esclusivo amore
egoistico di sè andando verso l’altro, si ha una sublimazione dell’amore. Tuttavia
perchè l’amore sia perfetto necessita che la persona da amare sia di dignità pari e
non inferiore a quella della prima persona. Questo significa che la carità somma si
realizza solamente tra due persone di eguale dignità divina. L’amore di Dio per una
creatura sarà sempre inferiore all’amore del Padre per il Figlio. Poichè Dio ama in
maniera ordinata e questo significa che Dio deve amare sommamente «ciò che in
maniera somma merita di essere amato»105. Riccardo prosegue la sua
argomentazione estendendo il concetto si somma carità a quello di gioia. L’amore
perfettamente reciproco si caratterizza per il gaudium:
«Perciò in quella vera e suprema felicità non possono mancare nè l’amore gioioso nè l’amore
scambievole: in quest’ultimo, poi, deve assolutamente esservi colui che dona l’amore, sia colui
che lo ricambia. Per cui altro sarà quello che porta amore e altro colui che vi corrisponde; ma

103
Ibid., III,1, p. 126.
104
RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, III,2, pp. 127-128.
105
Alberto COZZI, Manuale di dottrina trinitaria, p. 512.
58
se si conclude che vi sono uno ed un altro, ecco dimostrata una vera pluralità» 106.

La gioia deriva dal reciproco scambio d’amore. Ma questo scambio necessita


una pluralità di soggetti. Pertanto attraverso l’amore siamo arrivati a stabilire per lo
meno la necessità di una binità in Dio affinchè si realizzi la caritas. La carità inoltre
è dolce, soave e gioiosa e non c’è niente di più desiderabile su questa terra e si
sperimenta nel rapporto con un altra persona. Pertanto, conclude Riccardo, «se la
persona divina rimarrà senza compagnia, solitaria sul trono della sua maestà, sarà
esclusa per sempre da queste delizie» 107. Riccardo in questa pericope parla della
gioia sperimentata da lui nella vita comune e nella relazione con Dio, derivante da
una profonda vita spirituale. Sperimenta la delizia dell’amore di Dio nella
contemplazione, lo gusta nell’amore fraterno e pertanto non può non riferire tutto
questo in maniera somma a Dio. Se quello che sperimento su questa terra è solo un
ombra, o un’immagine di quello che avviene in cielo, allora quanto sommo sarà il
gaudio e l’amore tra le persone divine. Non può esservi contraddizione tra la mia
esperienza mistica terrena e il cielo. L’unica contradizione è il peccato, ma
nell’amore del prossimo e di Dio non c’è possibilità di errore: amando io conosco
Dio, in maniera ancora imperfetta, ma intravedo già la beatitudine celeste.
Ritornando alla nostra argomentazione, il vittorino deve ancora dimostrare la trinità
di Dio. L’argomentazione che muoveva dalla carità perfetta ci ha portato fin qui
all’affermazione della necessita di almeno due persone in un rapporto d’amore. Ma
questo rapporto d’amore a due, secondo Riccardo, non raggiunge ancora i canoni
della carità perfetta:
«Orbene la carità suprema deve essere asolutamente perfetta; e per essere sommamente
perfetta, deve essere tanto grande da non poter essere maggiore e, nello stesso tempo, deve
possedere una qualità tale da non poter essere migliore» 108.

I canoni della carità suprema sono qualitativi e quantitativi. Essi derivano


dalla dignità delle persone che si amano e, a quanto sembra, anche dal loro numero,
infatti, prosegue il vittorino:
«Ebbene, nella carità autentica il massimo dell’eccellenza sembra sia questo: volere che un
altro sia amato come lo siamo noi stessi. In effetti nell’amore scambievole e ardente nulla è più
prezioso nè più mirabile del desiderio che un altro venga amato allo stesso modo da colui che
sommamente si ama e dal quale si è sommamente amati. Pertanto, la prova della carità perfetta
consiste nel desiderare che l’amore di cui si è oggetto venga partecipato». 109

106
RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, III,3, p. 129.
107
Ibid., III,4, p. 130.
108
RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, III,11, p. 137.
109
Ibid., III,11, pp. 137-138.
59
La carità somma si deve aprire ad una terza persona. Si rompe la chiusura
del rapporto a due. L’amore divino è inclusivo. Secondo Riccardo l’amore è ardente,
è come un fuoco che non puo venire imprigionato ma che si propaga verso una terza
persona. Vediamo peraltro, che ciò che funge da elemento caratteristico di questa
pericope, sia il concetto di desiderio. Il desiderio presente nelle prime due persone di
amare e di essere riamati dall’altro. Ma vi è anche un’altro desiderio che arde nel
cuore delle prime due persone divine e cioè che anche un’altro venga amato come io
sono amato. Il desiderio profondo che l’amore sprimentato venga partecipato da un
terzo. Dalla realizzazione contemporana di questi due desideri si concretizza la
carità perfetta:
«Senza dubbio, per colui che ama supremamente ed aspira ad essere supremamente amato, la
gioia più grande risiede, di norma, nella realizzazione del proprio desiderio, cioè nell’ottenere
l’amore sperato. Di conseguenza, se uno non riesce ancora a compiacersi di comunicare la sua
gioia più grande, dimostra di non possedere ancora una carità perfetta» 110.

La realizzazione del proprio desiderio e la compiacenza nel comunicare la


gioia di essere amati ad un altro assurgono quali elementi fondanti di un amore
perfetto. La natura delle tre persone entro le quali questo amore si realizza deve
essere necessariamente divina, altrimenti sarebbe bastato a Dio condividere la sua
gioia perfetta con una creatura per chiudere il cerchio della carità perfetta. Ma
Riccardo esclude questa possibilità. La creatura sarà sicuramente chiamata a
partecipare di questo amore perfetto della Trinità, ma tale partecipazione non sarà
mai così perfetta come quella che si realizza tra le tre persone divine. Questo terzo
soggetto verso il quale le prime due persone si compiacciono di comunicare la
propria gioia viene definito da Riccardo con il termine condilectus.
«È quindi necessario che coloro che amati supremamente e sono degni di esserlo, cerchino, con
lo stesso desiderio, qualcuno da coinvolgere nel loro amore e da possedere, secondo tale
desiderio, in assoluta concordia. Come si può constatare, allora, la perfezione della carità esige
la Trinità delle persone; senza di questa, infatti, la carità non può sussistere nella pienezza della
sua totalità»111

Riccardo ha così provato la trinitarietà dell’unico Dio. La ratio necessaria


che cercava è la carità che si apre ad un rapporto triadico di amore e gioia reciproca.
Tale amore si caratterizza come un possedere l’altro in assoluta concordia. Non è un
possesso esclusivo o dispotico, ma è la comunione che si fonda nella gioia di poter
condividere l’amore ricevuto ridonandolo. In questo contesto la condilezione si
configura come quella forza propulsiva che permette la circolazione ad intra
dell’amore tra le tre persone divine.
110
RICCARDO DI SAN VITTORE, III,11, p. 138.
111
Ibid., III,11, p. 138.
60
«Ordunque esaminiamo accuratamente il valore e la proprietà della condilezione e troveremo
ben presto quello che cerchiamo. Se qualcuno prova amore nei confronti di un altro ed è solo
ad amare uno solo, l’amore sicuramente c’è, ma non c’è la condilezione [...] per contro, si parla
giustamente di condilezione quando un terzo viene amato da due nel segno dell’armonia e con
uno spirito comunitario, e quando gli affetti dei due si fondono fino a diventare uno solo, a
causa della fiamma del terzo amore». 112

Qui Riccardo opera dapprima una distinzione tra amore e condilezione,


affermando poi, in maniera implicita, che la carità perfetta componendosi di
entrambi questi due elementi, non possa farne a meno. Poi, nella seconda parte della
pericope, l’autore spiega affondo cosa sia la condilezione. La condilezione si
realizza con armonia e spirito comunitario. È un movimento naturale che sgorga
dalla pienezza incontenibile dell’amore reciproco. L’amore tracima e si riversa come
un fiume in piena sulla terza persona. Gli affetti delle due persono vengono fusi in
un unico amore come da un fuoco, che si propaga naturalmente investendo il
condilectus. In questa dinamica intravediamo, non solo la comunione d’amore che è
la Trinità, ma anche la formazione di quella comunità degli amati che è la Chiesa.
Laddove arde e si propaga l’amore divino, si formano comunità cristiane ad
immagine della comunità di persone che è la Trinità.

2.4. IL CONCETTO DI PERSONA DIVINA QUALE «DIVINAE NATURAE


INCOMUNICABILIS EXSISTENTIA»

Riccardo nel libro primo e secondo ha dimostrato l’unicità della sostanza


divina e le sue proprietà, mentre nel terzo ha provato la trinitarietà di Dio. Il passo
successivo da compiere è quello di spiegare come queste due prospettive,
apparentemente opposte, possano armonicamente sussistere nella stessa definizione
di Dio. Il concetto chiave da approfondire per risolvere tale tensione è quello di
persona. Riccardo inizia la propria argomentazione criticando la definizione di
Boezio, ritenendola insufficiente e non adeuata a spiegare il concetto di persona
divina nella Trinità. Boezio aveva definito la persona in questi termini: «Persona est
naturae rationalis individua substantia»113. Riccardo nota come nella definizione
boeziana, l’elemento fondante sia l’idea di sostanza. Tuttavia la sostanza non indica
un qualcuno (quis est), ma un qualcosa (quid est) e pertanto non è adeguata a
spiegare l’essere relazionale di Dio. La persona infatti si relaziona, ha delle
caratteristiche esistenziali che lo rendono soggetto di un dialogo interpersonale,
mentre la sostanza che sussiste per sé non possiede tutto ciò.

112
Ibid., III,19, pp.144-145.
113
SEVERINO BOEZIO, Liber de persona et duabus naturis, 3: PL 64, c. 1343.
61
«Sulla scorta di tutto ciò, credo, si può comprendere in modo adeguato che con la parola
“sostanza” non si sottintende tanto qualcuno, ma piuttosto qualche cosa e che, viceversa, il
termine “persona” non indica tanto qualcosa, quanto qualcuno. Con la parola “persona”,
inoltre, non viene mai designato se non qualcuno che è solo, distinto da tutti gli altri per una
proprietà particolare».114

La persona è quindi un qualcuno distinto da tutti gli altri per una


caratteristica particolare. Se definiamo, con Boezio, la persona come sostanza,
decade il principio di distinzione tra le persone. Inoltre evinciamo il carattere
esistenziale e interpersonale che caratterizza la persona rispetto alla cosa. Una
persona parla, ama, gioisce, mentre alla cosa non sono imputabili tali proprietà
‘personali’ appunto. Applicando a Dio tale concetto rileviamo come in Dio ci siano
tre persone, intese come tre “qualcuno”, ma che allo stesso tempo non vi sia alterità
di sostanza, ovvero l’unica sostanza divina. Ma Riccardo non si ferma qui. Egli
intende modificare la definizione di persona di Boezio sostituendo il concetto di
sostanza con quello di esistenza. Infatti egli nota nel termine esistenza la presenza
congiunta degli elementi del Quid e del Quis di Dio. Se scomponiamo infatti il
verbo exsistere, notiamo che esso si componga della radice verbale sistere e della
preposizione ex. Nella radice sistere, cogliamo l’aspetto della sussistenza, ovvero la
partecipazione all’unico essere delle tre persone divine. Dalla preposizione ex,
invece, possiamo conoscere la provenienza o origine di ciascuna delle persone. Ed è
proprio il modo di venire all’essere, ovvero la differente origine delle tre persone
che ne plasma le differenze fondamentali. L’obbiettivo di Riccardo infatti, lo
ricordiamo, era quello di tenere unite nel concetto di persona, l’unicità della
sostanza e l’alterità delle persone:

«Abbiamo costatato, infatti, che le molteplici persone divine, pur possedendo un essere unico e
identico ed assolutamente indifferenziato – per quanto riguarda l’identità della sostanza –,
tuttavia esse possono distinguersi l’una dall’altra in base alla causa originaria, nel senso che
una esiste in virtù di se medesima, le altre traggono origine dall’esterno, e queste ultime,
d’altronde, differiscono nel modo di ottenere l’essere» 115.

L’elemento che diversifica dunque le persone della Trinità è la causa


originaria del loro essere. In termini più specifici nella Trinità «il Padre è l’esistenza
divina senza origine (ex se), il Figlio è l’esistenza divina generata dal Padre (ex
Patre), mentre lo Spirito Santo è l’esistenza divina procedente dal Padre e dal Figlio
(ex Patre Filioque)»116. Vediamo appunto come la seconda e la terza persona della

114
RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, IV,7, p. 159.
115
RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, IV,15, p. 166.
116
Alberto COZZI, Manuale di dottrina trinitaria, p. 515.
62
Trinità differiscano tra loro nella maniera in cui ottengono l’essere. Il Figlio riceve
l’essere in maniera diretta, dal Padre, mentre lo Spirito in maniera mediata dal Padre
e per il Figlio. Pertanto il Padre il Figlio e lo Spirito Santo, si caratterizzano per una
proprietà personale legata all’origine della propria esistenza. Secondo Riccardo «la
proprietà personale è quella che fa sì che ognuno sia quello che è» 117. E questa
proprietà è incomunicabile e pertanto egli giunge a definire la persona divina quale
«divinae naturae incomunicabilis exsistentia»118. È interessante notare, in
conclusione, come Riccardo applichi tale concetto di persona quale esistenza
incomunicabile, non solo alle tre persone divine ma anche agli angeli e al mondo
umano. Quindi, considerati nella loro origine, gli angeli sono coloro che hanno
esistenze differenti ma un’unica origine in Dio, mentre gli uomini hanno origini ed
esistenze differenti. In tal senso, ritenendo l’aspetto della razionalità della
definizione di Boezio, egli può coniare, infine, una propria definizione di persona
intesa come «naturae rationalis incomunicabilis existentia»119. È interessante notare
ancora il carattere di similitudine tra Dio e l’uomo. In esso rileviamo la condizione
di possibilità dell’inabitazione del Dio trino nell’uomo. L’uomo potrà partecipare
della natura divina(divinae naturae) di Dio, rimanendo in sé un’esistenza
(existentia) distinta da quella delle persone divine. L’uomo, partecipando alla natura
divina in Cristo, viene innestato, quale esistenza incomunicabilis, nella comunione
d’amore delle esistenze incomunicabili delle persone divine.

2.5. LE PROPRIETÀ PERSONALI INCOMUNICABILI DI OGNI PERSONA DELLA


TRINITÀ

Nel libro quinto Riccardo mette definitivimente a punto la sua dottrina


trinitaria sviluppando il concetto di proprietà personali. Queste come abbiamo visto
si caratterizzano quali derivazioni delle esistenze personali dall’unica sostanza
divina secondo modalità differenti. Ora è necessario capire in quale modo esse si
costituiscano tra loro. Il criterio guida di tale ricerca sarà quello dell’armonia, della
bellezza e della felicità poichè «bisogna convincersi che nella felicità suprema non
può mancare la più gioiosa parentela tra le persone e che la somma bellezza esige
attributi molteplici e insieme disposti in perfetta armonia» 120. Riccardo riprende la
sua argomentazione di nuovo ricordando quali siano queste proprietà distinte che
caratterizzano le persone divine:
117
RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, IV,17, p. 168.
118
Ibid., IV,22, p.176.
119
Ibid., IV,23, p.177.
120
Ibid., V,2, p. 184.
63
«Nelle tre persone abbiamo individuato tre proprietà distinte. È caratteristica di una di non
procedere da un’altra ma tuttavia di averne un’altra che procede da lei; è proprio della seconda
di procedere da un’altra e, al tempo stesso di averne un’altra che procede da lei: la terza, a sua
volta, ha la caratteristica di procedere da un’altra, senza che tuttavia nesuna proceda da lei» 121.

Vediamo così ben definite le proprietà personali incomunicabili di ogni


persona. Lo schema presentato da Riccardo é riconducibile all’immagine di un
fiume di cui il Padre è la fonte da cui sgorga l’essere, il Figlio un lago che riceve
l’essere dal padre, come da un immissario, e poi lo rende attraverso un emissario
allo Spirito Santo che, come lago chiuso o mare, riceve l’essere senza renderlo a
nessuno. In tale meccanismo l’armonia è data dal fatto che vi è una corrispondenza
reciproca tra la prima e la terza persona, nel senso che la prima trasmette la pienezza
mentre la seconda la riceve solo. L’unione armonica tra le due è realizzata dalla
seconda persona che nell’atto di ricevere l’essere e l’amore è unita alla terza
persona, mentre nell’atto di darli viene accomunata alla prima. Tale armonia viene
provata dal fatto che nello scambio reciproco tra le persone si realizzi la perfezione
dell’amore. Riccardo spiega questa perfezione dell’amore nell’interscambio
reciproco, operando una distinzione tra amore gratuito e amore dovuto:
«Si sa, inoltre che il vero amore può essere o soltanto gratuito o soltanto dovuto o entrambe le
cose insieme. Quando si ha l’amore gratuito? Quando qualcuno dona gratuitamente ad un altro
dal quale non ha ricevuto alcun beneficio. Quando c’è l’amore dovuto? Quando uno ricambia
soltanto con l’amore un altro da cui ha ricevuto gratuitamente. E l’amore mescolato di tutte e
due le condizioni? È quello in forza del quale, in un reciproco rapporto d’amore, gratuitamente
si riceve e gratuitamente si dà»122.

Vediamo qui come il Padre è colui che dona l’amore gratuitamente al Figlio.
Il Figlio da parte sua risponde con l’amore dovuto al Padre, grato di essere stato
amato gratuitamente. Lo stesso Figlio però poi ridona quell’amore gratuitamente
allo Spirito Santo che lo riceve.
«È accertato, infatti, che in una sola delle tre c’è l’amore supremo ed esclusivamente gratuito;
in un’altra, viceversa, c’è, sì l’amore supremo, ma solamente dovuto; nella terza, infine, si ha
un amore supremo che da un lato è dovuto e dall’altro è totalmente gratuito» 123.

Quindi in tutte e tre le persone è presente lo stesso amore eterno e supremo,


che, tuttavia, si distingue nelle singole persone nella modalità di ricezione e di
restituzione dello stesso. Infine Riccardo, fondandosi su questo argomento, spiega
perchè nella Trinità ci siano soltanto tre persone e non di più. Infatti se ci fossero più
persone che danno e ricevono l’essere e l’amore, si produrrebbe confusione tra di
121
RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, V,13, p. 199.
122
Ibid., V,16, p. 202.
123
Ibid., V,19, pp. 204-205.
64
esse poichè ogni persona si identifica con l’amore che gli è proprio. Pertanto, poichè
non si possono moltiplicare le persone senza che esse perdano il loro tipo
caratteristico di amore che le distinge in maniera esclusiva, è impossibile pensare ad
un numero indefinito di persone in Dio.

2.6. LO SPIRITO SANTO COME DONO DEL DIO-AMORE

Il libro sesto si concentra infine sull’analisi dei nomi divini. Riccardo


analizza i nomi Padre, Figlio e Spirito Santo e anche il nome di Verbum, attribuito al
Figlio e di donum attribuito allo Spirito. Inoltre egli approfondisce il concetto di
Figlio quale immagine del Padre. Infine, Riccardo intreccia nella sua
argomentazione i nomi divini e una triade di attributi divini, quali la potenza, la
sapienza e la bontà. Egli rileva da prima come il Padre sia detto Ingenito, mentre il
Figlio sia generato e lo Spirito Santo, infine, sia dono. Inoltre, studiando le proprietà
della potenza, sapienza e bontà, egli si rende conto che «la potenza non deriva da
nessuna delle altre (proprietà), mentre la sapienza deriva dalla sola potenza e la
bontà, a sua volta, deriva ad un tempo dalla potenza e dalla sapienza» 124. Vi è
dunque, in queste tre proprietà, una struttura gerarchica che rispecchia i rapporti tra
le tre persone divine. Pertanto Riccardo conclude che:
«dal momento che la specificità dell’Ingenito si esprime nella potenza, è giusto che questa
venga attribuita a lui in maniera speciale. Poi, dal momento che la specificità del generato si
esprime nella sapienza, è logico che essa venga riconosciuta a lui. E finalmente, siccome il
carattere dello Spirito consiste nella bontà, non è senza motivo che la bontà gli venga attribuita
in modo del tutto speciale»125.

Quindi, all’Ingenito appartiene esclusivamene la proprietà della potenza, al


Figlio, generato, appartiene la proprietà della sapienza, mentre allo Spirito, che è
dono, la proprieta della bontà.
Tuttavia, la parte più interessante di questo libro sembra quella inerente alla
spiegazione dello Spirito Santo quale dono. In essa rileviamo in Riccardo una forte
connotazione mistico-contemplativa. Nello spiegare lo Spirito Santo come dono, vi
è uno slittamento del tema trinitario dalla dimensione ad intra a quella ad extra. È
interessante seguire Riccardo nella sua argomentazione. Egli si domanda: perchè
solo la terza persona della Trinità è detta Spirito? Dio non è Spirito? Il Padre e il
Figlio non sono allo stesso modo santi?126Riccardo opera da subito una distinzione
124
RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, VI,15, p.233.
125
Ibid., VI,15, p. 233.
126
Cf. Gaston DUMEIGE, Richard de Saint-Victor et l’idée chrétienne de l’amour, Paris: Presses
Universitaires de France, 1952, p. 98.
65
nel concetto di spirito. Vi è uno spirito che anima i corpi e li fa vivere
corporalmente, e che in un certo senso porta il marchio della somiglianza con Dio
(cf. Gen 1,27; 2,7). Ma ve ne è un altro che santifica rendendo l’uomo partecipe
della natura divina. Questo Spirito lo riconosciamo presente nel cuore dei fedeli
come un soffio che spira leggermente per alcuni e fortemente per altri. Una fiamma
che è flebile in alcuni ma ardente per altri, consumandone d’amore l’anima. Questo
Spirito, afferma Riccardo, è amore che ci fa odiare l’empietà e ricercare il bene
dell’altro. È questo stesso Spirito che quando soffia nell’anima di un gran numero di
uomini li rende un cuore solo e un’anima sola.127 La descrizione di Riccardo, come
vediamo, è dal basso, ovvero dall’esperienza dello Spirito fatta dai fedeli, egli risale,
per somiglianza alla definizione dello Spirito Santo, terza persona della Trinità.
Infatti egli può affermare:
«A somiglianza di questo spirito che procede e si esala da molti cuori, è detto Santo questo
Spirito, che procede dalle due persone. Chi può dubitare, se non in caso di perfetta follia, che
nel Padre, nel Figlio, non si trovi la stessa tenera affezione, un amore che è veramente il
medesimo? Questo amore comune alle due persone è chiamato Spirito Santo. È questo amore
che è infuso dal Padre e dal Figlio nel cuore dei santi, grazie al quale essi hanno la santità e i
meriti di questa santità. Come lo spirito umano è fattore di vita per i corpi, così questo Spirito
divino è fattore di vita per le anime. L’uno è vita per i sensi, l’altro è vita per i santi. Si ha
ragione a chiamare Spirito Santo colui senza il quale nessuno spirito è santo» 128.

Lo Spirito Santo è l’amore comune alle due persone. Nello Spirito Santo,
l’amore della Trinità si riversa nel cuore degli uomini. L’azione dello Spirito è quella
di santificare infondendo nel cuore degli uomini, l’amore del Padre e del Figlio. Lo
Spirito Santo, che è tutto amore dovuto, o si potrebbe dire che è doppiamente amato,
viene inviato dal Padre e dal Figlio agli uomini per renderli partecipi della
comunione d’amore della Trinità. Ma perchè lo Spirito Santo è detto donum?
Come abbiamo detto l’essenza di Dio è semplice e non può essere scomposta.
Pertanto non ci possono essere differenze tra lo Spirito Santo e l’amore che egli è,
ovvero amore dovuto (amor debitus)129. Lo Spirito è amore puramente ricettivo.
Pertanto si configura come il vettore perfetto dell’amore del Padre e del Figlio agli
uomini. Lo Spirito infatti riceve l’amore del Padre e del Figlio. Lo Spirito, poi,
sovraccarico di tale amore, è inviato agli uomini. Questo amore, riversato dallo
Spirito nell’anima dei credenti opera la santificazione. Riccardo ci descrive
minuziosamente attraverso l’immagine dello Spirito fuoco d’amore, questo processo
di fusione dell’anima dell’uomo a Dio Trinità:

127
Cf. RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, VI,10.
128
RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, VI,10.
129
Cf. Gaston DUMEIGE, Richard de Saint-Victor et l’idée chrétienne de l’amour, p.99.
66
«Lo Spirito Santo è divinamente donato all’uomo quando l’amore dovuto che esiste in Dio è
infuso nello spirito umano. Quando questo Spirito entra dentro l’anima razionale, infiamma la
sua potenza affettiva di un ardore bruciante e la trasforma a somiglianza del suo carattere,
affinchè quella renda al suo creatore l’amore che lei le deve. Che cos’è dunque lo Spirito Santo
se non un fuoco divino? Tutto l’amore è fuoco, ma fuoco spirituale... Arsa dal fuoco divino,
(l’anima) diviene incandescente, s’infiamma completamente e si fonde nell’amore di Dio,
secondo le parole dell’Apostolo: “La carità di Dio è stata riversata nei nostri cuori dallo Spirito
Santo che ci è stato dato”(Rm 5,5)»130.

Lo Spirito Santo agisce sulla potenza affettiva dell’uomo. Nell’uomo è


presente una tendenza naturale ad amare. Ovvero a volersi unire a qualcuno o a
voler possedere qualcosa, per poter ricevere da quel qualcuno o da quella qualcosa,
pienezza di vita e felicità eterna. Lo Spirito Santo agisce propriamente su quella
potenza affettiva per poterla volgere a quel Qualcuno, Dio, che è veramente la fonte
della pienezza di vita e dell’eterna felicità. La potenza affettiva dell’uomo, per il
peccato originale, si è volta all’amore delle cose create, rifiutando il dono
dell’amore gratuito del creatore. Lo Spirito Santo opera affinchè l’uomo «renda al
suo creatore l’amore che gli è dovuto». E come lo fa? Egli è amore dovuto,
totalmente ricevuto. Inviato dal Padre e dal Figlio, lo Spirito, se accolto da un cuore
docile, penetra in esso e lo infiamma con quello stesso amore con cui è stato amato
dal Padre e dal Figlio. E l’uomo in tutto questo meccanismo è soltanto un elemento
passivo? L’uomo è chiamato ad accogliere il dono di Dio nella fede. L’uomo che
accoglie l’amore di Dio, ovvero che sente di essere amato da Dio, nonostante i suoi
peccati, avverte nel cuore di dover amare (amor debitus) Dio per l’amore da egli
ricevuto. L’amor debitus portato dallo Spirito, ormai è passato nell’uomo, e l’anima
arsa dal fuoco divino «s’infiamma completamente e si fonde nell’amore di Dio».

3. L’ESSERE E L’AMORE IN DIO SONO LA STESSA COSA

Si potrebbe dire che tutto il De Trinitate di Riccardo di San Vittore, sia stato
scritto proprio per mostrare la condizione di possibilità dell’inabitazione dell’amore,
che è Dio, nell’uomo. Riccardo svela ai suoi lettori la ratio necessaria del desiderio
che c’è in Dio di unirsi ad ogni uomo. Ma, di contro, non possiamo negare che il
procedimento argomentativo di Riccardo sia un procedimento “dal basso”. Ovvero
egli nell’atto di descrivere la Trinità si fonda, oltre che sul dato rivelato, su due
capisaldi: la vita comunitaria e la vita contemplativa. Tutte le caratteristiche della
relazionalità interpersonale, chel lui applica alla Trinità, sono il frutto dell’amore
fraterno sperimentato nella vita comunitaria dell’abbazia di San Vittore. Mentre,

130
RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, VI,10.
67
l’esperienza profonda che egli ha dell’amore di Dio e dell’unione a lui, gli viene
dall’intensa vita di preghiera e contemplazione. Il pensiero di Riccardo si colloca
pertanto agli antipodi di una teologia apofatica di tipo orientale. Esso si configura
come un tentativo di spiegare la Trinità ad intra, non a partire dalla rivelazione di
questa ad extra, ma, tenendo fermo il dato della Rivelazione, partendo dai rapporti
interpersonali tra gli uomini e dal rapporto personale dell’uomo con Dio.
«La visione nell’essenza del vero amore disinteressato che va presupposta per Dio, Riccardo la
deriva dunque dall’esperienza dell’amore per gli altri uomini. E, in genere, per Riccardo il
concetto-chiave di esperienza gioca un ruolo di rilievo» 131.

La teologia che, tenendo fermo il dato rivelato, muove dall’esperienza


umana, e non solo da sistemi filosofici, si configura come un esercizio proficuo nel
cammino verso la conoscenza di Dio. Le intuizioni fondamentali che derivano da
questa maniera di fare teologia sono, in Riccardo, la rinnovata definizione del
concetto di persona e l’idea del condilectus. Nel primo caso il vittorino mette in
relazione il concetto di persona quale «naturae rationalis incomunicabilis
existentia» con le dinamiche interpersonali dell’amore, da egli descritte, offrendo un
contributo non da poco all’antropologia:
«Riccardo ci mostra come la persona, nella sua identità e nella sua incomunicabilità, sia nel
contempo apertura nell’amore. Anzi l’amore ne determina l’irripetibilità. Si tratta senza dubbio
di un’intuizione molto ricca: l’irripetibilità di ogni uomo è il modo in cui esce da sé nell’amore,
il modo, potremmo dire, in cui si relaziona con gli altri; questo è l’elemento ‘incomunicabile’
più della sostanza»132.

L’irripetibilità dell’uomo, ad immagine di quella delle persone divine, sta nel


come egli esce da sé nell’amore. Il ‘come amiamo’ ci rivela chi siamo. L’uomo che
non ama, ingannato dal diavolo (colui che divide), rimane chiuso in se stesso, privo
di relazioni. Mentre i cristiani che si amano, nelle loro relazioni manifestano al
mondo l’amore di Dio. L’altra intuizione di Riccardo, ovvero quella del condilectus,
apre il campo al concetto di comunità, cioè al concetto di Chiesa. Laddove l’amore
di Dio è condiviso si forma una comuintà cristiana. E l’amore di Dio viene
condiviso attraverso l’annuncio di una gioia incontenibile che non può non essere
ritrasmessa. Quello che manca al De Trinitate di Riccardo, è forse una riflessione
«sullo specifico significato cristologico e pasquale dell’agape neotestamentaria» 133.
L’aspetto cristologico in tutta l’opera è un po’ latente, mentre viene dato più spazio
ad una fenomenologia dell’amore trinitario. Una teologia che tenga conto dei
risultati dell’opera di Riccardo, mettendoli in relazione con il dato cristologico,
131
Gilbert GRESHAKE, Il Dio Unitrino, Brescia: Queriniana, 2005, p. 113.
132
Luis Francisco LADARIA, Il Dio vivo e vero, p.302.
133
Piero CODA, Dalla Trinità, pp. 403-404.
68
come ad esempio in von Balthasar, sicuramente attingerà da un filone molto ricco.
Infine Riccardo di San Vittore, può essere definito, a mio avviso, il padre
della metafisica della carità. Egli risolve l’annosa questione di Dio concepito come
essere o come amore, operando una mirabile sintesi tra queste due dimensioni: nella
semplicità sovrana di Dio, l’essere e l’amore sono la stessa cosa. 134

Capitolo V
LA KENOSI DELL’AMORE COME SACRIFICIO E GIOIA

NELLA TEOLOGIA DI SERGEJ BULGAKOV

La Via Caritatis, dopo l’opera di Riccardo di San Vittore, diviene un sentiero


poco frequentato da teologi e pensatori cristiani. In epoca moderna saranno
soprattutto le esperienze dei grandi mistici a darci conto dell’esperienza dell’essenza
agapica di Dio. Ma dal punto di vista teologico possiamo senza dubbio parlare di un
raffreddamento di questa pista. Inoltre questa tendenza ci informa del fatto che in
134
RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, V,20: «È necessario, pertanto, e senza dubbio alcuno, che
nella semplicità sovrana l’essere e l’amare coincidano; per cui, in ognuna delle tre, la propria persona
si identifica con il proprio amore», p. 205.
69
epoca moderna si faccia sempre più marcata la distanza tra riflessione teologica e
vita contemplativa.
Nel XX secolo tuttavia abbiamo una ripresa di interesse per la Via Caritatis,
che si concretizzerà nelle opere e nel pensiero di Sergej Bulgakov e di Han Urs Von
Balthasar. Questi due autori metteranno in relazione il concetto di Dio-Amore con
l’evento cristologico, ponendo particolare enfasi sul concetto di kenosi e di
autodonazione. L’opera di questi due autori, con i doverosi distinguo, si pone sulla
stessa linea del pensiero degli autori studiati fin qui e compie un ulteriore passo in
avanti nella comprensione di quel Dio che esiste nell’amore. Tratteremo in questo
capitolo la riflessione teologica di Sergej Bulgakov per poi affrontare nel sesto
capitolo il pensiero di Von Balthasar essendo, a nostro avviso, l’uno
consequenzialmente collegato a quello dell’altro, per quanto riguarda l’aspetto
dell’amore kenotico. Il pensiero di Bulgakov sarà così per noi la porta di ingresso al
pensiero di Balthasar.

1. LA RIFLESSIONE TRINITARIA DI SERGEJ BULGAKOV135

Nel capitolo precedente ci eravamo lasciati con la sorprendente conclusione


di Riccardo di San Vittore che proclamava come in Dio «l’essere e l’amare
coincidano»136. Bulgakov, analizzando le definizioni ontologiche su Dio presenti
nella scrittura sembra proprio voler avvalorare questa posizione:

«Un’altra testimonianza della rivelazione su Dio è che egli è amore, θεὸς ἀγάπη ἐστίν
(1Gv 4, 8.16); questo significa non soltanto che l’amore è il proprio di Dio, perchè egli
è colui che ama, ma appunto ch’egli stesso è amore, che tale è il suo essere stesso. Qui
abbiamo una definizione non descrittiva, ma ontologica»137.

L’affermazione «Dio è amore» è un’affermazione ontologica. Essa non


descrive solamente l’agire di Dio, ma soprattutto la sua essenza intima. Non vi è una
primazia dell’essere sull’amore, ma semplicemente l’esistere di Dio come amore.
Dio esce da sé nell’amore, ma anche, Dio in sé è amore. Bulgakov, poi, incrocia la
definizione «Dio è amore» con l’altra definizione di Dio presente nella scrittura
«πνεῦμα ὁ θεός - Dio è Spirito» (Gv 4,24), e arriva a concludere che la Trinità debba

135
SERGEJ BULGAKOV (Livny 1871 – Paris 1944): Teologo russo di confessione ortodossa e
sacerdote. Vive in esilio a Parigi a causa della persecuzione dei religiosi che segue la rivoluzione
bolscevica del 1917. Tra le sue maggiori opere ricordiamo: La luce che non tramonta (1917),
L’Agnello di Dio (1927), Il paraclito (1936), La sposa dell’Agnello (1945). Come commentario
all’opera di Bulgakov relativa al tema della kenosi segnaliamo: P. CODA, L’altro di Dio.
Rivelazione e kenosi in Sergej Bulgakov, Roma: Città Nuova, 1998.
136
RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, V,20, p. 205.
137
Sergej BULGAKOV S., Il Paraclito, G. Marchese (tr.), Bologna: EDB, 1987, p. 137.
70
essere concepita «come spirito, la cui vita è amore» 138. La Trinità, in Bulgakov,
viene espressa in termini di auto-rivelazione e di rifiuto, o spogliazione, della natura
divina, a partire dall’ipostasi iniziale del Padre.
«L’auto rivelazione della santissima Trinità avviene in tal modo che Dio Padre, ipostasi
iniziale, contenente in se stessa tutta la pienezza della natura divina, o della Sofia in quanto
amore, la rifiuta per così dire nella sua auto-rivelazione, per sé ed in se stesso; ma esce da sé
con la generazione del Figlio. Il Figlio è infatti l’autorivelazione ipostatica della natura del
Padre o la Sofia ipostatica, la coscienza di sé o l’ipostatizzazione della divina usia del
Padre»139.

La generazione del Figlio viene interpretata da Bulgakov come rifiuto e


auto-privazione della propria natura da parte del Padre. Il Padre accetta di entrare
nel non-essere per far essere un altro da sé. In questa uscita da sé la natura divina si
ipostatizza e diviene persona nel Figlio. Di fronte alla persona del Figlio e nella
relazione con lui, anche il Padre si rivela persona. Anche qui, come in Riccardo di
San Vittore, l’amore si configura come una forza che rompe la chiusura del soggetto
verso l’esterno attraverso un esodo del sé. Notiamo una possibile complementarietà
dei concetti di existentia (Riccardo) e auto-donazione(Bulgakov). In fondo esistere,
ovvero “sussistere da” non è altro che il risultato dell’auto-donazione da parte di
qualcun altro. Il Figlio è dal Padre poichè il Padre ha donato se stesso a lui. Alla
luce del rapporto tra Padre e Figlio, Bulgakov spiega l’esistenza della terza ipostasi
dello Spirito Santo. L’autorivelazione di Dio, Spirito assoluto non si esaurisce nella
relazione a due tra Padre e Figlio, attraverso la quale il Padre ha coscienza di sé e
dimora nella verità che è il Figlio. Ma si manifesta anche «come vita per se stessa,
come essere nella bellezza, come il vivere del suo proprio contenuto» 140. Lo Spirito
Santo si configura così come «vita che è propriamente l’amore di Dio per sé, nella
sua usia in quanto Sofia, o per il suo essere» 141. Così abbiamo il Figlio che è
generato da Dio nella kenosi di sé e lo Spirito Santo che è l’amore del Padre per il
proprio essere. Questo Spirito Santo è il legame vivente tra Padre e Figlio, è come la
copula che unisce soggetto e predicato: «Il Padre, come ipostasi iniziale, non
soltanto si rivela nella sua usia-Sofia, tramite il Figlio, ma vive in essa per lo Spirito
Santo»142. Lo Spirito Santo, pertanto, che unisce il Padre al Figlio, rende possibile
l’essere del Padre nel Figlio e del Figlio nel Padre «perchè lo Spirito Santo è la vita
del Padre e del Figlio, del Padre nel Figlio, e del Figlio nel Padre; per se stesso, lo

138
Ibid..
139
Ibid. p. 139.
140
Sergej BULGAKOV, Il Paraclito, p. 141.
141
Ibid.
142
Ibid.
71
Spirito Santo è questo E (o È, copula tra soggetto e predicato)»143. Dovremmo
ritenere questa funzione unificatrice dello Spirito Santo quando tratteremo in seguito
il concetto di separazione e di abbandono del Figlio da parte del Padre nella teologia
kenotica di Balthasar.

2. L’AMORE TRINITARIO

Per Bulgakov l’auto-rivelazione della natura di Dio, della sua Sofia, è


innanzitutto auto-rivelazione dell’amore. Infatti «se Dio è amore ciò significa che la
santissima Trinità è l’amore tri-ipostatico»144. Ogni ipostasi rivela una diversa
modalità di essere dell’amore e le relazioni stesse interne alla Trinità sono legami
d’amore. Ma cos’è l’amore? Qual’è il suo carattere generale che sottosta alle diverse
modalità di essere dell’amore che riscontriamo nelle tre persone divine. Bulgakov
identifica due assiomi fondamentali che descrivono il carattere generale del vero
amore. Il primo assioma, al quale abbiamo già accennato, è quello del sacrificio:
«Vi è tuttavia un carattere generale che è proprio dell’amore come tale e quindi ha tutti gli
aspetti dell’amore: il sacrificio, nella rinuncia di sé, poichè l’assioma dell’amore personale è :
non vi è amore senza sacrificio»145.

Quindi se Dio è amore e se il primo assioma dell’amore è il sacrificio di sé,


allora dobbiamo andare a cercare questi aspetti nelle tre persone della Trinità. Come
abbiamo già riportato nelle precedenti citazioni, il Padre e il Figlio rinunciano
reciprocamente a se stessi. L’amore kenotico nel Padre
«è l’immagine dell’amore ove colui che ama vuole possedersi non già in se stesso, ma fuori di
sé, per donare il suo me a questo altro me, ma identificato a lui, per manifestare il suo me
attraverso una generazione spirituale, nel Figlio... Questa forza generante è l’estasi dell’uscita
da sé medesimo, d’una devastazione di se stesso, che è allo stesso tempo la realizzazione di sé
per mezzo di questa generazione»146.

L’affermazione di Dio al di fuori di sé passa per una negazione di sé. La


dialettica paradossale di Bulgakov ci aiuta ad entrare più a fondo nel mistero d’amore
che è Dio. Nell’atto di perdermi mi ritrovo nell’altro che è da me ma è diverso da me.
Nell’atto di negare me stesso affermo l’esistenza dell’altro. Nella mia “morte” c’è il
principio di vita per un altro. La devastazione di se stessi, l’annichilimento personale,
creano spazio alla possibilità di un’altra esistenza. Questa generazione del Figlio nella
auto-negazione paterna, è allo stesso tempo affermazione della paternità del Padre.
L’amore che si dona è presente nel Figlio in quanto il suo essere Figlio è già
143
Ibid., p. 142.
144
Ibid., p.143.
145
Ibid.
146
Sergej BULGAKOV, L’Agnello di Dio, O. M. Nobile Ventura (tr.), Roma: Città Nuova, 1991, p.154.
72
l’eterna kenosi. Infatti «L’amore del Figlio è l’umiltà del sacrificio, della rinuncia a sé,
quella dell’agnello “predestinato prima della creazione del mondo”(1Pt 1,20)» 147. Nel
Figlio l’amore può dirsi kenotico in due sensi: nell’atto di amare il Padre, offrendosi
totalmente a lui, e nel suo offrirsi per la salvezza degli uomini quale Agnello
sacrificale immolato per i peccati del mondo. La relazione che si instaura fra di loro,
in un primo momento, si caratterizza quindi per la sofferenza del sacrificio, senza la
quale non vi è una reale rinuncia a sé e «senza la quale l’amore non raggiunge la
pienezza della propria realtà»148. Questo momento di rinuncia di sé nella donazione
reciproca del Padre e del Figlio è definito da Bulgakov «il lato tragico dell’amore».
Questa dimensione della sofferenza nel concetto di amore è di vitale importanza per
poter collegare il mistero dell’amore trinitario al mistero della croce. Bulgakov vuole
provare che anche all’interno della trinità esiste la dimensione dell’amore in quanto
sofferenza sacrificale. Esiste cioè la dimensione del soffrire per l’altro amandolo. Se
Cristo rivela pienamemte l’amore del Padre, e se questo amore a noi uomini si è
manifestato come sofferenza sacrificale, allora tale aspetto non può non essere
presente nel Dio trino. Questo aspetto dell’esperienza della sofferenza in Dio è di
fondamentale importanza anche per la vita spirituale di ogni uomo. Sapere che Dio
stesso ha sofferto, non solo nella passione del Figlio, ma anche nella reciproca
donazione di sé a livello infra-trinitario, e sapere inoltre che questa sofferenza si volge
in continua gioia, offre motivo di cosolazione nella sofferenza quotidiana dell’offrire
se stessi per amare. La sofferenza fa parte della natura di Dio. Nella mia sofferenza
partecipo alla vita della Trinità. La sofferenza dell’offrire se stessi contiene in sé una
gioia profonda e conduce alla beatitudine del cielo. Tuttavia sorge un’obiezione. Si
può parlare propriamente di sofferenza all’interno della Trinità? Questa sofferenza non
potrebbe essere vista come una limitazione alla gioia e alla pienezza che è Dio stesso?
Bulgakov risponde che
«è impossibile non parlare della sofferenza sacrificale, appunto nel Dio assoluto, come di un
momento della vita divina infratrinitaria sormontato e risolto, come una dissonanza
nell’armonia»149.

La sofferenza non è un elemento statico nella dinamica dell’amore divino.


Se così fisse sarebbe incompatibile con la gioia e la pienezza della vita divina. Ma
essa deve essere considerata come un momento di dissonanza che viene poi risolto
nell’armonia. Vi è una vittoria della sofferenza nel ritrovarsi davanti all’altro dopo
essersi perduti nel sacrificio personale che genera l’altro. In questo sta tutta la cifra
dell’amore divino che continuamente si rinnova passando dalla sofferenza del
147
Ibid..
148
Ibid.
149
Sergej BULGAKOV S., Il Paraclito, p.143.
73
sacrificio alla gioia dell’armonia: «L’amore nella santissima Trinità, ha bisogno di
amare in modo tutto attivo, estremo, esaustivo, nella reciprocità di un sacrificio
illimitato»150. Da questo punto Bulgakov muove verso il secondo assioma
dell’amore ovvero quello della gioia e della beatitudiune. Infatti se l’amore fosse
soltanto sacrificio e sofferenza, esso non avrebbe in sé le caratteristica di pienezza di
vita ma piuttosto quella di frustrante privazione. Ma l’amore, afferma Bulgakov, è
anche gioia, beatitudine e trionfo:
«E se il primo assioma dell’amore asserisce che non vi è amore senza sacrificio, il secondo,
superiore perchè ultimo, afferma che non vi è amore senza gioia e senza beatitudine, e in
generale non vi è beatitudine all’infuori dell’amore» 151.

Il secondo momento dell’amore nella vita interna di Dio è quello della gioia.
Questo è un motivo che avevamo trovato anche in Riccardo di San Vittore, quando
ci parlava del desiderio delle prime due persone della Trinità di comunicare la gioia
di sentirsi amati con una terza persona.152 Tuttavia qui la gioia assume una
dimensione di superamento della tragedia che esprime tutta la forza dell’amore
divino. È la gioia dell’essere che vince il non-essere, la gioia della vita che vince la
morte, è la gioia del mattino di Pasqua. Infatti per Bulgakov «l’amore è antinomia
concreta: sacrificio e ritrovamento di se stesso grazie al sacrificio» 153. Il primo
momento è quello della rinuncia di sé, di una negazione personale, di un’entrata nel
non-essere. Il secondo momento è quello del ritrovarsi dopo essersi perduti nel
sacrificio. E questo ritrovarsi è gioia, è beatitudine, è, in definitiva, lo Spirito Santo:
«questa beatitudine dell’amore nella santissima Trinità, consolazione del
Consolatore, è lo Spirito Santo»154. Con Bulgakov stiamo camminando a grandi
passi sulla Via Caritatis. In lui ritroviamo Sant’Agostino, nell’identificazione della
terza persona come l’Amore tra l’amante e l’amato, e ritroviamo Riccardo di San
Vittore, nel concetto di gioia e di auto-dedizione. Sergej Bulgakov tuttavia ci
introduce in una dimensione nuova rispetto ai suo predecessori, quella della
sofferenza in Dio. Continuando la nostra trattazione, notiamo come per Bulgakov lo
Spirito Santo sia identificato quale «compimento dell’amore sacrificale del Padre e
del Figlio, come gioia di questo sacrificio, come sua beatitudine, come amore
trionfante»155. L’amore nella sua prima fase vede il sacrificio reciproco del Padre e
150
Ibid., p. 144.
151
Ibid.
152
Cf. RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, III,11:« Di conseguenza, se uno non riesce ancora a
compiacersi di comunicare la sua gioia più grande, dimostra di non possedere una ancora una carità
perfetta», p. 138.
153
Sergej BULGAKOV, Il Paraclito, p.144.
154
Ibid.
155
Ibid.
74
del Figlio. Nella seconda fase il Padre e il Figlio si ritrovano uno di fronte all’altro
nello Spirito Santo in una generazione eterna e continua che si dispiega in una
kenosi reciproca del Padre e del Figlio, e in un continuo ricongiungimento nello
Spirito Santo. Lo Spirito Santo viene definito dal nostro autore come l’amore
comune del Padre e del Figlio. Se Dio è amore allora lo Spirito Santo può dirsi
Amore dell’amore. In questo amore si amano il Padre e il Figlio e «amano altresì
l’Amore ipostatico stesso, la Gioia ipostatica, il Consolatore che costituisce la loro
consolazione»156. In questo contesto Bulgakov spiega i concetti di generazione e
processione. Il Padre uscendo da sé nella generazione del Figlio acquisisce, come
processione, l’amore dello Spirito Santo:
«queste due fasi sono nella dialettica dell’amore; sacrificio e beatitudine riuniti nella nascita
del Figlio e la processione congiunta dello Spirito Santo. Il Figlio nell’abbassamento di sé
sacrificale, riceve anche “simultaneamente” lo Spirito, che procede su di lui dal Padre, che
riposa su di lui e che passa attraverso (διά) lui, come reciprocità, risposta, anello
dell’amore».157

Vediamo nella dinamica dell’amore una prima fase di svuotamento e una


fase di riempimento. La generazione, nel Padre, e l’abbassamento di sé, nel Figlio,
come momenti kenotici, vengono compensati dal simultaneo riempimento operato
dallo Spirito Santo. Nell’atto di sacrificarsi, di rinunciare a se stessi si riceve lo
Spirito Santo. Sembra quasi che la causa efficiente della Spirazione dello Spirito sia
la rinuncia a sé del Padre e del Figlio. Come nella metereologia la nascita dei venti
sembra sia causata da dei vuoti d’aria nell’atmosfera 158, così lo svuotamento del
Padre e del Figlio sembra dar luogo alla spirazione dello Spirito.
Ma nello Spirito Santo in che senso l’Amore possiede la caratteristica di
sacrificio e rinuncia di sé? Abbiamo detto che lo Spirito è gioia, beatitudine e
trionfo, ma, in quanto amore esso deve possedere quella dimensione sacrificale che
gli si addice. Bulgakov chiarirà anche questo punto affermando in primo luogo che
non soltanto il Padre e il Figlio amano, ma anche lo stesso Spirito Santo ama in
maniera sacrificale e gioiosa. Nello Spirito Santo infatti
«la rinuncia di sé sacrificale consiste nel suo annientamento ipostatico: egli stesso non rivela la sua
ipostasi e non rivela se stesso, come lo fanno il Padre e il Figlio: egli non è che la loro rivelazione
stessa: “Lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio” (1Cor 2,10). Egli annuncia
non ciò che è suo, ma il Figlio del Padre. Egli è l’ambiente trasparente, impercettibile nella sua
trasparenza. Non esiste per sé perchè è tutto negli altri, nel Padre e nel Figlio; e il suo essere è
156
Ibid., 145.
157
Ibid.
158
Il vento è causato dalle differenze di pressione atmosferica che spingono l'aria da zone di alta
pressione a zone di bassa pressione per effetto della forza di gradiente. Cf. VOCABOLARIO
TRECCANI, Vento, su www.Treccani.it. consultato il 20/12/2019.
75
proprio come un non-essere».159

Le caratteristiche di rinuncia a sé dello Spirito Santo sono definite dal suo


annientamento come persona. Questo si concretizza nel non rivelare se stesso, come
fanno il Padre e il Figlio. Lo Spirito rivela altri da sé. Lo Spirito non annuncia se
stesso ma annuncia il Figlio del Padre. É trasparente nel senso che nel suo
annichilimento personale rende visibile il Figlio del Padre. Non esiste come entità
autonoma, individualista e indipendente, ma il suo essere é relazione. Lo Spirito
Santo non esiste perchè è «tutto negli altri». Per tutti questi motivi l’essere proprio
dello Spirito Santo è come un non-essere. Non un non-essere negativo, ma un non
essere che fa essere gli altri due, che unisce e che fa conoscere, non se stesso, ma gli
altri due. Per questo, conclude Bulgakov, lo Spirito Santo «è l’Amore stesso, che
realizza in sé, ipostaticamente, tutta la pienezza dell’amore»160.

3. LA CREAZIONE COME ATTO D’AMORE KENOTICO.

La dimensione kenotica di rinuncia di sé nel sacrificio che poi si dispiega


nella gioia, caratterizzano tutta la riflessione filosofica di Bulgakov. In questo
orizzonte viene interpretata anche la creazione da parte di Dio del cielo e della terra
e di tutto ciò che contiene. L’infinito amore che pulsa nel cuore della Trinità si
riversa sul non essere e lo fa essere. La dinamica di questo riversamento dell’usia
divina è quello dello svuotamento di sé appunto. Dio decide liberamente di privarsi
di ciò che gli è più proprio, ovvero la sua natura auto-rivelata, per configurarla in
una modalità di esistenza relativamente autonoma al di fuori di sé. Il fine di tale
operazione è quello di far sì che la creazione possa a sua volta rispondere
liberamente a questo atto d’amore divino, offrendo se stessa al suo creatore.
Nell’opera La sposa dell’Agnello, Bulgakov descrive l’atto creativo in questi
termini:
«quell’autodeterminazione del Dio ipostatico, con cui Egli, possedendola dall’eternità (la Sofia
come mondo divino, auto rivelazione di dio in Dio), la propria natura, la lascia uscire dal
grembo dell’essere ipostatico verso l’autoessere, la fa in senso autentico cosmo, crea il mondo
“dal nulla”, cioè da se stesso, dal suo proprio contenuto divino» 161

La creazione in questi termini viene descritta come «uscita dal grembo


dell’essere ipostatico», come in un parto in cui la Madre nel dolore genera un essere
vivente altro da sé. Vi è un passaggio dall’essere in Dio all’autoessere, ovvero Dio
159
Sergej BULGAKOV, Il Paraclito, p.145.
160
Ibid.
161
Sergej BULGAKOV, La Sposa dell’Agnello, C. Rizzi (tr.), Bologna: EDB, 1991, p. 83.
76
dà all’uomo, pastore e guardiano della creazione, la libertà, affinchè questi possa
riamarlo. Il non-essere del Dio trino, genera l’essere della creazione. La negazione
della kenosi divina, che si riversa sul non essere, si risolve in un’affermazione
esistente che è il creato. In questo senso la creazione può essere detta ex nihilo. In
questa kenosi divina che crea l’essere dal nulla, risiede la condizione di possibilità
della partecipazione dell’uomo alla vita d’amore della Trinità. E come vi parteciperà
l’uomo a questa vita trinitaria fatta di scrificio e di gioia? Vi parteciperà unito nel
battesimo alla Kenosi del Figlio, Cristo Signore.

4. BULGAKOV E BALTHASAR

La riflessione di Bulgakov compie un passo in avanti nella comprensione di


Dio come amore. Egli ci introduce al mistero della kenosi di Dio. Alla luce del
movimento kenotico dell’amore, egli interpreta la Trinità e le relazioni che
intercorrono tra le varie persone. Egli inoltre applica lo stesso criterio interpretativo
per offrire una lettura kenotica della creazione. Bulgakov ci dice che il vero amore
deve possedere due caratteristiche fondamentali, o assiomi, il sacrificio e la gioia.
Questo è l’amore che il Figlio ci ha rivelato morendo in croce per noi e per noi
risorgendo al gaudio immenso della vita immortale. Se il Figlio ci ha rivelato questo
tipo di amore nella sua missione terrena, allora tale tipo di amore deve essere
riscontrabile anche nella Trinità immanente. Il sacrificio eterno del Figlio trova
conferma nelle parole della prima lettera di Pietro in cui si afferma che «Egli fu
predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è
manifestato per voi» (1Pt 1,20), ma soprattutto nell’Apocalisse di San Giovanni in
cui si parla dell’«agnello sgozzato fin dalle origini del mondo» (Ap 13,8). Ed è
proprio su questa problematica che si incontrano il pensiero di Bulgakov e quello di
Balthasar. Secondo Balthashar l’evento dell’incarnazione, che egli interpreta già
come atto kenotico di Dio tendente al sacrificio della croce, pone la riflessione
teologica di fronte all’inconciliabilità tra i concetti di ‘immutabilità di Dio’ e
‘mutabilità di Dio’ concretizzatasi proprio nell’incarnazione. Per superare questa
aporia egli si propone di ricercare una verità teologica che possa mediare tra i due
estremi apparentemente inconciliabili. Tale verità teologica egli la individua nel
concetto dell’«agnello sgozzato fin dalle origini del mondo», quale «dimensione
eterna del sacrificio storico e cruento della croce» 162. In tale contesto Balthasar fa
riferimento diretto a Bulgakov descrivendone l’intenzione fondamentale del suo
pensiero:
«l’ultimo presupposto della kenosi è l’ ‘altruismo’ delle persone (come pure relazioni) nella

162
Hans Urs VON BALTHASAR, Teologia dei tre giorni, G. Ruggieri (tr.), Brescia: Queriniana, 2005,
p.45.
77
vita trinitaria dell’amore; si dà quindi una kenosi fondamentale, presente già nella creazione in
quanto tale, perchè Dio fin dall’eternità assume la responsabilità della sua riuscita (tenendo
conto anche della libertà dell’uomo) e nella previsione del peccato ‘include nel conto’ anche la
croce (come fondamento della creazione)»163.

Il Dio-amore esce da sé nella forma dello svuotamento kenotico. Questo si


realizza eternamente nelle relazioni interpersonali della Trinità, che Balthasar
definisce altruistiche, nel senso che ogni persona è tutta nell’altro e per l’altro. Nel
dispiegarsi economico della vita trinitaria bisogna tenere presente quindi tre
conseguenze fondamentali. La prima è che la kenosi di Dio sia già presente nella
creazione, la seconda è che anche la croce, in vista del peccato dell’uomo, sia
presente nell’atto creativo di Dio proprio quale fondamento della creazione stessa e
la terza è che l’incarnazione è già un momento della passione redentrice di Cristo.
Inoltre la redenzione, che si compie per la kenosi del Figlio, è un atto trinitario che
vede impegnati seriamente anche il Padre e lo Spirito Santo nell’atto di svuotarsi di
sé «il Padre come colui che invia e abbandona, lo Spirito come colui che unisce, ma
ancora attraverso la separazione e l’assenza» 164. Vediamo qui in questa frase già
condensato tutto il pensiero di Balthasar sull’ultimo atto dell’amore di Dio per
l’uomo inteso come dramma trinitario. Le tematiche del Padre che invia e
abbandona e dello Spirito che unisce nella separzione e nell’assenza, saranno
centrali nello sviluppo del pensiero di Balthasar e verranno riprese nel capitolo
successivo. Il nostro compito era invece qui di indicare il punto di contatto tra il
pensiero di questi due autori per poterne dimostrare quella continuità, che per noi è
appunto il progredire del pensiero teologico sulla Via Caritatis.

163
Ibid.
164
Hans Urs VON BALTHASAR, Teologia dei tre giorni, p.46.
78
Capitolo VI
L’AMORE COME KENOSI DI DIO

NEL PENSIERO DI H.U. VON BALTHASAR

Balthasar nella sua vastissima opera teologica presenta Dio primariamente,


non sotto l’aspetto del bonum e del verum, ma nella dimensione del pulchrum. La
bellezza di Dio, che colpisce ed attira gli uomini, trova il suo fondamento nella gloria
del suo eterno amore dimorante nella santissima Trinità, e nella gratuità con la quale
tale amore è offerto agli uomini peccatori. Il punto di connessione tra queste due
dimensioni risiede in quell’«assenza di interesse che il vero amore ha in comune con
la vera bellezza»165. L’amore, secondo Balthasar, non è uno dei tanti attributi di Dio
ma è l’attributo fondamentale che rende a pieno, in un linguaggio umano, l’essenza
divina. Pertanto tutta la rivelazione deve essere interpretata come il manifestarsi
dell’amore assoluto di Dio nella storia del mondo. Nell’approccio alla rivelazione
bisogna quindi tener presente che l’amore «è l’unico principio ermeneutico per la
comprensione della Scrittura»166. Tale amore divino ci è rivelato in Cristo che mostra
agli uomini la bellezza dell’amore della Trinità. Abbiamo così due livelli dell’amore
strettamente collegati tra di loro quello all’interno della Trinità immanente e quello
manifestato da Cristo agli uomini, ovvero nella dimensione della Trinità economica.

1. L’AMORE NELLA TRINITÀ IMMANENTE

Balthasar parlando dell’amore nella dimensione assoluta della Trinità


immanente si esprime in questi termini:

165
Hans Urs VON BALTHASAR, Il filo di Arianna attraverso la mia opera, G. Sommavilla (tr.), Milano:
Jaca Book, 1980, p. 34.
166
Ibid., p. 26.
79
«l’amore nell’assoluto è il prodigio perenne, che per l’eternità rimane miracolo a se stesso:
infatti non si può afferrare logicamente che l’amore scaturisca sempre questo alcunché di
indicibile, che l’amore continui perennemente a sbocciar fuori, di là da quello che sembrava
essere, tra amanti, già l’estremo della pienezza» 167.

La dinamica dell’amore infratrinitario viene descritta come un miracoloso


scaturire perenne. L’amore tra le persone trinitarie che sembrava aver raggiunto ormai
l’apice della pienezza, si supera prodigiosamente in una eterna tensione ascendente. Il
Padre ama il Figlio, anzi il Figlio stesso è espressione dell’amore del Padre. Tale
amore rende il Padre colui che genera e il Figlio colui che è generato: «l’amore, in cui
Dio, come colui che genera, è Padre, e come generato, è Figlio e Verbo, s’intende
come una cosa sola nel congiungersi dei due» 168. Il Figlio in questo senso ama il Padre
di un amore assoluto, ma non è il Padre e quindi non può identificarsi col suo amore.
Questo amore che rende possibile il generare del Padre e l’essere generato del Figlio è
lo Spirito Santo:
«lo Spirito è questo “risultato” del’amore reciproco, apparentemente fine, in realtà nuovo inizio
di creazione... lo Spirito è la fecondità dell’amore paterno e filiale, e la fecondità che egli è,
non si applica “da se stessa” ma è elargita dal Padre e dal Figlio ed elargisce se stessa come
libero dono. Ciò che è stato disposto sovranamente, dispone di se stesso sovranamente» 169.

Lo Spirito essendo il frutto dell’amore reciproco del Padre e del Figlio è


pertanto ex Patre Filioque. Lo Spirito è il “risultato” dell’auto-donazione reciproca
di Padre e Figlio e pertanto può donarsi egli stesso. Questa dinamica dell’amore
interpersonale è strettamente legata all’evento dell’incarnazione. L’Incarnazione
brilla dell’esperienza eterna dell’amore trinitario nella sua dimensione relazionale e
personale. Dio infatti, «per diventare amore personale nell’Incarnazione, deve essere
già in se stesso amore e relazione personale: Padre che si dona, Figlio che riceve,
Spirito Santo che è frutto e testimonianza di questa donazione d’amore» 170. Cristo si
trova al centro di questa dinamica d’amore in quanto egli permette di risalire alla
fonte dell’amore e indica allo stesso tempo la strada che deve percorrre l’uomo per
realizzare il vero amore.

2. LA KENOSI DEL FIGLIO RIVELA DIO COME AMORE

Cristo rivela pienamente che Dio è amore. Attraverso l’incarnazione, vita,

167
Hans Urs VON BALTHASAR, Spiritus Creator. Saggi Teologici, vol III, L. Ballarini – G. Colombi –
G. Frumento (tr.), Milano: Jaca Book, 1983, p.92.
168
Hans Urs VON BALTHASAR, Spiritus Creator. Saggi Teologici, vol III, p.92.
169
Hans Urs VON BALTHASAR, Gloria. Un’estetica teologica. vol. VII: Nuovo Patto, G. Manicardi -G.
Sommavilla (tr.), Milano: Jaca Book, 1977, p. 229.
170
Hans Urs VON BALTHASAR, Spiritus Creator. Saggi Teologici, vol III, p. 37.
80
passione e morte di Cristo, possiamo conoscere chi sia Dio e quale sia la sua
essenza. Il Figlio in tal senso si configura come «il modello normativo (analogatum
priceps) di ogni amore voluto da Dio»171. Pertanto Balthasar si impegnerà di
dimostrare che tutta la vita di Cristo «sia credibile e spiegabile come amore
trinitario»172. L’incarnazione del Figlio infatti opera una svolta clamorosa nella
maniera di considerare Dio:
«(Dio) non è in primo luogo ‘potenza assoluta’, ma ‘amore’ assoluto e la cui sovranità non si
manifesta nel tenere per sé ciò che gli appartiene, ma nell’abbandonarlo, cosicché questa sovranità
si estende al di là di ciò che qui, all’interno del mondo, si contrappone come forza e debolezza.
L’esternarsi di Dio (nella incarnazione) ha la sua possibilità ontologica nella esternabilità eterna di
Dio, nell sua donazione tripersonale... la ‘potenza’ divina è così costituita che può gestire in se
stessa la possibilità di un autoannichilimento, qual’è quello dell’incarnazione e della croce, e
sostenere questo annichilimento fino alla fine»173.

L’amore di Dio fluisce dall’essenza divina sotto la forma dell’abbandono


dell’essenza divina stessa. Il Padre non tiene per sé la sua natura divina ma la dona,
e donandola dona tutto se stesso eternamente al Figlio. Il Figlio, amato dal Padre, a
sua volta restituisce al Padre ciò che da questi ha ricevuto. Lo Spirito è in quest’atto
di abbandono reciproco, l’amore del Padre e del Figlio che si fa persona. Lo Spirito
è tutto nel Padre ed è tutto nel Figlio, abbandonando anch’egli così la sua essenza
nelle mani delle altre due persone della Trinità. Questa dinamica di donazione
reciproca nell’abbandono rende possibile l’esternabilità di Dio all’interno del mondo
attraverso l’incarnazione. Pertanto non c’è contraddizione tra i concetti di
immutabilità divina e di incarnazione, passione e morte del Figlio. Anzi la struttura
dell Trinità è così costituita da poter «gestire in se stessa la possibilità di un auto
annichilimento» fino alla fine, cioè fino all’abbandono totale del Figlio nella morte e
nella discesa agli inferi. Ma vediamo nel concreto come si realizzi tutto questo
nell’evento dell’incarnazione.
Tutto inizia grazie ad un atto sovranamente libero del Padre che in Cristo
manifesta totalmente la sua libertà di azione. Il vero amore infatti non può che essere
libero. Questo atto, che rivela l’amore trinitario, si realizza anche, e soprattutto,
attraverso il fiat alla volontà del Padre pronunciato liberamente dal Figlio fin
dall’eternità e si concretizza nella kenosi del Figlio stesso:
«ma se la regalità di Dio, il quale si manifesta come amore, risplende appunto nell’atto della
sottomissione e dell’obbedienza del Figlio verso il Padre, allora diventa evidente che questa
obbedienza è per essenza amore: certamente prototipo dell’attegiamento d’amore della creatura
171
Ibid., p. 89.
172
Rino FISICHELLA, Hans Urs Von Balthasar. Amore e credibilità Cristiana, Roma: Città Nuova
Editrice, 1981, p. 195.
173
Hans Urs VON BALTHASAR, Teologia dei tre giorni, pp.39-40.
81
dinnanzi alla maestà di Dio, ma, molto più di questo, palese prototipo dell’attegiamento
d’amore di Dio: proprio nella kenosi di Cristo (e soltanto in essa) appare l’intimo ed intrinseco
mistero d’amore di Dio, che in se steso “è amore” e perciò “uno e trino”» 174.

Questa dichiarazione di obbiedenza del Figlio al Padre, ricorda Balthasar, è


già segno d’amore. Anzi è proprio nell’amore, che accompagna la sua obbedienza,
che il Figlio supera il concetto veterotestamentario di obbedienza alla Legge: «il
fattore creativo, nel quale consiste lo stacco tra l’antico e il nuovo, è l’amore che
accompagna l’obbedienza, un amore così perfetto da rompere il principio
dell’obbedienza servile e da asservire a sé la Legge» 175. Allora vediamo qui due
caratteristiche di questo amore: la libertà e l’obbedienza alla volontà del Padre.
L’accettazione da parte del Figlio di incarnarsi non è frutto di costrizione nè avviene
in maniera automatica, ma si realizza attraverso una libera decisione del Figlio. Il
Figlio poteva decidere di non abbandonare la sua “forma di Dio” e di non abbassarsi
alla “forma di servo”, ma egli dall’eternità si offre al Padre, per realizzare la
salvezza dell’uomo caricandosi dei suoi peccati. La libertà, come abbiamo visto, è
presente anche nel Padre che liberamente decide di inviare il Figlio. Pertanto nella
manifestazione della libertà divina, ricorda Balthsar, incontriamo un duplice amore:
«amore del Dio Padre che permette al Figlio di avventurarsi nell’obbedienza assoluta della
povertà e dell’abbandono... e amore del Dio Figlio che per amore si identifica con noi peccatori
compiendo in libera obbedienza in tutto ciò la volontà del Padre» 176.

Il Padre è amore perchè permette al Figlio di incarnarsi, non lo tiene per sé


ma lo abbandonanda nelle mani degli uomini. L’amore del Figlio sta
nell’identificarsi con i peccatori, nel farsi egli stesso peccato, obbedendo così alla
volontà del Padre. Tutta la vita di Gesù testimonia questo abbandono obbediente alla
volontà del Padre nella kenosi divina. Questa kenosi divina trova il suo culmine
nell’evento della passione e croce di Cristo, tanto che i Vangeli possono essere
considerati come «una narrazione della passione con un’estesa introduzione» 177. È
importante notare come Balthasar metta in relazione il concetto di amore con quello
di morte. L’amore divino deve manifestarsi nella morte del Figlio per testimoniare al
mondo che l’amore vince la morte. La morte è il problema fondamentale di ogni
uomo e l’uomo stesso per paura della morte è schiavo del peccato. Pertanto la
salvezza di Cristo per gli uomini non poteva che manifestarsi nell’assunzione totale
della morte umana da parte del Figlio. In tal senso Balthasar può affermare

174
Hans Urs VON BALTHASAR, Gloria. Un’estetica teologica. vol. VII: Nuovo Patto, p. 358.
175
Hans Urs VON BALTHASAR, Teologia della storia, G. Sommavilla (tr.), Milano: Ed. Morcelliana,
1969, p. 44.
176
Hans Urs VON BALTHASAR, Gloria. Un’estetica teologica. vol. VII: Nuovo Patto, p. 190.
177
Hans Urs VON BALTHASAR, Teologia dei tre giorni, p. 27.
82
«che Dio, quando ha voluto fare l’esperienza della condizione umana ‘dal di dentro’, per
rialzare l’uomo e sanarlo ‘dal di dentro’, ha dovuto porre l’accento decisivo là dove l’uomo
peccatore e mortale si trova ‘alla fine: - ossia, dove si è perduto nella morte, senza per questo
trovare Dio, dove è precipitato nell’abisso della tristezza, della povertà e della tenebra, nella
fossa, senza poterne trovare con le proprie forze l’uscita, per ricucire nell’esperienza
dell’‘essere alla fine’ le estremità lacerate dell’idea di uomo: nell’identità del Crocifisso e del
Risorto»178.

Quando Balthasar si riferisce al concetto di morte non intende solamente la


morte fisica dell’essere umano, ma anche la morte ontologica, ovvero quella morte
che è salario del peccato e che si configura come rifiuto dell’amore. Cristo prende su
di sé tutto questo rifiuto del Dio-amore da parte degli uomini, egli cioè «patisce fino
in fondo la potenza opposta a Dio»179. Per riconciliare l’uomo con Dio «è necessario
che sia attraversato tutto l’abisso del no umano contro l’amore di Dio». Cristo nella
sua morte di croce discende nelle profondità dell’abisso del rifiuto umano. È in
questo sprofondamento che Egli si fa peccato per noi per riconciliarci al Padre (cf. 2
Cor 5,21). Solo così la tenebra della croce può diventare luminosa, ovvero nella
solidarietà di Dio stesso con i peccatori, non solo nella morte fisica, ma anche
nell’esperienza condivisa della morte come rifiuto di Dio fonte della vita. È
interessante inoltre notare come in Balthasar l’amore divino si caratterizzi come
odio del peccato. Tale odio del peccato è l’altra faccia dell’amore di Dio, e viene
definito biblicamente con il concetto di “ira o collera di Dio”. Il nostro autore,
prendendo in prestito le parole di Riggenbach afferma che:
«Dio non può amare il male, ma semplicemente odiarlo. In forza della sua stessa natura il male
sta in contradizione assoluta con la natura divina, esso è il contrario dell’amore santo di Dio.
Non si dà amore autentico senza collera; la collera è infatti l’altra faccia dell’amore» 180.

L’ira di Dio è parte integrante della sua essenza agapica. Essa non è contro il
peccatore ma contro il peccato che abita in lui. L’odio furioso di Dio verso il male è
pertanto una forma profondissima dell’amore divino, poichè esso si prefigge di
distruggere proprio quel male che impedisce l’unione amorosa dell’uomo con Dio.
Amare i peccatori significa pertanto odiare il peccato che in essi si annidia. Risulta
quindi fondamentale anche per ogni cristiano di fronte al peccato altrui operare
questa distinzione tra peccato e peccatore, per non cadere in un giudizio di condanna
senza misericordia. Ritornando alla nostra argomentazione, questa ira divina
necessita di essere espiata e pertanto la remissione dei peccati non può avvenire
senza sacrificio. Tale sacrificio espiatorio, che placa l’ira di Dio, sarà compiuto dal
Figlio: «Nella passione il Figlio deve affrontare quest’ira. Egli deve condurre alla
178
Hans Urs VON BALTHASAR, Teologia dei tre giorni, p. 26.
179
Ibid., p.113.
180
Ibid., p.128.
83
sua fine escatologica l’ira terribile che attraversa tutto l’Antico Testamento» 181.
Cristo nel sacrificio di sé della morte di croce, estingue il fuoco dell’ira di Dio
distruggendo il peccato e la morte. Il Figlio sulla croce fa esperienza dell’amore del
Padre nella forma della collera. Morendo in croce «il Figlio volgerà del tutto su se
stesso la sferza dell’ira eterna, per tenerla lontana dai peccatori». Cristo prende «su
di sé a tal punto tutto il peccato che Dio non può più colpire il paccatore senza
colpire lui, e perciò l’ira viene placata mediante l’amore del Figlio sofferente» 182.
L’amore del Figlio sofferente placa l’ira del Padre e apre la via di ritorno dell’uomo
a Dio. Cristo sprofondando nell’abisso che si era creato tra Dio e l’uomo peccatore,
fa penetrare Dio nella dimensione del rifiuto di Dio e così facendo colma l’abisso.
Cristo in definitiva, nell’abbandono del Padre si separa da questi in maniera assoluta
e nella passione, morte e discesa agli inferi raggiunge il punto estremo della
lontananza da Dio. Cristo assume in se, come uomo, il rifiuto di Dio, e lo riempe
della sua presenza trasformandolo in via di ritorno al Padre. Il peccatore sa ora che
nell’abbisso della morte e del peccato non è più solo.

3. LA KENOSI DEL FIGLIO COME DRAMMA TRINITARIO183

Abbiamo visto fin qui come in Cristo l’amore del Dio trino si riversi nel
tempo nella forma della kenosi al fine di realizzare la riconciliazione dell’uomo con
Dio. Per completare la nostra trattazione è necessario ora capire in quale modo la
Trinità stessa sia coinvolta in questa opera di redenzione. La modalità in cui le tre
persone divine sono coinvolte nella dinamica di questo dramma metterà in rilievo
ulteriori aspetti dell’essenza agapica di Dio che si andranno così ad aggiungere a
quelli trattati fin qui. Balthasar inizia la propria trattazione attraverso una
considerazione di tipo temporale sull’incarnazione di Cristo: «Tutti questi giri
intorno all’evento di Cristo devono portare a comprendere che, se in lui è veramente
penetrata la vita eterna nel tempo del mondo, questo tempo ormai si svolge non
“fuori” dell’eternità, ma in essa»184. La vita di Dio è amore eterno. Questo amore, in
Cristo, entra nel tempo. Questa affermazione è la premessa fondamentale a tutto
quello che seguirà in questa trattazione. Infatti Balthasar nel spiegare il
coinvolgimento dinamico della Trinità nella kenosi del Figlio, giocherà sul

181
Hans Urs VON BALTHASAR, Teologia dei tre giorni, p. 129.
182
Hans Urs VON BALTHASAR, Teodrammatica. L’ultimo atto, G. Sommavilla (tr.), Milano: Jaca
Book, 2012, pp. 227-228.
183
In questo paragrafo ci riferiamo principalmente al capitolo della Teodrammatica. L’ultimo atto
intitolato “L’ultimo atto come dramma trinitario”. I contenuti di questo capitolo, come anche per altre
opere di Balthasar, fanno preciso riferimento agli scritti mistici di Adrienne von Speyr, che viene
citata ripetutamente.
184
Ibid., p. 214.
84
dualismo di alcuni termini radicalmente opposti che però trovano la loro
conciliazione proprio nella loro congiunta considerazione atemporale. Nella
dimensione dell’eternità si risolvono infatti le contraddizioni temporali, o usando le
parole di Balthasar, «il temporale può essere inciso nell’eterno in forme
paradossali»185 Queste coppie di termini sono: Morte/Vita, Dolore/Gioia e
Separazione/Unione.

3.1. MORTE E VITA

La morte come detto non è soltanto il limite esteriore della vita fisica di un
uomo ma essa pervade l’intero corso della sua esistenza. Morte e vita in tal senso si
autodefiniscono reciprocamente. In Dio anche è presente questo dualismo
morte/vita. Dio è vita ed è la fonte di vita di tutti i viventi e quindi in lui non c’è
morte intesa come assenza di vita. Tuttavia l’aspetto della morte nel Dio trino può
essere riscontrato sotto la forma di “dedizione della vita”: «Ma se per morte si
intende la dedizione della vita, questa dedizione ha in Dio il suo archetipo giacché il
Padre dà appunto tutta la sua vita al Figlio, il Figlio la ridona al Padre, e lo Spirito è
per se stesso la vita che si dà e si riversa» 186. Inoltre nell’uomo la morte che affligge
l’esistenza dell’uomo, non è solamente l’impossibilità di vivere eternamente, ma
soprattutto la morte del peccato quale rifiuto dell’amore di Dio: «Una tutt’altra
opposta morte è la morte del peccato, in cui l’uomo si chiude alla dedizione e così
alla vita eterna e si butta in corpo e anima alla separazione da questa vita» 187. La
morte per l’uomo è chiusura alla dedizione che si configura come la decisione
consapevole di non volersi donare all’altro. Questo altro non è solo l’uomo suo
simile, ma soprattutto Dio, fonte della vita e dell’amore. L’uomo, schiavo del
peccato vive per se stesso e non può amare dando la sua vita per l’altro perchè si è
separato dalla fonte della vita, anzi attraverso il suo peccato egli si butta «in corpo e
anima alla separazione da questa vita». La morte del peccato è dunque separazione
dalla vita e dall’amore. Il Figlio pertanto attraverso la sua morte si propone di
«assumere la morte del peccato nella morte della dedizione, la quale divenne per
questo la morte dell’abbandono»188. L’aspetto positivo della morte, quale donazione
della vita per un altro, vince la morte del peccato proprio in virtù del sacrificio
estremo di Cristo, assumendo così la morte umana nella vita eterna:
«I misteri della dedizione fino all’estremo, fino alla notte di non sapere più nulla sulla croce
sono per Dio unicamente una forma della sua suprema vitalità, l’adempimento della vita
dell’amore... Nel mondo la morte è sempre una conclusione. In Dio la morte è sempre e
185
Hans Urs VON BALTHASAR, Teodrammatica. L’ultimo atto, p. 225.
186
Ibid., p. 214.
187
Ibid..
188
Ibid..
85
soltanto apertura e breccia verso nuova vita»189.

Il dare la vita finno alla morte dimostrano che Cristo, essendo Dio, ha la vita
in sé e che questa vita è amore. Questo amore abbatte il gelido muro della morte e
riapre la strada per l’uomo verso la fonte della vita e dell’amore. È interessante
notare come qui vi sia una completa identità tra i concetti di vita e di amore in Dio.
L’amore è vita che vince la morte perchè dà la propria vita. La morte di Cristo in
questo senso è l’espressione massima dell’amore vitale della Trinità.

3.2. DOLORE E GIOIA

La seconda coppia di opposti da comprendere alla luce dell’evento kenotico


del Figlio è quella di gioia e dolore. Quello che il nostro autore intende dimostrare è
che in Cristo «tutto il suo dolore fino al limite estremo è una conseguenza, anzi
addirittura un’espressione, della sua eterna gioia trinitaria» 190. Anche qui come per la
coppia morte/vita, dolore e gioia sono reciprocamente legati tra loro. La vita che
avanza esprime proprio questa dinamica del passaggio dal dolore alla gioia e
viceversa, fino al raggiungimento del gaudio eterno del cielo. La gioia sorge sempre
dal dolore e il dolore dalla gioia. Ma per comprendere questo è necessario collegare
questi due elementi al concetto di amore: «I credenti devono essere condotti
attraverso tutta la scala della gioia o consolazione e del dolore o desolazione, per
ricevere parte alla profondità dell’amore di Cristo» 191. Gioia e dolore sono la via per
poter partecipare all’amore di Cristo. E questo amore si sublima nella sofferenza
estrema della croce per mutarsi poi in gioia nella resurrezione. Esso si configura
come il dolore del parto per una donna. L’atto di generare una nuova vita che reca
gioia, avviene nel dolore. Ma l’atto di dare la vita di Cristo è un atto d’amore. In
questo senso «il Signore fa che l’amore abbracci il dolore. Egli deve per così dire
attanagliare il dolore, per dimostrare l’amore» 192. L’amore in Dio è appunto questo
darsi integralmente all’altro. Nel Figlio questo darsi si concretizza nella sofferenza e
nel dolore della morte in croce. E il Figlio sa che questo suo sacrificio arreca gioia
piena al Padre. Per questo egli si offre «nella gioia del Padre, ed anche nella propria
gioia di fare un dono al Padre. E tuttavia in mezzo a questa gioia c’è tutto il dolore
della croce e non viene attenuato per questo» 193. Anche qui è l’amore che porta al
superamento dell’opposizione apparente tra gioia e dolore. Il dolore diviene una
forma di partecipazione all’amore, inteso come dedizione di sè, e pertanto è la via

189
Hans Urs VON BALTHASAR, Teodrammatica. L’ultimo atto, p. 215.
190
Ibid., p. 216.
191
Ibid..
192
Ibid., p. 217.
193
Hans Urs VON BALTHASAR, Teodrammatica. L’ultimo atto, p. 218.
86
che conduce alla gioia. D’altro canto la gioia dell’amore sperimentato e la possibilità
di arrecare gioia a Dio, portano il Figlio ad accettare il dolore nella donazione di sé.
Pertanto atttaverso il sacrificio di Cristo noi conosciamo che il dolore appartiene alla
profondità dell’amore:
«L’amore, che Dio rivolge a noi nel suo Figlio, è così grande che abbraccia non solo le gioie
ma anche i dolori dell’amore; assunti e accettati come espressione dell’amore, essi (i dolori)
riconducono a Dio e aumentano la gioia»194.

Il dolore e la gioia sono due dimensioni dell’amore divino che non


possono essere scisse tra loro. Esse, nella loro reciproca opposizione e nel loro
continuo superamento, costituiscono la dinamica dell’amore divino che si dona per
far essere l’altro.

3.3. SEPARAZIONE E UNIONE

La terza coppia di termini opposti, che servono a spiegare il


coinvolgimento dela Trinità nell’opera di redenzione attuata attraverso la kenosi
del Figlio, sono i concetti di separazione ed unione. Mentre le prime due coppie di
concetti venivano applicate principalmente al Figlio, e secondariamente al Padre,
vedremo come invece qui nella trattazione dei termini di separzione e unione, tutta
la Trinità venga coinvolta. La separazione è frutto dell’abbandono del Padre da
parte del Figlio: «il Figlio come Dio-uomo ha esperito un abbandono dal Padre
che lo ha portato ben oltre lo sheol e la geena» 195. Il Figlio non solo ha condiviso il
destino comune ad ogni uomo mortale ma anzi è andato oltre abbassandosi fino a
raggiungere la distanza estrema dell’alienazione da Dio. Il Figlio raggiunge le
profondità del’inferno inteso come il luogo di assenza assoluta di relazione con
Dio. Tale inferno è permesso da Dio come quel luogo in cui l’uomo liberamente
decide di rifiutare fino alla fine l’amore di Dio che gli viene donato. Cristo,
avvinto nella singolarità della relazione con Dio Padre, si cala nell’abisso
dell’assenza di Dio. La possibilità di tale discesa all’inferno è pensabile solo in
relazione alla struttura interpersonale della Trinità economica:
«possibile solo all’interno della Trinità economica, che trasferisce l’assoluta alterità reciproca
delle persone intradivine sul piano della storia della salvezza, con inclusione - e in tal modo
riconciliazione – della peccaminosa distanza da Dio» 196.

La distanza creata dal peccato dell’uomo, può essere colmata dalla kenosi
del Figlio, in quanto nell’alterità assoluta della relazione col Padre, egli è libero di

194
Ibid..
195
Ibid., p. 219.
196
Hans Urs VON BALTHASAR, Teodrammatica. L’ultimo atto, p. 219.
87
scivolare via dalla presa amorosa di tale relazione, per potersi immergere
nell’abbisso del non amore e poterne riemergere vincitore del peccato e della morte.
Questa è la doverosa premessa che il nostro autore deve fare nel tentativo di
dimostrare che «l’abbandono del Figlio durante la sua passione era, alla pari, un
modus della sua congiunzione con il Padre nello Spirito Santo» 197. Nell’abbandono
il Figlio si congiunge al Padre nello Spirito. Lo Spirito quindi fa sì che nella distanza
abbissale che li divide, Padre e Figlio siano uniti indissolubilmente. Ma lo Spirito
Santo, abbiamo detto, è il frutto della dedizione reciproca di Padre e Figlio. In
questa dedizione reciproca sta la forza d’un legame che supera la distanza abissale
della separazione:
«La dedizione vicendevole del Figlio e del Padre, appare come qualcosa di così forte e di così
buono che quanto è stato in essa accolto di divisione e dolore e legame e obbedienza penetra
nell’amore, anzi è diventato amore, come se non fosse mai stato altra cosa» 198.

Anche qui, come nelle precedenti coppie di termini opposti, la


contrapposizione tra separazione e unione viene risolta nell’amore che è l’essenza
del Dio trino. La forza che in questo senso unisce nell’abbandono è lo Spirito Santo,
che nel suo non essere per se stesso e nel suo essere tutto nel Figlio e tutto nel Padre
concretizza l’unione nella distanza. In questa dinamica paradossale il Figlio assume
la lontanaza dal Padre su di sé creando così vicinanza. Tale vicinanza tra Dio e
l’uomo Cristo viene mantenuta anche nel momento dell’estremo abbandono proprio
in virtù di questa unione tra il Padre e il Figlio nello Spirito. Risulta pertanto
fondamentale, in questa dinamica, il ruolo dello Spirito Santo:
«Lo Spirito Santo , che incarna di nuovo l’unità, è il garante dell’unità dell’amore che persiste
anche nella separazione, egli prende ora fermamente dalle mani del Figlio il sacrificio del suo
essere Dio per riporlo al sicuro nel grembo e nella coscienza del Padre celeste» 199.

Nello Spirito Santo si concretizza l’unione più alta tra Padre e Figlio nel
momento della loro massima divisione poichè «lo Spirito mantiene sussistente
durante la passione la diastasi intradivina tra il Padre e il Figlio»200. L’amore, che è
la vita della Trinità, si effonde proprio nell’atto della separazione nel sacrificio del
Figlio in quanto la distanza creata da tale separazione è colmata essa stessa
dall’amore «nel senso che il Padre e il Figlio nello Spirito si superano nell’amore
all’infinito»201. Lo Spirito che a differenza del Figlio, non è diviso dal Padre, «può
restaurare la congiunzione nella separazione del Figlio, senza togliere la
197
Ibid., pp. 219-220.
198
Ibid., p. 221.
199
Ibid., p. 223.
200
Hans Urs VON BALTHASAR, Teodrammatica. L’ultimo atto, p.223.
201
Ibid., p. 224.
88
separazione»202. In conclusione l’amore che dona se stesso totalmente e
gratutitamente all’altro, si configura come quella forza che può vincere la
separazione della morte e dell’inferno. L’amore costruisce relazioni laddove vi è
assenza di relazioni e l’uomo è solo ed abbandonato al suo destino. Dio amore si
costituisce allora come la Relazione che genera relazioni. È nella forza delle
relazioni di amore tra le persone della Trinità che il vuoto dell’assenza di relazione
viene riempito. L’uomo nella fede in Cristo abbandonato, morto, sepolto e disceso
agli inferi e risuscitato, può riallacciare la relazione perduta con Dio e, fondato su
questa relazione d’amore, aprirsi all’amore del prossimo finanche fosse il suo
nemico.

CONCLUSIONE

Giunti alla conclusione di questo cammino lungo la via Caritatis, siamo


chiamati ora a raccogliere i frutti del nostro lavoro. Prima di passare alle nostre
considerazioni personali, occorre mettere a confronto il pensiero degli autori da noi
trattati al fine di poter stabilire quali siano i tratti comuni della loro riflessione e in
quali punti invece essa diverga.

4. PUNTI COMUNI DEGLI AUTORI SCELTI

a) Aspetti biografici

202
Ibid..
89
Il primo aspetto che dobbiamo rimarcare è di tipo biografico. Gli autori da noi
trattati, ad esclusione di Sergej Bulgakov, hanno vissuto un’intensa vita comunitaria. Il
loro pensiero quindi trae corpo non solo dal background teologico-filosofico in cui
essi erano immersi, ma anche dalla profonda esperienza di vita comune da essi
praticata. Pertanto l’aspetto della relazionalità presente nella loro riflessione teologica
sicuramente affonda le sue radici nell’esperienza vissuta della relazione col fratello.
Inoltre le comunità di cui facevano parte i nostri autori avevano come cardine la vita
contemplativa. L’intensa vita di preghirera della comunità rafforzava in loro il vincolo
con quel Dio-amore sul quale saranno poi chiamati a riflettere. Così possiamo dire che
la teologia dei nostri autori su Dio come amore, promana essa stessa dall’esperienza
dell’amore di Dio e del fratello vissuta in seno alla comunità cristiana. Tra questi
autori come detto si distingue Bulgakov, in primo luogo per la sua appartenenza alla
Chiesa Ortodossa, in secondo luogo per la sua estraneità alla vita comunitaria.
Tuttavia non possiamo trascurare in Bulgakov l’aspetto biografico, come fonte di
ispirazione teologica. Bulgakov ha vissuto nella sua vita una vera e propria kenosi,
che passa dalla perdita della fede, alla morte della figlia, all’esilio in Francia dovuto
alla rivoluzione bolsevica e infine alla persecuzione subita all’interno della stessa
Chiesa Ortodossa, che condannava come eretiche alcune delle sue opere. 203 In questo
senso quando egli parla di sacrificio e gioia quali assiomi dell’amore, non possiamo
ignorare l’influsso della sua esperienza personale di kenosi, che forse trova proprio il
suo senso nella kenosi del Figlio di Dio. Sicuramente l’esperienza della kenosi è esso
stesso un tratto comune anche agli autori che abbiamo trattato, anche se per quanto
riguarda Riccardo di San Vittore non abbiamo notizie certe. L’apostolo Giovanni nel
suo cammino di sequela di Gesù, nella partecipazione alla sua morte e risurrezione, è
sicuramente testimone della kenosi del Figlio. Ma anche nella sua vita di predicazione
successiva all’Ascensione e alla Pentecoste, nella partecipazione alle persecuzione
della Chiesa nascente, ha sicuramente vissuto in prima persona l’esperienza della
croce, morte e risurrezione. Sicuramente in Agostino il processo di conversione ha
avuto la forma dello svutamento kenotico. Mentre per quando riguarda Balthasar, la
decisione di lasciare la Compagnia di Gesù per seguire la nascente opera della
Comunità di San Giovanni, nonché la controversia ecclesiale legata al suo legame
spirituale con la mistica Adrienne von Speyr, debbono sicuramente aver giocato un
ruolo nella sua riflessione teologica sulla kenosi del Figlio.
Per quanto riguarda i contenuti, come
detto nell’introduzione, tra i nostri autori vi è un rimando reciproco alle opere degli
altri. In particolare la base della riflessione teologica è per tutti la prima lettera di

203
Cf. Catherine EVTUHOV, The Cross and the Sickle: Sergei Bulgakov and the Fate of Russian
Religious Philosophy, Ithaca: Cornell University Press, 1997.
90
Giovanni nella definizione «Dio è amore» e nel suo contenuto. Tutti si rifanno ad essa,
ed in particolare Agostino e Riccardo. La seconda pietra miilare della via caritatis è il
De Trinitate di Agostino. Tutti i nostri autori fanno riferimento direttamente o
indirettamente a quest’opera, tra questi anche l’ortodosso Sergej Bulgakov. Infine
Balthasar, commenta e cita il De Trinitate di Riccardo e apprezza, come già accennato,
l’opera di Bulgakov, da cui trae spunto per la sua teologia kenotica. Possiamo,
pertanto, ben dire che la riflessione teologica di questi autori sul Dio-amore, si
configuri come un cammino tematico tra i tanti che costellano la storia del pensiero
teologico, con sue proprie caratteristiche peculiari.

b) L’amore come via d’accesso alla conoscenza di Dio

Entrando più nello specifico degli argomenti trattati, possiamo affermare con
certezza che uno dei punti comuni del pensiero degli autori da noi trattati sia l’amore
come via che ci porta alla conoscenza di Dio. Giovanni
afferma senza esitazione che «ognuno che ama è stato generato da Dio e conosce Dio»
(1Gv 4,7) e «chi non ama non ha conosciuto niente di Dio» (1Gv 4,8a). Da questi due
versetti possiamo concludere due cose, che l’amore è la via che porta alla conoscenza
di Dio e che in particolare è proprio dall’esperienza dell’amore fraterno che arriviamo
a conoscere che Dio è amore. L’amore è la via che porta a conoscere il nome di Dio.
In un altro passo del vangelo di Giovanni troviamo una relazione tra il nome di Dio e
il concetto di amore: «E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere,
perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro»(Gv 17,26). La
rivelazione del nome di Dio ci rimanda sicuramente ad Es 3,13-14 in cui Mosè
chiede a Dio quale fosse il suo nome ed egli si rivela come Colui che è. Dio è
presente nella vita dell’uomo, Dio esiste per l’uomo e opera in favore dell’uomo
nella storia. Dio è quindi l’essere che si fa presente. Dio è l’essere che crea
l’essere. Ma qui Giovanni alla rivelazione del nome fa seguire il concetto
dell’amore. La rivelazione del nome è strettamente collegata all’amore con il quale
il Padre ama il Figlio e che si apre all’amore dell’uomo venendo ad abitere in esso.
Giovanni vuole dirci che dall’inabitazione di Dio, in Cristo, per lo Spirito Santo nei
nostri cuori, noi conosciamo il nome di Dio, e che questo nome è amore. Con
l’incarnazione del Figlio si è aperta nella storia una via che va dritta al cuore di
Dio. Questa via è Cristo che ci mostra l’amore del Padre. Questa via è Cristo che
dimorando nelle anime dei Cristiani, ci immerge con lui nell’oceano di amore che è
Dio.
Agostino su questo punto è ancora più esplicito affermando che la
riflessione su Dio avviene già nell’orizzonte dell’amore e può essere descritta
come l’amante che va in cerca dell’amato sulla via dell’amore. L’uomo, amato da
91
Dio, vuole conoscere colui che ama. Ma questo amore, dice Agostino, viene effuso
nei nostri cuori dallo Spirito Santo. Questa fiamma di carità, volgendo a Dio tutta
la nostra volontà, ci fonde, unendoci, a Cristo. È l’uomo inabitato da Cristo per lo
Spirito Santo che può conoscere che Dio è amore. L’amore di Cristo riversato nei
nostri cuori dallo Spirito Santo, è la via che conduce alla conoscenza del Dio-
amore. Anche Riccardo di San Vittore si colloca sulla scia dei due
autori pecedenti. Egli vuole «appropriarsi con la ragione» 204 della realtà in cui
crede. Questo “appropriarsi con la ragione” significa intraprendere un cammino
che conduce alla vita eterna. Riccardo ha bisogno delle rationes necessariae per
arrivare alla conoscenza del Dio trino. E questa ratio necessaria egli la trova
nell’amore. Anche per lui l’amore si configura come un cammino che gli dischiude
davanti la conoscenza di Dio, nella cui semplicità sovrana l’essere e l’amore
coincidono.205 Sergej Bulgakov afferma che la rivelazione di Dio come
amore sia «una definizione non desctittiva, ma ontologica» 206. Se vogliamo
indagare l’essere di Dio allora dobbiamo partire dall’assunto fondamentale della
sua essenza agapica. Egli percorre proprio questa via, andando poi a distingure
nell’amore due assiomi fondamentali quali il sacrificio e la gioia.
Infine Hans Urs Von Balthasar afferma che la
credibilità di Dio affondi le sue radici nel suo essere amore. L’uomo subisce
un’attrazione estetica dall’amore di Dio. La bellezza, che risulta dall’essere e
dall’agire di Dio, rivelano che lui è amore e invitano l’uomo a cercarlo su quella
via. Balthasar avrà il merito, più degli altri autori, di collegare l’essere amore di
Dio all’evento cristologico della passione, morte e risurrezione.

c) L’esistenza di Dio come uscita da sé nell’amore

L’aspetto dell’esistenza di Dio come uscita da sé nell’amore è quello che, a


nostro avviso, si sviluppa nel pensiero dei nostri autori in maniera più lineare
rispetto alle questioni fin qui trattate. La rivelazione di Dio è un’esodo di sé
dall’amore e nell’amore. Questo movimento si produce sia a livello intra-trinitario
che extra-trinitario e tutti i nostri autori ce ne danno conto.
Giovanni afferma che «l’amore è da Dio» (1Gv 4,7b). L’amore
sgorga dall’essenza stessa di Dio come da una fonte. La sovrabbondanza
dell’amore divino si riversa sulle altre persone della Trinità (ad intra) e per Gesù
Cristo nello Spirito Santo su tutti gli uomini (ad extra). I due momenti in cui

204
Cf. RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, VI, 1, p. 214.
205
Ibid., V, 20, p. 205.
206
SERGEJ BULGAKOV, Il Paraclito, p.137.
92
all’uomo è dato l’amore divino, sono l’incarnazione del Figlio, una volta per tutte,
e dopo l’ascensione del Figlio, e fino al suo glorioso ritorno, l’inabitazione della
Trinità nell’uomo per lo Spirito Santo. L’amore proviene da Dio, così noi
conosciamo Dio. La sua esistenza ci è data nell’orizzonte dell’amore. L’amore, in
altre parole, è la forma di esistenza di Dio. Dio non è un essere che ama ma un
amore esistente. Agostino dà seguito al pensiero di
Giovanni. Come abbiamo visto per il vescovo d’Ippona, il piano di Dio per l’uomo
è fondamentalmente mysterium unitatis. Dio vuole essere uno con l’uomo e per
questo lo crea, lo redime e lo rende partecipe della vita divina. Cristo è il mediatore
di questa unità tra Dio e l’uomo. In tal senso è molto significativo un passaggio
successivo del De Trinitate, in cui Agostino afferma che l’amore è una vita che
unisce colui che ama e ciò che è amato. 207 Allora vediamo qui il fine dell’estasi di
Dio nell’amore: l’unione con l’uomo in Cristo, vita del Padre che unisce. Cristo è
l’estasi del Padre, che riconduce l’uomo a Dio.
Riccardo di San Vittore, sulla scorta di
quanto analizzato fin qui, ridefinisce il concetto di persona divina in termini di
«divinae naturae incomunicabilis existentia»208. Il focus di tale definizione è sul
termine existentia, che come abbiamo visto tiene insieme l’aspetto dell’unica
natura divina delle tre persone nella radice sistere, e della provenienza, nella
preposizione ex. Le persone della Trinità si distinguono tra loro nella propria
modalità di esistenza, ovvero di provenienza o di uscita da sé. E se il Padre è
l’esistenza divina senza origine che nel suo esistere promana da sé nell’amore, il
Figlio è generato nell’amore sovrabbondante del Padre, è amore dovuto (debitus).
Lo Spirito Santo, infine, è il condilectus l’amore condiviso del Padre e del Figlio,
essendo egli stesso ex patre filioque, egli porta la Trinità nel cuore degli uomini. La
persona, quindi per Riccardo, è apertura nell’amore 209. Il modo in cui una persona
ama diviene il vero carattere distintivo della persona. Riccardo sembra volerci
suggerire che l’amore ci fa persone. Per Sergej Bulgakov,
l’uscita di Dio da sé nell’amore prende la forma della kenosi. Dio esce da sé
svuotandosi, annientando se stesso. Questo è riscontrabile sia a livello intra-
trinitario, nella generazione del Figlio e nella spirazione dello Spirito, sia a livello
extra-trinitario, nella creazione e nell’incarnazione del Figlio. E questa uscita di sé
di Dio nell’amore assume la forma della kenosis in quanto l’amore è sacrificio e
gioia. Nell’atto sacrificale di sé Dio svuota se stesso, generando, spirando e
207
Cf. AGOSTINO D’IPPONA, De Trinitate, VIII, 10, 14.
208
RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, IV, 22, p.176.
209
Cf. LUIS FRANCISCO LADARIA, Il Dio vivo e vero, p. 302.
93
creando, nell’atto della gioia egli si ritrova nell’unione con l’essere per cui aveva
offerto se stesso.
Infine Hans Urs Von Balthasar, riallacciandosi al pensiero kenotico di
Bulgakov, si concentra soprattutto sull’evento cristologico, per significare l’uscita
di Dio nell’amore. La vita interna della Trinità viene descritta dal nostro autore
come un miracoloso scaturire perenne dell’amore. Questo amore si riversa
sull’uomo nell’incarnazione, passione, morte e risurrezione del Figlio. La forma in
cui Dio esce da se stesso è l’abbandono del Figlio. Abbandonare, consegnare,
donare il Figlio, amore del Padre, rivela che Dio è amore. Non c’è amore più
grande che quello di chi dà la propria vita in riscatto per gli altri (Cf. Gv 15,13).
L’amore è un dare la vita. L’amore fa essere l’altro e quindi è un atto creativo e
redentivo. E tale atto si dispiega attraverso l’annientamento di chi ama. L’amore si
dispiega anche nella risurrezione. L’amore del Padre per lo Spirito Santo risuscita il
Figlio. Tutta la Trinità è impegnata in questa missione redentrice che la spinge
fuori di sè nel tentativo di ricondurre l’uomo a Dio.

d) L’aspetto relazionale

In tutti gli autori anche questo punto è ben sviluppato. L’amore in fin dei
conti implica la relazione con la persona amata. Solo nel contesto interpersonale si
può fare esperienza dell’amore. L’amore fraterno e la relazione con l’altro sono il
luogo dove si scopre che Dio è amore.
Giovanni lo ricorda affermando che chi ama il fratello conosce Dio (Cf.
1Gv 4,7). Perchè Dio è nel fratello. Il fratello, amato e redento da Cristo, e uno in
Dio per lo Spirito Santo. Amandolo, mi inserisco in maniera immediata in quel
circolo d’amore che è la vita della Trinità.
Agostino riconosce questo aspetto affermando che l’amore fraterno, non
solo viene da Dio ma che sia Dio stesso e per questo può proclamare: «Abbraccia il
Dio amore e abbraccia Dio con il tuo amore» 210. Inoltre Agostino, nella sua
riflesione trinitaria, svilupperà proprio il concetto di relazione, notando che non
tutto quello che si predica delle persone della Trinità sia sostanziale, ma che vi
siano degli aspetti che sono ascrivibili alla categoria della relazione. Infatti il Padre
è Padre solo in relazione al Figlio e allo Spirito Santo, così come il Figlio e lo
Spirito Santo siano tali solo nella reciproca relazionalità e nella relazionalità col
Padre. Questa è un intuizione molto ricca in quanto l’essere di una persona, non si
riduce alla sua sostanza, ma si completa nella relazione con l’altro. L’altro in
qualche modo plasma il mio essere entrando in relazione con me. In questa
210
AGOSTINO D’IPPONA, De Trinitate, VIII, 8, 12.
94
fenditura esistenziale che ci offre la categoria della relazione, si inserisce Dio-
amore, vita che unisce, e che costituisce una nuova socialità che potremo definire
civitas Dei. Riccardo di San Vittore, sfruttando a pieno le
intuizioni degli autori precedenti costruisce la sua dottrina trinitaria proprio sul
concetto di relazionalità interno alle persone della Trinità. In particolare la sua
intuizione più riuscita è quella del condilectus. Egli per spiegare perchè il
medesimo Dio esista in tre persone, incrociando la tematica della relazione con il
concetto di Dio-amore, afferma che quando uno è amato desidera che anche
un’altro sia amato come lo siamo noi stessi. L’amore vuole essere condiviso
essendo gioia ed essendo unità. Nella relazione interpersonale così egli spiega
mirabilmente la trinità di persone. In Bulgakov e Von
Balthasar l’aspetto relazionale si realizza soprattutto attraverso il sacrificio di sé e
nella kenosi. Il sacrificio di sé avviene sempre di fronte ad un Tu per il quale si
dona la vita. La relazionalità si configura così come un annientamento personale
che fa essere l’altro. Questo viene mostrato nella relazionalità intra-trinitaria in
Bulgakov e nell’evento cristologico della kenosi del Figlio in Von Balthasar.

5. PUNTI DIVERGENTI DEGLI AUTORI SCELTI

Il background filosofico che si cela dietro alla riflessione teologica dei nostri
autori è il punto di maggior divergenza che possiamo riscontrare. Agostino si muove
all’interno di un sistema platonico o neoplatonico, Riccardo in uno Aristotelico di tipo
speculativo dell’alta scolastica che riceve forte influsso dal metodo di Anselmo.
Bulgakov dal canto suo riceve forte l’influenza dell’idealismo tedesco tanto che le sue
opere furono tacciate di hegelismo. Infine la filosofia che rileviamo dietro all’opera di
Balthasar è, a nostro avviso, di tipo estetico-ermeneutico, in forte correlazione col
pensiero di Gadamer211. Tuttavia questo differente approccio filosofico nella
riflessione teologica su Dio-amore, lungi dal creare una divergenza di vedute e una
pluralità di vie, sembra piuttosto essere lo spettro cromatico di un unico fascio di luce.
La teologia dei nostri autori non solo non si contraddice, ma anzi sembrerebbe
arricchire, in un progresso di costante approfondimento, quella mirabile affermazione
della prima lettera di Giovanni che definisce Dio amore. Ogni approccio filosofico
diverso, sembra gettare una luce nuova sul concetto di Dio-amore, aumentandone la
lucentezza e scandagliandone sempre più le profondità. In questo senso vanno
interpretati i concetti di relazione, condilectus, kenosi, che sono alcuni dei frutti di

211
Cf. Jason Paul BOURGEOIS, The Aesthetic Hermeneutics of Hans-Georg Gadamer and Hans Urs
von Balthasar, Marian Library Faculty Publications, 2007,consultabile su:
https://ecommons.udayton.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1007&context=imri_faculty_publications
29/10/2020.
95
questo cammino di riflessione sull’essenza agapica di Dio .
Inoltre il rapporto con la Cristologia appare ben
differente nella speculazione degli autori summenzionati. Giovanni vive vicino
all’evento Cristo ed è nella luce della sua risurrezione che scrive le sue lettere ed il
Vangelo. La comunità gode nell’amore fraterno come uno dei frutti della risurrezione
di Cristo. In Agostino la Cristologia, vive già un epoca matura dovuta alla
proclamazione dei dogmi cristologici nei vari concili ecumenici della Chiesa. La sua
riflessione muove pertanto, oltre che dalla Sacra Scrittura e dal contributo dei padri,
da queste pietre miliari della fede cristiana che sono i dogmi. Così, mentre in Giovanni
l’evento cristologico assume caratteristiche fondamentalmente esistenziali, in
Agostino, lungi dal distaccarsi dalla vita contemplativa e comunitaria del santo,
assume sfumature più filosofiche e teologiche. In Riccardo l’aspetto Cristologico, ed
in particolare l’aspetto dell’amore che si compie nel sacrificio del Figlio sulla croce,
viene quasi ignorato. L’attenzione di Riccardo è rivolta alla vita interna della Trinità.
Infine vi è un forte riferimento alla vita contemplativa nell considerazione dell’opera
che lo Spirito santo compie nel cuore dei cristiani. L’opera di Riccardo inoltre
presenta un forte carattere di dimostrazione logica e razionale della realtà del Dio
trino, aspetto meno riscontrabile nell’opera degli altri autori. Von Balthasar si distacca
nettamente dagli autori precedenti in per il suo procedimento teologico che appare
rovesciato rispetto a quello degli altri. Mentre Agostino e Giovanni fanno una
Cristologia dall’alto, Von Baltasar invece sembrerebbe imboccare la via opposta. Egli
spiega che Dio è amore a partire dalla kenosi del Figlio che dà la vita per la salvezza
del mondo. Inoltre lui si muove già nell’orizzonte del Concilio Vaticano II in cui
l’enfasi sulla cristologia ha sicuramente influito sulla direzione della sua speculazione.

6. PROSPETTIVE PER UNA TEOLOGIA DELLA VIA CARITATIS

Dopo aver confrontato le opere dei nostri autori, siamo ora pronti per offrire il
nostro personale contributo alla tematica in questione. Partiamo da un assunto
fondamentale: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri
amici» (Gv 15,13). L’amore, nella sua forma più alta, quella che quindi è propria di
Dio, si configura come un “dare la propria vita” o un “dare tutto se stessi” per la
persona che si ama, fosse anche il proprio nemico. Questo concetto viene reso
sublimamente da Agostino che afferma che l’amore è «una vita che unisce» 212.
Ora questo aspetto di dare la propria vita può essere inteso in
due modi. Il primo come “uscita da sé”, il secondo come “negazione di sé”. Il concetto
di uscita da sé ci rimanda alla definizione riccardiana di persona quale ex-istentia,
mentre quello di “negazione di sé”, a quello di kenosi, ripreso da Bulgakov ed esteso

212
Cf. AGOSTINO D’IPPONA, De Trinitate, VIII, 10,14.
96
da Balthasaar. Questi due aspetti sono complementari o se vogliamo consequenziali in
quanto l’uscita da sé comporta sempre in un certo qual modo la negazione di sé. E
quindi possiamo affermare che l’uscita da sé, o ex-istentia, delle persone della Trinità,
avviene sempre sotto la forma della kenosi. È interesssante notare come l’identità
delle persone della Trinità venga definita attraverso la loro modalità di provenienza e
dalla loro modalità di donazione di se stessi. Tuttavia occorre aggiungere un’altro
elemento ai due fin qui enumerati ovvero quello della ricettività. La ricettività
significa la capacità di accoglienza totale dell’essere dell’altro che si dona. Nelle
persone della Trinità non vi è limite alla possibilità ricettiva. L’amore divino è, non
solo donazione totale di sé all’altro, ma anche capacità illimitata di accogliere
infinitamente l’essere dell’altro che si dona. Abbiamo così enumerato tre
caratteristiche dell’amore che è Dio: l’uscita da sé, la negazione di sé e la ricettività.
L’aspetto ontologico della
questione dell’amore appare definitivamente superato se inquadrato nella dinamica
della croce. Riccardo di San Vittore ci diceva che nella semplicità sovrana di Dio,
l’essere e l’amore sono la stessa cosa. L’amore è un essere che si dona. L’essere che si
apre alla relazione in un certo qual modo comincia ad amare. In Dio l’essere è ‘essere
relazione’. Non può esistere Dio se non come essere relazionale. Ma la cosa
straordinaria di tale relazione è che essa si concretizzi in un amore che dona la vita
fino a morire per l’altro. La croce è amore in atto nella negazione totale dell’essere.
L’annientamento di sé è la forma di amare di Dio. L’essere ci è dato nell’amore e per
amare. Io sono(esisto), perché, nell’amore di un altro, ho ricevuto l’essere dalla
negazione dell’essere di quell’essere che mi ha amato. Dal momento che esisto, esisto
per amare, ovvero per negare il mio essere nell’amore e così far essere un’altro essere.
Lo svuotamento, o negazione del mio essere, fa spazio in me e per l’altro. Da una
parte il mio essere svuotato di sé può essere riempito dall’amore di Dio, che si dona a
me eternamente. Dall’altra la negazione del mio essere non opprime o schiaccia
l’altro, ma lo fa essere. Morendo a me stesso faccio spazio all’altro e a Dio. Morendo
a me stesso in qualche modo vengo divinizzato. Partecipando all’amore nella
dimensione della croce, sono innestato in Cristo. Per questo San Giovanni dice che chi
ama ha conosciuto Dio (cf.1Gv 4,7). L’amore è partecipazione alla passione e morte di
Gesù Cristo. L’amore è anche partecipazione alla sua risurrezione. Abbiamo visto
come in Balthasar il concetto di morte sia equivalente a quello di ‘dare la vita’. Mentre
Bulgakov affermava che i due assunti fondamentali dell’amore fosssero il sacrificio e
la gioia. Ora il concetto di morte risponde all’assunto dell’amore quale sacrificio.
Morendo, do la mia vita per l’altro, mi sacrifico, cioè rendo sacra la mia esistenza
(sacrum + facere). La croce è lo strumento che Dio ha scelto per renderci santi,
unendoci alla sua passione e morte. Tuttavia questo potrebbe sembrare soltanto un
masochismo se non consideriamo un altro aspetto fondamentale della dinamica
97
dell’amore ovvvero la gioia della risurrrezione. C’è una gioia sicuramente nel dolore,
come ricordava Balthasar, poichè nel soffrire con Cristo, diveniamo uno con lui.
Tuttavia la gioia dell’amore cristiano non si esaurisce con la sola partecipazione alla
passione e morte di Cristo. La gioia diviene traboccante nell’atto della risurrezione di
Cristo. L’amore del Padre risuscita il Figlio. Tutto quello che il Figlio ha offerto al
Padre nella sua vita, passione e morte, gli viene restituito in maniera sovrabbondante
all’atto della risurrezione. La vita che inaspettatamente risorge dalla morte si traduce
nella gioia, nel gaudio, nella beatitudine celeste. Amore è sacrificio nel perdere se
stessi, amore è gioia nel ritrovarsi dopo essersi perduti.
L’amore come detto è un esodo da se
stessi. L’essenza di Dio, coincidente con la sua esistenza, è un atto puro e questo atto,
sia nella vita intra-trinitaria che in quella extra-trinitaria, può essere credibile e
concepibile solo come atto di amore. La ricettività di questo amore all’interno della
vita trinitaria è perfetta. Nell’uomo tuttavia tale ricettività viene indebolità dalla
condizione di peccato in cui si trova. L’uomo nella sua libertà può rifiutare l’amore di
Dio. In Adamo l’uomo ha di fatto respinto l’amore di Dio nella comunione del
giardino dell’Eden, e si è ripiegato su stesso inibendo così la sua relazionalità. Dio,
attraverso la morte e risurrezione di Gesù Cristo, ha aperto una strada nelle tenebre del
rifiuto di Dio da parte dell’uomo. L’ira di Dio che colpisce non l’uomo ma il suo
peccato, si è riversata su Cristo. Cristo per amore ha pagato per noi il debito di
Adamo. Dio per amore con la sua collera vuole distruggere nell’uomo ciò che è
contrario a Dio. Il Figlio per amore si carica del nostro peccato e subisce nella sua
carne la collera del Padre. L’unica risposta che può dare l’uomo a questo amore, e
l’unica possibilità che ha di partecipare a questo amore è la fede. L’atto di fede è
anch’esso un atto kenotico. Per la fede l’uomo rinuncia a se stesso e fonda il suo
essere in Dio. La fede è un atto ontologico. Per la fede noi partecipiamo alla natura di
Dio, che è l’amore. In questo orizzonte ontologico-agapico l’uomo può conoscere che
Dio è amore e può amarlo e in lui amare il prossimo. Nella fede così anche l’uomo,
sradicato dal suo essere, che è amore egoistico di sè, è chiamato ad uscire da se verso
l’amore. L’amore, essendo una vita che unisce, non può non risolversi in
comunione. Comunione eterna delle tre persone divine, comunione delle tre persone
divine con gli uomini, comunione degli uomini tra loro. Riccardo di San Vittore
attraverso il concetto del condilectus ci ha aiutato a comprendere in parte la dinamica
della formazione della comunità di persone divine e umane. Il centro di tale concetto
risiede nel fatto che chi viene amato vorrebbe che anche un’altro potesse sperimentare
tale amore. Così il Padre e il Figlio riversano il proprio amore nello Spirito Santo che
è ricettività assoluta. Così avviene anche tra gli uomini, che inebriati dell’amore
divino, possono amare il prossimo fosse anche il proprio nemico. Per spiegare questo
processo, anche in relazione a quanto detto fin qui rispetto all’amore quale donazione
98
della propria vita ad un altro, sono indispensabili due termini, quello di
compenetrazione e quello di inabitazione. Il primo è riferibile alla Trinità
immanente. Il Padre dà tutto se stesso al Figlio e per tanto è tutto nel Figlio. Il Figlio
dà tutto se stesso al Padre e quindi è tutto nel Padre. Lo Spirito Santo porta in sé
l’essere del Padre e del Figlio e pertanto è tutto nel Padre e nel Figlio. Le tre persone
divine sono reciprocamente compenetrate. L’inabitazione inerisce invece all’attività
ad extra della Trinità. Essa si realizza per lo Spirito Santo, compenetrato della vita del
Padre e del Figlio, che viene a dimorare nel cuore dell’uomo. Per lo Spirito Santo
Cristo stesso vive in me. Ma siccome Cristo è uno con il Padre e lo Spirito Santo, di
fatto è tutta la Trinità che vive in me. La vita immortale dimora nel cuore dell’uomo.
L’amore che ha risuscitato Cristo dai morti, che ha distrutto le porte degli inferi e ci ha
spalancato le porte del cielo, con il battesimo ha preso dimora presso il cuore di ogni
cristiano. Pertanto è fondamentale oggi per ogni cristiano ritornare a dissetarsi alle
acque vive del proprio battesimo. È indispensabile riscoprire il tesoro d’amore
inesauribile che vive in noi per il battesimo. È di assoluta importanza portare questo
amore a chi non lo conosce.
L’amore del Padre, la grazia del Figlio e la comunione dello Spirito Santo
vengono riversate sui cristiani eternamente nell’eucarestia. Nell’eucarestia tutta la
dottrina cristiana sul Dio amore viene compendiata dalle parole di Cristo stesso che
dice:«Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io gli darò è la mia
carne per la vita del mondo» (Gv 6,51). Cristo ci ama e offre tutto se stesso a noi
nell’eucarestia, affinché anche noi possiamo offrire noi stessi per la salvezza del
mondo. Ricorda infatti Benedetto XVI nell’incipit dell’esortazione apostolica
Sacramentum Caritatis che: «La Santissima Eucaristia  è il dono che Gesù Cristo fa di
se stesso, rivelandoci l’amore infinito di Dio per ogni uomo»213. L’eucarestia rivela che
Dio è amore. Questa essenza agapica di Dio non è solo una conoscenza teorica ma un
evento storico che si concretizza ogniqualvolta Cristo dona se stesso all’uomo nel
pane e nel vino che diventano realmente il suo corpo e il suo sangue. Questo
sacramento ha la capacità di «suscitare un processo di trasformazione della realtà, il
cui termine ultimo sarà la trasfigurazione del mondo intero»214, in cui Dio sarà tutto in
tutti (cf. 1 Cor 15,28). Il cristiano, infatti, infiammato di questo amore, ricevuto
nell’eucarestia, diviene egli stesso un fuoco che divampa per il mondo e accende nei
cuori di molti la fiamma dell’amore che è Dio.

213
BENEDETTO XVI, Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis, Citta del Vaticano, (22/02/2007),
citato da: http://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/apost_exhortations/documents/hf_ben-
xvi_exh_20070222_sacramentum-caritatis.html, n.1. 29/10/2020
214
BENEDETTO XVI, Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis, n.11.
99
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104
ABSTRACT

Via Caritatis
105
The definition "God is love" as a way through the history of theological
thought

by Fabiano Rebeggiani

The definition "God is love" in the first letter of John is the highest revelation
of the essence of God that is offered to us in sacred scripture. This revelation, which
was foretold in the Old Testament and which became flesh in the person of Jesus
Christ, has also become a way through the history of theological thought. This path
was defined by Saint Augustine as "Via Caritatis". Various authors throughout the
history of theological thought have reflected on God starting precisely from his agapic
essence.

This study follow the "via caritatis" in the authors who left the most significant
contribution, in order to define the historical development of this doctrine. The author,
after having sought the God-love in the Old Testament and after having demonstrated
how this love was fully incarnated in Jesus Christ who is the imprint of the divine
substance (cf. Heb 1,3), goes on to analyze the first letter of John, offering an exegesis
precisely in the horizon of the agapic essence of God. Following, the author will
address the thought of Augustine, Richard of St. Victor, Sergej Bulgakov and Hans
Urs von Balthasar. The approach that this study will apply is hermeneutical. That is, it
will try to make resound the texts of the authors treated in this historical present.
Furthermore, once the thought of the various authors has been reported, in the last
chapter the author will try to synthesize the concept of God-love, outlining its
fundamental characteristics. The in-depth study of the authors in this section will
touch other various themes connected to the concept of God-Love. These include the
concept of the person in his relational dimension, the concept of existence, the concept
of love as a kenosis of oneself, the common life as a place of knowledge of God-love.

The basic lines that this study intends to follow are those of a "metaphysics of
charity" which bases the reflection on God, no longer on the vague concept of
substance as understood by ancient philosophy, but on the concept of the person in his
fundamental relational identity.

초록
Via Caritatis (사랑의 길)
106
신학적인 성찰의 역사로 길로써 ‘하느님 사랑이십니다’라는 정의에 대한 연구

파비아노 레베쟈니

요한의 첫째 서간에서 "하느님은 사랑이십니다"라는 정의는 성경에서 우리에게


제시되는 하느님의 본질에 대한 최고의 계시이다. 구약 성경에 예언되었고 예수 그리스도의
인격으로 육신이 된 이 계시는 신학적인 성찰의 역사의 길이 되었다. 이 길은 성
아우구스티누스에게서 "Via Caritatis"(사랑의 길)로 정의되었다. 신학적인 성찰의 역사를
통틀어 다양한 저자들은 하느님의 아가페적(agapic) 본질에서 시작하여 하느님을 탐구했다.

이 연구는 하느님의 사랑이라는 교리의 역사적 발전을 살펴보기 위하여 가장 중요한


공헌을 남긴 저자들의 사상을 다룬다. 필자는 구약 성경에서 하느님의 사랑을 탐구하고, 그
사랑이 하느님 본질의 모상이신 (히브 1,3) 예수 그리스도 안에서 어떻게 완전히 육화
되었는지를 제시한다. 그리고 요한의 첫째 서간의, 하느님의 아가페적(agapic) 본질의 집중으로
주석을 제시한다. 이어서 필자는 아우구스티누스, 빅토르의 리카르두스, 세르게이 불가코프 및
한스 우르스 폰 발타사르의 사상에 대해서 이야기한다. 이 연구가 적용할 연구방법은
해석학적이다. 즉, 역사적으로 다루어진 저자들의 글을 현대적으로 성찰하려는 것이다. 그리고
여러 저자들의 사상을 설명하고나서 마지막 장에서 필자는 사랑이신 하느님의 개념을
종합하여 그 근본적인 특징을 설명할 것이다. 여러 저자들에 대한 심층적 연구는 사랑이신
하느님의 개념과 관련된 다른 다양한 주제를 논할 것이다. 여기에는 관계적 차원에서 사람의
개념, 존재의 개념, 자기 자신의 케노시스로서의 사랑의 개념, 하느님 사랑에 대한 지식의
장소로서의 공동 생활이 포함된다.

이 연구가 따르고자 하는 기본 전제는 고대 철학의 모호한 실체의 개념이 아닌 인간의


근본적인 관계적 정체성에 있는 인격(persona)의 개념에 기반한 하느님을 성찰하는 "사랑의
형이상학"이다.

107

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