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Globalizzazione ed economia: Il caso indiano

Il 1991 è decisamente una data simbolo della storia indiana dato che l’Unione Indiana
ha adottato una nuova politica economica denominata come LGP (Liberalisation,
Privatisation and Globalization), nonché tre concetti economici che vengono
promossi nel piano indiano di integrazione nel mercato internazionale, cioè riforme
neoliberali che porteranno all’intervento dello Stato qualora necessario per correggere
imperfezioni nel mercato, contraddistinto invece da un tipo di economia mista dove
lo stato cercava di intervenire sullo spazio economico interno (Indipendenza indiana
1947). Il programma di riforma indiano decise di adottare un metodo più graduale
rispetto che ad una ristrutturazione troppo rapido, come dimostrato dal fatto che
queste politiche economiche saranno continuate successivamente anche dalla
coalizione di governo formatasi dopo le elezioni indiane del 1996 e 1998,
sottolineando come diverse ideologie interverranno nel processo.
Tra i benefici apportate da queste riforme si ricorda
-Aumento del PIL del 5,2% negli anni 80 e del 6% nel periodo post riforme (1992-
1993 e 2001 a 2002)
-Gli afflussi di capitale estero sono aumentati circa di 100M US Dollar negli anni
della nascita delle riforme fino a raggiungere i 5 miliardi di dollari usa solo nel
2000/2001. Senza dimenticare che l’India ha riscontrato un aumento parti al 6.7 % tra
2008-2009 nonostante lo scoppio della crisi economica mondiale a partire dalla metà
del 2008 e un ulteriore crescita del 7.4 nell’anno fiscale successivo.
-Le riserve valutarie hanno superato i54 miliardi di dollari USA. Basti pensare che
durante la crisi della bilancia (1990-1991) questi ammontava a 1 miliardo di dollari.
-Espansione del mercato: - la globalizzazione ha ampliato le dimensioni del mercato,
ha consentito alle business unit indiane di espandere il proprio business in tutto il
mondo. Ora le multinazionali non hanno confini nazionali. Aziende indiane come
Infosys, Tata consulting, Wipro, Tata Steel, reliance ecc., fanno i loro affari in molti
paesi del mondo.
Appunto per questi benefici l’India viene rimarcata come la storia di successo della
globalizzazione, e che la sua posizione di rilevanza promette molto bene per il futuro
grazie alle sua capacità di off-shoring dei servizi informatici. Ciò nonostante, la
povertà continua a persistere massivamente nel Paese, dove la disuguaglianza sia
nazionale che regionali permangono.
I dati della Banca mondiale mostrano che il 44.2% della popolazione stava vivendo
sotto il valore soglia tra il 1994 e il 1998. In aggiunta, la distribuzione del reddito
nella fascia di popolazione che sta al di sopra della soglia di povertà è maggiore della
distribuzione del reddito nella soglia sottostante. La scarsità di dati sulla distribuzione
del reddito rende molto difficile arrivare a una definizione precisa valutazione
dell'impatto della globalizzazione sulla disparità di reddito, ma è chiaro che a esiste
un vasto abisso tra i diversi percettori di reddito . La tabella 1 mostra che dopo le
sette a otto anni di intensa ricerca della globalizzazione, il 20 per cento più ricco dei
percettori di reddito aveva un reddito totale di 165,6 miliardi di dollari, una somma
leggermente superiore al reddito totale (164,4 miliardi di dollari) del 60% più povero
della popolazione. Quindi, la chiave. La domanda prima dell'India è: la
globalizzazione riduce il "divario di povertà" o lo accentua e persino aggravare le
disparità di reddito esistenti?
Una delle massime più familiari nei libri di testo scolastici indiani del 20° secolo era
che l'India era un paese ricco abitato da poveri. Sebbene sia difficile ottenere stime
storiche accurate, sembra che questa affermazione sia più accurata quando si
descrivono gli ultimi 150 anni. Il rapido aumento della popolazione rurale, la lenta
crescita delle imprese economiche al di fuori delle fattorie e la trascurabile infusione
di nuove tecnologie nel settore agricolo, si sono combinati per spingere la maggior
parte della popolazione rurale indiana in un circolo vizioso di sottoccupazione e
povertà durante questo periodo. L'incidenza della povertà, espressa come percentuale
di persone al di sotto della soglia di povertà, è tuttavia diminuita negli ultimi 25 anni,
dal 54,9 per cento nel 1973/74 al 36 per cento nel 1993/94. l'Organizzazione
nazionale per l'indagine campionaria (NSSO), il tasso di povertà ha continuato a
scendere nel periodo fino al 1999/2000. Ciò testimonia i risultati positivi della
globalizzazione, anche se ci sono difficoltà nel confrontare le stime della povertà nel
tempo in India.
Ma se de un lato la Globalizzazione comportati degli effetti positivi, d’altro canto ne
provoca dei negativi, come è successo al settore agricolo indiano. L’agricoltura è la
spina dorsale dell’economia del Paese da sempre, dove non solo ha fornito cibo agli
abitanti, ma anche fornitura DI materie prime alle industrie e al commercio
d’esportazione. Nel 1951 l'agricoltura dava lavoro al 72% della popolazione e
contribuiva per il 59% al prodotto interno lordo. Tuttavia, nel 2001 la popolazione
dipendente dall'agricoltura è arrivata al 58 per cento, mentre la quota dell'agricoltura
nel PIL è scesa drasticamente al 24 per cento e ulteriormente al 22 per cento nel
2006-2007. Ciò ha comportato un abbassamento del reddito pro capite degli
agricoltori e un aumento dell'indebitamento rurale.
La crescita agricola del 3,2 per cento osservata dal 1980 al 1997 è successivamente
decelerata al due per cento. L'approccio all'undicesimo piano quinquennale
pubblicato nel dicembre 2006 affermava che il tasso di crescita del PIL agricolo,
comprese la silvicoltura e la pesca, sarebbe probabilmente inferiore al due per cento
nel periodo del decimo piano. Le ragioni del rallentamento della crescita
dell'agricoltura sono riportate nell'Indagine economica 2006-2007: scarsi
investimenti, squilibrio nell'uso di fertilizzanti, basso tasso di sostituzione dei semi,
un sistema di incentivi distorto e un basso valore aggiunto post-raccolta hanno
continuato a rappresentare un freno per le prestazioni dei settori. Con più della metà
della popolazione che dipende direttamente da questo settore, la bassa crescita
agricola ha serie implicazioni per l'inclusività della crescita. Il numero
delle famiglie rurali senza terra è aumentato dal 35% nel 1987 al 45% nel 1999, oltre
al 55% nel 2005. I contadini sono destinati a morire di fame o al suicidio.
Rispondendo alla discussione di breve durata sull'importazione di grano e
sull'emergenza agraria del 18 maggio 2006, il ministro dell'Agricoltura Sharad Pawar
ha informato il Rajya Sabha che circa 1.00.000 agricoltori si sono suicidati nel
periodo 1993-2003 principalmente a causa dell'indebitamento. Inoltre, la percentuale
di persone che dipendono dall'agricoltura in India è di circa il 60 %, mentre lo stesso
per il Regno Unito è del 2 %, gli Stati Uniti del 2 % e il Giappone del 3 %. I paesi
sviluppati, avendo una bassa percentuale di popolazione in agricoltura, hanno
prontamente adottato la globalizzazione che favorisce maggiormente la crescita dei
settori manifatturiero e dei servizi.
Particolarmente marcato è stato il declino nel tasso di crescita della produzione dei
cereali; la resa di questi raccolti, nell’era delle riforme, si è ridotta infatti a quasi un
terzo rispetto ai traguardi degli anni Ottanta.
Tale situazione deriva, almeno in parte, da un effettivo incremento della produzione
dei raccolti destinati all’esportazione, all’interno di un quadro generale in cui vi è
stata contrazione delle aree destinate alla produzione agricola. Per valutare la gravità
del fenomeno, è importante ricordare che, ad oggi, il settore agricolo, pur
contribuendo al prodotto interno lordo per poco più di un quinto, continua a
impiegare ben il 56% della popolazione.
Che cosa è accaduto, dunque, nel corso dell’ultimo ventennio nel mondo rurale
indiano? In termini generali, ciò a cui si è assistito è un incremento del costo dei
fattori produttivi in agricoltura. Ciò è da porsi in relazione al progressivo ritiro dello
stato dalla sfera pubblica in almeno due ambiti: gli investimenti – in specie per
quanto riguarda la spesa per l’irrigazione, i sussidi sui fertilizzanti, e la più generale
spesa per i programmi di sviluppo rurale – e la finanza – in specie per quanto
riguarda l’avvio di politiche di liberalizzazione e deregolamentazione del settore
bancario.
Per quanto riguarda la sfera finanziaria, in particolare, è importante ricordare che il
progressivo venir meno del ruolo sociale delle banche ha avuto implicazioni
considerevoli nel settore rurale. L’allentamento della normativa che in passato
vincolava le banche a considerare prioritari gli investimenti in agricoltura si è in
effetti tradotto in un progressivo declino del flusso di credito per le attività agricole,
data l’entità del rischio ravvisato in questi investimenti dalle stesse istituzioni
finanziarie. È stato dimostrato come, a fronte di tale situazione, ampi strati di fasce
medio-basse di coltivatori non abbiano avuto come alternativa che il ricorso sempre
più assiduo al credito a usura. Pur a fronte della generale situazione di crisi, tuttavia,
vi sono certamente state componenti sociali che hanno tratto notevole vantaggio dal
nuovo orientamento neoliberista: in primis, gli strati di capitalisti agrari in grado di
competere sul mercato internazionale, che hanno visto ampliarsi i profitti derivanti
dalle coltivazioni destinate all’esportazione. Lo scenario rurale, però, è stato anche
caratterizzato dall’aumento della proporzione di lavoratori senza terra (ad oggi oltre il
40% delle unità familiari rurali) e di coltivatori piccoli e marginali (oltre l’80% dei
coltivatori).
Industria
Quali dinamiche si sono invece dispiegate nel settore industriale?A differenza
dell’agricoltura, il settore industriale non ha registrato prolungate condizioni di crisi
nell’ultimo ventennio. D’altra parte, le politiche di liberalizzazione,
deregolamentazione e privatizzazione del settore hanno avuto esiti complessi; nel
complesso, il tasso positivo di crescita media annua registrato nel periodo successivo
alla liberalizzazione si è attestato su una media del 7%, non lontana dagli obiettivi
conseguiti negli anni Ottanta.
Con l’incedere della crisi globale, a una flessione nel 2008, si è sostituita una nuova
fase ascendente nel 2009. In effetti, già a partire dal 2000 la performance del settore
industriale è stata caratterizzata dall’avvicendarsi di periodi di crisi e di ripresa. È
interessante notare, poi, come la percentuale di popolazione attiva impiegata
nell’industria sia soltanto leggermente variata (passando da poco più dell’11% nei
primi anni Ottanta, al 16% del periodo 2004-05).
Appare dunque chiaro che, ad oggi, non si è assistito al consolidarsi di traiettorie di
crescita e di impiego decisamente più robuste rispetto a quelle registrate negli anni
Ottanta. Significativa è la differenziazione che ha preso corpo nell’ultimo ventennio
nell’universo del capitalismo indiano.
A ben guardare, la grande industria è stata capace di trarre notevole vantaggio dal
processo di deregolamentazione e privatizzazione dell’economia: essa ha potuto
ampliare la propria produzione in settori prima riservati alla piccola/media industria o
allo stato, traendo al contempo importanti benefici anche dalla più agile interazione
con il capitale straniero.
D’altra parte, i piccoli produttori hanno invece mediamente incontrato maggiori
difficoltà nel competere con la grande industria in settori che prima erano loro
riservati, nonché nuovi ostacoli legati al ridursi delle opportunità di credito agevolato.
Se si pensa che, tradizionalmente, la piccola/media industria si è rivelata in grado di
assorbire più lavoro rispetto alla grande industria, si capiranno anche le
preoccupazioni oggi espresse da molti studiosi riguardo alla crisi di questo settore.
Servizi
Visti gli andamenti dei due settori menzionati, non sorprenderà che la crescita indiana
sia trainata da quello dei servizi. Esso è passato da una percentuale di crescita media
annua di poco superiore al 7% negli anni Ottanta, a oltre l’8% nel decennio
successivo, superando poi il 10% dal 2000.
Ad oggi tale settore concorre alla formazione di oltre il 50% del prodotto interno
lordo e impiega quasi il 30% della popolazione attiva .
In effetti, il terziario è un universo piuttosto eterogeneo, in cui convivono attività
caratterizzate da livelli di dinamismo anche profondamente diversi. Nell’ambito del
settore, a un estremo troviamo le attività ad alta intensità di conoscenza, la cui
crescita mirabile – trainata dalla domanda del mercato internazionale – costituisce
forse l’aspetto più noto del processo di globalizzazione in India.

È altresì facile immaginare che le importanti opportunità di impiego generate da


questo segmento dei servizi interessino quella parte della popolazione che può
vantare livelli di istruzione elevata, all’interno di un paese in cui il tasso di
analfabetismo sfiora a tutt’oggi il 40%. L’universo dei servizi è poi composto da
attività quali commercio e ristorazione, il cui dinamismo, nell’ultimo ventennio, non
ha conosciuto variazioni significative. All’altro estremo del mondo del terziario,
troviamo poi un vasto insieme di attività a bassa produttività (piccolo commercio,
attività familiari legate al settore dei trasporti, in altre parole varie forme di auto-
impiego), ad alta intensità di lavoro e del tutto informali. Si tratta certamente di un
segmento del settore posto ai margini dello scenario socioeconomico indiano, ma
decisamente non marginale, poiché include complessivamente circa il 50% delle
attività dei servizi.
La forte incidenza di quest’ultimo tipo di attività è da porsi in relazione con la
difficoltà di generare diverse, e migliori, opportunità di impiego per la crescente
manodopera espulsa dal processo produttivo nelle campagne, o spinta ai suoi margini.
In questo senso, la traiettoria di crescita indiana, pur caratterizzata da elementi di
importante dinamismo, rivela tuttavia una tendenza preoccupante. È stato fatto notare
come in effetti, a differenza della Cina o di altri paesi dell’Est e Sud-est asiatico, la
struttura economica dell’India sia assimilabile a quella tipica dei paesi a basso
reddito, in cui il problema dell’impiego di una forza lavoro agricola colpita da
allarmanti livelli di sottoccupazione rimane a tutt’oggi irrisolto.
Ciò non significa negare che l’attuale traiettoria di crescita stia generando importanti
opportunità per alcune fasce della popolazione; tuttavia, appare chiaro che i benefici
della crescita sono lontani dal toccare i bisogni dei più. Certamente tale quadro
diviene ben più articolato quando si prenda in considerazione la mappa delle
differenze territoriali all’interno dell’Unione. Ci proponiamo di farlo nel prossimo
numero.

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