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Università degli Studi di Genova

DIME
Dipartimento di Ingegneria meccanica, energetica,
gestionale e dei trasporti

Sicurezza degli impianti industriali

Decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81


Titoli dall’1 al XIII (eccetto il titolo IV)
Testo Unico: D.Lgs. 81/2008

Nel diritto italiano per testo unico s’intende una raccolta di


norme che disciplinano una determinata materia. Con tale
raccolta normativa su un determinato argomento di diritto, si
sostituisce e si coordina una moltitudine di provvedimenti
legislativi che, accavallandosi in sequenza, conducevano ad
un’interpretazione poco chiara nell’applicazione.

Il testo unico ha quindi il pregio di accomunare in un solo


corpo testuale la regolamentazione su una determinata
materia, evitando così al destinatario (datore di lavoro,
avvocato, giudice o lavoratore), la possibilità di incorrere in
errori dovuti alla copiosità di norme sparse per il sistema
legislativo.
Testo Unico D.Lgs. 81/2008

Il D.Lgs 81/08 è un decreto molto ampio e complesso, è costituito da 306


articoli, 13 Titoli e 51 Allegati. Sostituisce ed abroga numerose norme
precedenti.

 Titolo I: 1-61, Principi Comuni


 Titolo II: 62-68, Luoghi Lavoro
 Titolo III: 69-87, Uso delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di
protezione individuale
 Titolo IV: 88-160, Cantieri temporanei o mobili
 Titolo V: 161-166, Segnaletica di salute e sicurezza sul lavoro
 Titolo VI: 167-171, Movimentazione manuale dei carichi
 Titolo VII: 172-179, Attrezzature munite di videoterminale
 Titolo VIII: 180-220, Agenti fisici
 Titolo IX: 221-265, Sostanze pericolose
 Titolo X: 266-286, Esposizione ad agenti biologici
 Titolo XI: 287-297, Protezione da atmosfere esplosive
 Titolo XII: 298-303, Disposizioni in materia penale e di procedura penale
 Titolo XIII: 304-306, Norme transitorie e finali
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Il presente file descrive, in modo sintetico, i titoli
contenuti nel Testo Unico, eccetto il titolo IV
(Cantieri temporanei e mobili) descritto in un file a
parte.
Titolo I: Principi Comuni
Gli attori della sicurezza: i soggetti obbligati

Gli attori della sicurezza devono essere individuati in ottemperanza al:


Principio di Effettività
L’individuazione dei destinatari delle norme per la prevenzione degli
infortuni sul lavoro va effettuata, in concreto, tenendo conto delle
mansioni e delle attività di fatto svolte da ciascun soggetto, anche di
propria iniziativa.
Gli attori (definiti all’art. 2)sono:
 Il Datore di lavoro
 Il Dirigente
 Il Preposto
 I Lavoratori
 Il responsabile e gli addetti al Servizio Prevenzione e Protezione (RSPP
e ASPP)
 I Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS)
 Il medico competente (MC)
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Il Datore di lavoro

E’ il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il


lavoratore o, comunque il soggetto che, secondo il tipo e
l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore
presta la propria attività, ha la responsabilità
dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva
in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa
(Art. 2,c.1 lett.b).

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Il Datore di lavoro

Obblighi non delegabili:


a) Designare il Rappresentante del Servizio
Prevenzione e sicurezza;
b) Valutare tutti i rischi per la salute e sicurezza ed
elaborare il Documento di Valutazione dei Rischi.

Obblighi delegabili:
Tutti gli altri previsti dalla normativa vigente.

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Il Dirigente

E’ la persona che, in ragione delle competenze


professionali e dei poteri gerarchici e funzionali adeguati
alla natura dell’incarico conferitogli, attua le direttive
del datore di lavoro organizzando l’attività
lavorativa e vigilando su di essa (Art.2,c.1 lett.d).

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Il Dirigente

Obblighi iure proprio:


a) Tutti quelli previsti dall’art. 18 del T.U. e dalle altre
norme vigenti.
Altri obblighi:
a) Quelli trasmessi con la delega di funzioni.

 Delega di funzioni di tipo “organizzativo-gestionale”

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Il Preposto

Persona che, in ragione delle competenze professionali e


nei limiti dei poteri gerarchici e funzionali adeguati alla
natura dell’incarico conferitogli, sovrintende
all’attività lavorativa e garantisce l’attuazione
delle direttive ricevute, controllandone la
corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed
esercitando un funzionale potere di iniziativa
(art.2, c.1 lett.e).

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Preposti

Obblighi:
a) sovrintendere e vigilare sulla osservanza da parte dei singoli
lavoratori dei loro obblighi di legge, nonché delle disposizioni
aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e di uso dei
mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione
individuale messi a loro disposizione e, in caso di persistenza della
inosservanza, informare i loro superiori diretti;
b) verificare affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate
istruzioni accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e
specifico;
c) richiedere l'osservanza delle misure per il controllo delle
situazioni di rischio in caso di emergenza e dare istruzioni
affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave, immediato e
inevitabile, abbandonino il posto di lavoro o la zona pericolosa;

Continua
12
Preposti

d) informare il più presto possibile i lavoratori esposti al rischio di un


pericolo grave e immediato circa il rischio stesso e le
disposizioni prese o da prendere in materia di protezione;
e) astenersi, salvo eccezioni debitamente motivate, dal richiedere ai
lavoratori di riprendere la loro attività in una situazione di lavoro in
cui persiste un pericolo grave ed immediato;
f) segnalare tempestivamente al datore di lavoro o al dirigente sia le
deficienze dei mezzi e delle attrezzature di lavoro e dei
dispositivi di protezione individuale, sia ogni altra condizione di
pericolo che si verifichi durante il lavoro, delle quali venga a
conoscenza sulla base della formazione ricevuta;
g) frequentare appositi corsi di formazione secondo quanto
previsto dall'articolo 37.

 Delega di funzioni di tipo esecutivo.

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Il Lavoratore

Persona che, indipendentemente dalla tipologia


contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito
dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o
privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di
apprendere un mestiere, un’arte o una professione,
esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari.

Applicabilità della norma a tutte le tipologie di lavoratori.

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Gli altri soggetti

Responsabile del Servizio di Prevenzione e


Protezione è la persona in possesso delle capacità e dei
requisiti professionali di cui all’art. 32 designata dal datore di
lavoro, a cui risponde, per coordinare il servizio di
prevenzione e protezione dai rischi.
Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è la
persona eletta o designata per rappresentare i lavoratori per
quanto concerne gli aspetti della salute e della sicurezza
durante il lavoro;
Medico competente: medico in possesso di uno dei titoli
e dei requisiti formativi di cui all’art. 38, che collabora con il
datore di lavoro ai fini della valutazione dei rischi ed è
nominato dallo stesso per effettuare la sorveglianza sanitaria
e per tutti gli altri compiti di cui al presente decreto.

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Informazione, Formazione e Addestramento

Informazione: complesso delle attività dirette a fornire


conoscenze utili alla identificazione, alla riduzione e alla
gestione dei rischi in ambiente di lavoro .
Formazione: processo educativo attraverso il quale
trasferire ai lavoratori ed ad altri soggetti del sistema di
prevenzione e protezione aziendale conoscenze e
procedure utili alla acquisizione di competenze per lo
svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e
alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi.
Addestramento:complesso delle attività dirette a fare
apprendere ai lavoratori l’uso corretto delle attrezzature,
macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche DPI
(Dispositivi di Protezione Individuale), e le procedure di
lavoro.

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Informazione, Formazione e Addestramento

Si può dire, riassumendo in modo sintetico, che gli


obiettivi sono che il soggetto destinatario debba
acquisire:

• con l’informazione il “sapere”;


• con la formazione il “saper essere”;
• con l’addestramento il “saper fare”.

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Informazione ai lavoratori

Oggetto:
a) sui rischi per la salute e sicurezza sul lavoro connessi alla attività
dell’impresa in generale;
b) sulle procedure che riguardano il primo soccorso, la lotta
antincendio, l'evacuazione dei luoghi di lavoro;
c) sui nominativi dei lavoratori incaricati di applicare le misure
relative alle procedure di cui al punto b;
d) sui nominativi del responsabile e degli addetti del servizio
di prevenzione e protezione e del medico competente;
e) sui rischi specifici cui e' esposto in relazione all'attività svolta, le
normative di sicurezza e le disposizioni aziendali in materia;
f) sui pericoli connessi all'uso delle sostanze e dei preparati
pericolosi sulla base delle schede dei dati di sicurezza previste dalla
normativa vigente e dalle norme di buona tecnica;
g) sulle misure e le attività di protezione e prevenzione
adottate.

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Informazione ai lavoratori

Il contenuto dell’ informazione deve essere facilmente


comprensibile per i lavoratori.

Ove l’informazione riguardi lavoratori immigrati, essa


avviene previa verifica della comprensione della lingua
utilizzata nel percorso informativo.

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Formazione dei lavoratori

Oggetto:

a) concetti di rischio, danno, prevenzione, protezione,


organizzazione della prevenzione aziendale, diritti e
doveri dei vari soggetti aziendali, organi di vigilanza,
controllo, assistenza;
b) rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle
conseguenti misure e procedure di prevenzione e
protezione caratteristici del settore o comparto di
appartenenza dell'azienda.

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Formazione dei lavoratori

Deve avvenire:

a) al momento di costituzione del rapporto di lavoro o


all'inizio dell'utilizzazione qualora si tratti di somministrazione
di lavoro;
b) nel caso di trasferimento o cambiamento di mansioni;
c) nell’ipotesi di introduzione di nuove attrezzature di
lavoro o di nuove tecnologie, di nuove sostanze e preparati
pericolosi.

L'addestramento viene effettuato da persona esperta e sul


luogo di lavoro.

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Documento di valutazione dei rischi (1)

Deve avere data certa e contenere:

a) una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la


sicurezza e la salute durante l'attività lavorativa, nella quale
siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa;
b) l'indicazione delle misure di prevenzione e di protezione
attuate e dei dispositivi di protezione individuali adottati.
c) il programma delle misure ritenute opportune per
garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza;

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Documento di valutazione dei rischi (2)

d) l'individuazione delle procedure per l'attuazione delle


misure da realizzare, nonché dei ruoli dell'organizzazione
aziendale che vi debbono provvedere, a cui devono essere
assegnati unicamente soggetti in possesso di adeguate
competenze e poteri;
e) l'indicazione del nominativo del responsabile del servizio di
prevenzione e protezione, del rappresentante dei lavoratori
per la sicurezza o di quello territoriale e del medico
competente che ha partecipato alla valutazione del rischio;
f) l'individuazione delle mansioni che eventualmente
espongono i lavoratori a rischi specifici che richiedono una
riconosciuta capacità professionale, specifica esperienza,
adeguata formazione e addestramento.

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Documento di valutazione dei rischi (3)

Va rielaborato quando:

a) ci sono modifiche significative del processo


produttivo e/o organizzazione del lavoro;

b) evoluzione della tecnica;

c) a seguito di infortuni significativi;

d) su segnalazione della sorveglianza sanitaria.

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Le sanzioni

L’art. 55 definisce le sanzioni per il datore di lavoro e il


dirigente
L’art. 56 definisce le sanzioni per il preposto
L’art. 57 definisce le sanzioni per i progettisti, i fabbricanti i
fornitori e gli installatori
L’art. 58 definisce le sanzioni per il medico competente
L’art. 59 definisce le sanzioni per i lavoratori
L’art. 60 definisce le sanzioni per i componenti dell'impresa
familiare, i lavoratori autonomi, i piccoli imprenditori e i soci
delle società semplici operanti nel settore agricolo
Titolo II: Luoghi di lavoro
Luoghi di lavoro

Il titolo II (artt. 62-68) prende in considerazione i luoghi di


lavoro e rimanda in larga parte all’allegato IV che ne specifica i
requisiti essenziali.

Viene ampliata la definizione di luogo di lavoro (art. 62), gli


obblighi di pulizia e manutenzione (art. 64), le possibilità di
lavorare nei locali sotterranei o semisotterranei (art. 65) e in
ambienti sospetti di inquinamento come ad esempio all’interno
di cisterne (art. 66); l’art. 67 definisce gli obblighi di notifica
all’organo di vigilanza; l’art. 68 riporta le sanzioni.
Luoghi di lavoro

Definizioni (art.62)
Si intendono per luoghi di lavoro:
a) i luoghi destinati a ospitare posti di lavoro, ubicati all'interno
dell'azienda o dell'unita' produttiva, nonché ogni altro luogo
di pertinenza dell'azienda o dell'unita' produttiva accessibile
al lavoratore nell'ambito del proprio lavoro;
b) i campi, i boschi e altri terreni facenti parte di un'azienda
agricola o forestale.
Le disposizioni di cui al presente titolo non si applicano:
a) ai mezzi di trasporto;
b) ai cantieri temporanei o mobili;
c) alle industrie estrattive;
d) ai pescherecci.
Luoghi di lavoro

Requisiti di salute e di sicurezza (art. 63)


I. luoghi di lavoro devono essere conformi ai requisiti indicati nell'allegato IV.
2. I luoghi di lavoro devono essere strutturati tenendo conto, se del caso, dei
lavoratori disabili.
3. L'obbligo di cui al comma 2 vige in particolare per le porte, le vie di
circolazione, le scale, le docce, i gabinetti ed i posti di lavoro utilizzati ed
occupati direttamente da lavoratori disabili.
4. La disposizione di cui al comma 2 non si applica ai luoghi di lavoro già utilizzati
prima del 1° gennaio 1993; in ogni caso devono essere adottate misure idonee
a consentire la mobilità e l'utilizzazione dei servizi sanitari e di igiene
personale.
5. Ove vincoli urbanistici o architettonici ostino agli adempimenti di cui al comma
1 il datore di lavoro, previa consultazione del rappresentante dei lavoratori
per la sicurezza e previa autorizzazione dell'organo di vigilanza
territorialmente competente, adotta le misure alternative che garantiscono un
livello di sicurezza equivalente.
6. I requisiti di sicurezza e di salute relativi a campi, boschi e altri terreni facenti
parte di una azienda agricola o forestale, sono specificati nel punto 7
dell'allegato IV.
Luoghi di lavoro

Obblighi del datore di lavoro (art.64)


Il datore di lavoro provvede affinché:
a) i luoghi di lavoro siano conformi ai requisiti di cui all'articolo 63,
commi 1, 2 e 3;
b) le vie di circolazione interne o all'aperto che conducono a uscite o
ad uscite di emergenza e le uscite di emergenza siano sgombre allo
scopo di consentirne l'utilizzazione in ogni evenienza;
c) i luoghi di lavoro, gli impianti e i dispositivi vengano sottoposti a
regolare manutenzione tecnica e vengano eliminati, quanto più
rapidamente possibile, i difetti rilevati che possano pregiudicare la
sicurezza e la salute dei lavoratori;
d) i luoghi di lavoro, gli impianti e i dispositivi vengano sottoposti a
regolare pulitura, onde assicurare condizioni igieniche adeguate;
e) gli impianti e i dispositivi di sicurezza, destinati alla prevenzione o
all'eliminazione dei pericoli, vengano sottoposti a regolare
manutenzione e al controllo del loro funzionamento.
Luoghi di lavoro

Articolo 66
Lavori in ambienti sospetti di inquinamento
I. È vietato consentire l'accesso dei lavoratori in
pozzi neri, fogne, camini, fosse, gallerie e in generale
in ambienti e recipienti, condutture, caldaie e simili, ove sia
possibile il rilascio di gas deleteri, senza che sia stata
previamente accertata l'assenza di pericolo per la vita e
l'integrità fisica dei lavoratori medesimi, ovvero senza previo
risanamento dell'atmosfera mediante ventilazione o altri
mezzi idonei. Quando possa esservi dubbio sulla pericolosità
dell'atmosfera, i lavoratori devono essere legati con cintura di
sicurezza, vigilati per tutta la durata del lavoro e, ove occorra,
forniti di apparecchi di protezione. L'apertura di accesso a
detti luoghi deve avere dimensioni tali da poter consentire
l'agevole recupero di un lavoratore privo di sensi.
All’art. 68 sono previste le sanzioni per il datore di lavoro.
Titolo III: Uso delle attrezzature
di lavoro e dei dispositivi di
protezione individuale
Uso delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di
protezione individuale

Il titolo III (artt. 69-87) prende in considerazione l’utilizzo delle


attrezzature di lavoro, dei dispositivi di protezione individuale e
degli impianti ed apparecchiature elettriche.
Viene ribadito che:
Il datore di lavoro è comunque responsabile della sicurezza di
un’attrezzatura di lavoro anche se “marcata CE” (la marcatura CE
non solleva l’utilizzatore da eventuali vizi palesi);
La scelta della necessità e della relativa idoneità dei dispositivi di
protezione individuale (denominati DPI) è sempre e comunque
obbligo del datore di lavoro in occasione della valutazione dei
rischi. I DPI rimangono comunque sempre “l’ultima scelta” del
datore di lavoro in quanto deve privilegiare sempre, ove possibile,
altri sistemi di prevenzione e protezione.
Vengono dedicati 6 articoli (art. 80-86) alla protezione del rischio
da impianti ed apparecchiature elettriche, maggiore attenzione
rispetto al D.Lgs 626/94
Uso delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di
protezione individuale

Definizioni (art. 69)


Agli effetti delle disposizioni di cui al presente titolo si intende per:
a) attrezzatura di lavoro: qualsiasi macchina, apparecchio, utensile o
impianto destinato ad essere usato durante il lavoro;
b) uso di una attrezzatura di lavoro: qualsiasi operazione lavorativa
connessa ad una attrezzatura di lavoro, quale la messa in servizio
o fuori servizio, l'impiego, il trasporto, la riparazione, la
trasformazione, la manutenzione, la pulizia, il montaggio, lo
smontaggio;
c) zona pericolosa: qualsiasi zona all'interno ovvero in prossimità di
una attrezzatura di lavoro nella quale la presenza di un lavoratore
costituisce un rischio per la salute o la sicurezza dello stesso;
d) lavoratore esposto: qualsiasi lavoratore che si trovi interamente o
in parte in una zona pericolosa;
e) operatore: il lavoratore incaricato dell'uso di una attrezzatura di
lavoro.
I Dispositivi di Protezione Individuale: DPI

Per Dispositivo di Protezione Individuale (DPI) ai sensi


dell’art.76 del D.Lgs 81/08 si intende :

qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal


lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi
suscettibili di minacciare la sicurezza o la salute durante il lavoro,
nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo.

Ogni altro normale indumento di lavoro o attrezzatura che


non sia specificatamente adibita alla protezione del lavoratore
non è un DPI.

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I Dispositivi di Protezione Individuale: DPI

I DPI devono essere impiegati quando i rischi non possono


essere eliminati o ridotti in maniera sufficiente dalla
prevenzione, dall’organizzazione del lavoro e dai dispositivi di
protezione collettiva.
I DPI non possono essere alternativi ai sistemi di prevenzione
tecnicamente fattibili, ma solo integrativi per i rischi residui o
occasionali, quali ad esempio la manutenzione straordinaria.

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I Dispositivi di Protezione Individuale: DPI

I DPI per essere a norma di legge devono soddisfare i seguenti


requisiti generali :
► possesso della marcatura CE e di tutte le certificazioni
previste;
► presenza di istruzioni di utilizzo chiare, in lingua italiana o
comunque in lingua comprensibile dal lavoratore;
► adeguatezza del DPI al rischio da prevenire (si deve evitare,
in sostanza, che il DPI sia un rischio maggiore di quello che
deve prevenire);
► adeguatezza del DPI alle esigenze ergonomiche e di salute
del lavoratore.

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I Dispositivi di Protezione Individuale: DPI

In particolare, i DPI devono rispettare i seguenti requisiti :

• notizie sulle protezioni fornite


• limiti d’uso
REQUISITI INFORMATIVI • tempo utile prima della scadenza
• istruzioni per l’uso, manutenzione, pulizia
• efficienza protettiva
• durata della protezione
• data di scadenza
REQUISITI DI SICUREZZA • innocuità
• assenza di rischi causati dallo stesso DPI
• solidità
• costo unitario
REQUISITI ECONOMICI • prevedibile durata ed efficienza
• disagio ridotto
• limitazione effetti di impedimento
REQUISITI PRESTAZIONALI • funzionalità pratica
• compatibilità con altri DPI (utilizzo
contemporaneo)
• leggerezza
• adattamenti alla morfologia
COMFORT • dimensioni limitate
• trasportabilità
• comfort termico
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I Dispositivi di Protezione Individuale: DPI
Il Responsabile dell’Organizzazione di Volontariato ha i
seguenti obblighi:

► Individuare, sulla base della valutazione dei rischi e dei DPI


disponibili, i DPI più idonei a proteggere i volontari;
► Fornire i DPI con marchio CE;
► Fissare le condizioni d’uso e manutenzione ;
► Documentare la distribuzione e la verifica dei DPI;
► Verificare che le istruzioni d’uso siano in lingua
comprensibile;
► Verificare il corretto utilizzo dei DPI in base alle istruzioni
fornite;
► Garantire adeguata informazione sull’uso dei DPI;
► Aggiornare la scelta dei DPI in funzione della variazione dei
rischi.
39
I Dispositivi di Protezione Individuale: DPI

I Volontari hanno i seguenti obblighi:

► devono utilizzare i DPI messi a loro disposizione, in


base alle modalità fornite nel corso di formazione,
informazione ed addestramento;
► devono avere cura dei DPI, senza modificarne le
caratteristiche di propria iniziativa;
► devono segnalare prontamente al Responsabile
dell’Organizzazione di Volontariato qualunque rottura
o difetto dei DPI messi a loro disposizione;
► devono attenersi alle procedure riguardo al ritiro e la
riconsegna dei DPI.

40
I Dispositivi di Protezione Individuale: DPI

Suddivisione dei DPI per tipologia:

► Dispositivi di protezione della testa


► Dispositivi di protezione dell'udito
► Dispositivi di protezione degli occhi e del viso
► Dispositivi di protezione delle vie respiratorie
► Dispositivi di protezione delle mani e delle braccia
► Dispositivi di protezione dei piedi e delle gambe
► Dispositivi di protezione della pelle
► Dispositivi di protezione del tronco e dell'addome
► Dispositivi dell'intero corpo
► Indumenti di protezione sistemi anticaduta
I Dispositivi di Protezione Individuale: DPI

I lavoratori utilizzano i DPI messi a loro disposizione


conformemente all'informazione e alla formazione
ricevute e all'addestramento eventualmente organizzato
ed espletato.
I lavoratori:
a) provvedono alla cura dei DPI messi a loro disposizione;
b) non vi apportano modifiche di propria iniziativa.
Al termine dell'utilizzo i lavoratori seguono le procedure
aziendali in materia di riconsegna dei DPI.
I lavoratori segnalano immediatamente al datore di lavoro
o al dirigente o al preposto qualsiasi difetto o
inconveniente da essi rilevato nei DPI messi a loro
disposizione.
Impianti ed apparecchiature elettriche

Obblighi del datore di lavoro (art.80)


1. Il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché i materiali, le
apparecchiature e gli impianti elettrici messi a disposizione dei
lavoratori siano progettati, costruiti, installati, utilizzati e mantenuti in
modo da salvaguardare i lavoratori da tutti i rischi di natura elettrica
ed in particolare quelli derivanti da:
a) contatti elettrici diretti;
b) contatti elettrici indiretti;
c) innesco e propagazione di incendi e di ustioni dovuti a
sovratemperature pericolose, archi elettrici e radiazioni;
d) innesco di esplosioni;
e) fulminazione diretta ed indiretta;
f) sovratensioni;
g) altre condizioni di guasto ragionevolmente prevedibili.
Continua
Impianti ed apparecchiature elettriche

Obblighi del datore di lavoro (art. 80)

A tale fine il datore di lavoro esegue una valutazione dei rischi di cui
al precedente comma 1, tenendo in considerazione:
a) le condizioni e le caratteristiche specifiche del lavoro, ivi
comprese eventuali interferenze;
b) i rischi presenti nell'ambiente di lavoro;
c) tutte le condizioni di esercizio prevedibili.
A seguito della valutazione del rischio elettrico il datore di lavoro
adotta le misure tecniche ed organizzative necessarie ad eliminare o
ridurre al minimo i rischi presenti, ad individuare i dispositivi di
protezione collettivi ed individuali necessari alla conduzione in
sicurezza del lavoro ed a predisporre le procedure di uso e
manutenzione atte a garantire nel tempo la permanenza del livello di
sicurezza raggiunto con l'adozione delle misure di cui al comma 1.
Impianti ed apparecchiature elettriche

Requisiti di sicurezza (art.81)


1. Tutti i materiali, i macchinari e le apparecchiature, nonché le
installazioni e gli impianti elettrici ed elettronici devono essere
progettati, realizzati e costruiti a regola d'arte.
2. Ferme restando le disposizioni legislative e regolamentari di
recepimento delle direttive comunitarie di prodotto, i materiali, i
macchinari, le apparecchiature, le installazioni e gli impianti di cui al
comma precedente, si considerano costruiti a regola d'arte se sono
realizzati secondo le norme di buona tecnica contenute nell'allegato
IX.
3. Le procedure di uso e manutenzione devono essere predisposte
tenendo conto delle disposizioni legislative vigenti, delle indicazioni
contenute nei manuali d'uso e manutenzione delle apparecchiature
ricadenti nelle direttive specifiche di prodotto e di quelle indicate nelle
norme di buona tecnica contenute nell'allegato IX.
Impianti ed apparecchiature elettriche

Protezione di edifici, impianti strutture ed


attrezzature (art. 85)
1. Il datore di lavoro provvede affinché gli edifici, gli impianti,
le strutture, le attrezzature, siano protetti dai pericoli
determinati dall'innesco elettrico di atmosfere
potenzialmente esplosive per la presenza o sviluppo di gas,
vapori, nebbie o polveri infiammabili, o in caso di
fabbricazione, manipolazione o deposito di materiali esplosivi.
2. Le protezioni di cui al comma 1 si realizzano utilizzando le
specifiche disposizioni di cui al presente decreto legislativo e
le pertinenti norme di buona tecnica di cui all'allegato IX.

Nell’art. 87 sono definite le sanzioni a carico del datore di


lavoro
Titolo V: Segnaletica di salute
e sicurezza sul lavoro
Segnaletica di salute e sicurezza sul lavoro

1. Il presente titolo stabilisce le prescrizioni per la segnaletica


di sicurezza e di salute sul luogo di lavoro.

2. Le disposizioni del presente decreto non si applicano alla


segnaletica impiegata per regolare il traffico stradale,
ferroviario, fluviale, marittimo ed aereo.
Segnaletica di salute e sicurezza sul lavoro

Definizioni (art. 162)


Ai fini del presente titolo si intende per:
a) segnaletica di sicurezza e di salute sul luogo di lavoro, di seguito indicata
«segnaletica di sicurezza»: una segnaletica che, riferita ad un oggetto, ad una
attività o ad una situazione determinata, fornisce una indicazione o una
prescrizione concernente la sicurezza o la salute sul luogo di lavoro, e che
utilizza, a seconda dei casi, un cartello, un colore, un segnale luminoso o
acustico, una comunicazione verbale o un segnale gestuale;
b) segnale di divieto: un segnale che vieta un comportamento che potrebbe
far correre o causare un pericolo;
c) segnale di avvertimento: un segnale che avverte di un rischio o pericolo;
d) segnale di prescrizione: un segnale che prescrive un determinato
comportamento;
e) segnale di salvataggio o di soccorso: un segnale che fornisce indicazioni
relative alle uscite di sicurezza o ai mezzi di soccorso o di salvataggio;
f) segnale di informazione: un segnale che fornisce indicazioni diverse da
quelle specificate alle lettere da b) ad e);
g) cartello: un segnale che, mediante combinazione di una forma
geometrica, di colori e di un simbolo o pittogramma, fornisce una
indicazione determinata, la cui visibilità e' garantita da una illuminazione di
intensità sufficiente;
Continua
Segnaletica di salute e sicurezza sul lavoro

h) cartello supplementare: un cartello impiegato assieme ad un


cartello del tipo indicato alla lettera g) e che fornisce indicazioni
complementari;
i) colore di sicurezza: un colore al quale e' assegnato un significato
determinato;
l) simbolo o pittogramma: un'immagine che rappresenta una
situazione o che prescrive un determinato comportamento, impiegata
su un cartello o su una superficie luminosa;
m) segnale luminoso: un segnale emesso da un dispositivo costituito
da materiale trasparente o semitrasparente, che e‘ illuminato
dall'interno o dal retro in modo da apparire esso stesso come una
superficie luminosa;
n) segnale acustico: un segnale sonoro in codice emesso e diffuso da
un apposito dispositivo, senza impiego di voce umana o di sintesi
vocale;
o) comunicazione verbale: un messaggio verbale predeterminato, con
impiego di voce umana o di sintesi vocale;
p) segnale gestuale: un movimento o posizione delle braccia o delle
mani in forma convenzionale per guidare persone che effettuano
manovre implicanti un rischio o un pericolo attuale per i lavoratori.
Segnaletica di salute e sicurezza sul lavoro

Informazione e formazione (art. 164)


Il datore di lavoro provvede affinché:
a) il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e i lavoratori siano
informati di tutte le misure da adottare riguardo alla segnaletica di
sicurezza impiegata all'interno dell'impresa ovvero dell'unita'
produttiva;
b) i lavoratori ricevano una formazione adeguata, in particolare sotto
forma di istruzioni precise, che deve avere per oggetto
specialmente il significato della segnaletica di sicurezza, soprattutto
quando questa implica l'uso di gesti o di parole, nonché i
comportamenti generali e specifici da seguire.

L’art. 165 descrive le sanzioni a carico del datore di lavoro e


del dirigente, l’art. 166 le sanzioni a carico del preposto
Titolo VI: Movimentazione
manuale dei carichi
Movimentazione manuale dei carichi

Nel titolo VI (artt. 167-171, allegato XXXIII) le variazioni


significative rispetto alla precedente normativa inserita
all’interno del D.Lgs 626/94 sono le seguenti:
Non vengono più citati “limiti di sollevamento” (i
“famosi” 30 kg). Una errata interpretazione del limite dei 30
kg faceva ritenere il datore di lavoro esente dal rischio (e
dall’obbligo di una valutazione approfondita) semplicemente se
verificava all’interno della propria azienda l’assenza di
movimentazione manuale di carichi superiore ai 30 kg (uomini)
e 20 kg (donne). In realtà la definizione di carico è “tutto ciò che
supera i 3 kg”, oltre all’obbligo di dover considerare tutta una
altra serie di variabili (ingombro, eccentricità, presa……). Il
nuovo Testo Unico ribadisce con maggiore chiarezza la necessità
di procedere a valutazioni analitiche approfondite in tutti i casi
in cui il rischio non sia palesemente trascurabile.
Viene ufficialmente introdotta (art 167) anche la patologia da
sovraccarico biomeccanico, per cui diventa necessaria una
valutazione approfondita del rischio da movimenti ripetitivi
ogni qualvolta il rischio non sia palesemente trascurabile
(vedere slide successiva)
Movimentazione manuale dei carichi

Campo di applicazione (art. 167)

1. Le norme del presente titolo si applicano alle attività lavorative di


movimentazione manuale dei carichi che comportano per i
lavoratori rischi di patologie da sovraccarico biomeccanico, in
particolare dorso-lombari.
2. Ai fini del presente titolo, s'intendono:
a) movimentazione manuale dei carichi: le operazioni di trasporto o di
sostegno di un carico ad opera di uno o più lavoratori, comprese le
azioni del sollevare, deporre, spingere, tirare, portare o spostare un
carico, che, per le loro caratteristiche o in conseguenza delle
condizioni ergonomiche sfavorevoli, comportano rischi di patologie
da sovraccarico biomeccanico, in particolare dorso-lombari;
b) patologie da sovraccarico biomeccanico: patologie delle strutture
osteoarticolari, muscolotendinee e nervovascolari.
Movimentazione manuale dei carichi

Obblighi del datore di lavoro (art. 168)

1. Il datore di lavoro adotta le misure organizzative necessarie e


ricorre ai mezzi appropriati, in particolare attrezzature meccaniche,
per evitare la necessità di una movimentazione manuale dei carichi
da parte dei lavoratori.
2. Qualora non sia possibile evitare la movimentazione manuale dei
carichi ad opera dei lavoratori, il datore di lavoro adotta le misure
organizzative necessarie, ricorre ai mezzi appropriati e fornisce ai
lavoratori stessi i mezzi adeguati, allo scopo di ridurre il rischio che
comporta la movimentazione manuale di detti carichi.
Il datore di lavoro:
a) fornisce ai lavoratori le informazioni adeguate relativamente al
peso ed alle altre caratteristiche del carico movimentato;
b) assicura ad essi la formazione adeguata in relazione ai rischi
lavorativi ed alle modalità di corretta esecuzione delle attività.
Il datore di lavoro fornisce ai lavoratori l'addestramento adeguato
in merito alle corrette manovre e procedure da adottare nella
movimentazione manuale dei carichi.
Movimentazione manuale dei carichi

Informazione, formazione e addestramento (art. 169)

1. Tenendo conto dell'allegato XXXIII, il datore di lavoro:


a) fornisce ai lavoratori le informazioni adeguate relativamente al
peso ed alle altre caratteristiche del carico movimentato;
b) assicura ad essi la formazione adeguata in relazione ai rischi
lavorativi ed alle modalità di corretta esecuzione delle attività.
2. Il datore di lavoro fornisce ai lavoratori l'addestramento adeguato
in merito alle corrette manovre e procedure da adottare nella
movimentazione manuale dei carichi.

L’art. 170 descrive le sanzioni a carico del datore di lavoro e del


dirigente, l’art. 171 quelle a carico del preposto.
Titolo VII: Attrezzature munite
di videoterminale
Attrezzature munite di videoterminale

Nel titolo VII (artt. 172-179, allegato XXXIV) le variazioni significative rispetto alla
precedente normativa inserita all’interno del D.Lgs 626/94 sono le seguenti:
computer portatili (art. 172): considerati a pieno titolo come attrezzature
munite di videoterminale (prima erano esclusi se utilizzati in misura “non prolungata”);
pause o interruzioni dall’attività (art. 175): l’obbligo di pause o interruzioni
nel D.Lgs. 626/94 scattava solo per il lavoratore che svolgeva la propria attività a
videoterminale per 4 ore consecutive; nel nuovo testo unico invece la pausa o
l’interruzione devono essere effettuate dal videoterminalista ( “lavoratore che utilizza
un’attrezzatura munita di videoterminali, in modo sistematico o abituale, per venti ore
settimanali, dedotte le interruzioni”) se trascorrono 2 ore di applicazione continuativa;
il lavoratore videoterminalista (art. 176) può chiedere visita al medico competente
anche fuori dalla periodicità delle visite, se ritiene di avere problemi alla vista ed agli
occhi o all’apparato muscolo-scheletrico dovuti all’utilizzo di videoterminale:
nella progettazione del posto di lavoro (allegato XXXIV) bisogna tener conto
delle caratteristiche antropometriche del lavoratore;
se c’è un poggiapiedi (necessario solo nei casi in cui non si riesca a far
raggiungere una postura adeguata agli arti inferiori) esso non si deve spostare
involontariamente durante l’utilizzo (allegato XXXIV);
in caso di utilizzo prolungato di computer portatili (allegato XXXIV) sono
necessarie le forniture di un mouse e di una tastiera esterna e di un idoneo
supporto che consenta il corretto posizionamento dello schermo
Attrezzature munite di videoterminale

Campo di applicazione (art. 172)

Le norme del presente titolo si applicano alle attività lavorative che


comportano l'uso di attrezzature munite di videoterminali.
2. Le norme del presente titolo non si applicano ai lavoratori
addetti:
a) ai posti di guida di veicoli o macchine;
b) ai sistemi informatici montati a bordo di un mezzo di trasporto;
c) ai sistemi informatici destinati in modo prioritario all'utilizzazione
da parte del pubblico;
d) alle macchine calcolatrici, ai registratori di cassa e a tutte le
attrezzature munite di un piccolo dispositivo di visualizzazione dei
dati o delle misure, necessario all'uso diretto di tale attrezzatura;
e) alle macchine di videoscrittura senza schermo separato.
Attrezzature munite di videoterminale

Definizioni (art. 173)

Ai fini del presente decreto legislativo si intende per:


a) videoterminale: uno schermo alfanumerico o grafico a prescindere
dal tipo di procedimento di visualizzazione utilizzato;
b) posto di lavoro: l'insieme che comprende le attrezzature munite di
videoterminale, eventualmente con tastiera ovvero altro sistema di
immissione dati, incluso il mouse, il software per l'interfaccia uomo-
macchina, gli accessori opzionali, le apparecchiature connesse,
comprendenti l'unita' a dischi, il telefono, il modem, la stampante, il
supporto per i documenti, la sedia, il piano di lavoro, nonché
l'ambiente di lavoro immediatamente circostante;
c) lavoratore: il lavoratore che utilizza un'attrezzatura munita di
videoterminali, in modo sistematico o abituale, per venti ore
settimanali, dedotte le interruzioni di cui all'articolo 175.
Attrezzature munite di videoterminale

Obblighi del datore di lavoro (art. 174)

1. Il datore di lavoro analizza i posti di lavoro con particolare


riguardo:
a) ai rischi per la vista e per gli occhi;
b) ai problemi legati alla postura ed all'affaticamento fisico o
mentale;
c) alle condizioni ergonomiche e di igiene ambientale.
2. Il datore di lavoro adotta le misure appropriate per ovviare ai
rischi riscontrati in base alle valutazioni di cui al comma 1,
tenendo conto della somma ovvero della combinazione della
incidenza dei rischi riscontrati.

L’art. 178 definisce le sanzioni a carico del datore di lavoro e del


dirigente, l’art. 179 quelle a carico del preposto.
Attrezzature munite di videoterminale

Svolgimento quotidiano del lavoro (art. 175)


1. Il lavoratore, ha diritto ad una interruzione della sua attività mediante pause ovvero
cambiamento di attività.
2. Le modalità di tali interruzioni sono stabilite dalla contrattazione collettiva anche
aziendale.
3. In assenza di una disposizione contrattuale riguardante l'interruzione di cui al
comma 1, il lavoratore comunque ha diritto ad una pausa di quindici minuti ogni
centoventi minuti di applicazione continuativa al videoterminale.
4. Le modalità e la durata delle interruzioni possono essere stabilite
temporaneamente a livello individuale ove il medico competente ne evidenzi la
necessità.
5. E' comunque esclusa la cumulabilità delle interruzioni all'inizio ed al termine
dell'orario di lavoro.
6. Nel computo dei tempi di interruzione non sono compresi i tempi di attesa della
risposta da parte del sistema elettronico, che sono considerati, a tutti gli effetti,
tempo di lavoro, ove il lavoratore non possa abbandonare il posto di lavoro.
7. La pausa e' considerata a tutti gli effetti parte integrante dell'orario di lavoro e,
come tale, non e' riassorbibile all'interno di accordi che prevedono la riduzione
dell'orario complessivo di lavoro.
Titolo VIII: Agenti fisici
Agenti fisici

Nel titolo VIII (artt. 180-220, allegati XXXV-XXXVII) si parla di agenti fisici
specifici che sono il rumore, ultrasuoni, infrasuoni (capo II) , vibrazioni (capo III),
campi elettromagnetici (capo IV), radiazioni ottiche (capo V), microclima,
atmosfere iperbariche. Di seguito le variazioni significative rispetto alla
preesistente normativa .
Tutte le valutazioni sugli agenti fisici (art. 181) devono essere
effettuate con cadenza almeno quadriennale da personale qualificato
in possesso di specifiche conoscenze in materia.Vanno rifatte prima della
scadenza in caso di modifiche sostanziali del ciclo produttivo o se i risultati
della sorveglianza sanitaria ne rendano necessaria una revisione. Da considerare
anche la presenza di gruppi particolarmente sensibili agli agenti fisici (art. 183)
come donne in gravidanza e/o minori.
Rumore: diviene obbligatorio (art. 192, comma 2) applicare un
programma di misure tecniche ed organizzative volte a ridurre l’esposizione
a rumore se i lavoratori superano i valori inferiori di azione (80 decibel). Nella
precedente normativa, il D.Lgs 195/06 recepito all’interno del D.Lgs 626/94,
l’obbligo partiva dal superamento del valore superiore di azione (85 decibel).
Vibrazioni: scende da 1,15 m/s2 a 1,0 m/s2 il valore limite di azione
(“l’inizio del rischio”) per le attrezzature che espongono.Vengono inoltre
introdotti nuovi valori limite per “brevi periodi di tempo” (non meglio
specificati) di utilizzo di attrezzature o mezzi che espongono a vibrazioni.

Continua
Agenti fisici

Campi elettromagnetici: pur rimanendo l’obbligo di valutazione


(in quanto deve sempre essere chiaro al datore di lavoro che occorre valutare
tutti i rischi presenti nel luogo di lavoro”) sono state prorogate al 30 aprile
2012 le disposizioni del titolo VIII capo IV del D.Lgs. 81/2008. La
direttiva 2004/40/CE, emanata il 29 aprile 2004, ha indicato le prescrizioni
minime di sicurezza e di salute relative all’esposizione dei rischi derivanti da
agenti fisici con particolare riferimento alle radiazioni da 0Hz a 300GHz.; il
recepimento di tali prescrizioni è avvenuto in Italia con il D.Lgs. 257/2007.
Successivamente è stata formulata la direttiva europea 2008/46/CE del 23
aprile 2008 che modifica la 2004/40/CE posticipando il termine ultimo del
recepimento della stessa al 30 aprile 2012. Resta la valutazione del rischio ma
non si applicano i limiti

Radiazioni ottiche: le disposizioni entreranno in vigore a decorrere


dal 26 aprile 2010. Se c’è il rischio dovrà essere comunque valutato
Agenti fisici

Definizioni e campo di applicazione (art. 180)

1. Ai fini del presente decreto legislativo per agenti fisici si intendono il


rumore, gli ultrasuoni, gli infrasuoni, le vibrazioni meccaniche, i campi
elettromagnetici, le radiazioni ottiche, di origine artificiale, il microclima
e le atmosfere iperbariche che possono comportare rischi per la salute
e la sicurezza dei lavoratori.
2. Fermo restando quanto previsto dal presente capo, per le attività
comportanti esposizione a rumore si applica il capo II, per quelle
comportanti esposizione a vibrazioni si applica il capo III, per quelle
comportanti esposizione a campi elettromagnetici si applica il capo IV,
per quelle comportanti esposizione a radiazioni ottiche artificiali si
applica il capo V.
3. La protezione dei lavoratori dalle radiazioni ionizzanti e‘ disciplinata
unicamente dal decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 230, e sue
successive modificazioni.
Agenti fisici

Disposizioni miranti ad eliminare o ridurre i rischi (art. 182)

1. Tenuto conto del progresso tecnico e della disponibilità di misure per


controllare il rischio alla fonte, i rischi derivanti dall'esposizione agli
agenti fisici sono eliminati alla fonte o ridotti al minimo. La riduzione dei
rischi derivanti dall'esposizione agli agenti fisici si basa sui principi
generali di prevenzione contenuti nel presente decreto.
2. In nessun caso i lavoratori devono essere esposti a valori superiori ai
valori limite di esposizione definiti nei capi II, III, IV e V. Allorchè,
nonostante i provvedimenti presi dal datore di lavoro in applicazione del
presente capo i valori limite di esposizione risultino superati, il datore di
lavoro adotta misure immediate per riportare l'esposizione al di sotto
dei valori limite di esposizione, individua le cause del superamento dei
valori limite di esposizione e adegua di conseguenza le misure di
protezione e prevenzione per evitare un nuovo superamento.
Agenti fisici

Lavoratori particolarmente sensibili (art. 183)

Il datore di lavoro adatta le misure di cui all'articolo 182


alle esigenze dei lavoratori appartenenti a gruppi
particolarmente sensibili al rischio, incluse le donne in
stato di gravidanza ed i minori.
Agenti fisici

Informazione e formazione dei lavoratori (art. 184)


1. Il datore di lavoro provvede affinché i lavoratori esposti a rischi
derivanti da agenti fisici sul luogo di lavoro e i loro rappresentanti
vengano informati e formati in relazione al risultato della valutazione dei
rischi con particolare riguardo:
a) alle misure adottate in applicazione del presente titolo;
b) all'entità e al significato dei valori limite di esposizione e dei valori di
azione definiti nei capi II, III, IV e V, nonché ai potenziali rischi associati;
c) ai risultati della valutazione, misurazione o calcolo dei livelli di
esposizione ai singoli agenti fisici;
d) alle modalità per individuare e segnalare gli effetti negativi
dell'esposizione per la salute;
e) alle circostanze nelle quali i lavoratori hanno diritto a una
sorveglianza sanitaria e agli obiettivi della stessa;
f) alle procedure di lavoro sicure per ridurre al minimo i rischi derivanti
dall'esposizione;
g) all'uso corretto di adeguati dispositivi di protezione individuale e alle
relative indicazioni e controindicazioni sanitarie all'uso.
Agenti fisici

Sorveglianza sanitaria (art. 185)

1. La sorveglianza sanitaria dei lavoratori esposti agli agenti fisici viene


svolta secondo i principi generali di cui all'articolo 41, ed e' effettuata dal
medico competente nelle modalità e nei casi previsti ai rispettivi capi del
presente titolo sulla base dei risultati della valutazione del rischio che gli
sono trasmessi dal datore di lavoro per il tramite del servizio di
prevenzione e protezione.
2. Nel caso in cui la sorveglianza sanitaria riveli in un lavoratore
un'alterazione apprezzabile dello stato di salute correlata ai rischi
lavorativi il medico competente ne informa il lavoratore e, nel rispetto del
segreto professionale, il datore di lavoro, che provvede a:
a) sottoporre a revisione la valutazione dei rischi;
b) sottoporre a revisione le misure predisposte per eliminare o ridurre i
rischi;
c) tenere conto del parere del medico competente nell'attuazione delle
misure necessarie per eliminare o ridurre il rischio.
Agenti fisici

Capo II (art. 188)

Ai fini del presente capo si intende per:


a) pressione acustica di picco (ppeak): valore massimo della pressione
acustica istantanea ponderata in frequenza «C»;
b) livello di esposizione giornaliera al rumore (LEX,8h): [dB(A) riferito a
20 \muPa]: valore medio, ponderato in funzione del tempo, dei livelli di
esposizione al rumore per una giornata lavorativa nominale di otto ore,
definito dalla norma internazionale ISO 1999: 1990 punto 3.6. Si riferisce
a tutti i rumori sul lavoro, incluso il rumore impulsivo;
c) livello di esposizione settimanale al rumore (LEX,w): valore medio,
ponderato in funzione del tempo, dei livelli di esposizione giornaliera al
rumore per una settimana nominale di cinque giornate lavorative di otto
ore, definito dalla norma internazionale ISO 1999: 1990 punto 3.6, nota 2.
Agenti fisici

Capo II (art. 189)

I valori limite di esposizione e i valori di azione, in relazione al


livello di esposizione giornaliera al rumore e alla pressione
acustica di picco, sono fissati a:
a) valori limite di esposizione rispettivamente LEX = 87 dB(A)
e ppeak = 200 Pa (140 dB(C) riferito a 20 \muPa);
b) valori superiori di azione: rispettivamente LEX = 85 dB(A) e
ppeak = 140 Pa (137 dB(C) riferito a 20 \muPa);
c) valori inferiori di azione: rispettivamente LEX = 80 dB(A) e
ppeak = 112 Pa (135 dB(C) riferito a 20 \muPa).

Continua
Agenti fisici

2. Laddove a causa delle caratteristiche intrinseche della attività


lavorativa l'esposizione giornaliera al rumore varia
significativamente, da una giornata di lavoro all'altra, e'
possibile sostituire, ai fini dell'applicazione dei valori limite di
esposizione e dei valori di azione, il livello di esposizione
giornaliera al rumore con il livello di esposizione settimanale
a condizione che:
a) il livello di esposizione settimanale al rumore, come
dimostrato da un controllo idoneo, non ecceda il valore
limite di esposizione di 87 dB(A);
b) siano adottate le adeguate misure per ridurre al minimo i
rischi associati a tali attività.
3. Nel caso di variabilità del livello di esposizione settimanale va
considerato il livello settimanale massimo ricorrente.
Agenti fisici

Misure per la limitazione dell’esposizione (art.194)

Fermo restando l'obbligo del non superamento dei valori


limite di esposizione, se, nonostante l'adozione delle misure
prese in applicazione del presente capo, si individuano
esposizioni superiori a detti valori, il datore di lavoro:
a) adotta misure immediate per riportare l'esposizione al di
sotto dei valori limite di esposizione;
b) individua le cause dell'esposizione eccessiva;
c) modifica le misure di protezione e di prevenzione per
evitare che la situazione si ripeta.
Agenti fisici

Sorveglianza sanitaria (art.196)

1. Il datore di lavoro sottopone a sorveglianza sanitaria i lavoratori


la cui esposizione al rumore eccede i valori superiori di azione. La
sorveglianza viene effettuata periodicamente, di norma una volta
l'anno o con periodicità diversa decisa dal medico competente, con
adeguata motivazione riportata nel documento di valutazione dei
rischi e resa nota ai rappresentanti per la sicurezza di lavoratori in
funzione della valutazione del rischio. L'organo di vigilanza, con
provvedimento motivato, può disporre contenuti e periodicità della
sorveglianza diversi rispetto a quelli forniti dal medico competente.
2. La sorveglianza sanitaria di cui al comma 1 e' estesa ai lavoratori
esposti a livelli superiori ai valori inferiori di azione, su loro
richiesta e qualora il medico competente ne confermi
l'opportunità.
Agenti fisici

Capo III (art. 200)

Ai fini del presente capo, si intende per:


a) vibrazioni trasmesse al sistema mano-braccio: le vibrazioni meccaniche che,
se trasmesse al sistema mano-braccio nell'uomo, comportano un rischio per
la salute e la sicurezza dei lavoratori, in particolare disturbi vascolari,
osteoarticolari, neurologici o muscolari;
b) vibrazioni trasmesse al corpo intero: le vibrazioni meccaniche che, se
trasmesse al corpo intero, comportano rischi per la salute e la sicurezza dei
lavoratori, in particolare lombalgie e traumi del
rachide;
c) esposizione giornaliera a vibrazioni trasmesse al sistema mano-braccio A(8):
[ms-2]: valore mediato nel tempo, ponderato in frequenza, delle accelerazioni
misurate per una giornata lavorativa nominale di otto ore;
d) esposizione giornaliera a vibrazioni trasmesse al corpo intero A(8): [ms-2]:
valore mediato nel tempo, ponderato, delle accelerazioni misurate per una
giornata lavorativa nominale di otto ore.
Agenti fisici

Capo III (art. 201)

Ai fini del presente capo, si definiscono i seguenti valori limite di esposizione e


valori di azione.
a) per le vibrazioni trasmesse al sistema mano-braccio:
1) il valore limite di esposizione giornaliero, normalizzato a un
periodo di riferimento di 8 ore, e' fissato a 5 m/s2; mentre su
periodi brevi e' pari a 20 m/s2;
2) il valore d'azione giornaliero, normalizzato a un periodo di
riferimento di 8 ore, che fa scattare l'azione, e' fissato a 2,5 m/s2.
b) per le vibrazioni trasmesse al corpo intero:
1) il valore limite di esposizione giornaliero, normalizzato a un
periodo di riferimento di 8 ore, e' fissato a 1,0 m/s2; mentre su
periodi brevi e' pari a 1,5 m/s2;
2) il valore d'azione giornaliero, normalizzato a un periodo di
riferimento di 8 ore, e' fissato a 0,5 m/s2.
Nel caso di variabilità del livello di esposizione giornaliero va considerato il
livello giornaliero massimo ricorrente.
Agenti fisici

Capo IV (art. 206)

1. Il presente capo determina i requisiti minimi per la protezione


dei lavoratori contro i rischi per la salute e la sicurezza derivanti
dall'esposizione ai campi elettromagnetici (da 0 Hz a 300 GHz),
come definiti dall'articolo 207, durante il lavoro. Le disposizioni
riguardano la protezione dai rischi per la salute e la sicurezza dei
lavoratori dovuti agli effetti nocivi a breve termine conosciuti nel
corpo umano derivanti dalla circolazione di correnti indotte e
dall'assorbimento di energia, e da correnti di contatto.
2. Il presente capo non riguarda la protezione da eventuali effetti
a lungo termine e i rischi risultanti dal contatto con i conduttori
in tensione.
Agenti fisici

Capo IV (art. 207)

Agli effetti delle disposizioni del presente capo si intendono per:


a) campi elettromagnetici: campi magnetici statici e campi elettrici,
magnetici ed elettromagnetici variabili nel tempo di frequenza inferiore o
pari a 300 GHz;
b) valori limite di esposizione: limiti all'esposizione a campi
elettromagnetici che sono basati direttamente sugli effetti sulla salute
accertati e su considerazioni biologiche. Il rispetto di questi limiti
garantisce che i lavoratori esposti ai campi elettromagnetici sono protetti
contro tutti gli effetti nocivi a breve termine per la salute conosciuti;
c) valori di azione: l'entità dei parametri direttamente
misurabili, espressi in termini di intensità di campo elettrico (E), intensità
di campo magnetico (H), induzione magnetica (B) e densità di potenza (S),
che determina l'obbligo di adottare una o più delle misure specificate nel
presente capo. Il rispetto di questi valori assicura il rispetto dei pertinenti
valori limite di esposizione.
Agenti fisici

Capo V (art. 213)

Il presente capo stabilisce prescrizioni minime di protezione dei


lavoratori contro i rischi per la salute e la sicurezza che possono
derivare, dall'esposizione alle radiazioni ottiche artificiali durante il
lavoro con particolare riguardo ai rischi dovuti agli effetti nocivi
sugli occhi e sulla cute.

Per quanto riguarda il Titolo VIII: l’art. 219 definisce le sanzioni a


carico del datore di lavoro e del dirigente, l’art. 220 quelle a
carico del medico competente
Titolo IX: Sostanze pericolose
Sostanze pericolose

Nel titolo IX si parla di agenti chimici (capo I), agenti cancerogeni e mutageni
(capo II), amianto (capo III). Di seguito le variazioni significative rispetto alla
preesistente normativa: rischio “moderato” (art. 224) il rischio
moderato diventa “rischio basso per la sicurezza ed irrilevante per
la salute”, aggiungendo una nuova variabile ad una definizione su cui da
anni ci sono polemiche e discussioni. Il rischio basso per la sicurezza ed
irrilevante per la salute esclude l’obbligo di sorveglianza sanitaria da parte del
medico competente per tale fattore di rischio. Sorveglianza sanitaria: la
sorveglianza sanitaria, in caso di rischio “non basso per la sicurezza
e/o non irrilevante per la salute” (ex rischio superiore al moderato) deve
essere effettuata in caso di esposizione ad agenti chimici molto tossici, tossici,
nocivi, sensibilizzanti, corrosivi, irritanti, tossici per il ciclo riproduttivo,
cancerogeni e mutageni di categoria 3, amianto: di fatto applicabile
alle sole lavorazioni che comportano per i lavoratori rischi da
esposizione ad amianto (manutenzione, rimozione dell’amianto o dei
materiali contenenti amianto), smaltimento e trattamento dei relativi rifiuti,
bonifica). Nessuna variazione rispetto alle precedenti normative
Sostanze pericolose

Campo di applicazione (art.221)

1. Il presente capo determina i requisiti minimi per la protezione


dei lavoratori contro i rischi per la salute e la sicurezza che
derivano, o possono derivare, dagli effetti di agenti chimici presenti
sul luogo di lavoro o come risultato di ogni attività lavorativa che
comporti la presenza di agenti chimici.
2. I requisiti individuati dal presente capo si applicano a tutti gli
agenti chimici pericolosi che sono presenti sul luogo di lavoro, fatte
salve le disposizioni relative agli agenti chimici per i quali valgono
provvedimenti di protezione radiologica regolamentati dal decreto
legislativo del 17 marzo 1995, n. 230, e successive modificazioni.
3. Le disposizioni del presente capo si applicano altresì al trasporto
di agenti chimici pericolosi …
4. Le disposizioni del presente capo non si applicano alle attività
comportanti esposizione ad amianto che restano disciplinate dalle
norme contenute al capo III del presente titolo.
Sostanze pericolose

Definizioni (art.222)
Ai fini del presente capo si intende per:
a) agenti chimici: tutti gli elementi o composti chimici, sia da soli sia nei loro miscugli, allo
stato naturale o ottenuti, utilizzati o smaltiti, compreso lo smaltimento come rifiuti, mediante
qualsiasi attività lavorativa, siano essi prodotti intenzionalmente o no e siano immessi o no
sul mercato;
b) agenti chimici pericolosi:
1) agenti chimici classificati come sostanze pericolose ai sensi del decreto legislativo 3
febbraio 1997, n. 52, e successive modificazioni, nonché gli agenti che corrispondono ai
criteri di classificazione come sostanze pericolose di cui al predetto decreto. Sono escluse
le sostanze pericolose solo per l'ambiente;
2) agenti chimici classificati come preparati pericolosi ai sensi del decreto legislativo 14
marzo 2003, n. 65, e successive modificazioni, nonché gli agenti che rispondono ai criteri di
classificazione come preparati pericolosi di cui al predetto decreto. Sono esclusi i preparati
pericolosi solo per l'ambiente;
3) agenti chimici che, pur non essendo classifi-cabili come pericolosi, in base ai numeri 1) e
2), possono comportare un rischio per la sicurezza e la salute dei lavoratori a causa di loro
proprietà chimico-fisiche, chimiche o tossicologiche e del modo in cui sono utilizzati o
presenti sul luogo di lavoro, compresi gli agenti chimici cui e' stato assegnato un valore
limite di esposizione professionale;
c) attività che comporta la presenza di agenti chimici: ogni attività lavorativa in cui sono
utilizzati agenti chimici, o se ne prevede l'utilizzo, in ogni tipo di procedimento, compresi la
produzione, la manipolazione, l'immagazzinamento, il trasporto o l'eliminazione e il
trattamento dei rifiuti, o che risultino da tale attività lavorativa;
Continua
Sostanze pericolose

Definizioni (art.222)
d) valore limite di esposizione professionale: se non diversamente
specificato, il limite della concentrazione media ponderata nel tempo
di un agente chimico nell'aria all'interno della zona di respirazione di
un lavoratore in relazione ad un determinato periodo di riferimento;
un primo elenco di tali valori e' riportato nell'allegato XXXVIII;
e) valore limite biologico: il limite della concentrazione del relativo
agente, di un suo metabolita, o di un indicatore di effetto,
nell'appropriato mezzo biologico; un primo elenco di tali valori e‘
riportato nell'allegato XXXIX;
f) sorveglianza sanitaria: la valutazione dello stato di salute del singolo
lavoratore in funzione dell'esposizione ad agenti chimici sul luogo di
lavoro;
g) pericolo: la proprieta' intrinseca di un agente chimico di poter
produrre effetti nocivi;
h) rischio: la probabilità che si raggiunga il potenziale nocivo nelle
condizioni di utilizzazione o esposizione.
Sostanze pericolose

Valutazione dei rischi (art. 223)


1. Nella valutazione di cui all'articolo 28, il datore di lavoro determina,
preliminarmente l'eventuale presenza di agenti chimici pericolosi sul
luogo di lavoro e valuta anche i rischi per la sicurezza e la salute dei
lavoratori derivanti dalla presenza di tali agenti, prendendo in
considerazione in particolare:
a) le loro proprieta' pericolose;
b) le informazioni sulla salute e sicurezza comunicate dal responsabile
dell'immissione sul mercato tramite la relativa scheda di sicurezza
predisposta ai sensi dei decreti legislativi 3 febbraio 1997, n. 52, e 14
marzo 2003, n. 65, e successive modifiche;
c) il livello, il tipo e la durata dell'esposizione;
d) le circostanze in cui viene svolto il lavoro in presenza di tali agenti,
compresa la quantità degli stessi;
e) i valori limite di esposizione professionale o i valori limite biologici;
di cui un primo elenco e' riportato negli allegati XXXVIII e XXXIX;
f) gli effetti delle misure preventive e protettive adottate o da adottare;
g) se disponibili, le conclusioni tratte da eventuali azioni di sorveglianza
sanitaria già intraprese.
Continua
Sostanze pericolose
Valutazione dei rischi (art. 223)
2. Nella valutazione dei rischi il datore di lavoro indica quali misure sono state adottate ai
sensi dell'articolo 224 e, ove applicabile, dell'articolo 225. Nella valutazione medesima
devono essere incluse le attività, ivi compresa la manutenzione e la pulizia, per le quali e'
prevedibile la possibilità di notevole esposizione o che, per altri motivi, possono provocare
effetti nocivi per la salute e la sicurezza, anche dopo l'adozione di tutte le misure tecniche.
3. Nel caso di attività lavorative che comportano l'esposizione a più agenti chimici pericolosi, i
rischi sono valutati in base al rischio che comporta la combinazione di tutti i suddetti
agenti chimici.
4. Fermo restando quanto previsto dai decreti legislativi 3 febbraio 1997, n. 52, e 14 marzo
2003, n. 65, e successive modificazioni, il responsabile dell'immissione sul mercato di agenti
chimici pericolosi e' tenuto a fornire al datore di lavoro acquirente tutte le ulteriori
informazioni necessarie per la completa valutazione del rischio.
5. La valutazione del rischio può includere la giustificazione che la natura e l'entità dei rischi
connessi con gli agenti chimici pericolosi rendono non necessaria un'ulteriore valutazione
maggiormente dettagliata dei rischi.
6. Nel caso di un'attività nuova che comporti la presenza di agenti chimici pericolosi, la
valutazione dei rischi che essa presenta e l'attuazione delle misure di prevenzione sono
predisposte preventivamente. Tale attività comincia solo dopo che si sia proceduto alla
valutazione dei rischi che essa presenta e all'attuazione delle misure di prevenzione.
7. Il datore di lavoro aggiorna periodicamente la valutazione e, comunque, in occasione di
notevoli mutamenti che potrebbero averla resa superata ovvero quando i risultati della
sorveglianza medica ne mostrino la necessità.
Sostanze pericolose

Misure e principi generali per la prevenzione dei rischi (art.224)


I rischi derivanti da agenti chimici pericolosi devono essere eliminati o ridotti al
minimo mediante le seguenti misure:
a) progettazione e organizzazione dei sistemi di lavorazione sul luogo di lavoro;
b) fornitura di attrezzature idonee per il lavoro specifico e relative procedure di
manutenzione adeguate;
c) riduzione al minimo del numero di lavoratori che sono o potrebbero essere
esposti;
d) riduzione al minimo della durata e dell'intensità dell'esposizione;
e) misure igieniche adeguate;
f) riduzione al minimo della quantità di agenti presenti sul luogo di lavoro in
funzione delle necessità della lavorazione;
g) metodi di lavoro appropriati comprese le disposizioni che garantiscono la
sicurezza nella manipolazione, nell'immagazzinamento e nel trasporto sul luogo di
lavoro di agenti chimici pericolosi nonché dei rifiuti che contengono detti agenti
chimici.
Se i risultati della valutazione dei rischi dimostrano che, in relazione al tipo e alle
quantità di un agente chimico pericoloso e alle modalità e frequenza di
esposizione a tale agente presente sul luogo di lavoro, vi e' solo un rischio basso
per la sicurezza e irrilevante per la salute dei lavoratori e che le misure di cui al
comma 1 sono sufficienti a ridurre il rischio, non si applicano le disposizioni degli
articoli 225, 226, 229, 230.
Sostanze pericolose

Misure specifiche di protezione e di prevenzione (art.225)


Il datore di lavoro, sulla base dell'attività e della valutazione dei rischi di
cui all'articolo 223, provvede affinché il rischio sia eliminato o ridotto
mediante la sostituzione, qualora la natura dell'attività lo consenta, con
altri agenti o processi che, nelle condizioni di uso, non sono o sono meno
pericolosi per la salute dei lavoratori. Quando la natura dell'attività non
consente di eliminare il rischio attraverso la sostituzione il datore di
lavoro garantisce che il rischio sia ridotto mediante l'applicazione delle
seguenti misure da adottarsi nel seguente ordine di priorità:
a) progettazione di appropriati processi lavorativi e controlli tecnici, nonché
uso di attrezzature e materiali adeguati;
b) appropriate misure organizzative e di protezione collettive alla fonte del
rischio;
c) misure di protezione individuali, compresi i dispositivi di protezione
individuali, qualora non si riesca a prevenire con altri mezzi l'esposizione;
d) sorveglianza sanitaria dei lavoratori a norma degli articoli 229 e 230.
Sostanze pericolose

Sorveglianza sanitaria (art.229)


La sorveglianza sanitaria viene effettuata:
a) prima di adibire il lavoratore alla mansione che comporta l'esposizione;
b) periodicamente, di norma una volta l'anno o con periodicità diversa decisa dal
medico competente con adeguata motivazione riportata nel documento di
valutazione dei rischi e resa nota ai rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori, in
funzione della valutazione del rischio e dei risultati della sorveglianza sanitaria;
c) all'atto della cessazione del rapporto di lavoro. In tale occasione il medico
competente deve fornire al lavoratore le eventuali indicazioni relative alle
prescrizioni mediche da osservare.
Il monitoraggio biologico e' obbligatorio per i lavoratori esposti agli agenti per i
quali e' stato fissato un valore limite biologico. Dei risultati di tale monitoraggio
viene informato il lavoratore interessato. I risultati di tale monitoraggio, in forma
anonima, vengono allegati al documento di valutazione dei rischi e comunicati ai
rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori.
Gli accertamenti sanitari devono essere a basso rischio per il lavoratore.
Il datore di lavoro, su parere conforme del medico competente, adotta misure
preventive e protettive particolari per i singoli lavoratori sulla base delle risultanze
degli esami clinici e biologici effettuati.
Sostanze pericolose

Sanzioni
Le sanzioni per il datore di lavoro e il dirigente sono definite nell’art. 262,
per il preposto nell’art. 263, per il medico competente nell’articolo 264.
Per i lavoratori le sanzioni sono definite nell’art. 265:
I lavoratori sono puniti con l'arresto fino a quindici giorni o con l'ammenda
da 100 a 400 euro per la violazione dell'articolo 240, comma 2 (Qualora si
verifichino eventi non prevedibili o incidenti che possono comportare
un'esposizione anomala dei lavoratori ad agenti cancerogeni o mutageni, il
datore di lavoro adotta quanto prima misure appropriate per identificare e
rimuovere la causa dell'evento e ne informa i lavoratori e il rappresentante
per la sicurezza. I lavoratori devono abbandonare immediatamente l'area
interessata, cui possono accedere soltanto gli addetti agli interventi di
riparazione ed ad altre operazioni necessarie, indossando idonei indumenti
protettivi e dispositivi di protezione delle vie respiratorie, messi a loro
disposizione dal datore di lavoro. In ogni caso l'uso dei dispositivi di
protezione non può essere permanente e la sua durata, per ogni
lavoratore, e' limitata al tempo strettamente necessario).
Titolo X: Esposizione ad agenti
biologici
Esposizione ad agenti biologici

Nel titolo X (artt. 266-286, allegati XLIV-XLVIII) si parla di


agenti biologici.
Nessuna variazione rispetto al precedente titolo VIII del
D.Lgs 626/94.
Campo di applicazione (art.266)
1. Le norme del presente titolo si applicano a tutte le attività
lavorative nelle quali vi e' rischio di esposizione ad agenti
biologici.
2. Restano ferme le disposizioni particolari di recepimento
delle norme comunitarie sull'impiego confinato di
microrganismi geneticamente modificati e sull'emissione
deliberata nell'ambiente di organismi geneticamente
modificati.
Esposizione ad agenti biologici

Definizioni (art. 267)

1. Ai sensi del presente titolo s'intende per:


a) agente biologico: qualsiasi microrganismo anche se
geneticamente modificato, coltura cellulare ed endoparassita
umano che potrebbe provocare infezioni, allergie o
intossicazioni;
b) microrganismo: qualsiasi entità microbiologica, cellulare o
meno, in grado di riprodursi o trasferire materiale genetico;
c) coltura cellulare: il risultato della crescita in vitro di cellule
derivate da organismi pluricellulari.
Esposizione ad agenti biologici

Valutazione del rischio (art. 271)


1. Il datore di lavoro, nella valutazione del rischio di cui all'articolo 17,
comma 1, tiene conto di tutte le informazioni disponibili relative alle
caratteristiche dell'agente biologico e delle modalità lavorative …
2. Il datore di lavoro applica i principi di buona prassi microbiologica, ed
adotta, in relazione ai rischi accertati, le misure protettive e preventive
di cui al presente titolo, adattandole alle particolarità delle situazioni
lavorative.
3. Il datore di lavoro effettua nuovamente la valutazione di cui al
comma 1 in occasione di modifiche dell'attività lavorativa significative ai
fini della sicurezza e della salute sul lavoro e, in ogni caso, trascorsi tre
anni dall'ultima valutazione effettuata.
……
L’art. 282 definisce le sanzioni a carico dei datori di lavoro e dei dirigenti,
l’art. 283 quelle a carico del preposto, l’art. 284 quelle a carico del
medico curante, l’art. 285 quelle a carico dei lavoratori.
Titolo XI: Protezione da
atmosfere esplosive
Protezione da atmosfere esplosive

Nel titolo XI (artt. 287-296, allegati XLIX-LI) si parla di rischio


da atmosfere esplosive.
Nessuna variazione significativa rispetto al precedente titolo
VIII-bis del D.Lgs 626/94
Campo di applicazione (art. 287)
1. Il presente titolo prescrive le misure per la tutela della
sicurezza e della salute dei lavoratori che possono essere
esposti al rischio di atmosfere esplosive come definite
all'articolo 288.
2. Il presente titolo si applica anche nei lavori in
sotterraneo ove e' presente un'area con atmosfere
esplosive, oppure e‘ prevedibile, sulla base di indagini
geologiche, che tale area si possa formare nell'ambiente.
…..
Protezione da atmosfere esplosive

Definizioni (art. 288)


1. Ai fini del presente titolo, si intende per: «atmosfera esplosiva» una
miscela con l'aria, a condizioni atmosferiche, di sostanze infiammabili allo
stato di gas, vapori, nebbie o polveri.
Prevenzione e protezione contro le esplosioni (art.289)
1. Ai fini della prevenzione e della protezione contro le esplosioni, sulla
base della valutazione dei rischi e dei principi generali di tutela di cui
all'articolo 15, il datore di lavoro adotta le misure tecniche e organizzative
adeguate alla natura dell'attività; in particolare il datore di lavoro previene
la formazione di atmosfere esplosive.
2. Se la natura dell'attività non consente di prevenire la formazione di
atmosfere esplosive, il datore di lavoro deve:
a) evitare l'accensione di atmosfere esplosive;
b) attenuare gli effetti pregiudizievoli di un'esplosione in modo da
garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori.
3. Se necessario, le misure di cui ai commi 1 e 2 sono combinate e
integrate con altre contro la propagazione delle esplosioni e sono
riesaminate periodicamente e, in ogni caso, ogniqualvolta si verifichino
cambiamenti rilevanti.
Protezione da atmosfere esplosive

Obblighi generali (art. 291)


1. Al fine di salvaguardare la sicurezza e la salute dei lavoratori, e
secondo i principi fondamentali della valutazione dei rischi e quelli di
cui all'articolo 289, il datore di lavoro prende i provvedimenti necessari
affinché:
a) dove possono svilupparsi atmosfere esplosive in quantità tale da
mettere in pericolo la sicurezza e la salute dei lavoratori o di altri, gli
ambienti di lavoro siano strutturati in modo da permettere di svolgere
il lavoro in condizioni di sicurezza;
b) negli ambienti di lavoro in cui possono svilupparsi atmosfere
esplosive in quantità tale da mettere in pericolo la sicurezza e la salute
dei lavoratori, sia garantito un adeguato controllo durante la presenza
dei lavoratori, in funzione della valutazione del rischio, mediante
l'utilizzo di mezzi tecnici adeguati.

L’art. 297 definisce le sanzioni a carico dei datori di lavoro e dei


dirigenti
Titolo XII: Disposizioni in materia
penale e di procedura penale
Disposizioni in materia penale e di procedura penale

Disposizioni in materia penale e di procedura penale (art. 298–303)


Il Titolo contiene:
le disposizioni relative “all’omicidio colposo o lesioni gravi o
gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela
della salute e sicurezza sul lavoro” (art.300);
le disposizioni relative “alle contravvenzioni in materia di
igiene, salute e sicurezza sul lavoro previste dal presente
decreto nonché da altre disposizioni aventi forza di legge, per
le quali sia prevista la pena alternativa dell'arresto o
dell'ammenda” (art. 301);
“la definizione delle contravvenzioni punite con la sola pena
dell'arresto” (art.302);
le circostanze attenuanti (art.303)
Titolo XIII: Norme transitorie e
finali
Norme transitorie e finali

Il titolo contiene:
 Abrogazioni (art. 304)
 Clausola finanziaria (art. 305)
 Disposizioni finali (art. 306).

Nella parte finale del decreto si legge: “Il presente decreto,


munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale
degli atti normativi della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a
chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare”.
Riferimenti bibliografici

Il materiale utilizzato è stato scaricato dai seguenti link:

http://www.lavoro.gov.it/NR/rdonlyres/0D78BF49-8227-45BA-854F-
064DE686809A/0/20080409_Dlgs_81.pdf

http://www.agraria.unibo.it/NR/rdonlyres/1C2BC0C8-42EB-4D3D-B00B-
0D6526A8CC57/121588/TestoUnicosullaSicurezza1.pdf

http://www.bo.astro.it/staffonly/FG_U1.pdf
Altro materiale non riconducibile al titolare di diritti di autore
Università degli Studi di Genova
DIME
Dipartimento di Ingegneria meccanica, energetica,
gestionale e dei trasporti

Sicurezza degli impianti industriali

Ergonomia, ambiente termico


Agenda

 Le norme
 Il corpo umano
 Il microclima negli ambienti di lavoro (definizione di
alcuni indici)
 Gli ambienti termici
Ambiente moderato
Ambienti termicamente severi
Il decreto legge 81-2008

La normativa nazionale è carente dal punto di vista tecnico


(l’Allegato IV – Requisiti dei luoghi di lavoro – 1.9 Microclima
al D.Lgs 81/2008 fornisce indicazioni di carattere generale in
relazione all’aerazione, temperatura ed umidità dei luoghi di
lavoro), occorre basarsi sulle indicazioni scientifiche e sulle
normative tecniche.
Queste ultime propongono alcuni indici di comfort e/o stress
che sono di fondamentale importanza per interpretare le
condizioni microclimatiche in ambientali nei diversi ambienti
termici integrate con il tipo di attività svolta dagli addetti.
UNI EN ISO 11079:2008

La presente norma è la versione ufficiale in lingua


inglese della norma europea EN ISO 11079 (edizione
dicembre 2007). La norma specifica i metodi e le
strategie per la valutazione dello stress termico
associato all'esposizione ad ambienti freddi. Questi
metodi si applicano ad esposizioni continue,
intermittenti o occasionali, ed a lavori al chiuso e
all'aperto. Essi non sono applicabili ad effetti specifici
associati a certi fenomeni meteorologici, quali le
precipitazioni, che sono valutati con altri metodi.
UNI EN ISO 15743:2008

La presente norma è la versione ufficiale in lingua inglese della norma


europea EN ISO 15743 (edizione luglio 2008).
La norma fornisce una strategia ed uno strumento pratico per valutare e
gestire il rischio nei posti di lavoro al freddo e comprende:
modelli e metodi per la valutazione e la gestione del rischio al freddo;
un elenco di controlli per identificare i problemi legati al lavoro al freddo;
un modello, un metodo ed un questionario utilizzabili dai medici del lavoro
per identificare coloro che presentano sintomi tali da aumentare la
sensibilità al freddo e, col supporto di tale identificazione, offrire la guida e
le istruzioni per la protezione individuale contro il freddo;
linee guida sull'applicazione delle norme sugli ambienti termici e altri
metodi scientifici validati per la valutazione dei rischi legati al freddo;
un esempio pratico per il lavoro al freddo.
La norma supporta la salute e la sicurezza sul lavoro, è applicabile alle
situazioni di lavoro sia all'interno che all'esterno (il lavoro all'interno
comprende quello svolto all'interno dei veicoli, il lavoro esterno quello
sotto la superficie terrestre ed in mare), ma non è applicabile alle
immersioni o ad altri tipi di lavoro svolti in acqua.
UNI EN ISO 9920:2009

La presente norma è la versione ufficiale in lingua inglese


della norma europea EN ISO 9920 (edizione giugno 2009). La
norma specifica i metodi di valutazione delle caratteristiche
termiche (resistenza allo scambio termico secco ed allo
scambio evaporativo) in condizioni stazionarie per un
abbigliamento, basandosi sui valori dei tessuti, dei capi di
abbigliamento e degli insiemi di questi ultimi. La norma
esamina l'influenza del movimento corporeo e della
penetrazione dell'aria sull'isolamento termico e sulla
resistenza evaporativa. La norma:
non prende in considerazione altri effetti dell'abbigliamento,
quali l'assorbimento dell'acqua, l'effetto tampone o il comfort
al tatto,
non tiene conto dell'influenza della pioggia e della neve sulle
caratteristiche termiche,
non considera particolari abbigliamenti protettivi
(abbigliamenti raffreddati ad acqua, abbigliamenti ventilati,
abbigliamenti riscaldati).
UNI EN ISO 13732-1:2009

La presente norma è la versione ufficiale in lingua inglese


della norma europea EN ISO 13732-1 (edizione settembre
2008). La norma fornisce i valori limite della temperatura al
di là dei quali si possono avere ustioni quando la pelle umana
è a contatto con superfici solide calde. Descrive anche i
metodi per la valutazione dei rischi di ustione quando le
persone possono toccare una superficie calda avendo la pelle
non protetta. La norma fornisce, inoltre, una guida per i casi
in cui è necessario specificare i valori limite di temperatura
per le superfici calde; non stabilisce valori limite di
temperatura delle superfici. La norma riguarda periodi di
contatto di durata minima pari a 0,5 s.
UNI EN ISO 13732-3:2009

La presente norma è la versione ufficiale in lingua inglese


della norma europea EN ISO 13732-3 (edizione settembre
2008). La norma descrive metodi per la valutazione del
rischio di lesioni o di altri effetti indesiderati dovuti al freddo
quando la pelle nuda di una mano o di un dito tocca una
superficie fredda. La norma fornisce dati ergonomici per
stabilire i valori limite di temperatura per le superfici fredde
solide. I valori stabiliti possono essere utilizzati nello sviluppo
di norme particolari in cui siano richiesti valori limite di
temperatura superficiale. I dati della norma sono applicabili in
tutti i campi in cui superfici fredde solide causano un rischio
di effetti acuti: dolore, intorpidimento e congelamento. I dati
non sono limitati alle mani, ma si applicano alla pelle umana in
generale. La norma è applicabile alla pelle sana di adulti
(uomini e donne).
Le norme
Il corpo umano

La temperatura del corpo umano


Il corpo umano

Sistema di termoregolazione

Schema a blocchi del sistema di termoregolazione dell’uomo


Le linee spesse indicano il trasferimento dell’energia, quelle
sottili il trasporto delle informazioni.
Il corpo umano
Convenzionalmente, con il termine
Ipotermia del corpo umano “ipotermia” si indica una
temperatura del nucleo inferiore a
35°C.
Nel campo di temperature
comprese fra 35°C e 32°C il corpo
reagisce con violenti brividi, mentre
al di sotto di 32°C interviene uno
stato di confusione mentale o la
perdita di coscienza.

35,8
Il corpo umano

Il corpo umano, per le sue caratteristiche termiche, può


essere paragonato ad una macchina termica alimentata da
combustibili sotto forma di alimenti che vengono trasformati
parte in lavoro (10-20%) e parte in calorie (80-90%).
Ne consegue che l'uomo, che deve mantenere costante la sua
temperatura interna, cioè quella degli organi più importanti
(sistema nervoso centrale, cuore, polmoni, visceri etc), deve
essere in grado di dissipare nell'ambiente il calore metabolico
prodotto in eccesso.
Questi scambi termici tra uomo e ambiente, che hanno lo
scopo di mantenere la temperatura interna dell'organismo
attorno a 370 C (bilancio termico) avvengono attraverso
diverse modalità, sia fisiche (convezione, conduzione,
irraggiamento), che fisiologiche (produzione ed evaporazione
del sudore).
Il corpo umano

La situazione termica di un organismo può essere


razionalmente analizzata:
considerandolo come sistema termico interessato da
flussi di energia che entra ed esce attraverso la sua
superficie e da generazione di energia al suo interno:
quando l'effetto complessivo di tali flussi non abbia
modo di essere nullo si osserverà un aumento del
contenuto termico del sistema od una diminuzione;
mediante la sua equazione di bilancio termico (BT)
Il corpo umano

Bilancio termico (BT)

Nella sua forma semplificata, viene espressa nel seguente modo:


BT = M ± C ± R - E
dove:
M = calore metabolico prodotto dall'organismo. Può essere
distinto nelle due componenti: metabolismo basale e
dispendio energetico associato alla specifica attività lavorativa
C =quantita' di calore scambiata per CONVEZIONE
R =quantita' di calore scambiata per IRRAGGIAMENTO
E =quantita' di calore dissipata attraverso l'EVAPORAZIONE del
sudore
Il corpo umano

Il calore metabolico M e' sempre e soltanto positivo, quello di


evaporazione E sempre negativo, mentre il calore di convezione C
e quello di irraggiamento R possono essere alternativamente di
segno + o - a seconda che gli scambi termici siano
rispettivamente diretti dall'ambiente all'uomo o viceversa.
Trascurabile la quantità di calore scambiata per CONDUZIONE.

Quando il bilancio termico e' uguale a zero (BT=0) si ha la


condizione ideale di omeotermia, cioè la stabilità
dell'equilibrio termico.

Se il bilancio termico supera lo zero (BT>0) la temperatura


corporea aumenta; se il bilancio termico e' inferiore a zero
(BT<0) la temperatura corporea diminuisce.
Il corpo umano

Quando l'equilibrio termico viene mantenuto con un


minimo sforzo da parte dei sistemi di termoregolazione,
le corrispondenti condizioni microclimatiche possono
essere definite di benessere; se invece l'equilibrio
viene mantenuto con sforzo da parte dei
meccanismi di termoregolazione (ad esempio: notevole
produzione di sudore) si potrà parlare di condizioni
microclimatiche di equilibrio ma non di benessere; se
infine l'equilibrio termico, nonostante il massimo
sforzo da parte dei meccanismi di termoregolazione,
non viene mantenuto, si parlerà di condizioni
microclimatiche di disequilibrio.
Il microclima negli ambienti di lavoro

Il microclima é l’insieme dei fattori (es. temperatura, umidità,


velocità dell’aria) che regolano le condizioni climatiche di un
ambiente chiuso o semi-chiuso come ad esempio un ambiente di
lavoro.
Considerando che la maggior parte della popolazione urbana
trascorre il 75-80% del tempo all'interno di edifici chiusi, è
facilmente intuibile quale importanza rivesta la qualità del
microclima per il benessere dell'uomo.
L'organismo umano deve mantenere sempre una costanza termica;
variazioni della temperatura oltre i normali limiti determinano
sofferenze delle principali funzioni fisiologiche con ripercussioni più
o meno gravi sulle capacità lavorative e, in condizioni estreme, a
manifestazioni patologiche.
Il corpo umano deve inoltre difendersi dal calore assunto
dall'ambiente, o dal calore emanato per radiazione da oggetti con
temperatura superiore alla propria (masse più calde, sole, suolo
riscaldato etc). E' chiaro quindi che la temperatura dell'aria e la
presenza di masse radianti rivestono grande importanza nella
valutazione del microclima.
Il microclima negli ambienti di lavoro

Indici

Per una valutazione dei parametri microclimatici, la sensazione


soggettiva di benessere non dipende da uno solo dei relativi fattori
ambientali (temperatura, umidità, velocità dell’aria etc), bensì dalla
loro combinazione. Per esprimere questo concetto, sono stati
quindi studiati vari indici microclimatici.
Gli indici più importanti, noti come indici di Fanger, sono:
◦ PMV (predicted mean vote): esprime un voto medio previsto per
la sensazione di benessere termico
◦ PPD (predicted percentage of disatisfied): è la percentuale prevista
delle persone insoddisfatte
Il microclima negli ambienti di lavoro

Indici

Come si evidenza nella tabella descritta nella slide successiva,


il PMV e il PPD sono strettamente correlati e si osserva che
anche a valori di PMV = 0, ovvero in condizioni
microclimatiche teoricamente ottimali, esiste una percentuale
del 5% di insoddisfatti.

Un ambiente viene comunque definito accettabile per valori


di PMV ± 0,5 e PPD minore del 10%.
Il microclima negli ambienti di lavoro

Indici

PMV PPD
Sensazione di Sensazione di Totale
freddo caldo insoddisfatti
-2,0 76,4% -- 76,4%
-1,0 26,8% -- 26,8%
-0,5 9,9% 0,4% 10,3%
-0,1 3,4% 1,8% 5,2%
0 2,5% 2,5% 5,0%
0,1 1,8% 3,4% 5,2%
0,5 0,4% 9,8% 10,2%
1,0 -- 26,4% 26,4%
2,0 -- 75,7% 75,7%
Gli ambienti termici

Convenzionalmente gli ambienti termici vengono distinti


in:
 ambienti moderati
 ambienti caldi
Ambienti termicamente severi
 ambienti freddi

Tale distinzione è fondamentalmente concettuale e


finalizzata alla utilizzazione delle modalità di analisi e di
valutazione appropriate al tipo di situazione in quanto a
questi tre tipi di ambiente vengono applicati metodi di
analisi e criteri di valutazione distinti.
Ambiente moderato

Il comfort termico e definito come quello stato psico-


fisico in cui il soggetto esprime soddisfazione nei
riguardi del microclima
OPPURE
Come la condizione in cui il soggetto non ha né
sensazione di caldo né sensazione di freddo, condizione
chiamata anche neutralità termica

Obbiettivo da perseguire per l’ambiente moderato !?


TUTELA DEL BENESSERE.
Ambiente moderato

Comfort termico globale (corpo intero)

Comfort termico locale (alcune zone del corpo)

Perché ci sia comfort termico globale, una condizione


necessaria è che l’energia interna del corpo umano non
aumenti né diminuisca, ovvero che nell’equazione di
bilancio termico il termine accumulo sia nullo
Ambiente moderato

Comfort termico globale (corpo intero)

Comfort termico locale (alcune zone del corpo)

Perché ci sia comfort termico globale, una condizione


necessaria è che l’energia interna del corpo umano non
aumenti né diminuisca, ovvero che nell’equazione di
bilancio termico il termine accumulo sia nullo
Ambiente moderato
Criteri di valutazione

Gli ambienti moderati sono individuati innanzitutto dal fatto


che impongono un "moderato" grado di intervento al
sistema di termoregolazione e che vi può risultare facilmente
realizzata la condizione di omeotermia del soggetto.

In concreto tali ambienti sono caratterizzati da:


– condizioni ambientali piuttosto omogenee e con ridotta
variabilità nel tempo;
– assenza di scambi termici localizzati fra soggetto ed ambiente
che abbiano effetti rilevanti sul bilancio termico complessivo;
– attività fisica modesta e sostanzialmente analoga per i diversi
soggetti;
– sostanziale uniformità del vestiario indossato dai diversi
operatori.
Ambiente moderato
Criteri di valutazione

La valutazione di tali ambienti viene realizzata con


riferimento al livello di benessere o disagio termico
provocato dagli occupanti.
Precisamente il benessere (o comfort) termico e' definito
come "quella condizione mentale in cui viene espressa
soddisfazione per l'ambiente termico" e sul piano tecnico
viene ad essere frequentemente identificato con la
neutralità termica, cioè con quello stato in cui il soggetto
non esprime preferenza ne' per un ambiente più caldo ne'
per uno più freddo di quello reale.
La funzione di un indice di benessere è quella di valutare la
sensazione termica avvertita nell'ambiente in esame, ovvero il
grado di insoddisfazione soggettivo.
Ambiente moderato
Criteri di valutazione

La sensazione termica e' determinata prevalentemente da sei


variabili:
 livello di attività fisica
 resistenza termica del vestiario
 temperatura radiante media
 temperatura dell'aria
 umidità relativa
 velocità dell'aria

Altri fattori possono comunque influenzare la sensazione


termica: ad esempio la struttura fisica individuale o le ultime
situazioni termiche subite. Per ridurre l'influenza di tali fattori
soggettivi e' stato valutato sperimentalmente il
comportamento e la sensazione termica media di un vasto
gruppo di persone in condizioni stabili.
Ambiente moderato
Criteri di valutazione

Tra gli indici identificati PMV e PPD


Questi due indici, strettamente correlati tra loro, consentono di
poter valutare le condizioni microclimatiche di un ambiente di
lavoro in funzione del giudizio (caldo, freddo, confortevole)
espresso dai soggetti in esame e del loro eventuale disagio termico.
Se il complesso di fattori:
 resistenza termica del vestiario
 attività fisica svolta
 parametri ambientali oggettivi
e' tale da soddisfare l'equazione del benessere termico per una
popolazione numerosa di soggetti, e' ragionevole attendersi che
mediamente i soggetti stessi esprimeranno una valutazione di piena
accettazione nei confronti dell'ambiente termico.
In caso contrario nascerà una insoddisfazione che potrà essere
apprezzata qualitativamente, ad esempio, mediante una scala di
sensazioni.
Gli indici sono stati descritti nelle slide precedenti
Ambiente moderato
Criteri di valutazione

La norma ISO 7730, tenendo conto che il mantenimento di


un valore di PMV=0 in permanenza nei diversi punti di un
ambiente è un livello difficilmente raggiungibile sul piano
tecnico, propone come obiettivo concreto la verifica che i
valori dell'indice si trovino nell'intervallo tra:
PMV = - 0,5 e PMV = + 0,5

Tale requisito, insieme al controllo dei fattori di disagio


termico, dovrebbe consentire il raggiungimento di un valore
PPD = 10% e il contenimento della percentuale reale
di insoddisfatti al di sotto del 20%.
Ambiente accettabile

Quali sono le condizioni per ritenere un ambiente


ACCETTABILE?

Un ambiente è definito accettabile quando sono


contemporaneamente verificate le condizioni di
comfort globale e locale

Comfort termico globale (corpo intero)

Comfort termico locale (alcune zone del corpo).


Ambienti termicamente severi

Per ambienti severi si intendono quelli nei quali, non essendo


perseguibile il comfort termoigrometrico, bisogna occuparsi
della salvaguardia della salute
Si distinguono in:

Caldi Freddi
Ambienti termicamente severi

Ambienti caldi

Le caratteristiche fondamentali degli ambienti caldi sono:


valori di temperatura elevati in relazione alle caratteristiche
dell'attività svolta e del vestiario indossato dagli operatori,
eventualmente accompagnati da alti valori di umidità relativa
dell'aria e richiedenti un considerevole intervento del
meccanismo di scambio termico per sudorazione al fine di
conservare l'omeotermia;
condizioni termoigrometriche differenti da posizione a
posizione di lavoro ed eventualmente anche entro una
posizione di lavoro;
sensibile variabilità nel tempo delle condizioni;
disuniformità del livello di impegno fisico richiesto e del
vestiario indossato dagli operatori.
Ambienti termicamente severi

Ambienti caldi

La valutazione degli ambienti caldi viene effettuata con


riferimento agli effetti acuti sull'individuo ed in
particolare al livello di sollecitazione del sistema di
termoregolazione, di norma assumendo come limite
quello che comporta un moderato aumento della
temperatura del nucleo corporeo (indicativamente di
1°C)
I diversi criteri per la valutazione dello stress
termico in ambienti caldi si basano generalmente
sulla elaborazione di diversi indici
Ambienti termicamente severi

Ambienti freddi

Gli ambienti termici freddi sono caratterizzati da condizioni


che richiedono un sensibile intervento del sistema di
termoregolazione umano per limitare la potenziale eccessiva
diminuzione della temperatura caratteristica dei diversi
distretti ed in particolare del nucleo corporeo.
L'azione termoregolatrice si traduce sul piano fisiologico
nella vasocostrizione dei capillari cutanei, che comporta una
diminuzione della temperatura della cute e nell'incremento
della produzione di calore per via metabolica, ottenuto
mediante i brividi. Tale azione, nel caso di ambienti freddi, non
può superare limiti relativamente ristretti per cui in tali
ambienti risulta di fondamentale importanza l'azione
termoregolatrice volontaria dell'individuo che si esplica nella
esecuzione di movimenti non strettamente necessari, nella
adozione di un vestiario maggiormente isolante,
nell'allontanamento dall'ambiente freddo.
Ambienti termicamente severi

Ambienti freddi

In concreto e con specifico riferimento alle attività lavorative,


gli ambienti freddi presentano i seguenti aspetti fondamentali:
valori di temperatura bassi (indicativamente compresi fra 0 e
100 C per ambienti moderatamente freddi e inferiori a 00C
per ambienti freddi severi)
contenuta variabilità spaziale e temporale delle condizioni
attività fisica e tipologia del vestiario indossato abbastanza
uniformi
Non esistono allo stato attuale criteri di valutazione di ampia
e affidabile applicabilità.
Ambienti termicamente severi

Come definire se l’ambiente è moderato o severo?

Quale obbiettivo dobbiamo perseguire nell’ambiente


moderato?

Quale obbiettivo dobbiamo perseguire nell’ambiente


severo?
Microclima freddo
Indici e problematiche

Quali le attività da svolgere in ambienti freddi?


AMBIENTI DELL'INDUSTRIA ALIMENTARE

ORTOFRUTTICOLI 6 ÷ 12°C
PASTE FRESCHE 0 ÷ 10°C
SALUMI -2 ÷ 12°C
CARNI E PESCI -1 ÷ 8°C
LATTICINI 0 ÷ 10°C
SURGELATI -18 ÷ 40 °C
CONGELATI -18 ÷ 40°C
GELATI -18 ÷ 40 °C.
Microclima freddo
Indici e problematiche

Come si ottiene al freddo il mantenimento del bilancio


termico?

Con la regolazione vasomotoria ed utilizzando alcuni


artifici,
con la variazione della postura del corpo (per
modificare l’area della superficie corporea offerta allo
scambio termico),
con la scelta di un abbigliamento opportuno.
Ambienti freddi
Criteri di valutazione

Norma UNI ENV ISO 11079: 2001


VALUTAZIONE DEGLI AMBIENTI FREDDI

Determinazione dell’isolamento richiesto dagli indumenti


(IREQ)

TEMPERATURA OPERATIVA da –50°C a 10°C


VELOCITÀ DELL’ARIA da 0 a 10m/s.
Ambienti freddi
Criteri di valutazione

Indice IREQ

Serve per regolare la quantità di energia termica


dispersa dal corpo
Valutazione dell’isolamento termico dell’abbigliamento
richiesto per mantenere in equilibrio il bilancio termico
del corpo
Si calcola attraverso un’equazione che viene risolta
rispetto all’isolamento termico dell’abbigliamento
richiesto IREQ.
Ambienti freddi
Criteri di valutazione

Il metodo IREQ comprende le seguenti fasi:

misurazione dei parametri microclimatici dell’ambiente


determinazione del livello di attività (tasso metabolico)
calcolo dell’isolamento termico dell’abbigliamento
richiesto (IREQ) confronto con l’isolamento termico
fornito dall’abbigliamento disponibile
valutazione delle condizioni di equilibrio termico e
calcolo della
durata massima di esposizione raccomandata (DLE).
Ambienti freddi
Criteri di valutazione

Il metodo IREQ comprende le seguenti fasi:

misurazione dei parametri microclimatici dell’ambiente


determinazione del livello di attività (tasso metabolico)
calcolo dell’isolamento termico dell’abbigliamento
richiesto (IREQ) confronto con l’isolamento termico
fornito dall’abbigliamento disponibile
valutazione delle condizioni di equilibrio termico e
calcolo della
durata massima di esposizione raccomandata (DLE).
Ambienti freddi
Criteri di valutazione

Valutazione della situazione reale

Applicazione
IREQ min criterio alla IREQ neu
situazione reale

Intervallo teorico
ottimale di valori di
isolamento del
vestiario

Da confrontare con l’effettivo abbigliamento indossato


dagli operatori
Ambienti freddi

Raffreddamento locale

Particolare attenzione a:
• MANI
• PIEDI
• TESTA
Può produrre:
• discomfort
• decadimento prestazioni mentali e fisiche
• danno da freddo
Bibliografia

 http://www.ergonomia.corep.it/fonti_amb_term.html
 http://www.ergonomia.corep.it/fonti_amb_term.html
 http://www.puntosicuro.it/sicurezza-sul-lavoro-C-1/settori-C-
4/industria-C-14/luoghi-di-lavoro-microclima-stress-termico-da-
temperatura-AR-10003/
 http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/100622_Polistu
dio_rischio_microclima.pdf
 http://www.frareg.com/news/documentazione/sicurezza/microclima
_asl_verona.pdf
 Altro materiale non riconducibile al titolare di diritti di autore
Università degli Studi di Genova
DIME
Dipartimento di Ingegneria meccanica, energetica,
gestionale e dei trasporti

Sicurezza degli impianti industriali

Ergonomia: illuminazione
Agenda

 Ambiente luminoso
 Impianti di illuminazione:
Metodo punto a punto
Metodo del flusso totale
Ambiente luminoso

Premessa
La parola ergonomia deriva dal greco ergo, che significa
lavoro, e nomos che significa legge, regolamento. L’ergonomia
rappresenta quindi la scienza che studia le performance
lavorative e il loro benessere, in relazione alle finalità della
propria attività, alle attrezzature di lavoro ed all’ambiente di
lavoro. Questo si traduce in pratica nella progettazione di
prodotti e/o processi che utilizzino le capacità di un
individuo, tenendo conto delle sue esigenze fisiologiche e
psico intellettive.
L’ergonomia cerca quindi di individuare i parametri più
importanti per il corretto rapporto uomo/lavoro, per
eliminare i fattori negativi che possono essere presenti e
rendere quindi più facile e naturale l’utilizzo degli oggetti di
lavoro.
Ambiente luminoso

Luoghi di lavoro

L’illuminazione deve essere sempre adeguata qualitativamente e


quantitativamente al tipo di operazione eseguita
Una illuminazione insufficiente diminuisce l’acuità visiva favorendo
l’insorgenza di affaticamento visivo, l’assunzione di posture
scorrette e aumentando la possibilità di compiere errori.
L’abbagliamento, a sua volta, può determinare una riduzione
dell’acuità visiva o difficoltà di accomodazione, con conseguenti
difficoltà e affaticamento visivo.
In queste condizioni i lavoratori possono lamentare disturbi quali
mal di testa, bruciore agli occhi, lacrimazione etc, e tenderanno ad
avvicinarsi all’oggetto con conseguente assunzione di posture
scorrette.
Ambiente luminoso

Luoghi di lavoro

Di tutti i fattori ambientali l’illuminazione è l’unico per il quale il


D.P.R. 303/56 prevedesse dei limiti numerici oltre a prescrivere
che “i locali dovevano essere convenientemente illuminati a luce
naturale diretta”
 per ambienti destinati a deposito 10 lux
 per passaggi, corridoi e scale 20 lux
 per lavori grossolani 40 lux
 per lavori di media finezza 100 lux
 per lavori fini 200 lux
 per lavori finissimi 300 lux
Tali valori, certamente bassi, sono stati poi modificati in
relazione alle reali esigenze del posto di lavoro.
Vedere la slide successiva.
Ambiente luminoso

Luoghi di lavoro

Valori di illuminamento norme UNI

per uffici generici 500 lux


per uffici tecnici e tavoli da disegno 750 lux
sale di riunione 500 lux
uffici di dattilografia e contabilità 500 lux
centro elaborazione dati 500 lux
archivi 200 lux
Ambiente luminoso

Luoghi di lavoro

I luoghi di lavoro devono disporre di sufficiente luce


naturale, in ogni caso tutti i locali e i luoghi di lavoro
devono essere dotati di dispositivi che consentano
un’illuminazione artificiale adeguata per salvaguardare la
sicurezza la salute e il benessere dei lavoratori.
Ambiente luminoso

Videoterminale (un esempio)

Titolo VII D.LGS. 81/08


 VIDEOTERMINALE: schermo alfanumerico o grafico
 POSTO DI LAVORO: insieme che comprende tutte le attrezzature
 LAVORATORE: chi che lo utilizza abitualmente per 20 ore settimanali

Il Datore di Lavoro deve:

Valutare tale rischio Far sottoporre i Formare e informare i


-postura lavoratori a visita lavoratori su:
- vista medica biennale con il posto di lavoro, la
idoneità del medico protezione della vista, lo
-ergonomia
svolgimento dell’attività
Ambiente luminoso

Videoterminale

Evitare sorgenti con


Illuminazione: forte
valori tra 300 e 500 luminosità. Davanti e
lux. Lampade con dietro il monitor
griglia antiriflesso non ci devono
essere finestre

Lo schermo deve Lavoro al La distanza visiva


essere orientabile. videoterminale dal monitor varia
La tastiera tra 50 e 80 cm
inclinabile

E’ consigliato il
La sedia di altezza tavolo di misure
consigliata tra 42 e 120x80, profondo 90
55 cm regolabile e di colore chiaro alto
inclinabile tra 70 e 80 cm
Impianti di illuminazione

L’illuminazione di un locale industriale influenza sia


la percentuale di infortuni che la qualità della
produzione

Illuminamento scarso significa :


 Un progressivo senso di stanchezza degli operatori
 Più elevate percentuali di infortuni
 Maggiori scarti nelle lavorazioni
Impianti di illuminazione

Lo spettro visibile è quello compreso tra le


lunghezze d’onda di :
◦ 380 nm ( ULTRAVIOLETTO )
◦ 780 nm ( INFRAROSSO )

La luce solare e quella delle lampade ad incandescenza sono a


spettro continuo
Lo spettro delle lampade a scarica di gas rarefatti è discontinuo
Lo spettro della luce emessa da una sorgente può essere continuo
o discontinuo
Impianti di illuminazione

Spettro delle radiazioni elettromagnetiche


Impianti di illuminazione

Intensità luminosa:
unità di misura la candela [cd], è l’ intensità luminosa emessa
da un corpo nero alla temperatura di solidificazione del
platino in direzione perpendicolare al foro di uscita (avente
un’area di 1/600000 m2 ) sotto la pressione di 101325 Pa.

Flusso luminoso:
unità di misura il lumen [lm], è il flusso luminoso emesso
dall’angolo solido di uno steradiante (sr) da una sorgente
puntiforme, isotropa, avente intensità luminosa di una
candela: 1 lm = 1 cd * 1 sr
Impianti di illuminazione

Illuminamento:
unità di misura il lux [lx], è l’ illuminamento prodotto su
una superficie di area 1 m2 dal flusso luminoso di 1 lm
incidente perpendicolarmente: 1 lux = 1 lm/ m2

Luminanza:
unità di misura il nit [nt], luminanza (o brillanza) di una
superficie di area 1m2 che emette in direzione
perpendicolare radiazioni con intensità luminosa di 1 cd:
1 nt = 1 cd/ m2
Impianti di illuminazione

Esempi

Intensità luminosa:
- proiettore con lampada da 1000 lm: 80000 cd su pochi steradianti
- diffusore con lampada da 1000 lm: 250 cd su 90 str

Flusso luminoso:
- lampada di segnalazione al neon: 0,6 lm
- tubo fluorescente 36 W: 2500 - 3600 lm
- lampada al sodio ad alta pressione 400 W: 100000, 140000 lm
- lampada allo xenon da 20000 W: 500000 lm
Impianti di illuminazione

Esempi

Illuminamento:
- chiaro di luna: 0,2 lx
- illuminazione stradale: 5 - 40 lx
- illuminazione industriale: 100 - 1000 lx
- illuminazione solare: 90000 lx

Luminanza:
- luna: 4000 cd/m2
- sole: 1 600 000 000 cd/m2
Impianti di illuminazione

Fenomeno dell’abbagliamento

Abbagliamento perturbatore: riduce la possibilità di vedere


chiaramente i dettagli od i contrasti

Abbagliamento inconfortevole: causata da oggetti a luminanza


molto più elevata, in genere alla periferia del campo visivo,
provoca sensazione sgradevole

L’abbagliamento può essere causato sia dalle lampade nude e


dagli apparecchi di illuminazione (abbagliamento diretto), sia
dalle elevate luminanze prodotte dalle superfici lucide
(abbagliamento riflesso)
Impianti di illuminazione

Apparecchi di illuminazione

Apparecchio di illuminazione: si intende il contenitore della


sorgente luminosa
Ha due funzioni :
- fornire adeguata protezione meccanica, termica ed elettrica
alle sorgenti luminose
- modificare l’emissione del flusso della sorgente luminosa
adattandola alle necessità dell’impianto
RENDIMENTO dell’apparecchio di illuminazione : si intende il
rapporto tra
- flusso luminoso emesso dall’apparecchio
- flusso luminoso emesso dalla lampada nuda
Per apparecchi industriali è compreso tra 65% e 85%
Impianti di illuminazione

Manutenzione degli impianti di illuminazione

L’efficienza nel tempo dell’impianto illuminante è


assicurata dai seguenti interventi :
- pulizia dei corpi illuminanti
- ridecorazione di pareti e soffitti
- sostituzione delle fonti luminose
Impianti di illuminazione

Manutenzione degli impianti di illuminazione

Decadimenti percentuali per insudiciamento degli apparecchi di illuminazione


Impianti di illuminazione

Manutenzione degli impianti di illuminazione

Cicli manutentivi per impianti di illuminazione


Impianti di illuminazione

Criteri di scelta degli impianti

In fase di progetto si deve tenere conto dei seguenti


parametri:
esigenze illuminotecniche
esigenze di installazione
condizioni di esercizio
Impianti di illuminazione

Criteri di scelta degli impianti

Esigenze illuminotecniche:
- livello di illuminamento adeguato al compito visivo
- rapporto di luminanza
- indice ammissibile di abbagliamento
- direzionalità della luce
- colore della luce
- resa cromatica.
Impianti di illuminazione

Criteri di scelta degli impianti

Esigenze di installazione:
- altezza di installazione
- vincoli alla disposizione planimetrica
- eventuale necessità di due livelli di illuminazione
- colore delle pareti, soffitto, pavimento
- condizioni ambientali
- elementi riflettenti (pavimenti,macchine, scrivanie).
Impianti di illuminazione

Criteri di scelta degli impianti

Condizioni di esercizio:
- ore annue di funzionamento dell’impianto
- costo dell’ energia elettrica per l’illuminazione
- costo della manutenzione periodica.
Impianti di illuminazione

Metodi di calcolo dell’illuminamento

I metodi di calcolo più usati sono :

- metodo punto per punto ( consigliato per aree


all’aperto )
- metodo del flusso totale ( consigliato per
ambienti chiusi )
Impianti di illuminazione

Metodi di calcolo dell’illuminamento


Metodo del punto per punto

- h = distanza della sorgente dal pavimento o dal


piano di lavoro (metri)
- r = distanza del punto illuminato dalla sorgente
(metri)
- l = intensità luminosa emessa dalla sorgente nella
direzione del punto (valore in candele - fornito dal
diagramma di emissione)
L’illuminamento En prodotto da una sorgente puntiforme
su una superficie varia con il quadrato della distanza fra
sorgente e superficie e vale, sul piano perpendicolare al
raggio :
Continua
Impianti di illuminazione

Metodi di calcolo dell’illuminamento


Metodo del punto per punto

Curve polari di emissione degli


apparecchi
Impianti di illuminazione

Metodi di calcolo dell’illuminamento


Metodo del punto per punto

• I valori così ottenuti (vedere slide precedente) devono


poi essere divisi per il fattore di manutenzione previsto
in rapporto al ciclo manutentivo.

• I costruttori di apparecchi di illuminazione hanno


messo a punto programmi su calcolatore per il
tracciamento delle curve isolux e per la scelta ottimale
degli apparecchi.
Impianti di illuminazione

Metodi di calcolo dell’illuminamento


Metodo del flusso totale

Tiene conto di diversi fattori quali:


dimensioni del locale
caratteristiche dell’apparecchio
colore delle pareti, soffitto e pavimento

Si basa sull’impiego di numerosi coefficienti ed i risultati


devono essere corretti con il fattore di manutenzione.
Impianti di illuminazione

Metodi di calcolo dell’illuminamento


Metodo del flusso totale

Le espressioni fondamentali sono:

Dove:
Impianti di illuminazione

Metodi di calcolo dell’illuminamento


Metodo del flusso totale

Il coefficiente di utilizzazione (u) è fornito dal costruttore


degli apparecchi di illuminazione , in funzione dei fattori di
riflessione, del tipo di apparecchio di illuminazione, di
lampada e dell'indice del locale K, definito da:

K = ab/h(a+b)

dove a e b sono le dimensioni in pianta del locale ed h l’altezza


degli apparecchi di illuminazione sul piano di lavoro.
Impianti di illuminazione
Curve fotometriche (1)
Impianti di illuminazione
Curve fotometriche (2)
Impianti di illuminazione

Installazione degli apparecchi di illuminazione

Obiettivi :
razionalizzare e regolare l’installazione delle lampade
facilità di accesso per manutenzione
non interferenza con altri servomezzi e strutture
eventuale potenziamento del livello di illuminazione.
Illuminazione di emergenza

Per illuminazione d’emergenza s’intende l’illuminazione ausiliaria


che interviene quando quella ordinaria viene a mancare.

Illuminazione di
emergenza

Illuminazione di Illuminazione di
sicurezza riserva

Illuminazione di Illuminazione di
Illuminazione
sicurezza per aree ad alto
antipanico
l’esodo rischio
Illuminazione di emergenza

Illuminazione di riserva
Consente di continuare o terminare l’attività ordinaria senza
sostanziali cambiamenti.

Illuminazione di sicurezza
Parte dell'illuminazione di emergenza, destinata a provvedere
all’illuminazione per la sicurezza delle persone durante
l'evacuazione di una zona o di coloro che tentano di
completare un'operazione potenzialmente pericolosa prima
di lasciare la zona stessa. È destinata ad evidenziare i mezzi di
evacuazione ed a garantire che possano essere sempre
individuati ed utilizzati con sicurezza, quando risulta
necessaria l’illuminazione ordinaria o quella di emergenza.
Illuminazione di emergenza

L’illuminazione di sicurezza viene ulteriormente suddivisa in:


Illuminazione di sicurezza per l’esodo
Parte dell'illuminazione di sicurezza, destinata ad assicurare che i
mezzi di fuga possano essere chiaramente identificati e utilizzati in
sicurezza quando la zona è occupata.
Illuminazione antipanico di aree estese (conosciuta in alcuni
paesi come illuminazione antipanico)
Parte dell'illuminazione di sicurezza, destinata ad evitare il panico e
a fornire l'illuminazione necessaria affinché le persone possano
raggiungere un luogo da cui possa essere identificata una via di
esodo.
Illuminazione di aree ad alto rischio
Parte dell'illuminazione di sicurezza, destinata a garantire la
sicurezza delle persone coinvolte in processi di lavorazione o
situazioni potenzialmente pericolose e a consentire procedure di
arresto adeguate alla sicurezza dell'operatore e degli occupanti dei
locali.
Impianti di illuminazione
Riferimenti bibliografici

http://www.iuav.it/Servizi-IU/servizi-ge1/prevenzion/formazione/postura.pdf

http://corsiadistanza.polito.it/corsi/pdf/02BGHDN/Lezione_Impianti_Illumina
zione_Ed01.pdf

http://www.slideshare.net/ettoross/d-lgs-81-08

http://www.ingegnerianet.it/ingegnere_silvestro_giordano/tesi/capitolo2.pdf

Altro materiale non riconducibile al titolare di diritti di autore


Università degli Studi di Genova
DIME
Dipartimento di Ingegneria meccanica, energetica,
gestionale e dei trasporti

Sicurezza degli impianti industriali

Ergonomia: rumore
Agenda

 Rumore e analisi dell’ambiente sonoro

 Fonoassorbimento

 Fonoisolamento
Premessa: analisi del disturbo e azioni di
contenimento

Lo studio dei fenomeni legati alla generazione e


propagazione del suono si esplica mediante le seguenti
azioni:
1. analisi a livello ambientale (sorgenti esterne);
2. analisi a livello edilizio (sorgenti esterne ed interne);
3. azioni di controllo effettuate nell’ordine sulla sorgente,
sul percorso di propagazione e sul ricettore;
4. analisi del livello di disturbo provocato dal rumore e
sulla conseguente tollerabilità o meno;
5. analisi della risposta dell’orecchio umano alle
sollecitazioni sonore (acustica psicofisica).
Quando un suono è percepito come fastidioso si parla
di rumore.
Rumore

Il suono è una perturbazione meccanica emessa da una sorgente che si


propaga in un mezzo elastico (gas, liquido, solido) sotto forma di
vibrazioni e che è in grado di eccitare il senso dell’udito.

SORGENTE Propagazione RICEVITORE


Rumore

EMISSIONE, PROPAGAZIONE, RICEZIONE


DEL SUONO

• Emissione: meccanismo con cui una sorgente sonora


provoca un movimento oscillatorio in un mezzo elastico.

• Propagazione: meccanismo con cui il movimento è


trasmesso e si propaga attraverso il mezzo.

• Ricezione: meccanismo con cui il suono è rivelato e


trasformato in sensazione fisiologica (orecchio umano) o in
segnale misurabile (strumento di misura)
Rumore
Livelli di pressione sonora (dB) nella vita quotidiana

5 – 10 Soglia di udibilità
20 Tic tac di un orologio
30 - 40 Biblioteca / abitazione silenziosa
60 - 70 Conversazione / ufficio affollato
70 - 80 Traffico stradale / aspirapolvere

90 - 100 Motociclo in accelerazione

100 - 110 Tromba di automobile / tessitura


110 - 120 Martello pneumatico / allarme
120 Motori e reattori al banco/discoteca in talune
situazioni

130 Aereo a reazione al decollo


Il suono e il rumore

Il SUONO è prodotto da onde acustiche regolari e


periodiche con uguale frequenza (toni puri)

Il RUMORE è invece prodotto da onde


irregolari e non periodiche che generano
una sensazione sgradevole e fastidiosa
dell'orecchio

Effetti del rumore: dipendono principalmente dall’intensità e dalla


durata dell’esposizione.
A livello uditivo l’esposizione a rumore elevato per tempi prolungati può
determinare l’insorgenza di ipoacusia neurosensoriale bilaterale (deficit
uditivo che riguarda entrambe le orecchie)
Il suono e il rumore
Il suono e il rumore
Tipologia del rumore

Quando si misura il rumore, dobbiamo riconoscerne il


tipo, in modo da scegliere i parametri da misurare, la
strumentazione da impiegare e la durata della misura. Si
distinguono diversi tipi di rumore:
Rumore di tipo continuo: es. industrie, macchinari, etc

Rumore intermittente: es. velivoli, veicoli, etc


La propagazione del rumore

I fattori più importanti che influenzano la


propagazione del rumore sono:

• Tipo di sorgente (puntiforme o lineare)


• Distanza dalla sorgente
• Assorbimento acustico atmosferico
• Vento
• Temperatura e gradiente termico
• Ostacoli come barriere o fabbricati
• Assorbimento del suolo
• Riflessioni
• Umidità
• Precipitazioni
Tipi di sorgente

Sorgente puntiforme
Se le dimensioni di una sorgente sono piccole, in confronto
alla distanza dell’ascoltatore, questa è chiamata sorgente
puntiforme. La pressione sonora si propaga in modo sferico,
cosicché il livello sonoro è lo stesso per tutti i punti posti
alla stessa distanza dalla sorgente.

Sorgente lineare
Può essere una sorgente unica, come una conduttura, oppure
può essere composta da molte sorgenti puntiformi che
funzionano simultaneamente, come un flusso di veicoli su una
strada ad alto scorrimento. Il livello sonoro si propaga in
modo cilindrico così il livello di pressione sonora è lo stesso
in tutti i punti posti alla stessa distanza dalla linea.
Il rumore: la sordità

La sordità si instaura in quattro fasi

1. Ridotta capacità uditiva temporanea dopo esposizione


a rumore, sensazione di orecchie ovattate
2. Apparente stato di benessere
3. Difficoltà alla percezione dei toni acuti
4. Difficoltà a percepire la conversazione
Il rumore: la sordità

La fase 4 si instaura quando l’esposizione al rumore ha una


durata tale da non consentire il recupero uditivo e si parla
pertanto di
IPOACUSIA DA RUMORE
Al fine di comprimere l’intervallo di variabilità della
pressione sonora è stata introdotta la scala logaritmica o
scala dei livelli.
Il livello, espresso in dB, è pari a dieci volte il logaritmo
decimale del rapporto fra una data grandezza ed una
grandezza di riferimento, omogenee fra di loro.

N.B.
La scala dei decibel non è lineare, per cui non si
possono sommare i livelli sonori in modo aritmetico
ma occorre ricorrere ai logaritmi; ad es.:
80 dB + 80 dB = 83 dB. 3 dB in più equivale al
raddoppio della potenza sonora
Per quantificare l’esposizione di un lavoratore al rumore si
utilizza il LIVELLO EQUIVALENTE

È il livello, espresso in dB, di un ipotetico rumore costante che,


se sostituito al rumore reale per lo stesso intervallo di tempo T,
comporterebbe la stessa quantità totale di energia sonora.
VALORE ENERGETICO MEDIO

LAeq,Te
LIVELLO DI ESPOSIZIONE GIORNALIERA AL RUMORE: valore
medio, ponderato in funzione del tempo, dei livelli di esposizione al
rumore per una giornata lavorativa nominale di 8 ore, definito dalla
norma internazionale ISO 1999:1990 punto 3.6. Si riferisce a tutti i
rumori sul lavoro, incluso il rumore impulsivo
Accanto al livello sonoro continuo equivalente viene utilizzato un
secondo parametro, comunemente noto come livello di picco.
Tale livello è definito come Pressione Acustica di Picco

PRESSIONE ACUSTICA DI PICCO (Ppeak): valore massimo della


pressione sonora acustica istantanea ponderata in frequenza C

Ppeak

N.B. E’ molto importante nella valutazione del rumore impulsivo.


È noto infatti che a parità di contenuto energetico medio, un rumore che presenta
caratteristiche di impulsività costituisce un fattore di rischio aggiuntivo per la salute di
cui bisognerebbe tenere conto nella valutazione del rischio.
Il rumore: la normativa

Valori limite di esposizione e valori di azione

Valori limite di esposizione LEX,8h = 87 dB(A)


Ppeak = 140 dB(C)

Valori superiori di esposizione LEX,8h = 85 dB(A)


che fanno scattare l’azione Ppeak = 137 dB(C)

Valori inferiori di esposizione LEX,8h = 80 dB(A)


che fanno scattare l’azione Ppeak = 135 dB(C)

Ad ogni valore del livello sonoro LEX,8h viene affiancato anche un


valore di picco a riconoscimento dell’aggravio di rischio uditivo
rappresentato dal rumore impulsivo
1. Nell’ambito della valutazione dei rischi di cui all’art. 190, il datore di lavoro
valuta il rumore durante il lavoro, considerando:
a) livello, tipo e durata dell’esposizione, ivi incluso il rumore impulsivo;
b) i valori limite di esposizione e i valori di azione;
c) tutti gli effetti sulla salute e sicurezza dei lavoratori particolarmente sensibili
al rumore;
d) tutti gli effetti sulla salute e sicurezza derivanti da interazione fra rumore e
sostanze ototossiche e vibrazioni;
e) tutti gli effetti sulla salute e sicurezza risultanti da interazione fra rumore e
segnali di avvertimento;
f) le informazioni sull’emissione di rumore fornite dai costruttori delle
attrezzature di lavoro;
g) esistenza di attrezzature di lavoro alternative progettate per ridurre
l’emissione di rumore;
i) le informazioni raccolte dalla sorveglianza sanitaria e quelle reperibili in
letteratura;
l) la disponibilità di DPI dell’udito con adeguate caratteristiche di attenuazione.
NON SUPERAMENTO DEL VALORE INFERIORE DI
AZIONE
LEX8h < 80 dB(A) – 135 dB(C)

OBBLIGHI Datore di Lavoro: Valutazione del rischio


SUPERAMENTO DEL VALORE INFERIORE DI AZIONE
LEX8h > 80 dB(A) – 135 dB(C)

OBBLIGHI Datore di Lavoro:


 Misura dei livelli di esposizione
 Informazione e formazione
 Sorveglianza sanitaria a chi ne fa richiesta o qualora il M.
C. ne conferma l’opportunità
 Messa a disposizione dei D.P.I.
SUPERAMENTO DEL VALORE SUPERIORE DI AZIONE
LEX8h => 85 dB(A) – 137 dB(C)

OBBLIGHI Datore di Lavoro:


 Sorveglianza sanitaria
 Elabora ed applica un programma di misure tecniche ed
organizzative volte a ridurre l’esposizione al rumore
 Fa tutto il possibile per assicurare che vengano indossati i
D.P.I.
 Perimetra / limita l’accesso e munisce di adeguata
segnaletica
SUPERAMENTO DEL
VALORE LIMITE DI ESPOSIZIONE
LEX8h > 87 dB(A) – 140 dB(C)

OBBLIGHI Datore di Lavoro:


AZIONI IMMEDIATE:
RIDUZIONE DELL’ESPOSIZIONE
INDIVIDUAZIONE CAUSE
MODIFICHE MISURE PREVENTIVE
E PROTETTIVE
Considerato che:
• Ai fini di valutare il rispetto dei valori limite di
esposizione si tiene conto dell’attenuazione prodotta
dai D.P.I.
• E’ estremamente raro individuare casi di esposizione
media giornaliera superiore a 100 – 105 db(A).
• L’attenuazione dichiarata per i D.P.I. è normalmente
superiore a 20 db.

Si deduce che:
• Il valore di 87 db(A), più che un vero e proprio valore
limite, rappresenta un “rafforzativo” dell’obbligo di
impiego dei D.P.I.
D.P.I. (Dispositivi di Protezione Individuale)

INSERTI (ovatte e filtri da introdurre


nel condotto uditivo)

CUFFIE (adatte a esposizioni prolungate,


più efficaci degli inserti, permettono
l’ascolto della voce di conversazione)

CASCHI (indicati per attività particolarmente


rumorose, ingombranti, non permettono
l’ascolto della voce di conversazione)
D.P.I. (Dispositivi di Protezione Individuale)

 Protezione adeguata max 80 dB(A) e min 65 db(A)


 Adeguati alle condizioni di lavoro
 Rispondere alle esigenze ergonomiche o di salute (vanno
scelti previa consultazione dei lavoratori o dei loro
rappresentanti)
 Obbligo di addestramento all’uso
 Inoltre il Datore di Lavoro deve verificarne l’efficacia

Es.Verificare che non si siano determinati peggioramenti


nella funzionalità uditiva dei lavoratori del gruppo
omogeneo; nel caso affrontare il problema con il M.C.
D.P.I. (Dispositivi di Protezione Individuale)

Valutazione dell’attenuazione sonora di un protettore


auricolare
Fonoassorbimento

Uno dei principi fondamentali della fisica, che vale anche per
l'acustica, è quello dell’ impossibilità di distruggere l'energia
che può soltanto essere trasformata.
La fonoassorbenza è la proprietà specifica di ciascun
materiale e si definisce come la capacità di assorbire onde
sonore, non riflettendole nell’ambiente circostante.
L'assorbimento acustico (fonoassorbimento o
fonoassorbenza) è la capacità di un materiale di dissipare
l'energia sonora convertendola in calore.
Dal punto di vista acustico quindi, una parte dell'energia (Ei)
che colpisce un corpo viene riflessa (Er) ma una parte viene
assorbita (Ed) dal materiale e convertita in calore secondo la
formula Ei=Er+Ed.
Fonoassorbimento

Assorbimento acustico

Energia incidente

Energia riflessa

Energia assorbita
Fonoassorbimento

Il coefficiente di assorbimento d è il rapporto tra l'energia


assorbita e l'energia incidente sulla superficie di un materiale,
ne consegue che 0<=d<=1: più alto è il valore che ne deriva,
maggiore sarà la capacità fonoassorbente del materiale
ossia il suo potere fonoassorbente. Se il coefficiente di
assorbimento è pari a 0 l'energia sonora incidente sarà
totalmente riflessa, se pari ad 1 verrà del tutto assorbita.

Il coefficiente di assorbimento varia, e anche sensibilmente, al


variare dell'angolo di incidenza dell'onda sonora e a seconda
della frequenza del suono. Per ragioni tecnico-pratiche nella
risoluzione delle problematiche di acustica ambientale e
architettonica è importante calcolare il coefficiente di
assorbimento in campo diffuso tenendo conto quindi di una
incidenza casuale del flusso sonoro. In questo caso si utilizza
il coefficiente di Sabine (dal nome dell'omonimo fisico),
che è quindi quello solitamente indicato nella scheda tecnica
che contraddistingue ogni materiale fonoassorbente.
Fonoassorbimento

Ad una alta capacità fonoassorbente del materiali


corrisponde una blanda capacità fonoisolante degli stessi,
visto il loro basso peso specifico. Pertanto un buon
materiale fonoassorbente solitamente ha uno scarso potere
fonoisolante e viceversa. Del resto i materiali
fonoassorbenti grazie alle loro caratteristiche intrinseche
in linea tendenziale sono anche dei buoni isolanti termici.
Adesso considereremo in concreto le modalità attraverso
cui è possibile conseguire significativi valori di
fonoassorbenza.
Fonoassorbimento
Assorbimento per porosità

In questo caso l'assorbimento acustico è dovuto al


fenomeno della viscosità: la dissipazione dell'onda
sonora avviene per trasformazione del suono in energia
cinetica allorché lo stesso attraversa il materiale e la
capacità fonoassorbente è influenzata da densità e
spessore di quest'ultimo.
I materiali assorbenti per porosità si possono a loro
volta distinguere in:
◦ materiali fibrosi (lana di vetro, lana di roccia, truciolati di legno,
sughero, fibre di poliestere, gesso, cartongesso, moquette,
linoleum, tendaggi, tessuti naturali e artificiali di vario tipo)
◦ materiali a cellule aperte (schiume poliuretaniche, poliuretano
espanso, foam melamminico)
Fonoassorbimento
Assorbimento per porosità

L'assorbimento per porosità risulta generalmente


elevato alle frequenze medie e medio-alte mentre
per ottenere un significativo smorzamento delle basse
frequenze si richiede l'utilizzo di spessori elevati di
materiale. Per un'efficace impiego del materiale
fonoassorbente occorre discostarlo di qualche
centimetro (minimo 5 cm fino ad oltre 30 cm) dagli
elementi strutturali piani (si pensi al caso dei
controsoffitti in cartongesso con eventuale aggiunta di
lana minerale).
Fonoassorbimento
Assorbimento per porosità

Per aumentare il potere fonoassorbente dei materiali porosi piuttosto che


utilizzare quelli di tipo liscio ( A) è possibile conformarli con sagomature tali
da aumentarne la superficie totale di contatto con l'onda sonora, per una
migliore dissipazione cinetica come nel caso dei materiali fonoassorbenti
piramidali (B), bugnati (C) o dei baffles sfaccettati di tipo Keller (D).

Materiali fonoassorbenti porosi (assorbenti acustici per porosità)

A B C D
Liscio Bugnato Piramidale Keller
Fonoassorbimento
Assorbimento per risonanza di membrana

L'assorbimento avviene tramite il posizionamento di un


pannello di buona densità a distanza di qualche decina di
centimetri dalla parete di modo che lo smorzamento si
verifica tramite il sistema massa-aria-massa che entra in
gioco anche per realizzare prestazioni di tipo fonoisolante. Il
pannello risuona alla sua frequenza di coincidenza e l'energia
sonora viene smorzata dal cuscino d'aria retrostante.
Naturalmente l'efficacia di questo sistema è limitata
all'assorbimento di quelle frequenze per le quali avviene la
risonanza, tuttavia è sufficiente frapporre nell'intercapedine
del materiale fonoassorbente di tipo poroso o fibroso per
aumentare l'efficacia fonoassorbente su una gamma sonora
ben più ampia.
Fonoassorbimento
Assorbimento per risonanza di membrana

Sistemi fonoassorbenti per risonanza di membrana: sistema semplice


(fig. 1) e sistema con interposto materiale poroso (fig. 2) per
migliorare la fonoassorbenza su un più ampio frequence range.

Fig. 1 Fig. 2
Fonoassorbimento
Assorbimento per risonanza di cavità

L'assorbimento avviene per viscosità che si realizza all'imboccatura


(collo) di un area cava al'interno del materiale, che pertanto si
presenta forato o fessurato, tramite il principio di funzionamento
del cosiddetto risuonatore di Helmoltz.
Si tratta di una forma di assorbimento molto selettiva che agisce su
una gamma parecchio ristretta di frequenze. E' la soluzione elettiva
per quelle fattispecie di correzione acustica ambientale limitate a
specifiche e omogenee fonti di disturbo (es: voce umana, macchinari
rumorosi analoghi tra di loro).
Naturalmente qualora le esigenze di fonoassorbimento riguardino
uno spettro sonoro particolarmente ampio si potrà ricorrere a
soluzioni miste che adottano contemporaneamente le tecnologie
suddette (es: materassino assorbente per porosità posto dietro
pannelli forati che assorbono per risonanza di cavità).
Fonoassorbimento
Assorbimento per risonanza di cavità

L'assorbimento acustico determina delle modificazioni sui tempi di


riverbero del suono in ragione della frequenza e anche per questo motivo
è un parametro fondamentale per la correzione acustica di ambienti
particolari per i quali si richiedono determinate caratteristiche
acustiche(es: teatri, cinema, sale d'ascolto, discoteche, palestre etc)
Fonoisolamento

Il fonoisolamento è la proprietà specifica di ciascun


componente strutturale e si definisce come la capacità di
isolare, quindi separare, acusticamente gli ambienti.
Il concetto di materiale fonoisolante è strettamente
connesso alla legge della massa. Il che significa che un
materiale è tanto più fonoisolante quanto più elevato è il suo
peso specifico, ne consegue che sono buoni materiali
fonoisolanti ad esempio: il piombo, l'acciaio, il marmo, il legno
massiccio, il truciolare ad alta densità, il vetro etc. Tuttavia va
chiarito che in ambito edilizio soprattutto al fine di non
appesantire le strutture edili, ma talora anche per ragioni di
costi, l'effetto del fonoisolamento è ottenuto in termini più
efficaci e vantaggiosi attraverso la giustapposizione di
materiali fonoisolanti e materiali fonoassorbenti nell'ambito
di composizioni prefabbricate ovvero realizzate in loco.
Continua
Fonoisolamento

In tal modo si consegue l'effetto di isolare


acusticamente un ambiente combinando l'intrinseca
capacità di ostacolare il rumore di alcuni materiali con
l'effetto dissipativo (assorbente) del rumore di altri
materiali dal peso specifico inferiore con spiccata
capacità di inglobare aria e/o di dissolvere il rumore.
Ad esempio si pensi ad una parete divisoria in
mattoni con intercapedine, il vuoto dell'intercapedine
garantisce di per se un buono smorzamento acustico
grazie all'elevata capacità smorzante dell'aria, se poi si
inseriscono, all'interno dello spazio vuoto, dei
materiali porosi come il sughero o il polistirene, il
fattore smorzante aumenta. Il risultato finale e globale
sarà quello di ottenere un elevato isolamento
acustico ambientale.
Fonoisolamento

L'utilizzo di materiali fonoisolanti e fonoassorbenti combinati insieme al fine di


isolare acusticamente un ambiente rientra nelle cosiddette tecniche di
insonorizzazione.

Fonoisolanti naturali
Piombo
Il piombo è il materiale fonoisolante naturale per antonomasia, grazie
alla sua alta densità infatti consente di ottenere importanti risultati in
termini di abbattimento sonoro. Non di meno le sue caratteristiche di
malleabilità e plasmabilità ne consentono un utilizzo proficuo per
risolvere le più importanti problematiche di insonorizzazione. Lo si può
utilizzare in fogli o lastre preformate di facile reperibilità.

Gomma
La gomma naturale che si ricava dalla resina delle cortecce di alcune
piante, possiede una densità cellulare consistente è può essere
impiegata proficuamente come isolante acustico in alternativa al
piombo. Apprezzabile soprattutto in un'ottica "ecologica" in quanto
non presenta le controindicazioni del piombo talora considerato come
materiale inquinante. Di norma, viene commercializzata in lastre o in
materassini.
Fonoisolamento

Solitamente i maggiori produttori di materiali fonoisolanti combinano il piombo


con la gomma naturale o sintetica al fine di ottenere migliori risultati in termini
di abbattimento sonoro; non di rado sia il piombo che la gomma vengono
utilizzati assieme a materiali fonoassorbenti quali fibre naturali e sintetiche,
sughero, polistirene etc, per la produzione di pannelli sandwich o di materassini
dall'elevato potere fonoisolante che sfruttano l'effetto dissipativo proprio dei
predetti materiali.

Isolante naturale: piombo Isolante naturale: gomma


Fonoisolamento
Caratteristiche fonoisolanti di alcuni materiali edili
convenzionali (1)

Mattoni in laterizio o cotto


Sono normalmente utilizzati per la realizzazione di pareti
perimetrali e interne degli edifici per civile abitazione.
L'indice del potere fonoisolante per un singolo mattone in
laterizio forato dello spessore di 8 cm, si attesta intorno a
valori di 35 Rw. Nel caso di parete intonacata con
intercapedine si possono raggiungere valori fino a 60-65 Rw
ricorrendo a particolari materiali tecnici e/o all'insufflaggio di
particolari schiume fonoassorbenti.
Mattoni in cemento
I blocchi di calcestruzzo sovente utilizzati per la realizzazione
di pareti perimetrali e portanti presentano valori di
isolamento acustico nell'ordine di >50 db riferito a manufatti
forati di 20 cm di spessore con massa intorno ai 1200 kg/m3.
Fonoisolamento
Caratteristiche fonoisolanti di alcuni materiali edili
convenzionali (2)

Solai in laterocemento
Gli elementi di separazione tra i pieni di un edificio sono realizzati
attraverso l'utilizzo di speciali mattoni intelaiati in strutture di
calcestruzzo armato. Per solai dello spessore di 20 cm si può ipotizzare
un capacità fonoisolante di circa 50-55 db.
Cemento armato
Il calcestruzzo armato (cemento con la presenza di anime in acciaio al
suo interno) utilizzato principalmente per la realizzazione delle
strutture portanti degli edifici (pilastri, travi, muri di contenimento)
raggiunge valori di perdita di trasmittanza sonora (Rw) di circa 60 db
riferito ad elementi dello spessore di 20 cm e di peso di 1500 kg/m3.
Cartongesso
Il cartongesso utilizzato principalmente per la creazione d
controsoffitti (tetti falsi) ma anche per la realizzazione di pareti
divisorie leggere, presenta più caratteristiche fonoassorbenti che
fonoimpedenti, tuttavia il suo utilizzo combinato a quello di altri
materiali contribuisce all'ottenimento di alti valori di fonoisolamento.
Fonoisolamento
Caratteristiche fonoisolanti di alcuni materiali edili
convenzionali (3)

Pannelli in alluminio
Trovano utilizzo soprattutto nella realizzazione di capannoni industriali
relativamente alle coperture e alle tramezzature. Una lastra d'alluminio
semplice dello spessore di 0, 3 cm raggiunge valori di circa 45 db Rw.
Vetri semplici
Il vetro nell'ambito delle costruzioni civili rappresenta certamente l'anello
debole della protezione sonora dell'edificio, sia per l'impossibilità di
utilizzare spessori esagerati sia per ragioni connesse alla frequenza di
risonanza dei cristalli. Indicativamente di seguito alcuni valori dell'indice Rw
in ragione dello spessore del vetro: 3 mm/26 db, 4 mm/28 db 6 mm/30, db
8 mm/32 db 10 mm/34 db.
Vetri stratificati
L'operazione di stratificazione ossia l'interposizione tra i vetri di uno o più
lamine di PVC o altri materiali plastici migliora le caratteristiche
fonoisolanti del vetro in quanto fa abbassare la frequenza di risonanza
posizionandola al di sotto del range di frequenza critica nel quale
arrecherebbe maggiormente fastidio (100-3500 Hz).
Fonoisolamento
Caratteristiche fonoisolanti di alcuni materiali edili
convenzionali (4)

Vetrocamera
Contrariamente a quanto comunemente si pensi i così detti doppi vetri
(vetrocamera) se certamente presentano indubbi vantaggi in termini di
isolamento termico non di meno non arrecano significativi miglioramenti in
termini di abbattimento del rumore, questo perchè sostanzialmente vige la
legge della massa (il massimo risultato conseguibile è quello per cui il
potere fonoisolante complessivo è pari alla somma dei poteri fonoisolanti
dei singoli divisori che compongono la vetrata doppia), poiché
l'intercapedine di pochi mm o cm non permette di ottenere grandi vantaggi
acustici che potrebbero realizzarsi soltanto per valori di separazione dei
due elementi superiori ai 10 cm (doppie o triple finestre). Tuttavia l'utilizzo
di cristalli di spessore differente e/o il riempimento dell'intercapedine con
gas particolari (es: argon) contribuiscono ad accrescere l'isolamento
acustico: in questo caso la vetrate isolanti permettono di combinare
l'isolamento termico a quello acustico.
Fonoisolamento
Caratteristiche fonoisolanti di alcuni materiali edili
convenzionali (5)

Infissi e serramenti
Sebbene nell'isolamento acustico di una porta/finestra l'elemento
più rilevante sia costituito dal vetro, bisogna tuttavia prestare
attenzione anche all'utilizzo di serramenti di qualità e spessore
congrui, al fine di non vanificare l'effetto fonoisolante dei cristalli. I
serramenti di utilizzo più comune sono costruiti in legno, PVC,
alluminio o legno-alluminio. Di significativa importanza è l'utilizzo
delle guarnizioni di tenuta che contribuiscono a stabilizzare la
prestazione fonoisolante dell'intero serramento realizzate in
gomma, silicone o EPDM. Punto debole del sistema finestra talora è
il cassonetto, nel qual caso sarà necessario apposito intervento
insonorizzante.
Riferimenti bibliografici

http://www.formazioneesicurezza.it/05_Materiale/Slide%20
2012/2012%20-%20Rumore%20e%20vibrazioni.pptx

http://www.fonoisolamento.it/assorbimento-acustico.html

http://www.unifi.it/offertaformativa/allegati/uploaded_files/2
011/200002/B002644/Acustica%20ambientale.pdf

Altro materiale non riconducibile al titolare di diritti di


autore
Università degli Studi di Genova
DIME
Dipartimento di Ingegneria meccanica, energetica,
gestionale e dei trasporti

Sicurezza degli impianti industriali

Ergonomia_Qualità dell’ambiente di
lavoro_Inquinamento chimico aerodisperso
Agenda

 Elementi di ergonomia ed ergotecnica

 Qualità dell’ambiente di lavoro

 Inquinamento chimico aerodisperso


Ergonomia ed ergotecnica

L'ergonomia (dal greco "ergon" (lavoro) e "nomos" (legge)),


secondo la International Ergonomics Association è la
disciplina che si occupa dell'interazione tra gli elementi di un
sistema (umani e d'altro tipo) e la funzione per cui vengono
progettati [Murrel, 1949].

L’ergonomia si occupa della teoria, dei principi e dei metodi


che vengono applicati nella progettazione, allo scopo di
migliorare la soddisfazione dell'utente e l'insieme delle
prestazioni di un dato sistema.

In pratica è la disciplina che si occupa dello studio


dell'interazione tra individui e tecnologie.

3/24
Ergonomia ed ergotecnica

La qualità del rapporto tra l'utente e il mezzo utilizzato è determinata


dal livello di ergonomia.

Il requisito più importante per determinare il livello di ergonomia di un


sistema è la sicurezza, seguito da:
◦ adattabilità
◦ usabilità
◦ comfort
◦ gradevolezza
◦ comprensibilità
◦ …

UN OGGETTO FACILMENTE USABILE E SICURO


È MOLTO ERGONOMICO

UN OGGETTO DI UTILIZZO OSTICO, CHE IMPLICA GRANDE


SFORZO COGNITIVO, È POCO ERGONOMICO

4/24
Qualità dell’ambiente di lavoro

Il concetto di qualità dell’aria è relativo a:


◦ idoneità dell’aria
◦ piacevolezza

Le sorgenti inquinanti possono essere:


◦ di natura artificiale (umana)
◦ naturali (ad esempio di origine vulcanica)

5/24
Qualità dell’ambiente di lavoro

Il concetto di aria pura non coincide con quello di aria naturale.

L’aria pura è definita come aria non inquinata da alcun tipo di sorgente,
né artificiale, né naturale.

L’aria secca è definita in base alla seguente composizione:


4/5 N2 + 1/5 O2 + Argon +CO2 + altre sostanze
in cui si ha, in volume,
◦ azoto 78 %
◦ ossigeno 21 %
◦ anidride carbonica 1 %
◦ Argon 0,033 %

La qualità dell’aria ambiente è riferita allo standard ASHRAE n°62


(1989).

6/24
Qualità dell’ambiente di lavoro

Due sono le metodologie di controllo della qualità


dell’aria:
◦ indiretta
◦ diretta

Nel controllo indiretto non vengono rilevate le


concentrazioni di inquinante e si presume che, assicurando
un’adeguata portata di aria pura, automaticamente le
concentrazioni che si vengono a realizzare nell’ambiente
siano adatte.

La metodologia di controllo diretta prevede una misura


diretta o addirittura un monitoraggio degli ambienti.

7/24
Qualità dell’ambiente di lavoro

Per applicare il controllo indiretto, lo schema di


riferimento è quello del bilancio di massa per un
inquinante in un ambiente.

Si schematizza l’ambiente come un sistema interessato da


una emissione di inquinante al suo interno, q (kg/h):
◦ Q, portata d’aria di rinnovo immessa nell’ambiente espressa in
m3/h;
◦ Ce, concentrazione di inquinante presente nell’aria entrante in
kg/m3;
◦ Cu, concentrazione di inquinante nell’aria uscente in kg/m3;
◦ Ci, concentrazione di inquinante nell’ambiente oggetto del
monitoraggio in kg/m3.

8/24
Qualità dell’ambiente di lavoro

Se l’ambiente è ben miscelato, cioè in tutti i punti la concentrazione


di inquinante considerato è la medesima

la concentrazione Ci è anche quella dell’aria uscente dall’ambiente


Cu = Ci

Se, inoltre, l’ambiente è stazionario


Q*Ce + q = Q*Cu = Q*Ci

La portata di aria di rinnovo che si deve poter assicurare per


mantenere una concentrazione di inquinante determinata è
ricavabile dal bilancio di massa:

Q =q 
q
C C
u e Ci  Ce

9/24
Qualità dell’ambiente di lavoro

La precedente può essere applicata ai diversi tipi di inquinanti con cui


si può avere a che fare.
Si tenga conto, a tale proposito, che la concentrazione limite di
anidride carbonica (CO2) tollerabile in un ambiente civile è:
◦ Ci = 0,25 % in volume dell’ambiente considerato
◦ pari a Ci = 10-3 Kg/m3
I valori concretamente assunti sono sensibilmente maggiori, in quanto
si è ipotizzato che l’ambiente sia in condizioni di stazionarietà e di
completa miscelazione:
◦ negli ambienti civili si assumono portate reali pari a 3 o 4 volte i
valori minimi;
◦ per gli ambienti industriali si assume un coefficiente di sicurezza
più elevato, giungendo a considerare portate 10 volte superiori al
valore minimo.
All’anidride carbonica è attribuita una particolare importanza nella
pratica tecnica, poiché essa è assunta come grandezza indice del
livello di inquinamento provocato dalle persone nell’ambiente.

10/24
Qualità dell’ambiente di lavoro

E’ anche necessario considerare il percorso dell’aria di rinnovo.


◦ l’aria espulsa deve asportare effettivamente l’inquinante:
si deve ottenere un effetto di lavaggio dell’ambiente ad opera
dell’aria fresca immessa
si deve scongiurare il pericolo di un eventuale corto circuito
si devono evitare zone di ristagno
si deve tenere conto delle zone stratificate in alto, che pure si
realizzano: in genere, tuttavia, non interessano, perchè queste zone
non sono, evidentemente, occupate da operatori
le prese di aria di rinnovo non devono essere disposte sotto la
grigliatura dei marciapiedi e neppure sulle pareti di un cortile in cui
stazionano permanentemente veicoli con motore acceso
le griglie di presa, ancora, non vanno messe nelle vicinanze di quelle
di espulsione dell’aria relative all’impianto di ventilazione
dell’edificio vicino.
L’aumento della velocità dell’aria in uscita renderebbe più turbolento ed
ampio il movimento dell’aria presente nell’ambiente:
◦ pericolo di correnti
◦ rumorosità

IL PRINCIPIO GENERALE DA SEGUIRE È QUELLO DI EVITARE IL PIÙ


POSSIBILE IL RISTAGNO SENZA GENERARE GLI INCONVENIENTI
MENZIONATI 11/24
Qualità dell’ambiente di lavoro

Si possono controllare:
◦ anidride carbonica
◦ odori
◦ vapore d’acqua ambientale
Un controllo meno accurato viene effettuato su
◦ fumo di tabacco (non legato al dispendio metabolico e quindi
all’immissione di anidride carbonica, mentre dipende fortemente dalle
abitudini e dal numero di fumatori presenti nell’ambiente considerato)
◦ polveri (dipende non solo dalle persone e dalle attività, ma anche da altri
fattori non sempre facilmente prevedibili)
Le caratteristiche dell’aria esterna sono definite in relazione agli inquinanti
significativi tipici di un ambiente industriale:
◦ anidride solforosa (H2S)
◦ ossido di azoto (NO),
◦ ozono (O3)
◦ monossido di carbonio (CO)
Le concentrazioni sono espresse:
◦ in termini di media oraria qualora abbiano un effetto quasi immediato
◦ in termini di media oraria calcolata su periodi di otto ore o su base annua
per quelli che non hanno un effetto aggressivo immediato e si rende
necessario valutare l’assorbimento relativamente a periodi di tempo
medio lunghi 12/24
Qualità dell’ambiente di lavoro

La regolamentazione relativa alle problematiche della qualità


dell’aria è effettuata in base al DPCM del 28 marzo
1983:
◦ l’aria di rinnovo deve essere priva di odori, di quantità
significative di piombo ed altri inquinanti

Lo standard ASHRAE n. 62/1989 prescrive che:


◦ l’aria di rinnovo non deve contenere quantità pericolose
di sostanze tossiche e deve essere adeguata anche sul
piano della gradevolezza

In Italia, la situazione rispetto a queste indicazioni è critica


soprattutto nelle grandi città. L’ASHRAE, ove si disponga di
aria di rinnovo fresca, suggerisce le portate minime da
assicurare in funzione della tipologia dell’ambiente
considerato.

13/24
Qualità dell’ambiente di lavoro

Ambiente Persone/100 m2 m3/h persona


lavanderia 10  30 29  65
garage - 27
camera da letto - 54
lavorazione della carne 10 29
classe scolastica 50 29
uffici 7 36

Indicazioni ASHRAE per le portate d’aria di rinnovo

14/24
Inquinamento chimico aerodisperso

Gli ambienti di lavoro di tipo industriale presentano


spesso livelli di inquinanti tossici aerodispersi.

Occorre prestare particolare attenzione a:


◦ determinare accuratamente le tipologie di inquinanti tenendo nel
debito conto le modalità di svolgimento del processo produttivo
◦ confrontare le concentrazioni di riferimento con i valori limite di
esposizione ammessi
◦ effettuare il controllo tecnico delle concentrazioni, che deve
essere realizzato esclusivamente alla sorgente

15/24
Inquinamento chimico aerodisperso

Gli inquinanti costituiscono miscele gassose o aerosol, cioè


sospensioni nell’aria di particelle solide o liquide, di massa e
dimensioni tali da rimanere in sospensione per un tempo osservabile.

Propriamente, si distinguono le seguenti tipologie di sostanze:


◦ gas, cioè sostanze che nelle condizioni di riferimento
(temperatura pari a 25°C a pressione atmosferica) risultano allo
stato gassoso
◦ vapori, cioè sostanze in fase gassosa che, nelle condizioni di
riferimento, sono liquide
◦ polveri o particolati, cioè particelle solide il cui diametro è
compreso indicativamente fra 1 e 25 m
◦ fumi e nebbie, particelle solide o liquide che originano aerosol
per condensazione di sostanze precedentemente presenti nell’aria
in forma di gas; le particelle sono spesso dell’ordine dei decimi di
m

16/24
Inquinamento chimico aerodisperso

Gli inquinanti tossici possono penetrare nell’organismo, in linea


generale, tramite:
◦ l’apparato respiratorio
◦ la superficie corporea
◦ per via orale
Gli effetti dell’assunzione di tossici possono essere ricondotti a:
◦ forme di depressione
◦ distruzione di tessuti
Questi effetti, inoltre, possono essere:
◦ immediati
◦ protratti nel tempo
◦ Posticipati
I valori limite vengono definiti in relazione a:
◦ proprietà delle sostanze presenti nell’ambiente
◦ risultati di prove tossicologiche
◦ dati epidemiologici
17/24
Inquinamento chimico aerodisperso

Un riferimento importante è quello delle tabelle pubblicate


e periodicamente aggiornate dall’American Conference
of Governmental Industrial Hygienists (ACGIH).
Le modalità di indicazione delle concentrazione limite, o
valori di soglia TLV (dall’inglese threshold limit value) sono
tre:
◦ TLV - TWA (media ponderata nel tempo), valore medio
ponderato nel tempo, relativo ad una esposizione pari ad
8 ore al giorno per 5 giorni alla settimana;
◦ TLV - C (limite sul valore massimo), utilizzato per
sostanze con effetto sostanzialmente immediato; esprime
un valore massimo di concentrazione che non deve
essere mai superato;
◦ TLV - STEL (limite per esposizione breve), è un valore
massimo di concentrazione dell’inquinamento; esso viene
rilevato 4 volte al giorno, con un’ora di intervallo tra due
esposizioni successive e, successivamente per esposizioni
continuate mai superiori a 15 minuti
18/24
Inquinamento chimico aerodisperso

Si possono adottare le seguenti indicazioni, in merito ai


TLV:
◦ se il limite TVL - STEL è individuato, questo valore
non deve essere mai superato dalle escursioni di
concentrazione
◦ se non esiste il TVL-STEL non devono essere
comunque mai superati:
il limite TVL-TWA nell’arco delle 8 ore
3 volte il valore TLV-TWA per più di trenta
minuti/giorno
in nessuna occasione il valore del parametro
TLV-C

19/24
Inquinamento chimico aerodisperso

I limiti TVL riportati nelle tabelle ACGIH si riferiscono all’assorbimento del


tossico esclusivamente attraverso le vie respiratorie:
◦ ove compaia l’indicazione “skin ” (cute) a fianco del nome di una sostanza,
si dovrà considerare la possibilità di assorbimento dell’inquinante per via
cutanea

Nel caso di sostanze con effetto indipendente (le quali, cioè, producono
un effetto differente, oppure agiscono su differenti parti del corpo) si deve
verificare - per ciascuna di esse:
C i
 1
TLV i

Nel caso di sostanze con effetto additivo si deve verificare la seguente


condizione: Ci
  1
i
TLV i

Nel caso di sostanze con effetto singolo, infine, si rende necessario


effettuare opportuni approfondimenti specifici.

20/24
Inquinamento chimico aerodisperso

Gli asfissianti non hanno un valore limite prefissato per ogni tipologia, in
quanto:
◦ il vero fattore limitante è costituito dalla concentrazione di ossigeno
nell’aria, che dovrebbe essere in ogni caso superiore al 18% in volume
normale alla pressione atmosferica
Esistono, infine, alcune categorie particolari di sostanze, sulle quali vale la
pena di soffermarsi singolarmente:
◦ particolati fastidiosi ma non fibrogenici (silice amorfa non cristallina);
se la percentuale di quarzo è inferiore all’1% non generano danni gravi
◦ particolati fibrogenici (quarzo), i quali provocano la degenerazione
del tessuto degli alveoli polmonari, che diventa progressivamente
impermeabile
◦ silicati (asbesto), costituisce un componente fondamentale
dell’amianto;
◦ asfissianti semplici (ad esempio il metano - CH4 - e l’anidride
carbonica - CO2)
◦ sostanze a composizione variabile, quali vapori di benzina e fumi
di saldatura, che richiedono analisi specifiche
◦ sostanze cancerogene

21/24
Inquinamento chimico aerodisperso

I rilievi sperimentali per la determinazione della


concentrazione di un inquinante in un ambiente
richiedono la disponibilità di una strumentazione
appropriata.

Le metodologie di analisi utilizzate ricorrono a


diversi e svariati principi:
◦ ad esempio, è possibile far reagire i volumi d’aria oggetto
dell’analisi con alcune sostanze che cambiano - in modo
prevedibile - la colorazione (fialette Draeger - occorre una
specifica fialetta di sostanza per ogni tipo di inquinante)

22/24
Inquinamento chimico aerodisperso

Qualora non sia stato possibile intervenire a monte del processo per
l’eliminazione dell’inquinante aerodisperso, si può intervenire secondo due diverse
modalità:
◦ prelievo ed espulsione dell’aria inquinata, e immissione in ambiente di
aria pulita opportunamente trattata dal punto di vista termoigrometrico
◦ riciclaggio dell’aria ambiente, mediante una sequenza di prelievo,
depurazione e successiva reimmissione. Questo secondo metodo presenta
seri limiti d’impiego, in quanto presuppone un costante controllo del corretto
funzionamento dell’impianto di depurazione
Il riciclaggio dell’aria ambiente, ad esempio, non è utilizzabile in presenza di
inquinanti tossici, mentre può essere utilizzato nel caso di fumo di sigaretta, odori
corporei etc.
Il primo tipo di approccio può essere attuato secondo due diverse modalità:
◦ ventilazione generale, consistente nella diluizione degli inquinanti, creando
uno scambio d’aria con l’esterno
◦ aspirazione localizzata, consistente nella cattura mediante opportune
cappe collocate in prossimità di sorgenti gli inquinanti prima che si
disperdano nell’aria. I parametri caratteristici delle cappe sono:
il volume di controllo, cioè lo spazio in cui la cappa esercita
un’azione utile
la velocità di controllo, cioè la velocità dell’aria realizzata dal
sistema di aspirazione; tale velocità deve essere superiore alla
velocità di fuga dell’inquinante 23/24
Inquinamento chimico aerodisperso

Nell’impiego delle cappe, infine, è necessario adottare alcuni


accorgimenti:
◦ collocare la cappa il più vicino possibile alla sorgente
dell’inquinante, così da ridurre la portata a pari velocità di
cattura
◦ direzionare la cappa in modo da favorire la cattura
dell’inquinante
◦ proteggere l’operatore
◦ usare flange direzionali

Relativamente al problema della determinazione della velocità con


cui deve muoversi l’aria nei canali, si tenga conto che le perdite di
carico, cioè gli attriti che l’aria medesima incontra muovendosi
lungo i canali sono proporzionali a v2/2g, per cui, al crescere della
velocità, aumentano le perdite di carico e la rumorosità.
◦ di norma, ci si orienta su velocità dell’ordine di 1525m/s.

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Bibliografia
materiale non riconducibile al titolare di
diritti di autore
Università degli Studi di Genova
DIME
Dipartimento di Ingegneria meccanica, energetica,
gestionale e dei trasporti

Sicurezza degli impianti industriali

Rischi meccanici nei cantieri


Agenda

 Rischio meccanico
 Rischi meccanici di movimento
 Categoria delle macchine
 Decreto legislativo
 Mezzi ed apparecchi di sollevamento, di trasporto e di
immagazzinamento
 Elementi caratterizzanti una macchina
 Apparecchi di sollevamento materiali
 Sollevatori
Rischio meccanico

E’ un tipo di rischio che caratterizza gli impianti che


comprendono parti meccaniche in movimento o ferme
con energia potenziale.
E’ quindi un tipo di rischio strettamente legato
all’energia cinetica o potenziale meccanica possedute da
parti dell’impianto o dall’impianto nel suo insieme.
Esempi d’impianti con tale rischio sono quelli che
comprendono moli, seghe, tappeti mobili, linee di
montaggio.
Rischi meccanici di movimento

Cesoiamento: una parte del corpo è asportata via


Convogliamento : una parte del corpo è convogliata dentro due
elementi meccanici in movimento relativo l’impatto: una parte del
corpo è urtata da un elemento meccanico in movimento
Schiacciamento : una parte del corpo è schiacciata tra due elementi
meccanici in movimento relativo
Taglio: una parte del corpo è tagliata via da un elemento meccanico in
movimento con estremità tagliente
Uncinamento: una parte del corpo è catturata e trascinata da un
elemento meccanico in movimento.
Categoria delle macchine

Il livello di protezione delle parti in movimento dei


macchinari (utensili da taglio, elementi mobili delle
presse etc) durante le fasi della lavorazione, dipende dal
grado di esposizione al rischio degli operatori. Si
possono quindi considerare tre grandi gruppi di
macchine.
Decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81

TITOLO III – USO DELLE ATTREZZATURE DI LAVORO E


DEI DISPOSITIVI DI PROTEZIONE INDIVIDUALE

N° 3 CAPI - N° 19 articoli (da art. 69 a art. 87)

CAPO I – USO DELLE ATTREZZATURE DI LAVORO

N° 5 articoli (da art. 69 a art. 73)


Articolo 69:definizioni

Agli effetti delle disposizioni di cui al presente titolo si intende per:


a) attrezzatura di lavoro: qualsiasi macchina, apparecchio, utensile o
impianto destinato ad essere usato durante il lavoro;
b) uso di una attrezzatura di lavoro: qualsiasi operazione lavorativa
connessa ad una attrezzatura di lavoro, quale la messa in servizio
o fuori servizio, l'impiego, il trasporto, la riparazione, la
trasformazione, la manutenzione, la pulizia, il montaggio, lo
smontaggio;
c) zona pericolosa: qualsiasi zona all'interno ovvero in prossimità di
una attrezzatura di lavoro nella quale la presenza di un lavoratore
costituisce un rischio per la salute o la sicurezza dello stesso;
d) lavoratore esposto: qualsiasi lavoratore che si trovi interamente o
in parte in una zona pericolosa;
e) operatore: il lavoratore incaricato dell’uso di una attrezzatura di
lavoro.
Articolo 70:requisiti di sicurezza

1. Salvo quanto previsto al comma 2, le attrezzature di


lavoro messe a disposizione dei lavoratori devono essere
conformi alle specifiche disposizioni legislative e
regolamentari di recepimento delle direttive comunitarie di
prodotto.

2. Le attrezzature di lavoro costruite in assenza di


disposizioni legislative e regolamentari di cui al comma 1, e
quelle messe a disposizione dei lavoratori
antecedentemente all’emanazione di norme legislative e
regolamentari di recepimento delle direttive comunitarie di
prodotto, devono essere conformi ai requisiti generali di
sicurezza di cui all’ ALLEGATO V.
Allegato V

REQUISITI DI SICUREZZA DELLE ATTREZZATURE DI LAVORO


COSTRUITE IN ASSENZA DI DISPOSIZIONI LEGISLATIVE E
REGOLAMENTARI DI RECEPIMENTO DELLE DIRETTIVE
COMUNITARIE DI PRODOTTO, O MESSE A DISPOSIZIONE DEI
LAVORATORI ANTECEDENTEMENTE ALLA DATA DELLA
LORO EMANAZIONE.

PARTE I - REQUISITI GENERALI APPLICABILI A TUTTE LE


ATTREZZATURE DI LAVORO
PARTE II - PRESCRIZIONI SUPPLEMENTARI APPLICABILI AD
ATTREZZATURE DI LAVORO SPECIFICHE
PARTE II - PRESCRIZIONI SUPPLEMENTARI APPLICABILI AD
ATTREZZATURE DI LAVORO SPECIFICHE

1 Prescrizioni applicabili alle attrezzature in pressione


2 Prescrizioni applicabili ad attrezzature di lavoro mobili,
semoventi o no.
3 Prescrizioni applicabili alle attrezzature di lavoro adibite al
sollevamento, al trasporto o all’immagazzinamento di
carichi.
4 Prescrizioni applicabili alle attrezzature di lavoro adibite al
sollevamento di persone e di persone e cose.
4.2 - Ponti su ruote a torre e sviluppabili a forbice
4.3 - Scale aeree su carro
4.4 - Ponti sospesi e loro caratteristiche
4.5 Ascensori e montacarichi.
5 Prescrizioni applicabili a determinate attrezzature di
lavoro
5.1 Mole abrasive
5.2 Bottali, impastatrici, gramolatrici e macchine simili
Mezzi ed apparecchi di sollevamento, di trasporto e di
immagazzinamento
Indicazione della portata

3.1 3 Le macchine adibite al sollevamento di carichi, escluse


quelle azionate a mano, devono recare un’indicazione
chiaramente visibile del loro carico nominale e,
all’occorrenza, una targa di carico indicante il carico nominale
di ogni singola configurazione della macchina.
Gli accessori di sollevamento devono essere marcati in
modo da poterne identificare le caratteristiche essenziali ai
fini di un’utilizzazione sicura.
I ganci utilizzati nei mezzi di sollevamento e di trasporto
devono portare in rilievo o incisa la chiara indicazione della
loro portata massima ammissibile.
Se l’attrezzatura di lavoro non è destinata al sollevamento di
persone, una segnalazione in tal senso dovrà esservi apposta
in modo visibile onde non ingenerare alcuna possibilità di
confusione.
Mezzi ed apparecchi di sollevamento, di trasporto e di
immagazzinamento
Ganci

I ganci per apparecchi di sollevamento devono essere


provvisti di dispositivi di chiusura dell'imbocco o essere
conformati, per particolare profilo della superficie interna o
limitazione dell'apertura di imbocco, in modo da impedire lo
sganciamento delle funi, delle catene e degli altri organi di
presa
GRU, ARGANI, PARANCHI E SIMILI

Le gru e gli altri apparecchi di sollevamento di portata


superiore a 200 chilogrammi, esclusi quelli azionati a mano e
quelli, già soggetti a speciali disposizioni di legge, devono
essere sottoposti a verifica, una volta all'anno, per accertarne
lo stato di funzionamento e di conservazione ai fini della
sicurezza dei lavoratori.
Elementi caratterizzanti una macchina

 MARCATURA CE (da apporre sulla macchina)

 DICHIARAZIONE DI CONFORMITA’ CE (da consegnare


all’acquirente)

 LIBRETTO DI USO E MANUTENZIONE (da consegnare


all’acquirente)
I tipi di norme

Norma nazionale (UNI-UNICIG-UNICEI): norma approvata da un


organismo di normalizzazione nazionale riconosciuto (UNI)
Norma europea (EN- ETSI - CEN) : Norma approvata dal
comitato europeo di normalizzazione (CEN) o dal comitato europeo di
normalizzazione elettrotecnica (CENELEC) in quanto norma europea (EN)
ovvero dall’Istituto europeo delle norme per le telecomunicazioni (ETSI) in
quanto norme europee per le comunicazioni (ETS).
Norma armonizzata (EN) : norma europea pubblicata sulla GUCE
e recepita come norma nazionale sulla GURI. Le norme possono essere :
 di tipo A se trattano principi generali di sicurezza e di progettazione
applicabili a tutte le macchine;
 di tipo B se possono esser utilizzate per una vasta tipologia di macchine;
 di tipo C se indicano i requisiti di sicurezza di particolari tipi di macchine.
Norma internazionale (ISO): norma approvata da organismi
d’unificazione Internazionale.
Norme di buona tecnica

Norma UNI EN 294:1993: Sicurezza del macchinario -


Distanze di sicurezza per impedire il raggiungimento di zone
pericolose con gli arti superiori.

Norma UNI EN 349:1994: Sicurezza del macchinario -


Spazi minimi per evitare lo schiacciamento di parti del corpo.
Dispositivi di sicurezza

Caratteristiche generali:

L’avvio degli elementi non sia possibile fintanto che


l’operatore può raggiungerli (la macchina non può partire
fino a che l’operatore possa inavvertitamente toccare parti
pericolose)
La persona esposta non possa accedere agli elementi in
movimento
La loro regolazione richieda un intervento volontario (es. uso
di un attrezzo o di una chiave)
La mancanza o il non funzionamento di uno dei loro elementi
impedisca l’avviamento della macchina o provochi l’arresto
degli elementi mobili.
Dispositivi di comando

I dispositivi di comando devono essere sicuri e affidabili


per evitare qualsiasi situazione pericolosa
Dal posto di comando deve essere possibile la verifica
della presenza di altri eventuali operatori o persone
nella zona pericolosa e se ciò non fosse possibile, il
comando di inizio della funzione pericolosa, deve essere
preceduto da un segnale di avvertimento sonoro e/o
visivo
Tutti i dispositivi di azionamento o messa in moto
devono essere protetti contro i possibili azionamenti
accidentali
Articolo 71: obblighi del datore di lavoro (1)

Fermo restando quanto disposto al comma 4, il datore


di lavoro provvede affinché:

1) le attrezzature di lavoro la cui sicurezza dipende dalle


condizioni di installazione siano sottoposte a un
controllo iniziale (dopo l'installazione e prima della
messa in esercizio) e ad un controllo dopo ogni
montaggio in un nuovo cantiere o in una nuova località
di impianto, al fine di assicurarne l'installazione corretta
e il buon funzionamento
Articolo 71: obblighi del datore di lavoro (2)

Il datore di lavoro provvede affinché:


2) le attrezzature soggette a influssi che possono provocare
deterioramenti suscettibili di dare origine a situazioni
pericolose siano sottoposte:
1. a controlli periodici, secondo frequenze stabilite in base
alle indicazioni fornite dai fabbricanti, ovvero dalle norme di
buona tecnica, o in assenza di queste ultime, desumibili dai
codici di buona prassi;
2. a controlli straordinari al fine di garantire il mantenimento
di buone condizioni di sicurezza, ogni volta che intervengano
eventi eccezionali che possano avere conseguenze
pregiudizievoli per la sicurezza delle attrezzature di lavoro,
quali riparazioni trasformazioni, incidenti, fenomeni naturali o
periodi prolungati di inattività.
Articolo 71: obblighi del datore di lavoro (3)

9.I risultati dei controlli di cui al comma 8 devono essere


riportati per iscritto e, almeno quelli relativi agli ultimi tre
anni, devono essere conservati e tenuti a disposizione degli
organi di vigilanza.
10. Qualora le attrezzature di lavoro di cui al comma 8 siano
usate al di fuori della sede dell’unità produttiva devono
essere accompagnate da un documento attestante
l’esecuzione dell’ultimo controllo con esito positivo.
11. Oltre a quanto previsto dal comma 8, il datore di lavoro
sottopone le attrezzature di lavoro riportate in ALLEGATO
VII a verifiche periodiche, con la frequenza indicata nel
medesimo allegato. La prima di tali verifiche è effettuata
dall’ISPESL e le successive dalle ASL. Le verifiche sono
onerose e le spese per la loro effettuazione sono a carico del
datore di lavoro.
Rischi connessi con il ribaltamento

Quando per una macchina semovente con conducente ed


eventualmente operatori trasportati esiste il rischio di
ribaltamento, essa deve essere progettata e munita di punti di
ancoraggio che consentano di ricevere una struttura di
protezione contro tale rischio (ROPS).

Detta struttura deve essere tale che in caso di ribaltamento


garantisca al conducente trasportato, ed eventualmente agli
operatori trasportati, un adeguato volume limite di
deformazione (DLV).

Al fine di verificare che la struttura soddisfi il requisito di cui


al secondo comma, il fabbricante o il suo mandatario stabilito
nella Comunità deve effettuare, o far effettuare, prove
appropriate su ogni tipo di struttura.
Le seguenti macchine per movimento terra di potenza
superiore a 15 KW devono essere munite di una struttura di
protezione in caso di ribaltamento:
pale caricatrici su cingoli o su ruote, caricatrici meccaniche,
trattori su cingoli o su ruote, ruspe auto-caricanti o meno,
livellatrici, cassoni ribaltabili con parte anteriore articolata.
Rischi connessi con la caduta di oggetti

Quando per una macchina con conducente e eventualmente


con operatori trasportati esistono rischi connessi con cadute
di oggetti e di materiali, essa deve essere progettata e munita,
se le sue dimensioni lo consentono, di punti di ancoraggio
atti a ricevere una struttura di protezione contro tale rischio
(FOPS).

Detta struttura deve esser tale che in caso di cadute di


oggetti o di materiali garantisca agli operatori trasportati una
adeguato volume limite di deformazione (DLV).

Al fine di verificare che la struttura soddisfa il requisito di cui


al secondo comma, il fabbricante o il suo mandatario stabilito
nella Comunità deve effettuare, o far effettuare, prove
appropriate per ciascun tipo di struttura.
ROPS

Strutture di protezione contro il rischio di


capovolgimento

FOPS

Strutture di protezione contro il rischio di cadute di


oggetti
Apparecchi di sollevamento
materiali
Gru

La gru è una macchina destinata al sollevamento e


movimento di carichi. Le parti principali sono la struttura
portante, l’organo di presa (gancio, benna, elettromagnete
etc) e l’apparato di sollevamento (funi, verricello etc)

Tipi di gru:
gru a torre
gru a struttura limitata
gru a ponte
gru a portale
gru a bandiera
gru a cavalletto
gru su autocarro o autogrù
Rischi possibili

Errata manovra dell’operatore, contatto con linee


elettriche aeree

Caduta materiale dall’alto

Cedimento e anomalie delle parti meccaniche

Vibrazioni, rumore

Scivolamenti, cadute
Sollevatori
Piattaforme aeree

Autocarrate Semoventi
Alcuni esempi (1)

Fattori

Utensili, macchine, impianti: allestimento errato della gru (1)


Materiali: carico non legato (2)
Ambiente: limitata visibilità in cantiere (3)
Si stava procedendo all’allestimento di un ponteggio per eseguire i
lavori di ristrutturazione di un edificio in centro storico, dotato di
due piccoli cortili interni divisi da un ramo dell’edificio che
consentiva il passaggio da parte a parte tramite un porticato. Uno
dei cortili era stato adibito a zona di deposito materiale; nell’altro,
che era quello in cui si stava montando il ponteggio, era stata
installata una gru a torre, utilizzata anche per trasportare gli
elementi del ponteggio stesso. Il porticato, frapposto tra i due
cortili interni, impediva la corretta visibilità al gruista, che per
caricare la gru doveva spostarsi continuamente da un cortile
all’altro. Una volta effettuato il carico, il gruista ruotava il braccio
della gru e traslava il carrello tramite un radiocomando nel cortile
di scarico dove si stava montando il ponteggio.
Alcuni esempi (2)

Utensili, macchine, impianti: allestimento errato della gru


(1)
Materiali: carico non legato (2)
Ambiente: limitata visibilità in cantiere (3)

Due lavoratori, il capo cantiere (l’infortunato) e un suo aiutante,


si trovavano sul secondo piano (4 metri da terra) del ponteggio
aspettando il materiale che sarebbe servito per continuarne la
costruzione e che doveva essere calato dall’alto tramite la gru. Il
gruista aveva posizionato il carico in quota nella zona di scarico
aspettando che i colleghi gli dicessero di calare il materiale. Ad
un certo punto un elemento metallico (forse una tavola) si
sfilava dalle forche della gru e cadeva sul capo dell’infortunato
provocandogli una profonda rottura del cranio.
Alcuni esempi (3)

Utensili, macchine, impianti: allestimento errato della gru


(1)
Materiali: carico non legato (2)
Ambiente: limitata visibilità in cantiere (3)

E’ stato rilevato che per il trasporto in quota del materiale


non potevano essere utilizzate le forche ma era necessario
utilizzare telai porta elementi o dei cassonetti legati a funi.
L’infortunato in quanto capocantiere avrebbe dovuto sapere
che l’attrezzatura non era idonea a svolgere questa attività. Il
cantiere era talmente angusto da non permettere un uso
agevole della gru per il montaggio del ponteggio. Questo
elemento avrebbe dovuto essere considerato in fase di
progettazione e coordinamento dei lavori.
AUTOCARRO CON GRU: RISCHI POSSIBILI

Pericoli di investimento delle persone


Errata manovra del gruista, ribaltamenti
Pericolo di caduta del materiale dall’alto o cedimento del carico
Cedimento e anomalie delle parti meccaniche dell’autogrù
Mancato funzionamento dei dispositivi di sicurezza: limitatori di
carico, fine corsa
Argano:descrizione

L’argano è un apparecchio di sollevamento costituito


da un elevatore e dalla relativa struttura di supporto.
Sono principalmente di due tipi, quello a cavalletto e
quello a bandiera

TIPI DI ARGANO:
•a cavalletto
•a bandiera
Argano a cavalletto

In questo tipo di argano l’elevatore è fissato alla rotaia,


provvista di fine corsa ammortizzati, sulla quale può
scorrere; la quale è sostenuta da due cavalletti: uno
anteriore provvisto di due staffoni per permettere
all’operatore di afferrarsi durante la ricezione del
carico, e uno posteriore che reca fissati i due cassoni di
zavorra provvisti di lucchetti.

La trave rotaia sporge a sbalzo sul cavalletto anteriore


per poter permettere il sollevamento del materiale
fuori dal piano di sostegno della macchina
Argano a cavalletto
Rischi possibili

Caduta materiale dall’alto;

urti, colpi, impatti, compressioni;

elettrici.
Argano a bandiera

In questo tipo di argano il supporto è snodato in modo


da permettere la rotazione dell’elevatore.

L’argano a bandiera si differenzia per il suo utilizzo in


ambienti più ridotti e per il sollevamento di carichi di
modesta entità.

Gli argani a cavalletto hanno portata massima sollevabile


che solitamente è dai 300 ai 1000 kg, mentre per quelli
a bandiera la portata è poco superiore ai 200 kg.
Argano a bandiera
Rischi possibili

Ribaltamento dell’elevatore;

urti, colpi, impatti, compressioni;

elettrocuzione.
Misure di sicurezza prima dell’uso

Verificare la presenza dei parapetti completi sul perimetro


del posto di manovra
verificare la presenza del parapetto e tavola fermapiedi sul
piano di lavoro
verificare l’integrità del montante (o puntone), degli
ancoraggi e dei controvento fissati al ponteggio o alla finestra
verificare l’efficienza della sicura del gancio e dei morsetti
fermafune con redancia
verificare l’integrità delle parti elettriche visibili
verificare l’efficienza dell’interruttore di linea presso
l’elevatore
verificare il funzionamento della pulsantiera
verificare l’efficienza del fine corsa e del freno per la discesa
del carico
transennare a terra l’area di tiro
Tragedia a Sorrento. Per i preparativi della festa patronale,
crolla una "gru" nella piazza del municipio, in piazza
sant’Antonino: morte due donne, e quattro feriti.
martedì 1 maggio 2007.

[...] Una tragica fatalità, un


incredibile appuntamento con il
destino, una morte assurda e
drammatica per le due donne -
Claudia Morelli, di 86 anni e la
nuora, Teresa Reale, di 50 – che
sono state colpite dal braccio
rovinato al suolo e che sono morte
all’istante. Erano appena uscite dalla
chiesa dove avevano assistito alla
messa. Solitamente preferivano
andare in cattedrale ma, avendo
oggi ritardato, avevano fatalmente
ripiegato sulla chiesa di
Sant’Antonino. Nell’incidente sono
rimasti feriti anche tre operai ed un
altro passante. [...]
14 novembre 2007

 A Battipaglia, in provincia di Salerno, Massimo Scala, un


operaio originario di San Giorgio a Cremano, è rimasto
schiacciato dal braccio di una gru alla Prefabbricati srl.
L'operaio era arrivato in Campania per conto di una
ditta di Ravenna, che doveva ritirare la gru. Mentre
smontava il macchinario, un intero braccio si è staccato
e lui è rimasto schiacciato da una putrella di 50 quintali.
 In Polesine, invece, un camionista di Treviso è rimasto
schiacciato da un braccio meccanico. Andrea Pizzol, 37
anni, era in Polesine per caricare del legname. È morto
mentre aspettava che il legname venisse caricato sul
rimorchio
27 settembre 2007 - Operaio di un cantiere nel
milanese muore schiacciato da una gru

A Sesto San Giovanni, nell'hinterland Milanese, l'operaio di un


cantiere edile è stato schiacciato dall'autogrù che guidava, nel vano
tentativo di uscire dal mezzo prima che si ribaltasse. Per l'uomo, 42
anni, non c'è stato nulla da fare. Il lavoratore è morto all'istante. In
base a una prima ricostruzione dell'accaduto, nel cantiere di via
Campari l'autogru si sarebbe ribaltata per un cedimento del
terreno sotto il peso del mezzo e l'uomo, dopo aver tentato
inutilmente di controllare la gru, avrebbe tentato di gettarsi fuori
dall'abitacolo, rimanendo però schiacciato
Olbia: alta tensione fatale per 21enne

Esce illeso da un incidente stradale, ma muore poco


dopo nel corso delle operazioni di recupero della sua
auto. La vittima è un 21enne di Tempio Pausania (Olbia)
morto fulminato per una scarica elettrica che lo ha
raggiunto attraverso il braccio della gru che caricava
l'auto incidentata sul mezzo di soccorso...

Pare infatti che la gru, per una manovra errata, abbia


toccato i fili dell'alta tensione a bordo strada.
Gruista
Gruisti: segnalazioni manuali per il sollevamento

Comandi
Gruisti: segnalazioni manuali per il sollevamento
Gruisti: segnalazioni manuali per il sollevamento
Raggi d’azione delle gru si sovrappongono in modo tale che il braccio
della gru 1 interferisce con la fune di sollevamento della gru 2 .
Pericolo/rischio
■ In caso di collisione il carico della gru 2 rischia di oscillare pericolosamente
e di colpire le persone presenti nella zona sottostante.
■ Danni alla gru 2 (fune di sollevamento, carrello).
■ Caduta del carico.
Misure per gru in servizio e fuori servizio

Misure per gru in servizio


■ I gruisti devono avere la possibilità di comunicare tra di loro per evitare
le collisioni,per esempio mediante una trombetta speciale, un impianto
interfono, un impianto ricetrasmittente indipendente,ecc.
■ In questo caso non è consigliabile comandare da terra la gru tramite
radiocomando.
Il rischio è troppo grande che il gruista non si accorga della possibile
collisione tra la fune di sollevamento e il braccio.

Misure per gru fuori servizio


Bisogna accertarsi che il braccio della gru 1 non entri in contatto con il
gancio o le imbracature della gru 2. Di conseguenza, per quanto concerne
la gru più alta occorre adottare le seguenti misure durante le pause di
lavoro e al termine dei lavori:
1. sganciare il carico e l’imbracatura
2. sollevare il gancio
3. posizionare il carrello, come indicato dal costruttore,
■ all’estremità interna vale con quasi tutte le gru)
■ o esterna del braccio (ad es. sulle gru Wolff)
Situazione
I raggi di azione delle gru si sovrappongono in modo tale che il controbraccio
della gru 1interferisce con la fune di sollevamento della gru 2 .
Pericolo/rischio
I pericoli sono:
■ in caso di collisione il carico della gru 2 rischia di oscillare pericolosamente
e di colpire le persone presenti nella zona sottostante.
■ Danni alla gru 2 (fune di sollevamento, carrello).
■ Caduta del carico.
La probabilità che si verifichi una collisione è più elevata, in quanto il gruista
della gru 1non riesce a vedere se il controbraccio della sua gru interferisce
con la fune di sollevamento della gru 2.
Misure per gru in servizio
1. Per evitare una collisione, una o entrambe gru devono essere dotate di
dispositivi limitatori dell’area di lavoro.
Sono indicati:
■ i limitatori del movimento di traslazione con interruttori di finecorsa,
■ i limitatori elettrici od elettronici,
■ i sistemi elettronici anticollisione.
Non sono indicati invece:
■ gli arresti meccanici,
■ solo provvedimenti organizzativi, ad es. istruzioni al gruista.
Misure per gru in servizio
2. I gruisti devono avere la possibilità di comunicare tra di loro per
evitare le collisioni, per esempio mediante una trombetta speciale, un
impianto interfono, un impianto ricetrasmittente indipendente etc
3. In questo caso non è consigliabile comandare da terra la gru tramite
radiocomando.
Il rischio è troppo grande che il gruista non si accorga della possibile
collisione tra la fune di sollevamento e il controbraccio.
Misure per gru fuori servizio
Bisogna accertarsi che il braccio della gru 1 non entri in contatto con il
gancio o le imbracature della gru 2. Pertanto, per quanto concerne la gru
più alta durante le pause di lavoro e al termine dei lavori occorre adottare
le seguenti misure:
1. sganciare il carico e l’imbracatura
2. sollevare il gancio
3. spostare il carrello come indicato dal costruttore
■ posizionarlo all’estremità interna (vale con quasi tutte le gru)
■ o esterna del braccio (ad es. sulle gru Wolff)
Riferimenti bibliografici

• http://cd494.mannelli.info/files/rischio_meccanico.pdf
• Altro materiale non riconducibile al titolare di diritti di autore
Università degli Studi di Genova
DIME
Dipartimento di Ingegneria meccanica, energetica,
gestionale e dei trasporti

Sicurezza degli impianti industriali

Rischio incendio
Agenda

Incendi e rischio di incendio


Sistemi per lo spegnimento dell’incendio
Classificazione dei fuochi
Le sorgenti d’innesco
I prodotti della combustione
Le sostanze estinguenti
Principali effetti dell’incendio sull’uomo
Prevenzione incendi
Analisi delle cause di incendio più comuni
La protezione antincendio
Normativa di riferimento
Procedure da adottare in caso di incendio
Incendi e rischio di incendio

Principio della combustione

Reazione chimica (ossidoriduzione) sufficientemente rapida


tra una sostanza combustibile ed una sostanza comburente
(normalmente l’ossigeno contenuto nell’aria) con emissione
di energia sensibile (calore e luce) ed altri prodotti della
combustione (gas, fumo).
Incendi e rischio di incendio

Incendio

Definizione: rapida ossidazione di


materiali con notevole sviluppo di calore,
fiamme, fumo e gas caldi.
Effetti dell'incendio:
 Emanazione di energia sotto forma
di luce e calore
 Trasformazione dei combustibili in
altri elementi (prodotti di combustione)
Principi della combustione
Incendi e rischio di incendio

Perché si realizzi una combustione è necessario che siano soddisfatte


tre condizioni (triangolo del fuoco).
COMBUSTIBILE COMBURENTE ENERGIA DI
INNESCO
Sostanza in grado Ossigeno presente Temperatura di
di bruciare nell’aria infiammabilità

Se manca un solo componente non si può verificare un incendio

OSSIGENO

COMBUSTIBILE

CALORE
Incendi e rischio di incendio

Il fuoco è la manifestazione visibile di una reazione chimica che avviene tra


due sostanze diverse (combustibile e comburente) con emissione di energia
(calore).
Affinché si realizzi un incendio, una combustione, è necessario che siano
soddisfatte tre condizioni che vengono rappresentate, idealmente, con un
triangolo (vedere slide precedente). Se manca una sola di queste tre
condizioni non si può verificare un incendio.
L’incendio è una ossidazione rapida di sostanze combustibili o infiammabili
con conseguente sviluppo di calore, fumo e gas a temperatura elevata.
L'incendio è generalmente causato dallo scoccare di una scintilla,
dall'accendersi di una fiamma oppure da una elevata temperatura in presenza
di prodotti o materiali pericolosi esso è quasi sempre riconducibile ad un
comportamento negligente o all’inosservanza di norme tecniche, nella
mancanza di procedure e verifiche di sicurezza, dopo e raramente a
casualità.
L’incendio si distingue in tre fasi:
• fase di accensione: durante questa fase si può agire per tentare di sedare l'incendio
• fase di incendio: è la fase culminante dell'incendio, e si può solo cercare di contenerlo
• fase di estinzione: è caratterizzata da una rapida diminuzione della temperatura.
Principi della combustione
Incendi e rischio di incendio

COMBUSTIBILE

SOSTANZA IN GRADO DI BRUCIARE

PUO’ PRESENTARSI ALLO STATO


SOLIDO (CARBONE, LEGNO, CARTA, ...)
LIQUIDO (ALCOOL, BENZINA, GASOLIO, ...)
GASSOSO (METANO, IDROGENO, PROPANO, ...)

COMBURENTE

SOSTANZA CHE PERMETTE AL COMBUSTIBILE DI BRUCIARE


Principi della
Incendi combustione
e rischio di incendio

SOSTANZE

CO2
H2O
(vapore)
e
+ + +

Infiamm Accens. Combus.

CONDIZIONI
Incendi e rischio
Principi della di incendio
combustione

Elementi che caratterizzano la combustione

Un incendio si caratterizza per:

 tipo di combustibile
 tipo di sorgente d’innesco.

(Il Comburente è fisso: Ossigeno dell'aria)


Parametri fisici della combustione
Parametri
Incendi fisici della
e rischio dicombustione
incendio

TEMPERATURA DI ACCENSIONE

MINIMA TEMPERATURA ALLA QUALE LA MISCELA


COMBUSTIBILE-CORBURENTE INIZIA A BRUCIARE
SPONTANEAMENTE IN MODO CONTINUO SENZA ULTERIORE
APPORTO DI CALORE DALL’ESTERNO.

BENZINA 250 °C GASOLIO 220 °C LEGNO 220 °C


Parametri fisici della combustione
Incendi e rischio di incendio

TEMPERATURA D ’INFIAMMABILITA’

TEMPERATURA ALLA QUALE OCCORRE PORTARE UN


COMBUSTIBILE (LIQUIDO O SOLIDO) AFFINCHE’ ESSO EMETTA
VAPORI COMBUSTIBILI IN QUANTITA’ DA INCENDIARSI IN
PRESENZA DI UN INNESCO, SIA ESSO FIAMMA O SCINTILLA.

BENZINA 12 °C GASOLIO 85 °C LEGNO 200 °C


Parametri fisici della combustione
Incendi e rischio di incendio

ENERGIA DI ACCENSIONE:

ENERGIA RICHIESTA PER PORTARE IL COMBUSTIBILE ALLA SUA


TEMPERATURA DI ACCENSIONE IN PRESENZA DI ARIA.

INNESCO:

ELEMENTO CHE A CONTATTO CON LA MISCELA


INFIAMMABILE NE DETERMINA L’AVVIO ALLA REAZIONE DI
COMBUSTIONE
(FIAMMA, SCINTILLA, …)
Propagazione dell’incendio
Incendi e rischio di incendio

La propagazione dell’incendio è influenzata da:

• estensione del locale;

• posizione della sorgente d’ignizione;

• l’apertura di porte e finestre;

• presenza e distribuzione di materiale infiammabile;

• propagazione attraverso vani tecnici.


Incendi e rischio
Propagazione di incendio
dell’incendio

Dinamica dell’incendio
Incendi e rischio di incendio

Principali conseguenze incendi:

Ustioni

Perdita di conoscenza

Asfissia

Diminuzione della visibilità

Crollo delle strutture portanti


Sistemi per lo spegnimento dell’incendio

Esaurimento del combustibile: allontanamento o


separazione della sostanza combustibile dal focolaio d’incendio;
Soffocamento: separazione del comburente dal combustibile o
riduzione della concentrazione di comburente;
Raffreddamento: sottrazione di calore fino ad ottenere una
temperatura inferiore a quella necessaria al mantenimento della
combustione.
Classificazione dei fuochi

Classificazione dei fuochi

Gli incendi vengono distinti in 5 classi:

classe A: Fuochi da materiali solidi.


classe B: Fuochi da liquidi o da solidi liquefattibili
classe C: Fuochi da gas
classe D: Fuochi da metalli
classe F: Fuochi che interessano mezzi di cottura (oli e grassi vegetali
o animali)
Classificazione dei fuochi

Classe A

Fuochi da materiali solidi: legname carboni, carta,


tessuti, trucioli, pelli, gomma e derivati la cui combustione
genera braci
Può presentarsi in 2 forme:
combustione viva con fiamme;
combustione lenta senza fiamme, con formazione di brace
incandescente.
L'acqua, la schiuma e la polvere sono le sostanze estinguenti
più utilizzate.
L'agente estinguente migliore è l'acqua, che agisce
per raffreddamento.
Classificazione dei fuochi

Classe B

Fuochi da liquidi: idrocarburi, benzine, alcoli, solventi, oli


minerali, grassi,eteri
Gli estinguenti più utilizzati sono costituiti da schiuma,
polvere e CO2.
L'agente estinguente migliore è la schiuma che agisce
per soffocamento.
È controindicato l'uso di acqua a getto pieno (può essere
utilizzata acqua con getto frazionato o nebulizzato).
Classificazione dei fuochi

Classe C

Fuochi da gas: metano, G.P.L., idrogeno, acetilene, butano,


propano
L'intervento principale è quello di bloccare il flusso di gas
chiudendo la valvola di intercettazione o otturando
la falla.
Esiste il rischio di esplosione se un incendio di gas
viene estinto prima di intercettare il gas.
L'acqua è consigliata solo a getto frazionato o
nebulizzato per raffreddare i tubi o le bombole
coinvolte.
Sono utilizzabili le polveri polivalenti.
Classificazione dei fuochi

Classe D

Fuochi da metalli: alluminio, magnesio, sodio, potassio


Nessuno degli estinguenti normalmente utilizzati per gli
incendi di classe A e B è idoneo per incendi di metalli.
Occorre utilizzare polveri speciali ed operare con
personale particolarmente addestrato.
Sono particolarmente difficili da estinguere data la loro
altissima temperatura.
Gli altri agenti estinguenti (compresa l'acqua) sono da
evitare in quanto possono causare esplosioni.
Classificazione dei fuochi

Classe F

Fuochi che interessano mezzi di cottura: olio da cucina


e grassi vegetali o animali
È riferita ai fuochi di oli combustibili di natura vegetale
e/o animale quali quelli usati nelle cucine, in
apparecchi di cottura.
La formula chimica degli oli minerali (idrocarburi - fuochi di classe
B) si distingue da quella degli oli vegetali e/o animali.
Gli estinguenti per classe F spengono per azione chimica,
effettuando una catalisi negativa.
L'utilizzo di estintori a polvere e di estintori a CO2 contro
fuochi di classe F è considerato pericoloso.
Classificazione dei fuochi

Ex classe E

La norma UNI EN 2:2005 non comprende i fuochi


di "Impianti ed attrezzature elettriche sotto
tensione“ (vecchia classe E) in quanto, gli incendi di
impianti ed attrezzature elettriche sono riconducibili
alle classi A o B.
Gli estinguenti specifici per questi incendi sono le
polveri dielettriche e la CO2
Non devono essere usati acqua e schiuma.
Le sorgenti d’innesco

Possono essere suddivise in 4 categorie:

 Accensione diretta
 Accensione indiretta
 Attrito
 Autocombustione o riscaldamento spontaneo
Le sorgenti d’innesco

Accensione diretta

Quando una fiamma, una scintilla o altro materiale


incandescente entra in contatto con un materiale
combustibile in presenza di ossigeno.
Esempi: operazioni di taglio e saldatura, fiammiferi e
mozziconi di sigaretta, lampade e resistenze elettriche, stufe
elettriche, scariche elettrostatiche.
Le sorgenti d’innesco

Accensione indiretta

Il calore d’innesco avviene nelle forme della


convezione, conduzione e irraggiamento
termico.
Esempi: correnti di aria calda generate da un incendio;
propagazione di calore attraverso elementi metallici
strutturali degli edifici.
Le sorgenti d’innesco

Attrito

Il calore è prodotto dallo sfregamento di due


materiali.
Esempi: malfunzionamento di parti meccaniche rotanti quali
cuscinetti, motori; urti; rottura violenta di materiali metallici.
Le sorgenti d’innesco

Autocombustione o riscaldamento spontaneo

Il calore viene prodotto dallo stesso combustibile


come ad esempio lenti processi di ossidazione, reazione
chimiche, decomposizioni esotermiche in assenza d’aria,
azione biologica.
Esempi: cumuli di carbone, stracci o segatura imbevuti di olio di
lino, polveri di ferro o nichel, fermentazione di vegetali.
I prodotti della combustione

Sono suddivisi in 4 categorie:


 Gas di combustione
 Fiamme
 Fumo
 Calore
I prodotti della combustione

Gas di combustione
Rimangono allo stato gassoso alla temperatura
ambiente di riferimento di 15 °C.
Nella maggioranza dei casi, la mortalità per incendio
è da attribuire all’inalazione di questi gas che
producono danni biologici per anossia o per tossicità.
I prodotti della combustione

Fiamme
Sono costituite dall’emissione di luce dovuta alla
combustione di gas.
Nell’incendio di combustibili gassosi è possibile valutare
approssimativamente il valore raggiunto dalla
temperatura di combustione dal colore della fiamma
I prodotti della combustione

Fumi
L'elemento più caratteristico dell'incendio. Sono formati da
piccolissime particelle solide (aerosol), liquide (nebbie o
vapori condensati).
Le particelle solide sono sostanze incombuste e ceneri.
Rendono il fumo di colore scuro.
Le particelle liquide (nebbie o vapori condensati) sono costituite da
vapor d’acqua che sotto i 100 °C condensa dando luogo a fumo di
color bianco.

Particelle solide (colore scuro) Particelle liquide (colore chiaro)


I prodotti della combustione

Calore
È la causa principale della propagazione degli incendi.
Il calore è dannoso per l'uomo potendo causare:
 disidratazione dei tessuti,
 difficoltà o blocco della respirazione,
 scottature.
Le sostanze estinguenti

L’estinzione dell’incendio si ottiene per raffreddamento,


sottrazione del combustibile, soffocamento e azione
chimica.
Tali azioni possono essere ottenute singolarmente o
contemporaneamente.
È fondamentale conoscere le proprietà e le modalità d’uso
delle principali sostanze estinguenti.
Le sostanze estinguenti

Sostanze estinguenti normalmente utilizzate:

 Acqua
 Schiuma
 Polveri
 Gas inerti
 Idrocarburi alogenati (HALON)
 Agenti estinguenti alternativi all’halon
Le sostanze estinguenti

Acqua
È la sostanza estinguente principale per la facilità con cui può
essere reperita.
Azione estinguente:
 Raffreddamento;
 Soffocamento per sostituzione dell’ossigeno con il vapore
acqueo;
 Diluizione di sostanze;
 Imbevimento dei combustibili solidi.
Idonea per incendi di combustibili solidi (classe A).
Non deve essere utilizzata su apparecchiature elettriche.
Le sostanze estinguenti

Schiume
Costituite da una soluzione in acqua di un liquido
schiumogeno, che per effetto della pressione di un gas
fuoriesce dall’estintore e passa all’interno di una lancia dove si
mescola con aria e forma la schiuma.
L’azione estinguente avviene per soffocamento
(separazione del combustibile dal comburente) e per
raffreddamento in minima parte.
Idonee per incendi di liquidi infiammabili (classe B).
Non è utilizzabile su apparecchiature elettriche e sui
fuochi di classe D.
Le sostanze estinguenti

Polveri
Sono costituite da particelle
solide finissime a base di
bicarbonato di sodio, potassio,
fosfati e sali organici.
L'azione estinguente è di tipo
chimico (inibizione tramite
catalisi negativa), di
raffreddamento e di
soffocamento.
Possono essere utilizzate su
apparecchiature elettriche in
tensione.
Possono danneggiare
apparecchiature e macchinari.
Le sostanze estinguenti

Gas inerti

È utilizzata principalmente l'Anidride carbonica (CO2).


La presenza nell’aria riduce la concentrazione del
comburente fino ad impedire la combustione.
L’anidride carbonica:
 non è tossica;
 è più pesante dell’aria;
 è dielettrica (non conduce elettricità);
 è normalmente conservato come gas liquefatto;
 Ha anche un’azione estinguente per raffreddamento.
Può essere utilizzata su apparecchiature elettriche in
tensione.
Le sostanze estinguenti

Idrocarburi alogenati

Detti anche HALON (HALogenated - hydrocarbON),


sono formati da idrocarburi saturi in cui gli atomi
d’idrogeno sono stati parzialmente o totalmente sostituiti
con atomi di cromo, bromo o fluoro.
L’azione estinguente avviene con l’interruzione chimica
della reazione di combustione (catalisi negativa).
Sono efficaci su incendi in ambienti chiusi
scarsamente ventilati e l’azione estinguente non
danneggia i materiali.
L’utilizzo è stato abolito dal D.M. Ambiente 3/10/2001 -
“Recupero, riciclo, rigenerazione e distribuzione degli halon”
emanate per la protezione della fascia di ozono stratosferico.
Le sostanze estinguenti

Agenti estinguenti alternativi all’halon

Gli agenti sostitutivi degli halon impiegati attualmente


sono "ecocompatibili“ (clean agent), e
generalmente combinano al vantaggio della
salvaguardia ambientale lo svantaggio di una
minore capacità estinguente rispetto agli halon.
Esistono sul mercato prodotti inertizzanti e prodotti
che agiscono per azione anticatalitica.
Principali effetti dell’incendio sull’uomo

Anossia (a causa della riduzione del tasso di ossigeno


nell’aria)
Azione tossica dei fumi
Riduzione della visibilità
Azione termica
Causati dai prodotti della combustione:
 Gas
 Fiamma
 Calore
 Fumo
Prevenzione incendi

È orientata alla salvaguardia dell’incolumità delle persone ed alla


tutela dei beni e dell’ambiente.
Le azioni Preventive e Protettive non devono essere
considerate alternative ma complementari tra loro.
Prevenzione incendi

Principali misure di prevenzione: (tese alla riduzione della


probabilità di accadimento)

 Realizzazione di impianti elettrici a regola d'arte. (Norme


CEI)
 Collegamento elettrico a terra di impianti, strutture,
serbatoi etc
 Installazione di impianti parafulmine
 Dispositivi di sicurezza degli impianti di distribuzione e
di utilizzazione delle sostanze infiammabili.
 Ventilazione dei locali
 Utilizzazione di materiali incombustibili
 Adozione di pavimenti ed attrezzi antiscintilla
 Segnaletica di sicurezza
Prevenzione incendi

Realizzazione di impianti elettrici a regola d’arte

Misura di prevenzione molto importante.


Mira alla realizzazione di impianti elettrici a regola d'arte (D.M.
sviluppo economico 22 gennaio 2008, n. 37, norme CEI)
(il DM n. 37/08 ha sostituito la legge 46/90).
Consegue lo scopo di ridurre le probabilità d'incendio,
evitando che l’impianto elettrico costituisca causa
d’innesco.
Prevenzione incendi

Collegamento elettrico a terra

La messa a terra di impianti, serbatoi ed altre strutture


impedisce che su tali apparecchiature possa verificarsi
l'accumulo di cariche elettrostatiche prodottesi per
motivi di vario tipo (strofinio, correnti vaganti etc).

Installazione di impianti
parafulmine
Creano una via preferenziale per la
scarica del fulmine a terra evitando
che esso possa colpire gli edifici o le
strutture che si vogliono proteggere.
Prevenzione incendi

Dispositivi di sicurezza degli impianti di distribuzione di sostanze


infiammabili
Ai fini della prevenzione gli impianti di distribuzione di sostanze
infiammabili sono dotati di dispositivi di sicurezza.
Ventilazione dei locali
La ventilazione naturale o artificiale di un ambiente dove possono
accumularsi gas infiammabili evita che possano verificarsi
concentrazioni pericolose.
Prevenzione incendi

Accorgimenti comportamentali per prevenire gli incendi

Le misure precauzionali di esercizio si realizzano


attraverso:
 Analisi delle cause di incendio più comuni
 Informazione e Formazione antincendi
 Controlli degli ambienti di lavoro e delle attrezzature
 Manutenzione ordinaria e straordinaria
Analisi delle cause di incendio più comuni

Il personale deve adeguare i comportamenti ponendo


particolare attenzione a:

 Deposito e utilizzo di materiali infiammabili e combustibili


 Utilizzo di fonti di calore
 Impianti ed attrezzature elettriche
 Il fumo e l'utilizzo di portacenere
 Rifiuti e scarti di lavorazione combustibili
 Aree non frequentate
 Misure contro gli incendi dolosi
Analisi delle cause di incendio più comuni

Deposito e utilizzo di materiali infiammabili e


combustibili
Ove possibile, il quantitativo dei materiali infiammabili o
facilmente combustibili limitato a quello
strettamente necessario e tenuto lontano dalle
vie di esodo.
I materiali di pulizia combustibili devono essere
tenuti in appositi ripostigli o locali.
Analisi delle cause di incendio più comuni

Utilizzo di fonti di calore (cause d’incendio più comuni)


Impiego e detenzione di bombole di gas (anche vuote) utilizzate
negli apparecchi di riscaldamento;
Deposito di materiali combustibili sopra o in vicinanza degli
apparecchi di riscaldamento;
Utilizzo di apparecchi in ambienti non idonei (presenza di
infiammabili, alto carico di incendio etc);
Utilizzo di apparecchi in mancanza di adeguata ventilazione
degli ambienti (norme UNI-CIG).
Analisi delle cause di incendio più comuni

Impianti ed attrezzature elettriche

Il personale deve essere istruito sul corretto uso delle attrezzature


elettriche in modo da riconoscere difetti.
Le prese multiple non devono essere sovraccaricate per evitare
surriscaldamenti.
In caso di alimentazione provvisoria di un’apparecchiatura, il cavo
elettrico deve
avere la lunghezza strettamente necessaria.
Le riparazioni elettriche devono essere effettuate da
personale qualificato.
IL FUMO E L'UTILIZZO DI PORTACENERE
Identificare le aree dove il fumo delle sigarette può costituire pericolo
di incendio e disporne il divieto.
Analisi delle cause di incendio più comuni

Rifiuti e scarti di lavorazione combustibile

I rifiuti non debbono essere depositati lungo le vie di esodo


(corridoi, scale, disimpegni).
AREE NON FREQUENTATE
Le aree normalmente non frequentate da personale (scantinati, depositi),
devono essere tenute libere da materiali combustibili.
MISURE CONTRO GLI INCENDI DOLOSI
Scarse misure di sicurezza e mancanza di controlli possono consentire
accessi non autorizzati e ciò può costituire causa di incendi dolosi.
Informazione e formazione antincendio

È obbligo del datore di lavoro fornire ai lavoratori un’adeguata


informazione e formazione (Art. 36 e 37 del D.lgs n. 81/08) al
riguardo di:

a) Rischi legati all'attività dell'impresa in generale ed alle specifiche


mansioni svolte;
b) Misure di prevenzione e di protezione incendi adottate;
c) Procedure da adottare in caso di incendio.
d) I nominativi dei lavoratori incaricati di applicare le misure di
prevenzione incendi, lotta antincendi e gestione delle emergenze
e pronto soccorso;
e) Il nominativo del responsabile e degli addetti del servizio di
prevenzione e protezione.
La protezione antincendio

Prevenzione incendi

Prevenzione
propriamente
detta Protezione
(riduzione occasioni
di rischio)

PASSIVA ATTIVA
La protezione antincendio

Insieme delle misure finalizzate alla riduzione dei danni

Si suddividono in misure di protezione attiva o


passiva in relazione alla necessità o meno
dell’intervento di un operatore o dell’azionamento di un
impianto.
Protezione PASSIVA: NON c'è il bisogno di un
INTERVENTO
Protezione ATTIVA: c'è il bisogno di un
INTERVENTO)
La protezione attiva presuppone l'intervento che può
avvenire con o senza l'azione umana.
La protezione antincendio

La protezione passiva

Non richiede l’azione di un uomo o l’azionamento di un


impianto.
Obiettivo: limitazione degli effetti dell’incendio
nello spazio e nel tempo
 Isolamento
 Distanze di sicurezza
 Resistenza al fuoco
 Reazione al fuoco
 Ventilazione
 Vie d’uscita
La protezione antincendio

La protezione attiva
Richiedono l’azione di un uomo o l’azionamento di un
impianto, finalizzate alla precoce rilevazione
dell’incendio, alla segnalazione e all’azione di
spegnimento.
 Estintori
 Rete idrica antincendio
 Impianti di rivelazione automatica
d’incendio
 Impianti di spegnimento automatici
 Dispositivi di segnalazione e d’allarme
 Evacuatori di fumo e calore
La protezione antincendio

Misure di protezione passiva


ISOLAMENTO DELL'EDIFICIO: DISTANZE DI SICUREZZA
Interposizione di spazi scoperti con lo scopo di impedire
la propagazione dell’incendio.
 Distanze di sicurezza interne proteggono elementi
appartenenti ad uno stesso complesso.
 Distanze di sicurezza esterne proteggono elementi
esterni al complesso.
 Distanza di protezione distanza tra ciascun elemento
pericoloso di un’attività e la recinzione (ove prescritta) o il
confine dell’area.
La protezione antincendio

Resistenza al fuoco
La resistenza al fuoco rappresenta il
comportamento al fuoco degli elementi portanti o
separanti.
Gli elementi costruttivi vengono classificati da un
numero che esprime i minuti per i quali
conservano le caratteristiche di resistenza meccanica
(R), tenuta ai prodotti della combustione (E), e di
isolamento termico (I).
Es. REI 90
La protezione antincendio

Resistenza al fuoco

La resistenza al fuoco è l’attitudine di un prodotto o di


un elemento costruttivo a:
Stabilità R:
conservare la resistenza meccanica sotto l'azione del fuoco.
Tenuta E:
(Étanchéité au feu) a non lasciar passare né produrre
fiamme, vapori o gas caldi sul lato non esposto al fuoco.
Isolamento termico I:
ridurre, entro un dato limite, la trasmissione del calore.
La protezione antincendio

Resistenza al fuoco

REI : identifica un elemento costruttivo che deve


conservare, per un determinato tempo, la stabilità, la
tenuta e l’isolamento termico;
RE : identifica un elemento costruttivo che deve
conservare, per un determinato tempo, la stabilità e la
tenuta;
R : identifica un elemento costruttivo che deve
conservare, per un determinato tempo, la stabilità;
EI : identifica un elemento costruttivo che deve
conservare, per un determinato tempo, la tenuta e
l’isolamento termico.
La protezione antincendio

Compartimentazione
Il compartimento antincendio è una parte di edificio
delimitata da elementi costruttivi (muri, solai, porte etc) di
resistenza al fuoco predeterminata.
Di norma gli edifici vengono suddivisi in compartimenti, anche
costituiti da più piani, di superficie non eccedente quella
indicata nelle varie norme specifiche.
La protezione antincendio

Resistenza al fuoco delle porte e degli elementi di chiusura

Per una completa ed efficace compartimentazione le


comunicazioni tra le pareti tagliafuoco devono essere dotate di
elementi di chiusura aventi le stesse caratteristiche di resistenza
al fuoco del muro.
Tali elementi di chiusura si possono distinguere in:
 Porte incernierate
 Porte scorrevoli
 Porte a ghigliottina
La protezione antincendio

Porte incernierate
Porte munite di sistemi di chiusura automatica che in caso
d’incendio fanno chiudere il serramento;
Porte scorrevoli
Porte sospese ad una guida inclinata di pochi gradi.
Normalmente stanno in posizione aperta trattenute da un
contrappeso e da un cavo in cui è inserito un fusibile che in caso
d’incendio si fonde permettendo la chiusura
Porte a ghigliottina
Porte installate secondo un principio analogo alle porte
scorrevoli, con la differenza che il pannello viene mantenuto
sospeso sopra l’apertura e le guide sono verticali.
La protezione antincendio

Protezione delle strutture


Per la protezione delle strutture, in particolare le strutture
metalliche, alcuni particolari rivestimenti tra i quali vernici
intumescenti, conseguono una vera e propria azione
protettiva delle strutture sulle quali sono applicate, realizzando
un grado di resistenza al fuoco.
La protezione antincendio

Reazione al fuoco dei materiali

Rappresenta il comportamento del materiale che


partecipa all’incendio.
Riguarda i materiali di rivestimento e arredo, gli articoli
di arredamento, tendaggi e tessuti in genere.
La determinazione viene effettuata su basi sperimentali,
mediante prove su campioni in laboratorio.
In relazione a tali prove i materiali sono assegnati alle classi:
0 - 1 - 2 - 3 - 4 – 5, con l’aumentare della loro
partecipazione alla combustione, a partire da quelli di classe
0 che risultano non combustibili.
La protezione antincendio

Vie di esodo (sistemi di vie d’uscita)


Percorso senza ostacoli al deflusso che consente alle persone
che occupano un edificio o un locale di raggiungere un luogo
sicuro.
La protezione antincendio

Porte delle uscite di sicurezza

Le porte delle uscite di sicurezza devono


aprirsi nel senso dell’esodo a semplice spinta,
e non devono ostruire passaggi, corridoi e
pianerottoli.
Le porte sulle scale devono aprirsi sul
pianerottolo senza ridurne la larghezza e non
direttamente sulle rampe.
Le porte di tipo scorrevole con azionamento
automatico sono utilizzabili come uscite di
sicurezza, se le stesse possono essere aperte a spinta
verso l'esterno.
La protezione antincendio

Il problema dell’esodo delle persone in caso di incendio è di


enorme importanza, particolarmente in luoghi come
Alberghi, Ospedali, Centri Commerciali, Locali di
pubblico spettacolo, Scuole etc
Il dimensionamento delle vie d’uscita tiene conto:
 del massimo affollamento ipotizzabile;
 della capacità d’esodo dell’edificio.
La protezione antincendio

Misure di protezione attiva


Attrezzature ed impianti di estinzione degli incendi
Estintori
Sono i mezzi di primo intervento più impiegati per i principi
di incendio.
Non sono efficaci se l'incendio è in una fase più avanzata.
Vengono suddivisi, in relazione al loro peso complessivo, in:

Massa inferiore o uguale a 20 Kg Massa superiore a 20 Kg fino a 150 Kg


La protezione antincendio

Gli estintori portatili


Vengono classificati in base alla loro capacità
estinguente.
◦ Classe A: fuochi di solidi con formazione di brace
◦ Classe B: fuochi di liquidi
◦ Classe C: fuochi di gas
◦ Classe D: fuochi di metalli
◦ Classe F: fuochi che interessano mezzi di cottura
Sull'estintore è riportata un’etichetta (marcatura)
di colore contrastante con lo sfondo, suddivisa in 5
parti, con le istruzioni e le condizioni di utilizzo.
Sono indicate le classi dei fuochi ed i focolai
convenzionali che è in grado di estinguere (esempio: 34A
233BC).
La protezione antincendio
Gli estintori carrellati
Hanno le stesse caratteristiche degli estintori portatili con una
maggiore capacità estinguente ma, a causa delle maggiori
dimensioni e peso, una minore praticità d’uso e
maneggevolezza.
La protezione antincendio

Tipologie di estintori in relazione alla sostanza estinguente

 ad acqua, ormai in disuso


 a schiuma, adatto per liquidi infiammabili
 a polvere, adatto per liquidi infiammabili ed
apparecchi elettrici
 ad anidride carbonica (CO2), idoneo per apparecchi
elettrici
 ad idrocarburi alogenati (halon e sostanze
alternative), adatto per motori di macchinari
 ad agente pulito (clean agent)
La protezione antincendio

Estintori a polvere

La polvere antincendio è composta da sostanze chimiche


miscelate tra loro con aggiunta di additivi per migliorarne le
qualità di fluidità e idrorepellenza.
L'azione estinguente è di tipo chimico di soffocamento e
di raffreddamento.
La fuoriuscita della polvere avviene mediante una pressione
interna che può essere fornita da una compressione
preliminare (azoto) o dalla liberazione di un gas ausiliario
(CO2) contenuto in una bombolina (interna od esterna).
Le polveri essendo costituite da particelle solide finissime, possono
danneggiare le apparecchiature e macchinari.
Gli estintori a polvere riportano l'indicazione dell’idoneità all'uso su
apparecchiature elettriche in tensione, es.: "adatto all'uso su
apparecchiature elettriche …"
La protezione antincendio

Estintore a CO2(Anidride Carbonica)


L'estintore contiene CO2 compresso e liquefatto.
È diverso dagli altri in quanto costituito da un unico pezzo
di spessore adeguato alle pressioni interne, gruppo
valvolare con attacco conico e senza foro per attacco
manometro né valvolino per controllo pressioni.
Si distingue dagli altri anche per le colorazioni dell'ogiva (grigio
chiaro, anche se non obbligatorio) e dal diffusore di
forma tronco-conica.
Il dispositivo di scarica è composto da un tubo ad alta pressione
collegato ad un cono diffusore realizzato in materiale
sintetico
PVC (resistente agli shok termici) con la presenza di un
impugnatura, per evitare all’operatore eventuali ustioni
da freddo.
La protezione antincendio

Estintore a CO2(Anidride Carbonica)

All'azionamento la CO2 in pressione (55/60 bar a 20° C), raggiunge


il cono diffusore dove, uscendo all’aperto, una parte evapora subito
con un brusco abbassamento di temperatura (-79°C) tale da
solidificare l’altra parte in una massa gelida e leggera sotto forma
di piccole particelle (“neve carbonica” o “ghiaccio secco”).
Per la forte evaporazione ha una gittata limitata (non oltre 2
metri), è necessario avvicinarsi il più possibile al focolaio.
La CO2 che fuoriesce da un estintore può provocare ustioni da
freddo.
Spegne per soffocamento e raffreddamento.
Il serbatoio dell'estintore deve essere sottoposto a collaudo ogni 5
anni.
È riportata l'indicazione dell’idoneità all'uso su apparecchiature
elettriche in tensione, es.: "adatto all'uso su apparecchiature
elettriche …"
Non è adatto sui focolai di classe A, in quanto il gas produce
solo un abbassamento momentaneo della temperatura senza
l’inibizione delle braci.
La protezione antincendio

Estintore a schiuma

La carica è composta da liquido schiumogeno diluito in


acqua in percentuale dal 3% al 10%.
La pressurizzazione può essere permanentemente o può
avvenire al momento dell’uso.
L’azione estinguente avviene per soffocamento e per
raffreddamento in minima parte.
Sono impiegate per incendi di liquidi infiammabili (classe B)
Non utilizzabile sulle apparecchiature elettriche e sui fuochi di
classe D. È obbligatorio riportare l'avvertenza nella parte terza
dell’etichetta “AVVERTENZA non utilizzare su
apparecchiature elettriche sotto tensione”.
La protezione antincendio

Determinazione del numero degli estintori da installare


Il numero risulta determinato solo in alcuni norme specifiche (scuole,
ospedali, alberghi, locali di pubblico spettacolo, autorimesse ecc.).
Negli altri casi si deve eseguire il criterio di disporre questi mezzi di
primo intervento in modo che siano prontamente
disponibili ed utilizzabili.
In linea di massima la posizione deve essere scelta privilegiando la
facilità di accesso, la visibilità e la possibilità che almeno uno di questi
possa essere raggiunto con un percorso non superiore a 15 m
circa.
La distanza tra gruppi di estintori deve essere circa 30 m.
La protezione antincendio

Posizionamento degli estintori


Debbono essere indicati con l’apposita segnaletica di
sicurezza, in modo da essere individuati immediatamente.
Estintori, di tipo idoneo, devono essere posti in vicinanza
di rischi speciali (quadri elettrici, cucine, impianti per la produzione
di calore a combustibile solido, liquido o gassoso etc).
Gli estintori dovranno essere posizionati alle pareti,
mediante idonei attacchi che ne consentano il facile
sganciamento o poggiati a terra con idonei dispositivi
(piantane porta estintore con asta e cartello).
La protezione antincendio

Rete idrica antincendio


Può essere collegata direttamente, o a mezzo di vasca di
disgiunzione, all’acquedotto cittadino.
La presenza della riserva idrica è necessaria se l’acquedotto non
garantisce continuità di erogazione e sufficiente pressione.
In tal caso le caratteristiche idrauliche richieste agli erogatori
(idranti UNI 45 oppure UNI 70) vengono assicurate in
termini di portata e pressione dalla capacità della riserva idrica e
dal gruppo di pompaggio.
La protezione antincendio

Idrante a muro
Apparecchiatura antincendio composta essenzialmente da:
 cassetta, o da un portello di protezione;
 supporto della tubazione;
 valvola manuale di intercettazione;
 tubazione flessibile completa di raccordi;
 lancia erogatrice.
La protezione antincendio

Idrante a colonna soprasuolo

È costituita da una valvola alloggiata nella porzione


interrata dell’apparecchio, manovrata attraverso un albero
verticale che ruota nel corpo cilindrico.
Per ciascun idrante deve essere prevista almeno una
dotazione di tubazione flessibile, completa di
raccordi e lancia di erogazione.
Queste dotazioni devono essere ubicate in prossimità
degli idranti, in apposite cassette, o conservate in
postazioni accessibili in sicurezza anche in caso
d'incendio ed adeguatamente segnalate.
La protezione antincendio

Idrante sottosuolo

È costituita da una valvola provvista di un attacco unificato ed


alloggiato in una custodia con chiusino installato a piano di calpestio.
La posizione degli idranti sottosuolo deve essere adeguatamente
indicata e devono essere adottate misure per evitare che ne sia
ostacolato l'utilizzo.
Dotazioni in cassetta di contenimento individuate da idonea
segnaletica.
La protezione antincendio

Naspi

È costituito da una bobina mobile su cui è


avvolta una tubazione semirigida
collegata ad una estremità con una lancia
erogatrice.
Per l'impiego anche da parte di personale
non addestrato, è un'alternativa agli
idranti per le attività a minor rischio.
I naspi hanno prestazioni inferiori rispetto agli
idranti e in alcune attività possono essere
collegati direttamente alla rete idrica
sanitaria.
Dispongono di tubazioni in gomma avvolte
su tamburi girevoli e sono provviste di
lance da 25 mm con getto regolabile
(pieno o frazionato) con portata di 50
lt/min e pressione 1,5 bar.
La protezione antincendio

Attacchi di mandata per autopompa

È un dispositivo, collegato alla rete di idranti, per mezzo del


quale può essere immessa acqua nella rete di idranti in
condizioni di emergenza.
Ha un diametro DN 70.
La protezione antincendio

Caratteristiche della rete idrica antincendi

Criteri progettuali a garanzia di affidabilità e funzionalità:


 Indipendenza della rete da altre utilizzazioni.
 Dotazione di valvole di sezionamento.
 Disponibilità di riserva idrica e di costanza di pressione.
 Ridondanza del gruppo pompe.
 Disposizione della rete ad anello.
 Protezione della rete dall’azione del gelo e della
corrosione.
 Caratteristiche idrauliche pressione - portata (es. 50 %
degli idranti UNI 45 in erogazione con portata di 120 lt/min
e pressione residua di 2 bar).
 Idranti (a muro, a colonna, sottosuolo o naspi) collegati con
tubazioni flessibili a lance erogatrici che consentono, per
numero ed ubicazione, la copertura protettiva dell’intera
attività.
La protezione antincendio

Posizionamento di idranti a muro e naspi

 Posizionati in modo che ogni parte dell'attività sia


raggiungibile con il getto d'acqua di almeno un
idrante/naspo.
 È ammissibile considerare che il getto d'acqua abbia una
lunghezza di riferimento di 5 m.
 Il posizionamento deve essere eseguito considerando ogni
compartimento in modo indipendente.
 Devono essere installati in posizione ben visibile e
facilmente raggiungibile.
 Preferibilmente posizionati in prossimità di uscite di
emergenza o vie di esodo, in posizione tale da non
ostacolare l'esodo.
 Le caratteristiche della rete idranti sono stabilite dalla norma
UNI 10779.
La protezione antincendio

Impianti di spegnimento automatici

Possono classificarsi in base all'estinguente utilizzato:


 Impianti ad acqua Sprinkler (ad umido, a secco, alternativi,
a preallarme, a diluvio etc);
 Impianti a schiuma;
 Impianti ad anidride carbonica;
 Impianti ad halon;
 Impianti a polvere.
La protezione antincendio

Impianto automatico di estinzione ad acqua Sprinkler

 Fonte di alimentazione (acquedotto, serbatoi, vasca, serbatoio in


pressione)
 Pompe di mandata
 Centralina valvolata di controllo e allarme
 Condotte montanti principali
 Rete di condotte secondarie
 Testine erogatrici (sprinkler)
La protezione antincendio

Tipi d’impianto Sprinkler

 Ad umido: tutto l’impianto è permanentemente


riempito di acqua in pressione: è il sistema più rapido e si
può adottare nei locali in cui non esiste rischio di gelo.
 A secco: la parte d’impianto non protetta, o
sviluppantesi in ambienti soggetti a gelo, è riempita di aria in
pressione: al momento dell’intervento una valvola provvede al
riempimento.
 Alternativi: funzionano come impianti a secco nei mesi
freddi e ad umido nei mesi caldi.
 A pre-allarme: sono dotati di dispositivo che differisce
la scarica per escludere i falsi allarmi.
 A diluvio: impianti con sprinklers aperti alimentati da
valvole ad apertura rapida per fornire rapidamente grosse
portate.
La protezione antincendio

Impianti a schiuma

Gli impianti a schiuma sono concettualmente simili agli sprinkler


ad umido e differiscono per la presenza di un serbatoio di
schiumogeno e di idonei sistemi di produzione e scarico della
schiuma (versatori).
La protezione antincendio

Impianti ad anidride carbonica, halon, polvere

Hanno portata limitata dalla capacità geometrica della riserva


(batteria di bombole, serbatoi).
Gli impianti a polvere, non essendo l’estinguente un fluido, non sono in
genere costituiti da condotte, ma da teste singole autoalimentate da un
serbatoio incorporato di modeste capacità. La pressurizzazione è sempre
ottenuta mediante un gas inerte (azoto, anidride carbonica).
La protezione antincendio

Sistemi di rivelazione, segnalazione e allarme anticendio

La funzione di un sistema di rivelazione e allarme incendio è di


rivelare un incendio nel minor tempo possibile e fornire segnalazioni
ottiche e/o acustiche agli occupanti di un edificio.
L'incendio può essere "scoperto" da un rivelatore (automaticamente) o
dall'uomo (manualmente):
sistemi fissi automatici di rivelazione d’incendio, per rivelare e
segnalare un incendio nel minore tempo possibile;
sistemi fissi di segnalazione manuale, nel caso l’incendio sia
rilevato dall’uomo.
Un impianto di rivelazione automatica consente:
 di favorire un tempestivo esodo delle persone;
 di attivare i piani di intervento;
 di attivare i sistemi di protezione contro l’incendio.
La protezione antincendio

Rivelatori d’incendio
Classificazione in base al fenomeno chimico-fisico rilevato:
 Rivelatore di calore sensibile all'aumento della temperatura.
 Rivelatore di fumo sensibile alle particelle dei prodotti della
combustione.
 Rivelatore di gas sensibile ai prodotti gassosi della combustione e/o
della decomposizione termica.
 Rivelatore di fiamme sensibile alla radiazione emessa dalle
fiamme di un incendio.
 Rivelatore multi-criterio: sensibile a più di un fenomeno.
La protezione antincendio

Rivelatori d’incendio

Classificazione in base al metodo di rivelazione. Il rivelatore da


l'allarme quando, per un periodo di tempo determinato:
 statico : l'entità del fenomeno misurato supera un certo
valore.
 differenziale : la differenza (normalmente piccola) tra i livelli
del fenomeno misurato in 2 o più punti supera un certo valore.
 velocimetrico : la velocità di variazione nel tempo del
fenomeno misurato supera un certo valore.
Classificazione in base al tipo di configurazione. I rivelatori
rispondono al fenomeno sorvegliato in più modi:
 puntiforme : in prossimità di un punto fisso.
 lineare : in prossimità di una linea continua.
 multi-punto : in prossimità di un certo numero di punti fissi.
Normativa di riferimento

Segnaletica di sicurezza

D.Lgs 9 aprile 2008, n. 81


TITOLO V – SEGNALETICA DI SALUTE E SICUREZZA SUL
LAVORO
Definizioni (Art. 162)
Segnaletica di sicurezza e di salute sul luogo di lavoro: fornisce
un’indicazione o una prescrizione concernente la sicurezza o la salute sul luogo
di lavoro, o che utilizza, a seconda dei casi, un cartello, un colore, un segnale
luminoso o acustico, una comunicazione verbale o un segnale gestuale;
Segnale di divieto: vieta un comportamento che potrebbe far
correre o causare un pericolo;
Segnale di avvertimento: avverte di un rischio o pericolo;
Segnale di prescrizione: prescrive un determinato comportamento;
Segnale di salvataggio o di soccorso: fornisce indicazioni relative
alle uscite di sicurezza o ai mezzi di soccorso o di salvataggio;
Normativa di riferimento

Cartelli di divieto

Forma rotonda
Pittogramma nero su
fondo bianco; bordo e
banda (verso il basso
da sinistra a destra lungo
il simbolo, con
un’inclinazione di 45°)
rossi (il rosso deve
coprire almeno il 35%
della superficie del
cartello).
Vieta un comportamento
Normativa di riferimento

Cartelli di avvertimento

Forma triangolare
Pittogramma nero
su fondo giallo,
bordo nero (il giallo
deve coprire almeno il
50% della superficie del
cartello).
Avverte di un pericolo
Normativa di riferimento

Cartelli di prescrizione

Forma rotonda
Pittogramma
bianco su fondo
azzurro (l’azzurro deve
coprire almeno il 50%
della superficie del
cartello).
Prescrive un
comportamento
Normativa di riferimento

Cartelli di salvataggio

Forma quadrata o
rettangolare
Pittogramma
bianco su fondo
verde (il verde deve
coprire almeno il 50%
della superficie del
cartello).
Fornisce indicazioni (es.
sulle uscite di
sicurezza)
Normativa di riferimento

Cartelli per le
attrezzature
antincendio

Forma quadrata o
rettangolare
Lancia
Pittogramma bianco Scala Estintore
antincendio
su fondo rosso (il
rosso deve coprire
almeno il 50% della
superficie del cartello).
Fornisce indicazioni (su
attrezzature
antincendio)
Telefono Direzione da seguire
Illuminazione di sicurezza

Devono essere illuminate le uscite di sicurezza, le vie di esodo, e


tutte quelle parti che è necessario percorrere per raggiungere
un’uscita verso luogo sicuro.
L’Impianto deve essere alimentato da un’adeguata fonte di energia quali
batterie in tampone o batterie di accumulatori con dispositivo
per la ricarica automatica oppure da apposito ed idoneo gruppo
elettrogeno.
L’intervento deve avvenire in automatico, in caso di mancanza di energia
elettrica, entro 5 secondi circa (se si tratta di gruppi elettrogeni
il tempo può raggiungere i 15 secondi).
Evacuatori di fumo e di calore

Tali sistemi di protezione attiva sono di frequente utilizzati in


combinazione con impianti di rivelazione e sono basati sullo
sfruttamento del movimento verso l’alto delle masse di gas caldi
generate dall’incendio che, a mezzo di aperture sulla copertura,
vengono evacuate all’esterno.
Evacuatori di fumo e di calore

Gli evacuatori di fumo e calore


(EFC) consentono di:
 Agevolare lo sfollamento
delle persone e l’azione dei
soccorritori grazie alla
maggiore probabilità che i locali
restino liberi da fumo fino ad
un’altezza.
 Agevolare l’intervento dei
soccorritori.
 Proteggere le strutture
dall’azione del fumo e dei gas
caldi, riducendo il rischio di
collasso strutturale.
 Ritardare o evitare
l’incendio generalizzato
“flash over”.
 Ridurre i danni dei gas di
combustione.
Procedure da adottare in caso di incendio

Piano di emergenza;
Procedure da adottare quando si scopre un incendio;
Procedure da adottare in caso di allarme;
Piano di evacuazione;
Procedure di chiamata dei servizi di soccorso;
Collaborazione con i Vigili del Fuoco in caso di intervento.
Piano di emergenza

Nel piano di emergenza sono contenute le informazioni-


chiave da mettere in atto per i primi momenti secondo
i seguenti obiettivi principali:
 Salvaguardia ed evacuazione delle persone
(obiettivo primario);
 Messa in sicurezza degli impianti;
 Confinamento dell’incendio;
 Protezione dei beni e delle attrezzature;
 Tentare l’estinzione dell’incendio.
Piano di emergenza

In caso di emergenza è fondamentale affrontare i primi


momenti, nell’attesa dell’arrivo delle squadre dei Vigili del
Fuoco.
Un buon piano di emergenza è l’insieme di poche, semplici
ed essenziali azioni comportamentali.
Scopo
Consentire la migliore gestione possibile degli
scenari incidentali ipotizzati.
Piano di emergenza

Analisi: individuare i pericoli e analizzare i rischi presenti


nell'attività lavorativa
Struttura: raccogliere in un documento organico quelle
informazioni che non è possibile ottenere facilmente
durante l’emergenza
Piano di emergenza

Linee guida
Procedure comportamentali che rappresentano le migliori
azioni da intraprendere in emergenza.
(Procedure Operative Standard)
In mancanza di appropriate procedure un incidente
diventa caotico, causando confusione ed
incomprensione.
Piano di emergenza

Verifica
Il Piano di Emergenza deve individuare persone o gruppi
- chiave, dei quali descrivere le azioni da
intraprendere e quelle da non fare.
Deve tener conto anche della presenza di eventuali clienti,
i visitatori, i dipendenti di altre società di
manutenzione etc.
Il gestore dell’emergenza

Nel Piano di Emergenza deve essere individuato il


Gestore Aziendale dell’Emergenza (Datore di lavoro
o suo delegato) al quale vanno delegati poteri decisionali e
la possibilità di prendere decisioni anche arbitrarie,
al fine di operare nel migliore dei modi e raggiungere gli
obiettivi stabiliti.
Azioni

Le azioni devono essere correlate alla effettiva capacità


delle persone di svolgere determinate operazioni.
Il piano di emergenza va strutturato tenendo conto che in
condizioni di stress e di panico le persone tendono a perdere la
lucidità.
Poche, semplici, efficaci azioni sono meglio che una
serie di incarichi complicati.
In emergenza le azioni che riescono meglio sono le azioni
che abbiamo saputo rendere più “automatiche”.
Procedure da adottare in caso di incendio

 Dare l'allarme al Gestore Aziendale dell'Emergenze


 Dare l’allarme al 115
 Valutare la possibilità di estinguere l’incendio con i mezzi a
disposizione
 Iniziare l’opera di estinzione solo con la garanzia di una via di
fuga
 Intercettare le alimentazioni di gas, energia elettrica etc
 Chiudere le porte per limitare la propagazione del fumo e
dell’incendio
 Accertarsi che l’edificio venga evacuato
 Se non si riesce a controllare l’incendio, portarsi all’esterno
Procedure da adottare in caso di allarme

Mantenere la calma (la conoscenza


delle procedure è importante, così come le
esercitazioni e l’addestramento periodico
che aiutano a prendere confidenza con le
operazioni);
Evitare di trasmettere il panico;
Prestare assistenza a chi è in difficoltà;
Attenersi al piano di emergenza;
Allontanarsi secondo le procedure;
Non rientrare nell’edificio fino a
quando non vengono ripristinate le
condizioni di normalità.
Modalità di evacuazione

L’obiettivo principale del piano di emergenza è la salvaguardia


delle persone e l’evacuazione.
Il piano di evacuazione è un “piano nel piano”.
Il piano di evacuazione deve prevedere di far uscire dal fabbricato
tutti gli occupanti utilizzando le normali vie di esodo.
Le procedure di chiamata
dei servizi di soccorso

È importante la corretta attivazione delle squadre di soccorso.


Individuare la persona (ed un sostituto) incaricata di dare
l’allarme.
Schema di richiesta di soccorso (dati essenziali):
◦ Indirizzo e numero di telefono;
◦ Tipo di emergenza;
◦ Persone coinvolte/feriti;
◦ Reparto coinvolto;
◦ Stadio dell’evento (in fase di sviluppo, stabilizzato, ecc.);
◦ Altre indicazioni particolari (materiali coinvolti, necessità di fermarsi a
distanza, ecc.);
◦ Indicazioni sul percorso (nei casi di non agevole individuazione del sito, come ad
esempio zone rurali o contrade senza numero civico, può essere utile tenere a disposizione
le coordinate GPS del luogo o predisporre un fax che indica i percorsi).
Collaborazione con i Vigili del Fuoco in caso di intervento

Dopo aver gestito i primi momenti dell’emergenza secondo le poche


basilari operazioni che prevede il piano di emergenza, al momento
dell’arrivo dei Vigili del Fuoco la gestione dell'emergenza
passa a loro.
Il modo migliore per collaborare con i Vigili del Fuoco è quello di
mettere a disposizione la conoscenza dei luoghi.
Riferimenti bibliografici

http://www.vigilfuoco.it/informazioni/uffici_territorio/Gestione
Siti/downloadFile.asp?s=85&f=28008

http://www.isismontaletradate.it/appunti-per-
casa/volpi/sicurezza/6_rischio%20incendio.ppt

Altro materiale non riconducibile al titolare di diritti di autore


Università degli Studi di Genova
DIME
Dipartimento di Ingegneria meccanica, energetica,
gestionale e dei trasporti

Sicurezza degli impianti industriali

Sicurezza impianti ed apparecchi elettrici


Agenda

Effetti dannosi delle scariche elettriche

Guasti elettrici

Protezioni elettriche
EFFETTI DELLA CORRENTE ELETTRICA
Alcuni dati statistici

In Italia si verificano mediamente cinque infortuni elettrici mortali


ogni settimana (per folgorazione): un primato europeo.
Fortunatamente sono in lenta ma continua diminuzione.
Gli infortuni elettrici sono equamente divisi fra domestici e non
domestici.
I luoghi più pericolosi, dal punto di vista elettrico, sono i cantieri
edili e i locali da bagno o per la doccia.
La maggior parte degli infortuni sono causati dagli impianti di bassa
tensione non realizzati o mantenuti conformi alla regola dell'arte,
ed in misura minore dai componenti elettrici e dall'errore umano.
Quest'ultimo prevale nei lavori elettrici.
Circa il 10 - 15% di tutti gli incendi hanno origine dall'impianto
elettrico o dagli apparecchi elettrici utilizzatori, il che equivale ogni
anno a circa cinquemila incendi "elettrici" nel nostro Paese, con
alcune decine di vittime.

(Tratto da: Vito Carrescia - Fondamenti di Sicurezza Elettrica- ed. TNE)


Alcuni dati statistici

Il mancato adeguamento alla legislazione vigente, per le


abitazioni costruite prima del 1990 risulta essere pari al
64%, pari a circa 12 milioni di alloggi.
Circa il 52% delle abitazioni è stato interessato da
almeno un lavoro elettrico negli ultimi 10 anni e il 30% di
queste presenta tuttora problemi di sicurezza
Il 42% delle abitazioni non ha la dichiarazione di
conformità a seguito degli interventi sull’impianto
elettrico
Solo nel 2000 si segnalano 43.000 infortuni domestici di
natura elettrica

(Tratto dal secondo rapporto Prosiel sulla sicurezza elettrica – 2004)


DIFETTO …

LA CORRENTE ELETTRICA HA UN DIFETTO:

NON SI VEDE MA SI SENTE

QUANDO SI SENTE E’ TROPPO TARDI


Impianto elettrico sicuro

SI CONSIDERA UN IMPIANTO “SICURO” QUANDO QUESTO


RISPONDE ALLA “REGOLA DELL’ARTE” IN PARTICOLARE QUANDO
E’:

 PROGETTATO A “REGOLA DELL’ ARTE”

 INSTALLATO A “REGOLA DELL’ ARTE”

 I COMPONENTI SONO A “REGOLA DELL’ ARTE”

 MANTENUTO “A REGOLA DELL’ ARTE”


IMPIANTO ELETTRICO SICURO

SI INDICA UN IMPIANTO A “REGOLA DELL’ARTE”


QUELLO IN CUI LE CONDIZIONI DI RISCHIO SIANO
“ACCETTABILI O TOLLERABILI” IN RIFERIMENTO ALLE
LEGGI E NORME TECNICHE APPLICABILI

IL PRINCIPIO DI “REGOLA DELL’ARTE” SI ATTUA IN


PRATICA CON IL RISPETTO DELLE NORME TECNICHE
EMESSE DAL “CEI” (COMITATO ELETTROTECNICO
ITALIANO) A CUI LA LEGGE 186/68 RICONOSCE LA
PRESUNZIONE DEL RISPETTO DELLA “REGOLA
DELL’ARTE”
IMPIANTO ELETTRICO LEGISLAZIONE
LEGGE N. 46/90
“NORME PER LA SICUREZZA DEGLI IMPIANTI”

STABILISCE LE PROCEDURE DA SEGUIRE PER LA


REALIZZAZIONE DEGLI IMPIANTI: ELETTRICI, ELETTRONICI,
RADIOTELEVISIVI, E DI PROTEZIONE DALLE SCARICHE
ATMOSFERICHE ,ETC, ALL’INTERNO DEGLI EDIFICI.

GLI IMPIANTI DEVONO ESSERE REALIZZATI DA IMPRESE


INSTALLATRICI AUTORIZZATE

IN ALCUNI CASI GLI IMPIANTI SONO SOGGETTI ALLA


PROGETTAZIONE

GLI IMPIANTI DEVONO ESSERE REALIZZATI SECONDO LA


“REGOLA DELL’ARTE” E IN RISPETTO ALLE NORME “CEI”
IMPIANTO ELETTRICO LEGISLAZIONE

PER I LAVORI ESEGUITI L’IMPRESA INSTALLATRICE DEVE


RILASCIARE LA “DICHIARAZIONE DI CONFORMITA’”

PREVEDEVA DEGLI INTERVENTI MINIMI PER LA MESSA


IN SICUREZZA DEGLI IMPIANTI PREESISTENTI (ENTRO
31/12/1998)

I COMMITTENTI DEVONO FAR ESEGUIRE GLI IMPIANTI


SOLO A IMPRESE AUTORIZZATE

PREVEDE LA VIGILANZA DA PARTE DELLE AUTORITA’ E


STABILISCE SANZIONI AMMINISTRATIVE

IN SOSTANZA QUALSIASI INTERVENTO DEVE


ESSERE ESEGUITO DA DITTA AUTORIZZATA
IMPIANTO ELETTRICO - LEGISLAZIONE

LA DISPONIBILITA’ DELLA “DICHIARAZIONE DI CONFORMITA’”:

GARANTISCE L’UTENTE ALL’UTILIZZO DI UN IMPIANTO


SICURO E CONFORME ALLA LEGGE
DESPONSORIZZA IL PROPRIETARIO IN CASO DI
INCIDENTE
DESPONSORIZZA IL PROPRIETARIO IN CASO DI CESSIONE
O LOCAZIONE DELL’IMMOBILE
EVITA SANZIONI DA PARTE DELLE AUTORITA’

IN CASO DI IMPIANTI REALIZZATI PRIMA DEL 1990 SU RESPONSABILITA’


DEL PROPRIETARIO POTRA’
ESSERE REDATTO DA UN TECNICO QUALIFICATO UN “CERTIFICATO DI
RISPONDENZA” AI REQUISITI MINIMI DI SICUREZZA STABILITI DALLA
LEGGE (D.M. 37/2008)
IMPIANTO ELETTRICO
LEGISLAZIONE
IMPIANTO ELETTRICO - LEGISLAZIONE

Tutto il materiale elettrico


immesso in commercio
deve portare la marcatura
“CE”. Un prodotto con tale
marcatura deve rispondere
a tutte le direttive ad esso
applicabili. In particolare
alla direttiva “bassa
tensione” (o, se del caso, la
direttiva sulla compatibilità
elettromagnetica e la
direttiva macchine). Senza
tale marcatura il materiale
non può essere
commercializzato.
IMPIANTO ELETTRICO - LEGISLAZIONE

La direttiva “bassa
tensione” stabilisce che
ciascun prodotto
elettrico deve essere
fornito sia di marcatura
CE che di targa con i
dati caratteristici del
costruttore e i
parametri elettrici per
un suo corretto uso
IMPIANTO ELETTRICO - LEGISLAZIONE

IMQ - ISTITUTO ITALIANO


DEL MARCHIO DI QUALITA’

L’apposizione di tale
marchiatura sugli apparecchi
elettrici garantisce:
l’approvazione del
costruttore
la corrispondenza dell’
apparecchio alla
norma CEI
il controllo della
produzione
Contatto diretto e indiretto
PROTEZIONE DEI CONTATTI DIRETTI

PRESA A SPINA CON ALVEOLI


NON SCHERMATI

PRESE A SPINA
CON ALVEOLI
SCHERMATI
PROTEZIONE DEI CONTATTI DIRETTI
PROTEZIONE DEI CONTATTI INDIRETTI
PROTEZIONE DEI CONTATTI I INDIRETTI
CON INTERRUZIONE AUTOMATICA DEL CIRCUITO
PROTEZIONE DELL’IMPIANTO ELETTRICO DA SOVRACORRENTI
Centralino d’appartamento
Locali bagni e docce

I LOCALI BAGNO E DOCCIA SONO CONSIDERATI GLI AMBIENTI


PIU’ PERICOLOSI ALL’INTERNO DI UNA ABITAZIONE E LA
NORMA STABILISCE PARTICOLARI DISTANZE PER LE
APPARECCHIATURE ELETTRICHE
Rischi elettrici e regole di
comportamento

Non togliere la spina


dalla presa tirando il filo.
Si potrebbe rompere il
cavo o l'involucro della
spina rendendo
accessibili le parti in
tensione. Se la spina non
esce, evitare di tirare
con forza eccessiva,
perché si potrebbe
strappare la presa dal
muro.
RISCHI ELETTRICI E REGOLE DI COMPORTAMENTO

Quando una spina si rompe


occorre farla sostituire con una
nuova marchiata IMQ (Istituto
italiano del Marchio di Qualità).

Non tentare di ripararla

con nastro isolante

o con l'adesivo.

E’ UN RISCHIO
INUTILE!
RISCHI ELETTRICI E REGOLE DI COMPORTAMENTO

Non attaccare più di


un apparecchio
elettrico a una sola
presa. In questo
modo si evita che la
presa si surriscaldi
con pericolo di
corto circuito e
incendio.
RISCHI ELETTRICI E REGOLE DI COMPORTAMENTO

Per qualsiasi
intervento sull'impianto
elettrico chiedere
l'intervento di
personale specializzato.
Se proprio è
necessario sostituire
una lampadina, staccare
prima l'interruttore
generale di zona.
RISCHI ELETTRICI E REGOLE DI COMPORTAMENTO

Usare sempre
adattatori e prolunghe
adatti a sopportare la
corrente assorbita dagli
apparecchi utilizzatori.
Su tutte le prese e le
ciabatte è riportata
l'indicazione della
corrente, in Ampere
(A), o della potenza
massima, in Watt (W).
RISCHI ELETTRICI E REGOLE DI COMPORTAMENTO

Gli adattatori con spina 16 A


e presa 10 A (o bipasso
10/16 A) sono accettabili.
Quelli con spina 10 A e
presa 16 A (o bipasso 10/16
A) sono vietati.
RISCHI ELETTRICI E REGOLE DI COMPORTAMENTO

Spine di tipo tedesco (Schuko)


possono essere inserite in prese
di tipo italiano solo tramite un
adattatore che trasferisce il
collegamento di terra effettuato
mediante le lamine laterali ad
uno spinotto centrale.
E' assolutamente vietato
l'inserimento a forza delle spine
Schuko nelle prese di tipo
italiano. Infatti, in tale caso dal
collegamento verrebbe esclusa la
messa a terra.
RISCHI ELETTRICI E REGOLE DI COMPORTAMENTO

Gli adattatori multipli


consentiti dalle norme sono
quelli con due sole prese
laterali. L'altro tipo, con una
terza presa parallela agli
spinotti, viene considerato
pericoloso perché consente
l'inserimento a catena di più
prese multiple. Il pericolo
deriva dalla possibilità di
superare la corrente massima
sopportabile dalla presa e dalla
possibilità di cedimento
meccanico della presa e degli
adattatori a causa del peso
eccessivo sugli alveoli.
RISCHI ELETTRICI E REGOLE DI COMPORTAMENTO

Situazioni che vedono


installati più
adattatori multipli,
uno sull'altro, vanno
eliminate.
RISCHI ELETTRICI E REGOLE DI COMPORTAMENTO

Segnalare
immediatamente eventuali
condizioni di pericolo di
cui si viene a conoscenza,
adoperandosi
direttamente nel caso di
urgenza ad eliminare o
ridurre l'anomalia o il
pericolo. Ad esempio se vi
sono segni di cedimento o
rottura, sia da usura che
da sfregamento, nei cavi o
nelle prese e spine degli
apparecchi utilizzatori,
nelle prese a muro non
adeguatamente fissate alla
scatola, ecc.
RISCHI ELETTRICI E REGOLE DI COMPORTAMENTO

Utilizzare gli apparecchi


elettrici attenendosi alle
indicazioni fornite dal
costruttore mediante il
libretto di istruzione.
RISCHI ELETTRICI E REGOLE DI COMPORTAMENTO

Allontanare le
tende o altro
materiale
combustibile dai
faretti e dalle
lampade.
RISCHI ELETTRICI E REGOLE DI COMPORTAMENTO

Evitare assolutamente
di toccare con le
mani nude i cocci
delle lampade
fluorescenti (neon).
Le eventuali lesioni
sono difficilmente
guaribili.
RISCHI ELETTRICI E REGOLE DI COMPORTAMENTO

Non coprire con indumenti,


stracci o altro le
apparecchiature elettriche
che necessitano di
ventilazione per smaltire il
calore prodotto.
Se si utilizzano stufette
elettriche, tenerle lontane
da tende, tappezzeria e altro
materiale combustibile.
Non appoggiare sulla stufetta
stracci umidi per asciugarli.
Prima di uscire, spegnere la
stufetta e staccare la spina.
E' vietato posare contenitori di
liquidi e vasi di fiori sopra gli
apparecchi elettrici e sopra
le prese mobili (ciabatte).
RISCHI ELETTRICI E REGOLE DI COMPORTAMENTO

Prolunghe e cavi devono


essere posati in modo da
evitare deterioramenti per
schiacciamento o taglio.
Non fare passare cavi o
prolunghe sotto le porte.
Allontanare cavi e
prolunghe da fonti di
calore.
RISCHI ELETTRICI E REGOLE DI COMPORTAMENTO

Occorre evitare di avere fasci di


cavi, prese multiple e comunque
connessioni elettriche sul
pavimento. Possono essere causa
d'inciampo o, sopratutto se
deteriorati, costituire pericolo
per chi effettua le operazioni di
pulizia del pavimento con acqua
o panni bagnati. Devono, quindi,
venire adottati sistemi per
sostenere e proteggere i cavi di
alimentazione e di segnale
RISCHI ELETTRICI E REGOLE DI COMPORTAMENTO

Quando si utilizzano prolunghe


avvolgibili, prima del loro
inserimento nella presa, occorre
svolgerle completamente per
evitare il loro surriscaldamento.
La portata del cavo avvolto
infatti è minore. La portata del
cavo, che deve essere indicata, va
sempre rispettata.
Quando si finisce di usare la
prolunga, staccare prima la spina
collegata alla presa a muro. In
questo modo non ci sono parti
del cavo elettrico in tensione e
si evita un rischio inutile.
RISCHI ELETTRICI E REGOLE DI COMPORTAMENTO

Le spine di
alimentazione degli
apparecchi con potenza
superiore a 1 kW
devono essere estratte
dalla presa solo dopo
aver aperto
l'interruttore
dell'apparecchio o
quello a monte della
presa. Non effettuare
nessuna operazione su
apparecchiature
elettriche quando si
hanno le mani bagnate o
umide.
RISCHI ELETTRICI E REGOLE DI COMPORTAMENTO

AL DIFFERENZIALE O
SALVAVITA” AFFIDIAMO
OGGI LA QUASI TOTALITA’
DELLA SICUREZZA
DELL’IMPIANTO ELETTRICO
E DELLE PERSONE CHE LO
UTILIZZANO. DOBBIAMO
ESSERE CERTI DEL SUO
BUON FUNZIONAMENTO
PER CUI E’ INDISPENSABILE
ESEGUIRE MENSILMENTE LA
VERIFICA AGENDO SUL
TASTO DI PROVA.
Bibliografia
materiale non riconducibile al titolare di
diritti di autore
Università degli Studi di Genova
DIME
Dipartimento di Ingegneria meccanica, energetica,
gestionale e dei trasporti

Manutenzione degli impianti industriali

Elementi di teoria dell’affidabilità, disponibilità


e manutenibilità
Agenda

 Affidabilità: introduzione

 Il concetto di affidabilità

 Il concetto di guasto

 Il rateo di guasto

 Obiettivi dell’affidabilità

 La disponibilità

 La manutenibilità
Affidabilità: introduzione

La disciplina dell’affidabilità si propone di descrivere e


misurare la “capacità” di funzionamento di dispositivi o
sistemi di produzione.
Per ogni dato sistema, tale misura, detta appunto affidabilità
del sistema, serve a quantificare il grado di “fiducia” che
possiamo avere nel verificarsi del buon funzionamento del
sistema, inteso come assolvimento degli obiettivi per i quali il
sistema stesso è progettato e costruito.
Poiché le prestazioni di ogni sistema tendono inevitabilmente
a degradare nel tempo, è opportuno che l’affidabilità di un
sistema sia definita come la misura della sua attitudine a
fornire nel tempo una prestazione soddisfacente.
Affidabilità: introduzione

Tale misura (vedere slide precedente) non è altro che un


valore numerico, espresso su una scala di numeri reali tra 0 e
1, perché è definito, come si vedrà, in termini di probabilità.
Quella dell’affidabilità è una disciplina matematica, che fa
parte di un più vasto settore disciplinare, ossia appunto il
“Calcolo delle probabilità”.
Le prime tracce di studi sul concetto di affidabilità si hanno
tra le due guerre mondiali in campo aeronautico: si doveva
decidere quale fosse la migliore configurazione per il sistema
di propulsione degli aerei a più motori. Questi studi però
inizialmente ebbero carattere prettamente sperimentale così
come sperimentali erano anche i dati sulla frequenza di
guasto di apparecchiature che si trovavano a bordo degli
aerei, espressa in termini di numero medio di sostituzioni
della stessa apparecchiatura.
Affidabilità: introduzione

Definizione di affidabilità: “la probabilità che un sistema


adempia alla sua specifica funzione per un tempo determinato e
sotto determinate condizioni”.
La diffusione della disciplina dall’ambito militare a quello
civile si ebbe intorno agli anni ’60 a mano a mano i sistemi,
nei veri settori, divenivano sempre più complessi ed
automatizzati.
Alla fine degli anni ’80 gli studi affidabilistici entrarono a far
parte del TQM (Total Quality Management) ed alcuni metodi di
valutazione dell’affidabilità dei sistemi cominciarono ad
essere richiesti per ottenere la certificazione di qualità ISO-
9000
Il concetto di affidabilità

La definizione più completa è quella che indica l’affidabilità di un


elemento/sistema come la probabilità che l’elemento/sistema:
◦ eseguirà una specifica funzione;
◦ sotto specifiche condizioni operative ed ambientali;
◦ ad un dato istante e/o per un prefissato intervallo di tempo.

L’affidabilità è una probabilità. Essa non è una grandezza


deterministica, che può essere determinata con formule analitiche,
ma una variabile aleatoria, il cui valore può essere previsto solo
attraverso considerazioni di tipo probabilistico.
Il concetto di affidabilità

La definizione di affidabilità è molto sensibile a ciò che viene


definito sistema.
Infatti, può essere considerato sistema ogni prodotto, servizio o
processo che viene impiegato da un utilizzatore. Perciò un
sistema è un insieme di elementi materiali e/o non materiali che
si comportano come un’unità che si propone la realizzazione di
alcune funzioni o servizi.
Quindi un sistema può essere sia un insieme assemblato di
componenti, che costituisce una parte funzionale di
un’apparecchiatura o di un processo, sia una sequenza di
operazioni (procedure) per eseguire un servizio.
Il concetto di affidabilità

La definizione di affidabilità è legata quindi alla specifica funzione


che il sistema deve compiere ed alle condizioni operative nelle
quali esso si trova; occorre definire quindi l’intento progettuale
del sistema e chiedersi:
◦ qual è la funzione che il sistema deve effettivamente svolgere?
◦ quali sono i valori limite delle condizioni operative ed
ambientali sotto le quali il sistema deve funzionare
correttamente?
◦ in quale istante o intervallo di tempo il sistema deve
funzionare?
◦ in quale modo le tecniche di diagnostica e manutenzione
influenzano l’operatività del sistema?
Il concetto di affidabilità

Pur non fornendo la certezza che un guasto si verifichi o meno,


quindi, la teoria dell’affidabilità, applicata in modo sistematico, ci
dà risultati molto utili sui quali è possibile basare il processo
decisionale circa la sicurezza e il modo in cui un sistema viene
fatto funzionare.
Da quanto sino ad ora detto si evince che l’affidabilità è funzione
dello stato C del componente ( cioè se il componente è guasto
o meno), delle condizioni ambientali e delle sollecitazioni A cui è
soggetto, oltre che del tempo t:
◦ R = R (C, A, t)
Considerato un numero costante di componenti di uno stesso
tipo, il numero di componenti vivi al tempo t e il numero di
componenti guasti allo stesso istante, risulta essere:
◦ N0= Nv(t) + Ng(t)
Il concetto di affidabilità

Si può, di conseguenza, definire l’affidabilità R(t) come il rapporto:


◦ R(t)= Nv(t) / N0
E l’inaffidabilità F(t):
◦ F(t) = Ng(t)/N0 = 1- Nv(t) / N0 = 1- R(t)

F(t) e R(t), dunque, sono delle funzioni di probabilità. La densità di


probabilità della inaffidabilità f(t) risulta:

◦ f(t)= dF(t)/dt = - dR(t)/dt

Il prodotto tra f(t) e dt, dunque, rappresenta la probabilità che il


componente considerato si guasti nell’intervallo di tempo
compreso tra t e t+dt.
Il concetto di affidabilità

Relazione tra F(t) ed R(t)


Il concetto di guasto

In generale si indica con il termine guasto la “cessazione


dell’attitudine di un dispositivo ad adempiere alla funzione
richiesta”, ovvero una variazione delle prestazioni di un
dispositivo che lo renda inservibile per l’uso al quale esso è
destinato.
Criteri di classificazione dei guasti:
Il concetto di guasto

Criterio per entità


Un dispositivo risulta guasto anche quando non esegue
correttamente la funzione per la quale è stato progettato. Secondo
questo criterio possiamo suddividere i guasti in 3 categorie:
 guasti parziali: determinano una variazione delle prestazioni del
dispositivo tale da non compromettere del tutto il funzionamento
(degrado delle prestazioni o perdita di qualità del prodotto);
 guasti totali: causano una variazione delle prestazioni del dispositivo
tale da impedirne del tutto il funzionamento;
 guasti intermittenti: dovuti ad una successione casuale di periodi di
guasto e di periodi di funzionamento, senza che ci sia alcun
intervento di manutenzione (esempio tipico il blocco di
funzionamento di un computer che riprende a funzionare dopo che
viene spento e riacceso).
Il concetto di guasto

Criterio per impatto


Occorre precisare che la condizione di guasto si riferisce in
generale al solo dispositivo preso in esame: se tale componente è
inserito in un sistema più complesso, il suo guasto può anche non
causare il guasto dell’intero sistema, pur avendo effetti negativi sulla
sua affidabilità.
Ad esempio un guasto meccanico al motore di un’autovettura,
rende inservibile un’automobile mentre se si guasta il tachimetro
l’automobile continua a funzionare, anche se non riusciamo a
sapere a che velocità stiamo procedendo. Anche in questo caso
possiamo allora distinguere:
 guasti di primaria importanza: quelli che riducono la funzionalità
dell’intero sistema del quale fanno parte;
 guasti critici: ancora più gravi dei guasti di primaria importanza,
rappresentano un rischio per l’incolumità delle persone;
 guasti di secondaria importanza: quelli che non riducono la
funzionalità dell’intero sistema del quale fanno parte.
Il concetto di guasto

Criterio per vita del dispositivo (1)


Un’altra classificazione che riguarda i guasti è quella che
distingue tre tipologie di guasto in base alla loro
distribuzione durante la vita di una famiglia di componenti
uguali (e nelle stesse condizioni operative e ambientali):
 guasti infantili: avvengono nel primo periodo di vita dei
componenti (periodo di rodaggio) e la probabilità che si
verifichino decresce gradualmente, poiché la natura di questi
guasti è legata a difetti intrinseci dei componenti che non
sono emersi durante i collaudi; in presenza di una buona
progettazione sono dovuti essenzialmente ad errori di
costruzione e, principalmente, di montaggio; il periodo
durante il quale si manifestano i guasti di questo tipo può
variare da poche decine ad alcune centinaia di ore di
funzionamento;
Il concetto di guasto

Criterio per vita del dispositivo (2)

 guasti casuali: sono quelli che si verificano durante l’intera


vita dei componenti e presentano una probabilità di
verificarsi che è indipendente dal tempo; sono dovuti a
fattori incontrollabili che neanche un buon progetto ed una
buona esecuzione possono eliminare;
 guasti per usura: sono quelli che si verificano solo nell’ultimo
periodo di vita dei componenti e sono dovuti a fenomeni di
invecchiamento e deterioramento; per ciò la loro probabilità
di accadimento cresce con il passare del tempo.
Il concetto di guasto

Criterio per vita del


dispositivo (3)
Se consideriamo una
popolazione di
componenti nuovi,
tutti uguali, non
riparabili e li
facciamo funzionare
nelle medesime
condizioni operative
ed ambientali a
partire dallo stesso
istante t = 0 è
possibile tracciare il
diagramma mostrato
in figura a lato, il
quale riporta in
funzione dell’età dei
componenti
l’andamento del tasso
di guasto istantaneo
degli stessi.
Il rateo di guasto

Un’altra grandezza molto importante della teoria affidabilistica è


il rateo di guasto  (t), che è in relazione con la probabilità
condizionale  (t)* dt che un componente sopravvissuto fino al
tempo t si guasti nel tempo t+dt.
La probabilità condizionale, che non è una densità di probabilità,
si differenzia dalla densità dell’inaffidabilità che fa riferimento
all’intera popolazione dei componenti, mentre λ(t) * dt fa
riferimento alla popolazione sopravvissuta, minore o al limite
uguale alla popolazione totale.
In base alla definizione data, dunque, vale la seguente relazione:
◦  (t)* dt = probabilità guasto in [t, t+dt]/probabilità non guasto in
[0,t]
Il rateo di guasto

Quindi:
◦  (t)* dt = f(t)*dt/R(t)
◦ Da cui discende: f(t) =  (t)* R(t)
In altri termini:

Ragionando in termini finiti:


Il rateo di guasto
Il rateo di guasto

Alcuni componenti sono caratterizzati dalla cosiddetta proprietà


di non memoria dal punto di vista affidabilistico. Cioè, per essi il
rateo di guasto si mantiene costante nel tempo, e non dipende
dal particolare istante preso in considerazione. Se il rateo di
guasto è costante ne discende che la affidabilità R(t) è
caratterizzata da una funzione di distribuzione di tipo esponenziale.
Il rateo di guasto

Diagramma tipico del rateo di guasto: bath tube curve (curva a vasca da
bagno) [Approfondimento della figura illustrata alla slide 17]

Segue
Il rateo di guasto

Diagramma tipico del rateo di guasto


Obiettivi dell’affidabilità

In ambito industriale, per motivi economici, occorre garantire


la continuità di funzionamento degli impianti di produzione;
sempre per motivi economici, occorre garantire la qualità dei
prodotti ed il funzionamento in sicurezza sia degli impianti sia
dei prodotti.

Passiamo in rassegna, nelle slide successive, i principali


obiettivi perseguiti col metodo dell’affidabilità in termini di:
◦ Sicurezza
◦ Qualità
◦ Costi
Obiettivi dell’affidabilità

Sicurezza
L’analisi di tipologie impiantistiche che utilizzano sostanze
pericolose (impianti soggetti a rischi di incidenti rilevanti, che
possono coinvolgere anche aree adiacenti agli stabilimenti
produttivi) per valutare la probabilità che il guasto di un
componente o di un sistema di sicurezza possa determinare
una sequenza incidentale con gravi conseguenze
sull’incolumità delle persone.
Anche in impianti che non sono soggetti a rischi di incidente
rilevante, un’analisi di affidabilità può avere benefici effetti
sulla sicurezza, per esempio per garantire l’incolumità del
personale addetto nello svolgimento di operazioni critiche
(sostanze pericolose o macchine particolari) o per valutare
l’affidabilità delle procedure operative normali e di quelle di
emergenza.
Obiettivi dell’affidabilità

Qualità (1)

La scelta di un bene o servizio tra diverse soluzioni è dettata


in generale dalla valutazione del rapporto tra la sua qualità ed
il suo costo. Se si cerca di definire un prodotto “di qualità” è
spontaneo considerare, tra le sue varie caratteristiche:
◦ la durata (per quanto tempo si può utilizzare
effettivamente il componente?);
◦ l’affidabilità (con quale frequenza si guasta il prodotto?);
◦ la manutenibilità (quanto facilmente il prodotto può essere
riparato?)
Obiettivi dell’affidabilità

Qualità (2)

Se la qualità viene, quindi, intesa in termini di adeguatezza del


bene allo scopo al quale è destinato, alla sua determinazione
contribuiscono principalmente due fattori:
◦ conformità, che tiene conto dell’aderenza delle prestazioni
alle specifiche progettuali e/o commerciali;
◦ affidabilità, che tiene conto della capacità del
prodotto/servizio di mantenere le sue caratteristiche di
funzionamento e di manutenibilità nel tempo.
Obiettivi dell’affidabilità

Costi (1)
In un impianto industriale il costo annuo totale delle misure
di riduzione del rischio comprende:
◦ costi di investimento (per esempio, acquisto nuove
apparecchiature di sicurezza);
◦ costi di manutenzione degli impianti e delle
apparecchiature di sicurezza;
◦ costi operativi (per esempio, per l'aggiunta di personale o
per l'addestramento dello stesso). Normalmente non
vengono inclusi ulteriori costi operativi per la realizzazione
di procedure operative più sicure, in quanto si assume che
questi siano già considerati tra i costi di realizzazione
dell'intervento.
Obiettivi dell’affidabilità

Costi (2)
Questi costi vengono, in genere, valutati in funzione
dell’affidabilità richiesta al sistema in esame, in quanto questa
può essere ottenuta con due diverse strategie:
◦ richiedendo al fornitore un prodotto con affidabilità molto
elevata: questo comporta costi rilevanti di progettazione e
di produzione e, quindi, un costo d'acquisto piuttosto
elevato ma minori costi di manutenzione;
◦ richiedendo al fornitore un prodotto di affidabilità
inferiore e, quindi, di costo inferiore ma prevedendo un
adeguato programma di manutenzione con un aumento
dei costi di manutenzione.
Obiettivi dell’affidabilità

Costi (3)

Una visione moderna del problema suggerisce che i costi


legati ai guasti divengono molto più elevati se nascono
questioni di sicurezza e se si considerano in essi anche fattori
difficilmente quantificabili come il costo della vita umana, i
costi di inquinamento dell'ambiente, la perdita d'immagine
dell'azienda.
In quest’ottica i costi dei programmi di sicurezza divengono
dei benefici figurativi in quanto determinano dei “mancati
costi”, cioè fanno sì che, in caso di incidente, non si debbano
sostenere costi ben maggiori.
Obiettivi dell’affidabilità

Costi (4)
L'andamento tipico delle curve costo/sicurezza, nella visione
moderna, è mostrato sotto:
Obiettivi dell’affidabilità

Costi (5)

Le analisi di affidabilità rappresentano gli studi quantitativi, sia


pure in termini probabilistici, da eseguire non solo per
realizzare corrette analisi del rischio dei sistemi e soddisfare
quindi eventuali adempimenti richiesti dalle normative vigenti,
ma anche per contenere i costi manutentivi ed ottenere
prodotti di qualità che risultino competitivi in mercati
sempre più esigenti.
La disponibilità

I sistemi o i componenti possono essere distinti in:

● sistemi/componenti non riparabili, per i quali il verificarsi del


guasto rappresenta una transizione irreversibile, che viene
trattata nell’ambito degli studi affidabilistici in senso stretto

● sistemi/componenti riparabili, per i quali il guasto o anomalia di


funzionamento rappresenta solo uno dei momenti tipici della
vita del componente, al quale seguono altri intervalli di
funzionamento e di non funzionamento che sono oggetto
degli studi relativi alla disponibilità.
La disponibilità

Stati e transizioni possibili del componente non riparabile.


Riparazione non ammessa
La disponibilità

Stati e transizioni possibili del componente riparabile.


Riparazione ammessa
La disponibilità

Per i sistemi o componenti non riparabili il parametro Mean


Time To Failure (MTTF) esprime il tempo in cui si verifica il
guasto, a partire dall’inizio della vita del componente al
tempo t = 0.

Il MTTF, evidentemente, rappresenta il valore medio della


distribuzione di probabilità dell’inaffidabilità F(t):
La disponibilità

Nel caso di componenti caratterizzati dalla cosiddetta


proprietà di non memoria, cioè con rateo di guasto costante,
la precedente formula diviene:
La disponibilità
La disponibilità
La disponibilità

Una volta riparato, il sistema/componente rimane in funzionamento


per un ulteriore intervallo temporale che definisce un nuovo
parametro, il Mean Up Time (MUT)

La somma di MUT e MDT porta alla definizione di un nuovo


termine, il Mean Time Between Failures (MTBF), cioè la cadenza
espressa in ore di funzionamento con cui ci si deve attendere il
verificarsi dei guasti (figura sotto illustrata):
La disponibilità

La disponibilità A(t) di un sistema/componente (riparabile) è definita come la


probabilità che un componente funzionante all’istante t = 0 non sia
guasto all’istante t considerato; essa può essere valutata come rapporto
tra il tempo medio di funzionamento corretto del componente stesso
e il tempo totale di attività (tempo operativo e tempo dedicato alla
manutenzione).
La disponibilità si può considerare sotto tre forme diverse:
● disponibilità intrinseca (inherent availability), Ai , che rappresenta la
probabilità che un sistema, utilizzato sotto particolari condizioni e in un
ambiente ideale di supporto (piena disponibilità di attrezzatura, ricambi,
manuali d’istruzione, personale qualificato per la manutenzione ecc.),
operi in ogni istante in maniera soddisfacente;
● disponibilità operativa (operation availability), A0 , ovvero la probabilità che
un sistema utilizzato sotto particolari condizioni e in un assegnato
ambiente operativo reale, operi in maniera soddisfacente quando
richiesto;
● disponibilità raggiunta (acheived availability), A , che rappresenta la
disponibilità effettivamente raggiunta, tenendo conto anche dei ritardi
logistici e amministrativi.
La disponibilità
La manutenibilità

Un’altra grandezza di interesse nella trattazione dei sistemi


riparabili è la manutenibilità M(t), la quale rappresenta la probabilità
che il componente guasto all’istante t = 0 possa essere riparato
all’istante t.
Vale la seguente relazione:

La densità di probabilità della manutenibilità è la funzione g(t):

da cui discende un altro parametro di interesse, il Mean Time To


Repair (MTTR), che è il valore medio della distribuzione statistica
della manutenibilità:
La manutenibilità

Analogamente al rateo di guasto è possibile introdurre il


tasso di riparazione g(t), tale che g(t) · dt è pari alla
probabilità che il componente guasto venga riparato
nell’intervallo infinitesimo dt.
Con una dimostrazione analoga a quella del rateo di guasto,
risulta essere:

Se il tasso di riparazione è costante e pari a μ, si può scrivere:


La manutenibilità

Quindi:

Essendo M(0) = 0, allora:

Discende che:
La manutenibilità

La trattazione degli studi affidabilistici si completa con la


considerazione:
● dei guasti che si autoevidenziano e che non si
autoevidenziano;
● delle cause comuni di guasto.
I guasti che non si autoevidenziano richiedono una analisi
periodica nel tempo per evitare che la situazione di guasto si
manifesti nel momento peggiore, ovvero, quando il
componente/sistema viene chiamato a produrre un
intervento (per esempio, il caso di un sistema di sicurezza,
come un impianto antincendio che è normalmente in stand-
by). Nel caso dei guasti che si autoevidenziano, si può
ricorrere alla teoria affidabilistica appena trattata.
La manutenibilità

Le cause comuni di guasto (Common Cause Failures – CCF), rappresentano eventi


comuni a più componenti presenti in un sistema e sono in grado di indurre
guasti in tutti i componenti coinvolti.
Si possono manifestare diversi tipi di dipendenza, per esempio:
● dipendenza funzionale, quando viene a mancare un input funzionale come
l’alimentazione elettrica a una classe di componenti; si può rilevare mediante
l’applicazione dell’analisi dell’albero dei guasti (fault tree analysis) con cui è
possibile evidenziare la presenza di eventi comuni a più rami dell’albero;
● presenza di un evento esterno comune, come, per esempio, nel caso in cui si
manifesti un incendio in grado di porli contemporaneamente fuori servizio;
● difetti presenti in una fornitura, quando si manifesti un difetto in un certo
numero di componenti di un lotto;
● presenza di fattori operativi che influenzano in uno stesso modo più
componenti, per esempio, per la presenza di vibrazioni, temperature intense etc
La presenza delle cause comuni di guasto ha una influenza non irrilevante sulle
analisi affidabilistiche. In alcuni casi particolari è possibile studiare tali effetti
comuni, mediante tecniche di analisi come quella dell’albero dei guasti e
ottenere così una quantificazione approssimata delle conseguenze.
Bibliografia

 http://tesi.cab.unipd.it/33818/1/politiche_manutentive_degli_impianti_i
ndustriali.pdf

 http://aiman.gs-m.eu/regioni/sicilia/compagno_trapani_enna200210.pdf

 http://tesi.cab.unipd.it/33818/1/politiche_manutentive_degli_impianti_i
ndustriali.pdf

 altro materiale non riconducibile al titolare di diritti di autore


Università degli Studi di Genova
DIME
Dipartimento di Ingegneria meccanica, energetica,
gestionale e dei trasporti

Manutenzione degli impianti industriali

Elementi di statistica e di teoria della


probabilità
Agenda (1)

 Elementi di statistica:

 Introduzione
 Media
 Moda
 Mediana
 Quantili
 Scarto
 Varianza
 Devianza
 Covarianza
 Correlazione
Agenda (2)

 Teoria della probabilità:

Esperimento aleatorio
Esperimento composto
Spazio campione di un esperimento aleatorio
Tipologie di spazio campione
Tipologie di eventi
Interpretazione frequentista della probabilità
Assiomi fondamentali della probabilità
Misura di probabilità
La probabilità nei giochi (ripasso, approfondimenti e nuovi esempi)
Elementi di statistica
Introduzione

Statistica: raccolta di metodi e strumenti matematici atti ad


organizzare una o più serie di dati che descrivono una categoria di
fatti
È la scienza che studia i fenomeni collettivi o di massa.
Esempi: numero di componenti delle famiglie di una data area
geografica, l’età dei cittadini di un certo paese, la lunghezza delle
foglie di un tipo di pianta,la durata delle lampadine di una certa
marca etc
La statistica insegna a individuare i modi in cui un fenomeno si
manifesta, a descriverlo sinteticamente, e a trarne da esso
conclusioni più generali di fenomeni più ampi.
Indagine statistica
Popolazione, unità, campione statistico

Popolazione statistica: insieme degli elementi a cui si


riferisce l’indagine statistica:
Esempi:
 opinione degli americani riguardo una nuova elezione
presidenziale: tutti i cittadini USA.
 geni sovra-espressi nelle persone che soffrono di obesità: tutte le
 persone obese
 …
Unità statistica: ogni elemento della popolazione statistica,
la minima unità della quale si raccolgono i dati:
◦ un cittadino, una persona obesa ….
Campione statistico (sample): un qualsiasi insieme di unità
statistiche prese da tutta la popolazione. Un campione è dunque un
sottoinsieme di misurazioni selezionate dalla popolazione
Esempio: 50 persone con problemi di obesità (estratte a caso).
Variabile casuale

Il fenomeno collettivo si presenta secondo modalità diverse nelle


varie unità statistiche, perciò lo chiameremo variabile
casuale.
Il valore assunto dalla variabile casuale in una data unità
statistica lo chiameremo osservazione.

Esempio:
◦ variabile casuale: livello di espressione del gene AAA;
◦ osservazione: il gene AAA della persona X ha un livello di
espressione pari a 12.3, il gene AAA della persona Y ha un
livello di espressione di 10.2, il gene AAA della persona Z….
Variabile quantitativa e qualitativa

Variabile quantitativa: quando assume valori


numerici
◦ Continua: assume valori continui in un intervallo (peso
e statura di una persona, livelli di intensità dei campioni su
microarray, livello di espressione genica etc)
◦ Discreta: assume valori discreti come numero di
campioni, numero di geni sovra-espresso, numero di
pazienti etc
Variabile qualitativa: quando assume valori non
numerici
◦ Ordinale: i dati sono in un ordine, come ad esempio la
top ten degli artisti musicali
◦ Categorica: uomo/donna, basso/medio/alto, fenotipo,
gruppi di pazienti malati/sani etc
Variabile casuale
La matrice dei dati

I dati codificati di una rilevazione statistica effettuata su n


unità statistiche con riferimento a p variabili, vengono raccolti in
una tabella che viene chiamata “matrice dei dati” (sotto è
illustrato un esempio)

N. Sesso Titolo Età Peso N. Ricoveri


di
studio
1 M Licenza 36 65 3
media
inferiore
2 F Laurea 45 70 1
… … … … … …
N F Diploma 60 55 6
La matrice dei dati
Analisi dei dati

La matrice dei dati contiene tutte le informazioni analitiche


di ciascuna unità statistica
Quando i dati sono molti, l’analisi diretta della matrice non
consente di cogliere in via immediata gli aspetti salienti del
fenomeno
Occorre perciò ottenere una sintesi attraverso
un’elaborazione statistica dei dati

Per sintetizzare una certa


caratteristica

Indici statistici

Per confrontare situazioni diverse


Indici statistici

Indici statistici

Tendenza
Dispersione Forma
centrale

• Media  Campo di variazione


 Coefficiente di
• Mediana Scarto medio assoluto
asimmetria
• Moda Varianza
 Coefficiente di curtosi
• Quantili Deviazione standard
• Percentili Coefficiente di
variazione
Istogramma

L'area della porzione di istogramma compresa nell'intervallo (a, b)


è uguale alla frequenza relativa dei dati compresi tra a e b
Esempi
Indici di tendenza centrale

Un indice di tendenza centrale è lo scalare che esprime


sinteticamente come si è manifestata la proprietà in esame
nel campione considerato.
Può essere visto come il valore che meglio rappresenta una
distribuzione: ad esempio il valore più frequente, oppure il
valore che occupa una posizione intermedia nella
distribuzione.
Indici analizzati:
MEDIA
MODA
MEDIANA
QUANTILI
Media

Media di una popolazione: somma di tutti i valori delle


variabili della popolazione diviso il numero di unità della
popolazione (N)

dove: N = numero elementi popolazione; Xi =i-esima osservazione della


variabile Xi
Media di un campione: somma di tutti i valori delle variabili di
un sottoinsieme della popolazione diviso il numero di unità
di tale campione (n)
Media: un esempio
Valore atteso e campionamento

Il valore atteso di una variabile X, indicato con E[X] è


definito come la media di X calcolata su un grande numero
di esperimenti

Campionamento con rimpiazzo e senza rimpiazzo:


 Se un campione è costruito prendendo un valore e
successivamente eliminando quel valore dalla popolazione in
modo tale che non possa essere preso nuovamente, si dice
che il campionamento è effettuato senza rimpiazzo
 Se il valore usato in un campione non è rimosso dalla
popolazione in modo tale che lo stesso valore possa essere
preso nuovamente, si dice che il campionamento è
effettuato con rimpiazzo
Media

Media ponderata di una popolazione: si assegna ad ogni


variabile un peso; si sommano tutti i valori delle variabili,
moltiplicate per il peso, e si divide il numero ottenuto per la
somma dei pesi:
Moda
Distribuzioni unimodali/bimodali

Una distribuzione può presentare più mode


Distribuzioni unimodali: distribuzioni di frequenza
che hanno una sola moda, ossia un solo un punto di
massimo (che rappresenta sia il massimo relativo che il
massimo assoluto);
Distribuzioni bimodali o k-modali: distribuzioni di
frequenza che presentano due o più mode, ossia che
hanno due (o k) massimi relativi
◦ Esempio: misurando le altezze di un gruppo di giovani in cui la
parte maggiore sia formata da femmine e la minore da
maschi si ottiene una distribuzione bimodale, con una
moda principale ed una secondaria.
Distribuzione zeromodale

Nessun valore ha una frequenza più elevata degli altri.


A= {1, 1, 1, 2, 2, 2, 3, 3, 3, 4, 4, 4, 5, 5, 5, 6, 6, 6}
Distribuzione unimodale

C’è un solo valore con una frequenza più elevata degli altri
A = {1, 2, 2, 3, 3, 3, 4, 4, 4, 4, 5, 5, 5, 6, 6, 7, 7, 8}
Distribuzione bimodale

Ci sono due valori con una frequenza più elevata degli altri
A = {1, 2, 2, 3, 3, 3, 3, 5, 6, 6, 6, 6, 6, 7, 7, 8, 8}
Distribuzione bimodale
Distribuzione bimodale
Mediana

La mediana è il valore che occupa la posizione centrale in un


insieme ordinato di dati.

E’ una misura robusta, in quanto poco influenzata dalla


presenza di dati anomali.

Caratteristiche:
◦ si ricorre al suo uso quando si vuole attenuare l'effetto di
valori estremi;
◦ in una distribuzione o serie di dati, ogni valore estratto a
caso ha la stessa probabilità di essere inferiore o superiore
alla mediana.
Mediana: il calcolo

Per calcolare la mediana di un gruppo di dati, bisogna:


1. disporre i valori in ordine crescente oppure decrescente e
contare il numero totale n di dati;
2. se il numero (n) di dati è dispari, la mediana corrisponde al
valore numerico del dato centrale, quello che occupa la
posizione (n+1)/2;
3. se il numero (n) di dati è pari, la mediana è stimata utilizzando i
due valori centrali che occupano le posizioni n/2 e n/2+1:
◦ a. con poche osservazioni, come mediana viene assunta la
media aritmetica di queste due osservazioni intermedie;
◦ b. con molte osservazioni raggruppate in classi, si ricorre
talvolta alle proporzioni.
Mediana: un esempio

Consideriamo il seguente campione:

96 78 90 62 73 89 92 84 76 86

Ordiniamo i campioni in ordine crescente:

62 73 76 78 84 86 89 90 92 95

Dal momento che il numero di campioni è pari (n=10) la


mediana è calcolata come la media dei due elementi centrali:

Mediana = (84+86)/2 = 85
Quantili

I quantili sono una famiglia di misure, a cui appartiene anche


la mediana, che si distinguono a seconda del numero di parti
uguali in cui suddividono una distribuzione.
I quartili ripartiscono la distribuzione in 4 parti di pari
frequenza, dove ogni parte contiene la stessa frazione di
osservazioni:
◦ Il primo quartile è definito come il numero q1 per il
quale il 25% dei dati statistici è minore o uguale a q1.
◦ Il secondo quartile è definito come il numero q2
per il quale il 50% dei dati statistici è minore o uguale a
q2. Il secondo quartile corrisponde alla mediana
◦ Il terzo quartile è definito come un numero q3 per
il quale il 75% dei dati statistici è minore o uguale a q3.
Quartili: un esempio
Decili e percentili

In modo analogo si definiscono i:

Decili: 9 punti che dividono la distribuzione ordinata in 10


parti uguali

Percentili: 99 punti che dividono la distribuzione ordinata in


100 parti uguali.
Indici di dispersione

Un indice di dispersione restituisce uno scalare con cui si


valuta la diversità esistente tra le osservazioni.

Indici analizzati:
◦ CAMPO DI VARIAZIONE
◦ VARIANZA
◦ DEVIAZIONE STANDARD
◦ COVARIANZA
◦ CORRELAZIONE
Campo di variazione (range)

Il campo di variazione di una distribuzione è la differenza tra


il dato più grande e quello più piccolo della distribuzione:

C= xmax - xmin

Questo indice è abbastanza grossolano non dicendo nulla


sulla variabilità dei dati intermedi.

 Esempio: il campo di variazione della seguente distribuzione: 25


– 26 – 28 – 29 – 30 – 32 è C = 32 – 25= 7
Scarto

Lo scarto misura quanto ciascun dato xi si discosta


dal valor medio, ovvero s = xi - X
Esempio:
Consideriamo le seguenti intensità rilevate dagli spot dei
microarray:
435.02, 678.14, 235.35, 956.12, …, 1127.82, 456.43
 La media di questi valori è: 515.13
 I loro scarti sono:
435.02 - 515.13 = -80.11
678.14 - 515.13 = 163.01
235.35 – 515.13 = -279.78
956.12 – 515.13 = 440.99

Scarto assoluto

Usando s possono essere ricavati diversi altri indici di


variabilità

Si chiama scarto medio assoluto e si indica con Sm la


media aritmetica dei valori assoluti degli scarti:
Varianza
Varianza: un esempio
Devianza
Nel calcolo di alcune statistiche si ricorre alla devianza, data
dal numeratore della varianza:
N
Dev = ∑ (Xi – X)2
i=1

Deviazione standard o scarto quadratico medio

La varianza ha lo svantaggio di essere una grandezza quadratica e


quindi non direttamente confrontabile con la media o con gli altri valori
della distribuzione.
Per trovare una misura espressa nella stessa unità di misura della
variabile di partenza è sufficiente estrarre la radice quadrata della
varianza.
La deviazione standard è una misura di distanza dalla media e quindi
ha sempre un valore positivo.
E' una misura della dispersione della variabile casuale intorno alla
media.
Deviazione standard o scarto quadratico medio
Alcune considerazioni

Cambiando strumento di misura posso ottenere misure


tutte aumentate di una costante c:
Xc=X+c

La varianza rimane invariata: sc2 = s2

Se le misure vengono moltiplicate per una costante:


X c = cX
sc2 = c2s2
Deviazione standard: un esempio

 Consideriamo i voti di due studenti:


 Anna (30, 30, 28, 27, 26)
 Stefano (21, 30, 30, 30, 30).

 Entrambi hanno la stessa media dei voti (media=28.2)

 Calcoliamo la deviazione standard:


 σ(Anna) = 1.78
 σ(Stefano) = 4,02

 Cosa significa?
Significa che i voti di Anna sono più concentrati (vicini)
rispetto a quelli di Stefano
Covarianza
Covarianza

La Covarianza può essere:

POSITIVA: quando X e Y variano tendenzialmente nella stessa


direzione, cioè al crescere della X tende a crescere anche Y e
al diminuire della X tende a diminuire anche Y.

NEGATIVA: quando le due variabili variano tendenzialmente in


direzione opposta, cioè quando al crescere di una variabile
l’altra variabile tende a diminuire (e viceversa).

NULLA: quando non vi è alcuna tendenza delle 2 variabili a


variare nella stessa direzione o in direzione opposta. Quando
Cov(X,Y) = 0 si dice anche che X ed Y sono non correlate o
linearmente indipendenti.
Correlazione
Correlazione

Esempio:

Sono stati raccolti i seguenti dati da n = 129 studenti:


o Altezza (cm)
o Peso (Kg)
o Voto Algebra e Geometria
o Voto Fisica I
Valutare la correlazione delle seguenti coppie:
o Peso – Altezza
o Algebra e Geometria - Fisica I
o Peso - Algebra e Geometria
Correlazione: esempi
Coefficienti di correlazione: esempi
Correlazione:caratteristiche

Direzione della relazione:


Correlazione positiva
Correlazione negativa
Forma della correlazione:
Lineare
Forme non-lineari
Grado di correlazione:
Le relazioni si distinguono a secondo del grado di
correlazione:
Elevato grado di correlazione (punti vicini alla “linea di
regressione”)
Basso grado di correlazione (punti lontani dalla “linea di
regressione”)
Correlazione:rischi nell’interpretazione

Un’elevata correlazione fra due variabili NON implica una


La correlazione non è equivalente alla dipendenza
La correlazione è molto sensibile agli outliers: due o tre
outliers possono portare il coefficiente di correlazione a livelli
molto bassi
Matrice di covarianza

Dato un set di variabili x1, x2, …, …, xk possono essere


calcolate le covarianze e le correlazioni di tutte le possibili
coppie di tali variabili xi e xj
Questi valori possono essere inseriti in una matrice nella
quale ciascuna riga e ciascuna colonna corrisponde ad una
variabile.
L’elemento situato all’intersezione tra la riga i e la riga j, sarà
la covarianza tra le variabili xi e xj, mentre gli elementi situati
sulla diagonale saranno le varianze delle rispettive variabili:
Matrice di correlazione

La matrice di correlazione è ottenuta prendendo l’elemento


ij da Σ (matrice di covarianza) e dividendolo per

Le matrici di correlazione e di covarianza sono simmetriche.


Teoria della probabilità
Teoria della probabilità

La teoria della probabilità è basta sul paradigma


degli esperimenti aleatori. Poniamoci dunque
il problema di stabilire che cos’è un esperimento
aleatorio e come può essere descritto l’insieme
costituito da tutti gli esiti che può produrre.

56
Esperimento aleatorio

Un esperimento aleatorio è un esperimento il cui esito


non può essere predetto con certezza prima di essere
eseguito.

La teoria della probabilità assume che un esperimento


aleatorio possa essere ripetuto indefinitamente sotto le
medesime condizioni.
Questa assunzione è importante perché la teoria della
probabilità riguarda l’andamento a lungo termine degli
esiti di un esperimento aleatorio che viene ripetuto molte
volte.
57
Esperimento aleatorio

Per capire che cos’è un esperimento aleatorio dobbiamo


innanzitutto chiarire che cosa si intende con “esperimento”.
In generale, per esperimento si intende semplicemente il
processo attraverso il quale una osservazione viene
compiuta.
Esempio
Lanciare una moneta e osservare l'esito che produce
(testa o croce), oppure lasciare cadere un oggetto e
misurare il tempo che impiega a raggiungere il suolo.

58
Esperimenti deterministici ed esperimenti aleatori

Esperimento deterministico
Se l'esperimento consiste nella misurazione del tempo
impiegato da un oggetto a raggiungere il suolo, essendo note le
condizioni iniziali del sistema e risolvendo le equazioni del
moto, è possibile predire con esattezza in ogni istante lo stato
del sistema.

Esperimento aleatorio
Se l'esperimento consiste nel lancio di una moneta, non è
possibile stabilire con certezza se l'esito di un singolo lancio
sarà testa o croce.

59
Che cosa significa “aleatorio”?

Il termine “aleatorio” ha semplicemente il significato di “non


conosciuto” ma di per sé ben determinato, ovvero
individuato senza possibilità di equivoco.

Un numero aleatorio, indicato con una lettera maiuscola,


per esempio X, è un numero il cui vero valore è uno solo
ma, se lo si dice aleatorio, vuol dire che questo valore non
è per noi conosciuto.

60
Esperimento composto

Supponiamo di definire n esperimenti, E1, E2, …, En (lancio


di una moneta, estrazione di una carta da un mazzo ben
mescolato, ...).
Definiamo esperimento composto l’esperimento che
consiste semplicemente nell’eseguire gli n esperimenti in
sequenza, l’uno in maniera indipendente dall’altro.

Intuitivamente, la nozione di indipendenza significa che il


risultato di un esperimento non influenza il risultato di
nessuno degli altri esperimenti.
61
Esperimento composto

Un altro modo per definire un esperimento composto è il


seguente. Supponiamo di avere un solo esperimento
aleatorio, E (lancio di una moneta, ...).

Definiamo esperimento composto l’esperimento


costituito da un numero finito (oppure infinito) di repliche
dell’esperimento E (n lanci di una moneta, ...)

62
Spazio campione di un esperimento aleatorio

L’insieme costituito da tutti gli eventi elementari che


costituiscono i risultati possibili di un esperimento aleatorio si
chiama spazio campione e ciascun evento semplice si
chiama punto campione.
Esempio 1
Nel caso dell'esperimento costituito dal lancio di un dado, lo
spazio campione è l’insieme dei punti campione
corrispondenti ai sei eventi elementari Ei, con i = 1, 2, …, 6:

 = {E1, E2, E3, E4, E5, E6}

63
Esempio 1

 = {E1, E2, E3, E4, E5, E6}

E1 E5
E3
E2 E6
E4

64
Esempio 1

Ciascuno degli esiti possibili che costituiscono lo


spazio campione si chiama punto campione:
E1, E2, E3, E4, E5, E6

Esempio 2
Nel caso dell’esperimento che consiste nell’estrarre una
carta da un mazzo, lo spazio campione è costituito da
tutte le 52 carte del mazzo.

 = {1, 2, …, 13} x {C, Q, F, P }

65
Esempio 3

Nel caso dell'esperimento consistente nel misurare il Ph di uno


yogurt all’uscita da una linea di produzione, lo spazio campione
è W = [0,14].

I n q u e s to c a s o , lo s p a z io  c o n tie n e u n
in s ie m e in fin ito n o n n u m e r a b ile d i p u n t i
c a m p io n e .

66
Tipologie di spazi campione

Si possono distinguere tre tipi di spazio campione:

 spazio campione finito

 spazio campione infinito numerabile

 spazio campione infinito non numerabile

67
Spazio campione finito

Lo spazio campione finito è costituito da un numero


finito di elementi.

Esempio
Un’urna contiene 100 palline numerate. Per l’esperimento
che consiste nell’estrazione di una pallina dall’urna, lo spazio
campione sarà finito e sarà costituito da 100 punti campione,
ciascuno dei quali corrisponde ad una delle palline.

68
Spazio campione infinito numerabile

Lo spazio campione infinito numerabile è uno spazio


campione infinito nel quale a ogni punto campione può
essere associato un numero naturale.

Esempio
Uno psicologo che osserva il numero di pazienti che si
presentano ad un centro di igiene mentale compie un
esperimento i cui risultati possibili costituiscono uno spazio
campione infinito numerabile.
Segue
69
Esempio

Infatti, prolungando la sua osservazione lo psicologo può


notare il presentarsi di altre persone in aggiunta a quelle già
osservate. Verifica perciò un numero sempre maggiore di
pazienti che però è in grado di enumerare. Ciascun paziente
costituisce uno dei possibili punti campione dello spazio
campione infinito numerabile.

70
Spazio campione infinito non numerabile

Si dice infinito non numerabile uno spazio campione i


cui eventi semplici sono tali per cui, fissati due di essi, è
sempre possibile determinarne almeno un terzo intermedio.

Esempio
Lo spazio costituito dagli eventi “esatto momento della
nascita” è uno spazio infinito non numerabile. Infatti,
prese due qualunque persone nate ognuna in un certo
momento, è sempre possibile individuarne una terza la cui
nascita si colloca tra le due precedenti.

71
Spazio campione discreto

Lo spazio campione associato ad un esperimento si dice


discreto se è uno spazio finito o infinito numerabile.

Spazio campione continuo

Lo spazio campione si dice continuo se è uno spazio infinito


non numerabile.

72
Evento

Il primo problema che dobbiamo porci, dunque, è quello di


trovare un modo per descrivere i risultati possibili di quel
particolare esperimento composto (costituito dalle
ripetizioni di un esperimento aleatorio, ovvero da una serie
di prove bernoulliane o multinomiali) di cui si occupa la
teoria della probabilità.

Chiamiamo evento l’insieme costituito da uno o più dei


possibili risultati di un esperimento aleatorio.

73
Tipologie di eventi

 Eventi elementari

 Eventi complessi

74
Eventi elementari

Gli eventi elementari sono costituiti da uno solo dei


possibili risultati di un esperimento aleatorio.
Gli eventi elementari vengono denotati dalla
lettera E.

Consideriamo l’esperimento aleatorio che consiste nell’estrarre


a caso un oggetto dall’urna che contiene gli oggetti
rappresentati nella figura seguente.

Si consideri l’evento “triangolo viola”.

75
Eventi elementari

Evento “triangolo viola”

C’è un solo triangolo viola tra questi 18 oggetti

76
Eventi elementari

Un evento elementare corrisponde ad uno solo dei


risultati possibili che si possono osservare quando
l’esperimento aleatorio viene eseguito.
Evento “triangolo viola”

C’è un solo triangolo viola


77
Eventi elementari

Un evento elementare è anche detto “punto campione.”

Eventi complessi

Gli eventi complessi sono costituiti da più di uno dei possibili


risultati di un esperimento aleatorio.

Un evento complesso può sempre essere scomposto in eventi


elementari. Se un evento non risulta ulteriormente
scomponibile è per definizione un evento elementare.

78
Eventi complessi

Consideriamo nuovamente l’esperimento aleatorio che


consiste nell’estrarre a caso un oggetto dall’urna che
contiene gli oggetti rappresentati nella figura seguente.

Si consideri l’evento “triangolo”.

79
Eventi complessi

Evento “triangolo”

Ci sono 5 triangoli tra questi 18 oggetti


80
Eventi complessi

L’evento “triangolo”

Ci sono 5 triangoli
81
Eventi complessi

“Nello spazio campione di un esperimento aleatorio, un


evento composto corrisponde ad un insieme che contiene
più di un punto campione.”
Un evento è un sottoinsieme dello spazio campionario

Esempio
Per l’esperimento costituito dal lancio di un dado viene
definito l'evento A: “si osserva un numero dispari”.

A={1,3,5} A è un evento complesso.

82
Esempio

N e l ca so d e ll’e sp e rim e n to co stitu ito d al la n cio


d i u n d a d o vie n e d e fin ito l'e ve n to B :
“s i o ss e rv a u n n u m e ro m in o re d i 3 ”.

A={1,2,3}
Dato che corrisponde ad 2 punti dello spazio
campione di questo esperimento aleatorio, B è un
evento complesso.

83
Esempio

N e l c a s o d e ll’e s p e r im e n t o c o s t it u it o d a l la n c io
d i u n d a d o v ie n e d e f in it o l'e v e n t o E 5 :
“s i o s s e r v a il n u m e r o 5 ” .

A={5}

Dato che corrisponde ad 1 solo punto dello


spazio campione di questo esperimento, E5
è un evento elementare.

84
Eventi mutuamente esclusivi

O g n i q u a lv o lt a u n e s p e r im e n t o v ie n e e s e g u it o , u n o
e u n s o lo e v e n t o s e m p lic e p u ò e s s e r e o s s e r v a t o .
G li e v e n t i s e m p lic i, d u n q u e , s o n o m u t u a m e n t e
e s c lu s iv i.

Gli eventi mutuamente esclusivi possono essere rappresentati


da insiemi disgiunti.

85
Esempio

Se il lancio del dado produce l'esito 5, non è


possibile osservare allo stesso tempo l'esito 6.

Gli eventi E 5 e E 6, quindi, sono mutuamente


esclusivi, così come tutti gli altri eventi elementari.

86
Eventi complessi

G li eventi com plessi non sono di necessità


m utuam ente esclusivi, in quanto qualsiasi
sottoinsiem e dello spazio cam pione può costituire
un evento com plesso.

Esempio

L 'e v e n t o A ( e s it o d is p a r i ) h a lu o g o s e s i o s s e r v a
E 1 o E 3 o E 5.

L ’e v e n t o B ( n u m e r o m in o r e d i 3 ) h a lu o g o s e s i
o sse rv a E 1 o E 2. G li e v e n t i A e B , q u in d i, n o n
s o n o m u t u a m e n t e e s c lu s iv i.
87
Spazio probabilistico

Una volta stabilito come sia possibile descrivere lo


spazio campione, poniamoci il problema di costruire
quello che va sotto il nome di spazio probabilistico.

Nel caso di uno spazio campione finito, uno spazio


probabilistico si costruisce assegnando una numero reale
P, chiamato probabilità, a ciascun evento dello spazio
campione .

Dobbiamo quindi capire che cosa si intende con la nozione


di “probabilità”.
88
Interpretazione frequentista della probabilità

L’interpretazione più semplice della nozione di


probabilità è quella frequentista.

Abbiamo visto come gli eventi aleatori (come il lancio di


un dado) non possano essere predetti con certezza;
tuttavia la frequenza relativa con la quale hanno luogo a
lungo andare è notevolmente stabile.

89
Interpretazione frequentista della probabilità

Supponiamo di ripetere un esperimento aleatorio N


volte.

Dato un evento A, sia |A| la frequenza dell’evento A in N


ripetizioni dell’esperimento.

Dunque: A 

sarà la frequenza relativa di A.

90
Esempio

Consideriamo l’esperimento composto costituito da


100 ripetizioni dell’esperimento consistente nel lancio
di un dado.

Definiamo l’evento A = esito “numero pari”.

Eseguiamo l’esperimento composto e osserviamo


l’evento A 48 volte.

91
Esempio

La grandezza di A è |A| = 48

La grandezza di  è || = 100

La frequenza relativa di A è:

A 48
  0 ,48
Ω 100

92
Interpretazione frequentista della probabilità

Come si passa dalla nozione di frequenza relativa


alla nozione di probabilità?
In base all’impostazione frequentista, per probabilità P di
un evento A si intende il limite a cui tende la frequenza
relativa delle prove in cui l’evento si verifica, quando il
numero di prove tende all’infinito:

A
lim  P  A
n  Ω
93
Legge dei grandi numeri

L’affermazione precedente è una descrizione intuitiva di


quella che va sotto il nome di legge dei grandi numeri.
La legge dei grandi numeri costituisce uno dei teoremi
fondamentali della teoria della probabilità.

Ne segue che se disponiamo dei dati di N ripetizioni di un


esperimento, la frequenza relativa osservata dell’evento A
può essere usata come un’approssimazione della
probabilità P (A). Questa approssimazione è chiamata
probabilità empirica.

Una volta fornita un’interpretazione empirica alla


nozione di probabilità, esaminiamo più da vicino quali
sono le proprietà matematiche di questa nozione.
94
Assiomi fondamentali della probabilità

La teoria della probabilità è basata sui 3 assiomi


di Kolmogorov.

N e l c a s o d i u n o s p a z io c a m p io n e fin ito  , u n
n u m e ro P ( A ) , c h ia m a to p ro b a b ilità d i A , p u ò
e s s e re a s s e g n a to a c ia s c u n e v e n to A ( la d d o v e A
è u n s o tto in s ie m e d i  ) s e i s e g u e n ti a s s io m i
v e n g o n o ris p e tta ti:

95
Assioma 1
P  A  0

Assioma 2
Se A1, A2, …, Am sono eventi mutuamente esclusivi in
, allora
m
P A1  A2  ...  Am    P Ai 
i 1
Assioma 3
S e lo s p a z io c a m p io n e è c o s t it u it o d a N e v e n t i
e le m e n t a r i, a llo r a

P   PE1  E2  ...  E N   1


96
Interpretazione degli assiomi di Kolmogorov
I l p r im o d e g li a s s io m i p r e c e d e n t i p u ò e s s e r e
r if o r m u la t o d ic e n d o c h e la f r e q u e n z a r e la t iv a
( " p r o b a b ilit à " ) d e v e e s s e r e m a g g io r e o u g u a le a
z e r o - - f r e q u e n z e r e la t iv e n e g a t iv e , in f a t t i, n o n
hanno senso.

I l s e c o n d o a s s io m a p u ò e s s e r e r if o r m u la t o
d ic e n d o c h e la f r e q u e n z a r e la t iv a d e ll’u n io n e d i
d u e o p iù e v e n t i m u t u a m e n t e e s c lu s iv i è u g u a le
a lla s o m m a d e lle r is p e t t iv e f r e q u e n z e r e la t iv e .

I n b a s e a l t e r z o a s s io m a , la s o m m a d e lle
f r e q u e n z e r e la t iv e d i t u t t i g li e v e n t i e le m e n t a r i
d e llo s p a z io c a m p io n e d e v e e s s e r e u g u a le a 1 .

97
Interpretazione degli assiomi di Kolmogorov

Gli assiomi 1 e 3 corrispondono alla stipulazione di una


convenzione: scegliamo di misurare la probabilità di un
evento con un numero compreso tra 0 e 1 (piuttosto
che con un numero compreso tra -5 e 24).
Il secondo assioma (additività numerabile), invece
è necessario per la probabilità per la stessa
ragione che è richiesto per altre misure della
grandezza di un insieme.

98
Interpretazione degli assiomi di Kolmogorov

P(A)
P()
P(AB)

B 0 1
A

P(B)

99
Interpretazione degli assiomi di Kolmogorov

Si noti che abbiamo descritto le proprietà che devono


essere possedute dalla probabilità, ma non abbiamo
specificato come si possa assegnare un valore di
probabilità agli eventi elementari di uno spazio
campione.

100
Misura di probabilità

Per un dato esperimento aleatorio, possono essere


definite molte possibili misure di probabilità.
Per “misura” o “distribuzione” di probabilità
intendiamo una regola che ci consenta di assegnare i valori
di probabilità agli eventi semplici di uno spazio campione in
maniera tale da soddisfare gli assiomi di Kolmogorov.

Anche se molte misure di probabilità sono possibili, solo la


vera misura di probabilità soddisferà la legge dei
grandi numeri.

101
Misura di probabilità

Per ciascun esperimento aleatorio dobbiamo dunque


specificare:
 lo spazio campione 
 una serie di regole per costruire gli eventi composti Ai
sulla base degli eventi semplici Ei
 una misura di probabilità P

Risulta così definito lo spazio probabilistico


dell’esperimento aleatorio considerato.

102
Misura di probabilità

Per esperimento aleatorio che consiste nel lanciare una


moneta avremo:

  = {T, C};

 insieme di tutti gli eventi definiti su :

B= {, (T), (C), (T  C)};

 una misura di probabilità P:

{0, P(T), P(C), 1}.

103
Misura di probabilità

E’ molto facile costruire una misura di probabilità P per


uno spazio campione finito

  w1,w2,…, wn.


E’ infatti sufficiente assegnare a ciascun punto campione wi
un “peso” pi in modo tale da soddisfare gli assiomi di
Kolmogorov:

w i   : Pw i   0

 P w   1
i
i

A   : P A   Pw 
wA

104
Misura di probabilità

In molti casi, per creare l’appropriata misura di probabilità è


sufficiente applicare una semplice regola.
Per uno spazio campione finito , la più importante
distribuzione di probabilità è la distribuzione uniforme:

P (A) = |A| / || per  A  

dove:
|A| = numero di elementi in A per A  
|| = numero di elementi in 

105
Misura di probabilità

In altre parole, lo stesso valore di probabilità viene assegnato


a ciascun punto dello spazio campione dell’esperimento aleatorio.

Esempio

Supponiamo di eseguire l’esperimento consistente nel lancio di un


dado non truccato.
Lo spazio campione di questo esperimento è costituito dai seguenti
eventi elementari:
 = {E1, E2, E3, E4, E5, E6}

106
Esempio

Possiamo assumere che, a lungo andare, tutti gli eventi


elementari dello spazio campione avranno la stessa
frequenza relativa.

A ciascun evento elementare può dunque essere


assegnata la probabilità di 1/6:

1
P E i   , con i  1 , 2 ,..., 6
6

107
Esempio

Questo soddisferà la legge dei grandi numeri:

A
lim  P  A
n  

Esempio
Assegnando una probabilità di 1/6 a ciascun evento
semplice risulta soddisfatto il primo assioma:

P  A  0

108
Esempio

Il terzo assioma

P   PE1  E2  ...  En   1

è soddisfatto in quanto

P()  P( E1 )  P( E2 )  ...  P( E6 ) 
1 1 1
   ...   1
6 6 6

109
Esempio

Il secondo assioma afferma che possiamo calcolare le


probabilità di nuovi eventi composti sommando le
probabilità degli eventi semplici in essi contenuti.
Ad esempio, la probabilità di osservare l’evento A “il lancio
del dado produce un numero dispari” sarà:

P ( A)  P( E1  E3  E5 )
 P ( E1 )  P( E3 )  P( E5 ) 
 1 6  1 6  1 6 1 2

110
Esempio

Qual è la probabilità di osservare l’evento B “il lancio del


dado produce un numero > 4”?

P( B)  P( E5  E6 )
 P ( E5 )  P( E6 )
 1 6  1 6 1 3

111
Esempio

Consideriam o l'esperim ento costituito dall'estrazione


di una pallina da un’urna contenente 10 palline. Di
queste, 5 sono bianche, 3 rosse e 2 nere.

112
Esempio

D e f in ia m o 3 e v e n t i c o m p le s s i: l'e v e n t o A h a
lu o g o q u a n d o u n a p a llin a b ia n c a v ie n e e s t r a t t a ,
l'e v e n t o B h a lu o g o q u a n d o u n a p a llin a r o s s a
v ie n e e s t r a t t a , l'e v e n t o C h a lu o g o q u a n d o u n a
p a llin a n e r a v ie n e e s t r a t t a .
C ia s c u n o d i q u e s t i 3 e v e n t i c o s t it u is c e u n
s o t t o in s ie m e d e llo s p a z io c a m p io n e  .

L 'e v e n t o B ( " u n a p a l l i n a r o s s a è s t a t a
e s t r a t t a " ) s i v e r if ic a q u a n d o v ie n e o s s e r v a t o
u n o d i 3 e v e n t i e le m e n t a r i d i  ( o v v e r o ,
q u a n d o v ie n e e s t r a t t a u n a d e lle 3 p a llin e
ro sse ).
113
Esempio

Supponiamo che ciascuna pallina abbia la stessa


probabilità di essere estratta dall’urna.

Qual è la probabilità di osservare l’evento B (“una pallina


rossa viene estratta dall’urna”)?

114
Esempio

Abbiamo definito la probabilità dell’evento B “una pallina


rossa è stata estratta” come la somma delle probabilità
di tutti gli eventi elementari che lo costituiscono.

Dato che a ciascuno degli eventi elementari dello spazio


campione abbiamo assegniamo la probabilità di 1/10, ne
segue che

1 1 1 3
P(estrarre una pallina rossa)    
10 10 10 10

dato che ci sono 3 palline rosse.

115
Esempio

Allo stesso modo, P(bianco) = 0,5 e P(nero) = 0,2.

P(rosso) = 0,3 P(bianco) = 0,5 P(nero) = 0,2

P(rosso  bianco) = 0,3 + 0,5 = 0,8

P(rosso  bianco) = 0

P(rosso  nero) = 0,3 + 0,2 = 0,5

P(rosso  bianco  nero) = 1,0

116
Esercizio

Un archeologo studia tre aree geografiche


contenenti i siti di antichi villaggi. L'area racchiusa
da un cerchio rappresenta l'influenza della cultura A,
l'area rettangolare rappresenta l'influenza della
cultura B e l'area triangolare rappresenta l'influenza
della cultura C. I punti all'interno di ciascun area
rappresentano i possibili siti dei villaggi.
Supponiamo che l'archeologo esamini uno di questi
siti a caso.

117
Esercizio

B A

118
Esercizio

(a) Quale è la probabilità che il sito esaminato sia


stato influenzato da una sola cultura?

(b) Quale è la probabilità che il sito selezionato


sia stato influenzato da due culture?

(c) Quale è la probabilità che il sito selezionato


sia stato influenzato da più di una cultura?

119
Esercizio

Ciascun membro di un ufficio ha la stessa probabilità di


ottenere una promozione. In base ai dati riportati di
seguito, si trovi la probabilità che la promozione venga
ottenuta da:

(a) una donna


(b) una persona con i capelli bruni
(c) un maschio con i capelli rossi
(d) una donna bionda con un peso minore di 65 Kg

120
Esercizio

Nome Sesso Capelli Peso

Maria F biondi 63
Susanna F bruni 66
Gianna F biondi 65
Alice F rossi 68
Eleonora F bruni 67
Giovanni M bruni 71
Loretta F biondi 63
Giacomo M rossi 70
Enrico M biondi 73

121
Prove bernulliane e multinomiali

Se un esperimento (aleatorio) produce solo 2 esiti


possibili (successo/insuccesso), allora le repliche
indipendenti di questo esperimento sono chiamate prove
bernoulliane.

Se un esperimento produce k esiti possibili (lancio di un dado)


allora le repliche indipendenti di questo esperimento sono
chiamate prove multinomiali.

122
Esempio (prove bernoulliane)

Quali sono le proprietà possedute da quel particolare


esperimento composto consistente nel lanciare n volte una
moneta e contare il numero di esiti “testa” (prove
bernoulliane)?

Supponiamo, ad esempio, che un esperimento aleatorio


consista nel lanciare una moneta. L’esperimento viene
ripetuto per n volte.

Ciò che vogliamo sapere è: qual è la probabilità di ottenere


k esiti “testa” (k = 0, 1, 2, …, n)?
123
Esempio (prove bernoulliane)

La risposta alle domande precedenti consente di definire la


distribuzione di probabilità binomiale.

Esempio (prove multinomiali)

Consideriamo ora un esperimento i cui esiti possibili sono


maggiori di due. Ad esempio, potremmo chiederci quali
sono le proprietà possedute da quel particolare esperimento
composto consistente nell’estrarre n campioni casuali
indipendenti da un mazzo di carte.
124
La probabilità
nei giochi
(ripasso,approfondimenti e nuovi esempi)
La definizione di probabilità P(E) di un evento E è il rapporto
tra

il numero nf di casi favorevoli al verificarsi di E


______________________________________

il numero np dei casi possibili

Casi giudicati tutti egualmente probabili.

In formule:

nf
p(E ) 
np
Di conseguenza la probabilità è un numero compreso tra
0 e 1 0 ≤ p(E) ≤ 1

P(E) = 0 quando nf è uguale a zero perché l’evento è


impossibile
P(E) = 1 quando nf è uguale a np perché l’evento è
certo

Se con non E indichiamo il non avverarsi dell’evento E


(evento complementare) allora si avrà:
P(nonE) = 1 – P(E)
Lancio di un dado

Lo spazio campionario, cioè l’insieme di tutti i possibili eventi, è


definito come A = {1, 2, 3, 4, 5, 6} …
La probabilità che esca “6” lanciando un dado vuol dire :
Calcolare:
- il numero np dei casi possibili cioè 6 (le facce possibili)
- il numero nf dei casi favorevoli cioè 1 (la faccia che porta il 6)

nf 1
P 6     0,1 6
np 6
La probabilità che non esca 6 è invece

1 5
P 6   1  P ( 6 )  1    0 ,8 3
6 6
La somma della probabilità di tutti gli eventi possibili è 1
P(1)+ P(2)+ P(3)+ P(4)+ P(5)+ P(6)= 1/6+ 1/6+ 1/6+ 1/6+ 1/6+ 1/6=1
Lancio di due dadi

Quali sono i possibili risultati della somma del lancio di due dadi ?
Qual è la probabilità di ottenere ciascuna delle somme possibili?
Il numero dei casi possibili è pari a 6 × 6 = 36, perché ogni faccia del
primo dado si può combinare con ognuna delle sei facce del secondo.
Come possiamo determinare tutte le possibili somme in tutti i possibili
modi?

DADO 1
1 2 3 4 5 6
1 2 3 4 5 6 7
D
2 3 4 5 6 7 8
A
D 3 4 5 6 7 8 9
O 4 5 6 7 8 9 10
2
5 6 7 8 9 10 11
6 7 8 9 10 11 12
Dalla tabella si possono ottenere le loro probabilità:
Ad esempio:

1nf
P2  P(12)  
n p 36
nf 2
P 3   P (11 )  
np 36

così tutti gli altri.


Pari o dispari

Ognuno apre una mano mostrando un numero di dita. Prima


di aprire la mano i due giocatori puntano a scelta su una
somma delle dita delle due mani che sia pari oppure dispari.
Chi indovina vince.

Ma esiste una stessa possibilità che la somma delle dita sia


pari o dispari?

Costruisci una tabella che elenchi tutte le possibilità


Mano giocatore 1
Con queste regole risulta:
0 1 2 3 4 5 P(pari)=P(dispari)=½
M 0 P D P D P D
A 1 D P D P D P
N
O 2 P D P D P D Ma se cambiassimo le regole,
G
I 3 D P D P D P per esempio:
O
C 4 P D P D P D E’ obbligatorio mostrare
2 5 D P D P D P
almeno un dito
La probabilità cambierebbe?
Mano giocatore 1
nf 12
Pdispari     48%
0 1 2 3 4 5 np 25
M 0 P D P D P D
nf 13
A
N
1 D P D P D P P  pari     52%
O
np 25
2 P D P D P D

G
I
3 D P D P D P E quindi non sono più equiprobabili.
O 4 P D P D P D
C
2 5 D P D P D P
Due eventi si dicono incompatibili se non si possono
verificare contemporaneamente, quindi l’uno esclude l’altro.

Ad esempio nel lancio di una moneta lo sono gli eventi


E = “esce testa” e non E = “esce croce”

Per due eventi incompatibili la probabilità che avvenga l’uno


o l’altro, cioè la probabilità dell’evento A U B è data da

P(A U B)= P(A) + P(B)

Nel lancio della moneta p(E U nonE)=½+½=1


Gli eventi si dicono compatibili se possono accadere
insieme.

La probabilità che accada l’uno o l’altro evento si calcola


mediante la

P(A U B)= P(A) + P(B) -P(A ∩B)

dove A ∩ B indica il loro avverarsi contemporaneamente


Probabilità condizionata

Dati due eventi A e B tali che A ∩ B ≠  ,


si dice probabilità condizionata di A rispetto a B e si
indica con P(AI B) la probabilità che si verifichi A
sapendo che B si è verificato.

Si può calcolare così

P( A  B)
P( A / B) 
P( B)
Esempio

Consideriamo il lancio di un dado regolare.


Sia F ={2 , 4, 6} l’evento “uscita di un pari “

La probabilità dell’evento E ={4} sapendo che è accaduto F è:

P( E  F ) P ( 4) 1
P( E / F )   
P( F ) P (2, 4, 6 3
Teorema di Bayes

p( A)  p( B / A)
p ( A / B) 
p( A)  p( B / A)  p(nonA) p( B / nonA)

La probabilità che A avvenga dopo che B è già avvenuto p(A/B)


è uguale alla probabilità che A avvenga senza condizioni, p(A),
moltiplicata per la probabilità che B avvenga se è avvenuto A, cioè
p(B/A), diviso la probabilità che B avvenga senza condizioni, p(B).
Lancio di un dado

Considerando i due eventi:


A = “è uscito il numero 1”
B = “è uscito un numero dispari”
Si ha P(A)=1/6 e P(B)=3/6 =1/2

Supponiamo di sapere che è uscito un numero dispari


(B è verificato) e che voglio calcolare la probabilità che sia
avvenuto A; cioè:
p ( 1 )  p ( dispari / 1)
p ( 1 / dispari ) 
p ( dispari )

• Ma p(dispari/1) è la prob che il numero uscito sia dispari sapendo che


è uscito 1 cioè 1
•In conclusione
1
1
6 1 1
p ( 1 / dispari )    2 
1 6 3
2
Il gioco delle tre carte

Abbiamo tre carte coperte A, B e C ed il giocatore deve


indovinare dove si nasconde la stella che è la carta vincente.
Inizialmente la probabilità di vincita per ognuna delle carte è:
1/3.

Ma …
Il gioco delle tre carte
Dadi di Efron

Di solito si è convinti che se due giocatori si sfidano a dadi, a


chi fa il punteggio più alto, entrambi abbiano la stessa
probabilità di vincita.

Ma non è così, se si sfidano con un particolare tipo di dadi


non transitivi, detti dadi di Efron.

Questi dadi non hanno le facce numerate tutte diversamente


l’una dall’altra, sulle loro facce alcuni numeri si ripetono.

Ecco un esempio illustrato nella slide successiva


Dado 6-2 A

6 2 6
Dado 3-3 Dado 5-1
2 B
3 1
2
3 3 3 5 1 5

3 1

D 3 5
4

0 4 0

4 C
Dado 4-0
Supponiamo che uno dei due giocatori scelga il dado 5-1 e l’altro,
conoscendo il funzionamento dei dadi scelga il dado 6 – 2 ;
calcoliamo con quale probabilità il secondo giocatore può essere
vincitore con un solo lancio
Il numero di casi possibili è 6 × 6 = 36.

Vediamo i casi favorevoli:


sul dado 6 – 2 esce 2
vincerà in 3 casi su 6 (quando sull’altro dado esce 1),
ma le facce con il 2 sono 4
Quindi avremo 4×3 = 12 casi in cui vince.
esce 6
vince qualsiasi sia la faccia dell’altro dado.
ci sono altri 2×6 = 12 casi in cui vincerà.

I casi favorevoli in totale sono:


4×3 +2×6 = 12 +12 = 24
La probabilità di vincere del dado 6 – 2 sul dado 5-1 è
24 2

P(6 – 2 vince 5-1)   0, 6
36 3
Dado 6-2 A
24/36
2

6 2 6
Dado 3-3 Dado 5-1
2 B
3 1
2
3 3 3 5 1 5

3 1
D
3 5
4

0 4 0

4
C
Dado 4-0
Dai giochi d’azzardo ai giochi strategici

Al gioco con i quattro dadi non transitivi di Efron si


possono associare dei giochi strategici 2x2 fra due
giocatori, consentendo anche al primo giocatore, prima
di giocare una serie di partite, di scegliere una coppia di
dadi (ad esempio la coppia A-B oppure la coppia C-D,
oppure la coppia A-D, oppure ...) con cui giocherà
contro il secondo giocatore, che avrà, necessariamente
senza possibilità di scelta, la coppia di dadi restanti.

Una volta che il primo giocatore ha scelto la sua coppia,


ciascun giocatore ad ogni lancio potrà utilizzare, a suo
piacimento, uno qualsiasi fra i due dadi della coppia a sua
disposizione.
Dai giochi d’azzardo ai giochi strategici

La strategia di gioco, nel lancio ripetuto di dadi, sarà


quindi, per entrambi i giocatori, una volta fissata la
coppia di dadi a disposizione di ciascuno, di decidere con
quale dei propri due dadi giocare in ciascun lancio,
sapendo quali dadi sono in possesso dell’avversario.

L’esame delle soluzioni (strategie ottimali e


corrispondenti valori di gioco) dei vari giochi strategici,
relative a tutte le scelte di coppie di dadi possibili da
parte del primo giocatore, permetterà di individuare
quale scelta di dadi ottimali dovrà compiere il primo
giocatore prima di giocare una serie di partite.
Bibliografia

 http://www.mind.disco.unimib.it/public/site_files/file/Materiale
%20Didattico/Lezione1.pdf
 http://filosofia.dafist.unige.it/epi/hp/pal/0-EMS-Stat.pdf
 http://dipiter.unical.it/sistrasp/1.%20Introduzione%20calcolo%
20probabilit%C3%A0.PPT
 http://www.liceobenedetti.it/TDG/probabilit%C3%A0%20e%2
0teoria%20dei%20giochi.ppt
 Altro materiale non riconducibile al titolare di diritti di
autore
Università degli Studi di Genova
DIME
Dipartimento di Ingegneria meccanica, energetica,
gestionale e dei trasporti

Manutenzione degli impianti industriali

Metodi di analisi di affidabilità


Progettazione e gestione della Manutenzione
Hazard and Operability Analysis HAZOP

La HAZOP è una metodologia qualitativa che presenta:


◦ sia aspetti deduttivi (ricerca delle cause)
◦ sia aspetti induttivi (analisi delle conseguenze)
L’obiettivo principale è quello di identificare gli eventi
iniziali che conducono a incidenti.
Gli studi di Hazard Operability furono ideati dalla
divisione Mond dell’Institute of Chemical Industry (ICI)
in Inghilterra, si sono sviluppati negli anni ‘60 nell’ambito
della ingegnerizzazione dei processi chimici, ed hanno
preso grande impulso dopo l’incidente di Flixborough
dove l’esplosione dello stabilimento chimico provocò 28
morti.
Hazard and Operability Analysis HAZOP

Hazard: qualsiasi situazione che possa causare un rilascio


catastrofico di sostanze chimiche tossiche, infiammabili
o esplosive o qualunque evento che possa produrre il
ferimento del personale.

Operability: qualsiasi situazione che possa produrre uno


spegnimento dell’impianto con una conseguente
violazione delle condizioni di rispetto ambientale, di
sicurezza e di salute degli operatori e che possa infine
avere ripercussioni negative sulla profittabilità.
Hazard and Operability Analysis HAZOP

Il metodo presenta due principali sotto-obiettivi fra di loro


collegati:
◦ identificare i rischi e i problemi operativi che degradano le
prestazioni dell’impianto presenti all’interno dei processi di
primaria importanza.
◦ Trovare soluzioni a problemi individuati (secondario).

La metodologia viene impiegata per identificare i rischi e le


criticità di natura operativa e si basa sulla assunzione che la
maggior parte dei problemi di un sistema è trascurata a
causa della sua complessità.
Il progetto si realizza da un team di specialisti e si fonda su
una attività di brainstorming.
Hazard and Operability Analysis HAZOP

La metodologia HAZOP presenta alcune affinità con la


FMEA/FMECA, infatti entrambi analizzano le modalità di
guasto di un certo item per diversi livelli di
scomposizione, però, mentre la FMEA/FMECA si basa su
aspetti strutturali ed hardware del sistema, la tecnica
HAZOP si focalizza sui processi all’interno del sistema.
E’ opportuno ricordare che in fase di progettazione,
l’adozione di questo approccio può agevolare il
raggiungimento delle condizioni di sicurezza intrinseca al
sistema.
Gli step della metodologia

Prima si costituisce il gruppo di lavoro.


Poi si procede alla fase di documentazione e acquisizione dei
dati e consiste in schemi progettuale, in piani schematici, in
manuali operativi e di strumentazione. Utili sono i P&I (Pipes
and Instruments).
Poi:
◦ 1) Si scompone il sistema in unità di processo funzionalmente
indipendenti (nodi); e si individuano i vari stati operativi.
◦ 2) Per ciascuna unità di processo e stato operativo si
identificano le potenziali deviazioni dal comportamento
nominale del processo. Per fare ciò si deve:
specificare tutti i flussi in ingresso ed uscita e le variabili
caratteristiche del processo;
scrivere tutte le differenti funzioni che l’unità si supponga effettui;
applicare parole chiavi come basso, alto, nessuno, inverso ecc. alle
variabili e funzioni delle unità di processo identificate
precedentemente, in modo da definire le possibili deviazioni dal
normale processo (Tabella 14).
Gli step della metodologia

 Tabella 14
Gli step della metodologia

 La combinazione delle deviazioni avviene attraverso


combinazioni:
 Parola chiave + Parametro/Funzione= Deviazione
potenziale
 esempio: Nessun + Flusso = Nessun Flusso

3) Per ogni deviazione di processo (qualitativa) si


identificano le possibili cause e conseguenze (Tabella
15).
Gli step della metodologia

 Tabella 15
Gli step della metodologia

Interessante è la stima dei tempi necessari alla


esecuzione di uno studio HAZOP riportata dalla
normativa DOE-HDBK.1100.96 Chemical Process
Hazards Analysis; (Tabella 16)
Tabella 16:
Gli step della metodologia
Un limite della metodologia è il non considerare adeguatamente i rischi legati
alle condizioni di lavoro, i rischi cronici.
In Figura 6 è riportato uno studio di HAZOP estratto dalla normativa (DOE-
HDBK.1100.96). Figura 6:
Gli step della metodologia

 Una visione
completa del flusso
logico della
metodologia può
essere
schematizzato nel
seguente modo
(Figura 7):
Glossario della metodologia HAZOP

Nodo: sigla di riconoscimento o codice che può essere


stabilito a priori o recuperato dai codici aziendali
esistenti.

Parametro di processo: si considerano i parametri di


processo più significativi.

Parola guida: riportando la parola guida nel modulo si dà


una maggiore completezza alla stesura del documento e
si favorisce l’evidenza di eventuali omissioni.
Gli step della metodologia

Deviazione: descrive le caratteristiche di deriva dei


parametri, valuta l’efficacia dei sistemi di protezione e
individua i valori che la deviazione può raggiungere nel
caso peggiore e in quanto tempo tali valori sono
raggiunti.

Causa: tutte la cause hardware/software che hanno


condotto alla deviazione.

Conseguenza: sono gli effetti della deviazione.

Sistemi di protezione: per prevenire le deviazioni.


Gli step della metodologia

 Intervento: si riportano tutte le possibili azioni atte a


migliorare lo stato attuale del sistema.

 Note: campo libero in cui si riportano ulteriori


informazioni utili per lo studio.

 Esempio di modello di scheda ( Figura 8, slide


successiva) per l’applicazione della tecnica HAZOP.
Gli step della metodologia

 Figura 8

8
Alcune regole pratiche

Per l’istituzione del gruppo di lavoro occorre seguire alcune


regole:
◦ il team deve essere composto da persone con competenze
e conoscenze differenti:
processisti, progettisti, manutentori, controllori di qualità;
operai aventi esperienze quotidiane del processo
Il team deve comprendere a fondo il funzionamento
dell’impianto.
Il gruppo deve essere composto idealmente da 6 persone;
eventuali dubbi e incertezze devono essere eliminate
immediatamente alla loro comparsa;
la documentazione deve essere distribuita prima dell’incontro;
il team-leader deve favorire il rispetto dei tempi;
i risultati dell’analisi devono essere registrati da un segretario.
Gli step della metodologia

Alla conclusione di uno studio HAZOP per ogni oggetto


facente parte dell’impianto, sarebbe auspicabile determinare:
◦ la priorità di interventi futuri;
◦ la stima del danno associato a un evento;
◦ la stima della probabilità di un evento;
◦ i costi degli interventi.
Principali categorie di cause di deviazione:
◦ errore umano;
◦ guasto delle apparecchiature;
◦ eventi esterni: eventi sismici, agenti atmosferici;
E’ possibile riassumere alcune regole pratiche in cui si
evidenziano le attività e le fasi che la costituiscono (Figura 9).
Gli step della metodologia

 Figura 9
Riferimenti bibliografici

 T. Klets, Hazop and Hazan, Taylor & Francis, Londra,


1999.
 DOE-HDBK.1100.96 .
 L. Giagnoni, Metodi di valutazione dell’affidabilità e del
rischio, Università di Firenze, 2002.
 T. Stien, R. Brett, J. Davis, “Using a modified HAZOP/
FMEA Methodology fpr , managing process risk”, Sesha
Journal, vol,15, n. 3/2002.
 A.M. Heikkila et al., Inherent Safety in Proces Plant
Design, European Symposium on computer aided process
engineering, Lappenranta, 2002.
Fault Tree ed Event Tree analysis

La Fault Tree Analysis (FTA) è stata utilizzata per la prima


volta nei laboratori della Bell Telephone, congiuntamente
al risk assessment del sistema di controllo di lancio del
missile Minuteman avvenuto nel 1962.
La rappresentazione inizia con la individuazione di un
evento indesiderato top event (guasto o
malfunzionamento del sistema) e prosegue con la
determinazione di tutte le possibili modalità di
accadimento del top event analizzato.
E’ necessario quindi definire e determinare un insieme
di eventi di livello inferiore e determinarne la “forma”
che gli permetta di connettersi.
Fault Tree ed Event Tree analysis

Le catene di eventi vengono costruite con l’utilizzo di


operatori di tipo OR o AND che nell’analisi FTA vengono
denominati gate.
Un albero di guasti è dunque un diagramma logico, che
contiene a suo interno le dipendenze funzionali delle parti di
un sistema e che consente di evidenziarne le combinazioni di
eventi di base (basic event) che portano a un certo top event.
Le sue applicazioni sono molteplici:
◦ Modellizzazione della configurazione, architettura e
funzionalità di un sistema;
◦ Determinazione quantitativa della affidabilità del sistema a
partire da una individuazione dei modi e delle cause
associate di guasto, che risultano avere un impatto
maggiore sulla inaffidabilità del sistema.
Fault Tree ed Event Tree analysis

Associando agli eventi di base (bottom) le probabilità di


accadimento e seguendo un percorso di tipo bottom-up, è
possibile pertanto stabilire la probabilità di accadimento del
top event (up). La figura sottostante mostra l’impostazione di
una logica analitica di questo tipo.
Fault Tree ed Event Tree analysis

Riassumendo, nella costruzione di un albero di guasto, si


effettuano i seguenti passi:

◦ definizione di un sistema e delimitazione dei suoi


confini fisico-funzionali;
◦ definizione delle sue parti e funzioni principali;
◦ determinazione dei fenomeni che precludono
l’operatività;
◦ determinazione delle cause di tali fenomeni;
◦ determinazione dei fattori che contribuiscono alle
cause.
La metodologia FTA

Nello sviluppo di una FTA e in particolare nella costruzione


di un fault tree si possono considerare due elementi già
citati:
◦ gate: risultati di un evento o di una combinazione di eventi
di input o di altri gate;
◦ cut set: ovvero gruppi di eventi di base o di eventi
risultanti che, se si verificano possono verificare il guasto
dell’intero sistema.
La simbologia utilizzata nella costruzione dei FT ha subito
modifiche nel corso degli anni.
E’ interessante fare un parallelismo fra gli elementi riportati
in Tabella 17 e il loro significato nell’ambito della
modellizzazione della affidabilità (Tabella 18).
La metodologia FTA
La metodologia FTA

 Tabella 17b
La metodologia FTA

 Tabella 18
18
Regole fondamentali da considerare nella
costruzione di un FT

1) Descrivere le informazioni che sono contenute nelle


caselle rappresentanti gli eventi come guasti, definendo in
modo preciso in che cosa consiste il guasto e le condizioni
in cui questo si verifica;
2) distinguere le avarie dei componenti da quelle del sistema;
3) se nel normale funzionamento di un componente, avviene
la propagazione di una sequenza di guasto, allora si può
assumere che il componente stia funzionando
normalmente;
4) tutti gli input a un certo gate devono essere
completamente definiti, prima di iniziare qualunque
ulteriore analisi su ciascuno di loro;
5) gli input di un gate dovrebbero essere costituiti
unicamente da eventi di guasto.
Applicazione della FTA nella progettazione e nel
successivo esercizio di un sistema

Anche con informazioni limitate, la FTA può essere


utilizzata per realizzare un progetto basato sulle
prestazioni.

Se l’obiettivo è il valore massimo ammissibile della


probabilità di accadimento di un top event; compito
della progettazione sarà quello di configurare il nuovo
sistema affinché quel valore sia rispettato, attraverso
un’allocazione di tali probabilità fra i vari eventi del FT.
FTA: analisi qualitative e analisi quantitative

 Se esiste un evento all’interno del FT,che descrive il


comportamento del componente risultato guasto in una
certa fase, allora quel componente potrebbe essersi
guastato in quella fase o in una precedente.
 Questo comporta che quando si quantifica la probabilità
di guasto, la fase in corso e quella precedente devono
essere valutate allo stesso modo.
 Una corretta costruzione qualitativa del modello risulta
essenziale per passare a una successiva valutazione di
tipo quantitativo.
 Una corretta costruzione qualitativa del modello risulta
essenziale per passare a una successiva valutazione di
tipo quantitativo.
L’analisi FT nel corso del processo decisionale

I principali contributi della FTA:

◦ Uso della FTA per la comprensione delle logiche di


accadimento di un top event

◦ Uso della FTA per classificare i contributi che portano


all’accadimento del top event

◦ Uso della FTA come strumento proattivo


all’accadimento del top event
L’analisi FT nel corso del processo decisionale

◦ Uso della FTA per il monitoraggio delle prestazioni


del sistema

◦ Uso della FTA per minimizzare o ottimizzare le


risorse

◦ Uso della FTA come strumento di diagnostica per


l’identificazione e correzione delle cause di un top
event.
Applicazione della metodologia FTA allo studio di
un semplice sistema

Questo metodo è stato usato maggiormente nel campo


nucleare e aeronautico.

Nell’ambito petrolchimico viene data importanza alla


sicurezza legata alla tenuta delle tubazioni, dove i
materiali utilizzati assumono un ruolo fondamentale e gli
eventi di guasto hanno spesso ricadute importanti in
termini di conseguenze.
Applicazione della metodologia FTA allo studio di
un semplice sistema

Supponiamo di considerare il seguente esempio di


calcolo, in cui si analizza un sistema di tubazioni.

Tale sistema è costituito da 9 componenti con le


probabilità indicate.

La configurazione affidabilistica del sistema è riportata


in Figura 10.

Il top event è dato da una mancanza di flusso dal punto


A al punto B. Il sistema è suddiviso in tre sezioni di
tubazione come riportato in Figura 11.
Applicazione della metodologia FTA allo studio di
un semplice sistema

 Figura 10

 Figura 11
Applicazione della metodologia FTA allo studio di
un semplice sistema

L’albero di guasto è riportato nella Figura 12 ed è


costruito utilizzando gate OR o AND. Gli eventi che
sono indicati nella figura sono eventi di guasto

La probabilità pf di accadimento del top event, può


essere determinata nel modo seguente (essendo Pi le
probabilità di guasto delle varie tubazioni):
◦ Pf= P[(P1 AND P2 AND P3 AND P4 ) OR ( P5) OR ( P6
AND P7 AND P8 AND P9 ) ]
Applicazione della metodologia FTA allo studio di
un semplice sistema

La probabilità di accadimento del guasto della sezione 1


P(S1) può essere determinata a partire dalla assunzione
che i guasti alle tubazioni siano indipendenti:
◦ P(S1) = P[(P1  P2  P3  P4 )] = P(P1) P(P2) P(P3)
P(P4) = (0.010)(0.030)(0.001)(0,020) = 6 x 10-9

Analogamente, le probabilità di guasto delle sezioni 2 e


3 sono:
◦ P(S2) = 0,00001
◦ P(S3) = P(S1) = 6 x 10-9
Applicazione della metodologia FTA allo studio di
un semplice sistema

Ora, la probabilità di accadimento del top event può


essere determinata utilizzando le regole della teoria
degli insiemi:
Pf = P[(S1)  P(S2)  P(S3) ] = P(S1) + P(S2) + P(S3) -
P(S1) P(S2) - P(S1) P(S3) - P(S2) P(S3) + P(S1) P(S2)
P(S3)
Sostituendo i valori delle singole probabilità di guasto
si ottiene:
Pf = (6 x 10-9) + 0,00001 + (6 x 10-9) - (6 x 10-9)
(0,00001) - (6 x 10-9) (6 x 10-9) - (0,00001) (6 x 10-9)
+ (6 x 10-9) (0,00001) (6 x 10-9) = 0,0000100
che indica la probabilità di accadimento del top event.
Applicazione della metodologia FTA allo studio di
un semplice sistema

Figura 12
Un esempio di FTA utilizzando un tool di calcolo
dedicato

Si considera l’applicazione della metodologia FTA allo studio


di un serbatoio a pressione.
Il sistema è riportato nelle Figure 13 e 14: si tratta di un
gruppo di serbatoio, con dispositivi di controllo per il
mantenimento delle condizioni di riempimento e pressioni
stabiliti.
Lo switch di pressione ha contatti che sono chiusi quando il
serbatoio è vuoto. Quando è stata raggiunta la soglia di
pressione, i contatti dello switch di pressione si aprono,
togliendo energia al relay K2 così che il relay K2 si apre,
togliendo energia alla pompa che di conseguenza si ferma.
La costruzione dell’albero di guasto del sistema è stata fatta
ipotizzando quale top event la rottura del serbatoio,
successiva all’avvio della pompa.
Applicazione della metodologia FTA allo studio di
un semplice sistema

 Figura 13

 Figura 14
Applicazione della metodologia FTA allo studio di un
semplice sistema

In Figura 15 (a
lato) viene
riportato un
esempio di
rappresentazion
e FT relativo
allo schema di
impianto di
Figura 13,
attraverso
l’utilizzo di uno
strumento
informatico.
Event tree analysis - ETA

L’analisi dell’albero degli eventi è un metodo utilizzato


per studiare l’effetto di un evento iniziale rispetto al
sistema.

L’evento iniziale può essere rappresentato dal guasto di


un componente all’interno del sistema o da un top
event, come visto per gli alberi di guasto.
Applicazione della metodologia FTA allo studio di un
semplice sistema

Dopo aver completato la costruzione dell’albero, la probabilità associata a


un ramo può essere determinata come il prodotto delle probabilità di tutti
gli eventi lungo un ramo, così come mostrato nella Figura sottostante.
Applicazione della metodologia FTA allo studio di
un semplice sistema

Alla base di questa modalità di calcolo vi è l’ipotesi di


indipendenza degli eventi, la quale deve essere
comunque verificata.
Le conseguenze di un evento richiedono una
descrizione e quantificazione e in generale all’interno di
un albero vi potranno essere più modalità di misurare le
conseguenze, per es. la quantificazione dei costi o anche
delle vittime di incidenti.
A ogni ramo di un ET si può dunque associare un certo
livello di rischio, il quale è dato dal prodotto fra la
frequenza di accadimento e l’entità delle conseguenze.
◦ Rischio = Probabilità di accadimento x Entità delle
conseguenze.
Albero delle decisioni

Si può distinguere tra:


◦ problemi mono-obiettivo;
◦ problemi multi-obiettivo.

Nei problemi multi-obiettivo, i vari obiettivi devono


essere espressi nella stessa unità e devono essere
assegnati i fattori di peso che possono essere utilizzati
per una loro combinazione.

Successivamente le variabile decisionali richiedono una


definizione e deve anche essere data una quantificazione
dei loro range di valori accettabili.
Applicazione della metodologia FTA allo studio di
un semplice sistema

Infine devono essere definiti e individuati i risultati


associabili alle decisioni, rappresentati da eventi che
possono accadere proprio come conseguenza di una
decisione presa.

Ogni decisione sarà caratterizzata sia da una probabilità


di accadimento sia da una quantificazione anche
economica delle conseguenze.
Regole di calcolo

Visto che i metodi FTA e ETA si basano su delle


regole di teoria degli insiemi, viene riportata di
nella slide successiva una tabella di riepilogo.

L’applicazione di tali formule consente di


determinare le probabilità di accadimento
associate ai nodi degli alberi.
Regole di calcolo
Riferimenti bibliografici

 NASA Office for Safety and Mission Assurance, Fault


Tree Handbook with Aeropace Applications, 2002.
 B. M. Ayyub, R.H. McCuen, Pobability, statistics, &
reliability for engineers, CRC Press, New York 1997.
 C. Smith, B. O’ Connor, Probabilistic risk assessment
for the international space station, Furtron, Washington,
DC 2001.
 USA Nuclear Regulatory Commission, Fault Tree
Handbook - NUREG 0492, 1981.
Bibliografia
Lorenzo Fedele, Luciano Furlanetto, Daniele Saccardi «Progettare e
Gestire la manutenzione», McGraw-Hill, 2003, ISBN:
9788838662393
Luciano Furlanetto, MANUALE DI MANUTENZIONE DEGLI
IMPIANTI INDUSTRIALI E SERVIZI, Franco Angeli Editore
(esaurito)
Altro materiale non riconducibile al titolare di diritti di autore
Università degli Studi di Genova
DIME
Dipartimento di Ingegneria meccanica, energetica,
gestionale e dei trasporti

Manutenzione degli impianti industriali

Metodi di analisi di affidabilità


Progettazione e gestione della Manutenzione
Agenda

Prima parte

 Metodi di analisi di affidabilità:


 FMEA (Failure Effect Analysis)
 FMECA
 LCCA (Life Cycle Cost Analysis)
 HAZOP (Hazard and Operability Analysis)
 FTA (Fault Tree Analysis) ed ETA (Event Tree analysis)

Seconda parte

 Progettazione e gestione della manutenzione


Introduzione

FMEA è l’acronimo di Failure Effect Analysis: analisi dei


modi di guasto e degli effetti.
E’ un approccio di tipo qualitativo che ha tre obiettivi:
◦ individuare ed analizzare tutti i guasti potenziali associati a un
certo sistema, valutandone anche gli effetti;
◦ identificare le azioni volte ad eliminare o ridurre in modo
sensibile i guasti del sistema e le conseguenze indesiderate
associate;
◦ documentare il sistema da un punto di vista funzionale in fase
progettuale sia di esercizio
Sviluppato dalla Nasa intorno al 1950 per il progetto
Apollo, utilizzato successivamente in ambito
manifatturiero
Introduzione

A causa dell’attività di standardizzazione a cui è


stata soggetta nel corso degli anni si caratterizza da
varie normative di riferimento.

Le principali restano comunque:


◦ la MIL-STD-1629 (A) del Dipartimento della
Difersa degli Stati Uniti d’America (US DoD) e la
SAE J1739 della Society of Automotive Engineers.
Introduzione

La FMEA permette di valutare il comportamento di un


sistema, gerarchicamente scomposto in livelli di
dettaglio, per comprenderne le modalità di guasto e
tutte le cause che portano alla crisi di un componente o
addirittura dell’ intero sistema.

Il bottom-up, partire dal dettaglio per andare a livelli più


alti è normalmente la prassi per la conduzione di questa
analisi, tuttavia capita alcune volte di usare un approccio
top-down ribaltandone la logica.
Introduzione

La FMEA si applica principalmente in tre casi:

A. Nuovi progetti, nuove tecnologie, nuovi processi: dove


l’obiettivo è quello di avere una visione completa del
progetto

B. Modiche a progetti o processi esistenti: dove ci si focalizza


sulle modifiche al progetto o processo e sulle interazioni
relative a tali modifiche

C. Impiego di un progetto o processo esistente in un nuovo


ambiente, contesto operativo o applicazione:dove si prevede
l’impatto di nuove condizioni operative su un sistema
esistente.
Introduzione

L’oggetto della FMEA è la definizione del problema


e consiste nello stabilire un livello di risoluzione per
l’analisi e per la descrizione delle condizioni al
contorno.

Si parte dalle caratteristiche del sistema analizzato


ed al livello di precisione richiesto del progetto per
passare poi alle condizioni del contorno che sono
costituite da interfacce del sistema con i processi e i
sistemi esterni.
Introduzione

Con FMEA si arriva alla costruzione di un albero di


sistema (Figura 1, slide successiva), all’interno del
quale i rami sono rappresentati da funzioni, modi di
guasto ed effetti di guasto, strutturati ed articolati, in
modo da eliminare o ridurre le possibili omissioni,
soprattutto in quei casi in cui le dimensioni del
sistema siano molto rilevanti.
Introduzione

 Figura1
Introduzione

Vengono individuate 4 fasi successive:


1. Definizione del problema oggetto di studio: prima viene
individuato l’ambito dello studio. Poi verrà definito i confini
del problema per poter determinare le interfacce presenti
che permettono di arrivare a conclusioni corrette e
realmente utilizzabili;
2. Istituzione di un gruppo di lavoro eterogeneo: personale di
manutenzione e di produzione, il facilitatore del metodo, il
personale di programmazione e schedulazione delle
risorse ed il progettista;
3. Esecuzione delle analisi: dove è il facilitatore che effettua
l’analisi dei dati e dirige l’attività di brain-storming;
4. Documentazione dei risultati: è l’attestazione del lavoro
svolto.

La FMECA è un processo di analisi dinamico ed iterativo,


sottoposto ad attività di aggiornamento e di verifica
dell’adeguatezza delle soluzioni prescelte.
MAGEC

Deriva dalla FMECA ed è un metodo di classificazione ed


elaborazione delle informazioni sui componenti critici,
consentendo di pianificare gli interventi ad essi associati;
Si fonda sul recupero delle esperienze individuali del gruppo
di lavoro in merito all’argomento oggetto dello studio.

Le 4 macroattività principali dell’analisi:


◦ Selezione delle macchine critiche;
◦ scomposizione delle macchine critiche;
◦ individuazione delle modalità di guasto e analisi della
criticità;
◦ analisi delle cause del guasto e individuazione dei
componenti critici.
MAGEC

Vi sono due principali momenti di realizzazione del


MAGEC:
◦ nella prima fase vengono creati i gruppi;
◦ nella seconda fase il gruppo estende la propria
conoscenza maturata sul sistema e sulle sue criticità a
tutti gli operatori di produzione che sono interessati.

Il MAGEC è un metodo che guida alla individuazione


dei guasti, relativi ad una macchina o un sistema
durante il suo esercizio, con un approccio razionale e
selettivo nella definizione delle politiche manutentive
più opportune.
MAGEC

Il modello MAGEC è più rapido e meno oneroso


del FMECA, il quale richiede un dettaglio ed una
profondità non sempre necessari per i fini che si
perseguono.

Il MAGEC individua le aree con margine di


miglioramento sia tecnico che economico,
associando a ciascuna criticità riscontrata anche le
modalità di eliminazione o riduzione del problema.
Glossario della FMEA

 Al fine di avere una terminologia condivisa e consolidata


fra i partecipanti vengono costruite alcune tabelle
standard

 La definizioni presentate di seguito (Tabella , slide


successiva) sono state tratte dalla normativa MIL-STD-
1629 (A).
Glossario della FMEA

 Tabella 1
Glossario della FMEA

 Tabella 1b
Glossario della FMEA

 Functional Block Diagram -FBD (diagrammi a blocchi


funzionali), Fig. 2, permette ai sistemi complessi di
arrivare ad una maggiore chiarezza.
 Fig. 2:
Diagramma di flusso della FMEA
L’analisi FMEA viene rappresentata tramite diagrammi a blocchi
(Fig. 3).
Fig. 3:
Diagramma di flusso della FMEA

Fondamentale è :
◦ l’assegnazione della categoria di severità, il cui fine è
l’individuare le azioni correttive;
◦ la modalità di propagazione del guasto, al fine di
salvaguardare il sistema nel suo complesso
Tabella 2:
Analisi delle criticità - Criticality Analysis

Ogni eventuale guasto identificato nella FMEA viene


individuato con l’analisi della criticità, attraverso un’indice
che deriva da una combinazione di severità e probabilità
di accadimento a partire da dati disponibili
Nella sezione 102 della normativa MIL-STD-1629 (A)
viene descritta l’analisi di criticità e si forniscono criteri
per la caratterizzazione della frequenza di guasto, il primo
legato a un approccio qualitativo (Tabella 3) e il secondo
legato a un approccio più quantitativo (Tabella 4, illustrata
nella slide 29)
Analisi della criticità

 Tabella 3
Analisi della criticità

Fattori correttivi:
b: indica la probabilità condizionata che l’effetto di guasto
risulterà nella classificazione della criticità identificata, dato
l’accadimento del modo di guasto; in altre rappresenta il
giudizio dell’analista;
a: indica la frazione del tasso di guasto (l p) di un
componente del sistema, corrispondente al livello di
scomposizione più dettagliato, relativo a uno specifico modo
di guasto che dovrà essere valutato dall’analista e registrato;
t: indica il tempo operativo espresso in ore o in numero di
cicli operati di un’apparecchiatura per singola missione, dovrà
essere derivato dalla definizione del sistema e riportato sui
tabulati.
Analisi della criticità

Numero di criticità per modo di guasto Cm: indica la frazione del


numero di criticità di un apparecchio o di un componente
dovuto a uno dei suoi modi di guasto
Cm = balPt
Numero di criticità della parte o delle apparecchiatura Cr: indica
il numero di guasti del sistema di uno specifico tipo dovuti ai
modi di guasto dell’unità considerata. Lo specifico tipo di
guasto del sistema è espresso da una classificazione della
severità per i modi di guasto di una unità. Per una singola
missione e per una particolare classificazione della severità, il
Cr di una unità è la somma dei valori Cm per una certa
classificazione di severità e può essere calcolato nel seguente
modo:
Cr=S j n=1(balPt)
Analisi della criticità

La matrice di criticità (Fig. 4) fornisce una visione dei


modi di guasto che sono stati analizzati e permette di
avere una mappatura dei valori Cm e Cr, facilitando
anche la definizione della priorità di un intervento. Nella
normativa MIL-STD-1629 (A), la matrice della criticità è
stata costruita tenendo conto sia della classificazione di
severità (Tabella 2 -categorie severità) sia della
probabilità di accadimento dei modi di guasto (Tabella 3
- livelli A-E di probabilità).
Analisi della criticità

 Figura 4
Risk Priority Number - RPN

Indica il livello di importanza di una criticità

Si esprime come prodotto di tre fattori:


◦ occorenza (Occurrence - O): indica una stima della frequenza
con cui una specifica causa di guasto si manifesterà
durante la vita del sistema;
◦ severita (Severity - S): indica una stima della gravità della
peggiore conseguenza potenziale;
◦ rilvabilità (Detectability - D): indica una stima della facilità con
cui un guasto può essere riscontrato in modo diretto:
◦ Risk Priority Number = O x S x D
Risk Priority Number

> RPN:
◦ > sarà la criticità a cui esso è riferito;
◦ > è la priorità d’intervento

Varia fra 1 e 1000, in quanto a ciascuno dei tre fattori è


associata una scala di valori da 1 a 10, tale valorizzazione
è presente nella normativa SAE J1739 (Tabelle 4, 5, 6).

La definizione delle singole classificazioni per i tre fattori


devono essere condivise dal gruppo.
Risk Priority Number - RPN

 Tabella 4
Risk Priority Number - RPN

 Tabella 5

5
Risk Priority Number - RPN

6
 Tabella 6
Esempi di modulistica utilizzata nell’analisi
FMEA/FMECA

Tabelle previste nella normativa MIL-STDE-1629 (A)


(Tabelle 7 e 8)

Nella scheda FMECA vi saranno 2 sezioni:


◦ classificazione della criticità del sistema;
◦ azioni correttive per la riduzione dell’indice di criticità
determinato.
Esempio 1 (tabella 7)
Esempi di modulistica utilizzata nell’analisi
FMEA/FMECA

 Esempio di tabella (Figura 5) prevista dalla normativa


SAE J1739
 Figura 5
Applicazione della metodologia

La stima del tempo per un’analisi FMECA è presente


nella normativa DOE-HDBK-1100-96

In generale si usano le durate riportate nella Tabella 9

Tabella 9:

9
Applicazione della metodologica FMECA

Anche se l’utilizzo degli strumenti informatici aiuta lo


svolgimento dell’analisi FMECA, il brain-storming è la
base per la sua conduzione grazie alla quantità di
informazioni che riesca a far scaturire.
Riferimenti bibliografici

 MIL-STD-1629 (A) Military standard procedures for


performing a failure modes, effect and criticality analysis,
USA Department of Defense, 1989.

 Draft proposal from the SAE J1739 Main Working


Committee, SAE Publications, 2000.

 L. Furlanetto, Manuale di manutenzione degli impianti


industriali e servizi, Franco Angeli, Milano, 1998.
Life Cycle Cost Analysis - LCCA

L’analisi del costo del ciclo di vita ha l’obiettivo di


scegliere l’alternativa che comporta il minore impiego di
risorse e costi
Si basa sul fatto che un prodotto, nel corso di tutto il
suo ciclo di vita, deve essere in grado di soddisfare il
cliente (life cycle for customer satisfaction)
La LCCA valuta:
◦ i costi di acquisizione, esercizio e manutenzione fino
a quelli di dismissione (Figura slide successiva);
◦ rapporta l’investimento iniziale con i risparmi futuri,
tenendo conto degli aspetti finanziari.
Lyfe Cycle Cost Analysis - LCCA
Life Cycle Cost Analysis - LCCA

Ogni alternativa:

◦ è comprensiva di tutte quelle azioni presenti


all’interno del ciclo di vita (Figura slide successiva) di
quel progetto, dal suo concepimento alla sua
dismissione finale;

◦ dovrebbe garantire il minimo livello di performance


richieste.
Life Cycle Cost Analysis - LCCA
Lyfe Cycle Cost Analys - LCCA

Con questa metodologia:


◦ si possono valutare progetti strutturali, finalizzati
alla realizzazione di un edificio, per arrivare a
scegliere quello a cui è associato il più basso costo
del ciclo di vita;
◦ per stabilire una priorità nell’allocazione dei fondi
rispetto ad numero di possibili investimenti di
capitale fra diversi progetti in presenza di limitate
risorse e budget.
Lyfe Cycle Cost Analysis - LCCA

Basati sulle stesse classi di costo e di risparmio, e riferiti


ad uno stesso orizzonte temporale troviamo tre indici:

 SIR (Savings-to-Investment Ratio);

 AIRR (Adjusted Internal Rate of Return);

 NS (Net Savings).
Lyfe Cycle Cost Analysis - LCCA

 Gli indici AIRR, SIR e NS sono supplementari al calcolo del


LCC.
 AIRR e SIR sono utili per arrivare ad una classificazione di
progetti indipendenti ed effettuare una scelta in caso di
budget limitato per un solo progetto.
 NS permette di scegliere fra diverse alternative il progetto
migliore in termini di costi.

 Il payback period , molto usato in economia, viene usato per


capire il tempo di recupero di un investimento iniziale; a
differenza della LCCA ignora i costi e i risparmi che si
verificano successivamente al pareggio dell’investimento
(raggiungimento del payback) ed, inoltre non considera le
distinzioni fra alternative di progetto.
Lyfe Cycle Cost Analys - LCCA

La LCCA, viene usata per valutare alternative di progetto, metodi


alternativi di realizzazione, schemi di supporto alternativi; questa analisi
si può articolare in 10 passi principali,Tabella 10, sotto illustrata

10
Life Cycle Cost Analysis - LCCA

Si procede a:

◦ definire il problema o il progetto e gli obiettivi


connessi;
◦ definire i requisiti da utilizzare nel modo di costo;
◦ raccogliere i dati storici;
◦ definire il calendario dell’analisi;
◦ sviluppare la stima e l’analisi dei risultati
Life Cycle Cost Analysis - LCCA

Una corretta applicazione della metodologia LCC


consentirà di:

◦ prevedere le future risorse necessarie;


◦ influenzare positivamente la fase di ricerca e sviluppo
del progetto e tutte le decisioni da prendere durante
le fasi di progettazione preliminare;
◦ supportare la futura pianificazione strategica e la
definizione del budget.
Life Cycle Cost Analysis - LCCA

Limitazioni dell’analisi:
◦ approssimazioni in quanto stime e valutazioni sono
effettuate all’inizio della vita di un progetto;

◦ ciclo di vita prestabilito;

◦ il costo legato all’esecuzione di una analisi LCC non è


sempre giustificato;

◦ vi può essere una elevata sensibilità dei risultati


dell’analisi LCC nei confronti di modifiche alla
specifiche iniziali del progetto.
Life Cycle Cost Analysis - LCCA

Durante un’analisi LCC è possibile incorrere in alcuni errori.


Le ragioni di tali errori possono essere riconducibili a:

◦ omissione di dati;
◦ mancanza di struttura sistemica di analisi;
◦ errata interpretazione dei dati;
◦ errato impiego delle tecniche di analisi e di stima;
◦ concentrazione di eventi sbagliati o insignificanti;
◦ errori nella valutazione della incertezza;
◦ errori nel controllo del lavoro;
◦ errati valori nei parametri utilizzati nel calcolo dei costi.
Life Cycle Cost Analysis -LCCA

Nella figura sottostante si nota che, al termine della fase di


ricerca e sviluppo e appena prima dell’avvio della fase di
produzione o realizzazione del progetto, una percentuale
elevata, circa il 95% del costo cumulato del ciclo di vita, sia
già stato stabilito.
Struttura e riflessioni sugli elementi di costo

 La LCCA considera ogni costo che si manifesta durante


il ciclo di vita di un sistema, cercando di evidenziare
quale sia la scelta migliore fra alternative di sviluppo e
realizzazione.
Elementi di debolezza:
◦ La LCCA non è una scienza esatta, quindi gli esperti devono
adattare impostazioni generali a casi specifici;
◦ i risultati sono sempre esprimibili in stime;
◦ difficoltà a determinare l’accuratezza delle stime fatte;
◦ difficoltà a conoscere, nella costruzione dei modelli LCC, gli
elementi di costo;
◦ necessità di adattare un modello alla realtà cui si riferisce per
aumentarne l’utilità;
◦ necessità di definire uno scenario di vita del sistema analizzato.
Struttura e riflessioni sugli elementi di costo

Nonostante i punti deboli, il metodo consente di condurre


un’analisi strutturale, le quali devono essere basate su uno
schema di riferimento che tenga conto di tutte le possibili
categorie di costo (Figura sottostante).
La documentazione della LCCA e la terminologia
da usare

 Elenco degli elementi di una LCCA che necessitano di


una documentazione completa:
1. Descrizione del progetto
informazioni generali;
tipo di decisioni da prendere;
vincoli.
2. Alternative
descrizione tecnica;
razionalizzazione delle alternative;
considerazioni non monetarie.
Continua
La documentazione della LCCA e la terminologia
da utilizzare

3. Parametri comuni
periodo di studio;
data di inizio del ciclo di vita del sistema;
data di inizio della fase di esercizio del sistema;
tasso di sconto;
modalità di trattamento della inflazione;
ipotesi operative.
4. Dati di costo e fattori relativi
costi di investimento;
costi operativi;
costi di utilizzo delle utilities;
temporizzazione dei costi;
fonti dati di costo,
valutazione della incertezza.
Continua
La documentazione della LCCA e la terminologia
da usare

5. Calcoli
attualizzazioni;
calcolo di tutti i costi del ciclo di vita;
calcolo degli indici economici supplementari ( SIR, NS, AIRR).
6. Interpretazione
risultanze derivanti da confronti di LCC associati ad
alternative distinte;
valutazione della incertezza;
risultanze delle analisi di sensitività.
7. Risparmi o costi non monetari
descrizione degli intangibili.
8. Altre considerazioni
annotazioni.
9. Raccomandazioni
La documentazione della LCCA e la terminologia
da utilizzare

Al termine di uno studio LCC, verrà realizzato un


report contenente i risultati associabili a ogni singola
alternativa.

Di seguito è riportato un glossario contenente termini


e definizioni di uso comune nelle analisi LCC; messo è
presente all’interno del Manuale 135 del National
Institute of Standars and Technology (NIST) degli Stati
Uniti d’America, il quale costituisce un riferimento di
primaria importanza in analisi di questa natura.
La documentazione della LCCA e la terminologia
da utilizzare

 Tabella 11
La documentazione della LCCA e la terminologia
da utilizzare

 Tabella 11
La documentazione della LCCA e la terminologia
da utilizzare

 Tabella 11
Le regole della LCCA

Tramite la matematica finanziaria è possibile calcolare il


valore futuro di una somma di denaro investita a un
certo tasso d’interesse

Supponiamo che una somma iniziale P0 sia investita per t


anni ad un tasso d’interesse i.

In un anno il reddito dovrebbe essere iP0 e sommandolo


all’importo iniziale ci dovrebbe fornire:
P1= P0 + i P0 = P0 (1 + i )
Le regole della LCCA

 Dopo t anni, la somma futura composta dovrebbe


essere:
Pt = P0 (1 + i ) t

 Viceversa se conosciamo P1 e i possiamo F determinare


P0 :
P0 =Ft / (1 + i )
Le regole della LCCA

Il tasso di sconto è un tasso d’interesse che rende


l’investitore indifferente al fatto che l’ammontare delle
varie somme di denaro ricevute è avvenuto in tempi
diversi

Il tasso di sconto d è utilizzato come il tasso di interesse


i nella determinazione del Present Value (PV), di una
somma di denaro ricevuto o pagato in un certo istante
futuro nel tempo.
PV = Ft / (1 +d) t
Le regole della LCCA

E’ possibile schematizzare le formule di attualizzazione e i fattori di


sconto che si possono utilizzare nei vari casi (Tabella 12, sotto
illustrata)
12
Le regole della LCCA

La formula generale da utilizzare nel calcolo del Present


Value del LCC è dunque data:

LCC = S N t=0 Ct/(1 + d) t


nella quale:
◦ LCC = costo totale in PV associabile ad una
alternativa;
Le regole della LCCA

◦ Ct = somma, associabile all’anno t, di tutti i costi


rilevanti, inclusi i costi iniziali e futuri, meno qualsiasi
cash flow positivo;
+
◦ N = numero di anni nel periodo di studio;
◦ d = tasso di sconto utilizzato per riportare i cash flow
al valore attuale.

Una espressione semplificata per il calcolo del LCC può


essere:
Lcc = I + Repl - Res + E + W + OM&R
Le regole della LCCA

LCC = costo totale in PV associabile a una certa


alternativa;
I = costi di investimento in PV;
Repl = costi di rimpiazzo del capitale in PV;
Res = valore residuo in PV a cui sono sottratti i costi
di dismissione;
E = costi di energia in PV (eventuale);
W = costi di acqua in PV (eventuale);
OM&R = costi operativi, di manutenzione e
riparazione in PV.
Le regole della LCCA

In una analisi LCCA devono essere inclusi solo i


contributi di costo che risultano esser rilevanti nelle
decisioni e che sono significativi rispetto alla decisione
dell’investimento da effettuare.
Sono rilevanti quei costi che cambiano da una
alternativa di progetto a un’altra, mentre sono
significativi quando essi sono abbastanza consistenti da
rendere credibile una differenza nel costo del ciclo di
vita associato a una alternativa di progetto.
I costi affondati (sunk cost) dovrebbero essere esclusi da
una valutazione di tipo LCC.
Le misure supplementari di una analisi LCC: NS,
SIR, AIRR, Payback

Di seguito vengono riportate le formule delle principali


misure economiche che possono essere considerante
parti integranti del metodo di analisi del costo del ciclo
di vita; quando la sola determinazione LCC non sia
sufficiente e l’utilizzo di altri indicatori sia di notevole
supporto alle decisioni.
Net Savings- NS

NS è una variante di Net Benefits (NB) associabile alle


performance economiche di un progetto.

Con NS si calcola la somma netta attualizzata che si


aspetta di risparmiare nel caso base considerato per un
progetto e del LCC associabile a una alternativa:
NS = LCCBaseCase - LCCAlternative
Net Savings - NS

Se NS è > 0 risulterà che l’alternativa sarà più


conveniente del caso di base.

In caso di più alternative per uno stesso progetto, quella


con il LCC più basso presenterà anche il > valore di NS.

La formula generale per il calcolo Ns:


◦ NSA:BC = S N t=0 St/(1 + d) t - S N t=0 DIt/(1 + d) t
Net Savings - NS

Dove:

◦ NSA:BC = NS espresso in PV, della alternativa (A)


rispetto al caso di base (BC);
◦ St = risparmi nei costi operativi nell’anno t, associati
all’alternativa;
◦ Dit = costi di investimento addizionali riferiti
all’anno t, associati all’alternativa;
◦ t = anno (0 è il Base Year);
◦ d = tasso di sconto;
◦ N = numero di anni del periodo di studio.
Savings-to-Investment Ratio- SIR

Il SIR misura la prestazione economica associabile a una


alternativa di progetto che esprime in forma di
rapporto la relazione fra risparmi e costi di
investimento addizionali.

Se un progetto ha il SIR > 1.0:


◦ è conveniente e giustificato, rispetto a un certo caso
di base;
◦ Significa che i risparmi sono maggiori degli incrementi
di costo di investimento e che i risparmi netti saranno
maggiori di 0.
Savings-to-Investment Ratio-SIR

La formula generale per la determinazione del SIR è riportata di


seguito:
◦ SIRA:BC = S N t=0 St/(1 + d) t / S N t=0 DIt/(1 + d) t
Dove:
◦ SIRA:BC = rapporto fra risparmi attualizzati e costi di
investimento addizionali dell’alternativa rispetto al caso di base;
◦ St = risparmi nei costi operativi nell’anno t, attribuibili
all’alternativa;
◦ Dit = costi di investimento addizionali riferiti all’anno t, associati
all’alternativa;
◦ t = anno (0 è il Base Year);
◦ d = tasso di sconto;
◦ N = numero di anni del periodo di studio.
Questa misura economica è utile quando si vuole valutare una
singola alternativa di progetto rispetto a un caso di base o per
classificare alternative di progetto indipendenti.
Adjusted Internal Rate of Return - AIRR

L’AIRR misura l’efficienza dei costi e viene determinato


rispetto ad un Base Case di riferimento
L’AIRR viene confrontato con il Minimum Acceptable
Rate of Return (MARR), che coincide con il tasso di
sconto utilizzato in un’analisi LCC.
Se l’AIRR è:
◦ > MARR il progetto sarà economicamente
giustificato;
◦ = al tasso di sconto, i risparmi eguaglieranno i costi, e
il progetto sarà neutro
Adjusted Internal Rate of Return - AIRR

La determinazione dell’AIRR può essere fatta con la


seguente formula:
◦ AIRR = (1 + r) x (SIR) 1/N _ 1
dove:
◦ r = tasso di reinvestimento;
◦ N = numero di anni del periodo di studio

Il calcolo del AIRR richiede quello preliminare del SIR


Payback

Vi sono due misure del Payback:


◦ Simple Payback (SPB) e Discounted Payback (DPB).
◦ Entrambi questi indici misurano il tempo necessario per coprire i
costi d’investimento iniziali
La formula per la determinazione del payback è riportata di seguito:
S Y t=1 (St - Dit) / (1 + d) t > = Di0
dove :
◦ y= durata minima del cash flow netti futuri dovranno essere
accumulati in modo da controbilanciare i costi di investimento
iniziali;
◦ St = risparmi nei costi operativi nell’anno t, attribuibili
all’alternativa di progetto;
◦ Dio = costi di investimento iniziali associati all’alternativa di
progetto;
◦ It = costi di investimento addizionali riferiti all’anno t, oltre ai
costi di investimento iniziale;
◦ d = tasso di sconto
Nel caso il tasso di sconto d sia 0 allora y è il SPB, mentre se il
tasso di sconto è diverso da 0 y è il DPB.
Payback

Riepilogo delle misure economiche considerate in una LCCA ( compreso il


LCC), esprimendo un giudizio riguardo alla loro influenza sulle decisioni
che devono essere prese (Tabella 13, sotto illustrata).
Riferimenti bibliografici

 MIL-HDBK-276-1/2, United States Department of


Defense, 1984.
 DOE G 430.1, 1997.
 NIST Handbook 135, Life Cycle Costing Manual for the
Federal Energy Management Program, 1995.
 H.P. Barringer, D.P. Weber, Life Cycle COST Tutorial, Fifth
International Conference on Process Plant Reliability, New
York 1996.
 L. Fedele, M. Tronci, Analisi del costo del ciclo di vita di
un impianto industriale per la definizione della politica di
manutenzione ottimale, ANIMP, Roma 2003.
Bibliografia
Lorenzo Fedele, Luciano Furlanetto, Daniele Saccardi «Progettare e
Gestire la manutenzione», McGraw-Hill, 2003, ISBN:
9788838662393
Luciano Furlanetto, MANUALE DI MANUTENZIONE DEGLI
IMPIANTI INDUSTRIALI E SERVIZI, Franco Angeli Editore
(esaurito)
Altro materiale non riconducibile al titolare di diritti di autore
Università degli Studi di Genova
DIME
Dipartimento di Ingegneria meccanica, energetica,
gestionale e dei trasporti

Manutenzione degli impianti industriali

Metodi di analisi di affidabilità


Progettazione e gestione della Manutenzione
Agenda
Progettazione e gestione della Manutenzione

Introduzione
Indici di manutenzione
Gestione dei piani di manutenzione
Lo sviluppo organizzativo della manutenzione
La fabbrica snella
Manutenzione produttiva (TPM)
Obiettivi
La gestione della manutenzione e delle imprese
L’ingegneria della manutenzione
La struttura organizzativa ed i principali ruoli
Manutenzione programmata e officine
Il mercato della manutenzione
Tipologie di prestazioni per la manutenzione
Il Global Service di manutenzione
Introduzione
Il ruolo dell’ingegneria di manutenzione

1. Si configura come un’insieme di


conoscenze e competenze finalizzate a
ridurre il costo della manutenzione,
migliorare la produttività e la sicurezza
degli impianti.
Ingegneria di
2. Occorre: Manutenzione

Trasformare la manutenzione da centro


di costo a centro di profitto.
Creare consenso intorno all’approccio
manutentivo.
Dispone di strumenti gestionali ed
operativi per monitorare i processi
organizzativi del sistema di Committente
manutenzione (ricambi, personale,
attrezzature etc).
Introduzione
Le fasi di implementazione delle attività
Introduzione
Gli obiettivi da raggiungere

L’ingegneria di manutenzione si prefigge


l’obiettivo di ridurre i costi di
manutenzione dell’impianto, ottimizzare
l’organizzazione e la gestione della
manutenzione, nonché la giacenza a
magazzino dei ricambi.
La riduzione dei costi di manutenzione,
è intesa nel suo significato più ampio,
comprendente i costi di manutenzione
“diretti” (manodopera e ricambi) ed i
costi di mancata produzione (perdite di
disponibilità, efficienza, e qualità) degli
impianti.
L’ingegneria di manutenzione interviene
sulle modalità di esecuzione delle attività
da parte del personale, e sulle modifiche
impiantistiche al fine di aumentare la
sicurezza e rispettare i requisiti imposti
per legge, fungendo da interfaccia con la
funzione Sicurezza
Indici di manutenzione

Nella gestione di un processo manutentivo è possibile


adottare alcuni indicatori chiave, denominati anche KPI (Key
Performance Indicator), i quali secondo quanto previsto nella
normativa UNI 10388, consentono di:
◦ rappresentare un evento in modo obiettivo e preciso;
◦ controllare il grado di raggiungimento degli obiettivi;
◦ comparare unità distinte della stessa impresa o tra
imprese o settori diversi
L’analisi degli indici può essere articolata su un:
◦ asse temporale: si valuta l’evoluzione del sistema, attraverso
il controllo di indici che vengono calcolati nel tempo;
◦ asse spaziale: si valutano i valori degli indici, calcolati in uno
stesso istante, ma relativi a posizioni differenti
Indici di manutenzione

Gli indici possono essere classificati anche in due


macro-categorie:
Indici particolari: riferiti ad alcuni aspetti specifici del
sistema e sono calcolati a partire da valori relativi a
un particolare settore del sistema;
Indici globali: danno indicazione complessiva dello stato
del sistema nella sua interezza.

La definizione di un indice segue un diagramma di


flusso che può essere rappresentato come nella figura
illustrata alla slide successiva (Figura A).
Indici di manutenzione

 Figura A
Indici di manutenzione

L’uso degli indici può essere sistematico, saltuario o


basato su esigenze transitorie, in relazione agli obiettivi
da perseguire.

Il loro utilizzo può diventare uno strumento chiave nel


supporto delle decisioni.
Alcuni esempi di indici

La norma UNI 10388 distingue in:


◦ indici generali;
◦ indici per la valutazione dell’efficienza;
◦ indici per la valutazione dell’efficacia;
◦ indici per la valutazione della struttura organizzativa;
◦ indici per la valutazione della sicurezza.

Lo scopo è quello di arrivare ad una gestione


consapevole attraverso un’analisi di dati su indici comuni
e confrontabili.
Alcuni esempi di indici

L’obiettivo degli indici generali di manutenzione è quello


di leggere alcuni fenomeni di interesse generale
orientati alla definizione di un “cruscotto direzionale”
valido come supporto alle decisioni del management;
Gli indici di efficienza, come quelli di efficacia sono
utilizzati per comprendere quanto e in che modo la
gestione corrente del sistema manutentivo è in grado di
perseguire gli obiettivi prefissato.
Gli indici di struttura organizzativa sono dedicati alla
valutazione delle modalità di gestione dei ruoli e delle
competenze delle risorse umane presenti in azienda.
Per gli indici per la valutazione della sicurezza, la
normativa UNI 10388 rimanda ad altre normative
relative alle statistiche degli infortuni sul lavoro (UNI
7249).
Alcuni esempi di indici
La determinazione di questi indici, espressi come rapporto fra due
grandezze, passa attraverso una definizione precisa di tali grandezze, e per
questo la normativa UNI 10388 presenta un glossario di riferimento (Tabella
sottostante):
Alcuni esempi di indici

A partire da tali definizioni si può procedere alla determinazione degli


indici dei quali si riportano di seguito alcuni esempi in Figura B e Figura C.
Figura B:
Alcuni esempi di indici

Figura C:
Alcuni esempi di indici

E’ possibile definire anche altri indici (Tabella sottostante),


purché questi presentino i requisiti di significatività e
univocità del giudizio.
Overall Equipment Effectiveness - OEE

L’OEE fornisce una valutazione dei livelli prestazionali


delle singole aree all’interno di una azienda.

E’:
◦ un indice di tipo globale usato per stabilire il livello
prestazionale di una linea produttiva;
◦ un parametro utilizzato per eseguire una
classificazione e una quantificazione delle principali
cause di perdita di efficienza;
◦ una misura del valore aggiunto apportato da una
macchina o da un impianto alla produzione.
Alcuni esempi di indici

E’ dato dal prodotto di 3 fattori che sono:

◦ Disponibilità - A: data dal rapporto fra il tempo in cui


l’impianto o la macchina può essere utilizzato e il
tempo totale

◦ Livello di prestazioni (efficienza produttiva) - E: data dal


rapporto fra la produzione reale e quella teorica

◦ Livello di qualità della produzione - Q: data dal rapporto


fra la differenza tra la produzione totale e quella
scartata e quella totale.
Alcuni esempi di indici

In un’espressione OEE sarà dato da:


◦ OEE = A x E x Q

dove:
◦ A = (Durata della produzione pianificata - Durata del
downtime non previsto)/Durata della produzione
pianificata.
◦ E = (Produzione reale)/(Produzione teorica)
◦ Q = (Produzione totale – Produzione
scartata)/(Produzione totale).
Alcuni esempi di indici

Sono state individuate 6 principali cause di decremento


dell’OEE:

◦ perdite per rotture/gusti;


◦ perdite per aggiustaggi e set-up troppo lunghi;
◦ perdite per velocità ridotta;
◦ perdite per microfermate e macchine che funzionano
a vuoto;
◦ perdite per difetti nella qualità;
◦ perdite per instabilità del processo produttivo al suo
avviamento.
Alcuni esempi di indici

A partire dalla determinazione dell’OEE, e conoscendo le cause di


perdita, si potrà anche determinare il fattore che penalizza l’indice
complessivo intervenendo in modo mirato per conseguire il
miglioramento.
Ciascuna delle cause indicate incide su uno dei tre fattori (Figura D).
Figura D:
Overall Craft Effectiveness - OCE

L’OCE è un indice applicato alla valutazione della


produttività della manodopera.

Come l’OEE, anche L’OCE viene calcolato come


prodotto di tre fattori:
◦ Fattore efficacia- craft utilization (CU): indica l’utilizzo
percentuale della manodopera e corrisponde alla
disponibilità del sistema.
◦ Fattore efficienza - craft performance (CP): indica la
prestazione percentuale della manodopera ed è
corrispondente al livello di prestazioni del sistema.
Overall Craft Effectiveness - OCE

◦ Fattore qualità - craft service quality (CSQ): è il fattore


relativo ai metodi di lavoro e al livello qualitativo ed è
analogo al livello di qualità della produzione di un
sistema
Si può scrivere:
OCE = CU x CP x CSQ

 Alcune espressioni per il calcolo dei fattori percentuali:


 CU (%) = [ Tempo produttivo impiegato/ Tempo
produttivo disponibile ](pagato) x 100
 CP (%) = [ Tempo totale pianificato/ Tempo totale
richiesto ] x 100
Overall Craft Effectiveness - OCE

Come nel caso dell’OEE, si può stabilire un valore minimo


accettabile dell’OCE che risulta essere del 50%; difficilmente
il fattore CU supera il 60% e questo penalizza l’indice nel suo
complesso (Tabella sottostante).
Alcune regole pratiche legate alla valutazione degli
indici

La misura delle prestazioni di un sistema, anche sotto


forma di indici, è un elemento essenziale per il controllo
e per gli di obiettivi di miglioramento.

Concetti fondamentali legati alla gestione di un sistema:


◦ conoscenza del sistema, delle sue funzioni e limiti;
◦ definire una metrica per il suo controllo;
◦ comprendere le derive di sistema per individuare le
azioni correttive.
Alcune regole pratiche legate alla valutazione degli
indici

Regole per la realizzazione di un sistema di indici:


◦ motivare l’organizzazione sull’importanza di un
sistema di misura delle prestazioni basato su indici di
controllo;
◦ definire un cruscotto di poche misure mirate,
comprensibili e delle quali sono note le motivazioni;
◦ definire un cruscotto chi dia una valutazione
d’insieme del sistema analizzato;
◦ scegliere il livello di sintesi degli indici in funzione del
livello organizzativo che li utilizzerà;

Continua
Alcune regole pratiche legate alla valutazione degli
indici

◦ determinare sia quello che si misura sia il modo in cui


si decide cosa misurare, importante il ricorso al
workshop per decidere e verificare le scelte di
misura;
◦ fare corrispondere ad ogni misura un target di
riferimento;
◦ tenere conto della variabile naturale di ogni processo,
spesso legata al fattore tempo;
◦ verificare la chiusura del ciclo di controllo attraverso
una verifica delle azioni svolte per migliorare le
prestazioni.
Considerazioni sull’uso degli indicatori in regime di
outsourcing

Il fenomeno organizzativo dell’outsourcing si sta sempre


di più diffondendo nel corso degli anni, anche secondo
le logiche del global service, in cui si sancisce la
responsabilizzazione dell’assuntore nei confronti del
committente sui risultati che sarà in grado di realizzare
Gli aspetti che presentano maggiore criticità:
◦ la focalizzazione è impostata su risultati orientati in
senso storico anziché fornire supporto tempestivo
alle decisioni;
◦ l’attenzione è rivolta ai risultati conseguiti piuttosto
che all’efficacia e all’efficienza delle attività e dei
processi aziendali
Continua
Considerazioni sull’uso degli indicatori in regime di
outsourcing

◦ La misurazione dei risultati avviene in termini


economico-finanziari piuttosto che operativi,
◦ l’attenzione è verso aspetti tangibili più che verso
quelli intangibili;
◦ la visione è rivolta al breve termine.

Per colmare queste deficienze dei sistemi tradizionali si


sono sviluppate tecniche basate su misure economiche
e con indicatori fisico-tecnici supportati da un sistema
di reporting.
Considerazioni sull’uso degli indicatori in regime di
outsourcing

Un elemento cruciale nella misura delle prestazioni di


un servizio di manutenzione attraverso l’uso di indici è
quello di limitare il numero di misure da sottoporre al
committente.

La scelta di questi indici è utile:


◦ al committente per verificare e controllare le
prestazioni dell’assuntore;
◦ all’assuntore per una corretta gestione del bene,
perché il monitoraggio degli indicatori deve
evidenziare gli elementi critici e i processi su cui
sarebbe meglio intervenire con attività di
miglioramento.
Riferimenti bibliografici

Norma UNI 10388 -Manutenzione/Indici di manutenzione,


Ottobre 1994.
W. Iannacone, Ingegneria di manutenzione, Franco Angeli,
Milano, 1998.
Ronaldi, Gli indicatori di Prestazione, Atti XX Congresso
AIMAN, 2003.
R.W. Peters, Measuring Overall Craft Effectiveness (OCE), The
Maintenance Excellence Institute, 2003.
S. Dunn, Condition Monitoring in the 21st century, Using
Performance Measures to Drive Maintenance Improvement,
2002.
L. Fedele, M. Tronci, La valutazione del risultato nei progetti di
manutenzione, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”,
2003.
Gestione dei piani di manutenzione

La pianificazione è un processo che si pone fra la fase di


progettazione della manutenzione e quelle di
esecuzione degli interventi.
Requisiti della pianificazione:
obiettivi precisi e realizzabili con l’indicazione delle
azioni necessarie per realizzarli.
deve essere integrata e risultare dalla simultanea
considerazione della situazione ottimale;
deve essere articolata su vari livelli temporali, in
modo che ciascuno piano di livello superiore fissi gli
obiettivi che devono essere realizzati con il piano di
livello inferiore.
Gestione dei piani di manutenzione

 Un esempio di pianificazione la troviamo in Figura E:


Gestione dei piani di manutenzione

La pianificazione è un processo aziendale che coinvolge al


suo interno varie funzioni:
◦ ingegneria di manutenzione;
◦ gestione sul lungo periodo delle risorse umane;
◦ uffici acquisti;
◦ logistica dei materiali;
◦ uffici programmazione operativa e schedulazione della
produzione;
◦ formazione del personale.
Gestione dei piani di manutenzione

Il processo di pianificazione comprende anche delle attività di


supporto:
◦ definizione delle politiche di manutenzione ottimali;
◦ individuazione delle parti d’usura delle macchine;
◦ standardizzazione e normalizzazione delle parti costituenti
il sistema;
◦ definizione/aggiornamento del budget dei lavori;
◦ definizione/aggiornamento dei piani di manutenzione;
◦ analisi dei rinnovi.
Gestione dei piani di manutenzione

La fase di pianificazione deve prevedere con congruo


anticipo i vari interventi manutentivi collocati in spazi
temporali diversi e perseguire due obiettivi:

1. efficienza degli interventi e quindi economicità del


piano;

2. efficacia degli interventi e quindi adeguatezza del


piano rispetto alle esigenze del sistema
La pianificazione dei fabbisogni

La pianificazione è un processo di determinazione e


attribuzione delle risorse su un lungo periodo.
L’obiettivo è far coincidere la capacità disponibile con quella
richiesta.
Se infatti quest’ultima risulta maggiore della disponibile, le
sole cose da fare sono:
◦ ottenere maggiore capacità manutentiva ;
◦ ridurre i fabbisogni e quindi gli interventi;

Se la capacità manutentiva necessaria sarà minore a quella


disponibile, la direzione dovrà effettuare le eventuali
rettifiche per farle collimare.
Piani di manutenzione

 In base alla normativa UNI 10366, il piano di


manutenzione programma nel tempo gli interventi,
individua e alloca le risorse necessarie.

 La suddetta norma indica alcuni criteri per poter


definire e quantificare le risorse necessarie,
controllandone i costi.
Manodopera per mestiere e professionalità

La prima classificazione è tra:


◦ interventi che possono essere svolti dagli stessi
conduttori del bene;
◦ interventi che devono essere svolti attraverso il
ricorso a specifiche competenze;
Ogni sistema ha le proprie schede di manutenzione
preventiva e a partire da queste si può facilmente
calcolare:
◦ il totale delle ore-uomo da allocare su un sistema
rispetto a un certo orizzonte temporale predefinito;
◦ l’elenco delle parti di ricambio e delle attrezzature
che dovranno essere impiegate, su un certo orizzonte
temporale
Attrezzature di supporto e di ispezione

Con questo termine si definiscono tutti quei strumenti


necessari per eseguire gli interventi di manutenzione,
per effettuare il monitoraggio delle condizioni di
funzionamento delle macchine e degli impianti, per
condurre l’ispezione periodica sul loro stato di
conservazione.

La Figura E, riporta una tabella per la compilazione dei


piani di manutenzione.
Attrezzature di supporto e di ispezione

Figura E:
Giustificazione degli interventi di manutenzione da
pianificare
Uno dei vincoli di un piano è l’economicità.
E’ necessario che gli interventi siano tutti effettivamente necessari
e impostati in modo corretto.
La giustificazione oggettiva degli interventi deriva da una
dimostrazione della loro effettiva necessità.
La pianificazione deve provenire da una conoscenza di alcuni
indicatori, es.:
◦ età degli asset;
◦ tasso di guasto;
◦ MTBF;
◦ MTTR;
◦ andamento degli indici di performance degli asset;
◦ valore d’immobilizzo tecnico;
◦ costo di manutenzione correttiva;
◦ costo di manutenzione preventiva;
◦ costo totale di manutenzione/valore immobilizzo tecnico;
◦ tasso di utilizzo dell’asset.
Giustificazione degli interventi di manutenzione da
pianificare

L’elenco degli indicatori precedenti, consente di in primo


luogo di individuare gli elementi critici del sistema, ai quali
saranno associati interventi manutentivi di vario tipo e
onerosità, Figura F:
Giustificazione degli interventi di manutenzione da
pianificare

Può essere considerato il percorso logico:


◦ Selezione degli oggetti critici: confronto fra il valore
puntuale di un parametro dell’oggetto con il valore
medio di riferimento.
◦ Espressione delle soluzioni alternative: per ciascuno degli
oggetti critici saranno valutati i rapporto
costi/benefici associati alle possibili alternative di
intervento.
◦ Selezione dell’’alternativa migliore e stima dei benefici in
termini di incremento delle prestazioni affidabilistiche e di
economicità: tale determinazione potrà essere fatta
attraverso il metodo VAN (Valore Attuale Netto).
Il budget di manutenzione

Finalità del budget:


◦ valutare le previsioni di spesa per l’esercizio ;
◦ fornire un sistema per controllare i risultati
d’esercizio.

L’elaborazione del budget si basa sul piano dei conti


(contenente i costi relativi alle varie voci di spesa) e dei
documenti per la raccolta delle informazioni (UNI
10366).
Il budget di manutenzione

Il budget di manutenzione serve per prevedere la


gestione delle risorse e valutarne le caratteristiche.

E’ una frazione del più generale budget aziendale.

All’interno del budget di manutenzione ogni anno


vengono previsti i piani di manutenzione e i relativi
impegni di spesa e di risorse.

Il budget di manutenzione, infatti rappresenta la


quantificazione economica delle esigenze espresse dal
piano
Il budget di manutenzione

La creazione di un budget avviene:

◦ Fase tecnica: richiede l’esame di tutti gli aspetti tecnici


che derivano dai livelli di produttività previsti dai
programmi per ogni impianto.

◦ Fase economica: prevede di eseguire una valorizzazione


economica delle scelte operate, tenendo conto dei
fattori inflattivi dei costi unitari correnti, delle
variazioni organizzative ed in generali dei fattori che
influenzano i costi.
Pianificazione e project management

Lo sviluppo della pianificazione può avvenire attraverso


una logica di project management evolutivo.
Adottando questo assunto, la pianificazione è
concepibile come un grande progetto, al quale saranno
associati determinati ruoli, figure definite e particolari
metodi.
Nel caso della pianificazione di interventi onerosi, si
andrà a effettuare una pianificazione di progetti (figura
G) nella quale i grandi progetti di intervento sono
pianificati e posizionati sul calendario.
Ogni progetto avrà poi una propria struttura di
dettaglio (Work Breakdown Structure - WBS).
Pianificazione e project management

Figura G:
Pianificazione e project management

Ogni progetto sarà caratterizzato da:

1. una data di inizio e una di termine dei lavori;


2. una pianificazione e una schedulazione di dettaglio;
3. una quantificazione del budget necessario (derivante
dall’allocazione delle risorse);
4. alcuni stati di avanzamento;
5. un sistema di controllo dei costi rispetto al budget
prestabilito.
Pianificazione e project management

Il periodo di progetto e il rispetto della pianificazione


viene facilitato attraverso:
◦ una determinazione collettiva degli obiettivi;
◦ una definizione dei compiti da eseguire;
◦ una pianificazione e schedulazione dei compiti;
◦ una misurazione dell’avanzamento e della
performance con una metrica precisa;
◦ attuazione di misure correttive qualora l’avanzamento
non corrisponda ai piani;
◦ una verifica di compatibilità della schedulazione
relativamente all’allocazione delle risorse.
Pianificazione e project management

Il prospetto (Tabella sottostante), riepiloga gli strumenti e le


funzioni per la pianificazione e il controllo di un progetto, inserito
all’interno di un più generale processo di pianificazione.
La pianificazione degli approvvigionamenti di
materiali tecnici

Aspetto importante nell’ambito della pianificazione degli


interventi di manutenzione, sul lungo periodo, è quello
dell’approvvigionamento dei materiali che saranno utilizzati e
che possono essere classificati in due macrocategorie:
◦ parti di ricambio;
◦ materiali di consumo.
Nella pianificazione degli approvvigionamenti di materiali, si
tiene conto di due proprietà che possono essere così
definite:
◦ Criticità funzionale - f: tiene conto dell’importanza che una
parte di ricambio ha all’interno del ciclo produttivo.
◦ Criticità logistica - l: tiene conto della reperibilità di un certo
oggetto.
La pianificazione degli approvvigionamenti di
materiali tecnici

La conoscenza del piano principale di manutenzione


consente:
◦ di stabilire un programma di impiego dei materiali
tecnici,
◦ e di definire la pianificazione dei fabbisogni di materie
prime e di parti componenti, necessari per
l’esecuzione dei programmi di manutenzione
La pianificazione degli approvvigionamenti di
materiali tecnici

La gestione dei materiali tecnici ha tre obiettivi


principali:

a) garantire la disponibilità riducendo i tempi di


mancata produzione;

b) contenere le giacenze di materiali;

c) contenere i costi logistici.


La pianificazione degli approvvigionamenti di
materiali tecnici

Nella pianificazione dei fabbisogni dei materiali, la


soluzione gestionale è quella che permetta di avere tali
materiali dove sono necessari e nelle quantità richieste.
Il problema deve fornire risposta a due domande:
◦ quando emettere un ordine di approvvigionamento;
◦ quale deve essere la dimensione dell’ordine.

 I sistemi di gestione dei materiali, possono essere


classificati in due macrocategorie:
 gestione a fabbisogno: in modo da ridurre la giacenza
delle scorte e i relativi costi associati;
 gestione a scorta: in modo da evitare rotture di stock.
I conflitti potenziali di una pianificazione

Origini dei conflitti:


◦ conflitti sulla priorità dei progetti e interventi previsti
nella pianificazione;
◦ conflitti sulle procedure gestionali;
◦ conflitti sui compromessi tecnici, sulle specifiche
performance, su soluzioni e sui mezzi per ottenere
risultati tecnici soddisfacenti;
◦ conflitti sulle risorse umane;
◦ conflitti sui costi e sui budget parziali richiesti;
◦ conflitti sulla durata degli interventi.
I conflitti potenziali di una pianificazione

Le modalità per risolvere i conflitti:


◦ confronto diretto ed esplicito fra le posizioni in
disaccordo in modo da trovare un punto di incontro;
◦ compromesso, in modo da soddisfare entrambe le
parti;
◦ attenuazioni dei punti di disaccordo ed esaltazione
degli elementi condivisi;
◦ pressione, in modo da fare prevalere la propria
visione a scapito delle altre;
◦ rinuncia, recedendo da un disaccordo reale o
potenziale.
Le tecniche reticolari

Con le tecniche reticolari si possono ottenere vantaggi


nelle situazioni di progetti multipli:
◦ migliore pianificazione e successiva schedulazione
delle attività e previsione del fabbisogno di risorse;
◦ identificazione di schemi ripetitivi di pianificazione
validi per diversi progetti;
◦ possibilità di aggiornare il calendario delle attività
secondo le dipendenze dei vari progetti e i vincoli
delle risorse;
◦ possibilità di ottenere informazioni tempestive e
valide per una pianificazione multi-progetto.
Le tecniche reticolari

In una pianificazione della manutenzione e più in


generale in una situazione multiprogetto, le
interdipendenze di progetti e delle loro attività
costituenti possono derivare da:
◦ precedenze obbligate fra attività appartenenti anche a
progetti diversi;
◦ ricorso alle medesime risorse sia umane che materiali,
sempre e comunque limitate.
Le tecniche reticolari

In una pianificazione multiprogetto sono trascurati tutti


i compiti e le attività indirette questo perché:

◦ se i reticoli sono troppo dettagliati, il reticolo


integrato della pianificazione che ne deriva può
risultare eccessivamente oneroso e difficilmente
aggiornabile in tempo reale;

◦ sono necessarie procedure per eseguire una


elaborazione elettronica dei dati;

◦ tutti i responsabili di attività e gli utenti devono


essere ben addestrati
Project Evaluation and Review Technique - PERT

Il metodo PERT è una tecnica di progettazione,


pianificazione e controllo che serve a evidenziare le fasi
che compongono un piano, le loro reciproche influenze
e a localizzare tali fasi nel tempo.

Il PERT utilizza la rappresentazione grafica in cui


vengono evidenziate le varie attività collegandole con
legami tecnici e logici.
Project Evaluation and Review Technique - PERT

La pianificazione del progetto consiste nella


distribuzione delle sue attività costituenti che dovranno:
◦ essere omogenee;
◦ essere finite nel tempo;
◦ non essere ripetitive, il metodo non gestisce i loop;
◦ essere complesse o elementari a seconda del grado di
dettaglio con cui bisogna studiare il progetto;
◦ essere legate da vincoli temporali o logici.
Project Evaluation and Review Technique - PERT

Caratteristica di un’attività è la rappresentazione delle


precedenze, ovvero dell’ordine con cui le varie attività
devono essere svolte.
Ogni attività di durata D (figura H) può inoltre
presentare un scorrimento in avanti o indietro nel
tempo, tali grandezze sono determinabili definendo:
◦ primo inizio ES (minimo possibile)
◦ prima fine EF (minima possibile)
◦ ultimo inizio LS (massimo ammissibile)
◦ ultima fine LF (massima ammissibile)
Di conseguenza si possono definire gli scorrimenti
(slack) come LS-ES=LF-EF.
All’interno di un diagramma reticolare si potranno
individuare attività che non ammettono scorrimenti,
denominate attività critiche.
Project Evaluation and Review Technique - PERT

Il ritardo di una attività critica produce un ritardo di


tutto il progetto.
Intervenendo sulle durate delle attività costituenti il
percorso critico si può ridurre la durata totale del
progetto; a ogni attività e a ogni sua variazione è
comunque associabile un costo, dove è possibile
determinare il costo totale del percorso.
Figura H:
Critical Path Method - CPM

Metodo sviluppato da Kelly e Walker per la gestione


della manutenzione degli impianti chimici.

E’ orientato verso la gestione del percorso critico e alla


riduzione della durata totale.

Simile al metodo PERT, ciò dovuto a uno scambio di


elementi che vi è stato dall’uno all’altro.
Teoria dei rinnovi

La durata di vita di un sistema può essere valutata sotto


tre forme:
◦ durata fisica: corrisponde alla durata consentita dai
processi di degrado fisico;
◦ durata funzionale: corrisponde alla durata consentita
da un lato dalla durata fisica e dall’altro dai processi di
obsolescenza;
◦ durata economica: valutata sulla capacità dell’item di
garantire un reddito e/o di possedere un valore
economico.
Teoria dei rinnovi

La sostituzione in un oggetto avviene per due principali


motivi:
◦ ragioni tecniche: degrado fisico e obsolescenza;
◦ ragioni economiche: costi globali del ciclo di vita,
comprensivi dei livelli di prestazione, troppo elevati.

Gli esperti di manutenzione sostengono che la


sostituzione di un asset prima che esso sia guasto
(manutenzione preventiva) possa essere più
conveniente che sostituirlo quando questo sia guasto.
Teoria dei rinnovi

Esistono due requisiti per determinare il momento


ottimale di sostituzione:
◦ quando l’asset si deteriora nel corso tempo sia nel
suo stato sia nelle prestazioni che può fornire;
◦ il costo della manutenzione preventiva deve essere
minore del costo di manutenzione correttiva.

Se questi requisiti sono soddisfatti, la manutenzione


preventiva è conveniente e si può calcolare l’istante
ottimale per l’esecuzione della sostituzione.
Teoria dei rinnovi

Per determinare l’istante ottimale di sostituzione di un


asset, l’analista deve partire da una modellizzazione del
tasso di guasto, considerando per esempio una
distribuzione di Weibull, per la quale si indica il fattore di
forma b e il fattore di scala h.

Come detto la seconda cosa da verificare è che il costo


Cp di una sostituzione preventiva, sia inferiore al costo
di sostituzione a guasto Cu.
Teoria dei rinnovi

Se queste due considerazioni sono soddisfatte, allora si può


rappresentare il costo per unità di tempo operativo rispetto
al tempo operativo, Figura I:
Teoria dei rinnovi

Il costo unitario totale sarà dato dalla somma dei due


contributi di costo, e nel caso siano state rispettate le due
condizioni suddette, la funzione del costo totale presenterà
un minimo corrispondente all’istante ottimale.
CPUT (t) = Total Expected Replacement Cost per Cycle /
Expected Cycle Length
= Cp x R (t) + Cu x [1 - R(t) ] / S to R (s) ds
dove R (t) è la funzione dell’affidabilità dell’asset e CPUT (t)
è il costo unitario totale variabile rispetto al tempo.
Dalla determinazione del minimo della espressione
precedente, si individua l’istante ottimale di sostituzione:
 [CPUT(t) ] /  t = 0
Riferimenti bibliografici

 L. Furlanetto, Manuale di manutenzione degli impianti industriali e


servizi, Franco Angeli, Milano, 1998.
 Reliasoft Corporation, Optimum Preventive Maintenance
Replacement Time for a Single Component,, Volume 1, Issue 1,
Quarter 2, 2000..
 R.D. Archibald, Project Management, La gestione di progetti e
programmi complessi, Franco Angeli, Milano, 2002.
 W. Iannacone, Ingegneria di manutenzione. Innovazione tecnologica e
reingegnerazione del processo manutentivo, Franco Angeli, Milano,
1998.
 J.G. Correll, N. W. Edson, Capacity management e schedulazione,
Franco Angeli, Milano, 1990..
 A. Pereschi et al., Logistica integrate e flessibile, progetto Leonardo,
2002.
Bibliografia
Lorenzo Fedele, Luciano Furlanetto, Daniele Saccardi «Progettare e
Gestire la manutenzione», McGraw-Hill, 2003, ISBN:
9788838662393
Luciano Furlanetto, MANUALE DI MANUTENZIONE DEGLI
IMPIANTI INDUSTRIALI E SERVIZI, Franco Angeli Editore
(esaurito)
Altro materiale non riconducibile al titolare di diritti di autore
Università degli Studi di Genova
DIME
Dipartimento di Ingegneria meccanica, energetica,
gestionale e dei trasporti

Manutenzione degli impianti industriali

Metodi di analisi di affidabilità


Progettazione e gestione della Manutenzione
Lo sviluppo organizzativo della manutenzione

Le tre fasi dello sviluppo organizzativo della


manutenzione sono:

1. Forte manutenzione accentrata con all’interno una


struttura di ingegneria volta alla pianificazione degli
interventi e del miglioramento della manutenzione
(figura L, slide successive).Si possono individuare
quattro canali linfatici:
il canale dell’industria siderurgica;
il canale dell’industria chimica;
il canale della petrolchimica;
il canale dell’industria aeronautica
Continua
Lo sviluppo organizzativo della manutenzione

2. Graduale diffusione della cultura manutentiva e dal


superamento degli ambiti rigidi della specializzazione
manutentiva. Altro elemento di questa fase è il
progressivo trasferimento delle risorse manutentive
nei reparti produttivi.

3. Si focalizza sul core business ed esternalizza i servizi


non strategici fra i quali è la manutenzione, che ha lo
scopo di ridurre la complessità ed aumentare la
flessibilità.
Lo sviluppo organizzativo della manutenzione

Conseguenze organizzative di questa organizzazione:

◦ la produzione si appropria della cultura manutentiva a


livello gestionale e manageriale, a livello operativo con
il trasferimento dell’automanutenzione al controllore;

◦ nascono imprese che forniscono global service di


manutenzione che hanno il core business nella
manutenzione: è la nascita dell’imprenditività di
manutenzione;

◦ sviluppo dell’ingegneria di manutenzione.


Lo sviluppo organizzativo della manutenzione

Figura L:
La fabbrica snella

 La fabbrica snella ha cambiato il mondo industriale, lo ha


rivoluzionato, come ha rivoluzionato la manutenzione.
Attraverso la tecnologia e l’informatica negli anni’ 70 si
affermano sistemi basati sull’automazione flessibile.
Si diffonde la cultura delle macchine e dell’automazione
in alternativa al lavoro umano.
Il CIM (computer Integrated Manufacturing) avrebbe
dovuto anticipare le derive ed intervenire in caso
d’emergenze per la correzione delle varianze.
La fabbrica snella

 Questi sistemi sono risultati, però:


 complessi;
 Inaffidabili

 Equazione vincente:
 meno investimenti sulle risorse tecnologiche;
 maggiore coinvolgimento e valorizzazione delle
risorse invisibili (quelle intellettuali degli operatori).
Concetti di base

 Principi fondamentali della fabbrica snella:

una gestione per processi;


struttura produttiva;
polivalenza dei ruoli operativi;
lavoro in team;
adozione delle tecniche produttive giapponesi (TQM,
TPM, JIT, PDM);
adozione del Kaizen (miglioramento continuo diffuso
e sistematico).
Concetti di base

La struttura per processi, fondamento della fabbrica


snella, porta ad un’articolazione in unità produttive
elementari: minifabbriche.

Le minifabbriche sono unità organizzative che svolgono


attività di trasformazione fisico-chimica di
materiali/prodotti. Sono caratterizzate da un processo
di trasformazione omogeneo in cui è possibile definire
input-output, le risorse necessarie e i relativi costi,
fornitori e clienti interni ed esterni all’azienda (figura
M ).
Concetti di base

Figura M:
Concetti di base

Per identificare le ”minifabbriche” all’interno di


un’azienda è necessario identificare una catena di unità
produttive elementari costituenti il core business
aziendale (figura sottostante).
Concetti di base

All’interno di una minifabbrica oltre che attività di tipo


trasformativo, vi sono attività operative di supporto,
quali:
◦ attività manutentive;
◦ attività di movimentazione;
◦ attività di stoccaggio;
◦ attività di controllo qualità etc.
Logiche di funzionamento

Le logiche di funzionamento sono basate sull’unità


produttiva elementare minifabbrica. Le sue
caratteristiche sono:
◦ gestire segmenti omogenei di processo appartenenti
all’asse portante del processo produttivo;
◦ i confini tra le minifabbriche devono garantire
univocità di responsabilità nei confronti del cliente in
termini di volumi, qualità e promise;
◦ ricercare la linearità dei flussi produttivi, evitando
uscite/rientri di un prodotto da/verso uno stesso
ente.
Logiche di funzionamento

Nella definizione della minifabbrica devono essere


considerati:
◦ l’aspetto impiantistico/tecnologico:
dislocazione degli impianti;
dimensione dell’area;
complessità degli impianti e della tecnologia;
◦ l’aspetto organizzativo:
entità organici;
entità dei costi di trasformazione gestiti;
entità e complessità delle responsabilità gestionali
assegnate;
adeguatezza e professionalità delle risorse
Logiche d’impostazione della fabbrica snella

La minifabbrica, è in più generale la fabbrica snella, è


un’organizzazione in cui tutti i fattori produttivi sono
certificati.

Gli elementi più rilevanti che caratterizzano la


minifabbrica e quindi la fabbrica snella e che ne
permettono la progettazione sono:
◦ la dimensione della minifabbrica;
◦ le specifiche di scambio;
◦ la certificazione dei fattori;
◦ l’organizzazione
Dimensione della minifabbrica

La minifabbrica è una struttura a due livelli, dove il suo


responsabile (owner di processo) deve poter esercitare
una gestione a vista.
◦ La fabbrica snella è una realtà organizzativa in cui gli
operatori sono indipendenti e autocertificanti le
proprie attività;
◦ l’owner di processo deve essere in grado di gestire a
vista interfacciandosi direttamente con gli operatori
senza intermediazioni che rendono la gestione meno
immediata.
Specifiche di scambio

La definizione delle specifiche di scambio caratterizza


una gestione per processi seconda la logica cliente-
fornitore.

Prima vengono individuati i clienti dell’unità,


successivamente i fornitori.

Per entrambi verranno definite le specifiche di scambio.


Struttura della minifabbrica

Per organizzare la minifabbrica è necessario procedere


individuando le singole postazioni da presidiare e quindi
all’organizzazione del lavoro.
Ciò che qualifica la progettazione della fabbrica sono gli
aspetti di qualità e l’autocertificazione da parte degli
operatori delle variabili critiche.
E’ necessario verificare che ogni attività sia visibile da
almeno una postazione di lavoro; si dovrà quindi
individuare le certificazioni da eseguire all’interno di
ogni singola postazione.
Questo comporta definire la catena delle variabili
critiche che influiscono sulla qualità del prodotto
all’interno della minifabbrica (specifiche di scambio) e
nell’intera unità produttiva.
Struttura della minifabbrica

La fase successiva è la verifica delle coerenze tra


responsabilità e certificazione.

Fra i parametri da certificare devono essere individuati


quelli che maggiormente influenzano la soddisfazione
del cliente finale.

A conclusione bisogna individuare le risorse necessarie


al corretto presidio delle postazioni, definirne il
contenuto ed infine procedere ai processi formativi,
addestrativi ed alla scelta dei criteri di compensazione.
Certificazione dei fattori

La certificazione è un valore diffuso che fa parte degli


elementi che qualificano culturalmente questa
organizzazione.
Affinchè la minifabbrica sia organizzata in modo da poter
certificare i fattori produttivi è necessario suddividere il
processo in attività elementari non ulteriormente
suddivisibili.
Si identificano quindi i parametri che caratterizzano quell’
attività o segmento di processo. E’ allora possibile individuare
i punti di certificazione e quindi definire:
◦ strumenti di misura dei parametri;
◦ strumenti di controllo dei risultati;
◦ criteri e strumenti di certificazione dei parametri
Empowerment

Per Empowerment s’intende:


◦ valorizzazione di tutte le risorse intellettuali presenti
in azienda, a tutti i livelli e nel senso dello sviluppo
contestuale di polivalenza e specializzazione.

La fabbrica snella è quella che riesce in ogni postazione


di lavoro:
◦ ad anticipare le derive;
◦ a certificare i parametri critici;
◦ mettere a frutto l’esperienza di ogni specifica
postazione di lavoro.
Certificazione dei fattori

Un manager industriale ha così sintetizzato il passaggio


ad un’azienda in cui siano applicati i principi
dell’empowerment:
◦ abbiamo affittato le braccia, disponiamo di una testa
gratis: usiamola.
TPM: concezione

La manutenzione produttiva (TPM) secondo la norma UNI è


l’insieme di azioni volte alla prevenzione, al miglioramento
continuo e al trasferimento di funzioni elementari di
manutenzione al conduttore dell’entità, avvalendosi del
rilevamento di dati e dalla diagnostica sull’entità da
manutenere.
Secondo il pensiero più recentemente diffuso, che è fusione
di concetti e prassi giapponesi ed elaborazioni occidentali, si
può anche sintetizzare la manutenzione produttiva in quattro
principi (figura N):
◦ prevenzione o ingegnerizzazione del processo
manutentivo;
◦ ottimizzazione del ciclo di vita della macchina o impianto;
◦ miglioramento continuo diffuso (Kaizen);
◦ automanutenzione.
Concezione

Figura N:
Concezione

Obiettivi della manutenzione produttiva:


◦ Sul piano organizzativo l’obiettivo è il trasferimento
all’interno del processo produttivo di tutte le
responsabilità.
◦ Sul piano tecnologico l’obiettivo è il miglioramento
della capacità della macchina di lavorare a qualità.
La pianificazione della manutenzione porta con sé alla
programmazione delle risorse di mano d’opera
interna o di terzi, ad una coerente gestione dei
ricambi a livello di riordino o a fabbisogno a seconda
della prevedibilità dei consumi e dei costi dei materiali
e della loro gestione.
L’ingegneria di manutenzione comporta l’analisi
sistematica dei guasti per rimuovere le cause o per
tarare o modificare i criteri di intervento.
Contenuti della manutenzione produttiva

Nei progetti applicativi della Manutenzione Produttiva, possiamo


individuare 4 fasi (figura O):
1. la prima fase, pregiudiziale all’applicazione del TPM, è la pulizia
della macchina;
2. la seconda fase comprende l’analisi delle criticità che fa
emergere interventi migliorativi di varia entità. Si passa quindi
alla pianificazione degli interventi di automanutenzione da
assegnare al conduttore e degli altri interventi manutentivi ed
ispettivi;
3. la terza fase è costituita dalla messa a punto di sistemi
informatici, di tecnologie di diagnostica tecnica e strumenti di
altra natura atti alla gestione ingegnerizzata ed integrata della
manutenzione;
4. la quarta fase è il consolidamento della manutenzione
produttiva ovvero una gestione dei piani di intervento ciclico e
a seguito ispezione, una sistematizzazione e diffusione del
miglioramento continuo, finalizzata all’ottimizzazione del ciclo
di vita del bene.
Contenuti della manutenzione produttiva

Figura O:
Contenuti della manutenzione produttiva

Fondamentale per la progettazione della manutenzione


produttiva è la metodologia MAGEC, che permette:
◦ l’individuazione e la formalizzazione
dell’automanutenzione;
◦ l’analisi delle cause di fermate, perdite di produzione,
e relative proposte di miglioramento di varie entità;
◦ la messa a punto di piani di manutenzione preventiva
ed ispettiva con l’individuazione di possibili interventi
di diagnostica tecnica.
La pulizia e la prima messa a punto della macchina
(5 S) - Automanutenzione

La prima attività è la pulizia iniziale e la messa a punto


della macchina.

Questa prima parte dell’applicazione del TPM coincide


con le famose 5 S dei giapponesi:
◦ Seiri: rimozione (dello sporco e delle cose inutili);
◦ Seiton: organizzazione (del posto di lavoro);
◦ Seiso: pulizia (più fine);
◦ Seiketsu: sistematizzazione (degli interventi);
◦ Shitsuke: disciplina (nell’inseguire gli interventi e nel
mantenere ordine e pulizia).
La pulizia e la prima messa a punto della macchina
(5 S) - Automanutenzione

Se necessaria è fondamentale per l’attuazione del TPM.

Essa si può articolare:


1° passo: pulizia iniziale;
2° passo: eliminazione delle cause, dei problemi e
delle zone inaccessibili;
3° passo: standard di lubrificazione ed ispezione;
4° passo: ispezione generale.
La pulizia e la prima messa a punto della macchina (5 S)
- Automanutenzione

E’ riportato uno
standard tipico di
ispezione-
lubrificazione-
pulizia (figura a
fianco) dove appare
come tutti gli
interventi di
automanutenzione
definiti a seguito
della prima fase
della manutenzione
produttiva sono
codificati in modo
puntuale.
Miglioramento delle “performance” e
pianificazione della manutenzione (MAGEC)

Il miglioramento delle performance e la pianificazione


della manutenzione sono propri della fase
dell’applicazione del MAGEC.

La metodologia è strumento insostituibile per


l’implementazione della manutenzione produttiva, nella
figura P sono riportate proposte migliorative di un team
interfunzionale che ha applicato il MAGEC.
Miglioramento delle “performance” e pianificazione
della manutenzione (MAGEC)

Figura P:
Miglioramento delle “performance” e
pianificazione della manutenzione (MAGEC)

La fase di primo miglioramento della performance


prevede un’analisi sistemica delle criticità e
l’elaborazione di proposte migliorative.

Questa attività è svolta attraverso un’attività di team


interfunzionali che useranno tutte le informazioni
presenti in fabbrica.

Questa fase è quella che permette di passare ad una


manutenzione che anticipa i comportamenti delle
macchine che è il problema centrale della
manutenzione.
Miglioramento delle “performance” e pianificazione
della manutenzione (MAGEC)
Miglioramento continuo

E’ la fase del consolidamento, nella quale


l’automanutenzione diventa una prassi consolida.
Il comportamento delle macchine è sotto controllo, è
disponibile un sistema informativo per il monitoraggio
dal sistema.
L’unità produttiva elementare è in continua tensione
verso la rimozione di tutte le cause di spreco: l’owner di
processo, le staff e gli operatori di produzione
combattono giorno dopo giorno per l’eccellenza,
traguardo a portata di mano, ma mobile e irraggiungibile.
Miglioramento continuo

Obiettivo importante è l’ottimizzazione del ciclo di vita


del bene (life cycle cost).
Esistono due aspetti connessi con “lcc”:
◦ organizzativo, riguardante l’integrazione organizzativa
tra unità produttiva elementare, ingegneria di
manutenzione, funzioni di progettazione e
costruzione nuovi impianti.
◦ tecnico, riguardante il flusso delle informazioni ed i
collegamenti tra le diverse funzioni coinvolte in
queste decisioni che sono riportati in figura Q.
Miglioramento continuo

Figura Q:
Lo sviluppo delle attività

Il progetto MP è un’articolazione di attività secondo la


tabella riportata in figura R

L’obiettivo è far migliorare le performance del sistema


produttivo agendo sul miglioramento delle prestazioni a
qualità dei mezzi di lavoro.
Lo sviluppo delle attività

La tabella mette in evidenza gli obiettivi temporali:


◦ eliminazione del degrado;
◦ eliminazione dei guasti;
◦ eliminazione delle anomalie;
◦ incremento della produttività.

E le tipologie di attività:
◦ miglioramento dell’efficienza delle macchine;
◦ pianificazione della manutenzione;
◦ automanutenzione:
◦ prevenzione della manutenzione;
◦ formazione ed addestramento
Lo sviluppo delle attività

Figura R:
Metodo di lavoro

 Il progetto MP vuol dire un insieme di team


interfunzionali che operano con metodo.
 La MP rappresenta, sotto il profilo organizzativo, un
processo top/down, ossia un processo voluto ed
imposto dal top management per perseguire obiettivi di
miglioramento.
Si parla di commitment, come di creazione dei
prerequisiti organizzativi e culturali necessari allo
sviluppo della MP.
Significa creare la struttura organizzativa lungo la quale
possono fluire indirizzi top/down ed informazioni
bottom/up, ma soprattutto creare la sensibilizzazione
diffusa, la vision comune sulle opportunità che il
progetto MP può dischiudere.
Metodo di lavoro

Nelle esperienze di successo il processo di


sensibilizzazione procede “verso il basso” con iniziative
di comunicazione (riunioni, workshop) sistematiche e
ripetute che impegnano tutte le strutture organizzative
e che durano molti mesi.

Un esempio di programma addestrativo sulle 5 S è


riportato in figura S
Metodo di lavoro

Figura S:
Metodo di lavoro

Un’esempio di programma di lavoro relativo ad una macchina


di complessità medio/alta viene riportato nella figura
sottostante:
Conclusioni

Il successo della manutenzione è legato ad un’elevata


disponibilità tecnica dei macchinari e al basso costo globale
in termini di materiali, mano d’opera interna e di terzi, costi
indotti per perdite di produzione o degradi qualitativi.
La manutenzione produttiva nasce per volontà della
direzione aziendale secondo un processo top-down per
generare meccanismi di coinvolgimento e di partecipazione
diffusa.
Si autoalimentano per l’iniziativa autonoma di tutti i soggetti
organizzativi coinvolti, secondo una logica bottom-up con un
controllo dell’intero processo da parte della direzione
aziendale, ma, come appare dalla tabella (vedere la figura alla
slide successiva) tutte le funzioni aziendali rivolte alla fabbrica
sono coinvolte.
Conclusioni
Obiettivi

Obiettivi:

A. attenzione costante alla conservazione del


patrimonio impiantistico;

B. il miglioramento delle prestazioni;

C. crescita della disponibilità;

D. riduzione dei costi di manutenzione.


Obiettivi (A e B)

A) Attenzione costante alla conservazione del patrimonio


impiantistico

La conservazione del patrimonio impiantistico è uno degli


obiettivi più importanti che deve essere perseguito con
interventi tempestivi in ragione della necessità.
B) Il miglioramento delle prestazioni

La conservazione del patrimonio impiantistico deve esser


perseguita in un’ottica di continuo miglioramento e
adeguamento degli impianti alle esigenze qualitative e
quantitative in continuo cambiamento.
Obiettivi (C)

C) Crescita della disponibilità

La disponibilità è il rapporto tra le ore di marcia produttiva


di una macchina o di un impianto, in condizioni di rispetto
degli standards qualitativi e quantitativi, e il tempo di
esercizio programmato e atteso.

Questo è il parametro che dà la misura dell’efficacia


dell’azione manutentiva.
Obiettivi (D)

D) Riduzione dei costi di manutenzione

Al fine di contenere i costi, può essere utile terziarizzare


alcune attività manutentive.
La terziarizzazione è conveniente se preceduta e
accompagnata da una adeguata preparazione, altrimenti può
determinare impatti negativi sia sui costi della manutenzione,
sia sull’efficacia della stessa.
Per preparazione s’intende:
◦ preparare gli standard degli interventi;
◦ preparare i prezzari degli interventi. Il costo di ogni
intervento deve essere definito:
a corpo;
a misura.
La conduzione della macchina

La filosofia da eseguire è espressa da un’affermazione di


un operaio della Harley-Davidson:

◦ La macchina è mia e se qualcosa non funziona me ne


sento responsabile; devo tenerla lubrificata, pulita e
devo intervenire sulle guarnizioni di tenuta e sugli altri
punti critici prima che la macchina si blocchi.
La diagnostica

Consiste nell’effettuazione di ispezioni con l’ausilio di


strumentazioni anche sofisticate.

La conoscenza approfondita dello strumento,


l’esperienza e la consuetudine con le problematiche
tecniche degli impianti sono gli elementi che rendono
insostituibile questa funzione.
La gestione della manutenzione

Il fine è quello di gestire il difficile equilibrio tra le


esigenze di massimizzare la disponibilità degli impianti
con l’uso della leva manutentiva, e quelle di minimizzare
i costi di produzione.

Principali contenuti:
◦ preparazione delle attività assegnate al conduttore e
interpretazione dei dati ispettivi;
◦ preparazione dei lavori di manutenzione
programmata;
◦ approvvigionamento dei materiali.
La gestione delle imprese

La gestione ha il compito di:

◦ programmare l’intervento dei terzi in modo da


renderne l’impiego il più uniforme possibile;
◦ inquadrare la loro possibile utilizzazione entro gli
standards dei prezziari;
◦ evitare il più possibile il ricorso alla prestazione a
misura di tempo (constatazione).
La gestione delle imprese

I lavori affidati devono essere:

◦ ben individuati e circostanziati;

◦ descritti sotto l’aspetto tecnico e dei rischi specifici


che comportano;

◦ accettati dalle imprese di appalto ai massimi livelli di


responsabilità.
Il controllo dei costi

Conoscere i costi della manutenzione vuol dire


valutarne l’ incidenza su quelli di produzione e quindi di
assumere le decisioni più opportune.

Compito della gestione è fornire informazioni sulla


composizione dei costi, e in particolare:
◦ costi per intervento (commessa) come sommatoria
dei costi del personale sociale, delle prestazioni terzi,
dei materiali vari e dei ricambi;
◦ costi per singolo centro (articolati come sopra);
◦ costi totali (articolati come sopra).
L’ingegneria della manutenzione

I suoi compiti sono:


◦ progettare la manutenzione;
◦ promuovere il miglioramento continuo e la
formazione fare l’auditing sull’esecuzione della
manutenzione.

Progettare la manutenzione significa scegliere per le


macchine e per le apparecchiature di un impianto gli
approcci manutentivi più convenienti in relazione agli
obiettivi di disponibilità e di contenimento dei costi
globali della manutenzione.
L’ingegneria della manutenzione

Significa, ancora progettare gli strumenti operativi della


manutenzione:
i piani base della manutenzione con l’applicazione
delle metodologie corrette (MAGEC);
gli standard degli interventi e i prezzari per le
imprese;
il sistema informativo della manutenzione;
la gestione dei ricambi.
Le officine di manutenzione

Le logiche di sviluppo dell’organizzazione manutentiva


tendono a proiettare fuori dei siti produttivi i mestieri
specialistici e a favorire nel contempo l’acquisizione
delle conoscenze specialistiche da parte della
produzione.
Emerge il ruolo rinnovato della specializzazione di
officina:
◦ un po' meno riparazione, perchè si tenderà a farle
eseguire presso officine esterne;
◦ un po' più integrata nella squadra di produzione, con
la funzione di trasferimento del know-how
specialistico alla produzione e di miglioramento della
capacità di risposta ai guasti complessi.
La struttura organizzativa ed i principali ruoli

Vengono delineati ruoli e responsabilità relativi ad una


struttura tipo riguardante una realtà produttiva di
medio- grandi dimensioni.
Nello schema organizzativo della minifabbrica due staff
affiancano il responsabile con compiti di:
◦ controllo dei fattori produttivi;
◦ gestione della manutenzione.
Ruolo prevalentemente operativo viene attribuito alle
struttura di servizio esterne, la Manutenzione
programmata o di pronto intervento, che diventano i
“bracci armati” della manutenzione con compiti di
coordinamento e di razionalizzazione delle risorse
operative aziendali ed esterne.
La struttura organizzativa

Ad esempio vengono riportate le principali


responsabilità e attività delle funzioni operanti nella
minifabbrica e dei servizi manutentivi esterni ad essa,
perché si possa meglio comprendere il carattere
dell’intera architettura (figure T ed U).
La struttura organizzativa

Figura T:
La struttura organizzativa

Figura U:
Responsabile minifabbrica

Le responsabilità
◦ Conseguire le performance
◦ Adeguare il livello professionale delle risorse umane
◦ Perseguire il continuo miglioramento delle prestazioni dei
mezzi produttivi in termini di affidabilità e di utilizzo
◦ Migliorare la flessibilità e la capacità di prevenzione e di
reazione della minifabbrica a fronte di mutamenti ed eventi
perturbatori
◦ Assicurare l’adeguatezza e la corretta applicazione delle
prescrizioni e degli strumenti operativi nonché delle
norme sulla sicurezza e sull’ambiente
◦ Ottimizzare i costi di trasformazione del prodotto
attraverso la dinamica della gestione budgetaria.
Responsabile minifabbrica

Le attività:
◦ Predisporre, discutere e definire il budget dei costi, la
pianificazione della produzione, il piano delle migliorie
e le performance
◦ Esercitare il controllo gestionale attraverso gli
indicatori di efficienza, di costo, di affidabilità impianti
e di qualità
◦ Individuare gli assetti produttivi ottimali
◦ Sviluppare le capacità di prevenzione, di reazione e di
flessibilità del sistema produttivo etc
Controller
Le responsabilità
◦ Definire gli indici efficienziali del prodotto/processo.
◦ Conseguire il miglioramento continuo delle prestazioni dei mezzi
produttivi e delle risorse.
◦ Fornire le prescrizioni operative alle squadre e verificarne
l’osservanza applicativa.
Le attività
◦ Elaborare i budget mensili, annuali e pluriennali
◦ Definire il sistema di controllo dei fattori tecnico-produttivi
◦ Controllare l’andamento dei parametri tecnici di misura delle
performances qualitative, quantitative e tecnologiche
◦ Emettere rapporti periodici finalizzati, evidenziando gli
scostamenti dagli obiettivi
◦ Effettuare studi e/o collaborare a progetti per il continuo
miglioramento e aggiornamento del sistema produttivo
◦ Partecipare alla gestione delle controversie con i clienti etc
Gestione della manutenzione

Le responsabilità
◦ Migliorare l’affidabilità impiantistica in ottica di prevenzione
◦ Ottimizzare l’efficienza ed efficacia degli interventi di
manutenzione.
Le attività
◦ Preparare e fornire il quadro delle esigenze e delle previsioni ai
fini della stesura del budget di manutenzione
◦ Raccogliere e analizzare tutti gli elementi necessari per la
gestione dei costi e dei parametri di controllo della
manutenzione
◦ Aggiornare gli standard e i piani della manutenzione
◦ Analizzare i rapporti di ispezione e di pronto intervento
trasmessi dal capo turno, e individuarne gli interventi correttivi e
le priorità
◦ Curare, assieme all’ingegneria della manutenzione,
l’aggiornamento degli archivi tecnici della minifabbrica
◦ Provvedere all’addestramento e alla formazione del personale
operativo per gli aspetti ispettivi e manutentivi etc
Capo turno di produzione/capo squadra/team
leader

Le responsabilità
◦ Attuare i programmi produttivi di turno e gli obiettivi
di qualità e di costo.
◦ Garantire il corretto impiego e il mantenimento dei
mezzi affidati.
◦ Perseguire l’ottimale utilizzo delle risorse e della loro
professionalità.
◦ Garantire l’applicazione delle norme di sicurezza.
Capo turno di produzione/capo squadra/team
leader

Le attività
◦ Gestire il personale delle squadre affidategli
◦ Assicurare la copertura delle postazioni tecnologiche
◦ Fornire alla squadra le direttive e le informazioni
necessarie per svolgere l’attività produttiva in turno
◦ Predisporre gli impianti per ricevere gli impianti di
manutenzione programmata e assicurare la messa in
sicurezza dell’impianto
◦ Addestrare i conduttori per un costante
miglioramento della professionalità con particolare
riguardo alla manutenzione
◦ Relazionare il responsabile minifabbrica sugli
andamenti nel turno della produzione, della qualità,
delle fermate, del personale etc
Conduttore

Le responsabilità
◦ Realizzare il programma di produzione assegnato nei
modi e nei tempi prescritti
◦ Rispettate gli standards di qualità del prodotto
◦ Gestire tempestivamente le varianze
◦ Eseguire correttamente e tempestivamente gli
interventi manutentivi di competenza.
Conduttore

Le attività
◦ Condurre gli impianti e le macchine del segmento di
processo di competenza nel rispetto delle norme di
sicurezza;
◦ Effettuare la sostituzione, la messa a punto e la regolazione
di attrezzature, nonché la movimentazione dei materiali;
◦ Esercitare la sorveglianza continua su parti d’impianto o su
fasi del processo attraverso controlli routinari e attività di
ispezione e di minuto mantenimento prescritte;
◦ Alimentare adeguatamente i sistemi operativi-gestionali
(automatizzati e non) di propria competenza;
◦ A inizio e fine turno curare il passaggio di consegne e la
continuità operativa.
Manutenzione programmata e officine

Le responsabilità
◦ Programmare secondo priorità ed eseguire gli
interventi di manutenzione preventiva e le modifiche
impiantistiche richiesti dalla minifabbrica.
◦ Essere strumento di costante aggiornamento delle
professionalità manutentive operanti nella propria
organizzazione e nelle minifabbriche.
Manutenzione programmata e officine

Le attività:
◦ Concordare con le minifabbriche e la funzione
programmazione della produzione, il programma dei
singoli interventi di manutenzione preventiva
◦ Pianificare, in accordo con la minifabbrica, con le
officine e con gli Approvvigionamenti l’utilizzo delle
risorse e definire tempi, costi e modalità degli
interventi
◦ Fornire, su richiesta delle minifabbriche, risorse
integrative per l’esecuzione di interventi di emergenza
particolarmente complessi ed impegnativi
◦ Consuntivare tempi e costi degli interventi
◦ Realizzare le modifiche impiantistiche approvate etc
Ingegneria di manutenzione

Le responsabilità
◦ Essere il riferimento “culturale”di tutta
l’organizzazione manutentiva
◦ Definire e promuovere le politiche e le tecniche
manutentive più adeguate alla situazione produttiva,
anche tenendo conto delle tendenze evolutive del
mondo esterno
◦ Promuovere la standardizzazione dei sistemi gestionali
e informativi
◦ Promuovere costantemente il miglioramento
continuo.
Ingegneria di manutenzione

Le attività
◦ Effettuare il monitoraggio continuo del sistema
manutenzione per ricercare le criticità e proporne il
superamento
◦ Supportare le minifabbriche nell’azione di promozione,
sviluppo ed attuazione di modifiche impiantistiche che
permettono l’eliminazione delle criticità esistenti
◦ Promuovere la diffusione di metodologie e mezzi atti ad
aumentare l’efficienza e l’efficacia degli interventi
manutentivi
◦ Studiare e promuovere la standardizzazione dei ricambi
utilizzati e delle specifiche tecniche per il loro acquisto
◦ Coordinare con la funzione del Personale lo sviluppo della
professionalità e dei percorsi di carriera delle risorse
manutentive etc
Conclusioni

La struttura della minifabbrica è finalizzata a ricondurre


ad unità di decisioni, di responsabilità e operatività tutte
le attività produttive.

Viene valorizzato il nuovo modo di operare


nell’organizzazione, dove diventano prevalenti i
collegamenti funzionali tesi ad assicurare la continuità
dei processi che attraversano l’organizzazione.
Riferimenti bibliografici

 A. Baldin, L. Furlanetto, A. Roversi, F, Turco, Manuale della


manutenzione degli impianti industriali, Franco Angeli,
Milano, 1988.
Il mercato della manutenzione

In un mercato caratterizzato dalla competitività,


l’attenzione viene posto alle voci che concorrono alla
generazione del costo di prodotto.

I manager devono trovare soluzioni organizzative al fine


di razionalizzare la spesa.
Il mercato della manutenzione

Alcuni dati circa l’ammontare delle spese di manutenzione


nel mercato industriale possono dare un’idea della
dimensione del fenomeno (figura sottostante).
Il mercato della manutenzione

La valutazione delle voci che concorrono alla


formazione del costo di manutenzione è caratterizzata
da un’evoluzione continua.
La quota di manutenzione terziarizzate oggi varia tra il
10% e il 20% della spesa globale di manutenzione,
qualche anno fa non superava il 3%, 5% (figura
sottostante).
Il mercato della manutenzione

Partendo da industrie manifatturiere discrete ed andando


verso industrie a ciclo continuo di lavorazione l’intera
organizzazione della manutenzione riveste un ruolo
crescente con conseguente maggiore impatto in termini di
spesa (figura sottostante).
Il mercato della manutenzione

La figura V raffigura una situazione impiantistica “statica”


dove l’ottimo è rappresentato da un punto di massima
convenienza.
L’identificazione di un livello di manutenzione ottimale
passa attraverso l’analisi dei costi per la mancata
manutenzione, costi indiretti.
Costi diretti ed indiretti legati alla manutenzione
rappresentano quindi rispettivamente la punta e la parte
sommersa dello stesso iceberg.
Il mercato della manutenzione

Figura V:
Il mercato della manutenzione

La manutenzione di impianti industriali, quindi intesa


come il suo costo ed il livello di qualità del servizio
rappresentano due fattori di forte attenzione.

La ricerca di nuove soluzioni è volta ad ottenere una


manutenzione capace di offrire un livello di servizio
maggiore insieme ad una economicità dello stesso.
Tipologie di prestazioni per la manutenzione

La quota di manutenzioni terziarizzate varia oggi dal


10% al 20% e presenta un trend in aumento del 7%
annuo.
Interventi a constatazione

La constatazione consiste nella fornitura di mano


d’opera da parte di terzi dotati di attrezzature proprie e
con responsabilità di conduzione da parte dell’assuntore
del servizio.

La constatazione si liquida sulla base di un costo orario


e sulle ore realmente impiegate per l’esecuzione del
lavoro appaltato.
Interventi a misura

La misura consiste nella fornitura di prestazioni con


piena responsabilità e con mezzi da parte dell’assuntore.

La misura si liquida sulla base di un prezziario per unità


di misura che comprende mano d’opera e materiali.
Interventi a corpo o forfait

L’intervento a corpo consiste nella fornitura di una


prestazione da parte di un assuntore con mezzi ed
attrezzature proprie, con piena responsabilità
dell’intervento e con prezzo concordato comprensivo
di mano d’opera e materiali.

E’ la forma più “avanzata” di prestazione:


◦ non lascia al fornitore alcun grado di libertà per
eventuali modifiche al prezzo concordato;
◦ il costo di coordinamento da parte dell’assuntore è
limitato tipicamente alla fase di collaudo e di
certificazione dei lavori.
General contracting

Si definisce general contracting la fornitura del servizio di


ingegneria di manutenzione per la gestione ed il
coordinamento operativo delle attività di manutenzione
terziarizzate.
Il ricorso ad un general contracting risolve il problema
della complessità gestionale delle aziende esterne ma
non risolve il problema legato alla qualità del servizio.
E’ idoneo per attività terziarizzate con basso valore
aggiunto e per le quali il livello di servizio è marginale.
Il Global Service di manutenzione

Innovativa, almeno per il nostro paese, è la


terziarizzazione totale delle attività manutentive,
ottenuta attraverso la stipula di un contratto di
manutenzione globale dove viene preferita la gestione
del contratto alla gestione dei lavori.

Per contratto di Global Service di manutenzione si intende


un contratto si servizi multidisciplinari di manutenzione nel
quale l’assuntore è chiamato a progettare, gestire ed erogare
le attività di manutenzione con piena responsabilità sul
raggiungimento degli obiettivi comunemente concordati tra le
parti e nel tempo chiaramente misurabili.
Lo scopo del servizio di manutenzione globale

Il desideri di focalizzazione esclusiva sulle attività


ritenute core business per l’azienda viene soddisfatto
solo in presenza di un fornitore cui vengono affidati:
◦ sia gli aspetti gestionali;
◦ sia gli aspetti operativi del processo manutentivo.

Questo implica da parte del committente una sola


gestione del contratto essendo sgravato da aspetti di
natura operativa.
Lo scopo del servizio di manutenzione globale

L’assuntore non può sottrarsi dall’organizzare,


pianificare e gestire le attività di manutenzione essendo
componenti necessarie per un corretto svolgimento del
servizio.

Nasce l’esigenza da parte dell’assuntore di redigere un


piano di manutenzione comprendente le attività di
manutenzione oggetto del contratto.
Livello del servizio

Elemento essenziale del Global Service di manutenzione


è rappresentato da una parametrizzazione del processo
in funzione degli obiettivi che le parti hanno
concordato.

Tali parametri sono definiti come la misura del livello di


servizio manutentivo sul quale l’assuntore del servizio
sarà responsabilizzato.
Livello del servizio

L’assuntore deve garantire l’esecuzione delle attività


definite dai piani e garantire i risultati grazie alle
prestazioni erogate.
Numerose realtà produttive individuano nell’OEE
l’indicatore di performance dell’impianto.
◦ Overall Equipment Effectiveness: OEE=
Availability X Performance X Quality.
L’esistenza di causali di imputazione di sola pertinenza
manutentiva, del tipo “guasto elettrico” o di “guasto
meccanico” rende non attendibile l’informazione.
Livello del servizio

Situazioni caratterizzate da un’elevata incidenza della


manutenzione a guasto vengono affrontate da un Global
Server con la logica raffigurata in figura Z

Si evince come l’introduzione di una politica


manutentiva porta l’assuntore del servizio ad innalzare
inizialmente l’impegno manutentivo, per far fronte alla
situazione d’emergenza, attivando gradualmente i piani
di manutenzione preventiva.
Livello del servizio

Figura Z:
Livello del servizio

Il raggiungimento della situazione “a regime” dipende


dalle capacità dell’assuntore e dalla collaborazione del
committente in fase della gestione del contratto.

Una manutenzione più pianificata facilita l’assuntore del


servizio e gratifica il committente. Ci si trova di fronte a
una win-win situation caratterizzata da obiettivi comuni
per le due parti.
Miglioramento continuo

L’assuntore deve essere in grado di sviluppare nuove


forme di gestione e introdurre miglioramenti
tecnologici in grado di agevolare il processo
manutentivo, ma anche quello produttivo.
Organizzazione del servizio

I compiti dell’assuntore sono la progettazione, la gestione e


l’erogazione del servizio, a fronte di questi compiti le funzioni
di cui il Global Server dovrà dotarsi:
◦ Gestore del sito o site manager:
è la figura responsabile del sito manutentivo presso la
realtà del cliente.
◦ Ingegneria di manutenzione:
definisce e pianifica gli interventi manutentivi, e si occupa
anche della loro storicizzazione, analisi ed eventuali
modifiche.
◦ Acquisti:
tale funzione non è sempre necessariamente localizzata
dal cliente.
◦ Operations:
la parte operativa di erogazione del servizio vedrà infine
una struttura dipendente dalla particolare realtà
inoltrata.
Organizzazione del servizio

Le funzioni del committente interessate dal Global


Service di manutenzione sono:
◦ Gestore del contratto:
Può coincidere con il direttore di stabilimento così
come il direttore di produzione come con altre
figure.
◦ Produzione:
la gestione del day by day in una realtà produttiva e
manutentiva, vede la manutenzione impegnata ad
eseguire attività preventive, dove è necessaria la
disponibilità della macchina ferma.
Organizzazione del servizio

◦ Ingegneria impianti:
La funzione di ingegneria di processo rappresenta
un know-how proprio che il committente deve
detenere al suo interno.

◦ Facendo riferimento alle funzioni indicate come


necessarie per il committente e per l’assuntore una
struttura tipica è rappresentata in figura W.
Organizzazione del servizio

Figura W:
Presidio del Know-how

Distinguiamo tra:
◦ Know-how di processo:
conoscenze relative al particolare processo produttivo
non possono che essere detenute all’interno,
concorrendo tipicamente alla formazione delle core
competence della propria attività.
◦ Know- how impiantistico:
il fornitore del servizio manutentivo non può
prescindere da una conoscenza impiantistica.
◦ Know-how manutentivo:
l’assuntore mettendo a disposizione il proprio know-
how corre un forte rischio non essendo tutelato dal
fatto che al termine del periodo contrattuale il
committente possa reincorporare l’attività
precedentemente terziarizzata.
Global Service con outsourcing

La forma più comune di raggiungimento di un Global


Service di manutenzione è rappresentata da un
terziarizzazione delle attività manutentive con
trasferimento del personale all’assuntore e
contemporanea stipula del contratto.

Outsourcing: è il processo dove le risorse dedicate ad


un settore o un servizio escono dall’azienda per dare
vita ad una struttura che possa gestire dall’esterno,
come fornitore, quel determinato settore/servizio.
La terziarizzazione della manutenzione: criteri di
scelta

 Ad influenzare il profilo decisionale concorrono diversi


aspetti, tra cui la ricerca di una soluzione
economicamente conveniente

Fattibilità strategica

Attraverso questa analisi il committente definisce gli ambiti


potenziali e quindi i limiti delle attività oggetto del Global
Service.
A guida di tale analisi vi è la necessità del committente di
mantenere al proprio interno le attività che determinano il
proprio vantaggio competitivo e una competenza distintiva
nel mercato.
Fattibilità tecnico organizzativa

E’ necessario valutare la realizzabilità tecnica di attività


manutentive da parte di un ente esterno, intendendo
con ciò sia la capacità realizzativa dello stesso,
bypassabile attraverso l’esternalizzazione delle risorse
ad esse dedicate, sia l’impatto manutentivo.

Fattibilità economica

Si arriva alla valutazione della fattibilità economica della


terzializzazione solo dopo aver valutato la fattibilità
strategica e la fattibilità tecnico organizzativa ossia la
realizzabilità operativa del progetto.
Economicità dell’offerta

Il prezzo delle prestazioni terziarizzate è riconosciuto come


parametro di valutazione.
Ciò che tipicamente viene considerato come costo della
manutenzione è spesso solo una parte del reale onere che
l’azienda deve sopportare per mantenere i propri impianti.
Si parla tipicamente dei soli costi diretti riconducibili al costo
della mano d’opera, dei materiale e dei servizi di
manutenzione terziarizzati.
Alla formazione però dell’intero costo di manutenzione
concorrono, oltre ai citati costi diretti, anche un’insieme di
costi indiretti.
Alla quantificazione dei costi indiretti ci si arriva
attraverso l’analisi ABC (Activity Based Costing).
Infine, ricordiamo l’importanza del riconoscimento degli
stessi da parte del committente.
Valutazione delle aziende fornitrici

Nel valutare le potenziali aziende fornitrici del servizio


di manutenzione in Global Service il prezzo non è
l’unico elemento di giudizio.

Importate è l’esperienza del potenziale assuntore del


servizio nel settore specifico.

Ciò che rende importante la conoscenza dell’assuntore,


oltre che sulla manutenzione è la politica del
miglioramento continuo attuabile solo in tale
circostanza.
Valutazione delle aziende fornitrici

La partnership comporta:
◦ reciproca fiducia e tendenza al raggiungimento di
obiettivi comuni in base al modello win-win.

Importanti sono, anche le garanzie di continuità che


l’azienda deve richiedere all’assuntore, dimostrabili con
solidità finanziaria e dimensione aziendale.
Aspetti contrattuali di un Global Service di
manutenzione

 I contratti di outsourcing sono contratti atipici, in


quanto non previsti e regolati da alcuna norma specifica
giuridica.

 In tale scenario, qualsiasi atto sottoscritto tra le parti ha


valenza in quanto sottoscrizione privata, vincolando le
parti alle norme esplicitamente espresse nel contratto.
Premesse

Le promesse pongono l’obiettivo di evidenziare i mandati


societari delle parti e le rispettive intenzioni generali inerenti
al progetto di terzializzazione.

Oggetto del contratto

La regolamentazione dell’oggetto della fornitura avviene con


la stesura del capitolato tecnico, contenente le attività di
manutenzione che l’assuntore è chiamato a svolgere e le
modalità di espletamento delle spese.
All’interno del capitolato:
◦ sono elencati gli impianti sui quali il Global Service di
manutenzione avrà luogo;
◦ deve essere citato il servizio di pronto intervento,
regolamentato con procedure e tempi stabiliti.
Organizzazione del servizio

L’assuntore deve:
◦ descrivere la forma organizzativa che intende
adottare per l’erogazione del servizio di
manutenzione;
◦ deve evidenziare in modo completo e dettagliato un
organigramma riportante le funzioni e le risorse
impegnate.
Materiali tecnici

Il Global Service con outsourcing comporta:


◦ sia il trasferimento del personale di manutenzione;
◦ sia il trasferimento della parte di materiali tecnici
identificati necessari per l’erogazione del servizio
stesso.

La componente del contratto che regola tale ambito


deve stabilire:
◦ la quota parte di materiale da trasferire;
◦ e la modalità di valorizzazione e trasferimento.
Sub-appalto

Viene concesso all’assuntore il ricorso al sub-appalto


per parte delle attività che lo stesso è chiamato a
svolgere secondo il capitolato tecnico.
Obblighi e responsabilità dell’assuntore e del
committente

Le parti di contratto riportanti gli obblighi da parte


dell’assuntore e del committente obbligano le parti al
rispetto delle disposizioni di legge in materia di lavoro,
sicurezza, igiene, assicurazione, autorizzazioni ecc.
Pagamenti

Viene ivi espresso il prezzo determinato quale


corrispettivo del servizio e le modalità di pagamento.

Devono essere esplicitate, anche le clausole di


variazione dell’importo per cambiamento dell’oggetto
del contratto o per sistemi di bonus malus legati a
performance chiaramente definite e misurabili.
Clausole di recesso

Esistono una serie di clausole di recesso del contratto


relative a gravi inadempienze contrattuali.

Sebbene il Global Service di manutenzione faccia


riferimento alla collaborazione e alla partnership, e
fermo restando l’auspicio ad un non ricorso alle
clausole di recesso è sempre bene un’attenta
definizione delle stesse per un più sicuro e regolarizzato
rapporto tra le parti.
Bibliografia
Lorenzo Fedele, Luciano Furlanetto, Daniele Saccardi «Progettare e
Gestire la manutenzione», McGraw-Hill, 2003, ISBN:
9788838662393
Luciano Furlanetto, MANUALE DI MANUTENZIONE DEGLI
IMPIANTI INDUSTRIALI E SERVIZI, Franco Angeli Editore
(esaurito)
Altro materiale non riconducibile al titolare di diritti di autore

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