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Altalex Diritto e contaminazi… Il processo a Radames nell’Aida di Verdi: l’amministrazi…

Il processo a Radames nell’Aida di Verdi:


l’amministrazione del diritto nell’Antico Egitto

Di Filippo Giuseppe Barone Pubblicato il 25/05/2018


Tributarista, Consulente Tecnico del Tribunale, Arbitro Giuridico in diritto …

A ormai quasi sei mesi dalla apertura della stagione operistico-sinfonica, il Teatro alla
Scala propone Aida di Giuseppe Verdi per celebrare i 95 anni di Franco Zeffirelli che nel
2006, dopo ventuno anni di assenza del melodramma verdiano dal Piermarini, ne ha
curato proprio la regìa. Opera nota anche al grande pubblico, Aida si è sempre
contraddistinta per l’imponente scenografia e per le musiche, soprattutto la celebre
Marcia Trionfale conosciuta e apprezzata in tutto il mondo.

Storicamente questo componimento debutta a Il Cairo la vigilia di Natale del 1871 e


risulta essere la penultima opera del compositore di Roncole, anche se, per un breve
periodo, si pensò che questa fosse l’ultima, dato che l’Otello dovette aspettare ben più
di un quindicennio.

A prima vista, per uno spettatore neofita, l’Aida, si presenta come un trionfo artistico
costituito da suggestivi paesaggi assolati, carri e bighe, cavalli, cammelli e spesso
elefanti, animali esotici che diventano protagonisti sul palco dove normalmente trovano
la loro sede danzatori e coristi.

In realtà, l’Aida, è ben rappresentata nel terzo atto: la luna che illumina le rive del Nilo,
desiderio descritto in ”O Cieli azzurri”, “O mia patria, mai più ti rivedrò!”, l’oscurità del
deserto disegnato con la più grande dell’intensità melodica con l’oboe; l’acuto dei flauti
che rappresenta la speranza che Radames fugga con lei verso i verdi prati della sua
amata terra; e nuovamente l’oboe, che torna nel momento in cui l’eroe e la schiava si
rendono conto del loro tragico destino, inevitabile quanto il Nilo che scorre alle loro
spalle.

Nell’Aida l’ambiguità delle situazioni, permette un’analisi introspettiva decisamente


profonda, dovuto al fatto che l’enfasi non è tanto nei caratteri dei personaggi, ma è data
dalle situazioni e dai conflitti interni che si manifestano nella mente dei protagonisti,
che nel corso della opera sviluppano una serie quasi ininterrotta di duelli, incatenati tra
di loro da tematiche essenziali e importanti per lo sviluppo del dramma.

Verdi disegna una tessitura compatta costituita di relazioni semantiche tra i differenti
atti e incarica all’orchestra di occuparsi della narrazione drammatica che assume
un’importanza di strutturale particolarizzazione, riuscendo a ricreare un incredibile
effetto di profondità e di unità di tutto il componimento.

Una volta di più, con Verdi lo scontro tra il potere stabilito e l’individuo termina
irrimediabilmente con la sconfitta del debole. Differentemente da Wagner, dove per
esempio nel “Tristan und Isolde” vi è sempre una sòrta di redenzione eterna con la morte,
qualcosa di simile al concetto: “continueranno a amarti per sempre, vivranno felici nella
vita ultraterrena per sempre”, in Verdi la morte rappresenta la disperazione totale
dell’individuo. La sepoltura dei due amanti rappresenta la conclusione definita
dell’esistenza dei due, la conseguenza inevitabile di esseri andati contro i “Numi”, la
società, il potere e la stessa realtà.

Certamente è l’opera più intimista del teatro di Verdi: l’antico Egitto, la guerra con
l’Etiopia o l’Italia invasa o invasore, che alcuni credono che sia la vera opera celata e
nascosta da Verdi, non sono altro che lo sfondo dove si sviluppa la storia di un triangolo
amoroso, destinato di fatto alla tragedia e che si conclude, in maniera sublime, con
Amneris raccolta in preghiera sopra l’ultimo respiro, durante la sepoltura, dei due
amanti. Questo dramma lirico può considerarsi come un testamento di Verdi che
probabilmente non aveva in mente di scrivere nessun’altra opera. Il risultato è un
prodotto dove si esprime al massimo il “suo Teatro”, la sua forza drammatica, i suoi
chiaroscuri, mantenendo un equilibrio quasi impossibile e perfetto tra il passato, cioè il
melodramma italiano e “la grand’opera” e il futuro, ossia il verismo e il dramma musicale
aperto e continuo di Puccini, Leoncavallo, Giordano.

Aida è la storia di due innamorati, il capitano Radamès e Aida, una schiava etiope
prigioniera a Menfi al servizio della principessa Amneris figlia del faraone d’Egitto,
anche lei perdutamente innamorata del giovane guerriero. Si svolge durante l’epoca
aurea della XII Dinastia e del regno di Sesostri III, periodo d’espansione, conquiste,
ricchezza e grandi battaglie. Tra queste, trova posto anche l’invasione dell’Egitto
organizzata dal re d’Etiopia Amonasro per liberare la figlia Aida, fatta prigioniera
(erroneamente) dall’esercito che ignorava la sua vera identità. Fin dalla sua cattura, Aida
è innamorata e ricambiata in questo, del giovane guerriero Radamès. Sua pericolosa
rivale in amore è Amneris, la figlia del Faraone d'Egitto che intuendo l’interesse della
sua serva per il valoroso Radamès, falsamente la consola dal suo pianto. Appare il
Faraone assieme agli ufficiali mentre un messaggero introdotto alla presenza del
sovrano, reca le notizie dal confine. Aida è preoccupata: viene a conoscenza che suo
padre Amonasro, re di Etiopia, sta marciando contro l'Egitto.

Il Faraone dichiara che Radamès è stato scelto da Iside come comandante dell'esercito
che combatterà contro Amonasro. Il cuore di Aida è diviso tra l'amore per il padre e la
Patria e l'amore per Radamès.

Scoppiata la battaglia, l’esercito egiziano supera e sconfigge il tentativo di invasione


etiope. Dopo la grande vittoria di Radames, il re concede al vittorioso guerriero la mano
di sua figlia Amneris, davanti alla disperazione di Aida e ad un Radamès comunque
rattristato nel non poter rifiutare al suo re, quanto concessogli.

Durante la vigilia del matrimonio, Aida e Radamès si riuniscono segretamente. La


principessa etiope costretta dal padre, riesce a farsi rivelare dal guerriero i piani militari
egiziani, questo tradimento viene scoperto e Radamès viene giudicato e condannato dai
sacerdoti a essere sepolto vivo:

Spirito del Nume, sovra noi discendi!

Ne avviva al raggio dell'eterna luce;

pe 'l labbro nostro tua Giustizia apprendi.

Aida distrutta dalla sentenza di morte comminata a Radamès riesce a introdursi


durante la sepoltura e i due amanti riescono a morire insieme.

Dal punto di vista del diritto, in Egitto l'organizzazione giudiziaria era rigida. È stato
trovato un solo codice, ma pare che la legislazione fosse molto chiara e precisa e
formasse un unico corpus iuris.

Lo studio delle leggi e della loro applicazione permette di conoscere il grado di sviluppo
di una società. In Egitto la legge aveva alla base il concetto di maat. Il faraone
promulgava le leggi come espressione dell'ideale di giustizia; fissava ed estendeva le
regole dell'organizzazione cosmica, che erano state messe in pratica nella creazione del
mondo. Senza dubbio, insieme alle vecchie norme dettate dagli dèi o da antichi re, i
decreti, le concessioni di privilegi e le sentenze giudiziarie formavano un unico corpus
iuris .

Non si può parlare di legislazione in senso stretto, ma si trattava di un diritto pratico con
quel concetto di praticità che si avvicina a quello in parte romano di età arcaica: si
decideva su ciascun caso nuovo, senza attenersi necessariamente al diritto antico
applicato. In tal modo le leggi continuavano a essere applicabili finché non fossero state
modificate da una decisione del re; il faraone poteva prendere risoluzioni in contrasto
con la legislazione ma non con l'idea di maat. Sfortunatamente sono scarsi i documenti
sull'applicazione delle leggi.

Maat era anche la dea della Giustizia. Questa dea personifica la legge e l'ordine
esistenti, l'armonia, la giustizia e la verità nel Pantheon egizio e nella società umana.
Porta una piuma di struzzo sul capo, che la rappresenta nella scrittura geroglifica. Fu
nota come figlia del dio Ra. Nel Libro dei Morti è presente nel giudizio dell'anima,
quando il cuore del defunto viene pesato per decidere se possa entrare nell'aldilà. Maat
era la protettrice dei giudici e la sua effigie presiedeva i giudizi. Fu venerata nel tempio
di Montu, a Karnak, e in molti centri dedicati ad altri dèi. Il visir e gli scribi sono, in
diverso grado, sacerdoti e custodi di Maat.

Il maat, che potremmo quindi ora liberamente tradurre con capacità di dire il diritto,
ossia la futura iuris dictio latina, appartiene al faraone. Tutto ciò che svolge una funzione
giudiziaria, a qualsiasi livello, può farlo in quanto possiede un maat specifico derivante
da quello originario. Il faraone manteneva il maat in Egitto ed era suo compito
principale, poiché assicurava lo stato di ordine divino e la giustizia; doveva governare
secondo verità, prevenendo la lotta e le difficoltà e conservando il ritmo della natura.
Doveva compiere i riti divini in ogni tempio, offrendo incenso al dio e presentando la
figura di Maat per simboleggiare l'ordine del regno. Maat è l'offerta fatta a tutti gli dei
per eccellenza, poiché di essa si alimentano. In molti templi vi è un bassorilievo con la
sua rappresentazione e la scena simboleggia il dialogo permanente tra gli uomini e la
divinità.

Le sentenze venivano emesse essenzialmente dal faraone. Qualsiasi caso poteva essere
posto alla sua conoscenza. In questo il faraone veniva seguito dal visir, intermediario tra
il faraone e gli organi di governo; insieme al re, egli era il giudice supremo del paese, ma
aiutato da un apparato amministrativo-giudiziario che si sviluppò nel corso del tempo.
Durante la V dinastia (2494-2345 a.C.) esistevano sei tribunali, chiamati "dimore
venerabili", con alti funzionari come giudici e personale ausiliario. Oltre a questi
dignitari, vi erano anche i governatori delle province che esercitavano funzioni
giudiziarie. Nel Nuovo Regno (1552-1069 a.C.) vi erano tribunali locali, composti dai
notabili, il cui compito consisteva nello svolgimento di indagini nel luogo in cui sorgeva
la lite. Possediamo poche informazioni sul procedimento giuridico, ma sappiamo che
attori e convenuti si difendevano da soli e le decisioni si basavano su prove documentali,
supportate da testimonianze. Per i crimini, le udienze cominciavano con l'interrogatorio
degli imputati; si ricorreva persino alla tortura. Qualora fossero stati ritenuti colpevoli,
il caso veniva rimesso al giudizio del faraone, affinché stabilisse la pena. Nel Nuovo
Regno gli attori poterono inoltre ricorrere agli oracoli, chiedendo giustizia alla statua di
un re o di un dio, durante le festività religiose.

Vi erano anche abiti ad indicare le figure preposte al mantenimento della giustizia. Il


visir indossava lunghe vesti, annodate con una corda sotto al petto come primo segno
che lo identificava e gli conferiva un aspetto di solennità. Altro emblema era la figura
della dea Maat, che portava sul petto a rappresentare la sua funzione principale di far
regnare l'ordine morale, la verità e la giustizia. Era giudice supremo, incorruttibile, che
puniva chi mentiva e accontentava tutti. Doveva essere buono con tutti, cosa che gli
assicurava l'approvazione dei saggi. Talvolta il visir non aveva il potere di pronunciare
una sentenza, come nel caso di crimini o furti nella necropoli reale; in tal situazione,
provvedeva ex imperio il faraone, sulla base delle indagini svolte da una commissione
composta dal visir stesso e da alti funzionari, la quale comunicava le sue conclusioni per
iscritto. Il procedimento veniva poi rimesso al faraone, che deliberava con il suo
consiglio privato, di cui il visir era membro aggiunto. Ciascun caso veniva giudicato
separatamente con la comminazione di una pena adeguata.

Esistevano nel Regno anche tribunali locali la cui funzione non era di prima istanza, ma
servivano in guisa di ausiliari della giustizia reale, nei quali il visir inviava un funzionario
per le decisioni particolari. Egli ascoltava le testimonianze sul posto e, insieme al
tribunale, emetteva il giudizio, dettava la sentenza e inviava le parti essenziali all'ufficio
del visir, dove venivano conservate.

Durante il Nuovo Regno, la corte di giustizia, o Grande Casa, veniva convocata dal visir
davanti alla porta del tempio, vicino alla grande porta con piloni; essa era nota come il
luogo di giustizia del faraone e alcuni poeti la chiamarono "porta del dire la verità".

I documenti giuridici risalgono a periodi più recenti: sono papiri scritti principalmente in
demotico che è assieme allo ieratico e al geroglifico una modalità di scrittura dell’antico
Egitto ovvero direttamente in lingua greca. Da essi si deduce che vi era un concetto
chiaro di proprietà privata, trasmissibile per eredità o tra vivi, con vendita o donazione.
Esisteva uguaglianza giuridica tra marito e moglie, che potevano pattuire contratti
matrimoniali e mettere in atto legati o locazioni. Si procedeva inoltre alla registrazione
dei contratti e non era sconosciuto il diritto internazionale.

Anche gli dèi, esattamente come gli esseri terreni, avevano le loro divergenze per
conflitti di interesse, che si accompagnavano a scontri giudiziari. Il dio Thot li convocava
in assemblea: in caso di conflitto, il demiurgo chiedeva l'opinione di tutti e si celebrava il
processo. Queste riunioni facevano le veci del tribunale, presieduto dal demiurgo e in
cui il dio Thot fungeva da giudice, arbitro e cancelliere. Le querele o atti d'accusa si
comunicavano al dio Ra, che decideva se rimetterle o meno. Nessuna divinità era
immune da rimproveri e denunce. Thot elencava i capi d'accusa davanti alle divinità, che
potevano essere allo stesso tempo giudici, giurati e testimoni. Alla luce di questo si può
percepire come, benché nella società dell’antico Egitto vi fosse senza dubbio rispetto al
diritto romano, una proto-giurisprudenza, non manca ciononostante di rilevarsi che il
sistema giuridico vi fosse e funzionasse, a scapito di chi ritenga ancora oggi che la
giurisprudenza vera sia solo quella dei moderni. Mai furono più adatte e profetiche a
chiosa di queste riflessioni, le parole di Domizio Ulpiano, giurista e prefetto del pretorio,
noto esponente della dottrina giuridica romana: "Sumus ad iustitiam nati neque opinione
sed natura constitutum est ius" (Siamo chiamati alla giustizia fin da quando siamo nati e sulla
natura si fonda il diritto, non sull'opinione), testimonianza granitica, che ieri come oggi il
vecchio brocardo ubi societas, ibi ius sia la sintesi di ciò che regge da sempre il nostro
mondo.

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