Einaudi
La casa editrice, esperite le pratiche per acquisire tutti i diritti relativi al testo
di Pietro Caccialupi presente nella presente opera, rimane a disposizione
di quanti avessero comunque a vantare ragioni in proposito
www.einaudi.it
isbn 978-88-06-24482-8
A Giuseppina Mazzetti,
che mi ha prestato le chiavi di casa.
Alla casa.
Nascosta in una ghianda c’è una quercia con le sue ghiande, e na-
scosta in ciascuna di queste c’è una quercia con le «sue» ghiande.
macgregor mathers
maggio 2019.
che «la statura drammatica del ruolo» forse per lei risul-
tava troppo pesante. Non si era persa d’animo, quello era
comunque un traguardo eccezionale.
Sul suo profilo aveva caricato una fotografia scattata
l’anno prima alla mostra Incantesimi, al Palazzo reale di
Milano: l’immagine di un abito di Amneris indossato da
Giulietta Simionato nel 1963, creato dalla scenografa e co-
stumista Lila De Nobili per l’Aida diretta da Franco Zef-
firelli. Una tinta imprecisata tra il verde, il fango e l’oro,
un colore mutante da insetto foglia. Nella mostra, i ven-
tiquattro abiti storici restaurati erano indossati da mani-
chini senza volto, a sottolineare quello che Maura sapeva
da sempre: ciò che conta davvero nel melodramma, oltre
alla partitura, alla parte, è il costume. È l’abito a rende-
re reale il personaggio, a definirlo, incarnarlo, la voce è
intercambiabile, un puro strumento, non la protagonista.
Ed era esattamente quello che lei aveva sempre pensato
di sé stessa, un’ugola dotata e niente piú, fino a che Fred
non aveva cercato di farle comprendere l’importanza di
essere lei stessa un personaggio, pena l’irrilevanza e l’oblio.
Maura si guardò riflessa nella specchiera accanto al let-
to e si immaginò con la corona simile all’elmo di Amneris:
il volatile sulla fronte, forse un pavone?, avrebbe coperto
la ricrescita di capelli bianchi che cominciava a farsi un
po’ evidente.
Il rumore delle automobili e dei camion che sfrecciava-
no sulla strada provinciale la distolse dai suoi pensieri. Era
sufficiente tenere chiuse le finestre che davano da quella
parte, per attutirlo. La sera il traffico si diradava fino a
zittirsi e di notte non passava quasi nessuno.
bertà: poi questo silenzio che lascia tempo a pensare, e quel non
vedere mai uniformi di nessun colore è pur la buona cosa!
Lui l’aveva spuntata sul prezzo per via del fatto che l’an-
ziana donna abitava al quarto piano di un edificio in cui
era presente solo un servo scala e occorreva trovare qual-
cuno che facesse uscire lo strumento da una finestra e lo
calasse giú. Costava parecchio, quell’ambaradan, quindi
Marco aveva ottenuto il piano praticamente gratis, offren-
dosi di occuparsi lui di tutto.
Fred aveva provveduto a mandare un suo amico accor-
datore che si era complimentato per l’ottima scelta. Lo
strumento era solido e ben fatto, la tavola armonica per-
fetta. Un Érard London di fine Ottocento con la finitura
in radica di noce intarsiata e la tastiera in avorio. Quando
la signora l’aveva visto per l’ultima volta dall’alto, mentre
veniva calato dalla finestra tramite un complesso sistema
di imbracature, aveva dovuto nascondere la faccia nel faz-
zoletto e Marco l’aveva sentita reprimere un singhiozzo:
– Spero vivamente che quella donna non decida di venire
a farvi visita con una mannaia in mano, ha novantun anni,
ma la rassegnazione non mi è parso il suo tratto distintivo,
state attente se una vecchia signora vi suona il campanel-
lo, d’accordo, ragazze?
Erano scoppiate a ridere entrambe e per la prima volta da
quando si conoscevano, era scoccata tra loro una minuscola
scintilla d’ilarità, quella simpatia che potrebbe essere pre-
ludio a un qualche tipo d’amicizia, ma subito era svanita e
per il momento, da allora, l’occasione di ridere insieme non
si era piú ripresentata. Adesso il pianoforte dell’anziana se
ne stava lí, sulla parete destra della stanza, e a Maura dava
l’impressione di un grosso animale addormentato.
Ursula aveva sistemato un fascio di spartiti su un tavo-
lino, una bottiglia d’acqua minerale con due bicchieri az-
zurri e una scatola di fazzoletti di carta velo. Ora che si
era accorta della sua presenza, aveva voltato la testa ver-
– Mi segue?
– Diamoci del tu, vuoi? – le disse Maura, e la donna
annuí.
Maura andò dietro l’architetto e subito si rese conto che
Mia si muoveva nella casa come se l’avesse progettata lei:
conosceva l’ubicazione di ogni singolo interruttore della
luce, e i movimenti con i quali girava maniglie, sblocca-
va chiavistelli e spingeva porte a colpo sicuro erano quelli
facili e senza pensiero che si raggiungono dopo mesi, ad-
dirittura anni di esercizio, a meno che non sia un intuito
magico a guidarti, e Maura non sapeva se credere a una
possibilità del genere.
L’architetto aprí la porta di una stanza che Maura non
aveva ancora avuto modo di esplorare. Era un grande am-
biente al piano terra dal quale uscí un odore mischiato di
gasolio, mangime per uccelli e polvere. Era una specie di
magazzino-ripostiglio dove erano stipati vecchi, bellissi-
mi mobili da giardino in vimini scorticato, taniche di ben-
zina e uno scooter nero, coperto per metà da un telone,
che sembrava abbastanza nuovo. C’era una porta lunga e
stretta, in fondo, sulla destra, chiusa da un chiavistello di
ferro arrugginito.
– Ecco, per di qua, poi si sale a sinistra, se vuoi seguir-
mi tieni conto però che la scala è molto ripida e in questa
zona della casa è meglio non fidarsi troppo del pavimento.
La luce per il piano di sopra ce l’ho io –. E fece roteare la
pila che teneva in pugno disegnando una spirale lumino-
sa sulla parete.
Maura strinse sul collo i lembi del cardigan rosso che
aveva infilato sopra il pigiama e si inerpicò sulla scala die-
tro alla donna. Faceva freddo, lí dentro, ed era buio. La
voce dell’architetto rimbalzava contro i muri e tornava
indietro con un’eco.
corse che sulla destra c’era una croce di ferro. Era un cro-
cefisso messo a protezione della casa. Una lama di luce
filtrava da fuori, cosí Maura avvicinò l’occhio per cercare
una fessura, ma non c’era, il portone era perfettamente
integro, un baluardo sprangato contro il mondo esterno
a doppio chiavistello e con una catena di ferro dipinta di
bianco che correva da parte a parte per bloccare qualsiasi
tentativo di aggressione.
Sentí i passi di Ursula lungo le scale. Tacchi alti. Guar-
dò l’orologio: erano le sette passate. Il cellulare era in ca-
mera da ore, chissà, forse Fred aveva chiamato.
Mentre Ursula girava a sinistra senza vederla, lei cor-
se di sopra, nella scia di bagnoschiuma all’iris, e quando
arrivò al primo piano la luce che proveniva dalla stanza
in fondo all’atrio, quella che occupava l’altra, la abbagliò.
Di solito Ursula chiudeva la porta e Maura non si era mai
azzardata ad aprirla, quindi stavolta non riuscí a resistere
alla tentazione di dare una sbirciata e con cautela si avvi-
cinò alla soglia. Si vide riflessa nella consolle che stava di-
rimpetto alla porta, ma il bagliore proveniva da sinistra,
cosí girò la testa: sul letto c’era un tablet e sullo schermo
lampeggiava la finestra di Skype. Si avvicinò: nel riquadro
vide un letto disfatto, in penombra, e l’orma di un corpo
tra coperte appallottolate, ma davanti alla videocamera
non c’era nessuno. Sembrava la stanza di uno studentato
o uno di quegli appartamenti da universitari un po’ scop-
piati: sulla parete c’era un poster sbilenco con la fotografia
di un tizio in pantaloncini da combattimento e in testa un
cappello (o forse era una parrucca gialla?) e la scritta: «If
Sambo was easy, it would be called jiu-jitsu». Non aveva
idea di cosa fosse il Sambo, ma immaginò che si trattasse
di un’altra arte marziale. Forse Ursula aveva un amante,
pensò. E cercò di immaginare quanti anni potesse avere
senza i figli che ha generato e che sono usciti dal suo ven-
tre, spaccandolo, non può, neanche se li ha abbandonati
o se li è fatti portar via. Prima o poi torna a riprenderseli.
Ma lei, Ursula, era a sua volta una madre, cosí, prima
di perdere i sensi, pronunciò ancora una parola, una sola.
– Bambino, – urlò.
Felics, pensò. Il mio bambino.
Le braccia di pietra la lasciarono scivolare sul fondo
melmoso di una fontana dove le carpe cominciarono a gi-
rarle intorno al corpo, assaggiandolo a piccoli morsi per
decidere se potevano farne un pasto oppure considerarlo
un inconveniente, un ostacolo da evitare nel poco spazio
che avevano a disposizione. Fu la piú grossa a spingerle la
testa verso l’alto con il suo forte muso d’oro perché rico-
minciasse a respirare, ma lei non poteva saperlo.
giugno 2019.
nessuno dei due. Il cancellino era già aperto per cui i tre
uomini passarono, uno alla volta, e si incamminarono lun-
go il vialetto di ghiaia che portava alla villa.
– Non vi ho aperto il cancello principale perché prefe-
risco che gli inquilini non sentano trambusto. Eccoci qua.
Davanti all’ingresso, il custode si fermò, le cesoie sem-
pre strette nella mano destra, che gli pendeva al fianco
come un corpo estraneo.
Fred e Marco si guardarono per decidere chi dei due
avrebbe parlato, ma il custode li tolse dall’imbarazzo.
– Io la porta non la rompo, questo sia chiaro.
E con le cesoie indicò il vetro liberty piombato a spic-
chi colorati di blu, viola, rosso e verde.
Il portone di legno era aperto per metà e lasciava in bel-
la vista la vetrata.
Fred si avventò contro il battente, ma il custode lo fer-
mò piantandogli sotto il mento la mano armata di cesoia.
Non voleva minacciarlo, soltanto bloccarlo prima che fos-
se troppo tardi, quindi subito si scusò.
– Mi perdoni, se scuote con troppa forza, si rompe. Ho
già provato io, ma è chiuso dall’interno con il gancio che
la signora ha fatto mettere quando ha cominciato a venire
qui da sola.
Si tolse un guanto e si asciugò il sudore dalla fronte con
la manica della tuta.
– Sono passati tanti anni…
Fred lo interruppe prima che l’altro cominciasse con una
tiritera di ricordi di sicuro ininfluente e soprattutto tedio-
sa. – Ma non c’è un’altra entrata? – Si ravviò i capelli con
un gesto secco, buttando il collo all’indietro, come era solito
fare, e intanto, con la punta del mocassino lucido, spostava
la ghiaia. Anche stavolta non si era ricordato di mettere un
dosi, quando ormai era troppo tardi, che era un gesto che
portava sfiga: ogni sigaretta che accendi con la candela è
una condanna a morte per un marinaio.
Superstizioni, e chi se ne frega poi dei marinai.
Faceva schifo, una miscela al sapore di erbe avariate e
niente tabacco, ma la fumò tutta ugualmente, piú che al-
tro per l’effetto delle spirali bianche che si allontanavano
verso la finestra aperta come fantasmini spaventati. Sentí
i passi di Fred nell’atrio, lo scroscio dell’acqua nella va-
sca del bagno principale, poi un «porca troia». Si affacciò
all’uscio. – Tutto bene? – urlò nel buio.
Fred sbucò dalla porta del bagno, l’asciugamano avvolto
intorno ai fianchi: – Non c’è acqua calda –. Marco tenne
la sigaretta ormai consumata con la punta all’insú, la ce-
nere in equilibrio. – Alla caldaia non ci abbiamo pensato.
– Vabbe’, dài, mi faccio una doccia veloce, non impor-
ta, tanto fa caldo.
In quel momento Marco udí un suono provenire da qual-
che parte sopra la sua testa. Era un ticchettio che cambiava
d’intensità e sembrava si spostasse avanti e indietro. Acce-
se la luce di servizio dell’atrio e percorse la breve scala che
portava all’ultimo piano della villa, la soffitta. Il portone di
legno borchiato era chiuso dall’esterno con il grosso chia-
vistello che già avevano faticato ad aprire e richiudere quel
pomeriggio: la soffitta non nascondeva altro che polvere e
vecchi cimeli, anche se adesso a Marco venne il dubbio che
non avessero cercato abbastanza, lui e Fred, che non aves-
sero cercato bene, con sufficiente motivazione. Si erano li-
mitati a fare il giro dei vari ambienti, separati da alte pare-
ti di cannicciato e intonaco grattugiato, e a constatare che
non parevano esserci tracce di presenze umane o passaggi
recenti. Non erano carabinieri del Ris né agenti della poli-
zia scientifica e quindi era difficile per loro far altro se non
– Quale cugina?
Ursula rimase in piedi, immobile, a poca distanza da lui,
sentiva freddo e avrebbe voluto continuare a stare contro
il suo petto, abbandonarsi, per una volta, a un abbraccio
che mancava da troppo tempo, tra loro.
– La maggiore, è lei che tiene Felics da quando l’ho fat-
to uscire dal brefotrofio. Ho sempre provveduto io, a lo-
ro, è strano che tu non te ne sia mai accorto. Mi chiedevo
come facessi a non pensare mai a lui e a non domandare
mai a me se io ci pensavo, poi non lo so, mi dicevo che
se era diventato sordo era colpa mia, l’incendio era colpa
mia, ero io quella ubriaca, io che avevo fatto casino con
le candele… io…
Marco si passò una mano tra i capelli e cercò la seggio-
la piú vicina mentre lei rimaneva in piedi e parlava senza
guardarlo in faccia. Pensò che la sua voce era monotona,
piatta, e gli occhi avevano perso la fredda lucentezza abi-
tuale. Era diversa, cambiata. Avrebbe dovuto dirglielo,
dell’incendio? Forse era questo il momento. Le aveva fat-
to credere per tutto quel tempo che fosse colpa sua. Una
menzogna che l’aveva incancrenita dentro mentre lui con-
tinuava a vivere. Non riusciva a decidersi. Dirglielo avreb-
be significato perdere ogni briciola di dignità ai suoi occhi
e non poteva lasciarla vincere. Questo diventano, quasi
sempre, i rapporti di coppia: una gara di resistenza dove
nessuno vuole abbandonare il campo anche se non c’è piú
niente da vincere. Ricordò l’ultimo avvertimento di quel
tizio, non poteva dimenticarsi né il giorno né l’angolo di
strada sul quale lo aveva sorpreso mentre beveva l’ultimo
goccio di un caffè amaro da un bicchierino di plastica, «se
non molli quel locale, ti bruciamo casa». E lui non aveva
mollato, perché in ballo c’erano troppi soldi e il miraggio
dei soldi annebbia la paura, la anestetizza.
È il 28 di ottobre 1905.
Maura cerca di sorridere, guarda il giardino immerso
nella nebbia della mattina. Se c’è nebbia vuol dire che piú
tardi ci sarà il sole. Mentre spalanca ancora di piú gli scuri
della finestra che affaccia sul parco ripensa alle parole che il
giorno precedente ha detto alla nipote, alle minacce che le
ha fatto.
Astorre ancora non è arrivato, ma le ha fatto recapitare
un primo regalo: un metronomo di Mälzel originale, con
la custodia dipinta a mano. Non le serve un altro metro-
nomo, ne ha già svariati in tutte le case, e tra l’altro pensa
anche di non averne mai avuto bisogno.
Maura ricorda una delle sue insegnanti di canto che le
bloccava sempre la frase musicale perché diceva che non
andava a tempo: la costringeva a ripeterla all’infinito, se-
guendo il metronomo, ma il canto lirico non è fatto solo
di precisione assoluta.
Giuseppina, osservando gli angeli dipinti sulla custodia
del metronomo, pensa che lo terrà da parte per la bambi-
na. Ha solo un anno, e chissà, forse anche lei canterà, forse
anche lei amerà la musica. Magari imparerà a suonare uno
strumento.
Si sente triste, e pure l’idea di fare regali alla bimba non
le solleva il morale, anzi, la mette di cattivo umore. Que-
sta bambina, a volte, le ricorda l’altra, e il ricordo fa male.
Nella piú grande gioia si può essere magnanimi, quando si
è tristi si è cattivi, pensa. Tutto si restringe.
Ma a chi appartiene, questa tristezza?
A lei, Maura, o a Giuseppina?
Si tocca il ventre duro, infila la mano sotto la vestaglia
e sfiora la lunga cicatrice: una risata malevola che le tra-
passa il fianco destro.
È il 28 ottobre 1905.
Oppure è il 1908?
Maura cerca nella mente l’anno di nascita di Giusep-
pina Pasqua, Era il 1845 o 1851? 1851, decide, e dunque
oggi è il 28 ottobre del 1905.
Il maestro Verdi è morto quattro anni fa, il 27 gennaio
del 1901.
Cosa è successo, in questi quattro anni?
Riapri il quaderno degli appunti, svelta, presto, prima che
arrivi qualcuno.
Il 1905 è l’anno d’oro di un giovane fisico tedesco di
ventisei anni che si chiama Albert Einstein. Ha già pub-
blicato tre articoli sugli «Annalen der Physik» e sta per
pubblicarne un quarto, tra i piú importanti della sua vi-
ta, quello sulla teoria della relatività ristretta, che gene-
rerà una rivoluzione nella fisica mondiale. Si intitola Zur
Elektrodynamik bewegter Körper, Sull’elettrodinamica dei
corpi in movimento. Tre pagine uscite il 27 settembre, che
cambiano la Storia del mondo.
via di come sono piantati gli alberi, sono molto piú giovani
di tutti gli altri esemplari del parco e ho idea che siano
stati messi lí appunto per rimpiazzare qualcosa che prima
c’era e poi non c’è stato piú. Forse sbaglio, non posso
avere certezze.
Prestissimo.
A mezza voce.
Con un sol fiato.
tista. Ah! Quella sera del lontano anno 1865, il pubblico perugino
accorso al teatro Morlacchi, si trovò davvero dinanzi a una rivela-
zione! E salutando, nella concittadina quattordicenne che calcava,
con cuore trepidante, le scene nelle spoglie del paggio Oscar del
Ballo in maschera una speranza dell’arte, all’arte divina del canto
la consacrava. Il dado era tratto, ma la mèta, pur brillante di luce,
era lontana e il cammino da percorrere aspro quant’altro mai. Og-
gi le celebrità si possono anche fabbricare a serie e il pubblico non
va pel sottile. Non bisogna dimenticare che siamo nell’epoca del
cinematografo! Ma allora, quando un artista si elevava sugli altri e
trionfava, il valore era autentico e la consacrazione e riconsacrazio-
ne dei pubblici era determinata da una valutazione rigorosa nella
quale gli elementi accessori, oggi passati in primo piano, come la
bellezza, la simpatia, le forme, entravano fino a un certo punto.
Pur nella vecchiezza, Giuseppina Pasqua conserva nello sguardo
quella forza, quella potenza e quella mobilità che la resero, quanto
il canto, celebre; ne l’altro* corpo la maestà trascorsa, nella voce
– specie se in qualche momento ricorre una modulazione o riaffio-
ra dai ricordi un motivo di una delle molte opere interpretate – la
dolcezza e la grazia temprate di forza che fecero fremere e com-
muovere i mille pubblici che l’udirono.
[…]
Poi vennero i trionfi: rapiti in un repertorio vastissimo del qua-
le furono pietre miliari le opere di Verdi e, fra queste, a preferen-
za, Don Carlos, Aida, Trovatore, Falstaff e confermati dai pubblici
italiani dei piú grandi teatri e dalle folle straniere di Pietroburgo,
Mosca, Berlino, Varsavia, Londra, Vienna, Monaco, Madrid, Bar-
cellona. Bisogna rileggere i giornali madrileni del 1896, quando la
Pasqua era già al termine della luminosa carriera, per comprende-
re, attraverso lo entusiasmo suscitato e la popolarità conquistata;
popolarità che le apriva le sale della Corte – ammirata, ricercata,
invitata – quale fosse il valore eccezionale dell’artista acclamata.
Anche in Spagna il repertorio era stato vastissimo: dalla Carmen
al Lohengrin, dal Sansone e Dalila alla Favorita, dal Trovatore al
Profeta, ovunque eletta tra le elette, ovunque grande.
Orgogliosa di tutto ciò? Contenta, soddisfatta, felice?
*
Credo sia un errore di stampa della rivista, forse s’intende nell’alto corpo? Non
capisco il senso di questo «altro».
1º luglio 2019.
È il 2019.
Qual è stato l’anno piú importante della mia vita? De-
vo guardare per forza indietro, ora. Non riesco a imma-
ginare il futuro.
Quale sarà l’anno d’oro della tua vita, quello per il quale
verrai magari ricordato dai posteri, nessuno può saperlo.
Nel 1892 Giuseppina Pasqua forse non sa che il ruolo di
Mrs Quickly, che accetta dopo infinite lusinghe e preghiere
da parte dell’editore Giulio Ricordi nell’estate di quell’an-
no – troppo pochi i soldi, troppi gli impegni già presi – e
che andrà in scena per la sua première al teatro La Scala il
9 febbraio dell’anno successivo, il 1893, sarà quello per il
quale sarà piú ricordata.