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Tiziano Franzi, Simonetta Damele

Leggere insieme
sta i pe r l e g ge r e . ..

LOESCHER EDITORE

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Ristampe

5 4 3 2 1 N
2018 2017 2016 2015 2014 2013

ISBN 9788858307151

Nonostante la passione e la competenza delle persone coinvolte nella realizzazione


di quest’opera, è possibile che in essa siano riscontrabili errori o imprecisioni.
Ce ne scusiamo fin d’ora con i lettori e ringraziamo coloro che, contribuendo
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Contributi
Il materiale di supporto è stato realizzato con la collaborazione di Filippo Gerli e Vittoria Haun, adolescenti con Disturbi Specifici
dell’apprendimento (DSA)

Coordinamento editoriale: Francesca Asnaghi, Milena Lant


Redazione: Marta Falco
Disegni: Valentina Mai
Impaginazione: Sara Blasigh
Copertina: Visualgrafika - Torino

Stampa: Sograte Litografia s.r.l. - Zona Industriale Regnano - 06012 Città di Castello (PG)

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INDICE
Tutti i testi sono presenti nel volume Generi, temi, laboratorio delle abilità 3;
il riferimento alla pagina corrispondente è riportato nella colonna in colore.

Tutti gli esercizi conservano la medesima numerazione che hanno in Generi, temi,
laboratorio delle abilità 3. Gli esercizi aggiunti sono riconoscibili da questa grafica: 1 

Terribili creature p. 5 p. 30
Il mondo di Sofia p. 9 p. 78
Andavo male a scuola p. 17 p. 107
Minuti fatali p. 23 p. 133
Don Abbondio e i bravi p. 29 p. 196
Il Lager - L’arrivo al campo p. 37 p. 268
Il Lager - «Arbeit macht frei» p. 44 p. 270
Il Lager - La selezione dei prigionieri p. 48 p. 271
Liolà p. 54 p. 333
Come i primi Uomini Bianchi arrivarono
dagli Cheyenne p. 59 p. 392
A tre anni nelle cave di pietra p. 65 p. 454
Videogiochi sì o no? p. 71 p. 550
I limoni p. 76 p. 644
VERIFICA Il nano p. 81 p. 177
VERIFICA Casa di bambola p. 87 p. 378
VERIFICA Il lampo p. 94 p. 698

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Terribili creature
un boato
soffocato annuncia
l’inizio di una battaglia

Prima si sentono
soltanto dei boati

Poi appaiono cinque marziani La folla è


corazzati che attaccano la ammutolita
città di chertsey e terrorizzata

«Zitto, bestiaccia!» disse un uomo accanto a me a un cane che abbaiava.

Allora il rumore si ripeté, questa volta da Chertsey, un boato soffocato, il rombo


di un cannone.

La battaglia era cominciata.

Quasi immediatamente batterie invisibili dall’altra parte del fiume, alla nostra
destra (invisibili per via degli alberi) si unirono al coro, sparando pesantemente una
dopo l’altra.

Una donna gridò.

Tutti restarono interdetti per l’improvviso inizio della battaglia, vicina a noi
e ancora invisibile.

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Non si vedevano che prati pianeggianti, mucche che pascolavano indifferenti,
e argentei salici fronzuti, immoti1 nella calda luce del sole.

«I soldati li fermeranno», disse incerta una donna accanto a me. Una nebbiolina
si alzava sulla cima degli alberi.

Poi, d’improvviso, vedemmo un getto di fumo, lontano, sul fiume, uno sbuffo
di fumo che si alzò impetuosamente in aria e si allargò, e al tempo stesso il terreno
sussultò sotto i nostri piedi e una pesante esplosione scosse l’aria, mandando
in frantumi i vetri delle case lì accanto, e lasciandoci stupefatti.

«Eccoli là!» gridò un uomo con una camicia turchina. «Laggiù! Li vedete? Laggiù!»

Rapidamente, uno dopo l’altro, uno, due, tre, quattro marziani chiusi nelle loro
armature apparvero, molto lontani, oltre i piccoli alberi, e attraversarono i prati piani
che si allungavano verso Chertsey, dirigendosi a passi smisurati verso il fiume.

1 immoti: fermi, immobili.

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Sembrarono a tutta prima delle piccole sagome incappucciate che procedevano
con un movimento rotatorio alla velocità di uccelli in volo.

Poi, ecco un quinto avanzare obliquamente verso di noi. I loro corpi corazzati
scintillavano al sole, mentre si dirigevano velocissimi verso le artiglierie, diventando
sempre più grandi a mano a mano che si avvicinavano.

Quello che stava all’estremità sinistra, il più lontano, levò alto nell’aria un pesante
astuccio, e il terribile, sinistro raggio ardente che avevo già visto la notte del venerdì
guizzò verso Chertsey e colpì la città.

Alla vista di quelle strane, rapidissime e terribili creature, mi parve che la folla
intorno a me lungo la riva del fiume restasse per un momento terrorizzata.

Non ci furono grida né richiami, ma il silenzio.

(H.G. Wells, La guerra dei mondi, Milano, Mursia, 1966)

Riassunto
Un boato soffocato annuncia l’inizio di una battaglia, che tuttavia è coperta
allo sguardo del protagonista da alcuni alberi. Poi dopo un’esplosione
appaiono rapidamente cinque marziani che si avvicinano con le loro
corazze scintillanti alla città di Chertsey e con il loro raggio ardente
la colpiscono. La folla di persone attorno al protagonista è ammutolita
e terrorizzata; il silenzio è surreale.

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Esercizi

1 Qual è l’argomento centrale della storia?

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3 Quanti sono gli avversari?

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5 Qual è l’arma principale dei marziani? Che effetti produce?

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9 Quale descrizione fornisce l’autore dei mostri? La consideri sufficientemente


dettagliata ed esauriente? Perché?

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15 Scrivi sul quaderno un racconto di fantasia capovolgendo il contenuto


del testo. Immagina di partecipare a una spedizione terrestre su un altro
pianeta e di incontrare i suoi abitanti. L’incontro è pacifico e quasi divertente.
Racconta avvalendoti di descrizioni soggettive e dando un ritmo vivace alla
storia.

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Il mondo di Sofia
Ragazza con il Sofia il Padre rimane
naso piccolo, Amundsen lontano da casa
la bocca grande, per gran parte
le orecchie dell’anno; la
troppo vicine tornata a casa madre rincasa
agli occhi, dopo la scuola sempre tardi
i capelli troppo trova una
lisci lettera anonima
indirizzata a lei, Sofia Ha
contenente un numerosi
foglietto su animali che
cui c’è scritto: le tengono
«chi sei tu?» compagnia

Riflessioni sulla
sua esistenza

Sofia Amundsen stava tornando da scuola.

Aveva percorso il primo tratto di strada insieme a Jorunn e avevano parlato


di robot.

Secondo Jorunn, il cervello degli esseri umani era paragonabile


a un computer assai sofisticato1: Sofia però non era molto d’accordo.

1 il cervello... sofisticato: il cervello umano poteva essere considerato simile a un computer
molto avanzato.

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Un uomo doveva essere qualcosa di più di una semplice macchina.

Si erano separate davanti al grande centro commerciale.

Sofia abitava ai margini di un’ampia zona residenziale formata da villette


e la strada che doveva fare per andare a scuola era due volte quella di Jorunn.

La sua casa pareva trovarsi ai confini del mondo perché dietro il giardino non ce
n’erano altre.

In quel punto cominciava un fitto bosco.

Sofia stava girando in via Kløverveien.

Nell’ultimo tratto la strada svoltava bruscamente e quella curva era nota come
la “Curva del Capitano”.

Solo il sabato e la domenica era possibile incontrare qualcuno da quelle parti.

Era l’inizio di maggio.

In alcuni giardini i narcisi formavano corone di fiori ai piedi degli alberi da frutto.

Le betulle cominciavano a coprirsi di foglioline verdi.

Non era strano che tutto cominciasse a sbocciare e a crescere proprio in quel
periodo dell’anno? pensò.

Perché chili e chili di materia verde spuntavano dalla terra inanimata solo quando
l’aria diventava più calda e si scioglievano le ultime tracce di neve?

Sofia sbirciò2 nella cassetta delle lettere mentre apriva il cancelletto del giardino.

Di solito c’era una grande quantità di volantini pubblicitari e alcune grosse buste
per sua madre.

2 sbirciò: diede un’occhiata veloce.

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Sofia impilava3 sempre tutto per bene sul tavolo della cucina prima di salire
in camera a fare i compiti.

Talvolta c’era qualche lettera della banca, indirizzata a suo padre.

Ma il papà di Sofia era diverso dagli altri: essendo capitano di una grande
petroliera, stava lontano per gran parte dell’anno.

Quando rimaneva a casa per alcune settimane, girava sempre in ciabatte


e colmava di attenzioni Sofia e la mamma.

Tuttavia, se era in viaggio, il ricordo di lui spesso si affievoliva.

Quel giorno c’era soltanto una lettera minuscola, ed era per Sofia.

“Sofia Amundsen, Kløverveien 3”, c’era scritto sulla busta.

Tutto qui.

Nessun mittente.

Mancava anche il francobollo.

Subito dopo aver richiuso il cancelletto, aprì la lettera.

Vi trovò solo un foglietto non più grande della busta. Sul pezzetto di carta c’era
scritto: “Chi sei tu?”

Nient’altro.

Né la firma né i saluti, soltanto quelle tre parole scritte a mano e seguite


da un grosso punto interrogativo.

Sì, la lettera era proprio indirizzata a lei.

Ma chi l’aveva infilata nella cassetta?

3 impilava: metteva uno sopra l’altro.

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Sofia si affrettò a entrare nella casa rossa.

Come al solito il gatto Sherekan sbucò dai cespugli, saltò sul pianerottolo e riuscì
a sgusciare dentro prima che chiudesse la porta.

«Micio, micio, micio!»

Quando la mamma di Sofia era arrabbiata per qualche motivo, diceva che la loro
non era una casa, bensì un serraglio4.

A dire il vero, Sofia era molto soddisfatta della sua casa.

Per prima le avevano comprato una boccia con i pesciolini Oro, Cappuccetto
Rosso e Fuliggine.

Poi era stata la volta di Briciola e Briciolo, due cocorite5, Govinda, la tartaruga,
e infine di Sherekan, un gatto tigrato.

Le avevano regalato tutti questi animali a mo’ di risarcimento6, perché sua


madre tornava a casa tardi dal lavoro e suo padre era quasi sempre in giro per
il mondo.

Sofia si sfilò lo zainetto e mise un po’ di cibo per gatti in una ciotola che diede
a Sherekan.

Poi si sedette su uno sgabello della cucina con la lettera misteriosa in mano.
“Chi sei tu?”

Non lo sapeva di preciso.

Era Sofia Amundsen, naturalmente, ma chi era?

Non era ancora riuscita a scoprirlo del tutto.

4 serraglio: luogo dove vengono raccolti animali rari ed esotici.


5 cocorite: piccoli pappagalli.
6 a mo’ di risarcimento: come ricompensa.

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E se si fosse chiamata con un altro nome? Anne Knutsen, per esempio.

In quel caso sarebbe stata un’altra persona?

Di colpo le venne in mente che, quando era nata, suo padre voleva chiamarla
Synnøve.

Sofia cercò di immaginarsi mentre dava la mano a qualcuno e si presentava come


Synnøve Amundsen...

No, non era possibile.

Quella ragazza era una persona completamente diversa.

Si alzò di scatto e andò in bagno con la strana lettera in mano.

Si mise davanti allo specchio e cominciò a fissarsi negli occhi.

«Io sono Sofia Amundsen», disse.

La ragazza nello specchio rispose con una piccola smorfia.

Faceva tutto quello che faceva Sofia.

Sofia cercò di precederla con un movimento fulmineo7, ma l’altra fu altrettanto


veloce.

«Chi sei tu?» chiese.

Non ricevette alcuna risposta, ma per una frazione di secondo si domandò


sconcertata8 se era stata lei o l’immagine ad aver posto la domanda.

Sofia premette l’indice sul naso riflesso nello specchio e disse: «Tu sei me».

Dal momento che neanche questa volta aveva avuto risposta, capovolse la frase:
«Io sono te».

7 fulmineo: velocissimo, rapido come il fulmine.


8 sconcertata: sorpresa e incerta.

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Sofia Amundsen non era mai stata soddisfatta del suo aspetto.

Spesso le facevano i complimenti per i suoi occhi a mandorla, le dicevano così


soltanto perché il naso era troppo piccolo e la bocca troppo grande.

Le orecchie poi erano esageratamente vicine agli occhi.

La cosa peggiore erano i capelli lisci che non le stavano mai a posto.

A volte suo padre le accarezzava la testa e la chiamava “la bambina dai capelli di
lino”, riferendosi al titolo di un preludio9 di Claude Debussy10.

Facile a dirsi per uno che non era condannato


per tutta la vita ad avere capelli neri che penzolano
diritti come spaghetti.

Perfino la lacca e il gel non servivano a niente.

A volte pensava di essere fisicamente così


strana che si chiedeva se non fosse nata deforme.

La mamma aveva parlato di un parto difficile.

Ma era solo la nascita a determinare l’aspetto


di una persona?

Non era strano che lei non sapesse neanche chi


fosse?

Non era assurdo che non potesse neppure


decidere il proprio aspetto?

Quello, invece, era arrivato bello e pronto.

9 preludio: parte di una composizione musicale.


10 Claude Debussy: compositore francese (1862-1918) considerato l’iniziatore della musica
moderna.

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Forse poteva scegliersi gli amici, ma non aveva scelto se stessa.

Non aveva neanche scelto di essere un essere umano.

Che cos’era un essere umano?

Sofia fissò nuovamente la ragazza dello specchio.

«Forse è meglio che vada di sopra a fare i compiti di scienze», mormorò.

No, meglio andare in giardino, decise.

«Micio, micio, micio, micio!»

Sofia spinse il gatto sulla scala e chiuse la porta.

(J. Gaarder, Il mondo di Sofia, Milano, Longanesi, 1994)

Riassunto
Sofia Amundsen è una ragazza che vive insieme alla madre e ai suoi
numerosi animali domestici, in una casa ai margini di una zona residenziale
della città. Il padre, essendo capitano di una grande petroliera, rimane
lontano da casa per gran parte dell’anno.

Tornata a casa dopo la scuola, Sofia trova una lettera anonima indirizzata
proprio a lei contenente un foglietto su cui c’è scritto: «Chi sei tu?».
A quel punto la ragazza comincia a fare una riflessione su di sé e sul proprio
aspetto fisico, ponendosi delle domande sull’esistenza e sulla vita degli
esseri umani, a cui però non trova risposta.

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Esercizi

1 Chi è la protagonista del racconto?

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2 Ci sono altri personaggi ricordati o citati nel racconto? Quali?

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5 Perché la mamma di Sofia era solita dire che la loro casa somigliava a un
«serraglio»?

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6 Che cosa del proprio aspetto non piace a Sofia? Quale elemento
in particolare?

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8 Allo specchio Sofia dice: «Tu sei me... Io sono te». Che significato hanno
queste parole secondo te?

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Andavo male a scuola
Daniel ha difficoltà
nello studio

racconta le sue ironia


difficoltà
emozioni e le sue affettuosa
con i maestri
umiliazioni del padre

dal racconto è
possibile intravedere il lieto
fine della sua vicenda

Insomma, andavo male a scuola. Ogni sera della mia infanzia tornavo a casa
perseguitato dalla scuola.

I miei voti sul diario dicevano la riprovazione1 dei miei maestri.

Quando non ero l’ultimo della classe, ero il penultimo. (Evviva!)

Refrattario2 dapprima all’aritmetica, poi alla matematica, profondamente


disortografico3, poco incline4 alla memorizzazione delle date e alla localizzazione
dei luoghi geografici, inadatto all’apprendimento delle lingue straniere, ritenuto
pigro (lezioni non studiate, compiti non fatti), portavo a casa risultati pessimi

1 riprovazione: disapprovazione.
2 Refrattario: ostile.
3 disortografico: con gravi difficoltà in ortografia.
4 incline: disposto, portato.

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che non erano riscattati né dalla musica, né dallo sport, né peraltro da alcuna
attività parascolastica.

“Capisci? Capisci o no quello che ti spiego?”

Non capivo. Questa inattitudine5 a capire aveva radici così lontane che
la famiglia aveva immaginato una leggenda per datarne le origini: il mio
apprendimento dell’alfabeto.

Ho sempre sentito dire che mi ci era voluto un anno intero per imparare
la lettera a. La lettera a, in un anno. Il deserto della mia ignoranza cominciava
al di là dell’invalicabile b.

“Niente panico6, tra ventisei anni padroneggerà perfettamente l’alfabeto”.

Così ironizzava mio padre per esorcizzare7 i suoi stessi timori.

Molti anni dopo, mentre ripetevo l’ultimo anno delle superiori inseguendo
un diploma di maturità che si ostinava a sfuggirmi, farà questa battuta:

“Non preoccuparti, anche per la maturità alla fine si acquisiscono degli


automatismi”.

O, nel settembre del 1968, quando ho avuto finalmente in tasca la mia laurea
in lettere:

“Ti ci è voluta una rivoluzione per la laurea, dobbiamo temere una guerra
mondiale per il dottorato8?”

Detto senza alcuna particolare malignità. Era la nostra forma di complicità.

Mio padre e io abbiamo optato9 molto presto per il sorriso.

5 inattitudine: incapacità. 8 dottorato: specializzazione dopo


6 panico: paura. la laurea.
7 esorcizzare: allontanare. 9 optato: scelto.

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Ma torniamo ai miei inizi. Ultimo genito10 di quattro fratelli, ero un caso a parte.

I miei genitori non avevano avuto occasione di fare pratica con i miei fratelli
maggiori, la cui carriera scolastica, seppur non eccezionalmente brillante,
si era svolta senza intoppi.

Ero oggetto di stupore, e di stupore costante poiché gli anni passavano senza
apportare il benché minimo miglioramento nel mio stato di ebetudine11 scolastica.

“Mi cadono le braccia”, “Non posso capacitarmi12” sono per me esclamazioni


familiari, associate a sguardi adulti in cui colgo un abisso di incredulità scavato
dalla mia incapacità di assimilare alcunché.

A quanto pareva, tutti capivano più in fretta di me.

“Ma sei proprio duro di comprendonio!”

Un pomeriggio dell’anno della maturità (uno degli anni della maturità), mentre

10 genito: nato. 12 capacitarmi: capire.


11 ebetudine: stupidità.

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mio padre mi spiegava trigonometria13 nella stanza che fungeva da14 biblioteca,
il nostro cane venne quatto quatto15 a mettersi sul letto dietro di noi. Appena
individuato, fu seccamente mandato via:

“Fila di là, cane, sulla tua poltrona!”

Cinque minuti dopo, il cane era di nuovo sul letto. Ma si era preso la briga di
andare a recuperare la vecchia coperta che proteggeva la sua poltrona e vi si era
steso sopra.

Ammirazione generale, ovviamente, e giustificata: tanto di cappello a un animale


in grado di associare un divieto all’idea astratta di pulizia e trarne la conclusione che
occorresse farsi la cuccia per godere della compagnia dei padroni, con un vero
e proprio ragionamento!

Fu un argomento di conversazione che in famiglia durò per anni.

Personalmente, ne trassi l’insegnamento che anche il cane di casa afferrava più


in fretta di me.

(D. Pennac, Diario di scuola, Milano, Feltrinelli, 2008)

13 trigonometria: una parte della matematica.


14 fungeva da: veniva utilizzata come.
15 quatto quatto: in silenzio e senza farsi notare.

RIASSUNTO
Daniel, il protagonista della storia, ha difficoltà nello studio e racconta
le sue emozioni, la sua fatica nell’imparare l’alfabeto, le sue umiliazioni
e le conseguenti difficoltà con i suoi maestri.

Daniel descrive le sue difficoltà scolastiche e l’ironia affettuosa di suo padre,


ma allo stesso tempo fa intendere il lieto fine della sua vicenda.

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ESERCIZI

1 Chi è il protagonista?
A Un bambino.
B Un adolescente.
C Un universitario.
D Un laureato.

2 Secondo i familiari, in quanti anni il protagonista avrebbe potuto imparare


l’alfabeto?
A Un anno.
B Dieci anni.
C Ventisei anni.
D Sei anni.

3 In quale occasione il padre del protagonista gli spiega trigonometria?

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6 Che cosa significa «sei duro di comprendonio»?


A Sei un tipo tenace.
B Fai fatica a capire le cose.
C Sei testardo.
D Nonostante le spiegazioni, fai fatica a capire le cose.

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8 Perché il protagonista porta l’esempio del cane?
A Perché pensa che il cane sia più intelligente di lui.
B Per dimostrare che il cane non è dotato di ragione.
C Perché il cane con il suo comportamento suscita la sua ammirazione.
D Per dimostrare che tutti sbagliano nell’ammirare il cane.

11 Come viene visto dalla famiglia il comportamento del ragazzo?


A Con rabbia.
B Con disapprovazione.
C Con ostilità.
D Con incredulità.

1 Ti sei mai trovato in una situazione simile a quella del protagonista?
Racconta.

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Minuti fatali
è stanca e Nervosa, sta per
Francesca è una
finire il suo turno e desidera
bibliotecaria
tornare a casa per riposarsi

entra una donna «infagottata


in un pesante cappotto»

la donna protesta per un libro preso in


prestito, alza la voce e offende francesca

Francesca perde la pazienza e colpisce


la donna alla testa con uno schedario

Ancora quattro minuti poi sarebbe tutto finito. Almeno per quel giorno.

Francesca stava sistemando nel piccolo schedario metallico le schede sparse


sulla scrivania: storia, narrativa, geografia, politica, poesia.

Alzò gli occhi e vide entrare una donna bassa, infagottata in un pesante cappotto
grigio topo con un’ampia sciarpa verde arrotolata attorno al collo.

Con passo militaresco si diresse al banco. «Questo libro è una vera schifezza.
Avevo chiesto in prestito un libro d’amore, non di... sesso». Pronunciò la parola sesso
con la stessa aria con cui avrebbe sputato del grasso rancido1.

1 rancido: andato a male.

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Francesca prese il libro che la donna aveva sbattuto sul banco senza nemmeno
dare un’occhiata al titolo e sussurrò un “Mi dispiace”.

«Ne voglio un altro, ma bello e pulito», continuò la donna tenendo gli occhi
piantati in quelli di Francesca che cercò di sorridere.

Ma la donna, con la sciarpa che premeva sotto la pappagorgia2, non sorrideva


affatto.

Tre minuti. Tre minuti poi il suo turno sarebbe terminato e avrebbe potuto correre
a rifugiarsi nel suo appartamento e chiudere finalmente la porta in faccia a quella
maledetta città.

Era riuscita ad arrivare alla fine della settimana come un pugile suonato
al termine del dodicesimo round dopo che l’avversario gli aveva scaricato addosso
bordate su bordate di pugni. Il direttore responsabile della biblioteca le aveva
affiancato un collega che pareva essere nato solo per torturarla con le sue domande
idiote.

“L’etichetta la metto rossa o blu?”, “I titoli li metto da destra a sinistra o cosa?”

Quando, poi, aveva bisogno di lui, era capace di eclissarsi3 in bagno per delle
mezz’ore, abbandonandola tra libri, utenti4 e schede.

Proprio non vedeva l’ora di andarsene e chiudere con tutti.

Con chi voleva un giallo ma ben scritto e non sanguinolento, chi dimenticava
la tessera ma voleva lo stesso utilizzare il prestito, chi voleva un libro
sa quello con quel tizio che ruba i gioielli della corona. L’autore? Inizia per P... P... P
qualcosa, chi voleva un volume di storia, quello sull’ultimo scaffale in alto, quello che

2 pappagorgia: doppio mento.


3 eclissarsi: sparire.
4 utenti: clienti.

24

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nessuno prende da tre anni e su cui la polvere si è adagiata come una sottile coltre5
di neve.

Tre minuti. Anzi due e quella specie di gnomo imbottito continuava a scrutarla6
incalzandola: «Allora, cosa mi consiglia?»

Un gruppo di ragazzi si stava avviando verso l’uscita, ridendo e menandosi


scherzose pacche sulle spalle.

Uno di loro fece un cenno di saluto a Francesca che rispose tirando le labbra
in un sorriso stentato.

La donna incappottata diede un’occhiata acida al gruppetto che, ormai fuori dalla
biblioteca, si stava disperdendo tra gli urli.

Resistere due minuti, solo questo. Spostare i propri pensieri da un punto all’altro
del cervello.

Non pensare al dottore che le aveva fatto fare una radiografia perché aveva
individuato “una strana macchia” proprio nel bel mezzo del suo stomaco. Rilassarsi.

Concentrarsi su un’idea piacevole. Un sogno realizzabile.

5 coltre: strato.
6 scrutarla: osservarla attentamente.

25

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«Sto aspettando», la voce della donna era nasale e ogni parola suonava quasi
metallica.

«Non saprei», Francesca si tirò di scatto una ciocca di capelli dietro l’orecchio
e abbassò gli occhi sulle schede: storia contemporanea, lesse.

«Come sarebbe a dire? Lei è una bibliotecaria, no? Dovrebbe essere in grado
di dare consigli agli utenti».

La faccia della donna si stava facendo color uva passa mentre il tono della voce
saliva.

Una faccia che le ricordava un’altra faccia: quella della sua padrona di casa
che sicuramente sarebbe stata ad aspettarla per l’affitto, per dirle che il suo gatto
grattava la porta, i fiori non bisognava annaffiarli alle sei di sera, le porte non
dovevano essere sbattute, la televisione urlava.

«Allora?» ripeté la donna.

Alcune ragazze che leggevano il giornale intorno a un tavolo ovale lì vicino


alzarono la testa per un attimo poi si immersero di nuovo nella lettura.

Francesca stava immobile, immersa in un ostinato7 silenzio. Lanciava rapide


occhiate al grosso orologio fissato alla parete di fronte.

«Lei mi deve rispondere, sa?»

Ormai la donna gridava senza alcun ritegno8.

«Voglio parlare con il responsabile. Lei mi deve aiutare, è un suo preciso dovere!»

Il tempo era scaduto, il suo turno era finito.

Ora la sua collega l’avrebbe sostituita e si sarebbe sopportata quella rogna.

7 ostinato: testardo.
8 ritegno: limite, freno.

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«Lei è un’incompetente e una lazzarona come tutti gli impiegati comunali. Siete
solo capaci di prendere i soldi dei contribuenti e non fate niente dalla mattina alla
sera».

Alcune persone si erano avvicinate al banco rimanendo, però, a una certa


distanza dalla donna.

Qualcuno aveva l’aria scandalizzata, altri parevano perplessi, altri ancora


sogghignavano.

Le ragazze avevano smesso di leggere i giornali e osservavano con attenzione


la scena.

La donna, intralciata dalla grossa sciarpa, girò la testa a destra e a sinistra


con un sorriso trionfante sulle labbra.

Francesca afferrò lo schedario con forza.

La donna stava ancora gongolando di soddisfazione quando lo spigolo metallico


si schiantò contro la sua tempia.

(B. Garlaschelli, O ridere o morire, Lugano, Todaro, 2005)

RIASSUNTO
Francesca è una bibliotecaria che sta per finire il turno di lavoro e non vede
l’ora di tornare a casa per riposarsi. Ma, proprio tre minuti prima della fine
del turno, arriva una donna bassa, «infagottata in un pesante cappotto»,
che inizia a lamentarsi di un libro preso in prestito. La donna chiede in
maniera insistente un consiglio per un altro libro, ma Francesca non le
risponde. L’anziana signora protesta, alza la voce e offende Francesca che,
persa la pazienza, la colpisce alla testa con uno schedario.

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ESERCIZI

1 Perché la «donna incappottata» si lamenta con la bibliotecaria? Che cosa


pretende la donna da Francesca?

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2 Come viene descritta la donna? Sottolinea nel testo le sequenze descrittive.

5 In che cosa consiste il finale a sorpresa?

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9 Rintraccia nel testo i motivi di insoddisfazione e di preoccupazione


di Francesca e completa la tabella inserendoli nella relativa sfera.

Sfera personale Sfera lavorativa

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Don Abbondio e i bravi
Don Abbondio è
Di ritorno verso casa dopo
la consueta passeggiata
serale

giunto a un tabernacolo
di campagna vede dei bravi

essi sono stati mandati dal


loro signore, don rodrigo, IL CURATO,
per comandare al curato di TERRORIZZATO,
non celebrare le nozze tra promette
renzo tramaglino obbedienza
e lucia mondella

Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa,
sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, curato d’una delle
terre accennate di sopra1: il nome di questa, né il casato del personaggio, non si
trovan nel manoscritto2, né a questo luogo né altrove. 

1 terre... sopra: il primo capitolo del romanzo si apre con una lunga e dettagliata descrizione
del luogo di ambientazione della vicenda.
2 manoscritto: è il testo anonimo di un autore secentesco che, secondo la finzione
manzoniana, rappresenta la fonte del racconto.

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Diceva tranquillamente il suo ufizio3, e talvolta, tra un salmo4 e l’altro, chiudeva
il breviario5, tenendovi dentro, per segno, l’indice della mano destra, e, messa poi
questa nell’altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra,
e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero:
poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all’intorno, li fissava alla parte
d’un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi6 del monte
opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze
di porpora.

Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio7, giunse a una


voltata della stradetta, dov’era solito d’alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi
dinanzi: e così fece anche quel giorno.

Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva
in due viottole, a foggia d’un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava
alla cura8: l’altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro
non arrivava che all’anche del passeggiero.

I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano


in un tabernacolo9 [...].

Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com’era solito, lo sguardo


al tabernacolo, vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere.

Due uomini stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle
due viottole10: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba

3 ufizio: preghiere.
4 salmo: lettura di contenuto religioso.
5 breviario: libro di preghiere.
6 fessi: fessure.
7 squarcio: brano.
8 menava alla cura: conduceva alla parrocchia.
9 tabernacolo: piccola cappella.
10 al confluente... viottole: dove i due sentieri si univano.

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spenzolata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il compagno,
in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto.

L’abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva
distinguer dell’aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano
entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero11 sinistro,
terminata in una gran nappa12, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo:
due lunghi mustacchi13 arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella
attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come
una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli ampi
e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia14 traforata a lamine d’ottone,
congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere
per individui della specie de’ bravi15. [...]

Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo
evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi
atti, che l’aspettato era lui.

Perché, al suo apparire, coloro s’eran guardati in viso, alzando la testa, con
un movimento dal quale si scorgeva che tutt’e due a un tratto avevan detto: è lui;
quello che stava a cavalcioni s’era alzato, tirando la sua gamba sulla strada;
l’altro s’era staccato dal muro; e tutt’e due gli s’avviavano incontro.

Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva


lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro,
fu assalito a un tratto da mille pensieri.

Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse

11 omero: spalla.
12 nappa: fiocco.
13 mustacchi: baffi.
14 guardia: impugnatura della spada.
15 bravi: malviventi al servizio del signore locale.

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qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no16.

Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche
vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza
lo rassicurava alquanto: i bravi però s’avvicinavano, guardandolo fisso.

Mise l’indice e il medio della mano sinistra nel collare17, come per raccomodarlo;
e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all’indietro, torcendo
insieme la bocca, e guardando con la coda dell’occhio, fin dove poteva,
se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno.

Diede un’occhiata, al di sopra del muricciolo, ne’ campi: nessuno; un’altra più
modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi.

Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire,
inseguitemi, o peggio.

Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti


di quell’incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro
che d’abbreviarli.

Affrettò il passo, recitò un versetto18 a voce più alta, compose la faccia a tutta
quella quiete e ilarità che poté, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando
si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò
su due piedi.

«Signor curato», disse un di que’ due, piantandogli gli occhi in faccia.

«Cosa comanda?» rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro,
che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo.

16 qualche uscita... di no: don Abbondio cerca invano qualche via di fuga per un viottolo
secondario, ma si ricorda che non ce ne sono.
17 collare: colletto.
18 versetto: capitoletto del Vangelo.

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«Lei ha intenzione», proseguì l’altro, con l’atto minaccioso e iracondo di chi
coglie un suo inferiore sull’intraprendere una ribalderia, «lei ha intenzione di maritar
domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!»

«Cioè...» rispose, con voce tremolante, don Abbondio: «cioè. Lor signori son
uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero
curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come
s’anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune19».

«Or bene», gli disse il bravo, all’orecchio, ma in tono solenne di comando,


«questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai».

«Ma, signori miei», replicò don Abbondio, con la voce mansueta20 e gentile
di chi vuol persuadere un impaziente, «ma, signori miei, si degnino di mettersi
ne’ miei panni. Se la cosa dipendesse da me... vedon bene che a me non me ne vien
nulla in tasca...»

«Orsù», interruppe il bravo, «se la cosa


avesse a decidersi a ciarle21,
lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne
sappiamo, né vogliam saperne di più.
Uomo avvertito... lei c’intende».

«Ma lor signori son troppo giusti,


troppo ragionevoli...»

«Ma», interruppe questa volta l’altro


compagnone, che non aveva parlato fin
allora, «ma il matrimonio non si farà, o...»

19 servitori del comune: al servizio della comunità.


20 mansueta: calma, dolce.
21 ciarle: chiacchiere.

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e qui una buona bestemmia, «o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà
tempo, e...» un’altra bestemmia.

«Zitto, zitto», riprese il primo oratore: «il signor curato è un uomo che sa
il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male, purché
abbia giudizio. Signor curato, l’illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone
la riverisce22 caramente».

Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d’un temporale
notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti,
e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand’inchino, e disse: «se mi
sapessero suggerire...»

«Oh! suggerire a lei che sa di latino!» interruppe ancora il bravo, con un riso tra
lo sguaiato23 e il feroce. «A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo
avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare
quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all’illustrissimo signor don
Rodrigo?»

«Il mio rispetto...»

«Si spieghi meglio!»

«... Disposto... disposto sempre all’ubbidienza».

E, proferendo24 queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa,
o un complimento.

I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato più serio.

«Benissimo, e buona notte, messere», disse l’un d’essi, in atto di partir col
compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per

22 riverisce: saluta con rispetto.


23 sguaiato: volgare.
24 proferendo: pronunciando.

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iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative.

«Signori...» cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più
dargli udienza, presero la strada dond’era lui venuto, e s’allontanarono, cantando
una canzonaccia che non voglio trascrivere25.

Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato;


poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi
a stento una gamba dopo l’altra, che parevano aggranchiate26.

(A. Manzoni, I promessi sposi, Milano, Garzanti, 1980)

25 che... trascrivere: è un intervento del narratore che, proseguendo nella finzione


del manoscritto, decide di non trascrivere le parole del testo della canzone.
26 aggranchiate: paralizzate.

RIASSUNTO
Il curato don Abbondio è di ritorno verso casa dopo la consueta
passeggiata serale; giunto in vicinanza di un bivio e di un tabernacolo,
intravede due persone dall’aspetto minaccioso e ben armate: sono dei
bravi. Non trovando nessuna via di fuga o strada secondaria che gli possa
evitare lo sgradevole incontro, si rassegna e procede spedito verso di loro.
Fra i tre si svolge un breve colloquio, nel quale il tono del curato appare
sottomesso, mentre quello dei bravi violento e volgare. Essi esprimono la
volontà del loro padrone, don Rodrigo, il quale ordina che don Abbondio
non celebri il matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella.
Il curato, terrorizzato, cerca di opporsi al sopruso, ma le minacce di morte
e la fermezza dei bravi lo costringono a esprimere obbedienza alla volontà
del loro padrone e a promettere che non celebrerà il matrimonio tra i due
govani.

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ESERCIZI

1 In quale momento della giornata ha inizio la vicenda e in che anno siamo?

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2 Qual è il fatto da cui prende inizio la vicenda romanzesca?

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.....................................................................................................................................

4 Che cosa ordinano i bravi al curato? E da chi sono mandati?

.....................................................................................................................................

6 Qual è la reazione del parroco di fronte alle minacce dei bravi? Si oppone
o si sottomette al sopruso?

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.....................................................................................................................................

8 Quando i due bravi si allontanano qual è lo stato d’animo del curato?

.....................................................................................................................................

.....................................................................................................................................

15 Immagina che i fatti raccontati da Manzoni si svolgano al giorno d’oggi


e di essere un giornalista di cronaca nera, al quale è stato permesso di
rivolgere alcune domande ai bravi, mentre vengono trasferiti in prigione
dalla polizia che è prontamente intervenuta. Scrivi sul quaderno una breve
intervista di non più di due pagine.

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Il Lager – Parte 1
l’arrivo al campo
Il viaggio in treno lungo ed estenuante,
verso Auschwitz senza acqua né viveri

prima selezione sulla base


di un breve interrogatorio:
età e stato di salute

primo levi viene caricato arrivo al campo:


su un autocarro insieme a «arbeit macht frei», il
una trentina di altri uomini lavoro rende liberi

Gli sportelli erano stati chiusi subito, ma il treno non si mosse che a sera.
Avevamo appreso con sollievo la nostra destinazione. Auschwitz: un nome privo di
significato, allora e per noi; ma doveva pur corrispondere a un luogo di questa terra.

Il treno viaggiava lentamente, con lunghe soste snervanti.

Dalla feritoia, vedemmo sfilare le alte rupi pallide della val d’Adige, gli ultimi nomi
di città italiane.

Passammo il Brennero alle dodici del secondo giorno, e tutti si alzarono in piedi,
ma nessuno disse parola.

Mi stava nel cuore il pensiero del ritorno, e crudelmente mi rappresentavo quale

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avrebbe potuto essere la inumana gioia di quell’altro passaggio, a portiere aperte,
ché nessuno avrebbe desiderato fuggire, e i primi nomi italiani..., e mi guardai
intorno, e pensai quanti, fra quella povera polvere umana, sarebbero stati toccati dal
destino.

Fra le quarantacinque persone del mio vagone, quattro soltanto hanno rivisto
le loro case; e fu di gran lunga il vagone più fortunato.

Soffrivamo per la sete e il freddo: a tutte le fermate chiedevamo acqua a gran


voce, o almeno un pugno di neve, ma raramente fummo uditi; i soldati della scorta
allontanavano chi tentava di avvicinarsi al convoglio.

Due giovani madri, coi figli ancora al seno, gemevano notte e giorno implorando
acqua.

Meno tormentose erano per tutti la fame, la fatica e l’insonnia, rese meno penose
dalla tensione dei nervi: ma le notti erano incubi senza fine.

Pochi sono gli uomini che sanno andare a morte con dignità, e spesso non quelli
che ti aspetteresti. Pochi sanno tacere, e rispettare il silenzio altrui.

Il nostro sonno inquieto era interrotto sovente da liti rumorose e futili,


da imprecazioni, da calci e pugni vibrati alla cieca come difesa contro qualche
contatto molesto e inevitabile. Allora qualcuno accendeva la lugubre fiammella
di una candela, e rivelava, prono1 sul pavimento, un brulichio fosco, una materia
umana confusa e continua, torpida e dolorosa, sollevata qua e là da convulsioni
improvvise subito spente dalla stanchezza.

Dalla feritoia, nomi noti e ignoti di città austriache, Salisburgo, Vienna;


poi cèche, infine polacche. Alla sera del quarto giorno, il freddo si fece intenso:
il treno percorreva interminabili pinete nere, salendo in modo percettibile.

1 prono: disteso a pancia in giù.

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La neve era alta. Doveva essere una linea secondaria, le stazioni erano piccole
e quasi deserte. Nessuno tentava più, durante le soste, di comunicare col mondo
esterno: ci sentivamo ormai “dall’altra parte”.

Vi fu una lunga sosta in aperta campagna, poi la marcia riprese con estrema
lentezza, e il convoglio si arrestò definitivamente, a notte alta, in mezzo a una
pianura buia e silenziosa.

Si vedevano, da entrambi i lati del binario, file di lumi bianchi e rossi, a perdita
d’occhio; ma nulla di quel rumorio confuso che denunzia di lontano i luoghi abitati.
Alla luce misera dell’ultima candela, spento il ritmo delle rotaie, spento ogni suono
umano, attendemmo che qualcosa avvenisse.

Accanto a me, serrata come me fra corpo e corpo, era stata per tutto il viaggio
una donna.

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Ci conoscevamo da molti anni, e la sventura ci aveva colti insieme, ma poco
sapevamo l’uno dell’altra. Ci dicemmo allora, nell’ora della decisione, cose che non
si dicono fra i vivi.

Ci salutammo, e fu breve; ciascuno salutò nell’altro la vita. Non avevamo


più paura.

Venne a un tratto lo scioglimento. La portiera fu aperta con fragore, il buio


echeggiò di ordini stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi2 quando
comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli.

Ci apparve una vasta banchina3 illuminata da riflettori.

Poco oltre, una fila di autocarri. Poi tutto tacque di nuovo.

Qualcuno tradusse: bisognava scendere coi bagagli, e depositare questi lungo


il treno.

In un momento la banchina fu brulicante di ombre: ma avevamo paura


di rompere quel silenzio, tutti si affaccendavano intorno ai bagagli, si cercavano,
si chiamavano l’un l’altro, ma timidamente, a mezza voce.

Una decina di SS4 stavano in disparte, l’aria indifferente, piantati a gambe larghe.

A un certo momento, penetrarono fra di noi, e, con voce sommessa, con visi
di pietra, presero a interrogarci rapidamente, uno per uno, in cattivo italiano.
Non interrogavano tutti, solo qualcuno.

«Quanti anni? Sano o malato?» e in base alla risposta ci indicavano due diverse
direzioni.

Tutto era silenzioso come in un acquario, e come in certe scene di sogni.

2 barbarici... tedeschi: le parole in tedesco suonano aspre e secche, come «latrati».


3 banchina: costruzione in muratura, simile a un grande marciapiede.
4 SS: sigla che indicava il corpo speciale dell’esercito nazista.

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Ci saremmo attesi qualcosa di più apocalittico: sembravano semplici agenti
d’ordine.

Era sconcertante e disarmante.

Qualcuno osò chiedere dei bagagli: risposero «bagagli dopo»; qualche altro
non voleva lasciare la moglie: dissero «dopo di nuovo insieme»; molte madri non
volevano separarsi dai figli: dissero «bene bene, stare con figlio».

Sempre con la pacata sicurezza di chi non fa che il suo ufficio5 di ogni giorno;
ma Renzo indugiò un istante di troppo a salutare Francesca, che era la sua
fidanzata, e allora con un solo colpo in pieno viso lo stesero a terra; era il loro ufficio
di ogni giorno.

In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo.

Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non
potemmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente.

Oggi però sappiamo che in quella scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era
stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente per il Reich6; sappiamo che nei
campi rispettivamente di Buna-Monowitz e Birkenau, non entrarono,
del nostro convoglio, che novantasei uomini e ventinove donne, e che di tutti gli altri,
in numero di più di cinquecento, non uno era vivo due giorni più tardi.

Sappiamo anche che non sempre questo pur tenue principio di discriminazione
in abili e inabili fu seguito, e che successivamente fu adottato spesso il sistema più
semplice di aprire entrambe le portiere dei vagoni, senza avvertimenti né istruzioni
ai nuovi arrivati.

5 ufficio: incarico.
6 Reich: in tedesco significa “regno”, “impero”. Hitler volle chiamare lo stato nazista “Terzo
Reich”, perché esso era la terza forma assunta dallo Stato tedesco dopo quella imperiale e
quella della Repubblica di Weimar.

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Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio;
andavano in gas7 gli altri.

Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese8
la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei.

Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa,
ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale, durante il viaggio nel vagone gremito,
il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello9 di zinco, in acqua
tiepida che il degenere macchinista tedesco aveva acconsentito a spillare dalla
locomotiva che ci trascinava tutti alla morte.

Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori,


i nostri figli.

Quasi nessuno ebbe modo di salutarli.

Li vedemmo un po’ di tempo come una massa oscura all’altra estremità della
banchina, poi non vedemmo più nulla [...].

Senza sapere come, mi trovai caricato su un autocarro con una trentina di altri;
l’autocarro partì nella notte a tutta velocità; era coperto e non si poteva vedere fuori,
ma dalle scosse si capiva che la strada aveva molte curve e cunette [...].

Il viaggio non durò che una ventina di minuti. Poi l’autocarro si è fermato,
e si è vista una grande porta, e sopra una scritta vivamente illuminata (il suo ricordo
ancora mi percuote nei sogni): ARBEIT MACHT FREI, il lavoro rende liberi.

(P. Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1958)

7 in gas: nelle camere a gas, dove i prigionieri venivano uccisi con inalazioni di gas tossici.
8 palese: evidente.
9 mastello: grande catino.

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Riassunto
Il brano descrive le modalità del viaggio che gli ebrei deportati erano
costretti a sopportare, in totale assenza di acqua e viveri, per arrivare ad
Auschwitz. Una volta giunti a destinazione avveniva la prima selezione dei
prigionieri, che poteva dipendere da un breve interrogatorio oppure dal caso
(chi scendeva da un lato del convoglio veniva condotto al campo di lavoro,
gli altri alle camere a gas).
Dopo la selezione, Primo Levi racconta di essersi trovato su un autocarro
con una trentina di altri uomini. Dell’arrivo al campo ricorda la scritta
illuminata su una grande porta: «ARBEIT MACHT FREI», il lavoro rende liberi.

Esercizi
1a/b Dove si svolgono i fatti narrati e in quale periodo?

...............................................................................................................................

1c/d Perché il narratore scrive in prima persona? I fatti narrati sono veri
o frutto della sua immaginazione?

...............................................................................................................................

1g In quali condizioni si svolge il viaggio?

...............................................................................................................................

1  Che cosa succede una volta che il treno si ferma? Avviene una «selezione»
oppure tutti i prigionieri vengono fatti entrare nel campo?

...............................................................................................................................

...............................................................................................................................

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Il Lager – Parte 2
«arbeit macht frei»
il Lavoro
nel campo

i lavori svolti
la giornata dei sono Massacranti
prigionieri è scandita da anche per le precarie
rigidi orari di lavoro condizioni di salute
e la scarsità di cibo

La traversina è incrostata di neve e di fango, a ogni passo mi batte contro


l’orecchio e la neve mi scivola nel collo.

Dopo una cinquantina di passi sono al limite di quanto si suole chiamare


la normale sopportazione: le ginocchia si piegano, la spalla duole come stretta
in una morsa, l’equilibrio è in pericolo.

A ogni passo sento le scarpe succhiate dal fango avido, da questo fango polacco
onnipresente il cui orrore monotono riempie le nostre giornate.

Mi mordo profondamente le labbra: a noi è noto che il procurarsi un piccolo


dolore estraneo serve come stimolante per mobilitare le estreme riserve di energia.

Anche i Kapos1 lo sanno: alcuni ci percuotono per pura bestialità e violenza,


ma ve ne sono altri che ci percuotono quando siamo sotto il carico,

1 Kapos: prigionieri incaricati della sorveglianza di altri prigionieri.

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quasi amorevolmente, accompagnando le percosse con esortazioni
e incoraggiamenti, come fanno i carrettieri coi cavalli volenterosi.

Arrivati al cilindro2, scarichiamo a terra la traversina, e io resto impalato, cogli


occhi vuoti, la bocca aperta e le braccia penzoloni, immerso nella estasi effimera
e negativa della cessazione del dolore.

In un crepuscolo di esaurimento, attendo lo spintone che mi costringerà


a riprendere il lavoro, e cerco di profittare di ogni secondo dell’attesa per ricuperare
qualche energia.

Ma lo spintone non viene; Resnyk3 mi tocca il gomito, il più lentamente possibile


ritorniamo alle traversine.

Là si aggirano gli altri, a coppie, cercando tutti di indugiare quanto più possono
prima di sottoporsi al carico.

«Allons, petit, attrape4». Questa traversina è asciutta e un po’ più leggera,


ma alla fine del secondo viaggio mi presento al Vorarbeiter5 e chiedo di andare alla
latrina.

Noi abbiamo il vantaggio che la nostra latrina è piuttosto lontana; questo


ci autorizza, una volta al giorno, a una assenza un po’ più lunga che di norma,
e inoltre, poiché è proibito recarvisi da soli, ne è seguito che Wachsmann,
il più debole e maldestro del Kommando6, è stato investito della carica di
Scheissbegleiter, “accompagnatore alle latrine”; Wachsmann, per virtù di tale
nomina, è responsabile di un nostro ipotetico (risibile7 ipotesi!) tentativo di fuga,
e, più realisticamente, di ogni nostro ritardo.

2 cilindro: enorme cilindro di ghisa scaricato 4 Allons, petit, attrape: “Su, piccolo,
da un camion. afferra” (in francese).
3 Resnyk: compagno di cuccetta e di 5 Vorarbeiter: caposquadra (in tedesco).
lavoro di Levi; essendo polacco, per farsi 6 Kommando: reparto.
capire parlava un francese piuttosto 7 risibile: ridicola.
approssimativo.

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Poiché la mia domanda è stata accettata,
me ne parto nel fango, nella neve grigia
e tra i rottami metallici, scortato dal piccolo
Wachsmann [...].

Quando ritorno al lavoro, si vedono


passare gli autocarri del rancio, il che vuol
dire che sono le dieci, e questa è già un’ora
rispettabile, tale che la pausa di mezzogiorno
già si profila nella nebbia del futuro remoto8
e noi possiamo cominciare ad attingere
energia dall’attesa.

Faccio con Resnyk ancora due o tre viaggi, cercando con ogni cura, anche
spingendoci a cataste lontane, di trovare traversine più leggere, ma ormai tutte
le migliori sono già state trasportate, e non restano che le altre, atroci, dagli spigoli
vivi, pesanti di fango e ghiaccio, con inchiodate le piastre metalliche per adattarvi
le rotaie.

(P. Levi, Se questo è un uomo, cit.)

8 remoto: lontano, perché ci sono ancora due ore di duro lavoro.

Riassunto
La giornata dei prigionieri è scandita da rigidi orari di lavoro. Si tratta
di lavori pesanti, resi ancor più massacranti dalle precarie condizioni
di salute e dalla scarsità di cibo. Anche durante i mesi invernali gli uomini
vengono condotti in un cantiere poco fuori dal campo, dove devono caricare
e scaricare merce varia, fra cui pesanti tubi di ferro e traversine di legno,
intrise di pioggia e quindi ancor più pesanti.

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Esercizi

1i A quali lavori sono destinati i prigionieri?

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.....................................................................................................................................

.....................................................................................................................................

1l Chi è il compagno di lavoro di Primo Levi?

.....................................................................................................................................

1 Quante sono le ore di lavoro giornaliere?

.....................................................................................................................................

.....................................................................................................................................

2 Levi parla di un vantaggio di cui lui e i suoi compagni godevano: di che cosa
si tratta?

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.....................................................................................................................................

.....................................................................................................................................

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Il Lager – Parte 3
la selezione dei prigionieri
avviene molto rapidamente,
La selezione dei
sulla base di religione, età
prigionieri
e stato di salute

anche a causa
della rapida superficialità
spesso vengono commesse
delle irregolarità

Già molti sonnecchiano, quando uno scatenarsi di comandi, di bestemmie


e di colpi indica che la commissione è in arrivo.

Il Blockaltester1 e i suoi aiutanti, a pugni e a urli, a partire dal fondo


del dormitorio, si cacciano davanti la turba dei nudi spaventati, e li stipano dentro
il Tagesraum, che è la Direzione-Fureria2.

Il Tagesraum è una cameretta di sette metri per quattro: quando la caccia è finita,
dentro il Tagesraum è compressa una compagine umana calda e compatta, che
invade e riempie perfettamente tutti gli angoli ed esercita sulle pareti di legno una
pressione tale da farle scricchiolare.

Ora siamo tutti nel Tagesraum, e, oltre che non esserci tempo, non c’è neppure

1 Blockaltester: l’incaricato della chiusura delle porte del dormitorio e della sua sorveglianza.
2 Fureria: nel linguaggio militare è l’ufficio amministrativo in cui sono custoditi i documenti
di una compagnia di soldati.

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posto per avere paura. La sensazione della carne calda che preme tutto intorno
è singolare e non spiacevole. Bisogna aver cura di tener alto il naso per trovare aria,
e di non spiegazzare o perdere la scheda che teniamo in mano.

Il Blockaltester ha chiuso la porta del Tagesraum-dormitorio e ha aperto le altre


due che dal Tagesraum e dal dormitorio danno all’esterno.

Qui, davanti alle due porte, sta l’arbitro del nostro destino, che è un sottufficiale
delle SS. Ha a destra il Blockaltester, a sinistra il furiere3 della baracca.

Ognuno di noi, che esce nudo dal Tagesraum nel freddo dell’aria di ottobre, deve
fare di corsa i pochi passi fra le due porte davanti ai tre, consegnare la scheda alla
SS e rientrare per la porta del dormitorio.

La SS, nella frazione di secondo fra due passaggi successivi, con uno sguardo di
faccia e di schiena giudica della sorte di ognuno, e consegna a sua volta la scheda
all’uomo alla sua destra o all’uomo alla sua sinistra, e questo è la vita o la morte di
ciascuno di noi.

In tre o quattro minuti una baracca di duecento uomini è “fatta”, e nel pomeriggio
l’intero campo di dodicimila uomini.

Io confitto nel carnaio del Tagesraum ho sentito gradualmente allentarsi


la pressione umana intorno a me, e in breve è stata la mia volta.

Come tutti, sono passato con passo energico ed elastico, cercando di tenere
la testa alta, il petto in fuori e i muscoli contratti e rilevati.

Con la coda dell’occhio ho cercato di vedere alle mie spalle, e mi è parso che
la mia scheda sia finita a destra.

A mano a mano che rientriamo nel dormitorio, possiamo rivestirci.

3 furiere: impiegato addetto all’ufficio amministrativo di ogni baracca-dormitorio.

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Nessuno conosce ancora con sicurezza il proprio destino, bisogna anzitutto
stabilire se le schede condannate sono quelle passate a destra o a sinistra.

Ormai non è più il caso di risparmiarsi l’un l’altro e di avere scrupoli superstiziosi.

Tutti si accalcano intorno ai più vecchi, ai più denutriti, ai più “mussulmani4”;


se le loro schede sono andate a sinistra, la sinistra è certamente il lato dei
condannati.

Prima ancora che la selezione sia terminata, tutti già sanno che la sinistra è stata
effettivamente la “schlechte Seite”, il lato infausto.

Ci sono naturalmente delle irregolarità: René per esempio, così giovane e robusto,
è finito a sinistra: forse perché ha gli occhiali, forse perché cammina un po’ curvo
come i miopi, ma più probabilmente per una semplice svista: René è passato davanti
alla commissione immediatamente prima di me, e potrebbe essere avvenuto uno
scambio di schede.

Ci ripenso, ne parlo con Alberto, e conveniamo che l’ipotesi è verosimile: non so


cosa ne penserò domani e poi; oggi essa non desta in me alcuna emozione precisa.

Parimenti di un errore deve essersi trattato per Sattler, un massiccio contadino


transilvano5 che venti giorni fa era ancora a casa sua; Sattler non capisce
il tedesco, non ha compreso nulla di quel che è successo e sta in un angolo
a rattopparsi la camicia. Devo andargli a dire che non gli servirà più la camicia?

Non c’è da stupirsi di queste sviste: l’esame è molto rapido e sommario,


e d’altronde, per l’amministrazione del Lager, l’importante non è tanto che vengano
eliminati proprio i più inutili, quanto che si rendano speditamente liberi posti
in una certa percentuale prestabilita.

4 mussulmani: chi appartiene alla cultura e alla civiltà islamica e ne professa la religione;
qui ha il significato di non appartenenza alla “razza ariana”.
5 transilvano: originario della Transilvania, regione della Romania.

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Nella nostra baracca la selezione è ormai finita, però continua nelle altre,
per cui siamo ancora sotto clausura6.

Ma poiché frattanto i bidoni della zuppa


sono arrivati, il Blockaltester decide
di procedere senz’altro alla distribuzione.

Ai selezionati verrà distribuita doppia


razione.

Non ho mai saputo se questa fosse


un’iniziativa assurdamente pietosa dei
Blockaltester od un’esplicita disposizione
delle SS, ma di fatto, nell’intervallo di due
o tre giorni (talora anche molto più lungo)
fra la selezione e la partenza, le vittime
a Monowitz-Auschwitz godevano di questo privilegio.

Ziegler presenta la gamella7, riscuote la normale razione, poi resta lì in attesa.


«Che vuoi ancora?» chiede il Blockaltester: non gli risulta che a Ziegler spetti
il supplemento, lo caccia via con una spinta, ma Ziegler ritorna e insiste umilmente:
è stato proprio messo a sinistra, tutti l’hanno visto, vada il Blockaltester a consultare
le schede: ha diritto alla doppia razione.

Quando l’ha ottenuta, se ne va quieto in cuccetta a mangiare.

Adesso ciascuno sta grattando attentamente col cucchiaio il fondo della gamella
per ricavarne le ultime briciole di zuppa, e ne nasce un tramestio8 metallico sonoro
il quale vuol dire che la giornata è finita. A poco a poco prevale il silenzio,

6 sotto clausura: costretti a rimanere chiusi nella baracca.


7 gamella: tazza, recipiente.
8 tramestio: rumore confuso.

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e allora, dalla mia cuccetta che è al terzo piano, si vede e si sente che il vecchio Kuhn
prega, ad alta voce, col berretto in testa e dondolando il busto con violenza.
Kuhn ringrazia Dio perché non è stato scelto.

Kuhn è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto, Beppo il greco che ha
vent’anni, e dopodomani andrà in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso
la lampadina senza dire niente e senza pensare più niente?

Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che
è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono,
nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare,
potrà risanare mai più?

(P. Levi, Se questo è un uomo, cit.)

Riassunto
Quando c’è bisogno di creare posti per i nuovi “ospiti” in arrivo,
i responsabili del campo procedono alla selezione dei prigionieri per stabilire
chi può continuare a lavorare, e quindi a vivere, e chi deve essere mandato
alle camere a gas. Prima della selezione i prigionieri vengono condotti nelle
baracche-dormitorio, che vengono chiuse e vigilate.

La selezione dei prigionieri avviene rapidamente, secondo alcuni criteri quali


religione, età e stato di salute. Anche a causa della rapida superficialità con
cui è svolto l’esame, spesso vengono commesse delle irregolarità.

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Esercizi

1o In base a quale criterio i prigionieri vengono selezionati e divisi in due


gruppi?

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.....................................................................................................................................

1 Qual è lo scopo principale di questa selezione? Con quale procedura avviene?

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2 È possibile che le SS commettano degli errori? Motiva la risposta.

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3 Quelli che venivano scelti per essere mandati alle camere a gas avevano
un trattamento speciale: quale?

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Liolà
Il testo che stai per leggere fa parte di un noto dramma teatrale di Luigi
Pirandello. La vicenda è ambientata nelle campagne intorno ad Agrigento
e ha come protagonista Nico Schillaci, detto “Liolà”: un simpatico contadino
che ha stretto numerose relazioni con ragazze del luogo da cui ha avuto tre
figli, affidati alle cure della propria madre, zia Ninfa.
L’ultima vittima dell’interesse di Liolà è Tuzza, nipote del ricco zio Simone,
il quale soffre di non poter avere figli dalla giovane moglie Mita. Scopertasi
in stato interessante, Tuzza rifiuta le nozze riparatrici proposte da Liolà, perché
nutre il progetto di accordarsi con zio Simone, facendo passare per suo il figlio
che ha in grembo: in questo modo sarebbe salvata la dignità maschile
del ricco possidente e la sua eredità passerebbe al figlio di Tuzza.
Di questo zio Simone si vanta con la moglie Mita, accusandola di sterilità, ma
durante l’assenza dell’uomo Liolà ne mette incinta la moglie. Al suo ritorno zio
Simone, ignaro dell’accaduto, annuncia felice a tutti la sua prossima paternità,
credendosene veramente l’artefice. Tuzza allora, sentendosi doppiamente
beffata, decide di vendicarsi di Liolà e, nella scena finale che ti presentiamo,
di fronte a tutti tenta di ucciderlo con una coltellata.

Zia Croce accusa Liolà LIolà si difende


di aver messo incinta accusando a sua volta
sua figlia tuzza Zio Simone

dopo che Liolà dichiara


che si prenderà cura di Zio Simone dice a Liolà
suo figlio, Tuzza perde di prendersi cura di suo
la ragione e lo ferisce figlio e di tuzza
lievemente con un
coltello

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ATTO III

ZIA CROCE1 Già... proprio non sa fare altro lui, poverino... (Gli s’accosta, gli
afferra un braccio e gli dice sotto sotto, tra i denti:) Due volte m’hai
rovinato la figlia, assassino!

LIOLÀ  Io, la figlia. Osa dir questo, lei a me, davanti a zio Simone? Gliel’ha
rovinata lui, due volte, la figlia, non io!

ZIA CROCE  No, no, tu! Tu!

LIOLÀ  Lui! Lui! Zio Simone! Non cambiamo le carte in mano, zia Croce!
Io venni qua a domandare onestamente la mano di sua figlia, non
potendo mai supporre...

ZIA CROCE  Ah no? Dopo quello che avevi fatto con lei?

LIOLÀ  Io? Zio Simone!

ZIA CROCE  Zio Simone, già! Proprio zio Simone!

LIOLÀ  Oh, parli lei, zio Simone! Vorreste negare, adesso, e gettare il figlio
addosso a me? – Non facciamo scherzi! – Io ho tanto ringraziato
Dio che m’ha guardato d’esser preso nella rete, in cui, senza
sospetto di nulla, ero venuto
a cacciarmi. – Alla larga, zio Simone! Che razza di vecchio è lei, si
può sapere? Non
le bastava un figlio con sua nipote? Uno, anche con sua moglie?
E che cos’ha in corpo? Le fiamme dell’inferno o il fuoco divino?
Il diavolo? Il Mongibello2? Dio ne scampi e liberi ogni figlia di
mamma!

1 Zia Croce: è la madre della giovane Tuzza. Qui la parola “zia” indica “signora”.
2 Mongibello: la parte più alta dell’Etna, il vulcano situato nei pressi di Catania, in Sicilia.

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ZIA CROCE Eh già, proprio da lui, proprio da lui devono guardarsi le figlie
di mamma!

ZIO SIMONE Liolà, non farmi parlare! Non farmi fare, Liolà, ciò che non debbo
e non voglio fare! Vedi che tra me e mia nipote non c’è stato, né
poteva esserci, peccato! C’è stato solo che mi si buttò ai piedi
pentita di ciò che aveva fatto con te, confessandomi lo stato in cui
si trovava. Mia moglie adesso sa tutto. E io sono pronto a giurarti
davanti a Gesù sacramentato e davanti a tutti che mi son vantato a
torto del figlio che, in coscienza, è tuo!

LIOLÀ  E intende, con questo, che io ora dovrei prendermi Tuzza?

ZIO SIMONE  Te la puoi e te la devi prendere, Liolà, perché, com’è vero Dio
e la Madonna Santissima, non è stata d’altri che tua!

LIOLÀ Eh – eh – eh – come corre lei, caro zio Simone! – Volevo, sì, prima.
Per coscienza, non per altro. Sapevo che, sposando lei, tutte le
canzoni mi sarebbero morte nel cuore. – Tuzza
allora non mi volle. – La botte piena e la moglie
ubriaca? Zio Simone, zia Croce, le due cose
insieme non si possono avere! – Ora che il giuoco
v’è fallito? No no, ringrazio, signori! Ringrazio.
(Si piglia per mano due dei ragazzi.) Andiamo,
andiamo via, ragazzi! (S’avvia, poi torna indietro.)
Posso farmi di coscienza: questo sì. Gira e volta,
vedo che qua c’è un figlio di più. Bene, non ho
difficoltà. Crescerà il da fare a mia madre. Il figlio,
lo dica pure a Tuzza, zia Croce,
se me lo vuol dare, me lo piglio!

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TUZZA (che se n’è stata tutta aggruppata in disparte, schizzando fuoco dagli
occhi, a quest’ultime parole si lancia contro Liolà con un coltello in
mano) Ah sì, il figlio? Pigliati questa, invece!

(Tutti gridano, levando le mani e accorrendo a trattenerla. Mita si sente mancare


ed è sorretta e subito confortata da zio Simone.)

LIOLÀ (pronto ha ghermito il braccio di Tuzza, e con l’altra mano le batte


sopra le dita fino a farle cadere il coltello a terra, ride e rassicura
tutti, che non è stato nulla) Nulla, nulla... non è stato nulla...
(Appena a Tuzza cade il coltello, subito vi mette
il piede sopra, e dice di nuovo con una gran risata:) Nulla! (Si china
a baciare la testa d’uno dei tre bambini poi, guardandosi nel petto
un filo di sangue:) Uno sgraffietto, di striscio... (Vi passa sopra il dito
e poi va a passarlo sulle labbra di Tuzza.) Eccoti qua, assaggia! –
Dolce, eh? (Alle donne che la trattengono:) Lasciatela! (La guarda;
poi guarda i tre bambini, pone le mani sulle loro testoline, e dice,
rivolto a Tuzza:) Non piangere! Non ti rammaricare! Quando ti
nascerà, dammelo pure. Tre, e uno quattro! Gl’insegno a cantare.

(L. Pirandello, Liolà, Milano, Garzanti, 1993)

Riassunto
Zia Croce accusa Liolà di aver messo incinta sua figlia Tuzza. Liolà si
difende accusando a sua volta zio Simone, il quale spiega di essersi
vantato di essere il padre del figlio di Tuzza solo per aiutare la ragazza che,
pentita, aveva cercato in lui conforto. Quando poi Liolà, su richiesta di zio
Simone, dichiara che si prenderà cura del figlio in arrivo, Tuzza perde il
controllo e lo ferisce lievemente con un coltello.

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ESERCIZI

1 Chi è Liolà?

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2 Chi è Tuzza?

.....................................................................................................................................

3 Che rapporto c’è fra loro?

.....................................................................................................................................

4 Chi è zio Simone e che rapporto ha con i due personaggi?

.....................................................................................................................................

6 Quali accuse vengono rivolte a Liolà?

.....................................................................................................................................

10 In un testo teatrale che cosa sono le didascalie?

.....................................................................................................................................

11 In un testo teatrale che cosa sono le battute? Chi le pronuncia?

.....................................................................................................................................

15 Come interpreti l’espressione “schizzare fuoco dagli occhi”? In senso figurato


o letterale?

.....................................................................................................................................

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Come i primi Uomini Bianchi
arrivarono dagli Cheyenne

Appartiene alla
Aquila Rossa
tribù Cheyenne

un’estate trova un uomo


bianco, magro e moribondo

è sopravvissuto
dopo essere stato curato fortuitamente al
e nutrito da aquila rossa, capovolgimento della
lo straniero impara la sua imbarcazione mentre,
lingua della tribù insieme ad altri compagni,
e racconta la sua storia stava mettendo trappole
per castori

promette di donare
alla tribù la tecnologia del
suo popolo, in cambio di
pellicce di castoro

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In un’estate di molto tempo fa, gli Cheyenne erano accampati presso certi laghi
oltre il fiume Missouri.

Un mattino, usciti dal sonno, Aquila Rossa e sua moglie videro una strana
creatura coricata nel loro tepee1.

La donna, spaventata, stava per mettersi a urlare, ma Aquila Rossa


la tranquillizzò e si avvicinò a quello strano essere che stava lentamente tentando
di mettersi a sedere.

Aquila Rossa vide che la creatura era un uomo, abbastanza simile nell’aspetto
a uno Cheyenne, ma con la pelle bianca e peli sul viso, e che parlava in un modo
incomprensibile.

L’uomo era tanto magro da non avere praticamente carne sulle ossa e indossava
solo, a mo’ di veste, erba e muschio.

Era molto prossimo a morire.

Aquila Rossa gli diede qualcosa da mangiare, ma l’uomo era così esausto che
il suo stomaco non poteva reggere il cibo. Dopo poco tempo, tuttavia, ritrovò le forze.

Aquila Rossa pregò la moglie di tener segreta la presenza dello straniero.

Temeva infatti che qualcuno della tribù lo uccidesse, credendo che potesse
portare sfortuna.

Qualche giorno più tardi i capi mandarono in giro un banditore2 ad annunciare


che gli Cheyenne avrebbero levato il campo l’indomani.

Rendendosi conto che non sarebbe più stato possibile tener nascosto lo straniero,
Aquila Rossa ne rivelò la presenza.

«L’ho preso con me come fratello», spiegò. «Se qualcuno gli farà del male,

1 tepee: tenda a forma di cono, tipica degli indiani d’America delle praterie.
2 banditore: chi annuncia qualcosa alla comunità.

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lo punirò. Il Grande Spirito ci avrà certo mandato quest’uomo per qualche
buona ragione».

E così Aquila Rossa lo vestì, lo nutrì e lo riportò alla vita. Dopo qualche tempo
l’uomo imparò a dire qualche parola in lingua Cheyenne, e imparò anche
il linguaggio a segni della tribù.

Così fu in grado di raccontare ad Aquila Rossa che veniva da oriente, dalla terra
dove nasce il sole.

«Con altri sette uomini partii per metter trappole ai castori. Eravamo su un lago,
in una barca, quando all’improvviso il vento salì, fece capovolgere la barca e tutti
gli altri annegarono. Raggiunta a fatica la riva, vagai sperduto, nutrendomi di bacche
e di radici finché tutti i miei indumenti furono logori e stracciati. Mezzo cieco e quasi
morto di fame, entrai per caso nel vostro accampamento e caddi esausto nel tuo
tepee».

Più di cento volte lo straniero ringraziò Aquila Rossa per avergli salvato la vita,
e poi continuò:

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«Da molti giorni vedo quanto duramente tu e la tua gente lavorate. Per fare il
fuoco dovete usare due bastoni. Tua moglie si serve degli aculei del porcospino per
cucire. Usa recipienti di pietra per cucinare e tu adoperi coltelli di pietra e punte di
pietra per i giavellotti e le frecce. Il mio popolo, che è potente e numeroso, ha molte
cose meravigliose che gli Cheyenne non hanno».

«Che cosa sono queste cose meravigliose?» domandò Aquila Rossa.

«Aghi che non si spuntano mai con cui tua moglie potrebbe cucire. Coltelli di
metallo affilato con cui tagliare, acciarini3 con cui fare il fuoco, e un’arma che
si carica con una polvere nera e scaglia duri pezzi di metallo dritti contro tutta la
selvaggina di cui hai bisogno. Io posso portarti queste cose, se tu e il tuo popolo mi
aiuterete a procurarmi pellicce di castoro. Il mio popolo ama le pellicce di castoro e
in cambio mi darà per voi queste cose meravigliose».

Aquila Rossa riferì a quelli della sua tribù ciò che gli aveva detto lo straniero,
ed essi raccolsero per lui molte pellicce di castoro.

Le pellicce furono caricate su vari travois4 trainati da cani e un giorno lo straniero


se ne andò verso il sole nascente con il suo carico di pellicce portato dai cani.

Passarono parecchie lune5 e Aquila Rossa cominciò a chiedersi se lo straniero


sarebbe mai tornato.

Poi, una mattina di sole splendente, gli Cheyenne udirono vicino al loro campo
un rumore simile allo scoppio di un fulmine.

Su uno sperone di roccia, a oriente, videro un uomo che indossava un berretto


e una giacca rossi.

3 acciarini: accendini.
4 travois: tipo di traino senza ruote, costituito da due assi attaccate ai fianchi di un cavallo
o di un cane, unite trasversalmente da un asse orizzontale su cui poggia il carico.
5 parecchie lune: parecchi mesi. Gli indiani calcolavano il tempo in mesi lunari.

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Portava alta sulla testa una strana arma simile a un bastone nero, e lanciò loro
un saluto nella loro lingua.

Quando si avvicinò, essi riconobbero in lui lo straniero che era andato via con
le pellicce di castoro.

Aveva portato agli Cheyenne tutte le cose meravigliose di cui aveva parlato
– coltelli, aghi di metallo e acciarini – e mostrò loro come usarle.

Poi fece loro vedere la polvere nera e il ferro forato con cui aveva fatto un rumore
simile allo scoppio di un fulmine.

Fu così che i primi Uomini Bianchi arrivarono dagli Cheyenne.

(www.invalsi.it)

RIASSUNTO
In un’estate di molto tempo fa, nella tribù Cheyenne, Aquila Rossa trova
per caso, coricato nel suo tepee, un uomo non appartenente alla sua gente.
Lo straniero è bianco, magro e moribondo. Aquila Rossa decide
di accoglierlo come un fratello, nutrendolo e curandolo.

Dopo aver ripreso le forze, l’uomo inizia a imparare la lingua della tribù
e racconta di come sia sopravvissuto fortuitamente al rovesciamento della
propria imbarcazione mentre, assieme ad altri compagni, stava mettendo
trappole per castori. Egli promette che regalerà alla tribù la tecnologia del
suo popolo, in cambio di aiuto nel procurarsi molte pellicce di castoro. Lo
straniero se ne va con il suo carico di pellicce. Dopo molte lune fa ritorno,
portando agli Cheyenne tutte le cose meravigliose promesse.

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Esercizi

3 Guardando con attenzione l’uomo bianco, Aquila Rossa si accorge che:


A è ricoperto di ferite. C è un cacciatore.
B ha dei vestiti strani. D ha la barba.

4 Per proteggere l’uomo bianco dagli altri Cheyenne, Aquila Rossa dice che
l’uomo bianco:
A è l’incarnazione del grande spirito.
B porterà molte ricchezze alla tribù.
C è diventato per lui come un fratello.
D è un importante commerciante di pelli di castoro.

6 Dal brano si può capire che gli Cheyenne sono:


A una tribù di grandi guerrieri.
B un popolo potente e numeroso.
C una tribù nomade.
D un popolo forte e bellicoso.

9 Quando l’uomo bianco torna dagli Cheyenne per prima cosa li avvisa del suo
arrivo:
A sventolando un berretto rosso.
B sparando un colpo di fucile.
C agitando in alto una specie di bastone nero.
D urlando un saluto nella loro lingua.

10 Il brano che hai letto è:


A una cronaca storica degli indiani d’America.
B una leggenda degli Cheyenne.
C una storia di uomini alla frontiera.
D un racconto di una tribù pellerossa.

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A tre anni nelle cave di pietra
per sopravvivere
Najmun ha Lavora nelle cave
cinque anni di pietra con la
famiglia

Il lavoro consiste
Il guadagno
nello spaccare pietre
è minimo
con pesanti mazze

DHAKA – Il piccolo Najmun alza un attimo lo sguardo e fa vedere i suoi occhi tinti
di giallo dalla polvere.

Ha la pelle annerita dal sole, i piedi graffiati e i palmi1 delle mani ricoperti
da grossi calli per la pesante mazza2 di legno e acciaio che stringe con forza.

«Bango, bango! (colpite, colpite)», si sente gridare al capoperaio da lontano.


«Bango, bango!», ripetono Najmun e i suoi piccoli compagni nel cantiere, mentre
tornano veloci al lavoro.

Qui, nei campi di pietra di Pagla, nel cuore del Bangladesh, non c’è posto né per
il riposo né per la debolezza: si deve lavorare dall’alba, e i bambini imparano
a spaccare le pietre prima che a parlare.

Le rocce più grandi si devono frantumare in pezzetti, per farli poi diventare ancora
più piccoli. Così una gigantesca macchina potrà trasformarli in sabbia per
la costruzione.

1 palmi: parte inferiore delle mani.


2 mazza: lungo bastone.

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Gli uomini più forti caricano cesti pieni di rocce e li accatastano3 vicino al luogo
dove lavorano i bimbi.

Alcuni hanno appena tre anni.

«Ogni 100 sassi frantumati, guadagnano mezzo dollaro. I bambini possono


spaccare diverse pietre in un giorno, vero che sembra incredibile con quelle braccia
tanto piccole?» dice il barbuto Mulluc Chan, il capo della cava che impiega 300
persone.

Più della metà hanno meno di 12 anni.

Najmun, 5 anni, ha la testa rasa e il gesto triste. «Se oggi spacco le pietre durante
tutto il giorno, domani posso riposarmi per un po’», dice.

Anche i suoi tre fratelli e i genitori lavorano nel cantiere.

La famiglia al completo ha dovuto lasciare la campagna e trasferirsi nella capitale


un anno fa, quando i loro ultimi animali sono morti di fame.

Rimanere avrebbe significato rischiare la stessa sorte.

«Najmun e i suoi fratelli devono fare uno sforzo,


senza di loro non ce la faremmo per mangiare, non c’è
alternativa4», si scusa Fatema, la mamma.

3 accatastano: accumulano.
4 alternativa: scelta.

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All’orizzonte si vede solo un campo di pietre immenso e aspro dove i bimbi
lavorano insieme ai grandi con la determinazione5 di un esercito di formiche.

Lo scopo è guadagnare il minimo per riempire lo stomaco alla sera e trovare


l’energia sufficiente per tornare all’alba al posto di lavoro. [...]

Nelle cave di pietra il lavoro si fa ancora più duro.

Il caldo è asfissiante, fino ai 40 gradi, la polvere avvelena i polmoni, lo sforzo


fisico è estenuante e gli incidenti sono continui.

I bambini si siedono sopra montagnole di rocce e scelgono i sassi, uno dietro


l’altro, li tengono tra le minuscole caviglie, e li colpiscono con forza fino a quando
non riescono a spezzarli.

La maggior parte sono completamente nudi e solo i più fortunati hanno i piedi
protetti da pezzi di plastica allacciati alle caviglie con corde rozze. Gli altri rischiano
di rompersi le dita ad ogni colpo.

«Se non fai centro nella pietra ti puoi fare veramente del male, e sei punito perché
non puoi lavorare per molto tempo», spiega Lipi, una bambina di sette anni che è da
più di tre nelle cave di Pagla, mentre fa vedere le ferite diventate già cicatrici.

Saiful, uno dei più piccoli, non ha ancora compiuto i tre anni.

Le mazze sono troppo grandi per lui, e al suo posto colpisce le pietre con una
barra6 metallica mentre piange sconsolato.

Gli altri bambini lo prendono in giro per la sua debolezza. «Ha appena
cominciato, è un moccioso», commentano. [...]

Cinque ore dopo, Alamin, il più piccolo, a fatica riesce ad alzare il braccio
e guarda con la coda dell’occhio prima di sospirare e lasciarsi cadere sulle pietre.

5 determinazione: volontà e costanza.


6 barra: palo.

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«Siamo molto stanchi», dice piano piano, con un tono di voce sempre più basso.

La paga è settimanale, arriva il venerdì dopo che i capioperai hanno contato


il numero di pietre che ogni lavoratore ha spaccato durante la settimana.

Chi non raggiunge gli obiettivi segnati dall’azienda e non produce abbastanza
viene licenziato.

Gli altri possono passare dall’ufficio che c’è all’entrata per avere i loro soldi, mai
più di cinque o sei dollari per una settimana di lavoro.

Uomini, anziani, donne e bambini in età da asilo cercano di allungare al massimo


la giornata.

Per spaccare un sasso in più prima che diventi buio.

Najmun ha guadagnato meno dell’equivalente di 6000 lire7 questa settimana.

I soldi sono andati direttamente ai genitori.

Tra tutti i piccoli del cantiere lui è quello che spacca più pietre.

«Oggi ne ho spezzate 25», annuncia imbrattato di polvere e con la fronte


bagnata dal sudore.

(D. Jiménez, da «il Corriere della Sera», 30 maggio 2001, copyright «El Mundo»)

7 6000 lire: circa 3 euro.

RIASSUNTO
In Bangladesh ci sono bambini dai tre anni in su che muoiono di fame,
costretti dalle famiglie a lavorare per tutto il giorno nelle cave di pietra.
Ognuno di loro, dall’alba a notte, spacca pietre con pesanti mazze fino
a renderle polvere. Il guadagno è minimo. Questa è la triste storia di
Najmun e di altri bambini, vittime del lavoro minorile.

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Esercizi

1 Dove si svolgono i fatti raccontati?

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2 Che cosa devono fare i bambini?

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4 Perché la famiglia di Najmun ha dovuto lasciare la campagna?

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5 Perché i genitori portano i figli a svolgere un lavoro tanto duro?

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8 Quale paga ricevono i lavoratori? Ogni quanto tempo?

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9 Perché Najmun si ferma a lavorare fino a quando è buio?

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14 Spiega il significato dell’aggettivo «asfissiante».

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16 Scrivi un sinonimo dell’aggettivo sostantivato «moccioso».

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18 Prova a immedesimarti in Najmun e descrivi i tuoi stati d’animo nell’arco


della tua giornata lavorativa.

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Videogiochi sì o no?
utilizzo dei
videogiochi

Tesi: i videogiochi antiTesi (dottor


violenti o sanguinari Steven Johnson):
sono dannosi non bisogna
criminalizzare i
videogiochi violenti

1) aumentano
l’aggressività 1) allenano il
2) incidono cervello alla
negativamente logica
sul rendimento 2) sono un utile
scolastico sfogo virtuale

I bambini e gli adolescenti che passano il tempo al computer appassionandosi


a videogiochi violenti finiscono per diventare aggressivi e ansiosi: tendono a imitare
mosse pericolose sperimentate nel gioco e hanno perfino un peggior rendimento
a scuola.

Sono i dati emersi da una recente ricerca, che sembra non lasciare spazio
ai dubbi: i giochi elettronici violenti sono dannosi, allentano i freni dell’aggressività
e incidono pesantemente sul comportamento di bimbi e adolescenti in un periodo
delicatissimo per la loro maturazione psicologica, quando stanno imparando
che cosa è giusto e cosa non lo è.

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Ma secondo alcuni esperti non dovremmo criminalizzare1 i giochi elettronici
di per sé, quanto piuttosto farne un buon uso: dovremmo temere la carenza
di relazioni sociali e affettive2 di bimbi e adolescenti.

Altri hanno chiamato in causa anche i genitori, denunciando che non prestare
attenzione ai contenuti e alle immagini cui vengono esposti i nostri figli di fronte
al computer altro non è che una forma di maltrattamento emotivo.

Ma c’è anche chi va controcorrente: il dottor Steven Johnson sostiene la


seguente tesi-shock3: che tutto ciò che fa inorridire i benpensanti4, dai reality
show ai videogiochi sanguinari, stimola la mente, allenando il cervello alla logica
e al riconoscimento dei problemi.

I videogiochi, osserva l’autore, sono un utile sfogo virtuale, a patto che i ragazzi
non restino troppo soli.

L’innocuità5 o meno dei videogiochi, anche dei più cruenti6, dipende dall’uso
che se ne fa, ma soprattutto dalla personalità di chi gioca e dal contesto familiare.

È normale che bambini e adolescenti abbiano impulsi violenti: “drammatizzarli”


e viverli nel gioco serve ad acquisire la capacità di gestirli nella realtà.

I videogiochi cruenti possono perciò diventare un momento di sfogo


dell’aggressività che nella vita reale deve essere tenuta a freno: sono cioè
il corrispettivo7 attuale del giocare alla guerra di trenta o quarant’anni fa.

I videogiochi violenti sono, invece, assai pericolosi se il ragazzino non ha attorno


a sé figure forti di riferimento con cui identificarsi, se è lasciato molto solo o non

1 criminalizzare: considerare colpevoli.


2 carenza... affettive: scarsità di amicizie vere e di affetto.
3 tesi-shock: teoria volutamente provocatoria.
4 benpensanti: tradizionalisti, conservatori.
5 innocuità: impossibilità di fare del male.
6 cruenti: sanguinari.
7 corrispettivo: equivalente, corrispondente.

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ha sviluppato una buona capacità di distinguere la realtà dalla fantasia.

In questi casi la realtà virtuale rischia di diventare l’unica, con conseguenze


disastrose.

Anche spettacoli televisivi o videogiochi per nulla violenti sono dannosi,


se diventano l’unico mondo dei ragazzi. I genitori dovrebbero consentire l’uso
di videogiochi e Tv per tempi brevi e solo se i figli non vivono isolati e senza amici.

Una buona idea può essere quella di giocare insieme: la lotta simulata8 in video
può allora avere perfino un valore evolutivo9, perché diventa una rappresentazione
di quella lotta, sacrosanta, che ogni figlio affronta per essere indipendente dalla
famiglia.

8 simulata: finta, messa in scena.


9 evolutivo: che serve a crescere psicologicamente.

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Infine, è consigliabile condividere la scelta dei videogiochi con i figli, per limitare
le fantasie sfrenate di violenza e dare loro un senso: i giovani devono sentire
che qualcuno vigila su di loro, altrimenti non scatta l’esigenza naturale e necessaria
di rendersi indipendenti dalla famiglia e diventare autonomi.

(E. Meli, «Corriere Salute», 25 settembre 2005)

RIASSUNTO
Una recente ricerca ha messo in luce la cattiva influenza che i videogiochi
hanno sulla sfera emotiva e comportamentale di bambini e adolescenti.
Secondo tale ricerca, i videogiochi violenti sono dannosi perché allentano
i freni dell’aggressività e spesso isolano dal mondo reale il ragazzo,
riducendo al minimo il contatto con l’esterno.

Tuttavia il dottor Steven Johnson sostiene che i videogiochi sanguinari


stimolano il cervello dell’individuo allenandolo alla logica e alla risoluzione di
problemi. Inoltre, drammatizzare gli impulsi violenti nel gioco aiuta a gestirli
nella realtà. Bisogna però prestare attenzione alle personalità deboli
o a situazioni familiari particolari in cui mancano forti figure di riferimento.

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ESERCIZI

1 Qual è il problema affrontato nel testo?

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3 Riconosci e sottolinea nel testo la tesi e l’antitesi.

4 Secondo la tesi, per quale motivo i videogiochi violenti o sanguinari sono


dannosi?
A Perché aumentano l’aggressività.
B Perché stimolano a mangiare troppo.
C Perché possono diminuire il rendimento scolastico.
D Perché diminuiscono la capacità di concentrazione.
E Perché tolgono l’appetito.
F Perché spingono a diventare bugiardi.
G Perché incitano a sostenere e a difendere i cattivi.
H Perché sono più cari di altri videogiochi.

5 Per quali motivi l’antitesi sostenuta dal dottor Johnson non criminalizza
i videogiochi violenti?
A Perché la loro vendita serve al fatturato industriale.
B Perché lui stesso è un creatore di questo genere di videogiochi.
C Perché allenano il cervello alla logica.
D Perché sono un utile sfogo virtuale.
E Perché aiutano a combattere l’insonnia.
F Perché aiutano nel riconoscimento dei problemi.

12 Scrivi sul quaderno un breve testo argomentativo, e spiega se sei pro


o contro i videogiochi. Sostieni il tuo pensiero con argomentazioni valide.

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I limoni
Ascoltami, i poeti laureati1

si muovono soltanto fra le piante

dai nomi poco usati: bossi ligustri2 o acanti3.

Io, per me, amo le strade che riescono4 agli erbosi

5 fossi dove in pozzanghere

mezzo seccate agguantano i ragazzi5

qualche sparuta6 anguilla;

le viuzze che seguono i ciglioni7,

discendono tra i ciuffi delle canne

10 e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gazzarre8 degli uccelli

si spengono inghiottite dall’azzurro:

più chiaro si ascolta il sussurro

dei rami amici nell’aria che quasi non si muove

15 e i sensi di quest’odore9

1 laureati: riconosciuti ufficialmente come 5 agguantano i ragazzi: i ragazzi (soggetto)


poeti. acciuffano con le mani.
2 bossi ligustri: arbusti sempreverdi. 6 sparuta: piccola.
3 acanti: piante ornamentali dalle foglie 7 ciglioni: bordi del fossato.
molto larghe e frastagliate. 8 le gazzarre: il chiassoso vocio.
4 riescono: conducono, portano. 9 odore: profumo dei limoni.

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che non sa staccarsi da terra

e piove in petto una dolcezza inquieta.

Qui delle divertite10 passioni

per miracolo tace la guerra,

20 qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza

ed è l’odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose

s’abbandonano e sembrano vicine

a tradire il loro ultimo segreto,

25 talora ci si aspetta

di scoprire uno sbaglio di Natura11,

il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,

il filo da disbrogliare che finalmente ci metta

nel mezzo di una verità.

30 Lo sguardo fruga d’intorno,

la mente indaga accorda disunisce

nel profumo che dilaga12

quando il giorno più languisce13.

10 divertite: di vario tipo. mistero.


11 uno sbaglio di Natura: un errore della 12 dilaga: si diffonde.
Natura che ci permetta di conoscere il suo 13 languisce: si avvia al tramonto.

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Sono i silenzi in cui si vede

35 in ogni ombra umana che si allontana

qualche disturbata Divinità14.

Ma l’illusione manca15 e ci riporta il tempo

nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra

soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase16.

40 La pioggia stanca17 la terra, di poi; s’affolta

il tedio18 dell’inverno sulle case,

la luce si fa avara – amara l’anima.

Quando un giorno da un malchiuso portone

tra gli alberi di una corte19

45 ci si mostrano i gialli dei limoni;

e il gelo del cuore si sfa20,

e in petto ci scrosciano

le loro canzoni

le trombe d’oro della solarità21.

(E. Montale, Ossi di seppia, Milano, A. Mondadori, 1991)

14 qualche... Divinità: la realtà lascia il 18 s’affolta il tedio: la noia («il tedio») si


posto all’immaginazione, che trasforma gli addensa, aumenta.
elementi della natura in divinità, il cui riposo 19 corte: cortile.
è disturbato dalla presenza dell’uomo. 20 si sfa: si dissolve, sparisce.
15 manca: viene meno. 21 le trombe... solarità: i limoni sono
16 cimase: cornicioni dei tetti. rappresentati per analogia come «trombe
17 stanca: appesantisce. d’oro» che riflettono la luce del sole.

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ESERCIZI
1 La natura è la protagonista della poesia e, in particolare, lo sono i limoni,
simbolo di solarità. Attraverso quali immagini il poeta rende vivo e “solare”
il paesaggio naturale? Sottolineale nel brano.

2 Quale altro paesaggio si contrappone a esso? Quali sono le sue


caratteristiche?

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3 Perché i rami degli alberi sono detti «amici»?

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5 In che cosa consiste la «ricchezza» che tocca «noi poveri»?

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7 Il componimento si divide in due parti: la prima descrittiva, la seconda


riflessiva. Indicale a margine del brano con colori diversi.

11 Quali sono gli elementi della natura «dai nomi poco usati»?

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14 La situazione di immobilità e di sospensione descritta dal poeta sembra
ricondurre all’atmosfera dei ricordi mitici. Da quali indicazioni, conclusive
della terza strofa, è confermata tale impressione?

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15 Scrivi un breve testo sul rapporto attuale tra la città e la natura.

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V E R I F I C A
Il nano
Accade da mesi: rimpicciolisco. Ma non come capita a tutti i vecchi, le cui
ossa s’incurvano, lo sterno1 si piega, le gambe sembrano rientrare quali misere
fisarmoniche. Ho quasi ottant’anni, ma non sono questi i fenomeni senili2 che mi
riducono.

Sono le parole, le parole altrui. Gli insulti. Le dimenticanze. La prima volta che
notai il mio cambiamento? Una domenica. A tavola si mangiavano paste dolci,
dopo l’arrosto e l’insalata, e le dita di un mio nipote picchiarono sulle mie. Stavo per
afferrare una “ventaglina” di sfoglia, così cara alle mie gengive. Le dita di quel nipote
scossero le mie come se fossero mosche.

«Nonno, ancora. E sta’ fermo», disse soltanto. La “ventaglina” sparì tra le sue
fauci. Tutti risero. Quel mio nipote ha quattro anni, un viso rotondo, liscio, come
ritagliato nel legno fresco.

Quando mi ritirai nel mio stanzino, vidi allo specchio la mia figura ridotta.

Rimasi lì a scrutarmi, inorridito, spaventato. Eppure non è certo il cancro, mi dissi.


Mi sollevai sulle punte dei piedi, naturalmente tenendomi alla maniglia dell’armadio.
Ma sì, era chiaro, dovevo aver perso almeno dieci centimetri.

Da allora ogni cosa, ogni parola, ogni gesto dei familiari mi hanno come
schiacciato. Io mi dico: spinto via, ma non è il verbo adatto. Eppure sono
io a spingere, a spingermi, a schiacciarmi, a ridurmi.

Mia figlia che dice: «Fatti in là, nonno, sempre tra i piedi, possibile che tu non
possa startene seduto sul balcone?»

1 sterno: osso lungo e piatto posto nella parte anteriore del torace.
2 senili: della vecchiaia; l’aggettivo deriva dal latino senex, “vecchio”.

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V E R I F I C A
Ma piove, sul balcone. Però non lo dico. Mi trascino altrove, e lì trovo un altro
nipote, di dieci anni, costui, che vorrebbe farmi guerra. Cinque o sei anni fa riuscivo
a essere il suo cavallo o il suo nemico, un indiano, e sapevo ancora rotolare sul
tappeto del salotto, ululare dietro la poltrona buona, finché ero colpito a morte
e lui, il nipote, poteva atteggiarsi con un piede sul mio stomaco, avendo vinto.
Oggi, ottantenne, non ce la faccio, e temo per il femore3. Se mi rompessi un
femore, costoro mi nasconderebbero in cantina tra vecchie damigiane, forse chiuso
nella paglia di una damigiana.

Perché ho la pensione, e perdere non mi vogliono.

Il nipote di dieci anni mi affronta e fa: «Nonno, ho pensato un nuovo gioco.


Fa’ il morto e vedrai».

Dico: «No grazie, ho tanto tempo per fare il morto, abbi pazienza un momento,
magari solo qualche mese».

Allora lui mi tira uno sgambetto, sua madre ride, il piccolo di quattro anni mi
spara con la pistola ad acqua, io mi ritiro nello sgabuzzino che fa da stanza,
mi guardo nello specchio: ho perso altri dieci centimetri.

Da ieri ho paura del gatto. È buono, è l’unico che non mi fa dispetti, ma è quello
che più degli altri scruta il mio rimpicciolimento. Si avvicina con mosse sinuose
e annusa. Per fortuna non ho ancora cambiato il tono di voce e con un colpo di
tosse, con un “ehi” lo rimando al suo posto, ad alcuni passi di distanza. Ma se mi
prendesse alla gola, o volesse già adesso usarmi come un gomitolo per giocare,
addio femori, addio a tutto. Non ho forze per sostenermi, e il gatto se ne avvede4,
mi gira all’intorno, aspettando.

Mia figlia ride, e quando ride mostra i denti larghi che le ho sempre odiato, anche

3 femore: l’osso più lungo del corpo umano, situato nella coscia, che collega il bacino con
il ginocchio.
4 avvede: accorge.

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V E R I F I C A
quand’era giovane, perché secondo me denunciavano avidità e scarsa intelligenza.
Ride e fa: «Dovremmo farlo visitare da qualche medico. Magari è un fenomeno.
Dovremmo scrivere ai giornali, spedendo una fotografia del nonno nano. Ne
ricaveremmo soldi?»

Il marito, mio genero, un pezzo d’uomo peloso, con una furia di sopraccigli
e basette scimmieschi, risponde truce5: «E già. Adesso spendiamo altri soldi per
questo nano malefico. Diventa piccolo ma le razioni a tavola sono sempre le stesse.
Hai visto col bollito, ieri l’altro? La culatta6 è più sua che non degli altri. E adesso
zitti, che sto sentendo la radio».

Da quando diminuisco d’altezza e di peso, mi fanno male gli odori.

Mio genero, anche per via di tutto quel pelo e quei muscoli, non ha mai emanato
profumi, questo è certo. Ma ora lo sento puzzare come una montagna di lardo
rancida7. Una sua goccia di sudore, se mi cascasse su un occhio, mi accecherebbe.
Con un unico pelo potrebbe fare il cappio per impiccarmi.

«Se il nonno nano continua così ce lo possiamo giocare sul tavolo del ping pong»,
ride il nipote di dieci anni, stuzzicando il fratello minore.

Il padre peloso ride. Per lui quei due barbari sono fenomeni della natura. E ride
anche la madre, mia figlia, che sgonnella con i suoi grembiuloni da cucina e ha
due piedi che sembrano zappe. Ora posso notarli, essendo ormai ridotto a pochi
centimetri di altezza. E pensare che la buonanima di sua madre camminava per
le stanze quasi senza toccar terra, talmente era lieve.

Ieri notte ho sentito un ruggito. Ma era solo il gatto, che curiosamente stazionava
dietro la porta del mio stambugio8, su e giù con la sua ombra più buia del buio.

5 truce: in modo cattivo e minaccioso.


6 culatta: parte della coscia di bovini e suini, vicina alla coda.
7 rancida: andata a male, marcia.
8 stambugio: sgabuzzino.

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V E R I F I C A
Allora mi sono alzato, con fatica perché ormai anche il pagliericcio9 è diventato
troppo vasto e per raggiungere il bordo debbo trascinarmi sui gomiti e le ginocchia.
Mi sono alzato, ho preso il doppio decimetro10 che tengo nascosto in un cassetto,
mi sono nuovamente misurato.

Ormai sono alto poco più di due spanne, arrivo col mento alla paglia della seggiola.

Ma ho capito. E ho cominciato a ridere. Perché adesso so. Sparirò, anziché morire.

E appena sparito potrò vendicarmi di questi forsennati crudeli, che mi danno


nutrimento in una chicchera11 da bambole, ma hanno rubato anche le mie vecchie
camicie: mia figlia ha detto che vanno bene per il mare, così vecchie, mascoline,
a righe. Il marito peloso ha riso, dandole una pacca sul didietro, applaudito dai figli.

Da vario tempo sono spariti i miei abiti, il mio cappotto e il cappello nero.
In questo dorme e talora si rotola il gatto, con gli altri mia figlia ha fatto stracci per
la cucina. Il marito ha bestemmiato, perché nulla del mio poteva essergli buono,
data la sua stazza12, urlando: «Neanche da nano è utile».

(G. Arpino, La polvere negli occhi, in Un gran mare di gente, Milano, Rizzoli, 1981)

9 pagliericcio: parte del letto su cui è posato il materasso; in passato veniva usato al posto
della rete metallica o delle doghe in legno.
10 doppio decimetro: righello di venti centimetri.
11 chicchera: tazzina.
12 stazza: mole, corporatura massiccia.

Esercizi

1 Chi è il protagonista del brano? ... / 1

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V E R I F I C A
2 Da quante persone, oltre a lui, è composta la sua famiglia? ... / 1

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3 Con quale dei suoi familiari egli ha un buon rapporto? ... / 2

.....................................................................................................................................

4 Perché, secondo te? ... / 3

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.....................................................................................................................................

5 Con quale tra i suoi familiari egli dovrebbe avere un buon rapporto, e invece
non è così? ... / 2

.....................................................................................................................................

6 Perché, secondo te? ... / 3

.....................................................................................................................................

.....................................................................................................................................

7 Il rimpicciolimento di cui si parla nel racconto è reale o figurato? ... / 2

.....................................................................................................................................

8 Il racconto ha un significato metaforico? Se sì, quale? ... / 3

.....................................................................................................................................

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V E R I F I C A
9 Agli occhi di chi il protagonista diventa sempre più piccolo
e insignificante? ... / 3
A Di se stesso. D Del genero.
B Del gatto. E Dei nipoti.
C Della figlia. F Di tutti.

10 Spiega le ragioni della tua precedente risposta. ... / 3

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11 Anche l’anziano nutre sentimenti di ostilità e di rancore verso i suoi familiari.


Quali? ... / 2

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.....................................................................................................................................

13 Qual è il suo punto di vista (o focalizzazione)? ... / 2

.....................................................................................................................................

14 Perché, secondo te, l’autore ha fatto una simile scelta? ... / 3

.....................................................................................................................................

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<18 = ripassa 18-24 = abbastanza >24 = molto TOTALE


ancora bene bene ..... / 30

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V E R I F I C A
Casa di bambola
ATTO III

NORA (guardando l’ora) Non è ancor molto tardi. Siediti, Torvald; noi due
dobbiamo parlarci a lungo. (Siede a un capo del tavolo).

HELMER Nora che c’è? Quel viso impenetrabile...

NORA Siedi. Ci vorrà un po’ di tempo. Devo dirti molte cose.

HELMER (sedendo di fronte a lei) Mi fai paura, Nora. E non ti capisco.

NORA Sì, di questo appunto si tratta. Tu non mi capisci. Ed io pure non ti ho mai
capito... fino a questa sera. Ti prego, non interrompermi. Ascolta quel che
ti dico. È una resa dei conti, Torvald!

HELMER Che cosa intendi dire?

NORA (dopo un breve silenzio) Eccoci qui uno di fronte all’altra... Non ti
sorprende una cosa?

HELMER Quale?

NORA Siamo sposati da otto anni. Non t’accorgi che noi due, tu ed io, marito
e moglie, oggi per la prima volta stiamo parlando di cose serie?

HELMER Di cose serie... che cosa vuoi dire?

NORA In otto anni... e più ancora... da quando ci siamo conosciuti, non abbiamo
mai avuto un colloquio su argomenti gravi.

HELMER Avrei dovuto tenerti sempre informata di mille contrarietà che tu


comunque non potevi aiutarmi a sopportare?

NORA Non parlo di contrarietà. Dico soltanto che mai abbiamo cercato insieme
di vedere il fondo delle cose.

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V E R I F I C A
HELMER Ma, cara Nora, sarebbe forse stata un’occupazione adatta a te?

NORA Ecco il punto. Tu non mi hai capita. Avete agito molto male, con me,
Torvald. Prima il babbo, e poi tu.

HELMER Che cosa? Tuo padre ed io... Noi che ti abbiamo amata sopra ogni cosa
al mondo?

NORA (scuotendo il capo) Voi non mi avete mai amata. Vi siete divertiti ad essere
innamorati di me.

HELMER Ma, Nora, che cosa dici mai?

NORA Sì, è così, Torvald. Quando stavo col babbo egli mi comunicava tutte
le sue idee, e quindi quelle idee erano le mie. Se per caso ero di opinione
diversa, non glielo dicevo, perché non gli sarebbe affatto piaciuto.
Mi chiamava la sua bambolina e giocava con me, come io giocavo con le
mie bambole. Poi venni in casa tua...

HELMER Ti esprimi in un modo strano a proposito del nostro matrimonio.

NORA (fermamente) Voglio dire che dalle mani di papà passai nelle tue mani. Tu
regolasti ogni cosa secondo i tuoi gusti, e così il tuo gusto io lo condivisi;
o forse fingevo, non so neanch’io... forse un po’ l’uno e un po’ l’altro, ora
questo ora quello. Se ora mi guardo indietro mi sembra d’aver vissuto
qui come un mendicante... alla giornata. Ho vissuto delle piroette che
eseguivo per te, Torvald. Ma eri tu che volevi così. Tu e il babbo siete
molto colpevoli verso di me. È colpa vostra se io non son buona a nulla.

HELMER Nora, sei assurda ed ingrata! Non sei stata felice qui?

NORA No, non lo sono mai stata. L’ho creduto, ma non era vero.

HELMER Non sei... non sei stata felice?

NORA No; sono stata allegra, ecco tutto. E tu sei stato molto affettuoso con

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V E R I F I C A me. Ma la nostra casa non è mai stata altro che una stanza da gioco. Qui
sono stata la tua moglie-bambola, come ero stata la figlia-bambola di
mio padre. E i bambini sono stati le bambole mie. Quando tu giocavi con
me io mi divertivo esattamente come si divertivano i bambini quando io
giocavo con loro. Questo è stato il nostro matrimonio, Torvald.

HELMER C’è qualcosa di vero nelle tue parole, per quanto siano eccessive
ed esaltate. Ma d’ora in poi tutto deve cambiare. Il tempo dei giochi è
passato, ora incomincia quello dell’educazione.

NORA L’educazione di chi? La mia o quella dei bambini?

HELMER L’una e l’altra, mia diletta Nora.

NORA Ah, Torvald, tu non sei l’uomo capace di educarmi e di far di me la moglie
che ci vuole per te.

HELMER E lo dici così?

NORA Ed io son forse preparata al compito di educare i bambini?

HELMER Nora!

NORA Non l’hai detto poc’anzi tu stesso... che non potevi affidarli a me?

HELMER L’ho detto in un momento di irritazione! Come puoi farne caso?

NORA Ma sì; avevi perfettamente ragione. Non sono all’altezza del compito.
C’è un altro motivo che devo risolvere prima. Debbo tentare di educare
me stessa. E tu non sei l’uomo che possa aiutarmi a farlo. Bisogna ch’io
m’industri da sola. E perciò sto per lasciarti.

HELMER (balza in piedi) Che cosa dici?

NORA Debbo esser sola per rendermi conto di me stessa e delle cose che
mi circondano. Quindi non posso più rimanere con te.

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V E R I F I C A
HELMER Nora! Nora!

NORA Vado via subito. Kristine mi accoglierà per questa notte...

HELMER Tu sei pazza! Non lo farai! Te lo proibisco!

NORA Ormai i tuoi divieti non servono a nulla. Porto via tutto ciò che è mio.
Da te non voglio nulla, né ora né poi.

HELMER Che follia!

NORA Domani ritorno a casa mia... voglio dire al mio paese. Là mi sarà più facile
che altrove intraprendere qualcosa.

HELMER Povera creatura illusa e inesperta!

NORA Cercherò di acquistare esperienza, Torvald.

HELMER Abbandonare il tuo focolare, tuo marito, i tuoi figli! Pensa, che dirà
la gente!

NORA Questo non mi può trattenere. Io so soltanto che per me è necessario.

HELMER Oh, è rivoltante! Così tradisci i tuoi più sacri doveri?

NORA Che cosa intendi per i miei più sacri doveri?

HELMER E debbo dirtelo? Non son forse i doveri verso tuo marito e i tuoi bimbi?

NORA Ho altri doveri che sono altrettanto sacri.

HELMER No, non ne hai. E quali sarebbero?

NORA I doveri verso me stessa.

(H. Ibsen, I drammi, Torino, Einaudi, 1959)

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V E R I F I C A
ESERCIZI

1 Qual è il rapporto fra Nora ed Helmer? ... / 1


A Sono fratello e sorella.
B Sono marito e moglie.
C Sono coniugi divorziati.
D Sono cugini.

2 Che rapporto c’è fra il personaggio di Helmer e quello di Torvald? ... / 1


A Sono la stessa persona.
B Figlio e padre.
C Padre e figlio.
D Nessun rapporto di parentela.

3 Dove è ambientata la scena? ... / 1

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5 Nora comunica al marito che quella sera parleranno «di cose serie».
Di che cosa si tratta? ... / 2

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6 Perché Nora afferma di non essere mai stata veramente felice, né come figlia,
né come moglie, né come madre? ... / 2

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V E R I F I C A
8 Di che cosa Nora accusa in particolar modo il marito? ... / 3

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10 Nora afferma di essere stata «allegra», ma non «felice». Qual è la differenza,


secondo te? ... / 2

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13 Quando Helmer si accorge che Nora è ormai decisa ad abbandonare


il «focolare domestico», qual è il suo primo pensiero sulle possibili
conseguenze? ... / 2

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15 Quali sono, secondo te, i doveri “verso se stessa” a cui si riferisce


Nora? ... / 3

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V E R I F I C A
16 Giudichi egoista e senza scrupoli il comportamento di Nora?
Rispondi motivando e argomentando il tuo pensiero. ... / 3

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<12 = ripassa 12-16 = abbastanza >16 = molto TOTALE


ancora bene bene ..... / 20

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V E R I F I C A
Il lampo

E cielo e terra si mostrò qual era1:

la terra ansante, livida, in sussulto2;

il cielo ingombro, tragico, disfatto3:

bianca bianca nel tacito tumulto4

5 una casa apparì sparì5 d’un tratto;

come un occhio, che, largo, esterrefatto6,

s’aprì si chiuse, nella notte nera.

(G. Pascoli, Myricae, in Poesie, Milano, Garzanti, 1974)

1 era: il verbo è al singolare, ma è riferito al «cielo» e alla «terra» che, a causa del temporale,
sembrano formare un tutt’uno caotico.
2 la terra... sussulto: la terra, come una persona, respira con affanno («ansante»), è scura
e nera («livida»), è scossa («in sussulto»).
3 il cielo... disfatto: il cielo è coperto («ingombro») di nubi, «tragico», scomposto
(«disfatto»).
4 tacito tumulto: silenzioso trambusto; l’espressione è significativa perché un «tumulto»
dovrebbe essere “rumoroso”, non «tacito».
5 apparì sparì: i due verbi (per di più accostati senza congiunzione né virgola) imitano
la velocità del passaggio da luce a buio; lo stesso effetto è al v. 7: «s’aprì si chiuse».
6 esterrefatto: sbalordito, stupefatto.

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V E R I F I C A
ESERCIZI

2 Nonostante le rime siano disposte in modo irregolare, è possibile ricavarne


lo schema: scrivilo. ... / 2

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3 Analizza il verbo «si mostrò» del v. 1. Chi si mostra? Per effetto di che cosa?
Perché il verbo è al singolare? ... / 3

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4 Con quali aggettivi ed espressioni attributive il poeta descrive


lo sconvolgimento della terra? ... / 2

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5 Quale figura retorica di significato si coglie in questa descrizione


della terra? ... / 3
A Similitudine.
B Personificazione.
C Sineddoche.

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V E R I F I C A
6 Il poeta descrive la terra raggruppando tre elementi che svolgono funzione
attributiva. C’è un altro esempio di questa costruzione nella poesia?
Se sì, trascrivilo. ... / 2

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7 Perché, secondo te, il «tumulto» è detto «tacito»? ... / 2

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9 Trascrivi la similitudine presente nella poesia. ... / 3

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10 Che cosa hanno in comune i due elementi paragonati? ... / 3

.....................................................................................................................................

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<12 = ripassa 12-16 = abbastanza >16 = molto TOTALE


ancora bene bene ..... / 20

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