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Gian Berra

Demonio
Veneto
sfoghi segreti spontanei

Anima veneta, le prime poesie .


S. Peter Show e "Menola e il morer".
Nonna Maria Stramare di Segusino,
Ostaria da Rafael,
Il saggio di psicologia sciamanica sul totem della Paura.

Edizione integrale delle opere 1998 - 2006 semplificata free.

1
La velle dei mulini. Riva grassa, Stramare di Segusino …

Contenuti in dialetto veneto con traduzione in italiano.

Altri contenuti gratuiti di gian Berra su:

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https://independent.academia.edu/GianBerra

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2
Edizione stampata:
Titolo | Noccioline venete
Autore | Gian Berra
ISBN | 979-12-20325-32-5

3
“tutta la pazienza
che avete avuto con
me non andrà sprecata … “
Gian

4
Questa raccolta è una versione integrale rivista e completa e offerta gratis
nel web.

Anima veneta, le prime poesie . Raccolte dal 1998


S. Peter Show e "Menola e il morer". Due racconti brevi del 2002 - 2003
Nonna Maria Stramare di Segusino, ricordi . 2013
Ostaria da Rafael, 2006
Il saggio di psicologia sciamanica sul totem della Paura. Raccolta dalle
conferenze del 2002 - 2003

5
Indice

QUATTRO chiacchiere … 10
VECCHIE POESIE 10
Fuochi nel caos 11
Giove rabbioso 11
La luna e il fiore 12
Il coniglio di zio Vittorio 13
La fonte di ghiaia. 15
Afa 16
Palo d’acacia. 17
Cuore di biscia. 18
Sulle onde 19
Scorza d’albero 20
All’ombra delle frasche a ombrello. 21
Rosso oscuro. 22
Scarico libero. 23
L’orlo 24
Scivolata 25
Il vento se ne va… 26
Ombra che abbaia. 27
Freddo mattino 28
Fine marzo-poesia 29
Le zucche. 30
Sole di settembre 31
Parte SECONDA. POESIE in DIALETTO VENETO di Segusino, scritte
nel 2013. 34
La machina de fero, la macchina di ferro … 36
Tetine bele., tettine belle … 39
Aneme venete. sciupar fora la rabia! 43
Al merlo del Pinet, il merlo dl Pinet … 46
Stram, strame … 49
Gnent da far, niente da fare … 53
Tocio, tocio … 55
Quand al vien al fred, quando viene il freddo … 57
Maria no sega pi l'erba, Maria non sega più l’erba … 59
Ariù, anima de acqua. Ariù, anima di acqua … 61
Nosele seche. Nocciole secche … 63
Me nono scatàra. Mio nonno scatarra … 65

6
Maria la torna dala messa. Maria torna da messa … 67
La vendetta de Bortol. La vendetta di Bortolo … 70
La carega santa del Papa. La sedia del Papa … 74
IL GELSO MAGICO di MENOLA, racconto di Gian Berra 78
IN DIRETTA DA s. PETER SHOW … racconto di Gian Berra 89
NONNA MARIA STRAMARE in Berra, da Segusino 98
PEDEROBBA, OSTERIA DA RAFAEL 140
Il secolo scorso 1998 – 2002 circa … 162
Gian Berra … hippie, racconta … 162
PSICOLOGIA SCIAMANICA. La costruzione dei Totem personali, il Totem della
Paura. 163
Visualizzazione passiva … o quasi. 164
Passeggiata nel lato oscuro 169
Punto 171
LA RINASCITA DEL TOTEM 174
I Totem sono dentro di noi. 176
Il potere della consapevolezza. 177
La paura come condizionamento. 178
Il potere della paura. 178
Anche la paura è un Totem. 179
Costruisco il Totem della paura. 180
Andare nell’ombra. 181
Camminare nel lato oscuro 183
Le coscienze parassite. 183
Le immagini di noi stessi. 184
Il Totem è una coscienza allargata. 185
Totem per ogni intento. 186
Oltre la soglia del caos 186
Le tensioni come sfide consapevoli. 187
DOPO DARWIN … 191
Confidenze di Luca 195
Vivaldi mon amour… 200
A proposito di arabi... 202
Eroi del 68’ 203
Pollaio 206
Pastinaca, pianta pagana… 209
Provare a definire e descrivere il proprio sentire. 209
LA GRANDE MADRE 210
Vescovi e pecorelle. 216
La quercia 218

7
Ciao, sono la gatta Teddy ( Candelora 2002) 219
Una vita disordinata … da hippie 223
Opere di Gian Berra pubblicate da Youcanpeint.it 229

8
ANIMA VENETA
Poesie libere 1998 - 2000, 2013 in dialetto veneto
con traduzione italiana

In copertina September Morn [c.1912] , Paul Chabas - Metropolitan New


York.

Il primo gruppo di poesie “originarie” sono state scritte dalla fine degli
anni ‘70 giungono fino al 2005
Il secondo gruppo di poesie sono tutte nate in dialetto veneto dal 2013

9
QUATTRO chiacchiere …

L’artista ha un destino a cui non può sfuggire: rappresentare la realtà


come testimone.
Esso non può farne a meno poiché la Vita lo ha plasmato come suo
osservatore privilegiato di ogni cosa. La “coscienza”, ovvero l’Ego di
ogni artista è in diretto contatto con la sua Eredità, il suo personale
Inconscio ( o Subcosciente). Il contatto tra le personalità interiori è
costante e pretende attenzione. Il risultato di tali relazioni pretende di
essere espresso e reso “concreto, visibile” sia all’artista stesso, e
soprattutto a tutti gli altri. L’artista è il mediatore tra ciò che è nascosto e
ciò che è da rendere visibile.

Gian, febbraio 2021

VECCHIE POESIE

Periodo: seconda metà anni ’80 al 1998

Il bisogno di rappresentare il messaggio nascosto nelle cose o ricordi che


pretendevano attenzione. Una realtà alternativa inizia a rendersi visibile e
concreta. Io divento il testimone che la rappresenta …

10
Fuochi nel caos

Fuochi nel caos Foghi inter la confusion.

Al scur al insiste
Il buio insiste a strenzerme quande che mi me
a stringere i miei risvegli desveie
di fuga alla vita. par scamparghe ala vita.
Pesano le membra e la luce è Me pesa i bras e la luse la xe
maledetta. maledetta.
Ma l'uso a fare mi fa lasciare il caldo Ma al uso da far le robe al me fa
dei sogni e accogliere il sole. assar al calt
I Titani del caos mi richiamano de i sogni, e 'ndar a ciapar al sol.
ogni mattino a loro, e acuti i loro I mostri de la confusion i me ciama
fuochi ogni matina,
mi richiamano al nulla. e ciari i soi foghi
Ma ogni volta debbo lasciarli i me ciama al 'gnent.
e lacerato di abbandonarli, e Ma ogni olta me toca assarli
proseguire e dopo desperà de bandonarli, e
solo 'ndar vanti
il mio cammino. mi da sol
par la mea strada.
Gian Berra
Gian Berra.

Giove rabbioso

Giove rabbioso
Giove rabioso
Il filo di luce illumina
il buio e un tuo gesto freddo fa Un fil de luse al illumina
muovere al scuro, e dess un tiro dei toi fa
i rami dei gelsi. So che sei tu o mover
Giove. le rame dei morer. Mi so che te si ti,
E accolgo la tua rabbia con un Giove.
brivido e ti guardo. E mi ciape la toa rabia coi sgrisoi,

11
L'acqua che versi su di me è piacere. dopo te varde.
La lascio scorrere gelida e viva. La acua che ti tu me tira doss, la me
Sfido gli inganni che mi nascondono pias.
a te. Mi asse che ela la me corre dos
Apro le porte della tua rabbia e mi ingelada e viva.
nutro Mi ghe do la sfida ale busie che le
col suo sapore. vol sconderme a ti.
Il rombo secco della tua voce mi Mi verze le porte ala toa rabia, e la
scuote magno
e ancora una volta il mondo col to savor.
ti può udire. Al rumor seco de la to vose al
Raccolgo nelle palme aperte i tuoi rebalta,
doni cussì naltra olta tuto al mondo
e ti ringrazio. al pol sentirte.
E indovino anche Ciape con le man verte i to regali,
un tuo sorriso. e te dighe grazzie.
E anca indovine al to ridar.
Gian Berra
Gian Berra

La luna e il fiore

La luna e il fiore La luna e al fior

Ombre di velluto carezzano i prati, Ombre de veludo, le carezza i prà,


luci di perle richiamano il disco luse de perle la ciama al tondo
d’argento. d'argent.
Un fiore solo, assopito Un fior, lu sol, indormenzà,
Sognava i ricordi. al sognava i ricordi.
Raggi di latte toccano i petali chiusi,

12
danno al dolce sonno Ragi de lat i toca le foie serade,
sicuro rifugio. e i ghe dona al dolze sonno
Ricordi quel grande lavoro? un seguro refugio.
Sussurra la luna, Ricorditu ti quel gran laoro?
mille anni per creare la tua anima, Sospira la luna,
altri mille per il tuo corpo, mili ani par crear la to anima,
mille ancora per farti vivere. altri mili par al to corpo,
Assapori la vita mili 'ncora par farte vivar.
Come gioia di esistere. Ti tu gusta la vita
Pupille nascoste raccolgono luce, come la gioia de esistar.
emergono dal grande buio Oci sconti i ciapa la luse.
sensazioni, Le salta fora dal scur le sensazion,
la paura di nascere, co la paura de nasser,
il timore di crescere, al timor de cressar,
e poi, ancora, nel profondo, e dopo do in fondo,
il sentirsi vivo, al sentirse vivo,
e l’angoscia di non sapere. e la angoscia de no saver 'gnente.
La luna cammina nel cielo, non da La luna la camina sul ciel, e no la
risposte. risponde.
Ma abbraccia ogni cosa, Ma la brassa tuto.
non svela il mistero No la te conta al segreto.
ma carezza la vita Ma la caressa la vita.

Gian Berra.

Il coniglio di zio Vittorio

Il coniglio di zio Vittorio. Al cunicio de me barba Vittorio

La rete in tel ort


La rete dell’orto a la xe quela de na olta
la stessa di allora, porta ancora la e la porta 'ncora la pel del cunicio
pelle che me barba Vittorio al netava par
del coniglio che zio Vittorio la soa fameia
puliva per sfamare la sua famiglia de puareti co tanto orgoglio.

13
di poveri orgogliosi. Do bass in paese, al rispetto xera,
Lì in paese il rispetto era soprattutto no 'ndar par carità.
non chiedere la carità. E me barba Vittorio al xera
E zio Vittorio puliva il coniglio orgoglioso,
orgoglioso che al cunicio al fusse solamente
che era solo suo. suo.
Ma quando veniva la rabbia Ma quande ghe vegniva su la rabia,
di quando era stato zitto di fronte de quande lu ghe tacava tazer
alle ingiustizie, de fronte ale ingiustizie...
esplodeva allora la sua disperazione Lu al sciopava fora co la soa
contro chi desperazion
legava la sua vita. contra quei che i ligava la so vita.
Ora lui è stato dimenticato, e la rete 'Dess lu al xe sta desmentegà,
ruggine ed inutile e la rete rudena
continua a dividere qualcosa che non la continua a dividar qualcossa
si vede. che no se pol vedar.
Ma che giace, ancora, Ma sta roba la xe sconta 'ncora
in fondo al cuore. sul fondo del so cor.

Gian Berra. Gian Berra.

14
La fonte di ghiaia.

La fonte di ghiaia. La fontana de giara.

La fontana de giara la xe ben sconta


La fonte di ghiaia è ben nascosta in mezo ale frasche del bosc,
tra le frasche del bosco. suito drio le cassie,
Appena dietro le acacie in te la ombria e i sas del giaron.
all’ombra e tra i sassi del ghiaione. Poca acqua la cor via, e suito la se
Poca acqua scorre, e subito si perde; perde.
ma i passeri e le gazze Ma i paserot e le gaie
fanno festa durante le ore estive. i fa festa in te le ore de L'istà.
E furtive corrono via quando un E lori i scampa via quande
rumore o un gesto un rumor o anca un sest
scuotono le foglie. al move le foie.
Occhi furbi osservano le piccole Oci furbi i osserva sti oselet
prede caier in tei laz e in tel viscio.
cadere nei lacci o nel vischio. La panza del puro gramo,
La pancia del miserabile la se impieniz co poc.
si riempie con poco. La fontana de giara la cor via.
La fonte di ghiaia E la lassa che i la usa.
scorre e si lascia usare. Ela no la se sconde no,
Non si nasconde, Ela la speta invan
attende invano che che qualchiduni i la ciama
qualcuno che la chiami par saludarla.
per salutarla.
Gian Berra.
Gian Berra.

15
Afa

Afa Calt.
La linea piatta dei ciottoli La linea schinsada dei sas
disegna gradoni lontani d’oasi di la fa un disegno co i scalin la lontan,
verde. sconto da un poche de foie.
E anche i merli sono lontani Anca i merli i xe da londi de l'acqua,
dall’acqua sconti sot la ombria dei sales.
nascosti sotto l’ombra dei salici. L'aria calda la trema
Riflessi tremolanti d’aria rovente co riflessi che move al orizonte.
muovono l’orizzonte. Zente sconta, no la se move
Coscienze nascoste evitano l’azione un schiant.
Il pensiero si strugge impotente Al pensiero al se lamenta de no
d’agire. poder
Così l’attimo si impone far 'gnent.
e deride il potere di fare Cussì sto attimo al comanda
mentre l’afa vince superba. e lu al ride de quei che volaria far
qualcossa.
Gian Berra Intant al calt al ride
co superbia.

Gian Berra

16
Palo d’acacia.

Palo d’acacia. Pal de cassia.

Stordest par i umidi inverni


Storto da inverni umidi e dal massa calt,
e da calori spietati Lu al ga tegnist su i fil de fer
ha sorretto i cavi dell’uva. de la uva.
Fiero di essere utile e forte, Co la fierezza de essar fort e utile,
ora il vecchio palo d’acacia si piega dess al vecio pal de cassia al se
e mostra gli anni. doma.
Ancora non cede Al mostra i ani.
al marcio del suo piede. Ma 'ncora lu nol mola al marz
Ma basta poco per scuoterlo, del so pié.
e solo i passeri vi si posano. Ma ghe vol poc par farlo tremar,
e solamente i passerot
Gian Berra i ghe se poia sora.

Gian Berra

17
Cuore di biscia.

Cuore di biscia. Cor de bissa.

Spasemada la bissa nera la se


Atterrita, la biscia scura si nasconde sconde
tra i rovi dei lamponi. in medo ale roe de le more.
Il suo cuore batte di paura La paura ghe fa battar al cor,
e immobile aspetta di capire. e la stà ferma spetando de capir.
L’uomo che falciava l’erba L'omo che al falzava l'erba
l’aveva vista fuggire la sua lama. a l'avea vista scampar ala so lama.
Ma l’odio usciva dai suoi occhi Lu dess al sciupava odio par i so oci
colpendola con rabbia cieca e al ghe dava colpi de rabia orba
e poi inseguirla nel folto. corendoghe drio in medo ala erba.
Ferita e quasi morta Ela, ferida e squasi morta,
lasciata lì come rifiuto assada là come na scoassa,
ora si trascina la se strassina,
e non capisce e no la sa se imparar
ne sa, se imparare a odiar.
ad odiare.
Gian Berra. Gian Berra

18
Sulle onde

Sulle onde Sora le onde.

Un sospiro fin al respira, legero.


Afflato sottile respira, lieve Lu ghe basta a sé stesso
A sé bastevole e e sanza volontà
Senza intento accetta al acetta anche de no esseghe.
Anche di non essere. Dess al ola su le onde,
Vola sulle onde e le guarda appena. ma lu squasi no le vede.
Il vento lo sostiene ma Al vent lo cien su,
non lo rende sicuro e ma no ghe da sicuressa.
lo lascia libero Dess al vent lo assa libero
di vivere la paura de vivar la so paura negra
oscura de caier do.
di cadere.
Gian Berra.
Gian Berra

19
Scorza d’albero

Scorza d’albero Scorza de albero.

Le val co e rughe
Le valli rugose che ti fanno le te fa vecia,
Vecchia e i ton stusadi che i torna indrio
E i toni spenti che si ripetono sempre
monotoni compagni,
Ma che non si somigliano mai ma che i no se someia mai,
Mi rendono inquieto e i me tira scatoso,
Ho paura di non so che. e no so de cossa aver paura.
Sottile sensazione di disagio perché Fina sensazion de disagio, parché
Non so contare i tuoi segni, né posso no so come contar i to segni, e
elencarli. 'gnanca
Cosa resta oltre i numeri se non farghe un elenco.
vaghi segni? Cossa resta mai dopo i numeri,
Allora il Vuoto soffoca le certezze fursi un pochi de segni?
E comincio a lasciarmi volare Lora, al Vodo, al scancela le
Disperato. Ma l’abisso del nulla certezze,
Stavolta è dolce lora mi scominzie a lassame olar
E mi ci tuffo co desperazion.
Al buio. Ma la fossa del 'gnent
staolta la xe dolce,
Gian Berra e mi me trae do
in tel scur.

Gian Berra.

20
All’ombra delle frasche a ombrello.

All’ombra delle frasche a ombrello. Sot la ombria de le frasche a


ombrela...
Invito di abbandono,
ma nasconde un segno nascosto. Un invido de abandon,
Lì sotto le frasche ad ombrello le ma al sconde un segno sconto.
cose non sognano incanti, Là sot le frasche a ombrela, le robe
solo esistono protette da foglie, no sogna incanti,
che poi cadranno. solamente le sta là, sconte dale foie,
E ciò che era intento, svanisce. che dopo le caierà do.
Il cuore deluso, guada oltre e cerca Dopo, quel che al xera voia, al
conforto, scampa via.
Ma nulla conforta Al cor, co delusion, al varda oltra e
Se non , più lontano al cerca conforto,
Vaghe nuvole. ma no ghe xe 'gnent che dona coraio
si no, oltra
Gian Berra un poche de neole.

Gian Berra

21
Rosso oscuro.

Rosso oscuro. Ross scur.

Difficile pace, Difficil pace,


conquistato silenzio e abbandono. silenzio conquistà e abandon.
Brivido che freme e scuote la forza. Sgrisoi che trema e scatura la forza.
Vita che si impone e trova spazio. Al Vivar che se fa paron e al cata
Ma il colpo di tuono, spasio.
ancora agita l’onda oscura, Ma al colpo del ton,
minaccia o affronto? 'ncora al agita la onda scura,
Pronta difesa affila la lama lucente xe 'na minaccia solamente, o al te
Che altre volte ha ferito, e sé ferisce. fronta?
Affonda il pensiero nel corpo e 'Na pronta difesa la usa la so lama
taglia, offende. lustra,
E rosso oscuro diventa ogni idea. che la ga altre olte ferio,
Tenebre di abbandono si impongono, e la ferisse sé stessa.
e più nulla in vita. Al pensiero al taia in tel corp, e al
Se non il Vuoto di pace, e il vincitore ferisse.
Sogghigna, appagato. Ross scur se olta ogni idea.
E solo. Tenebre de abandon le vinze,
e dopo pi 'gnet vive.
Gian Berra Solamente al Vodo de pace, e al
vincidor
al ride, content.
Lu da sol.

Gian Berra

22
Scarico libero.

Scarico libero. Scarico libaro.

Oltra la ramada
Oltre la rete i ga immucià le robe
Le forme sono accatastate par ciapar spasio.
Per recuperare spazio. E dess, scure in tel levar del sol
E oscure nell’alba si fanno notare le se fa notar, coi canton affiladi.
Per angoli affilati. E anca fil tiradi i ciapa sgiosse de
E fili tirati che fanno raccolta di sgiassa.
gocce di rugiada. Un poc de sgriso che al tenta de
Vago grigio che tenta di apparire vegnar fora,
Sicuro di esistere, seguro de esserghe.
e l’acqua caduta stanotte a formato La acqua caiesta do stanott la ga
pozze impiegnis le pose
nella terra che conduce là. in te la tera che la te porta là.
Il freddo umido rende inquiete le Umido, al fret al remena i oss de chi
ossa di chi al ga regalà la soa vita.
Ha regalato la vita E ai altri no la ghe conforta i
Ad altri, e non conforta i pensieri. pensieri.
Trema la mano, e tenta ancora di fare La trema 'ncora la man, e la tenta
Per non perdere l’abitudine, 'ncora de far,
intanto il raggio di luce si fa largo, par no perdar al uso.
Indifferente. E intant un raio de luxe
al se verde la strada,
Gian Berra co indifferenza.

Gian Berra

23
L’orlo

L’orlo Al orlo.
C’è, ma lo percepisco appena, Lu al xe là,
è il punto dove è buio, ma mi al vede pena un poc,
là nulla è certo e tasto con le mani, xe al pont 'ndove al xe scur,
cercando atomi sicuri. là gnente xe certo, e mi taste coe
Ma non ci sono. man,
Mi butto lo stesso e gusto cercando atomi seguri.
L’emozione del pericolo di finire Ma no ghe cate no.
l’ora. Istess mi me trae entro, e guste
Sento che il Nulla è, la emossion del pericolo de finir sta
che ora ho fatto un pezzo di sostanza,ora,
che mi serve. mi sente che al Gnent el xe qua.
Sono. 'dess che go fato un tocheto de
sostanza,
Gian Berra che la me serve.
A mi.
E mi son qua.

Gian Berra

24
Scivolata

Scivolata Sbrissada.

Come bava Come la bava


Casuale è la caduta plastica Xe un caso la caiesta morbida
Al calare del giorno. in tel calar del sol.
Come fermare ciò che corre verso Come far a fermar quel che al corre
Il punto senza nome? verso un pont sanza al nome?
I colori danno festa agli attimi e I color i dona na festa ai attimi e
Io gusto questo vuoto come aria mi me guste sto vodo come si al fusse
fresca e sottile che aria fresca e fina
Si compiace di esistere. contenta de esserghe.
Lascio andare le regole apprese e Mole mi 'dess, le regole imparade,
Mi metto sul desiderio, E me sente dò sul desiderio,
e ancora, un’altra volta e 'ncora, 'naltra olta,
faccio il salto. mi salte oltra.
Gian Berra Gian Berra

25
Il vento se ne va…

Il vento se ne va… Al vent al scampa via...

Al xe pena passà via e


E’ già passato sente che al scampa
E lo sento fuggire do là 'ndove 'ncora le foie
Laggiù dove le foglie ancora le scatura, co tremor
Scuotono tremando i so fil.
I loro bordi. Co despeto, no al se assa
Dispettoso non si lascia ciapar dala me pel.
Afferrare dalla mia pelle, Lu al me assa co mi sol,
e mi lascia solo sperando doman
a sperare di tenerlo de poder tegnerlo un pocheto,
domani co mi.
un po’ con me.
Gian Berra
Gian Berra

26
Ombra che abbaia.

Ombra che abbaia.


Ombria che sbaia.

Latrati ostili Sbaiade nemighe


Inseguono l’ombra di un gatto, ghe va drio la ombra de un gat,
e decisi mi levano il sonno, furiose le me cava al sonno,
e lo sguardo si volge al prato buio, e i oci i varda al scur in tel camp,
e un segno nero corre un segno negro al corre lontan,
lontano forte e co coscienza.
forte e cosciente. Al can se fa paron de la not
Il cane conquista la notte come se la fusse na soa
Come territorio conquista.
Di conquista. 'Dess mi al porte co i me sogni,
Lo porto nei miei sogni come, squasi come al fusse
fuga dal domani. scampar dal doman.

Gian Berra Gian Berra

27
Freddo mattino

Freddo mattino Fret de matina.

La sponcia la aria de na freda


Punge l’aria di un freddo mattino matina
e i rami secchi di vita e le rame i par secade, saza vida
apparente e le ponta la aria, la sora.
indicano Le par dei de na man che le ciama
l’aria lassù. la luse al ciel 'ncora scur.
Come dita di mani che chiedono luce Un scur longo come na not
al cielo ancora buio. al ga robà al calt ai sogni de far
Un buio lungo come una notte qualcossa.
ha rubato calore ai sogni di fare, Ma, ogni olta al vinze la sfida
ma ogni volta la sfida è vinta col quande al dì al torna.
giorno Mi, come na neola che la cor in tel
che ritorna. cielo
E io come nuvola che percorre il col calor del sol,
cielo vive al scur come spazio che al me
al calore del sole, dis
vivo il buio come spazio che de 'naltra luse, e dopo anca
annuncia un altro scur.
un’altra luce, e poi Fin a che, un altro Dio, che al nasse,
un altro buio. acuioi al farà da lu sol,
Finché un nuovo Dio che nasce, farà la soa luse.
da sé
la propria Gian Berra
luce.

Gian Berra

28
Fine marzo-poesia

Fine marzo-poesia Poesia de la fin de marz.

Ala tera seca de marz no ghe


La terra secca di marzo importa
ignora le mie tensioni 'gnent dele mee tenzion,
e guarda il sole che come alleato e ela la varda al sol, so amigo
sa come usare il tempo che viene che al sa come usar al temp che vien
avanti, indifferente ai sospiri vanti, co indifferenza
disordinati della coscienza che ai sospiri scaturadi de la cossienza,
ancora cerca sé stessa. che ela la cerca 'ncora sé stessa.
Foglie vive di verdure precoci Foie vive de verdura nova,
tendono all’aria fresca la loro sfida. le indica ala aria fresca la so sfida.
Anche all’aria dispettosa, Anca ala aria dispetosa.
le immagini sonnolente I me sogni 'ndormenzadi
delle maschere che mi porto dele maschere che mi me porte doss,
appresso, i tende de darghe un senso a sti
tentano di dare un senso a questi atimi.
attimi. Ma no val 'gnent cercar
Ma è inutile cercare un punto su cui 'ndove poiar i me piè.
poggiare Tute le olte, posti se mostra come
i miei piedi. confusi orizzonti
Ogni volta orizzonti confusi si come se i fusse veri.
mostrano come probabili, Dopo, la arieta della matina,
e certi. la scnacela i confin e la te dona al
Finché di nuovo, la brezza del coraio
mattino a far veri
cancella i confini e rinnova l’invito i sogni.
a realizzare
i sogni. Gian Berra.
Gian Berra

29
Le zucche.

Le zucche. Le zuche.

Semenze scartade,
I semi rifiutati le leva le man
Levano le palme timide
Timidi e co coraio.
e fieri. Color fati de 'gnent i proa
Pastelli che provano a viver seza domandar
A vivere senza chiedere al permesso.
permesso. Mi proe a scoltarli
Mi offro al loro invito, co rispetto,
cercando un rispetto, e sanza confin,
senza confini, i ciape qua
e li accolgo, co commozion.
commosso.
Gian Berra
Gian Berra

30
Sole di settembre

Sole di settembre Sol de setembre.

Vola scontroso il merlo, Al ola co dispetto al merlo,


e rade spighe d'erba secca e un poche de spighe de erba seca
segnano dove va il vento. le segna 'ndove che va al vent.
Là è il sasso dove trovavo pace Xelo là al sas 'ndove mi stavo in
e mi sedevo davanti all'acqua che pace,
andava via lontano? e me sentave davanti ala acqua che
Un brivido mi ricorda che ho la scampava
smarrito via lontan?
i sogni di voli lontani. Un sgrisoo, me ramenta che go
E ora sono solo io, senza più bastoni desmentegà
i sogni de olar lontan.
a cui appoggiarmi. Dess son qua, mi sol sanza baston
Resta poco, se non alcune rade 'ndove poiarme.
speranze scolorite Poc al resta, solamente um poche de
che il primo freddo speranze
disturba sanza color, che al fret che scomizia,
e porta via. disturba
e al porta via.
Gian Berra
Gian Berra

31
Sun of September

And fly unsociable the blackbird,


and roadstead ears of dry grass
they mark where the wind goes.
Where it is the stone where I found peace
and did I sit down in front of the water that left far?
A shiver remembers me that I have lost
the dream of distant flights.
It is time I am only self, without more batons
to which support me
if not any roadstead faded hopes
that the first cold
disturb them
and takes away from.

Gian berra

32
33
Parte SECONDA. POESIE in DIALETTO VENETO di
Segusino, scritte nel 2013.

Scritte dal 2013 al 2016.

I ricordi pretendono di esprimere sé stessi con l’emozione che contengono


alla loro origine. E’ come risentire antiche voci della gente del mio
popolo veneto che urla finalmente il proprio sdegno per essere stata
maltrattata da 17 secoli. Sono emozioni contrastanti, ma autentiche. Le
principali testimoni sono le donne venete che tanto hanno subito, e
sopportato. Sento che mi sono liberato da un peso che legava la mia
gente: il mio compito è rappresentare finalmente l’anima del mio popolo

Era l'estate appena passata. Finalmente solo tra la natura selvatica delle
dolomiti di Feltre. Tra borghi assonnati senza tempo. Trovo il mio attimo
per tirare il fiato. E adesso cosa faccio? Mi domando. Poi decido di no fare
niente se non ascoltare ciò che esce da me stesso.
Lascio scorrere ciò che era nascosto...

34
Stazione dei treni a Fener 1950

35
La machina de fero, la macchina di ferro …

A Fener dopo misodì


al sol al va via.
Ma al treno riva istesso.
Paulin anca al torna a casa,
el varda la machina nera
chea sciupa vapor e fumo che al sa de petrolio.
La xe granda e la fa impression,
par squasi che la ride de lu.
Ma dopo al sente i oci che i lo varda, par squasi
che al ga fato qualcosa de mal.
Al xe al capo stazion che ghe fa segno de ndar via.
Basta al segno de na man e na divisa chel al par de
un carabinier che serca un ladro.
Paulin conosse la rabia, ma lu cala la testa
co ubidiensa.
Lu al sa che nissuni de sta zente foresta che vien
da fora, i parla come a Segusin, gnanca come a Fener.
Lori i comanda co na divisa che fa paura.
Lori i xe tanti e i comanda. Noialtri gavemo da
taser e far i boni. Tanti de lori anca i ne porta via
le tosate zovane. Tante le va a servir a Milan o a Torin.
E dopo no le torna pi. Tante le scampa no se sa andove.
Anca i zoveni i va via, tanti in Canadà, lontan oltra el mar.
Dopo i scrive do letere, e basta.
Paulin xe fortunà, lu al ga catà laoro
a Mestre el pol tornar a casa la domenega.
Al camina oltra al pont sul Piave e nol se ferma ala osteria.
Oltra al mira Segusin e ghe se slarga al cor.
No, lu non partirà, nol vol perdar de vedar
i so veci e al campanil.
Intanto la rabia ghe fa tornar in mente
la machina fe fero, e la so superbia.
Ma suito al pensa che anca ela,
la ga un paron.
E così al se libera l'anema.

Gian Berra 2013.

36
La macchina di ferro

A Fener, dopo pranzo


il sole va via.
Ma il treno arriva lo stesso.
Anche Paulin torna a casa.
E guarda la macchina nera
che sputa vapore e fumo e che sa di petrolio.
Lei é grande e fa impressione,
sembra che quasi rida di lui.
Ma dopo lui sente gli occhi che lo guardano, sembra quasi
che abbia fatto qualcosa di male.
E' il capo stazione che gli fa segno di andar via.
Basta il segno di una mano e una divisa, che pare
che un carabiniere che cerca un ladro.
Paulin conosce la rabbia, ma cala la testa
con ubbidienza.
Lui sa che nessuno di questa gente forestiera che viene
da fuori, parla come a Segusino, e neanche come a Fener.
Loro comandano con una divisa che fa paura.
Loro sono tanti e comandano. Noi dobbiamo tacere
e fare i buoni. Tanti di loro anche ci portano via
le ragazze giovani. Tante di loro vanno
a servire a Milano o a Torino.
E dopo non tornano più. Tante scappano non so dove.
Anche i giovani vanno via, tanti in Canadà, lontano oltre il mare.
Dopo scrivono due lettere, e basta.
Paulin è fortunato, lui ha trovato lavoro
a Mestre, e può tornare a casa la domenica.
Lui cammina oltre il ponte sul Piave e non si ferma alla osteria.
Più oltre guarda Segusino, e gli si allarga il cuore.
No, lui non partirà, non vuole rinunciare a vedere
i suoi vecchi e il campanile.
Intanto la rabbia gli fa tornare in mente
la macchina di ferro, e la sua superbia.
Ma subito pensa, che anche lei
ha un padrone.

37
E così si libera l'anima.

Gian Berra 2013

Ma si, ancò son cossì content dopo la ciacolada co Eduardo. Mi no olea


metar sta poesia suito; mi me andea de spetar ncora un poc. Ma parchè
spetar a cantar na roba che noialtri gavemo pi o meno vissuo? La età del
scoverzer l'amor la xe na staion che masci e femene del nostro popolo de
anime venete, che fursi lori na olta i fasea fadiga a viver dopo mille anni
de sgarbo verso la Vita?
A l'è come se la anima de na bela tosata zovena, la me ga regalà al so
attimo pi bel, quande ela sola entro na camera, la podea esser piena de
orgoglio par sè stessa. Fora la era tuta n'altra roba.
Gian Berra.

38
Tetine bele., tettine belle …

Marieta la se ga serà la porta col batecol,


sto dopo miodì so mare la ga assada lavase ela sola in la so camereta
e ela la ga portà su un mastelet de acqua calda,
anca un sugaman e un toco de saon.
La versa un poca de acqua sul cadin, sora la carega.
La se tira indrio i cavei par sentirli bei. Dopo
la li liga col nastrin, così noi i se bagna.
Quande che la taca a sbotonarse la camiseta che gnen i sgrisoi
a cavarsela. De sot la porta na maieta fina, e dopo la se cava anca quela.
La se sente meza nuda ma la taca a bagnarse i bras, al col, la facia.
Dopo la se insaona anca al petto e la panza.
Co le man e na strazza bagnada le se passa anca un poc la schena,
e dopo la se suga pian pian.
Dopo la varda al batecol con poca de paura,
e la taca a cavarse de sot la gonella e le mudandine.
No la se varda par rispetto e la se ciuca sora ala mastella, squasi sentada
cercando de no trar fora acqua.
La se passa svelta la strassa su le gambe e i piè
e anca là in medo.
Sta acqua la ghe dà un senso de bel, de san.
Dess la se leva su e la se suga tuta
squasi in pressa. Dopo par che no la volaria
ndar via suito. La se tira in piè, la se slonga la schena e
no la se incorde pi de esser nuda.
Ghe par de olar, la assa andar le man fin sule gambe,
la sente la so pèl coi sgisoi e la se gira, co coraio, a vardase
sul gran specio consumà dai ani.
Dess, co coraio la se mira e la se gusta co orgoglio.
Al xe al so corpo bianch e splendente che al ghe roba i oci,
par che lu ghe dise: Son mi al to tesoro.
Ela la varda apena al ciufet de pei, co an poca de vergogna.
Dopo le man le vien su da sole,
le toca senza vergogna le tetine apena nasceste.
La se toca curiosa i capezoi che i vol saltar fora,
e la sente al gusto de viver.
La se gira e la varda la finestra verta, alta sul
trodo dei mulin.

39
Nessuni pol vedarla, e la se offre ai alberi la de sot,
squasi a dirghe grazzie.
Dopo la varda al sol, e la tira un sospiro.
Marieta la se riveste, ma i pensieri noi ghe ne pì.
Ghe par de aver tocà al paradiso,
ma no lo ghe lo dirà a nissuni,
parchè i la ciaparia par mata.
La aria la entra par la finestra e la ghe regala
al profumo dei fior de la cassia.
Tutti sti regali,
i xe solamente par ela.

Gian Berra 2013.

40
Tettine belle.

Marieta ha chiuso la porta col catenaccio.


Questo pomeriggio sua mamma la ha lasciata lavarsi da sola
nella sua cameretta
e lei ha portato su un mastellotto di acqua calda,
e anche un asciugamano e un pezzo di sapone.
Lei versa un poca di acqua calda sul catino, sopra la sedia,
poi si tira indietro i capelli, per sentirli belli. Dopo
li lega con il nastrino, così non si bagnano.
Quando inizia a sbottonarsi la camicetta, le vengono i brividi
mentre se la leva. Sotto porta una maglietta fina, poi si leva anche quella.
Si sente mezza nuda, ma comincia a bagnarsi le braccia, il collo, la
faccia.
Poi si insapona anche il petto e la pancia.
Con le mani e una pezza bagnata, si passa anche un po' la schiena,
e poi si asciuga piano piano.
Dopo guarda con un poca di paura il catenaccio,
e comincia a levarsi di sotto la gonnella e le mutandine.
Non si guarda per rispetto e si china sopra il mastello, quasi seduta
cercando di non spargere fuori acqua.
Lei si passa svelta lo straccio sulle gambe, i piedi
e anche là in mezzo.
Questa acqua le dona un senso di bello, di sano.
Adesso lei si leva e si asciuga tutta
quasi di corsa. Dopo pare che non voglia
andare via subito. Si tira in piedi e allunga la schiena e
non si accorge più di essere nuda.
Le pare di volare, lascia andare le mani sulle gambe,
sente la sua pelle con i brividi, e si gira con coraggio, a guardarsi
sul grande specchio consumato dagli anni.
Adesso, con coraggio si rimira e si gusta con orgoglio.
Il suo corpo bianco e splendente, che le ruba gli occhi,
sembra che le dica: Sono io il tuo tesoro.
Lei guarda appena il ciuffetto di peli, con un po' di vergogna.
Dopo le mani vengono su da sole,
toccano senza vergogna i seni appena nati,
e si tocca curiosa i capezzoli che vogliono venir fuori,
e sente il gusto di vivere.

41
Si gira, e guarda la finestra aperta, alta
sul sentiero dei mulini.
Nessuno può vederla, e lei si offre agli alberi là di sotto,
quasi a ringraziarli.
Dopo guarda il sole, e sospira.
Marieta si riveste, ma i pensieri sono spariti.
Le pare di aver toccato il paradiso,
ma non lo dirà a nessuno,
perché la prederebbero per matta.
L'aria entra dalla finestra e le regala
il profumo dei fiori di acacia.
Tutti questi regali,
sono solamente per lei.

Gian Berra 2013

42
Aneme venete. sciupar fora la rabia!

Sciupa fora la rabia, la xe na merda che la ghe fa mal al figà.


Anca alla panza, all'osel, ale bale e anca alla figa.
Veneti, popolo sentà e co poca forza,
vardè la merda che gavè entro le budele.
Sciupa sta merda e vardala senza aver paura de sto diaol.
Quande la rabia la xe drento la panza, la se sconde ai to oci, e
la te roba la vita senza che ti te incorde.
No basta osar o criar, gnanca sognar.
Quande che ti te vede la to rabia, quande te scoverze che...
che altri i te ga meso dentro sto velen. No la pol pi sconderse!
Prima i te ga meso drento la paura anca de parlar scieto.
Dopo i te ga convinto de taser, e far al bon,
parchè così no te andarà all'inferno.
Così ti te sta bon, e ti si contento de essar bon.
Parchè i boni, i te gà dito, i ga sempre reson.
Ma la to anema no la se assa menar par le bale,
ela la te tormenta, la te fa sveiar inrabià,
la te roba i pensieri, e la te remena.
No importa al trodo che te cata,
ma trà fora al velen.
Te piase la bandiera? O te speta le feste par star insieme, o te lesi
la storia de na olta? Tuto va ben! No importa, sciupa fora la velen,
sanza aver al timor de far bruta figura.
I pedoci no i sta sol che a Roma,
i xe anca quei che parla co bele parole e che te da reson.
No sta scoltar quei che scoreda sapiensa,
o quei che te promette al paradiso.
Scolta anca al to bus del cul.
Specialmente se al xe al tuo.
E libero, smerda ignoranza, paura, rabia.
La to anema se libera, la se neta ela sola,
la se purga.
E ti, credeghe, ti gavarà sempre reson.

Gian Berra 2013

43
Anime venete, sputate fuori la rabbia!

Sputa fuori la rabbia, è una merda che ti fa male al fegato.


Anche alla pancia, all'uccello, alle palle e anche alla figa.
Veneti, popolo seduto e con poca forza,
guardate la merda che avete dentro le budella.
Sputa questa merda e guardala senza aver paura di questo diavolo.
Quando la rabbia è dentro la tua pancia, lei si nasconde ai tuoi occhi,
e ti ruba la vita senza che tu te ne accorgi.
Non basta lamentarsi o gridare, neanche sognare.
Quando tu vedi la tua rabbia, quando scopri che...
che altri ti hanno messo dentro quel veleno,
lei non può più nascondersi!
Prima ti hanno messo dentro la paura di parlare schietto.
Dopo ti hanno convinto di tacere, e fare il buono,
perché così non andrai all'inferno.
Così tu stai buono, e sei contento di esser buono.
Perché i buoni, ti hanno detto, hanno sempre ragione.
Ma la tua anima non si lascia menare per le palle,
lei ti tormenta, ti fa svegliare arrabbiato,
ti ruba i pensieri, ti scuote.
Non importa la strada che percorri,
ma butta fuori il veleno.
Ti piace la bandiera? O aspetti le feste per stare in compagnia, o leggi
la storia di una volta? Tutto va bene! Non importa, sputa fuori il veleno,
senza avere il timore di fare brutta figura.
I pidocchi non vivono solo a Roma,
sono anche quelli che con belle parole di danno ragione.
Non ascoltare quelli che scoreggiano sapienza,
o quelli che ti promettono il paradiso.
Ascolta anche il tuo buco del culo.
Specialmente se è il tuo.
E dopo, libero smerda ignoranza, paura, rabbia.
La tua anima si libera, si pulisce da sola,
lei si purga.
E tu credele, avrai sempre ragione.

44
Gian Berra 2013

45
Al merlo del Pinet, il merlo dl Pinet …

Le erte dei Singè,


le crode e i sas, e pi sot
la casetta del Pinet.
Al fum del fogo dela sera,
par che al sfoga su par l'aria,
co la la voia de rider e dir che lu a l'è ncora vivo.
Lontan, oltra al Grappa,
al sol par che al dise "se vedemo".
De sotto al paeset se fa scuro,
ma Pinet nol varda fora.
Lu al remena i fasoi co la pasta grossa.
Al fogo al tira negra quela tecia
da massa ani, e al fa fadiga a boiar
al menestron.
Ma sto omo no conta pi i dì da secoi.
Pinet! Urla al merlo Neron; lu al ciama al Pinet
tante olte al dì.
E Pinet lo varda, par che al ride. Ogni olta al ghe risponde:
Tasì!
Al merlo lo varda ncora naltra olta e par che al ride anca lu.
Neron al xe un merlo fortunà, lu al ga un paron,
che al xe anca un amigo.
Neron se ricorda che na olta, la femena del Pinet,
la ciamava al so om,
tante olte al dì.
Dopo che ela la è morta, nissuni pi lo ciamava.
Neron l'è un merlo furbo. Dess a l'è lu
che lo ciama.
Par no assarlo morir.

46
Gian Berra 2013

47
Il merlo del Pinet

Le salite dei Singè,


le rocce , i sassi, e più sotto
la casetta del Pinet.
Il fumo del fuoco della sera,
sembra sfogare su per l'aria,
con la voglia di ridere, e dire che lui è ancora vivo.
Lontano, oltre il Grappa,
il sole sembra dica “ci vediamo”.
Di sotto il paesello si fa scuro,
ma Pinet non guarda fuori.
Lui rigira i fagioli con la pasta grossa.
Il fuoco macchia di nero quella pentola
da troppi anni, e fa fatica a far bollire
il minestrone.
Ma questo uomo non conta più i giorni da secoli.
Pinet! Urla il merlo Nerone; lui chiama il Pinet
tante volte al giorno.
E Pinet lo guarda, pare che sorride. Ogni volta gli risponde:
Taci!
Il merlo lo guarda ancora un'altra volta e pare che rida anche lui.
Nerone è un merlo fortunato, lui ha un padrone,
che è anche un amico.
Nerone si ricorda che una volta, la moglie del Pinet,
Chiamava il suo uomo,
tante volte al giorno.
Dopo che lei è morta, nessuno più lo chiamava.
Nerone è un merlo furbo. Adesso è lui
che lo chiama.
Per non lasciarlo morire.

Gian Berra 20

48
Stram, strame …

La mussa de legn la sbrissa


do dal Frontal,
che par che la tira al mus.
Ma a l'è Nani che al fa fadiga.
Lu no l'è bon de star fermo
e al suda poc, dato che ormai,
al ga si poca carne da consumar.
Lu al varda le siese do par al trodo,
squasi ghe par de vedar
tanti dei de legn nudi
che i segna l'aria
de sto inverno che al par pi fred
de l'anno passà.
Dopo al riva sulla costa.
Lu al vede Riva grassa do bass
coi camin che fuma.
Dess ghe vien la voia de tornar
do a casa soa. Ma al se ferma
an pochet a ligar meio
al stram che al ol scampar via.
Dopo al riva bass e al taca
tirar sto peso su par le case.
Nol cata nissuni par strada.
Al pensa a le do vache che le lo speta.
Dopo al pensa anca ai so fioi che i laora lontan.
Anca al pensa alla so femena.

49
Lori, tuti i ga dito lu di vender ste bestie.
De assar perder, de far al vecio,
come tuti quei che i passà i ani
dela fadiga.
Quande Nani al riva tacà la stala, a l'è scur.
Al se ferma un poc, e dopo
al scarga le foie sul portego.
Dopo, quande che al mete la so testa entro la stala,
le do bestie le lo varda come si lo spetasse
da sempre. A lu al ghe se scalda al cor
e al se senta sul schegn co la secia in man.
Nol porta suito al lat in te la caneva,
prima al pensa ncora cosa far.
Ma nol cata altro e al sospira.
Quande che vien scur, quande che vien la ora
de fermarse, a Nani ghe vien la paura.

Mai lu, su la so vita, al se ga mai fermà.


Gnanca na scianta, gnaca par zugar,
Nani nol sa cossa sia star fermo.
Dopo al met na man entro al mucio
de stram. Al sente ste foie seche che ghe carezza
la pel. Par che le scampa via, par che le ola.
Par squasi che le ol zugar co lu.
Cossì ghe vien un pensiero: Che sia anca mi stram?
E ghe par de esser na foia seca, una de quele in tel sac.
Na foia che la ga fato la so parte, co impegno
e giudizio.
Dess anca Nani al sa de esser stram,
che par la ultima olta,
lu darà na man,
a quei che al ghe serve.

Gian Berra 2013.

50
Strame.

La slitta di legno scivola


giù dal Frontal,
sembra che la tiri l'asino,
ma è Nani che fa fatica.
Lui non è capace di star fermo
a suda poco, dato che ormai
ha poca carne da consumare.
Nani guarda le siepi lungo il sentiero,
quasi gli sembra di vedere
tante dita di legno nudo
che indicano l'aria di
questo inverno che sembra più freddo
dell'anno scorso.
Dopo lui arriva sul costone e
vede Riva grassa la giù in fondo
con i cammini che fumano.
Adesso gli viene voglia di tornare a casa sua.
Ma si ferma un po' per legare meglio
lo strame che vuole scappare via.
Dopo arriva giù basso, e comincia a tirare
questo peso su verso le case.
Non trova nessuno per strada.
Nani alle due vacche che lo aspettano.
Poi pensa anche ai suoi figli che lavorano lontano.
Pensa anche alla sua donna.
Tutti loro gli ahnno detto di vendere le bestie.
Di lasciar perdere, di fare il vecchio, come tutti quelli
che hanno passato gli anni della fatica.
Quando lui arriva vicino alla stalla, è già scuro.
Si ferma un poco, e dopo scarica
le foglie sotto al portico.
Dopo quando mette la testa dentro la stalla,
le due bestie lo guardano come se lo aspettassero
da sempre. A lui gli si scalda il cuore
e si siede sullo sgabello con il secchio in mano.
Non porta subito il latte in cantina,
prima pensa ancora cosa fare.

51
Ma non trova altro e sospira.
Quando che viene scuro, quando viene l'ora
di fermarsi, a nani viene la paura.
Ma lui ella sua vita, non si è mai fermato.
Neanche un po', neanche per giocare,
Nani non sa cosa sia stare fermo.
Dopo, mette una mano dentro il mucchio di strame.
Sente le foglie secche che gli carezzano la pelle.
Sembrano scappare via, sembrano volare.
Sembrano quasi voler giocare con lui.
Così gli viene un pensiero: Che anche io sia come strame?
E gli pare di essere una foglia secca, una di quelle dentro il sacco.
Una foglia che ha fatto la sua parte, con impegno
e giudizio.
Adesso Nani sa di essere strame,
che per la ultima volta,
darà una mano
a chi serve.

Gian Berra 2013

52
Gnent da far, niente da fare …

Luiseta la cata un giornal,


davanti ai cancei del cimitero.
A l'è net e suto, squasi novo.
La lo ciapa in man
come s'il fusse in tesoro.
La se senta sui scalin
e la se desmentega par che,
la è vegnista qua.
La varda i foi, la cerca qualcosa.
No sa gnanca ela. No la sa squasi ledar,
ma la sa che i giornai se varda, se lede.
La vede zente importante, ma dopo,
quande che la gira la pagina, sta zente
no a ghe xe pi.
Cossì la impara che ghe toca
tornar indrio. Ma no la ga voia,
de tornar par far sta roba. Cussì no se finis mai.
Luiseta la trà via quei foi che i fa confusion.
Dess la varda dò, andove le case e la cesa,
par ghe dighe: Cosa atu fat ancoi?
Ela la se incorde che la è squsi la ora de
tornar a casa. Ma cossa ela vegnista a far quà?
E no la se ricorda.
Ma la taca a caminar zo,
par rivar par ora.

Gian Berra 2013.

53
Niente da fare.

Luiseta trova un giornale,


davanti ai cancelli del cimitero.
E' pulito e asciutto, quasi nuovo.
Lei lo prende in mano
come se fosse un tesoro.
Si siede sugli scalini
e si dimentica il perché è venuta qui.
Guarda i fogli, cerca qualcosa, non sa
neanche lei cosa; non sa quasi leggere,
ma sa che i giornali si guardano, si leggono.
Lei vi vede gente importante, ma dopo,
quando gira la pagina, questa gente non c'è più.
Così impara che le tocca tornar indietro.
Ma lei non ha voglia di tornare a fare questa roba.
Così non si finisce mai.
Luiseta getta via quei fogli che fanno solo confusione.
Adesso lei guarda giù dove le casa e la chiesa,
sembrano dirle: Cosa hai fatto oggi?
Lei si accorge che è quasi ora di tornare
a casa. Ma cosa è venuta a fare fin qua?
Lei non se lo ricorda.
Ma inizia a camminare in giù,
per arrivare per ora.

Gian Berra 2

54
Tocio, tocio …

Al riva squasi fin dò sul


Cal del pont.
Co calma al gira le piere,
al ipiegnis i foset.
La tera lo suga, ma no basta,
De sera al so paron al riva dò.
Co na mussa de legn cargada, piena.
Lu al scarga ancora, ogni dì.
E ncora tocio se alsa, se leva,
al cola dal stram, lu al scampa via,
nissuni pol fermar al so destino.
Tento al tocio, nol perdona.
Sto quà a l'è tocio de Riva grassa.
De vache sane. De erba taiada a man co fadiga.
Lu l'è tocio san, vero, autentico.
Grass e co valor
de vero ledam,
de Segusin.

Gian Berra 2013

55
Sugo.

Arriva fin quasi giù


sul Cal del Pont.
Con calma schiva le pietre,
riempie le fossette.
La terra lo asciuga, ma non basta,
Alla sera il suo padrone viene giù.
Con una slitta caricata, piena.
Lui scarica ancora, ogni giorno.
E ancora sugo si alza, si leva,
cola dallo strame, lui scappa via,
nessuno può fermare il suo destino.
Attento al sugo, non perdona.
Questo è sugo di Riva grassa.
Sugo di vacche sane. Di erba tagliata a mano con fatica.
Lui è sugo sano, vero, autentico.
Sterco col valore,
di vero letame
di Segusino.

Gian Berra 2013

56
Quand al vien al fred, quando viene il freddo …

Quand al vien al fret svelto ciapa la sciarpa.


Metela sul col,
botona la camisa e vardete dal vent de tramontana
che i diaol i vien do dal Doc.
Da drio la montagna brusa l'inferno e el manda mala aria.
Aria de malatia che vien par farne tuti stal mal.
Varda che drio la montagna al Papa e i soi cardinai e vescovi
i ga fato scampar le strighe e i stregoni.
Lori era amighi del diaol, lori i era al mal.
Noiatri semo liberi da sto tormento, dato che adess,
vivemo felici parchè andaremo in paradiso,
ga gantio el prete.
Ma lu el magna gratis, noiatri invenze
ne toca tremar de fret.
Noialtri gavemo fato mal a nascer, gavemo fato torto a Dio,
par sta reson ne toca sofrir sta pena.
E patir al fred, tremar e lavarse co l'acqua ingiasada.
Qua a Stramare al sol va via prest, ma sul larin brusa
na stela de cassia. Na stela basta par sperar de viver
fin doman.

Gian Berra 2013

57
Quando viene il freddo.

Quando viene il freddo, svelto prendi la sciarpa,


mettila al collo,
abbottonati la camicia e guardati dal vento di tramontana
che i diavoli vengono giù dal Doc.
Dietro la montagna brucia l'inferno e manda aria cattiva.
Aria di malattia che viene per farci stare tutti male.
Guarda che dietro la montagna il Papa e i suoi cardinali e vescovi
hanno fatto scappare le streghe e gli stregoni.
Loro erano amici del diavolo, loro erano il male.
Noi siamo liberi ora da tale tormento, dato che adesso,
viviamo felici perché andremo in paradiso,
ha garantito il prete. Ma lui mangia gratis, a noi invece
ci tocca tremare di freddo.
Noi abbiamo fatto male a nascere, abbiamo fatto un torto a Dio,
per questa ragione ci tocca soffrire questa pena.
Patire il freddo, tremare e lavarci con l'acqua ghiacciata.
Qui a Stramare, il sole va via presto, ma sul focolare brucia
un ceppo di acacia. Un ceppo basta per sperare di vivere
fino a domani.

Gian Berra 201

58
Maria no sega pi l'erba, Maria non sega più l’erba …

Maria l'è vecia e no sega pi l'erba.


Maria l'è grossa e bassa e la camina poco segura.
Maria la sbanda ma no la vol al baston,
ela la se vergogna de esser vecia e la varda avanti coi oci bassi.
La se sconde la testa col fasolet nero a balete bianche.
Maria la serca de no sporcarse la traversa,
e par no sporcarse la camisa nera la se la tira su par le maneghe.
E la tira i piè sule savate come a strasinar quele gambe strache.
Stamatina la varda i pra a Milies e la se pensa de quande,
tanti ani oltra, col so om e i fioi tacadi ale gambe,
anca ela col rastel la reoltea al fen.
Maria la nasa l'eba segada e ghe vien voia de piander.
Al so primo om ghe la portà via la guerra, al secondo el vin.
E i so fioi, quei vivi, i e tuti via par al mondo.
Ma i oci de Maria non vol lagremar
parchè se fa fadiga anca a piander.
Dopo Maria la se incorde de esser ancora in piè
e le gambe par che ghe dise che ela l'è ncora viva.
Maria de novo la se scalda al cor.
Stasera la pregharà ancora la Madona par sta grazia.
Dopo la ciaparà sono sanza sognar.

Gian Berra 2013

59
Maria non sega più l'erba.

Maria è vecchia e non sega più l'erba.


Maria è grossa e bassa e cammina poco sicura.
Maria sbanda ma non vuole il bastone,
lei si vergogna di esser vecchia e guarda avanti con gli occhi bassi.
Si nasconde la testa col il fazzoletto nero a pallini bianchi.
Maria cerca di non sporcarsi il grembiule,
e per non sporcarsi la camicia nera, tira su le maniche.
E lei tira i piedi sulle ciabatte come a trascinare quelle gambe stanche.
Stamattina lei guarda i prati a Milies, e si ricorda di quando,
tanti anni fa, con il suo uomo e i figli attaccati alle gambe,
anche lei con il rastrello, girava il fieno.
Maria annusa l'erba tagliata, e le vien voglia di piangere.
Il suo primo uomo glielo ha portato via la guerra, il secondo il vino.
E i suoi figli, quelli vivi, sono tutti via per il mondo.
Ma gli occhi di Maria non vogliono lacrimare
perché si fa fatica anche a piangere.
Dopo maria si accorge di essere ancora in piedi
e le gambe pare le dicono che è ancora viva.
Maria di nuovo si scalda il cuore.
Stasera pregherà ancora la Madonna per questa grazia.
Dopo prederà sonno senza sognare.

Gian Berra 201

60
Ariù, anima de acqua. Ariù, anima di acqua …

Acque gelade e mai ferme.


Mai strache e pi vece dei omeni.
Le vien dò da Stramare, do svelte par le crode sconte.
Le tira i oci a vardarle, come a domandarte
al parchè de sta pressa dei omeni.
Ma ste acque non no le se disturba a risponderte.
No le te varda gnanca.
Queste xe acque che ga da far, no le pensa massa.
No come ti che tu sta a vardarle. Par che le diga:
Dai ven zo a bere, dai svelto no pensar massa.
E mi salte le crode e mete i piè entro la posa.
L'acqua le bona e fresca come un regalo,
e dopo me par de star meio.
Tuti i pensieri de prima i xe scampadi,
senza aver da pregar nissuni.
La testa l'è libera e contenta de viver.
Par che l'acqua la ride.
Ma suito la scampa via.

Gian Berra 2013

61
Ariù, anima di acqua.

Acque gelate, mai ferme.


Mai stanche e più vecchie degli uomini.
Vengono giù da Stramare, giù svelte per le rocce nascoste,
Ti attirano gli occhi a guardarle, come a domandarti,
il perché della fretta degli uomini.
Ma queste acque non si disturbano a risponderti.
Non ti guardano nemmeno.
Queste sono acque che anno da fare, non pensano troppo,
non come te che stai qui a fissarle. Sembra che dicano:
Dai vieni giù a bere, dai svelto, non pensare troppo.
E io salto le rocce e metto i piedi sulla pozza.
L?acqua è buona e fresca, come un regalo,
e dopo mi pare di stare meglio.
Tutti i pensieri di prima sono fuggiti,
senza dover pregare nessuno.
La testa è libera e felice di vivere.
Sembra che l'acqua ride.
Ma subito scappa via.

Gian Berra

62
Nosele seche. Nocciole secche …

Ruma sul sest le nosele seche,


che st'inverno saron contenti de magnarle.
Netale ben e scarta quele mate.
Dopo frachele entro el sac e metale via,
dopo scondele ben e tento a no vardarle massa.
Co i riva da Treviso quei del dazio de Roma varda par tera,
e no alzar i oci.
Quei ladri i ta porta via al vedel ogni ano.
Attento a no vardar la caneva,
che i te porta via al formai e le sopresse.
Mostraghe i to fioi cei, mostraghe anca to nono,
e dighe coe lagrme sui oci,
che te toca vardarlo come sel fusse un bocia.
Dopo varda fora e fa finta de piander.
Atento che quei ladri i ga sempre rason!
Ti dighe sempre de si.
Quande i va fora ti sera la porta,
e no lementarte de aver na sopressa,
e anca doi toc de butiro de manco.
Sugate al nas e le lagreme,
Inciuca do la rabia e sospira.
Mandaghe un pensiero alla Madona,
e tasi.

Gian Berra 2013

63
Nocciole secche.

Cerca nel cesto le nocciole secche,


che questo inverno saremo felici di mangiarle.
Puliscile bene e scarta quelle guaste.
Dopo schiacciale dentro il sacco e mettile via,
dopo nascondile bene e attento a non guardarle troppo.
Quando arrivano da Treviso quelli del dazio di Roma, guarda per terra
e non alzare gli occhi.
Quei ladri ti portano via il vitello ogni anno.
Attento a non guardare la cantina,
che ti portano via il formaggio e le sopresse.
Mostragli i tuoi bambini piccoli, mostragli anche tuo nonno,
e di rolo con le lacrime agli occhi,
che ti tocca accudirlo come a un bambino.
Dopo guarda fuori e fai finta di piangere.
Attento che i ladri hanno sempre ragione!
Di loro sempre di si.
Quando vanno fuori, tu chiudi la porta,
non lamentarti di aver una sopressa,
e anche due pezzi di burro in meno.
Asciugati il naso e le lacrime,
inghiotti la rabbia e sospira.
Manda un pensiero alla Madonna,
e stai zitto.

Gian Berra 201

64
Me nono scatàra. Mio nonno scatarra …

Lu le vecio, el tabaca dopo magnà.


Ma al se contenta, e nol ciacola par gnent.
Me nono al stà ore sentà sul schegn fora da la porta, e
lu al scampa entro quande riva al sol o quande vien do la piova.
Me nono ghe vol ben ala ombria.
Dopo lu al scatara moro su na strassa rossa,
dopo al se suga le lagreme e i so oci i varda alt, su par le rive.
Lu se gode a vardar le gambe dele femene che passa svelte.
A lu ghe basta vardar, el se gode a far sogni,
de quande al fogo della so pansa ncora brusava.
Ghe basta tirar al fià e no pensar a altro.
Ghe fa paura i so ani de laoro senza fin,
e dopo anca al dolor de la so femena morta de fadiga,
e anca par i so fioi morti par el Re e par Roma,
Anca par i pecai da scontar doman quande ghe tocara morir.
Fortuna che na neoda lo cura,
e la ghe compra al tabac da tirar.
Me nono non scatara par difesa,
lu solamente al sciupa ste pene par tera.
E dopo al tira al fià
naltra olta.

Gian Berra 2013.

65
Mio nonno scatarra.

Lui è vecchio, fiuta tabacco dopo mangiato.


Ma si accontenta, e non chiacchiera per niente.
Mio nonno sta ore seduto sullo sgabello, fuori dalla porta, e
lui scappa dentro quando arriva il sole o quando piove.
Mio nonno ama l'ombra.
Poi lui scatarra scuro su una pezza rossa,
dopo si asciuga le lacrime ed i suoi occhi guardano su verso al collina.
Lui si gode a guardare le gambe delle femmine che passano svelte.
A lui basta guardare, e si gode a far sogni,
di quando il fuoco nella sua pancia ancora bruciava.
Gli basta tirare il fiato e non pensare ad altro.
Gli fanno paura i suoi anni di lavoro senza fine,
e dopo anche il dolore per la sua donna morta di fatica,
E anche per i suoi figli morti per il Re e per Roma,
Anche per i peccati da scontare domani quando gli toccherà morire.
Per fortuna una nipote lo assiste.
Gli compra il tabacco da tiro.
Mio nonno non scatarra per difesa,
lui solamente sputa queste pene per terra.
E dopo tira il fiato
un'altra volta.

Gian Berra 20

66
Maria la torna dala messa. Maria torna da messa …

La camina fora dala cesa, co le man sul cor.


E la varda su l'aria come a vedar se al mondo
a l'è quel de prima.
Entro la cesa, al prete prima al parlea come se lu al fusse Dio.
Ma ela la sconde al fastidio, al pensiero che Dio l'è sempre irabià.
Maria la ga paura de sto creator che al se lamenta sempre
dei so fioi. Maria lo prega e la spera de no farlo rabiar.
Ghe vien in mente suito an pensiero che ghe fa strenzer al stomego:
Che qualche olta Dio al ride anche lu?
Alora ghe vien in mente Dio che verze la boca e al mostra i dent.
Adess Maria la ga paura e la sente fret. Quei dent par che i vol
magnarla, Suito la dis coi laori seradi na ave Maria e la se sent
come svergognada.
L'è come se la fusse nuda in mezo ala piazza.
Maria la trema tuta e la scampa squasi.
La so casa de Stramare l'è la tacà. La verze la porta e dopo la sera fora al
mondo.
Parchè sto dolor? se domanda Maria. Ma no ghe risponde nessuni.
Maria alora la se versa un mezo goto de vin pizol, che suito ghe scalda
al cor.
Svelti i pensieri de pena i scampa e ela se incorde che l'è quasi miodì.
La ruma le bronze e la parecia l'acqua par la polenta dela domenega.
Dopo la tira fora an poc de formai e par che de novo
al sol al vien entro dai scuri mezi verti.
Maria la varda fora e la fissa un toco de ciel.
I so oci i voria trar fora lagreme che domanda de sfogarse.
Ma Maria la se vergogna anche de lagremar.
Parchè saria far torto a Dio.

Gian Berra 2013

67
Maria torna dalla messa.

Lei cammina fuori dalla chiesa con le mai sul cuore.


E guarda l'aria come a vedere se il mondo
è ancora quello di prima.
Dentro la chiesa, il prete prima parlava come se lui fosse Dio.
Ma lei nasconde il fastidio, al pensiero che Dio è sempre arrabbiato.
Maria ha paura di questo creatore che si lamenta sempre
dei suoi figli. Maria lo prega e spera di non farlo arrabbiare.
Le viene subito in mente un pensiero che le fa stringere lo stomaco:
Che forse, qualche volta, Dio ride anche lui?
Allora le viene in mente Dio che apre la bocca e mostra i denti.
Adesso maria ha paura e sente freddo. Quei denti, paiono che
vogliano mangiarla. Subito lei dice una ave Maria e si sente
come svergognata.
E' come se lei fosse nuda in mezzo alla piazza.
Maria trema tutta e quasi scappa via.
La sua casa di Stramare è la vicino. Lei apre la porta, e dopo
chiude fuori il mondo.
Perché questo dolore? Si domanda Maria. Ma non le risponde nessuno.
Maria allora si versa un po' di vino annacquato, che subito le scalda
il cuore.
Scappano svelti i pensieri e lei si accorge che è quasi mezzogiorno.
Lei fruga tra le braci e prepara l'acqua della polenta della domenica.
Poi lei tira fuori un po' di formaggio, e sembra che di nuovo
il sole venga dentro dai balconi mezzi aperti.
Maria guarda fuori e fissa un pezzo di cielo.
I suoi occhi vorrebbero buttare fuori le lacrime
che vorrebbero sfogarsi.
Ma Maria si vergogna anche di lacrimare.
Perché sarebbe come far torto a Dio.

Gian Berra 2013

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La vendetta de Bortol. La vendetta di Bortolo …

L'è vegnist do da Riva grassa coi zocoi novi.


I xe quei bei co la gomma sott la sola.
Le braghe xe quele pontade da drio, ma se sconde ben al sette,
coa giacheta longa e nera ancora squasi nova.
Do in piaza a Segusin i fa la fiera.
Bortol no ga bestie da vender, e gnanca schei par comprar,
ma lu, come i so amighi i ga voia de vedar an poco de mondo,
e dopo andar entro la osteria de Sbrek a parlar de bestie, de schei,
e co prudenza, anche de femene.
Nisuni parlarà de politica parchè gnanca i sa cosa la sia.
Quande chel riva in piassa xe come na festa dove che i oci no sa dove
vardar.
Tuti i omi i xe intorno a sento bestie tute ligade.
Su naltro canton xe vegniste do anca le femene, tutte insieme come su un
puner.
Bortol al gira e al cata da ciacolar e al sogna le bestie pi bele.
Dopo al fa finta de ndar oltra, ma al passa tacà le femene par vardar meio.
Nol se incode de do figure che vien vanti.
Al notaio de Venessia, alto, ben vestio, profumà coa barbetta taiada ben,
insieme al sindaco, i se vede davanti sto bacan de merda. E davanti le
femene i lo bloca.
 Tento bifolco, varda andove tu camina!
Le femene le ride contente de sto gran coraio. Bortol al resta là come na
merda pena fata.
La vergogna lo blocca, la paura lo fa tremar. Al cata un canton par tornar a
pensar. Dopo al se sconde entro la osteria e al beve do goti de vin. No pol
parlar, al ga la boca serada come na tega coi boton novi. Ma la vendetta lo
ciapa come na colla e lu al scampa fora e dopo no i lo vede pi nissuni.
I do omeni nobili, al notaio e al sindaco, i tira tardi e i pensa de andar a far
festa stasera a Valdobbiadene. I riva al so caretin e i sliga al caval par ndar
via.
I se senta insieme sul sedil e si mete comodi. Ma i se incorde tardi che i ga
pestà col cul do buasse ncora calde.

Gian Berra 2013

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71
La vendetta di Bortolo.

E' venuto giù da Riva Grassa con i zoccoli nuovi.


Sono quelli belli, con la gomma sotto la suola.
Le brache sono quelle rattoppate dietro, ma la toppa
si nasconde bene con la giacchetta lunga, nera e ancora, quasi nuova.
Giù in piazza a Segusino fanno al fiera.
Bortolo non ha bestie da vendere, e nemmeno soldi per comperare,
ma lui ed i sui amici hanno voglia di vedere un poco di mondo.
E poi andare dentro la osteria di Sbrek a parlare di bestie e di soldi,
e anche, con prudenza, anche di donne.
Nessuno parlerà di politica, perché non sanno cosa sia.
Quando lui arriva in piazza è come essere a una festa dove gli occhi
non sanno dove guardare.
Tutti gli uomini sono attorno a cento bestie, tutte legate.
In un altro lato, sono venute giù le donne,
tutte assieme come dentro un pollaio.
Bortolo cammina e trova da chiacchierare, e guarda le bestie più belle.
Dopo fa finta di andare altrove, ma passa accanto alle donne per vedere
meglio.
Lui non si accorge di due figure che vengono avanti.
Il notaio di Venezia, alto, ben vestito, profumato e con la barbetta tagliata
con cura, in compagnia al sindaco... si trovano davanti questo contadino
di merda. Loro lo bloccano davanti alle donne.
 Attento bifolco, guarda dove cammini!
Le donne ridono di questo grande coraggio. Bortolo resta là come una
merda appena fatta.
La vergogna lo blocca, la paura lo fa tremare. Lui trova un angolo per
poter tornare a pensare. Poi si nasconde dentro l'osteria e beve due
bicchieri di vino. Non può parlare, lui ha la bocca chiusa come una patta
coi bottoni nuovi. Ma la vendetta lo prende come una colla, poi lui scappa
fuori e non lo vede più nessuno.
I due uomini nobili, il notaio e il sindaco, fanno tardi e pensano di fare
festa questa sera a Valdobbiadene. Arrivano al loro carretto e slegano i
cavalli per andare via.
Si siedono comodi sul sedile e si mettono comodi. Ma si accorgono troppo
tardi di aver pestato col culo, due merde di vacca, ancora calde.

Gian Berra 2013

72
Un Papa se ne va... per stanchezza.
Lo giuro, stamattina un angelo mi ha mandato in esclusiva questa parole
che vagavano nel vento libere, così prima che svanissero per sempre le ho
raccolte e trascritte in testo. E' stato il vento a darmele. Lo giuro …

73
La carega santa del Papa. La sedia del Papa …

Mi son la carega straca del Papa,


Son vecia e seca ma so contenta.
Doman i me porta ne a caneva,
dato che el Papa va via.
No che no l'è mort,
no che l'è malà, gnanca che el ga finì i schei.
Al papa al se ga stufà de criar par gnent.
Lu al ga dito a tuti che l'è strac e basta.
Quanto nervoso,
quante scorese me ga toca soportar,
quanta rabia e sconforto.
Ma mi son ncora intiera, anca se vecia!
Ma go visto massa robe sconte
e no ghe la fasso pì e me sento marsa
e senza amor.
Nisuni me ga dito grassie
de portar an peso del genere.
Lu, al papa, nol pesava massa
ma al gaveva pensieri che pesava come na casa,
forse anca de pì.
I diseva che Lu al parlava co Dio.
Ma co mi nol ga mai parlà.
Mai che na olta al me ha dito grassie.
Ma le careghe no a da pensar,
gnanca da parlar,
ganca de lamentarse,
le careghe a da taser,
e basta.

74
Gian Berra 2013
La sedia del Papa.

Io sono la sedia stanca del Papa,


son vecchia e secca, ma son contenta.
Domani mi portano in cantina.
Dato che il Papa va via.
No, non è morto,
non è ammalato, neanche ha finito i soldi,
Il Papa si è stufato di gridare per niente.
Lui ha detto a tutti che è stanco e basta.
Quanta tensione,
quante scoregge mi ha toccato sopportare;
quanta rabbia e sconforto.
Ma io sono ancora intera, anche se sono vecchia!
Ma ho visto troppe robe nascoste
e non ce la faccio più e mi sento marcia
e senza amore.
Nessuno mi ha detto grazie
per aver portato un peso del genere.
Lui, il Papa non pesava troppo,
ma aveva pensieri che pesavano come una casa,
forse anche di più.
Dicevano che lui parlava con Dio.
Ma con me non ha mai parlato.
Mai una volta che mi abbia detto grazie,
ma le sedie non debbono pensare,
neanche parlare e
nemmeno lamentarsi.
Le sedie debbono tacere,
e basta.

Gian Berra 2013

75
Citazione preferita

L'orchidea nascosta

Tutti possono sentir parlare dell'orchidea nascosta,


ma la sua fragranza è contenuta solo in noi stessi.
Il saggio stesso non potrebbe togliercela,
e non e' neanche il fiore più' profumato.
La rugiada cade nella lunga mattinata,
la primavera della giovinezza arriva più tardi.
L'uomo comune non sa perché' l'erba al lato del sentiero,
emana quel profumo fragrante.

Cui Tu (Dinastia Tang)

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77
IL GELSO MAGICO di MENOLA, racconto di Gian Berra

In copertina uno splendido dipinto di Anders Zorn

IL GELSO MAGICO di MENOLA

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Un racconto di Gian Berra del 2012. Un inno a Pan e alle radici vive in
tutti noi... testimone il morer, l'albero delle more.
In onore del popolo del Veneto
e alle sue radici originarie.

79
Menola e il morer.

Vicenda realmente accaduta nelle grave del Piave, tra Ciano e Covolo di
Pederobba .... un Veneto silenzioso.

Là dove il Piave fa una grande ansa e gira deciso verso est, proprio di
fianco a Crocetta e Ciano, le sue rive si allargano senza limite. E' possibile
camminare per ore tra le lande sassose e non incontrare nessuno.
Per questo ci vado spesso e tra erbe selvatiche e macchie rade di alberi
fieri, posso allargare lo sguardo sin dove può arrivare.

Non ci sono limiti allo sguardo e così mi è facile lasciare che i ricordi
prendano il colore dell'aria. Senza schemi, la fantasia immagina e vive
ogni realtà possibile. Sogna e ricorda, appunto. Se guardo verso sud lo
sguardo è riempito dalla presenza del Montello, lunga e bassa collina che
mi fa compagnia e incornicia come un abbraccio la riva di Ciano.
E' facile fare tanta strada che poi, stanco, vorrei andare a ristorarmi un po'.

Così quando arrivo alla croda granda, giro sicuro, e l'osteria di Menola e
proprio la vicino.

Amo quella roccia, ha resistito anche al dominio di Venezia.


Di mattina o di pomeriggio non c'è mai nessuno e Menola è felice di poter
parlare. Io del resto in tasca ho sempre di che pagarmi l'ombra di rosso.
Qualche volta incontro anche Menico, sempre distratto e con lo sguardo
scocciato.
Quando lo vedo il cuore riprende a battere perché vorrei ascoltarlo ancora
raccontare la sua storia, ma devo aspettare che Menola sia di buon umore.
Lui non vuole ascoltarla per niente.
Lui è l'oste e va rispettato.

Noi veneti facciamo fatica a confidarci le nostre emozioni. Dopo mille


anni di controllo, temiamo che ci sia sempre una spia del padrone, pronta
ad ascoltare i nostri segreti.

80
Oggi è un pomeriggio di quelli. Svogliato e senza idee sto aiutandomi con
un uovo sodo, a finire il vino aspro di Menola e guardo fuori i pioppi che
sfumano verso le rive.
Una volta , poco più in giù c'era una grande pozza d'acqua, quasi un
laghetto, e la strada ci girava attorno. Sul lato accostato alla collina, la
strada era solo un sentiero che girava per agli alberi. Questi formavano un
bosco che si confondeva con la palude.

Un grande morer solitario, imponente sulla riva , era il capo di tutti quegli
alberi. Cresciuto senza padroni formava lui solo una macchia imponente.
Pochi ci passavano accanto tranquilli o indifferenti. Lui chiedeva rispetto e
l'otteneva senza fatica. L'ombra del morer era un regno a sé. Ed è in questo
mondo sempre buio che …

Forse non era stata una buona idea , ma Menico a volte non pensava. Si
lasciava condurre così dai pensieri vaganti finché la strada non esisteva
più. Si era avviato verso le grave anche se la sera ormai diventava quasi
notte. Il fresco di settembre era appena accennato e l'aria calda ancora
invitava a pensieri inquieti. Cosa cercare ancora tra quei sassi? Inquieto e
svagato Menico aveva già dimenticato la giornata di lavoro e il buio lo
chiamava senza ragione. Si accorse di essere lontano dal sentiero quando il
fitto del bosco aveva già coperto la luce della sera.
Il buio improvviso lo svegliò dal sognare e lasciò che un brivido freddo lo
segnasse rapido come un lampo. Rallentò il passo, e cosciente del suo
ritmo, con cautela proseguì verso l'acqua.
Intuì il sospiro come se realmente potesse udirlo... ma appena tendeva
l'orecchio il silenzio lo lasciava solo e deluso. Cos'era quel sussurro che
non riusciva ad ascoltare?
Furioso per ciò che gli sfuggiva, si sedette sulla sabbia, tra due grosse
querce, e guardando verso l'acqua vicina lasciò vagare l'attenzione come
quando sognava. Lui sognava con la mente e i pensieri erano liberi, ma
con gli occhi osservava il mondo da lontano.
Così, ingannando la sua rabbia, lasciò entrare in sé ciò che non vedeva ne
sentiva. Con la coda dell'occhio notò un movimento nel buio alla sua
sinistra. Sapeva di non poter girare la testa, sentiva che se lo avesse fatto
ogni cosa sarebbe svanita. Lo sapeva e basta. Si lasciò condurre dall'istinto
e fingendo di guardare la palude, girò con prudenza il viso quanto bastava

81
per osservare. E poi con infinita lentezza, cercando di nascondere la sua
tensione, spostò lo sguardo con finta indifferenza.
Sotto il gran morer un grumo scuro si muoveva. Non cercò subito di
capire, ma lasciò che si rivelasse a lui la scena: Una figura grossa e
ingobbita, piegata e tesa, era sopra un'altra figura seduta, appoggiata
all'enorme tronco.
Soffi e sbuffi e modi agitati rendevano tesa l'aria e Menico si sentì
risvegliare il sangue.
Il suo corpo non poteva ignorare il desiderio e già rispondeva al sogno
nascosto. Il suo manico premeva nei calzoni e pretendeva attenzione: Quei
due spandevano furia di vita con urla soffocate. Quello che stava sopra era
fin troppo curvo sulla femmina, ma era instancabile e la faceva gemere
quasi come un pianto sussurrato. Lei lo accoglieva abbracciandolo e
tirandolo verso di sé muovendosi a ondate lente e ritmate.
Poi poco alla volta il silenzio riprese a dominare gli attimi.
I due rimasero ancora abbracciati in un'unica forma scura e Menico per
paura di essere visto smise anche di respirare.
Onde di odore muschiato solcavano come bassi sentieri l’aria tra i tronchi.
Sembrava che anche gli alberi aspettassero l’apice che chiedeva sfogo e
liberazione.
Ma il tempo sembrava non passare mai e tutto era in attesa, in tensione;
Menico viveva ciò come parte di ciò che accadeva.
Lui già perdeva l’attenzione, un vago sonno ipnotico lo intorpidiva e lo
rendeva pesante, lento …
Per poco non si strozzò quando quell'essere imponente si alzò:
Un mostro gigantesco, con le gambe storte e la gobba, le spalle smisurate
e la testa piccola, cercò di mettersi in equilibrio.
Ma a Menico vennero i brividi quando vide e non volle credere.

Quella creatura aveva i corni: erano piccoli e curvati all'indietro come le


capre. Menico si bloccò come fosse di ghiaccio.
Lo sguardo si spostò allora su di Lei e la vide rilassata, appoggiata al
grande morer, con le gambe aperte e le braccia abbandonate sui fianchi.
Era bianca come la luna; liscia e quasi trasparente. Un corpo acerbo ma
voglioso di vita. Il suo viso era delicato, piccolo e rotondo e risplendeva di
riflessi azzurri. Capelli lisci e chiari le ricadevano sulle spalle.
Un ciuffo d’argento filato spiccava superbo tra le cosce che accoglievano
lo sguardo. Lei guardava il gigante con naturale interesse, lo squadrava e
assorbiva la sua immagine … e vide Menico.

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Lei non mosse gli occhi, ma lo vide. Menico sentì in sé sciogliesi ogni
volontà. Il mare infinito lo stava avvolgendo e sembrava annullare ogni
pensiero. Tentò di ribellarsi mentre una parte di sé, ferita, gridava di non
farlo. Il cuore sembrava scoppiargli nel petto e le mani artigliavano la
sabbia. Con uno scatto doloroso staccò gli occhi da Lei e fu subito
catturato dallo sguardo di Lui.

Poi due pupille di fuoco lo lo videro e lo guardarono assenti, e lo


giudicavano.
Poi divennero odio. Ora il mostro si era girato verso di lui.
Le sue cosce pelose incorniciavano un pene appuntito ed esagerato. Nero
nel nero. I piedi erano piccoli, quasi degli zoccoli, e vide anche un
accenno di coda. Già il gigante stava per scattare quando Lei gli prese il
polso peloso e lo trattenne.

Menico si trovò bloccato a fissarli entrambi e tremando, finalmente


ascoltò la sua paura. Scattò senza guardare, e corse verso la strada senza
neanche più pensare. Superò d’un balzo le rive solitarie e buie. Non vide i
campi dove il granturco si seccava , ne sentì gli squittii impauriti delle
pantegane disturbate. Corse e corse finché si ritrovò vicino alla casa dei
signori Matiol. Poi si sedette e dietro un mucchio di fieno si lasciò andare
ad un pianto senza vergogna.
La luna da sopra lo consolava, ma era inutile. Menico si era bagnato i
calzoni, e ora portava in sé il sogno più sogno di tutti. Non poteva tornare
a casa così. No, lui aveva visto Lei, e la sua immagine era fusa al suo
cuore.
Menico aveva anche visto Lui, e nessuno, oltre Lui sarebbe stato più
terribile.
Decise di rimanere in compagnia con la luna, almeno per quella notte.

***

Bluette teneva stretto a sé Bronza. Lui furioso già stringeva nel sogno il
collo dell’umano. La rabbia antica e la disperazione senza fine stava già
cancellando il piacere che lei gli aveva dato. Ma Bluette non avrebbe
permesso a Bronza furioso, di distruggere ciò che stava nascendo. Lo tirò
a sé decisa e guidò con la mano il suo membro fiero dentro di lei. Lo
strinse e lo abbracciò di nuovo con slancio e calore. Bronza avvertiva il

83
fuoco e la rovina, ma il calore e l’umido profondo di Bluette cancellava e
diluiva la tensione.
Si lasciò cadere nel fondo di lei ancora una volta.
Permise alle sue reni di seminare ancora vita.
La sua.
E Bluette ancora lo accolse in sé. Ancora e ancora... Viveva del suo
slancio e gustava il suo fare.
Poi pian piano la tensione svanì negli attimi. Ogni pensiero si placò, e
Bronza si lasciò cadere nel letto di foglie accanto a Lei. Sognava ad occhi
socchiusi ed assenti il piacere del nulla.
Ora, appagato e quasi felice, lasciava che il filo rosso dell’ira rimanesse
oltre l’attenzione e i ricordi.
Lasciò lontani i pensieri di vendetta e di sangue e si addormentò.
Lei invece incrociò le braccia sui seni nudi, immaginando un brivido di
freddo. L’umano aveva visto lei e Bronza. Ciò la stupiva. In tutta la sua
vita di ninfa umida mai aveva notato umani che potessero vedere il popolo
della vita.
Quelle scimmie arroganti erano cieche al grande mondo.
Ma l’umano era un giovane maschio e lei aveva catturato la sua
attenzione. Aveva ancora in sé il piacere dell’abbandono a Bronza. Ma il
brivido sottile della conquista dell’umano era dolce come il miele. E in
autunno il miele era finito. O no?

Menico non tornò a casa quella notte. Dormì nel fienile accanto alla
fontana piccola. Poi si fece vedere affaccendato nell’orto di casa. Come si
fosse alzato presto. Sua madre gli chiese qualcosa, ma poi non ci pensò
più e lo lasciò stare. Menico invece non vedeva più le cose. Che ora era?
Dove doveva andare? Ma oggi cosa c’era da fare? E i fianchi levigati di
Lei erano li davanti a lui e chiedevano di essere accarezzati.
La pelle di fanciulla, lucida e azzurrina era senza forma solida, ma
prendeva quella del suo desiderio.
Gli occhi di lei erano uno spicchio d’infinito e lo supplicavano di venire
ad adorarla. La sua bocca da bambina era un frutto da gustare …
La pancia di Menico era una tensione che voleva.
Il sesso di Menico pretendeva.
E la giornata adesso non sapeva di nulla. Lui era solo. Ma stasera sarebbe
tornato là. Certo che sì! Desiderava Lei come la vita. Le sere di settembre

84
qui sul Piave di Ciano, sono lunghe e ancora calde e i profumi dell’estate
indugiano nell’aria senza vento.
Ma un vago senso di inquietudine, nascosto sotto la crosta delle cose che
si vedono, rende inquieti i cuori.
Specialmente quelli che si vogliono incontrare e hanno fretta di toccarsi e
gustare il fatto di esistere.
Così Menico si avvicinò quasi di corsa al bosco del morer, ma poi quando
fu a pochi passi si nascose e rimase ad ascoltare. Nulla e nessuno era
presente. Echi lontani sottolineavano un silenzio indifferente alla sua
tensione.
Si avvicinò al morer e la sabbia nulla diceva dei ricordi che lui si portava
dentro.
Sedette appoggiandosi al tronco e poco alla volta si lasciò avvolgere dalla
penombra. La accettò come parte di sé e i pensieri si placarono.
Bluette lo sentì quando era ancora nascosta sul lato fitto del bosco. Piano
si avvicinò, studiando la sua attenzione. Ancora lui non l’aveva vista, ma
sembrava sicuro di sé: lui nascondeva bene il suo desiderio. Lui la voleva:
un umano?
Si avvicinò ancora un poco e uscì con prudenza dall’ombra oscura di
un’acacia, proprio di fronte la radura.
E Menico che sognava ad occhi aperti non la vide finché una scintilla
illuminò il punto nascosto del suo occhio destro e accese il suo desiderio.
Il cuore ebbe un sussulto e gli bloccò il respiro.
La sua schiena si irrigidì e da solo il suo sguardo seppe dove guardare. La
vide che usciva dal buio come se camminasse su una nuvola.
Lei splendeva di luce propria e lo guardava sicura di sé. Le sue braccia
cadevano naturali incorniciate dai lunghi capelli e il seno piccolo ma fiero
si mostrava. Il ventre invitava al suo ciuffo di vita e le lunghe gambe si
muovevano appena, lente e sicure. Lui venne catturato da quegli occhi.
Erano un mare verde su cui annegare.
Quando Lei le fu vicina gli parve di entrare nella luce che la avvolgeva e il
mondo di sempre non esisteva più.
Non furono necessarie parole e lui non ricordò mai di averla toccata.
Ma quando lui entrò in lei era come se si fosse annullato nel grande mare
della vita e perse la sua identità sognando e gustando il suo abbraccio.
Aveva provato il paradiso e non desiderava altro. Sentiva le sue forme e
accarezzava il suo velluto e ogni carezza era quella più dolce. La voluttà di
esistere e vivere era una realtà concreta. L’umido in cui si muoveva era
l’invito ad una eternità di estasi senza fine …

85
Poi gli occhi di lei che lo guardavano dentro, lo lasciarono giocare coi
colori e l’infinito. Lui seppe quando questo finì.
Quando poco alla volta il riposo lo riportò al mondo. Con lei vicino che lo
guadava, lui sentì senza soffrire il distacco. Lei non permise al suo cuore
di soffrire e gli rimase
vicina finché il sonno lo vinse.

°°°

Bluette lentamente si staccò dall’umano. Leggera come una foglia gli


permise di rimanere nel sogno che lo rapiva e gli regalava vera gioia. Lei
aveva conquistato il suo cuore e lui ora
era suo per sempre. Ora quella scimmia umana aveva sperimentato
l’infinito e il suo sguardo ora vagava oltre la nebbia di sempre.
Lei sentiva in sé la forza che lui le aveva dato col suo desiderio. Aveva un
sapore diverso da quella che Bronza le regalava: quella di Menico non
sapeva di arroganza o potere.
Era piuttosto simile a quella dei bambini che non hanno limiti e osano il
gioco, irresponsabili, ma vogliono anche essere rassicurati.
Così grazie al legame che lei aveva creato, avrebbe mantenuto in sé quel
nuovo sapore. Un colore nuovo la colmava dentro, e Bluette sapeva di
avere vinto.
L'umano mai avrebbe trovato pace.

Poi l’aria fredda della notte svegliò Menico, che stupito di ritrovarsi lì, si
rivestì svogliato. Non vide la luna, e il buio attorno a lui era come una
coperta di velluto. Lei non c’era più. Ma era come se fosse ancora con lui.
La sentiva dentro come una cosa conquistata. L’aveva fatta sua. Una parte
di sé la voleva toccare, e guardare ancora negli occhi; ma sapeva che non
sarebbe più venuta. Aveva toccato il cielo. Le cose non sarebbero più state
le stesse. Menico si avviò mesto verso Ciano. Ora gli occhi vedevano le
ombre degli alberi quasi vive, e lontano sul Montello notò strani riflessi
che saettavano sopra il bosco. Sentì la civetta chiamare, e per la prima
volta non provò fastidio; anzi, avrebbe voluto rispondere al saluto. Bastò
questo a donargli un poco di calore. Menico sentiva la vita scorrere attorno
a sé, e questa sensazione lo riempiva e lo confortava
Menico non era più solo.

86
Alcuni anni dopo.

In quel pomeriggio di settembre, Menico era inquieto.


Lo era sempre quando venivano alla sua osteria Menola e Gian. Quei due
sembrava si mettessero d’accordo. E venivano sempre negli orari più
strani.
Oggi che giorno è? Già oggi è venerdì e domani cominciano ad arrivare i
villeggianti da Treviso e i Veneziani. Sono loro che riempiono l’osteria
ogni fine settimana. Si comportano come se fossero padroni di tutto.
Se Menico dovesse contare sugli abitanti di Ciano o di Covolo, lui avrebbe
già chiuso l'osteria. Vede in lontananza quei due che si salutano: Menola
solitario torna verso Ciano e Gian si incammina giù per le grave, verso
Covolo.
Già, Tra Menola e Menico c’è una vecchia ruggine...
Menico ricorda quella volta che suo padre, l’anno prima che morisse e che
gli lasciasse l’osteria in eredità, volle tagliare il grande albero delle more
per farne legna.
Chiamò due suoi amici ad aiutarlo. Abbatterono il grande tronco con fatica
e sudore, ma la legna durò parecchio.
Ricorda che quando Menola venne a saperlo, corse all’osteria a urlare che
avevano fatto una cosa schifosa.
Era la prima volta che vedevano Menola infuriato, tutto rosso in faccia.
Sembrava matto, e poi si era messo a piangere come un bambino! Prima la
madre dell'oste, e poi anche gli altri presenti nell'osteria lo avevano
confortato offrendogli un’ombra di vino rosso e un panino con le sardelle.
Poi Menola si calmò e non se ne parlò più. Lui non si era mai sposato e
viveva da solo sulle rive, ma almeno una volta alla settimana veniva
all’osteria.
Ma per i gusti di Menico lui era un solitario troppo imbambolato.
Ora comunque c’era da preparare l’osteria per il fine settimana …

Già. So bene che vi faccio perdere tempo a rinvangare vecchie storie. Ma


tengo a precisare che di certo qualcuno l’ha visto. Nessuno ne vuole
parlare e se ne vergogna. Ma a me non importa. Voglio dirlo almeno una
volta, qui che nessuno mi conosce e anche se mi prende per matto non me
ne frega niente.
Si dice che un’ombra scura ogni tanto saetta là dove c’era una volta il
grande albero delle more.

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L’ombra è nera e grande, sembra abbia anche le corna e la coda. Qualcuno
ha visto gli occhi di quel mostro: sono rossi e pieni di furia e d’ira.
Chi ha visto quel diavolo, in quel posto non ci è più tornato.

©2012 Gian Berra

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IN DIRETTA DA s. PETER SHOW …
racconto di Gian Berra

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In diretta da S. Peter Show …

di Gian Berra

24 giugno 2170: anche oggi si festeggia nel mondo, come ogni anno lo
show delle streghe nella grande piazza al centro di New Rome ( Near old
Italy). L'incontro è sponsorizzato dai maggiori media mondiali. Siete tutti
invitati, nessuno escluso.
La festa è un inno alla libertà senza condizioni ideologiche di ogni
coscienza consapevole e non assoluta.
Tutto il mondo festeggia il presente e il futuro con allegria
ed entusiasmo.
Divertitevi!

© 2012 Gian Berra

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24 giugno 2170, New Rome.
2° Eurasian empire.

- Hallo amici, buona mattina da New Rome… buon giorno felice e chiaro!

Sveglia poltroni, è ora di darsi da fare! Il sole è già alto e voi ancora
sognate e fate bene.
Ma con voi c’è S. Peter Show in diretta, che vi sveglia con tenerezza ed
affetto. Una mattinata di buona musica che… ma no, cosa succede? Ecco
che Gelindo!

Mi passa qualcosa: Gelindo mio, ma ti pare il momento! I nostri


ascoltatori stanno proprio ora lasciando il buio della notte.
Ma ragazzi e ragazze oggi è un giorno davvero speciale! Come non lo
avete notato?
Oggi è il quarantesimo anniversario del Grande Flop!

Proprio oggi! Come quel lunedì 24 giugno 2170. Per giunta è lunedì anche
oggi!
Porco mondo! Il tempo passa e si invecchia. E a scuola ci hanno stufati
parecchio raccontandoci quella vecchia storia. La conosciamo tutti e non
ci interessa granché. Per giunta io non ero ancora nato. Ma ragazzi, mi si
continua a dire che fu una gran cosa. Grande e terribile. Ricordo appena i
casini e i disordini che ancora scuotevano il mondo quando ero un pupo da
latte.
D’accordo, forse è meglio che vi dia un accenno di ciò che accadde quel
giorno.
Forse non è tempo perso, ma poi tutti ad ascoltare tanta musica e a far
festa! Per Giove!

Beh, devo pur iniziare dell’inizio? La cosa ebbe inizio quando un gruppo
di nopagani vecchio di 150 anni si mise a combinare la tecnologia dei
Quanti Concreti in gran voga in quei tempi lontani, e cercò di applicarla a
vecchie e decrepite nozioni di Gnosi Agnostica. Già, la cosa nacque
proprio qui in questa terra benedetta dal sole. Quelli erano gente decisa e
strana.
Stufi di rivangare vecchie cose che sapevano di muffa, e di litigare per
nulla, si misero all’opera. Forse fu il fatto che i loro genitori avessero loro

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infuso tanto ardore? Fatto è che trovarono il modo di rendere accessibile a
tutti l’n-dimensione. E vi pare poco?
Erano stufi di considerare che L’aldilà o il fumoso stato eterico fosse solo
prerogativa dei predicatori, dei santi, degli artisti o dei visionari. No! Loro
lo volevano subito ora qui: in concreto.
Tra di loro c’erano ingegneri in informatica, di fisica quantica e anche
naturalmente veri stregoni e streghe in stretto incognito. E anche esperti
elettricisti.
E' ovvio.
Non ci misero molto a scoprire che le n-dimensioni non erano solo teoria.
Modificando l’approccio teorico dei Quanti Concreti, e allargandolo a
dimensioni non fisiche, tentarono e osarono oltre l’ovvio e il conosciuto.
Innanzi tutto considerarono il “non fisico o non misurabile” come
possibile; e poi focalizzarono un fascio di particelle quantiche cariche
delle loro intenzioni verso una possibilità senza limiti di esistenza. Era
solo uno degli innumerevoli tentativi quello in cui Clinto, un figlio
tredicenne di Nestore, l’ingegnere di fisica applicata del gruppo
neopagano, propose a suo padre di non limitarsi a creare
immagini fumose di visioni immateriali … ma di entrarci dentro.
Vi sembra una cosa da poco?
I bambini sono i nostri veri salvatori!
Così Nestore chiamò gli altri e in una notte di dopolavoro. Lui fece il
miracolo.
Insieme applicarono una vecchia porta completa di stipite al muro nord
della cantina. Dietro la porta c’era il muro di cemento. In realtà non si sa
molto di quella notte. Ma loro erano in cinque più il ragazzo.
Venne così collegata la porta al proiettore quantico e programmata come
via di fuga delle n-particelle. In realtà la cosa non era gestibile
manualmente. Perciò si usò il computer di Clinto per programmare i
parametri con cui informare il flusso di particelle. Fu una cosa artigianale;
infatti per quel primo tentativo vennero usate
solo 14 variabili. Cose da matti. Ma il computer non poteva gestirne di
più.
E la fortuna li assistette.
La porta venne aperta e i macchinari accesi. Quando col cuore in gola
Nestore diede il via, la cosa accadde. Un sospiro di sei gole che si
liberavano con una esclamazione che non oso trascrivere, per la sorpresa
riempì la cantina.
Occhi sbarrati e corpi rigidi di paura mal nascosta, fissavano immobili il

93
rettangolo luminoso che si era aperto nello stipite: una luce soffusa e
azzurrina ora proveniva da lì e illuminava a giorno la cantina.
Nessuno osava fiatare. Ma Clinto fece un passo per primo e si avviò verso
la porta di luce e scrutò curioso oltre. Un attimo ancora e anche gli altri gli
erano dietro. Oltre lo stipite un infinito fumoso e luminoso senza fine
invitava e incuriosiva. Tutto sembrava in leggero movimento e senza un
pavimento. Soffiava un alito fresco e invitante.
Dato che nessuno si muoveva, Clinto profittò del momento e varcò la
porta.
Le vecchie cronache raccontano tutto di questo eroe. E ci dicono che fece
il primo balzo solo perché era curioso. Da allora sappiamo bene cosa è
successo.
Sta di fatto che gli uomini non sono davvero eroi, infatti la scoperta era
così inattesa che nessuno di quelli che erano lì stette zitto.
Clinto raccontò la cosa ai suoi amici e questi alle loro famiglie. E gli altri
confidarono tutto alle loro mogli e si vantarono con i colleghi di lavoro.

Si creò una tale confusione che le autorità confiscarono tutto e venne fatta
a Nestore dal comune, una denuncia di abuso edilizio per aver applicato
una nuova porta senza autorizzazione dall'ufficio di urbanistica.

Ma oramai la cosa era fatta. Ed era così semplice …


Cinque anni dopo in tutto il mondo erano attive le prime le sale pubbliche
n-dimensionali. Gruppi di gente vi si recava per trovare spazio e fare ciò
che voleva. Poi con i modelli portatili, ciascuno
poteva aprire in casa sua una entrata privata nella n-dimensione.
D’accordo, questi non erano modelli perfezionati, ma funzionavano.
Oramai tutti gli enti governativi possedevano ingressi del genere.

L’n-dimensione non aveva limite. Uno spazio con una superficie da


percorrere, ma con infinite altre superfici da ideare e scoprire. Tutto
dipendeva dai parametri programmati d’entrata.
Uno spazio infinito da riempire …e vivere. Una luce diffusa e una vaga
musicalità indistinta.
Ma a tempo limitato. Infatti allo stato delle conoscenze di allora non era
possibile prolungare la durata dell’apertura della porta d’entrata oltre un
certo tempo.
Poi le persone usavano allora l’n-dimensione per svago o per isolarsi in
gruppi.

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Iniziò per prima una banda di fracassoni di periferia di Detroit: portò nella
n-dimensione tutti gli strumenti musicali, un generatore, sedie, mobili, un
frigo di birre ghiacciate. E lì si sfogava ogni fine settimana. Ma quando vi
ritornò la settimana dopo si accorse che altri avevano rubato gli strumenti.
Così dovettero trasportare nella n-dimensione anche robusti recinti e un
container con serratura. Presto comunque si trovarono soluzioni adeguate
e infinite attività fiorirono.
Innamorati che cercavano intimità, spie che si
passavano segreti, magazzini di armi ben sorvegliati. Gruppi di dissidenti
e sette di nuova concezione. Si trattava di una n-dimensione di tipo
terrestre.
Non vennero trovati ne dio ne Dei, ne anime. Per ora almeno.
Rimasero un poco delusi gli Gnostici-Agnostici, che speravano di
incontrare qualche nuova presenza, e i neopagani che ritenevano di aver
fatto un buco nell’acqua.
Ma il bello doveva ancora venire. L’n-dimensione venne vista dalle
religioni monoteiste che allora infestavano il mondo come un nuovo
mondo satanico. Chi usava la nuova dimensione, era scomunicato
all’istante. Musulmani e cattolici specialmente erano confusi ed inorriditi.
Ma si accorsero presto che se in quel posto non c’era il loro dio, loro
potevano benissimo potarlo in quel luogo.
Iniziarono i testimoni di Geova, poi i cattolici romani e tutti gli altri, poi i
seguaci dell’islam e gli ebrei. Ma questa volta si accordarono tra di loro,
fecero i furbi. Che birbanti!

Volevano occupare solo per loro interi livelli di n-dimensione. E impedire


ad altri di accedervi. Ma la cosa non era possibile. Infatti l’n-dimensione è
aperta a tutti coloro che vi accedono.
Così in segreto venne studiata una difesa del territorio.
Integrarono nei Quanti Concreti una programmazione che limita il loro
confine. Crearono un territorio chiuso.
Come un guscio in cui si può accedere da una sola porta. E
l’apparecchiatura di controllo poteva essere attivata
anche dall’interno della n-dimensione scelta per questo scopo di
isolamento tenace.

Solo le tre più grandi religioni monoteiste possedevano tale congegno.


Islamici, cattolici ed ebrei si misero d’accordo per dividersi una gran fetta

95
del nuovo mondo. Per inaugurare tale evento venne scelto un venerdì, un
sabato e una domenica del giugno 2170.

Si trattava di riunirsi tutti assieme nei nuovi territori per celebrare la gloria
del loro dio unico e diviso. Un evento da festeggiare alla grande!
Il venerdì 21 giugno tutti i più importanti capi religiosi islamici, tutti i
mullah più autorevoli, tutti i santi in vita e i conduttori dell’islam ei fautori
della lotta agli infedeli, si recarono nella n-dimensione ai livelli che si
erano presi, assieme ai fedeli più devoti.

Il sabato, i rabbini, le guide spirituali, i condottieri, gli esperti delle sacre


scritture, gli ortodossi e tutti gli altri presero possesso di loro livelli.
Di colpo il mondo sembrò più silenzioso.

E la domenica mattina quando il papa cattolico e i rappresentanti delle


chiese sorelle separate e i crociati avventisti, si preparavano a fare il
grande salto e prendere possesso in pompa magna dei nuovi territori
privati a loro
dedicati con grandi cerimonie. Ci fu un poco di timore; ma dato che ci
erano andati gli altri, anche tutti loro ci andarono assieme ai cardinali,
vescovi, santi viventi, miracolati e i fedeli più fedeli.

Ma la sera della domenica un vento freddo soffiò sul mondo.


I cittadini della Mecca stavano in silenzio e presagivano ombre paurose.
Lunedì 24 giugno ci fu panico a Gerusalemme, verso sera a Roma la gente
vagava inquieta.
Martedì scoppiò il caos multimediale a livello mondiale. Le banche e le
borse valori chiusero le porte.
In Cina, in India e in Giappone qualcuno intravide l'ombra di un
arcobaleno nel cielo. Me i media mondiali derisero tali visioni.
Ma la verità intuita non tardò a farsi palese:
Nessuno era più tornato indietro.

Davvero! Non mi credete? Di quelli che erano partiti non tornò più
nessuno.
Davvero!
Nel giro di pochi anni ciò che era rimasto delle tre grandi tre religioni
assolute e uniche si sfaldò in mille rivoli. E immense ricchezze vennero
divise.

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Vennero fatte varie ipotesi. Poi i fisici riferirono di una nuova teoria che
oggi noi sappiamo era più che giusta.
Il marchingegno applicato ai Quanti Concreti, atto a limitare zone della n-
dimensione funzionava davvero. Ed era possibile attivarlo e
disattivarlo a piacere. Ma i Quanti Concreti, allora non erano conosciuti
come oggi. Si pensava infatti che si trattasse solo di particelle
programmabili in modo informatico - elettronico a livello atomico e a
livello, appunto, concreto.
Ma non si tenne conto della concretezza dei quanti eterici, essi sono
l’aspetto che assumono le particelle quantiche nel mondo a n-dimensioni.
Quando questi gruppi si isolarono volutamente nella n-dimensione
rimasero legati saldamente allo stato eterico. Staccati da ogni contatto col
mondo da cui provenivano. Con l’impossibilità pratica di tornare. Si scoprì
che la cosa si era verificata anche grazie alla grande volontà assoluta di
isolamento di quella gente...
e la loro impossibilità di relazionarsi con altre alternative! Loro non
riconoscevano che loro stessi! Si sono ingannati da soli!

Solo più tardi noi abbiamo scoperto quanto contano i desideri ( anche
quelli inespressi) nella n-dimensione. Così la potenza, il potenziale dei
desideri di quelle persone disperate le ha bloccate lì per sempre.
Non possono cambiare idea, non ne sono capaci.

Ragazzi! Allegria! Quello è stato un gran giorno! D'accordo che qui non
sia un paradiso, ma si vive meglio. Non vi sembra?

Che fortuna! Ora chi di noi non ha ora un angolo tutto suo dove fare
quello che gli pare nella n-dimensione? Naturalmente con prudenza, mi
raccomando!
Hei! Sapete che in settimana parte il sevizio passeggeri settimanale per
Marte?

Da quando hanno scoperto che è possibile viaggiare nella n-dimensione e


uscire dove
si vuole, tutto è cambiato!
Ci basta programmare la porta d’uscita e … puff … si è su Marte.
L’hanno scoperto per primi i Cinesi: L’autunno dopo avevano requisito un
vecchio mercantile arrugginito. Hanno chiuso tutti i boccaporti e caricato

97
un bombolone d’ossigeno e lo hanno spedito in orbita attorno a Phobos. E’
arrivato proprio lì, e poi è tornato.
Sano e salvo!

Ma serve dirlo? Un mese dopo la Boeing costruì un bussolotto di


alluminio lungo 200 metri, carico di cannoni, armi laser, missili e marines
e ha impiantato una base su Marte.
Pensavano già di uscire dal sistema solare entro l’anno e darsi un’occhiata
attorno.
Adesso abbiamo un intero universo da allora, Troppo grande anche per le
multinazionali.
Così va la vita! Allegria!

Mi raccomando! Ricordatevi di stasera; è il 24 giugno! Gran meeting delle


streghe a
S. Peter Square, New Rome

Allegria!
© Gian Berra 2012

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NONNA MARIA STRAMARE in Berra, da Segusino

Dedicato alla mia gente di Segusino.

Ariù, anima de acqua.

Acque gelade e mai ferme.


Mai strache e pi vece dei omeni.
Le vien dò da Stramare, do svelte par le crode sconte.
Le tira i oci a vardarle, come a domandarte
al parchè de sta pressa dei omeni.
Ma ste acque non no le se disturba a risponderte.
No le te varda gnanca.
Queste xe acque che ga da far, no le pensa massa.
No come ti che tu sta a vardarle. Par che le diga:

99
Dai ven zo a bere, dai svelto no pensar massa.
E mi salte le crode e mete i piè entro la posa.
L'acqua le bona e fresca come un regalo,
e dopo me par de star meio.
Tuti i pensieri de prima i xe scampadi,
senza aver da pregar nissuni.
La testa l'è libera e contenta de viver.
Par che l'acqua la ride.
Ma suito la scampa via.

Gian Berra 2013

Gian Berra

Nonna Maria Stramare in Berra


da Segusino

L'avventura umana di mia nonna Maria


in ricordo di una donna eroica veneta

Stramare di Segusino
Dedicato alla gente veneta che non vuole dimenticare
i suoi eroi e le sue eroine:
Esempio di una mamma veneta, come tante, persa nell'oblio senza
riconoscenza.
Esempio di orgoglio. lei rappresenta una rivincita all'ignoranza, alla
paura
e all'impotenza di chi ha rifiutato le proprie radici.

100
Trevignano, marzo 2014

Presento questo piccolo scritto dopo tanti tentativi di descrivere la parte


più bella mia infanzia. Scrivevo e poi cancellavo non trovando una trama.
Ma poi ho capito che dovevo solo ascoltare le immagini che mi salivano
dall'anima. Lasciare che fossero loro a parlare e descrivere le emozioni.
Sono loro le vicende che mi hanno formato e che mi danno anche oggi la
forza di vivere e vedere i tesori veri che hanno accompagnato la mia
gente.
Noi tutti della pedemontana, e di Segusino portiamo, inconsapevoli, una
eredità di umanità che è il dono dei nostri vecchi.
E' l'eredità di secoli di isolamento e sopportazione che sempre ci ha
salvato dai soprusi e dalla paura di chi ci ha sempre usato come servi di
qualcuno.
La parte più preziosa la hanno fatta le nostre mamme. Le donne venete
hanno custodito e curato la vita come il dono più prezioso. Non volevano
che questo. E speravano in un futuro migliore.
Non sapevo di ricordare così tanto di nonna Maria Stramare e della mia
infanzia. Dove mai stavano nascoste tutte queste vicende? Mi accorgo che
dentro di me ci sono ancora tesori da scoprire. Ecco che inizia un'altra
avventura e sento dei brividi a sondare i territori della mia infanzia a
Segusino. Non sempre scopro vicende piacevoli, ma una forza nascosta mi
dice di non far caso alla paura e lasciare che le emozioni dipingano libere
questo affresco di ieri. Ciò non servirà solo a me stesso. Sarà anche la
coscienza di un piccolo popolo a trarne vantaggio; sarà questa sensazione
a darmi coraggio e a scaldarmi il cuore.

Gian Berra

101
Chiesetta di Milies, Segusino

Una tragedia che mi ha cambiato tutta la vita …


Alla chiesetta di Milies …
Ciao Manuela, ti racconto una vicenda triste che ha cambiato del tutto la
mia vita da bambino da quando avevo 4 o 5 anni. Accadde a Milies, dalla
mia nonna e ricordo il momento. Per la prima volta lo racconto e forse
capirai quanto mi ha cambiato e mi ha fatto diventare quello che sono.
L'occasione è una foto della chiesetta di Milies che mi ha richiamato un
lontano ricordo che... vuole uscire da tempo. Pochi ormai lo conoscono.
Ma si tratta di una cosa che ha cambiato del tutto la mia vita. E' accaduta
in una estate del 1951 o 52.
A quei tempo avevo circa 5 anni. A Segusino abitavamo in una vecchia
casa "dei Selmi" a Canton, che c'è ancora in parte diroccata. Le estati ero
con la nonna Maria Stramare a Milies. Piccoli ricordi meravigliosi. Poi
accadde tutto ciò che è ancora chiarissimo nella mia mente:
Pomeriggio, giocavo con altri bimbi davanti alla chiesetta di Milies. Ero
sulla parte di erba a destra di chi entra in chiesa. Un po' in salita. L'erba
era appena stata falciata e non faceva molto caldo e il cielo era sereno.
Grida di bimbi felici, giochi a rotolarsi sul prato. Gioia.

102
Poi una sensazione di chi si avvicinava a me di fretta... un gran colpo,
dolore intenso, e poi più nulla.. come morto.
Ciò che venne dopo fu una serie di cose che posso raccontare con
sentimenti contrastanti che ancora fanno parte della mia esperienza di vita
che racconto: Cambiò tutto. Ero svenuto. Chiamarono mia nonna che
giunse spaventata a morte. Mi svegliarono e poi giù a Segusino. Avevo
ricevuto da un bambino un po' più vecchio ( nove anni o più) una gran
pedata sulla anca destra. Ed ero svenuto. Poi ci si accorse che la ferita si
era aggravata e non guariva più. Mi portarono in ospedale e si accorsero
che l'osso era in pericolo. C'era una gran infezione che non guariva. Così i
miei genitori decisero di mandarmi lontano, in un ospedale attrezzato per
tentare di salvarmi. Durò molto, una volta le degenze erano lunghe.
Tentarono di salvare me e la gamba. Chiesero medicine che venivano da
lontano e mia madre mi dette il sangue quando decisero di operarmi. Andò
bene e la convalescenza durò molto a lungo. Tornai a Segusino dopo 2
anni! Non ero più il Gian bambino di prima. Impaurito e senza più amici,
non parlavo più il nostro dialetto. Non capivo più nulla. Mia madre
spaventata dal fatto che ormai mi aveva quasi perso divenne protettiva per
difendermi dal mondo.
Cambiò il mio destino, ora ero solo ( o quasi) e dovevo trovare il mio
mondo a modo mio. Avevo un dono tutto mio: una sensibilità e intuito che
mi viene dalla parte materna, e un equilibrio emozionale che mi viene da
mio padre. Cominciai sin da bambino a leggere molto, a scrivere e a
esprimere con la pittura le mie fantasie. Facevo passeggiate solitarie
attorno a Segusino e assorbivo la sua magia. Poi tornai in montagna a
Milies dalla nonna Maria Stramare... e lei paziente e premurosa mi
insegnò tesori che mi porto dentro; che fortuna averla avuta vicino per
tanti estati. Facevamo tutte le cose assieme, anche i rosari della sera... Mia
madre ( la Erika, Carniello Enrica), malgrado il suo carattere troppo forte,
mi insegnò a non cedere mai, a costruire ogni giorno il mio destino. Mio
papà Paolo Berra mi regalò il dono del silenzio e dell'equilibrio e del dono
di sé senza mai pretendere nulla... Perché i miei genitori lasciarono
Segusino? Per me. Per aiutarmi. Per darmi più occasioni. Dopo quelle
vicende anche se ero guarito, in realtà ciò che avevo subito mi indebolì
notevolmente, ero fisicamente fregile e non aggiungo altro. Avevo
bisogno di un ambiante più “facile” per sviluppare ciò che volevo fare. E
così si sviluppò il mio destino. Quella chiesetta, che amo con sincero
trasporto, forse, chissà come a suo modo mi ha protetto? Non so, ma in

103
quel posto ancora sento i brividi di forze che hanno deciso per me
bambino di 5 anni. E ho accettato questo che è accaduto affrontando ciò
che è venuto poi. Li è cambiato tutto.
Quest'anno compio 72 anni e ormai non dipingo più, ma scrivo e bado a
mia moglie che è inferma. I miei due figli sono a posto sistemati. E forse
più avanti mi farò portare a Milies per guardare con gli occhi di oggi, e
confrontare con ciò che mi rimane dello sguardo di me bambino. Quando
sono la, mi viene ancora un po' di paura e commozione. Quel posto è
magico, e vive al di fuori del tempo. Ecco il libro che ho scritto su ciò che
mi ha regalato la nonna:
https://www.academia.edu/11339168/
Nonna_Maria_Stramare_in_Berra_da_Se gusino_Gian_Berra_2015
Ciao Manuela Berra ho cercato in breve di dare una immagine di quel
evento . Di sicuro troverai le parole tue per raccontarlo a chi vuoi tu. A me
tocca ancora troppo e mi emoziona ... Mi fa solo piacere se anche altri
conoscono una vicenda così intensa... Gian Berra Montebelluna, Contea
Marzo 2019, per Manuela Berra e i suoi amici …

Grazie x aver condiviso con me questo tremendo episodio . Sicuramente la


chiesetta e il tuo angelo custode ti hanno protetto. Ma penso che la
sofferenza sia un valore agli occhi di DIO, altrimenti non avrebbe mandato
il suo unico figlio a una morte così atroce . Abbiamo tanti motivi x avere
gioia qui sulla terra ma anche prove , non è qui la vita vera . Mi piace il
rispetto e il bene che hai x i tuoi genitori . Un abbraccio
Manuela Berra

104
Gian Berra a Milies sulla lambretta di Mondo, anni '50

105
Capitolo primo

Un pomeriggio di novembre, tanti anni fa...

Era il tempo della scuola, e talvolta mi veniva la voglia di andar fuori a


trovare nonna Maria su a Riva grassa. Un pomeriggio di novembre, con
una nebbia umida che copriva Segusino, facevo la camminata passando
per Riva secca, attraversavo la valle e il ponte che conduceva su per il
borgo. Appena fuori le case un gran mucchio di letame aspettava di esser
sparso sui prati delle colline. Poi ecco le vie strette delle case, deserte a
quell'ora. Sentivo gli occhi che mi osservavano dalle finestre. Nascosti
dietro i vetri appannati, vecchie signore, o stanchi uomini lasciavano
passare le ore in attesa della sera.
Silenzio e atmosfera sospesa e io cercavo segni di vita.
Poi su un cima alle case il cortile della casa della nonna. Giù in fondo una
porta scura appena dietro un angolo. Muri di sasso nudo e un po' di ghiaia
consumata. Le case accanto silenziose, ma cariche di curiosità.
Aprivo la porta, sempre aperta, spingendo un “batecol”
( catenaccio) di ferro ed ero dentro nella gran sala d'entrata. Mattoni rossi
come pavimento, in fondo un grande focolare sempre spento.
Poi un fondo la porta di una piccola stanza che veniva usata dalla nonna
come cucina. Questa porta era chiusa perché la nonna scaldava con una
stufa a legna solo quel posto.
Entravo nella piccola cucina e sentivo finalmente il caldo della stufa. La
nonna era la seduta accanto al tavolo e alla finestra che dava sulla valle dei
Mulini.
Mi guardava appena, ma i suoi occhi erano felici.
Nonna Maria parlava poco; parlavano i suoi occhi e i suoi gesti.
Mi domandava dei miei genitori, della mia scuola e se stavo bene.
Nonna era sempre vestita di nero, con un gran grembiule grigio, tutto
rattoppato. Una gonna lunga nera e larga le arrivava fino ai piedi dove un
paio di vecchie ciabatte le calzavano i piedi. Portava sulle spalle uno
scialle di lana scura e sotto di questo sempre la stessa camicia nera appena
aperta sul collo.
Il suo viso era scavato dagli anni, e i suoi occhi chiari erano per me di una
dolcezza che ispirava subito fiducia.
Nonna Maria mi prendeva sul serio, mi ascoltava con attenzione. Mi
trasmetteva calma e sicurezza e non mi interrompeva mai. Poi scaldava un

106
po' di caffè e mi serviva una tazza di caffellatte dolce. Mentre lei parlava,
guardavo sempre ammirato i suoi capelli ancora tutti quasi neri. Lei se li
faceva a treccia, e poi si arrotolava questa grande treccia sul capo. Capelli
fini e lunghissimi.
Poi guardavo la vecchia radio di legno appoggiata sulla credenza. La
nonna la accendeva solo poche volte: Qualche volta verso sera per
ascoltare il rosario, e la domenica mattina per seguire la messa trasmessa
in diretta.
Appena fuori, nell'entrata c'erano le scale che portavano di sopra. Due
camere spoglie di cui una per lei sola. Un gran letto scuro a cui avevano
aggiunto da qualche anno un vero materasso. Prima lei dormiva ancora su
un materasso di foglie di granturco.
Ma lo spettacolo per me erano le sue lenzuola rattoppate con amore
Per la nonna le cose comperate con la fatica dei pochi soldi avuti in vita,
erano tesori da curare per l'eternità.
Strati di toppe, fino a quattro o più, avevano fatto di quelle lenzuola dei
pezzi d'arte. Quando lei non trovava toppe bianche, usava tutti colori che
trovava. Qualche volta le ho viste stese ad asciugare e mi rubavano gli
occhi.
Nulla veniva gettato via in quella casa. E lei mi lasciava andare in soffitta
ad esplorare vecchie meraviglie.
La soffitta era il regno delle fate. La polvere non mi fermava, guardavo,
toccavo vecchi attrezzi agricoli che usava mio zio Mario, emigrato in
Canada.
Ma la cosa nascosta con un poco di imbarazzo, era che in casa non c'era il
gabinetto. Arrivava l'acqua nel lavabo per i piatti, tutto di pietra, ma per
andare al gabinetto bisognava uscire. Di fianco alla casa, un altro portone
scuro andava sulla stalla.
Una stalla abbandonata, e su un angolo, accanto alla finestra e sopra il
fosso per il letame delle bestie, faceva mostra discreta di sé un cassone di
legno con sopra un buco.
Tutto qua, la nonna accettava ogni cosa come naturale. Si lavava accanto
alla stufa con mastello di ferro zincato.
E nei giorni di pioggia faceva asciugar i panni tirando una corda attraverso
l'entrata.
Ricordo la sua amica più intima, una gatta che mai mi aveva accettato e mi
guardava con sospetto.
Mi dissero che quando la nonna morì, la gatta la cercò per giorni e poi
sparì e nessuno la vide più.

107
Quando le facevo capire che tornavo a casa, lei si alzava con lentezza dalla
sedia e prendeva un bastone e con fatica mi accompagnava alla porta.
Camminava piano, insicura ma con misurato orgoglio. Nonna Maria aveva
una costituzione robusta, ma la sua gobba la piegava in avanti, e parlava
della sua antica fatica.
Sempre in ordine, la nonna mandava un odore di pulito e asciutto.
Poi alla fine quando eravamo alla porta mi metteva in mano qualcosa con
un sorriso di complicità. La salutavo, ed ero fuori.
Poi, con un po’ di imbarazzo aprivo la mano e vi scoprivo un cinquecento
lire di carta.
Un tesoro che mi allietava il cammino verso casa.

Fuochi d’autunno sui colli di Segusino, 1971

108
Capitolo secondo

Parlano gli occhi di un bambino del dopoguerra a Canton di


Segusino...

Il mondo era stupore, meraviglia.


L'aria era sempre fresca e le giornate senza fine. A Canton di Segusino le
strade erano terreno di gioco e di avventure. Non ricordo di aver mai visto
automobili o trattori.
Il traffico era fatto di gente indaffarata e qualche asino o mulo che lenti
andavano verso la montagna, o tornavano a casa. Tanti amici, bambine o
bambini che facevano gruppo in cerca di giochi nuovi da scoprire. Risate o
scherni tenuti a freno con fatica da mamme, nonne o da chi era più grande.
Ricordo la casa dove abitavo con la mia mamma a Canton. Una vecchia
casa fatta con grossi sassi. Ricordo che dietro la casa c'era un piccolo
portico dove tanta legna accatastata aspettava l'inverno. Mio papà non era
con noi. Appena dopo sposato si era ammalato per le malattie prese in
guerra. Mia madre lavorava alla filanda di Segusino. Durante il giorno mi
consegnava alla signora Erminia che abitava sulla casa accanto alla nostra.
Ricordo un pomeriggio che chissà come ero rimasto solo. Ero uscito da
dietro ad esplorare quel portico carico di legna. Tra le frasche secche vidi
una grossa biscia bianca e feci un urlo di paura. Nella strada passava una
signora che mi vide tutto solo e spaventato.
Mi prese in braccio e cercò di consolarmi. Sapeva che mia mamma era al
lavoro, così mi porto a casa sua e mi mise accanto alla sua bambina.
Ricordo un autunno freddo in chi tutti i bambini andavano assieme a
trovare la gente e chiedere regali. Andammo in comitiva fino a Riva
Grassa, e ricordo la visita alla nonna Maria Stramare in Berra. Forse non
era la prima volta che la vedevo, ma quello rimane il primo ricordo di lei.
Vengono i ricordi delle estati passate a Milies. Giochi nei prati, le corse a
inseguire le cavallette...

109
Riva grassa di Segusino negli anni ‘50

110
Capitolo terzo

Io e nonna Maria alla fine degli anni '50... quando viene la sera.

 Nonna!
Così chiamavo ogni attimo del giorno la mia nonna Maria a Milies. Le
estati di quegli anni spensierati le passavo in quel borgo senza tempo.
Poche case fatte di grossi sassi squadrati e poca malta di colore giallo
chiaro. La malta gialla veniva da Staolet, un posto appena sotto Milies.
Era una creta morbida mescolata a ghiaia. Bastava aggiungere un po' di
malta e così si creava un ottimo cemento per tenere assieme i sassi.
Già allora nel 1955 a Milies viveva poca gente in modo stabile. Ma
specialmente i vecchi si ostinavano a mandare avanti le poche stalle.
Verso sera, tutti portavano le mucche ad abbeverarsi alla "Laguna".
Chi si ricorda della laguna? Occupava la grande piazza che ora è un
parcheggio. La laguna era grande per i miei occhi di bambino. Come un
mare scuro e profondo che incuteva timore e rispetto. Ogni sera il concerto
delle rane era una cosa potente e normale, e quel suono insistente e pagano
ricordava il potere della natura sulle illusioni umane.
L'acqua si raccoglieva in quel gran fosso, e serviva da dar da bere alle
bestie e agli umani senza distinzione. Nel fondo si notavano nere alghe,
ma nessuno si sognava di sporcarla.
Verso il tardo pomeriggio venivano da tutto il paese le mucche a bere, era
uno spettacolo ai miei occhi: Erano animali disciplinati; si disponevano in
modo ordinato attorno all'acqua e bevevano. Nel frattempo chi si era
radunato si scambiava le chiacchiere e parlava del tempo guardando il
cielo.
Quando le mucche tornavano alle stalle, tornava il silenzio e le mamme e
le nonne chiamavano a casa noi bambini.
Allora il silenzio non faceva paura. Era solo silenzio e permetteva di
pensare e osservare ciò che ci stava attorno.
Poco dopo si sentiva la campana della chiesetta suonare pochi rintocchi
che annunciavano la notte che veniva.
Io seguivo la nonna Maria che rientrava per preparare la cena. Continuavo
a chiamarla senza una vera ragione, mi bastava questo per sentirmi in
compagnia e al sicuro.

111
Per questa ragione la nonna nemmeno mi rispondeva. Mi guardava appena
e mi sorrideva come a rassicurarmi. Nei suoi occhi rimaneva
un'apprensione vecchia di tre o quattro anni prima, quando mi era capitato
quel brutto incidente che mi avrebbe strappato da Segusino per anni. ma
nessuno ne parlò mai. E io lo avevo dimenticato, per ora.
La nostra casa era stata costruita dai suoi due figli, zio Mario e Abele
Berra, appena dopo la guerra sulle rovine di un'altra casa distrutta dai
tedeschi per rappresaglia.
Era una casa grande e vicino all'acqua della laguna.
Quella sera, come sempre un buon odore di fumo usciva dalla porta. Non
c'erano stufe, ma solo un gran camino dove la nonna cucinava il cibo. Per i
miei occhi il camino era un gigante che arrivava al soffitto. La pentola
scura era appesa alle catene sopra le braci. Dentro il minestrone di pasta e
fagioli si scaldava. Sul grande tavolo di abete, non ho quasi mai visto una
tovaglia, ma non mancava mai il formaggio e il vino.
Mangiavamo con grandi posate di ottone quasi un silenzio. Qualche volta
mangiava con noi anche lo zio Mario. Anche lui parlava poco.
Avevo un po' di timore dello zio Mario Berra. Forse faceva una vita
troppo dura. Rispondeva in modo brusco e secco. Non ricordo di averlo
visto ridere. Lavorava con il suo mulo e si muoveva di continuo tra Riva
Grassa e Milies.
Quella era una sera come tante e in montagna le sere erano fredde. Così
rientrare in casa era una sensazione piacevole. Appena dietro una parete a
nord la nonna usciva da una porticina e portava in mano un pezzo di
formaggio scech, tipico di quelle montagne.
Poi rimestava il minestrone e metteva i piatti in tavola.
La nonna si versava un po' di vino rosso. Vino fatto in casa, dal sapore
aspro e leggero.
Io mi ero già seduto in tavola, facevo a pezzettini del pane secco e lo
mettevo dentro la zuppa fumante. Come dimenticare quel forte odore di
fumo?
Ogni cosa che cucinava la nonna sapeva di fumo. Anche il formaggio e il
burro odoravano un po' di quell'aroma pungente che sapeva di antico.
Poi in silenzio si mangiava e alla fine io fuggivo di nuovo fuori che era
quasi buio.
Tra poco le rane della laguna avrebbero iniziato il coro. Quel frastuono
avrebbe riempito l'aria di Milies per almeno mezzora, forse di più.

112
Alcune sere nonna Maria diceva il rosario. Anche da sola. Io ascoltavo e
talvolta rispondevo a quelle ave Marie, come in un mantra che mi
addormentava la mente e alla fine senza dire parole andavamo a dormire.
La nonna amava i suoi riti, erano consuetudini apprese da piccola.
Quando, la domenica il parroco veniva fino a Milies per dire messa, lei
non mancava mai, ma sapeva essere pratica: Se non era libera dal lavoro
saltava la messa domenicale. Ma quando le serviva dell'acqua santa la
andava a prendere in chiesa.
A volte, assieme alle sue amiche organizzava dei rosari serali in chiesa.
Ogni sera qualcuno suonava la campana dell'Ave Maria.
Il lavoro era parte integrante delle sue giornate, a tutte le ore.
Nonna Maria non conosceva riposo. Non aveva il tempo per pensare, il
suo tempo era fare le cose. Già allora aveva la schiena piegata per la fatica
di vivere al servizio della famiglia.
Una gobba decisa la rallentava e abbassava la sua statura, ma una tensione
superba del corpo le impediva di fermarsi a compatire sé stessa.
Lo sguardo di nonna Maria aveva ormai un'aria stanca, ma era sempre
fiero. Sembrava guardasse lontano, oltre le cose che toccavano le sue
mani. Guardava dentro le apparenze delle persone, ma non giudicava mai.
Cercava la felicità nei desideri non espressi di chi le rivolgeva la parola.
Sempre attenta a non ferire nessuno, sempre vigile ad accogliere una
richiesta di aiuto.
La vedevo distesa e felice quando sentiva che l'armonia era stata
ristabilita.
Questi sono i doni che lei mi ha dato, e io li ho assorbiti in me come tesori.

Il Piave a Segusino

113
Capitolo quarto

Oltre i monti hanno rinchiuso il diavolo per sempre.

La gente di Milies praticava una religiosità acquisita a forza nell'infanzia


da una educazione rigorosa e carica di imposizioni, scarsa di umanità e
vuota di gioia.
Le regole del comportamento morale erano uno schema imposto e a senso
unico: Tu sei nato per soffrire e solo i prediletti da Dio potevano vivere
bene. I prediletti erano quelli che avevano il potere della cultura,
conoscevano le regole e avevano i soldi.
Quella era gente foresta che veniva da lontano, e aveva il diritto di avere
sempre ragione.
Mi viene in mente un'immagine; Un uomo stretto dentro un pastrano
pesante e stretto che gli impacciava i movimenti. Ogni suo movimento gli
costava fatica sforzo. Alla fine si ritrovava sudato e stanco, ma almeno era
ancora vivo...
L'unica ricchezza della gente di Segusino, Milies, Stramare... erano i figli.
Una ricchezza imposta pena la vergogna sociale.
Tanti figli, almeno dieci. Poco importa se tanti morivano da piccoli e altri
dovevano emigrare. Era il volere di Dio.
Così il destino di chi non ha nulla, rimaneva tale: Povertà, ignoranza,
sofferenza e un senso di colpa coltivato con cura.
Da questo senso di inadeguatezza di fronte a chi è più fortunato, nasce un
comportamento di chiusura e arroganza e rifiuto. L'animo si induriva e
nascondeva la vergogna, specialmente nei maschi la rabbia repressa si
trasformava in atteggiamenti aspri e provocatori.
Cercavano così di farsi valere, di sentirsi degni d'onore.
Guai a chi cercava una fidanzata nella frazione vicina!
I maschi di Segusino non potevano andare a donne a Riva Grassa,
nemmeno i maschi di Riva Grassa potevano permettersi di cercare moglie
a Segusino.
Esistevano tali differenze anche tra Milies e le altre frazioni.
Una sera ho assistito ad un agguato di giovani di Milies che avevano teso
un agguato al buio ad alcuni ragazzi che venivano su da Riva Grassa per
cercare una bella giovinetta in montagna. Li vidi accogliere a sassate
quelli che venivano su a Milies...
Ero troppo giovane per capire bene cosa stava succedendo, ma più avanti
compresi.

114
Negli anni cinquanta ardevano gli ultimi fuochi di questa cultura. Ho fatto
ora ad assaggiare il sapore aspro dei dialoghi e comportamenti. Ho
assimilato in parte la lingua di Segusino, una parlata da gente di montagna.
Un dialetto parlato in fretta e quasi a monosillabi con l'atteggiamento di
chi non vuole trasmettere che il proprio dovere.
Che fatica trasmettere sentimenti o sensazioni positive. Che fatica
trasmettere gioia! Che fatica dire " ti amo" o ridere senza imbarazzo!

E così viveva la sua vita da donna, mia nonna Maria.


Cara nonna, sentivo e vedevo il tuo sacrificio di ogni giorno. Eri tu con
tutte le donne di quel mondo, a conservare la Vita. Come donna avevi la
salvezza di un istinto che ti veniva dalla Natura. La forza delle donne è di
sopportare ogni ingiuria, e alla fine vincere in ogni caso.
Nonna Maria, tu non volevi altro che essere mamma fino in fondo. Le
donne come te sono mamme per tutta la vita. Tu eri mamma con i tuoi
fratelli e sorelle, lo eri con tuo marito, con i tuoi figli, con i tuoi nipoti.
Il mondo di mia nonna terminava sulle montagne che stavano attorno a
Segusino e finiva sulle riva del Piave.
Una volta lei mi sorprese con una frase che non ammetteva dubbi:
 Nell'antichità hanno chiuso il diavolo dietro quelle montagne! E
non tornerà mai più.
Nel dire quelle parole indicava i monti a nord di Segusino. Pronunciava
quelle parole come se recitasse una sentenza. E lei aveva l'aria di chi è
sfuggita ad un grande pericolo.
Io non capivo e mi immaginavo un esercito di diavoli rossi infuocati che
venivano spinti dall'altra parte dei monti e chiusi per sempre dentro un
recinto inviolabile e definitivo.
Sentivo in me un moto di stupore e di meraviglia e tanto timore.
Ma poi mi veniva spontaneo pensare alla sofferenza e al destino di quei
poveri diavoli senza prospettive per l'eternità. Li sentivo lamentarsi di un
destino senza prospettive e non mi pareva giusto.
Poi più avanti compresi che la nonna si riferiva al Concilio di Trento, di
tanti secoli prima. Ancora, dopo tanti anni era viva in lei il terrore
impresso ed indelebile trasmesso sin da bambina, come una condanna che
poteva colpire anche lei se...

115
Capitolo quinto

Il volo delle cavallette.

A Milies le estati non erano mai troppo calde, così io e la nonna facevamo
passeggiate nei campi falciati attorno alle case. La nonna faceva fatica a
camminare per lunghi tratti, ma pur di soddisfare la mia curiosità mi
faceva da compagna e mi descriveva le meraviglie che mi stavano attorno.
Tutto mi stupiva. L'erba che calpestavo era tutta falciata con cura precisa
come dentro un giardino di gente nobile. Tutto era ordinato e pulito e dava
l'idea che la vita a Milies fosse una cosa seria. Poi rimanevo meravigliato
dalle cavallette che saltavano ad ogni nostro passo e tentavano di fuggire
alla nostra presenza. Qualche volta ci seguivano le tre galline della nonna:
Per loro era una festa, beccavano quegli insetti e si saziavano felici.
Quelli erano gli anni delle cavallette, poi qualche anno dopo sparirono
quasi tutte e fu come se davvero fosse finito un mondo.
Già allora nella fine degli anni cinquanta poche famiglie vivevano
stabilmente a Milies. Forse solo tre o quattro nuclei famigliari resistevano
grazie alla pensione di vecchiaia degli anziani che avevano deciso di
morire in quella valle.

Non ricordo molte amicizie con bambini come me, durante quelle estati.
Quando tornai il quella valle ero già un ragazzino solitario. Avevo già
rimosso i ricordi di quando avevo scoperto Milies per la prima volta, cioè
di quando avevo tre o quattro anni. E avevo perduto gli amichetti di quel
periodo della fine degli anni quaranta. Avevo "dimenticato" il dialetto
appreso da piccolo e parlavo un italiano educato e preciso, questo era un
ostacolo notevole a fare nuove amicizie.
Così non mi rimaneva che leggere molto e osservare.
Pur avendo 10 o 13 anni leggevo molto e di tutto. Avevo trovato una
miniera di libri presso la colonia estiva "la casa del fanciullo" di Padova.
Era stata costruita pochi anni prima davanti alla casa di mia nonna.
Quando Pompeo, il cuoco della colonia si era accorto che fissavo tutti i
libri che mi passavano sotto gli occhi, mi presentò al "capo" di quella
comunità e lui mi portò in un grande ripostiglio e aprì una gran cassa di
legno e mi invitò a prendere in prestito parte di quei tesori. Prendevo tre
volumi per volta e li portavo a casa. Poi una volta finiti poi tornavo là in
cerca di altri. E così per varie estati.

116
Scoprivo territori infiniti dove i miei ingenui sogni si saziavano. La nonna
mi guardava e non diceva nulla. Forse aveva capito che solo in quel modo
riuscivo a soddisfare la mia voglia di scoprire il mondo. Lei mi ha
accettato così come ero, e nel frattempo tentava di farmi amare il suo
mondo. Nonna Maria aveva pazienza da vendere e poteva finalmente
permettersi di non avere fretta. Nella sua lunga vita aveva sopportato ogni
sventura e accadimento. Il dono più grande che mi ha fatto è questa sua
sicurezza interiore,
Mi trasmetteva fiducia e ottimismo. Con lei mi sentivo al sicuro.

Ricordo di Pompeo

Pompeo, il cuoco della Casa del fanciullo, divenne un mio punto di


riferimento. Pompeo nei momenti liberi si metteva a disegnare coi gessetti
colorati sopra dei cartoncini bianchi. Faceva dei quadretti di Milies.
Graffiava il cartone coi gessetti e poi lisciava la polvere colorata sfumando
il colore. Io gli stavo come incollato accanto e rubavo ogni suo gesto.
La mia meraviglia di tanta magia, lo intrigava e non mi mandò mai via. Io
sognavo di creare meraviglie come quelle. Volevo imparare quella magia.
Così feci di tutto per avere una scatola di gessetti colorati; poi cercai del
cartone e mi misi da solo a fare il mio primo quadro. Non dissi nulla a
Pompeo.
Così in un mattino di sole mi misi davanti alla fontana, feci il disegno a
matita e poi cominciare a fare come Pompeo. Mescolai i colori e sfumai
con una naturalezza che mi veniva spontanea. Ci misi tutta la mattina e
mostrai il mio lavoro alla nonna.
Lei diede una occhiata distratta al mio capolavoro, annuì appena e poi
continuò le sue faccende come se nulla fosse accaduto.

117
Ma avevo in mente di fare vedere il cartone a Pompeo nel pomeriggio.
Era quasi sera quando lui uscì fuori dalla cucina dove lavorava. Io ero là
davanti con il cartone in mano e gli presentai la mia fatica.
Pompeo fissò il disegno e sulla sua faccia apparve una sensazione di
fastidio. Indispettito prese un gessetto nero dalla sua scatola dei colori e
con un gesto veloce e dispettoso corresse con segni scuri quasi cancellò
ciò che avevo fatto:
 Vedi qua? Sei troppo preciso! Ci vuole più movimento! Questo
tetto è troppo
perfetto, ci vuole più azione!
Io rimasi sconvolto e mi si bloccò la gola. Non dissi nulla e aspettai che mi
rendesse il mio disegno. Poi lui se andò via seccato.
Poi da solo fissai quei brutti segni neri che avevano sporcato il mio lavoro.
Il giorno dopo lo ripresi in mano e lo strappai gettando i pezzi nel fuoco.
Da allora non cercai mai più Pompeo. Allora, a quei tempi lui forse aveva
settanta anni, e qualcosa di brutto aveva segnato la sua vita dato che non lo
vidi mai ridere.
Dopo quasi vent'anni tornando a Milies trovai un ragazzo della colonia e
gli domandai di Pompeo. Seppi che era ancora vivo ma ormai quasi
totalmente invalido. Sentii in me una sensazione di pena per Pompeo, ma
lo ringrazio per avermi comunque risvegliato l'anima verso l'arte della
pittura.
L'anno dopo incontrai a Milies anche un altro "pittore" che aveva messo il
cavalletto su un prato accanto a casa nostra. Era magro e si agitò un po'
quando lo avvicinai. Era di Segusino e faceva il calzolaio, si chiamava
Antonio (?) Furlan. Me ne andai via subito vedendo che lo rendevo
nervoso.

Segusino, la valle dei mulini

118
Nanni della Marianna nel 1985

119
Capitolo sesto

Nanni della Marianna e sua madre... vivono l'eternità.

La grande laguna di acqua scura lambiva il nostro cortile e i pochi ragazzi


di Milies vi venivano vicino a pescare le rane più grasse. Mi dissero che
anche se le mangiavano! Una volta li vidi con due grossi topi morti. Mi
fecero capire con una risata che li avrebbero cucinati arrosto. Erano fieri di
tanto coraggio ed io, carico di stupore e meraviglia non ci volevo credere...
Appena la davanti c'era la casa della Marianna e di suo figlio Nanni.
Spesso venivano ad aiutarli nei lavori Arnaldo e Amedeo i suoi due nipoti.
Venivano su da Stramare e mi stupiva la loro vitalità ed energia. Io al
contrario ero lento e tendevo ad ingrassare. Loro per me erano dei super
uomini. Li guardavo da lontano sentivo la loro sicurezza. Vivevano il loro
ambiente come giovani signori. La gioventù di Segusino nasceva nel
sacrificio del lavoro senza sosta ed imitavano i loro padri portandosi
dentro un orgoglio che non cedeva mai. Per me che ero un insicuro e
timido per natura, erano esempi di ciò che avrei voluto essere, ma erano
così lontani dalla mia vita che mi limitavo ad osservarli da lontano.

Osservavo anche la Marianna, la loro nonna, sempre presente in quella


piazza. La casa della Marianna è tuttora là, piccola e scura a lato della
piazza. Povera ma dignitosa aveva solo una stanza e spesso il fumo usciva
dalla porta d'ingresso quando questa vecchia signora coraggiosa cucinava
il cibo o faceva il formaggio.
La Marianna non parlava... lei urlava. Ogni sua affermazione tagliava la
piazza come un comando che non conosceva repliche. Una voce fonda e
acuta allo stesso tempo. Imperiosa
imponeva il suo volere. La Marianna comandava così anche a suo figlio
Nanni, il papà di Arnaldo e Amedeo.
La Marianna era alta, magra e dritta come un palo. Si muoveva di
continuo nervosa e sempre attiva. Sempre di fretta. Si vestiva di scuro, ma
portava anche un grembiule grigio col disegno a pallini chiari. In testa
portava sempre un fazzoletto scuro e non la vidi mai senza quel telo che la
proteggeva dal caldo e dal freddo. Portava ai piedi zoccoli che parevano
eterni. Ricordo il suo viso, era più energico di quello di mia nonna.

120
Ma lo sguardo della Marianna portava dentro anche una dolcezza
nascosta, un segreto potere di sopportare ogni cosa e saper donare
sicurezza a tutti. Lei urlava, ma non offendeva mai.
Nanni, suo figlio, lo vedevo sempre al lavoro come un mulo per tutto il
giorno. Nanni indossava la divisa di tutti gli agricoltori di montagna di
Segusino: un completo in due pezzi di cotone blu, che poi diventava negli
anni sempre più chiaro. Era un cotone robusto ed eterno che perdeva il
colore a forza di essere lavato. Era composto da un paio di pantaloni larghi
e comodi e da una giacchetta con tasche. Sotto Nanni portava anche
d'estate una maglia scolorita di lana chiara. In testa aveva sempre un basco
di panno nero.
Nanni e sua madre parlavano a voce alta tra di loro e segnavano le ore in
quella piazza.
Quando portavano le mucche all'abbeverata in laguna erano per me
momenti da favola, mentre la Marianna urlava alle bestie, o era Nanni a
fare la stessa cosa.
Le bestie ormai erano così abituate a quegli sfoghi che di certo non ci
facevano più caso.
Quando negli anni ottanta tornai a Milies, rividi Nanni e scambiai alcune
parole con lui.
Nanni si ricordava di me anche se io non avevo parlato prima con lui. Ci
scambiammo poche frasi, ma io raccolsi da lui una saggezza e una
sicurezza semplice e ruvida che porto in me come un esempio mirabile.
Gli occhi di Nanni ti guardavano dentro l'anima con una dolcezza
inaspettata. Sembravano ascoltarla assieme alle parole che pronunciavo.
Nanni guardava le persone cercando di comunicare la sua soddisfazione di
aver fatto nella sua vita tutto quello che poteva per deludere nessuno.
Nanni parlava poco, ma offriva la sua attenzione a tutti.
La sua gentilezza d'animo non era stata ferita dalle durezze della sua vita
di montanaro.

Nonna Maria con mia zia Maria Coppe negli anni '50

121
Nonna Maria negli anno ‘50

122
Capitolo settimo

Con l'acqua santa nonna Maria rimette in equilibrio la vita.

Le estati a Milies passavano come l'acqua del torrente Ariù, il piccolo


fiume che scorreva giù verso Stramare. Io assaporavo l'aria asciutta dei
monti e osservavo ogni cosa. Talvolta tanta attenzione si rivelava anche di
notte con sogni inquieti. La nonna dormiva accanto alla mia cameretta
aveva una speciale attenzione per quel nipotino che amava sognare ad
occhi aperti.
Una notte di cui serbo un vivo ricordo mi svegliai con lei davanti che
spruzzava d'acqua nel buio della stanza. Non capivo e la guardai sorpreso
e smarrito.
Lei si accorse che ormai ero sveglio e con voce seria mi disse:
 Sai che ti sei sognato e gridavi? Così con questa acqua santa ora
starai bene. Poi senza dire più nulla se ne andò e mi lasciò solo.
Ripresi sonno e non ci pensai più.
Così i giorni seguenti fissai curioso quella bottiglia che lei conservava in
camera sua. Era piena di acqua benedetta che lei aveva riempito con cura
in chiesa.
Nonna Maria trattava quell'acqua come un mezzo semplice ed efficace. Il
suo valore era scontato e non aveva nulla di sacro o magico, era
semplicemente "acqua santa", e tutto finiva la. Una medicina buona come
qualunque altra, e così doveva essere usata.
Ma la nonna sapeva ben di più.
A metà agosto la osservo a rimescolare nel pentolone che bolliva appeso
alla catena del gran camino. Faceva bollire una gran quantità di pigne di
abete per preparare lo sciroppo per la tosse che sarebbe servito il prossimo
inverno.
Una sola volta la osservai a preparare il caffè di Milies. Certo a Milies
nasceva una pianta umile mai notata da nessuno. Ne raccoglieva i baccelli
che poi arrostiva in un attrezzo di ferro: Un lungo manico con in fondo
una sfera piena di buchi. La nonna fino ad allora non aveva mai comprato
caffè.
Ma mi sorprese quando mi cancellò quasi per magia dei porri che mi erano
cresciuti mel dorso delle mani. Semplicemente raccolse tra le erbacce uno

123
stelo succoso che stillava in liquido giallo. Mi bagnò con quel latte i porri,
e dopo pochi giorni questi si erano dissecati e le mie mani tornarono lisce.
Ma come ho già detto, lei non amava particolarmente i fiori. E la lezione
che mi diede in un caldo mese di luglio mi brucia ancora...

Spesso vagavo tra i campi senza meta, e una mattina notai tra l'erba alta
rimasta ai bordi dell'orto una nota di colore che risplendeva. Mi avvicinai
e notai un fiore solitario, altissimo e orgoglioso. Era un giglio rosso
splendido nella sua arroganza. Me ne innamorai senza dubbio alcuno. Così
domandai alla nonna come fare per portarlo a casa e lei mi consigliò di
raccoglierlo con le sue radici di mattina presto e di rinvasarlo dentro un
vasetto con della terra buona e innaffiarlo con cura. L'indomani lo trattai
con massima cura e portai la piantina in casa e lo posai su un muretto in
ombra. Era uno spettacolo e lo adoravo come fosse il tesoro di quella casa.
Dritto, con tante foglioline e un fiore scarlatto che orlava ottimismo alla
vita.
Quando venne la sera pensai di portarlo al sicuro dentro la stalla e lo posi
sul davanzale della finestra. Le due mucche della nonna erano legate alla
mangiatoia e non mi degnarono di uno sguardo.
Il mattino dopo non mi ricordai subito di quel fiore. Ma a metà giornata
sentii che la nonna era dentro la stalla e mi ritornò in mente la mia pianta.
Corsi dentro la stalla e cercai il fiore e rimasi come smarrito a vedere che
non rimaneva che uno stelo nudo. Erano sparite le foglie e il fiore. Le
galline che dormivano dentro la stalla stavano finendo di beccarlo.
Rimasi là fisso a guardare fisso per un attimo, sgomento di tale disgrazia...
Nonna Maria che stava osservandomi si mise a ridere senza freni. Si
agitava come non la avevo mai vista. Rossa in faccia in preda a dei
singulti che la scuotevano tutta rideva senza freni! Poi tentò di mettersi
una mano davanti alla bocca per darsi un contegno...ma non ce la fece e
continuò a ridere e infine uscì in fretta per rompere quell'incantesimo che
lei stessa non sapeva gestire.
Poi più tardi, quando la rividi, lei non rideva più e della cosa nessuno di
noi parlò più, come se nulla fosse avvenuto. Ma quella sensazione è una
lezione di vita che non mi ha più abbandonato.

Nonna Maria giocava a carte quando poteva. Con le sue amiche e anche
con me. Sempre attenta e precisa mi lasciava vincere alla briscola e a
tressette. Su un alto a Milies c'era una osteria nascosta sotto un portico.

124
Lei mi accompagnava là mi comprava una gazzosa, e poi giocavamo a
carte assieme a chi si era seduto con noi.
Gian Berra (col capellino) a Milies con i suoi amichetti, fotografia di Mondo.
Anni '50

Le passeggiate nei campi segati di fresco.

Verso sera d'estate la luce dura a lungo. Così specialmente di sabato


venivano su da Segusino le famiglie che passavano a Milies i giorni del
fine settimana, Tanti lavoravano in fabbrica e in quei giorni venivano a
segar l'erba dei campi o a seguire i vecchi genitori che ancora seguivano le
bestie sulla stalla.
Un pomeriggio di fine agosto mi trovai con mio padre sui campi che
guardano giù verso Segusino. Mio padre conosceva tutti e formammo una
compagnia seduta sull'erba a chiacchierare.
Io come al solito mi portavo dietro un blocco di fogli bianchi e una matita,
Mi misi a fare un disegno del posto.
Sentii dietro di me due occhi che mi osservavano con attenzione.
Mi girai e vidi una ragazzina dal viso chiaro che mi osservava disegnare.

125
La vidi bellissima, quasi una fata. Lei rimase in silenzio... quasi a vedere
come facevo quei segni.
Poi io finii il disegno, e mi venne spontaneo porgerlo a lei dicendo:
 Ecco, è un regalo per te.
La vidi bloccarsi per la sorpresa e dire. - Ma elo par mi? ( ma è per me?)
 Si, è un regalo per te, le dissi semplicemente.
Allora lei, stupita si voltò decisa verso un uomo là accanto, e quasi urlava:
 Papà, varda, al me gha regalà sto disegno! ( papà, guarda mi
hanno regalato un disegno!)
Sembrava che avesse in mano un tesoro. E io finalmente avevo trovato
qualcuno a cui piaceva un mio lavoro....

126
Capitolo ottavo

Dove guardavano gli occhi di nonna Maria?

Seguivo la nonna ovunque lei andava. Lei camminava lenta quasi sempre
aiutandosi con un bastone. Alla nonna piaceva avere la mia compagnia e
mi portava per i sentieri che salivano per la montagna. Una volta facemmo
una grande camminata fino alla costa più alta del monte. Lei chiamava
quel posto “ il Poset”. Una gran pozza ricoperta di argilla per conservare
l'acqua della pioggia. Le case erano chiuse ed abbandonate, ma la vicino la
nonna mi indicò due o tre alberi dall'aria trascurata e stanca.
Quelle sono ciliegie “marinele”. Erano piccole e dure. Lei me le fece
assaggiare.
Erano amare e acide, ma davano l'impressione di calmare la sete.
Poi la nonna mi indicò i prati mai falciati ormai da lungo tempo. Mi disse
che malgrado fossero in gran pendenza, anche quell'erba era preziosa e i
contadini la falciavano appesi ad una corda legata di sopra agli alberi.
La terra era cosa preziosa e veniva usata per dare aiuto. Una volta non
c'erano i boschi di oggi. Tutto era un campo da falciare o da portare su in
alto le mucche a pascolare durante l'estate.
Mi disse che quando era giovane c'erano a Milies duecento famiglie, e
tante passavano tutto l'anno in montagna.
La terra era così preziosa che i confini tra le proprietà erano rigidi e
controllati con puntiglio. A volta bastava un ciuffo d'erba rubato appena
dopo il limite, che nascevano litigi e odio che durava anni.
Nonna Maria portava sempre ai piedi le stesse ciabatte, ma pareva che
sentisse da lontano le buche e i sassi perché non la vidi mai inciampare.
Io guardavo curioso la direzione del suo sguardo, e pareva che fissasse
qualcosa di lontano. Sembrava guardare il mondo con un distacco che io
non capivo.
Dove guardava nonna Maria? Cosa vedeva?
Così imparai anch'io a provare a guardare oltre le cose vicine. Scoprii la
linea della montagna e la sua forma, vidi i suoi colori filtrati dall'aria
azzurra. Notai la forma delle case e il disegno che facevano assieme sui
prati. Poi notai che i prati non avevano tutti lo stesso colore. Mi
meravigliai che anche i sassi non erano tutti uguali.

127
Mi stupivo a osservare che anche le galline non avevano lo stesso carattere
e notai che i fiori formavano sui prati delle figure magiche.
Poi cominciai a notare le forma delle nuvole e sentire il messaggio lieve
dell'aria che mi toccava la pelle. Anche la pioggia che cadeva sembrava
volesse dire qualcosa.
Lei, la nonna, mi indicava anche l'erba che cresceva al bordo della strada e
la chiamava per nome, a seconda del tipo.
Erano tutte queste le cose che la nonna Maria vedeva quando il suo
sguardo guardava lontano?
No, ora che sono più vecchio, intuisco appena che lei guardava tutte
queste cose come da lontano, come se avesse già percorso nella sua vita
tanta strada, che ora vedeva tutto da un percorso già fatto troppe volte.
Ma anche se i suoi occhi guardavano oltre le apparenze, essi ascoltavano
con la massima attenzione l'anima di chi le stava vicino.
Mai nonna Maria mi raccontò le sue pene antiche, i suoi dispiaceri, le sue
vicende amare.
Mai mostrò a me i suoi desideri o le sue delusioni.

Mai mi raccontò la sua storia; e lo stesso fece mio padre Berra Paolo, che
si confidò con me solo negli ultimi anni della sua vita, e io sorpreso,
appresi le storie che ora racconto.

Tanto riserbo mi spaventa ancora e mi domando dove queste persone


trovavano la forza di superare attimi di sconforto che capitano a tutti. Era
così forte il rispetto che avevano di sé stessi e del loro prossimo?
Umiltà, sopportazione, pazienza, fiducia che in fondo ogni cosa si sarebbe
risolta, almeno finché c'era vita.
Questa è vera civiltà, è cultura vera e mai riconosciuta agli umili.
E' la vera forza che le mamme trasmettono alle figlie, ai figli e ai loro
uomini.
Questa essenza preziosa è il tesoro che lei mi ha trasmesso.

Gian Berra sulla lambretta del fotografo Mondo. Metà anni '50

128
Capitolo nono

E il tempo passa.

Poi finii le elementari e anche le medie, e Milies mi interessava sempre


meno.
Lasciai Segusino e vi tornai solo nell'estate 1969, ma dopo tre anni la mia
famiglia lasciò definitivamente il paese.

Nonna Maria non andò più a Milies già dal 1965 perché troppo debole per
rimanere da sola in montagna. Così da allora visse a Riva grassa fino al
mese di gennaio del 1969 quando morì da sola nel sonno. Lei ci lasciò in
silenzio senza disturbare.
Da sempre viveva sola in quella vecchia casa. I vicini la custodivano con
discrezione. Mio padre andava spesso a vederla. Fino alla fine le dava del
“voi” con un rispetto e devozione che mi hanno sempre stupito.

Vidi piangere mio padre quel giorno che la portarono sulla bara fuori di
casa. Vidi anche la sua vergogna di provare un tale sentimento e di farlo
vedere in pubblico.
Venne chiamato un fotografo per fotografare la nonna Maria dentro la
bara. Erano le foto da inviare per posta ai suoi due figli che vivevano in
Canada. Abele e Mario Berra da anni lontani da Segusino.

Poi le cose si sfumano. I ricordi rimangono nascosti perché la vita scorre


di fretta e nulla si ferma. Ogni tanto rivedevo coi pensieri, di sfuggita quel
viso severo di nonna Maria, ma poi c?erano troppe cose da fare. C'era una
famiglia da costruire, figli da custodire e tante cose da affrontare...

Ma ora anche io comincio a pensare a ciò che è passato, e ciò che ha


formato la mia anima e condizionato le scelte che ho fatto. Così escono
fuori dai luoghi del silenzio nascosti nei ricordi.... cose che non sapevo di
avere. Sono i regali che ho ricevuto dalla nonna Maria.

Regali nascosti, esempi di vita che silenziosi mi indicavano la via.


Riconosco ora il potere del suo sguardo,
riconosco il potere dei suoi silenzi,

129
riconosco la forza del suo potere di madre eterna.

Ora riconosco anche la magia che ha rappresentato per tutti quelli che le
sono stati accanto, una corrente silenziosa e discreta di amore senza
condizioni.
Nonna Maria ha passato i suoi lunghi anni di vecchiaia in silenzio
accettando la vita al meglio. Mai un lamento, ma sempre a disposizione di
ciò che poteva dare.

Lei ha vissuto due guerre mondiali. Ha subito disgrazie e amarezze come


tante donne di Segusino. Ma guardava lontano con fiducia e sperava.
Mi resta di lei questa forza, e ancora la ringrazio.

Gian Berra 2014.

Berra Paolo, granatiere morto sul fronte di Caporetto.


Padre di mio padre.

130
Nonna Maria Stramare in Berra,
la sua vita:
I ricordi da un'epoca dimenticata.

Nonna Maria Stramare nacque a Stramare nel 1887. A quei tempi la vita
nei paesi della montagna veneta nulla era cambiato da mille anni. Nessuno
insegnò a lei a leggere o scrivere. Non lo sapevano fare nemmeno i suoi
genitori e i loro avi.
Il destino della sua vita era già definita sin dalla sua nascita.
I suoi sogni erano limitati da tradizioni tramandate dalle regole di poteri
lontani. Lei poteva solo seguire un cammino già deciso dai padroni del suo
corpo e della sua anima.
Serva tra i servi, Nonna Maria imparò presto ad ubbidire, ma non smise
mai di guardare nel cuore della gente che riempiva la sua vita. C'è chi
nasce indifferente, ma anche chi nasce con il dono di vedere dietro le
maschere, e decidere per il meglio.
Nonna Maria decise di vivere al suo meglio. Questa è una forza che viene
dal sangue, dalla razza.
Non sempre in montagna, dove a volte ci si sposava tra parenti stretti, i
figli venivano bene. A sua sorella andò male, ma a lei la natura donò
salute, bellezza, animo forte e una grande pazienza.
Queste doti sono tesori che nonna donò in parte anche ai suoi figli e figlie.
Il suo esempio valeva come un insegnamento che scendeva dentro l'anima,
senza troppe parole.
La sua umanità e sincerità la fece sempre rispettare da tutti.
Come tanta gente di montagna lei parlava poco.
E guardava lontano.

Nonna Maria Stramare aveva appena 13 anni nel 1900. Da ciò che so, si
sposò a 24 anni nell'anno 1911.
Si era sposata in quell'anno con un giovane uomo di Riva Grassa, Paolo
Berra che aveva la stessa sua età. Paolo era un giovane alto "quasi due
metri", contadino. Lui era di carattere tranquillo e gran lavoratore. Di
aspetto imponente, diceva la gente. Possedeva terre a Milies ed è la che
portò la sua sposa.
Ebbero prima una figlia, Pierina nel 1912 e poi un figlio di nome Gio
Batta nel 1914.

131
Il terzo figlio nacque nel 1916 e si chiamava anche lui Paolo, mio padre.
Quando nacque il terzo figlio, Paolo, nonna Maria lo partorì dentro un
carro durante la fuga dopo la disfatta di Caporetto. La guerra non perdona
e non guarda in faccia a nessuno.
Non so se il marito di nonna Maria sapesse di questa nascita. Lui era
granatiere e cadde colpito al fronte e mia nonna rimase sola con tre figli. Il
piccolo Paolo non vide mai suo padre.
Mia nonna rimase vedova, e a quei tempi non esisteva alcun aiuto sociale.
Lei per un poco tenne duro, ma poi per il bene de figli decise di risposarsi.
Il marito morto aveva un fratello, Antonio Berra, sempre di Riva Grassa.
Nonna Maria decise di averlo come marito e la famiglia si ricompose. Da
lui Maria ebbe altri due figli, Mario e Abele.
Il secondo figlio di mia nonna, Gio Batta morì in Albania nel 1941 durante
la seconda quella mondiale.

La prima figlia Pierina si sposò con uno di Segusino ( Spada, di cognome)


e si trasferì col marito a Legnano, vicino Milano.
Ebbe tre figli maschi e poi morì nel 1942 di malattia, lasciandoli orfani.
Mio padre per dare assistenza ai figli di sua sorella rimasti soli e
abbandonati anche dal padre, lasciò Segusino e si trasferì a Legnano per
assistere i tre nipotini. Due di essi furono messi in collegio e il terzo Vito,
rimase con lui.
Fu poco dopo che mio padre cadde in un rastrellamento dei tedeschi e
portato a lavorare in Germania. Riuscì a fuggire poco prima della fine
della guerra, tornando a Segusino a piedi con sofferenze che lo toccarono
per sempre.

Entrambi i figli di secondo letto, Mario e Abele emigrarono in Canada nei


primi anni cinquanta e non tornarono che per un breve periodo. Il secondo
marito morì nel agosto del 1947.
Dopo la partenza dei suoi ultimi due figli, a Segusino rimase solo il figlio
Paolo, mio padre. Nonna Maria visse da sola e abitò a Riva Grassa sino
alla sua morte nel 1969.

132
Nonna Maria a Milies negli anni '30

Un affresco di ieri a Segusino.

Sono nato in novembre, nel 1947. Quando venni al mondo mio padre
Paolo Berra non era in famiglia. Si era sposato un anno prima con mia
madre Enrica Carniello, e subito dopo avermi concepito si ammalò di un
male quasi incurabile a quei tempi. Papà Paolo era stato deportato dai
tedeschi in Germania e poi lui approfittò del caos della fine della guerra
per fuggire e tornare a Segusino. Portò con sé sfinimento e malattie, ma da
vero veneto montanaro non perse mai la sua voglia di vivere. Così io lo
vidi solo più tardi.
Conservo le foto che mia madre gli mandava all'ospedale dove lo
curavano.
Mia madre si trovò da sola, ma non poteva smettere di lavorare alla filanda
di Segusino.

133
Così mi consegnava ad una signora di nome Erminia che abitava là
accanto. Non avevamo una casa nostra allora, abitavamo a Canton di
Segusino in una vecchia abitazione che ci avevano prestato dei parenti.
Quella casa è ancora là, abbandonata e con le finestre vuote. Dai due anni
di età già passavo le estati a Milies presso nonna Maria Stramare in Berra.

Proprio a Milies, quando avevo quattro anni mi successe la tragedia che


cambiò tutta la mia vita. Successe tutto quasi sotto gli occhi di mia nonna.
Non so quanto lei soffrì, non so quanta angoscia ciò procurò ai miei
genitori e a me stesso, ma dovetti lasciare Segusino per più di tre anni.
Quando tornai a Segusino fui condotto sulla nuova casetta che mio padre
aveva costruito nel frattempo alla frazione Fontanon.

Vi venni condotto in una giornata di inverno e vidi quella casetta coperta


di neve che mi accoglieva.
Mi sentivo come estraniato dopo gli anni di assenza e sentivo che avevo
perduto un pezzo di me stesso.
Avevo dimenticato gli amici della prima infanzia di bambino, avevo
dimenticato il dialetto del mio paese e non capivo né riconoscevo più
nessuno. Dentro di me una scontentezza senza nome amareggiava ciò che
mi rimaneva di bambino.
Ma non avevo perso del tutto le mie radici.
Ora osservavo ogni cosa come si guarda un panorama da lontano.
Osservavo le cose, le persone, l'aria, i monti come se fossero immagini
tutte da riscoprire. Ma un distacco era nato in me e cercavo di superarlo
osservando tutto con una attenzione esagerata. C'era di sicuro in me la
paura di perdere ancora un'altra volta il contatto con quella realtà?
Da allora ho sviluppato forse la tendenza nascosta in me di ricostruire e
rappresentare immagini e sensazioni, di tenerle con me con geloso
attaccamento.
Non volevo più perdere ogni cosa, e stampavo dentro di me con cura ogni
sensazione e immagine per farle mie per sempre.
Per un oscuro timore, mi ero isolato, come causa delle circostanze che
avevo vissuto. Una solitudine interiore che riempivo con la fantasia e le
emozioni di osservare la vita.

134
Allora nel dopo guerra, quando io ero bambino, Segusino non aveva strade
asfaltate. Pochi avevano la luce in casa e nessuno dormiva in camere
riscaldate. Gli inverni erano lunghi e gelidi. Pochissimi avevano una radio
in casa e quasi nessuno un'auto. La miseria veniva vissuta con normalità.
La povertà e lo sconforto dopo la guerra, venivano accettate come parte
della vita. Tanti giovani lasciavano il paese per emigrare, tanti andavano
in Canada.

Ogni domenica tre distinte file di gente si recavano in chiesa. La messa del
mattino dedicata agli anziani devoti, quella delle ore 8 dedicata ai giovani,
quella delle ore 11 a cui partecipavano tutti gli altri. Quasi nessuno
mancava, pena essere prima o poi guardato con sospetto, o in qualche raro
caso indicato dal prete in chiesa.
Ho accluso in questo libro alcune foto che danno una idea di come ci si
vestiva a Segusino. Gli abiti venivano cuciti in casa e alcune signore
confezionavano su richiesta maglie e indumenti di lana.
A Segusino c'erano due calzolai che lavoravano molto. Un unico fotografo
famoso chiamato "Mondo"ha fotografato tutti. Vendeva anche giornali e
articoli per la caccia. La sua "Lambretta" era la sola a Segusino.
Le vedove e le persone anziane vestivano tutte di nero e portavano un gran
fazzoletto nero in testa per tutto il giorno.
I giovani, ma anche gli uomini maturi davano del "voi" ai loro genitori.
Ricordo che mio padre e mia madre davano sempre del "voi" a mia nonna.
Le persone importanti erano le stesse di tanti paesi di allora: I proprietari
terrieri, i ricchi, i funzionari del comune, il padrone della filanda, il prete,
il sindaco, i forestieri... e gli abitanti di Valdobbiadene. A Valdobbiadene
c'erano i carabinieri, i notai, gli avvocati, le banche e gli altri funzionari
che decidevano il destino di ognuno a Segusino.
Venni a sapere che negli anni '30 fallì una banca di Valdobbiadene, e tanti
di Segusino, anche mia nonna Maria, persero i loro scarsi risparmi...
A Valdobbiadene vivevano durante l'estate nelle loro ville i ricchi
borghesi che venivano da Treviso, Padova e Venezia.
Io abitavo in una frazione fortunata: Canton, e poi nella "Villa". La via che
portava in piazza. Ma la nonna Maria abitava a Riva Grassa durante
l'anno, e d'estate si spostava a Milies.
Queste frazioni, assieme a quella di Stramare si erano fermate al medio
evo. Fittamente abitate esse fornivano emigranti a tutto il mondo.
Certamente il nucleo originario di Segusino era a Riva Grassa. Già ai

135
tempi della mia infanzia gli abitanti di questa frazione nutrivano in sé
stessi una sensazione di inferiorità rispetto a chi viveva più in basso.
Forse per questo antico senso di vergogna gli abitanti di Segusino non
amavano le loro origini?
Malgrado tanta ignoranza e miseria coltivata con cura nei mille anni di
dominio di Venezia, e poi con l'abbandono e la rapina perseguita dal
nuovo regno d'Italia, la gente di Segusino continuava con tenacia
inflessibile la sua lotta per la sopravvivenza.
L'impotenza e lo sfruttamento di secoli non erano riusciti a cancellare
l'umanità e il sentimento di vita che ha sempre fatto parte di questa gente
di montagna.
Gli abitanti di Segusino non erano lasciati a se stessi non solo dai padroni
di turno, ma anche purtroppo da una religiosità bigotta e rigida, carente di
gioia, che regolava le loro coscienze dalla nascita alla morte.
Un senso di colpa e di dovuta ubbidienza perenne, legava le loro coscienze
e la sofferenza era un destino che legava le loro vite ad un piccolo
fazzoletto di terra su cui vivere giorni amari. Solo chi aveva il coraggio di
fuggire altrove trovava orizzonti più liberi.
Ma le madri di Segusino portavano dentro di sé un tesoro che nessuno era
riuscito a cancellare. Esse portavano nei loro cuori la forza della Vita che
donavano e custodivano senza domandarsi perché. Erano mamme, e ciò
bastava a riempire la loro vita.
Noi tutti dobbiamo alle nostre madri un attimo di riconoscenza, in fondo
esse hanno avuto in noi stessi e nei nostri figli una fede infinita.
E' per questo loro amore senza limite che meritano di essere ricordate.
Con queste righe io ricordo nonna Maria Stramare in Berra, mamma di
Segusino.

Gian nei primi anni '50

136
Il piccolo Gian davanti al palazzo Fenadri a Segusino, 1950

Mia madre Carniello Enrica, io, mia cugina Rosabianca e sua madre
Anna a passeggio per Segusino

Mio padre Berra Paolo in tempo di guerra. E' il primo seduto alla sinistra
di chi guarda la foto.

137
Note sulla famiglia di

nonna Maria Stramare in Berra

Berra Paolo ( mio nonno, padre di mio padre) N 10.6.1887 M 2.11.1915


Caduto a Caporetto, nella grande guerra.
Stramare Maria ( la nonna) N 21.12.1887 M 11.1.1969
I figli:
Berra Pierina N 17.12.1912 M 15.4.1942
Sposa uno Spada e muore a Legnano lasciando 3 figli piccoli.
Berra Gio Batta N 24.9.1914 M 7.3.1941
Caduto nella guerra d'Albania
Berra Paolo ( mio padre) N 31.3.1916 M 25.12.1993
Lascia Segusino per assistere a Lgnano i figli lasciati soli dalla sorella
Pierina. Viene preso da un rastrellamento tedesco e condotto prigioniero in
Germania. Riesce a fuggire a fine guerra e torna a Segusino. Aveva
portato con sé a Segusino il nipotino Vito Spada e lo aveva assistito con
la nonna Maria per un periodo.
sposato con:
Carniello Enrica ( mia madre) N 15.11. 1915 Morti assieme in un
incidente nel giorno di natale del 1993, investiti.

138
Berra Antonio N 12.9.1891 M 28.8.1947
Secondo marito della nonna Maria. Fratello del suo primo marito.
Figli:
Berra Abele ( più vecchio di Mario)
Canadà, Edmonton, un figlio Renzo n.30.3.1962 e una figlia.

Berra Mario N 7.9.1925 M 15.3.1982


Morto in Canadà, sposato senza figli.

Stramare di Segusino

139
Carniello Enrica, mia madre con me bambino di pochi mesi di vita, forse
nel 1948 in piazza a Segusino, davanti al palazzo Fenadri. In quel periodo
mio padre Berra Paolo era in ospedale per i postumi della lunga prigionia
in Germania.

140
PEDEROBBA, OSTERIA DA RAFAEL

UNA RADICE STRAPPATA


Riflessioni intime durante un viaggio poetico
di
Gian Berra

Covolo, marzo 2010

Ecco, marzo è già arrivato alle Barche e mi sento pronto


a dare corpo ai miei pensieri.
Anche essi escono da un freddo inverno, e ne sono felici.
Queste riflessioni solitarie mi hanno pregato
di essere tradotte in parole e immagini.
Forse è l'unica cosa che so fare discretamente bene.
Spero che qualcuno le legga in un futuro che non so definire.
Sto invecchiando e dopo tanto fare non mi resta che
parlare al vento.
Gian Berra

141
1 – Le Barche

Venni alle Barche più di venti anni fa. Ero un giovane uomo acerbo e
ancora con l'entusiasmo di sperare che il bello vivere fosse ammirare la
Vita che ci sta attorno.

I pomeriggi erano una occasione unica per incontrare la natura di questo


angolo incantato che mi pareva essere un piccolo paradiso rimasto intatto
fuori dallo scorrere del tempo.

Spesso mi accompagnava Paolo, il mio primogenito. Ma di domenica


anche Rosa, mia moglie mi seguiva fino alle rive del Piave. Lei
raccoglieva fiori selvatici e mi indicava le erbe utili alla salute.

La mattina di un sabato primaverile allungai il passo fino quasi alle grave


di Crocetta.

Erano posti isolati, quasi selvaggi. Le piene del Piave avevano invaso la
ghiaia con sterpi, rami e banchi di sabbia. Qualcuno camminava curioso
come me tra quella natura primordiale. Incrociai nel sentiero un uomo che
forse era un cacciatore. Lo salutai e lui mi restituì il saluto. Mi venne
spontaneo dire:

- Che bella mattina, che bei posti!

142
Lui mi guardò dubbioso, forse sorpreso. Rispose con aria seria
guardandosi attorno pensieroso forse in cerca di qualcosa di “bello”: - No,
non sono belli... Mi rispose.Poi imbarazzato di ciò che aveva detto
proseguì per la sua strada.

Mi rimase l'immagine della sua delusione. E ne cercai la ragione


provando a vedere se c'era qualcuno altro che amava la natura o le
immagini che gli stavano attorno. Scoprii ben presto che quasi nessuno si
guardava attorno. Ciò che vedeva erano solo “cose”.

Durante le mia passeggiate mi guardavo attorno sempre curioso di ogni


scorcio. Notavo nei campi la presenza di qualcuno in lontananza e pareva
cercasse di non farsi notare troppo.

Erano quasi sempre persone anziane. Vecchi ormai curvi e dall'aria schiva.

Ogni tanto vedevo delle signore anziane a gruppetti di due o tre.

Avevano l'aria di chi controlla qualcosa o qualcuno. Presi nota che


occupavano quasi sempre lo stesso posto.

In un vicolo, vicino alla via Barche, mi sorprese la presenza di una anziana


che stava perennemente alla finestra e osservava la piccola piazza di
fronte.

Pareva si trovasse bene in quel ruolo. Dava valore alle sue giornate
custodendo la facciata della chiesetta di via Barche e tenendo nota di chi
passava.

Cominciai a riconoscere le immagini di quegli occupanti schivi e


sospettosi. Mi accorsi che stavo entrando un po' alla volta nella realtà di
quel borgo al tramonto.

Le Barche è un borgo vecchio. Ancora è annotato nelle mappe come


“borgo”, mentre Covolo, la frazione principale appena accanto, neppure
viene indicata.

143
Le Barche è un borgo antico, rimasto fuori dagli eventi e dimenticato
senza rimpianto.

Chi sono gli abitanti delle Barche? Ora, mentre sto scrivendo queste note,
la popolazione sta cambiando un po' alla volta. Stanno arrivando famiglie
giovani negli alloggi lasciati liberi dai vecchi che sono morti.

Gelindo, un amico che qualche volta mi regala dei pareri mi disse una
volta:

“ Alle Barche sono rimasti solo i vecchi. Speriamo che muoiano tutti in
fretta, almeno cambierà anche quella realtà falsa e ignorante...”

Non sono sicuro che Gelindo abbia del tutto ragione. Anch'io mi sento
vecchio dato che sto per compiere 63 anni. A me sembrano tanti forse
perché ho avuto una vita varia, disordinata, intensa e carica di emozioni. A
mio parere la mia è stata una vita abbastanza lunga.

Comincio a stufarmi.

Però le parole di Gelindo sono anche un po' vere. Perché i vecchi delle
Barche hanno fatto fuggire i giovani? Perché i loro figli se ne sono andati
fuori e non sono tornati nel borgo... che alla morte dei vecchi.

Non mi posi questa domanda quando i primi tempi incontravo per strada
quelle figure dall'aria triste. Era ancora troppo presto per capire.

Dovevo avere pazienza e lasciai fare al tempo. Così continuai a scoprire


con curiosità quel borgo. Ogni immagine cambiava con le stagioni e gli
stimoli che mi dona ancora le Barche di Covolo di Piave, mi hanno fatto
doni unici che ancora commuovono il mio animo. La primavera e
l'autunno sono le stagioni che preferisco per rubare spunti per dipingere i
miei quadri. La Natura del Piave è magica e fuori dal tempo.

Il Piave dona alle Barche un ruolo senza tempo. Il Piave allarga lo sguardo
oltre le piccole miserie quotidiane di ogni vita. Peccato che gli abitanti
delle Barche non lo vivono come una occasione di vita. Rinunciano ad una
quota di energia vitale preziosa. Sembra che aspettino solo di morire. Per
andare dove?

144
Ma come al solito parlo troppo. Invece dovrei stare sulle cose concrete.
Per esempio le stupende sere d'estate passate al grande luna park che nel
mese di agosto la pro loco di Covolo organizzava alle Barche, sul greto del
Piave.

Nella seconda metà degli anni '80 ogni agosto era una festa sul Piave.

Giostre, fuochi artificiali, musica da ballo, braciole, polenta e vino, fagioli


a volontà, ragazzi e vecchi tutti assieme.

Mi avevano anche permesso di esporre i miei quadri sotto il tendone


principale. E la notte illuminata. Ci andavo con la mia famiglia ed erano
ore liete.

Che lusso!

Poi più nulla. Tutto finito, la festa era finita. I permessi vennero ritirati, la
festa proibita, la gioia di stare assieme troppo bella. La vita era una cosa
seria per ridere e tutto finì. Di chi era colpa? Lo domandai a qualcuno, ma
le risposte erano evasive e incomplete.
Gelindo mi disse che era colpa del prete. Ma quale prete può voler una
cosa del genere? Togliere alle pecorelle del gregge un po' di svago?
Scherziamo?
Altri mi sussurrarono che era colpa dei partiti politici. No,mi pareva
impossibile che la politica fosse così cattiva.
Atri dissero che era proprio chi abitava alle Barche a voler mandare via la
festa dal Piave. Non ci credevo. No, non è vero!
C'è chi gode a farsi del male. Pare costui ami mettersi in croce da solo. E
pretende che lo facciano anche gli altri. Che orrore se fosse vero!
In questo caso i giovani avrebbero fatto davvero bene a scappare dalle
Barche.
Ma io non ci credo. L'essere umano può essere convinto anche a odiare sé
stesso. Ma non siamo più nel medioevo.
Oppure si?
Pensieri inutili e che non conducono a nulla. La realtà è ben più varia.
Io però alle Barche ci vivo e l'entusiasmo di descrivere questo posto mi
riempie il cuore. Chi leggerà il seguito?

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Osteria da Rafael, misura 20X30, dipinto di Gian Berra del 1984

La strada dietro via Barche tagliava par i campi e portava sino alle grave
del Piave. Via dei Rostirolla era un tuffo nel niente. La mente poteva
spaziare libera tra alberi da frutta e poche case isolate.

In fondo la grande casa padronale “dei Rostirolla” era a qui tempi già
abbandonata e nell'edificio delle stalle l'edera copriva le pareti di sasso.
Poi più oltre si scendeva e l'orizzonte si apriva sul fiume.
Ma potevo girare in anticipo per via Barche a così magari fare una sosta
nell'unica osteria di Covolo.
Spesso Rafael era fuori a fare ordine. Magari scopare il piazzale; o
rimettere ordine tra le bombole di gas.
Rafael era sempre di buon umore. Ti guardava con interesse e aspettava
una tua parola. Attendeva gli attimi con quella calma di chi aveva
imparato ad accettare ciò che ci viene dato dalla vita.
Dalla primavera all'autunno le porte dell'osteria erano sempre aperte.
Erano anni speciali: da giugno a metà agosto la gente andava al Piave a
fare i bagni e a prendere il sole.
Nessuno si vergognava di avere pochi soldi per pagarsi una vacanza al
mare. Il Piave era l'occasione per far incontrare i giovani. Lunghe
mattinate e pomeriggi al sole o all'ombra. Poi la sera in sala da ballo o a
passeggiare.
Rafael portava i gelati e bibite fin giù al Piave. Rafael pareva senza tempo;
ogni anno uguale, ogni anno presente.
Rafael era il testimone attivo di questa piccola comunità. Raccoglieva con
distacco le chiacchiere e i pettegolezzi e poi andava oltre senza giudicare.

146
Quando tornavo dalla mia passeggiata mi fermavo volentieri da Rafael. A
quei tempi non ero cosciente della fortuna di avere vicino casa un luogo
così speciale. Ma percepivo che qualcosa mi attirava tra quelle vecchie
mura.
Solo ora che tutto ciò non esiste più sento ciò che abbiamo tutti perduto.
E non tornerà mai più.
Ecco una foto dal cielo della osteria da Rafael. Ancora presente su Google
Maps l'immagine è ancora presente grazie ad internet.

2 – Dentro la nebbia dei ricordi e delle sensazioni

D'inverno le porte dell'osteria erano ben chiuse. Il vento del Piave non
perdona. Ma d'estate tutti potevano dare un'occhiata all'interno fumoso e
buio di quel posto dal soffitto troppo basso.

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La gente di Covolo di Piave, non amava troppo quel posto-

Sapeva troppo di povertà e di stenti.

La gente delle Barche non voleva ricordarsi della propria povertà e


miseria.

Il borgo delle “barche” era solo un posto di passaggio che viveva su quelli
che in mancanza di un ponte, passavano di là per traversare il Piave.

Vi pare poco?

Ma quando i poveracci del posto cominciarono a sognare di essere


diventati finalmente benestanti e trovarono un obiettivo di riscatto alla
miseria in cui avevano vissuto per secoli.

Ma non tutti rimasero in quelle case da miserabili. Tanti scapparono nei


dintorni e oltre. Volevano nascondere la vergogna di essere poveri e senza
terra.

Fu così che molte casette fatte con economia e amore si svuotarono e i


corvi vi fecero i loro nidi assieme ai topi.

Nella via nascosta che costeggia l'orlo alto sul Piave, la famosa via
Baracca, sono ancora visibili le casette costruite sull'orlo del burrone sul
Piave.

Piccoli tuguri fatti da gente che voleva un posto suo. In pezzo di muro, un
tetto, un orto da rivendicare come suo.

Tutti in bilico precario sul vuoto.

Ricordo che alcuni anni fa proposi alle associazioni culturali di questo


ricco comune di Pederobba una giornata per la riscoperta del borgo delle
Barche e di via Baracca. Era una serata d'autunno e tutte le associazioni
culturali del comune erano riunite in una grande sala. Ero presente anch'io

148
con l'associazione culturale che avevo fondato nel 1991: l'ass. Cult. La
Criola.

Quando feci ala proposta la sala divenne muta ed imbarazzata. Pareva mi


fossi espresso in arabo. Forse lo era davvero?

No, non era arabo. Le persone che sedevano in sala avevano capito
benissimo. Ma l'imbarazzo di riconoscere sé stessi era troppo grande.

E li scusavo.

Così non ci pensai più. Ognuno rappresenta sé stesso ed è felice nel modo
che preferisce.

Così Rafael continuava indifferente a seguire e curare la sua osteria. Le


sue stagioni avevano gli orizzonti di sempre.

Pochi abitanti del luogo lo degnavano di una visita all'osteria.

Quel posto era troppo dimesso, povero e vecchio.

Rafael viveva da solo, senza una donna. Forse per questo la gente delle
Barche lo riteneva anche sporco, fumoso e poco raccomandabile.

Rafael era felice. Almeno io lo vedevo così. Mi pareva che avesse


superato da tempo le aspettative su qualcosa da ottenere da quel borgo.

Rafael pareva guardasse oltre quei pochi sopravvissuti ai tempi che


cambiavano con tanta fretta. Lui non ne aveva molta fretta.

Quando entravo nel suo locale sentivo l'aria secca di quei muri vecchi di
cento anni. Anche se appena imbiancati, mantenevano una vaga patina
d'avorio. Come un mantello di stanchezza e di abbandono.
Eppure quei muri erano pieni di orgoglio. Era il sentimento dei bambini
che sono cresciuti liberi e senza i dubbi. Ma troppi bambini anche oggi
crescono senza amore, e con tanta paura.
No davvero! Quei muri sapevano di esserci, di esistere.

149
Per questo Rafael era felice.
Non era mai solo.
Rafael non stava mai fermo. Il piccolo cortile davanti l'osteria era
piastrellato di lastre di porfido e teneva lontana la polvere.

Un grande pino dritto e vigoroso malgrado l'indifferenza, marcava l'angolo


tra via Rostirolla e via Barche. Di fianco c'era anche lo spazio per una
aiuola di fiori stenti.
Un rampicante di lillà si aggrappava al muro della facciata della vecchia
casa e quasi arrivava all'insegna dipinta sulla facciata.
L'insegna quasi non si vedeva più, ma spiccava il suo sfondo bianco.

La stanza in cui si entrava era piccola e con il soffitto basso.


Alla sinistra c'era il banco. Basso e lungo quasi quanto la parete, il
bancone risaliva nello stile al dopoguerra. Forse i primi anni cinquanta?
Forse era più vecchio? Era ricoperto di formica colorata e con i bordi in
alluminio profilato.
Rafael lo lucidava ogni giorno. Era un banco pretenzioso e si imponeva
dentro quella stanza un po' povera e dimessa.
Il colore della formica era di un verde scuro che non stonava con
l'atmosfera della sala.
Ma la macchina da caffè di Rafael era il vero monumento. Grossa e alta
aveva il corpo cromato e brillante; i suoi lati erano colo oro opaco.
Quella era una macchina seria e incuteva rispetto.
Sopra portava un contenitore in plastica ormai opaca che proteggeva dalla
polvere le tazzine asciutte, Ma da dietro di intravvedevano due enormi
manopole con i manici in bachelite scura.
Quando Rafael le abbassava con perizia pareva che una locomotiva
provasse le caldaie e una nuvola di vapore si spandeva attorno.
In quell'attimo pareva si scatenasse l'inferno e tornava il sorriso nella
faccia di Rafael. Quello era il suo potere!

150
E il caffè o il cappuccino era sempre di gran classe.
Rafael usava il vapore della caffettiera anche per fare il “grog” all'arancia
o per il “vin blulè”. Rafael non risparmiava sullo zucchero, la cannella o la
noce moscata.
Appena dietro una stanzetta aspettava i bambini del borgo che venivano
qui a vedere la televisione al pomeriggio. Ore di festa in comune, e un
gelato a poche lire …

Ecco come si presentava l'osteria di Rafael s chi andava verso il Piave.


Ma spesso Rafael non c'era e la porta dell'osteria era chiusa. Perché?
Rafael aveva anche altri incarichi importanti: era lui che portava le
bombole di gas agli abitanti del borgo.
Usava un carrettino che si era costruito con due vecchie ruote di bicicletta,
Ma negli ultimi anni aveva comprato un lussuoso veicolo. Un furgoncino
Bianchina Innocenti.
Avete presente la Bianchina di Fantozzi? Ecco, proprio quella. Solo che
quella di Rafael era con la parte posteriore furgonata. Adatta allo scopo di
consegnare le bombole di gas.
Era una piccola macchina color bianco sporco. Ottima per ogni lavoro e
spesso era parcheggiata nel piazzale a fare orgogliosa bella mostra di sé.
Già, anche la macchina di Rafael portava e mostrava orgoglio. Se ne
fregava del giudizio di chi la guardava con disprezzo e sufficienza.

151
Sapete chi sono i “can refatti”? E' una vecchia espressione veneta usata
una volta per definire i piccoli borghesi di ogni tempo. Piccola gente che
ritiene di essere diventata importante e degna di considerazione solo
perché mostra il risultato dei soldi che ha il banca o alla posta.

Gente che arriccia il naso con aria di schifo per il cattivo odore degli altri e
dipinge spesso la casa per fare bella figura. Cambia macchina nel tentativo
di averla più bella dell'odiato vicino. Controlla chi manca dalla messa
domenicale e spia dalla finestra in cerca di una nuova chicchera.

Alcuni di questa razza frequentano i gruppi di preghiera, ma poi


dimenticano l'amore. Organizzano la “Pro Loco”, ma tengono lo sguardo
troppo in basso.

Le Barche sono poca cosa. Poche case e quattro gatti. Ma la cattiveria sta
nascosta dietro le porte e le finestre. Rafael non se ne curava.

Rafael adorava la sua macchina da caffè e la sua Bianchina furgonata.

Che fortuna alzarsi ogni mattina e poter aprire di nuovo un'altra volta!

Così l'osteria avanzava negli anni e il popolo d'Italia diventava ricco e


sperava che la miseria non tornasse più.

152
Sperava che quella vecchia e decrepita osteria non sporcasse più la nuova
pulita e ordinata immagine che il paese si era costruito.

Rafael non si curava di apparire, lui “era”. Gli bastava essere. E vivere
ogni attimo come una conquista. Aveva già tutto.

Rafael era un artista. Ecco l'ho detto senza vergogna. Un artista vive e
dona agli altri i suoi sogni e attende una risposta. Ogni volta che riceve il
silenzio o lo sdegno, l'artista riprova a giocare e riprova ancora.

E' questo che lo rende felice. I ciechi rimangono tali sino alla morte.

Che importa? A Rafael non importava.

Ma a quei tempi le osterie vendevano anche sigarette, Rafael non ci


guadagnava nulla, ma era un servizio per i clienti e spesso andavo da lui
per un pacchetto di Diana o di MS. Allora fumavo, poi ho smesso, almeno
per un buon periodo.

Ma il tempo fa scorrere le stagioni. E io non me ne accorgevo. Allora


ancora giravo in Italia e all'estero con i miei quadri. Ero sempre in giro per
mostre e incontri. E venivo poche volte da Rafael.

Una mattina ero passato a far visita ai miei genitori che già da qualche
anno vivevano in via barche.

Notai Rafael che chiacchierava con un grosso signore proprio davanti la


sua oteria. Si girarono appena a guardarmi, poi tornarono alle loro
faccende.

3 – Arriva l'autunno.

Non feci caso a quell'incontro. Ma poi ripensandoci in un attimo di calma


mi ricordai di quel grosso signore dall'aria burbera e scontrosa.

153
Era un signore che avevo già visto mi aveva colpito per un fare scocciato e
un po' distante. Anche lui ora non c'è più. Se ne andò da questa terra forse
stufo di scrivere carte e ascoltare tante voci. Penso lavorasse negli uffici
del comune.

Non seppi mai cosa faceva da Rafael. Non mi interessava, ma la cosa non
era rassicurante. Quando la burocrazia si muove non lo fa per niente.
Sentii una tristezza dentro il cuore.
Già intuivo qualcosa, e non mi piaceva.

Così evitai di tornare in via Barche il giorno dopo. Ma poi non resistetti e
mi recai da Rafael. Mi colpì il fatto di vedere appoggiata nel marciapiede
davanti la porta dell'osteria...la sua adorata macchina del caffè.
La sua macchina per fare il caffè era ora abbandonata là davanti come un
rifiuto. Per quale ragione? Un groppo al cuore mi prese.
Rafael mi vide e uscì fuori. Mi guardò come si guarda qualcuno che non si
vede.
Rafael già non viveva più qui. Si vedeva che stava per sbaraccare tutto e
pareva rassegnato a perdere.
Gli chiesi della macchina. Mi rispose che ormai era rotta e non avrebbe
più fatto caffè.
Io lo salutai e me ne andai per la mia strada.
Le chiacchiere volano e una voce mi disse che Rafael era malato di cancro
e lo sapeva. Sapeva che stava per morire.
E quando lo seppi già l'osteria era chiusa.
Non so quando morì Rafael.
Ma quando vidi che la polvere già copriva il piazzale di porfido, seppi che
lui non c'era più.
E tutto rimase abbandonato.
Nel 1995 provai a domandare se quella casa era in vendita. Mi sarebbe
piaciuto salvarla. Forse era solo un sogno sballato di artista. Mi venne
detto che non era in vendita. E così non ci pensai più.

154
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4 – Una radice strappata.

Era un pomeriggio di tre anni fa quando venne del tutto strappata la radice
dei ricordi dell'osteria da Rafael. La cosa si sapeva. L'osteria era stata
venduta e le cose seguivano il loro corso. Non ci sono colpe. Almeno
nessuno le vede.

Perciò questo è un omaggio al destino dei ricordi e di ciò che rimane della
nostra storia di “veneti”. Si tratta di parlare di un popolo consapevole o no
di sé stesso?

Sono parole grosse. La realtà mi parla di tanta ignoranza. Il brutto è che si


tratta di ignoranza compiaciuta; perciò che non sa e non vuole sapere di
esserlo.

Non vuole neppure parlarne.

E ne ha tutto il diritto.

Chi ha rubato ai “veneti” la consapevolezza? Chi ha tolto al piccolo


popolo della “Barche” la gioia di esse tale?

Solo una costituzione al mondo pone come diritto di tutti la felicità e la


gioia, e non è la nostra.

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Chi ha rubato la felicità e la gioia alla nostra gente?

Io lo so. Ma ora mi limito a rappresentare le immagini. E quelle parlano da


sole.

Basta così poco per ridurre in polvere i muri vecchi di cento anni. Chi li
aveva costruiti? Cosa voleva trasmettere ai figli e al borgo?

Quella piccola casa decorosa e umile aveva un'aria quasi nobile. Era una
nobiltà discreta e poco appariscente. Era l'espressione della misura e
dell'equilibrio della nobiltà del nostro popolo. Un popolo che sa vivere nel
silenzio e stare in armonia con la Natura che lo ospit

Giorno dopo giorno le mura diventano polvere. Nessuno si fa vedere a


domandare: - Perché?
Non esistono più anime alla Barche? Quelli che passeggiano per strada
sono solo manichini? I manichini non pensano, non hanno emozioni, non
sognano e non ricordano nulla del loro passato.
I manichini non hanno passato ne radici.
Tanto vale strappare anche questa radice, tanto non la vuole nessuno.
Strappiamo anche questa radice, facciamo in modo che nessuno se ne
ricordi.
Chi si ricorda di Rafael?

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Pochi, e tra poco nessuno.
Nessuno potrà raccontare di Rafael, della sua favolosa macchina per fare il
caffè. Nessuno ricorderà la sua Bianchina furgonata. In fondo era solo un
rottame.

Oramai ci siamo, un po' di pazienza e quel cumulo di immondizia non


sporcherà più il decoro di Covolo di Piave.
Finalmente che ora saremo liberi da quei vecchi sassi scalcinati.
Chissà cosa aspettavano mai a buttare giù quel rudere. Guarda quanta
polvere nell'aria!

La gente desidera amore, ma non sa darne poiché non ne ha mai ricevuto.


Rafael a suo modo ne dava un po' a tutti ogni giorno. Ma nessuno ci ha
fatto caso. Adesso gli anno distrutto anche la casa: tra poco nessuno più si
ricorderà di lui.

Tutti i materiali riciclabili vengono raccolti con cura. Travi, coppi, assi,
balconi e porte. Tutto viene messo da parte e trasformato in soldi.

I soldi verranno spesi e più nulla resterà riconoscibile.

Rafael vendeva anche sigarette, che finivano in fumo.

158
Ora anche il suo ricordo diventa fumo e ciò ha lasciato diventa sabbia.

Sabbia senza identità, come il popolo che non lo ha amato.

Una ultima occhiata a ciò che sta per sparire...

Le ultime schegge di muro che resiste.

Ma L'osteria di Rafael ha perso. E' già morta da tanto tempo e domani


nulla racconterà di lei.

Ancora...

5 – Le ultime parole...

Gelindo mi chiede...

– Ma perché hai scritto questo libretto? Tanto non lo leggerà


nessuno. Cosa mai credi di ottenere? Forse di lasciare un segno? Oppure
speri che qualcuno capisca che si sta costruendo un deserto dentro
l'anima? Che povero illuso che sei. Non hai capito che il cuore per la
gente si può comprare a buon prezzo?

Io guardo Gelindo, vorrei che non dicesse certe cose. Ma lui ha ragione.
Io comunque gli rispondo:

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– Si Gelindo è tutto vero quello che dici. Ciò che scrivo è per me
stesso o forse per quelli che non sono ancora nati. Sai bene che io sono un
illuso e un ingenuo per di più timido e debole per natura. Ma mi piaccio
molto. Sai che io credo che ogni parola, immagine, emozione che viene
espressa... non muore ma resta nell'aria per parecchio tempo. E chissà
quando qualcuno mai la raccoglierà. Oppure raccoglierà solo il suo
profumo o la sua ombra. Questo mi rende felice.

– Caro Gian Berra tu non crescerai mai. Per fortuna. Ma comunque


almeno ci sei. Vedo gente che vive e non sa nemmeno di esserci.

E' sera, e stiamo rientrando con poca voglia di entrare in casa. Ma la


realtà adesso non è più l'osteria di Rafael. Quella è morta per ormai, ma i
ricordi vivono per sempre nell'aria e nel vento del Piave che soffia in
questo fine inverno che non vuole finire.

Quando il vento arriva al posto dove stava l'osteria di Rafael resta


stupito: si aspettava di trovarla. Ma trova il vuoto. Così non ci crede fa
finta di girarle attorno come se ci fosse ancora.

Dora in poi il vento farà finta che non sia morta. Per ricordarla ci girerà
attorno finché il suo ricordo rimarrà nell'aria.

Fine

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PSICOLOGIA SCIAMANICA e … il fenomeno Hippie …
una rivoluzione silenziosa e fondamentale che si rivela solo oggi …

Il fenomeno “ Hippie” chiuse con un risultato inatteso gli anni ’60 e si


stabilizzò nella metà degli anni ’70.
Fu una vera rivoluzione culturale che ribaltava vecchi schemi con la
pratica quotidiana di vita.
Sparì allora come movimento ufficiale e divenne normalità … silenziosa.
Scrissi queste note sul modo di vivere quotidiane realtà di vita ordinaria.
Sciamanesimo è spontaneo creativo dialogo con ciò che ci sta attorno. La
psicologia ordinaria accademica non ne tiene conto … in quanto il
“potere” di gestire la propria analisi di sé stessi diventa conquista
individuale. Faticoso è il cammino di conoscere e gestire sé stessi, e la
relazione con sé, gli altri e l’ambiente naturale sarà una conquista
sperimentata senza più influenze imposte da concetti o condizionamenti
assoluti.
E’ la fine del concetto di “sacro e assoluto”, di “rivelato”, di “si fa così”.
Nulla è definitivo, niente è scontato, neppure la morale o il concetto di
tempo, o di “usanza”.
Anche in occidente non esisterà più una “unica vera soluzione”, nemmeno
una “vera Verità”.
Il concetto di “Ego” comincia a dissolvere i contenuti negativi che gli
sono stati imposti; Ego perde subito i concetti di “colpa”o “Karma” … ma
per questo i risultati si vedranno negli anni ’90.
Narciso ritorna in grande negli anni ’80, ma solo in modo superficiale e
sperimentale. Oggi che siamo negli anni 20 del nuovo secolo Narciso va
alla grande ed è orgoglioso ( finalmente) di mostrare sé stesso agli altri.
Ma ancora dovrà diventare consapevole …
Quando Narciso diventa scelta consapevole, esso diventa parte del
“normale” e viene vissuto come scontata normalità.
La psicologia ancora non ha assimilato un cambiamento epocale che
elimina “nel concreto” ogni schema di morale imposta. D’ora in poi la
morale è in evoluzione come ogni altra condizione, uso, pensiero umano e
il correttore sociale non sono più i principi assoluti ma il confronto
costante.
Sempre meno le antiche “sicurezze” danno conforto e aiuto, e la
psicologia non potrà più fermarsi alle regole della “ sua” razionalità o
logica o interpreazione.

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Il nuovo psicologo sarà obbligato a diventare “il saggio che parla per
esperienza personale”. Altrimenti somiglierà solo ad un prete … più o
meno laico.

Il secolo scorso 1998 – 2002 circa …


Gian Berra … hippie, racconta …

Scrivere i miei pensieri è la cosa che mi avvicina al fare poesia. Sono


concetti che nascono “selvaggi”, cioè senza regole imposte. Da veri
selvaggi portano con sé una dose di salutare follia. Eppure mi fanno
contento, definiscono nuove prospettive da cui osservare la realtà.
Appunto prospettive folli e selvagge come il sentire dell’artista che
osserva il mondo dal suo angolo.
Si tratta di un angolo scomodo. Spesso solitario e frustrato dal fatto che
non può farne a meno.
Anche chi è artista è condizionato: non può fare altro, pena la rinuncia a sé
stesso.
E ciò e inammissibile, almeno finché l’anelito e l’amore per la vita rimane
vivo.

Vissi dalla fine degli anni ‘60 l’epoca hippie di riflesso: leggendo,
ascoltando, viaggiando, tentando ogni lavoro, sogno, slancio e un
confronto impossibile con la vera realtà che mi stava attorno. Fui

163
fortunato, molto fortunato: appena un sogno veniva infranto, il giorno
dopo ne nascevano altri numerosi assieme a una carica di entusiasmo che
mi stupiva e mi lasciava solo una soluzione: Agisci, vivi e basta.
Compresi poi che il DNA che ci viene regalato porta con sé molto di
speciale. Ascoltarlo è una soluzione non facile, ma se ci si riesce la vita
diventa avventura.
E’ questo il regalo, svelato poi dalla “ideologia Hippie”?
E’ camminare nella Vita come se fosse una avventura che si può scrivere
… di persona?
Camminare su un filo di lama? Puoi cadere e perdere tutto, ma non
importa perché cadrai su un’altra lama da percorrere guardando oltre …
Così siamo oggi. Lo sono davvero già i giovani e lo vivono senza bisogno
di certezze. Per i giovanissimi è già normalità futura.
Chi ha paura del futuro?
Hippie non tiene conto del tempo.
La nuova psicologia sciamanica già lavora per tutti noi.
E sorride anche di sé stessa.

Gian Berra... luglio 2020

PSICOLOGIA SCIAMANICA. La costruzione dei Totem personali, il


Totem della Paura.

Saggi Selvaggi di Gian Berra, 2002-2005

Gian Berra hippie nel 1972

Scrivere i miei pensieri è la cosa che mi avvicina al fare poesia. Sono


concetti che nascono “selvaggi”, cioè senza regole imposte. Da veri
selvaggi portano con sé una dose di salutare follia. Eppure mi fanno
contento, definiscono nuove prospettive da cui osservare la realtà.
Appunto prospettive folli e selvagge come il sentire dell’artista che
osserva il mondo dal suo angolo.

164
Si tratta di un angolo scomodo. Spesso solitario e frustrato dal fatto che
non può farne a meno.
Anche chi è artista è condizionato: non può fare altro, pena la rinuncia a sé
stesso.
E ciò e inammissibile, almeno finché l’anelito e l’amore per la vita rimane
vivo.
Gian Berra ...

Visualizzazione passiva … o quasi.

La prima volta che la feci fu parecchi anni fa. E mi venne naturale senza
che nessuno me l’avesse insegnata. Poi tempo dopo la lessi in un testo
buddista: non avevo inventato nulla di nuovo.
Evidentemente ad un certo livello di esperienza le cose si ripetono, come
prese da un contenitore comune a disposizione di tutti coloro che cercano
con un pizzico di coraggio dentro quel contenitore occulto (nascosto) e
gratuito che raccoglie ogni esperienza fatta dalle scimmie umane e non
solo.
Di certo ero allenato a fare simili esperienze. Ricordo che la causa fu una
grande confusione di pensieri dispettosi che mi giravano in testa. E avevo
voglia di dormire. Come fare a farli tacere?
Facile a dirsi. Ma quella marmaglia di esseri irrequieti erano là dentro di
me e tutti pretendevano attenzione. Io considero i pensieri “esseri” vivi e
coscienti a tutti gli effetti.

165
Ogni pensiero ha il sacrosanto diritto ad esistere. Ha una sua identità,
personalità, desideri, emozioni, corpo, scopi ecc.
Per di più è dentro di me; anzi è me stesso. Fa parte di me.
Sarebbe illusione volerlo distruggere, eliminare o gettare via.
E poi c’è il problema che non posso cancellarlo. Il mio cervello ( non so
come sia quello degli altri ) ricorda tutto. C’è chi è convinto di aver
formattato il proprio cervello, e magari di poter partire da zero. Beato lui.
Magari ciò che pensa di aver cancellato e solo dentro un cassetto
nascosto…e da li agisce senza farsi vedere.
Che brutta cosa farsi condizionare da ciò che non sappiamo sia nascosto
dentro un cassetto…dentro di noi. Non lo vediamo per niente. Giuriamo
che non c’è.
E lui si fa beffe di noi. Che brutta figura!
E’ come esserci costruiti un recinto attorno e non vederlo. Chiusi dentro
una gabbia pensando che non ci sia, dato che non la vediamo.
Conosco gente che da quella gabbia privata urla al mondo la sua rabbia
ritenendosi libera. Forse è stata picchiata da bambino, o forse da grande.
Resta il fatto che ora non riesce a liberarsi, e come un cane legato ad una
catena urla al mondo il suo disagio. Un guardiano di sé stesso.
La pratica dello sciamanesimo creativo è vecchia come il mondo. Ma
necessita di coscienze creative. E il potere creativo è gratis a disposizione
di tutti. Basta prenderlo ad ogni angolo di strada e usarlo.
In pratica si tratta di andare ad aprire tutti i possibili cassetti nascosti.
Certo non è facile come lamentarsi del male che gli altri fanno a noi stessi
o al mondo. I cassetti da aprire sono quelli miei, e contengono tutte le cose
che mi sono illuso di archiviare una volta per tutte. Punto e basta.
Ciò che segue non fa per colui che la pensa così. Tanto vale che getti
queste note nel cestino e non ci pensi più. Meglio: formatti tutto.
Oppure faccia alte urla irate verso l’infinito, avendo già deciso le sue
ragioni una volta per tutte.

Ma come al solito divago, è di certo a causa di altri pensieri dispettosi e


parassiti che comunque hanno tutto il diritto di esprimersi. Piccoli Dei .

La visualizzazione passiva in pratica.

Il significato di “visualizzazione” è scontato. Tutti sanno quale è. Ma


perché “passiva”?

166
E’ passiva perché la sua conduzione non è guidata dalla coscienza vigile.
Ossia non è l’Ego meraviglioso di cui disponiamo a condurre il gioco. E
fin qui nulla di nuovo: ricordo un vecchio testo di Yoga che lessi negli
anni ’60, da adolescente, che indicava la stessa cosa. Solo che in quel caso
L’Ego era visto come un ostacolo e doveva starsene là buono, quasi
addormentato ad imparare chissà quale lezione. Influenze monoteiste
dentro la filosofia indiana? In quella cinese e giapponese comunque non
esistevano. Ma anche nelle culture native esistono concetti di Senso di
Colpa, è uno strumento di potere vecchio come le scimmie umane.

Nella Visualizzazione Passiva a cui mi riferisco l’Ego meraviglioso non


conduce il gioco. Ma osserva quasi vigile ogni cosa e fa esperienza di ciò
che incontra.
Non agisce per nulla. Non fa niente altro che osservare.
Non può reagire a nulla di ciò che incontra: né emozioni, ne giudizi, né
ricordi, né reazioni ecc.
In questo caso accetta di essere solo un osservatore. Lo accetta a priori, in
caso contrario il gioco non vale. E’ un gioco pesante. E va fatto come un
gioco. Un gioco che inizia dalle emozioni del momento, ma che vengono
accantonate per la durata del gioco.
Poi alla fine di tutto ci si può anche sfogare se lo si ritiene necessario.
Anche l’Ego ha i suoi diritti. Per Giove!

La visualizzazione passiva può essere fatta dovunque e in ogni condizione


e per gli scopi più vari. Ma comunque è meglio farla in un luogo protetto,
silenzioso e possibilmente in una posizione rilassata e senza troppa luce.
Con la pratica certe condizioni non sono così necessarie. Ma per chi inizia
è meglio essere comodi.

Uno scopo più egoistico e farla …per prendere sonno. Lo so che è banale,
ma a volte serve. Poi se si ha il coraggio di continuare ogni scopo è valido:

Mi metto rilassato sul divano. Sono a mio agio. Magari ho in testa le


bollette da pagare domani, e i soldi non ci sono proprio tutti. Poi c’è la
frecciata insolente del capoufficio o del collega antipatico. E ho mangiato
cibo pesante. E i lamenti dei figli; il fatto che oggi piove e aspettavo il
sole. Per di più c’è la luna piena e mi vengono certi pensieri…

167
Io non mando via questi pensieri. Sono parte di me e hanno il diritto di
farsi sentire.
Cerco di sentire il mio corpo e le sue sensazioni: Il suo peso sul divano,
l’aria i cui sono immerso, i vaghi echi dei rumori che percepisco. Io sono
il mio corpo: è ovvio.
Ho gli occhi chiusi in modo un po’ forzato in principio. Poi anche quelli si
rilassano. La mente è comunque un caos di tensioni che vogliono averla
vinta. Ciascuna a modo suo. Non pongo particolare attenzione a ciascuna
di esse, ma non pongo alcun ostacolo a nessuna.
Accetto questa confusione così com’è. Io dentro un caos di piccoli Dei,
ciascuno dei quali ha ragioni da vendere. Li lascio tutti liberi di dire ciò
che hanno necessità di esprimere. E’ nel loro diritto.

La mia parte cosciente osserva quella confusione. Una cacofonia di voci e


impressioni a cui assisto da spettatore. Uno spettatore che osserva tutto
senza lasciarsi coinvolgere. Sembra impossibile?
Per niente. Basta permettere al nostro Io cosciente, in quel momento, di
accettare il linguaggio del cervello: Non concetti ma immagini.
Infatti i concetti che abbiamo in testa sono composti da immagini
nascoste. Il cervello funziona per immagini che contengono altre
immagini.
Mentre il computer con cui scrivo funziona per negazioni e affermazioni:
farà fatica a diventare intelligente. A meno non si inventi un computer che
funzioni per immagini (ologrammi). Ma pare che si stia già per inventarne
uno …

Noi funzioniamo per immagini-ologrammi. Non solo immagini perciò!


Ma ologrammi. L’ologramma è una immagine che contiene tutte le altre
immagini in sé come collegamento e “seme”.
Ciò vuol dire che se prendo dal mio cervello una singola immagine, e la
faccio a pezzettini, poi raccolgo uno di questi pezzi e lo osservo lui mi
mostrerà l’immagine intera ( prima di rompersi). Magari con meno
risoluzione, ma sarà comunque intera.
Ma non solo! Osservando meglio quel pezzo posso vedere anche tutte ( o
quasi) le immagini che ho nel cervello. Cioè potrò osservare anche in quel
pezzo parziale il mio “carattere”.
Magia? No è solo realtà. Realtà nascosta, ma reale.

168
Perciò per andare avanti nella visualizzazione passiva dovremmo
trasformare quei piccoli Dei dispettosi che sono i nostri pensieri …in
immagini. E potete star certi che faranno una grande resistenza. Faranno di
tutto per non essere svelati. Cioè essere resi riconoscibili come immagini.
La ragione è che siamo stati educati da generazioni ( noi occidentali) a
tralasciare l’immagine per il concetto di essa. Un potere che abbiamo
perso. Ma che è ora di riprenderci. Siamo pronti a ridiventare idolatri?
La parola fa quasi paura, o quasi. Sembra un insulto.
Siamo stati abituati a riempirci la testa di concetti ragionevoli. Ma non
sappiamo quali immagini rappresentano. Tensioni mentali parassite prese
come ovvie. Finché rimaniamo là siamo dentro una gabbia.

Come si fa a dare una immagine ai pensieri caotici?


L’errore è pensarci su. E’ come cercare dei concetti da cui costruire
immagini. Che sbaglio!
Facciamo il salto di qualità! Lasciamo che siano i pensieri dispettosi a
rivelare la propria immagine, qualunque essa sia!
Non siamo forse ora passivi come coscienza?
Ogni pensiero parassita è furbo. Come noi stessi comunque. Si mostra
come noi lo vogliamo vedere. Cioè si maschera ( ma non lo fa forse anche
l’Ego?).
Possiamo fregare ogni pensiero dispettoso lasciandogli prendere ogni
qualsiasi immagine lui decida di mostrarci. Tutto va bene.
Lo lasciamo libero.
E lui ci lascerà liberi.
Potrà “essere” tutto ciò che desidera. In fondo non cerca altro.

Funziona? Facile dirlo a parole scritte. Soprattutto se il procedimento va


fatto con tutti i pensieri presenti in quell’attimo.
La difficoltà è sempre la stessa: controllare il processo. L’Ego ha paura di
sbagliare qualcosa, di non fare bene i conti. Anche questo è un pensiero
dispettoso. E a chi importa se non facciamo le cose bene? Noi siamo solo
spettatori di ciò che accade.
Vada come vada. Per Giove!

Poniamoci come immagine al centro di quel caos che comincia a colorarsi


e a arricchirsi di forme vitali spontanee.

169
E fissiamo l’obiettivo che ci siamo proposti. Io mi ero proposto di
prendere sonno, di non pensare più a nulla. Una zona all’orizzonte, buia e
vuota. Un ologramma fatto di niente, di calma buia.
Ma è solo un esempio.

Gli altri ologrammi non mi lasciano di certo in pace. Qui è questione di


fare pratica. Le immagini caotiche evocate faranno di tutto per
distogliermi dal mio obiettivo. E vinceranno tutte le volte che le osserverò
con attenzione, catturato dal loro contenuto emotivo.

Perderò comunque se le negherò e cercherò di evitarle. E’ come se


cercassi di scacciare una mosca fastidiosa. E’ proprio ciò che vuole.
Anche se si tratta solo di una mosca virtuale.
Mi vengono davanti? Mi eccitano o mi spaventano? O.K. intanto io li
lascio fare con l’attenzione al mio scopo. Percepisco ogni cosa e indico la
strada. E vivo ogni cosa da osservatore … indicando la strada.

Poi mi sono svegliato il mattino dopo davvero in forma. E le bollette le ho


pagate tutte. E gli altri Dei dispettosi? Erano tutti là vivi e vegeti. Ma ora
avevo imparato ( in parte) a vederli anche come immagini. Non quelle che
mi ero fatto io ( concetti) ma bensì come quelle che essi erano in realtà.
Quelle che desideravano mostrarmi di sé stessi. Ora liberi di farlo. Vi pare
poco?

A questo punto erano diventati davvero Dei con la propria immagine. Veri
Idoli.

Gian Berra.

Passeggiata nel lato oscuro

A volte mi capita di non poter prendere sonno. Capita.


Pensieri e preoccupazioni, o magari solo un pasto pesante agitano i
pensieri.
Essi si legano a questioni irrisolte o difficili.
Non so da dove vengono. Innumerevoli, nascosti nel mio lato oscuro essi
pretendono attenzione. Vogliono essere ascoltati. Forse risolti.

170
Ma sono nascosti. Le loro domande sono confuse e non si rivelano che con
la loro paura e la loro ansia. Ognuno grida come unico. Assieme vociano
come in coro, ma non dicono nulla per aiutarmi.
Eppure io mi vedo. Ma loro solamente li sento. E non posso farli tacere
perché sono voci di me stesso che non riconosco. Un me stesso che ho
dimenticato.
Non posso ingannare me stesso oscuro tappandogli la bocca o
ignorandolo.
Quanta gente si prende una sbornia o peggio si droga di illusioni, progetti,
sogni e desideri per non sentire le grida di quella parte di sé che è stata
ferita?
Quanti impongono ad altri i propri sogni pur di non dover guardare da
dove vengono e di cosa si alimentano?
Per non parlare di quelli che davvero si drogano di chimica venduta
proprio per questo. Magari giovani. Decido allora di dare alle voci che
vociano una parte del mio potere.
Le faccio partecipi del mio lato migliore. Non posso ingannarle, esse sono
me e non ci cascano. Le faccio partecipi dei miei momenti migliori: degli
affetti, delle gioie vissute, del meglio di me. Anche dei miei sogni e
progetti. Le porto dentro le emozioni di pace vissute negli attimi di pace di
qui ed ora. Lascio che esse bevano a sazietà da ciò che io ho conquistato.
Tutto ciò è anche loro.
Lascio che si mostrino con le loro immagini. Le immagini con cui esse
desiderano mostrarsi, non con quelle che vorrei costruire io.
Esse sono caos. Accetto il loro caos e lo lascio fluire così come esso
desidera fluire. Non do forma.
Mi ci tuffo con slancio.
Lascio che la loro forma si costruisca da sola. Sono sempre io in ogni
caso.
Ho permesso al mio oscuro di mostrarsi. Ed essere.
Ho permesso ad una parte di me, prima rinchiusa in gabbia, di essere,
esistere e farsi riconoscere…
Lei sa ora che io so che lei esiste, e che la accetto così com’è.
Ora non ha più bisogno di rubarmi potere. Può prendersene quando e
quanto ne vuole. Lei è me.
Ora le voci sono placate. Hanno il loro spazio vitale dentro di me e
saranno mie alleate. Almeno finché altre voci nascoste reclameranno
spazio.
Io ho spazio a sufficienza per tutto me stesso.

171
Non mi accorgo di aver preso sonno.

Gian Berra.

Punto

I punti nello spazio sono infiniti. Almeno così ci dice la geometria. Forse
sono tanti che non si possono contare. Possibile crearne almeno uno? Per
crearlo evidentemente intendo identificarlo come il mio; o almeno quello
che ho deciso di identificare come degno di attenzione.

Non ha identità sua propria, almeno da ciò che posso percepire di lui.

Però esiste e io gli do un nome o almeno lo identifico com’esistente al


momento.

Posso decidere che è un punto ben circoscritto. E’ proprio quello e non un


altro.

Inizio così una relazione con un punto determinato.

Cosa mi dice il punto? E’ una porzione di spazio che ha una sua identità
oppure attende di assumerla?

Decido di conquistarla io quella possibilità. Ma lascio al punto tutte le


possibilità che racchiude e che magari non conosco.

172
Decido io di iniziare, di riempire questo” vuoto di relazione” con i miei
intenti. Decideranno poi gli intenti nascosti del punto a reagire alla mia
azione o non reagire per niente.
Io decido di agire in ogni caso.

Posso dare in ogni caso una identità al punto in questione. Quella che
decido io.

Sarà un nome, o un simbolo o una idea.

D’ora in poi il puto esisterà per me con una identità ben definita. E io
interagirò con essa come realmente esistente. Vera e reale. Possibile.

Posso usare quel punto per i miei intenti ed esso mi parlerà in modo
autonomo da quello schema che rappresenta. Il problema è imparare ad
ascoltarlo.

Tutto dipende da quanto io so ascoltare i lati nascosti di me che


rappresentano varie sintesi di innumerevoli punti organizzati che formano
l’insieme del mio sentire.

Essi hanno lasciato-voluto formarsi in me un’oasi di consapevolezza che


ora scrive. Così essi si rendono “visibili” in una realtà. La realtà che tocco
ora.

Anche il punto ora è visibile. E posso gestire questo nuovo territorio come
mia conquista.

Prima non esisteva nel mio territorio percettivo. Ora c’è.

Posso dare al quel punto una autonomia speciale?

Posso osare oltre?

Certo. Posso dare a quel punto una volontà.

Una volontà concreta e vera. Reale.

Al mio servizio.

173
Ho creato un punto di volontà.

Gian Berra.

174
LA RINASCITA DEL TOTEM

La scoperta di ciò che ci è stato impedito di sviluppare, è una sorpresa.

Ci hanno detto che i negri e gli indiani erano solo selvaggi, e per giunta
“pagani”. Che gioia scoprire
la loro libertà! Così è utile ricominciare
da loro...

I barbari pagani delle origini :

Il tetto del vecchio fienile faceva acqua. Non era possibile fare a meno di
metterci le mani. La cosa doveva essere risolta con un progetto di restauro.
Così quell’agosto di 4 anni fa mi misi al lavoro. Ricordate che nell’agosto
del 1999 ci fu una eclissi di sole quasi totale? Ecco io ero nel tetto del
fienile proprio quando il sole si oscurò. Con tutta la gente del posto che
guardava su dando uno sguardo ora a me, ora al sole che spariva.

Quando scoperchiai il tetto mi accorsi delle tavole che sostenevano i


coppi. Erano una cosa straordinaria. Vecchie di almeno 60 anni avevano
forme insolite. Erano tavole povere, quelle che le segherie scartano perché
troppo irregolari e non vendibili. I vecchi proprietari, poveri e ingegnosi
recuperarono quel legno a poco prezzo per costruire il tetto.

Ogni tavola era differente dall’altra. Vennero usate così come erano. E
fecero bene il loro lavoro con umiltà. Erano ancora integre malgrado
l’umidità e la poca cura. Mi affascinarono e non ne feci legna, ma le misi
da parte.

Durante l’inverno l’idea nacque da sola. Provai ad accostare le tavole tra


di loro. A poco a poco presero forma delle sculture autonome. Sembrava
che il progetto lavorasse da solo.

Quelle tavole chiedevano di rappresentare delle forme; delle identità ben


definite. Non si definivano con un nome e io non le schedai con dei

175
concetti. Mi bastava che loro mi dicessero con le sensazioni ciò che
desideravano.

Così nacquero i 5 totem alti circa 3 metri più o meno.

Feci per ciascuno di essi una base robusta con dei bancali industriali. Li
decorai con parrucche di erba secca. Aggiunsi degli occhi espressivi e li
decorai con grossi semi e con vecchie corde a treccia. Diedi loro una
leggero strato protettivo con henné scuro. Poi li portai tutti in mostra in
una villa veneta del posto che mi era stata concessa una mostra dei miei
quadri nel settembre 2001. Feci la loro presentazione all’inaugurazione
della mostra spiegandoli come rappresentazione dei poteri che stanno in
noi. La gente li accettò con sorpresa anche se non so se tutti abbiano
capito. Misi poi in grande quaderno su cui chi voleva poteva scrivere ciò
che pensava dei totem. Raccolsi parecchi pareri entusiasti e di sorpresa.

Da allora i 5 totem mi seguono da vicino. La loro identità si è rafforzata e


il loro potere è sempre più concreto. Comincio a dialogare con loro come
vecchi amici che esistevano ben prima di me. Mi danno una notevole
sicurezza come compagni o guardiani che mi accompagnano nel mio fare.
Non mi fanno mai pressione e hanno una pazienza infinita. Mi aspettano
davanti ai miei passi di qualche metro, e sembra mi sorridano.

Sembra abbiano un piano preciso su di me. Ma non mi dicono mai nulla su


ciò che devo fare: semplicemente mi guardano da una certa distanza. E io
ho imparato ad ascoltare il loro silenzio.

O almeno quello che appare un silenzio.

A volte mi appoggio a loro. E loro non si scostano.

A volte mi sorprendo di scoprire cose nuove sul loro aspetto: sono sempre
nuovi.
Sono i miei amici. Ora per questo vi invio le immagini di alcuni di loro.
Sento che sono felici di essere visti da altri. Ciò aumenta il loro potere.
Chissà…forse che altri possano incontrarli e capire più di me?

Gian Berra.

176
PS. Nota di oggi febbraio 2021 … Ho conservato i totem, per un periodo
in silenzio. Poi li ho portati nella mia personale di dipinti a cerano a villa
Benzi nel settembre 2001 ( il video è ancora in youtube cercando il mio
nome. Poi li ho ritrovati e raccolti dal fienile in cui erano in attesa … e li
ho portati alla mia ultima personale alla sala del tribunale a
Montebelluna a maggio 2017. Ora sono ancora in mia compagnia …

I Totem sono dentro di noi.

Essi rappresentano le forme innumerevoli che la nostra energia vitale


prende per rivelarsi alla nostra coscienza. Per rendersi visibile.

Il nostro cervello. La nostra mente funziona per immagini.

Quando queste immagini non vengono rappresentate in modo concreto, o


non vengono espresse in modo visibile o ascoltate da un canto o da una
musica o da una danza...esse restano latenti e lontane dalla possibilità di
riconoscerle.

Solo riconoscendole con tutti i nostri sensi esse diventano concrete e


riconoscibili. Perciò in nostro potere.

Essere coscienti, consapevoli dei nostri poteri ci leva dalla solitudine e


dall’esigenza di appoggiarci a dei concetti assoluti. Magari ideologie
religiose rivelate e prese per buone solo perché qualcuno ci ha convinto
che la verità e il nostro destino sia nelle mani di un dio che ci ha creato.

Un dio che ci reclama secondo un suo disegno particolare.


I Totem non reclamano nulla, ne pretendono.

Essi sono a nostra disposizione per dialogare con noi.

Essi attendono di riprendere con noi quella relazione iniziata all’origina


della nostra specie.

Non ci impongono un nome particolare, o una immagine fissa.

177
Ne ci chiudono in concetti definiti.

Essi si propongono alla nostra attenzione nel modo che noi decidiamo, e ci
invitano a dialogare, a sentire il loro messaggio.

La nostra attenzione è il loro nutrimento, essi vivono del nostro interesse.

E il nostro interesse per loro li rende felici in quanto libera la loro energia
e il loro scopo: aumentare e sviluppare la consapevolezza dell’esistere.

Il potere della consapevolezza.

E’ la facoltà spontanea e naturale della nostra razza di scimmie umane.

Ma con cura è stata uccisa, denigrata, offesa e occultata con cura da


quell’inganno colossale che sono state le religioni rivelate.

Rivelate, cioè imposte come giuste ed ovvie. Perciò non sperimentate e


costruite dall’esperienza diretta della condivisione.

Esse sono ideologie non consapevoli. Proposte come ovvie.


E poi imposte come dovute.

178
Divenire consapevoli è un cammino individuale. Così difficile perché
abbiamo perso il potere di relazionarci con le coscienze della natura e con
la nostra coscienza e con quella dei nostri simili.

E’ talmente grande l’inganno che ci portiamo dentro, che ogni relazione,


iniziando con quella verso noi stessi, parte dal presupposto di difendere sé
stessa come giusta ed immutabile.

E’ il potere della paura che ci è stata innestata dentro come ovvia e


naturale.

Una paura non naturale.

Un potere malefico che blocca ogni relazione creativa.

La paura come condizionamento.

Essa viene occultata con cura dentro di noi ancora prima di nascere.

Le paure dei nostri genitori diventano parte di noi al concepimento. Quasi


un condizionamento genetico che poi diviene “reale” appena ci affacciamo
al mondo.

Il potere della paura.

La paura mantiene il suo potere e lo difende rimanendo nascosta nel nostro


profondo. Solo nascondendosi e negando sé stessa alla coscienza essa può
mantenere il suo potere.

Essa si nega, respinge ogni sua definizione. Non rivela nulla di sé stessa.

Non da alcuna ragione del perché si manifesta. Non da spiegazioni.

179
Essa si riversa semplicemente su di noi in modo subdolo. Assorbe la
nostra forza vitale e si nutre di essa. Poi quando ci ha derubato, si ritira nel
nostro lato oscuro e aspetta la prossima volta per colpire...

Il cammino nel lato oscuro

E’ là che si nasconde la paura. Come una barriera, un cancello tra noi e


consapevolezza delle nostre forze vitali. Esse sono il patrimonio della
nostra specie, ma ora sono state respinte ed occultate dal condizionamento
che abbiamo subito.

Respinte lontano da noi.

Con attivo tra noi ed esse un guardiano parassita che si nutre della nostra
impotenza.

Affrontare quel guardiano sarà la prima prova che ci troveremo ad


affrontare se vogliamo andare alla ricerca del nostro legittimo potere di
vita.

Anche la paura è un Totem.

180
Per riconoscerla, vederla, dobbiamo farla uscire da quell’angolo buio dove
si nasconde. Solo così essa perde gran parte del suo potere.

Infatti la sua strategia è agire nell’ombra. Quello è il suo potere.

Costruire un Totem è un atto di potere.

Dare una immagine concreta alla paura è stabilire NOI una relazione con
essa.

E’ una azione che parte da noi, voluta e realizzata.

Da quel momento la paura non potrà più nascondersi, o almeno lo farà con
grande fatica. Naturalmente dovremo affrontala direttamente.

Ed essa sa come difendersi. Questa sarà la sfida più importante che


dovremo affrontare. Ma in ballo c’è la nostra libertà.

E la sfida non è verso altri. Solo con noi stessi.

E da soli.

Costruisco il Totem della paura.

Come fare? Renderla visibile. Darle una forma. Ma quale?

Per chi non è abituato ad usare questo potere, è un dubbio di partenza:


cosa faccio? Ed è venuto il momento di giocare.

L’infanzia di una coscienza in crescita è il gioco; come ogni bambino.

Il gioco non si ragiona: si fa. Ogni cosa va bene per cominciare. A me


sono bastate alcune tavole vecchie e malridotte. Da esse ho tratto le
immagini della paura e altro. Ma ci sono anche altre cose che mi attirano:

181
sassi colti dal greto del fiume, radici contorte, foglie secche dai colori
improbabili, vecchie ossa raccolte arando un campo, ferri vecchi
rugginosi, etichette pretenziose di prodotti dimenticati...

Così quando si è scelta l’immagine essa va curata come un oggetto


prezioso.

Possiamo abbellirla, colorarla o pulirla. Decorarla o renderla essenziale.

Essa è nostra e ci appartiene. Ne siamo i suoi creatori e custodi. Da quel


momento in poi non potremo più far finta che essa non esista. Lei è lì
davanti a noi anche se la nascondiamo lei comunque esiste.

Da allora la paura non potrà più nascondersi. Potremo magari far finta di
nasconderla ogni tanto. Ma sarà solo una tregua temporanea. Infatti
saremo prima o poi “costretti”a guardarla in faccia.

Vi assicuro che non è una faccia piacevole. Essa porta parecchie maschere
e non le mostra tutte in una volta. Essa si difenderà usando tutte le armi di
cui dispone, in quanto il suo potere è quello di nascondersi e colpire
dall’ombra.

Andare nell’ombra.

Sarà proprio là che andremo a far visita alla paura quando essa ci colpirà.
La paura non è cattiva. Semplicemente lei vive della nostra tensione
quando essa si rivela. La paura non può far altro che ...fare paura. Così lei
vive.

Essa è nata come prezioso istinto primordiale, atto a proteggerci dai


pericoli.

Essa ci mette in guardia. I meccanismi che la risvegliano non seguono le


nostre ragioni, essi scattano appena le nostre certezze vengono messe alla
prova.

182
Perciò sarà cura di chi ci vuole togliere il nostro potere di negarci più
certezze possibili. Non solo ci verrà detto che esiste un solo dio ( e sarà
solo quello indicatoci ), ma anche ci sarà chi potrà parlargli per noi.. Ci
sarà chi ci proporrà un codice morale, ma senza mai permetterci di
discuterlo. Ci saranno cose giuste e cose sbagliate da fare o no. Ma non
avremo mai deciso noi.

Oggi le cose sono per fortuna più elastiche. Ma per pochi. In realtà alle
coscienze che si aprono alla vita mai viene insegnato l’uso del potere
creativo.

Il potere di creare sé stessi.

183
Camminare nel lato oscuro

Al di là della coscienza di ciascuno esiste un territorio che occupa gran


parte della nostra mente. Esso è un serbatoio dove la nostra specie ha
elaborato durante l’evoluzione della razza dell’uomo tutti gli strumenti atti
alla vita.

Sono meccanismi automatici. Fanno parte di noi e hanno permesso alla


nostra razza di poter continuare ad esistere. Ogni volta che nasce un essere
umano esso viene dotato di questi programmi. Sono suoi di diritto.

Non solo: alla nascita di ogni coscienza, essa riceve anche una adeguata
dose di energia vitale. Questa energia è legata alle possibilità genetiche del
corpo di crescere, riprodursi, evolversi.

Ogni nascita è una scommessa. Sarà la quantità di energia disponibile e le


condizioni in cui si svilupperà a determinare quanto una coscienza potrà
scoprire ed ampliare i territori del proprio potere. Un potere vitale, cioè di
vita.

E la vita ha un solo scopo: vivere. Vivere e creare altra vita o creare le


condizioni per altre possibilità.

Ma non tutte le coscienze hanno la forza di creare. Alcune si limitano a


rubare l’energia di quelle che creano la vita.

Le coscienze parassite.

Alcune coscienze nascono deboli. O furbe. Fa parte della natura. Ma mai è


capitato che una parte limitata di parassiti sia riuscita a condizionare per
secoli gran parte dell’umanità. E la loro strategia è stata quella di usare i
nostri programmi originari per volgerli contro il potere di creare sé stesse:
usare la paura come guardiano, e bloccare l’autocoscienza.

184
Esse hanno inventato regole non discutibili. Hanno imposto con
rivelazioni un modello di religione. Hanno cancellato ogni relazione
naturale con la natura e la sua percezione come coscienza. Sono diventate
esse stesse sistema sociale al punto da apparire scontate e naturali.

E ogni volta che una coscienza tentava di andare oltre trovava la paura: il
buio di ciò che gli era stato rubato. Camminare nel lato oscuro significa
percorrere il sentiero mai percorso prima. E lì troveremo tutti i divieti, le
imposizioni, le violenze e le reazioni non espresse e sofferte tutte le volte
che abbiamo tentato di emergere. Paura e rabbia, delusione e sconforto per
ogni ostacolo trovato di fronte alla nostra evoluzione.

Finora erano solo emozioni. Da ora in poi diventeranno immagini chiare;


concrete e reali. Affrontabili.

Le immagini di noi stessi.

Così il totem della paura sarà l’immagine della nostra paura.. Diventerà il
nostro alleato fidato. Non più un nostro nemico. Esso è parte di noi. Una
parte antica e potente. L’energia che esso può gestire è notevole. Il Totem
è una immagine potente con cui possiamo avere una relazione con una
parte di noi stessi.

Diventarne complici e usarla, finalmente, a nostro vantaggio.

Del resto nulla di nuovo: la paura è nata originariamente a nostro


vantaggio.

185
Il Totem è una coscienza allargata.

Il totem lo abbiamo fatto noi. E’ nostro. Ma la sostanza della paura è


simile in tutti gli esseri umani. Questa emozione segue le stesse regole con
tutti, perciò il nostro Totem rappresenta in potenza anche le paure degli
altri.

Ciò è prezioso per creare una relazione allargata con le paure degli altri.

Creare una relazione è il contrario di respingere, chiudersi, rifiutare l’altro.

Il nostro totem parla al lato oscuro anche delle altre coscienze. Non
importa come, né se ciò è secondo le nostre aspettative.

Esso parla in ogni caso, e parla con la paura dell’altro.

Così il nostro Totem lancerà la sua sfida.

186
Totem per ogni intento.

Il primo totem da me costruito è stato quello della paura ( in quanto ne


avevo davvero tanta ), ma ogni intento ne richiede uno, o più.

Così altri totem nascono per chi ha coraggio: ogni occasione di vita ne
rappresenta uno. Ogni momento dell’anno e ogni evento della vita. Ci
saranno i totem per i momenti di gioia, come per la compagnia e le feste.
Ma anche per le morte.

I Totem più potenti saranno quelli condivisi e quelli creati assieme agli
altri.

Ogni intento ha la sua immagine. Chi sa crearla è a buon punto.

Il Totem personale, quello che carico di un intento particolare e privato


può anche rimanere segreto. Mentre un altro che si vuole mostrare, si
lascerà guardare.

In ogni caso siamo noi a parlare per lui.

E Lui è con noi.

Gian Berra

Oltre la soglia del caos

Cioè oltre la paura, si possono incontrare tutte le nostre personali


possibilità.
Sono possibilità che sono nostre, personali.
Diverse per ciascuno di noi. Esse ci vengono incontro ogni attimo.
Ma ogni volta devono fermarsi di fronte alla paura. Essa è la nostra
impossibilità di gestire i messaggi che non hanno delle regole imposte.
Ma hanno regole proprie.
In questo lato buio alla coscienza è racchiusa tutta la nostra energia vitale.
E’ la stessa forza che ci da la vita.
Ma la vita non si arrende mai. Essa E’.

187
Anche in società che si hanno dato la forma di branchi, di greggi, di torme
spinte ad agire da condizionamenti più o meno ragionevoli...la vita non si
pone limiti per emergere.
Alla vita non interessa che uno scopo, il suo: vivere. E la strategia del
vivente è adattarsi a ogni condizione pur di esserci. Per questa ragione lo
spirito vitale che replica sé stesso non ha limiti di forma , né di tempo.

Ogni “idea” umana che cerca di definire le regole, o le crei a propria


immagine, non fa che ingannare sé stessa. Prima o poi quelle regole
saranno distrutte da altri uomini che ne imporranno di nuove.
Ciò viene definito dalle coscienze “ragionevoli” ...il Caos Cioè la vita fine
a sé stessa.
La Vita così non perde occasione, in ogni tempo o luogo di proporre la sua
forma più nascosta con coscienze che la intuiscono nella suo aspetto
più...insolito, più intrigante, al di fuori di ogni definizione.
Forse molti hanno questa possibilità. Ma pochi vi si soffermano.
E’ il potere creativo di intuire le infinite possibilità di relazioni tra le
coscienze.
E’ il contrario della paura che isola le coscienze.La vita invece non ha
confini o concetti definiti.

Le tensioni come sfide consapevoli.

E’ un tema ostico, con trappole concettuali notevoli; spero di non annoiare


i lettori della rivista, ma io mi diverto così…
Cos’è una tensione? Intendo una tensione che riguarda il pensiero,
l’impulso ad agire e quello vitale, i desideri e ogni schema istintuale ed
emotivo. I progetti e le strategie.
Una tensione in questi casi è uno schema di energia vitale fisso ed agente
con autonomia propria ed automatica.
Una tensione è autonoma: una volta costruita dalla personalità come
schema autonomo essa diventa autonoma in sé stessa e agisce in modo
automatico ogni volta che le situazioni del quotidiano la richiamano e le
impongono di agire. Perciò ogni volta che una tensione latente viene
risvegliata essa torna alla luce della coscienza e si impone sul fare
cosciente della persona e pretende di essere ascoltata. Essa si impone sul
fare cosciente. Agisce da padrona.
Era una giornata piovosa di una primavera che non voleva venire. Menico
lasciava passare la mattinata passeggiando lungo le lande del Piave. Si

188
sentiva appagato dal silenzio e da una natura ancora assonnata e pigra. I
rami spogli parevano mani nude tese verso il cielo. Pozze d’acqua piovana
illuminavano la ghiaia e le macchie d’erba. Lontano una nebbia bassa e
umida nascondeva l’orizzonte . Era così anche il suo animo di stamattina?
Menico si lasciava cullare da uno stato di assenza da tutto ciò: lasciava
vagare i pensieri senza curarsi di essi…
Non vide l’intruso che quando gli fu vicino: La biscia uscì decisa dagli
sterpi a lato del sentiero. Decisa e indaffarata si diresse verso Menico,
verso una pozza. Quando lo vide si bloccò con il capo alzato a fissarlo.
Menico incontrò il suo sguardo e fu privato dai suoi sogni con uno strappo
doloroso. Una morsa lo prese allo stomaco e il panico lo bloccò. Ogni
decisione era un caos di paura che annullava ogni pensiero. Decise
l’istinto: fece un passo indietro col cuore che batteva. E la sua mano cercò
un sasso.
Ora era armato. Guardò la biscia con decisione. Ma essa non si muoveva.
Lo osservava fissandolo e valutando cosa fare: fu un attimo, e veloce lei
sparì oltre l’erba.
Menico si ritrovò solo.
Solo con la sua paura, e la sua vergogna.
Le tensioni che dormono dentro di noi non sempre le abbiamo create noi.
Sono presenze autonome nascoste alla nostra coscienza. Eppure sono ben
presenti ed autonome. Sono programmi che agiscono in modo automatico.
Indagare sulle motivazioni non coscienti che le muovono può essere il
tema di un altro articolo per la prossima rivista. Ma è possibile analizzare
ora l’identità dello schema intimo di una tensione. E vedere come è
formata e come è possibile costruirne una.
Costruire è un atto di consapevolezza. Come si costruisce una tensione?
Poniamo un punto di partenza. Il punto A; un punto è una idea, un
pensiero, un concetto qualsiasi. Da solo rappresenta una decisione di
esistere e di manifestarsi. E’ un punto di potere vitale che si manifesta. E’
nato e presente. E’ vivo.
Ma è solo. Ma una volta nato ( creato ) si scopre non più solo.
Innumerevoli altri punti di potere gli sono vicini, e ciascuno con la propria
identità che pretende di essere riconosciuta e confrontata con lui. Ciascun
concetto nasce assoluto e presto impara che deve difendere la propria
identità per poter esistere e vivere. Ma ben presto si accorge che non può
essere possibile: infatti esso nasce dal risultato della elaborazione di
innumerevoli altri concetti che hanno contribuito con il dialogo reciproco
a formarlo come possibile soluzione. Perciò il nuovo punto di potere

189
creato non conosce ancora da chi o cosa proviene. Sa di esistere ma non sa
chi è in quanto non si è ancora confrontato con le altre identità che gli
stanno attorno. Dispone di energia vitale ma non l’ha ancora usata. Ne sa
che ne possiede in gran quantità: almeno quanta ne possiedono le altre
identità. Ma le altre identità forse hanno già creato relazioni tra di loro. Il
punto A ancora no.
Così la coscienza che lo ha creato come soluzione di una tensione di
pensieri, lo pone a confronto con il concetto che lo ha creato.
Il punto A si incontra col punto B. Entrambi si confrontano e si crea la
nuova tensione che comprende A-B.
Menico si rende conto che ancora Aprile ha portato un poca di neve sui
monti. E’ scocciato in quanto pensava di non accendere più la stufa in
cucina. Nei suoi progetti già vedeva il caldo dell’estate. Ma il freddo è
tornato di nuovo. Non potrà ancora vestirsi leggero e cominciare ad usare
la moto. No, gli toccherà tornare ad accendere il fuoco per trascorrere le
serate in cucina. Progetti sfumati, sogni da rinviare. E’ bastato un po’ di
freddo ( A ) per impedirgli di vivere una estate sognata in anticipo ( B ).
La tensione tra A e B ha obbligato Menico a cambiare i suoi piani. Questa
tensione è reale al punto che Menico ha dovuto cambiare i suoi piani. La
tensione rimarrà finché Menico si dimenticherà o accantonerà i desideri di
temperatura estiva anticipata; oppure quando davvero arriverà la
primavera.
Una tensione è una tensione di pensieri che si confrontano assieme. Così
intimamente legati da non poter uscire da questo legame finché uno dei
due punti di potere che essi rappresentano non cambia sé stesso e le sue
motivazioni.
Ma chi cambia le motivazioni? Chi o cosa può modificare la tensione?
Evidentemente il suo creatore: la coscienza.
Ma come fa una coscienza a cambiare o modificare le sue creature? Per
cambiare ciò che si ha creato si deve esaminarlo. Esaminare significa
osservare ciò che deve essere esaminato.
La coscienza perciò dovrà esaminare sé stessa, in quanto vive una tensione
(scomoda) tra due punti di potere agenti in modo autonomo dentro di sé
stessa.
Essi sono suoi figli ben vivi e pretendono entrambi di esistere. La tensione
tra di essi crea un conflitto che ruba energia vitale alla coscienza in quanto
pretende attenzione per essere risolta. Ma c’è di più: prima ho parlato di
“personalità”. Cioè di quel complesso di fattori che variano da coscienza a
coscienza. Ognuna è diversa dall’altra.

190
Se una coscienza è un complesso di fattori, quali di essi sono osservabili
dalla coscienza stessa? Forse quelli a cui pensa?
Sarebbe bello se fosse così. La coscienza che pensa coscientemente usa
solo una piccolissima parte di ciò che è. Perciò non potrà nemmeno
controllare coscientemente le proprie creazioni ne le tensioni che crea
dentro di se.
Allora per l’ impotenza di controllare le motivazioni “non conosciute” che
la portano ad agire, la personalità si crea un sistema di regole che le
permettono di vivere nel limbo cosciente in cui può riconoscersi. E’ il
territorio in cui si sente sicura. Oltre c’è l’ignoto e l’oscuro in cui ritiene di
perdere sé stessa e la consapevolezza di sé che si è costruita per darsi un
territorio in cui vivere sicura.
Perché all’origine di ogni punto d’azione o di potere entrano ( nascosti alla
coscienza ) le forze di altri punti occulti ad essa, ma facenti parte della
personalità.
Finché essi non saranno chiari, la tensione creata non sarà in nostro potere.
Perciò anche una tenue tensione. Magari a cui diamo scarsa importanza,
racchiude in se una dose preziosa di consapevolezza da scoprire.
Se in millenni di evoluzione umana pochi hanno sentito il bisogno di
indagare oltre le regole imposte dalla paura è forse perché ciò non è
ancora necessario alla specie a cui apparteniamo. Eppure questo è proprio
l’aspetto che permette una evoluzione alternativa. Ma non ancora
necessaria: creare e vivere tensioni consapevoli forse non serve alla specie
umana. Forse non ancora.
Ed è lo scopo della magia.
Gian Berra.

191
DOPO DARWIN …

La teoria dell'evoluzione di Darwin è stata una tappa essenziale alla


possibilità di ribaltare almeno nel mondo occidentale l'inganno di una
creazione "finita". La cosa indispettì a tal punto i cristiani che il papa
romano dell'epoca non tardò molto a promettere la scomunica a chi avesse
accolto la novità che la creazione era solo una favola.

Da allora il tempo non è più finito e nemmeno le possibilità di evoluzione


della natura o dell'universo.

Detto tra noi la cosa bene o male era già ammessa da quelle culture che
per fortuna non erano toccate da alcun concetto assoluto,

ma la cosa era spontanea. per un politeista non si può chiudere entro limiti
chiusi l'esistente.

192
E' un concetto figlio della paura di vivere, e perciò di debolezza interiore.

Forse può essere un anelito, un sogno. Ma si tratta di un sogno che elimina


tutti gli altri sogni. Una miseria dorata, ma comunque una miseria.

Così Darwin aprì le porte a tutti i sogni, senza limiti.

I creativi, quelli per cui il sognare è questione di vita trovarono i cancelli


aperti. Anche favoriti dall'ambiente positivista dell'epoca. Il futuro era loro
e le macchine le creature che li avrebbero aiutati.

Così per la prima volta nel pianeta nacque una moda che mai prima aveva
rapito l'attenzione delle coscienze.

Era possibile immaginare il futuro senza limiti. Cosa mai vista nemmeno
nelle società politeiste antiche.

Nemmeno i pagani sentivano l'esigenza di inventarsi un futuro a loro


immagine. Figuriamoci se sentivano l'esigenza di immaginarsi
innumerevoli futuri, intercambiabili a piacere. E tutti più o meno possibili.

Cero c'erano profezie, sogni, premonizioni. Ma il grosso da cui prendere


era il passato e le tradizioni.

La fantascienza nacque come possibilità di futuri alternativi. Come gioco,


territorio dove mettere i sogni e le paure, dove porre lo slancio e le
speranze.

Un territorio dove porre le proprie follie. E vederle realizzate.

Le religioni hanno fatto la stessa cosa all'umanità. Hanno confezionato


sogni belli e pronti. E poi li hanno messi dentro la gente.

Ma Darwin li ha fregati.

Da allora in poi ognuno può confezionare i propri sogni. Sarà suo compito
condividerli con quelli degli altri, confrontarli e magari insieme
confezionare sogni da condividere in comune.

193
La fantascienza nasce politeista. Non conosco alcun racconto di
fantascienza che contenga un esempio di cultura monoteista positiva.

Come tutte le espressioni creative vi sono esempi squallidi e mercantili di


fantascienza. Ma vi sono esempi splendidi e pieni di contenuti. Di questi
vado ad occuparmi.

SCONTRO FINALE di Ted Reynolds

In URANIA millemondi marzo 2002

La fantascienza nasce laica. Ma le stelle sono la via che l'umanità può


tentare per raggiungere un nuovo paradiso. Poi naturalmente ci si accorge
che l'infinitamente grande … può essere pari all'infinitamente piccolo,
dentro di noi.
Le stelle per la mentalità umana, legata alla gravità, alla brevità della vita,
possono apparire eterne. Ma in fondo anch'esse hanno un limite. Ma visto
dal nostro, ciò quasi non ci interessa. Così è possibile immaginarle Dei
quasi eterni. Lo stesso vale per i pianeti. Il dio solitario tenta di scrivere i
propri sogni dettandoli ai profeti. Però ci sono uomini che osano scrivere i
propri libri. Che atto presuntuoso! Non ci è bastato l'esempio di Prometeo?

Così Ted Reynolds immagina una avventura militare in piena regola,


ambientata fra 1000 anni. Sono stati anni terribili di conflitti e di guerre.
Comunque sembra che da qualche secolo le cose si sino stabilizzate.
L'uomo non ha conquistato le stelle. Ogni volta che l'umanità si appresta a
fare un grande salto di qualità, qualcosa la fa sprofondare nell'orrore della
superstizione. E' avvenuto innumerevoli volte come al tempo degli imperi
antichi. L'antico impero romano, quello Indiano, quello Cinese avevano le
tecnologie per fare grandi passi avanti. Ma qualcosa li ha bloccati.

Ai terrestri vengono in aiuto i Kroceri. Una civiltà aliena li avvisa che


ancora l'umanità è in pericolo di perdere tutto ciò che ha ricostruito. Ogni
periodo di mille anni si avvicina al sistema solare una entità negativa e

194
malefica dagli infiniti poteri. Essa si nutre delle coscienze degli uomini
imponendo loro la sua presenza col terrore, l'intolleranza, la paura.

Essa chiede assoluta abnegazione e fiducia nei suoi confronti, pena la


disperazione e il caos interiore. Essa è il faro unico dove porre l'attenzione.
E le civiltà crollano in una confusione visionaria.

Viene prestata ai terrestri una astronave aliena, costruita per l'occasione.


Vengono addestrati i piloti e coloro che dovranno condurre l'azione.
Naturalmente anche i Kroceri hanno il loro tornaconto.

Dovranno distruggere quel dio malefico migrante nel cosmo. Farlo fuori.

La cosa non sarà per niente semplice. Quel dio sa il fatto suo. Il viaggio di
andata dura un anno, e già a metà viaggio cominciano nell'astronave a
nascere i primi profeti che annunciano castighi. Ogni debolezza umana
viene usta da questa entità per annientare ogni certezza. Non bada a mezze
misure. Nasce il primo inquisitore che di nascosto elimina gran parte dei
più deboli. Ma la lotta che più piace al dio è piegare le coscienze più
valide distruggendo attraverso le emozioni la loro integrità. Si mangia le
coscienze dei bambini presenti dentro quel piccolo mondo.

La lotta sarà titanica. Ognuno alla fine dovrà perdere parecchia della
propri sicurezza.

E la soluzione finale del problema non sarà per niente scontata o


definitiva. E verrà comunque da …

Ecco alcune citazioni che ho sottolineato:


L'entità malefica viene chiamata "cosa".

- La mente è un meccanismo bizzarro Ridge. Può fare qualsiasi


gioco logico partendo da presupposti illogici. Quella fonte la fuori
fornisce presupposti illogici, e non so se li riconosciamo come tali.

- Quella cosa cambia a livello inconscio l'insieme dei valori e le


ipotesi della nostra razza…

195
- Venne trovata una croce con su scritto a lettere quasi cancellate:
"soffrite per me" lesse il capitano. E aggiunse: c'è scritto anche dell'altro,
quasi cancellato. Mi sembra un messaggio medioevale, privo di senso.
Forse significa " soffrite per amor mio", ma perché?

- Ma non potrebbe esserci davvero un dio nell'universo che ha fatto


tutto ( i dubbi oramai erano frequenti)? …Risposta:- Sappiamo ormai
abbastanza superflua questa ipotesi e priva di fondamento. Sappiamo
perché l'universo esiste. Nessuno l'ha creato. Abbiamo rintracciato tre big
beng: l'universo crea e ricrea sé stesso in cicli secondo leggi naturali …

- Fra non poco qualcuno comincerà a comportarsi come se avesse


potere e conoscenza…

- Ma cosa ti succederà quando sarai morto? - Veramente quel


pensiero non l'aveva mai infastidita, Non conosceva nessuno per cui
quell'interrogativo rappresentasse un problema. Anche se aveva sentito
parlare di persone con quella paura: i tanatofobi. Ma erano rari.
E tanto altro.

Gian Berra.

Confidenze di Luca

Ciao, sono Gian, Ho fatto un po’ di fatica a scrivere questo dialogo con
Luca, mio figlio di 12 anni. Lui mi ha dato il permesso di mandarlo a
Divina Athena. Mi scuso per la lunghezza ma non potevo che fare così.
Luca mi da grandi soddisfazioni e mi aiuta a crescere. Penso sia utile a
qualcuno.

Luca – Papà, stanotte ho fatto un sogno, sai, quando è venuto quel tuono
che anche tu hai sentito. Era così forte che sembrava fosse sopra la casa …
così mi è venuta la paura.
Ma come mi avevi detto basta gettarla via. Così lei se ne è andata.
Io il papà – Ma che sogno era?
- C’era una biscia bianca, e c’era anche la gatta Teddy. Lei si era
nascosta sotto il mio

196
- letto e cercava di nascondersi sotto di me, come se io potessi
proteggerla. Allora io ho detto alla biscia che non esisteva ed è sparita
subito.
- Bravo, così sei diventato padrone del tuo sogno. Lo sai che pochi
lo sanno fare?
- Ma papà, sai che io viaggio nei miei sogni? Ci faccio quello che
voglio.
- Bello! Così puoi creare le tue avventure anche quando non sai dove
andare.
- Certo papà, i sogni vengono quando e come vogliono, ma quando
vengono io li vedo e resto sempre io. Ma perché non so dove andare?
- I sogni vengono dal lato oscuro. Si chiama oscuro perché non lo
vediamo. Ma li dentro c’è tutto. E’ la parte più bella e più ricca che
abbiamo. E’ da lì che viene tutta la nostra forza ma nessuno ci ha
insegnato ad usarlo e a sentirlo come nostro amico.
- Papà, ma io posso sentirlo o vederlo? Come si fa?
- Per sentirlo o vederlo bisogna lasciare che venga lui quando vuole
e stare attenti di ascoltarlo senza ragionare…
- Allora è come quando gioco a palla: quando gioco e getto la palla
contro il muro e rimbalza non la guardo arrivare … eppure la mia mano la
prende senza che io la veda.
- Perfetto. E’ stato il tuo lato oscuro a vederla e tu ti sei fidato di lui.
Così hai usato la sua energia e forza senza passare per il ragionamento.
Anche i giapponesi con lo Zen o il Karatè fanno così: non pensano le loro
mosse ma le fanno col loro lato oscuro. Così si stancano meno perché
lasciano che sia il loro lato oscuro a fare le cose. Guarda che non tutti i
bambini fanno così perché a molti è stato insegnato che bisogna ragionare
per fare le cose.
- Ma allora non bisogna ragionare?
- No, anzi bisogna usare la ragione, ma dobbiamo essere noi a
decidere quando, altrimenti finisce che usiamo solo quella.
- Ma come si fa a diventare padroni della ragione papà? A me
sembra che sia facile.
- Non è così facile. Io e la mamma da quando eri nella sua pancia ti
abbiamo sempre parlato e detto che eri speciale, potente, super bravo e
libero e che in ogni caso noi ti saremmo stati vicini ad aiutati a diventarlo.
Così quando si è formata la tua coscienza che adesso è il tuo io, tu avevi
costruito in te una gran forza e fiducia che ora fa parte di te. E’ questo il

197
tuo potere e da qui diventerai sempre più libero e forte. Anche se la vita
non è sempre facile così.
- Ecco perché viaggio nei miei sogni.
- Forse puoi fare ancora di più Luca, hai mai provato nei tuoi sogni
ad andare dove è più buio? Cioè dove non sai cosa c’è?
- Certo papa! Lo facevo sempre quando ero più piccolo! Allora
andavo da per tutto!
- ( a questo punto mi blocco e mi viene un groppo in gola, Luca ora
ha 12 anni e lui intende quando aveva 4 o 5 anni e a quella età non aveva
paura di nulla )
- Speciale! Ecco, se tu fai ancora come allora cominci a conoscere
anche le parti più nascoste del tuo lato oscuro. E Lui non vuole altro che
essere conosciuto. E’ il tuo amico più fidato e più lo scopri più diventi
cosciente. E più hai potere.
- Amico del mio lato oscuro. Allora non è più oscuro e posso agire
con lui. Ma perché c’è la paura?
- Perché i furbi,quelli che non vogliono che tu sia libero mettono
dentro il tuo lato oscuro le loro idee. Sono le loro idee che ti impediscono
di essere quello che sei. Sono come dei cancelli che chiudono la strada tra
il tuo io e il tuo lato oscuro. E di guardia mettono il cane rabbioso della
paura. Se non fai come dicono loro tu rimani solo con lei e non sai che
fare perché ti hanno tagliato le strada verso il tuo potere.
- Papà io me ne frego della paura. ( sorride tra sé e gongola nel
gustare il suo potere gioca con la sensazione di aver vinto, per ora, la
paura).
- Eppure Luca, sai che è una conquista, una cosa rara. Gran parte dei
tuoi amici e della gente non ci capirebbe perché anche io e la mamma
facciamo una gran fatica a superare i cancelli che ci hanno messo dentro.
Gente cattiva da mille anni ci ha condizionato alle loro idee, e così quando
nasce un bambino questo le fa sue e diventa come tutti…(sta un poco in
silenzio, e io vorrei essere lontano perché parlare di queste cose mi
riempie di rabbia per la libertà che ci hanno rubato e vorrei non fosse mai
accaduto che tanta sofferenza inutile debba esistere, ma mi faccio forza e
continua ad ascoltare il suo bisogno di crescere ).
- Papà ma si può conoscere tutto il lato oscuro?
- Certo, in teoria si. Ma sai cosa diventeresti?
- ( Mi guarda, intuisce la risposta, ma non vuole dirla perché ancora
non osa andare oltre)

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- Diventeresti un Dio! Uno dei tanti di questo universo e forse anche
di altri.
- Allora i cattivi ci impediscono di diventare Dei?
- Forse vogliono rubarci la nostra forza per diventare loro déi senza
fare fatica. Ma sono déi da poco anche se sono pericolosi e malvagi.
- Forse sono i preti e le religioni?
- Anche loro, anche quelli che impongono il loro modo di fare. Sono
quelli che creano idee e non lasciano a ciascuno la libertà di costruire le
proprie idee…se osservi quelli che impongono sé stessi vedrai che
vogliono sempre avere ragione. E lottano sempre contro altri che non la
pensano come loro. Non amano la pace e non ridono mai.
- E già, i preti non ridono mai e non sono mai contenti. Ma neanche
ridono i truffatori e i politici…
- Però Luca, questi sono dei poveretti perché a loro hanno messo
ancora più cancelli e paura. Non devi condannarli anche se sono pericolosi
perché sono come ciechi.
- Ma i cattivi hanno paura?
- Eccome! Per difendersi hanno inventato l’sdc.
- ( Luca sorride, l’sdc è il senso di colpa, è una sigla che abbiamo
inventato quando questo si risveglia in noi: lo chiamiamo subito con
questa sigla perché non possa nascondersi nel lato oscuro e agire
indisturbato e fare i suoi danni) ne abbiamo fatto il nostro amico e quando
si manifesta lo guardiamo in faccia e così perde tutto il suo potere.
- Allora papà gli Dei possono fare tutto. Di certo controllano la loro
paura e se controllano anche i loro sogni possono viaggiare in altre
dimensioni, anche in quella dimensione che troviamo quando noi moriamo
con questo corpo e rimane solo il sogno..
- Certo dipende da quanto una coscienza umana è riuscita a
diventare un Dio, cioè in quale percentuale può controllare la sua energia
vitale. Se dentro di sé sa usare il suo potenziale e anche aumentarlo allora
ne sarà padrona e potrà usarla principalmente per esistere in modo
autonomo.
- Io mi sento autonomo! ( Luca afferma di esistere e non sarò certo
io a porgli dei dubbi…scoprirà lui gli ostacoli della sua evoluzione) Io
voglio scoprire le altre dimensioni, e andrò anche negli altri universi!
- Certo che ne vedrai di molti. Dicono che siano infiniti e per viverli
tutti c’è l’eternità.Però che ne diresti di ritornare in questo?

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- (Si blocca e pensa…) Tornare in questa realtà? Con un corpo? Non
ci avevo pensato ma se volessi potrei di certo e forse potrei anche
scegliere una vita che desidero.
- Solo se hai in te il potere di farlo, infatti chi non è diventato
veramente padrone di sé non può scegliere. Sarà obbligato a subire una
vita che assomiglia alle cose di sé che non conosce e che non domina.
- Così uno che ha paura o rabbia o che ha rubato o che soffre o che
non sa ridere non potrà scegliere ciò che sarà?
- Si Luca, questa persona dovrà subire un futuro di reincarnazioni
che non sarà in grado di gestire. Anche se farà di tutto per evitarlo non
sarà in grado di essere ciò che vuole perché non è ciò che vuole. Sono
proprio quelli che io chiamo i furbi, quelli che non si limitano ad
ingannare gli altri, ma ingannano soprattutto sé stessi.
- Ma davvero tutti i furbi dovranno subire?
- (comincio a essere stanco) No, non tutti i furbi. Ci sono furbi
coscienti di esserlo, questi vivono coscientemente della energia rubata e
sapranno trovarne anche nel mondo dei sogni. Essi sanno come vivere di
energia rubata e dove cercarla. Di energia rubata ce ne in quantità e
potranno usarne finche non troveranno altri furbi più forti di loro. Per
questo non potranno mai essere autonomi. Possono solo essere liberi di
rubare finche…
- Sono i malvagi papà, ma io non ho bisogno della loro energia. Ma
perché esistono ed insistono ad essere così?
- Perché la vita non pone limiti. Da anche a loro una possibilità. Se
sprecano la loro occasione ne sono responsabili. In fondo ci sono utili per
vedere ciò che non vale la pena di essere. ( Luca si sente sollevato,
rimugina le cose dette e mi fa un’ultima domanda prima di cambiare
argomento)
- Papà, ma è tutto vero?
- (Ho un brivido lungo la schiena) Ma, Luca, non lo so neanche io.
Ma mi piace crederlo perché sento che può essere così. E mi piace che lo
sia.

Ciao a tutti, Gian Berra.

Vivaldi mon amour…

200
Concerto n° 10 in SI MIN, allegro:
La, la
La la, la? La! La la la!
La – la-la
La laa!
Vivaldi, vestito di rosso, tiene un violino in mano. Ma anche se si veste da
prete, non lo è proprio.
Vivaldi esprime il lato più struggente del paganesimo che nasce come
anelito al volo libero dell’intelletto che ha imparato ad essere libero di
giocare con sé stesso.
Vola quell’uccellino e assapora il gusto di deridere, gioca a rincorrere i
sensi, si stupisce di essere li.
Poi ritorna indietro e riprova a fare la strada. Ancora una volta. Ancora,
ancora.
Poi si lancia e si lascia cadere. Si diverte e ride di ciò che fa.
Non ha limiti. Tace e riprende.

Concerto in DO MAGG, Allegro molto:

Violini e violoncelli in combutta. Un contro l’altro armati.


I primi dicono la sua , poi tocca agli altri.
Ognuno ha ragione: basta che siano in armonia con gli altri.
Inventano il percorso: poi lo cambiano.
Silenzio.
E poi si riparte alla grande!
E’ una gioia quando tutti assieme formano un’onda unica!
E poi si ricomincia con un unico solista…
Ma è un attimo e tutti gli sono dietro.
Che confusione, ora l’onda travolge e non si ragiona più!
E’ vero paganesimo! Un nuovo equilibrio si forma,
per poi essere riformato.
E i pensieri sono rapiti dal ritmo della vita che ritma sé stessa senza fine.
E io volo con il mio amore Vivaldi.
E non vorrei più scendere da quel paradiso. In cui gli opposti danzano
assieme.

201
Sublime paganesimo,
del tutto reale.

Gian Berra.

202
A proposito di arabi...

Ho seguito gli interventi sulla storia degli arabi. Ho appena finito di


leggere il libro “I sette pilastri della saggezza” di T.E. Lawrence, ( quello
d’Arabia).
Ho cercato quel libro perché lo ho trovato citato in varie fonti e ne è valsa
la pena.
In fondo si tratta di una cosa vissuta.
Lawrence è un uomo dell’800, inglese appassionato di archeologia e di
lingua araba già dalla gioventù. Il mondo che vive lo vede con questi
parametri. In fondo anche se di mentalità aperta è cresciuto in un ambiente
di religione anglicana, ma questo non limita la sua esperienza dato che
guarda le cose con sincerità.
Lui spesso si strugge del fatto che gli arabi non sono un unico popolo e
che non sanno che sentirsi uniti che per la lingua. Intuisce che i luoghi in
cui vivono come origine ( Arabia, Palestina ) ha creato una serie di
situazioni durissime di vita che come “compensazione” hanno causato
atteggiamenti di fuga mistica in cui i sogni di disperazione, solitudine,
sadismo, sofferenze, autocommiserazione, esaltazione vengono accettati
come normali e che chi si esprime con essi è autorizzato ad essere ciò che
sente.
Così in Arabia e in Palestina nascono in continuazione sette e profeti che
nel deserto urlano la loro “follia” creando gruppi più o meno duraturi.
Un uso che è diventato consuetudine. Una follia tollerata perché “divina”.
Ciò per loro è normale; perciò diventa normale usarla quando è utile a
qualcuno.
Così accanto a chi è folle per attitudine o per sfogo, c’è chi fa il furbo e la
usa per convenienza.
Lawrence dice che gli arabi odiano gli indiani (quelli dell’india) e non lo
comprende. Ma io oso abbozzare una possibilità: Gli indiani superano la
follia con l’accettazione più o meno consapevole della realtà, accettando
l’esistente come conseguenza di un agire precedente.
(legge della reincarnazione?) Che questo pensiero venga accettato o no, la
mentalità indiana è così.
La follia spontanea della cultura degli abitanti del deserto non è
controllata. E’ una fuga accettata per disperazione o rifiuto di una realtà
troppo dura. Che poi diventa consuetudine e che entra nel DNA di quel
popolo.

203
La filosofia indiana e il vivere indiano è uno schiaffo in faccia al beduino.
Gli leva l’unica libertà di cui si sente padrone.
Così Lawrence sente l’animo di questi “bambini” capricciosi e a volte
pericolosi. Ma almeno alla fine anche se deluso ammette che per un po’ li
ha tenuti uniti per un ideale momentaneo: “la Nazione Araba”.
La cultura cristiana ( altro DNA) che ci troviamo in casa non è molto
dissimile da quella araba, anche se la cultura antica ci ha salvato in parte.
Così ora gli “arabi” che ci vengono a trovare trovano le cose già fatte: si
presentano come bambini bisognosi di affetto, aiuto, solidarietà,
comprensione. Essendo bambini possono essere capricciosi, disordinati,
rumorosi, sporchi… almeno quelli che non hanno altre alternative di agire
in altro modo. Non tutti sono così per fortuna.
E’ solo un modello che usano per essere accettati del senso di colpa
cristiano, e solo perché per ora i cristiani sono i più ricchi come realtà di
vita. Tra di loro le cose sono ben diverse. Anche li comandano i furbi. E
sono furbi senza pietà “cristiana”.
Lawrence descrive la crudeltà corrente, normale tra le varie tribù beduine
tra le quali la rapina e lo schiavismo. Descrive anche comunque la
solidarietà per il viaggiatore, che viene (non sempre) accolto in caso di
bisogno e per un tempo determinato. Solo in quel tempo determinato è
sacro. Poi diventa bottino.
Naturalmente tutto non è così. Anche tra gli arabi c’è chi ha un cuore, e
sono tanti per fortuna. Ma i semplici non fanno la storia e ora subiamo la
follia dei disperati che non hanno altro modo per essere.
E i furbi tirano i fili anche li.
Lawrence capisce che ha perso la sua battaglia, ma accetta che non poteva
che sognare di aggiungere un poco di consapevolezza alla realtà di questo
popolo…e a sé stesso.
Da loro ha imparato molto e fa un paragone che ci accomuna a loro
descrivendo la puzza dei loro soldati e quelli inglesi: i soldati inglesi
vestiti di lana puzzavano di urina e di marcio, i soldati arabi vestiti di
cotone puzzavano di caprone e di cammello.

Ciao, Gian Berra.

Eroi del 68’


I nuovi eroi nascono dal ’68.
Ogni cosa ha il suo tempo per manifestarsi. Così i più fortunati del ’68,
quelli cioè che non hanno perso per strada l’entusiasmo di sognare e di

204
giocare con la realtà ora pian piano riescono a rendere palesi i loro sogni.
Propongono nuove figure di eroi, di attori della realtà che agiscono in
modo inatteso ed imprevedibile.
Quegli anni furono una sfida difficile da attuare. Non è possibile
cancellare od ignorare un condizionamento monoteista senza proporre
qualcosa con cui sostituirlo. Così c’è voluto del tempo per permettere alla
fantasia di costruire una realtà ex novo. Una realtà, soprattutto all’inizio,
interiore e sognata. Poi sperimentata di persona ed infine proposta come
alternativa. Il processo è in corso tuttora e porta a dei segnali importanti
che la letteratura offre come romanzi e storie da raccontare. Storie di eroi.
Intendo parlare di due scrittori molto diversi: Erick Van Lustbader e
Vittorio Evangelisti.
Entrambi scrivono romanzi per un largo pubblico, e ciò significa che
raccolgono l’interesse da una vasta area di persone. Vasta? Vastissima
direi, e questo la dice lunga sui gusti “nascosti” di una gran massa di
gente. L’Italia è fatta da provinciali che fanno finta di esserlo perché è più
comodo vivere così. Ma dentro di molti ci sono ben nascosti sogni ben più
corposi. Questi narratori lo sanno e così ci offrono il miele che noi
cerchiamo da sempre dal ’68: un sogno reale in cui perdersi e vivere
finalmente da …eroi.
Come proporre un eroe pagano che sia reale ed attuale? Erick Van
Lustbader, statunitense, capisce che non è possibile farlo nascere nel
nostro mondo: non avrebbe i mezzi per essere libero.
Lo fa nascere in Giappone. Da un padre inglese-americano, messo lì alla
fine della seconda guerra mondiale dagli alleati a controllare la
ricostruzione del Giappone. Questo ufficiale si innamora di una ragazza
giapponese, la sposa e nasce Mark.
Il padre sa fare bene il suo lavoro di spia, ma capisce che ha una splendida
opportunità: dare a suo figlio la possibilità di scegliere il suo futuro. Così
il giovane Mark fa le solite scuole di tutti i giapponesi. Seguito da un
maestro di vita made in japan e poi inviato nei monasteri delle arti
marziali. Viene scelto il meglio per lui.
Ma in famiglia si è anche americani. Così è possibile evitare che la
coscienza si identifichi con uno schema. Mark cresce come un vero
pagano politeista anche se non sa di esserlo dato che i giapponesi non si
definiscono in questo modo. Sono ciò che sono, e basta. Lustbader scrive
parecchi romanzi sulle imprese di Mark che combatte contro i cattivi di
turno: La mafia russa, la mafia cinese, le lotte contro lo strapotere delle

205
multinazionali, le sette del male che controllano imperi economici per i
loro oscuri progetti…e lotta da pagano.
Lui non ha un dio unico a cui rivolgersi. Ogni suo sguardo alla realtà e alle
vicende che vive gli rivela coscienze che intendono esprimersi. Quando
lotta contro l’ingiustizia non lotta per un principio. Lotta per vivere.
Mark non ha sensi di colpa, ma soffre ogni volta che vede soffrire
qualcuno. Anche se costui è malvagio. Viene ferito innumerevoli volte nel
corpo e nell’anima e ogni volta accetta la sofferenza come sua e solo sua.
Non incolpa nessuno. Ma lui è un uomo con le sue debolezze, e quando
non ce la fa, saranno gli amici che lo aiuteranno. Saranno le presenze della
natura a ridargli forza e a guardare avanti.
Più di una volta egli si lascia avvolgere dalle forze vive che gli antenati
hanno costruito e riempito di coscienza. Crede in esse per esperienza
diretta, ma rimane autonomo nel suo agire: osa e guarda avanti. Come un
vero eroe.

Quanti lettori hanno vissuto con lui? Quanti hanno intuito oltre la trama
del racconto, che la forza di Mark è anche la loro? Basta anche solo un
romanzo a far partire quella scintilla interiore assopita. E Lustbader ci sa
fare…
Ma Valerio Evangelisti è nato in Italia. Come poteva inventare un eroe
pagano se qui non ce ne sono? Però poteva proporre un eroe: un eroe
dell’orrore cristiano, e svelarlo da uno sguardo…pagano. Non so se
Evangelisti sia pagano, ma poco importa. Anche qui si leggono i risultati
del ’68 che sono maturati in una visione alternativa della realtà: osare oltre
gli schemi consueti.
Eymerich è un monaco dell’inquisizione spagnola del 1200. Vive il suo
fare con coscienza, furbizia e zelo. E’ intelligente ed implacabile. La
bravura di Valerio Evangelisti è di farci sentire come lui sente sé stesso. E’
come essere lui, senza compromessi.
Eymerich ha un potere enorme e lo sa usare in un mondo senza legge in
cui vince la forza bruta e l’inganno. La crudeltà del potere cattolico
padrone di quel mondo è smisurata e impietosa. Eimerich sa di aver
ragione ed ogni sua azione è giusta e permessa come assoluta, in nome del
dio oscuro a cui lui si vota.
Quel dio diviene lo stesso Eymerich. Egli si identifica a tal punto con la
chiesa che lo ha formato da essere un giudice senza dubbi. Indaga e
conosce tutte le eresie del tempo. Vede, sente, odora lo zampino di satana
ovunque e sa combatterlo con tutti i mezzi possibili. Usa coscientemente il

206
sapere segreto delle sette per combatterle. Conosce da esperto la
psicologia degli uomini e usa le loro debolezze per ferirli ed annientarli.
Non si riposa mai e non si perde mai d’animo. Il suo dio lo sostiene e gli
dona forza attraverso le sofferenze del mondo.
Per il monaco l’esistenza è sofferenza: non permette nemmeno a sé stesso
di gioire di ciò che fa. Gli basta agire in nome del suo unico dio. Si rimette
a lui totalmente per essere uno strumento di distruzione perfetto. Eymerich
ha alcune debolezze che rivela suo malgrado a chi gli sta vicino: non ama
essere toccato da nessuno. Il contatto fisico con un’altra coscienza ( sia
essa uomo, insetto o animale ) lo turba e lo fa soffrire; anche un contatto
con la veste di un altro lo fa trasalire.
Non sopporta di ridere, ne ama vedere gli altri felici. Come il suo dio.
Questo monaco oscuro è l’opposto di un eroe pagano. E’ una coscienza
malata, frutto finale di un monoteismo che distrugge sé stesso e il mondo.
Comunque narrare di lui è sempre potere di creare relazioni. Ci vuole
coraggio a camminare nel fango in cui vive Eymerich, e poi guardare
oltre. E Valerio Evangelisti ci ha dato questa occasione.

Gian Berra.

Pollaio

Ormai è passato un mese, e i polli che ho comprato stanno davvero


costruendo una piccola comunità. Appena arrivati erano ancora spaesati e
troppo giovani per rendersi conto di dove erano. Infatti il loro acquisto era
stato fatto presso un allevamento dove stavano ammassati a centinaia
pronti per essere prima o poi macellati.Però loro, un bel gallo e tre galline
hanno avuto fortuna. Sono stati scelti a caso nel caos del capannone dove
stavano.
Caso e caos, appunto.
Il pollaio dove li ho sistemati è su un bel posto, all’ombra di un salice, con
una casetta tutta per loro. In ogni modo appena arrivati erano davvero
spaesati.
Lo spazio e la luce erano elementi per loro paurosi. Non li conoscevano.
Avevano paura della nuova libertà.

207
Quando vedevano me o Rosa erano terrorizzati. Ma sono passati 20 giorni
e cominciano a fidarsi di noi. Ora quando ci vedono da lontano ci
chiamano con pigolii insicuri.
Di mattina presto, porto loro il granturco. E mi attendono fiduciosi e mi
stanno attorno. Poi quando ho tempo mi soffermo seduto accanto al
pollaio. Immobile senza fare alcun gesto mi lascio osservare. E loro un po’
alla volta si avvicinano e mi osservano. Il primo ad avvicinarsi è il gallo
che fiuta il pericolo, poi le galline che si avvicinano di più, sino a
sfiorarmi.
C’è una gallina, più coraggiosa delle altre che mi scruta con attenzione.
Sembra voglia di più. Penso che sia quella che diverrà mia confidente.
Ho visto che quando raccoglievo erba si facevano attenti. Così ora getto
l’erba più tenera dentro il recinto. E loro mi ringraziano con un gioioso
beccare pieno d’entusiasmo. Per loro l’erba fresca è una golosità.
Ma c’è un dubbio da chiarire. Come mai un gallo solo per tre galline?
Che questo sia un pollaio ISLAMICO?
Già, penso che lo sia davvero. Anche se mancherebbe una gallina, lo è
nella pratica. Allora penso che anche in natura se più femmine scelgono di
seguire un solo maschio lo fanno per un’abitudine naturale? Forse
l’ISLAM non ha fatto che seguire questa legge così diffusa nel mondo
animale.
Davvero sono fortunato: posso osservare un pollaio islamico al naturale.
E vedere cosa succede.
Però le galline non portano il velo. Solo gli esseri animali dotati
d’intelligenza potevano inventarlo. Forse le cose non sono semplici come
pensavo.
Poi se ricordo bene solo pochi decenni fa, quando mia nonna era viva ( e
vi assicuro che non era islamica, ma cattolica osservante, anche se con …
giudizio …) lei portava un fazzolettone nero in testa, e lo portavano anche
le sue coetanee.
Se lo toglievano solo quando erano in casa. Ancora negli anni 40’ nei
paesini del veneto le ragazze da marito si coprivano il capo con fazzoletti
colorati.
Ma il mio pollaio è più avanzato di questi usi. Per ora il suo lato islamico
si limita a tre femmine contro un maschio.
Ma io non mi accontento. Sono un rompiscatole per natura e cercherò di
fare un miracolo.
Se riesco; se sarò ascoltato dai miei polli farò sì che loro formino un
pollaio pagano. Già, un pollaio pagano.

208
La cosa non è facile. Sarà il primo pollaio pagano della storia. Un compito
difficile e affascinante. Che racconterò in diretta.
Costruire il paganesimo naturale è un processo di presa di coscienza.
E non esistono regole. Soprattutto non esistono regole implicite o assolute.
Ma solo regole che di volta in volta sono concordate assieme. E neanche
questa sono definitive.
Lo capiranno i miei polli?
Non mi resta che parlarne con loro.
Ma è possibile parlare ai polli? Penso di sì. Devo mettermi al loro livello
( e non lo considerò per niente un livello inferiore), o almeno tentare di
capire come posso comunicare col loro linguaggio.
Sarà una sfida divertente. Saranno loro a dirmi cosa fare. Io non imporrò
nulla: né meditazioni forzate, né visualizzazioni profonde, né danze sufi o
tamburi.
Porterò con me solo un piccolo totem, e mi siederò accanto a loro e li
ascolterò e osserverò il loro fare. Qualunque esso sia.
E ascolterò ciò che mi diranno. E quando lo vorranno fare loro.

A presto, Gian.

209
Pastinaca, pianta pagana…

Ecco la mia pianta di pastinaca. Prima che Colombo portasse in Europa la


patata, la pastinaca era la patata del popolo.
E’ una pianta simile al sedano, ma come vedete al secondo anno è molto
alta.La sua radice è molto grossa, simile al sedano rapa. Se si vuole
mangiare si raccoglie la radice al primo anno. Se invece, nel mio caso si
vuole ottenere dei semi, si lascia che la pianta fiorisca; e ciò accade al
secondo anno.Ho fatto una gran fatica a trovare i semi. Poi se i semi
invecchiano diventano presto sterili. Dopo tanti tentativi è rimasta in vita
questa pianta che mi ha fornito una gran quantità di semi. Alcuni li ho già
piantati …e sembra che vada bene. Già alcune piantine sono nate.
La radice di pastinaca è bianca e succosa. Può essere mangiata anche
grattugiata o affettata fine cruda in insalata. Oppure cotta nei minestroni o
lessata.
Il suo è un gusto insolito ed antico. Piccante e pungente con un insolito
sentore di dolce.
Ora dispongo di abbastanza semi. Chi ne ha bisogno basta che me li
chieda.
Sto cercando senza frutto i semi del “Forono”, si tratta di una grossa rapa
rossa, dolce. Una volta lo
vendevano alla Stassen per corrispondenza. Ora è sparito.

Chi sa dirmi dove trovarlo? Cerco anche dei semi di barbabietole


commestibili dolci, se qualcuno mi da informazioni mi fa un gran piacere.

Gian Berra.

Provare a definire e descrivere il proprio sentire.

Metterlo in mostra:

Molti in questa lista esprimono i loro parei ed idee. Anche i loro progetti.

Non molti ancora esprimono l’essenza della loro ricerca personale. Cioè

210
ciò che hanno direttamente sperimentato ex novo dal risultato della loro

propria esperienza. So bene che il proprio tesoro personale è cosa


preziosa.
Così penso che sia ora che io metta in mostra le mie sciocchezze personali,

comunque così preziose.

LA GRANDE MADRE

Non si chiede perché o come, o forse,


ma vive e fa vivere senza limiti

Senza limiti...

E senza confini di alcun tipo. Questo è il mondo del sogno.

E’ il pensare ogni realtà possibile in cui ogni possibilità è naturale.

Ciò non fa parte dei programmi “naturali” che sono il nostro legittimo
bagaglio.

211
E’ una creazione della coscienza, che ci permette di reinventare la realtà
oggettiva. Un potere.

Ma questi territori sono poca cosa se fine a sé stessi, in quanto vivono


dell’energia di chi li ha creati.

Il passo successivo è condividerli con altre coscienze e usare anche la loro


energia per sostenerli. Nella relazione le modificazioni creative apportate
al progetto da coloro che li visiteranno modificheranno e completeranno la
terra percorsa.

Camminare assieme crea una gran strada solida e sicura, che valica
qualsiasi ostacolo.

Ed è di sicuro una via che porta lontano.

Non importa quante volte verrà modificata, o interrotta e poi ripresa.

Sarà comunque una avventura che riempirà il tempo


della vita

Mamma o papà?

La Natura la sa lunga.

In realtà un padre non serve a nulla. Basta una madre.

E’ ovvio e naturale.

Così era all’inizio.

Gli organismi che hanno dato origine alla vita erano ermafroditi e con
poche cellule all’inizio, poi sempre più complessi.

Ma perché mamma natura ha organizzato il suo progetto ( vivere ) e ha


posto una condizione così scomoda inventando il papà?

Mamma ha un solo scopo: fare la mamma.

212
A cosa mai le serviva un toro?

Mamma la sa lunga davvero. Infatti l’evoluzione pacifica e lenta della vita


attraverso l’autogenerazione era stato un buon esperimento, ma troppo
lento per i suoi gusti.

Ci voleva un fattore nuovo e aggiuntivo che rendesse più veloci le


possibilità di modificazioni genetiche.
Le modificazioni delle forme di vita rappresentano ulteriori possibilità di
vita e di adattamento.

Poi c’era il vantaggio che ponendo come necessarie le relazioni tra due
sessi, ciò avrebbe distratto i singoli da una più comoda relazione con
l’esistere.

Da allora in poi l’esigenza di accoppiarsi avrebbe assorbito gran parte


dell’energia vitale concessa.

Che fregatura. Da allora in poi l’anelito al piacere di accoppiarsi divenne


parte originale e profonda di ogni essere.

Il piacere era il dolcetto per cui si pagava ogni prezzo.

Ma la felicità?

No, quella non fa parte del patrimonio genetico!

Anzi! Sembra che conquistarla non sia poi così naturale.

Alla cara mamma natura non importa un bel niente se noi siamo o no
felici. Casomai ci da appagamento.

A lei che è una mamma che la pensa a suo modo, noi diamo slancio,
vitalità, scopo, gioco, esperimento.

Ma non di più.

Prima o poi, quando non ce la faremo più...altre razze ci sostituiranno nel


gioco di mamma.

213
E noi verremo dimenticati.

Eppure esiste una possibilità speciale. Mamma ha fatto un errore e penso


che non ne sia nemmeno cosciente.

L’aumento esponenziale delle relazioni tra gli individui ha sviluppato in


modo abnorme la possibilità di elaborare dati mentali specialmente
riguardo a quella scimmia evoluta che è l’uomo.

Vi pare poco? Un’unica razza, per quanto ne sappiamo, ha cominciato a


sentire dentro di sé l’autocoscienza.

Cioè a guardare a sé stessa dall’esterno di sé.

Forse una copia in piccolo di mamma?

Forse mamma ci lascia fare perché gioca con noi, e non ci considera
ancora pericolosi …

O forse perché ci ha fatti così bene ( per i suoi gusti ) che per fortuna gi
umani dotati di vera autocoscienza saranno sempre così pochi da non
rappresentare un vero pericolo. Anzi per l’antica madre sono forse un
pizzico di sale per la sua minestra.

Ma alla fine saranno sempre i suoi programmi a vincere.

Forse i saggi di tutti i tempi lo avevano capito: non restava che nuotare in
quel gran minestrone naturale...e se possibile crearsi attimi per
contemplare sé stessi o quelli che la pensavano come loro.

E consolarsi.

E ogni tanto tentare di farsi sentire.

I più sciocchi, gli eroi, erano il condimento.

Ma la legge naturale non esclude nessuno: non basta capire per essere
liberi. Né serve rifiutare ciò che è piacere per essere felici.

214
Con la coscienza sono nati i furbi. Quelli che sanno usare ciò che c’è a
disposizione e vivere bene.

Ma nulla è scontato o finito. Ci saranno in seguito anche i parassiti, dato


che mamma natura non esclude nessuna possibilità.

Anzi le permette tutte.

La mamma non è democratica, né compassionevole o solidale.

Non ha sentimenti umani.


Quelli riguardano gli uomini.

Per questo noi possiamo fregarla.

Fregarla per bene e usarla per i nostri scopi. Almeno quelli che non la
danneggiano.

Diventando consapevoli delle relazioni che possiamo creare verso di Lei e


verso tutte le altre coscienze, umane o non.

Una relazione consapevole è quella che tiene conto alla pari di sé, del
sentire di colui con cui viene in contatto.

E’ il rispetto dell’individualità dell’altro.

Alla pari, o quasi.

Così possiamo entrare i contatto con mamma anche criticandola, pur


ringraziandola di tante possibilità donateci. E saremo liberi di disubbidirla
tutte le volte che lo vogliamo.

Che la Grande Madre abbia previsto anche questo?

Chi lo può sapere? Ogni ipotesi è possibile...

E il papà?

215
Il papà si è accorto ben presto di essere stato fregato alla grande e non
poteva farci niente.

Succube dei suoi furori e calori e poco da proteggere, ben presto ha capito
che poteva usare il suo ruolo per faticare il meno possibile.

Se il suo ruolo era così vitale capì ben presto che le regole poteva farle lui.

I papà della razza umana portavano dentro i programmi dei lupi e decisero
di usarli. La coscienza li istruì a creare i ruoli e a diventare furbi. Non tutti
però.

I maschi parassiti erano i più adatti a rubare la vita agli altri. Non serviva
essere forti: bastava ingannare chi non pensava abbastanza.
L’invenzione più redditizia fi il fatto di distruggere l’immagine della
mamma e affermare che c’era all’inizio un grande padre che aveva creato
tutto. E che solo alcuni di loro potevano parlare con lui: l’assoluto.

E dato che costoro dovevano mantenere lo spirito del lupo, inventarono


l’onore e le guerre.

Solo loro sapevano consolare chi soffriva. In attesa di altre stragi.

Greggi da governare…

Mentre la mamma se ne fregava, e se ne frega ancora.

La via della coscienza è un fatto di evoluzione.

E questa è l’unica legge della mamma.

Ma anche lei vive di noi. Siamo il suo gioco.

E forse l’evoluzione è l’unica regola in cui possiamo sfidarla.

La mamma è furba. Non ci regala nulla.

216
E il suo tempo è dilatato oltre la nostra razza

E’ ora di cominciare a parlare con lei,

Riscoprirla e guardarla negli occhi,


E magari mostrarle la lingua,
E riderle in faccia.
Ma anche ringraziarla dopo tutto…
di avere tentato.

Gian Berra.

Vescovi e pecorelle.

Si dice che il cristianesimo primitivo sia nato dal riconoscimento da parte


dei derelitti, dei poveri, degli emarginati dell’impero, della loro misera
condizione. La comunità di essi diventava il modo di mitigare le
condizioni che essi sentivano loro imposte. Per comunità intendo un
gruppo di persone che si riconoscevano simili e che per questo si
alleavano nel loro agire per diventare un gruppo consapevole capace di
gestire in modo più organizzato i loro bisogni.
Qui in Veneto, negli ultimi anni dell’800 si verificò una cosa simile;
nacquero le cooperative operaie, che come organizzazioni dei più deboli,
creavano scuole, assistenza, meccanismi di difesa contro lo strapotere dei
padroni delle filande che allora nascevano in ogni paese.

Questo si può definire come il primo passo per creare nei singoli la
consapevolezza di esistere come coscienze consapevoli almeno in potenza.
Poi a diventarlo davvero.
Ma questo crea anche occasioni di potere.

217
Prima o poi sbucherà dal mazzo qualcuno più sveglio che al momento di
scrivere le regole proporrà le proprie come necessarie e giuste. Saprà
proporle come indiscutibili e bollerà gli scettici come ignoranti, distruttivi
e stolti.
Si è creata la figura del pastore, del vescovo, del funzionario di partito, del
guru o del maestro.

Verso le pecorelle più intelligenti e riottose costoro diranno che agiscono


comunque nel loro interesse, in quanto devono difendere il gruppo dal
male, dalle energie cattive, dal potere del denaro e dalla violenza.
Essi nel ruolo di protettori diventano intoccabili e giusti. In quanto è
implicito che ciò che essi fanno è un dono di sé al bene di tutti. Essi si
sacrificano per l’interesse comune. Come impedirglielo?
Il ruolo del pastore è quello del controllore e del protettore in quanto solo
lui sa dove è il pericolo e intende gestirlo per salvare le pecore. E’ il ruolo
di chi governa i popoli, i gruppi, le comunità, le sette, i movimenti.

Il pastore si identifica così bene col suo ruolo che ne diventa schiavo e ben
presto non ne potrà più fare a meno. La visione del presente e del futuro
gli è chiara, e lui sarà colui che vede le cose che saranno e saprà come
proteggere il gregge che si è affidato a lui.
Non si accorge del furto di energia che esso fa alle coscienze che gli sono
affidate. Ben presto questo cibo gli diventerà indispensabile.
Poi verrà il momento che il pastore non saprà che mangiare pecore.
Perderà il potere di creare la propria energia in modo autonomo. Anzi,
ogni coscienza che saprà essere autonoma sarà per il pastore un pericolo
in quanto rappresenterà per lui la propria debolezza.
Il pastore non si relaziona con le coscienze: cioè non crea con esse
relazioni in cui ci si scambia alla pari. Non può farlo in quanto dovrebbe
mettere in discussione sé stesso.

Esistono anche i pastori dal potere autonomo. Essi si creano una corazza o
gabbia emotiva per difendersi e nel loro bozzolo crescere. Mostrano
all’esterno la loro sicurezza e affascinano chi ancora non la possiede, ma
vorrebbe imitarli.
Questi pastori non sorridono mai ( o fanno finta di ridere), essi presentano
un fare di sicurezza e di potere personale che affascina. Sono sicuri e
irradiano conoscenza ed equilibrio.
Sono come caramelle che invitano ad essere assaggiate.

218
In realtà si tratta di persone fragili.
Chi si chiude in una gabbia si rinchiude assieme alla propria paura, e non
può più ne affrontarla ne superarla. Egli blocca la propria evoluzione
personale in uno schema comodo che ritiene di poter gestire. Egli avrà
paura di ogni schema a lui sconosciuto e creerà difese a non finire. Sarà un
fare che imporrà anche alle sue poche pecore.
Ci sarà chi ogni mattina ripulirà i propri ciakra, chi rifiuterà aglio e
cipolla, chi spargerà sale purificatore attorno alla casa, chi cercherà di non
insudiciare il proprio karma, chi non fumerà, chi non assaggerà mai la
grappa…chi si sentirà in colpa se ha schiacciato una formica.
Ma saranno pochi, forse nessuno, i pastori che sentiranno dentro di sé
l’orrore e il senso di colpa per aver violentato delle coscienze.
Ciò è per loro legittimo.
Gian.

La quercia

Vivere da politeista non è facile. Specialmente per me che non ho ricevuto


da bambino alcuna pratica del genere. Ne genitori o società od abitudini
mi hanno formato come politeista. Perciò ogni passo verso questo sentire è
una conquista che disperde grandi parti di tempo ed energia vitale. Se
esiste una direzione in cui gli Dei operano in me, non esiste una strada
precisa. E così tutto è da inventare. Ora prendo una strada, ora un’altra.
Raccolgo un concetto qui e una certezza là. Poi quando scopro un pezzo di
verità saltano fuori la ribellione e la sofferenza subita che si mostra chiara
e potente, nuda dopo aver varcato una porta dietro cui era il buio.

Non sempre la luce riscoperta è piena di “luce”. In essa erano nascoste


parecchie debolezze che poi si mostrano come limiti con cui fare i conti.

Comunque quando imparo a fidarmi degli spazi sconosciuti, imparo anche


ad ascoltare ciò che prima ignoravo e non vedevo.

Si tratta di un nuovo potere. Una fiducia di mettermi all’ascolto: cosa


necessaria alla creazione di nuove relazioni.

E’ un territorio inesplorato, infinito.

219
Così quando guardavo la grande quercia, pur ammirandola, rimaneva
comunque una quercia…

Comunque l’impressione era che mi respingesse. Non voleva che io fossi


li. Ciò durò parecchi anni.

Poi quando un giorno la guardai da lontano. E lasciai che essa fosse sé


stessa così com’era. Semplicemente la osservai come appariva:

Sola, isolata ed imponente.

Sfacciata nella sua esuberanza. Indifferente all’ambiente e a me.

Era e basta. 180 anni di vita espressi nel suo essere. Racchiudeva una vita
conquistata con fatica. Piccola pianticella che qualcuno aveva deciso di
rispettare e lasciare lì dove era nata. Proprio in mezzo ad un campo. Poi
pianta che ha dovuto superare le bombe della grande guerra che proprio lì
si era sfogata. E gli inverni gelidi e la grande sete delle estati di una volta
quando non si irrigavano i campi come ora. E il fulmine che 10 anni fa le
portò via parecchi grandi rami…

Sentivo la sua rabbia repressa, ma orgogliosa di esserci malgrado tutto.


Non sopportava l’interesse di quelle formiche dispettose ed irrequiete che
erano gli uomini. Mai si sarebbe degnata di prenderci sul serio: ne aveva
viste troppe.

Allora decisi che semplicemente la avrei solo guardata da lontano. Mai più
tentai di imporle la mia presenza. Solo una occhiata di tanto in tanto…

Una sbirciata e via. Sarebbe stata lei a parlarmi, e quando lei lo avesse
voluto. Difficile creare una relazione se la si pretende.

Gian Berra

Ciao, sono la gatta Teddy ( Candelora 2002)

Sono stata adottata da piccola dalla famiglia di Gian e Rosa.


Ho nove anni e ho avuto 23 figli di cui almeno due ancora vivi.

220
Sono furiosa. So bene che la scimmia umana Nabendo non si arrabbia mai,
lui inghiotte e manda giù la rabbia perché così gli hanno insegnato
quando frequentava i corsi di Osho. Lui pensa così di mantenere puliti i
suoi ciakra e non sporcarsi il karma. Sono fatti suoi comunque. Chissà poi
dove se ne andrà tutta quella rabbia bloccata.
Io rispetto le scimmie umane; sono una gatta cosciente che anche loro
sono Dei come me, anzi alcuni umani li considero anche gatti; do loro
questo onore.
Ma io sono stata offesa a morte. Considero le scimmie umane Annamaria,
Nabendu e anche il povero Alberto babbuini puri e semplici.
Questi tre mi hanno impedito di partecipare al rito di Imbolc. Quando mi
sono presentata spontaneamente nel cerchio sono stata scacciata da
Annamaria che diceva che un’altra scimmia d’America, che chiamava
Zoe, non lo avrebbe permesso. Io avrei disturbato con le mie energie il rito
di Annamaria.
Fui portata via da Rosa e vidi Gian sofferente. Ma cosa ci poteva fare?
Comunque non mi hanno fregato perché io dietro una porta socchiusa ho
visto tutto.
Ero sempre presente anche durante il resto: ero sotto la tavola della cucina
e vi voglio raccontare tutto ciò che ho sentito. Sono furiosa.
Quando alcuni di voi, quelli che Gian incontra dentro quella televisione
collegata al telefono, erano andati a fare la spesa, la scimmia Annamaria
imponeva le sue regole per fare il rito. Diceva che non si fidava delle
vostre energie e le avrebbe pulite con una speciale meditazione dinamica
di Osho. Era una cosa obbligatoria altrimenti niente rito per quelli che non
la facevano.
Vidi papà Gian trasalire ma La scimmia Annamaria si infuriò e saltellando
per la cucina disse che non aveva fatto 300 km per farsi fregare. Le
scimmie Nabendu e Alberto gli dettero corda e imposero a mio padre di
prendere una decisione. Vidi il suo sgomento, capii che non voleva
rovinare l’incontro. Così decise di accettare sperando che la cosa non
facesse soffrire gli altri che erano fuori. Io come gatta avrei fatto tornare
qui 3 babbuini a rifare 300 km. Ma Gian è troppo buono.

La meditazione comunque fu un disastro. Metà fece finta di farla, l’altra


metà tornò in cucina un poco alla volta con lo stomaco sottosopra. L’unica
ad agitare il culo senza interruzione fu la scimmia Annamaria ( che fosse
proprio lei a doversi purificare?).

221
Ma non basta perché non solo io sono stata fregata. Paolo e Marina i miei
due fratellini adottivi, due giovani che considero gatti a tutti gli effetti.
Due che lavorano in fabbrica da quando avevano 16 anni, 8 ore al giorno:
due giovani pagani naturali come me, che hanno fatto con me Imbolc
dell’anno scorso hanno preferito lasciare la cosa quando la scimmia
Annamaria agitando il suo hara come una gallina li aveva obbligati a fare
come lei.
Vidi papà Gian ferito, ma con la pazienza che ha, preferì tenersi tutto
dentro per non rovinare il rito di Imbolc che avremmo fatto più tardi. Così
salvò tutto.

Ma io quel rito non lo ho potuto fare, e questa non ve la perdono.


So che le cose poi sono andate bene. Grazie alla sensibilità degli amici di
lista di Gian e Rosa.
No, io al Piave non c’ero. Ma so che la cosa è riuscita grazie alla
sensibilità di quello alto, elegante e con la barbetta. Uno che ci sa fare.
Però anche qui i tre babbuini hanno tentato di rovinare tutto cercando di
trasformare la mattinata in una seduta di condivisione ( così i babbuini
chiamano una tavolata in cui invece di fare festa ciascuno incolpa l’altro di
tutte le possibili nefandezze, cercando,( loro tre alleati), di mettere tutti gli
altri contro sé stessi; insomma un modo di dividere il gruppo a loro
favore).
Stavolta papà Gian non c’è cascato.
Malgrado la scimmia Annamaria dicesse davanti a tutti che mai avrebbe
permesso a tipi come Gian, Tuccio e un certo Simenon di disturbare i suoi
riti.
Malgrado il babbuino Nabendo incolpasse davanti a tutti Gian di essere
stato duro e rigido il pomeriggio prima verso la scimmia Annamaria e che
doveva dare spiegazioni.
Malgrado che la scimmia Alberto si grattasse la barbetta di continuo e
avesse sempre lo sguardo al pavimento …
Malgrado tutto ciò io gatta Teddy mi strusciai sui piedi di mio papà, sotto
il tavolo, e feci il miracolo: donai a Gian la forza di fregarli. Gian non li
avrebbe per niente cagati.
Avrebbe scritto a loro una lettera a 30 gg. in cui avrebbe chiarito solo con
loro le loro schifezze.

Così malgrado i loro piani, malgrado il loro veleno i tre babbuini non
avevano potuto rovinare l’incontro.

222
Come gatta conosco gli umani meglio di loro. So che anche le scimmie
sono Dei. Ma fanno una fatica bestiale a riconoscerlo. Alcuni fanno come i
babbuini Nabendu, Annamaria e Alberto (poverino) cioè inghiottono la
rabbia per non aver digerito la paura che hanno subito. Allora le inventano
tutte per torturare gli altri umani che la paura se la digeriscono da soli.

Pretendo delle scuse da questi derelitti! Sono una gatta offesa e furiosa e
non intendo nasconderlo!
Pena una macchia indelebile nel loro karma e un blocco dei loro ciakra.
Oltre a una loro gran figura di merda.
So che gli amici che papà Gian incontra nel televisore collegato al telefono
hanno già capito con chi hanno a che fare. E staranno ben attenti a quelle
scimmie degenerate. Almeno lo spero.
Queste notti quando Gian dorme mi avvicino a lui e entro nei suoi sogni e
gli do consigli preziosi di gatta che la sa lunga.
Ne ha cose da dire su qui tre!
Ma c’è il tempo per ogni cosa. E il tempo lo determina lui. ( almeno così
io gli lascio credere…)

Teddy, gatta furiosa.

Vergogna!

223
Una vita disordinata … da hippie

1973, 1974

A Valdobbiadene TV, apre in via delle Vittorie il suo primo studio. Inizia
a far conoscere i suoi primi quadri e si occupa di fotografia dopo aver
ricevuto una formazione come allievo dal famoso fotografo di Feltre
Mario Dal Prà.

1975, 1976 Espone in varie mostre locali a Valdobbiadene, Montebelluna


in località Contea, e frequenta diversi amici pittori della zona tra cui
Guido Serena, Zaniol di Crocetta e il pittore "Felix" della zona. Conosce e
diventa amico di Bruno Fael di cui frequenta lo studio di Treviso.

Eventi Dal 1977 al 1980 :

Ho organizzato due mostre a Treviso a Ca' de Ricchi e per 4 anni in mostra


permanente alla galleria Val in piazza del grano. Due personali alla
galleria Brotto a Cornuda (TV). Due personali alla galleria Il Pozzo di
Castelfranco Veneto, Personale a Villach (Austria), Collettiva a San Diego
( California, USA), personale alla galleria Ponte della Madonna a
Conegliano TV, personale alla galleria Rasarda a Montecatini Terme,
inizio della collaborazione con la galleria Martinazzo di Montebelluna.
Nel 1978 espongo per la prima volta a Treviso presso la Galleria "Lo
Scrigno di Val". E' l'occasione per conoscere il "mercato" della mia
provincia. Mi viene offerta l'occasione di esporre alla sala storica di Ca' de
Ricchi per due anni nel 1978 e nel 1979. Mi viene presentato un pittore di

224
gran valore allora in voga in città: BRUNO FAEL. Lo incontro nel suo
splendido studio presso piazza Vittoria; mi fu prodigo di consigli da cui
trarrò frutto e di cui lo ringrazio di cuore.

Nel 1980 mi decido ad aprire il mio nuovo studio a Trento in piazza S


Maria Maggiore. L'avventura durerà un anno in cui ospito nel mio studio
un amico pittore d'eccezione: BRUNO DONADEL di Pieve di Soligo
(TV). Personale a Pejo (TN).

Dal 1981 al 1991:

Ritorno nello studio di Covolo di Piave (TV) e organizzo la serie di eventi


che seguono: Personale a Torino (Centro d'arte Internazionale), Personale
a Padova (galleria Semeghini), MOSTRA ALLA "GIPSOTECA DEL
CANOVA" a Possagno assieme a Danilo Soligo ( 1984), in permanenza
per due stagioni alla galleria Bafile a Jesolo VE, Per due stagioni in
permanenza alla galleria Sartori a Lignano Sabbiadoro- nel 1986 inizia la
serie delle mostre in Lazio: una personale a Lanuvio e un'altra a Genzano
sui colli romani. Una a Roma alla Saletta dell'Arte. Dal 1987 al 1991 la
serie di mostre estive a seguito delle "Feste dell'Unità". Tutte quelle estati
in giro per il Veneto: circa 35 mostre a contatto diretto con la gente. Nel
1989 inizia l'avventura in Germania. Personali a Dusseldorf,
Braunschweig, Monaco e Wurzburg. Gian B-erra ricorda gli artisti che già
da questo incontra: Luciano Buso, Danilo Soligo, Roberto Poloni, Ottorino
Stefani di cui parla alla pagina biografia di questo sito.

Dal 1992 al 2005:

Nel 1989 incontra Franco Carraro, fondatore di Radio gamma 5, una radio
libera e alternativa che opera in Veneto e ascoltata anche fuori della
regione. E' l'occasione per collaborare con la radio per diffondere il
messaggio creativo. Gian Berra vi tiene una trasmissione il pomeriggio
della domenica per un certo tempo: il titolo è " Tra oriente ed occidente",
temi di confronto tra due culture che si incontrano.

Nel 1993 inizia l'avventura del CORSO PRATICO DI PITTURA che creo
come modo di interagire con la gente che mi vive vicino. Lo scopo e
quello di far fare esperienza di creatività pratica a chiunque voglia

225
provare. Quasi mille persone frequenteranno il corso. Rallento con le
personali ma faccio dei viaggi presso collezionisti europei a Parigi, Praga,
Metz (Francia), Liegi (Belgio). Creo l'Associazione Culturale " La criola"
per aiutare ad emergere gli artisti timidi della mia terra. Fondo un
"Concorso di Poesia New Age" che indice una grande festa della poesia
ogni solstizio d'estate. Poeti che si premiano l'un l'altro senza critici
esperti. Organizzo per undici anni presso il municipio di Cornuda (TV)
una " Collettiva di Pasqua" per far incontrare gli artisti locali e non. Nel
2005 dedico questa esposizione che sarà l'ultima agli artisti più vicini al
professionismo, ma troppo timidi per organizzarsi. Quasi tutti di
Valdobbiadene (TV). Spiccano gli artisti con più esperienza e più anni di
pratica: SERGIO BORTOLIN, MIRELLA SOTGIU, BEPI MIONETTO e
GIOVANNI CARAMEL un grafico meraviglioso, schivo e riservato che
nel suo paese di Valdobbiadene era praticamente ignorato. Lo andai a
trovare e lo trovai già molto malato. Fu un onore per me proporgli una
mostra. Dal 1995 al 1999 frequenta un corso completo di formazione in
Psicosintesi e ne consegue un diploma presso il Centro di Psicosintesi di
Padova, già diretto già allora in modo magistrale dalla dottoressa Cinzia
Ghidini. E' l'occasione per indagare i meccanismi mentali che formano ed
esprimono la potenza nascosta della creatività. La maggiore
consapevolezza delle potenzialità nascoste in ogni essere umano sono alla
portata di ognuno: basta superare le paure indotte da una educazione che
limita il coraggio così naturale nei bambini, di osare oltre ciò che è ovvio.
Aggiunge Gian Berra:
“Nel frattempo scrivo poesie e comincio con i primi racconti (vedi nelle
atre pagine del sito). Da alcuni anni mi diverto con la pittura
INFORMALE BAROCCO che si affianca in perfetta armonia con la vena
figurativa che mi contraddistingue. Sono solo due linguaggi che chiedono
solo di esserci e dire la loro. Nel 2003 cambio casa, ora abito e lavoro in
via Barche 38 sempre a Covolo di Piave TV. Nel frattempo ho trovato il
tempo di fare diverse conferenze sul tema della "Paura, chi è costei?"
L'ultima l'ho tenuta a novembre 2006 in una personale delle mie opere
davvero ben riuscita presso l'Officina dell'Arte a Conegliano TV. L'amico
Giancarlo Nadai mi organizza anche una permanente presso la "Trattoria
Baia del Re" a Refrontolo (TV); anche quello è un modo di porre le opere
d'arte a contatto diretto con la gente. Mi muovo di meno ed è ora che siano
i quadri a viaggiare. Nel dicembre 2006 termino il mio primo romanzo:
WASERE, cuore di drago, circa 200 pagine, che faccio girare tra gli amici
più intimi in attesa di una sua pubblicazione. Il romanzo è ambientato nel

226
1906 nel paese di Segusino (dove sono nato) e racconta di un fatto
misterioso realmente accaduto in quei monti: magia e realtà si scontrano
quando l'anima del luogo si risveglia. Ma ne sto già scrivendo un altro di
un genere completamente diverso.
nel 2001, Personale a Villa Benzi di Caerano San Marco nel settembre di
quell'anno. Espone per la prima volta in esclusiva i "grandi 5 totem"
ispirati alle tradizioni native del popolo veneto … “

Inizia alcune collaborazioni con una galleria d'arte di Tampa in Florida e


San Diego (USA). Espone anche a Karlsrhue in Germania.

Nel 2005 la grande mostra collettiva al centro d'arte di Conegliano.

Inizia una lavorazione in studio con poche altre personali organizzate in


modo autonomo. Nel 2008 torna con una persona al paese natale di
Segusino e un'altra a Conegliano.

Nel 2006 pubblica il suo primo libro romanzo” Cuore di Drago alle
Wasere di Segusino”. dedicato ai contenuti segreti e inespressi del popolo
veneto che Gian Berra presenta "schiavo di Venezia per 1000 anni". Il
romanzo si svolge nel 1906 in un Veneto come l'assopito, ostaggio degli
interessi d'Italia e del regno asburgico di Vienna.

Inizia a scrivere poesie, giochi ai dialoghi e alla sua nonna Maria Stramare
a Berra, di Segusino.

Usa il dialetto veneto come fattore di orgoglio per esprimere i contenuti


più segreti dell'anima veneta.
Pubblica dal 2011 al 2015 i primi ebook in internet dedicati alle poesie e
racconti in dialetto veneto con traduzione in italiano. Ebook "Veneto,
rabbia e amore".
Tutti i libri di Gian Berra si possono leggere gratis su internet. Si può
trovare sulla piattaforma Scribd o Academia digitando Gian Berra su
Google.
Nel 2016 si trasferisce a Montebelluna nella frazione di Contea, che già
aveva ospitato una sua personale nel lontano 1976.
Abita in via delle piscine 37, Contea di Montebelluna, 31044 Treviso -
email gianberra@hotmail.com

227
Nel mese di maggio del 2017 mostra di pittura personale in occasione dei
suoi 70 anni a Montebelluna presso la sala ex tribunale, con la
presentazione del libro di poesie " Veneto, amore e odio".
Nel 2019 pubblica con Youcanprint.it il romanzo “Cuore di drago alle
Wasere di Segusino” e nel 2020 la raccolta di poesie in dialetto veneto “
Veneto, il veleno nel cuore e nell’anima”.

https://sites.google.com/site/gianberrasite/

https://www.facebook.com/gian.berra

https://independent.academia.edu/GianBerra

https://it.scribd.com/user/28087467/gian-berra

228
Opere di Gian Berra pubblicate da Youcanpeint.it

Cuore di Drago alle Wasere di Segusino. Gian


Berra. Romanzo
https://www.youcanprint.it/fiction-fantasy-storico/cuore-di-drago-alla-
wasere-di-segusino-9788831645461.html

Veneto, il veleno nel sangue e nell’anima. Gian


Berra. Poesie in dialetto veneto con traduzione in italiano.
https://www.youcanprint.it/poesia-europea-italiana/veneto-il-veleno-nel-
sangue-e-nellanima-poesie-in-dialetto-veneto-con-traduzione-in-italiano-
9788831683593.html

229
Feltre, amore acerbo. Poesie in dialetto veneto
con traduzione in italiano. Gian Berra. https://www.youcanprint.it/non-
fiction-per-ragazzi-poesia-generale/feltre-amore-acerbo-poesie-in-dialetto-
veneto-con-traduzione-in-italiano-gian-berra-2020-9788831696845.html

MonteBelluna. La Dea dormiente. Poesie in


dialetto veneto con traduzione in italiano. Gian Berra. Di prossima
pubblicazione su Youcanprint.it

230
Noccioline venete. Raccolta di poesie. Racconti
e Psicologia sciamanica. Gian Berra.

231
Youcanprint

232
Finito di stampare nel mese di marzo 2021

233

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