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Gian Berra

Nonna Maria Stramare in Berra


da Segusino

L'avventura umana di mia nonna Maria


in ricordo di una mamma veneta

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Gian Berra

Nonna Maria Stramare in Berra


da Segusino

L'avventura umana di mia nonna Maria


in ricordo di una mamma veneta

Mamma veneta, come tante, persa nell'oblio


senza riconoscenza.
Esempio di orgoglio,
lei rappresenta una rivincita all'ignoranza, alla paura
e all'impotenza di chi ha rifiutato le proprie radici

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Nuova versione 2015

Montebelluna, gennaio 2015


Dopo una prima edizione, ecco che presento una versione più completa di
questi miei ricordi. Grazie all'aiuto dei miei amici di Segusino, e grazie a
Facebook vi ho inserito nuove foto e qualcosa in più dei miei ricordi.

Questi ricordi vogliono anche ricordare i miei parenti emigrati in Canadà


appena dopo la fine della seconda guerra mondiale. I due figli più giovani
di mia nonna Maria Stramare in Berra, Mario Berra e Abele Berra
emigrarono negli anni '50.
Tornarono entrambi in Italia per una breve visita nella fine degli anni '60,
ma poi li persi di vista.
Abele Berra si sposò in Canadà ed ebbe due figli, un bambino e una
bambina. Ricordo il suo primo figlio bambino, Renzo Berra, nipote di
nonna Maria Stramare.
Non ricordo la sorella, che forse nacque dopo.
Loro vivono in Canada.

Montebelluna, January 2015


After a first edition, here I present a more complete version of these my memories.
Thanks to the help of my friends Segusino, and thanks to Facebook I put in new
pictures and a little more of my memories.

These memories also want to remind my relatives emigrated to Canada soon after the end of
World War II.
The two younger sons of my grandmother Maria Stramare in Berra, Mario Berra Berra and
Abel emigrated in the 50s.
Both returned to Italy for a short visit in the late '60s, but then lost sight of them.
Abel Berra married in Canada and had two children, a boy and a girl.
I remember her first baby son, Renzo Berra, grandson of Grandma Mary Stramare.
I do not remember the sister, who was born after perhaps.
They live in Canada.

Gian Berra 2014

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Licenze Creative Commons by Gian Berra. 2013

Dedicato alla mia gente di Segusino.

Ariù, anima de acqua.

Acque gelade e mai ferme.


Mai strache e pi vece dei omeni.
Le vien dò da Stramare, do svelte par le crode sconte.
Le tira i oci a vardarle, come a domandarte
al parchè de sta pressa dei omeni.
Ma ste acque non no le se disturba a risponderte.
No le te varda gnanca.
Queste xe acque che ga da far, no le pensa massa.
No come ti che tu sta a vardarle. Par che le diga:
Dai ven zo a bere, dai svelto no pensar massa.
E mi salte le crode e mete i piè entro la posa.
L'acqua le bona e fresca come un regalo,
e dopo me par de star meio.
Tuti i pensieri de prima i xe scampadi,
senza aver da pregar nissuni.
La testa l'è libera e contenta de viver.
Par che l'acqua la ride.
Ma suito la scampa via.

Gian Berra 2013

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Trevignano, marzo 2014

Presento questo piccolo scritto dopo tanti tentativi di descrivere la parte


più bella mia infanzia. Scrivevo e poi cancellavo non trovando una trama.
Ma poi ho capito che dovevo solo ascoltare le immagini che mi salivano
dall'anima. Lasciare che fossero loro a parlare e descrivere le emozioni.
Sono loro le vicende che mi hanno formato e che mi danno anche oggi la
forza di vivere e vedere i tesori veri che hanno accompagnato la mia
gente.
Noi tutti della pedemontana, e di Segusino portiamo, inconsapevoli, una
eredità di umanità che è il dono dei nostri vecchi.
E' l'eredità di secoli di isolamento e sopportazione che sempre ci ha
salvato dai soprusi e dalla paura di chi ci ha sempre usato come servi di
qualcuno.
La parte più preziosa la hanno fatta le nostre mamme. Le donne venete
hanno custodito e curato la vita come il dono più prezioso. Non volevano
che questo. E speravano in un futuro migliore.
Non sapevo di ricordare così tanto di nonna Maria Stramare e della mia
infanzia. Dove mai stavano nascoste tutte queste vicende? Mi accorgo che
dentro di me ci sono ancora tesori da scoprire. Ecco che inizia un'altra
avventura e sento dei brividi a sondare i territori della mia infanzia a
Segusino. Non sempre scopro vicende piacevoli, ma una forza nascosta mi
dice di non far caso alla paura e lasciare che le emozioni dipingano libere
questo affresco di ieri. Ciò non servirà solo a me stesso. Sarà anche la
coscienza di un piccolo popolo a trarne vantaggio; sarà questa sensazione
a darmi coraggio e a scaldarmi il cuore.

Gian Berra

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Milies di Segusino, la casa di nonna Maria Stramare dove ho
passato i momenti migliori della mia infanzia. In primo piano la
"laguna" dove si raccoglieva l'acqua per la comunità e gli animali.

Indice:

– Pagina 5 - Parte è dedicata ai ricordi e immagini colti da quello che è


rimasto in me della vita da bambino a Segusino, accanto a nonna
Maria.

– Pagina 26 - Note biografiche di nonna Maria

– Pagina 28 - Segusino come lo vedevo io tra gli anni '50 e '60 da


bambino.

– Pagina 32 - Date e avvenimenti relativi alla famiglia di nonna Maria.

– Pagina 33 - Le poesie scritte in dialetto di Segusino nell'estate 2013


nei boschi sopra Feltre, dedicate a nonna Maria.

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Riva grassa di Segusino anni '50

Capitolo primo

Un pomeriggio di novembre, tanti anni fa...

Era il tempo della scuola, e talvolta mi veniva la voglia di andar fuori a


trovare nonna Maria su a Riva grassa. Un pomeriggio di novembre, con
una nebbia umida che copriva Segusino, facevo la camminata passando
per Riva secca, attraversavo la valle e il ponte che conduceva su per il
borgo. Appena fuori le case un gran mucchio di letame aspettava di esser
sparso sui prati delle colline. Poi ecco le vie strette delle case, deserte a
quell'ora. Sentivo gli occhi che mi osservavano dalle finestre. Nascosti
dietro i vetri appannati, vecchie signore, o stanchi uomini lasciavano
passare le ore in attesa della sera.
Silenzio e atmosfera sospesa e io cercavo segni di vita.
Poi su un cima alle case il cortile della casa della nonna. Giù in fondo una

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porta scura appena dietro un angolo. Muri di sasso nudo e un po' di ghiaia
consumata. Le case accanto silenziose, ma cariche di curiosità.
Aprivo la porta, sempre aperta, spingendo un “batecol” di ferro ed ero
dentro nella gran sala d'entrata. Mattoni rossi come pavimento, in fondo un
grande focolare sempre spento.
Poi un fondo la porta di una piccola stanza che veniva usata dalla nonna
come cucina. Questa porta era chiusa perché la nonna scaldava con una
stufa a legna solo quel posto.
Entravo nella piccola cucina e sentivo finalmente il caldo della stufa. La
nonna era la seduta accanto al tavolo e alla finestra che dava sulla valle
dei Mulini.
Mi guardava appena, ma i suoi occhi erano felici.
Nonna Maria parlava poco; parlavano i suoi occhi e i suoi gesti.
Mi domandava dei miei genitori, della mia scuola e se stavo bene.
Nonna era sempre vestita di nero, con un gran grembiule grigio, tutto
rattoppato. Una gonna lunga nera e larga le arrivava fino ai piedi dove un
paio di vecchie ciabatte le calzavano i piedi. Portava sulle spalle uno
scialle di lana scura e sotto di questo sempre la stessa camicia nera appena
aperta sul collo.
Il suo viso era scavato dagli anni, e i suoi occhi chiari erano per me di una
dolcezza che ispirava subito fiducia.
Nonna Maria mi prendeva sul serio, mi ascoltava con attenzione. Mi
trasmetteva calma e sicurezza e non mi interrompeva mai. Poi scaldava un
po' di caffè e mi serviva una tazza di caffellatte dolce. Mentre lei parlava,
guardavo sempre ammirato i suoi capelli ancora tutti quasi neri. Lei se li
faceva a treccia, e poi si arrotolava questa grande treccia sul capo. Capelli
fini e lunghissimi.
Poi guardavo la vecchia radio di legno appoggiata sulla credenza. La
nonna la accendeva solo poche volte: Qualche volta verso sera per
ascoltare il rosario, e la domenica mattina per seguire la messa trasmessa
in diretta.
Appena fuori, nell'entrata c'erano le scale che portavano di sopra. Due
camere spoglie di cui una per lei sola. Un gran letto scuro a cui avevano
aggiunto da qualche anno un vero materasso. Prima lei dormiva ancora su
un materasso di foglie di granturco.
Ma lo spettacolo per me erano le sue lenzuola rattoppate con amore
Per la nonna le cose comperate con la fatica dei pochi soldi avuti in vita,
erano tesori da curare per l'eternità.
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Strati di toppe, fino a quattro o più, avevano fatto di quelle lenzuola dei
pezzi d'arte. Quando lei non trovava toppe bianche, usava tutti colori che
trovava. Qualche volta le ho viste stese ad asciugare e mi rubavano gli
occhi.
Nulla veniva gettato via in quella casa. E lei mi lasciava andare in soffitta
ad esplorare vecchie meraviglie.
La soffitta era il regno delle fate. La polvere non mi fermava, guardavo,
toccavo vecchi attrezzi agricoli che usava mio zio Mario, emigrato in
Canada.
Ma la cosa nascosta con un poco di imbarazzo, era che in casa non c'era il
gabinetto. Arrivava l'acqua nel lavabo per i piatti, tutto di pietra, ma per
andare al gabinetto bisognava uscire. Di fianco alla casa, un altro portone
scuro andava sulla stalla.
Una stalla abbandonata, e su un angolo, accanto alla finestra e sopra il
fosso per il letame delle bestie, faceva mostra discreta di sé un cassone di
legno con sopra un buco.
Tutto qua, la nonna accettava ogni cosa come naturale. Si lavava accanto
alla stufa con mastello di ferro zincato.
E nei giorni di pioggia faceva asciugar i panni tirando una corda attraverso
l'entrata.
Ricordo la sua amica più intima, una gatta che mai mi aveva accettato e mi
guardava con sospetto.
Mi dissero che quando la nonna morì, la gatta la cercò per giorni e poi
sparì e nessuno la vide più.
Quando le facevo capire che tornavo a casa, lei si alzava con lentezza dalla
sedia e prendeva un bastone e con fatica mi accompagnava alla porta.
Camminava piano, insicura ma con misurato orgoglio. Nonna Maria aveva
una costituzione robusta, ma la sua gobba la piegava in avanti, e parlava
della sua antica fatica.
Sempre in ordine, la nonna mandava un odore di pulito e asciutto.
Poi alla fine quando eravamo alla porta mi metteva in mano qualcosa con
un sorriso di complicità. La salutavo, ed ero fuori.
Poi, con un po di imbarazzo aprivo la mano e vi scoprivo un cinquecento
lire di carta.
Un tesoro che mi allietava il cammino verso casa.

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Nonna Maria Stramare in Berra

Milies di Segusino, la "laguna" che raccoglieva l'acqua della pioggia


per gli abitanti e gli animali del posto. La casa con l'edera era di nonna
maria Stramare. Era stata bruciata dai tedeschi durante la seconda
guerra mondiale per rappresaglia.

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Nonna Maria Stramare aveva una stalla come questa, con quattro
mucche che passavano l'estate a Milies. Stavo con lei anche
qualche sera con le sue amiche nella stalla a raccontarci storie.

Capitolo secondo

Parlano gli occhi di un bambino del dopoguerra a Canton di


Segusino...

Il mondo era stupore, meraviglia.


L'aria era sempre fresca e le giornate senza fine. A Canton di Segusino le
strade erano terreno di gioco e di avventure. Non ricordo di aver mai visto
automobili o trattori.
Il traffico era fatto di gente indaffarata e qualche asino o mulo che lenti
andavano verso la montagna, o tornavano a casa. Tanti amici, bambine o
bambini che facevano gruppo in cerca di giochi nuovi da scoprire. Risate o
scherni tenuti a freno con fatica da mamme, nonne o da chi era più grande.
Ricordo la casa dove abitavo con la mia mamma a Canton. Una vecchia

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casa fatta con grossi sassi. Ricordo che dietro la casa c'era un piccolo
portico dove tanta legna accatastata aspettava l'inverno. Mio papà non era
con noi. Appena dopo sposato si era ammalato per le malattie prese in
guerra. Mia madre lavorava alla filanda di Segusino. Durante il giorno mi
consegnava alla signora Erminia che abitava sulla casa accanto alla nostra.
Ricordo un pomeriggio che chissà come ero rimasto solo. Ero uscito da
dietro ad esplorare quel portico carico di legna. Tra le frasche secche vidi
una grossa biscia bianca e feci un urlo di paura. Nella strada passava una
signora che mi vide tutto solo e spaventato.
Mi prese in braccio e cercò di consolarmi. Sapeva che mia mamma era al
lavoro, così mi porto a casa sua e mi mise accanto alla sua bambina.
Ricordo un autunno freddo in chi tutti i bambini andavano assieme a
trovare la gente e chiedere regali. Andammo in comitiva fino a Riva
Grassa, e ricordo la visita alla nonna Maria Stramare in Berra. Forse non
era la prima volta che la vedevo, ma quello rimane il primo ricordo di lei.
Vengono i ricordi delle estati passate a Milies. Giochi nei prati, le corse a
inseguire le cavallette...

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Nonna maria Stramare negli anni '30 a
Milies di Segusino

Capitolo terzo

Io e nonna Maria alla fine degli anni '50... quando viene la sera.

– Nonna!
Così chiamavo ogni attimo del giorno la mia nonna Maria a Milies. Le
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estati di quegli anni spensierati le passavo in quel borgo senza tempo.
Poche case fatte di grossi sassi squadrati e poca malta di colore giallo
chiaro. La malta gialla veniva da Staolet, un posto appena sotto Milies. Era
una creta morbida mescolata a ghiaia. Bastava aggiungere un po' di malta e
così si creava un ottimo cemento per tenere assieme i sassi.
Già allora nel 1955 a Milies viveva poca gente in modo stabile. Ma
specialmente i vecchi si ostinavano a mandare avanti le poche stalle.
Verso sera, tutti portavano le mucche ad abbeverarsi alla "Laguna".
Chi si ricorda della laguna? Occupava la grande piazza che ora è un
parcheggio. La laguna era grande per i miei occhi di bambino. Come un
mare scuro e profondo che incuteva timore e rispetto. Ogni sera il concerto
delle rane era una cosa potente e normale, e quel suono insistente e pagano
ricordava il potere della natura sulle illusioni umane.
L'acqua si raccoglieva in quel gran fosso, e serviva da dar da bere alle
bestie e agli umani senza distinzione. Nel fondo si notavano nere alghe, ma
nessuno si sognava di sporcarla.
Verso il tardo pomeriggio venivano da tutto il paese le mucche a bere, era
uno spettacolo ai miei occhi: Erano animali disciplinati; si disponevano in
modo ordinato attorno all'acqua e bevevano. Nel frattempo chi si era
radunato si scambiava le chiacchiere e parlava del tempo guardando il
cielo.
Quando le mucche tornavano alle stalle, tornava il silenzio e le mamme e
le nonne chiamavano a casa noi bambini.
Allora il silenzio non faceva paura. Era solo silenzio e permetteva di
pensare e osservare ciò che ci stava attorno.
Poco dopo si sentiva la campana della chiesetta suonare pochi rintocchi
che annunciavano la notte che veniva.
Io seguivo la nonna Maria che rientrava per preparare la cena. Continuavo
a chiamarla senza una vera ragione, mi bastava questo per sentirmi in
compagnia e al sicuro.
Per questa ragione la nonna nemmeno mi rispondeva. Mi guardava appena
e mi sorrideva come a rassicurarmi. Nei suoi occhi rimaneva
un'apprensione vecchia di tre o quattro anni prima, quando mi era capitato
quel brutto incidente che mi avrebbe strappato da Segusino per anni. ma
nessuno ne parlò mai. E io lo avevo dimenticato, per ora.
La nostra casa era stata costruita dai suoi due figli, zio Mario e Abele
Berra, appena dopo la guerra sulle rovine di un'altra casa distrutta dai
tedeschi per rappresaglia.
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Era una casa grande e vicino all'acqua della laguna.
Quella sera, come sempre un buon odore di fumo usciva dalla porta. Non
c'erano stufe, ma solo un gran camino dove la nonna cucinava il cibo. Per i
miei occhi il camino era un gigante che arrivava al soffitto. La pentola
scura era appesa alle catene sopra le braci. Dentro il minestrone di pasta e
fagioli si scaldava. Sul grande tavolo di abete, non ho quasi mai visto una
tovaglia, ma non mancava mai il formaggio e il vino.
Mangiavamo con grandi posate di ottone quasi un silenzio. Qualche volta
mangiava con noi anche lo zio Mario. Anche lui parlava poco.
Avevo un po' di timore dello zio Mario Berra. Forse faceva una vita troppo
dura. Rispondeva in modo brusco e secco. Non ricordo di averlo visto
ridere. Lavorava con il suo mulo e si muoveva di continuo tra Riva Grassa
e Milies.
Quella era una sera come tante e in montagna le sere erano fredde. Così
rientrare in casa era una sensazione piacevole. Appena dietro una parete a
nord la nonna usciva da una porticina e portava in mano un pezzo di
formaggio scech, tipico di quelle montagne.
Poi rimestava il minestrone e metteva i piatti in tavola.
La nonna si versava un po' di vino rosso. Vino fatto in casa, dal sapore
aspro e leggero.
Io mi ero già seduto in tavola, facevo a pezzettini del pane secco e lo
mettevo dentro la zuppa fumante. Come dimenticare quel forte odore di
fumo?
Ogni cosa che cucinava la nonna sapeva di fumo. Anche il formaggio e il
burro odoravano un po' di quell'aroma pungente che sapeva di antico.
Poi in silenzio si mangiava e alla fine io fuggivo di nuovo fuori che era
quasi buio.
Tra poco le rane della laguna avrebbero iniziato il coro. Quel frastuono
avrebbe riempito l'aria di Milies per almeno mezzora, forse di più.
Alcune sere nonna Maria diceva il rosario. Anche da sola. Io ascoltavo e
talvolta rispondevo a quelle ave Marie, come in un mantra che mi
addormentava la mente e alla fine senza dire parole andavamo a dormire.
La nonna amava i suoi riti, erano consuetudini apprese da piccola. Quando,
la domenica il parroco veniva fino a Milies per dire messa, lei non
mancava mai, ma sapeva essere pratica: Se non era libera dal lavoro
saltava la messa domenicale. Ma quando le serviva dell'acqua santa la
andava a prendere in chiesa.
A volte, assieme alle sue amiche organizzava dei rosari serali in chiesa.
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Ogni sera qualcuno suonava la campana dell'Ave Maria.
Il lavoro era parte integrante delle sue giornate, a tutte le ore.
Nonna Maria non conosceva riposo. Non aveva il tempo per pensare, il suo
tempo era fare le cose. Già allora aveva la schiena piegata per la fatica di
vivere al servizio della famiglia.
Una gobba decisa la rallentava e abbassava la sua statura, ma una tensione
superba del corpo le impediva di fermarsi a compatire sé stessa.
Lo sguardo di nonna Maria aveva ormai un'aria stanca, ma era sempre
fiero. Sembrava guardasse lontano, oltre le cose che toccavano le sue
mani. Guardava dentro le apparenze delle persone, ma non giudicava mai.
Cercava la felicità nei desideri non espressi di chi le rivolgeva la parola.
Sempre attenta a non ferire nessuno, sempre vigile ad accogliere una
richiesta di aiuto.
La vedevo distesa e felice quando sentiva che l'armonia era stata ristabilita.
Questi sono i doni che lei mi ha dato, e io li ho assorbiti in me come tesori.

Stramare di Segusino negli anni '50

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Capitolo quarto

Oltre i monti hanno rinchiuso il diavolo per sempre.

La gente di Milies praticava una religiosità acquisita a forza nell'infanzia


da una educazione rigorosa e carica di imposizioni, scarsa di umanità e
vuota di gioia.
Le regole del comportamento morale erano uno schema imposto e a senso
unico: Tu sei nato per soffrire e solo i prediletti da Dio potevano vivere
bene. I prediletti erano quelli che avevano il potere della cultura,
conoscevano le regole e avevano i soldi.
Quella era gente foresta che veniva da lontano, e aveva il diritto di avere
sempre ragione.
Mi viene in mente un'immagine; Un uomo stretto dentro un pastrano
pesante e stretto che gli impacciava i movimenti. Ogni suo movimento gli
costava fatica sforzo. Alla fine si ritrovava sudato e stanco, ma almeno era
ancora vivo...
L'unica ricchezza della gente di Segusino, Milies, Stramare... erano i figli.
Una ricchezza imposta pena la vergogna sociale.
Tanti figli, almeno dieci. Poco importa se tanti morivano da piccoli e altri
dovevano emigrare. Era il volere di Dio.
Così il destino di chi non ha nulla, rimaneva tale: Povertà, ignoranza,
sofferenza e un senso di colpa coltivato con cura.
Da questo senso di inadeguatezza di fronte a chi è più fortunato, nasce un
comportamento di chiusura e arroganza e rifiuto. L'animo si induriva e
nascondeva la vergogna, specialmente nei maschi la rabbia repressa si
trasformava in atteggiamenti aspri e provocatori.
Cercavano così di farsi valere, di sentirsi degni d'onore.
Guai a chi cercava una fidanzata nella frazione vicina!
I maschi di Segusino non potevano andare a donne a Riva Grassa,
nemmeno i maschi di Riva Grassa potevano permettersi di cercare moglie
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a Segusino.
Esistevano tali differenze anche tra Milies e le altre frazioni.
Una sera ho assistito ad un agguato di giovani di Milies che avevano teso
un agguato al buio ad alcuni ragazzi che venivano su da Riva Grassa per
cercare una bella giovinotta in montagna. Li vidi accogliere a sassate quelli
che venivano su a Milies...
Ero troppo giovane per capire bene cosa stava succedendo, ma più avanti
compresi.

Negli anni cinquanta ardevano gli ultimi fuochi di questa cultura. Ho fatto
ora ad assaggiare il sapore aspro dei dialoghi e comportamenti. Ho
assimilato in parte la lingua di Segusino, una parlata da gente di
montagna. Un dialetto parlato in fretta e quasi a monosillabi con
l'atteggiamento di chi non vuole trasmettere che il proprio dovere.
Che fatica trasmettere sentimenti o sensazioni positive. Che fatica
trasmettere gioia! Che fatica dire " ti amo" o ridere senza imbarazzo!

E così viveva la sua vita da donna, mia nonna Maria.


Cara nonna, sentivo e vedevo il tuo sacrificio di ogni giorno. Eri tu con
tutte le donne di quel mondo, a conservare la Vita. Come donna avevi la
salvezza di un istinto che ti veniva dalla Natura. La forza delle donne è di
sopportare ogni ingiuria, e alla fine vincere in ogni caso.
Nonna Maria, tu non volevi altro che essere mamma fino in fondo. Le
donne come te sono mamme per tutta la vita. Tu eri mamma con i tuoi
fratelli e sorelle, lo eri con tuo marito, con i tuoi figli, con i tuoi nipoti.
Il mondo di mia nonna terminava sulle montagne che stavano attorno a
Segusino e finiva sulle riva del Piave.
Una volta lei mi sorprese con una frase che non ammetteva dubbi:
– Nell'antichità hanno chiuso il diavolo dietro quelle montagne! E non
tornerà mai più.
Nel dire quelle parole indicava i monti a nord di Segusino. Pronunciava
quelle parole come se recitasse una sentenza. E lei aveva l'aria di chi è
sfuggita ad un grande pericolo.
Io non capivo e mi immaginavo un esercito di diavoli rossi infuocati che
venivano spinti dall'altra parte dei monti e chiusi per sempre dentro un
recinto inviolabile e definitivo.
Sentivo in me un moto di stupore e di meraviglia e tanto timore.

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Ma poi mi veniva spontaneo pensare alla sofferenza e al destino di quei
poveri diavoli senza prospettive per l'eternità. Li sentivo lamentarsi di un
destino senza prospettive e non mi pareva giusto.
Poi più avanti compresi che la nonna si riferiva al Concilio di Trento, di
tanti secoli prima. Ancora, dopo tanti anni era viva in lei il terrore
impresso ed indelebile trasmesso sin da bambina, come una condanna che
poteva colpire anche lei se...

Valle dei mulini a Segusino

Capitolo quinto

Il volo delle cavallette.

A Milies le estati non erano mai troppo calde, così io e la nonna facevamo

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passeggiate nei campi falciati attorno alle case. La nonna faceva fatica a
camminare per lunghi tratti, ma pur di soddisfare la mia curiosità mi
faceva da compagna e mi descriveva le meraviglie che mi stavano attorno.
Tutto mi stupiva. L'erba che calpestavo era tutta falciata con cura precisa
come dentro un giardino di gente nobile. Tutto era ordinato e pulito e dava
l'idea che la vita a Milies fosse una cosa seria. Poi rimanevo meravigliato
dalle cavallette che saltavano ad ogni nostro passo e tentavano di fuggire
alla nostra presenza. Qualche volta ci seguivano le tre galline della nonna:
Per loro era una festa, beccavano quegli insetti e si saziavano felici.
Quelli erano gli anni delle cavallette, poi qualche anno dopo sparirono
quasi tutte e fu come se davvero fosse finito un mondo.
Già allora nella fine degli anni cinquanta poche famiglie vivevano
stabilmente a Milies. Forse solo tre o quattro nuclei famigliari resistevano
grazie alla pensione di vecchiaia degli anziani che avevano deciso di
morire in quella valle.

Non ricordo molte amicizie con bambini come me, durante quelle estati.
Quando tornai il quella valle ero già un ragazzino solitario. Avevo già
rimosso i ricordi di quando avevo scoperto Milies per la prima volta, cioè
di quando avevo tre o quattro anni. E avevo perduto gli amichetti di quel
periodo della fine degli anni quaranta. Avevo "dimenticato" il dialetto
appreso da piccolo e parlavo un italiano educato e preciso, questo era un
ostacolo notevole a fare nuove amicizie.
Così non mi rimaneva che leggere molto e osservare.
Pur avendo 10 o 13 anni leggevo molto e di tutto. Avevo trovato una
miniera di libri presso la colonia estiva "la casa del fanciullo" di Padova.
Era stata costruita pochi anni prima davanti alla casa di mia nonna.
Quando Pompeo, il cuoco della colonia si era accorto che fissavo tutti i
libri che mi passavano sotto gli occhi, mi presentò al "capo" di quella
comunità e lui mi portò in un grande ripostiglio e aprì una gran cassa di
legno e mi invitò a prendere in prestito parte di quei tesori. Prendevo tre
volumi per volta e li portavo a casa. Poi una volta finiti poi tornavo là in
cerca di altri. E così per varie estati.
Scoprivo territori infiniti dove i miei ingenui sogni si saziavano. La nonna
mi guardava e non diceva nulla. Forse aveva capito che solo in quel modo
riuscivo a soddisfare la mia voglia di scoprire il mondo. Lei mi ha
accettato così come ero, e nel frattempo tentava di farmi amare il suo
mondo. Nonna Maria aveva pazienza da vendere e poteva finalmente
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permettersi di non avere fretta. Nella sua lunga vita aveva sopportato ogni
sventura e accadimento. Il dono più grande che mi ha fatto è questa sua
sicurezza interiore,
Mi trasmetteva fiducia e ottimismo. Con lei mi sentivo al sicuro.

Ricordo di Pompeo

Pompeo, il cuoco della Casa del fanciullo, divenne un mio punto di


riferimento. Pompeo nei momenti liberi si metteva a disegnare coi gessetti
colorati sopra dei cartoncini bianchi. Faceva dei quadretti di Milies.
Graffiava il cartone coi gessetti e poi lisciava la polvere colorata sfumando
il colore. Io gli stavo come incollato accanto e rubavo ogni suo gesto.
La mia meraviglia di tanta magia, lo intrigava e non mi mandò mai via. Io
sognavo di creare meraviglie come quelle. Volevo imparare quella magia.
Così feci di tutto per avere una scatola di gessetti colorati; poi cercai del
cartone e mi misi da solo a fare il mio primo quadro. Non dissi nulla a
Pompeo.
Così in un mattino di sole mi misi davanti alla fontana, feci il disegno a
matita e poi cominciare a fare come Pompeo. Mescolai i colori e sfumai
con una naturalezza che mi veniva spontanea. Ci misi tutta la mattina e
mostrai il mio lavoro alla nonna.
Lei diede una occhiata distratta al mio capolavoro, annuì appena e poi
continuò le sue faccende come se nulla fosse accaduto.
Ma avevo in mente di fare vedere il cartone a Pompeo nel pomeriggio.
Era quasi sera quando lui uscì fuori dalla cucina dove lavorava. Io ero là
davanti con il cartone in mano e gli presentai la mia fatica.
Pompeo fissò il disegno e sulla sua faccia apparve una sensazione di
fastidio. Indispettito prese un gessetto nero dalla sua scatola dei colori e
con un gesto veloce e dispettoso corresse con segni scuri quasi cancellò ciò
che avevo fatto:
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– Vedi qua? Sei troppo preciso! Ci vuole più movimento! Questo tetto
è troppo
perfetto, ci vuole più azione!
Io rimasi sconvolto e mi si bloccò la gola. Non dissi nulla e aspettai che mi
rendesse il mio disegno. Poi lui se andò via seccato.
Poi da solo fissai quei brutti segni neri che avevano sporcato il mio lavoro.
Il giorno dopo lo ripresi in mano e lo strappai gettando i pezzi nel fuoco.
Da allora non cercai mai più Pompeo. Allora, a quei tempi lui forse aveva
settanta anni, e qualcosa di brutto aveva segnato la sua vita dato che non lo
vidi mai ridere.
Dopo quasi vent'anni tornando a Milies trovai un ragazzo della colonia e
gli domandai di Pompeo. Seppi che era ancora vivo ma ormai quasi
totalmente invalido. Sentii in me una sensazione di pena per Pompeo, ma
lo ringrazio per avermi comunque risvegliato l'anima verso l'arte della
pittura.
L'anno dopo incontrai a Milies anche un altro "pittore" che aveva messo il
cavalletto su un prato accanto a casa nostra. Era magro e si agitò un po'
quando lo avvicinai. Era di Segusino e faceva il calzolaio, si chiamava
Antonio (?) Furlan. Me ne andai via subito vedendo che lo rendevo
nervoso.

Stramare di Segusino

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Nanni della Marianna nel 1985

Capitolo sesto

Nanni della Marianna e sua madre... vivono l'eternità.

La grande laguna di acqua scura lambiva il nostro cortile e i pochi ragazzi


di Milies vi venivano vicino a pescare le rane più grasse. Mi dissero che
anche se le mangiavano! Una volta li vidi con due grossi topi morti. Mi
fecero capire con una risata che li avrebbero cucinati arrosto. Erano fieri di
tanto coraggio ed io, carico di stupore e meraviglia non ci volevo credere...
Appena la davanti c'era la casa della Marianna e di suo figlio Nanni.

23
Spesso venivano ad aiutarli nei lavori Arnaldo e Amedeo i suoi due nipoti.
Venivano su da Stramare e mi stupiva la loro vitalità ed energia. Io al
contrario ero lento e tendevo ad ingrassare. Loro per me erano dei super
uomini. Li guardavo da lontano sentivo la loro sicurezza. Vivevano il loro
ambiente come giovani signori. La gioventù di Segusino nasceva nel
sacrificio del lavoro senza sosta ed imitavano i loro padri portandosi
dentro un orgoglio che non cedeva mai. Per me che ero un insicuro e
timido per natura, erano esempi di ciò che avrei voluto essere, ma erano
così lontani dalla mia vita che mi limitavo ad osservarli da lontano.

Osservavo anche la Marianna, la loro nonna, sempre presente in quella


piazza. La casa della Marianna è tuttora là, piccola e scura a lato della
piazza. Povera ma dignitosa aveva solo una stanza e spesso il fumo usciva
dalla porta d'ingresso quando questa vecchia signora coraggiosa cucinava
il cibo o faceva il formaggio.
La Marianna non parlava... lei urlava. Ogni sua affermazione tagliava la
piazza come un comando che non conosceva repliche. Una voce fonda e
acuta allo stesso tempo. Imperiosa
imponeva il suo volere. La Marianna comandava così anche a suo figlio
Nanni, il papà di Arnaldo e Amedeo.
La Marianna era alta, magra e dritta come un palo. Si muoveva di continuo
nervosa e sempre attiva. Sempre di fretta. Si vestiva di scuro, ma portava
anche un grembiule grigio col disegno a pallini chiari. In testa portava
sempre un fazzoletto scuro e non la vidi mai senza quel telo che la
proteggeva dal caldo e dal freddo. Portava ai piedi zoccoli che parevano
eterni. Ricordo il suo viso, era più energico di quello di mia nonna.
Ma lo sguardo della Marianna portava dentro anche una dolcezza nascosta,
un segreto potere di sopportare ogni cosa e saper donare sicurezza a tutti.
Lei urlava, ma non offendeva mai.
Nanni, suo figlio, lo vedevo sempre al lavoro come un mulo per tutto il
giorno. Nanni indossava la divisa di tutti gli agricoltori di montagna di
Segusino: un completo in due pezzi di cotone blu, che poi diventava negli
anni sempre più chiaro. Era un cotone robusto ed eterno che perdeva il
colore a forza di essere lavato. Era composto da un paio di pantaloni larghi
e comodi e da una giacchetta con tasche. Sotto Nanni portava anche
d'estate una maglia scolorita di lana chiara. In testa aveva sempre un basco
di panno nero.
Nanni e sua madre parlavano a voce alta tra di loro e segnavano le ore in
24
quella piazza.
Quando portavano le mucche all'abbeverata in laguna erano per me
momenti da favola, mentre la Marianna urlava alle bestie, o era Nanni a
fare la stessa cosa.
Le bestie ormai erano così abituate a quegli sfoghi che di certo non ci
facevano più caso.
Quando negli anni ottanta tornai a Milies, rividi Nanni e scambiai alcune
parole con lui.
Nanni si ricordava di me anche se io non avevo parlato prima con lui. Ci
scambiammo poche frasi, ma io raccolsi da lui una saggezza e una
sicurezza semplice e ruvida che porto in me come un esempio mirabile.
Gli occhi di Nanni ti guardavano dentro l'anima con una dolcezza
inaspettata. Sembravano ascoltarla assieme alle parole che pronunciavo.
Nanni guardava le persone cercando di comunicare la sua soddisfazione di
aver fatto nella sua vita tutto quello che poteva per deludere nessuno.
Nanni parlava poco, ma offriva la sua attenzione a tutti.
La sua gentilezza d'animo non era stata ferita dalle durezze della sua vita
di montanaro.

25
Nonna Maria con mia zia Maria Coppe
negli anni '50

Capitolo settimo

Con l'acqua santa nonna Maria rimette in equilibrio la vita.

Le estati a Milies passavano come l'acqua del torrente Ariù, il piccolo


fiume che scorreva giù verso Stramare. Io assaporavo l'aria asciutta dei
monti e osservavo ogni cosa. Talvolta tanta attenzione si rivelava anche di
notte con sogni inquieti. La nonna dormiva accanto alla mia cameretta
aveva una speciale attenzione per quel nipotino che amava sognare ad
occhi aperti.
26
Una notte di cui serbo un vivo ricordo mi svegliai con lei davanti che
spruzzava d'acqua nel buio della stanza. Non capivo e la guardai sorpreso e
smarrito.
Lei si accorse che ormai ero sveglio e con voce seria mi disse:
– Sai che ti sei sognato e gridavi? Così con questa acqua santa ora
starai bene. Poi senza dire più nulla se ne andò e mi lasciò solo.
Ripresi sonno e non ci pensai più.
Così i giorni seguenti fissai curioso quella bottiglia che lei conservava in
camera sua. Era piena di acqua benedetta che lei aveva riempito con cura
in chiesa.
Nonna Maria trattava quell'acqua come un mezzo semplice ed efficace. Il
suo valore era scontato e non aveva nulla di sacro o magico, era
semplicemente "acqua santa", e tutto finiva la. Una medicina buona come
qualunque altra, e così doveva essere usata.
Ma la nonna sapeva ben di più.
A metà agosto la osservo a rimescolare nel pentolone che bolliva appeso
alla catena del gran camino. Faceva bollire una gran quantità di pigne di
abete per preparare lo sciroppo per la tosse che sarebbe servito il prossimo
inverno.
Una sola volta la osservai a preparare il caffè di Milies. Certo a Milies
nasceva una pianta umile mai notata da nessuno. Ne raccoglieva i baccelli
che poi arrostiva in un attrezzo di ferro: Un lungo manico con in fondo una
sfera piena di buchi. La nonna fino ad allora non aveva mai comprato
caffè.
Ma mi sorprese quando mi cancellò quasi per magia dei porri che mi erano
cresciuti mel dorso delle mani. Semplicemente raccolse tra le erbacce uno
stelo succoso che stillava in liquido giallo. Mi bagnò con quel latte i porri,
e dopo pochi giorni questi si erano dissecati e le mie mani tornarono lisce.
Ma come ho già detto, lei non amava particolarmente i fiori. E la lezione
che mi diede in un caldo mese di luglio mi brucia ancora...

Spesso vagavo tra i campi senza meta, e una mattina notai tra l'erba alta
rimasta ai bordi dell'orto una nota di colore che risplendeva. Mi avvicinai e
notai un fiore solitario, altissimo e orgoglioso. Era un giglio rosso
splendido nella sua arroganza. Me ne innamorai senza dubbio alcuno. Così
domandai alla nonna come fare per portarlo a casa e lei mi consigliò di
raccoglierlo con le sue radici di mattina presto e di rinvasarlo dentro un

27
vasetto con della terra buona e innaffiarlo con cura. L'indomani lo trattai
con massima cura e portai la piantina in casa e lo posai su un muretto in
ombra. Era uno spettacolo e lo adoravo come fosse il tesoro di quella casa.
Dritto, con tante foglioline e un fiore scarlatto che orlava ottimismo alla
vita.
Quando venne la sera pensai di portarlo al sicuro dentro la stalla e lo posi
sul davanzale della finestra. Le due mucche della nonna erano legate alla
mangiatoia e non mi degnarono di uno sguardo.
Il mattino dopo non mi ricordai subito di quel fiore. Ma a metà giornata
sentii che la nonna era dentro la stalla e mi ritornò in mente la mia pianta.
Corsi dentro la stalla e cercai il fiore e rimasi come smarrito a vedere che
non rimaneva che uno stelo nudo. Erano sparite le foglie e il fiore. Le
galline che dormivano dentro la stalla stavano finendo di beccarlo.
Rimasi là fisso a guardare fisso per un attimo, sgomento di tale disgrazia...
Nonna Maria che stava osservandomi si mise a ridere senza freni. Si
agitava come non la avevo mai vista. Rossa in faccia in preda a dei singulti
che la scuotevano tutta rideva senza freni! Poi tentò di mettersi una mano
davanti alla bocca per darsi un contegno...ma non ce la fece e continuò a
ridere e infine uscì in fretta per rompere quell'incantesimo che lei stessa
non sapeva gestire.
Poi più tardi, quando la rividi, lei non rideva più e della cosa nessuno di
noi parlò più, come se nulla fosse avvenuto. Ma quella sensazione è una
lezione di vita che non mi ha più abbandonato.

Nonna Maria giocava a carte quando poteva. Con le sue amiche e anche
con me. Sempre attenta e precisa mi lasciava vincere alla briscola e a
tressette. Su un alto a Milies c'era una osteria nascosta sotto un portico. Lei
mi accompagnava là mi comprava una gazzosa, e poi giocavamo a carte
assieme a chi si era seduto con noi.

28
Gian Berra (col capellino) a Milies
con i suoi amichetti, fotografia di
Mondo. Anni '50

Le passeggiate nei campi segati di fresco.

Verso sera d'estate la luce dura a lungo. Così specialmente di sabato


venivano su da Segusino le famiglie che passavano a Milies i giorni del
fine settimana, Tanti lavoravano in fabbrica e in quei giorni venivano a
segar l'erba dei campi o a seguire i vecchi genitori che ancora seguivano le
bestie sulla stalla.
Un pomeriggio di fine agosto mi trovai con mio padre sui campi che
guardano giù verso Segusino. Mio padre conosceva tutti e formammo una
compagnia seduta sull'erba a chiacchierare.
Io come al solito mi portavo dietro un blocco di fogli bianchi e una matita,

29
Mi misi a fare un disegno del posto.
Sentii dietro di me due occhi che mi osservavano con attenzione.
Mi girai e vidi una ragazzina dal viso chiaro che mi osservava disegnare.
La vidi bellissima, quasi una fata. Lei rimase in silenzio... quasi a vedere
come facevo quei segni.
Poi io finii il disegno, e mi venne spontaneo porgerlo a lei dicendo:
– Ecco, è un regalo per te.
La vidi bloccarsi per la sorpresa e dire. - Ma elo par mi?
– Si, è un regalo per te, le dissi semplicemente.
Allora lei, stupita si voltò decisa verso un uomo là accanto, e quasi urlava:
– Papà, varda, al me gha regalà sto disegno!
Sembrava che avesse in mano un tesoro. E io finalmente avevo trovato
qualcuno a cui piaceva un mio lavoro....

Nonna Maria

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Capitolo ottavo

Dove guardavano gli occhi di nonna Maria?

Seguivo la nonna ovunque lei andava. Lei camminava lenta quasi sempre
aiutandosi con un bastone. Alla nonna piaceva avere la mia compagnia e
mi portava per i sentieri che salivano per la montagna. Una volta facemmo
una grande camminata fino alla costa più alta del monte. Lei chiamava
quel posto “ il Poset”. Una gran pozza ricoperta di argilla per conservare
l'acqua della pioggia. Le case erano chiuse ed abbandonate, ma la vicino la
nonna mi indicò due o tre alberi dall'aria trascurata e stanca.
Quelle sono ciliegie “marinele”. Erano piccole e dure. Lei me le fece
assaggiare.
Erano amare e acide, ma davano l'impressione di calmare la sete.
Poi la nonna mi indicò i prati mai falciati ormai da lungo tempo. Mi disse
che malgrado fossero in gran pendenza, anche quell'erba era preziosa e i
contadini la falciavano appesi ad una corda legata di sopra agli alberi.
La terra era cosa preziosa e veniva usata per dare aiuto. Una volta non
c'erano i boschi di oggi. Tutto era un campo da falciare o da portare su in
alto le mucche a pascolare durante l'estate.
Mi disse che quando era giovane c'erano a Milies duecento famiglie, e
tante passavano tutto l'anno in montagna.
La terra era così preziosa che i confini tra le proprietà erano rigidi e
controllati con puntiglio. A volta bastava un ciuffo d'erba rubato appena
dopo il limite, che nascevano litigi e odio che durava anni.
Nonna Maria portava sempre ai piedi le stesse ciabatte, ma pareva che
sentisse da lontano le buche e i sassi perché non la vidi mai inciampare.
Io guardavo curioso la direzione del suo sguardo, e pareva che fissasse
qualcosa di lontano. Sembrava guardare il mondo con un distacco che io
non capivo.
31
Dove guardava nonna Maria? Cosa vedeva?
Così imparai anch'io a provare a guardare oltre le cose vicine. Scoprii la
linea della montagna e la sua forma, vidi i suoi colori filtrati dall'aria
azzurra. Notai la forma delle case e il disegno che facevano assieme sui
prati. Poi notai che i prati non avevano tutti lo stesso colore. Mi
meravigliai che anche i sassi non erano tutti uguali.
Mi stupivo a osservare che anche le galline non avevano lo stesso carattere
e notai che i fiori formavano sui prati delle figure magiche.
Poi cominciai a notare le forma delle nuvole e sentire il messaggio lieve
dell'aria che mi toccava la pelle. Anche la pioggia che cadeva sembrava
volesse dire qualcosa.
Lei, la nonna, mi indicava anche l'erba che cresceva al bordo della strada e
la chiamava per nome, a seconda del tipo.
Erano tutte queste le cose che la nonna Maria vedeva quando il suo
sguardo guardava lontano?
No, ora che sono più vecchio, intuisco appena che lei guardava tutte queste
cose come da lontano, come se avesse già percorso nella sua vita tanta
strada, che ora vedeva tutto da un percorso già fatto troppe volte.
Ma anche se i suoi occhi guardavano oltre le apparenze, essi ascoltavano
con la massima attenzione l'anima di chi le stava vicino.
Mai nonna Maria mi raccontò le sue pene antiche, i suoi dispiaceri, le sue
vicende amare.
Mai mostrò a me i suoi desideri o le sue delusioni.

Mai mi raccontò la sua storia; e lo stesso fece mio padre Berra Paolo, che
si confidò con me solo negli ultimi anni della sua vita, e io sorpreso,
appresi le storie che ora racconto.

Tanto riserbo mi spaventa ancora e mi domando dove queste persone


trovavano la forza di superare attimi di sconforto che capitano a tutti. Era
così forte il rispetto che avevano di sé stessi e del loro prossimo?
Umiltà, sopportazione, pazienza, fiducia che in fondo ogni cosa si sarebbe
risolta, almeno finché c'era vita.
Questa è vera civiltà, è cultura vera e mai riconosciuta agli umili.
E' la vera forza che le mamme trasmettono alle figlie, ai figli e ai loro
uomini.
Questa essenza preziosa è il tesoro che lei mi ha trasmesso.

32
Gian Berra sulla lambretta del
fotografo Mondo. Metà anni '50

Capitolo nono

E il tempo passa.

Poi finii le elementari e anche le medie, e Milies mi interessava sempre


meno.
Lasciai Segusino e vi tornai solo nell'estate 1969, ma dopo tre anni la mia
famiglia lasciò definitivamente il paese.

33
Nonna Maria non andò più a Milies già dal 1965 perché troppo debole per
rimanere da sola in montagna. Così da allora visse a Riva grassa fino al
mese di gennaio del 1969 quando morì da sola nel sonno. Lei ci lasciò in
silenzio senza disturbare.
Da sempre viveva sola in quella vecchia casa. I vicini la custodivano con
discrezione. Mio padre andava spesso a vederla. Fino alla fine le dava del
“voi” con un rispetto e devozione che mi hanno sempre stupito.

Vidi piangere mio padre quel giorno che la portarono sulla bara fuori di
casa. Vidi anche la sua vergogna di provare un tale sentimento e di farlo
vedere in pubblico.
Venne chiamato un fotografo per fotografare la nonna Maria dentro la
bara. Erano le foto da inviare per posta ai suoi due figli che vivevano in
Canadà. Abele e Mario Berra da anni lontani da Segusino.

Poi le cose si sfumano. I ricordi rimangono nascosti perché la vita scorre


di fretta e nulla si ferma. Ogni tanto rivedevo coi pensieri, di sfuggita quel
viso severo di nonna Maria, ma poi c?erano troppe cose da fare. C'era una
famiglia da costruire, figli da custodire e tante cose da affrontare...

Ma ora anche io comincio a pensare a ciò che è passato, e ciò che ha


formato la mia anima e condizionato le scelte che ho fatto. Così escono
fuori dai luoghi del silenzio nascosti nei ricordi.... cose che non sapevo di
avere.
Sono i regali che ho ricevuto dalla nonna Maria.

Regali nascosti, esempi di vita che silenziosi mi indicavano la via.


Riconosco ora il potere del suo sguardo,
riconosco il potere dei suoi silenzi,
riconosco la forza del suo potere di madre eterna.

Ora riconosco anche la magia che ha rappresentato per tutti quelli che le
sono stati accanto, una corrente silenziosa e discreta di amore senza
condizioni.
Nonna Maria ha passato i suoi lunghi anni di vecchiaia in silenzio
accettando la vita al meglio. Mai un lamento, ma sempre a disposizione di
ciò che poteva dare.
34
Lei ha vissuto due guerre mondiali. Ha subito disgrazie e amarezze come
tante donne di Segusino. Ma guardava lontano con fiducia e sperava.
Mi resta di lei questa forza, e ancora la ringrazio.

Gian Berra 2014.

Berra Paolo, granatiere


morto sul fronte di
Caporetto. Padre di mio
padre.

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Nonna Maria Stramare in Berra,
la sua vita:
I ricordi da un'epoca dimenticata.

Nonna Maria Stramare nacque a Stramare nel 1887. A quei tempi la vita
nei paesi della montagna veneta nulla era cambiato da mille anni. Nessuno
insegnò a lei a leggere o scrivere. Non lo sapevano fare nemmeno i suoi
genitori e i loro avi.
Il destino della sua vita era già definita sin dalla sua nascita.
I suoi sogni erano limitati da tradizioni tramandate dalle regole di poteri
lontani. Lei poteva solo seguire un cammino già deciso dai padroni del suo
corpo e della sua anima.
Serva tra i servi, Nonna Maria imparò presto ad ubbidire, ma non smise
mai di guardare nel cuore della gente che riempiva la sua vita. C'è chi
nasce indifferente, ma anche chi nasce con il dono di vedere dietro le
maschere, e decidere per il meglio.
Nonna Maria decise di vivere al suo meglio. Questa è una forza che viene
dal sangue, dalla razza.
Non sempre in montagna, dove a volte ci si sposava tra parenti stretti, i
figli venivano bene. A sua sorella andò male, ma a lei la natura donò
salute, bellezza, animo forte e una grande pazienza.
Queste doti sono tesori che nonna donò in parte anche ai suoi figli e figlie.
Il suo esempio valeva come un insegnamento che scendeva dentro l'anima,
senza troppe parole.
La sua umanità e sincerità la fece sempre rispettare da tutti.
Come tanta gente di montagna lei parlava poco.
E guardava lontano.

36
Nonna Maria Stramare aveva appena 13 anni nel 1900. Da ciò che so, si
sposò a 24 anni nell'anno 1911.
Si era sposata in quell'anno con un giovane uomo di Riva Grassa, Paolo
Berra che aveva la stessa sua età. Paolo era un giovane alto "quasi due
metri", contadino. Lui era di carattere tranquillo e gran lavoratore. Di
aspetto imponente, diceva la gente. Possedeva terre a Milies ed è la che
portò la sua sposa.
Ebbero prima una figlia, Pierina nel 1912 e poi un figlio di nome Gio Batta
nel 1914.
Il terzo figlio nacque nel 1916 e si chiamava anche lui Paolo, mio padre.
Quando nacque il terzo figlio, Paolo, nonna Maria lo partorì dentro un
carro durante la fuga dopo la disfatta di Caporetto. La guerra non perdona
e non guarda in faccia a nessuno.
Non so se il marito di nonna Maria sapesse di questa nascita. Lui era
granatiere e cadde colpito al fronte e mia nonna rimase sola con tre figli. Il
piccolo Paolo non vide mai suo padre.
Mia nonna rimase vedova, e a quei tempi non esisteva alcun aiuto sociale.
Lei per un poco tenne duro, ma poi per il bene de figli decise di risposarsi.
Il marito morto aveva un fratello, Antonio Berra, sempre di Riva Grassa.
Nonna Maria decise di averlo come marito e la famiglia si ricompose. Da
lui Maria ebbe altri due figli, Mario e Abele.
Il secondo figlio di mia nonna, Gio Batta morì in Albania nel 1941
durante la seconda quella mondiale.

La prima figlia Pierina si sposò con uno di Segusino ( Spada, di cognome)


e si trasferì col marito a Legnano, vicino Milano.
Ebbe tre figli maschi e poi morì nel 1942 di malattia, lasciandoli orfani.
Mio padre per dare assistenza ai figli di sua sorella rimasti soli e
abbandonati anche dal padre, lasciò Segusino e si trasferì a Legnano per
assistere i tre nipotini. Due di essi furono messi in collegio e il terzo Vito,
rimase con lui.
Fu poco dopo che mio padre cadde in un rastrellamento dei tedeschi e
portato a lavorare in Germania. Riuscì a fuggire poco prima della fine
della guerra, tornando a Segusino a piedi con sofferenze che lo toccarono
per sempre.

Entrambi i figli di secondo letto, Mario e Abele emigrarono in Canada nei


primi anni cinquanta e non tornarono che per un breve periodo. Il secondo
37
marito morì nel agosto del 1947.
Dopo la partenza dei suoi ultimi due figli, a Segusino rimase solo il figlio
Paolo, mio padre. Nonna Maria visse da sola e abitò a Riva Grassa sino
alla sua morte nel 1969.

Nonna Maria a Milies negli anni '30

Un affresco di ieri a Segusino.

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Il negozio dove la gente di Segusino trovava di tutto.

Sono nato in novembre, nel 1947. Quando venni al mondo mio padre
Paolo Berra non era in famiglia. Si era sposato un anno prima con mia
madre Enrica Carniello, e subito dopo avermi concepito si ammalò di un
male quasi incurabile a quei tempi. Papà Paolo era stato deportato dai
tedeschi in Germania e poi lui approfittò del caos della fine della guerra
per fuggire e tornare a Segusino. Portò con sé sfinimento e malattie, ma da
vero veneto montanaro non perse mai la sua voglia di vivere. Così io lo
vidi solo più tardi.
Conservo le foto che mia madre gli mandava all'ospedale dove lo
curavano.
Mia madre si trovò da sola, ma non poteva smettere di lavorare alla filanda
di Segusino.

39
Il negozio di alimentari di "Guarnier" a Segusino.

Così mi consegnava ad una signora di nome Erminia che abitava là


accanto. Non avevamo una casa nostra allora, abitavamo a Canton di
Segusino in una vecchia abitazione che ci avevano prestato dei parenti.
Quella casa è ancora là, abbandonata e con le finestre vuote. Dai due anni
di età già passavo le estati a Milies presso nonna Maria Stramare in Berra.

Proprio a Milies, quando avevo quattro anni mi successe la tragedia che


cambiò tutta la mia vita. Successe tutto quasi sotto gli occhi di mia nonna.
Non so quanto lei soffrì, non so quanta angoscia ciò procurò ai miei
genitori e a me stesso, ma dovetti lasciare Segusino per più di tre anni.
Quando tornai a Segusino fui condotto sulla nuova casetta che mio padre
aveva costruito nel frattempo alla frazione Fontanon.

Vi venni condotto in una giornata di inverno e vidi quella casetta coperta


di neve che mi accoglieva.
Mi sentivo come estraniato dopo gli anni di assenza e sentivo che avevo
perduto un pezzo di me stesso.
Avevo dimenticato gli amici della prima infanzia di bambino, avevo

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dimenticato il dialetto del mio paese e non capivo né riconoscevo più
nessuno. Dentro di me una scontentezza senza nome amareggiava ciò che
mi rimaneva di bambino.
Ma non avevo perso del tutto le mie radici.
Ora osservavo ogni cosa come si guarda un panorama da lontano.
Osservavo le cose, le persone, l'aria, i monti come se fossero immagini
tutte da riscoprire. Ma un distacco era nato in me e cercavo di superarlo
osservando tutto con una attenzione esagerata. C'era di sicuro in me la
paura di perdere ancora un'altra volta il contatto con quella realtà?
Da allora ho sviluppato forse la tendenza nascosta in me di ricostruire e
rappresentare immagini e sensazioni, di tenerle con me con geloso
attaccamento.
Non volevo più perdere ogni cosa, e stampavo dentro di me con cura ogni
sensazione e immagine per farle mie per sempre.
Per un oscuro timore, mi ero isolato, come causa delle circostanze che
avevo vissuto. Una solitudine interiore che riempivo con la fantasia e le
emozioni di osservare la vita.

Foto di Riva grassa di segusino bombardata alla fine della prima guerra
mondiale.

Allora nel dopo guerra, quando io ero bambino, Segusino non aveva strade
41
asfaltate. Pochi avevano la luce in casa e nessuno dormiva in camere
riscaldate. Gli inverni erano lunghi e gelidi. Pochissimi avevano una radio
in casa e quasi nessuno un'auto. La miseria veniva vissuta con normalità.
La povertà e lo sconforto dopo la guerra, venivano accettate come parte
della vita. Tanti giovani lasciavano il paese per emigrare, tanti andavano in
Canadà.

Ogni domenica tre distinte file di gente si recavano in chiesa. La messa del
mattino dedicata agli anziani devoti, quella delle ore 8 dedicata ai giovani,
quella delle ore 11 a cui partecipavano tutti gli altri. Quasi nessuno
mancava, pena essere prima o poi guardato con sospetto, o in qualche raro
caso indicato dal prete in chiesa.
Ho accluso in questo libro alcune foto che danno una idea di come ci si
vestiva a Segusino. Gli abiti venivano cuciti in casa e alcune signore
confezionavano su richiesta maglie e indumenti di lana.
A Segusino c'erano due calzolai che lavoravano molto. Un unico fotografo
famoso chiamato "Mondo"ha fotografato tutti. Vendeva anche giornali e
articoli per la caccia. La sua "Lambretta" era la sola a Segusino.
Le vedove e le persone anziane vestivano tutte di nero e portavano un gran
fazzoletto nero in testa per tutto il giorno.
I giovani, ma anche gli uomini maturi davano del "voi" ai loro genitori.
Ricordo che mio padre e mia madre davano sempre del "voi" a mia nonna.
Le persone importanti erano le stesse di tanti paesi di allora: I proprietari
terrieri, i ricchi, i funzionari del comune, il padrone della filanda, il prete,
il sindaco, i forestieri... e gli abitanti di Valdobbiadene. A Valdobbiadene
c'erano i carabinieri, i notai, gli avvocati, le banche e gli altri funzionari
che decidevano il destino di ognuno a Segusino.
Venni a sapere che negli anni '30 fallì una banca di Valdobbiadene, e tanti
di Segusino, anche mia nonna Maria, persero i loro scarsi risparmi...
A Valdobbiadene vivevano durante l'estate nelle loro ville i ricchi borghesi
che venivano da Treviso, Padova e Venezia.
Io abitavo in una frazione fortunata: Canton, e poi nella "Villa". La via
che portava in piazza. Ma la nonna Maria abitava a Riva Grassa durante
l'anno, e d'estate si spostava a Milies.
Queste frazioni, assieme a quella di Stramare si erano fermate al medio
evo. Fittamente abitate esse fornivano emigranti a tutto il mondo.
Certamente il nucleo originario di Segusino era a Riva Grassa. Già ai
tempi della mia infanzia gli abitanti di questa frazione nutrivano in sé
42
stessi una sensazione di inferiorità rispetto a chi viveva più in basso.
Forse per questo antico senso di vergogna gli abitanti di Segusino non
amavano le loro origini?
Malgrado tanta ignoranza e miseria coltivata con cura nei mille anni di
dominio di Venezia, e poi con l'abbandono e la rapina perseguita dal nuovo
regno d'Italia, la gente di Segusino continuava con tenacia inflessibile la
sua lotta per la sopravvivenza.
L'impotenza e lo sfruttamento di secoli non erano riusciti a cancellare
l'umanità e il sentimento di vita che ha sempre fatto parte di questa gente
di montagna.

Giovani del 1942 nella famosa osteria "da Sbrek" a Segusino.

Gli abitanti di Segusino non erano lasciati a se stessi non solo dai padroni
di turno, ma anche purtroppo da una religiosità bigotta e rigida, carente di
gioia, che regolava le loro coscienze dalla nascita alla morte.

43
Un senso di colpa e di dovuta ubbidienza perenne, legava le loro coscienze
e la sofferenza era un destino che legava le loro vite ad un piccolo
fazzoletto di terra su cui vivere giorni amari. Solo chi aveva il coraggio di
fuggire altrove trovava orizzonti più liberi.
Ma le madri di Segusino portavano dentro di sé un tesoro che nessuno era
riuscito a cancellare. Esse portavano nei loro cuori la forza della Vita che
donavano e custodivano senza domandarsi perché. Erano mamme, e ciò
bastava a riempire la loro vita.
Noi tutti dobbiamo alle nostre madri un attimo di riconoscenza, in fondo
esse hanno avuto in noi stessi e nei nostri figli una fede infinita.
E' per questo loro amore senza limite che meritano di essere ricordate.
Con queste righe io ricordo nonna Maria Stramare in Berra, mamma di
Segusino.

Gian davanti al palazzo


Fenadri a Segusino, 1950

Gian nei primi anni '50

44
Mia madre Carniello Enrica, io, mia cugina Rosabianca e sua
madre Anna a passeggio per Segusino

Mio padre Berra Paolo in tempo di guerra. E' il primo seduto alla
sinistra di chi guarda la foto.

45
Il fiume Piave tra Segusino e Vas. La ferrovia per Feltre.

Il salto del "Barchet" a Segusino. Di sotto il fiume Piave


nascondeva acque pericolose e un girlo mortale.

46
La filanda di Segusino bombardata dopo la prima guerra
mondiale. Qui lavorò mia madre come tante donne di Segusino.

47
Note sulla famiglia di
nonna Maria Stramare in Berra

Berra Paolo ( mio nonno, padre di mio padre) N 10.6.1887 M


2.11.1915
Caduto a Caporetto, nella grande guerra.
Stramare Maria ( la nonna) N 21.12.1887 M
11.1.1969

I figli:
Berra Pierina N 17.12.1912 M
15.4.1942
Sposa uno Spada e muore a Legnano lasciando 3 figli piccoli.
Berra Gio Batta N 24.9.1914 M
7.3.1941
Caduto nella guerra d'Albania

Berra Paolo ( mio padre) N 31.3.1916 M


25.12.1993
Lascia Segusino per assistere a legnano i figli lasciati soli dalla sorella
Pierina. Viene preso da un rastrellamento tedesco e condotto prigioniero in
Germania. Riesce a fuggire a fine guerra e torna a Segusino. Aveva portato
con sé il nipotino Vito Spada a Segusino e lo aveva assistito la nonna
Maria per un periodo.
sposato con:
Carniello Enrica ( mia madre) N 15.11. 1915
Morti assieme in un incidente nel giorno di natale del 1993, investiti.

Berra Antonio N 12.9.1891 M


48
28.8.1947
Secondo marito della nonna Maria. Fratello del suo primo marito.
Figli:
Berra Abele ( più vecchio di Mario)
Canadà, Edmonton, un figlio Renzo n.30.3.1962 e una figlia.

Berra Mario N 7.9.1925 M 15.3.1982


Morto in Canadà, sposato senza figli.

Giochi di bimbi, olio su tavola di Gian Berra

49
Le poesie nate nel bosco. 2013

Le poesie in dialetto veneto, fanno parte di quelle pubblicate nel libro


“Anema veneta”. Pubblicate su Scribd all'indirizzo
http://www.scribd.com/gianberra

50
La machina de fero

A Fener dopo misodì


al sol a va via.
Ma al treno riva istesso.
Paulin anca al torna a casa,
el varda la machina nera
chea sciupa vapor e fumo che al sa de petrolio.
La xe granda e la fa impression,
par squasi che la ride de lu.
Ma dopo al sente i oci che i lo varda, par squasi
che al ga fato qualcosa de mal.
Al xe al capo stazion che ghe fa segno de ndar via.
Basta al segno de na man e na divisa chel al par de
un carabinier che serca un ladro.
Paulin conosse la rabia, ma lu cala la testa
co ubidiensa.
Lu al sa che nissuni de sta zente foresta che vien
da fora, i parla come a Segusin, gnanca come a Fener.
Lori i comanda co na divisa che fa paura.
Lori i e tanti e i comanda. Noialtri gavemo da
taser e far i boni. Tanti de lori anca i ne porta via
le tosate zovane. Tante le va a servir a Milan o a Torin.
E dopo no le torna pi. Tante le scampa no se sa andove.
Anca i zoveni i va via, tanti in Canadà, lontan oltra el mar.
Dopo i scrive do letere, e basta.
Paulin xe fortunà, lu al ga catà laoro
a Mestre el pol tornar a casa la domenega.
Al camina oltra al pont sul Piave e no se ferma ala osteria.
Oltra al mira Segusin e ghe se slarga al cor.
51
No, lu non partirà, nol vol perdar de vedar
i so veci e al campanil.
Intanto la rabia ghe fa tornar in mente
la machina fe fero, e la so superbia.
Ma suito al pensa che anca ela,
la ga un paron.
E così al se libera l'anema.

Gian Berra 2013.

Ma si, ancò son cossì content dopo la ciacolada co Eduardo. Mi no olea


metar sta poesia suito; mi me andea de spetar ncora un poc. Ma parchè
spetar a cantar na roba che noialtri gavemo pi o meno vissuo? La età del
scoverzer l'amor la xe na staion che masci e femene del nostro popolo de
anime venete, che fursi lori na olta i fasea fadiga a viver dopo mille anni
de sgarbo verso la Vita?
A l'è come se la anima de na bela tosata zovena, la me ga regalà al so
attimo pi bel, quande ela sola entro na camera, la podea esser piena de
orgoglio par sè stessa. Fora la era tuta n'altra roba.
Gian Berra.

Tetine bele.

Marieta la se ga serà la porta col batecol,


sto dopo miodì so mare la ga assada lavase ela sola in la so camereta
e ela la ga portà su un mastelet de acqua calda,
anca un sugaman e un toco de saon.
La versa un poca de acqua sul cadin, sora la carega.
La se tira indrio i cavei par sentirli bei. Dopo
la li liga col nastrin, così noi i se bagna.
Quande che la taca a sbotonarse la camiseta che gnen i sgrisoi
a cavarsela. De sot la porta na maieta fina, e dopo la se cava anca quela.
La se sente meza nuda ma la taca a bagnarse i bras, al col, la facia.
Dopo la se insaona anca al petto e la panza.
Co le man e na strazza bagnada le se passa anca un poc la schena,
52
e dopo la se suga pian pian.
Dopo la varda al batecol con poca de paura,
e la taca a cavarse de sot la gonella e le mudandine.
No la se varda par rispetto e la se ciuca sora ala mastella, squasi sentada
cercando de no trar fora acqua.
La se passa svelta la strassa su le gambe e i piè
e anca là in medo.
Sta acqua la ghe dà un senso de bel, de san.
Dess la se leva su e la se suga tuta
squasi in pressa. Dopo par che no la volaria
ndar via suito. La se tira in piè, la se slonga la schena e
no la se incorde pi de esser nuda.
Ghe par de olar, la assa andar le man fin sule gambe,
la sente la so pèl coi sgisoi e la se gira, co coraio, a vardase
sul gran specio consumà dai ani.
Dess, co coraio la se mira e la se gusta co orgoglio.
A l'è al so corpo bianch e splendente che al ghe roba i oci,
par che lu ghe dise: Son mi al to tesoro.
Ela la varda apena al ciufet de pei, co an poca de vergogna.
Dopo le man le vien su da sole,
le toca senza vergogna le tetine apena nasceste.
La se toca curiosa i capezoi che i vol saltar fora,
e la sente al gusto de viver.
La se gira e la varda la finestra verta, alta sul
trodo dei mulin.
Nessuni pol vedarla, e la se offre ai alberi la de sot,
squasi a dirghe grazzie.
Dopo la varda al sol, e la tira un sospiro.
Marieta la se riveste, ma i pensieri noi ghe ne pì.
Ghe par de aver tocà al paradiso,
ma no lo ghe lo dirà a nissuni,
parchè i la ciaparia par mata.
La aria la entra par la finestra e la ghe regala
al profumo dei fior de la cassia.
Tutti sti regali,
i e solamente par ela.

Gian Berra 2013.


53
*Aneme venete.
Sciupar fora la rabia!*

Sciupa fora la rabia, la xe na merda che la ghe fa mal al figà.


Anca alla panza, all'osel, ale bale e anca alla figa.
Veneti, popolo sentà e co poca forza,
vardè la merda che gavè entro le budele.
Sciupa sta merda e vardala senza aver paura de sto diaol.
Quande la rabia la xe drento la panza, la se sconde ai to oci, e
la te roba la vita senza che ti te incorde.
No basta osar o criar, gnanca sognar.
Quande che ti te vede la to rabia, quande te scoverze che
che altri i te ga meso dentro sto velen. No la pol pi sconderse!
Prima i te ga meso drento la paura anca de parlar scieto.
Dopo i te ga convinto de taser, e far al bon,
parchè così no te andarà all'iferno.
Così ti te sta bon, e ti si contento de essar bon.
Parchè i boni, i te gà dito, i ga sempre reson.
Ma la to anema no la se assa menar par le bale,
ela la te tormenta, la te fa sveiar inrabià,
la te roba i pensieri, e la te remena.
No importa al trodo che te cata,
ma trà fora al velen.
Te piase la bandiera? O te speta le feste par star insieme, o te lesi
la storia de na olta? Tuto va ben! No importa, sciupa fora la velen,
sanza aver al timor de far bruta figura.
I pedoci no i stal sol che a Roma,
i xe anca quei che parla co bele parole e che te da reson.
No sta scoltar quei che scoreda sapiensa,
o quei che te promette al paradiso.
Scolta anca al to bus del cul.
Specialmente se al xe al tuo.
E libero, smerda ignoranza, paura, rabia.
La to anema se libera, la se neta ela sola,
54
la se purga.
E ti, credeghe, ti gavarà sempre reson.

Gian Berra 2013

Al merlo del Pinet.

Le erte dei Singè,


le crode e i sas, e pi sot
la casetta del Pinet.
Al fum del fogo dela sera,
par che al sfoga su par l'aria,
co la la voia de rider e dir che lu a l'è ncora vivo.
Lontan, oltra al Grappa,
al sol par che al dise "se vedemo".
De sotto al paeset se fa scuro,
ma Pinet nol varda fora.
Lu al remena i fasoi co la pasta grossa.
Al fogo al tira negra quela tecia
da massa ani, e al fa fadiga a boiar
al menestron.
Ma sto omo no conta pi i dì da secoi.
Pinet! Urla al merlo Neron; lu al ciama al Pinet
tante olte la dì.
E Pinet lo varda, par che al ride. Ogni olta al ghe risponde:
Tasì!
Al merlo lo varda ncora naltra olta e par che al ride anca lu.
Neron al xe un merlo fortunà, lu al ga un paron,
che al xe anca un amigo.
Neron se ricorda che na olta, la femena del Pinet,
la ciamava al so om,
tante olte al dì.
Dopo che ela la è morta, nissuni pi lo ciamava.
Neron l'è un merlo furbo. Dess a l'è lu
che lo ciama.
55
Par no assarlo morir.

Gian Berra 2013

Stram

La mussa de legn la sbrissa


do dal Frontal,
che par che la tira al mus.
Ma a l'è Nani che al fa fadiga.
Lu no l'è bon de star fermo
e al suda poc, dato che ormai,
al ga si poca carne da consumar.
Lu al varda le siese do par al trodo,
squasi ghe par de vedar
tanti dei de legn nudi
che i segna l'aria
de sto inverno che al par pi fred
de l'anno passà.
Dopo al riva sulla costa.
Lu al vede Riva grassa do bass
coi camin che fuma.
Dess ghe vien la voia de tornar
do a casa soa. Ma al se ferma
an pochet a ligar meio
al stram che al ol scampar via.
Dopo al riva bass e al taca
tirar sto peso su par le case.
Nol cata nissuni par strada.
Al pensa a le do vache che le lo speta.
Dopo al pensa anca ai so fioi che i laora lontan.
Anca al pensa alla so femena.
56
Lori, tuti i ga dito lu di vender ste bestie.
De assar perder, de far al vecio,
come tuti quei che i passà i ani
dela fadiga.
Quande Nani al riva tacà la stala, a l'è scur.
Al se ferma un poc, e dopo
al scarga le foie sul portego.
Dopo, quande che al mete la so testa entro la stala,
le do bestie le lo varda come si lo spetasse
da sempre. A lu al ghe se scalda al cor
e al se senta sul schegn co la secia in man.
Nol porta suito al lat in te la caneva,
prima al pensa ncora cosa far.
Ma nol cata altro e al sospira.
Quande che vien scur, quande che vien la ora
de fermarse, a Nani ghe vien la paura.

Mai lu, su la so vita, al se ga mai fermà.


Gnanca na scianta, gnaca par zugar,
Nani nol sa cossa sia star fermo.
Dopo al met na man entro al mucio
de stram. Al sente ste foie seche che ghe carezza
la pel. Par che le scampa via, par che le ola.
Par squasi che le ol zugar co lu.
Cossì ghe vien un pensiero: Che sia anca mi stram?
E ghe par de esser na foia seca, una de quele in tel sac.
Na foia che la ga fato la so parte, co impegno
e giudizio.
Dess anca Nani al sa de esser stram,
che par la ultima olta,
lu darà na man,
a quei che al ghe serve.

Gian Berra 2013.

57
Gnent da far

Luiseta la cata un giornal,


davanti ai cancei del cimitero.
A l'è net e suto, squasi novo.
La lo ciapa in man
come s'il fusse in tesoro.
La se senta sui scalin
e la se desmentega par che,
la è vegnista qua.
La varda i foi, la cerca qualcosa.
No sa gnanca ela. No la sa squasi ledar,
ma la sa che i giornai se varda, se lede.
La vede zente importante, ma dopo,
quande che la gira la pagina, sta zente
no a ghe xe pi.
Cossì la impara che ghe toca
tornar indrio. Ma no la ga voia,
de tornar par far sta roba. Cussì no se finis mai.
Luiseta la trà via quei foi che i fa confusion.
Dess la varda dò, andove le case e la cesa,
par ghe dighe: Cosa atu fat ancoi?
Ela la se incorde che la è squsi la ora de
tornar a casa. Ma cossa ela vegnista a far quà?
E no la se ricorda.
Ma la taca a caminar zo,
par rivar par ora.

Gian Berra 2013.

Tocio.

Al riva squasi fin dò sul


Cal del pont.
58
Co calma al gira le piere,
al ipiegnis i foset.
La tera lo suga, ma no basta,
De sera al so paron al riva dò.
Co na mussa de legn cargada, piena.
Lu al scarga ancora, ogni dì.
E ncora tocio se alsa, se leva,
al cola dal stram, lu al scampa via,
nissuni pol fermar al so destino.
Tento al tocio, nol perdona.
Sto quà a l'è tocio de Riva grassa.
De vache sane. De erba taiada a man co fadiga.
Lu l'è tocio san, vero, autentico.
Grass e co valor
de vero ledam,
de Segusin.

Gian Berra 2013

Quand al vien al fred.

Quand al vien al fret svelto ciapa la sciarpa.


Metela sul col,
botona la camisa e vardete dal vent de tramontana
che i diaol i vien do dal Doc.
Da drio la montagna brusa l'inferno e el manda mala aria.
Aria de malatia che vien par farne tuti stal mal.
Varda che drio la montagna al Papa e i soi cardinai e vescovi
i ga fato scampar le strighe e i stregoni.
Lori era amighi del diaol, lori i era al mal.
Noiatri semo liberi da sto tormento, dato che adess,
59
vivemo felici parchè andaremo in paradiso,
ga gantio el prete.
Ma lu el magna gratis, noiatri invenze
ne toca tremar de fret.
Noialtri gavemo fato mal a nascer, gavemo fato torto a Dio,
par sta reson ne toca sofrir sta pena.
E patir al fred, tremar e lavarse co l'acqua ingiasada.
Qua a Stramare al sol va via prest, ma sul larin brusa
na stela de cassia. Na stela basta par sperar de viver
fin doman.

Gian berra 2013

Maria no sega pi l'erba.

Maria l'è vecia e no sega pi l'erba.


Maria l'è grossa e bassa e la camina poco segura.
Maria la sbanda ma no la vol al baston,
ela la se vergogna de esser vecia e la varda avanti coi oci bassi.
La se sconde la testa col fasolet nero a balete bianche.
Maria la serca de no sporcarse la traversa,
e par no sporcarse la camisa nera la se tira su par le maneghe.
E la tira i piè sule savate come a strasinar quele gambe strache.
Stamatina la varda i pra a Milies e la se pensa de quande,
tanti ani oltra, col so om e i fioi tacadi ale gambe,
anca ela col rastel la reoltea al fen.
Maria la nasa l'eba segada e ghe vien voia de piander.
Al so primo om ghe la portà via la guerra, al secondo el vin.
E i so fioi, quei vivi, i e tuti via par al mondo.
Ma i oci de Maria non vol lagremar
parchè se fa fadiga anca a piander.
Dopo Maria la se incorde de esser ancora in piè
e le gambe par che ghe dise che ela l'è ncora viva.
Maria de novo la se scalda al cor.
Stasera la pregharà ancora la Madona par sta grazia.
Dopo la ciaparà sono sanza sognar.
60
Gian Berra 2013

Ariù, anima de acqua.

Acque gelade e mai ferme.


Mai strache e pi vece dei omeni.
Le vien dò da Stramare, do svelte par le crode sconte.
Le tira i oci a vardarle, come a domandarte
al parchè de sta pressa dei omeni.
Ma ste acque non no le se disturba a risponderte.
No le te varda gnanca.
Queste xe acque che ga da far, no le pensa massa.
No come ti che tu sta a vardarle. Par che le diga:
Dai ven zo a bere, dai svelto no pensar massa.
E mi salte le crode e mete i piè entro la posa.
L'acqua le bona e fresca come un regalo,
e dopo me par de star meio.
Tuti i pensieri de prima i xe scampadi,
senza aver da pregar nissuni.
La testa l'è libera e contenta de viver.
Par che l'acqua la ride.
Ma suito la scampa via.

Gian Berra 2013

61
Nosele seche.

Ruma sul sest le nosele seche,


che st'inverno saron contenti de magnarle.
Netale ben e scarta quele mate.
Dopo frachele entro el sac e metale via,
dopo scondele ben e tento a no vardarle massa.
Co i riva da Treviso quei del dazio de Roma varda par tera,
e no alzar i oci.
Quei ladri i ta porta via al vedel ogni ano.
Attento a no vardar la caneva,
che i te porta via al formai e le sopresse.
Mostraghe i to fioi cei, mostraghe anca to nono,
e dighe coe lagrme sui oci,
che te toca vardarlo come sel fusse un bocia.
Dopo varda fora e fa finta de piander.
Atento che quei ladri i ga sempre rason!
Ti dighe sempre de si.
Quande i va fora ti sera la porta,
e no lementarte de aver na sopressa,
e anca doi toc de butiro de manco.
Sugate al nas e le lagreme,
Inciuca do la rabia e sospira.
Mandaghe un pensiero alla Madona,
e tasi.

Gian Berra 2013

Me nono scatàra.

Lu le vecio, el tabaca dopo magnà.


Ma al se contenta, e nol ciacola par gnent.
Me nono al stà ore sentà sul schegn fora da la porta, e
62
lu scampa entro quande riva al sol o quande vien do la piova.
Me nono ghe vol ben ala ombria.
Dopo lu al scatara moro su na strassa rossa,
dopo al se suga le lagreme e i so oci i varda alt, su par le rive.
Lu se gode a vardar le gambe dele femene che passa svelte.
A lu ghe basta vardar, el se gode a far sogni,
de quande al fogo della so pansa ncora brusava.
Ghe basta tirar al fià e no pensar a altro
Ghe fa paura i so ani de laoro senza fin,
e dopo anca al dolor de la so femena morta de fadiga,
e anca par i so fioi morti par el Re e par Roma,
Anca par i pecai da scontar doman quande ghe tocara morir.
Fortuna che na neoda lo cura,
e la ghe compra al tabac da tirar.
Me nono non scatara par difesa,
lu solamente al sciupa ste pene par tera.
E dopo al tira al fià
naltra olta.

Gian Berra 2013.

Maria la torna dala messa.

La camina fora dala cesa, co le man sul cor.


E la varda su l'aria come a vedar se al mondo
a l'è quel de prima.
Entro la cesa, al prete prima al parlea come se lu al fusse Dio.
Ma ela la sconde al fastidio, al pensiero che Dio l'è sempre irabià.
Maria la ga paura de sto creator che al se lamenta sempre
dei so fioi. Maria lo prega e la spera de no farlo rabiar.
Ghe vien in mente suito an pensiero che ghe fa strenzer al stomego:
Che qualche olta Dio al ride anche lu?
Alora ghe vien in mente Dio che verze la boca e al mostra i dent.
Adess Maria la ga paura e la sente fret. Quei dent par che i vol
magnarla, Suito la dis coi laori seradi na ave Maria e la se sent
come svergognada.
63
L'è come se la fusse nuda in mezo ala piazza.
Maria la trema tuta e la scampa squasi.
La so casa de Stramare l'è la tacà. La verze la porta e dopo la sera fora al
mondo.
Parchè sto dolor? se domanda Maria. Ma no ghe risponde nessuni.
Maria alora la se versa un mezo goto de vin pizol, che suito ghe scalda
al cor.
Svelti i pensieri de pena i scampa e ela se incorde che l'è quasi miodì.
La ruma le bronze e la parecia l'acqua par la polenta dela domenega.
Dopo la tira fora an poc de formai e par che de novo
al sol al vien entro dai scuri mezi verti.
Maria la varda fora e la fissa un toco de ciel.
I so oci i voria trar fora lagreme che domanda de sfogarse.
Ma Maria la se vergogna anche de lagremar.
Parchè saria far torto a Dio.

Gian Berra 2013

Spere de no stufarghe tuti, ma qua in montagna da drio de ogni albero, ma


parla le anime dei me veci. E no son bon de no scoltarle.

La vendetta de Bortol.

L'è vegnist do da Riva grassa coi zocoi novi.


I xe quei bei co la gomma sott la sola.
Le braghe xe quele pontade da drio, ma se sconde ben al sette,
coa giacheta longa e nera ancora squasi nova.
Do in piaza a Segusin i fa la fiera.
Bortol no ga bestie da vender, e gnanca schei par comprar,
ma lu, come i so amighi i ga voia de vedar an poco de mondo,
e dopo andar entro la osteria de Sbrek a parlar de bestie, de schei,
e co prudenza, anche de femene.
Nisuni parlarà de politica parchè gnanca i sa cosa la sia.
Quande chel riva in piassa xe come na festa dove che i oci no sa dove
vardar.
Tuti i omi i xe intorno a sento bestie tute ligade.
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Su naltro canton xe vegniste do anca le femene, tutte insieme come su un
puner.
Bortol al gira e al cata da ciacolar e al sogna le bestie pi bele.
Dopo al fa finta de ndar oltra, ma al passa tacà le femene par vardar
meio.
Nol se incode de do figure che vien vanti.
Al notaio de Venessia, alto, ben vestio, profumà coa barbetta taiada ben,
insieme al sindaco, i se vede davanti sto bacan de merda. E davanti le
femene i lo bloca.
– Tento bifolco, varda andove tu camina!
Le femene le ride contente de sto gran coraio. Bortol al resta là come na
merda pena fata.
La vergogna lo blocca, la paura lo fa tremar. Al cata un canton par tornar
a pensar. Dopo al se sconde entro la osteria e al beve do goti de vin. No
pol parlar, al ga la boca serada come na tega coi boton novi. Ma la
vendetta lo ciapa come na colla e lu al scampa fora e dopo no i lo vede pi
nissuni.
I do omeni nobili, al notaio e al sindaco, i tira tardi e i pensa de andar a
far festa stasera a Valdobbiadene. I riva al so caretin e i sliga al caval par
ndar via.
I se senta insieme sul sedil e si mete comodi. Ma i se incorde tardi che i
ga pestà col cul do buasse ncora calde.

Gian Berra 2013

La carega santa del Papa.

65
Mi son la carega straca del papa,
Son vecia e seca ma so contenta.
Doman i me porta ne a caneva,
dato che el Papa va via.
No che no l'è mort,
no che l'è malà, gnanca che el ga finì i schei.
Al papa al se ga stufà de criar par gnent.
Lu al ga dito a tuti che l'è strac e basta.
Quanto nervoso,
quante scorese me ga toca soportar,
quanta rabia e sconforto.
Ma mi son ncora intiera, anca se vecia!
Ma go visto massa robe sconte
e no ghe la fasso pì e me sento marsa
e senza amor.
Nisuni me ga dito grassie
de portar an peso del genere.
Lu, al papa, nol pesava massa
ma al gaveva pensieri che pesava come na casa,
forse anca de pì.
I diseva che Lu al parlava co Dio.
Ma co mi nol ga mai parlà.
Mai che na olta al me ha dito grassie.
Ma le careghe no a da pensar,
gnanca da parlar,
ganca de lamentarse,
le careghe a da taser,
e basta.

Gian Berra 2013

Altre opere di Gian Berra

66
http://www.scribd.com/gianberra

Raccolta delle opere in internet

http://www.scribd.com/doc/42179010/WASERE-Di-Gian-Berra-Romanzo

Le prime venti pagine del romanzo Wasere.

https://sites.google.com/site/gianberrasite/

il sito di Gian Berra.

Il romanzo Wasere può essere consultato anche su google libri.

Note biografiche sull'autore:

Gian Berra hippie nel 1972

La foto ritrae Gian Berra nel 1972-73. Gian era un giovane che dopo una
breve esperienza universitaria aveva abbracciato con ardore gli ultimi
fuochi dell’epoca hippies Ma la provincia veneta era distante dalle passioni
di libertà della fine degli anni sessanta: il Veneto non è la California e
nemmeno Parigi. Ma Gian Berra non si rende ancora conto che vive in una
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realtà addormentata da secoli e svuotata da ogni entusiasmo. Chi è il ladro
che ha rubato la vitalità al popolo in cui si trova a vivere? Perché la gente
sembra cieca alla natura che ogni giorno le alimenta la vita?
Sono domande ingenue e terribili. Loro non possono avere una risposta per
un artista che sta per scoprire di esserlo: Gian non ne potrà fare a meno di
porsi queste domande. Gian Berra già dipinge e si dedica alla scultura, ma
non lo considera ancora un lavoro. Per questo tenta alcune fughe all’estero.
Prima parte con il cugino Renzo per la Svizzera e si ferma per un po’ a
Shaffausen e a Tayngen. Poi con l’amico Giannetti se ne va in Germania e
visita Braunsweig e Hannover. Comincia a vedere altri orizzonti e gente
diversa. Quando ritorna un poco deluso a casa si accorge che anche in
Italia i tempi sono cambiati. Il '68 è finito e la realtà è rimasta quella di
prima. Sembra che una occasione sia stata sprecata specialmente dai
giovani. A Gian Berra rimane solo la sua moto, il suo giubbotto alla Che
Guevara e tanti sogni così lontani da quella provincia senza speranze.

Gian apre il suo primo studio d'arte a Valdobbiadene nel 1973. Questo sarà
solo il primo tentativo di mettersi in mostra con i suoi dipinti e fare le
prime esposizioni di quadri in provincia di Treviso nella regione di
Venezia. La realtà dell’arte che lui trova è deprimente. La provincia ha
poco altro a cui pensare oltre al calcio e alle discussioni politiche. Nel
1977 avviene la svolta: lascia Valdobbiadene per Covolo di Piave. Non è
un gran salto, ma almeno è fuori da un paese che ha deciso di ammirare
solo sé stesso.
Nell’inverno del 1977 fa la sua prima mostra a Treviso presso la galleria “
Lo scrigno di Val”, in Piazza del grano. E’ un grande successo che dona a
Gian Berra le prime soddisfazioni concrete.
Gian organizza nel 1978 una mostra presso la galleria Brotto a Cornuda . E
un successo.
Inizia da questo anno la stagione più avventurosa di Gian Berra. Conosce
nel 1978 Vincenzo Martinazzo, un collezionista con il cuore gonfio di una
autentica passione per l’Arte. Lo chiamano tutti “Ciccio” e lui accoglie
Gian Berra nella sua galleria di Montebelluna. Negli anni seguenti Gian
Berra organizza parecchie mostre tra cui rammento quelle nella sala di
“Ca’ de Ricchi” a Treviso nel 1979 e nel 1980. E’ in quell’anno che Gian
mette su famiglia e decide di fare un altro grande salto.
Nel 1981 lui apre uno studio a Trento, in piazza S. Maria Maggiore. Non
sarà solo uno studio, ma anche un posto dove incontrarsi con artisti amici.
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Gian Berra inviterà l’amico pittore Donadel Bruno di Pieve di Soligo (TV)
nell’autunno del 1981.

Ma la famiglia di Gian cresce e lui ritorna a casa nel 1982.

Nel gli anni dal 1986 al 1988 organizza a Segusino collettive di pittura
gestite da artisti del luogo in cui partecipa anche Gianpietro Miotto di
Segusino. Nel 1988 organizza la sua prima personale a Segusino.

Passa qualche anno di pausa e nel 1990 lui fonda l’associazione culturale
“la Criola”. Questo è un altro tentativo “da artista” per scuotere l’ambiente
assonnato e deprimente di un paesaggio veneto senza speranze. Gian Berra
raccoglie con infinita pazienza attorno a sé ogni artista dei dintorni. Gian
organizza mostre, incontri, manifestazioni e cene di poeti con gli incontri
di "Poesia New Age". Poi nel 1993 inaugura il “corso pratico di pittura”.
Questa è forse l’iniziativa che avrà più successo: durerà sino 2005 quasi
ininterrottamente, con due corsi all’anno. Vi partecipano più di 800 allievi,
molti dei quali diventeranno bravi pittori. Negli anni 80 Gian Berra
organizza esposizioni delle sue opere nelle maggiori città italiane e in
Germania a Dusseldorf, Monaco, Wurzburg.

Nel 1998 si diploma a Padova in Psicosintesi terapeutica ed inizia


l'indagine intima sul potere dei simboli e delle immagini. Indaga la potenza
nascosta delle immagini e il loro effetto occulto sull'inconscio collettivo.
Le immagini hanno un loro potere che può essere gestito da una coscienza
consapevole.
Organizza alcune conferenze ( Padova, Conegliano, Vicenza, Caerano S.
Marco, Cadoneghe e altre ) sul tema della "Paura" spiegata come
fantasma-immagine.

Nel 2001 espone per la prima volta in una mostra di sue opere, cinque
totem che lui ha costruito con le sue mani. “ Totem senza tabù” è il titolo
di quella esposizione a villa Benzi di Caerano,
Gian inizia a scrivere i “ Saggi selvaggi” che ora è possibile trovare in
internet. Lui la chiama “Psicologia Sciamanica”. Nel 2002 li raccoglie nel
libro " Psicologia Sciamanica", una raccolta di scritti dedicati a tale tema.
Nel 2006 esce in stampa il suo primo romanzo “ Wasere, cuore di drago”
dedicato all'anima ferita della gente Segusino, il suo paese di nascita e il
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libro di poesie e racconti “Caos barocco”. Sono reperibili su Lulu.com. Lo
presenta nel 2008 alla sua personale a Segusino.

Nel 2008 organizza la personale di pittura a Segusino ( è la seconda, la


prima la aveva presentata nel 1988 ) e presenta il romanzo “Wasere” alla
gente del suo paese natale.

Le mostre personali dei quadri di Gian Berra nella regione del Veneto, in
Italia e all'estero salgono al numero di circa 230 comprendendo varie
collettive con altri pittori.

Nel 2008 inizia la ricerca sullo "Sciamanesimo della sala d'aspetto" come
funzione necessaria in un periodo storico come il nostro in cui gli
"assoluti" tradizionali tramontano annegati nella globalizzazione.
Finalmente è tornato un Caos salutare? Gian Berra frequenta le periferie
nascoste delle città o dei piccoli paesi del Veneto e scopre prospettive
vitali che dormono da secoli.
Che sia giunta l'ora di richiamarle?
Inizia lo studio del contenuto intimo delle immagini che ci accompagnano
nella vita umile di tutti i giorni. In esse è nascosta l'anima nascosta del
popolo veneto. Esse paiono dimenticate, come in una nebbia emotiva che
blocca la tensione creativa, comunque presente in tutti noi.

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Le rocce delle Wasere a Segusino

Dedicato con affetto a tutti gli amici di facebook...


Gian Berra...

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