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Gian Berra
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Nuova versione 2015
These memories also want to remind my relatives emigrated to Canada soon after the end of
World War II.
The two younger sons of my grandmother Maria Stramare in Berra, Mario Berra Berra and
Abel emigrated in the 50s.
Both returned to Italy for a short visit in the late '60s, but then lost sight of them.
Abel Berra married in Canada and had two children, a boy and a girl.
I remember her first baby son, Renzo Berra, grandson of Grandma Mary Stramare.
I do not remember the sister, who was born after perhaps.
They live in Canada.
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Licenze Creative Commons by Gian Berra. 2013
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Trevignano, marzo 2014
Gian Berra
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Milies di Segusino, la casa di nonna Maria Stramare dove ho
passato i momenti migliori della mia infanzia. In primo piano la
"laguna" dove si raccoglieva l'acqua per la comunità e gli animali.
Indice:
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Riva grassa di Segusino anni '50
Capitolo primo
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porta scura appena dietro un angolo. Muri di sasso nudo e un po' di ghiaia
consumata. Le case accanto silenziose, ma cariche di curiosità.
Aprivo la porta, sempre aperta, spingendo un “batecol” di ferro ed ero
dentro nella gran sala d'entrata. Mattoni rossi come pavimento, in fondo un
grande focolare sempre spento.
Poi un fondo la porta di una piccola stanza che veniva usata dalla nonna
come cucina. Questa porta era chiusa perché la nonna scaldava con una
stufa a legna solo quel posto.
Entravo nella piccola cucina e sentivo finalmente il caldo della stufa. La
nonna era la seduta accanto al tavolo e alla finestra che dava sulla valle
dei Mulini.
Mi guardava appena, ma i suoi occhi erano felici.
Nonna Maria parlava poco; parlavano i suoi occhi e i suoi gesti.
Mi domandava dei miei genitori, della mia scuola e se stavo bene.
Nonna era sempre vestita di nero, con un gran grembiule grigio, tutto
rattoppato. Una gonna lunga nera e larga le arrivava fino ai piedi dove un
paio di vecchie ciabatte le calzavano i piedi. Portava sulle spalle uno
scialle di lana scura e sotto di questo sempre la stessa camicia nera appena
aperta sul collo.
Il suo viso era scavato dagli anni, e i suoi occhi chiari erano per me di una
dolcezza che ispirava subito fiducia.
Nonna Maria mi prendeva sul serio, mi ascoltava con attenzione. Mi
trasmetteva calma e sicurezza e non mi interrompeva mai. Poi scaldava un
po' di caffè e mi serviva una tazza di caffellatte dolce. Mentre lei parlava,
guardavo sempre ammirato i suoi capelli ancora tutti quasi neri. Lei se li
faceva a treccia, e poi si arrotolava questa grande treccia sul capo. Capelli
fini e lunghissimi.
Poi guardavo la vecchia radio di legno appoggiata sulla credenza. La
nonna la accendeva solo poche volte: Qualche volta verso sera per
ascoltare il rosario, e la domenica mattina per seguire la messa trasmessa
in diretta.
Appena fuori, nell'entrata c'erano le scale che portavano di sopra. Due
camere spoglie di cui una per lei sola. Un gran letto scuro a cui avevano
aggiunto da qualche anno un vero materasso. Prima lei dormiva ancora su
un materasso di foglie di granturco.
Ma lo spettacolo per me erano le sue lenzuola rattoppate con amore
Per la nonna le cose comperate con la fatica dei pochi soldi avuti in vita,
erano tesori da curare per l'eternità.
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Strati di toppe, fino a quattro o più, avevano fatto di quelle lenzuola dei
pezzi d'arte. Quando lei non trovava toppe bianche, usava tutti colori che
trovava. Qualche volta le ho viste stese ad asciugare e mi rubavano gli
occhi.
Nulla veniva gettato via in quella casa. E lei mi lasciava andare in soffitta
ad esplorare vecchie meraviglie.
La soffitta era il regno delle fate. La polvere non mi fermava, guardavo,
toccavo vecchi attrezzi agricoli che usava mio zio Mario, emigrato in
Canada.
Ma la cosa nascosta con un poco di imbarazzo, era che in casa non c'era il
gabinetto. Arrivava l'acqua nel lavabo per i piatti, tutto di pietra, ma per
andare al gabinetto bisognava uscire. Di fianco alla casa, un altro portone
scuro andava sulla stalla.
Una stalla abbandonata, e su un angolo, accanto alla finestra e sopra il
fosso per il letame delle bestie, faceva mostra discreta di sé un cassone di
legno con sopra un buco.
Tutto qua, la nonna accettava ogni cosa come naturale. Si lavava accanto
alla stufa con mastello di ferro zincato.
E nei giorni di pioggia faceva asciugar i panni tirando una corda attraverso
l'entrata.
Ricordo la sua amica più intima, una gatta che mai mi aveva accettato e mi
guardava con sospetto.
Mi dissero che quando la nonna morì, la gatta la cercò per giorni e poi
sparì e nessuno la vide più.
Quando le facevo capire che tornavo a casa, lei si alzava con lentezza dalla
sedia e prendeva un bastone e con fatica mi accompagnava alla porta.
Camminava piano, insicura ma con misurato orgoglio. Nonna Maria aveva
una costituzione robusta, ma la sua gobba la piegava in avanti, e parlava
della sua antica fatica.
Sempre in ordine, la nonna mandava un odore di pulito e asciutto.
Poi alla fine quando eravamo alla porta mi metteva in mano qualcosa con
un sorriso di complicità. La salutavo, ed ero fuori.
Poi, con un po di imbarazzo aprivo la mano e vi scoprivo un cinquecento
lire di carta.
Un tesoro che mi allietava il cammino verso casa.
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Nonna Maria Stramare in Berra
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Nonna Maria Stramare aveva una stalla come questa, con quattro
mucche che passavano l'estate a Milies. Stavo con lei anche
qualche sera con le sue amiche nella stalla a raccontarci storie.
Capitolo secondo
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casa fatta con grossi sassi. Ricordo che dietro la casa c'era un piccolo
portico dove tanta legna accatastata aspettava l'inverno. Mio papà non era
con noi. Appena dopo sposato si era ammalato per le malattie prese in
guerra. Mia madre lavorava alla filanda di Segusino. Durante il giorno mi
consegnava alla signora Erminia che abitava sulla casa accanto alla nostra.
Ricordo un pomeriggio che chissà come ero rimasto solo. Ero uscito da
dietro ad esplorare quel portico carico di legna. Tra le frasche secche vidi
una grossa biscia bianca e feci un urlo di paura. Nella strada passava una
signora che mi vide tutto solo e spaventato.
Mi prese in braccio e cercò di consolarmi. Sapeva che mia mamma era al
lavoro, così mi porto a casa sua e mi mise accanto alla sua bambina.
Ricordo un autunno freddo in chi tutti i bambini andavano assieme a
trovare la gente e chiedere regali. Andammo in comitiva fino a Riva
Grassa, e ricordo la visita alla nonna Maria Stramare in Berra. Forse non
era la prima volta che la vedevo, ma quello rimane il primo ricordo di lei.
Vengono i ricordi delle estati passate a Milies. Giochi nei prati, le corse a
inseguire le cavallette...
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Nonna maria Stramare negli anni '30 a
Milies di Segusino
Capitolo terzo
Io e nonna Maria alla fine degli anni '50... quando viene la sera.
– Nonna!
Così chiamavo ogni attimo del giorno la mia nonna Maria a Milies. Le
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estati di quegli anni spensierati le passavo in quel borgo senza tempo.
Poche case fatte di grossi sassi squadrati e poca malta di colore giallo
chiaro. La malta gialla veniva da Staolet, un posto appena sotto Milies. Era
una creta morbida mescolata a ghiaia. Bastava aggiungere un po' di malta e
così si creava un ottimo cemento per tenere assieme i sassi.
Già allora nel 1955 a Milies viveva poca gente in modo stabile. Ma
specialmente i vecchi si ostinavano a mandare avanti le poche stalle.
Verso sera, tutti portavano le mucche ad abbeverarsi alla "Laguna".
Chi si ricorda della laguna? Occupava la grande piazza che ora è un
parcheggio. La laguna era grande per i miei occhi di bambino. Come un
mare scuro e profondo che incuteva timore e rispetto. Ogni sera il concerto
delle rane era una cosa potente e normale, e quel suono insistente e pagano
ricordava il potere della natura sulle illusioni umane.
L'acqua si raccoglieva in quel gran fosso, e serviva da dar da bere alle
bestie e agli umani senza distinzione. Nel fondo si notavano nere alghe, ma
nessuno si sognava di sporcarla.
Verso il tardo pomeriggio venivano da tutto il paese le mucche a bere, era
uno spettacolo ai miei occhi: Erano animali disciplinati; si disponevano in
modo ordinato attorno all'acqua e bevevano. Nel frattempo chi si era
radunato si scambiava le chiacchiere e parlava del tempo guardando il
cielo.
Quando le mucche tornavano alle stalle, tornava il silenzio e le mamme e
le nonne chiamavano a casa noi bambini.
Allora il silenzio non faceva paura. Era solo silenzio e permetteva di
pensare e osservare ciò che ci stava attorno.
Poco dopo si sentiva la campana della chiesetta suonare pochi rintocchi
che annunciavano la notte che veniva.
Io seguivo la nonna Maria che rientrava per preparare la cena. Continuavo
a chiamarla senza una vera ragione, mi bastava questo per sentirmi in
compagnia e al sicuro.
Per questa ragione la nonna nemmeno mi rispondeva. Mi guardava appena
e mi sorrideva come a rassicurarmi. Nei suoi occhi rimaneva
un'apprensione vecchia di tre o quattro anni prima, quando mi era capitato
quel brutto incidente che mi avrebbe strappato da Segusino per anni. ma
nessuno ne parlò mai. E io lo avevo dimenticato, per ora.
La nostra casa era stata costruita dai suoi due figli, zio Mario e Abele
Berra, appena dopo la guerra sulle rovine di un'altra casa distrutta dai
tedeschi per rappresaglia.
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Era una casa grande e vicino all'acqua della laguna.
Quella sera, come sempre un buon odore di fumo usciva dalla porta. Non
c'erano stufe, ma solo un gran camino dove la nonna cucinava il cibo. Per i
miei occhi il camino era un gigante che arrivava al soffitto. La pentola
scura era appesa alle catene sopra le braci. Dentro il minestrone di pasta e
fagioli si scaldava. Sul grande tavolo di abete, non ho quasi mai visto una
tovaglia, ma non mancava mai il formaggio e il vino.
Mangiavamo con grandi posate di ottone quasi un silenzio. Qualche volta
mangiava con noi anche lo zio Mario. Anche lui parlava poco.
Avevo un po' di timore dello zio Mario Berra. Forse faceva una vita troppo
dura. Rispondeva in modo brusco e secco. Non ricordo di averlo visto
ridere. Lavorava con il suo mulo e si muoveva di continuo tra Riva Grassa
e Milies.
Quella era una sera come tante e in montagna le sere erano fredde. Così
rientrare in casa era una sensazione piacevole. Appena dietro una parete a
nord la nonna usciva da una porticina e portava in mano un pezzo di
formaggio scech, tipico di quelle montagne.
Poi rimestava il minestrone e metteva i piatti in tavola.
La nonna si versava un po' di vino rosso. Vino fatto in casa, dal sapore
aspro e leggero.
Io mi ero già seduto in tavola, facevo a pezzettini del pane secco e lo
mettevo dentro la zuppa fumante. Come dimenticare quel forte odore di
fumo?
Ogni cosa che cucinava la nonna sapeva di fumo. Anche il formaggio e il
burro odoravano un po' di quell'aroma pungente che sapeva di antico.
Poi in silenzio si mangiava e alla fine io fuggivo di nuovo fuori che era
quasi buio.
Tra poco le rane della laguna avrebbero iniziato il coro. Quel frastuono
avrebbe riempito l'aria di Milies per almeno mezzora, forse di più.
Alcune sere nonna Maria diceva il rosario. Anche da sola. Io ascoltavo e
talvolta rispondevo a quelle ave Marie, come in un mantra che mi
addormentava la mente e alla fine senza dire parole andavamo a dormire.
La nonna amava i suoi riti, erano consuetudini apprese da piccola. Quando,
la domenica il parroco veniva fino a Milies per dire messa, lei non
mancava mai, ma sapeva essere pratica: Se non era libera dal lavoro
saltava la messa domenicale. Ma quando le serviva dell'acqua santa la
andava a prendere in chiesa.
A volte, assieme alle sue amiche organizzava dei rosari serali in chiesa.
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Ogni sera qualcuno suonava la campana dell'Ave Maria.
Il lavoro era parte integrante delle sue giornate, a tutte le ore.
Nonna Maria non conosceva riposo. Non aveva il tempo per pensare, il suo
tempo era fare le cose. Già allora aveva la schiena piegata per la fatica di
vivere al servizio della famiglia.
Una gobba decisa la rallentava e abbassava la sua statura, ma una tensione
superba del corpo le impediva di fermarsi a compatire sé stessa.
Lo sguardo di nonna Maria aveva ormai un'aria stanca, ma era sempre
fiero. Sembrava guardasse lontano, oltre le cose che toccavano le sue
mani. Guardava dentro le apparenze delle persone, ma non giudicava mai.
Cercava la felicità nei desideri non espressi di chi le rivolgeva la parola.
Sempre attenta a non ferire nessuno, sempre vigile ad accogliere una
richiesta di aiuto.
La vedevo distesa e felice quando sentiva che l'armonia era stata ristabilita.
Questi sono i doni che lei mi ha dato, e io li ho assorbiti in me come tesori.
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Capitolo quarto
Negli anni cinquanta ardevano gli ultimi fuochi di questa cultura. Ho fatto
ora ad assaggiare il sapore aspro dei dialoghi e comportamenti. Ho
assimilato in parte la lingua di Segusino, una parlata da gente di
montagna. Un dialetto parlato in fretta e quasi a monosillabi con
l'atteggiamento di chi non vuole trasmettere che il proprio dovere.
Che fatica trasmettere sentimenti o sensazioni positive. Che fatica
trasmettere gioia! Che fatica dire " ti amo" o ridere senza imbarazzo!
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Ma poi mi veniva spontaneo pensare alla sofferenza e al destino di quei
poveri diavoli senza prospettive per l'eternità. Li sentivo lamentarsi di un
destino senza prospettive e non mi pareva giusto.
Poi più avanti compresi che la nonna si riferiva al Concilio di Trento, di
tanti secoli prima. Ancora, dopo tanti anni era viva in lei il terrore
impresso ed indelebile trasmesso sin da bambina, come una condanna che
poteva colpire anche lei se...
Capitolo quinto
A Milies le estati non erano mai troppo calde, così io e la nonna facevamo
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passeggiate nei campi falciati attorno alle case. La nonna faceva fatica a
camminare per lunghi tratti, ma pur di soddisfare la mia curiosità mi
faceva da compagna e mi descriveva le meraviglie che mi stavano attorno.
Tutto mi stupiva. L'erba che calpestavo era tutta falciata con cura precisa
come dentro un giardino di gente nobile. Tutto era ordinato e pulito e dava
l'idea che la vita a Milies fosse una cosa seria. Poi rimanevo meravigliato
dalle cavallette che saltavano ad ogni nostro passo e tentavano di fuggire
alla nostra presenza. Qualche volta ci seguivano le tre galline della nonna:
Per loro era una festa, beccavano quegli insetti e si saziavano felici.
Quelli erano gli anni delle cavallette, poi qualche anno dopo sparirono
quasi tutte e fu come se davvero fosse finito un mondo.
Già allora nella fine degli anni cinquanta poche famiglie vivevano
stabilmente a Milies. Forse solo tre o quattro nuclei famigliari resistevano
grazie alla pensione di vecchiaia degli anziani che avevano deciso di
morire in quella valle.
Non ricordo molte amicizie con bambini come me, durante quelle estati.
Quando tornai il quella valle ero già un ragazzino solitario. Avevo già
rimosso i ricordi di quando avevo scoperto Milies per la prima volta, cioè
di quando avevo tre o quattro anni. E avevo perduto gli amichetti di quel
periodo della fine degli anni quaranta. Avevo "dimenticato" il dialetto
appreso da piccolo e parlavo un italiano educato e preciso, questo era un
ostacolo notevole a fare nuove amicizie.
Così non mi rimaneva che leggere molto e osservare.
Pur avendo 10 o 13 anni leggevo molto e di tutto. Avevo trovato una
miniera di libri presso la colonia estiva "la casa del fanciullo" di Padova.
Era stata costruita pochi anni prima davanti alla casa di mia nonna.
Quando Pompeo, il cuoco della colonia si era accorto che fissavo tutti i
libri che mi passavano sotto gli occhi, mi presentò al "capo" di quella
comunità e lui mi portò in un grande ripostiglio e aprì una gran cassa di
legno e mi invitò a prendere in prestito parte di quei tesori. Prendevo tre
volumi per volta e li portavo a casa. Poi una volta finiti poi tornavo là in
cerca di altri. E così per varie estati.
Scoprivo territori infiniti dove i miei ingenui sogni si saziavano. La nonna
mi guardava e non diceva nulla. Forse aveva capito che solo in quel modo
riuscivo a soddisfare la mia voglia di scoprire il mondo. Lei mi ha
accettato così come ero, e nel frattempo tentava di farmi amare il suo
mondo. Nonna Maria aveva pazienza da vendere e poteva finalmente
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permettersi di non avere fretta. Nella sua lunga vita aveva sopportato ogni
sventura e accadimento. Il dono più grande che mi ha fatto è questa sua
sicurezza interiore,
Mi trasmetteva fiducia e ottimismo. Con lei mi sentivo al sicuro.
Ricordo di Pompeo
Stramare di Segusino
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Nanni della Marianna nel 1985
Capitolo sesto
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Spesso venivano ad aiutarli nei lavori Arnaldo e Amedeo i suoi due nipoti.
Venivano su da Stramare e mi stupiva la loro vitalità ed energia. Io al
contrario ero lento e tendevo ad ingrassare. Loro per me erano dei super
uomini. Li guardavo da lontano sentivo la loro sicurezza. Vivevano il loro
ambiente come giovani signori. La gioventù di Segusino nasceva nel
sacrificio del lavoro senza sosta ed imitavano i loro padri portandosi
dentro un orgoglio che non cedeva mai. Per me che ero un insicuro e
timido per natura, erano esempi di ciò che avrei voluto essere, ma erano
così lontani dalla mia vita che mi limitavo ad osservarli da lontano.
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Nonna Maria con mia zia Maria Coppe
negli anni '50
Capitolo settimo
Spesso vagavo tra i campi senza meta, e una mattina notai tra l'erba alta
rimasta ai bordi dell'orto una nota di colore che risplendeva. Mi avvicinai e
notai un fiore solitario, altissimo e orgoglioso. Era un giglio rosso
splendido nella sua arroganza. Me ne innamorai senza dubbio alcuno. Così
domandai alla nonna come fare per portarlo a casa e lei mi consigliò di
raccoglierlo con le sue radici di mattina presto e di rinvasarlo dentro un
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vasetto con della terra buona e innaffiarlo con cura. L'indomani lo trattai
con massima cura e portai la piantina in casa e lo posai su un muretto in
ombra. Era uno spettacolo e lo adoravo come fosse il tesoro di quella casa.
Dritto, con tante foglioline e un fiore scarlatto che orlava ottimismo alla
vita.
Quando venne la sera pensai di portarlo al sicuro dentro la stalla e lo posi
sul davanzale della finestra. Le due mucche della nonna erano legate alla
mangiatoia e non mi degnarono di uno sguardo.
Il mattino dopo non mi ricordai subito di quel fiore. Ma a metà giornata
sentii che la nonna era dentro la stalla e mi ritornò in mente la mia pianta.
Corsi dentro la stalla e cercai il fiore e rimasi come smarrito a vedere che
non rimaneva che uno stelo nudo. Erano sparite le foglie e il fiore. Le
galline che dormivano dentro la stalla stavano finendo di beccarlo.
Rimasi là fisso a guardare fisso per un attimo, sgomento di tale disgrazia...
Nonna Maria che stava osservandomi si mise a ridere senza freni. Si
agitava come non la avevo mai vista. Rossa in faccia in preda a dei singulti
che la scuotevano tutta rideva senza freni! Poi tentò di mettersi una mano
davanti alla bocca per darsi un contegno...ma non ce la fece e continuò a
ridere e infine uscì in fretta per rompere quell'incantesimo che lei stessa
non sapeva gestire.
Poi più tardi, quando la rividi, lei non rideva più e della cosa nessuno di
noi parlò più, come se nulla fosse avvenuto. Ma quella sensazione è una
lezione di vita che non mi ha più abbandonato.
Nonna Maria giocava a carte quando poteva. Con le sue amiche e anche
con me. Sempre attenta e precisa mi lasciava vincere alla briscola e a
tressette. Su un alto a Milies c'era una osteria nascosta sotto un portico. Lei
mi accompagnava là mi comprava una gazzosa, e poi giocavamo a carte
assieme a chi si era seduto con noi.
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Gian Berra (col capellino) a Milies
con i suoi amichetti, fotografia di
Mondo. Anni '50
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Mi misi a fare un disegno del posto.
Sentii dietro di me due occhi che mi osservavano con attenzione.
Mi girai e vidi una ragazzina dal viso chiaro che mi osservava disegnare.
La vidi bellissima, quasi una fata. Lei rimase in silenzio... quasi a vedere
come facevo quei segni.
Poi io finii il disegno, e mi venne spontaneo porgerlo a lei dicendo:
– Ecco, è un regalo per te.
La vidi bloccarsi per la sorpresa e dire. - Ma elo par mi?
– Si, è un regalo per te, le dissi semplicemente.
Allora lei, stupita si voltò decisa verso un uomo là accanto, e quasi urlava:
– Papà, varda, al me gha regalà sto disegno!
Sembrava che avesse in mano un tesoro. E io finalmente avevo trovato
qualcuno a cui piaceva un mio lavoro....
Nonna Maria
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Capitolo ottavo
Seguivo la nonna ovunque lei andava. Lei camminava lenta quasi sempre
aiutandosi con un bastone. Alla nonna piaceva avere la mia compagnia e
mi portava per i sentieri che salivano per la montagna. Una volta facemmo
una grande camminata fino alla costa più alta del monte. Lei chiamava
quel posto “ il Poset”. Una gran pozza ricoperta di argilla per conservare
l'acqua della pioggia. Le case erano chiuse ed abbandonate, ma la vicino la
nonna mi indicò due o tre alberi dall'aria trascurata e stanca.
Quelle sono ciliegie “marinele”. Erano piccole e dure. Lei me le fece
assaggiare.
Erano amare e acide, ma davano l'impressione di calmare la sete.
Poi la nonna mi indicò i prati mai falciati ormai da lungo tempo. Mi disse
che malgrado fossero in gran pendenza, anche quell'erba era preziosa e i
contadini la falciavano appesi ad una corda legata di sopra agli alberi.
La terra era cosa preziosa e veniva usata per dare aiuto. Una volta non
c'erano i boschi di oggi. Tutto era un campo da falciare o da portare su in
alto le mucche a pascolare durante l'estate.
Mi disse che quando era giovane c'erano a Milies duecento famiglie, e
tante passavano tutto l'anno in montagna.
La terra era così preziosa che i confini tra le proprietà erano rigidi e
controllati con puntiglio. A volta bastava un ciuffo d'erba rubato appena
dopo il limite, che nascevano litigi e odio che durava anni.
Nonna Maria portava sempre ai piedi le stesse ciabatte, ma pareva che
sentisse da lontano le buche e i sassi perché non la vidi mai inciampare.
Io guardavo curioso la direzione del suo sguardo, e pareva che fissasse
qualcosa di lontano. Sembrava guardare il mondo con un distacco che io
non capivo.
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Dove guardava nonna Maria? Cosa vedeva?
Così imparai anch'io a provare a guardare oltre le cose vicine. Scoprii la
linea della montagna e la sua forma, vidi i suoi colori filtrati dall'aria
azzurra. Notai la forma delle case e il disegno che facevano assieme sui
prati. Poi notai che i prati non avevano tutti lo stesso colore. Mi
meravigliai che anche i sassi non erano tutti uguali.
Mi stupivo a osservare che anche le galline non avevano lo stesso carattere
e notai che i fiori formavano sui prati delle figure magiche.
Poi cominciai a notare le forma delle nuvole e sentire il messaggio lieve
dell'aria che mi toccava la pelle. Anche la pioggia che cadeva sembrava
volesse dire qualcosa.
Lei, la nonna, mi indicava anche l'erba che cresceva al bordo della strada e
la chiamava per nome, a seconda del tipo.
Erano tutte queste le cose che la nonna Maria vedeva quando il suo
sguardo guardava lontano?
No, ora che sono più vecchio, intuisco appena che lei guardava tutte queste
cose come da lontano, come se avesse già percorso nella sua vita tanta
strada, che ora vedeva tutto da un percorso già fatto troppe volte.
Ma anche se i suoi occhi guardavano oltre le apparenze, essi ascoltavano
con la massima attenzione l'anima di chi le stava vicino.
Mai nonna Maria mi raccontò le sue pene antiche, i suoi dispiaceri, le sue
vicende amare.
Mai mostrò a me i suoi desideri o le sue delusioni.
Mai mi raccontò la sua storia; e lo stesso fece mio padre Berra Paolo, che
si confidò con me solo negli ultimi anni della sua vita, e io sorpreso,
appresi le storie che ora racconto.
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Gian Berra sulla lambretta del
fotografo Mondo. Metà anni '50
Capitolo nono
E il tempo passa.
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Nonna Maria non andò più a Milies già dal 1965 perché troppo debole per
rimanere da sola in montagna. Così da allora visse a Riva grassa fino al
mese di gennaio del 1969 quando morì da sola nel sonno. Lei ci lasciò in
silenzio senza disturbare.
Da sempre viveva sola in quella vecchia casa. I vicini la custodivano con
discrezione. Mio padre andava spesso a vederla. Fino alla fine le dava del
“voi” con un rispetto e devozione che mi hanno sempre stupito.
Vidi piangere mio padre quel giorno che la portarono sulla bara fuori di
casa. Vidi anche la sua vergogna di provare un tale sentimento e di farlo
vedere in pubblico.
Venne chiamato un fotografo per fotografare la nonna Maria dentro la
bara. Erano le foto da inviare per posta ai suoi due figli che vivevano in
Canadà. Abele e Mario Berra da anni lontani da Segusino.
Ora riconosco anche la magia che ha rappresentato per tutti quelli che le
sono stati accanto, una corrente silenziosa e discreta di amore senza
condizioni.
Nonna Maria ha passato i suoi lunghi anni di vecchiaia in silenzio
accettando la vita al meglio. Mai un lamento, ma sempre a disposizione di
ciò che poteva dare.
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Lei ha vissuto due guerre mondiali. Ha subito disgrazie e amarezze come
tante donne di Segusino. Ma guardava lontano con fiducia e sperava.
Mi resta di lei questa forza, e ancora la ringrazio.
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Nonna Maria Stramare in Berra,
la sua vita:
I ricordi da un'epoca dimenticata.
Nonna Maria Stramare nacque a Stramare nel 1887. A quei tempi la vita
nei paesi della montagna veneta nulla era cambiato da mille anni. Nessuno
insegnò a lei a leggere o scrivere. Non lo sapevano fare nemmeno i suoi
genitori e i loro avi.
Il destino della sua vita era già definita sin dalla sua nascita.
I suoi sogni erano limitati da tradizioni tramandate dalle regole di poteri
lontani. Lei poteva solo seguire un cammino già deciso dai padroni del suo
corpo e della sua anima.
Serva tra i servi, Nonna Maria imparò presto ad ubbidire, ma non smise
mai di guardare nel cuore della gente che riempiva la sua vita. C'è chi
nasce indifferente, ma anche chi nasce con il dono di vedere dietro le
maschere, e decidere per il meglio.
Nonna Maria decise di vivere al suo meglio. Questa è una forza che viene
dal sangue, dalla razza.
Non sempre in montagna, dove a volte ci si sposava tra parenti stretti, i
figli venivano bene. A sua sorella andò male, ma a lei la natura donò
salute, bellezza, animo forte e una grande pazienza.
Queste doti sono tesori che nonna donò in parte anche ai suoi figli e figlie.
Il suo esempio valeva come un insegnamento che scendeva dentro l'anima,
senza troppe parole.
La sua umanità e sincerità la fece sempre rispettare da tutti.
Come tanta gente di montagna lei parlava poco.
E guardava lontano.
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Nonna Maria Stramare aveva appena 13 anni nel 1900. Da ciò che so, si
sposò a 24 anni nell'anno 1911.
Si era sposata in quell'anno con un giovane uomo di Riva Grassa, Paolo
Berra che aveva la stessa sua età. Paolo era un giovane alto "quasi due
metri", contadino. Lui era di carattere tranquillo e gran lavoratore. Di
aspetto imponente, diceva la gente. Possedeva terre a Milies ed è la che
portò la sua sposa.
Ebbero prima una figlia, Pierina nel 1912 e poi un figlio di nome Gio Batta
nel 1914.
Il terzo figlio nacque nel 1916 e si chiamava anche lui Paolo, mio padre.
Quando nacque il terzo figlio, Paolo, nonna Maria lo partorì dentro un
carro durante la fuga dopo la disfatta di Caporetto. La guerra non perdona
e non guarda in faccia a nessuno.
Non so se il marito di nonna Maria sapesse di questa nascita. Lui era
granatiere e cadde colpito al fronte e mia nonna rimase sola con tre figli. Il
piccolo Paolo non vide mai suo padre.
Mia nonna rimase vedova, e a quei tempi non esisteva alcun aiuto sociale.
Lei per un poco tenne duro, ma poi per il bene de figli decise di risposarsi.
Il marito morto aveva un fratello, Antonio Berra, sempre di Riva Grassa.
Nonna Maria decise di averlo come marito e la famiglia si ricompose. Da
lui Maria ebbe altri due figli, Mario e Abele.
Il secondo figlio di mia nonna, Gio Batta morì in Albania nel 1941
durante la seconda quella mondiale.
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Il negozio dove la gente di Segusino trovava di tutto.
Sono nato in novembre, nel 1947. Quando venni al mondo mio padre
Paolo Berra non era in famiglia. Si era sposato un anno prima con mia
madre Enrica Carniello, e subito dopo avermi concepito si ammalò di un
male quasi incurabile a quei tempi. Papà Paolo era stato deportato dai
tedeschi in Germania e poi lui approfittò del caos della fine della guerra
per fuggire e tornare a Segusino. Portò con sé sfinimento e malattie, ma da
vero veneto montanaro non perse mai la sua voglia di vivere. Così io lo
vidi solo più tardi.
Conservo le foto che mia madre gli mandava all'ospedale dove lo
curavano.
Mia madre si trovò da sola, ma non poteva smettere di lavorare alla filanda
di Segusino.
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Il negozio di alimentari di "Guarnier" a Segusino.
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dimenticato il dialetto del mio paese e non capivo né riconoscevo più
nessuno. Dentro di me una scontentezza senza nome amareggiava ciò che
mi rimaneva di bambino.
Ma non avevo perso del tutto le mie radici.
Ora osservavo ogni cosa come si guarda un panorama da lontano.
Osservavo le cose, le persone, l'aria, i monti come se fossero immagini
tutte da riscoprire. Ma un distacco era nato in me e cercavo di superarlo
osservando tutto con una attenzione esagerata. C'era di sicuro in me la
paura di perdere ancora un'altra volta il contatto con quella realtà?
Da allora ho sviluppato forse la tendenza nascosta in me di ricostruire e
rappresentare immagini e sensazioni, di tenerle con me con geloso
attaccamento.
Non volevo più perdere ogni cosa, e stampavo dentro di me con cura ogni
sensazione e immagine per farle mie per sempre.
Per un oscuro timore, mi ero isolato, come causa delle circostanze che
avevo vissuto. Una solitudine interiore che riempivo con la fantasia e le
emozioni di osservare la vita.
Foto di Riva grassa di segusino bombardata alla fine della prima guerra
mondiale.
Allora nel dopo guerra, quando io ero bambino, Segusino non aveva strade
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asfaltate. Pochi avevano la luce in casa e nessuno dormiva in camere
riscaldate. Gli inverni erano lunghi e gelidi. Pochissimi avevano una radio
in casa e quasi nessuno un'auto. La miseria veniva vissuta con normalità.
La povertà e lo sconforto dopo la guerra, venivano accettate come parte
della vita. Tanti giovani lasciavano il paese per emigrare, tanti andavano in
Canadà.
Ogni domenica tre distinte file di gente si recavano in chiesa. La messa del
mattino dedicata agli anziani devoti, quella delle ore 8 dedicata ai giovani,
quella delle ore 11 a cui partecipavano tutti gli altri. Quasi nessuno
mancava, pena essere prima o poi guardato con sospetto, o in qualche raro
caso indicato dal prete in chiesa.
Ho accluso in questo libro alcune foto che danno una idea di come ci si
vestiva a Segusino. Gli abiti venivano cuciti in casa e alcune signore
confezionavano su richiesta maglie e indumenti di lana.
A Segusino c'erano due calzolai che lavoravano molto. Un unico fotografo
famoso chiamato "Mondo"ha fotografato tutti. Vendeva anche giornali e
articoli per la caccia. La sua "Lambretta" era la sola a Segusino.
Le vedove e le persone anziane vestivano tutte di nero e portavano un gran
fazzoletto nero in testa per tutto il giorno.
I giovani, ma anche gli uomini maturi davano del "voi" ai loro genitori.
Ricordo che mio padre e mia madre davano sempre del "voi" a mia nonna.
Le persone importanti erano le stesse di tanti paesi di allora: I proprietari
terrieri, i ricchi, i funzionari del comune, il padrone della filanda, il prete,
il sindaco, i forestieri... e gli abitanti di Valdobbiadene. A Valdobbiadene
c'erano i carabinieri, i notai, gli avvocati, le banche e gli altri funzionari
che decidevano il destino di ognuno a Segusino.
Venni a sapere che negli anni '30 fallì una banca di Valdobbiadene, e tanti
di Segusino, anche mia nonna Maria, persero i loro scarsi risparmi...
A Valdobbiadene vivevano durante l'estate nelle loro ville i ricchi borghesi
che venivano da Treviso, Padova e Venezia.
Io abitavo in una frazione fortunata: Canton, e poi nella "Villa". La via
che portava in piazza. Ma la nonna Maria abitava a Riva Grassa durante
l'anno, e d'estate si spostava a Milies.
Queste frazioni, assieme a quella di Stramare si erano fermate al medio
evo. Fittamente abitate esse fornivano emigranti a tutto il mondo.
Certamente il nucleo originario di Segusino era a Riva Grassa. Già ai
tempi della mia infanzia gli abitanti di questa frazione nutrivano in sé
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stessi una sensazione di inferiorità rispetto a chi viveva più in basso.
Forse per questo antico senso di vergogna gli abitanti di Segusino non
amavano le loro origini?
Malgrado tanta ignoranza e miseria coltivata con cura nei mille anni di
dominio di Venezia, e poi con l'abbandono e la rapina perseguita dal nuovo
regno d'Italia, la gente di Segusino continuava con tenacia inflessibile la
sua lotta per la sopravvivenza.
L'impotenza e lo sfruttamento di secoli non erano riusciti a cancellare
l'umanità e il sentimento di vita che ha sempre fatto parte di questa gente
di montagna.
Gli abitanti di Segusino non erano lasciati a se stessi non solo dai padroni
di turno, ma anche purtroppo da una religiosità bigotta e rigida, carente di
gioia, che regolava le loro coscienze dalla nascita alla morte.
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Un senso di colpa e di dovuta ubbidienza perenne, legava le loro coscienze
e la sofferenza era un destino che legava le loro vite ad un piccolo
fazzoletto di terra su cui vivere giorni amari. Solo chi aveva il coraggio di
fuggire altrove trovava orizzonti più liberi.
Ma le madri di Segusino portavano dentro di sé un tesoro che nessuno era
riuscito a cancellare. Esse portavano nei loro cuori la forza della Vita che
donavano e custodivano senza domandarsi perché. Erano mamme, e ciò
bastava a riempire la loro vita.
Noi tutti dobbiamo alle nostre madri un attimo di riconoscenza, in fondo
esse hanno avuto in noi stessi e nei nostri figli una fede infinita.
E' per questo loro amore senza limite che meritano di essere ricordate.
Con queste righe io ricordo nonna Maria Stramare in Berra, mamma di
Segusino.
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Mia madre Carniello Enrica, io, mia cugina Rosabianca e sua
madre Anna a passeggio per Segusino
Mio padre Berra Paolo in tempo di guerra. E' il primo seduto alla
sinistra di chi guarda la foto.
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Il fiume Piave tra Segusino e Vas. La ferrovia per Feltre.
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La filanda di Segusino bombardata dopo la prima guerra
mondiale. Qui lavorò mia madre come tante donne di Segusino.
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Note sulla famiglia di
nonna Maria Stramare in Berra
I figli:
Berra Pierina N 17.12.1912 M
15.4.1942
Sposa uno Spada e muore a Legnano lasciando 3 figli piccoli.
Berra Gio Batta N 24.9.1914 M
7.3.1941
Caduto nella guerra d'Albania
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Le poesie nate nel bosco. 2013
50
La machina de fero
Tetine bele.
Stram
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Gnent da far
Tocio.
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Nosele seche.
Me nono scatàra.
La vendetta de Bortol.
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Mi son la carega straca del papa,
Son vecia e seca ma so contenta.
Doman i me porta ne a caneva,
dato che el Papa va via.
No che no l'è mort,
no che l'è malà, gnanca che el ga finì i schei.
Al papa al se ga stufà de criar par gnent.
Lu al ga dito a tuti che l'è strac e basta.
Quanto nervoso,
quante scorese me ga toca soportar,
quanta rabia e sconforto.
Ma mi son ncora intiera, anca se vecia!
Ma go visto massa robe sconte
e no ghe la fasso pì e me sento marsa
e senza amor.
Nisuni me ga dito grassie
de portar an peso del genere.
Lu, al papa, nol pesava massa
ma al gaveva pensieri che pesava come na casa,
forse anca de pì.
I diseva che Lu al parlava co Dio.
Ma co mi nol ga mai parlà.
Mai che na olta al me ha dito grassie.
Ma le careghe no a da pensar,
gnanca da parlar,
ganca de lamentarse,
le careghe a da taser,
e basta.
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http://www.scribd.com/gianberra
http://www.scribd.com/doc/42179010/WASERE-Di-Gian-Berra-Romanzo
https://sites.google.com/site/gianberrasite/
La foto ritrae Gian Berra nel 1972-73. Gian era un giovane che dopo una
breve esperienza universitaria aveva abbracciato con ardore gli ultimi
fuochi dell’epoca hippies Ma la provincia veneta era distante dalle passioni
di libertà della fine degli anni sessanta: il Veneto non è la California e
nemmeno Parigi. Ma Gian Berra non si rende ancora conto che vive in una
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realtà addormentata da secoli e svuotata da ogni entusiasmo. Chi è il ladro
che ha rubato la vitalità al popolo in cui si trova a vivere? Perché la gente
sembra cieca alla natura che ogni giorno le alimenta la vita?
Sono domande ingenue e terribili. Loro non possono avere una risposta per
un artista che sta per scoprire di esserlo: Gian non ne potrà fare a meno di
porsi queste domande. Gian Berra già dipinge e si dedica alla scultura, ma
non lo considera ancora un lavoro. Per questo tenta alcune fughe all’estero.
Prima parte con il cugino Renzo per la Svizzera e si ferma per un po’ a
Shaffausen e a Tayngen. Poi con l’amico Giannetti se ne va in Germania e
visita Braunsweig e Hannover. Comincia a vedere altri orizzonti e gente
diversa. Quando ritorna un poco deluso a casa si accorge che anche in
Italia i tempi sono cambiati. Il '68 è finito e la realtà è rimasta quella di
prima. Sembra che una occasione sia stata sprecata specialmente dai
giovani. A Gian Berra rimane solo la sua moto, il suo giubbotto alla Che
Guevara e tanti sogni così lontani da quella provincia senza speranze.
Gian apre il suo primo studio d'arte a Valdobbiadene nel 1973. Questo sarà
solo il primo tentativo di mettersi in mostra con i suoi dipinti e fare le
prime esposizioni di quadri in provincia di Treviso nella regione di
Venezia. La realtà dell’arte che lui trova è deprimente. La provincia ha
poco altro a cui pensare oltre al calcio e alle discussioni politiche. Nel
1977 avviene la svolta: lascia Valdobbiadene per Covolo di Piave. Non è
un gran salto, ma almeno è fuori da un paese che ha deciso di ammirare
solo sé stesso.
Nell’inverno del 1977 fa la sua prima mostra a Treviso presso la galleria “
Lo scrigno di Val”, in Piazza del grano. E’ un grande successo che dona a
Gian Berra le prime soddisfazioni concrete.
Gian organizza nel 1978 una mostra presso la galleria Brotto a Cornuda . E
un successo.
Inizia da questo anno la stagione più avventurosa di Gian Berra. Conosce
nel 1978 Vincenzo Martinazzo, un collezionista con il cuore gonfio di una
autentica passione per l’Arte. Lo chiamano tutti “Ciccio” e lui accoglie
Gian Berra nella sua galleria di Montebelluna. Negli anni seguenti Gian
Berra organizza parecchie mostre tra cui rammento quelle nella sala di
“Ca’ de Ricchi” a Treviso nel 1979 e nel 1980. E’ in quell’anno che Gian
mette su famiglia e decide di fare un altro grande salto.
Nel 1981 lui apre uno studio a Trento, in piazza S. Maria Maggiore. Non
sarà solo uno studio, ma anche un posto dove incontrarsi con artisti amici.
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Gian Berra inviterà l’amico pittore Donadel Bruno di Pieve di Soligo (TV)
nell’autunno del 1981.
Nel gli anni dal 1986 al 1988 organizza a Segusino collettive di pittura
gestite da artisti del luogo in cui partecipa anche Gianpietro Miotto di
Segusino. Nel 1988 organizza la sua prima personale a Segusino.
Passa qualche anno di pausa e nel 1990 lui fonda l’associazione culturale
“la Criola”. Questo è un altro tentativo “da artista” per scuotere l’ambiente
assonnato e deprimente di un paesaggio veneto senza speranze. Gian Berra
raccoglie con infinita pazienza attorno a sé ogni artista dei dintorni. Gian
organizza mostre, incontri, manifestazioni e cene di poeti con gli incontri
di "Poesia New Age". Poi nel 1993 inaugura il “corso pratico di pittura”.
Questa è forse l’iniziativa che avrà più successo: durerà sino 2005 quasi
ininterrottamente, con due corsi all’anno. Vi partecipano più di 800 allievi,
molti dei quali diventeranno bravi pittori. Negli anni 80 Gian Berra
organizza esposizioni delle sue opere nelle maggiori città italiane e in
Germania a Dusseldorf, Monaco, Wurzburg.
Nel 2001 espone per la prima volta in una mostra di sue opere, cinque
totem che lui ha costruito con le sue mani. “ Totem senza tabù” è il titolo
di quella esposizione a villa Benzi di Caerano,
Gian inizia a scrivere i “ Saggi selvaggi” che ora è possibile trovare in
internet. Lui la chiama “Psicologia Sciamanica”. Nel 2002 li raccoglie nel
libro " Psicologia Sciamanica", una raccolta di scritti dedicati a tale tema.
Nel 2006 esce in stampa il suo primo romanzo “ Wasere, cuore di drago”
dedicato all'anima ferita della gente Segusino, il suo paese di nascita e il
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libro di poesie e racconti “Caos barocco”. Sono reperibili su Lulu.com. Lo
presenta nel 2008 alla sua personale a Segusino.
Le mostre personali dei quadri di Gian Berra nella regione del Veneto, in
Italia e all'estero salgono al numero di circa 230 comprendendo varie
collettive con altri pittori.
Nel 2008 inizia la ricerca sullo "Sciamanesimo della sala d'aspetto" come
funzione necessaria in un periodo storico come il nostro in cui gli
"assoluti" tradizionali tramontano annegati nella globalizzazione.
Finalmente è tornato un Caos salutare? Gian Berra frequenta le periferie
nascoste delle città o dei piccoli paesi del Veneto e scopre prospettive
vitali che dormono da secoli.
Che sia giunta l'ora di richiamarle?
Inizia lo studio del contenuto intimo delle immagini che ci accompagnano
nella vita umile di tutti i giorni. In esse è nascosta l'anima nascosta del
popolo veneto. Esse paiono dimenticate, come in una nebbia emotiva che
blocca la tensione creativa, comunque presente in tutti noi.
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Le rocce delle Wasere a Segusino
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