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Non so perché ma mamma non era molto contenta di avere lo zio tra i piedi.

Infatti, solitamente lo invitava a


pranzo o a cena solo durante le festività comandate dalla nostra chiesa. I momenti che riuscivo a passare con
lui erano al di fuori della giurisdizione di sua sorella. Solo una volta, origliando una discussione tra i miei
genitori, riuscii a catturare poche parole e distorte dall’immaginazione e non curanza datami dalla mia
giovane età. «Arold c’è qualcosa che mi preoccupa e che non mi fa dormire bene da alcuni giorni. Ricordi la
notizia sui giornali, quella ragazza scomparsa, Ruth? Campeggiava vicino al lago, come tutti i giovani
d’oggi, è scomparsa tra la notte di martedì e mercoledì se mi rammento bene. Quella notte non riuscivo a
prendere sonno e sono scesa per prendere un bicchiere d’acqua. Dalla finestra ho visto chiaramente mio
fratello attraversare il giardino e dirigersi verso i boschi. »
«Che c’è di così strano in tutto ciò, tuo fratello è un tipo un po’… beh diciamo alquanto stravagante. L’ho
visto più di una volta uscire di casa nel pieno della notte, soffrirà d’insonnia».
«Forse hai ragione te. L’unica cosa che non capisco è il perché non abbia detto allo sceriffo che era in giro
quella notte»
«Se lo sarà scordato. Cosa pensi? Che abbia qualcosa a che fare con la giovane? Cara, leggi troppi
polizieschi.»
«Oh che sciocchezze, non pensavo a quello, speriamo che la ritrovino presto quella poveretta, pensa alla sua
famiglia, io … soffro alla sola idea. Lo sceriffo non sembrava molto speranzoso…Sembra quello che è
capitato a quella giovane... come si chiamava… ah sì! Charlotte Roger. Se non sbaglio campeggiava con il
fidanzato e dalla notte alla mattina era scomparsa».
«Ma cara, vedrai che sarà scappata con qualcuno. Lo sai come sono i giovani oggi, con quei vestiti e quei
tagli di capelli, non hanno più dietro una famiglia che gli copre le spalle. È gente di città, qui da noi le cose le
facciamo a modo nostro».
Che io ricordi, per mesi vennero pubblicati articoli, foto, lo sceriffo tornò una o due volte per fare
sopralluoghi, ma della giovane non c’era traccia. Lo scalpore della notizia iniziò a scemare e anche le forze
di polizia locali archiviarono la faccenda, pensando fosse scappata di sua spontanea volontà. Lo credevano
tutti ma, io, avevo un’altra fantasiosa teoria: era stato il mostro del lago, l’aveva presa e inghiottita negli
abissi.
Ricordo solo un altro caso analogo che catturò rapidamente la nostra curiosità e riempì nuovamente le pagine
dei giornali con articoli di cronaca locale per alcuni mesi.

Charlotte Roger, Sharon Balton e Ruth Preston sono nomi che mi rimasero impressi nella memoria, non feci
mai domande perché ero troppo piccolo per prendere parte a discorsi del genere, ma ormai avevo 17 anni,
un’età, bisognava aspettare solo il momento giusto.
Il momento arrivò proprio qualche giorno dopo aver preso questa decisione, durante la cena mia madre stava
raccontandoci l’ultimo giallo letto.
«Mamma, ti ricordi per caso di quella ragazza scomparsa» chiesi con tono indifferente «come si chiamava…
Carla… Charlot… Ah sì, Charlotte!» rimase raccolta in silenzio per qualche secondo, come stesse
immaginano le cose più terribile che potessero capitare a una fanciulla, poi proseguì «non parliamo di queste
cose così macabre».
«E i tuoi polizieschi? Parli sempre di delitti» risposi preparato.
«Il mio è un passatempo, non raccontano fatti realmente accaduti, non c’è nulla di reale. Diglielo George»
volgendo lo sguardo verso mio padre.
«George per questa sera si ritira» disse lui sorridendo con l’aria di uno che era riuscito a svignarsela appena
in tempo da discussioni da lui ritenute futili «George se ne andrà in salotto a bere un bicchierino» e alzandosi
uscì dalla cucina.
«Penso di avere l’età per poter parlare e prendere la parola in determinate discussioni» feci io.
«E va bene» disse lei con fare rassegnato «che volevi sapere».
«Non so perché ma questa mattina mi è venuta in mente quella storia e poi, mi sono tornate alla mente altre.
Ero piccolo quella volta di Charlotte, ma ricordo almeno altre due ragazze scomparse qui al lago».
«Tre ragazze?» chiese.
«Oltre a lei anche Sharon e Ruth se non ricordo male».
«La Balton e la Preston. Certo, ma non sono le uniche. Prima della tua nascita capitava, ogni tanto, che
qualcuno sparisse. Lo sai che la zona vicina il lago è terreno di campeggiatori abusivi. Quei ragazzi spesso
lasciano le proprie famiglie, scappano di casa e nessuno li vede più. Poveri ragazzi, in cerca di una vita
migliore».
«Perché dici questo?».
«Mah… a quanto avevo letto a quei tempi, nella maggior parte dei casi erano giovani con una famiglia
problematica alle spalle, privi di un futuro» disse mia madre e si voltò per sparecchiare gli ultimi piatti «e ora
non parliamone più, questi argomenti mi mettono tristezza».
Non ne parlai più con mia madre. Nei giorni seguenti la mia testa prese a fantasticare. Chissà dove erano
andati, quali viaggi, ma soprattutto, mi chiedevo se queste sparizioni non fossero conseguenza di un atto di
crudeltà contro la vita umana, non fossero quindi omicidi. Ben presto anche la mia immaginazione cessò di
operare in quella direzione, nell’arco di un paio di settimane decisi di mettere da parte queste storie così
ricche di particolari e intrecci, nella mia testa, per cercarmi un lavoro retribuito. La biblioteca cittadina era
una valida soluzione al problema.

Le settimane scorrevano piacevolmente mentre facevo la spola tra casa e lavoro la mattina e i pomeriggi li
passavo a dare una mano al babbo nei lavori manuali: c’era il tetto da sistemare, la legnaia cadeva a pezzi e
come se non bastasse, bisognava sistemare anche il pozzo. Qualora mio padre si recava in paese, se non
aveva necessità di me, mi dedicavo alle solite passeggiate nei boschi, dirigendomi verso il lago e
circumnavigandolo fino a giungere a qualche centinaio di metri da una piccola baia, meta preferita per i
giovani campeggiatori. Fatto il bagno, scendevo verso sud, lasciandomi sulla destra la piccola capanna di
caccia dello zio. Quel piccolo stabile, una sorta di cottage quasi mai abitato, aveva sempre destato la mia
curiosità. All’apparenza sembrava uno di quei classici capanni impiegati come rifugi dai cacciatori durante le
stagioni di caccia, di legno solido, tetto spiovente e un camino a riscaldare l’unica stanza che fungeva da
cucina, bagno, salotto e camera da letto. Ogni estate mio zio ci lavorava nel tempo libero, riparandola dai
danni subiti durante la stagione fredda. Sinceramente non ci sono mai entrato, un paio di volte mi capitò di
passarci davanti e ogni volta vidi un grosso lucchetto che bloccava la porta d’ingresso.
Ricordo ancora quel pomeriggio nel quale i miei piedi decisero di dirigersi nelle vicinanze del capanno
mentre percorrevo la strada di ritorno dal bagno. Gettando una rapida occhiata alla porta il lucchetto che
vietava a tutti, eccetto lo zio, di entrarvi, era sparito. Mentre tiravo dritto sentii la voce dello zio che mi
chiamava.
«Tom! Vieni qui» lo zio era in piedi davanti alla porta «è proprio un bel pomeriggio, non trovi?» e mi fece
cenno di entrare.
L’interno era come l’esterno, semplice, spoglio da qualsiasi ornamento se non per alcune teste di animale
appese, trofei di caccia probabilmente. Un grande tavolo regnava sovrano e a fare da contorno un paio di
mobiletti.
«Ho quasi finito le riparazioni. Quest’anno il tempo è stato clemente, neanche un danno al tetto, una vera
fortuna» mi disse.
«Non ero mai stato qui, mi piace come posto».
«Un giorno, quando io non ci sarò più, sarà tuo se ti piace. So che stai lavorando per la biblioteca del paese,
ti piace?».
«È un lavoro. I libri non mi dispiacciono e la signora Meyers è gentile con me».
«Hahaha è un lavoro… cosa mi tocca sentire. Sei giovane e oggi il mondo può essere vostro, non limitarti a
“un lavoro”, puoi fare quello che vuoi. Quando ero giovane io, invece, era un’altra cosa, c’era la crisi, la
guerra, poi una nuova guerra. Noi non avevamo le possibilità che oggi vengono offerte a voi».
«La guerra…» feci eco «mamma mi ha detto che l’hai vissuta sulla tua pelle, due se non sbaglio».
«Esatto, ma a mia sorella non piace che io parli di queste cose» rispose lui con una particolare scintilla che
gli illuminava gli occhi e sorrise «ma un uomo deve fare il proprio dovere, così dicono, verso la propria
famiglia e il proprio paese».
Poi si voltò, prese gli attrezzi e disse «andiamo, il sole inizia a tramontare».

Quella sera non riuscii a prendere sonno. Forse era stato il caffè dopo cena, forse era l’eccitante pomeriggio
che avevo passato all’aperto, o forse semplicemente il mio cervello non voleva spegnersi. Fu così che per
una buona ora continuai a girarmi e rigirarmi nel letto senza giungere a una soddisfacente soluzione. Era
inutile tentare di addormentarsi, tanto valeva scendere in cucina a prendere un bicchiere d’acqua. Senza
provocare il ben che minimo rumore in modo tale da non svegliare nessuno in casa scesi le scale e dopo
essere stato in cucina, passai in salotto. Tra un sorso e l’altro mi avvicinai alla finestra e scostai la tenda.
«Luna piena?» provenne una voce alle mie spalle.
«Quasi. Ma forse domani si vedrà meglio» e continuai «nemmeno te riesci a prendere sonno?».
«Ti ho sentito scendere le scale. Cigolano» rispose mio padre mentre lasciava il soggiorno per raggiungere la
cucina «vuoi dell’altra acqua?».
«No grazie, mi rilassa guardare l’oscurità e come questa possa assorbire tutte le cose» e rimasi per qualche
istante assorto, quasi ipnotizzato dal buio.
«Domani ci sarà la luna piena» era nuovamente vicino a me e reggeva anche lui un bicchiere con lo sguardo
fisso sulla finestra «quello è tuo zio?»
Mi voltai rapidamente verso la finestra, iniziai a cercare con lo sguardo, scrutando ovunque e ad un tratto lo
vidi.
«Sembra lui, chissà dove va…»
«Tua madre pensa che sia un po’ strano. Per me è solo uno che ha visto e fatto troppe cose orrende nella sua
vita. La mente cerca di proteggersi e così si incorre nella pazzia».
«Forse è così» risposi, ma in cuor mio sapevo che non era possibile questo, o almeno non lo era per mio zio.
Era piuttosto una persona cinica e riflessiva. La sua mente, per me che lo conoscevo sicuramente meglio dei
miei genitori, aveva sicuramente ben sopportato tutti gli orrori che la guerra poteva avergli mostrato. Non era
di sicuro quello il suo problema.
«Oggi l’ho incontrato mentre tornavo dal lago, era a lavorare sul suo capanno. Per la prima volta mi ha fatto
entrare e ho potuto vederne l’interno».
«Veramente?» mio padre sembrava quasi incredulo alle mie parole «non ci sono mai stato, considerati
onorato, penso che nemmeno tua madre l’abbia mai visto internamente».
«Oh beh, si compone di una sola stanza, quindi non c’era molto da vedere. È semplice ma accogliente direi».
Continuammo a fissare quella figura che in quel momento si trovava ferma, quasi in attesa di qualcosa.
«Ma comunque è solamente un’altra sua passeggiata notturna. Tuo zio sì che soffre di insonnia. Torniamo a
dormire».
«Resto ancora qualche minuto e poi salgo» ma prima che si voltasse per darmi le spalle chiesi «papà, credi ai
demoni?».
Mio padre si fermò di scatto e impiegò un paio di secondi prima di accennare una risposta «ma che razza di
domande fai figliolo? I demoni…» accennò un passo «certo che esistono, ma non sono quelli dei libri, i
fantasmi o simili come quelle storie che vi raccontano davanti ai fuochi accesi. Sono piuttosto gli spettri del
nostro passato. I peggiori incubi della nostra esistenza, quelli che non ti fanno prendere sonno la notte
quando sei disteso a letto. Rimpianti, azioni egoistiche, violenze e altre cose così, questi sono i demoni
dell’uomo. Il diavolo non esiste, l’abbiamo creato noi figliolo».
Mentre sentivo i cigolii dei gradini di legno sotto il peso del corpo di mio papà, intento a risalire le scale, il
mio sguardo era rimasto rapito da quella figura che si muoveva snella e agile celata dalle tenebre. La seguii
con lo sguardo fino a che non si perse con la cornice scura formata dal bosco. Forse mio padre aveva
ragione, forse i demoni, come li conosciamo noi giovani, non esistono.

BIBLIOTECA RICERCA RAGAZZE SCOMPARSE


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Quella sera decisi di seguirlo, ero determinato a capire cosa facesse in quei momenti notturni. Non avevo
paura, era pur sempre mio zio.
La luna rischiarava il cielo ed era abbastanza facile seguire la sagoma scura che si muoveva, sicura di se, tra
le fronde degli alberi e i cespugli. Il silenzio regnava sovrano, nemmeno il cicalio dei grilli disturbava la
monotonia che assieme all’umidità impregnava l’aria. Con molta attenzione, evitando di calpestare rami, o
peggio, di cadere su qualche ostacolo celato dalla vegetazione, mi tenevo a una distanza di qualche piede,
non troppo vicino da farmi beccare in flagrante, non troppo lontano da rischiare di perderlo di vista.
Dopo mezzo miglio iniziai a capire il suo tragitto, puntava verso la riva nord del lago, ma ancora non capivo
dove si sarebbe fermato. Il pedinamento funzionava a gonfie vele, sentivo crescere dentro di me una nota
d’orgoglio mista ammirazione, mio zio – proprio lui che si era fatto due conflitti bellici – non sospettava
nulla.
Ad un tratto, però, una nuvola passeggera oscurò la luna quel tanto da iniziare a perdere nell’oscurità la sua
figura e farla confondere con il resto del paesaggio. Mi fermai, non potevo rischiare di farmi scoprire, chissà
come l’avrebbe presa mio zio. La scelta più ovvia era di tornare in dietro in modo da lasciarmi alle spalle
tutta la faccenda, invece, fui così sciocco da appoggiarmi ad un albero e pensare alle possibili opzioni da
intraprendere in quel momento. Nel frattempo la nuvola aveva lasciato il campo libero nuovamente alla luna
e la mia vista tornò ad impadronirsi del bosco, ma di mio zio nessuna traccia. Lasciai il mio ridicolo
nascondiglio, mossi due passi in direzione nord, a quel punto ogni tentativo di proseguire sarebbe risultato
vano, sarebbe stato un buco nell’acqua.
Quando mi voltai per tornare sui miei passi trovai, di fronte a me, mio zio.
«Ti sei perso?» mi chiese ironicamente.
Mi aveva beccato, nonostante tutta la situazione non avevo paura, l’unico problema era trovare la frase giusta
per non insospettirlo.
«Quando pedini qualcuno, è meglio che ti tenga ad almeno venti piedi di distanza» continuò lui «sentivo il
tuo respiro ad ogni passo che muovevi».
«Sapevi che ti stavo seguendo?».
«Da quando hai lasciato l’ingresso di casa tua».
«Ma... ma come…».
«Sono abituato a gironzolare la notte, se qualcosa non va, me ne accorgo all’istante» disse lui «e ora seguimi,
abbiamo una cosa da fare».
«Cosa di preciso?».
«Te lo spiegherò lungo il tragitto, ora andiamo».
Stavamo procedendo spediti verso nord, come avevo precedentemente previsto.
«Era da un po’ che mi aspettavo una tua azione» iniziò «stavo cominciando a perdere le speranze. Io e te in
fondo non siamo molto differenti».
Non capivo dove volesse arrivare.
«Ti capita mai di arrabbiarti, di sentire dentro di te sprigionarsi un emozione così forte da farti mancare
l’aria, da stringere i pugni? Dalla tua faccia direi di no. Ebbene nemmeno io provo queste sensazioni. Paura,
dolore, gioia o tristezza, collera o altre cose».
«Ma io le provo» risposi.
«Ti ho osservato sai, mentre cammini, vai alla spiaggia, giochi. Non provi emozioni così come non le provo
io. Però so che provi un piacere, hai un desiderio che spesso sopprimi perché sai in cuor tuo, o meglio ti
hanno insegnato a pensare che non è moralmente e umanamente sano. Quel piacere che la società
condannerebbe su due piedi, senza nemmeno pensarci. A te affascina la morte, non ne hai paura, ma bensì ne
sei attratto».
«La morte?»
«Forse non ne sei consapevole ancora. Ma alla tua età sapevo cos’ero e cosa sarei diventato. Aspettavo da
anni il momento per parlarti, ma solo quando vedrai potrai capire veramente tutto».
«Zio mi stai mettendo i brividi».
«Te non hai paura, sono sicuro che non ne provi. Come non ne provo io. Te dici di averne perché la società ti
ha insegnato così, ma non è vero».
Mi sentivo come in trappola, non sapevo cosa rispondere.
«Noi, quelli come me e come te siamo nati con qualcosa di diverso e dobbiamo imparare a conviverci»
continuò «molti credono che le guerre mi abbiano portato alla pazzia ma per me togliere la vita a uno, due,
tre o mille uomini, non ha fatto alcuna differenza, mi ha solo procurato un senso di piacere»

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