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LA CASA
Erano circa le undici di sera quando l’agente McGregor, di fronte alla porta
dell’abitazione dei Sulliver capì che c’era qualcosa che non andava. L’uscio era
socchiuso. Nessuno in città avrebbe lasciato la porta aperta, soprattutto dopo la
serie di omicidi avvenuti da sei mesi a quella parte.
Quello spiraglio non prometteva nulla di buono e McGregor lo sapeva bene.
Nello stesso istante in cui decise di spingere la porta di legno massiccio, portò la
mano destra alla fondina, accarezzando dolcemente il manico della sua calibro .38
«Che cazzo» disse ad alta voce, rimpiangendo il giorno in cui aveva deciso di
vestire l’uniforme.
La porta scricchiolò leggermente sotto la pressione della mano sinistra ed
aprendosi rilasciò un cigolio inquietante. Un brivido percorse per intero la schiena
dell’uomo.
Dietro di lui, l’agente Donovan gli guardava le spalle.
«Sei sicuro che sia questa l’abitazione?»
McGregor si girò verso il partner «certo che sì, pensa a coprirmi le spalle
piuttosto, voglio tornare a casa a dormire finito qui»
Quella che avevano ricevuto era l’ultima chiamata della serata. Il turno era già
terminato ma ai due un po’ di straordinari facevano comodo.
Quando si girò nuovamente, di fronte a sé la porta era aperta quel tanto che
bastava per infilarci una torcia elettrica ed illuminare, così, l’ambiente. Dovette
tirare alcuni colpi alla torcia prima che questa si accendesse.
«Maledette dotazioni di merda» disse in modo seccato.
«Den, sei troppo agitato, vuoi che vada avanti io?» gli disse da dietro le spalle il
partner.
«Shhhh» gli fece McGregor quando illuminò il corridoio.
Diede una rapida occhiata attorno a sé, mosse un passo in avanti salvo bloccarlo a
mezz’aria e riappoggiarlo nello stesso precedente punto. Quello che stava
guardando non gli piaceva per nulla. Aprì di più la porta, puntò la torcia ad
illuminare il legno del parquet e lì vide una grande macchia scura. Illuminò le pareti
e trovò impronte scure di mani.
Den sapeva che quello non poteva essere altro che sangue. Una grossa pozza di
sangue che iniziava ad addensarsi. Le manate lasciate sulle pareti erano così
precise che quelli della scientifica non avrebbero avuto problemi a rilevarne le
impronte.
«Cazzo Steve …» e in quello tirò fuori dalla custodia la sua calibro .38.
Donovan si avvicinò con fare sicuro per dare un’occhiata e, tutta quell’arroganza
che era solito portarsi dietro nei giri di pattuglia se ne andò a farsi benedire in
pochi istanti.
«Cazzo Den, che è successo qua dentro?»
«Non lo so Steve, vai alla volante e chiedi informazioni dalla centrale, io entro» poi
si voltò verso il collega «se mi senti urlare entra»
Mentre Donovan correva verso l’auto lasciata pochi minuti prima sul vialetto di
casa Sulliver, McGregor prese coraggio e cercò di entrare evitando il sangue.
Merda – pensò lui – anche le scarpe nuove devo sporcarmi.
Cercò a tastoni l’interruttore della luce e nonostante fosse riuscito a trovarlo,
sembrava che l’elettricità fosse stata staccata.
Un secondo brivido percorse la schiena dell’agente.
«Polizia!» esclamò «se c’è qualcuno, che venga fuori con le mani bene in vista!»
Quella frase pronunciata numerose volte con tutta sicurezza ora risultava
tremolante e approssimativa.
Nonostante l’ordine non giunse alcuna risposta.
Den si incamminò lungo l’anticamera e in breve raggiunse la fine del primo
ambiente. Da qui doveva decidere se prendere la porta di fronte a sé, quella sulla
destra o quella alla sua sinistra. Diresse il fascio luminoso verso i vetri della porta
sulla destra, fece un bel respiro e girò lentamente la maniglia. I cardini cigolarono
quando lui iniziò a spingere quel tanto che gli bastava per controllare all’interno.
Maledì i proprietari per non aver oliato per bene i cardini delle porte quando un
terzo brivido gli fece rizzare i peli delle braccia.
Quello doveva essere il salotto, pensò subito, quando la luce illuminò lo schermo
della televisione. Successivamente indirizzò il fasciò di luce verso il divano per poi
posarsi sul tavolino. Sopra vi era appoggiata una terrina con del popcorn.
Sentì una leggera corrente d’aria, spostò la torcia nella direzione della parete e
vide che la porta finestra era socchiusa. Mosse alcuni passi all’interno della stanza,
illuminò le pareti per assicurarsi che nulla e nessuno potessero celarsi dietro a
qualche mobile, poi si concentrò sul pavimento. Dalla porta finestra al divano trovò
sangue ovunque, sembrava avessero scuoiato un animale all’interno di quella
stanza.
Una macchia più grossa cominciava dalla porta finestra trascinandosi verso il
divano. Altre tracce erano andavano verso un’altra stanza.
Non c’era il cadavere, o, a vedere tutto quel sangue, i cadaveri. Sembrava uno
scherzo di pessimo gusto. Il sangue poteva essere vernice ma l’odore forte e
pungente non lasciava dubbi.
Si era abbassato sulle ginocchia per guardare meglio. Sul parquet spiccavano delle
impronte insanguinate di scarpe, o di scarponi. Si concentrò sulla direzione di tutte
quelle tracce pensando con calma alla mossa successiva quando, ad un tratto, sentì
un rumore provenire dall’ingresso.
«Chi è là?» esclamò McGregor.
«Sono io!» gli rispose Steve.
«Sono nella zona giorno, la porta a destra alla fine del corridoio, raggiungimi»
«Cazzo Den, sembra il pavimento di un mattatoio. Cos’è successo?» gli chiese
quando giunse al soggiorno.
«Non ne ho la minima idea» Denis si era voltato verso il suo partner «penso
qualcosa di parecchio brutto comunque. Hai sentito quelli della stazione?»
«Sì, hanno ricevuto la chiamata circa un’ora fa, ma nessuno poteva andarci. La
chiamata era per schiamazzi notturni. Pensavano fosse qualche giovane che non
lasciava dormire i vicini e il centralino ha dato la priorità ad altri casi»
Den si guardò intorno «schiamazzi notturni eh?»
«La luce non funziona. Vado a cercare il pannello generale, magari riesco a trovare
l’interruttore»
Mentre Donovan si allontanava, McGregor tornò ad interessarsi delle varie
impronte lasciate sul pavimento. Una fila andava verso la portafinestra mentre,
un’altra fila entrava dalla stessa porta dalla quale era entrato Den e si dirigevano
verso quella che con tutta probabilità doveva essere la cucina.
Sempre cercando di evitare di calpestare le tracce e di inquinare così le prove,
l’agente raccolse quel poco di coraggio che aveva ancora in corpo e si diresse
verso la porta opposta.
Non aveva abbastanza tempo per formulare ipotesi ma il suo sesto senso gli diceva
che non avrebbero trovato niente in quella casa a parte il sangue. Più che una
sensazione, Den lo sperava.
Le impronte insanguinate che si dirigevano verso l’esterno dalla zona giorno,
probabilmente erano state lasciate dallo stesso assassino, a patto che ve ne fosse
stato solo uno. E con tutta probabilità era entrato dalla stessa porta dalla quale era
uscito, quella che dava sul giardino.
La torcia iniziava a dare forti segnali di cedimento. Il continuo sfarfallare non
contribuiva a sciogliere i nervi dell’agente. La sua mano stava pulsando a forza di
stringere il calcio della pistola. Scosse la torcia elettrica che di colpo si spense.
Avanzò a tastoni nel buio verso la cucina e nello stesso istante in cui si avvicinò
all’enorme penisola che dominava la stanza la luce tornò.
Steve aveva trovato il contatore.
Si sentiva molto meglio, con l’ambiente completamente illuminato poteva vedere
ogni cosa. Notò subito che la scia d’impronte si bloccava all’ingresso della cucina e
tornava indietro. Si avvicinò alla penisola, poi perlustrò il resto della stanza. Il
lavello era pulito, nessuna traccia di sangue, così come per il resto dei mobili.
Mentre McGregor tirava un sospiro di sollievo, l’agente Donovan lo raggiungeva.
«Trovato nulla?»
«Solo sangue, nessun corpo» rispose Den girandosi verso il partner «te?»
«L’interruttore generale era sul retro della casa, penso che i proprietari lo
chiudessero con un lucchetto perché l’ho trovato aperto»
«Com’è possibile che non ci sia nessuno?» Den guardò il telefono a muro della sala
«chiamo i rinforzi e poi continuiamo a perlustrare la zona».
L’apparecchio era stato fissato all’ingresso della cucina, a lato della porta che
faceva da separé con la zona giorno.
Mentre McGregor chiamava la stazione di polizia, Steve dette un occhiata alla
penisola. Rimise la pistola nella fondina con tutta calma ed ammirò lo stupendo
pezzo che imperava al centro della cucina.
«Mia moglie ne vorrebbe una uguale» indicò il grande mobile. Il partner gli fece
cenno di tacere.
L’agente passò ad esaminare il tinello, il porta stoviglie e le padelle dando le spalle
al collega. Capì subito che la gente che abitava quella casa doveva avere parecchi
soldi da spendere. Aprendo le ante dei pensili vide piatti di ceramica, bicchieri di
ottimo vetro e padelle in acciaio, americano, inossidabile. La prova del nove, per
chi se ne intendeva veramente, erano i coltelli. Era certo che la famiglia Sulliver
possedesse degli ottimi coltelli. Si guardò attorno alla loro ricerca e vide il ceppo
di legno che avrebbe dovuto custodirli. Ne tirò fuori uno ed esaminò la lama. In
piccolo era impressa la marca “Dexter-Russell”. Steve tirò un sospiro di sollievo.
«Ottimi coltelli» disse tra sé e sé. Rimise a suo posto la lama per sfilettare e guardò
i restanti.
Supervisionò tutti i pezzi fino ad arrivare alla mannaia, il suo coltello preferito. A
lui piaceva acquistare quarti di bue all’ingrosso e macellarseli personalmente. La
mannaia da cucina era la regina dei coltelli per Steve.
«Dove diavolo sarai finita» disse sempre tra sé e sé mentre apriva i cassetti.
Mentre rovistava alla ricerca di quel magnifico pezzo l’agente sentì un rumore
secco, un rumore rapido. Come se qualcosa si spaccato. Gli ricordava vagamente il
rumore che aveva fatto la sua gamba a quattordici anni quando se l’era rotta.
Si voltò verso il suo collega «Den questi sono pieni di …» la frase rimase sospesa a
mezz’aria.
Steve fissò il collega. McGregor se ne stava in silenzio, appoggiato leggermente
alla parete col ricevitore ancora all’orecchio. Un rigagnolo di sangue gli scorreva
lungo la fronte.
Infilata, in mezzo alla testa, come fosse uno di quegli scherzi che si comperano per
pochi spiccioli per Halloween, era conficcata la mannaia da cucina che stava
cercando Steve.
«Den…» riuscì a proferire il partner.
Tentò di muovere un passo verso di lui «Cristo Den!»
Il corpo dell’agente iniziò a scivolare lentamente contro la parete fino a
raggiungere il pavimento.
Steve non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. Il suo partner se ne stava
beatamente seduto con una mannaia da cucina conficcata nella testa. Piccoli
rigagnoli di sangue si erano riversati dalla ferita ed erano scivolati lungo il volto e
gocciolavano sulla camicia e sui pantaloni della divisa d’ordinanza.
Cercò di dire qualcosa, la bocca si aprì ma non emise alcun suono. Nel frattempo la
sua mano destra trovò la fondina e staccò il laccio per estrarre la pistola.
Obbligò i suoi occhi a dirigersi verso la porta accanto a dove giaceva il collega ma
non c’era nessuno.
Nella mente di Steve si formarono due possibilità. La prima, estrarre la pistola e
iniziare a fare fuoco fino alla porta d’ingresso, raggiungere la volante e chiamare i
rinforzi. La seconda, cercare il bastardo che ha freddato il suo partner e
ammazzarlo come un cane.
Mentre elaborava una delle due possibilità, aveva estratto la pistola e la impugnava
saldamente nella mano destra. Fece un respiro profondo e mosse alcuni passi in
direzione del collega.
Si avvicinò a lui e inginocchiandosi gli appoggio due dita sul collo. Era talmente
vicino da riuscire a leggere la stessa marca degli altri coltelli: Dexter-Russel. In
cuor suo era già conscio dell’improbabilità di sentire pulsare qualcosa, ma doveva
controllare comunque. Den era stecchito, ma almeno l’aveva appurato e si era tolto
quel pensiero dalla testa.
Sollevandosi da terra afferrò la pistola del partner e scrutò nuovamente la porta
della cucina.
Sapeva bene che il sadico bastardo poteva essere ovunque, il suo campanello
d’allarme suonava già da alcuni secondi. Poteva attenderlo proprio a ridosso della
porta. Sapeva anche che non mancavano altri coltelli, quindi lo stronzo poteva
essere armato come non esserlo.
Steve prese coraggio e mosse verso la porta fermandosi proprio a ridosso di essa.
Controllò a destra e a sinistra. Non c’era nessuno.
Avanzò all’interno del salotto, anch’esso completamente sgombro.
La tentazione di uscire da quella casa era fortissima e la portafinestra lo invogliava
ancora di più. Avrebbe potuto, in pochi passi, ritrovarsi nel giardino di casa
Sulliver, in campo aperto e con la piena visuale, e raggiungere agevolmente l’auto.
Qualcosa dentro di lui, però, sembrava trattenerlo dentro l’abitazione. Chiamatela
coscienza, chiamatela senso di autodistruzione, ma Steve non accennava ad
andarsene.
Eppure la maniglia era così invitante. Una volta girato il pomello d’ottone avrebbe
avuto salva la vita.
«Fanculo» mormorò e si diresse verso la porta del corridoio principale «il mio turno
era finito»
La cosa positiva in tutto ciò, pensò il poliziotto, era che Den aveva avvisato i
colleghi e i rinforzi erano in arrivo.
Una volta giunto nel corridoio d’ingresso, però, la paura ebbe la meglio. Le gambe
di Steve si diressero verso la porta principale. Si guardò alle spalle per essere
sicuro di non essere seguito.
Il bastardo, pensò lui, sarà sicuramente al piano di sopra ora, mi starà tendendo una
trappola.
Afferrò la maniglia e piegò leggermente il polso per aprire la porta ma non si aprì.
Riprovò una seconda volta e poi una terza. La porta non voleva aprirsi.
Qualcosa non quadrava, quella porta era aperta quando erano arrivati sul posto.
L’assassino doveva averla chiusa a chiave. Questo era un grosso problema.
Provò nuovamente usando più forza ma ancora nulla.
Il panico stava prendendo il sopravvento.
L’adrenalina cominciò a scorrere più velocemente e il battito cardiaco sembrava un
martello pneumatico intento a sfondare un muro.
Armeggiava disperandosi, pensando alla sua ridicola idea di fare il Rambo della
situazione. Avrebbe potuto uscire dalla portafinestra e invece aveva deciso di
fregarsene del pericolo. Avrebbe potuto aspettare fuori i rinforzi e prendere a calci
in culo il bastardo, ma aveva deciso di fare l’eroe.
La porta non si apriva e Steve rassegnato decise di desistere.
Si voltò per dirigersi nuovamente in salotto per uscire dall’altro lato.
Nello stesso momento in cui si girò, sentì una pressione contro lo stomaco.
Qualcosa lo stava pungendo, ma in maniera più decisa e dolorosa.
Guardò avanti a sé, una figura vestita di nero, più alta di lui, si trovava a meno di
un metro. Il suo sguardo si diresse verso il basso.
Aveva capito cosa stava accadendo, ma doveva lo stesso vedere con i propri occhi.
Una lama era conficcata nella sua carne e tutt’attorno alla camicia della divisa si
espandeva una macchia scura. Provò ad alzare la pistola ma gli mancava
improvvisamente la forza.
La macchia si espandeva sempre più attorno alla lama, la quale scintillava
riflettendo la luce della lampada posta all’ingresso.
«Bastar…» non riuscì a terminare la parola, il dolore era lancinante.
Morire così, pensò lui, bella figura del cazzo.
La scura figura torse leggermente la mano e il coltello di conseguenza ruotò
leggermente nella carne. L’agente non riuscì a trattenere una smorfia di dolore e
svenne.
In lontananza Steve poté udire le sirene della polizia sempre più vicine.
Pochi secondi dopo, davanti casa Sulliver, una volante si fermò e scesero due
agenti di polizia.
«»
«»
IL VICOLO
PYMEIS VILLAGE
I potenti rintocchi della campana del villaggio si potevano udire fino a quattro
miglia di distanza. Nessuna delle altre contee poteva vantare un campanile come
quello.
Pymeis era invidiata da tutte le parrocchie limitrofe per lo stile e l’architettura
della chiesa battista.
Dalle cittadine vicine, numerose erano le famiglie che arrivavano a farsi più di due
ore di macchina per assistere alle cerimonie del pastore Rose. I suoi sermoni erano
i più infuocati della contea da quando quell’uomo aveva deciso di stanziarsi a
Pymeis.
Prima del suo arrivo la chiesa non contava più di trenta fedeli ed ora, ogni
domenica bisognava aggiungere un paio di panche in più e comunque la gente
arrivava fino a fuori dalle porte.
Il pastore Rose aveva già pensato di far installare due casse amplificate all’esterno
della chiesa, ma il consiglio cittadino non aveva dato il consenso. La congrega del
reverendo Tompson avevano alzato la voce e avevano richiesto di porre fine a
questa farsa. Lo stesso prete si era imposto al consiglio durante una riunione,
denunciando la comunità battista.
A parte le problematiche cittadine e le rivalità religiose comuni a tutte i piccoli
paesi, Pymeis poteva essere considerata una cittadina pacifica per quasi tutto
l’anno.
Il tacchino veniva tagliato come da tradizione il giorno del Ringraziamento e
venivano sparati in cielo i fuochi d’artificio per il quattro luglio. Accanto alle
bandiere sventolanti in quasi ogni giardino, le donne di casa mettevano a
raffreddare le torte di mele appena sfornate ai balconi delle finestre. La città aveva
l’aspetto tipico delle cartoline.
La notte di Halloween era forse l’unica tradizione non del tutto accettata e
apprezzata dalla silente Pymeis.
Alcune famiglie era restie nel far vestire i propri figli da streghe e vampiri,
soprattutto le famiglie che abitavano la cittadina da tempo immemorabile.
Quelle stesse famiglie usavano educare i propri figli e discendenti alla leggenda del
Mietitore di Anime. Gli anziani erano soliti affermare con estrema certezza
l’esistenza del mietitore. Il signor Novack un ottantenne dalla memoria appannata
dichiarava di averlo visto quando era giovane, o così vaneggiava.
Tutta la cittadina era a conoscenza della leggenda. Anche i foresti ormai si erano
abituati allo stravagante racconto dell’orrore.
Ma si sa, in genere le leggende contengono un fondo di verità. O così la pensava
Lester, sceriffo di Pymeis.
Lester era stato riconfermato nel suo ruolo dalla città e amministrava la legge in
modo imparziale. Anche lui foresto, in poco tempo si era fatto apprezzare dai
cittadini e aveva trovato una compagna di vita nella persona di Shona, ora la
signora Primunt.
«»
LA CONFESSIONE
1.
2.
3.
4.
Il giorno dopo il trionfo nelle aule del tribunale della contea, Micke si trovava
seduto nell’ufficio di Tony.
Sapeva bene che quelli appena trascorsi erano stati tempi duri, ma era certo che il
suo agente non l’avrebbe abbandonato. Ormai era stato riabilitato, il suo nome era
pulito. Le librerie non avrebbero rimandato indietro i suoi libri e le case editrici
avrebbero di nuovo fatto la fila e inviato sfarzosi regali per cercare di accaparrarsi
i suoi favori.
Si accorse subito che Tony aveva ri-arredato l’ufficio. Aveva scrostato la carta da
pareti rossa a motivi floreali e al suo posto era stata scelta una semplice vernice
verde chiaro. Al posto della vecchia, obsoleta e pacchiana scrivania di quercia
intagliata a mano, c’era un piccolo tavolino di metallo. Più che un ufficio gli
sembrava una sala operatoria. Alle pareti erano esposte un paio di tele di qualche
artista emergente, mentre la libreria che un tempo conteneva tutte le pubblicazioni
di Micke era sparita. Al suo posto c’era una mensola con sopra alcuni trofei di
tennis, presumibilmente del figlio. Le foto che li ritraevano assieme erano state
eliminate e al loro posto aveva incorniciato il diploma del college.
La porta si aprì e sulla soglia comparve Tony.
«Salve Micke, che ci fai qui?»
Micke lo salutò.
«Visto che sono riabilitato, volevo proporti questo nuovo progetto. Sai Tony, ci ho
pensato a lungo e…»
«Scusami Micke ma ti devo interrompere. Non posso»
Michael non capiva «cosa non puoi?»
«Non posso più lavorare per te amico»
«Non lavori più per l’editore?»
«No, ci lavoro ancora, ma non lavoro per te»
«Ma te sei il mio agente»
Tony sbuffò, si accese una sigaretta e si sedette alla scrivania «non hai capito. Mi
fa male dirtelo in faccia e quindi apri bene le orecchie Micke, perché non te lo dirò
più. Sei bruciato! B-R-U-C-I-A-T-O. La casa editrice non ti pubblicherà più»
«Mah… mah… ma ho un contratto»
Tony si alzò di scatto dalla scrivania «loro se ne sbattono dei contratti Micke. Mi
sono opposto a quella decisione cercando di farli ragionare e credimi se ti dico che
ci ho provato in tutti i modi possibili. Ma niente. Non vogliono saperne. Mi hanno
obbligato a liquidare la tua posizione e a non accettare più manoscritti da te»
«Ma le accuse sono cadute, il giudice ha dato ragione a me»
«Dovevi immaginarlo, il plagio ti ha rovinato la piazza. Nessuno vuole pubblicare
uno accusato di plagio. Quale editore sano di mente rischierebbe anni di tribunali
per uno che potrebbe essere accusato nuovamente. Questa faccenda ha distrutto la
tua credibilità e, innocente o no, nessuno vuole rischiare di fare i soldi con le tue
opere. Hanno anche bloccato le nuove ristampe dei tuoi libri e hanno ritirato dal
commercio quelli invenduti. Hanno attuato una politica di difesa»
Micke non sentiva più le gambe, al loro posto vi era un formicolio. Era invaso da
forti emozioni contrastanti. La collera sovrastava tutto. Avrebbe voluto tirare un
cazzotto in faccia a quell’avvoltoio di Tony, ma sapeva che anche se era stronzo e
pensava al suo tornaconto economico, quell’agente aveva fatto anche i suoi
interessi un tempo. Voleva mettersi ad urlare, urlare che non era colpa sua, non
aveva colpa di tutto il merdaio nel quale era stato ficcato.
Non era colpa sua. Ma nessuno sembrava accorgersene.
Tutti davano la colpa a lui.
Tutti puntavano il dito verso Micke.
Riuscì a respirare profondamente, mentre Tony lo fissava e alla fine riuscì a
parlare senza staccargli la testa dal collo.
«D’accordo Tony, va bene così» si alzò dalla poltrona «prima o poi sarebbe finita
ugualmente no? Magari ti avrei licenziato io» e lasciò il posto a un sorriso stentato
«grazie per tutto quello che hai fatto per me, te ne sarò comunque grato»
«Scusami amico! Lo sai che…»
Michael uscì dall’ufficio, e non sentì il resto della frase. Percorse a piedi le otto
rampe di scale, stritolando il corrimano d’ottone, fino all’ingresso del condominio.
Una volta uscito respirò a pieni polmoni.
Pensò e ripensò a quello che era successo in quell’ufficio. Le probabilità che
l’editore ci ripensasse erano pressoché zero. Le probabilità di trovare qualcun altro
che lo pubblicasse dopo essere stato scaricato da un editore così grosso erano
ugualmente pari a zero.
La carriera di Michael Donald era giunta al termine.
Capolinea.
Lo scrittore pieno di soldi era morto e Micke l’aveva saputo così, seduto
nell’ufficio dell’editore. Dopo un anno di merda, passato più sul banco degli imputati
che in studio a scrivere avvincenti pagine per i lettori futuri, Tony l’aveva ucciso,
aveva smembrato il corpo e l’aveva gettato in differenti cassonetti dell’immondizia.
Nessuno avrebbe versato una lacrima per lui. Non un funerale sarebbe stato
celebrato per lo scrittore di best seller.
«Bastardi ingrati» riuscì a proferire «bastardi ingrati, vi siete ingrassati con la mia
fatica» e tirò un pugno contro il muro del condominio.
Le nocche in quel preciso istante impattarono contro il cemento e una volta ritirate,
un’ondata di dolore si riversò in Micke. Le nocche pulsavano, la testa pulsava, gli
sembrava che l’intero corpo pulsasse. Forse, ancora non aveva capito cosa
significava il fatto che Tony l’avesse scaricato. Che la casa editrice l’avesse
trattato come un lebbroso, dopo tutti i soldi che gli aveva fatto fare.
Se non fosse stato per Michael Donald – pensava – quegli sporchi usurai
starebbero pubblicando ancora ricettari e riviste di pessima qualità. Era stato lui a
sollevarne l’immagine, da quando era entrato sotto contratto con loro, quegli
strozzini succhia soldi non avevano più bisogno di pubblicare guide contro le
emorroidi e articoli sugli alieni a Hollywood.
E ora l’avevano buttato via, come si fa con un sandwich che non ha un bel colorito.
Lo si annusa, magari gli si dà pure un morso, poi si fa una smorfia, si appallottola la
stagnola attorno e lo si getta nel cassonetto. Ecco cosa ne avevano fatto di lui.
Risalì in auto e si avviò verso casa.
5.
«»
«»
Il crepitio della pioggia che si infrangeva contro le assi del tetto piaceva a Randy.
Quel rumore prodotto dallo scontro delle gocce d’acqua contro il marciume del
legno che si trovava proprio un metro sopra di lui lo manteneva calmo.
Poteva riflettere.
L’acquazzone estivo fuori e lui dentro al riparo.
Poteva finalmente riflettere.
Si allentò il nodo della cravatta, gli sembrava di soffocarci dentro a quei panni. La
camicia bianca gli stava stretta e sembrava che lo rivestisse di una seconda pelle
che non gli piaceva per niente. Sbottonatosi il colletto, passò ai polsini girandoseli
all’insù. Randy diede un’occhiata verso il basso alla camicia e notò subito delle
piccole macchioline rosse.
«Dannazione Wendy, guarda cosa mi hai fatto», disse ad alta voce senza, però,
ottenere risposta.
Guardò verso la fine della rampa delle scale, stesa a terra, giaceva una donna in
posizione supina. Sembrava si stesse formando una piccola pozza di sangue attorno
alla testa, ma da lì Randy non vedeva bene.
Pensò subito a come poteva essersi sporcato la camicia. Probabilmente a causa dei
primi due pugni diretti alla faccia – pensò lui. Con il primo, ne era quasi certo, gli
aveva rotto il naso e con il secondo, probabilmente, gli aveva polverizzato lo
zigomo destro. Certamente il primo colpo inferto doveva aver rilasciato qualche
schizzo di sangue.
«Dannazione Wendy» si passò una mano tra i capelli «guarda cosa diavolo mi hai
fatto fare»
Si sarebbe aspettato una crisi di panico, un tono disperato, forse qualche lacrima
per quella donna. Niente di tutto questo, parlava con lo stesso tono pacato che
impiegava per vendere le tavolette del cesso al Brico.
Si guardò la mano destra e poi la sinistra, le sentiva pulsare debolmente, in
particolar modo le nocche. Sapeva bene che probabilmente avrebbe avuto delle
escoriazioni. Era stato uno stupido – pensò – doveva usare i guanti per evitare
questo problema.
Si guardò attorno come se si aspettasse che qualcuno o qualcosa comparisse
all’improvviso dalla porta della camera da letto degli ospiti, oppure dal bagno,
pronto a denunciarlo alla polizia.
Tese l’orecchio per alcuni istanti ma niente, a parte il rumore della pioggia. Dentro
casa c’erano solo lui e Wendy.
Iniziò a scendere le scale facendo strusciare il palmo della mano destra sul
corrimano. Giunto al penultimo gradino, dovette fare un balzo per riuscire a
scavalcare il corpo della donna.
La palestra funzionava veramente, era ancora atletico nonostante avesse superato i
quaranta – pensò lui – erano soldi ben spesi.
«Otto anni di matrimonio e proprio oggi dovevi provocarmi», disse lui fermandosi
quasi aspettando una risposta.
In casa regnava il silenzio.
Piegò leggermente le gambe per avvicinarsi a Wendy e di colpo una sensazione di
sollievo si insinuò in lui.
Era morta.
Sua moglie era finalmente morta.
La bocca di lei era contratta in una smorfia mentre gli occhi erano completamente
sbarrati. Gambe e braccia avevano assunto una posa innaturale e la piccola pozza
di sangue che presumeva si fosse formata esisteva davvero.
Una voce nella sua testa prese il sopravvento-
Sei stato un idiota – disse la voce – dovevi attendere la gita al lago. Ora ti
scopriranno stupido idiota, ti beccheranno sicuramente e passerai il resto dei tuoi
giorni in gabbia.
«Non mi beccheranno» rispose ad alta voce «è caduta dalle scale… io… io l’ho
trovata così e non ho potuto salvarla»
Cadendo si è rotta il naso e lo zigomo razza di imbecille? – gli fece eco la voce.
«Possibilissimo» rispose Randy ma iniziò a prendere coscienza della gravità della
situazione. Doveva risolvere la faccenda velocemente e in modo pulito.
Se lo era immaginato in maniera differente da come lo trasmettono alla televisione.
Solitamente gli assassini si fanno prendere dal panico ma non Randy. Randy era
pacifico, metodico nell’operare. Non si stava facendo sopraffare dalle emozioni e
sapeva bene che aveva tutta la notte per pensare a come fare per risolvere quel
problema.
Aveva perso ormai il conto di quante volte aveva progettato di fare fuori quella
stupida puttana. Il “come” era la parte che l’aveva divertito più di tutto. Portare la
sua Wendy al lago e durante una battuta di pesca affogarla era abbastanza
ricorrente, vuoi per la casa al lago che effettivamente possedeva, vuoi per il
brivido di tenerle la testa sotto l’acqua e sentire le sue energie che si
affievoliscono sempre più. Quella puttana avrebbe avuto ciò che si meritava –
ripeteva spesso il Randy del sogno – smettendo di prenderlo in giro per il suo
lavoro o per il modo di vestirsi o ancora per come parlava. Non era colpa sua se
faceva un lavoro di merda che, però, gli permetteva di portare a casa la pagnotta a
differenza della moglie. Lei si definiva una casalinga, ma ogni volta che il marito
tornava a casa per cena non c’erano altro che piatti precotti conditi da salse
disgustose. Lui non voleva nemmeno sapere cosa facesse sua moglie durante il
giorno, immaginandosela distesa sul divano immersa in qualche oscena soap opera
del cazzo. Non era colpa sua se al secondo anno del liceo aveva dovuto mollare
tutto per aiutare suo padre come manovale. Non era colpa sua, in fin dei conti, se
Wendy era stecchita sul pavimento.
In effetti l’ultimo commento tagliente sul suo completo era stato la causa
scatenante della sua morte. Se semplicemente si fosse astenuta dal dirgli che al
funerale dove stavano per recarsi, così vestito tutti lo avrebbero scambiato per il
becchino, forse si troverebbe ancora in questo mondo e Randy avrebbe avuto la
possibilità di ficcarle in acqua quella sua adorabile testolina.
Cosa pensi di fare? – chiese quella voce dentro di se. A Randy sembrava la voce di
quella che fino a pochi minuti prima era sua moglie. Quella era una dei suoi cavalli
di battaglia assieme a sei una nullità, dovevo sposare Bill Preston, non te!
Quella vipera l’aveva detto per l’ultima volta – pensò lui e subito un ghigno prese il
sopravvento.
Voltò le spalle al corpo e si incamminò verso la cucina. Da sotto al tinello, ancora
pieno zeppo di piatti sporchi – alla faccia della casalinga, pensò Randy – prese la
candeggina e un paio di stracci. Dalla dispensa prese dei sacchi della spazzatura
neri e tornò da Wendy.
Doveva ripulire il sangue alla svelta se non voleva farlo seccare e, quindi, sudare il
doppio per levarlo di torno. Non voleva nemmeno metterci tutto il resto del
pomeriggio, in tv c’erano i Patriots e non voleva perderseli per colpa di quella
sgualdrina. Anche se non era nei suoi programmi seppellire la vacca quel giorno,
lui era preparato. L’aveva preparato da almeno quattro anni e non era passato
giorno in cui non avesse metodicamente pensato a come sbarazzarsi del cadavere
se non fosse riuscito nel tentativo di annegarla.
Davanti al corpo della donna, Randy stette ritto in piedi per alcuni secondi. I suoi
occhi trovarono lo spigolo dissestato delle scale – che sua moglie Wendy gli aveva
chiesto più volte di sistemare – macchiato di sangue.
Si, hai ragione, la troia è morta proprio in quel punto. È colpa tua, tu non hai
sistemato il gradino. Se l’avessi fatto ora non staresti per pulire questo macello .
Si inginocchiò e questa volta poggiò il ginocchio a terra continuando a fissare
quella strana espressione.
Di colpo gli tornò in mente e si diede una leggera pacca sulla fronte.
«Quasi me ne dimenticavo cara» si rialzò e si diresse nella rimessa. Dopo alcuni
minuti tornò reggendo sotto al braccio un rotolo. Iniziò a distendere una sorta di
telo trasparente sul pavimento. Cominciò a sbottonarsi la camicia ma, dopo che
ebbe visto di nuovo quelle piccole chiazze di sangue che lordavano il bianco del
tessuto, desistette.
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Pimeys in finlandese = oscurità
Pimeys village
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