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SERATA DA BRIVIDI

«La luna del Maine risplende di una luce magica»


Papà ricorreva spesso a quella frase quando rimboccava le coperte di Karen. Dopo
aver finito di raccontarle una favolosa storia su qualche principessa, le
sprimacciava il cuscino e le stampava un bacio sulla fronte.
Lei l’aveva sempre guardato con occhi pieni di ammirazione e ogni volta che quella
frase usciva dalla sua bocca la piccola bimba si limitava ad ascoltare in silenzio e
fissare la luna fuori dalla finestra della cameretta nell’attesa del consueto augurio
della buonanotte.
Anni dopo, quella stessa ragazzina, ormai una ragazza fatta e finita e
definitivamente uscita dalla transizione adolescenziale, stava fissando la stessa
luna del Maine dalla finestra posta di fronte al tinello della cucina.
La luna del Maine risplende di una luce magica.
«Karen! Allora quei pop corn?» urlò qualcuno dal salotto.
«Arrivano razza di imbecille!» rispose la giovane ridestatasi improvvisamente «se
vuoi non te li cucino, mangiali come un pollo!»
Dal salotto si udivano voci femminili e maschili, segno che quella sera Karen aveva
deciso di organizzare una piccola festicciola
Karen vedi di non organizzare festini in nostra assenza – si era raccomandata la
madre.
Certo ma’ - aveva fatto seguito lei.
Ormai Karen non ricordava quante volte aveva mentito a sua madre da quando suo
padre Mike non c’era più. Pazzo Mike – pensava ogni volta la giovane – pazzo Mike
scappato di casa. Una sera sedeva sul bordo del letto intento a raccontargli di una
principessa così furba da fregare il suo malvagio carceriere, il giorno dopo non
c’era più. Le lacrime, alla lunga, si erano trasformate in tristezza. La tristezza in
ribellione e a sua volta in presa di coscienza.
I suoi pensieri furono spazzati via dal sonoro scoppiettio del mais il quale via via si
era fatto più intenso. Karen prese la padella, spense il fornello e rovesciò il
contenuto dentro una vecchia terrina sbeccata e si avviò verso il salotto.
«Alla buon’ora!» esclamò Ted seduto sul divano di pelle consunto dal tempo.
Karen lo fulminò con lo sguardo e si sedette sulla poltrona appoggiando lo spuntino
sopra il tavolino di vetro.
«Se continui a lamentarti così ti sbatto fuori di casa» rispose lei.
Il ragazzo si limitò a mostrarle la lingua in gesto di pernacchia mentre Robby,
vicino, compagno di giochi da piccoli e di letto da quando frequentano il college,
con il braccio le avvolse spalle e collo.
«Su piccola lo sai che Ted è un coglione» le disse sorridendo, lasciando comparire
la perfetta dentatura frutto di almeno un paio di migliaia di dollari incassati da un
buon dentista.
«Lo so, ma ogni tanto mi fa bene insultarlo» rise lei.
«Ragazzi, dobbiamo decidere il titolo del film sennò qui si fa notte» si intromise
Charlotte «se non avete voglia ditelo subito e facciamo qualcos’altro»
«Io propongo un bell’horror» aggiunse Ted «qualcosa che mi faccia cacare sotto
dalla paura»
«Per cacarti sotto basterà tutto il chili che ti sei mangiato a cena» fece eco Karen.
«Simpaticona. Bene vado a fumarmi una sigaretta mentre decidete»
Ted si alzò dal divano e uscì dalla porta finestra che dal salotto dava direttamente
nel giardino di casa.
Karen aveva perso il conto delle grigliate che Pazzo Mike aveva organizzato in quel
fazzoletto di terra prima di andarsene. Quante bistecche bruciate e quanti vicini di
casa sorridenti e cordiali prima della sua scomparsa.
«Che titolo proponi?» chiese alla sua amica.
«Psycho?... o la notte dei morti viventi?»
Nel frattempo Ted chiuse la porta-finestra dietro di sé per evitare che entrasse
fumo in salotto, sennò le avrebbe sentite di nuovo da Karen.
Dopo aver frugato nel taschino della camicia a quadri che portava come d’abitudine
rigorosamente aperta sopra una t-shirt slavata per un paio di secondi tirò fuori una
lucky strike rossa. La serata era splendida, con una luna piena e delle stelle che
sembravano particolarmente luminose. Non sembravano nemmeno reali ai suoi
occhi, forse per colpa delle tre latte di birra che si era scolato poco prima.
Il giovane mosse alcuni passi, per sgranchirsi le gambe in direzione della strada e,
mentre si portava la sigaretta alla bocca per aspirare, vide qualcosa dall’altro lato
della strada, appoggiato ad una berlina nera. Ted non riusciva a riconoscere la
figura, era troppo distante e la sua miopia non contribuiva alla causa. Cerò di
mettere a fuoco ma la figura era sempre sfumata. Era quasi sicuro che lo stesse
fissando.
Sicuramente è un uomo. Sarà il ragazzo di Tif (diminutivo di Tiffany) che l’aspetta –
pensò lui – anche se Robert mi pare abbia una mustang verde. Magari è con quella
del padre. Sinceramente cazzo me ne frega.
Spense la sigaretta e rientrò.
«Che facevi fuori?» l’apostrofò Charlotte.
«Mi facevo una sega» rispose lui mimando il gesto.
«Il solito disgustoso!» replicò lei
«Karen, Tif sta ancora con quel Robert?» chiese Ted mentre riprendeva posto sul
divano.
La ragazza si girò verso di lui sfoggiando un sorrisetto malizioso «perché ti
interessa? Ci stai facendo un pensierino?»
«Non dire cazzate. Quella balena piena di brufoli? Rispondi»
«Penso di sì, a meno che non mi sia persa qualcosa da quando sono partita per il
college. Lei e Robert stanno ancora assieme, penso si sposeranno tra un paio
d’anni. Mia madre è in buoni rapporti con la sua e da quello che mi raccontava
sembra proprio che i due siano innamoratissimi»
«Robert ha ancora la mustang verde?»
Karen esitò un istante «credo di sì, perché?»
Ted si sedette sul divano «chiedevo, c’è un tizio dall’altra parte della strada e
pensavo fosse il suo ragazzo, ma ha una macchina nera»
«Allora sarà un altro, suo papà guida una Ford bianca e sua madre non penso
possieda un’auto» Karen si alzò e si diresse verso la porta finestra.
Guardò fuori avvicinandosi al vetro della porta. Si alzò sulla punta dei piedi per
cercare di allungarsi un po’ ma non riusciva a vedere nulla, l’angolo della casa le
bloccava quasi totalmente la visuale.
«Ma non vedo nessuno»
«Forse se n’è andato via, o forse la casa ti blocca la visuale» replicò lui «esci in
giardino, sennò col cazzo che vedi»
Karen non ne aveva la ben che minima voglia, ma la curiosità vinceva su tutto,
anche sulla possibilità di mettere piede in giardino e beccare la cacca di Polly, il
cane domestico.
Aprì la porta e uscì, fece alcuni passi tenendo gli occhi fissi a terra nel tentativo di
ricercare qualche merda di cane e fermandosi girò il volto in direzione della strada.
Era scalza e l’erba le solleticava dolcemente i piedi. Scrutò nell’oscurità ma del
tizio farneticato da Ted non vi era traccia. Probabilmente era la solita stronzata di
Ted per farli cacare sotto dalla paura. Karen tornò indietro.
Sostò nella porta finestra fissando Ted con aria di sfida pronta a rimproverarlo.
«È vero c’è una macchina nera di fronte casa di Tif, ma non vedo nessuno. Se
cerchi di terrorizzarci hai sbagliato ser....»
Karen non riuscì a finire la frase. La ragazza rimase immobile come fosse stata
d’un tratto pietrificata alla vista di una gorgone. Gli occhi si spalancarono
completamente e la bocca rimase aperta lasciando uscire un sibilo, come se avesse
perso tutto il fiato che aveva in corpo. Sbiancò velocemente in viso. I tre giovani,
non capirono subito cosa stava accadendo. Ted stava guardando la copertina di
Psycho, mentre Robby parlava di zombie con Charlotte. Si voltarono a guardarla
proprio mentre dall’angolo sinistro della sua bocca iniziava a sgorgare un piccolo
rigagnolo di sangue che fluiva sul mento fino a gocciolare a terra. Tossì due volte
e uscì più sangue andandosi a riversare sul pavimento di legno.
«Karen…» riuscì ad apostrofare Robby.
I suoi occhi riuscirono finalmente a sbloccarsi dal suo viso e scesero un poco più
giù.
Nella sua testa si accese un sonoro campanello d’allarme. Dalla maglia di Karen
spuntava una grande lama e tutt’attorno il colore grigio della maglietta aveva fatto
posto ad una tonalità decisamente più scura.
Il silenzio di tomba venne interrotto dall’urlo lanciato a squarciagola da Charlotte.
Se i due ragazzi l’avessero guardata bene si sarebbero accorti che i suoi occhi
stavano per uscirle dalle orbite.
Robby stava tremando come una foglia.
«Karen… o mio dio Karen che cosa…»
La giovane era sospesa ad una decina di centimetri dal pavimento, le gambe erano
completamente rilassate.
D’un tratto i suoi piedi toccarono il pavimento e la lama guizzò velocemente fuori
dallo stomaco lasciando spazio ad uno schizzo proprio dritto in faccia a Charlotte.
La ragazza cadde di fronte ai giovani, metà del corpo ancora in giardino e l’altra
metà sopra il parquet del soggiorno.
Dietro di lei rimase una figura nera e incappucciata.
«Che cazzo» disse Ted stringendo fino a stritolare con entrambe le mani i cuscini. I
suoi occhi saettarono velocemente dal corpo di Karen alla figura ancora in piedi.
«E te chi cazzo sei?»
La figura vestita interamente di nero non rispose alla provocazione del ragazzo,
limitandosi ad avanzare lentamente verso i tre.
Charlotte era letteralmente paralizzata dalla paura e tendente ad una crisi di pianto
isterico, mentre Bobby si alzò di scatto e senza nemmeno accorgersene stava
andando incontro all’uomo.
«Bobby non…» Ted non riuscì a terminare la frase quando vide l’incappucciato
rilasciare un destro contro la mascella dell’amico. Questi ruzzolò sonoramente a
terra e non si mosse.
«Charlotte, alza il culo» urlò Ted mentre lanciava uno dei due cuscini contro
l’aggressore. Il ragazzo era già in piedi, l’adrenalina era in circolo e stava facendo
effetto. Tirò l’amica per il braccio ridestandola così da quello stato di torpore e la
fece alzare dal divano.
I due uscirono dal soggiorno come schegge, seguiti poco più dietro dalla figura.
«Verso l’ingresso» la indirizzò il giovane «e sbrigati. Oh cazzo!» si girò e
l’aggressore era alle loro spalle a due metri di distanza «sbrigati è vicino»
Raggiunsero ad ampie falcate l’ingresso. La giovane tirò la maniglia, ma la porta
non si aprì.
«La chiave! Gira quella maledetta chiave!»
L’aggressore si era fermato a fissare i due disperati.
«Non riesco ad aprire la porta» piagnucolò Charlotte mentre armeggiava col
pomello.
«Levati ci penso io» e nello stesso momento in cui posò la mano sulla maniglia e
riuscì a far scattare la chiave della serratura in modo da aprire il battente di legno
massiccio, questo si richiuse sotto il peso della ragazza.
Ted guardò negli occhi Charlotte e subito capì quello che era successo.
«O cazzo! Oh cazzo!» i suoi occhi si erano posati sul lungo coltello conficcato nel
seno sinistro di lei e la mano che lo impugnava. La lama aveva trapassato la
ragazza e si era conficcata sulle assi di legno della porta
Ted con tutta la forza che aveva addosso riuscì a spalancare la porta con tutta la
forza che aveva facendo assumere una posa innaturale e mollare la presa dal
coltello all’assalitore.
Una volta aperta, si scagliò a tutta velocità verso il vialetto del giardino,
scavalcando la recinzione alta poco più di un metro compiendo un unico balzo e si
defilò nella notte.
Dopo aver percorso circa un quarto di miglio correndo il più forte possibile iniziò a
rallentare e a tendere le orecchie alla ricerca di un qualche rumore di passi.
Il cuore gli batteva all’impazzata. Sembrava un martello pneumatico che pompava
sangue.
Nulla.
Rallentò ancora fin quasi a fermarsi.
Non sentiva nulla se non il suono delle sue scarpe da tennis e il sordo battito del
suo cuore.
Fece un profondo respiro e con l’ultimo pizzico di coraggio rimastogli in corpo
decise di voltarsi nella direzione dalla quale era scappato.
Casa Sullivan si vedeva in lontananza ora ed era completamente avvolta
nell’oscurità. I pochi lampioni illuminavano con la loro tremolante luce la via che
aveva precedentemente percorso ad ampie falcate.
Tutt’intorno sembrava sgombro, eccezione fatta per le automobili parcheggiate Ted
non vedeva anima viva.
Le urla non avevano svegliato nessuno. Non una sola luce del porticato delle
numerose case che affacciavano su Main Street si era accesa.
Il giovane se ne stava in mezzo alla strada, nell’oscurità e nell’indifferenza
generale.
Tirò un sospiro di sollievo, si voltò di nuovo e riprese a correre.

LA CASA

Erano circa le undici di sera quando l’agente McGregor, di fronte alla porta
dell’abitazione dei Sulliver capì che c’era qualcosa che non andava. L’uscio era
socchiuso. Nessuno in città avrebbe lasciato la porta aperta, soprattutto dopo la
serie di omicidi avvenuti da sei mesi a quella parte.
Quello spiraglio non prometteva nulla di buono e McGregor lo sapeva bene.
Nello stesso istante in cui decise di spingere la porta di legno massiccio, portò la
mano destra alla fondina, accarezzando dolcemente il manico della sua calibro .38
«Che cazzo» disse ad alta voce, rimpiangendo il giorno in cui aveva deciso di
vestire l’uniforme.
La porta scricchiolò leggermente sotto la pressione della mano sinistra ed
aprendosi rilasciò un cigolio inquietante. Un brivido percorse per intero la schiena
dell’uomo.
Dietro di lui, l’agente Donovan gli guardava le spalle.
«Sei sicuro che sia questa l’abitazione?»
McGregor si girò verso il partner «certo che sì, pensa a coprirmi le spalle
piuttosto, voglio tornare a casa a dormire finito qui»
Quella che avevano ricevuto era l’ultima chiamata della serata. Il turno era già
terminato ma ai due un po’ di straordinari facevano comodo.
Quando si girò nuovamente, di fronte a sé la porta era aperta quel tanto che
bastava per infilarci una torcia elettrica ed illuminare, così, l’ambiente. Dovette
tirare alcuni colpi alla torcia prima che questa si accendesse.
«Maledette dotazioni di merda» disse in modo seccato.
«Den, sei troppo agitato, vuoi che vada avanti io?» gli disse da dietro le spalle il
partner.
«Shhhh» gli fece McGregor quando illuminò il corridoio.
Diede una rapida occhiata attorno a sé, mosse un passo in avanti salvo bloccarlo a
mezz’aria e riappoggiarlo nello stesso precedente punto. Quello che stava
guardando non gli piaceva per nulla. Aprì di più la porta, puntò la torcia ad
illuminare il legno del parquet e lì vide una grande macchia scura. Illuminò le pareti
e trovò impronte scure di mani.
Den sapeva che quello non poteva essere altro che sangue. Una grossa pozza di
sangue che iniziava ad addensarsi. Le manate lasciate sulle pareti erano così
precise che quelli della scientifica non avrebbero avuto problemi a rilevarne le
impronte.
«Cazzo Steve …» e in quello tirò fuori dalla custodia la sua calibro .38.
Donovan si avvicinò con fare sicuro per dare un’occhiata e, tutta quell’arroganza
che era solito portarsi dietro nei giri di pattuglia se ne andò a farsi benedire in
pochi istanti.
«Cazzo Den, che è successo qua dentro?»
«Non lo so Steve, vai alla volante e chiedi informazioni dalla centrale, io entro» poi
si voltò verso il collega «se mi senti urlare entra»
Mentre Donovan correva verso l’auto lasciata pochi minuti prima sul vialetto di
casa Sulliver, McGregor prese coraggio e cercò di entrare evitando il sangue.
Merda – pensò lui – anche le scarpe nuove devo sporcarmi.
Cercò a tastoni l’interruttore della luce e nonostante fosse riuscito a trovarlo,
sembrava che l’elettricità fosse stata staccata.
Un secondo brivido percorse la schiena dell’agente.
«Polizia!» esclamò «se c’è qualcuno, che venga fuori con le mani bene in vista!»
Quella frase pronunciata numerose volte con tutta sicurezza ora risultava
tremolante e approssimativa.
Nonostante l’ordine non giunse alcuna risposta.
Den si incamminò lungo l’anticamera e in breve raggiunse la fine del primo
ambiente. Da qui doveva decidere se prendere la porta di fronte a sé, quella sulla
destra o quella alla sua sinistra. Diresse il fascio luminoso verso i vetri della porta
sulla destra, fece un bel respiro e girò lentamente la maniglia. I cardini cigolarono
quando lui iniziò a spingere quel tanto che gli bastava per controllare all’interno.
Maledì i proprietari per non aver oliato per bene i cardini delle porte quando un
terzo brivido gli fece rizzare i peli delle braccia.
Quello doveva essere il salotto, pensò subito, quando la luce illuminò lo schermo
della televisione. Successivamente indirizzò il fasciò di luce verso il divano per poi
posarsi sul tavolino. Sopra vi era appoggiata una terrina con del popcorn.
Sentì una leggera corrente d’aria, spostò la torcia nella direzione della parete e
vide che la porta finestra era socchiusa. Mosse alcuni passi all’interno della stanza,
illuminò le pareti per assicurarsi che nulla e nessuno potessero celarsi dietro a
qualche mobile, poi si concentrò sul pavimento. Dalla porta finestra al divano trovò
sangue ovunque, sembrava avessero scuoiato un animale all’interno di quella
stanza.
Una macchia più grossa cominciava dalla porta finestra trascinandosi verso il
divano. Altre tracce erano andavano verso un’altra stanza.
Non c’era il cadavere, o, a vedere tutto quel sangue, i cadaveri. Sembrava uno
scherzo di pessimo gusto. Il sangue poteva essere vernice ma l’odore forte e
pungente non lasciava dubbi.
Si era abbassato sulle ginocchia per guardare meglio. Sul parquet spiccavano delle
impronte insanguinate di scarpe, o di scarponi. Si concentrò sulla direzione di tutte
quelle tracce pensando con calma alla mossa successiva quando, ad un tratto, sentì
un rumore provenire dall’ingresso.
«Chi è là?» esclamò McGregor.
«Sono io!» gli rispose Steve.
«Sono nella zona giorno, la porta a destra alla fine del corridoio, raggiungimi»
«Cazzo Den, sembra il pavimento di un mattatoio. Cos’è successo?» gli chiese
quando giunse al soggiorno.
«Non ne ho la minima idea» Denis si era voltato verso il suo partner «penso
qualcosa di parecchio brutto comunque. Hai sentito quelli della stazione?»
«Sì, hanno ricevuto la chiamata circa un’ora fa, ma nessuno poteva andarci. La
chiamata era per schiamazzi notturni. Pensavano fosse qualche giovane che non
lasciava dormire i vicini e il centralino ha dato la priorità ad altri casi»
Den si guardò intorno «schiamazzi notturni eh?»
«La luce non funziona. Vado a cercare il pannello generale, magari riesco a trovare
l’interruttore»
Mentre Donovan si allontanava, McGregor tornò ad interessarsi delle varie
impronte lasciate sul pavimento. Una fila andava verso la portafinestra mentre,
un’altra fila entrava dalla stessa porta dalla quale era entrato Den e si dirigevano
verso quella che con tutta probabilità doveva essere la cucina.
Sempre cercando di evitare di calpestare le tracce e di inquinare così le prove,
l’agente raccolse quel poco di coraggio che aveva ancora in corpo e si diresse
verso la porta opposta.
Non aveva abbastanza tempo per formulare ipotesi ma il suo sesto senso gli diceva
che non avrebbero trovato niente in quella casa a parte il sangue. Più che una
sensazione, Den lo sperava.
Le impronte insanguinate che si dirigevano verso l’esterno dalla zona giorno,
probabilmente erano state lasciate dallo stesso assassino, a patto che ve ne fosse
stato solo uno. E con tutta probabilità era entrato dalla stessa porta dalla quale era
uscito, quella che dava sul giardino.
La torcia iniziava a dare forti segnali di cedimento. Il continuo sfarfallare non
contribuiva a sciogliere i nervi dell’agente. La sua mano stava pulsando a forza di
stringere il calcio della pistola. Scosse la torcia elettrica che di colpo si spense.
Avanzò a tastoni nel buio verso la cucina e nello stesso istante in cui si avvicinò
all’enorme penisola che dominava la stanza la luce tornò.
Steve aveva trovato il contatore.
Si sentiva molto meglio, con l’ambiente completamente illuminato poteva vedere
ogni cosa. Notò subito che la scia d’impronte si bloccava all’ingresso della cucina e
tornava indietro. Si avvicinò alla penisola, poi perlustrò il resto della stanza. Il
lavello era pulito, nessuna traccia di sangue, così come per il resto dei mobili.
Mentre McGregor tirava un sospiro di sollievo, l’agente Donovan lo raggiungeva.
«Trovato nulla?»
«Solo sangue, nessun corpo» rispose Den girandosi verso il partner «te?»
«L’interruttore generale era sul retro della casa, penso che i proprietari lo
chiudessero con un lucchetto perché l’ho trovato aperto»
«Com’è possibile che non ci sia nessuno?» Den guardò il telefono a muro della sala
«chiamo i rinforzi e poi continuiamo a perlustrare la zona».
L’apparecchio era stato fissato all’ingresso della cucina, a lato della porta che
faceva da separé con la zona giorno.
Mentre McGregor chiamava la stazione di polizia, Steve dette un occhiata alla
penisola. Rimise la pistola nella fondina con tutta calma ed ammirò lo stupendo
pezzo che imperava al centro della cucina.
«Mia moglie ne vorrebbe una uguale» indicò il grande mobile. Il partner gli fece
cenno di tacere.
L’agente passò ad esaminare il tinello, il porta stoviglie e le padelle dando le spalle
al collega. Capì subito che la gente che abitava quella casa doveva avere parecchi
soldi da spendere. Aprendo le ante dei pensili vide piatti di ceramica, bicchieri di
ottimo vetro e padelle in acciaio, americano, inossidabile. La prova del nove, per
chi se ne intendeva veramente, erano i coltelli. Era certo che la famiglia Sulliver
possedesse degli ottimi coltelli. Si guardò attorno alla loro ricerca e vide il ceppo
di legno che avrebbe dovuto custodirli. Ne tirò fuori uno ed esaminò la lama. In
piccolo era impressa la marca “Dexter-Russell”. Steve tirò un sospiro di sollievo.
«Ottimi coltelli» disse tra sé e sé. Rimise a suo posto la lama per sfilettare e guardò
i restanti.
Supervisionò tutti i pezzi fino ad arrivare alla mannaia, il suo coltello preferito. A
lui piaceva acquistare quarti di bue all’ingrosso e macellarseli personalmente. La
mannaia da cucina era la regina dei coltelli per Steve.
«Dove diavolo sarai finita» disse sempre tra sé e sé mentre apriva i cassetti.
Mentre rovistava alla ricerca di quel magnifico pezzo l’agente sentì un rumore
secco, un rumore rapido. Come se qualcosa si spaccato. Gli ricordava vagamente il
rumore che aveva fatto la sua gamba a quattordici anni quando se l’era rotta.
Si voltò verso il suo collega «Den questi sono pieni di …» la frase rimase sospesa a
mezz’aria.
Steve fissò il collega. McGregor se ne stava in silenzio, appoggiato leggermente
alla parete col ricevitore ancora all’orecchio. Un rigagnolo di sangue gli scorreva
lungo la fronte.
Infilata, in mezzo alla testa, come fosse uno di quegli scherzi che si comperano per
pochi spiccioli per Halloween, era conficcata la mannaia da cucina che stava
cercando Steve.
«Den…» riuscì a proferire il partner.
Tentò di muovere un passo verso di lui «Cristo Den!»
Il corpo dell’agente iniziò a scivolare lentamente contro la parete fino a
raggiungere il pavimento.
Steve non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. Il suo partner se ne stava
beatamente seduto con una mannaia da cucina conficcata nella testa. Piccoli
rigagnoli di sangue si erano riversati dalla ferita ed erano scivolati lungo il volto e
gocciolavano sulla camicia e sui pantaloni della divisa d’ordinanza.
Cercò di dire qualcosa, la bocca si aprì ma non emise alcun suono. Nel frattempo la
sua mano destra trovò la fondina e staccò il laccio per estrarre la pistola.
Obbligò i suoi occhi a dirigersi verso la porta accanto a dove giaceva il collega ma
non c’era nessuno.
Nella mente di Steve si formarono due possibilità. La prima, estrarre la pistola e
iniziare a fare fuoco fino alla porta d’ingresso, raggiungere la volante e chiamare i
rinforzi. La seconda, cercare il bastardo che ha freddato il suo partner e
ammazzarlo come un cane.
Mentre elaborava una delle due possibilità, aveva estratto la pistola e la impugnava
saldamente nella mano destra. Fece un respiro profondo e mosse alcuni passi in
direzione del collega.
Si avvicinò a lui e inginocchiandosi gli appoggio due dita sul collo. Era talmente
vicino da riuscire a leggere la stessa marca degli altri coltelli: Dexter-Russel. In
cuor suo era già conscio dell’improbabilità di sentire pulsare qualcosa, ma doveva
controllare comunque. Den era stecchito, ma almeno l’aveva appurato e si era tolto
quel pensiero dalla testa.
Sollevandosi da terra afferrò la pistola del partner e scrutò nuovamente la porta
della cucina.
Sapeva bene che il sadico bastardo poteva essere ovunque, il suo campanello
d’allarme suonava già da alcuni secondi. Poteva attenderlo proprio a ridosso della
porta. Sapeva anche che non mancavano altri coltelli, quindi lo stronzo poteva
essere armato come non esserlo.
Steve prese coraggio e mosse verso la porta fermandosi proprio a ridosso di essa.
Controllò a destra e a sinistra. Non c’era nessuno.
Avanzò all’interno del salotto, anch’esso completamente sgombro.
La tentazione di uscire da quella casa era fortissima e la portafinestra lo invogliava
ancora di più. Avrebbe potuto, in pochi passi, ritrovarsi nel giardino di casa
Sulliver, in campo aperto e con la piena visuale, e raggiungere agevolmente l’auto.
Qualcosa dentro di lui, però, sembrava trattenerlo dentro l’abitazione. Chiamatela
coscienza, chiamatela senso di autodistruzione, ma Steve non accennava ad
andarsene.
Eppure la maniglia era così invitante. Una volta girato il pomello d’ottone avrebbe
avuto salva la vita.
«Fanculo» mormorò e si diresse verso la porta del corridoio principale «il mio turno
era finito»
La cosa positiva in tutto ciò, pensò il poliziotto, era che Den aveva avvisato i
colleghi e i rinforzi erano in arrivo.
Una volta giunto nel corridoio d’ingresso, però, la paura ebbe la meglio. Le gambe
di Steve si diressero verso la porta principale. Si guardò alle spalle per essere
sicuro di non essere seguito.
Il bastardo, pensò lui, sarà sicuramente al piano di sopra ora, mi starà tendendo una
trappola.
Afferrò la maniglia e piegò leggermente il polso per aprire la porta ma non si aprì.
Riprovò una seconda volta e poi una terza. La porta non voleva aprirsi.
Qualcosa non quadrava, quella porta era aperta quando erano arrivati sul posto.
L’assassino doveva averla chiusa a chiave. Questo era un grosso problema.
Provò nuovamente usando più forza ma ancora nulla.
Il panico stava prendendo il sopravvento.
L’adrenalina cominciò a scorrere più velocemente e il battito cardiaco sembrava un
martello pneumatico intento a sfondare un muro.
Armeggiava disperandosi, pensando alla sua ridicola idea di fare il Rambo della
situazione. Avrebbe potuto uscire dalla portafinestra e invece aveva deciso di
fregarsene del pericolo. Avrebbe potuto aspettare fuori i rinforzi e prendere a calci
in culo il bastardo, ma aveva deciso di fare l’eroe.
La porta non si apriva e Steve rassegnato decise di desistere.
Si voltò per dirigersi nuovamente in salotto per uscire dall’altro lato.
Nello stesso momento in cui si girò, sentì una pressione contro lo stomaco.
Qualcosa lo stava pungendo, ma in maniera più decisa e dolorosa.
Guardò avanti a sé, una figura vestita di nero, più alta di lui, si trovava a meno di
un metro. Il suo sguardo si diresse verso il basso.
Aveva capito cosa stava accadendo, ma doveva lo stesso vedere con i propri occhi.
Una lama era conficcata nella sua carne e tutt’attorno alla camicia della divisa si
espandeva una macchia scura. Provò ad alzare la pistola ma gli mancava
improvvisamente la forza.
La macchia si espandeva sempre più attorno alla lama, la quale scintillava
riflettendo la luce della lampada posta all’ingresso.
«Bastar…» non riuscì a terminare la parola, il dolore era lancinante.
Morire così, pensò lui, bella figura del cazzo.
La scura figura torse leggermente la mano e il coltello di conseguenza ruotò
leggermente nella carne. L’agente non riuscì a trattenere una smorfia di dolore e
svenne.
In lontananza Steve poté udire le sirene della polizia sempre più vicine.
Pochi secondi dopo, davanti casa Sulliver, una volante si fermò e scesero due
agenti di polizia.

«»
«»

IL VICOLO

I due poliziotti si erano addentrati nel vicolo indicatogli dalla chiamata.


«Senti qualcosa?» chiese Alan.
«Sento puzza di puttane» grugnì sorridendo Travor «di puttane fatte a pezzi»
Alan guardò severamente il giovane partner.
«Non dire cazzate Travor»
I due procedettero zigzagando tra i bidoni della spazzatura rovesciati e si
fermarono a metà del vicolo.
La scarsa illuminazione di un singolo lampione rendeva difficoltoso capire dove
mettevano i piedi e il vapore proveniente dagli scarichi della cucina della tavola
calda all’angolo non aiutava la situazione. L’odore stava iniziando a nauseare i
poliziotti. Gli scarichi delle fogne sembravano avere il loro pozzetto di raccolta
proprio all’interno di quel vicolo e i muri, per quello che potevano osservare erano
imperlati di goccioline d’acqua come fosse la fronte di un maratoneta.
Il puzzo penetrava completamente i sensi. Odore di immondizia, di piscio. Puzzo di
vomito misto all’olio di semi fritto troppe volte.
C’era quel fetore di cibo andato a male. Dolce e pungente assieme.
«Con questo puzzo non riesco a pensare a nulla»
«Che colpo di culo!» esclamò Alan «allora stattene un po’ zitto e tieni le tue opinioni
per te, va!»
Il poliziotto spostò con il piede un sacco nero della spazzatura divelto e sospirò.
«Ci vorrà una settimana di questo passo» poi si girò verso Travor «torna alla
volante e chiama rinforzi, non ho voglia di passare tutta la notte in mezzo alla
merda» tirò fuori una sigaretta dalla tasca posteriore dei pantaloni «e prendi la
torcia nel bagagliaio, non si vede un accidenti»
Il poliziotto si allontanò ben contento di poter battere in ritirata da quel sudicio
buco.
I suoi passi risuonavano nell’angustio passaggio, il rumore percorreva in tutta
l’altezza le pareti disposte ai leti.
Alan si avvicinò al lato destro e appoggio il palmo della mano sul muro. Lo ritrasse
immediatamente. L’intonaco, se si poteva definire tale, era completamente bagnato,
sembrava che le pareti in quel cunicolo puzzolente stessero sudando.
Subito la sua mente ritornò ai bei tempi andati. Esattamente quando iniziò a
prendere servizio attivo per le strade di Chicago.
Aveva vent’anni ed era fresco di diploma della scuola di polizia. Non come ora, a
cinquantadue anni suonati, veterano prossimo al pensionamento anticipato del
dipartimento. Al tempo aveva un fisico prestante e addominali d’acciaio forgiati a
suon di punizioni dal sergente Morse. Il sergente era quello che i veterani delle
guerre definirebbero un “duro”. Più che duro, ad Alan sembrava una sadica
macchina punitrice. Fatto sta che aveva imparato più cose dalle punizioni del
sergente che dal resto degli insegnanti.
Si ricordava ancora il suo primo giro di pattuglia e la chiamata. Lui e Bob, il
veterano affibbiatoli dal dipartimento per imparare il mestiere sul campo, stavano
di ronda in un piccolo quartiere abitato da spacciatori e tossici. Era la classica zona
malfamata dove l’epatite era l’ultimo dei tuoi problemi. Bob gli aveva già spiegato
che era meglio restare chiusi dentro l’auto e tenere i finestrini ben sigillati per
evitare che qualche schizzato non tentasse di infilarsi in macchina.
Non erano passate nemmeno quattro ore dall’inizio del turno quando arrivò la
CHIAMATA. Alan non comprese una sola parola, a parte la serie di imprecazioni
lanciate da Bob mentre azionava la sirena.
Tre isolati più avanti e scesero dall’auto. Bob stringeva ben salda nella mano
destra la sua pistola d’ordinanza, gli occhi sembravano spiritati, l’adrenalina era
entrata in circolo e il quarant’enne sembrava pronto a sbranare chiunque si
mettesse sulla sua strada.
La palazzina dalla quale era provenuta la chiamata al 911 era una sorta di casa
popolare mal tenuta e con due tossici che sonnecchiavano sugli scalini d’ingresso.
Bob imprecò contro entrambi e lanciò due pedate ciascuno. In meno di due secondi
i tossici erano spariti dalla circolazione, alle pedate avevano reagito grugnendo e
fissando in cagnesco l’agente. Alla vista del distintivo sgranarono gli occhi e
schizzarono via alla velocità della luce.
Bob si girò verso Alan «apri bene le orecchie. Stammi dietro bamboccio. Non voglio
raccoglierti col cucchiaino una volta che avremo finito qui»
Un minuto e numerose rampe di scale più tardi il suo partner si trovavano sul
pianerottolo del sesto piano. Le pareti, un tempo presumibilmente bianche, del
corridoio erano completamente scrostate e di un colore tendente al giallo sporco.
La moquette rossa era stinta su più punti e presentava numerose macchie
indefinite. Le porte che si affacciavano avevano visto giorni migliori, ammaccate e
con una vernice blu anch’essa scrostata.
Bob batteva così forte contro la porta dell’appartamento 69 che i cardini
sembravano saltare sui perni. Non c’era un campanello e dove un tempo doveva
esserci un batacchio, ora vi erano due fori.
«Polizia» gridava Bob sempre stringendo la pistola «aprite la porta!»
Dopo aver ripetuto tre volte la solita frase scandita, l’agente tirò giù la porta con
un calcio.
Alan dentro di sé stava cercando - all’interno di tutte le nozioni e i codici che
aveva dovuto imparare a memoria per superare gli esami - la pagina mentale
riguardante l’irruzione nelle abitazioni. A lui pareva che tutto quello che era
accaduto fino a quel momento non era propriamente legale.
Una volta divelta la porta d’ingresso, Bob gli fece cenno di attendere fuori ed entrò
impugnando saldamente la pistola con entrambe le mani.
Non dovettero trascorrere più di dieci secondi, dieci interminabili secondi per Alan,
quando Bob gli urlò di entrare.
Era giovane, e quello era stato il suo battesimo del sangue, anche se non aveva
sparato nemmeno un colpo.
Quella CHIAMATA avrebbe cambiato completamente la sua vita.
Mosse rapidamente dentro l’appartamento, superò il soggiorno e si avvicinò alla
camera da letto facendosi coraggio.
Fu esattamente in quell’istante, nel momento in cui ficcò il piede dentro quella
camera matrimoniale, che la sua vita cambiò.
Da pivello divenne uomo. Stava per essere battezzato.
Dentro l’unica fonte luminosa proveniva da una piccola lampada da comodino. La
lampadina doveva essere in fin di vita da come sfarfallava a intermittenza. Alan si
trovò di fronte al letto matrimoniale. Sopra, i corpi di due giovani donne pallide e
bionde completamente nudi eccezione fatta che per gli stivali. Erano magre, quasi
scheletriche, le costole spuntavano fuori come forche. Il pallore risaltava in modo
ancora più macabro la pozza di sangue nella quale giacevano.
Non riusciva a mettere a fuoco bene la situazione. Gli pareva, dalla considerevole
distanza di alcuni metri, impietrito com’era, che le due avessero numerose ferite da
taglio su tutto il corpo. Del sangue usciva dal collo, come fossero state squartate, e
del sangue sembrava scendere anche dalla zona pubica. Le candide lenzuola,
attorno alle due, erano impregnate del loro stesso sangue e l’intera camera
odorava di qualcosa di dolce e di ferroso allo stesso tempo.
Ad Alan sembrò che il suo cuore avesse saltato un battito. Si era fermato per un
istante e poi aveva ricominciato a battere. Un brivido gli percorse tutta la schiena e
all’improvviso gli sembrò che la stanza girasse attorno a lui.
Accanto ai due corpi, Bob si guardava attorno. La pistola che fino a poco prima era
stretta tra le sue mani ora riposava nuovamente dentro alla fondina.
«Maledizione» esclamò «hanno ripulito tutto questi fottuti tossici. Neanche il becco
di un quattrino» poi si voltò verso Alan «che ti prende bamboccio? Stai per
vomitare?»
Alan ricordava ancora, a trent’anni di distanza, la sensazione provata in quel
momento.
Non rispose, non riusciva a rispondere.
Bob non si scompose, si avvicinò al ragazzo e gli diede una pacca sulla spalla.
«Congratulazioni figliolo, al primo giorno sei già battezzato. Non sono pochi quelli
che dopo trent’anni di servizio non hanno ancora mai visto un paio di morti
violente»
Poi volse lo sguardo verso le due giovani donne dissanguate.
«Qui dentro hanno fatto un gran bel casino, ci vorrà parecchia candeggina per
ripulire questo macello»
Alan non riusciva a distogliere lo sguardo dai due corpi.
Bob, nonostante i suoi modi di fare così rudi, capì la situazione e con una mano
spostò il volto di Alan in modo da intercettarne lo sguardo.
«Figliolo, oggi è un grande giorno per te. Sappi che queste due puttane non te le
scorderai mai più»
A trent’anni di distanza, anche in quel sudicio vicolo, il poliziotto ricordava ancora i
volti delle due giovani.
Bob aveva ragione.
Cinque minuti più tardi, all’arrivo del partner, i due ripresero le ricerche.
Travor puntava la torcia nelle direzioni indicate dal collega e aspettando nuovi
ordini su quando e dove spostare il fascio di luce.
«Tra quanto hai detto che arrivano gli altri?»
«Non l’ho mai detto» sghignazzò il collega «Cristo che puzza!»
«Speriamo che arrivino presto…» interruppe la frase nello stesso momento in cui
col piede toccò qualcosa di diverso dai bicchieri e dagli altri rifiuti che fino a quel
momento aveva scansato con la punta delle scarpe.
Sempre col piede spinse via un sacco della spazzatura e subito si levò un tanfo
rancido. In quel fetore l’agente riconobbe le punte di dolcezza e ferro che non
aveva mai dimenticato.
La mano di Alan indicò un punto preciso al collega «illumina qui»
Il partner non se lo fece ripetere due volte, indirizzò la luce verso di lui e illuminò
la porzione di vicolo.
Il volto pallido di una giovane venne illuminato dalla torcia di Travor.
Il suo collega finì di spostare anche gli altri sacchi della spazzatura e si inginocchiò
vicino al corpo.
Il fascio di luce iniziò a tremolare, le mani del collega – pensò Alan – iniziavano a
tremare.
Il corpo sembrava presentare un unico taglio netto all’altezza della giugulare.
Probabilmente una puttana – pensò Alan – l’avevano ammazzata per i soldi e
scaricata in questo vicolo dato che non c’erano grosse pozze di sangue attorno al
corpo.
Posò due dita sul collo della giovane perché quella era la prassi.
«È morta» si limitò a constatare con voce indifferente.
Dietro di lui ci fu un piccolo rantolio. Alan si voltò verso il partner.
«Come stai?»
Travor era pallido, forse più pallido del morto. Le labbra gli tremavano
leggermente così come la torcia elettrica.
«Sto b-bene» sbiascicò.
Alan si alzò e si avvicinò a lui e gli poggiò una mano sulla spalla. La sua mente si
trovava nuovamente nella camera dell’appartamento 69. Le dita della mano di una
delle due leggermente immerse nella pozza di sangue. Gli occhi vitrei che
fissavano il soffitto. Il collo squartato che si apriva come una seconda bocca.
Capiva e sapeva cosa poteva provare quel giovane in quell’istante. Probabilmente
le stesse emozioni che si erano scatenate dentro di lui.
«Complimenti ragazzo. Oggi è il tuo battesimo del sangue» dopo di che si indirizzò
verso l’uscita del vicolo portandosi una sigaretta alla bocca.
Quella era stata la CHIAMATA di Travor.

PYMEIS VILLAGE

I potenti rintocchi della campana del villaggio si potevano udire fino a quattro
miglia di distanza. Nessuna delle altre contee poteva vantare un campanile come
quello.
Pymeis era invidiata da tutte le parrocchie limitrofe per lo stile e l’architettura
della chiesa battista.
Dalle cittadine vicine, numerose erano le famiglie che arrivavano a farsi più di due
ore di macchina per assistere alle cerimonie del pastore Rose. I suoi sermoni erano
i più infuocati della contea da quando quell’uomo aveva deciso di stanziarsi a
Pymeis.
Prima del suo arrivo la chiesa non contava più di trenta fedeli ed ora, ogni
domenica bisognava aggiungere un paio di panche in più e comunque la gente
arrivava fino a fuori dalle porte.
Il pastore Rose aveva già pensato di far installare due casse amplificate all’esterno
della chiesa, ma il consiglio cittadino non aveva dato il consenso. La congrega del
reverendo Tompson avevano alzato la voce e avevano richiesto di porre fine a
questa farsa. Lo stesso prete si era imposto al consiglio durante una riunione,
denunciando la comunità battista.
A parte le problematiche cittadine e le rivalità religiose comuni a tutte i piccoli
paesi, Pymeis poteva essere considerata una cittadina pacifica per quasi tutto
l’anno.
Il tacchino veniva tagliato come da tradizione il giorno del Ringraziamento e
venivano sparati in cielo i fuochi d’artificio per il quattro luglio. Accanto alle
bandiere sventolanti in quasi ogni giardino, le donne di casa mettevano a
raffreddare le torte di mele appena sfornate ai balconi delle finestre. La città aveva
l’aspetto tipico delle cartoline.
La notte di Halloween era forse l’unica tradizione non del tutto accettata e
apprezzata dalla silente Pymeis.
Alcune famiglie era restie nel far vestire i propri figli da streghe e vampiri,
soprattutto le famiglie che abitavano la cittadina da tempo immemorabile.
Quelle stesse famiglie usavano educare i propri figli e discendenti alla leggenda del
Mietitore di Anime. Gli anziani erano soliti affermare con estrema certezza
l’esistenza del mietitore. Il signor Novack un ottantenne dalla memoria appannata
dichiarava di averlo visto quando era giovane, o così vaneggiava.
Tutta la cittadina era a conoscenza della leggenda. Anche i foresti ormai si erano
abituati allo stravagante racconto dell’orrore.
Ma si sa, in genere le leggende contengono un fondo di verità. O così la pensava
Lester, sceriffo di Pymeis.
Lester era stato riconfermato nel suo ruolo dalla città e amministrava la legge in
modo imparziale. Anche lui foresto, in poco tempo si era fatto apprezzare dai
cittadini e aveva trovato una compagna di vita nella persona di Shona, ora la
signora Primunt.

«»
LA CONFESSIONE

1.

«Raccontami tutto dall’inizio»


Micke fissò lo sceriffo e dopo qualche istante si decise a parlare.
«Cosa vuole sapere» diresse lo sguardo verso le ginocchia.
«Per prima cosa vorrei capire come sei finito qui. Non capisco come uno come te
possa aver fatto quello che ha fatto»
Alle parole dello sceriffo Primunt faceva eco il ticchettio scandito dalle dita della
dattilografa che batteva a macchina.
Micke aprì un vecchio portasigarette di latta visibilmente consunto dall’uso e si
portò alla bocca una Camel.
«Ha da accendere?»
Lester frugò nel taschino della camicia e gli porse la scatola dei cerini.
«Grazie, devo avere perso l’accendino. Sa era di mio padre» diede una boccata e
fece uscire il fumo dalle narici.
«Bene, allora vuole sapere che ci faccio qui. Beh penso che lei lo sappia bene che
ci faccio qui, mi ci ha portato lei»
«Voglio che sia tu a dirmelo. Comincia col raccontarmi chi era Michael Gordon
prima di finire qui dentro con due accuse d’omicidio che pesano sulla sua testa»
Micke sorrise e diede un’altra boccata «vede sceriffo, non tutti nascono con la
camicia. Alcuni girano per anni a torso nudo e poi, tutto a un tratto, escono dal
sarto con un abito su misura da cinquecento dollari»
Lo sceriffo fece cenno con la mano a Kara, l’impiegata preposta a trascrivere a
macchina la conversazione, di fermarsi.
«Signor Donald»
«Mi chiami Micke» lo interruppe lui.
«Bene Micke, se fossi in te non scherzerei più di tanto. Vediamo» guardò l’ora
sull’orologio da polso «vediamo un po’, sono le quattro del pomeriggio di venerdì.
Tra un’ora l’ufficio del procuratore chiude e l’ultimo giudice disponibile lascerà il
suo ufficio verso le otto. Colpevole o meno, se continui di questo passo, dovrai
trascorrere tre notti in cella se non parli»
Kara fissava lo sceriffo per capire quando avrebbe potuto riprendere a battere.
«E quindi vuole sapere tutta la storia eh? Non penso che crederebbe a quello che
ho da dire»
«Intanto provaci, poi tireremo le somme»
«Va bene» rispose con fare rassegnato.
Lester fece cenno a Kara di riprendere a scrivere ma venne interrotto da Micke.
«Preferirei non scrivesse nulla»
«Come vuoi. Signorina Prescott lei può andare, se avrò bisogno la chiamerò»
I due attesero che la giovane donna richiudesse la porta dietro di lei.
«Immagino che avrà già letto il mio fascicolo» indicò il sottile plico appoggiato sulla
scrivania in parte allo sceriffo «quindi sa chi sono e quello che ho fatto»
«Dato che mi ha chiesto come ho fatto a ritrovarmi qui. Credo proprio che dovrò
iniziare a raccontarle parte della mia vita passata. Tutto cominciò circa otto anni
fa»

2.

La splendida giornata primaverile sembravano non volere finire mai.


Micke e Donna si godevano i primi scampoli di bel tempo in giardino. Entrambi
seduti sulle graziose sedie da giardino – un regalo di nozze da parte di alcuni zii di
lei – sotto il bianco gazebo. Donna aveva gli occhi socchiusi e il viso contratto in
una smorfia annoiata, in grembo teneva tra le mani un libro.
Come al solito lui era alle prese con la macchina da scrivere e concentrato nel
risolvere un piccolo intoppo nella trama del suo nuovo giallo. L’editore gli faceva
pressione da alcune settimane, voleva una prima stesura sulla sua scrivania nel
minor tempo possibile. La celebrità di Michael Donald era esplosa quasi per caso.
Una piccola casa editrice aveva notato il suo primo manoscritto e aveva deciso di
pubblicarlo. Da lì la California aveva richiesto di farne un film e i soldi avevano
cominciato a piovergli addosso.
Le pressioni non gli davano fastidio, concludere un romanzo non era
particolarmente difficile per lui.
Aveva ventidue anni e un portafogli gonfio. Una bella donna, una casa in riva al
lago e una macchina. La sua vita poteva dirsi completamente realizzata.
Fu proprio quel pomeriggio a cambiare la sua vita.
Nello stesso istante in cui la Cadillac nera varcò il cancello di casa Donald il fato
stava per ficcare un bastone tra i raggi della ruota della fortuna di Michael.
«Guarda Micke» Donna indicò la vettura in avvicinamento.
«Dev’essere Tony» rispose lui alzandosi dalla sedia da giardino e sporgendosi dal
gazebo.
«Lo stavi aspettando?»
«Non penso, ho appuntamento con lui la prossima settimana nel suo ufficio.
Dev’essere successo qualcosa»
La macchina si fermò alla fine del viale d’accesso, la portiera si aprì e ne uscì una
figura filiforme impacchettata dentro un completo di sartoria grigio. L’uomo si tolse
gli occhiali da sole dalla faccia, li piegò con cura e li ripose nel taschino della
giacca.
Salutò la coppia con un cenno della mano e con lunghe falcate gli venne incontro.
«Tony! Ciao!» disse Donna.
«Buon pomeriggio» fece cenno l’uomo in completo alzandosi leggermente il
cappello e indirizzando un’occhiata a Michael continuò «Micke dobbiamo parlare»
«Va bene, cosa succede?»
Il suo sguardo era serio e nel completo assumeva una posa rigida e severa, come
quella dei maestri di quei collegi che lui stesso era stato costretto a frequentare.
«Non qui, nel tuo ufficio» rispose dirigendosi senza nemmeno aspettarlo verso
l’ingresso della casa.
La coppia si guardò negli occhi. Donna cercava e sperava di comunicare
telepaticamente con Micke per cercare di capire cosa stesse accadendo. Era la
prima volta che i due vedevano l’agente così agitato.
Un minuto più tardi Michael chiudeva la porta dello studio e Tony si sedeva su una
delle tre poltroncine di pelle verdi disposte attorno ad un tavolino di vetro.
«Micke, dobbiamo parlare. È una cosa maledettamente seria»
Quando anche il padrone di casa si sedette, l’agente accavallò le gambe e cominciò.
«Abbiamo un grosso problema. Hai presente il tuo successo “Fino all’Alba”?»
Micke non rispose, si limitò a fare cenno di sì con il capo.
«Un’uomo in Colorado ci sta per fare causa per plagio»
«Scherzi?» domandò lo scrittore, ma l’espressione sul viso del suo interlocutore
non lasciava dubbi.
«Stiamo parlando di migliaia di dollari di causa se la notizia fosse vera e si andasse
a processo. Capisci? Non possiamo permetterci di raggiungere l’aula di tribunale.
Ne andrebbe della tua reputazione»
«Calma, calma Tony. Non ho plagiato nessuno, non ho preso spunto da nessun altro
libro per scrivere “Fino all’Alba”»
«Lo so Micke, ma come facciamo a dimostrarlo?»
«Ho il manoscritto autografo, è ancora in mio possesso chiuso nella cassaforte»
«Non hai capito. Parliamo di un libro scritto più di sette anni fa. Questo signor
Jordan dichiara di averlo scritto prima di te, e un bel pezzo prima»
«L’ha pubblicato?»
«Da quello che so, per ora, è stato pubblicato da una casa editrice locale, non
dovrebbero averne stampate più di cinquanta copie in tutto»
«E io che centro?»
«Questo tizio dice che hai copiato il suo romanzo. Vuole intentare una causa contro
di te»
Micke non ci poteva credere. Poteva immaginare che alcuni romanzi potessero
assomigliarsi tra loro, ma arrivare a denunciare un altro scrittore per aver plagiato
un romanzo altrui, quello era veramente grave.
«Non ci posso credere» pensò ad alta voce Michael mentre si alzava dalla
poltroncina e raggiungeva la cassaforte a muro. Ruotò le due manopole e dopo aver
armeggiato per qualche istante aprì la porta e tirò fuori il manoscritto.
«Ecco qui. Come posso avergli rubato il romanzo?»
«Bisogna ancora capire quale sia l’accusa di plagio. Magari potrebbe risolversi in
un nulla di fatto, ma dobbiamo essere pronti a tutto»
Micke non lo stava ascoltando, passava delicatamente il palmo della mano sulla
copertina del manoscritto e ripensava a quante notti insonni aveva passato per
scriverlo e ricorreggerlo.
Nel frattempo Tony continuava a blaterare di avvocati, soldi e accuse, impegnato in
un monologo di alcuni minuti, credendo che il suo protetto lo stesse seguendo.
Alla fine si rivolse verso Micke «hai capito?»
Michael fece finta di aver compreso tutto e gli rispose «pensaci te Tony, io sono
innocente»
«Lo so, lo so» rispose l’agente.
Non capiva l’uomo di fronte a lui gli credesse o meno. Se lo reputasse colpevole o
innocente. Poco gli importava in realtà, gli fregava solo di svegliarsi da
quell’incubo.
Il plagio, per uno scrittore era la peggiore sventura che gli potesse capitare nella
propria carriera. In confronto, il blocco dello scrittore sembrava un giro sulle
giostre di Joyland.
«Allora io vado, restiamo in contatto»
Cinque minuti più tardi Tony se n’era andato e Micke e Donna sedevano in cucina.
L’espressione di lei, ad ogni parola ascoltata si faceva sempre più cupa ed
incredula, quasi le stessero raccontando una storia dell’orrore.
«Non ci posso credere» rispose sua moglie dopo aver ascoltato per intero tutto
quello che gli aveva detto, o almeno quello che aveva capito, l’agente «Tony sa
bene che hai scritto tutto di tuo pugno, quella è ferina del tuo sacco. Tony sa
quante notti in bianco hai passato davanti alla macchina da scrivere per ultimare
quel capolavoro»
«Credo di sì»
«La casa editrice ti darà una mano, ne sono sicura. Non può abbandonare il suo
migliore scrittore. Vedrai che si risolverà tutto»
Lui sapeva bene che non sarebbe stato facile uscirne pulito. Il plagio è come la
merda, ti si appiccica e anche se riesci a toglierla ti rimane la puzza addosso. E la
gente quando sente puzza di merda se ne resta lontana. Nonostante tutto non
voleva che sua moglie restasse in apprensione per lui e sfoggiò un sorriso
raggiante.
«Si risolverà tutto»
La luce dello studio di casa Donald, quella notte, rimase accesa fino all’alba.
Micke l’intera nottata seduto sulla poltroncina verde, gli occhi sgranati a fissare il
vuoto, con in mano un bicchiere di whiskey.

3.

L’orologio segnava le cinque. L’ufficio dello sceriffo era deserto. L’ultima ad


uscire, lasciando soli Lester e Micke, era stata Kara. La contea non aveva
abbastanza soldi per pagare gli straordinari.
Lo sceriffo si stava stiracchiando, non era abituato a passare il pomeriggio davanti
alla scrivania ed era il solo a continuare a fermarsi oltre il suo orario anche se
sapeva benissimo che non avrebbe ricevuto nulla di più del suo stipendio. Per lui
era una missione, una vocazione. Aveva ricevuto la chiamata e da quel giorno
aveva sempre fatto il suo dovere. Preferiva effettuare il giro di ronda, controllando
le vie della propria cittadina, ma a quarant’anni poteva anche permettersi di
spendere un pomeriggio seduto alla scrivania e lasciare questa incombenza al suo
vice.
Micke nel frattempo si era acceso un’altra sigaretta.
«Sa sceriffo, non disprezzerei una bella birra ghiacciata»
«Quando avremo finito, se ti riterrò innocente… te la offrirò di tasca mia» rispose
piantando i gomiti sulla scrivania e sporgendosi in avanti aggiunse «cosa accadde
dopo la visita dell’agente?»
Michael appoggiò la sigaretta sul posacenere e riprese a parlare.
«Diciamo che mi ritrovai con la merda fino al collo. Telefonai al mio editore e
ottenni l’assicurazione di essere ritenuto, da parte loro almeno, innocente in tutta
la faccenda. Così dissero loro, aggiunsero che mi avrebbero difeso a spada tratta e
che non dovevo preoccuparmi di altro, ma ero sicuro che erano già pronti a
scaricarmi se fosse servito»
«I mesi passarono e l’ingiunzione giunse a casa. Mi veniva ordinato di presentarmi
in tribunale per rispondere dell’accusa di plagio» a quel punto si fermò per alcuni
istanti «che bastardi»
Lester lo fissava senza dire una parola, sempre piantato sui gomiti.
«Ci presentammo in tribunale alla prima udienza. Io, Donna, Tony e un paio di legali
dell’editore. Dall’altra parte c’era questo signor Jordan rappresentato da un
avvocato di paese. Tony era certo della vittoria. Quel campagnolo non aveva
speranze contro due macchine da guerra dell’ufficio legale più prestigioso del
paese. Parliamo di gente pagata duecento dollari l’ora»
Lester strabuzzò gli occhi.
«Hai capito bene capo. Quei figli di puttana la sapevano lunga, hanno difeso le
peggiori merde dello stato. Tutto per i soldi. D’altronde anche io lo facevo per i
soldi, per difendere ciò che era mio. Dovevo riabilitare il mio nome. Da quando
avevo ricevuto l’ingiunzione, i giornali l’avevano scoperto immediatamente ed ero
stato assillato da inviati stampa venuti per cercare di ottenere una conferma o
smentita dei fatti. Un paio di quelle sanguisughe me le ritrovai addirittura nel
salotto di casa senza sapere come fossero riusciti ad entrare. Le vendite dei miei
libri non erano in calo, avevano subito un arresto. Le librerie non volevano più
tenere sugli scaffali i miei romanzi. Il frutto di tutto il mio lavoro stava per finire al
macero per colpa di un’accusa più o meno infondata. Ero l’equivalente, nel mondo
dell’editoria, di uno stupratore seriale»
Lo sceriffo si ritrasse indietro e accese una sigaretta facendo segno di andare
avanti.
«Quel maledetto processo andò avanti per un anno intero. Vennero chiamati dei
teste a testimoniare le peggiori porcherie sul mio conto o su quello dell’editore.
Tutte le peggiori teste di cazzo – fammi passare il termine – le quali si erano viste
rifiutare i propri manoscritti erano state chiamate al banco dei testimoni. L’accusa
aveva tempo da perdere e sperava in un mio segnale di cedimento. Ma io tenevo
duro. Donna un po’ meno, col passare dei mesi evitò di venire in aula perché era
stufa di tutta la faccenda. Fosse stato per lei avrei dovuto pagare quello che mi
aveva chiesto e continuare per la mia strada. Avrei voluto saltare addosso a quel
Jordan e al suo ridicolo avvocato. Quegli imbecilli avevano messo in dubbio tutta la
mia vita. Avevano posto il dubbio sulla mia arte, sulle mie capacità di scrittore.
Avevano distrutto la mia credibilità e la mia creatività. Ero deciso ad andare fino in
fondo per dimostrare che io ero reale, ero uno scrittore, un creativo che non aveva
bisogno di escamotage per tirare fuori un buon libro»
Micke si asciugò la fronte madida di sudore e vedendo il fazzoletto di tela zuppo
capì che si stava facendo prendere dai sentimenti e al rancore. Rancore per la
perdita di tutto ciò che amava di più, rancore per essersi fatto fregare così
facilmente. La rabbia aveva dominato gli ultimi anni della sua vita, questo lo
ammetteva ora con serenità.
«Alla fine l’hai spuntata» aggiunse lo sceriffo.
«Il giudice ha convalidato la mia tesi. Il libro pubblicato era mio, farina del mio
sacco» e si toccò la tempia «può capitare che due autori scrivano un libro simile,
questo lo accetto, ma lo stesso giudice capì che i due manoscritti stavano su due
mondi separati e che l’accusa voleva lucrarci sopra. Vinsi l’appello e il ricorso. I
miei avvocati sapevano il fatto loro, riuscirono a farmi ottenere anche un rimborso
danni. Materiali e morali. Finito il processo avevo in tasca venti mila dollari in più e
il signor Jordan venti mila dollari in meno» Micke sorrise al ricordo della faccia del
suo rivale quando il giudice espresse il verdetto, poi tornò serio.
«Vinsi una battaglia, questo è certo, ma persi la guerra. Se guardiamo le cose in
prospettiva ho perso tutto. Mia moglie mi ha lasciato, nessuno vuole più i miei libri
e i soldi… quelli se ne sono andati assieme a Donna»

4.

Il giorno dopo il trionfo nelle aule del tribunale della contea, Micke si trovava
seduto nell’ufficio di Tony.
Sapeva bene che quelli appena trascorsi erano stati tempi duri, ma era certo che il
suo agente non l’avrebbe abbandonato. Ormai era stato riabilitato, il suo nome era
pulito. Le librerie non avrebbero rimandato indietro i suoi libri e le case editrici
avrebbero di nuovo fatto la fila e inviato sfarzosi regali per cercare di accaparrarsi
i suoi favori.
Si accorse subito che Tony aveva ri-arredato l’ufficio. Aveva scrostato la carta da
pareti rossa a motivi floreali e al suo posto era stata scelta una semplice vernice
verde chiaro. Al posto della vecchia, obsoleta e pacchiana scrivania di quercia
intagliata a mano, c’era un piccolo tavolino di metallo. Più che un ufficio gli
sembrava una sala operatoria. Alle pareti erano esposte un paio di tele di qualche
artista emergente, mentre la libreria che un tempo conteneva tutte le pubblicazioni
di Micke era sparita. Al suo posto c’era una mensola con sopra alcuni trofei di
tennis, presumibilmente del figlio. Le foto che li ritraevano assieme erano state
eliminate e al loro posto aveva incorniciato il diploma del college.
La porta si aprì e sulla soglia comparve Tony.
«Salve Micke, che ci fai qui?»
Micke lo salutò.
«Visto che sono riabilitato, volevo proporti questo nuovo progetto. Sai Tony, ci ho
pensato a lungo e…»
«Scusami Micke ma ti devo interrompere. Non posso»
Michael non capiva «cosa non puoi?»
«Non posso più lavorare per te amico»
«Non lavori più per l’editore?»
«No, ci lavoro ancora, ma non lavoro per te»
«Ma te sei il mio agente»
Tony sbuffò, si accese una sigaretta e si sedette alla scrivania «non hai capito. Mi
fa male dirtelo in faccia e quindi apri bene le orecchie Micke, perché non te lo dirò
più. Sei bruciato! B-R-U-C-I-A-T-O. La casa editrice non ti pubblicherà più»
«Mah… mah… ma ho un contratto»
Tony si alzò di scatto dalla scrivania «loro se ne sbattono dei contratti Micke. Mi
sono opposto a quella decisione cercando di farli ragionare e credimi se ti dico che
ci ho provato in tutti i modi possibili. Ma niente. Non vogliono saperne. Mi hanno
obbligato a liquidare la tua posizione e a non accettare più manoscritti da te»
«Ma le accuse sono cadute, il giudice ha dato ragione a me»
«Dovevi immaginarlo, il plagio ti ha rovinato la piazza. Nessuno vuole pubblicare
uno accusato di plagio. Quale editore sano di mente rischierebbe anni di tribunali
per uno che potrebbe essere accusato nuovamente. Questa faccenda ha distrutto la
tua credibilità e, innocente o no, nessuno vuole rischiare di fare i soldi con le tue
opere. Hanno anche bloccato le nuove ristampe dei tuoi libri e hanno ritirato dal
commercio quelli invenduti. Hanno attuato una politica di difesa»
Micke non sentiva più le gambe, al loro posto vi era un formicolio. Era invaso da
forti emozioni contrastanti. La collera sovrastava tutto. Avrebbe voluto tirare un
cazzotto in faccia a quell’avvoltoio di Tony, ma sapeva che anche se era stronzo e
pensava al suo tornaconto economico, quell’agente aveva fatto anche i suoi
interessi un tempo. Voleva mettersi ad urlare, urlare che non era colpa sua, non
aveva colpa di tutto il merdaio nel quale era stato ficcato.
Non era colpa sua. Ma nessuno sembrava accorgersene.
Tutti davano la colpa a lui.
Tutti puntavano il dito verso Micke.
Riuscì a respirare profondamente, mentre Tony lo fissava e alla fine riuscì a
parlare senza staccargli la testa dal collo.
«D’accordo Tony, va bene così» si alzò dalla poltrona «prima o poi sarebbe finita
ugualmente no? Magari ti avrei licenziato io» e lasciò il posto a un sorriso stentato
«grazie per tutto quello che hai fatto per me, te ne sarò comunque grato»
«Scusami amico! Lo sai che…»
Michael uscì dall’ufficio, e non sentì il resto della frase. Percorse a piedi le otto
rampe di scale, stritolando il corrimano d’ottone, fino all’ingresso del condominio.
Una volta uscito respirò a pieni polmoni.
Pensò e ripensò a quello che era successo in quell’ufficio. Le probabilità che
l’editore ci ripensasse erano pressoché zero. Le probabilità di trovare qualcun altro
che lo pubblicasse dopo essere stato scaricato da un editore così grosso erano
ugualmente pari a zero.
La carriera di Michael Donald era giunta al termine.
Capolinea.
Lo scrittore pieno di soldi era morto e Micke l’aveva saputo così, seduto
nell’ufficio dell’editore. Dopo un anno di merda, passato più sul banco degli imputati
che in studio a scrivere avvincenti pagine per i lettori futuri, Tony l’aveva ucciso,
aveva smembrato il corpo e l’aveva gettato in differenti cassonetti dell’immondizia.
Nessuno avrebbe versato una lacrima per lui. Non un funerale sarebbe stato
celebrato per lo scrittore di best seller.
«Bastardi ingrati» riuscì a proferire «bastardi ingrati, vi siete ingrassati con la mia
fatica» e tirò un pugno contro il muro del condominio.
Le nocche in quel preciso istante impattarono contro il cemento e una volta ritirate,
un’ondata di dolore si riversò in Micke. Le nocche pulsavano, la testa pulsava, gli
sembrava che l’intero corpo pulsasse. Forse, ancora non aveva capito cosa
significava il fatto che Tony l’avesse scaricato. Che la casa editrice l’avesse
trattato come un lebbroso, dopo tutti i soldi che gli aveva fatto fare.
Se non fosse stato per Michael Donald – pensava – quegli sporchi usurai
starebbero pubblicando ancora ricettari e riviste di pessima qualità. Era stato lui a
sollevarne l’immagine, da quando era entrato sotto contratto con loro, quegli
strozzini succhia soldi non avevano più bisogno di pubblicare guide contro le
emorroidi e articoli sugli alieni a Hollywood.
E ora l’avevano buttato via, come si fa con un sandwich che non ha un bel colorito.
Lo si annusa, magari gli si dà pure un morso, poi si fa una smorfia, si appallottola la
stagnola attorno e lo si getta nel cassonetto. Ecco cosa ne avevano fatto di lui.
Risalì in auto e si avviò verso casa.

5.

«Bel casino» sospirò Lester accavallando le gambe e tirandosi indietro come a


stiracchiarsi «davvero un bel casino»
«Cose che possono capitare»
«Essere scaricati come spazzatura dopo che hai fatto le fortune di qualcuno?»
Micke staccò un cerino, ripose la scatola al centro della scrivania e si accese una
sigaretta «è il sogno americano amico. La fortuna viene e poi va. La mia fortuna era
giunta al termine in quel preciso istante. O forse prima, nell’esatto istante in cui
Mr. Jordan aveva deciso di rompermi le palle per farmi scucire qualche dollaro.
Nessuno pianse la mia scomparsa. I riflettori vennero puntati su qualche altro
scrittore. È così che va la vita»
«Immagino ti fossi incazzato. Non è così?»
«Certo. Solo uno stupido potrebbe restarsene tranquillo. Beh io non sono uno
stupido»
«Così hai squarciato la gola a Mr. Jordan»
Michael si bloccò un istante e scrutò gli occhi verdi e profondi dello sceriffo
«questa è un’accusa. Non avevo nulla contro quel bifolco»
«Ti aveva portato in tribunale e infangato il nome, se non è questo un movente»
«Prima o poi qualche altro imbecille poteva avere una trovata simile. Il mondo ne è
pieno. Se dovessi ammazzare tutti gli imbecilli farei una strage» sorrise Micke al
pensiero di tagliare la gola a un sacco di persone che negli anni avevano tradito la
sua fiducia. Li ritto in piedi con un rasoio in mano e la testa leggermente piegata
all’indietro della sua vittima e zac! Un colpo netto e lo spruzzo di sangue che si
riversava verso l’esterno. Il caldo, l’odore del sangue.
«Non l’ho ammazzato. Giuro. Non dico che la notizia non mi abbia fatto piacere.
Sapere che qualcuno aveva scannato il bifolco mi aveva fatto stare meglio. Ma
soprattutto perché avrei dovuto aspettare così tanto tempo per farlo fuori, non ne
vedo il motivo»
«La mente umana è strana amico» rispose Lester mentre voltava lo sguardo verso
la finestra dell’ufficio.
Il sole stava cominciando a calare, ancora poco e le tenebre sarebbero scese sulla
città.
«La mente umana non è strana. Siamo esseri razionali e come tali sappiamo quante
probabilità ci sono perché uno commetta un crimine e venga beccato. Mr. Jordan
cercava rogne e qualcuno l’ha sistemato per le feste. Prima o poi avrebbe fatto
quella fine. Non ero l’unico al quale aveva pestato i piedi. L’avrei pestato? Certo e
volentieri. Avrei voluto vederlo soffrire? Assolutamente. Ammazzare è ben diverso.
Bisogna avere l’animo sporco per togliere la vita a qualcuno»
«Allora possiamo dire che qualcuno ti ha fatto un favore. Continua a parlare»
Michael fece spallucce e in maniera disinvolta domandò dove fossero le birre.
Lo sceriffo tenne un pensiero per sé. Vedere quell’uomo seduto nel suo ufficio e
pensare che anni prima era giovane ed era qualcuno lo faceva stare di merda. Quel
ragazzo, perché lo era ancora, aveva avuto la sua chance e qualcuno, qualche
bastardo gliel’aveva sottratta da sotto al naso.
Sulla testa di quel giovane pendevano due accuse di omicidio e lui ancora non se
ne rendeva conto.

«»

«»

Il crepitio della pioggia che si infrangeva contro le assi del tetto piaceva a Randy.
Quel rumore prodotto dallo scontro delle gocce d’acqua contro il marciume del
legno che si trovava proprio un metro sopra di lui lo manteneva calmo.
Poteva riflettere.
L’acquazzone estivo fuori e lui dentro al riparo.
Poteva finalmente riflettere.
Si allentò il nodo della cravatta, gli sembrava di soffocarci dentro a quei panni. La
camicia bianca gli stava stretta e sembrava che lo rivestisse di una seconda pelle
che non gli piaceva per niente. Sbottonatosi il colletto, passò ai polsini girandoseli
all’insù. Randy diede un’occhiata verso il basso alla camicia e notò subito delle
piccole macchioline rosse.
«Dannazione Wendy, guarda cosa mi hai fatto», disse ad alta voce senza, però,
ottenere risposta.
Guardò verso la fine della rampa delle scale, stesa a terra, giaceva una donna in
posizione supina. Sembrava si stesse formando una piccola pozza di sangue attorno
alla testa, ma da lì Randy non vedeva bene.
Pensò subito a come poteva essersi sporcato la camicia. Probabilmente a causa dei
primi due pugni diretti alla faccia – pensò lui. Con il primo, ne era quasi certo, gli
aveva rotto il naso e con il secondo, probabilmente, gli aveva polverizzato lo
zigomo destro. Certamente il primo colpo inferto doveva aver rilasciato qualche
schizzo di sangue.
«Dannazione Wendy» si passò una mano tra i capelli «guarda cosa diavolo mi hai
fatto fare»
Si sarebbe aspettato una crisi di panico, un tono disperato, forse qualche lacrima
per quella donna. Niente di tutto questo, parlava con lo stesso tono pacato che
impiegava per vendere le tavolette del cesso al Brico.
Si guardò la mano destra e poi la sinistra, le sentiva pulsare debolmente, in
particolar modo le nocche. Sapeva bene che probabilmente avrebbe avuto delle
escoriazioni. Era stato uno stupido – pensò – doveva usare i guanti per evitare
questo problema.
Si guardò attorno come se si aspettasse che qualcuno o qualcosa comparisse
all’improvviso dalla porta della camera da letto degli ospiti, oppure dal bagno,
pronto a denunciarlo alla polizia.
Tese l’orecchio per alcuni istanti ma niente, a parte il rumore della pioggia. Dentro
casa c’erano solo lui e Wendy.
Iniziò a scendere le scale facendo strusciare il palmo della mano destra sul
corrimano. Giunto al penultimo gradino, dovette fare un balzo per riuscire a
scavalcare il corpo della donna.
La palestra funzionava veramente, era ancora atletico nonostante avesse superato i
quaranta – pensò lui – erano soldi ben spesi.
«Otto anni di matrimonio e proprio oggi dovevi provocarmi», disse lui fermandosi
quasi aspettando una risposta.
In casa regnava il silenzio.
Piegò leggermente le gambe per avvicinarsi a Wendy e di colpo una sensazione di
sollievo si insinuò in lui.
Era morta.
Sua moglie era finalmente morta.
La bocca di lei era contratta in una smorfia mentre gli occhi erano completamente
sbarrati. Gambe e braccia avevano assunto una posa innaturale e la piccola pozza
di sangue che presumeva si fosse formata esisteva davvero.
Una voce nella sua testa prese il sopravvento-
Sei stato un idiota – disse la voce – dovevi attendere la gita al lago. Ora ti
scopriranno stupido idiota, ti beccheranno sicuramente e passerai il resto dei tuoi
giorni in gabbia.
«Non mi beccheranno» rispose ad alta voce «è caduta dalle scale… io… io l’ho
trovata così e non ho potuto salvarla»
Cadendo si è rotta il naso e lo zigomo razza di imbecille? – gli fece eco la voce.
«Possibilissimo» rispose Randy ma iniziò a prendere coscienza della gravità della
situazione. Doveva risolvere la faccenda velocemente e in modo pulito.
Se lo era immaginato in maniera differente da come lo trasmettono alla televisione.
Solitamente gli assassini si fanno prendere dal panico ma non Randy. Randy era
pacifico, metodico nell’operare. Non si stava facendo sopraffare dalle emozioni e
sapeva bene che aveva tutta la notte per pensare a come fare per risolvere quel
problema.
Aveva perso ormai il conto di quante volte aveva progettato di fare fuori quella
stupida puttana. Il “come” era la parte che l’aveva divertito più di tutto. Portare la
sua Wendy al lago e durante una battuta di pesca affogarla era abbastanza
ricorrente, vuoi per la casa al lago che effettivamente possedeva, vuoi per il
brivido di tenerle la testa sotto l’acqua e sentire le sue energie che si
affievoliscono sempre più. Quella puttana avrebbe avuto ciò che si meritava –
ripeteva spesso il Randy del sogno – smettendo di prenderlo in giro per il suo
lavoro o per il modo di vestirsi o ancora per come parlava. Non era colpa sua se
faceva un lavoro di merda che, però, gli permetteva di portare a casa la pagnotta a
differenza della moglie. Lei si definiva una casalinga, ma ogni volta che il marito
tornava a casa per cena non c’erano altro che piatti precotti conditi da salse
disgustose. Lui non voleva nemmeno sapere cosa facesse sua moglie durante il
giorno, immaginandosela distesa sul divano immersa in qualche oscena soap opera
del cazzo. Non era colpa sua se al secondo anno del liceo aveva dovuto mollare
tutto per aiutare suo padre come manovale. Non era colpa sua, in fin dei conti, se
Wendy era stecchita sul pavimento.
In effetti l’ultimo commento tagliente sul suo completo era stato la causa
scatenante della sua morte. Se semplicemente si fosse astenuta dal dirgli che al
funerale dove stavano per recarsi, così vestito tutti lo avrebbero scambiato per il
becchino, forse si troverebbe ancora in questo mondo e Randy avrebbe avuto la
possibilità di ficcarle in acqua quella sua adorabile testolina.
Cosa pensi di fare? – chiese quella voce dentro di se. A Randy sembrava la voce di
quella che fino a pochi minuti prima era sua moglie. Quella era una dei suoi cavalli
di battaglia assieme a sei una nullità, dovevo sposare Bill Preston, non te!
Quella vipera l’aveva detto per l’ultima volta – pensò lui e subito un ghigno prese il
sopravvento.
Voltò le spalle al corpo e si incamminò verso la cucina. Da sotto al tinello, ancora
pieno zeppo di piatti sporchi – alla faccia della casalinga, pensò Randy – prese la
candeggina e un paio di stracci. Dalla dispensa prese dei sacchi della spazzatura
neri e tornò da Wendy.
Doveva ripulire il sangue alla svelta se non voleva farlo seccare e, quindi, sudare il
doppio per levarlo di torno. Non voleva nemmeno metterci tutto il resto del
pomeriggio, in tv c’erano i Patriots e non voleva perderseli per colpa di quella
sgualdrina. Anche se non era nei suoi programmi seppellire la vacca quel giorno,
lui era preparato. L’aveva preparato da almeno quattro anni e non era passato
giorno in cui non avesse metodicamente pensato a come sbarazzarsi del cadavere
se non fosse riuscito nel tentativo di annegarla.
Davanti al corpo della donna, Randy stette ritto in piedi per alcuni secondi. I suoi
occhi trovarono lo spigolo dissestato delle scale – che sua moglie Wendy gli aveva
chiesto più volte di sistemare – macchiato di sangue.
Si, hai ragione, la troia è morta proprio in quel punto. È colpa tua, tu non hai
sistemato il gradino. Se l’avessi fatto ora non staresti per pulire questo macello .
Si inginocchiò e questa volta poggiò il ginocchio a terra continuando a fissare
quella strana espressione.
Di colpo gli tornò in mente e si diede una leggera pacca sulla fronte.
«Quasi me ne dimenticavo cara» si rialzò e si diresse nella rimessa. Dopo alcuni
minuti tornò reggendo sotto al braccio un rotolo. Iniziò a distendere una sorta di
telo trasparente sul pavimento. Cominciò a sbottonarsi la camicia ma, dopo che
ebbe visto di nuovo quelle piccole chiazze di sangue che lordavano il bianco del
tessuto, desistette.

«»

«»
Pimeys in finlandese = oscurità
Pimeys village
«»

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