Di storie che parlano di cani ce ne sono tante, autori più
o meno bravi cercano di mettersi nei nostri panni, o magari dovrei dire nella nostra pelliccia, quelli particolarmente sen- sibili arrivano molto vicino alla nostra visione del mondo, ma non riescono ad arrivare proprio fino in fondo alla nostra es- senza perché non sono cani, sono umani, allo stesso modo un cane non potrebbe raccontare la storia di un essere umano. Probabilmente state pensando che sia un umano che fa finta di essere un cane, ma non è così, sono veramente un cane. Ovviamente un cane non è capace di scrivere quindi ho dovuto narrare ad una cara amica la mia storia perché lei la trascrivesse, non mi guardate con quella espressione, l’ho narrata per davvero. Sicuramente non mi credi, ti capisco, nessuno lo credeva fino a quando non mi sentiva parlare per la prima volta, quindi, se un giorno ci incontreremo, vedrai che non dico bugie… ma forse non ci incontreremo mai, per questo mo- tivo ho deciso di raccontare la mia storia che è anche un po’ la storia di tutti noi cani. Parlanti o no. Sono nato una normalissima mattina di primavera, in una normalissima famiglia umana, composta di madre, pa- dre e un bambino di sette anni. Mia madre era una normal- issima cagnolina meticcia bianca e nera di piccola taglia, di quattro anni. Mi permetto di dire che anche mio padre, un bastardino di passaggio che scavalcò la recinzione una sera pochi mesi prima della mia nascita, nonostante fosse molto audace non aveva nulla di straordinario e per ultimo ag- giungerei che pure i miei quattro fratelli erano, come potete già intuire, normalissimi cagnolini. Perciò non posso darvi spiegazioni sul come e perché sono nato con la capacità di comprendere e parlare la lin- gua degli umani. E’ un mistero. Con questo non voglio però dare l’impressione che mi consideri una creatura straordinaria o speciale, anzi man mano che crescevo, capii ben presto che più di un dono, rasentava la maledizione.
Ovviamente non sono nato parlando. Ero sì, molto silen-
zioso, non guaivo come i miei fratelli e soltanto crescendo imparai a imitare alla perfezione tutti i versi dei miei simili pur di passare inosservato. Nelle prime settimane di vita sentivo gli umani e soprat- tutto i loro bambini che parlavano di continuo, l’unica cosa strana era che, al contrario dei miei fratelli e di mia ma- dre, quei suoni piano piano cominciassero a prendere forma nella mia mente e ad acquisire un significato. Nonostante capissi perfettamente le parole e fossi an- che in grado di ripeterle non parlavo davanti agli umani, in parte perché ovviamente nessuno mi aveva mai incoraggia- to a farlo e in parte perché avevo notato che i miei simili emettevano i versi che la natura aveva dato loro, versi che non hanno un significato chiaro come il linguaggio verbale, come diverse volte ho dovuto ribadire alle persone che cre- devano che fossi in grado di “parlare” anche con i cani. E’ difficile far capire a una specie che basa il 90% del- la propria comunicazione sul linguaggio verbale che esis- tono anche forme di comunicazione basate sul linguaggio corporeo, ricco di sfumature e significati tanto quanto le più eccelse opere letterarie mai create. In un certo senso quindi, “parlavo” con i miei simili e li capivo, ma usando il linguag- gio corporeo. Va detto che, così come alcuni umani non han- no mai imparato a leggere o scrivere, esistono anche dei cani con problemi di comunicazione, che non hanno avuto una madre e dei fratelli che gli insegnassero a comunicare e a capire gli altri cani, in quei casi non era raro finire in una zuffa. I nostri padroni capirono presto che avevo una capacità di comprensione molto superiore a quella di mia madre e dei miei fratelli e anche di altri cani che conoscevano. Nelle riunioni di famiglia o durante le feste spesso mi si formava intorno un capannello di persone che restava a bocca ap- erta quando mi venivano dati dei comandi che eseguivo alla perfezione o mi si chiedeva di identificare uno specifico og- getto fra un mucchio di altri. Come tutti i cani avevo insito in me il desiderio di compiacere i miei padroni e vedere la loro soddisfazione era la mia unica ragione di vita e se fosse dipeso da me probabilmente sarei ancora bello tran- quillo a fare una comune vita da cane, ma si vede che era destino che io prendessi un’altra strada. Il giorno in cui ho pronunciato la mia prima parola fu il giorno in cui mia madre morì. Era un sabato pomeriggio e il mio giovane padrone era in giardino con altri due bambini del vicinato, fra i 10 ed i 12 anni. Ormai i miei fratelli erano stati dati via ed eravamo rimasti solo io e mia madre. Ci crogiolavamo al sole con le pance all’aria senza preoccupazioni. Ad un cer- to momento, i bambini stanchi di giocare si avvicinarono. Li guardai preoccupato quando sentì uno di loro che chiedeva al bambino di casa. “Mettiamo alla prova l’intelligenza di Bailey, se appen- diamo lei” _ e puntò col dito mia madre._ “all’albero sec- ondo te riesce a slegarla?” Il figlio dei miei padroni non rispose subito, si vedeva che era combattuto perché da una parte voleva compiacere l’amico che aveva un forte ascendente su di lui, ma dall’altra non voleva far del male a mia madre. Cercò di persuadere l’altro a rinunciare alla sua idea, ma senza successo. Io li fissavo angosciato sperando che comparisse un adulto o che mia madre scappasse lontano. Lei ignara, si alzò contenta e scodinzolante quando la chiamarono. Si las- ciò legare intorno al collo un cappio fatto con un pezzo di corda da bucato e li seguì fiduciosa fino al vecchio ciliegio in fondo al giardino. Gli corsi dietro guaendo disperato, il figlio dei miei padroni mi guardò angosciato, non sapeva che cosa fare, gli altri due ignoravano ogni sua argomentazione e lo de- ridevano per la sua codardia. Quando lanciarono l’estremità della corda sopra uno dei rami dell’albero, iniziai ad abbaiare cercando di sem- brare minaccioso, ma non ebbi altro effetto che quello di provocare l’ilarità dei due ragazzi che ordinarono al mio padroncino di tenermi per il collare finché non gli avessero detto di liberarmi. Con un colpo secco tirarono su mia madre che lanciò un unico lamento. Legarono la corda intorno all’albero e il più grande dei ragazzi disse di lasciarmi andare. Corsi verso il nodo e cercai con i denti di scioglierlo, ma era troppo stretto. Cercai di tagliarlo con i denti, ma non era una corda comune, aveva all’interno una specie di ani- ma in metallo e anche quando le mie gengive cominciarono a sanguinare ero riuscito a malapena a scalfirla, non avrei mai fatto in tempo per salvarla. Voltandomi verso i bambini li implorai: “Vi prego liberatela! Sta morendo.”
Allora si scatenò il caos, ricordo che i bambini scapparo-
no di corsa verso casa, urlando a squarciagola che io avevo parlato. Mentre gli correvo dietro pregandoli ancora di lib- erare mia madre, la mia padrona, allarmata dagli strepiti spuntò dalla porta sul retro con in mano un mestolo da cui gocciolava del sugo. Guardò spaventata i bambini che ur- lavano isterici, sembrò sollevata dal fatto che fossero ap- parentemente illesi. Vedendola mi si riaccese la speranza, le corsi incontro chiedendole di aiutarmi, ma nel trambusto generale non riuscì a sentire la mia voce, per fortuna il suo sguardo si diresse verso il fondo del giardino e la vidi sbi- ancare. Lasciando cadere il mestolo corse verso l’albero e ango- sciata liberò mia madre dal cappio, strinse il piccolo corpi- cino ormai senza vita fra le braccia piangendo sconsolata. Io al suo fianco la guardavo annichilito, i bambini intorno a noi cercavano ancora in modo concitato di raccontare alla mia padrona quello cui avevano assistito, ma lei improvvisa- mente alzando il viso rigato di lacrime urlò infuriata. “Voi due andate a casa che stasera verrò a parlare con i vostri genitori.” E al proprio figlio. “E tu nella tua stanza, subito!” Senza fiatare i tre obbedirono, lasciandoci soli con il nostro dolore.
Quella sera non si cenò, appena tornato dal calcetto
con gli amici, il mio padrone fu messo al corrente di quello che era successo e subito chiamò il bambino in salotto. Io, dalla veranda posteriore, sdraiato di fianco alla cassa di cartone che conteneva il cadavere di mia madre ascoltavo le parole che pronunciavano di là. Il bambino piangeva, disse che aveva provato a fer- marli, ma non ci era riuscito. La madre, ancora adirata con lui, domandò perché non l’aveva chiamata, il padre da parte sua disse che forse lei avrebbe dovuto sorvegliare meglio i bambini, in fondo quelle erano cose che potevano succedere. Se fino a quel momento la padrona aveva cer- cato di mantenersi calma, sentendo quella frase il suo poco controllo rimasto saltò in aria: “Adesso sarebbe colpa mia? Lui e i suoi amichetti tep- pisti hanno impiccato la mia cagnolina per puro divertimen- to e tu dici che sono cose che i bambini fanno normalmente e che è successo solo perché io non ero lì a sorvegliarli? E tu invece dov’eri mentre io ero qui a lavare i panni, sistemare la casa e fare da mangiare?” “Ero a prendermi una giusta pausa di spensieratezza dopo una settimana di lavoro infernale.” “Ecco, sua maestà deve prendersi le sue pause, mentre io no, perché quello della casalinga non è un lavoro, giusto?” “Non dico che non sia un lavoro, ma se vogliamo veder- lo dalla parte remunerativa, è grazie al mio lavoro se ab- biamo una casa e del cibo a tavola.” “Magari non ti ricordi che ho perso il lavoro quando sono rimasta incinta di tuo figlio…” “Non è colpa mia se il tuo capo era uno stronzo…” Da quel momento in poi la discussione degenerò in una serie di accuse e scuse su doveri e diritti ed io smisi di ascol- tarla, sfinito mi appisolai. I giorni seguenti passarono in un’atmosfera molto tesa, la coppia era ancora sul piede di guerra, e di certo non aveva aiutato il fatto che i vicini avessero minimizzato l’accaduto, affermando che i loro figli non erano responsabili, che gli dispiaceva tanto ed erano disposti a pagare un risarcimento per la perdita, cosa che fece infuriare ancora di più la mia padrona. Ma ancora più sconvolgente fu il comportamento del bambino di casa. Bastava che mi avvicinassi perché mi guardasse con occhi pieni di terrore, evitava di starmi vicino, si scansava, anche se solo lo sfioravo. I genitori se n’erano accorti e cominciarono a preoccuparsi. La madre lo portò da uno psicologo e al loro ritorno la sentii mentre parlava al telefono con la nonna: il responso era che il bambino non aveva ancora elaborato il trauma della morte della cagnolina, proiettando sul cane sopravvissuto una capacità assurda, quella di parlare. Il bambino era infelice perché nessuno lo credeva, i genitori frustrati litigavano ancora più di prima e questa situazione mi faceva soffrire ulteriormente. Mi domandavo se rivelare la mia particolare abilità avrebbe risolto tutti i problemi o ne avrebbe creato di nuovi quando i miei pa- droni trovarono la soluzione. Elena
Una bella mattina intuì un’atmosfera diversa in casa,
la mia padrona aveva gli occhi rossi quando riempì la mia ciotola di croccantini e poi si allontanò senza dire neanche una parola, cosa insolita per lei che mi parlava sempre con affetto e allegria, il bambino mi guardò di sfuggita mentre usciva per prendere il pulmino per la scuola e il mio pa- drone dopo una veloce colazione mi si avvicinò portando il guinzaglio. Che strano, pensai, non facciamo mai delle passeggiate il mattino presto, men che meno prima che vada a lavorare, poi la mia perplessità divenne un doloroso sospetto quando mi fece salire in macchina, mi chiuse dentro e rientrò in casa. Pochi minuti dopo tornò con un sacco di plastica nel quale si intravedevano le mie ciotole, il mio cuscino e alcuni giocat- toli. Mi accucciai sul sedile e restai immobile mentre la macchina si metteva in moto, sentivo il rumore del traffico che diventava più fievole man mano che ci allontanavamo del centro abitato. Dopo alcuni minuti, assieme al profumo dei campi appena concimati, mi arrivò dal finestrino semia- perto un abbaiare lontano, decine, centinaia di cani… Incuriosito, alzai la testa e guardai fuori. Eravamo nella zona rurale, dove alcune volte eravamo venuti tutti assieme a fare qualche passeggiata nelle domeniche pomeriggio. Normalmente la visione di quelli spazi aperti mi riempiva di gioia e euforia, correvo libero, giocavo con il bambino, ma questa volta sentii il cuore stringersi in una fredda morsa di paura. Abbandonando la strada asfaltata imboccammo una stradina sterrata che fra scossoni e bestemmie del mio pa- drone ci portò a una grossa struttura costituita da un alto muro di cemento. Mio padrone scese e suonò il campanello di fianco al piccolo cancelletto metallico. Anche se sembrava impossibile il baccano si intensificò. Guardando l’orologio impaziente, il mio padrone suonò nuovamente, ma in quel momento il cancello si aprì e ne uscì una signora di una certa età con una tuta consunta e un grembiule plastico coperto di impronte infangate. Parlarono brevemente, probabilmente lui aveva tel- efonato prima per avvertirla perché non ci furono né spi- egazioni né domande. In pochi minuti fu tutto finito, mi fecero scendere, il sacco con tutte le mie cose passò in mano alla signora, così come l’estremità del mio guinzaglio. Senza neanche uno sguardo lui mi voltò le spalle e si diresse verso la macchina, istintivamente cercai di seguirlo, ma sentì un brusco strattone al collo quando la signora mi trattenne. Lo guardai angosciato mentre spariva in lontananza, non volevo crederci, cercavo di convincermi che era tutto un sogno, oppure soltanto un periodo passeggero, che sarebbe tornato un giorno o l’altro a prendermi, ma sapevo che non era così, purtroppo il fatto di essere pienamente cosciente di quello che mi stava accadendo non mi permetteva di il- ludermi, di sperare. Mi avevano abbandonato. Nonostante la mia riluttanza signora mi portò dentro. A testa bassa, con la coda fra le gambe la seguii. L’abbaiare dei cani era assordante, l’odore soffocante. Attraversammo un ampio cortile in terra battuta, lungo tutto il perimetro intorno si vedevano circa una cinquantina di recinti, li guardai di sfuggita, mi sembrarono abbastanza in ordine. La pavimentazione in cemento era relativamente pulita, circa quattro o cinque cani per recinto, con rela- tivo numero di casette di legno e ciotole in alluminio piene d’acqua, dal poco che riuscì a vedere c’erano cani di tutte le età ma in buona salute e qualcuno anche di razza. In fondo al cortile c’era un piccolo fabbricato dip- into di bianco, entrammo e incuriosito mi guardai intorno, l’arredamento era essenziale, tre kennel metallici in un an- golo, un lavandino, una cucina a gas, due frigoriferi, diversi armadietti e scaffali metallici allineati lungo le pareti e al centro un grosso tavolo metallico simile a quelli del vet- erinario. Nell’aria si percepiva un forte odore, un misto di mangime per cani e detersivo. Si avvicinò un uomo che mi guardò attentamente e senza complimenti mi mise una muse- ruola. Poi sollevandomi mi posò sul tavolo e cominciò a esa- minarmi, aveva la mano esperta di un veterinario e questo mi tranquillizzò. Domandò alla signora cosa aveva detto il mio ex-padrone e rise quando sentì dire che ero bravissimo, obbediente, equilibrato e in salute. “Dicono tutti la stessa cosa, poi ci mollano qui le peg- giori bestie. Se è un cane tanto bravo perché se ne sono sbarazzati?”_ rispose lui. “Ha detto che il loro bambino è diventato allergico.” “Certo, come no? Con le vacanze così vicine un sacco di bambini diventano allergici.” Poi guardandomi bene in faccia la donna commentò: “Non è poi così male, sembra veramente bravo. L’unico problema è che è troppo ordinario. Non è abbastanza bello né di razza quindi escludiamo quelli che vogliono i cani da esibire, ha quasi due anni e questo esclude quelli che voglio- no i cuccioli, non è abbastanza vecchio o brutto o malconcio da impietosire i benefattori che vogliono il cane peggiore.” “Secondo me, questo qua non lascerà la gabbia tanto presto.” Mi posò a terra e mi tolse la museruola. “Domani lo castriamo, la settimana prossima, quando ar- rivano i risultati dell’esame del sangue lo mettiamo assieme agli altri, vediamo come socializza.” Mi chiusero nel kennel metallico di fianco al lavandino e lasciandomi una ciotola d’acqua fresca si dedicarono ad al- tro, entravano e uscivano di continuo, parlavano poco e quasi esclusivamente del canile e dell’organizzazione del lavoro. Ascoltando le loro conversazioni capì che la signora che mi aveva accolto si chiamava Elena ed era la responsabile del canile, l’uomo era suo figlio, Giorgio, nonostante avesse tro- vato la sua vera vocazione in giurisprudenza, aveva anche una laurea in veterinaria e nonostante i suoi impegni riusciva comunque a ritagliarsi un po’ di tempo per aiutare la madre e prendersi cura di noi. Per aiutarli potevano contare poi su di un nutrito gruppo di volontari, ma non starò a nominarli tutti, tranquilli. I giorni seguenti passarono lenti ma anche angoscianti a causa del senso di smarrimento dovuto alla mancanza di punti di riferimento, di certezze e rassicurazioni. Anche fisi- camente era sfiancante, passavo diverse ore a trattenermi fino a quando non mi portavano fuori per fare i bisogni, e avevo solo pochi minuti al giorno per sgranchirmi le gambe e godermi l’aria fresca. In pochi giorni persi peso e vitalità, ero depresso e senza energie. Il giorno in cui finalmente ebbe termine la mia quaran- tena e fui messo assieme agli altri cani mi sentii rinascere. Mi portarono uno a uno i cani con cui avrei diviso il recinto. La prima era il cane alfa, una bella e possente fem- mina di tre anni chiamata Belle, un incrocio fra un pastore tedesco e un rottweiler. A questo punto permettetemi un piccolo inciso. Fra noi cani non esistono distinzioni di razza, non ci importa il colore e la tipologia del mantello, se siamo giovani e in salute o vecchi e decrepiti, se abbiamo quattro o solo due zampe, le orecchie tagliate oppure integre. L’aspetto estetico non conta, è il nostro odore a distinguerci gli uni dagli altri, da esso possiamo capire lo stato di salute dell’altro cane, il ses- so e tantissime altre informazioni utili. Pertanto, quando vi parlo di razze, è più per permettere a voi umani, dipendenti dagli occhi, di identificare i miei compagni e anche quando parlerò dei loro colori, non è perché li veda come li vedete voi. Mi ricordo che qualcuno una volta ha detto che i cani vedono tutto a gradazioni di grigio, non saprei dire se i colori che vedo siano grigi o meno, non sarei capace di spi- egarvelo, quindi quando descrivo un cane marrone, nero o giallo è perché ho sentito qualcuno descriverlo così e con il tempo ho imparato ad associare il colore che vedo alla denominazione che usate. Tornando al mio incontro con Belle, a prima vista capii cosa dovevo fare, mi comportai come un bravo omega, re- missivo e rispettoso, e lei si limitò a buttarmi a terra am- ichevolmente. Tra gli altri cani che mi vennero presentati c’erano due femmine, Cindy e Minnie, sorelle, incrocio volpi- no, abbastanza in là con gli anni e, da quello che capii dalle conversazioni fra la signora e il figlio, nate e vissute sempre al canile. Mi venne tristezza a pensare a una vita sempre dietro le sbarre, ma loro sembravano serene, forse il fatto di aver conosciuto solo quella vita alla fine gli risparmiava il rammarico di non aver vissuto in una vera famiglia. L’ultimo era un vecchissimo setter inglese dorato, chia- mato London, cieco da un occhio, trovato randagio nei cam- pi, denutrito e disidratato, probabilmente appartenuto a qualche cacciatore che aveva deciso di liberarsene perché troppo vecchio per la caccia. Nonostante tutti gli acciacchi si percepiva in lui il fiero portamento che sicuramente l’aveva contraddistinto in gioventù. Rassicurati dal comportamento mio e degli altri, collo- carono la mia cuccia a fianco di quella di Belle e dentro vi sistemarono il mio cuscino. Mi si strinse il cuore sentendo che era ancora impregnato dell’odore di casa, anzi della mia ex-casa. E’ curioso come ci si riesca ad adattare veramente a tut- to, soprattutto quando non si hanno alternative. Lentamente il ricordo della vecchia vita comincia a sfumare, a perdere importanza, e anche il dolore della perdita si affievolisce fino a esser relegato in un piccolo angolo della tua memoria, magari rivelandosi nei momenti di noia o in quell’intervallo di luce e ombra del dormiveglia, lo vedi muoversi inquieto come un gatto nel buio, scrutandoti con i suoi occhi gialli e pungendoti con gli artigli affilati, torturandoti ti sussurra nell’orecchio: “Ti ricordi quando avevi un padrone? Ora sei solo”. Fortunatamente momenti come questi erano rari, il canile era un posto con un continuo via vai di volontari che pulivano i recinti, ci nutrivano, ci portavano fuori a fare due passi. Neanche le notti erano tranquille, c’era sempre qual- che cane afflitto dalla solitudine che ululava o si lamentava. Non erano rare nemmeno le risse, nonostante tutti gli ac- corgimenti per la buona convivenza ogni tanto qualcuno si azzuffava o perché l’alfa era stato sfidato apertamente o per pura sbadataggine di qualche gregario più imbranato. La vera euforia si raggiungeva però durante i fine set- timana, quando frequentemente venivano dei visitatori in- teressati ad adottare qualche cane. Erano giornate piene di aspettative e già alle prime facce nuove andavamo in visibilio, cominciavamo ad abbaiare, saltare e ululare, un baccano assordante, si, anch’io, che ci potevo fare, sono un cane parlante, ho una capacità di comprensione superiore, ma pur sempre un animale da branco e istintivamente spinto a seguire l’onda. Accompagnati dai volontari o da Elena, i visitatori facevano un giro guardando i box, quando trovavano un cane di loro interesse potevano vederlo libero al centro del cortile o anche portarlo a fare due passi fuori, dopodiché era molto alta la possibilità che si portassero a casa il pres- celto. Quando li vedevo avvicinare al mio recinto cercavo di assecondare le loro aspettative. Ero attento a tutto quello che dicevano ai volontari. Alcuni volevano un cane tranquillo perché avevano in casa dei bambini piccoli o degli anziani, altri cercavano cani molto vivaci, che potessero essere buoni compagni di gioco per i figli già grandicelli. C’era chi abit- ava in condominio e per questo cercava un cane silenzioso e quelli che volevano un cane da guardia, quindi molto rumor- oso. Insomma le richieste erano molte ed io sfruttavo la mia capacità per cercare di soddisfare ogni necessità. Spesso i volontari mi guardavano stupiti vedendo come il mio com- portamento si modificava a ogni persona che si avvicinava al mio box e tessevano le mie lodi come cane molto perspi- cace e adattabile a ogni situazione, ma di solito i visitatori ascoltavano con educato interesse, mi facevano qualche ca- rezza dicendo che ero carino e bravo e passavano oltre. Magari mi giudicherete egoista e disonesto perché usavo questo dono per un mio tornaconto e in fondo anch’io ero combattuto perché da una parte trovavo ingiusto farlo, ma dall’altra il bisogno che mi spingeva a trovarmi una nuova famiglia era ancora più forte. Per un cane appartenere a un branco ha un’importanza quasi vitale, siamo animali sociali da ancora prima che l’uomo addomesticasse i nostri ante- nati e con il passare del tempo ci avete selezionato proprio per accrescere ulteriormente questo nostro bisogno, perciò io avrei fatto qualsiasi cosa per trovarmi dei nuovi padroni. O quasi. Sì, avrei fatto qualsiasi cosa tranne parlare, era ancora molto chiaro nella mia mente quello che era successo la prima volta che avevo parlato la lingua degli uomini e francamente non ne era derivato niente di buono. Con il crescere della mia conoscenza del genere umano ho capito che in tante occasioni parlare è quasi più dannoso del tacere. Va beh, non dico che si debba vivere sempre in silenzio, la comunicazione è importantissima altrimenti si finisce come certi cani con problemi di socializzazione che, incapaci di farsi capire e di capire i loro simili, sono condan- nati a vivere isolati e infelici. Quello che intendo dire è che non guasterebbe se ogni tanto ci si pensasse un attimo, o anche due attimi, prima di parlare. Questo mi riporta alla memoria la prima volta che mi proposero per l’adozione. I candidati erano una giovane coppia di neosposi che volevano cominciare la nuova vita con un cane. Alla domanda della volontaria su che espe- rienza avessero con i cani rispose il ragazzo: “Sua sorella era allergica quindi lei non ha mai avuto un cane, io ne avevo uno quando ero piccolissimo, ma dopo che morì mia madre non ne volle più.” “Ho sempre sognato un bel quadretto famigliare, i bambini con il cane davanti al camino.” _aggiunse la raga- zza ridendo estasiata. “Avevamo pensato di comprare un cucciolo, ma poi ci hanno detto che anche al canile si trovano tanti cuccioli. Cer- cavamo un cane facile da gestire, piccolo, perché abbiamo un piccolo giardino.” “Mi piacciono tantissimo i maltesi. Ho letto che è la raz- za più trendy del momento” _ cinguettò la ragazza. “Probabilmente di maltesi ne avremo quando sarà pas- sata la moda, allora ci saranno a decine, lo stesso è successo con i beagle, i dalmata e i chihuahua, abbandonati perché non erano più trendy.” _ rispose la volontaria. “Che buffo!” _ commentò l’altra. La volontaria la guardò perplessa, cosa c’era di buffo nel fatto che dei cani venissero abbandonati per un motivo così futile? “Non abbiamo nemmeno cuccioli in questo periodo, ma posso dirvi che sono impegnativi, nei primi mesi possono fare danni, vanno educati e seguiti come i bambini.” _spiegò la volontaria. “Non ce’ bisogno, non entrerà in casa, abbiamo dei mo- bili molto costosi.”_ tagliò corto il marito. “Capisco…” “Io voglio una femmina per farle fare i cuccioli, li trovo così carini!” “I nostri cani sono tutti sterilizzati.” _ chiarì la volontaria. “Oh, che peccato.” _ rispose la ragazza guardandoci con sincero dispiacere. _ “Poverini.” Vidi il viso della volontaria contorcersi nello sforzo di reprimere la collera, ormai avrebbe dovuto farci l’abitudine considerando quante volte aveva sentito quella frase o cose simili. “Pensate quindi di tenerlo sempre in giardino. Avete la possibilità di portarlo a spasso?” “Lavoriamo entrambi tutto il giorno, spesso torniamo tardi, ma qualche volta possiamo portarlo fuori, perché no? Ma non c’è tanto bisogno se ha il giardino, giusto?” Con un profondo e malcelato sospiro di stanchezza la volontaria li portò a fare un giro. Con la sua esperienza cercò di indirizzarli verso cani adatti alle loro esigenze, animali di piccola e media taglia, giovani, in buona salute e d’indole mansueta, considerando che avrebbero potuto convivere con dei bambini in un fu- turo e soprattutto con un carattere indipendente, requisito indispensabile per cani costretti a passare diverse ore senza la compagnia del padrone. Siccome sembravo riuscire ad adattarmi a qualsiasi padrone e situazione proposero an- che me. La giovane coppia non sembrava per niente convinta, ci guardavano, ci facevano qualche carezza, dicevano che eravamo bravi e carini, ma non era quello che volevano. In un certo momento la ragazza lanciò una specie di urlo e corse verso uno dei box più lontani dall’ingresso. “Un maltese! Lo voglio!” “A dire il vero è un west, ma ha dei problemi!” “E’ un cosa?” _domandò lei infilando le dita fra le maglie della rete cercando di accarezzarlo. “Un west highland white terrier, ma non credo sia adat- to a voi. “E’ uguale al maltese. Ma che problemi ha?” “Lui e un’altra ventina di cuccioli arrivarono qua da noi circa due anni fa, erano stati sequestrati a dei contrabband- ieri di cuccioli.” “Quella storia di cui si parla a volte, dei cani dell’est Europa?”_ chiese il marito. “Esatto e come accade spesso erano in pessime con- dizioni, malati, denutriti, con malformazioni congenite, non- ostante i nostri sforzi più della metà di quei cuccioli non riuscì a superare l’anno di età, i pochi sopravvissuti sono stati adottati, ma hanno problemi caratteriali e di salute e le persone che li accudiscono fanno grandi sacrifici per amore di quei cani.” “E lui?” “Soffre di sordità e di attacchi epilettici nei quali div- enta imprevedibile. Morde in modo incontrollabile qualsiasi cosa trovi vicino e qualche volta si fa anche del male. “Non c’è una cura?” “Prende dei medicinali per tenere sotto controllo la malattia, li dovrà prendere per tutta la vita.” “Ma è così carino! Non possiamo prenderlo comunque?” _insistette la ragazza. Ormai al limite della sopportazione la volontaria cercò di farli ragionare, sarebbe stato inutile portarsi a casa un cane con tutti quei problemi. Alla fine la coppia se ne andò a mani vuote. Dispiaceva a tutti noi una mancata adozione, ma sarebbe stato un er- rore dargli quel cane, anzi forse sarebbe stato un errore dargli uno qualsiasi. La volontaria li consigliò di pensarci bene sulle moti- vazioni che li spingevano a prendere un cane, era un im- pegno per la vita, non un accessorio per il completamento del loro quadretto famigliare perfetto. In fondo sapeva che era fiato sprecato, questo genere di persone non cambia idea facilmente, anche perché le loro scelte non sono det- tate dalla logica e dal buon senso, ma solo da una serie di preconcetti e idee erronee su cosa significava il rispetto per un animale e per la loro natura. Probabilmente sarebbero andati a comprarsi un cucciolo di maltese da qualche parte, oppure avrebbero provato in un canile, dove sicuramente sarebbero stati meno scrupolosi. Se in quell’occasione mi sentii fortunato di non essere stato preso in considerazione, non posso dire lo stesso per la seconda volta in cui mi trovai ad un passo dall’avere una nuova casa. Ormai erano passati tre mesi dal mio arrivo, si senti- va già nell’aria l’arrivo dell’inverno quando si presentò al canile quel signore anziano accompagnato dal nipotino. Il bambino desiderava ardentemente un cane, ma vive- va con i genitori in un condominio dove erano vietati gli animali, quindi il nonno che abitava in una comoda casa con giardino si era offerto spontaneamente a tenere il cane. Ne aveva già avuti tanti cani nella sua vita e sperava che l’animale servisse non solo a rinforzare il suo legame con il nipote, ma anche a fargli compagnia, ora che era vedovo e in pensione. Elena li accompagnò personalmente a fare un primo giro dei box, sapeva che quella era un’ottima opportunità per uno dei suoi cani e non se la sarebbe lasciata sfuggire. Propose cani con mantelli facili da tenere, di età, dimen- sioni e carattere adatti a un bambino, fra loro ovviamente c’ero anch’io. Il bambino ci guardò bene e scelse me e altri due cani da vedere all’aperto. Siccome eravamo in tre box diversi e non ci conoscevamo non potevamo essere portati fuori assieme. il primo a uscire fu un giovane meticcio nero, con le zampe e il muso bianchi, era molto vivace e in un primo momento saltò addosso a tutti e cercò di leccare il viso del ragazzino, che si scansò un po’ impaurito. Assieme al nonno uscirono per fare una passeggiata nei dintorni, ma ad ogni salto e latrato di eccitazione le chance del nero sfumavano ulteriormente. Dopo un tempo che a me sembrò eterno, tornarono, il nero fu riportato nel box e fu il turno del secondo. Fisicamente assomigliava tanto a un labrador, in versione mignon però, non superava i dieci kilo- grammi. Era meno esuberante del primo e in più conosceva alcuni comandi di base ed il bambino sembrò molto colpito dal fatto che il cane si sedesse e si sdraiasse quando glielo chiedeva. Anche loro uscirono per una passeggiata che mi sembrò ancora più lunga della precedente. Quando tornarono, il viso del bambino era ancora più radioso ed capì che avrei dovuto giocare tutte le mie carte. Una volta al guinzaglio cercai di comportarmi in modo vi- vace, ma controllato, tutta la mia attenzione rivolta a loro, dovevo sforzarmi di tenere le mascelle serrate altrimenti li avrei implorati di essere portato via. Il bambino mi accarezzava ed io cercai di trasmettere con lo sguardo la mia supplica e vidi che il nonno ne fu subito conquistato. Dovevo convincere il ragazzino che però aveva occhi solo per il labrador mignon che era stato ripor- tato nel su box. Elena spiegò: “Il padrone di Bailey era un bambino come te! Ma purtroppo ha dovuto separarsene per problemi di salute. E’ un cane docile e intelligentissimo, vuoi vedere un trucco che lui sa fare?”_ dicendo questo prese una palla di gomma, un collare di cuoio e uno strofinaccio, appoggiò i tre oggetti per terra a poca distanza e chiese al bambino al mio fianco: “Chiedigli di prendere uno dei tre oggetti. Uno qual- siasi.” “Prendi lo straccio Bailey, prendilo.” Li guardai sentendomi gelare. Lì per terra c’erano una palla di gomma, un collare di cuoio e uno strofinaccio. Sape- vo che esistevano oggetti che avevano più di un nome quindi uno di quei tre era anche uno straccio. Non era una parola del tutto sconosciuta, ma in quel momento mi era venuta una amnesia totale, cos’era uno straccio? Mi avvicinai agli og- getti incerto sul da farsi, un guaito di angoscia mi scappò dalla gola mentre mi arrovellavo cercando di ricordare cosa diavolo fosse uno straccio. Elena vedendomi in difficoltà cercò di aiutarmi: “Magari sarà un po’ nervoso. Proviamo con il collare!” “Prendi il collare.” _ disse il bambino, ma senza convin- zione. Ero talmente preso dal panico cercando di ricordare cosa fosse un dannato straccio e talmente terrorizzato che quelle persone andassero via senza di me che non lo as- coltai. Sentendo che ormai le mie speranze erano agli sgoc- cioli addentai la prima cosa che mi capitò a tiro, lo strofinac- cio e li guardai scodinzolando, ma era troppo tardi, Elena già mi tirava per il collare per riportarmi al recinto, mentre nonno e nipote si dirigevano verso il box dove si trovava il loro nuovo cane. Avvilito, mi lasciai condurre al recinto. Non so se Elena avesse intuito qualcosa o lo fece tanto per farlo, ma prima di chiudermi il cancello del box disse: “Non te la prendere, ormai aveva già scelto Max. Cre- do che nessun trucco, per ben riuscito che potesse essere, gli avrebbe fatto cambiare idea.” Mi voltai e la guardai con gli occhi pieni di gratitudine e scodinzolai. In fondo ero felice per Max, non lo conoscevo bene, anzi solo di vista, ma sapevo che era in canile da mol- to prima che io arrivassi e tutti dicevano che fosse un bravo cane. Non dovevo perdere le speranze, oggi era toccato a Max, domani chi lo sa? Addio amici
Il canile di Elena era rinomato per il numero altissimo di
adozioni andate a buon fine. Tutto questo dipendeva dal fatto che veniva sempre proposto il cane giusto alla persona giusta, la priorità di Elena e dei suoi collaboratori non era semplicemente dare un cane a chi lo desidera, ma a chi se lo merita. Purtroppo il numero di cani che entravano era di molto superiore a quello che usciva e lentamente il piccolo canile stava superando il suo limite. Com’è risaputo il periodo vici- no alle vacanze è quello più drammatico, tuttavia anche nei mesi successivi al lancio di un nuovo film con dei cani come protagonisti si osservava un boom di abbandoni. Era ab- bastanza comune la delusione dei bambini e dei loro geni- tori quando si accorgevano che il loro beagle, dalmata, lab- rador, chihuahua, o la razza più di moda in quel momento nella vita reale è un cane con un carattere particolare e con necessità precise, che forse non si conciliano con quelle della famiglia. Le persone purtroppo non si rendevano conto che i cani nelle pellicole si comportano seguendo le indicazioni dei loro istruttori e quasi mai questo comportamento riflette il loro naturale carattere. Mi accorgevo che era uscita una nuova pellicola di questo genere quando sentivo i commenti stizziti dei volon- tari che iniziavano già a organizzarsi per accogliere i futuri abbandonati. Nelle settimane seguenti alla mia quasi adozione arriv- arono altri dodici cani. Furono montati cinque piccoli recinti al centro del cortile. A causa della posizione erano quelli più esposti alle intemperie e al sole e per questo potevano accogliere solo i cani più giovani e in salute. Facendo parte di questa categoria, fui presentato al mio nuovo gruppo, il maschio alfa, Billy, vagamente imparentato con un boxer, che mi squadrò dalla testa ai piedi in modo molto poco amichevole e l’altro, un giovanissimo terrier nero arrivato da poco che a causa della sua irruenza veniva punito molto spesso da Billy. Pochi giorni dopo inserirono una femmina timidissima che passava i giorni accucciata in un angolo, terrorizzata da tutto e da tutti. Dalle conversazioni capì che era cresciuta in un recinto, isolata in fondo ad un giardino. Spesso picchiata dai padroni, era stata sequestrata dalla polizia dopo le innumerevoli denunce dei vicini che testimoniavano la sof- ferenza della povera creatura. Con il passare del tempo crebbe un forte legame fra me e Lucy, la femmina. Forse a causa della prepotenza di Billy o dell’impulsività di Nero, la timida cagnolina trovò in me, un cane equilibrato e tranquillo, quel punto di riferi- mento che le era sempre mancato. Quando ci liberavano nel cortile per sgranchirci le zampe mi seguiva come un’ombra, mangiava quando mangiavo io e spesso condividevamo la stessa cuccia. Dispiaceva a me e anche ai volontari per il suo ec- cessivo timore. Di piccola taglia e con la bella forma fili- forme del levriero, grandi occhi dolci ed espressivi, attirava l’attenzione di tutti i visitatori, che però invariabilmente ri- nunciavano all’adozione quando la vedevano inavvicinabile. C’era inoltre un altro problema all’orizzonte, ben più serio di una cagnolina terrorizzata, ed era la nostra soprav- vivenza. Ascoltando le conversazioni fra i volontari venni a sapere che la nuova giunta comunale, appena eletta, aveva deciso di tagliare i fondi per la gestione del canile. Inoltre esigeva lo sgombero dei terreni ceduti dalla precedente amministrazione, sostenendo che in quella zona dovevano essere costruiti un centro commerciale e un cinema multisala e la presenza del canile era inammissibile. In quel periodo vedevamo raramente la signora Elena e il figlio. Erano impegnati a trovare un nuovo posto per noi, allo stesso tempo cercavano di diffondere la nostra sto- ria tramite i giornali e le reti televisive, forse con l’aiuto dell’opinione pubblica si sarebbe potuto fare qualcosa, tro- vare una soluzione. Le settimane passavano ed erano tutti sempre più scor- aggiati e nervosi. Alcuni volontari non si presentavano nem- meno più e la mole di lavoro per quelli rimasti e per Elena era immensa. Spingevano al massimo le adozioni, tramite annunci, organizzazione di eventi e partecipazione a fiere di paese e feste, insomma qualsiasi posto dove potessero mettere un gazebo e distribuire volantini con le nostre foto. Grazie all’impegno di tutti qualche risultato si era ottenuto, dalle conversazioni capii che mai come ora si era regis- trato un numero di adozioni così massiccio. Ciò nonostante rimanevano ancora tantissimi cani e gli avvisi di sfratto del comune diventavano sempre più minacciosi. Fu il mio primo inverno in canile fu molto triste, anche se fisicamente non patimmo molto perché Elena e i suoi col- laboratori montarono dei pannelli isolanti, aumentarono le porzioni di cibo e installarono degli elementi riscaldanti per i cani anziani e malati. Però il freddo che ci stringeva il cuore non poteva es- sere smorzato da nessun tipo di scaldamento. Il giorno di Natale Elena diede il pomeriggio libero ai volontari e portò avanti il lavoro da sola. Era ormai buio quando, a un certo punto, si accasciò contro la parete del fabbricato bianco e scoppiò in lacrime. In quel momento ar- rivò suo figlio Giorgio, e trovandola in quello stato cercò di consolarla, ma inutilmente. Elena fra i singhiozzi raccontò che non ce la faceva più, anche se controvoglia era cos- tretta a cederci ad altri canili che avevano dato disponibil- ità di accoglierci, alcuni li conosceva e sapeva che le con- dizioni erano buone, altri non erano ottimali ma sul limite dell’accettabile, della maggior parte però ignorava total- mente come trattavano i cani. A quelle parole mi sentii schiacciare dalla disperazione, e invidiai i miei compagni che ignari del futuro si godevano il piacere momentaneo di avere le pance piene e le cucce pulite e asciutte. Nei giorni successivi iniziarono i trasferimenti, a gruppi da cinque a dieci i cani erano caricati nelle diverse macchine e portati via, destinati a canili in altre regioni, Cindy e Min- nie erano fra loro. Dopo tre settimane eravamo rimasti in pochi, io, Lucy, Billy, Belle, London e altri cinque che non conoscevo, due troppo anziani per essere trasferiti e tre di grossa taglia che nessun canile accettava. I giorni passavano e ormai era quasi primavera quando i due anziani furono adottati da amici di Elena che, a cono- scenza della situazione, decisero di dargli una casa per i pochi anni che gli restavano da vivere. Belle, London, Billy e i tre molossi furono portati via da uno dei volontari che gra- zie a dei conoscenti era riuscito a trovare posto in un canile privato a più di 200 kilometri di distanza. Lucy ed io fummo gli ultimi a lasciare il canile e all’esterno potemmo osservare quanto fosse già tutto diverso, la strada prima sterrata e stretta era stata raddoppiata e asfaltata, i campi coltivati erano stati riempiti e livellati in un’ampia area, dove già si accumulavano i macchinari e i materi- ali, e non molto distante le ruspe attendevano l’ordine per l’abbattimento del canile. Dappertutto un via vai di tecnici, ingegneri e operai cantiere che trafficavano avanti e indi- etro. Impegnati nel loro lavoro, non ci degnarono nemmeno di uno sguardo. Dal bagagliaio della macchina di Elena guardai il canile abbandonato sparire in lontananza, ignoravo cosa ci aspettasse e questo mi angosciava, continuavo a ripetermi che non avevo potere su quello che mi sarebbe successo ed era inutile preoccuparmi. Dovevo essere forte, se non per me, almeno per Lucy che si accucciava al mio fianco e tremava terrorizzata. Tirai un sospiro di sollievo quando capì che la casa in cui ci portò Elena era la sua. Era meraviglioso trovarsi di nuovo in una famiglia e anche se era una sistemazione tempora- nea, potevamo sempre sperare che diventasse definitiva. Per la mia compagna invece fu un trauma, lei non aveva mai messo piede in una casa, tutto la sconvolgeva, il divano, le sedie, gli armadietti della cucina, i primi giorni li passò nascosta in un angolo della cucina, fra il frigorifero e la porta del giardino, si rifiutava di muoversi persino per fare i bisogni. Elena non si lasciò scoraggiare Lucy divenne la sua nuova missione. Senza il canile, al quale si era dedicata an- ima e corpo per più di dieci anni, si era sentita derubata di una parte importante della sua vita. Aveva provato la vita da pensionata, assieme alle amiche della sua età, le gite organizzate, andare al cinema o a ballare nei circoli della terza età, ma lei non era così, aveva bisogno di qualcosa che la spronasse ad alzarsi ogni mattina e tirare avanti. Era il suo modo per sentirsi viva e appagata. Consultò dei comportamentalisti, lesse una moltitudine di libri e iniziò un lunghissimo lavoro di socializzazione. Dimostrando un’infinita pazienza e delicatezza lenta- mente conquistò la fiducia di Lucy, non si lasciò scoraggiare da nulla, niente poteva scalfire la sua convinzione nel recu- pero della cagnolina e con il passare dei mesi si vedevano sempre più progressi e sempre un minor numero di regres- sioni. Fu un periodo veramente grandioso, mi sentivo benis- simo e Lucy era come rinata a una nuova vita, aveva capito che il cestino in sala era molto più comodo dell’angolo in cucina, che gli armadietti venivano aperti quando era ora di mangiare e gli altri mobili restavano al loro posto senza alcuna intenzione di farle del male, insomma era una ca- gnetta più felice e rilassata. Ovviamente non sarebbe mai diventata un cane completamente sicuro e socializzato, se con Elena ormai era abbastanza a suo agio e si lasciava accarezzare, spazzolare e mettere il guinzaglio, quando venivano persone nuove in casa si nascondeva ancora, ma dopo qualche volta ormai conoscendoli si avvicinava timida- mente per prendersi qualche coccola o bocconcino. Ormai vivevamo da Elena da più di un anno e tanto lei quanto noi cominciavamo a convincerci che non ce ne sarem- mo più andati via, quando il destino decise diversamente. Fu come il famoso fulmine a ciel sereno. La giornata era cominciata come tante altre, sveglia al mattino presto, colazione, passeggiata per me e Lucy. Era giornata di bu- cato per Elena e fino all’ora di pranzo si dedicò al lavaggio e stiro dei panni. A pranzo la vidi un po’ più affaticata del solito, era una giornata afosa e dopo aver mangiato un piatto di pasta in bianco si mise sul divano a guardare la tv. Noi ci sdraiammo vicini alla sua poltrona ed eravamo in quella fase fra il sonno e la veglia quando ci accorgemmo che lei respirava con difficoltà e tremava. La guardammo preoccupati mentre si alzava a fatica e prendeva il cellu- lare, premette un tasto e udimmo il suono di chiamata, ma prima che dall’altra parte ci fosse una risposta, lei cade per terra svenuta. “Pronto? Mamma?” _ sentimmo la voce di Giorgio._”Mamma, mi senti, mamma?”_ e forse parlando con qualcuno vicino a lui lo sentimmo esclamare._”Non in- serisce mai il blocco della tastiera e poi mette il cellulare dentro la borsa e partono chiamate a destra e a manca, sai quanto ha speso l’ultima volta? _ e la voce si allontanò, stava riattaccando ed io preso dal panico feci l’unica cosa alla mia portata. Avvicinai il muso al cellulare caduto a ter- ra e parlai. “Non riattaccare! Ascoltami, tua madre sta male, è rius- cita a chiamarti ma è svenuta, ha bisogno di aiuto urgente.” “Pronto? Chi parla? Dove…” “Non c’è tempo, è incosciente, respira male, fa venire subito un’ambulanza qui a casa…” “Ma... chi diavolo?” “Cosa t’importa chi parla? Mi hai sentito? Tua madre sta molto male, chiama immediatamente una ambulanza.” _ ribadii alzando la voce. “Va bene, può restare lì con lei, chiamo subito l’ambulanza e mi precipito anch’io. Sarò lì in quindici minuti.” “D’accordo, fai presto!” _ risposi, ma aveva già riattac- cato. Non so come suonasse la mia voce al telefono, non av- endo una conformazione anatomica come quella umana la pronuncia e il timbro della voce sono strani, quindi ero molto felice di essere riuscito a farmi capire. Sdraiandomi di fianco a Elena lanciai uno sguardo a Lucy che da sotto il tavolo ci fissava e tremava. Era confusa e spaventata, qualsiasi cosa fuori dall’ordinario la sconvol- geva e vedere la nostra padrona svenuta a terra ed io che parlavo come un umano era decisamente troppo per lei. Appoggiando la testa sul suo torace riuscivo a sentirle il cuore e angosciato mi accorsi che oltre al respiro anche il battito era irregolare e sempre più difficoltoso con il pas- sare dei minuti. Mi sembrava di aspettare da un’eternità quando sentii la sirena dell’ambulanza, per fortuna la porta d’ingresso era aperta e i paramedici non ebbero problemi per entrare. Appena la videro si misero al lavoro per valu- tare le sue condizioni, dalle loro espressioni capii che era grave. A testa bassa mi unii a Lucy sotto il tavolo. Giorgio arrivò nel momento in cui sua madre veniva caricata sulla barella e gli fu detto che adesso era stabile, ma doveva es- sere portata all’ospedale urgentemente, tutto indicava che fosse stata colpita da un ictus e solo con esami accurati si sarebbero potuti determinare i danni e i tempi di un even- tuale recupero. Giorgio si guardò intorno e chiese se non c’era nessuno assieme a lei quando loro erano arrivati, uno dei paramedi- ci rispose: “Non abbiamo visto nessuno, vicino a lei abbiamo visto solo il cane.” L’uomo si guardò intorno confuso, raccolse da terra il cellulare della madre e dopo mi fissò, ma qualunque fosse stato il suo pensiero ormai era svanito, sopraffatto dalla preoccupazione per la madre. Uscirono lasciandoci soli con le nostre paure. Passò tutto il pomeriggio e quando sentimmo scattare la serratura della porta era buio già da un bel po’, ci alzammo presi dall’ansia e ci avvicinammo. Era una delle ragazze vo- lontarie del nostro canile, che ci accarezzò affettuosamente. “Poveri tesori, la vostra padroncina non sta bene, sentite la sua mancanza, non è vero?” Ci diede da mangiare e dopo ci portò a fare due passi, rimase con noi un paio d’ore poi se ne andò. Nei giorni seguenti patimmo molta ansia. L’incertezza ci consumava, soprattutto Lucy, senza la nostra padrona e con un via vai di persone più o meno sconosciute che venivano a curarci il suo vecchio terrore tornò, appena sentiva aprirsi la porta si nascondeva nel suo vecchio angolo e usciva solo quando la persona se ne andava. Addio Lucy
Passò quasi una settimana prima di rivedere Giorgio. Entrò
all’improvviso, ci rivolse qualche parola e carezza, ci mise il guin- zaglio e ci portò fuori. Dopo che avemmo fatto i nostri bisognini ci fece salire in macchina e tornò in casa. Avevo una bruttissima sensazione di dejà vu che diventò una certezza quando lui tornò con un sacchetto con dentro le nostre cose.
Ci portò in una pensione non molto lontana, era gestita
da un signore di mezza età paffuto e simpatico, che rideva e fumava, parlava e fumava, mangiava e fumava, infine fumava tutto il tempo, qualunque cosa facesse. Ci accarezzò con affetto e ci accompagnò al recinto che ci aveva pre- parato, intanto chiedeva della salute di Elena. “Purtroppo il lato sinistro è paralizzato, ha difficoltà per parlare e mangiare, ma riconosce le persone, e i dottori sono molto ottimisti, dicono che con i farmaci e la fisiotera- pia può recuperare fino all’ottanta per cento della mobilità. Hanno detto che è stata fortunata perché i soccorsi sono stati tempestivi, sai come sono queste cose, ogni minuto che passa è cruciale.” “E’ vero, ricordo che anche mia nonna ha avuto un ictus, però ai suoi tempi era tutto diverso, poveretta ha sofferto...” _ fu interrotto da un attacco di tosse e per un po’ non riuscì a continuare il discorso, mentre ci chiudeva dentro il recinto riuscì a recuperare il fiato e si allontanò con Giorgio finendo il racconto di sua nonna. La routine alla pensione ci ricordava quella del canile, ovviamente in scala ridotta soprattutto in quel periodo di bassa stagione. Capitava qualche cane sporadicamente nei fine settimana, ma per la maggior parte del tempo era- vamo solo noi due, anche al massimo regime gli ospiti della pensione non superavano la decina. Alle 6 del mattino, prima di partire per il lavoro in fab- brica, l’uomo ci liberava in cortile, puliva il box e riempiva le ciotole di cibo e acqua. Al termine di queste operazioni ci rinchiudeva di nuovo e non lo vedevamo fino a circa le 9 di sera, per un altro giretto, eventuale pulizia e nuova razione di acqua e cibo. Sua moglie non si occupava di noi quasi mai, si vedeva che non era una cui piacevano i cani e tollerava l’idea del marito perché avevano bisogno di qualche entrata in più per arrotondare il suo magro stipendio da operaio. Il loro unico figlio, un ragazzone di sedici anni più in- teressato agli amici e alla fidanzatina che a noi, invece ci piaceva molto, le rare volte in cui ci veniva a trovare porta- va una ventata di allegria e divertimento anche nelle gior- nate più cupe. I giorni passavano, lenti e spesso noiosi, Lucy era un po’ meno terrorizzata e non si nascondeva più da tutto e da tutti, anche se accarezzarla e metterle il guinzaglio era un privilegio che concedeva solo alle persone che conosceva bene. Passarono quasi sei mesi e nonostante fossimo ormai abituati alla routine non ero al mio agio, al nostro box arriv- avano sempre più spesso le urla della coppia che litigava, discussioni sempre più violente che si concludevano con sbat- tere di porte e rumore di oggetti lanciati. E, infatti, non fui sorpreso il giorno in cui capii che avremmo dovuto trasferirci di nuovo. Stavano divorziando e senza abbastanza soldi per far fronte alle spese e so- prattutto alle pretese della donna, la casa doveva essere venduta e conseguentemente la pensione chiusa. I pochi cani che li si trovavano furono ritirati dai rispettivi padroni nel giro di pochi giorni. Io attendevo con ansia quando avrei rivisto Giorgio, ma passarono le settimane e lui non venne. Da quello che capì era all’estero per lavoro e non sarebbe riuscito a tornare prima della vendita della casa. Da quel momento iniziò per me e Lucy una penosa tra- fila di traslochi, da case private a pensioni, da pensioni a canili e di nuovo a case private. I periodi di ogni soggiorno variavano da qualche giorno a qualche mese, ogni notte in cui ci addormentavamo, ignoravamo se il giorno seguente ci saremo addormentati di nuovo nella stessa cuccia. Questa situazione ebbe terribili ripercussioni su Lucy, il suo carattere timido e remissivo si tramutò in un atteggiamento nevras- tenico e aggressivo, provava ancora a evitare le persone, ma se costretta in un angolo mordeva e ringhiava. Alla fine successe quello che temevo di più, ci separar- ono. Fui adottato da una coppia con un bambino, nonos- tante fossero dispiaciuti di separarci non potevano rischiare l’incolumità del loro piccolo portando a casa un cane insta- bile come Lucy. Fui portato via un pomeriggio d’inverno, ero contento di aver trovato finalmente una casa, ma in cuor mio piangevo per la mia amica che sarebbe rimasta per chi sa ancora quanto in quel piccolo appartamento di periferia. Speravo che la donna che ci aveva ospitato trovasse una buona casa anche per Lucy, ma era oltre ogni mio potere fare qualcosa per lei. Nella nuova casa mi ambientai senza problemi. Il pic- colo Luca era un bravo bambino, Mario e Luisa, i genitori, sapevano il fatto loro e una delle prime cose che fecero fu portarmi dal veterinario per un check-up generale, che superai egregiamente. Ricevetti il microchip e un collare con tanto di medaglietta con stampato il mio nuovo nome, Zack, il mio vecchio nome si era disperso fra gli innumerevoli cambi di casa, ma lo vedevo come un fatto positivo, nuovo nome, nuova famiglia, nuova vita. Mi sentivo il cane più for- tunato del mondo e stentavo a credere che fosse tutto vero, passeggiavo orgoglioso al guinzaglio guardando gli altri cani con i loro padroni, senza provare più invidia o rancore. Ero di nuovo un cane benvoluto, avevo un padrone, non mi serviva nient’altro. A volte, appena prima di addormentarmi, mi tornava in mente il periodo al canile e mi domandavo che fine avesse- ro fatto i miei vecchi compagni, umani e canini e soprattutto Lucy, che non aveva mai lasciato i miei pensieri. Cinque anni dopo
Nei cinque anni successivi ho avuto l’opportunità di stu-
diare da vicino il rapporto fra gli umani e i loro animali e questo mi ha convinto di essere stato particolarmente fortu- nato perché avevo dei padroni fantastici in tutti i sensi. Il parco dove Luca mi portava spesso era il posto ide- ale per trovare una grande varietà di soggetti, mi bastava prestare attenzione al modo di fare del cane per capire chi era il suo padrone. Un caso molto comune è quello del cane che dis- obbedisce ai comandi, o perché sono poco chiari o perché semplicemente non gli interessano. Il caso peggiore è quan- do non obbedisce al richiamo del padrone, quindi abbiamo un cane che appena si vede libero schizza impazzito met- tendo a rischio l’incolumità propria e altrui. Il padrone lo rin- corre, urlando a squarciagola il suo nome e lo riacchiappa solo dopo un lungo inseguimento, a quel punto il padrone è talmente furioso che l’animale rischia dei bei ceffoni come punizione per il suo innocente scherzo. Si, scherzo, perché per noi cani è un tipico gioco, quello del rincorrersi, non ci rendiamo conto che è pericoloso e fuori luogo, ma quando ci mettiamo a correre e il nostro padrone ci viene dietro è la cosa più divertente che esista. Piuttosto per evitare una cosa del genere basterebbe che fosse il padrone e farsi rin- correre dal proprio cane, ricompensandolo quando questo lo raggiunge, solo così il cane capisce che la vicinanza del padrone è gratificante e divertente. Ci sono poi cani paurosi e insicuri, con la coda peren- nemente fra le zampe, che ringhiano o abbaiano ed evitano qualsiasi contatto. Quasi sempre hanno padroni ugualmente nervosi e iperprotettivi che pur con le migliori intenzioni al- levano i loro animali quasi del tutto isolati, impedendo loro di socializzare e familiarizzare con quello che possono tro- vare fuori dalle sicure mura domestiche. Tuttavia la tipologia che mi lascia più perplesso sono quelli che chiamo i surrogati. Sono cani, ma anche gatti o altri animali usati come sostituti da figure che mancano al padrone, che sia un figlio, un coniuge, un amico. Non metto in dubbio che siano profondamente amati dai loro proprietari, viziati all’estremo, vivono una vita piena di agi e cure, ma dal punto di vista di un cane psicologicamente è devastante. Cercherò di spiegarne il motivo, semplificando un po’ perché non è facile da capire per una razza come la vostra, così insofferente verso il rispetto di regole e gerarchie. Noi cani abbiamo bisogno di fare parte di un branco, anche quando questo è formato soltanto dal cane e dal suo padrone, e perché nel branco ci sia armonia uno deve comandare e gli altri obbedire. Quello che comanda ha privilegi e responsabilità, mangia per primo, dorme nei posti migliori, si riproduce e esige rispetto dai subalterni, in cambio deve difendere il branco e il territorio, procacciare il cibo a tutti e mantenere l’ordine. Chi decide il ruolo del capo? Un capo nasce tale, è già nella sua indole e lui oc- cuperà quel ruolo se è vacante, oppure lotterà per esso se il capo attuale non sembra abbastanza capace. Sono quelli che voi umani chiamate cani alfa. Immaginate adesso un cane alfa che ricopra il ruolo di capobranco in una famiglia di umani, prima di tutto l’animale deciderà chi fa cosa, quando e come, se determina che nes- suno fuori dal branco può entrare in casa non si riceveranno più visite, se ritiene che uno dei membri gli abbia mancato di rispetto potrà anche aggredirlo, se stabilisce che nessuno deve avvicinarsi al suo divano preferito, dovranno sedersi tutti a terra. Probabilmente avete capito che questo non è accettabile e magari avete trovato delle corrispondenze con qualche cane da voi conosciuto e bollato come prob- lematico, pazzo o pericoloso, ma il cane è arrivato a fare il capo perché nessuno degli umani si è preoccupato di occu- pare quel ruolo o perché l’hanno palesemente trattato come un loro superiore. Ovviamente il problema è meno eclatante, anche se a mio parere non meno grave, nel caso di cani più remissivi. Queste povere creature, a fianco di un umano debole e an- cora più docile di loro, si trovano con l’arduo compito di prendere le redini, anche se non hanno la minima idea di come comportarsi e non capiscono bene cosa ci si aspetta da loro. Vivono giorno dopo giorno piegati sotto il peso di una responsabilità che non gli compete. Tanti diventano nevras- tenici, altri depressi, solo alcuni molto fortunati e magari con una mentalità particolarmente adattabile riescono a vivere questa situazione in maniera serena. Per tutti questi motivi, ripeto, Luca e la sua famiglia er- ano i migliori padroni che un cane avrebbe potuto desider- are. Facevo una bella vita da cane subalterno, con un ruolo ben preciso nella scala gerarchica della famiglia e non de- sideravo niente di più. E men che meno un gatto. Non è che avessero intenzione di prendere un gatto, ma come capita spesso per i questi animali, è stato il gatto ad adottarli. Tutto ebbe inizio il giorno in cui ricevemmo la visita di una delle amiche di Luisa, abitava in un’altra città, aveva due figli piccoli e tre anni prima aveva preso due gattini, un maschio e una femmina. Fiera sostenitrice che la castrazi- one fosse una dispendiosa, inutile pratica contro natura che avrebbe privato lei e i suoi bambini da tanti bei cucciolotti, il fatto era che con il passare degli anni erano nati più cuccioli di quanti riuscisse a regalare ad amici e parenti e la casa ormai ne era piena. Luisa l’ascoltava con malcelata irritazione mentre la amica sbottava: “Non ce la faccio più! Io la ammazzo quella gatta, è di nuovo in calore.” “La gatta non ha colpa, è la sua natura.” “Ma non pensavo fosse così, non la smettono mai? Già le sue due figlie hanno fatto quattro cuccioli a testa mese scorso. Senza contare che non sono riuscita a dare nessuno della sua cucciolata di tre mesi fa e adesso ne farà degli altri, dove li metto altri cuccioli?” “Operarle tutte?” “Ma sai quanto costa? Siamo impazziti? Spendere tutti quei soldi con dei gatti? Comunque, ho visto che c’è un gatto persiano che le fa la corte. Se i gattini sono belli come lui, magari riesco anche a venderli.” Abbiamo saputo qualche mese dopo che contraria- mente alle aspettative i cuccioli si somigliavano a dei per- siani tanto quanto io potevo somigliare ad un san bernardo. La mia padrona andava raramente a visitare l’amica, non sopportava la visione di tutti quei gatti che vivevano così trascurati, ma ne fu costretta il giorno in cui la amica la invitò alla festa per i suoi 40 anni, come era consuetudine fu una festa di altissimo livello, aveva ingaggiato addirittura un party planner per organizzare tutto alla perfezione. Luisa però non riuscì a godersela la serata, tutta quella abbondanza, fasto e spreco, da una parte la casa illumi- nata a giorno, con la musica, le persone, cibi e bevande in abbondanza e appena un po’ più in là, spaventati da tutto il caos, relegati nella semioscurità in fondo al giardino si in- travedevano i poveri mici, giustificandosi con una improvvisa emicrania salutò tutti e si avviò verso l’auto parcheggiata appena fuori il cancello. Aprì la portiera e rimase di stucco, un piccolissimo gattino dormiva sul sedile, sbalordita si do- mandò come avesse fatto ad entrare, probabilmente mentre lei scendeva dall’auto e salutava l’amica, aveva approfit- tato dei pochi istanti prima che chiudesse la portiera. Lo prese in mano costatando che era leggero come una piuma, sentiva sul palmo i ossicini delle costole e il pelo ru- vido di sporcizia e denutrizione. Il piccolo la fissò con gli occhietti arrossati e iniziò a fare le fusa. Come raccontò al marito e al figlio appena tornata dal- la festa, non ebbe più il cuore di lasciarlo, chiamò l’amica per dirgli che aveva preso il cucciolo e questa si mostrò molto felice, approfittandone per proporgli di prenderne un altro casomai volesse farli accoppiare. “Penso che ci siano già troppi gatti randagi qui in giro.” _ disse Luisa sperando che magari l’altra capisse l’antifona, ma era una vana speranza. Fortunatamente uno spirito caparbio risiedeva in quel corpicino malridotto, fu sottoposto a una infinità di cure e dopo tre mesi era un altro gatto. Nel frattempo cercai di fare buon viso a cattivo gioco, come ho già accennato prima, i gatti non mi sono mai stati simpatici, anzi per me sono dl tutto incomprensibili. Quando sono felici, emettono quel suono che sembra un ringhio e che voi umani trovate adorabile, quando sono nervosi e arrabbiati, scodinzolano. Non hanno rispetto per lo spazio altrui ma guai a te invece se invadi il loro spazio vitale, mi chiedo tuttora cosa ci vediate voi umani in quelle creature così individualiste e opportuniste, forse è perché alla fine vi somigliate. Comunque feci del mio meglio per instaurare fra noi due, se non una sincera amicizia, perlomeno un leale patto di non belligeranza. Purtroppo Whisky, come fu chiamato, non era disposto a scendere a patti, quando gli girava prendeva possesso della mia cuccia, della mia ciotola di cibo e anche dei miei padroni, nel più totale disprezzo delle regole e delle gerar- chie saltava loro in braccio per dopo fissarmi con quei occhi gialli, quasi sfidandomi a toglierlo da li. Senza contare gli scherzi di cattivo gusto che mi faceva nascondendosi dietro agli stipiti o da sopra i mobili per dopo saltarmi in testa con unghie e denti. Capivo solo ora come si sentissero le gazzelle, in mezzo alla savana, in costante stato d’allerta per paura dei predatori. Ovviamente davanti ai padroni lui si dava un con- tegno, perché loro non approvavano il suo comportamen- to, ma bastava che voltassero le spalle per fissarmi con quell’espressione da serial killer che mi gelava il sangue nelle vene. Ma l’animo del gatto è in costante mutamento. Crescen- do pian piano trovò altre vittime su cui sfogarsi, passava buona parte delle nottate in giro a caccia di qualche pov- era creatura da sbranare, mentre durante il giorno faceva lunghissime dormite, erano le occasioni in cui potevo rilas- sarmi sdraiato sul tappetto all’ingresso perché ovviamente lui come sempre aveva di nuovo usurpato la mia cuccia. Un triste incontro
Luca era diventato un ragazzone alto e molto popolare,
aveva un folto gruppo di amici e godeva anche di un certo successo con il sesso opposto. Modestamente, ammetto che era merito anche mio se durante le passeggiate venivamo sommersi da saluti e attenzioni di tante ragazze, nessuno poteva resistere ai miei occhioni dolci e al mio musetto tanto simpatico, parole loro, giuro. Se di solito queste passeggiate erano fonte di grande piacere per entrambi, quel giorno non fu così. Era un afoso pomeriggio di fine luglio e Luca decise di andare in centro città a cercare un paio di scarpe nuove. A un certo momento si fermò davanti ad una vetrina e si mise a guardare, poi sentendo il cellulare che suonava, capii che l’attesa sarebbe stata lunga e mi misi seduto. In quel momento notai sotto il cornicione di un palazzo a pochi metri da noi un barbone che sonnecchiava, ovviamente ad attirarmi l’attenzione non fu il barbone, ma un cane raggomitolato vicino a lui, era di piccola taglia, magrissimo, il pelo corto e maculato aveva chiari segni d’incuria e malattia. Non era la prima volta che vedevo barboni con cani, era una cosa che mi aveva sempre sconvolto, però questa volta non mi angosciava solo il suo stato deplorevole, ma la crescente convinzione che quello non fosse un cane qua- lunque. Senza accorgermene mi scappò un guaito e nonostante il rumore del traffico e delle persone che passavano il pov- ero animale alzò la testa e mi fissò. Sentì una stretta al cuore quando notai che ormai era solo l’ombra della bella cagnolina di cui mi ricordavo, le ossa delle costole si potevano contare, gli occhi un tempo dolci e luminosi ora erano occhi opachi, come di qualcuno che ancora respira e si muove, ma si sente morto dentro. Per un attimo sembrò riconoscermi, ma fu appena un rapido lampo che forse mi sono solo immaginato. senza degnarmi di altra attenzione tornò a nascondere la testa fra le zam- pette magre e piagate e chiuse gli occhi. “Dai Zack, andiamo!” _ sentì Luca che mi tirava e mi al- zai, però le mie gambe non volevano muoversi, il cuore sem- brava ridotto a un blocco di ghiaccio che a fatica pompava sangue gelido nella mia mente. _”Su, forza, che ti prende? Andiamo.” Alla fine fui costretto a seguirlo, ma mi sentivo talmente avvilito al punto di provare un dolore fisico, la sensazione d’impotenza era devastante, cosa avrei potuto fare per lei? Ero solo un cane. Allo stesso tempo mi sentivo un vigliacco perché mi lasciavo trascinare così dagli eventi senza ne- anche provare a ribellarmi. Tornai a casa a testa bassa. Quella sera non cenai, avevo la nausea e non potevo nemmeno guardare il cibo senza pensare a Lucy e a che privazioni fosse stata costretta per finire ridotta in quella maniera, ma forse ancora peggio della mancanza di cibo era stare in una giornata caldissima come quella, sdraiata su quel marciapiede rovente, senza una fontana nei dintorni o anche soltanto una misera ciotola con acqua, potevo solo immaginare la tortura a cui era sot- toposta. Quella notte non chiusi occhio, avevo deciso di fare una pazzia, costasse quel che costasse, non volevo più essere un vigliacco, ma soprattutto non potevo permettere che Lucy continuasse in quella situazione. Il giorno dopo, come tutte le mattine, dopo una tazza di caffè e un bacio alla moglie e un saluto al figlio, Mario era pronto per andare al lavoro. Entrò in macchina e con il tel- ecomando aprì il cancello automatico. Si era accorto della mia presenza non molto distante, ma non se ne preoccupò, in tutti quelli anni non avevo mai messo la zampa fuori senza essere accompagnato da uno di loro, quindi era sicurissimo che non l’avrei fatto neppure questa volta. Mentre fingevo di cercarmi un posticino per fare i bi- sogni lo controllavo con la coda dell’occhio. Quando la macchina iniziò a muoversi la accompagnai, stando attento a non entrare nella visuale di Mario, praticamente oltrepas- sammo il cancello assieme, poi mentre lui faceva manovra mi nascosi dietro ad un cassonetto dei rifiuti. Rimasi lì finché l’auto non girò l’angolo e sparì dalla mia vista. Dietro di me, cigolando il cancello si chiuse. Per un attimo fui preso dal terrore atavico di tutti i cani quando si trovano da soli, senza un branco o un padrone, mi dovetti fare forza e ripe- termi che ci avrei messo pochissimo per andare in centro, salvare Lucy e tornare indietro, probabilmente non si sareb- bero nemmeno accorti della mia assenza. Ovviamente non mi ponevo ancora il problema di come far accettare Lucy, probabilmente non era in buone condizioni di salute e i miei padroni erano il genere di persone che se hanno un animale lo curano senza badare troppo alle spese e questo fato au- tomaticamente limitava il numero di animali che si potevano permettere. Mi misi in marcia, la mia unica preoccupazione era non farmi vedere da qualcuno dei vicini, mi avrebbe ricono- sciuto e riportato indietro senza dubbio. Fortunatamente a quell’ora la maggior parte delle persone in giro erano di- rette al lavoro o prese dai loro impegni, quindi poco inclini a dare attenzione ad un cane che gironzolava. Man mano che mi allontanavo da casa cresceva in me il timore delle conseguenze del mio gesto. Il mio istinto mi diceva di tornare a casa, al sicuro, ma il mio senso del do- vere mi costringeva a continuare. In centro trovai una maggior concentrazione di persone e veicoli, dovevo stare molto attento, sui marciapiedi venivo spesso urtato o spintonato dalle persone che correvano da una parte all’altra, negli attraversamenti dovevo destreg- giarmi in mezzo alle macchine approfittando dei momenti in cui il traffico rallentava o si fermava. Intanto mi guardavo intorno, non ero del tutto sicuro di riuscire a trovare il punto dove avevo visto il barbone il giorno prima e iniziavo ad angosciarmi quando riconobbi il negozio davanti il quale Luca si era fermato per guard- are le scarpe. Pieno di aspettative attraversai la strada, approfittando di una folla che faceva lo stesso, ma già da lontano mi accorsi che sotto il cornicione non c’era nessuno. Rallentai il passo fino a fermarmi nel punto dove avevo visto Lucy il giorno prima, guardai sconsolato l’unica traccia rimasta, un paio di fogli di giornale stropicciati e impreg- nati dallo sgradevole odore del vagabondo. Ignorando la repulsione avvicinai il muso a quel tanfo mentre cresceva dentro di me una nuova speranza. Premetto che non sono un segugio, già non sono nato con una predisposizione naturale a quel tipo di attività e per giunta non mi ero mai allenato nemmeno per gioco, ma fortunatamente il forte odore era ancora molto recente, forse se n’erano andati solo due o tre ore prima. Incollando il naso a terra iniziai a seguire la traccia, sentivo l’adrenalina scorrermi nelle vene e il sangue martellarmi nelle orecchie, era una sensazione inebriante che non avevo mai provato prima, il risveglio del primordi- ale istinto della caccia. Non voglio dire che fosse semplice, il marciapiede e l’aria intorno a me erano impregnati da una miriade di odori diversi, dovevo concentrarmi al massimo per isolare solo quello che m’interessava e anche così mi capitava spessissimo di dovermi fermare e tornare indietro per non rischiare di farmi confondere. Mi resi conto che mi stavo allontanando dal centro per- ché finalmente si riusciva a proseguire quasi in linea retta e ad attraversare le strade senza dovermi quasi fermare, an- che la traccia era più chiara e questo indicava che mi stavo avvicinando alla mia “preda”. A un certo momento mi guardai intorno e notai che mi trovavo in una zona dove non ero mai stato con Luca, le strade, le case, persino le persone avevano un’apparenza misera e trasandata. Con gli occhi squadravo i rari passanti, da dietro i can- celli sentivo dei cani che mi abbaiavano contro, ma a preoc- cuparmi erano quelli che giravano liberi, mi scrutavano con sospetto, se non addirittura con aperta ostilità, non avevo mai usato con tanto impegno tutte le mie strategie per sem- brare il cane più innocuo del mondo. Arrivai a quella che un tempo era stata una bella pi- azza. La fontana centrale era stata rovinata dai vandali ed era piena di spazzatura. Le altalene, gli scivoli e i giochi vari che un tempo avevano fatto la gioia dei bambini del quartiere erano ridotti a un ammasso di rottami arrugginiti e invasi dalle erbacce. Qua e là si vedeva ancora qualcuna delle belle panche di legno e ferro battuto che un tempo avevano accolto anziani, mamme con i loro bambini e qual- che lavoratore in pausa pranzo, mentre ora erano occupate dai barboni. Fu su una di queste che trovai l’uomo che cercavo. Era intento a contare alcune monetine sul palmo della mano, non contento frugò ancora fra gli stracci che aveva addosso e borbottando soddisfatto tirò fuori ancora qualche spicciolo. Lucy era accucciata sotto la panca, con la testa sulle zampe e gli occhi persi nel vuoto, una corda sudicia pendeva dal suo collo dimagrito, l’altra estremità del cappio era abban- donata a terra vicino al piede dell’uomo. Mi avvicinai da dietro la panca. Quando entrai nel campo visivo di Lucy la vidi alzare la testa e fissarmi con- fusa, forse mi stava finalmente riconoscendo. Scodinzolai e diminuii la distanza, sentendo il mio odore forse le sarebbe tornata la memoria. Quando notai un barlume di vitalità nei suoi occhi, pen- sai che finalmente mi avesse riconosciuto, la guardai alzarsi a fatica sulle gambe malferme e… Con uno scatto velocissimo mi fu addosso, capii che cosa stesse succedendo solo quando sentii i suoi denti che si conf- iccavano nel mio collo. Non mi aveva riconosciuto, semplice- mente si comportava nell’unica maniera possibile per una piccola cagnolina nelle sue condizioni che si trovava davanti un cane estraneo, attaccare prima di essere attaccata. Spaventato, l’uomo si alzò e bestemmiando cercò di darmi un calcio ma era troppo ubriaco per riuscire anche solo a reggersi in piedi e mentre rovinava a terra mi portai a distanza di sicurezza. Lucy si era nuovamente rintanata sotto la panca, tremante di nervosismo. Non era possibile che finisse così, sentii la rabbia crescermi dentro e decisi che non mi sarei arreso, l’avrei portata via a qualunque costo. Partii a grande velocità e tenendo la panca fra me e l’uomo, presi la corda che cingeva il collo di Lucy fra i denti e tenendola stretta tirai, non fui molto gentile, l’ammetto, e la poverina fu costretta ad alzarsi e seguirmi se non voleva finire trascinata. Sentì il barbone che urlava che gli stavano rubando il cane. Avevo molti dubbi che ci fosse qualcuno interessato ad aiutarlo, ma non rallentai la corsa lo stesso, non vedevo l’ora di arrivare a casa. Sempre correndo cercavo di orientarmi e allo stesso tempo evitare i passanti e gli altri cani che eccitati ci inseg- uivano abbaiando, non sapevo se volevano solo parteci- pare all’insolita corsa o se volessero aggredirci, quindi per precauzione mi tenevo lontano. Ormai dovevamo solo attraversare una grossa strada per abbandonare quel quartiere e la sua decadenza quan- do successe il disastro. Rallentai il passo e con un rapido sguardo mi assicurai che potevamo farcela ad attraversare, le macchine erano lontane e a quella velocità saremmo stati al sicuro sull’altro marciapiede in un batter d’occhio. Sen- nonché, proprio in quel momento Lucy si bloccò. Ancora oggi non saprei dire per quale motivo, forse decise di ribellarsi a una situazione che non capiva, o più semplicemente era troppo stanca per continuare, qualunque fosse stata la ra- gione puntò i piedi e si rifiutò a fare anche solo un altro passo. Io ero già sceso dal marciapiede quando sentii la resistenza, mi fermai e cercai di tirarla, ma nonostante fosse solo un mucchietto di pelle e ossa riusciva comunque a re- sistere. Preso da quel tiro alla fune, non mi resi conto di un mio errore di valutazione. Le macchine che avevo visto erano effettivamente troppo lontane per rappresentare un peri- colo, ma non avevo considerato l’incrocio che si trovava poco distante da noi. Mi accorsi dalla macchina che svoltava ad alta velocità e mi veniva incontro solo quando ormai era troppo tardi. Il canile lager
Il dolore fu la prima sensazione appena sveglio, poi
sentii il freddo e rabbrividii intensificando la fitta dolorosa. Aspettai quindi che si affievolisse, mentre cercavo di aprire gli occhi, ma dall’odore che percepivo, avevo già capito dove mi trovavo, l’odore di alcool e medicine sommati al freddo tavolo metallico sotto di me erano segnali inequivo- cabili che mi trovavo da un veterinario. Nonostante il male che provavo ero contento, per prima cosa ero vivo, poi, non meno importante, ero in buone mani e presto avrei rivisto il mio padrone grazie al chip impiantato nel mio collo. Sentì dei passi che si avvicinavano e aprii finalmente gli occhi, vidi un uomo con un grembiule coperto di vecchie macchie di sangue e una siringa in mano, non sembrava un veterinario e come a conferma di quell’anomalia notai che anche la stanza dove mi trovavo non era la sala asettica e ordinata tipica di una clinica veterinaria. Non mancavano gli strumenti che si vedevano anche dal veterinario, siringhe, guanti in lattice, rotoli di garza, bisturi, termometri, flaconi di vetro di diverse dimensioni e colori, ma tutto era ammuc- chiato sugli scaffali metallici in modo disordinato e in mezzo alla polvere e alla sporcizia. Senza dire una parola, l’uomo mi guardò. I nostri oc- chi si incontrarono e lui bofonchiò qualcosa di inintelligibile, quindi si diresse verso uno degli scaffali, prese un flacone di vetro e stava per inserire l’ago della siringa nel tappo quando mi fissò di nuovo. Ancora brontolando, posò il fla- cone e ne prese un altro, riempì la siringa e tornò da me. Mi prese il muso con una mano e con l’altra mi fece l’iniezione. Mi addormentai quasi istantaneamente, ma feci comunque in tempo a vederlo allontanarsi e prendere da uno degli scaffali una piccola sega. Non ho idea di quanto sia durato il mio ricovero. La stanza, che peraltro era la stessa in cui ero stato operato, non aveva finestre e i primi giorni soffrivo in maniera in- dicibile, la febbre era altissima e il dolore atroce. Avevo perso la zampa posteriore destra, alla altezza dell’anca, una ferita veramente seria, ma a sentire i commenti delle persone che entravano nella stanza ero stato fortunato che il Macellaio, come veniva chiamato l’uomo con il grembiule, quel giorno avesse voglia di salvarmi la vita invece di farmi la puntura finale, come succedeva la maggior parte delle volte. Io avevo un concetto un po’ diverso della fortuna, certo, ero vivo e anche il fatto che avessi perso una zampa non era poi così grave, noi cani non badiamo al nostro aspetto fisico, come già dissi una volta. Quello che mi tormentava era il fatto che ormai mi era chiaro di essere finito in un canile lager. Molta gente non sa cosa siano, io lo sapevo perché spesso ascoltavo i telegiornali, sentivo le conversazioni dei miei padroni e insomma, è una cosa che fa venire davvero una grande angoscia a un cane, soprattutto se è senziente come me. Avevo capito di trovarmi in un canile già il primo giorno, l’abbaiare continuo dei cani era una delle poche cose che riuscivo a percepire nella mia agonia febbrile. Con il pas- sare del tempo mi resi conto che non era un canile come gli altri. Le persone che vedevo avevano tutt’altro atteg- giamento, i pasti non avevano una cadenza regolare e mi trovavo praticamente di tutto nella ciotola, da resti di cibo che supponevo venissero da ristoranti o mense, a frattaglie recuperate chi sa dove. Non mi facevano uscire mai dalla gabbia quindi ero costretto a fare tutti i miei bisogni lì den- tro, era una cosa disgustosa, lo è per qualsiasi animale, ma finivo per cedere e potevo stare anche per due o tre giorni in mezzo alla sporcizia. Quando mi portarono finalmente fuori per la prima volta, osservai quello che forse non era l’inferno, ma ci ar- rivava molto vicino. Il canile era stato costruito sfruttando le strutture di una vecchia fabbrica. Quelli che una volta erano gli uffici, adesso erano stati convertiti nella sala operatoria che già conoscevo, poi intorno a noi, disposti a L, tre capannoni le cui pareti erano state in parte abbattute e sostituite da una re- cinzione fatta con diversi pezzi di rete metallica recuperati chi sa dove e saldati assieme alla bell’e meglio. Nello spazio rimanente, senza alcuna copertura o riparo, solo con qualche cuccia di fortuna, un altro recinto, più piccolo, ugualmente raffazzonato con altro materiale di recupero, lamiere, tavole di legno, rete metallica e pezzi di muratura, ma differente dagli altri perché era suddiviso in piccoli box che accoglievano un solo cane. I suoi occupanti erano tutti molossi, tanti pitbull, qualche rottweiler, ma anche dei meticci. Considerando che l’area occupata dai capannoni era il doppio di quella del canile di Elena e vedendo che i cani venivano ammassati senza alcun criterio o riguardo per le dimensioni, razze, carattere e stato di salute immaginai le condizioni in cui vivevano, anzi non azzarderei l’utilizzo del verbo vivere, piuttosto come sopravvivevano e come sarei sopravvissuto pure io. Per tutto questo tempo probabilmente credevate che mi fossi dimenticato di Lucy, invece no, la pensavo continu- amente e mi domandavo se l’avrei più rivista, anzi, prima di uscire e constatare la situazione in cui mi trovavo speravo che fosse stata catturata e portata lì con me, invece ora, avevo cambiato idea, desideravo con tutto me stesso che fosse ovunque, tranne qui. Il ragazzo che mi teneva per il guinzaglio domandò al Macellaio che parlava animatamente al cellulare. “Dove metto questo?” L’altro lo guardò e senza smettere di parlare, con un gesto indicò il primo capannone. “Andiamo”_ ordinò il ragazzo tirandomi. Ancora in pre- da ai dolori e cercando di trovarmi un nuovo equilibrio su tre zampe lo seguì, ma si vedeva che non camminavo ab- bastanza svelto per lui perché continuava a tirarmi. Quel piccolo tratto fu una tortura, oltre al dolore, non avevo alcun desiderio di entrare in uno di quei capannoni, il tanfo che emanavano, il rumore dei latrati, lo sguardo di quei cani. Ad ogni passo aumentava la mia ansia. Prima di aprire il cancello il ragazzo prese un bastone che si trovava appoggiato di fianco all’ingresso, immedi- atamente tutti i cani che si erano avvicinati si portarono ad una distanza di sicurezza. Con un sorrisetto lui fece scor- rere il chiavistello e togliendomi il guinzaglio mi spinse den- tro. Dovetti sforzarmi al massimo per rimanere in equilibrio, sapevo che se fossi caduto in mezzo a tutti quei cani proba- bilmente mi avrebbero sbranato. Fortunatamente riuscì a tenermi in piedi e attesi, cer- cavo di sembrare un cane pacifico, ma anche capace di difendermi in caso di attacco. Quelli più coraggiosi si avvicinarono e mi annusarono, qualcuno più invadente cercò di mettermi le zampe sulla schiena, capì che erano solo dei simulatori perché bastava un ringhio sommesso per liberarmi di loro, invece quando mi fossi trovato davanti al vero capobranco avrei dovuto stare molto attento. Nel frattempo studiavo i cani intorno a me cercando di capire le interazioni fra di loro, era di vitale importanza identificare il capobranco, non sarei stato al sicuro finché non fossi stato accettato da lui. In quel momento mi si avvicinò una possente femmina, incrocio di pastore tedesco e rottweiler, dal modo come por- tava la testa e la coda e il fato che gli altri la scansavano evitando il suo sguardo capì che avevo trovato l’alfa, anzi che lei aveva trovato me. Abbassai gli occhi e mise la coda fra le gambe, per modo di dire. Mi lasciai annusare da tutte le parti e infine lei mi buttò a terra, in quel momento la riconobbi, era Belle. Vedendo la sua espressione allegra capì che aveva ricono- sciuto anche me. Gli anni non erano stati gentili con lei, appariva molto più vecchia di quanto non fossi realmente, ma quello che mi sconvolgeva era la quantità di cicatrici e ferite che la ricoprivano, era chiaro che il suo vecchio spirito combattivo non aveva sofferto il passare del tempo, anzi, sembrava più forte che mai. Non fu l’unico muso conosciuto che trovai, come avevo desiderato e anche temuto, c’era anche Lucy, ma la vidi solo alla fine di quella giornata e fu solo il primo indizio che mi aiutò a capire il come e il perché ero finito in quel posto. Dopo il mio ingresso e accettazione del capobranco pian piano la tensione si smorzò e gli altri cani persero inter- esse per me, approfittando che ormai nessuno ci badava più a me, sulle mie tre zampe malferme mi diressi in un angolino che sembrava meno affollato e mi sdraiai. Erano stati momenti di grande stress e io ancora non avevo recuperato le forze quindi ci misi pochissimo per spro- fondare nel sonno. Mi svegliai molto più tardi, un baccano terribile mi cir- condava, i cani abbaiavano eccitatissimi. Sbadigliai e sti- racchiandomi mi avvicinai alla rete per vedere cosa provo- cava tutto quel caos. Per mia grande sorpresa vidi Lucy da lontano, un bar- bone la teneva legata con la solita corda sudicia, non potevo esserne sicuro, ma forse era lo stesso dal quale l’avevo sot- tratta. Il mendicante parlava con il Macellaio, gesticolava con energia, sembrava preoccupato. Il Macellaio lo guardava con aria spazientita, alla fine alzò tutte e due le mani come se si arrendesse e gli diede le spalle. Uno degli aiutanti prese Lucy e la portò nel nostro re- cinto, saltellando sulle mie tre zampe cercai di andarle in- contro, ma la massa dei cani che avevano la stessa intenzi- one non mi permise di avvicinarmi. Togliendole la corda dal collo il ragazzo la spinse dentro e chiuse di nuovo il cancello. Mi preoccupavo per la povera Lucy in mezzo a quel branco impazzito, ma dovette ricredermi quando la vidi ringhiare minacciosa e distribuire anche dei morsi di avver- timento ai più audaci. Comunque non correva un vero peri- colo, era già conosciuta da tutti e tutta quella agitazione non era altro che il classico rituale per salutare un membro tornato al gruppo. Alla fine, conclusa la prassi, Lucy poté ritrovarsi un an- golino tranquillo per rifugiarsi. Mi avvicinai con molta cau- tela, mi ricordavo bene quando anch’io avevo provato il suo morso, questa volta rispettai il suo spazio e lei si limitò a guardarmi con un misto di irritazione, ma anche curiosità, forse qualcosa le stava tornando in mente, pensai speran- zoso. Quella notte dormimmo vicini, sentire il suo odore mi faceva tornare alla mente le vicissitudini che avevamo con- diviso, il canile di Elena, dopo le infinite case e padroni, e nonostante tutta l’incertezza e mancanza di punti di riferi- mento sapevamo di poter comunque contare uno sull’altro. Il giorno dopo mi svegliai affamatissimo, in una casa ormai mi ero abituato a due pasti regolari, sostanziosi, in quel posto invece ci si poteva considerare fortunati a poter mangiare ogni giorno. Mi alzai, Lucy dormiva profondamente, solo più tardi capì perché dormiva tanto, dormendo riesci a straniarti da tutte le brutte cose che hai intorno e in parte dimentichi an- che la fame e la sete, con il tempo anch’io diventai un dor- miglione. Vagai un po’ a caso, ma prestando attenzione a non provocare gli altri cani, che come me giravano affamati e stressati, purtroppo non tutti avevano la mia stessa ac- cortezza e in ogni angolo si vedevano cani che ringhiavano e si azzannavano a vicenda. Belle si trovava coinvolta in buona parte degli scontri, nonostante la sua molle e il suo carattere riusciva comunque a trattenersi e i cani che la sfi- davano spesso se ne andavano senza troppi danni, ma non potevo dire lo stesso degli altri, quel giorno vidi almeno venti combattimenti fra cani e più della metà degli sconfitti riportava ferite gravissime. Nel mio girovagare trovai un secchio per l’acqua, il liq- uido in fondo era pieno di insetti e il contenitore aveva una patina verdastra di muschio, ma avevo una sete tremenda e pur di riempire un po’ lo stomaco vuoto avrei ingurgitato qualsiasi cosa. Con un sapore disgustoso in bocca tornai da Lucy, si era svegliata e mi guardò per la prima volta con interesse e sin- cero piacere, non capì mai se alla fine mi aveva riconosciu- to, oppure semplicemente mi aveva accettato per simpatia, come era successo anche la prima volta, l’importante per me era che eravamo di nuovo assieme e questo ci confortava entrambi. Il resto del giorno passammo a sonnecchiare e a tenerci lontani dai guai, ormai la fame era diventata quasi insop- portabile quando finalmente aprirono il cancello e entrarono i due aiutanti con un enorme pentolone. Accerchiati dai cani famelici riuscivano a mantenerli a distanza solo brandendo dei grossi bastoni. Rovesciando il contenuto per terra si ritirarono. Io e Lucy rinunciamo subito ad avvicinarci, era pura follia, la mon- tagna di cibo era già stata presa d’assalto dai più forti e feroci, che alternavano un boccone di cibo ad un morso a quelli che osavano avvicinarsi troppo. Fortunatamente altri due pentoloni furono rovesciati in altri due angoli del recinto e buona parte di noi, fra quelli più piccoli e deboli riuscimmo a mangiare qualcosa. Poverino!
Nei giorni seguenti capì molte cose su quel canile lager.
Per primo, quel canile era situato nella zona povera dove avevo attuato il rapimento Lucy e che finì con il mio investimento. Non capì mai chi ci aveva trovato e portato lì, comunque era una consuetudine degli abitanti della zona portare al canile i cani vaganti, abbandonati, feriti, cuc- cioli indesiderati o anche i propri animali quando questi li venivano alla noia. Se in un canile organizzato come quello di Elena uno dei problemi principali era la sovrappopolazione, potete im- maginare come ci si trovava in un posto come quello dove i cani venivano semplicemente ammassati e mai dati in adozi- one o restituiti ai loro proprietari, perché, anche questo sco- prì molto tempo dopo, il comune forniva dei fondi a seconda del numero di animali presenti, quindi quanti più animali più soldi entravano, anche se per il nostro reale mantenimento erano destinati solo il minimo indispensabile. I soldi del comune non erano l’unica e neanche la princi- pale fonte di rendita per il Macellaio, considerando quanto fossero esigui. I veri guadagni arrivavano da un’altra fonte, nei fine settimana i molossi venivano prelevati dai loro box al centro del cortile, a volte li accompagnavano fuori gli aiu- tanti, altre volte delle persone esterne. Per due o tre giorni vedevo quei box vuoti e all’inizio, nella mia innocenza, cre- devo avessero trovato una casa, ma poi li vedevo tornare coperti di ferite, in queste occasioni grandi somme di denaro giravano fra le mani del Macellaio e di queste persone. Succedeva che qualche volta il cane non tornasse più, ma non passava molto tempo perché un altro lo rimpiazzasse. Ma la cosa che mi ha più sconvolto fu scoprire cosa significava “carne da macello” espressione usata dal Ma- cellaio e i suoi aiutanti per definire i gatti randagi o i cani, scelti fra noi, che venivano portati dentro il box dei molossi nei periodi in cui si facevano pochi combattimenti o perché la polizia aveva intensificato i controlli o perché semplice- mente non c’era molta richiesta, secondo loro la inattività era deleteria per i cani da combattimento quindi per tenerli feroci e in allenamento dovevano uccidere con una certa regolarità. Per la fortuna di noi, “carne da macello” e sfortuna per loro, cani da combattimento, questi periodi di “bassa” erano molto rari. E per ultimo, alcuni di noi potevamo essere noleggiati ai barboni della zona per fare da “attira monetine”, os- sia, utili a destare la pietà dei passanti, che addolorati per la povera creatura erano più generosi. Alla fine giornata i cani venivano riportati in canile e i soldi divisi a metà fra il barbone e il Macellaio. Lucy era molto richiesta, i suoi grandi occhi, il suo corpo dimagrito e tremolante erano una sicura fonte di elemosine e capitava che al mattino i barboni litigassero fra di loro per averla. Dopo il mio recupero anch’io divenne molto popolare, avevo un buon carattere, un muso simpatico e la ciliegina sulla torta, mi mancava una zampa, quindi in poco tempo mi abituai a sentire le espressioni compunte delle persone che ci vedevano: “Poverino!”._ seguito dal tintinnio delle monete sul capello del barbone al mio fianco. L’aspetto positivo di questa faccenda era che uscire dal recinto e dall’ambiente del lager ci permetteva di stare un po’ meglio, qualcuno dirà che per strada si pativa la sete, la fame, il freddo, la pioggia o il calore eccessivi, ma era lo stesso anche al canile, il cibo e l’acqua ci venivano dati quando si ricordavano, le intemperie le subivamo senza al- cun riparo e lo stesso per il sole cocente e come se non bastasse la quantità eccessiva di cani e la scarsissima igiene rendevano quel posto peggio della strada. Inoltre uscendo avrei avuto la possibilità di essere visto, sapevo che Luca e i suoi mi avevano cercato, la prima volta che uscì con un mendicante vidi dei cartelli con la mia foto incollati ad alcuni palli della luce, erano molto sbiaditi e la maggior parte quasi irriconoscibili e anche se era passato qualche mese ero sicuro che non avevano perso le speranze di ritrovarmi. Purtroppo non uscivo tanto quanto avrei desiderato, piacevo si, ma a sentirli parlare capì che ero ancora troppo bello, avevo il mantello sano e lucente, non ero dimagrito abbastanza e la mia espressione non era sufficientemente disperata. Ma sapevamo tutti che era solo una questione di tempo. Lentamente mi abituai a quella “vita”, i giorni passa- vano e si tramutavano in settimane, le foglie sugli alberi caddero e il vento freddo che ci penetrava nelle ossa non prometteva niente di buono per quell’inverno. Con l’abbassamento della temperatura passavamo i giorni a tremare, durante la notte Lucy ed io dormivamo talmente avvolti uno nell’altra che a volte sembravamo un unico cane e al mattino avevamo i muscoli indolenziti, ma era l’unico modo per non congelare. I litigi fra noi si intensificarono, in parte per tenersi caldi, ma soprattutto durante i pasti, avevo sempre sentito gli um- ani parlare di “fame da lupi” e adesso credevo di sapere cosa fosse, i nostri corpi richiedevano del nutrimento per for- mare il grasso che ci avrebbe aiutato a sopportare il fred- do, ma le razioni erano sempre scarse e di pessima qualità. Dopo la fame anche la sete ci tormentava, con il freddo l’acqua nei secchi diventava ghiaccio e per le poche ore del giorno in cui ridiventava liquida era talmente fredda che ad alcuni di noi provocava il vomito e forti crampi allo stomaco. Con l’arrivo dell’inverno anche i barboni sparirono, faceva troppo freddo per elemosinare, inoltre avevo sentito i due aiutanti commentare che vicino alle feste natalizie la polizia non permetteva ai mendicanti di sostare nella zona centrale, disturbavano i passanti impegnati nello shopping e rovinavano l’immagine della città. Questa notizia mi demoralizzò tantissimo, sapevo che sotto le feste Luca e i genitori si recavano spesso in centro per le compere natalizie e la possibilità di trovarli sarebbe stata molto maggiore.
Una mattina mi svegliai coperto da uno strato di neve,
mi alzai a fatica, tremavo così tanto e avevo i muscoli tal- mente irrigiditi che credevo di non riuscire a fare neanche un passo, ma avevo dei bisogni impellenti e mi rifiutavo di farli a pochi passi da dove dormivo. Vicino a dove avevamo dormito vidi uno dei cani più anziani del nostro capannone, sdraiato per terra, era im- mobile e dalla rigidità del corpo capì che era morto. Fu solo la prima vittima di quell’inverno, per tutto quel periodo oltre al freddo e alla fame subimmo anche una epidemia di cimurro che non risparmiò nessun cane sopra i dieci anni e sotto i due. Non avevo mai visto un cane affetto dal cimurro e ri- cordo bene il primo che vidi, era un cucciolo di quattro mesi, talmente bello e simpatico che se fosse finito in un qual- siasi canile decente gli avrebbero trovato una casa subito, ma purtroppo trovandosi in quel posto il suo destino era segnato, la malattia gli provocava dolori talmente atroci che passava i giorni a urlare e a sbattere la testa contro i pilastri di cemento del recinto, i colpi erano così forti che il rumore si sentiva a distanza, la sua agonia durò tre giorni, giorni di sofferenza anche per noi che non potevamo fare altro che assistere impotenti. Se il primo caso fu traumatico per me, nelle settimane successive ne ho visti talmente tanti che divenni indifferente. Quella esperienza mi insegnò anche che pure nella più totale disperazione qualcosa di buono si può ricavare, con la morte di quasi un terzo dei cani del recinto il cibo com- inciò ad essere quasi sufficiente per noi, intendo, quasi suf- ficiente per non morire. Ovviamente pativamo ancora una fame terribile e molti di noi iniziarono a cibarsi dei cadaveri, io non ci riuscì e non permisi neanche a Lucy di farlo, non conoscevo le modalità di contagio del cimurro perciò non volevo rischiare. Oltre al cimurro e al freddo, un’altra causa di morte era la fame, non solo la propria, ma la fame del branco, quando il cibo mancava per due o tre giorni di fila i cani più piccoli e deboli rischiavano grosso. Noi piccoli ci nascondevamo nei giorni in cui quelli più feroci e in forze giravano con sguardo affamato cercando qualche moribondo per dargli il colpo di grazia, fortunatamente per noi non mancavano, ho visto tanti che ormai esauriti sia fisica che mentalmente pratica- mente si lasciavano sbranare. Dalle espressioni di tanti miei compagni vedevo che nonostante i loro corpi fossero in vita, i loro spiriti si erano straniati. Uno spirito morto non sente più niente ed era ques- to scopo che molti riuscivano a raggiungere, anche a costo di non sentire più né il piacere o la allegria, tanto in quel posto dove si poteva trovare il piacere e la allegria? Nonostante non li giudicasse, non condividevo la loro scelta perché non ero solo, avevo Lucy e lei aveva me, ci prendevamo cura una dell’altro, quando uno di noi veniva minacciato da qualche altro cane lo affrontavamo assieme e anche se eravamo ormai due scheletri denutriti e malm- essi riuscivamo a dimostrare tanta furia che l’aggressore decideva di cercarsi qualcun altro meno agguerrito. Nelle giornate in cui magari la trovavo più demoralizzata facevo di tutto per tirarla su e lo stesso faceva con me. Mi ricordo una volta in cui ero molto depresso e non volevo alzarmi per mangiare, lei iniziò a darmi dei colpetti con le zampe, poi vedendo che la ignoravo mi morsicò l’orecchio, con tale forza che ancora oggi ho il segno, ma funzionò, il dolore mi scosse dal mio torpore. In un modo o in un altro e non senza una buona dose di fortuna, sopravvivemmo a quell’inverno. Il giorno in cui sentì che il sole cominciava a scaldarmi il corpo fui molto sor- preso, avevo provato così tanto freddo per così tanto tempo da dimenticare quanto fosse piacevole sentire quel tepore. Un viso amico
L’alzarsi della temperatura portò un altro problema, i
resti dei cadaveri, di cibo e le deiezioni, senza la copertura del ghiaccio iniziarono a decomporsi e ad esalare odori nauseabondi, oltre ad attirare veri nugoli di mosche che ci tormentavano giorno e notte. Infine nemmeno il Macellaio e i suoi aiutanti sopporta- vano più il tanfo mefitico e forse temendo per la salute dei loro cani da combattimento e la propria, un pomeriggio ci liberarono in cortile e con un getto d’acqua ad alta pres- sione lavarono tutto il recinto, ma l’acqua non poteva por- tare via tutto, quindi con fazzoletti sopra la bocca e il naso e muniti di palle raccoglievano le carcasse imputridite, ogni tanto uno di loro scappava di corsa per vomitare e in quei momenti la mia soddisfazione saliva alle stelle. Gli abbiamo pure dato filo da torcere per ritornare dentro il recinto, anche se ci minacciavano con i bastoni scappavamo in tutte le direzioni, era divertentissimo vederli correre da una parte all’altra urlando come dei cretini. Lo scherzo durò finché non arrivò il Macellaio che urlò ai due aiutanti: “Ma siete proprio due coglioni, andate a prendere il cibo che i cani vi seguiranno dentro.” E come si vuol dire, così terminò il nostro gaio trastullo. Con le pance brontolando li inseguimmo senza nuove ribel- lioni. Imparando dai propri errori utilizzarono la stessa tec- nica anche con gli altri tre capannoni e alla fine della gior- nata avevano ripulito tutto. Purtroppo la temperatura non era ancora abbastanza alta per far asciugare il pavimento in cemento, quindi quella notte dormimmo molto male e il giorno dopo sentivamo i ter- ribili effetti della umidità. Da quel giorno molti di noi soffrirono di diverse forme di raffreddore e infiammazioni alle articolazioni. Io avevo un forte indolenzimento nel posteriore, dall’incidente mi capitava spesso soprattutto con l’umidità, ma a preoccuparmi era Lucy, tossiva in maniera spaventosa. Se con la primavera era sensibilmente aumentata di peso, con il raffreddore aveva di nuovo perso ogni gramo e sem- brava ancora più magra di prima. Faceva fatica a mangiare a causa della infiammazione alla gola e la febbre la spossava terribilmente. Ogni giorno che passava la vedevo appassire sotto i miei occhi e non potevo fare niente per lei. Il giorno in cui vidi il primo mendicante arrivare per por- tare via uno di noi li corsi incontro, non dovetti nemmeno simulare la disperazione, perché la stavo provando in quel momento, doveva scegliere me, dovevo uscire, ormai l’unica speranza per Lucy era che io trovassi aiuto. “Ma e la cagnolina, quella tutta macchiata?”_ chiese l’uomo a uno dei ragazzi. “Quella lì non la porti da nessuna parte, non dura anco- ra un altro giorno, una cosa è portare in giro un cane malm- esso, se invece ti muore davanti a tutti sai che guai per te e per noi? Prendi il Pirata, dopo questo inverno riuscirebbe a cavare lacrime di pietà da una pietra. Pirata era il nome che mi avevano dato al lager. Con un mugugno l’uomo fece un gesto di rassegnazione e mi legò una corda intorno al collo. Con lo sguardo salutai Lucy che tremava febbricitante nel nostro solito angolino. Volevo trasmetterle forza per re- sistere fino al mio ritorno, ero determinato a fare qualsiasi cosa pur di salvarla. Ero felicissimo quando vidi che prendevamo la strada per il centro. Era una bella giornata ed era ancora ab- bastanza presto, saremo arrivati al nostro punto nel momen- to di maggior concentrazione di persone e questo poteva essere un ottimo vantaggio per me. “Hey, che fretta hai, Pirata?”_ sentì lamentarsi l’uomo che faticava a tenere il mio passo._ “Se ti vedono così mica mi danno soldi.” Mi guardai intorno cercando di capire se era un giorno lavorativo o festivo, molte persone ignorano o sottovalutano la capacità di osservazione di noi cani, forse perché usano troppo la bocca gli umani hanno perso la capacità di usare gli occhi, ma se uno si ferma solo un attimo e si guarda intorno può capire da tanti piccoli dettagli una infinità di informazioni. Per prima cosa, notai le macchine che sfrecciavano avanti e indietro con dentro mamme e bambini, uomini in cravatta e dal modo di guidare e dalle espressioni scoc- ciate e preoccupate si capiva che erano in giro non per piacere, ma per dovere. Lo stesso anche per tutti i pedoni che ci trovavamo intorno, tanti cellulari, altri bambini con zaini sulla schiena. Non c’erano dubbi che fosse un giorno di settimana, avrei potuto anche dirvi con un buon margine di sicurezza che giorno della settimana era solo guardando i bidoni della raccolta differenziata, avevo sentito dire che il martedì raccoglievano il vetro, mercoledì la carta, il giovedì la plastica, venerdì la indifferenziata, ma in quel momento non mi interessava, l’importante è che essendo un giorno di settimana Luca aveva lezione e vedendo il numero di raga- zzi della sua età che passavano potevo sperare di essere stato così fortunato da trovarmi esattamente sulla strada che percorrevano. Cominciai ad agitarmi, tremavo dalla tensione, a ogni ragazzo che intravvedevo in mezzo ai pas- santi il mio cuore saltava nel petto. Come per un miracolo il mio desiderio divenne realtà, in mezzo ad un gruppo di altri ragazzi l’ho visto, parlavano animatamente fra loro, purtroppo erano sul marciapiede dall’altra parte della strada. Dovevo raggiungerlo a qualunque costo, o almeno rius- cire ad attirargli l’attenzione, se mi avesse visto mi avrebbe riconosciuto ne ero certo. Mi lanciai in avanti abbaiando, ma il vagabondo ten- eva ben salda la corda che mi legava e vedendo le espres- sioni preoccupate delle persone intorno mi tirò indietro. “Non avrà mica la rabbia?” _ si domandò una ragazza allontanandosi. “Forse è meglio chiamare i carabinieri, se morde qual- cuno?” _ commentò una signora che spingeva una carrozzina. “Stai buono, Pirata, tranquilli, è solo affamato, da ieri che non mangia poverino. Sapete questo cagnolino era di mia figlia, lei aveva 8 anni ed ero al suo capezzale quando mi chiese poco prima di morire di prendermene cura di lui a qualunque costo. Ho perso il lavoro, la casa, mia moglie se n’è andata, ma il buon vecchio Pirata è rimasto con me, quando è al mio fianco sento come se ci fosse anche mia figlia, a vegliare su di me…” _ e così via con il suo cavallo di battaglia per commuovere i passanti e riuscire ad avere qualche monetina in più. Nel frattempo tirato per la collottola fui costretto ad accucciarmi ma come non smettevo di abbaiare cercò di chiudermi il muso con la mano, in quel momento feci una cosa che non avevo mai creduto di essere capace, ho morso con tutte le mie forze, ero fuori di me e vedevo che Luca ci aveva già superato e che si allontanava, ormai non avevo più tempo o alternative. “Ahhh, maledetto cagnaccio di merda!”_ urlò il mendi- cante mollandomi un ceffone che mi fece ribaltare gambe all’aria. Anche se ero ancora stordito vidi uno dei ragazzi voltarsi indietro e guardare incuriosito, vide un po’ di confu- sione intorno ad un barbone e il suo cane, chiamò gli altri indicandoci, un paio ci fissarono chiedendosi a vicenda cosa stesse succedendo, Luca qualche passo avanti, forse richi- amato dagli altri si fermò e iniziò a girarsi, in quel momento avevo occhi solo per lui che lentamente si voltava, mi alzai, tremavo nell’aspettativa, erano pochi instanti, ma per me sembravano scorrere con una lentezza esasperante. Nel momento esatto in cui i suoi occhi mi raggiunsero un pullman ci ostruì la visuale, abbaiai disperato quasi come se con il potere dei latrati potessi convincerlo ad spostarsi. Quando finalmente il semaforo cambiò a verde e per- mise alle macchine di muoversi ho visto che Luca proseguiva per la sua strada con tanto di cellulare all’orecchio. Sentì come se mi crollasse il mondo addosso, abbassai la testa e mi straniai da tutto quello che avevo intorno, era tutto perduto. Furibondo per il mio comportamento e concludendo che ormai l’attenzione che destava nel pubblico era tutt’altro che positiva, il mendicante si alzò e vedendomi in quello stato quasi catatonico mi prese sottobraccio. “Mi scusi, quel cane dove l’hai trovato?” _ la voce di uomo dietro di noi. Nonostante il tono educato aveva un qualcosa di autoritario e vagamente famigliare. Quando ci girammo non potevo credere ai miei occhi, era Giorgio, elegantissimo nel suo completo grigio con tanto di valigetta in mano, l’avevo sempre visto nelle vesti del volontario del canile, con abiti sgualciti e neanche tanto pu- liti, un capellino in testa e guanti di gomma per le pulizie, ora aveva anche molti più capelli bianchi di quanto me lo ricordassi. Mi guardò intensamente mentre il barbone farfugliava qualcosa a proposito della figlia in punto di morte, ecc… ma nella sua voce non c’era convinzione, aveva capito di aver trovato qualcuno che mi aveva riconosciuto. “Allora me lo vuole dire dove hai trovato questo cane e chi l’ha ridotto così? “Io, io non so niente… mi lasci andare, Lo prenda… _ e senza complimenti mi buttò fra le braccia di Giorgio._… va bene così, non posso dire niente.” E scappò a gambe levate, Giorgio mi guardò con un sorriso addolorato, io invece lo fissavo frastornato, ero pas- sato dalla speranza alla disperazione più totale e adesso, per puro caso, o fortuito destino o come lo vogliate chia- mare, ero salvo! “Peccato che tu non possa dirmi cosa è successo, povero Bailey, se…” “Invece si,”_ risposi in un sussurro. Vide il suo viso sbiancare e per un attimo credetti che mi avrebbe molato per terra, ma dopo un instante ridendo come un matto mi strinse fra le braccia. “Lo sapevo, sei stato tu a salvare la mia madre, non potevo crederlo, nemmeno quando lei stessa me l’ha detto, non te n’eri accorto, non poteva muoversi, ma lei non era ancora del tutto incosciente mentre parlavi con me al tel- efono. Era una idea troppo folle, ma nel profondo sapevo che doveva esserci qualcosa. “Possiamo andare in un posto più riservato?” _doman- dai sempre a bassa voce per non farmi sentire dai passanti che ci guardavano in parte incuriositi e in parte impauriti da quel pazzo in giacca e cravatta che parlava a un cane sporco e scheletrico. “Si, si, scusami”! _ rispose e senza perdita di tempo ci dirigemmo al parcheggio dove aveva lasciato la sua macchina. Una volta nel veicolo mi mise sul sedile del passeggero e mi guardò pieno di aspettative, ma prima che io parlassi qualcosa alzò la mano e prese il cellulare. “Scusami un attimo.” _ compose velocemente un numero, chiese alla sua segretaria di cancellare tutti i suoi appunta- menti per la giornata e poi spegnendo l’apparecchio tornò a guardarmi. “Raccontami tutto.” “Non avrai problemi per il lavoro?” “Ti ho già perso una volta a causa del lavoro, non suc- cederà più.” _ rispose lui serio. Gli raccontati tutto, non avevo mai parlato così a lungo prima, inoltre era da tanti anni che non articolavo le parole umane che quando arrivai alla fine e alla mia richiesta di salvare non solo Lucy, ma anche tutti gli altri cani rinchiusi nel Lager avevo la mascella intorpidita e la gola secca. Accendendo la macchina lui mi chiese di guidarlo al la- ger. “Non ti faranno entrare, non entra mai nessuno che non conoscono.” “Non ti preoccupare voglio solo vederlo da fuori, poi vado alla polizia per fare una regolare denuncia.” “Ma poi dirai che sono stato io a raccontarti tutto?” “No, dirò che è stato quel mendicante.” Non fu facile per me fare da guida, conoscevo le strade da pedone, quindi ci abbiamo messo un bel po’, ma infine riuscimmo a trovare il posto. Guardandolo dallo esterno nessuno avrebbe mai immaginato l’inferno che quelle alte e grigie mura rinchiudevano, di fianco al portone metallico di entrata si vedeva solo un campanello con la videocamera. Smorzati si sentivano i latrati dei cani all’interno. Mi si strinse il cuore pensare a Lucy ancora lì dentro, ma dovevo pazien- tare, ora era tutto nelle mani degli umani e delle loro leggi. Per il resto della giornata il mio padrone aveva fatto la denuncia alla polizia, contattato anche dei giornali locali e alcune associazioni di difesa degli animali, sapeva che questo era l’unico modo di velocizzare la cosa, quante più persone fossero al corrente della situazione maggior pres- sione si sarebbe fatta per trovare una soluzione. “Abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Dobbiamo confidare che prendano seriamente la denuncia. Intanto ti porto a casa mia, ti faccio mangiare e riposare. La mamma sarà felicissima di vederti.” “Si è ripresa?” “Abbastanza, ha qualche difficoltà per muoversi e ora che so anche che la storia del cane parlante non era il ri- sultato di qualche rotella fuori posto sono davvero convinto che sia guarita perfettamente. Grazie a te non solo non è morta, ma i danni sono stati molto limitati grazie alla veloc- ità con cui è stata soccorsa, io non avevo capito che era una emergenza, se non fossi stato tu.” Non risposi, ero imbarazzato e commosso, anzi, tutta quella giornata cominciava ad essere troppo piena di emozioni per me, tuttavia non era ancora finita, arrivati a casa di Giorgio, incontrandomi di fronte Elena non so chi fosse più scioccato fra noi due, io non potevo credere che la donna vivace e robusta che riusciva a spostare i sacchi di mangime da 20kg fosse diventata quella vecchietta smilza che camminava con l’aiuto di un deambulatore. Dall’altra parte anch’io non ero più lo stesso, oltre alla zampa man- cante ero magro da far paura, avevo il mantello lurido, con delle zone spelacchiate dove le punture delle zecche e pulci avevano fatto infezione, le unghie lunghissime e un alito spaventoso a causa del tartaro e della alimentazione sregolata. Insomma, sembravamo due reduci di guerra che si ritrovavano. Le ore seguenti passammo a parlare, si a parlare, ave- vamo tanto da raccontarci, ovviamente dopo che Giorgio si scusò con sua madre per tutte le volte in cui aveva dubi- tato della sua parola. Dal canto suo la vecchia signora lo guardò con espressione di qualcuno che la sa lunga e mi fece l’occhiolino: “Non ero mica pazza io!” “Non dicevo che fossi pazza, mamma!”_ rispose lui ri- girando gli occhi al cielo. E io li guardai sereno come non lo ero stato da tantissimo tempo, mi avevano lavato, nu- trito e avevo fatto un pisolino e dopo la soddisfazione delle mie necessità più immediate pensavo a Lucy, ancora in quel posto orribile. Tutte le mattine Giorgio faceva il giro del commissari- ato, dalle associazioni e dai giornali per tenerli sotto pres- sione e non permetterli di lasciare che il caso finisse nel di- menticatoio. Chiesero se volevo tornare da Luca e i suoi, ma dissi che preferivo aspettare da loro, non sarei riuscito a sopportare quella attesa senza avere qualcuno con cui parlare. Dopo cinque giorni Giorgio arrivò a casa con un gior- nale locale che riportava la notizia della perquisizione del- la polizia nel canile lager e l’ordine giudiziario di chiusura immediata e sequestro degli animali trovati. I cani in buone condizioni erano stati affidati ad una decina di ricoveri di emergenza e altrettanti volontari sparsi in tutta la regione, quelli gravemente malati e feriti erano ricoverati nelle clin- iche veterinarie dei dintorni. Giorgio avrebbe avuto un bel da farsi a girarli tutti in cerca non solo di Lucy, ma anche di Belle. “E se trovo qualcun altro del nostro vecchio canile lo porto a casa con me.” _ disse prima di partire. Io e Elena siamo rimasti in un angosciante attesa, la tv era accesa, ma non avremo saputo cosa era trasmesso tal- mente immersi eravamo nei nostri pensieri. Arrivò l’ora di pranzo, ma non avevamo appetito, fui io a insistere perché mangiasse qualcosa, nelle sue condizioni non le avrebbe fatto bene restare a digiuno. Il pomeriggio si trascinò infinito, erano da poco passate le tre del pomeriggio quando suonò il telefono. Elena alzò la cornetta e ascoltò per un attimo, io sentivo la voce di Giorgio, ma non riuscivo a discernere le parole, quindi potevo capire la conversazione da quello che diceva Elena. “L’hai trovata?_ ma l’allegria sparì dal suo volto quasi immediatamente. _”Capisco, povera piccola... ” _ mi guardò con gli occhi pieni di lacrime e io non lo riuscì a sopportare la pena nei suoi occhi, mi accucciai sotto il tavolo, ero distrut- to. Si scambiarono ancora qualche parola e si salutarono. “Bailey… tesoro… _ cominciò la vecchia signora. “Mi dispiace Elena, ho bisogno di stare solo.” _ risposi voltando il muso verso la parete. Sentivo un profondo dolore in fondo al petto, un misto di frustrazione e tristezza. Pensare a Lucy, morta, nonostante tutti i nostri sforzi… ma anche il dubbio atroce che forse avrei potuto fare di più… Avvertì appena il rumore dell’auto di Giorgio che ar- rivava, Elena che si alzava dalla poltrona e si dirigeva verso la porta. I passi dell’uomo all’ingresso. “Lucy, tesorino mio… _ esclamò Elena, ma nella sua voce non c’era dolore, ma gioia. Mi alzai disorientato e guardando verso la porta vidi l’uomo con la cagnolina fra le braccia. Rimasi letteralmente di sasso. “Che è successo?” _ domandò Giorgio vedendomi lì im- pietrito. “Ma credevo… avevo pensato… avevo capito…” _ farfugliai. “Oh, Bailey, mi dispiace, credevo tu avessi sentito tutta la conversazione, parlavamo di Belle, poverina…” _ es- clamò Elena asciugandosi gli occhi. “Appena due giorni prima che la polizia facesse irruzi- one era stata coinvolta in una rissa con un cane nuovo che l’aveva ferita gravemente, il veterinario che la visitò capì che soffriva troppo.” _ rispose Giorgio mentre sistemava Lucy in un angolo tranquillo. “Fortunatamente almeno per Lucy sono arrivato in tempo, anche lei rischiava, ha la pol- monite e molti mi sconsigliarono di prenderla consideran- dola ormai un caso perso, ma io voglio provare. Non solo per lei, ma anche per te, so quanto ci tieni a lei.” Ero senza parole, in segno di riconoscenza appoggiai il muso contro la sua gamba e lui mi accarezzò la testa, aveva capito. Che dire di altro? Ancora una volta Lucy dimostrò la sua incredibile tempra, ci mise del tempo, ma guarì. Io intanto tornai a casa di Luca e della sua famiglia, ma Giorgio e Elena rimasero in contatto con loro, è nata una bella amicizia, ogni tanto ci si ritrova e qualche volta per le vacanze mi lasciano con i miei vecchi amici e così posso chi- acchierare con loro e rivedere Lucy che sembra finalmente avere trovato un suo equilibrio e sembra molto felice. Postfazione
Volevo ringraziare Bailey del grande onore che mi ha
concesso e della fiducia che ha riposto in me. Quando mio grande amico Giorgio mi disse che il vecchio Bailey, che avevo conosciuto quando facevo la volontaria al canile tan- ti anni prima, voleva raccontare a qualcuno la sua storia perché venisse trasformata in un libro pensai che fosse im- pazzito. Capisco che per loro sia stata una ardua decisione, non potevano rischiare rivelando un segreto così importante ad uno estraneo, quindi la loro ricerca iniziò dalle persone più vicine a loro e sulle quali sapevano di poterci contare e alla fine la scelta cade su di me. Sono una loro amica di vecchia data e avendo il pallino della scrittrice, anche se mi ero limi- tata a solo qualche manoscritto che non avevo il coraggio di far vedere ad alcun editore, sembravo proprio la persona giusta. Ed eccomi qua a scrivere queste ultime righe, con Bailey al mio fianco. Ho appena finito di leggergli la stesura finale e si è dichiarato soddisfatto, ma non è certo merito mio, nonos- tante gli fosse doloroso rivivere tanti momenti difficili è rius- cito comunque a ricordare ogni avvenimento ed essere chi- aro e preciso nel suo racconto. Adesso lo lascio riposare, si è appena appisolato, ha quasi 19 anni, una età ragguardevole per un cane e infatti ha tanti acciacchi, dolori alla schiena e ci vede pochissimo ormai, ma la sua voce è chiara, soave come un sussurro, si direbbe quasi la voce di un angelo.
Aggiungo solo un ultimo accenno agli altri protagonisti
di questa storia. Luca è diventato un bel ragazzone, è al secondo anno di ingegneria e secondo me ha davanti a se un bel futuro, in questo momento lui e la famiglia sono in vacanza in Scozia, per questo Bailey è qui da noi. Lucy ci ha lasciato da ormai cinque anni, è morta nel sonno, serenamente, anche Elena non ce’ più e Giorgio, or- mai vicino alla pensione continua a seguire dei casi giudiziari che riguardano i maltrattamenti di animali. Per questioni di privacy abbiamo cambiato tutti i nomi dei protagonisti e anch’io firmo con un pseudonimo perché non desidero fama o riconoscimenti, questa storia non è mia, appartiene a Bailey e a tutti gli altri cani che condividono con noi questa terra.