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Catherine Spaak

Lamore bLu

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Della stessa autrice nelle edizioni mondadori Lui Oltre il cielo Un cuore perso

Lamore blu di Catherine Spaak Collezione Ingrandimenti ISbN 978-88-04-61281-0 2011 arnoldo mondadori editore S.p.a., milano I edizione settembre 2011

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Lamore blu

Per Agns Per Alice Per Stefano Per Vladimiro

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La prima volta successo a Santalbino, il podere vicino a Pienza. era giugno. La casa era vuota, avevo appena finito di ristrutturarla. Lodore della pittura fresca dava ancora fastidio e piacere. mi attraeva tutto quel vuoto fra il cotto patinato, la pietra chiara a vista, le travi lucidate. La prima volta successo in quella casa, di plenilunio, forse era la prima notte destate. avevamo festeggiato qualcosa fuori, nel patio, con la valle dorcia offerta, ondulante di grano fino a piegarsi sotto il cielo chiaro. avevo udito le macchine allontanarsi sulla strada bianca le ruote raspare un poco sui sassi in discesa poi un cane, lontano. Dopo sera fatto silenzio. Non avevo acceso la luce. mi dirigevo verso la cucina reggendo un vassoio sul quale ero riuscita a radunare tutti i nostri bicchieri quando c stato lurto. ricordo il tintinnio del cristallo che si frantumava come uneco. Ci trovammo a terra Davide sopra di me nel buio. Non muoverti ho detto piano, avvertendo il pericolo, ci sono schegge di vetro dappertutto. Lentamente presero forma i contorni della stanza.
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La finestra aperta, in fondo, incorniciava il cielo stellato; pass una brezza lieve scompigliando i capelli fini di Davide. Poi ebbi limpressione che si fosse addormentato. Sentivo il suo respiro leggero sulla tempia e il peso del suo corpo abbandonato sul mio. Io non pensavo. ero e non ero in quella stanza. Vuota. Immobile. Sentii le dita di Davide sulle mie labbra. Le dita. Le labbra. Si mosse tra i frantumi acuminati, scosse i capelli e alcune schegge mi caddero sul volto. allora chiusi gli occhi mentre gi assecondavo ogni suo movimento, travolta dalla gioia. Innocenza. Poi c un nero. un piccolo coma. Davvero non ricordo nulla. Se mi sforzo, affiorano lentamente alcune immagini. La prima: siamo nudi sotto la lampadina che dondola appena nel soggiorno e ciascuno con una scopa in mano raccogliamo i vetri sparsi. In silenzio. La seconda: in bagno ci medichiamo. abbiamo molti tagli sul corpo e il sangue stenta a fermarsi. Non diciamo nulla. La terza: lalba, sento i merli cantare. La cucina sa di mastice, ceramiche posate il giorno prima e caff macinato di fresco. Laria cos leggera oppure sono io cos lieve che mi sento trasparente. evanescente. Sono... non oso pronunciare quella parola. ora la dico. Felice. Sono felice. Davide beve piano il caff bollente, gli occhi sulla ciotola a fiorellini. alza lo sguardo. Non vi leggo nessuna espressione. Solo calma, una calma infinita. mi sorride gentilmente e minuscole pieghe si formano attorno alle sue tempie. Questo lo sguardo di un uomo penso. Dice soltanto: buongiorno mamma.

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Dolore. Solo dopo anni sono riuscita a dare un nome alla cosa oscura che mi porto dentro. maledizione, malattia, gene ereditario, tara. Non lo so. Non importa pi. Si chiama dolore. Semplicemente. Non c stato giorno della mia vita trascorso senza che prima o poi non si insinuasse quella sensazione inspiegabile. Quanto pi mi sembrava di star bene, quando tutto apparentemente filava liscio, ecco allora scatenarsi lombra minacciosa della cosa. Sannunciava con un improvviso sudore freddo, un tremolio nelle dita, una vaga nausea e tutti gli odori sapevano soltanto di cipolla. Come ho odiato la cipolla, quanto lho odiata! bambina, colta alla sprovvista dalla cosa mi paralizzavo istantaneamente. Sembravo la bella addormentata nel bosco. mia nonna Lontine ero stata affidata a lei quando morirono i miei genitori in un incidente dauto andava su tutte le furie quando ero paralizzata dalla cosa. era sicura, assolutamente certa che io fingessi. bruci tutti i miei libri di fiabe anche quello di La Fontaine per mostrarmi il suo sdegno. Non mi far ricattare da una mocciosa isterica che si crede la bella addormentata! ripeteva inviperita.
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morta da pi di ventanni e fra noi non c mai stata confidenza. eppure penso che anche lei sia stata preda della cosa senza saperle dare un nome. Le capitava di non uscire di casa, a volte per giorni vivevamo in provincia nel Nord della Francia senza spiegazioni: si barricava, accostava le persiane come fossimo in Provenza sotto la calura di agosto, e percorreva avanti e indietro le stanze da basso senza fermarsi. In quei giorni non andavo a scuola e sul registro delle assenze lei scriveva, con la sua calligrafia minuta che derapava verso sinistra: La bambina stata costipata. Costipata. Detestavo quella parola, non ne comprendevo il significato ma avrei giurato che si trattasse di un insulto. mi ripugna tuttora. Verso sera, finalmente stanca, si sedeva, accendeva la radio sempre fuori sintonia, che gracchiava fastidiosa poi fingeva di rammendare. avevo imparato a non parlare, a non muovermi. respiravo la sua inquietudine che si mescolava alla mia. Continuava a simulare di rammendare calze di cotone grigio anche quando la stanza era gi priva di luce. osservavo i suoi occhi immobili sembrava non sbattere le palpebre privi di colore e di vita. Non avevo paura di Lontine ma della cosa che lei voleva tenere a distanza, oltre il giardino e il cancello di casa come fosse un vento devastante, foriero di veleni mortali. Prima che fosse totalmente buio si scuoteva. balzava ad accendere la lampada e si guardava attorno. Sembrava appena arrivata a casa dopo un lungo viaggio. mi scorgeva in fondo alla stanza che la luce non rischiarava del tutto e dopo essersi raschiata la gola mi chiedeva con voce stridula: avete fatto i compiti? Vi siete lavata le mani? Dov il gatto, lavete infastidito? Perch state in piedi l in fondo, cosa nascondete fra le mani? e spegnete quella radio!.
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Non rammentava le tante ore appena trascorse. Temeva la mia presenza, involontario testimone del suo malessere. mai, nemmeno quando sono cresciuta, ho chiesto nulla di quei giorni passati insieme; il segreto della nostra desolata convivenza non fu mai violato. a quei tempi credevo che il mio disagio fosse dovuto al fatto di aver perso pap e mamma in tenera et, poi pensai che fosse colpa di quella piccola, triste, umida citt di provincia, colpa della nonna, distante, malata, che mi vietava le amicizie, le gite, i balli, le vacanze. avevo uninfinit di ragioni per giustificare la cosa e questo finiva per rassicurarmi. Tanto che mi chiedo se non fossi andata incontro appositamente alle delusioni e alla sofferenza per poter continuare a credere che quel dolore fosse la giusta conseguenza di tutte le mie sventure. misi la parola fine allinfanzia con la mia prima fuga. avevo sedici anni. Scelsi un rappresentante di pizzicheria, un italiano. Si vedeva poca gente nuova nel nostro villaggio, sai. Girava con un camioncino rosa sul quale era dipinto un maiale con le gambe per aria. Si chiamava Dante, lui, litaliano, e sul furgone cera scritto Le saucisson de Dante. Difficile dire che quella fu una fuga romantica. Sta di fatto che non sono morta di fame lungo il viaggio fino a roma. La mia vita cambi radicalmente. Nel 69 roma viveva nei caff e sulle piazze fino a tarda sera. Cerano ancora i taxi neri panciuti con i due strapuntini ripiegati sui quali si appoggiavano i piedi, sul cruscotto incorniciata la foto di qualche santo protettore accanto a quella di una moglie con i bimbi. Destate, allinterno, aleggiava un odore di gomma surriscaldata mista a basilico. adoravo quei taxi e non
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di rado Dante mi offriva una corsa che terminava immancabilmente alla Casina Valadier. mi ero iscritta a belle arti e per pagarmi i corsi, o buona parte di essi, facevo la modella, a volte per i miei stessi compagni di classe. Dormivo nel retrobottega del magazzino di Dante. Non era cattivo. Spariva spesso per settimane in giro col furgoncino dipinto di rosa. mi appassionai allarte ma capii presto che avevo paura di dipingere. Senza perdere tempo mi specializzai in restauro e decorazione. Ho un ricordo gioioso di quegli anni, la cosa sembrava essersi scordata di me e io di lei. Lontine non mi cerc mai, per timore dello scandalo, presumo. raccont a tutti che ero in Italia per studiare, il che era assolutamente vero. Non dissi mai nulla di Dante. ogni tanto le spedivo una cartolina: il Colosseo, il Vaticano. Gli anni passarono. Finii per conoscere molti artisti. appena diplomata, alcuni amici architetti mi chiesero di far loro da assistente. arredai case a roma, a Sperlonga, al Circeo. Qualcuna in umbria. Lavorai anche, per la prima volta, sul set di qualche film a Cinecitt. bisognava essere svelti, pieni di risorse per montare e smontare ambientazioni il giorno stesso. mi piaceva lillusione della cartapesta, bastava la luce giusta per trasformare un pezzo di cencio di nonna in un sontuoso drappeggio. andai ad abitare in una piccola mansarda in centro con tre finestrelle ricavate abusivamente nel tetto. Dante era ormai lontano, nonna Lontine era morta. avevo ereditato la casa, le sue cose. Tornai solo per il suo funerale. Sapevo che nei bauli, in soffitta, erano custoditi documenti, fotografie, oggetti dei miei genitori, ma non me la sentii di aprire quelle ceste di vimini coperte di polvere che dormivano lass da tan12

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ti anni. avevo paura. Di loro. Di me. Chiusi la casa, il cancello del giardino, e rientrai a roma. Dovevo occuparmi dellarredamento di una villa in Sardegna. Il proprietario era un industriale della gommapiuma, un italoamericano. ricordo perfettamente il nostro primo incontro. mi aspettava nellimmenso living della sua villa seduto su un gradino di cotto che avrebbe fatto da sagoma a uno dei divani centrali. Non mi sent arrivare. Quel giorno soffiava un forte maestrale e potei osservarlo indisturbata. era vestito da ricco, da ricco di quegli anni: pantalone di fustagno con pince, cintura di coccodrillo, camicia fatta su misura con le iniziali ricamate sul petto, cardigan di cashmere con la zip e mocassini di pelle morbidissima. ma i colori, quelli dei calzoni, della camicia e del maglione, erano unoffesa allarmonia. Lo vidi passare lentamente, molto lentamente, un dito sulla cucitura del mocassino. una carezza. Sorrise beato. estrasse un fazzoletto di puro lino bianco e si soffi il naso. malgrado il forte vento mi raggiunse leffluvio: essenza inglese, introvabile in Italia. Non aspettavo lei, ma larchitetto boschi mi disse squadrandomi. ero pi alta di lui e non portavo scarpe coi tacchi. Ci rimase male. Lo rassicurai: boschi avrebbe seguito personalmente i lavori ma spiegai per rispettare i tempi della consegna prima dellestate bisognava decidere alcune cose subito. Per le stoffe, i mobili della cucina e i divani sui terrazzi ci sarebbero volute alcune settimane, forse di pi, poi cera il trasporto, la messa in opera sul luogo, i ripensamenti, le modifiche. avevo portato campioni di stoffe, iuta, corda, lino grezzo, tela da vela, prototipi di ceramiche locali craquel molto originali, pezzi di cocco con disegni a spi13

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na di pesce e listelli di gros con greche stampate nei toni bordeaux e petrolio. Parlavo, mostravo, spiegavo, chiedevo. aspettavo. man mano che il tempo passava il mio interlocutore perdeva sicurezza. Quanta scelta, lei ha troppe idee fin per dirmi. allimprovviso sembr terribilmente stanco. Io aspettavo, i campionari sfogliati dal vento. ero affamata. Forse mi sono alzata un po troppo bruscamente. Fatto sta che nello stesso istante Sam minetti si mosse anche lui e non so come, urtandoci, la mia clip anni Quaranta che avevo appuntata sul pullover si impigli nelle maglie del suo cardigan di lusso. Cazzo! ha esclamato irritato. Improvvisamente ci siamo trovati molto vicini. Per un attimo ho veduto i suoi occhi grigi, tristi. Poi, mentre cercavo di aprire la clip e non ci riuscivo, scoppiato a ridere. Non me laspettavo. Che facciamo? ha detto, la voce leggermente incrinata mentre cercavo ancora di divincolarmi. mi sono sfilata il golf. Sotto non indossavo niente. Lui continuava a ridere ma nei suoi occhi vedevo solo stanchezza. Ho sganciato la mia clip dal suo costoso maglione senza danneggiarlo e mi sono rivestita. Non rideva pi. Senta mi ha detto decida lei per larredo, anzi, sa cosa le dico? mi piacerebbe che scegliesse tutto, proprio tutto quello che piace a lei... come fosse casa sua. e quella stata casa mia casa nostra per un po, prima che nascessi tu, Davide. raccontami ancora di te, di lui. Davide si versa un po di caff e stringe la ciotola rimasta tiepida. mi sembra di raccontare la storia di unaltra, sai. Non sono io quella donna con la clip persuasa di essere libera.
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un raggio di sole, alto ormai, batte sul tavolo della cucina mettendo in risalto le ceramiche azzurre e bianche disparate che ho assemblato come un grande puzzle per farne un desco. Non posso fare a meno, ora, di considerare quel ragazzo, mio figlio, con un certo stupore. Ci sono voluti cos tanti anni per fare conoscenza. Non abbiamo mai vissuto insieme, io e lui, o quasi. Sono stordita come se avessi bevuto champagne. e questo leggero annebbiamento mi avvicina al fulcro della mia vita. mi sembra di essere me stessa per la prima volta, in grado di sentirmi perfettamente a fuoco. Ci che provo, sento, corrisponde a ci che sono. Non ho paura di Davide. Questa, stamattina, la rivelazione. e mi rammento del nostro ricongiungimento allaeroporto. mi si era fermato lorologio uno di quelli depoca, da collezione , non sempre sono affidabili, e quella mattina indossavo un Corum primi anni Cinquanta con la grata bentley. ero convinta di essere arrivata in ritardo. Poi, in mezzo alla folla che aspettava davanti agli arrivi internazionali, di colpo, nella ressa dei vacanzieri, mi resi conto che non avrei potuto riconoscere mio figlio. Proprio cos. Non sapevo nulla del suo viso. era alto, grasso, scuro o chiaro di capelli, aveva le efelidi del padre o la mia pelle ambrata? mi sono bloccata. Come avrei fatto per trovarlo, riconoscerlo? Non so se quello che ho provato fosse vergogna, senso di colpa, ansia. Forse tutto in egual misura. Comera possibile che non mi fossi informata prima? avrei potuto chiedergli una fotografia, accordarmi per scegliere assieme un segno di riconoscimento, un giornale, un fiore, non so. ero stata completamente incosciente, Davide era diventato un estraneo. ero davvero riuscita a cancellarlo dalla mia mente, dal mio cuore? Cosa non ero stata
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capace di fare per sopravvivere! Istupidita da questi pensieri ero rimasta immobile. a pochi passi da me cera uno strano tipo che svirgolava con dei pattini a rotelle. Faceva curiose acrobazie a met fra lequilibrista e il clown e indossava una maglietta bianca con sopra scritto in nero Io sono Davide e cerco Sarah sulla schiena. Istintivamente avevo alzato la mano ed esclamato a voce alta: Sono io, sono io la madre!. Davide sorride mentre mi abbraccia, mi stringe forte e mi dice allegro: Hi, mommy!. Di, dimmi ancora qualcosa, poi vado in paese a fare la spesa, ok? Hai gi fatto la lista? Ci vorranno nuovi bicchieri? Li compro io o li vuoi scegliere tu? Non c nessuna ombra sul suo viso, nessuna ambiguit. I bicchieri. Ha i capelli mangiati dallacqua di mare, molto pi chiari dei miei, le labbra ben disegnate, orlate di scuro. Il sorriso pi seducente che abbia mai visto. S, li sceglier io i bicchieri, so dove trovarli a Pienza. adesso non ho pi voglia di parlare. Desidero restare un po da sola. Prima di lasciare la stanza, sento le sue dita sui miei capelli, leggere, nemmeno una carezza. stato Davide a farsi vivo, a cercarmi. Io avevo finito per dimenticarlo come ci si dimentica di un chiodo in un arto dopo un intervento. Stremata da interminabili battaglie legali, pi di ventanni fa, quando Sam riusc a portarselo via.

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