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Il contesto

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DELLO STESSO AUTORE

Le transizioni
Pajtim Statovci

Gli invisibili

Traduzione di
Nicola Rainò

Sellerio editore
2019 © Pajtim Statovci and Otava Publishing House
2021 © Sellerio editore via Enzo ed Elvira Sellerio 50 Palermo
2009 © e-mail: info@sellerio.it
2009 © www.sellerio.it

Questo volume è stato stampato su carta Arena Ivory Smooth prodotta dalle Car-
tiere Fedrigoni con materie prime provenienti da gestione forestale sostenibile.

Statovci, Pajtim <1990>

Gli invisibili / Pajtim Statovci ; traduzione dal finlandese di Nicola


Rainò. - Palermo: Sellerio, 2021.
(Il contesto ; 122)
Tit. orig.: Bolla.
EAN 978-88-389-4229-7
1. Rainò, Nicola.
894.54134 CDD-23 SBN Pal0344383

CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana «Alberto Bombace»

Titolo originale: Bolla


Questo volume è stato pubblicato con il contributo di FILI-Finnish
Literature Exchange
L’editore rimane a disposizione dei proprietari dell’immagine di copertina
che non è stato possibile rintracciare.
Gli invisibili
bolla*

1. spettro, bestia, diavolo, essere invisibile

2. specie animale ignota, creatura simile al serpente

3. straniero

* Titolo originale del romanzo.


I
Dopo aver creato il mondo, dio cominciò a pentirsene.
Andò a trovare il diavolo, che gli chiese: «Cosa c’è che
non va?».
«C’è un serpente nel mio paradiso», disse dio.
«Ma guarda guarda», replicò il diavolo senza celare un
sorrisetto malizioso, schioccando le labbra e aspettando che
dio abbassasse la testa e chiedesse un favore. Proprio quel
che avvenne.
«Dammi la tua creatura, e farò quel che desideri; porterò
il mio serpente fuori dal tuo paradiso», disse il diavolo a
dio che si era inginocchiato davanti a lui.
«La mia creatura», ripeté dio.
«Sì, la tua creatura», disse il diavolo, e allora dio ri-
fletté.
«Va bene», disse infine, scoraggiato. «In cambio ti darò
la mia creatura».

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22 gennaio 2000

Ho visto uccidere un uomo, ho visto sulla strada il braccio


staccato di un soldato, sembrava un luccio cavato fuori dalla
terra, ho visto fratelli separati alla nascita, case bruciate ed
edifici crollati, finestre sfasciate, stoviglie rotte e roba rubata,
tanta di quella roba che non crederesti quanta ne rimane
quando la vita tutt’attorno è presa a calci, anche gli oggetti
muoiono quando vengono sottratti al loro proprietario.
Ho visto cose orribili, una cosa orribile dopo l’altra, ca-
daveri trascinati a riva come relitti, azioni orrende, mo-
struose, peccati imperdonabili, plotoni armati, un villaggio
intero coi piccoli e i loro genitori inginocchiati a terra, il
loro sacrificio, sapevo che ben presto nessuno sarebbe ri-
masto vivo, oggi porto tutto stampato nella mente,
l’espressione che aveva ciascuno di loro, la sensazione che
la fine imminente avrebbe reso il loro viso vuoto e rigido
come una bambola di porcellana, e sebbene si appoggiasse-
ro e si aggrappassero l’uno all’altro pisciandosi addosso e
pregassero di non sparare, si sfioravano l’un l’altro come
fossero l’uno all’altro estranei, gli uomini alle mogli e le
madri ai figli, e pressati l’uno contro l’altro si spintonavano
per allontanarsi, anche se uno si aspetterebbe il contrario.
Mi ha sorpreso vedere come vivere in un momento simile
fosse così antagonistico all’amore, una consapevolezza così
lucida della morte.

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Ho tenuto il cuore di un mio amico sul palmo della
mano, ho infilato le dita nel petto squarciato dai proiettili,
ho afferrato l’aorta lacerata, scivolosa come un’anguilla, ho
sentito le vertebre della colonna vertebrale contro le noc-
che come denti, ho riposato le dita sui sacchi polmonari
come su un cuscino bagnato.
Mi sono trovato sdraiato vicino a un uomo sparato nel
bosco, ero disteso al suo fianco, non ho potuto lasciarlo,
credimi che non ho potuto fare altro che vegliarlo perché
restasse in vita, e l’ho cinto con le braccia premendole so-
pra le bende, avvertendo ogni tentativo del suo corpo di
andare al ritmo consueto, i brontolii delle viscere e la pan-
cia che si induriva gonfiandosi di sangue, le confuse con-
vulsioni di ogni organo, come versi di un animale ignoto.
Così sono rimasto sdraiato accanto al ferito e dovettero
passare parecchie ore prima che ci trovassero, che ci ritro-
vassero in mezzo a quel bosco buio, come un capriccio
della natura, per poi portarci all’ospedale da campo dove
lo operai, rattoppai le sue budella scoppiate e gli amputai
una gamba incancrenita dal ginocchio in giù, e poi,
quando alla fine si riebbe, incredulo d’essere ancora vivo,
gli raccontai cosa era accaduto in quel bosco, allora mi
afferrò una mano e la baciò e pianse stringendomela, di-
cendo che si ricordava di me nel bosco, grazie aggiunse
poi, ti sarò grato per sempre, mi senti? Grato per il resto
di questa vita.

Qualche mese dopo, mentre ero in un altro posto in


qualità di medico militare, mi raggiunse una lettera di
quell’uomo cui ormai non pensavo più. Mi scriveva: Mi
hai baciato quella volta nel bosco, è così? Non è vero che
mi hai dato un bacio sulla bocca, e sul collo e le guance e
la fronte, mi hai baciato, e m’hai toccato quando credevi

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che dormissi, quando credevi che stessi morendo? Perché
io avevo tanto freddo da sentire il fuoco sulle tue labbra.
Non è vero che è andata così, che non è stato un sogno?
Lessi e rilessi quella lettera decine di volte senza arrivare
quasi mai alla fine, dove mi ringraziava di avergli salvato
la vita prima di tornare a ripetermi: Ti sarò grato per sem-
pre, per ogni mattino a venire, per ogni notte che vivrò. E
magari, aveva poi aggiunto, magari potremmo rivederci, e
rifare la stessa cosa, stavolta però entrambi svegli, mi è
piaciuto
no
scusami se
ti scrivo così
io vivo a Belgrado
nel caso volessi venire una volta
Ti aspetterò le settimane che vengono sotto la statua del
principe Mihailo, seduto sulla scalinata bianca ogni merco-
ledì e ogni sabato a mezzogiorno, avrò addosso una ca-
micia bianca e pantaloni neri, mi riconoscerai dal lembo
svolazzante dove una volta c’era la gamba che mi hai tolto.
Così mi scrisse, ma io non andai mai a trovarlo, anche
se una volta fui sul punto di farlo, trovandomi a Belgrado
di passaggio, ma non ci andai, perché non volevo
baciarlo mai più, certo che no, uno senza una gamba,
chi mai lo farebbe, toccare un mutilato.

Poche settimane dopo aver ricevuto quella lettera mi


scrisse suo padre, mi informava che suo figlio si era sparato
un colpo di pistola in bocca, e nella busta c’era anche l’in-
vito a prendere parte al funerale. Per diversi giorni mi ri-
trovai a fissare quella lettera, la tiravo fuori dalla tasca in-
terna della giacca ogni sera, a volte anche di mattina. Puz-
zava di fumo, e aveva un sentore acre, insieme di cartone

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marcio e di plastica bruciata, che aleggiava ovunque, mi si
attaccava ai polpastrelli per poi propagarsi a tutto il brac-
cio, e da lì mi risaliva in bocca mentre mi lavavo i denti,
fino ai vestiti da cui non andava via nemmeno lavandoli
con l’aceto, fino a quando non buttai via la lettera come
fosse opera di un mostro, dicendo a me stesso sono un me-
dico, sono un medico, sono un chirurgo, io aiuto la gente

Dopo i funerali il padre mi scrisse nuovamente: «So tut-


to, sai di cosa parlo, nemmeno un albanese lo farebbe».
Era la stessa carta da lettere e il suo odore mi seguiva
dappertutto, restandomi attaccato alla pelle anche dopo la
doccia, dopo aver cambiato tende e coperte, mi seguiva dal
panettiere, sul tavolo operatorio, nei viaggi da Belgrado a
Kamenica passando per Gradnja. Lì mutò in una pioggia
scrosciante che durò per giorni: l’acqua riempì le grondaie
e gli scarichi e serpeggiava iridescente ai bordi delle strade,
sommergendo fiori, distese d’erba e muschio, strappando
cartelli e recinzioni, distruggeva l’asfalto per poi insinuarsi
nelle abitazioni, impetuosa, salendo
fino alle ginocchia

«Porterò a compimento quel che non ha potuto mio fi-


glio: occhio per occhio, sto arrivando, frocio maledetto».
con queste parole terminava la lettera puoi immaginare
quanto poco ci mancò che io

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Pristina 1995

La prima volta lo noto mentre attraversa la strada. A


colpirmi è quella testa china che resta quasi immobile
anche quando supera un incrocio congestionato; poi il
corpo esile che due gambe sottili si tirano dietro. La riga
in mezzo fa sì che i capelli spiovano come le ali di una
cornacchia, e intanto si tiene una pila di libri stretta al
petto con una mano. L’altra, a momenti, sembra abban-
donata dietro, a volte sul fianco, poi se la infila in tasca
e si tira su i jeans attillati di velluto rosso.
Quando mi siedo al tavolino in ombra davanti a un
bar, lui avanza verso di me col sole sulla nuca, un uomo
nel corpo di un adolescente, ed ecco che per un attimo
lo vedo da vicino, colgo la vibrazione dei suoi occhi
mentre mi passa accanto, le tasche rigonfie, la peluria
delicata sulla nuca e le braccia rasate, ed ecco che si
ferma davanti allo stesso bar deserto, resta per un attimo
in piedi accanto a un tavolino dall’altra parte, mi si è
spenta la sigaretta, mentre lui ha un’aria imbarazzata,
come consapevole di essere osservato. Si abbandona con
tutto il corpo a uno sbadiglio, che presto affoga con un
lieve sbuffo dentro il pugno più timido che io abbia mai
visto, poi la mano sollevata si apre, con la lentezza di
un fiore, davanti alla bocca, e solo allora posa i libri sul
tavolino e si mette a sedere.

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Sono i primi di aprile, e io non riesco a staccargli gli
occhi di dosso. Ha un’aria spaventata, spaesata, come
vivesse un sogno sgradevole, seguendo ritmi e leggi
estranei a tutto ciò che lo circonda, e nella postura e
nei gesti – nell’attenzione con cui apre un libro quasi
temendo di gualcirne la copertina, nella cura con cui
estrae la penna dal taschino quasi fosse un frammento
di cristallo, nel vezzo di toccarsi costantemente le tempie
e socchiudere gli occhi come per dare un’impressione
di concentrazione, anche se ho il sospetto che cerchi
soltanto di impedirsi di guardare attorno – in tutto ciò
c’è qualcosa di rivelatore, un che di selvatico, inspiegabile
ed eloquente al tempo stesso.
Mi alzo e mi avvio verso di lui, non so da dove mi
venga questo coraggio, ma sento la necessità di conoscerlo
più da vicino.
«Zdravo», lo saluto in serbo.
«Ciao», mi risponde con una voce squillante, che nel
tono mi ricorda mia moglie, lo sguardo posato sul libro
aperto sul tavolo, stampato in caratteri così fitti e minuti
che non ne riconosco la lingua.
«Posso sedermi qui?», domando, ed estraggo una sedia
da sotto il tavolo.
«Certamente», mi fa lui, lanciando un’occhiata tut-
t’attorno, poi annuisce, indica la sedia e mi guarda negli
occhi, ed io penso quanto enormemente, miracolosamente
bello sia quell’uomo, le iridi come un cielo che minaccia
temporale, la barba in ordine che si intona ai capelli
rossicci ben curati, la schiena alta come quella di un de-
striero e il viso ben proporzionato e attraente, ed io che
non so quanto tempo sia passato dalla sua risposta,
quanto tempo sia rimasto a fissare lui, e lui me, come
amici che non si sono visti per decenni.

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«Arsim», gli dico, e gli porgo la mano.
«Miloš», mi fa lui, e me la stringe con le sue dita
fredde e ossute. «Piacere di conoscerti», aggiunge, e io
lascio la presa e mi sciolgo in quegli occhi tristi e maturi,
dalle palpebre pesanti e rugose.
L’ora successiva mi sembra l’ora più naturale che abbia
mai vissuto prima. Ordiniamo il caffè, abbassiamo il
tono della voce e poi, quando noto che i suoi libri sono
in inglese, cambiamo lingua. Come una cosa naturale.
Parlando inglese non siamo né albanesi né serbi, ma dei
fuorusciti, pagine strappate di un romanzo.
Vengo a sapere che ha venticinque anni, uno più di
me, studia medicina all’università di Pristina, intende
con ogni probabilità specializzarsi in chirurgia, e proviene
dalla cittadina di Kuršumlija al di là del confine, trenta
chilometri a nord-est della mia città natale Podujevo,
che a sua volta si trova trenta chilometri a nord-est di
Pristina. Oltre alla madrelingua e all’inglese parla cor-
rentemente tedesco e un po’ di albanese.
Anch’io racconto di me le solite cose che si dicono al
primo incontro, la mia età e il paese d’origine, che mio
padre, insegnante di inglese, mi ha trasmesso l’interesse
per le lingue e che spero prima o poi di diventare un
insegnante di letteratura o il correttore di bozze di qual-
che giornale, e mentre parlo avverto il suo sguardo che
aderisce alla mia guancia, la maniera in cui controlla
ogni mio minimo movimento, la schiena curva e la testa
piegata, e vedo che ascolta concentratissimo come cer-
cando di mandare a memoria tutto quel che dico.
Gli racconto che studio anch’io all’università, lette-
ratura, storia e inglese, o perlomeno vi studiavo, e mi
sembra imbarazzante dirlo, dato che l’università cui
mi sono iscritto anni fa non è più la stessa di quella in

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cui studia lui, e dove più o meno nello stesso periodo
abbiamo iniziato i nostri studi.
Bevuto il caffè restiamo lì a guardarci per un po’, e
tutto sembra vero e reale, a differenza di quello che in-
vece Pristina è diventata, le strade invase dalle truppe
serbe coi fucili d’assalto, file di carri armati e veicoli
militari che sembrano arrivati dallo spazio.
Mi sorride, sorrido anch’io, ciò che in quel momento
lasciamo intravedere di noi non spaventa nessuno dei
due, perché dovevamo incontrarci, penso, forse lo pensa
anche lui, e siamo finiti in questo caffè nello stesso mo-
mento per un motivo.
A un certo punto lui chiede al cameriere il conto,
paga anche il mio caffè e mi dice che deve fare un salto
in biblioteca prima della lezione successiva.
«Vuoi venire con me?», mi domanda.
In biblioteca non avrei nulla da fare, ma gli dico che
lo seguo senz’altro, così facciamo insieme un pezzo di
strada, poi attraversiamo e arriviamo al campus, proce-
diamo sul prato dove gli anni hanno corroso le lastre di
selciato grigio, saliamo diverse scalinate fino all’ingresso
di un edificio che pare avvolto in un reticolo ed entriamo
in un’aula ampia invasa dalla luce come le fauci infuocate
di un mostro arcaico. Il pavimento è un mosaico fastoso di
marmo, mentre dalle pareti pendono corone di bronzo
che ti fissano con sguardo vigile, come gli occhi degli dèi.
Procede avanti di un passo, ed ecco che in quel mo-
mento lo afferro per la spalla, con un gesto folle, nell’atrio
della biblioteca, proprio così, una cosa per me innaturale,
del tutto inconsapevole, in mezzo alla folla che si riversa
fuori dell’edificio, nel pieno di un pomeriggio che va
facendosi più caldo e appiccicoso, quant’è vero iddio io
lo tengo stretto, e lui si ferma, e appena un attimo dopo

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gira la testa, guarda prima di tutto la mia mano sulla
sua spalla, le mie dita strette sull’arco della clavicola,
poi guarda me, e nel volgere di quell’attimo io sono
un’altra persona, così vivo, mi dico, così vivo non lo
sono mai stato.
Lui è un serbo, e io un albanese, e per questo do-
vremmo essere nemici, ma ora, mentre ci tocchiamo, fra
noi non c’è nulla di insolito o di estraneo, ed io ho la
sensazione netta che noi due, noi non siamo come gli
altri, e questa sensazione si fa sempre più intensa, sempre
più indiscutibilmente chiara, è come venisse dall’alto,
un messaggio indirizzato a me; per noi non conta quanti
ci guardano sconcertati o ci chiedono di non intralciare
il passaggio, o quanti ridacchiano superandoci, forse per-
ché non siamo in grado di modulare parole per loro, e
nemmeno per noi stessi.
Quando poi mi chiede se mi va di rivederci la settimana
dopo nello stesso caffè verso mezzogiorno, e sul volto si
lascia sfuggire un accenno di sorriso che cerca immedia-
tamente di frenare come una risata inopportuna alla quale
io replico con il mio sorriso dicendogli vediamoci la setti-
mana prossima, stesso caffè, ho la sensazione che la mia
vita sia divisa in due, quella prima di lui e quella dopo, e
che la vita fino ad oggi sia appena un dettaglio insignifi-
cante, superato come una bugia innocente escogitata in
un momento di necessità.
È l’inizio di aprile, e voglio quell’uomo con tale de-
terminazione e lucidità che per tutto il resto della giornata
me lo ritrovo nelle preghiere in cui, senza pudore, lo
chiedo a dio stesso.

Quella sera mia moglie mi serve una zuppa di fagioli,


peperoni fritti conditi con la panna, feta, pomodori, ce-

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trioli e salsa ajvar. Mentre sto mangiando mi si para di
fronte, con un’aria preoccupata, come se trattenesse il
fiato o si trovasse in una compagnia imbarazzante.

L’avevo sposata che ero giovane, all’inizio dell’estate


di quattro anni prima, appena ventenne, figlio unico,
seguendo il consiglio di mio padre che in seguito morì
per una malattia al fegato; lei era una ragazza eccezionale,
ubbidiente e di poche parole, intelligente nonostante la
mancanza di istruzione, abile con le mani, di buone ma-
niere e di famiglia rispettabile, così mi era stato garantito,
non avrei potuto trovare una moglie più rispettabile e
una madre più straordinaria di Ajshe.
E io, davanti all’ultimo desiderio di mio padre, dissi che
l’avrei presa senz’altro in moglie, se suo padre mi garantiva
che Ajshe avrebbe confermato quelle aspettative. E quando
anch’io promisi a suo padre che sarei stato una persona
d’onore e di fiducia, quando garantii che non ero un tipo
violento, che non avrei mai commesso adulterio, che non
avrei mai puntato un dinaro nel gioco d’azzardo e non mi
sarei mai attaccato alla bottiglia, perché, come mio padre,
conoscevo il valore dell’educazione e stavo per iscrivermi
all’università, allora potei sposarla.
Ci sposammo semplicemente per il fatto che è meglio
vivere con qualcuno piuttosto che restare soli, perché
un uomo deve avere una donna accanto, e anche per
una donna è bene che abbia un uomo al suo fianco, e
perché un uomo, specialmente uno come me, deve ri-
prodursi e avere una discendenza, è quello che conta,
generare almeno un figlio maschio cui lasciare casa,
terra e denaro.
Il nostro fu un matrimonio tradizionale, lei si preparò
per settimane, mise insieme il corredo e disse addio alla

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sua vita precedente, mentre io feci in modo di farle
spazio in casa augurandomi che andasse d’accordo coi
miei genitori. Sarebbe stato difficile se Ajshe si fosse
rivelata ostinata, restia a farsi dare consigli, o se mia
madre si fosse mostrata intollerante o avesse storto il
naso per la maniera in cui la nuova arrivata sbrigava le
faccende domestiche.
Fu così che la accompagnarono a casa mia. Il giorno
delle nozze era straordinariamente bella, silenziosa
come un arazzo, quasi una sordomuta, come del resto
si conveniva, il suo abito da sposa con ricami dorati
sembrava fatto di carta velina pieghettata spolverizzata
di lustrini, e quando giacemmo insieme quella notte il
suo respiro si fece affannoso solo poche volte, anche
se aveva perso sangue, anche se vedevo quanto per lei
fosse doloroso.
Dopo aver fatto la doccia, dissi ad Ajshe che durante
le nozze mi era sembrata di una bellezza straordinaria,
che in vita mia non avevo visto una donna più bella e che
ero felice della nostra unione, e anche lei disse di sentirsi
fortunata e orgogliosa che proprio io fossi suo marito e il
padre dei figli a venire, poi ci addormentammo, io abban-
donato a un sonno inquieto, lei stremata dal dolore.
«Prometto di prendermi cura di te, di essere il tuo
braccio destro, la tua roccia», declamò Ajshe la mattina
dopo come intonando un salmo, mentre infilava ai lobi
delle orecchie gli orecchini a forma di cuore che le avevo
regalato, e nelle sue parole non c’era la minima preoc-
cupazione per l’avvenire, nessuna traccia del dolore della
notte appena trascorsa.
Mio padre morì due mesi dopo il nostro matrimonio.
Era malato da tempo, e nelle ultime settimane era arrivato
ad una debolezza estrema, ma di buono nella sua morte

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c’era questo: aveva fatto in tempo a vedermi insieme a
una donna come Ajshe.
Lei si era dimostrata, con mio grande sollievo, esat-
tamente come mi era stato garantito. Una donna paziente
e comprensiva, la donna col cuore più grande che cono-
scessi. Una che sa ascoltare e dare coraggio, senza mai
opporsi né a me né ai miei, e quando le dissi che un
giorno avrei scritto un libro ambientato nel passato, una
storia di guerra, sull’umiliazione subita dagli albanesi
nei secoli, la storia d’amore più sconvolgente di sempre,
lei mi disse:
«Chi mai sarebbe in grado di scrivere libri se non un
uomo come te? Dimmi solo cosa posso fare per esserti
d’aiuto».
È orgogliosa di me come se fossi già quello che sogno
di essere, uno scrittore le cui parole sono state immor-
talate sulle pagine di libri e riviste. Dice cose del genere
senza rendersi conto di quanto tempo e sforzi richieda
un lavoro come questo.
Quando mia madre, due anni fa, si ammalò di cancro,
Ajshe si prese cura di lei: la lavava, le cambiava i vestiti,
la imboccava, le teneva compagnia dandole ascolto, e
riusciva a preparare dei piatti sempre più appetitosi, per
quanto di denaro ce ne fosse poco, dato che, per via
dei miei studi, riuscivo a lavorare solo occasionalmente
come cameriere in un ristorante di Pristina.
Morta mia madre, vendetti la casa a un parente per
acquistare un appartamento vicino al centro di Pristina,
per essere più vicino all’università, fare a meno dell’au-
tomobile e risparmiare tempo negli spostamenti. E poi
volevo allontanarmi dalla terra dei miei, dove le invidie
e l’abitudine di parlare alle spalle, tipiche della gente di
paese, non mi erano mai andate a genio.

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Dalla nostra casetta di tre piani, magnificamente te-
nuta, passiamo a un bilocale fatiscente in un condominio
di Ulpiana. Dove ad Ajshe tocca trattenere il fiato ogni
volta che io devo studiare, o scrivere, o riposare. Sebbene
il suo sogno fosse di vivere in una casa grande, tirare
su i bambini in un ambiente tranquillo, curare il giardino
e l’orto e allevare qualche bestiola, non se ne è mai la-
mentata. Mi seguirà sempre, ovunque io vada.
A volte penso a quanto io sia fortunato ad avere una
moglie con un carattere del genere, soprattutto quando
sento da certi miei conoscenti le storie delle loro mogli,
storie di donne arrivate in casa a infrangere la pace do-
mestica entrando in conflitto coi suoceri, facendo vergo-
gnare il marito con continui rimproveri, o rifiutandosi di
compiere il dovere di curare la casa e tirare su i figli.
Altre volte penso di non essere degno di lei – quando
facciamo l’amore, per esempio, e vede che faccio in
fretta, fingendo di venire, senza eiaculare, e come evito
che mi tocchi, che mi sfiori – e sprofondo nel dolore
quando capisco che lei è fin troppo buona per me, per
vivere con me questa vita.
La cosa peggiore è sapere che Ashje non oserebbe mai
dirmi che vorrebbe vivere in modo diverso da come io
ho deciso. O forse no, ancora peggio è il fatto che il ri-
spetto reciproco è diventato tra noi una gara che io perdo
ripetutamente.
Quell’attaccamento che lei ha per me, quell’amore che
da lei promana, mi chiedo spesso, sarò mai in grado di
ricambiarli?

Quella sera, seduti l’uno di fronte all’altra al tavolo


di cucina, Ajshe pronuncia il mio nome in un modo mai
usato prima. La voce è così bassa, flebile, che quasi in-

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tuisco cosa stia per dirmi, e lei pure sa quanto io tema
quel che sta per annunciare.
«Sono incinta», prosegue, abbassando gli occhi, poi
risolleva lo sguardo su di me, infine torna ad abbassarlo
incrociando le mani sul tavolo.
«Ne sei sicura?», chiedo, mentre metto giù il cuc-
chiaio.
Perché un bambino dovrebbe arrivare proprio adesso,
mi domando, perché non poteva venire prima, quando
a casa avevamo abbastanza spazio e ci dicevamo che era
il momento buono per il nostro primogenito.
«Sicura», mi dice scandendo la parola, «non potevo
dirtelo prima perché non ne ero certa. Sono stata dal
medico oggi, scusa se non te l’ho detto, ma volevo capire
perché avessi la pancia così agitata ultimamente, e mi
ha detto che la gravidanza è già abbastanza avanzata
anche se le mestruazioni sono arrivate regolarmente, e
che il bambino nascerà a luglio».
Rimaniamo in silenzio per parecchio tempo, fissan-
doci negli occhi; qualsiasi suono o movimento ci sem-
brerebbe inappropriato.
È lei per prima a distogliere lo sguardo spostandolo
sulle stoviglie, sulle pareti, fuori della finestra, guarda
qualsiasi cosa eccetto me. Poi succede qualcosa, non so
dire cosa mi sia preso, ma mi alzo come strappato via
dalla sedia, faccio pochi passi per avvicinarmi a lei che
ha l’aria di restare del tutto indifferente, un’estranea.
E allora la colpisco sulla guancia, per la prima volta,
un manrovescio con tutta la forza che ho.
La sua testa, sotto la potenza del colpo, oscilla come
una palla da boxe, emette un gemito soffocato, poi quan-
do con gli occhi chiusi mi chiede scusa, capisco che esiste
una violenza che ne richiama altra ancora.

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La notte dormiamo in stanze separate. Mi distendo
chiedendomi se si tratti del giorno più bello o più triste
della vita per entrambi.

La settimana dopo lo rivedo. La mattinata è stata ug-


giosa, la primavera cerca di prendere piede, liberandosi
con grande fatica di quel che resta dell’inverno, come
una tartaruga rovesciata sul dorso. Ogni giorno in città
sembra più inquietante e minaccioso del precedente, e
le persone sono sempre più irrequiete, persino gli edifici
stanno come in punta di piedi.
È seduto allo stesso tavolino nell’identica scomoda
posizione, con davanti una tazza di caffè, due piccole
mele e un succo di frutta. Avanzo senza esitare e mi
metto di fronte a lui, che, accortosi della mia presenza,
prende una mela e la morde.
«Ciao», gli dico sedendomi.
«Ciao», mi fa lui, e sorridendo posa la mela sul tavo-
lino.
Ordino un caffè macchiato. Poi mi accendo una siga-
retta e faccio oscillare irrequieto la gamba sotto il tavolo
mentre lui sgranocchia la mela.
«Come va?», mi domanda quando arriva il cameriere
col caffè.
«Bene. E tu?», gli faccio poco dopo, e mi accorgo
che sto fissando la sua bocca.
«Bene», risponde, e si lecca il labbro inferiore.
Restiamo per un po’ senza parlare, ma in quel silenzio
non c’è alcun imbarazzo. Faccio caso alla sua maniera
di appoggiare la schiena alla sedia, alle vene in rilievo
sulle braccia, alla sua speciale postura con le gambe in-
crociate, agli zigomi alti e alla pelle del collo, come pane
secco, al bacino piccolo e tondo come quello di una ra-

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gazzina, alla sua maniera curata e attenta di parlare,
come scandendo pensosamente ogni sillaba, a quanto
siano bianchi i suoi denti, a quel solco che gli si apre
sul viso angolare, quando sorride, disteso.
Comincio a parlare di ciò che mi passa per la mente,
delle mie notti insonni, del libro che sto leggendo, di
quanto negativo e dannoso per tutti sia il fatto che il
governo serbo abbia cacciato via dalla scuola insegnanti
e studenti albanesi, del mio lavoro part-time in un ri-
storante di proprietà di un serbo, non tanto lontano
da qui, dei clienti che ordinano semplicemente un caffè
e occupano un tavolino per ore, e di quanto io sia
deluso dal presidente Rugova, dal suo costante ripetere
le stesse cose giorno dopo giorno, chiedendo agli albanesi
di avere pazienza, avere pazienza e basta, deluso dai
corsi che attualmente seguo dove capita, in abitazioni
private di albanesi, in magazzini e locali commerciali
e scantinati vuoti, e da quanto tutto questo risulti umi-
liante, e lui mi fa un sorriso di simpatia, come ci co-
noscessimo da sempre, per poi raccontarmi più in det-
taglio dei suoi studi alla facoltà di medicina, del suo
monolocale a pochi isolati di distanza dal campus, dei
suoi lavoretti estivi, anche lui in qualche ristorante, e
intanto lascia vagare spudoratamente i suoi occhi sul
mio corpo – mi guarda le mani e le spalle, il collo e il
petto, i fianchi, mi osserva le labbra e la fronte, allo
stesso modo in cui io osservo tutto di lui, tanto che
qualsiasi momento in cui stiamo insieme senza sfiorarci
ci sembra un attimo rubato.
«Vuoi che andiamo via?», mi interrompe a un certo
punto.
«Sì», gli rispondo immediatamente come un animale
affamato.

28
«A casa mia, intendo», mi sussurra.
«Sì», rispondo, e mi alzo.
Dal caffè passiamo alla strada, e tutto d’un tratto ho
paura, ho come la sensazione che l’intera città ascolti i
miei pensieri, sappia dove stiamo andando e perché.
Superiamo una sartoria, un’edicola dove un ragaz-
zetto con un berrettino in testa sta fumando, un ri-
storante chiassoso davanti al quale, a un tavolo al-
l’aperto, quattro soldati serbi scrutano tutto attorno
con aria arrogante, e poi superiamo una bottega con
la merce in vendita sul marciapiede e raggiungiamo il
suo condominio, e lui fa appena in tempo ad aprire il por-
tone della scala e richiuderlo che io gli sono già av-
vinghiato – nel vano delle scale buie, in mezzo ai rifiuti
e ai mozziconi di sigaretta per terra, la puzza di piscio,
e contro la parete marmorata di un lerciume incancel-
labile lo bacio.
Le sue labbra sono dolci come la frutta fresca, riesco
a percepirlo nonostante tutta la mia frenesia, la mia
voglia di vederlo nudo, e allora lui mi trascina su per
le scale nel suo appartamento, dove facciamo l’amore
come bestie, ci strappiamo i vestiti di dosso, mi bacia
e mi tocca dappertutto, ed io lo bacio ovunque, senza
freni, senza alcun ordine o senso; come cercasse di
sottrarsi alla mia presa, gli serro i polsi sempre più
forte, come se non fosse reale, come se il calore del
suo corpo non fosse genuino stringo il mio busto al suo
sempre più forte, e per quanto lui si conceda io lo
strattono come in preda a un maledetto furore, annuso
lui e l’aria tra di noi, l’odore di sale sulla sua pelle,
contemplo il suo corpo snello, i fianchi da cui spuntano
le ossa come pennellate giallognole, il corpo liscio ap-
pena rasato. Gli infilo un dito fra le natiche, e la

29
lingua là in mezzo, poi ancora nella sua bocca, pre-
mendogli la testa sul cuscino. La sua carne cede alle
mie mani come un morbido impasto. Sono io a decidere
cosa fare, e a lui va bene così.
Un attimo dopo ci ritroviamo fianco a fianco sul letto
sudato ed io mi sento al tempo stesso pesante e leggero
come un respiro, provo sensazioni di colpa e di gioia in-
sieme, e l’una non esclude l’altra, e non ho quasi nessuna
vergogna, anche se lui ha un’aria svuotata e inanimata.
«Sei così bello», mi dice scoppiando a ridere, poi si
mette a sedere e allunga la mano verso i pantaloni,
tirando fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette e un
accendino.
«Grazie», dico io. «Anche tu sei... bello».
Dapprima si mette una sigaretta tra le labbra, poi me
ne offre una, e le accende nello stesso ordine. Dopo il
primo tiro sono sul punto di dirgli, come una cosa nor-
male, che è ora che si rivesta, quando lui di sua iniziativa
mi appoggia camicia e mutande in grembo e comincia a
vestirsi, sempre con la sigaretta in bocca.
Guardo l’appartamento, dove c’è un angolo cucina
senza nessun piano d’appoggio, la porta socchiusa nel-
l’ingresso conduce a un bagno con un lavello ingrigito e
piastrelle giallastre crepate, nella stanza un letto matri-
moniale, un tavolino per due, un mobiletto sghembo
per la tivù, bianche pareti nude e una moquette blu con-
sumata su cui sono scivolate le lenzuola che conservano
ancora le nostre forme.
Sono stato a letto con un uomo, il pensiero mi ronza
per la testa, sono stato a letto con un uomo, mi vado
ripetendo, e sorrido, con una sensazione più piacevole
di quanto immaginassi nelle mie fantasie più sfrenate,
una sensazione assurda, assurdamente bella.

30
Finisco la sigaretta, mi rivesto in fretta e lascio l’ap-
partamento con un cenno di assenso alla domanda che
lui mi lancia dal letto con una specie di smorfia:
«Ci vediamo domani? Qui, dopo mezzanotte?».
Mentre attraverso a piedi il centro sento come muoversi
la terra sotto i miei piedi, si solleva lentamente al ritmo
dei miei passi come rovine che si levano da un sogno, e
osservo con una calma sorprendente i bambini di fronte
a Boro Ramiz che si rincorrono, tirano calci al pallone
e litigano – ma poi dalle parti del teatro sono talmente
agitato che quasi inciampo nei lacci delle scarpe e sto
per finire sotto un autobus, e mi fermo al chiosco per
comprare una barretta di cioccolata e delle gomme da
masticare che mi ficco in bocca.
Arrivato a casa dico ad Ajshe che è il momento peg-
giore per cambiare vita, e lei annuisce.
«È proprio così», mi risponde, e si accarezza la pancia.
Di notte mi sveglia la pioggia. Rovesci violenti sferzano
strade e tetti, inzuppando la ghiaia e la polvere sul ter-
reno, trascinandole via in rivoli scuri, prima di riversarle
nelle fogne, lontano dalla vista.

31
27 febbraio 2000

Ti sei mai chiesto cosa sarebbe potuto essere di me e di te,


quanto saremmo potuti essere felici, in un altro momento,
in un altro luogo, chissà. Ci penso di continuo, qui altro
non ho che tempo per riflettere e scrivere e riflettere su cosa
scrivere, e per questo mi hanno dato questo taccuino.
C’è chi dice che l’essere umano resta uguale a se stesso
tutta la vita, ma qui ho compreso che diventare un altro è
una cosa da niente, è un gioco da ragazzi, uno schiocco
delle dita, nient’altro che una questione di volontà, capa-
cità di tenere chiusi gli occhi, immaginazione, determina-
zione nell’andare oltre i ricordi spiacevoli, superare l’onda
lunga soffocante del passato per ritrovarsi sulla via maestra
in un paesaggio rinnovato, l’aria pregna del domani.
Le mie fantasie sono meravigliose, mi fanno commuo-
vere, perché fantasticando non ci si guarda indietro, né di
lato, ci si guarda l’un l’altro, e sono così fiero e deliziato
di noi due che desidero spezzarmi a metà come un baston-
cino – è mai possibile essere così felici, mi chiedo allora, e
pormi quella domanda significa sempre che sei così vicino
che posso sentirti e annusarti quando mi pare, che non te
ne andrai da nessuna parte, ed io nemmeno.
È in queste fantasie che ti rivedo, e tutto ricomincia
daccapo, tutto ciò che tra noi è accaduto, o non è accadu-
to, non conta niente, e lì non c’è cognizione del tempo, né

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terreno che non ti sostenga, né guerre né credenze né gente
che ci possa spingere allontanandoci l’uno dall’altro, ma
c’è una casa e un giardino vicino alla spiaggia, e sabbia e
un boschetto e un prato liscio, e continuamente sale alle
narici il profumo dell’erba appena tagliata, e dalle finestre
si vede il mare, fin dove giunge lo sguardo.
A volte mi tormento e immagino di coprire il paesaggio di
una nebbia che si addensa sul mare, e cade acqua a catinel-
le, e attorno a noi infuria una tempesta, e a quel punto tu ti
avvicini a me perché anche tu hai paura che la casa da noi
costruita vada in rovina, che la tempesta si porti via tutto.
Ma poi, proprio quando il cielo sta per diluviare, io al-
lontano le nuvole della pioggia e con le forbici taglio il
vento, e tu mi sei davanti vivo, così terribilmente vivo pro-
prio davanti a me, che posso percepire l’odore della tua
bocca asciutta e dei capelli bagnati, e il conforto nei tuoi
occhi, e questa è la cosa più bella, quando la tua tensione
si allenta in un abbraccio, in un bacio infinito.
Qui cerco di non farmi travolgere dalla disperazione,
che non serve a niente e a nessuno, e soffrire, non importa
quanto, non ci restituirà l’uno all’altro. È sbagliato, per
questo preferisco vivere nella menzogna piuttosto che pro-
strato dalla verità.
Ci sono giorni che sono abbastanza contento – di buon
umore, sveglio e creativo – e immagino qualcosa di nuovo
sul nostro conto, che tu hai pubblicato un libro, in cui
parli di noi come si conviene, che vieni a dirmelo con
l’entusiasmo di un ragazzino, ed io sono appena tornato a
casa dalla clinica e posso dirti che lo sapevo, sapevo che
questo giorno sarebbe arrivato, e quanto tu sia in gamba, e
mentre ti abbraccio con slancio riesco a dirmi tra me e me
che sei mio, mio, sei sempre mio, tu sei mio e nessuno può
strapparti a me.

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Oppure immagino che leggi un libro sul divano, concen-
tratissimo come sempre, e non mi ascolti mentre parlo di
cose banali, quante uova vorresti o se è il caso di cambiare
le lenzuola oggi, tu non mi stai a sentire, ed io trovo affa-
scinanti te e il tuo libro.
Poi riesco a immaginare che arrivi a casa ed io non ti ve-
do, me ne accorgo soltanto quando mi afferri da dietro e il
tuo respiro sul collo mi fa venire la pelle d’oca, e allora mi
volto ed eccoti lì, solido come una colonna di granito e così
incredibilmente bello, come un temporale estivo nel cuore
dell’inverno, come uno stagno ghiacciato in mezzo a un de-
serto, qualcosa di così meraviglioso e straordinario che è im-
possibile esprimerlo a parole, e poi con la tua potenza affa-
bulatoria mi dici quello che una volta mi hai letto dal tuo
libro, dici che mi ami tanto e sei così felice che ti fa male,
ricordi quant’era ruvido l’amore in quel libro, «I love you
so much it hurts» e «I am so happy that I can’t breathe»,
c’era scritto qualcosa del genere, me lo ricordo sempre per-
ché c’era qualcosa di talmente doloroso e consolante, amare
qualcuno tanto da non riuscire a respirare
può essere davvero così?
Ma poi sento anch’io la stessa cosa, una motosega nella
pancia, una ferita d’arma da fuoco nel polpaccio, la gala-
verna sul petto che avvampa.
«so much it hurts so happy that I can’t even breathe»,
non è così?

34
2

Pristina 1995

Passiamo più tempo insieme che ciascuno per conto


proprio. Vado a casa sua a tarda notte, lui lascia un
pezzo di cartone a tenere l’uscio socchiuso. Abbando-
niamo l’appartamento in momenti diversi, dopo aver
controllato, orecchio alla porta, che non ci sia nessuno
nel vano scala.
Anche se di lui so sempre più cose, le poche ore di
sonno, la dieta povera, l’inesauribile capacità di concen-
trarsi, la tendenza a dare sempre risposte positive, su
tanti argomenti tuttavia è reticente, della sua famiglia e
dell’infanzia mi racconta ben poco, e io non insisto a
fare domande, e nemmeno di me gli dico più di tanto.
Il tempo che stiamo insieme è all’insegna del silenzio,
con le tende sempre tirate. Non andiamo mai da nes-
suna parte, nemmeno a fare due passi, non nutriamo
speranze di una vita al di fuori di quelle quattro mura
perché semplicemente non esiste. Passiamo le giornate
distesi sul letto, io lo desidero ancora e ancora, e lui
vuole me, dopo di che di solito appoggia l’orecchio
sul mio cuore, e ce ne restiamo così per ore, mani e
piedi intrecciati.
Non mi sono mai sentito così bene, e al sicuro, come
con lui. Non ho mai aperto una porta con tale eccitazione
come la sua, né aspettato di vedere qualcuno con tale

35
ansia, e un distacco anche brevissimo da lui mi sembra
doloroso e spaventoso; se sparisse dopo un salto al negozio,
o se una sera non lo trovassi a casa, sarebbe qualcosa di
intollerabile. Intollerabile che tutto ciò possa finire, che
io possa perderlo dopo così poco tempo insieme.
A volte mi sento in colpa per quel che facciamo, un
senso di sporcizia, di inquietudine, vorrei non vedere
nessuno, nemmeno lui, e mi viene da pensare che in ef-
fetti non so niente di quest’uomo, che lui potrebbe sput-
tanarmi, fare delle foto di nascosto e poi metterle in
circolazione, oppure, mentre dormo, darmi una coltellata
in un occhio e stare lì a guardarmi mentre mi dissanguo.
Qualsiasi cosa, penso, ma poi lui si alza dal tavolo e si
allunga sul letto solo per darmi un bacio, e questo basta
a cancellare ogni dubbio, ogni interrogativo, ogni pre-
occupazione.
Passa tanto tempo a studiare con accanimento perché
vorrebbe laurearsi in cardiochirurgia, tagliuzzare per me-
stiere il cuore della gente. Il suo appartamento è pieno
di libri, cartelle e pile di carte, appunti delle lezioni tra-
scritti con una grafia minuta e incomprensibile, con
sopra etichette adesive, codici e formule, liste e numeri
che hanno l’aria di una lingua solo a lui nota.
Uno dei suoi libri, il più importante, è così grande
che, una volta aperto, copre l’intero tavolo. Le pagine
del libro più spesso e pesante che abbia mai visto
sono piene di immagini precisissime che fanno vedere
cellule e organi, e lui può passare ore intere senza
voltare pagina.
Fissa le figure del libro così da vicino che quasi sembra
le stia leccando, poi verifica le immagini confrontandole
con le parti corrispondenti del suo corpo; si palpa le co-
stole e il collo, fa scorrere le dita sottili lungo la spina

36
dorsale, affonda le mani nell’inguine, si accarezza co-
stantemente le ginocchia, le spalle, l’incavo del braccio
e si sfiora il volto, le tempie e il collo, e qualche volta
mi chiede di stendermi supino sul pavimento e di fare
respiri profondi, per venire a tastarmi il petto con le
sue dita gelide nei punti dove verrebbe eseguito un in-
tervento di bypass coronarico.
Quando alla fine mi ringrazia e dice che non conosce
niente di più bello del corpo umano e che posso rialzarmi,
mi viene da ridere. Anche se apprezzo e ammiro la de-
terminazione, la pazienza e la dedizione che ci mette,
mi diverte il pensiero di lui medico, lui che a malapena
riesce a portarsi dietro i suoi libri. Come farebbe, penso,
davanti a un corpo umano di grandi dimensioni, da sol-
levare su una barella, o di fronte a un individuo corpu-
lento con una spalla slogata da rimettere a posto? Ma
ci ha mai pensato a come se la caverebbe quando gli
toccherà fare un’operazione al cuore?
Per me è straordinario che si sia trasferito a Pristina
senza conoscere nessuno, e che di tutte le università
abbia scelto proprio questa, uno come lui, così dotato e
con un talento per le lingue, che si sia trasferito dalla
Serbia in questa regione di continue violenze, dove al-
banesi e serbi non fanno che maledirsi.
La guerra sta per cominciare, dico spesso, a lui e ai miei
conoscenti, e sento altri che dicono la stessa cosa, la
guerra sta per cominciare, la guerra è inevitabile, come in
Croazia e Bosnia, e probabilmente, realisticamente più san-
guinosa, e non ci vorrà molto che dio volgerà definitivamente
le spalle a questo posto, e ci ritroveremo il diavolo a portare
distruzione e devastazioni a suo piacimento, a nutrirsi di
una violenza di cui nessuno ha memoria, questo si sente
dire per strada.

37
Che cosa c’era qui che non avrebbe trovato in Serbia?
Suppongo sapesse che in altri posti avrebbe ricevuto una
formazione più qualificata, che in un’altra università
avrebbe goduto di maggiori garanzie, che avrebbe potuto
fare domanda per studiare in qualunque altro posto,
anche all’estero, nei Paesi nordici o nell’Europa centrale,
e guadagnarsi lì una laurea assai più utile di quella che
potrebbe avere qui.

Una sera sta preparando una frittata alle erbe. Gli ho


appena detto che le settimane seguenti sarebbero state
impegnative per via dei corsi e del lavoro, ed ecco che
lui rovescia l’intera frittata in un unico piatto e mette
la padella rovente sotto il rubinetto dove comincia a si-
bilare come una vipera stuzzicata con un bastone.
«Vieni», mi incoraggia, ed io mi alzo dal letto e ob-
bedisco andando a sedermi al tavolo.
«Non ne mangi un po’ anche tu?».
«Magari più tardi», mi risponde, ed io ho imparato
cosa significa, che posso anche prendermi tutto.
Mangia così di rado e frugalmente, per lo più soltanto
frutta, e prevalentemente mele che tiene in giro per l’ap-
partamento, sui tavoli, nel frigo, sul davanzale della fi-
nestra, sulle pile di libri e di carte, e in mezzo alle carte,
nelle buste di plastica appese alle maniglie delle porte –
tanto che mi domando come faccia a tirare avanti man-
giando così poco, come possa avere tanti muscoli e da
dove gli venga l’energia per immergersi in quel modo
nei libri.
Fa un balzo sul letto e afferra una mela posata sul co-
modino, ne morde un pezzetto. Io mi affretto a finire
il piatto, lo vedo tutto solo, sdraiato sul letto che fissa il
soffitto e morsica la mela fino al torsolo.

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Quando mi allungo sul letto accanto a lui mi infila la
testa sotto l’ascella e comincia a parlare, gli occhi sempre
al soffitto, e senza la minima esitazione mi confida che
non ha mai sopportato la sua famiglia, i parenti, la casa
della sua infanzia e la città natale.
«Mi sono trasferito qui perché volevo andar via dalla
Serbia», mi dice. «L’ho sempre saputo, che sarei andato
via. Potrà sembrare strano, specialmente a un albanese»,
prosegue, e fa una breve pausa. «Ma sì, certo che lo
sai. Come stanno le cose».
Poi fa scivolare una mano tra le mie gambe.
«Come?», faccio io, e mi sforzo di ridere, anche se
sono allibito dal fatto che qualcuno possa parlare così
della sua famiglia – solo un serbo, penso, come molti
dicono, soltanto un serbo.
«Questo. You know?».
Comincia ad accarezzarmi i testicoli, ed io avrei
preferito che non avesse detto niente, della sua fami-
glia, e specialmente di noi due, che non avesse accen-
nato a quel che siamo l’uno per l’altro, perché se
anche ci tocchiamo, se sentiamo le parole che ci scam-
biamo, se anche ci conosciamo carnalmente, tra noi
non ci sarà altro. Allora mi giro sopra di lui, lo bagno
con la mia saliva e facciamo l’amore, e siamo più ru-
morosi del solito; per la prima volta mi chiede di
schiaffeggiarlo sui fianchi, sulla schiena e sulle natiche
mentre sono dentro di lui.
Distesi l’uno accanto all’altro, ascolto il suo respiro
affannoso, e penso a quanto sia ingiusto che nel mondo
esistano due tipi di persone: quelli che non devono avere
paura di niente e quelli che hanno tutto da temere. La
paura funziona in questo modo: arriva di colpo, e tutta
insieme.

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La sera dopo vengo a sapere che ha un fratello mag-
giore e anche una sorella, la più grande dei tre. Mi
racconta che il fratello è un farmacista mentre la
sorella ha fatto l’infermiera fino al matrimonio, che
il padre era scomparso qualche anno prima ed aveva
uno studio dentistico, e sua madre, morta giovane,
era stata segretaria in un ufficio contabile. Con la fa-
miglia condivideva soltanto il desiderio di avere una
buona istruzione.
Miloš sta seduto sul letto, io sul pavimento, mi mas-
saggia le spalle, e sento le sue mani e le dita adesso mor-
bide e flessibili.
«Credo che provino invidia per me», sento che mi
dice, «perché quando ero giovane non ero poi tanto in-
teressato agli studi, in particolare alla medicina, e adesso
non si curano di me perché...», e qui si interrompe come
rendendosi conto che sta per rivelarmi un segreto, qual-
cosa cui non aveva pensato fino all’ultimo momento.
«Così».
«You know», aggiunge poi, e lascia uscire l’aria che
tratteneva dentro. «Il mio paese d’origine... è così pic-
colo, sai, i luoghi e le distanze tra i luoghi, come tra
le persone, sono così insignificanti... L’invidia fa per-
dere la testa, svuota le case...», dice, e smette per un
po’ di massaggiarmi. «Hai mai provato un’invidia del
genere?».
«Non credo», gli rispondo, mentre mi viene da do-
mandarmi se lui sia a conoscenza delle storielle che cir-
colano sull’invidia dei serbi, ma proprio quando sono
sul punto di chiederglielo decido di tacere. «Non sono uno
particolarmente invidioso».
«Non potevo fare altro che andarmene, non provo
nessuna nostalgia. Così è meglio per me, meglio per loro,

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per tutti. Posso fare quel che voglio e quando voglio e
con chi mi pare. Tutto qui, e non è il caso di parlarne
ancora», mi dice dandomi un colpetto sulle spalle. «È
chiaro?».
«Chiaro», rispondo con un sorriso.
Prima di andare a letto passo dal bagno, e intanto
penso a quanto sia angusto l’appartamento, al letto boz-
zoloso che copre un quarto del pavimento, ai mobili
che, per quanto scarsi, sembrano persino troppi, e al
globo della lampada che pende bassa dal soffitto coperta
di polvere e occupa spazio come una luna trascinata al
centro della stanza.
Mi guardo nello specchio malconcio e mi lavo le mani,
sebbene non siano sporche, poi torno da lui, mi siedo
sul bordo del letto.
«Tutto bene?», mi domanda.
«Tutto bene», rispondo. «Mia moglie è incinta», ag-
giungo senza riuscire a distinguere precisamente il suo
viso nel buio.
«Non fa niente», dice lui.
«Anche i miei genitori sono morti», mi sfugge.
«Davvero?».
Mi mette una mano sulla coscia e comincia ad arric-
ciarmi i peli con le dita.
«Davvero».
Si siede, allunga una mano sulla mia nuca e mi sussurra
che gli dispiace molto per i miei, e mi bacia sul collo,
dove sa che mi procura piacere.
Poi quando gli dico che voglio veramente scrivere per
guadagnarmi da vivere, cose mie per qualche giornale,
cioè, articoli e interviste e testi di altro genere, racconti e
magari romanzi, e quando lui mi risponde un giorno di-
venterai uno scrittore, ne sono certo, mi viene da sorridere,

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e penso che non mi piacerebbe stare in nessun altro
posto che non fosse accanto a lui, qui.
«Dillo», insiste, e allunga la mano per aprire le tende
in modo che le luci intense della città ricadano sul suo
viso e si mette seduto in una posa identica alla mia, le
gambe incrociate, una sul bordo del letto, una giù sul
pavimento.
«Dillo, così si avvera, è così che me ne sono convinto
nel corso degli anni. Ogni giorno, davanti allo specchio,
me lo sono ripetuto, diventerò un medico, diventerò un
medico, diventerò un medico, diventerò un medico», in-
siste, poi si scosta i capelli dalla fronte e mi afferra la
mano, «l’ho ripetuto tante di quelle volte, decine di
volte al giorno, centinaia di volte, perché non credevo
che sarei mai diventato nessuno, e sono stato solo per
tanto tempo che soltanto quel che mi ripetevo al mattino
mi ha tenuto in vita», e prende fiato, sembra quasi
spaventato, «e i sogni corrono dietro alle menzogne
che diciamo a noi stessi, diventerò un medico, diventerò
un medico, diventerò un medico, mi ripetevo, ero così
infervorato, diventerò un medico, e così la mia menzogna
ha cominciato a vivere, e la persona immune alle men-
zogne che credevo di essere s’è allontanata sempre più
dal mio passato, diventerò un medico, diventerò un me-
dico, una volta arrivato qui e iscritto all’università, di-
venterò un medico. E adesso diventerò un medico, ci
credi?, diventerò davvero un medico», ribadisce ancora
più forte. «Un giorno tu sarai uno scrittore e pubbli-
cherai dei libri. Dillo».
«Un giorno... sarò uno scrittore», dico. Mettere a
nudo il mio sogno davanti a lui mi sembra così ridicolo
che devo dirlo con una pausa in mezzo.
«No», mi ribatte seccamente. «Sarò uno scrittore.

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Dillo. Dillo subito», mi ordina, mi afferra la mano e
me la stringe rassicurante.
«Sarò uno scrittore», ripeto, e non mi sembra più qual-
cosa di ridicolo, nemmeno un’illusione, ma il futuro.

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14 maggio 2000

Gli infermieri dicono che non potrò guarire se non par-


lo. Non capisco perché dovrei parlare di quello che ho vi-
sto, di quello che ho fatto, e di dove sono stato. È perché
stragi e distruzioni mi avrebbero segnato per sempre? Per-
ché un altro uomo non puoi semplicemente farlo fuori,
senza provare dolore, senza sprofondare nell’oscurità?
No, non è così, gli ho spiegato, in guerra si muore in
un altro modo, e si ammazza in maniera diversa che in tem-
po di pace, perché non è che mi importi davvero dei ca-
duti, per me sono numeri e nient’altro, ma il fatto è che,
per così dire, mi guardano come se fossi del tutto privo di
compassione, e questo mi fa ridere e al tempo stesso mi
fa arrabbiare – se solo sapessero quanto poco ci mette la
mente a crollare, quanto bruscamente il male prevale sul
bene e quanto facile sia uccidere allora, senza sforzo,
senza alcun peso, perché allora si è convinti di dover uc-
cidere, va fatto adesso, non ci sono alternative, lo am-
mazzi tu oppure quell’altro ammazza te, è facile, liscio,
scorre come acqua.
Posso ammettere senza alcun pudore che non provo nes-
sun rimorso se non per un unico caso: per un ragazzo ap-
pena adolescente che mi portarono sconvolto dal terrore,
che urlava per il dolore, in abiti civili macchiati di sangue
e senza la mano sinistra, e allora per prima cosa posai una

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mano sul suo petto e gli dissi so quanto soffri ma adesso
sei al sicuro adesso ti curo io e tutto si sistema, tutto – an-
che se avrei voluto domandargli che diavolo ci fai qui, co-
me hai potuto tu così giovane, spaventato e stupido come
un vitello, andare a combattere, ero così furioso che vole-
vo prenderlo a sberle su quel capoccione idiota e maledire
quegli infami dei suoi genitori.
Lui mi guardò coi suoi occhi di vetro fuso e riuscì ad af-
ferrarmi il braccio con l’unica mano, poi quando gli chiesi
il nome e riuscii finalmente a farmelo dire, sollevai la mia
mano in alto, un albanese, dissi a tutti, un albanese, que-
sto ragazzo è albanese, urlai, e allora anche gli infermieri
sollevarono la mano, e lui restò lì dov’era, sulla brandina,
puoi capire quanto sembrasse sbagliato toccarlo di nuovo
dopo aver capito che era un insignificante piccolo albane-
se, un pidocchietto.
Una guerra tira l’altra, e non si pone fine a un conflitto
con un altro, la nausea destata da quel ragazzo era come
un indice sollevato, come un pugno ficcato in gola, scegli
da che parte stare e ricorda che il nemico non è un uomo,
non ha un volto, né una famiglia, non è figlio né genitore
di nessuno, il nemico non ha sorelle né fratelli, il nemico
non può provare pietà, e nemmeno tu puoi.

La guerra è sporca e antigienica, nessuno dice quanta


sporcizia generi, quanta manutenzione di attrezzature,
quanti vestiti da lavare e riparare, ferite da pulire, lenzuola,
tende, strumenti chirurgici, imballaggi da smaltire, garze, si-
ringhe, flebo e roba simile – sacchi della spazzatura, ca-
mion, discariche, a perdita d’occhio, e nessuno che si lavi,
sono stato per svenire tante volte per la puzza dei piedi dei
soldati sfilandogli gli stivali, era tremendo, e mentre li spo-
gliavo dall’inguine saliva un fetore che ti bloccava, una cali-

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gine di piscio e merda che si mescolava col tanfo rugginoso
di sangue rinsecchito e il lezzo di polvere da sparo e di sudo-
re stantio – un uomo lercio è qualcosa che fa vomitare.
Ma poi, quando ci ritraemmo tutti da quel capezzale,
come da qualcosa di infetto, fu straordinario osservare co-
me questo ragazzo albanese smettesse di urlare, proprio co-
me se non avvertisse più dolore, anche se non avevamo
avuto il tempo di fargli alcun trattamento, come se non vo-
lesse nemmeno lui che lo toccassimo, così profondamente
in ciascuna delle sue cellule albergava il pensiero della
guerra, poi i suoi occhi si chiusero, le gambe si rilassarono,
anche quell’unica mano, brevi colpi di tosse assorbirono le
sue ultime forze e si mostrò assai tranquillo al momento
della morte – una balena che si rivoltola nella sua reggia
oceanica.

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3

Pristina 1995

Non mi va di andare a lavorare. So bene che dovrei


mostrarmi riconoscente, quando gli albanesi sono in gran
parte disoccupati, ma i miei turni di lavoro mi sembrano
interminabili, perché penso a lui incessantemente, mi
rendo conto che non riesco più a immaginare una vita
di cui non faccia parte, e di lui focalizzo sempre le stesse
cose: come mi bacia ad ogni occasione, la voluttà con
cui mi afferra per la vita, mi stringe il culo, o il collo,
l’attenzione che mi dimostra alzandosi al mattino senza
fare rumore, evitando l’aglio nei piatti che prepara, la-
vandomi i vestiti e saltando i corsi per stare più tempo
insieme a me.
Praticamente vivo da lui. A volte studiamo insieme,
lui al tavolo e io sul letto, riassumo le trame dei libri
che leggo, scrivo relazioni e analisi. A volte mi sembra
tutto inutile e privo di scopo, perché l’università al-
banese istituita con lo stesso nome accanto a quella
originaria di Pristina non ha valore legale e non è ri-
conosciuta, per cui non so affatto che validità abbiano
i titoli che conferisce. Gli albanesi emigrati all’estero
finanziano le sue attività, ma i fondi non sono ancora
sufficienti.
Gli studenti che fanno ricerca nelle facoltà scientifiche
non hanno accesso alle strutture e ai laboratori. Che

47
razza di tecnici o di medici potranno mai venire fuori
in questo modo? C’è chi sostiene che gli albanesi re-
sponsabili delle risorse inviate dagli emigranti commettano
frodi, qualcun altro ammette che quei fondi sono sem-
plicemente insufficienti.
Di sera gli leggo brani dei miei libri preferiti e dei
miei elaborati, per noi è come un’abitudine, lui sta
seduto sul letto con la schiena dritta contro la parete
oppure si distende con il capo sul mio petto, a volte
ride dell’assurdità degli eventi, bofonchia di fronte
alla stupidità di certi personaggi, e quando il racconto
si fa drammatico è capace di uscirsene con espressioni
tipo oh my god o that’s just terrible o it’s so unfair so-
metimes. Gli piacciono le storie in cui c’è qualcosa di
soprannaturale: eventi che non seguono le leggi del
mondo reale, personaggi e creature che non si spiegano
razionalmente.
A volte ascoltiamo la radio. Un orefice è stato deru-
bato, il gestore di un chiosco è stato multato per non
aver venduto una determinata marca di tabacco a un
soldato serbo, insegnanti albanesi che praticano la pro-
fessione in segreto sono stati arrestati e i serbi hanno
tagliato l’elettricità nelle aree abitate da albanesi. La
radio riusciamo a tenerla accesa solo per un tempo limi-
tato, perché non porta mai buone notizie. Non sappiamo
a che cosa dare retta, cosa sia realmente accaduto e cosa
sia soltanto una diceria. Ce ne stiamo rintanati come
una chiave nel taschino, e dietro le tende chiuse seguiamo
febbrilmente la città che si va spopolando.
Veniamo a sapere che uno studente durante una delle
tante manifestazioni è stato colpito con un badile sulla
testa, e quando poi, più tardi, qualcuno riferisce che è
morto in ospedale per le ferite, allora dico: che altro,

48
che altro ancora si inventeranno per metterci sotto i
piedi, che cosa, e allora Miloš spalanca le finestre e le
tende, per cui le luci e le voci dall’esterno invadono la
stanza con violenza, e dice che gli dispiace – come si
sentisse colpevole del fatto che il badile fosse stato in
mani serbe, e allora io gli dico che non è colpa sua.
«Certo, ma comunque...», mi fa lui. «You know».

Torno a casa di tanto in tanto. Ajshe è sempre lì e


l’appartamento sembra disabitato, lei ha riposto ogni cosa
negli armadi, ha lavato i pavimenti e le pareti e i tappeti,
eliminato la polvere da ogni ripiano, ma l’aria è pesante
come dentro una cappa di piombo. In genere appena entro
in casa la trovo seduta silenziosa sul divano del soggiorno
che lavora a maglia o stira inginocchiata sul pavimento,
ma quando mi faccio avanti si alza sempre in piedi e a
quel punto non posso fare a meno di vedere la sua pancia
che s’è gonfiata insopportabilmente e l’ombelico estroflesso
come un occhio sporgente.
Mi sforzo di essere sbrigativo e laconico per quanto
possibile, anche se lei non mi chiede mai niente, dove
ho passato le notti e le settimane precedenti, tenta
soltanto di sapere qualcosa dei miei studi e del lavoro,
mentre io infilo velocemente dei vestiti in una borsa
di plastica, oppure cerca di avviare una conversazione
sull’aumento dei prezzi e la disoccupazione tra gli al-
banesi, la megalomania dei serbi, sulle urla violente
che si sentono di notte, e sulla gente che emigra sempre
più numerosa.
«La gente ha paura», dice, e posa la mano destra sulla
pancia, «è meglio non mettersi in mostra, in tempi come
questi, meglio restare a casa, uscire solo per lo stretto
necessario. Non è così?».

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«Sì», le rispondo, «certo, è meglio così per noi albanesi,
in questo hai assolutamente ragione».
«Ciao, allora», mi dice come al solito quando mi
sono messo le scarpe ai piedi e sto per uscire, e proprio
mentre apro la porta: «So che hai tanto da fare,
ma...».
«Lo so, lo so, io lo so», la interrompo. «Ci vediamo»,
così mi congedo consegnandole un po’ di banconote, e
al vederle lei dice che gliene bastano anche meno, ma
comunque le accetta e se le infila nel reggiseno.
Ecco come vanno le cose tra di noi. Lei vorrebbe par-
lare, stare con me, aspettare insieme il piccolo che sta
per nascere, e tutto quello che io riesco a dirle è lo so,
lo so, io lo so, ogni cosa a suo tempo, non è il caso che ti
preoccupi, tutto andrà bene, vedrai, così la rassicuro e apro
la porta, e un attimo prima che si richiuda le lancio
un’occhiata gelida. Se solo potesse udirli i miei pensieri,
il mio desiderio che lei non esista affatto.

Agli esami di fine anno ricevo la lode, ma non sono


fiero di me stesso, dato che tutti i miei compagni di
corso hanno la stessa valutazione. Al ristorante in cui
lavoro mi hanno detto che non possono garantirmi turni
extra per l’estate. Per quanto la mia situazione economica
sia pessima, non me ne preoccupo più di tanto, perché
penso che posso utilizzare il tempo a disposizione per
leggere, e magari scrivere una buona volta.
Arrivato giugno, io e Miloš non ci vediamo spesso
come prima, le sue giornate di lavoro si fanno più lunghe,
per cui mi ha dato una copia delle chiavi di casa. Lui
rientra solo a tarda notte, è stanco, puzza di frittura,
non ce la fa a restare sveglio a lungo. Non riusciamo
nemmeno a scambiare qualche parola tranquilli, ma mi

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rassicura sapere che presto o tardi, anche alle due o alle
cinque del mattino, lui torna da me.
Senza curarsi del fatto che il lavoro continuo lo logora
mentalmente e fisicamente, si alza con disciplina all’alba
e la notte è felice di stendersi accanto a me, esausto
dopo la lunga giornata, eppure riconoscente. Chissà,
forse riesce a lavorare con tale solerzia perché, subito
al risveglio, assume quel suo atteggiamento particolare,
una sua maniera sofisticata di parlare a se stesso e con
cui anche gli altri dovrebbero parlare di lui. Diventerò
un medico, diventerò un medico, diventerò un medico, con
una sicurezza che anch’io, un giorno, vorrei possedere.
Ma quanto più leggo e scrivo, tanto più mi vedo sca-
dente come scrittore, e altrettanto scarso come lettore,
e tante storie che si dice dovrebbero cambiare la nostra
visione del mondo su di me non hanno effetto, e la
mia capacità di concentrazione mi pare irrisoria. Soffro
quando mi ritrovo davanti testi voluminosi, con la loro
galleria di personaggi, passo ore e ore con un libro in
mano, a girare le pagine e a fissare le parole, senza ef-
fettivamente leggerle, dato che non le vedo, non le
noto e non so dove guardare, e ancor meno memorizzo
le frasi e gli eventi rimasti a mezzo quando giro pagina.
Il fascino della lettura mi ha abbandonato.
Ci sono giornate in cui ho l’assoluta convinzione
che la storia che ho abbozzato, il tipo di storia che
potrebbe piacere anche a lui, un giorno sarà finita, e
riesco a immaginare il momento in cui potrò legger-
gliela, riesco a figurarmi il giorno in cui il libro che
ho scritto arriva per posta, e posso tenerlo in mano,
sfogliarne le pagine e gingillarmi col mio nome in co-
pertina e passare le copie ad altre persone senza bisogno
di fare commenti.

51
Che soddisfazione per uno scrittore, mi dico, vedere
come il lavoro di anni e tutto il tempo trascorso all’insegna
dell’incertezza, il tempo delle sfide, della disciplina, delle
rinunce, quell’intero universo, piccolo e grande, modesto
e celebrativo, è diventato una testimonianza di qualcosa
di talmente significativo che tutte quelle privazioni alla
fin fine confermano che ne era valsa la pena.
E a quel punto comincio davvero a credere che alle
parole seguiranno i fatti. Se un chirurgo non riuscisse a
dirsi che è in grado di operare un tumore al cervello, se
la sentirebbe poi di trapanare un cranio umano? Se una
giovane coppia in attesa di un bambino non credesse di
saper allevare il suo primogenito, che futuro ci sarebbe
per loro e per il neonato?
Ma poi ci sono giorni che trascorro in piena frustra-
zione, incapace di andare avanti, e mi sento sciocco e
infantile e mi disprezzo, perché tutto quel che ho scritto
mi pare privo di senso, e quel che sino a poco tempo
prima mi sembrava incommensurabilmente grande, è in-
vece piccolo e trascurabile, e nel correggere gli errori
mi rendo conto di farne di nuovi, capisco che sono un
modesto scribacchino, che nessuno avrà mai voglia di
pubblicare niente di mio.
Scrivere in sé non ha niente di bello, al contrario è una
faccenda imbarazzante e dolorosa, vuol dire costringersi
a dire cose che altri hanno già detto molto meglio. Non
credevo che una cosa che pensi di amare incondizionata-
mente possa sembrarti così sbagliata e ripulsiva. È un con-
fronto continuo, incontrollabile e paralizzante, uno scorno
che ti abbatte e che investe la letteratura quando da lettore
diventi scrittore: si starebbe meglio senza.
Che posso farci, mi dico, e vado a lavarmi le mani,
poi mi distendo sul letto e, esausto e spossato, comincio

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a fare un elenco dei fatti che mi riguardano: sono un
albanese in un mondo dominato dai serbi, i miei genitori
sono morti lasciandomi dei beni che ho alienato, sono
sposato, marito di una donna e padre del figlio che sta
per partorire, studio per arrivare a svolgere un lavoro
che qui, con la mia laurea, difficilmente riuscirò a trovare,
e mi rammarico di non essere andato a studiare qualcosa
di più sensato, legge o economia, così tutto sarebbe stato
più semplice. Mi rincresce di essermi sposato, di aver
messo incinta Ajshe, di non aver abbandonato Pristina
tempo fa quando un amico me lo ha suggerito.
Perché per quanto tu lo ripeta a te stesso, e ci creda
fermamente, anche mentendo spudoratamente e avendo
il potere di fermare il tempo, per quanto sorretto da
una volontà micidiale osi mostrarti feroce e sfacciato
come un politico in campagna elettorale, non è tuttavia
improbabile raggiungere ciò che si desidera? E perché
io dovrei essere un’eccezione? Se tutti avessero quel che
desiderano, esisterebbe poi una parola per esprimerlo,
il desiderio?
Le settimane seguenti metto giù solo poche pagine,
anche se tutti i giorni scrivo qualcosa, dalla mattina alla
sera abbozzo qualche idea per un articolo su un giornale
o per un racconto.
«Niente male, in così poche settimane», mi fa Miloš
quando, in una delle sue rare serate libere, gli dico fi-
nalmente che ho completato una storia, che prima l’ho
scritta in albanese e poi l’ho tradotta in inglese. «Sono
veramente orgoglioso di te», prosegue. «Me la leggi?».
La sua richiesta sulle prime mi disturba, ma non ci
metto molto a cedere, perché è proprio quello che stavo
aspettando. Che altro vuol dire scrivere, penso, se non
essere disposti a tutto, farsi del male e accettare la

53
propria incompiutezza, come attraversare una piazza af-
follata completamente nudo?
Così comincio a leggere:

La ragazza e l’essere

Da quasi un anno l’essere non avvertiva il sole sulla pelle,


sentiva solo le gelide pareti della grotta, che andava graffiando
e rosicchiando senza sosta, agitato e nervoso, finendo per
limare le unghie e i denti: non distingueva la notte dal
giorno, il sonno dalla veglia, le ali dal buio fitto intorno, e
nemmeno il tronco indurito dalle pietre e dai massi con cui
aveva l’abitudine di scambiarsi dei convenevoli.
Di lui si parla nei racconti dell’orrore che spaventano i
bambini. Adesso devi mangiare tutta la minestra, perché
sai che adora gli avanzi, penserà che sei suo amico, e
mentre dormi s’intrufolerà come il vento dalla finestra o
salirà come vapore dalle fessure del pavimento, così veloce
da risultare invisibile, si arrampicherà sul tuo letto sdra-
iandosi in silenzio accanto a te, insinuando la lingua bifida
all’interno delle tue narici, che rispunterà fuori dalla bocca
e dagli orecchi e dagli occhi, e così morirai, non vedrai
più il mattino dopo. Non rispondere male ai genitori,
non essere egoista, vanitoso, pigro, goloso, geloso, non dire
bugie; perché anche così arriverà, e ti divorerà vivo, e ti
ingoierà come una meringa.
Si nutre dei giudizi che ci rovesciamo addosso in preda
alla rabbia, delle parole che dipingono gli altri come ottusi
e agitati, persone rancorose e sulfuree, e sta in agguato lungo
i sentieri angusti dove vai da solo, là dove i fiumi si con-
giungono, e se ne va sprezzante per le case abbandonate, le
valli e i boschi disabitati, e i monti solitari le cui cime
ghiacciate forano le nubi come palloncini.

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L’essere può uscire dalla caverna solo per una giornata,
sempre in primavera, al sorgere del sole, quando gli alberi
hanno le cime tese e i prati tornano a rinnovare il manto.
Quel giorno riceve un paio di ali e prende il nome di kulshedra,
ma per tutti gli altri giorni ha un altro nome. Quando è in li-
bertà, si dice che annienti tutto ciò che vede, sputando fuoco
sui boschi, svuotando le città, distruggendo quel che gli umani
sono riusciti a creare per un anno. Dopo di che comincia a
cercarsi un rifugio per un riposino, procede per mari, cieli e
terre, e una volta trovato un posto confacente è capace di di-
menticare per un attimo da dove viene, dove ancora il giorno
prima ha vissuto, quanta gente ha appena ucciso, colpevole e
innocente, e canta perfino con un tono ammaliante.

Un anno, mentre si dondolava spensieratamente su un


ramo, l’essere sentì un sassolino colpirgli il fianco. Allora
lanciò un grugnito potente come un tuono e si dileguò in
un batter di ciglia.
«Chi è là?», sentì una vocina squillare vicino all’albero,
proveniva dalla bocca di una bambina ricoperta da una pel-
liccia d’orso.
Allora, veloce come il lampo, dalle nuvole l’essere si precipitò
sulla bambina, la afferrò saldamente, le si arrotolò attorno al
corpo e le attirò la faccia contro la propria, leccandole le orbite
che erano vuote come le tasche di un corpo inumato.
«Lo sai chi sono io, sciocchina di una bimba?», le chiese.
«No», rispose la piccola con un risolino. «Sono cieca».
«Mi fai il solletico», proseguì poi la bambina, continuando
a ridacchiare. «Come sei forte», disse mentre la stretta au-
mentava. «Magari lo fossi io».
«Non hai paura di me?».
«Paura?».
«Paura».

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«Che buffo, perché dovrei averne?», replicò la piccola,
e gli diede delle pacche scherzose sulla pelle senza rendersi
conto delle sue dimensioni enormi, e riprese a ridere. «E
poi non è stato gentile da parte tua darmi della sciocchina,
quando non ci conosciamo ancora. Sarò anche cieca, ma
ho la testa sulle spalle!».
«Dici davvero?».
«Sì, sì».
L’essere non poté evitare di farsi a sua volta una risata e
posare la piccola sul terreno, e quando fu sul punto di allontanarsi
la bambina l’afferrò per la coda con la manina sinistra.
«Dov’è che credi di andare?».
«Vado via», le rispose l’essere, e si svincolò dalla stretta,
arrotolandosi in una posa aggressiva; la pelle ricoperta di
squame lucenti totalmente rinsaldate, la bocca come un’arma
carica, pronta a strappare con un morso la mano della bam-
bina per punirla dell’impudenza.
«Va bene», disse la piccola, «ma non andartene ancora.
Non vorresti prima giocare un po’?».
«Giocare?».
«Sì, sì».
Rifletté per un attimo, poi finì per accettare la proposta,
e fu così che si ritrovarono a rincorrersi per prati e valli,
nascondendosi a turno nei cespugli e in cima agli alberi,
poi, quando arrivò la sera, ormai sfiniti, si raccontarono
tutto. La bambina disse della sua famiglia, che l’aveva
cacciata di casa perché non gli andava a genio una che
non ci vede. L’essere invece raccontò della sua caverna,
dove era stato concepito, e dei diversi nomi che gli venivano
affibbiati.
La bambina si chiamava Drita, che significa luce, e l’essere
trovò questo nome divertente, dato che la piccola la luce
non l’aveva mai vista.

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Prima di salutarsi si diedero appuntamento per l’anno
dopo, e da allora in poi avrebbero continuato a incontrarsi
ogni anno, sempre in primavera, nello stesso bosco del primo
incontro, sullo stesso sentiero dove la bambina era stata sul
punto di perdere una mano.

Nel corso degli anni l’essere insegnò a Drita a cacciare, a


catturare prede e a usare la lancia. Con un morso staccò
alla bambina uno dei due seni, perché potesse tirare più
agevolmente con l’arco, e seguì orgogliosamente lo sviluppo
della ragazza che diventò una donna, ma forte come un
uomo. Un altro essere.
Poi una bella primavera l’essere trovò il coraggio di chie-
derglielo, timidamente e con pudore, se accettava di diventare
sua moglie, se poteva immaginare una vita insieme a lui,
trascorrere in sua compagnia ogni giorno dell’anno.
Drita cominciò a lacrimare ed era così commossa che per
un po’ non riuscì ad aprire bocca.
«E ti disturba il fatto che anch’io sia stato... una volta
una ragazza?», le chiese ancora.
«Accetto», rispose Drita riprendendo fiato e portando le
mani alle guance dell’essere, poi continuò: «Non fa niente»,
premendo le labbra contro le sue, che erano ruvide come
una corteccia. «Sarò tua moglie, certo che lo sarò. Io ho
visto».
«Che cosa?», chiese l’essere.
«La luce».
Sono sempre lì, raccontano, solo loro due, chinati l’uno
di fronte all’altra, nella caverna sul fianco dell’alto monte
da cui la notte non si allontana mai.

Mi si inceppa la lingua, mi trema la voce, devo leggere


lentamente e faccio pause nei punti sbagliati poiché

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voglio costantemente cambiare espressione, fare preci-
sazioni e correzioni, assicurarmi che capisca davvero
ogni parola e i significati al di là della mia scrittura.
Ma quando trovo il ritmo mi accorgo che lui mi sta
ascoltando con grande concentrazione, con gli occhi chiu-
si, ed ho la sensazione che il mio racconto prenda vita
sotto le sue palpebre.
Quando smetto lui resta in silenzio tanto a lungo che
ho il sospetto si sia appisolato, e per tutto quel tempo
mi viene in mente mio padre che durante la mia infanzia
m’aveva raccontato una versione della stessa leggenda di
cui la mia storia conservava l’ossatura, e penso al tempo
sproporzionatamente lungo che io e Miloš passiamo sdra-
iati l’uno accanto all’altro, penso a quel che è in arrivo,
quel che succederebbe se l’esercito di liberazione del Ko-
sovo imponesse la coscrizione, e se i serbi, per esempio,
mi accusassero di furto, facendomi scivolare del denaro
in tasca, che cosa succederebbe?
Ascolto la brezza che stuzzica gli stipiti della finestra
e il respiro flebile accanto a me.
«Allora?».
«Mi piace molto», mi dice Miloš alla fine, e spalanca
gli occhi umidi, «mi piace proprio tanto, dio mio», ag-
giunge davanti alla finestra imperlata, «non so dirti
quanto mi piace», ripete come sospettando che non gli
creda, anche se io non ho dubbi che dica quel che
pensa. «Me lo leggeresti di nuovo, Arsim?», mi chiede
poi. «Potresti inviarlo a qualche rivista all’estero e far-
telo pubblicare».
Gli leggo di nuovo il mio racconto, e poi un’altra
volta, e un’altra ancora, e ogni volta lo interpreta in
maniera diversa e trova un altro punto di vista per di-
scuterne; dice di aver sentito parlare dell’«essere» qualche

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tempo prima, in situazioni in cui compariva come un
avvertimento, un monito, un incubo.
«È una serpe, vero?», mi domanda.
«Credo di sì».
«Una serpe».
«Sì».
«Ma ha le ali, e parla?».
«Certo».
Poi mi chiede: «È cieco anche l’essere?».
«Forse, ma non lo so».
«Che cosa credi che facciano lì?».
«Dove?».
«Dentro la caverna. Stanno sempre lì dentro?».
«Non lo so», rispondo divertito. «È solo una storia
che mi sono inventato».
«Certo. Ma comunque, che ci fanno là dentro?».
«Stanno insieme, immagino».
Quando dico questo, lui chiude gli occhi.
«Per sempre?».
«Sì».
«Pensa», mi fa, «una serpe che prende in moglie una
donna», sorride e mi dà un bacio sulla guancia, «una
casa condivisa da due donne», aggiunge, con gli occhi
ancora serrati.
Comincia a darmi ai nervi, riporto il testo sul tavolo
e mentre me ne torno a letto gli auguro la buonanotte, e
sono sul punto di prendere sonno quando di colpo at-
tacca un discorso appassionato, come avesse scoperto
in quel momento tutto quel che aveva da dire sull’ar-
gomento. Mi dice che aveva sentito un po’ di tempo
prima una storia abbastanza simile, in cui una serpe è
figlia di dio sotto mentite spoglie, ma poi non è affatto
un serpente vero e proprio, una storia in cui dio e il

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diavolo fanno mercato dei propri figli – una ragazza
cieca e una vipera.
«Davvero?», faccio io.
«Proprio così», mi risponde, e ritrae la mano dal mio
petto.
«Ma pensa».
Mi accorgo che faccio fatica a nascondere la mia irrita-
zione. Come si permette di dirmi esplicitamente una cosa
simile, penso, nominare dio e il diavolo in una stanza come
quella, dopo tutto quello che abbiamo fatto insieme.
«Non parlarmi in questo modo», dico in tono sprez-
zante.
«Cosa?».
«Della fede».
«Eh?».
«Non puoi sapere che cosa implica».
«Non posso, certo», dice sulla difensiva, «ma per
quanto mi riguarda non sono proprio creden...».
«E allora non parlare di quello che non sai».
«Scusami», mi fa spaventato, e mi posa la mano al-
l’altezza del cuore, «non volevo offendere, la tua storia
mi è piaciuta tanto, volevo solo dirti che cosa ho pro-
vato», prosegue pacatamente, e io avrei voglia di do-
mandargli se non capisce che non va bene parlare di
qualsiasi cosa, che nei libri è possibile e può succedere
di tutto, che, volendo, allo scrittore è permesso rein-
ventare un paese intero, anche la storia, e mentre mi
dorme accanto per la prima volta mi sento a disagio
con lui.

Poco dopo, lo stesso mese, mia moglie partorisce. È


un parto prematuro, ed io non sono con Ajshe, anche se
le avevo promesso che le sarei stato accanto per sostenerla

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durante l’ultima fase, per accompagnarla da una levatrice
di nostra conoscenza. Sentendo arrivare le doglie, Ajshe
prende un autobus per andare in ospedale, dove il personale
sanitario è in prevalenza serbo. Circola voce che lì, durante
il parto, le albanesi vengano sterilizzate.
Vedo il bigliettino che mia moglie mi ha lasciato sul
tavolo e mi reco in ospedale. Ajshe ha un’aria stanca,
ma sembra felice, per niente spaventata, e il bambino,
un maschietto di due chili e mezzo, di dimensioni mi-
nuscole ma ancora tutto gonfio, dorme tra le sue braccia
avvolto in un panno. Tutto è andato bene, e il personale
ospedaliero ha un’aria professionale.
Quando Ajshe mi chiede se voglio tenere in braccio
il piccolo, dico di sì, e lo prendo. So che quel gesto do-
vrebbe dare una sensazione indimenticabile, cruciale, ed
in qualche misura accade così, ma a mio parere per
ragioni diverse da quelle di chi me l’aveva detto.
Pochi giorni dopo vado a prendere Ajshe e il bambino.
Arrivati a casa, lei lo sistema in soggiorno nella culla
che ha avuto da sua sorella.
«Sono felice», dice, e guarda il piccolo con un sorriso.
«È così bello. Non lo trovi bello, Arsim?».
«È un bel bambino», dico. «Ti cambia tutta la vita».
Poi le comunico la mia decisione: il bambino si chiamerà
Driton, e il sorriso di Ajshe si fa ancora più grande.
«Driton», dice sempre sorridendo. «Luce».

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10 settembre 2000

La sveglia è alle sei del mattino. Fatta la doccia in un


ambiente infracidito dall’umidità e lavati i denti con
uno spazzolino minuscolo come un mignolo, ci mettia-
mo in fila nel corridoio che conduce al refettorio, pren-
diamo le medicine che ci passano da un piccolo erogato-
re mentre gli infermieri controllano che lo facciamo,
quindi ci sediamo ai tavolini imbullonati al pavimento,
i cui sedili, fissati alle gambe dei tavoli, hanno la forma
di spalle umane. A turno riceviamo vassoi di plastica
bianca con stoviglie monouso bianche come i tazzoni e i
piatti, tutto qui è bianco.
Ci servono giorno dopo giorno porzioni predosate di ci-
bo dal gusto identico, pane bianco e una gommosa pappa
di mais, una zuppa insipida e del latte inacidito, è nausea-
bondo, senza alcun valore nutrizionale, roba pesante e che
appesantisce, tipo cibo per cani. E il piatto va svuotato, al-
trimenti gli infermieri pensano che stai protestando, pren-
dono nota di ogni porzione, di ogni minimo gesto: qualsia-
si segno di insofferenza allontana il giorno in cui si potrà
uscire da quella porta per la quale siamo stati trasportati
qui a forza e fatti sparire. Per loro non siamo affatto pa-
zienti, siamo dei numeri.
Il mio reparto è quello dove conviene trovarsi, se pro-
prio devi stare qui, perché qui portano i «malati più sani»,

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così gira voce, siamo medici, avvocati, capisquadra e capi
militari, tutti insieme a quanto pare. Una circostanza che
mi fa credere, a volte, che la situazione non sia poi così
grave come immagino e che ho ancora speranza di uscire.
Possiamo scrivere a famigliari ed amici, che sono au-
torizzati a farci visita, possiamo uscire per un’oretta
ogni giorno e godiamo del rispetto del personale per
quanto limitato, dato che abbiamo accesso a una picco-
la stanza della televisione in cui ci sono giochi e una
modesta libreria, dove è concesso fare richieste di libri e
giornali, anche se finora le nostre domande non hanno
ricevuto risposte.
Penso che quegli scaffali ti piacerebbero.
Ma tante volte non ce la faccio a non pensare a quegli
altri, ho sentito dire che ci sono bambini confinati in
un lettino per la maggior parte del tempo, che gli allog-
giati di un’intera camerata vengono lavati a forza con
un getto d’acqua, spinti sotto le docce dove gli si rove-
scia addosso acqua fredda, e poi vengono picchiati con-
tinuamente, tenuti per vari giorni in isolamento, con il
permesso di stare distesi su un giaciglio solo per brevi
intervalli.
Ce la fai a immaginarlo? Una vita del genere non la
fanno nemmeno i topi. Che razza di gente può fare qual-
cosa di simile, o anche solo permetterlo tacendo?
Il mio aspetto qui sta diventando davvero orribile, non
sembro più me stesso, ho paura degli specchi e dei riflessi
nei vetri delle finestre perché mi rimandano... un mostro.
Invecchiare è qualcosa di grottesco. Chiunque dichiari che
invecchiare sia un’altra cosa, non ha davvero vissuto la
giovinezza.
Adesso tu mi diresti ma che diavolo vai cianciando, cer-
to che sei un bell’uomo, ed io ti risponderei di non dirme-

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lo, che sono terribilmente, terribilmente brutto, e smagrito,
ad ogni modo sono diventato sgradevole, non ho affatto
l’aspetto dell’ultima volta che ci siamo visti, e qui non si
fa altro che star dietro al tempo che passa.
La solitudine ti strappa dalla pelle, ti taglia la lingua e ti
lascia poco a poco svaporare all’interno di una stanza chiusa.

64
4

Pristina 1995

Le giornate si complicano, il bambino piange costan-


temente e si attacca al seno con difficoltà. Non so come
tirarlo su dalla culla o sollevarlo da terra, con che forza
dovrei afferrarlo per i piedi o per le mani quando gli
cambio i vestiti. È irrimediabilmente piccolo, e quel cor-
picino da cavia coperto di una rada peluria lo fa sembrare
malaticcio, come di un’altra specie.
Più tempo passiamo col bambino, più la sua presenza ri-
sulta invadente, e sempre più ho la sensazione che nel suo
modo di esistere ci sia qualcosa di beffardo e di sfrontato;
piange notte e giorno, e sembra non dormire mai. E quel
poco che concede al sonno non è in nessun modo proficuo
o rilassante, ma è segnato dalla preoccupazione infinita che
si risvegli e riparta quel tipo di lavoro che viene definito
genitorialità. Prima della nascita del bambino, non ero mai
stato minimamente in grado di prevedere quanto pesante
e spaventosa, e tutt’altro che facile come mi immaginavo,
sarebbe stata ogni cosa dopo il suo arrivo.
Ajshe si cura di lui per la maggior parte del tempo, lo
lava, lo tiene in braccio anche mentre fa da mangiare e
lo sbaciucchia come incantata da ogni suono che emette
o da ogni suo gesto. È certa, mi assicura, che il piccolo
ha delle coliche, a quanto pare anche i figli della sorella
avevano gli stessi sintomi.

65
«Vedi, Arsim, questa è solo una fase», mi dice col
bambino in braccio, fissandolo negli occhi come vedesse
sulla loro superficie un futuro glorioso e luminoso.
Quel che Ajshe dice del bambino per me è del tutto
irrilevante, comincio a odiare la voce del piccolo, lo
evito, e ho la sensazione che lui avverta la mia avversione,
perché piange ogni volta che mi avvicino per prenderlo
in braccio. E se non imparassi mai ad amare questo bam-
bino come lo ama Ajshe, mi chiedo quando sono solo
con lui. Per lo più, gli agito davanti qualche giochino
che fa ancor più rumore.
C’è qualcosa di osceno nella genitorialità se un bam-
bino nasce nel modo in cui è nato il nostro. Per con-
venzione.
Sono riuscito a confessare ad Ajshe che ho desiderato
che non fosse mai venuto alla luce, quell’essere, perché
è quanto di più diverso dal suo nome, e Ajshe si è detta
dispiaciuta che la prendessi così, ti passerà, stanne certo,
ha poi continuato, e disciplinatamente s’è presa cura del
bambino come poteva, vegliandolo di notte, cambiandogli
i pannolini, i vestiti e le lenzuola, finché ha smesso del
tutto di chiedere il mio aiuto.
I serbi si propagano come un incendio per le campagne,
occupano il territorio un pezzo alla volta senza farsi
scrupoli. La vita è diventata crudele, e la gente s’è abi-
tuata all’idea che il corpo di un morto non sia più un
corpo umano ma solo l’immagine del corpo di un morto.
Le donne stuprate, gli uomini assassinati e i bambini
maltrattati non sono più donne stuprate e uomini assas-
sinati né bambini maltrattati, ma resoconti di tutto que-
sto, e le occupazioni e gli scontri militari sembrano di-
ventare sempre più disumani a mano a mano che la gente
si abitua a tollerare lo spargimento di sangue.

66
Lo sanno tutti che anche qui sarà dichiarata la guerra
quanto prima. Non si discute più dell’eventualità della
guerra, ma dei suoi tempi. C’è chi, per esempio alcuni
dei miei vicini, ritiene che la guerra sia già iniziata,
intere città del Kosovo sono state occupate e decine e
decine di migliaia di albanesi sono fuggiti all’estero, in
Germania, Italia, Francia e altri paesi in Europa, Australia
e Stati Uniti. Altri dicono che non c’è guerra prima
della dichiarazione ufficiale del conflitto.
Miloš si scusa continuamente con me per cose di cui
non è responsabile in alcun modo, per gesti di prepotenza
e fanatismo che non dipendono da lui; si rattrista quando
gli racconto dei miei compagni di studi che mi voltano
le spalle per aver osato mettere in discussione la qualità
dei corsi che seguo; in questo modo, dicono, darei il
mio contributo alla repressione degli studenti albanesi
e accetterei la liquidazione dell’università – non riescono
a comprendere come io possa parlare in tono antipa-
triottico della mia stessa gente, del mio sangue, ed è
inutile che io replichi, spiegando che conservare la mia
educazione e la mia competenza linguistica significa tanto
per me, perché loro sono resi sordi dalla rabbia.
Miloš è sempre più impegnato, e lo vedo pochissimo,
accetta in continuazione altri turni, a tempo pieno in
un ristorante e a mezza giornata in un altro, mentre in un
terzo locale lavora di notte e nel fine settimana.
«Devo mettere soldi da parte», mi spiega, e lo capisco
molto bene, lo farei anch’io nella sua situazione, «è im-
possibile per me lavorare durante l’anno accademico per-
ché c’è tanto da studiare».
Mi è toccato chiedere un prestito al marito della sorella
di Ajshe, Besnik. È la cosa più umiliante che io possa im-
maginare, ma non c’è alternativa, perché io e Ajshe pos-

67
siamo sopportare la fame, e anche il freddo, ma il bambino
che abbiamo messo al mondo non tollera privazioni, ha
solo dei bisogni, e in questo i bambini sono intransigenti.
Besnik lavora in fabbrica e vive in una casa a due
piani in campagna lontano dalle turbolenze di Pristina,
e quando andiamo a trovarli, la sorella di Ajshe le chiede
del bambino, della sua salute, del parto, di come abbia
trovato il coraggio di partorire in ospedale, di affidare
un bambino così bello nelle mani di infermiere serbe, e
a un certo punto della serata, dopo che abbiamo cenato,
Besnik mi prende da parte sulla terrazza di casa e mi
propone, per l’ennesima volta, di andare a lavorare in
fabbrica con lui.
Ho saputo da Ajshe che Besnik un po’ mi compatisce,
perché non ho fratelli, e io non capisco perché, dal mo-
mento che è stato sempre così. Si può soffrire la man-
canza di ciò che non hai mai avuto?
«Non sarebbe poi una brutta cosa», dice lui, mentre
ce ne stiamo seduti a fumare una sigaretta, con le sue
sopracciglia folte, i lunghi capelli neri impregnati di gel
che scendono sulla nuca come una cascata. «Potresti
stare con Ajshe qui da noi, utilizzare una delle stanze
al piano di sopra», continua, abbassando la mano pelosa
e segnata da tagli sulla mia gamba.
«O forse potremmo cominciare a pensare di trasferirci
all’estero», dice mentre mi serra la coscia. «Cosa ne
pensi?».
Respingo cortesemente questi suggerimenti, dico che
apprezzo moltissimo il suo gesto, dal momento che noi
due non abbiamo rapporti di parentela stretti, non ci
dobbiamo niente, e faccio scivolare in tasca il denaro
che mi ha passato, un migliaio di marchi tedeschi, di-
cendogli che ripagherò il prestito con gli interessi.

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«Te lo prometto, fratello», dico, e allontano la sua
mano.
Sulla via del ritorno a Pristina, seduto in fondo al-
l’autobus, ho dei conati di vomito, il bambino piange e
se la fa addosso, Ajshe gli cambia il pannolino reggendolo
in grembo, ma subito dopo il piccolo decide di svuotare
l’intestino, facendo una puzza così spaventosa che per
un attimo mi domando come sarebbe se sparissi coi soldi
senza lasciare tracce.
Non parlo con Miloš delle mie difficoltà economi-
che, anche se lui indubbiamente riesce a intuirlo –
dalla frequenza con cui mangio da lui, dal fatto che
ho dovuto smettere di fumare, dal fatto che uso gli
stessi vestiti per giorni e giorni, dal cattivo odore
che emano non riuscendo nemmeno a lavarmi come
si deve. Sa che le mie condizioni e le mie prospettive
sono desolanti, e che a trattenermi qui non c’è niente
oltre a lui.
All’inizio di luglio, mi sorprende dicendomi che ha
comprato due biglietti per Dulcigno. Mi mette i biglietti
in mano e dice: «Ho pensato a tutto, ho fatto dei ri-
sparmi, questo è il mio regalo per te, quattro giorni
in spiaggia, Arsim, è tutto il tempo libero che mi posso
concedere, ci siamo incontrati tre mesi fa e non l’ab-
biamo festeggiato in nessun modo. Ce lo meritiamo».
E mi sorride con tanta grazia che non mi passa nem-
meno per la mente di dirgli di no.

La settimana dopo saliamo su una corriera piena e ci


vuole parecchio per arrivare a destinazione, dato che le
strade in gran parte non sono asfaltate, ma anguste e
sconnesse, avvolgono come sottili nastri di polvere i pendii
delle montagne, e ad ogni curva stretta è come se l’autista

69
giocasse con le nostre vite, frenando di rado anche quando
non è in grado di vedere chi ci viene contro.
Al confine tra Kosovo e Montenegro le autorità serbe
salgono sulla corriera, con le pistole alla cintola scrutano
i passeggeri sospetti, aprono borse e sacchetti, chiedono
agli albanesi di far vedere le tasche e i portafogli, e a
me dicono che non posso entrare in Montenegro perché
non sono in grado di esibire un visto d’ingresso ufficiale
e nemmeno una dichiarazione scritta sulle ragioni del
viaggio, documentazione di cui non ho mai sentito par-
lare. Sono così agitato che mi si paralizza la lingua, ma
quando poi Miloš con mano tremante gli passa delle
banconote e dice loro qualcosa così in fretta che non
riesco a capire, allora scendono dalla corriera e ci lasciano
oltrepassare il confine.
E così il viaggio continua, ci sediamo all’ultima fila,
mi asciugo con della carta la fronte imperlata di sudore
e provo a leggere un libro, mentre Miloš guarda con cu-
riosità fuori dalla finestra, le pance rigonfie delle mon-
tagne e le valli che srotolano i loro tappeti colorati.
Verso la fine del viaggio, Miloš affonda sfrontatamente
la mano sinistra tra le mie gambe, poi chiude gli occhi,
sospira pesantemente e mi appoggia la testa sulla spalla
come se fossimo soli, ed io allontano la sua mano, chie-
dendomi quando mai finirà questo viaggio su questa cor-
riera insopportabilmente calda e sprovvista di un bagno.
Non si rende conto che se qualcuno lo vedesse mentre
mi tocca in quel modo, per noi sarebbe la fine?
Arriviamo finalmente a Dulcigno, una bella cittadina,
abitata principalmente da albanesi, con turisti provenienti
dai Balcani e non solo, la grande spiaggia, Plazhi i Madh,
lunga dodici chilometri. Soggiorniamo in uno dei più
grandi hotel in riva al mare, e ogni giornata la passiamo

70
come la precedente: ci svegliamo presto, facciamo una
colazione abbondante e, attraversata la strada, prendiamo
un ombrellone, ci sdraiamo sulla sabbia per abbronzarci
quanto è possibile – e poi compriamo un gelato dai ven-
ditori ambulanti, sono giovanissimi, praticamente dei
bambini, dopo andiamo a bere il caffè del pomeriggio.
La sera ci cambiamo per cenare in un ristorante lì vicino,
e poi facciamo ritorno nella camera d’albergo e ci sten-
diamo l’uno contro l’altro anche se sentiamo ardere la
pelle ustionata.
Nel centro storico di Dulcigno si trova un castello co-
struito dagli antichi illiri e dai greci. L’ultimo giorno ci
rechiamo in cima all’altura dove è eretta la fortezza, e
lì alcuni bambini ci dicono, entusiasti, che la vista arriva
fino in Italia, anche se i miei occhi non riescono a di-
stinguere altro che una distesa d’acqua.
Qui non c’è guerra, penso in cima a quel colle, guar-
dando malinconicamente quel mare sonnacchioso, sarà
da qualche altra parte, e quando osservo Miloš con la
sua maglietta bianca, i pantaloncini da bagno marroni e
gli occhiali da sole blu, non sono lo stesso che in Kosovo,
e nel mio mondo albergano soltanto le giornate appena
trascorse, e lui; il garbo con cui Miloš chiede e paga il
conto al ristorante, la sua maniera di farmi scivolare i
pacchetti di sigarette in tasca, la passione con cui mi
guarda quando ci svegliamo al mattino in una luce così
intensa che si porta via coi sogni roventi la stanchezza
che ci pervade; il modo in cui esce dall’acqua e per un
attimo lancia un’occhiata allarmata intorno perché con
tutta quella gente sulla spiaggia non mi individua im-
mediatamente, e quanto mi sembra tenero quando mi
vede e può scacciare la paura, io sono dove mi ha lasciato
e non sono scomparso da nessuna parte.

71
«Non voglio andar via di qui», dice Miloš la nostra
ultima sera, dopo aver preso due birre fresche per en-
trambi, mentre ci avviamo verso il balcone della nostra
camera, e qui, appoggiatosi alla ringhiera, osserva la folla
sul lungomare, masse di gente ondeggiante e il cielo
spazzato dalle luci della città come una vecchia lavagna.
«Nemmeno io», dico, gli vado vicino e lo cingo con
le braccia.
«Sei felice?», chiede poi, sorprendendomi.
«Non lo so», rispondo.
«Neanche io. Ma non so se ho mai incontrato una
persona felice».
«È così».
«Ma io felice lo sono, almeno qualche volta, devo am-
metterlo», dice e si volta a guardarmi.
«Anch’io. È qualcosa».
«It is something», ripete con un sorriso e mi rivolge
uno sguardo stanco.
«È tanto, in realtà», dico.
Gli occhi gli brillano, mentre comincio a carezzargli
la schiena.
«Forse la felicità è sapere che non esiste», afferma
poi. «E la tristezza è la saggezza di sopportarlo», conti-
nua, e si volta a guardare di nuovo il mare. «Sai, ho
pensato all’ultimo libro che mi hai letto... A come cia-
scuno dei personaggi insegua la sua felicità, e alla fine
riesca a raggiungerla», dice, e si passa la mano sui capelli.
«In realtà... mi hanno fatto arrabbiare, anche se ti ho
detto che il libro mi è piaciuto, e in effetti è stato così,
un po’».
«Davvero?».
«Sì... Perché sentivo che per loro tutti i momenti
privi di felicità erano una perdita di tempo. Come se la

72
felicità fosse indiscutibilmente nel loro destino, you
know? Non è così che succede, almeno secondo me».
«È vero», dico io. «Nemmeno secondo me».
«La maggior parte della gente non è così».
«No, certo».
«Lo si vede tutti i giorni. È più facile adeguarsi al-
l’oppressione che resistere, combattere richiede molto
più impegno», dice, ed emette un soffio prolungato come
attraverso una cannuccia.
«Tu...», attacco, «tu mi piaci», e tiro via le mani da
sotto la sua maglietta.
Si volta di nuovo verso di me, socchiudendo gli occhi
e afferrandomi una mano.
«Anche tu mi piaci. Molto».
Questo è il giorno più perfetto della mia vita, penso,
e quella notte la gioia che proviamo è qualcosa di noto
a tutti e due, quella emozione di baciargli il collo, l’uomo
che sono quando gli annuso i capelli, gli sguardi che ci
scambiamo, il sapore della birra lasciata sul tavolino del
balcone, come le nostre labbra si toccano in quel mo-
mento, nel fuoco della sera che scende, niente di questo
finirà mai, anche se domani non ci sarà più niente.

73
5 novembre 2000

Quei mesi passati insieme sono stati i più belli della mia
vita, immacolati, perché non dovevamo darci nessuna spie-
gazione, fluttuavamo nello spazio, facevamo il bagno in
quelle mattine eterne, come due meridiane.

74
5

Pristina 1995

Sulla corriera che ci riporta a Pristina Miloš mi dice


che al nostro rientro lo vedrò meno spesso di prima.
Per qualche ragione comincio a sentirmi a disagio nel
suo appartamento quando lui non c’è, anche se so che
posso trattenermi lì ogni volta che voglio. Ma non riesco
a concentrarmi allo stesso modo di prima, se non sui
rumori che ogni tanto provengono dalle scale, sul ritmo
dei passi di chi le percorre, sulle porte che si aprono e
si chiudono, sullo scatto delle chiavi nella serratura.
Aspetto solo che la porta si apra ed entri lui.

Pochi giorni dopo il nostro ritorno le truppe di Ratko


Mladić massacrano migliaia di persone a Srebrenica, spa-
rando indiscriminatamente su bambini e uomini disarmati,
sui civili. Sono giorni di pura follia, un senso di perdi-
zione invade le strade. La gente dice che i serbi hanno
costretto i bambini a guardare fratelli e genitori che mo-
rivano dissanguati, che le donne in gravidanza hanno il
ventre squarciato e che i feti fuoriescono come il muco
dal naso.
«Ma ci pensi», dico a Miloš, «che qualcuno possa
fare qualcosa di così terribile, così ripugnante a un’altra
persona».
«Lo so», dice tristemente. «Mi dispiace».

75
Le notizie un po’ alla volta ti tolgono il fiato; anche
le magliette più larghe le senti come camicie di forza, e
mangiare, dormire, lavarsi, il cambio dei vestiti, tutto
diventa terribilmente faticoso. Parlare di guerra sembra
irrispettoso, una diffamazione dei morti, è come se non
fosse permesso discutere di nulla, nemmeno della brutalità
serba o di una momentanea vittoria sui serbi. E mi fa
ancora più male sentire che l’esercito croato ha ricon-
quistato Krajina e alla fine ha espulso i serbi in una co-
lonna di profughi, solo per distruggerla.
La devastazione che infuria intorno a noi diventa un
segreto, parlarne significa darle un volto, mentre il si-
lenzio divora quel che resta dell’estate come una manciata
d’aria.

All’inizio dell’anno accademico Ajshe mi dice che


aspetta un altro bambino. Me lo comunica come per
caso, quasi fosse una faccenda quotidiana, come se non
tenesse in alcun conto la mia opinione, quindi entra nel
soggiorno, prende il piccolo tra le braccia e si siede sul
divano, dandogli quel seno cui ha imparato ad attaccarsi
con avidità.
«Come può essere?», chiedo, e allo stesso tempo giuro
a me stesso che non dormirò mai più accanto a lei.
«Arsim...», attacca, e tra noi l’aria è come una fitta
ragnatela, e io mi avvicino a lei, le porto via il piccolo
dal grembo e lo depongo nella culla, dopodiché lui attacca
a piangere con il consueto tono esasperante.
«Com’è possibile?», continuo, e sento il sangue che
mi sale alla testa e le mani mi si scaldano, come strin-
gessero carboni ardenti. «Come può una donna che
ha appena partorito essere di nuovo incinta, come?
Come?».

76
Ajshe mi guarda e sa già cosa sta per succedere, ed io
l’afferro per i capelli e la spingo dall’altra parte della
stanza, dandole un pugno nello stomaco e un calcio sul
fianco e nella schiena. Si rannicchia a terra, tenendosi
la pancia, si passa un pollice sulle labbra, mi sbircia
umilmente e dice: «Mi dispiace».
Quella sera vado a fare un giro in un parco un po’
distante dal nostro appartamento. Faccio persino un
salto in un ristorante e, nonostante il conto salato, mi
sento più leggero. È meglio uscire fuori quando perdi il
controllo, mi dico mentre rientro, e prendo un mazzo
di fiori per Ajshe, che lei accetta con un sorriso, infi-
landoci il naso come una bustina di tè nell’acqua.
«Grazie», mi dice.

La settimana dopo, Besnik viene da noi con la sua fa-


miglia, hanno fatto un viaggio di molte ore, puzzano di
sudore e hanno portato con sé sette valigie voluminose.
Occupano un’enorme quantità di spazio, costringendoci
a spostarci con cautela da una stanza all’altra.
Quando i bambini vanno a fare un sonnellino, mentre
pranziamo noi adulti prendiamo la decisione di partire
l’indomani, non possiamo rimanere qui nemmeno un
altro giorno.
«È la cosa migliore per tutti», dice Ajshe.
«Sì», confermo io, imitandone il tono di voce, dando
così l’impressione che abbiamo pianificato tutto insieme
e che Ajshe non lo ha fatto a mia insaputa.
Besnik si regge la testa tra le mani, e la moglie sta in
piedi tenendosi goffamente lontana da porte e finestre,
trema come una paranoica, è impaurita dalla città, scon-
volta da tutti i soldati che ha visto lungo la strada, e
Ajshe la stringe a sé e le dice di calmarsi e di concentrarsi

77
sui bambini, le spiega che quando si vedono ogni giorno
soldati, mitragliatrici e carri armati, tanto più bello sem-
brerà il giorno in cui non si vedranno più, e quando Ajshe
poi si mette con impegno a sistemare le nostre cose in
valigia, faccio un cenno di approvazione al suo indirizzo,
anche se non se ne accorge, mi volge le spalle – approvo
come sistema i vestiti indispensabili, quelli nelle condizioni
migliori, gli album con le foto, certificati di nascita, cer-
tificati scolastici e il necessario per il bambino.
Quando fa sera dico che vado a sistemare alcune fac-
cende e che tornerò la mattina presto, e corro da lui.
Racconto a Miloš che mia moglie è di nuovo incinta,
gli dico dei biglietti del pullman per Sofia, della nostra
intenzione di chiedere asilo, lì o in qualsiasi altro posto,
che tutto è organizzato, tutto è già stato pagato.
Lo bacio e gli dico scusami, non posso più stare qui,
resterei se potessi, credimi, sento che è la cosa migliore,
quanto di meglio per tutti noi, ho una moglie e un figlio
e un altro in arrivo, ho una moglie, e vorrei dirgli quanto
lui significhi per me, che vorrei questa estate durasse
per sempre, ma non faccio altro che piangere, e allora
lui mi prende tra le braccia, mi guarda impietrito e riesce
a dirmi soltanto: I know, I know, I’m sorry.

Quando mi sveglio, lui è già andato via, al suo posto


sul letto c’è un foglietto con cinque parole, e gli arma-
dietti sono vuoti, i muri spogli. Il suo odore aleggia per
un po’ negli angoli della stanza, come larve che poi
escono in fila dall’uscio, e non riesco a smettere di
pensare alla pena con cui mi ha augurato la buonanotte,
ai suoi singhiozzi trattenuti.
Mi alzo e guardo fuori dalla finestra, l’aria satura di
polvere da sparo, la gente che attraversa le strade come

78
statue di vetro, ed io guardo dritto in faccia al sole,
quella sua faccia grattugiata a sangue, i raggi che dirottano
le nuvole flagellandole e per un momento sto per scop-
piare in lacrime, e invece sorrido. È l’alba, mi dico, è
una bella giornata, dico, o quasi.

79
8 novembre 2000

Ricordi quel viaggio a Dulcigno? Mi sembravi così bello


sulla sabbia, in spiaggia, e di fronte a me nel ristorante, e
quando uscivi dalla doccia, era come se tutto intorno a me
in quei quattro giorni fosse sospeso – ricordi quel viaggio,
il caldo torrido che veniva a cena con noi allo stesso tavo-
lo, sfiorava l’insalata avvizzendola e durava fino al matti-
no dopo; e io speravo che l’orologio si fermasse, lo deside-
ravo tanto che quell’impossibilità si tramutava nella rab-
bia che devastava da anni la mia vita.
E odiavo e odiavo e odiavo, odiavo la guerra e il sole e la
luna, odiavo l’oscurità e la luce, odiavo l’acqua, l’aria e i
bambini, odiavo gli uomini, le donne, le armi, odiavo le
banche, i serbi, gli albanesi, i bosniaci, odiavo le notizie, la
radio e la televisione e i giornali, odiavo le strade e le mac-
chine e ogni singolo edificio – i caffè, le biblioteche, i risto-
ranti, le scuole, gli ospedali – e odiavo la terra e le monta-
gne, odiavo la foresta e gli animali, odiavo i colori del mon-
do, odiavo la medicina, la filosofia, i libri e la letteratura,
odiavo il mare, odiavo l’Europa, odiavo l’America, odiavo
il cielo e le religioni, odiavo la Russia, la Cina e l’India con il
loro inquinamento, l’Africa, i negri, odiavo la politica e la
polizia, odiavo dio, odiavo il diavolo, odiavo sognare e dor-
mire, odiavo svegliarmi la mattina, odiavo la polvere, le fi-
nestre unte, i piatti sporchi, odiavo il passato, tutto, tutto

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ciò che mi leggevi, le tue storie ridicole, odiavo ascoltarle,
l’odore del tuo respiro e l’arco teso del tuo pene, ne odiavo
il sapore e il contatto.
E odiavo la notte in cui mi hai detto che dovevi andar-
tene, e odiavo anche me stesso, quando mi ero alzato al-
l’alba, e avevo preparato le mie cose scivolando via dal-
l’appartamento come un piromane lasciandoti capire che
me n’ero partito, tornato a Kuršumlija, o da qualche par-
te, e odiavo il biglietto che hai trovato al risveglio, quelle
cinque parole che ci avevo scritto:
«È meglio per noi tutti»
hai davvero pensato che lo fosse
E odiavo quel mio vagabondare per la città con le mie
borse come un senzatetto, e poi fattosi giorno andai a se-
dermi al caffè dove ci eravamo incontrati, a pochi passi da
dove eri tu, e lì ho pianto, nascondendolo agli estranei, e
non ce l’ho fatta a ritornarci pur trovandomi sul punto di
farlo tante di quelle volte – e ti odiavo quando ti immagi-
navo che guardavi fuori dalla finestra, realizzando che ero
andato via, che davvero non c’ero più, e odiavo il modo in
cui ti pensavo mentre respiravi nella stanza vuota, odiavo
quello che immaginavo facessi poi, come hai impacchetta-
to la roba che tenevi da me, con un bruciore amaro in go-
la, e come hai richiuso la porta del mio appartamento in-
sieme con tutto quel che restava di noi, ogni confessione,
tutta quella passione e tutto ciò che pensavo fosse eterno
sprofondava in quello sbattere della porta e nemmeno
l’eco dei passi sui gradini delle scale apparteneva a nessuno
di noi.
Ti sei sentito sollevato che io me ne andassi quella not-
te, sì, lo so che lo eri, non è così?, non è vero che eri felice
che ti lasciassi lì da solo, certamente lo eri, perché se non
fossi stato sicuro che volevi che me ne andassi, che non te

81
la sentivi di affrontare un nuovo mattino con me, non sa-
rei mai andato via in quel modo, ma sarei rimasto e ti
avrei proposto che ne dici se andassimo di nuovo a Dulci-
gno o a Saranda o in qualsiasi altra città?
Ti avrei suggerito di parlare a quella donna, dirle che
non andavi con lei, o di sparire senza dire nulla, di non
tornare da lei, ma di venire con me...
non mi hai cercato neppure per un momento, non mi
hai cercato per niente, ma ti sei sbarazzato di me come di
un vecchio portafoglio e sei scomparso come niente fosse
ed io sono rimasto solo in questo mondo
questo è ciò che ho odiato di più
che tu non mi abbia dato la possibilità
di dire: vieni con me, non andartene, rimani,
ma tu piangevi come un moccioso
mi aspettavo da te più di quanto tu ti sia mai aspettato
da me, forse è sempre stato questo il problema
...
e allora l’immanità di quell’odio, oh l’immanità di
quell’odio!
con quanta facilità mi ha consentito di arruolarmi nel-
l’esercito, come niente fosse

E allora MI SONO DETTO: vado in guerra, come che sia,


dove che sia, la vita corre come una cambiale
DOVE CHE SIA, in casa di dio o in mezzo al fuoco io non
ho paura
di niente

82
II
Il giorno dopo, dio giacque con sua figlia. Dall’incesto
venne al mondo una bambina deforme, cieca e cardiopatica.
«Di questo al diavolo non si dovrà far parola», disse dio a
sua figlia, e andò a incontrare il diavolo su una montagna
sovrastata da ghiacci eterni, sulle cui pendici si aggiravano
mastini in catene che ululavano affamati, le fauci ferite
dalle zanne affilate, da cui emanavano vapori che avvolge-
vano le montagne in un velo di nebbia.
Lì dimoravano il diavolo e le sue chimere, all’interno
della montagna franosa, dove il sentiero scavato nella roccia
era pieno di lucertole tossiche dalla pelle coperta di aculei,
corvi e cornacchie che non dormivano mai, ma svolazzavano
costantemente senza il permesso di scendere, e insetti mum-
mificati sulle pareti, mucchi di zanzare pietrificate e cavallette
addossate le une alle altre.
Quando arrivò lì, dio porse la bambina al diavolo, che
la afferrò con il pollice e l’indice di entrambe le mani, poi la
capovolse e si avvicinò per osservarla meglio, e per sentire
il debole battito del suo cuore contro il suo petto di rame –
e poi si sorrisero. Il diavolo coi suoi occhi fiammeggianti,
la bambina con il suo viso per metà appiattito.
Dunque il diavolo fece come aveva promesso: diede un
fischio al suo serpente, che scivolò senza esitare lungo i cre-
pacci della montagna come un’estensione della mano sinistra
del suo padrone, afferrò con la destra la mano che dio gli
porgeva e poi – con la bambina sotto l’ascella – seguì l’uscita

85
di scena di dio, il suo lento arrancare, la sua schiena che si
allontanava pigramente.
«Stupido», disse il diavolo fra sé e sé, scuotendo la testa
perplesso. «Dare via la figlia di dio. Per un serpente».

86
6

2003

Lo piango da anni – la sua assenza è come un dolore


sordo che mi opprime l’intera cassa toracica, a volte è
una specie di incubo, temo però che lo dimenticherò co-
munque, e comincio a sospettare che sia tutta una fantasia.
E se fosse andata così, a volte mi chiedo, se lui non ci
fosse mai stato, se fosse un eden quello che mi sono co-
struito, un dio nel mezzo di una foresta in fiamme.
Piango anche mentre vado al lavoro dove sto tutto il
tempo in piedi, monitorando macchine che funzionano
anche senza il mio controllo e non fanno mai errori, un
giorno dopo l’altro, piango al mattino lavandomi i denti,
e piango mentre mi lavo le mani prima di cena, mentre
mi asciugo dopo la doccia, in ogni posto in cui mi na-
scondo agli occhi indiscreti della gente, perché è allora
che lui apparirà, in un modo o nell’altro, in forma di ri-
cordi che calpestano le mie retine, suoni che mi spaccano
la testa, aromi che lo evocano.
Ajshe fa continuamente le pulizie, ha sviluppato un’in-
credibile capacità di concentrazione, questo le va rico-
nosciuto. Nel corso degli anni ha perso peso costante-
mente, come se ogni bambino le avesse portato via qual-
che chilo. Mentre lava pavimenti e finestre, vestiti, pia-
strelle del bagno, stoviglie, persino le pareti, ha sempre
qualcosa da lavare, è incredibilmente veloce, a volte uno

87
non se ne accorge neppure, lo nota solo quando ha finito
il lavoro. Quando le dico che non ricordo mai mia madre
lavare le pareti di casa o spolverare ogni santo giorno,
mi spiega che anche i muri si sporcano, quand’anche
nessuno li toccasse mai, quand’anche non ci fossero ap-
pese foto, o quadri o poster.
«Sei mai stato in una stanza invasa dal sole?», mi
chiede sempre. «Solo allora si può vedere quanti residui
ci lasciamo dietro. Non è qualcosa che puoi vedere
normalmente».
Viviamo in una zona di palazzine, in un’area periferica
a una decina di chilometri dal centro di una città con un
milione di abitanti. Ci sono edifici di aspetto simile, pre-
fabbricati bianchi con balaustre sui balconi di colore ver-
dino, giallino o rosa. Le nostre sono gialline; Ajshe pensa
che sia il colore peggiore, quello più facile a sporcarsi,
mentre io trovo che sia il migliore perché ha un aspetto
più naturale.
L’edificio ha otto piani e noi siamo al secondo, in un
appartamento con due camere da letto, una cucina ben
attrezzata con il tavolino per la colazione e un ampio
soggiorno con lo spazio per un tavolo da sei. Ajshe ha
sempre desiderato una casa più grande, una stanzetta
per ciascuno dei due figli, e un’altra per la bella bimba
robusta che è nata qui.
«Drita fa fatica a condividere la stanza con i fratelli»,
dice Ajshe, e io resto in silenzio perché trovo che l’ap-
partamento è abbastanza grande per noi cinque, note-
volmente più grande di quello cui eravamo abituati in
Kosovo.
La casa ha uno scarso isolamento acustico e la famiglia
turca dell’appartamento accanto a volte fa un tale tram-
busto che facciamo fatica a prendere sonno, e Ajshe ne

88
è così infastidita che è arrivata a bussare alla loro porta
pregandoli di non fare rumore, in base al regolamento
condominiale dopo le dieci un baccano simile non è per-
messo, e quando si sono decisi ad abbassare il volume
della televisione o della musica, Ajshe ha tirato un sospiro
di soddisfazione. Non ricordo che Ajshe abbia mai fatto
una cosa del genere a Pristina, anche se dovevamo sop-
portare che al piano di sopra ci fossero ospiti fino alle
ore piccole.
Ajshe fa la scaffalista part-time, insieme con sua so-
rella, nello stesso supermercato vicino alla scuola dei
nostri figli. È a pochi passi da casa, ai margini di una
superstrada trafficata con lo svincolo che arriva fino
al cortile di un enorme edificio che ha l’aspetto di un
palazzetto dello sport dove è possibile posteggiare l’auto.
Il parcheggio è gratuito per le prime due ore; per le
successive bisogna pagare, si devono inserire le monete
in una macchina squadrata che sembra un ometto dritto,
che stampa uno scontrino da lasciare sul cruscotto.
L’auto va spostata entro il tempo indicato, altrimenti
scatta la multa.
Il supermercato in cui lavora Ajshe vende di tutto e
all’ingrosso, dalle spezie più esotiche alle vasche idro-
massaggio. Ci sono anche una farmacia, una piccola li-
breria, un fioraio, bagni per i clienti con servizi igienici
per i bambini, il tutto su due piani alti e spaziosi, con
ascensori e scale mobili che funzionano indefessamente.
Ajshe è tutta casa e lavoro, e d’altra parte non sente il
bisogno di andare altrove.
È infastidita dalle persone che lasciano la roba dove
capita e non la rimettono al suo posto se decidono di
non acquistarla, e a volte c’è da scarpinare per rimetterla
sullo scaffale giusto, per non dire di quando è impossibile

89
ricordarsi di quale sia il reparto delle cannucce, se sta
nella zona delle decorazioni, o delle bibite o tra le sto-
viglie monouso.
«Pensano forse che il nostro personale abbia tempo
per ripulire quel che si lasciano dietro? Che succederebbe
se tutti si comportassero allo stesso modo?», si domanda.
«Sarebbe il caos. A volte ho rotto volutamente la con-
fezione del prodotto per poi gettarlo tra gli scarti».
C’è tanta gente dappertutto, ma si parla poco. Le strade
sono in buone condizioni, ho sentito dire che alcune hanno
un sistema di riscaldamento per evitare la formazione di
ghiaccio che riduce gli incidenti stradali. Delle strade ci si
prende cura, e se ne costruiscono continuamente, come
pure abitazioni e centri commerciali, e con Ajshe ci siamo
chiesti tante volte come riescano a piazzare in certi posti
asfalto, cemento e vetro in quantità così incredibili.
All’inizio, ho pensato che saremmo rimasti qui solo per
un po’, che una volta calmatasi la situazione saremmo tor-
nati da dove siamo venuti. Ci ho creduto per un pezzo,
ma poi Besnik ha trovato un lavoro per lui e per me, nella
stessa fabbrica, così pure Ajshe e sua sorella, e il mio figlio
più grande è arrivato all’età scolare senza che me ne ac-
corgessi, come pure il secondo, e poi la terza.
Così il tempo passava, quasi ignorandoci.

Nessuno di loro vuol fare ritorno a casa. Quando incon-


triamo Besnik e la sorella di Ajshe, non parliamo mai di
tornare in Kosovo; invece riconosciamo che è stata una
fortuna andarcene, lasciare Pristina all’ultimo momento,
che la vita qui è molto più facile, più sicura, che è meglio,
e che il Kosovo non è un posto dove far crescere i bambini.
«Che ne sarebbe di un bambino in mezzo a quel casi-
no?», mi ha domandato Ajshe.

90
Penso che la nostra riluttanza a tornare o anche solo
a parlare di ritorno sia soprattutto una questione di
soldi. Che qui ci sono, in Kosovo no. E conta più
della patria e del patriottismo. Chi dice il contrario
mente.
Qui c’è un numero relativamente alto di kosovari, ci
incontriamo di tanto in tanto, organizziamo cene e con-
certi, circoli ricreativi – viviamo il nostro mondo dentro
un altro mondo, come dentro quelle bocce di vetro che
contengono una casa o un’intera città, in cui turbina
neve luminescente o una pioggia azzurrina non appena
le agiti. Quando le posi, ci vuole poco e la bufera di
neve copre ogni traccia – tutte le volte.
Non passiamo molto tempo con altri albanesi come
forse dovremmo. Ma dopo aver parlato con uno e aver
fatto visita a un altro, è come aver parlato con tutti ed
essere andati a trovarli uno per uno, perché parlano delle
stesse cose, prima di tutto della corruzione in Kosovo,
della povertà in Kosovo, della criminalità in Kosovo, della
guerra, dei criminali di guerra ancora a piede libero, e
poi passano a parlare della paga, di quanto guadagnano,
e dove, di quanto sono riusciti a risparmiare per costruire
una casa in Kosovo, a due piani, tre piani, quattro piani,
i piani inferiori con finestre a specchio che lasciano
vedere fuori ma non dentro, dice uno, e un altro racconta
che in casa ha tre bagni, e un terzo dice che ha costruito
un garage su un lato della casa che può contenere tre
veicoli, riscaldato tutto l’anno.
Ajshe si domanda perché costruiscano case così grandi
in Kosovo, spendendo somme simili per proprietà che
restano vuote.
«Ma poi non hanno intenzione di rientrare, non è co-
sì?», chiede.

91
Sono d’accordo, che senso ha vivere coatti undici mesi
all’anno e fare i signori solo per poche settimane?
Ogni primavera con Ajshe parliamo di fare un salto
in Kosovo, ma l’estate arriva sempre prima che siamo
riusciti a comprare i biglietti, così rimaniamo qui – per
colpa delle vacanze estive troppo brevi o frammentate,
così ce la raccontiamo.

I miei figli e Ajshe hanno paura di me in questo pe-


riodo. Per la più piccola, Drita, così come per i maschi,
Driton ed Endrit, anche lui nato qui, io sono un padre
assente, un estraneo. Non so esattamente perché gli
metto le mani addosso, senza un motivo, o perché penso
davvero che meritino una punizione per come si com-
portano a scuola, per le lamentele a tavola, per la man-
canza di disciplina.
O forse perché penso che sia meglio per una persona
vivere nella paura di qualcosa piuttosto che non aver
paura di niente, perché sono cresciuto allo stesso modo
di tutti gli albanesi che conoscevo: sono stato picchiato
da bambino, e ritengo ancora a ragione il più delle volte.
Si deve aver paura del padre e correre dalla madre, e
quando non c’è più un padre da temere o il grembo di
una madre, allora abbiamo paura della malattia e del
dolore, paura degli esantemi, delle infezioni, dei germi,
dei batteri, paura di prendere sonno, paura dei superiori,
paura del traffico, paura che il lampadario ci piombi ad-
dosso di notte, abbiamo paura di tutto proprio come
del padre da bambini.
Chi cresce nella paura non impara mai a viverne senza.
Quando una persona cresciuta così viene privata delle
cause della paura, allora la paura si sposta sulle sue con-
seguenze: diventa sospetto indomabile, incubi a occhi

92
aperti e allucinazioni. E quando alla persona che ha
paura viene sottratto il luogo in cui la paura può mani-
festarsi liberamente, allora la paura diventa il vicino con
un posto macchina migliore nel parcheggio condominiale,
per il solo fatto che lui è nato qui e tu no; uno che
porta a spasso il cane e che, incrociandoti, fa un cenno
col capo al tuo indirizzo e socchiude gli occhi, non per
salutare, ma perché sei uno straniero; una cassiera che
tira un sospiro al momento di passare il pane congelato
che stai acquistando in offerta, non per noia, ma perché,
da buon intruso, hai sottratto lo sconto agli altri; il tuo
capo che scuote la testa, non per frustrazione ma perché
non capisci perfettamente le sue istruzioni in quella
lingua non tua.
La nostra bambina è tranquilla, i maschi invece a
scuola litigano quasi ogni giorno con qualcuno. I maestri
spiegano a me e ad Ajshe che i problemi dei nostri bam-
bini sono dovuti al loro trasferimento in un paese stra-
niero. È una situazione difficile per dei ragazzi, ci spie-
gano, e vivere tra due lingue, due culture e due religioni
diverse spesso porta a crisi di identità, il piccolo non sa
più chi è, perché tutto il suo mondo è stato modellato
in base a cose, abitudini e pratiche così contraddittorie,
e questo ci viene comunicato come l’annuncio condo-
miniale di un’imminente ristrutturazione del palazzo.
Tutto ciò ci preoccupa e innervosisce, perché in quelle
parole si cela l’assunto che la vita dei nostri figli avrebbe
qualcosa di sospeso o decisamente carente, sarebbe poco
sana e incompiuta per causa nostra, perché ci siamo tra-
sferiti qui fuggendo dalla guerra. Il fatto che i nostri
figli parlino fluentemente lingue diverse, abbiano abi-
tudini e credenze differenti non sembra un arricchimento
della loro vita, al contrario. I maestri a scuola pensano

93
che ai nostri ragazzi l’albanese non sia utile quanto le
lingue parlate e studiate nella loro scuola, e che in Kosovo
non sia rimasto nulla che a loro possa servire, e che var-
rebbe la pena conoscere meglio quello che gli viene in-
segnato in classe. A volte ho sfogliato i loro testi scolastici
e ho notato che il Kosovo non è nemmeno menzionato,
nemmeno una parola sulla Jugoslavia, sulle sue straordi-
narie ricchezze e sulle magnifiche condizioni di vita che
c’erano state in precedenza.
Ajshe cerca di spiegare loro che i miei figli sono perfetti
e compiuti così come sono, belli e innocenti, e che i ra-
gazzi si mettono nei guai perché continuano ad avere
ricordi della guerra, che sono kosovari anche se non ri-
cordano nulla della loro vita in Kosovo, e che parlano
altre lingue meglio di quanto parleranno mai l’albanese.
«In questo modo vengono semplicemente allontanati
dai loro compagni di scuola», dice Ajshe.
Quando i nostri figli non passano gli esami, gli inse-
gnanti non gli forniscono un sostegno, ma si stringono
nelle spalle e dichiarano che il loro scarso rendimento
è dovuto al bilinguismo. Se i nostri figli iniziano a
litigare con qualcuno, gli insegnanti non dicono loro
che picchiare è una cosa sbagliata, ma li ammoniscono
e gli dicono che, se è vero che provengono da un mondo
dominato dalla violenza, la cosa qui non è comunque
tollerata, qui non si picchiano gli altri, e quando arrivano
in ritardo a scuola o disturbano durante le lezioni, gli
insegnanti non gli infliggono una punizione, ma dicono
che questo paese non è il Kosovo, che qui a scuola si
viene in orario, e si deve rispettare il diritto allo studio
degli altri studenti.
«Gli insegnanti direbbero che gli insuccessi sono dovuti
al bilinguismo se la nostra madrelingua non fosse l’al-

94
banese?», prosegue Ajshe. «Anche da un bambino piccolo
ti puoi aspettare molto. Se gli si fa credere ripetutamente
che non vale quanto gli altri, che non merita quel che
desidera, o che non ha talento in nulla, ben presto
crederà che è vero quel che gli altri dicono: che non
merita nulla, non sa nulla e non riesce a fare nulla. E
finirà col fare molto peggio di quanto potrebbe».
Ajshe non molla, ma va quasi ogni mese a parlare con
insegnanti e genitori. Ha cercato di spiegare loro, usando
anche un interprete, che crediamo che la scuola sia raz-
zista e che nessun bambino si preoccupa del posto da
cui viene, sono pochi anche gli adulti che ci pensano,
ha provato a dire che i bambini dovrebbero essere messi
in castigo quando si comportano male e che da loro bi-
sognerebbe pretendere le stesse cose che ci si aspetta
dagli altri, niente di meno, e che non vanno perdonati
per il fatto che i loro genitori sono dei profughi. Questo
non dev’essere un alibi o una giustificazione per niente,
ha detto Ajshe.
Spesso, la sera, si tormenta perché non è riuscita a
spiegarsi abbastanza chiaramente, perché l’hanno inter-
rotta, e scuotendo la testa le hanno detto: lei sa che in
questo paese devi conseguire una laurea se vuoi insegnare
in una scuola per bambini e che la formazione dura di-
versi anni?
«Si fa così anche in Kosovo? Ha fatto l’università?»,
le hanno chiesto, e allora Ajshe non ha più saputo
cosa rispondere, ma ha cominciato a maledirli tornando
a casa e avrebbe continuato a farlo più tardi di fronte a
me.
«Non lo so», sospira spesso a letto, prima di addor-
mentarsi. «Qui dovrebbero avere migliori opportunità,
vero?», aggiunge poi, ma sa che non risponderò.

95
Quindi spegne le luci.
«Dormi bene».

La notte è tutto più facile. Quando Ajshe dorme


profondamente accanto a me e i bambini fanno lo stesso
nella loro stanza, nessuno mi chiede niente, a che ora
torno a casa, se tornando trovo il tempo per comprare
il latte, se posso lasciare dei soldi per la spesa al centro
commerciale, per la gita scolastica, o se posso prendere
dei giocattoli o certi strumenti musicali, che i ragazzi
chiedono in un modo che non sembra una richiesta ma
una necessità. Ed io non posso che ubbidire, anche se
quel che compro costa una pazzia, costa più di diversi
mesi di lavoro in Kosovo. Per il resto cerchiamo di
mettere da parte quel che rimane, e vivere nella maniera
più frugale possibile, comprando roba a buon mercato
e usata.
Talvolta un’angosciosa preoccupazione mi assale alle
prime ore del mattino; mi domando se ho abbastanza
soldi, come i bambini stiano venendo su, e questo mi
scatena una tosse che mi costringe ad alzarmi. Vado al
balcone a fumare, poi mi metto davanti al computer,
navigo su internet e leggo le notizie finché non mi stanco.
Ogni volta che scrivo il nome Miloš in un motore di ri-
cerca, provo un senso di agitazione, ma i risultati che
trovo mi riportano mese dopo mese alle stesse pagine,
in cui si parla di gente col suo stesso nome e mai di lui,
così ripasso le stesse pagine, lette dozzine di volte, sempre
guardandomi alle spalle.
Ogni mattina mi alzo stanco dal letto, e affronto la
stessa identica giornata, in cui Ajshe sembra aver dormito
un sonno lungo e continuo, prima di darsi da fare a
tempo pieno, prendendosi cura della casa e dei bambini,

96
spostando il frigorifero, e passando l’aspirapolvere dietro
gli armadi come per ammazzare il tempo.
Ajshe si rende conto che qui non sono me stesso, non
è certo un mistero che vorrei andarmene, per sempre.
E vedo che lei ha paura di parlarne, perché teme che se
decido che dobbiamo andarcene, non potrà fare altro
che obbedirmi. Invece, mi dice cose tipo: Che splendida
giornata, oggi. Oppure: Arriva la primavera e i fiori stanno
sbocciando, anche se fa ancora freddo e piove, e questo fine
settimana ti preparo il tuo piatto preferito e potrai dormire
a lungo, ti passerà di colpo la stanchezza, e potrai leggere e
scrivere in pace se vuoi, e intanto io potrei portare i bambini
da qualche parte ai giardini o in città.
Ci sono giorni più tollerabili in cui a casa si sta tran-
quilli. Persino Ajshe riesce a capire che non deve dirmi
nemmeno una parola, quando, imbestialito prendo a
sberle quei mocciosi che fanno casino, urlandogli dietro
che sono delle canaglie viziate, dei miserabili, buoni a
nulla e ingrati, che non diventeranno mai nessuno, di
sicuro non persone per bene.
«Se foste in Kosovo, non avreste niente di niente,
andreste in giro spaventati a morte elemosinando qualcosa
da mangiare», gli urlo spesso, e allora corrono a piagnu-
colare sotto i loro lettini o si precipitano fuori, minac-
ciando di non tornare a casa, e di denunciarmi alla
polizia, e che andrò in galera e che me lo merito, perché
sono dreq, il diavolo.
Comunque, ritornano sempre dopo un po’, e Ajshe
dice loro che papà non intendeva niente di male, anche
se io pensavo sul serio ogni singola parola che ho detto.
Hanno avuto troppo, e questo li ha rovinati.
Ogni tanto, quando sistema i fiori appena acquistati
dentro un vaso e poi li dispone sul davanzale della

97
finestra o sul tavolo, o quando, per esempio, ha lavato
con le mani il pavimento di linoleum dell’appartamento,
ho l’impressione di vedere lampeggiare una qualche sod-
disfazione sul viso di Ajshe, di sentire quello che pensa:
Va bene, va tutto bene, tutto si sistema.
Poi sorride dei suoi fiori o della sua impeccabile, bril-
lante prestazione per un breve momento, quindi passa
alla prossima incombenza che le è venuta in mente. In
quei momenti anche io sono abbastanza soddisfatto e
riesco a non sentirmi semplicemente inadeguato, mi
sento vivo e necessario – e non un peso per Ajshe, che
certamente qui se la caverebbe anche senza di me, e
non tormento i miei figli che non si rivolgono mai a me
per chiedere aiuto, perché sanno che non capisco e pro-
babilmente non capirò mai come loro la lingua con cui
hanno iniziato a parlarsi con naturalezza.
Nonostante la loro giovane età, i bambini possono
dire questo di me: mio padre non è come gli altri padri
perché non può fare quel che fanno gli altri padri e io
non ho davvero bisogno di lui per niente. La cosa mi
infastidisce sorprendentemente poco.
Poi ci sono altre giornate durante le quali mi assil-
lano pensieri terrificanti – e allora mi devo fermare
ai margini della strada o andare al parco, sedermi e
respirare profondamente, perché ci sono andato proprio
vicino, davvero vicino a sterzare bruscamente per
finire sotto un camion, lanciarmi oltre la ringhiera
del centro commerciale o gettarmi sui binari della me-
tro o sotto l’autobus, e quando mi calmo, mi rendo
conto di non essermi trattenuto per la consapevolezza
che mi sarei lasciato dietro moglie e figli, ma sempli-
cemente per la paura di scamparla, e allora sento uno
spasmo al petto.

98
La guerra è finita da un pezzo, ma la fine della guerra
non significa nulla. Ajshe dice che la vera guerra inizia
con la fine dei combattimenti e col trattato di pace, per-
ché solo allora si riescono a vedere le conseguenze del
conflitto, lo scompiglio in cui è stato trascinato un paese.
Ben detto, perché noi albanesi siamo stati dispersi da
un capo all’altro del mondo come un pugno di sabbia
gettato in mare, indistinguibili come una cantoria di
legno attorno a un altare di legno. Il nostro paese è cor-
rotto per sempre, insozzato da parole di spregio, segnato
su ogni mappa con linee nere tratteggiate.
È così facile disprezzare questa vita e tutto ciò che le
appartiene, perché niente di tutto questo è mio.

99
13 novembre 2000

è sbagliato se hai un’erezione quando tuo padre ti vio-


lenta?
è sbagliato se hai un’erezione quando tuo fratello ti vio-
lenta?

è sbagliato buttare l’assassino giù dal tetto, gettare il gatto


malato nell’acqua bollente?
si può abortire se il bambino ha un ritardo mentale ci si
può suicidare avendo moglie e figli è sbagliato se non ne hai?
è sbagliato rubare ai poveri quando tu sei più povero?

è sbagliato se vuoi rimanere solo con tuo padre o con


tuo fratello anche sapendo che ti violenteranno?
è sbagliato desiderarlo di notte – desiderare che tuo padre
o tuo fratello
ti violentino
o anche tutt’e due
ancora
e ancora
e se poi tuo padre violenta tua sorella?
che succede se provi gelosia del fatto che tuo padre stia
violentando tua sorella e non te?
puoi uccidere allora tua sorella
per gelosia?

100
si può rubare il cibo per fame
e vestiti se si ha freddo
e medicine per un malato?
si può andare allora in farmacia con una pistola?

mia sorella s’è tolta la vita


che aveva tredici anni
s’è appesa a un albero di notte l’ho trovata un mattino
che andavo a tirar fuori le mucche dalla stalla
e mia sorella pendeva da un ramo come un salmone al-
l’amo,
nel suo pigiamino bianco
mio padre l’aveva violentata
mio fratello l’aveva violentata
ho urlato come un matto
anche se mia sorella sembrava incolume e invincibile
non dimenticherò mai quella visione
mio padre, mia mamma e mio fratello che arrivarono di
corsa, piangevano
si può provare gelosia per i morti pensai e guardai l’inguine
di mia sorella
l’erba sotto i suoi piedi era nera

ho avuto un’erezione quando mio padre giacque con me


il giorno seguente
mi chiamò col nome di mia sorella, quella troia
ucciderò mio padre, lo giuro, la prossima volta
uccidere mio padre è giusto ed è perfetto, mi sono detto

mio padre mi ha violentato più volte da allora


e mi piaceva, non volevo che finisse,
era così sbagliato era patologico forse
faccio vomitare, più avanti ho chiesto

101
scusa
al cielo

Una mattina mi sono svegliato presto, prima dell’alba,


come un gatto.
Ho messo in un sacchetto di plastica i pantaloni e un
paio di camicie, un pezzo di sapone, un taccuino e una
matita, i risparmi di mio padre dal mobiletto in cucina

poi ho ammucchiato vecchi giornali sul divano del sog-


giorno e sotto il tavolo di cucina e poi davanti all’armadio
dell’ingresso e ci ho versato sopra della benzina, così pure sui
tappeti, le tende e i mobili, andò tutto liscio come un valzer
lento in un bellissimo sogno, e liberai gli animali dai recinti
e dalle gabbie e poi diedi fuoco a tutto, tutto il pianterreno
una stanza alla volta, e i mei passi erano felpati, gocce di
pioggia nel mare, e mio padre, mio fratello e mia madre dor-
mivano di sopra e io scivolai fuori di casa come volando, e
attraverso il rombo assordante delle fiamme udii mio padre
urlare qualcosa e mia madre fare uno strillo e l’esplosione
delle bombole in cucina coprì tutto, le voci che fuoriusciva-
no, e gli animali si davano a una fuga sfrenata, nessuna pena
ormai, e finalmente senza voltarmi indietro mi arrampicai su
un’altura vicina e mi sedetti e mi dissi: bene, bene, bene; io
sono bravo, sono bravo, io sono bravo, e poi proseguii fino
alla stazione, dove presi la prima corriera, che mi portò a
Belgrado, la città bianca, dritto verso la mia nuova vita, e se-
duto al mio posto ho scritto queste parole, una sotto l’altra e
una accanto all’altra, per non dimenticarle mai, per ricordar-
le sempre – io sono bravo, io sono bravo, sono libero

Durante il tragitto li ho immaginati mentre bruciavano vivi.


All’inizio non provai niente ma in seguito fu un vero diletto

102
15 novembre 2000

L’altro ieri ho scritto cose terribili, tremo ancora, anche


se mi sono allenato con esercizi di potenziamento musco-
lare e stretching parecchie volte. Non l’ho fatto davvero,
ho solo pensato di farlo, e anche qualcosa di più, se lo sa-
rebbero meritato. Forse mi vergognavo semplicemente di
ammettere di essermene andato via, come un codardo, di
notte e di nascosto, quando tutti nella casa giacevano tra
le lenzuola lerce...
ma è altrettanto vero che per me sono morti
con te dovrei scusarmi per averti mentito su tante cose
a volte è come se il male che vedi diventasse il male che fai

103
7

2003

Dopo esserci scambiati messaggi su internet per diverse


settimane, mi propone un appuntamento. Abbiamo chat-
tato quasi ogni sera per settimane, abbiamo parlato dei
nostri piatti preferiti, dei nostri libri preferiti, di film,
musica, spettacoli televisivi, della scuola, di hobby, e
non ricordo di essere mai stato così pieno di energia
dopo il lavoro come in questo periodo.
Mi ha inviato sul mio profilo uno smile, è così che
tutto è cominciato, quando ha visto le mie foto – immagini
di corpi maschili trovate online, che potevano anche essere
foto del mio corpo. Diversamente da me, lui ha il culto
del proprio aspetto; come è giovane e bello, ho pensato
vedendo per la prima volta la foto che si era scattato di-
steso sul letto, forse il mattino di un fine settimana,
appena sveglio. Nella foto, ha un cuscino sul petto e
sorride timidamente all’obiettivo, il cuscino come uno
scudo.
Comincia a piacermi sempre di più, e il mio interesse
cresce quando prende a raccontarmi di sé, dei buoni ri-
sultati al liceo, dei giochi di ruolo e di strategia che fa
fino a tardi anche nei giorni di scuola e per questo è
stanco durante le lezioni, mi racconta delle pareti della
sua stanza che ha ricoperto di manifesti di band pop e
rock, e di sua madre che fa l’architetto e del fratello mag-

104
giore che studia informatica all’università. Suo padre vive
altrove, meglio così, dice, lo odio. C’è in lui un che di se-
ducente, dolce quasi, innocente, ingenuo e delicato.
«Me la mandi una foto del tuo viso?», mi chiede un
giorno prima di incontrarci.
«Lo sai che non posso», gli rispondo. «Non posso
correre questo rischio. Sono sposato e ho figli. Ma di
me generalmente dicono che sono proprio carino, e sono
gentile, ho il senso dell’umorismo. Fidati».
«Sono eccitato», scrive.
«Lo so, anche io», gli rispondo. «Anch’io».
«Ma che succede se poi, di presenza, non ti piaccio?»,
leggo sullo schermo, e siccome non rispondo subito, mi
arriva un altro messaggio con solo tre puntini.
«Stupido. Sei un bel ragazzo», scrivo, «davvero bello.
Mi piacerai sicuramente».
«Invece sono molto brutto», scrive. «Scapperai ve-
dendomi. Proprio così, ne sono certo».
«No, no», è la mia replica. «Sei buffo. Ci vediamo
domani allora, va bene?».
Il giorno dopo mi raggiunge a una stazione di servizio,
è in anticipo, proprio come me. Ha pedalato per cinque
chilometri, qui siamo abbastanza lontani da casa sua e
dalle persone che potrebbe incontrare, e lui conosce solo
il modello della mia macchina, la marca e il colore –
Opel grigio scuro – e sa che io lo aspetto accanto al par-
cheggio, con gli occhiali da sole.
Lo noto a distanza dalla pedalata faticosa, arriva senza
casco, tiene le dita serrate ai manubri, bianchissime,
poi, quando mi individua, si passa sulla fronte sudata la
mano destra e guida la bici verso l’ingresso della stazione
di servizio, la lega alla rastrelliera, quindi avanza con
passo deciso, viso impassibile e petto gonfio.

105
Indossa pantaloncini di jeans sfilacciati, da cui spuntano
gambe con lividi giallognoli, come staccate dal resto del
corpo, e una camicia marrone a maniche lunghe che tira
su e giù continuamente, e ai piedi scarpe da tennis rosse
che sembrano sporche e troppo piccole.
Più si avvicina, più sorrido imbarazzato, più grave
sento un peso sullo stomaco. È molto più robusto delle
immagini che mi ha inviato; il petto è cascante e ha il
bacino di una donna anziana, mentre la frangetta gli
scende sulle guance come per coprire la pelle butterata.
Ha detto che si allena spesso, che corre e fa nuoto, ma
non si vede niente del genere, ha un aspetto malaticcio,
come una persona di mezza età e per di più malmessa,
anche se ha solo diciassette anni.
Comincio a pentirmi di aver accettato l’incontro.
«Come stai?», chiedo quando mi si para davanti, mi
tolgo gli occhiali e cerco di non mostrargli la mia delusione.
«Andiamo?», suggerisco poi, e lui mormora in risposta qual-
cosa che non riesco a capire per il rombo di una motocicletta
di passaggio, salvo che non mi fa la stessa domanda.
«Sì», mi dice, scostando di nuovo i capelli dalla fron-
te, e si sposta dall’altra parte della macchina, apre la
portiera e mi si siede accanto.

Ci dirigiamo verso un McDonald’s a dieci chilometri


di distanza, proprio come concordato. Decido che dopo
lo riporto alla stazione di servizio, si riprende la bici e
se ne va a casa sua, che non risponderò ai suoi messaggi
e non ci vedremo mai più.
«Che ne pensi di me?», chiede all’improvviso, sbir-
ciandomi con la coda dell’occhio.
Tiene le spalle sollevate in su, accentuando la postura
curva, con braccia e mani incrociate in grembo. Non gli

106
rispondo, ma continuo a guidare lungo la strada che alla
vista mi appare sempre più stretta e sfocata.
«Lo sapevo», dice poi, e gira la testa verso l’esterno,
infastidito. «Non mi vuoi», aggiunge, gli occhi al fine-
strino che dà sul trionfo di colori di quell’inizio di au-
tunno, sul sole gloriosamente al tramonto e sugli alberi
orgogliosi dei rami fronzuti.
«No, no», faccio io. «Hai un bell’aspetto, davvero
bello», mi scappa di bocca, mi tolgo gli occhiali e poi,
nonostante la resistenza che provo dentro, afferro la sua
coscia sinistra con la mia mano destra, stringo un po’.
«Sei bello», aggiungo d’istinto, e sorrido.
«Davvero?», esclama in tono infantile, poi sollevando
lo sguardo dalla mia mano ai miei occhi si libera di
nuovo la fronte.
«Certo». Ma proprio quando sto per ritirare la mano,
lui ci mette sopra la sua e dita calde e umidicce si allargano
sul dorso della mia mano come sanguisughe. «Quanto sei
bello», mi fa ammiccando. «Davvero bello, molto più bello
di quanto mi aspettassi», ripete, «wow», aggiunge poi, e
il mio corpo non sa obbedire alla mente che mi chiede di
tornare indietro, di sottrarmi al suo contatto.

Arriviamo al ristorante, affollato e rumoroso, e fac-


ciamo la fila al banco, lui vuole un hamburger con una
porzione gigante di patatine e oltre a una bibita ordina
un frappè al cioccolato. Per me prendo solo un caffè,
perché quel che ha ordinato, per qualche ragione, mi fa
sentire in imbarazzo.
Ho la sensazione che l’intero ristorante sappia che ab-
biamo un appuntamento, anche se mi rendo conto che
agli estranei possiamo benissimo sembrare fratelli, se
non padre e figlio. Presi cibo e bevande, ci sediamo a

107
un tavolino per due. Lui addenta subito le patatine, che
sistematicamente intinge a un’estremità nel ketchup e
all’altra nella maionese.
«Perché non mangi niente?», chiede con la bocca
piena mentre cerco di prendere una delle patatine che
ho pagato, ma lui mi allontana la mano e sbotta:
«Non toccare, prenditele per te!».
«Dopo tutto non ho fame», replico, e provo a sorridere
senza comunque riuscirci. «Mangia pure».
Estrae avidamente l’hamburger dalla carta che l’av-
volge, roteando gli occhi succhia un po’ la bibita senza
zucchero e un po’ il frappè, spinge in bocca quattro o
cinque patatine alla volta e addenta l’hamburger a pezzi
irragionevolmente grandi che sembra ingoiare senza quasi
masticarli.
«Lo sai, vero, che questa roba è poco sana?», gli do-
mando lanciandogli un’occhiata.
Smette di mangiare e mi rimanda uno sguardo inter-
rogativo.
«Che cosa vuoi dire?».
«Che non è il caso di mangiare questa roba troppo
spesso», dico con tono paterno. «Fa ingrassare», aggiungo
senza mezzi termini, sapendo bene che anche a scuola
gli avranno parlato della nocività di quell’alimentazione.
Lui lascia cadere metà del suo hamburger sul vassoio e
lo allontana da sé, poi si alza, si asciuga le mani sui pan-
taloni e se ne va verso il bagno senza dire una parola.
Ci rimane così a lungo che sto già pensando di filarmela,
e forse anche lui si augura che io sparisca, mi viene da
pensare, ma è così lontano dalla sua bici e ancora più lon-
tano da casa che non sarebbe corretto andarsene e lasciarlo
qui. Mentre aspetto, penso a quanto sia stupido tutto
ciò, a quanto sia stupido io, a quanto poco sappia di lui,

108
benché avessi pensato il contrario, e poi provo rabbia per
le sue menzogne. Cosa immaginava di guadagnarci? A
quell’età dovrebbe già sapere che non vale la pena mentire,
che la verità prima o poi viene a galla.
Alla fine torna al tavolo con gli occhi rossi.
«Riportami indietro», mi dice, e si soffia il naso.
«Bene», faccio io, e lui esce dal locale.
Porto il vassoio al punto di raccolta con un senso di
sollievo. Torniamo indietro in auto imbarazzati e nessuno
apre bocca. A metà del percorso comincia ad agitarsi
nervosamente sul sedile, lanciando occhiate fuori dal
finestrino e poi verso di me. Non lo degno nemmeno
di uno sguardo, concentrato come sono a guidare verso
la stazione di servizio, ma quando mi mette una mano
sulla coscia, che allontano una prima volta e poi lui me
la rimette immediatamente addosso, questa volta all’in-
guine, e inizia ad accarezzarmi i testicoli e mi propone
di succhiarmelo in auto, allora supero la stazione e
svolto a un incrocio successivo in una strada più piccola,
dalla strada più piccola passo a una stradina secondaria
che porta ai margini di uno spiazzo deserto in terra
battuta.
Non so dove siamo, spengo la macchina ma lascio la
radio accesa. Dopodiché, lui comincia a slacciarmi la cintura
con le dita tremanti ed io sollevo i fianchi mentre mi
tira giù i pantaloni.
«Sei davvero bello», dice tutto eccitato, e mi cala giù
le mutande. «Davvero bello».
Gli do un’occhiata veloce, sembra così patetico che
lo prendo per la nuca e gli spingo la testa sull’inguine.
Sa a malapena quello che sta facendo, i suoi denti battono
costantemente in luoghi delicati, in bocca non riesce a
prendere altro che la cappella, che succhia come un frappè,

109
senza usare la lingua, e reggendo il resto come fosse la
maniglia della portiera. Mentre mi fa il pompino ansima
come un alce investito da un’auto, gli vengo in bocca
rapidamente e senza preavviso, e quando lo sento de-
glutire gli allontano la testa e mi tiro su i pantaloni.
«Grazie», mi dice mentre riavvio l’auto.
Si pulisce la bocca sul polsino, l’abitacolo sa di cloro,
di ascelle sudate, cosce bagnate, carne e grasso. Comincia
a divertirmi, il ragazzo, è bolso e rivoltante, penso, man-
gia tutti i giorni da McDonald’s, tutto quello che si
trova davanti, a casa fa su e giù dalla sua stanzetta di-
sordinata al frigorifero e mangia, mangia, mangia e man-
gia, si ingozza di grassi e zuccheri, lecca piatti e padelle
e trangugia le bibite fino all’ultima goccia, e poi rutta.
Me lo vedo trafugare scatole di biscotti, coni gelato,
sacchetti di patatine e cioccolatini infilandoseli sotto i
vestiti, intascare caramelle alla cieca e nascondere le
confezioni in fondo al cestino della spazzatura.
Mi rimetto sulla via principale, ed ecco che il ragazzo
comincia a piagnucolare.
«E adesso che hai?», gli chiedo sorridendo.
I singhiozzi esplodono in un pianto a dirotto, l’aria
prorompe dai polmoni con acuti colpi di tosse, seppellisce
il viso tra le mani, si asciuga le mani infradiciate sui
pantaloni, lasciando che la bava gli coli sul mento, sgoc-
ciolando sul petto.
«Mi trovi brutto», riesce a biascicare. «Non è così?»,
continua e mi guarda con gli occhi gonfi di lacrime.
Guardo la strada e spingo sull’acceleratore, voglio
arrivare il più rapidamente possibile, sbarazzarmi di
questo ragazzetto confuso ed isterico e allo stesso
tempo giuro a me stesso che non vedrò più nessuno
sotto i venti anni.

110
«Va tutto bene», riesco a dirgli.
Finalmente vedo lo svincolo dietro cui la torretta della
stazione di servizio si erge rassicurante come il comignolo
di casa. Fortunatamente, quando mi fermo vicino alla
bici, il ragazzo si calma, forse rivedere oggetti famigliari
gli è di conforto; ora può salire in bicicletta e andarsene
pedalando fino a casa sua dove continuerà la sua vita
come faceva prima di me, e un giorno riuscirà a cancellare
totalmente questa giornata pietosa dai suoi ricordi.
Ma non esce dalla macchina, mi chiede di nuovo se
penso che sia brutto. E io lo penso, certo, e mi piacerebbe
tanto chiedergli perché mi ha inviato immagini false la-
sciandomelo immaginare diverso dalla vita reale, e al-
l’ennesima ripetizione della stessa solfa mi inalbero tanto
che allungo una mano per aprire la portiera e comincio
a spingerlo fuori dall’auto.
«Vattene a casa», gli urlo, e lui è talmente sconcertato
dalla mia reazione che balza fuori, sbatte la portiera e
si affretta in direzione della sua bici.
E resta lì. Mentre riparto gli lancio un’occhiata e
rivedo quella schiena ricurva, le braccia congiunte sulla
pancia e le guance acquose che pendono sotto gli occhi
chiusi.
I giorni seguenti mi manda decine di messaggi:

Mi dispiace di averti mentito.


Sapevo che come sono non potevo piacerti.
Ecco perché ti ho mandato quelle foto.
Mi dispiace che non mi trovi attraente.
Ma che posso farci?
Mi dispiace di essere così ciccione.
E poi ero vestito male.
Posso trovare qualcosa di più carino.

111
Molto più carino.
Farò tutto quello che vuoi.
Rispondi, per favore.
Mi dispiace.
Perché non rispondi?
Sei così bello.
Giuro che dimagrirò.
Ci vediamo?
Voglio che tu sia il mio ragazzo.
Perché non mi rispondi?
Ti arrivano questi messaggi?
Posso farti ogni giorno quel che ho fatto in macchina.
Se vuoi.
Come vuoi tu.
Molte volte al giorno.
Quante volte ti piace.
Lo sapevi?
Mi hai capito?
Ci vediamo oggi?
O domani?
Ogni volta che ti passa per la testa.
Quante volte ti va ogni giorno.
Mi è piaciuto.
E non mi devi niente.
Perché ti amo.
Hai capito?
Ti amo.
Rispondi!
Perché non rispondi?

La settimana seguente dei poliziotti vengono a cercarmi


sul lavoro. Dapprima li indirizzano al mio capo, che poi
li accompagna da me. Quando li vedo avvicinarsi, ho

112
come la sensazione che i macchinari si siano zittiti, le
tagliatrici sembrano essersi raffreddate e i miei colleghi
si muovono al rallentatore come per prestare attenzione
a ciò che sta per accadere.
Vedendo la polizia chiunque nella mia condizione ten-
derebbe a darsela a gambe, ma se non può, allora è la
mente che tenta la fuga: in quegli attimi scavati dalla
disperazione e dal rimorso, in cui diventi colpevole di
colpe irrimediabili, per peccati che ti divorano la mente,
a volte quegli attimi sono così frammentati e dolorosi e
così sprofondati nel passato che la mente non riesce a
ritornarci, e io non riesco a sentire quello che mi stanno
chiedendo.
Questa è la cosa più umiliante che mi sia mai capitata,
è il mio primo pensiero quando finalmente riesco a met-
terlo a fuoco, ma quando mi accompagnano fuori dalla
fabbrica, passando per le sale e i corridoi e le tante
porte, la vergogna svanisce velocemente: questa vita, mi
dico chiudendo gli occhi come se non mi servissero più,
finisce qui.

113
29 novembre 2000

Belgrado è una bellissima città, annebbiata dall’alcol.


Quando ci sono arrivato, avevo un sacco di soldi, e
avendone tanti, mi sentivo padrone di tutto, di ristoranti e
caffè e negozi, perché potevo mangiare e bere e comprare
quello che volevo, c’erano tanti soldi che le banconote
sembravano moltiplicarsi in tante altre banconote e mone-
te che non era nemmeno il caso di contarle.
Fino a quando scoprii che avevo speso proprio tutto, ed
ecco che all’improvviso ero un senzatetto, vicino a morire
di freddo e ad essere derubato del poco che mi era rimasto.
Come siamo sciocchi, quando abbiamo qualcosa in
quantità, l’abbondanza ci rende ciechi. Non c’è niente di
più doloroso delle conseguenze di un crollo, quando uno si
ritrova disposto a fare qualunque cosa, a dire qualsiasi co-
sa per riguadagnare anche una minima parte di ciò che una
volta aveva in abbondanza.
Fu così che dovetti cominciare a rivolgermi a dio anche se
in dio non ho mai creduto: signore dammi tu una ragione per
essere qui E aiutami per favore E so di non aver mai pronun-
ciato il tuo nome in questo modo, ma ora ti sto invocando
sempre che questo abbia un senso –
e dio sapeva cosa non avevo detto: che se non avesse da-
to ascolto alla mia disperazione, non mi avrebbe più sentito
un’altra volta

114
non è meraviglioso che i non credenti si rivolgano a dio
nel momento del bisogno?
Così dio mi ha fornito una ragione: mi ha dato lui. Dio
lo ha portato da me, lo ha fatto sedere su una panchina in
un parco di Belgrado nel pieno di una giornata estiva e ha
fatto sì che mi rivolgesse un saluto mentre passavo. Eccoti
qua, intonò la creatura di dio, e io mi voltai solo per l’ef-
fetto di quel corpo glorioso, accanto al quale il mio aveva
l’aspetto di una foglia calpestata sotto una quercia torreg-
giante, e aveva anche braccia rocciose e una faccia promi-
nente come il muso di un camion.
siediti – è quello che mi disse, siediti
Avanzai dritto verso di lui perché è così che si fa quan-
do ti chiama un tipo del genere, e quando mi sono avvici-
nato, per prima cosa ho voluto immortalarlo, incidere nel
legno il suo naso largo e le sue enormi orecchie pendenti,
il mento affilato e gli occhi sporgenti, i capelli folti e neri
come setole di un pennello, le mani come due pale e due
piedoni dentro scarpe di cuoio nero slargate, e allora ho
chiesto a quell’uomo, tremando, chi sei, è dio che ti man-
da, sei venuto qui per ordine divino, e l’uomo rimase mu-
to con un sorriso misterioso, e poi quando mi sedetti, sen-
tendomi perso e con gli occhi gonfi accanto a lui, chiesi di
nuovo: sei tu, è possibile che sia davvero tu, dunque sei
venuto –
e l’uomo sorrise semplicemente, mi appoggiò l’indice
sotto il mento e mi fece
«ciao, piccolo».

115
8

2003

Mi interrogano più volte. Agenti diversi mi fanno do-


mande identiche, ed io faccio del mio meglio per rispondere
sempre allo stesso modo. Sì, ho chattato con il ragazzo
su internet e poi abbiamo deciso di incontrarci, prima
siamo andati al fast-food per mangiare e poi ci siamo ap-
partati, e abbiamo fatto sesso orale in macchina, sì, am-
metto che è andata così, ma non l’ho costretto in alcun
modo, non può essere un reato perché è stato lui stesso a
volerlo, lui stesso me lo ha proposto mentre lo stavo ri-
portando alla stazione di servizio dove c’era la sua bici.
Contesto il reato di cui sono accusato, e ad ogni occa-
sione cerco di far presente alle autorità che il ragazzo mi
aveva detto di avere diciassette anni e non quattordici, e
che sembrava averne parecchi di più, ma questo non
conta, mi dicono, il fatto è che avrei dovuto verificarlo,
magari chiedendogli un documento d’identità. È solo un
ragazzino, che non è responsabile delle sue azioni, uno
della sua età non ha idea di cosa stia facendo, ribadiscono,
e mi rendo conto che non serve discutere, capisco che
posso solo peggiorare la situazione rivelando che mi aveva
persino mandato degli sms dopo il nostro incontro, in cui
dichiarava che mi amava, voleva che fossi il suo ragazzo.
Mi è stato assegnato un avvocato che sembra piuttosto
riluttante. È più giovane di me, poco sotto i trenta e

116
ancora inesperto, credo, perché mi guarda al modo in
cui si guardano certi tipi di persone. Persone come me.
Verso le quali non è il caso di provare alcun sentimento.
Ha la trascrizione integrale dello scambio di messaggi
tra me e il ragazzo, si mette male, lo so, e sulla base
delle nostre conversazioni capisco che devo aspettarmi
senza alcun dubbio una condanna, che il mio avvocato
cercherà di negoziare per me una pena quanto possibile
più lieve, e ciò può essere facilitato dal fatto che sono in-
censurato, e sarebbe d’aiuto che io ammettessi la mia
colpa e mi mostrassi pentito.
Per tutto il periodo degli interrogatori mi sento con-
fuso e arrabbiato, non ho il controllo di me stesso e
non so esprimere i miei pensieri in modo chiaro, rifiuto
l’interprete che mi viene offerto, come se al mio posto
fosse seduto qualcun altro e io stessi semplicemente
seguendo le azioni di quest’altra persona. Picchio i
bambini e li prendo per i capelli in continuazione e
per qualsiasi motivo, picchio anche Ajshe, che mi rompe
le palle chiedendomi costantemente conto di cosa faccio,
del fine settimana, della prossima settimana e del pros-
simo mese, verificando continuamente i miei orari, par-
lando, parlando senza interruzione. Parcheggio la mac-
china dove capita, non me ne importa, e la sera mi di-
rigo spesso alla stessa stazione di servizio dove ci siamo
incontrati, nella speranza di rivederlo nuovamente, sta-
volta per cacciargli i denti in gola, spaccargli il naso, e
passargli sopra con la macchina prima di filarmela.
A volte cedo alla tentazione e apro quel sito, pur sa-
pendo che non dovrei e non mi converrebbe farlo, perché
le autorità sono in grado di rintracciare ogni mio singolo
clic. Passo in rassegna i nickname dei presenti e quando
vedo che non c’è traccia del ragazzo inizio a chattare

117
con gli altri utenti, deluso. Alcuni vogliono un incontro,
altri semplicemente scrivono messaggi allusivi, altri mi
invitano a scambiarci foto e a masturbarmi con loro in
webcam, e a volte accetto.
Durante le settimane che precedono il processo, sento
ronzarmi in testa qualcosa che avevo udito molto tempo
fa da mio padre. Una volta mi aveva detto che è positivo
che una persona provi la miseria e l’angoscia, poiché è
solo sperimentando la miseria e l’angoscia che ci si
prepara al giorno in cui miseria e angoscia torneranno,
perché ciò accade sempre, mi disse, ritornano sempre.

«Il mondo è marcio», dico una mattina ad Ajshe.


«È proprio così, Arsim», mi risponde, posa sul lavan-
dino il cartone delle uova e la padella, si siede al tavolo
di cucina di fronte a me.
«La settimana scorsa ho rubato una bambola in un
negozio», dice lentamente, con voce timorosa. «Drita
stava piangendo come una pazza per averla, e si era la-
sciata andare per terra nel reparto dei giocattoli», esclama
poi. «Avessi visto, dio mio, che imbarazzo, si rifiutava
di mollare quella maledetta bambola. Così l’ho rubata,
l’ho nascosta sotto una pila di vestiti, poi sono andata
nello spogliatoio per provare vestiti e maglioni, e lì ho
aperto la confezione, ho ficcato il giocattolo nella borsa,
ho lasciato i resti dell’imballaggio sotto i vestiti e me
ne sono andata».
Allora scoppia a piangere.
«Mi dispiace», dice, e si soffia il naso in un fazzolettino
di carta. «Ma era terribilmente cara. E lei ci ha giocato
per qualche ora, poi l’ha dimenticata», prosegue scuotendo
la testa e scusandosi di nuovo. «Ultimamente ho avuto i
nervi a fior di pelle. Cosa può essere?», mi domanda.

118
La guardo esitante negli occhi, in cui si alternano
colpa, vergogna e rabbia.
«Cosa ne pensi? Dovremmo tornare in Kosovo?»,
chiede Ajshe dopo un attimo di silenzio. «I bambini
sono ancora piccoli», si giustifica, e sono sicuro che ha
saputo del mio arresto da sua sorella.
«Davvero non lo so», continua dialogando con se stessa.
«Hai sentito che qui stanno iniziando a dare soldi a chi
ritorna in patria? Non è una gran somma, mi dicono, ma
si può tirare avanti fino a quando uno non si organizza.
Potremmo affittare un appartamento comodo a Pristina,
potrei andare a lavorare anche io. In questo periodo del-
l’anno il prezzo delle angurie è incredibilmente basso, qui
non puoi comprarne di così dolci...».
La interrompo, le dico che sono andato con una ragazza
incontrata in rete, e che adesso sono accusato di un
grave crimine, di abuso sessuale su una minorenne. Rac-
conto che la ragazza mi aveva detto di avere diciassette
anni, non sapevo che ne avesse quattordici, qui è un
crimine, figurati, e poi la stazione di servizio, le autorità,
gli interrogatori con tanti dettagli, il processo imminente,
mi esce tutto dalla bocca come la lista della spesa, come
il resoconto di una giornata, e una volta che ho finito
Ajshe guarda fuori dalla finestra, dove si vedono tre
fabbricati che sono la copia identica del nostro, una stri-
scia di cielo luminoso in cui le nuvole si sono radunate
in formazione militare, e pochi alberi che si ergono nel
cortile come militi al fronte.
«Cosa? Sono i soldi che vuole quella stronzetta?», sbotta
Ajshe. «Immagino che sappia che non ne abbiamo».
«Non lo so», replico io.
«E così non ce ne possiamo andare», dice Ajshe con
un sospiro lento, senza guardarmi, poi ripiega il fazzo-

119
lettino nel pugno, si alza con calma, lo butta nella spaz-
zatura, quindi accende il fornello, ci trascina sopra una
padella per rompere il silenzio, che a poco a poco si
riempie dello sfrigolio delle uova nella padella che si va
scaldando lentamente.

Il processo si tiene in una saletta simile a un’aula sco-


lastica e sono presenti solo un pugno di persone, poiché
si procede a porte chiuse. Il giudice è davanti a noi con
una pila di carte sul tavolo, ha alle spalle foto incorniciate
di paesaggi lacustri, mentre il pubblico ministero, io e
il mio difensore siamo allineati su lunghe panche come
in chiesa. Non so perché ma resto sorpreso nel vedere
che invece del ragazzo all’udienza sono presenti i suoi
genitori, che si mostrano risentiti e umiliati. Forse avevo
sperato di rivedere lui, e che il vederlo, o il fatto che
mi vedesse, avrebbe posto fine in qualche modo a questa
assurdità.
La donna con gli occhiali e un tailleur nero siede con
le braccia incrociate, l’uomo accanto a lei è rosso in
viso, indossa un maglione grigio scuro e jeans neri, ha
l’aria di nascondersi dietro di lei. Non sembrano i genitori
del ragazzo, non sembrano affatto dei genitori, e nem-
meno due che sono stati una coppia, è come se si fossero
improvvisamente svegliati stamattina ritrovandosi un fi-
glio comune. Non mi rivolgono lo sguardo per tutta
l’udienza, anche se io cerco costantemente un contatto
visivo.
C’è un’atmosfera così tesa nella sala che tutto mi
scorre davanti e accade come al di fuori di me. Sono
stranamente indifferente, e non riesco a seguire con
attenzione il discorso del giudice, né i discorsi appas-
sionati del pubblico ministero e nemmeno la difesa del

120
mio avvocato, mi sento come se assistessi a un concerto
o seguissi l’esistenza di uno sconosciuto dalla mia mac-
china; divento di nuovo invisibile, come una foto in-
corniciata sulla parete di una stanza in cui risuona un
discorso ufficiale.
Il pubblico ministero, una donna di circa cinquant’anni,
con un tono di voce sostenuto e un aspetto mascolino,
tiene la sua arringa, poi il giudice dice qualcosa, e anche
il mio avvocato si torce le mani e fa una smorfia come
se si vergognasse e non volesse trovarsi qui, si appoggia
allo spigolo del banco e agita nervosamente le carte che
ha davanti, ha tutta l’aria di uno stupido, un inetto,
che non sa nulla del mio caso; poi il giudice prende di
nuovo la parola, e presto tutto è finito, i capi d’accusa
sono stati letti, il colpevole è stato condannato e giustizia
è stata fatta.
Come possono farlo, mi domando, come possono con-
densare il destino di tante persone in una manciata di
frasi contorte?
Scoppio in una risata. Non posso farci niente. Non
so da dove mi venga, succede e basta. Tutti, il giudice,
i genitori del ragazzo, il pubblico ministero e il mio av-
vocato mi guardano con disprezzo evidente, proprio
come probabilmente farei io in una situazione simile, e
quindi cerco di fare del mio meglio per reprimermi, ma
finisco per peggiorare le cose, e do libero sfogo a quel-
l’impeto incontenibile.
Per qualche ragione mi vengono in mente cose del
tutto incongrue, tipo che il ragazzo, ora vittima di un
brutale abuso sessuale, inciampi nei lacci delle scarpe,
per esempio, e si metta a piagnucolare per il gelato che
gli sgocciola sulla pancia, poi rivedo mentalmente mia
figlia, quando un giorno al parco rivolgendosi a un vec-

121
chietto di passaggio gli ha dato dell’idiota, così, dal nulla,
che spasso quel momento, non aveva mai detto quella
parola in precedenza, e penso al mio figlio più piccolo, a
quando una volta lo avevo messo a sedere su un caval-
luccio di legno nel centro commerciale, e avevo osservato
il suo sorriso, quell’infinita felicità che brillava nei suoi
occhi mentre guardava me, un uomo che nemmeno co-
nosceva, uno per cui la sua gioia doveva essere pratica-
mente tutto, e in qualche modo mi fece male il pensiero
di quanto poco quel bambino sapesse di suo padre.
Ho messo al mondo tre figli, che ho probabilmente
rovinato per sempre, penso, e questo mi strozza la risata
in gola.
Li ho fatti io, io li ho portati qui.
Andrò in prigione, mi tocca, condannato a tredici
mesi di carcere senza condizionale, mi viene ripetuto, e
la corte considera il mio crimine e il «mio caso» – è
questa la parola che usano – così grave che dopo aver
scontato la pena sarò espulso dal paese.
«Bene», mi scappa di bocca con una strana smorfia, e
quando mi viene detto che se voglio posso ricorrere in
appello, dico che non lo farò, che accetto la sentenza.

Solo dopo aver consegnato i miei effetti personali


posso telefonare ad Ajshe, e quando le dico che sono
stato preso in custodia dalla polizia, che andrò in prigione,
che non tornerò a casa per un po’, almeno tredici mesi, che
non riesco a capire come sia potuto succedere, la sento
imprecare – ed è la prima volta in assoluto.
«Dreqi të hangt», mi fa. «Il diavolo ti divori», ripete
con una voce che potrebbe essere di tristezza quanto di
odio.
«Mi dispiace», faccio io. «Non so cosa dire».

122
Respira così pesantemente e profondamente che pen-
so stia raccogliendo le forze per dire che non vuole
mai più vedermi, che d’ora in poi andrà avanti con i
bambini senza di me, e che questa è l’ultima volta che
ci parliamo.
«Dirò ai bambini che sei andato a fare una vacanza»,
mi annuncia invece. «No, dico loro che sei andato in
Kosovo a costruire una casa per noi, Arsim, sono ancora
piccoli, non ti preoccupare, è una cosa di cui si scorde-
ranno, tredici mesi non sono niente a quell’età, sai come
funziona la mente di un bambino, per loro il tempo è
un’altra cosa. Passa con esasperante lentezza, e al giro
successivo non gli resta nemmeno un ricordo».
«Ajshe», dico lentamente.
«Sta’ zitto!», mi urla e non sembra più la sua voce.
«Attirerò la loro attenzione su qualcos’altro durante la
tua assenza, chiederò più turni al mio capo, ce la caveremo,
mandami l’indirizzo di quella prigione così verrò a trovarti,
sono solo tredici mesi, Arsim. Tredici mesi».
«Ajshe, non voglio che tu venga».
«Perché? Ho sentito che le condizioni nelle carceri qui
sono molto confortevoli, si può andare a scuola, e scrivere
se uno vuole».
«Certo».
«Ti dovrebbe piacere. Prova a pensare che è come una
specie di vacanza. Non è quello che stavi aspettando?».
«No, non si tratta di questo».
«E di che si tratta, allora? Di mia sorella, di Besnik?
Ma loro capiranno. O pensi ad altre persone? Non pre-
occuparti degli altri, dirò a tutti la stessa cosa, nessuno
saprà dove sei, e se qualcuno lo venisse a sapere, per
prima cosa gli volterò le spalle, poi gli dirò: sparisci,
non sei più niente per la mia famiglia».

123
«Non voglio... te, Ajshe, non voglio questo, non più,
non ti amo, non lo capisci?», le mormoro, e provo un
enorme sollievo come se mi fossi infilato tra le lenzuola
pulite dopo una giornata spossante.
Lei rimane in silenzio dall’altra parte del telefono per
un momento, e durante quel silenzio immagino come le
mie parole siano sprofondate nel suo stomaco, ed espan-
dendosi per i vasi sanguigni abbiano finito per annidarsi
nel suo cuore e nella sua testa. Deve aver aspettato queste
parole per tanto tempo, e ora che le ho dette, ora che ho
messo queste parole tra noi, non potrò più rimangiarmele.
«Certo che mi ami», replica a fatica Ajshe. «Perché
se non amassi me e i bambini in qualche misura, non
mi avresti chiamata ora. Non è vero?».
«Certo», rispondo. «Immagino».
«È che a volte amare significa stare con qualcuno,
con chiunque, pur di non essere soli. Nessuno si merita
la crudeltà della solitudine. Per questo io ti aspetterò,
Arsim. Sappi che sei nei miei pensieri ogni singolo mo-
mento. Chiamami quando puoi. Dammi l’indirizzo, dimmi
dove posso scriverti, venire a trovarti, qualunque cosa
tu voglia».
Questa donna non si arrende mai, penso, e trattengo
il senso di repulsione quando mi domanda: «È chiaro?».
Dopo la chiamata, mi conducono in una camera di si-
curezza del commissariato ad aspettare il trasferimento
in carcere il mattino dopo. La cella è grigia e priva di
finestre, un buco devastato da una potente luce al neon
con le pareti ricoperte di scritte e incisioni di cui capisco
ben poco. Mai stato in un ambiente più squallido. In
un angolo c’è un piccolo lavandino di metallo e la tazza
del cesso, e sul pavimento addossato al muro un sottile
materasso di gommapiuma dello stesso colore del neon

124
con tanti buchi e che puzza di piscio stantio. Mi ci siedo
sopra con le ginocchia sotto il mento, ho freddo.
Le prime ore sono le peggiori. Crollo, urlo, prendo a
pugni e a calci le pareti, il lavandino, il cesso, il materasso
e me stesso, senza nessun motivo e per qualsiasi motivo.
Non mi sono mai sentito così minuscolo, così perso; il
posto è talmente tetro che sento la mancanza di mia
madre, cui non pensavo da tanto tempo, e ho nostalgia
di mio padre, anche se a lui ho pensato ancora meno.
E poi mi manca Ajshe, la sua compostezza, lei regge-
rebbe questa notte molto meglio di me, saprebbe dire a
se stessa le parole giuste per non perdere la testa.
Poi le luci si spengono e sento lo scatto della serratura,
l’eco di passi che si allontanano. Mi riportano alla mente
gli anni della guerra, i giorni e le notti passati con Ajshe
davanti al televisore. Quei momenti a noi sottratti dalla
malinconia in cui seguivamo in silenzio con un gusto
ferroso in bocca le notizie più tremende – e ogni volta
che qualcuno veniva ucciso, o da qualche parte c’era
un’esplosione, o bruciava una casa, un edificio, un pae-
sino, o quando una pistola sparava, il silenzio tra noi
era dio che entrava nella stanza. E poi lo pregavamo,
quel dio in casa nostra lontano da casa, un dio in cui
non credevamo quasi più, al quale chiedevamo: per favore,
salva noi due, fa’ che a morire sia la sorella di qualcun
altro, il padre, il fratello, il cugino di un altro.
E quando dio rispondeva alle nostre implorazioni sal-
vando proprio noi, e la sorella o la figlia di qualcun altro
era stata stuprata, il fratello di qualcun altro era stato
ucciso, altri paesi distrutti, ci sentivamo sollevati per
un po’, e poi Ajshe mi chiedeva: pensi che siamo gente
malvagia, io e te, perché coltiviamo pensieri e speranze
di questo tipo?

125
Non ero in grado di risponderle, perché non sapevo in
tempo di guerra cosa fosse lecito o naturale sentire. Più
tardi, ho pensato che fosse diverso desiderare tali cose per
gli altri e sperare che non accadessero a se stessi.
Continuò per settimane, mesi, anni dopo la fine della
guerra. Il rimorso ti prendeva alla gola, saliva in bocca
come la bile, un gusto amaro che non ti abbandonava,
e il senso di colpa si insediava negli occhi e soggiogava
ogni cosa; nemmeno dio aveva lasciato la nostra casa,
ma vagava da una stanza all’altra nell’aria che attraversava
l’appartamento, nascondendosi dietro i vestiti negli ar-
madi, appostandosi tra le lenzuola e dentro la lavastoviglie
appena comprata, e aveva smesso di esaudire le nostre
preghiere mutandosi in una serie di interrogativi che ci
ponevamo ogni giorno davanti allo specchio, senza mai
osare porli l’uno all’altra.
Come riusciva Ajshe in quei momenti a restare con-
centrata su ciò che i nostri figli andavano dicendo, e in-
tanto far da mangiare, pulire, lavare di continuo la bian-
cheria e il bagno? Come faceva ad aprire la bocca, alzare
le mani, vestirsi e fare la doccia? Come riusciva a ri-
spondere alle loro infinite domande?
Una volta Ajshe venne a sapere che sua cugina aveva
partorito un bambino nel mezzo di un bosco dove s’era
rifugiata con la famiglia. «Ha perso molto sangue»,
commentò, «ma ce la farà, i serbi non riusciranno a
trovarli in mezzo al bosco, non metteranno mai le mani
sul bambino».
A volte la invidiavo per questo, e mi sentivo inferiore
perché non sapevo fare lo stesso. Mi chiedo spesso se
esibiva quella forma assoluta di distacco perché per lei
era più facile vivere mostrandosi indifferente, svegliarsi
la mattina, fare il suo lavoro e poi andarsene a letto

126
mentendo a se stessa, come se ciò che stava accadendo
nel nostro paese non fosse vero, come se accadesse da
qualche altra parte, lontano da quelle pareti, a gente
che noi non eravamo più. Probabilmente era così stanca
di tanta violenza che testimoniarla, o sperimentarla, su di
lei non aveva più alcun effetto.
Quando inizio a sentirmi stanco, mi sdraio, aspetto
le parole giuste e invoco dio, perché in tali momenti
tocca a lui farsi vivo. E una volta pronunciate quelle
poche frasi lui non viene, e io sono solo, ma non sono
troppo triste. Forse ho dimenticato come si deve pregare.
O semplicemente mi sono sbagliato a desiderare una
cosa di cui ho sempre fatto a meno.
Ho tanto da aspettare, ad ogni modo, tredici mesi
tutti per me. Più ci penso, meglio mi sento, più luminoso
mi appare il tempo che ho davanti. È così che doveva
andare, penso tra me e me, e il trauma della prigione e
dell’espulsione che seguirà iniziano a dileguarsi come un
vecchio dalla vita del figlio.
Ho più di un anno per pianificare la mia vita, poi tornerò
a Pristina, e allora lo troverò, è quel che penso per ultimo,
questa notte dormo qui e domani dormirò altrove, e do-
podomani sarò un giorno più vicino a lui, alla vita che de-
sidero, e prima ancora posso scrivere, scrivere e scrivere,
sulla vita di mio padre e mia madre, che è stata una festa,
come mi hanno raccontato, sui miei figli e Ajshe, sull’estate
e l’autunno dell’anno in cui siamo venuti qui, sulle tante
carte che abbiamo compilato e sul Kosovo e la Serbia e la
guerra, la Jugoslavia e Tito, sui televisori e le radio che
osavamo accendere solo al buio.

Quella notte sogno dei serpenti. Siamo ancora in Ko-


sovo, e Ajshe è incinta e malata di cancro, e io la sto

127
portando in auto da una vecchia che ha scoperto per caso
un rimedio per guarirla. La donna stava mettendo un ca-
volo in salamoia, quando un serpente a sua insaputa s’era
intrufolato nel barattolo rimanendo soffocato. Per setti-
mane aveva secreto le sue tossine in quel liquido. Il cavolo
e il suo liquido, rasoj, erano una leccornia per il marito
della vecchia che era gravemente ammalato, e la donna
aveva pensato di servirglieli ad ogni pasto. Con gran sor-
presa di tutti, le condizioni dell’uomo erano migliorate
sensibilmente durante il mese successivo; l’uomo s’era li-
berato del cancro ed era un miracolo, aveva dichiarato il
medico che l’aveva seguito. Poi una mattina, prendendo
dal barattolo le ultime coste di cavolo, la donna s’era ac-
corta della piccola vipera che pendeva dalla forchetta.
Appena arriviamo noi, però, il bosco che circonda la
casa della donna inizia a bruciare, qualcuno o qualcosa
vi ha appiccato il fuoco e abbiamo fretta di trovare la
vecchia. Questa si precipita in cortile e grida che ha ap-
pena sentito l’ululato di un kulshedra, urla che stiamo
per morire, che ha squarciato il cielo e ci ammazzerà
tutti, e allora noi ci infiliamo di nuovo in macchina e io
premo l’acceleratore, ma procediamo con lentezza an-
gosciante, trascinandoci, e lungo la strada corrono persone
avvolte dalle fiamme, urlanti, che mi tocca investire, e
il fuoco ci sta alle calcagna, ci lecca le dita dei piedi e ci
frigge i capelli, ci afferra, e allora ad Ajshe vengono le
doglie, tanto forti che lei strepita come uno stormo di
cornacchie, e poi partorisce, non un bambino ma un ser-
pente, in tutta la sua lunghezza, lordo di sangue, che
sibila furiosamente, e Ajshe sviene, e io mi sveglio un
attimo prima che dal suo grembo mi salti alla gola af-
fondandovi i denti.

128
1 dicembre 2000

Ci siamo visti tante di quelle volte, era un medico, un car-


diochirurgo per la precisione. Mi portava in ristoranti, caffè e
musei e mi dava una paghetta come a un figlio, e poi prese in
affitto un monolocale per me nel centro di Belgrado.
L’edificio era all’interno di un isolato molto animato e di
fronte c’era una panetteria dove si recavano ogni giorno le stes-
se persone, la fragranza del pane fresco e lo scampanellio della
cassa arrivavano fino al mio appartamento al terzo piano.
Avevo un angolo cottura e un piccolo bagno, un mate-
rasso per terra e dei vestiti usati, che sapevano di cipolla e
dell’uomo che tanto tempo prima non faceva il medico.
La stanza era buia e malinconica, sebbene lui venisse a
trovarmi in continuazione, dopo il lavoro arrivava con ad-
dosso il peso della giornata, stanco morto, dentro di sé il
dolore dei pazienti e dei parenti, e allora ho pensato che
non esiste niente di più elevato delle cure di un medico, ed
era compito mio, pensai, allontanare la stanchezza da lui,
sgravarlo delle sue pene, mostrarmi utile e buono con lui,
perché il giorno dopo potesse di nuovo rimettersi in piedi,
curare, guarire, rianimare, operare.
A volte, quando moglie e figli erano via, mi invitava a
casa sua, una casetta indipendente a due piani sulla riva
del Danubio. Ci ho passato anche la notte. Era il posto
più bello che abbia mai visto, una favola.

129
L’ho amato, dio mio, quanto l’ho amato, era perfetto,
era grande e peloso come un gorilla. Con lui ho fatto
l’amore, l’ho accarezzato, massaggiato, ho fatto tutto ciò
che mi chiedeva perché non mi costringeva a fare niente, e
questa era la cosa migliore, gli leccavo le ascelle e l’inguine
in qualsiasi punto, gli piaceva, gli piacevo, e a me piaceva
che gli piacesse, e ovviamente mi piaceva anche lui. Sem-
brava mio padre.
Cosa vorresti fare nella tua vita, mi ha chiesto una volta, e
io non seppi rispondere, e provai vergogna per non aver pen-
sato alla vita dopo di lui, che cosa stupida, enormemente
stupida, perché la guerra era ormai alle porte, in attesa nelle
cantine chiuse e nei vicoli bui, stringeva la mano a uomini in
divisa.
Vado via dalla Serbia, non ce la faccio più a star dietro
a tanto odio, mi annunciò allora, ed io crollai, perché ora
sapevo per certo che un giorno lui non ci sarebbe più stato.
Ho intenzione di andare in Danimarca, c’è un ospedale
dove mi aspetta un lavoro, mi disse, ed io piansi contro il
suo petto massiccio, e gli dissi, per favore rimani, per favo-
re per favore non andare via, non andartene mai, e lui mi
ripeté con la solita cadenza, ehi, piccolo, dimmi cosa vor-
resti fare in questa vita, ho bisogno di saperlo perché presto
me ne andrò, e dalla mia bocca non mi riuscì di dire altro
se non: mi piacerebbe essere come te, proprio come te,
esattamente uguale a te.
C’è qualcos’altro che vorresti fare?, mi chiese e mi acca-
rezzò la schiena con le sue dita ruvide. No, non c’è nien-
t’altro, gli assicurai, e piansi ancora, avrei voluto piantargli
le unghie nella schiena, diventare la sua pelle o un suo oc-
chio, così mi porteresti con te, questo mi uscì dalla bocca
e lui mi disse che non si poteva fare, lo sai, sì, lo sai perché, e
così gli ho detto che credevo di saperlo.

130
Piccolo, mi disse allora, piccolo, piccolo gli vaporò dal-
la bocca, in tal caso farò un paio di telefonate, va bene?,
ma non devi dire a nessuno di me e di noi due, mi fece
con gravità, non dovrai mai dire di noi due, e io figurati se
lo dirò, assolutamente, mai, te lo posso promettere, di
questo non si può parlare perché nessuno lo capirebbe, non
è così?, e il giorno dopo, fatta la sua telefonata, l’uomo
mi informò che avrei iniziato a studiare medicina a Pristi-
na l’autunno seguente, hai sentito, all’università di Pristina,
c’è già un appartamentino che ti aspetta.
Allora mi venne da ridere, ed era un riso sarcastico, per-
ché era tutto incredibile, non è che uno diventa dottore
come niente, soprattutto uno come me, dissi scuotendo il
capo, e l’uomo mi afferrò e urlò PICCOLO, puoi diventare
qualsiasi cosa, al mondo c’è posto per ogni genere di dot-
tori, ricordatelo, puoi diventare qualsiasi cosa, e mi teneva
il cranio tra le sue mani possenti, lavora duramente e non
mollare, mi disse agitato, e quel momento, quel momento
che sembra impossibile, sai quando sei sicuro che non c’è
più niente da fare, tu l’hai provato, non è vero?, mi ha
chiesto, ed io ho annuito diligente, perché l’avevo provato
tante di quelle volte, è il momento migliore, mi disse, IL
MIGLIORE, credimi, l’ho visto in persone malate e persone
sane, in me e nei miei cari, l’uomo di fronte alla morte è
più vicino che mai allo splendore della vita – ricordatelo
quando sei sul punto di rinunciare, perché allora sei dav-
vero al massimo; la mancanza di scelta significa un nume-
ro illimitato di possibilità.
Promettimi che andrai a Pristina, mi disse, stringendomi
ancora la testa come una castagna.

dillo, insistette l’uomo, e io dissi va bene e piansi ancora


e ancora, scusami

131
non scusarti ma dimmi «Diventerò un dottore», e così
dissi diventerò un dottore
dimmi «lavorerò duramente», e così ripetei anche que-
sto, lavorerò duramente, lavorerò duramente

promettimi che non dirai di te o di noi a nessuno, chi


sono io e chi sei tu, prometti che te ne starai per conto tuo
senza creare problemi o provocare domande fuori luogo,
che non ti metterai in mostra, sì, questo lo sai, ma te lo
dico comunque per sicurezza, piccolo, non fidarti di nessu-
no, fai i tuoi esami, promettimelo, promettilo ed io gemet-
ti e promisi tutto quanto, va bene, andrò a Pristina diven-
terò un dottore te lo prometto

ti amo, si udì poi nella stanza, non importa chi l’avesse


detto perché quelle parole erano vere –

e poi mollò la presa e se ne andò, e non lo vidi mai più,


eppure stava con me dappertutto, misticamente, era nei
documenti che mi aveva consegnato e nella calligrafia dei
miei nuovi certificati scolastici, nei vestiti da cui il suo
profumo non scompare mai

pensavo che non avrei mai incontrato nessuno come lui,


ma poi ho incontrato te

132
9

2003-2004

La prigione è un edificio moderno e imponente. Asso-


miglia a un’enorme piovra appisolata; gli edifici circondati
dalla recinzione elettrica sono come i tentacoli che si espan-
dono dalla torretta di guardia. La cella di dieci metri quadri
ha una finestra che si può aprire e, sebbene ci siano delle
sbarre di cemento, l’ambiente è ventilato, per cui posso
sentire gli odori della pioggia e del bosco. Ho un letto,
un tavolino, un bagno con lavandino e un armadietto con
articoli da toeletta, e ho sentito dire che se mi comporto
bene potrei avere la televisione. La televisione!
Nel sacco che mi hanno consegnato ho trovato vestiti
grigio scuro, maglie e magliette, pantaloni, scarpe, sandali,
calze e biancheria intima, lenzuola, uno spazzolino da
denti – tutto l’essenziale. Ho avuto anche posate di pla-
stica e una scodella per il pranzo col coperchio.
Andiamo a ritirare il cibo nelle cucine e mangiamo
nelle nostre celle, non tutti insieme come mi ero imma-
ginato. Meglio così, penso durante il primo pasto, riso
con pollo, così i prigionieri non passano troppo tempo
insieme a complottare. Il giorno successivo ci sono patate
col ragù, il terzo minestra con pane tostato, il quarto
pasta al sugo.
Sveglia alle sei, e dopo la colazione, di solito pappa
d’avena, panini con salame e formaggio, e caffè, alle

133
sette si comincia a lavorare. Sono stato destinato alla
lavanderia. È un compito facile e senza problemi, la-
viamo vestiti e lenzuola dei detenuti e sistemiamo la
roba pulita in buste numerate che vengono poi ritirate
alla fine della giornata. Si pranza alle undici, poi c’è
un altro turno di lavoro.
Dopo le tre, abbiamo due ore di tempo libero, si può
andare in cortile, giocare a ping pong, calcio o basket,
allenarsi in palestra. Quindi arriva l’ora di cena, dopo
di che le porte vengono chiuse, verso le otto, e si aspetta
il mattino seguente, quando tutto ricomincia. Le giornate
sono talmente simili che non si riesce a distinguerle l’una
dall’altra.
Tutto considerato non è poi un brutto posto, e faccio
fatica a pensare che sia davvero una prigione, perché è
molto più confortevole del campo profughi dove abbiamo
trascorso alcuni mesi io e Ajshe dopo Pristina, e decisa-
mente più gradevole del triste centro di accoglienza dove
abbiamo vissuto il nostro primo anno in questo paese –
qui possiamo passare il tempo facendo dei lavori, socia-
lizzando, e mangiare addirittura più del necessario.
Le guardie si fidano di noi e della nostra parola, e di
rado nascono discussioni, perché tutti si mostrano contenti.
Non sento nessuno lamentarsi per essere stato trattato
male, ben pochi manifestano apertamente insoddisfazione.
Non mancano i momenti di malinconia per i figli, le mogli
e i genitori rimasti a casa, molto più di rado per la libertà,
per l’impossibilità di fare un salto al parco divertimenti o
una passeggiata nei boschi, o al cinema o ai giardini o al
ristorante, o di fare un giro in macchina, per quanto a
parecchi questo genere di cose manchino.
Ad Ajshe, comunque, io dico il contrario: non venire
qui, è un ambiente terribile, non voglio che tu mi veda in

134
queste condizioni, non voglio che tu ti ricordi di questo
posto, e così lei non viene mai a trovarmi. Mi dice che
i bambini hanno creduto alle bugie sul mio conto. Sem-
bra relativamente tranquilla al telefono e mi ripete le
stesse parole di conforto, anche se immagino che se ne
accorga che le tribolazioni di cui le parlo non sono au-
tentiche, che nelle parole che ci scambiamo al telefono
c’è la stessa distanza oceanica che è sempre esistita tra
noi. La chiamo durante i primi mesi dopo la mia con-
danna, dopo non più.
I detenuti non sembrano sentire l’umiliazione della
loro condizione, cosa per me sorprendente, poiché in
Kosovo stare in prigione rappresenta per tutta la famiglia
una profonda vergogna, cui si può rimediare solo mo-
strando a tutti che la persona condannata è esclusa dal
nucleo famigliare. I genitori del condannato di solito
rinnegano il figlio, che diventa qualcosa di incorporeo,
con cui si interrompe ogni comunicazione: impossibile
parlare con l’aria. Invece si deve dire: purtroppo si è
unito alla gente sbagliata ed è finito in prigione, se lo merita
quel cane, che non sarà mai perdonato, ne risponderà per-
sonalmente ad Allah, che gli precluderà per sempre le porte
del suo regno, è questa la sua punizione, così sia, che bruci
all’inferno per l’eternità, che lì si ricordi di quel che ha
fatto, e tra le fiamme si domandi, razza di bastardo, se ne
è valsa la pena.
In Kosovo, le prigioni sono luoghi in cui i vivi vor-
rebbero essere morti. Eppure i prigionieri dopo essere
usciti dal carcere non tornano alla vita normale, ma dopo
il rilascio vorrebbero tornare dentro. Anche se la cella è
minuscola e affollata, il cibo è scarso e la doccia, i servizi
igienici e le cucine sono fatiscenti, per quanto le guardie
e i carcerati più brutali divorino vivi i più deboli, la pri-

135
gione è pur sempre una casa, dato che l’ex detenuto non
ha più un posto nel mondo esterno. Tutti sanno il tuo
nome e la tua colpa che non può essere perdonata.
In Kosovo per chi è condannato al carcere la scelta
migliore è togliersi la vita, e molti lo fanno. Perché sof-
frire in prigione, vivere nel terrore degli altri e in un
ambiente degradato, per poi finire dannato comunque?
Se ti fai fuori prima di andare in galera, c’è almeno la
possibilità che tu possa essere perdonato, forse dio non
condanna il crimine con la stessa severità dei viventi,
forse dio vede oltre, capisce perché qualcuno ha trafficato
con armi o droga, derubato o violentato, forse dio è in
grado di intravedere in chi si suicida un coraggio e un
rispetto di sé tali da prendere in considerazione un se-
condo giudizio, e nella migliore delle ipotesi sgravare il
colpevole dai suoi peccati.
Qui, invece, quando chiudono le celle per la notte i
carcerati si ritrovano alle finestre a cicalare, si scambiano
notizie e commentano i programmi televisivi come se
facessero parte di quel mondo cui torneranno dopo la
detenzione. Le sbarre alle finestre sono distanziate l’una
dall’altra quanto basta per far passare dei pacchetti di
sigarette, che sono la valuta della prigione e sono usati
dai detenuti come posta in gioco quando fanno partite
a scacchi o a ping pong, per esempio. È possibile scam-
biarsi delle cose tra i diversi piani utilizzando le scarpe;
legati i lacci a mo’ di cordicella la scarpa viene tirata su
o fatta scendere giù da un piano all’altro.
Nella cella accanto alla mia c’è un anziano. Ci par-
liamo qualche volta di sera, anche se la maggior parte
delle volte me ne sto per conto mio perché non sono
dell’umore. Dice di essere stato condannato per reati
finanziari.

136
«Di’ sempre che sei stato condannato per reati finan-
ziari, in questo posto funziona», dice, e quando poi gli
racconto che sono stato condannato per reati finanziari,
scoppia a ridere.
«Illecito contabile, dico bene?».
«Illecito contabile».
Se ti comporti in modo amichevole e rispettoso verso
tutti, puoi tirare avanti in santa pace. Bisogna essere
invisibili in una maniera che diventi parte di te. Se
sembri non pensarci affatto, se mimetizzato con l’am-
biente ti sposti nelle aree comuni senza dare nell’occhio,
è abbastanza facile. Ho smesso di fumare perché non
voglio portarmi dietro nulla che qualcun altro possa chie-
dermi. Ho capito che questo converrebbe a chiunque in
assoluto: non possedere, o almeno non mostrare di pos-
sedere quello che altri possano concupire. Non faccio
conoscenze, non ho opinioni su niente e non frequento
sedute terapeutiche, corsi di autocontrollo o le classiche
festicciole con la grigliata. Faccio persino mostra di
parlare la loro lingua peggio di quanto la parli realmente.
La sera mi sforzo di scrivere, ma è difficile non avendo
niente da leggere. Non conosco la lingua di questo paese
al punto da trarre ispirazione dalla letteratura locale,
perciò sollevo la questione quando faccio il punto sul mio
soggiorno qui con il caporeparto.
Viene fuori che è un grande amante della letteratura
e quando gli dico che studiavo lettere a Pristina, finiamo
per parlare dei libri che abbiamo letto e di quanto lui
abbia sempre sognato di studiare letteratura e scrivere
un libro, prima di finire a occuparsi di scienze ammini-
strative.
«È così che va la vita», dice. «Pochi possono fare
quello che vogliono».

137
«È proprio così», confermo.
«Fammi avere un elenco dei libri che vorresti leggere,
vedrò cosa posso fare», mi fa quando io mi lamento del
fatto che gli unici libri in inglese nella biblioteca della
prigione sono gialli e romanzi d’amore.
«Dice davvero?», gli chiedo.
«Senz’altro», mi conferma.
Emozionato, gli elenco i classici della letteratura mon-
diale che amo di più. Se gli faccio capire che leggo solo
libri che hanno cambiato il mondo, libri che leggendoli
possono educarti e farti apprendere qualcosa di impor-
tante, magari si mostrerà più comprensivo con me, vedrà
in me qualcosa di più che un delinquente.
In meno di una settimana, arrivano tutti i libri che
ho richiesto. Il tamburo di latta, La montagna incantata e
Morte a Venezia, Lo straniero, La stanza di Giovanni e Il
ritratto di Dorian Gray, Delitto e castigo e Le ore.
Sebbene i romanzi siano abbastanza simili, per la mag-
gior parte storie di uomini o ragazzi che la vita mette
alla prova nelle maniere più incredibili e tragiche, mi
rendono comunque felice.
Alla chiusura delle celle mi infilo i tappi nelle orecchie
e leggo. Ogni tanto il caporeparto mi domanda cosa
penso dei libri, ed io gli dico che mi piacciono molto.
Non me la sento di rispondere onestamente e dire quello
che penso davvero, che in realtà provo invidia per i loro
autori, come pure per il talento che rivelano nell’imma-
ginare storie e mondi, l’abilità di modulare i pensieri in
forma scritta, in un testo che scorre in maniera bella e
suadente, in parole che avviluppano dentro di sé un nu-
mero illimitato di altre parole.
Grazie alle parole lo scrittore può vivere la sua vita
nel modo più onorevole possibile.

138
Mentre leggo i libri che mi hanno procurato non posso
che rimpiangere il tempo perso negli ultimi anni, penso
a quanto poco sia riuscito a leggere a fronte del piacere
che provo nel farlo.
Mi sforzo di scrivere qualcosa ogni giorno, ma le mie
frasi sembrano senz’anima e nessuno dei testi che butto
giù dà vita a un personaggio che potrebbe essere reale,
riconoscibile, in nessun modo riesce a rendere visibile
il mondo che vorrei descrivere. Vado rimuginando una
serie di storie – un combattente dell’UCK che si finge
serbo, un ragazzo assetato di vendetta dopo aver assistito
all’omicidio dei suoi genitori che vuole farsi giustizia da
sé, un trafficante di armi smanioso di fare soldi che
finisce per spararsi – ma nessuno dei personaggi da me
creati mi dice cose che mi facciano sentire naturale co-
minciare a parlarne, e mai quello che ricevo da loro sulla
carta coincide con la realtà che sto cercando di ritrarre
con la mia penna.
Scrivo di me stesso e della mia vita come in un diario.
Comincio con l’infanzia, i miei primi ricordi di un’epoca
in cui la mia più grande preoccupazione era fare tardi a
scuola o all’appuntamento con gli amici, il tempo in cui
si provava un piacere di vivere che non sarà più possibile
da adulto – quella meravigliosa capacità di buttarsi, provare
interesse e guardare al futuro, e il momento in cui ci si
rende conto che è svanita per sempre.
Scrivo di quella giovinezza in cui anche un piccolo
contrattempo è vissuto come la fine del mondo, un
brutto voto in geometria, uno schiaffo. Scrivo della de-
lusione di quando da adulto apri gli occhi e ti domandi
se è tutta qui la tua vita, il mondo nella sua crudele
menzogna, così diverso dalle storie che cercano di imi-
tarlo, incoraggiandoti a tenere duro nonostante tutto.

139
Perché per la maggior parte delle persone, il mondo è
una foresta in preda alle fiamme; quel che viene distrutto
è assai più del nuovo che si riesce a costruire, ci sono
più persone che mai rispetto al passato, ma di vita ce
n’è meno di prima.
Scrivere non è particolarmente liberatorio, ma aiuta a
passare il tempo e a sopportare la solitudine. Il mio tac-
cuino non è pieno, anche se scrivo con una calligrafia
larga e spaziata di tutta quanta la mia vita, vincite e per-
dite. Il risultato, un quadernetto con le orecchie agli angoli
dove intere vite si intersecano per poche decine di pagine,
è qualcosa di patetico.
Una volta ho letto da qualche parte che la realizza-
zione dei sogni ha i suoi svantaggi, perché dopo aver
sperimentato il tuo sogno, smetti di desiderare. Mi ha
fatto riflettere, e reso anche un po’ triste, pensare che
si dovrebbe in qualche modo avere paura dei propri
sogni, specialmente della possibilità che si avverino.
Se il valore del sogno è nella capacità di sognare, che
valore può avere un sogno che si è realizzato? Ad esem-
pio, che senso avrebbe un libro se la sua pubblicazione
significasse la fine dei sogni del suo autore?

Penso molto a Miloš. La sensazione provata guardan-


dolo negli occhi, quel meraviglioso intreccio di distanza
e vicinanza, il dubbio se stesse guardando me o qualcuno
alle mie spalle. Mi chiedo che tipo di vita stia vivendo
attualmente, se si è già laureato, se lavora come medico,
da chirurgo come si augurava, o forse gestisce una clinica
privata, se ha una casa, un cortile e un giardino a pochi
passi dalla riva, tutto ciò di cui mi parlava. Lo penso,
penso al suo modo di reggere il piatto, alle sue dita come
pinzette, a quell’estate e a quell’ultima notte cui sono

140
tornato tutti i giorni, che ho rivissuto nella mia mente
tante e tante di quelle volte.
Immagino il momento in cui lo vedrò di nuovo, ci
incontreremo per caso sul suo posto di lavoro o per
strada, mi chiedo come potrebbe essere quel momento
in cui lui mi vede e io lo vedo dopo tutti questi anni,
ci baciamo subito lì all’entrata dell’ospedale o in mezzo
al traffico, ce la sentiremmo di farlo?, allo stesso in-
crocio dove l’ho visto per la prima volta, o semplice-
mente ci abbracciamo e andiamo a bere tranquillamente
un caffè da qualche parte, o mangiamo qualcosa in un
ristorante, e solo dopo andiamo nel suo appartamento
o da me, ci prendiamo come se il tempo non fosse mai
trascorso, e magari non scambiamo nemmeno una parola,
non ci stacchiamo l’uno dall’altro, e tutto è chiaro e
come già scritto: io e lui nella casa che è nostra e nessun
altro vi può entrare e c’è un ampio letto principesco
dove dormiamo insieme ogni notte, stanze in cui nel
corso del tempo le nostre cose si espandono come città
metropolitane.

141
6 dicembre 2000

Arrivai a Pristina un pomeriggio di giugno di diversi anni fa.


Tutto comincerà in Kosovo, mi dissi, diventerò un dottore qui,
nel mezzo di una città devastata, distrutta dalle fondamenta.
Dottore.
Chirurgo.
Cardiochirurgo.
La gente del posto era infuriata e sconvolta... i soldati
con le loro armi e attrezzature erano come una pioggia fit-
ta: ammazza o crepa, questo si leggeva sulla bocca di tutti;
come se ogni serbo e ogni albanese intuissero ciò che stava
per accadere, come se anch’io lo sapessi, che un giorno sa-
rebbe toccato anche a noi
ammazzare o crepare

Camminai dalla stazione delle corriere all’indirizzo che


mi era stato dato in gran segreto, come in una giungla di
notte, bussai a una porta e all’albanese che aprì dissi il mio
nome e mostrai i documenti che mi ero procurato. Non ave-
vo mai incontrato un albanese prima, o almeno non avevo
mai parlato consapevolmente con uno di loro, ne avevo solo
sentito dire cose più o meno bestiali, ed ero così terribilmen-
te spaventato da essere preparato a tutto.
Ti stavo aspettando, mi disse l’uomo, che fu molto ami-
chevole e mi fece subito accomodare nella casa, che era

142
bella, e spaziosa, come la gemella di quella del mio amato
che era rimasto a Belgrado, benvenuto, mi fece l’albanese,
e mi chiese di sedermi al tavolo in ottone, ed io mi sentii
come un impostore, come un orfano, ma dopo tutto era
quel che io ero.
L’uomo mi passò una serie di carte cui apposi la mia
firma, le iniziali M.M., mi consegnò documenti e moduli
dell’università di Pristina, insieme a una busta e alle chiavi
della mia futura casa, che è proprio qui vicino, mi disse
l’uomo, a pochi passi dall’università, ci metterai poco per
andare alle lezioni.
Poi mi accompagnò nell’appartamento, sai benissimo
dove, quello al secondo piano, di fronte al forno, aveva
l’aspetto della cella in cui rinsecchisce un santo dimentica-
to. Ora hai avuto tutto quanto è stato pattuito, disse l’uo-
mo, ricordati di stare attento, qui, come un serbo in una
moschea di albanesi, e quando se ne andò, l’appartamento
si restrinse fino a diventare una gabbia dove è rinchiuso un
cucciolo di tigre separato da sua madre.
Nessuno sa nulla di me, a meno che non sia io a dirglie-
lo, pensai la prima notte, ed ero sul punto di perdere la te-
sta, questo posto e questa città sono terribili, poveri e insi-
gnificanti, pensai la notte dopo, e urlai con la testa affon-
data nei cuscini, ma la terza e la quarta notte, e le succes-
sive, furono già più tranquille, e feci diversi sogni: in uno,
alcune tigri si aggiravano per una piazza, sotto un cielo
limpido, crogiolandosi al sole sotto gli occhi della gente; in
un altro girovagavano per le strade, irrequiete frantumava-
no le finestre, annoiate abbattevano le piante nei cortili e
spaccavano furiosamente le serrature; nel terzo, alimenta-
vano l’orrore terrorizzando i bambini con gioia maligna.
Aprii la busta, che era piena di banconote. E c’era un
biglietto in cui lui mi chiedeva di promettere ancora una

143
volta ciò che avevo già promesso: come può ancora rivan-
gare le stesse cose, pensai mentre ripiegavo il foglietto nella
busta, dal momento che mi ero allontanato da lui e lui era
ancora più lontano da me; non si rendeva conto della bar-
barie in cui ero precipitato.

144
10

2004

Sono venuto a sapere che per motivi di buona con-


dotta sarò rimesso in libertà prima del tempo prescritto.
Una settimana prima della fine della mia detenzione
incontro il caporeparto per l’ultima volta. Mi chiede
come intendo affrontare gli aspetti pratici della mia
espulsione. Tua moglie sa che stai per uscire, che stai ar-
rivando? E i tuoi figli, sanno che il papà sta tornando a
casa? Hai dei bagagli in cui sistemare le tue cose? Sai
che puoi portare due grandi valigie e un bagaglio a mano?
Hai un appartamento in Kosovo, un posto dove stare? E
il lavoro? E i soldi?
Devo rispondere negativamente a quasi tutte le do-
mande. Schivo il suo sguardo e vorrei dirgli solo che da
qui andrei volentieri direttamente all’aeroporto. Comincio
a provare vergogna, i vestiti addosso me li sento lerci,
umidi e caldi.  
«Tutto ciò sarà sicuramente difficile», afferma com-
prensivo.
«Restituirò quei libri», riesco a dire.
«Puoi portarli con te se vuoi», mi fa lui, schiarendosi
la voce.
«No, non posso».
«Ma certo che puoi prenderli se vuoi, hai il mio per-
messo».

145
«Mi dispiace, ma sono oggetti voluminosi, non c’è
posto», dico. «Però è un pensiero gentile».
«Come vuoi».
Poi mi dice che il mio volo per Pristina via Budapest
partirà il giorno successivo alla mia uscita dal carcere, e
che prima sarò accompagnato a casa per fare i bagagli.
«Ho organizzato le cose in questo modo», mi comunica.
«Grazie».
«Forse hai voglia di chiamare tua moglie», mi dice
scandendo le parole. Come sapesse che non ho detto
niente ad Ajshe.
«Sì».
Dopo, mi spiega il caporeparto, mi porteranno per la
notte alla stazione di polizia, quindi due agenti in bor-
ghese mi scorteranno fino a Pristina, volando con me e
rilasciandomi solo dopo l’atterraggio. Mi viene da pensare
che non è necessario, come potrei scappare a diversi chi-
lometri di altezza? Sto quasi per chiedere di fare il
viaggio da solo, senza lasciare trapelare il motivo per
cui vengo scortato: spaventerebbe solo gli altri passeggeri,
in particolare i bambini. E nella mia mente giuro che
non tenterò di fare niente, che me ne tornerò a Pristina
come convenuto.
Invece mi limito a dire «va bene», e respiro profon-
damente.
Ho le mani sudaticce. E poi, all’improvviso, perdo le
forze, un senso di spossatezza si propaga per tutto il
corpo, come il piccante dentro la bocca, e faccio del mio
meglio per restare dritto. Il caporeparto mi porge un
fazzolettino di carta con cui mi copro la faccia bagnata,
lo premo sugli occhi, da cui stillano gocce che non riesco
a fermare.
«Mi spiace», fa lui. «Mi dispiace».

146
«No, è a me che dispiace. Grazie», aggiungo poi, e
scopro il mio viso congestionato e arrossato.
«Non fa niente», replica lui. «Capisco che non è
facile».
«Io... forse potrei prenderli quei libri».
«Ma certo», risponde, e si tira su, e allora mi alzo
anch’io, quindi mi porge la mano, che afferro mentre
mi avvicino ancora – trasformando quella stretta di mano
in un mezzo abbraccio e il mezzo abbraccio in un bacio
che gli do sulla guancia destra.
Mi allontana un po’, mi fissa per un momento scon-
certato, poi abbassa lo sguardo sulle mie labbra e l’espres-
sione del viso si fa più seria, quindi torna a guardarmi
negli occhi, che luccicano come i suoi, e infine mi bacia
anche lui sulla guancia destra.

Ajshe mi guarda come un fantasma mentre varco la


soglia. È un mattino di primavera inoltrata ma fa freddo,
lei porta un grembiule, i suoi occhi sono ridicolmente
grandi, nella bocca aperta vedo una lingua intorpidita,
e lungo i fianchi le mani sottili bianche come carta.
«Sei davvero tu?», mi chiede mentre mi sfilo le scarpe.
«Ciao, Ajshe». È tutto quello che riesco a dirle, anche
se al vederla mi sento sopraffatto, la mia casa è linda, l’odore
del cibo e del bucato appena fatto mi riportano alla mente
le silenziose mattinate passate insieme, quando i bambini
erano a scuola e noi riuscivamo a calarci temporaneamente
in una quotidianità raggrumata. «Devo partire».
Le passo davanti andando in camera da letto, e per
prima cosa tiro fuori dal mio bagaglio i libri che ho ri-
cevuto in carcere, che sistemo sul comodino di Ajshe.
Prendo le valigie dall’armadio, le stesse che abbiamo
usato venendo qui, e le appoggio sul letto rifatto. Ca-

147
micie, jeans, un vestito, la biancheria intima, calzini,
sono tutti lavati, stirati e ripiegati.
Mentre dispongo la roba nei bagagli – per qualche
motivo ho una fretta tremenda, pur avendo tanto di
quel tempo a disposizione, almeno così mi è stato detto –
Ajshe, in piedi sulla porta della camera da letto, si mette
a singhiozzare.
«Ajshe», faccio io. «Per favore».
«È terribile», mormora, allontanando la mano dalla
bocca, e lancia un rapido sguardo agli uomini in piedi
nell’ingresso con un’espressione impotente, poi si asciuga
la guancia e fa un respiro profondo.
«Va bene», mi dice, poi mi si avvicina e mi afferra la
mano. Le pareti sono bianche e austere, il nostro letto
coperto da un piumone bianco sembra un orso polare
in letargo, e le tende color beige pendono dall’asta come
due impiccati.
«Lascia fare a me», insiste, e ho appena il tempo per
dirle una cosa importante, il mio desiderio che lei possa
dare i libri posati sul comodino ai bambini come regalo
da parte mia, quando saranno un po’ cresciuti, e lei mi
trascina di là in cucina, mi mette a sedere e comincia a
preparare una frittata, che mi ritrovo davanti col contorno
in cinque minuti.
«Mangia», mi ordina Ajshe, poi mi accarezza i capelli
e scompare dalla cucina, e mentre io mi accingo a man-
giare, sento Ajshe che va sprimacciando i miei vestiti
in camera da letto, canticchiando una canzone che non
riesco a seguire, e me la immagino mentre impacchetta
le mie cose afferrando ogni capo come fosse la mia mano,
quella che una volta lei stringeva.
Dopo una ventina di minuti, Ajshe porta i bagagli
pronti nell’ingresso, poi torna in cucina. Non è la stessa

148
persona di un momento fa; ora i suoi occhi sono ardenti,
le labbra serrate come se avesse appena morso un frutto
acerbo. Viene a sedersi di fronte a me.
«Dirò che te ne sei andato, che ci hai lasciati», attacca
bruscamente, trafiggendomi con lo sguardo. «A mia so-
rella e Besnik, a tutti. Lo farò», continua decisa, ed io
fisso il piatto vuoto davanti a me.
«Ajshe», la interrompo – e avrei voglia di dirle tante
cose, chiederle scusa per tutto, ammettere che è colpa mia,
che sono stato io a farci del male, che la vergogna che prova
per me è del tutto giustificata e non è nulla in confronto al
degrado umiliante al quale ho condotto me stesso, per cui
non posso più farmi vedere da nessuno, e che questo mi to-
glierà l’onore, tutto, ma lei non mi dà modo di dire nulla.
«E se qualcuno ti chiede qualcosa, risponderai allo
stesso modo. Va bene?».
«Sì».
«Se lo voglio, mi sposerò di nuovo. Con uno straniero.
O un kosovaro. Con chi mi pare. È chiaro?».
«Sì».
Sono rivendicazioni che non avrebbe mai osato fare se
fossimo stati soli. Quindi, tira fuori dalla tasca una busta
e la posa sul tavolo. Ci preme sopra l’indice, e la spinge
verso di me. «Questa è la metà dei nostri risparmi».
«Ajshe», dico ancora, e lei si ritrae. «Puoi prenderli,
ma a condizione che prometti di non dire a nessuno la
verità su quello che hai combinato, su quel che sei, ho
saputo quel che hai fatto e a chi l’hai fatto, hai violentato
quel povero ragazzo, non è vero?, è quello che dicono
tutti, e mi fai schifo», sibila serrando i denti, gli occhi
traslucidi, poi ritira il dito dalla busta.
A questo punto si alza in piedi, prende il piatto davanti
a me e lo lancia furiosamente nel lavandino; il rumore

149
prodotto dallo schianto riecheggia come uno squillo del
telefono.
«Dreqi të hangt!», impreca, si appoggia ai bordi del
lavandino e si abbandona a un pianto irrefrenabile, ed
è come se si spaccasse in due: la schiena minuta si in-
gobbisce e viene scossa al ritmo dei singulti, mentre le
gambe pendono flaccide dai fianchi come reggesse tutto
il suo peso con le braccia.
Mi alzo, infilo la busta in tasca e mi avvicino a lei, la
afferro per la spalla, ma lei si strappa alla mia presa.
«Non mi toccare!», urla, poi china la faccia verso il la-
vandino e allo stesso tempo gli uomini si precipitano in
cucina.
«Va tutto bene, signora?», chiede uno di loro ad Ajshe
mentre l’altro mi fissa come un cane appena slegato.
«Sì», risponde Ajshe e si asciuga la faccia con la carta
da cucina, mentre io mi dirigo nel corridoio, infilo le
scarpe, afferro le valigie.
«Ajshe», dico nuovamente, ed ecco che lei si presenta
davanti a me, si toglie il grembiule e lo appende a un
chiodo.
Tiene le braccia dapprima incrociate, ma poi le punta
verso di me, e dopo pochi passi cauti mi stringono come
un vaso prezioso.
«Grazie», dico, e noto una goccia di sudore o una la-
crima che affonda nella sua felpa, mentre sento uno
degli uomini che dà un colpo di tosse.
«Addio», mormora Ajshe e si ritira verso la porta
della cucina. «Addio, Arsim», mi ripete con più forza,
il suo sguardo è penetrante. «Abbi cura di te».
La porta si chiude, davanti c’è una silenziosa rampa
di scale, una serie di gradini dove cozzano gli angoli
delle valigie, poi si apre una seconda porta che conduce

150
fuori verso il giorno che profuma dei capelli di mia
moglie e di un congelatore appena aperto, una fredda
luce primaverile che lampeggia tra i rami del bosco vici-
no – uno tsunami dai colori cangianti che si catapulta
sull’entroterra come una manta, per poi risalire la mon-
tagna, lavando le cicatrici sui suoi fianchi.

151
12 dicembre 2000

PENSACI QUALCHE VOLTA


MI SARÀ DI SOLLIEVO:

un giorno andremo via di qui


un giorno ce ne andremo tutti
e voleremo laggiù
furiosamente

152
III
Il diavolo rinchiuse la figlia di dio e il serpente in una
delle caverne dentro la sua montagna.
«Mangia scarafaggi, falene, ragni e scorpioni, poi ratti,
pipistrelli, volpi e lupi, e danne la metà alla ragazza», ordinò
il diavolo al serpente che si contorceva per l’orrore. «Verrò
a trovarvi una volta all’anno, il giorno di San Giorgio, per
verificare che tu stia facendo come ti ho ordinato», spiegò,
scagliando la vipera che gli pendeva dalla mano contro le
pareti rugose della caverna e lanciando un’occhiata alla ra-
gazza che dormiva tranquillamente avvolta nella cera d’api.
«E quando l’ultimo osso di lupo sarà stato perfettamente
spolpato, uno di voi divori l’altro», concluse il diavolo.
Al compimento del tredicesimo anno, ad attendere il dia-
volo c’era la scena più grandiosa su cui avesse mai posato
gli occhi; la ragazza era diventata tutt’uno con la sua preda,
nella sua splendida pelle di serpente, nella sua magnificenza
alata, che ora viveva del buio, del serpente, come il serpente
di lei.
«Bolla», disse il diavolo, e lasciò che il sole dalla bocca
della caverna si riflettesse dentro, illuminando la sua crea-
zione.
Era la prima volta che la ragazza sperimentava la luce, e
quella luce era bellissima.

155
11

Pristina 2004

Gli anni passati lontano da qui mi scorrono davanti


in un lampo mentre esco dall’aeroporto di Pristina. Alla
luce di un tardo pomeriggio di aprile, le valli intorno
mi ricordano i polmoni avvizziti di un fumatore, e du-
rante la corsa in taxi per il centro guardo con sconcerto
gli edifici ai quali sembra che un uragano abbia strappato
i tetti e abbattuto i muri, salvando solo le fondamenta
in cui ora vive la gente; osservo la polvere sospesa nel-
l’aria, le strade segnate da buche a metà piene di acqua
nera come petrolio, cartelloni pubblicitari eretti sulla
ghiaia e rovesciati dal vento, montagne che sembrano
imam chini in preghiera col sarik in testa, spazzatura
bruciata ai bordi dei campi e incanalata nei solchi dei
terreni aridi.
Arrivo in centro e tirandomi dietro le valigie vado a
sedermi su una panchina lungo l’unica strada pedonale
della città, e mi accendo una sigaretta.
Ha un sapore davvero buono, la prima da mesi, il
mentolo mi scende fresco nei polmoni, ma dopo un po’
tutto mi si confonde davanti, la sigaretta e tutte le
persone intorno, la lingua che parlano, il modo in cui
sono vestiti, le donne con il capo avvolto nell’hijab, dal-
l’aria infelice, mentre da baracchine improvvisate ac-
quistano cibo avvolto in minuscoli pacchetti, destinati

157
a finire nei sacchetti di plastica che reggono in mano.
Questa è una prigione, molto peggio di quella da cui
provengo.
Pernotto in una modesta locanda, ai margini del centro
cittadino. Accendo le luci nella stanza che illuminano il
copriletto color vinaccia, la moquette verde oliva e le
tende marroni. Dopo essermi seduto sul letto, mi preci-
pito immediatamente a spegnere le luci, a chiudere le
tende lasciando che la vergogna e il rimorso facciano il
loro lavoro: lacerarmi le budella, sbattere la testa sul pa-
vimento, ripetere quelle parole che non ammettono re-
plica, quelle che fuoriescono dalle pareti di notte e che ci
diciamo nei momenti peggiori, quelli più orrendi che
proviamo solo quando tutti gli altri dormono.
È la notte più barbara della mia vita, una notte che
non augurerei nemmeno al peggiore degli uomini.

Il giorno dopo fa un caldo atroce, nel pomeriggio


arrivo coi bagagli al mio precedente condominio a Ul-
piana, con le vesciche alle mani e i vestiti fradici. Af-
fronto con cautela le scale, lascio i bagagli nell’atrio fu-
ligginoso e salgo i gradini di quelle scale famigliari fino
alla porta del nostro vecchio appartamento, che è stata
cambiata e adesso ha tre serrature.
Dietro la porta si sentono dei passi e davanti c’è uno
zerbino che ti dà il benvenuto, due paia di sandali di
plastica, scarpette da ginnastica per bambini e scarpe
di cuoio nero strappate lungo le cuciture. Mentre la
testa comincia a farmi male, busso prudentemente alla
porta, nei palmi delle mani sento come dei vermi, e la
bocca è carta vetrata.
«Chi è?», domanda una voce bassa e profonda dietro
la porta.

158
Non rispondo, e torno a bussare.
«Chi è?», ripete la voce, e poi sento una donna fare
il nome di un uomo con voce bassa e agitata.
Bashkim.
«Bashkim», faccio io. «Dai, falla finita, sono io. Apri».
L’uomo è corpulento, determinato e sembra arrabbiato.
Sotto la fronte alta e larga spiccano occhi minacciosi e
gonfi. Fisso il suo viso al tempo stesso giallastro e ros-
siccio, le mani tozze e piene di calli, i pantaloni consunti
alle ginocchia, i piedi nudi con segni di ferite e le unghie
spezzate, e poi il mio sguardo ritorna sui suoi occhi, che
ora sono più visibili.
«Chi sei?», chiede l’uomo.
«Questo...», attacco, e ingoio un boccone d’aria, «è
il mio appartamento», riesco a dire, correggendo la mia
postura e spingendo il petto in fuori.
L’uomo mette le mani sui fianchi e allarga le gambe
in modo da coprire l’intera porta, e i suoi occhi si ri-
traggono in una singola striscia opaca e pelosa.
«Sono stato in guerra», dice. «Non temo le armi, non
temo la prigione, né Allah, finché mi occupo della mia
famiglia», continua con tono deciso, l’aria di un piantone.
Quindi alle sue spalle appare una donna che mi guarda
con occhi accesi, regge in braccio un bambino avvolto
in un telo e tiene per mano un ragazzo in età scolare.
«Io ho comprato questa porta», mi dice. «E tutto il resto
che vedi», continua. «Non c’era nulla qui dopo la guerra,
i muri erano a pezzi, il pavimento sfondato, in cucina erano
rimaste soltanto le tubature. Nel bagno non c’era altro che
calcinacci e un odore disgustoso e pungente».
«Ma tu vivi nel mio appartamento», cerco di inserirmi
deciso nel discorso, anche se credo alle parole di que-
st’uomo, anche se so e comprendo che l’appartamento

159
che una volta era la mia casa non è più la mia casa, non
sarà mai più la mia casa.
«Io vivo qui, questo è il mio appartamento adesso»,
dichiara l’uomo e sbatte la porta, e non si sente alcun
suono là dietro per i cinque minuti in cui me ne sto sul
pianerottolo prima di girare i tacchi e scendere le scale.
Vado in un bar con le valigie, ordino un caffè, osservo
le persone che mi passano accanto, mangio il biscotto
allo zucchero che accompagna il caffè, avvolto in una
plastica sottile. C’è stato un tempo in cui gli uomini si
sparavano se uno rubava qualcosa a un altro, penso, ma
quel tempo è alle nostre spalle e non sono sicuro che
sia una cosa buona o cattiva.
Mentre osservo uno stuolo di ragazzine che ridono al
tavolo accanto al mio, mi rendo conto di quanto io sia
patetico. È un pensiero che non mi va giù: essere stato
tante cose in passato – uno studente, uno scrittore, un
padre, un marito e un compagno – e improvvisamente
così poco, niente di niente.
Tiro fuori di tasca il telefono e compongo il numero di
Ajshe, perché sono sopraffatto da un bisogno impellente
di raccontare ogni cosa, il nostro appartamento occupato,
l’onnipresente puzza di carne e olio fritto, l’albanese che
qui parlano in modo diverso da noi, la sporcizia, la polvere
e l’umidità che avvolgono le strade, i negozi di oreficeria e
di abbigliamento e le sartorie e i chioschi e i bazar le cui
cianfrusaglie accatastate sui marciapiedi fanno assomigliare
tutta la città a una discarica – anche perché nel paese
sono arrivate comunità di cinesi che hanno aperto qui i
loro discount, e mi pare quasi di vedere lo sconcerto sulla
faccia di Ajshe: che diavolo ci fanno i cinesi in Kosovo?
Mi si avvicina un bambino. Regge in mano il fondo
di una scatola di cartone, su cui ha disposto pacchetti

160
di sigarette, accendini e schede telefoniche locali. Compro
due pacchetti di sigarette e gli chiedo dove siano i suoi
genitori, e il ragazzetto mi dice che il padre è morto e
la madre è malata – e io mi domando quale sia la cosa
peggiore: che venda sigarette per strada o che io dubiti
di quello che dice.
Non riesco a immaginare con quali parole raccontare
tutto questo, se salutare Ajshe all’inizio della chiamata
o scusarmi o chiederle come sta, per cui finisco per ri-
mettermi il telefono in tasca.
Il cameriere, un ragazzetto scuro appena maggiorenne,
mi chiede se desidero ordinare ancora qualcosa. Gli do
una moneta da 50 centesimi per il caffè, e poi gli metto
in mano una banconota da cinque euro.
«Ne avrai altre due uguali stasera quando vengo a ri-
prendermi le mie cose», gli prometto, e abbasso lo sguar-
do sulle valigie dall’aspetto miserabile che racchiudono
tutto ciò che possiedo.
«Sicuro», mi fa, annuisce e afferra le impugnature so-
lide dei bagagli.
«Non c’è nulla di valore. Vecchi vestiti, lenzuola, un
paio di asciugamani, scarpe e carte, roba che non vale
niente. Controlla, se vuoi».
«Sicuro», mi ripete. «Non ti preoccupare, zotëri, io
sono qui fino alla chiusura. Se non mi trovi, chiedi al
banco. Mi chiamo Naim».
«Sta bene», rispondo, alzandomi e porgendogli la ma-
no. «Grazie, Naim».
Per prima cosa mi reco all’appartamento di Miloš, ma
al suo posto non c’è più un condominio, solo una pen-
sioncina malandata. Deluso, me ne torno in centro,
supero il bar dove ci eravamo incontrati, e quando mi
accorgo che al suo posto adesso c’è un negozio abban-

161
donato, continuo il mio percorso, sorprendentemente
un po’ sollevato, oltrepasso la Biblioteca nazionale, che
ha l’aspetto di un grappolo di nidi di vespe, poi la facoltà
di filosofia di fronte alla quale è stata eretta una statua
a Fehmi Agani, un politico ucciso in guerra, oltre il
prato tutto gobbe del campus. Torno di nuovo all’unica
strada pedonale della città, in fondo alla quale c’è il
Teatro nazionale che ha l’aspetto di un capannone, con
la scalinata che dà su piazza Madre Teresa. Al centro
della piazza si staglia la statua equestre di Skanderbeg
che sembra, vista da lontano, più un corvaccio infan-
gato che un eroe nazionale. In fondo alla strada, giro a
destra per fare una passeggiata nel parco cittadino, ma
poco prima dell’ingresso mi colpisce la vista di un cartello
bianco davanti a una casa dove affittano una stanzetta.
La casa con il tetto di lamiera è vecchia e sbilenca, e
le finestre che si aprono sulla strada trafficata sono
piccole e malandate, ciò nonostante chiamo il numero
segnato sul cartello. Mi risponde prontamente un uomo,
e io mi presento solo col mio nome e vado subito al
punto. L’uomo dice con voce distratta che lui abita nella
stessa casa e che sarà lì ancora per poco, per cui, se mi
va, posso andare a vedere la stanza subito.
Dopo qualche minuto esce dal cancello di ferro e
sbircia tutt’attorno, è smunto e ingobbito, si muove con
l’indolenza dei malati terminali, e dalle mani prive di
anelli, dalla barba lunga, dai capelli incolti e dai vestiti
larghi e sformati, si può arrivare alla conclusione che
non ha nessuno che si prenda cura di lui, nessuno che si
assicuri che non deperisca ulteriormente.
Mentre attraverso la strada, l’uomo mi individua e
abbozza un sorriso prudente. Ha solo pochi denti, e sono
incrinati, con chiazze scure.

162
«Salve, sono Behgjet, come sta?», si presenta in mezzo
al rumore della strada allungandomi una mano molliccia,
e quando la stringo sento che siamo fatti della stessa
pasta, con le stesse radici.
«Arsim. Bene, e lei?».
«Bene, bene».
Gli occhi stanchi sono pigramente adagiati nelle orbite,
e le guance e la fronte pendono come strofinacci dalla
corda del bucato.
Scendiamo pochi gradini e arriviamo in un corridoio
non piastrellato, verniciato con diverse tonalità di verde,
marrone e giallo, e una porta su ciascun lato. Le porte
sono identiche e nel mezzo, contro la parete, c’è una
vecchia stufa, sulla mensola al di sopra sono sistemati
alcuni utensili, contenitori di plastica, pacchetti di tè e
caffè, barattoli, un sacchetto di fagioli bianchi e una
busta di pomodori troppo maturi. Sul pavimento è posata
una cesta col pane, dei secchielli e c’è un tubo che si
snoda fino a un box doccia, anche quello all’esterno,
isolato da una tenda annerita. Il bagno è sotto un tet-
tuccio di lamiera in un cortile di venti metri quadrati,
al cui centro c’è il solito «salottino» di plastica che si
trova ovunque, un tavolo rotondo bianco e tre sedie, a
una delle quali manca una gamba.
«Io abito qui», dice l’uomo, indicando la porta della
sua stanza, coi suoi sandali posati accanto. «E questa è
la stanza in affitto», continua, girando la testa nella di-
rezione opposta e infilando l’indice e il medio in tasca
per estrarre un grosso portachiavi.
Apre la porta, e la stanza promana un odore di legno
stantio. Entro, l’ambiente è buio e umido, come il fiato
di un asmatico, il pavimento è ricoperto da una moquette
marrone a quadri, e alle finestre ci sono tende della

163
stessa tinta, un cassettone traballante in un angolo, nel-
l’altro una sedia portata dentro dal cortile e sistemata
di fronte a una minuta scrivania. Al centro della stanza
c’è un vecchio letto matrimoniale in legno con un ma-
terasso segnato da macchie e aloni.
«Farebbero cento euro al mese», annuncia l’uomo dal
corridoio, ed io mi volto a guardarlo freddamente.
«Pago settanta euro, avrà l’affitto del primo mese su-
bito e poi sempre l’ultimo giorno del mese».
«Ottantacinque», mi fa l’uomo. «Siamo in centro».
«Settanta. Altrimenti, vado immediatamente a cercare
altrove».
«Settanta», ripete l’uomo, e chiude gli occhi per un
momento come affondando nei pensieri di quel che farà
di quella cifra, qui sono molti soldi. «Va bene», cede,
«settanta euro».
Gli giro le spalle per tirar fuori dal mio portafoglio le
banconote, poi mi volto per allungargliele.
«Grazie», mi dice, mettendo il denaro nella tasca po-
steriore, poi stacca due chiavi dal portachiavi e me le
mette in mano.  
Non resto lì a guardarmi intorno, ma vado al bar a
ritirare le mie cose. Il cameriere è seduto a un tavolino
vuoto ed è felice di rivedermi. Va a prendermi le valigie
ed io gli allungo la somma promessa. Sulla via del ritorno
verso quella casa, le borse non pesano più quasi nulla.
Sistemo la roba nel cassettone e in un armadio, avvolgo
materasso, coperte e cuscini in lenzuola e federe d’im-
portazione. Odorano ancora del detersivo preferito di
Ajshe, lavanda e vaniglia.
Mi siedo alla scrivania e chiamo Ajshe, resto calmo
finché il telefono non inizia a squillare, al primo segnale
sento improvvisamente il catarro che mi si addensa in

164
gola, al secondo il cuore mi batte violentemente e co-
mincio a tremare con tutto il corpo, al terzo faccio già
fatica a tenere il telefono all’orecchio, e al quarto realizzo
che Ajshe non ha intenzione di rispondere, e allora scatta
la segreteria dove lascio un messaggio, le parole che, mi
viene da pensare, forse saranno le ultime che le rivolgo:  
«Ciao, sono arrivato sano e salvo e sto abbastanza
bene».

Durante le prime settimane lascio raramente la stanza,


tengo le tende serrate e me ne sto sdraiato sul letto, mi
appisolo, mi sveglio, mi riaddormento, bevo dell’acqua,
provo a mangiare biscotti e patatine, alla fine faccio un
salto al negozio per comprare gulasch in scatola, caffè
in grani e pane appena sfornato che fa in tempo ad am-
muffire prima che lo consumi. Quando mi rendo conto
che non ho un macinacaffè mi sento frustrato, butto i
chicchi nella spazzatura e tutto mi sembra al tempo
stesso assurdo e sprecato.
Comincio a puzzare, comincio a deperire, e a sentire
voci, parole sussurrate all’orecchio in lingue diverse,
sento bussare alla finestra, bambini che urlano, brusii
sotto il letto. A volte mi sembrano voci umane, altre
volte versi di animali, a momenti ho la certezza che in
un angolo della stanza si sollevi una figura alta e magra
che mi fissa, che però si rivela essere un cassettone, o
una sedia, o gli indumenti ammassati sul suo schienale.
A volte arrivo a rivolgerle la parola, prima un saluto,
quindi le chiedo di andarsene, e allora obbedisce, evapora
come fumo nell’aria, defluisce sotto il tappeto o viene
risucchiata fuori dai telai delle finestre.
Il mio padrone di casa esce presto al mattino e torna
alle otto di sera, quando si prepara alla bell’e meglio

165
qualcosa da mangiare, poi si chiude nella sua stanza, ac-
cende la tivù e la guarda per un paio d’ore, fino a quando
non si addormenta per poi ricominciare tutto daccapo.
Sono stanco di quella sua routine, della regolarità di
ogni sua giornata, stessi pasti, stessi programmi tv, stessi
vestiti, ogni santo giorno.
Piango al mattino, piango di giorno, piango di sera,
piango di notte, sulla strada per il parco di fronte a casa,
sulla panchina del parco, e mentre attraverso la strada
per tornare a casa, non riesco a smettere. Vado al bazar,
piango anche lì, compro un macinacaffè, recupero dalla
spazzatura i chicchi che vi avevo rovesciato e mi godo
una tazza di caffè, ma il giorno dopo non riesco ad al-
zarmi prima di sera, nemmeno quello dopo, nemmeno
il successivo.
Ci vuole del tempo prima che mi abitui alla mancanza
di occupazioni e di contatti umani, prima che mi renda
conto di dove vivo, prima di smettere di urlare nei miei
incubi o di brancolare al risveglio tastando là dove credo
che siano i miei figli o Ajshe.
Una sera Behgjet bussa alla mia porta, e immagino
sia l’ultimo giorno del mese. Quando apro, mi guarda
con un’aria perplessa.
«Io guido l’autobus», attacca, e si apre in un sorriso
sdentato. «La compagnia è alla ricerca di autisti per una
linea. Tu sai guidare un autobus?».
«Certo», rispondo d’istinto, anche se non ho mai gui-
dato un mezzo simile, ma devo pur cominciare a fare
qualcosa perché i miei risparmi si esauriranno presto.
«Bene. Vieni con me domattina», mi fa, posandomi
una mano sulla spalla come un vecchio amico. «Ma prima
devi rimetterti un po’ in ordine», mi dice, poi si gira e
se ne va.

166
Mi do una lavata, taglio le unghie, mi lavo i denti e
mi rado la barba la sera stessa, cambio anche le lenzuola,
lavo i vestiti e metto in ordine la stanza. Mi agita il
dubbio se ne valga la pena, perché guidando un autobus
potrei incontrare qualcuno sul lavoro, anche vecchi co-
noscenti. Ad ogni modo l’imbarazzo e la vergogna mi
risultano più tollerabili del non far nulla. Penso che sia
questo a distinguermi da questa gente.
Al mattino facciamo un breve tragitto a piedi fino al-
l’ufficio dove incontro il mio futuro capo. Ci stringe la
mano, poi mi si siede davanti e attacca a spiegarmi il
percorso, da Vreshta al centro, oltre il Teatro nazionale,
il campus universitario, i dormitori per studenti e Ulpiana,
fino all’ospedale e ritorno.
«Facile, è un percorso piacevole e semplice», dice il
capo, «Behgjet può spiegarti tutto ciò di cui hai bisogno
in pratica, ma qui vigono due regole: fai sempre atten-
zione e sii sempre puntuale», continua e poi si alza
dietro la scrivania per congedarci.
«Grazie», dico, e gli porgo la mano, che lui non nota
nemmeno.
La settimana dopo comincio a guidare, il vecchio e
soffocante autobus tedesco si muove pesante ma sicuro,
reggendo la fatica delle strade sconnesse, delle ripide
salite e della ghiaia profonda.
Con me c’è un giovane bigliettaio che chiede venti
centesimi a chiunque salga a bordo, non fa pagare i
suoi conoscenti, e mi parla tutto il giorno delle cose
più banali, e io gli rispondo annuendo o con semplici
grugniti, finché capisce che è meglio non chiedermi
nulla. Il traffico è caotico e aggressivo, le auto vanno
dovunque trovano spazio e strombazzano per puro di-
vertimento, gli uomini alla guida lanciano urla ai pedoni,

167
fischi alle ragazze, salutano i conoscenti spingendo la
testa fuori dal finestrino, la sigaretta pendente dalle
labbra screpolate.
Le giornate sono lunghe, praticamente non ho pause,
e lo stipendio è sotto i duecento euro al mese, più gli
spiccioli che, d’accordo con il bigliettaio, ci mettiamo
in tasca alla fine della giornata. Ad ogni modo questo
salario modesto non mi crea poi tanti problemi, perché
al volante dell’autobus il mio corpo non è più schiavo
dell’ozio ma soggetto al ciclo della vita, e quindi sorrido
ai passeggeri che salgono a bordo e mi ringraziano al
momento di scendere, guardo negli specchietti laterali,
metto la prima, pigio l’acceleratore e innesto la seconda
e poi la terza per spostarmi alla fermata che viene dopo,
poi alla successiva e alla seguente e a quell’altra ancora,
e mi accorgo che in mezzo al traffico scruto tutte le sa-
gome che colpiscono il mio campo visivo, ogni essere
umano percepito dai miei occhi.
E un giorno, poche settimane dopo aver cominciato
a fare l’autista, la mia attenzione viene attirata dall’altra
parte della strada, è lui, sì, quel modo di camminare,
di tenere le mani, il collo sottile come quello di una
gru, la curva della nuca e i capelli sul collo, è lui, mi
dico, e allora freno di botto, fermo l’autobus sul ciglio
della strada, tra le proteste del bigliettaio e dei pas-
seggeri, ed ecco che mi precipito fuori e mi metto a
correre e lo raggiungo davanti alla moschea Bazaar che
ha il colore di una minestra di fagioli, e afferro le sue
spalle delicate che improvvisamente non sembrano più
le sue spalle, e allora l’uomo si volta rivelandomi la
sua faccia spaventata, scusa, dico, scusami, ti ho scam-
biato per un altro, scusami tanto, zotëri, pensavo fossi
un altro, e a quel punto l’espressione dell’uomo si fa

168
meno confusa e mi augura una buona giornata, fa un
cenno col capo e si allontana.
Torno di corsa all’autobus e riprendo il tragitto, ma
l’affanno e il sudore che aumenta non mi abbandonano
per un po’, il mezzo sobbalza lungo il percorso e mi di-
mentico di fare più di una fermata, e ad un certo punto
il bigliettaio mi chiede chi fosse quell’uomo, se era mio
fratello o un amico, ma io non rispondo, e tremo per
tutto il resto della giornata, come avessi sulle spalle uno
straccio bagnato nell’acqua gelida.
Quella sera scrivo ad Ajshe una lettera. Credo che sia
più rispettosa di un sms o di un messaggio alla segreteria
telefonica, e insieme più difficile da ignorare. Ripiego il
foglio in una busta e ci scrivo sopra nome e indirizzo di
Ajshe, ci attacco un francobollo, e quando smetto di tre-
mare capisco che devo trovarlo, l’uomo che ho incontrato
su quelle stradine dissestate quasi dieci anni prima, è lui
che devo trovare, lui è qui, lo so, è vivo.

Ciao,
quando sono tornato qui, ho pensato che non avrei mai
più potuto provare la felicità, ma oggi l’ho provata – credo
di poter essere felice qui.
Stai bene,
A.

169
15 dicembre 2000

Sai quando si dice che devi amare te stesso prima di po-


ter amare un altro, nutrire prima te stesso e poi gli altri,
aiutare te stesso e poi gli altri –
che tipo di persona ha il coraggio di dire questo, chi ha
le palle per dire parole del genere
che gli indifesi, gli affamati e i trascurati non meritano
sostegno, cibo, amore?
E se poi si è incapaci di amare se stessi, allora che succede?

qui tutti dicono che vogliono aiutarmi – vogliamo aiu-


tarti vogliamo aiutarti vogliamo aiutarti vogliamo aiutarti
a stare meglio, così dicono ogni giorno

che BARZELLETTA ricevere aiuto adesso, stare bene in un


posto del genere
si mettono in ridicolo dovrebbero viaggiare indietro nel
tempo
e trovarsi dentro la stalla quando avevo otto anni e
mio padre mi disse
adesso sei un uomo
mi mise in mano un coltello
ammazza quel vitello deforme, zoppica, vedi
ammazzalo
aprigli la gola, urlò mio padre

170
e quando strinsi il coltello, la madre del vitello legata a
un palo prese a dimenarsi, a tirare le corde e a muggire
sfrenatamente, e io guardai dritto in quegli occhi tristi, la
madre SAPEVA, e io gettai il coltello a terra e mi precipitai
a casa, in quella casa dove erano più le volte che avevo
paura che il contrario
mio padre ammazzò quel vitello, la madre lì accanto a
guardare,
e per i mesi seguenti mi fece soffrire la fame LA CARNE
NON È CIBO PER I VIGLIACCHI
mi disse
e mi colpì sulla bocca

o dovrebbero essere là dove i miei amici mi dissero che


un cretino non dovrebbe andare a scuola, un ragazzo non
si comporta come una femminuccia, non venire più doma-
ni non venire mai più
avrebbero dovuto esserci allora
o quando mio fratello mi disse mi vergogno di te
o quando non avevo un tetto e dormivo nei giardini
pubblici
o quando ero al fronte e non sapevo cosa fosse la pietà
dove erano allora?

171
12

Pristina 2004

Vado all’università. Dico al signore anziano seduto al


banco all’entrata che sono un ex studente, che i miei
studi sono stati interrotti dalla guerra e che vorrei com-
pletarli, arrivare fino alla laurea, a partire dall’autunno
seguente, se possibile. Mi fissa attentamente negli occhi
e mi chiede se ho qualche documento che attesti che ho
studiato qui prima della guerra, e quando gli porgo il
mio vecchio certificato di iscrizione e il libretto, l’uomo
mette giù quei documenti senza nemmeno controllarli e
inizia a ruotare i pollici, prima di grattarsi lentamente
la fronte.
«Ah, è così... questa mi sa che sarà una faccenda lun-
ga... Devi pagare di nuovo la tassa di iscrizione, farti
convalidare gli esami sostenuti uno per uno, concordan-
doli coi diversi docenti, cose del genere», dichiara l’uomo
con autorevolezza.
«Capisco», dico, e appoggio sul banco due banconote
da cento euro, so che andranno a tacitare l’ufficio tasse
ma anche lui.
L’uomo fa scivolare le banconote dalla sua parte e
promette di sistemare quelle scartoffie per la settimana
seguente.
Mentre recupero i documenti, chiedo notizie di un
certo Miloš Micić, uno studente di medicina che ha fre-

172
quentato nel mio stesso periodo. L’uomo si mostra chia-
ramente infastidito quando sente quel nome, appoggia
le mani agli angoli del banco e non risponde sul momento,
ma io aggiungo che è importante, devo ritrovare questo
ex studente. Allora scuote la testa e sbuffa dicendo che
di serbi non c’è più nemmeno l’ombra.
«Sicuramente sai che l’università è stata smembrata
durante la guerra e subito dopo, e la facoltà di medicina
è stata trasferita in Serbia», dice l’uomo. «Tutti i serbi,
studenti, docenti e il resto del personale universitario
se ne sono andati. Quella facoltà non esiste più».
«Lo so».
«Quindi studiava medicina?», chiede col volto teso, la
bocca serrata in una linea sottile e gli occhi che si incre-
spano. «E perché dovrebbe essere rimasto qui?».
«E già».
«E già», ripete l’uomo e si passa la grossa mano sul
viso. «Quest’uomo può essere praticamente ovunque, im-
magino tu te ne renda conto, potrebbe trovarsi in Serbia
o in Montenegro o in Bosnia o in Croazia o in Slovenia o
in qualsiasi altro luogo, perfino in America, in Australia».
«Djalosh», mi fa, ripassandosi di nuovo la mano sulla
faccia. «Figlio mio», aggiunge poi enfaticamente, «lascia
perdere».
Le settimane seguenti faccio un salto al municipio e
all’ospedale e nei centri sanitari, vado a controllare nelle
biblioteche, nei ministeri e negli uffici pubblici, in caffè
e ristoranti, e tutte le persone che incontro – medici,
infermieri, impiegati, camerieri, proprietari di ristoranti –
mi danno risposte simili. Nessuno conosce nessuno con
quel nome. Probabilmente pensano che lo stia cercando
per un motivo segreto, per una vendetta, o per riscuotere
del denaro.

173
Alla fine mi scoraggio. Le mie giornate sono insulse,
vuote, giacciono sul pavimento della stanza come budella
fumanti estratte da un maiale appena scannato, e riesco
a stento a trascinarmi al lavoro. Non ho energia per
nient’altro, nemmeno per un saluto ai passeggeri, non
mi interessa dove vanno, se hanno pagato il biglietto o
no, non mi interessano le voci intorno, e alla fine ciò
che mi circonda non mi dice più niente.
Una sera, sulla strada di casa, noto un televisore usato
in vendita a un prezzo stracciato di fronte a un bazar,
e quando il venditore mi assicura che funziona e che,
se voglio, posso pagare metà del prezzo subito e l’altra
metà dopo averlo provato, concludo l’affare.
Comincio a seguire una serie turca su due famiglie in
lotta tra loro, poi il telegiornale, che parla ogni giorno
delle stesse cose: della ricostruzione, del sostegno dal-
l’Europa e dagli Stati Uniti per rivitalizzare l’economia
del paese ed eliminare la disoccupazione, dell’indipen-
denza, della giustizia. Le persone vogliono far tornare i
conti, ma allo stesso tempo dimenticare la guerra, an-
darsene da qui il più rapidamente possibile, verso l’oc-
cidente, ma allo stesso tempo vedere il proprio paese
prosperare con gli investimenti, coi soldi e il lavoro degli
altri.
Ogni notizia porta con sé lo strascico del sangue che
è stato versato, perché di qualsiasi cosa si parla sempre
con il filtro della guerra: gli edifici fatti saltare in aria
verranno ricostruiti, le strade bombardate saranno riparate
e le case abbandonate troveranno i loro abitanti. I serbi
avranno quel che si meritano.
Degli amministratori non ci si può fidare, intascano
il denaro delle tasse, nominano i propri parenti nei posti
pubblici ben retribuiti, tutti lo sanno e tutti ne parlano,

174
ma la gente vota per le stesse persone alle elezioni suc-
cessive convinta che i soldi abbiano già saziato questi
personaggi, rendendoli più propensi a costruire le scuole
che hanno promesso e ad aprire delle fabbriche, così se
la raccontano, quei vermi hanno già rubato più di quanto
gli servisse. Forse chi vota per questi uomini a qualche
livello deve avere la sensazione che il denaro avrebbe
su di sé lo stesso effetto.
La cosa più sconcertante è che dopo discussioni del
genere la gente ringrazia dio perché la guerra è finita.
Non riesco a capire come e perché le persone si ingannino
a vicenda, fiaccate dall’inerzia e dalla miseria si sono ri-
dotte a credere che ci sia una speranza, che valga la
pena di parlare del domani anche se la vita di fatto è
stata ieri, pensano che un giorno andrà tutto bene e le
cose si aggiusteranno ancora meglio, perché dio è grande,
così dicono, dio è grande, dio è buono.
Dormo, mi sveglio, mangio, guido l’autobus, mangio,
dormo e guido ancora, e trovo difficile non pensare al
senso della vita che conduco. Ha senso guidare un au-
tobus un giorno dopo l’altro per un salario che a malapena
basta per sfamarsi? Mangiare una scatoletta ogni sera,
vivere in una casa piena di muffa, aver paura dell’inverno
imminente, paura di congelare, paura di non mancare a
nessuno se morissi – che senso ha tutto questo? Stare
da solo, vivere solo? Una vita infelice con qualcuno è
sempre meglio di una vita infelice da soli.
Difficile non pensarci, perché la disperazione qui per-
mea ogni cosa; è quell’uomo smunto laggiù, che indossa
un completo e siede all’angolo della strada, forse di
fronte al suo negozio, è la vecchia che attraversa la
strada col suo pezzo di pane sotto il braccio, sono i figli
e i nipoti affamati con cui sta per dividerlo, tutti quei

175
ragazzini che chiedono l’elemosina e vendono sigarette
davanti ai ristoranti, le mani lerce protese sui tavoli,
quelle donne che scompaiono nelle botteghe degli orefici
per impegnare i propri gioielli.
Col trascorrere dei giorni mi convinco che sia sempre
più improbabile trovarlo, e sempre più probabile che un
giorno non riesca più nemmeno ad alzarmi dal letto.
Ecco fatto. Fine di una vita, una pietra su quanto è
stato detto e quanto resterebbe da dire.

Una sera al telegiornale parlano di un manicomio. Al-


cuni giornalisti stranieri sono andati a visitarlo e hanno
pubblicato i loro reportage su prestigiosi periodici in
lingua inglese. In quei resoconti dicono che dopo la
guerra vi sono stati rinchiusi i serbi rimasti nel paese
come rappresaglia per quello che avevano fatto agli al-
banesi durante il conflitto. I giornalisti affermano di
aver invitato le organizzazioni internazionali per i diritti
dell’uomo a farsi carico della situazione, poiché le con-
dizioni nel nosocomio sono spaventose.
Guardo un video dell’ospedale e dei suoi pazienti,
alcuni pelati altri coi capelli arruffati, mentre sono mez-
zo addormentato. Una voce concitata nel video dice
che i pazienti storditi e anoressici vagano come son-
nambuli negli spazi del manicomio, urlando costante-
mente, chiedendo ai rari visitatori un po’ di soldi, si-
garette, vestiti – non è possibile toccarli perché hanno
i pidocchi, sono coperti di micosi e piaghe. Non ci
sono bagni decenti, tutt’al più nei corridoi ci si imbatte
in secchi dall’odore nauseabondo.
I pazienti si masturbano uno di fronte all’altro, si stu-
prano a vicenda e danno alla luce bambini disabili che
non sanno camminare né parlare, li si vede anche in te-

176
levisione, una ragazzina muta sdraiata su un letto che
ha l’aspetto di un ragno ubriaco.
Vengono costantemente somministrati farmaci scaduti,
non gli vengono dati stimoli di alcun tipo, non fanno
nessuna attività, mangiano fondamentalmente pane e
polenta, dormono a turno sul pavimento ricoperto di
escrementi o sui letti riservati a pochi.
Immagino che dovrei provare tristezza o rabbia a
quella vista, risentimento e disgusto, ma non sento niente,
penso semmai che sia una buona cosa che quei pazienti
o prigionieri, comunque li si voglia chiamare, se sono
serbi, hanno avuto finalmente quello che si meritano,
pagano finalmente per quello che hanno fatto a questa
gente, per aver reso la nostra situazione quella che è.
Non sono stati portati lì senza una ragione, penso, e
così la pensano di certo molti politici locali, e quindi
non fanno nulla. Mi chiedo solo come un medico o un
infermiere qualsiasi possa lavorare in un posto del genere,
seguendo così da vicino questi malati.
E poi. E poi ecco che lo schermo mi mostra la sua
faccia, è proprio la sua faccia, per pochi secondi, quella
che vedo. È un miracolo, come un sogno – come un’aqui-
la maestosa a due teste che vola in una sala da ballo
sfarzosa e deflagra sulla testa delle persone in centinaia
di banconote.
Si dondola rannicchiato sotto una finestra dalla quale
scende su di lui poca luce, quanto basta per farmi di-
stinguere il suo sguardo smarrito, quell’espressione ir-
rancidita dalla noia, uno scorcio delle spalle strette, delle
braccia magre e delle gambe ossute, le mani delicate av-
vinghiate alle ginocchia.
Quando l’immagine cambia, cado in ginocchio davanti
al televisore, istintivamente afferro i suoi bordi come per

177
riportare indietro l’immagine e vederlo ancora una volta.
L’affanno mi impedisce di sentire la voce del giornalista
e non riesco ad alzarmi da terra, anche se il notiziario è
già passato ad altro.
Cado lungo disteso. Resto per terra così tanto tempo
che sento sulle mie guance imprimersi i motivi ricamati
del tappeto. Ad un certo punto ce la faccio ad afferrare
il bordo del letto e i piedi cominciano a obbedirmi di
nuovo, anche le mani, e quando finalmente mi distendo
sul letto, affondo la testa nel cuscino, mi sento strana-
mente riposato.
Poi mi alzo. Sistemo i vestiti nel cassettone, predi-
spongo la sveglia, cambio le lenzuola, raddrizzo le tende,
faccio una breve passeggiata, lavo il piatto e la forchetta
della cena precedente e torno nella stanza con un bic-
chiere d’acqua in mano. Dopo averlo bevuto, mi accorgo
che la stanza ha un buon profumo.
Spengo le luci e mi siedo a gambe incrociate sul letto.
Il bicchiere appoggiato sul tavolo sembra un pezzo di
corallo.
Non chiudo occhio tutta la notte perché so esattamente
cosa fare dopo, dove andare, cosa dire.
Forse esiste, dopo tutto. Dio.

178
4 dicembre 2001

hai mai tenuto in mano una pistola e sparato hai sentito


il suo peso nel palmo e quanto è pesante e rovente quando
fai fuoco?

hai mai detto a un paziente tu sopravviverai sapendo che


non ce la farà e lo hai imbottito di calmanti e assistito alla
sua morte al suo capezzale?

hai mai sognato il diavolo – come esce dalla riva e


avanza verso di te per poi sdraiarsi sotto lo stesso ombrel-
lone – un sogno così reale che al mattino pensavi che stesse
respirando contro il tuo viso e non osavi aprire gli occhi?

hai mai detto ti amo anche se non lo pensavi?

sei mai stato in guerra hai ucc

Tu hai

io sì

179
13

Pristina 2004

Parto domenica. Compro una macchina fotografica, un


registratore e una valigetta di pelle, indosso il mio unico
completo e noleggio un Suv, che mi costa parecchio.
Mentre esco dalla città mi viene da pensare che per
tutta la vita sono stato uno che aspetta. Alcune persone
sono così. Aspettano, si spostano da una stanza all’altra
e aspettano, piangono e aspettano, stanno seduti in pol-
trona e aspettano, aspettano di sposarsi, aspettano di
diventare genitori, aspettano che i figli si laureino, aspet-
tano che sia pronto da mangiare, che arrivi il weekend,
che il salario aumenti.
Poi ci sono quelli che non aspettano ma agiscono, quelli
che sanno chiedere e per questo ottengono qualcosa,
quelli che non sanno nemmeno cosa sia aspettare, quelli
che finiscono la scuola, si accoppiano, fanno figli e lavorano
incessantemente e si prendono quel che gli spetta.
Io non starò più ad aspettare nemmeno un momento, mi
ripeto, spingo sull’acceleratore e mi rifiuto di avere paura.
Me lo riprendo, mi dico ad alta voce, me lo riprendo, mi
riprenderò una volta per tutte quello che mi hanno tolto.
Supero innumerevoli case l’una la copia dell’altra,
costruite quasi ai bordi della strada. Il piano terra di
quegli edifici a due, tre e quattro piani è quasi inva-
riabilmente occupato da uno spazio commerciale vuoto,

180
espressione del sogno naufragato del suo proprietario,
testimonianza di un padre che non è mai riuscito ad
avviare un’attività, di un figlio che ha capito che non
si fanno affari in mezzo al deserto e si è trasferito con
la famiglia in città. Solo dopo aver lasciato il Kosovo
ho iniziato a mettere in discussione il costante bisogno
degli albanesi di avviare aziende famigliari, e stando
lontano ho capito quanto sia irragionevole, perché non
puoi aprire in ogni edificio un negozio, e certamente
non un’attività che renda.
Finestre e balconi danno sulla strada, non è cosa gradita
ficcare il naso nel cortile dei vicini, e donne e ragazze che
stendono il bucato sui balconi hanno un’aria triste mentre
osservano le macchine in transito, come sperando che qual-
cuna si fermi nel cortile e le porti via. Hanno tutte lo
stesso aspetto, viste da lontano, un modo lento di muoversi,
la faccia rigida e lo sguardo vuoto di chi sta perdendo la
testa nella struggente noia del tempo che passa.

Il viaggio dura molte ore, anche se il posto non è lon-


tano da Pristina, poiché le strade sono in pessime con-
dizioni. Parcheggiata l’auto di fronte al cancello arrug-
ginito dell’area nosocomiale, scendo e con la macchina
fotografica al collo comincio, con gesti teatrali, a scattare
foto dell’edificio pesantemente segnato da muffa e crepe
che ricorda una caserma militare con piccole finestre a
croce. Il prato rinsecchito che circonda i muri malandati
lo fa sembrare un fienile bruciacchiato al cui interno
spunta una barca abbandonata.
Faccio foto di mezze facce che fanno smorfie dietro
le finestre rotte, di un boschetto recintato da cui filtra
una nebbiolina spettrale, di una siepe di filo spinato che
separa il mondo dei vivi da quello dei morti come il mu-

181
retto di pietra di un cimitero, di un cortile pieno di
mozziconi di sigaretta con qualche panchina di legno
gonfiato dalla pioggia.
Poi arrivano. Da dietro l’edificio mi vengono incontro
delle guardie e qualcuno del personale, che dapprima mi
invitano garbatamente ad allontanarmi, e poi, quando
non ubbidisco, mi minacciano con modi violenti, cui re-
plico dicendo che sono un reporter che viene dall’estero
e che vorrei discutere di alcune questioni finanziarie con
il direttore dell’ospedale, e un quarto d’ora dopo eccomi
qui che l’aspetto nel suo studio, che ha più l’aria di una
stanza per gli interrogatori di una stazione di polizia
con tavoli e cassettiere di metallo. Un poster raffigurante
Adem Jashari è incorniciato su una parete.
A dirigere l’ospedale, con mia sorpresa, è una donna,
che si sposta dietro la scrivania con una faccia così im-
penetrabile da farmi pensare che deve essersi ritrovata
in una situazione simile molto spesso. Lei sa quello che
fa, ma non sa che anch’io so cosa sta facendo, non so-
spetta che nella mia mente l’ho già vista, ho persino
parlato con lei.
«Che cosa vuole?», mi domanda, si mette a sedere
abbandonandosi sulla sedia, le cui rotelle logore cigolano
sul pavimento di piastrelle grigie.
Allora comincio a parlare, in modo diretto, la voce si
mantiene calma e ferma, il tono grave e al contempo
dignitoso e sicuro: articolo le parole il più chiaramente
possibile, faccio proposte concrete e avanzo richieste.
Non sono disponibile a scendere a compromessi.

Mi chiamo Mehmet Rugova.


Lavoro per un importante quotidiano, mi occupo di po-
litica nei Balcani.

182
Sono stato inviato per fare un’inchiesta.
Qui si fanno ammalare anche le persone sane.
Dio è grande.
Dio vede lontano.
Tra i pazienti c’è un uomo che non dovrebbe essere qui.
Si chiama Miloš Micić.
La direzione del mio giornale lo vuole immediatamente
fuori di qui.
È coinvolto in una importante serie di eventi sui quali il
giornale intende realizzare un reportage.
Non ci sono margini per compromessi, quest’uomo deve
uscire da qui.
Mi ha inteso?
Le chiedo di essere collaborativa.
In cambio, il giornale è pronto a versare al suo ospedale
un contributo di cinquecento euro.

La donna estrae una sigaretta dal taschino e la porta


alle labbra, e dopo aver dato un tiro lascia vagare lo
sguardo sul soffitto, sul pavimento, sulle pareti, poi mi
fissa finché non spegne la sigaretta nel portacenere con
il logo di un gruppo sportivo. Si alza e lascia la stanza
borbottando, io sento le gambe molli come peperoni
lessi, le mani bagnate come un pesce appena pescato.
Dopo un po’ torna alla sua scrivania con una cartella
in mano.
«Chi è lei esattamente?», mi chiede, ed estrae uno
spesso fascicolo di documenti dalla cartella.
«Sono un giornalista», ribadisco, quando la donna co-
mincia a spargere le carte sulla scrivania.
«Questo paziente è in pessime condizioni», dice, e
respira pesantemente, «è qui da anni».
Esalo un profondo respiro.

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«Non parla da tanto tempo, crediamo che non abbia
ricordi precisi del periodo prima del ricovero. Lei sa chi
è quest’uomo, da dove viene?».
«No», rispondo, e spingo la mano tremante nella tasca
interna della giacca per palpare attraverso la busta il
mazzetto di banconote, gran parte di quello che mi ri-
mane. «Non so nulla di quest’uomo», continuo con una
voce rauca e graffiata.
«E dov’è che dovrebbe andare?».
«A Pristina», dico schiarendomi la voce con tale forza
che la donna fa un sobbalzo.
«Pristina?».
«Sì, a Pristina. Lo aspettano lì», dico.
«Chi è che lo aspetta a Pristina?», chiede, portandosi
un’altra sigaretta alle labbra.
«Non lo so», rispondo, e allora la donna fa un tiro
con aria annoiata, lascia pendere la sigaretta dalle labbra
e ricomincia a rivoltare i fogli.
«Non possiamo farlo uscire così, su due piedi», dice
in una nuvola di fumo. «Immagino che lei si renda conto
di quanto spaventoso sia il mondo là fuori per lui. Non
saprebbe come comportarsi. Ha bisogno di cure venti-
quattro ore su ventiquattro».
Poi, continua: «Chi si occuperebbe di lui?», e alza
gli occhi su di me. «Chi garantisce che venga nutrito e
cose del genere?».
«Posso rassicurarla che sarà ben curato. Quest’uomo
è un serbo, un medico, questo so, e so che lo cercano».
«Sì, so chi è», ribatte seccamente la donna. «L’ho
visto tutti i giorni, gli ho parlato. Non è che si possa
venire qui e avanzare pretese del genere. Questo è un
ospedale, queste persone non possono farcela da sole.
Lo capisce? Hanno bisogno di aiuto», sbotta.

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Resta in silenzio per un po’, ed io sono nervoso per
quel silenzio che si prolunga imbarazzante, e non mi viene
da pensare ad altro che continuare la conversazione, anche
se so che sarebbe meglio smettere di parlare, che lei non
sarebbe mai andata a prendere quei documenti se non avesse
avuto intenzione di mostrarmeli o cedermeli.
«Zojë», attacco. «Capisco, certo. Ma ad essere onesti,
penso che qualsiasi posto sia migliore di questo, per
chiunque», dico tranquillamente.
«È quello che pensa? È così? Cosa pensa allora che
significhi lavorare qui? Crede che sia facile, che qualcuno
voglia venire qui a prendersi cura di loro? A dar loro
da mangiare? A somministrare le medicine? Lei ci ver-
rebbe? Ebbene?», e urlando sbatte la mano sulla scri-
vania. «La maggior parte di queste persone è stata ab-
bandonata in questo posto, i parenti non pagano un cen-
tesimo per le loro cure, molti non sanno nemmeno che
sono vivi. Ha visto qualche notiziario, giovanotto, ha
letto un paio di servizi sui giornali e, basandosi su questo,
pensa di sapere come vanno le cose qui. Non mi faccia
ridere».
Mi fa pena, per cui cerco di scusarmi, di dire che ho
capito, sì, ma non faccio in tempo, lei va già avanti con
la sua filippica:
«È facile venire qui per qualche oretta, e poi esprimere
un giudizio dopo aver sentito che piangono e visto quanto
stanno male, dichiarando che è quanto di peggio ci sia.
Ma io qui li tengo in vita. Io. Con quel poco che ho.
Sono sola, sono per loro una madre, e un padre. Tutti
gli altri, infermieri, addetti alle pulizie, medici, vengono
per un breve periodo ma vanno sempre via, tra breve
tutti se ne saranno andati. Nessun altro riesce a sop-
portare questo posto, e quelle persone».

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«Mi dispiace», adesso riesco a prendere la parola.
«Non so perché ho detto quello che ho detto. Ha asso-
lutamente ragione, non so nulla di questo posto».
«Nulla».
Vedo la sua sofferenza. Che è anche la mia. E come
la sua sofferenza sia quella di questo paese, e come la
accompagni ovunque vada, è lì mentre estrae le chiavi
di casa dalla tasca, mentre fa da mangiare per la famiglia,
batte i tappeti, raccoglie le briciole dal piano della cucina
e passa l’aspirapolvere sotto il letto.
«Ecco, questa è una donazione per l’ospedale», dico
io, mentre estraggo la busta dalla tasca interna e la poso
sulla scrivania puntandoci sopra il mio indice destro.
«E anche queste», aggiungo, armeggiando con la mano
sinistra per tirare fuori il portafoglio, che apro per estrarre
sei banconote da cinquanta euro, «vorrei darle a lei»,
proseguo, sollevando l’indice dalla busta e inserendo an-
che queste banconote al suo interno.
«No no no».
«Insisto. La prego. Voglio darle a lei, come ringrazia-
mento per il suo lavoro».
«Be’, grazie», dice la donna, chiude gli occhi per un
momento e deglutisce. «Grazie», ripete, riapre gli occhi,
sospira profondamente e rimette i documenti nella cartella
che stringe sotto il braccio.
Scosta la poltrona dalla scrivania e mi porge la cartella
con entrambe le mani.
«Quest’uomo è stato portato qui in pessime condi-
zioni», spiega la donna, lanciando un’occhiata alla busta
che ho posato sulla cartella. «L’avevano picchiato, a Mi-
trovica, era stato a lungo in ospedale prima di arrivare
qui, era quasi morto per le lesioni subite, non l’avevano
nemmeno esaminato come si deve perché era un serbo».

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Faccio del mio meglio per dare l’impressione che quan-
to mi ha riferito non mi pesa in alcun modo, che quelle
che le escono dalla bocca non sono parole umane che
parlano di un altro essere umano.
«Mangia poco, è sempre così. Ma capisce quel che gli
si dice, a volte di più e a volte di meno», dice la donna
e fa una lunga pausa, durante la quale sento tendersi
braccia, viso, gambe, muscoli addominali, spalle e schiena,
sento il corpo come avvampare. «Ed è molto timido,
proprio così, è sensibile. E gli piace», continua la donna
scandendo la parola, «scrivere».
Mi afferra il braccio, si mette ad accarezzarlo, le sue
dita indurite mi passano sulla pelle come pneumatici.
«All’inizio scriveva parecchio, in un taccuino che gli
ho fornito io, ma non negli ultimi due anni. Io di solito
non leggo le cose che scrivono i pazienti, ma le sue sì.
Le ho lette molte volte».
Fa una pausa.
«Lei non ha l’aria di un giornalista», mi dice poi.
«Ma che cosa dice?», reagisco, dopo di che sento una
fitta allo stomaco e un’oppressione ai polmoni, tanto
che la cartella e la busta mi scivolano dalle mani.
«Non deve dimostrarmi nulla», dice la donna e inizia
a strofinarmi la coscia come avvertisse un prurito sulla
sua pelle.
«Non... non so di cosa stia parlando», dico, e mi tiro
indietro con la sedia.
«Un giornalista di un giornale straniero», sorride, e
mi ricorda mia madre.
Tiro fuori dalla tasca un fazzoletto e mi asciugo il
sudore appiccicoso che dalla faccia mi cola fino allo
sterno.
«Andiamo a prenderlo», mi annuncia.

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«Ecco qua», faccio io, porgendole la busta che avevo
promesso.
«Grazie», risponde, si alza, la ripiega in una tasca e
mi fa un cenno col capo come a chiedere l’approvazione,
il permesso di andare a trovarlo.
Arriviamo in una piccola sala d’aspetto, puzza di eta-
nolo, sembra l’interno di una vecchia corriera, con sedie
di plastica bianca allineate su due pareti. Di fronte, su
un tavolo di vetro, c’è un fiore artificiale sistemato in un
vaso fin troppo grande. Nella sala c’è il banco della
ricezione e tre porte: una conduce fuori, l’altra pro-
babilmente ai locali dei pazienti e la terza agli spazi
del personale.
«Aspetti qui», mi dice la donna, e scivola via dalla
porta dietro il bancone.
Mi accomodo su una sedia, abbasso lo sguardo sulle
mie gambe intorpidite e non oso aprire la cartella che
mi è stata consegnata, che più passa il tempo più sento
scottare tra le mani.
La mia mente è sopraffatta da un genere di orrore
che non ho mai provato prima. La donna è scomparsa
con i miei soldi, mi dico, tutto quello che ha raccontato
è una menzogna, lui in realtà non è qui, mi sono sba-
gliato, così mi rassicuro, e ho bisogno di scappare, voglio
correre fuori, tornare alla macchina, voglio restare dove
sono, voglio alzarmi in piedi, sgranchirmi le gambe, se-
dermi di nuovo, afferrare una sedia o il vaso sul tavolo
e fracassare la finestra di plexiglass, abbattere le porte,
andare a rovesciare le cartelle, gli armadi e le cassettiere
dietro il banco, cospargere la stanza di kerosene e dar
fuoco all’intero edificio, sono furioso e pronto a colpire,
mi alzo, faccio qualche passo, mi risiedo e sento quanto
sono stanco e debole, e incazzato, e distendo le gambe

188
in avanti, mi manca l’aria ma poi respiro con tale intensità
che mi fanno male i polmoni, devo smettere di fumare,
alzarmi, sedermi, rialzarmi.
Ci vuole del tempo prima che senta nuovamente un
suono che non provenga da me: un ferro pesante batte
contro un altro, una serratura fa uno scatto, i cardini
stridono come se non si fossero mai abituati a sopportare
il peso che grava su di loro.
Vedo prima l’infermiera, una ragazza appena, che
tiene aperta la porta e mi sorride timidamente.
E poi vedo lui – in fondo a un lungo corridoio buio,
cammina lentamente, guidato dalla direttrice che gli sus-
surra all’orecchio parole di incoraggiamento, tenendolo
sotto l’ascella, e trascina i piedi sul pavimento incrinato,
nella direzione in cui il volto celato alla luce si mostra
come oppresso da un senso di colpa sconfinato. Con
l’indice regge un sacchetto di plastica del quale non in-
tende liberarsi, a quanto pare, come se quella sportina
fosse tutto per lui, e al suo interno intravedo almeno
due tessuti diversi, i contorni di un portafoglio, la fibbia
della cintura, un taccuino e delle matite, e non so perché
fisso queste cose e non il suo viso, perché vedo i suoi
capelli grassi, la pelle emaciata, la barba arruffata, le
linee dei muscoli e delle ossa fuori posto come una grata
spezzata, e non guardo i suoi occhi, e non so perché la
mia mente vuole ancora correre, non verso di lui, ma
nella direzione opposta.

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02.12.1999 – Dr. Selmani, arbër

Trovato paziente vittima di percosse


vicino a mitrovica, spalla sin. slogata,
ginocchio sin. fratturato, incosciente
al momento del rinvenimento.
Trasferito dall’ospedale di mitrovica.
Parla a fatica, capisce.
Dichiara di essere un medico.
Serbo.
Condizioni generali precarie. eccezio-
nalmente magro.
nessuna informazione sui parenti.
incubi costanti, prescritti sedativi.

190
14

Pristina 2004

Mentre guido, lui mi sta seduto accanto, immobile, e


allora cerco di dare qualche colpetto di tosse, faccio
qualche sospiro forzato, solo per rompere il silenzio.
Ho immaginato questo momento tante di quelle
volte, in tanti modi diversi, quello che avrei pensato,
o fatto, la sensazione delle sue dita sulle mie, come
potevano essere cambiati il suo odore e la sua voce;
noi due, così vicini l’uno all’altro, dopo tutti questi
anni.
Ma in quelle fantasie c’era un altro uomo, non questa
sagoma umana affamata, muta, confusa, completamente
insensibile, che non si può toccare. In qualche modo mi
spaventa, con tutto ciò che è e non è, con la sua immo-
bilità, il silenzio, l’odore nauseabondo, con la testa rasata
coperta di cicatrici, brandelli di pelle secca e vesciche
purulente, con le dita e i polsi ossuti, le ginocchia e le
spalle dall’aspetto strano, come minuti grappoli d’uva,
con le clavicole le cui estremità sporgenti assomigliano
ai rebbi di una forchetta, col suo sacchetto di plastica
in grembo.
Non sembra un essere vivente abitato dalla ragione e
dall’azione umane, ma una gabbietta vuota, un oggetto
dimenticato nell’armadio, un orologio rotto o un giocat-
tolo che ha esaurito le batterie.

191
Guidare mi costa così tanta fatica che svolto in una
stazione di servizio emersa in mezzo alla campagna come
un’ancora arrugginita dall’acqua sporca.
«Ehi», gli faccio, voltandomi a guardarlo con un sorriso,
e lui ha un improvviso sobbalzo, come se avessi detto
troppe cose in una volta, troppe e con troppa energia.
«Hai fame?», gli domando piano, sperando che mi guardi
e, vedendo il mio sorriso, si convinca che va tutto bene, è
tutto a posto, ci sono io a prendermi cura di ogni cosa.
Ma lui abbassa il mento, si stringe ancor di più nelle
spalle, ed io riesco a vedere da come i suoi bulbi oculari
rimbalzano da una parte all’altra quasi per saltare fuori
dalle orbite, da come sbatte le palpebre quasi a liberarsi di
un corpo estraneo persistente, io riesco a vedere che è ter-
rorizzato.
Esco dalla macchina ed entro nella stazione di servizio,
la signora anziana dietro il bancone mi dice qualcosa,
non riesco a capire cosa, arraffo sacchetti di patatine,
barrette di cioccolato, dolci, noccioline, acqua e bibite
mentre mi domando se ho lasciato le portiere dell’auto
aperte per non spaventarlo o con la speranza che, mentre
faccio gli acquisti, lui si dia a correre senza meta: in
mezzo alla campagna avrebbe sentito di nuovo l’erba fre-
sca sotto i piedi, al calare della sera il vento mutarsi in
una brezza dolce, e alla fine arrivare in cima a un’altura
da dove vedere lontano, la gente dentro le case, le luci
delle città e le distese verdi degli alberi, e poi la pioggia
prevista per quella sera lo avrebbe lavato, avvolto nel
suo tepore, e avrebbe potuto starsene lì, o andare via.
Pago il conto alla cassa, e mentre la commessa si dà
da fare per mettere tutto in un sacchetto, noto sul banco
un cestino di frutta in cui, contornate da banane troppo
mature, pesche ammaccate e pere scurite, fanno mostra

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di sé due mele verdi, intatte e lucenti. Le afferro, me le
infilo una in ogni tasca. In macchina gli offro una bot-
tiglietta d’acqua, e non mi sorprende affatto che non la
noti neppure, e che non provi alcun interesse per le
buste di patatine o per la cioccolata, non mi sorprende
che sembri non ascoltare affatto mentre gli snocciolo
l’elenco delle cose che tengo tra le mani e gli spiego
dove le metto, acqua e succo accanto al freno a mano
nel portabevande, le noccioline sul sedile posteriore,
come pure le caramelle e altre prelibatezze.
Partiamo, il cielo ha l’aspetto rassicurante di una zuppa
d’avena che sobbolle, e dopo un po’ tiro fuori di tasca
con la mano sinistra una mela, che guardo e rigiro davanti
al volante.
Gli do un morso, lui subito volta il capo, ed io con la
coda dell’occhio noto che si sta leccando le labbra, e
riesco quasi a immaginare la saliva che si addensa all’in-
terno delle sue guance scavate, e poi, senza guardarlo,
sposto la mano sinistra sul volante continuando a reggere
la mela che ho morso e con la destra estraggo dalla tasca,
per lui, l’altra mela.
La tengo appena un attimo sopra la leva del cambio,
ed ecco che lui la afferra con entrambe le mani, poi se
la stringe fulmineamente in grembo, come un tesoro.
Ne stacca un morso, che inizia a masticare delicatamente,
la mano premuta contro la guancia come a frenare una
fitta, e per i chilometri successivi ho la certezza che
tutto andrà per il meglio.
Non ci diciamo una parola prima di Pristina, non serve.

Arriviamo in città a tarda sera. Lui guarda le luci tre-


molanti di Pristina con tanta apprensione che comincio
di nuovo a elencare le cose che lo circondano, cosa sta

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succedendo in quel momento e cosa sta per accadere do-
po. Gli dico che lascerò la macchina in uno spiazzo ghia-
ioso recintato vicino al centro, che il proprietario ha
trasformato in un parcheggio a pagamento – la gente di
questi tempi si inventa di tutto per fare soldi, gli dico,
anche qui il denaro governa tutto. Poi andremo a piedi
verso casa, aggiungo, ho preso in affitto una stanza –
niente di speciale, cucina, doccia e bagno all’esterno, è
un’abitazione abbastanza modesta, ma sicuramente un
posto migliore di quello dove eri prima, questo è certo,
e mi fermo davanti a un passaggio pedonale attraversato
da un gruppetto di giovani chiassosi che lo induce a ri-
trarsi sul suo sedile.
«Ho un letto e un materasso su cui riesco a dormire
bene», dico e proseguo oltre, supero alcuni edifici go-
vernativi molto noti, la moschea e il municipio, «da me
c’è la televisione, e puoi seguire tutti i programmi che
vuoi, e nelle vicinanze c’è anche una trattoria sempre
aperta, un po’ come nelle grandi città europee, nel caso
ti venisse fame nel cuore della notte... Sono andato an-
ch’io all’estero per un po’... in una città molto più gran-
de... Non puoi credere quanto in alto si riesca a costrui-
re... O quante persone sappiano adattarsi in spazi così
piccoli, quanti aerei possano sorvolare una città... you
know?».
Quando arriviamo al cancello, ha avuto il tempo di chiu-
dere gli occhi e mostrarsi più tranquillo, quasi calmo, quindi
continuo a parlare mentre avanzo verso l’entrata dove il
parcheggiatore monta la guardia come un poliziotto.
«Ma mentre vivevo lì mi sono reso conto...», dico e
fermo la macchina per un altro pezzo del mio monologo,
«che ciò che sogna la maggior parte della gente qui, an-
darsene, una nuova vita in occidente, non è poi come si

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crede. Poiché non sai nulla della vita che stai per iniziare,
e nessuno dà valore alla vita che si è lasciato alle spalle,
presto non lo farai nemmeno tu... quanto prima nemmeno
te ne ricorderai... E poi non saprai più chi sei, chi sono
i tuoi figli, cosa significa il tuo lavoro e dove se ne va
in giro tua moglie, che lingua usano i tuoi famigliari,
con te o con gli altri, come sono quando sono con altra
gente...».
Non so se parlo in questo modo per convincermi di
qualcosa, per mettere a freno la mia agitazione, o perché
vedo che è più calmo quando ascolta la mia voce. Ma
poi si lascia sfuggire uno strano sbuffo, come cercando
di espellere un brutto ricordo dalle narici, ed ecco che
il parcheggiatore è già davanti alla macchina e dà un fi-
schio e mi indica avanti a sinistra, è quell’uomo che l’ha
agitato, non ciò che ho detto.
Mentre parcheggio l’auto nel posto assegnatomi, una
sensazione di malessere si impadronisce di me. Non riesco
ad aprire la portiera, né la mia né la sua, non me la sento
di affrontare il parcheggiatore, pagare per la notte, chiedere
a lui di uscire dalla macchina, camminare con lui fino a
casa – se debba accompagnarlo o trascinarlo nel caso non
riuscisse a camminare da solo, cosa dirà la gente, mi do-
mando, cosa penserà, chi è quest’uomo, si domanderanno,
questo poveraccio.
Per favore di’ qualcosa, anche una sola parola, qualsiasi
cosa, penso prima di aprire la portiera e poi fare tutto
ciò che temevo, dare una banconota al parcheggiatore,
dire a Miloš di sfuggita che abitiamo proprio là vicino,
che presto saremo a casa. È incredibilmente ubbidien-
te, mi segue silenzioso mentre lo guido bisbigliando,
lascia le scarpe di pelle logora fuori dalla stanza come
faccio io, supera la soglia con il piede destro, mi per-

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mette persino di reggere la borsa di plastica che con-
tiene tutti i suoi beni e appoggiarla sul pavimento
contro la parete.
Avanza fino alla finestra, solleva un po’ le tende e
spinge per un attimo il naso quasi contro il vetro, come
volesse sentirne l’odore, poi appoggia il corpo esile su
una sedia, e subito chiude gli occhi e sul suo viso mi
pare di intravedere una specie di sorriso, ma scompare
non appena accendo la luce e quel che si vede di lui –
la pelle livida su cui cresce una peluria lunga e delicata,
gli arti che ondeggiano lentamente come barche in una
lenta risacca – è tutt’altro che reale.
La notte la trascorro su un materasso per terra, e
lui sul letto, ma non dormo, resto sveglio fino al mattino
senza riuscire a rilassarmi, a respirare in maniera rego-
lare. So che non dorme neanche lui, se ne sta immobile,
aspettando che finisca la notte, che finisca qualsiasi
cosa. Non oso alzarmi per guardarlo, perché temo che
i suoi occhi siano spalancati, come quelli di un inde-
moniato, luccicanti come cristalli rosso sangue nel buio
fitto della notte.

Mi sono preso qualche giorno di ferie, in modo da si-


stemare ogni cosa per lui, riportare l’auto al noleggio,
fargli conoscere l’ambiente intorno e spiegargli come
comportarsi quando sono al lavoro; meglio tenerlo na-
scosto, almeno per il momento, al padrone di casa.
Al mattino, non appena Behgjet è uscito per andare
a lavorare, gli dico: Di qui passano molte macchine, ma
non devi avere paura, nemmeno delle voci dei bambini del
quartiere, dentro stai al sicuro, anche durante il giorno, ma
puoi sempre uscire a fare una passeggiata, nel parco di fronte
o per le strade vicine, basta che torni prima che faccia buio.

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Puoi prendere i vestiti e gli asciugamani dal mio armadio,
e gettare la roba sporca nel cesto lì accanto, la laverò più
tardi, fuori puoi prendere da bere e da mangiare, sullo
scaffale a sinistra è tutta roba mia, ma non prendere niente
da quello a destra, solo da quello a sinistra, l’acqua arriva
di solito al mattino e alla sera, durante la giornata e di
notte generalmente viene chiusa, perciò fa’ attenzione a
quando ti lavi, capito? Ho comprato per te anche uno spaz-
zolino e del sapone, li trovi qui, il cassetto in basso è tutto
tuo, puoi sistemarci le tue cose.
Non so se mi ascolta, se capisce anche una sola parola
del mio discorso, perché non dà segni di reazione. Ho
capito che è meglio rivolgergli solo brevi frasi, cui ri-
sponde girando leggermente la testa, chiudendo gli occhi
o deglutendo, e ad un certo punto ha l’aria di capire, è
come se annuisse o formulasse una risposta con le labbra,
ma un attimo dopo svanisce, come diluito nell’acqua.
Qualsiasi domanda lo angoscia, e dirgli «capisci?», o
«non è vero?», è come sferrargli un pugno nello stomaco.
Penso che sia perché richiedono una sua reazione e
quindi pretendono troppo da lui, costringendolo a essere
un interlocutore alla pari, conferendo alle sue parole una
consistenza che non hanno più. Mi sento frustrato, anche
se mi rendo conto che è stato via per molto tempo e
che noi siamo stati lontani l’uno dall’altro per un tempo
ancora più lungo.

La seconda notte che passiamo insieme lui si addor-


menta per un po’, lamentandosi nel suo sonno agitato,
e anch’io riesco a dormire. È una sensazione gradevole:
dimenticarmi per un po’ che lui è qui.
Anche il giorno dopo, però, non mi rivolge nemmeno
una parola, non si cambia i vestiti, non si lava, neppure

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i denti, praticamente non mangia e non beve, e sono
tutte cose che non posso fare per lui. Trasale per qualsiasi
cosa; se accendo la televisione non gli piace, non gli va
niente di quel che si potrebbe definire normale.
È impossibile parlargli dei nostri ricordi comuni dal
momento che adesso lui non è presente. Non so se si
ricorda qualcosa, e arrivo persino a dubitare che sappia
chi sono io, quello che gli sta parlando.
Resto fuori di casa per ore, vado a fare una camminata
e il giro dei negozi, non c’è posto per tutti e due nella
stessa stanza. Non trovo argomenti di cui parlare e non
riesco a prendermi la responsabilità di tutta la conver-
sazione. Tacere, d’altra parte, è qualcosa di insopportabile
in qualsiasi momento, tranne che di notte.
Il giorno dopo lo lascio di nuovo solo. Gli annuncio
che vado a lavorare e che torno tardi la sera, e che
adesso le cose andranno così, devo lavorare ogni giorno,
tutto questo costa, gli dico, questo appartamento costa,
il cibo costa, e come era da aspettarsi lui non reagisce
in alcun modo, se ne sta tutto solo e derelitto davanti
alla finestra, segue attraverso i vetri la luce del giorno
che avanza. Al cancello incontro finalmente il padrone
di casa, e mi viene l’idea di dirgli che l’uomo che ha
visto e forse sentito lì da me è mio fratello, è venuto
a trovarmi, ma è un po’ malato, problemi mentali e
di memoria, al che Behgjet risponde: «Va bene, mi
dispiace».
Guido l’autobus per il consueto tragitto, da Vreshta
attraverso il centro fino all’area dell’ospedale e ritorno.
Nel pomeriggio sale una donna che assomiglia ad Ajshe
con un bambino, poco dopo scendono dall’autobus ra-
gazze e ragazzi dell’età dei miei figli, belli come prugne
mature, e mi scatenano un’intensa nostalgia. Sul muro

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di un edificio è apparso un graffito di cui non comprendo
il testo, ma che rappresenta il volto del presidente Rugova
con la bocca sigillata dal nastro adesivo, e qualche casa
è stata messa di nuovo in vendita, o forse non me n’ero
mai accorto prima.
Durante il turno, mi sento come se avessi esaurito le
mie energie. Mi rammarico tutto il giorno di non aver
portato più vestiti con me, eppure mi tolgo continuamente
il maglione che ho indossato la mattina.
Sono irritato. Suono il clacson in mezzo al traffico
senza motivo, faccio frenate improvvise sperando che
qualcuno si faccia male. Riesco a malapena a vedere la
direzione in cui dovrei portare i passeggeri, le strade
che sostengono l’eterno caos del traffico.
Quello che una volta provavo per lui si sta trasfor-
mando in qualcos’altro. Non so dire cosa sia questa sen-
sazione, ma potrei lanciare l’autobus verso il muro di
una casa, contro un’altra macchina, o sulle strisce pedonali
o un marciapiede, potrei uccidere tutti i passeggeri e i
pedoni se solo lo volessi. Posso fare quello che voglio.
Non importa, non avrebbe alcun significato.
Quando esco dal lavoro, vado a comprare due ham-
burger. Costano un euro al pezzo, e poco prima di svol-
tare verso casa ne getto uno nella spazzatura, e poi mi
sento un cretino perché avevo comprato gli hamburger
nella speranza che li mangiassimo insieme, magari guar-
dando la tv.
Allora comincio ad arrabbiarmi, non per il fatto che
non condivideremo un pasto, ma per aver sprecato i
soldi per un hamburger che ho buttato via e avrei potuto
conservarlo per me stesso, per un altro momento. La
notte comincia a far freddo, già alle nove di sera il vento
punge le gambe come uno sciame di meduse.

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Non lo saluto quando arrivo, non voglio o semplice-
mente non riesco ad articolare nemmeno una parola.
Non ne ho. C’è solo un odore, il suo odore. È disteso
sul letto sotto la coperta, lo sguardo alla finestra, che
mostra le ombre dei passanti e le luci delle macchine.
Si è pisciato addosso e ha defecato sul letto, la coperta
è zuppa in alcuni punti e in altri incrostata di merda
bruno-verdastra. Porto fuori l’hamburger, nello stesso
sacchetto infilo le scatolette e i dolci e i salatini che ho
comprato per lui. Lascio la frutta al suo posto.
Torno nella stanza turandomi il naso, da sopra l’ar-
madio tiro giù la mia valigia e comincio a gettarci dentro
i vestiti e l’altra roba che quella carcassa adagiata sul
letto non ha toccato. La cartella che ho portato con me
dall’ospedale, qualche foto dei bambini e di Ajshe, i
miei documenti.
Non lo guardo, ma so che neanche lui mi guarda, e
questo significa la fine di tutto.
Apro la porta, afferro il suo taccuino dalla busta di
plastica e lo ficco tra le mie cose, chiudo la porta, cam-
mino per un po’, la gente mi guarda, attraverso la strada,
qualcuno domanda se mi serve una mano, vado a regi-
strarmi in un hotel nei pressi, dopo di che scendo a
comprare una pannocchia in un chiosco lì accanto, che
mangio per strada a una velocità incredibile anche se di
mais non avevo alcuna voglia.
Soldi non ne ho più tanti, mi viene da pensare, e allora
torno nella camera d’albergo, mi lavo, mi sento sporco,
mi strofino con cura le ginocchia, tra le dita delle mani e
dei piedi, le ascelle e la schiena, e mi sento subito meglio.
Vado a letto e accendo la televisione. Danno la notizia
di un uomo condannato per aver ucciso sua moglie perché
lei aveva cercato di lasciarlo. Mi dico che giustizia è

200
stata fatta, e spengo il televisore. Manderò un messaggio
al mio capo dicendo che domani non sarò in grado di
lavorare per via di un mal di stomaco. Mi tiro su e mi
siedo sul bordo del letto, poi faccio qualche giro per la
stanza, raccolgo la cartella e il suo taccuino, li poso sul
tavolino nell’angolo della stanza, accendo la lampada.
Ed eccoli. I referti delle autorità sanitarie, le infinite
prescrizioni e i piani terapeutici. Quindi le sue carte.
Le menzogne che le popolano. Un mondo intero in poche
decine di pagine che in alcuni punti sembrano essere
state scritte da un bambino che ha appena imparato a
leggere.
Raccolgo sul tavolo le buone cose che ho comprato.
Leggo un testo, mangio il mio hamburger, ne leggo un
altro e divoro una busta di noccioline, leggo il terzo e
ingoio i cioccolatini, leggo ancora e mangio di più, e nel
mezzo di questa fatica penso che avrei potuto lasciargli
comunque questa roba da mangiare, perché mi sento
male, ma ormai non ci sono più alternative, nemmeno
che al mattino resti qualcosa da leggere o da mangiare.
Quando arrivo alla fine del diario, vomito.
Mi pulisco la bocca con un angolo dell’asciugamano,
mi lavo la faccia, chiudo le confezioni vuote in un sac-
chetto di plastica che lancio fuori dalla finestra. Quindi
mi lavo i denti e vado a letto.
Ci vogliono ore prima che mi addormenti con questo
pensiero: avremmo dovuto porre fine alle nostre vite il
giorno in cui ci siamo visti l’ultima volta, sarebbe stato
meglio per noi non vedere l’alba successiva.

201
15

Pristina 2004

Al mattino scrivo di nuovo una lettera ad Ajshe.

Ciao,
scrivo perché non riesco a farne a meno. Penserete di
certo che sono un uomo cattivo. Forse lo sono. Forse la
cattiveria si è insinuata in me senza che me ne rendessi
conto, subdolamente come un cancro. Vi ho presi a botte,
anche se non dovevo diventare un uomo che picchia la
sua famiglia.
Ho fatto cose terribili, dalle quali pensavo di aver impa-
rato. Ma non ho imparato niente, e ne ho fatte ancora. E
ancora. E ancora. Il fatto è che ho dimenticato le conse-
guenze delle mie azioni precedenti, che cos’erano quei sensi
di colpa, il rimorso e la vergogna.
Spero per quanto sia lecito sperare che un giorno veniate
qui, che io vi riveda, perché non passa giorno senza che
vi pensi. Ma capisco quanto sia irragionevole questa pretesa,
quanto seccante e inappropriata, ed è per questo che la
definisco una speranza, assolutamente una speranza. E non
mi sto scusando, non voglio offendervi in alcun modo
chiedendo perdono, perché so che un uomo così abietto
non lo merita.
Non è straordinario che un essere umano, come per umi-
liarsi, possa fare ripetutamente l’errore di credere che si

202
possa recuperare il tempo perduto? E quanto il tempo diventi
importante solo quando è perduto?
A.

Infilo la lettera nella tasca posteriore, lascio le mie


cose in albergo e vado a cercarmi un altro posto. Passo
davanti alla casa di Behgjet e lancio oltre il cancello il
taccuino, che rimbomba sul cemento come il Corano
di un rinnegato. Ci metto poco a trovare un’altra stanza,
non molto lontana dalla precedente e non molto più
pulita di quella. È una casa di tre piani, e in quello
centrale c’è il mio monolocale. C’è tutto quel che mi
serve: un letto, un armadio, una scrivania con una
sedia, un piccolo frigorifero, una cassettiera, un fornello,
dei piatti, una piccola padella e una pentola per cucinare.
Al piano inferiore c’è un ampio garage e un locale com-
merciale vuoto.
La casa è un po’ più lontana dal centro, è nel «quartiere
degli zingari», ma adesso ho il mio bagno con entrata
indipendente sistemato sotto le scale esterne che con-
ducono alla terrazza del terzo piano. Per usarlo mi ser-
viranno dei sandali. La mia stanza in origine era una
specie di magazzino ed è relativamente buia anche se
da una finestrella si riescono a vedere migliaia e migliaia
di edifici, una parte del centro, ma a me va bene così.
Il mio nuovo padrone di casa vive con la famiglia in
Svezia, questa è la nostra «residenza estiva», mi ha detto
presentandomi il posto – ho parlato con lui per la prima
volta solo poche ore prima, quando ho chiamato il numero
che mi ero appuntato durante il mio tragitto. Entrambi
i figli adolescenti, dall’aria scocciata, stanno rannicchiati
su sedie di plastica, con le cuffie alle orecchie, senza
nessuna percezione di cosa succeda intorno. Non mi sa-

203
lutano, a quell’età avrebbero dovuto darmi la mano, la
madre invece si presenta leggiadra come una farfalla.
Presto ci ritroviamo seduti a un tavolo su una terrazza
che sembra essere molto più in alto della mia stanza,
anche se la differenza è in realtà solo di pochi metri. Ora
posso vedere Pristina in quasi tutta la sua estensione,
come un ammasso di blocchi di mattoni, innumerevoli
edifici incompiuti dal tetto rosso che spuntano continua-
mente come un eritema che si espande senza guarire mai.
La donna serve il tè, l’uomo fuma tristemente una si-
garetta dopo l’altra, e io racconto che ho vissuto all’estero
per un po’. In Francia, dico. Non so perché mento al
riguardo, come pure quando dico che non sono sposato
e non ho figli. Immagino perché penso che sia più ra-
gionevole, data la situazione.
«La mia figliola studia il francese!», dice l’uomo tutto
eccitato e chiama la figlia, che appare sulla soglia con
un portacipria in mano.
Fortunatamente la ragazza non ha voglia di parlare e
finisce per non dirmi nulla, sorride solo impacciata e torna
dentro come turbata dalla mia goffa risatina che suona
strana anche a me.
«Bene, mi piacerebbe che tenesse d’occhio la mia casa
mentre è qui», mi dice.
«Certo che sì, può starne certo», rispondo, cercando
di costringere il mio viso a un sorriso più naturale, ma
senza riuscirci.
«Non c’è niente di prezioso in casa, divani letto mo-
desti, vecchie stoviglie, un piccolo televisore», elenca,
poi mi chiede di fare con lui un giro all’interno. Mi
ripete di continuo che non vale la pena comprare nulla,
loro non ci stanno più di un mese all’anno, in Svezia
possiedono un televisore a schermo piatto e le camerette

204
per i bambini, in un grande appartamento pagato dallo
stato molto vicino al centro di Stoccolma, dove i bambini
frequentano buone scuole, studiano svedese e lingue
straniere, inglese, francese, tedesco, a loro scelta.
«Sembra un’idea folle per la gente di qui. Ma abbiamo
vissuto lì per tanto tempo, ormai quasi dodici anni, i
bambini erano piccoli quando siamo espatriati, il più
grande aveva quattro anni e la più piccola ne aveva uno,
nessuno di loro ha alcun ricordo di questo posto», spiega
in un tono così basso e cadenzato che non so se inter-
pretarlo come una confidenza o un segno di disappunto.
«È tutto chiaro?», mi chiede.
«Sì, grazie. Tutto a posto. Pagherò l’affitto il primo
giorno del mese a suo cugino che abita a poche decine
di case da qui».
«Esatto. Cinquanta euro. Le sta bene?».
«Sì. Le dispiacerebbe se quando siete via qualche volta
salgo qui in terrazza? Il paesaggio è così bello».
«Certo», risponde con gioia. «Ecco perché ho comprato
questa casa, mi piace poter dire che godo della vista più
bella di Pristina».

Mi ci trasferisco la sera stessa, e pochi giorni prima


di partire il proprietario cambia le serrature delle porte
del piano di sopra. Mentre si preparano ad andare al-
l’aeroporto, sento il figlio più grande rivolgersi con voce
volutamente alta al padre che cerca di zittirlo: «Papà,
ne sei sicuro? Non mi piace quell’uomo, non sembra
davvero affidabile. E se poi spaccasse tutto, chiamasse
i suoi amici, e li facesse vivere qui come padroni a spese
nostre?».
Stanno discutendo a causa mia, e la cosa mi rattrista
perché, paragonato ai posti in cui ho vissuto, questo è

205
un paradiso, mai e poi mai tradirei la fiducia di quella
famiglia. Poi il padre bussa alla porta, e non appena
apro gli dico che ho sentito quel che ha detto suo figlio,
è un ragazzo intelligente, è vero che qui può succedere
di tutto, ma chiedo umilmente che si fidi di me, pro-
teggerò questa casa come se fosse mia, lo giuro, può far
venire il cugino a controllare la situazione in qualsiasi
momento, ecco, tutto può succedere, tutto è possibile,
ma finché io sono qui, terrò occhi e orecchie aperti, mi
informerò e darò notizia immediatamente se succede
qualcosa o ne vengo a conoscenza.
A quel punto mi mette cavallerescamente una mano
sulla spalla e mi porge l’altra che stringo con la stessa
forza, e quando finalmente partono, salgono sul taxi che
hanno chiamato e si avviano, scendo sulla strada sterrata
e mi dirigo per oltre cento metri verso la via su cui passa
anche il mio autobus. Vado a prendermi qualcosa da
mangiare, una SIM nuova e un francobollo che incollo
sulla busta della lettera che ho scritto ad Ajshe al mattino.
Ci aggiungo un foglietto con il mio nuovo numero di
telefono, poi porto la lettera all’ufficio postale.
Per cena mi preparo una zuppa di pomodori, cipolle
e peperoni. La condisco con salsa ajvar e la mangio con
pane bianco appena sfornato, che alla panetteria costa
solo dieci centesimi.
Di notte, branchi di cani randagi arrivano fino in cima
alla collina dove mi trovo, facendo un baccano orribile,
abbaiano e ululano affamati. Mi chiedo dove abbiano tra-
scorso la giornata, e provo per loro una tale pena che
porto fuori un po’ di avanzi, ma ben presto cominciano
ad azzuffarsi, e un cane morde un altro sulla spalla con
una furia così bestiale che quello che ha avuto la peggio
fugge via, zoppicando.

206
Cerco di scacciare il cane che ha conquistato quel boc-
cone con tanta rabbia, busso alla finestra ed emetto rab-
biosamente versi da dietro i vetri, ma l’animale ricambia
ringhiando e mostrando i denti giallognoli, mentre una
bava densa e schiumosa gli cola sul muso sfregiato. Non
ho mai visto nulla di altrettanto minaccioso in passato,
e quando finalmente il cane si allontana, tiro un sospiro
di sollievo, provo a calmarmi e a mettermi a dormire,
ma quella scena mi tiene sveglio per molto tempo. Sì, il
cane è una creatura terrificante.
La mattina dopo, lavo con un getto d’acqua il sangue
rinsecchito sul cemento e giuro che non lascerò mai più
cibo per strada, chiedo scusa al cane che ha subito l’ag-
gressione e ha sofferto orribilmente. Questo mi fa sentire
un po’ meglio. Non volevo creare problemi, volevo solo
fare del bene.

Un paio di settimane dopo ricevo un sms da Ajshe, e


appena lo leggo mi viene voglia di scagliare il cellulare
contro il muro:

Ciao Arsim, ho parlato con i miei figli. Non vogliono


vederti, dicono che non hanno un padre, quanto a me non
ho bisogno di nulla né voglia di dire niente al riguardo.
Hai ragione a dire che non ti meriti il perdono. E non ci
meriti nella tua vita, non meriti di provare una felicità di
questo tipo, come di nessun altro. È meglio che non ci
scrivi mai più, noi non siamo più niente.

Nel tempo libero me ne sto sdraiato sotto la coperta a


fissare con gli occhi secchi e arrossati le pareti spoglie.
Passano delle settimane; a volte la penso come lei – sta-
ranno di certo meglio senza di me –, altre volte sono così

207
furioso che non riesco a trovare un momento di pace.
Non si rende conto che ho fatto del mio meglio per dargli
di che vivere? Non significa niente per lei, non crede che
voglia dire qualcosa? Che mi sono dato da fare per portarli
in salvo, che mi sono assunto le mie responsabilità quando
avevano più bisogno di me? Mi sono preso cura delle
nostre cose, ho lavorato duramente, gli ho procurato ciò
di cui non avrebbero potuto fare a meno, ho visitato gli
asili e le scuole dei bambini, ho costruito un’esistenza par-
tendo da zero. Non si rende conto che il trasferimento in
quel paese spaventava più me di lei? Che capivo quella
lingua quanto il nostro bambino in fasce?
Una sera mi arriva una telefonata da un numero sco-
nosciuto.
«Ciao», inizia.
«Ajshe».
Poi mi comunica tutto d’un fiato, come leggendo un
appunto, che vuole vedermi il giorno dopo, e mi dice
l’ora e il bar.
«È importante, trovati lì all’una del pomeriggio», dice,
e riattacca il telefono senza darmi la possibilità di pro-
porre un orario diverso, di replicare che sono in realtà
al lavoro, che non posso assentarmi così, come niente.
Preso dall’agitazione mi precipito a fare una telefonata
confusa al mio capo, adduco la scusa di un’infiammazione
a un dente talmente dolorosa che devo andare a farmelo
estrarre il giorno dopo.
«Va bene», mi risponde, e sospira profondamente.
«Ma se queste assenze impreviste continuano, non serve
che tu torni al lavoro. È chiaro?», e chiude il telefono.

Quella notte piove a dirotto. L’acqua schiaffeggia il


cemento come le guance di un ragazzino e non riesco a

208
dormire. Anche al mattino pioviggina, spiove solo poco
prima che io esca. Indosso orgogliosamente il mio com-
pleto, ma quando arrivo con largo anticipo al bar e
ordino un macchiato mi viene da pensare che avrei do-
vuto comunque lasciare la giacca a casa, dato che adesso
mi sta larga; quando sono seduto pende vergognosamente
dai lati e le spalline imbottite mi fanno sembrare un
pacco, il che aumenta il mio disagio. Evidentemente ho
perso dei chili, solo poco tempo fa il vestito mi andava
bene.
Mi tolgo la giacca e la ripiego sul bracciolo, da cui
scivola sul pavimento umido. Cercando di tirarla su,
do una spinta al tavolo rovesciando il caffè. I camerieri
fanno dei commenti mentre io ripulisco la giacca e il
tavolo, poi scoppiano a ridere, di me probabilmente.
Mi tocca aspettare Ajshe per un pezzo, ma quando si
avvicina alle mie spalle non posso sbagliare: riconoscerei
i suoi passi discreti in qualsiasi angolo del mondo, in
qualsiasi momento, su qualsiasi pavimento. Si arresta
un attimo, forse si guarda intorno, ma non oso voltarmi,
e lei riprende a camminare in modo che i suoi passi ri-
sultino ancor più silenziosi, gli ultimi tre sono frenati,
poi quasi si abbandona sulla sedia di fronte a me, si
lascia cadere la borsa in grembo, quindi chiama il came-
riere e ordina un macchiato lungo.
Ero preparato ad un abbraccio, o almeno a una stretta
di mano, ma forse così è più facile per entrambi. Durante
la notte avevo coltivato la speranza che i ragazzi venissero
al nostro incontro, ma allo stesso tempo ero pronto a
non vederli, forse così è meglio per loro, non ricordare
da dove vengono, chi sia loro padre.
Ajshe mi intimidisce. Ha la testa avvolta in una sciarpa
bianca, e il vestito e la maglia a maniche lunghe com-

209
pletamente neri le coprono il corpo, mentre ai piedi
porta stivaletti eleganti. Non sembra affatto lei. Oppure
è il contrario: adesso si mostra proprio com’è, finalmente.
Non riesco a dire nulla, non riesco a guardarla negli
occhi. Il cameriere le porta il caffè, e mi pare che tutti
ci stiano osservando, che sappiano chi e cosa siamo e
da dove veniamo. Quando il cameriere si allontana,
Ajshe fruga nella sua borsa, e solo allora la guardo negli
occhi: non sono più marroni ma azzurri, e quando mi
spinge davanti una cartella aperta con alcuni documenti
in una lingua straniera e una penna a sfera, ho la sensa-
zione di non riconoscerla per niente.
Mentre mi dà delle spiegazioni usando parole e gesti
da avvocato, il suo sguardo resta fisso sulle carte dove
ci sono una serie di post-it verdi che indicano le righe
sotto le quali ci vuole la mia firma. Sono molti documenti,
ed io non mi preoccupo di capire quel che mi dice Ajshe,
né tanto meno di leggerli, penso comunque di sapere di
cosa si tratta, hanno tutti a che fare col nostro matri-
monio e la custodia dei figli.
Non sono per niente amareggiato o arrabbiato per il
fatto che lei abbia il permesso di tirare su i miei figli.
Fino a un certo punto so e credo che lei è un genitore
migliore di quanto io potrei mai essere, di quanto io sia
mai stato. E non sono nemmeno geloso, perché non lo
so né mi interessa sapere se Ajshe ha un uomo o se abbia
il desiderio di trovarsi un nuovo marito con cui vivere.
Probabilmente no, per lei sarebbe una vergogna difficile
da reggere. Ma la cosa non mi farebbe affatto soffrire, e
in realtà è quello che le auguro, anche se mi ha scritto
che non merito felicità di nessun genere.
Dopo che ho firmato i documenti, ripone la cartella
nella borsa e solo adesso beve il primo sorso del caffè.

210
Allora i nostri sguardi si incontrano per la prima volta,
come per caso, e dietro le lenti a contatto azzurrine in-
travedo il colore bruno dei suoi occhi, arso dalle fiamme
della pena e dell’odio. Quando Ajshe chiede il conto al
cameriere e tira fuori il suo voluminoso borsellino, mi
lascio sfuggire la prima parola, e cioè «No».
«Non se ne parla», aggiungo, appoggio il mio porta-
foglio sul tavolo e mi rivolgo al cameriere che fa un
cenno di assenso al nostro indirizzo e dopo un momento
arriva imbarazzato al tavolo, e a quel punto Ajshe apre
fulmineamente il borsellino ed estrae del denaro che
porge al cameriere dicendogli che può tenere il resto.
Per un po’ mi manca il fiato. Penso che dovrei darle
due euro, ma lei sa che ho i soldi contati, e quindi
sarebbe strano.
«Grazie», dico con un colpo di tosse, e sono tentato
di aggiungere che non sta bene che la donna paghi il
conto, così forte che i camerieri mi sentano e non pensino
che sono quel tipo di uomo, ma poi perdo il controllo
del mio corpo; la testa è pesante, gli occhi si inumidi-
scono, la faccia mi comincia a tremare come mi accadeva
da bambino quando qualcosa mi agitava ed ero sul punto
di pisciarmi addosso, e le lacrime sgorgano senza freni
e ostinatamente sulle scanalature delle guance, scivolano
in grembo sulla giacca, sui pantaloni e sul tavolino, e
allora Ajshe estrae un fazzoletto dalla sua borsa che ben
presto è tutto bagnato dal mio continuo singhiozzare.
«Mi dispiace», sento che dice, e sbirciandola mi ac-
corgo che anche lei ha gli occhi lucidi. «Mi dispiace di
averti scritto mentre ero arrabbiata perché, quando uno
è in preda alla rabbia finisce col dire e fare ogni genere
di cose», dice e si soffia il naso, poi si prende una pausa,
lancia un’occhiata ai camerieri che ci stanno fissando,

211
con una freddezza tale che capiscono di dover distogliere
lo sguardo. «A volte mi succede di sperare che le cose
fossero andate diversamente... Che tu e... ecco», conti-
nua, facendo un respiro profondo ed estraendo una busta
dalla borsa che spinge davanti a me.
«Questo è per te», dice, schiarendosi la voce e siste-
mandosi la sciarpa sull’orecchio, e allora vedo quegli
orecchini d’oro a forma di cuore che le avevo regalato
il giorno del nostro matrimonio. Le cose stanno esatta-
mente come aveva scritto nel suo messaggio: non siamo
più niente, ci conosciamo a malapena. «Bene, allora,
abbi cura di te», dice poi come a uno sconosciuto che è
caduto per strada e si è rialzato con le sue forze assicu-
rando ripetutamente che non è successo nulla.
Ajshe si alza e se ne va nella direzione da cui era ve-
nuta, e quel suo allontanarsi è una guerra. Ci siamo den-
tro tutti e due; ogni passo che fa è un proiettile che
viene sparato sempre più da lontano, e anche se non
siamo vicini l’uno all’altra, siamo sempre l’uno all’altra
legati, fatti esplodere insieme.

212
17 marzo 2002

lo sai che ho scritto a quella tua puttana una volta che


ti ho seguito fino a casa ho infilato un biglietto sotto la
porta sai dov’è tuo marito, ho scritto, sai che passa le notti
con me nel letto di un altro uomo, il letto di un UOMO,
non ti desidera come desidera me, non ti ama e non ti
amerà mai come ama me
maledetta puttana

213
16

Pristina 2004 –

Nella busta che Ajshe mi ha lasciato ci sono duemila


euro. Mi compro un letto e delle lenzuola decenti, un
computer usato e un televisore nuovo, più una caffettiera,
e riesco anche a mettere qualcosa da parte. Il denaro
mi fa sentire bene, al sicuro, ne risparmio sempre un
po’, ma non so per che cosa.
Riesco a elaborare un piano di studi in base al quale
dovrei prendere la laurea tra un anno e mezzo, se mi con-
validano i corsi che ho seguito tempo fa. Mi sento felice
e orgoglioso, non è una cosa da poco un titolo universitario.
Non vedo l’ora che inizi l’anno accademico, anche se mi
domando se non sono troppo grande per fare lo studente.
Ma quando discuto di una riduzione del mio orario di la-
voro col mio capo, ormai vicino alla pensione, lui mi dice
che è una notizia eccezionale che io voglia laurearmi. Si
congratula persino, poi aggiunge con una risata: «Ma
pensa, un futuro scrittore mi sta guidando un autobus».
Evidentemente trent’anni o poco più, agli occhi di molti,
rappresenta ancora un’età giovanile.
Leggo molti libri e so che un giorno inizierò a scrivere
il mio, ci sarà un giorno in cui racconterò la mia storia
a tutto il mondo, arriverà un momento in cui mi daranno
ascolto, e non dovrò vergognarmi di nulla. È questa fede
che mi tiene in vita.

214
Poco prima di laurearmi, invio a una rivista studentesca
un mio scritto che porta il titolo La ragazza e l’essere.
Poco dopo, la redazione della rivista mi contatta e mi
dice che sono interessati a pubblicare il testo, ma vogliono
che vi apporti delle modifiche, e non di poco conto a
dire il vero, vogliono che tagli delle parti che io ritengo
essenziali. All’inizio ho più di una riserva, ma alla fine
accetto di fare i cambiamenti richiesti, perché il desiderio
di pubblicare il testo va al di là del mio bisogno di di-
fendere ciò che gli altri considerano pletorico.
All’uscita della rivista diversi miei compagni di studi
vengono a dirmi che hanno apprezzato la mia storia.
Alla fine ritaglio le due pagine della rivista e le metto
in cornice, e quando l’appendo alla parete mi viene in
mente che non ci ho mai attaccato niente prima. Sono
felice ogni volta che gli lancio uno sguardo. Alla fine
del testo c’è una breve presentazione dell’autore con
una mia foto, niente male. A volte stacco la cornice
dalla parete e la tengo tra le mani, è qualcosa di solido,
e nessuno potrà portarmelo via.

Dopo la laurea, trovo lavoro all’ufficio postale. Tra le


mie mansioni c’è quella di scrivere testi per il sito web,
scrivere istruzioni per dipendenti e clienti, e fornire qual-
che servizio agli utenti. Lo stipendio è buono, all’incirca
quattrocento euro al mese, più di quel che mi serve, sono
perfino andato un paio di volte in vacanza al mare, a
Dulcigno e a Budua. Nei primi anni il mio padrone di
casa e la sua famiglia sono tornati ogni estate, soggior-
nando per un mese o due ogni volta. I figli parlano tra
loro in svedese, e anche se sembrano fidarsi di me – e
ridono persino alle mie battute, mi chiamano axhë, zio –
tuttavia a volte ho la sensazione che stiano parlando male

215
di me, come se vedessero tutti i miei difetti, le mie gaffe,
quasi sapessero di me cose che io stesso ignoro.
Vengono in tanti a trovarli, e di solito si intrattengono
sulla terrazza. In queste occasioni non mi va di tenere
le luci accese o di andare in bagno, faccio come se non
ci fossi, perché se si accorgessero di me, mi toccherebbe
guardarli dal basso verso l’alto, e aspettare il permesso
di salire al loro livello per stringere la mano di sconosciuti.
C’è qualcosa di degradante. Probabilmente solo nella
mia testa, dato che qualche mattina il padre e la madre
mi invitano a fare colazione con loro, mi raccontano
storie della loro vita, dei figli e dei parenti, e infine mi
dicono quanto apprezzano il mio contributo alla manu-
tenzione della casa. A questo punto io ringrazio, dicendo
che non ci sono problemi, anche se a volte i problemi
non mancano. Ad esempio, quando viene giù acqua o
neve, dietro la casa si accumula il fango che mi tocca
lavare. Mi piace fare del lavoro fisico, ma è una fatica.
Col passare degli anni, le loro visite in Kosovo si sono
diradate. I bambini parlano sempre meno l’albanese e
anche i genitori si mostrano sempre più stanchi e si sen-
tono sempre meno a loro agio nella casa. Lasciano dete-
riorarsi mattonelle e piastrelle, rubinetti e porte, le guar-
nizioni si rovinano, non si preoccupano nemmeno delle
macchie di umidità dentro l’abitazione. Mi rendo conto
che quando arriva l’estate spero che vengano, perché ci
tengo molto a vedere come sono cambiati, quanto sono
cresciuti i loro figli, ma se poi non vengono non è che
mi rattristi troppo.

Mi è capitato qualche volta di passare davanti alla


stanza che avevo affittato in precedenza, oggi lo faccio
assai di rado. L’ho visto rannicchiato davanti casa, con

216
un bicchiere di carta e una bilancia pesapersone accanto,
sul marciapiede. Ha sempre gli stessi vestiti, e talvolta
c’è Behgjet con lui, che gli spiega qualcosa, lo fa sedere
su una cassetta di bottiglie o gli avvolge intorno un vec-
chio cappotto, o riattacca al muro della casa un cartello
caduto in cui si chiedono cinque centesimi per pesarsi.
Mi sono sempre chiesto che tipo di persona finisca per
strada, che tipo di persona sia in grado di vivere in quel
modo, della pietà degli altri. Uno come lui.
Mi sposto sull’altro lato della strada e distolgo rapi-
damente lo sguardo. Non so nemmeno perché ci vado,
dato che non posso dire di avvertire un senso di colpa,
né il dovere di aiutarlo. Piuttosto, penso che non mi
tocchi assumermi nessuna responsabilità. Non posso dire
di conoscere quell’uomo, semmai quello che era una
volta, e anche quello solo superficialmente, giusto il
tempo di un’estate. E non conosco l’uomo che una volta
sapeva qualcosa di lui, perché neanche questo esiste più.
E nemmeno che cosa è successo una volta tra loro, quel
che c’era stato.
Non mi sento triste e non ho paura di nulla, e la vita
ha smesso di essere l’attesa di una catastrofe, di quel
genere di messaggio che quando arriva distrugge tutto
ciò che sei riuscito a mettere insieme tra i disastri. È
qualcosa.

217
1 aprile 2002

Ho combattuto a Prekaz e Drenica e Rahovec e Račak,


sono stato dappertutto e mi ricordo tutto, fino all’ultimo
dettaglio; come il bestiame mugghiava soffocato dal fumo,
come le fondamenta delle città tremavano per le esplosio-
ni, quanto a lungo risuonavano dopo nelle orecchie, quali
terreni abbiamo minato... come abbiamo profanato e di-
strutto... e... inseguito e spartito... chi abbiamo violentato
e ammazzato... senza pietà.
Ero a Belgrado al momento degli attacchi aerei, tutto mar-
zo, aprile, maggio e giugno mi hanno voluto lì, gli aerei passa-
vano guizzanti come scintille nel cielo e i missili colpivano im-
prevedibili come fulmini, colpivano la gente alla cieca, ci mas-
sacrarono... spietati, per mesi... da una delle fabbriche bom-
bardate si sprigionava una sostanza chimica, mai niente ha
puzzato come quel fumo, era come non venisse dal mondo de-
gli umani...
Quando uno dei miei compagni mi chiese cos’altro
potevano ancora farci in questo inferno, mi è venuta in
mente quella sera quando mi leggesti la storia che avevi
scritto su quel serpente e quella ragazza, la notte in cui
abbiamo parlato del paradiso e del diavolo che aveva
trasformato la bambina in un «bolla» che sarebbe di-
ventato qualcosa di ancora più potente, ricordi la crea-
tura di quella notte?

218
Quel serpente non mi era più tornato in mente per
molto tempo, mi frullò per la testa durante la guerra e
poi quando cedemmo e quando Miloševič ritirò le sue
truppe dal Kosovo, e mentre camminavo in mezzo alle
macerie a Belgrado come sulla lava, e anche quando,
dopo la guerra, tornai passando per Kuršumlija ai ban-
chi di scuola di Mitrovica, dove camminavo tutti i gior-
ni lungo l’Ibar che trasportava cadaveri innumerevoli. Il
ponte abbattuto sul fiume separava i serbi del nord dagli
albanesi del sud, che continuavano ancora ad ammaz-
zarsi, pensa un po’, ancora morte dopo tutta quella
morte.
A questo pensavo, e anche a te mentre camminavo, sem-
pre, guardando spegnere eterni incendi, l’acqua dell’Ibar che
scorreva cinerea, e piangevo, e mi chiedevo se potevi essere fe-
lice con i tuoi figli e tua moglie, e un giorno mi sono detto di
sì, eri felice, per fortuna sei andato via di qui, ho detto e ho
mollato, lasciato volare via tutto come uccelli che cozzano
contro la finestra, raccolti e lanciati nella corrente come due
pietre lisce
e non ho detto scusa ho detto grazie

Non ricordo più quelle leggende con paura ma come


espressioni di felicità; un giorno all’anno gli è permesso
sfogarsi liberamente e senza pensieri, un giorno... può
volare senza freni sulle acque e sulle foreste, intonando
in tutta pace una profonda melodia, distendere il corpo
sui campi aperti, su colline e pendii montani, nasconder-
si sopra le nuvole o proiettare con le ali linee magnifiche
d’ombra come notti senza stelle; inumidire la pelle ab-
bagliante e lucente nei laghi e nei fiumi, addormentarsi
su massi e rocce arse dal sole, sotto il sole che picchia
avvoltolarsi attorno ai tronchi d’albero e sotto l’armatu-

219
ra delle foglie di querce secolari per proteggersi dalla
pioggia; e poi strisciare nella caverna quando arriva la
notte, dove giacerà con tutta la stanchezza di quel gior-
no – un giorno felice gli basta;
poiché la terra in cui allora vive, vedi, è la terra dei re

220
Ringraziamenti

Ringrazio i miei amici fidati Merdiana Beqiri, Johannes


Id, Päivi Isosaari, Jarno Kettunen, Aura Pursiainen e
Sanni Surkka. Grazie per le osservazioni perspicaci.
Grazie a Sarah Chalfant, Sarah Watling e Jacqueline Ko,
che lavorano instancabilmente sui miei libri. Thank you.
Grazie alla mia famiglia per l’incoraggiamento, la com-
prensione e per le storie che mi ispirano ancora oggi.
Grazie, Paavo Kääriäinen.
Ringrazio il mio editore Otava in Finlandia per aver
pubblicato questo libro e per averlo portato nelle mani
del pubblico. Leenastiina Kakko, Mirella Mäkilä, Maija
Norvasto, Silka Raatikainen, Kirsi Tähjänjoki: grazie. An-
cora una volta, i miei ringraziamenti più sentiti vanno ai
miei editor. Ho il privilegio che questa volta siano stati
tre. Grazie Antti Kasper, Salla Pulli e Lotta Sonninen.

Aprile 2019
PAJTIM STATOVCI

223
Indice
Gli invisibili
I 9
II 83
III 153

Ringraziamenti 223
Questo volume è stato stampato
su carta Arena Ivory Smooth
delle Cartiere Fedrigoni
nel mese di agosto 2021

Stampa: Officine Grafiche soc. coop., Palermo


Legatura: LE.I.MA. s.r.l., Palermo
Il contesto

1 Buket Uzuner. Ada d’ambra


2 Roberto Bolaño. I detective selvaggi
3 Jaime Bayly. Non dirlo a nessuno
4 Alicia Giménez-Bartlett. Una stanza tutta per gli altri
5 Anna Kazumi Stahl. Fiori di un solo giorno
6 Alicia Giménez-Bartlett. Vita sentimentale di un camionista
7 Mercè Rodoreda. La morte e la primavera
8 Sergio Bianchi. La gamba del Felice
9 François Vallejo. Madame Angeloso
10 Pietro Grossi. Pugni
11 Jaime Bayly. L’uragano ha il tuo nome
12 Francesco Recami. L’errore di Platini
13 Alicia Giménez-Bartlett. Segreta Penelope
14 Roberto Bolaño-A. G. Porta. Consigli di un discepolo di Jim
Morrison a un fanatico di Joyce
15 Francesco Recami. Il correttore di bozze
16 Marijane Meaker. Highsmith. Una storia d’amore degli anni
Cinquanta
17 Nino Vetri. Le ultime ore dei miei occhiali
18 Pietro Grossi. L’acchito
19 Alicia Giménez-Bartlett. Giorni d’amore e inganno
20 François Vallejo. Il barone e il guardacaccia
21 Francesco Recami. Il superstizioso
22 Maria Attanasio, Giosuè Calaciura, Davide Camarrone, Santo
Piazzese, Gaetano Savatteri, Lilia Zaouali. Il sogno e l’ap-
prodo. Racconti di stranieri in Sicilia
23 Andrea Camilleri, Ugo Cornia, Laura Pariani, Ermanno Rea,
Francesco Recami, Fabio Stassi. Articolo 1. Racconti sul lavoro
24 Francesco Recami. Prenditi cura di me
25 Nino Vetri. Lume Lume
26 Jaime Bayly. La canaglia sentimentale
27 Alicia Giménez-Bartlett. Dove nessuno ti troverà
28 Tayeb Salih. La stagione della migrazione a Nord
29 Alicia Giménez-Bartlett. Exit
30 Sylvain Tesson. Nelle foreste siberiane
31 Martin Suter. Il talento del cuoco
32 Bi Feiyu. I maestri di tuina
33 Fabio Stassi. L’ultimo ballo di Charlot
34 Marco Balzano. Pronti a tutte le partenze
35 Clara Usón. La figlia
36 Furukawa Hideo. Belka
37 Tayeb Salih. Le nozze di al-Zain
38 Maria Attanasio. Il condominio di Via della Notte
39 Giosuè Calaciura. Bambini e altri animali
40 Sheila Heti. La persona ideale, come dovrebbe essere?
41 Alain Claude Sulzer. Il concerto
42 Ella Berthoud, Susan Elderkin. Curarsi con i libri. Rimedi let-
terari per ogni malanno
43 Kyung-sook Shin. Io ci sarò
44 John Jeremiah Sullivan. Americani
45 Xu Zechen. Correndo attraverso Pechino
46 Fabio Stassi. Come un respiro interrotto
47 Benjamin Alire Sáenz. Tutto inizia e finisce al Kentucky Club
48 Yasmina Khadra. Gli angeli muoiono delle nostre ferite
49 Mia Couto. La confessione della leonessa
50 Iván Repila. Il bambino che rubò il cavallo di Attila
51 Radhika Jha. Confessioni di una vittima dello shopping
52 Bi Feiyu. Le tre sorelle
53 Marco Balzano. L’ultimo arrivato
54 Pietro Leveratto. Con la musica. Note e storie per la vita quo-
tidiana
55 Luisa Adorno, Maria Attanasio, Andrea Camilleri, Luciano
Canfora, Francesco M. Cataluccio, Alicia Giménez-Bartlett,
Ben Lerner, Marco Malvaldi, Andrea Molesini, Salvatore Silvano
Nigro, Laura Pariani, Benjamin Alire Sáenz, Leonardo Sciascia,
Fabio Stassi, Sylvain Tesson, Sergio Valzania, Piero Violante.
Almanacco 2014-2015
56 Francesco Recami. Piccola enciclopedia delle ossessioni
57 Ben Lerner. Nel mondo a venire
58 Alejandro Zambra. I miei documenti
59 Yasmina Khadra. Cosa aspettano le scimmie a diventare uomini
60 Sylvain Tesson. Abbandonarsi a vivere
61 Mia Couto. L’altro lato del mondo
62 Yasmina Khadra. L’ultima notte del Rais
63 Theodore Zeldin. Ventotto domande per affrontare il futuro.
Un nuovo modo per ricordare il passato e immaginare l’avvenire
64 Jung-myung Lee. La guardia, il poeta e l’investigatore
65 Martin Suter. Montecristo
66 Alicia Giménez-Bartlett. Uomini nudi
67 Maria Rosaria Valentini. Magnifica
68 Clara Usón. Valori
69 Gigi Riva. L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di
guerra
70 Alain Claude Sulzer. Post scriptum
71 Jenny Erpenbeck. Voci del verbo andare
72 Sylvain Tesson. Beresina. In sidecar con Napoleone
73 Roberto Alajmo. Carne mia
74 Hanya Yanagihara. Una vita come tante
75 Christophe Boltanski. Il nascondiglio
76 Sergio del Molino. Nell’ora violetta
77 Giosuè Calaciura. Borgo Vecchio
78 Ben Lerner. Odiare la poesia
79 Davide Enia. Appunti per un naufragio
80 Yasmina Khadra. Dio non abita all’Avana
81 Samar Yazbek. Passaggi in Siria
82 Marc Fernandez. Onde confidenziali
83 Ella Berthoud, Susan Elderkin. Crescere con i libri. Rimedi
letterari per mantenere i bambini sani, saggi e felici
84 Peter Heine. Delizie d’Oriente. Una storia della cultura gastro-
nomica
85 Maria Rosaria Valentini. Il tempo di Andrea
86 Furukawa Hideo. Tokyo Soundtrack
87 Roberto Alajmo. L’estate del ’78
88 Sylvain Tesson. Sentieri neri
89 Chen He. A modo nostro
90 Martin Suter. Creature luminose
91 Alejandro Zambra. Storie di alberi e bonsai
92 Robert Menasse. La capitale
93 Yasmina Khadra. Khalil
94 Simona Baldelli. Vicolo dell’Immaginario
95 Masha Gessen. Il futuro è storia
96 Scott Spencer. Una nave di carta
97 Clara Usón. L’assassino timido
98 Sheila Heti. Maternità
99 Samar Yazbek. Diciannove donne
100 Giorgio Fontana. Prima di noi
101 Ivana Bodrožić. Hotel Tito
102 Philippe Jaenada. Lo strano caso di Henri Girard
103 Sergio del Molino. La Spagna vuota
104 Mazen Maarouf. Barzellette per miliziani
105 David Lopez. Il feudo
106 Pezzi da museo. Ventidue collezioni straordinarie nel racconto
di grandi scrittori
107 Maxim Biller. Sei valigie
108 Pajtim Statovci. Le transizioni
109 Ben Lerner. Topeka School
110 John Lanchester. Il muro
111 Sylvain Tesson. La pantera delle nevi
112 Eliane Brum. Le vite che nessuno vede. Appunti dal Brasile
che insorge
113 Angelo Carotenuto. Le canaglie
114 Furukawa Hideo. Una lenta nave per la Cina. Murakami RMX
115 Giosuè Calaciura. Io sono Gesù
116 Ingrid Seyman. La piccola conformista
117 Max Porter. Lanny
118 Mia Couto. L’universo in un granello di sabbia
119 Simona Baldelli. Alfonsina e la strada
120 Alejandro Zambra. Poeta cileno
121 Francesco Recami. L’educazione sentimentale di Eugenio Licitra.
L’Alfasud

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