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J E S MY N WA RD

della stessa autrice:


Salvare le ossa
Canta, spirito, canta
La linea del sangue
Naviga le tue stelle

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Jesmyn Ward
SOTTO LA FALCE
Un memoir

Traduzione di Gaja Cenciarelli


Titolo originale:
Men We Reaped

© 2013 by Jesmyn Ward


Published by arrangement with The Italian Literary Agency
and Jennifer Lyons Literary Agency

© 2021 Enne Enne Editore, Milano


www.nneditore.it
A Joshua Adam Dedeaux.
Che guida i miei passi.
Vedemmo il lampo, e furono le armi;
e poi sentimmo il tuono, e furono i potenti;
e poi sentimmo scendere la pioggia, e invece scendeva il sangue;
e quando arrivammo tra le messi, c’erano uomini morti sotto la falce.
Harriet Tubman

Young adolescents in our prime live a life of crime,


though it ain’t logical, we hobble through these tryin’ times.
Livin’ blind: Lord, help me with my troubled soul.
Why all my homies had to die ’fore they got to grow?
Tupac “2Pac” Shakur, Words 2 my firstborn

Sto sul moncone


di un bambino, forse il morto sono io
o forse è il mio fratellino, e
urlo più lontano che posso, non riesco a lasciare questo posto, perché
per me è il più caro e il peggiore,
è la vita più vicina alla vita, quella
vita che si è persa: è questo il posto dove
devo stare. [...]
A.R. Ammons, Easter Morning
prologo

Quando nostra madre ci scarrozzava dalla costa del Mis-


sissippi a New Orleans per andare a trovare nostro padre
ogni fine settimana, diceva: Mettete la sicura alla portiera. Mio
padre si era trasferito a New Orleans dopo che i miei si
erano lasciati per l’ultima volta prima di divorziare, mentre
noi eravamo rimasti a DeLisle, in Mississippi. Inizialmente
mio padre viveva in una modesta abitazione con una sola
camera da letto, tutta gialla, con sbarre alle finestre. Era a
Shrewsbury, un piccolo quartiere nero che si allargava sotto
il cavalcavia, in direzione nord. A nord la casa confinava
con un capannone industriale recintato, e a sud con il chias-
so metallico delle macchine che sfrecciavano sull’autostrada
sopraelevata. Io ero la più grande di quattro fratelli, e in
quanto primogenita ero anche quella che ordinava a mio
fratello Joshua, alle mie sorelle Nerissa e Charine e a mio
cugino Aldon, che ha vissuto con noi per anni, di improv-
visare dei letti con i cuscini del divano e le lenzuola in più
di mio padre, e di sistemarli sul pavimento del soggiorno
in modo che tutti avessimo abbastanza spazio per dormi-
re. I miei genitori, che stavano provando senza successo a
riconciliarsi, dormivano nell’unica stanza da letto. Joshua
insisteva che ci fosse un fantasma in casa, e di notte restava-
mo supini nel soggiorno senza televisore a guardare l’ombra
delle sbarre spostarsi furtivamente sulle pareti, e ad aspet-
tare che qualcosa cambiasse, ad aspettare che qualcosa che
non doveva trovarsi lì si muovesse.

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«Qui è morto qualcuno» disse Josh.
«Come fai a saperlo?» dissi io.
«Me l’ha detto papà» disse lui.
«Tu vuoi solo spaventarci» dissi. Non aggiunsi: E ci riesci.
All’epoca ero alle medie, a cavallo tra gli anni Ottanta
e Novanta, e frequentavo una scuola privata episcopale a
maggioranza bianca. Ero una ragazzina di provincia, e i
miei compagni di classe del Mississippi erano provinciali
come me. Chiamavano New Orleans “la capitale degli omi-
cidi”. Raccontavano storie orribili di bianchi che venivano
uccisi mentre tiravano fuori la spesa dalla macchina. Colpa
delle gang e dei loro riti di iniziazione, dicevano. Ciò che
veniva taciuto in queste conversazioni – e, date le tendenze
razziste di parecchi studenti della mia scuola, mi stupisce
che non fosse detto apertamente – era che questi delinquen-
ti, violenti e spietati, e privi di qualsiasi sentimento di de-
cenza, erano neri. Quando i miei compagni parlavano dei
neri, io ero spesso bersaglio delle loro occhiate. Avevo una
borsa di studio, frequentavo quella scuola solo perché mia
madre faceva la domestica per alcune famiglie ricche della
zona costiera del Mississippi che pagavano la mia retta. Per
quasi tutte le medie e il liceo, sono stata l’unica ragazza nera
della scuola. Ogni volta che i miei compagni parlavano dei
neri o di New Orleans e cercavano di non guardarmi, senza
tuttavia riuscirci, io ricambiavo il loro sguardo e pensavo ai
ragazzi che conoscevo a New Orleans, cioè ai fratellastri di
mio padre.
Lo zio Bookie era il nostro preferito. Lui e i suoi fratel-
li avevano passato la vita nei quartieri più temuti dai miei
compagni. Lo zio Bookie era quello che assomigliava di
più al nonno che avevo conosciuto appena, morto di ictus
a cinquant’anni. Aveva la pancia grossa come una botte, e
quando sorrideva chiudeva gli occhi. Nei giorni più caldi,

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lo zio Bookie ci veniva a prendere a Shrewsbury, passava-
mo sotto l’autostrada sospesa nel cielo, e ci portava in una
pericolante shotgun house che nei miei ricordi è color grana-
to, all’angolo della strada. La signora che ci viveva vendeva
ghiaccioli sul retro. Era zucchero liquido e, con il caldo, si
scioglieva troppo in fretta. Mentre andavamo da lei, lo zio
raccontava barzellette, passava a prendere altri bambini, e
ci precedeva sull’asfalto incandescente come l’incarnazione
di periferia del pifferaio magico. Lo zio Bookie giocava con
noi in strada: a kickball, a calcio e a pallacanestro. Quan-
do la palla colpiva la bocca di qualcuno di noi, lasciandola
gonfia e dolente, lui rideva, gli occhi sottili come il taglio
di una monetina. Certi giorni ci portava insieme a nostro
padre e al pitbull al parco sotto l’autostrada. Lì, mio padre
faceva combattere il suo contro altri cani. Tutti gli uomini
che assistevano ai combattimenti o che spingevano i loro
cani verso quella barbarie nel caldo rovente erano scuri e
lucidi di sudore come i loro animali. Mio fratello e io re-
stavamo sempre vicini allo zio Bookie. Lo prendevamo per
gli avambracci e glieli stringevamo forte, sussultando per il
rombo delle macchine sull’autostrada e ogni volta che gli
animali si avventavano l’uno contro l’altro. Alla fine, i cani
sanguinanti ansimavano e sorridevano, mio fratello e io al-
lentavamo la presa sullo zio e, con gioia, abbandonavamo
il mondo delle ombre e la minaccia di un cane che in un
attimo poteva balzare fuori dal cerchio dei combattimenti.
«Papà non ti ha mai detto che qui è morto qualcuno»
dissi.
«Sì, invece» disse Joshua.
«Lo dici tu» disse Aldon.
Quando ero al liceo, non riuscivo a conciliare il mito di
New Orleans con la realtà, ma sapevo che c’era qualcosa
di vero. Mio padre e mia madre erano in macchina, seduti

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davanti, durante quelle prime visite a New Orleans, all’ini-
zio degli anni Novanta, quando erano ancora sposati ma se-
parati, quando tra loro esisteva ancora quell’armonia frutto
di anni di matrimonio, e parlavano di sparatorie, pestaggi,
omicidi. Davano molti nomi diversi alla violenza di New Or-
leans. Noi, quand’eravamo da nostro padre, non abbiamo
mai assistito a scene del genere. Ma ascoltavamo la recinzio-
ne metallica sferragliare attorno al capannone industriale,
mentre la notte si dispiegava davanti a noi, interminabile, e
ascoltavamo mio fratello raccontarci storie di fantasmi.
Eppure sapevamo che esisteva un’altra New Orleans. La
vedevamo quando ci stipavamo dentro la macchina di mia
madre e passavamo davanti alle case popolari di mattoni
rossi sparse per tutta la città, edifici a due piani con terrazze
di ferro fatiscenti e vecchi alberi massicci ai lati, impettiti
come sentinelle; donne che gesticolavano e si grattavano la
testa; bambini neri che giocavano rabbiosi, felici, imbron-
ciati sui marciapiedi rotti. Osservavo i giovani dal finestrino.
Gli uomini con i pantaloni cascanti e le teste vicine, che bi-
sbigliavano incurvati, nascosti in negozietti che vendevano
po’ boy ai gamberi e ostriche. Mi chiedevo di cosa parlas-
sero. Mi chiedevo chi fossero, mi chiedevo che vita avessero.
Mi chiedevo se fossero assassini. Di notte, sul pavimento del
salotto di mio padre, ripetei la domanda a Joshua.
«Cos’è che è successo qui, secondo papà?» dissi.
«È successo che hanno sparato a qualcuno» disse Joshua.
«Qualcuno chi?».
«Un uomo» disse lui, parlando al soffitto. Charine si rag-
gomitolò contro di me.
«Smettetela» disse Nerissa. Aldon sospirò.
Quando lasciavamo mio padre per tornare a DeLisle,
come ogni domenica, io venivo colta da una grande tri-
stezza. Tutti eravamo tristi, credo, persino mia madre, che

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provava a far funzionare il suo matrimonio, malgrado la di-
stanza e gli anni di infedeltà. Aveva addirittura preso in con-
siderazione l’eventualità di trasferirsi a New Orleans, città
che odiava. Mi mancava mio padre. Non volevo tornare a
scuola in Mississippi il lunedì mattina, attraversare la porta
a vetri ed entrare nelle grandi aule inondate di luci al neon,
tornare dai miei compagni di classe appollaiati sui vecchi
banchi, con le loro camicie e i pantaloncini kaki, le gambe
divaricate, l’eyeliner blu. Non volevo che mi guardassero
dopo aver detto qualcosa sui neri, non volevo distogliere lo
sguardo perché non si accorgessero che li stavo osservan-
do, che osservavo il privilegio di cui si vestivano come se
fosse un indumento. Per tornare a casa attraversavamo la
zona est di New Orleans, il bayou di Isle Sauvage, il grigio
mormorio di Lake Pontchartrain, i cartelloni e le aree com-
merciali di Slidell ed entravamo in Mississippi. Prendevamo
la i-10, passavamo davanti alla parete di pini dello Stennis
Space Center, a Bay St. Louis, a Diamondhead, e arriva-
vamo a DeLisle. Una volta lì, saremmo usciti dalla lunga
autostrada sconnessa, avremmo superato gli stabilimen-
ti DuPont, nascosti, come lo Stennis, dietro una parete di
pini, i binari della ferrovia, le piccole case di legno situate in
piccoli campi e in piccoli cortili polverosi, con gli alberi che
ombreggiavano le verande. Qui i cavalli, immobili, rumina-
vano l’erba in cerca di frescura. Le capre mordicchiavano
le staccionate.
DeLisle e Pass Christian, le due città di cui tutta la mia
famiglia è originaria, non sono New Orleans. Pass Christian
è accovacciata accanto alla spiaggia artificiale del golfo del
Messico, di fianco a Long Beach, con la baia di St. Louis
alle spalle, mentre DeLisle abbraccia il dorso della baia di
St. Louis prima di espandersi e poi assottigliarsi verso l’en-
troterra. Le strade di entrambe le città sono letargiche per

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gran parte della quasi insopportabile estate e dell’inverno,
quando le temperature virano verso il congelamento. A vol-
te, a DeLisle, nelle domeniche d’estate, il parco della contea
è affollato dai giovani che giocano a pallacanestro e ascol-
tano la musica che risuona dalle macchine. In primavera,
i vecchi si ritrovano al campo da baseball, dove vengono
a giocare tutte le leghe professionistiche nere del Sud. A
Halloween, i bambini, a piedi o sul retro di un pick-up, fan-
no il giro del quartiere e, casa per casa, chiedono: Dolcetto
o scherzetto. Il giorno di Ognissanti, le famiglie si radunano
attorno alle tombe dei loro cari, portandosi dietro sedie pie-
ghevoli di nylon o tela dove riposarsi dopo aver pulito le
lapidi e le tombe sabbiose, sistemato i crisantemi nei vasi e
mangiato tutti insieme. Chiacchierano fino a sera, accen-
dono falò, scacciano gli ultimi moscerini autunnali. Questa
non è una capitale degli omicidi.
La maggior parte delle famiglie nere di DeLisle, compre-
sa la mia, vive lì da quando ne ha memoria, in case che
molti hanno costruito con le loro mani. Queste abitazio-
ni, shotgun house, dove ogni stanza si apre sulla successiva,
e quelle dalla struttura a forma di A, vennero edificate in
periodi diversi, le prime negli anni Trenta, tirate su dai no-
stri bisnonni, le successive negli anni Cinquanta, dai nostri
nonni, quelle dopo negli anni Settanta e Ottanta dai nostri
genitori che, però, si affidarono a un costruttore. Sono case
modeste, compresa la mia, con due o tre camere da letto,
vialetti di ghiaia e fango, recinti per conigli e filari di mosca-
tello sul retro. Gente povera e operaia, sì, ma orgogliosa. A
DeLisle non ci sono case popolari e quelle che esistevano a
Pass Christian prima dell’uragano Katrina erano piccole bi-
familiari di mattoni rossi e, in certe zone, case monofamilia-
ri, alcune abitate da neri, altre da vietnamiti. Ora, otto anni
dopo Katrina, dove prima sorgevano le abitazioni popolari,

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gli imprenditori edili costruiscono case di due o tre camere
da letto su palafitte alte dai quattro ai sei metri, che si riem-
piono rapidamente di chi, dopo l’uragano, è ancora senza
un tetto sulla testa, o di giovani di Pass Christian e DeLisle
che vogliono vivere nella loro città d’origine. L’ura­gano
Katrina glielo ha impedito per molti anni, avendo raso al
suolo gran parte degli edifici di Pass Christian e decimato
tutto quello che confinava con il bayou di DeLisle. Tornare
a DeLisle da adulta è stato più complicato proprio per que-
sto motivo, un motivo solido come il cemento. Ma ci sono
anche motivi astratti.
Come diceva Joshua quando, da bambini, davamo la cac-
cia ai fantasmi: Qui è morto qualcuno.
Dal 2000 al 2004, cinque ragazzi neri con cui sono
cresciuta sono morti, tutti di morte violenta, senza alcun
collegamento apparente l’una con l’altra. Il primo è stato
mio fratello, Joshua, nell’ottobre del 2000. Il secondo è sta-
to Ronald, nel dicembre del 2002. Il terzo è stato C.J. nel
gennaio del 2004. Il quarto è stato Demond, nel febbraio
del 2004. L’ultimo è stato Roger, nel giugno del 2004. È
una lista crudele, nella sua immediatezza e nella sua im-
placabilità, ed è una lista che ammutolisce. Ha ammutolito
me per molto tempo. Dire che è difficile è un eufemismo;
raccontare questa storia è l’impresa più difficile che abbia
mai affrontato. Ma i miei fantasmi, un tempo, sono state
persone, e io non posso dimenticarlo. Non posso dimenti-
carlo quando cammino per le strade di DeLisle, strade che
sembrano ancor più spoglie dopo Katrina. Strade che sem-
brano ancor più vuote dopo tutte quelle morti, dove invece
di sentire i miei amici o mio fratello che ascoltano la musica
in macchina nel parco della contea, l’unico suono che sento
è il pappagallo di uno dei miei cugini, un pappagallo il cui
grido tormentato, un grido simile a quello di un bambino

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ferito, è tanto forte da riecheggiare per tutto il quartiere da
una gabbia così piccola che la cresta tocca la sommità e la
coda sfiora il fondo. A volte, quando il pappagallo grida la
sua rabbia e il suo dolore, penso al silenzio del mio quar-
tiere. Mi chiedo perché il silenzio sia il suono della nostra
rabbia repressa, dei nostri dolori accumulati. Decido che
non è giusto, che devo dar voce a questa storia.
Te l’ho detto: qui dentro c’è un fantasma, diceva Joshua.
Dato che questa è la mia storia, ma anche la storia di
quei giovani perduti, e dato che questa è la storia della mia
famiglia ma anche la storia della mia comunità, non sarà
semplice. Per raccontarla, devo cominciare dalla storia del-
la mia città e dalla storia della mia comunità. E poi devo
ripercorrere la vita di ciascuno dei cinque ragazzi neri che
sono morti: ripercorrerla all’indietro, dalla morte di Roger
a quella di Demond, alla morte di C.J. a quella di Ronald,
fino alla morte di mio fratello. Allo stesso tempo, devo rac-
contare questa storia nella sua evoluzione, quindi, tra un
capitolo e l’altro, in cui i miei amici e mio fratello vivono
e parlano e respirano ancora per qualche misera pagina,
devo scrivere della mia famiglia e di come sono cresciuta. La
mia speranza è imparare qualcosa dalla nostra vita e dalla
vita della mia comunità, cosicché, quando arriverò al cuore
della storia, quando la marcia in avanti del passato e quella
all’indietro del presente si toccheranno con la morte di mio
fratello, capirò un po’ meglio i motivi di questa epidemia, e
cioè come la piaga del razzismo, della diseguaglianza eco-
nomica e della mancata assunzione di responsabilità pubbli-
che e private si sia infettata, causando una pestilenza che si è
diffusa ovunque. Spero anche di riuscire a capire perché mio
fratello è morto mentre io sono viva, e perché mi sono ritro-
vata sulle spalle il fardello di questa storia marcia e schifosa.

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siamo a wolf town
Passato remoto – 1977

Nelle foto, alcuni dei miei antenati materni e paterni hanno


la pelle talmente chiara da sembrare bianchi, e altri sono tal-
mente scuri che, negli scatti in bianco e nero, le linee del naso
e la bocca sembrano d’argento. Indossano camicette bianche
a maniche lunghe infilate in gonne scure, e sobrie camicie di
cotone dentro pantaloni larghi. Inevitabilmente queste foto
sono scattate all’aperto, ma gli sfondi sono così sbiaditi che gli
alberi alle loro spalle sembrano fumo. Nessuno sorride. Mia
nonna Dorothy mi racconta storie su di loro, dice che alcuni
erano haitiani, altri Choctaw, diceva che parlavano francese,
che venivano da New Orleans o da un nebuloso altrove, in
cerca di terra e spazio, e che si stabilirono qui.
Prima che DeLisle prendesse il nome da un colonizzatore
francese, gli abitanti originari la chiamavano Wolf Town.
Un groviglio di pini, querce e storace cresce dal nord al sud
della città, fino al bayou di DeLisle. Il Wolf River, marrone
e pigro, serpeggia per tutta DeLisle, solletica la campagna
con i suoi ruscelli, prima di sfociare nel bayou. Quando la
gente mi chiede della mia città natale, io rispondo che si
chiamava “città del lupo” finché non è stata in parte addo-
mesticata e colonizzata. Voglio portare alla luce le sue radici
selvagge, la sua originaria ferinità. Chiamarla Wolf Town
sottolinea la sua natura indomita.
Vorrei raccontare, ma non lo faccio: Ho visto volpi, piccole,
rosse e ossute, sfrecciare lungo i fossi prima di infilarsi di nuovo nel bo-
sco. Ma una volta ho visto anche qualcos’altro. Era notte, e i miei amici

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e io, in macchina, passavamo in una zona di DeLisle che prima era
intatta, un selvaggio intrico di alberi in cui qualcuno aveva aperto una
strada senza uscita nella speranza di rendere quello spazio edificabile.
La creatura spuntò fuori dal bosco, a grandi falcate, e arrivò davanti a
noi che, stupefatti, urlammo. Lei ci guardò e rientrò a grandi falcate nel
buio, e lei era proprio il buio, color nero, un muso lungo e sottile, ed era
silenziosa, questa creatura selvaggia che ci guardò come gli invasori che
in effetti eravamo, prima di spostarci su strade più frequentate, lontani
da quel posto che non era affatto senza uscita, quel posto che sembrava
tutto un inizio, un luogo di nascita: Wolf Town.
Ma non sono così eloquente, quindi taccio e sorrido.

Qui la maggior parte delle persone è imparentata. I


“neri” ne parlano tra loro, di come le nostre famiglie si in-
trecciano e si nutrono a vicenda, i “bianchi” ne parlano tra
loro, ma di rado ne parliamo gli uni con gli altri, anche
quando chi si trova alle due estremità dello spettro cromati-
co condivide il cognome. Siamo perfettamente consapevoli
di quanto le linee di sangue siano aggrovigliate nella nostra
comunità, tanto che, agli inizi del Novecento, gli adulti di
DeLisle organizzavano appuntamenti con altre comunità di
razza mista in Alabama e Louisiana per far sposare i figli
in età da matrimonio e rinnovare il patrimonio genetico. A
volte funzionava, a volte no. A volte i giovani trovavano la
propria metà nelle vicinanze. A volte si trattava di cugini, o
di altre relazioni considerate incestuose.
La mia nonna materna, Dorothy, ricorda che quando era
molto piccola, prima che la madre, Mary, e il padre, Harry,
avessero dodici figli, andava con i genitori a trovare i paren-
ti che vivevano in campagna, a nord di DeLisle. Il padre
di Harry era scuro, la pelle d’un marrone intenso, ma la
madre era, a detta di tutti, bianca, e la sorella viveva in una

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comunità di bianchi più a nord. Harry era tanto chiaro da
poter essere scambiato per bianco. I figli di Harry andavano
dal color cannella alla noce moscata alla vaniglia, e durante
quel viaggio a nord, i bambini si raggomitolavano sul sedile
posteriore della macchina e attraversavano tutta la natura
rovente e luminosa del Mississippi nascosti sotto le coperte.
Una volta lì, giocavano in casa, e quando il sole cominciava
a tramontare, la sorella della mia trisavola diceva: Be’, sarà
ora che vi rimettiate in viaggio. Il messaggio sottinteso era: Non
siete al sicuro qui. C’è il Klan. Non potete rischiare che vi trovino da
queste parti quando fa buio. Quindi mia nonna e i fratellini si
rannicchiavano e si nascondevano di nuovo sotto la coperta
soffocante, e un uomo, apparentemente bianco, con la mo-
glie, apparentemente bianca, ripartivano verso sud, diretti
a DeLisle, la comunità prevalentemente creo­la e mista che
loro chiamavano casa.
Anche la famiglia del mio nonno materno, Adam Junior,
porta in dote storie simili. Mia madre ha una foto del padre
di Adam Junior, Adam Senior, che ha proprio l’aspet­to di
un bianco. In effetti, era per metà bianco e per metà nativo
americano. Il padre di Adam Senior era Joseph Dedeaux,
e i Dedeaux erano bianchi di una certa ricchezza che pos-
sedevano uno dei tratti di terra più belli di DeLisle. Situata
nell’ansa del bayou, è una zona adornata da querce secola-
ri di una maestosità quasi insopportabile. Il sole tramonta
sull’erba palustre e sull’acqua, trasformandola in un quadro
talmente magnifico che tuttora ossessiona i miei sogni ma-
lati di nostalgia. Joseph Dedeaux si innamorò della gover-
nante nativa americana e intrecciò una relazione con lei.
Quando la famiglia lo scoprì, lo diseredò. Così Joseph sposò
Daisy e dalla loro unione nacque il mio bisnonno, Adam
Senior. In seguito, mia madre mi raccontò che Joseph e
Daisy aprirono un piccolo emporio, dove il mio trisnonno

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bianco sarebbe morto, vittima di una sparatoria durante
una rapina finita male. La mia trisavola nativa americana
morì qualche anno dopo di malattia.
Anche l’altro mio trisnonno materno, Jeremy, era molto
ricco. Si diceva che la famiglia della moglie venisse da Haiti
ma che lui fosse nativo americano. Quando capì che il go-
verno dei bianchi non avrebbe mosso un dito per garantire
un’istru­zione ai figli e ai nipoti, costruì una scuola con una
sola aula e assunse un’insegnante. Passava anche un po’ di
tempo nel bosco tra gli ettari di sua proprietà, a occuparsi
delle distillerie, passatempo diffuso nella comunità all’epoca
del Proibizionismo. Un giorno, lui e il genero erano indaffa-
rati a distillare l’alcol quando gli agenti del fisco li scovarono.
Me li immagino, questi bianchi in camicia bianca e panta-
loni scuri, i capelli lisci e sudati, le pistole levigate e fresche
nelle mani umide. Harry fuggì e si salvò, e più tardi avrebbe
nascosto i figli sotto le coperte per portarli a nord a far visita
ai parenti bianchi, ma il mio trisnonno Jeremy fu colpito e
ucciso. Gli agenti lasciarono il suo cadavere a raffreddarsi
nel verde avvolgente del bosco, tra gli alambicchi distrutti, e
quando Harry raccontò l’accaduto, la sua famiglia si inoltrò
nella foresta per recuperare il corpo.

Il padre di mio padre era soprannominato Big Jerry, e


Jerry e i fratelli, insieme alla madre, Ellen, vivevano di fron-
te alla chiesa di St. Stephen in una piccola casa quadrata,
color ardesia. I miei bisnonni paterni possedevano circa un
ettaro di terra lungo St. Stephen’s Road, e quando mio pa-
dre era più giovane, nei campi c’erano mais e altre colture,
oltre ai cavalli.
Il padre di mia madre, Adam Junior, viveva in un’altra
casetta, ma alla fine di una strada ancor più angusta che

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corre parallela a St. Stephen’s Road, verso nord. Là sorge
una collina bassa, quel tipo di pendenza che risulta imper-
cettibile a meno che non si stia portando un peso o andando
in bicicletta; la strada che parte dalla St. Stephen’s e sale
su questa collina giustamente si chiamava Hill Road, e la
stradina che si dirama da Hill Road e corre perpendicolare,
larga quanto basta per consentire il passaggio di una mac-
china, è la Alpine. La casa lunga e stretta dei miei bisnonni
materni è in fondo a questa stradina, modesta, ben tenuta
e grigia. È qui che ha vissuto la mia bisnonna Maman Vest.
Le mie bisnonne avevano entrambe la carnagione oliva-
stra e capelli bianchi e neri, sale e pepe. Entrambe avevano
un forte accento creolo francese. Andavo a trovare Nonna
Ellen perlopiù con mio padre. Non ho mai conosciuto il mio
bisnonno, ma mio padre dice che gli hanno sparato dopo
una lite ed è morto giovane. Nonna Ellen aveva una voce
alta e forte, ed era divertente, come mio padre. Restava per
pomeriggi interi seduta in veranda a guardare l’andirivieni
del quartiere e, da vecchia, guidava bene, anche se lenta-
mente. Quando andavamo a trovarla, lei si sedeva sui gradi-
ni della veranda e ci raccontava storie della sua gioventù, di
quando lei e i fratelli strappavano il muschio spagnolo dalle
querce per imbottire i materassi. Lavoravano sodo, all’epo-
ca, abituati a lunghe ore di diserbatura, semina, raccolta e
di cura del bestiame. Maman Vest non si sarebbe mai se-
duta sui gradini con noi, era un po’ più formale, un po’ più
riservata, ma noi stavamo tutti insieme al fresco della ve-
randa scura e ombreggiata, dove i bambini mangiavano la
torta e ascoltavano i pettegolezzi degli adulti. Maman Vest
ci raccontava del marito morto, Adam Senior, e di come
una volta, dopo morto, era andato a trovarla mentre lei era
a letto. Le si era parato davanti, dritto e incorniciato dalla
porta, e le aveva parlato. Ci disse che aveva avuto paura,

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che era rimasta paralizzata e non riusciva a muoversi. Io
non ho mai conosciuto il mio bisnonno Adam Senior, né
l’uomo, né il fantasma. Maman Vest ci raccontava spesso
di lui, il marito morto, ma mai di Aldon, il figlio perduto,
morto in Vietnam dopo aver calpestato una mina.
La mia storia familiare è costellata da cadaveri di uomi-
ni. Il dolore delle donne li chiama dall’oltretomba, li fa ap-
parire sotto forma di fantasmi. Da morti, trascendono le
contingenze di questo posto che amo e odio al contempo, e
diventano creature soprannaturali. A volte, quando penso a
tutti gli uomini della mia famiglia morti prematuramente,
da una generazione all’altra, credo che il lupo sia DeLisle.

Mi piace immaginare che i miei genitori si siano conosciu-


ti in un punto indefinito al centro di tutto questo, nell’ampia
distesa boschiva che separava le case dei loro padri, o forse
in St. Stephen’s Road, che all’epoca era tutta terra rossa e
compatta. Chissà, forse erano scalzi, e forse era la fine degli
anni Cinquanta. Mio padre avrà visto una ragazza snella,
dalla pelle olivastra, minuta e con il naso piccolo, i capelli
ricci castano scuro raccolti sulla testa. Lei avrà sorriso, e
il suo viso, splendidamente simmetrico, si sarà illuminato.
Forse sarà stata felice di essere libera con i fratelli e le so-
relle per un giorno, libera di giocare. Dato che mia nonna
Dorothy lavorava tantissimo per mantenere i figli, mia ma-
dre sbrigava le faccende domestiche e badava ai fratelli. For-
se allora mio padre non era in grado di vedere la sua forza,
che tuttavia già esisteva. Mia madre avrà visto un ragazzo
color noce, i capelli corvini e tirati indietro, che lasciavano
scoperta la fronte ampia e bassa, il naso grande e sporgente,
gli zigomi anche allora simili a grosse pietre sottopelle. Forse
avrà avuto una benda sull’occhio. Quando aveva sei anni,

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il cugino più grande gli aveva sparato per errore con una
pistola ad aria compressa, colpendolo all’occhio sinistro,
perciò l’occhio gli si era avvizzito nell’orbita, colorandosi
di grigio. Ci sarebbe voluto un po’ di tempo prima che glie-
lo sostituissero con uno artificiale, perciò mio padre passò
gran parte dell’infanzia e dell’adolescenza con una benda
sul viso. Come tutti i bambini, erano figli della storia e del-
la terra in cui vivevano, del Mississippi meridionale e della
Louisiana, entrambe le famiglie avevano antenati africani,
francesi, spagnoli e nativi americani, e tutta questa varietà,
nel Sud degli Stati Uniti, si era appiattita nella definizione
di nero, ma anche se avrebbero visto (presto) i frutti di quella
storia l’uno nell’altra, non ci avranno comunque pensato.
Mia madre avrà guardato l’occhio morto nel viso di mio
padre, forse rendendosi conto che l’arido marmo grigio
conferiva a tutto il resto una bellezza ancor più terribile,
e mio padre avrà guardato le braccia e le gambe, piccole e
snelle, di mia madre, e avrà pensato a una giovane cerva. Ci
saranno stati i pini ai lati della strada, slanciati, l’uno dopo
l’altro fino all’orizzonte, ma durante quel primo incontro i
miei genitori non si saranno salutati. Mio padre avrà calcia-
to la terra battuta. Mia madre avrà raccolto un sasso. Ave-
vano conoscenze comuni, i loro cugini, e altri amici. Era, ed
è tuttora, una piccola città.

Nel 1969, quando mio padre aveva tredici anni e mia ma-
dre undici, l’uragano Camille sferrò il suo attacco. Rase al
suolo tutto, cancellò il paesaggio con mano indomabile. Im-
magino che nel Mississippi meridionale tutti debbano aver
pensato che fosse arrivata la fine del mondo. Camille era solo
una delle tragedie che si erano susseguite, a intermittenza,
in quel periodo. I ragazzi del Mississippi meridionale, neri e

23
bianchi, morivano in Vietnam, tutte le città degli Stati Uni-
ti implodevano nella violenza delle sommosse, e le chiese
venivano fatte saltare in aria. Le croci bruciate. Gli attivisti
civili cercavano di convincere la gente a votare, e in Missis-
sippi i fiumi e i bayou erano tombe d’acqua. A livello locale,
le donne e gli uomini neri organizzavano manifestazioni di
protesta sulle spiagge pubbliche dove non gli era consenti-
to prendere il sole e fare il bagno. In compenso, venivano
attaccati dai cani e dai poliziotti. Devono aver pensato che
fosse arrivata la fine dei tempi quando l’uragano Camille,
una tempesta di categoria 5, si abbatté su di loro, uccidendo
più di duecentocinquanta persone, annegando una famiglia
di tredici persone che aveva cercato riparo in una chiesa
cattolica di Pass Christian. Le autorità in affanno sistema-
rono le famiglie nelle tendopoli. Dopo che la casa di mia
nonna Celestine fu staccata dalle fondamenta e spazzata via
dall’onda di tempesta che rase al suolo Pass Christian, mio
padre, con le sorelle e la madre, andò a stare in una di que-
ste tendopoli. La casa di mia nonna Dorothy fu risparmia-
ta, trovandosi nella parte alta di DeLisle, in una zona che
noi chiamiamo gli Chaneaux, lontano dal bayou di DeLisle
quanto bastava per sfuggire all’onda. La famiglia di mia
madre fornì acqua all’intera città, quando si scoprì che nel
loro giardino c’era un pozzo artesiano.
Dopo l’uragano Camille, il governo offrì ai sopravvissuti
la possibilità di trasferirsi altrove. Alla famiglia di mio pa-
dre fu proposto di spostarsi da Pass Christian a Oakland,
California, e così fecero. La medesima tendenza a trasferire
le vittime di calamità naturali si sarebbe ripresentata an-
che decenni più tardi, quando l’uragano Katrina devastò
la zona costiera del golfo del Mississippi; invece di ricevere
gli strumenti necessari per ricostruire le proprie case, alle
famiglie veniva offerta un’alternativa: trasferirsi. Fuggire.

24
Mio padre, la madre e i fratelli fuggirono dal ricordo della
loro casa che si staccava dalle fondamenta mentre loro nuo-
tavano in soffitta per salvarsi la vita. A Oakland, le Pantere
Nere gli davano la colazione prima della scuola, e d’estate
la famiglia tornava in Mississippi per rivedere i parenti. Per
tutti noi, il richiamo delle origini è un istinto inesorabile.
Durante le sue estati in Mississippi, mio padre andava in
giro con i cugini e la famiglia allargata, e qualche volta, ne
sono sicura, anche con mia madre.
Mio padre diventò un uomo massiccio e i pettorali era-
no talmente definiti da sembrare striati come le conchiglie.
Nella baia di San Francisco prese lezioni di kung fu, e il suo
primo maestro gli insegnò a combattere lealmente, ovvero:
Prima, dagli un pugno sul naso. Papà era un talento naturale;
un giorno, su un autobus, gli saltarono addosso in tre dopo
un tentativo di truffa a carte, e lui li pestò tutti. Entrò in una
gang. Uscì con un’infinità di ragazze: era bello e affascinan-
te e spiritoso, muscoloso e creativo.
In un certo senso, i miei genitori furono costretti ad as-
sumersi troppo presto le responsabilità dell’età adulta, una
necessità per chi cresceva in una famiglia senza padre. Quei
bambini timidi, che si erano incontrati per la prima volta in
St. Stephen’s Road, erano cresciuti, e l’adolescenza li ave-
va cambiati. Mia nonna Celestine trattava mio padre come
l’uomo di casa e di famiglia, come un adulto suo pari, dato
che aveva divorziato da nonno Jerry e stava tirando su i figli
da sola. Per anni, mio padre è stato l’unico maschio in fa-
miglia, nonché il secondogenito. Qualche volta si rivolgeva
alla madre chiamandola “mamma”, altre volte “signora”,
e detto da lui suonava come un vezzeggiativo, una forma
di riguardo da parte di un pari. Il che significava che era
libero di andarsene in giro per Oakland e per la baia di
San Francisco, di sperimentare droghe, di imbastire qualche

25
piccolo imbroglio. Se mio padre nella sua famiglia incarna-
va la figura paterna, oltre a essere il maggiore di due fratelli
e il secondogenito in assoluto, allo stesso modo a mia madre
toccava ricoprire il ruolo materno nella propria.
A lei, tuttavia, non era accordata la stessa libertà concessa
a mio padre, perché era una donna. Al contrario, dato che
mia nonna Dorothy faceva due o tre lavori per mantenere
da sola i sette figli, dato che passava le giornate a lavorare
sodo, fisicamente, quanto un uomo, il compito di accudire
i bambini ricadde su mia madre. Dopo molti anni di matri-
monio, mio nonno Adam divorziò per sposare un’amica di
mia nonna. Quindi mia madre imparò a cucinare prima di
compiere dieci anni, e passò la sua preadolescenza e adole-
scenza a preparare abbondanti colazioni che consistevano
in porridge e biscotti, e cene ancora più abbondanti a base
di riso e fagioli rossi. Quando i miei quattro zii, i più piccoli
dei sette, disobbedivano alle regole di mia nonna, mia ma-
dre li frustava con un rametto staccato dagli alberi in cortile.
Lei e le due sorelle lavavano tonnellate di panni e li stende-
vano su fili che attraversavano tutto il cortile paludoso.
Questa vita la rendeva diversa dai suoi fratelli e sorelle:
era una di loro, ma al contempo non lo era. Il ruolo che
aveva assunto fece di lei una ragazza sola e isolata, e la sua
innata timidezza complicava le cose. Trovava intollerabile
dover essere forte, la sopportazione pretesa dalle donne del
Sud rurale. Ne riconosceva l’ingiustizia, fin da quando era
bambina. Perciò era calma e riservata. Appena i fratelli e
le sorelle furono abbastanza grandi da non richiedere un
controllo costante, mia madre poté finalmente comportarsi
come un’adolescente, iniziò a uscire con i ragazzi, frequen-
tò quel bugigattolo di club di proprietà del suo padrino e
organizzò qualche festa in casa di cui gli amici parlano an-
cora oggi.

26
Tuttavia, sentiva i limiti che il Sud rurale imponeva alle
donne e sentiva gli anni Settanta alle calcagna, sentiva lo
spettro di DeLisle là fuori nel buio, il lupo che la mette-
va all’angolo in casa della madre, senza calore d’inverno,
senza aria d’estate. Tirò un sospiro di sollievo quando si di-
plomò, partì per Los Angeles, per vivere da alcuni parenti
del padre e frequentare l’università. Era un’occasione rara
per lei, e anche se era consapevole di quanto fosse rara, di
quanto fosse delicata, il sogno incarnato da mio padre la
attirò a Oakland. Dopo un semestre di studi, partì per il
nord e lo raggiunse nella baia di San Francisco. Lui l’aveva
corteggiata con lettere e foto spedite da Oakland, e poi di
persona, ogni estate, con il fascino e la bellezza dei muscoli,
quando si ritrovavano in Mississippi. Così cominciò la loro
convivenza.
roger eric daniels iii
Nato il 5 marzo 1981
Morto il 3 giugno 2004

Ann Arbor era grigia. Il cielo era sempre nuvoloso, fulig-


ginoso e freddo, anche se era primavera e gli alberi in fio-
re erano di un verde brillante. Ero devastata dalle allergie.
Avevo appena terminato il primo anno della laurea specia-
listica, e avevo il naso talmente tappato che respiravo con la
bocca. Non avevo mai sofferto così tanto di allergie prima di
trasferirmi in Michigan, il che mi dava la sensazione che il
Michigan stesso mi odiasse, come se fossi un corpo estraneo
che stava tentando di espellere.
Mio cugino Aldon venne a Detroit per aiutarmi durante
il viaggio in macchina dal Michigan al Mississippi, nell’esta-
te del 2004. Aldon aveva un mese meno di Joshua, ed erava-
mo cresciuti come fratelli. Io avevo ventisette anni, ma lui,
malgrado i suoi ventiquattro, era diventato più grande di
me, superandomi di circa venti centimetri. Aveva un dente
d’oro, treccine aderenti alla testa, ed era tutto abilità e genti-
lezza, quindi quando si mise alla guida per il primo tratto di
viaggio, che sarebbe durato quindici ore, io mi rannicchiai
sul sedile del passeggero, lanciai uno sguardo truce ai chilo-
metri di autostrada, ai campi, ai cartelloni pubblicitari che si
estendevano davanti a noi, e provai gratitudine e apprensio-
ne. Mi piacerebbe respirare di nuovo, pensai, ma stavo tornando a
casa. Il pensiero di tornare a casa conferiva sempre alla mia
nostalgia una sfumatura euforica e rassicurante, ma negli
ultimi quattro anni quella sensazione di promessa si era tra-
sformata in paura. Quando mio fratello morì, nell’ottobre

29
del 2000, fu come se tutte le tragedie che avevano perse-
guitato la mia famiglia prendessero corpo in quel grande
lupo che era DeLisle, un lupo di oscurità e dolore, come se
quella grossa creatura fosse determinata a distruggerci. Dal
2000 all’estate del 2004 erano morti altri tre amici: Ronald,
nell’inverno del 2002, C.J. nel gennaio del 2004, e Demond,
un mese dopo, a febbraio. Il fatto che i nostri amici fossero
morti l’uno dopo l’altro fu un duro colpo, perché il lupo ci
stava alle calcagna. Ma tenni la bocca chiusa con Aldon. A
lui dissi: «Non riesco a respirare, cugino. È l’aria».
Aldon alzò il volume della musica: rap. Quel ritmo ci
accompagnò lungo tutte le autostrade, scandì i chilometri.
Quando ci fermammo nel bel mezzo della piatta campagna
dell’Ohio per bere una Coca-Cola, andare in bagno, fare
uno spuntino, non dovevo già più sturarmi il naso con il
fazzoletto. Quando attraversammo il fiume Ohio diretti alle
verdi colline ondulate del Kentucky, riuscivo a inspirare ed
espirare dal naso. Aldon guidava con la mano sinistra sul
volante, la destra sul bracciolo, concentrato.
Spero che questa estate non muoia nessuno, pensai.

Per le vacanze estive i miei compagni di studi rimanevano


ad Ann Arbor oppure andavano a lavorare sui pescherecci
in Alaska, o raggiungevano le famiglie a Cape Cod; io, inve-
ce, tornavo sempre in Mississippi. Un’abitudine che avevo
mantenuto anche durante le vacanze invernali, primaverili,
estive dal 1995 al 2000, mentre frequentavo la Stanford Uni-
versity, e proseguivo la tradizione in quell’estate del 2004. La
nostalgia di casa mi aveva tormentato da quando ero partita
per Stanford, nel 1995. Scoppiavo a piangere a dirotto, di
nascosto dal mio ragazzo di allora, quando vedevo uomi-
ni sfortunati che mi ricordavano mio padre. Elemosinavo

30
lunghe chiacchierate al telefono con i miei amici a casa per
poter sentire i rumori di sottofondo, desiderando con tutta
me stessa di essere lì. Sognavo i boschi che circondavano
la casa di mia madre, li sognavo rasi al suolo e in fiamme.
Sapevo che nella mia terra c’erano molte cose da odiare, il
razzismo, la disuguaglianza, la povertà, tutti motivi per cui
me ne ero andata, e tuttavia la amavo.
Quando ero lì stavo da mia madre, una casa mobile a
doppio modulo in fondo a un campo, lontana dalla stra-
da. Querce spagnole e piccole aiuole piene di azalee e bul-
bi punteggiavano il giardino. Mia madre ne andava fiera
e lavorava sodo per curarlo, anche se, vivendo in cima a
una collina, quando in primavera e d’estate cominciava a
piovere intensamente, l’acqua spingeva la terra giù per il
pendio fino alla strada, e nel giardino restava solo sabbia.
Quell’estate Joshua era morto già da quattro anni, quindi
mia madre aveva trasformato la sua stanza in una camera
da letto per il mio nipotino di sette anni, De’Sean. Mia so-
rella Nerissa, ventuno anni, all’epoca viveva in una bifami-
liare a Long Beach, Mississippi. Aveva partorito De’Sean a
tredici anni, e non aveva avuto l’opportunità né la maturità
per fargli da madre, perciò De’Sean viveva con mia madre,
e Nerissa aveva imparato a prendersi cura di lui durante i
fine settimana. La mia sorella più piccola, Charine, diciotto
anni, viveva ancora con mia madre. Prese il diploma qual-
che giorno dopo il mio ritorno dal Michigan.
Quando Aldon e io arrivammo, reduci dal lungo viag-
gio in macchina, entrai dal retro, andai in punta di piedi
in camera di Charine, e mi infilai nel letto con lei. Non mi
respinse, anche se sudavo mais tostato e Coca-Cola con di-
sperata intensità. Le misi un braccio attorno alla vita, il viso
contro la sua schiena. Avevamo la stessa statura, quasi lo
stesso peso, la stessa struttura minuta con braccia e gambe

31
lunghe, tranne i fianchi, che lei aveva più snelli dei miei, e le
ciglia, folte come quelle di Joshua e Nerissa. Quando partii
la prima volta per il college, lei aveva dieci anni, e aveva
conservato le mie unghie tagliate e le bottiglie di Coca-Cola
da cui avevo bevuto. Era la mia sorellina. Mi concessi di
essere fragile, per un istante. Dormiva, oppure era tanto
premurosa da fingere di dormire, perché quando mi sdraiai
dietro di lei e piansi, di paura o di sollievo, il respiro irrego-
lare come unico indizio del mio pianto, lei me lo lasciò fare.
La nostra estate cominciò così.
Quando ci svegliammo, non accennò affatto al mio pian-
to. Anzi, andammo a fare un giro in macchina. Charine sof-
friva di mal d’auto, e l’aria condizionata peggiorava le cose.
Io volevo immergermi il più possibile in quel caldo, dato che
le nevicate ininterrotte e il freddo implacabile del mio pri-
mo inverno in Michigan mi avevano stordito, perciò tene-
vamo i finestrini abbassati per far entrare i quaranta gradi
del Mississippi. Non avevamo niente da fare. Andammo al
parco della contea, le altalene che dondolavano mollemente
e puzzavano di gomma bruciata sotto il sole, le reti dei ca-
nestri immobili, le tribune deserte. Il paesaggio risuonava di
perdite e dolore. Eravamo sole.
«Andiamo a rilassarci da Rog» disse Charine. «C’è sem-
pre gente lì, e lui è sempre a casa».

Rog viveva in un quartiere di Pass Christian che si chia-


mava Oak Park. Era a maggioranza nera, e il labirinto di
strade iniziava da North Street, a nord, e finiva con Second
Street, a sud, situata a circa due lunghi isolati di distanza
dalla spiaggia e dal golfo del Messico. Quelle più vicine a
North Street erano le abitazioni tipiche della maggior parte
dei quartieri del Mississippi meridionale: mattoni, un piano,

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tre camere da letto, una lastra di cemento a mo’ di veran-
da lungo la facciata. Quelle più vicine a Second Street, da
cui la spiaggia si vedeva o si intuiva dal profumo, erano
più grandi. Rog e la madre Phyllis, che tutti chia­mavano
Mrs. P., vivevano nei dintorni di North Street.
Rog era basso e snello. Scuro come la corteccia dei pini,
aveva le treccine e indossava indumenti talmente larghi che
quasi ci spariva dentro. Aveva sempre le palpebre socchiuse,
guardava sempre di sbieco. Il viso era lungo e stretto. Aveva
un sorriso sconvolgente, luminoso, ampio. Sorrideva tanto.
Il padre di Rog, Roger Eric Daniels ii, in breve Jock, era
morto di infarto a ventotto anni, lasciando Mrs. P. sola a
badare alla famiglia, di conseguenza Rog, come la maggior
parte di noi ragazzi cresciuti senza padre, passava un sac-
co di tempo con le due sorelle maggiori o con altri bambi-
ni della sua età, senza sorveglianza, specialmente d’estate.
Una volta, il 4 luglio, lui e i cugini intrecciarono insieme un
grappolo sulfureo di petardi, poi li infilarono nelle cassette
della posta, e accesero le micce. Le cassette della posta scop-
piarono. Qualcuno chiamò la polizia. Quando gli agenti ar-
rivarono, dissero ai ragazzi che manomettere la posta era
un reato federale, e portarono due di loro in un carcere mi-
norile. Rog imparò che è così che vengono trattate le mara-
chelle dei bambini neri nel Sud degli Stati Uniti. In un certo
senso, era stato fortunato: non lo avevano preso.

Quando Rog era in seconda media, uscì con mia sorella


Nerissa per una settimana. Lei non era ancora incinta di
mio nipote, ma lo sarebbe stata presto. Nerissa era formosa
da quando aveva nove anni. Aveva lunghi capelli lucidi, un
neo sul mento e uno sul petto, allineati come bottoni; era
solo una lattante, e i miei genitori avevano già riconosciuto

33
in lei la maledizione della bellezza. Se mai diventeremo nonni
prima del tempo, diceva mia madre, sarà per colpa sua. Nerissa,
al contrario di me, alle medie era molto popolare e aveva
già dei fidanzati. Diceva di essere pazza di Rog, che lui era
il ragazzo più carino della scuola. Si passarono dei biglietti-
ni a scuola: quello di lui diceva: Vuoi uscire con me? Quello di
lei rispondeva: Sì. Nerissa indossava magliette larghe, prese
in prestito da Josh, pantaloncini larghi e scarpe da tennis.
Circa un anno dopo, quando restò incinta di un dicianno-
venne di Gulfport, quelle magliette di Josh le permisero di
nascondere la pancia per i primi cinque mesi.
La storia d’amore tra Nerissa e Rog durò una settima-
na. Lei era troppo mascolina, con quelle magliette e quei
pantaloncini larghi, quindi Rog la lasciò. Ma restarono
amici. Anni dopo, quando lei viveva da sola nel suo primo
appartamento, Rog andò a trovarla, entrò, la circondò con
le braccia e le chiese: «Quand’è che diventerai la mia ragaz-
za?». Sorriso.
«Hai avuto la tua occasione» scherzò Nerissa. Rob, il suo
fidanzato, era seduto sul divano, un sigaro nero all’angolo
della bocca, una birra di fianco. Rog sorrise, con il suo sorri-
so amichevole e sereno, scoprendo i denti d’oro lucidati così
devotamente da illuminargli il viso scuro.
«Oh, dai, Nerissa, dammi un’altra possibilità» disse Rog.
«No» rise Nerissa.

La camera da letto di Rog era scura: pareti scure, tende


scure. Aveva costruito delle mensole, su cui erano appoggia-
ti modellini di automobili con ruote cromate e luccicanti,
assemblate con estrema cura fino al minimo dettaglio. Nel
suo stereo c’era 2Pac. Southern rap della vecchia etichetta
discografica No Limit e dei 5th Ward Boyz. Cam’ron e i

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Dipset di New York. E sulla parete i suoi disegni. Era un ar-
tista talentuoso. Nelle campagne del Mississippi, dove non
c’è cemento né una quantità sufficiente di edifici ammassati
a formare una tela decente su cui disegnare graffiti, i ragaz-
zi che di norma avrebbero elaborato la loro firma e la loro
arte in strada facevano come Rog: tappezzavano la camera
di schizzi. Rog disegnava macchine e qualche persona. Si
cimentava con le parole stilizzate: opt, recitava una. thug
life, un’altra. E un’altra ancora: ridi ora, piangi dopo.

Rog abbandonò la scuola al secondo anno delle superio-


ri; non è insolito qui che i ragazzi neri lascino gli studi. A
volte accettano passivamente la decisione delle autorità sco-
lastiche, che li obbligano ad andarsene marchiandoli come
disadattati oppure accusandoli di reati gravi come spaccio
di droga o aggressione contro altri studenti; altre volte ven-
gono costretti in fondo alla classe e ignorati. Rog era all’ul-
timo banco di una di queste classi e accompagnava con il
beatbox i cugini che cantavano spiritual sostituendo il nome
dell’insegnante a quello di Gesù. Lasciò la scuola, si mise
a lavorare e poi, nel 2000, andò a vivere dai parenti a Los
Angeles. Gli piaceva da morire. Lavorava in una carrozze-
ria, guadagnava più soldi di quanti ne avrebbe mai potuti
fare in Mississippi, e si godeva la città: parchi a tema, piste
di pattinaggio, la spiaggia dove l’acqua era blu e le onde
correvano verso la riva ornata di palme, così diversa dalla
nostra, dove il golfo sporco e grigio lambiva saltuariamente
una spiaggia artificiale circondata da cemento e pini.
In seguito mi sono chiesta se sia stata una forma di gen-
tilezza nei confronti di Nerissa, in memoria della loro bre-
ve storia d’amore delle medie, a spingere Rog, in visita dai
suoi, a uscire con noi durante la sfilata del Mardi Gras di

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Pass Christian nel 2001. Avevo terminato l’università ed ero
disoccupata da quasi un anno, ma comprai lo stesso un bi-
glietto aereo e partii da New York per festeggiare il Mardi
Gras. Il che pesò notevolmente sulla mia carta di credito.
Non me ne importava niente. Dovevo tornare a casa, anche
se soltanto per tre giorni. Mio fratello era morto da poco.
Ogni mattina aprivo gli occhi e mi aspettavo che fosse vivo.
Quel giorno di febbraio non sapevo che lui sarebbe stato
solo il primo. Pioveva e si gelava. Eravamo tutti mogi, tranne
Rog. Lui se la tirava tra i gruppi di amici e cugini di DeLisle
e Pass Christian. Nelle foto, era sempre da una parte con un
carico di grosse perle viola, verdi e oro al collo, di quelle che
– in tempi normali – avremmo implorato di poter indossare
anche solo per un giorno. Le mie sorelle e io guardavamo
la calca, stringendoci sotto gli ombrelli, ignorando le perle
d’acqua che li bersagliavano. Il mio nipotino di tre anni,
che da poco aveva perduto lo zio, si sentiva frastornato dalla
folla e mi abbracciò la gamba. Provavo un dolore talmente
sconfinato che il luccichio delle perle colorate, la musica che
risuonava dai carri, i festeggiamenti di quel giorno mi sem-
brarono una farsa, un insulto.
Nella prima sfilata del Mardi Gras a cui ho assistito dopo
la morte di mio fratello, la realtà dell’assenza di Joshua fu
addolcita da Rog, dal suo sorriso sereno, dal suo braccio
buttato con disinvoltura sulle mie spalle o su quelle delle mie
sorelle. Ehi, diceva. E poi: Tutto a posto?

Non so perché Rog tornò definitivamente in Mississippi


nel 2002. Immagino che soffrisse di nostalgia, che sentisse
la mancanza delle strade di Pass Christian strette e ombreg-
giate dagli alberi, delle case sparse qua e là e costrui­te su
palafitte di quattro metri che le proteggevano dalla violenza

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degli uragani. Forse gli mancavano Mrs. P., le sorelle Rhea
e Danielle, la sua grande famiglia allargata sparsa tra Pass
Christian e DeLisle, i cugini. Molti se ne vanno e non torna-
no, attratti da città dov’è più facile trovare lavoro, dov’è più
facile imbattersi in qualche opportunità perché chi detiene
il potere è meno legato alla cultura del Sud. Ma so anche
che altri se ne sono andati dal Mississippi e, da adulti, hanno
lavorato altrove per cinque, dieci anni, e poi sono tornati in
Mississippi dicendo: Si torna sempre. Si torna sempre a casa.

La prima sera in cui Charine e io andammo a casa di


Rog in quell’estate del 2004, dopo che Aldon e io eravamo
tornati dal Michigan, non entrammo. Le nostre macchine
erano allineate sulla strada, i paraurti a contatto. La notte
piombava giù in grandi fasce nere, e i lampioni, distanziati,
splendevano fiochi. Gli insetti sciamavano in nuvole confu-
se intorno alla luce, affievolendola ancora di più, tanto da
trasformarci in ombre scure, e le stelle sonnecchiavano nel
firmamento come insetti più grandi e lontani.
I ragazzi alzarono il volume dei bassi sullo stereo delle
loro macchine, e ci sedemmo sui cofani e nei bagagliai, don-
dolandoci a ritmo, sudando e scivolando sull’acciaio. Rog ci
venne incontro, una Budweiser in mano, mentre con l’altra
faceva ciao come un bambino che fende l’aria salutando dal
finestrino di una macchina.
«Ooooohhhh» disse, e ci abbracciò tutte e tre insieme:
me, Tasha, l’ultima fidanzata di mio fratello, e Charine. Per
poco non ci saltò addosso. Slanciò la gamba sopra i nostri
piedi in fila.
Scoppiammo a ridere. Riuscivamo a ridere quando era-
vamo ubriachi, anche nell’estate del 2004.
«Basta, Rog» disse Charine. «Stai facendo casino».

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«In che senso?». Rog si staccò da noi.
«Non riesco a sentire il ritmo se salti così. Tu lo senti?»
mi chiese lei.
«È come un massaggio, no, Charine?» disse Rog, e poi le
passò un sigaro nero. «Siete davvero uno schianto».
Ballò attorno al bagagliaio quella notte, continuando a
farci ridere. Sul suo viso lungo il sorriso non si spense mai.
Mentre gli altri ragazzi erano stipati nelle macchine, a chiac-
chierare di cose che noi ignoravamo, a discutere e a fare cose
di cui io non avevo idea, Rog teneva banco con noi. Mi ricor-
dava Aldon. C’era un che di gentile in lui, di premuroso. Di
buono. La prima volta che vide uno dei suoi cugini più piccoli
provare l’erba per strada, proprio davanti a casa sua, lo fer-
mò. Andò da lui, nel buio, e disse: «Oh, amico, che fai? Devi
darci un taglio. Non devi mandare a puttane la tua vita così,
con questa roba». Il cugino più piccolo rise; era già strafatto.

Solo una volta, quell’estate, organizzammo una festa a


casa di Rog. Bevevamo. Bevevamo sempre. Ma era diverso
dall’anno precedente. Quelle bevute erano state folli, esta-
tiche. Avevamo bevuto whiskey, lo avevamo sentito scorrere
dentro di noi, pulsare: in quei momenti, sei giovane e vivo.
Vivi di più. Nell’estate del 2004 non eravamo più bevitori
ribelli, che si imbottivano di alcol per infrangere le regole,
per cacare sulla tradizione. Al contrario, eravamo tristi, e
bevevamo per dimenticare. Nell’estate del 2004, sapevamo
di essere vecchi: alla fine dell’estate sapevamo di avere un
piede nella fossa.
Quella sera da Rog, avevamo preso casse di Budweiser,
la sua birra preferita, giocavamo a domino, fumavamo, e
parlavamo. Charine, che non beveva mai, decise che quella
sera invece di fumare si sarebbe data all’alcol. Io ero nella

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stanza sul retro che sembrava una veranda a vetri, e parlavo
con mio cugino Dez, che, come la maggior parte dei miei
cugini più giovani, mi superava in altezza tanto da doversi
chinare quando parlavo. Rog mi chiese della mia scrittu-
ra, su cosa stessi lavorando, e glielo dissi: un libro su due
fratelli gemelli, due ragazzi che vivevano in un posto come
DeLisle. Mi sentii in imbarazzo, in quella stanza buia, con
la musica di sottofondo, quando mi fece i complimenti per-
ché scrivevo di “merda vera”, come la chiamò lui. Io bevevo
birra: mi disgustava il sapore, ma mi piaceva l’effervescen-
za. Charine buttava giù whiskey, un bicchiere dopo l’altro,
finché mi passò davanti barcollando.
«Devo andare in bagno» disse.
Rog ci precedette in corridoio mentre io accompagna-
vo Charine nel bagno privato della madre di Rog, accanto
alla camera da letto. Accesi la luce, e Charine cadde in gi-
nocchio, mi appoggiò la testa sulle gambe e perse i sensi.
Vomitò da svenuta. Rog sparì, poi riapparve.
«Sta bene? Deve bere acqua».
«Sì, non regge l’alcol» dissi, accarezzandole i capelli, fis-
sando, con la vista annebbiata, il tappetino giallo.
Per le due ore che restammo sedute sul pavimento di quel
bagno, Charine addormentata sulle mie gambe, io che fi-
nivo la birra calda, alimentando la mia sbronza triste, Rog
continuò a portarci vassoi con qualcosa: un bicchiere d’ac-
qua, due bicchieri d’acqua, patatine, pane per lo stomaco
di Charine. Charine bevve l’acqua ma rifiutò il pane e le
patatine, perciò li mangiai io. Quando fui abbastanza so-
bria da guidare, Rog mi aiutò a metterla in macchina e ci
accompagnò fino al bayou, fin dentro la notte.
Il giorno dopo Charine e io andammo a trovare Rog.
Era una giornata calda e luminosa, cumulonembi simili a
montagne incombevano nel cielo, ma non piovve. Rog era

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seduto su una sedia di plastica dura, e quando Charine e
io ci incamminammo lungo il vialetto fino alla tettoia del
posto auto, lui prese altre due sedie di metallo con la seduta
in plastica intrecciata. Ci sedemmo. Io avevo i postumi del-
la sbornia. Le strisce di plastica mi si conficcavano nelle
cosce, ma era bello stare seduta, trovare un po’ di sollie-
vo all’ombra mentre Rog e Charine fumavano, mentre le
cicale cantavano e frinivano. Rog e Charine parlavano di
quanto fossero cambiate le cose nel quartiere, del fatto che
sentivamo la morte starci alle calcagna, allontanarci l’uno
dall’altro, mentre la comunità andava in pezzi. Parlarono
di quanto si erano sbronzati la sera prima. Parlarono della
California. Parlarono del cambiamento.
Rog parlò di cambiamento, di tornare in California an-
che con gli altri. Era tutto ciò che riusciva a pensare, allora,
e io immaginai che i pini e l’aria pesante per lui rappresen-
tassero le pareti di una stanza invisibile, chiusa su tutti i lati.
Forse questo lo spingeva a esagerare, perché come molta
gente, Rog si curava con alcol e droghe. Le sue abitudini di-
ventarono più evidenti. Perse peso, si fece ancora più segali-
gno, il suo sorriso, che ormai splendeva di una luce flebile, si
era spento. Sua cugina Bebe raccontò che un giorno d’esta-
te non aveva fatto altro che parlare di andarsene, andarsene
dal Mississippi per tornare in California. Gli mancava il suo
lavoro; gli mancava la libertà del diverso, del nuovo. Le di-
ceva: Cugina, quello è un posto migliore per me. Me la caverò meglio.
Tracannò la bottiglia. «Sono pronto a cambiare, pronto ad
andarmene» disse. «Me la filerò presto, ma qui...». E men-
tre parlava, arrivò un ragazzo del quartiere, conosciuto in
giro perché faceva uso di cocaina, eroina, marijuana; par-
cheggiò, si avvicinò e disse: «Tutto a posto?».

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Qualcuno sapeva che Rog sniffava cocaina, altri no. In
Mississippi, alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli anni
Ottanta, la cocaina era la droga delle feste. La generazione
dei miei genitori la sniffava, oppure la fumava insieme all’er-
ba. Lo facevano di nascosto, ogni tanto. Alcuni continuaro-
no, altri no. E poi arrivò il crack, una terribile evoluzione per
tutti i cocainomani: costava meno ma dava più dipendenza.
Quelli che non riuscirono a smettere, da festaioli strafatti si
trasformarono in veri e propri tossici. Rubavano soldi alla
famiglia e agli sconosciuti per pagarsi la droga.
C’è una storia che mi preme raccontare sul legame stretto
tipico di DeLisle e dell’enclave nera di Pass Christian. Quan-
do ti svegli e ti accorgi che, per esempio, ti hanno rubato lo
stereo dalla macchina, ti incazzi come una bestia. Chiami i
tuoi cugini, glielo racconti, lo dici a qualche amico. Hai un
vago sospetto su chi sia l’autore del furto. A mezzogiorno,
uno dei tuoi cugini o dei tuoi amici ti avrà chiamato per darti
notizie, per dirti che qualcuno ha visto qualcun altro nascon-
dersi nel bosco oppure camminare a passo svelto per strada
con il tuo stereo sottobraccio. Quel pomeriggio ti presenterai
a casa del ladro, una casa piccola, un po’ malandata, ma
pulita. Farai la voce grossa. Pretenderai che ti restituisca lo
stereo. Mentre li rimprovererai, vorrebbero sprofondare per
la vergogna, magari ti risponderanno anche male oppure
sorrideranno nervosamente, ma di sicuro ti restituiranno la
refurtiva. Era così che si gestivano i furti quando io ero gio-
vane, per tutti gli anni Ottanta e all’inizio dell’epidemia di
crack negli anni Novanta. Ora è diverso. Ora, se ti presenti
di pomeriggio dai ladri, in una casa senza elettricità e col pa-
vimento marcio, scopri che lo stereo l’hanno portato al ban-
co dei pegni e se lo sono già fumato, e loro ti guardano con
occhi nervosi e infossati che ti scivolano addosso, spostandosi
sulla strada sterrata, sul cielo, sugli alberi che ondeggiano in

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alto, e continuano a mentirti finché non ti arrendi e inizi a
seguire un’altra pista, finché non te ne vai.
C’è uno stigma associato alla cocaina tra i giovani di
DeLisle e di Pass Christian, perché la coca ha un legame
troppo stretto con il crack. I ragazzi bevono shot di liquore,
fumano erba rollata in foglie di tabacco molto spesse, pren-
dono persino ecstasy e analgesici, ma non metteranno mai
dosi di cocaina sul tavolo durante una festa. Perché? Perché
lo spettro del cugino o dello zio o della zia o della madre o
del padre che non sono riusciti a smettere di sballarsi alle
feste, i cui denti ormai sono corrosi dalla pipa, è seduto ac-
canto a loro, a quel tavolo. I ragazzi che si fanno di coca
mentono, tentano di nasconderlo, e lottano contro la dipen-
denza. Rog lo ha tenuto nascosto e ha lottato.
Alcuni dei miei parenti, da parte materna e paterna, hanno
abusato di crack, di tanto in tanto, per anni. Non li condanno per
questo, diceva sempre Charine quando ne parlavamo, preferi-
scono semplicemente sballarsi. ’Fanculo. Li aiuta ad andare avanti. E
poi: Sono adulti. Adesso la capisco, ma nell’estate del 2004, non
vedevo il senso. Non capivo che l’alcol era stata la mia dro-
ga per anni. Non collegavo il sollievo che mi dava l’alcol alle
droghe degli altri, e nemmeno pensavo che potesse essere lo
stesso per i miei parenti, per i miei fratelli e per Rog. Sapevo di
vivere in un posto dove la speranza e l’idea di possibilità erano
effimere come la foschia mattutina, ma non riuscivo a capire
che alla base della nostra dipendenza c’era la disperazione.

L’ultima volta che ho visto Rog era a una stazione di


servizio. Non ricordo con chi fossi, ma ci eravamo fermati
a fare benzina sulla spiaggia di Pass Christian, alla stessa
stazione di servizio che un anno più tardi sarebbe scom-
parsa, quando l’uragano Katrina si abbatté decimando la

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costa. I distributori ronzavano, e io saltai fuori dalla mac-
china quando vidi Rog venire verso di noi a grandi falcate
con la birra in mano, il viso lungo, la bocca chiusa, stavolta
completamente sdentato. Era molto magro. Aveva gli occhi
socchiusi come se stesse sorridendo, ma non era così.
«Tutto a posto, Rog?» dissi.
«Tutto a posto».
Mi abbracciò, la t-shirt che ondeggiava attorno al corpo.
Le sue spalle toccarono a malapena le mie. Si stava già ri-
tirando, era già fuori da quell’abbraccio educato. Era già
tornato in macchina con due uomini del quartiere. Era già
stato risucchiato dalla striscia nera dell’autostrada. Il vento
del golfo riprese a balbettare, soffiava pigramente sabbia nel
parcheggio, sui miei piedi, e Rog scomparve nelle gallerie for-
mate dagli alberi che fiancheggiavano le strade scure di Pass
Christian, come un animale che tornava alla tana segreta.

Anni dopo, Charine mi raccontò di essere andata da Rog


dopo che era morto, ma prima che lo trovassero. In altre
parole, andò da lui pensando che fosse ancora vivo. Lei e i
suoi amici bussarono alla porta della casa buia, con le impo-
ste chiuse, senza sapere che, dentro, Rog era già morto. La
sorella Rhea lo avrebbe trovato due giorni dopo. Gridarono
il suo nome: «Rog!». Dissero: «Forse è svenuto lì dentro, lo
stronzo. Rog!». Più forte. «Vieni ad aprirci!».
Ora la consapevolezza che il suo cadavere giacesse proprio
dietro quella porta spezza qualcosa dentro di lei, dice Charine.

Anni dopo, Nerissa mi raccontò che Rog era andato a


trovarla nel febbraio del 2004. L’episodio dovrebbe risalire
al periodo in cui Rog e i nostri cugini si facevano troppo

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di coca perché C.J. era morto da poco. Al periodo in cui
Rog svenne, e nostro cugino aveva paura che non respirasse,
quindi portò Rog nel bagno di Nerissa e lo mise nella vasca,
fece scorrere l’acqua fredda, sperando in un miracolo, spe-
rando che la fiamma della vita non si spegnesse. Mio cugino
scoppiò a piangere. Urlò: «Non puoi farmi questo!». Prese a
pugni il petto di Rog. «Non tu!». Urlò a Rog. «Non di nuo-
vo!». E a quel punto Rog respirò e aprì gli occhi.

Rog si fece di cocaina e poi, la notte del 3 giugno 2004, pre-


se qualche pasticca di idrocodone. Quella volta non c’era una
festa, nessun raduno informale di amici a casa di sua madre.
Poi Rog, il ragazzo dal bellissimo sorriso e con il viso lungo,
si mise a letto, sentendosi euforico e depresso, sentendo tutto
e niente allo stesso tempo. Forse pensava che sarebbe dovuto
essere altrove, forse sotto le palme della California, a fare una
passeggiata a Venice Beach con i cugini, avvolto dal profumo
dell’incenso che sembrava quasi erba. Forse pensava al cielo
sopra l’oceano Pacifico, la distesa d’acqua che, in lontanan-
za, toccava le nuvole e poi scompariva all’orizzonte, come se
proseguisse all’infinito. Forse pensava alla famiglia, alla ma-
dre che sarebbe tornata a casa dal lavoro su una piattaforma
petrolifera al largo del golfo del Messico. Forse pensava al
condizionatore, a quanto fosse bello stare nel fresco del pro-
prio letto buio, a casa, fermo. Forse non pensava a niente di
tutto ciò, ma a me invece piace credere che queste immagini
gli si fossero affastellate nella mente tutte insieme quando il
seme del cuore malato che aveva ucciso il padre affondò le
radici dentro di lui e sbocciò con violenza nel petto di Rog.
Quella notte, a un’ora imprecisata, Rog morì d’infarto.

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Io ero a casa di mia madre, sola, quando l’ultima ragazza
di mio fratello, Tasha, venne a dirmi che Rog era morto.
«Hanno ammazzato mio fratello!» singhiozzò. Lei e Rog
erano molto legati.
Uscii di casa e attraversai DeLisle in macchina, inoltran-
domi nella campagna. Guidavo con i finestrini giù e i fanali
bassi. Su una strada solitaria, mi imbattei in un mio ex ra-
gazzo del liceo, Brandon; fermammo le macchine al centro
di quella vuota oscurità, tipica delle zone rurali del Missis-
sippi. Conoscevo Brandon da quando avevo sette anni, e il
suo viso mi era familiare quanto il mio. Mi avvicinai alla sua
auto, mi passai una mano sulla fronte e mi sporsi dentro il fi-
nestrino. Aveva gli occhi neri e spalancati, e il bosco attorno
a noi bruciava del richiamo degli insetti.
«Hai saputo?» dissi.
Lo abbracciai. Rog era suo cugino, il cugino più piccolo.
Avevano gli stessi occhi neri, gli stessi capelli ricci e neri.
Brandon annuì. La mia faccia sfiorò la sua mentre mi scio-
glievo dall’abbraccio. Aveva la pelle umida: la notte era
talmente calda che non riuscivo a capire se fosse sudore o
lacrime.
«Vieni a Oak Park?» chiesi. Dopo giorni passati a bussa-
re senza entrare, Rhea, la sorella di Rog, lo aveva trovato
morto. Non oso immaginare cosa debba essere stato per lei.
«Sì» disse Brandon.
Me lo lasciai alle spalle in mezzo alla strada. Quando arri-
vai a Oak Park, parcheggiai la macchina su un marciapiede
di cemento e mi fermai sul prato davanti alla casa di Rog. Sul
ciglio della stessa strada su cui avevamo fatto festa, c’erano ca-
pannelli di persone in attesa. Trovai Charine e Tasha. Tutte e
tre guardammo la casa. Un lungo carro funebre, grigio e nero
con finiture d’argento, portò via Rog. Ebbe qualche difficol-
tà a far manovra sul vialetto. I lampioni ronzavano. Quando

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trasportarono fuori Rog sulla barella e lo caricarono sul retro,
io scoppiai a piangere, a bocca aperta. Odiavo quel carro fu-
nebre. Volevo dargli fuoco. Mentre il conducente schiacciava
l’erba e sterzava goffamente per uscire dal giardino, pensai a
quello che mi aveva detto il mio ex prima che me ne andassi.
«Ci stanno facendo fuori tutti, uno per uno» aveva sus-
surrato Brandon.
Quando la folla si disperse e i parenti più stretti di Rog chiu-
sero a chiave la casa e spensero tutte le luci, noi sciamammo
in strada, in attesa. Aspettavamo come se, con il solo esercizio
della volontà, avessimo potuto riportare indietro il carro fu-
nebre, come se avessimo potuto far rialzare Rog, vivo. Come
se avessimo potuto di nuovo farlo scherzare, sorridere. Tor-
nai a casa da sola, in macchina, attraversando il bayou nero
come l’inchiostro. Pensai a Josh. Pensai a C.J., a Demond, a
Ronald. Viaggiavo con i finestrini abbassati e pensavo a Rog.
Pensavo a quello che avevano detto Tasha e Brandon, e
mi chiesi chi fossero quei loro che ci stavano facendo fuori. La
causa della morte di Rog erano le sue azioni, era il suo cuore:
forse quei loro eravamo noi? Oppure c’era una storia più lunga
che io ignoravo mentre i morti aumentavano, mentre mori-
vano le persone che amavo? Questi loro erano umani? I fanali
illuminarono una scheggia d’argento nel buio, e all’improvvi-
so questi loro sembrarono immensi come l’oscurità, altrettanto
profondi, altrettanto opprimenti. Spensi lo stereo e tornai a
casa senza sottofondo, accompagnata solo dal richiamo stri-
dulo delle cicale e dalle frustate del vento caldo oltre il finestri-
no. Cercai di ascoltare il messaggio contenuto in tutto questo,
di immaginare chi fossero i loro che scrivevano la nostra storia.

Dopo il funerale di Rog, diedi un colpetto sulla spalla di


Rhea. Spalancai le braccia, la strinsi a me. I suoi grandi occhi

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espressivi erano iniettati di sangue e assenti. Mi chiesi cos’avrei
voluto che mi dicessero quando era morto mio fratello, qual-
cosa che non fosse: Stai bene? Oppure: Tutto a posto? Conoscevo
la risposta a quelle domande. Le sussurrai all’orecchio: «Lui
sarà sempre tuo fratello, e tu sarai sempre sua sorella».
Ma il senso delle mie parole era: Tu lo amerai sempre. Lui ti
amerà sempre. Anche se non è qui, lui è stato qui, e nessuno potrà mai
cambiare questo dato di fatto. Nessuno potrà mai togliertelo. Se l’energia
non si crea e non si distrugge, e se tuo fratello è stato qui con il suo senso
dell’umorismo, la sua gentilezza, le sue speranze, non significa forse che
ciò che lui è stato esiste ancora da qualche parte, anche se non qui? Vero?
Perché, per alzarmi dal letto stamattina, io ho dovuto credere fortemente
che questo sia vero per mio fratello, Rhea. Ma non sapevo come dirlo.

Nel quartiere, dopo ogni funerale, compreso quello di


Rog, ci si riunisce per mangiare insieme. Le anziane porta-
rono grandi teglie di stufato e carne a casa di Mrs. P. Par-
cheggiammo davanti alla casa, alcuni di noi nei giardini
adiacenti, le auto per metà sull’erba, per metà sull’asfalto,
stavolta in pieno giorno. Mangiammo con i piatti appoggia-
ti sulle gambe, un piede nella macchina, l’altro fuori. Ci si-
stemammo addosso le magliette, t-shirt bianche con la foto
di Rog dentro una cornice blu. In quell’immagine, lui ha
due fossette profonde e un bel sorriso accecante. Respirava-
mo affannosamente.
La maglietta commemorativa è molto comune ai funerali
dei giovani. Non so se sia diffusa nei quartieri neri del Nord,
o a Est, oppure a Ovest, ma nel Sud è diventata una tradizio-
ne come il rinfresco dopo la cerimonia funebre. La maglietta
di Rog era stata fatta dai suoi cugini: avevano preso le foto,
disegnato il modello e poi ne avevano offerta una a chiunque
si potesse permettere i venti dollari necessari per produrla. In

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questo modo, i giovani commemorano i giovani. Sulla sua ma-
glietta, Rog ha un sorriso affascinante, sembra quasi sul punto
di dire: Ehi, come va, che facciamo stasera? Attorno alla foto più
grande di Rog, ci sono foto di altri ragazzi morti: Ronald, C.J.,
Demond, Joshua, e altri due scomparsi anni prima e con cui
non avevo un legame altrettanto stretto, il primo morto in un
incidente stradale, il secondo suicida. Sorridono tutti in quella
che sembra una foto scolastica o un raduno di famiglia. Mio
fratello sembra un giovane teppista, nella foto, un duro tra i più
duri di New Orleans. Tiene in mano la pistola mitragliatrice
di mio padre e posa a favore dell’obiet­tivo, una bandana sulla
bocca, i capelli rasati quasi a zero. Avrà avuto sedici anni. Non
avevo mai visto questa foto di Joshua, e trovarlo lì, con tutti
gli altri ragazzi morti, mi fece scoppiare a piangere mentre
mangiavo. Consumavo il pasto funebre in una rovente gior-
nata estiva del Mississippi e guardavo gli occhi di mio fratello,
grandi e castani e spalancati, in una foto che non diceva nulla
di chi era veramente e rappresentava tutto ciò che non era.
yagga yo e in che senso? recitava il dorso della maglietta
commemorativa. Erano due frasi ricorrenti di Rog, mi dis-
sero, ma i cugini non mi svelarono il significato. C’era scrit-
to anche opt. La foto di Rog era un insulto ai vivi, troppo
sfocata, troppo statica per il ventitreenne sorridente e affa-
bile che era stato. Sul davanti della maglietta campeggiava il
proclama quello che ti fa ridere ti fa anche piangere che
terminava sul dorso. Troppo retorico, pensai asciugandomi le
lacrime. In quel momento non riuscii a ricordare di aver mai
riso, non riuscii a ricordare cosa provavo ad aprire la bocca
e a sbottare in una risata sonora e imbarazzante insieme a
Rog. Osservai la mia famiglia e i miei amici, piangevamo tutti
senza guardarci, e io non riuscivo a ricordare di essere mai
stata capace di ridere. C’era solo questa perdita, questo dolo-
re. Non riuscivo a capire perché c’era sempre e solo questo.

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siamo nati
1977-1984

Sono nata prematura, al sesto mese, l’1 aprile 1977.


Mia madre aveva diciotto anni, mio padre venti. Viveva-
no a Oakland, con la mia nonna paterna, nella cameret-
ta che era stata di mio padre, piena zeppa dei cimeli della
sua adolescenza: le sue illustrazioni, i poster di Bruce Lee,
un nunchaku attaccato alla parete. Mia madre non ricorda
la conversazione che preannunciò il mio arrivo imminente,
ma immagino si sia svegliata e abbia detto a mio padre: Devo
andare in ospedale e immagino che mio padre abbia riso e pen-
sato che era davvero un bel pesce d’apri­le. Poi mia madre si
sarà piegata in due sul letto, in preda ai dolori. Dico sul serio.
L’espressione sul suo viso: una cerva colpita di striscio dal
paraurti di una macchina.
Alla nascita pesavo un chilo e cento grammi, e i medici
dissero ai miei genitori che sarei morta. Avevo la pelle ros-
sa, sottile come carta velina, e rugosa, gli occhi grandi da
alieno. Mio padre mi scattò una foto, la scattò a tutto il mio
corpo, raccolto nel palmo della sua mano. Essere sottopeso
favorì l’insorgenza di tumori del sangue, escrescenze che af-
fioravano in superficie: bulbose, gonfie e color granato, una
quantità di sangue arginata a stento da una pelle così sottile.
Due scoppiarono e sanguinarono. Verso i quattro anni, si
sarebbero seccate e appiattite completamente, lasciando ci-
catrici a chiazze nel punto in cui erano comparse e cresciu-
te: sulla pancia, sul polso, dietro le cosce. Avevo un nodulo
nel basso ventre, di conseguenza i medici eseguirono un

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taglio qualche millimetro sotto l’ombelico per un interven-
to esplorativo prima di richiudermi. Devono aver praticato
un’incisione lungo tutta la mia piccola pancia, da un fianco
all’altro, mi sembra quasi di vedermi, sul tavolo operatorio,
aperta come una rana. Con il passare degli anni, la cicatrice
si sarebbe allungata, increspandosi e tendendosi nel punto
in cui era stata praticata la sutura. Quando i medici capiro-
no che sarei sopravvissuta, dissero ai miei genitori che il mio
sviluppo sarebbe stato estremamente problematico. Erano
sorpresi che i polmoni funzionassero bene, che io lottassi
per respirare. Ha il cuore forte, dicevano. In un’altra foto, sotto
gli occhi ho due borse rosse e gonfie, e mia madre mi tiene
un tubo di respirazione sul viso. Ho un’aria stremata. Ho
vissuto, silenziosa e tenace, nell’incubatrice, il corpo crivel-
lato da numerosi tubicini. Durante i due mesi di permanen-
za in ospedale, il rosso dell’incarnato sbiadì. Lentamente
presi peso sulla pancia, sulle gambe debilitate, sulle braccia
spalancate. Gli occhi rimpicciolirono. I medici mi dimisero,
gialla, calva, grassa e piena di cicatrici, il 26 maggio 1977:
proprio quando mia madre compiva diciannove anni.
Lasciammo la casa di mia nonna e ci trasferimmo nel no-
stro appartamento con una camera da letto. Sulla testa mi
stava spuntando una peluria che crebbe più o meno di un
centimetro, nera, fine e riccia, e poi si fermò. Sarebbe rima-
sta così fino ai tre anni. Nelle foto di allora, mia madre mi
pettinava i capelli in avanti, acconciatura che assomigliava
a una cuffietta di seta, nel tentativo di incorniciarmi il viso,
di darmi un aspetto più femminile. In una foto del mio se-
condo compleanno, ho una camicia di cotone rossa a mani-
che lunghe, da contadina, con spessi ricami rosso granato, e
pantaloni neri. Il rosso era il colore che mia madre preferiva
vedermi addosso, sempre: né rosa né azzurro né verde né
viola, solo rosso. Rosso come i tumori del sangue. Non ero

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una bambina rosa. In una fotografia, eravamo in cima alle
colline sopra Berkeley e Oakland, l’erba gialla e il fango die-
tro di me. La polvere sulle colline colora l’aria d’oro. Sono
in forma, sembro un bellissimo maschietto. Le escrescenze
rosse, che stavano appena iniziando ad allentare la tensio-
ne sulla pelle, erano perlopiù nascoste dall’abbigliamento.
Ho un’espressione seria mentre guardo la persona dietro
l’obiettivo.

Mio padre mi raccontava sempre che si sentì insultato


quando i medici gli dissero che sarei morta. Io ero nell’incu-
batrice – la testa girata di lato, i polmoni palpitanti sotto la
pelle sottile del petto – ma i medici mi ignoravano, guarda-
vano i miei genitori e dicevano: È probabile che non sopravviva.
Papà non rispondeva. Se ne stava lì a stringere la mano di
mia madre. Lei non piangeva finché non era sola. I medici
dissero una quantità di cose ai miei, quando venni al mon-
do; cose che riguardavano la mia nascita e le probabilità
di sopravvivenza, che i miei genitori non capivano. Cose
che non avrebbero ricordato nemmeno in seguito, quando
gli avrei chiesto di raccontarmi questa storia. Erano giova-
ni, poveri e neri, e vivevano a Oakland alla fine degli anni
Settanta. Mio padre aspettava che il medico se ne andasse,
infilava la mano massiccia nel guanto di lattice attaccato
all’incubatrice, e mi accarezzava la manina con un dito.
Non poteva porgermi l’indice perché lo afferrassi, dato che
il suo dito era grande quanto il mio braccio.
«Volevo dire a quei medici che eri una combattente» mi
raccontò, quando ero adolescente. «Volevo dirgli che la mia
piccola non sarebbe morta perché era una guerriera».
La nostra famiglia discende da una stirpe di uomini e
donne che hanno lottato con le unghie e con i denti per

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sopravvivere. La mia nonna materna, Dorothy, ha cresciuto
sette figli da sola in una casa con due camere da letto e un
unico bagno. Con il passare degli anni, ha lavorato, rispar-
miato e quelle due stanze sono diventate quattro. Ha lavo-
rato come cameriera, parrucchiera, sarta, e alla fine, come
operaia in un’azienda farmaceutica. «Ci serve una donna
che sgobbi come un uomo». Mia nonna ottenne quel lavoro
in fabbrica dopo che un uomo la vide sollevare e caricarsi
sulle spalle un maiale adulto. Da generazioni, gli uomini
della mia famiglia sono giardinieri, falegnami, operai, con-
trabbandieri e negozianti, e costruiscono le case, dalle fon-
damenta al tetto, con le proprie mani.
Mio padre disse che sapeva fin da allora che non lo avrei
deluso.

Ricordo poco di quei primi tre anni nella baia di San


Francisco. Papà era stato un teppista prima che nella sua
vita arrivassimo mia madre e io. Era rimasto coinvolto nelle
retate della polizia che aveva preso di mira tutti i membri
del suo giro per presunto spaccio di droga e per risse con
altre gang in lotta per la supremazia su marciapiedi stretti e
piccole strade. In cella ce n’erano decine, di questi ragazzi,
che gridavano insulti alla polizia, scuotevano la testa, ride-
vano, dicevano cazzate: Che hai fatto? No, amico, che hai fatto tu?
L’artista che era in lui si innamorò di Jimi Hendrix; si inon-
dò i capelli di sostanze chimiche per avere un’acconciatura
afro, che invece di stare dritta si afflosciava. Quando finì il
liceo gli offrirono una borsa di studio in una scuola d’arte,
ma lui decise di non frequentarla; aveva la madre e i fratelli
di cui occuparsi, quindi andò a lavorare. Cominciò nelle
stazioni di servizio di quartieri malfamati, dove le prostitute
passeggiavano per strada. Le trattava bene, gli permetteva

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di usare il bagno senza costringerle a comprare qualcosa,
scherzava con loro mentre aspettavano i clienti. Nel fine
settimana, andava alle corse clandestine a Fresno con gli
amici e si faceva di acidi. Ma quando mia madre arrivò in
California, ci diede un taglio. Stava più spesso a casa, ma
la sua nuova vita familiare non gli impedì di avere qualche
storia clandestina. Essere fedele a mia madre richiedeva un
genere di disciplina morale che lui non aveva mai svilup-
pato, minata com’era dalle sue doti naturali: fascino, senso
dell’umorismo, una bellezza fuori dal comune. I litigi che
mia madre innescava per questo motivo ebbero come unico
risultato quello di renderlo più bravo e più subdolo nei suoi
tradimenti, anche se le diceva tutte le cose che lei voleva
sentirsi dire. Nessuno di noi ha un padre, quindi è ovvio che sare-
mo una famiglia. È ovvio che resterò. Mia madre seguiva i corsi
al centro di formazione professionale e lavorava nella mia
scuola materna, in quegli anni. Voleva specializzarsi in pri-
ma infanzia, diventare maestra d’asilo.
Mio padre diceva che aveva la forma di una bottiglia di
Coca-Cola, e che era bellissima. Ho visto le sue foto di que-
gli anni e in effetti era bellissima: zigomi e naso affilati, occhi
grandi, lunghi capelli serici che le scorrevano sopra le spalle
e sulla schiena come acqua, e un piccolo neo all’angolo del-
la bocca. Quando mi portava con sé a fare la spesa, la gente
si complimentava con lei per la sua bellezza, e con me, il
suo adorabile bambino. È femmina, diceva mia madre. Alla
fine, si era talmente abituata a sentirmi definire maschio che
smise di correggere gli estatici sconosciuti.
All’epoca avevo due anni e camminavo. Avevo una bella
pancetta, gambe corte, grandi occhi neri. Una cuffietta se-
tosa di capelli. I miei fecero una festa, quel tipo di festa che
si fa solo per passare una serata piacevole insieme ai propri
cari. Mia madre mi fece indossare un maglione verde, e io

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trotterellavo attorno alle gambe di papà, dei suoi cugini, di
mamma, delle sorelle di mio padre. Mi prendevano in brac-
cio, la figlia del miracolo, e mi baciavano sulle guance, an-
cora paffute come pesche mature. Io andai in camera mia,
infilai un paio di stivali da cowboy e un cappello da cowboy
che mi aveva comprato mia madre.
«Che fai, Mimi?». Era il mio soprannome. Era il sopran-
nome che l’inquilino del piano superiore aveva dato alla fi-
glia, e a mia madre piacque così tanto che glielo rubò. Saltai
sul cavallo a dondolo d’acciaio nell’angolo, stando attenta a
non farmi pizzicare le gambe dalle molle, e iniziai a dondo-
larmi avanti e indietro, il cigolio che accompagnava il tintin-
nio dei bicchieri e gli adulti che fumavano. Risero. La festa
proseguì e io mi misi a raccogliere le lattine, a volte i grandi
mi vedevano, altre volte no, e sorseggiavo la birra avanzata
prima che me le togliessero di mano dicendo: No, Mimi. Mia
madre mi ha scattato una foto mentre ne tenevo una stretta
a me, la birra che gocciolava dal mento, la lattina lunga la
metà del mio busto, prima di prendermela. Nella foto, io
sorridevo, i piedi piantati, le gambe divaricate, quasi fiera.
Facevo parte della festa.

Mio padre ricorda quei momenti meglio di mia madre,


o forse è più disposto ad aprirsi, o magari ne ha più nostal-
gia, motivo per cui, al contrario di lei, ne parla. Malgrado i
ricordi piacevoli, quando vivevamo in California, gli man-
cava casa sua, diceva. A mia madre no. Lei voleva restare
in California. Mi ha raccontato meno cose di quel periodo,
ma dice che le piaceva la libertà che si respirava, il panora-
ma delle città che si srotolavano sopra le colline. In Missis-
sippi non c’erano panorami, soltanto boschi fitti ovunque.
Riuscivi a vedere solo la casa più vicina, il cane incatenato

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all’albero, tuo fratello che andava in bicicletta sulla strada
sterrata. Forse, di notte, una manciata di stelle: di giorno,
nuvole pesanti e plumbee assediavano il cielo. Ma in Ca-
lifornia, mia madre poteva guardare l’orizzonte e vedere il
sole sorgere a est, e poi vederlo tramontare a ovest, sopra
il mastodontico Pacifico. In California, la mia famiglia era
proprio in mezzo a quelle colline, e mia madre si occupava
del marito e dell’unica figlia, libera dai lacci della famiglia
e del Sud.
Quando frequentavo l’università nella baia di San Fran-
cisco, mi mancava l’aria del Mississippi. Mi chiedo se mio
padre provasse la stessa sensazione, se il freddo implacabile
della baia gli suscitasse la nostalgia del caldo opprimente
del Mississippi. Quando mio padre ripropose l’idea di tor-
nare a casa, mia madre si impuntò. Litigarono. Ma alla fine
lei cedette perché lo amava. All’epoca era anche incinta di
mio fratello, e forse, per la nascita di questo secondo figlio,
voleva il sostegno della famiglia. Era il 1980. Io avevo tre
anni.
I miei caricarono tutti i loro averi nelle due auto, una sta-
tion-wagon e una lowrider Riviera, imboccammo la i-5, at-
traversammo la California e arrivammo a Los Angeles, poi
prendemmo la i-10 e passammo per il sudovest deserto. In
un punto imprecisato dell’Arizona, mia madre, con il pan-
cione, entrò in un piccolo alimentari e svenne. Le macchi-
ne non avevano l’aria condizionata, e tuttavia lei guidò per
tremilasettecento chilometri, l’espressione dura, mio fratello
enorme che le tirava calci nella pancia, il cerchio di metallo
del volante a catena che incombeva su quel palloncino fatto
di grasso e pelle, i finestrini abbassati, il vento che soffiava. Io
ero raggomitolata sul sedile accanto. Mentre lei attraversava
il deserto rovente, io dormivo, e sognavo sogni arroventati.
Passammo per la lunga, apparentemente infinita distesa del

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Texas, per il verde fiorito della Louisiana, e poi finalmente
arrivammo a DeLisle: casa.

Il giorno prima mio fratello non c’era, e il giorno dopo, in-


vece, eccolo qui. Nacque al Memorial Hospital di Gulfport,
Mississippi. Era giallo e grasso, gli occhi grandi e liquidi.
La bocca spalancata sulle gengive. A volte mia madre mi
permetteva di sedermi su una poltrona e tenerlo in brac-
cio, il corpo disteso contro di me mi sfiorava le spalle e si
appoggiava sulle mie gambe. Ho solo qualche ricordo fram-
mentario di lui da piccolo, che non basta per raccontare la
storia della sua vita da neonato a bambino. Joshua è nato
alla scadenza naturale di nove mesi, ma non è stato un parto
semplice. Mia madre dice che è nato guardando un cielo
che ancora non poteva vedere: stava col viso al sole, come
disse il medico, che girò di spalle mio fratello per ben tre
volte, nel ventre di mia madre. Ogni volta, disse lei, lo sen-
tiva girarsi di nuovo per guardare in faccia il mondo, come
se fin dall’inizio fosse determinato a vedere tutto con i suoi
occhi. Era un bambino bellissimo: pelle marrone chiaro, ca-
pelli castano scuro che in seguito caddero e ricrebbero bion-
di. Il giorno prima mio fratello non c’era, e il giorno dopo,
invece, eccolo qui. E, in un battibaleno, io sono diventata la
sorella maggiore.
Da quando siamo tornati a DeLisle, abbiamo trasloca-
to spesso. Abbiamo vissuto in una casetta bianca con due
camere da letto a Pass Christian, ma della nostra vita lì ho
ricordi confusi. Poi ci siamo trasferiti in una casetta azzurra,
stavolta con tre camere da letto, costruita sul terreno della
bisnonna Ellen, a DeLisle, dove papà, da bambino, aveva
perso l’occhio giocando. La casa poggiava su mattoni di
cemento, i gradini mi sembravano incredibilmente alti, ed

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era situata nell’angolo di un campo che pareva sterminato.
La casa di Nonna Ellen, piccola e di un color ardesia sbia-
dito, era a circa trecento metri dalla strada, e il bosco che
delimitava il campo era saldamente aggrappato al retro e ai
fianchi della casa. C’era un piccolo pollaio sotto gli alberi
dietro la nostra casetta, e mio padre mise le due cucce per i
cani di fronte: una era per un pitbull nero che si chiamava
Homeboy, e l’altra per un pitbull meticcio tozzo e bianco
che si chiamava Mr. Cool.
Io diventavo più alta. Mia madre mi faceva tantissimi
codini e me li fissava con grandi mollette di plastica che
noi chiamavamo “batacchi”. Di notte, mentre dormivo,
mi si conficcavano nella cute. Quando compii cinque anni,
mio fratello non ne aveva ancora tre e mi arrivava alla vita.
Lui voleva stare con me, ma se mia madre doveva uscire e
mio padre restava a casa a badare a noi, io lo lasciavo solo,
mi incamminavo sul lungo viale che portava alla strada e
giocavo con Farrah, mia cugina. Giocavamo alla famiglia
felice e sgattaiolavamo a guardare la tv sotto la tenda che il
padre aveva fissato tra la cucina e il salotto. A volte giocava-
mo nel campo che separava le nostre case, e un giorno mio
fratello mi venne a cercare. Camminava bene ormai, e la
sua bionda acconciatura afro era sbocciata. Aveva addosso
solo il pannolino. Andò da un capo all’altro della veranda,
priva di ringhiera, con lo sguardo rivolto verso l’erba. Si
fermò davanti ai gradini, si girò, piegò un ginocchio sul pri-
mo, poi si lasciò scivolare per arrivare sull’ultimo gradino
e girarsi di nuovo.
«Mimi!» chiamò Joshua.
Mi abbassai così tanto che dai mattoni di cemento spun-
tavano solo i miei occhi. Lo osservai. Non volevo risponde-
re, non volevo che uscisse in giardino, non volevo badare a
lui invece di giocare.

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«Mimi!» strillò Josh.
Era magrissimo, solo il pancino era tondo come una pal-
la. Non risposi. Lui guardò meravigliato il giardino, che do-
veva essergli parso persino più sterminato che a me: era una
vasta distesa di erba incolta, e poi quelle case silenziose nella
torbida lontananza in cui era scomparsa sua sorella...
Mio padre uscì di casa sbattendo la porta. Aveva addos-
so solo un paio di pantaloncini. Forse si era addormentato.
Prese mio fratello per un braccio, lo alzò tanto da staccarlo
da terra, e iniziò a sculacciarlo.
«Ragazzino! Ti avevo detto di non uscire da solo!».
Mio fratello piangeva, e girava in tondo come il piombo
su una lenza. La mano di mio padre colpiva il pannolino
di mio fratello senza sosta, e io avevo paura. Di rado avevo
visto mio padre furioso e violento. Non riuscivo a capire
perché fosse così arrabbiato con Joshua, non riuscivo a capi-
re quale lezione stesse cercando di impartirgli. Non riuscivo
a capire perché Joshua penzolasse come una bambolina. E
anche oggi, mi sento in colpa per quelle sculacciate. Ancora
mi vergogno di non essere uscita dal folto dell’erba, di non
aver salito quegli scalini, di non averlo preso per mano e
aiutato a scendere come dovrebbe fare una sorella maggio-
re, di non aver detto: Sono qui, fratellino. Sono qui.

In genere papà non si arrabbiava facilmente. Mi trattava


perlopiù con pazienza e tenerezza; non mi ha mai sculaccia-
ta. Ma sculacciava mio fratello. Con lui era più severo. Con
Joshua, la pazienza di mio padre era evanescente. Non c’era
spazio per l’errore nell’educazione di mio fratello, pensava
papà, perché lui era un maschio. Un figlio. Un bambino
che sarebbe stato costretto a essere un lottatore, molto più
della bambina nata con il cuore forte. Mio fratello doveva

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essere ancora più forte. Mio fratello doveva crescere ed esse-
re un uomo di colore nel Sud degli Stati Uniti. Mio fratello
avrebbe dovuto lottare in modo diverso da me. Forse mio
padre sognava gli uomini della sua famiglia, tutti morti gio-
vani nei modi più infausti possibili, e questo lo ha spinto a
usare le maniere dure quando si svegliava con mio fratello
in piedi accanto al letto: la bocca rosa e sorridente, acerbo,
innocente.
Se non era impegnato a punire Joshua, mio padre era un
tipo allegro. Una sera, mia madre ci lasciò con lui; reduce
da una lunga giornata di lavoro, papà si mise addosso una
coperta e si accovacciò al centro del materasso. Joshua e io
ci stringemmo l’uno all’altra. Noi due schizzavamo agli an-
goli della stanza mentre mio padre si spostava rapidamen-
te con la coperta sulla testa. Girava sul letto, seguendoci,
emettendo strani suoni gutturali. Joshua e io ridevamo. Era-
vamo senza fiato. Ci avvicinammo al letto in punta di piedi,
e mio padre fece sgusciare fuori un braccio, un grosso arti-
glio con le nocche ferite, e noi cacciammo un urlo, la gioia
e il terrore che ci montavano in gola, e quasi ci soffocavano.
Sfrecciammo via. Giocò con noi finché non cademmo stre-
mati, nella stanza calda. Il sudore scorreva sui nostri piccoli
corpi, i capelli vivi sulla testa, dritti come una folta aureola.
Alla fine della serata, mio padre ci prese e ci ficcò entrambi
sotto le coperte con lui e cominciò a farci il solletico. Lo
implorammo di smettere.
Di mattina, prima che mio padre andasse al lavoro alla
vetreria di Gulfport, la famiglia faceva colazione riunita.
Papà alzava il volume della radio in cucina. Era il 1982 e
mia madre era incinta di mia sorella Nerissa. I New Edi-
tion sussurravano le loro canzoni d’amore; Joshua e io an-
davamo pazzi per i New Edition. Mio padre mi prendeva la
mano, poi prendeva quella di Joshua, io stringevo il piccolo

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palmo umido di Joshua nel mio, e ballavamo in cerchio al
centro della cucina. Mia madre scuoteva la testa, sorrideva,
scacciava con un gesto mio padre che provava a convin-
cerla a ballare con lui. All’epoca si sarà forse sentita sotto
pressione, con la famiglia che cresceva, con mio padre che
continuava a tradirla e a proclamarsi innocente e devoto,
per poi tradirla sempre più spesso. Aveva paura di quel che
le si prospettava all’orizzonte. Non poteva ballare in cucina.
Friggeva le uova all’occhio di bue per tutti noi, e come una
famiglia, ci mettevamo a tavola e mangiavamo.

Ma mio padre aveva anche un lato oscuro. Era attratto


dalla violenza, dalla bellezza primordiale della lotta, che tra-
sformava il suo corpo e quello degli avversari in macchine
costruite scrupolosamente. Insegnò al suo pitbull di razza ad
azzannare le ruote sgonfie delle biciclette. A volte lo cocco-
lava anche, trattandolo con la tenerezza che si riserva a un
figlio, ma era fondamentale che il cane fosse un abile com-
battente, e mio padre non si faceva impietosire quando si
trattava di renderlo praticamente indistruttibile. Con il cane,
come con mio fratello, doveva essere intransigente se voleva
che fosse il più forte. Mio padre stava sulla soglia di casa con
un machete in mano, la lama di un grigio così scuro da sem-
brare nero. Lo teneva senza stringerlo, lo lasciava ciondo-
lare. Mia madre era in camera davanti alla tv, e Joshua e io
stretti attorno alle gambe di papà, a guardare Homeboy, ac-
cucciato in giardino, elegante e muscoloso come mio padre.
Homeboy ricambiò lo sguardo, gli occhi che gli brillavano, e
ansimò, con la lingua di fuori. Ci sorrise.
«Restate dentro» disse mio padre, e scese i gradini. Joshua
e io ci infilammo dietro lo stipite, aspettavamo che papà fa-
cesse il giro della casa e prendesse Homeboy tirandolo per

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il collare borchiato. Eravamo decisi ad assistere. Uno dei
cugini di mio padre, anche lui a torso nudo e con i panta-
loncini bianchi, afferrò la coda di Homeboy, la tenne ferma
a terra sotto una colonna di mattoni di cemento. Homeboy
attese pazientemente, silenziosamente, si guardò dietro le
spalle e poi azzannò un moscerino. Si fidava di mio padre.
Papà alzò di scatto il machete e lo abbatté con forza sulla
coda di Homeboy, a pochi centimetri dal punto in cui la
coda si congiungeva alla spina dorsale. Un fiotto continuo
di sangue zampillò sul cemento grigio. Homeboy guaì e
sobbalzò. Mio padre buttò a terra il machete, bendò il mon-
cherino di Homeboy, e poi gli accarezzò i fianchi. Homeboy
piagnucolò e tacque.
«Bravo ragazzo» disse mio padre. Homeboy gli leccò la
mano, gli diede una testata affettuosa.
Più tardi, Joshua e io eravamo a letto, nella nostra stanza,
una camera che era ancora arredata solo per me; le ten-
de alle finestre e il ruvido copriletto erano di Cenerentola.
Quando ci trasferimmo, Joshua aveva la sua cameretta, ma
a un certo punto mio padre decise di aver bisogno di una
stanza per la panca e per le armi del kung fu, quindi Joshua
fu spostato in camera mia. La decisione mi mandò su tutte
le furie per circa una settimana, perché ero un tipo terri-
toriale; e questo era il mio spazio. Ma quella notte, Joshua
e io stavamo tranquilli nei nostri lettini, lui respirava dol-
cemente, quasi russando, mentre io ero sveglia e ascoltavo
mio padre e i cugini nell’altra stanza, li sentivo togliere dalla
parete le pipe che mio padre aveva attaccato come oggetti
ornamentali, sentivo il tintinnio dei pesi, tutti questi rumori
fluttuavano nel corridoio caldo, al buio. Il vento agitava le
mie tende; ondeggiavano e poi si fermavano. L’aria umi-
da che entrava in tutte le finestre aperte della casa portava
l’odore dell’erba in camera mia. Sapevo che era qualcosa

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che si fumava, come le sigarette. Mio padre la fumava e mia
madre no. Forse lui e i cugini parlavano dei cani. Forse par-
lavano di macchine. Forse parlottavano di donne.

All’epoca mia madre aveva già dato alla luce Nerissa. Or-
mai aveva anche capito che il sogno di tenere legato a sé
mio padre grazie a una famiglia sempre più numerosa, che
avrebbe potuto fare di lui un marito fedele, era irrealizzabile
e senza speranza. Aveva portato a termine la gravidanza di
Nerissa, e il parto era stato complicato. Era la più pesante
di noi tre, e si era rifiutata di scendere nel canale uterino,
motivo per cui i medici e le ostetriche dovettero premere gli
avambracci sullo stomaco di mia madre e farli scorrere dal-
la cassa toracica ai fianchi, per poter poi prendere la testa di
Nerissa con il forcipe. Non voleva lasciarmi, dice mia madre.
Appena nata, Nerissa assomigliava moltissimo a papà: ave-
va capelli neri e occhi neri e grandi che quando sorrideva
sembravano virgolette.
La violenza del parto di mia sorella e il lento disfacimento
della nostra famiglia segnò mia madre. Quando tornò a casa
era più riservata. Si chiudeva in sé. Ogni volta che esauriva
la pazienza, attaccava mio padre per le sue infedeltà, ma
mentre lui era teatrale ed esuberante nella manifestazione
della rabbia – rovesciava i materassi dal letto –, mia madre
era brusca. Voleva risparmiarci il dramma delle loro litigate,
il modo in cui la violenza incombeva su ogni scontro. Non si
sono mai messi le mani addosso durante le loro sfuriate, ma
le piccole creature di quella casa soffrivano.

Quell’anno, il mondo al di fuori di casa nostra impartì a


me e a mio fratello lezioni diverse sulla violenza. Ben presto

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il gioco ci insegnò che la violenza può essere improvvisa,
imprevedibile e grave.
Il fratello di mia madre portò Joshua a fare un giro sul
motorino. Lo zio Thomas aveva pressappoco diciannove
anni, e un motorino bianco con il sellino rosso. Mio fratello
sedette sulle gambe dello zio, e lo zio gridava e strillava
mentre giravano in tondo in cortile. Quando era serio, mio
zio aveva una faccia talmente dura che stentavo a credere
fosse la stessa di quando sorrideva. Anch’io volevo fare un
giro sul motorino. Joshua si sporse in avanti e afferrò il ma-
nubrio, e finse di sterzare. Il motorino accelerò. Lo zio pre-
mette la frizione per poter rallentare mentre mio fratello
accelerava, e così si impennarono. Mio zio sterzò per frena-
re e tutti e due franarono nel fosso. Joshua gridò. Il sangue
gli colava copiosamente dalla bocca. Lo zio Thomas non
la finiva più di scusarsi: Mi dispiace mi dispiace mi dispiace,
diceva. Mia madre allargò la bocca di Josh per guardarci
dentro e vide che il sottile velo di carne che univa la lingua
al pavimento della bocca si era lacerato. Gli diedero da
succhiare un po’ di ghiaccio per calmare il dolore, e per
ridurre il gonfiore. Smise di singhiozzare e andò a dormire.
I miei non lo portarono in ospedale. Forse pensavano che
sarebbe guarito da solo, o forse avevano paura del conto,
oppure erano distratti dal fallimento della loro relazione. In
ogni caso, la ferita guarì.
La lezione sulla violenza che imparai io, invece, riguardava
ovviamente i pitbull. Mio padre ne aveva appena comprato
uno adulto, bianco, da un tizio di DeLisle; si chiamava Chief.
Uno dei cani di mio padre, Mr. Cool, il dolce pitbull metic-
cio che mi aveva consolato quando ero più piccola, ultima-
mente si era ammalato. Mio cugino Larry lo aveva portato
dietro casa, in mezzo al bosco, con un fucile in mano, cosa
che mio padre non aveva avuto il coraggio di fare. Mio padre

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aveva intenzione di far combattere il nuovo arrivato, Chief,
insieme a Homeboy, che aveva sin da quando era cucciolo.
Questo nuovo cane era il doppio di Mr. Cool e meno interes-
sato alla prole di papà. Homeboy sapeva essere tenero come
Mr. Cool. Mi faceva scudo con il suo corpo mentre Chief mi
guardava, immobile.
In una delle solite giornate calde e luminose, io incon-
trai Farrah e suo fratello Marty in mezzo al viale di ghiaia.
Homeboy dormiva sotto la casa. Una cagnetta randagia ci
trotterellò intorno. Chief si avvicinò per esaminarla. Le si
affiancò, molto rigido, le annusò il sedere, la coda, la pan-
cia. La trovò interessante. Entrambi si fermarono davanti a
me, incantati a vicenda. Il sole era alto. Io avevo caldo ed
ero infastidita, e Chief mi bloccava la strada.
«Spostati» dissi.
L’orecchio di Chief fremette.
«Spostati, Chief !».
Farrah rise.
«Spostati!» dissi, e gli diedi uno schiaffo sull’ampio dorso
bianco.
Lui ringhiò e mi saltò addosso. Io caddi, urlando. Mi
morse ovunque, sulla schiena, sulla nuca, sull’orecchio: la
sua pancia, bianca e pelosa, sinuosa e forte, si rotolava da
un fianco all’altro, sopra di me. Il suo ringhio soffocava ogni
altro rumore. Io scalciai. Lo presi a pugni, con entrambe le
mani, senza sosta.
Di colpo mi si staccò di dosso con un guaito, e scappò
via inarcando la schiena. La mia prozia Pernella, che vive-
va nella casa più piccola del campo, aveva scacciato Chief
picchiandolo con una scopa gialla. Mi tirò su da terra. Io
piansi di dolore.
«Andate a casa» disse a Marty e a Farrah.
Mi posò dolcemente il palmo della mano sulla base del

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collo, e mi accompagnò per tutto il lungo viale fino a casa.
La testa, la schiena e le braccia mi bruciavano, erano rosse,
più calde di quella giornata. Camminare era un pianto. Mia
madre era ferma sulla soglia. Io ero scalza: avevo il viso co-
perto di sangue che scendeva sul corpo, fino ai piedi. Il dor-
so della camicia era strappato e stava diventando nero. Anni
dopo, mi raccontò mia madre: «L’ho visto aggredirti da-
vanti alla casa di Pernella, l’ho vista picchiarlo e scacciarlo.
Io non riuscivo a muovermi». Era paralizzata dalla paura.
«Il cane. Ha morso Jesmyn» disse mia zia.
Quella voce sciolse mia madre dall’incantesimo. Chiamò
mio padre, che fece scorrere l’acqua nella vasca. Mi prese
in braccio, mi immerse. Io urlai. L’acqua si colorò di rosso.
Mia madre mi tolse la camicia, afferrò la tazza che teneva
accanto alla vasca e mi versò l’acqua sulla testa. I tagli e le
ferite sfrigolarono. Gridai.
«Dobbiamo lavarti, Mimi» dissero. «Va tutto bene».
Mentre mia madre me li passava addosso, gli asciugama-
ni si impregnarono di sangue, e quando mi vestì, sanguinavo
anche sotto la maglietta. Papà ci portò in macchina all’ospe­
dale. Joshua era seduto silenzioso e solenne sul sedile del
passeggero. Mia madre e io eravamo dietro, e io le appog-
giai la testa sulle gambe; mia madre posò delicatamente le
mani sull’asciugamano che mi avvolgeva la testa, il cotone
macchiato di rosso. In ospedale, un’infermiera, alta e bian-
ca, mi disse: «Sei stata morsa da un cane, vero?». Le ferite
pulsavano, e io pensai che fosse una cretina. Cosa credeva
che fosse successo? Quando i medici mi fecero l’antirabbi-
ca, chiamarono quattro uomini per tenermi ferme braccia
e gambe. Io scalciavo. Avevo tre buchi profondi sulla schie-
na. Una ferita di sette centimetri che correva dalla punta
dell’orecchio sinistro, parallela alla clavicola, fino alla nuca.
Non le suturarono. Le disinfettarono e le bendarono. Invece

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ricucirono la parte inferiore dell’orec­chio sinistro, che era
stato quasi strappato via, e che penzolava attaccato a un
centimetro di carne e pelle.
«È stato un pitbull?» chiese il medico.
«Sì» disse mio padre.
«Lei ha lottato» disse mia madre.
«Questi cani saltano al collo» disse il medico. «Se non
avesse lottato...».
«Lo so» disse mio padre.
I miei genitori mi riportarono a casa, io mi trascinavo
a fatica da una stanza all’altra. Vennero in visita cugini e
vicini. Marty portò a mia madre il piccolo orecchino a cer-
chio che avevo all’orecchio sinistro e che lui aveva trovato
nella ghiaia insanguinata. Mio padre era al centro di un
capannello di ragazzi e uomini radunati nel cortile – alcuni
appoggiati al cofano della macchina, alcuni accovacciati a
terra, altri in piedi come mio padre, chi aveva quattordici
anni, chi sessanta – e disse che se io non avessi lottato, sa-
rei morta. Disse che il cane aveva cercato di squarciarmi la
gola. Disse che la cagnetta randagia doveva essere in calore,
e che Chief aveva creduto che io fossi una minaccia. Tutti
gli uomini avevano un fucile in mano, alcuni lo tenevano
come un bambino, nell’incavo del gomito, altri buttato sulle
spalle. Mio padre gli disse di sparpagliarsi, e loro andarono
a caccia del cane: si aggirava in zona di soppiatto cercando
di tornare a casa. Fu mio padre a trovare Chief e gli spa-
rò alla testa, poi lo seppellì in un fosso. Non raccontai ai
miei che ero stata io a iniziare. Che avevo dato a Chief uno
schiaffo sul dorso. Mi sentivo in colpa. Ora, la lunga cicatri-
ce sulla mia testa sembra una sottile cannuccia di plastica, e
come tutte le ferite di guerra, brucia.

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I morsi del mio cane erano diventate cicatrici rosa, quan-
do mio padre e mia madre litigarono per l’ultima volta in
quella casa, e credo fosse primavera perché le finestre erano
aperte. Ci stavamo preparando a traslocare di nuovo, sta-
volta nella piccola casa mobile in cui avremmo vissuto un
anno, con i miei genitori che si stavano trascinando a poco
a poco in un’infelicità sempre più profonda, mentre mio
fratello, mia sorella e io non eravamo mai stati, in tutta la
nostra breve vita, così felici, ignari dei conflitti, vista l’abilità
dei miei nel nascondere ogni dissapore a Nerissa, Joshua e
me. Ma quella sera del 1984 esplosero e non riuscirono a
contenere la rabbia, mio padre perché si sentiva vincolato
da una moglie e tre figli cui doveva lealtà e coraggio, e mia
madre perché lui le aveva assicurato di poterglieli garantire,
ma aveva capito che non ce l’avrebbe fatta. In quel periodo,
lui aveva già avuto il primo figlio fuori dal matrimonio. Di
conseguenza, mamma si stava rendendo conto che, di lì a
poco, avrebbe fatto la fine di sua madre.
I miei genitori urlavano, le loro voci assordanti correvano
fuori dalle finestre, ma io non capivo cosa dicevano. Senti-
vo solo una parola ripetuta senza soluzione di continui­tà:
tu. Tu e tu e tu e tu! interrotta dal lancio di oggetti. Il sole
era tramontato, e il cielo della sera virava dal blu al nero. I
pipistrelli piombavano in picchiata in cerca di insetti sopra
la testa di Joshua e la mia. Le finestre splendevano di luce
gialla. Nerissa, che allora aveva un anno, era in casa con i
nostri genitori, e piangeva. Joshua e io ci sedemmo sulla ve-
randa buia, e io gli passai un braccio attorno alle spalle esili.
Lui tremava e io tremavo, ma non potevamo piangere. Ab-
bracciai mio fratello al buio. Ero la sorella maggiore. I miei
urlavano in casa, e mentre i pipistrelli svolazzavano sopra di
noi, secchi come la carta, io sentivo rumore di vetri infranti,
di legno rotto, di cose spezzate.

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demond cook
Nato il 15 maggio 1972
Morto il 26 febbraio 2004

Non ho mai conosciuto Demond da giovane. L’ho cono-


sciuto da adulto, quando era grande abbastanza da avere
le rughe del sorriso ben pronunciate e la pelle sottile delle
tempie screziata da un reticolo di vene che rivestiva un cra-
nio all’apparenza duro.
Ho conosciuto Demond quando Nerissa viveva in uno
spazioso appartamento con due camere da letto a Long
Beach. Nerissa è stata la prima di noi quattro ad andarse-
ne e a prendere in affitto una casa in Mississippi. Io ero la
maggiore e la prima a essermi allontanata, ma in un certo
senso Nerissa è stata la prima a crescere, la prima a taglia-
re il cordone ombelicale con mia madre e a lasciare la fa-
miglia. Aveva poca scelta. Mia madre l’aveva buttata fuori
dopo aver ripetutamente disapprovato il modo in cui tirava
su De’Sean, che all’epoca aveva tre anni. Era un bambino
color cioccolato con il naso piatto, ereditato dal padre di-
ciannovenne, e un sorriso pronto pieno di dentini simili a
caramelle, piccoli e perfetti. Nerissa era la figlia di mezzo, e
una volta, quando eravamo piccoli, durante una lite Joshua
le aveva detto: «Tu sei quella che mamma e papà amano di
meno. Noi siamo speciali: Mimi è la più grande, Charine la
più piccola, e io sono l’unico maschio – pensaci». E anche
se non era vero, quelle parole colorarono la percezione che
Nerissa aveva di se stessa, spingendola verso un comporta-
mento sgangherato, facendole desiderare di essere speciale
per qualcuno: per i genitori, per i ragazzi attratti dalla sua

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bellezza e dalla sua allegra e disinvolta eleganza. Noi tre
sorelle siamo molto legate, di conseguenza Charine e io ab-
biamo passato qualche giorno nel primo appartamento di
Nerissa, dormendo sui vecchi divani che le aveva regalato
nostro cugino Rhett. Ero seduta al tavolo di vetro regalatole
da mia madre per l’inaugurazione della casa dopo che si
erano riconciliate, quando Demond entrò con Rob, il fidan-
zato storico di Nerissa.
Demond era alto circa un metro e ottanta, e aveva gli
stessi colori di mio fratello: carnagione chiara, capelli casta-
no chiaro, ma aveva le gambe più corte e il torace più mas-
siccio. Là dove mio fratello era stato più morbido – doveva
ancora smaltire il grasso infantile – lui era tutto muscoli. I
dreadlock di Demond ondeggiavano e gli sfioravano le spal-
le mentre parlava.
«Ciao, Pooh» era il soprannome che Rob aveva dato a
Nerissa. Demond si mise una sigaretta all’angolo della boc-
ca, la accese, e ci parlò attorno.
«Ciao, Demond» disse Nerissa. Demond le sorrise e le
circondò la vita con un braccio. Era uno dei tanti amici di
Rob con cui lei aveva legato: si fidavano di lei perché ne
amavano le fossette, il sorriso, il calore e la franchezza. Le
raccontavano i loro segreti, e lei li custodiva. Quando stava
seduta era l’incarnazione della femminilità, gambe accaval-
late, unghie dei piedi lucide di smalto, un fascio di curve,
poi rovinava quell’immagine con la sua disinvoltura nel dire
parolacce, che puntualmente li faceva scoppiare a ridere.
Io bevevo una birra. C’erano parecchie birre nell’appar-
tamento, quell’anno: bottiglie fredde in thermos marroni e
stretti sui banconi, sui tavoli, tenute in grembo tra mani la-
sche, sui braccioli del divano. Era il 2003. Eravamo impazziti.
All’epoca avevamo perso già due amici, ed eravamo talmente
acerbi da non riuscire a coniugare la nostra gioventù con il

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fatto che stavamo morendo, perciò bevevamo, fumavamo e
facevamo anche altro, illudendoci che la giovinezza potesse
salvarci, che da qualche parte qualcuno avrebbe avuto pietà
di noi. Bevevamo shot di whiskey in macchine con la musica
a tutto volume, sotto un cielo nuvoloso, asfissiato dal buio,
ogni santa notte. I miei cugini si rigiravano la punta accesa
dei blunt dentro la bocca, espiravano, soffiando il fumo l’uno
nella bocca dell’altro. È questo che significa vivere, pensavamo.
«Lei è mia sorella Mimi» disse Nerissa. Mi indicò con la
testa, e io sorrisi, da sopra la bottiglia.
«Ehi».
Avevo lasciato che la birra si sgasasse e diventasse calda,
ma l’avrei bevuta comunque. Sono felice, pensavo. E poi: È
questo che significa essere stati risparmiati.

Demond era cresciuto a DeLisle. La sua stranezza risie-


deva non solo nel fatto che fosse figlio unico, ma, per la
mia generazione, anche nell’avere entrambi i genitori, en-
trambi tra l’altro con un buon lavoro in fabbrica. La madre
aveva lavorato per anni in un’azien­da di imbottigliamento
farmaceutico dove in seguito sarebbe stato assunto anche
lui. Essere figlio unico e avere una famiglia composta da
due genitori significava che Demond era l’unico bambino
del quartiere ad avere tutto ciò che gli altri desideravano:
una piscina, un canestro regolabile. Anche quando eravamo
piccoli, quella di Demond era la casa dove tutti i bambini
volevano stare. Mentre mio fratello, le mie sorelle e io erava-
mo troppo giovani e abitavamo troppo lontano per godere
della munificenza della sua famiglia, i ragazzi più grandi del
quartiere passavano ore da Demond, nuotando o lottando
nell’acqua per tutto il pomeriggio fino a puzzare intensa-
mente di cloro, la pelle e gli occhi che bruciavano. Oppure,

71
tiravano la palla nel canestro di Demond sudando per ore,
sotto il sole caldo del Mississippi. Dopo il diploma, Demond
si arruolò nell’esercito. Ci rimase per quattro anni, ma a un
certo punto decise che la vita militare non faceva per lui,
perciò tornò a casa, a DeLisle.
Demond era un tuttofare nel senso più tradizionale del
termine, come molti, giovani e vecchi, erano stati costretti a
diventare per necessità. Faceva quel che doveva per mante-
nere se stesso e, in seguito, la famiglia. Imparava i mestieri
sul campo. Qualsiasi fosse il lavoro, lui si adeguava: una volta
fece il falegname anche se non possedeva grandi competen-
ze in materia. Per un lasso di tempo più lungo lavorò in una
fabbrica di vestiti; tutti a DeLisle la chiamavano la “fabbrica
di t-shirt”. Non producevano solo magliette ma anche jeans
scoloriti troppo larghi sul cavallo e troppo stretti di gam-
ba. Nell’edificio faceva caldo, e i ventilatori che spostavano
l’aria rendevano quel posto ancora più asfissiante. L’ultima
occupazione sarebbe stata nell’azienda farmaceutica in cui
lavorava la madre. Era una fabbrica sepolcrale: lunghe ca-
tene di montaggio serpeggiavano tutt’intorno trasportando
flaconi di Pepto-Bismol e capsule di Alka-Seltzer davanti
agli operai, che si coprivano i capelli con cuffiette di plastica
e indossavano occhiali spessi e mascherine. Era un lavoro
noioso e ripetitivo, e consisteva nell’imbottigliare il prodot-
to, avvitare il tappo, caricare i flaconi nelle scatole e poi sui
bancali. Ma era anche uno degli ultimi lavori decenti che
una fabbrica della costa potesse offrire, dato che la vetreria
aveva chiuso anni prima. L’eco­nomia della costa del golfo
era cambiata drasticamente tra la fine degli anni Ottanta e
l’inizio degli anni Novanta; molte fabbriche avevano chiuso,
e l’industria ittica offriva poche possibilità d’impiego. Con
la crisi economica, il governo del Mississippi approvò leggi
sul gioco d’azzardo che consentivano l’apertura dei casinò

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sulle chiatte. In generale, si verificò uno spostamento dalla
manifattura e dalla produzione ai servizi e al turismo. E i
neri della regione, che storicamente non hanno mai avuto
le risorse per frequentare il college e quindi non sono mai
stati qualificati per gli impieghi amministrativi, dovettero
accontentarsi di occupazioni come cameriere, parcheggia-
tore e cuoco. Demond era fortunato ad avere quel posto. A
Gulfport lavorava su turni: a volte faceva la notte, a volte
la mattina fino al pomeriggio, e altre volte il pomeriggio
fino alle prime ore della sera. Portava perlopiù magliette
sdrucite, pantaloni da lavoro, scarponcini Timberland, con
una bandana legata attorno ai dreadlock per tenerli lontani
dal viso e proteggerli dai macchinari. Indossava la tuta da
lavoro e gli scarponcini come fossero una medaglia al valo-
re, e quando lo vidi vestito così, impolverato dal composto
che stava confezionando, assomigliava talmente tanto a mio
fratello nel periodo in cui passava da un lavoro in fabbrica
all’altro, che fu difficile per me continuare a guardarlo.

Demond abitava in una casa verde acqua. Apparteneva


alla nonna; forse il marito l’aveva costruita per lei, com’era
tradizione a DeLisle all’epoca. Quando la fidanzata die-
de alla luce la loro bambina, Demond, che aveva quasi
trent’anni, ricevette la casa in dono dalla madre perché an-
dasse a viverci con la famiglia. Era come la maggior parte
delle vecchie case di DeLisle: appollaiata su blocchi di ce-
mento, due o tre, in caso di alluvione; soffitti bassi, rivesti-
ta da pannelli di legno, un cucinotto. La casa di Demond
era in fondo a una lunga e spaziosa proprietà ad angolo. Il
suo giardino era perlopiù d’erba con un drappello di albe-
ri vicinissimo alla facciata; una vecchia quercia dall’ampia
chioma, un noce, una lagerstroemia appassita. Sul davanti

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c’era una veranda coperta, rifinita in legno. Il salotto era
sempre buio, illuminato solo dal bagliore al neon della tele-
visione che giocava sulle pareti e sulle nostre facce. La sala
da pranzo in genere era vuota, eccezion fatta per il domino
e per le carte sul vecchio tavolo di legno, la cucina era mar-
rone come il resto della casa. Il bagno era incuneato dietro
la cucina, in una strana nicchia posta in diagonale accan-
to alla camera da letto della figlia. Il resto dell’abitazione,
che comprendeva altre due camere da letto, era progettata
come un’autentica shotgun house.
Non sono mai passata per la stanzetta della figlia né en-
trata nella camera che Demond divideva con la sua ragaz-
za, non ho mai varcato la porta della stanza sul retro dove a
volte dormiva il fratello gemello della sua ragazza. Pensavo
spesso a quelle camere, mi chiedevo se fossero buie come
le altre, se sembrassero altrettanto impenetrabili, altrettan-
to isolate, e le immaginavo distendersi in lontananza, l’una
dopo l’altra, ciascuna più sepolcrale della precedente, cia-
scuna contenente quello che in seguito sarebbe stato un og-
getto prezioso: una foto di Demond sorridente con la figlia
in braccio, i jeans attillati, gli scarponcini che ancora puzza-
vano di sudore. Non ho mai pensato che quelle stanze fosse-
ro abitate, perché tutta la vita pareva scorrere sulla facciata.
Eravamo giovani e vivevamo in case apparentemente più
popolate da fantasmi che da esseri umani, con i morti vec-
chi e nuovi. Pensavo alla nonna di Demond e ai suoi figli,
e mi chiedevo come fosse stata la loro vita. Avevano vissu-
to anche loro insieme ai morti come noi? Avevano tracan-
nato whiskey come facevamo noi con la birra, l’erba e le
pasticche, e poi si erano guardati l’un l’altro, nella penom-
bra, storditi, sperando in un cambiamento radicale? Anche
se i genitori di Demond erano rimasti sposati ed entrambi
avevano un buon lavoro, la sua famiglia non era poi così

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diversa dalla mia, la sua realtà era la stessa, la morte ci per-
seguitava tutti. Se la storia della famiglia di Demond non
era poi così diversa dalla mia, significava forse che stavamo
rivivendo sempre la stessa storia, da una generazione all’al-
tra? Significava forse che i giovani neri avrebbero continua-
to sempre a morire, che sarebbero rimasti solo i bambini e
pochi vecchi, come in guerra?

Quella stessa estate, decidemmo di preparare la zuppa


di gamberi a casa di Nerissa. Rob prese a prestito un for-
nello a gas e una grande pentola argentata da un amico del
quartiere. Sistemò tutto sul bordo della veranda sul retro,
tirò fuori un tavolo di plastica, e ci mise sei sedie attorno.
Era una giornata luminosa e tiepida; l’erba era impregna-
ta d’acqua perché era estate. Nell’ultimo mese era piovuto
praticamente ogni giorno. Rob uscì con due borse termiche
e andò in una pescheria che d’estate era specializzata in cro-
stacei, e tornò che traboccavano di gamberi verdastri. Lui e
Nerissa sminuzzarono gli odori e li buttarono nella pesante
pentola argentata tanto grande da contenere un neonato,
e iniziarono a far bollire i contorni. Charine e il suo ragaz-
zo, C.J., erano raggomitolati sul divano e pretendevano che
tutti noi guardassimo ancora una volta il film sulla vita di
Bruce Lee, Dragon. Gli invitati arrivavano uno per uno, in
coppia, in macchina, c’erano anche Rog e Demond. Appe-
na mise piede in casa, Demond si sedette a un tavolo dove si
giocava a domino. Comparve della birra, qualche bottiglia
di whiskey, alcune bevande fruttate a base di malto per le
ragazze. Aprimmo dei giornali sul tavolo della cucina e ci
rovesciammo i gamberi bolliti, ora rosso sangue. Li sbuc-
ciammo, li succhiammo e li mangiammo. Cominciarono
a bruciarmi le labbra e notai che tutti quelli che stavano

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mangiando i gamberi tiravano su col naso, gli occhi umidi,
la bocca rossa e gonfia come labbra di maiale in salamoia.
Demond era seduto a tavola con Nerissa, me e Charine, ci
passava da bere, mi chiedeva cosa facevo.
«Allora, che fai di bello laggiù?».
«Cerco di diventare una scrittrice».
«Che cosa vuoi scrivere?».
«Libri che parlano di casa. Del quartiere».
«Lei scrive di merda vera» disse Charine.
«Che vuoi dire?» chiese Demond.
«Che nei suoi libri si vende droga» disse Charine.
«Davvero?» chiese Demond, e bevve un sorso di birra.
«Sì» dissi. Risi e bevvi un terzo della mia bottiglia.
«Te l’ho detto che scrive del quartiere» disse Charine.
«Dovresti scrivere un libro sulla mia vita» disse Demond.
«Dici?» risi di nuovo. Sentivo spesso questa frase quando
ero a casa. La maggior parte degli uomini che conoscevo,
spacciatori o puritani, credevano che le loro storie fossero
talmente importanti da dover essere raccontate. All’epoca
ci ridevo su. Adesso che queste storie le sto scrivendo, vedo
la verità di quelle richieste.
«Sarebbe un best seller» disse Demond.
«Io non scrivo di vita vissuta» dissi. Era la mia risposta
standard dopo una frase del genere, ma anche mentre la di-
cevo, percepii una sorta di dissonanza. Sapevo che i ragazzi
del primo romanzo, su cui stavo lavorando in quel periodo,
non erano crudi come dovevano, non erano reali. Sapevo
che erano personaggi destinati al fallimento perché non li
stavo spingendo a farsi carico della realtà che i miei amici
veri, tra cui Demond, vivevano ogni giorno. Li amavo trop-
po: come autrice, ero un dio benevolo, li proteggevo dalla
morte, dalla tossicodipendenza, da inutili e dure condanne
da scontare in galera per ragazzate come il furto di un quad.

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Tutti i giovani neri della mia vita, della mia comunità, erano
stati vittime di vicende come quelle, tuttavia nella vita che
creavo per loro evitavo la verità. Non trovavo il modo di
amare meno i miei personaggi. Di guardare dritto in faccia
quello che accadeva ai giovani neri del Sud, e scriverne con
sincerità. Di essere il Dio dell’Antico Testamento. Per evita-
re tutto questo, bevevo.
«Ci penserò» dissi. Sorrisi. Demond sorrise. La vena che
gli scorreva al centro della fronte alta pulsava e la pelle agli
angoli degli occhi era sgualcita.
A mezzanotte, Rob mise a bollire l’ultimo carico dei tren-
tasei chili di gamberi, spense il fornello, poi rientrò in casa,
se ne dimenticò e crollò addormentato. Dormivamo tutti,
ubriachi, le labbra infiammate, sui divani, sul pavimento, a
letto. Io mi svegliai alle due del mattino affamata e ubriaca,
uscii sulla veranda incespicando, e vidi la pentola fredda, i
gamberi gonfi d’acqua, morbidi e rovinati, e la pioggia che
cadeva, con gocce grosse e tiepide. Le tessere del domino, il
tavolo, le sedie: tutto fradicio. Quando scesi in giardino in
cerca di qualche gambero ancora commestibile, messo da
parte su un piatto o in un contenitore, l’erba cedette e i miei
piedi sprofondarono. Ogni passo era una disfatta. Guardai
in alto, dentro la pioggia, poi mi arresi, mi intrufolai di nuo-
vo in casa, pensai che la mattina dopo qualcuno avrebbe
ripulito quel casino, e mi addormentai nel letto a castello
dove dormiva mio nipote quando andava a trovare Nerissa.

L’Illusions Club era stato molte cose prima di trasformarsi


in ciò che fu per noi quell’estate e la successiva. Era stato un
country bar, un locale per ragazzi, un locale “nero”, un club
pop, e poi, alla fine, diventò quello che era quando l’onda
di Katrina si abbatté sul lungomare e lo spianò: un locale

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per neri che affettuosamente chiamavamo “Delusions”. Al
pianoterra c’erano un bar e una piccola e gremita pista da
ballo. Al piano di sopra c’erano tavoli da biliardo, un altro
bar, e un piccolo spazio fotografico, dove i miei cugini e
io una volta ci scattammo delle foto davanti a uno sfondo
verniciato a spruzzo, che riproduceva lo skyline di un posto
completamente diverso da tutte le città basse e lunghe della
costa. dono di dio, recita la cornice attorno alla Polaroid.
Quando il locale era pieno zeppo, le pareti traspiravano e il
vetro si appannava per il sudore.
Quella sera andammo all’Illusions, guidavo io mentre
Nerissa era seduta accanto a me e l’ultima ragazza di mio
fratello, Tasha, rideva sul sedile posteriore. Eravamo pro-
fumate, euforiche, felici di essere fuori dall’appartamento
di Nerissa, fuori dalla casa di Demond, dove passavamo un
sacco di tempo: fuori. Io ero vestita di nero. Rob e Demond
ci seguivano con la macchina di Demond, un vecchio mo-
dello sportivo, agile e bassa. Il mio ex ragazzo, Brandon,
ci aspettava lì. Charine e C.J. avevano deciso di restare
a casa di Nerissa, a guardare Forrest Gump e a fumare. Al
piano superiore dell’Illusions, Rob ci rivolse il suo sorriso
abbagliante, oro su un viso scuro, e offrì da bere a Nerissa,
Tasha e a me. Erano Walk Me Down, cocktail blu fosfo-
rescente e dolci, in pratica un mix di tutti i liquori dietro
il bancone. Non riuscivo a sentire l’alcol. Ingollai il mio,
quasi ansiosa di prendermi una sbronza. Eravamo in fondo
al bar con Rob e Brandon, il primo con un sigaro all’an-
golo della bocca, e guardavamo le donne farsi strada con
movimenti fluidi, agili come oche, vestite in jeans oro e pa-
stello, le acconciature rigide, e i gruppetti di uomini divisi
per quartieri, con il bicchiere in mano, che fermavano le
ragazze con la vita sottile, le prendevano per il polso, un
sorriso: Ehi. Io osservavo la folla e pensavo alle loro storie

78
e, in un attimo di sobrietà, capii che le loro storie erano le
nostre e viceversa.
«Ne volete un altro?» chiese Demond. Abbozzò un sorriso.
«Sì» disse Nerissa. Io annuii, e anche Tasha. Ci offrì un
altro drink, e lo spinse lungo il bancone verso di noi. I bic-
chieri di plastica trasparente erano freddi al tatto, si appan-
navano immediatamente. Bevvi. Quando deglutii, rivolsi
a Demond un sorriso che doveva essere un tacito ringra-
ziamento. Demond rise e mi disse che gli piaceva com’ero
vestita. I suoi dreadlock ondeggiavano. Era attraente, bello,
affascinante. Le donne gli si avvicinavano, indugiavano nel
suo campo visivo in attesa che lui rivolgesse loro la parola,
che flirtasse, che le salutasse. Ma lui non aveva bisogno di
flirtare. Era una calamita per le persone, carismatico quan-
to bastava per farle avvicinare ancora di più quando voleva
parlare. Quando invece non ne aveva voglia, i lineamenti
del viso diventavano più severi, e lui si trasformava in una
porta chiusa, gli occhi come spioncini guardati dalla parte
sbagliata, che nascondevano tutto. Aveva un bel caratteri-
no. Ma quella sera era l’affabilità in persona.
Succhiai il cocktail dalla cannuccia tutto d’un fiato: ave-
vo sete, era al limone e fresco. Ballai accanto al bancone.
Nerissa mi buttò il braccio attorno alle spalle e ballò con
me. Tasha, che ballava meglio di entrambe, rise e continuò
a bere. A quel punto tutto si offuscò: il viso di Demond si ap-
pannò, e dissi a mia sorella che non mi sentivo tanto bene.
Andammo in bagno insieme. Lei occupò l’ultimo cubicolo
disponibile, e la sentii vomitare nel water. Io ondeggiai, la
gola mi bruciava. Qualcosa mi stava torcendo le viscere. Mi
sentivo devastata.
«Vaffanculo» dissi, sporgendomi sopra il secchio della
spazzatura, largo e pieno fino all’orlo. Vomitai. Era caldo e
appiccicoso. Sentivo il rumore sordo dei bassi vibrare in tutto

79
l’edificio, dalla pista da ballo fino al piano di sopra attraverso
le piastrelle lerce del bagno. Molte belle ragazze andavano
e venivano, usando assorbenti per asciugarsi il sudore sulla
fronte, e mi ignoravano. Una, vestita di viola e oro, entrò in-
ciampando sui tacchi a spillo e disse: «Butta fuori tutto, teso-
ro». Mi rassicurò, e gorgogliai qualcosa. Il vomito schizzò sui
bicchieri di plastica. Nerissa uscì dal cubicolo, e di colpo mi
sentii finita. Il mondo intorno a me girava vorticosamente.
La agguantai per le spalle, la seguii fuori dal bagno e svenni.
Quando ripresi i sensi, ero sul sedile posteriore della mia
macchina, accasciata proprio al centro. Nerissa era alla mia
destra, appoggiata alla mia spalla. Di Tasha vedevo la schie-
na perché la sua testa era posata sul sedile. Brandon, Rob e
Demond parlavano a voce alta. Aprii gli occhi quel tanto che
bastava per vederli in piedi accanto alle due portiere aperte.
Ci sorridevano. La brezza del golfo, calda e salata, tagliava
di netto l’interno dell’abitacolo. Io non riu­scivo a muovermi.
«Walk Me Down, eh? Eccome se le ha tirate giù» disse
Brandon.
«Ma guardatele» disse Rob.
Stavamo tutte male.
«Non è divertente!» urlò Tasha e, pur stordita dalla
sbronza, a me venne da ridere. Ci riuscivano sempre: mal-
grado tutto, ci facevano ridere quasi ogni maledetta volta
che ci vedevamo. Ma io non riuscivo ad aprire bocca. Riu-
scivo solo a sentire Demond ridere al posto mio, una risata
cristallina e affilata, che il vento portava via dal parcheg-
gio fino al ristorante, dove si sfrangiava come una brezza
disarticolata. Mi raggomitolai su me stessa. Volevo solo che
sul mondo calasse il buio, che smettesse di esistere. Volevo
svenire di nuovo. E svenni.

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Ci vedemmo di nuovo all’Illusions alla vigilia di Capo-
danno del 2004, più di un anno dopo, e più numerosi. Fu
quando scattammo la foto con dono di dio sullo sfondo. Io
avevo i capelli sciolti, ricci e voluminosi, indossavo una ma-
glietta rossa monospalla e stivaletti rossi con borchie e tac-
chi a spillo argentati, sottili e affilati come lame. Nella foto
eravamo tutti ubriachi e tutti sorridenti. Sappiamo che farci
una foto da due soldi è una pacchianata, ma noi siamo un
quartiere, una comunità, un gruppo, una famiglia, e quindi
sorridiamo. Ginocchia piegate, fianchi di sghembo, mani
intorno alla vita. Ubriachi e sentimentali, amavo ciascuno
di loro per il solo fatto di essere ancora vivo.
Non guidavo mai da ubriaca. Quella notte a DeLisle a
riaccompagnarci fu un cugino, o un amico più sobrio, o
forse una delle mie sorelle, e ci ritrovammo nel giardino di
Demond alle quattro del mattino. Il cielo era buio pesto, le
stelle simili a una manciata di sale. Eravamo tutti ubriachi,
tutti fatti, tutti fumavamo pacchetti di sigari Black & Mild
appollaiati sui cofani. La musica risuonava nelle macchine
dove alcuni di noi chiacchieravano, sudati per il caldo del
locale, sballati e seri. Demond zigzagò tra le auto con una
lattina di birra in mano, parlava e rideva.
«Sei proprio partita stanotte, eh?» mi chiese mentre mi
appoggiavo alla macchina accanto a mio cugino Blake, pas-
sandoci un sigaro che non avevo mai fumato. Era talmente
forte da stordirmi e farmi venire un formicolio ovunque, e
mi piaceva la sensazione ma non abbastanza per fumarne
un altro, pensai. Mi bruciava la gola.
La notte pulsava di insetti; emettevano un basso ticchettio
intermittente. Sorrisi a Demond, a tutti loro. Non esisteva
altro posto al mondo dove volessi stare più che in quel giar-
dino, appoggiata a quella macchina, le luci interne che si
accendevano e spegnevano, con un unico lampione a un

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isolato di distanza, motivo per cui sgranavamo gli occhi,
sforzandoci di distinguere le sagome degli altri al buio.
Demond infilò la testa nel finestrino di una macchina
dove erano seduti due miei cugini e disse: «Ehi, amico, spe-
gni la musica». Non aspettò che rispondessero e si allontanò,
i dreadlock che ondeggiavano. Gli piaceva la festa, ma non
voleva che gli sbirri della contea si presentassero a casa sua,
richiamati dal rumore, e non voleva rischiare che i vicini si
lamentassero. Non solo aveva delle responsabilità, ma aveva
anche passato l’ultimo paio d’anni schivando quel genere
di malasorte che affligge gli innocenti in quartieri piagati
dalla droga, dove tutti i tuoi cugini o amici sono spacciato-
ri, dove tutti i tuoi cugini o amici più grandi sono drogati.
Demond aveva assistito a una sparatoria e aveva accettato
di testimoniare contro il presunto colpevole. La sparatoria
era avvenuta a DeLisle, in un giorno di festa. Aveva anche
accettato di testimoniare contro uno spacciatore che non
era di DeLisle ma che trafficava nel quartiere. La sua co-
scienza gli imponeva di testimoniare nel primo caso e, dato
che una volta era stato fermato mentre era in macchina con
quello spacciatore, l’istinto di conservazione lo spingeva a
testimoniare anche nel secondo. Sentiva sulle spalle il peso
di queste scelte e sentiva che, per lui, non c’era più spazio
per gli errori.
I miei cugini alzarono gli occhi al cielo, dissero: «Vaffan-
culo, negro» e lasciarono il volume così com’era. Sorse il sole
che inondò il giardino di un grigio lattiginoso, e poi di bian-
co, e noi, uno per uno, ce ne andammo a casa. Aprimmo di
soppiatto la porta, entrammo in punta di piedi e crollammo
in un sonno profondo mentre il sole rovente iniziava la sua
ascesa, e la comunità si svegliava per cominciare la gior-
nata. Tutto quel che riguardava la notte sembrava rubato,
viveva solo in quelle ore nebulose durante le quali gli altri

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dormivano o lavoravano. Strisciavamo attraverso il tempo
come gli scarafaggi fuori dalla carta da parati, le ore e gli
spazi dimenticati, stupidamente felici di essere ancora vivi
anche se facevamo di tutto per morire.

Il 26 febbraio 2004, Demond era al lavoro e faceva il tur-


no di notte. Prima di uscire chiamò Rob, gli disse che gli
avrebbe telefonato una volta a casa, che magari potevano
andare insieme alla farmacia notturna del centro commer-
ciale di Gulfport a comprare i pannolini per la figlia.
Se fosse stata un’altra notte, Demond sarebbe andato
a DeLisle, avrebbe imboccato il vialetto che scendeva da
St. Stephen’s Road, e si sarebbe fermato di fianco alla casa.
Rob sarebbe uscito, sarebbe salito sul sedile del passeggero
della macchina rossa a due porte, avrebbe iniziato a chiac-
chierare con Demond, e avrebbero preso Lobouy Road,
ammantata di pini sotto il cielo notturno, piena dei segre-
ti degli animali, fino all’austostrada. A quell’ora, Gulfport
sarebbe stata deserta: una distesa di catene di negozi, fast
food, alberghi a due piani, luci al neon, parcheggi neri
e gialli chiazzati di benzina, e dietro tutto questo, pini e
complessi di case simili a ranch. La macchina di Demond
sarebbe stata una delle poche ferme al semaforo, a far ri-
fornimento alla stazione di servizio, parcheggiate all’in-
gresso del centro commerciale. Avrebbero scrollato fuori
dal finestrino la cenere dei sigari, che avrebbe impolverato
l’asfalto. Sarebbe stata una notte come le altre, in cui la
compagnia di un amico avrebbe dato sollievo a Demond,
uscito da un turno di lavoro passato in piedi, a compiere
sempre, ripetutamente gli stessi gesti. Ma questa non era
una notte come le altre perché Demond non arrivò mai a
casa di Rob.

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In seguito, dal custode della fabbrica dove lavorava
Demond, venimmo a sapere che c’era un furgone appo-
stato accanto ai cancelli; che qualcuno teneva d’occhio le
macchine che uscivano dopo il secondo turno, e quelle che
arrivavano per il terzo. Dopo il lavoro, invece di andare da
Rob, Demond andò a casa. Nell’attesa, Rob si addormen-
tò. Nella camera azzurra di Rob, la luce della televisione lo
fece sprofondare nei sogni. Rob dormiva, e quel baluginio
splendeva sopra di lui con uno sfrigolio d’alluminio, lam-
peggiando, ma lui non si svegliò. Non si svegliò nessuno
nemmeno nella casa accanto a quella di Demond, o dall’al-
tra parte della strada. Nemmeno la fidanzata e la figlia di
Demond si svegliarono quando qualcuno spuntò fuori dai
cespugli davanti alla casa di Demond e gli sparò mentre
raggiungeva la porta, stanco e sporco di sudore stantio,
desiderando una doccia, e forse una birra. Ore dopo, l’as-
senza di Demond nella stanza sepolcrale, nel letto freddo,
svegliò la fidanzata. Guardò fuori e vide la macchina. Uscì
sulla veranda, il legno che cigolava sotto i piccoli piedi, e
vide qualcuno addormentato sul prato. Chi dormiva in
giardino?
Era Demond, i dreadlock sparsi attorno alla testa, il viso
immobile, gli occhi aperti, il petto rosso; a parte questo,
sembrava che dormisse. La ragazza cadde su di lui e gridò.

Charine ricevette la telefonata verso le sette, il mattino


seguente. La nostra era una vera e propria catena telefoni-
ca: il primo chiamava il secondo, che chiamava il terzo, che
chiamava il quarto, e qualcuno, in quella sequenza, chia-
mava Rob, che chiamava Nerissa, che chiamava Charine,
che lo riferiva a me, a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Io ero a casa per le vacanze primaverili, dormivo, era un

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sonno senza sogni, quando lei entrò in camera mia, accese
la luce e senza preamboli disse: «Mimi, hanno sparato a
Demond». Io la sentii, mi coprii gli occhi, respirai. La morte
mi travolse come l’acqua investe il tuffatore che si butta in
un torrente ancora gelido all’inizio dell’estate.
«Che cazzo!» dissi.
Charine saltava da un piede all’altro.
«Cos’è successo?» dissi.
«Non lo so. Potrebbe essere una faccenda legata alla dro-
ga. Sai che doveva testimoniare contro quel tizio di New
Orleans».
Charine si infilò nel letto con me, rivolta contro la pare-
te. Se stava piangendo, lo faceva in silenzio, perché io non
sentivo alcun movimento della schiena, né della pancia. La
avvolsi, le passai il braccio sopra le costole, la strinsi come
quando era piccola, quando si stava lasciando alle spalle la
sua paffuta precocità per iniziare a camminare, e io ero una
bambina di nove anni a cui crescevano le gambe più velo-
cemente di ogni altra cosa. Si addormentò, e ogni volta che
il mio braccio si alzava e si abbassava seguendo il suo respi-
ro, ringraziavo un’entità indefinita che lei ancora respirasse,
anche se stavo male al pensiero che qualcosa, di qualsiasi
cosa si trattasse, ci stava ammazzando, l’uno dopo l’altro.
Assurdo, pensai. Non finirà mai, pensai. Mai.
Mi svegliai quattro ore dopo. Avevo gli occhi gonfi e rossi,
e appiccicosi agli angoli, per il pianto, per il sonno. Mi infi-
lai una felpa e andai con Charine a casa di Demond, dove
ci aspettava Nerissa. Misi una sola canzone in macchina,
e la ascoltai ripetutamente, parcheggiai sulla strada, provai
l’acu­ta sensazione che, da ragazza, la vita mi avesse fatto
una promessa, che non sarebbe stata così dura, forse, che la
mia gente non avrebbe continuato a morire all’infinito. Ho
solo ventisei anni, pensai. Non ne posso più di questo schifo.

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Restammo con la fidanzata di Demond, mia coetanea e
vedova, il viso gonfio, venato di rosso sotto la pelle nera.
Fumava una sigaretta dopo l’altra.
«Non ho sentito niente» disse. «Niente».
Lo disse come se non aver sentito lo sparo annullasse
l’accaduto. Non sapevamo, in quel momento, che la polizia
avrebbe fatto qualche mese di indagini, affiggendo cartelli
alle stazioni di servizio vicine all’autostrada che chiedevano
informazioni sull’omicidio di Demond. Non sapevamo che
l’assassino sarebbe rimasto senza volto, come il grande lupo
della palude che non lascia traccia, e che le ricerche della
polizia si sarebbero rivelate infruttuose.
Il giorno dopo la morte di Demond, mi sedetti sui gra-
dini della sua veranda. Il sole tramontò, e la congrega di
pipistrelli che vivevano nel sottotetto di Demond sfreccia-
rono nella notte, una massa nera e stridente. Nel punto del
giardino in cui avevamo parcheggiato e bevuto e ci eravamo
sballati, ora il nastro giallo della polizia, teso da un pino
all’altro, circondava la lagerstroemia. Sopra c’era scritto at-
tenzione. Nerissa fumava, soffiando nuvole nell’aria fredda,
la pelle secca agli angoli della bocca, e io mi chiesi chi era
stato a spuntare fuori dal buio e a uccidere Demond. Anche
se sapevo che la figura acquattata tra gli alberi tremanti era
umana, volevo comunque girarmi e chiedere a Nerissa: Che
cosa pensi che sia? Che cosa?

86
siamo feriti
1984-1987

Mia madre, mio padre, Josh, Nerissa e io ci trasferimmo,


dalla casetta nel grande campo, in una casa mobile gialla e
color crema a modulo unico, su una strada sterrata senza
uscita. Era una strada perlopiù boscosa, ma c’era un grup-
petto di case in fondo, e in ciascuna di esse vivevano ragazzi
che sarebbero stati miei amici per il resto della vita. Avevo
sette anni. Joshua e io, insieme agli altri, passavamo le gior-
nate a dondolarci sul sacco da boxe di mio padre, che lui
aveva appeso a un noce nel cortile, a lottare nel fango, a fare
gare di corsa in mezzo alla strada, a prendere pere acerbe
dal carro pieno zeppo accanto alla casa di mia zia, che abi-
tava più avanti, e a mangiarne così tante da stare male. Pen-
savo che all’epoca i miei genitori fossero abbastanza felici,
ma adesso so che la mia felicità mi accecava.
Un giorno mio padre tornò a casa con una moto. Era una
Kawasaki Ninja, nuova, rossa e nera, lucida.
«Gira alla larga da lì» disse mio padre. «Non ci puoi gio-
care».
«È tua?» chiesi.
«Sì» disse mio padre. Poi si chinò accanto a me, indicò le
parti argentate della moto accanto alle barre d’acciaio dove
appoggiava i piedi, e disse: «Le vedi quelle cose là?».
Annuii.
«Si riscaldano così tanto che potrebbero bruciarti. Ecco
perché non ci puoi giocare».
«Sì, signore». dissi. Mio padre insegnò a me e ai miei

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fratelli che dovevamo rivolgerci a loro così, con educata de-
ferenza, quando ci impartivano ordini.
Mia madre rimase in silenzio. Si spinse sul naso gli occhia-
li che soverchiavano il suo bellissimo volto minuto – spessi
e larghi, come richiedeva la moda del momento. Inspirò, e
una smorfia di disapprovazione le tagliò l’angolo della boc-
ca. Distolse lo sguardo e poi rientrò in casa, sbattendo la
porta. Quando seguimmo papà dentro, dopo esserci attar-
dati intorno alla moto, dopo aver osservato mio padre che la
strofinava con un panno di cotone, che lucidava il metallo,
che ascoltava i flebili ticchettii emessi durante il raffredda-
mento, mia madre stava cucinando. Non gli disse nulla, ma
la sua schiena era una porta chiusa. Io ero una bambina:
erano tante le cose che non sapevo. Non sapevo che mio
padre aveva preso i soldi risparmiati – su insistenza di mia
madre – per comprare un appezzamento di terra e li aveva
spesi per comprare la moto. Non sapevo che suo padre, Big
Jerry, che ai suoi tempi era stato un autentico dongiovanni,
ma anche un amorevole custode dei figli, gli aveva detto:
Non puoi portare una moglie e tre figli in moto, per la miseria.
«Andate a farvi il bagno» ci disse mia madre. Obbedimmo.

Dopo poco più di un anno, i proprietari della nostra casa


mobile decisero di affittarla ai loro parenti. Ci spostammo
dall’altra parte di DeLisle e andammo a vivere da mia non-
na Dorothy. Io avevo otto anni. Era la casa in cui mia madre
era cresciuta, la stessa in cui erano nati alcuni suoi fratel-
li. Era lunga, rifinita in legno, e bassa, appoggiata su due
blocchi di cemento sul davanti e tre dietro, come se fosse
costruita su una collina. In origine, aveva avuto un salotto
di dimensioni ragguardevoli, una cucina stretta, una piccola
sala da pranzo, un bagno e due camere da letto. Dopo che

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mio nonno la lasciò per un’altra, lei aggiunse due grandi
camere da letto e un bagno. Prese quello che il marito le
aveva lasciato e lo trasformò in qualcosa di più grande, e
sopravvisse.
È un ritornello abituale nella mia comunità, e in parti-
colare in casa mia. Ho sempre pensato che la mia famiglia
fosse una sorta di matriarcato, dato che le donne del ramo
materno hanno tenuto insieme il nucleo familiare, la fami-
glia più stretta e la famiglia allargata per tanto tempo. Ma
la nostra non è una storia speciale. Né è sempre stato così.
La Chiesa cattolica ha sempre avuto un ruolo centrale nella
mia comunità e di divorzio non si parlava; gli uomini non
lasciavano le mogli e i figli. Ma con la generazione di mia
nonna le cose cambiarono. Negli anni Sessanta, le coppie
cominciarono a divorziare e le donne, cresciute aspettan-
dosi che i compagni le aiutassero a tirare su i bambini, si
ritrovarono sole. Lavoravano come uomini, e crescevano i
figli meglio che potevano, mentre i loro ex mariti intreccia-
vano relazioni con altre donne, le sposavano e poi lascia-
vano anche loro, forse a caccia di una sensazione di libertà
o di potere che il fatto di essere un nero del Sud gli ave-
va sempre negato. Se in pubblico non ci si rivolgeva a loro
chiamandoli “signori”, almeno potevano essere rispettati,
temuti e desiderati dalle donne e dai bambini che li amava-
no. Erano sminuiti ovunque, tranne in casa, e fu proprio lì
che capovolsero questo paradigma, sminuendo chi dipende-
va da loro. La conseguenza, ovviamente, fu che le donne cui
veniva riservato questo trattamento dovevano acquisire una
forza disumana e alimentare da sole il senso della famiglia.
Così fece mia nonna.
Quando ci trasferimmo a casa sua, tutti i fratelli e le so-
relle di mia madre, i loro figli e la mia famiglia vivevano lì.
Eravamo quattordici: quattro zii scapoli, due zie, ciascuna

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delle quali all’epoca aveva un figlio, mia nonna, mio padre,
mia madre, Nerissa, Joshua e io. I miei zii dormivano in
due delle camere da letto più piccole, e mia nonna tenne
per sé la stanza padronale con il bagno, in fondo. Le mie zie
dormivano nell’altra camera da letto, più grande, aggiunta
di recente sul retro della casa; la stanza era così ampia da
contenere due letti matrimoniali, in modo che ognuna po-
tesse dormire con il proprio figlio. Mio fratello e io dormi-
vamo in un letto a castello in un angolo di quella camera. Io
stavo sopra, lui sotto. Mia madre e mio padre attaccarono
una tenda sopra la porta della sala da pranzo, spostarono il
tavolo nel magazzino e ci misero il letto, dove dormivano
con Nerissa e poi anche con Charine, dopo la sua nasci-
ta, nel 1985. Per i successivi due anni avrei vissuto insieme
alla maggior parte delle persone che amavo, che per noi
bambini era un evento meraviglioso, ma per gli adulti un
sacrificio orribile, costretti com’erano a vivere a casa della
nonna, conseguenza della politica di Reagan degli anni Ot-
tanta, che tagliò qualsiasi forma di sussidio economico per i
poveri, e distrusse la già debole economia del Sud.

All’epoca in cui traslocammo in quella casa di legno sbi-


lenca e irregolare, io mi ero già innamorata della lettura.
Penso che il mio amore per i libri derivasse dal bisogno di
fuggire dal mondo in cui ero nata, di scivolare in un altro
mondo dove le parole erano schiette e sincere, dove il bene
e il male erano distinti in modo netto, dove trovavo ragazze
forti, intelligenti, creative e folli quanto bastava per lottare
contro i draghi, per scappare di casa e andare a vivere in un
museo, per diventare spie, per farsi nuovi amici e costruire
giardini segreti. Forse per me era più facile destreggiarmi in
quel mondo che in casa, dove tra i miei genitori scoppiavano

90
liti accese ma sommesse nella sala da pranzo trasformata in
camera da letto, in seguito alle quali papà spariva per set-
timane e andava a stare dalla madre a Pass Christian, per
poi tornare da noi. Forse per me era più facile sprofondare
in quei mondi piuttosto che destreggiarmi in un mondo che
non mi spiegava niente, che non distingueva il bene dal male.
Mia nonna faceva turni di dieci ore in fabbrica. Mia madre
faceva la cameriera in un albergo. Mio padre lavorava anco-
ra alla vetreria, e spesso saltava sulla moto e spariva. Lo zio
più giovane frequentava il liceo, ma gli altri zii lavoravano,
come le zie. Spesso eravamo solo io, Josh e Aldon, che dor-
miva in una delle stanze sul retro con la madre, e uno zio
– nel suo giorno libero – a guardare un film in salotto su pbs,
uno dei due canali che prendevamo. A volte le mie zie erano
in cucina, a sudare su pentole grandi come il mio busto e
piene di fagioli bollenti, a preparare su due piedi infornate
di biscotti per tutta la famiglia. Andate a giocare fuori sentivamo
dire. Io accantonavo i libri per un istante e uscivo a giocare
con Joshua e Aldon.
Volevo essere l’eroina della mia vita. Dietro le case a
schiera lungo la Route 357, si estendeva una foresta. Una
volta avevo seguito mio cugino Eddie in quei boschi, fino a
una recinzione di filo spinato con cartelli affissi a distanza
regolare, per tutta la sua lunghezza, che dicevano foresta
di delisle, proprietà dupont, non oltrepassare. Questa
proprietà recintata si stendeva dalla baia fin dietro casa no-
stra, e poi scendeva fino alla mia scuola elementare. Negli
anni Settanta, la DuPont aveva presentato un’offerta per co-
struire uno stabilimento a DeLisle e aveva promesso molti
posti di lavoro alla comunità, e quando la sua offerta fu ac-
cettata, affittò un appezzamento di terra abbastanza esteso
per costruirci una fabbrica, ma anche abbastanza esteso per
mettere tra noi e loro un cuscino di alberi. Quando seguii

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mio cugino Eddie, che all’epoca doveva avere dodici anni,
fino a quella recinzione, lo vidi scavalcarla, il fucile in mano,
e scomparire nel buio. Andava a caccia di conigli, scoiattoli,
qualsiasi genere di selvaggina che, colpita dal suo proiettile,
avrebbe potuto portare in tavola. Una parte di me voleva
accompagnarlo, l’altra aveva paura. Quei boschi erano stu-
pendi e minacciosi allo stesso tempo. Ed era vietato entrarci.
Quando giocavo con Joshua e Aldon, volevo tornare in
quel bosco, volevo esplorarli come facevano i personaggi
di Un ponte per Terabithia nella loro foresta, ma evitai. Inve-
ce, Joshua, Aldon e io gironzolavamo intorno al capanno
sul retro, scavalcando la fossa biologica, slittando sul pen-
dio sdrucciolevole dove il vecchio pozzo artesiano era stato
ridotto a un gocciolio scivoloso per costruire un cesso nel
bel mezzo del giardino. Andavamo in esplorazione dietro la
casa della mia prozia. Viveva accanto a noi. Lì trovavamo
una bella pineta. La terra protetta dalla sua ombra era co-
sparsa di foraggio, con ceppi e tronchi appiccicosi, marroni
e friabili, abbattuti dagli uragani.
«Avremo anche noi un posto tutto nostro» dissi. «Dob-
biamo inventare un nome».
«Come lo chiameremo?» chiese Aldon.
Io li guardai entrambi. Avevano tre anni meno di me, ed
erano più bassi. La testa sembrava troppo grande per le loro
spalle, i capelli una polvere sottile, e gli occhi spalancati.
Joshua aveva una carnagione luminosa e Aldon era più scu-
ro, ma entrambi indossavano magliette a rete satinate simili
alle casacche dei calciatori e pantaloncini kaki con odiose
cerniere di metallo che mi ferivano le dita ogni volta che li
aiutavo a vestirsi. Dipendevano da me. Dove andava uno,
andavano gli altri, e adesso loro due stavano seguendo me.
Avremmo trovato un posto tutto nostro, un piccolo mondo
solo per noi.

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«Bimbolandia» dissi. «Lo chiameremo “Bimbolandia”».
«Bimbolandia?» chiese Joshua. La sua pronuncia lo tra-
sformò in Bibboladdia.
«Sì, Bimbolandia, da bimbo... e land. Perché è la nostra
terra. Il nostro regno».
«Sì, è bello» disse Aldon.
«Mi piace» disse Josh.
Li portai tra i boschi. Tronchi abbattuti diventarono ca-
valli e castelli. I rami diventarono spade e nemici. Combat-
tevamo. Correvamo. Joshua si scontrò con un albero e si
procurò un graffio viola. Io mi presi cura di lui come una
chioccia, lo pulii con la mia camicia, soffiai sulla ferita.
«Fa male» disse.
«Guarirà» gli dissi.
Joshua si fidava di me. Gli occhi, che si erano velati di
lacrime, si asciugarono. Scrollò le spalle, saltellò un po’ sulla
gamba buona, pronto per tornare a giocare sul serio. Ero
fiera di lui.
Il nome ancora non mi soddisfaceva. È troppo banale, pen-
savo, non è magico come Terabithia. Ma mi piaceva Bimbolan-
dia, era casa nostra, mia, di Josh, di Aldon. Due bravi guerrieri,
pensavo. Ero contenta, come se avessi fatto il primo passo
verso un evento eclatante, verso la trasformazione in una
delle ragazze dei libri che leggevo.

Nella vita reale, guardavo mio padre e mia madre e ini-


ziavo vagamente a capire che essere femmina era più dif-
ficile, che per i maschi era più facile. I ragazzi potevano
comprare e guidare motociclette, andare e venire a piaci-
mento e starsene a torso nudo sul ciglio della strada a chiac-
chierare e a ridere tra loro, a passarsi la birra, a fumare
sigarette, trasudando tranquillità. Nel frattempo, le donne

93
che conoscevo lavoravano anche quando non andavano al
lavoro: cucinavano, lavavano quintali di biancheria, la sten-
devano, e pulivano la casa. Non avevano tempo per rilassar-
si e stare ferme. Persino allora iniziavo vagamente a capire
che c’era una certa differenza di genere tra mio fratello e
me, che ciò che il mondo si aspettava da noi e ci permetteva
di fare era diverso. Ma per me, la realtà di quella differenza
si riduceva a un unico simbolo tangibile: le sigarette.
Sapevo leggere le scritte sui pacchetti e sapevo che i miei zii
fumavano le Kools. Per me, le sigarette erano la perfetta in-
carnazione del tempo libero e della tranquillità, privilegi spe-
cifici degli uomini. Quando Joshua, Aldon, mio cugino Rhett
e io rimediavamo abbastanza monete dagli adulti, saltavamo
sulle bici e pedalavamo per circa un chilometro e mezzo per
andare in un negozio infilato nel capanno di un giardino. I
proprietari erano bianchi. Avevo spesso la sensazione che ci
osservassero mentre, molto attentamente, prendevamo un
pacchetto di gomme da masticare, le patatine, le bibite e le
caramelle. Era questo il bottino per due dollari, ma se i soldi
erano di meno, se avevamo solo un dollaro, la scelta si re-
stringeva. Joshua e Aldon avrebbero voluto solo caramelle,
colorate, alla frutta e gommose, Rhett patatine e bibite, e io
caramelle e gomme. Le mie preferite erano le gomme a siga-
retta. Le fumavo in bicicletta, quando tornavamo a casa: la
mia marca preferita aveva una specie di polverina sottile sulla
punta, così quando appoggiavo le labbra sul filtro gommoso e
soffiavo, usciva un fumo leggero come spuma di mare.
Un giorno, uno dei miei zii fumò velocemente una siga-
retta, la buttò in terra che ne avanzava un quarto, e poi se
ne andò. La veranda era deserta, le zie in casa erano silen-
ziose, e noi eravamo soli in giardino. Mi infilai sotto la sua
macchina, raccolsi la sigaretta. Era ancora tiepida. La tenni
per il filtro, la punta verso il basso, e andai da Josh e Aldon.

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«Venite qui, voi» dissi.
Si alzarono e mi seguirono sul retro. Mi fermai tra la pa-
rete posteriore della casa e la lastra di cemento della fossa
biologica.
«Adesso fumiamo questa sigaretta» dissi. Volevo un po’
dell’autonomia di mio zio, un po’ della sua libertà.
Loro annuirono saggiamente, come solo i bambini di cin-
que anni sanno fare. Cercai di aspirare ma non mi riuscì.
Prima che potessi passarla ad Aldon, la madre ci sentì dalla
finestra del bagno, sotto la quale ci eravamo fermati.
«Mimi, Aldon, Josh: entrate!» strillò.
Buttammo la sigaretta e rientrammo in casa in fila india-
na. Le mie due zie erano sedute al tavolo della cucina.
«Cosa stavate facendo?».
Io non risposi.
«Stavate fumando una sigaretta?».
«No» dissi, improvvisamente terrorizzata, il petto in fiamme.
«Non dire bugie» disse l’altra zia. «Stavate provando a
fumare?».
«Sì» dissi, avvilita.
«Ho sentito tutto dalla finestra del bagno» disse la madre
di Aldon. «Perché stavate facendo una cosa del genere?».
«Non lo so» dissi. «L’ho vista e l’ho raccolta».
«Be’, non farlo mai più» disse. «Non dovete fumare».
«Se promettete di non rifarlo più, non lo diremo alla
mamma».
«Ok». Annuimmo tutti.
Ci rimandarono a giocare. Ero sollevata, consapevole
di aver scampato una punizione terribile. Più tardi, quel-
la sera, mentre mamma stava asciugando Joshua dopo il
bagno, lui le disse: «Mimi e Aldon stavano fumando una
sigaretta». Mia madre mi convocò in bagno e mi affrontò.
Le dissi quello che mi avevano detto le mie zie. Era furiosa

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perché non le avevano riferito della nostra ragazzata. Avrei
voluto che mio padre fosse lì, ma non c’era. Le mie zie le
dissero la verità. Il lavoro di mia madre non finiva mai. Scu-
lacciò Joshua e me e ci punì mettendoci in castigo per un
intero fine settimana nel letto a castello della camera sul
retro, che nel cuore dell’esta­te era buia come una grotta.
Uscivamo solo per mangiare e andare in bagno. Dormiva-
mo e bisbigliavamo: io leggevo, qualche volte anche per lui.
Mentre noi soffrivamo, Aldon ridacchiava e giocava fuori:
nostra zia era più indulgente con lui. Joshua e io guardava-
mo la sua ombra tremolare sulla zanzariera, dietro le tende,
con il noce e i pini. Io ero piena di rancore: per certi maschi
era più facile anche con le punizioni.

Ma per la maggior parte dei sabato mattina, eravamo


liberi dalle attenzioni degli adulti. La casa era nostra, ci
svegliavamo alle 6, andavamo di soppiatto in salotto, e ac-
cendevamo la tv per vedere i cartoni animati. Restavamo
sdraiati per ore sul pavimento, rivestito di recente con una
moquette blu scuro, a guardare i Puffi, gli Snorky, Tom e Jerry,
gli Ewok, i Looney Tunes. Il nostro preferito era Braccio di Ferro.
Il programma andava in onda da New Orleans: la catena di
fast food Braccio di Ferro invitava in studio bambini bianchi
e li faceva sedere sulle tribune con confezioni unte di pollo
fritto e biscotti sulle gambe, mentre un tizio presentava tutti
i cartoni animati. Ero talmente affamata, in quel momento,
da avere brevi e acute fitte lancinanti allo stomaco.
Ora preparo qualcosa da mangiare dicevo. Ogni sabato, mi ar-
rampicavo sui banconi per arrivare ai pensili, tiravo fuori
i fiocchi d’avena e il latte in polvere. Mescolavo il latte in
polvere in una caraffa da due litri seguendo le istruzioni, e
preparavo ciotole di cereali che tutti mangiavamo in piedi

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sulla porta per poter vedere contemporaneamente i cartoni
animati. Se avessimo rovesciato qualcosa in salotto ci avreb-
bero sculacciato. I cereali – anzi no, il latte – non aveva un
buon sapore. Non aveva lo stesso sapore del latte che si com-
prava in negozio e che ricordavo di aver bevuto prima che
ci trasferissimo da mia nonna, quando mio padre aveva un
buon lavoro e poteva permettersi il latte in bottiglie fredde
e umide da quattro litri. Aveva perso il posto alla vetreria
perché aveva sbagliato a etichettare le scatole, e passava da
un’occupazione all’altra. Certi sabati aggiungevo lo zucche-
ro al latte in polvere perché pensavo che così avrebbe avu-
to il sapore di quello vero. Non succedeva, ma almeno era
dolce. Joshua, Aldon, Nerissa e io mangiavamo la brodaglia
grumosa con i cereali, e avevamo ancora fame. Ogni sabato
guardavamo quei bambini biondi mentre andava in onda
Braccio di Ferro, sani, paffuti e rosei, che mettevano le mani a
coppa attorno agli occhi come binocoli e gridavano: Motore!
prima di ogni cartone animato mentre l’olio che sgocciolava
dalle confezioni di pollo gli macchiava le gambe. Mangiava-
mo tutto quel che c’era nelle scodelle, raschiavamo il fondo
con i cucchiai, bevevamo gli avanzi di latte zuccherato, e io,
con i cereali che si sedimentavano nel mio perfido stomaco,
li odiavo.

Tra un lavoro e l’altro, nostro padre passava un po’ di


tempo con noi. L’ultimo drago era il suo film preferito, perciò
lo guardavamo continuamente finché non imparammo a
memoria tutte le battute. Recitavamo nella sala da pran-
zo trasformata in camera da letto; lui era Shogun, Josh era
Leroy Green, e io ero Laura Charles. Quando mio padre
era a casa, pareva che mia madre non ci fosse: non li ve-
devo mai nella stessa stanza insieme. Sapevo che qualcosa

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non andava, ma non riuscivo a esprimere cosa fosse. A volte
papà ci legava con le cinghie alla moto, mio fratello e io
ci aggrappavamo alla sua schiena come scimmie, e poi ci
portava a DeLisle o a Pass Christian, le cuffiette schiacciate
contro la testa sotto il peso del casco. Purple rain di Prince
risuonava a tutto volume dal walkman che mio padre si era
legato in vita. A volte penso che avrei dovuto capire che sta-
va cercando di dirmi qualcosa, qualcosa come: Sono un uomo,
sono giovane e bello e vivo, e voglio essere libero, ma non ci riuscii.
Dopo qualche settimana, mio padre ottenne un lavoro in
uno stabilimento di ostriche a Pass Christian, che pagava
molto meno della vetreria. Nelle ore libere, indossava co-
stosi completi di pelle da motociclista acquistati ai tempi del
lavoro precedente, raccoglieva i lunghi capelli neri in una
treccia, e girava per la costa in moto. Quel che non sapevo,
all’epoca, era che andava a trovare le sue ragazze, ne aveva
molte, e se le portava in giro. Non credo gli dicesse di essere
sposato o di avere una famiglia, e non so se pensasse a loro
o a noi quando veniva a casa con secchielli da venti litri di
ostriche fresche e si metteva a sgusciarle sul retro. Indossava
sempre i lunghi stivali di gomma nera e la tuta da lavoro, e
mangiava ostriche crude al tramonto. Le lenzuola, fresche
sul filo del bucato, si gonfiavano dietro di lui.
«Me ne dai una?» gli chiesi.
«Non ti piacerà» disse.
«Voglio solo assaggiarla».
«Sono vive» disse «quando le ingoi».
«Vedono tutto quello che c’è fino in fondo alla gola?».
Annuì.
«Vuoi ancora assaggiarla?».
Volevo perché lui aveva detto che non potevo. Volevo che
fosse fiero di me. Volevo che fossimo noi due, in giardino, a
mangiare ostriche al tramonto, per sempre.

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«Sì».
Trafisse le valve con la lama, aprì il guscio con uno scat-
to del polso. L’ostrica era grigia, screziata d’argento, una
vibrazione color porpora al centro dove mio padre l’aveva
tagliata con il coltello.
«Ecco» disse, porgendomi l’ostrica piatta sulla lama,
come se fosse un cucchiaio. «Apri la bocca».
Aprii la bocca, succhiai l’ostrica. Era tiepida, salata e
umida: la immaginai soffocare nel mio palato rosa, fissare
la galleria buia della gola, disperata. La tenni lì, valutando
la situazione.
«Non sputarla» disse mio padre, e il sacco di iuta ai suoi
piedi si mosse, tintinnò. «Non sputarla».
Era troppo calda. Era viva.
«Inghiottila».
Consegnai l’ostrica alla morte e inghiottii. Mio padre
sembrava soddisfatto.
«Ti piace?».
Era disgustosa. Scossi la testa. Mio padre rise, i denti
bianchissimi che risaltavano sul viso, che diventava più scu-
ro e cupo mentre il sole tramontava. Infilò di nuovo il coltel-
lo nella fessura dell’ostrica, la aprì, e tenendola in equilibrio
sul coltello se la portò alla bocca, e la succhiò. Io spostavo
il peso da un piede all’altro, grattandomi l’interno della ca-
viglia con la pelle spessa della pianta del piede. Mi chiesi
come faceva a non tagliarsi mai, a essere così bello, così alto,
così magnetico.

Quando compii otto anni, non feci nessuna festa. L’an-


no prima, i miei genitori mi avevano organizzato una festa
sontuosa a casa di mia nonna, tutti i cugini erano venuti a
cantare Tanti auguri dietro una grande torta color pastello, io

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indossavo un elegante abito viola e bianco, e avevo ricevuto
una bicicletta nuova di zecca con un sellino a banana color
lavanda. L’anno dopo, i soldi erano finiti. Per questo com-
pleanno, i miei genitori mi portarono fuori dalla porta del-
la cucina e dal bagagliaio della macchina srotolarono una
corda bianca e blu, spessa come il mio collo. Ero perplessa.
Mio padre rise. La corda era lunga il doppio del vialetto.
Mio padre si avvolse la corda attorno alle spalle e sotto le
braccia fino a indossarla come un grosso cappotto, e poi si
arrampicò sulla quercia che proiettava la propria ombra su
un lato della casa e allungava i rami scuri sul tetto. Quando
raggiunse il ramo che sovrastava il tetto, avanzò lentamente
fino ad arrivare quasi a metà. Srotolò la corda e ne legò
saldamente un capo facendo un nodo attorno al legno, tirò
e provò finché non fu certo che non avrebbe ceduto. Ripeté
la manovra con l’altro capo, provò il nodo, e lasciò cadere
un’altalena lunga almeno nove metri, la cui corda era tal-
mente larga che anche un adulto poteva sedercisi comoda-
mente e dondolare senza un sedile di legno.
«Tanti auguri» disse mia madre. Mi appoggiò una mano
sulla nuca; la mano era ruvida per tutte le lenzuola, i copri-
letti e gli asciugamani che lavava, e per i detersivi industriali
che usavano negli alberghi. Anni dopo mi disse che quel
lavoro l’aveva sprofondata nell’angoscia, che era duro e in-
terminabile, che le colleghe spettegolavano sul rapporto tra
lei e mio padre ed erano apertamente meschine e maligne
con lei.
«Ti piace?» disse mia madre. Pur avendo solo otto anni,
capii che si sentiva in colpa per non essere stata in grado di
regalarmi di più, per avermi regalato, in sostanza, un pezzo
di corda.
«Da morire» dissi, ed ero sincera. Io mi sedetti e mio pa-
dre mi spinse per qualche minuto prima di rientrare. Poi mi

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aggrappai alla corda e mi diedi la spinta da sola, stringendo
le gambe, facendo forza con tutto il corpo, finché non ar-
rivai in cima, sfiorando la parte sottostante del ramo su cui
mio padre era stato a cavalcioni qualche minuto prima. Ero
arrivata in alto, ad almeno una decina di metri da terra, e
il mio cuore perse un battito. Guardai sopra il tetto della
casa, il giardino, la piccola casa mobile rossiccia accanto
alla nostra, la strada, il bosco misterioso. Mi sentivo fiera
di me per essere salita così in alto, perché non avevo paura,
tanto che d’estate e d’inverno avrei passato ore a dondo-
larmi sull’altalena, a stringere le gambe sotto la corda, e a
salire sempre più su, a osservare il mondo. Starci avvinghia-
ta mi faceva sentire più vicina a mia madre e a mio padre,
anche se, fisicamente, ero lontana anni luce da loro. A volte,
se pregavo con molta insistenza e dolcezza, uno dei miei zii
tirava verso di sé l’altalena, mi teneva ferma sopra la sua
testa, e poi mi lasciava andare, e io volavo sopra il giardino,
impugnando la corda con le nocche che si sbiancavano, in
estasi.

I miei genitori stavano provando a salvare il loro matri-


monio. A volte, nel fine settimana, si prendevano un po’ di
tempo per stare insieme e ci lasciavano con un’amica che
viveva in un complesso di edifici nella città vicina e che fa-
ceva spesso da baby-sitter a mio fratello e a me. Ascoltando
le conversazioni degli adulti, venni a sapere che il marito
la picchiava, e sapevo che era una cosa sbagliata. Almeno
questo mi era chiaro, dato che una volta tutta la famiglia di
mia madre andò a Pass Christian armata di fucile quando
il fidanzato di mia zia la picchiò: gli si pararono davanti alla
casa, dicendogli che se le avesse messo ancora le mani ad-
dosso, lo avrebbero ucciso, e lui non la picchiò più.

101
Una volta, io avevo nove anni e Joshua sei, l’amica dei
miei genitori sfidò Joshua a bere qualche sorso di salsa pic-
cante direttamente dalla bottiglietta, e mio fratello, che ha
sempre avuto uno stomaco di ferro e che una volta aveva
mangiato anche cibo per cani – ero stata io a sfidarlo, in
quell’occasione –, lo fece.
«Ti brucerà il sederino quando la farai» disse lei.
Joshua la guardò e sorrise. Aveva i denti rossi. Il fiato sa-
peva di Tabasco.
«No, non succederà» cinguettò lui.
Ero colpita. Lei cercò di dare la bottiglietta a me ma io
rifiutai. A volte era lui a guidare i miei passi. Mi resi conto
che stavolta il palcoscenico era suo. Lei ci preparava panini
tostati al formaggio e ci dava bicchierini di plastica colmi di
Kool-Aid. Mio fratello e io addentavamo i panini con vora-
cità, senza respirare. Correvamo scalzi dentro e fuori dagli
appartamenti, saltando dalle scale, giocando con i gatti ran-
dagi, tenendoci a debita distanza dai cassonetti del parcheg-
gio. Puzzavano, e la gente a volte non centrava il bersaglio e
lasciava la spazzatura a marcire lì accanto.
Un giorno l’amica dei miei genitori ci disse di restare a
casa, a guardare la tv, mentre lei andava a trovare i vicini al
piano di sopra.
Io ero distratta. Forse volevo un altro panino al formag-
gio, quindi salii le scale e trovai la porta dell’appartamento
aperta. Era quasi completamente buio, e alle pareti erano
appese opere d’arte fatte di velluto e vetro screziato da ve-
nature colorate che sembrava marmorizzato. Gli inquilini
erano una coppia di bianchi, e con l’amica dei miei genitori
erano seduti attorno a un piccolo tavolo da cucina. Al cen-
tro del tavolino c’era uno specchio rivolto all’insù. L’uomo
stava facendo scorrere una lametta lungo la superficie dello
specchio, dividendo una polvere bianca in strisce. Si chinò e

102
sniffò come se stesse tirando su il moccio, come se si stesse
sturando il naso. I capelli gli ricadevano sul viso. L’amica dei
miei genitori alzò gli occhi, mi vide in piedi sulla soglia, e dis-
se: «Mimi, vai di sotto». Obbedii. Non sapevo cos’era. Non
sapevo di aver visto quello che facevano alcuni adulti quando
erano poveri, quando si sentivano messi all’angolo, quando
erano rosi dalla preoccupazione e fingevano di non esserlo
anche solo per un po’. Non sapevo che questo bisogno avreb-
be accompagnato la mia generazione fino all’età adulta.

In un modo o nell’altro, mia madre e mio padre riusci-


vano ancora a racimolare quanto bastava per festeggiare
il Natale. Mia nonna cominciava a cucinare con giorni di
anticipo, preparava grandi tegami di zuppa di pesce e bi-
scotti, oltre alle torte di noci e patate dolci. Il fuoco nella
stufa a legna del salotto sprigionava tanto di quel calore che
gli adulti uscivano a prendere un po’ d’aria fresca e a turno
mi spingevano sull’altalena. La sera della vigilia, mio fra-
tello e io stentammo ad addormentarci, Joshua perché era
emozionato all’idea dei regali, e io perché avevo nove anni
e volevo con tutta me stessa una bici a dieci marce, e mi
chiedevo se le mie preghiere sarebbero state esaudite. Se il
miracolo si sarebbe avverato. Quando finalmente mi addor-
mentai, sognai che la polizia ci era piombata in casa e aveva
portato in prigione tutti i miei zii e mio padre. Nel sogno
piangevo e quando mi svegliai avevo il viso bagnato. Non so
perché ho fatto quel sogno; non sapevo se mio padre e i miei
zii fossero coinvolti in qualche traffico o in attività criminali.
Ora, da adulta, non credo che lo fossero. Da adulta, so che
erano uomini, teppisti a cui piaceva bere, fumare e fare casi-
no il fine settimana. Ma da bambina, sentivo che mia nonna
era preoccupata che i figli venissero fermati dalla polizia e

103
perquisiti solo perché erano neri e maschi, che finissero invi-
schiati in una rissa da bar con qualche bianco e che fossero
arrestati per aggressione mentre i bianchi venivano rilascia-
ti. E vedevo la linea sottile della bocca di mia madre quando
mio padre era lontano e irrintracciabile, e la sentivo preoc-
cuparsi che potesse avere un incidente in moto e finisse in
galera. Agli occhi di un’impressionabile ragazzina di nove
anni, la parola “guai” per gli uomini della mia famiglia era
sinonimo di polizia. Era più facile e più difficile essere ma-
schio; agli uomini era concessa maggiore libertà e tuttavia
vivevano sotto la continua minaccia di vedersene privati.
Appena sveglia, svegliai anche Joshua ed entrammo di sop-
piatto nella stanza dei miei per pregarli di lasciarci aprire i
regali. Fu in quel momento che vidi una bicicletta rossa a
dieci marce appoggiata nell’angolo del salotto destinata a
me, e quasi dimenticai il sogno.

Suppongo che mia madre avesse fatto mettere a sedere


Joshua e me – forse in salotto, sullo stesso divano dove cin-
que anni prima mio padre aveva chiesto la sua mano – per
dircelo. Dopo aver avuto due figli, i miei si erano sposati;
dopo altri due, avevano deciso di divorziare.
«Vostro padre non tornerà a casa. Se ne va».
Non pronunciò la parola “divorzio”. Non l’avremmo
capita. Ma il giorno dopo, nostro padre non era ancora
tornato dal lavoro, e Joshua e io la capimmo con tutto il
nostro corpo, magro e minuto. Papà non sarebbe torna-
to. Se n’era andato. Non lo avremmo più seguito in corti-
le, mentre ci chiedeva di passargli chiodi o pezzi di legno
per costruire una conigliera, non gli avrei più gridato:
«GUARDA!» sperando che fosse fiero di me, mentre mi
impegnavo allo stremo per sfiorare il ramo con l’altalena.

104
In seguito, sarei venuta a sapere che mia madre gli aveva
detto di andarsene dopo aver scoperto della sua ultima fi-
danzata, la più giovane, figlia di un collega della vetreria,
conosciuta quando lei aveva quattordici anni. Era stata as-
sunta per l’estate l’anno in cui mio padre era stato licen-
ziato. Mia madre si rese conto allora che non sarebbe mai
cambiato e che il loro amore era spacciato. All’epoca era
incinta di Charine, la quarta e ultima di tutti noi, ma Joshua
e io ancora non lo sapevamo.
Appena mia madre ci comunicò la novità, io me ne andai
nella stanza che condividevamo con le zie e mi rannicchiai
nel letto di sotto, quello di Joshua. Piangevo e leggevo l’ul-
timo libro che avevo preso in biblioteca, traumatizzata dal
rifiuto che l’abbandono di mio padre rappresentava, perché
sentivo che non aveva respinto la moglie o la vita familiare,
ma me. Spesso i bambini danno la colpa a se stessi quando
un genitore se ne va, e io non facevo eccezione.
Joshua uscì in giardino. Era estate, faceva caldo. Si mise
a correre intorno alla casa, un saltello dopo l’altro, un giro
dopo l’altro, piangendo, urlando che voleva papà. Gli zii e le
zie gli corsero dietro, lo presero, lo tennero stretto mentre si
divincolava, gli dissero di smettere, ma lui singhiozzava an-
cor più rumorosamente, e lottava, e si dimenava. Aveva sei
anni ormai, era più alto, i suoi capelli afro, un tempo bion-
di, ora erano corti, ed era forte. Lo lasciarono e lui sfrecciò
via, correndo e piangendo. Passò ore a correre intorno alla
casa, e si fermò solo quando cadde in ginocchio, il pianto
che scemava in singhiozzi e gemiti. Si addormentò di colpo
là fuori, a terra, la testa ciondoloni. Uno degli zii lo portò
dentro, e io spostai le coperte per fargli spazio nel letto.
Poco dopo, mia madre presentò domanda per una casa
popolare tramite un programma di assistenza governativo,
e la trovò a due città di distanza, Orange Grove, Mississippi,

105
in una periferia degradata, e disse a mia nonna che avremmo
traslocato quell’estate. Io compivo dieci anni. Prima di an-
dare a vivere per conto nostro, e pur pensando di essere or-
mai troppo grande, tornai a vagabondare per Bimbolandia,
nel tentativo di evocare l’antica magia, la fede, ma non ci
riuscii.

Quell’estate, prima che traslocassimo, costrinsi Aldon,


Joshua e anche Nerissa, abbastanza cresciuta ormai per
stare ferma e attenta, a sedersi sull’altalena e a giocare al
nostro gioco preferito: È La Mia Macchina. Le regole erano
semplici: dato che ero la più grande, assegnavo a ciascuno
un numero, poi ci sedevamo e aspettavamo che passasse la
macchina che corrispondeva a noi.
«Io sono la prima, e tu la seconda». Misi una mano rassi-
curante sulla spalla di Nerissa, e lei annuì.
«Tu sei il terzo».
«Ok» replicò Aldon.
«E tu il quarto» dissi a Josh.
La prima macchina che passò proveniva dalla DuPont e
forse andava a casa dopo un turno di lavoro: era blu scuro,
abbastanza nuova e squadrata.
«È la mia macchina!» urlai, e gli altri lanciarono grida
d’entusiasmo.
Sfrecciò una vettura bianca, a due porte, con un lungo
cofano appuntito.
«Questa è la tua» dissi a Nerissa. Esultammo diligente-
mente. Era un pareggio.
Sentimmo arrivare la macchina successiva, prima di ve-
derla: un rumore sordo, forte, sincopato, appesantito da un
motore irritabile.
«Oooooohhhhh» strillò Josh.

106
La macchina, a chiazze grigie e marroni, passò con anda-
tura lenta sulla strada davanti alla casa. Il conducente, come
se si vergognasse di guidare un’automobile del genere, non
salutò, né suonò il clacson come di solito accadeva tra buoni
vicini, ma continuò a guardare dritto davanti a sé.
«È la tua macchina!» indicai Aldon, ridendo.
«Un catorcio!» gridò Josh.
«Perché devo prendermi un catorcio?» disse Aldon.
Ridemmo tutti. Aldon si alzò e agitò le braccia all’indiriz-
zo di quella macchina offensiva che scoppiettava affannosa-
mente per strada, immaginando di poterla scacciare come
faceva con i procioni che annusavano la spazzatura o con
gli opossum che attraversavano furtivi con le zampette rosa
la palude fetida sul retro della casa per poi scomparire nel
bosco sterminato.
«Vai! Vai!» disse Aldon, e noi ridemmo più forte. Nerissa
applaudì.
Aldon si sedette.
«Ora tocca a Josh» dissi, e guardammo la strada, drit-
to davanti a noi, stretti l’uno accanto all’altro sull’altalena.
Eravamo tutt’orecchi, in attesa di un sibilo, di un boato, di
un lampo di colore, di qualsiasi segnale che ci rivelasse il
futuro.

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charles joseph martin
Nato il 5 maggio 1983
Morto il 5 gennaio 2004

La prima volta che C.J., uno dei miei tanti cugini, gua-
dagna la ribalta risale a quando lui aveva circa sei anni e io
quasi dodici. Aveva la carnagione chiara, il viso punteggiato
di lentiggini. Da piccolo era stato biondo come Josh, ma
crescendo i capelli si erano scuriti, allungati e arricciati, e
la madre gli faceva le treccine oppure glieli tagliava corti,
lasciandogli crescere solo un lungo codino riccio dietro la
schiena. Era minuto e snello, tutto spigoli e muscoli. Nel
viso triangolare, di scuro aveva solo gli occhi, di un nero così
profondo da risultare sorprendenti.
Alle riunioni dei parenti del ramo paterno, C.J. c’era
sempre, piccolo, dorato e muscoloso, il codino che gli sfiora-
va la spina dorsale. Noi bambini mangiavamo hot dog con
ketchup e senape, sgranocchiavamo patatine, bevevamo bi-
bite gassate e fredde a grandi sorsi tanto che le bollicine ci
bruciavano la gola, e ci rincorrevamo in branco intorno al
giardino.
«Fai le capriole» disse qualcuno.
«Ok» disse C.J.
Ci allineammo come un corridoio umano in modo che lui
potesse mettere in mostra le sue abilità. Saltò un paio di volte
e poi corse a testa bassa sulla striscia di prato che avevamo
lasciato libera. Poco prima di arrivare alla fine di quel rettili-
neo, si lanciò in una rondata, poi in una rovesciata, e di nuo-
vo in un’altra rovesciata, il codino che ondeggiava. Era una
molla umana. Applaudimmo e urlammo, entusiasti. Io mi

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sentivo debole e accaldata. Continuò a fare capriole davanti
a noi, lanciandosi in un’aria densa di umidità che, ogni volta,
fendeva nettamente a metà. Atterrava sui piedi e rimbalza-
va. Quando si stancò, corse a prendere da bere. Il gruppo si
sciolse. Io me ne andai per conto mio, infelice perché sentivo
il mio corpo troppo terreno, immobilizzato dal caldo, finché
non entrai in una casa-giocattolo, un rettangolo di compen-
sato e travetti di legno. Sdraiata a terra, la sabbia che mi
grattava la schiena, guardavo gli altri bambini. Correvano
nel giardino a coppie, strattonandosi mentre il giorno sce-
mava, per contendersi le ultime bibite fredde. Guardavo C.J.
sfrecciare tra loro, fargli lo sgambetto, prendere quello che
voleva, e scappare così velocemente da essere imprendibile.

Per lungo tempo non vidi più C.J. Andai al college quan-
do lui aveva dodici anni, e una volta tornata, me lo ritrovai
davanti: più alto, almeno quanto me, ma sempre basso per
essere un uomo. Era a torso nudo. Si era irrobustito, ma era
sempre atletico, i muscoli simili a pietre sotto la pelle. Non
aveva un filo di grasso. I capelli gli erano cresciuti e si era
fatto le treccine dietro la nuca, per mettere in risalto il viso.
Era pallido, con le lentiggini, e il suo corpo era ancora in
grado di fare cose che io ritenevo impossibili.
In quel periodo, la maggior parte di noi viveva con i geni-
tori, e mentre ad alcuni non importava se invitavamo gente
a casa, per altri (come mia madre) invece era un problema. E
anche quelli tolleranti cambiavano idea se gli amici venivano
troppo spesso o se in giardino c’erano troppe auto parcheg-
giate, perché non volevano attirare l’attenzione della polizia.
Mentre nei quartieri a maggioranza bianca e operaia poteva
trattarsi di un elemento di scarso rilievo, nella nostra comu-
nità operaia e nera, di rilievo ne aveva eccome. Perciò, dalla

110
preadolescenza fino ai vent’anni i ragazzi passavano gran
parte del tempo al parco, che un tempo era stato un terreno
tra la casa parrocchiale e il cimitero. La contea non aveva in-
vestito granché nella sua riqualificazione: avevano piazzato
un piccolo campo da pallacanestro, poi avevano messo un
paio di altalene a due posti, una struttura per arrampicarsi in
legno e due piccole tribune di legno che marcirono in fretta
per via del caldo e dell’umidità. Mia madre definiva quel
parco “patetico”. La faceva infuriare che fosse evidentemen-
te diverso da quelli dei quartieri bianchi o più ricchi delle al-
tre città costiere. Ma a noi non importava; evitavamo i punti
marci delle tribune, tenevamo d’occhio i bambini che si ar-
rampicavano sulla struttura di legno e passavamo qualche
ora lì, ignorando deliberatamente i poliziotti che ci giravano
intorno come avvoltoi e che, ogni volta che ci ritrovavamo
in gruppo, sospettavano che ci drogassimo o spacciassimo.
Il giorno in cui scattai alcune foto a C.J. al parco, lui non
giocava. Eravamo seduti sulle panchine a guardare qualche
ragazzo della zona giocare a pallacanestro davanti a uno dei
quattro canestri. Alcuni erano a torso nudo, lucidi di sudo-
re, altri no, il cotone che s’incollava al torace prima di stac-
carsi sul collo e sulla pancia. Quel giorno, C.J. era seduto
ai piedi delle tribune, a fumare. Charine era poco distante,
in attesa, un pallone in mano. Lei aveva circa quattordici
anni, all’epoca. Ogni tanto C.J. si avvicinava a Charine, lei
gli tirava il pallone, e lui lo lanciava in aria verso il canestro
più vicino alle tribune. Charine fece un tiro in sospensione
ma andò a vuoto. Era una giornata calda, pesante e nuvo-
losa, la pioggia era continuamente dietro l’angolo. Si alzò
il vento, che portò un istante di refrigerio. Un’alta quercia
spagnola proiettava la sua ombra sulla tribuna dov’ero se-
duta, sotto quel baldacchino verde, intenta ad ammazzare
le zanzare. La strada luccicava in lontananza.

111
Le macchine erano salite sull’erba che costeggiava il
campo da pallacanestro, vicino alle panchine di cemento.
In genere, i ragazzi in questi casi aprivano la portiera e il
bagagliaio e accendevano lo stereo a tutto volume.
Charine tentò tiri in sospensione o in allontanamento ver-
so il canestro più vicino alla casa parrocchiale. C.J. prese la
palla e corse a un altro canestro, dribblando con tutta la sua
potenza e velocità, accelerando prima di slanciare il corpo
in aria. La palla sbatté contro il tabellone e poi gli rimbalzò
di mano, volando di nuovo dall’altra parte del campo. C.J. si
librò così in alto da restare appeso con l’incavo del gomito al
bordo del canestro, ridacchiando come un matto, oscillando
lentamente.
«Gesù» dissi. Non avevo mai visto una persona così bassa
saltare tanto in alto. Io tenevo tra le mani la mia vecchia Nikon,
ne soppesai la solidità, e urlai: «Fallo un’altra volta, C.J.!».
Si lasciò cadere dal canestro e saltellò. Charine gli pas-
sò la palla. Lui scattò dall’altra parte del campo e puntò il
canestro a tutta velocità, slanciandosi in aria. Volava. La
palla sbatté di nuovo contro il punto sbagliato del tabellone,
rimbalzò, e di nuovo Charine la prese e la ripassò a C.J. Io
mi spostai tra le tribune, mi avvicinai al canestro e cercai di
scattare qualche foto a lui, al miracolo che era quando si
librava in aria. Ma andava troppo veloce e la mia macchina
fotografica era troppo vecchia. Sentivo l’otturatore aprirsi
con uno scatto, sfiorare il metallo e poi richiudersi. Troppo
lenta. In seguito, al college, quando sviluppai il rullino, vidi
che C.J. era venuto tutto storto: piegato goffamente, sfocato,
tutta la sontuosa grazia del suo salto persa in quell’attimo
cristallizzato e catturato dall’obiettivo.
«Non ci riesco, Mimi» disse C.J., venendo verso le tribune.
Disse: “Mimi” ma gli dondolò dalla lingua prima di inter-
rompersi bruscamente: sembrava avesse detto: “Mei-mi”.

112
Lui e suo cugino Mario erano gli unici due a pronunciarlo
così. «Non ci riesco». Rise, scosse la testa, rivoli di sudore sul
viso, i capelli ispidi e le radici dorate: la stessa aureola bionda
che aveva anche Joshua da bambino.
«Cazzo, salti proprio in alto» dissi.
«Ce l’hai fatta?» chiese, indicando la macchina fotografi-
ca con un gesto.
«Lo spero» dissi.

C.J. aveva quasi sedici anni quando lui e Charine inizia-


rono a frequentarsi. Lui l’aveva incantata. C’era qualcosa
di fisicamente attraente in lui: era così basso, così perfetta-
mente muscoloso, il suo corpo faceva magie. Tra lei e C.J.
c’era una perfetta sintonia fisica, come in una squadra. Non
risentirono dello squilibrio di corporatura che la differen-
za di genere rischiava di alimentare. Erano cugini, quindi
molta gente, comprese alcune delle nostre zie, sua madre
e mia madre, non tolleravano che uscissero insieme. Ma a
Charine non importava, e nemmeno a C.J. I cugini si met-
tevano insieme, facevano figli e si sposavano di continuo a
DeLisle e a Pass Christian. Succedeva da generazioni. In
città così piccole, in comunità limitate dalla razza e dalla
classe sociale, era inevitabile. Charine amava C.J. E questa
era la sola cosa che contava, più di ogni altra.
Sin dall’inizio furono inseparabili, il che era possibile
solo perché C.J. era un nomade. Aveva una stanza con un
letto singolo a casa della madre, a Pass Christian, ma di
rado si fermava a dormire lì. Parte del tetto e del soffitto
di quella camera erano collassati, e il pavimento e il letto
erano coperti di scatoloni il cui contenuto non gli apparte-
neva. Quando era a casa, C.J. dormiva nel salotto sul retro.
C’erano un divano e un piccolo televisore. Piegava i vestiti e

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li ammonticchiava sullo schienale del divano, sulla televisio-
ne. Appoggiava su un tavolino piccole istantanee, foto che
Charine mi rubava quando sviluppavo i rullini. La porta
dava sulla cucina e sul resto della casa. Sua madre non ave-
va marito, era sola con due figli, C.J. e la sorella, molto più
piccola, e non aveva sposato nessuno dei loro padri. Lavora-
va sodo per dare una casa ai figli, combattendo contro tutti i
vincoli e i limiti rappresentati dalle sue origini e dal luogo in
cui viveva. Forse C.J. si sentiva un peso; forse era per questo
che per mesi viveva in altre case, dormiva su altri divani.
Quando non stava dalla madre, a volte abitava a DeLisle
con il padre e con la sua compagna, che viveva con due fi-
glie. Il padre cercò di far integrare C.J. nella nuova famiglia,
gli regalò una macchina, ci lavorò con lui per rimetterla in
funzione, ma non riuscirono mai a ripararla. Quando non
viveva con il padre o con la madre, dormiva a casa di nostro
cugino Duck, il migliore amico di Joshua. Dormiva nella
stanza di Duck e la madre non aveva problemi a ospitarlo
perché C.J. era uno di famiglia. Da decenni, a DeLisle e a
Pass Christian, i bambini passavano da una famiglia all’al-
tra: a volte le donne della generazione della mia bisnonna
davano i neonati a coppie senza figli dopo averne già messi
al mondo cinque o dieci o quattordici, e quando cresceva-
no, spesso i bambini uscivano di casa e andavano a vivere
con altri parenti. A volte venivano allontanati dai genito-
ri, altre volte erano pervasi dall’urgenza di girovagare. Da
queste parti la famiglia è sempre stato un concetto mutevo-
le. Talvolta include un’intera comunità, vale a dire che C.J.
dormiva anche sul divano del salotto di Rob, o su quello
del salotto di Pot, anche se non erano suoi parenti. A casa
di Duck, C.J. indossava gli stessi vestiti per qualche giorno
di fila e si lisciava apatico le trecce, una a una, nelle ore
centrali – le più calde – della giornata, seduto sulle radici

114
di una vecchia quercia tra Hill Road e St. Stephen’s Road.
Sapevano tutti che stava seduto su quelle radici massicce
in attesa di una sparuta clientela cui vendere la droga. Io,
come tanti altri nel quartiere, lo giudicavo per questo. Ciò
che all’epoca ignoravo era che detestava stare lì, che voleva
di più, ma che non sapeva come fare per ottenerlo.
A diciassette anni C.J. lasciò il liceo. Per lui la scuola era
stata fonte di noia e frustrazione, e la abbandonò al secon-
do anno. Non so di preciso perché, ma posso immaginare
che si sentisse ignorato e irrilevante in quella classe, solo
un altro corpo che affollava la scuola. Non era un talento
negli studi e non gli piaceva dedicarsi a sport organizzati,
anche se era particolarmente dotato a livello fisico. Il fatto
di essere un maschio nero che se la cavava per il rotto della
cuffia in tutte le materie equivaleva a dire che era conside-
rato un problema. E l’amministrazione scolastica dell’epoca
risolse il problema del maschio nero attuando una sorta di
benevolo ostracismo. Anni dopo, quell’ostracismo diventò
malevolo e implicò perquisizioni degli studenti accusati di
spaccio, la classificazione di quegli stessi studenti come peri-
colosi, la redazione di una corposa documentazione carta-
cea contenente infrazioni alla disciplina vere o immaginarie
e, quando la documentazione diventava più voluminosa,
l’espulsione degli studenti che mettevano a rischio l’eccel-
lenza della scuola con i loro voti e punteggi scialbi.
A volte C.J. seguiva Charine fino a Gulfport e restava con
lei nella casa in affitto di mio padre a Gaston Point. C.J. e
Charine se ne andavano per le strade di Gaston Point in
pantaloncini da basket e canottiere bianche sotto lunghe
magliette bianche. Vestiva da uomo anche lei. Andavano a
comprare il pane, il latte, il pranzo prima di tornare a casa
di mio padre. Mangiavano, guardavano film e si riparavano
dal caldo. A volte, quando la sera faceva più fresco, C.J.

115
sollevava pesi sulla panca traballante che mio padre aveva
piazzato in cortile.
Era una giornata estiva e calda, una delle tante di una se-
quenza apparentemente infinita, quando C.J., Charine e no-
stro cugino andarono a comprare ghiaccio e ghiaccioli. Sulla
strada del ritorno sentirono un latrato: ansimante, leggero.
«Hai sentito?» disse Charine.
«Lì» disse C.J., e indicò la veranda della casa davanti alla
quale stavano passando, delimitata da una rete di alluminio.
«La volete?» chiese nostro cugino.
Sulla veranda stretta e aperta c’era una cucciola di
pitbull, orecchie larghe e morbide come foglie di una pianta
da appartamento, le zampe più grandi del resto del corpo.
Si precipitò verso di loro, abbaiando di nuovo, buttando
indietro la testa a ogni latrato, come se dovesse usare tutto
il suo peso per tirare fuori la voce. Era piena di vita. A loro
piacque subito.
«Vieni» disse C.J., e scavalcò quel recinto basso, raccolse
la cucciola e la portò a Charine, che aprì la cartella color
arancione fosforescente e ce la infilò dentro, vicino ai ghiac-
cioli. Tornarono di corsa a casa di mio padre e tirarono
fuori il cane invece della spesa.
«Era nostra» disse in seguito Charine. «Era come se fosse
la nostra bambina».

Quando tornavo a casa dal Michigan per le vacanze esti-


ve e invernali, costringevo Charine a passare un po’ di tem-
po con me. Charine viveva ancora da mia madre, quindi
anche se avevamo otto anni di differenza, diventò la mia
migliore amica. Di solito invitava anche C.J. e poi recupe-
ravamo due o tre ragazzi del quartiere. Io li trascinavo al
cinema, pagavo, gli facevo vedere film come Il signore delle

116
mosche; a fine spettacolo ci infilavamo di nascosto in un’altra
sala e uscivamo dal cinema dopo quattro ore, con lo stoma-
co sottosopra per i troppi popcorn al burro. Il venerdì e il
sabato andavamo all’Illusions.
Nell’estate del 2003, ci stipammo nella mia macchina,
Charine, Nerissa, C.J. e io, e ci incontrammo con l’amico
di Nerissa in un albergo sulla spiaggia vicino al club. Aveva
affittato una suite per una settimana. Non avevamo idea del
motivo per cui avesse preso una suite tanto costosa per così
tanto tempo, dal momento che una casa ce l’aveva: immagi-
nai che lo avesse fatto perché poteva permetterselo, perché
voleva sfoggiare i soldi che aveva, soldi guadagnati con lo
spaccio. Era una tacita ostentazione di ricchezza. Una volta
arrivati, restammo in auto e ci sballammo. L’acqua del gol-
fo, nera di notte, lambiva inesorabile la riva. Ci sentivamo
bene. Guardavamo il parcheggio del locale, le macchine che
si spostavano, come una corrente, la gente che sciamava,
tutta in tiro. I bassi del locale chiamavano e i bassi delle auto
rispondevano. Quando entrammo nella stanza d’albergo,
C.J. si sedette sul divano, Charine su una delle gambe di
C.J. e io sull’altra. Non mi ero mai seduta su di lui: anche
a riposo aveva i muscoli tesi, e all’improvviso mi sentii in
colpa per essermi accomodata su di lui, per aver costretto il
suo corpo minuto a sopportare il mio peso, quindi mi alzai.
«Stai ferma qui» disse C.J. Mi risedetti. Stavamo in silen-
zio. Guardavamo la tv senza audio e l’amico di Nerissa, che
era uno dei migliori giocatori della squadra di football del
college ma che non aveva mai frequentato l’università, andò
in bagno, ci rimase per qualche minuto, e alla fine uscì. Ti-
rava su col naso. Dopo aver deglutito, rise e parlò con noi.
Quel risucchio era intermittente e fastidioso. Ha una brutta
sinusite, pensai ingenuamente. Era irrequieto, camminava di
continuo avanti e indietro.

117
«Devo andare in bagno» dissi.
Nel lavandino e nel water c’erano mozziconi di sigaretta.
Mancava la carta igienica. Mancava il sapone e c’era solo
un asciugamano in tutta la stanza; era buttato a terra, sgual-
cito e sporco. Decisi che la pipì non mi scappava più, tornai
al divano e mi sedetti vicino a C.J. e a Charine.
«Quel bagno è schifoso» dissi, improvvisamente depressa.
«Andiamocene» disse C.J. e uscimmo dalla camera d’al-
bergo, sfrecciando tra le macchine che correvano come paz-
ze sulla Highway 90 verso la spiaggia. La luna splendeva
come un guscio di ostrica scolorita, e passammo il resto del-
la notte, fino a qualche minuto prima dell’alba, a bere bir-
ra sul pontile. Mentre tornavamo a casa in macchina C.J.,
l’unico sobrio tra noi, disse: «Si stavano facendo di coca, in
quel bagno».
«Come?» dissi.
«È il tipico bagno di chi si fa di coca. Pieno di mozziconi
di sigarette e di merdate».
Appoggiai la testa sul sedile, guardai la sottile striscia
bianca della spiaggia, gli alberi, l’acqua, tutto s’illumina-
va passando dal nero, al grigio, al blu. Alla fine mi addor-
mentai, pensando a ciò che aveva detto. C.J. era stato in un
bagno come quello? Come faceva a saperlo? Se C.J. disse
qualcos’altro, io non lo sentii.

Settimane dopo, una sera che mia madre non era in casa,
Nerissa, Charine e io guardavamo un film in tv. La porta
era aperta: la luce accesa. Charine si alzò per fare una te-
lefonata e qualche minuto più tardi sentimmo uno strasci-
chio, come se qualcosa stesse grattando il terreno al buio,
vicino alla strada e al bosco, proprio davanti al cortile.
«Che cavolo è?» disse Nerissa.

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Charine corse fuori dalla porta, scese i gradini di cemen-
to e uscì in strada, dove lo strascichio, tra una pausa e l’altra,
continuava. Nerissa e io, dai gradini, vedemmo C.J. e Duck
sul ciglio del vialetto di ghiaia. Gli andammo incontro per
salutarli. Una cassa color azzurro ghiaccio con una lunga
maniglia bianca era appoggiata tra i due ragazzi; C.J. ci si
sedette sopra e tirò fuori una lattina di birra. La offrì anche
a noi. Io ne presi una e la sorseggiai, una birra molto ama-
ra. Duck raccontava barzellette ma non rideva. Non si trat-
tenne a lungo. Lasciò C.J. e noi con la borsa termica. C.J.
sapeva di non piacere a mia madre, quindi spesso si teneva
alla larga da casa sua. Per Charine e per lui, la consapevo-
lezza che la loro fosse una relazione molto contrastata le
conferiva un’aura di romanticismo, li faceva sentire amanti
sventurati. Anche se Charine aveva detto a C.J. che mia ma-
dre era uscita, restammo comunque seduti in giardino, ad
ammazzare zanzare e moscerini e a chiacchierare.
«Ve le lascio tutte». Mi tirai su, alticcia. Ero stanca del
bruciore e del prurito che mi procuravano le punture affila-
te di quegli insetti. «Io rientro».
«Anch’io» disse Nerissa. Mi seguì in casa. Charine restò
fuori con C.J. Venti minuti dopo, squillò il telefono.
«Pronto?».
«Ehi, belle, venite un po’ fuori».
«Chi parla?».
«Tua sorella sta dando i numeri. Pensa che ce l’abbiate
tutte con lei. Dovete venire a parlarle».
«Oh, signore».
Nerissa scrollò le spalle e continuò a guardare la tv. Io
uscii, chiedendomi che cosa potesse essere andato storto nei
venti minuti in cui mi ero rimessa davanti alla televisione.
Quando arrivai, C.J. si infilò di nuovo in tasca il cellula-
re. Charine era seduta su una delle traversine ferroviarie di

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legno che mia madre aveva usato per organizzare il giardi-
no. Era piegata in avanti, il viso tra le mani.
«Tua sorella piange» disse C.J.
«Perché?» dissi.
«È convinta di avervi deluso tutte».
«Come le è venuta un’idea simile?».
«Ma infatti, bellezza, guarda che le tue sorelle ti amano».
Tacqui e mi grattai una gamba. Non avevo idea del mo-
tivo per cui Charine fosse così sconvolta, ma interpretai er-
roneamente quella reazione come un istrionismo ormonale:
lo sbalzo d’umore di un’adolescente. Lei e C.J. dovevano
aver litigato e lei stava canalizzando la rabbia nel suo rap-
porto con me e Nerissa. L’ultimo posto in cui volevo trovar-
mi era in giardino con una sorella che reclamava attenzioni.
A prescindere da quanto fosse ubriaco o fatto, invece, C.J.
non avrebbe mai desiderato stare in nessun altro posto.
«Non so cosa dirle» risposi. C.J. mi guardò, gli occhi spa-
lancati e scurissimi nel buio incombente.
«Parlale e basta» disse.
Charine continuava a nascondere il viso dietro le mani.
«Charine». Le sue spalle sussultavano. «Cos’è che non va?».
«Parlale» disse C.J.
«Finirò nella merda» disse Charine tra le dita.
«No, non è vero» dissi. «Calmati».
«Dille che le vuoi bene» fece C.J. Si chinò sulla borsa ter-
mica, prese un’altra birra, fece saltare il tappo.
«In che senso?» dissi. «Le sto parlando, non vedi?».
«Diglielo».
«Charine» dissi. «Ti voglio bene».
Lei pianse più forte. C.J. mi afferrò per il braccio e mi
portò nel buio, sul ciglio ghiaioso della strada. Si sporse
verso di me per bisbigliare, e il suo viso era luminosissimo,
reso ancor più spigoloso dal buio che gli cancellava il naso,

120
trasformava gli zigomi in noccioli di pesca, e la fronte in una
scheggia di luce. Bevve un sorso di birra.
«Dico davvero, non capite niente. Dovete parlare con vo-
stra sorella».
Era insistente. Mi allontanai dalla sensazione di essere
presa per la nuca, come faceva mia madre quando, da bam-
bina, mi guidava tra la folla stringendomi il collo.
«Io rientro» dissi.
«Dovreste parlare con lei» disse C.J.
«Va bene» dissi, mi girai e guardai Charine. Era anco-
ra seduta sulla traversina, ancora con il viso tra le mani,
ancora in lacrime.
«Io rientro» le dissi, poi voltai loro le spalle e mi avviai lun-
go il vialetto. Il bosco era tutto un tumulto di insetti nottur-
ni. C.J. buttò una lattina in strada. Tintinnò, poi il rumore si
spense. I sassi mi si conficcavano nei piedi scalzi e, dopo aver
fatto qualche passo sul vialetto, mi misi a correre sulle punte
per alleviare il dolore. Che diavolo gli è preso, a tutti e due? pen-
sai. Avevo attribuito al dolore il comportamento di Charine:
Joshua era morto tre giorni prima del suo compleanno, e
mentre quell’estate infuocata si spegneva nell’autunno, il
lutto ci spingeva verso atteggiamenti strani e deplorevoli.
Mi chiesi: Chissà se C.J. ha in mente qualcosa. In casa, Nerissa
dormiva: la tv le colorava la faccia di blu. Sentii un grido
e la borsa termica che veniva trascinata via, si fermava e
ricominciava a spostarsi, quindi mi inginocchiai sul tappeto
verde e ruvido e sollevai gli avvolgibili per guardare fuori
dalla finestra. Nel pallido alone di luce dell’unico lampione,
C.J. si tirò dietro la borsa termica per qualche metro, bevve
una birra, la alzò al cielo e urlò al bosco. Non riuscivo a
sentire cosa stesse dicendo. Buttava una lattina dopo l’altra
nel fosso, tra gli alberi, prendeva a calci la borsa. Charine
lo seguiva, sedendosi a terra o sul coperchio di plastica della

121
borsa termica, oppure restando in piedi accanto a lui. Dal
modo in cui lanciava le lattine, che dovevano essere mezze
piene perché volavano lontane e atterravano rapidamente,
e non fluttuavano in aria come succede all’alluminio vuoto,
riuscivo a intuire che stesse imprecando. Mi lasciai cadere
sul tappeto, guardai Nerissa dormire e mi chiesi come mai
avessi paura.

«Chiamate tutti» dissi. «Andiamo a New Orleans».


Partimmo verso le otto o le nove di sera con una roulotte,
almeno in quindici stipati in un Suburban. Nessuno di noi
aveva allacciato le cinture di sicurezza. Ero stupida e non
me ne curavo. Da quando me n’ero andata di casa, avevo
imparato che per me la vita, nel vasto mondo curioso, era
una battaglia costante contro le stanze vuote, contro il do-
lore per la morte di mio fratello e di Ronald, che mi seguiva
sempre, che nel silenzio faceva più rumore. Quando ero a
DeLisle, mi piaceva radunare quante più persone possibili,
cugini e amici, e organizzare gite a New Orleans, tutti in
giro per Bourbon Street con i nostri bicchieri di polistirolo.
Parcheggiammo su Decatur Street e ci addentrammo nel
quartiere. Ferma in fondo al parcheggio c’era una limousine
con i cerchioni rotanti; li notammo perché erano un nuovo
modello che avevamo visto solo in tv. C.J. si chinò vicino allo
pneumatico.
«Guarda che cazzo di roba» disse. Fece girare la ruota e il
metallo rifletté la luce come un coltello che volteggia in aria.
«Gira!» gridò. Ridemmo per l’audacia, per la stupidità, per
la sensazione di star facendo qualcosa di scemo che proba-
bilmente non avremmo dovuto fare. Passammo la notte a
sbronzarci sempre più, a passeggiare, a guardare gli ingres-
si degli strip club che solo qualcuno di noi era abbastanza

122
adulto per varcare. C.J. scortò Charine in mezzo alla folla di
ubriachi per tutta la notte, la sua guardia del corpo; era alto
solo quattro o cinque centimetri più di lei, e altrettanto esile,
ma quando le camminava accanto sembrava più imponente,
irrobustito dal piglio, dalla possessività, dalla lealtà.
La mattina dopo mi svegliai sul divano-letto nell’apparta-
mento di Nerissa. Mi alzai e andai verso la porta, ma le gam-
be cedettero. Caddi a terra. La sera prima me l’ero spassata
e pensai che l’unico motivo per cui mi sentivo così debole
fosse la pastiglia per l’emicrania di cui soffrivo da quando
avevo quindici anni. C.J., Charine, Nerissa e Hilton entraro-
no in camera, C.J. si sedette su un seggiolone posato sul pavi-
mento, una maglietta bianca intorno alla testa, e mi guardò.
«Pronta a ricominciare?» disse.
Sorrisi.
«Sì».
Erano le otto del mattino. Bevemmo. Ci sballammo. C.J.
accese una radiolina portatile nella camera in cui si trova-
vano il divano-letto e il letto a castello, e inserì un nuovo
disco di Lil’ Boosie. Metteva continuamente la stessa can-
zone: mandava indietro la traccia e cantava. Non lo avevo
mai sentito cantare. La sua voce piena risuonava cristallina.
Risi alle sue battute sciocche, spontanee. Mi stupì: non ave-
vo mai immaginato che potesse essere così divertente, così
gentile. E poi, di colpo, la conversazione si spostò su un altro
argomento. Parlavamo di cocaina.
«Ti sei mai fatta di coca?» disse C.J.
«No» dissi.
«Conosci qualcuno che l’ha tirata? Al college?».
«Sì. Qualcuno. Ma non eravamo intimi».
«Non farlo mai».
C.J. si mosse nervosamente sul seggiolone in cui si era
incastrato, si risistemò la maglietta attorno alla testa, che

123
però era troppo ingombrante e scivolò. Era serio e ironico
a un tempo.
«Io l’ho provata, una volta» disse. «E poi l’ho rifatto». C.J.
si passò la mano sulla testa. «Vorrei non aver mai iniziato».
Io annuii e capii come faceva a sapere che il bagno di
quell’albergo fosse così disgustoso, come mai fosse così insi-
stente e imprevedibile la sera in cui aveva trascinato la borsa
termica per strada, come mai un giorno mi spaventava e
quello dopo riusciva a essere un’altra persona, gentile e di-
vertente, dolorosamente sincera, mentre mi diceva cose di
cui si vergognava, con una maglietta avvolta come un velo
attorno al viso.

Sento che non resterò qui ancora per molto, diceva C.J. Lo dis-
se a Charine. Lo disse ai cugini più stretti. Non qui, diceva.
Viveva come se ci credesse. Non aveva mai parlato come
tutti noi, mai dichiarato di avere un lavoro dei sogni. Non
aveva mai detto: Voglio fare il pompiere. Mai: Voglio fare il sal-
datore. E nemmeno: Lavorare all’estero. L’unica persona alla
quale aveva parlato del suo futuro era Charine: ogni tanto
le diceva che l’avrebbe voluta come madre dei suoi figli. Pos-
siamo darci da fare, diceva, fare soldi. Vivere bene, diceva. Vivere.
Ma anche dopo aver abbandonato gli studi, non trovò mai
un vero lavoro, forse dissuaso dalle esperienze dei ragaz-
zi del quartiere, la maggior parte dei quali lavorava finché
non veniva licenziata o lasciava il lavoro perché lo stipendio
minimo arrivava troppo lentamente e se ne andava trop-
po rapidamente. Tra un lavoro e l’altro spacciavano, finché
non trovavano un posto da commesso in un minimarket,
o da bidello, oppure da giardiniere. Era come infilarsi in
un’onda di tempesta: una serie di passi inutili. Forse, quan-
do guardava i vivi e i morti, non vedeva alcuna differenza:

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bloccati dalla povertà, dalla Storia e dal razzismo, dentro
stavamo morendo tutti. Forse, nei momenti in cui l’effetto
della cocaina calava, non vedeva nessun sogno americano,
nessuna favola a lieto fine, nessuna speranza. Forse, non
li vedeva nemmeno quando era fatto. Non dire così, lo rim-
proverava Charine, quando parlava di morire giovane. Non
andrai da nessuna parte.
Anni dopo, Nerissa mi raccontò una storia che aveva sen-
tito da un amico di C.J. di Pass Christian. Camminavano sui
binari della ferrovia, disse mia sorella, perché era la via più
veloce per arrivare in città. C.J. procedeva a passo sicuro,
scavalcava facilmente i blocchi di granito che si spostavano
mentre lui saltellava disinvolto da una traversina all’altra.
Con il passare degli anni, il sole del Mississippi e il calore dei
treni le avevano annerite. Su ciascun lato dei binari, l’acqua
scorreva profonda nei canali. Le tife erano alte. C.J. lo ave-
va sentito per primo, il fischio del treno in lontananza, alle
sue spalle. L’amico fece qualche altra falcata e poi scavalcò
i binari d’acciaio prima di chiedersi perché C.J. continuasse
a camminare, un sorriso leggero sul viso, che comunque era
simile a una cascata di pietre scivolate giù da una collina:
l’essenza della durezza. O forse C.J. camminava guardando
a terra. In ogni caso, ignorò il treno che ululava, sempre più
vicino. Ignorò l’amico, che trasalì al suono della sirena. Non
resterò, diceva C.J. in giro, non resterò a lungo in questo mondo.
Aspettò di sentire il treno fendere l’aria alle sue spalle, che
la sirena gli facesse pulsare i timpani, aspettò di essere certo
che il macchinista stesse sprofondando nel panico, poi chia-
mò all’appello il suo corpo snello e dorato perché facesse il
suo dovere, e così saltò via dai binari, fuori dalla traiettoria,
vivo, ancora per un giorno.

125
C.J., Hilton e io trascorremmo il 4 gennaio 2004 al parco
di DeLisle sulle tribune deformate. C.J. chiese a Hilton di
rollargli un blunt con un po’ d’erba che gli diede mia sorella:
i germogli erano d’un verde brillante, umidi e compatti. Le
treccine biondo-castane gli penzolavano sulla fronte e sorri-
se. Il mite sole invernale del Mississippi gli faceva luccicare
le ciglia bionde come fili d’oro. C.J. era dolce e calmo. Gli
chiesi se voleva venire al cinema con noi quella sera a vede-
re Tom Cruise in L’ultimo samurai.
«Certo» disse.
Mentre Hilton rollava il blunt, io guardavo le macchine
che passavano e cercavo di convincere C.J. ad accendere il
fuoco nel secchio di metallo arrugginito usato come bidone
dell’immondizia, per scacciare i moscerini.
«Dai, C.J., ammetti che non vedi l’ora di dare fuoco a
qualcosa».
«Mi sa che sei tu che muori dalla voglia di farlo, Pocahontas»
mi disse.
«No, io no. Io la natura la proteggo» risi.
«Dai, Mimi. Puoi farcela» disse C.J.
Hilton rise di me; le fossette gli si accentuarono, mentre
scrollava le ampie spalle. Io ero depressa e in preda ai po-
stumi di una sbronza. Il giorno successivo dovevo ripartire
per il Michigan e avevo paura del lungo viaggio di ritorno,
dell’inverno infinito. Perlustrai il terreno con lo sguardo e
individuai quanto poteva servirmi per appiccare il fuoco:
erba secca, incolta, rami di quercia staccati dal tronco, fo-
glie secche, ghiande, brandelli di fazzoletti di carta, buste
di patatine fritte e bottiglie di plastica vuote, rifiuti che in-
sudiciavano il parco. Tra un pino e l’altro vidi due ragazzi
in cerca di crack, nostri cugini più grandi, ex amici, andare
avanti e indietro sul brecciolino della strada principale, in
attesa degli spacciatori.

126
«Sono perso di questa roba, cazzo». C.J. rise e alzò il
blunt. «Davvero, giuro».
Io rifiutai con un gesto, quando Hilton me lo offrì. Fu-
marono per tre ore, finché il sole tramontò e, con la sera,
scese una leggera foschia. Talvolta, una nebbia bianca co-
priva tutta la costa del golfo per giorni, azzerando la visibi-
lità. Quando le nebbie invernali erano come questa, a noi
non restava che imprecare e armeggiare con i fanali, che
poco rivelavano del paesaggio del Mississippi: fanali simili a
esploratori solitari nel buio della campagna.
Non andammo al cinema quella sera. Io dovetti fare i
bagagli. Piegai i vestiti e masterizzai cd per le mie sorelle
e i miei cugini, caricai la macchina e rimasi in giardino ad
ascoltare la cacofonia, persino in inverno, degli insetti nel
bosco tutt’intorno. Era meraviglioso poter sentire i suoni
della casa pur non riuscendo, nella spessa coltre di nebbia,
a vederla. Mentre io mi davo da fare, Charine si sedette in
macchina, nel vialetto, con C.J. e fumò per circa un’ora.
Lui non voleva tornare a casa di nessuno in quel momento,
né da Duck, né da Rob, né da Pot, per dormire su un diva-
no. Voleva stare nella mia macchina con Charine, parlare
per tutta la notte, fino alla mattina. Era lei la sua casa. Ma
Charine gli disse: Odio il freddo. Rincasò verso mezzanotte e
lui se ne andò. S’incamminò verso la casa di Duck, scom-
parendo nella nebbia. Lo immagino in piedi sotto la grande
quercia, in attesa che i suoi cugini spuntino dalla foschia
e lo passino a prendere. Se non poteva stare con Charine,
avrebbe evitato del tutto di dormire e riempito la notte di al-
tre cose. Avevano in mente di fare un viaggio nell’entroterra
per portare a casa il figlio neonato del cugino di C.J.
Charine si era addormentata ma io ero ancora impegna-
ta a fare le valigie quando alle due del mattino il telefono
squillò. Era la madre di C.J. Perché chiama a casa? pensai.

127
«Pronto?».
«C.J. ha avuto un incidente...».
Pensai: No.
«... e non ce l’ha fatta. Dillo a Charine, ti prego».
Pensai: Non posso farlo.
«Ok» dissi.
La madre di C.J. singhiozzò e riattaccò. Fissai la parete del
salotto. Mi accasciai sul divano e cercai di respirare. L’aria che
mi si riversò nella gola mi sembrò nociva. Chiamai Hilton.
«Pronto?».
Gli riferii quel che la madre di C.J. aveva detto a me. Mi
asciugai il naso e lo buttai fuori tutto d’un fiato, in un mormorio.
«Non posso farle questo» piansi. «Non posso dirle una
cosa del genere. Non posso svegliarla e farle questo».
«Arrivo» disse lui.
Mezz’ora dopo aprii la porta a Hilton. Lui mi passò da-
vanti, attraversò il salotto, la cucina, lo studio ed entrò nella
stanza di Charine. Accese la luce e la svegliò. Glielo dis-
se. Lei uscì nella nebbia, e io mi misi le scarpe. Tutti e tre
andammo al parco dove lo avevo visto dodici ore prima.
Posteggiammo al buio, la gente si materializzò dalla nebbia
e dal bosco e si unì a noi, fino all’alba, chiamata a raccolta
da una terza tragedia, da un’altra morte, da un altro lutto,
da altro dolore. Si passavano i blunt come fossero fazzoletti.
Mia sorella fumò finché gli occhi non le si chiusero per le
lacrime.
C.J. era andato nell’entroterra con i cugini: dopo aver la-
sciato il bambino, erano stati travolti da un treno. Non c’era
alcun passaggio a livello all’incrocio con la ferrovia. C’era-
no lampeggianti e campane che avrebbero dovuto segnala-
re l’arrivo del treno, ma non funzionavano regolarmente,
e dato che era in campagna, in una zona a maggioranza
nera, a nessuno fregava niente di ripararli né di installare

128
una sbarra catarifrangente. Quella notte, anche se il si-
stema d’allarme avesse funzionato, l’incostante sentinella
meccanica di quel solitario incrocio ferroviario del Missis-
sippi non avrebbe potuto competere con l’accecante nebbia
invernale. C.J. era sul sedile del passeggero. Nostro cugi-
no sterzò e andò a sbattere sul treno con la fiancata de-
stra, che si accartocciò per l’impatto. C.J. rimase incastrato
nell’abitacolo. I cugini cercarono di tirarlo fuori ma lui era
schiacciato all’interno. La macchina s’incendiò e lui bruciò,
mentre gli altri erano lì accanto, impotenti, e chiedevano
aiuto gridando nella fredda notte bianca, le urla inghiottite
dalla nebbia del Mississippi.

Non posso chiedere a Charine dettagli sulla morte di C.J.


Ci sono cose a cui non voglio farla pensare, quindi non le
chiedo se fosse ancora vivo dopo l’impatto del treno contro
la macchina. Non le chiedo se lui avesse parlato con i cugini
mentre loro cercavano di tirarlo fuori dall’abitacolo. Non le
chiedo se fosse ancora cosciente quando l’incendio era di-
vampato. Non posso chiederle se è stato quello a ucciderlo,
il fuoco. Ma ho sentito qualche storia in giro, e dicono che
fosse vivo. Alcuni sostengono persino che lui avesse detto ai
cugini, che tentavano di liberarlo, di lasciarlo in macchina;
quando sento queste cose, penso che il suo dolore fosse tal-
mente acuto, le gambe così maciullate dal metallo, da fargli
capire quanto fosse inutile il loro sforzo. Alcuni raccontano
addirittura che la macchina s’incendiò mentre lui era anco-
ra vivo, e ciò che viene taciuto è che le grida di C.J. si uni-
rono a quelle dei cugini che invocavano aiuto, e che quindi,
accanto ai lampeggianti difettosi e alla ferrovia che tagliava
il bosco, urlavano tutti. Ma io non vado a riferire queste sto-
rie a Charine: non vorrei aggiungere un altro fardello al suo

129
lutto, anche perché già vacilla sotto il peso del senso di col-
pa. Dice spesso che se si fosse trattenuta un po’ di più nella
mia macchina, se solo lo avesse fatto, lui sarebbe rimasto a
casa con lei invece di partire con i cugini per l’entroterra.
Se fossi rimasta con lui in macchina, dice, lui sarebbe ancora vivo.
Il peso del senso di colpa grava pesantemente su di lei. È
implacabile.

Il giorno dopo la morte di C.J. andammo a casa di un


nostro amico in fondo alla strada, dove trovammo lui e al-
tri quattro ragazzi del quartiere seduti in una macchina da
corsa parcheggiata nel vialetto fangoso, una birra in mano.
Guardavano dritto di fronte a loro come se da un momento
all’altro potessero mettere in moto e andarsene a nord, sfon-
dando la casa, lasciando per sempre questo posto. Piange-
vano, il viso indurito. Charine salì in macchina, si ammassò
con loro e abbracciò uno degli amici. Io diedi le spalle al
brusio del motore e mi coprii la faccia. Vedevo tutto. Non
capivo niente.
La notte dopo la morte di C.J. ho portato mia sorella
in giro per DeLisle in macchina mentre lei fumava il resto
dell’erba che aveva dato a C.J. Svuotammo il serbatoio gui-
dando fino all’alba mentre lei rollava un blunt dopo l’altro,
e io mi chiedevo se non stessimo corteggiando la morte: e
se così non era, perché allora la morte continuava a seguir-
ci, insistentemente, inesorabilmente, attirandoci a sé, uno
a uno? Fumò tutta la canna e, dopo averla finita, ne fumò
altre. Mi disse che la calmavano come le sigarette. Fumò
ogni giorno, e per anni, dopo quella notte, scoppiava a pian-
gere di punto in bianco in macchina. A quel punto io alzavo
il volume della musica e la lasciavo piangere, ero solo capa-
ce di dire: Lo so, lo so.

130
Mi vanto di conoscere le parole, di saperle usare perché
lavorino per me. Ma anni dopo, su mia richiesta, mia sorella
riporta alla luce i necrologi di C.J., un opuscolo e un segna-
libro. Scoppia in lacrime, parla di rimorso e di perdita, di
un dolore costante come se fosse doppio, del fatto che sogna
C.J. e che in ogni sogno lei lo rincorre. In quei sogni lui è
agile e dorato, e fa capriole, vola, salta, e non si fa prendere.
Ho saputo di recente che il parco è destinato a essere usa-
to come terreno di sepoltura, in modo che il cimitero possa
espandersi con l’aumento delle morti; un giorno le nostre
tombe inghiottiranno il parco giochi. Il posto in cui vivia-
mo diventerà il luogo del nostro riposo eterno. Potevamo
fare qualcosa per rallentare il moltiplicarsi delle tombe? Per
far durare di più il nostro periodo di veglia? Il dolore che
portiamo dentro di noi, insieme a tutti gli altri fardelli della
nostra vita, a tutte le altre perdite, ci affonda, finché non
ci ritroveremo in una tomba rossa e sabbiosa. Alla fine, le
nostre vite coincidono con la nostra morte. C.J. lo comprese
d’istinto. Io non ho parole.

131
stiamo a guardare
1987-1991

Quando mio padre se ne andò, noi ci trasferimmo a


Orange Grove, un quartiere di Gulfport, Mississippi, a po-
che città di distanza da DeLisle. Anche se era a un tiro di
sputo, Gulfport diede a mia madre una certa sensazione di
libertà. A DeLisle si sentiva soffocare, conosceva tutti e tutti
conoscevano lei; peggio ancora, tutti erano testimoni dell’in-
fedeltà di mio padre. Pensava che le donne della comunità
si beassero della sua sfortuna, che fossero felici che la dis-
soluzione della sua famiglia diventasse materia prima per i
pettegolezzi, e la giudicassero male per aver avuto quattro
figli con un uomo così volubile. Gulfport le garantiva l’ano­
nimato: in particolar modo nelle numerose e nuove aree re-
sidenziali che si erano sviluppate tra le zone commerciali e
i supermercati a nord della città, i vicini erano solo scono-
sciuti di passaggio. Io avevo dieci anni, Joshua sette, Nerissa
quattro e Charine due, quando facemmo i bagagli, utensili
da cucina, vestiti, qualche libro e i giocattoli, e traslocammo
dalla casa della nostra famiglia allargata alla nuova casa in
cui avremmo vissuto con nostra madre, e senza nostro padre.
Gulfport non era la landa selvaggia in cui eravamo nati.
La periferia era oltre l’autostrada principale che attraver-
sava la città da nord a sud. Su un grande cartello di legno
all’angolo del quartiere c’era scritto bel-air. A ovest, e più
vicino all’autostrada, c’era una delle due zone sottosvilup-
pate di quella porzione di città. Era boscosa e delimitata
da campi da baseball, tagliata da un ruscello, attraversata

133
da sentieri accidentati dove le famiglie, a volte, andavano a
passeggiare il fine settimana. Mia madre non ci permise mai
di avventurarci da soli in quel parco temendo che un paz-
zo potesse rapirci. L’altra zona sottosviluppata era proprio
dietro casa nostra, verso il confine settentrionale dell’area
residenziale. Era un rettangolo irregolare, forse poco più di
un paio di chilometri quadrati, e delimitato su ogni lato da
piccole case simili a ranch con due o tre camere da letto
costruite negli anni Settanta, tutte variazioni degli stessi tre
prototipi.
Casa nostra era di mattoni color cioccolato. C’era un al-
bero anemico in cortile, e un albero alto e deciduo sul retro
che fremeva di viola e grigio nella luce del cielo notturno
della città. Il giardino posteriore era piccolo e circondato da
una recinzione metallica, come la maggior parte delle altre
case del quartiere. Le case erano talmente vicine che, nei
giorni torridi, ci mettevamo all’ombra sedendoci sui fazzo-
letti d’erba tra l’una e l’altra.
Trasferirsi nella nuova casa, quel giorno, sembrò surrea­le e
strano. Io avrei cambiato scuola, e la comunità della famiglia
allargata che conoscevo a DeLisle, qui a Gulfport, sembrava
lontanissima. Per la prima volta saremmo stati un nucleo fa-
miliare senza padre. Il mondo era nuovo e pericoloso; io ero
un animale che cercava riparo lontano dalla sua tana.

Entrambi i miei genitori erano cresciuti senza padre,


e nessuno di loro voleva far rivivere la stessa esperienza
ai figli. Ma la famiglia bigenitoriale non gli spettò, né da
bambini né da adulti. La tradizione degli uomini che ab-
bandonano moglie e figli qui sembra sistemica, alimentata
dalla povertà. A volte il colore della pelle sembra un fattore
accidentale, e invece non lo è, specialmente se si pensa allo

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smembramento delle famiglie subìto dai primi afroameri-
cani sotto il giogo della schiavitù. Come per molti giovani
neri della mia comunità, in ogni generazione, per mio padre
fu difficile assumersi il ruolo di padre e marito. Vedeva un
mondo di possibilità fuori dai confini della famiglia e non
riusciva a resistere a questo sogno. Al contrario, come molte
giovani nere della sua generazione, mia madre capì di do-
ver dimenticare il significato di possibilità, il tenero calore
del sogno, il richiamo dell’orizzonte. Mia madre comprese
che il suo orizzonte erano le pareti di casa, le schiene os-
sute dei figli, le loro bocche aperte. Come le donne della
mia famiglia che l’avevano preceduta, mia madre sapeva
che toccava a lei portare il peso della casa. Non poteva an-
darsene. Quindi fece quel che la madre aveva fatto prima di
lei, quel che avevano fatto le sorelle, quel che avevano fatto
le zie: lavorò e crebbe i figli. Non lo sapeva, allora, ma per
noi sarebbe stata l’unica fonte di sostentamento fino all’età
adulta.
Mia madre non aveva molto da scegliere riguardo al lavo-
ro: aveva il diploma di scuola superiore, ma doveva trovare
un’occupazione che le consentisse di stare a casa con i figli
il pomeriggio, per controllare che facessimo i compiti, il ba-
gno, che andassimo a letto in orario e che la mattina dopo
uscissimo per andare a scuola. Se avesse potuto fare i turni
in una di quelle fabbriche in via di estinzione, avrebbe po-
tuto svolgere un lavoro meglio retribuito, ma non ci riuscì.
La sua famiglia avrebbe potuto darle una mano, ma lei sen-
tiva di doversi assumere tutta la responsabilità della scelta
sua e di mio padre di avere quattro figli consapevolmente;
non avrebbe gettato il fardello del nostro mantenimento sui
parenti e non voleva approfittare dei servizi per l’infanzia
anche se ne aveva diritto. Era lei nostra madre. Quindi tro-
vò dei lavori che le permettevano di tirarci su. Poco prima

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che nostro padre se ne andasse, lavorava nella lavanderia di
un albergo a Diamondhead. I cugini l’accompagnavano in
macchina, perché lei non ne aveva una sua: mio padre si era
portato via l’auto e la moto. Prima di trasferirci a Gulfport,
con un po’ di soldi messi da parte comprò una Caprice blu
degli anni Settanta, talmente vecchia che la vernice era
opaca e le portiere si chiudevano solo con la forza di tutte
e due le mani. In questo modo poteva recarsi dalla ricca
famiglia bianca presso la quale faceva la cameriera, in una
casa che risaliva a prima della Guerra civile, sulla spiaggia
di Pass Christian.
Appena fui più grande, mia madre mi raccontò come
aveva cresciuto le sorelle e i fratelli. Mi diceva che anche suo
padre li aveva abbandonati, e che lei e mio padre si erano
promessi, quando ero venuta al mondo, che i loro bambini
avrebbero avuto entrambi i genitori. Mia nonna lavorava
sodo per mantenere i sette figli, e così toccava a mia madre,
la primogenita, alzarsi presto la mattina, svegliare i fratelli
prima della scuola e accertarsi che si vestissero. Acconciava
con cura i capelli delle sorelle in piccole trecce, e più avanti
prese a punirli come una vera madre.
Quando i miei stavano insieme, pensavo che fossero en-
trambi severi. Mio padre puniva mio fratello, mentre mia
madre puniva tutti noi. Quando ci trasferimmo a Gulfport,
mi resi conto che l’unica veramente inflessibile era sempre
stata mia madre. Prima di andarsene, nostro padre ci fece
mettere in posa e ci scattò foto divertenti: noi imbraccia-
vamo le sue armi da kung fu e intorno alla testa avevamo
una bandana su cui campeggiavano criptici caratteri kanji.
Era lui a venire a prenderci a scuola in moto, parcheggian-
dola davanti all’entrata, e lasciando a bocca aperta i nostri
compagni quando salivamo dietro per tornare a casa. Mia
madre preparava da mangiare, puliva la casa, ci affidava

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piccole faccende da sbrigare, come per esempio svuotare
la lettiera del gatto, rifare il letto, pulire le stanze e passare
l’aspi­rapolvere. Mio padre portava a casa i soldi, mentre
mia madre faceva lavori sottopagati e teneva in piedi la casa.
Quando ci trasferimmo a Gulfport quell’estate, mia ma-
dre mi disse che avevo una nuova responsabilità: ero la pri-
mogenita di una primogenita, e dovevo fare quel che aveva
fatto lei, e aiutarla a mandare avanti la casa. Prese un roc-
chetto di corda di plastica verde, scavò una buca dalla parte
opposta del giardino rispetto all’albero e piantò una croce
di legno nel terreno. Srotolò la corda, la legò stretta a un
braccio della croce, e poi la allungò in tutto il giardino, an-
nodandola a un ramo basso dell’albero solitario. Dopodiché
annodò un altro pezzo di corda a un secondo ramo basso,
e lo tirò fino al braccio opposto della croce. Aveva messo su
due fili per stendere la biancheria. Scaricò una cesta di pan-
ni puliti dalla lavatrice, attraversò la cucina e disse: «Mimi,
vieni qui».
«Sì, signora».
Joshua, Nerissa e Charine stavano guardando la tv.
Nerissa ci seguì in giardino, mentre Charine era seduta tra
le gambe di Joshua, sul pavimento, davanti al divano.
«Stendi questi panni» disse. Tirò su dalla cesta una ma-
glietta bagnata, stropicciata e pesante, e poi una molletta da
bucato da un sacchetto che aveva attaccato al filo con cui
fissò l’orlo della maglietta attorno al filo.
«È così che si stendono le magliette. Sottosopra».
Annuii.
«I pantaloni, invece, per la vita».
Mi diede una maglietta.
«Sì, signora» dissi.
Sapevo già come si faceva: l’avevo osservata per anni a
casa di mia nonna, dove lei e le sorelle lavavano panni e

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lenzuola per quattordici persone e le stendevano su fili che
attraversavano il giardino in tutta la sua lunghezza. Iniziai a
stendere dal lato opposto: pantaloni sgualciti, asciugamani
come grandi triangoli. Stendere le magliette mi infastidiva.
Volevo appenderle per le spalle perché le nostre magliette
erano sempre scampanate e penzolavano sul nostro corpo
magro come gonne a trapezio, ma non lo feci.
Era così che le cose andavano fatte, a casa di mia madre.

L’abbandono di mio padre mi toccò nel profondo. A vol-


te mi chiudevo in bagno, l’unica stanza della nostra nuova
casa dove potevo avere un po’ di privacy, e mi guardavo
allo specchio. Non riuscivo a vedere papà nei lineamen-
ti del mio viso. Lui spiccava notevolmente negli occhi dei
miei fratelli, grandi, scuri e con le ciglia folte; mentre i miei
erano piccoli, di un marrone troppo chiaro, orlati da ciglia
troppo rade. Anche il resto del mio corpo era una delusio-
ne: le cicatrici che mi portavo dietro dalla nascita erano
chiazzate, infiammate e rosse, ero pallida, poco tonica. I
capelli erano il contrario di quelli di mio padre: mentre lui
li aveva serici e neri, i miei erano di un marrone sporco e
inclini a opacizzarsi. Era questa la mia delusione più acu-
ta. Pareva che non fossi riuscita a tenermi niente di mio
padre. Sembrava che, abbandonandomi, avesse ripudiato
anche la bambina che ero e la giovane donna che stavo di-
ventando. Guardandomi vedevo l’incarnazione ambulante
di tutto ciò che il mondo attorno a me pareva disprezzare:
una donna nera brutta e povera. Sottovalutata dalla fami-
glia, un eterno cavallo da tiro. Sottovalutata dalla società
per il lavoro e per l’aspetto fisico. Fu un seme che mise
radici dentro di me e diede i suoi frutti. Mi odiavo. E quel-
lo stesso seme sbocciò nella mia andatura curva – la testa

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incassata nelle spalle, lo sguardo rivolto a terra –, nel mio
rifiuto di vestirmi bene, nel modo in cui evitavo il mondo
reale e mi rifugiavo nella lettura, e nel tentativo di occu-
pare il minor spazio possibile e di passare inosservata, del
resto perché avrei dovuto comportarmi diversamente? Ero
una cosa da abbandonare.
Ero troppo giovane per capirlo, ma gli altri vedevano
sbocciare il disgusto che provavo per me stessa e reagivano
di conseguenza. Alla fine dell’estate, mia madre mi iscrisse
alla sconosciuta scuola elementare locale. Frequentavo la
quinta. Le prime due settimane, prima che venissero calco-
lati i punteggi del mio test attitudinale, mi ritrovai in clas-
se con un ragazzone che mi prese di mira, mi insultava e
maltrattava. Ogni volta che mi vedeva da sola in un angolo
della biblioteca o in fondo all’aula in cui si faceva l’appello,
mi afferrava per le spalle, mi bloccava a terra, o al banco,
o al muro, e cercava di palparmi il culo. Io mi dibattevo, lo
strattonavo e facevo del mio meglio per evitarlo, ma non
serviva a niente. Lottavo come il coniglio che ero: timida
finché non finivo in trappola, e poi fuori di me, scalciando
e dimenandomi. Dopo tre settimane, mi spostarono in una
classe più avanzata. Ma il mio innato senso di inadegua-
tezza non mutò. Per circa un mese fui amica delle altre tre
ragazze nere della classe. Poi loro cominciarono a bullizzar-
mi, e i miei voti caddero a picco. Ero infelice, eternamente
impaurita e frastornata dall’adrenalina, ma dentro di me
non me ne stupivo. Credevo di meritarlo perché gli altri ve-
devano solo quello che vedevo io, cioè una misera nullità, e
si comportavano di conseguenza. A casa ero depressa, pur
non avendo idea di cosa fosse la depressione, e, durante le
vacanze invernali, la preoccupazione di mia madre aumen-
tò al punto da togliermi da lì e iscrivermi alla scuola media
di Pass Christian.

139
Ero eccitata e ansiosa al tempo stesso. Conoscevo qual-
che ragazzo. La maggior parte degli studenti che uscivano
dalla scuola elementare di DeLisle si iscrivevano alle medie
di Pass Christian. Ma sarebbe stata la mia seconda scuola in
sei mesi, e l’altra esperienza era stata terribile. E se il bulli-
smo fosse continuato? Sapevo, senza saperlo, che gli altri mi
avrebbero considerato un bersaglio, e così fu. Alle medie di
Pass Christian, venni presa di mira da tre diversi gruppi di
ragazze. Passavo tutto il tempo libero nella biblioteca del-
la scuola, talmente sfornita che sembrava avere meno libri
di quella delle elementari. Strinsi amicizia solo con due ra-
gazze, una nera e una vietnamita, e insieme mangiavamo
biscotti secchi rubati alla caffetteria, parlavamo di ragazzi e
di libri. Provavo un profondo senso di affinità con la ragazza
vietnamita; era una reietta come me. Lei mi insegnava le
canzoni pop del suo paese e io cercavo di imparare il vietna-
mita. Ma nello spogliatoio, in palestra, alla maggior parte
delle lezioni con tutti gli altri gruppi di bulli ero sola, e i miei
voti continuarono a scivolare sempre più in basso.
Mia madre non sapeva che fare. Aveva un’idea confusa,
poco chiara del mio odio nei confronti di me stessa. Inve-
ce di vederlo diretto contro di me, lo interpretò come un
cipiglio rabbioso, un odio preadolescenziale indirizzato a
lei per aver lasciato mio padre e distrutto la famiglia. Il
che la portò a tenermi ancora più vicina a sé, a pretendere
ancora di più con le pulizie e la cura della casa. Pensava
di poter eliminare quel cupo livore punendomi. Quando
compii dodici anni, iniziai a badare da sola ai miei fratelli
mentre lei era al lavoro. Mia madre era ancora sicura che
fossi intelligente anche se i miei voti stavano precipitando,
perciò quando il suo datore di lavoro a Gulfport le chiese
come andassi a scuola, lei rispose sinceramente. Era un av-
vocato bianco che aveva studiato a Harvard, specializzato

140
in diritto aziendale, ed esercitava a New Orleans; fin dai
primi tempi in cui lei lavorava lì, aveva sentito parlare di
me, di quanto fossi brillante, di quanto eccellessi alla scuola
pubblica e di come fossi stata inserita nel programma per
ragazzi dotati. Mia madre gli disse che avevo brutti voti,
che venivo bullizzata. Forse anche lui era stato bullizzato
da bambino perché, pur avendo la stazza di un difensore di
football, aveva una voce dolce ed era gentile, caratteristica
che agli occhi altrui passava facilmente come debolezza.
Qualsiasi fossero le sue ragioni, e malgrado fosse un gesto
molto insolito, si offrì di pagarmi la retta della scuola priva-
ta episcopale frequentata dai suoi figli. Mia madre, sempre
riluttante ad accettare aiuti dopo essere stata tradita da mio
padre (quando se ne andò, con le macchine e i conti, tutto
intestato a suo nome, lei rimase senza soldi, con quattro
figli da nutrire e una storia finanziaria inesistente; ancora
oggi detesta accettare aiuti, per timore che, una volta con-
cessi, le vengano tolti), ci pensò su per un po’ ma poi accet-
tò l’offerta. Quando mi chiese se volevo cambiare scuola,
io acconsentii con gioia. Credo che mia madre avrebbe co-
munque continuato a lavorare in quella casa anche se lui
non si fosse offerto di pagarmi gli studi, tuttavia è evidente
che, accettando l’offerta, io la legai a filo doppio a quel
posto per almeno altri sei anni – il tempo di diplomarmi al
liceo – indipendentemente dal fatto che volesse restare lì o
andarsene altrove. Ma non vedeva alternative; questo era
il lavoro che le permetteva di mantenere i figli e di avere
tempo a sufficienza per accudirli. Non sarebbe stata una
madre assente.
Non ero l’unica ad avere problemi a scuola. Joshua faceva
il minimo indispensabile per arrivare in terza elementare.
Anche Nerissa aveva problemi alla scuola materna: la sua
maestra l’aveva mandata dallo psicologo della scuola, che

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aveva chiamato mia madre per un colloquio, comunicandole
che, secondo lui, Nerissa aveva un disturbo dell’attenzio-
ne e doveva essere curata. Mia madre rifiutò. Charine era
all’oscuro e navigava leggiadra sul mare dell’asi­lo nido. Mia
madre faceva del suo meglio per aiutarci a studiare, a casa.
I compiti erano sempre la priorità. Ma tutti noi sentivamo
acutamente la mancanza di papà, e questa sensazione di
smarrimento e squilibrio si ripercuoteva sul rendimento sco-
lastico. Nonostante tutti i suoi sacrifici, mia madre non era
a scuola con noi: in alcune circostanze non poteva aiutarci.
Ogni giorno, dopo la scuola, ci sedevamo al tavolo con i
nostri libri, tutti nel disperato tentativo di fare di meglio e
tutti consapevoli, con lo sbigottimento tipico dei bambini,
di esserne incapaci.

Da quando ci eravamo trasferiti a Gulfport, mio padre


era venuto a trovarci una volta o due. Mia madre gli rivol-
geva brevemente la parola e poi si confinava in cucina o in
camera sua, con la porta chiusa. Spesso ci ascoltava mentre
parlavamo con lui, mentre gli ballavamo attorno, storditi
dalla nostalgia. Doveva essere tangibile per lei il cambia-
mento che la presenza di papà produceva in noi: sapeva
essere emotivamente coinvolgente e premuroso, mentre mia
madre, l’eterna castigatrice, sentiva di non riuscirci. Forse
sui nostri visi adoranti vedeva qualcosa di ciò che aveva
provato per suo padre, da bambina. Forse è stato questo il
motivo per cui, a nostra insaputa, iniziò a parlare con mio
padre di riconciliazione.
La terza volta, o giù di lì, in cui venne a trovarci, papà era
seduto in salotto, un vassoio sulle gambe. Mia madre aveva
cucinato per lui, gli aveva portato da mangiare; in genere lo
ignorava. Dopo aver mangiato, ci mettemmo tutti in salotto

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a guardare la tv, finché mia madre ci disse di andare a fare
il bagno. Obbedimmo, dopodiché lei ci spedì in camera da
letto. Nerissa, Charine e io eravamo sdraiate al buio, dolce-
mente cullate dal materasso ad acqua. Loro si addormen-
tarono, ma io rimasi sveglia, in attesa che la porta si aprisse
e poi si richiudesse, e che mio padre trovasse un passaggio
o che mia madre lo riaccompagnasse ovunque vivesse. Da
quando si erano lasciati, mio padre era passato da un lavoro
all’altro, e in quel periodo era disoccupato. Aveva distrutto
la moto e la macchina era rotta. Ma il rumore della porta
non arrivò. Mi alzai dal letto in silenzio, sperando di non
svegliare le mie sorelle, e gattonai fino alla porta. La aprii.
Tutte le luci in casa erano spente tranne quella in camera
di mia madre, che però aveva la porta chiusa. Strisciai in
corridoio fino alla camera di mio fratello.
«Josh?».
«Eh?».
«Sei sveglio?».
Domanda stupida. Entrai carponi nella stanza, mi fermai
accanto al letto.
«Papà non se n’è ancora andato».
«Lo so» replicò.
Non sapevo cos’altro dire. Restammo fermi al buio per un
po’, tendendo l’orecchio verso le altre stanze, senza sentire
niente, parlando solo una volta ogni tanto: Hai sentito? Che ne
pensi? Ci chiedemmo in silenzio se nostro padre fosse torna-
to. Io sedevo sul pavimento e appoggiai la testa sul letto di
Joshua. Il suo respiro iniziò a farsi più profondo, finché capii
che si era addormentato. Quando si mise a russare, strisciai
di nuovo in camera mia, avevo paura di camminare, pau-
ra che mia madre scoprisse che non ero a letto. Mi infilai
sotto le coperte con le mie sorelle, spingendo Charine ac-
canto a Nerissa, ma passò molto tempo prima che riuscissi

143
ad addormentarmi, il cuore mi batteva violentemente nel
petto, pieno di speranza e di timore.
Fu così che mio padre tornò a casa.

Tornò con i vestiti e le armi da kung fu e disse a mia ma-


dre che il suo sogno era aprire una scuola di kung fu. Forse
il fatto che mio padre avesse dato voce ai suoi sogni, le fece
capire con quanta forza desiderasse realizzarli. Lei accon-
sentì: «Puoi farlo» disse. Come primi allievi avrebbe avuto
noi figli, ne avrebbe reclutati altri, avrebbe trovato un posto.
«Ok» disse mia madre. Ciò che non disse fu: Io continuerò
a lavorare, mantenendo tutti noi, mentre tu cerchi di realizzare i tuoi
sogni. Il suo sacrificio passò inosservato. «Un giorno» disse
mio padre «sarà questa scuola a mantenere la famiglia».
Penso che una parte di mia madre volesse credere che fosse
vero, quindi accettò.
Per prima cosa, mio padre si mise d’accordo per dare le-
zioni in un doposcuola a Biloxi e riuscì anche a organizzar-
ne altre due, una a Pass Christian in una scuola di ballo e
una a Gulfport. Reclutava allievi. Al doposcuola di Biloxi
non ce n’erano mai più di due, quindi cancellò quelle lezioni
e si concentrò sulle altre, più frequentate, circa dieci allievi
a Pass Christian e quindici a Gulfport. Ci portava con lui,
quattro su cinque sere alla settimana, per lezioni che dura-
vano tre ore ciascuna. Eravamo bravi allievi; ci aveva già in-
segnato le forme e l’allenamento al sacco quando vivevamo
a casa di mia nonna a DeLisle. Imparammo la forma degli
Otto Gomiti nel cortile, accidentato e sabbioso. Alle lezioni
di Gulfport e Pass Christian, mio padre ci fece fare una serie
infinita di addominali, di flessioni sulle nocche, di forme e un
numero incalcolabile di allenamenti al sacco. Anche se sem-
brava che il suo lavoro fosse partito alla grande, purtroppo

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non c’erano ancora abbastanza iscrizioni per coprire le spe-
se. Pagato l’affitto dei locali, avanzavano a malapena i soldi
per la benzina. Il che fu evidente una sera, mentre stavamo
tornando a Gulfport da Pass Christian, tutti noi più mio cu-
gino Aldon. Vidi che la macchina, a poco a poco, rallentava.
«Siamo a secco» disse mio padre. Pensai che stesse scher-
zando. Scoppiai a ridere.
«No, sul serio» disse.
«È finita la benzina?» chiese Josh. Aldon si raddrizzò e
si sporse verso il sedile anteriore. La macchina si fermò del
tutto. La strada era buia.
«Dobbiamo spingere» disse mio padre. «Tutti fuori, tran-
ne Nerissa e Charine». Il che significava me, Josh e Aldon.
Io avevo dodici anni e loro nove. Eravamo indolenziti dagli
allenamenti, ancora in divisa.
«Fuori» disse mio padre.
Scendemmo.
«Dai che ci divertiamo» disse, i denti bianchi nel buio.
C’erano dei lampioni ogni cinquecento metri, ma su questa
strada di campagna il traffico era inesistente, e mio padre
non voleva lasciarci da soli con la macchina. «C’è una sta-
zione di servizio lassù, all’angolo. Dobbiamo arrivare al tele-
fono». Annuimmo. «Dunque, io girerò il volante e spingerò
da davanti, mentre voi tre spingerete da dietro. Afferrate il
paraurti... ecco, così». Mio padre andò davanti, si infilò nel
finestrino del conducente e cominciò a darci dentro, gru-
gnendo per lo sforzo.
«Adesso spingete!» disse.
Noi ci appoggiammo di peso alla macchina. Oscillò sen-
za spostarsi.
«Dai. Dovete spingere più forte!».
Piantammo le punte delle scarpe da tennis nell’asfalto
pieno di buche e spingemmo con le gambe, la schiena, le

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braccia. Grugnivamo come nostro padre, sotto lo sforzo, e
la macchina avanzò così lentamente che stentavo a credere
che si stesse muovendo.
«Continuate!» disse papà. «È vicinissima».
Non era vicinissima. Era a quasi un chilometro di distan-
za, ma io non lo sapevo. Ogni volta che sentivo di non riu-
scire a spingere oltre, che le braccia mi bruciavano al punto
di incenerirsi e che le gambe stavano per cedere, volevo
chiedere a mio padre: Siamo quasi arrivati? Quanto manca? Ma
non lo facevo. Non ne avevo la forza, e lui non mi avreb-
be sentito comunque. Al contrario, fissavo il bagliore fioco
della macchina nel buio e ascoltavo Joshua e Aldon buttare
fuori l’aria in sbuffi rapidi e brevi. Immaginai che dietro di
noi arrivasse una macchina, che ci rallentasse di fianco, e
che tirasse giù il finestrino, offrendoci un passaggio fino alla
stazione di servizio, o un po’ di benzina da una tanica nel
bagagliaio, qualsiasi cosa purché finisse quella tortura che
coinvolgeva ogni minima fibra del mio corpo, ma la mac-
china non passò. Non arrivò nessuno sconosciuto gentile.
L’aria era calda come acqua tiepida e altrettanto opprimen-
te, e gli insetti notturni e il vento erano le sole crea­ture che
cantavano e si muovevano nel bosco e nei giardini intorno a
noi. L’ultimo tratto di strada prima della stazione di servizio
era in salita, una salita ripida. Dai suoni che emise quando
arrivammo in cima e imboccammo il viale della stazione
di servizio chiusa, sembrò che dentro mio padre si fosse
strappato qualcosa; mentre io, tremando per lo sforzo, mi
sentivo molle: in una parola, inutile. La macchina si fermò
nel parcheggio dall’asfalto talmente vecchio da essere ormai
ridotto a brecciolino. Mio padre prese una moneta dalla
borsa da palestra e chiamò mia madre dal telefono pubbli-
co sul marciapiede di fronte al minimarket. Joshua, Aldon
e io salimmo in macchina, così stanchi da non riuscire a

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parlare. Nerissa e Charine dormivano sul sedile anteriore.
Mio padre ci raggiunse. Anche lui rimase in silenzio finché
mia madre arrivò con una tanica di benzina.
«Appena saremo a casa, dovrete farvi tutti un bel bagno
e mettervi a letto» disse, dando a mio padre la tanica. Era
tardi. Aveva la bocca tirata. Risalì nella sua macchina, che
aveva lasciato accesa, e ci aspettò.

Immagino che mia madre covasse un certo risentimento


al pensiero di dover sgobbare come un mulo, pulire cessi e
lavare all’incirca quattrocento metri quadrati di pavimenti,
per consentire a mio padre di inseguire il suo sogno. Imma-
gino che la realtà, in cui lui provava a realizzare il suo sogno,
lo avesse deluso; che, nella sua mente, lui si vedesse attor-
niato da allievi bramosi e malleabili come il saggio mae­stro
di arti marziali dei film sul kung fu che a volte guardavamo
tutti insieme la domenica. Per quei maestri, i soldi non erano
mai una preoccupazione, loro non avevano figli. Immagino
che entrambi i miei genitori iniziassero a non sopportare più
il loro ruolo in famiglia. Lo stratagemma di mia madre per
resistere fu diventare ancor più silenziosa, ancor più severa
e distante: uno degli stratagemmi di mio padre fu guardare
film, via di fuga che poteva condividere con noi.

Mio padre ci portava nel bosco dietro casa, attraverso


una serie di cortili e oltre il quartiere fino a un’area com-
merciale su Dedeaux Road, a Gulfport. Al videonoleggio,
mio padre sceglieva tre film di suo gusto e poi permetteva a
me e a Joshua di sceglierne un altro.
Joshua e io vivevamo nella sezione horror. Restavamo im-
mobili, l’uno di fianco all’altra, a esaminare le locandine

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stampate sulle custodie, che erano sempre disegnate male e
poco spaventose. Io leggevo le sinossi con seria avidità, nello
stesso modo in cui leggevo i libri. Dopo aver noleggiato tutti
i film horror più famosi, iniziammo ad affittare quelli meno
noti; film con leprechaun, mostri, blob e strani animali che
dimoravano nelle fogne. Mia madre comprò una macchi-
na per i popcorn, e la maggior parte dei fine settimana ci
ritrovavamo seduti sulla moquette con una grossa ciotola di
popcorn in mezzo. Era il modo più economico per i nostri
genitori di far divertire quattro figli. Noi ne andavamo paz-
zi. Per un’ora e mezza, il sogno di una famiglia bigenitoria-
le, che avevamo desiderato con tutti noi stessi quando papà
non c’era, si realizzò nella perfezione di quei brevi periodi.
Ignari della frustrazione di mio padre e mia madre, noi ave-
vamo la faccia sporca di burro e ridevamo, felici.

Una sera, nell’inverno del 1990, mia madre ricevette una


telefonata. Era una sua conoscente di DeLisle, che lavorava
al dipartimento di polizia di Gulfport.
«Sai dov’è la tua macchina?».
Quando la donna le diede l’indirizzo, mia madre capì
dove si trovava mio padre. Era con la sua giovane innamo-
rata. Aveva parcheggiato l’auto dietro la casa della ragazza.
Immagino che avesse detto a mia madre che non la vedeva
più, che si sarebbe impegnato nel loro rapporto e a tirare
su la famiglia insieme mentre lei lavorava e lui cercava di
mettere in piedi la scuola di arti marziali. Lei non lo avreb-
be riaccolto in casa se lui non le avesse detto certe cose.
Posso immaginare il suo terrore sentendo la voce di quella
donna al telefono, come le è affluito al petto trasformandosi
in dolore prima di sprofondare nello stomaco. Sarà rimasta
immobile per un attimo, dopo aver riagganciato, a fissare il

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pavimento, a guardare una parete, ad ascoltare noi in sotto-
fondo che litigavamo, o giocavamo oppure guardavamo la
tv, in mezzo al perfetto, orribile silenzio della sua mente. In
quell’istante mia madre avrà tentato di diventare d’acciaio,
ma quell’acciaio si sarebbe rivelato esile, una guaina sottile
come alluminio sopra il suo amore. E al di là di tutto que-
sto, ci sarà stata la fatica. Le giunture le avranno fatto male,
una costante, debole scarica di dolore che già si irradiava
dalle nocche dure e che, cinque anni dopo, sarebbe stata
diagnosticata come artrite. Era questo che significava fare le
pulizie. Era questo che significava lavorare. Era questo che
significava dimenticare tutto ciò che aveva sognato la notte
prima e alzarsi ogni mattina perché c’erano cose da fare e
nessuno poteva farle al posto suo.
Mi disse di tenere d’occhio i miei fratelli e uscì per andare
a riprendersi la macchina. Ne aveva comprata un’altra, una
piccola Toyota Corolla blu, la leva del cambio così nuova da
emanare un riflesso azzurro intenso. Arrivò a casa della ra-
gazza, la ignorò – era seduta sulle gambe di mio padre – e si
rivolse a lui dicendogli di salire sulla Caprice e di riportarla
a casa. Fatto questo poteva anche andarsene affanculo.
Mio padre ha sempre detto chiaramente quali fossero i
suoi sogni, quindi, anche da bambina, io ne ero perfetta-
mente al corrente. Sapevo da anni che voleva aprire una
scuola tutta sua. Aveva altri sogni che capivo con la men-
te, ma che ancora adesso che sono cresciuta non riesco a
esprimere a parole. L’incauto acquisto della motocicletta;
i completi di pelle, borchiati e con le frange, che indos-
sava anche con trenta gradi; il walkman con le canzoni
di Prince che ascoltava mentre andava in moto: nel pro-
fondo di mio padre c’era qualcosa di troppo grande per
la vita che viveva. Era un eterno innamorato delle pro-
messe racchiuse dall’orizzonte: le ragazze con cui tradiva

149
mia madre, di cui si innamorava, erano tutti telescopi fisici
verso un’altra realtà.
Mia madre aveva sepolto i propri sogni durante quel lun-
go viaggio dalla California al Mississippi. Li aveva nascosti
accanto a mio fratello, nel suo ventre, col terrore e la convin-
zione che fossero futili. Aveva cercato di sfuggire al ruolo per
cui era nata, quello di donna che sfacchinava dalla mattina
alla sera, di figlia di un padre assente, della scarsa istruzione
e della mancanza di opportunità. Aveva cercato di sfuggi-
re alla storia del suo retaggio, esattamente come mio padre.
Raggiungere mio padre in California era stata la sua grande
scommessa per la libertà. Quando tornò, pensò di aver fal-
lito. Era tornata alla povertà della campagna, al sacrificio
costante che l’essere povera, nera e donna del Sud le impo-
neva. Ma la suggestione di quel sogno continuò a vivere in
lei nell’idea che aveva di mio padre. Anche per questo lo ha
amato tanto a lungo e con tanta tenacia, e anche per questo
soffrì così tanto ad affrontarlo sulla porta, con le giacche di
pelle, i pantaloni neri della tuta e le magliette nere con le
frange ficcate nei sacchi della spazzatura, per dirgli: Vattene.
E, in un istante, mio padre se ne andò.

Con la partenza di mio padre, fui io a caricarmi di ogni re-


sponsabilità. Forse, se fossimo stati ancora a DeLisle, mante-
nere la famiglia sarebbe stato più semplice, ma a Gulfport mia
madre non riusciva a sostenere da sola questo fardello. Io stavo
imparando. Mia madre mi diede le chiavi di casa. Era solo una
delle voci della mia lista di impegni sempre più consistente. Ol-
tre a stendere i panni, ritirarli, piegarli, riporli, passare l’aspira-
polvere, spolverare, pulire i bagni, badare a mio fratello e alle
mie sorelle durante il giorno e d’estate, mentre mia madre era al
lavoro, la chiave significava che, nel corso dell’anno scolastico,

150
sarebbe toccato a me far entrare tutti in casa da scuola prima
che mia madre tornasse. Ma in quanto ragazzina, ero comun-
que distratta, smemorata. D’estate spesso lasciavo la chiave in-
filata all’interno, poi giravo la maniglia e chiudevo tutti fuori.
Senza nostro padre, quando mamma era al lavoro, in casa non
ci apriva nessuno. Durante l’anno scolastico, non mi accorgevo
di aver lasciato la chiave a scuola finché non mi ritrovavo di
fronte alla porta chiusa con mio fratello e le mie sorelle.
Mi tastai le tasche dei pantaloncini, Josh attaccato al go-
mito, Charine in braccio.
«Mi sono dimenticata la chiave».
«Cosa?» disse Joshua.
Frugai attorno alla gamba di Charine, cercando di farla
scendere e di metterla in piedi, ma lei non voleva.
«Sono una stupida!» dissi.
Guardai Josh. Era più basso di me solo di qualche centi-
metro, anche se aveva solo nove anni. Alzò gli occhi al cielo.
«Devo fare la pipì» disse Nerissa.
«Anch’io. Anch’io devo fare la pipì» disse Charine.
«Dovremo andare nel bosco».
«Non voglio andare nel bosco» disse Nerissa.
«Nemmeno io» disse Charine.
Joshua ci seguì mentre prendevo per mano Nerissa. Ag-
girai il cortile, mi infilai nel bosco che avevamo attraversato
con nostro padre per andare a noleggiare i film; non ave-
vamo il permesso di arrivare fino a Dedeaux Road senza
di lui. Ci addentrammo per circa cinque metri e, accanto
a un sentiero sulla destra, vedemmo un folto ammasso di
cespugli. Poco oltre c’era un materasso a due piazze di cui
qualcuno si era disfatto, forse gli inquilini che ci avevano
preceduto. Qui, pensai, dovrebbe andar bene.
«Dai» dissi. Li guidai dietro il paravento di cespugli.
Charine scoppiò a piangere. Era convinta che se si fosse

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tirata giù le mutandine qualcosa l’avrebbe morsa. Un ser-
pente, disse. O le formiche.
«Non ci sono serpenti» dissi, anche se era estate e faceva
caldo, e c’era la possibilità che il sottobosco pullulasse di
rettili in cerca di frescura nelle ore più calde del giorno.
Lei resistette.
«Vuoi farti la pipì addosso?» minacciai. Singhiozzando, si
accovacciò. Mi sentii in colpa per averla maltrattata. «Non
è stato poi così brutto» dissi. Charine annuì e si asciugò il
moccio dal naso con la mano. Josh, che aveva tenuto d’oc-
chio il sentiero per noi, corse verso il materasso.
«Voglio fare una capriola» disse. Scattò e saltò sul ma-
terasso. Mi aspettavo di vederlo saltare in alto, librarsi e
rovesciarsi. Rimbalzò di nemmeno mezzo metro. Il terre-
no mancava di elasticità e il materasso era un trampolino
troppo misero. Tuttavia, eseguì una capriola in avanti e at-
terrò sulla schiena. Quando si alzò, sorrise frastornato, bar-
collante, e ricominciò a saltare. Nerissa sfrecciò verso Josh,
Charine lasciò la mia mano e corse anche lei al materasso,
dimenticando serpenti e formiche.
Pur sentendo il peso delle responsabilità dovuto all’as-
senza di mio padre, allo stesso modo in cui l’aveva sentito
mia madre quando era stata abbandonata dal suo (ma in
misura anche maggiore), ero ancora una bambina. Erava-
mo ancora bambini, innamorati del mistero e della bellezza
del bosco, e in un certo senso, il nostro sgangherato esilio
autoimposto ci piaceva. Dopo la scuola e prima che mia
madre tornasse a casa, ci scatenavamo.

Un giorno, mentre ero con Charine e Nerissa a intrec-


ciare fiori per farne anelli e collane, Josh ci raggiunse. Era
andato in esplorazione.

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«Ho trovato una cosa» disse.
«Che cosa?».
«Una stanza segreta» disse Josh. «Ve la faccio vedere».
Lo seguimmo nel bosco, lungo il sentiero che curvava a
destra, il sentiero che, percorso per intero, passava tra le
case e arrivava a un negozietto su Dedeaux Road. Cam-
minammo in fila indiana perché era molto stretto. Accanto
al sentiero, vegetazione ed erbacce crescevano folte, graf-
fiandoci i polpacci e le caviglie. Presi in braccio Charine.
Non aveva ancora cinque anni. Joshua ci precedeva tutti e
Nerissa gli trotterellava dietro, fiera di tenersi al passo con
lui pur avendo sette anni. Poi Josh ci condusse fuori dal sen-
tiero, io mi caricai Charine sulla schiena e m’incurvai, men-
tre ci facevamo largo tra cespugli spinosi e pieni di foglie,
inciampando su rovi di more mentre i pini tremavano sopra
di noi. Di colpo, il bosco si aprì su una piccola radura. Il
terreno era morbido e spugnoso sotto i piedi, imbottito di
strati di aghi di pino.
«Guardate» disse Josh, e si inginocchiò. Tastò tra gli aghi
in quello che sembrava un canale poco profondo, poi pre-
mette le mani sulla terra. Sentimmo uno sfregamento. Gli
aghi di pino si spostarono, e comparve un buco nero dove
prima c’era il canale. «Guardate» disse.
Ci radunammo dietro di lui. Strinsi la mano di Nerissa
e mi sporsi sopra la schiena magra di Josh prima di capire
quello che stavo vedendo. Qualcuno aveva scavato nel ter-
reno una fossa, poi l’aveva coperta con delle assi che aveva
camuffato spargendoci sopra un tappeto di aghi.
«Chi l’ha fatta?» chiesi.
«Non lo so» disse Joshua. Anche lui aveva amici nel quar-
tiere, ragazzi neri e un bianco, tutti, come la mia amica,
vivevano con una madre single. Forse l’hanno fatta loro, pensai,
ma sembrava un’impresa troppo imponente per bambini

153
tutti pelle e ossa con ginocchia simili ai pomelli delle porte,
bambini a torso nudo di cui si potevano contare le costole
quando andavano in bici per strada. Hanno scavato tantissimo,
pensai. E che organizzazione.
«Andiamo via» dissi. Tirai Nerissa per il braccio.
«Non vuoi vederla da vicino?» chiese Joshua. Capii dal
modo in cui lo disse che non era ancora sceso laggiù, che
pensava avremmo potuto esplorarla insieme.
«No» dissi. «Andiamo via».
Strattonai Nerissa per farla camminare.
«Tieniti forte» dissi a Charine, e lei mi strinse le gambe
attorno alla vita, incrociando le caviglie. Io scostai i rami,
iniziai a dar spallate alla vegetazione per tornare sul sentie-
ro. Josh era dietro di noi, ancora sul ciglio di quel fosso.
«Vieni!» dissi.
Esitò, poi ci seguì. Quando arrivammo al sentiero, acce-
lerai il passo, con Charine che rimbalzava su e giù sulla mia
schiena.
«Corri» dissi.
Corremmo, inciampando sulle radici, le piante che ci
frustavano le caviglie come lenze da pesca. Quando arri-
vammo alla fine del sentiero, passammo di corsa davanti al
materasso, saltammo il canale che delimitava il bosco e il
nostro giardino, poi superammo la recinzione ed entrammo
nel cortile, dove finalmente ci fermammo, col fiato corto.
Andai al tubo d’irrigazione, feci bere tutti, e rimanemmo
nei pressi del giardino per il resto della giornata. Josh fece
qualche sporadica capriola sul materasso, ma fu l’unico a
rientrare nel bosco e a uscirne subito dopo.
Quella notte, dopo essere stata rimproverata da mia ma-
dre per aver dimenticato di nuovo la chiave e dopo esserci
tutti fatti il bagno, fummo spediti a letto. Io restai sveglia al
buio, a fissare il soffitto, cercando di distinguere la cassettiera,

154
i nostri animali di peluche, il mio pesce solitario nel piccolo
acquario di plastica rettangolare, grande come un piattino.
In quell’oscurità avrei voluto che brillassero, che mi rasse-
renassero e mi dicessero che non ero sola, invece rimasero
silenziosi, senza che potessi vederli. Ero tentata di svegliare
Nerissa e di farle aprire gli occhi, perché sapevo che al buio
sarebbero stati bianchi, e perlomeno avrei sentito qualche
mugugno, ma non lo feci. Insieme alle responsabilità che mi
ero assunta la seconda volta che mio padre se n’era andato,
la sua assenza rinnovò in me il senso di abbandono, di inuti-
lità. Mentre ero a letto accanto alle mie sorelle addormenta-
te e mettevo in discussione l’amore di mio padre, paragonai
la fossa scavata nel bosco alla mia meritata infelicità. Invece
di svegliare Nerissa, immaginai la bocca aperta di quella
fossa al buio, nel futuro, spalancata come una tomba.

Il giorno dopo non chiesi della fossa alla mia amica


Kelly, né alla mia amica Tamika, e neppure alla mia ami-
ca Cynthia. Al contrario, rimasi scalza nel terreno vacante
accanto a casa nostra, continuando a pensarci, ascoltando
solo in parte le chiacchiere di Kelly.
«Ehi, ragazza, hai sentito la canzone nuova di quel rap-
per bianco?».
Io ero confusa.
«È bellissimo» disse. Avevo tredici anni, all’epoca, ero esi-
le, tutta denti e capelli selvaggi che mia madre per prima
aveva rinunciato a pettinare, tentando poi di domarli con
un lisciante. Quando Kelly parlò, sorrise e tutto il suo corpo
si scosse, ondeggiando come l’acqua. Sgranò gli occhi.
«Aspetta di vederlo».
Quando poi lo vidi in tv, il rapper bianco aveva lustrini e
lineamenti duri. Nel quartiere c’erano ragazzi che ritenevo

155
più attraenti, ragazzi con zigomi pronunciati, capelli neri e
occhi scuri, quasi neri. Ragazzi che assomigliavano a mio
padre da giovane. Ma io un fidanzato non ce l’avevo. Pensa-
vo di essere troppo magra e brutta: non mi avvicinavo mai
né rivolgevo la parola a ragazzi sconosciuti e, la maggior
parte delle volte, neanche loro si avvicinavano a me. Tutta-
via, quando questo accadeva, la cosa non mi lusingava, anzi,
mi metteva a disagio. Ma Kelly aveva un ragazzo, e anche
Crissy, una delle mie amiche delle medie di Pass Christian.
Ogni tanto ci sentivamo ancora al telefono, e lei mi raccon-
tava le sue storie.
«Ho quasi fatto sesso» disse.
«Eh?».
«Davvero».
«Sul serio?».
«Il mio ragazzo è venuto a casa mia quando mia madre
non c’era. Eravamo in camera e ci stavamo baciando e tut-
to il resto. Lui ha cercato di mettermelo dentro, ma non è
entrato».
«Oh» dissi, colpita dalla sua sfrontatezza.
«Secondo me Dio ha pensato che non fosse il momento
giusto» disse.
Avevamo tredici anni, ciononostante restai stupita dal fatto
che avesse menzionato Dio. Le mie idee all’epoca erano che
lui non avesse assolutamente niente a che fare con le eventua-
li punizioni riservate a una donna non sposata – una ragaz-
zina – che faceva sesso, quindi non capii la logica di Crissy.
«Lo penso anch’io» dissi.
Non avevamo il permesso di portare ragazzi a casa
quando mamma era al lavoro, e inoltre io non volevo. Ci
vedevamo con gli amici per strada o nel bosco, e a Gulfport
io avevo solo amiche. Anche se loro uscivano con i ragaz-
zi, a me non andava. Ero ancora immersa nella lettura e

156
continuavo a giocare con le bambole, di nascosto. Una volta
feci entrare un ragazzo in casa mentre mia madre era al la-
voro, ma non perché lo ritenessi carino, o perché volevo che
tra noi succedesse qualcosa; feci entrare lui e il suo amico
perché credevo fossero amici di Joshua. Fu un disastro. Ac-
cadde qualche settimana dopo la scoperta della fossa, e due
ragazzi del quartiere, che conoscevamo di vista, si presenta-
rono a casa nostra. Phillip era veramente amico di Joshua,
più magro di mio fratello e forse più alto di qualche centi-
metro, e gli piaceva portare i capelli corti da un lato, più
lunghi dall’altro. Il suo amico si chiamava Thomas, aveva
circa la mia età, e non lo conoscevamo bene. Era più alto di
Phillip di almeno trenta centimetri, e robusto. Aveva il naso
piatto e largo, e le spalle sembravano sghembe, inclinate,
come se l’assetto del corpo fosse storto.
«Possiamo entrare?» chiese Thomas.
Joshua, Charine e Nerissa erano in salotto, a guardare You
can’t do that on television, e io rimasi sulla porta. Alle loro spalle
brillava una giornata luminosa e calda, con gli insetti che
protestavano rumorosamente per l’afa. La casa era fresca,
anche se mia madre, d’estate, teneva il condizionatore al
minimo per risparmiare sulla bolletta. Se avessimo cambia-
to temperatura, ce le avrebbe date di santa ragione. Non lo
abbiamo mai fatto.
«Va bene» dissi.
I due ragazzi mi seguirono in salotto. Phillip si sedette
sul divano accanto a Josh e iniziarono a chiacchierare. Io
mi sedetti sul lungo divano. Nerissa e Charine alzarono gli
occhi e smisero di giocare per un istante, le bambole sul pa-
vimento impegnate a pranzare, e poi ricominciarono.
«Posso mettermi vicino a te?» chiese Thomas.
«Credo di sì» dissi.
Thomas si sedette accanto a me sul divano.

157
«Che avete fatto oggi?».
«Niente» dissi. «Abbiamo guardato la tv».
«Fa caldo, fuori».
«Sì».
Thomas si avvicinò. La sua gamba toccava la mia. Io mi
spostai.
«Dov’è vostra madre?».
«Al lavoro» dissi.
Thomas si accostò ancora di più, la sua gamba di nuo-
vo attaccata alla mia, e io cercai di allontanarmi, ma re-
stai bloccata dal bracciolo del divano. Non riuscivo a capire
come mai non stesse parlando con Joshua e Phillip.
«Perché continui ad allontanarti?».
Feci spallucce, girandomi e prendendo le distanze dal suo
viso. Josh e Phillip, che ancora parlavano e ridevano, usciro-
no dalla porta che si chiuse dietro di loro.
«Mi piaci» disse Thomas.
Io restai muta. Mi si buttò addosso, schiacciandomi tra il
suo corpo e i cuscini. Tentai di alzarmi, ma lui mi afferrò
il braccio e mi strattonò, tirandomi di nuovo giù a sedere.
«Non ti piaccio?» disse.
Scossi la testa. La sua mano mi scivolò sul braccio, sulla
spalla, sul collo. Io mi allontanai di scatto, ma lui si spostò
con me. Ero impotente.
«Smettila» dissi. Era uno squittio.
«Cosa? Non sto facendo niente».
«Smettila di toccarmi» dissi. Me lo merito, pensai.
«Dai, ragazzina» disse, avvicinandosi di nuovo, la bocca
protesa verso di me. Accentuò la stretta sul mio braccio. È
colpa mia, pensai. Charine e Nerissa erano tranquille.
«Smettila!» non riuscivo a respirare. Era troppo grosso.
Resta immobile, e vedrai che se sopporti abbastanza a lungo, finirà,
pensai.

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Charine, accovacciata sul pavimento, saltò in piedi e corse
verso il divano. Si precipitò tra le gambe di Thomas e iniziò
a saltare sopra di lui, calpestandogli il cavallo dei pantaloni.
«Lascia in pace mia sorella! Lascia in pace mia sorella!» urlò.
«Spostati» disse lui, cercando di staccarsela di dosso, sci-
volando quel tanto che bastava perché riuscissi ad alzarmi e
ad allontanarmi da lui. Restai in piedi.
«Lasciala stare!» disse Charine, scalciando. Nerissa pian-
geva. Io afferrai Charine per le ascelle e la ruotai verso di
me, prendendola in braccio. Mi aveva restituito la voce.
«Vattene!» dissi.
«Cosa?».
«Vattene!» dissi. «O chiamo mia madre!».
Balzò su dal divano. Io corsi alla porta, Charine ancora
a cavalcioni sul mio fianco, e la spalancai, lasciando entrare
il caldo.
«Fuori!».
Mi passò davanti e uscì nell’afa, guardandoci all’alto in
basso.
«Vaffanculo» disse.
«Vaffanculo tu» dissi io, sbattendo la porta, chiudendomi a
chiave. Essere in grado di provare così tanta rabbia mi stupì.
Thomas bussò alla porta, con tutta la sua forza.
«Stupida puttana!» disse.
«Non sono una puttana!» dissi. Ma, anche mentre lo dicevo,
mi vergognavo di non aver lottato abbastanza, poco prima, sul
divano. Mi ha dovuto salvare una bambina di quattro anni, pensai.
«Stronza di una troia!». Colpì di nuovo la porta.
Io mi ritrassi, Charine aggrappata a me. Fissammo la
porta che tremava: Charine era all’erta, pronta a saltargli
di nuovo addosso. Sono patetica, pensai. Qualcuno bussò alla
porta di servizio, era Josh che la aprì ed entrò. Chiusi a chia-
ve anche quella.

159
«Perché hai chiuso a chiave la porta?» chiese Josh. Thomas
picchiò di nuovo contro la porta. Sentivo Phillip ridere, dal
posto auto.
«Per lui» dissi, indicando la porta.
«Puttana!». Thomas bussò ancora, con violenza. Dentro
regnava il silenzio. Misi giù Charine, andai alla finestra sul
davanti, mi inginocchiai, sbirciai dagli avvolgibili, e vidi i
due ragazzi correre sotto il sole, poi rallentare e mettersi a
camminare una volta in mezzo alla strada. Li tenni d’occhio
finché non sparirono dietro l’angolo.
Non importava che mia madre fosse a casa o no. Thomas
si presentava quando uscivo da sola a stendere i panni o a
spazzare il posto auto. Non entrava in giardino, ma giron-
zolava dietro la recinzione, nel bosco alle spalle della casa,
e si metteva a gridare. So che mi senti quando ti parlo. Mi senti
quando ti parlo. E poi: Ti vedo. Quando diceva questa frase, io
pensavo che vedesse tutta la mia infelicità, che vedesse che
meritavo di essere trattata così da un ragazzo, da qualsiasi
ragazzo, da tutti i ragazzi, da tutti, e gli credevo.

Dopo la partenza di mio padre, mia madre si chiuse in se


stessa. Quando era a casa, si dedicava alle pulizie. Oppure se
ne stava in cucina, a preparare da mangiare. Non facevamo
più maratone di film. Avevamo i buoni pasto, all’epoca, inte-
ri blocchetti, e ogni volta che dovevamo usarli per pagare io
mi vergognavo, al contrario di mia madre, che non si faceva
scrupoli a servirsene per riempire il frigo. A differenza di mio
padre, mia madre non si sentiva a suo agio nell’esternare
l’affetto. Non ci abbracciava, baciava, né ci toccava quando
ci rivolgeva la parola. Forse credeva che se si fosse lascia-
ta andare anche solo un po’, il mondo che aveva costruito
con tanto impegno per provvedere a noi sarebbe crollato.

160
Perciò, non riuscendo a esprimere apertamente il suo amore
per noi, che era immenso, impetuoso e primordiale come gli
incendi che a volte si diffondevano nel bosco dietro casa no-
stra, ce lo dimostrava nell’unico modo che conosceva oltre a
quello di offrirci un tetto sulla testa, fare le pulizie, prendersi
cura di noi, insegnarci l’educazione: tramite il cibo. Prepa-
rava grandi pentole di gumbo, minestre di carne e verdura,
cotolette di maiale, purè di patate, arrosti, fagioli rossi e riso,
pane di mais, e dolci – praline alle noci, muffin ai mirtilli,
torte al cioccolato e torte con il pandispagna che decorava
accuratamente con fiori e rami di glassa.
Quando non cucinava, se ne stava in camera sua a guar-
dare la tv. Aveva un’amica nel quartiere, aveva sposato un
suo lontano cugino. Viveva di fronte a casa nostra. Questo
cugino lottava contro la tossicodipendenza, perciò mia ma-
dre qualche volta portava loro da mangiare, permetteva ai
figli di venire da noi a giocare. Mia madre aveva un’amica
intima che era anche sua cugina e che si era trasferita ad
Atlanta. A parte loro, era sola. Benché coltivasse una sfidu-
cia generica nei confronti degli uomini, conosceva anche
la subdola, informe crudeltà delle donne; le svariate donne
con cui mio padre aveva avuto relazioni, alcune delle quali
erano state sue amiche, alcune delle quali la conoscevano
sin da bambina, avevano gioito della sfortuna di mia ma-
dre, l’avevano chiamata per dirle: Lui non ti ama, ama me. Lei
non si fidava degli uomini, né delle donne. I figli erano la
sua unica compagnia, ma noi eravamo una tribù chiassosa,
socievole, e per quanto ci amasse con tutta se stessa, con noi
aveva poca pazienza, dato che per tutta la vita non aveva
fatto altro che crescerci. Ogni scelta, ogni circostanza del-
la sua esistenza raggiunsero il culmine nell’esta­te del 1990,
ribollirono, traboccarono e la bruciarono. Era troppo, per
una sola persona. Vacillò.

161
Quando uno di noi faceva qualcosa di sbagliato, come
lasciare i vestiti sul pavimento una volta di troppo, dopo
aver fatto il bagno, o se discutevamo e litigavamo tra noi, lei
ci picchiava tutti. A volte usava il manico di una scopa gio-
cattolo. Un giorno Joshua la trovò mentre lei era al lavoro,
si infilò di soppiatto nel bosco e la buttò via. Lei ne comprò
un’altra. Dopo mesi passati a toccarci solo per infliggerci
punizioni corporali, adottò tattiche psicologiche. Una volta
ci minacciò di darci in adozione, e quando mi sentì piange-
re in camera a tarda notte mi chiamò nella sua stanza e mi
chiese il motivo.
«Perché hai detto che vuoi darci via» dissi.
«Forse se non foste così cattivi» disse «non avrei dovuto
minacciarvi».
E tuttavia avevamo sempre la sensazione di non essere
mai abbastanza buoni. Io la stavo deludendo. Spinta dal suo
senso di isolamento o di solitudine, o dal desiderio di spie-
garmi il significato che lei attribuiva alla disciplina, oppure
per ammonirmi riguardo a quel che vedeva affiorare in me
e che le ricordava se stessa, un giorno, tornati dal supermer-
cato, parcheggiò la macchina, ordinò alle mie sorelle e a
mio fratello di entrare in casa, e a me, invece, disse: «Aspet-
ta... resta qui». E poi fece qualcosa che per lei dev’essere
stato incredibilmente difficile, perché decisamente contrario
alla sua natura: mi parlò. Raccontò. «Mimi» disse «tuo pa-
dre...». E poi si aprì in un modo che non si ripeté più per
molti anni. Mi raccontò cose che all’epoca capii, cose che
avrei capito solo alla sua età, e altre cose che ancora non
capisco; che era cresciuta badando ai fratelli e alle sorelle,
del suo rapporto con la madre, del fatto che aveva amato
suo padre e suo marito e li aveva persi entrambi, l’uno dopo
l’altro. A tredici anni, assaporai una goccia del dolore patito
da mia madre. Per un pomeriggio, conobbi alcuni dei suoi

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fardelli, e alcuni di questi fardelli erano speculari ai miei.
Per un istante, capii chiaramente cosa significasse essere la
figlia di mia madre. Per un breve lasso di tempo, fui più
saggia di quanto la mia maturità mi consentisse, e feci quel
che potei. Ascoltai.

E anche mia madre ascoltava, quando poteva, i nostri


sussurri furtivi. Ci mancava DeLisle, dicevamo. Ci manca-
va correre scalzi sulle strade sterrate e mangiare le more,
calde e succose, dolci e assolate, e galleggiare nella corren-
te del fiume. Non ci piaceva camminare in gruppo, vicini
l’uno all’altra, per andare alla scuola elementare di Bel-Air,
d’estate, per pranzare gratis al refettorio, sentendoci goffi e
poveri. Quindi ci chiese: «Volete tutti tornare a DeLisle?» e
noi dicemmo di sì.
Mia madre, frugale per necessità, aveva risparmiato
quanto bastava per comprare due ettari di terra dalla sorella
di suo padre. Nell’estate del 1990, iniziò a ripulirla, arma-
ta di machete e di motosega insieme ai fratelli. A volte nei
giorni liberi portava anche noi, altre volte andava da sola.
Un giorno in cui non ci portò con sé, Joshua e io lasciammo
Nerissa e Charine a casa e tornammo nel bosco. Se fosse
venuta a sapere che avevo lasciato a casa da sole le mie so-
relle più piccole, mia madre si sarebbe infuriata, ma io vo-
levo rivedere quella buca. Dovevo vedere se la sua bocca, in
quella piccola radura, era ancora spalancata. Non capii che,
ai miei occhi, aveva assunto un’importanza simbolica, era
la raffigurazione fisica di tutto l’odio, il disprezzo e il dolore
che avevo dentro, l’incarnazione oscura di tutte le volte che
a Gulfport ero stata terrorizzata o minacciata sessualmente.
Non capivo che per me era diventata un presagio. Quando
arrivammo, Joshua e io scoprimmo che le assi che avevano

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coperto la buca non c’era­no più, e quel che restava era solo
una grande fossa aperta e disseminata di aghi di pino, un
quadrato perfetto e buio. In un certo senso era ancora più
impressionante vedere i recessi oscuri di quella buca scavata
da mani umane, e la mia reazione fu viscerale. Ebbi la sen-
sazione di trovarmi lì sotto, come se i confini del mio mondo
si fossero stretti attorno a me: gli aghi che mi pungevano
le gambe e le braccia, le pareti simili a una caverna, alte
come una fila di alberi, il cielo stesso oscurato. Non riuscivo
a evitarla. Il suo spettro mi avrebbe perseguitato per tutta la
vita. Joshua e io guardammo nelle sue fauci senza parlare,
e poi ce ne andammo. Mi chiedo se anche lui avesse prova-
to qualcosa mentre stava sul ciglio friabile di quell’orribile
buca, sul ciglio dell’orribile futuro che la vita aveva in serbo
per noi.
La casa era sottosopra. Mi ritenni fortunata che perlo-
meno Nerissa e Charine non avessero rotto niente. Affidai
qualche piccola incombenza a entrambe, come raccogliere
i giocattoli in salotto, mentre io lavavo i piatti. Joshua era
fuori, nel giardino sul retro. Andai alla finestra con le mani
umide e insaponate per parlargli.
«Josh» dissi «vieni a prendere la spazzatura».
«Va bene» disse.
Lavai tutte le tazze che riempivano il lavello e poi mi de-
dicai alle scodelle. Lui non era ancora rientrato. Andai di
nuovo alla finestra.
«Josh!» dissi. Ero frustrata: sentii il peso di essere una
bambina con le responsabilità di un’adulta. Ero inadeguata.
Stavo fallendo.
Mio fratello era fuori in giardino, a sbirciare dentro la
casa buia. Non stava guardando me, e io mi accorsi che
ormai eravamo alti uguali. I suoi capelli erano biondo scuro
sotto il sole che gli faceva strizzare gli occhi, e la maglietta

164
nera gli stava stretta, perché, a dieci anni, stava prendendo
peso. Joshua guardò attraverso la zanzariera e fu come se mi
vedesse con chiarezza, le mani insaponate, le dita grinzose,
la mascella serrata per la frustrazione e l’avvilimento, e mi
odiò. Entrambi a un passo dall’età adulta, e fu così che mio
fratello e io capimmo cosa significasse essere donna: am-
mazzarsi di lavoro, incupirsi, preoccuparsi di continuo. E
cosa significasse essere uomo: amarezza, rabbia, il desiderio
di una vita che fosse tutto fuorché quello che era.
ronald wayne lizana
Nato il 20 settembre 1983
Morto il 16 dicembre 2002

Da grande sarà un rubacuori.


All’epoca Ronald aveva nove anni, e io quindici, ma già
dalla corporatura minuta e proporzionata era evidente che
da grande sarebbe stato ancora più bello. Aveva il passo leg-
gero, pareva stare sulle punte, sempre pronto a combinarne
una delle sue, correre e scomparire nel corridoio della scuola.
Mi ricordava Joshua quando aveva la sua età. Anche Ronald
era l’unico maschio in una famiglia di donne; io avevo fre-
quentato le elementari con la sorella maggiore. Le maestre ci
interrompevano mentre giocavamo per chiederci se eravamo
parenti. Vi assomigliate tutti. Ronald sembrava ancor più simile
a Joshua quando era vicino a mio cugino Tony, anche lui di
nove anni, ma di almeno tre sfumature più scuro di Ronald.
Io ero istruttrice al campo estivo “Tutte Creature di Dio”.
Era sponsorizzato dal mio liceo, il Coast Episcopal, e orga-
nizzava attività gratuite per bambini svantaggiati. Da stu-
dentessa, potevo propormi come volontaria; in qualità di
bambini svantaggiati, la maggior parte di quelli che cono-
scevo a DeLisle e a Pass Christian avevano i requisiti per
partecipare, ma solo tre riuscirono a entrare: Antonio, mia
cugina Rajea, e Ronald. Scrissi il nome di Tony sul registro
dei presenti.
«E questo chi è?» sorrisi a Ronald. Lui ricambiò il sorriso
lentamente: i denti bianchi, la pelle color rame, gli occhi
grandi e brunastri. Aveva un’infarinatura di lentiggini sul
naso. Tutte le ragazze saranno sue, pensai.

167
«Ronald Lizana» disse. Scrissi il suo nome sul registro.
«Tu andrai con gli altri ragazzi» dissi. «Venite. Vi por-
to alle vostre aree». Scrissi il nome di Rajea e la presi per
mano, accompagnandola in corridoio. Girai la testa per as-
sicurarmi che Ronald e Tony mi seguissero. Ronald sorrise
a Tony, e Tony scoppiò a ridere per una battuta segreta.
Mi ero offerta volontaria come istruttrice del campo esti-
vo perché volevo uscire di casa almeno per le due settimane
che coincidevano con la sua durata. Ormai Josh era abba-
stanza grande per tenere d’occhio Nerissa e Charine duran-
te il giorno mentre io ero al campo e mamma era al lavoro.
Mio fratello e le mie sorelle non avevano voluto partecipare,
pensavano che fosse palloso. «Tutti quei bianchi» dissero.
«E la chiesa». Io scrollai le spalle. La mia fase di devota
cristiana, durante la quale passavo almeno metà giornata a
pensare a Dio, a pregare e a sentirmi soffusa dall’amore di-
vino, stava per finire. Quando mi ero trasferita nella scuola
episcopale in prima media, avevo trovato irresistibile l’idea
di un Dio che mi amasse indefessamente, con le mie cicatrici
e tutto il resto. Finalmente un uomo che non se ne andrà, pensavo.
Qualcuno che non deluderò mai. In seguito, mi allontanai dalla
Chiesa quando la rigidità della dottrina e l’ipocrisia degli
studenti cristiani più ferventi mi apparvero inequivocabili.
Alla fine, capii che talvolta si viene abbandonati e basta.
Ero una cheerleader, quindi non insegnavo arti e mestie-
ri, né facevo studiare la Bibbia cantando le canzoni religiose
della tradizione popolare con gli altri liceali e i due semina-
risti che gestivano il campo estivo, bensì insegnavo danza.
L’altra istruttrice e io inventavamo coreografie e insegna-
vamo ai bambini i passi di The Humpty dance e I wish I was a
little bit taller che i piccoli ballerini avrebbero dovuto eseguire
nel fine settimana davanti agli altri partecipanti. Il primo
giorno, Ronald sembrò indifferente.

168
«Tu non sai ballare» disse.
«Certo che so ballare» dissi.
«Quindi conosci anche qualche passo di hip hop?».
«Sì».
La mia collega stava insegnando agli altri bambini i passi
iniziali del numero e contava: «E uno e due e tre e quattro e
cinque e sei e sette e otto...».
«Vai allora».
«Non ho intenzione di ballare l’hip hop per te».
«Io lo so fare».
«No, non lo sai fare».
Arrivò Tony.
«Guarda» disse Ronald. Allargò le gambe, mise le mani
davanti a sé, i palmi all’ingiù, e iniziò a spingere i fianchi
avanti e indietro. Io risi. Lo sapeva ballare davvero. Tony si
unì a lui.
«Non lo metteremo nel numero».
«Perché no?» disse Ronald.
Arricciò le labbra. Era un playboy nato.
«Credi davvero che gli altri ragazzi lo farebbero?».
«Sì» disse.
«Tu lo faresti, Tony?».
«Sì» disse.
«D’accordo, allora». Incrociai le braccia. «Ce lo mette-
remo».

Ronald era affascinante, e gli piaceva darsi un sacco di


arie. Mentre io portavo grandi vassoi di plastica con suc-
chi di frutta e biscotti secchi lungo lo stretto corridoio della
scuola per la merenda pomeridiana, lui si fermava fuori dal
bagno, in penombra, dava dei colpi con le mani a una pa-
rete invisibile, e ballava l’hip hop. Io ridevo, i biscotti nelle

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ciotole scivolavano sul vassoio e il succo traboccava dalle
tazze di carta, scorrendo in rivoli sottili, tanto che quando
finalmente arrivavo in classe con lo spuntino, tutto il fondo
delle tazze era floscio e bagnato.
Durante le lezioni di ballo, imparava velocemente. Era
come C.J., atletico, snello e basso. Era in grado di appren-
dere con facilità ogni movimento e di colorarlo con la sua
personalità. Pensavo che, siccome Tony e Ronald erano tanto
amici, avrebbero ignorato la mia autorità, si sarebbero messi
in fondo alla classe a giocare con i più scansafatiche oppure
sarebbero scomparsi nei corridoi bui per ore, con la scusa di
andare in bagno. Ma non fu così. Quando gli chiedevo di
ascoltarmi, obbedivano ed eseguivano tutti i miei strani passi
di danza, muovendosi con allegria ogni volta che si guardava-
no, oppure ogni volta che partiva il conteggio dei passi.
Verso la fine delle due settimane, confezionammo uno
scivolo acquatico con le nostre mani, arrotolando lunghi teli
di plastica e ricoprendoli di detersivo per i piatti mescolato
all’acqua. Il cielo era di un azzurro sconfinato, l’aria tersa,
libera dalle solite torrenziali piogge estive. Mettemmo i teli
di plastica l’uno accanto all’altro su un pendio leggero, in
un campo.
Uno degli istruttori, a torso nudo, pallido e sorridente sot-
to il sole, non vedeva l’ora di provarlo. Corse, saltò e volò
giù dalla discesa sulla pancia e, dopo aver percorso tutto lo
scivolo, sfrecciò sull’erba. Quando si alzò, aveva il torace
verde e rosso, e io mi chiesi se gli facesse male.
«È stato fantastico» disse.
Ronald e Tony ebbero la stessa idea.
«Guarda questo, Mimi!» disse Tony. Corse e si lanciò sul-
lo scivolo. Dal tonfo sembrava si fosse fatto male, invece lui
sorrideva nell’acqua insaponata e volò fino alla fine della
plastica, prima di arenarsi sul terreno. Ronald considerò

170
il successo di Tony come una sfida. Si buttò sulla plastica
dopo aver preso la rincorsa e sfrecciò sullo scivolo per poi
atterrare sull’erba. Ronald corse in cima al pendio mentre
Tony si buttava di nuovo giù. Io aggiunsi sapone e acqua.
Gli altri ragazzi li seguirono immediatamente, gridando e
schiantandosi sull’erba. Ronald si fermò accanto a me, fili
d’erba sul viso e tra i capelli. Glieli tolsi: la faccia era accal-
data e umida sotto le mie dita.
«Dovresti salirci anche tu» disse Ronald. Sputò un pezzo
d’erba che gli era finito in bocca.
«No, non ho il costume».
«Vacci così».
«Ma resterò tutto il giorno con i vestiti bagnati addosso».
«Dai» disse.
«Non posso».
Gli tolsi un altro filo d’erba dal viso, lui rabbrividì e sor-
rise. I ragazzi gli correvano accanto in coppie. «Sei cari-
no» dissi. Pensai che non ci fosse niente di male nel dire a
Ronald qualcosa che già sapeva.
«Un giorno ti sposerò» disse.
«Davvero?».
«Sì». Lui annuì, e sorrise, pieno di fascino.
«Me lo prometti?».
«Sì».
Risi e gli tolsi un altro filo d’erba. Ronald corse allo sci-
volo e Tony lo seguì ed entrambi si lanciarono, scuriti dal
sole cocente. Io arrotolai le maniche della maglietta in un
malloppo sotto le ascelle, e mi scaldai le spalle al sole. Quan-
do dissi ai ragazzi che il tempo era scaduto, gli altri corsero
dentro, ma Tony e Ronald si attardarono.
«Aiutatemi a prendere questi tubi» dissi a tutti e due.
Qualche nuvola solcò il cielo, nascondendoli, e quando si
spostò Tony e Ronald portavano bottiglie vuote di detersivo

171
per i piatti e trascinavano i tubi, le pance imbrattate di fango
ed erba. Videro che li guardavo e si fermarono per mettersi
a ballare nel campo, con i tubi e le bottiglie in mano. Sem-
bravano adulti sbronzi durante la sfilata dei carri del Mardi
Gras. Risi. Il sole li illuminò improvvisamente ed erano bel-
lissimi.

Col tempo, Ronald diventò più alto: le linee del volto gli
si allargarono e si affinarono, le spalle gli si irrobustirono e
la vita si assottigliò, ma quando sul viso gli si formavano le
fossette, tornava a essere il bambino di nove anni in mezzo
al campo, rame splendente sotto il sole. Ronald non perse
il suo fascino e il suo carisma, né la sua bellezza, crescendo.
Anzi, era più sicuro di sé, specialmente con le donne. Lo ve-
devo, a volte, in giro per DeLisle e Pass Christian. Lo vedevo
anche attorno a casa di mia madre quando tornavo da New
York, dato che lui e Charine erano buoni amici; quando at-
traversava il salotto per andare in camera di Charine, sem-
brava sempre sorridente, sempre proteso in avanti quando
camminava, tutti gli angoli del corpo in armonia, come una
canzone. Non ho mai immaginato che avesse dentro di sé
qualcosa di più oscuro, non l’ho mai visto quando era om-
broso e s’infuriava o si deprimeva. Ero troppo immatura,
all’epoca, per immaginare che l’oscurità che mi portavo die-
tro io, dai miei anni preadolescenziali, quella convinzione
di essere indegna e ripugnante, avesse potuto toccare anche
altri membri della mia comunità.
Quel che allora non capivo era che tutti noi eravamo
schiacciati dallo stesso peso. Tutta la mia comunità soffriva
di mancanza di fiducia: non ci fidavamo della società, che
doveva fornirci le basi di una buona istruzione, sicurezza,
accesso a un buon lavoro, equità nel sistema giudiziario.

172
E oltre a non fidarci della società che ci circondava, della
cultura che ci aveva messo all’angolo e ribadiva la nostra
eterna inferiorità, non ci fidavamo nemmeno l’uno dell’al-
tro. Non avevamo fiducia nei nostri padri, che dovevano
crescerci, mantenerci. Dato che non credevamo in niente,
ci sforzavamo di proteggere noi stessi, i ragazzi diventava-
no misogini e violenti, le ragazze diventavano sleali, e tutti
eravamo senza speranza. Per alcuni di noi le pressioni so-
ciali equivalsero alla rovina, all’erosione del proprio sé, e ci
portarono a odiare quello che vedevamo, dentro e fuori. E,
tanto per non farci mancare nulla, ci fu anche chi si buttò
sulla droga.
Ma, nella primavera del 2002, io non sapevo niente di
tutto questo, ecco perché pensavo che Ronald fosse felice
quando lo vedevo al parco. Nerissa era lì accanto, seduta in
quella che poi scoprii essere la macchina di Demond, acco-
stata a lato del campo da gioco e parcheggiata sotto il sole
fiacco, e io ero seduta sulle tribune con Hilton che guardava
Ronald giocare a pallacanestro con una ragazza. Io ero tor-
nata a casa per un po’, ed era un sollievo starmene di nuovo
seduta nel parco, ancora sotto gli alberi e il maestoso cielo
pesante.
Sul campo, Ronald si strusciava contro la ragazza riden-
do, le spingeva l’inguine contro il sedere, le braccia in alto e
le maniche arrotolate. Lei dribblò la palla, si chinò, sorrise
prima di voltarsi e guardarlo. Lui rivolse un sorriso incorag-
giante alle tribune. Era questo il modo di flirtare di Ronald
da adulto: consapevole e fisico. Hilton era seduto accanto
a me ed entrambi ridemmo. La ragazza era timida, si era
accorta di quel che stava facendo Ronald, ma non lo scorag-
giava. Era un’adolescente, traspirava sessualità in ogni sorri-
so, ogni volta che protendeva le labbra mentre dribblava, in
ogni risata. Dalla parte opposta del campo, Charine e C.J. si

173
tiravano la palla, impegnati a giocare a 21. Dopo la partita
con la ragazza, Ronald salì sulle tribune e si sedette accanto
a noi. Hilton gli passò un sigaro.
«Vuoi ancora sposarmi?» chiesi.
«Sì» disse Ronald. Hilton fece una risata nasale. Sul viso
di Ronald ci fu un lampo di sorpresa, di compiacimento.
«Cavolo, sì» disse. La ragazza andò verso le auto. Dopo aver
tirato una boccata dal sigaro, Ronald la seguì.
Charine disse che poi, mentre giravano in macchina per
DeLisle, fumando e ascoltando musica e dicendo cazzate,
tra le chiacchiere ero saltata fuori io. I suoi amici dicevano
che facevo jogging per strada in reggiseno sportivo e pan-
taloncini, i capelli un grezzo intrico di ricci sfuggiti alla
crocchia sulla nuca, la gamba destra che calciava l’aria di
lato, le braccia lungo i fianchi e le mani aperte. «Che fai»
mi aveva chiesto una volta uno di loro «corri o nuoti?». Un
altro mi aveva seguito in bici, continuando a parlare del
quartiere, del tempo, della giornata, di come chi si faceva
di crack girava per l’isolato canticchiando qualche verso
delle canzoni più recenti. Una volta gli dissi di andarsene,
mentre ansimavo, sudata. «Così mi ferisci» mi aveva detto
lui. E poi: «Comunque sei buffa quando corri». E insom-
ma, Charine, C.J. e i loro amici stavano parlando di me
quando Ronald li interruppe. Passò il blunt a uno di loro.
«Zitti» disse. «Quella è mia moglie. Non dovete parlare
di mia moglie».
«Ah, vabbè» rise uno di loro.
«Non sto scherzando» disse lui.
Risero tutti e parcheggiarono in un vialetto fiancheggiato
da cespugli di azalea alti quasi quanto un uomo, e passaro-
no il pomeriggio a fumare.

174
Dopo aver visto Ronald quel giorno al parco, pensavo di
conoscerlo. Pensavo che se fossi stata più piccola e avessimo
frequentato lo stesso liceo, Ronald sarebbe stato il tipo di
ragazzo di cui mi sarei innamorata: divertente, sicuro di sé,
affascinante, con un pizzico di strafottenza. Ma molte erano
le cose che ignoravo di lui, della sua vita, di quanto fosse
felice o infelice. Aveva diciannove anni. Ai tempi in cui lo
frequentavo, viveva con la madre. Litigarono, e lui si trasfe-
rì dalla sorella maggiore. Qualche mese dopo, litigò anche
con lei, se ne andò di casa e per qualche tempo, in autunno,
visse come un senzatetto. Aveva occupato una casa abban-
donata, finché la cugina più grande, Selina, poco più che
ventenne, lo scoprì, lo rintracciò e gli disse: «I parenti non
vivono per strada». Ronald si trasferì da lei.
Ronald sniffava cocaina, e viveva di espedienti. Motivo
per cui litigava con la famiglia. Lo amavano, volevano che
trovasse un lavoro e che la smettesse di farsi, ma lui non
riusciva. Sapeva che non ci sarebbe riuscito, ecco perché
disse a Selina che voleva andare a disintossicarsi: amava la
madre e le due sorelle, e il fatto che lo avessero allontanato
lo addolorava. Sentiva di non poter rendere felice nessuna
delle donne della sua vita, compresa la sua ragazza. Il fa-
scino e il carisma della gioventù, nella sua vita adulta erano
inutili come una tonsilla o l’appendice. Sapeva come stare
al mondo da bambino, ma da giovane nero, invece, era alla
deriva. La dura realtà di essere un ragazzo nero del Sud,
la disoccupazione e la povertà endemiche, e il sollievo di
potersi curare con la droga lo disorientarono.
Dopo averlo accolto in casa, Selina andò a trovare la
madre di Ronald. Voleva rassicurarla, dirle che Ronald si
stava dando da fare, che era quasi una figura paterna per
suo figlio, che passava il pomeriggio a occuparsene mentre
lei era al lavoro. Voleva farle sapere che lui stava bene. La

175
madre espresse tutta la frustrazione e l’impotenza nei con-
fronti del figlio tossicomane. Ronald lo considerò un rifiuto.
Sdraiati sul letto in camera di Selina a fissare il soffitto, a
fissare un cielo che non potevano vedere, Ronald le disse:
«Sembra quasi che mia madre voglia buttarmi in mezzo
alla strada».
«Proprio no, cugi» disse Selina.
«Ma l’impressione è quella» disse Ronald.
«Vogliono solo che tu scelga il meglio per te».
Ronald chiuse gli occhi, si trattenne dal replicare.
«Vogliono che ti trovi un lavoro vero. Legale».

Una sera, Ronald e Selina fecero un giro a Pass Christian


prima di parcheggiare sotto le querce grandi e dalla chioma
estesa che separavano il parco cittadino dalla panoramica,
dall’autostrada, e ancor più in là, dalla spiaggia. Mio padre
mi diceva che da bambino era stato cacciato via da lì perché
era nero, e che il guardiano lo aveva chiamato “negro”. La
bellezza delle querce imponenti e l’acqua sopra l’orizzonte
meridionale smentivano quella storia mentre Ronald parla-
va a Selina dei propri demoni.
«Ero nella macchina di mia sorella. Parcheggiato proprio
qui» disse Ronald.
Le querce ignoravano la brezza marina.
«Avevo la pistola sotto il sedile».
Il muschio spagnolo si tese come una bandiera al vento.
«L’ho tirata fuori. Stavo per premere il grilletto».
Il muschio si avvolse attorno al tronco.
«E poi è squillato il telefono. Era mia sorella».
«Perché?» disse Selina.
«Avevo un sacco di problemi».
«Tipo?».

176
«La mia ragazza».
«Che faceva?».
«Si comportava di merda». Credeva che lo tradisse e na-
scondesse le sue infedeltà. Aveva canalizzato tutta la frustra-
zione e la cupezza della sua vita in quel rapporto finché il
loro amore non aveva assunto proporzioni epiche.
«Ci sono un sacco di donne al mondo» disse Selina.
«Ma io amo lei» sospirò Ronald. «La amo da morire».

La sera prima di morire, Ronald incontrò un altro cugino


a Long Beach. Si fermarono nel parcheggio di un complesso
residenziale, a fumare e a chiacchierare.
«Io mi arruolo, cugi».
«Davvero?».
«Ho parlato con un caporale. Sono pronto» disse.
Il cugino disse che Ronald sembrava ottimista, che la pro-
messa rappresentata dalla vita militare gli infondeva spe-
ranza, o quantomeno così pareva. Cercava una via d’uscita.
Ma Selina ricorda diversamente. Suo figlio compiva gli anni
proprio quel giorno, e lei aveva organizzato una festa, pal-
loncini e cappellini e festoni, tutti i bambini vestiti d’azzurro.
Ronald la chiamava ogni ora, dicendo: Cugi, arrivo. Dicen-
do: Cugi, non mi sono dimenticato. Dicendo: Cugi, sto arrivando.
Ma mentre il giorno svaniva e la festa volgeva al termi-
ne, ricevette un’altra telefonata da un amico di Ronald,
che le disse: «L’ho visto alla stazione di servizio. Non è
in sé». Lei uscì a cercarlo e lo intravide fuori dall’edificio,
sotto le luci fluorescenti c’era qualcosa di sbagliato nel suo
viso. Quando tornò indietro con la macchina per andare a
prenderlo, lui era scomparso.

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Non conosco tutti i demoni di Ronald. Non so nello spe-
cifico da cosa Ronald stesse fuggendo, cosa volesse lasciarsi
alle spalle quando diceva di volersi disintossicare o di arruo-
larsi nell’esercito e se si curasse con la cocaina per potersi
sentire invincibile e credere nel futuro. Non so che aspetto
avesse quell’oscurità che lo logorava, quel Nulla che lo per-
seguitava, quale forma assumesse la sua depressione. Per me
era una buca nel bosco, una larga tomba profonda. So come
mi fa sentire. Conosco quel senso di disperazione. So che,
quando abbassava lo sguardo su quelle mani color rame, o
allo specchio osservava i suoi occhi scuri e le lentiggini e la
bocca regolare, pensava che sarebbe stato meglio se fosse
morto, perché a quel punto tutto, ogni piccolo particolare
di quella realtà, sarebbe finito. La battaglia infinita con la
sua ragazza, la droga che illuminava la sua oscurità, le de-
gradazioni che derivavano da una vita di povertà esacerbata
dall’essere uomini e neri e senza padre nel Sud – essere fer-
mato e perquisito dalla polizia, frequentare un liceo dove a
nessuno importava veramente che si diplomasse e iscrivesse
al college, il sogno maledetto di voler diventare un pilota o
un medico o qualsiasi altra cosa desiderasse, rendersi conto
che le promesse che gli erano state fatte al campo estivo
erano vuote, perché lui non aveva un mondo di scelte – tut-
te queste cose sarebbero finite. Ed era questo che Ronald
pensava di volere.
Anni dopo, cercai e trovai alcune statistiche sulla salute
mentale e i neri tentando di capire qualcosa di Ronald,
di me stessa, della mia comunità. Il razzismo, la povertà
e la violenza sono i fattori primari dell’insorgere della de-
pressione nei maschi neri, e credo che ciò valga anche per
le donne nere. Il 7% degli uomini afroamericani sviluppa
la depressione nel corso della vita, e secondo gli esperti si
tratta probabilmente di una stima al ribasso a causa della

178
mancanza di controlli e di psicoterapie. Nessuno gli som-
ministrerà una cura per il loro disturbo psichico. La per-
centuale di afroamericani, uomini e donne, che riescono
a ricevere cure adeguate per questi disturbi è la metà di
quella dei bianchi non ispanici. La mancanza di cure per
i disturbi mentali costa carissima agli uomini e alle donne
di colore perché, quando malattie simili non vengono cu-
rate, gli uomini diventano più soggetti all’incarcerazione,
al nomadismo, all’abuso di stupefacenti, all’omicidio e al
suicidio, e tutto questo ovviamente non impatta solo su chi
ne soffre, ma anche sulle loro famiglie e sul collante che tie-
ne insieme la comunità. Secondo Souls of Black Men: African
American Men Discuss Mental Health la percentuale di uomini
neri morti per suicidio è il doppio di quella delle donne.
E quando i maschi neri dai quindici ai diciannove anni si
suicidano, il 72% di loro usa una pistola.
Queste statistiche danno enfasi alla mia esperienza come
un punto esclamativo. Le leggo e penso a quanto è successo
a Ronald e sento che lui aveva capito per istinto quel che
a me è costato anni di angoscia dolorosa, di lotta contro la
depressione, di letture e di scrittura per essere compreso.
Alla fine capisco il suo desiderio, il desiderio di mettere a
tacere se stessi e quindi il mondo. Ronald guardava il suo
Nulla e ne vedeva la lunga storia, la vedeva in tutte le no-
stre famiglie e comunità, in tutte le istituzioni del Sud e
della nazione che lo governava. Sapeva che quella storia
camminava al fianco di ciascuno di noi, e lui di camminare
era stanco.

Ronald era nell’appartamento della sorella in un condo-


minio di Long Beach. Era solo. Tuttavia, immagino che fos-
se andato in camera da letto e avesse chiuso la porta quando

179
la sua ragazza finalmente rispose al telefono e iniziarono a
litigare.
«Perché ti comporti così? Io ti amo. Dimmi che mi ami».
«No».
«Guarda che mi ammazzo».
«No, non lo farai».
«Sì, invece».
«Smettila di recitare».
«Lo farò».
«Come vuoi, Ronald».
Immaginai che l’appartamento avesse pareti bianche, un
copriletto scuro sul letto matrimoniale, il pavimento nudo a
parte il tappeto. Doveva averci pensato, doveva averlo pia-
nificato, doveva aver preso a prestito o barattato o comprato
la pistola e le pallottole, ed essere tornato a casa a un’ora
ben precisa. Doveva aver sentito il Nulla pesargli sulle spal-
le, e incitarlo ad agire. Doveva aver dimenticato cosa signifi-
casse stare sotto il caldo sole del Mississippi, bruciarsi d’oro
sotto i suoi raggi, sentirsi amato e vivo e bellissimo. Doveva
aver creduto che quella fosse l’unica cosa che gli restava da
fare. Ronald riagganciò, si sparò in testa e morì.

Charine mi chiamò mentre ero al lavoro a New York e


me lo disse. Io fissai le pareti grigie della mia postazione, la
moquette grigia sotto i piedi, i palazzi grigi dietro la fine-
stra, il grigio cielo di New York delimitato dai grattacieli,
e pensai: Un altro morto no. Odiavo i telefoni. Riattaccai. Mi
guardai le mani, poi bussai timidamente alla porta ed entrai
nell’ufficio del mio capo.
«Avanti» disse.
Come glielo dico? pensai. Come faccio a dire che il mio amico,
un ragazzo che ho visto ballare al sole, sporco di fango e felice, si è

180
ammazzato? Forse ho chiamato mio cugino dopo averlo detto
al mio capo. Cercai di trattenermi, ma scoppiai a piangere,
e sul suo viso comparve un cipiglio gentile.
«Oggi dovresti prenderti il giorno libero» disse. Mi asciu-
gai il viso con le mani, imbarazzata perché stavo piangen-
do davanti a lei, uscii, spensi il computer, e lasciai l’ufficio.
Tornai a casa a metà della giornata, la metropolitana era
deserta e io scoccavo occhiate truci a chiunque mi capitasse
a tiro. Passai tra la gente che riempiva le strade e pensai di
non essere mai stata in un posto così affollato sentendo co-
munque tanto freddo, odiavo ogni creatura che camminava
e respirava per il solo fatto che era viva, mentre Ronald e
mio fratello erano morti. Piansi.
Qualche giorno dopo tornai a casa per Natale, e stava-
no seppellendo Ronald al cimitero. Che cosa ci sta succedendo?
chiesi. Andai a New Orleans, quel fine settimana. Charine
e Nerissa, tantissimi di noi, si stiparono in una macchina
e parcheggiarono accanto al fiume. Ci dirigemmo verso
Bourbon Street e verso la folla. Quando ci fermammo a
un incrocio sentimmo uno sparo e la folla s’impennò come
un’onda. Come se una grossa mano ci avesse tirato un sas-
so. Presi per mano le mie sorelle e corremmo con la gente
in preda al panico, in parte sospinta dalla massa di corpi.
La polizia a cavallo di New Orleans correva per le stra-
de. I cavalli erano grandi e rossi, del colore del fango del
Mississippi, e galoppavano frementi verso di noi, impettiti
e minacciosi, scalciando. Risuonò un altro sparo, e noi ci
allontanammo, stringendoci con tanta forza da farci male e,
mentre correvo, pensavo a noi. Da che cosa stiamo scappando?
pensai. Da che cosa? Non andammo a casa e la folla non si
disperse. Girammo intorno all’isolato e ci facemmo strada,
tornando ai pochi bar aperti. Per tutta la notte bevvi, bev-
vi fino a non riuscire a ricordare cosa avevo fatto il giorno

181
dopo, persi i sensi, e pisciai nei vicoli come i barboni che
vedevo a New York.

Anni dopo la morte di Ronald, venni a sapere che la sua


ragazza lo amava, anche se la sera in cui morì era troppo
arrabbiata per dirglielo. Era una ragazza formosa e pallida
con capelli biondo-castani e occhi chiari. Era stata adotta-
ta e viveva fuori DeLisle, a nord dell’autostrada. Avevano
litigato di brutto le settimane precedenti alla sua morte, e
lei si era sentita minacciata; in quel periodo stava tentando
di allontanarsi da lui. Cercava di evitare le sue telefonate,
e quando rispondeva e gli parlava, la conversazione era
forzata.
«Mi ha chiamato» disse. Charine e io eravamo nella sua
macchina, un’automobile verde talmente grande che sede-
vamo tutte davanti. Eravamo fatte. Charine annuì e io fissai
le cifre dell’orologio digitale, che erano di un azzurro fluo-
rescente. Erano le tre del mattino.
«Mi ha detto che mi amava».
Le cifre erano talmente luminose che i contorni sembra-
vano sbiaditi.
«Me lo ha detto poco prima di riattaccare. Mi ha detto:
“Ti amo”».
La cifra dei minuti cambiò.
«E io non gli ho risposto che lo amavo. Non gliel’ho det-
to. Ero arrabbiata con lui».
Diedi un colpetto al braccio di Charine con il mio, per
poterla sentire vicina.
«Invece lo amavo davvero».
Charine, una gomma da masticare in bocca, abbassò lo
sguardo sulle nostre braccia.
«Davvero».

182
Più tardi, quella notte, dopo che lei se n’era andata e noi
eravamo tornate a casa per sfuggire all’alba, Charine mi
disse che quella era una conversazione ricorrente con la
ragazza di Ronald. Disse che la prima volta che le aveva
raccontato cos’era successo prima della sua morte, la storia
della loro ultima telefonata, aveva pianto. Singhiozzò alla
fine, la voce rotta. Ma io lo amavo davvero, Charine, aveva detto.
Io lo amavo davvero. Davvero davvero davvero davvero. Lo aveva
ripetuto in continuazione, come se Charine ne dubitasse,
come se dovesse convincerla, mentre Charine conosceva fin
troppo bene il rimorso che ti travolge dopo la morte della
persona amata, il rimorso che dice: L’hai abbandonato.
Tutti pensiamo che avremmo potuto fare qualcosa per
salvarli. Qualcosa che li strappasse alle fauci della morte,
magari dire: Ti amo. Sei mio. Sogniamo di parlare quando
invece ci manca il dono della parola, quando ci mancano
gli occhi per vedere il palco, le luci, il pubblico, le corde e i
fili interminabili e le scenografie alle nostre spalle, e le tante
mani che li muovono. Ronald aveva visto tutto, e questo lo
aveva sepolto.

183
stiamo imparando
1991-1995

Io pregavo. Di notte, mentre la casa cigolava e ticchetta-


va attorno a me, pregavo perché ci trasferissimo di nuovo
a DeLisle. Non volevo aver paura di uscire, aver paura di
Thomas, sempre in agguato, temere quello che lui vedeva
in me e come mi avrebbe chiamato, essere terrorizzata dalla
buca nel bosco. Mia madre mi ascoltò. Dopo aver vissuto
in una zona squallida in cui ogni anno le case sembravano
più piccole e più cadenti, con gli angoli sgretolati, circondati
da erbacce, lasciammo Gulfport. Nello stretto appezzamen-
to di terra comprato a DeLisle, ormai ripulito, mia madre
sistemò una casa mobile a un modulo. La proprietà era in
cima a una collina, circondata su tre lati da pini che si in-
nalzavano da un folto sottobosco, e quando uscivamo dalla
porta vedevamo solo la casa di un vicino. Mia madre mise
la casa mobile per il lungo, ovvero con il lato sinistro posato
a terra sulla parte alta della collina e il lato destro sopraele-
vato, sostenuto da mattoni di cemento, un’asimmetria che
sotto la casa apriva uno spazio talmente ampio da poterci si-
stemare delle sedie per riposarsi tra i piloni. Di sera, qualche
coniglietto marrone e snello si nutriva dell’erba a chiazze
che separava il cortile dai boschi circostanti. Di sera, i pipi-
strelli svolazzavano attraverso le strette fessure tra gli alberi
sovrastanti, nutrendosi di sciami di zanzare, zanzare che si
alimentavano nello stagno poco profondo, secco durante
l’inverno, nascosto nella pineta a ovest della casa. Eravamo
tornati nella nostra comunità.

185
Quando ci trasferimmo a DeLisle, nostro padre si tra-
sferì a New Orleans. Pensava che lì ci sarebbero state più
opportunità di lavoro, e voleva avvicinarsi ai suoi fratelli.
Dopo aver lasciato noi a Gulfport, mio padre era andato
a vivere con la sua fidanzata adolescente, poi aveva vissuto
in piccoli appartamenti bui di cui la costa era piena, a volte
con coinquilini, altre da solo. Smise di mandare l’assegno di
mantenimento per i figli e saltava da un lavoro all’altro con
tanta rapidità che le autorità non riuscivano a pignorargli
lo stipendio. A New Orleans visse nella casa infestata dai
fantasmi con le sbarre alle finestre, dove il vento di notte
echeggiava attraverso il capannone industriale alle sue spal-
le e ordinava al metallo di parlare. Poi si spostò in un piccolo
condominio a due piani con solo sei appartamenti da una o
due camere da letto. L’affitto lì era inferiore. Il palazzo era
di legno grigio e mattoni rossi, al primo piano viveva il suo
fratello maggiore, Dwight. Negli anni del liceo passavo lì i
fine settimana e le vacanze estive.

In prima media ero l’unica ragazza nera nella scuola pri-


vata episcopale, e capii da subito che lo sarei stata anche al
liceo. Quello che non sapevo è che sarei rimasta l’unica ra-
gazza nera del liceo episcopale quasi fino alla fine: durante
il mio ultimo anno si iscrisse un’altra ragazza nera, ma non
ci parlammo mai. Il solo ragazzo nero frequentava l’ultimo
anno quando io ero in seconda media, e a volte mi saluta-
va con un cenno del capo, ma più spesso mi ignorava. Si
sentiva a suo agio con i compagni, se ne andava in giro con
loro nei corridoi ed era un loro clone: indossava polo, pan-
taloncini kaki, scarpe da barca. Si diceva che lo facessero
entrare di nascosto allo yacht club locale e lo portassero in
barca a vela con loro: ufficiosamente non gli era consentito

186
farne parte, visto che per metà era nero: quindi, tradotto
nella lingua del club, era nero e basta. Oggi mi rendo conto
che anche la scuola ha contribuito a complicare lo sviluppo
di un legame con loro due: entrambi venivano da famiglie
bigenitoriali della borghesia media o medio-alta. Vivevano
in zone esclusive con piscine, palestre, golf club e quote an-
nuali da versare al comitato di quartiere, e quella cultura
era totalmente aliena dalla mia, che era fatta di sussidi go-
vernativi, povertà e case rotte. Non avevamo niente di cui
parlare.
La maggior parte dei ragazzi neri che si iscrissero più tar-
di, durante i miei anni di liceo, avevano una borsa di studio
per la pallacanestro. Venivano tutti da contesti sociali più
vicini al mio e i nostri rapporti erano più semplici. Scherza-
vo con loro in corridoio tra una lezione e l’altra ogni volta
che potevo, e quei momenti di cameratismo mi davano un
po’ di tregua, un’illusione di comunità. Ma era appunto solo
un’illusione: a causa del mio disgusto per gli sport di squa-
dra e del mio amore per i libri, ero comunque una marzia-
na. Avevo amici, amici che erano marziani come me, in altri
sensi: artisti o scrittori, ragazzi che amavano la ceramica o
la musica punk o il teatro, ma erano comunque diversi da
me. Soprattutto, la scuola non ospitava mai più di otto stu-
denti neri alla volta. Durante il mio percorso d’istruzione in
quell’istituto ci sono stati solo altri tre studenti di colore: una
sinoamericana e, in seguito, due studenti ispanici, tutti e tre
provenienti da famiglie facoltose. Gli studenti nel liceo epi-
scopale non erano mai stati più di 180, e mai meno di 100.
Quei ragazzi appartenevano perlopiù alla classe media o
alta. Anche se la scuola era piena di studenti facoltosi, que-
sta ricchezza non si rifletteva nell’edificio. Mentre la scuola
privata episcopale che avevo frequentato alle medie era in
un palazzo molto simile alle scuole pubbliche in cui avevo

187
studiato, mattoni rossi con aule aperte e ariose, il liceo era
tutt’altro. Prima del 1969, il comitato direttivo aveva com-
prato una villa sulla spiaggia di Pass Christian da adibire a
scuola, ma l’uragano Camille l’aveva spazzata via. Quindi
il comitato fece costruire un grande magazzino più a nord,
sempre a Pass Christian, lo articolò in aule usando pareti
sottili e divisori, installò armadietti nei corridoi e alla fine
eresse un altro magazzino più alto alle spalle del primo,
spruzzando un isolante giallo che assomigliava a muco sec-
co. Era sconcertante entrare in quell’edi­ficio, che da fuori
sembrava un capannone, e vedere studenti che portavano
tutti i tratti distintivi della ricchezza e della buona salute:
apparecchi ai denti, capelli lucenti e folti, abbronzatura, e
polo. Alcuni erano così ricchi da potersi permettere auto
di lusso fatte su misura per soddisfare i loro capricci: Lexus
e bmw equipaggiate da corsa. Alcuni dormivano su letti
dell’epo­ca coloniale da cui si poteva scendere solo con una
piccola scala. Nessuno viveva in case mobili. E durante gli
anni che passai in quella scuola, mia madre fece le pulizie
per loro. A volte portava a casa grossi sacchi della spazza-
tura pieni di indumenti di seconda mano. Joshua, Nerissa e
Charine rifiutavano di indossare i loro scarti. Io invece rovi-
stavo tra i panni, scegliendo i capi che mi stavano bene, che
ritenevo ragionevolmente di moda, e pregavo che a scuola la
loro precedente proprietaria non si accorgesse che li avevo
addosso. Misi insieme un guardaroba racimolato dai miei
compagni nella speranza che quel miscuglio di capi firmati
mi avrebbe camuffato, consentendomi di essere una di loro.
Mi unii anche ai loro gruppi giovanili di preghiera, diven-
ni esperta del lessico della religione organizzata, tutto nella
speranza di non essere considerata sempre e solo un’eter­na
aliena. Ma, per quanto riguardava alcuni studenti, le nostre
differenze erano impossibili da ignorare.

188
Un giorno, qualche mese dopo l’inizio della seconda me-
dia, ero entrata in palestra e mi ero seduta tra le tribune,
dietro un piccolo gruppo di compagni di classe. C’erano
quattro ragazze, tutte con le ginocchia unite, in pantalonci-
ni kaki e larghe magliette color pastello. Guardavo gli altri
ragazzi giocare a dodgeball sul campo, si tiravano la palla
con la volontà di farsi male. Barbara si stava oziosamente
attorcigliando i capelli biondi attorno alle dita: aveva le ra-
dici nere. Si era girato a guardarmi.
«Perché non mi fai qualche treccia da negra?».
«Scusa?» avevo chiesto. «Che hai detto?».
«Trecce da negra. Perché non mi fai le trecce da negra?».
Non avevo sentito male. Barbara aveva sorriso, soddisfat-
ta come un animale che si è riempito la pancia, e si era
voltata di nuovo a guardare la partita. Il caldo nella palestra
era insopportabile. Mi ero alzata ed ero scesa dalle tribune,
sperando di non inciampare. Non riuscivo a credere che
avesse detto quella parola, che l’avesse usata con tanta disin-
voltura, con un tono così insultante, e che poi ne fosse stata
così fiera. Nella mia scuola il razzismo occasionale era mol-
to diffuso, e tuttavia imbattercisi spesso non lo rendeva più
semplice da capire. Per me, per esempio, era incompren-
sibile. Non sapevo come reagire. C’erano così tanti ragaz-
zi neri nella scuola pubblica che lì avrei sempre potuto far
affidamento sull’aiuto di qualcuno per attaccare briga, per
urlarle: Albina di merda, per picchiare a sangue chi mi aveva
offeso. Qualche anno dopo, mio fratello e la sua combricco-
la avrebbero portato di nascosto a scuola coltelli e tirapugni
per ingaggiare una rissa con i ragazzi bianchi che indossa-
vano magliette con la bandiera sudista, che iniziavano ad
attaccarti per via della razza, e lanciavano la parola “negro”
come una grossa pietra. Ma al Coast Episcopal io ero sola. E
i supplizi che mi erano stati inferti a Gulfport e nella scuola

189
pubblica continuarono, e oltretutto nella scuola privata la
mia pelle scura era un concreto indicatore fisico della mia
alterità. Non c’era bisogno che giustificassi la mia infelicità
immaginando che gli altri vedessero la mia debolezza in-
teriore, che la considerassero il segnale di una differenza,
e per questo mi prendessero di mira: nella scuola privata,
il colore della pelle era un tratto eloquente di inferiorità e
debolezza, soprattutto per alcuni dei miei compagni.
Tempo dopo, mi ritrovai da sola in corridoio, durante l’in-
tervallo. Un gruppo di ragazzi bianchi, matricole e più grandi,
stava nell’atrio di fronte a me, ad ammazzare il tempo. Erano
tutti in uniforme, e almeno trenta centimetri più alti di me.
Ridevano perché uno di loro doveva aver fatto una battuta
mentre passavo. Mi fermai a guardarli: io con le gambe esili,
i polpacci senza muscoli, le clavicole simili a un piede di por-
co, il viso serio e scuro segnato da una bocca rivolta all’ingiù
cui non piaceva sorridere, dato che gli incisivi superiori erano
sporgenti ed erano un ulteriore segno della mia diversità. Mia
madre non poteva permettersi di comprarmi l’apparecchio.
«Che hai detto?» chiesi. Loro ridacchiarono.
«Hai sentito» rispose uno. Si chiamava Phillip, e mia ma-
dre andava a fare le pulizie a casa sua una volta al mese. Ci
davano sempre il sacco più grande di vestiti dismessi.
«No, non ho sentito».
«Lo sai quello che facciamo a quelli come te» rise un altro.
«No, non lo so».
Risero ancora, dandosi gomitate a vicenda, e a quel pun-
to capii. La barzelletta, qualsiasi fosse, riguardava i neri, le
mani legate e una corda al collo, un picnic. Linciaggio. Sta-
vano scherzando sul linciaggio.
«Voi non mi farete proprio un cazzo» dissi. Lo dissi prima
di pensare che io ero sola e loro erano tanti, e che non c’era
nessuno ad aiutarmi a combattere la mia battaglia.

190
A quel punto Phillip e gli amici cambiarono atteggiamen-
to. Si spostarono e smisero di parlare. Uno incrociò le brac-
cia, un altro lo imitò, e pareva che il branco fosse pronto a
muoversi insieme.
Anche se mi sembrava che il cuore stesse per saltarmi
fuori dalla gola, rimasi ferma. Sudavo e mi bruciava la fac-
cia, ma rimasi ferma.
«Non farete niente» dissi.
Capirono che non mi sarei mossa. Mi guardarono negli
occhi, forse desiderando che piangessi. Non lo feci. Il mo-
mento passò. Scrollarono le spalle, mi sfilarono davanti e se
ne andarono verso gli armadietti. Io li guardai allontanarsi.
Appena furono scomparsi, guardai i miei compagni di clas-
se nel bar della scuola, che si passavano i bicchieri facendoli
scivolare sul tavolo, che mangiavano pizza, masticando e
chiacchierando. Per un istante mi sentii vincitrice, fiera di
aver difeso le mie idee. Ma mentre osservavo i miei compa-
gni, i visi splendenti e i sorrisi ampi e bianchi dietro il vetro
che ci separava, mi resi conto di non aver vinto niente. Ero
ancora me stessa. Ero ancora sola.

Andavamo a trovare papà a New Orleans ogni fine set-


timana, tutti insieme nella piccola e sferragliante Toyota
Corolla. Charine sedeva invariabilmente davanti mentre
noi viaggiavamo dietro. A volte cantavamo con la radio, e
nostra madre ci diceva di stare zitti e di lasciarle ascolta-
re la musica. Non aveva pazienza: forse perché guidava e
i figli cantavano e lei riusciva solo a pensare a mio padre
e al fatto che non avrebbe mai voluto fare la madre in una
situazione del genere. A quel tempo Joshua era più alto di
me di almeno cinque centimetri, e più robusto. Nerissa era
di una bellezza precoce. Charine era piccola, tutta pelle e

191
ossa e buffa. Sul sedile posteriore, Josh e io sgomitavamo per
guadagnare spazio, sporgendoci in avanti e schiacciando il
braccio dell’altro nel sedile. In genere perdevo io, perché
lui era più grande e più forte di me; all’epoca, stavo comin-
ciando a capire che il potere che avevo esercitato su di lui
quando eravamo piccoli stava svanendo. Il bagagliaio era
addirittura più carico, stipato di buste piene di cibo: anche
quando non stavamo con lei, nostra madre si prendeva la
responsabilità di nutrirci. Sapeva che il frigo di papà offriva
solo condimenti, quindi ci lasciava alimenti facili da cuci-
nare, che secondo lei saremmo stati in grado di gestire da
soli: noodles, tonno, uova, pasta pronta, pane per sandwich,
burro d’arachidi e gelatina, cereali e bottiglie di latte. Una
volta, d’estate, eravamo andati a stare da mio padre per una
settimana, ma avevamo esaurito subito le scorte, quindi a
colazione e a pranzo finimmo per mangiare cereali secchi
direttamente dalla scatola, e per cena ci affidavamo all’in-
ventiva.
«Ho fame» disse Nerissa.
«Anche tu hai fame?» chiesi a Charine.
Charine annuì, saltando davanti a un grosso specchio che
papà aveva attaccato a una parete del salotto. Si stava pavo-
neggiando. Mio padre, come al solito, non era a casa. Non
era nemmeno dalla sua ultima fidanzata. Non sapevamo
dove fosse. Lo faceva spesso, ci lasciava soli a casa e spariva.
Io mi preoccupavo per lui ma sapevo che alla fine, a tarda
notte, sarebbe rientrato. Ero abituata a prendermi cura dei
miei fratelli e quindi lo consideravo un obbligo. Ovviamen-
te ero io a dover pensare al pasto.
Joshua tirò fuori un tegame. Non avevamo mai cucinato
insieme, ma mi serviva una mano. Non avevo idea di cosa
potevo fare con i pochi avanzi della settimana. Aprii una
lattina di tonno, e lo versai nel tegame.

192
«Che altro ci mettiamo?» chiesi a Joshua.
«Formaggio» disse.
Versai ciò che avanzava del riso e dei fagioli rossi che ci
aveva preparato mamma, e Joshua aggiunse un po’ di pisel-
li. Alla fine mescolai un po’ di formaggio. Cominciò a fare
le bolle.
«Come lo chiamiamo?» chiese Josh.
«Sembra vomito» disse Nerissa.
John ne assaggiò un cucchiaio e poi mise un po’ di sale.
«È buono» disse.
«Rigurgito» dissi io. «Lo chiameremo “rigurgito”. Siamo
cuochi!».
Lo mangiammo quasi tutto. Quando mio padre tornò a
casa ne era avanzato pochissimo. Lo assaggiò, ma pratica-
mente lo lasciò nella pentola. Più tardi, accese la musica sul
grande stereo del salotto e ballammo tutti insieme davanti
allo specchio.
Il pomeriggio e la sera successiva, papà sparì di nuovo.
Nerissa e Charine erano a casa della fidanzata di nostro pa-
dre, perciò mio cugino Marcus, sedici anni, decise di por-
tare Joshua e me al cinema a vedere Il principe delle donne.
Cinque minuti dopo l’inizio del film, una maschera si chinò
su di noi.
«Joshua e Mimi?». Siamo troppo piccoli per stare qui, pensai.
Ci cacciano via. «Vostro cugino è svenuto in bagno. Forse è
ubriaco».
Seguimmo la maschera in bagno e vedemmo Marcus
prono sulle piastrelle. Aveva bevuto prima che prendessimo
l’autobus per andare al cinema, ma non mi ero resa conto
che fosse ubriaco. Ero terrorizzata. A casa di papà non c’era
il telefono, e io non conoscevo i numeri dei suoi fratelli o
della sua compagna. Eravamo abbandonati a noi stessi.
«Che facciamo?» dissi.

193
«Vieni» disse Josh.
Andò al telefono a gettoni in corridoio, iniziò a sfogliare
l’elenco.
«Il numero dello zio Dwight dev’essere qui» dissi. Non
ci avevo pensato, e mi sentii stupida a essermi lasciata so-
praffare dal terrore mentre mio fratello, di tre anni più pic-
colo, era rimasto tanto calmo. E concreto. Joshua trovò il
numero e chiamò nostro zio. Dopo circa mezz’ora, papà
arrivò al cinema su una Cadillac grossa e vecchia con i
sedili di pelle bianca. Trascinò fuori Marcus e lo buttò sul
sedile posteriore, e noi lo seguimmo. Gli chiesi di chi fosse
la macchina.
«Di un amico» disse. Io supposi che l’avesse presa a pre-
stito da una delle sue fidanzate.
«È stato Josh ad avere l’idea di chiamare lo zio Dwight. Io
non sapevo che fare» dissi.
Joshua era deluso. I nostri gusti in fatto di film erano cam-
biati: da quelli dell’orrore, eravamo passati ai film d’azio­
ne di Arnold Schwarzenegger e alle commedie di Eddie
Murphy. Il principe delle donne era il primo film con Eddie
Murphy che andavamo a vedere al cinema, e Josh non stava
nella pelle. Anche se non ero stata io a svenire in una pozza
di vomito in bagno, in un certo senso mi sentivo responsabi-
le per la sua delusione di quella sera. Ma lui mi aveva dimo-
strato di saper essere equilibrato e solido, al contrario di me.
«Geniale» disse mio padre. «Bel senso pratico. Che ti è
preso, Mimi?».
Non gli risposi. Era la prima volta che qualcuno mi di-
ceva che mancavo di senso pratico e per me era strano
sentirmi rimproverare per una cosa simile, dato che venivo
lodata per la mia intelligenza sin dalla nascita. Forse papà
scherzava, ma io non lo presi come uno scherzo; anzi, ag-
giunsi quell’osservazione alla lunga lista di motivi che mi

194
aiutavano a capire perché ci aveva lasciato, e perché conti-
nuava a lasciarci anche quando mia madre ci portava da lui.

Un giorno, Topher, un ragazzo di due anni più grande


di me, entrò in classe mentre stavamo facendo un compito
di Storia. L’insegnante era uscita per fare delle fotocopie
già da dieci minuti, quando arrivò lui, sorridendo a tutta
la classe. Appena mi vide, si fermò un istante, sulla faccia
gli si dipinse un’espressione truce. Poi mi sorrise e si sedette
sul mio banco. Io alzai gli occhi e lui cominciò a raccontare
barzellette sui neri.
«Come si chiama un negro che...?» disse. Era più alto di
me, i capelli a spazzola erano biondi e sudici, e aveva il viso
stretto. Si rispose da solo.
«Quanti negri ci vogliono per...?» disse. Abbassò lo sguar-
do sulla mia testa, e io abbassai lo sguardo sul banco. Si
rispose da solo.
«Cosa dice un negro a un altro negro quando...?» disse.
Io dissi a me stessa: Non piangere. Questo stronzo vuole vederti
piangere, vuole vederti dare di matto. Fai il compito. Fai il compito e
basta.
«Un negro, un asiatico e un polacco entrano in un bar...»
disse. Finì la barzelletta, rovesciò la testa all’indietro e rise
guardando il soffitto dalle luci fluorescenti. Io ero in fiamme,
sudavo. Scrissi una parola o due, tenni la matita appoggiata
sul compito come se fossi sul punto di creare qualcosa di
profondo, qualcosa che avrebbe meritato il massimo dei
voti. Topher era insofferente.
«Dai, Mimi» disse. «So che conosci qualche barzelletta
divertente su noi albini di merda. Perché non ce ne racconti
una?». Io lo fissai e pensai a quanto sarebbe stato bello sal-
targli addosso, mettergli le mani al collo, affondare le dita

195
nella pelle e nei muscoli dell’esofago, spingere e vederlo di-
ventare blu. Metterlo a tacere esattamente come aveva fatto
lui con me solo entrando in classe, solo perché era bianco
e biondo, un ragazzo che trattava il mondo come se fosse
stato creato solo perché lui potesse calpestarlo.
«Topher» la professoressa di Storia rientrò in aula, i ca-
pelli biondi cotonati le incorniciavano l’ovale del viso come
un nido. «Esci dalla mia classe». Non lo rimproverò per
quel che aveva detto, per le barzellette. Non le aveva sentite.
Io guardai i miei compagni e loro guardarono il compito.
Nessuno disse una parola.
Alcuni erano miei amici, ma non presero mai le mie parti,
le parti dei neri, quando ero in classe. E secondo quanto ri-
ferito da altri in privato, non lo facevano nemmeno quando
non ero presente. Forse erano solo sconvolti, o imbarazzati.
Non lo sapevo. Un giorno, durante l’intervallo, una delle
mie compagne, Sophia, viso tondo e capelli lisci e castani,
mi prese in disparte nel bar degli studenti.
«Ho saputo una cosa» disse.
«Che cosa?».
«Eravamo tutti nell’aula della professoressa Day, lei è
uscita e noi ci siamo messi a chiacchierare del più e del
meno. Abbiamo iniziato a chiacchierare dei neri e Molly ha
detto che non avrebbe mai potuto baciarne uno, che non le
passava nemmeno per l’anticamera del cervello perché han-
no i labbroni. E poi Wendy ci ha raccontato che dei neri,
una volta, sono entrati nel suo vialetto per fare inversione e
il padre gli ha gridato di andarsene. Ha detto che li ha chia-
mati “cani”. Cani, ha detto». Wendy era una delle poche
altre ragazze della scuola di un’etnia diversa: la famiglia era
sinoamericana. All’epoca ne rimasi stupita. Non mi aspetta-
vo una cosa simile da un’altra persona di colore. Anni dopo,
all’università, avrei letto un saggio di Toni Morrison in cui

196
l’autrice ipotizzava che fosse un atteggiamento normale
per i nuovi immigrati negli Stati Uniti: prendere posizione
contro i neri sin dall’inizio, in modo che i membri di quel
gruppo etnico non venissero associati ai neri, gli ultimi tra
gli ultimi, ma, al contrario, a chi li disprezzava.
«Come Scooby Doo?» dissi. «Proprio come i cani?».
«Sì» disse.
«E tu cos’hai detto?».
«Non ho detto niente» rispose Sophia.
Perché me lo racconti, allora? avrei voluto chiederle, ma non
lo feci: credetti di capire dalla sua espressione alcuni dei
motivi. Sembrava dispiaciuta e in preda al rimorso, le so-
pracciglia aggrottate e gli angoli della bocca rivolti all’in-
giù. Per la prima volta capii che alcuni dei miei compagni
si sentivano in colpa per il loro atteggiamento complice, si
sentivano male per aver tenuto la bocca chiusa, per essere
stati d’accordo. Per non aver preso le mie parti, mentre io li
consideravo amici.
«Be’, grazie» dissi. Mi agitai sulla panca verde scuro, ab-
bassai lo sguardo sulle mani appoggiate sul tavolo. Non sa-
pevo come rispondere a Sophia. Non avevo mai nemmeno
pensato di dover affrontare Wendy.
Anni dopo, mi resi conto che, riferendomi quella storia,
Sophia mi stava chiedendo perdono. Ma, quando lei tac-
que, protesa sul tavolo, piena di speranza, io non lo capii.
All’epoca quel che mi diceva non significava poi molto per
me. Davo per scontato che, malgrado l’amicizia che ci le-
gava, molti dei miei compagni bianchi fossero razzisti: solo
che alcuni di loro avevano le palle per farsi avanti e dirmelo
in faccia. Avrei dovuto parlare di ciò che provavo con qual-
cuno degli insegnanti, ma non ci ho mai pensato. In seguito,
ormai grande, raccontai a una delle mie professoresse di
Scienze quanto mi era successo e lei rispose: «Avrei voluto

197
che me lo avessi detto». Ma non potevo. Ero talmente triste
per il sottotesto che percepivo, così triste da restare ammu-
tolita, perché il messaggio era sempre lo stesso: Sei nera. Sei
inferiore a un bianco. E poi, il cuore pulsante della questione:
Sei inferiore a un essere umano.
A volte avrei voluto andarmene da quella scuola. Ma
come avrei spiegato a mia madre che non volevo approfitta-
re dell’opportunità che lei mi forniva ammazzandosi di la-
voro? Un giorno affrontai l’argomento, spinta da un paio di
amici, artisti e scrittori, che avrebbero lasciato la mia scuola
per frequentare istituti privati in California. Potresti vincere
facilmente una borsa di studio, mi avevano detto. Mi avevano
persino invitato ad andare a trovarli, e benché sapessi che il
razzismo era ovunque e che la penuria di visi neri nei loro
collegi mi spaventava, io volevo inviare la domanda, vole-
vo andarmene dal Mississippi, sfuggire al concetto contro
cui sbattevo ogni giorno in famiglia, nella mia comunità e
nella mia scuola, secondo cui io ero inutile, una sensazione
onnipresente come il caldo umido e nauseante. «Non puoi
andartene» disse mia madre. «Devi aiutarmi con i tuoi fra-
telli». Quando rispose così, io sentii tutto il peso del Sud
schiacciarmi le spalle, e fu allora che decisi di lasciare quel
posto per andare all’università, ma rispettando i sacrifici di
mia madre. Studiai di più. Lessi di più. Come facevo, allo-
ra, a sapere che la mia vita sarebbe stata questa: desidera-
re con tutta me stessa di andarmene dal Sud e andarmene
continuamente, per poi tornare sempre, richiamata da un
amore così intenso da soffocarmi?

Alla fine di quell’anno scolastico, Joshua andò a stare da


papà per i due mesi di vacanze estive. Aveva tredici anni.
All’epoca era più alto di nostra madre, che non lo intimidiva

198
con i vecchi metodi con cui intimidiva me o le mie sorelle.
Lui, con lei, era sicuro di sé, brutalmente sincero e spiritoso,
le raccontava delle ragazze che gli piacevano o dei suoi ami-
ci, le raccontava cose che né io né le mie sorelle avremmo
mai osato dire. Era un maschio e mia madre lo amava spe-
cialmente per questo. Ma sapeva quali erano i pericoli per
un nero nel Sud, e credeva che mio padre potesse insegnargli
alcune cose, cose importanti sulla sopravvivenza, cose che lei
non riteneva di potergli insegnare. Pur essendo in grado di
istruirlo su cosa significasse essere forte, lavorare sodo, ama-
re incondizionatamente, sacrificarsi per gli altri, resistere, lo
mandò da nostro padre.
Joshua mi mancava, ma non mi resi conto di quanto fin-
ché mia madre portò noi ragazze a casa di papà e vidi mio
fratello, i capelli corti, seduto in maglietta e boxer sul divano
dove dormiva. Nerissa e Charine corsero in camera di mio
padre e iniziarono a litigare su cosa guardare in tv.
«Odio quel maledetto videoregistratore» disse Josh, scrol-
lando le spalle verso un vecchio videoregistratore coperto
da un sottile velo di polvere in un angolo del salotto.
«Perché?».
«Ci sono gli scarafaggi».
«Ci vivono dentro?».
«Sì».
«Sono piccoli?».
«No. Grossi scarafaggi».
«Be’, come fai a sapere che vivono lì dentro?».
«Ogni notte, quando me ne sto sdraiato qui e cerco di dor-
mire, li sento strisciare. Poi escono e volano per tutta la stanza».
«Ma come? Gli scarafaggi volano?». Ero scioccata. Avevo
studiato tanto e letto un sacco di libri eppure non lo sapevo.
«Sì. Volano in cerchio intorno alla stanza, continuamente.
Come elicotteri. Come se stessero cercando di bombardarmi».

199
Risi, ma ero inorridita. Davvero gli scarafaggi volavano?
E poi ebbi un sussulto, e mi chiesi cos’altro sapesse più di me
mio fratello, vivendo a New Orleans con mio padre, doven-
do comportarsi da adulto in molti sensi, essere responsabile
di se stesso perché mio padre era quasi sempre assente, trop-
po impegnato a correre dietro alle donne o a divertirsi. Mio
fratello dev’essersi sentito solo lì, abituato com’era al caos
circoscritto del salotto condiviso con quattro donne. Doveva
essere felice di vederci quanto lo eravamo noi.
«Di giorno si nascondono nel videoregistratore. E non
funziona nemmeno». Joshua rise. «Non so perché papà se
lo tiene».
Sono sicura che mio padre guardasse al videoregistratore
come guardava alla maggior parte degli oggetti rotti, pen-
sando che si potessero riparare. Ricordava gli anni Sessanta
e Settanta, quando le Pantere Nere regalavano il pranzo
a lui e alle sue sorelle prima di andare a scuola: ricordava
che Oakland all’epoca gli sembrava sotto assedio, e che era
riuscita a unire le forze sotto la guida delle Pantere. Ascolta-
va i Public Enemy e solo i Public Enemy. Aveva tutti i loro
album. Quando attraversavamo il quartiere, lui parlava con
tutti, con le persone sedute sui gradini delle case o sulle ve-
rande strette. Credeva nel potere della comunità, nel potere
della politica consapevole per combattere il razzismo e tra-
sformare gli oppressi in persone emancipate.
Ogni volta che a mio padre avanzava qualche soldo dai
suoi lavori in fabbrica o nella vigilanza, ci portava a un
minimarket oltre la diga e ci regalava labbra di maiale sot-
taceto, patatine e bibite fredde. Un giorno gli si è avvici-
nata una donna anziana, vestita di bianco, la pelle scura
messa in risalto dal tessuto, i capelli tirati indietro in una
coda di cavallo. Per me fu difficile capire che era una donna:
era talmente magra da non avere nessuna delle curve che

200
associavo a tutte le donne della mia famiglia. Gli avambrac-
ci erano grossi quanto le braccia. Sorrise a mio padre, e
vidi che le mancavano dei denti; la linea gengivale dei pochi
superstiti era nera. E non era la sola. Guardai i passanti e mi
resi conto che metà quartiere sembrava sul punto di morire
di fame. Tornando a casa, lo domandai a mio padre. Il sole
stava tramontando e il cielo di New Orleans era rosa tra i fili
elettrici, che anche qui, dove le sfilate non si avventuravano,
erano intrecciati alle collane del Mardi Gras.
«Perché sono tutti così scheletrici?» chiesi.
Mio padre mi guardò. Mi parlava sempre come se fossi
adulta.
«È il crack» disse. «Sono tutti dipendenti dal crack».
Josh camminava dall’altra parte, masticando un labbro
di maiale.
«Tutti?» dissi.
«Tutti quelli che sono pelle e ossa».
Mi accigliai. La maggioranza del quartiere fumava crack.
Uomini e donne scheletrici, dai passi incerti, destinati a un
eterno vagabondaggio: le uniche altre persone per strada
erano uno o due bellissimi adolescenti, di qualche anno più
grandi di me, che indossavano canottiere e monili d’oro.
Erano appoggiati sbadatamente su reti metalliche all’ombra
di querce allampanate, eppure continuavano ad abbronzar-
si al sole, e i morti che camminavano gli si radunavano at-
torno, mentre i bambini in bicicletta e a piedi fendevano la
folla, giocando e ridendo.
Ma mi chiesi se le filosofie di mio padre avrebbero mai po-
tuto fare qualche differenza a New Orleans. La rivelazione
di papà su drogati e spacciatori mi spalancò gli occhi sul
quartiere, mi mostrò le strade strette, tutte piene di buche
e perlopiù vuote, dove abitavano famiglie che parevano
composte solo da vecchi e bambini, adulti resi invalidi dal

201
crack e giovani che ne ignoravano l’esistenza o che ne tra-
evano profitto. L’aria odorava di fango di palude, di caffè
bruciato, e di qualcosa che assomigliava al liquame, ma io
ci sentivo anche altro: la violenza indotta dalla disperazio-
ne e dall’angoscia. Il crack, rapido ed economico, che bru-
ciava alla velocità della luce, stava divorando l’anima dei
quartieri e delle comunità di tutti gli Stati Uniti tra la fine
degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, consumato
da chi desiderava disperatamente una via di fuga, la pace.
Avevo paura ad andare in giro senza mio padre e i miei
fratelli. Joshua, tuttavia, era più coraggioso, forse perché era
costretto a esserlo. Aveva riconosciuto prima di me il peri-
colo nascosto in quel luogo e sapeva di non poter far altro
che destreggiarsi nel quartiere senza esitazioni, con astuzia,
pena non poter scendere in strada come un vero uomo. Es-
sere un uomo voleva dire mostrare forza e abilità: per mio
fratello, ciò equivaleva a essere impavido. Doveva dimostra-
re una forza che non sentiva di avere, esibire una spietatezza
che non gli era propria. Il fine settimana successivo, quan-
do mia madre riportò noi sorelle a New Orleans, papà ci
raccontò che mentre stava andando al minimarket, Joshua
era stato colpito da due ragazzi che gli avevano sferrato un
pugno alla nuca. «Perché non era della zona» mio padre ci
disse, riferendoci quel che gli aveva raccontato Josh.
«E tu cosa gli hai fatto?» chiesi.
«Ho parlato con loro» disse mio padre «e gli ho spiegato
che si sbagliavano». Da parte di una cintura nera di arti
marziali, questo atteggiamento mi deluse, ma io non capivo
che era precisamente l’insegnamento che mio padre aveva
tratto da quella disciplina. La violenza doveva essere l’ul-
tima spiaggia. La musica che mio padre ascoltava rinfor-
zava questa convinzione; c’erano altri modi per risolvere il
conflitto. E nel gestire la situazione come aveva fatto, mio

202
padre stava tentando di insegnare a mio fratello a evitare la
violenza che infestava la comunità nera in cui viveva. Forse
pensava di poter tirare su un ragazzo diverso, determinato
a non farsi sommergere dalla marea del razzismo e della
disuguaglianza socioeconomica e dalla Storia, dal disprez-
zo di sé e dal comportamento distruttivo che ne scaturiva.
Forse voleva un figlio che potesse alimentare un cambia-
mento, come una Pantera Nera. All’epoca, io non vedevo
tutto questo, volevo solo trovare i ragazzi che avevano pic-
chiato Joshua e mettergli le mani addosso. Volevo prendere
le difese di mio fratello, come non avevo quasi mai fatto
per me stessa, a scuola. A lui non serve la vostra zona, gli avrei
detto. Quando vidi Josh, lui mi raccontò che gli scarafaggi
perlustravano ancora la stanza, e che lui se la faceva ancora
addosso. Mi fece ridere. Anche se vivevamo in case diver-
se, eravamo vicini più che mai. Volevo che mi raccontasse
dei ragazzi, della bicicletta, del pugno, speravo che corresse
da me come avrebbe fatto un fratello minore con la sorella
grande. E anche se parlavamo quasi di tutto, lui da me non
venne mai. Sapeva che non avrei potuto fare niente per lui.

Dopo il nostro ultimo fine settimana estivo, tornammo in


Mississippi per l’inizio di un nuovo anno scolastico. Ogni
tanto, se mia madre non aveva ancora finito con le incom-
benze della giornata, lasciava Josh con le mie sorelle, veniva
a prendermi all’uscita della scuola e mi portava con sé. La
famiglia per cui lavorava viveva in una villa sulla spiaggia,
grande e antica, dipinta di blu scuro, con un cottage a due
piani per gli ospiti che in precedenza fungeva da abitazione
per la servitù. In giornate come questa, mi sedevo in cucina
con la moglie e i figli del proprietario, che avevano parec-
chi anni meno di me, guardavamo la tv e chiacchieravamo.

203
Io osservavo mia madre fare le pulizie: era una presenza
talmente formidabile in casa che non riuscivo a staccarle
gli occhi di dosso, il che significava che avevo qualche pro-
blema a prestare attenzione alla signora. Perché mia madre
era così silenziosa? Perché sembrava così mansueta? Non
l’avevo mai vista così. La mia attenzione era divisa tra due
mondi.
«Che lingua straniera studi a scuola?» chiese la signora.
Era alta, in salute, bionda, robusta e socievole.
«Francese» dissi. Guardai mia madre scacciare il gatto
dal bancone e spruzzare il disinfettante sulle piastrelle pri-
ma di strofinare.
«È una lingua difficile».
Annuii. Mia madre sciacquò i piatti e si mise a caricare
la lavastoviglie.
«È difficile ascoltare le parole, capire dove finisce l’una e
comincia l’altra».
Annuii di nuovo. Mi sentivo a disagio con le mani in
mano. Avrei dovuto stare al bancone, aiutare mia madre,
passarle i piatti.
«Lo spagnolo è molto più facile» disse la signora.
Mia madre si chinò, versò il detersivo in polvere nella
lavastoviglie. Quando chiuse lo sportello e si raddrizzò, mi
diede l’impressione che la schiena le dolesse. Prese una sco-
pa e iniziò a spazzare.
«Be’, la nostra famiglia parlava francese» dissi. «Francese
creolo. Ecco perché voglio impararlo». Mi sembrò una voce
sconosciuta. Mia madre continuava a spazzare il pavimento
della cucina, proseguendo dietro il bancone. Tutta la casa
aveva pavimenti di legno, al piano superiore e quella infe-
riore, e mia madre li lavava tutti a mano.
«Il modo migliore di imparare è viaggiare. Immergersi
completamente nella lingua» disse la signora. Il pappagallo

204
di casa, che era grande come il gatto e che stava in una
gabbia alta circa un metro e mezzo in un angolo del salot-
to, strillò e spalancò le ali. Il becchime era sparso sul pavi-
mento. Mia madre fece pazientemente il giro della gabbia e
continuò a spazzare. Il pappagallo spalancò di nuovo le ali,
alzando il becco in aria, allungandosi come se dovesse spic-
care il volo, poi invece si placò. Mia madre spinse la scopa
che si fece strada in silenzio intorno alla gabbia. Io annuii.
Anni dopo, al college, avrei conosciuto W.E.B. Du Bois e
l’espressione “doppia coscienza”. Quando lo lessi, pensai al
pomeriggio passato con la famiglia del datore di lavoro di mia
madre, ad aspettare che lei finisse di fare le pulizie per poter
tornare a casa. Pensai a cosa avevo provato nell’osservare mia
madre al lavoro, nel vederla in un contesto più ampio, come
cameriera nera, quasi intimidita, e pensai che in quel mo-
mento la mia pelle nera, i denti sporgenti, i capelli irascibili, le
mani che mi prudevano per il desiderio di aiutare mia madre
mi avevano fatto sentire molto a disagio. Mi formicolavano le
gambe a restare seduta a guardarla lavorare, ed ero consape-
vole che la signora si stava rivolgendo a me come a una sua
pari, coinvolgendomi, interrogandomi sui miei progetti per
il college. Ero cosciente che il privilegio della mia istruzione,
la mia eventuale ascesa a un’altra classe sociale dipendevano
dall’inesorabile fatica delle mani di mia madre. E pensai a
quanto mi sembrasse ingiusto tutto questo.

Quando mio padre tornò in Mississippi da New Orleans,


mia madre stabilì che mio fratello dovesse vivere con lui a
tempo pieno. Mio fratello stava ancora combattendo con
la scuola, e mia madre pensava che forse con mio padre se
la sarebbe cavata meglio. Mio padre andò a vivere in una
casa di mattoni rossi a un piano, lunga e bassa, a Gulfport.

205
Era in un quartiere storicamente nero, Turkey Creek, una
comunità fondata da schiavi liberati dopo la Guerra civile
nel 1866 e che ancora era la maggioranza nera, con strade
strette, modeste case di legno e piccoli giardini ordinati con
erba immacolata, circondati dal bosco. In un certo senso,
sembrava DeLisle, tranne per l’edilizia selvaggia. Il ruscel-
lo da cui il quartiere prendeva il nome era importante so-
prattutto perché tagliava un ampio canale e legittimava la
presenza di un piccolo ponte, e a volte, quando pioveva,
straripava. Joshua voleva andare a vivere con papà, anche
se per lui era difficile cambiare scuola, fare nuove amicizie,
e lasciare DeLisle. Si trasferì nella nuova casa insieme all’ul-
tima fidanzata di mio padre e al loro bambino ed ebbe una
stanza per sé, che decorò con armi e film di kung fu, o con
oggetti rubati.
A quattordici anni era un abile ladro. Non aveva mai ru-
bato quando viveva con noi, e quell’attività segnò una nuova
svolta nella sua vita, una delle prime che notai nella sua cre-
scita verso l’età adulta. Essere uomo significava dover essere
indipendente, mantenersi da sé. Era alto come mio padre,
asciutto e proporzionato, dalle braccia e gambe lunghe pronte
a ricoprirsi di muscoli forti. Indossava indumenti larghi, trop-
po grandi per lui, e quando andava da Walmart con i nuovi
amici del quartiere, nascondeva il bottino nelle magliette e
nei pantaloncini abbondanti. Rubavano cose stupide, boxer,
dolciumi e pantaloni da lavoro e me ne parlò quando Nerissa,
Charine e io andammo a trovarlo un fine settimana.
«Mi hanno bandito da Walmart» disse Josh. Io ero seduta
sul suo letto. La camera era spoglia e ordinata. C’erano au-
tomobili disegnate da lui appese alle pareti insieme a pagine
strappate da riviste di motori, dove belle ragazze ispaniche
si chinavano con aria allusiva su Chevrolet accuratamente
rifinite.

206
«Come mai?» dissi.
«Rubavamo».
«Josh!».
«Ma erano due stupidaggini. Dolci e boxer».
«Cosa sarebbe successo se avessero chiamato gli sbirri?».
«Non li hanno chiamati. Ci hanno solo portato sul retro,
hanno preso i nomi e ci hanno detto che non potevamo
entrarci mai più».
«Potevi finire nel carcere minorile».
«Avevamo già rubato lì dentro e non ci avevano beccato.
L’ultima volta ci hanno urlato dietro mentre stavamo uscen-
do ma noi ci siamo messi a correre e non sono riusciti a
prenderci».
Mi venne da ridere ma ebbi l’impressione di incoraggiarlo,
quindi smisi. Avrei dovuto punirlo, fare la sorella maggiore
che gli ricordava le possibili, gravi conseguenze. Ero preoccu-
pata per lui, preoccupata di ciò che il mondo avrebbe preteso
da lui, e di cosa lui avrebbe potuto fare per soddisfare quelle
pretese, per resistere. Eppure, al tempo stesso, ammiravo la
sua temerarietà. Continuava a combattere con la scuola: al-
lora, non capivo perché avesse tutti quei problemi alle medie.
Era brillante, arguto, capace di trovare soluzioni rapide ed
efficaci. Ora, credo che avesse una modalità di apprendere e
di studiare diversa dagli altri ragazzi, e che la scuola pubblica
non lo capisse. Anche se rubacchiava, era comunque un ra-
gazzino: sapevo che aveva provato l’erba, ma non la fumava
sempre. Sapevo anche che si era ubriacato per la prima volta
con Aldon, e uno dei nostri cugini aveva caricato lui e Aldon
sul sedile posteriore della sua Cutlass e si era lanciato in una
serie di testacoda in mezzo alla strada, facendoli vomitare in
macchina. Immagino che stesse cercando di dargli una lezio-
ne, e per quanto ne so aveva funzionato, dato che Josh non
ha mai più bevuto granché dopo quel giorno.

207
«Quindi non possiamo andare a comprare da mangiare
lì, giusto?».
«No» disse Josh. Rise. «Vieni».
Uscimmo da quella casa che aveva un soffitto talmente
basso da sembrare opprimente persino a me, che alta non
ero, e ci ritrovammo per strada, dove restammo fermi un
istante prima di vedere uno dei suoi nuovi amici, pelle e
ossa e scuro in lontananza, l’ombra che lo seguiva come una
coda, e gli andammo incontro. Mi mancava mio fratello.

Quando ero in classe, durante la settimana, pensavo a


Joshua che sfrecciava nei corridoi della sua nuova scuola,
acciuffato da nuovi insegnanti, che si faceva strada nel mon-
do senza la fortuna di aver conosciuto tutti i compagni fin
dal primo anno delle elementari. Era solo. Come me.
Col tempo, entrai più o meno a far parte della comunità
del mio liceo. Ero una cheerleader, ero nel gruppo di recita-
zione, nel direttivo degli studenti, e per breve tempo rianimai
la rivista letteraria studentesca, ma restavo comunque altra,
dal punto di vista razziale e socioeconomico. Mia madre mi
proibì di uscire con chiunque (dentro e fuori dalla scuola).
Come la maggior parte delle madri nere del Sud, era terro-
rizzata che restassi incinta ancora minorenne. Non mi per-
mise di andare a nessuna festa fino all’ultimo anno, quando
mi fu consentito di partecipare al ballo di fine anno da sola.
Odiavo tutta la musica. Un paio di studenti bianchi erano
attratti da me, e avevo sentito dire che ce n’erano anche al-
tri, ma non si facevano avanti perché ero nera. Temevano il
giudizio delle famiglie e della comunità. Scoprii quanto fosse
pericolosa questa intersezione quando una sera, durante l’ul-
timo anno, feci petting pesante con un ragazzo che il giorno
dopo, parlando con un mio compagno, un altro bianco, disse:

208
Non credo alla mescolanza razziale. Anni dopo, ricordai che mi
aveva toccato, ma si era rifiutato di baciarmi sulla bocca e sul
viso. La mia alterità era fisicamente tangibile. Almeno, pensai,
mio fratello non vivrà certe esperienze nella sua scuola.
Per resistere, passavo più tempo libero possibile, per quan-
to a scuola fosse poco, nascosta in biblioteca, prendevo libri
a caso dallo scaffale e li leggevo. In seconda media avevo
letto Via col vento; se la relazione tra Rhett e Rossella tocca-
va le corde dell’adolescente romantica che era in me, l’umi­
liazione che i confederati sconfitti riservavano agli schiavi
liberati mi disgustava. E il fatto che il libro e il film fossero
così amati in America e in tutti gli altri paesi, mi lasciava
inorridita. Davvero pensano questo dei neri? mi chiedevo. Il mio
percorso scolastico pareva attestare che per qualcuno fosse
così. Durante gli anni del liceo lessi Radici, L’uomo invisibile,
Paura, Il colore viola e, dietro insistenza di mio padre, l’Autobio-
grafia di Malcolm X. Era l’inizio degli anni Novanta, quando
alcuni gruppi rap, particolarmente sensibili, indossavano in-
dumenti a stampe africane e Chuck D ci esortava a “com-
battere contro il potere”. Io indossavo a scuola una maglietta
di Malcolm X che mio padre mi aveva regalato e fui messa
spalle al muro da una ragazza in bagno, che mi disse: «Be’,
Mimi, a quanto pare oggi avrei dovuto mettermi la maglietta
di David Duke». Quando leggevo, ero fiera del mio retaggio
africano; a scuola ero taciturna. Mentre leggevo e ascoltavo
i Public Enemy, capivo che resistere e lottare per i diritti ci-
vili era da persone forti; a scuola, invece, ero frastornata. A
casa, mentre giravo in macchina con un’amica e ascoltavo
2Pac, avevo momenti di lucidità e pensavo: Amo essere nera;
poi, qualche ora dopo, combattevo con i miei capelli, os-
sessionata dalla mia sterile vita sociale e sentimentale, e mi
disprezzavo. Un giorno mia madre mi venne a prendere, io
iniziai a raccontarle di un progetto fatto a scuola, e lei mi

209
interruppe, rivolgendosi al brecciolino, al corridoio di alberi
che conduceva alla nostra casa mobile, e disse: «Smettila di
parlare così». E cioè: Perché parli così bene? E cioè: Perché assomi-
gli a quei ragazzi bianchi con cui vai a scuola, i bianchi per cui faccio
le pulizie? E cioè: Chi sei? Quindi smisi di parlare.
Ero preoccupata per mio fratello. Mentre io, nella mia
scuola, affrontavo una sorta di razzismo evidente, scoperto,
individualizzato, dovuto al fatto che frequentavo un istituto
con ragazzi bianchi, ricchi e privilegiati del Sud degli Sta-
ti Uniti, Joshua affrontava un diverso tipo di razzismo, un
razzismo sistemico, il genere di razzismo che rendeva diffi-
cile agli amministratori scolastici e agli insegnanti guardare
oltre la sua bellezza estroversa, i voti scialbi e il disprezzo
per un’istruzione rigida, e vedere la persona nascosta die-
tro quelle apparenze. Perché inventare qualcosa che potes-
se motivarlo a imparare se, statisticamente, Joshua non era
altro che l’ennesimo ragazzo nero destinato comunque a
lasciare gli studi? Non era mai stato mandato da uno psi-
cologo, non gli avevano mai fatto dei test per accertarsi che
non avesse un disturbo dell’apprendimento, mai riservato
un occhio di riguardo che potesse dotarlo degli strumenti
per destreggiarsi al liceo. Sia mio fratello che io stavamo af-
frontando qualcosa di più grande di noi, entrambi stavamo
lottando per liberarcene, in cerca di una feritoia, una mani-
glia, un passaggio, un varco. Ed entrambi stavamo fallendo.

Avevo sedici anni quando bevvi alcol per la prima volta.


Passai la sera con la mia migliore amica del liceo. Era una
ragazza alta e generosa, implacabilmente sincera con me,
che mi ha tirato fuori da alcuni dei miei periodi più cupi di
angoscia – da adolescente – e di depressione – da adulta –,
tutte le volte in cui la mia vista si restringeva a una punta di

210
spillo e il mondo che conoscevo mi gettava nella disperazio-
ne. Eravamo sedute sul pavimento del salotto di casa sua e
bevevamo bicchierini di sherry. Quando mi salì la sbronza
ero euforica. Tutto il disprezzo che nutrivo per me stessa, il
peso della mia identità e del mio posto nel mondo mi cadde-
ro di dosso. Mi sdraiai con lei sul divano a guardare la tv e
dissi: «Mariah, spero che questa sensazione non finisca mai».
«Con tutto quello che hai bevuto non credo che finirà
tanto presto».
Corremmo al piano di sopra quando i genitori rincasa-
rono. La mia euforia si trasformò in nausea e vomitai sulla
moquette logora. Lei pulì tutto e mi aiutò ad andare in ba-
gno, dove passai la notte con la faccia sull’asse fredda del
water, svenuta. Il giorno dopo mi riportò a casa di mio pa-
dre, e io rimasi fuori con Joshua.
Avevo freddo. Indossavo una delle giacche di mio fratello
e mi strinsi le braccia attorno al corpo. Avevo la pelle secca
agli angoli della bocca, ma la fronte e il mento punteggiati
dall’acne. Joshua, che aveva quasi quattordici anni, non ave-
va brufoli. Indossava un giaccone imbottito degli Oakland
Raiders, e rise quando gli raccontai della mia nottata.
«E poi mi sono svegliata sul cesso. Mi sentivo di merda».
Joshua sorrise. Era pallido come l’inverno, ovvero aveva
un colorito dorato, e i capelli sembravano più scuri di quan-
do erano illuminati dal sole estivo. Ficcò le mani nelle tasche.
«Hai già fumato erba?».
«No». Non lo avrei fatto fino ai diciotto anni.
«È meglio. Con l’erba non ti viene il mal di testa».
Una donna camminava verso di noi. Indossava una ma-
glietta bianca a maniche lunghe con pantaloncini neri da
pallacanestro, e aveva i polpacci ossuti e cinerei. Aveva ciuffi
di capelli tinti appiccicati sulla fronte. Mi chiesi come mai
non avesse freddo.

211
«Mi piaceva all’inizio. Ma poi ho vomitato ed è diventato
uno schifo. Bleah» dissi, sentendo ancora l’acido in bocca. Il
rigurgito era stato così violento da uscirmi perfino dal naso.
La donna si fermò e parlò con mio fratello.
«Che combini?» lo disse cordialmente, con un sorriso.
Forse, come me, era colpita dalla sua bellezza, anche se era
almeno di dieci anni più piccolo di lei.
«Niente» disse. «Mi sto solo congelando».
Parlavano come se si fossero già incontrati. Io mi strinsi
con le braccia, avvertendo una residua ondata di nausea. Si
dettero la mano, poi la donna si allontanò, tenendo quella
stessa mano chiusa a pugno e premuta contro il petto, men-
tre l’altra pendeva libera e molle lungo il fianco ondeggiante.
«Deve avere freddo» dissi.
Joshua abbassò lo sguardo su di me, abbozzò un sorriset-
to, talmente esile che non riuscii a vedergli i denti. Tornò
serio e scosse la testa.
«Spaccio crack» disse.
Sembrava ansioso. Pensava che lo avrei giudicato, cosa
che feci, ma non come pensava. La donna scomparve dietro
la curva, saldamente aggrappata alla sua merce.
«Come?» chiesi. «Perché? Quando hai cominciato?».
Rabbrividii, mi strinsi tra le braccia con più forza. La paura
che avevo provato per lui aumentò, così grande e immedia-
ta che inarcai la schiena nella giacca, pronta al colpo che mi
avrebbe spaccato le ossa.
«Mi servono soldi» disse. Non obiettai. Nostro padre si
sforzava di pagare il mutuo svolgendo lavori umili e sotto-
pagati, prima in un casinò, poi di nuovo, come da ragazzo,
in una stazione di servizio. Avanzavano pochi soldi per il
cibo e i vestiti. Joshua era ancora troppo giovane per un
lavoro regolare. Forse papà gli aveva chiesto un contributo
per le bollette: una volta, quando viveva a New Orleans, mi

212
aveva chiesto di aiutarlo a pagare l’affitto. Non avrei dovuto
chiedere a mio fratello perché lo facesse. Mio fratello l’aveva
imparato: essere uomini significava provvedere a se stessi.
«I miei amici del quartiere» disse «lo fanno. Perciò un gior-
no... non è difficile... be’, qualche volta». Lo disse guardando
in lontananza il punto in cui poco prima era passata la donna.
«Non hai paura?» gli chiesi. Non rispose.
Guardai la peluria fine sul suo labbro superiore e gli occhi
castano scuro e pensai per la prima volta: Sa qualcosa che io
ignoro. Forse si era guardato allo specchio e aveva visto mio
padre, mentre io avevo visto solo l’assenza di mio padre. For-
se mio padre gli aveva insegnato fin troppo bene cosa signifi-
cava essere un nero del Sud: lavoro precario, un vicolo cieco
dopo l’altro, le istituzioni che sistematicamente ti sottovalu-
tano come lavoratore, come cittadino, come essere umano.
Mia madre era riuscita a trovare un modo per darmi un’op-
portunità, per fornirmi il genere di istruzione e privilegi so-
ciali a cui sia Joshua che io avremmo potuto accedere se non
fossimo stati marchiati dalla povertà e dalla razza, per questo
io ero determinata a studiare. Joshua aveva modelli più umi-
li e meno scelte, e come molti ragazzi della sua età sentiva
che la scuola non faceva per lui. Nel suo futuro non ha mai
visto il college, non ha mai visto lo studio come ascensore
sociale, non ha mai visto il sogno americano risplendere in
lontananza come la Stella dei Desideri. Per me c’era qualche
speranza: una casa di mattoni e legno, un lavoro dei sogni in
cui potessi fare qualcosa di impegnativo e utile, una macchi-
na nuova di zecca che non restava mai senza benzina. Joshua
avrebbe vissuto di espedienti. Avrebbe fatto quel che doveva
per sopravvivere, mentre io immaginavo un futuro diverso.
Mio fratello conosceva già la realtà dei fatti. Il suo mondo,
la sua vita: qui e ora. Josh è più grande di me, pensai. Più maturo.
Era come se avesse bevuto un’intera cassa di Tabasco.

213
joshua adam dedeaux
Nato il 27 ottobre 1980
Morto il 2 ottobre 2000

È qui che si incontrano il passato e il futuro. È dopo l’ag-


gressione del pitbull, dopo che mio padre se n’è andato, e
dopo che il cuore di mia madre si è spezzato. Dopo i bulli
in corridoio, dopo le barzellette sui negri, dopo che mio fra-
tello mi disse quello che faceva mentre eravamo per strada.
Dopo che mio padre ha avuto altri sei figli da quattro donne
diverse, quindi dieci figli in tutto. Dopo che mia madre ha
smesso di lavorare per una famiglia bianca con una villa
sulla spiaggia e ha iniziato a lavorare per un’altra famiglia
bianca con una grande casa sul bayou. Dopo due diplomi,
dopo un paralizzante periodo di nostalgia e un tiepido fi-
danzato a Stanford. Prima di Ronald, prima di C.J. Prima
di Demond, prima di Rog. È qui che le mie due storie si
uniscono. È l’estate del 2000. È l’ultima estate che passerò
con mio fratello. È il cuore. È così. Ogni giorno, è così.

Quando terminai il corso di laurea a Stanford, nell’apri­le


del 2000, feci i bagagli e spedii i resti della mia vita via ups
in Mississippi. Stavo tornando a casa. Volevo vivere nel Mis-
sissippi meridionale o comunque accanto al Mississippi, al
Sud, per qualche anno, perché ero stanca di stare lontana:
ero stanca di essere piccola in un mondo troppo grande. Ero
stanca di essere continuamente sola. Durante il mio ultimo
anno a Stanford, mi sedevo nella stanza del dormitorio, con
un letto singolo, la moquette logora e un lavandino chiuso

215
in un armadio, e fissavo la luna che splendeva luminosa fra
l’intreccio dei rami di quercia. Soffrivo così tanto per la lon-
tananza dalla mia famiglia e da DeLisle che avevo pianto.
Come faccio a tornare? Avevo sgobbato duramente al liceo, nei
fine settimana passavo le serate a studiare per i test e a de-
streggiarmi da sola nel linguaggio sconosciuto delle doman-
de d’iscrizione all’università. Andare in un college d’élite,
lontano da casa, non mi aveva trasformato in un’adulta, so-
lida e sicura di me; al contrario, mi aveva confuso, mi aveva
reso timida e incerta. Desideravo visceralmente ciò che mi
era familiare. Volevo vivere a casa da adulta, indipendente,
ma vicina alla culla della mia famiglia, a mio fratello e alle
mie sorelle, ai miei amici. Il mio ragazzo dell’epoca mi disse
che aveva deciso di accettare un lavoro a New York dopo
la laurea, e anche se stavamo insieme da cinque anni, mi
sentivo presuntuosa a seguirlo laggiù.
Infilai i vestiti in grosse valigie e volai all’aeroporto di
New Orleans, dove mia madre e mio fratello diciannovenne
mi vennero a prendere nella Caprice blu che ormai era di
Joshua. Caricarono i bagagli, pieni da scoppiare, accanto
agli altoparlanti nel baule. La musica era a basso volume.
Quando arrivammo, le mie sorelle corsero ad abbracciar-
mi. Nerissa aveva diciassette anni, mentre Charine quattor-
dici e mezzo. Mi aiutarono a scaricare le borse e a portarle
nella camera che dividevo con Nerissa e De’Sean. Josh la-
sciò le mie valigie nere sul pavimento con un grugnito di
riconoscenza.
Ero a casa.

A Stanford, avevo desiderato con tutta me stessa essere


a casa e mi ero chiesta come tornarci, ma ero miope. Non
mi ero mai chiesta cosa avrebbe significato restarci. Non

216
avevo pensato al problema del lavoro, a quanto tempo sarei
stata costretta a vivere con mia madre, a come sarebbe stato
tornare in Mississippi e sentirmi sprofondare in una palude,
come se non me ne fossi mai andata. Tanto per cominciare,
non riuscivo a trovare lavoro.
Le mie sorelle andavano a scuola e mia madre faceva an-
cora la cameriera, per cui ogni giorno, quando mi sveglia-
vo per iniziare la mia noiosa e demoralizzante ricerca di
un’occupazione, aprivo gli occhi in una casa silenziosa che
dava un poco di refrigerio dal caldo, con mio fratello che
dormiva nella stanza accanto. Aveva resistito solo un anno
a casa di mio padre, ed era tornato quando mio padre non
si poteva più permettere di pagare il mutuo e si era trasferito
in un altro appartamento. L’estate successiva era andato di
nuovo a vivere con lui per qualche mese, ma poi era tornato
ancora una volta da mia madre. Le disse, scherzando fino a
un certo punto: «Non ti lascerò mai più».
Joshua e io ci svegliavamo tutti i giorni verso mezzogior-
no, storditi e accaldati. Lui barcollava fuori dalla sua stanza,
la più piccola della casa, dove il suo corpo occupava tutto il
letto matrimoniale in cui dormiva. Aveva decorato le pareti
con i disegni fatti quando ancora andava a scuola. Teneva
le videocassette sullo scaffale della libreria che mia madre
aveva installato per lui. Quando, qualche anno prima, ave-
va allargato la casa mobile da modulo singolo a modulo
doppio con quattro camere da letto, assegnò a Josh la stanza
più piccola. E per questo motivo avevano litigato.
«Non sei mai a casa» aveva detto lei. Era sempre al lavoro
o con gli amici.
«Se avessi una stanza più spaziosa, starei a casa più spes-
so» aveva detto lui. E poi: «Ora sono il più grande». Tut-
tavia, continuò a stare nella camera più piccola e, oppresso
da quei confini, a volte usciva prima che potessi chiedergli

217
dove andasse. Il rumore della sua auto era più alto dei ru-
mori della giornata, degli insetti estivi che ronzavano tra gli
alberi, del brusio dell’elettricità all’interno della casa simile
a un insetto più grande: era questo a svegliarmi.
Andavo a casa di amici per usare il loro computer e cer-
care lavoro. Riempivo moduli, li stampavo e inviavo cur-
riculum a tappeto, ma la mia laurea in Lettere e quella
specialistica in Comunicazione erano praticamente inutili
nell’economia della costa meridionale, governata da casinò,
fabbriche, ospedali e basi militari. Iniziai a fare domanda
più lontano, in Alabama, in Louisiana, e dopo aver capito
che non avrei mai ottenuto niente, estesi la mia ricerca in
Georgia e più a nord, ma non avevo idea di quanto fosse
difficile essere scelta per un lavoro lontana dalla città di resi-
denza. Molti dei miei colleghi di Stanford erano stati assunti
dalle più importanti società di consulenza e banche d’affari,
e la facilità con cui loro avevano ottenuto un’occupazione
mi confondeva. Chiamai i datori di lavoro, li implorai di
darmi notizie, e a causa di tutte quelle interurbane la bollet-
ta di mia madre lievitò.
Mio fratello passava le giornate in giro con la macchina
nuova, una Cutlass degli anni Ottanta che aveva compra-
to dopo aver accidentalmente sparato al serbatoio della
Caprice mentre giocava con una pistola. Presentava do-
mande di lavoro a stazioni di servizio, casinò, fabbriche.
All’inizio aveva lavorato in una cereria, da cui portava a
casa grossi pezzi di cera fusa simili all’ambra. «È bellissimo»
diceva, mentre me ne faceva girare uno davanti. Dopodi-
ché, lavorò come addetto alle pulizie in una grossa stazione
di servizio, la prima del suo genere sulla costa, che forniva
ristorazione ai camionisti. Era proprio davanti alla i-10, e
lui la detestava. Parte del suo lavoro comprendeva la pulizia
dei bagni. Smise solo qualche mese dopo, ma nel frattempo

218
risparmiò un po’ di soldi e mangiò al ristorante per i camio-
nisti, dove servivano bistecche a buon prezzo e dove tutti i
tagli di carne grondavano salsa. Gli piacevano quelle pie-
tanze, a volte le portava anche a casa. Forse non amava quel
lavoro sottopagato, ma sapeva trovare la bellezza ovunque
andasse; era così che tentava di capire il mondo, era il suo
modo di dare un senso alla vita, di rendere il suo impiego
tollerabile, perché l’orrore era evidente anche a lui.
«Perché non ti piace lavorare lì?» gli chiesi una volta.
«I camionisti mi fanno schifo, cazzo» disse.
Era giugno. Nerissa e Charine ci dissero che nostra ma-
dre aveva minacciato di cacciare di casa me e Joshua se non
avessimo trovato lavoro. Settimane dopo, Joshua ne trovò
uno. Il Grand Casino di Gulfport lo assunse come parcheg-
giatore. Indossava una camicia viola con il nome del casinò
e un piccolo contenitore di monete d’oro ricamato con fili
d’oro all’altezza del cuore. Questo lavoro gli piaceva. Disse a
mia madre che lo pagavano per guidare belle macchine per
tutta la sera. Era facile. Mia madre disattivò le interurbane
perché diceva che le bollette erano troppo alte, così chiesi
a mio fratello di accompagnarmi alla stazione di servizio
durante le ore libere, lì comprai qualche scheda telefonica.
Da nessuna di queste telefonate scaturì qualcosa di buono.
Rimasi disoccupata.

Prima di trovare lavoro, e negli intervalli di tempo tra


un fast food, la cereria e la stazione di servizio, Joshua con-
tinuava di tanto in tanto a vendere crack a qualche tossi-
co del quartiere. Così metteva una toppa alla mancanza di
soldi. Per la maggior parte dei ragazzi neri che conoscevo
era necessario farlo, prima o poi: vendere un po’ di dro-
ga in un’eco­nomia inerte dove la manodopera era facile

219
da trovare e totalmente e completamente sacrificabile. Era
un’altra giornata di freddo quando lo scoprii, nel dicem-
bre del 1999, la primavera successiva sarei tornata a casa.
Ero lì per le vacanze. Eravamo in St. Stephen’s Road, nel
giardino di una vicina. Aveva una casa vecchia, fatiscente.
Ogni pezzo di rivestimento esterno era marcito, si scrosta-
vano strisce grigie e nere e marroni. I gradini della veranda
stavano crollando, i chiodi affioravano come peli non rasati.
La vicina chiamò Josh e lui andò, alto e pallido, il giubbot-
to verde e bianco imbottito dei Philadelphia Eagles che lo
faceva sembrare più grosso di quanto non fosse. Nel buio
della casa, l’aquila sbiadì e diventò color crema. Le parlò
e lei rise: una risata piena e sonora, di gola, pietrosa come
quella dei fumatori. Tagliava l’aria. Gli diede dei soldi per
quel che lui le aveva consegnato e abbracciò me e lui prima
che ce ne andassimo, lasciando lei e i suoi amici alle loro
chiacchiere, l’aria scurita dal crepuscolo, le finestre della
casa offuscate. Più tardi lo seguii nella sua stanza. Era calda,
le luci di Natale che mia madre aveva appeso sulla mensola
del camino in salotto irradiavano arcobaleni luminosi sotto
la fessura della porta.
«Spacci ancora?».
«Sì». Spostò gli occhi dalla televisione e li puntò su di
me. Sullo schermo c’era Arnold Schwarzenegger. «Cerco
lavoro».
«Davvero?».
«Credi che mi piaccia questa merda?» disse. «Io non sono
come tutti gli altri imbecilli là fuori. Sai che quando trovo
da lavorare, io lavoro».
Ero la sorella maggiore; ero preoccupata per lui. Aveva
lasciato la scuola in prima superiore, poi aveva frequentato
i corsi di orientamento professionale per un paio di mesi.
Dopo aver ricevuto una nota per le assenze e una minaccia

220
di espulsione, aveva abbandonato. «Perché hai smesso di
andare ai corsi di orientamento?» gli avevo chiesto. «Perché
quando la mattina vado a scuola in macchina, dalle case
scappano fuori ragazze seminude che, appena mi vedo-
no arrivare, si mettono in mezzo alla strada e tentano di
fermarmi». Aveva scrollato le spalle. «Che diavolo dovrei
fare?». Non scherzava. Le ragazze con cui usciva si com-
portavano veramente così e io non misi in dubbio quanto
diceva: era davvero bello a tal punto. Poi si iscrisse a dei
corsi per ottenere un attestato equivalente al diploma. Ave-
va pensato per breve tempo di arruolarsi nell’esercito, ma
dopo aver visto Full Metal Jacket aveva capito di non essere
fatto per la vita militare. Non voglio morire così, mi aveva detto
quando gli chiesi perché avesse cambiato idea.
All’epoca percepivo, vagamente, che il mondo stava cam-
biando, che l’America stava subendo un’emorragia di ma-
nodopera verso l’estero, che i lavori in fabbrica come quello
che aveva mio padre, e grazie al quale un tempo si riusciva a
mantenere tutta la famiglia, adesso stavano diventando una
rarità, e restavano solo posti a tempo determinato che mio
fratello bruciava passando dall’uno all’altro, alla ricerca di
qualcosa che gli garantisse un futuro.
«Cosa vuoi guardare dopo?» dissi, e mi sedetti sul bordo
del suo letto. Mi fece spazio, esaminò la sua collezione di
videocassette.
«Non lo so».
«Vuoi guardare Atto di forza?».
Scrollò le spalle, e in quel momento in lui rividi mio padre,
nelle belle sporgenze tonde e sode delle spalle muscolose,
nella linea dritta e regolare delle clavicole, negli avvalla-
menti del collo. Era stato tarchiato tanto a lungo che fu una
sorpresa per me ritrovarmelo davanti così, da un momento
all’altro, un uomo muscoloso e dalle spalle squadrate.

221
«Ok» disse.
Mi sistemai al buio per guardare il film con lui, aspettando
che dicesse qualcos’altro, ma lui guardò di sbieco la televisio-
ne, e aveva una ruga tra le sopracciglia, gli occhi bruni e seri.
Strofinò la pianta del piede sulla moquette, e il profumo che
era lui, quell’aroma di fieno tagliato e olio di cocco e sale, per-
vase la stanza. Raccolsi le gambe contro il petto, ci appoggiai
sopra il mento e guardai Schwarzenegger lottare con il pre-
datore alieno che minacciava di ucciderlo. Era in svantaggio.
Ma aveva l’irruenza del vigore e di una stupida speranza.

Solo in un’altra occasione mi sentii la sorella maggiore


del mio fratellino. Quasi sempre, di solito, avevo la sensazio-
ne di essere io la più piccola, dato che Joshua era riuscito a
trovare lavoro, a comprarsi un’automobile e mi raccontava
cose che mettevano continuamente in risalto la mia inge-
nuità nei confronti della mia vita e della sua. Nell’estate del
2000 avevo speso tutti i soldi risparmiati durante il college,
circa tremila dollari, per comprare una Toyota Corolla usa-
ta. Era vecchia e rumorosa, e mi vergognavo di guidarla.
«Cazzo, la guiderò io, allora» aveva detto Joshua quando mi
lamentai della macchina. Un giorno chiamai mio padre, gli
chiesi se poteva cambiare l’olio e il filtro alla macchina se io
li avessi comprati e lui disse di sì, perciò dissi a mio fratello
di accompagnarmi al negozio di autoricambi perché non
avevo idea di quale filtro né di quanti litri d’olio prendere.
Era autunno e faceva freddo, quindi abbassai i finestrini
per lasciar aperto solo uno spiraglio, ma l’abitacolo era
abbastanza caldo da poter viaggiare senza riscaldamento.
Josh indossava un giubbotto scozzese blu scuro e giganteg-
giava nella mia piccola automobile. Alcuni dei nostri amici
del quartiere, Rob e Pot e Duck, gli avevano affibbiato un

222
soprannome: Ojacc. Assomiglia a un grosso taglialegna del cazzo,
diceva Pot.
«Smettila di guidare come una vecchia» disse.
«Che vuoi dire?» chiesi.
«Vai troppo piano».
«No, non è vero».
«E perché ti comporti come se avessi paura di accelera-
re?» rise, e io scrollai le spalle. Sembrava che mi stesse rim-
proverando, come se fossi piccola. «Non sai guidare».
Attraversammo le zone più sperdute, i sempreverdi alti
sui lati della strada, il cielo che era una striscia azzurra so-
pra le nostre teste, case silenziose qua e là, il profumo del-
la campagna in autunno che permeava l’aria: la legna che
bruciava ed emanava un forte odore di aghi di pino e di
fumo. Josh si accese una sigaretta.
«Devi smettere di fumare» dissi.
«Sono stressato» disse. Mi sembrava molto più grande di
me da così tanto tempo che restai sorpresa quando iniziò a
parlare della sua ragazza, venuta a stare con noi per un po’
perché un parente aveva cercato di violentarla.
«La amo» disse. «Non so cosa fare. Cosa si fa quando si
ama così tanto una persona? Cosa mi dici della fiducia?».
Da membro di una comunità in cui la fiducia – tra figli e ge-
nitori, tra amanti, tra i cittadini e il loro paese – scarseggiava,
mio fratello era combattuto. Joshua aspirò profondamente,
soffiò il fumo fuori dalla fessura del finestrino; in parte rim-
balzò contro il vetro e rientrò serpeggiando nell’abi­tacolo.
Lei lo aveva già tradito all’inizio della loro relazione. Mi
chiedeva un consiglio. Feci del mio meglio.
«Devi fare un tentativo» dissi. «Perdonala. Fidati anche
se ti ha fatto del male».
Scosse la testa.
«Non lo so» disse.

223
«Insomma, credo che le cose stiano così. Se è destino che
voi due stiate insieme, funzionerà».
«La amo tantissimo» disse.
«Ti capisco» dissi. Era la sola cosa che riuscii a risponde-
re per fargli sapere che prendevo sul serio il compito che mi
aveva affidato. «Ti capisco».
Nel negozio di autoricambi, mi portò allo scaffale dell’olio
e dei filtri e poi alla cassa. Dopo che ebbi pagato, prese le
buste e le portò in macchina. Gli arrivavo alle spalle. Era
solo la seconda o terza volta che veniva con me in macchi-
na; avevamo imparato a guidare nello stesso periodo, e dato
che io non avevo mai avuto un’auto, mentre lui ne aveva
comprata una presto, in genere stava sempre lui al volante.
Era più bravo di me, guidava con un braccio – su cui si era
fatto tatuare le parole sunshine e scorpio – appoggiato al
finestrino, e l’altro – con i tatuaggi dedeaux e ojacc – sul
volante. Uscendo dal parcheggio, mandai su di giri il mo-
tore, nel tentativo di dimostrargli che non avevo paura di
guidare e premetti sull’acceleratore. Fu un errore. L’uscita
nascondeva un ampio avvallamento e la macchina ci rim-
balzò dentro, il paraurti picchiò sull’asfalto e si sentì un bot-
to assordante prima che la macchina saltasse di nuovo fuori.
Sterzai bruscamente per immettermi nel traffico.
«Oh, cazzo» dissi.
Joshua guardò dietro. Io mi aspettavo di sentire uno stra-
scichio.
«Ho distrutto il paraurti, cazzo» dissi. «Lo so».
«Credo che sia a posto» disse lui. Sempre equilibrato. Ma-
turo. Una volta avevo dato di matto con mia madre, ero su
tutte le furie. Joshua mi aveva riso in faccia. Calmati, diceva.
Calmati, adesso. «Controlleremo a casa di papà».
A casa di mio padre, a Gaston Point, tutti e tre ci mettem-
mo a valutare il danno.

224
«Va tutto bene» disse Josh.
«No, guarda» dissi io. «C’è uno spazio tra il paraurti e la
carrozzeria. Non era così prima».
«Non lo vedo» disse Josh, le braccia conserte, il peso tutto
da una parte.
«Ti riferisci a questo?» chiese mio padre. Aveva i capel-
li lunghi e neri, raccolti in una treccia che gli serpeggiava
sulla schiena. A quarantaquattro anni compiuti, non erano
ancora stemperati dal grigio, il fisico era ancora quello di un
ragazzo, la pelle ancora intatta e senza rughe. Immaginavo
fosse felice di vedere mio fratello più alto di lui, di vedere
che era diventato un giovane serio, capace di lavorare con
le macchine e di mantenersi. «Sei sicura che non c’era?».
«Non c’era».
«Sicura?» chiese Josh.
«Sì».
«Avanti, bello» disse mio padre. Lui e mio padre si chi-
narono sul paraurti, cercando di incastrarlo di nuovo nella
carrozzeria. Joshua fece scivolare il corpo alto sotto la mac-
china, tirò, cominciò a sentire caldo sotto il debole sole au-
tunnale e si abbassò la cerniera del giubbotto. Mio padre lo
fece uscire da lì sotto e lo aiutò a rimettersi in piedi. Joshua
si spolverò i pantaloni e io mi misi dietro di lui, spazzandogli
via la terra e la ghiaia e l’erba dalla schiena e dalle treccine
in disordine.
«Non è successo niente» disse mio padre.
«È a posto» disse Josh.
La macchina era già vecchia e scassata e adesso ho completato l’ope-
ra mandando a puttane il radiatore, pensai. Che cretina.
«Non si vede nemmeno» disse Josh.
Avevo il respiro pesante e cercai di imitare il suo atteg-
giamento, ma mi infilai le mani sotto le ascelle in cerca di
calore. Josh stava tentando di consolarmi.

225
«Vuoi ancora che ti cambi l’olio?» chiese mio padre.
Anni dopo, questo ricordo normale guadagna importanza,
diventa il simbolo di tutti i giorni normali passati insieme,
di tutti i giorni normali che abbiamo perso. Sprigiona così
tanto calore che le dita mi dolgono come un arto fantasma
se immagino mio fratello vivo e vicino da poterlo toccare,
se immagino come era caldo in quella giornata fredda: le
grandi cicatrici, il cranio color burro.

Papà mi cambiò l’olio perché non potevo permettermi di


pagare qualcuno che lo facesse. Quando si ruppe la cinghia
di distribuzione mentre andavo a Pass Christian con le mie
sorelle e mio nipote, me la riparò uno dei fratelli di mia
madre. L’estratto conto della carta di credito superò i cin-
quemila dollari. Come ultima spiaggia, mi ero decisa a fare
domanda alla libreria Barnes & Noble; non mi presero. Ero
disperata. Quando la mia ex compagna di stanza al colle-
ge, Julie, mi disse che una sua amica lavorava alla Random
House, una casa editrice di New York, le chiesi di inviarle i
miei contatti, il mio curriculum e la lettera di presentazio-
ne. Il mio ragazzo viveva lì, lavorava nella finanza; anche
un’altra cara amica del college che lavorava in una casa di-
scografica. Conoscevo qualcuno. Se mi avessero proposto
un colloquio, avrei fatto un viaggio di quattro giorni. Se mi
avessero assunto, sarei tornata in Mississippi, avrei fatto i
bagagli e mi sarei trasferita a New York. Se non avessi avuto
scelta, me ne sarei andata.

Joshua e io ci incontrammo in corridoio. Questo è il mio


ultimo vero ricordo di lui, e lo odio. Non riesco a ricordare
l’ultima volta in cui ci siamo visti davvero. Ricordo solo questo.

226
Joshua notò la valigia sul pavimento della mia stanza.
«Dove vai?» disse.
«A New York per un colloquio di lavoro» dissi. Abbassai
lo sguardo, poi lo distolsi, e poi di nuovo guardai Josh in
faccia, piegando indietro la testa. Volevo dire: Torno subito,
oppure: Tanto non me lo daranno, quel lavoro.
«E resterai lì?» disse.
Volevo dire: Faccio solo un salto. «Sì» dissi.
Gli cadde la faccia. Ho già letto questa espressione nei
libri, e succede proprio così: la sua espressione scivolò dalla
fronte sopra le bellissime ciglia, sopra gli occhi castani fino
alla bocca, dove si fermò in un broncio. Mio fratello non
voleva che me ne andassi un’altra volta, che lo precedessi.
Mi accigliai.
Sentivo di non avere scelta: mi ero laureata a marzo e
adesso era settembre, e ancora ero disoccupata e affogata
nei debiti. Comprai un biglietto andata e ritorno per New
York, e mi organizzai per stare dal mio ragazzo mentre fa-
cevo i colloqui. Mia madre e mia nonna mi accompagna-
rono all’aeroporto, e quando ci fermammo alla fine di Hill
Road, sprofondai nel sedile, terrorizzata e senza scampo.
«Ho dimenticato l’anello» dissi. Mia nonna mi aveva
regalato un anello per il mio decimo compleanno, che mi
ammonì di non perdere, minacciandomi di non farmi mai
più un regalo. Era d’oro con uno zaffiro bianco, mi disse,
ma poi scoprii che la pietra era vetro. Lo avevo portato ogni
giorno da quando avevo compiuto dieci anni, e tredici anni
dopo, sul sedile posteriore di quella macchina, non ce l’ave-
vo. «È in bagno. Me lo sono tolto prima di farmi la doccia.
Per favore, prendetelo» dissi.
«Ok» disse mia madre da sopra la spalla. Lei e mia non-
na continuarono a parlare e io scivolai in basso perché mia
madre non vedesse il mio viso nello specchietto retrovisore

227
mentre piangevo in silenzio, asciugandomi le lacrime con
il dorso delle mani. Non volevo che vedesse la paura irra-
zionale che provavo nei confronti di questi colloqui a New
York; volevo apparire coraggiosa e avventurosa e brillante,
essere la figlia che aveva sempre desiderato, il genere di per-
sona che sfruttava ogni opportunità che il mondo le offre,
che si allontanava dal Mississippi senza rimorso. Io non ave-
vo idea di cosa stessi facendo.

Quando arrivai a New York, andai direttamente all’ap-


partamento del mio ragazzo, in un palazzo in arenaria di
Cobble Hill, un quartiere medio-alto di Brooklyn. Sarei ri-
masta a New York per quattro giorni, dall’1 al 4 ottobre,
in modo da poter essere a casa il 5 per i quindici anni di
Charine. Il pomeriggio del 3 ottobre avevo un colloquio con
un’agenzia di collocamento in un grattacielo in centro. La
donna che mi intervistò mi fece le domande e ascoltò le mie
risposte come se fossi una specie di strano esemplare. Sorrise
tra sé per il Sud ancora evidente nella mia voce, e forse si
chiese se sarebbe stato un problema con i potenziali datori
di lavoro. Quando uscii dal palazzo, alzai gli occhi alla sot-
tile striscia di cielo tra gli edifici, sentii che la città era come
una mano gigantesca che si chiudeva sopra di me. Ne sentii
l’energia, la sensazione di possibilità e potenzialità illimitate,
ma avevo paura. Era pieno di gente, ma come avrei potuto
vivere io senza il cielo? Senza gli alberi? Mi persi in metro-
politana, andai in centro prima di capire che per tornare
all’appartamento del mio ragazzo a Brooklyn dovevo diri-
germi a sud, attraversare il Village, ma fui fiera di me stessa
per essere riuscita a trovare la strada da sola, dato che i miei
spostamenti precedenti si erano limitati a prendere l’autobus
da Stanford a San Francisco. A Brooklyn girai l’angolo che

228
portava alla mia destinazione, il palazzo in arenaria proprio
al margine del quartiere e vicino all’autostrada, e il mio ra-
gazzo mi aspettava sulla porta. Lavorava in banca diciotto
ore al giorno. Cosa ci faceva davanti alla porta?
«Che fai qui?».
Era alto, snello, bello come un attore, il che per me, in un
certo senso, era logico dato che veniva da Los Angeles. La
sua era una famiglia afroamericana della borghesia medio-
alta, e mentre io ero nata rossa, lui era nato d’oro. Il pa-
dre era medico e la famiglia della madre aveva conoscenze
a Hollywood. Al college aveva seguito la solita trafila: era
entrato in una confraternita, era stato un consulente resi-
denziale, aveva fatto sport indoor. La nota anomala della
sua vita universitaria ero io. Venivamo da contesti sociali
estremamente diversi. Ogni volta che una disgrazia colpiva
la mia famiglia, che un’eccezionale convergenza di eventi
chiariva cosa significasse essere poveri, neri e del Sud, lui
ne rimaneva sconvolto. Non era a questo che aspirava. Lui
voleva essere giovane e pieno di soldi, voleva divertirsi, e
tutti i casini della mia vita, la mia storia, chi ero e da dove
venivo, per lui non erano altro che aneddoti divertenti. Era
il mio primo vero ragazzo, dotato della stessa straordinaria
bellezza che era stata di mio padre, e alla fine se ne andò
proprio come mio padre.
Scosse la testa, non disse niente, ma aveva la bocca tirata.
Aprì la porta e io lo seguii sulle scale, lui si voltò verso di me
nel corridoio e con un gesto goffo, sbilanciato in avanti, mi
abbracciò. Aveva il respiro pesante. Mi lasciò andare e vidi
le lacrime. Ora il suo viso era spento.
«Mi stai spaventando» dissi, ma non era vero. Ero solo
nervosa.
«Devi chiamare tuo padre» dissi.
«Perché?».

229
Mi accompagnò al telefono.
«Chiama tuo padre e basta».
Mi sedetti sul suo letto. Ora avevo paura. Avevo suda-
to durante il colloquio e ricominciai a sudare anche ora.
Il telefono, nero e senza fili, mi scivolava di mano. Il mio
ragazzo si sedette sul letto e mi guardò comporre il numero.
«Pronto?».
«Ehi, papà, sono Mimi».
«Ciao, Mimi».
«Che succede?».
«Devo dirti una cosa». Respirò, e il respiro si spezzò.
«Josh ha avuto un incidente ieri notte».
«Sta bene?».
Di nuovo quel respiro spezzato.
«Non ce l’ha fatta».
Il telefono mi si staccò dall’orecchio e io mi piegai in avan-
ti e aprii la bocca e risuonò qualcosa dentro di me – potrei
definirlo un lamento, un gemito, un grido – spezzato. Il mio
ragazzo mi aveva abbracciato, ma io mi scostai, pensai che
avrei vomitato sul suo letto. Che ci faccio qui? pensai. Perché io
sono qui e loro sono lì? Dov’è mio fratello? Dov’è? Ma papà ha detto,
papà ha detto, ha appena detto che non ce l’ha fatta è andato è andato.
È morto. Cosa? È morto è morto è morto. E poi: Mio fratello è morto.

Joshua era andato al lavoro il pomeriggio del 2 ottobre.


Non era di turno, ma ci era andato comunque per fare
qualche straordinario, per racimolare qualche soldo in più.
Avrebbe svolto il suo lavoro, parcheggiato macchine più co-
stose e macchine meno costose, lasciato il calore e il segno
del suo corpo sui loro sedili. Nerissa e Charine andarono a
prendere l’assegno di Nerissa: lavorava al ristorante all’ul-
timo piano dell’albergo del casinò. Con quello in mano, si

230
erano fermate all’ingresso principale del personale, speran-
do di intravedere Joshua che iniziava il turno. Lo avevano
visto passare davanti all’entrata nella Cutlass grigio-blu, lo
sguardo fisso di fronte a sé, il viso serio, i capelli sfuggiti
alle treccine, il profilo affilato. Aspettarono circa un quarto
d’ora, e dato che non passò da quello principale, che era più
vicino al parcheggio, Nerissa e Charine decisero di andar-
sene, presumendo che fosse entrato nel casinò da un altro
ingresso. È l’ultimo ricordo che hanno di lui. Avrei voluto che
fossimo rimaste, dice Nerissa. Ancora cinque minuti, dice Charine.
Ci aggrappiamo ai minuti, ai secondi, ai millisecondi. Anni
dopo, fui grata alla mia famiglia per aver aspettato fino al 3
ottobre per dirmi che Josh era morto: lo avevo tenuto in vita
dentro di me per altre diciassette ore.
La notte del 2 ottobre timbrò il cartellino, e invece di
percorrere la Highway 49 per prendere la i-10, e uscire a
DeLisle per tornare a casa, decise di prendere l’autostrada
costiera. Mi piace pensare che fosse una bellissima nottata,
motivo per cui aveva scelto la h-90. Che la luna fosse pie-
na sopra il golfo, che splendesse fresca e d’argento nel cielo
limpido, che l’acqua scintillasse riflettendola. Che le isole
della barriera fossero sottili ciglia sull’orizzonte buio. Che
l’aria scendesse da nord, insolitamente fredda per ottobre,
cosicché uscendo dal casinò Josh si sia strofinato le braccia
e abbia detto: Quanto cazzo amo tutto questo; che amasse l’aria
fredda sulla peluria delle guance, una peluria che non sareb-
be mai diventata barba, che amasse guardare fuori dal fine-
strino e vedere un orizzonte aperto sopra l’acqua, dove le
onde del golfo lambivano dolcemente la riva, dove le querce
nello spartitraffico assistevano da secoli a guerre, a uomini
schiavizzati da altri, a uragani, a Joshua che viaggiava lungo
la costa – con il rap a tutto volume, i bassi pesanti, ritmi igno-
ranti, poesia lirica al cielo –, alle ville precedenti la Guerra

231
civile in cui nostra madre faceva le pulizie e la cui bellezza
ammiravamo e odiavamo. Alla fine lasciò la h-90 e svoltò
sulla panoramica, una strada silenziosa e maestosa scostata
dall’autostrada da un altro spartitraffico, da proprietà im-
mobiliari milionarie, ma il conducente ubriaco, un uomo
bianco di una quarantina d’anni, gli piombò alle spalle a
tutta velocità in un’automobile bianca presa a prestito da un
amico e tamponò quella di Josh a centotrenta all’ora. Josh
schiacciò i freni per istinto, lasciando strisce di gomma nera
sulla strada, ma la velocità era talmente alta, e i corpi e le
macchine e le storie e le pressioni che si mossero nello stesso
momento erano talmente tanti, che mio fratello non riuscì
a fermarsi. Slittò di traverso sul giardino di una delle ville.
La macchina sbatté su un idrante, che si sradicò da terra,
staccò il metallo come il coperchio di una scatola di sardine,
e gli schiacciò il petto. Non ci fu pietà in questo movimento:
la macchina continuò a correre, sfiorò una quercia prima di
rotolare e atterrare capovolta su un prato immacolato.
Joshua morì.

Al funerale di mio fratello, dopo la veglia, dopo che mi


fui avvicinata alla bara ed ebbi intravisto Joshua, che era
bianco come il gesso e orribilmente immobile (pensai: Questo
non è mio fratello), dopo essere sprofondata nel terrore davan-
ti alla bugia della sua morte, e dopo che ebbi singhiozzato
per tutta la cerimonia, stretta a Charine, le braccia magre
dell’una intorno all’altra, mi avvicinai all’altare e lessi una
poesia scritta da me. L’ho persa, e la scrissi solo perché mia
madre mi chiese di farlo, come parte della cerimonia. «Non
ce la faccio» le dissi. «Non riesco a scrivere una poesia».
Mia madre mi chiese di scegliere una foto per la mia ma-
glietta commemorativa, e io scelsi una foto di Josh e me

232
quando eravamo bambini, sei e tre anni, ed eravamo seduti
dietro nella Riviera nera di mio padre. Io guardo seria ver-
so l’obiettivo e mio fratello dorme sulla mia spalla esile, i
capelli biondi catturati dal flash della macchina fotografica.
Avevamo scattato quella foto all’incirca nel periodo in cui
io e lui stavamo seduti sui gradini della casetta alta a forma
di scatola, io che lo abbracciavo, i pipistrelli che svolazzava-
no, i nostri genitori che litigavano e rompevano oggetti in
casa. Mia madre mi chiese cosa avrei voluto scrivere sulla
maglietta commemorativa e io replicai: «Niente». Non in-
dossai la maglietta al funerale, né dopo, durante il rinfresco
a casa di mia madre. L’avrei indossata per la prima volta
cinque anni dopo, in seguito all’uragano Katrina.
Riesco solo a ricordare un verso della mia elegia. Non
brilla per originalità; da quel momento l’ho letta anche in
altri libri. Ma c’è una verità comune, un ritornello pieno di
speranza per quelli che restano. Mi si spezzò la voce quando
la lessi alla mia famiglia, ai nostri amici, ai ragazzi che in
seguito si ritrovarono in una bara, ma che quel giorno erano
vivi e vegeti in fondo alla chiesa.
Mi ha insegnato che l’amore è più forte della morte.

Qualche mese dopo, Nerissa mi chiamò. Ero a New York


da cinque mesi, e vivevo su un divano del West Village a
casa di facoltosi amici del liceo. Era il 2001. L’inverno si era
spezzato e i tulipani spuntavano dal terreno ricoperto di ler-
ciume. Era la primavera precedente il crollo delle Torri Ge-
melle. Portai il telefono con me nel piccolo bagno accanto
al salotto, rivestito di piastrelle di ceramica. Le ragazze che
avevano preso in affitto l’appartamento scattavano istanta-
nee dei loro amici e le attaccavano alla parete del bagno,
così quando mi chiudevo dentro per parlare in privato con

233
mia sorella, avevo un pubblico, un mare di pallidi hipster
di New York con il tipico viso annoiato, composto, spesso
bellissimo dei ricchi. Mi guardavano.
«Mimi?».
«Sì, sono qui».
«Mamma e nonna Dorothy sono andate in tribunale
oggi. Mamma ha detto che quando hanno letto il verdetto
lei è scoppiata a piangere».
«Che è successo?».
«Hanno condannato a cinque anni l’ubriaco che lo ha
investito».
«Cosa?».
«Non lo hanno accusato di omicidio stradale. Lo hanno
accusato d’altro. Di essersi allontanato dal luogo dell’inci-
dente».
«Non capisco».
«Mamma ha detto che il giudice ha chiamato dentro lei e
la nonna, dopo il verdetto, e ha spiegato perché non hanno
potuto accusarlo di omicidio».
«Ma perché?».
«Mamma ha detto che non è riuscita a far altro che pian-
gere».
Scoppiai a piangere anch’io. Tutte quelle facce sulla parete
erano così immobili, così giovani. Riattaccai, chiamai il mio
ragazzo e gli riferii il verdetto. A stento riuscivo a parlare.
«Cosa ti aspettavi?» disse, impaziente di tornare al lavoro.
«È il Mississippi».
Tutti quegli occhi che mi guardavano con disprezzo. Qui,
una giovane donna con il viso perfettamente simmetrico e
gli occhi scuri, talmente bella che guardarla faceva male. Lì,
due ragazzi vicini, ciascuno con un braccio disinvoltamente
appoggiato sulle spalle dell’altro, capelli biondo scuro, men-
ti appuntiti. La conversazione con il mio ragazzo fu breve,

234
terminò quando lui mi chiese: «Che vuoi da me?». Io repli-
cai: «Voglio un abbraccio», e lui disse: «Devo lavorare», il
che significava no. Quando riattaccai, mi sedetti sul pavi-
mento e nascosi il viso tra le mani.
L’uomo era ubriaco. La polizia aveva scoperto che aveva
girato parecchi bar, ed era andato anche a bere nei casi-
nò. La sera prima di uccidere mio fratello, aveva sterzato
bruscamente mandando fuori strada la sorella di Ronald.
Aveva tamponato Joshua e andava talmente veloce da finire
fuori dalla panoramica, la macchina era volata sopra due
carreggiate per poi atterrare sulla spiaggia. Quella notte, la
causa dell’incidente di mio fratello era stata un mistero. La
polizia pensò che avesse semplicemente perso il controllo
dell’auto, ma il giorno dopo, qualcuno chiamò la centrale
di polizia di Pass Christian e riferì di una macchina sulla
spiaggia. Il conducente ubriaco era tornato a casa barcol-
lando dopo aver investito mio fratello. Quando la polizia
collegò l’auto al proprietario e si presentò a casa sua, era-
no già passate ventiquattro ore, il conducente non era più
ubriaco e la pista si era raffreddata. Il conducente ubriaco
aveva una quarantina d’anni ed era bianco. Mio fratello ne
aveva diciannove ed era nero. L’uomo fu arrestato e alla fine
accusato di pirateria stradale. Fu condannato a cinque anni
con l’ingiunzione di pagare a mia madre un risarcimento
di 14.252,27 dollari. L’uomo scontò tre anni e due mesi,
poi venne rilasciato, e mia madre non ricevette mai alcun
risarcimento. Nerissa frequentava il liceo con il nipote di
quell’uomo, che tentò di scusarsi con lei per lo zio. Manda
sempre tutto a puttane, così le aveva detto lui.
Cinque cazzo di anni, pensai. Ecco quanto vale la vita di mio
fratello in Mississippi. Cinque anni.

235
siamo qui

Mentre cercavo le parole per raccontare questa storia,


trovai altre statistiche su cosa significasse essere neri e poveri
nel Sud. Il 38% della popolazione del Mississippi è nera. È
uno dei sei stati in cui gli afroamericani costituiscono alme-
no un quarto della popolazione. Nel 2009, la percentuale
di indigenti era più alta al Sud e lo stato in cui era più alta
in assoluto era il Mississippi, dove il 23,1% della popolazio-
ne viveva sotto la soglia di povertà. Nel 2001, uno studio
dell’Ufficio del censimento degli Stati Uniti indicò che il
Mississippi era lo stato più povero del paese, in parte perché
erano stati pochi i finanziamenti assegnati allo sviluppo ru-
rale. Il reddito familiare medio era di 34.473 dollari. Secon-
do Measure for America, il progetto americano di sviluppo
umano, il Mississippi è all’ultimo posto degli Stati Uniti per
l’Indice di sviluppo umano dell’onu, una misura compara-
tiva dell’aspet­tativa di vita, dell’alfabetizzazione, dell’istru-
zione e degli standard di vita. Circa il 35% degli abitanti
neri del Mississippi vive sotto la soglia di povertà, parago-
nato all’11% dei bianchi, e circa 1 su 12 ventenni neri del
Mississippi è detenuto nel sistema carcerario dello stato. Di
recente, i ricercatori della Columbia University’s Mailman
School of Public Health hanno scoperto che la povertà, la
mancanza di istruzione e gli scarsi sostegni sociali contribui­
scono al numero totale di decessi quanto l’infarto, l’ictus e il
cancro ai polmoni negli Stati Uniti. Sono queste le cifre che
danno frutti nella realtà.

237
Secondo le cifre, secondo tutti i registri ufficiali, qui, nel
punto di convergenza di Storia, razzismo, povertà e potere
economico, è questo il valore delle nostre vite: niente.

Ereditiamo questi fatti che alimentano disperazione e


odio verso noi stessi, e le tragedie si moltiplicano. Per anni
ho portato con me il fardello di quella disperazione; è sta-
to più pesante dopo la morte di Joshua, quando vivevo e
lavoravo a New York. Di mattina lottavo contro torme di
gente per prendere la metropolitana, per guadagnare un
posto in piedi sul treno nel tragitto casa-lavoro. All’inizio
ho vissuto con amici bianchi e ricchi, ho dormito sul loro
divano antico per cinque mesi, ho fatto le pulizie nel loro
appartamento come una cameriera perché mi sentivo in
obbligo, ho portato a spasso il loro cane, che mi odiava. Poi
mi sono trasferita con il mio ragazzo di allora che, per i tre
mesi in cui ho vissuto in casa sua, mi ha fatto pagare l’affitto
per dormire con lui. Dopodiché sono andata a stare con
un attore per nove mesi, e poi con due ragazze conosciute
tramite un amico.
E mentre mi spostavo da una parte all’altra, vagavo per la
città, confusa e depressa, in cerca dei punti di riferimento es-
senziali: la lavanderia, il negozio di alimentari, la metropoli-
tana. Di sera, tornavo a casa in vagoni vuoti e sferraglianti e
sognavo a occhi aperti oppure mi addormentavo, saltando
la fermata e perdendomi in labirinti con le piastrelle sudi-
cie. Passavo rapidamente davanti a ragazzi che morivano
dissanguati sui marciapiedi dopo essere stati pugnalati al col-
lo fuori dai cinema di Times Square. Camminavo davanti a
donne senzatetto con dreadlock annodati, donne che tene-
vano in mano cartelli con su scritto ho l’aids e sono senza
casa, vi prego aiutatemi. Svenivo sulla linea F. Prendevo la

238
metropolitana a mezzanotte per andare nei locali con i miei
amici, dove bevevo fino a incespicare dentro un taxi alle
quattro del mattino: dissennatamente, squallidamente, me-
ravigliosamente ubriaca e svenuta. Compravo litri di rum
brasiliano e versavo cucchiaini di zucchero nei bicchieri, li
coprivo di ghiaccio e li bevevo l’uno dietro l’altro, fingendo-
mi esperta di caipirinha, per tre sere alla settimana. Fumavo
erba con i giamaicani fino a stordirmi.
E ogni giorno guardavo i binari, il treno in arrivo, la terza
rotaia con il paraschegge di legno, e mi chiedevo perché io
ero viva e mio fratello invece era morto da un anno, da due
anni. Ogni giorno scendevo nelle viscere della città, guar-
dando quei binari. E pensavo alla mia famiglia e a quello
che avrebbero provato nel perdere me e Joshua, ma loro
erano così lontani e la mia tristezza, il mio dolore e la mia
solitudine così vicini. Dormivano con me. Camminavano
con me sulle strade affollate. A volte, quando ero più sola e
disperata, immaginavo mio fratello, lo immaginavo venirmi
accanto, alla mia destra, appena dietro di me, per mettermi
un braccio intorno alle spalle, per consolarmi finché non
mi rendevo conto di essere ancora sola e che lui era ancora
morto, che non poteva camminare con me su quelle strade
ombreggiate dai palazzi, nel calore che puzzava di immon-
dizia e sulla neve ghiacciata e insidiosa, che non poteva met-
termi un cappotto addosso e proteggermi.
A volte mi guardavo i polsi, pensavo a quanto sarebbe stato
facile passare un rasoio sul sinistro tenendo la lama con la
mano destra, e mi chiedevo se avrei potuto morire dissanguata
con un solo taglio. Perciò mi feci un tatuaggio con la firma
di mio fratello sul polso sinistro, per avere l’impressione che
mio fratello mi avesse lasciato addosso il suo nome prima di
morire, che avesse lasciato il segno sulla linea di taglio. Lo
feci perché sapevo che non sarei mai riuscita a infliggermi lo

239
squarcio fatale sul nome di Joshua. E quando lottavo contro
la folla alla Grand Central Station mentre cercavo un posto
dove mangiare, un posto dove star seduta da sola e scompari-
re dentro la parete alle mie spalle, mentre camminavo e pas-
savo vacillando davanti a uomini e donne, sentivo che tutta
quella gente mi toccava e mi opprimeva rivelandomi che non
ero mai stata così sola, così isolata, anche se ero circondata
da giovani in completo e vecchie con cappotti di lana nera e
bambini con il viso appiccicoso. Fantasticavo di tagliarmi il
polso destro con la mano sinistra, quindi mi feci un secondo
tatuaggio con la grafia di mio fratello sull’altra linea di taglio,
sul polso destro. Con amore, tuo fratello, è così che si era firmato
nell’unica lettera che mi ha scritto quando ero al college. con
amore, tuo fratello è quello che recita il tatuaggio.
Dopo aver lasciato New York, scoprii che il detto secondo
cui il tempo cura tutte le ferite era falso. Il dolore plasma
croste simili alle mie cicatrici e poi assume forme nuove e
dolorose nel saldarsi. Fa male in modi diversi. Non siamo
mai liberi dal dolore. Non siamo mai liberi dalla sensazione
di aver fallito. Non siamo mai liberi dall’odio nei confronti
di noi stessi. Non siamo mai liberi dalla sensazione che in noi
ci sia qualcosa che non va, non nel mondo che ha dato vita
a questo casino.

La morte si diffonde, divora le radici della nostra comu-


nità come un fungo. Nel 2008 una diciassettenne di nome
Dariane tentò di attraversare i binari a Pass Christian e fu
investita dal treno. Qualche inverno fa, la sorella di Roger,
Rhea, è morta di setticemia provocata dalla polmonite,
sette anni dopo il fratello. Un paio di anni fa, spararono a
un ragazzo di nome Matt, che per C.J. era stato un fratello
minore; strisciò nel bosco accanto alla strada e morì. Meno

240
di un anno fa, una giovane di nome Shabree è morta accol-
tellata dal suo ragazzo, che l’ha lasciata nuda e in una pozza
di sangue nel loro letto; quando i parenti finalmente rag-
giunsero l’appartamento e la figlia di sei anni li fece entrare,
la bambina disse che la madre dormiva coperta di ketchup.
Ecco perché scelgo un piano di assicurazione sulla vita in
ogni lavoro che faccio. Ecco perché odio rispondere al telefo-
no. Ecco perché la paura si radica in me quando penso a mio
nipote, simpatico, tranquillo e con la schiena dritta, quando
penso a quello che lo aspetta nel mondo.
Eppure sono tornata a casa, a questo luogo che mi dà la
vita e mi uccide al tempo stesso. Ho rinunciato a lavori più
redditizi, con più possibilità di carriera, per tornare in Mis-
sissippi. Ogni mattina mi sveglio sperando di aver sognato
mio fratello. Porto il peso del dolore anche se mi sforzo di
vivere. Capisco cosa significhi vivere sotto assedio.

È un peso orribile. Con il passare degli anni, mi rendo


conto che la mia memoria avvizzisce e deve attaccarsi alle
fotografie. Ne guardo una di Joshua il giorno del suo ulti-
mo compleanno, il sorriso storto, con una torta al cocco e
una sola candelina accesa, e penso: Me lo ricordo, quel giorno.
Guardo un’altra foto di lui con il braccio in aria, che posava
per me con tutti gli altri ragazzi del quartiere in mezzo alla
strada e ricordo di quanto si fosse lamentato della mia mac-
china fotografica così ingombrante, e ricordo che quando
avevo chiesto a tutti di fermarsi per la foto mentre andavamo
al parco, mi aveva detto: «Sembri una turista». Quando lo
vedo di profilo, gli occhi chiusi, una maglietta rossa, penso al
giorno in cui l’ho fotografato, a quanto dovevo ammirarlo,
mentre il sole splendeva su di lui, sbiadendone i contorni, e
io gli avevo detto: Guardate mio fratello! È bellissimo. Guardatelo!

241
È più terribile quando, dopo anni che non lo vedo se non
in sogno, me lo ritrovo davanti vivo nelle videocassette. Mia
madre ha trovato una vecchia videocassetta e ha chiamato
me, Nerissa e Charine per guardarla insieme. Ha inserito il
filmato nel videoregistratore e si è seduta, la faccia impassibi-
le. Io mi sono appollaiata sul letto, più vicina alla tv, e le mie
sorelle si sono precipitate dietro di me. Sullo schermo, mio
fratello in jeans chiari e maglietta grigia attraversava il salot-
to della nostra vecchia casa mobile, con la moquette rosso
granato e le pareti color crema. Avevo dimenticato quanto
fosse alto. Mio nipote, nel video, ha un anno e solo il panno-
lino addosso. Le mie sorelle e io siamo all’angolo dell’inqua-
dratura. Charine accende lo stereo e una musica rap risuona
tutt’intorno a noi. Mio nipote butta indietro la testa, saltella,
cerca di andare a tempo. Balla, dice una voce. Balla, nipote.
«Chi è?» chiese Charine. «Chi è che parla?».
Dai, nipote. Balla.
Io sapevo chi era. La voce era simile alla mia, ma più
profonda. Più dura.
«È Josh» disse Nerissa.
L’avevo dimenticato.
Fai così, dice Josh, e saltella come mio nipote, balla. Nel
filmato ridiamo. Io mi sporsi in avanti, gli occhi che divora-
vano mio fratello come una grande bocca affamata, il mio
corpo uno stomaco a digiuno. Non mi sarei mai saziata.
Tremavo, singhiozzavo.
Ma guardatelo, dice mio fratello.
«Mi manca moltissimo» dissi. Non riuscii a trattenermi:
le parole mi uscirono di bocca umide e spezzate e non riu-
scivo a fermarmi per la fame che avevo.
Sta ballando, dice Josh.
Dietro di me, mia madre e le mie sorelle avevano il viso
bagnato.

242
Balla, dice mio fratello.
Ogni anno, il giorno della sua morte, mi sveglio terro-
rizzata dalla consapevolezza che un altro anno è passato.
Mi chiudo a chiave nella mia stanza, ovunque io mi trovi,
e piango finché gli occhi non mi si gonfiano al punto di
chiudersi. E in fondo alla nostalgia, il terrore di dimenticare
chi era e la nostra vita insieme mi paralizza, mi tira ancora
più giù, finché non divento uguale ai personaggi dei cartoni
animati della nostra infanzia che, bloccati in una palude di
sabbie mobili, restano invischiati in quella morsa liquida e
fredda e poi annegano. Dopo la morte di Joshua, mio padre
ha smesso di lavorare, vivendo di ramen e hot dog grazie
a lavoretti saltuari, guardando per ore e ore la tv su due
apparecchi diversi accesi contemporaneamente. Mia madre
pulisce la tomba di mio fratello ogni settimana, strappa le
erbacce, spazza via la terra per rendere ancora più liscia e
sgombra la superficie. Ogni anniversario, se ne va nella sua
stanza, serra le imposte, si chiude nel silenzio e nel buio.
Ogni anno, il giorno del suo compleanno, compra i crisan-
temi per la tomba e pulisce gli angioletti di ceramica e gli
orsacchiotti che ha sistemato tutt’intorno, mentre Nerissa e
Charine attaccano palloncini, uno per ciascun complean-
no, quest’anno trentatré, sulla sua lapide. «Lo sogno solo da
piccolo» dice mia madre. «È sempre il mio bambino».
Questo è il dolore.

Ma questo dolore, malgrado tutto il suo orribile peso, im-


plica che lui è importante. Quello che ci portiamo dentro
di Roger, Demond, C.J. e Ronald implica che loro sono im-
portanti. Ho scritto solo piccoli aneddoti della vita dei miei
amici. Questa storia racconta solo in parte quanto valesse la
vita di mio fratello, più dei diciannove anni che ha vissuto,

243
più dei tredici dalla sua morte. Vale più di quanto io riesca
a dire. E questo è il mio dilemma, perché tutto ciò che io so
fare, alla fine, è dire.
Eravamo al McCloud State Park, una volta, l’unico grup-
po di neri in mezzo a una folla di bianchi. Mia zia aveva
organizzato quella gita al parco e noi eravamo seduti in
disparte nelle acque poco profonde, io, Nerissa, Charine e
Joshua, i cugini Rufus e Dornell, e qualche altro ragazzo del
quartiere, Duck, Hilton, Oscar e C.J., e bevevamo birra,
lanciando le bottiglie marrone e oro verso la riva, dove poi
le avremmo raccolte e messe in un sacco della spazzatura.
Era una giornata calda, la spiaggia era piccola, i neri e i
bianchi si ignoravano diligentemente. C’erano nuvole alte
e soffici nel cielo, e noi nuotavamo nel fiume scuro come
ambra, seduti sulla riva di argilla rossa e ci spazzavamo
via la sabbia dalle spalle. Quando un’imbarcazione bianca
avanzò lentamente sul fiume, piatta e aperta, con uomini e
donne tutti bianchi, arrossati dal sole, capelli cotonati scolo-
riti, gli altri bianchi sulla riva applaudirono e urlarono. La
bandiera confederata sventolava da un bastone a prua, e
uno degli uomini a riva sollevò le braccia sopra la testa, in-
crociandole all’altezza del gomito in modo da formare una
X, e ululò. Sta facendo le barre, pensai, e d’un tratto ho avuto
voglia di lasciare ai bianchi quella spiaggia, di lasciarli alle
loro stelle e barre, ai loro sguardi, agli ululati che dicevano
quello che tanti politici bianchi del Mississippi hanno detto
in codice, almeno una volta: Voi non siete niente.
Joshua era vicino al cofano della Cutlass parcheggiata,
di un blu opaco sotto quella luce intensa. La sua ragazza
Tasha era accanto a lui, piccola e pallida. Quel giorno non
c’era stato abbastanza sole per abbronzarsi. I capelli gli ser-
peggiavano sopra la testa e sulla fronte, biondo scuro e vivi.
Buttò indietro la testa per poterci vedere tutti chiaramente.

244
«Non capisco perché fate quella faccia sorpresa» disse. Ce
l’aveva con ciascuno di noi, ma guardava me, mentre parla-
va. «Anche i bianchi hanno le loro gang, proprio come noi».
Joshua interpretava il mondo a modo suo. O quantome-
no ci ha provato, per il breve tempo che gli è stato concesso
di stare tra noi. Tentava di distinguere le trame, di trovare
la storia dietro le statistiche di cui io avrei scritto anni dopo.
Voleva il significato. Un uomo di colore anziano aveva mes-
so su una bancarella usando un tavolino da gioco e una se-
dia pieghevole, piazzandoli davanti al supermercato di Pass
Christian, un supermercato che sarebbe sparito con l’ura-
gano Katrina, le travi d’acciaio piegate e simili ad alberi
allampanati e contorti. L’uomo fabbricava croci di plastica
e filo, intrecciava disegni nel crocifisso, e li vendeva. A volte,
di notte, durante uno dei suoi giri, Josh si sedeva accanto
all’uomo, gli parlava, gli faceva domande: Che ne sai tu di Dio?
Perché siamo qui? E l’uomo, che forse aveva venduto una croce
ore prima per qualche dollaro, più felice di averla venduta
che dei soldi guadagnati, era contento che questo giovane
alto dalla pelle olivastra si sedesse accanto a lui e gli facesse
domande invece di passargli davanti con aria da spaccone,
i pantaloni scesi sui fianchi, la canottiera corta, il punto vita
scoperto da cui si intravedevano le mutande, e con un odore
di fumo, deodorante e sale; quest’anziano gentiluomo sor-
rideva e parlava.
Non conosco le risposte che ha dato a mio fratello, né se
per Joshua avessero avuto senso. Forse lui ci pensava mentre
stava ai margini di una folla, il pitbull striato al guinzaglio
corto, e osservava tutti noi chiacchierare e ridere a grup-
petti in strada dopo la partita di baseball di Pasqua. Forse
pensava a quelle risposte una notte d’inverno quando era-
vamo a casa di Hilton: Joshua, Duck, Nerissa, C.J., Rob,
Aldon, Charine, Hilton, Dornell, Pot, Deandre, Tasha, e

245
io. Ero seduta in cucina con una birra in mano. Una cassa
di Budweiser davanti a me, bevevamo tutti. La madre di
Hilton non c’era; non le importava di quel che facevamo, e
ci aveva lasciato campo libero. Era fuori, da qualche parte,
in quella notte fredda, così fredda che il gelo filtrava dalle
assi del pavimento. Io ero talmente ubriaca da non riuscire
a stare dritta. Scivolai in basso, lo schienale della sedia mi
arrivò all’altezza del collo, e io ci appoggiai la testa. Mi sen-
tivo meglio così. Mio fratello entrò dal salotto e mi si parò
davanti. Era più sobrio di me, e spesso serio, che avesse be-
vuto o meno.
«Che stai facendo?» chiese. Io trangugiai la birra.
Mi sentivo bene, e non succedeva spesso; perché spesso
ero infelice, depressa e nostalgica. Dopo la morte di mio
fratello e dei miei amici, avrei capito di non aver ancora
conosciuto la vera infelicità. Quella notte fredda, ero fiera
di me perché ero a casa per le vacanze di Natale ed ero con
mio fratello. Ero felice che ce ne andassimo in giro insieme.
Bevevo quanto lui, ma ero alta solo un metro e sessanta e
pesavo cinquanta chili, mentre lui era alto un metro e ot-
tantacinque per ottantacinque chili, e ancora non ne avevo
abbastanza. Volevo che lui sapesse cosa pensavo di lui, che
lo amavo e lo ammiravo, che volevo crescere ed essere come
lui, quindi aprii la bocca, alzai la lattina verso di lui e dissi,
in suo onore: «Sto con i pezzi grossi. Sto con i pezzi gros-
si!». Ero troppo ubriaca per i discorsi. Ero sua sorella. Lui
mi guardò, gli occhi dolci. Mi chiesi se pensava che avrebbe
dovuto portarmi alla macchina e infilarmi sul sedile poste-
riore, se pensava al momento, che nessuno di noi ricorda-
va, in cui lui era diventato il fratello maggiore, il protettore,
quello che entrava in casa per primo, e io ero diventata la
sorella piccola.
«È matta» disse Tasha.

246
«È sbronza» rise Joshua.
Joshua avrà pensato alle sue domande, alle risposte che il
mondo gli aveva fornito riguardo a quale fosse il suo posto,
ogni volta che entrava nella stanza che dividevo con Nerissa
quando tornavo a casa dal college per qualche giorno, una
settimana, un mese, e durante quei sei mesi che ho vissuto
da mia madre prima che lui morisse. Quelle notti diceva:
Vieni a fare un giro con me.
Spesso, durante l’estate, facevo la stronza con lui, gli ri-
spondevo male e litigavamo per qualche cretinata, come
quando non voleva badare a nostro nipote De’Sean mentre
io andavo a fare la baby-sitter, oppure perché riscaldava le
interiora di maiale nel microonde e la puzza riempiva la
casa, ma non ho mai detto di no a Josh quando mi chiedeva
di fare un giro in macchina. Litigavamo e ce lo dimenti-
cavamo. Ogni volta che mi invitava a uscire con lui, io mi
sentivo speciale perché me lo aveva chiesto, felice che voles-
se passare del tempo con me. Ora che è morto, mi chiedo
se lo sapesse. L’ultima volta in cui abbiamo fatto un giro
insieme è quella che ricordo più nitidamente: lui indossa-
va pantaloncini corti e una canottiera, aveva i capelli spet-
tinati. Lo seguii fuori dalla porta principale. Era notte, e
l’aria era umida e calda, e quando salimmo in macchina
i sedili sembravano bagnati. Quando Josh accese il moto-
re, la macchina grattò e rombò, ed entrambi tirammo giù
i finestrini, manualmente; le maniglie erano scivolose. La
musica prese subito vita. Le canzoni che metteva allo stereo
rimbombavano orribilmente perché le casse erano molto
potenti. Anni dopo, riesco a ricordarne solo una, l’ultima:
All I got is you, di Ghostface Killah.
«Voglio farti sentire questa» disse Joshua.
Alzò la musica, la sparò a tutto volume.
Questa è per tutte le famiglie, diceva Ghostface.

247
“Questa è per la tua” capii io. Il bagagliaio sferragliò.
Ghostface ripensa al passato, a quando era giovane.
I pipistrelli catturavano spasmodicamente la cena.
Erano poveri, diceva Ghostface.
Gli armadilli scivolavano lungo i canali di scolo e restava-
no paralizzati davanti ai fanali della nostra macchina.
Il padre lo ha lasciato a sei anni, e dopo che la madre gli
ha fatto le valigie e lo ha sbattuto fuori dal cazzo, si è messa
a piangere, diceva Ghostface.
I pini ondeggiavano al buio. Gli alberi svanivano alle no-
stre spalle come grosse onde.
A volte guardo le stelle e studio il cielo, e mi chiedo se sia questo il
mio posto... perché? sbraitava Ghostface, come se non vedesse
l’ora di sfogarsi, come se non riuscisse più a sopportare di
tenersi tutto dentro.
«Mi ricorda noi» disse Josh.
Ci allontanammo da St. Stephen’s, dalla casa, dal gruppo
di case del nostro quartiere nero, e ci addentrammo nelle
periferie bianche di DeLisle, verso il bayou e sopra i ponti,
l’acqua che di notte mandava scintille d’argento, l’erba nera.
Mio fratello continuava a mettere quella canzone, e tutto ciò
che eravamo stati e diventati era seduto in macchina con noi
come un altro fratello. Attraversammo Pass Christian, scen-
demmo verso la spiaggia, prendemmo la panoramica dove
lui sarebbe morto qualche mese dopo, per poter vedere il
golfo distendersi sopra l’orizzonte, le sabbie bianche come
lapidi. Distolsi lo sguardo da Josh e lo rivolsi fuori dal fine-
strino in modo che non riuscisse a vedermi, e piansi durante
il tragitto, pensando a nostra madre, nostro padre, Charine,
Nerissa e lui. Mi asciugai il viso e mi vergognai, ma Josh non
disse niente. Si allontanò dalla spiaggia e attraversò di nuo-
vo Pass Christian, il bayou, superò St. Stephen’s Road e si
addentrò in campagna, lontano da tutte le case, tutte le luci,

248
per poter viaggiare soli sotto la calotta nera del cielo, il fuoco
delle stelle tanto freddo e tanto lontano. Un cavallo nero e
un cavallo bianco pascolavano nell’erba sul ciglio della stra-
da, e quando gli passammo davanti, erano scuri e spettrali,
una presenza quasi irreale. I rampicanti crescevano sopra i
rami degli alberi e sopra i fili elettrici, pendevano dentro i
lampioni e le loro foglie luccicavano come luminarie nata-
lizie. Il vento ci schiacciava il petto con mano ferma bloc-
candoci sui sedili. Correvamo come per allontanarci quanto
bastava per lasciarci alle spalle la nostra storia, era quello
che diceva Ghostface: A tutte le famiglie che hanno attraversato la
battaglia. Ma, alla fine, non ci siamo riusciti.
Non vado più in macchina con nessuno come allora.
Quan­do esco con mio cugino, con Rufus o Broderick o
Donnie o Rhett o Aldon o con il mio amico Mark, gli chiedo
di guidare, ma non è lo stesso. Quando passiamo per le stra-
de che tagliano la foresta di DeLisle, a volte chiudo gli occhi,
bevo un altro sorso, sento di nuovo la carezza del vento sul
viso, e penso a Joshua, e poi l’uomo alla guida – che potrebbe
essere mio fratello, alto e solenne sul sedile, la mano destra
piegata mollemente attorno al volante – diventa lui, e per un
attimo Joshua è accanto a me, conduce, fa strada. Ma poi le
raffiche di vento mi schiudono gli occhi, gli alberi rabbrivi-
discono oscuramente ai due lati della strada, l’aria odora di
aghi di pino in fiamme, e io apro gli occhi sulla realtà.
Quando Joshua morì, portò con sé tantissime storie. Le
mie sorelle sono troppo piccole per ricordarsene. Non rie­
scono a capire l’assoluta enormità di quel che è successo
perché non hanno vissuto quel che abbiamo vissuto noi due.
Scrivo queste parole per ritrovare Joshua, per dichiarare che
quel che è successo è successo veramente, nel vano tentativo
di scorgerne il significato. E alla fine, so poco, solo qualche
fatto irrilevante: amo Joshua. Lui è stato qui. Ha vissuto.

249
Qualcosa di grande e vasto lo ha preso, ha preso tutti i miei
amici: Roger, Demond, C.J. e Ronald. Un tempo, erano
vivi. Abbiamo cercato di prendere le distanze dalla cosa che
ci ha sempre inseguito e che diceva: Voi non siete niente. Ab-
biamo cercato di ignorarla, ma a volte ci siamo ritrovati a
biascicare di continuo quello che diceva la Storia, che ci
aveva fatto il lavaggio del cervello: Io non sono niente. Abbia-
mo bevuto troppo, fumato troppo, abbiamo fatto del male a
noi stessi, agli altri. Eravamo storditi. Una grande oscurità
incombe sulle nostre vite, e nessuno se ne accorge.

Chi vive fa ciò che deve. La vita è un uragano e noi dob-


biamo chiuderci dentro per salvare il possibile e appiattir-
ci a terra rannicchiandoci in quel piccolo spazio sopra il
selciato dove il vento non arriva. Onoriamo l’anniversario
della morte dei nostri defunti pulendo tombe e sedendoci
accanto a loro, davanti a un fuoco, condividendo un pasto
con quelli che non mangeranno più. Cresciamo i figli e rac-
contiamo loro altre storie sul futuro e su quanto valgono:
per noi, tutto. Ci amiamo intensamente, mentre viviamo e
dopo la morte. Sopravviviamo; siamo selvaggi.
A dodici anni mi guardai allo specchio e capii quali erano
i difetti di mia madre e i miei. Si fusero in un segno scuro che
mi sarei portata dentro per tutta la vita, il disgusto per ciò che
vedevo, che derivava dal disprezzo altrui, e che alimentava
l’odio che provavo per me stessa. Pensavo che essere inde-
siderata e abbandonata e perseguitata fosse il retaggio delle
donne povere e nere del Sud. Ma da adulta, vedo l’eredità
di mia madre con occhi nuovi. Vedo che tutti i fardelli che
ha portato, i fardelli della sua storia, della sua identità e della
storia e dell’identità del nostro paese, le hanno permesso di
portare alla luce i suoi talenti più grandi. Mia madre ha avuto

250
il coraggio di badare a quattro figli affamati e di trovare il
modo per saziarli. Mia madre ha avuto la forza di lavorare
fino a spezzarsi la schiena per mantenere se stessa e i figli.
Mia madre ha costruito una famiglia con le macerie di un’al-
tra. E l’esempio di mia madre mi insegna anche di più: è così
che i deportati sono riusciti a sopravvivere all’olocausto e alla
schiavitù. È così che i neri del Sud sono riusciti a organizzarsi
per votare sotto la minaccia del terrorismo e dell’impiccagio-
ne. È così che gli esseri umani dormono e si svegliano e com-
battono e sopravvivono. In fin dei conti, è così che una madre
insegna alla figlia ad avere coraggio, ad avere forza, a essere
resiliente, ad aprire gli occhi sulla realtà per ricavarne qual-
cosa. Da primogenita di una primogenita, e avendo appena
avuto una figlia, spero di insegnare alla mia bambina questa
lezione, di trasmetterle il dono di mia madre.
Senza l’eredità di mia madre non sarei mai stata in grado
di guardare a questo passato di perdite, a questo futuro che
di perdite me ne riserverà sicuramente altre, e scrivere la sto-
ria che ricordo, scrivere una storia che dice: Salve. Siamo qui.
Ascoltateci. Non è facile. Io continuo. A volte sono instancabile.
Altre volte sono stremata. E quando sono stremata, visualizzo
un’immagine: un istante dopo la mia morte, mi ritroverò sul
ciglio di una lunga strada asfaltata e piena di buche, fiancheg-
giata su entrambi i lati da pini mormoranti, sotto un sole cal-
do e alto nel cielo azzurro. In lontananza, sentirò un rumore
martellante, i bassi che rimbombano. Una Cutlass dell’85 blu
opaco fenderà l’orizzonte, il brontolio del motore sempre più
vicino, e si fermerà davanti a me. Frenerà di colpo, la ghiaia
scricchiolerà sotto gli pneumatici e a quel punto mio fratello
aprirà la portiera del passeggero con un ampio gesto deciso, il
braccio lungo e tatuato, l’altro sul volante. Mi guarderà con i
grandi occhi liquidi, il viso dolce. Saprà che lo stavo aspettan-
do. Dirà: Vieni. Vieni a fare un giro con me. Sì, fratello. Sono qui.

251
ringraziamenti

Per prima cosa, ovviamente, ringrazio le famiglie dei ra-


gazzi di cui ho scritto in questo libro, che per me sono sta-
te risorse inestimabili mentre tentavo di raccontare alcune
delle vicende che hanno caratterizzato la vita dei nostri cari.
Non avrei potuto scrivere niente di tutto questo senza che
condivideste il vostro amore e il vostro dolore con me, quin-
di la mia infinita riconoscenza va alle famiglie, nucleari e al-
largate, di Roger Daniels, Demond Cook, Charles Martin e
Ronald Lizana. Un ringraziamento speciale va a Dwynette,
Rob, Cecil e Selina, che hanno risposto pazientemente a
una domanda dopo l’altra sui loro cugini/fidanzati.
Ho avuto la fortuna di avere accanto a me un eccellente
gruppo di scrittori: Sarah Frisch, Stephanie Soileau, Justin
St. Germain, Mike McGriff, J.M. Tyree, Ammi Keller, Will
Boast, Harriet Clark, Rob Ehle, Raymond McDaniel ed
Elizabeth Staudt. Sarah Frisch mi è stata particolarmente
utile, convincendomi per tutto il libro, capitolo dopo capi-
tolo, di aver scritto un memoir, quando io non ne ero af-
fatto certa. Anche i meravigliosi studenti della facoltà con
cui ho lavorato durante la borsa di studio Stegner alla
Stanford University mi hanno aiutato immensamente con
questo progetto, in special modo Tobias Wolff ed Elizabeth
Tallent. Ho scritto la prima stesura di questo libro mentre
ero scrittrice residente alla University of Mississippi, quin-
di devo ringraziare tutti loro e la comunità circostante di
Oxford, Mississippi, perché mi hanno accolto nel cuore
della collettività letteraria e hanno fatto in modo che il tem-
po passato presso di loro fosse produttivo, istruttivo e gratifi-
cante, in particolare Ivo Kamp e Richard Howorth. Vorrei
ringraziare la University of Michigan per aver creduto in
me e avermi guidato, in particolare Peter Ho Davies, Laura
Kasischke, Eileen Pollack e Nicholas Delbanco. Un ringra-
ziamento speciale a Thomas Lynch, per i suoi numerosi
insegnamenti sulla scrittura di non-fiction e che è stata la
prima persona a incoraggiarmi a esprimere il mio dolore in
un saggio che ho scritto per il suo corso e che poi è diventato
il cuore di questo libro. È stato di una gentilezza assoluta
e incoraggiante e mi ha sostituito nella lettura del saggio
quando a me è mancata la voce.
Vorrei ringraziare la mia agente, Jennifer Lyons, per
aver capito per prima che dentro di me c’era un memoir,
e per aver creduto ed essersi appassionata al mio lavoro sin
dall’ini­zio. Il mio ufficio stampa, Michelle Blankenship, per-
ché è uno straordinario ufficio stampa e un’eccellente amica
che mi asseconda quando sono a New York e ho voglia di
mangiare barbecue coreano per tre ore. Vorrei ringrazia-
re la mia cara amica ed editor Kathy Belden, che ha visto
questo manoscritto quando era solo a metà e, con letture
attente, commenti brillanti e osservazioni meticolose, mi ha
aiutato a scrivere il miglior libro possibile. Sarei una scrittri-
ce ben peggiore senza di lei.
Mia madre ha insistito con me per due libri affinché rin-
graziassi l’uomo che mi ha pagato una borsa di studio nel
mio eccezionale liceo, quindi, in questo terzo, desidero rin-
graziare Riley Stonecipher per aver capito le mie potenzia-
lità ed essersi generosamente offerto di aiutarmi ad avere
un’istruzione migliore. Persone come lui, che si spendono
per gli altri quando gli altri ne hanno bisogno, rendono
il mondo più bello. Ci sono stati molti amici, insegnanti,
e bibliotecari al liceo che hanno intuito le mie potenzia-
lità e mi hanno aiutato a diventare la scrittrice che sono:
in particolare Mariah Herrin, Kristin Townson e Nancy
Wrightsman.
In conclusione, vorrei ringraziare tutto il mio quartiere
di DeLisle, senza il quale non avrei potuto vivere certi mo-
menti né scriverne: Blue, Duck, Loc, C-Sam, Scutt, Pot, Fat
Pat, Darrell, Darren, Jon-Jon, Ton-Loc, Tasha, Oscar, B.J.,
Marcus, L.C. Rem e Moody Boy (molti dei quali mi hanno
raccontato la loro storia, aiutandomi a scrivere questo libro).
Vorrei ringraziare i miei amici e cugini che mi sono stati di
conforto quando scrivere era quasi insopportabile: Mark
Dedeaux, Aldon Dedeaux, e Jillian Dedeaux. C’erano gior-
ni in cui non avrei potuto scrivere nemmeno una parola
senza che voi mi diceste: Andrà tutto bene. Ringrazio B. Miller
per aver capito esattamente che cosa mi faceva ridere, im-
pedendomi di piangere. Mio padre per avermi raccontato
della nostra famiglia, per aver sottolineato l’importanza del-
la storia e della memoria, e per avermi insegnato a credere
nella comunità. Mia nonna Dorothy per avermi aiutato a
conoscere la storia della famiglia, per avermi insegnato a
essere una donna forte e bellissima, e per avermi cucinato
piatti squisiti. Mia madre per avermi dato il permesso di
scrivere questo libro, per avermi chiarito alcuni fatti relativi
al retaggio della nostra famiglia, per averci protetto quan-
do vagavamo nel buio, e ovviamente per aver trovato ogni
giorno l’uscita da un vicolo cieco. Mia nipote, Kalani, e mio
nipote, De’Sean, perché mi fanno fare la scema quando ne
ho bisogno, perché mi abbracciano quando ne ho bisogno e
perché mi fanno sperare che domani ci sarà luce. Mia figlia,
Noemie, perché ogni giorno al risveglio mi ricorda di essere
riconoscente e meravigliata di essere qui, per avermi inse-
gnato che posso fare quello che prima ritenevo impossibile,
e perché grazie a lei sono felice di essere viva. Mia sorella
Charine, che ha insistito affinché scrivessi questo libro, che
mi ha aiutato con gran parte delle ricerche, e che mi ha
spinto a raccontare la nostra storia quando io non volevo.
E infine mia sorella Nerissa, che ha salvato il mio computer
durante l’uragano Katrina, e che è stata la prima persona
a dirmi che dovevo raccontare questa storia, la prima a in-
sistere che questa storia dovesse essere letta. Care sorelle, vi
sarò eternamente debitrice. In conclusione, vorrei ringra-
ziare tutti coloro che ho menzionato per il loro amore, per
aver camminato con me durante questo calvario e per aver-
mi dato una casa. Grazie.
nota del traduttore
Gaja Cenciarelli

Scrivo questa breve nota animata da sentimenti contra-


stanti: ho consegnato da poco la traduzione di Sotto la falce
e credevo, ero profondamente convinta, che staccarmene
sarebbe stato semplice, liberatorio, quasi catartico. E invece
sono qui ad annaspare. Il mio è un vero e proprio lutto:
mi sento disorientata, incredibilmente cambiata. Ho vissuto
con la storia familiare di Jesmyn Ward per mesi, l’ho amata,
l’ho detestata, mi sono chiesta: Perché me lo stai raccontando?,
mi sono detta: Non voglio saperlo, ho pensato: Non vedo l’ora
che finisca, e ora che è finito mi sento sola. Ho pianto, devo
aggiungere. Ho pianto traducendo le ultime pagine, ho im-
maginato me stessa e l’autrice, ho immaginato di poterle
parlare e, piangendo, ad alta voce, davanti al computer, ho
detto: Grazie di aver scritto questo libro, per me è stato importante,
grazie di aver dato voce al tuo dolore, ora anche io voglio bene a Joshua.
Ho sentito la sua storia entrarmi sotto la pelle, so che non
mi abbandonerà più, perché sono diventata parte di questa
storia, e ne ho avuto paura. Ho avuto paura delle responsa-
bilità che comportava.
È stato nelle ultime pagine che il puzzle si è ricomposto da-
vanti ai miei occhi. Jesmyn Ward ha dato voce al suo dolore, è
riuscita nella meta suprema di chi scrive: fare letteratura par-
tendo dal dolore, dalla perdita, dalla disperazione. E da qui,
la mia responsabilità. Sono degna? Sono all’altezza? Ward ha
perso anche il marito durante la pandemia, tutta la sua vita è
segnata da morti ingiuste e crudeli. La sua storia personale è

257
la storia della sua comunità, del movimento Black Lives Matter,
dell’abbandono, della perdita dei diritti. È la Storia.
La lingua di Ward è densa, dura, spigolosa, ma sprigiona,
nella sua versione originale, un lirismo che deve necessaria-
mente essere restituito nella lingua d’arrivo: non è compito
semplice. È materia viva, che deve mantenere questa vita
anche in italiano.
Questa è stata la difficoltà principale. Ciò che in inglese
sembra morbido e fluido, quello che nella lingua originale
è la cifra stilistica di Ward, in italiano rischia di essere scor-
retto, poco comprensibile, respingente. La lingua di Ward è
strettamente intrecciata alle sue radici, e come le sue radici,
è forte. Ogni parola, una pietra. Pensare di poter portare
nella versione italiana la sua sintassi, così come lei l’ha scrit-
ta, significherebbe perdere la chiarezza, l’immediatezza, e
quella nota lirica cui accennavo poc’anzi. La sintassi dell’au-
trice è spesso caratterizzata da frasi lunghissime, in cui si
rischia di perdere le concordanze e i riferimenti – come ho
scritto sopra, Sotto la falce non può e non vuole essere solo
storia personale – e soprattutto, la potente spinta dal basso
che è alla base della sua scrittura. In italiano, a volte, è stato
necessario interrompere il flusso di parole con la punteggia-
tura o con un giro di frase diverso: non è equivalso ad arren-
dersi e perdere qualcosa nella traduzione, beninteso, anzi,
questo “addomesticamento” della sintassi mette in risalto il
vigore del suo pensiero e del suo stile.
In aggiunta, la difficoltà rappresentata dallo sfasamento
dei piani temporali ha contribuito a complicare le mie scelte
riguardo alla leggibilità e all’opportunità di puntare su l’uno
o l’altro dei tempi passati – saltando tra passato remoto e
passato prossimo – e tentando di tenere sempre d’occhio il
quadro generale del testo che, a volte, si lasciava andare a
un ritmo decisamente colloquiale.

258
È stato difficile, è stato doloroso, è stato lancinante tra-
durla, quanto per lei dare vita a questo memoir. In un’in-
tervista di Ed Lavandera per la cnn, nel 2011 Jesmyn Ward
ha dichiarato di aver terminato la prima bozza del suo terzo
libro, definendola la cosa più difficile che avesse mai scritto.
Le credo, con coscienza di causa.
Tuttavia, ora che ho licenziato la traduzione, mi sento
sola. Mentre traducevo annaspavo nel suo dolore, poi ho
capito che ero sprofondata in un’opera monumentale de-
stinata a restare, un libro che è testimonianza, è politica, è
amore, è vuoto. Che è tutto.
È regola aurea quella di dover sempre scindere l’autore
dall’opera, eppure, in questo caso, e alla luce di quanto ho
letto, di tutto ciò che conserverò dentro di me, sono certa
che la bellezza della letteratura coincida con la bellezza del-
la persona.
il mio cuore in briciole
Jesmyn Ward

Jesmyn Ward, figlia del Mississippi, ha perso il marito per Covid ancora prima
che sapessimo cos’è il Covid; e il fratello travolto da un bianco ubriaco.
Poi, per fortuna, ha visto il mondo schierarsi con i neri come lei.
Questo articolo è apparso su la Lettura del Corriere della Sera del 25 ottobre
2020. Titolo e occhiello sono utilizzati per gentile concessione de la Let-
tura del Corriere della Sera. La traduzione è di Gaja Cenciarelli.
Il mio Amato è morto a gennaio. Era circa trenta centi-
metri più alto di me, aveva bellissimi occhi grandi e scuri e
mani capaci e gentili. Ogni mattina mi preparava la colazio-
ne e tazze di tè in foglia. Pianse quando nacquero entram-
bi i nostri figli, in silenzio, il viso lucido di lacrime. Prima
che io accompagnassi i bambini a scuola, nella pallida luce
dell’alba, si metteva a ballare sul vialetto, le mani sulla testa,
per vederli ridere. Era divertente, arguto, e il suo umorismo
rischiava ogni volta di farmi venire i crampi per le risate. Lo
scorso autunno ha deciso che tornare a scuola sarebbe stata
la scelta migliore per sé e per la famiglia. In casa si occupava
principalmente di sostenerci, di prendersi cura dei figli, di
fare il casalingo. Spesso veniva con me quando viaggiavo
per lavoro, portava i bambini sul retro delle sale dove tenevo
le mie conferenze, attento e silenziosamente orgoglioso di
me, quando parlavo in pubblico, quando incontravo i let-
tori e stringevo mani e firmavo copie. Ho sempre amato i
film di Natale e perdermi in visite labirintiche nei musei; lui
mi accontentava, anche se avrebbe di gran lunga preferito
andare allo stadio a guardare una partita di football. Uno
dei miei posti preferiti al mondo era accanto a lui, sotto il
suo braccio amorevole, dello stesso colore delle acque scure
e profonde dei fiumi.
Nei primi giorni di gennaio ci siamo presi quella che cre-
devamo fosse influenza. Dopo cinque giorni siamo andati
all’ambulatorio della guardia medica, dove il medico ci ha

263
fatto il tampone e ci ha auscultato. Ai ragazzi e a me è stata
diagnosticata l’influenza; l’esito del tampone del mio Amato
è stato, invece, indeterminato. A casa, ho distribuito medicine
a tutti: Tamiflu e Prometazina. I miei figli e io abbiamo co-
minciato subito a sentirci meglio, al contrario del mio Amato.
Lui scottava. Dormiva e si svegliava solo per lamentarsi che le
medicine non funzionavano, e che lui stava male. Dopodiché,
prendeva un’altra dose di medicine e si riaddormentava.
Due giorni dopo che il nostro medico di famiglia era ve-
nuto a visitarci, sono entrata nella camera di nostro figlio,
dove il mio Amato riposava, e l’ho sentito ansimare:
Non riesco
A respirare
L’ho portato al pronto soccorso, dove lo hanno sedato e
collegato a un respiratore. Gli organi interni hanno collas-
sato: i reni, poi il fegato. Aveva una grave infezione polmo-
nare, degenerata in sepsi e, alla fine, il suo cuore grande e
forte non è più riuscito a sostenere un corpo che gli si era
rivoltato contro. È andato in arresto cardiaco otto volte. Per
quattro volte ho visto i medici riportarlo in vita praticando-
gli una rianimazione cardiopolmonare. È morto quindici
ore dopo. Causa ufficiale: sindrome da distress respiratorio
acuto. Aveva 33 anni.
Senza il suo abbraccio a circondarmi le spalle, a sorreg-
germi, sono sprofondata in un dolore rovente e inesprimibile.
Due mesi dopo ho visto di sfuggita il video di un’allegra
Cardi B che cantilenava: Coronavirus, e rideva fragorosa-
mente. Coronavirus. Sono rimasta in silenzio mentre la gente
attorno a me faceva battute sul Covid, e mostrava insoffe-
renza di fronte al pericolo di una pandemia. Dopo qualche
settimana, la scuola dei miei figli ha chiuso. Le università
ordinavano agli studenti di sgombrare i dormitori, mentre
i professori si affannavano per organizzare la didattica a

264
distanza. La candeggina, la carta igienica, la carta assorben-
te erano scomparse dal commercio. Ho acciuffato l’ultimo
disinfettante spray dallo scaffale di una farmacia. La cas-
siera mi ha chiesto con rammarico: Dove lo ha trovato? – per
un istante ho creduto che volesse impedirmi di prenderlo,
sostenendo che la politica del negozio ne vietava l’acquisto.
I giorni sono diventati settimane, e il clima era strano per
il Sud del Mississippi, per quella madida zona dello stato
tormentata dalle acque che io chiamo casa: basso livello di
umidità, temperature fresche, cieli limpidi e trafitti dal sole.
I miei figli e io ci svegliavamo a mezzogiorno, per finire le
lezioni a distanza. Quando le giornate primaverili si sono al-
lungate verso l’estate, i miei figli si sono inselvatichiti, esplo-
ravano la foresta che circonda casa nostra, raccoglievano
more, e andavano in bici e sul quad in maglietta e mutande.
Mi si avvinghiavano, strofinandomi il viso sulla pancia, e
piangevano istericamente: Mi manca papà, dicevano. I capelli
gli si erano aggrovigliati e infoltiti. Io non mangiavo, tranne
quelle rare volte in cui mi nutrivo esclusivamente di tortillas,
queso e tequila.
L’assenza del mio Amato risuonava in ogni stanza. Lui
che abbracciava me e i bambini sul nostro enorme divano
in finta pelle. Lui che sminuzzava il pollo per le enchiladas
in cucina. Lui che, nelle lunghe maratone di salti sul letto,
prendeva nostra figlia tra le mani e la lanciava in aria, sem-
pre più su, tanto che, quando arrivava in alto, sembrava gal-
leggiare. Lui che carteggiava le pareti della stanza dei giochi
con una levigatrice dopo avere sbagliato la miscela di una
pittura fai da te trovata su internet: polvere verde ovunque.
Durante la pandemia non sono mai riuscita a impormi
di uscire di casa, terrorizzata dall’eventualità di ritrovarmi
dietro la porta di una Terapia intensiva, a guardare i medici
comprimere con tutte le forze il torace di mia madre, delle

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mie sorelle, dei miei figli, terrorizzata dal sussulto dei piedi,
quel sussulto simultaneo a ogni spinta che rianima il cuore,
il sobbalzo delle piante morbide e chiare, terrorizzata dalla
preghiera spasmodica e spontanea che invade la mente, la
preghiera per la vita che si recita dietro la porta, la preghie-
ra che non voglio più ripetere, la preghiera che si dissolve
nell’aria ogni volta che il puff-clic-puff-clic del respiratore la
sommerge, terrorizzata dal terribile senso del dovere nel
profondo di me stessa, perché se la persona che amo è co-
stretta a sopportare tutto questo, il minimo che io possa fare
è restare lì, il minimo che io possa fare è essere testimone,
il minimo che io possa fare è ripeterle, continuamente e a
voce alta, Io ti amo. Noi ti amiamo. Non ce ne andremo.
Con l’infuriare e il diffondersi della pandemia, puntavo la
sveglia prestissimo e le mattine successive a quelle notti in cui
riuscivo a dormire, mi alzavo e lavoravo al mio romanzo. È
la storia di una donna che conosce il dolore persino più inti-
mamente di me, una donna ridotta in schiavitù, a cui strap-
pano la madre per venderla a New Orleans, a cui strappano
l’amante per venderlo al Sud, una donna venduta, che spro-
fonda nell’inferno dello schiavismo nella metà del xix secolo.
Il mio lutto era una morbida seconda pelle. Mi ci crogiolavo
dentro mentre scrivevo, esitante, di questa donna che parla
agli spiriti e attraversa i fiumi, lottando per la sua vita.
La mia dedizione mi stupì. Persino nel pieno di una pan-
demia, persino travolta dal dolore, avvertivo imperioso il
dovere di dare voce ai morti che cantano per me, dalla loro
barca alla mia, sul mare del tempo. La maggior parte dei
giorni scrivevo una frase. Altri giorni scrivevo mille parole.
Molti erano i giorni in cui mi sembrava che qualsiasi cosa,
inclusa me, fosse inutile. Tutto questo era solo uno sforzo
assurdo. Il mio dolore sbocciò, trasformandosi in depres-
sione, proprio come quando, dopo la morte di mio fratello

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a diciannove anni, non riuscivo più a trovare un senso né
uno scopo in questo lavoro, in questa vocazione solitaria. Io
che vagavo nel deserto, cieca, la testa rovesciata all’indietro,
la bocca spalancata, mentre cantavo rivolta verso un cielo
interamente trapunto di stelle. Come tutte le donne dell’an-
tichità, tra vaticini e canti, ero una figura calunniata in una
landa selvaggia. Di notte, pochi prestavano ascolto.
Quello che risuonava dentro di me: il vuoto tra le stelle.
Materia scura. Freddo.
Lo hai visto? chiese mia cugina.
No. Non ho avuto la forza di guardare, dissi. Le sue parole ini-
ziarono a sfarfallare, ad apparire e scomparire. A volte la
disperazione mi ottunde l’udito. Percepivo solo frammenti
di suono.
Il ginocchio, disse.
Sul collo, disse.
Non riusciva a respirare, disse.
Chiamava la mamma, disse.
Ho letto di Ahmad, dissi. Ho letto di Breonna.
Non lo dico, ma l’ho pensato. Conosco bene il pianto di chi li
amava. Conosco bene il pianto di chi li amava. So che chi li amava
ora vaga nelle stanze dove trascorre la quarantena, passando attraverso
l’improvvisa comparsa dei loro fantasmi. So che la loro morte brucia
come acido la gola di chi li amava. Le famiglie parleranno, pensai.
Chiederanno giustizia. E nessuno risponderà, pensai. Conosco questa
storia: Trayvon, Tamir, Sandra.
Cugi, dissi, credo che tu mi abbia già raccontato questa storia.
Credo di averla scritta.
Ho ingoiato bocconi amari.
Nei giorni che seguirono la conversazione con mia cugi-
na, ho finalmente aperto gli occhi e ho visto gente che scen-
deva in strada. Ho visto Minneapolis in fiamme. Ho visto
le proteste nel cuore dell’America, neri che bloccavano le

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autostrade. Ho visto ballare la haka in Nuova Zelanda. Ho
visto ragazzi con felpa e cappuccio, ho visto John Boyega
a Londra alzare il pugno, ha alzato il pugno pur temendo
che un gesto del genere avrebbe potuto stroncargli la carrie-
ra. Ho visto torme di gente a Parigi occupare la strada da
un marciapiede all’altro, muoversi come un fiume lungo i
boulevard. Sapevo del Mississippi. Sapevo delle piantagioni
sulle coste, dello spostamento degli schiavi e del cotone su e
giù per i suoi vortici. La gente manifestava, e io non sapevo
che potessero esistere fiumi come questo, e mentre i dimo-
stranti gridavano in coro e marciavano, mentre sorridevano
e urlavano e piangevano, le lacrime mi hanno bruciato gli
occhi. Avevo il viso lucido di lacrime.
Me ne stavo in quarantena nella mia soffocante camera
da letto, e credevo che non sarei mai più riuscita a smettere
di piangere. La rivelazione che i neri d’America non era-
no soli in battaglia, che altre persone nel mondo credevano
che le vite dei neri contano, Black Lives Matter, ha spezzato
definitivamente qualcosa dentro di me, una convinzione
immutabile che mi ero portata dietro per tutta la vita. Que-
sta convinzione batte nel mio petto come un secondo cuore
– bum – sin dal mio primo respiro di neonata prematura e
sottopeso, sin da quando mia madre, distrutta dalla fatica,
mi ha dato alla luce dopo ventiquattro settimane di gravi-
danza. Batte dal momento in cui il medico disse alla mia
mamma nera che la sua bambina nera sarebbe morta. Bum.
Questa convinzione si è nutrita del mio sangue fresco di
adolescente che frequentava una scuola pubblica sottofi-
nanziata, i denti consumati dalle carie causate dai pezzi di
formaggio, dal latte in polvere e dai corn flakes distribuiti
dal governo. Bum. Del mio sangue fresco dal momento in
cui sono venuta a sapere che un gruppo di bianchi, agenti
del fisco, aveva sparato e ucciso il mio trisavolo, lasciandolo

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morire dissanguato tra i boschi come un animale, dall’istan-
te in cui ho scoperto che nessuno aveva pagato per la sua
morte. Bum. Sangue fresco dal momento in cui ho scoperto
che il bianco ubriaco che ha investito mio fratello non sa-
rebbe stato accusato della sua morte, ma solo di aver lascia-
to la scena dell’incidente, la scena del crimine. Bum.
È la stessa convinzione che l’America nutre da secoli con
sangue fresco, la convinzione che le vite dei neri abbiano lo
stesso valore di un cavallo da tiro o di un mulo da soma. Io lo
sapevo. La mia famiglia lo sapeva. La mia gente lo sapeva, e
lottavamo insieme, ma eravamo convinti che avremmo lotta-
to da soli contro questa realtà, che avremmo lottato fino all’ul-
timo, fino alla morte, le ossa marce, le lapidi incolte piantate
sulla terra dove i nostri figli, e i figli dei nostri figli, continua-
vano a lottare, a tentare di strapparsi di dosso il cappio che
strangola, il braccio che strozza, la fame, la discriminazione,
lo stupro, la schiavitù, i massacri e a rantolare:
Non riesco a respirare.
Dicevano:
Non riesco a respirare.
Non riesco a respirare.

Piangevo di meraviglia ogni volta che vedevo queste pro-


teste in tutto il mondo perché riconoscevo la gente. Rico-
noscevo il modo in cui si tiravano su la lampo della felpa, il
modo in cui alzavano i pugni, il modo in cui camminavano,
in cui gridavano. Riconoscevo le loro azioni per quel che
erano: un atto di testimonianza. Anche adesso, ogni giorno,
loro sono testimoni.
Sono testimoni dell’ingiustizia.
Sono testimoni di questa America, di questa nazione che
ci fa incazzare da quattrocento anni.

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Sono testimoni che il mio stato, il Mississippi, ha aspetta-
to il 2013 per ratificare il Tredicesimo Emendamento.
Sono testimoni del fatto che il Mississippi ha eliminato
solo nel 2020 il simbolo della battaglia dei confederati dalla
bandiera dello stato.
Sono testimoni del fatto che la gente nera, gente indi-
gena, tanta povera gente di colore si trova nel letto di un
ospedale indifferente, gli ultimi rantoli dei nostri polmoni
martoriati dal Covid, prostrata da patologie pregresse e non
diagnosticate, causate da anni di malnutrizione, fatica, po-
vertà, vite trascorse a rubacchiare dolci per poterci conce-
dere un boccone di delizia, per poter assaporare un po’ di
zucchero sulla lingua, oh signore, ché le nostre vite sono già
fin troppo amare.
Sono testimoni anche della nostra lotta, del rapido sobbal-
zo dei nostri piedi, vedono il sussulto dei nostri cuori che tor-
nano a battere nell’arte, nella musica, nel lavoro, nella gioia.
Che rivelazione scoprire che altre persone sono testimoni del-
le nostre battaglie e prendono posizione al nostro fianco. Nel
bel mezzo di una pandemia scendono in strada e marciano.
Io singhiozzo, e fiumi di gente scorrono per le strade.
Quando il mio Amato è morto, un medico mi ha detto:
L’ultimo dei nostri cinque sensi ad abbandonarci è l’udito. Quando una
persona è in punto di morte, perde la vista, l’olfatto, il gusto, il tatto.
Dimentica persino chi è. Ma, fino alla fine, riesce a sentire.
Io ti sento.
Io ti sento.
Tu dici:
Ti amo.
Noi ti amiamo.
Non ce ne andremo.
Ti sento dire:
Noi qui.

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indice

9 Prologo

17 Siamo a Wolf Town

29 Roger Eric Daniels iii

49 Siamo nati

69 Demond Cook

87 Siamo feriti

109 Charles Joseph Martin

133 Stiamo a guardare

167 Ronald Wayne Lizana

185 Stiamo imparando

215 Joshua Adam Dedeaux

237 Siamo qui

253 Ringraziamenti

257 Nota del traduttore

261 Il mio cuore in briciole


finito di stampare nel mese di giugno 2021
presso consorzio artigiano lvg ( azzate )

Printed in Italy

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