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PSICOLOGIA
2. Motivazione e comportamento
Il concetto di motivazione: bisogno, istinto, pulsione, incentivo, motivo.....................................19
Motivazioni primarie e secondarie..................................................................................................20
Motivazioni intrinseche ed estrinseche...........................................................................................20
Variabili individuali e interne, l’interazione con l’esterno; la reversibilità......................................21
Le basi biologiche della motivazione: bisogni e impulsi; bisogni omeostatici.................................22
Bisogni innati specifici: curiosità; “need for competence”; autorealizzazione...............................23
Bisogno di affiliazione e stili d’amore.............................................................................................24
Sistemi gerarchici di bisogni: A. H. Maslow...................................................................................25
5. La Comunicazione
La struttura della comunicazione...................................................................................................63
Funzioni della comunicazione, trasmissione dei messaggi.............................................................64
La Pragmatica della Comunicazione: assiomi della comunicazione................................................65
Patologie della comunicazione........................................................................................................68
Comunicazione faccia a faccia........................................................................................................70
la Comunicazione non verbale........................................................................................................71
La Cinesica e la Prossemica............................................................................................................72
Negoziazione..................................................................................................................................73
Script comunicativi........................................................................................................................74
PEDAGOGIA
Si dice che c’è interazione sociale quando le persone agiscono una in presenza dell’altra e si
influenzano reciprocamente, cosicchè tra quel che fa uno e quel che fa l’altro c’è un concatena-
mento. Esaminiamo punto per punto questa definizione.
1.1 “Le persone agiscono”. Il termine “agire” usato nella definizione va inteso in senso lato, sta a
indicare sia i semplici comportamenti, sia le vere e proprie azioni. Nel corso dell’interazione conta-
no gli uni e le altre. Ma che differenza c’è tra comportamenti e azioni?
Quando una persona fa qualcosa automaticamente, per ragioni fisiologiche o reagendo a uno stimo-
lo, si tratta di un comportamento. Tossire, starnutire, fare una smorfia di dolore possono essere con-
siderati semplici comportamenti, sempre che non vengano compiuti con una specifica intenzione co-
municativa.
Le azioni, più o meno consapevolmente, sono volute. Chi le fa le considera significative, pensa che
abbiano un senso e se ne assume, almeno in parte, la responsabilità. Cedere il passo a una signora,
complimentarsi con un amico che ha superato un esame, chiedere permesso per entrare in una stan-
za dove un fratello studia con il compagno, mangiare un panino, chiudersi in camera ad ascoltare mu-
sica, sedersi in poltrona a leggere il giornale sono vere e proprie azioni.
Negli esempi citati, le prime tre sono chiaramente azioni sociali, le altre tre azioni private.
L’azione sociale è fatta in vista degli altri, la privata per se stessi. In pratica è difficile stabilire fino
a che punto quel che uno fa costituisce un comportamento o un’azione e fino a che punto ha valore
sociale o privato. Starsene in camera ad ascoltare musica è qualcosa che si fa per se stessi. Però può
risultare assai sociale: ai genitori l’alto volume della musica può dare noia. Se hanno più volte richia-
mato il ragazzo, il suo comportamento assume un valore “sociale”. Di fatto, i comportamenti, le
azioni private e le azioni sociali allo stato puro probabilmente non esistono o sono casi estremi.
La maggior parte delle cose che facciamo è un misto dei tre elementi. Per comodità nei discorsi sul-
l’interazione sociale il termine “azione” di solito viene usato in senso generico, per indicare sia mani-
festazioni di tipo intenzionale, sia comportamentale.
1.2. “Una in presenza dell’altra”. In gran parte delle interazioni le persone si trovano faccia a fac-
cia, sono fisicamente l’una in presenza dell’altra. A volte però non è così. Mentre uno agisce, l’altro
non è lì. Tuttavia, siccome l’altro, in un secondo tempo, può riscontrare ciò che è stato fatto ed es-
serne influenzato, si verifica lo stesso un’interazione. Se un ragazzo lascia il bagno in disordine dopo
che la madre gli ha appena raccomandato per l’ennesima volta di non farlo, il suo comportamento
entra a far parte di un’interazione. Ciò che conta non è dunque la completa sincronia delle azioni,
bensì che i partecipanti si muovano nella stessa scena psicologica e sociale.
1.3. “Si influenzano reciprocamente”. Le persone si influenzano tra loro. È un fatto di cui siamo
tutti al corrente. Ma come ci si influenza l’un l’altro? Nell’interazione l’influenza interpersonale ha
tre caratteristiche fondamentali.
a. La natura prevalentemente mentale e simbolica. Quando una persona interagisce con un’altra
contano relativamente poco gli effetti materiali di ciò che fa. L’altro viene influenzato soprattutto in
base a ciò che pensa, a come vede nella sua mente le cose. Un bambino fa lo sgambetto a un altro,
che, cadendo, si rompe gli incisivi. Il bambino che si è fatto male potrà pensare che l’altro ce l’ha
con lui e decidere di vendicarsi, oppure convincersi che è un irresponsabile, uno che non si rende
conto dei danni che rischia di provocare, per cui è meglio starne alla larga, oppure pensare che non
l’ha fatto apposta, che lui stesso avrebbe potuto, durante un gioco, agire così, e perdonarlo.
b. la latenza variabile. La latenza è il tempo che intercorre tra un’azione e i suoi effetti sull’altra
persona. L’influenza di un’azione può manifestarsi subito: la latenza è minima, impercettibile. Spes-
so però passa del tempo, c’è un periodo in cui l’altro non fa nulla che testimoni l’influenza che ha
subito.
Una persona sempre gentile ci tratta con distacco. Indaghiamo e scopriamo che che ce l’ha con noi
per una scortesia che a parer suo gli abbiamo fatto tre mesi prima. Tra l’azione e gli effetti ci sono
tre mesi di latenza. Le persone a volte reagiscono a fatti vecchi, pur avendo avuto mille occasioni
per farlo prima. Forse hanno impiegato del tempo ad elaborare le cose e a maturare una decisione.
Oppure sul momento non ci hanno badato, poi improvvisamente sono andati a ripescare l’episodio.
c. la reciprocità o bidirezionalità. Nell’interazione tra una persona A e un’altra B, quel che fa A
influisce su B e ne condiziona comportamenti e azioni, ma anche quel che fa B influisce su A.
Immaginiamo che A sia un ragazzo e B una ragazza. A guarda con insistenza B. B si mostra imba-
razzata. A diviene meno insistente e B comincia a ricambiare gli sguardi. L’iniziale insistenza di A
ha condizionato B provocando l’imbarazzo, ma l’imbarazzo di B di ritorno ha influito su A, che si è
fatto meno invadente. La discrezione di A ha influito ancora su B, che accetta il contatto visivo.
1.4.. “C’è concatenamento tra quel che fa uno e quel che fa l’altro”. Nell’interazione il concatena-
mento tra quel che fa uno e quel che fa l’altro si può stabilire in tre diverse maniere.
a. Azione e risposta. A fa l’azione x e B in risposta fa y. Il padre sgrida il figlio, che si chiude in ca-
mera sbattendo la porta. Il negoziante dice “ buongiorno” al cliente che saluta a sua volta.
L’interazione tra persone in genere è un flusso continuo. All’interno di questi flussi continui, come
facciamo a isolare singoli episodi di interazione?
2.1 Situazione, scena e centri d’attenzione. Per quanto non ci siano regole assolute e infallibili
per isolare un singolo episodio di interazione, di solito si tiene conto di quattro fattori.
1. La situazione. É data dal luogo e dal tempo in cui si svolgono i fatti. Ad esempio ci troviamo a
scuola nel momento della ricreazione.
3. La scena. É il complesso di elementi psicologici che sono alla base di quel che sta accadendo.
Marco è stato interrogato ed è andato male. Marco di solito va bene. L’insegnante d’inglese è severa,
ma comprensiva. Discutono pacatamente, perchè Marco non è convinto di come è andata l’interro-
gazione e l’insegnante, pur avendo fretta, si trattiene a dare spiegazioni. Alcuni compagni vicini qua-
si partecipano in silenzio, altri fanno i fatti loro.
4. I centri d’attenzione. L’attenzione ora è focalizzata su un punto, ora su un altro. Marco e l’inse-
gnante d’inglese in un primo tempo sono concentrati entrambi a vedere come si è svolta l’interroga-
zione. Poi, mentre Marco continua a fare riferimento all’interrogazione, l’insegnante è intenta a ri-
chiamarlo all’andamento complessivo dell’anno ed è tesa a chiudere l’episodio. Marco assume lo
stesso centro dell’insegnante, accetta di considerare l’andamento complessivo dell’anno e pensa a
trovare una definizione della questione. Infine tutti e due si occupano di accomiatarsi. Nella sequen-
za si ravvisano tre centri principali di attenzione, su cui i partecipanti non sempre convergono.
L’interazione è un’unità della vita sociale con confini precisi. Va distinta dalla relazione interper-
sonale, che è un’unità più ampia e complessa, e dai semplici contatti in cui non si realizza un rap-
porto interattivo.
3.1. La relazione interpersonale. Di norma una relazione è fatta di più interazioni. Due persone in
relazione di solito hanno già avuto parecchie interazioni. Inoltre hanno buone probabilità di averne
di nuove. Tuttavia ci possono essere due persone che frequentemente entrano in interazione senza
che si possa dire che tra loro c’è una relazione (ad esempio, può darsi che entriamo in interazione
spesso con un centralinista del municipio, dell’Enel o della Telecom: anche se interagiamo spesso,
tra noi non c’è una relazione interpersonale). D’altra parte tra due persone può esserci una relazione
anche se le interazioni sono rare (ad es. tra una madre e un figlio che frequenta l’università in un’al-
tra città). Come si fa allora a stabilire se due persone sono in relazione?
Due persone sono in relazione quando i vari episodi di interazione che si verificano sono in conti-
nuità tra loro, quando tra loro si verificano più interazioni connesse in successione storica.
Ogni interazione è influenzata dalle passate e può influenzare le future: la relazione è una storia di
interazioni.
3.2 I contatti senza interazione. Sono qualcosa di più semplice dell’interazione. Si verificano solo in
casi limite, perchè l’interazione è la regola nei rapporti sociali. Per lo più manca la bidirezionalità.
L’azione di A ha un effetto su B, ma non c’è ritorno da B ad A. In un cinema che va in fiamme, un
uomo può, prima di mettersi in salvo, gridare per primo al fuoco e influenzare tutti gli altri, senza
esserne influenzato a sua volta.
4. RITMO E COORDINAZIONE
4.1 Che cos’è il ritmo dell’interazione. A volte l’interazione è rapida, a volte è lenta. In alcuni casi
l’avvio è concitato, ma da un certo punto in poi si prosegue adagio, gli interventi dei partecipanti si
fanno sempre più rari e l’interazione si va spegnendo. Non tutte le azioni contano allo stesso modo
in un’interazione.
Mentre molte cose che si fanno sono irrilevanti o quasi, alcune vanno decisamente ad influenzare
l’altro: sono le azioni salienti. Il ritmo è la distribuzione nel tempo delle azioni salienti. Quando ce
ne sono molte ravvicinate, il ritmo è incalzante, quando si diradano, il ritmo rallenta.
I partecipanti a un’interazione abitualmente si muovono con coordinazione. L’interazione infatti è
un compito che richiede coordinazione. Ciascuno, quando è il suo turno, deve avere la possibilità di
intervenire e spetta all’altro lasciargliela. Nella comunicazione faccia a faccia esistono, ad esempio,
dei “punti di rilevanza transizionale”, dei momenti nei quali uno degli interlocutori fa capire all’altro
attraverso la mimica, i gesti, l’intonazione, che sta per cedergli la parola. Occorre badare anche a
convergere a sufficienza sullo stesso centro d’attenzione. Si può cambiare centro d’attenzione, ma
va fatto in sintonia con l’altro. Se i partecipanti non mantengono lo stesso centro d’attenzione, si
possono verificare interazioni scoordinate: mentre uno ha in mente un argomento, l’altro ne sta se-
guendo un altro. Si crea una situazione caratteristica di interazione tangenziale. Le persone viaggia-
no lungo vie indipendenti, che si toccano solo marginalmente.
5.1 La struttura ad iceberg. In ogni interazione c’è un lato esterno e uno interno. Il primo è fatto dai
comportamenti manifesti delle persone, che un osservatore esterno può riscontrare. Nel lato interno
si svolgono gli eventi mentali o simbolici. Ci sono tutte le cose che le persone pensano e sentono
mentre si rapportano l’una all’altra. Questo lato è la dimensione affettivo-cognitiva dell’interazione.
Il lato interno è di gran lunga la parte preponderante nell’interazione, solitamente c’è una prevalenza
della dimensione affettivo-cognitiva. Come si è già detto, infatti, nel corso dell’interazione le perso-
ne si influenzano soprattutto sul piano mentale, non su quello materiale.
5.2 I processi affettivo-cognitivi dell’interazione. Nel lato interno dell’interazione si verificano vari
processi mentali dei partecipanti.
2. Formazione di aspettative. I partecipanti non si regolano solo in base a ciò che accade sul momen-
to, ma sono proiettati al futuro. Cercano di capire che cosa accadrà dopo in conseguenza dei fatti at-
tuali, nutrono delle aspettative sull’interazione che seguirà.
3. Attribuzione di motivazioni. Ciascuno cerca di capire perchè l’altro compie una data azione.
Quando non si vede uno scopo preciso, o si pensa che l’altro sia costretto da qualche forza esterna
o interna, si fornisce una spiegazione impersonale o inintenzionale del comportamento (“se ne è di-
menticato”). In altri casi si attribuisce un’intenzione al soggetto, e si dà una spiegazione personale o
intenzionale di ciò che fa. Altre volte ci si basa sulle ragioni del momento, con le spiegazioni contin-
genti, o si ricorre a spiegazioni generali (“Marco - può pensare la professoressa - è un ragazzo che
ci tiene”). Nell’interazione c’è una forte tendenza distorsiva a considerare intenzionale tutto ciò che
si fa: per l’altro quel che facciamo è quasi sempre voluto.
5.3 Decentramento ed effetto di reciprocità. Ciascuno sa, nel corso di un’interazione, che nella men-
te dell’altro stanno accadendo cose simili a quelle che accadono nella sua. Di conseguenza cerca di
capirle. Vedersi con gli occhi dell’altro, afferrare come l’altro percepisce ciò che siamo e facciamo è
utile, ma per avere questa visione dell’interazione bisogna essere capaci di decentramento. Bisogna
saper uscire da sé e immaginare il punto di vista altrui. Non tutti sono in grado di decentrarsi, per li-
miti cognitivi, per ragioni emotive o scarsa dimestichezza. In tali casi può aver luogo un effetto di re-
ciprocità: si eccede nel fare calcoli e previsioni su come una propria azione potrà essere percepita
dall’altro e si finisce, talvolta per eccesso di sottigliezza, per attribuire all’altro pensieri ed impres-
sioni non reali.
5.4 L’effetto di facciata. Le persone che prendono parte ad un’interazione sanno che ciò che si ma-
nifesta apertamente non sempre corrisponde ai pensieri ed ai sentimenti che ci sono dietro. Di con-
seguenza possono sforzarsi di cogliere elementi di retroscena dietro la facciata. In molti casi scavare
nel retroscena è utile per muoversi nell’interazione, però anche lo sforzo di scavare dietro la facciata
può risultare controproducente, se ci trascina in elucubrazioni poco fondate e inutili, che ci portano
a considerare ogni comportamento manifesto come una facciata oltre la quale si celano intenzioni e
pensieri del tutto contrari e opposti.. Si parla allora di effetto di facciata.
LA DIADE
La nozione di diade. Perchè due persone formino una diade non basta che siano in relazione.
Neppure il legame interpersonale è sufficiente a definire la diade. Perchè si possa parlare di diade è
necessario che possa essere individuata una struttura stabile e riconosciuta della relazione.
La diade è infatti costituita da due partner che sono riconoscono di far parte di un’unità stabile,
hanno l’impressione che la loro unione sia un’entità alla quale pensano di appartenere, essendoci
dentro e contribuendo a farla esistere.
I partner di una diade hanno obiettivi comuni, sia esterni, proiettati nel mondo circostante, sia in-
terni, che riguardano la sopravvivenza e la vita stessa della diade.
Nella diade esistono regole sociali o norme. Alcune derivano dall’esterno, dalla società (per una
coppia coniugale: farsi un’abitazione propria, mantenere un decoro, ecc.). Altre regole nascono al-
l’interno della diade (ad es. a tavola non si legge il giornale).
Nella diade esistono ruoli. Un ruolo è un complesso di regole sociali che fa perno su una persona,
per la posizione che occupa in seno alla società (ad es. in una coppia tradizionale monoreddito il
marito svolge un ruolo per cui si occupa del sostentamento, mentre la moglie si occupa della casa).
Nella diade ci sono aspetti affettivi importanti. I membri hanno relazioni emotive spesso intense.
Tipi di diadi. Esistono vari tipi di diade sotto gli occhi di tutti nella vita quotidiana. Oltre alla
diade marito e moglie (che di solito si chiama coppia), ci sono tante diadi con diversi gradi di unità
e distinzione: genitore-figlio, fratello-fratello, fratello-sorella, educatore-educando, amico-amico, al-
lenatore-atleta, assistente-assistito e via dicendo.
Una classificazione importante distingue tra diadi simmetriche e diadi asimmetriche.
Nel primo caso i partner hanno status sociali simili; possono esserci delle differenze di una certa
rilevanza, ma non sono marcate e sono distribuite tra i due partner, che perciò sono.tutto sommato
alla pari. Nel secondo caso, i partner non sono sullo stesso piano, perchè uno dei due è in posizione
superiore (per autorità, potere, capacità).
La diade genitore-figlio è asimmetrica, la diade marito-moglie è simmetrica.
Quando si studia la relazione diadica, i temi più importanti che si incontrano sono la competizione,
la cooperazione e la fiducia reciproca.
Cooperare significa lavorare insieme per ottenere vantaggi e evitare svantaggi. Le persone competo-
no quando, al contrario, lottano l’una contro l’altra per assicurarsi certi vantaggi o mettersi al riparo
da svantaggi.
Può sembrare naturale che i partner di una diade scelgano sempre di cooperare. In realtà però le co-
se non stanno sempre così. Quasi costantemente l’integrità della diade viene minacciata da situazioni
che spingono i partner a competere, col rischio di finire l’uno contro l’altro.
Anche se esistono obiettivi comuni, i partner della diade debbono dunque impegnarsi a costituire la
cooperazione, perchè pressioni interne ed esterne producono situazioni di competitività in cui ra-
zionalmente per il singolo cooperare è rischioso (ad es. cooperare per un compito in classe di latino
per due compagni di scuola può presentare pro e contro).
Oltre ad accordarsi esplicitamente, i partner di una diade possono attuare strategie di interazione
particolarmente efficaci per provocare la cooperazione. Una di queste è la tecnica del “pugno
guantato”. Ci si mostra competitivi ed aggressivi, facendo capire all’altro i gravi rischi che corre-
rebbe nel caso fossimo contro di lui. Così facendo lo induciamo ad un modo di fare cooperativo. Ad
esempio, un genitore può proporre al figlio che rivendica minor controllo e maggiore autonomia, di
“fare vita per sé” e cercarsi un’abitazione, senza che veramente lo auspichi.
Un’altra strategia è il “tit for tat” (pan per focaccia). Ci si comporta così. La prima volta (al primo
episodio interattivo in cui si pone il dilemma se cooperare o competere) si sceglie a priori di coope-
rare. Diamo fiducia all’altro e corriamo il rischio. Se il partner tradisce, non sta al gioco, non coopera
a sua volta, allora diventiamo competitivi. Non appena però dovesse darci segno di voler cooperare,
ritorniamo cooperativi. Agendo in questa maniera col tempo si riesce a far capire anche al partner
tendenzialmente competitivo che con noi, tutto sommato, conviene cooperare.
L’INTERAZIONE SOCIALE
vs semplici comportamenti
private
Si ha interazione sociale quando le persone compiono azioni intenzionali
sociali
situazione
partecipanti
scena
centri d’attenzione
Due persone sono in relazione quando tra loro si veri- contatti senza interazione
ficano più interazioni connesse in successione storica;
nei rapporti interpersonali i semplici contatti senza interazione
interazione rappresentano casi limite.
relazioni interpersonali
ritmo dell’interazione
del comportamento
prevalenza percezione interpersonale percezione dello stato attuale della persona
dell’interno di tratti stabili della personalità
sull’esterno formazione di aspettative
spiegazione impersonale/ inintenzionale
attribuzione di motivazioni spiegazione personale o intenzionale
struttura ad e intenzioni spiegazioni contingenti / generali
“iceberg” valutazioni
dell’interazione
investimento emotivo dell’interazione
LA DIADE
La diade è costituita da due partner che sono uniti da legame interpersonale e riconoscono di far parte di
un’unità stabile, hanno obiettivi comuni, si comportano secondo regole e ruoli sociali e condividono affetti.
private
Si ha interazione sociale quando le persone compiono azioni intenzionali
sociali
situazione fisica (faccia a faccia)
lʼ una in presenza dellʼaltra
scena psicologica / sociale
Due persone sono in relazione quando tra loro si veri- contatti senza interazione
ficano più interazioni connesse in successione storica;
nei rapporti interpersonali i semplici contatti senza interazione
interazione rappresentano casi limite.
relazioni interpersonali
Lato interno -> eventi mentali e simbolici dimensione affettivo-cognitiva dellʼ interazione
del comportamento
prevalenza percezione interpersonale percezione dello stato attuale della persona
dellʼ interno di tratti stabili della personalità
sullʼ esterno formazione di aspettative
spiegazione impersonale/ inintenzionale
attribuzione di motivazioni spiegazione personale o intenzionale
struttura ad e intenzioni spiegazioni contingenti / generali
“iceberg” valutazioni
dellʼ interazione
investimento emotivo dellʼ interazione
Perchè il bambino si attacca a determinate persone? Attraverso quali meccanismi si formano i primi
legami? Possiamo pensare che il piccolo si leghi a chi soddisfa i suoi bisogni. Le sue esigenze princi-
pali sono nutrirsi, stare caldo, ottenere che siano alleviati il fastidio e il dolore. La persona che si oc-
cupa di lui gli fornisce tutto ciò: di conseguenza il bambino si attacca a questa persona. Fino alla me-
tà del XX secolo gli psicologi erano convinti che le cose andassero all’incirca così. Due importanti
correnti della psicologia, la psicoanalisi e il comportamentismo concordavano nel dare importanza
alle cure materne.
Convinzione comune delle varie scuole di psicoanalisi è che l’individuo sia dotato di istinti, forze
innate che nella vita agiscono su di lui. Freud individuò due forze fondamentali: le pulsioni sessuali
(che spingono a cercare il piacere) e le pulsioni di autoconservazione (che spingono a evitare eventi
dannosi). Nel complesso formano la carica costruttiva, amorosa e vitale dell’individuo (Eros). Il pic-
colo vede soddisfatte le sue pulsioni quando viene nutrito e accudito. La sua carica istintuale dappri-
ma è orientata sui fatti che lo soddisfano. Gradatamente si sposta sulla fonte della gratificazione, la
figura che si prende cura di lui. Si sviluppa una pulsione secondaria, che lo spinge a desiderare la fi-
gura materna. Ora la madre di per sé gli dà piacere e sicurezza, anche se non lo accudisce.
L’attaccamento nascerebbe così.
Per i comportamentisti la madre diviene strada facendo un rinforzo positivo secondario. Il cibo e
le cure sono rinforzi primari. Siccome si associano sistematicamente alla presenza della madre, dopo
un po’ questa è capace di rinforzare di per sé.
Le teorie comportamentiste e psicoanalitiche non hanno trovato valide conferme empiriche. Appa-
re improbabile che un legame così duraturo possa nascere da una “pulsione secondaria” o da un “rin-
forzo secondario”.
Verso la metà del XX secolo gli studi etologici hanno dimostrato che negli animali i legami di attac-
camento si formano per imprinting. Il comportamento di attaccamento è presente in diversi animali
fin dai primi momenti di vita. Molti di essi infatti si formano attraverso l’imprinting un’immagine
dell’oggetto verso cui dirigersi e maturano rapidamente le abilità motorie necessarie per seguirlo. Se
tra l’adulto e il piccolo durante periodi sensibili si verificano contatti specifici, secondo determinate
modalità, il legame nasce e permane stabile.
Nell’uomo lo sviluppo avviene più lentamente, ma già alla nascita e durante i primi mesi di vita il
bambino è fornito delle capacità percettive, delle preferenze e delle modalità di risposta agli stimoli
che favoriscono la sua interazione con l’ambiente: egli dimostra una preferenza per il volto e per la
voce umana, fissando il primo con interesse e guardando intorno tranquillo, tendendo le braccia e
gorgogliando, quando sente la seconda. La funzione adattiva dei vari comportamenti di segnalazione
e accostamento, può essere compresa meglio osservando altri mammiferi, i cui cuccioli passano la
maggior parte del tempo vicino alla madre, succhiandone il latte. Nelle scimmie rhesus, come nei
bambini, la suzione diventa più intensa quando il piccolo è allarmato o agitato, quando cioé è pre-
sente qualche segnale di pericolo. In questi casi il contatto con la madre può essere fondamentale
per la sopravvivenza del piccolo. Se ad esempio a suscitare l’allarme è stato un rumore improvviso,
provocato dall’avvicinarsi di un predatore, tenendosi aggrappato alla madre con bocca, piedi e mani
il piccolo evita di cadere mentre essa fugge.
Negli anni ‘60 H. F. Harlow fece un esperimento che influenzò parecchio le idee sul legame di
attaccamento. Separò piccoli di macacus rhesus (specie di scimmia originaria dell’oriente asiatico)
dalle madri. Li lasciò in presenza di due pupazzi, uno ricoperto di morbido tessuto, l’altro di rete
metallica, ma dotato di un poppatoio che erogava latte. I piccoli di macaco tendevano a legarsi al
sostituto materno morbido, anzichè a quello da cui potevano alimentarsi. Nei primi giorni si tratte-
nevano sul pupazzo morbido e si spostavano sull’altro solo per nutrirsi. Quando cominciavano a
essere più mobili e ad allontanarsi, se spaventati, si rifugiavano dalla madre di stoffa. Dopo alcune
settimane però i piccoli di macaco cominciavano a soffrire la macanza della madre in carne ed ossa.
Divenivano tristi ed apatici.
L’esperimento di Harlow dimostra che nelle scimmie perchè si instauri il legame di attaccamento
non è importante la nutrizione. Conta il rapporto fisico, basato sul toccarsi. D’altra parte lo stesso
esperimento mostra che il semplice contatto non porta a un legame duraturo.
Lo studioso che, avvalendosi dei dati e dei metodi di ricerca dell’etologia e della psicologia cogniti-
vista, ha elaborato compiutamente una teoria dell’attaccamento, è John Bowlby, (1907 - 1990), psi-
cologo inglese specializzato in psichiatria infantile e psicoanalisi. Secondo Bowlby (Attaccamento e
perdita, 1969 - 80) il bambino nasce con una serie di predisposizioni tra le quali è compresa quella a
socializzare, resa operante dalle figure ambientali. Il suo corredo innato prevede una serie di sistemi
comportamentali che entrano in azione su precisi segnali emessi dalla figura materna.
Per spiegare le modalità attraverso le quali si sviluppa il legame oggettuale tra il bambino e la
madre, John Bowlby propone quattro “teorie”:
a) il bambino ha bisogni fisiologici, in particolare di cibo e calore. La madre soddisfa tali
bisogni e il bambino impara ad attaccarsi a lei perchè ella gli dà da mangiare.
(teoria della tendenza secondaria)
b) il bambino ha un bisogno innato del seno: per questo egli si attacca alla madre.
(teoria della suzione primaria dell’oggetto)
c) il bambino ha un bisogno innato di contatto somatico e psichico con un essere umano.
(teoria dell’attaccamento primario all’oggetto)
d) il bambino rimpiange di essere stato espulso dal ventre materno e desidera ritornarvi.
(teoria del desiderio primario di ritorno al grembo materno)
Bowlby individua le risposte istintive primarie del bambino nei comportamenti di accostamento
(succhiare, aggrapparsi, seguire) comportamenti di segnalazione (piangere, sorridere); il bambino è,
per l’adulto, fonte di stimolazioni, come il sorriso e il pianto, che scatenano - nella madre in partico-
lare - diversi tipi di comportamento istintivo. Il sorriso è per l’uomo un potente scatenatore di com-
portamenti e sentimenti benevoli. Il sorriso ha l’effetto di mantenere la vicinanza tra madre e bambi-
no e di favorire l’interazione tra loro. Il pianto ha invece su chi vi assiste gli effetti opposti: è spia-
cevole e l’adulto cerca di farlo cessare, accorrendo quando sente piangere, cercando di capire le cau-
se del disagio del piccolo e di eliminarle. Il pianto, il sorriso e i gorgheggi emessi dal bambino sono
dei “comportamenti di segnalazione” che hanno l’effetto di far avvicinare la madre o far sì
che essa mantenga un contatto già instaurato.
Il bambino, fin dalla nascita, possiede anche dei “comportamenti di accostamento”, come
aggrapparsi e succhiare, grazie ai quali può agire a propria volta per conservare la vicinanza; a questi
si aggiunge successivamente la locomozione, che consente al bambino di seguire la madre oppure
cercarla. Il bambino è in grado di aggrapparsi fin dalle prime settimane di vita. A soli trenta giorni
egli può rimanere sospeso per mezzo minuto ad una sbarra di ferro tenendosi per le mani. Inoltre
passa molto tempo a succhiare, anche quando non ha fame; questa attività non solo gli procura pia-
cere, ma ha anche l’effetto di calmarlo se piange o è agitato.
TIPOLOGIE DELL’ATTACCAMENTO
DI VITA DEL BAMBINO PRESENZA/ASSENZA DELLA MADRE ALLA RIUNIONE CON LA MADRE
LEGAME SICURO: In presenza e in assenza della ma- Il bambino va incontro alla madre
dre il bambino esplora l’ambiente e la saluta. Se ha sofferto e pianto
Madre sensibile ai segnali del bam- attivamente. In assenza della madre durante la separazione si avvicina
bino e “responsiva” alle sue richie- può dare segni di sconforto e pian- alla madre, si lascia prendere in
ste. Madre “supportiva” in episodi re. Per lo più riesce a giocare, an- braccio, si calma subito e quindi
di stress. che se solo. riprende a giocare.
LEGAME INSICURO DI TIPO In presenza della madre il bambino Il bambino si avvicina alla madre
ANSIOSO-AMBIVALENTE: si mantiene stretto ad essa.In assen- per farsi consolare, ma la allontana
za della madre mostra segni inten- e la rifiuta quando lei fa per pren-
Madre imprevedibile nelle risposte si di sconforto, piange e non esplo- derlo in braccio. Mostra segni di
alle richieste del bambino.Comporta- ra l’ambiente che lo circonda.In rabbia verso la madre e, anche se
mento molto affettuoso o rifiutante alcuni casi riesce a giocare da so- questa cerca di confortarlo, non
scollegato dalle esigenze del figlio. lo, ma per poco tempo. riesce a calmarlo.
LEGAME INSICURO DI TIPO In presenza e in assenza della madre Nel momento della riunione, il
ANSIOSO-EVITANTE: il bambino sembra indifferente e bambino non si avvicina alla madre,
tutto preso dai suoi giochi. Mostra non la cerca, oppure si allontana at-
Madre che rifiuta il contatto fisico, indifferenza alla separazione dalla tivamente da lei. Si mostra completa-
anche in situazioni di stress del madre e al fatto di essere stato la- mente occupato con i suoi giocattoli
bambino . sciato solo.
Tra gli aspetti della teoria bowlbiana che sono stati negli ultimi anni criticati e sottoposti a verifica,
incontriamo in particolare: il concetto di monotropia (unidirezionalità del comportamento di attac-
camento del bambino, per cui esso tende a dirigersi verso un’unica figura, quella della madre biologi-
ca) e quello della predittività del rapporto diadico madre-bambino rispetto a tutti i successivi rap-
porti sociali.
coordinazione reciproca madre - bambino => allattamento come “sequenza interattiva coordinata”
fissazione reciproca
fissazione intermittente
visivo-cinesiche coorientazione visiva
motorio-tattili allontanamento-avvicinamento reciproco
sorriso “endogeno” => “esogeno” (sociale)
interazioni
precoci uditivo-vocali pseudo-dialoghi
a) teoria della tendenza secondaria il bambino ha bisogni fisiologici, in particolare di cibo e calore;
la madre soddisfa tali bisogni e il bambino impara ad attaccarsi
a lei perchè ella gli dà da mangiare.
comportamenti di accostamento
succhiare, aggrapparsi, seguire
risposte istintive primarie del bambino
comportamenti di segnalazione
piangere, sorridere
LEGAME
coordinazione reciproca madre - bambino => allattamento come “sequenza interattiva coordinata”
fissazione reciproca
fissazione intermittente
visivo-cinesiche coorientazione visiva
motorio-tattili allontanamento-avvicinamento reciproco
sorriso “endogeno” => “esogeno” (sociale)
interazioni
precoci uditivo-vocali pseudo-dialoghi
ipotesi
Lo studio delle motivazioni rientra, dal punto di vista dei risultati sperimentali ottenuti in campo
psicologico, nella psicologia generale; dal punto di vista genetico, teso a considerare l’origine e il si-
gnificato delle variabili motivazionali, il campo delle motivazioni appartiene invece alla psicologia
dinamica. Con tale denominazione vengono raggruppate le correnti che valorizzano i meccanismi
psicogenetici che sono alla base della costruzione psichica, dove si esprimono forze (gr. dynamis)
diverse. Il punto di vista dinamico comporta, oltre alla considerazione della nozione di forza, anche
quella di conflitto. Il concetto di Psicologia dinamica viene associato a tutti quei fattori psichici, quali
bisogni, tendenze, istinti, che fanno parte delle motivazioni del comportamento umano.
La motivazione si può definire, sulla base dell’etimologia della parola, come la spinta soggettiva
che ci fa “muovere” verso un obiettivo. E’ uno stato psicologico che ci fa tendere verso una meta, e
questo lo differenzia dall’emozione. A volte la relazione tra un comportamento e la sua motivazione
è comprensibile solo se si ha un quadro delle aspettative e della valutazione del soggetto. In alcuni
casi lo stesso soggetto può non avere piena cosapevolezza della meta verso cui si muove.
Senza motivazione non possiamo neanche cominciare a esplorare l’ambiente intorno a noi: in ogni
caso dobbiamo considerare la motivazione come una spinta interna all’individuo, magari indotta da
circostanze esterne, ma che non deve essere confusa con qualche genere di pressione fisica o
psico-logica da parte dell’ambiente.
La spinta motivazionale ha due dimensioni principali: una è quella attivante, che ci rende pronti a
realizzare un comportamento, l’altra è quella direzionale, che dirige l’organismo nell’ambiente verso
un oggetto o lontano da esso. Infatti l’attrazione che l’obiettivo esercita sull’individuo nella motiva-
zione può anche essere di segno negativo (repulsione).
La terminologia psicologica nell’ambito delle motivazioni è molto varia: oltre a motivazione, che è
il termine più chiaro e univoco, vengono usati, spesso per descrivere le stesse situazioni, termini co-
me istinto, pulsione, bisogno, incentivo, motivo. Confrontiamone i vari significati.
La pulsione è una predisposizione innata, come l’istinto, ma si manifesta nel soggetto indipenden-
temente e prima di trovare un obiettivo esterno a cui dirigersi. Si genera nell’Es, la parte più primiti-
va della nostra struttura psichica.
Il bisogno riguarda lo stato di tensione dell’organismo per la mancanza di qualche cosa di cui sen-
te la necessità fisiologica. E’ un concetto più limitato rispetto alla motivazione: tutti i bisogni rien-
trano nelle motivazioni, ma non è vero l’inverso.
L’incentivo è un oggetto o un evento esterno che agisce come rinforzo primario (un panino se ab-
biamo fame) o secondario (per esempio dei soldi).
Il termine “motivo” equivale semanticamente al termine motivazione, ma viene spesso usato, nel
linguaggio comune, come sininimo di incentivo.
MOTIVAZIONI PRIMARIE E SECONDARIE
Una divisione generalmente accettata, riguardo al termine “motivazione”, è quelle tra le motivazioni
primarie e le motivazioni secondarie: le motivazioni primarie hanno base biologica, innata, e corri-
spondono ai bisogni la cui soddisfazione assicura la sopravvivenza; le motivazioni secondarie so-
no invece apprese, e in esse spesso il contesto sociale è rilevante. Le motivazioni primarie (come ad
es. la sete) fanno parte del nostro patrimonio biologico e sono universali, mentre le motivazioni se-
condarie (come ad es. quella a superare un esame, collezionare dei dischi, far tifo per una squadra),
sono connesse ai bisogni fondamentali solo attraverso processi di apprendimento, che avvengono in
genere in contesti sociali. Il più delle volte, quando in una persona nasce una motivazione a fare
qualcosa, non c’è alcun evidente bisogno biologico. Una persona legge un libro, ascolta la musica,
chiacchiera con un amico, guarda la TV, resta sveglio una notte per vedere il sorgere del sole. É dif-
ficile rintracciare bisogni biologici che possono far nascere le motivazioni di questi comportamenti.
Un individuo di fatto può imparare a collegare certe situazioni a determinati bisogni. Quando viene
a trovarsi in presenza di quelle circostanze, anche se il bisogno non c’è, il processo motivazionale
parte ugualmente per via cognitiva. Il comportamento alimentare offre esempi di questo tipo.
Pensiamo a come abbiamo imparato a mangiare ad orario: è probabile che ci sia un processo di con-
dizionamento classico; è assai probabile però che sull’abitudine dell’ora del pasto influiscano l’imi-
tazione degli altri della famiglia e l’insegnamento esplicito (“meglio mangiare a orari regolari”).
L’attività motivazionale, in definitiva, si edifica nel corso dello sviluppo: all’inizio è fatta di un nu-
mero limitato di motivazioni a sfondo biologico. Sono le motivazioni primarie (vengono prima e
fanno da fondamento alle altre). Via via che l’individuo apprende, cresce la capacità di sviluppare
esigenze e motivazioni nuove. Queste, che si costruiscono attorno ai nuclei delle primarie, si dicono
motivazioni secondarie. Sono, per lo meno nell’uomo e in alcuni animali superiori, la maggioranza.
Un individuo può compiere un’azione perchè ha effetti convenienti. Non sempre però ci si muove
per il tornaconto. Spesso la meta del processo motivazionale è il comportamento stesso provocato
dalla motivazione. Non si fa per raggiungere uno scopo, ma per fare. Prendiamo l’esempio di una
persona che lavora: può farlo per il guadagno; spesso però contano altri fattori. Si può essere entu-
siasti di un lavoro perchè è stimolante, o, al contrario, trovarlo noioso e soffrirlo. Possiamo provar
piacere a svolgere le attività concrete del nostro lavoro (per lo studente, le attività e le materie di
studio), perchè sperimentiamo quotidianamente certe nostre abilità, oppure sentirle indifferenti.
Nel lavoro una persona può trovare l’occasione per contatti sociali, per stare con altre persone e
sentirsi realizzata. Tutta queste cose non hanno a che vedere con lo scopo della retribuzione. Può
darsi che la persona non disdegni la retribuzione e che ne abbia anche bisogno. Tuttavia, oltre a una
motivazione al guadagno, ne ha altre orientate verso l’attività lavorativa in sé.
Si parla di motivazioni estrinseche quando la meta delle nostre azioni è un tornaconto (il guadagno).
Se invece il processo motivazionale mira a un risultato che va cercato dentro il comportamento stes-
so da attuare, si tratta di motivazioni intrinseche.
Le motivazioni intrinseche hanno basi biologiche al pari di quelle estrinseche. Gli esseri umani e an-
che gli animali (almeno quelli superiori) per predisposizione biologica tendono a sviluppare processi
motivazionali orientati allo svolgimento di attività in sé, oltre che tesi ad acquisire determinati van-
taggi.
La variabile individuale e interna del comportamento.
Il comportamento degli esseri viventi, a differenza di altri fenomeni, come quelli naturali, è variabile;
occorre capire come mai gli individui manifestano di volta in volta comportamenti diversi.
In gran parte le diversità di comportamento si spiegano tenendo conto delle circostanze esterne al-
l’individuo, alla situazione. Un ragazzo si annoia leggendo Guerra e pace, mentre trova avvincente
Un americano alla corte di Re Artù e lo termina di un fiato: indagando sulle circostanze in cui è av-
venuta la lettura, potremmo scoprire che uno è stato letto di domenica, al mattino, sulla spiaggia,
mentre l’altro in un tranquillo pomeriggio in casa.
Tuttavia le circostanze esterne non bastano a spiegare la variabilità del comportamento. E’ sempre
necessario individuare anche elementi propri all’individuo, da cercare al suo interno.
Nelle spiegazione dei comportamenti bisogna tener conto sia di variabili esterne situazionali, sia di
variabili individuali interne. In linea di massima la motivazione nelle scienze psicologiche e sociali è
il complesso di variabili individuali e interne che intervengono a determinare le
diversità dei comportamenti.
La motivazione è un processo interiore, una sequenza dinamica di eventi che si svolgono dentro
l’individuo; è specifica e non generica, orientando l’individuo verso una determinata meta. Quando
matura un processo motivazionale, l’individuo attua infatti una sequenza comportamentale per il
raggiungimento della meta. Schematicamente questo si può dividere in tre fasi.
1) Dapprima c’è un comportamento appetitivo. L’individuo cerca la strada per arrivare alla meta,
esplora, eventualmente prova comportamenti.
2) Segue l’atto consumatorio, cioè quell’azione che consente di arrivare all’obiettivo.
3) Infine c’è la fase di quiescenza: il processo motivazionale smette di stimolare il comportamento.
La reversibilità.
Come nell’apprendimento e nello sviluppo, nella motivazione ci sono trasformazioni interne che
danno luogo a dei cambiamenti esterni. Però l’apprendimento e lo sviluppo sono irreversibili, men-
tre la motivazione è una trasformazione interiore reversibile.
Con un processo motivazionale ci orientiamo verso una meta. Se la raggiungiamo, possiamo archi-
viare questo cammino e intraprenderne un altro in un’altra direzione. E’ anche possibile tornare in-
dietro prima di raggiungere la meta, annullare tutto e orientarci altrove. Nell’apprendimento e nello
sviluppo l’individuo fa un cammino in cui accumula nuovo e vecchio lungo una direzione. Invece
nelle motivazioni si muove ora entrando in una, ora in un’altra, con un va e vieni in una rosa di
direzioni.
Motivazioni umane e animali.
Un errore comune è credere che solo gli uomini siano mossi da motivazioni; in realtà, l’etologia ha
contribuito a dimostrare che la realtà del comportamento animale è più complessa di quanto si creda.
Anche gli animali hanno motivazioni e attività motivazionali.
A questo punto siamo in grado di dare una definizione abbastanza precisa della motivazione. E’
un processo individuale, interno, ma in rapporto con l’esterno, reversibile, che è responsabile di
specifiche variazioni comportamentali nell’uomo e negli animali.
BASI BIOLOGICHE DELLA MOTIVAZIONE
Gli esseri viventi hanno necessità, esigenze biologiche, come nutrirsi, respirare, ripararsi dal freddo
e dal caldo eccessivi, riposarsi, evitare il dolore. Si può pensare che queste esigenze, qualora soddi-
sfatte, provochino pressioni, spinte interne che fanno partire i processi motivazionali.
Nel linguaggio attuale delle scienze psicologiche e sociali si sono imposti i termini bisogno (need) e
impulso (drive). Il primo indica l’esigenza che l’organismo ha per ragioni biologiche, il secondo la
spinta che si crea quando il bisogno non è appagato.
L’impulso è solo una spinta biologica che fa partire il processo motivazionale. Tuttavia per lo svi-
luppo di una motivazione non basta. Il processo motivazionale è complesso e comprende fattori
non biologici (i processi cognitivi, ad esempio) e le interazioni con l’esterno.
Si distinguono due tipi di bisogni biologici. Alcuni sono legati al funzionamento fisiologico dell’or-
ganismo. Possono assumere forme diverse, ma hanno uno schema di base comune a tutti i viventi.
Perciò sono universali. Si chiamano bisogni omeostatici.
Gli altri costituiscono predisposizioni innate che si sono selezionate nel corso dell’evoluzione.
Consentono l’adattamento degli individui al loro habitat naturale e sociale. Anzichè universali tendo-
no ad essere tipici delle diverse specie. Prendono il nome di bisogni innati specifici (o “spe-
cie-specifici”, cioè propri di una particolare specie)
Bisogni omeostatici.
Un principio fondamentale della fisiologia è quello dell’omeostasi. Gli organismi tendono a mante-
nere costanti le proprie condizioni interne. L’esterno è fonte di continue sollecitazioni in grado di
provocare alterazioni dentro gli organismi. In risposta questi non si isolano, ma attraverso oppor-
tuni meccanismi di regolazione, correggono le deviazioni dalla norma, mantenendo così la stabilità
del proprio ambiente interno. I processi di regolazione omeostatica seguono uno schema a feedback:
le informazioni relative agli eventuali squilibri interni (fame, sete) raggiungono i centri nervosi; se
vengono attivate delle azioni compensatorie (autonome o comportamentali) che ottengono qualche
effetto, l’organismo invia una informazione di ritorno (= feedback) su tale effetto, e dalla situazione
di alterazione dell’ambiente interno dell’organismo si ritorna alla normalità.
La termoregolazione offre un chiaro esempio di regolazione omeostatica autonoma: per ripri-
stinare la normale temperatura corporea, si incrementa la sudorazione, si dilatano i vasi della pelle, il
metabolismo (il complesso di reazioni chimiche che si svolgono in ogni organismo vivente condizio-
nandone l’accrescimento, il rinnovamento, il mantenimento) rallenta, cosicchè l’organismo produce
meno calore. La persona che si accorge di avere caldo o freddo può attuare comportamenti facilitan-
ti: prende provvedimenti e facilita così i meccanismi automatici di ripristino della normale tempera-
tura corporea (che comunque funzionano). Diversa la situazione nei casi di regolazione omeostati-
ca comportamentale. Qui l’intervento attivo dell’individuo non è facoltativo, ma è indispensabile.
L’organismo può compensare lo squilibrio solo se l’individuo compie una determinata azione (come
accade, in normali circostanze, nell’equilibrio nutrizionale).
Nonostante esista una via biologica bisogno-impulso-motivazione, anche un’elaborazione cognitiva
della situazione può avviare i processi motivazionali della nutrizione: il più delle volte le persone
mangiano senza aver provato sensazioni di fame, ma solo perchè è ora, per sedersi a tavola con gli
altri o perchè ne hanno voglia. Molti comportamenti sono infatti “sovradeterminati”, cioè sono il
frutto di una combinazione, o di una “stratificazione” di motivazioni.
Curiosità
Sia nell’uomo, sia negli animali (nei primati e in molti mammiferi) c’è una forte spinta a esplorare
l’ambiente per curiosità. L’essere vivente è, come il computer, una macchina complessa, ma, a dif-
ferenza di quest’ultimo, si mette in moto da solo per raccogliere informazioni ed elaborarle.
Per l’organismo c’è un livello ottimale di stimolazione. Se gli input non sono al di sotto di un limi-
te minimo, né al di sopra di un limite massimo, ma compresi in una fascia ideale, l’organismo è nor-
malmente vigile e attivo. Quando è così, sta bene. Altrimenti, a livelli troppo bassi o troppo alti di
stimolazione, soffre. Sappiamo che nella raccolta di informazioni vengono adoperati schemi.
Abitualmente c’è un certo numero di informazioni che si discostano dallo schema che il soggetto sta
adoperando. Se queste sono troppe e non si reperisce uno schema nuovo adatto, il soggetto può tro-
varsi in difficoltà e stressarsi. Al contrario, quando le informazioni diverse dallo schema che si sta
adoperando sono troppo poche, compare la noia. Il livello ottimale richiede una giusta quantità di
informazioni impreviste stando allo schema che al momento è attivo. In termini più semplici, ciò che
si osserva non deve essere scontato, né incomprensibile e fuori portata. L’individuo è un elaboratore
di informazioni attratto dall’ “insolito che può capire”. Il bisogno di curiosità non è altro che l’esi-
genza innata di trovare il livello ottimale di stimolazione per il grado di vigilanza in cui ci si trova.
Questo comporta che si vada alla ricerca di stimoli o che si tenti di ridurli. Implica anche che il sog-
getto si sforzi di procurarsi informazioni adeguatamente discordanti rispetto ai propri schemi.
Le motivazioni primarie sono quelle a base biologica, innata, e corrispondono ai bisogni la cui sod-
disfazione assicura la sopravvivenza. Il desiderio sessuale, pur essendo compreso tra i bisogni, non
viene sempre considerato motivazione primaria, in quanto la mancanza del suo soddisfacimento non
minaccia la sopravvivenza dell’individuo, ma della specie.
Tra le motivazioni secondarie, connesse ai bisogni fondamentali solo attraverso processi di appren-
dimento, compare, nella nostra cultura, l’affiliazione; essa comprende tutte le spinte a cercare il con-
tatto con gli altri, dall’attaccamento, all’amicizia, alla solidarietà, all’amore.
L’amore costituisce una esperienza complessa a cui concorrono, congiuntamente, desiderio sessua-
le ed elementi della motivazione all’affiliazione. Amicizia, intimità, attrazione fisica, esclusività sono
elementi che di solito nell’adolescenza si condensano in un sentimento che coinvolge profondamente
con un altro individuo e che può concretizzarsi, a seconda delle personalità, dell’ambiente esterno e
delle circostanze della vita, in una relazione di durata molto variabile.
Gli stili d’amore sono stati classificati in diversi modi. John Lee (1988) ha introdotto sei categorie
principali, le cui combinazioni danno luogo allo stile che caratterizza abbastanza stabilmente le rela-
zioni amorose di ogni individuo:
- eros, cioè amore passionale, in cui l’amato viene idealizzato, la vicinanza fisica è molto
importante, e l’amore viene considerato la cosa più importante della vita;
- storghé, (parola greca che significa affetto, come quello dei genitori per i figli) in cui preva-
le la condivisione di sentimenti e interessi e la relazione sessuale ha una parte meno signi-
ficativa;
- ludus, (parola latina che significa gioco), un amore senza profondo coinvolgimento, senza
gelosia, a volte con diversi partner nello stesso tempo;
- mania (che in greco significa follia), un amore che prende totalmente e la cui intensità ci
acceca, magari rivolto a un partner che non apprezziamo per altri versi, ma della cui vici-
nanza abbiamo un bisogno assoluto;
- pragma, una specie di amore riflessivo volto all’impegno reciproco più che all’emozione,
con la consapevolezza che l’amore non sia la cosa più importante della vita;
- agape (parola greca che significa amore altruistico, come la carità cristiana), cioè l’amore
che non chiede di essere ricambiato, che vuole solo la felicità del partner.
Queste categorie vanno intese come i colori di base di una tavolozza, che nella realtà si presentano
sempre mescolati in diverse combinazioni, in cui però si può riconoscere un colore prevalente.
R. Sternberg (1988) propone una diversa classificazione, che descrive tre componenti principali
di ogni relazione amorosa:
- l’intimità, cioè il desiderio di vicinanza e condivisione;
- la passione, cioè il desiderio sessuale;
- l’impegno, la decisione di farsi coinvolgere nella relazione.
Anche queste componenti vanno considerate come ingredienti, ciascuno dei quali può essere presen-
tein maggiore o minore proporzione.
Autorealizzazione
Le persone tendono ad avere progetti sulla propria vita. Possono fare bilanci e di volta in volta
stabilire se hanno ottenuto o meno gli obiettivi che desideravano. Alcuni psicologi - ma molti non
sono di quest’avviso - hanno sostenuto che c’è un vero e proprio “bisogno di autorealizzazione”,
anch’esso primario.
Nell’autorealizzazione intervengono tutte le motivazioni intrinseche ed estrinseche. L’individuo
deve badare a conservarsi materialmente, a mantenersi curioso e attivo e ad affiliarsi. Occorre che
trovi un equilibrio tra queste varie tendenze capace di portarlo a ottenere il successo che si aspetta.
Si può pensare anche che il bisogno di autorealizzazione non sia altro che la somma dei precedenti
o, meglio, il risultato di una loro azione combinata e integrata.
Se ci si chiede che cosa spinge una persona a fare qualcosa, non si può fare un semplice elenco di
motivazioni primarie o secondarie, intrinseche o estrinseche, occorre fare un’analisi delle motivazio-
ni che operano in quel caso. Questo non è un compito facile: le motivazioni cambiano da individuo a
individuo e in uno stesso individuo da un momento all’altro della vita (sono reversibili, come si è
detto). In uno stesso momento la persona può essere mossa da più motivazioni contemporaneamen-
te. Da che cosa dipende il risultato finale di più motivazioni che interagiscono?
Abraham H. Maslow, psicologo umanista americano, in un’opera del 1954, Motivazione e perso-
nalità, ha proposto una organizzazione gerarchica dei bisogni umani, in cui figurano vari tipi di moti-
vazioni stratificati a piramide. All’interno di questa gerarchia di prepotenza relativa, i bisogni sono
disposti in un ordine che inizia da quelli essenziali, fisiologici, per giungere a quelli più elevati, di
“crescita” e di realizzazione personale. Se i bisogni inferiori sono soddisfatti la persona progredisce,
se i bisogni inferiori non sono soddisfatti la persona regredisce; ciò significa che prima di aver soddi-
sfatto un bisogno di livello superiore, la persona di regola procura d’aver soddisfatto quelli di livello
inferiore. Di conseguenza, più andiamo in alto nella scala, meno troviamo persone che possono per-
mettersi di dedicarsi a quei bisogni.
Partendo dalla base della piramide, incontriamo il sistema“carenza-appagamento”, comprendente i
bisogni fondamentali (bisogni carenziali, “deficiency motives”): 1. fisiologici, 2. di sicurezza, e i
bisogni psicologici: 3.di affiliazione (di amore di appartenenza ad un gruppo), 4. di riconoscimen-
to (di stima, di competenza).
Nella parte alta della piramide, il sistema crescita-autorealizzazione, incontriamo i bisogni di cre-
scita personale (being motives): 5. realizzazione di sé ( a. di auto-sufficienza, di realizzazione, b. di
capire, di sapere; c. di semplicità, di ordine, di cose belle; d. di verità, di bontà, di onestà, di giusti-
zia, di completezza); 6. di trascendenza (bisogno di superare i propri limiti, di entrare a far parte di
un mondo superiore).
Le motivazioni di realizzazione di sé e trascendenza sono legate e possono dar luogo, secondo
Maslow, alle cosiddette esperienze culmine (“peak-experience”); tali esperienze risulterebbero
determinanti nelle scelte e nelle svolte personali ed esistenziali del singolo, implicando un vissuto
emotivo descrivibile in termini di meraviglia, timore, umiltà ed estasi di fronte alla esperienza stessa,
percepita come qualcosa di “grande” (esperienze mistiche, estetiche, creative, amorose).
Il sistema gerarchico di Maslow presenta alcuni difetti; il limite principale è la rigidità della dispo-
sizione gerarchica. E’ vero che Maslow precisa che si possono avere inversioni di ordine gerarchico,
ma per lui sono solo eccezioni dovute a uno sviluppo alterato o a errori di valutazione del soggetto.
Di fatto, ogni persona, secondo la psicologia attuale, in una data epoca della sua vita ha la propria
gerarchia di bisogni; esistono tipologie di personalità individuabili, dotate di determinati sistemi ge-
rarchici, ma è sbagliato generalizzare e tanto più ricondurre tutti i casi ad un’unica tipologia, o gerar-
chia. Limiti a parte, l’idea di Maslow di porre in gerarchia i bisogni si rivela in pratica utile nell’ana-
lisi motivazionale.
BISOGNI DI
“CRESCITA” PERSONALE
6. di trascendenza
bisogno di superare i propri limiti,
Abraham H. Maslow: di entrare a far parte di un mondo
l’organizzazione gerarchica superiore
dei bisogni umani
5. realizzazione di sé
d) di verità di bontà
di onestà di giustizia
di completezza sistema
c) di semplicità “crescita - autorealizzazione”
di ordine di cose belle (being motives)
b) di capire di sapere
a) di auto-sufficienza di realizzazione
BISOGNI
PSICOLOGICI
di stima
4.riconoscimento di competenza sistema
“carenza-appagamento”
3.affiliazione di amore
di appartenenza (deficiency motives)
ad un gruppo motivi carenziali
BISOGNI
FONDAMENTALI
2. di sicurezza
attrazione vs repulsione
istinto => spinta a mettere in atto un comportamento innato, geneticamente determinato in una certa specie,
quindi non soggetto ad apprendimento e non modificabile. Negli esseri umani i comportamenti
istintuali non sono cancellati, ma con l’apprendimento e lo sviluppo dei processi cognitivi, ven-
gono soppiantati da comportamenti pianificati
pulsione => è una predisposizione innata, come l’istinto, ma si manifesta nel soggetto indipendentemente e
prima di trovare un obiettivo esterno a cui dirigersi. Si genera nell’Es, la parte più primitiva
della nostra struttura psichica
bisogno => riguarda lo stato di tensione dell’organismo per la mancanza di qualche cosa di cui sente la neces-
sità fisiologica. E’ un concetto più limitato rispetto alla motivazione: tutti i bisogni rientrano nelle
motivazioni, ma non è vero l’inverso.
incentivo => è un oggetto o un evento esterno che agisce come rinforzo primario (un panino) o secondario (danaro)
motivo => equivale semanticamente al termine motivazione, viene spesso usato come sininimo di incentivo.
primarie secondarie
hanno base biologica, innata, sono dettate sono derivate dalle varie
dai bisogni la cui soddisfazione assicura forme di apprendimento
la sopravvivenza
motivazioni
intrinseche estrinseche
il processo motivazionale mira a un risultato che la meta delle nostre azioni è un tornaconto
va cercato dentro il comportamento stesso da attuare (es. lavorare per il guadagno)
(es. giocare per il piacere di farlo)
MOTIVAZIONE E COMPORTAMENTO
1.comportamento appetitivo
3. fase di quiescenza
MOTIVAZIONE :
processo individuale, interno, ma in rapporto con
l’esterno, reversibile, che è responsabile di specifiche
variazioni comportamentali nell’uomo e negli animali.
a) complesso di variabili
BISOGNI DI 6. di trascendenza
“CRESCITA” bisogno di superare i propri limiti,
PERSONALE di entrare a far parte di un mondo superiore
d) di verità
di bontà
di onestà
di giustizia
5. realizzazione di completezza sistema
di sè c) di semplicità “crescita - autorealizzazione”
di ordine (being motives)
di cose belle
b) di capire
di sapere
a) di auto-sufficienza
di realizzazione
BISOGNI
PSICOLOGICI di stima
4.riconoscimento di competenza sistema
“carenza-appagamento”
3.affiliazione di amore
di appartenenza (deficiency motives)
ad un gruppo motivi carenziali
BISOGNI
FONDAMENTALI 2. di sicurezza
§ °°
§ se i bisogni inferiori sono soddisfatti
la persona progredisce
5. e 6. “Peak - experience”, esperienze culmine
°° se i bisogni inferiori non sono
implicano un vissuto emotivo descrivibile in termini di soddisfatti la persona regredisce
meraviglia, timore, umiltà ed estasi di fronte alla espe-
rienza stessa, percepita come qualcosa di “grande”
(esperienze mistiche, estetiche, creative, amorose)
PSICOLOGIA DINAMICA
La psicologia dinamica raggruppa le correnti che valorizzano i meccanismi psicogenetici che
sono alla base della costruzione psichica, dove si esprimono forze ( gr. dynamis) diverse.
Il punto di vista dinamico comporta, oltre alla considerazione della nozione di forza, anche
quella di conflitto. Il concetto di P. Dinamica viene associato a tutti quei fattori psichici, quali
bisogni, tendenze, istinti, che fanno parte delle motivazioni del comportamento umano.
MOTIVAZIONE E APPRENDIMENTO
motivazione intrinseca
piacere e soddisfazione alunni
nell’imparare “motivati”
apprendimento scolastico
motivazione estrinseca
conseguire mete importanti alunni
(promozione, diploma, “diligenti”
approvazione dei genitori)
obiettivi
di padronanza di prestazione
Fritz Heider, esponente della psicologia sociale del dopoguerra, ha gettato le basi teoriche degli stu-
di sulle attribuzioni, cioè sui ragionamenti con cui le persone spiegano i fatti sociali e ascrivono a
bersagli personali e e impersonali diversi tipi di attributi (cause, intenzioni, stati interni, tratti perso-
nali, responsabilità, scusanti, effetti, significati).
Che cosa sono. L’attribuzione è un’operazione mentale con cui una data proprietà viene assegnata
a qualcosa o a qualcuno. Ad esempio, dire che Pietro è irascibile significa attribuirgli questa disposi-
zione interiore, sostenere che il vento ha rotto il vetro vuol dire attribuire a quell’agente atmosferico
la qualità di causa del danno. In ogni attribuzione ci sono un attibuto, che è la proprietà presa in
considerazione, e un bersaglio, ciò a cui si attacca l’attributo.
Come si presentano. Molti messaggi, sia nella comunicazione faccia a faccia, sia attraverso i me-
dia, contengono attribuzioni. In quale forma si presentano? A volte le attribuzioni sono esplicite, e
vengono espresse verbalmente o con segnali non verbali (es. dire all’altro “Sei matto”, oppure pic-
chiettarsi sulla tempia fissandolo). Altre volte sono tacite: le si deve cercare andando a interpretare i
significati latenti dei comportamenti (ad es. davanti a un professore che ci tratta freddamente, pos-
siamo pensare che ci attribuisce scarse capacità e poche possibilità di successo).
A differenza delle esplicite, le attribuzioni tacite sono incerte: le ricaviamo ragionando su quello
che gli altri dicono e fanno, ma nessuno le ha dette ed è possibile che ci si sbagli. Anche quando sono
esplicite, raramente le attribuzioni sono complete, cioè enunciate compiutamente in ogni parte. Nel-
l’esempio sopracitato del vento, si potrebbe dire: “scherzi del vento”: per essere afferrate le attribu-
zioni incomplete richiedono passaggi mentali, possibili se si conoscono certe presupposizioni, cioè
se si hanno conoscenze in comune, date per scontate.
Le persone non si dedicano costantemente a spiegare le cose, ma solo in presenza di condizioni-sti-
molo, caratterizzate da imprevisti, obiettivi mancati, stati di incertezza, incongruenze o particolari
esigenze (mettersi in mostra, sostenere una tesi, ecc.). In queste situazioni i discorsi sono carichi di
attribuzioni. Nell’ambito delle attribuzioni causali, a partire da Heider si distinguono attribuzioni
interne, riferite al soggetto agente (di solito alle capacità o all’impegno), e attribuzioni esterne, riferi-
te all’ambiente (per lo più alla sorte o alle circostanze). Nelle attribuzioni causali siamo soggetti a
biases di vario genere. Il cosiddetto errore fondamentale (tipico di noi occidentali) ci porta a dare
più importanza ai fattori individuali (come la responsabilità personale, l’impegno, l’intenzionalità) e
a sottovalutare le influenze ambientali esterne. Per l’effetto sé-altro preferiamo le attribuzioni ester-
ne quando si tratta di spiegare le nostre azioni e le interne nel caso delle azioni altrui (ad es. “l’altro
è stato volutamente sgarbato; noi eravamo in ritardo e non potevamo fermarci a salutare”). I self-
serving biases e i group-serving biases intervengono quando si tratta di spiegare i successi e gli in-
successi e conducono a favoritismi nei riguardi propri e del proprio gruppo. Ci sono poi biases
legati a visioni preconcette, come quelli che intervengono nella spiegazione dei successi degli uomini
e delle donne, che risentono degli stereotipi maschili e femminili
cause c’era poca gente per via dello sciopero dei treni
intenzioni stavo scherzando
stati interiori ho l’impressione che tu sia dispiaciuto
attribuzioni di tratti personali è uno che se la prende
responsabilità con la tua flemma siamo arrivati in ritardo
scusanti non l’ho comprato, i prezzi erano proibitivi
effetti questa siccità sarà un guaio per gli agricoltori
agli altri
"colpa tua"
impersonali
sforico-sociali 'ola comrzione dipende dal sistema"
INTERNE ESTERNE
AT-TRIBUZIONI CAUSALI
r esponsabilità
persone entità
impersonali scusanti
effetti
a sè agli altri naturali storico-sociali
auto-attribuzioni. eteroattribuzioni
carattere interno/esterno
controllabile controllabilità
stabile stabile
incontrollabile
interna esterna
controllabile
instabile instabile
incontrollabile
LA PERSONALITA’
La parola “personalità” deriva dal termine latino persona (dall’etrusco: “phersu” = maschera) , con
il quale venivano indicate, nel teatro antico, le maschere che gli attori indossavano per recitare.
La maschera poteva cambiare secondo lo stato d’animo, l’età e il sesso che doveva rappresentare:
ad esempio la maschera era bianca per i personaggi femminili (impersonati però da uomini) e bruna
per quelli maschili. Nel tempo la medesima parola finì per definire sia i ruoli rappresentati dalle ma-
schere sia gli attori stessi. A differenza della maschera che si può mettere e togliere a piacere, il ter-
mine personalità implica, nel linguaggio comune come in psicologia, qualcosa di stabile.
In psicologia la personalità può infatti essere definita come l’insieme delle caratteristiche psichi-
che e delle modalità di comportamento che, nella loro integrazione, costituiscono il nucleo irri-
ducibile di un individuo, che rimane tale nella molteplicità e diversità delle situazioni ambien-
tali in cui si esprime e si trova ad operare. In altre parole, la personalità è un’organizzazione di mo-
di di essere, di agire, di conoscere, che garantisce stabilità, continuità, coerenza, nelle relazioni tra
l’individuo e il mondo, l’insieme delle caratteristiche che, nonostante il passare del tempo, permet-
tono di mantenere una stessa predisposizione ad agire, parzialmente indipendente dalle situazioni
che si presentano. La personalità è però anche uno stile di adattamento e reazione all’ambiente: non
ha un’origine semplice ma multipla, non è statica e fissata una volta per tutte, ma dinamica ed evo-
lutiva.
Il concetto di personalità non va confuso con quello di temperamento. Con quest’ultimo termine gli
studiosi designano un modo di reagire agli stimoli ambientali che sembra dipendere quasi interamente
dalla costituzione fisica. Mentre sarebbe improprio parlare di personalità in un neonato, le prime fa-
si della vita son quelle in cui meglio si possono osservare le differenze di temperamento.
Le teorie della personalità. Un concetto oggi comune è che la personalità adulta si forma per il
concorso di fattori costituzionali ed innati con fattori educativi ed ambientali. Esistono però tuttora
molte divergenze e molte diverse teorie sui fattori che contribuiscono alle differenze individuali di
personalità.
In particolare alcune teorie sono spiccatamente innatiste (sostengono che la disposizione e l’ere-
dità sono i fattori in grado di spiegare quasi tutte le differenze di personalità osservabili), mentre al-
tre sono estremamente ambientaliste (sostengono che le differenze sono dovute quasi soltanto agli
apprendimenti, ai fattori educativi e all’ambiente). Quindi alcune teorie sono particolarmente inte-
ressate ai meccanismi di trasmissione ereditaria e biologica mentre altre si focalizzano
sulla trasmissione educativa e culturale.
Le caratteristiche di personalità sono uniche per ogni individuo, ma seguono anche delle leggi di ca-
rattere universale. Le teorie della personalità si possono anche suddividere nello stesso modo.
Alcune sono teorie idiografiche, sono basate sullo studio intensivo dei singoli individui e cercano di
spiegare l’origine della loro caratteristiche peculiari ed uniche.
Altre sono invece nomotetiche (nomos = legge) sono basate sullo studio di gruppi estesi di per-
sone e cercano di stabilire delle leggi di valore generale ed universale su come si originano le differen-
ze individuali della personalità.
Teorie medico-biologiche
La Teoria degli Umori. Un modello molto antico ma che ha degli influssi anche nel nostro modo
di vedere di oggi e nel nostro linguaggio di tutti i giorni è quello di Ippocrate. Questo medico greco
vissuto circa venticinque secoli or sono partiva, nel giudicare il carattere e la personalità dell’uomo,
da una analogia tra l’uomo e il mondo. Le diverse regioni del mondo hanno caratteristiche e climi di-
versi a seconda che prevalga in esse uno dei quattro elementi che allora erano considerati fondamen-
tali (acqua, aria, terra e fuoco). Così come una regione della terra può essere polverosa, asciutta e
sterile, l’altra può essere fertile, umida e ricca di vita, e così via. Nell’uomo, visto come un mondo in
miniatura, gli elementi da considerare sono i quattro “umori” di base: la bile nera, la bile bianca, la
linfa ed il sangue. Ippocrate riteneva che il nostro corpo contenesse tali umori, o sostanze chimiche,
e che le loro diverse proporzioni determinassero le diverse personalità. Dalla prevalenza estrema di
questi quattro umori vengono i quattro tipi puri: il melanconico (bile nera, melaina = nera, kolè =
bile; corrisponde al temperamento triste e malinconico), il collerico (kolè = bile bianca, corrisponde
al temperamento irascibile), il flemmatico (flegma = linfa, genera il temperamento apatico e pigro)
ed il sanguigno (corrispondente alla persona battagliera e allegra).
Beda, filosofo dell’alto medioevo, indicava, riprendendo la concezione ippocratica e pitagorica, una
precisa corrispondenza tra temperamento, elementi, età della vita, stagioni: il temperamento sanguigno
domina nell’infanzia, imita l’aria, aumenta in primavera; il temperamento collerico domina nell’adole-
scenza, imita il fuoco, aumenta in estate; il temperamento malinconico domina nella maturità, imita la
terra, domina in autunno; il temperamento flemmatico domina nella vecchiaia, imita l’acqua, domina in
inverno.
La teoria degli umori era destinata a influenzare gli studi di fisiologia e psicologia fino all’ottocento;
anche la scienza attuale rimane legata in qualche modo a queste antiche radici quando cerca di spiega-
re che cos’è la personalità e come si formano le differenze tra una persona e l’altra.
Teorie medico-biologiche del ‘900. Tra le teorie medico-biologiche, (o somato-costituzionaliste),
la più nota e la più antica è quella di Ippocrate. Certamente anche la saggezza popolare è ricca di os-
servazioni che legano il carattere con l’aspetto fisico (“i grassi sono persone gioviali”, “le persone
con i capelli rossi sono di forte temperamento”, ecc.). Nel nostro secolo diversi psicologi si sono
cimentati nella ricerca di una relazione fra costituzione fisica e funzionamento mentale. Un modello
molto noto è quello proposto da Sheldon (1942). Attraverso lo studio di oltre 4000 fotografie di
uomini Sheldon ha concluso che esistono tre diversi tipi di costituzione corporea o somatotipi.
Kretschmer Sheldon
1° tipo PICNICO ENDOMORFICO
predisposizione ciclotimica viscerotonica
fasi maniacali e fasi depressive affettività con tratti di passività
socievolezza sedentarietà
Le caratteristiche e gli aspetti che distinguono una data personalità vengono chiamati tratti; esempi
di tratti possono essere, fra i molti possibili, l’attività o la passività, la reattività o la calma, l’iracon-
dia o la pazienza, la socievolezza o la timidezza. Ogni data struttura di personalità può essere defi-
nita per l’avere una certa costellazione di tratti, ed in genere una persona possiede i diversi tratti in
grado variabile come intensità con una gamma quasi infinita di sfumature.
Le teorie dei tratti partono tutte dal presupposto che gli individui siano predisposti, fin dalla na-
scita, per natura, a reagire ed a comportarsi secondo stili e tipologie della condotta che possono es-
sere sistematizzate come tratti della personalità. Queste teorie enfatizzano l’importanza della predi-
sposizione. Le principali tra queste sono: la teoria dei tratti di Allport, la teoria dei tratti analitico-
fattoriale di Cattell e la teoria tipologica di Eysenck.
La teoria di Allport considera i tratti come una specie di filtro attraverso il quale il soggetto recepi-
sce la realtà. Allport suppone che esista una gerarchia di tratti. Al vertice della gerarchia si trovano i
tratti cardinali: sono le motivazioni e le passioni che pervadono ogni aspetto della vita, delle dispo-
sizioni onnipervasive ed ossessive; ben poche persone possiedono dei tratti cardinali e quelle che li
hanno ne sono, secondo Allport, ossessionate e totalmente prese.
Viceversa tutti quanti possiedono dei tratti centrali: si tratta di disposizioni (come l’operosità o la
pigrizia, la fiducia o la diffidenza, ecc.) che hanno una influenza estesa e sistematica sul comporta-
mento di un individuo.
Infine Allport ha identificato l’esistenza di tratti secondari: sono preferenze ed avversioni che ri-
guardano aspetti circoscritti del comportamento (preferire il pop o la musica classica, i dolci o le
torte salate, ecc.). L’ambiente, cioè l’educazione e e le esperienze di vita, concorrono potentemente,
secondo Allport, nel definire i tratti secondari di una personalità, hanno un qualche limitato effetto
nel definire i tratti centrali e sono del tutto ininfluenti sui tratti cardinali.
Mentre Allport impersona il procedimento idiografico, la teoria analitico fattoriale di Cattell è il ri-
sultato di un approccio nomotetico. Cattell utilizza l’analisi fattoriale, una tecnica statistica grazie
alla quale è possibile raggruppare le risposte ai test a seconda della presenza significativa di elementi
e aspetti comuni fra di esse: se il punteggio di una risposta aumenta sistematicamente con l’aumen-
tare del punteggio di un’altra o più risposte, si deduce che entrambe hanno a che fare con uno stesso
“fattore” comune sottostante. Cattell distingue tra tratti di superficie, disponibili all’analisi di un
osservatore esterno, e tratti sorgente o sotterranei (profondi), che sono strutture soggiacenti della
personalità non immediatamente evidenti.
TRATTO DI SUPERFICIE
TRATTO SORGENTE
INSTABILE
lunatico suscettibile
ansioso irrequieto
intransigente aggressivo
sobrio eccitabile
pessimista incostante
chiuso impulsivo
scontroso ottimista
taciturno attivo
melanconico collerico
INTROVERSO ESTROVERSO
flemmatico sanguigno
passivo socievole
prudente espansivo
ponderato loquace
tranquillo comprensivo
controllato bonario
fidato vivace
di umore costante incauto Fig. 2
calmo leader I tipi di personalità
secondo Ippocrate e
secondo le ricerche
STABILE di Eysenck
La teoria di Eysenck concepisce una diversa gerarchia di caratteristiche della personalità; al livello
più basso della gerarchia egli colloca le risposte specifiche. Questo sono comportamenti individuali
occasionali, che possono essere o non essere caratteristici, stabili e indicativi della personalità di un
soggetto (ad es. “prendo un caffé macchiato con lo zucchero”). Ad un livello superiore si trovano le
risposte abituali: azioni che si ripetono con frequenza e quindi rappresentano schemi di comporta-
mento che si presentano sistematicamente in situazioni simili (ad es. “tutte le volte che prendo il
caffé lo voglio macchiato e zuccherato”). Ad un livello ancora più alto della gerarchia ci sono i tratti:
l’insieme di condotte collegate tra loro in modo caratteristico (ad es. “ogni volta che prendo il caffé
ho l’abitudine di attaccare discorso e chicchierare del più e del meno perchè ho il tratto della socie-
volezza”). Al di sopra ancora dei tratti Eysenck individua un livello di organizzazione della persona-
lità ancora più generale, quello dei tipi. I tipi individuati sono molto pochi, proprio perchè hanno
un valore molto generale. La teoria si chiama dei tratti-tipi perchè parte dai tratti ma unifica dei grup-
pi di essi in raggruppamenti (i tipi).
La prima delle tre tipologie principali è quella introversione-estroversione, che comprende la se-
rie di tratti: dinamismo/passività, socievolezza/insocievolezza, audacia/prudenza, impulsività/auto-
controllo, espressività/inibizione, praticità/riflessività, responsabilità/irresponsabilità.
Il secondo grande gruppo di fattori concerne la sfera generale dell’instabilità emotiva (stabilità /
labilità) che comprende la serie di tratti: senso di inferiorità/ amor proprio, tendenza depressiva /
letizia, angoscia/calma, maniacalità/noncuranza, dipendenza/autonomia, ipocondria/benessere fisico,
senso di colpa/tranquillità di coscienza.
La terza tipologia riguarda la sfera dell’idealismo/realismo, che comprende i tratti: aggressività/
mansuetudine, autoritarismo/remissività, volitività/mancanza di ambizione, tendenza alla manipola-
zione/empatia, ricerca del sensazionale/tendenza alla vita tranquilla, dogmatismo/elasticità, mascoli-
nità/femminilità.
Le teorie psicodinamiche.
Queste teorie hanno dato un contributo notevole all’evoluzione della concezione della personalità,
considerata in relazione alle varie tendenze che sono in equilibrio instabile, per cui il comportamento
è il risultato di interazioni tra disposizioni diverse spesso in conflitto. Questa conflittualità spiega il
carattere dinamico della personalità, che affonda le sue radici negli aspetti genetici.
La teoria psicodinamica di Sigmund Freud è una teoria generale sul funzionamento della
psiche umana; essa è anche una teoria della personalità.
La 1°topica freudiana: conscio, preconscio, inconscio. La prima rivoluzione di questa teoria
consiste nella scoperta dell’inconscio. Esso costituisce come una specie di grande deposito di espe-
rienze, ricordi, pulsioni istintive, che sono inaccessibili e talmente in contrasto con la razionalità e la
morale comune da risultare inaccettabili.
La struttura della mente è in grandissima parte inconscia e solo in piccola parte entra nella sfera del
conscio. In alcune particolari condizioni, per esempio nel sogno, alcuni aspetti e contenuti inconsci
sono riconoscibili e fanno dunque trapelare l’esistenza dell’inconscio. Un’altra situazione nota di
emersione dell’inconscio sono i “lapsus” freudiani. Sono errori involontari nel parlare che rivelano,
al di là delle intenzioni, dei contenuti inconsci. Si verificano più spesso quando il controllo razionale
si allenta, per una forte emozione o per stanchezza. Queste situazioni (come i sogni o i lapsus)
aprono una finestra non solo sull’incoscio profondo ma anche su una area ancora superficiale e in-
termedia che Freud chiama pre-conscio. Il piano conscio è quindi tutto di superficie, l’unico chia-
ramente visibile a tutti e che a tutti sembra l’unica realtà. Il piano preconscio è nascosto, ma non
tanto in profondità: se lo schermo ingannevole del conscio si lacera o si incrina lo possiamo scorgere
abbastanza chiaramente. L’inconscio è invece tanto profondo che non riusciamo mai a vederlo diret-
tamente, ma solo in modo indiretto, per via degli effetti che provoca. Questa prima teoria, che de-
scrive i tre piani della struttura psichica, è nota come “prima topica” (topos = luogo; mappa del
sistema psichico). Può essere espressa attraverso l’immagine dell’iceberg: la parte visibile (conscio)
è di minori dimensioni rispetto alla parte sommersa (inconscio).
La 2° topica: Es, Io e Super-io. Successivamente Freud sviluppò ed in parte corresse questo mo-
dello con la teoria delle istanze psichiche (nota come “seconda topica”). Queste sono tre compo-
nenti della psiche che non si distinguono fra di loro perchè conscie o inconscie, (ognuna di esse at-
traversa tutti i livelli topici della mente), ma perchè obbediscono a leggi di funzionamento diverse.
L’Es è l’istanza basilare e più primitiva, quella che rappresenta i fondamenti biologici elementari
della personalità. Essa è la fonte delle energie istintive, come ad esempio la sessualità, e nella ricerca
di un soddisfacimento di queste energie (o pulsioni) obbedisce solo al principio del piacere, cioè ha
come unica meta la ricerca della soddisfazione e l’evitamento del dolore. Questa istanza psichica
primitiva è la prima a svilupparsi ed è la sola presente nell’età neonatale.
L’Ego o Io è l’istanza razionale e realistica, quella che funziona prevalentemente a livello conscio
e che rinvia il soddisfacimento e il piacere non per scelte morali o altruismo ma perchè in tal modo
evita punizioni o danni. L’Ego funziona secondo il principio di realtà. Nel corso dello sviluppo
questa istanza psichica è successiva all’Es e compare a partire dalla seconda infanzia.
Il Super-ego o Super-Io è l’ultima istanza a svilupparsi e segue le leggi della morale e dell’etica.
Essa esiste solo nella specie umana, e corrisponde alla capacità di concepire un valore e un significa-
to universale e non egocentrico delle azioni e delle intenzioni o desideri. Si sviluppa dopo l’età dei
tre-quattro anni e si compone di due parti. Uno è il concetto di bene e di male come caratteristica
distinta da quello di vantaggio e di svantaggio, si tratta della coscienza morale, mentre l’altra costi-
tuisce un modello ideale e una aspirazione su come si dovrebbe essere: si tratta dell’Ideale dell’Io.
Le dinamiche della personalità sono quindi piuttosto complesse, con l’Io che è sollecitato contem-
poraneamente verso direzioni spesso opposte: dalle spinte istintive dell’Es (il principio di piacere),
dalle pretese morali del Super-io e, naturalmente, dal principio di realtà.
Eros eThanatos. L’energia che orienta il comportamento ed è uno dei motori dello sviluppo della
personalità costituisce la base delle pulsioni primitive o istinti. In un primo tempo Freud individuò
due categorie generali di istinti: quelli finalizzati alla sopravvivenza individuale o istinti dell’Io, e
quelli finalizzati alla sopravvivenza della specie o istinti sessuali. In un secondo periodo Freud mo-
dificò questo modello raggruppando gli istinti dell’Io e quelli sessuali nel solo istinto di vita (eros)
contrapposto all’istinto di morte (thanatos). Le energie che caratterizzano queste pulsioni sono sta-
te chiamate rispettivamente libido e destrudo.
I comportamenti istintivi possono essere bloccati, dilazionati, trasformati. L’energia istintiva può
essere orientata su un bersaglio diverso da quello originale. Per esempio, l’impulso che mi portereb-
be ad aggredire - se l’io fosse dominato dall’Es - un mio odiato nemico, può essere deviato verso un
oggetto (rompo qualcosa per la rabbia) oppure ritorto contro di sé (mi ubriaco, guido in modo peri-
coloso e mi procuro un incidente).
Gli istinti sono qualcosa che incute paura, perché sono forze inaccettabili e misteriose che temiamo
possano soverchiare la nostra volontà. Essi sono come una minaccia interna. Se non siamo consape-
voli della loro presenza (perchè sono stati rimossi e ricacciati nell’inconscio) non per questo essi
cessano di esistere e di agire dentro di noi. Può capitare che degli aspetti in sé banali della realtà agi-
scano a livello inconscio, facendo scattare l’ansia nevrotica, sensazione che ricorda l’agitazione della
paura ma che, a differenza della paura, non ha un oggetto chiaro e preciso nella realtà. Per esempio,
l’ambiente ristretto di un ascensore può richiamare inconsciamente la morte, generando l’ansia fobi-
ca degli spazi chiusi.
I meccanismi di difesa. Per metterci al riparo dall’ansia mettiamo all’opera diversi meccanismi
di difesa che falsificano la realtà e impediscono l’emergere di queste minacce dall’inconscio. Questi
meccanismi sono messi in atto da tutti, non solo dai nevrotici, e le diverse personalità sono caratte-
rizzate dalla relativa prevalenza di alcuni di essi.
Il più primitivo è la negazione, che consiste nel rifiutarsi di credere all’esistenza di qualcosa di
inaccettabile. Il paziente che ha una malattia mortale, ad esempio, si può difendere negandola, cioè
“dimenticando” quanto gli è stato detto e “credendo” a spiegazioni improbabili sulla causa dei suoi
gravi sintomi.
La rimozione consiste nel confinare idee e tensioni penose nell’inconscio. La rimozione le mette in
ombra, ma non le cancella davvero e non le inattiva.
Estremamente primitivo è il meccanismo della proiezione: attribuire ad un altro o comunque a
qualcosa al di fuori di noi un istinto inaccettabile e che non vogliamo riconoscere come nostro (“So-
no andato male a scuola perchè gli insegnanti sono stupidi”; “Io sono onesto e leale, ma il mondo è
pieno di ladri e di imbroglioni e non mi posso fidare di nessuno”; ecc.). La proiezione può essere:
assimilativa (quando io odio x e penso che anche x odia me), o disconoscitiva (quando il mio ini-
ziale odio per x diventa: x mi odia benchè io non lo odi).
Lo spostamento si ha quando l’oggetto bersaglio dell’istinto viene sostituito (come nell’esempio
dell’aggressività già visto).
La sublimazione è un processo difensivo caratteristico dell’età di latenza (6/10 anni), periodo nel
quale le pulsioni libidiche tendono ad attenuarsi o essere rivolte verso mete culturalmente ricono-
sciute. Essa consiste nella deviazione delle pulsioni verso oggetti socialmente valorizzati, corri-
spondendo dunque non ad un cambiamento di bersaglio dell’impulso, ma ad una trasformazione di
contenuto dell’impulso. Per esempio l’impulso a distruggere ed aggredire può essere sublimato nella
vocazione a fare la carriera militare.
Freud individua anche delle precise fasi dello sviluppo, la fase orale, anale, fallica, di latenza, ge-
nitale, che prendono il nome dalle zone del corpo le quali vengono via via investite dalle pulsioni,
divenendo determinanti nella crescita affettiva ed emotiva dell’individuo.
La personalità adulta di un individuo rappresenta dunque il risultato: a) della dinamica preva-
lente dei suoi meccanismi di difesa; b) del modo in cui sono state affrontate e risolte le difficoltà
caratteristiche delle diverse fasi dello sviluppo; c) di qual è lo sviluppo relativo e la forza del suo
Io nei confronti dell’azione delle altre istanze psichiche (Es, Super-Io).
Erik Erikson fa parte di un nutrito gruppo di psicologi, soprattutto presenti negli USA, che riten-
gono riduttivo il concetto freudiano dell'io come ístznzapsichica subalterna alle esigenze e alle pul-
sioni dell'Es. Essi sostengono che I'Io è largamente autonomo (motivo per cui questa scuola si chia-
ma anche psicologia dell'Io) e che lo sviluppo della personalita si svolge per I'intero arco della vita"
attraverso il superamento di compiti e conflitti psicosociali di fase.
Menfe le prime fasi, fino alla puberta, coincidono ampiamente con quelle previste daFreud, quelle
seguenti sono innovative ed inesistenti nel modello psicoanalitico classico. E probabilmente correffo
dire che la psicologia dell'iq non è in contrapposizione con la psicoanalisi ma intende esserne in
qualche modo una estensione o completamento. Lo schema evolutivo di Erikson sostituisce al con-
cetùo freudiano di zona libidinale (orale, anale, ecc), il concetùo di modo, che vuole sottolineare I'im-
portanza dei rapporti sociali in ogni fase dello sviluppo. Inoltre, ad ogu f,ase, Erikson fa corrispon-
dere una crisi psicosociale, il cui superamento è fortemente oondizionato dal contesto socioculfi.rale
in cui awiene. Lo schema di Erikson è tracciato nelle sue linee generali nelle tabella seguente:
RIMOZIONE: processo attivo del tenere fuori, espellere, bandire dalla coscienza idee o impulsi
accettabili rendendoli inconsci.
FORMAZIONE REATTIVA: sviluppo nell’Io di atteggiamenti e di interessi consci, socializzati,
che rappresentano l’antitesi di certe tendenze infantili non socializzate, che permangono nell’incon-
scio.
PROIEZIONE: meccanismo mentale consistente nell’attribuzione ad altri di tendenze desideri, ecc;
che il soggetto non riconosce in sè stesso; può essere assimilativa (io odio x e x odia me), oppure
disconoscitiva ( “io odio x” diventa: “x mi odia benchè io non lo odi”).
SUBLIMAZIONE: processo difensivo che consiste nella deviazione delle pulsioni verso mete cul-
turali - oggetti socialmente valorizzati - consentendo al sistema dell’Io di esaudire le richieste del
Super-Io.
NEGAZIONE: una percezione o un pensiero è ammesso alla coscienza in forma negativa. Può ma-
nifestarsi in fantasie, parole o azioni.
DINIEGO: rifiuto di ammettere la realtà; disconoscimento della verità in quanto spiacevole.
ANNULLAMENTO : il soggetto fa come se qualche pensiero o azione non avesse avuto luogo.
DIFESA MANIACALE: fantasia di onnipotenza, accompagnata da euforia, disinibizione, illimitata
fiducia in sè stessi per difendersi in modo reattivo dalla depressione, immaginando di avere tutto
sotto controllo.
ASCETISMO: processo difensivo tipico della pubertà e dell’adolescenza, caratterizzato da un at-
teggiamento di mortificazione del corpo e di ogni sua esigenza. Le condotte sono improntate ad ab-
negazione ed estremo rigore.
INTELLETTUALIZZAZIONE: consiste nel processo con cui il soggetto cerca di dare una formu-
lazione concettuale ai propri conflitti ed alle proprie emozioni in modo da padroneggiarli.
Intervie-ne, in genere, nel corso della pubertà.
RAZIONALIZZAZIONE: procedimento con cui il soggetto cerca di dare una spiegazione coerente
dal punto di vista logico, o accettabile dal punto di vista morale, di un atteggiamento, un’azione,
un’idea, un sentimento, ecc, di cui non sono percepiti i veri motivi.
IDENTIFICAZIONE CON L’AGGRESSORE: il soggetto di fronte ad un pericolo esterno (rappre-
sentato tipicamente da una critica proveniente da un’autorità) si identifica con il suo aggressore, imi-
tando fisicamente la persona dell’aggressore, assumendone la stessa funzione aggressiva, o adottan-
do taluni simboli di potenza che lo contraddistinguono. (Formazione del Super-Io)
ISOLAMENTO: processo per cui un pensiero, un comportamento, un avvenimento vengono isolati
dall’esperienza significativa del soggetto. Un particolare pensiero viene isolato dai pensieri che lo
hanno preceduto e da quelli che lo seguiranno mediante un breve periodo di vuoto mentale.
ISOLAMENTO DELL’AFFETTO: processo per il quale una fantasia inconscia, o un’idea, o un
ricordo, vengono separati dal proprio investimento o carica affettiva. Di conseguenza la fantasia,
l’idea, il ricordo possono avere libero accesso alla coscienza, mentre l’emozione ad essi collegata
resta inconscia.
REGRESSIONE: processo per il quale il soggetto cerca di evitare l’angoscia mediante un parziale o
totale ritorno ad uno stadio libidico precedente. Non è una difesa efficace, perchè il soggetto torna a
sperimentare l’angoscia del periodo precedente. Di conseguenza la regressione tende ad essere segui-
ta da ulteriori misure difensive.
INVERSIONE NEL CONTRARIO: processo per il quale un pensiero, un’idea, un evento significa-
tivo vengono convertiti nel loro rispettivo opposto (es. desiderio di morte trasformato in estrema
preoccupazione per l’incolumità di una persona.)
RIFLESSIONE SULLA PROPRIA PERSONA: processo in cui la meta della pulsione si trasforma
nel suo opposto, passando dall’attività alla passività e viceversa (es. pulsioni sadiche convertite in
pulsioni masochistiche, voyerismo trasformato in esibizionismo).
FUGA NELLA FANTASIA: il soggetto cerca di sfuggire ai suoi conflitti psichici riparandosi in un
mondo immaginario e nei contenuti fantas(ma)tici che lo compongono.
LA PERSONALITAʼ
Kretschmer Sheldon
Gli individui sono predisposti, fin dalla nascita, per natura, a reagire ed a comportarsi secondo
stili e tipologie della condotta che possono essere sistematizzate come tratti della personalità.
Cattell analisi fattoriale -> tecnica statistica grazie alla quale è possibile raggruppare
le risposte ai test a seconda della presenza significativa
di elementi e aspetti comuni fra di esse.
INSTABILE
lunatico suscettibile
ansioso irrequieto
intransigente aggressivo
sobrio eccitabile
pessimista incostante
chiuso impulsivo
scontroso ottimista
taciturno attivo
melanconico collerico
INTROVERSO ESTROVERSO
flemmatico sanguigno
passivo socievole
prudente espansivo
ponderato loquace
tranquillo comprensivo
controllato bonario
fidato vivace
di umore costante incauto
calmo leader
FREUD
teoria psicodinamica -> teoria generale sul funzionamento della psiche umana -> t. della personalità
pulsioni primitive:
JUNG
anima -> elemento femminile inconscio nellʼ uomo (parte controsessuale del maschio)
animus -> elemento maschile inconscio nella donna (parte controsessuale della femmina)
ERIKSON
fiducia-sfiducia (I infanzia)
autonomia-vergogna (II infanzia)
iniziativa -colpa (età del gioco)
industriosità-inferiorità (età scolastica - latenza)
identità personale - ego diffusion (pubertà- adolesc.)
solidarietà-isolamento (giovinezza)
produttività-ristagno (età adulta)
integrità-disperazione (vecchaia)
Prima topica
INCONSCIO I contenuti dellʼ inconscio sono costituiti da rappresentazioni pulsionali; essi si
strutturano in trame immaginarie, composte sia da schemi fissi (che trascendono lʼ esperienza
individuale) sia da tracce di vissuti personali. Le tracce mnestiche in esso contenute sono
prevalentemente derivate da percezioni visive.Secondo Freud lʼ inconscio è caratterizzato da
“assenza di reciproca contraddizione, processo primario, mobilità degli investimenti energetici”.
PRECONSCIO I contenuti del preconscio sono costituiti prevalentemente da pensieri latenti,
da ricordi suscettibili di essere attualizzati. La sua energia è legata ed il suo funzionamento è retto
dal processo secondario.
CONSCIO Il sistema “percezione - coscienza” riceve le informazioni provenienti dallʼ interno
(sensazioni di piacere - dispiacere e reminiscenze mnestiche) e dal mondo esterno.Soggiace
al principio di realtà, si organizza secondo il processo secondario, la sua energia è legata.
Le tracce mnestiche in essa contenute sono prevalentemente semantiche ed uditive (sistema
conscio - preconscio).
Seconda topica
ES : è la “provincia psichica” originaria, tutto ciò che vi è di estraneo allʼ Io e di impersonale;
“investimenti pulsionali che esigono una scarica” (Freud).
Lʼ Es è caratterizzato dagli influssi del passato e dallʼ eredità genetica.
IO : è quellla parte dellʼ Es modificata dalla vicinanza e dallʼ influsso del mondo esterno.
Lʼ Io funziona da mediatore tra elementi conflittuali :
conflitti interpsichici conflitti intrapsichici
mondo esterno pulsioni dellʼ Es
vs vs
mondo interno richieste del Super-Io
Lʼ Io svolge inoltre unʼ attività di difesa che porta ad un misconoscimento dei contenuti inconsci.
Le modalità abituali di difesa tendono a cristallizzarsi in tratti caratteriali.
SUPER-IO : formazione in parte inconscia e prevalentemente censoria che comprende la
coscienza morale, lʼ autoconservazione, la formazione di ideali.
Io Ideale : rappresentazione eroica e idealizzata di sè che accompagna il
passaggio dal narcisismo primario a quello secondario.
(il bambino fantastica di possedere lʼ onnipotenza un tempo
attribuita ai genitori)
Ideale dellʼ Io : modello più socializzato e simbolico al quale lʼ Io cerca di conformarsi.
MECCANISMI DI DIFESA
RIMOZIONE : processo attivo del tenere fuori, espellere, bandire dalla coscienza
idee o impulsi accettabili rendendoli inconsci.
FORMAZIONE sviluppo nellʼ Io di atteggiamenti e di interessi consci, socializzati,
REATTIVA: che rappresentano lʼ antitesi di certe tendenze infantili non socializzate,
che permangono nellʼ inconscio.
PROIEZIONE : meccanismo mentale consistente nellʼ attribuzione ad altri di tendenze
desideri, ecc; che il soggetto non riconosce in sè stesso; può essere:
assimilativa io odio x -> x odia me
disconoscitiva io odio x -> x mi odia benchè io non lo odi
SUBLIMAZIONE : processo difensivo che consiste nella deviazione delle pulsioni verso mete
culturali - oggetti socialmente valorizzati - consentendo al sistema dellʼ Io di
esaudire le richieste del Super-Io.
NEGAZIONE : una percezione o un pensiero è ammesso alla coscienza in forma negativa. Può
manifestarsi in fantasie, parole o azioni.
ARCHETIPI (Jung)
Immagini originarie che partecipano dellʼ istinto, del sentimento e del pensiero, costituenti la memoria
dellʼ umanità che permane nellʼ inconscio; si tratta di un inconscio collettivo, una matrice comune a tutti i
popoli che si trasmette per eredità genetica. Jung individua, tra gli archetipi più importanti, rintracciabili
nei miti, nelle favole, nel sogno, nelle patologie mentali: il Vecchio, la Grande Madre, il Bambino,
la Ruota, le Stelle, lʼ Animale, ecc. Tuttavia, nei vissuti soggettivi, gli archetipi si realizzano solitamente
in contenuti psichici complessi e storicizzati.
SIGMUND FREUD (Freiberg, 1856 - Londra, 1939)
L’ Interpretazione dei Sogni (1900)
psiche: Psicopatologia della Vita Quotidiana (1901)
unità complessa costituita vs “coscienza” Tre Saggi sulla Sessualità (1905)
da sistemi o istanze Il Disagio della Civiltà (1929)
Prima Topica (1900): tre “sistemi” Seconda Topica (1920): tre “istanze”
CONSCIO SUPER - IO
PRECONSCIO IO
INCONSCIO ES
condensazione spostamento
c. m. = fusione di numerose idee latenti il c. m. non rispecchia, per intensità psichica
e carica affettiva, il contenuto latente
transfert / controtransfert
FREUD : PRIMA TOPICA
CONSCIO
Il sistema “percezione - coscienza” riceve le informazioni provenienti dallʼ interno (sensazioni di piacere - dispiacere e
reminiscenze mnestiche) e dal mondo esterno. Soggiace al principio di realtà, si organizza secondo il processo secondario,
la sua energia è legata.Le tracce mnestiche in essa contenute sono prevalentemente semantiche ed uditive
(sistema conscio - preconscio)
PRECONSCIO
I contenuti del preconscio sono costituiti prevalentemente da pensieri latenti, da ricordi suscettibili di essere attualizzati.
La sua energia è legata ed il suo funzionamento è retto dal processo secondario.
INCONSCIO
I contenuti dellʼ inconscio sono costituiti da rappresentazioni pulsionali; essi si strutturano in trame immaginarie, composte
sia da schemi fissi (che trascendono lʼ esperienza individuale) sia da tracce di vissuti personali.Le tracce mnestiche in esso
contenute sono prevalentemente derivate da percezioni visive.Secondo Freud lʼ inconscio è caratterizzato da “assenza di
reciproca contraddizione, processo primario, mobilità degli investimenti energetici”.
ENERGIA
LIBERA LEGATA
le idee e le immagini sono relativamente intercambiabili, nella coscienza ogni carica energetica
facilmente unʼ idea o immagine ne simboleggia unʼ altra. tende a rimanere coesa
Nellʼ Inconscio la carica energetica scorre da una alla rappresentazione conveniente.
rappresentazione allʼ altra lungo catene associative libere.
SECONDA TOPICA
IO : è quellla parte dellʼ Es modificata dalla vicinanza e dallʼ influsso del mondo esterno (Io ed Es, 1922)
funziona da mediatore tra elementi conflittuali :
svolge unʼ attività di difesa che porta ad un misconoscimento dei contenuti inconsci
Le modalità abituali di difesa tendono a cristallizzarsi in tratti caratteriali
Ideale dellʼ Io => modello più socializzato e simbolico al quale lʼ Io cerca di conformarsi
FREUD : modello dinamico / economico “pulsione” “libido”
modello dinamico
vs vs vs
modello economico
spinta che proviene dallʼ interno e che muove i bisogni dellʼ Es;
non va confusa con lʼ istinto, condotta determinata ereditariamente;
si differenzia dagli stimoli esterni perchè: a) proviene dallʼ interno dellʼ organismo
b) non può essere vinta con azioni di fuga.
La pulsione non elusa determina uno stato di eccitazione avvertito
come sofferenza che richiama lʼ intervento del sistema nervoso.
Le pulsioni di autoconservazione corrispondono ai bisogni fondamentali.
Le pulsioni sessuali hanno come contenuto la conservazione della specie
generazione
PULSIONE Nellʼ analisi della pulsione Freud distingue tre elementi fondamentali :
(trieb)
la fonte indica tanto la zona dellʼ organismo dove compare lʼ eccitazione,
quanto il processo fisico-chimico che la provoca. le fonti sono
molteplici, corrispondenti alle varie “zone erogene”.
sublimazione
SIGMUND FREUD: Lʼ INTERPRETAZIONE DEI SOGNI (1900)
SOGNO
CONTENUTO
DRAMMATIZZAZIONE: il contenuto manifesto dipinge una situazione o unʼ azione; i rapporti logici
tra le idee latenti possono essere indicati per mezzo di alcuni artifici; Freud
dà il nome di “regressione” al processo attraverso il quale diverse idee si
si esprimono nel sogno sotto forma di immagini visive; la semplice somi-
glianza può essere rappresentata come identificazione; la relazione causale
con la semplice successione di scene; la “rappresentazione per opposto”
o inversione consiste nel sostituire le idee latenti con il loro contrario (antifrasi)
ELABORAZIONE : alterazione degli elementi del sogno nel momento in cui vengono captati dalla
SECONDARIA coscienza; il ricordo del sogno è tanto più modificato quanto maggiore è lʼ inter-
vallo trascorso dopo la sua produzione.
LIBIDO vs sessualità
energia, flusso migratorio localizzato, come
nelle varie fasi della crescita, “genitalità”
su alcune parti del corpo (zone erogene) (procreazione)
la libido è paragonata ad una popolazione nomade, che avanza lungo piste già stabilite;
durante il cammino può sostenere degli scontri, al termine dei quali lascerà dei presidi,oppure
incontrare condizioni particolarmente favorevoli, tali da giustificare insediamenti permanenti.
bambino : essere
“perverso-polimorfo”
1) fase orale
2) fase anale
sviluppo psicosessuale 3) fase fallica
4) periodo di latenza
5) fase genitale
canalizzazione repressione
della libido del-
(sublimazione) l’ aggressività
prestazioni sociali
e lavorative
EROS THANATOS
necessità di arginarle
LE EMOZIONI
Lo studio delle emozioni - descritte da poeti e romanzieri, da filosofi e scienziati - presenta delle
difficoltà sia per la definizione stessa dell’oggetto, sia per la particolare rilevanza che i diversi pre-
supposti teorici hanno sulle modalità di studio.
Se infatti è possibile, genericamente, individuare come proprie della sfera emotiva tutte le compo-
nenti soggettive, le sensazioni affettive che accompagnano la condotta di un individuo, nel passare
dal lessico proprio della vita quotidiana (emozioni, sentimenti, umori, stati d’animo, affetti, ecc.) al-
la terminologia specifica utilizzata all’interno delle varie aree di ricerca, si incontrano rilevanti varia-
zioni di significato.
Per la psicologia odierna le emozioni sono delle esperienze complesse in cui si distinguono
un aspetto mentale, delle modificazioni fisiologiche, dei comportamenti espressivi, la tendenza
ad una specifica azione. Possono essere definite come reazioni di insorgenza acuta e di breve du-
rata determinate da uno stimolo ambientale. Conseguenza tipica di uno stato emotivo è l’instau-
rarsi di una specifica tendenza all’azione (ad es. nella rabbia l’avvicinamento o l’attacco, nella
paura l’immobilizzarsi o il fuggire).
Le emozioni si distinguono dagli stati d’animo, dagli stati dell’umore (o dalle affezioni: modifica-
zioni passive di carattere intenso e durevole), in base alla presenza o assenza di specifici anteceden-
ti, cioè di eventi che ne costituiscono l’occasione scatenante. Un’emozione genuina infatti sorge bru-
scamente in relazione ad un accadimento che riveste particolare significato per l’individuo, e dura
per un tempo piuttosto breve.
Per quanto si possa cogliere una radice comune, il concetto di emozione non va confuso con quello
di sentimento. Il sentimento avrebbe, a differenza delle emozioni, una maggiore durevolezza, stabili-
tà orientativa e complessità. Si intende indicare infatti, col termine sentimento, una risonanza affetti-
va meno intensa della passione e più duratura dell’emozione con cui il soggetto vive i propri stati
soggettivi e gli aspetti del mondo esterno. Ad esempio, è un sentimento il “rimorso”, alla cui confi-
gurazione contribuiscono insieme due emozioni primarie che, nei loro estremi, sono dette “dolore”
e “repulsione” (Plutchik, 1980).
Il termine “emozione” (fr. émotion, 1534) è relativamente recente. Dall’antichità all’età moderna
pensatori, letterati e filosofi hanno in realtà trattato e discusso delle “passioni”.
La parola greca páthos (lat. passio), significa in origine un esser toccato o affetto; ha il carattere del
subire, della passività, ma in modo neutro (Aristotele).
Solo attraverso la morale degli Stoici le passiones diventano irrequietezza: quell’essere mosso, agi-
tato o sofferente che distrugge la calma del saggio (il quale invece deve agire, non subire). La parola
“passione” riceve così un carattere accentuatamente peggiorativo, acquisendo il significato di “fatto-
re di perturbazione della condotta razionale dell’uomo” . L’originaria opposizione con azione (actio)
passa in secondo piano, e passione (passio) diventa opposto di ragione (ratio).
Nel ‘600 si va incontro ad una “razionalizzazione” della passione. Nel pensiero dei filosofi del-
l’età moderna, la passione costituisce il prodotto di una complessa elaborazione: la scelta, inizial-
mente inconsapevole, di un bisogno che tende ad un determinato fine, che acquista una sempre mag-
giore intenzionalità cosciente. Per Cartesio ( Le Passioni dell’anima, 1649) le passioni non costi-
tuiscono più delle “forze oscure”, bensì delle forze controllabili. Cartesio afferma la bontà delle pas-
sioni: esse, se guidate dalla ragione, sono utili all’uomo per ricercare ciò che è importante per il cor-
po; diversa, ma analogamente incline ad una valutazione positiva delle passioni, è la posizione di
Spinoza, secondo il quale le passioni vanno comprese e non condannate, e possono essere trasfor-
mate in affetti attivi.
Il termine passione viene usato come sinonimo di emozione sino al XVIII secolo, quando si viene a
determinare il significato specifico che oggi possiede, cioè: l’azione di controllo e di direzione eserci-
tata sull’intera personalità di un individuo umano (“passione dominante”).
A partire dalla seconda metà dell’800, il concetto di passione viene risolto, in ambito psicologico,
nei tre significati specifici di affezione, emozione e pulsione. Le emozioni diventano oggetto d’inda-
gine scientifica. Il primo tentativo importante fu quello di Charles Darwin (L’espressione delle
emozioni nell’uomo e negli animali, 1872), il quale considerò l’emozione, al pari del comportamento
e della “vita mentale” degli animali, un elemento di adattamento per la sopravvivenza della specie.
Darwin si preoccupò soprattutto di studiare i movimenti e le modificazioni somatiche che costitui-
scono l’espressione delle emozioni.
Con Freud abbiamo la rivalutazione delle emozioni e degli affetti come elementi fondanti la struttu-
ra della personalità. Lo studio del vissuto emotivo ed affettivo diventa la chiave principale per l’in-
terpretazione della psiche umana e della condotta individuale. La teoria psicoanalitica ritiene che la
sfera delle emozioni sia traducibile in termini di affetti e pulsioni: la pulsione è l’espressione imme-
diata dell’organismo somatico, dei suoi appetiti e bisogni istintuali; un costituente psichico che pro-
duce uno stato di eccitazione, spingendo l’individuo all’attività. Gli affetti costituiscono l’espres-
sione qualitativa (penosa o gradevole, vaga o specifica, violenta o diffusa) della quantità di energia
pulsionale.
I meccanismi dell’emozione
Su come “funzionano” le emozioni, su quale sia il loro esatto meccanismo e su come si producano,
sono state proposte numerose teorie.
Una delle più antiche è quella proposta dagli psicologi James e Lange nel 1884. In realtà si tratta
di due teorie proposte autonomamente e contemporaneamente dallo psicologo William James negli
Stati Uniti e dal fisiologo Carl Lange in Danimarca, ma dato che le differenze sono abbastanza ridot-
te si possono considerare come una teoria unitaria. Secondo questo modello, che è stato chiamato
teoria periferica delle emozioni, la nostra percezione dell’emozione a livello mentale, non è l’ori-
gine ma la conseguenza delle modificazioni organiche periferiche; la sensazione emotiva non sarebbe
altro che una specie di “interpretazione” della nostra coscienza come risposta a delle variazioni di
funzionamento di tipo periferico. Sarebbero le modifiche fisiologiche, i sintomi fisici a farci provare
quello stato mentale particolare. In sintesi, secondo la teoria di James e Lange, noi ci sentiamo tristi
perché piangiamo, spaventati perché tremiamo, arrabbiati perché aggrediamo. Benchè venga in gene-
re considerata incompleta o insoddisfacente, la teoria periferica è stata ripresa, dagli anni ‘60 in poi,
da diversi studiosi (Stanley Schachter, George Mandler, Paul Ekman).
Una teoria sostanzialmente opposta a questa, proposta dal fisiologo Walter Cannon nel 1924,
sosteneva che l’origine dell’emozione è tutta dentro il cervello. Cannon criticava la teoria periferica
affermando: a) che è impossibile che i cambiamenti interni al corpo siano fonte dell’emozione, per-
ché sono troppo lenti, cioè il tempo di risposta emotivo è più rapido di quello necessario per le mo-
dificazioni viscerali; b) che non ci sono sufficienti diversificazioni nel tipo di attivazione del sistema
nervoso che si accompagna alle varie emozioni: mentre, ad esempio, i vissuti emotivi della rabbia o
dell’entusiasmo sono completamente diversi, l’insieme di modifiche che si accompagna a queste due
emozioni (arrossamento del viso, aumento della frequenza resopiratoria e del battito cardiaco) sono
assai simili. Secondo il modello da Cannon, chiamato teoria centrale delle emozioni, la risposta
emotiva è conseguente alla stimolazione di certe zone profonde del cervello, cioè i nuclei dell’ipota-
lamo. Il meccanismo che produce l’emozione parte da stimolazioni periferiche, ma “scatta” in modo
automatico solo quando i segnali raggiungono l’ipotalamo. Quando si percepisce uno stimolo che ha
rilievo emotivo, le informazioni arrivano al talamo, che mobilita il sistema nervoso autonomo. Con-
temporaneamente i segnali arrivano alla corteccia cerebrale e producono la consapevolezza dell’emo-
zione.
La base fisiologica dell’organizzazione (e probabilmente anche del vissuto) delle emozioni è stata
collocata, dalle ricerche neuroanatomiche di James W. Papez (1937) nelle strutture del sistema lim-
bico, in particolare nel circuito che porta il suo nome. Il sistema limbico è stato anche chiamato cer-
vello viscerale. Esso ha una struttura abbastanza simile alla corteccia cerebrale e mette in collega-
mento quest’ultima con l’ipotalamo e con le stimolazioni viscerali. Pur essendo una parte del cervel-
lo abbastanza primitiva, presente anche negli animali e collegata principalmente al senso dell’olfatto,
essa ha però delle proiezioni estese verso le parti più avanzate e complesse del cervello.
Il nome stesso di sistema limbico è dovuto al suo essere qualcosa di intermedio (come il limbo che
non è né inferno né paradiso) poichè collega le parti arcaiche ed evolute del cervello.
La teoria dell’attivazione. Da un punto di vista fisiologico l’emozione coincide con uno stato di
attivazione funzionale (cioè un aumento dell’attività bioelettrica del sistema nervoso centrale e peri-
ferico). Questo stato di attivazione non sembra diverso da un tipo di emozione all’altro: la gioia, la
rabbia, la paura sembrano produrre dei tracciati elettroencefalografici del tutto simili tra loro.
Su questa base Lindsley ha proposto una teoria generale della psicofisiologia dell’emozione che si
chiama teoria dell’attivazione (in inglese, teoria dell’arousal). Caratteristico di un’intensa emozione
è lo stato di attivazione (arousal) che comporta la modificazione di numerosi parametri fisiologici.
I cambiamenti più rilevanti riguardano la frequenza del battito cardiaco, il ritmo della respirazione,
la sudorazione, la tensione muscolare, il controllo della motricità volontaria, i movimenti involontari
dell’intestino.
Teoria delle emozioni distinte. Secondi gli studiosi che aderiscono alla teoria delle emozioni di-
stinte (Ekman,1972, Izard, 1977), ciascuna emozione è caratterizzata da un complesso di movi-
menti del viso e del corpo e da un particolare stato di coscienza che ci fa percepire e pensare in un
modo particolare. Questi effetti sono provocati dall’azione di centri nervosi che corrispondono cia-
scuno ad una particolare emozio-ne e sono situati nel sistema limbico. Per identificare le varie emo-
zioni, vengono filmate le espressio-ni del volto e viene effettuato un esame accurato dei movimenti
derivanti dall’azione dei muscoli facciali. Queste espressioni, come rabbia, paura, gioia, dispiacere,
disgusto, interesse, che sono pre-senti negli uomini delle più diverse culture, sono considerate il se-
gno di emozioni fondamentali, cioè innate e tipiche della specie umana, e costituiscono il materia-
le per la costruzione di emozioni complesse, come ad esempio l’orgoglio, il senso di colpa, il senso
di inferiorità / superiorità, rese possibili dalle capacità cognitive acquisite dall’uomo nel corso della
sua storia e dalle reti di rapporti sociali entro cui egli è inserito.
Le emozioni fondamentali
1. Gioia. Il vissuto della gioia può avere molte facce, che variano per qualità e intensità. Se il tono
dell’umore è accentuato in direzione dell’attivazione si può provare allegria o euforia, se si ha una
ragione cosciente di gioia si prova contentezza, se è dominante l’esperienza sensoriale si prova pia-
cere. Nell’esperienza della gioia sono dominanti il piacere e l’attivazione, ma è anche necessaria una
certa dose di sorpresa. Gli antecedenti della gioia sono molteplici, si va dal soddisfacimento di un bi-
sogno essenziale al segnale di un successo raggiunto, passando per le varie esperienze di cessazione
di uno stato doloroso. La manifestazione di gioia più diffusa e riconoscibile è il sorriso, un’espres-
sione comunicativa innata che appare entro il primo anno di vita. L’aspetto fisiologico dell’emozio-
ne di gioia è costituito da un’attivazione generale dell’organismo, con accelerazione della frequenza
cardiaca, irrorazione periferica dei vasi e dei capillari (si arrossisce), aumento del tono muscolare,
irregolarità nella respirazione. Le ricerche sperimentali confermano che stati d’animo positivi favori-
scono la memoria e l’apprendimento e portano ad una maggiore fluidità linguistica (velocità di elo-
quio, varietà di vocabolario, volume della voce), favoriscono la soluzione di problemi che richiedono
creatività e flessibilità, anche di tipo sociale; gli individui in uno stato euforico tendono a sopravva-
lutare le proprie capacità e prestazioni, ed anche gli altri sembrano migliori sotto tutti gli aspetti.
2. Dolore. Il dolore è lo stato emotivo legato all’esperienza della perdita; può presentarsi sia come
uno stato emotivo acuto e motivato sia con le diverse sfumature della tristezza. Ciò che accomuna il
vissuto è un’esperienza di abbassamento delle funzioni vitali, il desiderio di ritrarsi, di evitare il con-
tatto, di fuggire da una circostanza o da un’esperienza penosa. Secondo Tomkins, le cause della sof-
ferenza umana sono essenzialmente di tre tipi: 1. le sofferenze che hanno origine e sede nel corpo;
2. l’esperienza della perdita o le ansie legate ai rapporti interpersonali (a partire dall’angoscia di ab-
bandono del primo anno di vita); 3. le frustrazioni e le delusioni causate dalla discrepanza tra aspi-
razioni e conquiste, tra ambizioni e risultati.
L’espressione del viso, le modificazioni fisiologiche e il comportamento generale sono abbastanza
caratteristiche: gli occhi si socchiudono, gli angoli esterni di occhi e sopracciglia si abbassano, la boc-
ca si apre e si piega all’ingiù. Questa espressione facciale è riconoscibile in tutte le culture studiate.
Che si tratti di un’espressione innata, determinata geneticamente, lo si desume dalla sua precocità e
dal fatto che la si osserva in individui ciechi fin dalla nascita.
Le modificazioni fisiologiche possono variare molto durante l’episodio emotivo: il tono muscolare,
la frequenza del respiro e del battito cardiaco son massimi nella fase acuta, specialmente se il dolore
è accompagnato da paura ed ansia. Nella nostra cultura le manifestazioni di dolore e tristezza son
più evidenti nelle femmine, e in età infantile si presentano più spesso in presenza dei genitori che
non in presenza di coetanei. Dal punto di vista cognitivo il fenomeno più rilevante del dolore nei
suoi primi stadi è una massiccia focalizzazione sugli stati interni, insieme con una difficoltà di atten-
zione e di concentrazione sul mondo esterno e sugli altri.
3. Rabbia. La rabbia è la tipica reazione alla frustrazione e alla costrizione, sia fisica che psicologica;
è una delle più precoci tra le emozioni, insieme alla gioia e al dolore, ed ha una tipica espressione
facciale, riconoscibile in tutte le culture studiate. I movimenti sintomatici del viso sono l’aggrottare
violento delle sopracciglia e lo scoprire e digrignare i denti, oppure lo stringere fortemente le labbra,
mentre gli occhi appaiono lampeggianti. A seconda che si parli di collera fredda o calda, il resto del
corpo può tendersi fin quasi all’immobilità o accentuare notevolmente l’attività motoria. Le manife-
stazioni di rabbia sono riprovate nella nostra cultura e quindi parzialmente inibite; uno dei punti sa-
lienti ed espliciti dell’educazione dei bambini nella nostra cultura punta alla repressione della collera
manifesta. Nell’organismo intervengono tutte quelle modificazioni che sono tipiche di una forte atti-
vazione del sistema nervoso autonomo, cioè accelerazione del battito cardiaco, aumento della tensio-
ne muscolare e della sudorazione, aumento della pressione arteriosa e irrorazione dei vasi sanguigni
periferici. Averill (1982) ha trovato che esistono tre tipi di rabbia che assolvono funzioni diverse:
1. la rabbia malevola, che ha lo scopo di rompere o peggiorare i rapporti con l’altra persona, di ven-
dicarsi per un torto subito e comunque di esprimere odio e disapprovazione; 2. la rabbia costruttiva,
che ha lo scopo di modificare i comportamenti altrui, di rendere più stretta la relazione con la perso-
na con cui ci si arrabbia, di asserire la propria indipendenza, di ottenere che gli altri facciano qualco-
sa di utile per se stessi; 3. la rabbia esplosiva, che serve principalmente per dare sfogo alla tensione
e manifestare l’aggressività.
4. Paura. La paura è l’emozione che si prova come reazione al pericolo, che si tratti di un pericolo
fisico, un pericolo costituito da esseri umani o un pericolo solo immaginato. Il vissuto fenomenico
della paura è segnato da forte spiacevolezza, allarme e tentativo di evitare qualcosa o qualcuno che
appare minaccioso o pericoloso. La paura ha una faccia caratteristica: bocca semiaperta con gli ango-
li verso il basso, occhi sbarrati, cioè aperti e fissi, sopracciglia avvicinate con la parte interna spesso
all’ingiù, fronte solcata da rughe sia orizzontali che verticali in corrispondenza con il corrugamento
delle sopracciglia. I muscoli dell’intero viso sono in tensione e l’espressione, statica, della paura,
può essere a sua volta causa di paura.
Le paure innate sono caratterizzate da almeno uno dei seguenti elementi: 1. stimoli fisici molto in-
tensi, come, ad esempio, il dolore o il rumore; 2. oggetti, eventi e persone totalmente nuovi, da cui
l’individuo non sa cosa aspettarsi né sa come affrontare; 3. situazioni di pericolo che riguardano la
sopravvivenza in senso lato: ad esempio, il precipizio, il buio, la solitudine; 4. circostanze legate ad
altri esseri animati che mostrano atteggiamenti aggressivi.
5. Disgusto. Il disgusto è un’emozione connessa essenzialmente con la sgradevolezza del cibo o con
il rifiuto della contaminazione; l’espressione facciale caratteristica consiste nell’arricciare le narici,
rovesciare le labbra e allargare la bocca come per spingere fuori il suo contenuto. Poichè, in senso
traslato, il disgusto può avere come oggetto esseri umani e comportamenti sgradevoli, in questi casi
l’espressione verrebbe manifestata principalmente con un caratteristico sollevamento del labbro su-
periore. Il disgusto è considerato un’emozione primaria o fondamentale anche per il suo valore adat-
tativo. L’esperienza di disgusto protegge dal rischio di entrare in contatto o peggio di ingerire so-
stanze dannose. Il fatto che si possa provare disgusto per cibi assolutamente innocui e anzi nutrienti
(come le alghe) o che - al contrario - certi funghi velenosi siano attraenti ed appetitosi, si spiega con
motivi simbolici o storici, o con la somiglianza dei suoi oggetti con sostanze effettivamente dannose.
Nella vita quotidiana la nostra esperienza è intessuta di stati d’animo. Il saper tenere conto delle
qualità emotive si rivela quindi un aspetto di grande importanza nei rapporti interpersonali.
Considerata l’importanza della vita emotiva, alcuni studiosi hanno deciso di introdurre tra le nostre
competenze anche la competenza emotiva, come in particolare negli studi di Carolyn Saarni (1990,
1999). L’autrice ha messo a fuoco dieci sottocategorie della competenza emotiva, sulle quali vi è un
accordo di massima fra molti studiosi: 1. consapevolezza dei propri stati emotivi, semplici o com-
plessi; 2. capacità di individuare le emozioni altrui sulla base di indizi espressivi; 3. competenza lin-
guistica (capacità di descrivere a parole stati d’animo complessi) in campo emotivo; 4. capacità di
coinvolgimento empatico nelle esperienze emotive altrui; 5. consapevolezza della possibile discre-
panza tra i propri stati emotivi interni e le espressioni esterne; 6. conoscenza delle regole culturali di
manifestazione delle emozioni; 7. corretto utilizzo delle informazioni sulle persone per inferire i loro
stati emotivi; 8. conoscenza degli effetti che il nostro comportamento emotivo può avere sugli altri;
9. capacità di fronteggiare emozioni disturbanti mediante strategie di autoregolazione (es. distrazione
con lavori di routine per ridurre l’ansia); 10. capacità di accettare le proprie esperienze emotive, in-
solite o prevedibili, senza riduzione dell’autostima.
Un altro gruppo di psicologi (Peter Salovey, 1990, David Goleman, 1995) ha elaborato invece il
concetto di intelligenza emotiva, un concetto basato su abilità che possono essere misurate, che va-
riano tra gli individui e che prevedono dei comportamenti specifici. L’intelligenza emotiva può esse-
re definita come la capacità di riconoscere il significato delle emozioni e la loro relazione reciproca,
di ragionare sulle emozioni e risolvere problemi connessi all’emotività. Il modello di I. E. è compo-
sto da quattro ambiti: a) percepire le emozioni; b) usare le emozioni per facilitare il pensiero; c) ca-
pire le emozioni; d) gestire le emozioni in modo da favorire la crescita personale e i rapporti sociali.
Lo sviluppo emotivo
Lo sviluppo emotivo ha luogo in svariate direzioni. Una di queste consiste nel cambiare delle circo-
stanze in cui ha luogo un’emozione, grazie allo sviluppo delle conoscenze che consentono di aggiun-
gere nuove valutazioni a quelle automatiche ed innate.
Già nel 1924, Watson identificò tre emozioni già presenti nel neonato: la paura (con pianto, arre-
sto del respiro, manine serrate a pugno e distorsione dei lineamenti del viso), la rabbia (con grida,
rossore del volto, respiro irregolare e gesticolazioni), l’amore (atteggiamento sereno, sorridente, di-
stensione mimica). Nelle ricerche di Watson era però presente un vizio metodologico: lo sperimenta-
tore sapeva lo stimolo al quale il bambino via via stava reagendo e poteva prevedere il tipo di reazio-
ne emotiva con il rischio di proiettare sul bambino ciò che lui stesso avrebbe provato se si fosse tro-
vato in una situazione analoga. Come si è verificato in esperimenti successivi, se si osserva un filma-
to della faccia di un neonato senza sapere a che stimolo sta reagendo, nessun osservatore è capace di
distinguere una specifica emozione. Come ha dimostrato Bridges (1932), la manifestazione emotiva
del bambino fino a sei settimane di vita è una eccitazione indifferenziata, che abbastanza presto si
trasforma in due tipi di eccitazione (positivo-negativo) corrispondenti alla contentezza ed al disagio.
Successivamente lo sviluppo emotivo nell’infanzia è stato studiato filmando le espressioni e il
comportamento dei bambini in varie situazioni, utilizzando l’intervista per i bambini più grandi,
chiedendo alle madri di annotare i comportamenti emotivi dei figli. Tra i diversi punti di vista sullo
sviluppo emotivo, spicca, per completezza, quello di Jerome Kagan (1978).
Nel corso dei primi mesi sono presenti nel bambino varie emozioni. Quando il bambino vede un
oggetto nuovo, l’aria concentrata e lo sguardo attento indicano interesse. Quando il bambino sta ma-
le, ha freddo o fame egli manifesta invece dispiacere, caratterizzato da accelerazione dei battiti car-
diaci, aumento del movimento e pianto. Il rilassamento, che il bambino presenta dopo esser stato
nutrito, comprende la diminuzione del tono muscolare e la chiusura degli occhi. Interagendo con un
oggetto o una persona familiari, il bambino esibisce un modello comportamentale che include inten-
sificazione dei movimenti, accompagnato da sorrisi e gorgoglii; possiamo parlare in questo caso di
gioia.
Tra i 4 e i 10 mesi appaiono due nuove emozioni: la paura e la rabbia. La prima ha luogo in pre-
senza di persone o oggetti sconosciuti e si manifesta in una peculiare espressione del viso, la cessa-
zione del gioco e a volte il pianto. La seconda consiste in resistenze e proteste e un’espressione
corrucciata, manifestate quando un’attività piacevole viene interrotta o in risposta ad uno stimolo
doloroso. Verso i 7/8 mesi compare l’angoscia da separazione, con apprensione e pianto in caso
di allontanamento delle figure di attaccamento.
A partire dal secondo anno di vita, l’attività simbolica rende possibile la formazione di emozioni
che richiedono un confronto tra una situazione presente e una rievocata o prevista il bambino può
provare delle emozioni per eventi immaginari (mostri di vario genere, personaggi dei libri) e la gam-
ma di situazioni in cui il bambino manifesta le emozioni (già presenti nel primo anno di vita) si al-
larga.
Verso i 5/6 anni i bambini cominciano a manifestare un altro gruppo di emozioni, che richiedono
attività cognitive più complesse. A suscitare le emozioni non sono più solo gli eventi esterni, ma un
confronto tra un particolare evento e gli schemi mentali rievocati. Esse sorgono da una valutazione
complessiva di se stessi e da un confronto tra le proprie caratteristiche e quelle degli altri. Possono
nascere da queste valutazioni insicurezza, senso di inferiorità e invidia, o all’opposto orgoglio e
fiducia in se stesso.
L’origine dei sentimenti morali: l’empatia
Alcune emozioni sono alla base della moralità, spingendoci ad aiutare gli altri anche quando non ne
ricaviamo alcun vantaggio, o ad evitare di recar loro dei danni anche se ciò sarebbe per noi vantaggio-
so. Secondo lo psicologo statunitense Martin Hoffman, alla base del comportamento morale c’è
un’intrinseca motivazione ad aiutare gli altri e ad evitare di danneggiarli, la quale nasce dalla parteci-
pazione emotiva alla loro condizione. Le emozioni che proviamo non in conseguenza di qualcosa che
ci tocca direttamente, ma per partecipazione alle gioie e ai dispiaceri di altre persone, vengono chia-
mate empatia. L’empatia, cioè la risposta emotiva alle condizioni altrui (il “mettersi nei panni del-
l’altro”) è alla base dei sentimenti morali. Il dispiacere empatico si sviluppa di pari passo con lo svi-
luppo cognitivo e con la conoscenza delle altre persone.
Riconoscere che il nostro dispiacere è provocato da quello di un’altra persona non basta a farci ef-
fettuare verso di essa delle azioni efficaci. Perchè ciò avvenga, noi dobbiamo anche conoscere i suoi
bisogni e i suoi sentimenti, che possono essere molto diversi dai nostri. La conoscenza degli altri co-
me persone distinte da noi e dotate di sentimenti, pensieri, punti di vista propri, si sviluppa in una
sequenza di quattro fasi, a ciascuna delle quali corrisponde un tipo diverso di dispiacere empatico.
0/12 mesi: empatia globale. Durante il primo anno di vita il bambino non comprende che le perso-
ne sono entità distinte da lui. Il dispiacere empatico in questa fase viene percepito come dispiacere
e basta, al quale reagire con azioni risultate confortevoli in altre circostanze. Sentendo piangere un
bambino, il piccolo può piangere a sua volta, succhiare il dito, stringersi alla madre. A questo riguar-
do, Hoffman usa l’espressione empatia globale.
2 / 3 anni: empatia egocentrica. A partire dal secondo anno di vita, il bambino capisce quando il
dispiacere che prova è suscitato da qualcosa che accade ad un’altra persona e mette in atto delle
azioni per consolarla, abbracciandola, offrendole giocattoli o biscotti. Il bambino però ha una scarsa
capacità di raffigurarsi gli altri come dotati di pensieri, sentimenti e intenzioni diversi dai suoi e per-
ciò le sue azioni spesso non sono appropriate: vedendo la madre triste, può capitare che egli faccia
ciò che sarebbe consolatorio per lui, porgendole un giocattolo o il proprio succhiotto. Questa fase,
denominata di empatia egocentrica, è di breve durata.
3 / 8 anni: empatia per i sentimenti altrui. Già in età prescolare, il bambino diventa progressi-
vamente capace di rispondere ai bisogni ed ai sentimenti altrui non solo quando essi sono espressi
direttamente, ma anche quando sono solo descritti verbalmente, ed è in grado di compiere azioni
sempre più appropriate allo scopo di consolare chi si trova in pena.
8 / 12 anni: empatia per la condizione durevole di un’altra persona. A quest’età il bambino
diventa capace di empatia per le situazioni (malattie, dissidi familiari, povertà) che causano males-
sere nelle persone protraendosi nel tempo.
Adolescenza: empatia per i gruppi sociali. Infine durante l’adolescenza e l’età adulta la capacità
di rappresentarsi i disagi sofferti da ampi gruppi sociali (guerre, deportazioni, povertà, sfruttamen-
to, oppressione politica) apre la strada alle forme più avanzate di paertecipazione empatica, che
possono sfociare nell’impegno sociale e politico.
Le persone cercano sempre di intervenire sulle proprie emozioni, sia cercando quelle piacevoli e
facendo in modo di prolungarle, sia evitando quelle spiacevoli e cercando di attenuarne la durata e
l’intensità. Questo intervento, denominato regolazione delle emozioni, può riguardare sia la mani-
festazione esteriore delle emozioni (a), sia l’esperienza soggettiva (b).
a. Nel primo caso la regolazione si esercita sui programmi di azione caratteristici delle diverse emo-
zioni, contenendo o amplificando l’impulso ad agire in un certo modo.
Si ha ad esempio contenimento quando una persona molto arrabbiata cerca di frenarsi e di non da-
re in escandescenze, perché sa che ciò potrebbe nuocerle provocando la disapprovazione di chi lo
osserva; c’è invece amplificazione quando un bambino continua deliberatamente a piangere più di
quanto vorrebbe l’impulso che prova, o fa delle sfuriate perchè ha imparato che in questo modo ot-
tiene conforto o accondiscendenza ai suoi desideri.
b. Le regolazioni che riguardano l’esperienza soggettiva dell’emozione, i sentimenti penosi o piace-
voli che la caratterizzano, consistono invece nel cercare o evitare certi tipi di eventi o nel modificar-
ne in vari modi la valutazione. Tali meccanismi regolatori possono riguardare il dispiacere empatico.
Quando riteniamo di essere noi la causa del dispiacere di un altro, per averlo provocato o non averlo
evitato quando ciò era nelle nostre possibilità, l’emozione che proviamo è il senso di colpa. Mentre
il dispiacere empatico costituisce una spinta al comportamento altruistico, il senso di colpa costitui-
sce un deterrente dal nuocere agli altri.
L’empatia può entrare in conflitto con altre tendenze ed emozioni. L’empatia può trasformarsi in
indifferenza: se vediamo qualcuno star male, possiamo evitare di guardarlo e metterci a pensare ad
altro, proprio perchè il dispiacere che proviamo ci è difficile da sopportare. Oppure possiamo con-
vincerci che egli stesso è causa del proprio male, e quindi disprezzarlo o addirittura godere della sua
sofferenza, come se si fosse realizzata una qualche forma di giustizia (intellettualizzazione).
Le regolazioni delle emozioni sono a volte deliberate e consapevoli, a volte automatiche e inconsa-
pevoli. Freud è stato il primo a richiamare l’attenzione sui meccanismi inconsapevoli che regolano
le emozioni e li ha chiamati meccanismi di difesa. Più di recente, grazie alla ripresa dello studio delle
emozioni, anche diversi psicologi di vari indirizzi hanno cominciato a studiare le regolazione, sia de-
liberate che automatiche e inconsapevoli. Uno studioso che ha trattato ampiamente il tema delle re-
golazione delle emozioni è l’olandese Nico Frijda (N. Frijda, Le emozioni, 1987).
Alcune regolazioni consistono nell’evitare quelle situazioni di cui si sono già sperimentate le conse-
guenze spiacevoli.
Evitamento. Non è facile stabilire quando l’evitamento è volontario oppure no: a volte la conse-
guenza sgradevole viene anticipata col pensiero e porta alla decisione di evitare la situazione che la
potrebbe produrre. Altre volte non interviene invece alcuna decisione consapevole, ma ci si sente
bloccati, non desiderosi o spaventati, quando si presenta l’opportunità di fare qualcosa che nel pas-
sato ha avuto conseguenze negative.
Distrazione e concentrazione. Spesso ciò che suscita un’emozione non è una situazione esterna,
ma degli eventi interiori, come pensieri o ricordi. Si possono allora cercare distrazioni, impegnandosi
in altre attività (andare al cinema, giocare, chiacchierare con gli amici) che attirano l’attenzione altro-
ve. Oppure si cerca di concentrarsi intensamente su di un compito, come lo studio o il lavoro, un
hobby o l’impegno sociale, in modo che non ci sia spazio per altri pensieri o preoccupazioni. Anche
questi processi possono essere attivati in modo deliberato oppure automatico e inconsapevole.
Attraverso l’evitamento, le distrazioni, la concentrazione, si agisce alla fonte del processo emotivo,
facendo in modo che non arrivino quelle informazioni (percezioni, pensieri o ricordi) che possono
suscitare una risposta emotiva. In altri casi, invece, i meccanismi regolatori agiscono in fasi successi-
ve del processo di elaborazione da cui sorgono le emozioni. Quando questo succede, siamo messi a
confronto con un evento che potrebbe avere conseguenze emotive, ma il suo significato viene tra-
sformato e distorto in vari modi.
Negazione. Una prima distorsione, chiamata negazione, consiste nel ritenere non reale oppure po-
co probabile un evento che altrimenti ci colpirebbe dolorosamente. Questo avviene, ad esempio,
quando una persona, sentendosi fare una diagnosi di una malattia inguaribile, pensa che non sia vero
e che il medico si sia sbagliato.
Intellettualizzazione. Un secondo tipo di distorsione è l’intellettualizzazione; essa può agire au-
tomaticamente o essere cercata deliberatamente e consiste nel trasformare uno stimolo che suscite-
rebbe emozioni in un altro neutrale. Una persona mite, che non ha mai fatto male a una mosca, ucci-
de in guerra quando si tratta non di uomini, ma di “nemici”, facilitato in ciò dalle armi a distanza che
non lo mettono a contatto diretto con l’avversario e con gli stimoli scatenanti della pietà.
Pensiero ottativo. Un terzo tipo di distorsione consiste nell’aggiungere ad una situazione elementi
che non sono presenti: è il caso del pensiero ottativo, in cui si confonde la realtà con i propri deside-
ri. La persona il cui figlio soffre di una malattia incurabile può facilmente credere nei più inattendibili
guaritori, o convincersi che una nuova cura verrà scoperta di certo prima che sia troppo tardi.
Blocco della valutazione e distacco emotivo. I processi difensivi possono agire in una fase ulte-
riore dell’elaborazione, quella cioè in cui avviene il confronto tra l’evento e gli obiettivi della perso-
na. La situazione-stimolo è in questo caso correttamente riconosciuta, ma non se ne traggono fino in
fondo le implicazioni che essa comporta. La persona che riceve inaspettatamente la notizia della
morte di un congiunto, può comprendere la triste notizia, ma non rappresentarsi, al momento, ciò
che essa, nei suoi vari risvolti affettivi e materiali, comporta: l’assenza per sempre di una persona
amata, tante cose fatte abitualmente insieme che d’ora in avanti essa dovrà fare da sola. Invece che
dispiacere, quello che prova sul momento, congiuntamente al blocco della valutazione, può essere
un distacco emotivo.
Un gruppo di regolazioni opera una trasformazione di un’emozione in un’altra, più tollerabile, in-
tervenendo nella valutazione degli eventi. Quando ad esempio una persona non riesce a realizzare un
obiettivo che le sta a cuore, si sentirà incapace se pensa che ciò dipenda da lei, arrabbiata se si con-
vince che sono altri ad ostacolarla. La seconda emozione può essere più tollerabile della prima e que-
sto può indurre a cercar fuori di sé le cause dei propri fallimenti (proiezione).
A volte tuttavia può accadere il contrario. Il bambino costantemente trascurato o addirittura mal-
trattato dai genitori, proverà rabbia se pensa che questo dipenda dalla loro inaffidabilità e dal loro
cattivo carattere, ma in questo caso dovrà portare il peso dell’angoscia che nasce dalla convinzione
di non avere una figura di attaccamento disponibile e di cui potersi fidare. Può così succedere che
egli si convinca della bontà dei genitori e attribuisca alle proprie insufficienze e difetti il loro com-
portamento nei suoi riguardi. Egli così proverà un senso di colpa meno penoso dell’angoscia, ma
rischierà di crescere con la convinzione di essere indegno di ricevere amore.
I meccanismi regolatori fin qui elencati possono svolgere delle funzioni positive, perchè rendono
meno intollerabile una situazione e consentono di affrontarla meglio in un secondo momento.
Se permangono nel tempo, essi hanno però delle conseguenze negative, perchè impediscono di af-
frontare la realtà e di agire su di essa in modo efficace. C’è inoltre il rischio che essi si generalizzino,
dando luogo ad uno stile cognitivo permanente che porta a distorcere sistematicamente la percezione
della realtà.
Altri modi di affrontare situazioni penose, pur attenuando il dispiacere, non distorcono la realtà e
consentono quindi di affrontarla meglio. Tra questi rientra l’ironia, grazie alla quale, pur ricono-
scendo la realtà, ci si distacca da essa cercando di vederla anche da altri punti di vista e pensando che
ogni cosa, anche quella che appare più negativa, è interpretabile altrimenti. Si può così non rimanere
succubi delle situazioni, ridimensionandole o fuoriuscendo dai precedenti schemi interpretativi.
LE EMOZIONI
antichità: concezione negativa delle passioni (emozioni) -> “pathein”, “pathos” = subire, soffrire
ʻ600: bontà delle passioni(Cartesio), trasformate in affetti “attivi” (Spinoza)
ʻ800: Darwin: emozioni come meccanismo adattivoper la sopravvivenza della specie
meccanismi dellʼ emozione (1) Teoria periferica delle emozioni (James e Lange, 1884)
il sentimento dellʼ emozione non è lʼ origine ma la conseguenza
delle modificazioni organiche periferiche; interpretazione da parte
della coscienza a delle variazioni di funzionamento di tipo periferico
antichità: concezione negativa delle passioni (Stoici) => il saggio deve agire, non subire
(pathos, pathein)
‘600: bontà delle passioni (Cartesio), utili all’uomo per ricercare ciò che è importante
per il corpo trasformabili in affetti “attivi” (Spinoza)
‘800: Darwin: emozioni come meccanismo adattivo per la sopravvivenza della specie
meccanismi dell’emozione
Ciascuna emozione è caratterizzata da un complesso di movimenti del viso e del corpo e da un particolare stato
di coscienza, che ci fa percepire e pensare in un modo particolare. Questi effetti sono provocati dall’azione di
centri nervosi che corrispondono ciascuno ad una particolare emozione e sono situati nel sistema limbico.
Le espressioni del volto corrispondenti a rabbia, paura, gioia, dispiacere, disgusto, interesse, che sono
presenti negli uomini delle più diverse culture, sono considerate il segno di emozioni fondamentali, cioè in-
nate e tipiche della specie umana, e costituiscono il materiale per la costruzione di emozioni complesse, come
ad es. l’orgoglio, il senso di colpa, il senso di inferiorità / superiorità, ecc.
Le emozioni fondamentali
1. Gioia
attivazione => allegria/euforia
vissuto variabile tono dell’umore ragione cosciente di gioia => contentezza
(qualità/intensità) esperienza sensoriale => piacere.
2. Dolore
occhi socchiusi
espressione del viso angoli esterni occhi/sopracciglia abbassati
bocca semiaperta piegata all’ingiù
(espressioni innate transculturali)
manifestazioni più evidenti nelle femmine / in età infantile in presenza dei genitori
4. Paura
reazione al pericolo fisico / immaginato
costituito da esseri umani
forte spiacevolezza / allarme
vissuto evitamento di ciò che appare minaccioso/pericoloso
espressione bocca semiaperta angoli verso il basso / occhi sbarrati (aperti e fissi)
facciale sopracciglia avvicinate con la parte interna all’ingiù
fronte solcata da rughe orizzontali/verticali (corrugamento delle sopracciglia)
muscoli del viso in tensione
l’espressione statica della paura
può essere a sua volta causa di paura
1. stimoli fisici molto intensi es: dolore rumore
2. oggetti/eventi/persone totalmente nuovi,
paure da cui l’individuo non sa cosa aspettarsi né sa come affrontare;
innate 3. situazioni di pericolo che riguardano la sopravvivenza:
es. precipizio buio solitudine
4. circostanze legate ad altri esseri animati con atteggiamenti aggressivi
5. Disgusto
sgradevolezza del cibo emozione primaria protezione
rifiuto della contaminazione per il suo valore adattativo dal contatto
con sostanze
dannose
espressione arricciare le narici / rovesciare le labbra
facciale allargare la bocca come per spingere fuori il suo contenuto (in senso traslato)
sollevamento del labbro superiore disgusto per esseri umani
e comportamenti sgradevoli
Competenza e intelligenza emotiva
a) percepire le emozioni
b) usare le emozioni per facilitare il pensiero
c) capire le emozioni
d) gestire le emozioni per favorire la crescita personale e i rapporti sociali
Lo sviluppo emotivo
Watson (1924) tre emozioni presenti nel neonato: paura rabbia amore
Kagan (1978)
primi mesi: interesse dispiacere rilassamento gioia
4 - 10 mesi paura rabbia.
7/8 mesi angoscia da separazione
2º anno: emozioni per eventi immaginari (mostri di vario genere, personaggi dei libri)
ampliamento della gamma di situazioni in cui il bambino manifesta le emozioni
Empatia
emozioni provate per la partecipazione alla condizione altrui Shaftesbury, Hume,
motivazione intrinseca ad aiutare gli altri (o non danneggiarli) Rousseau, Stuart Mill
meccanismi di
regolazione delle emozioni
manifestazione esteriore
attraverso azioni
contenimento amplificazione
deliberate automatiche
e consapevoli e inconsapevoli
(meccanismi di difesa)
evitamento
distrazione rimozione trasformazione di un’emozione
concentrazione sublimazione in un’altra:
Lo studio di come le persone percepiscono l’esperienza quotidiana è forse oggi il tema principale
della psicologia sociale; il tema della conoscenza della realtà sociale ha assunto importanza soprat-
tutto perchè in linea con l’idea, propria della psicologia sociale, che gli individui cercano di controlla-
re la vita sociale e che ciò che fanno si capisce solo a partire da come vedono le cose.
Nel settore della conoscenza della realtà sociale ci sono tre filoni, tra loro complementari, che ana-
lizzano aspetti diversi dello stesso fenomeno. Il filone della social cognition, che è quello dominante
nella ricerca statunitense, studia i meccanismi generali con cui gli individui si costruiscono una visio-
ne della realtà sociale elaborando i dati dell’esperienza. Il filone europeo delle rappresentazioni so-
ciali è interessato alle concezioni che circolano nella società e penetrano nel senso comune, mentre
quello delle attribuzioni (nato negli Stati Uniti, ma diffuso in Europa) mira a ricostruire i ragiona-
menti con cui le persone si spiegano i fatti della vita sociale.
La Social Cognition
La Social cognition è l’attività mentale con cui l’individuo elabora i dati dell’esperienza e si forma
la sua visione della realtà sociale. I processi di base sono quelli di qualsiasi attività cognitiva, ma la
mente risente del fatto di trovarsi a operare nel mezzo della vita sociale.
Uno dei contributi più significativi del filone della social cognition è lo studio dei biases (bias =
inclinazione, tendenza distorsiva, pregiudizio). Qualsiasi attività cognitiva presenta tendenze distor-
sive, ma il fenomeno si accentua nel caso della conoscenzadella realtà sociale, perchè ai fattori co-
gnitivi di distorsione si aggiungono i sociali. Contano owiamente le parzialità di giudizio (legate agli
interessi e alle esigenze dell'individuo), ma anche il bisogno di coerenza, di mantenere una visione
chiara e ordinata delle cose, che non minacci il nostro senso di sicurezzae stabilita, ele influenze del
contesto socio-culturale. Pero la causa di biases cui si dà oggi piu importanza èl'eurìstíca cognítíva;
con questo termine si fa riferimento al complesso di espedienti adoperati nella conosceru;a della real-
ta sociale (eurìskein: trovare, vuol dire tecnica, metodologia della scoperta).
L'individuo normalmente ha da elaborare un gîan numero di input mutevoli (problema della com-
plessità), è costretto a prendere posizione in tempi brevi Qtroblema dela prontezza) e dispone di ri-
sorse limitate (problema dell'economia cognitiva),per cui si affida a strategie euristiche, espedienti,
scorciatoie per trarre conclusioni senza ricorrere ad analisi approfondite. Le euristiche mediamente
ftrnzionano, ma espongono al rischio di errori.
Il fatto che la social cognition sia soggetta a biases dice che le persone difficilmente sono obiettive.
Cio che comunemente giudichiamo assodato, oggettivo e scontato è di regola solo ciò su cui c'è con-
senso, ma anche la ricerca e la costruzione di consenso sono processi che vanno incontro a distorsio-
ni: la psicologia sociale tenta di sensibilizzarele persone al problema dell'obiettiviti suggerendo
strategie correttive e incrementando I' autocontrollo.
Altro problema che emerge dagli studi di social cognition è quello della"cecità sociale"'.la nostra
conoscenza della realtà sociale lascia in ombra molte cose e mostra i suoi limiti in situazioni partico-
lari, dove, per la posta in gioco e le decisioni da prendere, sarebbe necessario andare piu a fondo.
Biases di attenzione: I'effetto priming. Ci sono input per noi salienti, che hanno piu probabilità
di attirare l'attenzione, passare il filtro della selezione, ed essere elaborati. Il fenomeno per cui deter-
minati stimoli mettono in moto i processi cognitivi si chiama ffitto primrng (innesco). Ad alcuni
stimoli tendiamo a rispondere per predisposizioni naturali. Gli etologi parlano di releasers, stimoli-
chiave che producono risposte prestabilite di tipo adattativo e evolutivo. Un esempio di priming su
basi naturali è quello dei trafii infantili, che richiamanol'altenzione e evocano tenerezza.
figura: prim
O-
\_ / \r_ /
Fig, 1. Príming deilo schemd intanti,e. La tipica testa infantile è grande, con fronte bombala e viso piccolo trian-
golare, B. Húckstedt (1965) ha sottoposto a &j0 soggetti di enlrambí i sessi e di diversa eÉ i due profili di bambini.
Ouello di destra risuhava decisamente preferito e attirava maggiorrÉíte I'atlenzione. [.6 faltezze iniantili, oltre che
dalla lipica confórmazione del cranio, sono caratterizate dal fatto che il capo è grande rispetto al corpo e gli arti sono
tozzi e corti. Qui, Quo, Oua sono perfetti p€r attirare l'attenzione e inteflerire. Topolino è stalo miglioraio n6gli anni.
PSICOLOGIA SOCIALE
1. definizione di sapere
metodologia
mentale agente
sé sociale in rapporto con gli altri
mutevole / continuo
portatore di valori
pregiudizi
1. Influenze sociali sul funzionamento psichico => esigenze pratiche della vita sociale
pressioni persuasive
2. Comportamenti sociali => interazioni, relazioni, azioni sociali
metodologia
collettivismo inquadramento
storico-antropologico
BIASES
tendenze distorsive 1. parzialità di giudizio ( interessi ed esigenze personali )
RAPPRESENTAZIONI
POSIZIONI SOCIALI CONCEZIONI
INDIVIDUALI SPECIALISTICHE
opinioni concezioni diffuse nel senso comune e teorie scientifiche
atteggiamenti maturate in ambiti specifici o specialistici dottrine religiose
I biases di sapere
L’uso del sapere comporta distorsioni (biases) di vario genere. Stando immersi poi nella vita socia-
le, i biases di sapere, come quelli di attenzione, si accentuano. Al momento di riconoscere uno sti-
molo, possono sorgere problemi di categorizzazione, cioè di individuazione della categoria alla quale
l’oggetto percepito appartiene. Può quindi accadere, con i biases di accentuazione, che tendiamo ad
esagerare le differenze tra esemplari di diverse categorie o a minimizzare quelli tra gli appartenenti
ad una stessa categoria. Ad esempio, se un alunno, per ragioni extrascolastiche (interessi comuni,
simpatie o altro), si intende e lega con certi compagni, i docenti corrono il rischio di attribuirgli carat-
teristiche di quel gruppo (la scarsa partecipazione scolastica, il disimpegno, il basso rendimento) che
magari non ha.
I biases di arricchimento ci portano più che altro a attribuire agli input significati che generalmente
ci sono, ma nel caso specifico sono errati. Ad esempio, se leggiamo:
il mercante di stoffe disse allo zar: “Sono onorato della vostra visita,
ma devo pregarvi di non prendere in mano quello che vi farò vedere”.
In assenza di informazioni di contorno pensiamo si stia parlando di stoffe. Quando scopriamo che
il mercante di stoffe in questione era Anthony Van Leeuwenhoek, grande microscopista olandese del
XVII secolo, capiamo che non si tratta di stoffe, ma di microscopi e preparati microscopici.
Operiamo invece una composizione quando prendiamo pezzi da scene, discorsi, circostanze diver-
se, e li unifichiamo come se si fossero presentati tutti assieme, dando loro un senso unitario che al-
l’origine non possiedono
Con la correlazione illusoria gettiamo ponti tra elementi in maniera arbitraria. Sovrastimiamo l’as-
sociazione tra due variabili, dandole un valore significativo che di fatto non ha. Ad esempio, per ef-
fetto di uno stereotipo diffuso, vediamo degli zingari in giro, poco dopo sentamo raccontare che ci
sono stati dei furti e pensiamo che gli zingari hanno rubato.
Un altro bias di sapere di grande rilievo, per le implicazioni che ha nel senso comune, nelle ideolo-
gie e nelle forme di pregiudizio, è l’autoconvalida. Una volta che ci siamo fatti un’idea sulle cose,
tendiamo a conservarla a dispetto delle prove contrarie. Quando ci siamo fatti una visione, infatti,
raccogliamo selettivamente dati che la confermano. L’assunzione selettiva di informazioni è in gran
parte legata al fatto che l’attenzione è guidata dall’alto e che la lettura dei dati è condizionata dagli
schemi che impieghiamo.
BIASES COGNITIVI DI SAPERE
ammissione dei dati contrari limitazione dellʼ ambito teoria di partenza valida
ma valutati non pertinenti di esperienza nel quale disturbata da una
la nostra idea è valida interferenza importante
BIASES
COGNITIVI SOCIALI
in un compito in c.iosse deosivo c'è I'opporwnhà dí chi copio odonero un oneggiomento píit demente dí
copiore e ci si trovo a decidere se restore ferie|'oi ùnmo nei confronti delt'imbrogliore, mentte chi non
princjpio dì non imbrogiiore o for prevolere l'interes- copio diventerò più intrsnsigente (l.Mills 1958)
se dei mornento
in cambio di uno ricompensc in denaro dire o un se il denoro dello ncompensa è ronto, si reslo corF
compagno che un compno noioso oppeno svoho vinti che il compito è noioso, mo se è poco si fnisce
tutto sommolo è piocevo/e per non trovodo tonto sgrodevole (LFaanger,J. M-
Cnlsmtth 19591
it viene offena Llna ricompensa Per d:6egnore' in segurto omeremo meno il disegno e saremo Pot-
un'ot;rnà che deosomente ci piace,e acconsentjo- tsti d pensore che si disegno perché gli okri ce lo
mo chiedono (M-r. Lepper, D. Greene, RÉ Nrsbea
t e73)
4. Spesso solo chi comanda puo capire dawero il senso di certe sue scelte
molto d'accordo d'accordo inÈ(so contrario moirc conrrario
5. ll primo compiro dÌ chi comanda è evitare che il caos minacci la vie. di ciascuno
molto d'accordo d'yqlrdo indeclso conúario moico ccnrano
6. Quando quaicuno impone qualcosa a un aitro, c'è semore una srumaa:ra cji violen-
za, anche se sì è cj'accordo e cutto awiene nei rispecto delle regole
moito d'accorcio d'accordo indeciso .o}(.o molto conrrario
,._: jtotate =4
4. Spesso solo chi comanda puo capire dawero il senso di certe sue scelte
molto d'accordo d'accordo inÈ(so contrario moirc conrrario
5. ll primo compiro dÌ chi comanda è evitare che il caos minacci la vie. di ciascuno
molto d'accordo d'yqlrdo indeclso conúario moico ccnrano
6. Quando quaicuno impone qualcosa a un aitro, c'è semore una srumaa:ra cji violen-
za, anche se sì è cj'accordo e cutto awiene nei rispecto delle regole
moito d'accorcio d'accordo indeciso .o}(.o molto conrrario
,._: jtotate =4
Gli Stereotipi
Gli stereotipi sono rafftgurazioni di gruppi (gruppi-bersaglio), largamente condivise, schematiche,
che nascono nelle relazioni intergruppo e guidano conoscenze e comportamenti sociali delle persone.
In una relazione intergruppo gli stereotipi fanno da chiavi interpretative della realtà, da base per
orientarsi, capire persone, fatti, vicende, e fare previsioni. Perciò se ne formano normalmente da una
parte e dall'al1a;a, sia sull'altro gruppo (aerostereotípí), sia sul proprio (autostereotìpi). Ci sono poi
$i stereotìpì attríbuíti, o pr,qrettivi, quelli che ung p_etrq4 !he] illlq 3qqia.
AUTOÍEREOTIPO ATTRIBUITO
come ii gruppo A pensa che come ii gruppo B pensa che
ii B raffiguri se $esso I'A raffiguri se stesso
La Distanza sociale
Quello di distanza sociale è un concetto operativo che esprime la disponibilità dei membri di un
gruppo ad avere contatti sociali con persone di un altro gruppo. Questo concetto tiene conto delle
intenzioni personali. Si tralasciano valori e norme di gruppo, impressioni e giudizi di fatto, per inte-
ressarsi esclusivamente a come le persone hanno in animo di comportarsi con quelli dell’altro grup-
po. Perciò la distanza sociale è una conoscenza intergruppo essenzialmente volitiva o conativa.
Non si considerano neppure tutte le intenzioni personali verso l’altro gruppo, ma soltanto quelle
che riguardano i comportamenti di chiusura o apertura di gruppo. Oggi si tende a considerare la di-
stanza sociale a struttura polidimensionale, perchè implica aspetti diversi che si prestano ad analisi
indipendenti.
conoscenze intergruppo
hanno per oggetto interi gruppi
(vs singoli individui)
sono largamente condivise
maturano nel contesto di relazioni intergruppo
favore
pregiudizi => atteggiamenti di nei confronti degli altri gruppi
sfavore
discriminazione
razzismo
distanza sociale => disponibilità dei membri di un gruppo ad avere contatti sociali
con persone di un altro gruppo (concetto operativo)
intenzioni personali di apertura / chiusura
struttura polidimensionale
I1 linguisîa e filologo russo Roman Jakobson (1896 - 1982) ha raccolto i suggerimenti della teoria
dell'informazione,riprendendo in particolare il modello di trasmissione ed elaborazione delle infor-
mazioni proposto da Shannon e Weaver, e rielaborandolo in funzione della comunicazione umana.
A unificare tutte le possibili forme di comunicazione sono tre fattori che Roman Jakobson indivi
dua nel '"míttenfe che invia vnmessaggío al destìnatarìo.Per essere operante, il messaggio richiede
in primo luogo un riferimento a un confqto (il "referente" secondo un'altra terminologia), contesto
che possa essere afferrato dal destinatario, e che sia verbale, o suscettibile di verbalizzaziane; in se-
condo luogo esige un codice interamente, o almeno parzialmente, comune al mittente e al destinata-
rio (o, in altri termini, al codificatore e al decodificatore del messaggio); infine unconÍafîq un canale
fisico e una connessione psicologica tra il mittente e il destinatario che consenta loro di stabilire e
mantenere la comunicaziotte" (1963, p. 185).
{, nncl,.ù,r3rirL"n
EMITTENTE
aPParato t
di emissione f
tLtWtit'p
lu rìD'LL
(ìu lvl.t'r.rnbic"laj
CONTESTO
CODICE
funzione
metalinguistica
circolarità
rumore :
filtri del-
l’ambiente
CONTESTO
funzione
referenziale
a) continua vs discreta
b) reversibile (feed-back)
c) reciproca o bilaterale
interscambiabilità -
possibilità di intervento per entrambi i partecipanti (es. conferenza: b) senza c) )
I segnali inviati nel corso della trasmissione di messaggi possono essere “discreti” e “continui”: la
trasmissione è continua quando c’è un’alternanza di messaggi senza soluzione di continuità, è di-
screta quando compaiono delle interruzioni nel flusso comunicativo.
La trasmissione dei messaggi può essere reversibile quando l’emittente ha modo di avere feed-back,
informazioni di ritorno dal ricevente che gli dicono se il messaggio è passato e come è stato recepito.
Di solito è anche reciproca o bilaterale: ciascuno può fare da emittente o da ricevente, mandare
messaggi all’altro e riceverne a sua volta, di modo che c’è un va e vieni, una interscambiabilità dei
ruoli. La reciprocità è qualcosa di più della semplice reversibilità. Ad esempio, il pubblico di una
conferenza invia feedback al conferenziere mostrandosi interessato o annoiato o assorto, ma ci si
aspetta che non interrompa con continui interventi. Perciò c’è reversibilità senza reciprocità.
Ogni trasmissione di messaggi è di regola inserita in una “rete” fa parte di una circolazione più va-
sta, rientra in un flusso di comunicazione. Spesso ci si trova a scambiarsi messaggi tra più persone
in incontri di gruppo. Inoltre nel tempo ciascuno ha modo di comunicare con altri e così via (si pensi
ad esempio alla diffusione di “segreti”).
Il processo comunicativo non si verifica nel vuoto: di fatto una comunicazione avviene sempre in
un contesto concreto, in un dato ambiente fisico, una circostanza storico-sociale, una situazione psi-
cologica, tra determinati individui, mossi da certi scopi.
FUNZIONI DELLA COMUNICAZIONE
vs
CONNOTATIVA (risonanze emotive ed interpretative)
Parlare è, prima di tutto, un’azione, e il parlare come particolare forma dell’agire è studiato da una
dissciplina specifica, la pragmatica. Secondo la pragmatica (da praxis = azione) la comunicazione è,
innanzitutto, azione fra due o più interlocutori. La “pragmatica della comunicazione umana” si occu-
pa, quindi, degli effetti della comunicazione umana: tale espressione costituisce anche il titolo del-
l’opera principale (P. Watzlawick, J.H. Beavin, D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana,
sistema dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, New York, 1967) della Scuola di Palo
Alto. Gli studiosi (oltre a quelli citati, va ricordato in particolare l’antropologo Gregory Bateson) che
hanno svolto la loro attività di ricerca nel Mental Reserarch Institute (fondato nel 1959 da Don
Jackson nel piccolo villaggio, Palo Alto, a sud di San Francisco), studiano la comunicazione attraver-
so una prospettiva definita “sistemico-relazionale”. La personalità viene intesa come un “sistema
aperto di relazioni”, cioè un sistema di scambi in cui i concetti di circolarità e di feedback acquista-
no un ruolo di primo piano. Anzitutto il concetto di interazione implica l’idea di feedback o retro-
azione (o “informazione di ritorno”) che conferisce all’interazione un andamento dinamico circolare:
se ci riferiamo come esempio al gioco degli scacchi, è chiaro che nell’interazione fra i giocatori cia-
scuno dei due tiene conto della mossa dell’altro, che lo “informa” su quanto sta avvenendo e gli sug-
gerisce la prossima mossa. Ora, le situazioni interattive umane sono essenzialmente dei “giochi” di
questo genere, anche se non sempre manifestano un carattere competitivo (che tuttavia molto spes-
so resta implicito): sono giochi nel senso che il loro dinamismo è comunque circolare, come in un
“sistema a circuito” in cui le mosse dell’uno diventano il punto di partenza per mosse dell’altro,
ininterrottamente. La comunicazione non è dunque vista come un fenomeno unidirezionale di cui
interessa soltanto l’effetto sul ricevente, ma come un processo interattivo, o circolare, nel quale gli
interlocutori si influenzano a vicenda continuamente.
3. La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i
comunicanti.
La comunicazione si caratterizza come un processo circolare in cui ogni interazione, cioè ogni mes-
saggio è collegato con il precedente e con il successivo. In una relazione intercorrente tra due perso-
ne, se l’individuo A si comporta in un dato modo nei confronti di B, questo risponde con un altro
comportamento che a sua volta esercita un effetto di retroazione su A suscitando un’ulteriore rispo-
sta e così via. I due interlocutori possono percepire la punteggiatura degli eventi comunicativi in ma-
niera differente: come quando, ad esempio, all’interno di una coppia il marito afferma di chiudersi in
se stesso perchè la moglie brontola in continuazione, e la moglie afferma di brontolare perchè il mari-
to è troppo introverso (il marito percepisce le triadi 2-3-4, 4-5-6, 6-7-8, ecc. in cui il suo comporta-
mento è “semplicemente” una risposta al comportamento della moglie, mentre la moglie percepisce
le triadi 1-2-3, 3-4-5, 5-6-7, e vede se stessa solo nell’atto di reagire al comportamento del marito).
Quando noi attribuiamo a un certo individuo o a un certo atteggiamento un valore causale, compia-
mo un’operazione che è chiamata interpunzione arbitraria, che consiste nell’identificazione di un
evento comunicativo come causa di un altro evento, e che non tiene conto della circolarita comuni-
cativa. Esempio. Due bambini si azzuffano,la madre interviene e chiede
*Cltlhecominciato?" Ed
entrambi i bambini, additandosi reciporcamente: "Lui!".
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Fì9. 51
4. Glí essert umsní comunicano sía eon íl modulo numeríco (medíante la parola) che con quello
analogíc o (medíante l' ímmngine esplí cutíva, no n verbale).
Si conoscono due tipi fondamentali di linguaggiorúllizzabili per comunicare qualcosa: l'analogico e
il digitale. Il modulo analogico è fatto di segni che somigliano per caratteristiche e proprietà a ciò cui
rinviano, per cui la rappresentazione risulta analoga alla realtà, ne è una riproduzione, un modello.
Se facciamo una piantina per spiegare dove abitiamo, se con i gesti delle braccia cerchiamo di descri-
vere qualcosa di molto grande, ricorriamo al linguaggio analogico.
Il modulo digitale, invece, è un sistema arbitrario di segni collegati solo convenzionalmente alla
realta. Parole e discorsi sono espressioni tipicamente digitali. 11 linguaggio numerico presenta una
sintassi complessa e molto efficace, poichè è regolata da norme precise, ma e spesso meno adatta a
esprimere emozioni o a definire 1a relazione che esiste tra due persone: un abbraccio o la vicinanza
fisica pos$ono talvolta esprimere il sentirsi vicino all'interlocutore più efficacemente delle parole.
5. Tuttí glí scambí dí comanícazìone sono símmetrící o complementarí, a seconda che síano
basatí sull'ugaaglíanza o sulla dífferenz&
Ciò dipende dal grado gerarchico dei soggetti coinvolti. Uno scambio simmetrico si verifica tra in-
terlocutori che sono sullo stesso piano, con ruoli sociali e comunicativi simili (per esempio, due
compagni di classe). Uno scambio complementare, invece, si svolge ta persone che non si trovano
sullo stesso piano per potere, ruolo comunicativo o autorita sociale (come lo studente e I'insegnan-
te). E importante stabilire di che tipo è la comunicazione. Se un interlocutore si illude (o illude l'al-
tro) che sia simmetrica, facilmente il rapporto diventerà difiicile, scorretto o perfino patologico, co-
me nel caso dell'escalation simmetrica, nella quale si compete su tutto con l'interlocutore (o il part-
ner) e ci si allontana proglessivamente l'uno dall'altro.
PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE
volontario involontario vs
messaggio esplicito
concordante con il comunicazione congrua
messaggio implicito
MODELLO NUMERICO
(segni arbitrari senza somiglianze col referente)
(4) comunicazione
MODELLO ANALOGICO
(sistemi non verbali: riproduzione del referente)
(5) scambi di
comunicazione
L’insieme di due o più persone impegnate nel processo di comunicazione è chiamato sistema
interattivo. Sistemi interattivi sono la famiglia, la coppia, il gruppo-classe, il gruppo dei pari, ecc.
Le proprietà fondamentali di questi sistemi si richiamano al fatto di comportarsi come delle totalità
e non come semplici aggregati di persone. La totalità è un insieme organico avente caratteristiche
particolari che derivano dall’intrecciarsi dei rapporti interpersonali e che non sono riconducibili ai
singoli elementi aggregati.
Essa fa sì che, se si modifica qualcosa in un punto del sistema (es. un membro si ammala, se ne va,
oppure si comporta in maniera diversa dal solito, ecc.), tutto il sistema ne accusa il contraccolpo e
ha pertanto bisogno di riassestarsi (“autoregolarsi”) per ristabilire un equilibrio.
Tra i sistemi più tipici vi sono i cosiddetti “gruppi vitali con storia”: soprattutto le famiglie,
ma anche le comunità di lavoro, di studio, le coppie, le amicizie, ecc. Nella storia iniziale di questi
gruppi, i membri del sistema, attraverso i loro comportamenti, si danno a vicenda delle definizioni
della propria relazione; successivamente le definizioni si stabilizzano attraverso modalità ripetitive
(dette ridondanze) che diventano le regole occulte di quel particolare sistema di relazioni. In genere
le regole del sistema sono finalizzate, anche nei sistemi più conflittuali, a mantenere un certo tipo di
“omeostasi” o equilibrio. Ad esempio, la coppia in cui si verificano continui litigi ma che non giunge
mai alla rottura del legame è “tenuta insieme” dai litigi, che diventano le regole della relazione.
Di fronte ad eventi interni o provenienti dall’esterno, che costituiscono una minaccia all’equilibrio
raggiunto, il gruppo manifesta molto spesso il fenomeno della “resistenza al cambiamento”, che
diventa particolarmente forte nei gruppi in cui la comunicazione è patologica.
Nel campo della comunicazione vista nei suoi aspetti “pragmatici”, cioè negli effetti che essa pro-
duce sui comportamenti, sono stati analizzati gli “errori di comunicazione” che possono comparire
nelle relazioni tra adulti e nel rapporto adulto-bambino. Le forme di comunicazione difettosa o pato-
logica nella relazione adulto-bambino consistono principalmente in modalità incongrue e manipola-
torie nell’uso dell’interazione verbale da parte dell’adulto. Attraverso l’osservazione sistematica de-
gli interventi verbali dell’adulto in situazione familiare o scolastica (vedi ad es. Lucia Lumbelli, Pe-
dagogia della comunicazione verbale) è possibile individuare alcune modalità adulte di intervento
verbale “errate” nel senso che producono disturbi nella comunicazione (e nel comportamento), sono
intimamente contraddittorie e manipolatorie, pongono spesso il bambino in situazioni senza uscita e
rivelano, anche dietro atteggiamenti apparentemente disponibili, una sostanziale rigidità.
Vi sono tre forme fondamentali - spesso intrecciate tra loro - di errori comunicativi che si possono
rintracciare tanto nella comunicazione familiare (dove certamente hanno un valore determinante)
quanto all’interno della scuola. Queste forme sono: il “doppio legame”, la “risposta tangenziale” e la
“mistificazione dell’io”.
1. La teoria del doppio legame è stata enunciata nel 1956 da Gregory Bateson, in riferimento alle
esperienze di interazione che a suo avviso possono provocare il comportamento schizofrenico.
Il doppio legame è definito da tre condizioni:
I. Due persone sono coinvolte in una relazione intensa che ha un alto valore di sopravvivenza
psichica e/ o psicologica (vita familiare, amicizia, amore, prigionia, dipendenza materiale, situazione
psicoterapeutica);
II. In un simile contesto viene dato un messaggio che è strutturato in modo tale che: (a) asserisce
qualcosa (“report”); (b) asserisce qualcosa sulla propria asserzione (“command”); (c) queste due
asserzioni si escludono a vicenda.
III. Infine, si impedisce al ricettore del messaggio di uscir fuori dallo schema stabilito da questo
messaggio, o metacomunicando su di esso (commentandolo), o chiudendosi in sè stesso.
Il doppio legame costituisce una ingiunzione paradossale, cioè un tipo di comando che è in se stesso
contraddittorio, così da porre l’altro nell’impossibilità di obbedirvi.
Esempi. (1) Se io comando ad un bambino: “Sii spontaneo!” emetto un ordine impossibile ad ese-
guirsi: infatti, se la spontaneità per definizione non può essere comandata, è chiaro che il bambino,
sforzandosi di essere spontaneo, disobbedirà alla richiesta: il livello di relazione e quello di contenu-
to sono presenti e intrecciati contemporaneamente.
(2) “Se non mi ubbidisci non ti guardo più; va, fa pure quello che vuoi”. Il modello di questa propo-
sizione è ben noto nella quotidianità col nome di “ricatto affettivo”; essa è costituita da due ingiun-
zioni incompatibili tra di loro, la prima delle quali, pur essendo implicita, è quella reale (obbedisci),
mentre la seconda, esplicita (fa quello che vuoi), è tuttavia squalificata dal contesto emotivo in cui è
inserita.
(3) “Regalate a vostro figlio Marvin due camicie sportive. Quando ne indossa una per la prima vol-
ta, guardatelo con aria avvilita e dite: “L’altra non ti piace?” (Dan Greenburg, How to be a Jewish
Mother, 1964). Questo meccanismo è noto come illusione delle alternative: il figlio non può prende-
re la decisione giusta, perchè entrambe le alternative sono parte integrante di un doppio legame, e
qualsiasi scelta è, a priori, inadeguata.
Noi tutti viviamo continuamente esposti a doppi legami, senza per questo andare incontro a forme
di psicosi. Se però tale situazione viene reiterata per lungo tempo, sino a diventare abituale e ciò av-
viene in un ambiente chiuso, può condurre alcuni soggetti (in particolare i più fragili nell’identità, co-
me i bambini) ad uno stato patologico di dilemma in cui decidere, rispondere, comunicare, diventa
sempre più difficile.
conscia inconscia
verbale
ritmo
velocità di eloquio
TIDITTVO.VOCALE intonazione
prosodico forza vocale
enfasi
durata
paralinguistico
aspetto esteriore
dislocazione spaziale
distanza interpersonale
orientazione
VISTVO-CINESICO postura
gesti
espressioni del viso
sguardi
ll sistema verbale fa uso delle parole, le frasi, i discorsi e struttura i messaggi in base al linguaggio.
Il sktema prosodico si basa sugli aspetti musicali del parlato. Parlando creiamo una specie di musica"
una melodia. Teniamo un ritmo, cioè una cadetuache ò data dalla distribuzione degli accenti nel
tempo. In ogni lingua gli accenti cadono in punti stabiliti dalle parole. Tuttavia, quando produciamo
I'eloquio, possiamo fare in modo che gli accenti si susseguano più rawicinati o distanziati. La pro-
sodia è fatta anche di velocità di eloquio, di un parlare più o meno rapido, con accelerazioni e ral-
lentamenti. L'altez"za o intonazione è legataalla frequenza dei suoni e va dai piu gravi (frequenze
basse) ai più acuti (frequenze alte). Diversa è la forza vocale o intensita, che possiamo modulare
sino a bisbigliare o sussurare o, al contrario, a gridare. L'enfasi consiste nel mettere in rilievo una
parola o una parte di parola. Di solito si ottiene facendo una pausa prima o dopo I'elemento da far
risaltare e mn un andamento ascendente-discendente del tono. La durata è fatta di allungamenti o
accorciamenti di fonemi oppure di raddoppiamenti. Il sìstemn paralínguístíco comprende tutti gli
aspetti non verbali del parlato, come le pause, le esitazioni, i colpi di tosse, gli sbuffi. Il sistemn cí'
nesìco è fatto di un'ampiagafnmadi segnalazioni ottenute muovendo I'intero corpo o parti del cor-
po. Si va da aspetti piuttosto fissi, come la dislocazione nello spazio, all'oientazione, la postura,
ad altri piu dinamici, come i gesti, le espressioni, gli sguardi.
sistemi verbali CODICE DIGITALE (segni arbitrari senza somiglianza con il referente)
b) Regolazione dell’Interazione (es. tono di voce, sguardi, gesti per passare la parola all’interlocutore)
status, scopi
discorso caratteri dei partecipanti
intonazione situazione concreta
sguardo
cenni del capo
movimenti vari
LA COMUNICAZIONE NON VERBALE
Comunemente si dà molta importanza alle parole, però gran parte dello scambio è fatto di segnali
non-verbali, i quali possono talvolta costituire, all’interno della comunicazione, la componente più
significativa. La comunicazione non verbale (CNV) è formata da tutti gli scambi che avvengono con
sistemi diversi da quello verbale. Comprende tutto ciò che passa per il canale visivo-cinesico e gli
aspetti non verbali del parlato (la melodia che accompagna i discorsi, i silenzi, i suoni diversi dalle
parole, ecc.). Mentre i discorsi - essendo combinazioni di segni arbitrari, senza rapporto di somi-
glianza con ciò che indicano - sono in codice digitale, I sistemi non verbali hanno codici analogici,
basati su modelli, riproduzioni (ad es. il muso del cane riprodotto col movimento della mano, la
piantina di una casa, ecc.) di ciò cui si riferiscono. Se uso la distanza interpersonale (vicinanza fisica)
per rappresentare l’intimità con il mio intelocutore, creo un analogo spaziale del contenuto simboli-
co da trasmettere.
Una delle funzioni della comunicazione non verbale è: a) far da supporto al linguaggio; serve a
completare l’espressione linguistica, definendo aspetti della struttura del discorso. Ad es. l’intona-
zione definisce in italiano le frasi interrogative, esclamative, dichiarative, sospensive. Altra funzione
corrente è: b) la regolazione dell’interazione. É infatti anche in base a segnali non verbali che i
partecipanti possono monitorare lo scambio e coordinarsi, usando il.tono di voce, gli sguardi, i gesti
per passare la parola all’interlocutore. É il caso degli indicatori di transizione nell’avvicendamento
dei turni: quando due persone conversano, seguono la regola di parlare uno per volta. Per sapere
quando inserirsi, ciascun interlocutore deve ricevere dall’altro segnali che sta cedendo la parola e si è
in un punto di rilevanza transizionale, dove intervenire è legittimo. Ci si può basare sul discorso, ma
una parte importante è svolta dall’intonazione, dallo sguardo, dai cenni del capo e da altri movimen-
ti. Molti scambi poi hanno c) una funzione espressiva cioè servono a manifestare stati interiori ed
emozioni e funzione interpersonale, segnalando ostilità o amicizia, vicinanza o distanza. É sbagliato
pensare che la CNV non abbia d) funzioni ideative e che non operi in sostituzione del linguag-
gio, perchè capita comunemente nel caso dei gesti, che impieghiamo per comunicare molti contenuti
cognitivi (ad es. abbiamo un segno per OK, per “tagliare la corda”, ecc.).
La prossemica
La prossemica (da proxemics, termine coniato da E. T. Hall) indaga l’organizzazione delle distanze
tra le persone e i modi in cui gli uomini utilizzano lo spazio e i gradi di distanza che l’uomo decide di
frapporre tra sé e gli altri. L’avvicinarsi e l’allontanarsi delle persone costituisce un linguaggio forte-
mente codificato nelle diverse culture: ad esempio, Hall ha riscontrato che gli arabi, gli europei del
sud e i latino-americani prediligono le distanze ravvicinate più dei nordeuropei e dei nordamericani.
Edward Hall individua quattro diversi gradi di distanza significativi per l’interazione umana:
1. la distanza intima (da 0 a 45 cm) è riservata ai contatti personali intimi; la reciproca presenza è
presente e coinvolgente; tutti i nostri sensi partecipano all’interazione;
2. la distanza personale (da 45 a 120 cm) è riservata a familiari, amici stretti e conoscenti; pur mar-
cando un distacco preciso prevede la possibilità del contatto;
3. la distanza sociale (da 120 a 360 cm) è tipica delle situazioni lavorative e degli affari impersonali,
(interrogazione in classe, esami universitari); a 360 cm (“fase di lontananza”) avvengono incontri oc-
casionali e convenzionali;
4. la distanza pubblica (da 3,60 m a 7,50 m) caratterizza i rapporti con marcate differenze gerarchi-
che e di ruoli che si rivolgono ad un ‘pubblico’ (personaggi pubblici, oratori, politici).
NEGOZIAZIONE
COMUNICAZIONE E RELAZIONE
L’influenza che la comunicazione può esercitare varia molto a seconda del tipo di relazione. É utile
distinguere tra relazioni ad alta suscettività comunicativa, che risentono in particolare delle comuni-
cazioni tra partner, e relazioni a bassa suscettività comunicativa, dettate prevalentemente dal conte-
sto sociale. Sono ad alta suscettività i rapporti informali, con legami e con un certo grado di profon-
dità, come quelli di coppia, tra genitorie figli, amici. La suscettività si abbassa invece via via che il
legame si attenua e ci si sposta verso contatti strumentali e formali, come capita tipicamente nelle
situazioni di lavoro imperniate sui ruoli istituzionali.
Come influisce la comunicazione sulla relazione? Quali effetti produce? L’azione più evidente è la
strutturazione. Il dirsi le cose concorre a produrre gerarchie. Uno viene a trovarsi in posizione più
dominante, l’altro più di dipendenza e sottomissione. Si può definire un’organizzazione comple-
mentare delle attività, per cui l’uno compensa le carenze dell’altro, oppure simmetrica o di somi-
glianza, basata sul fatto che i partner si impegnano egualmente nelle stesse cose. É possibile andare
verso la vicinanza, l’amichevolezza o, al contrario, tendere all’ostilità e al conflitto.
La comunicazione è anche il mezzo con cui gli interlocutori attuano il controllo della profondità e
dell’armonia della relazione. Una relazione può essere più o meno profonda. Mentre si comunica, è
possibile scivolare verso una profondità maggiore di quella desiderata o restare più in superficie del
dovuto. Di conseguenza gli interlocutori momento per momento monitorano lo scambio in vista
della profondità della relazione.
SCRIPT COMUNICATIVI
Analizzando comparativamente gli script comunicativi, cioè i sistemi di regole sociali che governano
le varie forme di conversazione e comunicazione, si arriva alla conclusione che sono raggruppabili in
alcune famiglie principali. Mentre le singole forme di conversazione variano da cultura a cultura, le
famiglie sembrano universali. Se ne possono individuare quattro:
(1) gli script operativi (discorsi pratici, intellettuali, di lavoro, chiacchierate di corridoio, conferen-
ze, interrogazioni, ecc.), che sono seri e non intimi;
(2) gli script ludici (discorsi di intrattenimento, pettegolezzi, discorsi personali, “parlar di botte-
ga”) che sono non seri e intimi;
(3) gli script comici (raccontar barzellette, fare battute, comicità spontanea), che sono non seri e
non intimi;
(4) gli script esistenziali (discorsi affettuosi, liti, discussioni su temi esistenziali) che sono seri e
intimi ed hanno per temi il sé degli interlocutori, la loro relazione, la loro vita.
Perchè si instauri una relazione profonda è necessario un clima al tempo stesso intimo e serio. Se
c’è intimità scherzosa (come nelle comunicazioni ludiche) o serietà distaccata (come nelle operative),
le condizioni non permettono di rivelarsi reciprocamente, criticarsi, riservarsi attenzioni, aiutarsi, e
si tende a restare in superficie. Per evitare la relazione profonda, è sufficiente tenere separati i mo-
menti di comunicazione operativa dai ludici. Ad esempio un insegnante che durante una lezione non
vuole impegnarsi nell’approfondimento del rapporto con gli allievi, deve fare attenzione a non me-
scolare scambi di lavoro e scambi distensivi. Può tranquillamente concedersi delle pause ludiche,
l’importante è che siano ben distinguibili e staccate.
Quando si cerca la relazione profonda, come accade nel corteggiamento, nei rapporti di coppia, nel-
l’amicizia, tra genitorie figli o a fini educativi, si fa il contrario: comunicazione ludica e operativa
vengono accostate emescolate appositamente. Ad esempio, si insegna giovando, si scherza mentre si
rimprovera, ci si intrattiene lavorando.
Per il mantenimento dell’armonia della relazione profonda disponiamo dello script riverberativo,
che viene adottato per sciogliere le tensioni ed evitare il contrasto insanabile e il patteggiamento
compromissorio. Lo script reverberativo non consente di fare altro oltre che uscire dal momento
critico della relazione profonda, e si compone di vari momenti: a) partire da quello che l’altro dice e
aderire alla posizione dell’altro; b) sviluppare insieme il ragionamento e argomentare insieme; c) far
emergere il punto critico; d) cooperare per una soluzione.
COMUNICAZIONE FACCIA A FACCIA
ritmo - durata
verbale velocità di eloquio
Canale uditivo-vocale prosodico intonazione - enfasi
paralinguistico forza vocale
sistemi verbali CODICE DIGITALE (segni arbitrari senza somiglianza con il referente)
b) Regolazione dell’Interazione (es. tono di voce, sguardi, gesti per passare la parola all’interlocutore)
status, scopi
discorso caratteri dei partecipanti
intonazione situazione concreta
sguardo
cenni del capo
movimenti vari
NEGOZIAZIONE
concessioni
patteggiamenti accordo e definizione di “aree negoziali”
aggiustamenti
competenza role-taking
comunicativa self-monitoring
La pedagogia cristina come riflessione sull’educazione nasce attraverso lo sviluppo di una filosofia
cristiana, cioè di un sistema di principi organizzati filtrando il messaggio evangelico e biblico con il
retaggio delle filosofie greche. Il pensiero cristiano fra antichità e medioevo si divide in Patristica e
Scolastica. Nella prima vengono compresi i Padri apostolici e i Padri della Chiesa; la seconda riguar-
da i principali pensatori cristiani compresi tra la rinascenza carolingia e l’inizio dell’Umanesimo.
Il problema che tutti i grandi maestri medioevali, dall’XI secolo in poi, si troveranno ad affrontare
riguardava le idee generali o gli universali. L’universale è, ontologicamente, la forma, o l’idea o
l’essenza che può essere partecipata da più cose e che dà alle cose stesse la loro natura o i loro ca-
ratteri comuni; logicamente, l’universale è ciò che può essere predicato di più cose.
La disputa sugli universali, classico problema medioevale, fu impostata secondo un passo delle
Isagoge (introduzione) di Porfirio alle Categorie di Aristotele: “Intorno ai generi e alle specie non
dirò qui se essi sussistano oppure siano posti solo dall’intelletto, nè, nel caso che sussistano, se
siano corporei o incorporei, se separati dalle cose sensibili o situati nelle cose stesse”.
Si tratta di stabilire: a) se i generi e le specie (ad es. animale, uomo) esistano davvero o siano mere
costruzioni intellettuali; b) posto che esistano, se siano corporei o incorporei; c) ammesso che siano
incorporei, se si trovino nelle cose sensibili (in re, come sosteneva Aristotele), o se siano separati
(ante rem, secondo l’opinione dei Platonici).
Si continuerà a lungo a discutere accanitamente, contrapponendo vari tipi di soluzione che riman-
dano alle due soluzioni fondamentali: realismo e nominalismo. Per il realismo, cioè per la tradizione
logica platonico-aristotelica, l’Universale è, oltre che conceptus mentis (post rem), l’essenza neces-
saria o la sostanza delle cose. Per il nominalismo l’Universale è un segno delle cose stesse.
Per quanto riguarda il realismo, si possono distinguere due forme fondamentali: quella platonizzan-
te (alla quale aderisce anche Agostino), per la quale gli universali, (le idee) esistono prima e separata-
mente rispetto alle cose stesse (ante rem), e quella aristotelica, espressa da San Tommaso dicendo
che l’universale è in re come forma o sostanza delle cose, post rem come concetto dell’intelletto e
ante rem nella mente divina come idea o modello delle cose create. Ulteriori soluzioni vengono pro-
poste da Guglielmo di Champeaux e da Duns Scoto.
Il nominalismo presenta una maggiore uniformità, ma anch’esso dà luogo a due soluzioni fonda-
mentali: il nominalismo propriamente detto, rappresentato nel XI secolo da Roscellino, muove dalla
convinzione che non esistano concetti generali e che si possano conoscere solo gli individui concreti;
gli universali sarebbero dunque puri nomi, emissioni di voce (flatus vocis); di una posizione detta
concettualismo si fa interprete Abelardo, (più tardi Guglielmo da Ockham): i concetti universali esi-
stono, ma nella mente o post rem come immagini significanti di una molteplicità di cose particolari.
problema degli
nominalismo realismo
UNIVERSALI
idee
generi specie
non hanno alcuna esistenza “ante rem” ( Platone, Agostino)
indipendente al di fuori degli esistono:
oggetti nei quali si manifestano “ante rem” nella mente divina
“in re” come essenza delle cose
“post rem” nella mente dell’uomo
esistono come concetti della mente (Tommaso d’Aquino)
(Abelardo / Guglielmo da Ockham)
esistono solo come parole (flatus vocis)
(Roscellino)
IDEE BIBLICHE FONDAMENTALI
b) antropocentrismo vs cosmocentrismo
uomo fine della creazione perfezione del mondo sopralunare
creatura privilegiata di Dio “etere”
Dio “essere per essenza” / le cose create hanno lʼessere per partecipazione
d) volontarismo vs intellettualismo
Mentre per il greco è lʼuomo che ama, e non Dio, per il cristiano è soprattutto Dio
che ama e lʼuomo può amare nella dimensione del nuovo amore solo operando una
radicale rivoluzione interiore e assimilando il proprio comportamento a quello di Dio
h) resurrezione vs immortalità
dei corpi dellʼanima
Cristianesimo come
nuova pedagogia
fine dell’ educazione: salvezza per tutti: ruolo pedagogico centrale: importanza
salvezza dell’ anima charitas famiglia dell’infanzia
problema degli
nominalismo realismo
UNIVERSALI
entità astratte
idee
non hanno alcuna esistenza “ante rem” ( Platone, Agostino)
indipendente al di fuori degli esistono:
oggetti nei quali si manifestano “ante rem” nella mente divina
“in re” come essenza delle cose
“post rem” nella mente dell’uomo
esistono come concetti della mente (Tommaso d’Aquino)
( Guglielmo da Occam)
esistono come parole (flatus vocis)
(Roscellino - Abelardo)
“intorno a tutte le cose che comprendiamo, non consultiamo la voce di chi
parla, che suona fuori di noi, ma la verità, che presiede alla nostra stessa
Agostino (354 - 430) mente, sollecitati forse dalle parole a consultarla”
Le società barbariche.
Intorno al 475 d. C. cadde definitivamente l’impero romano d’Occidente, mentre sopravvisse la
sua parte orientale. Infatti le popolazioni barbariche dal Nord Europa, dopo numerose incursioni,
si impadronirono di gran parte dell’Occidente stesso con la loro forza militare, devastando e di-
struggendo istituzioni, città e forme di cultura.
La vita nella società barbarica era dominata dalla crudeltà, dalle razzie e dalle violenze. I rapporti
prevalenti erano incentrati su interessi materiali. Ne è una riprova la concezione patrimoniale del
regno, cioè la divisione dei beni del re dopo la sua morte. Le persone vivevano sempre in comunità,
all’interno di grandi clan, allo scopo di difendersi e di avere protezione, specie se si era poveri, vedo-
ve o orfani. Il contraccambio era la dipendenza totale dal gruppo. Ragazze e donne soprattutto era-
no in una posizione di grande debolezza e passività, sotto l’autorità del maschio capo del clan e di
quella del marito. La verginità era considerata importantissima, tanto che si proteggevano solo le
donne intatte e pure. Vi erano quindi molte norme, spesso inascoltate, che proibivano i rapimenti,
gli stupri, gli incesti. L’incesto costituiva un problema di rilievo, poichè si dormiva in molti in una
stessa stanza e spesso negli stessi letti.
Un’altro problema comune a tutta la società medioevale era quello della mortalità infantile. Esso
impedì per lungo tempo che si creasse un sentimento profondo verso l’infanzia, proprio perchè si
era abituati a vedere morire i bambini come cosa comunissima. L’educazione della maggior parte di
giovani sopravissuti si svolgeva dentro il clan, in questo sistema materiale di violenze e di promi-
scuità, di salvaguardia del proprio onore, di riti magici, di paura per le streghe e per i morti che as-
sediavano cupamente l’immaginazione collettiva. Il contatto con la popolazione romana li spinse ad
ingentilire i loro costumi, quello con il cristianesimo alla conversione religiosa e all’inserimento in
una cultura diversa e in un nuovo sistema di valori.
Le scuole di origine classica sopravvissero in piccolo numero in alcune zone alle distruzioni barba-
riche sino al VI - VII secolo, poi scomparvero del tutto. Gli unici centri in cui sopravvisse la vita in-
tellettuale furono i monasteri.
Il monachesimo e la cultura.
Le comunità monastiche sorte in Occidente nel corso del IV secolo sono comunità di educazione
religiosa perchè chiedono ai nuovi membri di conformarsi ad una regola comune. Ma dal momento
che esse cominciano ad accogliere fanciulli destinati alla stessa vita monastica, devono attrezzarsi in
tal senso, prima affidandoli ad una sorta di monaco-precettore, il formarius, poi creando al proprio
interno una vera e propria organizzazione scolastica. Nascono così le scuole monastiche, che diven-
tano (insieme alle scuole presbiteriali ed episcopali sorte intorno all’VIII secolo), depositarie del sa-
pere e dell’istruzione dell’Occidente, conservandone il retaggio e modificandolo in parte alla luce
della paideia cristiana. Avviene così che il termine clericus, in origine designante l’uomo di chiesa,
passi a significare dotto, in contrapposizione a laicus, ignorante.
Le scuole ecclesiastiche. Lentamente, tra l’VIII e il X secolo, si costituirono anche le scuole ec-
clesiastiche (scuole episcopali e scuole presbiteriali), a partire da quelle nate intorno alla cattedrale,
sede del vescovo; esse servivano essenzialmente per preparare i chierici, destinati a diventare preti.
L’istruzione era essenzialmente religiosa (lingua latina, testi sacri), ma successivamente si introdusse
lo studio delle arti liberali (trivio e quadrivio), della teologia e del diritto canonico.
sopravvivenza delle scuole pagane (sino al VI - VII secolo) > distruzioni barbariche
Il monachesimo e la cultura
dispositivo educativo del clero sermoni simbologia dei riti liturgie cerimonie iniziatiche
disciplinare le condotte esterne della persona,
regolamentare la condotta sessuale
interiorizzazione e sacralizzazione delle norme
pratiche della vita quotidiana relative ai valori religiosi => assolute e indiscutibili
Chiesa entrare nella vita privata di ognuno condizionamento delle condotte morali
sensi di colpa paura della punizione e del peccato.
L’EPOCA DELLA SCOLASTICA
Nel XII secolo vi fu una ripresa dei traffici e dei commerci, le città si ripopolarono, si formarono le
città-stato e i comuni italiani. Gli artigiani riacquistarono peso nella vita economica e costituirono
delle corporazioni, dette anche ‘gilde’ o universitates, che divennero sempre più potenti. Lo svilup-
po demografico segnò un incremento notevole e la gente cominciò a viaggiare molto di più di regione
in regione. Una tale rinascita indusse uno sviluppo corrispettivo delle istituzioni scolastiche, spe-
cialmente delle scuole legate alle cattedrali, e diede origine alla nascita delle università.
Le scuole delle cattedrali, che detenevano il diritto di concedere la “licentia docendi”, cioè il per-
messo di insegnare, avevano cominciato a far apprendere, oltre ai primi rudimenti della cultura del
tempo, anche le arti liberali. Questo fatto aveva richiesto la presenza di più maestri per le diverse
materie. Con la ripresa della vita sociale e culturale la domanda di istruzione aumentava progressiva-
mente. Iniziò così la controversia che oppose i capitoli, cioè i consigli dei canonici delle cattedrali, ai
nuovi aspiranti maestri. Ai nuovi aspiranti maestri, infatti, non si voleva concedere il permesso di
insegnare, in modo da detenere da soli l’egemonia culturale. Di conseguenza gli aspiranti maestri si
riunirono in corporazioni autonome (formate da studenti, docenti, studenti e.docenti insieme), chia-
mate appunto Universitates (gilde) allo stesso modo delle altre professioni, e diedero così inizio,
tra la fine del XII secolo (Parigi, Bologna, Salerno) e l’inizio del XIII (Padova, Napoli, Oxford, Tolo-
sa e Vercelli), alle Università.
Le università si strutturarono come enti giuridici, con propri statuti. Esse si dotarono di un capo o
rector, si diedero procedure d’esame concluse da una cerimonia detta conventus, e col passare del
tempo ottennero la possibilità di dare il titolo universitario di “ius ubique docendi”, cioè l’abili-
tazione all’insegnamento. Per l’insegnamento vennero approntati locali, materiali, biblioteche. Si
crearono alloggi per docenti e studenti, si impiantarono attività di produzione libraria.
Esiste una carriera interna: per diventare magister theologiae occorre essere stato magister artium.
Essendo il latino lingua dotta comune, i magistri possono passare liberamente da un’università all’al-
tra, spesso seguiti dai clerici vagantes, studenti che si spostano a loro volta per frequentare le lezio-
ni, un fatto fondamentale per l’europeizzazione della cultura.
I maestri universitari erano pagati direttamente dagli allievi, che entravano nel merito sia della scelta
di essi, sia della loro attività didattica. Le ‘facoltà’ in genere erano quelle di Diritto, di Medicina e di
Teologia, dopo uno studio di base in quella detta delle ‘arti’. Lo studente diventava prima bacelliere
(16 - 20 anni), poi iniziava il dottorato, che durava sei o sette anni.
Il metodo utilizzato era quello poi detto “scolastico”: si componeva di una lectio, in cui il maestro
legge e commenta un testo, e di una disputatio, cui partecipano tutti gli studenti, consistente nel-
l’esame di un problema, nella presentazione di una certa tesi e nello sviluppo degli argomenti pro e
contro tale soluzione, secondo il metodo delineato da Abelardo (1079 - 1142), maestro della scuola
parigina, nel suo Sic et Non..
Nel basso medio evo assistiamo anche all’organizzarsi di attività di istruzione laica svincolate dai
centri di formazione ecclesiastica ma anche dall’educazione aristocratica.l’apprendistato. Nell’alto
medioevo il percorso formativo dei laboratores avviene semplicemente facendo partecipare i giovani
alle attività degli adulti, ma il modificarsi del tessuto artigiano e mercantile della città successivo al-
l’anno mille, pone nuove esigenze che richiedono anche una modifica dei modelli educativi.
Avviene così che mentre l’educazione dei giovani contadini rimane e rimarrà immutata ancora per
secoli, le famiglie cittadine inizino a far apprendere ai propri figli un mestiere che non è necessaria-
mente quello del padre. Verso i sette anni i giovani (maschi) vengono così mandati a risiedere presso
l’artigiano che farà loro da maestro per un apprendistato che dura fino all’età adulta, e che richiederà
anche una elementare formazione morale.
Si stipulavano regolari contratti davanti al notaio, in cui la famiglia del giovane garantiva che egli
avrebbe offerto il suo lavoro, i suoi servizi (anche quelli domestici) e la sua fedeltà al maestro di
bottega e alla di lui famiglia. Il maestro si impegnava a sua volta a insegnargli in piena buona fede i
segreti del suo mestiere:
“In nome del Signore, amen. Io, Giovanni sarto, tutore testamentario, come confermo, del mio nipote
Paganino, figlio del fu Guido sarto, mio fratello, prometto e convengo con te, Giliolo calzolaio, abitante
a Portovenere, di far stare con te il suddetto Paganino per i prossimi sei anni, perchè impari la tua arte
della calzoleria, promettendoti di far sì e di procurare che il suddetto Paganino serva a te e alla tua casa,
e svolga i servizi che ti occorrono in case e fuori, come si deve e si conviene; che custodisca e conservi
fedelmente e senza inganno le cose tue e di altri che gli saranno affidate; che non ti sottragga più di 12
denari all’anno e anche questi non con malizia, che non ti lasci, che non fugga, che non esca contro la
tua volontà di casa tua fino al suddetto termine (...).
E il Gigliolo prometto a te Giovanni, contraente e accettante in nome del suddetto Paganino, di tenere
con me il suddetto Paganino fino al termine suddetto, di dargli vitto e vestito conveniente, di ammae-
strarlo e di istruirlo in buona fede nel mio mestiere e di non imporgli incombenze che non debba o che
non possa svolgere.”
Per contro la formazione aristocratica non avviene in vere e proprie scuole (se si eccettua la so-
pravvivenza delle Scuole Palatine), ma soprattutto in relazione ad un modello e ad un curricolo in-
centrati sull’ideale cavalleresco. Fondato sui valori del coraggio, dell’onore, dell’abilità guerresca,
dell’eleganza e della bellezza fisica, questo modello è già presente nel IX secolo. A partire dall’XI
secolo tale ideale viene esteso alla difesa della Chiesa, dei poveri, dei deboli e delle donne.
Il cavaliere, modello di virtuù aristocratiche, inizialmente non è neppure alfabetizzato, ma nel Bas-
so Medio Evo riceve un’istruzione di base e viene anche avvicinato alle arti “cortesi” della poesia,
della musica e del canto. Il suo apprendistato avviene dai sette anni, quando lascia la casa paterna
per diventare paggio presso un aristocratico legato al padre, al cui servizio sarà poi fatto scudiero
(intorno ai 15 anni) e cavaliere (a 21 anni). Sarà presso lo stesso castello che gli verranno insegnate
le condotte e le virtù del suo rango, assieme all’apprezzamento delle “arti cortesi”.
La vita materiale degli studenti era immersa in tutto il contesto cittadino circostante alle università.
I contatti con la popolazione erano continui, dall’albergatore ai negozianti, dai tavernieri alle donne
di tutte le età (che non frequentavano in nessun caso l’università). Avvenivano risse con la popola-
zione e violenze tra studenti. Molto violenti erano i riti di iniziazione della vita universitaria, con-
dotta dai più anziani detti goliardi, che abusavano senza scrupoli dei nuovi arrivati: nel ‘400 alcuni
moralisti intrapresero una battaglia culturale contro queste condotte, giudicate immorali.
Vi erano anche molti studenti poveri. Dapprima furono creati ospizi appositi per dare loro vitto e
alloggio tramite delle specie di borse di studio. Nacquero così i primi collegi nei quali i borsisti più
anziani davano lezioni ai ragazzi più giovani, e le famiglie presero presto l’abitudine di mandarvi i
figli a studiare. Si costituirono così altri collegi come luogo di insegnamento interno, in forma prima
di esternato e poi di internato. Si stabilì una disciplina specifica per gli scolari, si pose fine alla pro-
miscuità medioevale data dalla compresenza di bambini ed adulti nella stessa scuola, si percepì in
modo più preciso l’età infantile rispetto a quella adolescenziale, si pensò ad una graduazione nella
presentazione dei programmi e dei contenuti, eliminando il tipico carattere medioevale di una simul-
taneità senza progressione alcuna dello studio di tutte le discipline, fissando contemporaneamente i
criteri di composizione delle varie classi scolastiche per fasce di età.
La scoperta dell’infanzia
Philippe Ariès (Padri e figli nell’Europa medievale e moderna,1960) sottolinea, anche a propo-
sito della diffusione dei collegi che ci si sta avviando verso una prima scoperta dell’infanzia: “Il pas-
saggio dalla scuola libera del Medioevo al collegio regolamentato del ‘400 è l’inizio di un movimento
parallelo nel mondo dei sentimenti: esprime un atteggiamento nuovo che si manifesta davanti all’in-
fanzia e alla gioventù”. Verso il ‘300 e il ‘400, infatti, cominciano a manifestarsi segnali di attenzione
e di considerazione verso i bambini e gli adolescenti, visti nella loro condizione specifica diversa da
quella adulta. Ariès mette in luce come la stessa ritrattistica, che nell’alto medioevo raffigurava i
bambini come dei piccoli adulti, soltanto più bassi di statura, inizia a raffigurare soggetti con tratti
infantili, a dare sempre più posto alla comparsa di fanciulli nei ritratti di famiglia, nelle iscrizioni
funerarie e nei quadri commemorativi. Sulla stessa linea di riconoscimento dell’infanzia, nel ‘500 e
nel ‘600 si cominceranno a creare, presso i ceti alti, vestiti particolari per i bambini, diversi da quelli
degli adulti. Qualcosa di simile accade per certi giochi, e persino giocattoli, che vengono riservati so-
lamente ai bambini. Insomma, si inizierà lentamente a separare il bambino dall’adulto, a lasciargli
attraversare alcune fasi di transizione prima di ‘mescolarlo’ del tutto alla società dei grandi.
Nel medioevo invece il bambino, già a partire dai sei-sette anni, quando non aveva più bisogno di
essere accudito costantemente, veniva considerato del tutto un uomo adulto.In un primo tempo que-
sta attenzione nascente per l’infanzia fu concepita nei termini del divertimento che essa poteva pro-
curare agli adulti. Il bambino cioè era occasione di scherzo e veniva trattato come una specie di gio-
cattolo per adulti.
Successivamente pensatori e moralisti spinsero a considerare il bambino come un essere fragile, de-
bole e innocente, bisognoso di essere protetto e aiutato a crescere, nell’ambito di una coscienza mo-
rale che si va sviluppando secondo i principi del cristianesimo. Questa esigenza di moralità si affer-
ma anche nei collegi, che introducono una disciplina più rigida, volta addirittura a controllare ed or-
ganizzare tutti i momenti e tutti gli atti della vita del giovane. Essa culminerà nella disciplina perfetta
dei Gesuiti.
La famiglia medioevale era di grandi dimensioni, allargata da una parte a parenti non prossimi, aper-
ta dall’altra a un contesto generale in cui tutto veniva fatto in comune. Si imponeva una vita di rela-
zione continua e serrata, spesso segnata da occasioni di feste, da banchetti e cerimonie. Come sotto-
linea sempre Ariès, la vita familiare era dominata dal tratto di una costante socievolezza. Questo im-
pediva quel ripiegamento all’interno della vita familiare che andrà invece sviluppandosi nei secoli
successivi, facendo nascere così, con il sentimento stesso del’infanzia, quello dell’intimità e della
privatezza, culminante poi nel modello della famiglia borghese del ‘700 e dell’ ‘800: dalla vita quasi
sempre pubblica, tipica della famiglia medievale allargata, finalizzata all’apprendimento di valori e di
condotte adeguate all’integrazione in un grande gruppo, si passa ad una “educazione intenzionale”,
ad una scelta di istruzione rivolta allo scopo di sviluppare nel giovane le sue capacità e le sue attitu-
dini.
L’ EPOCA DELLA SCOLASTICA
sviluppo demografico
fine XII sec. - inizio XIII ripresa dei traffici e commerci
formazione dei comuni
domanda di istruzione
studenti
nascita delle Universitates (gilde) => corporazioni di docenti e studenti.
vs docenti
diritto di concessione
della “licentia docendi”: autonome maestri pagati dagli allievi conventus
scuole delle cattedrali enti giuridici rector (cert. finale)
procedure d’esame “ius ubique docendi”
Facoltà
Scolastica
La formazione aristocratica
coraggio, onore, abilità guerresca
l’ apprendistato del cavaliere paggio (7 anni) eleganza, bellezza fisica
XI sec. scudiero (15 anni)
cavaliere (21 anni) poesia, musica, canto
EDUCAZIONE, EDUCABILITÀ E POTENZIALE FORMATIVO
Educazione e apprendimento.
L’insegnamento ha per gli esseri umani una base naturale, dimostrata dal fatto che si produce sponta-
neamente tra adulti e bambini. Allo stesso tempo, però, l’insegnamento assume presto le caratteristiche
“artificiali” di un processo razionalmente diretto e programmato (come avviene per esempio a scuola)
per ottenere la massima efficacia di apprendimento. E’ inevitabile, infatti, che l’attività dell’insegnare
comporti qualcosa che va al di là delle modalità naturali dell’apprendimento, perchè canalizza, prestabi-
lisce, programma situazioni che nell’apprendimento spontaneo potrebbero non prodursi. Quindi l’inse-
gnamento produce un tipo di apprendimento in qualche modo “artificiale”. Il rapporto tra insegnamento
e apprendimento spontaneo, o meglio ancora tra apprendimento spontaneo e apprendimento artificia-
le, è così uno delle grandi questioni della riflessione pedagogica. . Carl Rogers distingue due tipi di ap-
prendimento: un apprendimento che chiama in causa solo la mente, coinvolge l’individuo esclusiva-
mente “dal collo in sù”, che non tiene conto di sentimenti o significati personali; un apprendimento
significativo che, all’estremùo opposto, è basato sull’esperienza ed è capace di destare gli interessi vitali
del soggetto che apprende: “Quando il bambino che muove incerto i suoi primi passi tocca il termosifo-
ne acceso, impara da solo il significato di una parola: “caldo”; egli ha inoltre appreso una regola di
prudenza”.
Problematicità dell’educazione e potenziale formativo
L’efficacia dell’insegnamento e dell’attività formativa in genere dipendono anche dal potenziale forma-
tivo coinvolto. L’attività educativa ha al suo centro l’uomo nella sua realtà individuale e sociale, con i li-
miti che caratterizzano il suo potenziale formativo. L’espressione “potenziale formativo” indica anzi-
tutto la misura di ciò che nell’uomo può essere sviluppato mediante educazione; si tratta di un insieme
di potenzialità individuali che devono sempre, inevitabilmente, essere in parte ipotizzate, in mancanza
di conoscenze, strumenti e procedimenti in grado di fornire su di esse previsioni complete.
L’educazione contiene perciò un elemento di “scommessa” e “rischio”, che consiste nel compiere azioni
formative la cui efficacia dipende da caratteristiche dell’allievo “probabili” anzichè “certe”: si entra qui
nella riflessione sulla educabilità di ogni singolo uomo. Ma l’espressione “potenziale formativo” può
indicare anche la misura di ciò che determinate agenzie o azioni possono produrre nell’ambiente educati-
vo. Da questo punto di vista si può parlare di “potenziale formativo” della scuola, dei mass-media, della
famiglia, del gruppo dei pari.
EDUCAZIONE
azione formativa
1. educazione, istruzione, formazione
processo formativo
6. Educazione e
progetto sociale integrazione e trasmissione culturale
antropologia => inculturazione
pedagogia => educazione sociale famiglia
scuola
agenzie educative gruppo dei pari
mass-media
ambiente di lavoro
modelli di socializzazione associazioni e istituzioni
(Rudolph Schaffer: testo)