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JEANGABRIEL RANQUET

CONSIGLI EVANGELICI
MATURITÀ UMANA
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INDICE

INDICE ....................................................................................................3
PARTE PRIMA ..................................................................................... 13
LA POVERTÀ ........................................................................................ 13
I SIGNIFICATO DEL VOTO DI POVERTÀ ............................................ 24
1. Nella Scrittura ........................................................................24
2. Nell’uomo da salvare .............................................................. 26
3. « Lascia... » .............................................................................. 27
II PER UNA REALE POVERTÀ RELIGIOSA.......................................... 44
1. Un principio generale ............................................................ 45
2. Organizzare, se possibile, comunità poco numerose .............. 47
3. Frequentare con gioia i poveri ............................................... 49
4. Ricollegare più nettamente la nostra povertà religiosa alla
nostra responsabilità apostolica ................................................. 53
III DALLA RINUNZIA MATERIALE A TUTTE LE RINUNZIE........ 52
1. Dal personaggio alla personalità ............................................. 52
2. Anche la nostra miseria e la nostra malizia ............................ 55
PARTE SECONDA ................................................................................ 55
LA CASTITÀ PERFETTA ......................................................................55
I LA VERGINITÀ NELLA NUOVA ALLEANZA ................................... 69
1. Mistero e segno ......................................................................69
2. Dimensione ecclesiale ............................................................ 72
II LE GRANDI LINEE DI UNA CASTITÀ PERFETTA ......................... 75
1. Una solitudine... .....................................................................75

3
2. ...per una pienezza .................................................................79
III UN TERRENO DI APPLICAZIONE IMMEDIATA: LA VITA
COMUNE ........................................................................................................... 74
1. Credere nell’altro ...................................................................74
2. Dare e ricevere .......................................................................83
3. Avere la grazia « graziosa » ..................................................... 90
4. Gruppo o comunità ................................................................ 91
PARTE TERZA...................................................................................... 94
L’OBBEDIENZA .................................................................................... 94
I . L’OBBEDIENZA SECONDO IL VANGELO...................................... 109
1. L’obbedienza di Cristo.......................................................... 109
2. L’obbedienza del cristiano.................................................... 111
II PORTATA EVANGELICA DELL’OBBEDIENZA RELIGIOSA .... 149
1. Aspetto pedagogico e comunitario ....................................... 151
2. Aspetto pasquale .................................................................. 155
3. Aspetto apostolico ................................................................ 157
III ALCUNE ISTANZE ESSENZIALI DELL’OBBEDIENZA .............. 163
1. Libertà in atto....................................................................... 163
2. Vera prudenza ...................................................................... 167
3. Senso teologale ..................................................................... 172
PARTE QUARTA ................................................................................ 178
L’UMANO RECUPERATO DALLA GRAZIA ...................................... 178
I. RELIGIOSO, CRISTIANO, UMANO.................................................... 202
II. DALLA POVERTÀ ALLA VERA SICUREZZA ............................... 207
1. Avere e profitto .................................................................... 207

4
2. La sana follia del non possesso ............................................. 212
III. DALLA CASTITÀ PERFETTA AL VERO INCONTRO UMANO ....... 217
1. Unificazione dell’essere ........................................................ 217
2. Capacità d’amicizia ............................................................... 219
3. Virilità e femminilità ........................................................... 223
IV DALL’OBBEDIENZA ALLA CREATIVITÀ ..................................... 227
1. Liberare la nostra libertà ...................................................... 227
2. Alle sorgenti dell’azione creatrice ........................................ 232
CONCLUSIONE................................................................................... 236
COME IN SE STESSO... .......................................................................... 236

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INTRODUZIONE

IL RELIGIOSO PUÒ ESSERE UMANO?

La parola «umano» ha una ricchissima sonorità: evoca l’apertura e


il calore ed anche, la fragilità e la vulnerabilità. «È umano», si dice di
un comportamento che non è del tutto giusto.
Ora ciò che si attribuirebbe, almeno dal punto di vista esteriore,
agli uomini e alle donne chiamati religiosi e religiose, è una specie
d’inumanità, apparendo essi chiusi, lontani, irrimediabilmente segnati
da una debolezza dissimulata sotto la maschera della durezza stoica o
dietro la meschina innocenza delle mimiche conventuali.
Questi esseri così poco umani non potrebbero certo aspirare alla
maturità umana.
Tale pretesa appare ancora più assurda in un mondo in cui la fede
si scontra con il fenomeno della secolarizzazione. L’uomo in quanto
vive nell’universo quotidiano di cui è il responsabile: ecco l’unità di
misura, il valore-chiave. Come possono pretendere di essere uomini e
donne, coloro che non partecipano, o comunque si tengono a distanza
dal cantiere umano?
L’uomo trova la sua maturità solo fra gli umani; è impossibile
essere pienamente se stessi senza gli altri, ma non alcuni altri
artificialmente riuniti sotto una stessa regola, bensì tutti gli altri,
differenti per sesso, età, lingua, razza, costumi, pensiero. Come
pretendere di allontanarsi dalla folla dei ricercatori, dei tecnici, dei

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lavoratori che a poco a poco domano la natura, senza privarsi di quei
valori che sono la vera nobiltà dell’uomo: la sottomissione al reale,
l’umanizzazione della materia, la ricerca di un benessere sempre
maggiore, il prolungamento della vita? Come rinunciare all’amore
coniugale e alla procreazione, come sembrar ignorare la sessualità,
senza mutilarsi e perdere ogni senso della vera relazione umana? Come
asservirsi nell’obbedienza e fondersi in una vita comune, senza
perdere ogni libertà, ogni potenza d’iniziativa, d’invenzione, di
creazione?
La pienezza dell’umano sembra essere all’opposto dei consigli
evangelici di povertà, castità totale, obbedienza, che sono altrettanti
vicoli ciechi in cui sono state fuorviate masse intere di uomini e donne
da secoli di cristianità. « O Cristo, eterno ladro delle energie! ». Questo
grido di Rimbaud dovrebbe levarsi fortissimo, sembra, davanti ai
difetti rivelati dalla storia della vita religiosa.
La via maestra è quella che ci fa prendere il secolo, via austera,
talvolta pericolosa, ma tutta orientata verso l’uomo, l’uomo che si
esplora e si conosce, che esplora e conosce il suo universo e si afferma
sempre più decisamente come padrone in sé e attorno a sé.
Ora noi affermiamo che l’uomo religioso non è affatto estraneo
all’uomo semplicemente, e che la fatica per divenire totalmente
umano non è affatto in contraddizione col Vangelo. Se è possibile
rilevare, nel corso della storia della vita religiosa, tracce di sub-umano
e anche d’inumano, sarebbe semplicistico fermarsi a questo; ciò
significherebbe mettersi a livello di una letteratura da edicola di
giornali che contamina più di un cristiano, chierico o laico, ma che è
contraddetta da successi il più spesso nascosti.
Mistero del nostro essere biologico, psicologico, sociale, quale lo
illuminano i ricercatori contemporanei; mistero del Cristo e dell’uomo
nuovo nel Cristo, quale lo rivela il Vangelo: la questione non è di fare
del concordismo fra i due misteri — ogni concordismo è illusorio —,
ma non potremmo restare impenetrabili a certe autentiche
concordanze, o piuttosto convergenze.

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È lo stesso Dio, Padre degli uomini, che, in uno stesso slancio
d’amore, crea l’uomo e lo salva; egli è alla sorgente della vita umana
che irrora di vita nuova per guarirla e schiuderla ad una vita divina.
***
Non sorprende allora la convergenza fra l’uomo in quanto cerca,
con intelligenza e sforzo, di raggiungere la sua piena statura di uomo,
e il figlio di Dio, cui Dio dona la sua piena statura di uomo libero in
Cristo? Fra questa ricerca e questo dono, nessuna antinomia, perché
ogni dono di Dio suscita un compito umano. Dio crea creature
creatrici.
Certo, il Vangelo non è l’annuncio delle nostre moderne scienze
umane; l’uomo guarito dai nostri terapeuti non è evidentemente
l’uomo salvato da Gesù Cristo. Ma salvare non è forse introdurre la
guarigione nell’intimo dell’uomo, là dove marcisce il male-fonte, che
è il peccato, la cui conseguenza sono le deficienze umane? Gesù stesso
ha stabilito un legame molto chiaro fra guarigione e salvezza:
«Affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di salvezza che
è la Pasqua di Cristo — se si vede gratificato della maturità umana che
è il voto profondo della sua natura. Tale « sovrappiù » è legato alla sua
ricerca primordiale e totale del Regno. Il Regno, questa misteriosa
realtà che non è riducibile alla Creazione, ma che la completa nella
linea stessa dei suoi desideri. L’uomo è fatto in modo tale da
raggiungere la felicità solo amando Dio più della sua felicità. L’amore
di Dio non attenua la nostra sete di felicità, bensì la stimola. La nostra
voglia di vivere si radica nel nostro desiderio di colui che è la Vita.
Gettandoci in Lui più intensamente e più completamente, i consigli
evangelici ci fanno affrettare verso la nostra sorgente, la liberano, le
permettono di sgorgare più pura e più forte.
Essi segnano il nostro essere con una rottura, una morte, in quei
campi precisi in cui il vecchio uomo ha la vita più coriacea, dove trova
più facilmente, anche in ciò che è buono, nutrimento.
Ma tale morte è una morte-per-la-vita.

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I voti di religione, risposta ai consigli evangelici, sarebbero solo
un’atroce mutilazione, o una raffinata impostura, se non mirassero a
quella vita che, nel trepido mattino di Pasqua, è sgorgata da un
sepolcro.
«Io sono venuto perché le pecore abbiano la vita e l’abbiano in
abbondanza» (Gv 10, 10). Il senso dei nostri voti è che la vita di Cristo
divenga nostra vita con una ricchezza tale che noi diventiamo il figlio
e la figlia desiderati dal Padre. I nostri voti di religione sono una
risposta ardente al voto del Padre.
II progetto di Dio per l’uomo è un progetto di vita e non di morte,
di gioia (beatitudine) e non sulla terra di rimettere i peccati, levati...
prendi il tuo letto e vattene a casa » (Mt 9, 6).
Primogenito di ogni creatura, novello Adamo, il più bello di tutti
i figli degli uomini salva l’uomo, cioè lo libera dalle forze del male e
della morte, dispiega in lui le risorse inaudite della vita divina, fa
giungere la creazione al di là dei suoi stessi limiti. Il Vangelo non è una
terapeutica, ma ci rivela, superandoli in maniera insperata, il senso
ultimo delle nostre ricerche e dei nostri sforzi per guarire e costruire
l’uomo. Non è tanto naturale all’uomo essere umano. Per esserlo
veramente bisogna essere salvato. Noi siamo di fatto salvati da un Altro
che è insieme più di noi e più per noi di noi stessi: il Dio vivente
incarnato in Gesù Cristo. Di questa salvezza il Vangelo è la Magna
carta.
Mediante una netta distinzione degli ordini (nel senso pascaliano
del termine), dobbiamo aspettarci di scoprire nel Vangelo una risposta
al desiderio di accedere alla nostra piena maturità umana; risposta che
è insieme al di là e nell’intimo dell’umano, come Gesù Cristo stesso.
Cosicché, finalmente, l’asperità del Vangelo, il taglio netto delle
beatitudini nascondano ed esprimano ciò che è più decisivo, più
divino, più umano dell’uomo.

Il religioso (nel senso stretto del termine: colui che vive il suo

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Battesimo in un regime stabile, preciso, visibile, garantito dalla Chiesa,
che definisce lo stato religioso) intende, per vocazione, vivere il
Vangelo nella sua «asperità», stare sotto la lama delle beatitudini. Non
sorprende allora — nella misura in cui egli cerca di vivere in pieno il
grande atto di tristezza. Dio che ama l’uomo non si rassegna a vedere
l’uomo sofferente perché privato della sua amicizia. Questa amicizia
schernita gl’ispira l’idea di una nuova Alleanza. Il Verbo s’incarna per
portarci questo nuovo amore. Egli è l’Uomo nuovo. Egli viene, non
esattamente per morire, ma per farci rivivere («Per noi uomini, e per
la nostra salvezza...»). Questa è la Buona Novella, il Vangelo che deve
dare il senso ad ogni vita umana, a ogni vita religiosa. Il cristiano — a
maggior ragione il religioso — è posto sotto il regime della
realizzazione della promessa, della piena maturità umana secondo
Gesù Cristo, l’Uomo nuovo.
Ma tale vita, tale maturità è pasquale, cioè generata da una morte.
È un dopo-Venerdì-Santo. San Paolo afferma chiaramente
(particolarmente in Fil 2, 6-12) che Cristo è Signore di gloria perché
Servitore sofferente.
In lui, in noi, la vita deve dominare; egli è il Dio vivente, il Dio dei
viventi e non dei morti, ma questa vita nuova, sboccia da una morte.
Noi siamo talmente fatti per vivere, siamo dei viventi così accaniti che
spesso non ci mostriamo abbastanza esigenti sulla qualità della vita che
ci si offre; tanto peggio se è quella del vecchio uomo! Ebbene no! È di
vita nuova che si tratta, vita dell’essere nuovo che, costantemente,
sullo slancio del suo battesimo, deve fare un cammino pasquale. Per
nascere costantemente a questa vita, bisogna consentire
costantemente a una morte. « Ogni giorno io muoio» (1 Cor 15, 31).

***
I voti di religione, della religione della Nuova Alleanza, sono
altrettante maniere di piantare deliberatamente, nel profondo della
nostra esistenza adulta, la croce del Signore affinché la Resurrezione

10
del Signore comincia totalmente la sua opera.
Per liberare le nostre mani (povertà), per liberare il nostro cuore e
il nostro corpo (castità perfetta), per liberare la nostra stessa libertà
(obbedienza), noi seguiamo quei consigli ispiratici dallo Spirito
attraverso il Vangelo, mettiamo in opera i carismi che essi
costituiscono.
È cosa buona possedere i beni terreni; è meglio in sé, quando lo
spirito ci chiami, liberarsene radicalmente per il Signore affinché ciò
che egli è, Lui, ci colmi e colmi con noi molti altri ancora.
È bene vivere l’amore coniugale e paterno o materno, consacrato
dal matrimonio; è meglio in sé, se si è chiamati dallo Spirito,
rinunciarvi per il Signore, per il Suo amore più abbondante in noi e
attorno a noi.
È bene essere indipendenti e disporre così liberamente di se stessi;
ma è meglio in sé, se chiamati dallo Spirito, rinunciarvi per il Signore,
perché la volontà del Padre si inserisca e si sviluppi pienamente alla
sorgente del nostro agire.
Ed ecco che, nella misura in cui tutti questi sacrifici sono
effettivamente realizzati per l’amore del Dio vivente, tale amore ci
attualizza ovvero ci adatta realmente a noi stessi. Dio non è certo il
tramite della nostra realizzazione, ma è colui senza il quale non
possiamo essere veramente noi stessi. Chi si perde per lui si trova in
Lui in tutta verità e pienezza. fi cammino più breve da noi a noi stessi,
è Dio, il Dio vivente rivelato in Gesù Cristo.
«Chi può capire, capisca», disse Cristo circa la castità perfetta per
il regno (Mt 9, 12). I voti sono compresi nel mistero di Gesù Cristo, e
solo coloro che abitano questo mistero nella sua profondità possono
comprendere il senso di queste morti-per-la-vita.
***
Sarebbe appassionante chiarire, alla luce del Vangelo e della
saggezza cristiana accumulata nei secoli, ciò che pulsa nel nostro essere
profondo e che si chiama bisogno di sicurezza, di unità, di libertà, di

11
creatività, di comunicazione ecc.
Ci contenteremo qui di uno studio sul settore dei consigli
evangelici, cui rispondono i voti di religione: povertà, castità perfetta,
obbedienza.
Li analizzeremo alla loro luce propria, quella della fede, e della
fede messa in opera, che determina precisi comportamenti. I dati delle
scienze umane saranno il più possibile impliciti, contenuti nel
sottosuolo dell’analisi. Così facendo, ogni concordismo sarà evitato.
Allo stesso modo sarà affermata la portata essenzialmente teocentrica,
teologale, dei voti di religione: essi esprimono e alimentano la nostra
fame di Dio.
In tal modo sarà per noi più agevole esaminare, in un ultimo
capitolo, in che cosa questa professione dei consigli evangelici che
favorisce il flusso della nuova vita, possa, malgrado la mediocrità di
tante realizzazioni, aiutare a costruire in noi l’umano, l’umano riuscito
perché «graziato».

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PARTE PRIMA

LA POVERTÀ

Classicamente, il primo consiglio evangelico enunciato è quello di


povertà, mentre storicamente non è stato esso a dare l’impulso alla vita
religiosa. Ma esso corrisponde alla principale beatitudine, quella che
sottintende tutte le altre e che apre il Discorso della montagna. Nel
Vangelo, il povero ha nettamente la priorità.
Procederemo secondo questo ordine:
I. Significato del voto di povertà.
II. Per una reale povertà religiosa.
III. Dalla privazione materiale a tutte le privazioni.

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I. SIGNIFICATO DEL VOTO DI POVERTÀ

1. Nella Scrittura
Vero re del suo popolo, Jahvé è il protettore degli indifesi, dei
miseri1 degli umiliati, dei calpestati, di coloro che non sanno
risollevarsi ed assumere pienamente la loro statura di uomini. I re di
questo mondo, invece, adempiono spesso molto male a questa
funzione di giustizia e di protezione; sono complici dei potenti e dei
ricchi. Anche i re d’Israele, salvo rare eccezioni, non si comportano
meglio. Jahvé, la cui giustizia è tutta amore, si comporta ben
diversamente: egli ha orrore dello spirito di ricchezza che muove
all’orgoglio, al sussiego, all’ingiustizia, all’odio, all’idolatria. Fra lui e
Mammona, c’è incompatibilità. Mammona caccia Dio dal cuore
dell’uomo e lo aliena. Da qui la predilezione di Dio per le vittime di
Mammona, i poveri.
Il popolo eletto è un popolo di poveri, che non ha lo splendore dei
grandi imperi che lo circondano. Se escludiamo qualche raro momento
della sua storia, ben meschina è la figura che esso fa in paragone, per
esempio, dell’Egitto o dell’Assiria.
Ma non è questo ciò che lo caratterizza; ci sono sulla terra popoli
che sono ancora più poveri socialmente, finanziariamente,
militarmente, politicamente, economicamente. Non si tratta di essere
poveri per essere poveri. La povertà, al cospetto di Dio, non è fine a se
stessa. Il vuoto importa poco; quello che conta è ciò che è chiamato a
riempirlo; in questo è il valore della povertà. Presso il popolo eletto,
tale vuoto è riempito da Dio, Israele è pura capacità di Dio. Dio è la

1 È il significato etimologico della radice ebraica ànàh, da cui è derivato anawim, i poveri.
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sua sola sicurezza. Dice il Salmo 20: «Alcuni si appoggiano sui loro
carri, altri sui loro cavalli; noi ci appoggiamo sul nome del Signore ».
Piegato, umiliato, incapace di resistere e tener testa, il povero suscita
in Dio un amore di predilezione. Egli è il mendicante di Dio, è sospeso
a lui, dipende da lui, riceve tutto da lui, trova in lui il senso e l’impulso
della sua esistenza.

Questa povertà non è solo causa, ma effetto: essendo fedele a Dio,


un tale essere — che sia personale o collettivo — deve necessariamente
trovarsi in difficoltà col mondo che lo circonda. Poiché non vorrà mai
sottomettersi alla legge della giungla, dovrà soffrire, sarà calpestato,
perseguitato. Sconforto dell’esodo, dell’esilio, dell’invasione straniera;
è una costante della storia d’Israele e del nuovo Israele, che è la Chiesa.
Guai ad essa se lo dimentica! Dio vuole aperte le nostre! mani; esse
devono essere aperte affinché egli stesso le possa riempire.
Da qui i due elementi della povertà secondo la Scrittura: uno stato
concreto di carenza, d’insicurezza, di dipendenza e una relazione a
Dio. La povertà non è né una pura disposizione interiore, né un puro
stato sociale, ma entrambi, cioè un regime di vita che condiziona una
disponibilità verso il Signore, un’attitudine di animo che si traduce in
un regime di vita.
È un fatto che, nella Scrittura, ogni volta che Dio vuol far dono di
sé a qualcuno, inizia con lo scavare in lui il suo posto. Egli fa il vuoto,
o almeno, fa toccare con mano il vuoto che è in ogni uomo, foss’anche
il più ricolmo.
La parola vuoto è molto più di un’immagine inventata da noi; è
l’immagine utilizzata dallo Spirito Santo stesso in quei famosi versetti
della Epistola ai Filippesi (2, 6-11), in cui S. Paolo ci dice che Cristo si
« svuota ». Egli si svuota, si fa povero. Ed Egli va dritto ai poveri. Da
che cosa si può riconoscere in Lui il Messia promesso dai Profeti?
Essenzialmente dall’annunzio ai poveri di un’inaudita novella: il regno

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di Dio viene2
Indipendenti da Mammona e dai suoi servi, i potenti di questo
mondo, ecco i poveri, unitamente ai bisognosi in tutti i sensi, liberati,
restituiti a questa filiazione divina che dà loro la vera statura d’uomo:
« Risollevatevi, alzate la testa... ». Non che così essi prendono il posto
dei ricchi: restano poveri, ma ormai questa parola assume tutt’altro
significato: ha sapore di beatitudine.
« Beato chi ha il senso del povero » diceva il Salmo 41. Nel Discorso
della Montagna, Magna carta della Nuova Alleanza, Gesù dice: « Beato
colui che è povero in se stesso, fin nel profondo dell’anima; costui ha
nelle sue mani il Regno ». Proprio perché è povero in tutto il suo
essere, egli è ricco di quella immensa ricchezza che è il Regno di Dio.
Egli è liberato dalle ipocrisie dell’avere. Niente in lui contende più il
posto all’amore che ricolma.

Ormai, in regime di Nuova Alleanza e con lo stesso Cristo come


modello e motore, la povertà diventa un mistero, ovvero una presenza
nascosta di Dio, un po’ come l’Eucarestia è la presenza nascosta di
Cristo-viatico, che si fa il compagno della nostra strada, la manna del
nostro esodo. La povertà diventa presenza reale di Cristo sofferente,
umiliato, Dio disarmato, che ha voluto essere povero. Il Cristo della
Settimana Santa, della Pasqua, rivive nei poveri.

Questo movimento pasquale che si é impresso in noi il giorno del


nostro battesimo e che si precisa in noi attraverso la professione
religiosa, dovrà rivestire lo stile della povertà, perché la povertà è lo
stile di Gesù Cristo umiliato e resuscitato.

2. Nell’uomo da salvare
La povertà non è di per sé normale per l’uomo. Quando Dio crea

2 Cfr. soprattutto Le 4, 16; 7, 22; Mt 11, 4-5.


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l’uomo, ne fa un ricco. Nel Genesi vediamo che Dio riempie a
profusione le mani di Adamo, ne fa il padrone della terra. L’uomo è ad
immagine di Dio. Ma in Dio la ricchezza è pienezza, armonia perfetta,
presenza totale a se stesso. Possiamo dire che Dio non « ha » ma « è »,
non è distinto dalla sua ricchezza. Certo, la sua creazione porta ad un
termine che è altro da lui, ma essa è in lui ed egli non deve uscire da
se stesso per incontrarla, perché egli contiene tutto.
Al contrario, per l’uomo, possedere significa essere distinto da ciò
che ha. A causa del peccato originale, tale dualismo si muta
spontaneamente in opposizione. Possedere vuol dire essere diviso
contro se stesso, vuol dire subire una specie di alienazione molto
pericolosa. « I nostri averi ci divorano ». Perché? Perché se è vero che
Dio fa dell’uomo un ricco, è anche vero che il peccato sopravviene
facendo dell’uomo un cattivo ricco. Perciò è difficile per l’uomo
possedere senza possedere contro Dio. Ciò dipende non tanto dalla sua
condizione di creatura, quanto soprattutto dal fatto che è peccatore.
Fin dall’origine l’uomo ha imparato a richiudere le mani sui doni di
Dio, a pretendere di farsene Punico proprietario, e quindi a trascurare
la sola ricchezza che veramente ricolma; la vita nuova in Gesù Cristo
risuscitato. Questo gesto da avaro gli è divenuto connaturale.
Ormai, per possedere, senza possedere contro Dio e contro noi
stessi, sarà necessario, ci dice Cristo, una specie di miracolo, una cosa
prodigiosa da parte di Dio, simile a quegli che insisterebbe nel far
passare un cammello per la cruna di un ago. Da qui, per arrivare a
conservare o piuttosto a conquistare questa attitudine di pura
disponibilità, la necessità di liberarsi, di imparare il gesto della
spossessione. « Lui, di condizione divina, non è stato geloso del suo
stato di divinità...» dice Paolo ai Filippesi (2, 6).
Allora, un po’ come Dio, l’uomo potrà essere, senza possedere in
modo proprietario. Nelle sue mani che non si chiuderanno su niente,
potrà ricevere il Regno. Infatti noi siamo chiamati alla ricchezza, non
alla povertà; non alla morte, ma alla vita, alla vita di Dio stesso. « Non

27
bisogna attendere da Dio meno di lui stesso» (S. Tommaso d’Aquino).
Noi abbiamo sempre la tendenza a possedere meno di Dio, ad
arrestarci, a chiuderci in ricchezze che non sono Dio stesso, donato
agli uomini in Gesù Cristo. Chiusi al divino, restiamo sub-umani.
Tutto sarebbe perduto se considerassimo questa irruzione in noi
della nuova ricchezza come un bene dello stesso tipo dei nostri beni di
uomo vecchio. L’operazione-voto di povertà sarebbe allora del tipo
finanziario più sordido. Si tratterebbe di una tattica quale ci potrebbe
suggerire una lettura troppo piatta del Vangelo, quando ci parla, per
esempio, del mercante che vende tutti i suoi averi per comprare il
campo in cui si nasconde la perla di gran valore.
La nuova vita che sgorga dal sepolcro non è la vita precedente la
morte. Gesù risuscitato è certo lo stesso che prima del supplizio, ma lo
stesso in altro modo. (Notare quanto, nelle narrazioni evangeliche
dopo la risurrezione, Cristo ha cura di mostrare ai suoi apostoli l’una e
l’altra verità). Risuscitare non è riprendere la vita di prima, è passare a
una vita diversa, meravigliosamente diversa.
Possedere il Regno non vuol dire recuperare, foss’anche al
centuplo, tutti gli averi di prima, vuol dire possedere in tutt’altra
maniera, misteriosa ma reale. Si tratta della vita nuova stessa sotto il
preciso aspetto dell’avere. Questo nuovo avere non fa di noi dei nuovi
ricchi, cosa che ci lascerebbe al livello di cattivi ricchi. No. « Avere
nelle mani il Regno », « possedere la terra », ci lascia immensamente
poveri, ma è allora che questa povertà prende il sapore di beatitudine.
« Tutto è nostro », « possediamo tutto » nella misura in cui siamo tutti
in Cristo. Le nostre mani restano aperte nella duplice ed unica
attitudine della mendicità e del dono, della miseria e dell’abbondanza,
della dipendenza e della libertà. In tal modo si comprende quanto il
voto di povertà non appartenga alla semplice cura di perfezione
personale: ad esso è infatti legata tutta la vita sociale, apostolica,
missionaria. Per dare a profusione a tutti quelli che incontriamo, è
necessario che le nostre mani non trattengano nulla, che il dono di Dio

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passi integro, senza che ne sottraiamo nulla.
Dunque non solo per noi, ma per quelli che sono sulla nostra stessa
strada, Dio si adopera nello svuotarci, nell’impoverirci; non per il
piacere di ridurci sulla paglia, ma per ricolmarci e ricolmare gli altri
con noi, perché egli vuole essere nostro e degli altri con noi.
La disgrazia è che noi abbiamo paura di questo vuoto, di questa
assenza, di questo distacco che si crea fra ciò che si lascia e ciò che
ancora non si ha. E poi, bisogna dirlo: Dio colma il vuoto che crea, ma
non proprio al livello di ciò che ci viene tolto. Noi lasciamo beni
consistenti, saporosi; in cambio riceviamo questo Dio senza sapore,
che è spirito, invisibile, inassaporabile, salvo rari casi, e attraverso la
frangia del suo mistero. Da qui l’impressione di essere defraudati; da
qui il timore di mancare di qualcosa, il panico di fronte all’insicurezza,
il rifiuto di quello che noi chiamiamo vuoto e che è ricettacolo di Dio.
Poiché la povertà è semplicemente lo scrigno della perla preziosa per
la quale abbiamo venduto tutto.
Se è vero che la perla preziosa non brilla di tutta la sua luce ai
nostri occhi, è anche vero che essa è reale. Il Dio vivente, dato a noi in
Gesù Cristo risuscitato è abbastanza reale per divenire questo Bene
unico che ci fa essere pienamente, con gli altri e per gli altri.

3. « Lascia... »
Questo è cominciato molto presto: fin dal capitolo 12 del Genesi,
vediamo Dio che si rivolge ad Abramo e lo esorta alla povertà: « lascia...
lascia il tuo paese ». Questa parola è destinata a scandire nella storia
(fino alla storia dei nostri giorni, fino ai cieli nuovi e alla terra nuova),
tutte le grandi partenze verso Dio, tutti i grandi interventi di Dio che
ci arricchiscono della vita nuova.
« Lascia », è la parola dell’esilio, che spoglia il popolo d’Israele, è la
parola che Gesù rivolge al giovane ricco, è la parola che gli apostoli
hanno udito e alla quale hanno obbedito. « Essi, abbandonate le reti,
lo seguirono », è la parola che noi stessi abbiamo udito e che ci ha posti

27
nella situazione in cui ora ci troviamo. Noi abbiamo « lasciato » per il
Regno. E la comunità è là, che incalza, che ci strappa ai nostri averi
che ci spinge a non poter dire più di niente: « è mio ». Non c’è povertà
senza comunità che ci obbliga a mettere costantemente in opera il «
lascia » alla partenza. Durante tutto l’arco della nostra esistenza,
sempre più profondamente, è necessario schiudere le mani,
disimparare il possesso, sgombrare il nostro cuore, affinché, dalla vigna
ai tralci, la linfa possa scorrere liberamente.
Chi si assoggetta a questo instancabile « lascia », si trova spinto
verso la folla di quei poveri che occupano un gran posto nel cuore di
Dio. Non c’è povertà senza i poveri. Essi sono l’Epifania del suo amore,
ad un punto tale che Cristo si identifica realmente con essi. « È a me
che voi l’avete fatto...», perché nel vuoto della nostra povertà Dio non
viene solo. Egli arriva in compagnia dei suoi inseparabili amici. Dio e
il povero: perché abbiamo di questi due intrusi un’uguale paura, se non
perché sono solidali l’uno con l’altro, confusi l’uno e l’altro,
imponendoci entrambi la stessa tranquilla esigenza di spogliamente e
rinnovamento?
Divenendo nostra ricchezza, Cristo ci fa comprendere la ricchezza
dei poveri, il loro inestimabile valore. Fin che non si è « lasciato » al
punto di trovare la propria gioia nel fraternizzare con loro, nel
frequentare « chi è perdute » (Le 19, 10), la povertà di Gesù non è in
noi e così nemmeno la sua ricchezza. Ecco infine chi dissipa del tutto
ogni errore sulla portata della parola « spirituale » unita alla parola
povertà. Nel Vangelo, i poveri sono enunciati da Cristo unitamente ai
carcerati, ai ciechi e agli oppressi3, agli infermi e ai malati 4, agli afflitti
e agli affamati5. A questa lista andrebbero senz’altro aggiunti i
peccatori. La povertà spirituale è la povertà secondo lo Spirito di Gesù,
e lo Spirito ha spinto Gesù a prender volto nei più bisognosi.
Finalmente tra tutto ciò che si deve « lasciare » non ci sarebbe forse

3 Le 4, 16 sg.
4 Mt 11, 4-5; Le 7, 22.
5 Mt 5, 3-6; Le 6, 20-21.

28
il nostro stesso modo di concepire e di raggiungere Gesù Cristo?
Proprio perché non raggiunge in maniera sufficientemente netta
la povertà dei poveri, la vita religiosa svolge così male, in questo
campo, il suo compito di segno della Realtà ultima. « Passa infatti la
figura di questo mondo » (1 Cor 7, 31). Tenersi lontani dagli averi,
lasciare personalmente e collettivamente ciò che così febbrilmente è
ricercato dagli uomini, non puntare su questi beni che mobilitano ciò
che di più chiaro c’è nelle energie umane, frequentare i poveri, è
andare contro corrente, è affermare che è molto vicino questo Regno,
le cui ricchezze sono ricchezze spartite. La comunità dei beni materiali
e spirituali è una parabola del Regno agli occhi della maggior parte
degli uomini che, insensibili ai valori del Regno, sono invece molto
sensibili al denaro e a tutto ciò che è oggetto di possesso, e perché tale
segno sia dato in maniera collettiva, si renderanno necessarie esigenti
condizioni.

29
II PER UNA REALE POVERTÀ RELIGIOSA

Lo sforzo d’impoverimento verte principalmente sui nostri averi


materiali. Questo è l’oggetto immediato del voto di povertà.
In virtù del suo proprio movimento, questo voto avvia così in noi
un gesto di spossessione che si prolungherà fino al fondo dell’anima,
perché l’uomo è uno. I gesti che egli compie al livello della materia
abbozzano e preparano i gesti che dovrà compiere al livello dello
spirito. Ci sarà più facile essere poveri secondo lo spirito se siamo
poveri materialmente, evitare l’egoismo spirituale se siamo fedeli
nell’evitare l’avarizia materiale, aver un’anima di povero se
concretamente viviamo una vita da povero.
Si ha così una conoscenza assai vera, assai fine della psicologia
umana, della realtà del composto umano.
Ciò significa che il « secondo lo spirito » del Vangelo, nella
beatitudine annunciata da San Matteo, non è un addolcimento, una
messa a punto rassicurante di ciò che potrebbe minacciare il senso
della parola povero.
Noi religiosi non possiamo essere poveri secondo lo spirito se non
rassomigliamo a colui che non ebbe dove poggiare la testa e che fu un
povero semplicemente. Noi meritiamo un tale titolo di nobiltà dalla
povertà solo se traduce una parentela autentica con il Povero e i poveri
semplicemente. La povertà evangelica non è esattamente la povertà
proletaria, ma se niente della povertà proletaria figura nella nostra
vita, il nostro primo voto è un’impostura.
Con l’indigenza sociale devono esserci differenze certe, ma
soprattutto autentiche somiglianze.

44
Affinché somiglianza vi sia, la nostra vita materiale deve
comportare le tre note che caratterizzano ogni povertà, e cioè: la
mancanza, « essere povero, è essere felice di mancare di qualcosa »; la
dipendenza: il povero è perennemente soggetto alle persone, alle
strutture, agli eventi; l’insicurezza: la dipendenza mette il povero in
balìa di un colpo di Borsa, di una disoccupazione, di una riconversione
economica mal preparata...
Tutte queste cose pongono molti problemi, e, per quanto gravi e
complessi, non è in nostro diritto aggirarli. Non giustifichiamoci con
l’alibi della complessità. Non vediamo in questi problemi una moda
che dipenderebbe soltanto dall’attuale febbre di problematizzazione.
No, la povertà è un campo in cui la pesantezza dell’istituzione viene
ben presto a frenare lo slancio dell’ispirazione 6.
In diritto, il voto di povertà è una rottura, una morte. Sì, ma — e
lo ripeteremo a proposito di ognuno degli altri due voti — è, di fatto,
una morte autentica? Se sì, sfocia nella vita, se no, è un ostacolo alla
vita.

1. Un principio generale

Il principio generale che attualmente si impone, sembra essere


questo: semplicemente, riavvicinarci alla povertà.
L’essere povero è, per forza di cose, legato al livello di vita del
paese in cui ci troviamo, al servizio professionale che compiamo... Si
dice: castità perfetta, ma non si dice, né si può dire: povertà perfetta;
ci troviamo a questo proposito nel campo del relativo, del variabile.
Inoltre, i bisogni materiali di un gruppo che conduce vita comune, non
sono la semplice addizione di quelli dei suoi membri. Vi si aggiunge
un certo numero d’imperativi materiali che dipendono
dall'organizzazione del collettivo: locali, servizi, per non parlare di

6 II decreto conciliare sull’adattamento e il rinnovamento della vita religiosa chiede non solo di
«accuratamente coltivare» la povertà, ma «all’occorrenza di esprimerla sotto forme nuove» (n. 13).

45
tutto ciò che esige un certo servizio professionale assicurato dalla
comunità e che può talvolta essere assai oneroso.
È vero, la povertà religiosa non è la povertà in assoluto. Ma
valutiamo tutto il rischio di menzogna nascosto sotto questa verità.
In concreto, povertà religiosa può venire a significare avarizia,
ricchezza collettiva, sicurezza materiale ad oltranza, ignoranza dei
poveri, ingiustizia sociale, frequentazione preferenziale ed interessata
degli ambienti ricchi, sfrontato sfruttamento della generosità dei
benefattori, mentalità da mantenuti... altrettante false morti che non
possono altro che inaridire la vita nuova promessa a chi, realmente, ha
lasciato tutto.
Chi di noi religiosi non si sente, personalmente e collettivamente
toccato più o meno da queste caricature? La vita religiosa è, in genere,
troppo ispirata dalle nostre piccole prudenze. Vi si sente troppo il «
che mangeremo? di cosa ci vestiremo? », cui Cristo ha risposto con
l’esempio degli uccelli del cielo e dei gigli dei campi.
Da qui provengono due reazioni in senso inverso:
a) L’esigenza rude e semplicistica, il pregiudizio che condanna.
Per esempio: l’impresa privata, sistematicamente considerata da alcuni
come ispirata dal solo desiderio di lucro. Quante imprese private
tenute da religiosi, religiose o laici, in Francia, per le quali è ingiusta
una tale accusa! Che siano integrate, di fatto, in un sistema che dipende
da una economia di profitto, sì, purtroppo! Ma è forse questa una
ragione per negare la preoccupazione di servizio e l’efficacia umana,
evangelica, della maggior parte di queste imprese? Il problema delle
comunità inserite in un sistema capitalista si pone, certo, ma non si
risolve a colpi di anatemi.
b) L’addolcimento che cerca di giustificare l’ingiustificabile e che
finisce per benedire il « disordine stabilito ». Ad esempio: i locali
troppo vasti, di costosa manutenzione, custoditi da comunità ristrette
con la scusa che sono stati donati o acquistati in un’epoca in cui,
crediamo, la povertà non costituiva un sì gran problema.

46
La comunità religiosa vive là nelle catene, argentate o no, del
feudalesimo che ha fatto, e fa ancora, tanto male alla Chiesa. Senza
ingiusta violenza, senza aggressività verso quei benefattori che erano
senza dubbio animati dalle migliori intenzioni, cerchiamo allora di far
comprendere, con armi di luce e di amore, cosa esige una vita religiosa
trasparente a Gesù Cristo. Qualcuno capirà: tanto meglio; qualcun
altro no: tanto peggio.
Passiamo oltre e, con la ferma dolcezza dei «violenti per il Regno
» (come dovrebbero essere tutti i religiosi), cambiamo ambiente. La
vera prudenza non è quella secondo la carne, ma secondo lo Spirito. In
verità tutto ciò può sembrare contradditorio, è vero, specie se si pensa
che la povertà, per quanto esigente, non può trascurare altre esigenze,
altrettanto imperiose, benché meno riconosciute ai nostri giorni: la
preghiera, lo studio, la riflessione personale, ad esempio.
L’avvicinamento alla povertà autentica è inevitabilmente, per noi
religiosi nella attuale situazione, brancolante; deve però essere
coraggioso.
Non illudiamoci; mai questo avvicinamento potrà portare ad una
perfetta coincidenza, ad esempio, in ciò che riguarda l’insicurezza. Il
religioso non ha famiglia e la famiglia rende molto grave, per i laici, la
minaccia d’insicurezza; egli ha una famiglia religiosa che, anche se
assai povera, alleggerisce molto una tale minaccia. Non esiste miseria
che non trovi nella solidarietà di una comunità un rimedio efficace;
ma è una ragione di più perché, a parte questo punto, noi ricerchiamo
su altri, con ostinazione, come essere effettivamente poveri.
Questa povertà effettiva presenta alcune istanze essenziali.

2. Organizzare, se possibile, comunità poco numerose

La povertà religiosa è vissuta in comune. In questo caso uno dei


più temibili ostacoli è il numero. Una comunità numerosa richiede un
quadro ampio, un forte giro di denaro, un livello di vita che tende

47
continuamente ad elevarsi, per la buona ragione che i bisogni di un
gruppo tendono inesorabilmente ad allinearsi sulle necessità dei più
bisognosi o dei più « arrivati » dei suoi membri.
Una comunità numerosa favorisce anche una mentalità di
formicaio. Ogni membro, specie fra le donne, rischia di divenire la
formica preoccupata di trascinare al mucchio comune il minuscolo filo
di paglia. Le cicale sono molto mal viste. Posate il piede su di un
formicaio: eccolo distrutto fra il terrore delle formiche. Tornate dopo
qualche ora: tutto è ricostruito. Così le varie spoliazioni subite dalle
nostre comunità da oltre duecento anni non hanno impedito, salvo
eccezioni, il recupero di numerose sicurezze materiali. In ogni
religioso c’è spesso qualcosa della formica, più o meno laboriosa, più o
meno indaffarata, che non possiede nulla, che può anche ammazzarsi
di lavoro, ma che traspone sul piano collettivo l’istinto di
tesaurizzazione, che rifiuta di soddisfare sul piano personale.
Questo nel migliore dei casi; quello in cui ogni membro abbia il
senso del bene comune. Non parliamo di quelle maniere, grossolane o
sottili, d’isolarsi, di installarsi tra le proprie cose e di condurre, in
comunità, vita privata.
Questi rischi, e molti altri ancora, spiegano la odierna
organizzazione di comunità poco numerose. Certo non sempre è
possibile, ma là dove è possibile, la povertà religiosa può meglio
avvicinarsi alla povertà in assoluto. Fra le due, ci sono — l’abbiamo
detto — tre note essenziali: mancanza, dipendenza, insicurezza, che
divengono allora più facilmente realizzabili, e la comunità dei beni
rischia un po’ meno di essere una maniera indiretta di restituire
all’individuo la sicurezza fattagli eliminare dal voto.
Là dove è in causa un importante servizio professionale (collegi,
ospedali, cliniche, case di assistenza degli abbandonati: vecchi,
fanciulli disadattati ecc.), queste grandi componenti della povertà sono
più difficili da conservare, perché la comunità beneficia forzatamente
dei vantaggi materiali resi necessari dal servizio. Può esserci
incompatibilità fra tali impegni professionali e la povertà religiosa? La

48
domanda non si può eludere, specie quando si pensi — l’abbiamo visto
— come tali comunità siano così prese nella stretta rete di
un’economia capitalistica in cui il profitto è lo scopo principale.
L’evoluzione economica e politica delle prossime decadi (in ciò che
riguarda le relazioni del settore pubblico e privato, fra l’altro)
permetterà senza dubbio di chiarificare questo problema e dargli
migliore risposta. Nell’attesa, come negare i servizi, spesso nascosti,
che tali comunità rendono alla città degli uomini e al Popolo di Dio? I
loro membri più coscienti sono, ai nostri giorni messi alla frusta. Essi
dipendono, forse più che altri, da quello che più oltre chiameremo
grazia d’imperfezione e da quella radicale povertà che ci fa umilmente,
serenamente, mantenere nell’insostenibile 7.
Niente è facile. Ogni religioso per suo conto, e tutti i religiosi
insieme, hanno il dovere di essere vigilanti (non ansiosi né
ossessionati). Nell’ambito della vita religiosa, la povertà è
un’invenzione, una mobilitazione incessante della nostra lucidità e
generosità, prova che i voti di religione, lungi dal rinchiuderci
nell’immobilità del « tutto è fatto », ci stimolano invece ad una
continua ricerca.

3. Frequentare con gioia i poveri


Il Vangelo non fa della povertà un esercizio da camera, ma ci
spinge a raggiungere con sempre maggiore verità coloro che sono privi
di salute, di bellezza, di talento, d’intelligenza, di virtù, di stima, con
la fretta che metteremmo per raggiungere la persona stessa di Gesù
Cristo. Essere povero secondo il Vangelo vuol dire frequentare con
gioia i poveri. Senza di loro la povertà religiosa resterebbe pura
astrazione o velleità. Ora, anche se la nostra abituale attività ci spinge
verso di loro, la cosa non va da sé.

7 Si devono trovare delle soluzioni, per esempio, contatto reale e divisione delle responsabilità...
fra i membri della comunità e i più umili fra i laici impiegati nella casa. Costoro non saprebbero di
essere al servizio dei religiosi o delle religiose. Tutti, laici e religiosi, sono al servizio delle persone per
le quali la casa è stata istituita.

49
Per rendercene conto, proviamo a chiederci se, di fronte ad un
povero e di fronte ad un ricco, noi usiamo ugual delicatezza e uguale
premura. Non c’è forse in noi un modo di comportarci con l’uno, non
riscontrabile con l’altro? Se il consiglio evangelico ci impregnasse
veramente di spirito evangelico, sarebbe la stessa cosa?
Molti nostri comportamenti e perfino il nostro vocabolario sono
da rivedere alla luce delle beatitudini.
Un elemento che deve contribuire a rettificare le cose è il lavoro
professionale. Non l’opera di beneficenza, ma il lavoro in tutto simile
a quello dei laici, che ci pone al loro stesso livello, a parità di esigenze,
di competenza, di rischio.
Ci sarà sempre, l’abbiamo detto, una differenza tra i laici e noi in
questo campo, specie riguardo all’insicurezza del morto di fame. Ma è
necessario che questa differenza di cui soffriamo, dipenda dalla
specificità del nostro posto nella Chiesa e nel mondo, e non dalla
nostra pigrizia, dalla nostra paura, o dal nostro fariseismo.
Facciamo un passo avanti: ad un buon numero di religiosi si pone
il problema del lavoro salariato fra i più poveri. Diciamo che non è la
sola forma di lavoro salariato; si può, per esempio, collaborare alla
ricerca scientifica. Ma limitiamoci a quel lavoro che ci mette a stretto
contatto con i più sforniti. Anche in questo caso l’evoluzione
economica e politica ci aiuterà, nei prossimi anni, a vedere più chiaro
e ad agire più decisamente. Diciamo, per il momento, che:
a) la maggior parte dei religiosi e delle religiose non sono pronti,
né moralmente, né fisicamente, a questo lavoro. Coloro che vi si
getterebbero con maggior ardore non sono sempre i più adatti.
Accanto a quelli per i quali questo desiderio segna un autentico
progresso, uno sviluppo nuovo della prima grazia della loro vocazione,
ci sono quelli per i quali si tratta di un’evasione, di una fuga, a base di
risentimento e di squilibrio. Si pone anche il problema del lavoro a
tempo pieno o a metà tempo, continuo o stagionale...
b) Si può essere un religioso molto povero e molto missionario

50
senza essere un lavoratore salariato. Guardiamoci anche, a questo
proposito, dall’immagine popolare, dal ritratto-robot; ricordiamoci ciò
che Paolo scrive ai Romani (cap. 14) a proposito dei « deboli » e dei «
forti » e per sfuggire ad un aristocratismo del religioso, non cadiamo
nell’aristocratismo del lavoratore. Là come altrove, ammettiamo con
gioia la diversità dei carismi personali. E soprattutto distruggiamo
l’illusione comune a certi conventi: guadagnarsi la vita con un lavoro
salariato non sarebbe necessariamente sinonimo di « essere povero ».
Molte comunità non hanno mai avuto tante risorse come da quando
sono entrate, almeno per mezzo di certi loro membri, nei circuiti
normali del denaro. I rimborsi della Sicurezza sociale, le mensilità
legate ai contratti scolastici, hanno nettamente elevato, in più di un
caso, il tenore di vita, facendo gli stipendi irruzione in quei gruppi di
uomini o donne celibatari, spontaneamente economi, in genere dai
bisogni più limitati di quelli della maggioranza degli uomini. Ciò non
condanna il lavoro salariato, ma deve impedire di gettarvisi con una
foga ed un candore che condurrebbero all’opposto di ciò che si cerca...
c) Il lavoro che ci inserisce negli organismi ufficiali rischia di
allontanarci da quelli che sfuggono a questi organismi, e che spesso
sono i più poveri.
La nostra civilizzazione, a misura che si arricchisce e si organizza,
rigetta una schiuma di poveri che non risultano dalle schede perforate.
La socializzazione si accompagna spesso, senza che nessuno se ne curi,
a crudeli omissioni. C’è un abisso sempre maggiore fra proletariato
organizzato o in vista di organizzazione, e sotto-proletariato. Un certo
religioso, una certa religiosa si trova talvolta, a causa del suo accesso
ad un’attività professionale organizzata, nell’impossibilità di
proseguire il suo compito accanto ai più trascurati. Fortunatamente...
d) ... l’unità di misura, nell’azione, e specie nell’azione
missionaria, non è l’individuo, bensì la comunità. Comunità di
persone, certo, ma di cui ciascuna non deve esprimere la totalità
dell’azione del gruppo, ancor meno della Chiesa. In altre parole, se
avviene che, in una comunità, un tale o un tal altro svolge un lavoro

51
salariato molto umile e duro (come per esempio in officina), ciò non
significa che tutti i membri della comunità, per essere missionari,
devono farlo. Al contrario, quelli che lavorano così, avranno gran
bisogno che altri non lavorino e viceversa. In tal modo sarà più
completamente espressa l’immagine della Chiesa che una comunità
religiosa deve esprimere 8.
e) Questo lavoro salariato deve sempre essere conforme agli scopi
missionari concreti che riguardano insieme la famiglia religiosa e la
Chiesa locale dove la comunità è impiantata. Laddove questo lavoro
sia fatto, deve costantemente essere sottoposto al vaglio critico di
domande come le seguenti: in che cosa è conforme al ruolo preciso che
deve svolgere l’insieme della nostra famiglia religiosa nel Popolo di
Dio? In cosa anche è legato allo sforzo apostolico totale dei laici, dei
preti del luogo, che dovranno garantirlo? Come abbiamo detto, non
l’individuo, ma la comunità è l’unità di misura del lavoro apostolico.
La comunità però non è sufficiente a se stessa. Il luogo di ogni azione
per il Regno è in definitiva il corpo ecclesiale con il ventaglio dei suoi
carismi.
Su tutti questi punti, numerose sono le esigenze di qualità umana
e religiosa, di preparazione, d’inserimento in un insieme tonico ed
equilibrante. Guardiamoci dalle improvvisazioni febbrili e dalle
evasioni più o meno camuffate, dove nessuno, alla fine, trova il proprio
tornaconto: né la missione, né il religioso o la religiosa, né la sua
comunità. Questo poverissimo lavoro non è una panacea; al suo posto,
affrontato senza febbre e senza paure, ben dosato secondo le persone
e secondo le comunità, può e deve essere, negli anni a venire, uno degli
elementi che in egual modo gioveranno sia al rinnovamento della
nostra povertà religiosa, sia all’avanzata della missione.
Malgrado le questioni e le tensioni che ne risultano nelle persone
e nella comunità, noi non possiamo non udire l’appello che il mondo
dei poveri ci lancia: esso non vuole essere sovrastato da noi, ma vuole

8 Queste riflessioni vanno estese alla comunità-congregazione.

52
vederci immersi in lui e pienamente coscienti di ciò che noi siamo nel
mondo e nella Chiesa.

4. Ricollegare più nettamente la nostra povertà religiosa alla nostra


responsabilità apostolica
Il Vangelo è la norma profonda cui dobbiamo più nettamente
ricollegarci. Ora, il Vangelo ci mostra la povertà non solo come
liberazione personale per il Regno: « Va... vendi ciò che hai... seguimi...
avrai un tesoro in cielo... », ma anche come una liberazione perché gli
altri possano vedere il Regno: « Non vi procurate oro, né argento, né
rame per le vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né
sandali, né bastone; perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento » (Mt
10, 9-10), dice il Signore inviando i Dodici in missione. La povertà è
uno degli elementi essenziali del segno che deve avere la procedura
apostolica. Essa deve costituire segno, deve designare colui « che non
aveva dove posare la testa ».
Il discepolo non è più grande del suo Maestro. La sua
testimonianza deve essere conforme a quella di Gesù, il « testimonio
fedele » (Ap 1, 5).
Questa esigenza nei nostri riguardi è una delle più vigorosamente
espresse dai nostri contemporanei, cristiani e non cristiani. Non si
tratta di una novità, ma di un risalto nuovo dato ad una verità di
sempre: la ricchezza è opaca, essa crea nell’uomo uno spessore che
ostacola la luce. Per esprimerci il Padre, il Figlio si è fatto povero. Non
era una tattica, ma l’espressione fedele e vera del mistero dell’Amore
che Dio è e che ci porta: « Filippo, chi mi ha visto, ha visto il Padre »
(Gv 14, 9). Ciò che rende meglio l’idea del mistero rivelato da lui, è il
pizzico di lievito, la piccola semente, il fanciullo...
L’amore cerca lo stesso livello, la somiglianza, la comunione; più è
vero, più è disarmato, spogliato, umile, discreto, silenzioso. Per
esprimere l’Amore del Padre, noi non possiamo che essere poveri, di
quella povertà che, in tutto simile a quella di Gesù Cristo, lascerà

53
trasparire Gesù Cristo. Il grande problema della Chiesa non è forse di
essere conforme al suo Signore?
I vari aspetti dell’impoverimento che abbiamo sopra esaminato,
sono strettamente connessi a questo segno, cioè a questa realtà
sensibile della povertà materiale che dobbiamo innalzare nel cuore
della Chiesa, fra gli uomini d’oggi. La nostra povertà dice Dio, la nostra
ricchezza lo contraddice.
Insomma bisogna essere e sembrare poveri. Tutt’e due le cose.
Esserlo senza sembrare, significherebbe mettere la fiaccola sotto il
moggio, rifiutare di adempiere il compito di segno che è legato, nella
Chiesa itinerante, a tutte le forme di vita battesimale, anche le più
nascoste, come la forma contemplativa. La vita religiosa è un carisma-
segno. In una Chiesa che è tutta Sacramento, nessuno è dispensato
dall’essere segno, dal designare al suo posto e a suo modo, Gesù Cristo
stesso, quale Egli è. In una Chiesa che è tutta Missione, Invio, ognuno
deve vegliare « affinché il mondo veda e creda ». Non c’è in questo
nulla di facoltativo, nulla che sia una specialità riservata ad alcuni, per
esempio alle congregazioni moderne.
Sembrare senza essere, sarebbe ancora peggio, e il vocabolario
corrente non manca di termini per definire un tale atteggiamento che,
di fatto, si attribuisce spesso alla Chiesa: ipocrisia, tartufismo,
menzogna ecc. Pregiudizio talvolta da parte di quelli che si indignano?
Non c’è fumo senza fuoco.
La nostra responsabilità, nel nostro lavoro apostolico ci obbliga a
vegliare alle due esigenze simultanee Qualche suggerimento a questo
proposito:
a) assicurare quanto più possibile la leggibilità delle nostre risorse.
Non sempre è possibile; ma dobbiamo tendere a ciò, specie in quelle
comunità, di cui abbiamo prima parlato, poco numerose e assai
radicate in un ambiente umano. Sarebbe necessario che gli uomini
potessero non sospettarci di essere riforniti da potenze occulte,
inconfessate. Sarebbe necessario che potessero fare essi stessi,

54
mentalmente, la somma delle nostre risorse e spiegarsi così il nostro
bilancio. Non che noi dobbiamo ostentarlo ai loro occhi, cosa che
sembrerebbe apologia o esibizione; ma non dimentichiamo l’esempio
di Paolo, preoccupato di giustificare il pane che mangiava (2 Tess 3, 7-
10).
È in questo caso evidentemente che il lavoro salariato, che ci mette
in prossimità e in comunione con i lavoratori, può essere un elemento
decisivo.
b) Dare instancabilmente la prova del nostro disinteresse. Noi
abbiamo ricevuto gratuitamente, non dimentichiamo, malgrado
l’assillo delle fatture, di dare gratuitamente, ogni volta che possiamo.
In un mondo posto sotto il segno di Mammona, in una società che
dipende, purtroppo, da una economia di profitto, il segno apostolico
che deve essere dato da parte della nostra povertà, è quello del
disinteresse. Non c’è peggior opacità di quella del miraggio di
guadagno da parte di chi ha fatto voto di povertà.
c) In un mondo posto sotto il segno dell’accaparramento, il segno
apostolico da dare da parte della nostra povertà è quello della
ripartizione. Non solo della ripartizione interna al gruppo (potrebbe
non liberarci dall’avarizia collettiva e favorirla perfino), ma della
ripartizione con altri, all’esterno. Non solo con altre comunità
religiose, o con altri ben pensanti, ma anche con altri lontani, stranieri,
ostili, quelli di cui parla la parabola degli invitati alle nozze (Le 14, 15-
24). Una comunità religiosa non deve riservare la sua generosità a
quelli che presentano l’etichetta cattolica.
Così la nostra povertà avrà possibilità di prendere tutta l’ampiezza
della procedura apostolica, missionaria.

55
III. DALLA RINUNZIA MATERIALE A TUTTE LE
RINUNZIE

1. Dal personaggio alla personalità


La povertà che si impone in tal modo al livello materiale, richiede
di instaurarsi su tutti i piani della nostra vita. È necessario che, nel
corso di tutto il nostro essere, il possessivo sparisca. Si dirà: « I doni di
Dio sono senza pentimento. Ciò che Dio mi dà non posso buttarlo via
». È vero; dobbiamo vivere la nostra parabola dei talenti. Ma come
viverla? Aprendo le mani non per buttar via, ma per donare. I doni che
Dio ci fa devono essere a loro volta donati da parte nostra; devono
essere investiti nel servizio. Ciò che io conservo per me, marcisce e mi
fa marcire, mentre ciò che dono fruttifica. Si dirà: « Ma se io dono
tutto, se in me il possessivo sparisce, cosa ne è della mia personalità? ».
È vero, non saremo mai abbastanza noi stessi; ma non confondiamo la
personalità con il personaggio, tanto si somigliano le due cose! Il
personaggio è la personalità pervertita dallo spirito di possesso. « Non
sono più io che vivo è il Cristo che vive in me ». Mai S. Paolo è più S.
Paolo come quando è sparito un certo « io » di S. Paolo. I due « io » di
questa frase non significano affatto l’identica cosa. « Non sono più io
che vivo (personaggio), è Cristo che vive in me (personalità ». Io non
posso essere pienamente me stesso se non quando, « per me, vivere è
Cristo ». Ecco fin dove ci spinge il voto di povertà. Ci fa prestare
attenzione a quei recuperi più o meno coscienti, a quella maniera di
mettere ovunque il possessivo che gonfia il personaggio: i miei affari,
i miei gusti, i miei progetti, il mio apostolato, il mio tempo, le mie idee,
il mio avvenire, la mia grazia, il mio Dio... Chi cerca di raggiungere la
rinunzia in ogni campo è veramente fedele alla logica del suo voto: si
può essere esigentissimi sullo stile materiale della povertà, ed essere

52
troppo sicuri di sé sul piano delle idee. Un certo romanticismo della
povertà materiale conduce direttamente a questa anomalia. Così come
la carità, come la verità anche la povertà evangelica è indivisa.
Ciò che compromette in noi la crescita dell’amore non è tanto ciò
che ci sporca quanto ciò che ci ingombra. Ciò che ci separa dal Cristo
che dobbiamo imitare secondo tutte le esigenze del Vangelo, è ciò che
abbiamo di troppo. Ci si appiglia sempre a qualcosa, e i più grandi
ostacoli trovati in noi da Gesù Cristo, sono spesso i più spirituali: i più
bei doni di Dio possono essere terribilmente posseduti.
Prima di tutto, nella sensibilità, a proposito dei gusti, del sapore
che troviamo nelle cose, negli oggetti familiari. Tale povertà si coltiva
soprattutto all’inizio della vita religiosa, ed è il frutto di ogni ascesa
iniziale. È la prima impresa ed anche l’ultima conquista: bisogna che
la povertà abbia guadagnato le sorgenti profonde del nostro essere
perché la reazione che scatta spontaneamente nella nostra sensibilità
sia segnata dalla prima beatitudine.
Non meravigliamoci se, dopo anni di vita religiosa, ci
sorprendiamo ancora in flagrante delitto di cattiva ricchezza in questo
campo: non è poi così grave. L’ultima zona ad essere evangelizzata in
noi è proprio l’epidermide.
È una povertà più profonda, quella dell’affettività, la povertà del
cuore, che ci fa raggiungere il voto di castità perfetta. Un tale
accoppiamento non deve meravigliare, perché i tre voti sono
convergenti; essi dispongono finalmente ad un’attitudine
estremamente semplice di appartenenza a Dio e agli altri. Povertà non
vuol dire inaridimento, estenuazione del cuore, ma consacrazione.
Sant’Agostino diceva parlando della sua vita precedente la
conversione: « Mi piaceva di essere amato ». Non c’è forse in queste
parole traccia di possesso? Molto spesso, in questo campo, ci capita di
soffrire, di una sofferenza da cattivo ricco, perché il nostro cuore è
stato privato del possesso... Se la ferita sanguina troppo, è forse, in
parte, perché c’erano delle « aderenze ».
In quei momenti diamo a Dio ciò che ci chiede. Siamo buoni

53
suonatori, stiamo in coro; non guardiamo tanto ciò che ci è tolto, ma
piuttosto crediamo a ciò che ci è dato in cambio, nell’oscurità della
fede.
Povertà dell ’intelligenza, che non è miseria dell’intelligenza. La
verità deve arricchire il nostro spirito. Bisogna sapere su Dio,
sull’uomo. Bisogna avere una competenza per essere miglior servitore.
Sì, ma la verità non si possiede. La si serve umilmente e la si dà senza
sbalordire, senza schiacciare. La fede stessa è un regime d’indigenza,
non dimentichiamolo, nell’attesa del meglio: la visione.
Abbiamo anche idee sulle situazioni, sulle persone, ma quale uso
ne facciamo? Non ci capita per caso di brandirle contro gli altri? di
farne materia a volontà di potenza? non siamo troppo proprietari delle
nostre idee, dando loro un profilo tagliente, facendole pesare troppo
sugli altri? Conservare ciò che si crede vero, non significa esserne
padroni...
Povertà della volontà. Raggiungiamo qui il terzo voto,
l’obbedienza. Si nasconde in noi un « desiderio sfrenato di eccellere »,
e forse è proprio qui che la povertà ha il maggior da fare. Consegnare
liberamente la propria volontà, non perché sia distrutta, ma perché sia
totalmente inserita nel volere divino, attraverso le mediazioni umane
(istituzioni, persone...) garantiteci dalla Chiesa. Là è la suprema
povertà: obbedire a dei poveri che sono nostri superiori, entrare vivi
in queste istituzioni che portano sempre il segno dell’imperfezione
umana.
Povertà radicale, di cui riparleremo, e che ci travolge se la viviamo
in spirito e verità, nel cuore della prima beatitudine. Povertà che pone
la libertà divina nel vivo della nostra libertà umana e dà ai nostri atti
più piccoli l’ampiezza, l’inedito, l’efficacia dell’azione di Dio. « Non
rallegratevi perché gli spiriti vi sono soggetti », dice Cristo ai suoi
discepoli che tornano tutti entusiasti e troppo proprietari dei loro
successi « ma piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Le
10, 20). Egli vuole, per così dire, agganciare il loro modo di procedere
apostolico allo stesso modo di procedere del Padre, che invia al servizio

54
degli uomini il suo Figlio e i discepoli di suo Figlio. Questo invio esige
la nostra povertà.
Se c’è un luogo in cui possiamo governare le cose e le persone, è
proprio nell’azione apostolica. Ora l’apostolo è il grande povero, non
ha ciò che dona: egli rivela e trasmette il dono di Dio.
Prima di ogni azione apostolica, bisognerebbe metterci in
ginocchio, a mani aperte, e dire: « Signore, dammi ciò che io devo dare.
Ciò che devo dare è te stesso. Ebbene! donati a me, o piuttosto donati
attraverso me ». C’è un solo Mediatore, Gesù Cristo. Non dobbiamo
appropriarci Gesù Cristo, dobbiamo lasciarlo trasparire. Non
dobbiamo aggiungere alla sua una seconda mediazione, ma essere
trasparenti alla sua che è unica; permettere alla sua Parola di farsi
carne nella carne della nostra vita.
Dio vuole aver bisogno di noi: sta a noi essere abbastanza poveri
perché egli possa, attraverso noi, fare dono di se stesso.
Povertà del servitore inutile. Soprattutto quando i suoi atti
finiscono su altri: meno che mai allora, egli deve esserne proprietario.

2. Anche la nostra miseria e la nostra malizia


Aggiungiamo infine: povertà non solo nei riguardi della nostra
ricchezza, ma anche delle nostre miserie, di ciò che in noi è limite,
infermità, fallimento. Bisogna far pace con se stessi, a base di lucidità
e di amore e anche a base di povertà d’animo. Non indispettiamoci
contro noi stessi; è un riflesso di cattivo ricco. Come non lo
comprendiamo? Attraverso queste brecce Dio passa e questa povertà
che egli permette ci pone in regime di prima beatitudine.
Povertà della situazione in cui, quale che sia la soluzione adottata,
si ha sempre la cattiva coscienza d’aver truffato e sprecato cose o
persone. La vita attuale ci spinge sovente a questi atti con cui,
malgrado tutti i nostri sforzi, per fare la verità, non arriviamo alla luce.
Saper allora perseverare, conservare la gioia e la pace, pur sempre
rimanendo nell’imperfetto, nel fallace, nell’inconfessabile forse, ecco

55
la forma corrente di povertà che abbiamo chiamato grazia
d’imperfezione.
Povertà anche di fronte alle nostre malizie. Esse hanno «
quell’inimitabile sapore che troviamo solo per noi stessi ». Questo
peccato che ci affligge, è riconosciuto come nostro figlio. È nostro, noi
ne siamo i soli proprietari (il bene viene da Dio) e c’è in noi un tale
spirito di proprietà che ci aggrappiamo a ciò che odiamo di più, perché
è nostro, perché è noi.
Ora da quando è stato preso da Cristo, inchiodato alla Croce e
inghiottito nella sua morte, da quando Cristo è uscito dalla morte e
risuscitato, il nostro peccato non è più nostro. Non abbiamo il diritto
di andare a frugare in questi mucchi di sporcizia. I nostri peccati il
Salvatore li trasfigura, integrandoli nel suo perdono, per modellare il
nostro essere nuovo. La redenzione ci ricrea continuamente.
Insomma, poveri di tutto, del bene come del male, ci resta di essere
poveri della nostra povertà stessa. Infatti non si dovrebbe, con una
suprema impostura, recuperare tutto ciò che abbiamo abbandonato,
facendoci i proprietari di questa prima beatitudine e vantandoci di
essere poveri.
No, liberati, sgombrati di noi stessi, nella buona e nella cattiva
sorte. Allora Dio è Dio in noi; Gesù Cristo il Servitore, è Signore della
nostra vita. In noi egli può ospitare tutti gli uomini. Egli realizza oggi
ciò che S. Paolo dice di lui: « ... da ricco, si è fatto povero per noi, per
arricchire noi con la sua povertà » (2 Cor 8,9).
Là deve giungere un voto di povertà vissuto nella sua piena logica:
trascinarci ad amare di un amore che dona, e che dona in modo
concreto, tangibile. Questa munificenza dell’amore che si dona a piene
mani e a pieno cuore è una vera povertà riuscita.
Il vuoto che essa crea è il rovescio; il diritto è l’amore di Dio e del
prossimo che conquista in noi tutto il posto, liberandoci da tutto ciò
che l’ostacola e donandoci agli altri spontaneamente. La povertà ci fa
cedere tutto il terreno che deve occupare questo amore. Cosicché, in
tutte le situazioni, non domandiamo prima di tutto: « cosa c’è da

56
prendere? », ma: « cosa c’è da dare? ».
« Ti manca una cosa... dà », si sente dire da Gesù l’uomo ricco. Il
voto di povertà fa risuonare in noi quest’invito di Cristo durante tutta
la vita. Quel che ci manca non è tanto di acquisire ciò che ancora non
abbiamo, ma piuttosto di dare ora e in seguito e sempre ciò che
abbiamo già. Bisognerebbe basarci solamente su ciò che riceviamo e
doniamo, e non più cercare altrove la nostra sicurezza.
Così il voto di povertà ci àncora al Vangelo, così gioca il suo ruolo
battesimale, pasquale, così è una morte-per-la-vita e la vita
comunicata.
Non inganniamoci. Perché queste verità non siano schernite,
bisogna passare all’azione. La vita in comunità, la prossimità ai poveri
della strada, il richiamo e la protesta intima dello Spirito, ci spingono
costantemente ai fatti. La povertà è uno dei punti in cui il
rinnovamento della vita religiosa è più urgente; non è forse il più
importante, ma è sicuramente il più probante e .il più atteso da Dio e
dagli uomini d’oggi; essi vogliono sentire maggiormente in noi questa
follia che ci fa somigliare agli uccelli del cielo e ai gigli dei campi.

57
PARTE SECONDA

LA CASTITÀ PERFETTA

La povertà evangelica ci impegna a fondo nella liberazione


pasquale. Per essere liberati alla nuova vita del Signore resuscitato,
bisogna essere liberi dai possedimenti che l’ostacolano. Bisogna
allentare la presa di fronte agli averi per stare stretti a Gesù Cristo.
Verità che si impongono ad ogni battezzato: ma quel battezzato che è
il religioso adotta, su invito del Signore, dei mezzi radicali affinché
esse si realizzino in lui.
Un movimento analogo imprime al nostro essere il voto di castità
perfetta.
Dei consigli evangelici, quello di castità perfetta è il più
chiaramente espresso (Mt 19, 10-12); nella storia della Chiesa, esso ha,
per primo, dato il tono a quella che ben presto doveva divenire la vita
religiosa.
Elenchiamo dapprima, in breve, le possibili contraffazioni:
l’inaridirsi di un cuore che, con la scusa di amare solo Dio, finisce per
non amare nessuno. «Avendo, sotto gli abiti di saia, l’aria grave di un
gendarme, e l’aria fredda di una vergine... » (V. Hugo). Altro rischio: il
cuore timido, timoroso, che ha paura di amare o che dona in affetti
sdolcinati, infantili o senili. Senza parlare, al limite, delle deviazioni
sottili o grossolane.

Altrettante morti che non sono autentiche e dunque non

55
saprebbero sfociare in quell’amore assolutamente nuovo di cui il
consiglio evangelico implica la promessa. Infine, è l’amor proprio che
così si troverebbe rinforzato, questo amore che ci chiude in noi stessi
e ci soffoca.
Vedremo:
I. Il consiglio di castità perfetta nella nuova Alleanza.
II. Le grandi linee di una castità perfetta che sia veramente, per il
nostro cuore, una vita nuova secondo lo Spirito Santo.
1. Solitudine...
2. ... per una pienezza.

III. Un terreno d’applicazione immediata: la vita comune.

56
I. LA VERGINITÀ NELLA NUOVA ALLEANZA

1. Mistero e segno
È il termine «verginità» che, evangelicamente e storicamente,
s’impone a noi. Esso implica l’integrità fisica. Più tardi, il voto si è
esteso a chi non soddisfaceva più a questa condizione, ma s’impegnava
ad appartenere ormai, corpo e anima, al solo Signore. Si è parlato allora
di castità perfetta. Noi impiegheremo indifferentemente l’uno o l’altro
termine, benché non siano sinonimi.
Notiamo innanzitutto che l’antica Alleanza considera la verginità
piuttosto come un male. Essa è sterilità; la gloria di una donna è infatti
l’essere madre. Per contro, si potrebbe opporre il caso degli Esseni,
quali meglio ce li hanno fatti conoscere gli scritti di Qumran, ma
questo caso è mal dipanato.
Si potrebbe anche parlare di Geremia, rimasto celibe per motivi
religiosi. Ma giustamente il suo celibato è profetico: è il segno della
sterilità del popolo infedele all’Alleanza; è messaggio di lutto (Ger 16).
Il Verbo si fa carne. Egli è vergine, nato da una vergine. Egli
proclama la misteriosa dignità di coloro che sono «eunuchi per il
Regno» (Mt 19, 12), e S. Paolo, nel capitolo VII della prima Epistola
ai Corinzi, fa largamente eco al suo Signore.
Ecco dunque come la verginità, illuminata da una luce del tutto
nuova, ottiene pienamente il diritto di ammissione nella vita cristiana.
Restare vergine per il Regno, è ormai un bene normale, iscritto, per
chi vi è chiamato, nella logica del battesimo, come il martirio nei primi
secoli della Chiesa.
In tal modo, fin dal nascere del cristianesimo, vediamo apparire
vergini consacrate.
La povertà per Cristo esiste anch’essa fin dall’inizio, ma è
spartizione più che radicale rinunzia. L’obbedienza nella sua forma
religiosa verrà un po’ più tardi. La verginità consacrata trova subito il
suo posto e il suo regime in modo così netto che, a partire dal 313

69
(editto di Milano che pone fine alle persecuzioni), tende a sostituire il
martirio come testimonianza eminente resa a Gesù Cristo.

Che cosa merita alla verginità una tale promozione? «Chi può
capire capisca» (Mt 19, 12), conclude Cristo dopo averne parlato.
È importante cercare di comprendere, soprattutto in un mondo
come il nostro; non tanto perché l’erotismo vi dilaga, ma soprattutto
perché la priorità data alle realtà terrestri rischia d’assorbire e di
nascondere ai nostri occhi la Realtà ultima che è già fra noi ed è
designata dal voto di castità.
La verginità per Cristo è essenzialmente un mistero, legato al
mistero stesso dell’amore di Dio per noi; essa è, insieme, un segno, il
segno che Gesù è venuto, che il Regno è già qui.
Il Signore è venuto a realizzare la Alleanza definitiva di Dio con
l’umanità. La prima Alleanza era stata segnata dall’adulterio del popolo
eletto (cfr. Osea, Ezechiele...). Ma Dio ama gli uomini di un amore
inaudito di cui l’amore coniugale è la più alta immagine. Anche
disprezzato dall’uomo, questo amore sussiste nel cuore del Dio fedele.
Egli non solo non ripudia questa umanità adultera, ma le invia il suo
Figlio, per concludere con essa una nuova Alleanza. È allora la vittoria
di un amore eternamente vivente.
La castità perfetta per il Regno attesta la realtà di questa vittoria
misteriosa. L’amore di Dio è abbastanza reale, abbastanza vivo,
abbastanza ricolmante perché valga la pena di consacrargli tutte le
facoltà di amare che, dal più materiale al più spirituale, si affermano in
noi.
«Dio ha amato tanto il mondo che ha donato il suo Figlio Unico»
(Gv 3, 16). Gesù Cristo non è un’astrazione, né un fantasma del
passato, né un codice di leggi o di riti; è abbastanza vicino, abbastanza
amante perché noi gli riserviamo tutti gli slanci del nostro cuore e del
nostro corpo.
«Rendersi eunuco per il Regno », significa dunque affermare quel
realismo misterioso dell’amore di Dio, vincitore in Gesù Cristo di tutte

70
le forze contrarie all’amore che pullulano nella vita degli uomini,
significa essere una profezia vivente della « vita del mondo che deve
venire », dove non esisterà più il problema di sposarsi (Mt 22, 30);
significa proclamare che la Realtà ultima è già inserita nei nostri cuori
così mutevoli.
Un amore decisivo è ormai vissuto fra Dio e gli uomini, fra Gesù
Cristo e la sua Chiesa (Ef 5). Di questo amore la verginità è segno9.

Ma, si dirà, non è proprio questo il senso profondo del


matrimonio? S. Paolo lo scrive agli Efesini: « Mariti, amate le vostre
mogli come Cristo ha amato la Chiesa... » (Ef 5, 25 e seg.).
È vero, il matrimonio è il segno dell’Alleanza suggellata fra Cristo
e la sua Chiesa. Anch’esso risalta dalla castità che gli sposi devono
coltivare con una generosità di cui religiosi e religiose non misurano
forse abbastanza le esigenze.
Sì, comprendiamolo: ciò che il matrimonio significa attraverso la
mediazione dell’unione coniugale, la castità perfetta per il Regno lo
significa senza tale mediazione. Essa significa direttamente nella linea
del battesimo, ciò che l’unione coniugale significa indirettamente, con
un altro sacramento: il matrimonio. Il senso dei due è lo stesso. Perciò,
lungi dal trovarsi in opposizione, matrimonio e professione di castità
perfetta convergono per designare, ognuno a suo modo, il legame
nuovo ed eterno che, in Gesù Cristo, l’amore di Dio è venuto a
stringere con gli uomini.
Il sacramento del matrimonio unisce « due esseri in una sola carne
», e rinvia così alle nozze di Dio con l’umanità. La professione di castità
perfetta non implica altro sacramento che il Battesimo, che è già
celebrazione di queste nozze, perché ci fa rivestire, « in una sola carne
», per dir così, Gesù Cristo, Dio e uomo. Nessun bisogno dunque, per
la vita religiosa, di un sacramento speciale. Eccoci, noi religiosi,
sospinti, nella linea battesimale stessa, nel più profondo di questo
mistero di unione che si realizza in Gesù Cristo; noi non vogliamo

9 Cfr. Documento conciliare citato, n. 12.

71
conoscere altre nozze che « le nozze dell’Agnello » (Apoc 19, 9; 14, 4-
5).

2. Dimensione ecclesiale

Da qui, la dimensione ecclesiale di questo voto.


La verginità consacrata è stata, fin dall’inizio, la immagine vivente
della Chiesa itinerante che è il Regno in corso di maturazione. Come
la Chiesa, essa significa il «già» nel cuore della strada che l’umanità
percorre verso il « non ancora », verso il Regno, « non ancora » giunto
in pienezza.
Essa non è segno unico. Un altro segno è ancora più parlante: la
carità fraterna. Ma, lo vedremo, esiste una sorprendente e meravigliosa
parentela fra consacrazione di tutto l’essere all’amore e amore
fraterno.
In questo mondo in cui così male ci si serve del proprio cuore, dove
l’amore è così spesso tradito, sporcato, snaturato, la verginità è una
dichiarazione dell’amore ricuperato dalla grazia. Essa afferma
placidamente la beatitudine dei cuori puri.
Essa esprime la Chiesa, nell’intimo mistero di Sposa del Cristo, e,
allo stesso tempo, nel suo visibile mistero di famiglia umana di Dio di
cui la carità è l’anima10.

10 Bisognerebbe insistere qui sulla differenza che richiama attualmente l’attenzione dei teologi, fra
voto di castità perfetta e proposito detto di « celibato ecclesiastico ». Su di un fondo di identiche
esigenze, si fà talvolta notare che il primo considera la qualità personale del soggetto nella sua amicizia
con Dio, il secondo la qualità del « ministro », del sacerdote inviato al servizio dei suoi fratelli. Pur
senza voler qui entrare in polemica, facciamo tuttavia notare che il voto di castità perfetta supera di
molto la semplice relazione Dio-Io. Esso ha un’incidenza molto forte, decisiva, sulla qualità del
servizio ecclesiastico compiuto da coloro che lo pronunciano.
Il carisma del religioso non è, come tale, un carisma di ministero; ma, come non si può separare
amore di Dio e amore del prossimo, così non si può separare affinamento del cuore nella sua
appartenenza esclusiva a Dio, e affinamento del cuore nel suo dono totale agli altri. Anche l’inverso
però è vero: proprio adempiendo alla sua funzione ecclesiastica, il prete coltiva la sua amicizia con
Gesù Cristo. L’insegnamento del Vaticano II è rigorosamente per l’unità. Non insistiamo, dunque
sulla distinzione, e diciamo piuttosto che si tratta più che altro di una questione d’accento: la castità
perfetta pone l’accento soprattutto sull’amicizia personale con Dio, e così colora il nostro servizio

72
Questo segno, è vero, è sempre meno compreso man mano che,
nella nostra lettura attuale del Vangelo, poniamo l’accento più
nettamente sulle realtà quotidiane: lavoro, povertà, comunione di vita,
assunzione di ciò che, nella buona e nella cattiva sorte, costituisce
l’esistenza umana... Queste realtà non le assumeremo mai con
sufficiente onestà, umiltà, generosità. Ancor più, esse sono
indispensabili alla coltivazione della stessa castità perfetta, di cui
assicurano l’integrità e la giusta espressione.
Ma non mettiamo in opposizione ciò che il Vangelo unisce.
Scoprire e praticare le realtà che intessono l’esistenza comune degli
uomini, non riuscirebbe a farci dimenticare la Realtà che a questa
esistenza dà la sua portata eterna. La castità perfetta, nella misura in
cui è penetrata dell’amore che è il nostro solo pegno di eternità, è uno
dei segni di questa Realtà nel cuore delle realtà. Sì, « chi può capire,
capisca ». Anche se, attorno a noi, non cristiani, cristiani, perfino preti
« non capiscono », non temiamo di affermare con questo segno,
sanamente e umilmente vissuto, ciò che essi, vittime del movimento
pendolare della verità, stanno forse dimenticando: la trascendenza del
Regno nell’intimo stesso del suo divenire terrestre.
Il Signore stesso ha posto, agli occhi dei suoi contemporanei, solo
dei segni immediatamente decifrabili da essi. Ancor più: ogni volta che
un miracolo attira subito i loro applausi, egli ne mostra la portata
trascendentale, lo sbocco sul Regno (per esempio la moltiplicazione
dei pani e l’annuncio del Pane di Vita), a costo di vedersi
abbandonato dalla folla di coloro che non possono decifrare questo
segno nella fede. I segni non sono destinati a risolvere il mistero, ma
ad introdurre in esso più profondamente.

Così pure per la castità perfetta. Non la si può « capire » se non si


ammette il Regno nella sua trascendenza, il realismo dell’amore di Dio,

umano del Popolo di Dio. Il celibato sacerdotale pone l’accento soprattutto sul servizio del popolo
di Dio e così colora il rapporto personale di amicizia con Dio. Ma tutto il campo della carità è
raggiunto nell’uno e nell’altro caso.

73
differente dai nostri realismi umani e insieme mescolato ad essi.
Significare questo amore vuol dire svolgere un compito ecclesiale
autenticissimo.

74
II. LE GRANDI LINEE DI UNA CASTITÀ PERFETTA

Le annotazioni precedenti possono sembrare assai teoriche e


rischiano di illustrare male il modo concreto in cui questo voto è
vissuto. Perciò è importante sviluppare più a lungo ciò che questa
mistica — non dobbiamo aver paura della parola — implica nel
normale svolgimento di una vita religiosa.

1. Una solitudine...
Solitudine: una parola temibile, e che farà senza dubbio protestare
più di un lettore. E tuttavia...
Innanzitutto, per riprendere una notissima distinzione, solitudine
non vuol dire isolamento. Vedremo perfino che tale solitudine
richiede una comunità. Poi, non dimentichiamo il carattere del tutto
relativo, del tutto tendenziale della morte, nel mistero pasquale:
quando parliamo di solitudine, siamo sempre imperniati sulla pienezza
che la morte prepara.
Ma è un fatto: anche immerso nella comunità più fraterna,
nell’apostolato più avvincente e caloroso, anche gettato in un mondo
che lo incalza da ogni parte e mobilita ad ogni istante le sue risorse
affettive, l’essere votato alla castità perfetta conosce la solitudine. La
solitudine umana: un tema banale. Anche nell’amore coniugale più
riuscito, esiste una soglia contro cui urtano dolorosamente gli sposi, e
al di là della quale nessuno dei due può accompagnare l’altro; è questa
una delle grandi prove della vita della coppia. La solitudine implicata
dal voto di castità è più presto raggiunta, più pesante, anche, in certe
ore. Perché?
Perché questo voto ci fa rinunciare a completarci in un altro, il
compagno, amato di amore coniugale; ci fa ugualmente rinunciare a
prolungarci in esseri nati dalla nostra stessa carne e amati di amore

75
materno o paterno. Duplice grido dell’essere che, incompleto, vuol
trovare la sua completezza nella coppia e che, fugace, vuole eternarsi
nel figlio. Ecco dunque inscritta nel vivo del nostro essere, nel campo
della sessualità, una morte ancor più profonda di quella della povertà.
Quanta lucidità ci vuole per evitare ciò che qui si insinuerebbe di
fariseo, di morboso, di mitico, d’illusoriamente angelico!
Quanta delicatezza da usare! Noi siamo tutti interi di Dio, si tratta
di «piacere al Signore » (1 Cor 7, 32). A questo mondo noi siamo
presenti e donati, ma come non fare nostre le raccomandazioni che
l’apostolo delle Genti, così poco sospetto di angelismo, rivolgeva ai
Romani (cap. 13) o ai Corinzi (1 Cor 5; 6 e soprattutto 7)! L’esigenza
apostolica, la promozione della donna, la libertà più grande con cui, ai
nostri giorni, la sessualità è trattata, niente di tutto ciò potrebbe farci
dimenticare questa nota di delicatezza che è nell’intimo di ogni amore,
ma che, qui, s’impone più che mai per farci scoprire e combattere tutto
ciò che, da vicino o da lontano, sarebbe ricupero dell’amore coniugale
o materno. Rinunzia libera e gioiosa, non costretta né triste. Rinunzia
che esige riservatezza, tatto, semplicità, nitidezza... Ricordiamoci
l’atteggiamento di Cristo nei suoi incontri umani, quali il Vangelo ce
li descrive, specialmente nei suoi incontri femminili.
Compito tanto più difficile in quanto esiste all’interno della nostra
consacrazione, una vocazione all’amicizia, alla paternità, alla
maternità secondo lo Spirito! Esseri di carne e di sangue fanno parte
della nostra vita, posti là dal Signore in virtù della nostra stessa
appartenenza a Lui. Egli stesso riempie la nostra solitudine con tutti
coloro che ci affida! Noi possiamo amarli solo con il nostro cuore di
carne.

Di qui la necessità di farci, senza ansietà ma anche senza


debolezza, un certo numero di domande.
a) Il tale o la tale che fa parte della nostra vita, li amiamo di
amore-che-dà o di amore-che-prende?
Sicuramente, l’amore-che-prende occupa sempre un certo posto

76
in noi: non possiamo essere pura oblatività, anche nei nostri maggiori
slanci di generosità. Ma quale dei due amori prevale e dà il tono ai
nostri approcci? È una cosa ben nota che, specie nella donna, dare (o
almeno moltiplicare i gesti del dono) rischia di essere il miglior modo
di prendere. Da qui la necessità di chiarire i motivi dei nostri approcci
apparentemente più generosi.
Le domande che seguiranno, saranno di aiuto in questa
chiarificazione.
b) Tutto ciò che ci lega al tale o alla tale, dal più intimo dei nostri
pensieri al più esteriore dei nostri atti, può sostenere lo sguardo di
Gesù Cristo e favorire il nostro sguardo su di lui?
Ogni nostra affettività deve dispiegarsi sulla traccia della nostra
apparteneva totale al Signore. Ciò che è vero di ogni cristiano («Amerai
il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore... »), lo è per i religiosi con
un’istanza non più forte, ma più diretta, senza quei legami così
vincolanti che sono sposo, figli... Facciamo attenzione dunque a non
lasciar scadere in una specie di clandestinità quell’amore che deve
tendere a farci dire: « Amare coloro che mi affidi e amare te stesso,
Signore, è veramente per i miei pensieri, le mie parole, i miei gesti, la
stessa cosa ».
c) L’affetto che nutriamo verso questo essere (o che egli nutre
verso di me) non ci chiude e non ci allontana da altri esseri, verso i
quali anche abbiamo dei doveri? Non è forse totalitario, esclusivo? Non
è questione di quantità. Ci sono persone verso le quali noi abbiamo
maggiori doveri. Ma le nostre forze vive non sono confiscate da
qualcuno o da alcuni che ci sottraggono agli altri, pur tuttavia legati a
noi? Ha la possibilità di essere al punto giusto l’affetto che, lungi dal
sottrarci agli altri, ci getta incontro a loro con maggior limpidità e
letizia.
d) Infine, se il problema sussiste, abbiamo la lealtà di sottoporlo
a giudizio? Ciò che è dubbio cerca l’ombra. Invece bisogna illuminarlo,
«fare la verità ». Se io sono giudice e parte, sono cattivo giudice. Ci
troviamo di fronte ad un’epoca in cui la castità non può più essere

77
questione d’ignoranza o di paura, in cui la sessualità cessa di essere
zona proibita, soggetto tabù. Affrontata in piena obiettività e pudore,
essa si rivela valore immenso, creato da Dio («Uomo e donna li creò»).
Obliterata dal male, come tutti gli altri valori umani (per esempio la
libertà), essa deve essere portata in piena luce per essere consacrata a
Dio.

Tutte queste domande hanno un solo scopo: permetterci di


verificare se la croce di Cristo, nel modo in cui è implicata dal voto di
castità perfetta, è realmente presente nella nostra vita affettiva. Il
Vangelo unisce verginità e vigilanza (Mt 25). Certo non è detto che su
due piedi potremo rispondere a queste domande in maniera del tutto
soddisfacente. Non è all’inizio che il nostro cuore trova il suo pieno
regime di consacrazione totale a Gesù Cristo. E poi esistono in noi,
coscienti o no, certi determinismi, certe pulsioni! L’istinto sessuale si
fa sentire così profondamente su tutta l’ampiezza del nostro essere,
segnando più o meno profondamente i nostri rapporti con tutto il
nostro ambiente, che lo sappiamo o no, che lo vogliamo o no! Ciò che
è subito è tanto più imperioso del voluto, specie in certe epoche! Più
che altrove si tratta qui di lenta e paziente conquista, sotto la spinta
dello Spirito. Si tratta di mirare al mascolino, al femminino, all’umano
recuperati dalla grazia: tutta una vita non è troppo per pervenirvi. La
verginità cristiana non è rigidità né purismo, e sant’Ambrogio
raccomandava alle vergini consacrate l’umiltà.
L’essenziale è che la morte di Gesù Cristo, in questo come in ogni
campo, sia lucidamente accettata, con quell’istanza d’assoluto che
esprime il termine castità perfetta. Dalle fibre della nostra carne, ai
moti del nostro spirito, senza sdolcinatura, senza dolorismo, senza
eccessivo pudore che suscita lo scherno più che l’ammirazione (cosa
dovremmo farne dell’ammirazione, noi che dobbiamo «piacere al
Signore» ? ) , dobbiamo accettare la croce che il Signore ha voluto
piantare così nel vivo del nostro essere.
Ai nostri giorni, si scopre una sorprendente legge della sessualità:

78
se essa resta legata al piacere, non arriva ad assaporarlo veramente; si
condanna a riprendere continuamente un inseguimento che non
raggiunge mai il suo scopo. La sessualità conosce il successo solo se
rinuncia a porsi come fine il piacere.
Ciò significa che la sessualità è chiamata, per la sua stessa natura a
un superamento, a un dono. Da qui le difficoltà del matrimonio. Non
crediamo ingenuamente, noi consacrati, che il matrimonio sopprima
tutti i problemi in questo campo; esso ne pone più di quanti ne risolva.
La castità nel matrimonio e la castità perfetta sono entrambe difficili.
Significa anche che la verginità, lungi dall’essere contro natura,
può essere, mediante vocazione debitamente riconosciuta e coltivata,
un compimento dell’essere sessuato che noi siamo e che non cessiamo
di essere.
La rinuncia all’attività sessuale, a vantaggio dell’amore di Dio
instancabilmente incontrato, e del servizio amorevole e fecondo degli
altri, non è dunque estranea alla sessualità. Tale rinuncia realizza, sul
terreno stesso della sessualità, una delle sue leggi fondamentali,
l’oblatività.
Infatti è proprio là che si misura il successo ultimo di una vita; la
capacità di dono che essa provoca in noi.
Solitudine per una pienezza in cui l’essere nuovo si sviluppa.

2. ...per una pienezza

La castità perfetta, consacrando a Cristo le nostre facoltà di amare,


tende a munirle di ciò che fa la pienezza del cuore di Cristo. Eccoci
dunque invitati ad amare come egli ama, con una delicatissima
verginità, ma anche con una generosità senza reticenze, una decisione
di dono totale, di servizio, di comunione. Il cuore di Cristo è un cuore
di carne in cui si riversa l’amore di Dio per noi, amore creatore e
ricreatore, che l’ha spinto a farsi uomo.
Non si tratta dunque di amare meno, ma di amare meglio,
d’integrare progressivamente sotto la mozione diretta della carità,

79
tutte le nostre forze umane sensibili e affettive. Finalmente, il voto di
castità, più nettamente forse degli altri due, ci ordina alla riuscita
dell’amore di carità. Solitudine per una pienezza.
Significa, senza che ci sia bisogno di tornarci sopra, che ipocrisie,
contraffazioni, fallimenti della carità vanno alla rovescia della nostra
consacrazione religiosa. Questa non è che una provocazione incessante
all’amore che è l’essenziale della vita nuova.
La croce, qui, non consiste nell’uccidere il nostro cuore, ma nel
porlo direttamente (senza la mediazione coniugale né parentale) sotto
le esigenze dell’amore in pienezza.
Di che è fatta questa pienezza?

a) Scelta incondizionata del Dio vivo, rivelato in Gesù Cristo


Questa pienezza è innanzitutto presenza a Dio stesso, a quelle tre
Persone infinitamente viventi che ne fanno uno solo e che sono
Amore. È forse par lare un linguaggio irreale? No. Il religioso, la
religiosa per cui il Dio vivente divenisse un’astrazione o un mito,
sarebbe da compatire; da compatire sarebbero anche coloro per i quali
Dio fatto uomo entrasse in concorrenza con il prossimo.
Come abbiamo detto, è essenziale alla castità consacrata affermare
che Dio è abbastanza vivente perché gli si consacrino tutte le forze
vive dell’essere. Non c’è dunque consacrazione religiosa senza un
amore sempre più effettivo per Cristo, in cui Dio addolcisce il cuore
dell’uomo, e con esso stipula una nuova Alleanza.
Il voto di castità perfetta ci custodisce o ci fa ritrovare la giovinezza
del primissimo zampillare all’esistenza, ci mantiene o ci riporta alla
fonte creatrice; in essa tiene riunite tutte le forze d’amore che
compongono il nostro essere. «Signore, io vengo da te, resto tuo, in te».
Così, ad ogni istante, noi possiamo, malgrado le nostre pesantezze
e le nostre opacità, riceverci da Dio, sbocciare al gran sole del Creatore,
lasciarci graziare dal Salvatore, conservare alla nostra esistenza il suo
gusto di sorgente. Anche l’assillo di una azione professionale e

77
missionaria intensa non riuscirebbe a farci disprezzare tali realtà di cui
il mondo ha un ardente bisogno.
«Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio». «Vedranno», certo,
nella fede: «beati coloro che hanno creduto senza aver visto»; ma in
uno sguardo di fede che è già assai pieno. Una certa maniera di essere
in armonia col mistero di Dio, di dimorare in esso con gioia, di
contemplarlo nella limpidezza, caratterizzano l’essere casto. Nulla di
evanescente, supremo realismo, al contrario, che ci fa conservare la
verginità dello sguardo interiore, combattere non solo ciò ch’è dubbio
o sofisticato, ma anche l’artificiale e il sognato. L’esistenza umana
richiede certo un pizzico di sogno, ma in dose ben misurata, quel tanto
che basta perché ci sia poesia, per irrigare di umorismo e poesia la
troppo arida realtà. «Ciò che pesa nell’uomo, è il sogno» (Bernanos), il
modo di costruire nella chimera ciò che la realtà ci rifiuta.
Dio vivente ricolma questo vuoto nella fede, con la sua presenza
che purifica il nostro mondo interiore, ci riconduce instancabilmente,
al di là dei nostri gusti e delle nostre avversioni, a Gesù Cristo, ci spinge
ad una preghiera sempre più coraggiosa, più semplice, fatta di silenzi
più che di parole. Eccoci continuamente provocati a riscegliere la
persona vivente del Resuscitato.
Esiste un legame profondo e certo fra castità perfetta per il Signore
e frequentazione del Signore. Nel cuore consacrato, Gesù Cristo è
frequente; tende ad essere costante, incontrato di continuo come il
compagno della nostra strada, quello con cui tutto è vissuto. Siamo
lontani da un semplice atteggiamento fisico, unicamente negativo,
talvolta subito più che voluto.

b) Invito pressante a farci il prossimo di tutti


È impossibile che la persona vivente di Gesù Cristo (e non una
proiezione di noi stessi di cui Dio sarebbe il prestanome) sia così
costantemente frequentata, senza che costantemente si proponga al
nostro cuore la folla di coloro in cui Gesù Cristo prende volto.

78
La nostra solitudine è popolata dal Cristo in persona e dal Cristo
che si identifica con il prossimo: è lo stesso Cristo che
instancabilmente d sollecita.
La povertà sfociava sulla ricchezza; la castità, questa solitudine,
sfocia sulla moltitudine. Non dimentichiamo che in Luca 10, 25-37, il
prossimo è l’uomo che si reca «presso» gli altri (il Samaritano), colui
che elimina la distanza che abbiamo spesso tendenza a stabilire fra di
noi. Il prete e il levita fustigati da Cristo, si tengono a distanza (vedono
il ferito e passano dall’altro lato della strada). Il Samaritano invece si
avvicina ed eccolo divenuto il prossimo del ferito.
Tutto ciò suppone un grande disimpegno di sé stesso. La povertà,
come l’abbiamo descritta, assicura questa qualità, ma l’assicura ancor
di più la povertà di un cuore che appartiene esclusivamente a colui che
si è donato per noi: il Dio vivente. Essere votato a lui, non significa
isolarsi con lui, ma vedersi presi con lui in quel grande slancio che fa
di Dio il prossimo di ogni uomo gettandolo su tutte le nostre strade
umane.
Ripetiamolo: ciò è vero per ogni battezzato; ma la castità perfetta
ben vissuta dovrebbe portare a questa legge generale un qualcosa di
più luminoso; dovrebbe permetterci di amare ciascuno con un cuore
intero, un cuore nuovo che traduce, senza dubbio possibile, l’eterna
giovinezza del cuore di Dio. Ognuno ha diritto a tutto il nostro cuore.
È evidente così il legame strettissimo che unisce carità e castità
perfetta. Unire è dire troppo poco: si tratta di una vera e propria
inclusione dell’una nell’altra. La castità perfetta, lungi dall’essere una
disciplina o anche un’etica, è come ghermita dalla vita teologale. La
povertà ci rendeva pura capacità di Dio; la castità ci rende pura
trasparenza di Dio. «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio».
Aggiungiamo: «faranno vedere Dio», faranno capire meglio fino a che
punto Dio è amore, fino a che punto questo amore è reale.
Lungi dall’inaridire in noi l’amore, la castità perfetta deve guarirci
dalla paura di amare, deve assicurare la magnificazione dell’amore,
assicurando la fusione e l’arricchimento reciproco della carità di Dio e

79
degli affetti umani.

L’altro, è serio, è sempre serio. In noi dunque, niente di


superficiale. Costantemente noi siamo portati a schierarci dalla parte
di Dio nei confronti dell’uomo, a prendere a nostro conto quella
risoluzione di amore che Dio nutre per l’uomo. Se Dio ha consacrato
le forze vive del nostro cuore, è per farci vivere la serietà della sua
presenza all’uomo.
Presenza fatta di accoglienza (l’altro deve sempre avere ai nostri
occhi, tutte le sue possibilità), di forza e di fedeltà, di profondità e di
senso del concreto, di universalità e di senso delle persone.
Tutte queste caratteristiche di una castità che lascia il passo
all’amore di Dio per l’uomo, trovano la loro densità ed espressione
eminenti nell’incontro con i più soccombenti, i più sofferenti, i più
calpestati fra i poveri di tutti i generi. È là che si misura, più
concretamente che altrove, il valore dell’integralità del cuore.
Il dono ai più poveri, e dunque ai più esigenti del nostro prossimo,
presenta sempre per i cristiani sposati, legati da mille obblighi, un
limite netto, e obbliga i più generosi a trattenersi: si hanno dei do Nella
nuova Alleanza, la verginità è feconda. Così per la Vergine Maria,
madre di Gesù, primogenito di una moltitudine. Così per Giovanni
Battista, «l’amico dello sposo» (Gv 3, 29) che rimane totalmente casto
e incammina verso il Cristo quelli che hanno un sincero desiderio di
rinnovamento.
Ogni religioso — ma ancor più particolarmente la vergine
consacrata — afferma e realizza l’esistenza in un corpo ed in un cuore
umani, di ciò che di unico ha la nuova generazione: non si tratta di
rinascere secondo la carne, ma «dall’acqua e dallo spirito» come
annuncia Cristo a Nicodemo (Gv 3, 5). È lo spirito che è il principio
fecondante e che realizza una nuova creazione.
Il religioso, la vergine consacrata, affermano e realizzano
l’esistenza di una vita che non è affare di carne e di sangue, ma fa di
noi dei figli di Dio e che Dio solo può comunicare.

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Fecondità che non si esprime necessariamente né esclusivamente
con una efficacia visibile, ma che contribuisce grandemente a far
circolare nel corpo ecclesiale la vita nuova del Resuscitato. Se non
potete dare un nome ai vostri figli, voi che «non avete conosciuto
uomo»; se non possiamo dare un nome ai nostri, noi che non abbiamo
conosciuto donna, non è perché essi non esistono, ma perché sono
troppo numerosi: sono tutti coloro in cui noi favoriamo quell’afflusso
di vita che rigenera e dà la nascita ai figli di Dio.
Ci troviamo nel campo dell’imponderabile, del non visto, perché
raggiungiamo le fonti stesse dell’essere nuovo, nel più profondo del
mistero dell’amore di Dio per gli uomini: la sua potenza sotveri verso
il proprio marito, la propria moglie, i figli, prima di sentirci in dovere
verso i più poveri.
Nel nostro caso no, o comunque, molto meno. La porta è sempre
aperta al Cristo sfigurato dalla sofferenza. Quello che ci potrebbe
sembrare freno o limite derivante dagli obblighi della vita religiosa, è
semplicemente la garanzia del nostro slancio, ciò che gli dà l’afflato, il
Soffio (Spiritus). Il Cenacolo nel cuore della Pentecoste.
Il Cristo sofferente, riconosciuto continuamente nell’uomo che
soffre, avrà tutte le precedenze. Non sarà raggiunto alla fine della
corsa, non avrà più diritto solo alle briciole della tavola; sarà l’ospite
servito per primo e riccamente.
L’incontro del più povero non è, per noi, mezzo per annettere, per
conquistare, per «avere» l’altro, ma è occasione di mettere di fronte
questi due esseri che si cercano a tastoni senza potersi sempre unire:
l’uomo da salvare e il Dio salvatore. Eccoci divenuti come i sacramenti
viventi del cuore del Cristo, dell’incontro fra Dio e l’uomo.
Correggendo le nostre più illusorie fantasticherie, non dovremmo
nutrire, in questo campo, altra illusione che questa: possano gli
uomini, e fra essi soprattutto i più perduti, vedendo quanto li amiamo
di un amore reale e personale, vedere attraverso noi quanto sono amati
da Dio. Possa tutta la nostra vita affermare loro: «Non è per scherzo
che Dio vi ama, perché non è per scherzo che io vi amo».

81
c) Fecondità reale
Ultimo aspetto della pienezza promessa alla castità perfetta è la
fecondità.
77
terranea di ricreazione, spesso nascosta, per l’essenziale, a colui
stesso che ne è l’oggetto.
A questa profondità, ci troviamo nel mistero stesso della Vergine
Maria: mai donna è stata donna come la « benedetta fra tutte le donne
»; mai donna è stata madre come questa vergine. Mistero della Chiesa
stessa: « la Chiesa è, secondo lo Spirito, tutta intera madre del Cristo
totale, tutta intera vergine del Cristo» (S. Agostino).
Sì, a questo livello, « chi può capire, capisca ». Ma, quando ci è
concesso, se non di comprendere, almeno di presentire, nella fede,
nella speranza e nell’amore, la realtà di questo mistero, evitiamo il
pericolo di ingannarci su ciò che è la verginità e di fermarci alle sue
deviazioni. Entriamo allora gioiosamente nella pienezza della nuova
Alleanza, della nuova creazione.

82
III UN TERRENO DI APPLICAZIONE IMMEDIATA: LA
VITA COMUNE

È un fatto: c’è un rapporto assai preciso, nella vita religiosa, fra


castità perfetta e comunità. La solitudine implicata da questo consiglio
evangelico non fa di noi dei solitari. La vita eremitica ha senz’altro
pieno diritto di cittadinanza nella Chiesa, ma è sempre in stretta
relazione con la vita cenobitica che ne è la preparazione o la necessaria
alternativa. Il rapporto con Dio è sempre connesso al rapporto stretto
con i figli di Dio.
Il legame filiale col Padre, rinforzato dalla castità perfetta, richiede
un rinforzamento del legame fraterno. È in comunità che realizziamo
l’aspetto più intimo e, insieme, più ecclesiale della nostra vita di figli
di Dio. Spontaneamente, la sapienza cristiana ha sempre pensato che,
per vivere la nostra appartenenza totale a Gesù Cristo, noi abbiamo
bisogno di appartenere totalmente a una famiglia riunita dallo stesso
appello. In consanguineità profonda con quelli o quelle che hanno
risposto come noi a questo appello, viviamo la povertà e — lo vedremo
— l’obbedienza; quanto alla castità perfetta, tutto ciò che abbiamo
detto sulle sue esigenze di solitudine e di pienezza sfocia in primissimo
luogo nella vita fraterna.

1. Credere nell’altro
La prima regola di ogni società consiste nell’impedire all’uomo di
seguire i suoi istinti selvaggi; regola che fa della città qualcosa di
diverso da una babele, e dell’incontro non certo un’occasione per
gettarsi al collo o alla gola degli altri.
Un a priori favorevole dà il tono ad ogni vita in comune. La fede

74
teologale non potrebbe supplire a questa fede umana nell’uomo che
vediamo professata e praticata da tanti non-credenti.
Insistiamo su un valore che è nell’intimo di questa fede umana: la
giustizia. Essa è necessaria alla salute e all’equilibrio del nostro cuore,
difendendolo dall’indifferenza, dall’aggressività o dal facile
entusiasmo. Non dimentichiamo che gli altri sono accanto a noi, non
come oggetti inerti, come cose, ma come soggetti, soggetti di diritto,
persone, e come tali devono essere riconosciuti.
La giustizia è la spina dorsale dei nostri rapporti con gli altri. Se
spesso capita che i nostri rapporti mancano di vigore, di chiarezza, di
continuità, è perché manca loro innanzitutto la presenza attiva e
cosciente della giustizia. Noi ascriviamo talvolta alla carità
atteggiamenti che risalgono semplicemente alla giustizia: per esempio
quando parliamo dei giudizi temerari. La parola stessa lo dice: prima
di essere una mancanza di carità è una mancanza di giustizia. Noi non
abbiamo il diritto — si deve qui parlare in termini di diritto — di
schedare l’altro con un giudizio sferzante che lo paralizza e lo
condanna. L’altro non può comparire come un accusato.
Un riflesso di sicurezza ci porta spontaneamente ad inquadrare
con un giudizio tutto ciò che, cose o persone, sorge nel nostro universo
familiare. Finché un nuovo elemento figura come intruso, finché non
è catalogato nelle nostre categorie, rinchiuso, dominato da un giudizio
che ci dà la possibilità di controllarlo, esso è percepito come una
minaccia. Al più presto lo si deve giudicare per identificarlo, e, così,
disarmarlo e integrarlo. Tutto rientra allora nell’ordine; così teniamo
schiavi quelli che ci circondano.
« Non giudicate », non vuol dire: non esercitate il vostro giudizio
(aprir gli occhi vuol dire vedere le linee e i colori, aprire lo spirito vuol
dire giudicare) ; ma vuol dire non schedate con un giudizio frettoloso
e quasi definitivo coloro che sono attorno a voi. Credere nell’altro vuol
dire in primo luogo lasciargli sempre tutte le sue possibilità.
L’altro non ha diritto solo al vitto e all’alloggio. Egli ha diritto a
tutto ciò di cui ha bisogno per essere se stesso, per andare fino al fondo

75
di se stesso. Diritto che non tanto deve essere rivendicato da ciascuno,
ma che deve essere lealmente riconosciuto da tutti. È una questione di
giustizia sotto le sue diverse forme: dal superiore ai singoli, dai singoli
al bene comune, da ciascuno a ciascuno e a tutti...

Ma la fede umana che noi poniamo negli altri, anche garantita da


un vivissimo senso della giustizia, non potrebbe bastare. È necessaria
la fede teologale. Colui che è accanto a me, non lo è per caso, per una
specie di distrazione del Signore. Egli vi è in virtù di quella
sollecitudine divina che intesse legami e allaccia incontri. Bisogna
credere molto agli incontri, perché sono fra gli elementi principali del
governo divino.
Non è un eccesso di provvidenzialismo il dire:
l’altro non è là perché io l’ho scelto (in certi giorni cattivi, potrei dire:
se l’avessi dovuto scegliere...), ma perché il Signore ha la sua idea su
questa vicinanza. Egli è là come un compagno di lotta, un fratello
d’armi, come un testimonio di Gesù Cristo crocifisso e risuscitato,
come qualcuno che deve fare la strada con me, anche se solo per una
tappa. Per il gioco delle assegnazioni, può darsi che siamo separati,
sicuro; ma ecco che, per un certo tempo, per un po’ di strada, noi siamo
insieme. Cristo pensava ad ognuno di noi due unendoci per uno stesso
compito. E ciò che si dice di due, lo si deve dire anche di tutti, di
ognuno in rapporto a tutti, di tutti in rapporto ad ognuno. Questa
articolazione, è il lavoro stesso di « Ecclesia » che Dio persegue nel
mondo; egli convoca, riunisce, stabilisce dei legami.
Inoltre, per la nostra fede, l’altro, è un po’ il Cristo stesso che si
fa, almeno per un certo tempo, compagno della nostra strada. Il
Cristo è là, nella persona di ognuno, che dà a ciascuno in rapporto
agli altri il plusvalore della sua presenza reale. « Avevo fame e mi
avete sfamato; avevo sete e mi avete dissetato ». Tutto ciò che è scritto
nel capitolo escatologico di San Matteo (cap. 25) si applica benissimo
a quel prossimo così bisognoso che sono i nostri fratelli o le nostre
sorelle di comunità. Spesso sarà necessario ravvivare questo sguardo

76
di fede, perché la vita comune è per esso una temibile prova. Essa
fissa i tratti. Osservato in primo piano, frugato da quell’impietoso
obiettivo che è il nostro sguardo umano, il volto dell’altro, quando è
così vicino e così costante, fa presto a rivelare i suoi tic e le sue rughe.
La mancanza di distanza ci impedisce di rifar bello il volto dei nostri
fratelli.
Questo sguardo di fede non deve solo aiutarci a sorvolare su ciò
che ci dispiace nell’altro; deve anche aiutarci a ridurre ciò che troppo
facilmente ci sedurrebbe. Che si tratti di simpatia, di antipatia,
d’indifferenza spontanea, c’è sempre materia per un tentativo di
riconoscere e ammettere l’altro nella sua più grande profondità.
L’altro è parola di Dio, talvolta sconcertante, difficile da decifrare,
ma parola veramente divina. Si tratta di raggiungere in lui quel Dio
che lo abita, di non avvicinarlo mai se non in compagnia di Cristo,
perché è solo il Cristo che può darmi la vera luce per illuminarlo.
In tutta discrezione, senza forzare le porte, io devo posare sull’altro
uno sguardo che si sforza di essere lo sguardo stesso di Gesù. Ciò è la
fede: vedere un po’ come vede Dio.
Fede che si estende d’altronde alla comunità in generale, non solo
nel suo stato attuale, ma anche nel suo dinamismo, nel suo passato, nel
suo avvenire e che, di prossimo in prossimo, raggiunge la Chiesa e la
grande famiglia umana.

2. Dare e ricevere
Amare significa innanzitutto dare; la vita comune, ad ogni istante,
spinge a dare: servizi, tempo — non è ciò che più facilmente si dona
— attenzione, stima, fiducia...
Non è raro vedere comunità in cui si è molto generosi, certo, ma «
per l’esportazione », molto più che per l’interno... La gente di fuori la
vediamo soltanto in maniera episodica, ed allora è più facile mobilitare
a loro riguardo il meglio di noi stessi.
Tale reticenza al dono di sé, in una vita comune, può accusarsi
quando si è presi da un apostolato esterno assillante, e si ha di

83
conseguenza poca forza e tempo per l’interno. Allora nasce in noi il
pensiero di risparmiarci. Pensiero legittimo senza dubbio, ma quanto
più siamo presi da un lavoro che ci porti all’esterno, tanto più è nostro
dovere coltivare, anche se modestamente, la nostra appartenenza
attiva ai nostri fratelli. Che la nostra comunità legale resti la nostra
comunità reale.
In breve, non dobbiamo aver paura di perderci. « Chi si perde per
causa mia, si salverà ». La comunità è il luogo in cui noi saremo
continuamente chiamati a perderci, nel senso evangelico, per salvarci.
Donare, donarsi, ecco il primo aspetto della pienezza legata al voto
di castità perfetta.
Ma esiste un aspetto complementare che forse si tenderebbe
troppo a dimenticare: quello del ricevere. Ricevere, e non prendere.
Prendere vuol dire annettere e, all’occorrenza, strappare.
Ricevere, vuol dire accogliere il dono dell’altro: è una delle forme più
alte dell’oblatività. È talvolta molto più difficile ricevere che donare;
quando si dona, l’altro è un po’ l’obbligato; ci si mette con ciò stesso in
una posizione onorevole rispetto a lui; si è colui che ha in rapporto a
colui che non ha, e si preferisce essere creditore piuttosto che debitore.
Ricevere presuppone il fatto che si riconosca la propria indigenza
in rapporto all’altro, che allora è avvicinato dal basso in alto e non
dall’alto in basso, che non è dominato da noi. Si riceverà di buon animo
un servizio materiale, ma sarà così anche per un’osservazione o per
una correzione fraterna?...
Dare-ricevere: riconosciamo in questi termini gli atteggiamenti
complementari dell’essere umano che accede alla sua piena maturità.
Una vita in comune
non può, sembra, essere veramente condotta se non si è capaci
d’instaurare in sé questo ritmo di una sana personalità.
La carità è un’amicizia, dunque una reciprocità, uno scambio che
si tradurrà attraverso il dialogo. Attenzione però a questa parola: «
scambio »; essa non deve suggerire un’idea di baratto come se i più
poveri debbano essere lasciati da parte. A. Gide, nel suo Journal, nota:

84
« Un giorno ho incontrato un tale; abbiamo avuto uno scambio di idee;
sono tornato impoverito », cosa che è velenosissima per l’altro. Gide
ha l’impressione che ciò che ha dato fosse molto più prezioso di ciò
che ha ricevuto: ci ha rimesso.
È un po’ la mentalità che talvolta noi abbiamo in comunità, quando
ci mettiamo a fare quei bilanci furtivi, che consistono nel calcolare se
ciò che riceviamo è superiore a ciò che diamo, se non diamo a fondo
perduto...
Quando ci si mette su quella via, si è sicuri di sbagliarsi, perchè
non si potrebbe valutare l’imponderabile nascosto nel cuore di ogni
vita e partecipato senza essere espresso.
« Se qualcuno ti requisisce per un miglio, fanne due con lui. Dà a
chi ti chiede, e non respingere chi ti vuol chiedere un prestito». Il
discorso della Montagna sconvolge i nostri sordidi calcoli.
Questo scambio si realizza sotto diversi aspetti: a) L’aspetto
domestico
Il vitto e l’alloggio, tutte le minute cose della vita quotidiana, sono
la base di ogni vita fraterna. Quante verità non possono dirsi se non
alla fine di un pranzo amichevole!
Primo livello di scambio che ha molto pregio.

È a questo livello che Cristo ha condotto la vita comune per trent’anni;


usando il vocabolario domestico Dio ha rivelato le verità più decisive:
la semente, il lievito, la dracma perduta, i bambini che giocano e
saltano sulla piazza, davanti la casa...
b) L’aspetto apostolico
Noi siamo insieme per un servizio ecclesiale; mettiamo in comune
tutto ciò che fa il nostro servizio ecclesiale, anche se siamo impegnati
in maniere diversissime.
Non dobbiamo noi tollerare la semplice giustapposizione, che
favorirebbe l’individualismo, e l’individualismo apostolico è, come
diceva un Padre del Concilio, un’eresia.

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Dunque, mettere in comune le nostre ricerche e le nostre scoperte;
che non ci sia diritto d’autore troppo rivendicato, né ci si ritiri, con la
scusa che non si hanno le stesse idee apostoliche.
Se leggiamo attentamente gli Atti degli Apostoli, vediamo che
recano la traccia (assai pudica) di seri scontri. Per esempio al capitolo
15, 39, leggiamo a proposito di Paolo e Barnaba, che fino allora
collaboravano, queste poche parole che però dicono molto: «Nacque
un forte dissapore, tanto che si separarono». Furono necessarie nuove
assegnazioni perché non ci si intendeva più... E che dire della
controversia fra Pietro e Paolo, al «Concilio» di Gerusalemme?...
Solo ciò che viene a contatto, stride... È vero. A Dio piaccia che fra
noi ci sia questa specie di stridore per le grandi cose della vita
apostolica! Ci sono delle comunità dove, si può dire, tutto va troppo
bene in questo campo, a danno di una certa grandezza d’animo e di
una certa verità di vita apostolica. Carità non è sonnolenza. Possano i
nostri scontri essere semplicemente la nostra carità che afferma la sua
personalità, la sua virilità. Non bisogna averne troppa paura, a
condizione che abbiano un certo stile e che si mantengano salvi il
rispetto dell’altro, la fiducia e la stima reciproche.
c) Ma questo aspetto dipende da un altro, molto più decisivo, che dà
alla vita comune la vera identità: l’aspetto propriamente spirituale,
cioè dipendente dallo stesso Spirito Santo.
Se ci si fermasse all’aspetto apostolico, ben presto si trasformerebbe
la comunità in unità tattica, in ufficio di studi concernenti il Regno di
Dio. Noi non siamo gli ingegneri di un’impresa, foss’anche religiosa;
noi siamo figli di Dio, chiamati da Dio a rinsaldare la Alleanza, a
mettere la nostra vita di battezzati in regime di assoluto evangelico, a
riunirci per uno stimolo reciproco e permanente. Ciò che è in comune
fra noi è, insomma, lo Spirito Santo.
Una comunità ha la profondità stessa della Chiesa, e la Chiesa va
fino allo Spirito Santo che è la sua anima. Noi siamo riuniti per vivere
insieme il mistero cristano in tutta la sua profondità. Osserviamo il
modo con cui Cristo forma i suoi Apostoli: Egli li centra su di sé ed

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invia loro il suo Spirito.
Gli Apostoli hanno veramente affrontato il mondo solo quando
furono saldati in profondità e divenuti un tutto spirituale al Cenacolo.
È stato necessario che la loro comunità si scavasse così fino allo Spirito
Santo, ricevuto come un dono comune.
I nostri scambi apostolici, domestici, fraterni, familiari assumono
il loro significato nella misura in cui formiamo una comunità al livello
dello Spirito, che è
pienezza dell’amore. Dobbiamo sapere di quale spirito siamo. Siamo
dello Spirito Santo che ci aggruppa e ci tiene insieme. È là che i nostri
scontri sono esorcizzati, che divengono positivi, che sono
semplicemente l’affermazione della nostra complementarietà.
Perché accade così spesso che siamo divisi da ciò che dovrebbe
renderci complementari? Ricchezze che dovrebbero moltiplicarsi le
une con le altre si mutano in principi di divisione. Lo spirito del male
è là per contrapporre ciò che dovrebbe unirsi. Non è forse la prova di
un’affettività al suo giusto posto questa capacità di essere pienamente
se stesso insieme agli altri?

3. Avere la grazia « graziosa »


Tutto ciò in un clima di buon umore. In italiano, la parola
spirituale vuol dire: che riguarda lo Spirito, ma che riguarda anche lo
spirito che permette di vivere, non sul piano del dramma, ma del
sorriso. Il buon umore è una qualità comunitaria importantissima e un
segno di maturità.
Ci sono comunità in cui ognuno si farebbe scrupolo, quasi, di non
apparire teso. Troppa distensione farebbe pensare che non si prende
abbastanza sul serio il dramma del mondo o la profondità del mistero
divino.
È vero che la vita è drammatica, e molto più di quanto possiamo
esprimerlo con qualche ruga del nostro viso; è vero che la situazione
missionaria della Chiesa è esigente, che «non per scherzo siamo amati».
Ma siamo sotto il segno dello Spirito Santo, della carità, e frutto

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della carità è la gioia, la pace. Dunque molto buon umore perché l’aria
sia respirabile e perché ognuno si senta veramente a suo agio,
appoggiato sugli altri. In fondo, se lo vogliamo riconoscere, siamo
tanto fragili! Abbiamo tanto bisogno di essere avvolti da comprensione
e gioia...! «Fratello», «Sorella», sono termini ricchi di sorridente affetto.
Non dovremmo dimenticare, nel pieno delle nostre rudi battaglie
di adulti, di amarci in piena dilatazione di cuore, sentendosi ognuno
vicino agli altri stimolato nella sua propria linea, gratificato di tutte le
sue possibilità.
Al momento di lasciare i suoi Apostoli, il Signore è pienamente
cosciente che quegli uomini, malgrado la loro buona volontà, hanno
in essi tutto ciò che serve per non intendersi. «Amatevi gli uni gli altri,
come io vi ho amati», dice loro. La misura dell’amore fra noi, è l’amore
che Gesù ha per ognuno di noi.

4. Gruppo o comunità
Che forma prenderà questa vita fraterna: gruppo11 o comunità? Le
due parole, sebbene simili, hanno un differente significato. Ognuna
contiene promesse e minacce.
In « gruppo », c’è la promessa di un non so che di più giovane, di
più « grazia del secolo », di più omogeneo quanto all’età, ai gusti, ai fini
e dunque di più aperto, di più dinamico, di più efficace.
C’è la minaccia di un ritardo nell’adolescenza, di fragilità, di
equilibrio incerto e di slogatura nelle ore pesanti.
In «comunità », c’è la promessa di una vita che rispetta
innanzitutto l’inedito, il mistero che implica la persona in regime di
consacrazione religiosa; promessa anche di un passaggio più netto dal
piano psicologico o sociologico al piano teologale.
C’è la minaccia, soprattutto nello stato in cui sono ancora tante
nostre comunità, di senescenza, di giustapposizione pura e semplice,
d’individualismo (con la scusa di « consacrazione », di « solitudine con

11 In francese: équipe.

91
Dio ») o, più semplicemente, di non belligeranza fra generazioni che si
scontrano.
Si è meravigliati di vedere a che punto quelli che reclamano
maggiormente la vita di gruppo soffrono talvolta di un’aggressività che
denota una seria immaturità, e che fa mal augurare per ciò che sarà, di
fatto, il loro comportamento in gruppo, che rischia di diventare un
pugno di persone spente alla devozione di una personalità brillante.
Si è meravigliati per contro di vedere a qual punto quelli che
disprezzano il gruppo in nome della comunità sono di fatto chiusi a
certi valori evangelici che lo Spirito del Signore ci porta a prendere sul
serio: semplicità, sincerità, povertà, comunanza di beni, esplicitazione
generosa di ciò che siamo e di ciò che facciamo, ecc.
È perciò da augurarsi che gli uni comprendano il risanamento,
l’arricchimento portato alla vita religiosa da una vita di gruppo
condotta secondo l’esigenza evangelica, in particolare attraverso lo
sforzo che esso richiede di una trasparenza reciproca, di una perpetua
uscita da sé.
È anche da augurarsi che gli altri comprendano ciò che può
guadagnare il gruppo divenendo comunità, in particolare attraverso la
totale assunzione dei doveri di tutti gli altri membri, quali che siano, e
attraverso il radicamento di tutti nel mistero d’amore di cui Dio
avvolge ognuno.
Insomma, gruppo e comunità devono non opporsi, ma addizionare
i loro elementi positivi per formare una vita comune religiosa, con le
sue esigenze di solitudine e di pienezza.

La vita comune è più di un semplice mezzo che fa numero con gli


altri mezzi. Essa appartiene già all’ordine dei «fini». All’inizio della
regola di S. Agostino (che non è la regola comune a tutte le forme di
vita religiosa, ma che, ugualmente, esprime bene lo spirito della loro
maggioranza), è scritto: «Voi siete riuniti innanzitutto per avere una
sola anima nella casa12». La vita comune, dunque, tocca già il campo

12 Cfr. A. MANRIQUE, Teologia Agostiniana della vita religiosa, Àncora, Milano, 1968.

92
del fine ultimo: la riunione degli uomini in famiglia di Dio.
Così, a partire da questa piccola famiglia, che è la nostra comunità
religiosa, si dispiega, di prossimo in prossimo, limitata solo dal tempo,
dallo spazio e dalla finitezza delle nostre povere forze, la pienezza di
un amore che trae tutto il suo vigore dalla totale consacrazione al Dio
vivente.

93
PARTE TERZA

L’OBBEDIENZA

Attraverso la povertà e la castità perfetta, Dio, il Dio-Amore rivelato


in Gesù Cristo, si comunica.
Le nostre mani aperte, man mano che esse disimparano il possesso,
possono meglio ricevere e donare, scambiare, moltiplicare i gesti della
reciprocità, dell’amicizia.
I nostri cuori e i nostri corpi, man mano che gettano direttamente
in Cristo tutte le loro forze vive, possono meglio vivere di questo unico
amore di amicizia che va direttamente al Cristo in persona, e nella
persona di ciascuno di coloro che si sono incontrati.
Sarà lo stesso anche con l’obbedienza?
I due primi voti ci abbandonavano al Signore sopprimendo legami
importanti, quello della proprietà, dell’affetto coniugale e parentale.
Ecco invece che l’obbedienza ci consegna al Signore rinforzando le
mediazioni già normalmente esistenti! Ogni battezzato è preso, che lo
voglia o no, in una rete di mediazioni che devono normalmente
facilitare la sua vita umana e cristiana: leggi civili, leggi della Chiesa...
ecc. Il religioso, da parte sua, «ne aggiunge» altre: si pone
volontariamente sotto una regola che, con la sua influenza su tutta la
vita, ispessisce di molto il complesso legislativo abituale. Egli dipende
da superiori che vengono ad ingrandire il numero di coloro che la Città
e la Chiesa pongono al di sopra di lui per governarlo. « Tu hai posto, o
Dio, molti uomini al di sopra delle nostre teste », diceva con un sorriso
Newman, citando il Salmo 65, e volendo così intendere l’austera legge
della dipendenza che ci caratterizza. Cosa dirà allora il religioso? Che

94
ne sarà della sua libertà di figlio di Dio? Cosa potrà essere il suo
comportamento umano, apostolico?
Povertà e castità perfetta sgombravano il cammino, aprivano una
grande strada verso Dio e verso gli uomini; il voto di obbedienza non
è invece ingombrante, non erige dei nuovi ostacoli su questa via? Non
è forse in contraddizione con i due primi voti?

Come abbiamo fatto per questi, dobbiamo prima di tutto scartare


le caricature possibili, quelle morti che non aprono alla vita, e dunque
sono false morti. Esse sono qui più nocive, perché toccano un punto
decisivo: la volontà libera, il luogo stesso in cui si pronunzia il si o il
no che diciamo a Dio, agli uomini, a noi stessi.
Falsa morte è un’obbedienza che sa d’infantilismo, di formalismo,
di legalismo, che fabbrica degli eterni minori, è ammaestramento più
che educazione. Per la vita religiosa femminile, essa corrisponde ad
una certa concezione sociale della donna risalente al passato, piuttosto
che all’esigenza permanente del Vangelo. Per quanto esasperata e
quindi falsa possa essere una visione semplicistica della vita religiosa,
alla maniera di una certa letteratura da riviste, essa non è senza
fondamento.
Sempre nel numero delle contraffazioni dell’obbedienza religiosa,
mettiamo la pusillanimità, il servilismo, l’ossequiosità, l’adulazione, la
lode esagerata dei superiori, che è l’esatto corrispondente, in questi,
della volontà di potenza, inconsciamente camuffata, come vedremo,
dietro una nozione falsificata della grazia di stato. Ben presto tende a
stabilirsi una netta simmetria fra superiori e subordinati. Una
obbedienza più mondana che evangelica corrisponde ad una autorità
più mondana che evangelica. Il superiore ha i sudditi che merita e
viceversa. Al superiore indeciso corrisponde il suddito anarchico che
tende a costruirsi una vita al margine deir insieme. Al religioso
timoroso, passivo, corrisponde il superiore autoritario, sospettoso,
ombroso, poliziotto, che impone agli altri fardelli che egli stesso non
riuscirebbe a portare.

98
E non si gridi allora ad un sentore di feudalità: i più « aperti », i più
« democratici » superiori sono spesso, se non stanno attenti, più
autoritari di fatto degli altri, nella misura in cui, allontanandosi
anch’essi dal Vangelo, erigono « l’apertura », la « democrazia » a norma
esclusiva, a parola d’ordine draconiana, in stretto e secco
conformismo, che è questione di linguaggio più che di realtà,
menzogna, dunque. Più degli altri consigli evangelici, l’obbedienza
religiosa può essere obliterata, nella sua pratica, dalla storia delle
relazioni sociali. A noi dunque l’essere circospetti nella maniera di
criticare o lodare tale o tal altro stile d’obbedienza. C’è un fattore di
relatività che rende più imperiosa l’esatta valutazione dell’obbedienza
evangelica e del consiglio che essa ispira.

Vedremo in tre tappe:


I. L’obbedienza secondo il Vangelo.
II. La portata evangelica dell’obbedienza religiosa.
III. Alcune istanze essenziali di questa obbedienza.

99
I . L’OBBEDIENZA SECONDO IL VANGELO

La parola « obbedienza » si trova nei sinottici solo per evocare la


potenza di Cristo che sottomette a sé le forze della natura e gli spiriti13.
È S. Paolo che, nell’epistola ai Romani, usa questo termine a
proposito dell’uomo. « Hypakoé » designa l’atteggiamento di colui che
ascolta, che accoglie una parola proveniente dall’alto e vi si conforma.

1. L’obbedienza di Cristo
« Hypakouéin » è innanzitutto Vatteggiamento ài Gesù Cristo
stesso: « Il quale, avendo forma di Dio, non stimò come un bene da
tenersi gelosamente l’essere alla pari con Dio, ma svuotò se stesso col
prendere forma di servo e diventando simile agli uomini. E dopo
essersi comportato come un uomo nell’aspetto esterno, si umiliò
ancora più facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce
» (Fil 2, 6-8).
«Il Padre è più grande di me», dice Gesù. L’incarnazione che gli fa
lasciare il rango che lo faceva eguale a Dio, pone Gesù
nell’atteggiamento di ascolto umile che lo mette sotto la volontà del
Padre. Suo « nutrimento » e fare questa volontà che esige, da lui
rinunzia, offerta, sacrificio: « non la miasma la tua volontà » (Me 14,
36).
Così egli ci strappa alla disobbedienza del peccato: « Come per la
disobbedienza di un solo uomo, la moltitudine fu costituita peccatrice,
così pure per l’obbedienza di uno solo la moltitudine sarà costituita
giusta » (Rom 5, 19).
13 Cfr. Me 1, 27; Mt 8, 27; Me 4, 41; Le 8, 25 ecc.

109
Ma — ed è essenziale notarlo qui —, è di fatto attraverso realtà
umane che Gesù ha obbedito a suo Padre. Come Verbo, egli è l’Uguale
immediatamente unito al Padre e allo Spirito; ma come uomo, nel
condividere realmente la nostra avventura umana, egli si unisce al
Padre attraverso l’umano. Umano santissimo, come Maria e Giuseppe
(« Egli era loro sottomesso », Le 2, 31). Umano profano: Gesù s’inserisce
in un insieme di leggi civili, nasce a Betlemme, a causa del censimento
indetto da Cesare Augusto. Umano opaco, perverso: muore innocente,
condannato al supplizio della croce dal giudizio estorto a Pilato da una
folla manovrata dai Sadducei e dal Sinedrio di Gerusalemme.
Tutto questo umano così diverso, Gesù lo attraversa, cioè, allo
stesso tempo, non lo evita, lo assume e lo supera. Attraverso questo
universo mediatizzante, il Mediatore raggiunge la volontà amante del
Padre e consacra così ciò che è una costante nel piano di Dio: per
salvare l’uomo, passare attraverso gli uomini e le realtà umane. Dio
non vuole salvare l’uomo al di fuori dell’orizzonte umano. Egli prende
un’umanità nostra, affida ad uomini come noi (dotati di carismi di
ministero), a delle realtà nostre (acqua, pane, vino...) il dono della sua
vita di cui vuol far vivere gli uomini. Tutta la politica sacramentale è
qui. E l’obbedienza appartiene a questa politica.
Così obbedisce Gesù nella sua umanità. «Pur essendo Figlio, imparò
da ciò che soffrì, l’obbedienza» (Ebr 5, 8). L’autore dell’Epistola
stabilisce là, nel Cristo, un legame fra sofferenza e obbedienza. Per
quanto filiale, l’obbedienza di Gesù è stata dolorosa: era una lotta
contro il peccato. Ma in che cosa questa lotta è di fatto consistita? In
cosa questa obbedienza b, di fatto, stata dolorosa se non nell’urto col
potere stabilito (civile e religioso) e nella sottomissione al Padre
attraverso questo potere?
Questo sì totale che conduce Gesù alla morte, abbatte il peccato.
Questa morte è una vittoria. Questo servitore è Signore: «Perciò Dio
l’ha esaltato...» (Fil 2, 9-11).

110
2. L’obbedienza del cristiano

a) Ad immagine di Cristo

Con il suo battesimo, che è una immersione nella morte di Cristo,


il cristiano partecipa a questa vittoria dell’obbedienza. Il discepolo non
è più grande del Maestro. Ogni cristiano è invitato a fare sua
l’obbedienza di Gesù. L’obbedienza cristiana è quella di Cristo vissuta
da quell’«altro Cristo» che è il battezzato.
Il figlio di Dio, cessando di essere perduto, e ritrovando, in Cristo
e attraverso Cristo, il cammino della casa del Padre, è «giustificato dalla
fede», che gli fa ricevere dal basso in alto la Parola di Dio e accoglierla
con un sì lucido e amante. La fede è obbedienza (Rom 1,1). Noi non
siamo più sotto la legge, siamo liberi (cfr. Gal 5; Rom 7), ma la fede ci
pone nell’atteggiamento di Gesù di Nazareth in rapporto a suo Padre,
atteggiamento filiale che avevamo perduto e che in lui ritroviamo.
Proprio a questa profondità bisogna radicare l’obbedienza
cristiana. Essa dipende direttamente dalla fede al Cristo, adesione alla
sua persona e alla maniera concreta che egli ha usato per salvarci. Essa
non è certo virtù teologale: il suo oggetto diretto non è Dio stesso, è la
mediazione umana, ma questa fa parte della vita di Gesù e il cristiano
che vorrà vivere di questa vita non potrà dunque che trovare, sulla sua
strada verso il Padre, queste mediazioni di ogni ordine, trasparenti in
maniera ineguale, che Gesù stesso ha incontrate.
« Seguimi », dice Cristo. Chi allinea i suoi passi con quelli di Cristo
deve aspettarsi di incontrare, con Cristo, tutti questi intermediari,
uomini e cose, attraverso i quali il Padre si dona, tutte queste volontà
che significano, a gradi di limpidità molto diversi, la volontà del Padre.
b) Obbedienza ecclesiale
A questo punto la cosa si complica: fra le altre mediazioni, Gesù
ha incontrato delle mediazioni religiose, quelle della vecchia Legge,
che egli veniva « non per distruggere, ma per perfezionare », condurre
a termine. Egli ha chiaramente mostrato che era il « padrone del sabato

111
», che veniva a instaurare una legge nuova: « vi è stato detto... io vi
dico... ».
Non succede esattamente la stessa cosa per i discepoli di Cristo. Le
mediazioni religiose che essi trovano sulla loro strada, sono quelle
della Legge nuova, della Chiesa che fa corpo con Cristo. Essi non
devono superarle per stabilire una terza alleanza, ma devono prenderle
come l’espressione dell’aiuto concreto che Dio presta loro, per fare di
ogni uomo un suo figlio.
Il Mediatore unico è Gesù Cristo. All’interno e al servizio di questa
mediazione, per renderla presente, sensibile — secondo la politica
sacramentale — a tutti gli uomini di tutti i tempi, Gesù Cristo chiama
degli uomini. « Chi ascolta voi, ascolta me ». Egli è, fino alla fine dei
secoli, il Capo del suo popolo; questi uomini non aggiungono nulla alla
sua mediazione, non le forniscono un prolungamento nel tempo, non
si sostituiscono ad essa. Il loro compito è di rendere tangibile l’attuale
presenza del Signore alla testa della sua Chiesa. Per significare oggi la
sua funzione di Testa del corpo ecclesiale, Gesù Cristo chiama degli
uomini alla testa di questo corpo. «Pasci le mie pecore». Le pecore sono
quelle di Cristo che è il Pastore eterno, attuale, significato,
sacramentalizzato in quel Pietro che, qualche giorno prima, ha
rinnegato il suo Signore.
Potenza amante, fiducia inaudita di Cristo la cui umanità
trasparente non teme di mostrarsi solidale con l’umanità peccatrice di
coloro che egli pone alla testa della sua Chiesa, la cui Mediazione unica
non teme di sacramentalizzarsi nei mediatori umani, nelle voci, nelle
volontà, nelle intelligenze di uomini del nostro mondo.
Gesù Cristo fino alla fine dei secoli, salva gli uomini attraverso
alcuni uomini che hanno essi stessi bisogno di essere salvati.
Il mistero dell’obbedienza cristiana, che è indissolubilmente
obbedienza ecclesiale, consiste in questo. Esso raggiunge il mistero
stesso dell’amore di Dio per gli uomini: un amore umile che non teme
di introdursi nello spessore dubbio dell’impasto umano. L’amore non
sovrasta, ma cerca il medesimo livello; non teme affatto il passo a

112
passo, la sua purezza va fino al limite della complicità, e anche oltre; si
assume il rischio della libertà umana.
Ciò che noi chiamiamo « grazia di stato » presso un responsabile di
Chiesa non designa dunque per nulla un automatismo. È una « grazia
», un dono di Dio confidato a una libertà peccatrice. Chi la riceve può,
come per ogni grazia e malgrado l’assistenza dello Spirito Santo, essere
infedele. Ma questa infedeltà stessa (come vedremo) non è estranea
all’azione di Dio. Così già durante l’Esodo, Dio girovagava col Popolo
il cui capo visibile non doveva mai entrare nella Terra promessa,
perché aveva dubitato. Il solo modo per gli Ebrei di entrare in Canaan
era di seguire proprio quel Mosè che non vi sarebbe entrato. Ecco
l’umanità di Dio. « Se ci vergognassimo della Chiesa, saremmo inumani
laddove Dio è umano, ci vergogneremmo insomma di Gesù Cristo
stesso ». (Karl Barth).
Qui è il paradosso dell’obbedienza cristiana (che l’obbedienza
religiosa porterà al parossismo): come per Cristo, ciò che è essenziale
per il cristiano è di obbedire al Padre per amore, e di trovare in questa
obbedienza amante la fonte della sua inalterabile libertà, della sua
coraggiosa potenza di contestazione riguardo a tutto ciò che è meno di
Dio. « Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini ». Ma per
obbedire a Dio piuttosto che agli uomini, bisogna imitare Gesù Cristo
in quella « follia » che l’ha fatto attraversare, e non evitare, voleri
umani. Obbedire al Padre è consentire affinché la volontà del Padre ci
si presenti mediatizzata.

c) La legge e le leggi
Uomini per rendere presente il Figlio dell’uomo, sì; ma perché
questo cumulo di leggi, di regolamenti, di costituzioni, di
consuetudini?
La legge svolge un compito nuovissimo dopo Gesù Cristo, e una
certa maniera di vivere come Chiesa, comune a molti cristiani, sembra
purtroppo, non ispirarsi a questa novità radicale. Da che Gesù è

113
venuto, il legame è riallacciato col Padre, lo Spirito di adozione abita
in noi. Non viviamo più sotto la legge, ma nella fede. Noi siamo
divenuti figli di Dio e ne abbiamo le franchigie, la libertà. Non siamo
più legati a quelle osservanze legali che, sotto l’Antica Alleanza,
esprimevano imperfettamente, in attesa della venuta del Salvatore, il
legame fra Dio e gli uomini. « Il Regno di Dio non è cibo o bevanda,
ma giustizia, pace e gaudio nello Spirito Santo » (Rom 14, 17).
« La legge nuova, è lo Spirito Santo e ciò che lo Spirito Santo fa in
noi » scrive chiaro e tondo San Tommaso d’Aquino14.
Due versetti del Vangelo secondo S. Giovanni (cap. 14) mostrano
come la legge si interiorizzi: «Chi ha i miei comandamenti e li osserva:
ecco chi mi ama» (v. 21). E: «Se mi amate, osservate i miei
comandamenti» (v. 15). All’inizio, si obbedisce soprattutto per
imparare ad amare; più tardi, si obbedisce perché si ama. Legge del
tutto interiore, tutta d’amore, dell’amore di carità « che è stato diffuso
nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci fu donato » (Rom 5, 5), legge
che non è qualcosa, ma Qualcuno. È ormai lo Spirito che fa legge.
E le leggi? Sono necessarie, ma dopo Cristo non hanno altro
compito se non di aiutarci a decifrare la legge interiore e a mantenerci
sotto la sua presa. Da «enfant terribles» quali restiamo, ci servono delle
leggi per vivere la Legge nuova. Le leggi dunque devono essere sempre
trasparenti alla Legge, sotto la sua stretta mozione. L’istituzione è al
servizio dell’ispirazione.
Altrettanto possiamo dire, con le dovute proporzioni, delle leggi
civili. Esse sono da più lontano ricollegate all’azione dello Spirito
Santo; ma, è un fatto, Paolo, il grande predicatore della Legge nuova,
tutta di libertà, insiste in parecchie delle sue più « spirituali » epistole
sul valore delle leggi civili (cfr. Rom 13; Col 3, 18 sg.; Efes 5, 21 sg.;
Tim 6, 1 sg.; Tit 3, 1 sg.; ecc.). Non diversamente si esprime Pietro (1
Pt 2, 13 sg.).
Tali prescrizioni di Paolo e Pietro, al giorno d’oggi ci meravigliano;

14 Commentario del Cap. VII dell’Epistola ai Romani.

114
sembrano consacrare un ordine sociale contestabile e perfino odioso,
come quello che ammette, ad esempio, la schiavitù.
Diciamo che il Signore è venuto a portare non un nuovo
programma sociale, ma una vita nuova deposta in germe nell’umanità,
chiamata a crescere durante la storia degli uomini e con il loro
concorso. Non un programma di rivoluzione, ma un germe di
rivoluzione, la propria vita gettata in terra umana come una semenza.
Pietro, Paolo, la Chiesa primitiva, benché assistita in maniera tutta
speciale dallo Spirito, non sono che l’inizio della Nuova Alleanza. Sarà
necessario tutto lo spiegamento attivo della storia umana perché
questa semenza di vita cresca e porti frutto nelle civiltà, nelle
mentalità, nei diversi settori della città umana. Questa crescita non
avverrà senza contestazioni, senza urti; ma potrà conoscere fasi di
latenza, di complicità con il disordine stabilito, o, al contrario fasi di
espansione sorprendente, di esplosione; ispirerà l’insurrezione
permanente di questo pugno di poveri, di miti, di afflitti, di puri, di
affamati di giustizia, di artigiani di pace, di misericordiosi, di
perseguitati per la giustizia che prendono sul serio il Vangelo; sarà, nel
cuore del mondo, la crescita della vera libertà, quella che trae origine
nell’obbedienza di Cristo.
Obbedire al Dio vivente, nella Chiesa e nello Stato, ormai
significherà sempre essere in ascolto (hypakouein) di quelle molteplici
pulsioni e impulsi, segni e precetti, con cui lo Spirito di Cristo traccia
la nostra strada e la strada degli uomini. Così noi potremo decifrare e
mettere in opera la volontà amante del Padre, e passeremo da un
universo dove tutto è oggetto, ad un universo dove tutto è segno.
Attraverso uomini e leggi, Gesù ci pone progressivamente con il suo
Spirito sotto la legge unica del suo amore e fa di noi degli esseri nuovi:
lo Spirito modella in noi i tratti di quel Cristo che fu Servitore
obbediente fino alla morte e Signore di gloria.
L’obbedienza, nella vita di un cristiano, ha finalmente l’unico
scopo di coltivare in lui la perfetta docilità allo Spirito Santo, lo Spirito
che oltrepassa uomini e leggi e si serve del minimo avvenimento per

115
plasmarci ad immagine del Figlio unico.

d) L’obbedienza: una comunione


Parlare come abbiamo fatto noi, è esigente innanzitutto per chi
esercita l’autorità. Nel Popolo di Dio l’autorità è un servizio, come è
stato spesso detto e dimostrato, specie dopo il Vaticano II.
Quello che più di rado è affermato, è che essa è — senza paradosso
— un’obbedienza. Si, comandare, nella Chiesa, (e ad un grado
inferiore nello stato), significa obbedire agli imperativi del Signore,
comè di i si può decifrare nella vita di colui e dì coloro disili . si è
responsabile. Comandare, significa mettersi in ascolto di Dio che parla
in ciascuno e in tutti, che è il Bene Comune ultimo. Vuol dire allinearsi
con quella Parola amante e imperiosa che crea e ricrea ognuno e
l’insieme durante tutta la storia.
Ogni superiore ha dei superiori; ogni superiore è preso, anche e
soprattutto lui, in una rete di esigenze di cui deve assicurare e
l’applicazione e l’animazione; sta a lui allora di curare affinché
l’ispirazione orienti il passo dell’istituzione; a lui spiare
continuamente ciò che « lo Spirito dice alla Chiesa» e a quel settore
di Chiesa di cui è responsabile; a lui di comunicare con la volontà
amante del Padre che « continuamente agisce », allo Spirito che fa
legge; a lui di prendere le parti del Cristo in ognuno e in tutti, di
passare dalla sua maniera soggettiva di vedere, di dire, alla maniera
di Dio. Incessante pasqua dello sguardo, della parola, del gesto, del
cuore! La sua importanza è la sua trasparenza... Egli deve essere il
servitore della grazia battesimale degli altri. Egli deve avere l’umiltà
del primo posto, per rendere agli altri il servizio eminente di
istruirli, di santificarli, di governarli. «Paolo, servo dei servi di Dio...
».
A questa comunione con la volontà del Padre nei subalterni,
corrisponde, presso costoro, la comunione con la volontà del Padre
nei superiori. Ai superiori che si sforzano, non di applicare un
regolamento o di imporre la loro volontà, ma di decifrare con tutte

116
le risorse dello Spirito e del cuore l’azione dello Spirito nei loro
fratelli, corrispondono i fratelli che si sforzano non di piegarsi ad un
regolamento o ad una volontà troppo umana, ma di decifrare,
attraverso delle leggi, attraverso coloro che il Signore ha rivestito
del carisma di servizio, l’azione dello Spirito nella loro vita.
Con il pretesto che la «Legge nuova è lo Spirito Santo» non si tratta
per il cristiano di pretendere né di dipendere dallo Spirito che soffia
direttamente in lui. « Lo Spirito ha parlato per bocca di Pietro ». Dio
prende la Parola in parole di uomini che danno carne al suo Verbo. La
sua volontà si incarna in volontà limitate, imperfette, peccatrici. Dio è
povero, il presepe continua, la Croce anche...
Certo, le più nere imposture di certi responsabili della Chiesa,
durante i secoli, si sono innestate su questo mistero adorabile di un Dio
che vi si appiglia così per salvare gli uomini. Perciò non andiamo ad
insegnare al Salvatore a salvare. La libertà dei figli di Dio si traduce
non con un rifiuto delle mediazioni umane, ma con una maniera
lucida, nobile, teologale di accoglierle e utilizzarle, per una reale
docilità allo Spirito Santo.
L’obbedienza del cristiano è alla congiunzione di due atti di
comunione: comunione del responsabile (segno vivente del Cristo-
Capo) con la volontà amante del Padre; comunione del fedele con la
volontà amante del Padre, che gli è significata nel responsabile.
In questa duplice e convergente comunione si apre il dialogo fra
superiori e sudditi o piuttosto fra ministri e membri del Popolo di Dio,
dialogo talvolta assai aspro, segnato dalla tensione espressa da queste
parole nel Nuovo Testamento: « chi ascolta voi, ascolta me » (Le 10,16)
e: « bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini » (Atti 5, 29) L
Queste tensioni in cui si esprime la voce multiforme dello Spirito, non
sono da temere se sono vissute nella fede, nella speranza, nell’umile
amore di carità. Esse riproducono lo scontro fra Pietro e Paolo che fu
così fecondo per la Chiesa.
Ma in questa Chiesa, segnata così ad immagine del suo Signore
dalla obbedienza evangelica, qual è il senso del consiglio evangelico di

117
obbedienza e del corrispondente voto? 15

15 L’opposizione fra queste due parole è qui da intendere in assoluto e non nel contesto di
ciascuna di esse.

118
II PORTATA EVANGELICA DELL’OBBEDIENZA RELIGIOSA

Abbiamo spesso visto nel « Vieni e seguimi » (Me


10, 21; Mt 19, 21; Le 18, 22), che Gesù dice al ricco, la parola
fondamentale esprimente il consiglio evangelico di obbedienza.
Bisogna riconoscere che è una base insufficiente: corrisponde al
modo di procedere generale di ogni discepolo di Gesù Cristo. La
coscienza più viva che abbiamo della nostra consacrazione battesimale
ci impedisce ormai di attribuire alla consacrazione religiosa parole,
atti, valori che dipendono in primissimo luogo dalla nostra naturale
appartenenza a Cristo attraverso il battesimo. Il religioso prima di tutto
è e resta un battezzato; parlare dell’obbedienza cristiana significa dire
già l’essenziale dell’obbedienza religiosa 16. Sebbene «seguire Cristo»
abbia assunto, dalla fine del terzo secolo, un significato più ristretto di
quello battesimale, questa parola, tolta così a fior di Vangelo e tale e
quale indirizzata ad ogni uomo, non potrebbe bastare a delimitare il
consiglio evangelico di obbedienza.
Non attribuiamo nemmeno alla sola obbedienza religiosa ciò che
dipenderebbe dall’obbedienza dei Quattro (Pietro, Andrea, Giacomo e
Giovanni): «Lasciate le reti, lo seguirono» (Le 5, 11), per realizzare più
tardi un compito preciso: essere «pescatori di uomini» (Mt 4, 19).
Si tratta in questo caso di obbedienza apostolica che sfocia sui
carismi di ministero. Certo, come vedremo, c’è un legame realissimo
fra obbedienza religiosa e servizio alla Chiesa17 , ma non prendiamo
per voto di religione ciò che dipende dal sacramento dell’Ordine. Il

16 San Tommaso d’Aquino, nella sua Somma teologica (II.a-II.ae, 186, 8 ad I) lo riconosce implicitamente
allorché scrive: «il consiglio di obbedienza è incluso nell’invito stesso a seguire Cristo».
17 Soprattutto quando lo stesso uomo è insieme sacerdote e religioso.

149
prete secolare obbedisce al suo vescovo; la sua obbedienza tuttavia non
è quella cui noi, religiosi, ci impegniamo per voto. Tale voto risponde
a un consiglio. Qual è questo consiglio? Per quanto ancor oggi è
imperfetta, in questo campo, la riflessione teologica, possiamo
affermare, sembra, ciò che segue.

Benché i consigli evangelici siano gerarchicamente posti al di sotto


dei sacramenti, di essi dobbiamo dire ciò che, per analogia, diciamo dei
sacramenti stessi: sono stati tutti fondati da Cristo, ma a Lui si
ricollegano da più o meno vicino18. Così i consigli evangelici sono, nel
cuore del Vangelo, altrettante espressioni dello Spirito che ci guida in
campi-chiave dell’esistenza umana, verso una appartenenza più stretta
a Gesù; ma come per i sacramenti, è la Chiesa che, nell’arco della sua
storia, precisa e garantisce il loro statuto e la loro realizzazione.
Con l’obbedienza, ci troviamo di fronte a ciò che si potrebbe
chiamare un consisto includente. Esiste un consiglio evangelico
d’obbedienza, ma per distinguerlo, non bisogna cercare troppo la sua
espressione letterale nel testo stesso. Bisogna decifrare l’insieme così
parlante dei rapporti di Cristo con il Padre, come ce li descrive il
Vangelo, perché gli atti di Gesù sono, anch’essi, parola di Dio, buona
novella, evangelo.
Alcuni battezzati sono chiamati a vivere questi rapporti in una
comunità umana precisa, secondo un preciso regime, garantito dalla
Chiesa e, se seguiranno il consiglio che lo Spirito ispira loro, vedranno
la loro vita di battezzati prendere più nettamente sapore di Vangelo,
gusto di beatitudine. Sì, lo Spirito consiglia a certuni per una più
vigorosa messa in opera del Vangelo, di porsi sotto una regola di vita
ben definita, tutta ordinata all’appartenenza totale a Dio, includente
castità perfetta e povertà. Queste nuove mediazioni, aggiungendosi a
quelle che il battezzato già conosce, non sono senza rischio; ma la
Chiesa assistita dallo Spirito ci afferma — e la storia ce lo prova — che,
malgrado tante carenze e difetti, il consiglio di obbedienza può farci

18 Paragonare a questo proposito l’Eucarestia e l’Estrema Unzione.

150
raggiungere, a grandi passi, il perno del Vangelo: l’autentico amore di
Dio, del prossimo e di noi stessi. È proprio un consiglio evangelico.
Il Decreto conciliare sull’adattamento e il rinnovamento della vita
religiosa segue questo indirizzo; esso inserisce la professione di
obbedienza nel cuore del mistero di Cristo e della Chiesa, nel cuore
del Vangelo (cfr. in particolare n. 14).
Tre aspetti precisano la portata evangelica dell’obbedienza
religiosa:
— aspetto pedagogico e comunitario,
— aspetto pasquale,
— aspetto apostolico,
aspetti che non si sommano l’uno all’altro, ma che si richiamano e si
includono a vicenda.

1. Aspetto pedagogico e comunitario


L’obbedienza religiosa si presenta innanzitutto a chi vuole viverla,
come una pedagogia realista dell’obbedienza di Gesù Cristo stesso nei
riguardi del Padre. Ogni vita cristiana è un apprendistato della vita
filiale, sotto la condotta dello Spirito Santo. Attraverso la liturgia e la
catechesi, attraverso lo svolgimento stesso della sua vita, la Chiesa
assicura questo apprendistato. Essa è « Mater et Magistra ». Nella
Chiesa, la vita religiosa precisa, per quelli che vi sono chiamati, questo
aspetto pedagogico con un’organizzazione, un’istituzione, un fascio di
mediazioni originali.
Dio vuol salvare gli uomini passando attraverso uomini. Questa
verità essenziale che si afferma fondamentalmente nei rapporti con la
gerarchia, alcuni battezzati vollero, fin dal nascere della Chiesa,
realizzare a fondo, senza pregiudizi — al contrario — per la loro
obbedienza alla gerarchia. Essi domandarono a un « anziano », a un
gruppo di fratelli, uniti da una stessa regola di vita, di insegnare loro
come attualizzare, nel particolare della loro esistenza, l’obbedienza di
Gesù Cristo. Sarebbe interessante seguire la storia dell’obbedienza

151
religiosa che ha conosciuto molti mutamenti dagli eremiti ed asceti (III
sec.) fino ai nostri giorni.
Attraverso la diversità delle forme e dei contenuti sociali, il fatto
resta: esistono sempre uomini, donne che, sotto la spinta dello Spirito,
cercano il modo di dare alla loro obbedienza battesimale tutto il suo
sviluppo, il modo di « unirsi più fermamente e sicuramente alla
volontà divina di salvezza » (Decreto conciliare citato, n. 14).
Essi vogliono andare fino all’assoluto della comunione con la
volontà del Padre, quale Gesù Cristo l’ha vissuta. Responsabile della
vita di Gesù Cristo sulla terra, la Chiesa fa suo il loro desiderio e
propone loro, in nome dello Spirito che l’anima, il consiglio evangelico
di obbedienza. Consiglio duro da intendere, ma che incontra il nostro
bisogno permanente di essere ammaestrati, che, soprattutto, raggiunge
il Vangelo stesso, parlandoci dell’infanzia come della suprema riuscita
di una vita.
Infanzia, non all’indietro, ma in avanti; non attardamento, né
regressione nell’infantilismo, ma apice di maturità, invasione della
nostra età matura da parte delle Beatitudini. Bisognerebbe essere assai
infantili per non vedere la sapienza profondamente umana che
nasconde la parola del Signore: « Se non diventate come dei bambini...
».
Pedagogia religiosa e infanzia evangelica non coincidono
esattamente, è vero; ma come non riconoscere nell’infanzia vissuta e
predicata da Gesù la docilità, la disponibilità, la semplicità che sono al
principio di ogni pedagogia, di ogni propedeutica? Nel cuore della vita
religiosa, che è tutta intera scuola di conversione permanente a Gesù
Cristo, l’obbedienza ci insegna ad essere adulti lucidi e realisti che
crescono in freschezza d’anima e sono sempre più avidi di essere
ammaestrati. Man mano che assumono la loro piena statura di uomini
nuovi in Cristo, essi comprendono che Dio li supera infinitamente a
forza di essere semplice. Grande-piccolo, elevato-abbassato, primo-
ultimo, padrone-servo: queste antinomie scandiscono il testo
evangelico. Esse ci aiutano a lasciar vivere in noi il fanciullo che fu

152
Gesù Cristo. Eccole sistematicamente coltivate con la professione di
obbedienza. « Ogni uomo è mentitore », è vero. È vero dunque, devo
aspettarmelo, di quegli uomini che sono i miei superiori. È vero di
quelle regole umane, costituzioni, istituzioni che essi hanno incarico
di applicare. Ma più io verifico questa parola del salmista, più, nello
stesso tempo, misuro quanto questi uomini e queste cose mi
manifestano la volontà amante e crocifiggente e vivificante del Padre.
Rifiutare di essere così « condotto dove (talvolta) non vorrei », è in
definitiva rifiutare la pedagogia divina, assunta dalla Chiesa, che mi
insegna non esattamente ad obbedire al superiore come a Dio, ma ad
esprimere e a nutrire nella mia obbedienza al superiore la fiducia filiale
in Dio.

Tuttavia vedere nell’obbedienza religiosa un semplice rapporto


con dei superiori o con una regola di vita, significherebbe restringerne
e persino falsarne il senso.
La sua vera essenza è costituita proprio dall’essere nello stesso
tempo un rapporto con dei fratelli, con delle sorelle.
Essa è essenzialmente comunitaria.
Non c’è vita filiale senza vita fraterna. Ancora una volta si tratta di
una costante evangelica di ogni vita cristiana, che è necessariamente
vita ecclesiale; ma la professione religiosa accentua questa costante. «
Entrare in religione », vuol dire formare una comunità riunita sul
Vangelo, con il Vangelo per regola, vuol dire unirsi a un gruppo di
fratelli uniti in una stessa ricerca, che si sostengono, si stimolano a
vicenda, nel pieno, mutuo rispetto per la personalità di ognuno, che
realizzano, in modo più visibile e più concentrato, la comunione dei
santi che riguarda la Chiesa intera.
Non si tratta affatto, per la comunità, di livellare, di negare la
libertà, né di diventare essa stessa principio di autorità o di sostituirsi
al superiore, non essendo più questi che l’eco inerte di una
maggioranza, oppure di questa o quella personalità più forte tra i
fratelli. Si tratta proprio, anche in questo caso, di quella pedagogia

153
divina secondo la quale il Padre rivela la sua volontà agli uomini
attraverso gli uomini; pedagogia che si esercita in questo caso nella
relazione, non più da superiore a fratello, ma da fratello a fratello.
Dio non limita mai il dono delle sue elargizioni a una sola
dimensione. Il superiore decide, ma non senza i fratelli19.
I rapporti autorità-fraternità possono essere diversi secondo i
diversi climi sociologici in cui sono nate le nostre famiglie religiose:
l’obbedienza del benedettino non è quella del francescano, né quella
del gesuita; bisognerebbe forse, a nostro avviso, concepire una
diversità ancora maggiore, secondo i geni, i bisogni e gli appelli di ogni
comunità. Ma dappertutto e sempre di più, noi siamo indotti a
riconoscere all’obbedienza questa nota comunitaria. Ciò non significa
sacrificare a una moda. Il superiore non è e non resta, sostanzialmente,
un uomo venuto a chiedere umilmente la compagnia dei suoi fratelli,
per comunicare fino all’assoluto con la volontà del Padre?
Posti alla nostra testa, dotati della grazia e del potere di decisione
ultima, rendendoci il servizio insigne di guidarci in nome del Signore,
i nostri superiori non restano meno totalmente assoggettati alla nostra
regola di vita evangelica, presi nella rete dei nostri rapporti fraterni
attraverso i quali la vita nuova alimenta ognuno e tutti. Essi sono i più
fratelli di tutti i fratelli.
Essere nostri superiori, non vuol dire per essi emergere dalla
comunità, ma confondervisi, in una ricerca più umile e più ardente
della perfezione dell’amore. Ricerca che stimola la nostra e fa di essi
dei fratelli maggiori secondo lo Spirito, prima di essere organizzatori e
amministratori.
Cosa sarebbero essi, cosa saremmo noi senza questi scambi
intessuti di misericordia e di esigenza, senza questa mutua assunzione
d’incarichi che deve dare ad ognuno tutte le sue possibilità?
Approvazioni o contestazioni, gentilezze o rudi spintoni devono

19 Notare, nel già citato Decreto Conciliare, l’importanza data ai capitoli, ai consigli, e più
largamente alla « partecipazione di tutti i soggetti... relativamente al bene dell’intera comunità » (n.
14).

154
trovarci disponibili, smuoverci dalle nostre posizioni di ripiego,
ricondurci continuamente nella corrente che lo Spirito fa passare in
questa piccola porzione del Regno 20.
Dolce o amara, secondo i giorni, questa vita di famiglia svolge la
sua funzione pedagogica. Essa ci tiene alla scuola della carità fraterna,
che ci fa instancabilmente preferire la volontà del Padre alla nostra.
Essa ci mantiene nell’atteggiamento stesso dell’obbedienza; un ascolto
umile e accogliente della Parola «hypakouéin », di quell’«evangelo »
che Dio ci indirizza nei nostri superiori e in ciascuno dei nostri fratelli,
in ciascuna delle nostre sorelle.

2. Aspetto pasquale
Su che cosa poggia questa pedagogia permanente della
conversione a Cristo che ci lega a una regola di vita evangelica, a dei
superiori, a dei fratelli, a delle sorelle? Verso che cosa ci dirige?
Insomma, qual è il suo senso (nella duplice accezione del termine:
significato e orientamento)?
Il suo senso è l’avvenimento di Pasqua che è nel cuore del Vangelo.
Attualizzato in tutta un’esistenza umana, esso assumerà il valore di
segno, farà (aspetto apostolico) di tutta questa esistenza una eco fedele
della Buona Novella, le darà una portata efficace per la Chiesa nella
sua missione fra gli uomini. Non è un privilegio dell’obbedienza: i tre
consigli evangelici, come abbiamo visto, hanno l’unico senso di farci
realizzare, in tutta la sua intensità, quella morte-per-la-vita che Gesù
ha realizzato nella sua Pasqua. Ma, con l’obbedienza, noi arriviamo
incontestabilmente al consiglio in cui la realtà pasquale prende il suo
più marcato rilievo.
Proprio alla parola obbedienza San Paolo, nella Epistola ai
Filippesi, ricollega il mistero pasquale: «Facendosi obbediente fino alla
morte, e alla morte di croce. Perciò Dio l’ha esaltato... » (2, 8-9).

20 Questa funzione della comunità e di ognuno dei suoi membri (superiore o suddito), obbliga
sempre più ad essere esigentissimi sull’ammissione e la formazione. Più questo aspetto comunitario
dell’obbedienza è vissuto, più appaiono incompatibili con la vita religiosa quelle carenze che
appesantiscono un buon numero delle nostre attuali comunità.

155
L’obbedienza religiosa trae origine nel mistero di Cristo, Servo
sofferente, che comunica per amore, nella sua volontà umana, con la
volontà del Padre.
Per mezzo di lui noi raggiungiamo il mistero stesso della Trinità; il
più piccolo movimento della volontà umana di Gesù corrisponde al più
piccolo movimento della volontà del Padre, a cui egli è, come Verbo,
eternamente unito. Ma l’obbedienza di Cristo, poiché strappa al male
i figli prodighi, si presenta come una rottura, una privazione, un
sacrificio: « non la mia volontà, ma la tua ».
A tale rottura, a tale sacrificio che è nell’intimo di ogni vita
battesimale, l’obbedienza religiosa tende a dare un sorprendente
vigore: ad ogni istante, questa fraternità di conversione che è la
comunità religiosa ci spinge a un movimento pasquale, a preferire il
volere del Padre al nostro volere.
Morte più radicale di ogni altra morte. Il « chi può capire, capisca
», detto da Gesù a proposito della castità perfetta per il Regno, si fa qui
più imperioso che mai e ci spinge più profondamente che mai nel
mistero pasquale. Come Gesù, il Figlio unico del Padre, l’Uguale al
Padre, colui nel quale il Padre « pone tutte le sue compiacenze », ha
potuto obbedire al punto di emettere questo grido: « Padre, perché mi
hai abbandonato? », come un uomo, una donna, dotati della nobiltà
unica che è la libertà, possono obbedire al punto di porre, foss’anche
con la garanzia della Chiesa, sotto una regola umana, sotto voleri
umani, questa libertà stessa? Sì, « chi può capire, capisca ». È una pura
follia, quella di cui parla S. Paolo all’inizio della prima epistola ai
Corinzi.

Follia che è suprema sapienza perché ciò di cui qui si tratta è la vita
nuova del Signore resuscitato. Attraverso quel « perché mi hai
abbandonato? », si operano i recuperi dei figli perduti che il Figlio
unico riconduce al Padre.
Così è anche per chi è chiamato a commettere quella follia che è
la professione di obbedienza: realizzata in spirito e in verità, secondo

156
condizioni che più oltre esamineremo, l’obbedienza religiosa inserisce
la volontà amante del Padre alla scaturigine dei nostri atti liberi. Nello
svolgimento concreto della nostra esistenza quotidiana, Dio ha pieno
dominio, iniziativa totale, non come un tiranno che si befferebbe di
noi, ma come l’Amore stesso che anima il nostro proprio volere.
L’amore fa di due esseri un essere solo. L’eterna comunione d’amore
che unisce il Padre al suo Figlio unico, ecco un mezzo di realizzarla un
po’ meglio. Ecco nel cuore della comunione già assicurata dal
battesimo, un modo di operare più strettamente la fusione della
volontà, la fusione delle libertà.
Finalmente la vita nuova alla quale indirizza la morte
dell’obbedienza, è la libertà di Dio in me. La mia libertà, attraverso
questa Pasqua, si allarga fino alle dimensioni della sua libertà in me.
Non è più la mia volontà, ma la sua. « Non sono più io che vivo...».
Così si trova stimolata quella docilità allo Spirito Santo, da noi
riconosciuta quale fine di ogni obbedienza cristiana. Attraverso queste
leggi, queste povere leggi, così spesso appesantite dagli uomini, dalle
donne che ci guidano e ci circondano, lo Spirito fa legge; è meno «
contristato »; può scolpire in noi i tratti di Cristo, può fare di noi i figli
del Padre, a somiglianza dell’Unico.
Egli può anche, e nello stesso tempo, spiegare attraverso di noi, ciò
che è inedito del suo amore creatore e salvatore.
Da qui un terzo aspetto dell’obbedienza religiosa.

3. Aspetto apostolico
Associata alla professione di povertà e di castità perfetta che
tendono a fare di noi delle capacità di Dio e delle trasparenze di Dio,
la professione di obbedienza fa di noi dei servitori docili, disponibili,
di cui Dio vuole avere bisogno per la missione; essa è in noi libertà di
Dio, e cos’è la salvezza se non questo libero intervento dell’Amore al
servizio dell’uomo da salvare?
In Cristo, l’obbedienza è strettamente legata alla missione. Inviato

157
dal Padre, Gesù obbedisce al Padre. La sua obbedienza ha la profondità
stessa di questo Amore che lo « dona al mondo ».
Attualizzando con un tipico realismo l’obbedienza che ha fatto di
Gesù Cristo il Servo e l’ha condotto alla croce, l’obbedienza religiosa
s’impadronisce di tutta un’esistenza umana, la erige in affermazione
vigorosa della Pasqua, in segno vivente dell’ultima Realtà. Poiché, in
fin dei conti, per ogni uomo, si tratta proprio di porre la propria vita
tutta intera sotto la morte e la resurrezione di Gesù Cristo. Esprimendo
nel dettaglio quotidiano della propria vita la spiegazione di ogni vita
umana, il religioso entra nell’apostolato attraverso la porta, la grande
porta aperta dell’escatologia: egli è segno innalzato della Realtà ultima.
Egli non si ferma qui: coltivando gli atteggiamenti evangelici del
perfetto servitore, come Gesù li ha vissuti e li vive in noi (specie lo
spirito d’infanzia), l’obbedienza religiosa impegna spontaneamente
colui che la professa al servizio effettivo degli altri. È qui la sua
normale inclinazione: tutto ciò che egli riceve così abbondantemente
lo pone in debito, di fronte agli altri. « Ciò che Dio ha messo nelle tue
mani, non può restare nelle tue mani ».
Ora, il problema non è di riportare l’obbedienza religiosa nel
campo dell’obbedienza imposta dalla gerarchia dei ministeri (l’una e
l’altra non traggono origine dalla stessa zona del mistero battesimale),
ma bisogna vedere quanto il fatto di rispondere a questo consiglio, voti
il religioso ad un servizio nella Chiesa originale ed esigente. Il recente
Concilio ha posto bene in risalto il legame che unisce vita religiosa e
servizio nella Chiesa21. Tale servizio sarà diverso a seconda delle
famiglie religiose: presso contemplativi e contemplative, si tradurrà
non in attività precisa, ma in adorazione, lode, azione di grazie,
intercessione, discreta assunzione d’incarichi, testimonianza
silenziosa e tanto preziosa per la missione; presso gli attivi e attive, si
tradurrà, sul fondo della preghiera, in servizi organici del Popolo di
Dio e del mondo da salvare, servizi che sono il luogo stesso della

21 Così nella Costituzione dommatica sulla Chiesa, specie ai nn. 43, 44, 45, 46 e nel Decreto
sull’adattamento e il rinnovamento della vita religiosa, specialmente ai nn. 5, 6 e 8.

158
testimonianza esplicita. In tutti i casi, l’obbedienza religiosa si riflette
sul corpo ecclesiale.

Parliamo soprattutto della vita religiosa attiva. Da quando Gesù ha


affidato la sua Chiesa non ad un uomo solo, ma a dodici, ogni passo
apostolico comporta necessariamente una nota di comunità. Non
necessariamente, certo, deve trattarsi di comunità di tipo religioso;
non è di questo tipo il collegio dei vescovi, né il presbiterio di una
diocesi... Ma la comunità religiosa, dato che mette, al seguito di Cristo,
dei battezzati uniti fra loro da una stessa ricerca e da una stessa regola,
riunisce le migliori condizioni di una vita apostolica. Fra i suoi membri
essa opera una convergenza nel rispetto delle persone, profila una
stessa visuale, fa echeggiare gli stessi appelli che vengono dal mondo,
suscita lo stesso tipo di risposta, instaura una stessa maniera di vivere
rincontro umano, forgia uno stesso linguaggio, compone una stessa
espressione tipica del regno.
Centrata sulla Parola e l’Eucaristia, serva attiva della Chiesa e del
mondo, essa costituisce un tipo di realizzazione che dovrebbe
(purtroppo dobbiamo accontentarci del condizionale) proclamare
umilmente e chiaramente ciò che è la Chiesa stessa, quale, al seguito
di Cristo, i Dodici l’hanno fondata, quale il sommario degli Atti la
descrive al suo inizio, quale lo Spirito Santo non cessa di promuovere
nel corso della storia.
Parabole viventi non solo della Pasqua di Cristo, ma della Chiesa
di Cristo nella sua missione tra gli uomini: tali dovrebbero essere le
nostre comunità.
Il superiore di una comunità attiva dovrebbe dunque affermarsi,
insieme e senza dicotomia possibile (sotto pena di dicotomia nei
membri stessi), come guida spirituale, secondo quanto abbiamo detto,
e capo apostolico.
Ma il capo apostolico non è innanzitutto il successore degli
apostoli? La missione della Chiesa non è innanzitutto un lavoro del

159
vescovo? Sì, e il Vaticano II lo ha energicamente ricordato 22.
I superiori religiosi non potrebbero dunque costituire una
gerarchia parallela alla gerarchia dei «ministeri » (diaconato,
presbiterato, episcopato).
Perciò il servizio ecclesiale da promuovere da parte di quel capo
che è il superiore, non può essere sovrapposto a quello che assume il
vescovo, e ancor meno può essergli opposto. Nell’apostolato della
Chiesa locale, di cui il vescovo è il primo responsabile, il superiore
assicura l’inserimento dei suoi religiosi e della sua comunità intera
secondo la loro specificità propria, il loro carisma.
Qui è il punto delicato.
Esiste spesso una tensione fra l’esigenza d’inserimento in una
pastorale diocesana, regionale, nazionale da una parte, e dall’altra il
rispetto della specificità, del carisma preciso che costituisce la vita
religiosa in generale e una comunità in particolare. Non possiamo noi,
religiosi, religiose, essere esenti dalla partecipazione effettiva alla
missione della Chiesa locale, cosa che implica per noi umiltà, lealtà,
disinteresse, zelo ardente e discreto. Ma noi non possiamo assicurare
questa partecipazione, personalmente e comunitariamente, se non
secondo il nostro proprio carisma, cosa che implica, per l’autorità
gerarchica, l’intelligenza e il riconoscimento di questo carisma, la
concessione delle franchigie, delle libertà, dei margini di ricerca e di
creatività che esso richiede. La pastorale d’insieme non può non tenere
conto di questi uomini che, per vocazione, non sono tanto pastori; in
realtà essi sono più fratelli che padri. L’Apostolato non è inquadratura
meticolosa ed ombrosa. Per chi vuole essere fedele allo Spirito, il
ritirarsi in rapporto all’istituzione deve servire all’istituzione.
L’obbedienza religiosa dà questo rientro. Essa è veramente
obbedienza di Chiesa e servizio di Chiesa; assicura alla missione locale
la ricchezza di note inedite di cui questa non potrebbe fare a meno,
perché la missione non ne ha mai abbastanza di tutti i carismi che

22Oltre ai documenti conciliari, segnaliamo a proposito, l’importante Motu Proprio « Ecclesiae Sanctae
» del 6 agosto 1966.

160
suscita lo Spirito.
Seguendo l’esempio di Gesù Cristo, attraverso la mediazione dei
nostri superiori e dei nostri fratelli, noi possiamo così, dispiegando con
l’obbedienza religiosa la nostra grazia battesimale in una comunione
costante e cosciente con la volontà del Padre, essere segni efficaci di
Gesù Cristo morto e risuscitato. Noi non costruiamo per noi stessi una
provincia marginale del suo Regno. Noi siamo presi, con la nostra
piena specificità personale e collettiva, nel grande Invio,
nell’incessante Pentecoste, che dona al mondo coloro che obbediscono
allo Spirito.
Così l’obbedienza religiosa può assumere tutta la sua portata
evangelica: essa ci aggrega ad una comunità gerarchizzata di cui il
Vangelo è la norma, ci fissa all’evento pasquale che è il cuore del
Vangelo, ci invia come segni parlanti del Regno, annunci viventi del
Vangelo.

161
162
III ALCUNE ISTANZE ESSENZIALI DELL’OBBEDIENZA

E necessario, in un’ultima tappa, vedere come devono realizzarsi


questi principi. Non si può, in effetti, non obiettare, di fronte a questa
teologia del consiglio d’obbedienza, che il voto con il quale noi vi
rispondiamo è lontano, in pratica, dall’attuare un così bel programma.
La realizzazione risulta, talvolta, assai mediocre. Inutile ritornare sulle
contraffazioni, le «false morti » già segnalate. Domandiamoci piuttosto
a quali condizioni saranno evitate, oppure, più positivamente,
formuliamo qualche istanza essenziale alla messa in opera di
un’obbedienza religiosa che sia veramente evangelica.
— Libertà in atto,
— Vera prudenza,
— Senso teologale.

1. Libertà in atto

Libertà: una parola ammessa sempre con reticenza nel lessico della
vita religiosa. Essa sa di esplosivo, fa paura; è troppo sinonimo di
disinvoltura, fantasia, rivendicazione, aggressività, anarchia, «cattivo
spirito»...
Tuttavia è Dio stesso che vuole correre il rischio della libertà
umana. Egli ci crea liberi, vuole essere amato liberamente, e solo così,
da noi. Dall’inizio del Genesi alle lettere di Paolo, si tratta sempre di
un amore alle prese con libertà umane. Quest’amore dunque, non sarà
subito, ma sempre voluto, sempre liberamente accolto, coltivato,
ricambiato, e, quanto più crescerà nell’uomo, tanto più lo renderà
libero. Spirito di Dio e libertà umana sono connesse: «Là dove è lo

163
Spirito, è anche la libertà » (2 Cor 3, 17).
Niente però, può essere più facilmente travisato di questa libertà
secondo lo Spirito; e quanti talvolta la invocano per dare invece campo
all’altra libertà, quella «secondo la carne », la quale dipende dal vecchio
uomo! Quanti principianti pretendono di comportarsi in modo
perfetto! Non è questa una ragione per volere altro da ciò che Dio
vuole: l’omaggio d’amore di una libertà in atto.
Con questa libertà divina la professione d’obbedienza ci fa
comunicare in massimo grado. Chiedendoci l’offerta totale della nostra
libertà, il Dio che ci crea e ci vuole liberi, non entra in contraddizione
con se stesso. I suoi doni sono senza pentimento. Egli chiede la totale
adesione della nostra volontà libera soltanto per allargarla, dilatarla,
renderla ancora più libera. Attraverso questa crocifissione della nostra
volontà libera con la sua potenza di scelta e di decisione, egli mira per
essa ad un rinnovamento.
Si tratta di un lungo lavoro che si estende a tutta una vita; poiché
per tutta una vita bisogna riscegliere instancabilmente il Signore,
preferire quello che spesso trascureremmo, se dovessimo seguire la
nostra inclinazione. La professione di obbedienza ci fa entrare
nell’apprendistato permanente di una scelta d’amore da ripetere
sempre più spontaneamente e gioiosamente. L’obbedienza non va
contro la libertà, ma poggia su di essa, ha bisogno di essa, perché
proprio al nostro spirito e al nostro cuore s’indirizza sempre l’offerta
divina. L’obbedienza non sarà dunque l’oggetto di un addestramento
iniziale più o meno lungo (noviziato e anni di formazione) che porta
su certe abitudini da prendere, riflessi da acquisire, svolgendosi in
seguito il resto della vita sullo slancio di queste abitudini che, in fondo,
non avrebbero avuto altro risultato che quello di estinguere in noi il
nostro potere di scelta.
L’obbedienza sarà l’oggetto di un’educazione che ha
evidentemente bisogno di mettere in opera all’inizio certi riflessi
necessari ad ogni stile di vita particolare, ma che consisterà
essenzialmente, sulla base di questi riflessi, nell’illuminare e nel

164
suscitare la libertà senza la quale non c’è amore. In altre parole,
l’obbedienza per il religioso, non comincia là dove, con un sapiente
addestramento, la sua libertà è ridotta a nulla; essa richiede invece, per
essere vera, la costante messa in atto della libertà stessa di cui l’offerta
penetrata d’amore permette la comunione con la volontà del Padre.
Offrire al Signore la nostra libertà non significa porre un atto
iniziale che ci separa per sempre da essa; significa, invece, a partire da
una professione dovutamente preparata e pronunciata, mettere in
opera questa libertà stessa in un incessante processo d’oblazione che la
proietta viva incontro al volere di Dio.
Perché Dio possa essere libero nell’intimo della mia libertà,
bisogna che la mia libertà esista, pienamente viva.

Ma allora dove è il Venerdì Santo dell’obbedienza? Non abbiamo


parlato, per ogni voto, di una vera morte, indispensabile perché vi sia
vita nuova?
Certo, ma intendiamoci bene su questo « morire ». La morte, in
questo caso, non consiste nel sopprimere la decisione, consiste
nell’introdurre, nell’intimo della decisione, le esigenze crocifiggenti
della volontà del Padre, come mi è significata dalle mediazioni umane.
A proposito della castità perfetta, dicevamo la stessa cosa: « La
croce, la morte non consistono nell’uccidere il nostro cuore, ma nel
porlo direttamente... sotto le esigenze dell’amore in pienezza »... «
Meglio amare e non amare meno », dicevamo ancora. Il trionfo della
libertà di Dio in un essere libero, non vuol dire che questo essere cessi
di scegliere. Se io non scelgo più, con ciò stesso non amo più. Un robot
non ama, funziona. Il successo della obbedienza non è farci funzionare
bene, ma farci amare meglio. Il passaggio della libertà dell’uomo
vecchio alla libertà dell’uomo nuovo non significa dunque
soppressione di ogni decisione, ma sottomissione di ogni decisione ad
un amore che spesso la contraddice, la crocifigge talvolta, la purifica
sempre per vivificarla.
Non è veramente casto chi non ama più, ma chi offre il suo cuore

165
totalmente alle esigenze dell’amore in pienezza.
Non è veramente povero chi non ha più niente, ma chi non
trattiene più niente, chi investe tutti i suoi averi nel dono, nel servizio.
Non è veramente obbediente chi non pensa più, chi non sceglie
più, ma chi sceglie di obbedire, non una volta per tutte, alla luce della
sua professione, ma durante tutta la vita.
In regime di nuova Alleanza, una virtù non è mai la negazione di
una facoltà, ma la sua evangelizzazione, il suo battesimo, la sua
consacrazione e finalmente la sua esaltazione. Lento lavoro, certo, ma
che richiede, in tutto l’arco del suo svolgimento, che si pensi a
mantenere vivacissima la facoltà che ne è la sede e l’oggetto. Coltivare
l’obbedienza secondo questa pedagogia precisa che garantisce la vita
religiosa, non significherà sprofondare nell’automatismo o
nell’incoscienza, ma, sotto la spinta dell’amore, correggere (a prezzo
di quali rinunce, di quali « morti »!) una volontà segnata dal male e la
cui vitalità è più che mai necessaria. « (La mia vita), nessuno me la
toglie: la dò da me» (Gv 10, 18). Tale è Cristo di fronte al Padre, al
momento-culmine della sua obbedienza più crocifiggente. Liberando
la libertà di Dio in noi, liberiamo la nostra stessa libertà.

L’autorità religiosa non mira dunque a prendere, ma a far donare


lucidamente, liberamente, dai sudditi ciò che l’amore richiede.
Suddito, una parola che può assumere più significati. Essere suddito
significa essere assoggettato, dunque dipendente; ma anche non essere
un semplice oggetto, affermarsi veramente come un centro unico,
inedito, di libertà: una persona. Il superiore, guida fraterna dei suoi
confratelli nelle vie dello Spirito, tratterà i suoi fratelli come soggetti,
come esseri liberi, la cui libertà ha bisogno di essere salvata (da qui la
croce) per diventare libertà secondo lo Spirito. Di fatto, in uno stesso
battezzato coesistono libertà da purificare e libertà già salvata, già
vivente della vita nuova del figlio di Dio.
Non si tratta, a dire il vero, di due libertà differenti, ma di una sola,
in cui si mescolano luce e tenebre, il buon grano e la zizzania. Sta al

166
superiore non strappare il grano buono insieme con la zizzania, con la
scusa di crocifiggere il vecchio uomo!
Quante maniere arbitrarie, mutilanti, di porre sulle spalle degli
altri ciò che viene chiamata la croce, ma che Dio non riconosce affatto
per tale!
Salvare una libertà, farla passare attraverso la croce di Cristo, vuol
dire innanzitutto riconoscerla come esistente e come infinitamente
preziosa, salutarla come la nobiltà ultima di un essere, come il focolare
inestinguibile di un amore che viene da Dio e che a Dio deve tornare.
Vuol dire poi aiutarla ad essere sempre viva, per essere sempre più
amante. Amore maldestro, fragile, ma che crescerà nel suo stesso
procedere e sarà sempre un omaggio del suddito al suo Dio. « Ti amo
troppo per salvarti senza di te ». Nessuno può amare al mio posto. I
mediatori che Dio ha scelto per aiutarmi ad amarlo meglio, non
possono « salvarmi senza di me ». Essi sono là per far crescere la
giovane pianta della mia libertà. È meglio per essi correre il rischio di
una libertà ancora selvaggia, ma vivace (che traduca la sua vitalità in
mille balzi, scarti, eccessi... che talvolta sono strappi alla mondanità
più che attentati al Vangelo) piuttosto che pretendere di soppiantare
tale libertà.
Come non si possono trascurare le forze affettive che vivono
dentro di noi, non si può ignorare la presenza attiva di questa libertà,
attributo primo della nostra volontà. Se è maltrattata, essa può
svegliarsi un giorno anarchica, aggressiva, malata, priva di tutto ciò
che una sana obbedienza avrebbe dovuto darle.
Ma ciò esige l’impiego di tutto un fascio di atteggiamenti personali,
unificati in un valore evangelico cardinale: la prudenza.

2. Vera prudenza
Conosciamo le caratteristiche tradizionali della vera obbedienza.
Se essa vuole essere veramente comunione con la volontà del Padre
che si esprime attraverso le mediazioni umane, deve essere pronta,

167
attiva, generosa, leale, nobile, serena, ecc. Tutte le virtù evangeliche
possono, per un lato o per un altro, trovarvi la loro parte, soprattutto,
come vedremo in seguito, quando il rapporto con i superiori si fa aspro
ed il dialogo teso.
Tuttavia, quando si parla della pratica dell’obbedienza, si
dimentica facilmente una nota essenziale: la prudenza.
Ad essa alludono diversi testi del Concilio, che non la nominano,
e questo, senza dubbio, è meglio; perché la parola prudenza si è
infeltrita a tal punto nel nostro lessico spirituale, da divenire incapace
di esprimere ciò che così fortemente ci dicono i testi conciliari: il
religioso « deve applicare le forze della sua intelligenza e della sua
volontà, i doni della natura e quelli della grazia, per l’esecuzione dei
precetti e per il compimento degli incarichi a lui affidati ». In seguito,
lo stesso decreto chiede ai superiori di permettere ai sudditi una «
obbedienza attiva e responsabile », e una cooperazione « negli incarichi
da adempiere e nelle iniziative da prendere ». Infine, l’obbedienza così
concepita « senza sminuire la dignità della persona umana, la conduce
al contrario alla maturità, accrescendo la libertà dei figli di Dio 23 ».
Ecco la libertà in atto, che si pasqualizza per così dire, al soffio dello
Spirito, che assume la sua piena statura nell’essere nuovo.
Ma parlare così vuol dire designare la prudenza, rispolverando il
suo blasone. Sotto la pressione dei legalismi di ogni specie che, nel
corso dei secoli, hanno appesantito la nostra marcia di figli di Dio, la
prudenza era divenuta l’attitudine negativa di coloro che, per natura,
sono portati a vedere gli aspetti minori delle cose e delle persone; essa
era colorata di irresponsabilità, di paura del nuovo, di timore per ogni
ebbrezza.
Questo non era del tutto un male, perché avremmo torto a
prendere ogni ebbrezza come se venisse dallo Spirito stesso. Ma
ridurre la prudenza a questo aspetto, vuol dire confonderla tutt’al più
con la temperanza (e spesso la falsa temperanza), altra virtù cardinale

23 Decreto sull’adattamento e il rinnovamento della vita religiosa, n. 14, capoversi 2 e 3.

168
che dà un’impronta di discrezione alla nostra condotta umana.
La prudenza è la virtù della decisione. A partire da un « esatto
dosaggio degli atti da compiere »24, essa qualifica la nostra intelligenza
pratica e la aiuta a comandare con la massima lucidità, rettitudine e
amore.
Essa è una delle nobiltà inalienabili dell’intelligenza umana,
veramente libera, quella che l’obbedienza religiosa non deve abolire
ma perfezionare.

Obbedire alla volontà del Padre, significa fare nostra la sua


maniera amante, crocifiggente e vivificante di condurre la nostra vita,
significa inserirci liberamente, per quanto ci costi, nello svolgimento
concreto della sua Provvidenza. Ora, prudenza etimologicamente è la
stessa parola che provvidenza. In questo senso, la prudenza non è altro,
alla fine, che l’assunzione da parte della mia libera volontà, della
provvidenza di Dio, il sostituirsi, al livello della mia libertà, di questa
volontà divina che provvede a tutto e che deve divenire il mio
nutrimento 25.
Ciò significa dire quanto l’obbedienza esiga la prudenza; ma la
prudenza nella sua piena verità, non come tentativo timoroso, ma
come virtù delle iniziative e delle responsabilità, due parole che
abbiamo incontrato nel decreto conciliare come caratterizzanti, tra
l’altro, l’atteggiamento di obbedienza religiosa. Sarà talvolta prudente
attendere, avanzare lentamente, frenare qualche slancio troppo
giovanile; ma sarà anche prudente talvolta precedere, inventare,
innovare, se la volontà di Dio si rivela tale. Comunicare con la volontà
mediatizzata del Padre (obbedienza), e assumere questa volontà con
tutte le risorse del nostro spirito e del nostro cuore (prudenza): le due
cose vanno molto bene insieme. L’obbedienza, senza mai confondersi
con la prudenza (queste due virtù come si vede, hanno ognuna il loro
oggetto ben circoscritto), la esige e la suscita. Obbedire vuol dire

24 Questa espressione è di S. Tommaso d’Aquino.


25 Quanti riferimenti alla provvidenza divina sembrano ignorare il suo necessario collegamento con
la responsabilità umana!

169
impegnare se stesso nell’ordine ricevuto, avanzare liberamente sulla
strada che esso apre, assumere con scelta personale la volontà di Dio
espressa da un’altra libertà, da un’altra prudenza, quella del superiore.
A questo punto-cardine fra l’accoglienza del precetto e la sua
traduzione in pratica, si trova la mia libertà, ed è proprio là
precisamente che l’obbedienza ha un gran bisogno della prudenza. È
là che si opera il « non la mia volontà ma la tua », è là che più di una
volta si pianterà la croce e sorgerà la vita nuova. Senza questa
personale assunzione, l’obbedienza diverrebbe infantilismo, servilità,
conformismo e alla fine mancanza di amore; essa non sarebbe allora
l’attualizzazione dell’obbedienza stessa di Gesù Cristo. L’obbedienza,
comunione di due volontà (quella del superiore e quella del suddito)
con la volontà di Dio, implica la comunione di due prudenze (quella
del superiore e quella del suddito) con la provvidenza divina.
Parlare così, non significa fare concessioni ai bisogni attuali di una
libertà più rivendicatrice, ma rispondere alle esigenze stesse
dell’obbedienza cristiana e religiosa. Ricevere umilmente un ordine e,
a partire di là, farlo mio pensandolo, trasformandolo in scelta,
decisioni, invenzioni personali che gli daranno tutta la sua portata,
questo è praticamente obbedire con una vera prudenza e un vero
amore. È veramente obbediente l’uomo capace nella sua prudenza di
decidere ciò che gli è ordinato, di volere dal di dentro l’ordine
proferitogli dal di fuori. Allora, scegliendo di obbedire, egli comunica
nella fede e nell’amore con la volontà del Padre.
Una tale aspirazione non raggiunge all’istante la sua perfetta
espressione, ma va educata; e questa educazione contribuisce
grandemente a quella personale assunzione della volontà di Dio che
farà, attraverso una prudenza sempre più evangelica, la perfetta
obbedienza.
Ciò vuol dire che non dobbiamo includere nel campo
dell’obbedienza certi atti che sarebbero contrari alla regola o almeno
senza rapporto con essa. Per esempio, in periodo elettorale, la maniera

170
di votare26.
Sarà perciò necessario che si possano trovare, in ciò stesso che
ordina e deve ordinare l’autorità religiosa, certi margini
d’indeterminazione, punto essenziale per una sana pratica
dell’obbedienza oggi. È impossibile vivere secondo lo Spirito se si è
determinati fin nel più piccolo dettaglio. Un’autorità pignola, che vuol
precisare fino al minimo iota, soffoca i sudditi. Non è così che Dio
governa il mondo. Se, per i sudditi, la prudenza evangelica è una
personale assunzione della provvidenza divina, a maggior ragione la
prudenza del superiore dovrà sposare questa maniera così forte e così
dolce, così incalzante e così discreta, così rispettosa perché così
amante, che Dio ha di governarci. Così come l’obbedienza, anche la
prudenza, è evidente, è una qualità del superiore prima ancora di
essere una qualità del suddito.
In una comunità veramente saldata da una carità fraterna che
tiene ogni membro sotto la responsabilità di tutti, dove l’apertura del
superiore verso i fratelli è richiesta continuamente dalla chiarezza dei
rapporti, non c’è pericolo che quei margini d’indeterminazione
favoriscano l’individualismo, né la fuga fuori dell’obbedienza.
Contiamo sull’affettuosa vigilanza del superiore e della comunità per
ricondurre Y enfant terribile alla casa paterna, ogni volta che avrà
voglia di marinare la scuola. Una tale « obbedienza attiva e
responsabile », come dice il Vaticano II, può essere temuta solo da
soggetti timorati, infantili, male educati, oppure da superiori tirannici,
ombrosi, ansiosi, o ancora da comunità in cui la disciplina non è ancora
abbastanza impregnata delle esigenze dell’amore secondo il Vangelo.
Lo stesso dobbiamo dire — ed in fondo è la stessa cosa — a
proposito della divisione gerarchizzata delle responsabilità 27. Dio «
rimette l’uomo nelle mani del suo consiglio ». Egli non teme di affidare
26« Il voto di obbedienza religiosa si estende alla disposizione di tutta la vita umana.A questo piano,
esso ha una certa universalità, ma non si estende a tutti gli atti particolàri. Alcuni di essi non
dipendono dalla religione perché non si riferiscono a campi riguardanti Pamore di Dio e del
prossimo... e dunque non cadono né sotto il voto né sotto l’obbedienza » (S. Tommaso, Somma
Teologica, II.a-II.ae, 186, 5 ad IV).
27 Ricordiamoci con quanta forza Giovanni XXIII ha insistito sul «principio di sussidiarietà ».

171
i suoi meravigliosi tesori nelle nostre mani, nei nostri cuori di uomini:
la sua Parola, il Corpo, il Sangue del suo Figlio, la sua Chiesa...
Assumendo « le usanze divine », adottando lo stile del governo
divino, il superiore non potrebbe dunque riservarsi la responsabilità
esclusiva, tanto più che, pur essendo il mediatore vivente della volontà
del Padre, rimane ancora « causa seconda », creatura. Egli non
potrebbe, contraffacendola, comportarsi da Causa prima. Egli non
monopolizza lo Spirito e non potrebbe spegnerlo nei suoi fratelli. Egli
è responsabile del bene comune, sì, in qualità di capo, ma anche gli
altri lo sono, al loro posto, come membri.
Niente è facile, né per chi comanda, né per chi è comandato.
L’obbedienza religiosa, come ci è suggerita dal Vangelo, ha veramente
delle rudi esigenze per tutti. Ma più rudi esigenze ci attendono in una
zona più profonda ancora: la zona teologale della nostra volontà libera.
Questa, come dono vivente a Dio, richiedendo una tenace coltivazione
della prudenza, una costante realizzazione della parabola dei talenti («
i doni della natura e della grazia », dice il Vaticano II), non può vivere
l’obbedienza religiosa se non nella fede, nella speranza e nella carità.

3. Senso teologale
L’obbedienza religiosa non dipende dalla dialettica dei rapporti fra
padrone e schiavo; pur senza essere virtù teologale, essa suscita la
nostra prudenza, la nostra potenza d’iniziativa, di responsabilità, di
creatività, esclusivamente alVìnterno e al servizio di un’intensa
vitalità teologale.
Dal momento in cui tale vitalità tende al ribasso, la « follia » che
essa implica diviene insopportabile o si neutralizza e dunque si snatura
in piatta disciplina, dimissione, monotonia...
L’obbediente è innanzitutto un credente. La sua obbedienza si
dispiega tutta intera all’interno della fede, di cui sottolinea l’aspetto di
ascolto, di accoglimento e di risposta. A questo punto dovremmo
rifarci alla grande litania del capitolo XI dell’Epistola agli Ebrei: « Per

172
la fede... ». Sì, è necessaria la fede per aggiungere al numero normale
di mediazioni che rendono presente l’unico Mediatore, le nuove
mediazioni portateci dall’istituzione religiosa. La virtù di religione
sarebbe una pura e semplice alienazione, sarebbe pagana e non
cristiana, se non fosse l’alimento e l’espressione della fede, della
speranza e della carità. Un ordine che viene da bocca umana, che è
stato elaborato da un’intelligenza, da una volontà umane, non
s’impone a me se non in qualità di segno; mi significa la volontà del
Padre, ha valore solo come trasparenza di Dio, come riferimento a Dio.
Il superiore parla, e non può che parlare in nome di questo Spirito
di Dio che lavora instancabilmente la mia vita, che la modella ad
immagine del Figlio con i suoi innumerevoli interventi. La fede è la
sola luce capace di fare della mia religione una religione cristiana, un
omaggio umile e fiero che riconosce insieme il valore e il limite di
questa mediazione umana di cui Dio si serve per me. La nostra
obbedienza sarà vera nella misura in cui andrà dal segno al significato,
cosa che dipende dalla fede teologale. Rifiutarci di obbedire quando
l’imperativo ricevuto sia legittimo, vuol dire rifiutare di entrare
nell’oscura profondità della fede, e tutta la somma delle migliori
ragioni non valgono l’atto di fede che mi è richiesto; vuol dire rifiutare
quella pasqua dello sguardo che mi farebbe abbandonare il mio punto
di vista per assumere quello di Dio e farlo mio. « Le mie vie non sono
le vostre vie »...
Questione di speranza anche. La speranza è il nostro tono
teologale, è virtù della strada e ci permette di appoggiarci ad ogni
istante sulla forza di Dio per andare fino alla gioia di Dio. L’ordine
ricevuto fa parte di ciò che il Padre mi propone per compiere il mio
cammino verso di Lui, per camminare in Colui che si è fatto nostra
strada.
Questione di amore, soprattutto, perché l’obbedienza è una
comunione. « Se mi amate, osservate i miei comandamenti ».
L’obbedienza fa di noi dei veri discepoli, ci allinea talvolta, mediante
una vera pasqua del cuore, alle esigenze di quell’amore « forte come la

173
morte » che ci configura a Gesù Cristo.
Esigenza teologale che è soprattutto compito del superiore, e fa di
lui il primo obbediente.

Insistiamo: io non obbedisco perché, in fondo, mi sembra che il


superiore abbia ragione (se ha ragione, tanto meglio, e tanto meglio se
lo vedo!); io obbedisco perché egli parla in nome di Dio. Se è
sufficiente che egli abbia ragione perché io obbedisca, non c’è affatto
bisogno d’obbedienza; basta una piccola prudenza, nel senso assai
piatto che abbiamo scartato, un semplice istinto di conservazione, un
banale pensiero di gestione di me stesso da parte di me stesso. Nessuna
sorgente di luce deve essere scartata se vogliamo fare dell’obbedienza
un atto umano; ma la luce suprema, quella che integra, assume e supera
tutte le altre, è la fede. La ragione profonda per cui obbedisco è che il
superiore fa parte di quell’universo sacramentale in cui la mia fede
riconosce i segni di Dio. L’obbedienza fa parte della grande liturgia che
celebra, nel suo stesso svolgimento, una vita totalmente presa dalla
virtù di religione. Io non obbedisco perché il superiore mi piace, ma
perché egli celebra una funzione, la funzione di segno che provoca la
mia fede. Se ho scelto, su richiamo dello Spirito, di aggiungere questa
mediazione a tante altre, è per rinforzare questo mondo sacramentale,
attraverso il quale il Dio nascosto manifesta la sua volontà e stimola la
mia volontà a rendergli un tale omaggio.
Scelto fra noi, talvolta eletto da noi, il superiore come tale non per
questo non viene dall’alto. Dio si è impadronito di lui per integrarlo
(nei limiti della Regola) nella sua «politica sacramentale». Certo, Dio
non sempre bada molto ai suoi intermediari, ma ciò perché è sicuro di
se stesso, e perché la mia fede teologale s’indirizza, attraverso questi
intermediari, a lui stesso. Non si tratta di « fare la volontà del superiore
», ma di fare la volontà del Padre significata dal superiore; non si tratta
di « credere al superiore », ma di credere al Dio che significa le sue
volontà attraverso il superiore; questo « attraverso » non fa del
superiore un semplice strumento inerte, incosciente, ma una « causa

174
seconda libera », un umano che entra in questa funzione sacramentale
con tutte le ricchezze e tutte le miserie, tutte le risorse e tutti i limiti
della sua personalità.
Ripetiamo, a questo punto che, per il superiore, l’importanza è la
trasparenza. Essa non è automatica, bensì deve costantemente essere
da lui coltivata. Essere fedele alla sua grazia, significa per lui rendersi
il più limpido possibile, al fine di rendere il più facile possibile il
processo teologale di coloro di cui ha l’incarico. Ciò che egli ordina
viene da più in alto di lui stesso e porta più in alto di lui stesso.
Liberamente, attraverso l’obbedienza, io faccio professione d’inserirmi
in questo movimento che va da Dio a Dio.

Ma questo itinerario presenta dei passaggi tenebrosi. Se è vero che


il clima teologale dell’obbedienza è un clima di dialogo in cui tutte le
luci, tutte le risorse di uomini liberi, di donne libere, devono
esprimersi, non resta meno vero che questo dialogo potrà essere
difficile, talvolta perfino impossibile. L’ordine allora mi raggiungerà
non nell’intimo di uno scambio fraterno, ma attraverso una rottura,
uno scontro, un silenzio doloroso.
Cosa diventa l’obbedienza quando c’è il divorzio tra ciò che vedo
io e ciò che il superiore vede ed ordina?
Io devo sempre agire secondo la mia coscienza; tuttavia non devo
dimenticare che, prima di essere responsabile di fronte alla mia
coscienza, sono responsabile della mia coscienza, ovvero di ciò che essa
è, vera o falsa; io non posso essere sicuro subito né troppo presto che
essa sia vera, perché la verità è l’oggetto di un approccio laborioso, di
una laboriosa conquista. Ho tutti i dati del problema? Il superiore non
ne ha forse altri che mi sono sconosciuti e che il più fraterno dialogo
fra lui e me non saprebbe rivelarmi? Il mio giudizio non è formulato
troppo in fretta? E per quali motivi profondi? Tutte domande queste
che anche il superiore deve porsi per il suo governo.
Comunque, io che ho fatto professione di obbedienza, devo dire a
me stesso che il diritto di conservare il mio giudizio senza

175
indelicatezza o rifiuto della volontà di Dio, suppone condizioni di
rettitudine e di povertà di spirito che non devo credere troppo presto
soddisfatte.
E se, malgrado una completa lealtà, un’umile e coraggiosa ricerca
del vero, il divorzio sussiste, resta da obbedire in modo puro e
semplice.
Non « accecamento dell’obbedienza », espressione falsa, dal
momento che bisogna essere lucidissimi per obbedire veramente, ma
lucidità somma che è quella della fede più tenebrosa. Obbedire, vuol
dire allora obbligarsi liberamente alla luce che include tutte le altre in
modo da poterle, a momenti, contraddire: la fede. Ciò che a torto viene
definito accecamento dell’obbedienza, è invece l’oscurità di una fede
lucidamente accettata. Quando c’è un aspro conflitto tra fede e
ragione, è la fede che ha ragione.
Queste parole sono forse dure?
I grandi obbedienti della storia della Chiesa sono là per dire che,
mai, assicurata ogni condizione di legittimità, un simile atto di
obbedienza è stato vano. Grandi religiosi, servi della Chiesa nel
Vaticano II, potrebbero affermare che per loro la porta stretta valse
un’entrata decisiva nel Regno, il più doloroso e sontuoso dono che Dio
abbia fatto alla loro intelligenza e al loro cuore, la più meravigliosa
attualizzazione nella loro vita dell’evento pasquale, la più efficace delle
prudenze, quella che ha fatto sgorgare in essi nuove ricchezze di
libertà creatrice.
Pensiamo ad Abramo: Dio gli ha dato miracolosamente un figlio,
poi reclama questo figlio. Come mai? Dio si contraddice! Dio si disdice!
Come potrà la generazione di Abramo essere simile alla moltitudine
delle stelle, se Isacco muore? « Abramo crede... ». Obbedisce, ed Isacco
gli è restituito. Dio è sconcertante, ma non cessa mai di essere la via,
la verità, la vita. L’obbedienza ci rivela talvolta ciò che di sconcertante
c’è nell’amore di Dio.
Pensiamo soprattutto a Gesù Cristo stesso. Egli ha ottenuto la
salvezza del mondo ponendo nelle tenebre (« Padre perché mi hai

176
abbandonato? ») l’atto di obbedienza che segnava il fallimento della
sua vita pubblica e lo affidava al giudizio ingiusto di Pilato.
In casi simili, la fede non ci dice che il giudizio ricevuto è giusto,
ma che la volontà del Padre passa di là. Quale responsabilità per i
superiori! Essi non possono svolgere una tale funzione di oscuramento
senza fremere. Ma quale responsabilità anche per noi! La nostra
obbedienza ci fa entrare allora nella parte più crocifiggente
dell’obbedienza di Gesù. Ma da questa tomba, misteriosamente, sgorga
la vita nuova, non può non sgorgare.
Non è forse per imitare a fondo e attualizzare la « follia » dell’amore
di Cristo per suo Padre e per gli uomini che noi abbiamo acconsentito
alla « follia » della professione d’obbedienza religiosa? Non sorprende
allora se, in certi momenti della nostra vita, questa imitazione e questa
attualizzazione ci spingono fino a rivivere, quasi punto per punto,
l’atto eminente d’obbedienza che Gesù ha compiuto ai giorni della sua
Pasqua. « Il discepolo non è più grande del suo Maestro ». La Chiesa ha
conosciuto momenti in cui qualcuno dei suoi figli è stato consegnato a
quelli che ricrocifiggono Cristo.
Non drammatizziamo. Assai raramente il nostro voto
d’obbedienza ci porterà a questi estremi. Ma sarà sempre nelle nostre
vite un passaggio del Signore morto e risuscitato.

Per mettere in pratica l’obbedienza di Gesù Cristo, per portare alla


sua piena realizzazione l’obbedienza battesimale, l’obbedienza
religiosa dovrà sempre essere l’atto di una fede (« l’obbedienza della
fede »), tutta penetrata di speranza e d’amore che ci consegna
lucidamente e liberamente al Padre, realizza la sua Provvidenza
nell’intimo della nostra prudenza, pone la sua volontà nel punto più
libero, più creatore della nostra volontà, ci fa, infine, perdere la nostra
vita a causa di Cristo, per trovarla.
Tutto allora è nostro, perché noi siamo di Cristo e Cristo è di Dio.

177
PARTE QUARTA

L’UMANO RECUPERATO DALLA GRAZIA

Ci siamo sforzati, nel corso di questo studio, di « non ricorrere a


discorsi sapienti, perché non sia svuotata la croce di Cristo » (1 Cor 1,
17). Se c’è in effetti un momento in cui la « follia del messaggio »
evangelico deve avere libero corso, è proprio a proposito dei consigli
evangelici. Essi ci segnano, in piena logica battesimale, di « Cristo
crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i Gentili, ma per quelli
che sono chiamati, sia Giudei che Gentili, Potenza di Dio e sapienza di
Dio » (1 Cor 1, 23-24).
Tale follia della Sapienza di Dio può portare ad una sapienza
umana? In questo modo non si va contro ciò che dice San Paolo
all’inizio della prima Epistola ai Corinzi? Non si riduce il Vangelo ad
un proclama di umanesimo?
Il problema non deve essere posto in questi termini. Più
modestamente si tratta semplicemente per noi, al termine di questo
studio, di prendere più chiara coscienza delle « eccedenze » che
gratificano quelli nei quali il vigore pasquale dei consigli può
dispiegarsi liberamente.
Questo « sovrappiù ». è apparso anche nel corso dell’analisi dei
consigli, specie quando descrivevamo il loro aspetto di « resurrezione
». La povertà, consegnandoci alla sola ricchezza che veramente colma,
profilava già un tipo d’uomo le cui sicurezze non dipendevano dal
possedere. La castità perfetta, immergendoci direttamente nella fonte
dell’amore in pienezza, annunciava un’affettività capace di vivere

178
intensamente la relazione umana. L’obbedienza, iscrivendo la volontà
amante di Dio alle radici stesse della nostra volontà, stabiliva uno stile
di rapporti nuovi con il reale, a base di libertà creatrice.
Dobbiamo ora precisare alcuni aspetti di questo umano ricuperato
dalla grazia. Non sapienza umana, ma risonanza umana della Sapienza
di Dio; non umanesimo che viene dal Vangelo, ma segni della vittoria
di Dio nel cuore dell’umano, quando l’uomo prende del tutto sul serio
il Vangelo; non utilizzazione di Dio per diventare più uomini (Dio non
serve a nessuno), ma ammirazione di fronte a quel « centuplo » che
gratuitamente Dio ci dà quando, sotto l’impulso del suo Spirito, noi gli
diamo tutto.
Vedremo, pertanto, questi quattro aspetti dinamici dell’umano
ricuperato dalla grazia:
I. Religioso, cristiano, umano.
IL Dalla povertà alla vera sicurezza.
III. Dalla castità perfetta al vero incontro umano.
IV. Dall’obbedienza alla creatività.

179
I. RELIGIOSO, CRISTIANO, UMANO

La vita religiosa non potrebbe essere ridotta alla pratica materiale


e meticolosa dei tre voti. Per quanto prezioso sia il loro valore, essi
devono essere concepiti e vissuti all’interno del carisma che li contiene
e li supera, che ci spinge a porre la nostra grazia battesimale tutta
intera nel regime di conversione sistematica di cui i « consigli »
costituiscono le nervature profonde. La vita religiosa ha l’ampiezza
stessa della vita cristiana; ne organizza lo slancio e la fedeltà,
appoggiandosi sulla professione dei consigli evangelici. Vivere bene
una vita religiosa, è in fondo vivere bene, attraverso mezzi tipici, la
propria vita cristiana.
E vivere bene la propria vita cristiana, vuol dire accedere, anche se
precariamente, alla piena statura umana in Gesù Cristo che è quella
dell’essere nuovo in noi.
Ripetiamolo: non si potrebbe misurare la vittoria di Dio in un
essere, dallo sviluppo biologico, psicologico, sociologico di questo
essere; si potrebbero citare mille esempi in cui, dolorosamente, la vita
divina si è aperta un cammino difficile nel guazzabuglio di un mondo
interiore perturbato, addirittura caotico, nelle contraddizioni e i
pasticci di un regime economico tale da far fremere i nostri tecnocrati
e i nostri moralisti. Ciò non impedisce che il cristiano sia l’umano
ricuperato dalla grazia e, in ultima analisi, nulla è pienamente umano
se non fumano ricuperato dalla grazia. Il figlio di Dio è il figlio
dell’uomo che si lascia penetrare da quel sangue nuovo che viene da
Dio attraverso Cristo, e vuole vivificare tutto il suo essere. « La ri-
creazione porta al suo compimento la creazione » (P. Chenu). Parlando

202
in senso stretto la redenzione non è una ri-creazione; è una ripresa
della creazione mediante la grazia di Cristo. Essa innesta su di una vita
esistente la vita nuova; salva « ciò che era perduto », non lo perde per
sostituirsi a lui. Tale è la religione suscitata dalla nuova Alleanza.

Un chiaro ritorno alle sorgenti evangeliche ci permette di


affermare questo: con Gesù Cristo, Dio fatto uomo, donato al mondo,
la « religione » ha preso il largo, il grande largo della vita di tutti i
giorni. Essa ha cercato un campo proprio, infinitamente prezioso, il
cui centro è la liturgia, « sorgente e vertice della vita cristiana » e, nella
liturgia, l’Eucarestia incessantemente celebrata dalla Chiesa. Ma
questo campo non è chiuso; non esiste più un oggetto che folgora il
profano che lo tocca, come avvenne per il povero Uzza (1 Cron 13,
10), quando mise la mano sull’Arca santa. Tutti gli uomini che
formano il corpo gerarchizzato della Chiesa sono chiamati ad offrire
questo culto liturgico più santo che mai da quando ha per autore
principale Gesù Cristo stesso; ancor più esso è in sinergia con tutta la
loro esistenza. Attraverso questa esistenza così santificata, ogni gloria
è resa al Padre nel suo Figlio e nei suoi figli. È la vita intera del
battezzato che, penetrata dalla lenta germinazione della vita nuova di
Cristo, diviene essa stessa culto, e questo culto si estende anche al
mondo manipolato ed umanizzato dall’uomo. Il battezzato è sacerdote
non solo nella sua partecipazione ecclesiale alla celebrazione liturgica,
ma, a partire da essa, (« sorgente e vertice ») in tutti gli atti della sua
vita, in tutti i passi che fanno di lui un uomo, un responsabile della
terra. Così l’umano è a poco a poco ricuperato dalla grazia, così la vita
umana e il mondo umano divengono, in Gesù Cristo, omaggio di
amore a Dio vivente tre volte santo, adorazione in spirito e in verità,
religione.
I voti di religione meritano il loro nome nella misura in cui fanno
di noi non dei giudeizzanti, nel senso denunciato da S. Paolo, ma dei
religiosi nel senso della nuova Alleanza, dei figli di Dio che offrono al
loro Padre, mediante il Figlio, nello Spirito, la lode di gloria che è una

203
vita umana, di cui l’amore di carità diviene la pulsazione profonda.
Allora, malgrado tante miserie e insuccessi, c’è fioritura dell’essere
nuovo secondo Gesù Cristo, maturità umana secondo il Vangelo.
C’è culto (liturgia) affinché tutta la vita divenga culto (oblazione
per amore di tutta un’esistenza concreta). E l’Eucarestia ha senso
soltanto se ricapitola nell’oblazione di Cristo tutto questo umano che
Cristo è venuto a rifare dal di dentro per farne un culto finale reso al
Padre. C’è religione affinché tutta la vita divenga religiosa, nel senso
della nuova Alleanza. C’è voto di religione affinché questo culto di
tutta la vita affermi il suo pieno vigore e si levi in tutta la sua forza di
adorazione per Dio e di significato per il mondo.

Queste verità di sempre hanno assunto un nuovo rilievo con il


Vaticano II. Ridefinendo la Chiesa, la nostra Chiesa della terra, come
Invio al mondo, mostrando meglio a qual punto tutto ciò che avviene
nella Chiesa, anche il più sacro, il più nascosto, il più isolato, fa parte
di questo essere al mondo che gli è congenito, il recente Concilio ha
restituito alla religione in genere, e alla vita religiosa in particolare, la
sua salute evangelica.
Rompendo definitivamente con quella concezione dell’uomo che
voleva opposti lo spirituale e l’umano, il Vaticano II aiuta a compiere
l’unità in noi stessi. L’armonia, come abbiamo visto, non è facile: la
croce di Cristo ne è il prezzo; ma le vecchie antinomie anima-corpo,
sacro-profano, contemplazione-azione, separazione-presenza, ecc. pur
conservando la loro parte di verità, ritrovano, nel Vangelo, in Cristo,
il loro principio di superamento e di convergenza: ad immagine e sotto
l’impulso di Gesù Cristo, suo Signore, la Chiesa ricolloca il campo
religioso nella direzione di un « come fanno tutti » che è quello della
banalità quotidiana supremamente umanizzata, perché divinizzata
dallo Spirito di Dio.
Il Vaticano II ci ricorda di quale spirito siamo. Non di uno spirito
stoico, platonico, ma dello Spirito Santo, dello Spirito che è stato, come
il Verbo, inviato al mondo e che, dopo aver « santificato » l’umanità di

204
Cristo, vuole santificare l’umanità degli uomini.
Rispondere all’appello dei consigli evangelici e pronunciare i voti
di religione, vuol dire abitare l’umano; là solo avviene l’incontro di
Gesù Cristo, là è l’appuntamento di Dio in cui ci è comunicato lo
Spirito. Noi siamo di carne e di ossa, presi nella storia che ha modellato
e modella le nostre mentalità, le nostre sensibilità, le nostre maniere
di essere. La monaca di clausura più isolata porta con sé, nella sua
clausura, questo mondo di cui è impastata. Cosa è il mondo se non ciò
che l’uomo ha fatto della creazione, segnandola di ciò che di
eccellente, di ordinario e di peggiore c’è in lui? Questo eccellente,
questo ordinario e questo peggiore si trovano in ogni esistenza umana.
È impossibile per i membri del Popolo in esodo, quali che siano, di
uscire da questa condizione di cammino che è la loro. Essi vi svolgono
funzioni diverse, secondo i loro diversi carismi, ma nessuno di questi
carismi potrebbe renderli estranei a questo Popolo in marcia. Tutti i
carismi invece fanno loro vivere diversamente la realtà comune della
strada. È un fatto: non c’è vita cristiana in cui non si percepisca questo
cammino di una grazia costantemente sottomessa al tempo, al
divenire, incessantemente « messa al mondo ».
La chiesa tutta è il cammino di Gesù Cristo con il mondo, fino al
termine della storia. « Io sono con voi, tutti i giorni, fino alla fine dei
secoli ». Nella carovana umana, il figlio della Chiesa è quello che
cammina allo stesso passo di tutti i suoi fratelli uomini, ma che si sforza
di assumere egli stesso, e di aiutarli ad assumere, il passo del Figlio
dell’uomo.

« Fuggire il mondo » per il religioso non è dunque abbandonare


questo passo (il che significherebbe pretendere di raggiungere la Terra
nuova senza il Popolo nuovo! significherebbe abbandonare la Chiesa!),
ma è porsi deliberatamente nel mondo in quel luogo in cui l’umano
fermenta più intensamente sotto l’azione del lievito evangelico, in cui
la storia umana si fa nettamente, agli occhi della sua fede, storia santa,
in cui la Chiesa inaugura nella maniera più esplicita, il Regno.

205
Perciò, sì, si deve fuggire ciò che, nel mondo, offre maggior
appiglio al vecchio uomo; « fuggire », ma per porsi nel mondo là dove
la corrente dell’acqua viva è più forte e più pura; non evasione, ma
inserimento più profondo in ciò che di più prezioso c’è al mondo: la
carità; ricercare e servire sistematicamente ciò che, o meglio, Colui che
all’esistenza umana dà senso, valore, realismo profondo e portata
eterna; vivere la storia del mondo sotto l’angolo preciso in cui è il
flusso stesso della vita nuova nella vita degli uomini.
Per essere religioso, non si deve dunque negare o uccidere l’umano
(lo vorremmo, ma non lo potremmo senza suicidio o bestemmia), ma
salvarlo penetrandolo di vita nuova; non essere meno umano, ma
meglio e più umano, grazie a Gesù Cristo crocifisso e resuscitato. «Non
dal modo con cui qualcuno mi parla di Dio io vedo se la sua anima ha
soggiornato nel fuoco dell’Amore, ma dal modo con cui mi parla delle
realtà terrestri » (S. Weil).
In questo mondo che ha nostalgia della redenzione, lavorato dalla
grazia e che la Chiesa ha per missione di trasformare in forma di
Regno, il religioso è stimolato ad assumere la sua piena statura umana
secondo Gesù Cristo, a divenire un segno levato in alto dell’uomo
nuovo, ricuperato dalla grazia, salvato.

206
II. DALLA POVERTÀ ALLA VERA SICUREZZA

Qual’è il « sovrappiù » umano di cui si trovano gratificati coloro


che, per il Regno, si fanno poveri? Rispondiamo senza esitare: la
sicurezza. Ma ci dobbiamo intendere su questa parola.

1. Avere e profitto
a) Avere, possedere, profittare
I vecchi terrori che assalirono l’uomo primitivo sono inscritti in
noi. Ad essi si aggiungono i nuovi terrori suscitati da questo mondo
tumultuoso, disintegrante ed esso stesso disintegrabile. Viviamo in un
universo in cui la minaccia è continua, in cui tutto può essere per noi
aggressione: su di una strada l’aggressore è quello che m’incrocia o mi
supera, a casa mia la televisione mi lascia in balìa dell’assalto delle
immagini e dei suoni.
II possedere sembrerebbe essere uno dei migliori mezzi per
scongiurare l’aggressione. Ciò che è mio ha poche possibilità di
rivoltarsi contro di me; io l’ho domato, io « l’ho avuto ».
È sicuro? Se non è, in contrapposizione, continuamente
reinvestito nel dono gratuito, l’avere, il necessario avere, ha fatto
presto a raggiungere la dose che lo rende tossico. Per distinguere il
sano possesso dal possesso alienante, chiediamoci se ciò che abbiamo
si ferma a noi oppure prosegue la sua strada fra gli uomini, sotto il
segno della trasmissione gratuita, a condizione certo di non giudicare
semplicisticamente questa trasmissione. Senza dubbio bisognerebbe
distinguere qui avere e possesso. Il possesso è l’avere limitato a noi, che
marcisce in noi e fa marcire noi: la ruggine e i vermi lo corrodono e ci

207
corrodono. Quando l’avere si fissa oppure è investito solo per fissarsi
meglio negli stessi uomini, diviene possesso e « i nostri possessi ci
divorano ». Bisognerebbe aver di più esclusivamente per donare di più,
e non per conservare, per possedere di più.
Ogni possesso scopre nuovi limiti, crea nuovi bisogni, espone a
nuove aggressioni. Eccoci obbligati a fronteggiare, a moltiplicare i
fronti in cui si esauriscono le nostre energie profonde. Eccoci
minacciati di sbriciolamento, vulnerabili quanto mai. L’avere più
necessario, — o ritenuto tale — può ben presto trovarsi infestato da
quel demone che si chiama Legione: più possediamo — specie nel
campo materiale, ma tutto è da noi materializzabile, anche il pensiero,
anche la grazia — meno siamo in sicurezza. Il demone del possesso ci
da delle assicurazioni illusorie. Ci paga a chiacchiere; non ci garantisce
nulla, non ci salva, ci immerge nella febbre stravolta del drogato.
La sicurezza è una rivendicazione fondamentale dell’uomo, ma per
essere soddisfatta, deve procedere da quel dominio di se stesso che la
ricerca degli averi scompone; averi che hanno fatto presto ad alienarci,
mentre la sicurezza, quella vera, ci fa essere noi stessi.

Esagerazione? Non tanto, quando si guardi vivere la gente, quando


si misurino le conseguenze della corsa al denaro sulla gente ricca e
sulla povera nei paesi più sviluppati del mondo. Il bisogno profondo di
sicurezza vi è più palese e l’uomo vi sprofonda nella noia, nello
squilibrio, nella disperazione.
Perché? perché dalla nozione di avere, e specie di avere-possesso,
si giunge presto a quella di profitto. L’avere è necessario per
provvedere ai bisogni del nostro essere; ma il profitto? Ai nostri giorni,
un pensiero, assai pagano malgrado le false apparenze, eleva il profitto
a motore supremo dell’azione. Non c’è progresso, dicono, non c’è
arricchimento di cui, in ultima analisi, tutti, anche i poveri,
beneficino, senza l’attivazione costante del profitto.
Innanzitutto diciamo che molti sono lontani dall’essere beneficiari
di questo arricchimento. Bisogna avere una vista assai corta per non

208
accorgersi che in una economia di profitto, il divario tra popoli ricchi
e popoli poveri si approfondisce sempre più; per non ammettere che,
secondo il detto di un umorista inglese, « gli uomini sono uguali, ma
alcuni sono più uguali degli altri ». Inuguaglianze che sono lungi dal
non dipendere dalla sola natura umana, diversamente ricca secondo
gli individui.
Diciamo ancora che questa concezione di un uomo che avanza così
adescato, procede, sotto l’apparenza di realismo, da una visione
pessimistica e, in definitiva, illusoria. Disprezzo sull’uomo che nasce
da un disprezzo dell’uomo. Si tratta in fondo dello stesso errore che fa
confondere l’amore con il piacere sessuale. Non è per caso che una
civiltà del profitto si trova ad essere una civiltà dell’erotismo. Abbiamo
visto che la sessualità raggiungeva veramente il suo oggetto solo nella
misura in cui rifiutava di fermarsi al solo piacere. Così la tendenza
all’avere raggiunge veramente il suo oggetto solo se si rifiuta di
limitarsi al profitto.
Il profitto, certo, ha la sua funzione 28 ogni lavoro deve portare ad
un plus-valore, ma esso può essere sano solo quando procede da quella
potenza di creazione che fa dell’uomo un essere capace di aumentare
il suo avere per accrescere il suo essere e l’essere di tutti.
Ora il profitto, nel modo con cui caratterizza l’insieme del mondo
occidentale, non è quello. Esso è motore solo per operare questo
rigonfiamento forsennato dei beni che dobbiamo normalmente
acquisire. È un falso avere, avere per l’avere, senza rapporto reale con
il nostro bisogno di garantire e di ingrandire il nostro essere e l’essere
degli altri. Come si può parlare di «essere più», in un sistema in cui
l’ordine normale è capovolto: l’uomo per il prodotto, il prodotto per il
profitto? Come si può pensare all’altruismo, quando negli altri non
vediamo che dei concorrenti, degli associati o degli assistiti? Invece di
avere di più per essere di più, si vuole avere di più per avere di più.

28Non si manca di far notare, a buon diritto, che esso riappare, più o meno vergognoso, ma
necessario, nell’economia marxista.

209
Congenitamente artificioso, il profitto — che dà il tono alla nostra
società — viene naturalmente ad identificarsi con ciò che è in partenza
un segno puramente convenzionale, il denaro. Sempre più separato dal
suo significato, il denaro assume valore in sé, valore assoluto.
L’assoluto-Mammona, dio dell’avere artificioso, si sostituisce
all’assoluto-Dio, sorgente dell’essere reale.

Impossibile dunque trovarvi altro che non sia una sicurezza


illusoria. La corsa al profitto allontana dalla vera sicurezza che fa di
noi dei veri umani. Ricercato in una maniera che diviene presto
frenetica, il profitto istupidisce; sospinge l’uomo verso ciò che di
animalesco c’è in lui; fissandolo in procedimenti capziosi, lo blocca
nell’infantilismo, o lo precipita nella senilità.
Qualcuno forse si meraviglierà nel vedere una riflessione sui
consigli evangelici toccare gli scottanti problemi posti ai nostri
contemporanei dall’economia politica. Tale stupore prova che la vita
nuova di Gesù Cristo non ha ancora raggiunto presso di loro la vita
normale, come oggi si svolge. Quello che c’è nell’uomo, Gesù lo sa, ci
dice San Giovanni, ma ci resta di impararlo da lui, di misurarlo alla sua
luce, di farlo salvare da lui.
Non parliamo di povertà se non siamo decisi a prendere Mammona
sotto i fuochi del Vangelo e a dargli la caccia.
b) La necessaria fluidità degli averi
Fra le varie parabole del Vangelo, ce n’è una detta delle vergini
sagge e delle vergini stolte. Le prime hanno olio, le altre no. Esiste
dunque, garantito dalla Parola di Dio, una preoccupazione che
riguarda i beni richiesti dal nostro corpo, dal nostro cuore, dal nostro
spirito. Ma questa preoccupazione deve essere vissuta su un fondo di
pace. Previdenza, prudenza ma su un fondo di Provvidenza. Compito
umano ardentemente perseguito, ma che procede sempre dalla
certezza che il mondo non è solo, che è abitato perennemente da Gesù
Cristo, è accompagnato, rifornito da quell’amore concreto,

210
intelligente, efficace, provvidente, che nutre gli uccelli del cielo, veste
i gigli dei campi e dirige l’uomo verso la pienezza di figlio di Dio.
Noi sappiamo attraverso la fede che l’uomo è assicurato, nel senso
in cui l’alpinista impiega questo termine. Egli ha sempre un appiglio
sulla Roccia, il Padre onnipotente, il Salvatore, lo Spirito consolatore
(intendiamo: quello che ci impedisce di essere soli, esposti ai pericoli,
senza difesa). Dio, il Dio vivente donato al mondo in Gesù Cristo, è
abbastanza compromesso nel cammino con l’uomo da essere il
sicurissimo punto di appoggio di cui l’uomo ha bisogno. Dato che non
fa categoria con i mezzi umani, Dio non è affetto dalla loro fragilità,
fonte di insicurezza.
Nella misura in cui l’uomo acconsente a vivere nel Dio vivente,
egli è liberato dalle sue febbri, esorcizzato dal demone del possesso.
Egli ha di che umanizzare l’avere dissociandolo dal profitto ricercato
per sé stesso. In colui che impara i gesti del dono, avere e profitto si
dividono. L’avere diviene il principio, non di un nuovo prendere, ma
di un nuovo donare. La carità di Cristo lo spinge ad investire
continuamente i suoi averi nella distribuzione, nel servizio. Egli deve
acquistare, equipaggiarsi, ma tutto ciò che riceve così viene da lui
trasmesso, sotto mille forme. Né la ruggine, né i vermi hanno il tempo
di intaccare i suoi tesori. Egli non ha tesoro, se non fluido, e questa
fluidità stessa, paradossalmente, gli dà la vera sicurezza.
Sì, perché appena un possesso perde la sua fluidità, non è più
assimilabile al nostro organismo; da tessuto vivente, quale dovrebbe
essere, diviene tessuto morto, corpo estraneo: diventa ciste. Non
possiamo più contare su di lui per essere. L’essere umano non ha il suo
centro in sé, ma fuori di sé, in quel Dio vivente che, come l’uomo, è
inseparabilmente unito a quello che il Vangelo chiama il prossimo.
L’uomo è nella misura in cui si proietta continuamente, in un processo
oblativo, verso questo Altro, che è insieme Dio e prossimo. Ecco
perché era così importante che la povertà scavasse bene in noi il posto
dell’amore che ci dona a Dio e agli altri. Ora, il profitto tronca questo
slancio; fa ripiegare l’uomo su se stesso. Ecco l’uomo decentrato nella

211
misura in cui si prende per centro. Separato dal suo vero centro,
l’uomo non può che perdere la sua sicurezza di fondo: non è più sicuro;
non è più. Al contrario, nella misura in cui accetta di dissociare avere
e profitto, l’uomo profitta veramente di tutto ciò che gli perviene. Egli
sa allora — è un segno della sicurezza e della maturità in questo campo
— prendere le sue distanze di fronte a tutto e con ciò conosce il vero
valore delle cose; può meravigliarsi davanti a tutto, non insudicia
niente; infatti si insudicia sempre un po’ ciò su cui ci si getta troppo
voracemente. Per raggiungere la freschezza e la grandezza d’animo
che permettono di gioire di tutto, non ci si deve voler impadronire di
tutto. Meno asservito alla feroce legge della giungla, meno spinto a
calpestare i fratelli nella corsa all’oro, l’uomo è più umano. In questo
movimento che gli fa ricevere e donare egli diviene se stesso. Questo
ritmo lo costruisce.

2. La sana follia del non possesso


A questo atteggiamento, il consiglio evangelico intende dare piena
misura. Nel capitolo quarto del Vangelo secondo S. Matteo, Gesù ci
viene presentato mentre rifiuta allo spirito del male tre tipi di averi: il
pane, il successo, la potenza29. Egli non condanna questi averi:
moltiplicherà i pani, farà dei miracoli clamorosi, sarà Signore di gloria.
Ma Egli li sottrae al facile messianismo propostogli da Satana.
Moltiplicherà i pani, ma per gli altri e si farà egli stesso pane e pane
distribuito. Egli non si associerà i suoi discepoli con dei facili successi,
non farà pesare su di loro la sua volontà di potenza; sarà servitore. Non
prenderà, darà fino a dare la sua vita. Egli opta per Dio, per dei beni
ricevuti da Dio e dati a tutti. Per ciò stesso egli opta per l’uomo, per
l’uomo veramente umano. Contro la maniera mondana di avere e di
profittare, che sarà la nostra permanente tentazione, egli sceglie il
messianismo attraverso la Croce, il messianismo dell’anti-profitto e
dell’anti-potenza. Ed ogni uomo che vuole essere veramente umano, è

29 Da accostarsi alla trilogia Kantiana analizzata da Paul Ricoeur : avere-valere-potere.

212
invitato a fare questa scelta, a operare questa rottura.
Ma né questa scelta, né questa rottura, possono affatto assumere
tutta la loro durezza nell’insieme degli uomini. Presi nell’ingranaggio
di una società che Mammona ha largamente posto sotto il suo potere,
gli uomini, quando sono coscienti, vogliono operare delle riforme o
delle rivoluzioni. Il religioso ha una funzione precisa da svolgere con
la sua professione di povertà. Egli pone la sua vita nel regime effettivo
in cui la reazione di Cristo riguardo agli averi si afferma come la più
tagliente. Seguendo il consiglio evangelico di povertà, egli si inserisce
nel punto in cui la sicurezza rivendicata da ogni uomo trova la sua
verità, la sua salute radicale. Certo egli non si ritira per questo su di un
altro pianeta: egli continua ad immergersi nella « crisi di prosperità »
che mina il mondo occidentale. Tecnocrati e teppisti lo fiancheggiano.
Ma il battezzato che fa voto di povertà, erige, davanti alla insana follia
del profitto, la sana follia del non-possesso per il Regno. Molte cose
passano per le sue mani, ma le sue mani restano aperte. È questa la sua
maniera di possedere: senza chiudere le mani. Non avidità di fanciullo,
né avarizia di vecchio. Destinato così alla guarigione di ogni riflesso
capzioso, egli raggiunge a poco a poco, se è fedele, quell’aspetto della
maturità umana che consiste non nell’avere per avere, ma nell’avere
per essere e per far essere; riduce questo margine di non essere che fa
sì che tanti falsi adulti non sono, « non hanno senso».

In questo lento lavoro che scava tutto l’uomo e si estende — come


abbiamo visto — ben al di là del possesso materiale, colui che è la
nostra sicurezza fondamentale occupa, a poco a poco, tutto il posto.
Più decisamente che per gli altri battezzati, gli averi, per i religiosi,
sono chiamati ad essere ricuperati dalla grazia, a ricevere « il colpo di
grazia » che mette a morte e introduce alla vita. Cristo, l’Uomo nuovo,
rigorosamente imitato nella sua povertà, diviene il tutto effettivo della
loro esistenza. Essi danno rilievo al tracciato della frontiera che
suggerisce S. Paolo fra coloro che vogliono avere tutto e che non
hanno niente, e coloro che sembrano non avere niente e che hanno

213
tutto: « come gente che non ha nulla e invece possiede tutto » (2 Cor
6, 10). Veramente il loro tesoro è « nel cielo », cioè non nelle nuvole,
ma nelle mani del Dio vivente che fa la strada con loro, tutti i giorni,
fino alla fine, e che si rivela essere la loro sicurezza di fondo,
sperimentata come tale, ad ogni istante.
A grandi passi la povertà religiosa ci spinge verso la sorgente in cui
Dio ci crea e ci salva, ci fa sfuggire alla tristezza dei figli viziati e
rimpinzati, ci impedisce di partire continuamente alla ricerca
malinconica delle piccole sicurezze, uccide in noi quella maniera
forsennata di « assicurarci » a qualsiasi prezzo, ci restituisce
pienamente a noi stessi e a tutta l’opulenza della sua creazione. Per
Francesco d’Assisi, le cose, le persone, non costituivano minacce.
Tutto era inerme perché egli stesso era inerme. Che cosa gli si poteva
prendere? Aveva donato tutto.

Ma il figlio della luce conserva una qualche complicità con le


tenebre! Egli sa così bene falsare i consigli che gli ispira lo Spirito e
farsi dei così buoni amici con le ricchezze ottenute disonestamente,
che ciò che abbiamo appena descritto sembra essere una utopia. È
vero: le nostre comunità in genere sono più realmente povere di
quanto non sembrino, ma non al punto di immergere i loro membri
nella beatitudine che porta questo nome, non al punto di strapparli
alle sicurezze fantomatiche per farli accedere alla sicurezza reale che
è una delle note essenziali della maturità umana, non al punto di
indicare il Regno alle vittime ricche o sotto sviluppate di Mammona,
non al punto di contribuire per parte loro a quel grande
sconvolgimento che dei figli delle tenebre deve fare i figli della luce.
Se non desse appiglio a tanti compromessi con il cielo, il consiglio
evangelico di povertà ci condurrebbe assai lontano nelle terre
dell’umano devastate dal denaro. L’utopia si dimostrerebbe
realizzabile da parte di coloro che sono abbastanza « stolti » per
rinunciare agli averi. Ma costoro dovrebbero veramente essere stolti,
di quella stoltezza della sapienza di Dio che fa morire e che fa vivere.

214
Non si tratta di fare della povertà religiosa altro da ciò che è: una
liberazione per il Regno. Essa non potrebbe essere la norma economica
di un falansterio che si erge a modello di società perfetta, realizzando
un « sulla terra come in cielo ». Essa non potrebbe nemmeno dipendere
da tale o tal altro sistema di economia politica, desideroso di
capovolgere questo incatenamento mostruoso in cui l’uomo è legato al
prodotto e il prodotto al profitto. A dire il vero, attraverso i possessi
materiali e la loro potenza paralizzante, la povertà religiosa si appiglia
a tutti i possessi, perché la sicurezza di cui l’uomo ha bisogno per essere
veramente umano, è una sicurezza totale il cui nerbo è nel cuore e
nello spirito più che nelle mani. Ma anche e soprattutto nelle mani. E
tanto meglio se, restando pienamente se stessa, la povertà religiosa ci
mette in comunione con la folla degli eterni scartati. Perché abbiamo
paura di questa compagnia? Perché abbiamo paura dei poveri? Proprio
perché essi smantellano le nostre false sicurezze e in definitiva perché
ci vergognamo di non somigliare loro abbastanza.
Spesso frenata dalle nostre cattive prudenze, dai nostri sapienti
dosaggi, la nostra povertà, quale noi la viviamo, non può portarci fino
al punto in cui la vita nasce dalla morte. È forse sbagliato pensare che
se cessassimo veramente, noi che ne facciamo professione, di servire
due padroni, saremmo veramente liberi per il Regno e veramente
garantiti di questa umile e forte pace che scioglie ogni vincolo?
Allora noi apporteremmo, per la piccola parte che ci compete sotto
l’angolo della fede e non delle ideologie, il nostro contributo
all’umanizzazione dell’uomo. Contro il « disonesto denaro » la nostra
professione di non-possesso sarebbe profetica; la nostra vita personale
e soprattutto collettiva, sarebbe un’efficace protesta contro l’impostura
del profitto a qualsiasi prezzo; essa sarebbe una prova che l’uomo può
non sottomettersi a questa tirannia, che è anche necessario liberarsene
per accedere, di fronte ad ogni avere, alla libertà, alla padronanza e alla
pace. Noi proclameremmo, in silenzio ma vigorosamente, una giustizia
che non sarebbe quella dei giuristi, (ancorché necessaria) ma quella
dei profeti.

215
« Lui, di condizione divina non è stato geloso del suo stato di
divinità... ecco perché Dio l’ha esaltato... ed ogni lingua proclama che
Egli è Signore ». Questo Dio sprovvisto, indigente, è il Figlio
dell’uomo, il più umano di tutti gli uomini, è il Signore.
A sua immagine e con la sua grazia, noi saremmo il segno discreto
ma parlante della sua vittoria sulla « umanimalità », sui terrori ereditati
dalla giungla primitiva, su ciò che toglie all’uomo la padronanza di se
stesso.

216
III. DALLA CASTITÀ PERFETTA AL VERO
INCONTRO UMANO

L’esigenza di solitudine legata al consiglio di castità perfetta appare


crudele a molti nostri contemporanei. A tale esigenza, nel corso della
nostra analisi, non abbiamo voluto togliere nulla. Addolcirla, vuol dire
negarla: si tratta di castità perfetta. I recuperi surrettizi, i sorrisi furtivi,
le difese pseudo-scientifiche, gli sforzi per cercare di non dire pane al
pane e vino al vino, non giovano al problema. Frutto di grazia divina
e di paziente conquista umana, questa solitudine è accoppiata a una
pienezza che in fondo altro non è se non l’effusione della carità. È
necessario che queste grandi pulsioni muoiano per entrare nella gloria.
« Chi può capire capisca ».
Noi comprenderemo un po’ meno male se potremo cogliere il
frutto umano della castità perfetta.

1. Unificazione dell’essere
Primo frutto umano da cogliere: l’unificazione di noi stessi. A dire
il vero le forze di dislocazione e di disintegrazione sono in noi troppo
numerose e troppo vigorose perché questa unificazione dipenda da un
solo fattore. Essere totalmente casto non basta per essere totalmente
uno. Ma fra gli altri elementi di unità, la castità perfetta adempie una
funzione maggiore. Facendoci rinunziare ai rapporti coniugali e
parentali, essa capta e convoglia verso colui che insieme è la nostra
fonte e il nostro oceano, tutte le forze vive che ci solcano interamente.
La sessualità concerne tutto intero il nostro essere, dalle nostre
fibre più fisiche ai nostri movimenti più spirituali. Che ciò piaccia o
meno e senza cadere affatto nell’oltranza Freudiana, diciamo che essa
217
colora più o meno, coscientemente o no, ogni nostro comportamento,
dal genitale al teologale.
« Uomo e donna li creò ».
La consacrazione che ci vota direttamente al nostro Creatore e
Salvatore, nella totalità del nostro slancio, disegna lungo il nostro
essere un asse dinamico di unificazione la cui importanza non sempre
è percepita. Si è più sensibili alle rotture possibili di questo asse, ai suoi
punti di rottura: il genitale ha le sue leggi, i suoi istinti, la sua storia,
l’immaginazione ha i suoi spettacoli, il cuore le sue pulsioni e le sue
ragioni. Ma questa corrente è una nella sua diversità e,
deliberatamente diretta verso Dio, tende a unificare veramente questa
diversità.
La professione di castità perfetta, a condizione che proceda da una
scelta illuminata e deliberata, poggiata su di una salute fisica e psichica
fondamentale, aggancia al suo polo definitivo la sessualità. Essa
favorisce il suo più fondamentale movimento: l’oblatività; mantiene
esplicito e sommamente normativo lo scopo unico promesso a tutti i
movimenti della virilità o della femminilità: l’amore che dà. Per coloro
che hanno dato al Dio-Amore tutte le loro forze di amare, si trova più
nettamente scavata la falda del torrente di vita che ci irrora
completamente, si trova rettificata la sua corsa, ingrandita la sua
portata, accresciuta la sua potenza di attrazione su tutto ciò che
potrebbe diventare acqua calma, acqua morta.
A poco a poco con tutta la pazienza richiesta dal tempo, i
determinismi del nostro corpo e le scelte della nostra libertà sono
meno discordanti. Amore di Dio, affetti umani, emozioni di collegiali
sono meno distinti, meno separati gli uni in rapporto agli altri; tutto
ciò che in noi è frenesia di amare e di essere amati diviene più mite.
Sotto la calamitazione diretta dell’unico amore cui siamo votati, la
graniglia delle nostre pulsioni, grandi amicizie e piccole emozioni,
affetti nobili e desideri mediocri, si chiarisce e si ordina. Dal vago
regime religioso o semplicemente sociale dato ai nostri istinti, si tende
verso un regime umano integrante e unificante. Niente di insulso; al

218
contrario, così riunita la nostra potenza di amare acquista vigore e
densità. Conosciamo allora ciò che alcuni psicologi americani
chiamano la congruenza, ovvero la piena coscienza che noi viviamo
nella relazione con altri, la felicità per la persona di essere nella sua
più intima coscienza ciò che essa è nel suo comportamento più
esteriore. Tale accordo fra l’esperienza, la coscienza e la
comunicazione può certamente essere raggiunto senza il consiglio
evangelico. Può anche essere compromesso gravemente dalla cattiva
messa in opera di questo consiglio. Ma, per chi la vive in piena salute
e fedeltà, la professione di castità perfetta contribuisce grandemente a
questo successo affettivo;

Tale successo lo vedremo precisarsi nell’incontro umano.


La salute delle nostre potenze di amare le spinge verso l’esterno,
verso l’altro. Abbiamo già visto, nella linea propria della ricerca del
Regno, quanto la pasqua di un cuore consacrato dalla professione
religiosa, sfociasse su questa pienezza che ci fa sopprimere le distanze,
accogliere, dare, ricevere, e partecipare alla fecondità di Dio stesso.
Altrettante realizzazioni della carità, perché la carità divina
rivolgendoci verso gli altri non ha altro terreno che il nostro essere di
uomo e di donna in relazione ad altri uomini e ad altre donne. Il
sovrappiù promesso si inserisce nell’ambito stesso dell’esercizio
normale della carità; la spinge nelle sue risonanze più umane.

2. Capacità d’amicizia
La comunicazione con altri può realizzarsi in maniere diverse: può
essere del tipo dell’aiuto da portare o da ricevere, aiuto sia personale,
sia (cosa che basterebbe forse a creare un preciso genere di relazioni
umane) collaborazione ad un opera comune; ma essa raggiunge la sua
espressione perfetta, quando è disinteressata, gratuita, nel senso in cui
questa parola designa ciò che è al di là di ogni stretto apprezzamento,
di ogni chiara motivazione: « ...perché era lui, perché ero io ».
Ispirati dal pensiero del dono, noi religiosi rischieremmo di vedere

219
e volere nel rapporto con gli altri solo il primo aspetto, quello
dell’aiuto. Lo zelo, la generosità, la preoccupazione di servizio, la
coscienza di tutto ciò che Dio dà a noi stessi e a noi affida per gli altri,
ci getterebbe senza tregua incontro ad un prossimo avvicinato sempre
come un assistito. O ancora — movimento contrario ma dello stesso
genere — avidi di realizzare le ricche promesse legate alla nostra
vocazione, coscienti per altro di essere sempre perfettibili, andremmo
incontro agli altri con l’idea di ricevere.
Tutto ciò ci lascia in una concezione un po’ limitata dell’oblatività.
Noi siamo destinati, nell’intimo di questo dare-ricevere, a una
relazione umana più nettamente posta sotto il segno della gratuità,
della più alta reciprocità, quella in cui non conta il servizio reso, preso
come è nel costante scambio della comunione. Siamo qui nell’ordine
dell’amicizia.
L’appartenenza totale a Gesù Cristo con la professione di castità
perfetta include anche l’amicizia umana, valore che appartiene esso
stesso all’ordine dei fini? Amicizia con il Dio vivente gelosamente
coltivata e amicizia umana sono compatibili?
Diciamo innanzitutto che questa parola, amicizia, bisogna
adoperarla consapevolmente, al livello che le è proprio: eminente.
Questa parola designa non un primo moto di simpatia, una semplice
ventata di entusiasmo sensibile, ma il più grande valore affettivo di
una vita umana.
Un’amicizia, dunque non è mai un’improvvisazione; ricordiamoci
la parola della Saggezza antica: « per dirsi amico di qualcuno, bisogna
aver leccato un moggio di sale con lui! ». Un moggio di sale da leccare!
È cosa lunga! anche in due. Non ci sarebbero in tutta un’esistenza che
due o tre persone con cui si possa pensare ad alta voce, e ciò sarebbe
già un risultato magnifico. L’amicizia è cosa rara in ogni vita umana, a
maggior ragione in ogni vita consacrata.
Essa dunque non potrebbe fare al caso dei principianti. È
necessario che l’amore di Dio e del prossimo abbia già combattuto in
noi, abbia conquistato, con aspra lotta, un posto abbastanza grande nel

220
nostro cuore perché carità divina e amicizia umana possano senza
disordine mescolare le loro acque.
Il Regno di Dio è simile a un granello di senape. Esso deve
diventare un grande albero per poter accogliere gli uccelli del cielo.
Per poter portare un’amicizia, l’amore teologale deve avere superato
in noi lo stadio di piccola pianta troppo fragile, troppo flessibile.
Non crediamo tuttavia che l’amicizia sia possibile unicamente
sulle alte cime della vita religiosa. Capita più di una volta che essa si
inserisca nel suo divenire laborioso. Non è raro che a certe fasi difficili
della nostra crescita, noi incontriamo qualcuno la cui presenza sarà
come il focolare a riparo del quale l’amore di Dio e degli altri potrà
trovare o ritrovare luce, calore, stimolo. Senza questa presenza umana,
la carità divina non conoscerebbe questa fioritura nuova, questa
primavera... Può benissimo succedere che questo aiuto tenda verso una
profonda comunione, un regime fermo in cui non si deve più dire
grazie all’altro, perché il grazie reciproco non si deve più dire: esso è
costante e costantemente immerso nell’amore. Eccoci in amicizia.
Il fatto che, in una situazione d’amicizia, l’altro sia un aiuto, non
vuol dire che sia ridotto alla funzione di mezzo, foss’anche per
permetterci di rispondere all’amore di Dio. L’amicizia è un valore
troppo nobile per poter diventare semplice mezzo. In realtà l’amico,
compagno del nostro cammino, si trova ad essere come il sacramento
vivente del nostro proprio divenire. L’amico non è un oggetto di cui ci
si serve; è un soggetto, è se stesso; ma egli è una sola cosa con quel
soggetto che sono io stesso, e grazie a questa comunione nella alterità,
egli mi riflette, mi illumina, mi dice ciò che già sono e mi annuncia ciò
che non sono ancora. Io ho bisogno di lui come di un altro me stesso
che esige qualcosa meglio di me stesso.
Viceversa si è sempre più o meno aiutati da chi si aiuta.
In ogni modo e in ogni caso, l’amicizia dovrà sempre essere
mantenuta nella carità esigente che spinge noi consacrati con
un’istanza maggiore che in qualsiasi altro regime di vita. Questa sarà
la migliore maniera per essa di divenire e di restare se stessa: così si

221
difenderà meglio da ciò che potrebbe intaccarla (superficialità,
stanchezza, egoismo), accentuerà le sue note di semplicità e di
attenzione, osserverà meglio quella riserva che trattiene ciascuno
dall’avvicinarsi troppo alla « soglia » dell’altro; sarà sempre più ricca
della migliore presenza dell’altro a Dio.
Essa dovrà perciò essere ricevuta come un dono del tutto gratuito
che Dio ci fa e che ci lascia molto poveri e molto liberi. « Signore, tu
hai voluto offrirmi questo gioiello. È ben inteso che niente ti è tolto.
Anzi, non è malgrado questa amicizia ma grazie ad essa che io ti amo
meglio e amo meglio gli altri. Amarti e amare questo essere che tu
stesso ospiti nel profondo del tuo amore per me, è veramente la stessa
cosa, Signore. Pur essendo nelle mie mani, questo dono resta nelle tue
mani ».
Qui più che mai, bisogna avere la lealtà di restare sotto la presa di
quelle domande che ci ponemmo a proposito della solitudine inerente
alla nostra consacrazione30 \ È necessaria molta delicatezza perché il
dono di Dio non sia deformato, sviato, affinché, da stimolante qual’è,
non divenga schermo, affinché sotto la parola « amicizia » poniamo
non delle realtà di contrabbando, ma la realtà dell’amore evangelico,
o almeno affinché non siamo portati a ricostituire nell’amico quella
così avvincente mediazione di tipo coniugale o parentale, cui Dio ci ha
chiesto di rinunciare con il voto di castità perfetta.
Insomma, poste tutte le esigenze, l’amicizia è possibile in una vita
come la nostra, anche se non può essere che una amicizia sottomessa,
più che in ogni altro regime, alla tensione della Croce. Ancor più: non
solo l’amicizia è possibile, ma per chi dilata il suo cuore in un amore
teologale, costantemente purificato, l’amicizia è come richiesta, è il
segno più chiaro di una consacrazione riuscita. Essa non è una

30 Ricordiamo queste domande:


— Si tratta di amore-che-dà o di amore-che-prende?
— Tutto, in questa amicizia, può sostenere lo sguardo di Gesù Cristo e favorire il mio
sguardo su di lui?
— Questa amicizia non mi sottrae agli altri?
— Ho la lealtà di sottoporre questa amicizia a un giudizio?

222
concessione fatta alla nostra fragilità, ma una esaltazione della nostra
potenza di amare; è l’Isacco restituito ad Abramo, è il centuplo
promesso a chi ha lasciato tutto, è frutto di pienezza.
Un cuore veramente abitato dall’amore di Dio e degli altri possiede
normalmente una formidabile capacità di amicizia. Uomini e donne,
splendenti di santità, e altri, di minor splendore, possono
testimoniarlo.
Quando Dio trova un cuore libero, generoso, limpido, che
meraviglia c’è se vi riversa in sovrabbondanza l’amore così umilmente
espresso in Gesù Cristo?

Che meraviglia se questo amore, che non ha niente di etereo, si


personalizza in esseri precisi che lungi dall’accaparrare questo cuore lo
lanceranno ancor più vigorosamente verso Dio o verso gli altri? Non è
questo il segno dell’umano ricuperato dalla grazia? Non è conforme
all’incarnazione? alla redenzione? Non è questa la disfatta del demone
dell’indifferenza generalizzata che minaccia ogni cuore consacrato?
Amare tutti sì, ma a condizione che ciò non significhi non amare
nessuno. Le aperte preferenze che sono le nostre amicizie sono la
garanzia di verità, di salute, di calore che noi diamo all’universalità del
nostro amore.

3. Virilità e femminilità
Che cosa ne è dell’amicizia tra uomo e donna nell’ambito di una
professione di castità perfetta? Cerchiamo di rispondere.
L’uomo e la donna sono stati creati da Dio per completarsi, per
continuare insieme l’opera di creazione da lui cominciata. L’opera di
redenzione è di per sé indipendente dalla realtà sessuale. « Non c’è più
né maschio né femmina » dice S. Paolo (Gal 3, 28). In un certo senso,
la vita nuova portata da Gesù Cristo abolisce la distinzione dei sessi,
come abolisce le distinzioni raziali («non c’è più né giudeo né greco »)
o sociali (« non c’è né schiavo né libero »). La verginità consacrata

223
annunzia lo stato in cui non si porrà più problema di matrimonio (Mt
22, 30). Ma questo annunzio della realtà ultima, per quanto fortemente
proclamata dalla professione di castità perfetta, ci lascia ancora nel
nostro stato di itineranza.
Sulla strada umana che percorriamo, il consiglio del Signore
evangelizza non angelizza. Esso fa parte dell’opera di salvezza che ci
trasforma in figli di Dio. Ma i figli di Dio restano membri di una razza,
di una classe; restano uomini e donne. Essi vivono sulla terra da uomini
e da donne la loro filiazione divina e segnano della loro mascolinità e
femminilità il loro lavoro e la loro collaborazione per il Regno come si
costruisce qui e adesso.
Così per religiosi e religiose.
Male abituati alla realtà sessuale, avendo vissuto troppo la loro
consacrazione come un allontanamento sistematico dall’altro sesso,
molti fra essi e fra esse ignorano ancora che la castità perfetta è una
maniera realissima di vivere la sessualità. Ciò cui si rinuncia con la
professione religiosa è la messa in opera della genitalità, che però non
è il complesso della sessualità. Non si può rinunciare ad essere uomo o
donna. All’interno di una conversazione o di una collaborazione assai
spirituali, ci si comporta da uomo o da donna, che lo si sappia o no.
Meglio sarà allora saperlo e vivere in tutta chiarezza la propria
consacrazione nel reale totale (mascolino, femminino, umano e
divino) dell’incontro.

Entriamo in un mondo in cui uomini e donne devono imparare,


sin dall’infanzia, a non vivere più in due sfere separate, ma a
frequentarsi, a conoscersi, a stimarsi, a rispettarsi, a collaborare. La vita
nella Chiesa non potrebbe fare eccezione a questo dato di fatto. Ed è
un dato di fatto positivo. La vita professionale ed apostolica tende
sempre più a mettere in contatto religiosi e religiose con colleghi
dell’altro sesso, nella collaborazione e nella divisione delle
responsabilità. Imbarazzo e difficoltà, oppure disinvoltura e mancanza
di riservatezza sono allora per molti prova di immaturità o di falsa

224
maturità.
Per contro è sorprendente vedere l’affinamento che può provocare
in un uomo, religioso o no, la presenza limpida e semplice di una
religiosa. È altrettanto sorprendente constatare come una religiosa
possa equilibrarsi in un ambiente di lavoro maschile. Tale risultato
positivo è sospetto, è dovuto ad una mancanza di castità? Molto
sospetto sarebbe chi lo pensa. Sicuramente non abbiamo la ingenuità
di credere al buon selvaggio di J.J. Rousseau, ma sappiamo che, per un
essere normale (cioè destinato al dispiegamento normale del suo essere
fisico e psichico) e deciso a vivere a fondo la sua consacrazione
religiosa, la presenza dell’altro sesso è in sé normale, e ci si può
chiedere se l’umano possa essere pienamente ricuperato dalla grazia
senza questo incontro infinitamente discreto e reale dell’uomo e della
donna, se la donna non sia necessaria all’esplicita redenzione del
maschio e l’uomo necessario all’esplicita redenzione della donna, se
l’opera di un uomo possa essere completa senza un tocco femminile e
viceversa.
Ciò può giungere fino all’amicizia?
Sì, a patto che siano rispettate le condizioni generali riconosciute
all’amicizia in ogni vita religiosa e che, inoltre, sia cosciente in
ciascuno la differenza di sensibilità maschile e femminile, che non solo
il sensibile ma anche il sentimentale siano eliminati, che l’accento sia
posto sul lato positivo dell’incontro, e tale incontro infine sia
polarizzato su di un’opera da compiere in comune al servizio del
Signore, garantendo così un rapporto creatore di altissima portata.
Non contentiamoci di chiacchiere. Qui l’amicizia, nel vero e
grande senso del termine, è più raramente possibile che fra persone
dello stesso sesso. Ma essa è possibile, se Dio vuole trovarvi il suo e il
nostro tornaconto.
Celebri esempi ci vengono in mente: Giovanni della Croce e Teresa
d’Avila, Giovanna di Chantal e Francesco di Sales...

Certo bisogna fare una strada lunga e pericolosa prima che si possa

225
effettivamente raggiungere il risultato promesso: l’integrazione della
realtà maschile e della realtà femminile.
Ma questo risultato sembra essere la ricompensa di una
consacrazione lucidamente e generosamente vissuta.
Esso pone allora il religioso, la religiosa in uno stato assai simile a
quello di chi è destinato alla castità matrimoniale. È normale: nessuno
è dispensato dalla castità. Vissuta nella verginità o vissuta nel
matrimonio, essa significa, come abbiamo visto, la stessa realtà:
l’Alleanza fra Dio e l’umanità. Alleanza audace, rischiosa, ma piena di
promesse per l’uomo e per la donna. Associata al nuovo Adamo, ecco
la nuova Eva, la Vergine Maria. Mai nessuna donna è stata sposa,
madre, sorella o semplicemente vicina come la « benedetta fra tutte le
donne ».
A colui che ha posto il suo corpo e il suo cuore sotto il segno della
più alta realizzazione della sessualità, che non è il piacere ma il dono
I di sé, è promesso questo centuplo: una maturità umana che esalta il
j proprio essere di uomo o di donna, che veramente porta alla virilità e
alla femminilità ricuperate dalla grazia.
L’unificazione dell’essere attorno a questo asse di oblatività che
disegna in noi la professione di castità perfetta, non livella in noi i
diversi aspetti della nostra personalità; rispetta tutto. Nulla è negato,
nulla è atrofizzato. Nella movenza diretta e unificante dell’amore di
carità, tutto assume in noi il suo regime di grazia; le nostre potenze di
amare rinascono e ci dispongono all’incontro umano vissuto con
qualcosa della verità luminosa e calorosa che il Verbo ha mostrato
nella sua condizione carnale.
La carità che consacra il nostro cuore ne consacra anche il più alto
valore: l’amicizia.

226
IV DALL’OBBEDIENZA ALLA CREATIVITÀ

Quando la ricerca del Regno giunge al punto di farci rinunziare


alla nostra libertà, sembra assai improabile che possa esserci un «
sovrappiù ». Quel Dio che ci invade fino al più profondo del nostro
essere forse riesce anche ad essere il Signore assoluto della nostra vita,
ma non pretendiamo di trovarvi il nostro conto. Certo la libertà in noi
è più che mai vivente, ma allora essa è la nostra libertà?
A questo punto vediamo insorgere una domanda la cui risposta è
stata abbozzata a proposito della povertà. Se riduciamo la libertà ad un
bene, anche eminente, bisogna dire subito che il processo di rinunzia
che lo raggiunge si priva di essa effettivamente e totalmente.
Ma la libertà è troppo legata all’essere dell’uomo per poter essere
trattata così come un puro e semplice bene. Molte difficoltà sollevate
dall’obbedienza religiosa dipendono in ultima analisi, nonostante le
apparenze, dalla confusione che minimizza la libertà. Accedere alla
vera maturità umana, vuol dire prendere la libertà per molto più, quel
molto più al quale ci introduce la pasqua di Gesù Cristo. Non deve
morire anch’essa, per entrare nella gloria dell’uomo vivente di vita
nuova?
Il consiglio evangelico di obbedienza come l’abbiamo analizzato,
assicurerà questa mutazione pasquale di una libertà che cessa di essere
un bene per divenire ciò che è.
Ma che cosa è?

1. Liberare la nostra libertà


Intendiamoci su di una breve definizione che abbia la possibilità

227
di aiutarci a riconoscerci nel rigoglio delle filosofie e di riunire la
maggioranza dei suffragi. Essere liberi vuol dire, in una data situazione
e tenuto conto di tutte le specie di condizionamenti che ci affliggono,
essere padroni delle nostre azioni e in ultima analisi, nell’insieme della
nostra vita, essere autori di noi stessi.
La libertà non è pura spontaneità, autosufficienza; Non è
nemmeno possibilità di fare il bene o il male, o di porsi al di là del bene
e del male. Una tale libertà sarebbe una vuota potenza che in nulla
farebbe presa sull’esistenza concreta. Non sarebbe la libertà di
nessuno.
Una libertà si muove sempre in una situazione precisa che
presenta un certo numero di dati; ma questi non determinano
assolutamente le nostre reazioni. Esse hanno « gioco ». Quali che siano
i demoni o gli angeli che si disputano le nostre profondità, quale che
sia il nostro passato « arcaico » che perdura in tutto ciò che noi siamo,
quali che siano anche le pressioni che esercitano su di noi le strutture
interne ed esterne, noi non siamo riducibili ad un insieme di
complessi, né ad un fascio di relazioni, né ad un sacco di ormoni, né
ad un robot.
C’è, grazie a quel gioco che fa vacillare i più forti determinismi,
una possibilità di non abbandonarci alle pressioni di una situazione, di
riprendere a nostro favore il dato, di elaborare i progetti fra i quali
potremo scegliere, e realizzare tali progetti.
È possibile — ed è la nostra vocazione profonda — passare dal «
questo » all’« io », per dirla alla maniera di Freud.
Ma ecco l’immenso rischio di un’obbedienza religiosa mal vissuta:
aumentare la pressione del « questo», sacralizzare per sempre il «
super-io », sostituire, rinforzandola e dandole tutta la pesantezza del
sacro, l’autorità parentale, bloccare quindi e fissare ciò che era
destinato a muoversi, moltiplicare dall’interno e dall’esterno le
pressioni determinanti.
L’acqua viva è abbastanza forte per aprirsi un passaggio fra queste
masse così compatte, è vero, e possiamo registrare molte vittorie della

228
libertà divina nell’intimo delle esistenze religiose che sembravano
decisamente condannate all’infantilismo. Ma il miracolo non è il
regime normale dei successi divini. Dopo il miracolo primo che è la
resurrezione di Gesù, Dio ci risuscita normalmente, per così dire,
mediante l’azione quotidiana del suo Spirito, orchestrando i mezzi
abituali della vita cristiana, umana.
Quel mezzo che è l’obbedienza religiosa svolgerà la sua funzione
se ci farà morire solo per farci rivivere, per restituirci a noi stessi
secondo l’uomo nuovo, libero in Gesù Cristo. Inserendo la libertà di
Dio alle sorgenti della nostra stessa libertà, liberando la volontà di Dio
in noi, come abbiamo visto, l’obbedienza religiosa deve normalmente
scongiurare la minaccia d’alienazione che nasconde, per la nostra
libertà, ogni mediazione umana, e deve permetterci di pervenire ad
una libertà ricuperata dalla grazia, salvata.
Come è possibile tutto questo?

Lo sviluppo della persona comporta questa costante irrecusabile:


non si può diventare pienamente se stessi senza l’altrui mediazione.
La relazione con gli altri è parte integrante ed essenziale del nostro
accesso alla piena e vera personalità. Questi altri, la vita religiosa li
introduce con forza in ognuna delle nostre esistenze: la comunità è là,
che ci smuove continuamente, scacciandoci dalle piccole sicurezze che
ci costruiamo.
Impietosamente essa adempie alla sua funzione pedagogica.
Pedagogia troppo forte per certuni, che ne vengono schiacciati o che
vivono sul piano del paragone ombroso, della competizione febbrile.
Ma chi gode di un fondo di salute sufficiente, è provocato dai fratelli a
dare un profilo netto alla sua personalità. L’apporto incessante degli
altri gli permette di trarne il suo frutto, di riconoscere i suoi limiti e le
sue capacità, di arricchire la sua potenza di espressione, insomma, in
breve, di far risaltare senza timidezza, coraggiosamente, attraverso il
gioco stesso del gruppo, ciò che egli è.
Ma più ancora l’obbedienza religiosa ci pone alle dipendenze dei

229
superiori. Due sono le possibilità: o essi ci fanno rivivere, in modo
ancora peggiore, il conflitto mal superato che ha potuto aggrovigliarsi
in noi al contatto delle potenze tutelari dell’infanzia; da questa tomba
la vita nuova potrà scaturire solo mediante un miracolo; oppure, al
contrario, e questo è ciò che dovrebbe normalmente avvenire, i
superiori contribuiscono alla guarigione di tutto ciò che ancora c’era
di malaticcio nel nostro rapporto con l’autorità parentale.
Esprimendoci la volontà del Padre che è il nostro nutrimento, essi
restituiscono — o dovrebbero restituire — alla sua piena sanità il
nostro rapporto con tutto ciò che più o meno dipende dal rapporto
parentale, luogo di tanti disordini incoscienti. Presi nella rete fraterna
della comunità di cui sono a capo esclusivamente per servire, e per
servire degli adulti di cui condividono la ricerca umile dell’amore in
pienezza, i superiori dovrebbero poter farci vivere nella coscienza,
nella volontà, nella nostra scelta, questo rapporto parentale vissuto
finora più o meno bene. Meglio di un disordinato affrancamento,
meglio di una rivolta che rischia di non farci mai veramente uscire
dall’adolescenza, l’autorità religiosa esprimendoci concretamente,
pedagogicamente, la volontà del Padre, dovrebbe poter aiutare molto
a finire di « uccidere il padre ».
Il dialogo fiducioso, aperto, da una parte e dall’altra, attenua le
asprezze, ammansisce ciò che era stato reso selvaggio e vile da un certo
tipo di educazione tradizionale, riporta alla luce ciò che si era chiuso
troppo nell’ombra, abbatte i tabù, semplifica, chiarifica e permette una
vera ripresa di noi stessi attraverso noi stessi, alle radici del nostro
essere libero.
Ciò che spesso ci impedisce di maturare, è la presenza in noi di un
altro che, tuttavia, è noi stessi, ma un noi stessi dissimulato,
mascherato, clandestino. È lui che frena e che falsa. L’obbedienza
filiale di Gesù Cristo in noi dovrebbe contribuire a ritrovare
totalmente il vero noi stessi, attraverso quel « nostro Padre» che ci ri-
crea, che ci chiama con il nostro nuovo nome.
Non che i nostro superiori debbano mettersi a fare i terapeuti. Ma

230
se essi esercitano la loro autorità in modo fine, intelligente, umile e
vero, se si sforzano per quella trasparenza che ci facilita l’inserzione
sul Dio vivente, essi ci condurranno alla liberazione della nostra
libertà.
Infatti quel Padre che tanto ci ama, alla cui volontà l’obbedienza
ci sospende durante tutto il giorno, non stringe così il suo legame con
noi, tramite le mediazioni umane, se non per gratificarci meglio dei
suoi doni, e in particolare di quel dono fondamentale che è la libertà.
Il religioso non è uno che debba semplicemente adeguarsi ad un
fatto, imposto, prefabbricato dal Dio Creatore, rappresentato dai
superiori o dai regolamenti; non è uno che debba vivere una storia la
cui trama sia già stata scritta in precedenza da Dio o dai suoi sedicenti
rappresentanti. Il religioso, come ogni uomo, è creato creatore. La sua
libertà è iniziativa sulla creazione che certo pesa su di lui, ma che ancor
più richiede a lui una pressione su di essa. Riconoscendo Dio per suo
Padre, rinforzando con l’obbedienza votata il legame con il Padre, il
religioso non aliena la sua dignità di creatore, anzi le dà un più solido
fondamento.
Libertà divina e libertà umana non sono in concorrenza,
guadagnando l’una ciò che l’altra possa eventualmente perdere. Il
Creatore ci crea liberi. La sua libertà non si dispiega al livello della
nostra per entrare con essa in concorrenza, ma alla fonte della nostra
per suscitarla, e suscitarla precisamente come libertà, come capacità di
agire scegliendo, inventando. Un superiore religioso che comunichi,
in noi, con la volontà del Creatore non può che volerci e renderci
liberi. Facilitando l’irruzione continuata della libertà di Dio nella
nostra libertà, egli non la soffoca ma la stimola, la pone di fronte al
reale non come di fronte ad una cosa già fatta, ma come di fronte ad
una cosa da farsi. Ci spinge ad inventare, a combattere, a creare, perché
la risposta alla nostra vocazione si compie solo attraverso la storia
laboriosa dei nostri sforzi di uomini liberi, di figli del Padre di Gesù
Cristo.
La grande libertà dei figli di Dio, tanto proclamata da San Paolo,

231
deve così trovare nell’obbedienza religiosa una garanzia
supplementare.
Ma in pratica, non abbiamo forse paura della forza esplosiva della
parola libertà, la quale sembra scoppiare nelle epistole ai Galati e ai
Romani? In quelle comunità fraterne in cui risuona la Parola di Dio,
in cui è celebrata la Eucarestia, in cui lavora lo Spirito Santo, non ci si
dovrebbe mostrare più remissivi? I nostri comportamenti religiosi non
sono gelati dal conformismo? Non giudaizziamo forse?
Quanti religiosi in ritardo di un’Alleanza! Quanti religiosi in
ritardo su Gesù Cristo! Meravigliamoci allora se l’uomo nuovo
perviene così poco al sovrappiù della maturità umana, se in noi
cristallizza così forte ciò che invece dovrebbe restare flessibile, fedele
al reale, creatore.

2. Alle sorgenti dell’azione creatrice


Insistiamo su questa nozione moderna di creatività.
Essa è la messa in opera di quell’aspirazione fondamentale che
spinge una persona ad esprimersi, in parole ed in atti, secondo l’aspetto
più inedito di se stessa, in piena verità e giustizia. Una tale aspirazione
non raggiunge subito la sua perfetta espressione, ma va educata. E
possiamo dire che questa educazione è insieme causa ed effetto di
quella assunzione personale della volontà divina che costituisce,
attraverso una prudenza sempre più illuminata, la perfetta obbedienza.
« Non importa chi possa essere un vagone di munizioni; ciò che
bisogna essere è un fucile », dice uno psicologo americano.
Imbottito di principi, bardato di obbedienza, il religioso può
restare inerte. Egli dà veramente qualcosa — nell’ordine della
preghiera o in quello dell’azione — solo quando è indirizzato verso
uno scopo, capace di proiettarvi tutta la sua carica interiore. Ciò è
possibile solo se l’obbedienza vissuta in spirito e in verità lo allontana
da un funzionamento impersonale e lo indirizza verso un
comportamento flessibile ed intelligente, corrispondente ai dati
cangianti del reale.

232
Superiori e fratelli sono là per impedire all’uomo di fissarsi e di
divenire fico sterile, per impedirgli, soprattutto, di fuggire. Infatti
proprio nella fuga, che ci fa volgere le spalle all’atto creatore, troviamo
uno dei più eloquenti segni dell’immaturità umana. Si può fuggire
verso l’interiore: a meno di un richiamo, dovutamente controllato, ad
uno stato di vita contemplativa, non ci si deve fidare di certe
rivendicazioni d’interiorità, che dipendono da una psicologia incapace
di affrontare il reale, talvolta da un desiderio sottile di eccellere senza
concorrenza visibile, senza verifica mediante gli atti. Il più delle volte
queste rivendicazioni d’interiorità professate dal soggetto, sono
semplicemente proteste interiori dello Spirito che chiama ad un
approfondimento di ciò che già si vive. La vera interiorità è raggiunta
solo dai nostri atti più creatori; sono essi che forniscono al nostro
mondo interiore i suoi veri oggetti. Altrimenti noi siamo assillati da
oggetti di sogno che ci alienano.
L’obbedienza, come l’abbiamo descritta, deve difenderci da questa
fuga che, in certi momenti, alcuni fra noi possono tentare. Obbedire
vuol dire accogliere la volontà di Dio che si inscrive alla fonte dei
nostri atti non per inaridirli, ma per arricchirli di una linfa nuova.
I nostri superiori e i nostri fratelli correggono continuamente la
nostra interpretazione facilmente distorta e misera della volontà di
Dio; essi impediscono la riduzione sistematica di questa volontà ai
nostri schemi soggettivi, contribuiscono grandemente a darle la sua
ampiezza e la sua portata creatrice in noi. Dio ama e il suo amore crea.
Accolta attraverso volontà diverse dalla nostra, questa volontà amante
di Dio ci fa beneficiare meglio della potenza creatrice di cui essa è
veicolo. A contatto degli altri, così pressanti, così fraternamente
imperiosi, noi non possiamo estenuare il volere divino; gli
conserviamo invece tutta la sua esigente e incessante novità, ed esso ci
rinnova in atti nuovi.
C’è un altro tipo di fuga, opposto alla creatività, da cui
l’obbedienza ci difende: è l’attivismo. L’attivista è un fuggitivo. Egli
non fugge né verso l’interno, né verso l’alto, ma verso il di fuori. È

233
centrifugo. Della creatività ha solo la caricatura, perché i suoi atti non
hanno radici profonde, non sono affatto frutto di maturità, traggono
origine dalla superficie di lui stesso, semplici scatti, poveri singhiozzi
che egli non può trattenere. Lungi dal procedere da un risveglio
personale, da una volontà creatrice, essi coesistono con un
intorpidimento interiore.
L’obbedienza è là per ricondurre i nostri atti alla loro sorgente,
per radicarli nella volontà di Dio che, in profondità, suscita e orienta
il nostro volere libero. I superiori e i nostri fratelli sono là per
impedirci di girare a vuoto, di disperderci, di disintegrarci. Dio,
attraverso i nostri fratelli, più anziani e più giovani, garantisce i nostri
atti; noi non costruiamo più una cosa nostra, un piccolo angolo del
Regno di cui siamo gli irrisori signori; noi lasciamo che l’azione del
Signore divenga la nostra azione. Solo Dio può costruire il Regno di
Dio; è necessario dunque che egli si metta a fare ciò che noi facciamo.
Innestando i nostri atti sull’iniziativa divina tramite il collegamento
delle mediazioni umane, l’obbedienza permette a Dio di essere l’autore
del suo proprio Regno attraverso di noi. Eccoci salvati
dall’individualismo che è sempre in agguato nell’attivista, anche
quando egli corre di riunione in riunione; eccoci guariti dalla febbre,
spinti più che mai ad agire, ma forniti meglio che mai di ciò che
l’azione richiede: un’anima profonda, un soffio.

Rimane, questo è vero, la presenza dell’obbligo. Ma ricordiamoci


ciò che abbiamo detto sulla Legge e sulle leggi. Essere libero e
compiere un’azione veramente creatrice, non vuol dire donare in una
qualsiasi spontaneità torrenziale. Non confondiamo indipendenza e
autonomia. Tutti gli uomini vivono sotto molteplici dipendenze di cui
le più costringenti non sempre sono le più coscienti. Noi, religiosi,
scegliamo liberamente di porre l’essenziale della nostra vita sotto una
dipendenza riconosciuta e voluta, e questa dipendenza ha alla fine per
effetto paradossale di favorire il potere di imporre a se stessi delle leggi,
cosa questa che si chiama autonomia. Sì, autonomia, perché, se

234
l’obbedienza adempie bene alla sua funzione, essa deve spingermi in
quel centro ultimo di me stesso in cui tutto il dato esteriore è
interiorizzato, in cui il più piccolo dei miei voleri coincide con il
volere creatore di Dio e beneficia dunque della sua potenza creatrice.
È attraverso la rinuncia e l’accettazione che ognu \ no supera
gli stadi d’immaturità; la maturità è acquisita solo se le inevitabili
dipendenze sono assunte al punto di nutrire la nostra autonomia.
Affermarsi è innanzitutto aver detto di no a molte cose, in parti| colare
alla sete sconsiderata d’indipendenza che impedisce di essere
veramente autonomo.
Io non posso nascere all’essere nuovo se non prendo in mano
la mia vita e i miei atti, se non do a questa dipendenza voluta e amata,
valore positivo. Allora il fascio di dipendenze di ogni genere si
restringe nella mia mano, tutto mi serve a raggiungere lo scopo,
utilizzo tutto. L’ascesi dell’istituzione mi trascina a vivere l’ascesi
dell’evento; l’obbedienza mi conduce a fare mia la legge, in modo che
essa divenga la mia legge, la legge di quell’amore che mi fa essere.
Allora tutto si ricapitola nella semplicità, tutto si
fonde nel dolcissimo e sicurissimo slancio di un’esistenza umana
condotta senza fare commenti, perché quel famoso «sovrappiù» non
viene a coronare un edificio « spirituale » che prima si costruisce. Esso
è incorporato nell’unità del. nostro divenire, è parte integrante della
promessa.

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CONCLUSIONE

COME IN SE STESSO...

È un dato di fatto: appena le teologie della « morte di Dio »


cominciano ad essere diffuse, subito appaiono i filosofi della « morte
dell’uomo ». Tanto è vero che l’uomo non può trovare la sua vita senza
il Dio vivente.
Ora, ci sono degli uomini, delle donne, che, fra molti altri, fanno
ogni giorno l’esperienza, nel dolore come nella gioia, che Dio è
veramente vivente e vivificante. Come gli altri credenti d’oggi, essi
sono chiamati ad attraversare la loro crisi di smitizzazione. Ma è per
essi una crisi di crescenza. Essa li riconduce più lucidamente e più
ardentemente al Dio della Bibbia, al Dio che la Chiesa rende presente
malgrado le sue pesantezze e le sue opacità, al Dio vivente rivelato in
Gesù Cristo.
Se hanno una punta di arguzia, questi uomini e queste donne non
possono fare a meno di trovare, in tutta questa agitazione, una buona
dose d’immaturità; l’adolescenza è un’età affascinante, a condizione
però che si riesca ad uscirne, sotto pena di non poter più eccellere se
non nella negazione, e di slanciarsi in quelle grandi partenze che non
portano a niente.
Così essi sono tutti persuasi che peggio ancora è la contrazione
senile che teme le innovazioni dello Spirito, il quale riforma la sua
Chiesa per darle maggior sapore evangelico.
In realtà dubitare di Dio, con la scusa di credere * nell’uomo, non
è meglio che dubitare dell’uomo, con la scusa di credere in Dio.
Questi uomini e queste donne non sono più scaltri degli altri; in

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parecchi campi essi lo sono perfino assai meno. Ma « essi sanno a chi
hanno dato la loro fede ». Dio: vale la pena, ne sono sicuri, che, alle
soglie dell’età adulta e seguendo la sua chiamata, gli si doni tutto.
Essi deplorano unicamente il fatto che sono, come tutto l’insieme
della Chiesa, dalla base alla cima, tanto al di sotto di come
dovrebbero essere, da avere troppa paura di essere poveri, casti,
obbedienti, cioè, in fondo, troppa paura di amare.
Religiosi e religiose si sono per molto tempo considerati una
élite: ora stanno tornando ad esserlo. Ma essi conservano più
fermamente l’audacia di pensare che fare professione dei consigli
evangelici, sotto il gratuito richiamo dello Spirito, non solo permette
di cercare più direttamente il Regno, ma anche, e nello stesso tempo,
porta ad un successo umano sorprendente.
Quando si dà tutto, cosa può restare?
Niente, dicono i savi di questo mondo, ma in questo niente, dice
la sapienza del Vangelo, si nasconde e si trova la gioia di essere
finalmente se stessi.

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