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Tesi di Laurea
Relatore: Candidato:
Prof. Dario Padovan Elisa Gasti
1
INDICE GENERALE
Introduzione...................................................................5
2
Capitolo 5 – Dal Giappone al mondo: globalizzazione del Sushi......85
2.5.1. Nota introduttiva.................................................................................85
2.5.2. Da Bourdieu oltre Bourdieu................................................................86
Conclusioni.................................................................143
Bibliografia................................................................146
Filmografia.................................................................158
Sitografia....................................................................159
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Introduzione
De gustibus non disputandum est. Questo avrebbe sancito Giulio Cesare1, per
placare gli animi dei suoi ufficiali più fidati, i quali, invitati a cena nella domus del
ricco milanese Valerio Leone, rimasero sbalorditi nel vedersi servire degli asparagi al
burro. La pietanza non piacque affatto agli ufficiali di Cesare perché il burro, in
sostituzione al più raffinato olio d'oliva a cui erano abituati, impattava come un
condimento “barbaro” al loro palato. Cesare, uomo colto e caparbio, seppe prendere
in mano la situazione esclamando appunto la ormai celebre frase De gustibus non
dispuntandum est, ovverosia “non si può discutere sui gusti personali” o, più
comunemente, “sui gusti non si discute” 2. Al di là della leggenda, la seguente
dissertazione parte proprio dall'assunto opposto. La cesura del non dal detto latino è
qui utile e la sua assenza evidenziata proprio per imbastire invece una discussione,
fondamentale, sul gusto. Sui gusti si discute, eccome, e lo si può fare con tagli
diversi, abbracciando numerosi orizzonti epistemici che alla fine devono giungere a
un punto di congiunzione. Ecco così sopraggiungere il sottotitolo – Sociologia del
gusto e analisi sociotecnica del sushi – che, con una verve meno polemica, ha
l'obiettivo di focalizzare immediatamente l'approccio d'analisi precipuo, e cioè quello
sociologico. Nella fattispecie al vaglio prettamente sociologico sono dedicate la
prima e la seconda parte della tesi, di impronta storica e metodologica, e a quello
sociotecnico la terza e la quarte, legate dal fil rouge del gusto come categoria
d'indagine.
Tuttavia non di burro si va a parlare, ma di sushi, una delle più note pietanze della
contemporaneità, entrata prepotentemente nella cultura di tutto il globo, ergo ideale
per prestarsi come case study capace di veicolare prospettive d'analisi che
interroghino nel contempo immaginari, pratiche, e sistemi produttivi. Inevitabile è
1 Ai tempi di Giulio Cesare a Roma era già presente un mercato che vantava specialità gastronomiche
e i nobili romani, amanti della vita gaudente, non rinunciavano ai piaceri della tavola; al contrario,
quasi come un'ascrizione, li assoggettavano di massimi valori. I loro gusti peraltro pensavano fossero
gli unici da ritenersi civili. Per approfondimenti cfr. Cristofoli 2005.
2 L'attribuzione dell'aforisma (di cui esistono alcune varianti) a Cesare è di Plutarco, dalle sue Vite
parallele (Βίοι Παράλληλοι), nello specifico la n. 17 (Vita di Cesare).
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dunque sezionare l'oggetto di studio attraverso l'intersecarsi di una calibrata
molteplicità di prospettive, che mirino a catturarne la complessa congerie di
propaggini sociali. La tesi così si muove con una coerente dinamicità, presenta
metodologie e riflessioni teoriche in progressione, ma nel contempo ritorna con un
movimento elicoidale sui suoi passi. A partire da una storiografia selettiva del sushi
si dipartono una serie di frangenti che sono in grado di inquadrare la pietanza nei
suoi regimi multidimensionali (alimentari, gustativi, culturali, ecosistemici). Così si
giunge alla seconda parte, ove il sushi è sottoposto al cribro dal punto di vista di
sociologie dedicate all'alimentazione e alla nutrizione, fino a riferirsi a una più ampia
sociologia del cibo che identifica il rapporto specifico fra pratiche culinarie e
alimentari. Solo attraverso tale minuzioso scandaglio è possibile concepire una
sociologia più specifica per tale pietanza e per una delle più diffuse forme del suo
consumo: l'all you can eat3. Da qui ci si muove così verso i discorsi delle mode, delle
tendenze e della socialità off e on line, fino all'acme del percorso teorico che
identifica la moderna risematizzazione del sushi ponendo le basi per questioni
rilevanti circa gli statuti stessi di una presunta veridicità, o tradizionalità, o
autenticità del piatto, in un'ottica innanzitutto del gusto.
3 Nell'era degli acronimi, anche per tale pratica di consumo ci si riduce a sintetizzare con AYCE, ma
come dice Angelo Baracca “[...] molti acronimi usati in Italia sono quelli statunitensi, che nella lingua
italiana non hanno nessun senso. Credo che usare gli acronimi sapendone il significato contribuisca
anche alla comprensione degli argomenti che si trattano” (2005, 21).
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trasporto, a partire dal fulcro di questi che si istituisce e consolida nel mercato di
Tsukiji a Tokyo. La terza parte è così mirata al raggiungimento di una conoscenza, e
quindi di una consapevolezza, di ciò che vi è dietro all'apparentemente semplice
pietanza fatta e servita nei ristoranti. Si arriva quindi a trattare di acquacoltura, di
consumi e relative problematiche ambientali, intese come conseguenza spesso non
considerata, giacché frequentemente non nota, dalla maggioranza dei consumatori.
Con spirito propositivo si enumerano anche alcuni possibili frangenti risolutivi. La
parte quarta, infine, consta dell'esame di un sondaggio, somministrato online a un
campione di circa 550 soggetti a livello nazionale, costruito per verificare le tesi
proposte nel corso della dissertazione sul consumo di sushi, con un focus specifico
circa i ristoranti all you can eat, e sulla discrasia fra effettiva conoscenza e comune
opinione – una sorta di dialogo platonico fra episteme e doxa – nei confronti della
pietanza e delle problematiche a essa associate.
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PARTE 1
***
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Capitolo 1 – Storiografia selettiva del sushi
Sebbene la notorietà del Sushi sia recente e negli ultimi anni socialmente
riconosciuta a livello globale tanto da farlo diventare una delle pietanze più amate e
consumate nel mondo, le sue origini sono per lo più incerte, inaspettate e molto
lontane nel tempo. In questo contesto si è cercato con la consultazione di molteplici
testi di differente provenienza di costruire un più complesso ed esauriente panorama
storico e sociale del sushi. Gli aspetti socioambientali relativi allo sviluppo del
Giappone e, più precisamente, di Tokyo sono strettamente, anzi intimamente,
correlati con la storia e la nascita del sushi (Sand 2014), ed è su questi che si basa
una significativa parte della ricerca.
Le più remote testimonianze letterarie legate al sushi sono risalenti al 702; sulle
ricette che compaiono nei libri Yororei e Reigikai il sushi è sempre accompagnato da
questa locuzione: sushi mata sushi nari, che significa semplicemente “il sushi è
sushi” (Yamada 2013, 17). È un'interessante gioco di parole dovuta alla diversa
rappresentazione dei kanji4 riferenti alla parola sushi, e quindi di ardua traduzione.
Non solo la storia del sushi inteso come piatto è quindi di difficile ricostruzione, ma
anche quella del suo nome5.
Più fonti, come testimoniano Hirazawa e Canova Tura in Sushi (2000) e anche
Gioffrè e Keisuke in Sushi, Sashimi: l'arte della cucina giapponese (2004), fanno
risalire la storia del piatto a partire dal VII secolo d.C., periodo in cui di ritorno da
4 Il termine kanji significa letteralmente “carattere han”, e cioè "carattere cinese" o sinogramma che è
stato adottato anche dalla cultura giapponese, con relative modifiche, per la propria scrittura. Un kanji
figura radici di verbi, di aggettivi o può rimandare a interi sostantivi; questa sua caratteristica
ambivalente può portare ad avere più pronunce differenti per un singolo kanji, solitamente queste
differenze sono dettate dalla zona in cui ci si trova.
5 Ad esempio nella zona di Osaka, quella natia del sushi, il kanji utilizzato è 鮓, a Tokyo è 鮨 mentre
a Kyoto, antica capitale del Giappone, si usano due kanji 寿 司 il cui significato è “dono
dell'imperatore”.
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una spedizione in Cina alcuni monaci buddisti portarono con sé una ricetta a base di
riso e pesce crudo (principalmente la carpa). Riscontri ancora più lontani dimostrano
come nel IV a.C. in Giappone ci fossero già pratiche culinarie simili e legate all'idea
del sushi moderno. Si può ipotizzare quindi che nel corso dei secoli una commistione
tra le usanze importate dai monaci e quelle precedenti giapponesi abbia portato a
quello che oggi definiamo Sushi. Così pare inoltre che l'abbinamento sushi-sashimi,
oggi serviti indistintamente nei ristoranti giapponesi, sia di datazione moderna,
mentre una volta questi non erano mai serviti nello stesso banchetto o ristorante ma
anzi risultavano marcatamente distinti. Il sashimi inizia la sua storia nell'epoca Nora
(710-794) in Giappone e la sua paternità è attribuita allo chef imperiale Daizen
Shoku che utilizzava per la sua cucina soltanto pescato di acque dolci e specialmente
carpe. Tra il XVII e XIX secolo il sashimi alla stregua del sushi si diffonde in tutte le
regioni nipponiche e diventano di uso comune anche altre specie di pesce.
Quello che i giapponesi chiamano “sushi” infatti rappresenta una vasta categoria di
cibo e non un singolo piatto di semplice degustazione. “Sushi”, come già detto,
originariamente era un termine per definire la tecnica di conservazione e non la
“crudezza” della fettina di pesce. Tale modalità di conservazione era di vitale
importanza per i contadini dell’epoca in quanto costituiva la base di un'economia di
sussistenza capace di preservare e razionare le proteine molto a lungo in epoche ben
lontane dalle invenzioni delle moderne tecniche di refrigerazione. Si tratteggia così,
ed è assai rilevante, la storia di un cibo povero, destinato a classi sociali proletarie e
urbane, e non vi è traccia alcuna di riferimenti al tonno, oggi risorsa ittica principale
nel mercato del sushi. Con il progredire della civilizzazione, in un crescente mercato
urbano denotante l’aumento della domanda e del consumo diminuì la necessità di
conservazione del pesce perché si preferiva quello fresco, più veloce nella
preparazione e più economico in termini di costi generali. Il nigirizushi è infatti la
prima evoluzione del sushi giacché dipendeva dal pesce fresco ed era pensato per i
consumatori evoluti di una società crescente come quella di Tokyo e del Giappone in
generale. Tuttavia ciò comportava un dispendio ambientale non indifferente: più
aumentavano i prodotti utilizzati e si intensificava la loro circolazione, più si
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amplificava anche la produzione di scarto e quindi di rifiuti urbani.
Intorno al 1730 Edo – oggi nota come Tokyo – era similmente a New York e altre
città moderne ricca di uomini lavoratori single; per comodità si sviluppò così questo
tipo di mercato e si alimentarono molte realtà street food, fast food e così via. Si
rileva così una radice del sushi che è materiale e sociologica, prima che simbolica o
semiotica, secondo la lezione di Marvin Harris e del developmentalism (Mennell,
Murcott e Van Otterloo 1992; Beardsworth e Keil 1997), spesso tradotto – forse
impropriamente – come “materialismo culturale”. In sostanza il sushi, prima di
essere un cibo simbolico, intessuto di significati più o meno profondi, rispondeva a
esigenze legate al metabolismo sociale di Edo.
Così la presunta irrazionalità delle culture sparirebbe di fronte alla razionalità dei
processi di adattamento che sfuggono alla coscienza degli individui. Le vere cause del
divieto di cibarsi di carne di maiale per gli ebrei e i musulmani, o di vacca per gli
induisti, per esempio, sarebbe da ricercare nei risultati ecologici o sanitari di siffatte
scelte e non nell'ambito religioso o nell'ordine simbolico, ridotti in questa prospettiva a
semplifici fenomeni di razionalizzazione di senso psicoanalitico (Poulain 2008, 150;
riferendosi a Harris 1977).
La storia del sushi pertanto, anche se ancora non del tutto completa, nel tempo e
nello spazio in cui si è espansa ben si configura inoltre come esempio di quello che
Condominas chiama “spazio sociale” che va al di là dell'idea di cultura:
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all'inizio del periodo Bunka (1804-1818), il ristorante Matsuga Sushi (anche
chiamato Matsuno Sushi) apriva in Fukagawa, “trasformando lo stile del sushi”. Non
è chiaro cosa cambiò del sushi di Edo ma questo passò dall'essere un cibo da strada a
un cibo estroso e di fantasia all'interno di un ristorante dedicato. Alcuni “scontrini”
dell'epoca mostrano come il sushi di Matsuga fosse molto costoso (circa tre monete
d'oro) e si dice che per attirare clientela, e si parla di clientela benestante, Matsuga
inviasse a casa delle scatole come regalo che potevano contenere pezzi di sushi in
omaggio o addirittura monete d'argento (un singolare esercizio promozionale basato
sul do ut des).
Concorrente molto più accreditato per il titolo di inventore del sushi è Yohei Hanaya
che probabilmente aprì il suo primo Sushi bar nel 1810; egli iniziò il suo lavoro come
ambulante di street food nel distretto di Matsui-chō brothel, ma si costruì una nomea
stilando una lista di indirizzi di abitazioni di samurai a cui somministrare il take-
away, e il tutto avvolto in delle eleganti scatole. La fortuna di Yohei, l'inventore di
quello che oggi è chiamiato nigiri, a differenza di Matsuga, fu che invece di
trasformare il sushi di strada in un cibo estroso, lo rese un cibo fast, veloce, saltando
lo step culinario della fermentazione e adagiando semplicemente del pesce fresco già
marinato con l'aceto sopra polpettine di riso. La cronaca Morisada Mankō a partire
dal 1837 iniziò a pubblicare un prontuario delle tipologie di sushi più comuni a Edo e
nell’elenco si trovano, fra gli altri, egg sushi, gamberetti, shirauo (“pesce del
ghiaccio”, classificato come neosalanx tangkahkeii, diffuso soprattutto in acque
salmastre, generalmente in aree tropicali e subtropicali), tonno, kohada (dalla
famiglia delle aringhe) e l’anago (grongo). Interessante notare come quasi in toto i
pesci presenti sulla lista fossero considerati poveri tranne che per il “pesce del
ghiaccio”. Nihonbashi fish market è stato il primo mercato in cui si trovassero diversi
tipi di pescato, un vero e proprio orgoglio Edokko6. Nuovamente esigenze materiali e
spaziali si fecero la radice di future istanze culturali. Dopo le vicissitudini per la
contesa del primato del sushi nella capitale man mano venne assorbita l'idea di una
6 “(lett. “figlio di Edo”). […] Edokko è termine pregno di significati che vanno al di là dell'essere
semplicemente nativo della città” (Tanizaki 1985, 116).
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tradizione per la quale nella preparazione del sushi “originale” figurava la
fermentazione del riso acetato con pesce per qualche ora o anche più:
una rapida trasformazione della società indebolisce o distrugge i modelli sociali ai quali
si erano informate le «vecchie» tradizioni, producendone di nuovi ai quali queste non
sono più applicabili; […] le vecchie tradizioni, le loro carriere istituzionali e i loro
promotori non si dimostrano più abbastanza adattabili e flessibili, o vengono comunque
eliminati […] quando i cambiamenti sul piano della domanda o dell'offerta sono
abbastanza vasti e rapidi (Hobsbawn ib., 7).
Ad ogni modo la tendenza nella vendita del sushi è rimase quella del banco
ambulante per molto tempo. Solamente dopo la seconda guerra mondiale iniziò a
essere trasferito in rivendite fisse con tende bianche, i cui drappeggi erano assai
rilevanti per i clienti poiché il sistema del tendaggio serviva ad alimentare curiose
dinamiche sociali: più il drappo era visibilmente sporco più si era invogliati a
frequentare un determinato banco, poiché si presumeva che l'affluenza fosse alta e
quindi il sushi fosse eccellente, se non il migliore, a partire dall’indicatore di un
consumo più diffuso.
Alla stregua dell'età moderna anche nel 1800 il sushi presenta, per quanto concerne
la sua percezione sociale, un andamento costantemente sinusoidale, per cui in
determinati periodi è visto come cibo da ricchi e poi come cibo povero alla portata
economica di tutti. Nel 1830 il governo intervenne a più riprese obbligando i
commercianti ad abbassare i loro prezzi, considerati troppo elevati, tant'è che i trend
del mercato iniziavano a risentirne, e a tornare agli otto pezzi di rame per porzione. A
tale contesto socioeconomico si aggiungeva un sistema classista che tendeva a
marcare una spaccatura sociale per il quale si predisponevano per classi sociali
differenti “menù” differenti, anche e soprattutto nei gusti (cfr. Bourdieu 1983): più
delicati per le classi elitarie, più forti per quelle proletarie. Tale dinamica di mercato
è presente anche oggi, e si rileva in particolar modo nel distacco di prezzo fra i
diffusi ristoranti sushi all you can eat e i ristoranti giapponesi “alla carta”, che spesso
corrispondono a differenti qualità del cibo servito, alla stregua del meccanismo per il
quale i fast food sono pensati per le zone povere delle città, e i ristoranti di lusso per
quelle ricche (cfr. Lane 2006, Winne 2008, Myers-Lipton 2015, Smith 2016). Il
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nigirizushi rappresentò una sorta di melting pot fra i due estremi sociali:
The shogunate depended on the merchant population and the maintenance of a strong
market, but regarded commerce as a necessary evil rather than a social good to be
fostered. The combination of a ruling class steeped in status-based consumption
practices and commoner provisioners who not only absorbed ruling-class habits but
often outdid the ruling class in luxury contributed to the creation of a hybrid culture
embraced by all classes. Nigirizushi embodied this fusion of high and low in a bite-size
package (Sand 2014, pag 7).
Tokyo vide così l’emersione di spazi sociali dedicati all'alimentazione che univano
due mondi, elitario e popolare, rappresentandone la distinzione attraverso il cibo e le
modalità del suo utilizzo: pesce bianco nella sua versione più semplice e delicata e
grezzo sushi acetato, bacchette e mani.
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primo tempo la pesca del tonno era limitata nella quantità e regolamentata in modo
tale che non si potesse pescare oltre il confine marino nipponico, tuttavia nel
frattempo la voglia sociale di tonno aumentava; nel 1952, poco dopo la fine della
seconda guerra mondiale, il divieto di superare la summenzionata barriera fu
abrogato e il mercato ittico iniziò a mutare drasticamente. La guerra, avendo
disastrato le condizioni di vita della popolazione, fece incrementare la domanda di
cibo e i pescatori intensificarono la loro attività per sopperire alla fame familiare e
alla crescente fame di sushi e tonno nell'Occidente, così da guadagnare.
La refrigerazione di massa è il metodo che, dagli anni ‘60-‘70 del Novecento circa,
ha consentito lo sviluppo della pesca massiva e anche a livello più prettamente
alimentare e gustativo la livellazione dei prodotti, diminuendo il gap
dell’appartenenza a classi sociali diverse; anche i pesci più delicati e di grosse
dimensioni iniziarono a essere conservati senza perdere gusto e proprietà nutritive.
La combinazione della non-regolamentazione e della possibilità della refrigerazione
consentì una mattanza a più ampio raggio e di maggior portata senza che il pesce
perdesse le sue qualità, anche se l'ambiente iniziò a risentirne9.
9 Per approfondimenti sulla storia, qui riportata in misura selezionata, cfr. Greenberg 2012.
10 Sistema adoperato per la prima volta da Yoshiaki Shiraishi. Notabile è la peculiare assonanza con
il lemma Kaizen, che risulta essere composto da due termini giapponesi: “Kai”, e cioè cambiamento/
miglioramento, e “Zen”, cioè buono/migliore. Tale lemma è usato anche in economia per decretare la
qualità e l’efficacia dei fattori produttivi. Nel corso della tesi il kaiten-zushi verrà ripreso per essere
analizzato sotto vari aspetti.
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rientrare in una data sfera semantica. Nondimeno il marchingegno, che introduce una
componente fordistico-tayloristica nell'alimentazione, ha dato il via alla vera e
propria popolarità moderna di questo piatto, che proseguì con la nascita di catene
come Kyodaru e Kozozushi. Il successo del kaiten-zushi esplose negli anni '90,
interpolando nuove modalità di consumo alimentare con innovative modalità
commerciali, diffuse globalmente:
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environment”, comporta infatti costi di imballaggio, giacché “take-away of food
means also a 'take-away' of the food waste by the customer” (Marthinsen e Sundt
2012, 66), costi di trasporto, costi umani, incidenza sul metabolismo sociale,
induzione all'obesità (si parla anche di obesogenic environments)14, e molto altro
ancora.
In ultima analisi la gastromania del sushi portò alla nascita nel 1960 a Los Angeles
del California Roll, per conto di alcuni chef che iniziarono a intraprendere la strada
del cibo fusion cercando di adattare il sushi tradizionale giapponese ai gusti del
popolo americano, meno delicato e più variegato nella scelta degli ingredienti e salse;
così titolava a caratteri cubitali un articolo del Los Angeles Magazine dell'agosto
1997: “California Roll/Teru Sushi – Where the marriage of tacky L.A. exuberance
and refined Japanese technique is consummated nightly” (Gold 1997, 53). Così soia
e wasabi persero il loro primato come uniche guarnizioni e subentrarono ad esempio
maionese e tabasco, nuovi colori più vivaci si fecero strada per soddisfare gli occhi di
un popolo abituato al consumo come quello statunitense, e nuovi modelli di consumo
attraccarono con vigore in tutto il mondo. Pare che oggi questa fase ascendente non
abbia ancora toccato il suo acme.
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sushi sia unicamente composto da pesce crudo, in particolare il tonno (マグロ), e ciò
è parzialmente vero; tuttavia se ci si addentra più approfonditamente fra le specificità
di questo piatto si coglie una tradizione assai più vasta e stratificata, attorno alla
quale ruota un complesso universo valoriale e sociologico, che merita di essere
analizzato. Il sushi, alla stregua forse della pizza per gli italiani o del souvlaki per i
greci, non è solamente una pietanza da inghiottire o una semplice ricetta a essa
collegata, ma anzi costituisce un vero e proprio “[...] manuale. [...] un compendio di
antropologia gastro-culturale” (d'Emilia 2013, 8).
Quella che appare come una semplice sintagmatica culinaria, che vede interfacciarsi
riso e pesce (che lo sormonti, che ne sia guarnizione, o altro), cela una dedizione
estrema al lavoro coniugata nel rispetto di un’antica tradizione. In essa si rintraccia
un esercizio di cura e perfezionismo 15, la cui dimensione esperienziale del gusto si
configura de facto come l'ultimo tassello di un percorso multiforme. Comprendere le
fasi di tale percorso è necessario per scandagliare il sushi come “manuale” nel
contempo culinario e culturale, dalle cui propaggini sociologiche scaturisce un cibo
come “simbolo di appartenenza a uno stile di vita” (Franchi 2008, 10). A tale
obiettivo cercano di adempiere non solo testi scientifici, ma anche opere pensate per
il grande pubblico sempre più affascinato da questa esotica pietanza, come testi
letterari e cinematografici16. Il quadro che se ne trae dà ragione della preparazione del
sushi come di un processo che avviene mediante una completa immersione nel
lavoro, tradizionalmente piuttosto lungo e tortuoso, alla stregua del lungo noviziato
che si necessitava per diventare un degno samurai capace nel contempo di essere
forte ma preciso, di adoperare con la stessa maestria “il pennello e la spada” (Arena
2013). Il successo è in primo piano ed è tutto volto al suo raggiungimento; a esso è
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associata una precisa estetica, che ne fa qualcosa di asintotico, cui si può tendere ma
che non si può mai veramente toccare. Tale tendenza è quindi associata a un lavoro
arduo e instancabile, che con connotazioni concettuali quasi moralistiche unisce il
successo nella società (riuscita e affermazione del piatto) a un successo personale e
interiore. Siffatta estetica è sottesa a una precipua concettualizzazione del lavoro, che
nella cultura giapponese prevede sistematicamente la figura dell’apprendista come
primo grado verso l'ascesa (o forse l'ascensione) verso il successo 17; ogni tappa va
conosciuta alla perfezione per poter valicare la successiva e la strada è irta di
difficoltà. In sede sociologica è quindi opportuno porre l'accento sul modo in cui
l'universo del sushi si fa emblematico della cultura giapponese del lavoro, i cui
modelli hanno formato dalla seconda metà del Novecento in avanti mercati altamente
concorrenziali rispetto ai moduli occidentali.
In Giappone, primeggiano valori legati alla tradizione e alla solidarietà, mentre nelle
nazioni occidentali, e di conseguenza anche nelle organizzazioni, prevale una cultura
individualista e competitiva, che esalta personalismi e unicità […]. Le differenze tra
cultura occidentale e cultura orientale sono sempre attuali: la prima infatti tende a essere
indirizzata verso il controllo attivo della natura e si basa su relazioni individualistiche
competitive; ha un concetto del tempo lineare e proiettato al futuro, stima le risorse e lo
spazio come infiniti […]18. Al contrario le culture orientali sono orientate in modo
passivo alla natura, con cui cercano di essere in armonia, considerano la collettività più
importante dell'individuo, non sono rivolte al futuro ma al presente o al passato, vedono
il tempo in modo ciclico, considerano spazio e risorse molto limitati […] (Gabassi 2006,
55-56).
17 L’apprendista, il suo percorso e la sua crescita sono traducibili in un impegnativo step by step di
studio e costante lavoro per migliorarsi e perfezionare l'abilità manuale. Il cammino del giovane
aspirante sushi chef inizia necessariamente con l'imparare a spremere e strizzare un asciugamano
(squeeze hot towel) bollente senza però scottarsi le mani. “Il dolore, condicio sine qua non del
compimento di simile percorso, è presentato come un marcatore di giapponesità: solo attraverso il
passaggio da questo primo step fondamentale si può poi apprendere come tagliare il pesce; e infine
solamente dopo circa dieci anni gli allievi possono imparare a cuocere le uova, operazione altrettanto
delicata come testimoniato dal senior apprentice (oggi chef in un noto ristorante a Los Angeles)
Nagazawa. Quest’ultimo infatti dovette fallire nella preparazione di più di duecento egg sushi
(tomagoyaki) prima di poter essere considerato da Jiro Ono, fra i più famosi sushi chef del mondo, e
da se stesso “degno”, e di ricevere in senso semiotico la sanzione positiva corrispondente
all’appellativo di Shokunin” (Gasti 2014, 14-15).
18 Cfr. Dore 1973; Sayle 1982; Morgan 1986.
19
invece si ottiene per acquisizione19. L’abilità è una caratteristica innanzitutto
comportamentale, ma anche psicosociale, la cui conseguenza è la costante messa in
discussione del proprio lavoro: quest’ultimo risulta inserito in una sorta di percorso
indefinito ed è in continua lotta fra l'atto e la potenza: ciò che si fa non è mai quanto
si potrebbe fare. L'iter lavorativo prima ancora di essere sanzionato sul piano
remunerativo è suggellato su quello simbolico, attraverso gradi alla cui sommità vi è
quello di Shokunin (職人), concepito come titolo pressoché inarrivabile che necessita
di una pratica continua nel tentativo di migliorare progressivamente la tecnica di
preparazione del sushi. Ciò richiama in causa dimensioni molteplici, tutte in qualche
modo riconducibili al modello organizzativo sopra accennato: in esso concorrono
ugualmente la dimensione dell’artigianato (che ha a che fare con la capacità di
manipolare la materia prima che offre la natura con modalità armoniche), così come
quella dell’artista vero e proprio, che è in grado di raggiungere una compiuta
consapevolezza circa il suo agire (non si manipola più la materia, ma lo spirito).
L’unione di questi due frangenti apparentemente agli antipodi viene personificata
dallo Shokunin che pertanto si fa portatore di un dovere e di una specifica coscienza
sociale: egli, come sostiene il celebre artigiano del legno giapponese Toshio Odate 20,
«ha l’obbligo sociale di lavorare al meglio per il generale benessere del popolo»21. E,
prosegue, «quest’obbligo è contemporaneamente spirituale e materiale, e non
importa cosa sia, perché è responsabilità dello shokunin di raggiungere i requisiti
necessari»22. In definitiva, per trovare un parallelo linguistico con l’italiano, pur se
consci di un inevitabile scarto di significato, si potrebbe dire che lo shokunin è colui
19 La concezione che ogni persona occupa, o possa occupare, diverse posizioni all’interno di una
società e che questa abbia specifici diritti e doveri portano a concetti sociologici quali status ascritto e
acquisito; ciascuna posizione sociale è da considerarsi pertanto come uno status sociologico. Gli
status ascritti sono quelli che danno il nome a quelli presenti fin dalla nascita, come ad esempio il
colore della pelle o la famiglia di provenienza, mentre gli status acquisiti sono quelli che si
conseguono dopo una determinata prestazione come può essere un lavoro, una laurea, un matrimonio
e così via. Tali concetti scaturiscono da studi inerenti a una teoria più generale struttural-funzionalista
per l’analisi della società proposta da Talcott Parsons intorno agli anni ’40 del Novecento negli USA.
20 Toshio Odate è un artigiano del legno molto famoso in Giappone, celebre tra il popolo nipponico
per i suoi lavori artistici. Per approfondimenti nel merito si consiglia cfr. Odate, Toshio, 1998.
Japanese Woodworking Tools – Their Tradition, Spirit and Use. Linden Pub.
21 “Has a social obligation to work his/her best for the general welfare of the people” (Odate).
22 “This obligation is both spiritual and material, in that no matter what it is, the shokunin’s
responsibility is to fulfill the requirement” (ib.).
20
che possiede la “piena padronanza di un mestiere”. Lo chef sushi giapponese in
quanto Shokunin ha quindi attraversato una serie di tappe di formazione individuale
e collettiva:
Going beyond the economist's narrower functional concerns with production ancd cost
considerations, Odaka revealed (a) the extent to which the skilled workers (shokunin)
were tied together by a social network of mutual obligations which encompassed their
families, (b) the rigid status delineations among occupational categories based on
notions of skill, (c) a work ethos which incorporated various beliefs which were part of
the workers' folk religion, and (d) a strict set of rules by wich workers collectively
regulated their own behavior (Mouer e Kawanishi 2005, 40-41).
21
essere raggiunta mediante la coazione. Il fattore della crudezza – che, nonostante la
comune idea, non è condicio sine qua non – o, appunto, della breve cottura, si fa
archetipo e struttura dei valori nutrizionali e di gusto degli alimenti nella loro forma
più primitiva e pura che non deve essere oggetto di alterazione né sofisticazione
alcuna. Rilevanza essenziale è pertanto conferita alla dimensione ingredientistica, la
cui valenza di materia prima va ricondotta, in pieno regime buddista, a una “vita
passata” animale o vegetale. Anche la scelta dell'ingrediente è affidata allo Shokunin,
specificamente appellato con il titolo di itamae (板前, maestro del sushi), che agisce
sin dalla fase dell'acquisto, spostandosi dal mercato del pesce alla selezione del riso.
Nell'ingrediente vi è una connessione concettuale fra la cultura orientale e la filosofia
occidentale, cui si assegna l'aforisma per il quale “noi siamo quel che mangiamo”,
spesso attribuito a Ludwig Feuerbach anche se probabilmente di origini già
ippocratiche. In un qualche modo è possibile equiparare il rituale del pasto sushi a
quello della tradizionale cerimonia del té giapponese, le cui fasi sono: “harmony
(wa), respect (kei), cleanliness (sei), and purity (jaku)” (Mouritsen 2009, 289)24.
Gli ingredienti sono un ponte tra maestri ed esperti dei vari lavori. Se anche
notoriamente è il pesce l'elemento portante della pietanza, una funzione altrettanto
rilevante è occupata dal riso. La cottura di quest'ultimo non è da sottovalutare, ed è
inoltre da sfatare il mito per il quale il sushi sia un piatto interamente crudo e da
servire freddo. In realtà la temperatura perfetta sarebbe ai livelli di quella corporea, e
ciò dimostra ulteriormente come la dimensione dell'euritmia non si releghi a un
aspetto particolare (il tipo di ingrediente, l'impiattamento, etc), ma piuttosto miri alla
costruzione di un unicum. Solitamente il pesce azzurro e quello bianco vengono
serviti crudi previa marinatura, mentre per i crostacei e i molluschi (gamberi e polpo)
è prevista una leggera scottatura. Ciò detto la grande fama rimane ad oggi
appannaggio esclusivo del tonno, “il diamante degli oceani” (Hori 1996), benché in
Europa invece sia molto più semplice trovare sushi con fettine di salmone per motivi
di reperibilità e per un'intrinseca attrattiva visiva data dal suo colore acceso e molto
decorativo; ciò è provato anche dalle risposte date dai consumatori al sondaggio di
22
cui nel capitolo finale. Il riso (米) utilizzato ha dei chicchi molto piccoli (kome) e con
un alto contenuto di amido. L'aceto di riso è indispensabile per la preparazione, ed è
preferibile giacché molto più delicato e dotato di un livello di acidità inferiore
rispetto all'aceto di vino. Ulteriore spazio in questa congerie di ingredienti è occupato
dalle alghe nori (ノリ) essiccate, che sono adoperate in modi differenti e servono per
“confezionare” il ripieno, mentre per guarnire altre preparazioni si adopera
usualmente l'alga kombu25. L'alga wakame (ワカメ), molto più versatile, è usata cruda
o per zuppe e stufati con precedente ammollo in acqua tiepida. Le verdure devono
necessariamente rispettare criteri di stagionalità per i motivi summenzionati. Esse
conferiscono toni cromatici variopinti, aiutano nel confezionamento delle forme e
soprattutto concorrono verso quell'armonia gustativa che è alla base della ricerca
dell'itamae. Oltre agli ingredienti indispensabili per la riuscita del piatto di contorno
esistono materiali arricchenti, il cui utilizzo è affidato al palato del singolo
consumatore, come la salsa di soia26 che si ricava dalla fermentazione del legume
unito a grano e sale, il wasabi (ワサビ, detto anche “lacrime” e in giapponese namida
涙 poiché se consumato in grandi quantità vista la sua piccantezza può portare a
lacrimare) che è una varietà di rafano verde, fettine di daikon (大根, altra varietà di
rafano) di colore bianco, anch'esso molto piccante e che si può trovare crudo, tagliato
alla julienne o in salamoia. Un così variegato insieme di componenti alimentari
ritrova raramente una sistematizzazione in forma di pietanza definita e
organicamente tesa all'armonia, eppure nel sushi ciò è lampante: il risultato è
minimale, ogni ingrediente ha il suo posto e la sua misura, non solo nel piatto, ma in
qualche modo nel mondo:
But beyond the quality of the ingredients and their preparation is an inherent attitude of
reverence, respect, gratitude, and a sense of joie de vie toward food, and toward life
itself. […] And even when the preparation of sushi entails more complex combinations
25 Alga Kombu (in giapponese konbu 昆布) è l'alga bruna, scura ed è già essiccata a differenza del
termine “nori” che indica l'alga in generale. Quest'ultima deve prima dell'uso essere leggermente
tostata su fiamma dalla sua parte lucida. La yakinori è invece l'alga già predisposta nei pacchetti
pronta per l'uso.
26 O shoyu (nome giapponese: 醤 油 ) è originaria dalla Cina ma è stata introdotta nella cucina
giapponese intorno al XII secolo con la filosofia Zen che intima la sostituzione di questa pianta alle
proteine animali quali carne e pesce. Questo tipo di salsa è particolarmente ricorrente nelle cucine
asiatiche quali cinese, giapponese, filippina, coreana e indiana ma ognuna di esse mantiene una o più
particolarità che le contraddistingue.
23
of ingredients, simplicity and harmony of flavor, color, shape and texture are key
components (Heiter 2007, 31).
Inoltre è interessante considerare come per i giapponesi il centro vitale del corpo
umano sia l'apparato gastroenterico e quindi la pancia, lo stomaco e le budella; si
tratta di una cultura “enterocentrica” (d'Emilia ib., 9). Si pensi, esulando
momentaneamente dal contesto cibo, al modello rituale di suicidio noto come
harakiri, o all'espressione hara wo tateru (letteralmente “taglio delle viscere”) che
può essere tradotta come “arrabbiarsi”. L'intestino è dunque il “secondo cervello”
secondo la cultura giapponese, e ciò concorre a un'idea di alimentazione non
esclusivamente votata al gusto, ma piuttosto a una scelta ben precisa a vocazione
filosofica e patemica27. Fin dalla tenera età i giapponesi sono educati a mettere in
secondo piano la necessità materiale del palato rispetto a quella mentale dello
stomaco.
Il sushi è anche uso degli attrezzi del mestiere. Le mani dello chef ne sono il
primo e imprescindibile, ma anche i coltelli (boucho) hanno un'importanza immane:
realizzati con la stessa fattura e materiale delle spade dei samurai costituiscono
l'armamentario essenziale alla creazione della pietanza. Così riemerge la metodicità
dell'itamae, che cura se stesso e i suoi utensili come fossero protesi corporee,
intoccabili da altri se non lui e trattati con ragguardevole cura. Nel suo set spiccano
per importanza tre lame: nakiri boucho (in acciaio o carbonio, lama rettangolare
27 L’idea dell’intestino come secondo apparato cerebrale del corpo umano è peraltro oggi diffusa
anche in Occidente, e ritrova riscontro in studi scientifici di alto calibro. Nel merito cfr. Gershon 2011.
24
tronca che serve per tagliare, sbucciare o affettare le verdure), sashimi boucho (lama
lunga e appuntita, piatta lungo un lato e affilata dall'altro, atta alla dissezione di pesci
e maki) e deba boucho (lama appuntita e pesante atta alla pulizia del pesce, per
togliere testa e lische). All'affilato repertorio si aggiunge la stuoia di bambù per
definire e rendere perfettamente tondi alcuni tipi di sushi, per esempio i maki, detti
makisu. Seppure gli utensili più noti siano quelli succitati ve ne sono altri
indispensabili, e particolari attrezzi come ad esempio l'hanghiri, recipiente circolare
molto basso e largo, costruito con doghe di cipresso, che è progettato esclusivamente
per il raffreddamento del riso. Questo va rinfrescato con acqua fredda e asciugato con
un panno di lino, e spesso il suo utilizzo è congiunto a quello dell'uchiwa, ventaglio
usato unicamente a mano per l'accelerazione del raffreddamento del riso. Così il
sushi non si configura unicamente come pietanza ma anche come strumentario
specifico. Grazie alla collaborazione di questo con gli ingredienti è possibile ottenere
una combinatoria alimentare ramificata della quale si va a rendere conto
selezionando singolarmente varianti riferite alla tradizione giapponese classica28:
• Narezushi: sushi con pesce fermentato nel riso per circa sei mesi, ha origine nel Giappone
centrale nella prefettura di Shiga, attorno al lago Biwa ove in primavera viene pescato il funa
(pesce carassio) che è la base per una ricetta prelibata del periodo Heian (794-1185): il ventre
del pesce veniva farcito con sale e riso. Poteva essere aggiunto del mosto di sake per
accelerare il processo di fermentazione e il riso veniva poi scartato per gustare
semplicemente il pesce tagliato in fettine sottili.
• Namanare: letteralmente significa “non completamente fermentato” ed è una preparazione
stagionale tipica del mese di Ottobre per i festeggiamenti di ricchezza di pesca e raccolto.
Tipico del sud di Osaka nella prefettura di Wakayama, nelle città di Arita e Hidaka ma
popolare su tutto il territorio del Giappone del sud. Il pesce usato è lo sgombro e la sua
fermentazione è attivata dalle foglie di bambù in cui è avvolto per dieci giorni, in seguito il
riso e il sale si tolgono immergendo il pesce in acqua.
• Izushi: sushi decorato con verdure (carota, daikon, rapa, zenzero, cetriolo) tagliate sottili e
marinate nell'aceto con un'aggiunta di zucchero. Il tempo di fermentazione è molto minore e
il pesce più fresco. I pesci utilizzati erano principalmente la sogliola e l'aringa. Tipico del
Giappone centrale, in particolar modo delle prefetture di Shiga, Gifu e Fukui. Nella prefettura
di Hiroshima, a sud, invece vi era una variante a base di gamberetti.
25
• Sugatazushi, Bozushi: il primo termine significa sushi con il pesce intero, il secondo prevede
un “panetto” di sushi con solo la parte centrale e quindi senza testa e coda. Originario delle
regioni di Kyoto, Osaka e dell'isola di Shikoku quando l'imperatore dimorava in Kyoto.
Sgombro e orata sono le varianti regionali di questo tipo di sushi. La preparazione prevede
che il riso sia cotto con aceto, zucchero e sale e poi avvolto in una sottile foglia di alga e
successivamente in una di bambù. La versione di Osaka, la battera, è di forma quadrata, a
ricordare la bateia (piccola barca) portoghese che nel 1893 sbarcò sulle coste nipponiche.
• Unohanazushi: okara (estratto di soia) usato al posto del riso per il processo di
fermentazione, molto leggero e salutare. Le prefetture di riferimento sono Hiroshima,
Yamaguchi e Tottori. Le varianti più note sono il maruzushi preparato con orate o sardine
marinate con sale e aceto, il tozushi con lo sgombro, l'omanzushi con o sgombro o sardine e
infine gli ayuzushi o shibazushi che sono a base di ayu (trota di piccole dimensioni) marinata.
• Iizushi: sushi pressato e cucinato con vari tipi di pesce (gambero, orata, grongo) e altri
alimenti come frittata di funghi cotti ed alghe, all'interno di una scatola (hakozushi – sushi
della scatola) di legno e non si prepara con pesce crudo. Il riso viene amalgamato con del
sesamo tostato e aggiunto al pesce cotto. La sua presentazione a sandwich è caratteristica e
molto di bell'aspetto tant'è che spesso si presta a essere usato come dono, per esempio per
celebrare una nuova abitazione.
• Nigirizushi: riso pressato come una polpetta, con pesce crudo (qualsiasi tipo di pesce ma
sempre in base alla stagione) adagiato sopra e condito con del wasabi. Il più global, si trova
in tutto il Giappone e anche nel resto del mondo e ha origine all'inizio dell'ultimo secolo del
periodo Edo giapponese (1603-1868). L'utilizzo del pesce fresco al posto di quello marinato
inizia ad essere in voga intorno agli inizi del Novecento, quando la refrigerazione fu possibile
grazie all'industria del ghiaccio.
• Chirashizushi, Gomokuzushi: significa “pesce sparpagliato” e quindi si presenta come del
pesce (tipicamente gambero e grongo, ma anche in base alla tradizione singola di ogni
famiglia) steso su un letto di riso. In sostituzione o in aggiunta al pesce si usa mettere anche
delle verdure sottaceto come loto, carota, funghi e daikon essiccato. Tutti questi ingredienti si
mescolano e decorano con frittata e zenzero tagliato alla julienne. È molto popolare ed è
spesso cucinato in contesti familiari in ricorrenza di feste e occasioni speciali.
• Makizushi: riso che si presenta in forma cilindrica all'interno di un'alga nori essiccata
(letteralmente norimaki) con all'interno pesce o verdure o un mix di questi. In base alla forma
e alla dimensione che il maki prende può avere diversi nomi per distinguersi. Esistono gli
hosomaki, futomaki e temaki, rispettivamente: rotolo piccolo, rotolo grande e “cono” fatto a
mano. Gli uramaki invece hanno la particolarità di essere arrotolati al contrario ovvero l'alga
è all'interno insieme agli ingredienti e il riso funge da “contenitore”.
• Inrozushi: aburage (tofu fritto) o sottile frittata o kanpyo (foglie di zucca) che fungono da
26
sacchetto-recipiente per il riso e altri ingredienti e sono tipici della zona di Nagoya. Viene
anche chiamato kitsunezushi (sushi della volpe) poiché la volpe è ghiotta del fritto di soia;
questo animale in Giappone è noto come la divinità del commercio (cfr. Rivista di etnografia
1946, Marazzi 1990). Della popolarità di questo particolare tipo di sushi si trovano tracce già
nel 1837, nel libro Morisadamanko di Morisada Kitagawa, anche se già prima era in
commercio. La forma varia di regione in regione, da essere rettangolare a quadrato o
triangolare. Con l'inrozushi e il makizushi si confeziona anche un tipo di obento29 molto
famoso: il sukeroku. Quest'ultimo prende il nome dalla protagonista omonima di un dramma
del teatro kabuki (messo in scena per la prima volta nel 1713).
• Kawarizushi: “sushi diverso” e dà nome a tutte le preparazioni di sushi senza l'utilizzo del
riso, ma utilizzando altri ingredienti come per esempio soba o takenozushi preparato con il
bambù, il nukuzushi che è cotto al vapore e ancora il chakinzushi che è cucinato dentro un
involtino di frittata.
In era moderna molte delle varianti sushi sopra descritte sono state sostituite, spesso
in seguito all'aumento di popolazione e alla necessità di sperimentare modalità meno
dispendiose in termini di tempo. Ciò è sintomatico di un cambiamento sociologico
nella concezione del cibo e della sua preparazione, così come dei modi del suo
consumo: “il «processo di civilizzazione» è senza dubbio e in maniera più radicale il
segno di una desacralizzazione dell'alimentazione” (Poulain 2008, 34). Esempi
moderni della pietanza sono i differenti tipi di nigiri (握り寿司: modellato a mano)
di branzino, salmone, tonno, sgombro, gamberi, polpo, seppia e di frittata (egg-
sushi), i cosiddetti “sushi arrotolati” nell’alga (makizushi) tra i quali si annoverano
gunkanmaki ( 軍艦寿司 : nave da guerra), futomaki (太巻き : rotolo grande/largo),
hosomaki ( 細 巻 き : rotolo piccolo/sottile), temaki ( 手 巻 き : fatto a mano) che si
presenta come riso e pesce avvolti nell'alga nori, uramaki ( 裏巻き : arrotolato alla
rovescia/California roll) ovvero riso all'esterno e alga all'interno, e ancora gli
oshizuzhi ( 押 し 寿 司 : sushi pressato), di solito con fette di salmone. Infine
particolarmente in voga oggi è il sashimi (刺身: semplici fette di pesce senza riso) di
salmone, calamaro, gambero, tonno, sgombro, polpo e pesce palla (fugu), che è una
27
derivazione del sushi “originale”, ovverosia senza il riso che una volta adoperato per
la fermentazione veniva scartato. La perdita dell'originalità, che è in qualche modo
fisiologica, è nuovamente riconducibile a processi di globalizzazione che hanno visto
l'esportazione del sushi in tutto il mondo e la creazione di mercati concorrenziali
capaci di modificare il gusto e le esigenze di consumo dei giapponesi stessi 30. Così,
ad esempio, il sushi esportato a Singapore viene adattato al gusto di questi ultimi, ma
con un meccanismo di ritorno può “intaccare” il sushi giapponese, in un circolo le
cui conseguenze non sono di facile previsione. Questo quanto riportato da uno studio
del 2016 della National University of Singapore:
[…] the type of flavours of sushi in Singapore have been adjusted to fit the preferences
of locals, increasing more Singaporeans' acceptance of food. As not all Singaporeans are
receptive to sushi containing raw fish, Japanese eateries in Singapore tend to offer more
types of sushi made with cooked ingredients. Furthermore, they add a twist to
traditional sushi by incorporating Singapore-inspired flavours or creating
unconventional combinations, such as otak-otak sushi, maki with achar (fruit and
vegetable pickle in spiced oil – an appetiser common in Singapore) filling, and sushi
with corn mayonnaise (Ng 2001: 16) (Kong e Sinha 2016, 232).
Tuttavia il sushi di fatto non è l’unico cibo tipico del Sol Levante esportato in
Occidente, ed è sufficiente varcare la soglia di un qualsiasi ristorante giapponese e
sfogliare il menù per rendersene conto. Al suo interno si troveranno termini come
“tempura” (てんぷら o 天麩羅, piatto a base di verdure e pesce ricoperti di pastella
e fritti), “udon” ( 饂 飩 spaghetti di farina di frumento mangiati freddi o in zuppa,
genericamente conosciuti come noodles), “sukiyaki” (giapponese: 鋤 焼 o più
comunemente すき焼き; brodo a base di salsa di soia e mirin in cui vengono cotte
carne di manzo e verdure) e molti altri sono sempre più ricorrenti nei lessici della
gastronomia globale, eppure il sushi, caratterizzato da una raffinata forma estetica e
30 Issenberg nell’introduzione del suo libro The Sushi Economy cita proprio in esempio la giovane
imprenditrice giapponese Yoko Shibata che dopo aver intrapreso gli studi a Chicago è tornata nel 2001
in Giappone, a Tokyo, per aprire una catena di ristoranti, Rainbow Roll Sushi, sul modello americano,
esportando così le preferenze statunitensi nel mondo del sushi; questa sconvolse un po’ l’idea
tradizionalista e il menù presenta infatti accostamenti e nomi bizzarri: salmone, calamari e uova di
pesce volante in un’unica ricetta, o l’involtino Nixon che è composto da anguilla grigliata, cetriolo e
formaggio cremoso, ma anche il sushi sandwich rivestito da un croissant e ancora l’involtino di tonno
piccante (strategia per non scartare le parti di tonno peggiore). “Ormai il «sushi in stile newyorkese» è
considerato dagli abitanti di Tokyo un genere consolidato della ristorazione” (Issenberg 2008, 16).
28
da variegate realizzazioni visive e gustative è certamente il piatto più noto, che
ricopre maggiormente in Occidente lo sfumato regime di senso della giapponesità31.
Restando nel merito dell'ancoraggio alla tradizione il sushi chef, come mestiere, è da
sempre considerato come una professione maschile, poiché “the men claimed […]
that women's hands were too warm and, therefore, their heat tainted the flavor of the
31 Per giapponesità il dizionario italiano Hoepli intende “il complesso di caratteri e comportamenti
che si considerano tipici dei giapponesi e della loro identità culturale”; in questo peculiare caso si è
scelto come impronta tipica della giapponesità il sushi in quanto incarna uno dei principali
immaginari occidentali del Giappone. Cfr. anche Stano 2015.
29
rice” (Keener 2010, 103), e ancora oggi, nonostante alcuni passi significativi, la
sproporzione di genere è piuttosto evidente (Gomi 2014). È uno dei pochi mestieri al
mondo verso il quale il genere femminile non si è ancora emancipato.
Quella di genere tuttavia non è l'unica problematica sociale che il sushi, antico e
odierno, porta con sé. Business fiorente in termini prettamente danarosi, esso risulta
altrettanto sfiorente in termini ambientali e di sostenibilità. Il sushi è riuscito,
sgomitando tra le varie culture culinarie, a imporsi come vera pratica culinaria
socialmente condivisa la cui pervasività ha acquisito dimensioni sociologiche,
antropologiche e mediali pregnanti, al di là di quelle che si riservano a fenomeni
passeggeri o “bolle”. Da quasi venti anni nei media occidentali 32 la presenza del sushi
si fa sempre più strada, ed emblematico in tal senso risulta il cortometraggio
americano True Confessions of a Sushi Addict (USA 1999, di Kimberly Harwood.
Commedia. 14’). Qui il sushi diviene una vera e propria forma di dipendenza per una
ragazza che, una volta assaggiatolo in compagnia di un ragazzo, inizia a consumarne
in quantità sempre più massive33.
32 Altri lungometraggi in stile documentaristico che hanno cavalcato l'onda del fenomeno sushi sono
ad esempio Sushi the Global Catch di Hall (2012), The End of the Line di Murray (2009), Jiro
Dreams of Sushi di Gelb (2011), ma anche pellicole meno propense all'informazione e più allo
spettacolo come ad esempio il thriller Sushi Girl di Saxton (2012) e la commedia horror nipponica
Deddo Sushi (デッド寿司, Dead Sushi) di Iguchi (2012).
33 Il cibo come dipendenza è un aspetto molto importante. Per quanto riguarda le dipendenze come
fattori comportamentali cfr. Rosenberg e Curtiss Feder 2015. Su cibo e dipendenza cfr. Glatt 1979,
Piccinni 2016.
30
La storia può essere letta come metafora spiritosa della dilagante ascesa del sushi
come modello di pietanza socialmente accettato a livello globale, ma anche come
dipendenza (come ci suggerisce il titolo del cortometraggio). Così si rende necessaria
un'analisi dettagliata del fenomeno sushi poiché esso è stato in grado, in un processo
che sembra ancora in atto, di ridefinire le pratiche alimentari non solo orientali, ma
anche e soprattutto occidentali, in prima istanza. Inoltre un così largo consumo porta
con sé problematiche interne di natura ecologica, che rientrano a pieno titolo
nell'ambito delle teorie del metabolic rift, inteso nei termini marxisti come un
“irreparable rift in the interdependent process of social metabolism” (Marx 1981,
949). Di questi temi ci si occuperà nell'arco della tesi, ma è stato innanzitutto
importante completare il quadro preliminare a partire dalle radici storiche del
fenomeno sushi: “il passato diventa o ri-diventa presente in funzione della
realizzazione dei possibili implicati oggettivamente nel passato. Esso si svela e si
attualizza insieme ad essi” (Lefebvre 1965, 36); solo così è possibile avere una
cognizione completa delle devianze che esso assume nella modernità quando
degenerato all'interno dei modelli di consumo capitalistici. La linea che si sta
adottando è pertanto quella di una sociologia diacronica, sul modello –
sostanzialmente riferito ai concetti di atto e potenza platonici – della scuola di
Chicago per la quale:
La messa in relazione di elementi del passato e del presente può produrre una
comprensione analogica soltanto a condizione che sia selettiva e pertinente. Un altro
modo di collegare il passato e il presente al fine di comprendere l'uno attraverso l'altro,
consiste nel metodo dei possibili definito da Henri Lefebvre nella sua opera sulla
Comune di Parigi del 1871. Qui, il lavoro di delucidazione mediante la storia non si
fonda su una analisi analogica, ma su quella della virtualità (i possibili) racchiuse nel
passato. […] In altri termini, gli sviluppi attuali permettono di illuminare il passato, ciò
che esso conteneva di possibile (e di impossibile), dunque di individuare dove e come si
è messo in gioco il divenire, consentendo in tale maniera di comprendere la genesi delle
realtà attuali (Gubert e Tomasi 1995, 20).
31
Capitolo 3 – Immaginari
Il “sushi” da tempo ormai non è quindi più solo un vociferare, ma anzi oggetto
di discorsi attorno ai quali si manifesta un vero e proprio spaccato: c'è chi lo ama, chi
dice di amarlo (ma non lo conosce) e chi lo detesta o lo rifiuta, perché ancorato a una
concezione del pesce come unicamente cotto, o per questioni ambientaliste e
animaliste. Quello che emerge però, nello studio delle varie pratiche sociali ante e
post fenomeno sushi, è che il solo nominare il termine in questione richiama sfere
molteplici e aloni semantici spesso non bene definiti. L’immaginario del sushi,
quantomeno in Occidente, pare ricoprire un coacervo di significati disparati e confusi
(pesce crudo, bacchette, Giappone, all you can eat, e così via) spesso slegati fra di
loro e riferiti a contesti fantasiosi, che attingono da rappresentazioni mediali di varia
natura, quali i manga, i libri, e anche e soprattutto quelle entità socio-testuali che
sono i ristoranti giapponesi e i sushi bar inseriti nell’asse sintagmatico del testo
urbano (cfr. Gasti e Surace 2015, 299-300).
32
L'esotismo34 di questo piatto ha avuto un innegabile impatto sulla popolazione
globale e di rimando sull'essenza della giapponesità. L’esperienza esotica invero
costituisce sempre un’esperienza superficiale e non autentica perché, in effetti, si può
assimilare al concetto di Fischler di “incorporazione dell’Altro” (1992): mangiare si
fa atto di integrazione di cultura dell’Altro, forma di inglobamento, e in qualche
modo di decostruzione, per riportare quest'ultimo al proprio Sé. “Incorporare il cibo
non costituisce una sfida solo per la salute, ma lo è anche per il posto dell’individuo
nella cultura” (Lupton 1999, 33). L’esotismo del cibo origina un ponte inferenziale,
che consente di passare da un nodo A a un nodo B del rappresentato con
un’operazione di “salto verso l’ignoto”35, tipica proprio del rapportarsi con l’Altro. In
termini di immaginario è proprio questa operazione di salto a emergere: lo spettatore
si trova di fronte a numerosi contenuti, input e pratiche culturali e in un qualche
modo è chiamato a collegarli per dedurne determinate strutture ed erigerne delle
altre. Per quanto riguarda il fenomeno sushi: tatami, sushi da passeggio, sushi fusion
(con carne al posto del pesce o salse particolari come tabasco o bagna caòda e così
via).
Quel che avviene è la trasposizione di alcuni elementi (doni) da una certa cultura
(che non necessariamente corrisponde al reale, come dimostrano fenomeni come
l'apprezzamento del tonno o i California roll) a un’altra, con evidenti conseguenze in
termini di immaginario recepito. Aspetto dell'immaginario che non si è ancora
trattato è la pratica Nyotaimori ( 女 体 盛 り ) che letteralmente significa "servire (i
cibi) sul corpo femminile", poiché in realtà non rispecchia realmente un immaginario
giapponese, ma è anzi sostanza caratterizzante del discorso sull'esotismo e sul sushi
mosso finora. Degna di nota però è questa pratica, detta anche del body sushi o
naked sushi (così curiosamente tradotto in inglese, come se fosse il sushi l’elemento
nudo), che negli ultimi anni, conseguenza diretta dell’onda del sushi (Issenberg
34 Orientamento teorico proposto dall'etnografo francese Victor Segalen nel suo Essai sur l'Exotisme
(Une Esthétique du Divers) del 1978, dopo essersi dedicato a numerose esplorazioni in località come
la Polinesia, le isole Marchesi, la Cina e il Giappone. Dalle sue peripezie nacquero gli scritti
sull’esotismo e l’idea per un saggio sul misterioso che, come scrive Jean Richards nell’introduzione de
il Saggio sull’esotismo, rimarrà solamente in una stesura da considerarsi come “stato di schizzo,
composto di riflessioni, un’abbondante bibliografia e uno schema generale”.
35 Concetto affine a quello di passeggiata inferenziale postulato da Umberto Eco 1979.
33
2008), è diventata sempre più presente in determinati contesti prettamente
occidentali, quali addii al celibato, feste private e comunque cene nelle quali si voglia
trascorrere del tempo in modi socialmente considerati trasgressivi. Il fatto che tale
usanza si sia diffusa molto rapidamente in numerosi contesti occidentali prova come
vi sia in realtà una diretta connessione fra immaginario proposto dalle narrazioni
(principalmente mediali) e sue conseguenze sulle realtà sociali36.
36 L'ambasciata giapponese a fronte dell'associazione tra Nyotaimori e propria cultura si è più volte
dissociata dal riconoscere questa pratica sia dal punto di vista sociologico che simbolico. Sul Corriere
della Sera del 31 Luglio 2012 viene pubblicato un articolo intitolato “Giappone in cucina: guerra
diplomatica contro il sushi servito su modelle nude” e in dimostrazione dell'affermazione di cui sopra
il governo giapponese dichiara “non è nostra tradizione, si tratta di una bugia a fini commerciali”. A
tal proposito sostiene Elisabetta Ambrosi come “la moda del body sushi, [sia] anche chiamat[a]
Nyotaimori per ammantare di esotismo una pratica tutta occidentale” (Ambrosi 2012). Traduzione
inglese per riferirsi a tale pratica è naked sushi, e con tale locuzione “s’intende l’antica tradizione
giapponese di consumare cibo (in genere sushi o sashimi) sul corpo nudo di una donna, un’usanza
divenuta popolare prima in America, poi in Europa e anche in Italia. Ma quello che in Giappone […]
viene considerato cultura, qui da noi spesso diventa feticismo” (Formetta 2011).
34
dell’essenza giapponese (quella che sopra, e più avanti nella tesi, è definita come
giapponesità). Tuttavia è sociologicamente corretto sancire come una riflessiva
ricerca del sushi rilevi proprio in esso una credenza generalmente diffusa: in esso vi è
molta più giapponesità che in qualsiasi altra pietanza (è sufficiente effettuare una
semplice ricerca online per constatare come quantomeno nell'ultimo decennio una
moltitudine di quotidiani abbiano testimoniato l'inflazione del sushi come oggetto di
discorsi sociali)37. A corollario il sushi è considerabile come prototipico del wrapping
principle38, principio fondamentale nella sociosfera giapponese che ne giustifica
dunque l’emblematicità nei termini di una presunta giapponesità culinaria.
35
Il cibo è in questo frangente uno degli aspetti del vivere sociale più
significativamente soggetto alle modifiche dell’immaginario a esso legato. Vi è un
costante fiorire e sfiorire di tendenze alimentari e culinarie differenti (solo negli
ultimi anni un boom di vegetarianismo, veganismo, macrobiotica, crudismo, e così
via). Tali fenomeni sociologici si diffondono attraverso i media e le loro
rappresentazioni e attecchiscono in varia misura su vari pubblici.
[inizialmente] come i giapponesi, anche gli americani consideravano la carne del tonno
rosso troppo sanguigna per essere consumata, quindi non avevano alcun interesse a
portare a casa il pescato. […] Nel giro di pochi anni i giapponesi iniziarono ad
apprezzare il tonno rosso più di ogni altro tipo di tonno. […] questo feticcio arrivò in un
occidente che sviluppò presto il proprio appetito per il tonno rosso. L'abbraccio
occidentale con la tradizione del sushi giapponese ebbe un altro effetto moltiplicatore:
portò persone a cui prima non piaceva il pesce a entrare nella compagnia dei
consumatori di pesce (Greenberg 2012, 249).
36
prodotto della cultura di un paese “di indicare uno stile di vita e un carattere
nazionale specifici, e in tal modo la possibilità di permeare quel prodotto in un'aura
(Benjamin 1936-1937) riferita al paese d'origine della merce in questione” (Pellitteri
2008, 59). Ne La dinstinction, Bourdieu oltre a una critica sociale del gusto parla di
come ci siano una «realtà dell'immagine» e una «immagine della realtà». Tale
bipartizione ben si confà all'immaginario comune del Giappone derivato dal sushi:
Una determinata classe è definita dal modo in cui viene percepita, non meno che dal suo
modo di essere, dai suoi consumi – che non è necessario che siano ostentatori per essere
simbolici –, non meno che dalla posizione che occupa nei rapporti di produzione (anche
se è vero che la quest'ultima presiede la prima). La visione berkeleyana – cioè piccolo-
borghese – che riduce l'essere sociale al modo in cui si viene percepiti, alle parvenze, e
che, dimenticando che non c'è bisogno di offrire una rappresentazione (teatrale) per
essere l'oggetto di una rappresentazione (mentale) riduce il mondo sociale alla
sommatoria delle rappresentazioni (teatrali) offerte dagli altri gruppi (Bourdieu 1983,
479).
Il sociologo francese mette bene in risalto il fatto che tutti gli immaginari sono
portati all'esagerazione e che proprio questa teatralità eccessiva non dia abbastanza
importanza a ciò che invece è realmente. Non è sbagliato inserirlo – e considerarlo
come tale – in quella lunga lista che Jérôme Garcin (2008), sul modello di Roland
Barthes (1957), chiama “nuovi miti d'oggi”, inserendovi il sushi mediante una
riflessione di Jean-Paul Dubois, fra Zinedine Zidane, Kate Moss, il Botox, la capsula
Nespresso, e molti altri. La tendenziale superficialità relativa alla conoscenza del
sushi, che è pure un prodotto di larghissimo consumo, non si ferma solo a
quest'ultimo ma anzi ne congloba l'intero universo circostante. Sulle materie prime
che lo compongono, a partire dal tonno, sulle modalità con le quali queste vengono
prodotte, sui costi che comportano e sulle regolamentazioni che seguono, regna un
alone di mistero. Così, riprendendo le parole di Greenberg – “Pensavo al mare come
a un contenitore di desideri e misteri, un luogo di abbondanza di cui non avevo
motivo di dubitare” (2012, 18) – ci si andrà ora a soffermare innanzitutto sulle
pratiche che al sushi sono collegate, e poi a indagare i rapporti che il suo mercato
stabilisce con il mondo.
37
PARTE 2
***
38
Capitolo 1 – Meta-sociologia fra alimentazione e
territorialità
Per poter tracciare una sociologia del sushi è indispensabile prima avere in
mente un’idea generale dei meccanismi sociali basilari del Giappone, che ne
contempli la filosofia haiku39, e più in generale conoscere la sociologia del cibo. Per
quanto concerne il contesto giapponese la bibliografia è sterminata, e
Nihonshakairon ( 日 本 社 会 論 )40 è il termine che il popolo giapponese usa per
indicare le “teorie sulla società giapponese”, indicando genericamente un insieme di
testi sociologici e psicologici pubblicati in Giappone in merito alla propria cultura
territoriale. Solitamente gli autori di riferimento sono connazionali, in linea con una
tendenziale ottica nazionalistica; a tal proposito Dale (1986) definisce Nihonjinron
(che qui consideriamo come sinonimico di Nihonron, Nihobunkaron, e appunto
Nihonshakairon) come: “works of cultural nationalism concerned with the ostensible
'uniqueness' of Japan in any aspect, and which are hostile to both individual
experience and the notion of internal socio-historical diversity” 41. Nondimeno va
tenuto conto di come nell’ambito di una sociologia del Giappone possano figurare
più raramente anche autori stranieri, che si attengano però pedestremente ai princìpi
fondamentali. La raccolta in questione tuttavia costituisce solamente una minima
parte del patrimonio di conoscenze sull'argomento. Muovendosi sul contesto europeo
ad esempio vale la pena di citare Roland Barthes, che nel 1970 scrive L'empire des
39 L'haiku è essenzialmente ciò che in generale si definisce poesia, anzi è un vero e proprio genere
poetico e tanto per fare un paragone sembrerebbe collocarsi nel contesto (occidentale) romantico
poiché in queste poesie si cerca di far rendere la profondità e la concretezza della realtà che non si può
cogliere con la “razionalità occidentale”. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a cfr. Arena, 1995.
40 Ne esistono diverse varianti su più temi specifici come: shinfūdoron (新風土論, nuove teorie sul
clima), nihonbunkaron (日本文化論, teorie sulla cultura giapponese), nihonshakairon (日本社会論,
teorie sulla società giapponese). Ma in generale derivano tutti dal più generale Nihonjinron (日本人
論, teorie sui giapponesi). Per approfondimenti tradotti in lingua italiana di Nihonjinron cfr. Benedict,
Ruth, 1991. Il crisantemo e la spada - Modelli di cultura giapponese, Milano: Rizzoli., Doi, Takeo,
1991. Anatomia della dipendenza, Milano: Raffello Cortina. e ancora Nakane, Chie, 1992. La società
giapponese, Milano: Raffaello Cortina.
41 Cfr. anche The Journal of the Association of Teachers of Japanese, 1998, voll. 32-34.
39
signes nel quale fotografa il suo viaggio in Giappone e ne racconta il sistema
(sociale, tecnico e simbolico) tentando di mappare i funzionamenti principali di tale
società. Si intersecano così dimensioni simboliche con assi sociologici e
antropologici. In tal senso è bene tenere presente come anche la posizione e la
struttura geo-morfologica del Giappone ne determini gli assetti sociologici. Esso è
difatti un'isola frastagliata dalle montagne, il cui punto più alto è raggiunto dal monte
vulcanico Fuji con i suoi 3.800 metri di altezza. A fronte di questo panorama
montagnoso meno di 1/5 del territorio risulta coltivabile e si è in un regime di
insufficienti risorse minerarie con la seguente necessità di appoggiarsi
frequentemente alle importazioni per bisogni alimentari ed energetici; circondato dal
mare e da baie con correnti calde (Kuroshio) a sud e correnti fredde (Oyashio) a nord
e ricco di fiumi e laghi d'acqua dolce il Giappone non ha mai avuto invece problemi
nel procurarsi pesce (Reischauer 2000, 9-11).
A ‘traditional’ society for Bourdieu (Bourdieu 1977) is one in which ‘practical logic’
(which implies a multiplicity of sometimes confused and contradictory, but always
commonsensical and strategic, approaches to meaning) dominates. Actions in such a
society are neither specifically ‘economic’ nor ‘religious’ nor anything else: they merge
with one another. Japan in these terms is a ‘traditional’ society, not in the sense of being
40
dominated by custom or by the past, but in terms of possessing and employing multiple
points of reference. The possession of an object or its aesthetic qualities are fluidly
independent of any fixed meaning. It is for this reason that Japan has been able to
imitate the lifestyles of the capitalist West without generating the puritanical ethos
associated by Weber with capitalist behaviour (Clammer 1997, 165).
Il Giappone si fa, come tutti gli altri stati, spazio sociale e spazio simbolico in cui si
inseriscono habitus (o disposizioni);
Una delle funzioni del concetto di habitus è dare conto all'unità di stile che accomuna le
pratiche e i beni di un singolo agente o di una classe di agenti […] L'habitus è il
principio generatore e unificatore che ritraduce le caratteristiche intrinseche e relazionali
di una posizione in uno stile di vita unitario, ossia in un insieme unitario di scelte di
persone, pratiche e beni (Bourdieu 2009, 20).
42 Si pensi all'opera filmografica di Yasujiro Ozu, regista seminale giapponese, che contiene
numerosi film proprio centrati sul tema della differenza di classe nel Giappone del primo Novecento.
43 Vige in Giappone una “forbice che si allarga sempre più tra ricchi e poveri. Osservando
l'evoluzione del Giappone degli ultimi quarant'anni, non si può non ammettere che la situazione sia
41
immaginario, ed è infatti assai raro pensare al Giappone come a un paese con una
accentuata distinzione tra ricchi e poveri, al contrario dell'Occidente, e specialmente
degli USA, ove notoriamente le classi disagiate si cibano in fast food, situati in zone
degradate delle città, per questioni economiche che si riversano in precipui habitus
culturali. Molti dunque i cambiamenti che si sono susseguiti nei millenni di lunga
tradizione giapponese da Edo alla moderna Tokyo, ma di fatto i simboli, la cultura e
l'etica sembrano pressoché invariati anche se spesso distorti dal giogo della
globalizzazione:
Per quanto riguarda la sfera culinaria, la sociologia del cibo per molti anni non è stata
considerata abbastanza importante per definire la società perché subordinata rispetto
ad altri temi. Il cibo non era concepito come un'entità sociale degna di analisi
approfondite, né come dimensione evenemenziale carica di interesse pubblico, ma
come frutto di una quotidianità perlopiù relegato a dimensioni geografiche di
riferimento e principalmente annoverato tra le competenze domestiche delle donne,
ergo al di fuori di qualsivoglia sfera pubblica di interesse. È con l'antropologia
sociale e con la sociologia che il cibo diviene oggetto di interesse analitico, a partire
da sociologi classici come Émile Durkheim (1912), Georg Simmel (1910) e Friedrich
Engels (1876), che scrissero molte pagine di rilievo conferendo l'interesse che
meritavano alle pratiche e ai rituali attorno ai contesti cibo e alimentazione nella
società; tuttavia è solo intorno agli anni del secondo dopoguerra, '60-'70, che le
sociologie del cibo, associate a quelle dei consumi (consumo alimentare,
diseguaglianze, disturbi, processi produttivi e rituali) trovano un crescente spazio
riconosciuto nell'ambito sociologico44, a tal punto da vedere nel cibo “una delle
notevolmente peggiorata”, come rilevato da Franco Mazzei e Vittorio Volpi in una lucida analisi sul
rapporto fra modelli economici asiatici e occidentali (La rivincita della mano invisibile, 2010,
Università Bocconi Editore).
44 Già nel 1967 a Roma si tenevano programmi delle Nazioni Unite nominati Agronomy and
42
operazioni di proposizione del Sé di maggior successo” (La Cecla 1998, 9)45. Nel
1982 Goody sostiene in favore di questi studi che:
la ricerca sociale in campo alimentare non possa essere consumata nella semplicistica
descrizione delle strutture che informano le pratiche culinarie; in tal modo si perderebbe
infatti la dimensione diacronica del fenomeno alimentare. Le pratiche alimentari devono
quindi [ma qui sarebbe preferibile scrivere “anzi”] essere analizzate all’interno di uno
schema dinamico che tenga conto e che possa spiegare il cambiamento, oltre che le
strutture, di tali pratiche. Goody sottolinea inoltre come il cammino sociale del cibo non
sia rettilineo ed uniforme ma subisca accelerazioni e rallentamenti in funzione di diversi
fattori quali l’industrializzazione, il colonialismo, le migrazioni, ecc46.
Sociology, e a Londra venivano pubblicati testi come The Search for Pure Food. A Sociology
Legislation in Britain (Paulus Ingerborg, edizioni Martin Robertson).
45 Cfr. anche Bergamaschi e Musarò 2011.
46 Tale citazione è da attribuirsi al compendio “Sociologia, cibo, alimentazione:
alcuni appunti”, a cura di Simone Tosi, e consultabile online al link
http://www.nettuno.unimib.it/DATA/hot/610/SOCIOLOGIA%20GENERALE%20-
%20TEORIE/cibo%20e%20sociologia%20-%20appunti.pdf.
47 Cfr. Murcott 1993, Ritzer 2001, Germov e Williams 2008, Mennell 1992, Beardsworth 1997.
43
connettore elastico tra emozione, estetica, erotismo ed eleganza, con al centro il
corpo umano.
In such a world aesthetics rather than ethics becomes the primary mode of relating to
the social environment, a tendency promoted by the complexity of modern society and
the failure of the big solutions to its accumulating problems. This ‘reign of appearances’
promotes a culture concerned with elegance, with the erotic, with emotions, and creates
a mode of being deeply concerned with the body. And it expresses itself in
effervescence, in a serious concern with the aesthetics of food (Mitsukuni and Tsune
1989) with asobi - ‘play’ - and the proliferation of images, and in the continual
stimulation of both the senses and the emotions (Ibhtsukuni, Ikko and Tsune 1987).
(Clammer 1997, 162).
I giapponesi concepiscono diversi piaceri della vita, che rientrano pienamente nel
contesto di vita quotidiana peraltro, passioni comuni e radicate come bagno molto
caldo (onsen), che fin dal 1500 “presso i giapponesi era quotidiano, mentre gli
europei dell'epoca se lo concedevano con molta parsimonia” (Mezzadri e Vismara
2006, 42), il sonno come dimensione rituale e spirituale, e la nutrizione (cfr.
Benedict 2009, 195-200). La nutrizione, qui l'unica di questi piaceri come oggetto di
studio, è concepita dai nipponici con una duplice valenza: da un lato essa è rinuncia
dell'eccesso per rafforzamento del carattere e per evitare di confondere l'etica del
gusto con la carnale voglia di ingurgitare per la mera ed estemporanea soddisfazione
di farlo, ma dall'altro distensione del piacere che il buon gusto – umami –48 può
concedere al palato e all'anima. Anche per questo motivo il pasto è solitamente
composto da molte portate costituite da piccole porzioni 49, e ciò perché il primo
pensiero non deve essere quello di mangiare ma di apprezzare e gustare il sapore e
l'estetica gastronomica dando al pasto una estensione prettamente esperienziale. Così
si comprende come l'alimentazione costituisca per i giapponesi un insieme di riti che
necessita di specifici insegnamenti, di una rigorosa educazione e disciplina.
Il pasto familiare con il suo sistema normativo molto preciso – che comporta, in caso di
trasgressione, sanzioni immediate – appare come un'istituzione centrale della società. È
grazie ad esso che i bambini interiorizzano le regole e i valori di pulizia, del rispetto
44
degli altri, della condivisione (dimensione socializzante). Esso partecipa anche alla
definizione dei ruoli non soltanto all'interno della famiglia, ma ben oltre, rendendo
prevedibili i comportamenti in società (dimensione regolatrice). Si può dire che con
Halbwachs le pratiche alimentari acquisiscono veramente lo statuto di fatto sociale
(Poulain 2008, 137).
45
esempio non si distaccano di molto dal decalogo presentato da Henri Gault e
Christian Millau nel 1973 con l’intento di definire un modello e una guida per gli
chef che intendessero seguire i valori della cucina degli anni ’7050. Il paragone fra
nouvelle cuisine francese e cucina sushi giapponese, seppure possa sembrare ardito,
mostra numerose analogie di pratiche e ideali, dal momento che entrambe le
tendenze culinarie si sono inserite con meccanismi analoghi all’interno di determinati
immaginari. Se si legge questo decalogo si nota una forte similarità fra due
concezioni della cucina assai lontane geograficamente:
1. "Non cuocerai troppo." - Rapporto di comunanza fra la cucina sushi, che evita la
cultura della cottura per una maggiore vicinanza e immersione nella natura
secondo anche i precetti buddisti tramandati dal passato. “Gli ingredienti crudi
(ma sbucciati, lavati, ricoperti già d'una nudità estetica, brillante, colorata,
armoniosa come un abito primaverile: «Il colore, la finezza, il tocco, l'armonia, il
gusto, tutto vi si ritrova» direbbe Diderot) sono raccolti e portati su un vassoio”
(Barthes 1984, 25).
2. "Utilizzerai prodotti freschi e di qualità." - Come per la Nouvelle cuisine è
indispensabile l'ingrediente fresco a fronte della non-cottura di cui sopra. Il sapore
per la cucina nipponica è al primo posto sui gradi di rilevanza di un piatto e un
prodotto fresco è il primo aspetto da non sottovalutare.
3. "Alleggerirai il tuo menu." - Parlando del consumo di sushi oggi e in Occidente
questo punto potrebbe fuorviare (ci si sta riferendo al clamoroso avvento e
successo della formula all you can eat), ma se si pensa al sushi giapponese, il più
possibile affine alla tradizione, si può notare come il menù si regga su semplici e
poche portate differenti e non troppo arzigogolate, a formare crasi gustative di più
di due elementi.
4. "Non sarai sistematicamente modernista." - La costante crescita tecnologica ed
esperenziale è importante per migliorare il prodotto finale ma la tradizione è
fondamentale per non uscire dalle linee guida del sushi originario.
5. "Ricercherai tuttavia il contributo di nuove tecniche." - Come appena detto il
50 Il riferimento si trova nel 54° numero de La nouveau guide Gault-Millau, Ottobre 1973.
46
miglioramento tecnologico e tecnico sono inglobati nel concetto di miglioramento
e tensione massima verso il culmine.
6. "Eviterai marinate, frollature, fermentazioni, ecc." - Il sushi moderno non si
presenta come un cibo estremamente lavorato, il suo processo è sì impegnativo ma
senza presentare artificialità nella preparazione: è importante differenziare la
cottura e l'attrezzatura per tutti gli ingredienti ma non sono richiesti strumentari
eccessivamente particolareggiati. Le cucine della contemporaneità al contrario
tendono a complicare le loro preparazioni, come nel caso della cucina
molecolare51.
7. "Eliminerai le salse e i sughi ricchi." - Le uniche salse, in realtà condimenti,
concepite nella cultura culinaria del Sol Levante sono quelle che accompagnano il
piatto, non in una funzione aggiuntiva ma completante: non per arricchire il gusto
ma per rendere la pietanza un tutt'uno.
8. "Non ignorerai la dietetica." - La cultura nipponica non bada alla quantità tanto
quanto alla qualità del cibo; è importante mangiare bene e sano senza pregiudicare
le richieste del corpo e della mente. L'educazione alimentare popolare insegna a
controllare i propri istinti famelici.
9. "Non truccherai la presentazione dei tuoi piatti." - Altro aspetto indiscutibile è
proprio la presentazione estetica del piatto, questo deve essere ricco di armonia
ma non di stravaganze forzate. La semplicità è basilare.
10. "Sarai inventivo." - In Occidente il termine “inventivo” è perfetto per
l'avanzare di questo piatto ma per la tradizione l'“inventivo” è soprattutto
esplorato nella presentazione e nello studio del gusto ultimo e in toto.
51 Questo tipo di cucina gastronomica è l’ultima frontiera nella contemporaneità. Ciò che la
contraddistingue in maniera peculiare è lo studio dei meccanismi e delle reazioni chimiche che
comportano poi alla mutazione degli alimenti nel corso della preparazione. Scopo di tali ricerche e
studi è la possibilità di sperimentare nuove elaborazioni e nuove tecniche, anche distanti dall’ambito
strettamente ancorato a quelli culinari e gastronomici. Sapori nuovi e originali che conservano i valori
nutritivi tradizionali e quindi senza la clausola di additivi chimici; questa cucina si impone quindi di
tutelare la sfera gustativa e olfattiva per un più ampio sistema di valori salutari. I gelati e i sorbetti
preparati utilizzando l’azoto liquido, l’uso del tabacco, la frittura con lo zucchero al posto dell’olio,
l’uso per mousse e meringhe del vuoto spinto ma anche l’utilizzo dell’alcol etilico per la coagulazione
delle uova, e così via sono tutti esempi di codesto tipo di cucina alternativa.
47
nella sua dimensione ordinata e tendente alla perfezione; nelle pietanze per esempio
non vi è una sintagmatica che definisca quale portata si debba mangiare prima di
un'altra come invece è assodata, con variazioni territoriali, nell'Occidente. Il sushi
invece inteso come percorso gustativo presenta sì una sintagmatica ben precisa, che
concepisce un valore essenziale del layout e della disposizione, così come della
pulizia e del tempo da impiegarsi per il pasto. Tali componenti del senso incluso nel
sushi configurano una sorta di pragmatica della pietanza che in qualche modo riflette,
da un punto di vista comunicativo-testuale, le qualità peculiari della retorica antica.
Altra componente d'analisi fondamentale è il menù che nella tradizione del ristorante
sushi giapponese propone un rigoroso andamento altalenante di gusti con lo scopo di
non sovrastare mai un gusto rispetto un altro ma di unire alla ferrea sintagmatica uno
specifico percorso passionale52. Ogni ingrediente è pensato in relazione a un preciso
momento tensivo in termini di temperatura e cottura, che corrisponde al picco
massimo di gusto, ed è per questo che il sushi va mangiato subito dopo essere stato
servito53, a ricalcare la visione estetica del mondo giapponese del wabi-sabi (侘寂),
che dipinge la bellezza come intrinsecamente “imperfetta e impermanente”.
In termini di consumo si è all'esatto opposto rispetto ai modelli capitalistici
dell'alimentazione frettolosa e votata a una sorta di perenne ingordigia. Per quanto
riguarda l'Occidente invece questa forma di disciplina si è sostanzialmente persa nei
secoli (salvo incursioni di mode minoritarie) trasformando costantemente le pratiche
alimentari, a partire dall'atto di produzione all'atto di mangiare o più in generale di
consumare; invero è innegabile un radicale cambiamento del rapporto uomo-cibo nei
secoli: se in principio l'essere umano cresceva in parallelo con i suoi bisogni di
sopravvivenza, in seguito all'industrializzazione e “occidentalizzazione del mondo”
(Latouche 1989) ha progressivamente traslato questa dimensione non più stabilendo
un rapporto simbiotico con la natura e premendo anziché sui bisogni, sulla volontà
egoistica:
52 Alla base sussiste un assetto paradigmatico assai prescrittivo del menu di Jiro (il cliente non può
scegliere cosa mangiare, ma è costretto a seguire la decisione dello chef, sulla base della disponibilità
delle materie prime).
53 Difatti l'idea comune che il sushi sia un piatto crudo e per di più da gustare freddo si sfata
prendendo in esempio il polpo e la sua modalità di preparazione; esso deve essere massaggiato dai 30
ai 50 minuti prima di essere cucinato, poiché questo trattamento ne rende più tenera la carne.
48
Il primo uomo non rifletté granché a come salvaguardare il suo cibo selvatico. In natura
l'uomo era in minoranza e le creature che scelse di addomesticare per la tavola
costituivano una sottoserie di un insieme molto più grande, più selvaggio. Non aveva
idea né del proprio potenziale distruttivo né delle proprie capacità di rifare il mondo.
L'uomo moderno è un animale diverso, un animale pienamente consapevole della
propria capacità di piegare le regole della natura a proprio favore. Fino a metà
Novecento, gli esseri umani tendevano a vedere le proprie abilità trasformative non solo
come positive ma anche come inevitabili (Greenberg 2012, 25).
49
mediatica: vegetariani e vegani, cibi bio, cucina macrobiotica, alimentazione
molecolare, hanno acquisito prepotentemente spazio nell'immaginario e nella realtà
percepita di tutti i giorni. I consumatori alimentari (mangeurs) fanno petizioni sul
problema del “non saper che cosa si sta mangiando”. Animalismo ed ambientalismo
tornano ad essere considerati. In tutti i menù di ristoranti spiccano ricette e piatti
senza alimenti “scomodi” per assecondare le esigenze etiche o biologiche (vedasi il
cibo senza glutine per celiaci) di società sempre più variegate dal punto di vista del
consumo alimentare. Da un punto di vista commerciale questa nuova concezione
multiforme del cibo ingenera fiorenti business, come per il caso della celiachia,
statisticamente molto meno presente di quanto molte persone credano:
Il fenomeno della celiachia è sempre più alla ribalta, da parte dei media che attraverso le
pubblicità in programmazione sulle grandi reti televisive ci invogliano ad acquistare
pasta senza glutine, spingendoci a credere che mangiare pasta gluten free migliori la
salute indipendentemente dall'essere realmente intollerante 54; dai settimanali e dai
periodici, dove fanno capolino le pubblicità delle grandi marche del “senza glutine”,
[…] fenomeni di mercato [corsivo aggiunto] che confermano sempre più l'ipotesi
secondo la quale solo ¼ dei celiaci siano realmente diagnosticati e che questa malattia
possa essere considerata una vera e propria epidemia [Catassi, Cobelin 2007]
(Corposanto e Molinari 2014, 251).
Nel caso del ristorante giapponese si rintraccia ad esempio un fiorire di sushi veg con
solo verdure (cetrioli e alghe) o “imitazioni” a base di seitan, soia, e così via. Ciò
parrebbe in via di principio un'ottima modalità per sostenere l'ambiente e la fauna
selvatica vista la crescente crisi ecosistemica che gli oceani stanno affrontando, e
tuttavia è provato come le coltivazioni massive di soia siano fra le più dannose sul
piano ambientale (come dimostra un report del WWF 2014 che mostra il progressivo
deterioramento della foresta amazzonica proprio a causa delle piantagioni di soia).
54 Su questa argomentazione non c'è un accordo fra la concezione sociale e il responso della
comunità medica (cfr. Barratt, Leeds, Sanders 2011).
50
tradizionale e nel contempo elaborano soluzioni adatte a incontrare diete alternative;
in questo orizzonte la questione ecologica fa sì che stia diffondesi, ancora in una
scala statisticamente poco rilevante (ma comunque di buon auspicio), il mercato del
sushi sostenibile, unica vera soluzione in grado di consentire di godere all'infinito le
risorse del mare e della terra prima che queste si esauriscano producendo pericolosi
scompensi ecosistemici e di biodiversità55. Si pensi infatti, solo come primo
“assaggio” che, a causa del suo poco efficiente metabolismo, per far ingrassare di un
chilo un tonno si necessitano di 25 chili di pesce azzurro.
51
ristoranti è portatore di specifici messaggi e cibarsene significa in qualche modo
ricercare una forma di status e quindi di riconoscimento sociale57. Il sushi
tradizionale è perfezione di gusto ed estetica, estasi armonica, e permea i
clienti/consumatori di questa aura; il sushi globalizzato suggella invece un mondo
frenetico imbevuto di atmosfere di carriera e realizzazione. Il sushi quindi, come
anticipato precedentemente con Halbwachs (1912) e Poulain (2005), è in buona
sostanza un fatto sociale: l'atto di mangiarlo raramente si compie individualmente 58,
sia perché la maggior parte dei pasti consumati avviene in compagnia di altre
persone, sia perché anche qualora un pasto sia consumato in solitudine (trend sempre
più diffuso nell'epoca contemporanea, nelle società occidentali in special modo) esso
rimanda ad abitudini, a scelte condivise culturalmente e socialmente (Dansero 2015,
1). È per questo che si può parlare di condivisione e di compagnia, lemma
quest'ultimo la cui etimologia cum-panis rimanda a “condividere il pane con
qualcuno”, così come “convivio”, con-vivium, che è alla base delle pratiche
alimentari (cfr. Leveghi ib., 9). L'alimentazione ha una funzione strutturante
nell'organizzazione sociale di un gruppo umano, e si configura come una forma di
vero e proprio sapere socio-antropologico (Poulain 2008, 8). Il rapporto cibo-uomo-
società cambia nel tempo a seconda della conformazione politica, economica e
sociale a livello globale; in alcuni casi, come quello del sushi che ha attivato
dinamiche ambientali ed ecosistemiche distruttive, la situazione sembra non
cambiare in meglio ma anzi peggiorare. Questo rapporto triadico, indissolubilmente
intrecciato, necessita di un mutamento, pena un superamento della soglia di non
ritorno, e tale cambiamento non può che partire dall'individuo singolo che deve farsi
portatore di nuove identità e prestarsi, ad esempio, al sushi sostenibile, in
concomitanza a una più ferrea regolamentazione istituzionale e organizzativa nel
merito della sovrappesca e di simili pratiche abusive59.
Secondo quanto rilevato finora il cibo è per l'uomo molto più che non semplice
57 Sul significato sociologico di riconoscimento cfr. Honneth 2002.
58 Salvo in occasioni per le quali sono comunque previsti specifici riti e modalità di mostrazione del
sé, come il contesto pausa-pranzo lavorativa; e in ogni caso il sushi da soli si mangia tendenzialmente
al bancone – ove previsto – e quindi ricopre un'atmosfera rituale diversamente imbevuta di socialità.
59 Un ottimo compendio nel merito si trova nel film The End of the Line (Rupert Murray 2009).
52
nutrizione, e valica di gran lunga il motto feuerbachiano del “noi siamo quello che
mangiamo” perché non si compie in quanto semplice agglomerato alimentare, né
passionale né gustativo. Esso crea dipendenza, issa identità, definisce classi sociali,
determina disuguaglianze, e influenza la quotidianità a partire da quella che i
sociologi chiamano “esperienza interpersonale”, intesa come un'interpolazione di
elementi “sociali (tradizioni, cultura), psicologici (emozioni, ricordi, affetti),
sensoriali (vista, olfatto, gusto, tatto)” (Fragiacomo 2013, 21). Diverse aree
geografiche (più o meno coincidenti con i confini nazionali), in base a determinati
assetti sociali, hanno gusti specifici, e le cucine etniche ed estranee che si
amalgamano a quelle nazionali devono prima entrare nell'habitus nazionale per
essere apprezzate; in questo contesto la cucina fusion ha in mano la responsabilità di
calmierare le differenze gustative. Le cucine comunicano tra loro e aumentano le
combinazioni culinarie creando identità nuove e variegate. In un frame così dinamico
quella del sushi si configura come una vera e propria pandemia che ha modificato
sensibilmente le abitudini alimentari di almeno una metà del globo e ha sovrastato la
precedente americanizzazione dei costumi. Nell'età della globalizzazione infatti si
parla infatti di delocalizzazione e rilocalizzazione dell'alimentazione di impronta
neocolonialistica (cfr. Montanari 2014), e ne consegue un'autentica mitologia del
“paradiso culinario perduto” (Poulain 2008, 21) che vede studiosi come sociologi ed
antropologi collaborare per la ricostruzione di quei patrimoni che costituiscono uno
dei metodi più validi per lo studio dei mutamenti sociali. La cucina e il galateo60,
come si evince da una generale storia dell'alimentazione, sono i custodi che
difendono e resistono al cambiamento (ibid. 2008, 21-22).
53
non porta solo aspetti catastrofici: a essa va imputata ad esempio la scoperta e
l'integrazione di nuove culture culinarie, secondo una logica della contaminazione
che – al di là della matrice capitalistica – può produrre risultati socialmente positivi.
Tuttavia tale contaminazione obbedisce a dinamiche di standardizzazione e
omogeneizzazione, che appiattiscono le particolarità delle singole culture in un
unicum stereotipico:
54
Capitolo 2 – Panoramica sociologica
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essere sottoposte a questo tipo di analisi/ricerca esse vanno eliminate dalle domande
e risposte, in quanto sovrastrutturali rispetto all'ambiente di riferimento:
“uninterpretable features must be checked and deleted before they enter the interface
levels of grammar” (Stoyanova 2008, 6). Ogni lingua ha una sua grammatica e un
suo lessico, ma tutte corrispondono in un modo o nell'altro (prima o dopo all'interno
della domanda/risposta) alle figure interrogative di cui sopra. Si pensi ad esempio
alla lingua neolatina tedesca che pone il verbo, e quindi il fulcro dell'azione (What),
alla fine della frase.
All these wh-phrases may function as the subject of embedded finite wh-questions,
except (o) quê. They cannot function as subject in infinitival wh-questions. […] In an
infinitival questions, the subject will always be a non lexical element (Vos 1994, 35).
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• Who – Chi è che mangia sushi?
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• Where – Dove si mangia sushi?
All'opposto si trovano i diffusi ristoranti Kaiten, ove invece la presenza dello chef
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alla vista dei commensali non è strettamente obbligatoria. Qui l'organico è ridotto
poiché le pietanze sono disposte su nastri trasportatori, secondo una logica del
consumo completamente differente dalla precedente. Non vi è un menù fisso e il
pasto assume una dimensione ludica (è prassi diffusa quella di vedere i piattini
ricolmi di vivande e giocare sul prenderli prima di altri commensali). Non esiste una
carta, né un piatto consigliato, né una sintagmatica di riferimento, né una quantità
prestabilita di porzioni che compongono il pasto: in questo senso si è già pienamente
calati in un'esperienza “all you can eat” che induce surrettiziamente a cibarsi di
quantità maggiori rispetto a quelle richieste dal proprio fabbisogno energetico. La
qualità nei ristoranti kaiten è meno rinomata che nei sushi bar, e tendenzialmente
risulta piuttosto scarsa, e per quanto riguarda l'ingredientistica, e per quanto concerne
la perizia del cuoco, che mira unicamente a sfornare misurate quantità di bocconcini
all'unico scopo di sfamare i clienti. Inoltre il sushi (e ogni tipo di sushi differente) ha
bisogno di diverse cotture e preparazioni, e come si è visto è un cibo che richiede una
grande cura per essere realizzato al suo meglio. I kaiten sono strutturalmente inadatti
a rispettarne le esigenze: se lasciate per troppo tempo sul nastro trasportatore il gusto
e la temperatura delle portate risultano alterati. Sul piano simbolico inoltre la
sovraesposizione visiva delle portate non può che sminuire l'unicità che tanto invece
la tradizione originaria ne denotava. Va tuttavia rilevato come negli ultimi dieci anni
la qualità dei ristoranti kaiten stia migliorando, specie in Giappone, dove c'è stato una
sorta di ritorno di fiamma occidentale nel merito di questi particolari locali
(Tamamura 2000), che ha visto i kaiten migliorare drasticamente la loro immagine e
qualità (Akamoto 2002; Watanabe 2002; Yagyū 2003).
Per quanto riguarda le bancarelle ambulanti infine le tipologie di sushi proposte, che
vanno dagli “originali” alle sperimentazioni postmoderne, costituiscono un ottimo
modo per tornare all'idea dello street food di un tempo. Gli ingredienti possono
variare di nazione in nazione e combinarsi tra loro generando gusti alternativi e
inventare sushi non solo salati ma anche dolci; in Italia tale modalità non è ancora
molto diffusa, sebbene invece la sua prerogativa fusion sia al centro di un mercato
fiorente, che non dà ad oggi segni di cedimento, ma al contrario pare in forte ascesa.
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• When – Quando si mangia sushi?
E’ con la modernità che si verifica una distinzione vera e propria tra una sfera pubblica e
una sfera privata che risultavano fino a questo periodo confuse l’una nell’altra (Ariès
1986). In questa prospettiva deve essere inquadrato il ristorante in senso moderno;
Mennell, Murcott, e van Otterloo ne forniscono una panoramica e un’abbondante
bibliografia di carattere storico-sociologico, con una particolare attenzione alle diverse
“funzioni” che questo tipo di locale ha svolto nei diversi periodi storici (1992, 81-87).
Da questa analisi si vede come, con la progressiva privatizzazione della società in un
senso, si sviluppa nell’altro una domanda di occasioni di incontro, di contatto e di
scambio sociale; il ristorante appare offrire una facile occasione per praticare questi
contatti69.
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• Why – Perché si mangia sushi?
Divenuto fenomeno globale il sushi si mangia per vari motivi: perché è il piatto
tipico della cucina nipponica, perché è un piatto salutare e semplice, perché è un
piatto veloce (si pensi al suo passato da cibo fast e street food) e perché dall'ultimo
ventennio è di moda. Fattore che viene preso molto in considerazione sono i rapporti
qualità/prezzo e quantità/prezzo, e pare che in Italia quest’ultimo binomio sia di
importanza preminente, come dimostrano i dati del sondaggio che si discuterà alla
fine della tesi. Per tornare al discorso di cui sopra nel merito della distinzione tra
pranzo fuori e pranzo a casa: “Pranzare fuori ci consente di agire a imitazione degli
altri, secondo nuove immagini, in risposta alle mode, fuori dalle solite abitudini,
senza bisogno di riflessione e autoconsapevolezza” (Finkelstein 1992, 13).
L'esotismo, la moda e la voglia di conformismo sono i principali fattori che spingono
al consumo estremo di sushi, specialmente di quelli a base di salmone e tonno; il
discorso saliente qui è che il fenomeno “sushi” è sì paragonabile ai fenomeni
“McDonald's”, “Tiger”, “Apple” e così via, ma che se questi ultimi sono marchi e il
pubblico ci si affeziona e si fidelizza mediante campagne pubblicitarie e marketing
mirato, il sushi pur essendo slegato da un rigido sistema propagandistico è riuscito ad
imporsi sul mercato ugualmente. Esso è divenuto un marchio simbolico, capace di
fidelizzare i consumatori prima ancora di essere sottoposto a qualsivoglia signature
(anche se poi ciò avviene, come dimostra il profluvio di catene sushi presenti nelle
nostre città). Il sushi è oggi un “gusto socialmente determinato”:
61
diventato un “gusto socialmente determinato”: i simboli che racchiude sono i motivi per
cui i suoi fruitori vogliono cibarsene (Franchi 2008, 52).
70 Si prende in considerazione la terminologia di Poulain che definisce una norma dietetica come “un
insieme di prescrizioni basate su conoscenze scientifiche nutrizioniste diffuse dall'ambiente medico e
dai suoi portavoce” (Poulain 2008, 66).
62
dell'esperienza alimentare che vi è attorno, e per tracciare un quadro completo della
logica consumistica che ne deriva. In questo frangente ci si concentrerà sul consumo
del pasto fuori casa, secondo la dicotomia presa già in considerazione
precedentemente. Studi riportati da Finkelstein nel 1989 forniscono dati che
mostrano difatti come negli anni ‘70 e ‘80 le attività di ristorazione abbiano
incrementato il loro lavoro: “la spesa presso ristoranti, taverne e tavole calde si è, in
questo periodo, più che raddoppiata in tutti i paesi occidentali e, secondo certe
previsioni, verso la fine del secolo consumeremo due pasti su tre fuori casa” 71. In
questo modo la società postmoderna mette in risalto la sua peculiarità del ce n'è “per
tutti i gusti” (Bauman 2016), ma cela anche lo spettro di un consumo sempre meno
sostenibile a livello ambientale, e della progressiva tendenza a spendere più per mera
alimentazione (in pochi infatti si possono permettere di consumare cibi pregiati con
così elevata frequenza) che non per esperienze di accrescimento individuale e sociale
più produttive. Detto ciò, la storia di questo piatto ha già mostrato come non solo gli
ingredienti siano cambiati nei secoli ma anche, e soprattutto, le modalità di consumo.
Il sushi come molte altre pietanze, se non addirittura tutte, è connesso in maniera
vulnerabile ai cambiamenti sociali e antropologici, e anzi innesca un circolo di
ritorno per il quale né è nel contempo causa ed effetto. Inevitabile dunque che in un
mondo in espansione, ove le merci viaggiano (spesso inutilmente) da un antipodo
all'altro del globo, e dove le tecnologie di rete consentono l'intersecarsi delle culture,
esso sia divenuto un oggetto polimorfico: cibo domestico, di strada, kaiten, elitario e
“popolare”; di nuovo per tutti nella sua forma più espansiva e, di contro, distruttiva;
infine, auspicabilmente ma ad oggi in misura minoritaria, sostenibile (questo non per
forza implica il fatto che gli altri non siano sostenibili, ma che ci sono locali che si
definiscono, ancor prima che tradizionali, sostenibili).
Il sushi ha avuto un'evoluzione non solo nella sua intrinseca gastronomia ma anche
nella modalità di presentazione e consumazione, traducendo il detto “l'appetito vien
mangiando” in “l'appetito vien guardando”, a riprendere il titolo di un report di
Marco Belpoliti su La Stampa (ma anche il nome di un programma televisivo) che
63
sottolinea come la moda del food design stia modificando i gusti e le abitudini
alimentari dei consumatori: “il cibo […] non è più quello di una volta; non per via di
qualche manipolazione alimentare, ma per il suo aspetto visivo. Ha ora una forma
post-artificiale” (ibidem). Si è già parlato del nastro trasportatore, ma non del buffet,
che ricorda un po' l'idea della mensa e dell'all you can eat. In queste tre modalità
appena citate la pragmatica e la struttura del pasto sovvertono le regole che
prestabiliscono un pasto “classico”, o almeno così inteso in secoli di tradizione
quantomeno continentale:
In Francia, la «norma sociale» della struttura del pasto è un'unità costituita da quattro
categorie: entrée (o primo in Italia), secondo con contorno, formaggio, dessert. Essa è
presente, per esempio, nei menù delle mense scolastiche o nei contratti stipulati fra una
società di ristorazione collettiva e un'impresa o un'amministrazione «cliente». In questo
tipo di documento, i redattori, definendo la «prestazione» che deve essere servita ai
convitati, precisano ciò che questa collettività considera un «pasto normale» (Poulain
2008, 66).
I menù completi sono stati creati per rassicurare, poiché rispettano in apparenza la
logica del pasto tradizionale, offrendo così al consumatore la sensazione di mangiare un
«vero» pasto strutturato e quindi equilibrato (Ariès 2000, 32).
64
sono molti ristoranti che propongono più cucine differenti ai clienti; esempi sono
cucina cinese e giapponese (e thailandese), ma anche cucina italiana e brasiliana. Il
buffet, come il nastro trasportatore, si configura più similmente all'idea di un all you
can eat ma il servizio non comprende l'operato del cameriere se non per semplici
azioni. Nei posti ove si pratica il servizio a buffet solitamente la qualità del cibo è più
bassa della media (anche questa è una tendenza che si sta invertendo) e anche il
prezzo è più accessibile per le fasce economiche più basse della società.
Inoltre c'è da considerare che molte volte la gestione dei ristoranti sushi che praticano
il buffet all you can eat è cinese. A Torino, ad esempio, a fronte di decine
(probabilmente centinaia) di ristoranti giapponesi – dei quali molti sono all you can
eat a buffet o alla carta – la gestione cinese è quasi totalitaria, e i locali gestiti da
giapponesi si contano sulle dita di una mano. I cinesi infatti hanno avuto e hanno
tutt'ora un'ottica imprenditoriale che va oltre la cultura popolare cinese e si lanciano
nell'impresa di imitare altre culture seguendo i maggiori trend di mercato, spesso
producendo anche risultati di ottima qualità. Questa semplice tesi risulta confermata
dai dati:
Solitamente le porzioni nella cultura nipponica non sono esagerate, ma anzi relegate
a piccoli bocconcini. Questi si confanno alla recente moda del cibo finger food72 che
in qualche modo si propone di diminuire la quantità nell'ottica di aumentare la varietà
di pietanze assaggiabili nel singolo pasto. Simile ragionamento è tendenzialmente
inapplicabile in un contesto di all you can eat, poiché l'approccio al pasto è qui
72 Il cibo finger food è letteralmente il “cibo che si mangia con le mani” e che specialmente per le
dimensioni si mangia senza l'ausilio di forchette, coltelli, bacchette o similia utensili. Comodi per
spuntini o cene a buffet si prestano anche all'eleganza visiva, elemento su cui sempre più si fa
attenzione. Per ulteriori approfondimenti cfr. Halsey, 1999.
65
votato non al “poco di tutto” ma al “tanto di tutto”; ne consegue la comune
esperienza di concludere il pasto in condizioni di iper-sazietà, che rallentano il
metabolismo e prevaricano l'esigenza nutrizionale del singolo. Si prenda come
esemplificativo il seguente breve racconto, che racchiude in sé un'esperienza
percepita da molti consumatori di all you can eat:
All one has to do is to question quantity over quality. In questioning this theory, one day
I went to an all you can eat buffet restaurant. I filled my belly to the brim. In other
words, I pigged out. Yes, I commited the unhealthy sin of gluttony. The quantity of food
brought on an uncomfortable and miserable feeling. At the end of the day, I ended up
with a nagging stomach ache and had a really hard time sleeping that night. Truthfully, I
learned that the quality of a thing is a far richer commodity than having massive ones
that rob a person of genuine quality (Brown 2013, 139).
Di conseguenza nello specifico del sushi il discorso che è importante fare è relativo
alla diatriba quantità vs qualità poiché il sushi come si evince dall'intero capitolo
iniziale si presenta come un piatto di rara qualità da qualsiasi punto di vista:
ingredienti, preparazione ed estetica; al contrario tendenzialmente se si pensa all'all
you can eat la prima associazione è fatta in termini di quantità 73, e il fatto che i prezzi
nei ristoranti che applicano tale formula siano solitamente piuttosto contenuti rispetto
alla materia prima consumata fa venire il dubbio circa l'origine di questa. Nutrirsi di
tonno e salmone a pranzo, in quantità virtualmente illimitate, alla modica cifra di 10
euro circa (questa la media di prezzi attuali a pranzo, circa il doppio a cena), significa
per il gestore del locale offrire un servizio economicamente controintuitivo, che da
qualche lato deve prevedere un rientro per evitare la perdita. Esplicitamente un
ricavo aggiunto è quello del consumo di bevande, quasi mai compreso nel prezzo di
partenza, ma ciò non sembra bastare.
Fondamentale infine nella cultura tradizionale del sushi è l'armonia del pasto che è
accompagnato da un “ritmo” specifico, che tiene conto anche delle pause fra una
portata e l'altra e della sintagmatica delle portate. Al contrario la sociologia dell'all
you can eat sin qui stilata evidenzia come la sintagmatica si venga a perdere in un
pantagruelico caos paradigmatico. Non è più essenziale la scelta del cibo da
73 Su questa affermazione si ritornerà nel capitolo successivo in sede di analisi dei dati risultanti dalla
survey condotta.
66
mangiare prima di un altro, né si presta particolare attenzione nel mangiare pietanze
completamente differenti (e quindi provvedere a un apporto variegato di sostanze
nutrizionali). Il pasto si fa luculliano, alla stregua di un'impermanente e reiterata
“ultima cena”74. Lo strumento “cibo” destituisce la stretta relazione che c'è tra pasto e
struttura delle relazioni sociali. Il livello di intimità/formalità si annulla nella
complessità del pasto (Martinengo 2005, 88). I limiti canonici sono sciolti, ci si può
concedere di tutto, fino allo sfinimento: “la «sindrome consumistica» è fatta tutta di
velocità, eccesso e scarto” (Bauman 2009, 108)75.
74 Scrive d'altronde Benedetto XVI (Joseph Ratzinger) che il pasto pasquale assolveva “a una
quadruplice sequenza che abbracciava: antipasto, liturgia pasquale, pasto principale e riti conclusivi”
(Ratzinger 1984, 39). Similmente il pasto all you can eat assume le dimensioni di una “grande
abbuffata”, ove però la matrice ritual-sacrificale è completamente persa nella pratica abitudinaria, che
non ha alcuna dimensione simbolica se non nell'autocompiacimento della fagocitazione compulsiva.
75 Sullo scarto però si verifica un fenomeno particolare: gli all you can eat di norma impongono la
regola di consumare tutto quanto ordinato. Ne consegue che tendenzialmente non si producono scarti.
Nondimeno si può postulare una dimensione dello scarto come di un “eccesso ingurgitato” o
scambiato con altri commensali. Tale logica non fa che corroborare la tesi del consumo sfrenato e non
motivato, né in termini gustativi, né in termini di fabbisogno nutrizionale/energetico.
76 Sul menù come dispositivo di marketing cfr. Kotschevar e Withrow, 2008.
67
particolari reazioni nel cliente meno avvezzo, giacché il menù del pranzo
“striminzito” rispetto a quello serale può generare sentimenti di risentimento nei
confronti della mancanza percepita.
Prima pagina di un menù di ristorante sushi all you can eat. La dimensione normativa emerge chiaramente.
Si nota inoltre come tutto il pasto sia “guidato”, e cioè normato da sistemi
regolamentativi assai rigidi; immediatamente c'è scritto cosa è o non è compreso nel
prezzo definito dalla formula e come ci si debba comportare (quante ordinazioni per
volta, prendere porzioni e quantità di queste in modo tale da non avanzare porzioni di
pasto pena il pagamento supplementare della parte non consumata, se in un tavolo
con più persone una sceglie questo tipo di menù devono farlo tutti e così via). Le
bevande, i dolci, e in alcuni locali anche il coperto, sono generalmente esclusi dal
prezzo in copertina77 poiché i ristoratori si affidano alla sete del cliente che è indotta
77 Questa pratica non si è diffusa solamente nei ristoranti che praticano l'
all you can eat ma quasi
assimilata come una sorta di regola moderna intrinseca alla consumazione di un pasto. Basti
68
dall'elevato consumo di cibo: quanto più esso ingerisce alimenti, tanto più deve avere
bisogno di liquidi per facilitare la discesa del cibo nell'esofago e la pre-digestione. In
questo senso una micro-etnografia restituisce un interessante risultato: vi è il
diffondersi di una modalità goliardica di maschera sociale per la quale alcuni
individui si proclamano “esperti” consumatori di all you can eat, capaci cioè di
cavalcarne il sistema normativo in virtù della massima ingestione di cibo in una
singola sessione.
Il capitalismo sta vivendo da quando è nato una duplice vita: infatti la moda è
una delle basi del consumo capitalistico, e il consumo è una delle mode indotte dal
capitalismo. Tale chiasmo socio-economico è la regola surrettizia su cui si reggono i
mercati imperialistici, definisce le abitudini sociali e crea bisogni. L'economia
capitalistica si spande non solo all'universo adulto, ma anche il mercato giovanile
può avere spinte sostanziali, come per i casi di McDonald's e Disney, marchi leader
nell'attrarre a sé i bisogni “secondari”78 giovanili (cfr. Ritzer 2000, 50). Così, come i
marchi appena citati, anche il sushi è esploso nell'universo dei consumi tra i giovani.
Il capitalismo e il consumo si riverberano attorno al concetto di moda di cui Bauman
dà una definizione calzante:
[…] l'aspetto più notevole della moda sta nel fatto che il suo 'divenire' non perde nulla
del proprio slancio nel corso o a seguito del 'suo lavoro' nel mondo in cui opera. E non
solo il 'divenire' della moda non perde energie o slancio, ma la sua forza propulsiva
consultare alcune guide online di ristoranti, o fermarsi davanti ad alcuni menù esposti nelle città fuori
dai ristoranti per rendersene conto.
78 Cristina Martinengo in Bisogni e consumi (in Consumare. Lineamenti di sociologia dei consumi
2005) rileva come ci siano molteplici contributi nelle scienze sociali che considerano il consumo in
qualità di risposta a un bisogno. I bisogni umani sono classificabili entro due categorie principali:
bisogni essenziali (primari) e bisogni inessenziali (secondari). I primi possono palesarsi in
qualsivoglia circostanza mentre i secondi sono manifesti solo in specifiche circostanze (Cfr. Maslow
1973).
69
aumenta a mano a mano che si allarga la sua influenza e si accumula l'evidenza del suo
impatto (Bauman 2016, 27).
70
Lorenzo Fischer in Bisogni, consumi e pratiche sociali del 1976 riprende il discorso
malinowskiano che individua la compresenza di tre fasi del “bisogno” che per quanto
riguarda il cibo come oggetto di studio si suddividono in tal modo:
L'aspetto della convivialità (e/o commensalità) non è tanto una moda, seppur a breve
verrà presentata anche come tale per via di alcuni fenomeni associati, quanto
piuttosto “una delle manifestazioni più tipiche della socialità umana” (Dansero,
Giorda e Pettenati 2015, 2) e sempre di più si vengono a creare situazioni
abitudinarie legate al cibo e all'alimentazione issate su una dimensione comunitaria.
Tale assetto sociologico ha in realtà radici piuttosto arcaiche, giacché l'atto del
81 Cfr: http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/16_agosto_11/07-milano-t14acorriere-web-milano-
8df8bd62-5f94-11e6-bfed-33aa6b5e1635.shtml.
71
“mangiare assieme” è in qualche modo uno dei cardini su cui si sono fondate tutte le
civiltà. Scrive Simmel nella sua Soziologie der Mahlzeit (Sociologia del pasto,
1910), uno dei saggi fondatori della Ernährungssoziologie82 (che si può tradurre
come Sociologia della nutrizione):
Ancora oggi tale assunto rimane invariato, se non che si nota uno spostamento
rilevante; non più le comunità, quantomeno quelle dei consumi occidentali, paiono
incarnare quelle che Nanni chiamava “convivialità delle differenze” (1994), né che
Illich individua come fondamenti di una “società conviviale” intesa “come meta,
nella quale l'individuo non pensa al proprio tornaconto ma ricerca il bene comune”
(Berti 2005, 172), ma piuttosto il contrario: si ricerca la comunità allo scopo di
esaltare – o, in una forma più primigenia, soddisfare – il sé. Così, se l'attività
socializzante da cui non ci si riesce a smarcare è proprio il cibo (vedersi con amici o
parenti significa quasi sempre consumare beni fisici), la ricerca della nuova
esperienza culinaria, dalla home restaurant mania alle cene al buio, è spesso una
risposta duplice e contraddittoria. Da un lato essa è sintomatica di una paura di
omogeneizzazione (Berti ibidem), dall'altro è una forma di omogeneizzazione
intrinseca costruita sui luoghi: “è solo dai luoghi che spunta la varietà, perché è nei
luoghi che le persone tessono il presente nel loro filo della storia” (Sachs 2000, 440).
Disquisendo però di mode e abitudini attorno al cibo non si può non affrontare
il contesto più attuale di internet e dei social media. Invero le pratiche
contemporanee attorno al cibo continuano a crescere e a espandersi in ogni direzione
e con l'avvento dei social media si è iniziato a parlare di vero e proprio social
eating83. A convogliare le attività comprese in tale fumosa locuzione esiste un
82 Cfr. Setzwein 1997, Barlösius 1999, Kaufmann 2006, Kofahl 2015.
83 Per social eating si intende quel fenomeno recente, nato in Gran Bretagna pochi anni fa come
72
coacervo mutevole di piattaforme social, fra le quali rientrano le più note Facebook,
Twitter, Pinterest e Instagram, che consentono di amplificare l'esperienza gustativa in
termini fotografici e scrittori, e così il pasto e la commensalità sono traslati dalla
condivisione vis-à-vis e “passaparola” alla dimensione di rete resa possibile
dall'online, in via, del tutto potenziale, verso chiunque. Hashtag84 come #fashionfood,
#foodaddict, #foodart, #foodblog, #foodblogger, #foodgasm, #foodie, #foodism,
#foodlover, #foodpic, #foodpics, #foodporn, #foods, #foodstyling e una moltitudine
di altri mostrano come il cibo veicoli non pochi oggetti senso (sfera di moda e
fashion, artistica, sessuale) e identità (blogger, stilisti, amanti e dipendenti da cibo).
Secondo studi recenti (cfr. de Paulis 2015, 192) sul social network Instagram
l'hashtag #food si colloca al 24esimo posto su 100 di quelli più in voga con
131.439.326 condivisioni su foto (ad oggi, estate 2016, il numero degli hashtag di
riferimento sono saliti a 182.415.500, e la cifra tende ad aumentare di giorno in
giorno con andamento perlomeno quadratico)85. Programmi televisivi interamente
dedicati alla cucina e documentari ad hoc hanno esplorato l'intero panorama culinario
facendo crescere enormemente lo share, la passione e la scoperta di nuovi orizzonti
alimentari tra cui il sushi. Tutti possono improvvisarsi cuochi e chef dietro a una
fotocamera che immortala il piatto preparato; ne consegue che la “sacralità” del cibo
e della sua preparazione declina verso livelli sempre meno prioritari nell'agenda
sociale, ove assumono invece importanza fattori di quantità e di visibilità (cfr.
Germov e Williams 2008). In una prospettiva netnografica così i social media
guerrilla restaurant sulla scia di altri fenomeni come il car sharing, couch sharing, etc., che
risemantizza contemporaneamente le idee di cenare a casa e fuori poiché il luogo in cui si svolge la
cena (e il pranzo) è proprio in una casa. Le possibilità sono quelle di identificarsi nell'ospite o
nell'ospitante e rispettivamente pagando o cucinando il pasto per la cena (o pranzo). È un fenomeno
social e di sharing economy perché è nato e si diffonde tutt'ora tramite internet e piattaforme social
con l'idea di fondo della condivisione e della socialità. I vantaggi riscontrati non sono infatti soltanto
quelli economici, ma anche di conoscenza, scoperta di persone, e cucine. Di seguito alcuni siti
esemplificativi di riferimento: www.gnammo.com, www.newgusto.com, www.peoplecooks.it,
www.ouishare.net, www.peers.org, www.kitchenparty.org, www.ploonge.com.
84 L' hashtag, codificato con l'utilizzo del cancelletto (#), è un tipo di tag o etichetta che serve per
identificare le parole chiave per la ricerca di metadati. Questo metodo è stato adottato maggiormente
dai social network come aggregatore tematico e l'obiettivo è di rendere più facile la ricerca di uno
specifico tema o argomento per gli utenti. Storicamente la sua popolarità è da collegarsi al suo
inventore statunitense Chris Messina nel 2007 e al conseguente utilizzo sul social network Twitter.
85 Secondo osservazioni cadenzate la cifra aumenta di circa un milione ogni settimana, salvo
l'avvenire di eventi socialmente noti che possono fare schizzare di gran lunga il totale (si veda Expo
2015).
73
instillano nel cibo qualità “carnevalesche”:
In the field of food sociology, Cronin and colleagues (2014) used netnography to
examine discussions of over-consumption of food and alcohol and then to illustrate and
develop a theory of their 'carnivalesque' qualities (Kozinets 2015, 2).
Inoltre il rapporto triadico fra cibo, moda e social implica un'ulteriore tendenza
sociologicamente considerevole, e cioè quella di concepire il cibo come una sfida che
deve essere vinta onde esibirne i risultati al mondo intero. La norma tipicamente all
you can eat del “non lasciare scarti”, così come la moda commerciale del “se lo
mangi tutto non paghi” che è sicuramente una strategia di marketing azzardata ma
funzionante, sono strutturate secondo una logica composita, che si fregia di due fasi:
1. mangiare tanto (e anzi, mangiare fino ai limiti resi possibili dal proprio
organismo), 2. mostrare a tutti quanto si è riuscito a fare tramite social. Anche
programmi televisivi come Man vs Food, o per certi versi l'italiano Unti e bisunti,
oggi divenuti di culto, si basano su un simile assunto: il cibo è qualcosa da
sconfiggere, cibandosene all'inverosimile con l'unico scopo di essere acclamati da
una folla.
A sinistra: Adam Richman, conduttore e protagonista di Man vs Food, in una delle sue tipiche sfide
“contro” decine di piatti di ostriche. A destra: locandina della serie Man vs Food su dvd86.
86 Si segnala peraltro come il conduttore televisivo in questione abbia negli ultimi anni abbandonato
questo tipo di trasmissioni e sia sensibilmente dimagrito. Cfr.: http://www.today.it/media/adam-
richman-dopo-man-vs-food-dimagrito.html.
74
In questo postmoderno contesto il sushi ha dalla sua parte il presentarsi come cibo
sano e leggero, a partire dal fatto che le cotture siano principalmente “bollite” o
“leggermente scottate”, e non fritte, pastellate o “eccessivamente condite”. Di
conseguenza da tale pietanza si ingenera un meccanismo mentale per il quale essa
non rientra in quella sfera di cibo percepito come pesante o “cattivo” per la salute,
anche quando “all you can eat”. Nondimeno le logiche di fondo restano immutate:
mangiare in grandi quantità e mostrarne fieramente i risultati.
87 L'offerta di tali cucine «fast food» e «da strada» è costituita prettamente da cibi precotti e nei
termini di singole porzioni o assortimenti per spuntini, solitamente da consumarsi in piedi o al limite
con un appoggio perlopiù precario.
75
E ancora Jean Robert Pitte ne il suo saggio Nascita e diffusione dei ristoranti (1997)
discorre sulle cucine di strada riconoscendo ad esse il principale sistema di
ristorazione fin dall’antichità. Per quanto riguarda la crescita e lo sviluppo di questi
punti vendita ambulanti sono stati mercati e fiere, eventi che consentivano ai
contadini/commercianti/artigiani di far conoscere i propri prodotti anche lontano da
casa, ma al contempo allontanarsi dalle proprie case significava allontanarsi dalle
proprie cucine in termini pratici. La funzionalità di questo approccio era quella di
procurarsi e dare da mangiare “senza che ciò comportasse un’eccessiva perdita di
tempo ai danni dei propri affari. Le caratteristiche paradigmatiche di questo mangiare
indicano come ci si trovi di fronte alla prima forma di fast-food” (Parente 2007). Di
seguito questa attività prettamente funzionale si trasforma diventando da pragmatica
risposta a esigenza una pratica socialmente riconosciuta e apprezzata da vari
audience, in sostanza traslitterandosi dalla dimensione della praxis alla dimensione
della theoresis. Come si evince da questo breve stralcio storico, il cibo da stadio,
come quello da carretto ambulante di qualsivoglia tipo, vede la sua fortuna
inizialmente per motivazioni pratiche, che ne fanno una triviale forma di sistema
sociotecnico, e solo in seguito vi si associano dimensioni e simboliche e
dilettantistiche.
In questo ordito trova spazio il Sushi Popper, ovverosia un sushi-stick di maki, che
nasce da un'idea di Evan Kaye e intende sovvertire l'idea generale che il pesce crudo
non sia un cibo adatto ai bambini. Così al cibo viene associata la dimensione del
gioco, stravolgendo l’immaginario del sushi legato alle bacchette (ohashi (箸)) e al
tavolo/bancone (neanche troppo comodo per via dell'altezza dei bambini).
76
Sushi Popper
Il sushi così reimpostato si può gustare anche per strada, senza negarsi però
l’importante aggiunta della salsa di soia che è posizionata con astuzia nel manico
così che sia facilmente raggiungibile. La figura mostra come il dispositivo sia infatti
realizzato da un cilindro provvisto di stecco il cui interno prevede alcune porzioni di
maki. Eppure, proprio persistendo sul discorso sull'immaginario, la forma potrebbe
fuorviare dall'idea che ci si può fare sulla funzionalità del Sushi Popper, ma questa in
realtà non si discosta di molto da certe caratteristiche del sushi tradizionale:
77
potrebbe verosimilmente usare la cosa in questione” (Norman 1997, 19), del prodotto
commerciale: l'utilizzo del Sushi Popper è immediato e divertente. Di contro la
freschezza e la cura nella scelta dell’ingrediente non sono più applicabili a un
prodotto costruito su scala industriale, e viene meno il rapporto visivo e sociale fra
preparatore della pietanza e consumatore88.
Qui la semplicità e la purezza di Jiro [famoso sushi chef tradizionalista, ndr] sono messe
in crisi dall’entrata in scena della macchina industriale che, attraverso processi di
meccanizzazione, “snatura” il sushi originario trasformandolo in prodotto di consumo
oramai investito di valori completamente diversi: la praticità, la lunga conservazione, la
capacità di adattamento a fasce di consumatori plurigenerazionali (Gasti e Surace 2015,
305).
88 Viene inoltre annichilita la concezione del sushi come “arte” in forza di un sushi costruito
mediante “riproduzione meccanica” d'impronta tayloristica. Si modificano pertanto non solo il
frangente del consumo, fatto anche della relazione visiva tra itamae e consumatore, ma le stesse
pratiche di preparazione, adesso demandate a macchinari, e quindi standardizzate, meccanizzate,
depauperate dell’“aura” su cui si imperniavano le opere d’arte di Jiro e altri “maestri” del sushi.
89 Cfr: http://www.ilgazzettino.it/nordest/belluno/cusina_belun_locale_sushi_via_feltre_yuki_sushi-
1904740.html.
90 Cfr: http://mattinopadova.gelocal.it/padova/cronaca/2016/07/31/news/l-ex-pizzeria-groovy-
diventera-un-locale-sushi-cinese-1.13896733.
91 Cfr: http://www.lanazione.it/arezzo/cronaca/politeama-l-ex-cinema-si-trasforma-in-un-gigantesco-
ristorante-di-sushi-1.2373847.
78
da una scia di simulazioni e adattamenti in extremis, che allo scopo di affrontare la
crisi, nel tentativo di non affogare portano a un'omologazione verso il gusto
dominante, e allo spettro di una silenziosa spirale del silenzio verso i tentativi di
business votati all'eterodossia. Tale teoria, postulata dalla sociologa Elizabeth Noelle-
Neumann:
Non è indispensabile quindi porsi il quesito se il sushi sia legato a una tradizione o
meno ma è più interessante piuttosto interrogarsi, come si è fatto, sulle dinamiche
che si vengono a creare all'interno della società e sulle sue destrutturazione e
ristrutturazione social-gustativa. Questo perché il sushi non si configura, né
storicamente né nella contemporaneità, necessariamente come reificazione sociale di
un dato Zeitgeist:
Una pratica originariamente nobile può essere abbandonata dai nobili – ed è quello che
in genere succede –, se è adottata da una quantità crescente di borghesi e di piccoli
borghesi o, addirittura, delle classi popolari […]. Per contro una pratica inizialmente
popolare può essere momentaneamente ripresa dall'aristocrazia. Insomma bisogna
evitare di trasformare in proprietà necessariamente intrinseche di un gruppo qualsiasi (la
nobiltà, i samurai, oppure i borghesi o gli impiegati) le proprietà che lo caratterizzano in
un momento dato del tempo a seguito della sua posizione in uno spazio sociale
determinato e in uno stato determinato dell'offerta di beni e di pratiche possibili
(Bourdieu 2009, 18).
79
Ipotesi grafica del variare dell’aderenza dell’immaginario alla tradizione con l’avanzare della
globalizzazione.
Esiste come per la sociologia del cibo anche una più specifica sociologia del
gusto e nasce con il sociologo francese Pierre Bourdieu intorno alla fine degli anni
'70, in concomitanza con l'uscita della sua opera critica La distinction il cui
contributo è ancora oggi fondamentale per la comprensione del gusto come
dispositivo, per dirla à la Foucault, sociale. Torna a essere fondamentale anche il
principio nozionistico di habitus che incorpora differenti percezioni oggettivanti che
portano a una classificazione in termini, anche e non solo, di gusto: “Ciò che mi
piace e mi sembra buono sarebbe in realtà ciò che sono abituato a mangiare, ciò che
consuma la mia classe sociale di origine” (Poulain 2008, 147).
80
Il gusto nel sushi, al di là della variabile ingredientistica, è primariamente
contraddistinto per impatto dicotomico: crudo/cotto. Tale dimensione culinaria è
sottesa da una matrice antropologica oppositiva, affrontata in prima istanza da
Claude Lévi-Strauss nel suo Le cru et le cuit (1964). L’antropologo destituisce l’idea
che esistano pensieri evoluti e pensieri primitivi nettamente divisibili gli uni dagli
altri, e che questa possa erigere muri anche sulla conseguente concezione della
cottura del cibo. In senso evoluzionistico infatti si è sempre pensato che la cottura e i
cibi cotti fossero espressione di civiltà evoluta e acculturata. Tuttavia Lévi-Strauss
dimostra come l'associazione cottura/cultura (e quindi la prevalenza della scelta di
cottura) non costituisca de facto l’unico modo per consumare determinate pietanze.
In effetti, la concezione evoluzionistica delle culture in ambito culinario (e non solo)
risulta empiricamente cedevole in moltissimi casi. Si pensi ad esempio, per citare un
caso particolarmente vicino all’Italia, all’idea che la carne sia un cibo da consumare
previa cottura; tale presupposto è nei fatti deposto dalla presenza di alcune falangi
culturali che usano spesso consumare pietanze – spesso comunemente intese come
prelibate – quali il carpaccio di carne o di pesce, da consumarsi rigorosamente crudo
e solitamente preparato con carni estremamente selezionate (l'idea di fondo è che
cuocerle significherebbe sofisticarne la bontà originaria), o la salsiccia di Bra, o in
generale le battute di carne o le più recenti e modaiole “bresaole” di pesce. Vi è
inoltre da tenere in considerazione come il rapporto fra crudo e cotto non sia
mutuamente esclusivo: casi come i filetti o le bistecche alla fiorentina dimostrano
come le due dimensioni siano chiamate a dialogare fra di loro, e l'Italia vanta un gran
numero di cultori della carne cosiddetta “al sangue”, e cioè cotta all'esterno e cruda
all'interno. Il sushi quindi, pensato da buona parte degli occidentali come
essenzialmente crudo, non si configura come cibo contrassegnato dal cosiddetto
“pensiero selvaggio” o necessitante di addomesticamento (Goody 1977), ma tuttavia
rimane in qualche modo relegato in una dimensione di alterità, come qualcosa di non
primitivo, ma comunque diverso. È su tale diversità che fanno leva le tendenze e i
business creati attorno al sushi, che ne esaltano l'esotismo, sul suo carattere di
potenziale evasore da una cultura occidentale solo superficialmente contrassegnata
dalla cottura. Ad oggi dunque la prospettiva sociologica del gusto deve
81
necessariamente porsi in sovrapposizione con uno sguardo antropologico, giacché le
abitudini culinarie e alimentari sono fra le più frequentemente associate a prospettive
etnocentriche (cfr. Signorini 1992, 12):
[…] l'usanza induista di non mangiare le vacche per gli occidentali è stupida e dannosa,
ma gli stessi occidentali reputano disgustosa l'usanza cinese di mangiare i cani. A loro
volta, gli induisti ritengono “barbara” la strage di bestiame compiuta dagli occidentali e
i cinesi considerano ridicolo il disgusto per il cane. Gli eschimesi sono chiamati così dai
loro vicini, gli algonchini, con un termine che significa “mangiatori di carne cruda”,
mentre essi si chiamano inuit, “uomini”. L'etnocentrismo consiste dunque in un
atteggiamento che porta a giudicare i modi di comportarsi, le credenze e le idee sul
mondo, il sapere degli altri nei termini dei propri valori e della propria tradizione
culturale (Fabietti, Malighetti e Matera 2000, 50).
82
“materialismo culturale”. Questo senso aggiunto in realtà non è poi così lontano da
un peculiare tòpos alimentare diffuso in una certa cultura occidentale. Si pensi al
saggio di Ludwig Feuerbach del 1862 Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che
mangia, ove viene postulata, riprendendo certi argomenti del trattato popolare di
Jacob Moleschott Lehre der Nahrungsmittel für das Volk (Dell’alimentazione) del
1850, un’istanza per la quale alimentazione ed essere vivono una natura quasi
sinonimica. Così l’autore vuole rivolgere l’attenzione sull’azione del consumare cibo
che è di primaria importanza poiché consiste nel carburante per la macchina umana,
tanto corporea quanto psichica.
Bourdieu prosegue la sua teoria riflettendo su una possibile e quanto più reale
autonomia delle classi popolari nei modi di alimentarsi e infatti “l'arte di bere e di
mangiare resta indubbiamente uno dei pochi campi in cui le classi popolari si
contrappongono esplicitamente all'arte di vivere legittima” (1983, 188). Da ciò
deriva una tripartizione del gusto su tre assi che corrispondono rispettivamente a tre
livelli scolastici e tre classi sociali differenti: il gusto legittimo, il gusto medio e il
gusto popolare (Martinengo 2005, 81). La distinzione di Bourdieu non ha a che fare
solo con il cibo, ma anche ad esempio con la sfera del consumo musicale, e quindi si
parla rispettivamente dell'arte musicale postulata ai suoi massimi livelli per quanto
riguarda il gusto legittimo, le espressioni maggiori delle arti minori per il gusto
medio e la musica leggera per il gusto popolare. Tuttavia anche per il cibo esiste una
dimensione concertistica, fatta di una particolare sintagmatica e di un abbinarsi di
elementi nell'ottica del raggiungimento di una dimensione armonica. Ciò è
particolarmente vero nel caso del sushi, di cui si è già parlato nel merito della sua
matrice euritmica. Il gusto in tale concerto è la chiave, l'elemento che si fa
distinzione nell'universalità e omogeneità del soggetto sushi, il principio che muove
le dinamiche di consumo. Ciò nonostante non tutte le classi sociali possono
permettersi l'umami e quindi la sensazione estasiante che ne deriva. Vivendo
nell'epoca della simulazione (Baudrillard 1991) ci si allontana sempre più da una
83
socialità autentica e si tende a copiare tutto lo scibile.
Il ricco è abituato al buon cibo e nota l’inganno più facilmente con la sua lingua
delicata. Ma il povero, l’operaio, per il quale un paio di centesimi contano molto, che
per poco danaro deve acquistare molta merce, che né deve, né può esaminarne
scrupolosamente la qualità, perché non ebbe mai occasione di raffinare il suo gusto, che
riceve tutte le merci falsificate e spesso avvelenate, deve andare da piccoli negozianti,
deve forse comperare a credito, e questi negozianti, che a cagione dei loro piccoli
capitali e del maggior prezzo d’acquisto non possono vendere affatto a basso prezzo,
come i più grossi venditori al minuto, devono e per il basso prezzo che viene richiesto
dai loro avventori e per vincere la concorrenza degli altri, volenti o nolenti, procurarsi
merci falsificate (Engels, 1972 [1845], 54-58).
Non solo i negozi sono al centro di questo effetto ma anche le idee e gli alimenti. Il
gusto è l'hic et nunc che consente di riconoscere, e quindi anche di resistere, alla
monotonia avanzante. E questo è evidente anche nel testo di Bourdieu quando parla
del disgusto per il «facile», nel merito alla differenza fra gusto del lusso e gusto del
necessario (cfr. Oncini 2016).
Il disgusto «puro», e l'estetica che lo teorizza, hanno la loro origine dal rifiuto del gusto
«impuro» e dell'aisthesis, che è la forma semplice e primigenia del piacere sensibile,
ridotto a piacere dei sensi, come in ciò che Kant chiama «il gusto del palato, della
lingua e della gola»: un abbandono alla sensazione immediata che, in un diverso ordine,
assume la forma dell'imprevidenza. […] Il rifiuto di ciò che è facile, nel senso di
semplice e quindi senza profondità, «a buon mercato», perché in termini culturali è
facile e poco costoso decifrarlo, porta in modo naturale al rifiuto di ciò che offre piaceri
troppo immediatamente accessibili, e per questo screditati come «infantili» o
«primitivi» (in contrapposizione ai piaceri differiti dell'arte legittima) (Bourdieu 1983,
482).
Il sushi, la sua estetica e la sua preparazione complessa non possono rientrare nella
concezione di gusto impuro. L'umami è proprio il sesto senso che innalza il sushi a
gusto non immediatamente accessibile. Il gusto è in definitiva “la forma per
eccellenza dell'amor fati” (Bourdieu 1983, 245): una illusoria “choice of destiny”
(Reed-Danahay 2005, 111).
84
considerazione gli aspetti della produzione e dei trasporti (prima del consumo di cui
sopra), della questione del tonno e della globalizzazione. Infine si cercherà di
definire le conseguenze nei termini problematici di varia natura ambientale.
85
Corporation) che a partire dalla metà del 1900 intraprese studi e ricerche per
specializzarsi nel trasporto di materie prime quali il pesce verso altri continenti.
Quello che il sushi è riuscito a fare è, per usare le parole di Ritzer, un “reincanto”,
una “spettacolarizzazione” del prodotto e del suo insieme a livello globale; è riuscito
a distinguersi sia per quanto riguarda il cibo che per la modalità di presentazione
capace di smarcarsi dai fast food concorrenti. Nel mondo globalizzato il cliente va
accattivato costantemente e “lanciato” in nuove esperienze sia sensoriali che
culturali.
Il kaiten per esempio è stato per l'immaginario e per l'aspetto del sushi di
fondamentale importanza poiché ha comportato una duplice spinta di
accettazione/negazione che ha permesso alla pietanza di uscirne rafforzata in
entrambi i casi in quanto uno permetteva una nuova fruizione, divertente e atipica
rispetto ad altri ristoranti e fast food e l'altro difendeva l'essenza tradizionalistica del
prodotto portando il soggetto sushi a un livello alto di interesse nella società. Ma la
spinta più innovativa che ha rotto l'andamento culturale presente è proprio il fattore
della crudezza del pesce, che spinge il consumatore a tornare a un passato molto più
lontano di quanto ci si aspetti: la preistoria prima della scoperta del fuoco (più di un
milione e mezzo di anni fa).
86
alla scolarizzazione e alla famiglia), capitale sociale. A tale dimensione di ricerca
“del nuovo” vanno poi associate le pratiche di fidelizzazione del prodotto, del
marchio, del gusto – tipiche della società globale e “liquida” (Bauman 2000) – che
Codeluppi identifica nel processo di «sacralizzazione» dei consumi (cfr. Codeluppi
2010, 56-57). Nonostante l'idea di consumo come pratica sacrale (Zepp 1986, Belk
1987, Belk e Bryce 1993) sia oggi parzialmente superata in favore di teorie che
individuano la pratica consumistica come rito anche extrareligioso (Scarduelli 2000,
De Biasi 2001), pare che nel caso del consumo globale la dimensione religiosa e
quella laicamente rituale possano coesistere in una sequela di azioni che si può così
riassumere: “l'acquisto di un prodotto, che avviene dopo una transazione rituale (un
sacrificio) che riguarda il più prezioso bene della nostra cultura (il denaro)” (deChant
2002, 80). In altre parole pagare il sushi, e pagarlo caro, è già di per se un'operazione
ritual-religiosa, ma il fulcro non è il suddetto, poiché nel sushi, le cui componenti
semantiche sono state già ampiamente trattate, il centro sociologico di riferimento – a
partire da una condivisa tendenza a valicare il paradigma del gusto bourdieano – è
l'assunzione di una “forma di un insieme di pratiche rituali che può esprimere anche
un'esigenza di trascendere l'esistenza quotidiana” (Codeluppi 2010, 59, riferendosi a
Miller 1998, 26). L'idea di fondo, tipica dei meccanismi fidelistici e delle mode, è
quella di consumo teso a un:
obiettivo più generale, che trascende qualsiasi utilità immediata e viene meglio come
cosmologia, in quanto non prende la forma né di un soggetto né di un oggetto ma dei
valori a cui le persone desiderano dedicarsi (Miller ibidem).
87
scrupolo etico verso la fauna marina, il dispendio energetico et similia. Il
conseguente impegno critico si configura qui nell'azione dell'imitazione, che per
Heller (1975) si distingue in “tre diverse – ma collegate – forme”:
L'imitazione di azioni è imitazione di attività, ma nella sua specifica forma umana […] è
parte o momento dell'imitazione di un complesso comportamentale. […] Con
l'imitazione del comportamento il singolo […] si appropria sempre di un
comportamento dotato di un contenuto di valore concreto e socialmente significativo e
di un carico più o meno ideologico. Egli sussume la propria condotta sotto modi di
comportamento che hanno un contenuto di valore sociale e una portata ideologica. [...]
L'imitazione evocativa è quel tipo di imitazione che risveglia il ricordo di atti o
sentimenti concreti, provocando così un effetto sentimentale e/o intellettuale (Heller
1975, 304-308).
Al vertice di questo processo c'è l'idea del sustainable sushi, che coniuga le due
dimensioni: è sushi, ma è sostenibile. Tale sushi si fonda su una legittima domanda:
“Perché un ristorante sushi ad Amsterdam [come in tutti gli altri paesi] dovrebbe
servire un branzino giapponese, pesce che vive a 19.000 km di distanza
dall’Olanda?”. La citazione di Risto Pakarien («Crudo come il sushi», Metalworking
88
World, 1/13, 17) prosegue amaramente, riprendendo le parole di Casson Trenor –
ristoratore e padre simbolico del movimento del sushi sostenibile – che suggellano il
tutto come segue: “Eppure è quello che succede”. Il concetto di sushi sostenibile
subentra in effetti quando ci si imbatte nella parola “tradizionale”: se infatti ci si
vuole impegnare sul frangente della sostenibilità marina si deve prendere in
considerazione che i sushi chef dell'epoca Edo rispettavano oceani e stagionalità del
pescato cambiando “menù” a seconda della disponibilità. Già nei primi anni del 1600
durante lo shogunato Tokugawa ( 徳 川 幕 府 , 1063-1868) si poneva attenzione ai
problemi della fauna marina, come testimoniato dal resoconto ittico Keichō
kenmonshū edito all'inizio del XVII secolo da Miura Shigemasa che illustra come il
fondale della baia era stato raso al suolo da reti chiamate “reti inferno” (jigoku ami)
portando il patrimonio marino a un decimo rispetto a ciò che era in precedenza.
Pertanto, con un'intuizione figlia di una cultura più attenta all'ambiente di quella
odierna, ciò che si fece fu l'emanazione di un editto che stabiliva un limite di
consumo di pesce al mese e un limite di diritti di pesca che si fissò nel 1665 (cfr.
Sand 2014, 14). Nondimeno vivendo oggi nella società del “tutto e tutto subito”,
della percezione della disponibilità perenne – un “perenne fluire del sempre uguale”
(Cesareo 2001, 178) – è ormai difficile fare retromarcia in quelle che sono diventate
abitudini. Gli anni 2000 costituiscono solamente l'esordio di quello che può diventare
il sushi sostenibile, sushi che per estensione raggiunge più pesci e infine più
ecosistemi.
89
PARTE 3
***
90
Capitolo 1 – Sushi come sistema sociotecnico
By definition, a vegetarian is someone who does not eat meat. Meat, according to
tradionalists, includes poultry and fish. But as vegetarianism has increased popularity,
some people have argued that moderate fish eating, and even the consumption of
poultry, should be included in the liberal use of the term vegetarian. Terms such as
“pesco-vegetarian”, “proto-vegetarian” and “semi-vegetarian” have been used to
describe those who eat fish and possibly poultry (Obis 1986, 4).
91
riferimento sarà sushi = tonno94. Tonno che prima di diventare merce, cui si
assoggettano criteri qualitativi e su cui si impongono tasse e regolamentazioni, nasce
difatti come animale e risorsa naturale. Tale animale ha negli anni cambiato molti
aspetti della propria vita: come varie altre specie ha iniziato a compiere viaggi molto
lunghi, di giorni, mesi ma anche anni e valicato più continenti, ergo mantenendo la
sua unicità naturale ma mutando la sua “natura aumentata”, quella mercantile fatta di
tassazioni e leggi continentali (cfr. Issenberg 2008, 3); così facendo il tonno e il suo
valore commerciale sono sotto una costante variabile valutativa e semantica. Si pensi
a titolo esemplificativo al tonno rosso, quello più grasso e quindi il più apprezzato in
determinati contesti, che quarant’anni fa era considerato e quindi commercializzato
solo come alimento per animali domestici, mentre da allora a questa parte è divenuto
man mano un cibo sostanzialmente destinato agli umani, vedendo aumentare il suo
prezzo del 10.000%. Il tonno, come d’altronde molte altre specie, e non solo ittiche,
ma molto più di queste, non ha dei criteri di valutazione del prezzo “assoluti”: per
ogni paese e anche per zone differenti dello stesso paese, sia per preferenza di gusto
che per parti del pesce in termini fisici, può avere prezzi molto diversi tra loro. La
più importante area di pesca di tonno nel mondo è l'insieme delle isole dell'oceano
Pacifico che procura circa 1/3 dell'offerta totale di tonno sul mercato95.
3.1.2. Thunnus
92
azzurra oltre a essere quello con carne più grassa è la specie più grande, e ciò
consente al pesce di compiere migrazioni tra zone di oceani anche molto distanti tra
loro. Si tratta dunque di pesci apolidi (circa 48 specie diverse degli Scombridi sono
comunemente sotto lo stesso nome “tonno”)96, che “appartengono a più nazioni
oppure a nessuna” (Greenberg 2012, 24), la cui pesca è difficile da regolamentare, e
che quindi divengono bersagli più semplici di pratiche di overfishing – che
colpiscono più facilmente ove le regolamentazioni non sono chiare – e sempre più
richiesti sul mercato. I tonni che abitano l'Atlantico occidentale (sul versante
americano) sono i più grossi e arrivano a pesare anche 1000 libbre; la loro crescita è
molto lenta e impiegano molto tempo a raggiungere la maturità sessuale (anche più
di 5 anni). Questi sono attratti dalle correnti calde che salgono dalla Florida fino al
Canada tanto da entrare nelle baie e si avvicinano sempre di più alle coste
accrescendo e facilitando così le possibilità di pesca. In parole povere, è molto facile
pescarli con mezzi impropri, ed è molto difficile che il disequilibrio che provoca la
loro pesca massiva si ristabilisca in tempi brevi. Sono i grandi protagonisti:
dell'ultima corsa all'oro: ovvero un'abbuffata di sushi che ora ci spinge nel regno quasi
fantascientifico della ricerca sull'allevamento ittico, sfidandoci a valutare se i pesci
siano in fondo semplice cibo da consumare oppure una forma di vita che ha un disperato
bisogno della nostra compassione (Greenberg ibidem).
96 La parola “tonno” deriva dal greco thuno e significa letteralmente “guizzare”; sono infatti pesci
velocissimi e molto prestanti fisicamente (cfr. Greenberg 2012, 243).
93
trovare un determinato prodotto. Per quanto riguarda la pesca selvatica il numero di
tonni sta nettamente crollando e il rischio di estinzione sta proporzionalmente
aumentando. Gli stessi pescatori, quelli che agiscono al di là delle logiche industriali,
manifestano un sentimento contrastante, da un lato teso alla salvaguardia del
prezioso animale, dall'altro in favore di una giusta pesca per guadagnarsi da vivere:
“oggi la passione investita per salvare il tonno rosso è forte come quella per
ucciderlo [a causa del prezzo alto], e le due passioni spesso coesistono nella persona
di un solo pescatore” (Greenberg 2012, 251). Tutto ciò comporta un costante
livellamento dei prezzi nell’arco dell’anno poiché il tonno è percepito come sempre
disponibile e sempre più uguale a se stesso. Invero tale logica aberrante è favorita da
un'altra pratica, quella dell’allevamento intensivo (oggi scarsamente considerata
anche da coloro che invece si battono contro gli allevamenti intensivi di animali di
terra), che vede tutti i tonni costretti a un’alimentazione coatta e uguale, secondo una
lottizzazione tipica dei meccanismi mercantili. I tonni giovani vengono catturati con
reti e messi in gabbie, spesso a sezione circolare, e ubicati vicino alle coste, per
essere ingrassati velocemente e diventare merce per le tavole delle persone, e ciò
comporta una crescita innaturale, rispondente unicamente a un aumento di massa, e i
mancati sviluppo sessuale e possibilità di accoppiamento (cioè: la mancata
riproduzione). Inoltre il nutrimento di cui i tonni da allevamento necessitano è
composto da altri tipi di pesci e come un circolo vizioso tutto l'ecosistema marino ne
risente. I tonni rossi sono pesci a sangue caldo con un tasso metabolico molto alto e
la nutrizione in allevamento con artemie e rotiferi, piccoli metazoi alla base della
piramide alimentare marina, non è sufficiente per il sostentamento di un tonno
adulto. Molte sono le ricerche che si stanno muovendo verso metodi alternativi per la
produzione di tonni perché sfamare questi è altamente costoso.
94
L’infografica riportata, estrapolata dal documentario Sushi: The Global Catch,
mostra come la decimazione di una specie (in questo caso proprio il tonno) determini
una sperequazione nei cosiddetti livelli trofici 97 per la quale le altre specie a livelli
inferiori e superiori vedono diminuire o aumentare drasticamente la loro
voluminosità, sostanzialmente deteriorando l'intera catena alimentare – che è anche
una catena energetica e ambientale – e distruggendo irrimediabilmente l’equilibrio
ecologico. Oltre che in mare questa sostituzione avviene anche sui menù dei
ristoranti: i pesci piccoli prendono il posto di quelli grossi perché questi ultimi in
mare sono stati eliminati (Clover 2005, 51).
97 “Il raggruppamento delle specie in livelli trofici è una classificazione funzionale, che porta alla
definizione di gruppi di specie che ottengono energia in forma di cibo con modalità simili. Un altro
approccio in uso è quello di suddividere ciascun livello trofico in gruppi di specie che sfruttano una
risorsa comune in modo simile; questi gruppi vengono denominati gilde. I colibrì e altri uccelli che si
nutrono di nettare, per esempio, formano una gilda di specie che sfruttano la risorsa condivisa delle
piante da fiore con modalità simili. Allo stesso modo, gli uccelli granivori possono essere raggruppati
in un'altra gilda trofica nell'ambito della comunità. Poiché all'interno di una gilda le specie utilizzano
una risorsa condivisa, tra esse si possono potenzialmente instaurare forti interazioni” (Smith e Smith
2007, 329).
95
delle problematiche relative alla fauna ittica, si sono autoassegnati una quota di pesca
pari a circa il doppio (30.000 tonnellate all'anno), e anche l'Ices 98 con sede a
Copenhagen si è schierata contro questa pesca eccessiva. Le stime dei quantitativi
realmente pescati poi, al di là dei dati segnalati dai vari Stati, nel 2006, dichiarano
una pesca media di tonni di 50.000 tonnellate annue (più del triplo rispetto al decreto
Iccat). Secondo i conti fatti dal WWF nel 2013 circa un terzo dei tonni rossi del
Mediterraneo è pescato illegalmente e cioè fa parte di quel pesce che è pescato oltre
il limite definito dagli scienziati della FAO. Ne consegue la creazione di un circolo
vizioso per il quale i consumatori richiedono sempre più tonno e i produttori ne
pescano sempre di più, e così via, in un contesto che può essere sociologicamente
definito di gastro-anomia (in risposta a logiche del mercato votate invece alla
gastromania):
96
tecnologia ma anche il cibo stesso di altre tipologie) su un rapporto di compravendita
fondato su una reciproca fiducia e conoscenza tra operatori nel settore (cfr. Issenberg
2008, 7).
Per i giapponesi nel fare affari le sensazioni e le relazioni interpersonali sono più
importanti dei fatti in sé: per loro il problema non è tanto se otterranno o meno un
profitto economico da un affare, quanto piuttosto se riusciranno a instaurare un buon
rapporto con l’azienda e con le persone che la rappresentano […]. Particolare
importanza riveste per i giapponesi la sincerità delle persone con le quali hanno a che
fare […] (Herbig 2003, 42).
Detto ciò si deve tenere in considerazione come il pescato possa (e spesso purtroppo
è così) non essere sempre di prima qualità, o non ci sia disponibilità sul banco ogni
giorno dell'anno. In tali casi l’affidabilità può vacillare, ma il mercato del sushi ha
sempre cercato e cerca tutt’ora di resistere e smarcarsi da questa presunta incertezza,
confermando, almeno a livello teorico, un atteggiamento collaborazionista, che
perduri nonostante la prorompente avanzata modaiola. Inoltre, se si pensa a tale
modalità di scambio informale, si comprende come il pesce sia un soggetto del
mercato-sushi che non può essere del tutto controllato a livello normativo, proprio a
causa di rapporti e accordi informali tra pescatori, rappresentanti, grossisti, ristoratori
e, in ultimo, consumatori che ne decretano la catena produttiva, poiché non vi è un
sistema strutturato di norme e caratteristiche specifiche che definiscono con
puntualità i criteri della complessa valutazione qualitativa eseguita durante le tappe
del percorso di produzione. Esistono tuttavia a livello globale alcune norme di fondo,
che le autorità regolatrici chiamano accordo internazionale ma che gli ambientalisti
preferiscono appellare come “liberalizzazione senza regole”: nei fatti ogni nazione
oggi non pesca più solamente all'interno dei propri confini marini, da quando c'è stata
negli ultimi 50 anni una deriva globale verso quello che è chiamato in gergo nautico
“alto mare”. Si tratta di aree scevre da regolamentazioni in quanto proprietà di
nessuno se non dell'oceano stesso, ove a chiunque è concessa la pesca e negli ultimi
50 anni (metro di riferimento non da poco conto) il raccolto in queste acque è
cresciuto del 700% e la maggior parte del pescato risulta proprio essere di tonno.
Inoltre proprio nel merito della pesca del tonno, questa prevederebbe che la preziosa
risorsa ittica possa essere pescata anche all'interno di altri territori nazionali diversi
97
dal proprio, ma limitando la quantità entro una soglia prestabilita. Tuttavia quasi
nessuna nazione è – o vuole essere – in grado, sia per questioni tecniche che per
interessi interni, di verificare e far rispettare tale norma (cfr. Greenberg 2012, 246 e
segg.).
La pesca, alla stregua degli altri tipi di caccia (perché è proprio di questo che si
tratta), si compone di diverse tipologie più o meno invasive sull’impatto ambientale e
faunistico. Già all'epoca di Edo nel XIX secolo le tecniche di pesca erano simili a
quelle odierne, e infatti si parlava di reti a circuizione; tuttavia la filosofia di fondo
era sensibilmente diversa da quella contemporanea, giacché tali reti servivano per far
avvicinare i pesci verso l'acqua più bassa in modo che le lenze (adoperate unicamente
per pesca a mano) potessero incontrare più facilmente qualche preda (Sand 2014,
10); ciò significa che l'incertezza nella pratica della pesca era in qualche misura
diminuita, ma comunque sempre presente, e non si speculava ancora sul cibo. Ancora
oggi esistono le pesche basate su ami e lenze non invasive, che sono poi quelle usate
all'incirca fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, e tuttavia i grandi
mercati si rivolgono invece per la maggior parte alle pesche a palamiti e FAD 100,
alternative altamente distruttive101. I palamiti (o palangari) sono un'attrezzatura di
pesca professionale e si compongono di cavi di nylon la cui lunghezza può arrivare
fino a 100 chilometri; a questi refi (corde) sono attaccati solitamente a distanza
costante un gran numero di lenze più corte (chiamate anche braccioli), il cui capo
risulta essere un amo o una simile appendice uncinata. I FAD invece sono oggetti
galleggianti sia naturali (tronchi d'alberi, canne di bambù) che artificiali (zattere con
ecoscandaglio, sonar per controllare quantità di tonno per esempio) sfruttati per
attrarre e quindi “concentrare” i tonni (e tutti gli altri organismi marini) in una
determinata zona per essere facilmente pescati con ampie reti a circuizione (purse
seine).
Queste due tecniche risultano molto grossolane per quanto riguarda la selezione del
98
pescato desiderato, e infatti risulta un'iperbole chiamarle tecniche professionali
perché rende l'attività della pesca ridotta a una semplice raccolta, per di più
“sbagliata” (quel che si coglie si coglie), ove l'unico principio di fondo è la tabula
rasa; ne consegue che oltre a catturare tonni sia i palamiti che le reti a circuizione
causano ogni anno migliaia di decessi inutili di varie specie come uccelli marini,
mante, squali e tartarughe (molte delle quali appartengono a specie a rischio
d'estinzione):
Solo nell’Oceano Pacifico Centrale e Occidentale, la mortalità totale di squali è stimata tra
500 mila e 1,4 milioni di esemplari l’anno. per ogni 10 chilogrammi di tonni catturati si
pesca un chilogrammo di altri animali “indesiderati” (catture “accessorie” o bycatch) tra cui
esemplari giovanili di tonno, squali, mante – a volte tartarughe e delfini – e un’ampia
varietà di altre specie102.
Si configura così un vero e proprio ipersfruttamento delle risorse marine, che inficia
gravemente sulla biodiversità e che contribuisce a decimare gli stock naturali di
tonno pinna gialla e tonno obeso (oltre al tonno rosso, il più importante per il sushi),
colpendo in particolare gli esemplari più giovani. È facilmente intuibile la diametrale
differenza con la pesca del tonno nell'epoca di Edo, dove per mancanza di sistemi di
refrigerazione adeguati (ma anche e soprattutto per una diversa filosofia del
consumo) si tendeva a pescare l'indispensabile e trasportarlo rapidamente nelle città
(cfr. Sand ibidem).
Nel XX secolo così come le navi e i pescherecci si sono evoluti industrialmente, con
metodi di refrigerazione interni, anche le modalità di trasporto aereo si sono innovate
su questa via. Nel secondo dopoguerra, quando fu abrogato il divieto di pesca al di
fuori dei confini giapponesi, il limite restò unicamente quello dettato dalla
conservazione del pesce: “una barca poteva prendere solo il pesce che era in grado di
vendere, ed era in grado di vendere solo il pesce che poteva portare fresco al
mercato” (ibid 47). Il ghiaccio sulle navi, unico sistema di conservazione fino ad
allora disponibile, venne poi gradualmente sostituito da congelatori che riuscivano a
mantenere temperature dai –5 ai –15 gradi centigradi. Il 1956 è una data importante
per la svolta nella storia del sushi in quanto si registra il primissimo viaggio in mare
102 Cfr. report Greenpeace ibidem.
99
con container metallici atti al trasporto di merci fresche in maniera efficiente. Nel
decennio successivo poi progressi nei settori chimici e tecnologici portarono alla
scoperta del metodo di surgelazione e dello stoccaggio del freddo permettendo una
lunga conservazione del pescato con la possibilità per i marinai di affrontare viaggi
più distanti e dilatati nel tempo (congelatori a nitrogeno a –60° che permettono di
conservare il tonno fermando la sua attività molecolare). Negli anni '60 si pescava in
mare aperto e la quantità di tonno pescato ammontò a circa 3000 esemplari annui.
Nel 1970 infine i tonni iniziarono a valicare i confini più impensabili volando
insieme ad altre merci grazie ad aerei cargo come il jumbo jet Boeing (Issenberg, 5-
7). E a conferma di tale “impresa” Issenberg cita la storia di Akira Okazaki e Wayne
MacAlpine, dipendenti della JAL (fondata nel 1951) che seppero cogliere la
potenzialità del trasporto e quindi della vendita del tonno tramite aeroplano con tutte
le problematiche del caso. Un rapporto interno della JAL iniziava ad auspicare
fortuna scrivendo: “Considerati i prezzi sempre più alti che il tonno aveva sul
mercato e le sue eccezionali dimensioni, quel pesce era il candidato perfetto per il
nuovo progetto di trasporto merci”. Okazaki e MacAlpine hanno di curioso che
vendono sì il tonno ma non dal Giappone al resto del mondo bensì il contrario, e più
precisamente pesci provenienti dai mari canadesi103.
La pesca dunque non avviene, per sfatare i miti più popolari sulla provenienza del
tonno, solamente nelle baie o al largo del Giappone e di Tsukiji ma bensì in tutto il
resto del mondo: dal Canada all'Australia, dal Mar Mediterraneo agli oceani
Atlantico e Pacifico. Il sistema giapponese nei mercati globalizzati consiste solo in
un passaggio, fondamentale, da produzione a trasporto; è la vendita vera e propria
che sostanzia il meccanismo di fondo. Inoltre, ancora prima dei processi di trasporto
e di vendita, il mercato massivo di pesce prevede un inedito passaggio a partire dal
Novecento: interi stock di pesci considerati di minor pregio vengono adoperati come
mangimi per i tonni da allevamento, trasportati per mari e cieli con un dispendio
energetico non indifferente.
103 Per approfondimenti cfr. Issenberg 2008, 21-34, così come il film Sushi: The Global Catch, già
citato in precedenza.
100
3.2.2. Tsukiji
When fish is frozen and stored at subfreezing temperatures, bacterial growth is arrested, and
both enzyme and chemical actions are slowed to a rate that is commensurate with the
temperature. Thus the fish is preserved, and the shelf life is extended until the retarded
chemical/enzymatic reactions eventually produce undesirable quality changes in either
flavor, texture, or appeareance (Licciardello 1990, 205).
101
estremamente giapponese e nel contempo estremamente globale:
Tsukiji is closely attuned to the subtleties of Japanese food culture and to the
representations of national cultural identity that cloak cuisine, but this is also the market
that drives the global fishing industry, from sea urchin divers in Maines to shrimp
farmers in Thailand, from Japanese long-liners in the Indian Ocean to Croatian tuna
ranchers in the Adriatic (Bestor 2004, xvi).
Al centro, il mercato vede disposte a ventaglio le sale d'asta che si presentano come
immensi magazzini (due sale riservate unicamente al tonno) e infine, verso la parte
cittadina, c'è un'area dedicata ai banchi di pesce fresco dei grossisti intermedi in
un'ampia zona a cielo aperto e ad altri tipi di negozi in cui si vendono articoli
correlati come ad esempio coltelli appositi per i diversi tagli del pesce, ma anche
pezzi di abbigliamento adatti per il mercato come gli stivali di gomma rivestiti
internamente di lana (discendenti dei più antichi zori)106. Un luogo di estremo
fascino, ma anche assai complesso dal punto di vista sociologico e potenzialmente
dannoso da quello ambientale.
[…] è la parte più affollata del mercato, dove c'è il rischio di essere travolti da un
acquirente in bicicletta, ogni centimetro di spazio è occupato dalle prelibatezze del
mare, trasportate via aerea fino qui da oceani diversi, con emissioni incalcolabili di
ossido di carbonio. Ogni bancarella offre una categoria specifica di prodotti: in una ci
sono gamberi rossi del Messico e gamberi tigrati del Vietnam e della Malesia, in un'altra
capesante, astici e granchi del Nord Atlantico, un'altra salmone e uova fresche di
salmone cileno e norvegese (Clover 2005, 33).
102
Le suisian, che letteralmente significa “commercio ittico”, sono le maggiori aziende
o imprese che trafficano tonno; a seconda della necessità di esposizione della merce
hanno differenti quantità di proporzioni in termini di spazio. Il sabato è solitamente il
giorno più importante e concitato poiché la domenica il mercato è chiuso. In questo
giorno gli acquisti sono maggiori e le compravendite influenzano i mercati mondiali.
L'antropologo Theodore Bestor, dal quale provengono diverse delle informazioni che
si stanno dando, sostiene che tale mercato è “al centro del mondo” ed è proprio il
103
sushi che gli ha permesso di diventare ciò che è; ogni azione commerciale portata a
termine a Tsukiji è oggi termine di paragone per ogni altro mercato ittico
internazionale e infatti le quote e i bilanci delle aste quotidiane di Tokyo sono poi
trasferite ad esempio al mercato ittico Fulton di New York (il più importante
dell'America settentrionale) come agli allevatori italiani cui tocca scegliere se
vendere il proprio pescato a Tsukiji o in seconda scelta a Rungis (secondo al mondo),
mercato a sud di Parigi che tratta tutto il pesce mediterraneo che non viene
selezionato come “di prima scelta” dal mercato nipponico (ibid 36-37)107.
I tonni congelati nelle sale d'aste sono disposti uno di fianco all'altro con molte
etichette e “glosse” appostevi sopra che riportano vari dati fondamentali per i
venditori/compratori come ad esempio il numero che identifica la casa d'asta di
riferimento, il paese d'origine o il porto, se si tratta di pesce pescato a livello
nazionale, note se pescati in allevamenti o se selvatici, il peso e il nome del
venditore. Non esiste un singolo criterio per valutare la qualità di un tonno ma vari
sono gli indicatori: il ventre che si gonfia nella parte bassa è avvisaglia che ci sia una
buona quantità di toro che è la carne rosea e più apprezzata, la quale infatti da nome
poi alle fettine di pesce sopra la polpetta di riso; se invece il ventre si presenta più
longilineo le quantità di toro e akami (parte del tonno più magra che anch'essa da
nome alle fettine di pesce per il sushi) saranno più vicendevolmente proporzionate.
3.2.3. Acquacoltura
107 Per informazioni più dettagliate cfr. Catarci, Scarpato e Simeone 2007.
108 Una prima distinzione può avvenire per acqua salata che prende il nome di maricoltura; per ogni
tipo di prodotto poi si parla più specificatamente di: piscicoltura, molluschicoltura, crostaceicoltura e
alghicoltura.
104
“soluzione”, l'alternativa, ma anche la “distruzione” della pesca e dell'ecosistema
marino. Un report firmato Greenpeace mostra come questa tecnica sia un
dispensatore di cibo ma che questo non sia considerabile come sostenibile portando
anche a impatti notevoli a livelli ambientali e sociali.
La crescita è stata notevole sia per numero di specie allevate (il 97% delle specie
allevate oggi (circa 430 specie, quindi) sono state addomesticate solo negli ultimi 100
anni) che per quantità di prodotto: i dati FAO affermano che dal 2000 al 2005 la
produzione mondiale di acquacoltura è passata da 35,5 a 47,8 milioni di tonnellate (Mt)
con un incremento del 34,65% che è stato maggiore per le specie d’acqua dolce (da 21,2
a 28,9 Mt: +36,32%) rispetto a quelle di mare (da 15,4 a 18,9 Mt: + 32,17%)109.
105
pesci di allevamento non si nutrirebbero), la produzione di reflui inquinanti (barche e
navi per la pesca e per il rifocillamento dei pesci) e ancora il bisogno normativo di
possedere un certificato ambientale degli allevamenti. Il problema dei mangimi si è
esteso negli ultimi anni dal settore degli animali da allevamento (polli, suini e bovini)
al settore degli animali acquatici (pesci, molluschi, crostacei) e infatti i dati
confermano come già nel 2003 questo rapporto si sia consolidato: il 53% di farina di
pesce e l'86% di olio di pesce totali è stato impiegato per l'acquacoltura. Il problema
più rilevante, anche a livello etico, è che per far ingrassare di un chilo un pesce
medio servono circa 2/2.5 chili di pesce da trasformare in mangime, ma per un tonno
rosso servono addirittura 20 chili di altro pesce o mangime. Quindi pesci ritenuti
meno importanti e potenzialmente destinabili al consumo per le classi sociali
economicamente più disagiate si devono “esaurire” per nutrire i pesci destinati per le
classi agiate. Si tratta di un vero e proprio “rubare ai poveri per nutrire i ricchi”
(Clover 2005, 56). Oltre ai pesci poveri c'è da considerare come i sistemi di pesca
descritti in precedenza comportino la pesca accidentale di altri abitanti marini come
crostacei, rettili, tartarughe, volatili, mammiferi marini o pesci non commestibili che
rimangono incastrati nelle reti da strascico. Tale fenomeno si chiama bycatch110:
Ogni anno circa un quarto del pesce catturato in tutto il mondo è bycatch, ovvero circa
27 milioni di tonnellate, miliardi di creature viventi buttate via. Nell'industria della
pesca statunitense, il tasso di cattura accidentale raggiunge il 22 per cento, o 1,1 milioni
di tonnellate, una quantità sufficiente, secondo il professor Ransom Myers della
Dalhouise University, a riempire le vasche da bagno di una città di un milione e mezzo
di abitanti (Singer e Mason 2011, 135).
In questo senso anche la FAO ha emesso una restrizione sullo sfruttamento di questi
pesci. Oltre alla questione etica dunque simili sistemi sono ben lontani da
qualsivoglia idea di sostenibilità, e depaupereranno i mari di sempre più specie
differenti, oltre che inficiare economicamente sul patrimonio delle persone in favore
unicamente di grandi gruppi commerciali.
110 Anche con lenze molto lunghe e ami gli animali marini rimangono feriti o uccisi. Ovviamente
esistono metodi che possono ridurre il carico di queste catture accidentali come ad esempio la
fruizione di reti a maglie più larghe e quadrate in sostituzione di quelle romboidali, reti che
permettano la possibilità di fuga di altre specie, l'uso di ami tondeggianti e non a forma di J e così via.
Il WWF, partner di aziende ittiche, università e governi, si presta allo sviluppo e alla diffusione di
queste tecniche. Per maggiori approfondimenti cfr. il sito www.smartgear.org e report WWF.
106
Rimanendo nel dominio del tonno una parentesi va aperta nel merito di quello in
scatola, che vanta un altro primato, ovverosia è il prodotto ittico più venduto sui
mercati nel mondo con un fatturato intorno ai 19,3 miliardi di euro all'anno. I media e
le relative campagne marketing fanno emergere la pesca del tonno come un'industria
artigianale e relegata al mare di casa, della propria nazione, mentre in realtà le
imbarcazioni per questo tipo di pesca sono tra le più sviluppate e industrializzate al
mondo. L'Italia in Europa è molto importante per quanto riguarda questo mercato sia
sul piano del consumo (140.000 tonnellate annue) che su quello della produzione
(con una produzione che nel 2006 è arrivata a 85.000 tonnellate di scatolette e un
fatturato di circa 500 milioni di euro). Greenpeace ha condotto un’indagine sulla
sostenibilità legata alla produzione di scatolette di tonno vendute in Italia,
contattando ben 14 aziende, che insieme coprono più dell’80% del nostro mercato.
Paul Roberts in The End of Food (2008) nota come nei supermercati
americani, ma questo scenario è replicato ed esteso anche nel resto dell’Occidente,
oltre a clienti sempre più in sovrappeso non ci siano né reali riscontri né minimi
presagi (o presentimenti) del prossimo, inteso sia in termini temporali che spaziali,
collasso del sistema. Egli infatti osserva come:
[…] niente spazi vuoti sugli scaffali, niente cartelli “momentaneamente non
disponibile” nel reparto ortofrutta, niente che mi ricordi i recenti scandali della
melammina o timori attuali causati dall’E. coli e dalla salmonella, né indizio alcuno che
possa far supporre che questa straordinaria abbondanza non si ricostituirà
automaticamente la settima prossima, o l’anno prossimo, o tra un secolo (Roberts 2009,
363).
107
vanificata dal retroscena in mano ai pilastri dell’economia, del commercio e dei
sistemi mondiali in genere. Si tratta a suo dire di “un sistema elefantiaco e saturato
oltre ogni limite, che stenta a soddisfare un mercato che, ogni settimana, vuole
alimenti sempre più freschi, vari e a buon mercato” (Roberts ibid, 363). Tuttavia,
prosegue il giornalista, si è già pienamente dentro al collasso senza la necessità di un
evento che ne segnali in qualche modo la presenza poiché è già in atto un
esaurimento di risorse drastico e irreversibile: le sostanze organiche nel suolo
deperiscono, le falde acquifere si prosciugano, i pesticidi danno buoni risultati sul
breve periodo ma devastano sul lungo termine. Tale disastro ambientale in atto, pur
se sotterraneo, non risulta peraltro ristretto e relegato a una singola o più singole
realtà, ma diffuso, in quanto l'economia e il mercato alimentare ad oggi sono
completamente globali, integrati e interdipendenti111. In questo paragrafo dunque si
tirano le somme – che si configurano principalmente in problematiche – di ciò che
l’alimentazione e in particolare il fenomeno sushi sta comportando sui livelli
ambientale, ecologico e, giacché di pesce si parla, animalistico. Sul piano
metodologico ci si muoverà osservando il fenomeno sushi con gli stessi obiettivi che
si pone il fautore di un'inchiesta sociale: “L'inchiesta sociale è una strada da battere
per portare alla luce miniere di umanità e di socialità, belle o brutte che siano, e
renderle con maggiore obiettività” (Panizza 2009, 9).
111 Per approfondimenti proseguire nella lettura di Roberts da pag. 363 in avanti. Cfr. inoltre Pignatti
e Trezza 2000.
108
Il pesce come cibo, il cibo come marketing e il consumo come rifiuto. Questo è il
ciclo vitale del tonno e di ogni altro alimento. La sostenibilità in tale circolo si
configura come un discorso molto ampio, ad ombrello, che ha come ultimo gradino
l'ambiente ma che necessita di partire dal basso, come ad esempio dal discorso sul
cibo.
Se infatti le tecniche di acquacoltura o di allevamento di pesci riducono i problemi
che può dare la pesca selvaggia, queste non eliminano altre problematiche. Come è
già stato rilevato in precedenza i pesci allevati si nutrono comunque di pesce
selvatico e solitamente essendo pesci più grossi hanno bisogno di quantità di pesce
maggiore di altre specie e infatti questa ratio è particolarmente inefficiente se si
osserva il panorama globale e non del singolo prodotto interessato.
3.3.2. Sensibilizzazione
109
[ambiente e vivente] costituiscono un assieme inscindibile, che si identifica con la realtà
naturale. […] L'ambiente […] si può concepire come un contenitore, dal quale il vivente
attinge il proprio input e nel quale riversa l'output (Pignatti e Trezza 2000, 72).
112 Marco Bagliani fa risalire la comparsa della locuzione “sviluppo sostenibile” nel 1987 con il
cosiddetto rapporto Brundtland (Our Common Future) di cui dà una definizione e i principali obiettivi
che si propone (cfr. Camino e Ciminelli 2002, 27). Cfr. anche Tinacci Mossello 2008 e Spano 2010.
113 I criteri con i quali è stata condotta l’indagine sono visionabili dettagliatamente al seguente link:
http://www.greenpeace.it/tonnointrappola/come_abbiamo_fatto.html.
110
111
3.3.3. Consumi ed ecosostenibilità
A livello bioetico sono sempre più numerosi i fattori degni di considerazione a partire
dalle specifiche alimentari umane. Anche prima del problema della carenza di pesce
negli oceani infatti i media hanno posto l’attenzione su questioni animali – e pure
vegetali – sensibili, anche se spesso con toni estemporanei votati a puro interesse
sensazionalistico, e non a una sincera premura nei confronti del metabolismo
planetario. Temi “caldi” sono stati nel corso degli ultimi decenni ad esempio
l’encefalopatia spongiforme bovina, altrimenti detta “morbo della mucca pazza”, che
ha posto in essere il problema della nutrizione degli animali da carne da allevamento,
il cibo OGM, il trattamento scarsamente etico degli animali destinati a usi alimentari
(si pensi al tema degli allevamenti intensivi, anche detti impressionisticamente
“allevamenti lager”), la deforestazione dovuta all’uso intensivo di zone di terreno
utili alla produzione di mangimi, l’utilizzo insistito di pesticidi e additivi, l’aumento
statisticamente considerevole delle allergie da cibo (come per la celiachia e per le
intolleranze al lattosio), e così via. Pare però che all'aumentare della sensibilità su tali
112
temi si siano provocati anche degli effetti di composizione perversa, come la
proposizione di soluzioni altrettanto deleterie, poiché non progettate secondo criteri
adeguati, come la sostituzione della carne con pesce che, in risposta ad un aumento
della domanda, si è iniziato a catturare e produrre nei modi più disparati, speso anche
illegali. A ciò va aggiunto il trattamento generale riservato al mare, che non è solo
disastrato dalla pesca massiva ma anche dalla costante considerazione di questo
come deposito della spazzatura umana114, a partire da un diffuso e pervasivo
fenomeno NIMBY115. Grazie a uno studio di Safina e Klinger del 2008 si è a
conoscenza ad esempio di come ci siano per i tonni rossi dell'Atlantico delle stime
assai preoccupanti, e infatti pare che gli esemplari in grado di poter deporre uova
nelle riserve del Nord Atlantico siano solo più 9000, ovverosia, se trasposti in termini
alimentari, circa 43 milioni di porzioni di sashimi 116. I tonni infatti, come tutti gli altri
animali di grosse dimensioni, possono contare su un numero di esemplari
statisticamente più limitato rispetto a quelli di piccole dimensioni (e infatti è per
questo che sono a un livello trofico più elevato). Ciò che ne consegue è il rischio di
estinzione117.
Il già menzionato documentario Sushi: the Global Catch pone alcune direttrici
stimolanti per quanto riguarda l’orizzonte bioetico relativo al tonno; nella fattispecie
queste emergono a partire da un episodio peculiare in cui si parla di Hagen Stehr, un
imprenditore australiano, fondatore di un centro di ricerca sui tonni e fornitore ai
mercati di questi ultimi. Nei suoi laboratori si contano numerosi scienziati, fra i quali
ci sono figure come biologi marini (Milew Wise), etologi e genetisti, e si fanno
114 Basti pensare al cosiddetto Great Pacific Garbage Patch, sorta di “isola” artificiale nel pacifico
composta interamente di rifiuti (in primis plastica e rottami marini), che si estende per centinaia di
migliaia di chilometri quadrati.
115 NIMBY è l'acronimo per Not In My Back Yard, cioè letteralmente “Non nel mio cortile”. Con tale
espressione si indica la “sindrome” per la quale si tende a considerare valida la costruzione di
determinate grandi opere, purché questa sia fatta non in territori vicini a chi è “affetto” dalla sindrome.
Qui l'espressione è adoperata con significato allargato: “che si faccia ciò che si vuole, purché non
incida negativamente sulle mie proprietà o sul mio stile di vita”.
116 Il riferimento è in Greenberg 2012, 264.
117 Bologna affronta il tema dell'estinzione spiegando come questo sia un fenomeno naturale sulla
Terra, la cui vita basandosi su processi evolutivi necessariamente è caratterizzata dalla scomparsa di
generi, specie o anche popolazioni (2008, 265).
113
ricerche sulla cosiddetta clonazione riproduttiva. Quest’ultima nuova frontiera si
basa sul prelevamento di alcune uova di tonno di esemplari selvatici e sulla
moltiplicazione di queste attraverso precise e innovative metodiche. Obiettivo
principe di siffatta operazione sarebbe quello di sanare in un qualche modo
l’ecosistema marino (mediante procedure di allevamento in vitro), e tenere testa
all’ascendente richiesta di tonno. Da un lato certamente è accolta come buona notizia
la rivoluzione biologica della clonazione riproduttiva, poiché essa sembra in grado di
risolvere tanto i problemi della carenza quanto quelli dell’equilibrio ambientale.
Dall’altro tuttavia un’innovazione del genere non può che suscitare inquietudine,
poiché se anche costituisce una risposta a una domanda economica crea di per se
stessa una domanda: è giusto produrre artificialmente animali pre-destinandoli al
consumo? Quali frontiere può aprire una svolta tecnologica di questa natura? In
questa sede non è possibile analizzare a fondo problematiche di questa natura, che ci
si limita a segnalare e a suggellare con le parole di Lecaldano:
ogni volta che si è presentata qualche novità nella biologia applicata al mondo animale
si è avuta un’opposizione nei confronti di questi esperimenti, nel timore che qualcosa di
analogo potesse essere esteso all’essere umano. Così è accaduto per quanto riguarda la
creazione di quelli che vengono chiamati animali transgenici, ma principalmente nel
caso delle tecniche di clonazione, dopo il successo avuto il 23 febbraio del 1997, come
racconta Kolata (1998), nella produzione della pecora chiamata Dolly. Una parte delle
opposizioni a queste tecniche deriva dalla paura che queste manipolazioni possano
innestare effetti a catena non più controllabili e dunque un numero sempre maggiore di
«mostri»: un rischio più volte evocato e tuttavia ritenuto altamente improbabile dati gli
elevati controlli in uso nei laboratori (Lecaldano 2009, 347).
114
Come si è detto la sensibilità sull'argomento da qualche anno a questa parte va
aumentando, e alcuni spiragli positivi per il futuro sembrano aprirsi. Etica e
sostenibilità formano un connubio che deve diventare realtà sia a livello del singolo
cittadino, che della nazione, che del mondo intero. Tuttavia sul frangente
maggioritario sembra vigere ancora un clima di tendenziale ignoranza rispetto ai temi
ambientali, specie se riferiti all’ambiente marino, per cui in prima istanza è
necessario colmare il gap informativo di fondo, attraverso campagne mirate e
politiche di regolamentazione ad hoc che agiscano nel contempo sul piano locale e su
quello globale.
115
Degna di nota in quest’ottica informazionale è una recente applicazione per
smartphone chiamata Seafood Watch, su cui si basa una sezione di Sushi: the Global
Catch. Quest’ultima, progettata dal Monterey Bay Acquarium, si configura come un
prontuario per il consumatore che è desideroso di mangiare pesce ma non ha
conoscenze specifiche nel merito degli alimenti consigliabili o meno. All'app si
aggiunge poi un più classico libretto illustrativo.
Il libretto si configura come una guida per aiutare i sushi lovers nelle loro scelte
culinarie e contribuire allo stesso modo e allo stesso tempo alla sostenibilità e alla
preservazione dei pesci e in particolare del tonno e delle altre specie a rischio. Tale
prontuario si presenta come un fascicoletto composto da quattro colonne: la prima
denominata “Best Choices”; la seconda chiamata “Good Alternatives”, con il classico
giallo semaforico a indicare un limite non valicabile; la terza, con la scritta “Avoid”,
che raggruppa i pesci a rischio di estinzione; infine l’ultima, di valore esplicativo,
con ulteriori approfondimenti a supporto del consumatore. L'idea di fondo è che
l'infografica possa costituire un eccellente mezzo di informazione, capace di
impattare positivamente sul consumatore esplicitando in maniera diversa, attraverso
la commistione di scrittura e iconismo, in maniera facile e intuitiva118.
116
Scansione del libretto informativo
1. Inherent vulnerability/life history—growth rate of the fish and how quickly the fish
reproduces.
2. Abundance—the status of wild stocks compared to natural or unfished levels.
3. Habitat quality and fishing gear impact—the effect of fishing practices on habitats
and ecosystems.
4. Management—the effectiveness of the regulations to protect the fish and their
ecosystem.
5. Bycatch—the nature and extent of discarded fish or wildlife accidentally caught
when fishing for the target species (Baldwin 2015, 46).
117
Screenshot dell'app Seafood Watch
Per l'idea di un consumo eco-sostenibile il docu-film Sushi: The Global Catch cerca
di instaurare infatti, alla fine del suo percorso narrativo, una forma di coinvolgimento
del pubblico e dei clienti di sushi in particolare che metta al centro una maggiore
responsabilità collettiva rispetto ai temi in questione, a partire però da una
responsabilità individuale. L’esortazione di fondo non è quella all’abbandono del
sushi o all’abbracciamento di una qualche forma di fanatismo alimentare, ma
piuttosto la proposizione allo spettatore di un’ottica più consapevole. La regola
morale diviene quella che ha come capostipite l’apprezzamento profondo di ciò che
si consuma, il conferimento alla pietanza di un valore maggiore. L’apprezzamento
diventa di reale e “vitale” importanza. All'interno di questo lungometraggio molti
sono gli esperti che si alternano per motivare o dare spiegazioni e informazioni sulla
realtà ittica, economica, ambientale e bioetica. Mike Sutton, direttore del Center for
the Future of the Oceans (Monterey, California), per esempio in una particolare
sequenza si rivolge direttamente ai sushi-lovers appellandosi a loro in quanto
individui singoli e pensanti119.
118
medio infatti non è abituato alla lettura attenta delle etichette alimentari (e non solo),
anche se con l’aumento della sensibilizzazione questa buona pratica si sta
diffondendo (cfr. Nutrito 2001), ma soprattutto non è sempre edotto sulle specifiche
ambientali dei singoli marchi, cui si rivolge di solito a partire da prassi fiduciarie
altre, come quelle instaurate a partire dalla pubblicità. Se il tema infatti dell’etichetta
è assai delicato, giacché non tutti i cibi devono dichiarare per legge determinate
specifiche, quello del marchio è più alla portata del consumatore, che può nell’era
dell’informazione online acquisire in tempi rapidi conoscenze sulle politiche di
produzione delle singole case. Nel caso specifico degli alimenti ittici esiste peraltro
uno specifico marchio apposto sui prodotti che rispettino predefiniti standard di
sostenibilità. Si tratta del marchio MSC (Marine Stewardship Council), ampiamente
riconosciuto e applicato unicamente su alimenti che rispettino i seguenti standard:
3. L’azienda ittica interessata deve elaborare un piano di gestione che illustri le modalità
con cui vengono soddisfatte le esigenze in termini di ecologia, legislazione e politica
sociale120.
120 Dal report WWF Oceani in pericolo: pesca eccessiva, Febbraio 2013, pag. 5.
119
chiesto espressamente al consumatore una specifica negoziazione del gusto: egli non
deve rinunciare alle valenze esotiche, gustose, e magari chic, del cibo in questione,
ma ri-adattarle, anche tramite l’apprezzamento concettuale di cui sopra, verso forme
sostenibili (la fusion mania in questo senso si muove semi-consapevolmente verso
una forma di sostenibilità). Il ristorante dunque non è più semplicemente un luogo
dove andare a mangiare ma diviene catalizzatore comunicativo della campagna per il
sushi eco-sostenibile, attuata proprio nel luogo di consumo principe 121. In sostanza il
procedimento di fondo è basato su un’inversione dello schema comportamentale di
Allport adattato per il consumatore da Kassarjian e Robertson122.
Ne consegue che l'adattamento dello spazio urbano come luogo ove poter far valere
la propria protesta attraverso il ristorante di sushi sostenibile diventa una strategia di
adesione identitaria assai valida, che fornisce agli avventori la possibilità concreta di
attuare una modifica nelle proprie abitudini consumistiche: “La città come ambiente
di vita e come forma organizzativa della vita e delle sue relazioni sociali ha una
121 Magari come i ristoranti Eataly o Coop per il caso italiano che si pongono come ristoranti che
informano la clientela dei propri prodotti etc.
122 Cfr. anche Fabris 1974, 67 e segg.
120
grande importanza per uno sviluppo ecosostenibile” (Sachs, Loske, Linz 1997, 227).
Iniziatore di tale forma di business sostenibile è proprio Casson Trenor, che oltre che
autore del libro Sustainable Sushi: Saving the Oceans One Bit at a Time è co-
proprietario di Tataki, il primo ristorante di sushi ecosostenibile di San Francisco.
L’informazione e il dialogo per Trenor sono fondamentali, i clienti del suo ristorante
devono essere consapevoli della perdita che il mondo sta affrontando, e l'assunzione
di consapevolezza equivale a un'assunzione di responsabilità – anche dolorosa –
necessaria per passare al paradigma del guilty-free sushi; in altre parole il tentativo di
conversione agisce mediante l'instillazione nel soggetto di quella che potrebbe essere
definita una sociologia esistenziale:
Una sociologia esistenziale dovrebbe cominciare dal basso, dalla doxa, dall'opinione,
dall'indagine sui luoghi comuni. Solo partendo dalla complessità e contraddittorietà del
tessuto sociale e restando al loro interno sarà possibile la comprensione della realtà
umana. […] Nella quotidianità l'essere umano svolge un'enormità di azioni senza avere
la consapevolezza di ciò che fa: si dice che agisce in modo meccanico, ma questo
automatismo, questo “sonnambulismo del quotidiano” […] non significa un'assenza di
coscienza (Tognonato 2006, 6-39).
Così quello di Casson Trenor è solo uno degli esempi possibili, ed è importante
constatare come le realtà dei ristoranti eco-sostenibili sia in ascesa, anche nel merito
di specifici ristoranti sushi. Ciò è chiaramente indice di un certo aumento di
sensibilità, e cioè di una modifica nella sociologia esistenziale dei singoli. Un
esempio di simile realtà nel torinese è la catena Japs! (www.japs.it) che dichiara
esplicitamente di non adoperare tonno rosso per la preparazione del suo sushi.
Ovviamente le varie strategie sin qui vagliate non sono da intendersi come in
rapporto di mutua esclusività, e anzi sarebbero da considerarsi in ottica
complementare e gestaltica. La sostenibilità in definitiva auspica una collaborazione
intesa e definita come uno scambio in cui i partecipanti traggono vantaggio
dall’essere insieme (Sennett 2012, 15). Le strategie proposte dovrebbero pertanto
agire in una dimensione concertata, di engagement.
121
PARTE 4
***
Ricerca applicata
122
Capitolo 1 – Survey sui consumatori di sushi
Prima di addentrarsi in quelli che sono i risultati del questionario è bene avere
a mente che cosa si intenda per “sondaggio” e quali siano le prescrizioni
metodologiche necessarie a una sua corretta elaborazione. Natale e Marradi (secondo
la rivisitazione di Pavsic e Pitrone 2007) verranno qui ripresi per comprendere
meglio i concetti in questione. Una prima precisazione ha a che fare con la differenza
tra “sondaggio” e “questionario”, che spesso sono considerati come sinonimi, e che
tuttavia in realtà risultano molto diversi tra loro in base ai seguenti fattori: domande,
contenuto, tempo e risultati. Sulla base di tali punti quello che si è condotto è da
reputarsi come un sondaggio e non un questionario poiché l'intenzione è stata quella
di porre delle domande semplici e dirette con la possibilità di scegliere una sola
risposta tra quelle multiple, mentre un questionario tendenzialmente include anche
domande più complesse, altresì formulate all'interno di un testo breve, e prevede
risposte modulate attraverso graduatorie, voti, e così via. Altra notazione basilare
chiama in causa l'area semantica che si è voluta scandagliare: il sondaggio infatti per
struttura e conformazione si occupa di raccogliere opinioni su uno specifico
argomento o su un singolo oggetto di studio senza dover chiedere dati sensibili agli
intervistati, a differenza del questionario che prende in considerazione anche diversi
argomenti e più elementi di studio, e che quindi, datane la complessità, può
richiedere fasi successive di ulteriori domande con la clausola della richiesta di dati
sensibili come l'indirizzo e-mail. Oltre a ciò il tempo a disposizione per un sondaggio
è solitamente di pochi minuti; inoltre essendo condotto online l'interazione è
agevolata da una struttura input/output minimale (basata su un numero esiguo di
“click”)123, mentre per i questionari la compilazione può richiedere molto più tempo.
Infine la raccolta dei risultati è notevolmente più immediata con l'uso del sondaggio e
anche l'analisi è più veloce e definita rispetto ai tempi lunghi di studio e analisi dei
123 Per quanto concerne il nostro questionario il tempo di compilazione medio, rilevato sul 70% dei
campioni, è stato compreso nella fascia 2-5 minuti.
123
questionari; nondimeno va rilevato come i dati sondaggistici, e l'ermeneutica che vi
si costruisce sopra, non siano da considerarsi come meno veritieri o rilevanti rispetto
a quelli risultanti da un questionario. Spesso si tratta di dati grezzi, che intendono
sondare territori sociologici ancora non ben definiti, in cerca di risposte di massima
che possano restituire però spettri analitici precisi, come è stato nel nostro caso.
quella rete di sforzi necessari e sufficienti e tra loro integrati volti ad approssimare o
cogliere al meglio una data realtà oggetto di analisi in modo da raccogliere il consenso
(previa possibilità di controllo) da parte della comunità scientifica sul contributo da essa
apportato al conoscere collettivo condiviso o condivisibile. L'investigazione empirica,
come impresa in sé conclusa, prevede l'impiego di più tecniche e di vari approcci
metodologici […]. Essa congiunge astrazione teorica e verifica empirica, tecnica ed
epistemologia tramite la metodologia (Cipolla 1996, 48).
124
4. Predisposizione del set di domande.
5. Raccolta delle informazioni e controllo delle sostituzioni.
6. Registrazione, elaborazione e analisi dei risultati.
124 Tale precisazione si rende necessaria poiché le domande sono formulate unicamente per
individui che fanno un consumo, anche molto moderato (annuale) di sushi.
125
3. La modalità di rilevazione è, come già spiegato, il sondaggio online, utile per
raggiungere più consumatori in tempi limitati (15 giorni di durata) e capace di
intercettare solo utenti desiderosi di rispondere. Tramite link fornito da
Survio il sondaggio è stato distribuito mediante rete Facebook a partire dalla
condivisione all'interno di gruppi universitari e di Sushi e Japan Lover.
Sfruttando inoltre la capacità di questo mezzo, il sondaggio è stato raggiunto
da individui anche senza legami one-to-one diventando così, almeno a livello
teorico, più eterogeneo e spontaneo125. La partecipazione è stata infatti
volontaria e il numero di risposte ottenute (542, a fronte di 2143
visualizzazioni) è già di per sé indicativo dell'interesse sul tema. Si è lasciata
la possibilità di tornare a domande precedenti in modo tale da consentire
riflessioni retroattive agli utenti, ma si è però deciso di impostare l'indagine
secondo un ordine prestabilito dalla successione delle domande poiché vi è un
percorso significativo alla base.
4. La predisposizione del set di domande si è composta di due domande aperte:
la prima in cui si chiede l'età (1. Quanti anni hai?) con l'obiettivo di
comprendere le maggiori fasce anagrafiche di consumo del sushi e l'ultima, in
ordine di compilazione, in cui si chiede che cosa si intenda per “sushi” (12.
Potresti dirmi in una frase secondo te che cos'è il sushi?). Quest'ultima è
l'unica domanda realmente “aperta” del sondaggio (se si considera che la
domanda sull'età di fatto richiede un dato puramente quantitativo). È utile a
tal proposito differenziare le tipologie di domande sottoposte nei tre tipi
riconosciuti da Paolo Natale (2004, 34): domande-struttura, domande-
contesto e domande-obiettivo. Le prime esplicitano le note distintive (o
peculiarità) dei singoli intervistati come ad esempio l'età anagrafica e il
luogo di residenza (nord/centro/sud) nel caso del sondaggio in questione, ma
anche genere, livello d'istruzione, professione e così via (per la ricerca sociale
classica sono le variabili strutturali). Le seconde indagano sui presunti motivi
125 Il termine “spontaneo” si riferisce qui a una non-imposizione dello svolgimento del sondaggio.
Questo fattore come anche la lunghezza-durata dello stesso sono stati fattori studiati a priori per
affrontare un pubblico sempre più ostile verso sondaggi perché magari considerati come perdite di
tempo.
126
o le origini di determinati atteggiamenti, comportamenti e conoscenze (per la
ricerca sociale classica sono le variabili indipendenti). E infine le terze sono
le domande più inerenti all'obiettivo finale del sondaggio e sono quelle che
cercano di rilevare la “diffusione” di un certo comportamento, conoscenza e
quindi immaginario vero e proprio che si è creato intorno al sushi e quali
informazioni invece sono celate (per la ricerca sociale classica sono le
variabili dipendenti). Su queste due ultime categorie è stato costruito il resto
del sondaggio, come si vedrà in fase di analisi dei risultati.
5. La raccolta delle informazioni è avvenuta online tramite la piattaforma su cui
ci si è appoggiati per il sondaggio 126. In una seconda fase le risposte raccolte
sono state convertite in file Pdf (con conseguente visualizzazione tramite
grafici complessivi) ed Excel (con la possibilità di vedere i percorsi dei
singoli intervistati). In una terza fase poi si è scelto per la domanda aperta
finale di utilizzare il software T-lab per un Text-mining, in modo da ricavare
dati semantici rilevanti a partire da tecniche di analisi del contenuto che
verranno meglio esplicitate in seguito127.
6. All'analisi dei risultati è dedicato il prossimo paragrafo.
Per rendere agevole la consultazione dei risultati sono stati elaborati, per quanto
126 Si tratta di Survio, un portale per la creazione di sondaggi di vario tipo, con possibilità di accesso
a servizi Premium che consentono di decodificare i dati con strumenti più o meno complessi.
127 T-LAB è un software proprietario che si compone di una serie, costituendo un insieme, di
strumenti linguistici, statistici e grafici per l'analisi di testi. Questi possono essere osservati in base ad
alcune pratiche di ricerca come: Analisi di Contenuto, Sentiment Analysis, Analisi Semantica, Analisi
Tematica, Text Mining, Perceptual Mapping, Analisi del Discorso, Network Text Analysis, Document
Clustering, Text Summarization. Per maggiori approfondimenti è possibile consultarne l'approfondito
manuale, redatto dal suo programmatore, su tlab.it. Per una ricca bibliografia nel merito si consiglia di
visitare la pagina tlab.it/it/bibliography.php.
127
concerne il blocco centrale di risposte chiuse, degli istogrammi che mostrano le
diversità e le assonanze delle risposte degli intervistati, mentre per la domanda aperta
finale, alcuni schemi che rendono visivamente le tendenze semantiche di fondo.
4.1.3. Risultati
La domanda n. 1 (qui non riportata) mostra come la maggior parte degli utenti che
volontariamente hanno compilato il sondaggio facciano parte di una fascia giovanile
compresa tra i 21 e i 34 anni. In termini bourdeiani pare evidente che ci sia un
tentativo di emancipazione del gusto dalla famiglia e che tendenzialmente l'universo
del sushi tocchi molto meno i consumatori di età maggiore ai 34 anni (e tale
considerazione si può in linea di massima ipotizzare come veritiera anche per altre
forme di cucina etnica). La domanda n. 2 è relativa alla provenienza geografica
(nord, centro, sud Italia) delle risposte. Tuttavia il riscontro è quasi dell'80% riferito
al Nord Italia, e si ritiene che tale sperequazione sia dovuta al bacino di utenza di
partenza, che probabilmente non ha consentito al sondaggio una diffusione capillare
e uniforme a livello geografico. Non si considera pertanto tale dato come
statisticamente rappresentativo di una differenza di consumo in termini geografici,
perché tale deduzione meriterebbe verifiche specifiche, da effettuarsi a parte.
128
Le domande dalla 3 alla 8 sono domande-contesto e si concentrano più propriamente
sull'esperienza consumistica del singolo. La prima domanda chiede all'intervistato da
quanto tempo sia a conoscenza di una pietanza chiamata “sushi” (se sia in grado di
indicarlo). Il tentativo è quello di cogliere da quanto tempo il fenomeno sushi
costituisca un “luogo” o topos in termini culturali.
Quasi tre quarti degli intervistati rispondono alla domanda sostenendo di aver sentito
parlare del sushi da più di cinque anni. Questa risposta non è particolarmente
sorprendente: di fatto, come si è dimostrato durante la tesi, il boom globale del sushi
ha radici negli anni '80-'90, con un'impennata nei primi anni 2000. Di maggiore
interesse è la fascia “da due a cinque anni”, che ottiene quasi per intero la restante
percentuale. Questo quarto di risposte è statisticamente rappresentativo, e si ritiene
sia indicativo di risposte provenienti da fasce generazionali più giovani,
probabilmente avvicinatesi al sushi solo negli ultimi anni, in seguito all'esplosione
della moda degli all you can eat. In ogni caso i due dati sono entrambi significativi
nel riportare come l'elemento sushi sia subentrato nell'enciclopedia degli italiani. Per
enciclopedia si intende qui: “un'idea regolativa, un sistema ideale capace di
raccogliere tutto quanto è stato culturalmente prodotto da una certa cultura in un
129
determinato tempo storico” (Morgagni 2009, 251)128.
La domanda n. 4, sulla scia della precedente, mira a indagare quali siano le radici
conoscitive sul sushi, ovverosia attraverso quali mezzi gli intervistati siano venuti a
conoscenza dell'esistenza di un ente che porta tale nome.
128 Il concetto di “enciclopedia” così inteso è tuttavia da riferirsi primariamente a Umberto Eco. Cfr.
1975.
130
La domanda n. 5 entra direttamente nel merito alla preferenza circa i luoghi del
consumo di sushi, chiedendo all'intervistato di scegliere univocamente se preferisca
consumarlo tra ristoranti che si definiscono tradizionali e ristoranti all you can eat.
La contesa tra le due modalità di consumo è vinta dai ristoranti tradizionali, con uno
scarto tuttavia minimale (di 31 intervistati), ma la maggior parte delle persone
ammette di frequentare entrambi i tipi di ristorante (225 persone su 542). Come si è
già detto nei capitoli precedenti qui si riscontra come, seppur la preferenza – con un
margine statisticamente poco rilevante – sia la consumazione in ristoranti tradizionali
giapponesi, il consumo reale è, in termini maggioritari, bipartito su entrambi i tipi di
ristoranti (ergo su entrambi i tipi di modalità). La domanda n. 6 è così intesa come un
approfondimento della domanda precedente, pur tuttavia focalizzandosi unicamente
sul consumo presso i ristoranti all you can eat, che sono uno dei temi centrali della
tesi. Alla base della scelta di eludere dalla domanda i ristoranti giapponesi
tradizionali vi è quindi la presupposizione che il consumatore di sushi capiti, anche
di rado, presso ristoranti all you can eat, e che questi facciano parte di dinamiche di
consumo differenti rispetto agli altri.
131
Le risposte in effetti confermano il presupposto di fondo. È probabile che le persone
che nella domanda precedente abbiano dichiarato di preferire i ristoranti giapponesi
tradizionali siano coloro che hanno risposto di frequentare gli all you can eat “1 o più
volte all'anno” (118 su 174 di prima), cioè hanno scelto la frequenza minore
consentita dal sondaggio. Peraltro tale correlazione si può evincere dalla
consultazione del file Excel ove sono segnalati i singoli percorsi di risposta. Tuttavia
la maggior parte dei consumatori ammette che il consumo di sushi presso all you can
eat sia molto più frequente nel tempo, rispondendo “1 o più al mese” per il 31,5% e
“1 o più ogni tre mesi” per il 30,3%, e cioè valicando il 60% delle risposte totali.
La domanda n. 7 prosegue l'indagine sul consumo presso all you can eat, chiedendo
quale sia la ragione principale sottesa alla scelta di mangiare sushi presso questo tipo
di ristoranti. Diverse sono le variabili proposte, che non per forza sono da
considerarsi mutuamente esclusive, ma il sondaggio è volontariamente settato per
costringere l'utente a scegliere una sola risposta, ovverosia a definire quale sia per lui
la motivazione precipua.
132
La risposta che emerge maggiormente è il “Rapporto quantità/prezzo” con il 34%,
seguito da “Mi piace la pietanza” con il 26,8%. La formula all you can eat ha trovato
il suo punto di forza che come emerge anche su profili social è proprio la quantità del
cibo offerto in relazione a un prezzo relativamente basso rispetto a quanto si è
solitamente abituati a spendere per altri cibi. Va rilevata dunque una sorta di logica
compromissoria, per la quale i soggetti sono affezionati alla pietanza in termini di
gusto (come si evince dal 26,8% di risposte “mi piace la pietanza”), ma sono disposti
a cedere parte della qualità in cambio di una maggiore quantità a un minor prezzo.
Tale dato dà adito a profonde riflessioni circa le dinamiche di consumo legate agli all
you can eat, che sono state condotte nell'arco della tesi.
133
134
La lista proposta prendeva in considerazione, oltre alle due salse principali, il riso e
l'alga, solamente le varianti ittiche, ma sono emerse altre preferenze come ad
esempio udon, ramen, spiedini di pollo e spaghetti. Questi dati non sono significativi
in termini statistici, eppure aprono a interessanti prospettive dal punto di vista
semantico poiché non hanno niente a che fare con il sushi, ma sono inseriti in un
sondaggio chiaramente dedicato a quest'ultimo. Ciò corrobora l'ipotesi per la quale
sul sushi viga una conoscenza sfumata, che lo inserisce in un tutt'uno con altre
pietanze solitamente presenti in un ristorante giapponese, e tuttavia esso costituisca il
centro culturale che le racchiude tutte (se ci si pensa la frase “andiamo a mangiare
sushi” indica spesso la voglia di andare a mangiare in un ristorante giapponese,
anche se poi non si consumerà necessariamente o esclusivamente sushi).
Tra le specie ittiche emerge che in Italia la preferenza è il salmone (45%) rispetto al
tonno, che è comunque al secondo posto (18,1%), con un distacco di circa sei punti
percentuali dai gamberi. Il dato qui è molto interessante poiché si nota quindi una
discrasia con le preferenze stereotipate e di consumo a livello globale. L'attenzione
esclusiva data al tonno nella tesi è tuttavia dovuta alla sua condizione critica e
all'impatto culturale che esso sortisce in tutto il mondo. Evidentemente in Italia
vigono regimi di gusto leggermente diversi, che afferiscono a dinamiche culturali
differenti, dall'abitudine consolidata al consumo di salmone al di là del contesto sushi
(il salmone affumicato d'altronde è una pietanza che si trova in tutti i supermercati
italiani, e chi non è avvezzo al sushi non necessariamente disdegna un carpaccio di
salmone), a questioni relative al sapore (il sapore del tonno è più delicato, quello del
salmone è più deciso). Tuttavia i dati riportati nella tesi dimostrano come, nonostante
l'“anomalia” del caso italiano, sia il tonno l'ingrediente principe del sushi moderno
nel mondo.
135
consumatore su una problematica, o, qualora non fosse a conoscenza del tema della
domanda stessa, di porlo in una circostanza di attenzione al tema-problema. Il
sondaggio infatti, alla stregua della tesi in generale, segue un andamento concettuale
che parte dalla cultura, passa per i consumi e giunge ai temi ambientali.
Il sondaggio mostra come più della metà degli intervistati (53,5%) non è a
conoscenza di problemi ambientali legati al sushi, seppure sia, una volta edotto,
interessato a saperne di più. Il 34,7% si dichiara già a conoscenza di queste
problematiche e anch'esso interessato al tema, e questo dato porta la percentuale
degli interessati (circa 90%) ai disagi della sovrappesca a un risultato ottimistico per
quanto riguarda i frangenti sociale ed ambientale. La domanda n. 10 segue la scia
della precedente domanda, domandando se invece si sia a conoscenza dell'esistenza
di forme di sustainable sushi, restringendo il campo verso ottiche risolutive.
136
Circoscrivendo l'area all'interesse specifico si nota come ci sia generalmente più
conoscenza rispetto ai problemi ambientali legati al sushi che non alle possibili
soluzioni. Le cifre cambiano notevolmente e buona parte degli intervistati che alla
domanda precedente avevano risposto “Sì, e mi interessa” traslano la risposta a
questa domanda in un “No, ma mi interessa”, facendo lievitare la percentuale su
quest'ultima risposta a 72,5%. La rispondenza di tale correlazione è confermata
dall'analisi dei singoli percorsi di risposta.
La domanda n. 11 torna a essere più generale per cercare di cogliere una linearità. È
inoltre una domanda di controllo che mira a verificare se ci sia corrispondenza
statistica fra quanto affermato in precedenza e quanto si afferma ora.
137
raccolti in precedenza e si nota come l'interesse ambientale sia alto, ma come una
significativa percentuale di intervistati (circa un terzo sul totale), pur dichiarandosi
interessato a problemi di ecologia ammetta di non sapere se conduce realmente una
vita sostenibile (il che potrebbe significare che non pone la questione a un livello
prioritario).
Infine la domanda n. 12, “potresti dirmi in una frase secondo te cos'è il sushi?”,
consente di dare una risposta più o meno aperta, descrittiva e magari anche
velocemente argomentativa. Per l'analisi dei dati qui si è scelto di adoperare tecniche
di analisi del contenuto, a partire da alcune delle funzionalità del software T-lab, che
sono: analisi delle co-occorrenze o delle contingenze (Co-occurrence o contingent
analysis) e analisi delle associazioni di parole (Associations)129. Le parole chiave130
che sono risultate essere più rilevanti e interessanti sulla base delle risposte degli
intervistati riguardano principalmente due aree semantiche che già all'interno della
dissertazione sono emerse: l'aspetto più prettamente sociale in cui rientrano parole
come «cultura», «moda», «nostro», «diverso», «arte» e «tradizione», e il frangente
specificamente riferito all'area culinaria e di alimentazione fatto di lemmi quali
«gusto» (e sue declinazioni aggettivali), «sapore», «pizza», «piacere» e «alga».
129 Nel merito attualmente i principali riferimenti italiani sono Tipaldo 2014 e Pisciotta 2016.
130 Cfr. Tipaldo (2014, 66-67).
138
lemmi indicati in precedenza («nostro», «diverso», etc.). Al di là delle singole
associazioni (quelle riportate non ricoprono che una minima parte) è interessante
osservare come emergano delle parole chiave indicative di alcuni modi specifici di
pensare il sushi: il sushi è considerato come un dispositivo nel contempo artistico,
culturale, modaiolo, culinario, tradizionale, diverso da un “nostro” (non da un “noi”;
l'uso del “nostro” indica un sentimento di possessione culturale).
139
Insieme di sapori.
Un alimento a_base_di pesce, riso, una specifica alga e condimenti volti ad esaltarne il sapore.
Cibo dal sapore pazzesco, inimitabile. Poco calorico, tendenzialmente fresco e sano.
140
Un ulteriore aspetto che è emerso chiaramente ha a che fare con la ritualità sociale
connessa al consumo di sushi: oltre che una moda come piatto è una moda
consumarlo in compagnia (“Andare a mangiare il sushi è una occasione per
assaporare qualcosa di diverso oltre che un modo per divertirsi con gli amici”, “I
piattini della convivialità, per tutte le tasche”, “Il sushi per me è un momento di
ritrovo con altri amici”, “Un cibo sfizioso, perfetto per consumare un pasto piacevole
in compagnia di amici”). Ciò, oltre a confermare la tesi del sushi come fenomeno
modaiolo, dimostra come si tratti di un cibo che non è, almeno nella cultura italiana,
considerato quasi per nulla come da consumarsi da solo. Al contrario i giapponesi
che si cibano di sushi nella propria patria usano legare questa esperienza più a un
sentimento interiore, che non a una condivisione di emozioni.
Pur data inoltre la globalizzazione del sushi, affiora a livello italiano un sentimento di
marcatura: vi è frequentemente e in ogni caso un “nostro” e un “loro”. Nella
fattispecie ciò avvalora le tesi proposte circa l'alone esotico del sushi, che è
considerato come qualcosa di diverso, pur essendo paradossalmente ormai
pienamente assimilato da buona parte della cultura occidentale. Di tale aura
misteriosa il consumatore continua a fruire, eppure quando interpellato ci tiene a
141
demarcarne l'intrinseca differenza, rispetto alla propria cultura di riferimento.
Emblematica in questo senso è la rilevante presenza di frasi che paragonano il sushi
alla pizza.
Per la cultura occidentale è la moda consumista del pesce_crudo da postare su Instagram; in Giappone
è un po' come la pizza per gli italiani: tutto_il_mondo la fa, ma solo chi ha vissuto l'Italia sa
riconoscere la pizza autentica.
Secondo solo alla pizza.
Il sushi è diventato un piatto mondiale esattamente come la pizza.
Mangiare qualcosa di diverso dalla solita pizza spendendo poco.
Il corrispettivo della pizza italiana.
Il piatto tradizionale più imbastardito e travisato all'estero dopo la pizza.
Pesce. Una buona_pietanza ma mai quanto la pizza.
Una buona alternativa alla pizza.
142
Conclusioni
In considerazione delle quattro parti distinte della tesi si è così mappato un quadro
che del sushi tratteggia il suo essere olistico; esso si fa portatore di un simbolismo sia
ascritto che acquisito, e ingenera delle “forze” capaci di influenzare i funzionamenti
della società, nei suoi flussi di idee e di pratiche sociali 132. Proprio su tali flussi si è
eretta l'intera tesi, evidenziando le categorie gustative e di consumo che sostanziano
il sushi come entità sociale.
La prima distinzione è certamente quella fra crudo e cotto, che riporta alla memoria
gli studi di Lévi-Strauss, e che mette il sushi sul piedistallo per sancire la separazione
tra frangenti culturali: antico e moderno, Oriente e Occidente. Si è tuttavia
dimostrato come tali divisioni rappresentino simulacri: in molte realtà italiane
esistono infatti piatti a base di cruditè. Inoltre come detto in precedenza neanche il
sushi stesso è da considerarsi sempre e solo crudo. Questa separazione però allo
stesso tempo consente di equalizzare i gusti, a livello astratto, tra nazioni, poiché
quello che emerge dalle risposte del sondaggio è il confronto, quasi sempre costante
con la cultura d'origine. Un ulteriore categoria oppositiva è quella fra gusto e
132 L'idea che gli oggetti costituiscano forze capaci di creare percorsi sociali è esplorata dalla recente
teoria onto-cartografica, che non si può che citare brevemente in nota in questa sede. Una fonte
fondamentale nel merito è Bryant 2012. Per un approccio in italiano cfr. Tione 2015.
143
disgusto, che sono termini non solo da assimilarsi al sapore (e di conseguenza
all'insapore), ma anche a un sistema di mode e di pratiche sociali ben definite.
Si sono esplorate quindi le caratteristiche e le problematicità di uno dei frutti della
globalizzazione del sushi, il ristorante all you can eat, un luogo che, ancora più in un
periodo colpito dalla crisi economica, parafrasando le parole di Baudrillard, si
configura come posto che dà sicurezza ai consumatori: il grande bacino di persone
che sostengono di scegliere questa formula per il suo rapporto quantità/prezzo (che è
un prezzo fisso, determinato, sicuro) ne è la prova. Si sono indagati inoltre i frangenti
moda e stereotipizzazione, evidenziando le giunture fra sushi imitato e sushi
“originario”, i modi attraverso cui è socializzato, il suo ruolo nei media e nei social
network, così come nell'oggettistica che gli è associata (si pensi al sushi popper e alle
sue “conversioni” per avvicinarsi ai gusti locali), tutti orizzonti di grande rilevanza
sociologica. Si sono poi trattate le problematiche ambientali connesse al sushi e ai
sistemi sociotecnici che coinvolge. Il consumo estremizzato di sushi sta invero
portando a delle problematicità ambientali drastiche. Si è visto come per i problemi
evidenziati possano esistere delle soluzioni, da praticare innanzitutto con interventi
mirati sul piano culturale e comunicativo; il sondaggio ha peraltro dimostrato come
molte delle problematiche trattate nel corso della dissertazione, ancorché non note,
siano percepite come di interesse, una volta edotti i soggetti. Ad avvalorare le ipotesi
mosse sono state le risposte dei consumatori che hanno in larga misura confermato le
impostazioni teoriche man mano mosse riguardo al sushi. Così l'idea di alcuni
ristoratori, apparentemente semplicistica, di praticare la sostenibilità utilizzando
pesci non a rischio di estinzione per cercare di salvaguardare l'ecosistema, è apparsa
come un ottimo punto di partenza. L'idea dei ristoratori come Casson Trenor è infatti
in linea con il pensiero teorizzato nel rapporto Brundtland – ove per la prima volta,
nel 1987, viene introdotto il concetto di sviluppo sostenibile – che recita:
Ambiente e sviluppo non sono realtà separate, ma al contrario presentano una stretta
connessione. Lo sviluppo non può infatti sussistere se le risorse ambientali sono in via
di deterioramento, così come l’ambiente non può essere protetto se la crescita non
considera l’importanza anche economica del fattore ambientale. Si tratta, in breve, di
problemi reciprocamente legati in un complesso sistema di causa ed effetto, che non
possono essere affrontati separatamente, da singole istituzioni e con politiche
frammentarie. Un mondo in cui la povertà sia endemica sarà sempre esposto a catastrofi
144
ecologiche d’altro genere. [...] L’umanità ha la possibilità di rendere sostenibile lo
sviluppo, cioè di far sì che esso soddisfi i bisogni delle generazioni presenti senza
compromettere la possibilità di soddisfacimento dei bisogni di quelle future.
L'idea è che ci sia bisogno di quella che Baudrillard chiama società terapeutica,
sull'assunto per cui “il grande corpo sociale sia sempre malato, e [...] i cittadini
consumatori siano ben fragili, sempre al limite del tracollo e dello squilibrio” (1976,
245), e che quindi si debba intraprendere modi del vivere sociale nell'ottica di
limitare suddetto squilibrio. Alla stregua di pubblicità e di trend, anche spot,
campagne progresso, iniziative mirate e manifestazioni per una vita sostenibile
devono trovare il giusto spazio e modo per presentarsi e imporsi nella società.
Queste, attraverso spinte insensibili, devono indurre i cittadini consumatori a un
cambiamento percepito come non drastico nelle loro scelte; si deve far cogliere
l'importanza delle azioni e dell'informazione. Molte volte tali scelte vanno contro a
quello che è il consumismo più forte e permeante e in tal modo il maggior numero
delle parti in ballo non vi investe per paura di perderci in guadagni sicuri. Ciò a cui si
auspica è una vera e propria etica che Arran Gare trova nel “vedere la vita come un
racconto [e capire] quale tipo di racconto debba vivere la gente, e come si debbano
correlare questi racconti ad altri più generali alla base di comunità, istituzioni,
organizzazioni, nazioni e civiltà” (Gare 2010, 49).
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