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Università degli studi di Siena

Facoltà di Lettere e Filosofia


Corso di Laurea specialistica in Filosofia

Tesi di Laurea di
Simone Del Pivo

La Filosofia de ‘La Vita Divina’ di Śrī Aurobindo


Fra Oriente e Occidente

Relatore: prof. Giuseppe Cognetti

A.A. 2008/2009

1
Indice

Prefazione.............................................................................................................................p. 3

Capitolo primo. L'esperienza yogica...............................................................................p. 18

Capitolo secondo. Parabrahman: ineffabilità, infinità e onnipresenza del Divino..p. 56


1. Ineffabilità e logica dell'Infinito.........................................................................p. 61
2. Satcitānanda..........................................................................................................p. 69
3. Nirguṇa e Saguṇa. Contra śūnya e Māyā............................................................p. 75
4. Advaita...................................................................................................................p. 85
5. L'Infinito nei finiti................................................................................................p. 91
6. Trascendenza, Immanenza e Individualità del Divino. Dentro e ol- spazio
t tre lo spazio e il tempo.........................................................................................p. 95
s
Capitolo terzo. La spirale involutivo-evolutiva di Satcitānanda..............................p. 104
1. Involuzione ed evoluzione......................................................................................p. 108
2. Gradi ontologici........................................................................................................p. 116
3. Divenire cosmico e storico: evoluzione, stasi o regresso spirituale?................p. 129
4. Confutazione delle metafisiche non evoluzionistiche e critica dell’evoluzio-nismo
n nismo spirituale aurobindiano.................................................................................p. 137

Capitolo Quarto. L'enigma del male............................................................................p. 150


1. Il male in Brahman. Relatività e funzione della morale.................................p. 153
2. Il problema del dolore........................................................................................p. 161
3. Avidyā ed ego quali cause del male, divina trasformazione quale suo suo
s superamento.........................................................................................................p. 166

Capitolo quinto. Trasformazione e vita divina...........................................................p. 177


1. Trasformazione: una nuova psicologia del profondo.....................................p. 181
2. L'essere gnostico...................................................................................................p. 188

Epilogo..............................................................................................................................p. 210
Bibliografia.......................................................................................................................p. 212
Ringraziamenti.................................................................................................................p. 221

2
Prefazione

Nel presentare uno studio filosofico dedicato alla figura di Aravinda Ghoṣ̣,
meglio noto come Śrī Aurobindo (Calcutta 1872 – Pondicherry 1950) ci sembra
innanzitutto imperativo domandarsi da dove e in che modo nasca non solo l’interesse
ma, come tenteremo di mostrare, l’intima necessità di un approccio alla diversità
antropologica e dello sforzo di comprensione di una cultura altra: è bene mettere in
luce, fin da subito, che la portata della domanda si estende molto oltre il contesto
della filosofia in quanto disciplina accademica e punta dritta al cuore della crisi
antropologica e religiosa della modernità occidentale. Si tratta di un quesito che
investe esistenzialmente, oltre che teoreticamente, noi tutti e che abbisogna con
urgenza, nel καιρός dell’incontro delle civiltà, di un’adeguata risposta. 

Una ricerca sul pensiero e le tradizioni dell’estremo Oriente, avendo
rinvenuto in queste terre le intuizioni e le suggestioni più feconde per affrontare il
problema, si impone per le insufficienze delle problematiche sollevate e delle
soluzioni tentate dalla filosofia occidentale novecentesca: da un lato appiattita sulla
dimensione materiale, fisico-scientifica o economica dell’uomo, dall’altro incapace di
trovare o inventare risposte convincenti, autentiche e affermative in campo
esistenziale, spirituale e religioso, alla domanda di senso sull’enigma della vita e
dell’universo. Ciò che rappresenta il nocciolo e il significato profondo di una
tensione amorevole alla sapienza (φιλο-σοφία) che possa definirsi ancora plausibile
e legittima in un epoca post-metafisica, decostruzionista, nichilista.
Non accettiamo i limiti di una filosofia analitica, rigidamente razionalistica e
logica, impegnata a riflettere sul linguaggio o situata ad un passo dalle
sperimentazioni scientifiche – nonostante tali ricerche possiedano un valore
indiscutibile entro i propri confini – poiché non ci sembra che il compito più alto del
pensiero filosofico possa ridursi a tali ambiti; né sembra possibile che la riflessione
sul problema del mondo, così impostata, risulti in grado di apportare miglioramenti

3
significativi sul piano del percorso di crescita interiore (spirituale, religioso, mistico,
sacrale o come si preferisce) dell’umanità. Come è stato sintetizzato magistralmente
da Panikkar: «La filosofia odierna, dopo i traumi delle due guerre mondiali, non può
accontentarsi di operare solo analisi linguistiche e si trova ad affrontare problemi
esistenziali che appartengono interamente all’ambito degli interessi teologici»1.
D’altronde non possiamo neppure accontentarci di un nichilismo passivo,
inerte e pessimista, che renda inesorabilmente vano ogni umano tentativo di
realizzazione e piena espressione di sé; un’intuizione della vacuità e nullità (non certo
però nel senso dello śūnya del mahāyāna o del mu dello zen) di ogni sforzo di
donazione e perseguimento di senso cui consegue un indebolimento delle umane
possibilità. D’altra parte, proposte non più soddisfacenti provengono
dall’impostazione della teologia protestantica contemporanea, tendente ad
allontanare sempre più la figura del divino in una dimensione trascendente, slegata da
contatti diretti col nostro mondo o totalmente imperscrutabile nelle proprie attività e
relazioni con quello: un Deus absconditus non più significativo per le umane esigenze
spirituali degli dei otiosii epicurei.
Ancora peggiori e largamente superati possono considerarsi i fossili
minoritari del neotomismo che aggirano, trascurano o ignorano le critiche alla
metafisica tradizionale avanzate da Kant2 e, in modo ben più sferzante e perentorio,
da Nietzsche; autore quest’ultimo nel quale è possibile intravedere confusamente i
lineamenti di una nuova immagine del divino, attuale e positiva, in quell’affermazione
dionisiaca che ricorre nei frammenti postumi dei suoi ultimi anni di lucidità – seppur
frammista ad una concezione gerarchica della Wille zur Macht che presta facilmente il
fianco alle accuse di metafisicità avanzate da Heidegger3.

1 Raimon Panikkar, L’Esperienza Filosofica dell’India, trad. it. di M. Nicolosi, Assisi, Cittadella Editrice,
2000, p. 24.
2 Seppur in maniera ambigua e sfumata in particolare nella seconda critica – non si potrà forse mai

stabilire esattamente in che misura e proporzioni dipendenti dall’autentica convinzione dell’autore e


dai limiti della censura ecclesiale.
3 Cfr. Martin Heidegger, Sentieri Interrotti, trad. it. di P. Chiodi, Scandicci, La Nuova Italia, 1984, e in

particolare La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», pp. 191-246. Quanto ai frammenti postumi
nietzscheani facciamo riferimento all’edizione classica dell’opera omnia di Nietzsche a cura di Giorgio
Colli e Mazzino Montinari, Frammenti Postumi 1885-1887, Frammenti Postumi 1887-1888, Frammenti
Postumi 1888-1889, Milano, Adelphi, 19862, Vol. VIII, rispettivamente tomi I, II, III.

4
Dati questi presupposti l’apertura all’alterità culturale si pone come necessità
intrinseca al divenire stesso del mondo occidentale, arenato sugli opposti lidi dello
scientismo, del nichilismo nientificante e del teologismo arcaico: la riscoperta,
l’attualizzazione e la riflessione critica sulle intuizioni sapienziali orientali non vuole
dunque porsi come un interesse estemporaneo o esotico determinato da preferenze
personali; rappresenta piuttosto lo sforzo filosofico più consono alla
contemporaneità occidentale affinché questa possa imboccare un sentiero che le
permetta di sfuggire alle secche dell’assoluta assenza di senso o dell’indicazione di un
senso meramente esteriore e materiale dell’esistenza – fenomenico o edonistico.
L’interculturalità presuppone una messa a nudo delle precomprensioni
etnocentriche, una disposizione all’ascolto – all’autentica ricettività – e inizia con
un’autocritica del valore e dei limiti della propria cultura d’origine, per lasciarsi
fecondare quanto più possibile da un mondo altro. Un dialogo profondo rappresenta
il primo indispensabile passo verso un interscambio culturale fruttuoso, poiché un
blocco del pensiero su convinzioni rigide e dogmatiche non potrebbe che annullare
le possibilità di comprensione reciproca e arrestare un processo di integrazione, nel
seno della propria cultura, di istanze di pensiero e d’azione antropologicamente
differenti dalle nostre – debitamente adattate, reinterpretate e trasformate.
Non vogliamo approfondire in questa sede le complesse problematiche
metodologiche emergenti dalla possibilità e legittimità dell’interculturalità o l’ancora
più spinosa questione dell’ambito semantico del termine ‘filosofia’ e della sua
possibile estensione al di fuori del contesto ellenico in cui sorse. Ci affidiamo, per
ora, al quadro delineato in questo senso dalle ricerche di Panikkar e alla via mediana
(mādhyamika e non mediocritas) tra etnocentrismo chiuso ed esotismo alienante
indicata da Pasqualotto4 – in quanto un approfondimento ulteriore di tali diatribe
richiederebbe uno studio a sé.

4 Con particolare riferimento a Giangiorgio Pasqualotto, East & West. Identità e Dialogo Interculturale,
Venezia, Marsilio Editore, 2003. Per una suggestione simile, seppur contenutisticamente differente, di
una via di mezzo per l’interculturalità cfr. Raimon Panikkar, Religione, Filosofia e Cultura, «Simplegadi»,
Rivista di filosofia interculturale, anno 6, num. 1, febbraio 2001, pp. 45-75, p. 50: «Dobbiamo cercare
una via di mezzo fra la mentalità coloniale, secondo cui possiamo esprimere la totalità dell’esperienza
umana attraverso le nozioni di una singola cultura, e l’opposto estremo che ritiene che non ci possa
essere comunicazione fra le diverse culture e che pertanto esse dovrebbero condannarsi ad un
apartheid culturale per preservare la loro identità».

5
La decisione di restringere il campo d’indagine alla cultura hindū̄, sanscrita in
particolare, è stata presa in seguito ad un intenso studio generale delle maggiori
espressioni di pensiero delle altre galassie filosofico-religiose estremorientali – in
particolare del buddhismo maturo e tardo (soprattutto ch’an e zen), del
confucianesimo e del daoismo. Ci pare infatti che la cultura filosofica indiana possa,
perlomeno limitatamente a certe sue manifestazioni, rispondere più concretamente
alle esigenze del mondo attuale, ai problemi dell’incontro e del dialogo interreligiosi,
alla volontà di riscoperta di un orizzonte spirituale ancora significativo nell’oggi
occidentale: forse per l’appartenenza originaria ad un medesimo contesto culturale
(indoeuropeo) o forse solo per le idiosincrasie dell’autore. D’altronde, in un viaggio
d’esplorazione di questo tipo, non è possibile scindere in maniera netta l’ambito
oggettivo da quello soggettivo – separazione questa operata in Occidente in modo
drastico solo negli ultimi secoli e non necessariamente propria alle esperienze di altri
universi culturali.
L’ulteriore limitazione all’opera filosofica di Aurobindo è poi dovuta al serio
tentativo di sintesi e integrazione tra le culture orientale e occidentale da questi
aperto e all’attenzione dimostrata da una parte alla dimensione religioso-filosofica
indica (advaita in particolare), dall’altra agli interessi materiali e fisico-scientifici della
modernità occidentale e ad alcuni tra i maggiori esponenti della filosofia europea. Il
suo principale testo filosofico (The Life Divine5) si inscrive a pieno titolo nella
tradizione vedāntina post-śaṅkariana tesa a restituire valore ontologico al mondo
materiale e all’esistenza terrestre – checché ne pensi l’autore – ma con l’ulteriore
merito di conferire uno spazio di validità alle indagini dell’Occidente, all’interno di
uno schema di pensiero che permane, globalmente, hindū. L’auspicio e l’indicazione
pratica dell’autore sono rivolti alla possibilità di una realizzazione in questa terra delle
potenzialità divine latenti nel nostro più profondo Sé (l’ātman della tradizione
upaniṣadica): una trasformazione integrale del nostro essere fisico, vitale e mentale
grazie alla luce e al potere provenienti da piani di coscienza superiori e più vasti

5 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, Pondicherry, Śrī Aurobindo Ashram Publication
Department, 2005, Voll. XXI e XXII, The Life Divine. Una buona traduzione italiana, strettamente
fedele al testo originale, è la seguente: Śrī Aurobindo, La Vita Divina, trad. it. di P. De Paolis, Roma,
Edizioni Mediterranee, 1998.

6
rispetto alla mente ordinaria – primi fra i quali, nel processo liberatorio di
allargamento coscienziale, si pongono la Overmind e la Supermind.
La restituzione di centralità alla terra quale campo di realizzazione ed
espressione ontofanica del divino in noi, la fondazione della speculazione metafisica
su esperienze del profondo – yogiche6; la volontà di proporre una soluzione integrale
di suprema armonizzazione dei piani del nostro essere e delle verità parziali formulate
e vissute dalle culture umane sullo sfondo di una concezione del Divino attuale,
seppur antichissima, antidogmatica e onnicomprensiva (di là dalla complessità delle
tematizzazioni e problematizzazioni filosofiche dell’opera che andranno analizzate)
rappresentano, ci pare, intuizioni e coordinate già di per sé encomiabili di un
interesse particolare ai fini di una ricerca che pretenda definirsi autenticamente
filosofica. Legittima ancor più il nostro sforzo il fatto che ben poche pubblicazioni di
carattere prettamente filosofico siano apparse ad oggi su Aurobindo e che l’immagine
ordinariamente offerta del maestro quale massimo yogin, veggente, poeta,
taumaturgo e filosofo che l’umanità abbia mai conosciuto (costruita e sostenuta negli
anni da discepoli e settari) necessiti di una rettifica critica; la quale sia in grado di
valutare con un certo distacco – che non è e non vuol essere un’amorfa avalutatività
scientifica ma nemmeno un’adesione fideistica e incondizionata alle convinzioni
espresse dal pensatore indiano – la portata e i limiti dell’impresa filosofica
aurobindiana.
Considerati la natura e l’oggetto della nostra precedente ricerca7, il presente
testo vorrebbe porsi come la dimostrazione della possibilità di superare le istanze
nietzscheane dopo esserci passati attraverso; di coronare le più felici intuizioni del
pensatore tedesco con l’indicazione e il resoconto (o la traduzione in termini
filosoficamente rigorosi) di un cammino concreto di realizzazione spirituale: un
fondamento sulla forza di una tradizione yogica in grado di apportare una
trasformazione e un’elevazione delle umane possibilità nell’esistenza terrestre – e non
in mistici isolamenti ascetici o spiritualistiche fughe e rinunce al mondo.
6 Guidate da una tradizione millenaria, tecnicamente rigorosissima e intransigente, equiparabile, ma sul
piano interiore, alla sperimentazione scientifica e in nessun caso riducibile ad una sorta di ginnastica
rilassante.
7
Simone Del Pivo, La Fucina dell’Audacia Creativa. La Creatività Abissale di Friedrich Nietzsche e di Joseph
Kosuth, Tesi di laurea triennale in filosofia, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Urbino, relatore
Prof. Fabrizio Scrivano, a.a. 2006/2007, 115 pp.

7
Nietzsche, nella linea interpretativa da noi tracciata – che rappresenta solo
una delle possibilità di scioglimento della complessità del suo pensiero – intraprende
un’acrimoniosa critica contro ogni valore che pretenda di erigersi a fondamento certo
e stabile dell’esistenza per proseguire, in seguito al crollo di ogni senso e alla morte di
Dio, con un nichilismo attivo e dionisiaco che si biforca in due direzioni: l’Umwertung
da un lato – come valorizzazione della potenzialità umana di creare nuovi mondi di
senso relativi ma vitalmente rigeneranti; l’affermazione dionisiaca dall’altro, una mistica
di accoglimento pieno e gioioso della contraddittorietà enigmatica dell’universo e del
suo fondo abissale di χάος dionisiaco, ivi compreso il male puro, nudo e crudo.
Aurobindo prende invece le mosse da un’esperienza spirituale di Brahman quale
Realtà suprema, infinita e ineffabile per mostrare come sia possibile trascendere i
limiti del dualismo mentale e incorporare il divino nella nostra esistenza materiale; e
al contempo dona un senso complessivo e armonioso al divenire universale – fin
troppo univoco e razionalmente coerente, ma tale critica andrà approfondita in
seguito.
Dove l’uno allude più o meno ambiguamente ad un piano superiore
dell’esistenza da cui si ride delle tragedie e commedie umane (l’occhio di Zarathustra) –
un innalzamento energetico che libera l’uomo dalle lacerazioni e dona sempre nuovi
sensi parziali all’esistenza (prospettivismo); l’altro descrive con sobrietà le
straordinarie esperienze sovrarazionali che la sua sādhanā gli ha dispiegato tracciando
un sentiero preciso di realizzazione, sostenuto da una gnoseologia complessa – del
tutto hindū, empiricamente verificabile o falsificabile sul piano dell’esperienza del
profondo.
Influssi nietzscheani su Aurobindo di varia natura e rilevanza sono
certamente rintracciabili in diversi passi di The Life Divine – sempre in implicito, dato
che l’autore indica referenti espliciti del proprio argomentare con estrema parsimonia
e più che altro nei casi di filosofi e scuole orientali8. Ma l’assunto di base per la nostra

8 Un vizio che gli deriva forse dal prolungamento di una consuetudine propria della letteratura indica
tradizionale; cfr. Helmut von Glasenapp, Filosofia dell’India, trad. it. di B. Fracca e G. Gatti, Torino,
Società Editrice Internazionale, 1962, p. 4: «Ciò potrebbe avere la sua spiegazione nell’abitudine
indiana di non trattare affatto le concezioni dei popoli stranieri nei propri scritti: anche nei testi
filosofici del XVI secolo, infatti, non è mai menzionato l’islamismo, nonostante che questo si fosse
ormai acclimatato da gran tempo in vasti territori della penisola indostana».

8
tesi è che la filosofia aurobindiana possa essere considerata una seria possibilità di
oltrepassamento delle ambigue e spesso vaghe speculazioni nietzscheane a partire
dalla medesima volontà di proporre una nuova concezione del divino realizzabile qui,
nella nostra esistenza terrestre – attraverso una trasformazione alchemica delle
potenzialità antropiche ed un’elevazione, estensione e approfondimento del livello
energetico-coscienziale umano.
Potremmo dunque tracciare una certa linea di continuità con le nostre
riflessioni passate, tenendo però conto del fatto che nella presente ricerca sarà
temporaneamente sospesa l’indagine sulla creatività e l’istinto artistico cui avevamo
concesso così ampio spazio – con l’istituzione di relazioni tra il filosofare
nietzscheano e l’operare artistico-concettuale di Joseph Kosuth. Questo non
dovrebbe essere letto però come una volontà di trascurare la forza creativa, in
particolare artistica – che riteniamo ancora uno dei più splendidi e fondamentali
impulsi definienti l’umanità stessa dell’uomo: ma abbiamo preferito concentrarci su
quel percorso interiore e mistico che potrà estendere e rafforzare ancor più l’energia
poietica umana e non cozzare con essa, diminuirne lo slancio, mutilarla o annullarla9.
Passando ad una rassegna più circostanziata dell’oggetto e delle finalità di
questo lavoro riteniamo anzitutto opportuno precisare che solo alcune tematiche
dell’opera filosofica aurobindiana potranno qui trovare accoglimento: infatti
l’ampiezza e la natura proteiforme e onniabbracciante delle questioni poste – e risolte
più o meno felicemente – in The Life Divine si estendono ai più disparati settori
disciplinari della filosofia e del sapere umano in genere, includendo riflessioni di
natura psicologica, gnoseologica, biologica, teologica, metafisica, etica, estetica,
logica, sociologica, antropologica, religiosa, mistica e oltre. Va da sé, inoltre, che
l’intera produzione letteraria extrafilosofica del maestro hindū vada accantonata o

9 Non possiamo non convenire, in questo senso, con la battuta del geniale regista David Lynch, il
quale disse addio al suo psicoterapista già alla prima seduta di analisi dopo aver ottenuto risposta
positiva al quesito: “Pensa che questa terapia possa in qualche modo danneggiare la mia creatività?”.
L’episodio è narrato in David Lynch, In Acque Profonde. Meditazione e Creatività, trad. it. di M. Pistidda,
Milano, Mondadori, 2008, p. 69. Di non secondaria importanza per gli assunti di cui sopra il fatto che
il regista pratichi assiduamente meditazione trascendentale – con l’intento di pervenire al quarto stato
di coscienza del Sé e dell’Essere, turīya; che sia seguace degli insegnamenti del maestro, recentemente
venuto a mancare, Maharṣi Maheś Yogī e che sia un attento lettore delle Upaniṣad. Cfr. anche ibid., p.
106: «Se mediti [...] non perderai la marcia in più. E nemmeno le tue capacità. Infatti, più mediti e più
trascendi, più queste qualità crescono, e te ne rendi conto. Acquisisci una conoscenza più
approfondita di tutti gli aspetti della vita, quando ti immergi in te stesso».

9
parzialmente negletta, per la sede stessa di presentazione della nostra ricerca: pur se
non potremo considerare irrilevanti, per una comprensione globale della figura del
filosofo, gli scritti sul nuovo pū̄rṇa yoga o yoga integrale fondato da Aurobindo (una
sintesi e supremo superamento integrativo degli yoga storici) o il meraviglioso poema
mistico Savitri, opera profetica particolarmente ispirata nonché testo di eccelsa
qualità poetica.
Restringendo ulteriormente le pretese della ricerca non approfondiremo il
discorso sulle fonti aurobindiane, pur non potendo evitare in certuni casi richiami,
confronti o collegamenti che ci sono parsi naturali: e questo sia detto sia degli autori
occidentali che di quelli hindū ed orientali in genere, con una particolare attenzione
riservata a Nietzsche. In effetti il lavoro di ricostruzione degli elementi che sono valsi
da sfondo alla composizione di The Life Divine non ha mosso a tutt’oggi che i suoi
primi passi10 ed è reso ancor più arduo dalla cattiva abitudine aurobindiana di non
citare direttamente, se non in rarissimi casi, filosofi e scuole con i quali entra in
dialogo: ad eccezione di personalità di straordinario rilievo quali Śaṅkara e Buddha
l’autore preferisce limitarsi all’indicazione generica (o, ancor più cripticamente,
all’allusione) dei darśana con cui intreccia dispute – né mai nomina, se non di
passaggio, alcun personaggio filosofico occidentale. Tuttavia, alcune movenze del suo
pensiero sembrano echeggiare piuttosto limpidamente l’influenza di pensatori del
calibro di Hegel, Nietzsche, Bergson, Plotino, Platone, Eraclito11, addirittura
Vincenzo Gioberti; data la sterminata cultura del maestro, profonda e vastissima sia
in campo occidentale12 che orientale, nessun confronto interculturale o intraculturale
potrebbe essere di principio escluso dalla lista: ma questo compito ermeneutico e
filologico, interessante quanto interminabile, non vuol essere il fine precipuo del
nostro lavoro.

10 Un buon testo in questo senso, ma limitatamente alle fonti filosofiche occidentali di Aurobindo, è
l’opera – datata e difficilmente reperibile – di Susil K. Maitra, The Meeting of the East and the West in the
Philosophy of Śrī Aurobindo, Pondicherry, Śrī Aurobindo Ashram, 1956.
11 L’unico filosofo occidentale cui Aurobindo abbia intitolato un breve saggio – l’Heraclitus appunto –

fecondo di spunti interculturali: Śrī Aurobindo, Heraclitus, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit.,
Vol. XIII, Essays in Philosophy and Yoga, pp. 213-254.
12 È bene non dimenticare che il filosofo, per volontà del padre, ebbe una formazione completamente

occidentale in Inghilterra e che solo ventenne, al suo ritorno in India, si immerse nello studio e nella
pratica delle tradizioni del subcontinente.

10
Per quanto riguarda i contenuti di The Life Divine cui dedicheremo
un’attenzione analitica, in primo luogo intendiamo soffermarci sul fondamento
esperienziale che innerva e costituisce l’intimo nucleo dell’opera presa ad oggetto del
nostro studio – in grado di restituire legittimità ad uno sforzo di riflessione e
comprensione metafisiche della realtà affrontando e superando lo scoglio della
kantiana Critica della Ragion Pura. Aurobindo non ontologizza strutture di pensiero
astratte e fumose né ipostatizza elementi esclusi a priori dal vaglio della verifica ma
traduce in termini razionalmente comprensibili – e filosoficamente rigorosi – le
proprie esperienze di natura sovrarazionale (e non arazionale o irrazionale) alle quali
è pervenuto attraverso un’ardua e lunghissima sādhanā yogica.
The Life Divine può essere globalmente intesa quale sforzo di esposizione e
argomentazione filosofica di esperienze spirituali per loro natura altre da quelle
dell’ordinario stato di coscienza di veglia dell’uomo comune; esperienze capaci di
svelare campi dell’Essere imperscrutabili alla consueta percezione dei sensi fisici e di
chiarificare l’enigma dell’universo da una posizione prospettica più elevata ed ampia
anche rispetto alle più nobili formulazioni della mente. L’allargamento e il
trascendimento di coscienza permessi dalla pratica yogica sono i costanti pilastri
esperienziali del pensiero indiano, sostenuti da una gnoseologia ben strutturata e
difficilmente attaccabile: uno sforzo di oltrepassamento dei limiti della mentalità
dualistica e di esplorazione di campi di coscienza che si rivelano manifestazioni
dell’Essere – ontofanie13.
Poste tali coordinate, il compito filosofico che si impone all’interprete di
Aurobindo sarà non certo quello di mettere in questione le scoperte di questi sul
piano interiore e trascendente (la cosa avrebbe poco senso a meno che non
contrapponesse alle esperienze del maestro analoghe esplorazioni dirette degli alti e
profondi territori dell’interiorità) quanto piuttosto di sondare la coerenza interna e la
validità delle argomentazioni filosofiche addotte a sostegno della proposta di senso di

13 Agli scettici bastino queste parole del Vecchiotti: «Sarebbe veramente eccessivo tacciare di
ciarlataneria delle pratiche capaci di sfidare i secoli e la male informata incredulità degli inesperti»,
Icilio Vecchiotti, Introduzione alla Storia della Filosofia Indiana, Urbino, Quattroventi, 1995, p. 104. Per un
approfondimento della portata filosofica ed ontologica dei campi di coscienza – considerati
equivalenti omeomorfi dei concetti della filosofia occidentale – si consulti invece Raimon Panikkar,
L’esperienza Filosofica dell’India, op. cit., e particolarmente pp. 68-76.

11
The Life Divine14. Non risulta dunque possibile instaurare un dialogo alla pari con la
filosofia aurobindiana, data la natura sovracosciente delle esperienze religiose sulle
quali questa riflette: più realistica e umile la pretesa che ci assegniamo di compiere
una ricerca critica sulla natura e i limiti filosofici di taluni spunti, suggestioni e temi
del maestro indiano. Tenteremo dunque di mettere in risalto non solo la grandezza
del maestro – cosa a cui la letteratura su Aurobindo è fin troppo adusa – ma anche le
insufficienze, le fallacie, il carattere scarsamente convincente di alcune soluzioni
proposte: fermo restando che nessuno, se non forse qualche incallito neopositivista,
potrebbe mettere in discussione il fatto che Aurobindo è un grande filosofo, oltre
che un indiscusso maestro spirituale.
In seconda istanza sarà esaminata con una certa accuratezza la concezione
complessiva del Divino che emerge dall’opera secondo lo schema, tipico del pensiero
aurobindiano, di ritorni ciclici sugli stessi temi ad estendere e approfondire ad ogni
voluta di pensiero le caratteristiche specifiche e le implicazioni degli elementi base del
suo filosofare: un procedere spiralico che si rivela come il riflesso stilistico di ben più
profonde convinzioni sulla natura del divenire cosmologico e metafisico, contra un
pensiero schiettamente lineare o noiosamente ciclico. Il Divino è configurato come
intrinsecamente ineffabile (secondo la tradizione del neti neti upaniṣadico),
irraggiungibile dal limitato pensiero e linguaggio umani ma esperibile grazie al
costante sforzo (utsāha) della ricerca interiore ed esprimibile per allusione attraverso
un linguaggio mistico-simbolico ispirato – qual è quello della rivelazione vedica;
tuttavia, contro gli eccessi dell’apofatismo zen, Aurobindo non rifiuta di tentare una
descrizione del divino in termini intellettuali – purché il lettore sia disposto ad
espandere le ristrettezze analitiche e dualistiche della mentalità ordinaria. Così, senza
attaccarci alle parole, affinché non diventino rassicuranti puntelli d’appiglio (non si
insisterà mai abbastanza sulla śūnya śūnyatā di Nāgārjuna e della scuola vuotista), è
possibile parlare di Brahman come: l’Infinito assolutamente libero, la Realtà suprema
e unica onnipervadente, immanente e trascendente; ciò in cui ogni opposto è
riconciliato; causa, sostegno, sostanza e fine del mondo; Signore transpersonale
dell’universo (saguṇa Brahman, Īśvara); pura autoesistenza, coscienza-forza e felicità

14 Rendendo il più possibile flessibili, ampi e plastici gli strumenti di analisi, ché sarebbe vano e
assurdo imporre a tali elevate intuizioni e visioni i criteri di un’indagine meramente logico-razionale.

12
d’essere (il Satcitānanda della tradizione brāhmaṇica); Sé interiore di ogni individuo;
Uno impersonale privo di caratteri e forma (nirguṇa Brahman); Potere di creazione
multiforme (Śakti) che manifesta, abita e sostiene gli enti.
Un Divino che tutto abbraccia, tutto accoglie in sé, identificandosi col cosmo
ma non riducendovisi – in quanto è anche infinita trascendenza, contro il panteismo;
l’Origine che si manifesta nel nostro universo divenendo molteplice pur rimanendo
uno in essenza: spirito e materia al contempo o meglio l’assoluto superamento
conciliativo e armonico di ogni totalità oppositiva – il Tutto e il Nulla, l’Essere e il
non-Essere, l’Uno e i Molti, l’immobilità senza tratti e la δύναµις qualitativa ma
anche ciò che trascende continuamente le coppie dei contrari, l’ineffabile sempre
oltre; la Realtà onnipresente e onnipervadente al di là della quale nulla esiste. Una
formulazione tipicamente advaita che si dimostra in grado di vincere le sfide più
scettiche o nichilistiche della contemporaneità racchiudendo in sé la pluralità
irriducibile delle culture, religioni e filosofie umane – armonizzate da un superiore
principio divino che mette in luce la loro complementarità piuttosto che il loro
carattere oppositivo; un’immagine capace di lasciare spazio alla realizzazione
esistenziale del Divino, qui sulla nostra terra, nel corpo, nel cuore e nella mente – e
non in mondi iperurani, paradisi o aldilà di ogni sorta.
Dovremo poi, nel considerare più da vicino i rapporti intercorrenti tra
Brahman e il mondo, analizzare in che senso Aurobindo intenda l’automanifestazione
progressiva del Divino nella natura o evoluzione spirituale: scelta terminologica,
quest’ultima, quantomai infelice date le precomprensioni che l’occidentale tende a
proiettarvi, anche inconsciamente. Non si tratta, infatti, di un processo evolutivo
biologico-naturalistico à la Darwin o di uno sviluppo delle condizioni di adattamento
materiale, come l’autore esplicitamente sottolinea: ci troviamo piuttosto di fronte ad
una mitologia metafisica dell’avventura dell’Essere che comprende quattro fasi –
simultanee, data la natura sovratemporale (atemporale e temporale in uno) del
Divino: un’originaria involuzione di Brahman autoconcentrato in sé; un processo
devolutivo o evolutivo discendente di dispiegamento delle sue potenzialità latenti
attraverso i piani dell’Essere; l’involuzione nell’opposto apparente del Divino, la
materia nesciente; infine il ritorno ascendente a sé dello Spirito dimentico di sé – fase

13
in cui è riassunto l’intero divenire universale a noi noto e di cui l’umanità rappresenta
solo una tappa, seppur fondamentale.
Non possiamo nemmeno identificare tout-court l’evoluzionismo aurobindiano
con un movimento dell’Assoluto dipanato principalmente nelle epoche storiche
dell’umanità. La speculazione di The Life Divine prende più spesso in considerazione
ere cosmologiche e spazi di tempo incommensurabili (com’è tipico della cultura
hindū̄, decisamente estranea ad interessi prettamente storici) complicando un
raffronto con Hegel – che pur rimane un termine di confronto ineludibile, entro certi
limiti, per la comprensione del maestro indiano. Né Aurobindo è in alcun modo
interessato a giustificare acquiescentemente il divenire storico, come dimostra la sua
attività di rivoluzionario a favore dell’indipendenza politica dell’India o la sua dura
condanna del nazismo. Il progetto di manifestazione del Divino nel cosmo è, in
effetti, troppo complesso e ricco per poter essere ridotto al piano ristretto di una
comprensione mentale immediata e sensata ad ogni passo. La formulazione
evoluzionistica – in cui sembrano essere presenti motivi plotiniani e giobertiani15 –
resta tuttavia tra le più problematiche e insoddisfacenti, dal punto di vista filosofico e
non certo esistenziale, dell’intera opera aurobindiana e dovrà essere vagliata sia nelle
sue potenzialità che nella sua parzialità.
Strettamente connessa all’argomentazione a sostegno della teoria
evoluzionistico-teofanica, la problematica presenza del male – nei termini del dolore
fisico e della sofferenza morale – emerge come uno degli scogli più aspri che la
speculazione aurobindiana si sia presa la briga di affrontare. Costruito lo schema per
cui ogni ente, energia e coscienza è il Divino non è facilmente ammissibile
un’esistenza diffusa e massiccia di elementi apparentemente non-divini quali il male,
l’errore, la falsità e l’ignoranza – che pure appaiono alla nostra percezione come
fenomeni incontestabilmente reali e duraturi. La spiegazione a questo proposito
risulta debolmente persuasiva, sia che si diffonda sull’eterno ed imperturbabile
Ānanda divino alla base di ogni esistenza e attaccamento alla vita, sia che recuperi gli
obsoleti argomenti della teodicea occidentale. Dal piano di coscienza ordinario, in cui
la sensazione del male si offre in modo estremamente concreto, orribile e perentorio,

15 Si ricordi la formula «l’Ente crea l’esistente e l’esistente ritorna all’Ente».

14
non sembra possibile pervenire ad un qualche scioglimento pieno e definitivo della
questione; l’unica soluzione plausibile sembra l’accettazione coraggiosa del male nella
sua nudità pura e cruda, nel suo nonsenso dionisiaco: ciò che fece Nietzsche,
rinunciando però ad una spiegazione comprensibile. L’enigma del male è un altro
nodo particolarmente tenace del filosofare di Śrī Aurobindo, declinato in differenti
modi e attaccato da vari lati ma che sembra sempre sfuggire alla presa della
comprensione razionale, domandando un richiamo costante a livelli di coscienza
superiori affinché illuminino la via.
Se il male discende, come sostenuto, dalle attuali limitazioni di una mente
analitica e separatrice e quindi, in ultima istanza, da un potere d’ignoranza della
natura fondamentale del Brahman – l’Avidyā del Vedānta classico – potremmo
convenire, ma solo in sede ipotetica, con l’affermazione aurobindiana che un
allargamento e un’elevazione coscienziali dell’individuo o della razza umana verso la
conoscenza spirituale integrale (piuttosto jñāna, γνῶσις o σοφία che non
ἐπιστήµη) possano estirpare dalle radici le forze diaboliche che il Divino produce e
accetta in sé16. Ma una tale soluzione non ci permette una migliore comprensione
teoretica della necessità del male dal punto di vista dell’attuale livello di mentalità cui
l’umanità è pervenuta; né tantomeno di dirigere efficacemente la nostra azione nel
presente al fine di migliorare le terribili condizioni di esistenza di milioni di bambini
stremati dalla fame o ridotti in schiavitù o di porre fine alle scie di sangue che
conflitti armati in ogni angolo del mondo trascinano dietro di sé. Poiché la
partecipazione al dolore del mondo è così intensa e potente per le nostre menti e i
nostri cuori, davvero non possiamo considerare sufficiente la riduzione aurobindiana
del problema del male ad una questione di parzialità gnostica.
Infine è nostra intenzione soffermarci su una delle più luminose intuizioni del
maestro, ovverosia l’indicazione della possibilità di incarnare esistenzialmente nel
nostro mondo materiale la conoscenza e il potere superiori di Satcitānanda: il

16 Per quanto possa suonare strano o incredibile ad orecchie occidentali – abituate a dualismi teistici
che hanno ormai fatto, riteniamo, il loro tempo – in un’ampia concezione advaita, coerentemente, le
oscure potenze delle tenebre non possono risiedere che in Brahman stesso come suoi poteri o
strumenti: in particolare, la forza di separazione ignorante dall’unità originaria e onnipresente – da cui
ogni male, ingiustizia e falsità sono fatti derivare – si configura quale potere frontale, subordinato e
temporaneo di concentrazione dell’energia coscienziale divina.

15
delineamento dell’opportunità di condurre una vita divina debordando dalle
limitazioni degli impulsi vitali, mentali e fisici che attualmente imprigionano il nostro
essere, alla volta di un’esistenza davvero piena, armonica, integrale, traboccante di
beatitudine; la quale giungerà a configurare un livello superiore di evoluzione per la
razza – una rivoluzione che porterà alla luce una nuova specie di esseri,
superumana17. Il percorso di realizzazione di una tale, alchemica, infusione di Spirito
nella Materia è tracciato in modo preciso, con l’esposizione di una psicologia
antropica pluristratificata che lascia spazi piuttosto ristretti al dialogo e all’obiezione –
in quanto sperimentata a fondo e ripetutamente dal maestro e dai suoi discepoli.
Nell’apertura yogica alle parti più recondite, segrete e vaste del nostro essere interiore
subliminale e della nostra entità psichica (piuttosto ātman o puruṣa che non ψυχή o
anima) si dà la possibilità di un contatto con le sfere sovracoscienti – oltre che
subcoscienti e infrarazionali – dell’Essere; e con ciò stesso diviene realizzabile una
discesa di facoltà divine superiori nella nostra quotidiana esistenza di veglia – a
trasfigurare le porzioni inferiori del nostro essere ad immagine di Quello.
Nessuna fuga dal mondo, nessun rifugio in condizioni estatiche trascendenti:
la luce della coscienza e potere divini si insedia nella sostanza materiale del nostro
universo, rende possibile l’immortalità individuale, estende a dismisura i poteri di
comunicazione, conoscenza e creazione umani; dona una felicità piena e ininterrotta,
supera le barriere del tempo lineare e permette un’integrazione armonica della
molteplicità nell’unità, un’azione potente nel mondo esteriore e un silenzio calmo e
immutabile nell’interiorità, lo scioglimento di ogni opposto nel suo opposto-
complementare.
L’unica critica che ci sentiamo di avanzare dinanzi ad un tentativo così nobile,
elevato e utopico di risanamento delle lacerazioni psicologiche e dei drammi nevrotici
che accompagnano l’attuale vita dell’umanità – nonché di allargamento e
potenziamento delle facoltà note e ignote del nostro complesso essere – è quella per
cui non ci sembra filosoficamente convincente il carattere di inevitabilità e necessità
attribuito al divenire predeterminato dell’evoluzione spirituale verso un progresso

17 Il confronto che si impone immediatamente con lo übermensch nietzsheano, pur sostenuto da alcuni
interpreti, è escluso seccamente dallo stesso Aurobindo a causa dell’incapacità del pensatore tedesco di
oltrepassare i limiti dei piani vitale e mentale dell’essere umano.

16
della razza umana al piano supermentale. Ridurre i movimenti svariatissimi, ordinati e
accidentali, del divenire universale ad un unico e preciso τέλος sembra una scelta
troppo semplicistica e razionalisticamente coerente per concordare con la massa
problematica di dati offertaci dalla meccanica quantistica, dall’astronomia, dalla
biologia, dall’etologia e dall’antropologia contemporanee. Inoltre, l’intendimento del
pūrṇa yoga quale metodologia di accelerazione cosciente di un’evoluzione che,
seppur più lentamente e faticosamente, perverrebbe autonomamente, per suo
proprio movimento intrinseco, al medesimo compimento supermentale e ad una
nuova vita della razza appare – ma esclusivamente da un punto di vista teoretico –
come una concezione deresponsabilizzante gli umani sforzi di liberazione; così la
concezione di un evoluzionismo spirituale finisce per ridursi ad una
predeterminazione inibente le infinite possibilità dell’Infinito di lasciare un campo
d’azione all’imprevedibilità, a processi più liberi e casuali, a traiettorie miste o
semplicemente ad una līlā cosmica diversamente organizzata.
Ciò nonostante, se intesa come auspicio e intima speranza, l’intuizione
aurobindiana della possibilità del conseguimento di una vita divina sulla terra
permane come una delle stelle più brillanti nella volta delle prospettive filosofico-
religiose contemporanee – i due aspetti non sono e non furono mai perfettamente
scindibili nella cultura indica. Una delle suggestioni più incredibili e affascinanti che
l’intelletto umano abbia mai prospettato, la concreta promessa di un futuro migliore:
qui è il seme fertile gettato da un maestro spirituale ancora in grado di confrontarsi
con il mondo attuale e di comprenderne le multiformi aspettative, di rispondere alle
esigenze di senso ultimo di un’umanità infelice, nichilista, agnostica, scientista,
appiattita sulla soddisfazione di desideri materiali o arroccata su posizioni religiose
anacronistiche.
Un’avventura della coscienza ancora tutta da compiere, un’esplorazione
audace di territori ignoti, una trasmutazione alchemica del nostro essere, una
liberazione integrale dai vincoli dell’imperfezione, un viaggio alla volta del Sé e delle
sue infinite potenzialità: tanto offre la filosofia e l’esperienza di vita di Śrī Aurobindo,
in un anelito divino che dischiude nuovi radiosi orizzonti all’avvenire dell’umanità.

17
Capitolo primo

L’esperienza yogica

An equal of the first creator seers,


Accompanied by an all-revealing light
He moved through regions of transcendent Truth
Inward, immense, innumerably one1

Prima di addentrarsi nel cuore del filosofare aurobindiano è necessario


soffermarsi su quella pratica e, più estesamente, su quella tensione di fondo della
cultura indiana – fulcro principe della spiritualità hindū – che è lo yoga: sforzo di
ricongiungimento (<yuj, unione, giogo) all’essenza divina che risiede nel più
profondo sé come nell’intimità di ogni altro ente per mezzo di tecniche psicofisiche
messe a punto nei secoli, trasmesse fedelmente e aggiornate sino all’età moderna.
L’intera religiosità indiana è yogica nel senso dell’orientamento ultimo delle proprie
energie. Più specificamente tuttavia lo yoga si configura quale esperienza di
purificazione psichica e corporea, di allargamento coscienziale e di esplorazione di
piani dell’Essere più ampi ed elevati del mondo così come fisicamente e mentalmente
lo conosciamo; le sue tecniche e metodologie sono codificate in manuali tecnici di
rigore scientifico, sbalorditivamente precisi e quasi interamente intonsi dagli urti
storici – ancor oggi efficaci nel guidare il percorso del ricercatore spirituale.
Si tratta di un ordine di verità diverso ed esistenzialmente assai più
significativo di quello scientifico ma altrettanto sperimentale e rigoroso: la fede non
vi ha che un ruolo secondario e propedeutico, laddove il sādhaka è costantemente
invitato a verificare in prima persona la validità degli assunti yogici e a pervenire per
sforzo proprio alla conoscenza e conquista del Divino. Nulla a che vedere con verità
di carattere soggettivo o affettivo, con illusioni autoindotte o mondi immaginifici:
«Non ci vengono descritti concetti, ma campi ontologici che non vogliono essere

1Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXXIII-XXXIV, Savitri, Libro II,
Canto XV, vv. 72-75, p. 299.

18
chimere soggettive ma dimensioni nuove della realtà»2. L’esperienza yogica toglie il
velo a facoltà cognitive ulteriori latenti nell’umana natura e discopre campi
coscienziali più vasti corrispondenti a strutture ontologiche, a stati e modi dell’Essere
sconosciuti al pensiero occidentale moderno, concreti ma più fluidi rispetto
all’universo fisico: in alcun modo descrivibili quali credenze più o meno opinabili, nel
momento in cui la loro esperienza si imponga perentoriamente alla psiche e al
complesso fisico del ricercatore, espandendone le potenzialità di conoscenza e di
azione sul mondo. Le tecniche yogiche ed i loro risultati «devono essere
accuratamente distinti da pratiche magiche o fenomeni di allucinazione e simili»3.
Il riconoscimento della legittimità e centralità dello yoga nell’alveo del
subcontinente indico è il passo decisivo da compiersi nell’apertura interculturale
quale conditio sine qua non del dialogo con i mondi di senso hindū. Qualora
precomprensioni di ordine materialistico o scientistico rifiutassero l’accoglimento di
un ascolto autentico delle esperienze yogiche, viziando dall’inizio dell’incontro lo
studio con un’avalutatività incapace di penetrare i significati reconditi delle dottrine4 il
confronto sarebbe votato al fallimento e, di più, reso impossibile. Allo stesso modo
in cui l’occidentale esige – e si sforza di ottenere con ogni mezzo – l’approvazione
dei metodi scientifici5 così l’indiano richiede altrettanto fermamente la ratifica delle
modalità gnoseologiche altre dischiuse dallo yoga. Mondi di conoscenza ignoti alla
contemporaneità occidentale eppure non talmente estranei al pensiero greco
pitagorico, eracliteo, neoplatonico o a certa mistica medioevale da escludere a priori
una qualsivoglia analogia interculturale in questo senso: che il pensiero e le pratiche
occulte siano poi degenerate in Occidente nella più rozza magia, nella più bieca
superstizione, in voli metafisici puramente fantasiosi o in società teosofiche sedicenti
filosofiche – insieme di espressioni culturali di livello quantomai infimo – è
unicamente responsabilità nostra, non imputabile a tali ambiti in sé e da cui è

2 Raimon Panikkar, L’esperienza Filosofica dell’India, op. cit., p. 15.


3 Ibid., p. 75.
4 Maschera di un non troppo velato disprezzo per misticismi cosiddetti fumosi ma che, nella gran

parte dei casi che l’India ci propone, risultano limpidissimi e accettabili anche dal più raffinato
intelletto.
5 Forma mentis, peraltro, che l’India ha assimilato fin troppo a fondo, al punto di perdere contatto con

le proprie radici, come dimostra l’attuale orientamento accademico positivista delle più importanti
università indiane, nonché l’ingresso nel mercato capitalistico globalizzato e lo sviluppo economico
sempre più rapido – frutti della secolare dominazione coloniale britannica.

19
necessario distinguere nettamente quello yoga che rappresenta la trama principale nel
tessuto della più alta cultura hindū.
Non si darebbe filosofia indiana se questa non fosse sostenuta e pervasa da
esperienze spirituali potenti, cogenti e inconfutabili: il filosofo indico è quasi sempre
anche yogin, devoto a Śiva o Viṣṇu, fondatore di centri religiosi o āśram. Le sue
parole sono intimamente intrise di verità interiori, esperienziali, alle quali egli tenta di
fornire una formulazione mentale, comprensibile e confutabile sul piano
dell’intelligenza ordinaria.
Aurobindo non fa eccezione, seppure non nasca hindū ortodosso bensì
all’oscuro della propria tradizione e della stessa lingua madre (nel suo caso, il
bengalese) sino all’età adulta. Educato all’occidentale direttamente in Inghilterra,
matura in campo religioso convinzioni dapprima atee, poi agnostiche. Tornato in
patria al servizio del mahārāja di Baroda, ma colmo di fervore nazionalista, dedica le
proprie energie alla propaganda in favore dell’indipendenza indiana e
all’organizzazione di gruppi rivoluzionari: il suo interesse per lo yoga è tardivo e
connesso ai suoi fini politici, in quanto intende servirsi del potenziamento energetico
procurato dalla disciplina spirituale al fine di rendere più efficace la sua azione a
detrimento del governo britannico. Si accosta dunque allo yoga quasi per caso, senza
ricevere un’iniziazione formale e senza affidarsi, se non per un primo breve periodo,
al supporto di un maestro. Nelle sue parole, in terza persona:

neither did he ever take any formal diksha from anyone. He started his sadhana at Baroda in 1904 on
his own account after learning from a friend the ordinary formula of Pranayama. Afterwards the only
help he received was from the Maharashtrian Yogi, Vishnu Bhaskar Lele, who instructed him how to
reach complete silence of the mind and immobility of the whole consciousness. This Sri Aurobindo
was able to achieve in three days with the result of lasting and massive spiritual realisations opening to
him the larger ways of Yoga. Lele finally told him to put himself entirely into the hands of the Divine
within and move only as he was moved and then he would need no instructions either from Lele
himself or anyone else6

6 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XXXVI, Autobiographical Notes, p. 91.
Abbiamo deciso di citare Aurobindo in inglese, sua effettiva lingua madre, in tutti i casi in cui sia stato
possibile reperire le sue opere in lingua originale (la più recente edizione dell’opera omnia, curata come
la precedente dall’āśram di Pondicherry, non è ancora completa) non solo per scrupolo filologico, ma
per restituire qualcosa della potenza classica e magnificamente austera della sua prosa.

20
Tuttavia, col trascorrere del tempo, l’ampiezza di conoscenze e visioni del Divino
rese possibili dall’intensa sādhanā lo condurranno progressivamente alla cessazione
delle attività politiche e alla dedizione esclusiva alla pratica yogica. Nonostante ciò la
sua attenzione per le vicende sociopolitiche mondiali rimarrà vigile nei decenni di
isolamento a Pondicherry dal 1910 alla morte: un’enclave francese in cui Aurobindo e
la sua collaboratrice spirituale francese, Mirra Alfassa, meglio nota come Mère,
fondarono nel 1926 un āśram a tuttoggi esistente. Già durante l’anno di prigionia che
Aurobindo dovette scontare ad Alipore, dal maggio 1908 al maggio 1909 in quanto
indagato nel cosiddetto Alipore Bomb Case, il suo coinvolgimento nelle vicende
politico-terroristiche, nonostante lo colpissero in prima persona, fu così scarso da
fargli considerare la reclusione quale occasione di meditazione ininterrotta e
profonda e la cella quale luogo di romitaggio spirituale. «God took me to a prison
and turned it into a place of meditation and His trysting-ground»7. Al termine del
processo, sia detto per dovere di cronaca, Aurobindo fu assolto per mancanza di
prove.
Abbandonato al Maestro interiore risvegliato in lui, alla Guida divina cui
arrese l’intero complesso della personalità egoistica di superficie, Aurobindo
continuò la sua pratica privo del sostegno e del conforto di guru viventi che ne
indirizzassero il cammino, saldamente stabilito entro le linee tracciate
dall’insegnamento della Bhagavad-Gītā̄, delle Upaniṣad e solo più tardi dei Veda. Nel
tempo andò costituendo i pilastri di uno yoga proprio, non certo assolutamente
innovativo e rivoluzionario – in quanto fondamentato sull’ortodossia vedica8 – ma
relativamente originale nella pretesa di riunire in una sintesi conciliativa superiore, in
un’armonia integrale, le principali scuole e tendenze della storia yogica indiana9.

7 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XII, Essays Divine and Human, p. 428.
8 Espressione questa da prendersi con le pinze, considerati gli ampi margini di libertà dottrinale che
l’induismo, complesso di religioni accomunate da alcuni principi comuni piuttosto che religione strictu
sensu, ha da sempre concesso. La dialettica tra invenzione e tradizione è sempre complessa e sottile nel
pensiero aurobindiano ma va comunque intesa piuttosto come lo sforzo di completamento o
attualizzazione della cultura hindū alla luce del contesto psicologico e sociale contemporaneo che non
come un capovolgimento o un’annichilazione delle sue istanze.
9 I tre sentieri classici karma, bhakti, jñāna o yoga delle opere e del sacrificio, dell’amore e della

devozione, della Conoscenza o gnosi, lo yoga tantrico, l’haṭhayoga e il rājayoga – in una


schematizzazione quantomai generale e semplificata.

21
Originale anche nella volontà – ciò che forse rappresenta l’inclinazione più
tipicamente occidentale di Aurobindo – di trasformare l’intera nostra natura inferiore
non divina (mentale, vitale e fisica) plasmandola a immagine del Divino, di tradurre
sulla terra, nel grado ontologico della materia vitalizzata e mentalizzata che l’uomo
rappresenta, i poteri superiori dei campi dell’Essere attualmente sovracoscienti. Un
pūrṇa yoga o yoga integrale in grado di abbracciare ogni aspetto della realtà, ogni sua
sfaccettatura separata e conflittuale in un tutto armonico: un’unità non meramente
quietistica o irenica quanto piuttosto risultante da un complesso di energie
polarmente contraddittorie in perfetto equilibrio – capace di spiegare e far fronte in
tutta la sua complessità all’enigma dell’universo.
Deciso nella valorizzazione della natura terrestre e contro le tendenze al
rifiuto del mondo, predominanti in alcune importanti scuole yogiche, Aurobindo
abbandona fermamente ogni pretesa ascetica ed ogni rifugio esclusivo nel silenzio
dello Spirito:

It ought to be well known to everybody that Sannyas was never accepted by him as part of his yoga;
he has founded an Asram in Pondicherry but its members are not Sannyasis, do not wear the ochre
garb or practise complete asceticism but are sadhaks of a yoga of life based on spiritual realisation10

È possibile in effetti attribuire un certo limitato valore all’austerità ascetica


nelle prime fasi del percorso di realizzazione, quando il sādhaka non sia ancora
divenuto padrone dei propri istinti animali inferiori, della pulsione al piacere carnale
o al desiderio vitale. Ma dal momento in cui l’anima di desiderio egoistica sia stata
soggiogata non resta più alcun serio motivo di perseverare in questa direzione – a
meno che il fine yogico coscientemente perseguito non sia quello di ritirarsi dalla vita.

It is almost universally supposed that spiritual life must necessarily be a life of ascetic spareness, a
pushing away of all that is not absolutely needed for the bare maintenance of the body; and this is
valid for a spiritual life which is in its nature and intention a life of withdrawal from life11

10 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XXXVI, Autobiographical Notes, pp.
93-94.
11 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 1103.

22
In termini ancora più duri: «La salvezza non consiste nel ridurre, mediante
l’estasi, il nostro essere attivo all’immobilità della zolla di terra o della pietra»12. Nella
stessa direzione sono orientate le affermazioni tese a sottolineare la possibilità, più
ardua ma non irrealizzabile, di pervenire alle massime vette dell’esperienza spirituale
nell’ordinaria condizione coscienziale di veglia – non in trance né in una meditazione
autoconcentrata, dimentica del mondo esterno: «Nor is this extension of faculty
really impossible but only more difficult in our waking state, – as is known to all who
have been able to go far enough in certain paths of psychological experiment»13. Le
ricorrenti critiche – anche filosofiche, come avremo modo di vedere14 –
all’illusionismo māyāvāda, all’estinzione nirvāṇica buddhista e in genere ad ogni
risoluzione monastica di separare definitivamente la vita spirituale dalla possibilità di
una possente azione sul mondo simboleggiano le istanze di un maestro sì votato al
Divino ma in nessun caso intenzionato a sminuire il valore della realtà materiale –
anch’essa, a suo modo, manifestazione di alcune potenzialità di Brahman.
D’altronde, com’è tipico del procedere argomentativo aurobindiano, nessuna
critica assume una portata assolutamente annichilante e distruttiva. Ogni verità ed
esperienza possiede, per il fatto stesso di esistere, un valore ed una collocazione
ontologiche proprie, intangibili nel dominio loro proprio in quanto espressioni divine
di divine potenzialità. Il senso e la giustificazione di una qualsivoglia critica si danno
qualora una posizione per sua natura parziale, limitata e autocentrata pretenda allo
scioglimento dell’intero problema del mondo. Nell’ordinamento del reale secondo
cui ogni asserzione, anche contraddittoria, è vera in taluni gradi ontologici ma non in
tutti – data la complessità infinitamente onnicomprensiva di una realtà teofanica –
l’unico vero errore possibile è il riduzionismo, l’esclusivismo, la volontà di
schematizzare dogmaticamente in maniera semplicistica una realtà fluida,
multilaterale, inafferrabile mentalmente per l’infinità che le è intrinseca e di cui è
manifestazione.
Una visione che possa definirsi autenticamente integrale dovrà tener conto di
ogni posizione prospettica relativa assegnando a ciascuna validità e confini e

8 Śrī Aurobindo, Lo Yoga della Bhagavad Gītā, trad. it. di E. Nata, Roma, Edizioni Mediterranee, 19902,
p. 321.
13 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 69.
14 Cfr. più avanti, pp. 75-85.

23
tentando una sintesi15 complessiva. Ogni espressione culturale umana rappresenta il
tentativo, più o meno conscio, di rivelare una faccia dell’Infinito, per ciò stesso
qualificandosi come divina nel tenore propositivo, troppo umana nella settaria
sopravvalutazione di sé. Il senso di illusorietà del mondo può dunque rivendicare una
ragion d’essere per il ricercatore che sia stato condotto dalla propria esperienza
spirituale ex abrupto su piani ontologici altri – in quell’immobilità dell’Essere che di
primo acchito vanifica e sfuma la realtà agitata di un mondo di Divenire. Una
conquista parziale, una meta in itinere, non la suprema verità d’essere multiuna
dell’Infinito.
Qualsiasi disciplina spirituale richiede un’adeguata preparazione dell’aspirante
ricercatore, una propedeutica catartica affinché i domini superni dell’Essere si
palesino alla coscienza. La possibilità di elevarsi al di sopra della ristretta mentalità
dualistica è data ad ogni essere umano, a prescindere da etnia, formazione, talento o
inclinazione ma non è immediatamente fruibile: richiede un’aspirazione quanto più
possibile intensa e totalizzante, uno sforzo costante e l’applicazione continuativa a
tecniche purificatorie di rilassamento dell’agitazione mentale16 e delle abitudini
sclerotiche del corpo. Questo non dovrebbe stupire l’Occidente, la cui epistemologia
scientifica esige una preparazione teorica lunga e complessa:

it is not every untrained mind that can follow the mathematics of relativity or other difficult scientific
truths or judge of the validity either of their result or their process [...] so, in fact, all men can have a
spiritual experience and can follow it out and verify it in themselves, but only when they have acquired
the capacity or can follow the inner methods by which that experience and verification are made
possible17

15 Il termine, proprio del vocabolario aurobindiano, presenta senza dubbio echi hegeliani, pur se la
sintesi auspicata dal maestro indiano risulti di carattere concreto – trasformativo anche in senso fisico
– evitando la reclusione in un tentativo di conciliazione puramente mentale e razionale, per quanto di
una logica complessa e attenta alla realtà. Il problema rimane comunque su di un piano piuttosto
astratto qualora si tenga conto del fatto che Aurobindo, per sua stessa ammissione, non lesse alcuna
opera hegeliana né subì alcuna influenza da saggi dedicati al filosofo di Stoccarda. Più plausibilmente
potremmo forse considerare il termine come traduzione etimologica di samādhi, suprema meta dello
yoga, stato di somma concentrazione e unificazione al Divino – da cui, forse, anche il titolo della più
importante opera aurobindiana sullo yoga, The Synthesis of Yoga, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op.
cit., Voll. XXIII–XXIV.
16 «It is only when we follow the yogic process of quieting the mind itself that a profounder result of

our self-observation becomes possible», Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit.,
Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 322.
17 Ibid., p. 677.

24
A differenza della classica presentazione patañjaliana, Aurobindo non si
dilunga particolareggiatamente sulle proibizioni (yama) ed osservanze (niyama)
morali (i primi due passi nell’ottuplice cammino dello Yogasūtra) né insiste
sull’importanza delle posture corporee (āsanas)18 o sulle tecniche respiratorie
(prāṇāyāma) – queste ultime furono abbandonate dal maestro dopo soli pochi mesi
di pratica. Il persistente monito aurobindiano si concentra principalmente
sull’imperativo dovere di svuotamento dell’ego e delle sue pulsioni e desideri animali
antidivini, sul definitivo abbandono della ristrettezza coscienziale dualistica –
interessata e sospinta da preferenze personali, arbitrii, inclinazioni irrazionali, prese di
posizione di parte, intolleranze, odii e gretti conflitti sostenuti da una volontà di
autoaffermazione e dominio sull’alterità:

Suffice it at present to observe that the absence or abolition of separatist egoism and of effective
division in consciousness is the one essential condition of the divine Life, and therefore their presence
in us is that which constitutes our mortality and our fall from the Divine. This is our “original sin”, or
rather let us say in a more philosophical language, the deviation from the Truth and Right of the
Spirit19

Successivamente, a mano a mano che l’indebolimento dell’ego sortisca effetti


sempre più ampi e duraturi, il nucleo non solo propedeutico ma perenne della
sādhana integrale si rivelerà quale gesto di surrender nelle mani della divina Guida:
l’abbandono totale, l’incondizionata sottomissione alla volontà del Divino, lo
spegnimento del desiderio individuale alla volta di un più universale cammino di
realizzazione.

a concentration in the heart, austerity, self-purification and rejection of the old mind movements and
life movements, rejection of the ego of desire, rejection of false needs and false habits, are all useful
aids [...] but the strongest, most central way is to found all such or other methods on a self-offering
and surrender of ourselves and of our parts of nature to the Divine Being, the Ishwara. A strict

18 «Per queste concentrazioni, la posizione del corpo non ha importanza. Spesso mi concentro
camminando», citato da Piero Scanziani, Aurobindo, Chiasso, Elvetica, 1973, p. 133.
19 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 169.

25
obedience to the wise and intuitive leading of a Guide is also normal and necessary for all but a few
specially gifted seekers20

Naturalmente – e non potrebbe essere altrimenti – un percorso che vede nel


fine della psicologia occidentale contemporanea (il risanamento pieno delle patologie
nevrotiche e laceranti che dimorano nelle profondità abissali della nostra psiche)
unicamente un primo passo preparatorio al processo di liberazione vero e proprio e
nelle mete degli altri yoga (nirvāṇa, risiedere beato nella pura immobilità del nirguṇa
Brahman) soltanto fasi sempre più elevate ma non ancora definitive di attingimento
pieno di una vita divina, impone al ricercatore una forza e un coraggio che
necessitano di essere saldamente sostenuti da un’aspirazione al Divino – che è nella
sua essenza missione e vocazione, dedizione assoluta e senza macchia. La stessa
aspirazione che troviamo in posizione chiave, nelle prime righe di The Life Divine: «the
divination of Godhead, the impulse towards perfection, the search after pure Truth
and unmixed Bliss, the sense of a secret immortality»21. E che tradizionalmente, nella
cultura hindū, è indicata quale requisito essenziale e preliminare dello jñāna-mārga:
«Mumukṣutva sarebbe lo stato esistenziale di un’ardente aspirazione alla realizzazione
o salvezza (mukti) [...] L’aspirazione a conoscere l’Assoluto, o il desiderio di
conoscere brahman, è condizione indispensabile per cominciare a scalare la difficile
via della gnôsis»22.
L’originalità della proposta aurobindiana non costituisce mai, né qui né
altrove, rottura secca con la tradizione quanto piuttosto compimento e adeguamento
alla modernità di istanze antichissime, di portata sovrastorica. La stessa insistenza sul
carattere di integralità della visione filosofico-esistenziale può ancora essere
circoscritta allo spirito caratteristico dell’induismo nella sua «pretesa di integralità. La
spiritualità hindū pretende di cogliere l’uomo intero, la sua testa, il suo cuore e la sua
azione»23. Aurobindo stesso, con l’usuale deferenza dimostrata ai capisaldi scritturali
induisti, riconosce umilmente l’origine primeva dello yoga integrale – in grado di
ricondurre ad un’unità plurale le polimorfe discipline spirituali gnostiche, devozionali

20 Ibid., pp. 940-941.


21 Ibid., p. 3.
22 Raimon Panikkar, Il Dharma dell’Induismo, trad. it. di M. Carrara, Milano, BUR, 2006, pp. 126-127.
23 Ibid., p. 268.

26
e pragmatiche – nella perla filosofica incastonata entro i versi del poema epico
classico Mahābhārata: «Lo yoga della Gītā non è dunque un semplice karma-yoga,
come taluni credono, il più basso dei tre sentieri dello yoga classico, ma uno yoga
supremo, sintetico ed integrale, che dirige verso Dio tutte le facoltà del nostro
essere»24.
Lo spendersi così prolungato sullo yoga, sui suoi sforzi, metodologie e
obiettivi non dovrebbe essere considerato, a scanso di equivoci, un arbitrario excursus
al di fuori delle linee di una ricerca filosofica: a rischio di risultare ripetitivi
affermeremo nuovamente il legame intimo e incontrovertibile della disciplina
spirituale (sādhana) con l’esposizione razionale e argomentativa (darśana) che da
quella direttamente discende – e che non potrebbe reggersi se non in forza di
un’ampliata capacità di discernimento, visione, consapevolezza, attuazione risultanti
dalla pratica concentrativa. L’intera produzione filosofica aurobindiana rappresenta
solo secondariamente un impegno in quanto tale del pensiero logico, piuttosto
strumento di comunicazione con la mentalità ordinaria che non organo foriero di
sapienza. Scevro del supporto esperienziale, l’edificio metafisico sarebbe destinato a
crollare miseramente su se stesso, sotto la furia dei dardi di una kritik kantiana ben
nota a un Occidente sin troppo ammaestrato sui pericoli dei voli celesti della ragione.
Ma una volta che si sia accettata la validità di un’esperienza altra da quella
fisico-scientifica, basata su sensi e intelletto e sorda alle istanze religiose25 non
potremo davvero più nutrire alcun dubbio sulla possibilità di tornare a pensare
metafisicamente, schernendo come fantasmi lontani le obiezioni della coscienza
filosofica occidentale. Posta la centralità dell’esperienza yogica rispetto anche al
pensiero in quanto tale si potrebbe azzardare una descrizione di The Life Divine quale
manifesto di una filosofia a rovescio, che cioè non aspira alla sapienza ma che
possiede e procede dalla sapienza alla sua esposizione. Si tratta del tentativo di
tradurre in concetti e parole umane un disegno e una verità divini già conosciuti per
tramite di facoltà gnostiche ultrarazionali: una Umwertung unicamente permessa
dall’espansione delle facoltà esperienziali (e dunque cognitive) umane, che terremota i

24
Śrī Aurobindo, Lo Yoga della Bhagavad Gītā, op. cit., p. 127.
25 Non in virtù, si badi bene, di un accoglimento fideistico, dogmatico o emozionale quanto di un
invito a percorrere un cammino che i maestri spirituali sfidano a disconfermare sul terreno
dell’esperienza.

27
presupposti kantiani in questo senso ma che vuole anche accettare nelle sue linee
fondamentali lo svolgimento ulteriore della sua prima critica. Senza voler scomodare
il filosofo di Königsberg, ma nello stesso spirito Aurobindo afferma: «This self-
knowledge pursued far enough shows us a deeper than the surface mind [...] If there
were not this capacity of research, we would have to be content with an unsatisfied
agnosticism»26. Nulla a che spartire con un misticismo invasato dal furore religioso,
irrazionale e chiuso al dialogo: il pensiero aurobindiano, abituato ad un limpido e
rigoroso argomentare, non mostra in nessuna occasione cedimenti di lucidità né si
dispiace nel concedere al pensiero ateo e materialistico quello spazio veritativo che
essi meritano e possiedono.
L’esercizio del pensiero, la speculazione astratta, il gusto per il dialogo, la
confutazione delle più disparate obiezioni, l’inappuntabile chiarezza espositiva
abbondantemente profusi in The Life Divine non dovrebbero in nessun caso
distogliere dalla mente del lettore il valore subordinato del ragionamento astratto nei
confronti di un fondamento esperienziale yogico cui ogni asserzione aurobindiana,
foss’anche la più squisitamente teoretica, reclama di essere ricondotta. Di qui la
critica a castelli di carte teorici che, se pur rigorosamente coerenti al loro interno e
formalmente inattaccabili, sono sottoposti al continuo rischio di essere spazzati via
con tutto il loro apparato logico-filosofico da una sola, determinante esperienza
interiore: «a single decisive spiritual experience may undo a whole edifice of
reasonings and conclusions erected by the logical intelligence»27. Spingendoci un po’
oltre le affermazioni di Aurobindo potremmo considerare tutte le filosofie non
sedimentate su tecniche yogiche – o più latamente meditative – di purificazione del
pensiero come irrimediabilmente parziali, condizionate dalle limitazioni del mentale
dualistico se non anche egoistico e determinate da inconsci stimoli provenienti
dall’ambiente culturale o dalla preferenza personale. Il che non eliminerebbe il
quoziente di verità loro dovuto ma costituirebbe un filtro più o meno deformante
alla loro capacità di osservazione del reale così com’è.

26Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XII, Essays Divine and Human, p. 181.
27Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, pp. 485-
486.

28
Dovremo anche costantemente tener presente l’inadeguatezza e le intrinseche
limitazioni di un’indagine circoscritta all’ambito mentale eppure tesa ad esprimere o
indicare nel modo più appropriato possibile verità spirituali di ordine altro e
superiore rispetto alle ordinarie. Verità non perfettamente assimilabili nella loro
pienezza da modalità gnoseologiche mentali e dualistiche e più compiutamente
comprensibili nella sfera della conoscenza intuitiva, del linguaggio simbolico e sacro
vivido di immagini significanti il Divino – quale fu quello dei Veda e, in parte, delle
Upaniṣad, modalità linguistiche ignote all’Occidente moderno, appena esplorate
dall’Also Sprach Zarathustra e dal secondo Heidegger – o, ancora meglio, direttamente
esperibili nella pratica spirituale28. «It is necessary in a philosophic inquiry to confine
oneself mostly to this intellectual presentation, but it is as well to remember that this
is only the abstraction of the Truth and to seize it completely or express it completely
there is needed a concrete experience»29.
Pur non essendo uno storico della filosofia e senza aver mai compiuto studi
filosofici accademici, anzi lucidamente consapevole dei propri limiti in questo senso
tanto da evitare di considerarsi filosofo a pieno titolo, Aurobindo raccolse la sfida
lanciatagli dall’allora marito di Mirra Alfassa30, tale Paul Richard, dubbio occultista e
politicante, il quale propose allo yogin la pubblicazione di un settimanale filosofico
bilingue – anglofrancese. La rivista prese il titolo di Arya: apparvero qui a puntate, dal
1914 al 1921, le principali opere aurobindiane (tra le quali The Life Divine, poi riveduta
e ampliata negli anni 1939-40), per un totale di circa quindicimila pagine pubblicate –
che rappresentano quantitativamente quasi la metà della sua opera omnia. Tale
stupefacente prolificità, accompagnata da una sempre densissima profondità di
pensiero mai scadente nella banalità o nella ripetitività fine a se stessa, non dovrebbe
impressionare, dati alcuni presupposti yogici. Il raggiungimento di piani di coscienza

28 Cogliamo qui l’occasione per sottolineare come i termini ‘spirito’ e ‘spirituale’, così polisemicamente
ambigui e fors’anche filosoficamente insostenibili di per sé, siano utilizzati da Aurobindo con un
significato del tutto peculiare ed estremamente preciso inerente non certo a qualche fantasma della
mente o a mondi onirici, ma generalmente alla sfera superiore dell’Essere ancora ignota all’ordinaria
esperienza umana – comprendente il triuno Satcitānanda e la Supermind. Confronti con il πνεῦµα
paolino o con il Geist hegeliano sarebbero certamente auspicabili e fecondi, ma qui ci basti restituire le
basi proprie del pensiero aurobindiano primariamente connesse alla cultura hindū classica.
29 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 373.
30 La donna che avrebbe accompagnato il maestro nel percorso yogico sino alla morte e che avrebbe

proseguito la sua opera di trasformazione sino alla sua stessa dipartita nel 1973.

29
ultramentali ha permesso infatti al maestro un controllo pieno e non ostacolato delle
facoltà mentali, una facilità di pensiero e di scrittura inimmaginabili, un contatto con
il piano della Higher Mind da cui sgorgano spontaneamente i più alti e puri pensieri –
attinti dall’esterno, da quel mondo della Mente universale in cui i concetti risultano
già formati e costituiti. In una parola, per chi sia ormai situato al di sopra della mente,
in orizzonti spirituali vastissimi, la completa espressione di potenzialità mentali
assopite o attingibili solamente a costo di grandi sforzi dalla coscienza ordinaria è
poco più di un divertissement, un gioco da bambini – poiché, come ebbe a dire una
volta Huston Smith31, rispetto a saggi e santi noi tutti siamo ancora bambini.
L’Arya fu il dono della saggezza aurobindiana all’umanità: un dono
sperimentale per uno yogin propenso a considerare senza mezzi termini la filosofia
occidentale nella sua interezza, tranne rare eccezioni, una massa di astrazioni
intellettuali aliene dalla realtà. Chiuso quel capitolo, Aurobindo si dedicò per un
ventennio alla stesura intensissima delle epistole ai suoi discepoli, senza più curarsi di
pubblicare altro, ma solo di rivedere e correggere l’opera già compiuta – se
escludiamo di considerare il Savitri, cui il maestro lavorerà sino alla morte. Potremmo
considerare l’Arya come il sacrificio dell’intelletto aurobindiano alle esigenze di
comprensione ordinaria e occidentale delle verità dello Spirito, un abbassarsi umile e
generoso del maestro al piano mentale affinché le sue parole potessero risuonare più
ampiamente alle orecchie del mondo. Purtroppo però la diffusione delle idee
aurobindiane, anche a causa dei discepoli più inclini alla santificazione e
divinizzazione del maestro (che già criticò in vita tali atteggiamenti degli āśramiti nei
suoi confronti) avvenne tramite una becera volgarizzazione che canalizzò il suo
pensiero entro il vortice del movimento New Age, deprivandolo della dignità, nobiltà,
elevatezza, rigore e complessità che gli competono. Anche per un’opera di – debito –
revisionismo storico-filosofico ci è sembrato più che appropriato approfondire una
figura così negletta nel panorama delle pubblicazioni accademiche mondiali quanto
fin troppo adulata in numerosi libercoli devozionali di bassa lega.
Le stesse affermazioni aurobindiane sul ruolo preliminare ma transitorio della
fede ci rendono edotti sulla serietà di un maestro spirituale che amò sempre coltivare

31Cfr. Huston Smith, Le Grandi Religioni Orientali, trad. it. di G. Barravecchia, Carnago (Varese),
Sugarco, 1991, p. 43.

30
il libero pensiero, al riparo da ogni dogmatismo e imposizione di opinioni –
massimamente aperto al dialogo e alle obiezioni dei discepoli, dapprima in
conversazioni serali e in seguito per tramite epistolare. La fede ha un valore analogo a
quello della zattera buddhista: una volta che si sia raggiunta l’altra sponda, possiamo
tranquillamente disfarcene. Sarebbe anzi alquanto stupido rimanervi attaccati, poiché
la fede sarà confermata da esperienza, conoscenza e visione e solo uno stolto avrebbe
bisogno di credere a ciò che vede e conosce direttamente:

While we still labour under the stress of the dualities, this perception must no doubt constantly
support itself on an act of faith, but a faith which the highest Reason, the widest and most patient
reflection do not deny, but rather affirm. This creed is given, indeed, to humanity to support it on its
journey, until it arrives at a stage of development when faith will be turned into knowledge and perfect
experience32

In sostanza ed in definitiva, la conoscenza del senso ultimo delle cose quale


fine precipuo del filosofare è collocata sul piano yogico o più generalmente al livello
di quell’esperienza spirituale che attraversa e fondamenta le culture. Un’idea di cui
forse furono consapevoli i primi φιλόσοφοι greci nel distinguersi e definirsi
umilmente tali di fronte alle certezze ben più salde dei loro illustri predecessori, i
σοφοί33. Una sapienza cui corrisponde, risuonando analogamente, la Vidyā del
Vedānta: «Ancient Indian thought meant by knowledge a consciousness which
possesses the highest Truth in a direct perception and in self-experience; to become,
to be the Highest that we know is the sign that we really have the knowledge»34.
Continui i richiami in The Life Divine, sovente anche nel bel mezzo di
speculazioni apparentemente astrattissime, alle esperienze yogiche che fungono da
pilastri portanti del sistema35 filosofico aurobindiano, costante reminiscenza della

32 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 37. In
termini più poetici: «When the realisation comes, the faith divinely fulfilled and completed will be
transformed into an eternal flame of knowledge», Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo
op. cit., Voll. XXIII–XXIV, The Synthesis of Yoga, p. 83.
33 Per un approfondimento della questione si veda Giorgio Colli, La Nascita della Filosofia, Milano,

Adelphi, 200419.
34
Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 712.
35 Sistema quanto mai complesso, aperto, fluido e intrinsecamente incatalogabile per la varietà e la

ricchezza di stimoli, tendenze, opinioni e dottrine che felicemente vi convergono occupando ciascuno
una precisa posizione all’interno di un amplissimo spettro visuale, configurantesi quale impostazione

31
fonte originaria della conoscenza. Non ipotesi arbitrarie o preferenziali da vagliare e
dimostrare ma certezze spirituali da esporre, giustificare razionalmente, ordinare e
temprare contro obiezioni e Weltanschauungen differenti, di cui è messa in luce
l’inconsistenza o più spesso la parzialità.
Dedicheremo ora la nostra attenzione ai risultati esperienziali più
filosoficamente fertili di cui Aurobindo dà testimonianza in The Life Divine, non
potendo ovviamente pretendere alla completezza in questo senso (il suo Record On
Yoga occupa due volumi delle opere complete, per un totale di quasi millecinquecento
pagine) ma tentando di fornire un’idea della vastità e profondità di conoscenze
dispiegate dalla pratica yogica. In prima istanza la sādhana disvela il nostro più
profondo sé, immobile, silenzioso, puro, luminoso, raggio del Divino che ogni ente
custodisce in sé. L’ātman upaniṣadico che infine giunge alla consapevolezza della
propria identità col Brahman ma senza perdere il proprio carattere individuale nella
fusione completa con il Divino; il Puruṣa del Sāṁkhya che tuttavia scopre, dietro
l’apparentemente automatico assenso alle operazioni di Prakṛti, la possibilità di
reagire, scegliere e rifiutare, farsi sovrano attivo delle energie del mondo36. Forse a
causa di tali emendamenti alla tradizione Aurobindo coniò l’espressione psychic being
(anche psychic entity o caitya puruṣa) per definire la personalità profonda, la Persona
divina segreta che dimora in noi, l’anima: «if we learn to live within, we infallibly
awaken to this presence within us which is our more real self, a presence profound,
calm, joyous and puissant of which the world is not the master – a presence which, if
it is not the Lord Himself, is the radiation of the Lord within»37. Una perpetua
sensazione di gioia pura accompagna ogni contatto del vero Sé col mondo esterno,
anche i più dolorosi urti che scuotono la coscienza superficiale, rivelando un bagliore
del divino Ānanda: infatti, poco più sotto, Aurobindo fa riferimento all’ultimo dei
cinque involucri o gusci (la guaina della beatitudine o ānandamayakośa) che secondo

filosofica ultramentale e per ciò stesso antisistematica – nell’ordinario senso dell’espressione: «all
systems are in their nature transitory and incomplete», Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī
Aurobindo, op. cit., Vol. XII, Essays Divine and Human, p. 431.
36 «This mental being or Purusha first appears as a silent witness [...] But afterwards we find that the

Purusha, the mental being, can depart from its posture of a silent or accepting Witness; it can become
the source of reactions, accept, reject, even rule and regulate, become the giver of the command, the
knower», Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine,
pp. 322-323.
37 Ibid., p. 112.

32
la tradizione hindū ricoprono l’ātman come veli sempre più spessi sino al corpo
grossolano o alimentare.
È poi possibile percepire e risiedere nella pura autoesistenza di Sat,
nell’Essere immoto immune da ogni divenire: la trascendenza al di là della divisione e
del mutamento, aliena dal mondo di energie transeunti che è dato immediatamente ai
nostri sensi organici superficiali. Con grande acume, onde evitare fraintendimenti,
Aurobindo si affretta però subito ad affermare la complementare realtà ontologica
del Divenire, in nessun modo ferita o dissolta dall’esperienza dell’Esistente-in-sé. Il
che impedisce all’interprete di etichettare riduzionisticamente la filosofia
aurobindiana come da un lato esclusivamente trascendente, māyāvādica, o dall’altro
come schiettamente assertrice di un Divenire incessante che non lasci spazio a
dimensioni divine ulteriori – a mo’ di Nietzsche, Bergson o del buddhismo vuotista
più intransigente e coerente, (non di Eraclito, che Aurobindo vede, nel già citato
saggio sul filosofo greco, come conciliatore delle realtà dell’Essere e del Divenire):

there is a supreme experience and supreme intuition by which we go back behind our surface self and
find that this becoming, change, succession are only a mode of our being and that there is that in us
which is not involved at all in the becoming [...] The pure existent is then a fact and no mere concept;
it is the fundamental reality. But, let us hasten to add, the movement, the energy, the becoming are
also a fact, also a reality38

Insomma, ad ogni piè sospinto, se lo yogin non si stanca di sottolineare la


verità e la certezza di esperienze spirituali mentalmente inconcepibili e inattingibili
quali realtà alla percezione fisica – fondamento primo di ogni altra conoscenza –
d’altro canto mai si permette di negare la consistenza ontologica del mondo
materiale, l’importanza delle ricerche scientifiche (per le quali dimostra un interesse
sopra l’ordinario, trattandosi di un filosofo profondamente immerso nella
cosmovisione hindū), i benefici che secoli di materialismo e ateismo hanno apportato
all’Occidente contro le rozze superstizioni di intelletti opachi e non educati al
ragionamento rigoroso. «Atheism is a necessary protest against the wickedness of the
Churches and the narrowness of creeds. God uses it as a stone to smash these soiled

38 Ibid., pp. 84-85.

33
card-houses»39. Un’attenzione senza cedimenti alla materialità, alla terra, al corpo che
ricorda l’orientamento nietzscheano e che in genere rappresenta forse la tendenza più
tipicamente occidentale del pensiero di Aurobindo: una tendenza tuttavia già
presente in nuce nella rivalutazione del mondo messa in atto dal tardo Vedānta (basti
pensare allo Śuddhādvaita di Vallabha40).
Tra i più importanti risultati della sādhanā si situa lo svelamento yogico
dell’integralità degli aspetti del Divino in tutta la loro complessità – che andremo ad
analizzare più compiutamente da un punto di vista filosofico nel prossimo capitolo41.
Un brano autobiografico conciso ma estremamente importante segnala quattro
fondamentali esperienze sulla via della conoscenza di Brahman, tutte necessarie alla
ricostruzione di un’immagine del Divino proteiforme, difficilmente recintabile entro
una precisa posizione o scuola teologiche – piuttosto tendente ad unificarle tutte. La
prima decisive esperienza spirituale scese su Aurobindo come un dono dall’alto dopo
soli tre giorni di concentrazione con Lele e fu come un oceano di silenzio: il nirguṇa
immobile, trascendente, senza tratti e relazioni, eternamente di là dal mondo,
beatamente puro e autoesistente, al cui confronto gli enti si disfano come illusioni. La
seconda fu quasi l’opposto della prima, quando nel carcere di Alipore Aurobindo
conobbe Brahman cosmicamente, come uno con l’universo e i suoi enti,
onnipresente in tutto ciò che ci circonda, dinamicamente attivo nel mondo, dotato di
tutte le qualità, saguṇa. Più tardi occorse l’esperienza conciliatrice di queste opposte
facce del Divino: il Parabrahman comprendente in un abbraccio sintetico la passività
immota ma vibrante di ogni potenzialità e la multiforme Śakti creatrice sorretta dal
silenzio. Infine, una percezione sempre più netta delle gradazioni dell’Essere e delle
scale in grado di condurre alla Supermind e oltre, per poi calarne leggi e poteri nel
nostro universo. Nelle parole del maestro:

39 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XII, Essays Divine and Human, p. 456.
40 Vallabhācārya (1479/89-1530/3) è il fondatore della dottrina, poi istituzionalizzatasi in scuola,
dell'adualismo non maculato, cioè non macchiato da māyā. In questa filosofia il mondo e la
molteplicità sono reali in quanto manifestate da Viṣṇu. Il Divino può manifestarsi, attraverso la sua
śakti, occultando la propria ānanda – in forma di anima individuale – o celando al contempo ānanda e
cit – in forma materiale. La māyā prodotta da Viṣṇu è in effetti una conoscenza fallace e può dunque
ridursi ad avidyā: in definitiva dunque il mondo è reale ma l'anima ignorante ne ha una concezione
distorta.
41 D’altronde tutte le tematiche del filosofare aurobindiano sono intimamente interconnesse e

rimandano le une alle altre come in un gioco di specchi da cui si perviene, al termine del percorso, ad
una visione estremamente frastagliata e multilaterale quanto al contempo profondamente unitaria.

34
the four great realisations on which his yoga and his spiritual philosophy are founded. The first he had
gained while meditating with the Maharashtrian Yogi Vishnu Bhaskar Lele, at Baroda in January 1908;
it was the realisation of the silent spaceless and timeless Brahman gained after a complete and abiding
stillness of the whole consciousness and attended at first by an overwhelming feeling and perception
of the total unreality of the world, though this feeling disappeared after his second realisation which
was that of the cosmic consciousness and of the Divine as all beings and all that is, which happened in
the Alipore jail [...] To the other two realisations, that of the supreme Reality with the static and
dynamic Brahman as its two aspects and that of the higher planes of consciousness leading to the
Supermind, he was already on his way in his meditations in Alipore jail42

Data una tale complessità risulterebbe comunque inappropriata e limitante


una definizione precisa della posizione aurobindiana, integrante conclusioni ed
esperienze di varie scuole yogiche, dottrine teologiche nonché idee nuove. Parlare di
advaita è sicuramente appropriato ma troppo generico: senza pretendere a troppo
sbrigative schematizzazioni, cercheremo di lasciar emergere il pensiero aurobindiano
in tutta la sua ricchezza e fecondità affinché risulti spontaneamente chiara la
connotazione integrale del suo filosofare aduale. Sia sufficiente per ora riconoscere la
multilateralità dell’esperienza yogica che mai si arena su realizzazioni esclusive,
procedendo a sempre nuove conquiste, con il gusto della ricerca e della
sperimentazione. Se il Sé immobile, la pura Trascendenza è una realtà inconfutabile –
e con ciò si riempie di valore l’intero māyāvāda – arrestarsi sul senso di illusorietà del
mondo che tale conoscenza reca con sé quale iniziale e ingenuo corollario è dogma
del ricercatore che non abbia il coraggio di procedere oltre. «There is no more
benumbing error than to mistake a stage for the goal or to linger too long in a
resting-place»43. Con l’avanzare della consapevolezza, una coscienza sempre più
ampia giunge a riconoscere e armonizzare le più contraddittorie esperienze del
Divino, lasciando emergere una verità superiore dell’Infinito che sempre trascende le
opposizioni del mentale attestandosi su posizioni mediatrici via via sempre più
comprensive.

42 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XXXVI, Autobiographical Notes, p. 94.
43 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XIII, Essays in Philosophy and Yoga, p.
209. Cfr. anche: «Even divine realisations must not be clung to, if they are not the divine realisation in
its utter essentiality and completeness», Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll.
XXIII–XXIV, The Synthesis of Yoga, p. 334.


35
Nel ragionamento filosofico sull’esperienza del Divino quale ci si presenta in
The Life Divine la priorità sembra essere assegnata alla già di per sé articolata
esperienza upaniṣadica di Satcitānanda: Dio di pura esistenza, coscienza – che in
Aurobindo è sempre Cit–Śakti, forza e potere coscienti, mai astratto pensiero44 – e
felicità d’esistenza. «Our fundamental cognition of the Absolute, our substantial
spiritual experience of it is the intuition or the direct experience of an infinite and
eternal Existence, an infinite and eternal Consciousness, an infinite and eternal
Delight of Existence»45: attributi infiniti ed eterni non solamente nel senso di
un’estensione spaziotemporale indefinita ma soprattutto per l’ulteriorità e la
trascendenza dell’Assoluto nei confronti delle categorie e dei fenomeni di spazio e
tempo – un Divino incondizionato da leggi di realtà che sono intese quali sue
emanazioni.
Satcitānanda: un ossequio alla più antica tradizione hindū, cui fa da
contraltare una polemica sempre viva contro i più recenti (relativamente) illusionismi.
Illusionismi che costituiscono uno dei principali bersagli critici aurobindiani non
tanto per l’esperienza di estinzione del sé egoico e del mondo da essi veicolata
quanto per il manto di esclusività di cui questi vestono la propositività affermatrice
della loro visione interiore – isolandosi dogmaticamente dal dialogo con altre
esperienze, altrettanto valide e accertabili, del Divino. Passo necessario alla completa
e finale realizzazione, in quanto discoprente il carattere trascendente dell’Assoluto, il
neti neti upaniṣadico così come il nirvāṇa buddhista non devono essere confusi con la
meta suprema del cammino yogico46, integrante i multipli gradi di manifestazione
dell’Essere – ivi compreso l’apparentemente incosciente mondo materiale – in
un’ampia prospettiva che non disprezza nulla, nemmeno quei fenomeni che appaiano
totalmente privi di natura divina. Una delle direttive dello sforzo filosofico
aurobindiano è anzi la volontà di spiegare alla ragione umana e di collocare a buon

44 Ad evitare distorsioni del pensiero aurobindiano si tenga conto del fatto che in questa cosmovisione
la coscienza umana rappresenta solo un grado intermedio di consapevolezza, non ontologicamente
originario, e che il Cit spirituale o coscienza divina cui Aurobindo allude, vera fonte dei gradi di
consapevolezza inferiori (supermentali, mentali, vitali, fisici) è una coscienza-di-Unità, onnisciente e
onnipotente, attualmente ignota all’uomo e sovracosciente rispetto alle sue possibilità mentali. Ancor
più grossolano sarebbe l’errore di confondere il Cit con la coscienza morale.
45 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 328.
46 «it is an essential realisation, but not the total realisation», ibid., p. 361.

36
diritto entro un’onnicomprensiva teofania proprio quelle manifestazioni di falsità,
sofferenza e male che il nostro livello di coscienza è, a ragion veduta, tanto restio ad
ammettere.

At the stage when from the mental it has to move towards its supramental status, one most
liberatingly helpful, if not indispensable experience that may intervene is the entry into a total Nirvana
of mentality and mental ego, a passage into the silence of the Spirit. In any case, a realisation of the
pure Self must always precede the transition to that mediating eminence of the consciousness from
which a clear vision of the ascending and descending stairs of manifested existence is commanded and
the possession of the free power of ascent and descent becomes a spiritual prerogative47

Poiché la conoscenza è sempre legata ad un potere, ad una effettiva


dinamizzazione – e questo anche nel caso, seppur alquanto limitato nei risultati, del
pensiero umano – l’esperienza di campi di coscienza superiori reca come sua naturale
conseguenza la possibilità, per il ricercatore che abbia maturato una sicurezza e
facilità d’accesso a tali zone, di spostarsi a piacimento tra i livelli inferiori e superiori
(a seconda del grado di ampiezza e sempre minore occultamento delle potenzialità
divine mano a mano che si ascenda) della manifestazione.
Gli illusionisti risultano parzialmente giustificati nelle loro conclusioni solo
dal senso di irrealtà del mondo che accompagna i primi passi dell’esperienza
nirguṇica:

For at the gates of the Transcendent stands that mere and perfect Spirit described in the Upanishads,
luminous, pure, sustaining the world but inactive in it, without sinews of energy, without flaw of
duality, without scar of division, unique, identical, free from all appearance of relation and of
multiplicity, – the pure Self of the Adwaitins, the inactive Brahman, the transcendent Silence. And the
mind when it passes those gates suddenly, without intermediate transitions, receives a sense of the
unreality of the world and the sole reality of the Silence which is one of the most powerful and
convincing experiences of which the human mind is capable48

Fase attraversata dallo stesso Aurobindo mentre era ancora pienamente


immerso nelle attività politiche, mentre pronunciava discorsi, presiedeva riunioni del

47 Ibid., p. 332.
48 Ibid., p. 26.

37
Congresso, redigeva articoli: dunque, dobbiamo supporre, un’esperienza
estremamente convincente e potente, non solo frutto psicologico dell’isolamento
eremitico. Ma ad una fase più avanzata del cammino yogico, legittimata se non altro
dalla volontà di trovare una conferma in se stesso dell’esperienza tramandata dalle
Upaniṣad di un Brahman che è tutto – anche uomo, animale e materia – sarà possibile
ridimensionare tale prima apparenza nel quadro di una posizione elevata che abbracci
simultaneamente tutti gli stati di coscienza e, di conseguenza, tutti i mondi dell’Essere
nell’armonia che è loro propria.

there need be no perception of an illusionary Maya, there is only an experience of the passage from
Mind to what is beyond it [...] In this transition it is possible to be awake to all the states of being
together in a harmonised and unified experience and to see the Reality everywhere. [...] This sense of
unreality and this sublimating passage are the spiritual justification for the idea of a world created by
Maya; but this consequence is not conclusive, since a larger and more complete conclusion
superseding it is possible to spiritual experience49

Ogni esperienza del Divino è vera e valida nel suo campo: il dualismo
teistico della bhakti, non solo induista, che adora un Dio personale, Īśvara,
protettore, provvidente e dotato di somme qualità di Amore, Conoscenza, Potere,
Bellezza, Giustizia, Verità; il monismo impersonalistico dell’Uno senza secondo,
libero da forme e relazioni con il mondo, privo di qualità, silenzio trascendente; il
panteismo che identifica massicciamente le energie universali col Divino; le più
sfumate e complesse posizioni advaitine, transpersonali, né moniste né dualiste. Dato
un tale multiprospettivismo divergenze dottrinali o conflitti teologici possono
emergere nell’ambito della ragione logica e discorsiva, la quale tende a separare o
rendere incompatibili esperienze troppo vaste per poter essere incorporate entro la
sua limitata capacità di intendimento. Ma si tratta semplicemente di una barriera
dell’intelletto ordinario, un’ignoranza fondamentale della natura unitaria del mondo e
del Divino nelle loro più varie declinazioni, fonte di dispute interminabili o, peggio,
di cruenti scontri di religioni e civiltà i quali mettono in evidenza la ristrettezza di
vedute dei contendenti piuttosto che la loro ragione o il loro torto.

49 Ibid., p. 469.

38
Nell’alveo dell’esperienza spirituale, che trascende in ogni caso e in ogni
realizzazione del Divino, sia pure la più parziale, la mera razionalità dualistica e
separativa nessuna diatriba o conflitto intellettuale potrà ancora avere un senso e un
ruolo. Non che il pensiero sia inesorabilmente destinato a spengersi o la filosofia
tutta a decadere progressivamente sino ad un’estinzione definitive: piuttosto
l’esercizio del pensiero sarà fecondato da un’apertura autentica all’alterità quale frutto
dell’esperienza spirituale di unità fondamentale degli esseri. La ragione amplierà le
proprie potenzialità sulle fondamenta di un dialogo massimamente ricettivo, non più
interessato a difendere egoisticamente posizioni parziali e settarie: sarà la legge della
reciprocità, dell’interscambio amorevole di conoscenze a condurre il gioco, non la
cieca legge dell’affermazione personale.

It is the intellectual reason that crystallises and perpetuates an apparent contradiction by creating its
opposite or dividing concepts of the Brahman, the Self, the Ishwara, the individual being, the supreme
consciousness or superconscience and the Mayic world-consciousness. If Brahman alone exists, all
these must be Brahman, and in Brahman-consciousness the division of these concepts must disappear
in a reconciling self-vision; but we can arrive at their true unity only by passing beyond the intellectual
Reason and finding out through spiritual experience where they meet and become one and what is the
spiritual reality of their apparent divergence50

Oltre alle tendenze conflittuali della ragione dovremmo anche essere capaci
di temperare le pretese assolutistiche delle stesse esperienze spirituali, ognuna delle
quali induce un perentorio convincimento di verità ed un irresistibile sentimento di
definitività cui il ricercatore attento non dovrebbe arrendersi prima di aver
completato il proprio percorso interiore. Lo yoga integrale diffida di tutte le
parzialità, di tutti i sedicenti esaustivi risultati qualora trascurino un qualche aspetto
dell’esistenza, della realtà mondana o della trascendenza. Sempre contro il māyāvāda:

An overwhelming self-evident convincingness, an experience of absolute authenticity in the realisation


or experience is not an unanswerable proof of sole reality or sole finality: for other spiritual

50 Ibid., p. 480.

39
experiences such as that of the omnipresent Divine Person, Lord of a real Universe, have the same
convincing, authentic and final character51

Il pūrṇa yoga, nella coincidenza o almeno nella stretta interrelazione tra


metafisica e psicologia che lo caratterizza – come fu notato da Jean Herbert,
discepolo francese di Aurobindo52– svela, parallelamente alle esperienze di Dio, la
pluristratificata natura psicologica dell’essere umano, colma di reami ontologici
ulteriori rispetto all’esteriorità mentale, vitale e fisica. Nell’interiorità ospitiamo un
essere subliminale estremamente vasto, in contatto con i mondi-tipo (statici e non
evolutivi come quello materiale, stando alla posizione aurobindiana) della Mente
universale, della Vita universale e del fisico-sottile, racchiudente domini subcoscienti
ancora inferiori, fangosi, nescienti e porte di accesso ai mondi sovracoscienti della
Overmind, Supermind e, infine, a Satcitānanda stesso. Ancor più in profondità risiede
l’essere non più grande di un pollice, fulcro dell’intera nostra esistenza, dietro il cuore
della fisicità grossolana, di cui parlano le Upaniṣad: l’essere psichico, la vera anima, il
fuoco eternamente ardente del Divino in noi. Ci soffermeremo più diffusamente
sulla psicologia aurobindiana nell’ultimo capitolo del presente lavoro dedicato
all’essere gnostico, rappresentante ideale della vita divina, nel ricostruire il percorso
volto alla materializzazione delle potenzialità supermentali53.
Filosoficamente centrale l’apertura di ulteriori e superiori facoltà cognitive
latenti realizzabile tramite il percorso yogico anche tradizionale, grazie a cui
l’allargamento dell’esperienza psicologica si dimostra in grado di configurare
un’epistemologia di credibilità elevatissima – dotata di peculiari strumenti conoscitivi
e precise modalità di verifica, altre da quelle ordinariamente note alla mente fisica ma
non meno rigorose. Un primo strutturato accenno in questo senso compare nel
capitolo ottavo del libro primo di The Life Divine, significativamente intitolato The
Methods of Vedantic Knowledge. Nella ricerca di tipologie cognitive superiori rispetto a
quelle basate sui sensi fisici Aurobindo allude in prima istanza alla ragion pura

51 Ibid., p. 484.
52 Cfr. Śrī Aurobindo, Métaphysique et psychologie, textes groupés, traduits et préfacés par Jean Herbert,
Parigi, Michel, 1988.
53 Il confronto dell’impostazione psicologica aurobindiana con le intuizioni freudiane e junghiane

risulterebbe naturalmente interessante e proficuo ma esula dai limiti della presente ricerca.

40
kantiana, la quale non può tuttavia pretendere ad una solidità convincente e permane
in un’aura di irrealtà, di idealità astratta non confermabile da fattualità esperibili – sarà
dunque necessario distogliere l’attenzione dalla reine Vernunft per rivolgersi a facoltà
conoscitive saldamente ancorate al terreno dell’esperienza.

The complete use of pure reason brings us finally from physical to metaphysical knowledge. But the
concepts of metaphysical knowledge do not in themselves fully satisfy the demand of our integral
being. [...] every concept is incomplete for us and to a part of our nature almost unreal until it
becomes an experience. [...] Therefore, some other faculty of experience is necessary by which the
demand of our nature can be fulfilled and this can only come, since we are dealing with the
supraphysical, by an extension of psychological experience54

Ma il luogo principe di esposizione ragionata ed ampia della tematica è il


capitolo decimo del libro secondo, Knowledge by Identity and Separative Knowledge, una
vera e propria lezione di gnoseologia hindū all’Occidente, interamente derivata dalla
pratica yogica e, caso raro, pronunciata piuttosto dogmaticamente, senza che siano
avanzati dubbi, obiezioni, ipotesi alternative – tanta è la sicurezza legittimata dalla
ripetuta esperienza diretta e dalle conferme, forti e millenarie, della tradizione.
Quattro sono i modi principali della conoscenza: per identità, formula originale e
pienamente veritiera, esito dell’identificazione completa tra soggetto conoscente e
oggetto conosciuto conseguibile tramite la pratica meditativa ed integralmente
liberatoria e soddisfacente in quel momento finale in cui il ricercatore pervenga alla
comunione con Brahman, Quello per mezzo del quale tutto il resto è conosciuto. Per
contatto diretto associato all’identità, forma mista propria del subliminale, già
macchiata da una lieve ignoranza. Per separazione associata a contatto diretto,
modalità intermedia tra la conoscenza ordinaria e una prima apertura ad una
cognizione di ordine superiore. Per separazione, conoscenza acquisita tramite lo
sforzo congiunto di sensi ed intelletto, tipica del pensiero scientifico moderno55,
limitata, incerta e ignorante quanto alle questioni metafisiche.

54 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, pp. 67-
68.
55 Non possiamo dire altrettanto delle più complesse modalità di ricerca della meccanica quantistica –

senza entrare nel merito del dibattito tra ortodossia copenagheniana e le varie forme di eterodossia
epistemologica comunque utilizzate con profitto entro i frastagliati margini della fisica contemporanea

41
Sul piano della mente ordinaria si dà conoscenza per identità esclusivamente
in relazione alla nostra propria esistenza soggettiva o nei casi in cui forti passioni si
impadroniscano di noi al punto da causare un’amnesia momentanea della personalità
– e allora diveniamo la collera, la sofferenza, l’amore o la gioia che proviamo; un caso
simile è sperimentabile con un’immersione nel pensiero talmente completa da
distogliere la nostra attenzione da ogni altro oggetto, ivi compresi noi stessi. In
situazioni meno estreme ci è possibile identificarci con i nostri sentimenti
mantenendo al contempo un certo distacco osservativo, non interamente separativo
ma proprio di una conoscenza per contatto diretto («a kind of balanced double
identity by division»56).
Non è un caso che Aurobindo inizi l’analisi con riferimenti attinti
all’esperienza quotidiana, in quanto l’intero The Life Divine può essere inteso quale
sforzo di esposizione di verità sapienziali in un linguaggio quanto più possibile
corrispondente alla forma mentis dell’Occidente moderno: il dilungarsi sul chiarimento
di facoltà cognitive così ben note ad un qualsiasi sādhaka sarebbe infatti inutile e
alquanto noioso se l’opera fosse ad uso e consumo di indiani. Per quanto riguarda
invece la distinzione tra conoscenza per identità, di cui riusciamo in qualche modo a
formularci un’immagine mentale, e conoscenza per contatto diretto, più ambigua alla
nostra comprensione, vorremmo sottolineare lo scarso interesse dimostrato da
Aurobindo nell’approfondire il distinguo tra queste due modalità conoscitive sia in
altri capitoli di The Life Divine sia nelle altre principali opere: essenziale è piuttosto il
riconoscimento dell’abisso tra conoscenza separativa e per identificazione e la netta
volontà di difendere la superiorità di quest’ultima.
La conoscenza separativa intende l’oggetto conosciuto come un non-sé,
alterità completa, estranea al soggetto: una modalità propria della conoscenza
comune nel rapporto con il mondo materiale e con altri esseri viventi, anche umani.
Essa si basa sulla testimonianza di sensi fisici che, nonostante l’apparenza, limitano la
percezione vera degli oggetti a certe gamme vibratorie sostenibili dai sensi stessi

– per l’importante ruolo svoltovi dall’interazione tra intervento osservativo del ricercatore e
modificazione del comportamento dei microoggetti, nonché per l’indebolimento della legge di
causalità intesa nel rigido senso della fisica classica. Per un approfondimento della tematica
rimandiamo, tra le molte altre pubblicazioni, a Gino Tarozzi, Filosofia della microfisica, Modena,
Accademia Nazionale di Scienze Lettere e Arti, 1992.
56 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 545.

42
(affinché si attivino o non vengano danneggiati o distrutti da un’intensità, poniamo
luminosa o sonora, troppo elevata) e distorcono la loro vera natura fornendoci
un’immagine o una vibrazione alterata, filtrata e tradotta dai meccanismi
dell’intuizione percettiva o della ragione stessa57. Con un giudizio forse azzardato, ma
arguto, Aurobindo pone la vera ragione della nascita e sviluppo della mente, nonché
dell’elaborazione delle complesse strategie epistemologiche della scienza
(misurazione, inferenza, verifica, ragionamento imparziale, anche invenzione di una
strumentazione in grado di estendere la percezione sensoriale) nella necessità di
superare le imperfezioni del nostro apparato sensoriale e percettivo. Inoltre, al di
fuori del ragionamento educato e purificato della scienza e filosofia più serie, la
conoscenza ordinaria è macchiata dall’ulteriore segno di ignoranza dell’egoismo, in
base al quale l’uomo legge la realtà secondo i propri interessi e preferenze vitali e mai
o quasi mai per ciò che è in quanto tale – un appello alla talità o quiddità, tattva o
tathata nel mondo buddhista, principio filosofico particolarmente importante in gran
parte dell’Estremo Oriente.
Al fine di abbattere questo ingombrante muro di limitazioni e distorsioni è
necessario rivolgersi al più ampio sé interiore, all’essere subliminale o cosmico che
conosce per contatto diretto – una modalità di conoscenza ancora frammista
all’ignoranza ma già libera dai vincoli più grossolani. L’accesso alla sfera del mentale e
del vitale interiori, in contatto con i rispettivi mondi della Mente e della Vita
universali, libera facoltà – ancora rudimentali ma passibili di perfezionamento – di
chiaroveggenza, telepatia, parziale predizione del futuro (confermando l’assunto che
conoscenza è potere) e soprattutto di contatto diretto con coscienze e oggetti. Il
subliminale manifesta potenzialità sovranormali e non inspiegabilmente paranormali,
allocate in una posizione ontologica intermedia tra la coscienza ordinaria e la più

57 Sembra di ascoltare la critica nietzscheana alla certezza della conoscenza sensoriale e razionale,
contrapposta all’intuitiva in Su verità e menzogna in senso extra-morale, edizione delle opere complete a
cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, op. cit., Vol. III, tomo II. Non abbiamo prove per
confermare la lettura del breve saggio da parte di Aurobindo ma di certo, se Nietzsche si arresta qui su
una x di inconoscibilità o si affida ad un’innata intuitività, il filosofo indiano presenta una soluzione
ben più solida e convincente, comprovabile sperimentalmente e sostenuta dalla forza dell’intera
cultura tradizionale del subcontinente.

43
elevata sovracoscienza, più ampie ma non ancora interamente veritiere58. Il potere di
conoscenza subliminale più utile è ravvisato in un più aperto, profondo e realmente
efficace scambio interpersonale, in quell’intimità reciproca permessa da una più
immediata lettura delle menti e dei cuori altrui, non viziata dalle falle di
incomprensioni e fraintendimenti, nascondimenti e conflittualità che corrompono le
ordinarie relazioni:

our action on others need no longer be ignorant or involuntary and often unintentionally harmful; it
can be a conscious help, a luminous interchange and a fruitful accommodation, an approach towards
an inner understanding or union, not as now a separative association with only a limited intimacy or
unity, restricted by much nonunderstanding and often burdened or endangered by a mass of
misunderstanding, of mutual misinterpretation and error59

Ad uno stadio successivo, con la discoperta dello psichico e dal momento in


cui questi prenda la guida della nostra esistenza cosciente, divenendo padrone di
pensiero, sentimento, volontà e azione nello stato di veglia, il supremo organo di
conoscenza è liberato e la via alla Conoscenza e alla trasformazione integrale
completamente intrapresa. La cognizione psichica è spontaneamente identitaria,
votata ad una Verità che discrimina immediatamente il divino dal non-divino, «armed
with an intrinsic spiritual perception of the truth of things»60: questo è davvero
strabiliante, non i poteri subliminali che impressionano per la loro anormalità e
affascinano l’immaginazione ma una facoltà cognitiva superiore naturalmente in
grado di distinguere il vero dal falso, le deviazioni dal percorso certo del sentiero
maestro. La sādhanā può davvero portare alla luce, risvegliare, sviluppare e attivare
efficacemente come poteri ordinari dello stato di veglia61 tali facoltà, rivoluzionando

58 Si sintetizza qui peraltro il giudizio aurobindiano sul valore dei fenomeni autenticamente occulti o
medianici, non sempre totalmente inconsistenti, furbeschi o nebulosi ma nemmeno integralmente
sufficienti all’attingimento della suprema conoscenza.
59 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 558.
60 Ibid., p. 559.
61 Uno yoga integrale non potrebbe infatti accontentarsi di una realizzazione in stato di trance, scevra

da una relazione diretta con l’esistenza terrena o da una manifestazione concreta sul piano materiale
dei poteri supercoscienti: «Nor is it enough for the sadhaka to have the utter realisation only in the
trance of Samadhi or in a motionless quietude, but he must in trance or in waking, in passive
reflection or energy of action be able to remain in the constant Samadhi of the firmly founded
Brahmic consciousness», Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXIII-
XXIV, The Synthesis of Yoga, p. 364.


44
l’organizzazione psichica e gnoseologica della nostra natura in una divina alchimia –
ivi compresi la discoperta e lo sviluppo di sensi sottili, ad un più alto livello, di una
facoltà sensoria supermentale, saṁjñāna62. Come si sarà notato la gnoseologia
aurobindiana è legata a doppio filo con l’ampliamento della conoscenza psicologica,
poiché le facoltà cognitive superiori sono in realtà modalità di conoscenza proprie
delle più vaste parti della nostra interiorità e rappresentano la legge stessa della loro
organizzazione ed azione.
Prendendoci il rischio di precorrere i tempi ma fornendo un’indicazione
preziosa al corretto intendimento di un pilastro filosofico del maestro, dobbiamo
intendere l’evoluzione aurobindiana, dal livello umano in poi, precisamente come
l’opera sopra accennata di risveglio e ampliamento di potenzialità interiori ancora
latenti; come la tensione e l’aspirazione umane a superare i confini della mente alla
volta di stati superiori di coscienza, conoscenza, potere, beatitudine per tramite dello
yoga63: un’evoluzione realizzativa, salvifica (se forziamo un po’ l’inserimento del
termine in un contesto hindū), minimamente interessata al miglioramento delle
condizioni di vita esteriori o al dominio tecnologico delle forze naturali.
Tra le altre conquiste dello yoga potremmo enumerare senza troppo
soffermarvisi la capacità di moltiplicare gli stati di coscienza esperibili
simultaneamente, in un primo momento con la doppia polarità del sé di superficie
agitato e il vasto e tranquillo essere interiore:

There is a state of being experienced in Yoga in which we become a double consciousness, one on the
surface, small, active, ignorant, swayed by thoughts and feelings, grief and joy and all kinds of
reactions, the other within calm, vast, equal, observing the surface being with an immovable
detachment or indulgence or, it may be, acting upon its agitation to quiet, enlarge, transform it64

In seguito, con una molteplicità progrediente per allargamenti successivi che


trova riposo solamente nel dominio di tutti gli stati di coscienza

62 Alla cui analisi è dedicato un intero capitolo di The Synthesis of Yoga, il ventiquattresimo della quarta
parte, The Supramental Sense, pp. 862-864.
63 «the consciousness of man the mental being [...] is a limited separative awareness of things striving

to become an integral consciousness and an integral Knowledge», Śrī Aurobindo, The Complete Works of
Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 585.
64 Ibid., p. 360.

45
contemporaneamente – propria della coscienza divina o brahmanica. La pratica
spirituale rende manifesti anche sensi sottili e realtà sovrafisiche la cui esistenza è
comprovata dall’esperienza: interi mondi invisibili regolati da principi
d’organizzazione e leggi naturali proprie, autosussistenti e non riducibili alla
materialità del nostro universo fisico – piani ontologici altri comprendenti mondi
vitali, mentali, fisico-sottili, sovracoscienti (Overmind, Supermind).

Not only are there physical realities which are suprasensible, but, if evidence and experience are at all a
test of truth, there are also senses which are supraphysical [...] and can not only take cognisance of the
realities of the material world without the aid of the corporeal sense-organs, but can bring us into
contact with other realities, supraphysical and belonging to another world – included, that is to say, in
an organisation of conscious experiences that are dependent on some other principle than the gross
Matter of which our suns and earths seem to be made. [...] The worlds beyond exist: they have their
universal rhythm, their grand lines and formations, their self-existent laws and mighty energies, their
just and luminous means of knowledge65

Contro gli ingiustificati timori di menti occidentali inesperte che perdono


interesse o non desiderano arrischiarsi su sentieri così impervi, pur avendone
riconosciuto la realtà ontologica e la validità teorica – per l’incapacità di immaginare
se non come piatta, uniforme, vuota e noiosa un’esistenza spirituale basata su
principi più elevati della mente e della vita – Aurobindo si sforza di spiegare come lo
yoga non comporti in alcun modo una diminuzione o cessazione delle attività mentali
e vitali né, tantomeno, una dissoluzione della vita stessa. Il risultato dell’esperienza
spirituale è piuttosto un allargamento coscienziale che mantiene tutto ciò che può
delle attuali potenzialità e facoltà umane, purificandole, trasformandole e portandole
a sviluppi inauditi66 – ma anche e soprattutto un’apertura a regni spirituali ancora
ignoti con i loro più alti, dinamici, svariatissimi e gioiosi poteri davvero in grado di
soddisfare le nostre più segrete aspirazioni e di portare a compimento la nostra vita
nella loro discesa trasmutatrice.

65Ibid., pp. 21-22.


66Sin troppo noti ad un Occidente oggi più che mai sensibile allo spettacolo e allo scandalo gli esempi
delle capacità sovranormali di resistenza al dolore e ai più atroci sforzi, di incredibile flessibilità
corporea, di sorprendenti doti di memoria e concentrazione proprie di ogni yogin.

46
A silence, an entry into a wide or even immense or infinite emptiness is part of the inner spiritual
experience; of this silence and void the physical mind has a certain fear [...] for it confuses the silence
with mental and vital incapacity and the void with cessation or non-existence: but this silence is the
silence of the spirit which is the condition of a greater knowledge, power and bliss, and this emptiness
is the emptying of the cup of our natural being, a liberation of it from its turbid contents so that it
may be filled with the wine of God; it is the passage not into non-existence but to a greater existence67

Le menti materialistiche d’Occidente, appiattite sul mondo fisico, sono


incapaci di cogliere le enormi potenzialità contenute in un silenzio normalmente
inteso come morte e non come strumento e atmosfera di un piano d’esistenza
superiore, più ricco, plastico, vasto e felice. Lo yoga porta con sé spontaneamente lo
sviluppo di poteri di coscienza sovranormali (Aurobindo parla di automatic consequence,
risultato meccanico dell’applicazione tecnica) di cui da sempre i grandi maestri –
Patañjali ma anche Buddha – hanno diffidato, ammonendo i discepoli a non
usufruirne al fine di non procrastinare la realizzazione suprema. Un consiglio valido
per il ricercatore che non abbia ancora lasciato i legami egoici o i desideri vitali, ma
non cogente, stando ad Aurobindo, per chi, abbandonato al Divino in pieno surrender,
intenda utilizzare tali poteri nel senso di una trasmutazione gnostica, per plasmare
una nuova natura: «In mystic experience, – when there is an opening of the inner
centres [...] – new powers of consciousness have been known to develop; they
present themselves as if an automatic consequence of some inner opening»68.
Lungamente Aurobindo si sofferma a sostenere la validità e la piena
legittimità delle metodologie conoscitive ed esperienziali yogiche contra un
dogmatismo riduttivisticamente materialistico o scientistico che voglia escludere a
priori la testimonianza esperienziale spirituale limitando ingiustificatamente il campo
sperimentale alla natura fisica – senza curarsi di quel vasto ambito ulteriore di
conoscenze offerto dalla psicologia del profondo se non in quanto direttamente
ricollegabile (e quindi riducibile) a nozioni fisiche, chimiche o biologiche considerate
di ultima istanza. Un altro appello all’Occidente affinché acconsenta ad allargare i
margini della ricerca filosofica, non accordando allo yoga una pregiudiziale fiducia ma
sperimentando in se stessi l’efficacia dei suoi metodi e la verità dei suoi assunti.

67 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 1065.
68 Ibid., p. 1079.

47
It [la premessa agnostica] can only be maintained by ignoring or explaining away all that vast field of
evidence and experience which contradicts it, denying or disparaging noble and useful faculties, active
consciously or obscurely or at worst latent in all human beings [...] As soon as we begin to investigate
the operations of mind and of supermind, [...] we come into contact with a mass of phenomena which
escape entirely from the rigid hold, the limiting dogmatism of the materialist formula. And the
moment we recognise, as our enlarging experience compels us to recognise, that there are in the
universe knowable realities beyond the range of the senses and in man powers and faculties which
determine rather than are determined by the material organs through which they hold themselves in
touch with the world of the senses, – that outer shell of our true and complete existence, – the
premiss of materialistic Agnosticism disappears69

Il passo evidenzia la lucidità quasi positivista del maestro, il quale non ritiene
di poter contestare le premesse materialistiche se non riferendosi a prove
sperimentali (a vast field of evidence and experience) le quali, coerentemente, dovrebbero
essere accettate come veritiere precisamente nell’orizzonte di senso materialista o
agnostico, fondato sull’esperienza e sul ragionamento rigoroso – a patto di aprirsi a
datità non fornite dai sensi fisici ma altrettanto schiaccianti nella loro evidenza
(l’esperienza compels us, ci costringe, impone, obbliga a riconoscere realtà oltre la sfera
materiale). L’esperienza yogica mostrerà anzi come gli organi di senso e, più in
generale, la corporeità grossolana costituiscano solo una minima porzione esteriore
del nostro essere (that outer shell, conchiglia ma anche involucro o guscio, cioè kośa, in
particolare annamayakośa), rivelando universi ignoti di interiorità che porteranno a
compimento la nostra instabile esistenza.
Tutto questo non significa minimamente un astio aurobindiano contro il
materialismo, la scienza, l’applicazione della mente fisica, per i quali anzi il filosofo
dimostra una sincera ammirazione a causa dell’opera di espansione conoscitiva delle
leggi e dei processi della natura terrestre da essi compiuta, di purificazione e
chiarificazione dei metodi del ragionamento, che hanno reso l’intelletto limpido e
vigile contro le trappole della superstizione. Tuttavia l’errore si annida nel voler
recludere la complessità dell’esperienza e dell’anelito umani entro confini tanto ricchi
esteriormente quanto poveri esistenzialmente: materialismo e agnosticismo hanno

69 Ibid., p. 12.

48
anch’essi reso un servizio al progetto divino, per quanto apparentemente
sembrassero distaccarsi da qualsivoglia interesse metafisico, preparando
inconsciamente il terreno al ritorno di una spiritualità razionalmente credibile e
sperimentalmente giustificabile – non più oscurata da dogmi dottrinali, vuoti rituali,
rigide e cieche prescrizioni morali.
La stessa battaglia aurobindiana contro le limitazioni di una mente dualistica,
egoista e ignorante assume sotto questa luce un senso molto differente da quello che
ci si aspetterebbe. Il mentale non è diabolico di per sé, non va combattuto a tutto
campo in quanto fonte esclusiva di errori e falsificazioni ma svolge un ruolo
fondamentale nell’organizzazione della vita pratica e dimostra una capacità
conoscitiva incontestabile in relazione ai fenomeni del mondo materiale. Plurimi gli
appelli del filosofo a non voler rischiare di abbandonare precocemente la stabilità e
l’efficacia, l’ordine e la sicurezza garantiti dall’attuale configurazione della vita
mentalizzata prima che strumenti divini superiori abbiano raggiunto un grado di
organizzazione, coerenza, forza e solidità tali da poter assicurare, sostituendosi alla
mente, la perpetuazione della vita della specie ad un più elevato livello. Tuttavia la
mente non conosce alcuna delle verità divine, della sapienza più profonda e dei regni
spirituali: perciò al momento critico attuale in cui il mentale, stando al giudizio di
Aurobindo, ha ormai esplorato in toto le sue potenzialità l’uomo deve mostrarsi
pronto a superare se stesso e a slanciarsi nel dominio dello spirituale – un superiore
livello dell’Essere e non un semplice raffinamento dell’attività mentale stessa.
In un passo in cui, con una terminologia e una mentalità quasi scientifiche,
Aurobindo mette in luce la certezza dell’esistenza di piani superiori dell’Essere e
mondi ultrafisici sulla base di conferme esperienziali ripetute ed essenzialmente
invariate, il filosofo accusa di dogmatismo gli assiomi materialistici piuttosto che
quelli metafisici – in una Umwertung sorprendente per gli occidentali, oramai abituati
ad etichettare come dogmatici piuttosto i teologi che non gli scienziati. Dogmatica è,
entro le coordinate di un pensiero integrale amante della complessità, la ristrettezza di
vedute in ogni senso – materialista o spiritualista – che voglia ridurre una realtà
multistratificata a principi semplici, univoci, schematizzando tutto entro un
ordinamento rigido e coerente, mentalmente comprensibile, senza tenere fede
all’infinità degli aspetti dell’Essere:

49
all our spiritual and psychic experience bears affirmative witness, brings us always a constant and, in
its main principles, an invariable evidence of the existence of higher worlds, freer planes of existence.
Not having bound ourselves down, like so much of modern thought, to the dogma that only physical
experience or experience based upon the physical sense is true [...] we are free to accept this evidence
and to admit the reality of these planes70

Ancor più chiaramente: «To refuse to enquire upon any general ground
preconceived and a priori is an obscurantism as prejudicial to the extension of
knowledge as the religious obscurantism which opposed in Europe the extension of
scientific discovery»71. Nonostante il rigore sperimentale proprio delle tecniche
yogiche non dovremmo aspettarci una metodologia positiva di ricerca esattamente
equivalente a quella scientifica: trattandosi di un’indagine relativa a realtà sovrafisiche
nuovi strumenti e nuove modalità di verifica dovranno essere elaborati e perfezionati,
né alcun giudizio di valore o consiglio sensato da parte dell’ordine altro di
conoscenze che è la scienza fisica potranno essere accolti con qualche profitto –
«Subjective experience cannot be referred to the evidence of the external senses; it
has its own standards of seeing and its inner method of verification»72. L’intelletto
non può ergersi a giudice di un ambito che intrinsecamente lo superi, né potrebbe
rimproverare scarsa coerenza alle prove spirituali in quanto soggette ad errori o
illusioni da cui non sono immuni le stesse sperimentazioni scientifiche:

the physical or objective standards and methods do not exclude them [errori e illusioni]. The
probability of error is no reason for refusing to attempt discovery, and subjective discovery must be
pursued by a subjective method of enquiry, observation and verification; research into the
supraphysical must evolve, accept and test an appropriate means and methods other than those by
which one examines the constituents of physical objects and the processes of Energy in material
Nature73

Stabilite le inequivocabili differenze tra esperienza yogica e sperimentazione


scientifica Aurobindo sostiene comunque con forza il valore di realtà di entrambi gli

70 Ibid., p. 818.
71 Ibid., p. 677.
72 Ibid., p. 675.
73 Ibid., p. 676.

50
ordini di conoscenza. In una prospettiva integrale, nessuna prova è trascurata a causa
di una pregiudiziale ontologia che consideri reale solo il mondo com’è percepibile dai
nostri organi di senso o, all’opposto, solo l’immutabile silenzio del puro
Trascendente: «Our subjective movements and inner experiences are a domain of
happenings as real as any outward physical happenings»74.
Le verità rivelate dallo yoga sono fattualità psicologiche reincorporanti nel
tessuto dell’esperienza interiore non solo i nostri impulsi più animaleschi e
demoniaci, gli istinti bruti e meccanici del subconscio (compito cui si è già dedicato
ampiamente Freud tra gli altri) ma soprattutto le più nobili facoltà divine latenti nel
cuore di ogni essere umano – a prescindere totalmente da etnia, religione, formazione,
ambiente, condizionamenti sociali, temperamento e preferenze personali. Una
potenzialità immensa propria dell’intera razza umana, che potrebbe forse far luce sul
perché dell’attuale minimo utilizzo percentuale effettivo del nostro cervello. Teniamo
sempre ben presente che non si tratta di supposizioni ipotetiche ottimistiche ma di
«perenni verità d’esperienza spirituale, di fatti verificabili delle nostre più alte
possibilità psicologiche»75.
Rare ma pregnanti le riflessioni interculturali sulla validità di esperienze
mistiche sviluppatesi in altri contesti culturali ma equivalenti, se non per metodo
almeno per tensione di fondo e scopo supremo, allo yoga. Non è certo intenzione di
Aurobindo disprezzare tutto ciò che di elevato e spirituale sia stato prodotto al di
fuori dei confini indici, pur se un pizzico di orgoglio etnico trapeli da alcune lodi
all’India per la sempre amplissima libertà religiosa, spirituale e dottrinale qui concessa
e favorita – una parziale idealizzazione storica che trascura i conflitti religiosi, non
sempre limitati alla diatriba dottrinale, conosciuti dal subcontinente, anche se forse in
misura e grado minori rispetto ad altre civiltà. Senza dedicarvi troppo spazio, forse
più per l’umiltà di ammettere una non troppo profonda competenza specifica nel
settore che per un forte senso di appartenenza culturale, il maestro tuttavia dimostra
un’apertura estremamente moderna al dialogo con la diversità. Egli sostiene la
validità di altre esperienze psicologiche profonde e pone sullo stesso piano le figure
del veggente, del santo, dello yogin, del sufi, dello gnostico, del profeta, più in

74 Ibid., p. 675.
75 Śrī Aurobindo, Lo Yoga della Bhagavad Gītā, op. cit., p. 6.

51
generale del mistico – con allusione alle culture ellenica, semitica, cristiana, araba e
hindū ma trascurando simili manifestazioni nelle regioni cinesi e giapponesi nonché
l’intero fenomeno dello sciamanesimo:

[La Natura] has tried to go higher and deeper within and call out into the front the soul and inner
mind and heart, call down from above the forces of the spiritual mind and higher mind and overmind
and create under their light and by their influence the spiritual sage, seer, prophet, God-lover, Yogin,
gnostic, Sufi, mystic76

Ogni esperienza mistica è piena di senso, assolutamente legittima e


condivisibile, rappresentando uno dei cento sentieri che conducono, ciascuno a
proprio modo e con orientamenti peculiari, al Divino – particolarmente intuitiva e
densa l’espressione coniata da Panikkar per esprimere questo concetto,
Śatapathaprajñā, i cento modi di raggiungere la visione, le cento prospettive del
sentiero o le cento visioni dell’unico cammino77. «All religion, all occult knowledge,
all supernormal (as opposed to abnormal) psychological experience, all Yoga, all
psychic experience and discipline are sign-posts and directions pointing us upon that
road of progress of the occult self-unfolding spirit»78. Dato il carattere infinito della
Verità spirituale, mai circoscrivibile entro rigidi schematismi mentali o principi
univoci che possano contenere una libertà, plasticità, vastità e pluralità sempre
trascendenti le possibilità intellettuali, è naturale che l’uomo abbia tentato i più vari
percorsi di accesso al Divino, accogliendo ogni volta ciò che era in grado di
accogliere, più o meno ampiamente, dell’Assoluto. Perciò non dovrebbe stupire la
molteplicità di approcci e soluzioni che i vari popoli hanno nel tempo creato,
maturato e portato a compimento a seconda del proprio spirito, della naturale
inclinazione o del grado di apertura al Trascendente:

Spiritual truth is a truth of the spirit, not a truth of the intellect, not a mathematical theorem or a
logical formula. It is a truth of the Infinite, one in an infinite diversity, and it can assume an infinite

76 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 750.
77 Cfr. Raimon Panikkar, L’esperienza Filosofica dell’India, op. cit., pp. 80-82.
78 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 751.

52
variety of aspects and formations: in the spiritual evolution it is inevitable that there should be a many-
sided passage and reaching to the one Truth, a many-sided seizing of it79

L’univocità stretta e rigida delle formule logico-matematiche non può essere


applicabile alla comprensione di un Infinito che richiede il superamento della barriera
dualistica e che, superando ogni contraddizione, manifesta un carattere
profondamente unitario entro formulazioni mistiche così innegabilmente diverse –
one in an infinite diversity, in quanto la sua Unità infinita non coincide con l’unità
matematica e può contenere la molteplicità (su questioni di questo tenore ci
soffermeremo nel prossimo capitolo). Ogni via è parziale, non in senso relativistico
ma piuttosto pluralistico, poiché ognuna è vera, intrisa di elementi divini, ma non
ancora definitiva, completa e integrale – rappresentando solamente una delle infinite
possibilità di avvicinamento all’Infinito. La sfida aurobindiana consiste, ancora una
volta, nel raggiungimento di quella condizione di massimo allargamento coscienziale
in cui ogni esperienza ed aspetto del Divino potranno essere riconciliati in una
visione di ordine superiore: «There are a hundred ways of approaching the Supreme
Reality [...] All these definitive culminations may be regarded as penultimates of the
one Ultimate»80.
In conclusione, lo yoga non è un’ardua via d’ascesa al Divino riservata a
pochi spiriti eletti o ad un’aristocrazia monacale, né una pratica artificiale ed
estemporanea aggiunta al flusso degli eventi naturali come un’esotica invenzione di
alcuni saggi brillanti. L’utsāha yogico rispecchia la tensione di fondo del divenire
dell’universo materiale, il trend (la tendenza, l’orientamento occulti) della Natura nel
suo proprio corso, trovando un terreno predisposto al suo accoglimento
nell’aspirazione all’autoperfezionamento caratterizzante la natura umana: «A change
into a higher consciousness or state of being is not only the whole aim and process
of religion, of all higher askesis, of Yoga, but it is also the very trend of our life itself,
the secret purpose found in the sum of its labour»81. Consiste di quell’anelito del
cuore che non conosce pause e che preme affinché l’intera nostra esistenza, in ogni
istante e in ogni azione e non solo durante l’immersione meditativa, sia trasformata in

79 Ibid., p. 919.
80 Ibid., p. 486.
81 Ibid., p. 754.

53
un perpetuo atto di sacrificio e unione al Divino – nella consapevolezza costante e
senza cedimenti dell’onnipresenza di Satcitānanda: «In tutte le circostanze, nella
veglia e nel sonno, nel riposo o mangiando, nel giuoco o nell’azione, lo yogi sarà
unito al Divino, lo yogi farà tutto nella consapevolezza che il Divino è il Sé»82.
Coerentemente con i presupposti di uno yoga che concepisce il suo fine nella
discesa sulla terra di poteri divini e non predica certo il kaivalya (isolamento
nell’incondizionatezza del Sé come meta dello yoga patañjaliano) o il distacco
liberatorio di Puruṣa dalle maglie di Prakṛti, Aurobindo dimostra una fervida
ammirazione per colui che riesca a conciliare la calma del puro silenzio trascendente
con una potente azione sul mondo. È il caso, più volte citato in The Life Divine, del
Buddha, cui potremmo aggiungere l’esempio di Vivekānanda e di Aurobindo stesso,
sempre lucido e occupatissimo con la stesura delle proprie opere, il carteggio coi
discepoli o l’organizzazione di eventi particolari all’āśram – il cui peso amministrativo
ricadde però, col trascorrere degli anni, sempre più e infine completamente sulle
spalle di Mère – pur preservando ad ogni istante una coscienza purificata,
universalizzata e identificata al Divino, non solo nelle otto ore quotidiane
espressamente dedicate alla concentrazione yogica mentre camminava nelle sue
stanze.
Estendendo e forzando un po’ – non troppo, in effetti – il pensiero
aurobindiano potremmo spingerci ad asserire che l’intero corso evolutivo della
Natura sia di carattere yogico, pur se più lento, confuso, misto e non pienamente
cosciente rispetto allo yoga umano. Fine del Divenire è il ritorno a Brahman e dunque
fine dell’umanità che di quel Divenire è parte sarà la purificazione e illuminazione
dell’anima che la perfezionerà sino all’identificazione con l’Assoluto: la scelta si dà nel
voler lasciare il compito in mano alla Natura, in una lenta e faticosa evoluzione
millenaria che prende gusto a creazioni di ogni sorta, dirottamenti e tentativi spesso
infruttuosi di avvicinamento a Dio, o nell’accollarsi coscientemente il lavoro di
palingenesi subordinando la nostra vita alla sicura, veloce e retta guida del Maestro
interiore affinché sia compiuto il nostro divino destino.

82 Śrī Aurobindo, Lo Yoga della Bhagavad Gītā, op. cit., p. 164.

54
Scelta coraggiosa di un difficile e doloroso cammino ma necessariamente
connessa alla soddisfazione di un’aspirazione profonda al pieno compimento
esistenziale transumano, lo yoga risponde all’esigenza antropica di un senso ultimo in
modo concreto ed esperienziale – configurandosi come punto d’arrivo e al contempo
trascendimento dell’istanza primaria che accomuna filosofie e religioni, purché si
consenta alla «trasformazione, dell’atto di vivere, in uno yoga senza interruzioni»83.
Tutta la vita è yoga: impulso originario e divino dell’uomo all’autotrascendimento, al
raggiungimento di una perpetua e gioiosa estasi cosciente, all’approdo su orizzonti
non ancora sognati di beatitudine attiva e creativa, alla trasformazione di una natura
umana infelice, instabile e limitata nella soprannatura divina.

83 Ibid., p. 193.

55
Capitolo secondo

Parabrahman: ineffabilità, infinità ed onnipresenza


del Divino

I cherish God the Fire, not God the Dream1

They proved to me by convincing reasons that God did not exist,


and I believed them. Afterwards I saw God, for He came and
embraced me. And now which am I to believe, the reasonings of
others or my own experience?2

The Master and Mover of our works is the One, the Universal
and Supreme, the Eternal and Infinite. He is the transcendent
unknown or unknowable Absolute, the unexpressed and
unmanifested Ineffable above us; but he is also the Self of all
beings, the Master of all worlds, transcending all worlds, the Light
and the Guide, the All-Beautiful and All- Blissful, the Beloved
and the Lover. He is the Cosmic Spirit and all-creating Energy
around us; he is the Immanent within us. All that is is he, and he
is the More than all that is, and we ourselves, though we know it
not, are being of his being, force of his force, conscious with a
consciousness derived from his; even our mortal existence is
made out of his substance and there is an immortal within us that
is a spark of the Light and Bliss that are for ever3

L’addentrarsi nel versante propriamente filosofico del mondo di senso


aurobindiano, con una disamina estesa del nucleo intimo di ogni filosofia

1 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXXIII-XXXIV, Savitri, Libro X,
Canto II, v. 280, p. 614.
2 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XII, Essays Divine and Human, p. 424.
3 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXIII-XXIV, The Synthesis of Yoga, p.

243.

56
eminentemente metafisica – ovverossia l’immagine del Divino – esige un preventivo
approfondimento delle fonti da cui la speculazione trae sostentamento e linfa vitale.
Appurato il radicamento del pensiero nell’esperienza yogica piuttosto che in fonti
testuali – ciò che è tipico, del resto, della massima parte del pensiero indiano – è
interesse del ricercatore evitare di sovrastimare l’influenza e la portata di opere
filosofiche (siano esse occidentali o hindū) sulla formazione e l’articolazione del
pensiero aurobindiano. Un pensiero fondamentato in prima istanza sul terreno
dell’esperienza spirituale e solo subordinatamente sul piano mentale, del quale l’intera
filosofia in quasi tutte le sue declinazioni è la rappresentante precipua. Nettissime e
perentorie le parole del maestro in questo senso:

I read more than once Plato’s Republic and Symposium, but only extracts from his other writings. [...]
I read Epictetus and was interested in the ideas of the Stoics and the Epicureans; but I made no study
of Greek philosophy [...] I made in fact no study of metaphysics [...] What little I knew about
philosophy I picked up desultorily in my general reading. I once read, not Hegel, but a small book on
Hegel, but it left no impression on me. Later, in India, I read a book on Bergson, but that too ran off
“like water from a duck’s back”. I remembered very little of what I had read and absorbed nothing.
German metaphysics and most European philosophy since the Greeks seemed to me a mass of
abstractions with nothing concrete or real [...] and written in a metaphysical jargon to which I had not
the key. [...] In sum, my interest in metaphysics was almost null, and in general philosophy sporadic.
[...] As to Indian Philosophy, it was a little better, but not much. I made no study of it, but knew the
general ideas of the Vedanta philosophies, I knew practically nothing of the others except what I had
read in Max Muller and in other general accounts4

Scarsissima la formazione filosofica accademica, ad eccezione di una parte del


pensiero greco. Sin troppo duro il giudizio riguardo la metafisica occidentale nel suo
complesso, deprivata interamente di valore per l’assenza di mordente sulla realtà
propria di astrazioni mentali non più verificabili dei voli soggettivi
dell’immaginazione. Pochissimi gli autori citati – e, in genere, con un certo distacco
indifferente: non compare nell’elenco Nietzsche, che Aurobindo certamente lesse
con attenzione – rimandiamo tuttavia ad altro momento l’esposizione del complesso

4 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XXXVI, Autobiographical Notes, p. 112.

57
giudizio formulato dal maestro sul pensatore tedesco5. Stupefacente per lo studioso
che si sia immerso nelle complessità filosofiche talvolta addirittura cavillose di The
Life Divine registrare una tale estraneità alla tradizione filosofica occidentale e anche
hindū, contraria all’evidenza di una sicurezza argomentativa e di una padronanza
completa dei più raffinati strumenti di indagine speculativa; non così inspiegabile
tuttavia qualora si prendano sul serio le possibilità di ampliamento e perfezionamento
delle capacità mentali dispiegate dalla pratica yogica. La dichiarazione esplicita di
scarsità di interesse per la storia della filosofia – ma non certo per la filosofia in
quanto tale e in particolare per la filosofia autenticamente spirituale – rappresenta
una lezione importante per tutti gli studiosi tesi a rinvenire in Aurobindo le tracce di
questo o quel sistema o pensatore come radice diretta o fonte eminente della sua
speculazione. Ogni confronto inter o intraculturale è plausibile e in molti casi
fecondo ma deve essere condotto con la piena consapevolezza dell’assenza di
rapporti o influenze dirette tra il maestro e le filosofie con cui questi dimostra
affinità. Nonostante l’apparente conformità i termini di paragone rimangono
indipendenti: si potrà dunque parlare di analogie, somiglianze e parentele più o meno
strette ma solo in senso subordinato e derivato, non come chiavi di penetrazione
autentica di un pensiero essenzialmente spirituale e solo complementarmente
mentale.
Dove situare allora le autentiche fonti della speculazione aurobindiana? Non
altrove che nell’esperienza yogica confortata e confermata dalle scritture sacre hindū,
utile termine di verifica delle esperienze già realizzate o stimolo alla ricerca e alla
conquista di piani dell’Essere ancora insondati – avvalendosi dell’ausilio del campo
coscienziale della Mente Superiore per quanto riguarda l’esposizione e la
giustificazione filosofiche di quelle stesse esperienze.

The first Indian writings that took hold of me were the Upanishads and these raised in me a strong
enthusiasm [...] The other strong intellectual influence [that] came in India in early life were the sayings
of Ramakrishna and the writings and speeches of Vivekananda, but this was [...] not as philosophy. [...]
My philosophy was formed first by the study of the Upanishads and the Gita; the Veda came later. [...]
I tried to realise what I read in my spiritual experience and succeeded; [...] it was on this experience

5 Cfr. più avanti pp. 197-199.

58
that later on I founded my philosophy, not on ideas by themselves. I owed nothing in my philosophy
to intellectual abstractions, ratiocination or dialectics; when I have used these means it was simply to
explain my philosophy and justify it to the intellect of others. The other source of my philosophy was
the knowledge that flowed from above when I sat in meditation, especially from the plane of the
Higher Mind when I reached that level; [...] all sorts of ideas came in which might have belonged to
conflicting philosophies but they were here reconciled in a large synthetic whole6

Nulla è dovuto a strumenti logici, sillogistici o dialettici se non in qualità di


armi confutative di tesi avversarie – d’altronde non si comportò allo stesso modo il
padre della logica occidentale, Aristotile, rigidamente ligio alle regole del sillogismo
quasi esclusivamente nella critica alle obiezioni avanzate alle sue tesi? La vera
Conoscenza discende dall’alto, da una fonte divina che riconcilia già nel gradino
immediatamente sovrastante la mente ordinaria (Higher Mind) idee e tematiche
apparentemente divergenti, causa di interminabili e oziose contese filosofiche.
Poste queste basi possiamo ora procedere più consapevolmente nell’analisi
del fulcro del filosofare aurobindiano, il cuore degli interessi e delle aspirazioni del
suo pensiero, cardine su cui si innesta e ruota tutto il resto della sua speculazione e
della sua pratica spirituale: Brahman, il Divino integrale, l’Essere degli esseri. Realtà
somma ineffabile, sempre oltre le definizioni verbali e le determinazioni logico-
concettuali che si sforzino di alludervi; Ente supremo che sfugge alla presa delle
capacità mentali più elevate e comprensive per l’intrinseca infinità trascendente che lo
contraddistingue. È tuttavia utile e necessario parlarne in termini umani, tentare di
tradurre la sua sconfinata vastità nelle parole di linguaggi sempre imperfetti e inadatti
ad esprimerlo per soddisfare le esigenze di un intelletto le cui pretese non possono
essere trascurate, pena il decurtamento dall’uomo della sua facoltà più tipica – la
mente ragionante. Mente che dovrà però accettare di svincolarsi dalle limitazioni
dualistiche che le sono proprie e aprirsi ad una modalità di pensiero più vasta,
plastica e fluida, fuori dai lacci del principio di non contraddizione, per accogliere
pienamente quell’Infinito che rifiuta le catene di una logica rigida riposante su stretti
margini – i quali non possono pretendere alla spiegazione esaustiva della nostra
complessa esistenza. Il silenzio del mistico non è sufficiente, seppur comprensibile e

6 Ibid., p. 113.

59
giustificato dalla natura del sommo Oggetto di conoscenza: il filosofo deve spingersi
oltre, osare dire dell’Indicibile7 affinché anche la mente – e non solo il cuore e la
volontà – possa essere disposta ad abbracciare il sentiero della divina trasformazione.
In atto di deferenza alla tradizione hindū, Brahman è descritto come Sat
(autoesistenza pura e immobile), Cit (sovracoscienza spirituale dotata del sommo
potere di creazione e manifestazione dei mondi – Śakti, energia divina da cui
discendono le energie universali), Ānanda (suprema gioia, felicità e delizia d’esistenza
inalienabili). È la Realtà onnipresente, nucleo, sostegno e sostanza di ogni ente,
l’Essere e il non-Essere e anche ciò che li trascende infinitamente, il Tutto e il Nulla
che non può essere ridotto alla somma dei più ampi contrari concepibili dalla
ragione. Non esiste null’altro all’infuori di Brahman. La formula della Supermind,
piano ontologico immediatamente inferiore al triuno Satcitānanda, echeggiando la
sapienza vedāntina classica, esprime il concetto in modo incomparabilmente sintetico
e pregnante: «“Brahman is in all things, all things are in Brahman, all things are
Brahman”»8. Il Divino concilia in sé un aspetto statico e uno dinamico: è nirguṇa
senza tratti, qualità e relazioni, puro silenzio, pace eterna come bacino di ogni
potenzialità – non certo un vuoto impotente; è saguṇa nel suo volto di potenza
dispiegata e manifesta, dotata di tutte le qualità e i movimenti, Principio che si
autodetermina rivelandosi nella finitezza degli enti – e dunque non circoscrivibile
interamente entro una concezione vuotista o illusionista.
È l’advaita, l’Uno e il Molteplice, l’Origine unitaria che si frammenta
manifestandosi nella molteplicità degli esseri pur conservando intatta la sua integrità
– oltre le barriere del monismo e del dualismo, l’aduale come non-Uno e non-Due. È
impensabile Trascendenza, Signore dell’Universo e Cosmo esso stesso, Individuo:
racchiude in sé i termini di Uomo, Natura e Assoluto, tutti riconducibili in ultima
istanza al Brahman supremo. Essere eterno e infinito, il Divino esisteva prima del
tempo e dello spazio e tuttavia si è autodispiegato nelle forme spaziotemporali finite
– le quali rappresentano comunque una verità del suo Essere: il senza-tempo e il
senza-spazio che ha deciso di calarsi nelle realtà, da lui derivate e perciò

7 Come ebbe a dire, nello stesso spirito, Leonardo V. Arena, rovesciando Wittgenstein, «Di ciò di cui si
dovrebbe tacere, occorre parlare», Del Nonsense. Tra Oriente e Occidente, Urbino, QuattroVenti, 2000, p. 191.
8 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 149.

60
ontologicamente consistenti, di tempo e spazio. Il senza forma che ha dato nascita a
tutte le forme, che le sostiene, costituisce e determina nel loro destino – Causa prima,
materiale, efficiente e finale del cosmo. Assoluto disceso nelle relatività, Infinito
manifestato in enti transeunti per il principio di armonia e conciliazione di tutti gli
opposti che lo caratterizza, supremo equilibrio di ogni tensione energetica e
concettuale, convergenza di Trascendenza e Immanenza: «there is one vast
Consciousness which contains and relates all ideas in itself as its own ideas, one vast
Will which contains and relates all energies in itself as its own energies. [...] The error
is to make an unbridgeable gulf between God and man, Brahman and the world»9.
Signore onnipotente e onnisciente che non si mostra legato nemmeno alla sua
perfetta libertà, avendo facoltà di decidere – come ha in effetti deciso – di incatenare
se stesso alle forme relative, imperfette e ignoranti della coscienza umana, animale o
vegetale e anche alla nescienza della materia: «It [l’Essere Cosciente] is “absolute” in
the sense of being entirely free to include and arrange in Its own way all possible
terms of Its self-expression. [...] It is so free that It is not even bound by Its liberty»10.
Soffermandoci ora analiticamente sui principali aspetti e attributi del
Brahman aurobindiano tenteremo di restituire l’immagine complessiva del Divino che
emerge da The Life Divine per valutare infine l’attualità e la modernità di una
concezione integrale del sommo Principio metafisico alla luce delle tendenze e delle
esigenze spirituali della contemporaneità.

1. Ineffabilità e logica dell’Infinito

Le insistite e ripetute dichiarazioni aurobindiane di impredicabilità del


Divino si dimostrano del tutto in linea non solo con il neti neti upaniṣadico ma anche
con altre importanti tradizioni religioso-filosofiche estremorientali (citate solo en
passant da Aurobindo): si ricordino in questo senso l’assoluto silenzio del Buddha
relativamente a questioni di ordine metafisico, l’affermazione che apre il Daodejing
(«La via che può esser detta via non è la via eterna»11) nonché l’intero buddhismo

9 Ibid., pp. 139-140.


10 Ibid., p. 44.
11 Stando alla traduzione di Leonardo V. Arena, La Filosofia Cinese, Milano, Rizzoli, 2000, p. 26.

61
ch’an, alimentato anche da un retroterra daoista, e naturalmente lo zen, che ha fatto
del silenzio e della frustrazione delle pretese logiche i pilastri di un cammino
spirituale incentrato sull’esperienza e sulla pratica piuttosto che su antinomie
concettuali e diatribe filosofiche. Tuttavia Aurobindo non si limita all’apofatismo,
considerando utile un approccio mentale che tenti di alludere all’Assoluto tramite
formule intellettuali, purché si eviti accuratamente di confondere Brahman con parole
e concetti umani i quali svelano nella loro costitutiva penombra solo sfocati riflessi e
opachi bagliori della divina lucentezza.

To the Mind this Unmanifest can present itself as a Self, a supreme Nihil (Tao or Sunya), a featureless
Absolute, an Indeterminate, a blissful Nirvana of manifested existence, a Non-Being out of which
Being came or a Being of Silence out of which a world-illusion came. But all these are mental formulas
12
expressing the mind's approach to it, not That itself

Ogni espressione mentale che si sforzi di dare forma al senza-forma è


legittima (purché dipenda da un’esperienza spirituale) ma non si dovrà considerare
alcuna di esse, a prescindere dal contesto culturale, come una descrizione esaustiva,
perfetta e assolutamente rispondente al Divino in quanto tale: né una semplicistica
somma di affermazioni sul Principio potrà mai pretendere ad una completezza e
fedeltà corrispondenti all’esperienza mistica, in quanto tad ekam è situato in un piano
ontologico trascendente la conformazione coscienziale mentale13. La fiducia nel
potere del linguaggio che ha condotto teologie e religioni a sclerotizzarsi su dogmi
dottrinali intellettualmente orientati e condizionati è l’errore e la ragione primi di un
cattivo dialogo – o peggio di un conflitto – interculturale: la preminenza attribuita in
questi casi al mentale, piano dualistico e limitato foriero di discordie e intolleranze, si

12 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XII, Essays Divine and Human, p. 189.
13 La metafisica guénoniana, affine in questo tratto alla filosofia aurobindiana, presenta una medesima
apertura interculturale nel sottolineare le insormontabili limitazioni intrinseche al pensiero razionale.
Cfr. «il dominio della conoscenza metafisica, la cui natura è sovraindividuale e sovrarazionale, intuitiva
e non più discorsiva, indipendente da ogni relatività [...] occorre distinguere la concezione delle verità
metafisiche dalla loro formulazione, nella quale la ragione discorsiva può intervenire secondariamente
(a condizione, beninteso, che essa riceva un riflesso diretto dall’intelletto puro e trascendente) per
esprimerle nella misura del possibile; tali verità oltrepassano immensamente la sua sfera e la sua
portata, e di esse, in virtù della loro universalità, qualsiasi forma simbolica o verbale potrà soltanto e
sempre offrire una traduzione incompleta, imperfetta e inadeguata», René Guénon, Oriente e Occidente,
trad. it. di P. Nutrizio, Milano, Luni, 1993, p. 130.

62
è lasciata alle spalle il principio d’armonia e integrazione vigente nell’ordine di realtà
spirituale14.
Poiché «the Unknowable [...] denies Its limitation by all expression or any
expression whatsoever»15 non dovremmo cadere nella trappola di identificare
Brahman nemmeno con gli attributi che rappresentino un tentativo appropriato di
definizione del Divino. Dunque la Realtà suprema non è Satcitānanda entro i
parametri concettuali che determinano la comprensione mentale dell’esistenza, della
coscienza e della gioia quali fenomeni ordinariamente sperimentabili dall’umanità: è
però, in un senso più spirituale che letterale, un’Esistenza, una Coscienza e una Gioia
infinite talmente vaste e superne e sommamente perfette da non poter essere
ricondotte se non per via di indefiniti travestimenti, oscuramenti, mutilazioni e
umiliazioni ai corrispettivi concetti ed esperienze umane. Di nuovo, d’altro canto, la
trascendenza del Brahman impone di non limitarlo foss’anche alla più pura e alta
concezione di Satcitānanda che la mente possa mai figurarsi – ponendosi il Divino
all’estremo opposto anche come non-esistenza, incoscienza, infelicità, nonché come
Impensabile che rifiuta e oltrepassa ogni posizione intellettuale. «If at all an existence,
a consciousness, a bliss, it is beyond the highest and purest positive form of these
things that here we can possess and other therefore than what here we know by
these names»16. Allo stesso modo il Divino non è nemmeno accuratamente
descrivibile come Infinito, termine simbolicamente pregnante al quale tuttavia non
dovremmo attaccarci nella volontà di concettualizzare il Trascendente, sia pur col
concetto più ampio e comprensivo di cui la mente sia capace. Brahman è l’Infinito al
di là di ciò che le nostre facoltà conoscitive possono comprendere o immaginare
come infinito: «una Divinità infinita e ineffabile oltre quello che le nostre più sottili e
più ampie concezioni dell’infinito ci permettono di presentire»17 – un attributo

14 Una lezione fondamentale per l’attuale ricerca delle condizioni e possibilità di un dialogo
interreligioso, pur se non immediatamente applicabile a causa della ristrettezza coscienziale dimostrata
dai diretti interessati – volti piuttosto a difendere egoisticamente parziali verità dottrinali o posizioni
politico-economiche prestigiose piuttosto che a cercare un autentico interscambio culturale o soluzioni
che non siano semplici palliativi ai conflitti armati di matrice anche religiosa che insanguinano il
mondo.
15 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 33.
16 Ibid., p. 39.
17 Śrī Aurobindo, Lo Yoga della Bhagavad Gītā, op. cit., p. 201.

63
simbolico, allusione o indicazione del Principio da non confondersi con il Principio
stesso.
Nessun linguaggio umano può aspirare a comprenderlo, per il semplice fatto
che la lingua risponde alle modalità e alle esigenze di un pensiero dualistico che
frammenta il reale in categorie separate, determinando precisi confini concettuali e
nette demarcazioni terminologiche utili ad una conoscenza pratica ma impropri alla
somma conoscenza spirituale intimamente unitaria e integrale. Idiomi costituiti di
termini non possono logicamente pervenire alla cognizione del Senza-Termine, né
per tramite delle più comprensive affermazioni, né attraverso le più annichilanti
negazioni – pur se Brahman non sfugga in toto alle possibilità cognitive umane, previo
lo sviluppo di una facoltà di conoscenza identitaria.

It [la Realtà suprema] is indefinable and inconceivable by finite and defining Mind; it is ineffable by a
mind-created speech; it is describable neither by our negations, neti neti, – for we cannot limit it by
saying it is not this, it is not that, – nor by our affirmations, for we cannot fix it by saying it is this, it is
that, iti iti. And yet, though in this way unknowable to us, it is not altogether and in every way
unknowable. [...] although inexpressible, yet self-evident to a knowledge by identity18

Pienamente consci dell’inconsistenza di negazioni che deprivino la somma


Realtà di ogni tratto positivo eclissandone l’onnipresenza, nonché dell’eccessiva
rigidità di affermazioni inibenti la fluidità del Trascendente, i veggenti, i saggi e i
filosofi hindū nondimeno vi allusero con entrambe, in un’ammirevole volontà di
comunicazione essoterica. Il riferimento alla tradizione è qui quantomai consono
all’intendimento aurobindiano, che non pretende minimamente all’originalità nel
porre l’ineffabilità quale caratteristica prima dell’Origine:

The ancient sages spoke indeed of Brahman negatively, – they said of it, neti neti, it is not this, it is not
that, – but they took care also to speak of it positively; they said of it too, it is this, it is that, it is all [...]
yet it cannot really be defined by any of these things, not even by our largest conception of
Sachchidananda19

18 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, pp. 336-
337. Cfr. anche: «But if we cannot define the Eternal, we can unify ourselves with it», Śrī Aurobindo,
The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXIII-XXIV, The Synthesis of Yoga, p. 380.
19 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 393.

64
Strumento meno efficace della conoscenza per identità ma pur sempre
superiore ad una presentazione puramente intellettuale è il linguaggio simbolico e
sacrale di cui si valsero le scritture hindū e, potremmo aggiungere, la parola mistica di
Savitri. Immagini vivide del Divino, figurazioni intuitive in grado di aprire la porta
della spiritualità in maniera più diretta ed esistenzialmente ardente in confronto ad
un’arida elucubrazione metafisica: parole significanti il Trascendente capaci di saltare
al di là della conoscenza razionale, brillanti di una luce rifratta ma non troppo filtrata
proveniente dalle altezze sovracoscienti. Asserzione esplicita dei confini piuttosto
angusti entro cui si colloca il linguaggio metafisico (cui, in quanto opera filosofica,
The Life Divine si limita); il quale, per essere di qualche utilità, dovrà acconsentire ad
estendere le proprie possibilità non solamente conformando il Divino alla modalità
intellettuale ma piegandosi ad accogliere una logica più vasta e plastica della propria,
adatta ad abbracciare quanto più possibile i reami dell’Infinito. Altrimenti la filosofia
metafisica dovrebbe accontentarsi di indicazioni concettuali di seconda mano, troppo
lontane dall’Origine per poterne dare un’idea corretta e compiuta.

a language has to be created which is at once intuitively metaphysical and revealingly poetic, admitting
significant and living images [...] such as we find [...] in the Veda and the Upanishads. In the ordinary
tongue of metaphysical thought we have to be content with a distant indication, an approximation by
abstractions, which may still be of some service to our intellect [...] the intellect must consent to pass
out of the bounds of a finite logic and accustom itself to the logic of the Infinite20

Nel percorso di ricerca della conoscenza spirituale si rivela dunque primaria


un’autocritica dell’intelletto affinché la ragione, serenamente accettati i propri limiti,
avverta la necessità di svincolarsi da esclusivismi appagati dal riconducimento della
realtà tutta ad un unico e parziale principio: gli esempi classici sono quelli del
Materialismo e dello Spiritualismo, ma tale critica investe in realtà ogni sistema non
complesso volto alla sussunzione di un mondo intrinsecamente plurale entro i
margini di un’unità principiale artificiale, meramente astratta e mentale. Peraltro
l’assunzione delle metodologie di una logica dell’Infinito rappresenta l’unico tentativo

20 Ibid., p. 337.

65
efficace di placare la sete mentale di un’affermazione completa, di una proposta
integrale ed onnicomprensiva in cui ogni totalità trovi un proprio spazio di validità.
Tentativo differente da una sintesi dialettica meramente razionale à la Hegel, che
potrebbe essere sufficiente ad un compimento intellettuale ma che lascerebbe
comunque immutata la nostra esistenza frustrando l’esigenza di aspirazione spirituale
al Divino, la tensione di fondo della nostra natura: «it [l’intelletto] must either have
overleaped itself or must have completed the circuit only to find that all [i principi]
equally reduce themselves to That which escapes definition or description and is yet
not only real but attainable»21. Nonostante si ponga come eccedente le umane
capacità di raziocinio, Brahman non è collocato su un piano di inattingibile
noumenicità deprimente ogni sforzo metafisico, senza ulteriori vie d’uscita che non
siano quelle dell’ideale regolativo kantiano – appunto un ideale e non una realtà
d’esperienza. Il percorso yogico può dimostrare la fondamentale realtà ontologica del
Divino sfuggendo definitivamente ad incertezze ipotetiche o conflitti tra riduzionismi
non sufficientemente ampi per fornire una soluzione soddisfacente all’enigma della
vita – generalizzando, un materialismo che spogli di senso l’esistenza in quanto
irrimediabilmente effimera o uno spiritualismo che rifugga dalla vita in quanto
illusoria22.
La concezione aurobindiana del Divino come sorgente di ogni totalità
oppositiva in cui la lotta fra i contrari dell’esistenza possa finalmente trovare un
equilibrio dinamico è inevitabilmente giudicata come paradossale o assurda
dall’intelletto ordinario abituato a procedere per separazione e distinzione – come un
insostenibile confusione filosofica di tutti i termini di conoscenza propria di una
mente mal educata. Ma ciò che al nostro livello gnoseologico appare come una
congerie caotica o un assoluto disordine può rappresentare – accettati i postulati di
una logica infinita – un principio d’ordine superiore, un’organizzazione più ampia e
stabile dell’Essere, rispettosa della libertà dell’Infinito. D’altronde è perfettamente
consono ad una logica superiore e prevedibile, data la natura di una Realtà integrale e

21 Ibid., p. 11.
22 Nello stesso spirito di ricerca di una proposta spirituale integrale si consideri la seguente
affermazione panikkariana: «Una filosofia per il nostro tempo non può essere né fuga mundi, un
intimismo spiritualista, un estraniamento dalla condizione umana, né adoratio mundi, una ossessione
temporalista, un soffocamento nella stessa condizione umana», L'Esperienza Filosofica dell'India, op. cit.,
p. 191.

66
onnipresente, che Brahman diventi tutti gli opposti in una proteiformità indefinita e
giunga a negare i suoi propri attributi: in caso contrario sarebbe infatti definibile
come oggetto di conoscenza finito, con un’azione circoscrivibile e poteri contenuti
entro uno spettro ridotto di espressione.

For we see that the Indeterminable determines itself as infinite and finite, the Immutable admits a
constant mutability and endless differences, the One becomes an innumerable multitude, the
Impersonal creates or supports personality, is itself a Person; [...] Being turns into becoming23

Poiché abbiamo a che fare con un oggetto infinito abbracciare una logica più
vasta si dimostra una scelta perfettamente ragionevole, sensata e adeguata agli scopi
della ricerca metafisica. Sarebbe anzi irrazionale e infruttuoso il tentativo di
applicazione di una logica finita e duale a Quello che è infinito e aduale: «it is
irrational to suppose that a finite consciousness and reason can be a measure of the
Infinite»24. Che le modalità di approccio esperienziale e conoscitivo debbano adattarsi
alla natura degli oggetti di studio non è sorprendente nemmeno nell’ambito delle
scienze naturali moderne: queste sono infatti costrette a rinunciare ad una
comprensione rigidamente logica dei processi naturali quanto più rivolgano il loro
interesse dallo studio di fenomeni fisici semplici alle più sfumate e complesse realtà
biologiche o psicologiche o, soprattutto, all’analisi dell’infinitamente grande e
dell’infinitamente piccolo. La storia della scienza novecentesca rappresenta
precisamente uno sforzo tuttora in corso di rivoluzione epistemologica, dalla
relatività einsteiniana ai mondi paralleli di Everett, dai paradossi di Schrödinger ai
molteplici tentativi di superamento del dualismo corpuscolare-ondulatorio – al fine di
forgiare strumenti conoscitivi nuovi adatti ad affrontare ambiti d’esperienza
insondabili dalla rigidità logica della fisica classica.
Un mistero insolubile per la ragione mentale può configurarsi come una
realtà perfettamente naturale e coerente nel più ampio quadro di una logica infinita
capace di trasformare i contrari in complementari. Non è forse affine la proposta
bohriana di considerare come ugualmente valide e funzionali le opposte

23 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 340.
24 Ibid., p. 342.

67
interpretazioni in termini di onde o particelle dei microoggetti quantistici?: «what is
magic to our finite reason is the logic of the Infinite. [...] a greater logic because it is
more vast, subtle, complex in its operations»25. Se la Verità è infinita ogni sua
contraddittoria formulazione dovrà sciogliersi in una complessità armonica integrale
capace di contenerle tutte e di conciliarle alla luce di un più vasto principio spirituale,
oltre le negazioni e le esclusioni di una logica finita. La fusione degli opposti nello
stampo di un’unità complessa e variegata rappresenta una delle più feconde intuizioni
del pensiero aurobindiano e, più latamente, dell’intera cosmovisione hindū:

La grande intuizione dell’induismo consiste nel fatto che qualunque verità nell’ordine dell’intelletto
esige una limitazione e quindi l’esclusione di altre verità. Per rispetto alla Verità le ammette tutte
nell’ordine logico. Ne consegue che il pensiero logico vede una contraddizione mentre il pensiero del
credente hindū vede una diversità armonica o complementare26

Le difficoltà incontrate dall’intelletto nell’esaminare la natura del Divino non


possono dunque essere considerate insormontabili per le possibilità di estensione
della logica e per la facoltà di conoscenza identitaria latente in ogni essere umano: ma
anche perché gli scogli alla comprensione dipendono da insufficienze puramente
mentali, non inerenti la natura di un Essere unitario integrante il molteplice.
L’ostacolo è l’approccio limitato dei nostri strumenti cognitivi al reale, non il reale in
sé:

If we look from this view-point of a larger more plastic reason, taking account of the logic of the
Infinite, at the difficulties which meet our intelligence when it tries to conceive the absolute and
omnipresent Reality, we shall see that the whole difficulty is verbal and conceptual and not real27

Dal medesimo dogmatismo chiuso e parziale dell’intelletto dipendono i


conflitti dottrinali che oppongono gli uni agli altri movimenti filosofici o confessioni
religiose, per l’indebita pretesa di poter incatenare il Trascendente a particolari
affermazioni culturalmente (o politicamente) condizionate. L’allargamento dei

25 Ibid., p. 343.
26 Raimon Panikkar, Il Dharma dell’Induismo, op. cit., p. 27.
27 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 347.

68
margini intellettuali non è quindi solo la modalità gnoseologica più adatta a fornire
risposte adeguate alla richiesta di sacralità avanzata dalle nostre più nobili aspirazioni
per la tensione all’autoperfezionamento insita in una natura umana instabile e
transitoria: è anche un prezioso organo di pace per costituire rapporti di confronto
sereni tra le culture – un’utopia allo stato attuale, una speranza e un impegno per il
futuro.

It is indeed only when our human mentality lays an exclusive emphasis on one side of spiritual
experience, affirms that to be the sole eternal truth and states it in the terms of our all-dividing mental
logic that the necessity for mutually destructive schools of philosophy arises [...] the vain labour of
enslaving to our mental distinctions and definitions the absolute freedom of the Divine Infinite28

2. Satcitānanda

Venendo ora alla descrizione positiva degli attributi divini, consapevoli


dell’intima ineffabilità del Principio ultimo e della necessità di abbandonare le
barriere apposte alla piena penetrazione del senso divino del mondo dalla razionalità
schematica di una mente limitata, possiamo affermare senza timore di
fraintendimenti che Brahman è Satcitānanda: infinita unità esistente-cosciente-gioiosa
di là dalle immediate apparenze di non-esistenza, incoscienza e ignoranza, sofferenza
e infelicità che turbano il nostro piano ontologico – e che Aurobindo tenta di
giustificare per tramite del principio evoluzionistico e con un’originale
interpretazione della ragion d’essere del male.
Sat è la condizione brahmanica di autoesistenza pura, indipendente dalla
manifestazione del mondo, autoconcentrata e autosufficiente, semplice esistenza
priva di qualità, quantità, forma o tratti ulteriori rispetto al mero Essere in sé;
immobilità infinita ed eterna contenente in nuce in uno stato di riserva ogni
potenzialità energetico-dinamica: «a great timeless, spaceless Stability, sthāṇu, which
is immutable, inexhaustible and unexpended, not acting though containing all this
action, not energy, but pure existence»29. Un’eternità non dispiegata nello

28 Ibid., pp. 159-160.


29 Ibid., p. 80.

69
spaziotempo, matrice originaria del tempo nella somma condensazione di un istante
infinito che convoglia la pienezza del tempo nell’attimo30.
Cit-Śakti è l’energia cosciente inerente la pura esistenza, potere di
manifestazione sensata del Divenire, che può conoscere gli stati alternativi o
simultanei – data la capacità del Divino di assumere contemporaneamente molteplici
stati di coscienza – di conservazione e diffusione – l’Energia divina creatrice dei
mondi. «Force is thus inherent in existence and it is the nature of Force to have this
double or alternative potentiality of rest and movement, that is to say, of self-
concentration in Force and self-diffusion in Force»31. In quanto cosciente il Principio
energetico ha donato nascita ad un cosmo ordinato e pieno di senso, organizzato
secondo una volontà sovracosciente conciliante le opposte teorie interpretative della
realtà fisica come da un lato rigidamente e causalisticamente determinata da una
necessità meccanica e dall’altro imprevedibilmente libera e caotica nell’infinita varietà
delle sue espressioni. La prima teoria è giustificata dalla manifestazione di verità
predeterminate del Divino, l’altra dalla libertà cangiante di esplorazione e
sperimentazione massimamente variegata delle potenzialità dell’Infinito.

The principle of free variation of possibilities natural to an infinite Consciousness would be the
explanation of the aspect of inconscient Chance of which we are aware in the workings of Nature, [...]
The principle of truths, real powers of the Infinite imperatively fulfilling themselves would be the
explanation of the opposite aspect of a mechanical Necessity which we see in Nature32

La scienza contemporanea ha già ricondotto la materia ad una condensazione


energetica: il passo successivo, stando alla previsione aurobindiana, sarà la scoperta di

30 Concezione analoga al pensiero nietzscheano sul tempo, veicolato dalla sublime immagine della
porta carraia dell’Augenblick ne La Visione e l’Enigma dello Zarathustra nella quale convergono, in un
attimo eterno, i sentieri di un passato infinito e di un futuro infinito. Cfr. Friedrich Nietzsche, Opere
Complete, op. cit., Vol. VI, tomo I, Così Parlò Zarathustra, pp. 189-194 e, per un’analisi filosofica,
Graziano Biondi, L’Enigma della Serpe secondo Nietzsche, Roma, Manifestolibri, 2001. La distanza di
Nietzsche da Aurobindo può tuttavia essere misurata nell’esperienza e concezione del maestro hindū
di una condizione ontologica trascendente preesistente allo spaziotempo e altra da interpretazioni
immanentistiche o cosmiche del fenomeno temporale. Inoltre il tempo, nella visione evolutiva di
Aurobindo, non è infinito in sé in quanto originato dall’automanifestazione devolutiva o evolutivo-
discendente di Brahman e destinato a dissolversi al momento culminante dell’evoluzione ascendente,
quando il mondo si ricongiungerà al divino Satcitānanda.
31 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 90.
32 Ibid., p. 318.

70
una Volontà sovracosciente e di un progetto divino regolato dietro l’apparenza di
correnti energetiche incoscienti – in una convergenza sempre più completa tra verità
scientifica e verità spirituale. Brahman non avrebbe potuto dare corso ad un divenire
universale caotico e inintelligibile, arbitrario ed irrazionale: questa sarebbe la legge
d’azione di una mente ignorante e onnipotente, non della divina luce di un Principio
ontologicamente altro e coscienzialmente superiore al mentale.
La Śakti è una potenza di Brahman, un suo delegato o l’aspetto dinamico
dell’Essere: non essendo indipendente dalla volontà divina essa non avrebbe potuto
agire autonomamente a prescindere dalla sanzione dell’Essere Cosciente. Il Divino
non potrebbe essere costretto ad alcunché da alcun potere del mondo immanente o
di quello trascendente e avrebbe potuto anche decidere di conservarsi eternamente in
uno stato di autoconcentrazione immobile e immanifesta, evitando una
autodiffusione diveniente e molteplice nel cosmo materiale o in qualsiasi altro
mondo-tipo. Alle spalle di tali considerazioni potremmo leggere una velata critica
filosofica alle teorie dell’illusione cosmica che interpretano Māyā come un potere di
creazione di mondi irreali relativamente separato da un Brahman silenzioso
indifferente al Divenire nella purezza di una condizione estatica trascendente33. Più
direttamente Aurobindo rinviene l’errore di separazione della Coscienza (Puruṣa) dal
suo Potere (Prakṛti) nel darśana Sāṁkhya, il quale ha dato adito ad un dualismo
insoddisfacente e filosoficamente fragile per una soluzione integrale dell’enigma
dell’esistenza ma tuttavia esprimente un ordine di verità pratico – termine questo che
non va riferito al pragmatismo o all’utilitarismo filosofici o più volgarmente allo
sforzo umano di adattamento ambientale quanto piuttosto all’utilità metodologica
che la proposta Sāṁkhya riveste nel cammino di avanzamento spirituale del sādhaka.
Potere del Divino, forza di autodispiegamento delle potenzialità giacenti in
uno stato di latenza nell’Esistente-in-Sé, Cit-Śakti è la forza che manifesta l’universo,
il principio creatore dei mondi – Coscienza supercosciente e Potere onnipotente in
uno: «a consciousness-force, everywhere inherent in Existence, acting even when
concealed, is the creator of the worlds, the occult secret of Nature»34. Il termine

33 Sulle ragioni della serrata ed estesa critica aurobindiana al māyāvāda avremo modo di soffermarci tra
non molto.
34 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 309.

71
‘creazione’ è utilizzato ripetutamente ma impropriamente da Aurobindo
nell’esprimere l’emanazione o l’automanifestazione di Brahman da uno stato di
concentrazione statica ad una condizione di diffusione dinamica. Il rischio di
equivocare il pensiero del maestro risiede in questo caso in una precomprensione
occidentale teistica radicata nel paradigma religioso dualistico semitico-cristiano volto
ad evidenziare la distanza incolmabile sussistente tra il Creatore e le sue creature – e
pienamente colmata invece dall’equivalenza ātman-Brahman, nota dominante della
tradizione upaniṣadica. Quasi a correggersi dalle numerose occorrenze del termine
due brevi note spiegano cosa debba intendersi, nel gergo aurobindiano, per
‘creazione’: «Creation would then be a self-manifestation: it would be an ordered
deploying of the infinite possibilities of the Infinite»35; e più decisamente: «In fact the
Infinite does not create, it manifests what is in itself, in its own essence of reality»36.
Analogamente ci sentiamo in dovere di criticare un ponte terminologico gettato da
Aurobindo tra Oriente e Occidente ma non abbastanza solido da reggere ad
un’analisi severa nell’equiparare Brahman all’Assoluto della metafisica europea – «The
Supreme Brahman is that which in Western metaphysics is called the Absolute»37.
Nessun teologo o filosofo occidentale parla infatti di Dio o dell’Assoluto in maniera
immediatamente paragonabile al Brahman della sapienza hindū, per l’innegabile
diversità culturale delle due cosmovisioni. Più preciso Panikkar nel tracciare
un’equivalenza omeomorfica o analogia funzionale di terzo grado tra due
formulazioni del Divino contenutisticamente differenti – in quanto non condividenti
attributi o funzioni – ma rispondenti ad un ruolo analogo nell’alveo delle rispettive
culture:

Brahman non è la traduzione di “Dio”, poiché i concetti non corrispondono (i loro attributi non sono
gli stessi), e le loro funzioni non sono identiche (Brahman non è creatore, provvidenza, persona, come
è Dio). Ciascuna di queste due parole esprime un’equivalenza funzionale all’interno della
corrispondente visione del cosmo38

35 Ibid., p. 327.
36 Ibid., p. 348.
37 Ibid., p. 338.
38 Raimon Panikkar, Religione, Filosofia e Cultura, op. cit., p. 49.

72
L’imprecisione è tuttavia perdonabile, poiché siamo con Aurobindo al
cospetto di un maestro spirituale – e non di uno studioso di interculturalità – il cui
intendimento è quello di forgiare una nuova e attuale immagine del Divino senza
adoperarsi in un confronto sistematico tra la cultura occidentale e quella hindū: egli
cerca piuttosto di portare a compimento una tradizione antichissima anche con il
dare voce all’esigenza occidentale di tradurre in realtà materiale, terrena e corporea le
verità rivelate dalla visione interiore e dalla conoscenza spirituale.
Il principio śaktico è logicamente necessario alla costruzione di un’immagine
del Divino integrale: la proposta di uno Spirito onnisciente e tuttavia impotente
sarebbe incoerente e insostenibile, insufficiente a giustificare la manifestazione
cosmica in un esclusivo ritiro nirguṇico. «A solely silent and static Infinite, an Infinite
without an infinite power and dynamis and energy is inadmissible [...] a powerless
Absolute, an impotent Spirit is unthinkable»39. Un Infinito di sola esistenza o
coscienza non potrebbe realmente definirsi tale e necessiterebbe di un
completamento sul versante della δύναµις: il suo attributo appropriato sarebbe anzi
un energia infinita, un Potere supremo, la Forza da cui tutte le forze discendono.
Anche volendo rimanere su di un piano puramente logico il Divino integrale non
potrebbe configurarsi solo come Dio di Conoscenza e dovrebbe cercare un
completamento in termini operativi come Signore dell’Azione: ciò che è oltretutto
desumibile dalla Bhagavad-Gītā, in cui Kṛṣṇa si presta al dialogo non in un tranquillo
monastero ma in mezzo al clangore delle armi nel campo di battaglia di Kurukṣetra.
«Il Maestro della Gīta non è soltanto il Dio nell’uomo che si rivela attraverso le parole
di conoscenza, ma anche il Dio nell’uomo che fa muovere tutto il nostro mondo
d’azione»40.
Infine e soprattutto Brahman è Ānanda: inalienabile felicità d’esistenza, gioia
suprema e perfetta, eterna, autosoddisfatta, indipendente da condizioni esteriori,
scevra di desideri e bisogni, sgombera da ansie, timori e preoccupazioni, puramente
appagata dalla delizia di un’infinita esistenza cosciente. L’Infinito è felice proprio in
quanto infinito, laddove nelle limitazioni della finitezza risiede il nocciolo e la causa di
ogni scontentezza, dell’insoddisfazione bramosa di oltrepassare ostacoli: limitazioni

39 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 351.
40 Śrī Aurobindo, Lo Yoga della Bhagavad Gītā, op. cit., pp. 72-73.

73
solo transitoriamente gioiose nel varcare sempre più ampi confini d’esistenza, nella
tensione ad un obiettivo di completezza e perfezione che il Divino possiede già da
sempre. «Absoluteness of conscious existence is illimitable bliss of conscious
existence [...] All illimitableness, all infinity, all absoluteness is pure delight. Even our
relative humanity has this experience that all dissatisfaction means a limit, an
obstacle»41. Poiché tutto è il Brahman e ogni ente non potrebbe essere altro che
Quello all’infuori del quale nulla esiste la logica impone che le automanifestazioni
finite del Divino condividano, sebbene in misura minore e ad un grado inferiore, le
divine qualità: e in effetti Ānanda risiede nel nucleo animico degli enti, i quali
possiedono dietro il velo di un’esistenza superficiale brancolante tra piaceri e dolori
transeunti, nell’alternanza di serenità e turbamenti, la medesima divina scintilla di
gioia imperitura, di felicità pura senza ulteriori attributi in qualsivoglia circostanza
piacevole o spiacevole dell’esistenza, foss’anche nel più grave affanno o dolore.
Nonostante le sofferenze e le inquietudini della parte più esteriore del nostro essere,
l’entità psichica radicata nell’Ānanda riceve con un sentimento di imparziale delizia gli
urti del mondo, in una condizione di felicità senza macchia che è ritenuta essere la
condizione ordinaria dell’esistenza cosciente e che è giunta addirittura a costituire
negli esseri viventi l’implacabile istinto di autoconservazione: giudizio questo forse un
po’ esagerato ma interessante come esempio della capacità aurobindiana di collegare
ogni aspetto dell’esistenza – in questo caso una verità psicologica e una biologica – in
un’armonia unitaria in cui ogni elemento contiene e spiega l’altro, essendo l’Infinito
in ognuno e ognuno nell’Infinito: «in everything that is there is the delight of
existence and it exists and is what it is by virtue of that delight»42. Al solito,
configurandosi quale Delizia d’esistenza infinita, Ānanda non è propriamente
paragonabile o riducibile al concetto e all’esperienza di felicità ordinariamente note
alla coscienza mentale, sperimentante piccoli e passeggeri piaceri sensuali o
intellettuali determinati da una facoltà desiderativa ignorante ed egoista – fragili
fenomeni di superficie di intensità variabile ma pur sempre misera in confronto alla
più profonda gioia spirituale. Ānanda è di contro felicità eterna non dimenantesi tra
gli opposti poli di piaceri e dolori meschini, delizia incausata ed autoesistente prima e

41 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 99.
42 Ibid., pp. 99-100.

74
al di là di ogni evento esterno, non determinata da altalenanti esperienze esteriori –
fiamma di divina letizia in eterno intensamente ardente.

when we speak of universal delight of existence we mean something different from, more essential
and wider than the ordinary emotional and sensational pleasure of the individual human creature. [...]
Delight of being is universal, illimitable and self-existent, [...] independent of objects and causes. [...]
the Immortal’s ecstasy43

Una felicità di ampiezza universale mai monotona e uniforme seppur


imparziale, ben più molteplice e varia degli angusti gradi di piacere ordinariamente
attingibili dall’umanità: profonda oltre slanci sentimentali o serenità imperfette,
sempre fresca, nuova e giovane, da assaporare nelle sue infinite tinte – dove il
godimento estetico tocca l’estasi spirituale. Non a caso Aurobindo parla di rasa
(sapore, gusto), indefinibile e centrale categoria dell’estetica hindū: «The delight of
the Spirit is ever new, the forms of beauty it takes innumerable, its godhead ever
young and the taste of delight, rasa, of the Infinite eternal and inexhaustible»44.

3. Nirguṇa e Sagunạ. Contra śūnya e Māyā

Conciliando avverse tradizioni religiose e scuole filosofiche indiane, il Divino


aurobindiano abbraccia due aspetti compresenti e complementari della realtà nel suo
sfaccettato e pur unitario essere: una configurazione nirguṇica passiva, statica,
impersonale, trascendente, ineffabile, priva di qualità – il vuoto silenzio senza forma
oltre l’Essere e il non-Essere, la pura luce di coscienza trascendente45 – e
un’espressione saguṇica attiva, dinamica, cosmica, dotata di tamas (principio di
inerzia e oscurità), rajas (principio energetico d’azione e di movimento) e sattva
(principio luminoso di coscienza spirituale) – Potere formativo, Signore personale
dell’universo, Principio ordinatore delle energie cosmiche.

43 Ibid., pp. 106-107.


44 Ibid., p. 1106.
45 «A Being formless, featureless and mute / [...] Uncreating, uncreated and unborn, / The One by

whom all live, who lives by none, / [...] A silent Cause occult, impenetrable, –/ Infinite, eternal,
unthinkable, alone», Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXXIII-XXXIV,
Savitri, Libro III, Canto I, vv. 144-154, p. 309.

75
The Absolute [...] is the source of all determinations: [...] it can be infinitely all things because it is no
thing in particular and exceeds any definable totality. [...] the immobile immutable Self, the Nirguna
Brahman, the Eternal without qualities, the pure featureless One Existence, the Impersonal, the
Silence void of activities, the Nonbeing, the Ineffable and the Unknowable. On the other side [...] it is
the Self that becomes all things, the Saguna Brahman, the Eternal with infinite qualities, the One who
is the Many, the infinite Person [...] the Master of all works and action46

Due facce dell’esistenza unitaria dell’Infinito, l’aspetto statico e l’aspetto


dinamico di Brahman sono concepibili nella loro intrinseca relazione come due
condizioni coscienziali e ontologiche del Divino simultanee. Nel puro Trascendente
troviamo un vuoto non sterile ma contenente in potenza ogni energia ad uno stato
non manifesto e nel Signore del cosmo un dispiegamento ontofanico del tapas divino
nelle forme universali – originato, sostenuto e guidato da un Silenzio trascendente
non indifferente bensì pienamente cosciente del proprio lato attivo. «The passive
consciousness of Brahman and its active consciousness are not two different,
conflicting and incompatible things; they are the same consciousness, the same
energy, at one end in a state of self-reservation, at the other cast into a motion of
self-giving and self-deploying»47. In effetti è solo per comodità espositiva e facilità di
comprensione che si opera una separazione tra nirguṇa e saguṇa: c’è un unico
Brahman, integro ma infinitamente differenziato, che decide di mantenersi inattivo
custodendo impliciti in sé i suoi infiniti poteri o di rivelarsi dinamicamente nel fluire
variegato delle correnti energetiche cosmiche – «though we make the distinction for
the convenience of our minds, there is not a passive Brahman and an active
Brahman, but one Brahman»48. L’azione divina non può avere per base altro che il
supremo Silenzio all’origine di ogni essere, non può essere altro che lo strumento
espressivo di potenzialità divine, laddove di contro sembra di poter dedurre una
relazione di indipendenza dell’immobilità rispetto all’espansione dinamica
dell’Origine nella possibilità decisionale del Trascendente di mantenersi eternamente
chiuso in una condizione di beatifica autoesistenza cosciente. Un super-Essere

46 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 331.
47 Ibid., p. 594.
48 Ibid.

76
nirguṇico come Causa prima incausata che tuttavia non depaupera ontologicamente il
molteplice dell’esistenza manifestata, direttamente discendente dalla divina stasi e
dunque incontrovertibilmente reale.
Tali considerazioni non potrebbero comunque giungere ad una soluzione
definitiva per la semplice constatazione dell’ulteriorità brahmanica rispetto alla
somma di ogni totalità mentalmente concepibile. In una formulazione integrale
Brahman è attivo, è passivo, è la somma di attività e passività in ogni loro possibile
relazione ma d’altro canto non è né attivo né passivo, irriducibile ad ogni
opposizione nella distanza dell’ineffabilità – ciò che rappresenta un esempio di
sillogismo proprio della logica dell’Infinito49. «The Supreme, it has been declared in
the Gita, exceeds both the immobile self and the mobile being; even put together
they do not represent all he is»50. Essenziale il riferimento al poemetto epico-
filosofico indiano in cui Aurobindo rintraccia una delle prime chiare asserzioni di
integralità del Divino nella concezione del Puruṣottama onnipresente – di là da
semplicistiche esegesi che vorrebbero ridurre la Bhagavad-Gītā ad apologia esclusiva
del karma-mārga.

è sempre al Purushottama che Krishna si riferisce quando dice ‘Io’ e ‘Me’; egli intende cioè, il Divino
che è il Sé unico nel nostro essere immutabile e intemporale, che è anche presente nel mondo, in tutte
le esistenze e in tutte le attività, Signore del silenzio e della pace, Signore del potere e dell’azione51

Stabilita senza tentennamenti la realtà e la verità spirituali di una


manifestazione cosmica teofanica – per l’evidenza yogica sperimentale e per la
necessità logica di un’integralità del Divino altrimenti monca – Aurobindo concede
ampio spazio alla disamina critica, talvolta aspra, di quei movimenti filosofico-
spirituali (senza entrare nel merito di distinzioni storiche troppo sottili, il vuotismo
buddhista e il māyāvāda hindū) asserenti l’esclusiva pregnanza ontologica del

49 Seppur Aurobindo non si spenda in uno svolgimento formale della logica infinita, sembra di poter
dedurre in essa, stante le ripetute applicazioni, la seguente struttura: l’affermazione, riferita ad un
medesimo soggetto – non un qualunque soggetto ma un soggetto infinito – di un predicato e del
predicato opposto (in palese violazione del principio di non-contraddizione) nonché la negazione
simultanea di entrambi i predicati. L’asserzione positiva è giustificata dall’integralità del Divino, la
negativa dalla sua trascendenza.
50 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 597.
51 Śrī Aurobindo, Lo Yoga della Bhagavad Gītā, op. cit., p. 158.

77
Trascendente senza attributi. L’immobile vuoto silenzioso, unica realtà d’esistenza nei
confronti della quale l’universo materiale dimostra la propria inconsistenza,
l’illusorietà degli enti finiti o, alla meno peggio, il valore di realtà transeunte, pratico e
subordinato del cosmo. Un lungo confronto dialogico con il puro spiritualismo
(spiritualità acosmica, la definisce incisivamente Panikkar) che potrebbe sembrare
esagerato, ozioso o addirittura assurdo alla mentalità materialistica d’Occidente ma
che dimostra l’instancabile volontà aurobindiana di sostenere le ragioni della scienza e
della filosofia occidentali – nell’accoglimento dell’inconfutabile verità della
testimonianza offerta dalla mente e dai sensi fisici accanto e sullo stesso piano delle
verità d’esperienza psicologico-metafisica profonda.
Un Assoluto privo di qualità, nomi e forme, indeterminato e indeterminabile
è insostenibile per l’evidenza percettiva ed esperienziale di esistenza reale
dell’universo: il quale, coerentemente con il postulato di un Brahman limitato alla
pura trascendenza, non sarebbe mai potuto esistere e che purtuttavia si dipana
dinnanzi ai nostri occhi determinando le nostre esistenze. «But if the supreme
Absolute is indeed a pure Indeterminable, then no creation, no manifestation, no
universe is possible. And yet the universe exists»52. Ribadito l’indiscusso assioma
esperienziale per cui Brahman, unica realtà, è tutto in un’onnipresenza che non lascia
enti al di fuori di sé, l’universo in quanto costituito della medesima sostanza divina e
originato dall’Essere stesso ad un divino scopo non potrebbe che partecipare o, ad
un più sommo grado, identificarsi pienamente con la natura della suprema Realtà – di
cui rappresenta una diretta filiazione o, più propriamente, una manifestazione
emanativa: «Whatever is created must be of it [la Realtà] and in it, and what is of the
substance of the utterly Real must itself be real»53.
Il vuotismo commette l’errore di interpretare letteralmente quell’attributo di
indeterminabilità dell’Assoluto il quale intende in realtà evidenziare l’impossibilità
logica di definire l’Essere mediante identificazioni con oggetti o concetti finiti; ma
l’indeterminabilità comprende al contempo, dato il presupposto di onnipotenza del
Divino, la possibilità di un’espressione molteplice e finita dell’Uno-Infinito.
Aurobindo considera così il rigetto delle qualità transeunti e fenomeniche come

52 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 325.
53 Ibid., p. 326.

78
un’indebita mutilazione e limitazione del Senza-Limiti. «It is perfectly understandable
that the Absolute is and must be indeterminable in the sense that it cannot be limited
by any determination or any sum of possible determinations, but not in the sense
that it is incapable of self-determination»54. Nel medesimo senso dovremmo
intendere il situarsi al di là dalle relazioni di Brahman non come una negazione della
capacità di porsi in relazione al mondo o di manifestare, sostenere ed essere una
varietà indefinita di possibili relazioni da parte di Colui che è capace di tutto: si tratta
piuttosto dell’allusione ad un’ulteriorità e trascendenza continua rispetto al tentativo
di ingabbiare il Divino entro i confini di un cosmo immanente e fenomenico. «It
[l’Assoluto] is beyond all relations in the sense that it is not bound by any relativities
or limitable by them in its power of being. [...] But neither can it be limited by any
incapacity to contain, sustain, create or manifest relations»55. E ancora, il carattere
amorfo del Trascendente si riferisce unicamente alla condizione di possibilità per una
manifestazione libera e infinita di ogni forma, non all’impossibilità del Divino di
assumere le forme che abbia deciso di assumere: «he [l’Essere Divino] is at once
Form and the Formless. [...] the Formless is not a negation of the power of
formation, but the condition for the Infinite’s free formation»56.
Un divino Vuoto di immobile autoesistenza e di potenza concentrata è
certamente un’indiscutibile verità d’esperienza yogica, di cui intere tradizioni mistiche
e spirituali danno ribadite conferme nei secoli. Ma tale concezione non può
pretendere di esaurire la complessità di una Realtà plurale, proteiforme e tuttavia
infinitamente una – se non altro per l’incapacità delle filosofie illusioniste di fornire
una spiegazione convincente e coerente della necessità esistenziale del cosmo e
dell’uomo con il trascurare ingiustificatamente i dati dell’esperienza fisica: «an infinite
of being complete to itself in its own immutable purity of existence, its sole power a
pure consciousness able only to dwell on the being’s changeless eternity, on the
immobile delight of its sheer self-existence, is not the whole Reality»57. Di là dalle

54 Ibid., p. 327.
55 Ibid., p. 663.
56 Ibid., p. 352. Nello stesso spirito si consideri la seguente affermazione: «The Personal God is not

limited by His qualities, He is Ananta-guna, capable of infinite qualities and beyond them and lord of
them», Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXIII-XXIV, The Synthesis of
Yoga, p. 381.
57 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine p. 327.

79
istanze critiche evidente merito delle filosofie del vuoto è tuttavia quello di aver
posto l’accento sulla trascendenza dell’Origine rispetto alle possibilità mentali di
comprensione. Evitare la descrizione del Divino parlando di śūnya è un modo
efficace e intelligente di indurre il ricercatore ad abbandonare le pretese definitorie e
schematizzanti del mentale per accedere a domini conoscitivo-esperienziali di ordine
superiore: ciò non dovrebbe essere frainteso come uno svuotamento contenutistico
del Principio teso a sottolinearne la pura vacuità ontologica ed esistenziale. Si tratta di
una negazione di valore conclusivo solo in relazione alle capacità della mente di
superficie, non un’annichilazione delle qualità divine né una premessa conducente
all’ateismo – anzi, uno strumento di crescita spirituale e di avvicinamento al Divino
nella discoperta di territori dell’esperienza mistica sostenuti dalla conoscenza per
identità58: «our conception of a Void or Zero is only a conceptual sign of our mental
inability to know or grasp it [l’Assoluto]»59. E tuttavia una tale concezione del Nulla,
non nel senso del nichilismo occidentale contemporaneo che azzerando ogni valore
deprivi di un qualsiasi senso l’esistenza – riflesso teorico di una patologia psichica
depressiva piuttosto diffusa ad oggi nelle nostre terre – quanto piuttosto nel senso di
una pienezza d’Essere includente ogni opposto principio (e primo fra tutti il non-
Essere)60, non è all’altezza di fornire una spiegazione esaustiva e razionalmente
concepibile dell’assurdità dell’universo e del nonsenso dell’esistenza.

Shall we say that Sachchidananda is not the beginning and end of things, but the beginning and end is
Nihil, an impartial void, itself nothing but containing all potentialities of existence or non-existence,
consciousness or non-consciousness, delight or undelight? We may accept this answer if we choose;
but although we seek thereby to explain everything, we have really explained nothing, we have only
included everything61

58 Particolarmente rivelatore in questo senso il racconto zen in cui un maestro chiese ad un discepolo
di indicargli il vuoto: questi strinse delicatamente il pugno in aria, nel gesto di catturare il vento. Per
tutta risposta il maestro afferrò il naso del discepolo e lo strattonò violentemente, sentenziando
«Questo è il vuoto!».
59 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 664.
60 Il maestro zen Hôseki S. Hisamatsu ha coniato, nel tentativo di descrivere linguisticamente il mu, la

significativa espressione ‘pienezza del nulla’. Cfr. Hôseki S. Hisamatsu, La Pienezza del Nulla, trad. it. di
C. Angelino, Genova, Il Melangolo, 1989.
61 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 105.

80
La critica all’acosmismo del Brahman uno senza secondo si fa più serrata e
pungente con il concentrarsi della critica aurobindiana sulle teorie dell’illusionismo
māyāvāda: un termine di confronto vasto e molteplice, dai contorni storici
quantomai imprecisati ma teoreticamente unitario e riconoscibile nelle sue differenti
declinazioni – in cui Aurobindo include, con un’operazione non del tutto legittima
dal punto di vista strettamente storico-filosofico, Śaṅkara, sommo esponente
dell’Advaita Vedānta. Due interi capitoli della prima parte del libro secondo di The
Life Divine (il quinto, The Cosmic Illusion: Mind, Dream and Hallucination, e il sesto, Reality
and the Cosmic Illusion) sono dedicati allo svolgimento di un’argomentazione vigorosa
in favore del valore e della realtà del mondo che non teme di utilizzare ogni arma a
sua disposizione, non risparmiando talvolta colpi bassi o illazioni scarsamente
cogenti62.
In prima istanza Aurobindo accusa di eresia dottrinale le scuole illusioniste,
che tuttavia si autorappresentano e sono normalmente accettate come ortodosse o
āstika – cioè asserenti la verità della rivelazione vedica di contro ai sistemi nāstika,
buddhisti e jaina, che la negano63. Negando la realtà del mondo come emanazione o
dispiegamento delle potenzialità del Brahman l’illusionismo si condanna ad una
distanza abissale dalle affermazioni upaniṣadiche che configurano il Divino come
tutto ciò che è, come cosmo, uomo, animale e materia. «In this view one cannot
accept the assertion of the Upanishads that the world is made out of the supreme
Existence, is a becoming, an outcome or product of the eternal Being»64.
Argomentazione che sembrerebbe non provare nulla da un punto di vista
squisitamente teoretico ma che assume una valenza non secondaria qualora si
considerino le Upaniṣad nella loro natura di esposizioni ragionate di esperienze
spirituali concrete. Il problema e il limite della prospettiva illusionista è la dimostrata

62 Per una più estesa disamina della polemica aurobindiana contra il māyāvāda cfr. Beatrice Bruteau,
Worthy is the World. The Hindu Philosophy of Śrī Aurobindo, Cranbury, Fairleigh Dickinson University
Press, 1971, particolarmente cap. V (Maya and the Mayavada) e cap. VI (The Destruction of Values in
Mayavada), pp. 152-214.
63 Ma la distinzione ha in effetti un valore più politico che dottrinale. Cfr. Panikkar, L’Esperienza

Filosofica dell’India, op. cit., p. 172: «la divisione Âstika/Nâstika, come ogni divisione tra ortodossia ed
eterodossia, è più di natura politica che intellettuale. In alcuni dei darśana ‘ortodossi’ c’è assai poco
contenuto vedico».
64 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, pp. 459-

460.

81
incapacità di donare senso al mondo ed alla realtà esistenziale dell’uomo – di cui non
si potrebbero comprendere, a partire dai presupposti del māyāvāda, ruolo e funzione
divini. Il groviglio enigmatico dell’esistenza non è sciolto ma abbandonato a se stesso
nella fuga da una vita illusoria e assurda alla volta del puro Trascendente – che
significa evitare una risposta, non affrontare la difficoltà: per quale motivo o ragione
divini Brahman avrebbe dovuto inventare e manifestare un universo insensato, uno
spettacolo di forme il cui unico scopo concepibile si risolvesse in un’estinzione
dell’esistenza per mezzo di una liberazione di natura extracosmica?
Inoltre l’abbondante insistenza sulle enormi differenze ontologiche
sussistenti tra un Brahman puro e perfetto – unica realtà autoesistente in un lontano e
indifferente silenzio trascendente – e una Māyā come potere creatore di illusioni
cosmiche corre il rischio di ripristinare una visione dualistica dell’esistenza
incompatibile con lo stesso postulato di unità infinita del Divino accolto dagli
illusionisti e sperimentato nello yoga. Dualismo che, peraltro, pone più problemi di
quanti non ne risolva, dimostrandosi filosoficamente fragilissimo: se Brahman è
l’unica realtà da dove può provenire Māyā se non da lui? E allora come potrebbe un
potere della suprema Realtà supercosciente essere un costruttore di illusioni e a che
pro? Accolto un assioma dualistico la teoria illusionista potrebbe forse assumere una
qualche consistenza ma considerato che i suoi sostenitori si definiscono advaitini è
dal punto di partenza aduale che siamo tenuti a giudicare tale proposta teorica: di qui
nessuna conciliazione tra i due opposti principi di Realtà ed Illusione sembra essere
possibile o anche solo concepibile entro le coordinate di senso tracciate dal
māyāvāda.

what we are confronted with is a pure static and immutable Reality and an illusory dynamism, the two
absolutely contradictory of each other, with no greater Truth beyond them in which their secret can
be found and their contradictions discover a reconciling issue65

In quanto coscientemente voluti e manifestati dal Divino, nonché costituiti


della sua stessa sostanza (poiché anche la materia è Brahman66), i fenomeni cosmici,

65 Ibid., p. 464.
66 «Brahman must be the material of the world as well as its base and continent», ibid., p. 36.

82
pur nel loro carattere diveniente e transeunte, non possono essere completamente
spogliati di un valore di realtà. Anche dopo la loro dissoluzione saranno ricordati e
concepiti come fenomeni non più esistenti ma un tempo (e per tutto il corso della
loro esistenza) reali – «It is a temporal order of reality, but it is still a reality of the
Real, not something else»67; e ancora, rovesciando il classico esempio illusionista del
vaso irreale costituito da terra reale: «the pot is real by right of its being made out of
the substance of earth which is real»68. La soluzione aurobindiana di un Assoluto
molteplicemente cosciente che assume simultaneamente le posizioni complementari
di autoassorbimento trascendente e di dinamismo cosmico si dimostra più
ragionevole e coerente col postulato di un’Unità infinita: anche se, così salvaguardata
l’integrità dell’Origine, resta da vedere quale sia il senso e lo scopo
dell’autodeterminazione finita dell’Infinito – ravvisati da Aurobindo nella concezione
di un’involuzione e di un progressivo svelamento evolutivo delle potenzialità divine,
il cui giudizio filosofico rimandiamo al prossimo capitolo. Certo è che, essendo
Brahman infinita Coscienza e non infinita assurdità, l’enigma della manifestazione
potrà rimanere per sempre tale per le categorie di un pensiero dualistico e finito ma si
dovrà necessariamente sciogliere con l’accesso a stati di coscienza superiori: «The
mystery of the universe must have a divine sense to the Divine»69; «The cosmos is no
accident in Time; / There is a meaning in each play of Chance»70.
Ma torniamo alla critica del māyāvāda: il sistema illusionista estende il dubbio
scettico di irrealtà ad ogni fenomeno percepibile e concepibile, considerando altresì
come falso – in una critica nichilista a tutto campo – lo stesso percorso yogico di
salvezza individuale. Se tutto è illusione, argomentano gli illusionisti, allora lo è anche
l’asservimento alle immagini di Māyā e la liberazione da esse – asservimento e
liberazione che in ultima istanza non sono mai esistiti, in quanto siamo già tutti da
sempre e per sempre spiritualmente liberi nell’ordine di realtà divino: da dove può
allora discendere la certezza della consistenza ontologica dell’esperienza yogica di
assorbimento nel puro Sé? Come considerare reale e su quale base una singola

67 Ibid., p. 477.
68 Ibid., p. 473.
69 Ibid., p. 481.
70 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXXIII-XXXIV, Savitri, Libro II,

Canto XI, vv. 416-417, p. 271.

83
esperienza laddove nessun’altra esperienza o concezione è risparmiata da una critica
distruttiva e integrale di irrealtà? Sarebbe allora stata una scelta più coerente e
coraggiosa quella di continuare sulla linea di un nichilismo duro e puro, come quella
del buddhismo più intransigente che negò l’esistenza dell’Origine e del Sé (dottrina
dell’anātta) e la stessa realtà del vuoto (dottrina dello śūnya śūnyatā). Con una punta
di sarcasmo e di cattiveria, davvero rarissimi nell’atmosfera pacata di austera dignità
ed equanimità che si respira in ogni pagina di The Life Divine, Aurobindo giunge ad
affermare: «The Brahman, the supreme Reality, is That which being known all is
known; but in the illusionist solution it is That, which being known, all becomes
unreal and an incomprehensible mystery»71. Affermazione che fa il paio con quella
che sembra potersi considerare un’accusa di ateismo nei confronti dell’illusionismo:
«The great theory of Illusion, which is a practical denial of the Divine in the world,
even when in idea it acknowledges the Presence»72.
La Māya in qualità di potenza illusoria ingiustificabile nei suoi processi ed
operazioni, esistenzialmente insensata e ontologicamente nulla è ricondotta e
riassorbita nella concezione aurobindiana alla Śakti: potere reale di manifestazione di
un mondo reale inerente a Brahman in quanto organo dinamico di dispiegamento
della divina Volontà sopracosciente, muscolo e agente del Divino. Un’operazione
che avvicina la posizione del maestro ad alcune branche dello śivaismo ma che pur
non dovrebbe indurre lo studioso ad esagerare l’influsso dello śaktismo sul maestro –
considerato il fatto che molti importanti autori del Vedānta, da Nimbārka a Vallabha,
parlano della Śakti di Brahman in un’accezione molto vicina a quella aurobindiana.

In quanto potenza di creazione e artefice del cosmo, la Śakti, secondo la scuola Trika e lo scivaismo
kaśmirico in generale, è assimilabile per funzioni con la Mâyâ del Vedânta; da essa si distingue però per
una connotazione fondamentale, in quanto, a differenza della Mâyâ che «illude» l’essere umano di
avere valore ontologico al di fuori del Brahman, la Śakti tantrica è mâyâśakti, potenza di
manifestazione che riconduce l’uomo al Divino, energia che cela entro di sé il cammino della
liberazione73

71 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 487.
72 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXIII-XXIV, The Synthesis of Yoga, p.
267.
73 Luciana Meazza e Gabriele Burrini, La Filosofia Indiana, Milano, Xenia, 1994, p. 81.

84
4. Advaita

In un’ulteriore armonizzazione di contrari Brahman è advaita74: Essere


aduale, Uno e Due e anche non-Uno e non-Due – riassumente in sé le istanze del
monismo e del dualismo filosofici per grazia dell’attributo di Unità infinita
comprensiva del Molteplice. Il Divino è l’uno e i molti: la sua Unità infinita – e non
matematica – può contenere, direbbe la sapienza cinese, i diecimila esseri nella
frammentazione di una finitezza che non intacca in nessuna circostanza l’originaria
natura una dell’Uno. Una concezione quasi sempre presente nelle mistiche dell’Uno,
ivi compresa la plotiniana, poiché pur essendo l’Uno senza secondo questi si
dimostra in grado di lasciare spazio al due e ai molti in una totalità onnicomprensiva.
Concezione che va affermata ancor più decisamente in una mistica di tipo advaita in
cui, per mezzo dell’equivalente sanscrito dell’alpha privativo, la negazione di dualità si
configura come allusione simbolica ad un ordine di realtà in definitiva non
matematico – inconcepibile e per tramite di un massiccio monismo e per via di un
dualismo estraneo all’intuizione di fondo della cultura religioso-filosofica hindū.
Brahman è l’Uno e i Molti e l’aldilà dell’unità e della molteplicità esattamente nello
stesso senso in cui è Nirguṇa e Saguṇa e l’aldilà di passività e attività: la difficoltà di
comprendere come l’Uno possa divenire il Due al contempo rimanendo Uno – che
non è un gioco di parole ma una verità d’esperienza spirituale – è ancora una volta
solo l’espressione dei limiti della mente finita e di una logica non abbastanza vasta. «It
[la mente] is thinking in the terms of the mathematical finite unit, [...] the one which
is less than two and can become two only by division and fragmentation or by
addition and multiplication; but this is an infinite Oneness [...] which can contain the

74 Per una precisa definizione di advaita secondo le categorie filosofiche hindū cfr. Panikkar, Il Dharma
dell’Induismo, op. cit., p. 157: «È l’esperienza del nirdvandva o superamento di tutti i dvandva, di tutte le
coppie di opposti, di ogni dualità senza cadere d’altra parte nel monismo. Gli opposti, i dvandva,
appaiono contraddittori solo alla ragione: freddo e caldo, dolore e gioia (per fare due esempi classici).
In realtà sono opposti ma solo concettualmente contraddittori». In termini più vicini all’Occidente si
esprime sul tema Guénon nell’Introduzione Generale allo Studio delle Dottrine Indù, trad. it. di P. Nutrizio,
Milano, Adelphi, 1989, pp. 108-109: «Pur non ammettendo, come il monismo, alcuna irriducibilità
assoluta, il «non-dualismo» ne differisce profondamente perché non pretende affatto che uno dei due
termini sia puramente e semplicemente riducibile all’altro; esso li considera entrambi simultaneamente
nell’unità di un principio comune, di ordine più universale, e in cui sono ugualmente contenuti, non
più come opposti, propriamente parlando, ma come complementari, tramite una sorta di
polarizzazione che non modifica in nulla l’unità essenziale del principio comune».

85
hundred and the thousand»75. Sarebbe anzi un errore della mentalità dualistica negare
all’Uno infinito la capacità di dispiegarsi nella molteplicità, per cui è appunto
rappresentato come infinito. Non si comprenderebbe altrimenti la necessità del
predicato di infinità laddove l’attribuzione all’Uno dell’incapacità di divenire multiplo
di se stesso porterebbe logicamente al riconoscimento della sua definibilità – e per
conseguenza della sua finitezza. «It can be said of it that it would not be the infinite
Oneness if it were not capable of an infinite multiplicity»76.
Nel dividersi e nel moltiplicarsi l’Uno mantiene intatte le proprie
caratteristiche di integrità e indivisibilità. Pur apparendo irrimediabilmente separato
alla coscienza mentale dualistica in un piano cognitivo supermentale l’Assoluto tiene
insieme gli opposti di unitarietà e molteplicità in un’armonia non contraddittoria:
«There is no division of the One by the appearance of the finite, for it is the one
Infinite that appears to us as the many finite [...] it remains after creation what it was
before»77. Il riferimento all’apparenza (appears to us) di multipla finitezza dell’Uno
costituisce da parte di Aurobindo una leggerezza terminologica deprecabile nel dare
adito ad un’interpretazione illusoria della concezione mentale del mondo. Com’è
deducibile dalle critiche al sistema illusionista non è lecito (ed è certamente lungi dagli
intendimenti aurobindiani) considerare l’universo fenomenico, pur nella concezione
ignorante e dualistica figurataci dalla coscienza mentale, un’apparenza: anche il
mondo materiale costituito da enti molteplici, transeunti e finiti è reale, non potendo
tuttavia esaurire la pluralità ontologica del supremo Reale. Parlando in forma
metaforica ma filosoficamente pregnante la moltiplicazione dell’Uno equivale alla
divisione prismatica della luce bianca, la quale dispiega le proprie tinte latenti –
realmente differenti le une dalle altre ma allo stesso tempo realmente riconducibili

75 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 350.
Sulla non matematicità dell’Uno divino insiste anche Panikkar, sottolineando l’assurdità di voler
ridurre ad un concetto meramente logico-quantitativo un attributo dell’Assoluto. Cfr. «Il nostro
concetto dell’unità è un concetto logico, quantitativo, assolutamente inadeguato e inapplicabile
all’Assoluto. L’Uno non è un numero. L’astrazione è necessaria per giungere a qualunque concetto,
ma in questo caso l’astrazione si trasforma in estrazione annichilante», Il Dharma dell’Induismo, op. cit., p.
163.
76 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 350.
77 Ibid., p. 353.

86
alla loro fonte unitaria78: «the real Unity [...] delivers from its whiteness of hue the
many tones of colour that are fused together there; Oneness finds itself infinitely in
what seems to us to be a falling away from its oneness, but is really an inexhaustible
diverse display of unity»79. Ancora una volta l’allusione all’apparenza del molteplice
(seems to us) è impropria, dati i presupposti filosofici aurobindiani: più correttamente
potremmo considerare limitata e parziale una conoscenza separatrice di carattere
materiale in opposizione ad un più vasto ordine coscienziale in grado di ricondurre il
molteplice all’Uno e di comprendere le relazioni di simultanea identità e differenza
tra gli enti finiti – evitando il rischio di risuscitare fantasmi illusionistici.
La logica advaita rappresenta la chiave di lettura più consona alla
comprensione di un mondo duale che trae origine dall’Uno e che in quello stesso
Uno trova il proprio compimento teleologico o destinale – nell’interpretazione
involuzionistico-evoluzionistica del reale che concepisce il Divino come causa prima
e finale della manifestazione universale. Un dualismo come fase intermedia di
espressione delle potenzialità dell’Uno, il decorso dell’Eterno contenuto e circoscritto
tra la nascita e la dissoluzione dei fenomeni spaziotemporali: «that phenomenon of
duality expressing unity, proceeding from unity and opening back into unity, which is
the constant secret and fundamental operation of the universe»80. L’adualismo è
l’unica concezione in grado di spiegare e giustificare tutti i fatti dell’esistenza,
quadrando con opposte tendenze interpretative della totalità senza lasciare nulla allo
scoperto – laddove un rigido monismo trova problematico l’accoglimento della
molteplicità degli enti e un dualismo totalizzante contraddice l’esperienza di unità del
Divino. «E dopo tutto non è forse il vero advaita ciò che non lascia nessuna falla
nell’unica, eterna Esistenza? Questo integrale ed estremo monismo vede l’unità anche
nella molteplicità della Natura»81– inaccurata e semplicistica la traduzione di advaita

78 Di non secondario interesse notare come una tale formulazione sia sorprendentemente vicina alla
teoria del riflesso propria di talune scuole śaṅkariane, così acrimoniosamente criticate, sebbene non
direttamente citate, da Aurobindo: cfr. «tenendo fermo il paragone della […] coscienza del mondo, ad
una fonte di luce, è teoria bimba o pratibimba o teoria del riflesso quella che si fonda sulla
differenziazione dei colori della luce pura. Indicando i diversi colori come simboli del molteplice:
questo vuol dire che la molteplicità è data all’interno della attività dell’origine», Icilio Vecchiotti,
Introduzione alla Storia della Filosofia Indiana, op. cit., p. 163.
79 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 355.
80 Ibid., pp. 373-374.
81 Śrī Aurobindo, Lo Yoga della Bhagavad Gītā, op. cit., p. 296.

87
(propriamente né monismo né dualismo) con monismo, un’ulteriore fallo
terminologico che tuttavia non indebolisce la solidità teorica del complesso sistema
aurobindiano.
Riconoscendo eminenti predecessori teorici nella dialettica aduale Uno/Molti
– sostegno storico alla tesi advaita e indicazione di continuità nei confronti della
tradizione (non solo hindū) come omaggio e confronto dialogico – Aurobindo
umilmente ammette il radicamento della propria speculazione, lasciando a tergo
egoistici orgogli d’originalità, in Eraclito, nonché in Rāmānuja82 e addirittura nel
sistema dvaita (dualistico) di Madhva83: sistemi concordi nella concezione di
coesistenza dei termini, entrambi reali, dell’Uno e del Molteplice. «[Eraclito] believed
unity and multiplicity to be both of them real and coexistent. Existence is then
eternally one and eternally many, – even as Ramanuja and Madhwa have
concluded»84. Perla rara il riferimento diretto ad autori vedāntini altri da Śaṅkara, se
escludiamo la figura di Vivekānanda con cui il maestro dimostra un affiatamento e
un’affinità piuttosto yogici che non – strictu sensu – filosofici. Per completezza sarebbe
tuttavia stato opportuno citare perlomeno il bhedābhedavāda di Bhāskara, sistema
che concepisce l’unità come condizione causale di Brahman, la molteplicità come sua
condizione manifesta85. Per utilizzare un gergo più familiare alla filosofia occidentale,
il problema dell’opposizione complementare di unità e molteplicità potrebbe essere
tradotto nel tentativo, anch’esso già eracliteo, di armonizzazione dei piani dell’Essere
e del Divenire – entrambi sostanziati di realtà: «Heraclitus does not exclude Being

82 Rāmānuja (XI sec.) è il formulatore della dottrina del viśiṣṭādvaita o adualismo qualificato. Il mondo
e le anime possiedono un valore di realtà autonomo ma al contempo dipendono da Brahman come
suo corpo e veste. Senza il Divino anima e natura non esisterebbero ma non possono nemmeno
risolversi totalmente in Brahman. Il Divino è la causa efficiente e materiale del mondo: ogni
determinazione è un aspetto o modificazione di Brahman. Polemico contro le dottrine illusioniste e
contro l'illustre predecessore Śaṅkara, Rāmānuja ritiene che avidyā trovi il suo fondamento in
Brahman. È accettata la teoria Sāṁkhya della preesistenza dell'effetto nella causa.
83 Madhva (1197/99-1276/78), influenzato dal Nyāya-Vaiśeṣika, è polemico contro l'Advaita Vedānta.

Il Divino, le anime e la materia sono realtà differenti e inconciliabili. Brahman è distinto dagli enti,
causa efficiente ma non materiale del mondo. Si danno cinque differenze fondamentali: fra il Divino e
le anime; fra il Divino e la materia; fra l'anima e la materia; fra l'anima e le anime; fra gli oggetti
materiali.
84 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XIII, Essays in Philosophy and Yoga, p.

222.
85 Bhāskara (IX-X sec.) sostiene la dottrina della realtà di unità e molteplicità – ontologicamente

equivalenti. La manifestazione è rispetto a Brahman differente e non-differente. La realtà è unitaria


quanto a causa ma molteplice per l'esperienza spaziotemporale: le limitazioni sono reali e non
risalgono ad avidyā.

88
from the data of the problem of existence, although he will not make any opposition
or gulf between that and Becoming»86.
L’adozione di una prospettiva aduale è necessaria alla salvaguardia del
principio di integrità dell’Onnipresente. Il Divino, pur divenendo molteplicemente
tutte le cose, ogni fenomeno naturale ed ente finito, conserva quell’unità
fondamentale che è l’imprescindibile caposaldo di una concezione armonica della
Divinità nonché l’intuizione principe dell’intera cultura hindū. Una prospettiva che
mette Aurobindo al riparo da opposizioni tra realtà divine e non-divine cui non
sfuggono del tutto, come abbiamo avuto modo di constatare, i teorici di un mondo
māyico: si tratta di opposizioni che non possono trovare accoglimento (se non in
qualità di strumenti funzionali all’avanzamento yogico, ciò che accade, come s’è visto,
nel sistema Sāṁkhya) nel mondo di senso aurobindiano, che pone il Divino come il
tutto e di conseguenza tutto come il Divino.

the true Adwaita, is that which admits all things as the one Brahman and does not seek to bisect Its
existence into two incompatible entities, an eternal Truth and an eternal Falsehood, Brahman and not-
Brahman, Self and not-Self, a real Self and an unreal, yet perpetual Maya87

Al di là dei conflitti, delle lotte egoistiche per l’affermazione di esistenze


separate, delle tregue e dei compromessi nell’interminabile e inarrestabile guerra tra
fazioni e principi opposti che dilaniano l’esistenza sociale e psicologica dell’umanità
mentale l’advaita pone all’origine delle tensioni l’armonia dell’Essere. Armonia che si
mantiene senza macchia anche nelle più insanabili e cruente discordie, su un grado
ontologico attualmente sovracosciente ma pienamente attingibile dall’essere umano
che si concentri sul cammino dell’autoperfezionamento spirituale. «The world is a
differentiated unity, a manifold oneness, not a constant attempt at compromise
between eternal dissonances, not an everlasting struggle between irreconcilable
opposites»88. Una critica alla concezione tragica del mondo, all’ontologia lacerata del
primo Nietzsche – che ne uscì infine riassorbendo l’apollineo nel dionisiaco con la

86 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XIII, Essays in Philosophy and Yoga, p.
224.
87 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 35.
88 Ibid., pp. 254-255.

89
mistica totalizzante e onnicomprensiva dell’affermazione dionisiaca – ma non certo al
πόλεµος eracliteo che, stante l’interpretazione aurobindiana del filosofo greco,
dovremmo intendere più come tensione all’equilibrio degli opposti che non nel senso
di un’insanabile lotta dell’Essere contro se stesso. Se l’insistenza sulla riconciliazione
degli opposti trova un corrispettivo occidentale nel procedere della dialettica
hegeliana89 dovremmo tuttavia tener presente che la totalità armonica cui si riferisce il
filosofo di Stoccarda non potrebbe essere nemmeno lontanamente comparata alla
straordinaria ampiezza ontica rivelata dalla filosofia aurobindiana grazie all’accesso
esperienziale a regioni sovracoscienti e divine: di contro Hegel rimane pur sempre
confinato nel cerchio della razionalità mentale, per quanto massimamente espanso
dai modi di un’intelligenza acuta e vasta. La tendenza di Aurobindo alla conciliazione
oppositiva è invece più propriamente affine al fondamentale appello junghiano
all’integrazione psicologica, purché si acconsenta a porre in parallelo la realizzazione
psicologica con quella metafisica – come polarità intrecciate e reciprocamente
riflettentisi del micro e del macrocosmo90.
Brahman può assumere differenti e contemporanee configurazioni del
proprio essere, in una molteplicità coscienziale che chiarisce l’apparente paradosso
aduale dell’Uno che diventa i Molti. La condizione di unità assoluta e di pura integrità
è propria del divino piano di Satcitānanda; la coscienza di una molteplicità
dipendente dall’unità è tipica del livello supermentale; la frammentazione ignorante
dell’Essere in individualità spiritualmente progredienti si situa nelle regioni
ontologiche inferiori. Di là da questa triplice distinzione Brahman conserva la propria

89 Su questo tema ma anche per un confronto più complesso e articolato tra Hegel e Aurobindo cfr. il
capitolo settimo (Śrī Aurobindo and Hegel) dell'opera di Susil K. Maitra, The Meeting of the East and the
West in the Philosophy of Śrī Aurobindo, op. cit., pp. 243-278.
90 Intendiamo riferirci fondamentalmente a quella funzione psichica che Jung denomina simbolica o

trascendente, la quale consente di congiungere le opposizioni della vita psichica in una sintesi di
tensione armonica e creativa. Nell’opera dello psicologo svizzero la funzione simbolica si dimostra in
grado di conciliare o mettere insieme (συν-βάλλειν) gli opposti della psiche umana in particolare nel
processo di individuazione, grazie ad un’integrazione dei valori universali culturali con le spinte
individuali alla differenziazione dal collettivo. La sintesi o integrazione di opposti in Aurobindo non
può invece essere circoscritta all’ambito individuale né a quello sociale – sebbene questi siano
compresi come parti del processo integrativo – ma manifesta una più ampia tensione sia in senso
orizzontale che verticale. Come avremo modo di vedere nell’ultimo capitolo la proposta aurobindiana
indica la possibilità – yogica – di un’integrazione (e identificazione) dell’individuo con il cosmo grazie
al disvelamento del sè subliminale e dell’individuo con il Divino grazie alla scoperta dell’entità psichica
e dei piani sovracoscienti. Non spingiamo oltre il confronto fra i due autori, fecondo di
interessantissimi spunti, per non deviare troppo dall’oggetto principale della presente ricerca.

90
natura unitaria pur nelle diverse conformazioni del proprio essere. Va tuttavia
sottolineata la priorità dell’unità quale fondamento primo e originario della
manifestazione rispetto ad una molteplicità fenomenica che si pone, su di un piano
spirituale astratto, come potenzialità di dispiegamento dell’Origine non inevitabile –
eppure, data l’esistenza del cosmo, manifestata e per ciò stesso pienamente reale, non
più esclusivamente potenziale o accessoria.

the Divine Consciousness [...] can be many things at a time and take more than one enduring poise
even for all time. [...] The first founds the inalienable unity of things, the second modifies that unity so
as to support the manifestation of the Many in One and One in Many; the third further modifies it so
as to support the evolution of a diversified individuality91

5. L’Infinito nei finiti

Nell’abbracciare il molteplice come propria emanazione, gli enti finiti come


scintille del fuoco divino (per valersi di un’immagine śaṅkariana) l’Assoluto si è
calato nel Relativo ed è divenuto tutte le relatività. Proprio con l’autodeterminazione
per mezzo della quale ha assunto forme finite l’Assoluto ha fornito una piena
dimostrazione della propria onnipotenza – quasi a voler rispondere alla sfida dello
scettico che domanda se l’Altissimo, tutto potendo, sia anche in grado di limitare e
negare il proprio potere conformandosi a energie transeunti o ad entità finite. Poiché
la richiesta è corretta e coerente col postulato di una Potenza infinita Aurobindo
l’accoglie ma senza traumi, considerato che in una filosofia integrale l’affermazione di
una realtà d’esistenza non causa l’abbandono o la disconferma della verità opposta,
potendo Brahman sostenere simultaneamente condizioni contraddittorie di coscienza
e d’essere nella propria infinita unità multilaterale. Una concezione del Divino
modernissima che non teme gli assalti e le critiche dell’ateismo né le accantona
frettolosamente ma si sforza piuttosto di integrarle come fase necessaria di
attingimento di una verità integrale dell’Essere che non avrebbe altrimenti potuto
trovare espressione. «The Infinite would not be the Infinite if it could not assume a
manifold finiteness; the Absolute would not be the Absolute if it were denied in

91 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 156.

91
knowledge and power and will and manifestation of being a boundless capacity of
self-determination»92.
Nella sua onnipotenza il supremo Cosciente può decidere (e in effetti ha
deciso) di manifestarsi nell’incoscienza materiale, il proprio opposto, tuffando la sua
luce nella sua ombra, dimentico di sé: più esattamente però Aurobindo descrive la
materia come nesciente, vale a dire non completamente priva di coscienza ma
contenente in forma latente ed involuta quello stesso Cit che è diffuso ovunque e che
trova compiuta espressione nel Sovracosciente.

even the aspect or power of Inconscience, which seems to be an opposite, a negation of the eternal
Reality, yet corresponds to a Truth held in itself by the self-aware and all-conscious Infinite. It is [...]
the Infinite’s power of plunging the consciousness into a trance of self-involution, a self-oblivion of
the Spirit veiled in its own abysses93

Pur trasformandosi realmente nei propri opposti e nelle determinazioni finite,


nella volontà di donare nascita e occasione d’esistenza ad ogni nome e forma,
Brahman non è soggiogato dalla sua autolimitazione subcosciente. Se il Divino
diventa gli enti transeunti è al contempo la loro guida, il loro sostegno, il loro
maestro, il loro principio organizzativo, la loro legge d’azione e forza esecutiva – al
tempo stesso giocatore, gioco e campo di gioco, direttore e servitore: «this is an
Absolute which takes all relativities in its embrace [...] the One who is master and in
control of the many»94. Ovviamente la manifestazione autodeterminativa del
Brahman non potrebbe che essere opera della sua Śakti come potenza – intrinseca
all’Essere – di svelamento e dispiegamento di potenzialità latenti nell’Infinito. Śakti
come Madre degli esseri95 che occupa una posizione eminente in numerosi culti
religiosi ma che purtuttavia non esaurisce in sé la complessità del Divino: «Brahman,

92 Ibid., p. 281. In termini ancor più chiari, lucidi e semplici cfr. Georges Van Vrekhem, Oltre la specie
umana, trad. it. di D. Balbo e D. Borgogni, Roma, Irradiazioni, 2007, p. 33: «L’onnipotenza divina è
illimitata. Questo è proprio il motivo per cui può autolimitarsi, atto che costituisce un miracolo
d’onnipotenza».
93 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 333.
94 Ibid., p. 338.
95 «The Mother of all godheads and all strengths / Who, mediatrix, binds earth to the Supreme», Śrī

Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXXIII-XXXIV, Savitri, Libro III, Canto
II, vv. 117-118, p. 313. «O Wisdom-Splendour, Mother of the universe, / Creatrix, the Eternal’s artist
Bride», ibid., Libro III, Canto IV, vv. 398-399, p. 345.

92
the Ishwara, is all this by his Yoga-Maya, by the power of his Consciousness-Force
put out in self-manifestation»96.
Stabilita la realtà degli enti finiti va comunque considerata la loro posizione di
dipendenza e subordinazione nei confronti di quell’Infinito che li determina come
espressioni parziali di sé. Dunque se l’Infinito è autosufficiente, perfetto e completo
in sé i finiti di cui questo è causa e sostegno non condividono il suo carattere di
autoesistenza, poiché non potrebbero sussistere di per se stessi qualora fossero
deprivati del loro infinito fondamento. I Molti esistono grazie all’Uno ma l’Uno non
esiste grazie ai Molti in quanto autoesistente in un’essenzialità più profonda e
imperitura che tuttavia non deessenzializza gli enti, dal momento che questi vengono
concepiti come esseri dell’Essere: «no finite can exist in itself and by itself, it exists by
the Infinite»97 e «the Many exist by the One and there is therefore an entire
dependence of the manifested being on the Ishwara»98. Nel trattare la sottile dialettica
relazionale tra i finiti e l’Infinito non dovremmo tuttavia commettere l’errore di
distinguere due livelli gerarchici propri di una filosofia dualistica – il sommo Essere e
l’essere subordinato e minore degli enti – dato che l’assioma di unità del Brahman
non è mai messo in discussione e tenuto conto del fatto che il Supremo risiede nella
profondità psichica, nel vero Sé di ogni individuo. È più appropriato dirimere la
questione concettualizzando la realtà materiale come un’espressione parziale – e
quindi di ampiezza relativa – dell’Infinito e Brahman come la suprema e totale vastità
che include gli enti come sua propria parte (un’inferiorità in termini di estensione e
non di maggiore o minore partecipazione a un Essere altro da sé)99.

96 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 339.
97 Ibid., p. 353.
98 Ibid., p. 373.
99 Su questo punto teoreticamente delicato cfr. anche Giuseppe Cognetti, Oltre il Nichilismo. Oriente e

Occidente in Georges Vallin, interprete di René Guénon, Milano, FrancoAngeli, 2003, p. 96: «nella prospettiva
metafisica, trascendere la potenza verso l’essenza non è annientare la molteplicità, ma integrarla, nel
senso che l’Uno viene posto come la vera realtà (il Sé) degli enti finiti, il loro fondamento, radicato in
un’iperessenzialità [...] La molteplicità come tale è salvaguardata radicalmente proprio dal movimento
che apparentemente la nega per l’Uno, giacché essa viene negata nella sua separatezza per essere
reintegrata nell’Infinito, da cui riceve il massimo di pienezza ontologica, il massimo di “essere”
relativamente al suo grado di realtà, in quanto serie indefinita di manifestazioni particolari e relative
della Realtà Assoluta». Utile in questo senso anche il contributo di Pasqualotto, East & West, op. cit., p.
134, nel contesto di un confronto interculturale tra Plotino e il daoismo: «L’itinerario di unificazione
che dalla molteplicità empirica conduce all’unità dell’origine non termina, dunque, in un punto fisso ed
eminente dal quale si procede ad una sistematica negazione di tale molteplicità, ma si esplica in una
‘riassunzione’ di questa nell’unità originaria».

93
Elevandoci ad un angolo visuale più ampio, di là dalle distinzioni
schematizzanti del mentale, il rendersi finito dell’Infinito rappresenta non più uno
stupefacente miracolo o un’assurdità insostenibile, ma la legge prevedibile e coerente
della divina azione: «the finite is a circumstance and not a contradiction of the
infinite; [...] it is exactly what one must expect in an action of the Infinite»100. Anzi
l’autodeterminazione brahmanica è, agli occhi di una coscienza superiore, la
comprova della realtà viva, pulsante e concreta dell’Essere in un comportamento che
risponde a criteri non più antropomorfi, rigidamente concettuali, artificiali e uniformi
ma a ragioni supercoscienti riconcilianti gli strappi oppositivi del mentale: «The
Infinite is not limited by building up in itself an infinite series of interplaying finite
phenomena; rather that is its natural self-expression. [...] that is part of the true
description of an infinite as opposed to a rigid, finite and conceptual unity»101.
La schematizzazione mentale che rappresenta l’Infinito nella massima
grandezza concepibile o nell’estensione indefinita collocandolo nelle vastità cosmiche
cozza con l’intuizione spirituale e la somma coerenza di un’esperienza che ci
permetta di avvertire la presenza di Brahman ovunque – nel corpuscolo subatomico
o nella circostanza più effimera come pure nelle immensità galattiche: «the Infinite
can be felt in an infinitesimal atom or in a second of time as convincingly as in the
stretch of the aeons or the stupendous enormity of the intersolar spaces»102.
Un’incommensurabilità che è realmente oltre le possibilità di misura: non tanto una
grandezza talmente estesa da risultare indefinita ma piuttosto un punto infinitesimale
di estrema concentrazione energetica intensiva, cui l’etimologia del termine Brahman
rinvia. La scienza moderna fornisce un interessante equivalente in questo senso con
l’indefinibile particella al di là dello spazio e del tempo esistente prima del Big Bang e
da cui il nostro universo sembra aver tratto origine – summa inconcepibilmente
concentrata di tutte le energie cosmiche: «the absolute is not in itself a thing of

100 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, pp. 491-
492.
101 Ibid., p. 616.
102 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXIII-XXIV, The Synthesis of Yoga,

p. 115.

94
magnitude; it is beyond measure [...] it can manifest itself in the infinitesimal as well
as in the infinite»103.
Puntualizzando la propria posizione filosofica ad evitare fraintendimenti o
collegamenti inappropriati Aurobindo distingue nettamente il processo di
autodeterminazione finita dell’Infinito da filosofie noumeniche – che vogliano negare
una relazione intima del Principio con il mondo fenomenico – e anche da filosofie
idealistiche – che interpretino la manifestazione materiale nei termini di una
determinazione dell’Idea o di un’energia formatrice di natura mentale. L’energia
supercosciente formatrice (Śakti) consiste infatti di un’essenza supermentale e
spirituale infinitamente più potente e vasta della mente, superiore anche al piano della
Mente universale. La critica aurobindiana coinvolge l’idealismo filosofico occidentale
e varie declinazioni del pensiero estremorientale non sempre appropriatamente
definite idealistiche104: «It is conscious Reality throwing itself into mutable forms of
its own imperishable and immutable substance. The world is therefore not a figment
of conception in the universal Mind, but a conscious birth of that which is beyond
Mind into forms of itself»105; «The idealist errs; it is not Mind which created the
worlds, but that which created mind has created them»106.

6. Trascendenza, Immanenza e Individualità del Divino. Oltre e dentro lo spazio e il tempo

Il Divino aurobindiano concentra in sé la Trascendenza, il Cosmo e


l’Individuo – in un’altra formulazione Dio, la Natura e l’Anima o Puruṣa, Prakṛti e
Ātman: Spirito di puro silenzio e immobilità, Signore del cosmo, Īśvara organizzatore
della manifestazione, sostegno delle creature – ma anche, panteisticamente, cosmo e
materia esso stesso – e vero Sé eternamente presente nell’intimità psichica degli enti,
luce divina dietro il cuore degli esseri. «The Self is that aspect of the Brahman in
which it is intimately felt as at once individual, cosmic, transcendent of the

103 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 627.
104 Senza entrare troppo nel dettaglio dovremmo escludere dalla lista il cosiddetto idealismo delle
scuole śivaite, in cui la pura luce di coscienza di Śiva è descritta analogamente al Cit aurobindiano, e
potremmo invece includervi la scuola buddhista vijñānavāda.
105 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 125.
106 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XII, Essays Divine and Human, p.

442.

95
universe»107. Nel suo aspetto cosmico Brahman è il Signore personale, fondamento
del culto bhaktico, l’amato e l’amante in una veste di provvidenza e grazia che tuttavia
non dovrebbe essere confusa con il Dio delle religioni popolari, teisticamente
separato dalle sue creature – laddove Īśvara, oltre a guidarle, le costituisce, penetra e
innerva: dietro la rassicurante immagine personale è infatti sempre il Brahman
integrale lo sfondo di ogni aspetto del suo multilaterale essere. Se la personalità del
Divino deve essere ammessa per evitare di limitarlo all’amorfa impersonalità
nirguṇica ciò non dovrebbe costituire una scusante per concepirlo volgarmente o
antropomorficamente – come troppe confessioni a tuttoggi continuano
semplicisticamente a propagandare.

the Divine Being who is the master and creator of the universe. [...] the Inhabitant of all souls and
minds and hearts and bodies [...] the Creator who has built all things in his own being [...] the All-
Beloved and All-Lover. [...] the Ishwara is supracosmic as well as intracosmic; He is that which
exceeds and inhabits and supports all individuality108

La triplice conciliazione nel Divino di trascendenza, immanenza e


individualità – oltre a costituire materia d’esperienza spirituale – è esattamente
corrispondente alle complesse affermazioni upaniṣadiche, che Aurobindo si limita ad
integrare in un vasto quadro filosofico coerente. Il maestro si spinge addirittura ad
asserire l’essenziale coincidenza della teoria ricostruibile dalle Upaniṣad con la propria
– ennesima esplicita espressione di continuità con la tradizione che forse non mette
abbastanza in luce le qualità innovative dello sforzo filosofico aurobindiano.

In the Upanishads [...] we find the affirmation of the Absolute, the experience-concept of the utter
and ineffable Transcendence; but we find also, not in contradiction to it but as its corollary, an
affirmation of the cosmic Divinity, an experience-concept of the cosmic Self and the becoming of
Brahman in the universe. Equally, we find the affirmation of the Divine Reality in the individual: [...]
this concept of Reality and of Knowledge enveloping in one view the cosmic and the Absolute
coincides fundamentally with our own109

107 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 362.
108 Ibid., pp. 366-367.
109 Ibid., pp. 661-662.

96
Necessaria l’attenzione della metafisica alle realtà cosmiche e individuali
affinché ogni aspetto dell’esistenza possa essere riempito di un senso divino:
arrestarsi al Trascendente senza considerazione per l’Immanente sarebbe un errore
fatale non solo per una metafisica integrale ma per ogni possibile metafisica – per
definizione una ricerca della suprema conoscenza. Una sapienza che non renda conto
delle realtà universali o delle esigenze di senso individuali ed esistenziali non
potrebbe di certo essere definita somma: «an explanation of things that deprives
cosmic and individual existence of all significance cannot be the whole explanation
or the solution it proposes the sole true issue»110. Innegabilmente Brahman è questo
universo, la manifestazione intera – ciò che convalida le ragioni della teoria
panteistica – ma l’identificazione del Divino con l’Universo manca di completezza
nel trascurare i caratteri sopracosmico e ultracosmico dell’Onnipresente: non solo
Brahman è il cosmo, è anche il suo Signore e il suo trascendimento ineffabile. «The
pantheistic view of the identity of the Divine and the Universe is a truth, for all this
that is is the Brahman: but it stops short of the whole truth when it misses and omits
the supracosmic Reality»111. È una questione di carenza teoretica ma più
fondamentalmente di esperienza e percezione spirituali: non un vagheggiamento
ultramondano, un’ipostatizzazione del fervore immaginativo o astratto della mente
ma una concreta esplorazione dei piani ontologici eccedenti l’universo materiale – il
dimorare dello yogin nella pura atmosfera dello Spirito senza-forma. «We reject also
intermediate theories like that which makes God and cosmos one, – perceiving as we
do that cosmos exists in God who exceeds it»112.
Per gli stessi motivi si dovrebbe criticare una prospettiva che, pur
accogliendo la verità cosmica e la verità trascendente, lasci lontano dal Divino
l’individuo, concependolo come un frammento deperibile della Natura: di contro
esperienza fondante l’intera cosmovisione hindū è il disvelamento di un’entità ātmica
che è partecipazione e immediata espressione del Brahman nell’ente, scintilla eterna
dell’eterno agni. La prospettiva teistica si dimostra altresì limitata nell’espressione di
due fondamentali verità metafisiche – il riconoscimento di un Dio personale e di

110 Ibid., p. 686.


111 Ibid., p. 687.
112 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XIII, Essays in Philosophy and Yoga, p.

498.

97
un’Anima individuale – in quanto cieca alla possibilità di risanamento del dualismo
che mantiene essenzialmente divisi ed estranei il Creatore e le sue creature, l’Īśvara e
l’Onnipresente come causa materiale del cosmo: prospettiva che contraddice e nega il
principio di potenziale riunificazione e fusione (yoga) del Divino con l’umano
espresso dall’equivalenza esperienziale di ātman e Brahman – giudizio non
completamente pertinente qualora si considerino certe espressioni della mistica
speculativa cristiana o talune affermazioni agostiniane.

On this side the dualistic and theistic views of existence which affirm the eternal real existence of God
and the Soul [...] express also a truth of the integral existence; but their formulation falls short of the
whole truth if it denies the essential unity of God and Soul or their capacity for utter oneness or
ignores what underlies the supreme experience of the merger of the soul in the Divine Unity through
love, through union of consciousness, through fusion of existence in existence113

Nel tentativo di pervenire ad un’immagine integrale del Divino e nello sforzo


di chiarificazione delle complesse istanze del proprio filosofare, Aurobindo
istituisce114 una schematizzazione dei principali insiemi teorico-metafisici
distinguendoli in quattro categorie: i sovracosmici, in cui sono inclusi l’illusionismo e
il vuotismo; i cosmici, comprendenti le filosofie occidentali del Divenire e della Vita;
i sovraterrestri, essenzialmente coincidenti con le filosofie teiste; i sintetici, sistemi
volti alla conciliazione di almeno due delle istanze precedenti, tra i quali va
annoverata la prospettiva aurobindiana. La teoria sovracosmica dimostra la propria
insufficienza nella negazione assiologica ed ontologica del cosmo e dell’esistenza
umana – la quale ultima però torna, inspiegabilmente, a ricoprire un ruolo centrale
nel filosoficamente ingiustificato rilievo attribuito all’opera di liberazione e
realizzazione spirituali individuali. La cosmica risulta fragile e insostenibile non solo
per l’annichilimento della Trascendenza ma in prima istanza a causa di uno
svuotamento di senso che coinvolge ogni realtà dell’esistenza, concepita come
irrimediabilmente effimera se l’unico principio della manifestazione è il Divenire – o

113Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 689.
114Nel capitolo XVI del secondo libro di The Life Divine, The Integral Knowledge and the Aim of Life; Four
Theories of Existence.

98
più appropriatamente, seguendo l’argomentare dell’ultimo Nietzsche, l’ateleologico
Accadere:

Man individually may be altogether mortal; mankind also may survive only for a certain short period
of the earth’s existence; earth itself may bear life only for a rather longer period of its duration in the
solar system; that system may itself one day come to an end [...] the universe we live in may itself
dissolve115

Ciononostante le filosofie del Divenire hanno comunque reso un servizio


indispensabile all’attingimento della Verità integrale nella tensione alla valorizzazione
delle esigenze materiali e terrene, nella restituzione di senso alle realtà mentali, vitali e
fisiche: seppur queste costituiscano l’emisfero inferiore dell’Essere, non potrebbero
essere neglette in una prospettiva metafisica completa aspirante all’unificazione
armonica degli infiniti aspetti dell’esistenza – i quali corrispondono agli altrettanto
infiniti volti del Divino. Le teorie sovraterrestri hanno il merito, di là
dall’accoglimento di mondi iperurani, di concedere al cosmo una giustificazione
metafisica in quanto campo di prova transeunte ma inevitabile nella risalita
dell’individuo al Divino: una logica di legittimazione terrestre non così lontana
dall’evoluzionismo aurobindiano, sebbene arenata ad un incolmabile dualismo
ontologico. Ma va considerata, in sede storico-filosofica o storico-religiosa, la
degenerazione del teismo in sempre più esclusivi slanci ascetico-spiritualistici
asserenti la vanità dell’esistenza terrena che finirono per impoverire le virtù
dell’originaria formulazione teorica. Infine un posto d’onore spetta alle teorie
sintetiche, le quali hanno riconosciuto le verità parziali e i limiti espressi dai tre gruppi
teorici precedenti, tentando una conciliazione armonica e integrale dell’infinità
Divina. Una sintesi di questo tipo era già stata pienamente formulata dalla sapienza
tradizionale dell’India ma anch’essa subì nel decorso storico del subcontinente un

115Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 696.
Tornano alla mente, in una tale descrizione della natura dell’esistenza, i toni apocalittici o lucidamente
rassegnati della favola in apertura della già citata operetta nietzscheana Su Verità e Menzogna in Senso
Extramorale, per non scomodare il vanitas vanitatum dell’Ecclesiaste.

99
processo di decadenza ad uno spiritualismo di natura illusionista116: di qui la necessità
di una rinnovata sintesi filosofica che riscopra e porti a compimento le istanze di una
verità tradizionale dimenticata, parzialmente o malamente recepita – qual è
l’intendimento della proposta aurobindiana.
Solo qualche breve accenno ad un’ultima tematica concernente il Divino,
sulla quale peraltro Aurobindo non si dilunga troppo nella sua opera filosofica117:
ossia le relazioni dell’Assoluto con le categorie e i fenomeni – poiché tali si
presentano all’esperienza spirituale, con una consistenza ontologica ignota a Kant
che supera e sostanzializza il loro carattere di rappresentazioni mentali118 – di spazio e
tempo. Nella sua condizione originaria e non manifesta Brahman si pone oltre
l’estensione cronotopologica, rivelando un’ulteriorità e una precedenza119 rispetto a
questa per la sua natura eterna ed infinita e configurandosi dunque come il senza-
tempo e il senza-spazio: tuttavia, come risultati di un movimento autoestensivo
dell’Essere, spazio e tempo non possono essere considerati realtà altre dal Sé quanto
piuttosto forme parziali del dispiegamento ontofanico, espressioni limitate del Divino
illimitato. «The original status is that of the Reality timeless and spaceless; Space and
Time would be the same Reality self-extended to contain the deployment of what
was within it»120. Infatti se Brahman fosse talmente alieno dallo spaziotempo da
risultare incapace di conoscerlo la sua Onniscienza si risolverebbe, per assurdo, in
una forma d’ignoranza speculare a quella dell’ente finito – il quale ammette
esclusivamente la successione finita o indefinita del tempo e l’estensione finita o
indefinita dello spazio negando le realtà di eternità e infinità.

116 Un progressivo prevalere del rifiuto ascetico dovuto forse, aggiunge Aurobindo, all’indebolimento
e al decadimento di una civiltà stanca del suo ricco contributo culturale e spirituale: un’interpretazione
energetica che ricorda il Nietzsche teorico della decadénce e della Wille zur Macht.
117 E di cui fornisce un incompleto resoconto realizzativo nel venticinquesimo capitolo – Towards the

Supramental Time Vision – dell’ultima parte del suo fondamentale testo yogico, nonché nel successivo
capitolo, solamente abbozzato – The Supramental Time Consciousness. Cfr. Śrī Aurobindo, The Complete
Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXIII-XXIV, The Synthesis of Yoga, pp. 885–910.
118 Venendo a convergere su questo punto con la filosofia di Samuel Alexander, autore con il quale

Aurobindo sembra condividere anche la concezione di una tensione evoluzionistica dell’umano e del
cosmico alla ‘deità’. Per un confronto tra l'evoluzionismo aurobindiano e quello alexanderiano cfr.
Susil K. Maitra, The Meeting of the East and the West in the Philosophy of Śrī Aurobindo, op. cit., pp. 41-49.
119 Si consideri come, a comprova dell’ineffabilità del Divino, l’insufficienza del linguaggio ci costringa

a parlare in termini temporali di Colui che è al di là del tempo o, più in generale, in termini finiti di
Colui che è infinito.
120 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 375.

100
Posti la corrispondenza di ciascuno stato di coscienza ad una particolare
declinazione o modalità dello spaziotempo e la multipla simultaneità coscienziale
propria del Divino, è possibile riconoscere tre fondamentali conformazioni
ontologiche temporali – e conseguentemente spaziali – riferibili ad altrettante
condizioni coscienziali. In primo luogo uno stato di immobilità essenziale velata
dietro i processi divenienti della Natura e gli sviluppi dinamici della manifestazione
(«timeless eternity»121); in secondo luogo una panoramica totale e istantanea sull’intera
estensione temporale passata, presente e futura, uno sguardo dall’alto sul decorso
globale della manifestazione – colto immediatamente in tutta la sua ampiezza come
fosse dispiegato su una carta geografica o schematizzato in un progetto
architettonico («simultaneous integrality of Time»122); in terzo e ultimo luogo una
coscienza temporale relativa e progressiva: la condizione tipica e ordinaria
dell’umanità mentale che segue l’andamento e la successione degli eventi secondo un
ritmo determinato («the Time movement»123). Ciò che non dovrebbe essere
equivocato è la posizione di Brahman nei confronti di tali possibilità. Il Divino non è
solo l’eterno che concede l’apparizione di fenomeni temporali al di fuori di sé
permanendo in una condizione di immacolata extraspaziotemporalità: è anche e nello
stesso momento il tempo che svolge ordinatamente i suoi cicli, coscienza di
movimento e coscienza di immobilità dentro il tempo e al di là di esso analogamente
alla sua posizione di immanenza e trascendenza rispetto alla manifestazione terrestre.
«All these positions can be taken by the being of the Infinite in a simultaneous vision
or experience. It can see Time from above and inside Time»124.

In conclusione un’immagine del Divino antica e tuttavia attualissima, in grado


di resistere, in forza dell’esperienza yogica e della coerenza strutturale e filosofica
della sua concezione – pur basata su parametri logici altri dalle ordinarie modalità di

121 Ibid., p. 378.


122 Ibid. «And saw the hours like dots upon a page», Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo,
op. cit., Voll. XXIII-XXXIV, Savitri, Libro I, Canto III, v. 410, p. 33. Anche «the vision of the three
times, trikāladṛṣṭi», Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXIII–XXIV, The
Synthesis of Yoga, p. 792.
123 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 378.
124 Ibid., p. 379.

101
conoscenza – alle più acrimoniose offensive di matrice scettica, nichilista o
materialista. Una prospettiva all’altezza di raccogliere la sfida di una modernità
insanguinata da conflitti religiosi difficoltosamente alla ricerca di un incontro e di un
dialogo – risolventisi più spesso in un’indifferente tolleranza reciproca o nel
riconoscimento di un’unità di principi morali (quantomai superficiali rispetto alla
profondità delle verità spirituali) piuttosto che in un’autentica integrazione o
unificazione differenziata. Un Parabrahman onnipresente che abbraccia e concilia
ogni formulazione parziale della sua Verità infinita ed ineffabile, ponendosi come
sfondo di valorizzazione e opportuna collocazione delle più contraddittorie
concezioni filosofiche, metafisiche o religiose: queste trovano così aperto il cammino
ad un’autorappresentazione adeguata del loro carattere veritativo e delle loro
limitazioni in quanto parte dei cento sentieri di sapienza conducenti tutti, ma
secondo itinerari propri, al Divino. Ciò che conduce alla cessazione di battaglie
dottrinali – e di civiltà – ad opera di un principio veritativo superiore al mentale che
non trova difficoltà ad armonizzare le più opposte formulazioni concettuali –
comprendendo nella propria unità infinita l’immanenza e la trascendenza, l’unità e la
molteplicità, la quiete e l’azione, l’eternità e la temporalità.
Una proposta metafisica che lascia ampi margini al dialogo interculturale di là
da ogni settarismo ed esclusivismo – sebbene si situi, come del resto ogni umano
pensiero, entro un orizzonte di senso culturalmente condizionato, in questo caso la
tradizione hindū. Aurobindo apre una rilevante alternativa teorica ed esistenziale ad
un Occidente appiattito sulla dimensione scientifico-economica, anacronisticamente
teistico o nichilisticamente malfidente (in molti casi purtroppo a ragion veduta) nei
confronti di astratte e inconsistenti metafisiche o di dogmi intellettualmente
insostenibili – nonché di istituzioni religiose corrotte, vuoti e inutili rituali deprivati di
autentico significato e apparati di potere politico per i quali la sanzione di spiritualità
rappresenta poco più che una maschera. Una seria possibilità di riaccoglimento delle
istanze metafisiche e delle aspirazioni al sacro da parte di un Occidente abbrutito dal
materialismo ma anche di un Oriente ormai dimentico del proprio passato – o meglio
delle alte vette intellettuali e spirituali raggiunte dai più eminenti rappresentanti
dell’èlite culturale tradizionale. Il nobile messaggio lanciato da uno dei più illuminati
maestri spirituali della contemporaneità, che prelude ad un’integrale trasformazione

102
della natura umana in una specie superiore in grado di dare forma terrena alla
Conoscenza e al Potere divini, incarnando la Verità infinita dello Spirito nell’essere
gnostico.

103
Capitolo terzo

La spirale involutivo-evolutiva di Satcitānanda

Easy the heavens were to build for God.


Earth was his difficult matter, earth the glory
Gave of the problem and the race and strife1

Affrontiamo ora il problematico nodo teorico della concezione


involuzionistico-evoluzionistica aurobindiana: prospettiva cosmico-metafisica e
tematica tra le più ricorrenti di The Life Divine tesa a giustificare entro un senso e un
progetto divini la natura del mondo e dell’esistenza nel loro complesso contra
proposte interpretative altre, hindū e occidentali, dell’enigma dell’universo. Il
carattere di un tale complesso orientamento di pensiero è appropriatamente
descrivibile, in prima approssimazione, come un’avventura o un viaggio metafisici
dell’Essere alla volta dell’occultamento nel suo proprio contrario o negativum e del
progressivo autodisvelamento rivelativo del Sé quale reminiscenza o riscoperta
trasformativa della natura divina in quattro fasi. Primo: un’autoinvoluzione originaria
del Brahman in se stesso, nella perfezione compiuta di un’estasi immortale e di
un’infinità autoconcentrata carica di potenzialità latenti. Secondo: un dispiegamento
devolutivo o evolutivo-discendente del Divino attraverso una manifestazione
emanativa che procede dall’Uno a gradi ontologici di sempre minor ampiezza – gli
opachi e pesanti veli pluristratificati che ricoprono la purezza dell’Onnipresente e
occultano la sua magnificenza dietro l’apparenza di forme antidivine. Terzo:
l’involuzione brahmanica nel proprio opposto, la Materia nesciente e inerte la quale
tuttavia contiene celati in sé tutti i segreti e le potenzialità del Divino –
un’involuzione nelle tenebre che si pone come antitesi speculare all’originaria
autoinvoluzione nella luce. Quarto: un’evoluzione ascendente a ritroso («re-

1Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXXIII-XXXIV, Savitri, Libro X,
Canto IV, vv. 436-438, p. 653.

104
evolution»2) per mezzo della quale l’Onnipresente riconquista progressivamente se
stesso nell’apertura a livelli sempre più alti dell’Essere – fase in cui è condensata
l’intera parabola cosmologica, il senso del Divenire naturale e lo sforzo di
autoperfezionamento dell’umanità quale sua porzione3. Naturalmente è su
quest’ultima fase, direttamente inerente la nostra condizione attuale e l’avvenire
dell’umanità, che cadono l’attenzione e l’interesse precipui di Aurobindo ma, in una
disamina filosofica del suo pensiero, dovremo tener sempre ben presente la pluralità
delle tappe e l’iter complessivo dell’Essere nel suo quadruplice cammino. Il percorso
del Divino è delineabile meno nel senso di una linearità progrediente univocamente
che in un percorso di duplice ripiegamento involutivo in sé e duplice dispiegamento
devolutivo ed evolutivo nella manifestazione secondo i modi di un procedere ciclico
o spiralico la cui traiettoria risulta difficilmente tracciabile: «the evolutionary
progression, – a progression which has been cyclic or spiral rather than in a straight
line or has at least journeyed in a very zigzag swinging curve of advance»4.
In un primo schema semplificatorio i gradi ontologici o piani di coscienza
manifestati e attraversati dal Brahman sono sette – in una concezione pluristratificata
della scala dell’Essere i cui gradini si configurano però come continui ed
essenzialmente unitari per la natura advaita dell’Uno infinito. Nell’emisfero superiore
della Conoscenza (Vidyā) si situa il quaternario costituito da Satcitānanda e dalla
Supermind mentre Mente, Vita e Materia occupano le posizioni del ternario inferiore
dell’Ignoranza (Avidyā). In un’analisi più particolareggiata ogni piano dell’Essere è
però distinto in sublivelli indefinitamente moltiplicantisi cui Aurobindo accenna
soltanto e che dovranno essere scoperti o concreati – nella dialettica del soggettivo e
dell’oggettivo caratterizzante l’esperienza spirituale – da ciascun sādhaka nell’opera di
esplorazione yogica del Sé. Ad ogni grado ontologico corrisponde un mondo-tipo
non evolutivo in cui leggi, principi e qualità di un dato piano sono espressi

2 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXIII-XXIV, The Synthesis of Yoga, p.
793.
3 Una tale proposta presenta evidenti assonanze con la concezione hindū tradizionale dell'anno di

Brahman, ma trova un applicazione e un significato del tutto nuovi e peculiari nella filosofia di
Aurobindo – come tenteremo di mostrare. Cfr. «nella più tarda ipotesi dell'anno cosmico è inclusa una
fase di ritorno che con la fase di espansione dà luogo appunto all' "anno di Brahma"», Icilio
Vecchiotti, Introduzione alla Storia della Filosofia Indiana, op. cit., p. 20.
4 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 1083.

105
separatamente e compiutamente in una manifestazione statica. A differenza di tali
realtà tipologiche il campo della nostra esperienza esistenziale consiste in un mondo
di carattere evolutivo nel quale Brahman, celato nel proprio opposto materiale (il
quale, a rigore, non è mai negazione assoluta delle qualità divine ma piuttosto
espressione sommamente parziale e ristretta di queste) si sforza di tornare a sé
attraverso una sintesi sempre più comprensiva degli aspetti superiori dell’Essere con
la natura, i caratteri e le qualità dei livelli inferiori – assunti, integrati e trasformati.
Così, ad esempio, la vita ha accettato in sé il principio materiale – poiché il corpo
fisico dell’essere vivente è costituito di materia – ma l’ha organizzato, trasformato ed
elevato alla propria legge di superiore ampiezza ontologica adattandolo ad esprimere
la novità del principio vitale5.
La concezione evoluzionistica aurobindiana presenta un carattere
squisitamente spirituale e solo subordinatamente materiale, con ciò non potendosi
confondere o ridurre al mito ottocentesco del progresso né all’attuale fede
nell’indefinito avanzamento tecnologico-scientifico. Tale concezione non può
nemmeno identificarsi all’ideale illuminista (si pensi a Lessing) di perfezionamento
morale dell’umanità: infatti la tensione etica dell’umanità, in una prospettiva
metafisica di ampio respiro, è concepita quale fase intermedia di realizzazione
spirituale tra un passato materiale e vitale infraetico e un avvenire spirituale
sovraetico – nel quale le acerrime opposizioni di concetti limitati del bene e del male
o la serrata lotta tra l’ideale razionale della temperanza e gli impulsi animaleschi che
ancora albergano in noi non avranno più ragion d’essere. Fondamentale in questo
senso la critica esplicita da parte di Aurobindo dell’evoluzionismo darwiniano, il
quale ha considerato solamente la violenta affermazione del più forte a detrimento
degli individui meno adatti alla sopravvivenza – la legge dell’egoismo vitale che
intende espandere il proprio potere schiacciando i più deboli: una prospettiva in
fondo non troppo lontana dalle più bieche e meschine formulazioni della Wille zur
Macht nietzscheana o dall’immagine di Zarathustra danzante sopra le teste di talpe e

5 Un esempio scelto per il suo pregio di immediata comprensibilità da parte di un intelletto scientifico
o materialista, per l’evidente divergenza di organizzazione del mondo organico e dell’inorganico –
comprovata dalla differenza epistemologica e disciplinare della biologia e della fisica – e per
l’altrettanto evidente carattere di continuità materiale dei due livelli, costituiti entrambi da
combinazioni peculiari delle stesse particelle elementari.

106
nani6. A tale principio di sopravvivenza, che rappresenta una verità – seppur
estremamente parziale – dell’Essere, si sostituisce già sul piano dell’umanità
pienamente mentalizzata la legge dell’amore, dell’aiuto reciproco, del dono di sé e
dello sforzo di fusione negli altri – concepiti, sentiti e riconosciuti da una coscienza
cosmica nella loro unità essenziale con se stessi. Una trasformazione
dell’affermazione vitale di sé, indizio di una superiore aspirazione, in una tensione
della volontà all’espansione coscienziale che non sarà soddisfatta sino all’approdo
sulle sponde dell’Infinito, dove un superiore principio spirituale disvelerà la somma
verità dell’Uno che si fa molteplice. In definitiva una teoria scientifica dell’evoluzione
rappresenta una conferma non indispensabile alla concezione evoluzionistica
spirituale: un’ipotesi interessante per la parziale convergenza dimostrata con la
metafisica aurobindiana ma che non intaccherebbe la solidità di quest’ultima
nemmeno nel caso in cui la scienza moderna dovesse rovesciare le proprie posizioni
sulla scorta di nuove evidenze paleontologiche – qualora si tenga conto del «self-
evident fact of a spiritual evolution»7. Ancor più lontano dalla corretta comprensione
della prospettiva aurobindiana l’attaccamento al progresso materiale del senso
comune occidentale contemporaneo, appiattito su di un orizzonte fisico-vitale
espansivo che non si preoccupa di trascendere l’attuale condizione umana elevando il
mentale ad un principio spirituale superiore ma che piuttosto rappresenta una fase di
regresso alla barbarie animalesca che caratterizzò la prima emergenza della mente –
esclusivamente concentrata, nel muovere i suoi primi passi, nell’appagamento di
bisogni fisici e desideri vitali.
Fatte le dovute distinzioni permane il dubbio sull’appropriatezza della scelta
terminologica aurobindiana: parlando di ‘evoluzione’ il maestro ingenera infatti nella
coscienza occidentale la più grande confusione e i più vari fraintendimenti e
deformazioni del suo pensiero. Per non dire del disgusto e della tentazione di rifiuto
che una tale prospettiva suscita di primo acchito nella coscienza filosofica occidentale
contemporanea, per la quale il sistema evoluzionistico rappresenta ormai poco più
che uno spettro del passato, per di più difficile a sostenersi ed estremamente fragile.

6 Cfr. Friedrich Nietzsche, Opere Complete, op. cit., Vol. VI, tomo I, Così Parlò Zarathustra, Di Antiche
Tavole e Nuove, p. 242. Nell’originale tedesco: «Denn muß nich dasein, über das getanzt, hinweggetanzt werde?
Müssen nicht um der Leichten, Leichtesten willen – Maulwürfe und schiere Zwerge dasein?».
7 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 868.

107
Tuttavia nel suo senso specifico e proprio la proposta aurobindiana non rappresenta
una novità assoluta nel panorama filosofico hindū, il quale ha riconosciuto all’Essere
un ordinato sviluppo manifestativo già con il Sāṁkhya e più tardi tramite le voci dei
più autorevoli esponenti del Vedānta: certamente peculiare al maestro rimane tuttavia
l’idea di un superamento evolutivo della natura mentale umana attraverso una
trasformazione spirituale che condurrà l’umanità ad una specie superiore illuminata
da una coscienza divina.
Si tratta di una posizione filosofica che si sforza di donare un senso divino
complessivo al mondo giustificando i tragici aspetti del male, della sofferenza e
dell’ignoranza che angustiano la nostra esistenza ma che sembra non centrare il
bersaglio per l’univocità schematica di un principio interpretativo sin troppo
intelligibile e razionalmente limpido per poter rendere conto della complessa natura
dell’universo: un’istanza di determinismo evolutivo troppo umana per sciogliere il
nodo di un cosmo divino. Ma andiamo per gradi e, prima di addurre prove alla nostra
critica dell’evoluzionismo aurobindiano, soffermiamoci sull’analisi della natura e delle
caratteristiche di una tale proposta teorica.

1. Involuzione ed evoluzione

Iniziamo con una definizione chiara di cosa Aurobindo esattamente intenda


per involuzione ed evoluzione – termini tecnici di uno specifico vocabolario
filosofico irriducibili ai significati che l’uso linguistico, popolare o colto, ha voluto
attribuirgli: «By the involution we mean a self-concealing of the Divine in a descent
of which the last rung is Matter, by the evolution a selfrevealing of the Divine in an
ascent of which the last rung is Spirit»8. In quanto esplicitamente riferite a due
possibili modalità del Divino l’involuzione e l’evoluzione aurobindiane ineriscono in
prima istanza un livello teoretico puramente metafisico: con ciò si sottintende un
monito di cautela nell’applicazione diretta di una tale concezione ai territori
dell’esperienza sensibile e della cosiddetta realtà di fatto. Per quanto esteso nello
studio dei fenomeni spaziotemporali l’orizzonte teorico della scienza non è andato

8Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XII, Essays Divine and Human, pp. 221-
222.

108
oltre l’analisi dello sviluppo dell’ultima fase del processo emanazionistico
aurobindiano – al di là della ridda d’interpretazioni filosofiche discordanti suscitate
dai risultati dell’astronomia contemporanea. L’auto-occultamento e l’autorivelazione
del Divino a livelli successivi rappresentano la chiave di lettura più consona e la
traduzione più adeguata dell’evoluzionismo spirituale aurobindiano: una terminologia
se si vuole meno strettamente filosofica ma intuitivamente più trasparente e meno
ambigua di quella ordinariamente adottata dal maestro.
Il percorso discensivo dell’Essere dalla condizione di Satcitānanda alla
Materia attraverso veli d’Ignoranza sempre più spessi risulta esattamente speculare al
cammino ascendente a ritroso. Ad uno sguardo complessivo ogni stadio evolutivo
della Natura e dell’umanità corrisponde ad un grado di realtà già precedentemente
manifestato ed esplorato dalla fase devolutiva di Brahman: di qui ogni piano
ontologico assume un duplice carattere di mascheramento e rivelazione del Divino.

This descent of the supreme Reality is in its nature a self-concealing; and in the descent there are
successive levels, in the concealing successive veils. Necessarily, the revelation takes the form of an
ascent; and necessarily also the ascent and the revelation are both progressive. For each successive
level in the descent of the Divine is to man a stage in an ascension9

Si noti già fin d’ora l’eccessiva disinvoltura con la quale Aurobindo attribuisce
un carattere di necessità a processi che, data la natura assolutamente libera
dell’Infinito, potrebbero al massimo considerarsi quali potenzialità esplicate di
Brahman e non certo elementi necessari del suo operare: vogliamo con ciò tener fede
alla possibilità, esplicitamente affermata dal maestro, di una permanenza eterna del
Divino in uno stato di autoesistenza immanifesta e ad ulteriori possibilità
manifestative non evoluzionistiche. Oltre la facile concezione di un linearismo
evolutivo cui il termine ‘progressivo’ potrebbe indurre, l’evoluzionismo aurobindiano
spiega la curva d’ascesa del cosmo al Divino integrandola alla sua metà speculare – la
discesa del Divino nel cosmo. Aurobindo viene così a tracciare un percorso circolare
(«There is a circle of becoming starting from eternal Being and ending in it»10)

9 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 49.
10 Ibid., p. 695.

109
raffigurabile più appropriatamente, per la complessità dei movimenti naturali, come
una spirale tridimensionale racchiusa dai punti estremi di due stasi involutive.

the whole of creation may be said to be a movement between two involutions, Spirit in which all is
involved and out of which all evolves downward to the other pole of Matter, Matter in which also all
is involved and out of which all evolves upward to the other pole of Spirit11

Dalla prospettiva spirituale superiore in grado di cogliere ovunque e in ogni


circostanza l’indivisa unità dell’Infinito le linee di demarcazione tra le fasi evolutive e
i gradi ontologici acquistano naturalmente un valore alquanto subordinato e relativo.
Esse si dimostrano utili alle esigenze di chiarezza intellettuale ma risultano
metafisicamente e spiritualmente improprie: infatti l’unità reale dell’Onnipervadente
non è mai sospesa o annullata, foss’anche nelle più minute suddivisioni della materia
subatomica. In realtà non esiste alcuna serie ascendente o discendente attraverso
piani differenti dell’Essere ma solo il movimento unitario dell’Uno: «it is a purely
conceptive [...] difference [...] which creates the series descending from Spirit through
Mind to Matter and ascending again from Matter through Mind to Spirit. But the real
oneness is never abrogated [...] not even in the grossest densities of Matter»12. Ancora
una volta un ammonimento affinché non si cada nella trappola di semplificare
razionalisticamente i processi del Divino attraverso formule mentali rigide e categorie
finite. In questo spirito risulta comprensibile l’altrimenti oscura affermazione
aurobindiana della coesistenza contemporanea di involuzione ed evoluzione,
considerata la condizione coscienziale divina di integralità simultanea del tempo che
permette l’accesso ad una configurazione non più obbligatoriamente diacronica del
processo del divenire: «the coexistence of worlds of a descending involution with
parallel worlds of an ascending evolution»13. Fuorviante anche l’immagine geometrica
del parallelismo tra mondi involutivi ed evolutivi nel suo dare adito ad una
concezione di separazione e distanza spaziale tra i livelli dell’Essere insostenibile
entro una metafisica dell’Infinito: dobbiamo fronteggiare ad ogni piè sospinto i limiti

10 Ibid., p. 137.
12 Ibid., p. 256.
13 Ibid., p. 628.

110
del linguaggio e rassegnarci alle sue deformazioni, a costante comprova
dell’impredicabilità del Divino.
Nel viaggio emanativo di Brahman si palesa la natura di causa prima e finale
dell’Origine, se la condizione primigenia dell’involuzione corrisponde all’ultimo
attingimento dello slancio evolutivo, al destino della manifestazione: in una tale
concezione l'inizio e la fine del viaggio dell'Essere coincidono con
l’autoconcentrazione della Realtà somma nella condizione di una pura estasi divina.
Estasi in effetti mai abbandonata, se non da una coscienza ignorante e finita, e perciò
costantemente recuperabile grazie all’esperienza nirguṇica del puro Spirito silenzioso
su cui vuotismo e illusionismo hanno inteso basare l’intera loro dottrina. «Evolution
is an inverse action of the involution: what is an ultimate and last derivation in the
involution is the first to appear in the evolution; what was original and primal in the
involution is in the evolution the last and supreme emergence»14.
Lo sforzo di ascesa al di là di sé del finito e la discesa dall’alto nella
manifestazione di poteri superiori si danno come fattori concomitanti ad ogni fase
critica dell’evoluzione. Rappresentano i movimenti complementari della tensione
all’autoperfezionamento degli enti con il loro anelito, conscio o inconscio, al Divino
che preme per una nuova emergenza e lo sprone ad un più rapido progresso
costituito dall’effusione di sé nella natura terrestre di potenze superiori dell’Essere –
nel momento in cui queste trovino gli enti preparati a sostenere, accogliere e
manifestare efficacemente e durevolmente un più alto principio. «Not only must
these principles manifest from below in a qualified and restricted emergence, but also
from above they must descend in their characteristic power and full possible
efflorescence into the material being»15.
La possibilità di rinvenire uno scopo e un progetto divini nel mondo è
giustificata dalla natura sommamente cosciente del Divino ed in tal modo
salvaguardata dalle obiezioni che vorrebbero ridurre ogni teleologia ad un’indebita
proiezione cosmica o trascendente del modus operandi mentale. Se Brahman non fosse
anche Cit allora si potrebbe discutere più seriamente sulla possibilità di un Divenire

14 Ibid., p. 886. Cfr. anche: «the goal of evolution is also its cause», Śrī Aurobindo, The Complete Works of
Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXIII-XXIV, The Synthesis of Yoga, p. 18.
15 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 273.

111
privo di fine e insensato: «Both Existence and Force being inert, [...] both of them
unconscious and unintelligent, there cannot be any purpose or final goal in evolution
or any original cause or intention»16. Ma in quanto inconfutabile verità esperienziale
la natura supercosciente del Divino non ammette che una breve disamina critica
dell’ateleologismo, cui Aurobindo non dedica che una scarsa attenzione. Più
precisamente, nello scenario filosofico di un’evoluzione spirituale, lo scopo della
manifestazione si rivela essere un progressivo attingimento trasformativo della Verità
infinita: «An integral knowledge is the aim of the conscious evolution»17. Il limite di
una tale proposta è però, a nostro avviso, un’eccessiva semplificazione razionalistica
del processo cosmico. Questo è ridotto ad un’unica tensione di fondo di rivelazione
del Divino dall’involuzione materiale – in cui si manifesta il solo Sat – allo
svolgimento vitale – in cui emerge e si dispiega un’energia śaktica – fino alla piena
espressione dell’Infinito con l’incarnazione di Cit nell’essere supermentale: ma il
divenire cosmico e terrestre presenta movimenti e tendenze di ogni sorta,
difficilmente riconducibili ad un principio univoco. Quella che è presentata come
l’unica spiegazione plausibile dell’intero mistero dell’esistenza (un’evoluzione verso il
Divino di cui tempo e spazio rappresentano le indispensabili condizioni, perché
altrimenti non potremmo parlare che di stasi) dimostra in realtà carenze e
insufficienze teoriche proprie più dell’inventività di una razionalità finita che non di
un infinito senso divino del mondo.

we have to conceive first of an involution and a self-absorption of conscious being into the density
and infinite divisibility of substance, [...] next, an emergence of the self-imprisoned force into formal
being, living being, thinking being; and finally a release of the formed thinking being into the free
realisation of itself as the One and the Infinite [...] This triple movement is the whole key of the
world-enigma18

Nell'evoluzionismo aurobindiano è dunque ravvisabile una triplice dinamica


di progressiva rivelazione del Divino: dall’Incoscienza materiale all’Ignoranza (che
non è mai assoluta falsità quanto piuttosto sforzo di ricerca della verità per mezzo di

16 Ibid., p. 91.
17 Ibid., p. 541.
18 Ibid., p. 122.

112
una facoltà conoscitiva finita – e dunque definibile forse più correttamente come
conoscenza parziale) sino al completo dispiegamento autoconoscitivo del Sé nella
Conoscenza divina. Questa descrizione è il riflesso gnoseologico di una realtà
effettivamente trasformata ad ogni passo evolutivo dal potere inerente a ciascun
grado di coscienza in una perfetta continuità tra conoscenza e azione che lega
indissolubilmente la teoria alla prassi, l’ideazione all’esecuzione: grazie alla divina Cit-
Śakti, la conoscenza e il potere di sé dello Spirito viene a colmarsi il divario
sussistente fra pensiero e realtà.

An involution of spirit in the Inconscience is the beginning; an evolution in the Ignorance with its
play of the possibilities of a partial developing knowledge is the middle [...] a consummation in a
deployment of the spirit’s self-knowledge and the self-power of its divine being and consciousness is
the culmination19

Connessa appunto al carattere dinamico della conoscenza l’originale idea


aurobindiana che la Mente non rappresenti il punto culminante dell’evoluzione:
infatti né questa né alcuno dei livelli inferiori dell’Essere apparsi nella manifestazione
sono riusciti nell’arduo compito di trasformare completamente la realtà adeguandola
a divenire strumento di perfetta espressione del Divino. Essi hanno solo modificato
alcune qualità del reale in un equilibrio quantomai instabile di forze contrastanti,
dimostrando così la loro natura di poteri derivati e secondari dell’Uno – non
identificabili con l’originario Potere di manifestazione dei mondi, cui è propria
un’onnipotenza pratica che non trova ostacolo o difficoltà alcuna ad eseguire ciò che
la suprema Conoscenza ha sanzionato.
La proposta filosofica di una manifestazione progrediente all’espressione
della Verità divina permette dunque di pensare ad un’evoluzione dell’umanità al di là
del mentale in una razza di esseri gnostici, ponendosi come la condizione di
possibilità per il raggiungimento di una vita divina: su questo tema si incentra buona
parte dell’interesse esistenziale del pensiero aurobindiano, per cui non sembra così
assurdo considerare la proposta evoluzionistica e la teodicea del maestro come
veicoli di fondamentazione filosofica della possibilità umana di elevamento ad una

19 Ibid., p. 708.

113
natura superiore. Inoltre una tale concezione consente di pervenire ad una
comprensione chiara di quelli che, ad uno sguardo scientifico, appaiono inspiegabili
salti evolutivi, imprevedibili e discontinui – nella ricerca tuttora in corso degli anelli
mancanti nell’evoluzione delle specie. Salti che risultano invece perfettamente sensati
e unitari alla visione spirituale: qui ogni nuova emergenza evolutiva assume ed integra
in sé le caratteristiche delle forme inferiori d’esistenza, avvicinando l’intero della
manifestazione a Satcitānanda e procedendo ad un rapido balzo evolutivo solo in
seguito ad una lunga e intensa fase di preparazione che avviene principalmente ad un
livello interiore – e perciò risulta spesso impercettibile, non documentabile da uno
studio esteriore e fisico della natura.
Nel suo procedere l’evoluzione spirituale adotta una logica processuale che si
mantiene costante dalle sue prime emergenze sino alle più alte vette teofaniche. Essa
consiste di un triplice movimento: ascesa ai livelli superiori dell’Essere; allargamento
delle possibilità e del campo d’azione – coerentemente ad una gerarchia ontologica
basata sull’ampiezza e la capienza dei gradi piuttosto che su una verticalità lineare;
integrazione conservativo-trasformativa della sostanza e delle qualità dei piani
inferiori – una logica continua e conciliativa di opposti sempre più ampi, alla volta
dell’unità onnicomprensiva dell’Infinito. La teoria evoluzionistica abbraccia anche la
rinascita – credo indiscusso della cultura hindū da millenni tanto da esser stato
paragonato, mutatis mutandis, alla fede scientifica occidentale nella legge di
gravitazione universale – donando in tal modo un senso positivo e costruttivo
all’abitualmente deprecata catena saṁsārica. La rinascita non costituisce più in
Aurobindo un incomprensibile destino malevolo da rifuggirsi tramite l’attingimento
di un’estinzione nirvāṇica: diviene piuttosto uno strumento e un meccanismo
evolutivi adottati di proposito dalla Natura al fine di consentire il perfezionamento di
un’anima rinascente secondo forme sempre più pure e coscienti di sé,
nell’assimilazione dei semi divini delle esistenze passate da portare a frutto. Peraltro
tale interpretazione costituisce una spiegazione della necessità della morte dal
momento: l’essere psichico infatti, nell’espressione progressiva della propria infinità,
non potrebbe limitarsi ad un solo corpo e ad una sola personalità di superficie ma
necessita di un volontario abbandono delle formazioni mentali, vitali e fisiche limitate
per rinascere in forme sempre più alte e divine di sé – mantenendo tuttavia inalterata

114
la propria individualità profonda. Una posizione piuttosto originale che trova però un
importante precedente in Rāmānuja, il quale sostenne la reincarnazione essere un
congegno per il progresso dell’anima alla realizzazione dell’Uno. Non ci
soffermeremo su questo punto, pur se Aurobindo vi si dilunghi in due capitoli di The
Life Divine consacrati al tema20, poiché la sua analisi ci porterebbe troppo lontani dalle
problematiche che abbiamo deciso di affrontare – e anche perché preferiamo lasciare
un punto interrogativo su una tematica esistenziale così delicata e difficilmente
dimostrabile.
Passando piuttosto alle fonti che potrebbero aver ispirato la concezione
evoluzionistica aurobindiana, teoria quantomai peculiare al maestro nel suo sviluppo
esteso e strutturato ma che non pretende all’originalità assoluta, troviamo due
importanti riferimenti diretti: ad Eraclito (dove la via all’insù e la via all’ingiù
corrisponderebbero rispettivamente alla fase evolutiva e a quella devolutiva del
Brahman, coincidendo nell’unità infinita di Quello) e al pariṇāma del Sāṁkhya (lo
sviluppo dell’Origine attraverso successivi passaggi emanativi, che non sembra
tuttavia possedere un senso intelligibile, uno scopo determinato o una direzione
prevedibile all’interno di questo darśana così filosoficamente ambiguo). Nel Sāṁkhya
si presenta tuttavia un’analogia di non scarso rilievo con il pensiero aurobindiano–
che vede il superiore involuto nei gradi ontologici inferiori – nella descrizione dello
sviluppo del Divino come uno svelamento di ciò che esiste già in potenza:

Heraclitus’ account of the cosmos is an evolution and involution out of his one eternal principle of
Fire, – at once the one substance and the one force, – which he expresses in his figurative language as
the upward and downward road. “The road up and down” he says “is one and the same” [...] We have
the same idea of an evolution of successive conditions of energy out of a primal substance-force in
the Indian theory of Sankhya21

Potremo aggiungere altri esempi a tali precedenti, non pretendendo un


influsso diretto di questi su Aurobindo ma perlomeno riconoscendone l’affinità
filosofica: la concezione rāmānujana di un mondo fenomenico reale (in una serrata
20 Nello specifico i capitoli XX (The Philosophy of Rebirth) e XXII (Rebirth and Other Worlds; Karma, the
Soul and Immortality) della parte seconda del libro secondo.
21 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XIII, Essays in Philosophy and Yoga, p.

233.

115
critica contro le teorie illusionistiche) inteso come sviluppo – pariṇāma – del
Brahman e la sua affermazione, desunta dal Sāṁkhya, della preesistenza dell’effetto
nella causa in parallelo alla concezione aurobindiana della Materia contenente involuti
in sé tutti i principi del Divino; gli sforzi filosofici di Nimbārka, per il quale la
manifestazione è lo sviluppo di ciò che è contenuto nella natura del Divino22; la
teoria di Vallabha, secondo cui Brahman può involvere o evolvere le sue qualità e la
coscienza è contenuta latente nella materia. In ambito occidentale ci sia concesso
citare almeno Plotino per i processi di allontanamento graduale e ritorno all’Uno –
sebbene le analogie tra questi, Aurobindo e larga parte del pensiero estremorientale
non possano essere confinate a questo tema (ma questo richiederebbe un
approfondimento interculturale che esula dai limiti della presente ricerca23). Ciò sia
detto a riprova del carattere non assolutamente innovativo dell’evoluzionismo
spirituale aurobindiano senza con questo voler negare al maestro la peculiarità di una
concezione applicata al Divenire naturale in dialogo con la scienza contemporanea;
né volendo deprivare la filosofia aurobindiana del carattere innovativo della
previsione – o più plausibilmente dell’auspicio – dell’evoluzione futura della razza
umana in una superiore specie divina non in altezze trascendenti o metafisiche ma
qui nel nostro universo materiale, nella fisicità e corporeità della nostra esistenza
terrena.

2. Gradi ontologici

Ai sette piani dell’Essere Aurobindo aggiunge, nel ventisettesimo capitolo del


libro primo della sua opera filosofica (The Sevenfold Chord of Being), il grado dell’essere
psichico: si darebbe così una perfetta specularità dell’emisfero inferiore con il

22 Nimbārka (XII-XIII sec.) sostiene la prospettiva del bhedābedavāda (dottrina della differenza
indifferenziata) o dvaitādvaitavāda (dottrina della dualità aduale). Nella sua filosofia il rapporto tra il
Divino e le sue determinazioni è paragonato a quello tra l'oceano con le onde e a quello del sole con i
suoi raggi: l'onda non esisterebbe senza oceano ma al contempo non vi si identifica o riduce
totalmente. Le determinazioni finite rappresentano modificazioni effettuali di Brahman, il quale però è
anche infinitamente trascendente rispetto a quelle. Oltre ad essere causa efficiente del mondo, il
Divino ne è la causa materiale. Brahman, cit e acit sono tre realtà coesistenti.
23 Un primo contributo in questo senso è rappresentato da l capitolo quinto (Śrī Aurobindo and Plotinus)

dell'opera di Susil K. Maitra, The Meeting of the East and the West in the Philosophy of Śrī Aurobindo, op. cit.,
pp. 177– 216. Cfr. anche ibid. pp. 171-174.

116
superiore – non casuale l’uso del termine chord, propriamente relativo all’accordo
musicale e dunque alludente all’armonia delle sfere pitagorica. Posto un principio
ottuplice Sat verrebbe a corrispondere alla Materia, Cit-Śakti alla Vita, Ananda
all’essere psichico e la Supermind alla Mente: un parallelismo alquanto schematico di
cui è lecito dubitare – da parte di una logica infinita che non ama il procedere
semplificatorio della razionalità dualistica. Ma la schematizzazione ha il pregio di
mettere in luce il ruolo cruciale assunto dallo sforzo umano di autosuperamento
quale punto di snodo tra la fine del cammino nell’Ignoranza e l’ingresso nella
superiore metà gnostica dell’Essere in cui si attua la conversione o rivoluzione – la
vera Umwertung – da Avidyā a Vidyā. È questo l’unico luogo in cui il maestro elenchi
fra i piani di coscienza l’entità psichica, normalmente e più adeguatamente concepita
quale emanazione diretta dell’infinità divina, scintilla ātmica più fondamentale dei
gradi ontologici tanto da servirsi di questi per il proprio perfezionamento. «La psiche
[...] non è un piano d’esistenza come gli altri nella grande scala dell’Essere. La psiche
è situata “dietro” gli altri piani (proprio come il mondo psichico è situato “dietro” gli
altri mondi) e si serve di loro per crescere»24.
Considerando perciò come effettivi solamente i restanti sette livelli di
manifestazione brahmanica, dobbiamo innanzitutto sottolineare la corrispondenza di
ciascuno di essi ad un mondo-tipo. I mondi tipologici (mentale, vitale et cetera)
incarnano le massime e più libere espressioni di ciascun principio e i loro costanti e
complessissimi intrecci e interrelazioni con il mondo evolutivo. Nel nostro mondo i
piani non sussistono più di per sé e separatamente ma si incrociano e determinano
vicendevolmente in un gioco di reciproco interscambio dialogico o conflittuale nelle
assonanze e dissonanze delle energie cosmiche: «evolutionary Nature is not a logical
series of separate segments; it is a totality of ascending powers of being which
interpenetrate and dovetail and exercise in their action on each other a power of
mutual modification»25. La Realtà aurobindiana manifesta dunque una complessità
intrinseca, multilaterale e sfaccettata di là da dualistiche e semplicistiche opposizioni
ontologiche tra Spirito e Materia, divinità o principi del Bene e del Male e così via;
ma è anche irriducibile, come vorrebbe il materialismo scientifico, ad un rapporto di

24 Georges Van Vrekhem, Oltre la specie umana, op. cit., p. 646.


25 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 990.

117
derivazione o dipendenza dei piani superiori dalla Materia. Infatti l’esperienza yogica
dimostra senza traccia di dubbio la natura superiore, più ampia e comprensiva, più
altamente cosciente e più fondamentalmente originaria di tali mondi in rapporto
all’ultimo e più ristretto grado della manifestazione devolutiva, quello materiale: «we
find these higher worlds in our vision and experience of them to be in no way based
upon the material universe, in no way its results, but rather greater terms of being,
larger and freer ranges of consciousness»26. In sostanza un’impostazione filosofica
non troppo lontana dalla concezione della scala dell’Essere così come fu intuita ed
esperita da Guénon, nella coesistenza contemporanea di piani differenti eppure
riconducibili da parte di una visione spirituale all’unità infinita dell’Uno:

la scala [...] è immagine della struttura gerarchizzata del reale, e i gradini corrispondono sia a scienze
che a gradi dell’Esistenza e a stati dell’Essere; il percorso ascendente, di grado in grado, conduce
all’intuizione intellettuale realizzativa dell’Identità suprema, mentre quello discendente mostra le
molteplici modalità con le quali l’Uno si riflette nella Manifestazione27

La realtà è costituita da una gradazione ininterrotta e continua di piani,


unitaria nelle sue differenziazioni anche nelle scissioni estreme e apparentemente
insormontabili. È un procedere dell’Uno dal più al meno, dall’ultravioletto
all’infrarosso a legare divergenti e talvolta opposti principi ontologici, conciliando nel
continuum dell’esistenza abissi e vette, nescienza e supercoscienza in un’unica ma
plastica legge governante il divino operare: «the Spirit is there in Matter and it has
made a series of steps by which it can travel from it to its own heights in an
uninterrupted line of gradations; the depths are linked to the heights and the Law of
the one Truth creates and works everywhere»28.
Intendiamo ora procedere ad una disamina separata dei principali gradi
ontologici discoperti dall’esperienza spirituale aurobindiana, analizzando partitamente
(ma pur sempre nella consapevolezza della loro essenziale unità) principi e qualità di
ognuno – a partire dalla suprema realtà una e trina di Satcitānanda per poi seguire

26 Ibid., p. 810.
27 Giuseppe Cognetti, L’Arca Perduta. Tradizione e Critica del Moderno in René Guénon, Firenze, Angelo
Pontecorboli, 1996, p. 161.
28 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XII, Essays Divine and Human, p. 591.

118
ordinatamente le fasi della manifestazione discendente di Brahman. Inutile dilungarsi
sui tre livelli superni dell’Essere, per i quali rimandiamo alle riflessioni del capitolo
precedente inerenti la condizione non qualitativa dell’Uno senza secondo, silenzio
trascendente e ineffabile – ma aggiungendovi una descrizione del significato
esistenziale di Satcitānanda:

here surely existence would not at all be based on the determination of the One in multiplicity, it
would manifest solely and simply a pure identity in oneness. [...] the determinations would not be
demarcations, they would be plastic, interfused, each a boundless finite. [...] For there all is in each and
each is in all radically and integrally, [...] a mutual inclusion and interpenetration of consciousness. [...]
Or, indeed, this triune being itself might well be only a trinity of original spiritual self-determinations
of the Infinite; these too, like all determinations, would cease to exist in the ineffable Absolute29

Un’immagine quantomai confusa, incerta e tutta al condizionale, stranamente


breve rispetto alle lunghe digressioni dedicate all’esplorazione dei più minuti aspetti e
significati dei restanti piani. Qui Aurobindo giunge addirittura a mettere in forse la
natura trinitaria del sommo Principio quale determinazione penultima rispetto al
Trascendente ineffabile, il quale verrebbe a configurarsi quale ulteriore grado
dell’Essere o meglio come l’aldilà di ogni concepibile piano d’esistenza. Questo
induce a pensare ad una scarsa conoscenza aurobindiana di tale suprema vetta dovuta
a soggiorni solo sporadici sul massimo piano di coscienza o, più plausibilmente, alla
effettiva impossibilità mentale di fornire anche solo una descrizione linguistica
allusiva dell’Ineffabile – una volta giunti al luogo in cui anche i maestri non possono
far altro che tacere.
Ben più estesa, complessa e precisa l’esposizione relativa al grado della
Supermind, Coscienza-di-Verità gnostica con la quale l’evoluzione ascendente entra
nella Conoscenza e la devoluzione conosce l’ultima espressione della Verità suprema
prima di cadere vittima dei lacci dell’Ignoranza. La Supermind è il principio del
Molteplice-in-Uno, il cui vangelo fu già espresso dai versi ermetici dei Veda, in grado
di comprendere la natura di unità differenziata della manifestazione: essa può
ricondurre il molteplice alla propria fonte unitaria senza perdersi nell’ignoranza delle

29Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 334-
335.

119
divisioni ma al contempo permettere la proliferazione di una finitezza non ancora
separata dalla propria sorgente infinita. Una Gnosi advaita che tiene insieme gli
opposti di molteplicità e unità procedendo dalla onnipresente consapevolezza della
natura del Brahman immanifesto – e che tuttavia si distingue da questo nel dare al
contempo origine alla manifestazione naturale e all’organizzazione cosmica. Nel
grado supermentale Cit e Śakti sono uno nella simultaneità di pensiero e azione: la
coscienza decisionale non si è ancora separata dal potere realizzativo ma l’una e
l’altro si danno entro un movimento unico e indiviso, ancora immediato dagli
ostacoli esecutivi incontrati dall’ignorante facoltà mentale di ideazione. Potere
strumentale e delegato di Vidyā, la Truth-Consciousness o Real Idea30 abbraccia ogni
potenzialità senza mai perdere di vista l’armonia complessiva dei ritmi brahmanici, la
Verità infinita che concepisce in ogni circostanza l’ente come uno con il Tutto e con
l’Onnipresente – di là dall’apparenza di esistenze molteplici e separate. Conoscenza
divina, concilia senza strappi l’immobilità del puro Spirito silente e il dinamismo
energetico del Divenire cosmico così come coglie intimamente l’unità multilaterale
del triuno Satcitānanda. La Supermind non deve ricorrere ad un’arbitraria
segmentazione di Esistenza, Coscienza e Delizia necessaria ad una conoscenza
mentale ma intuisce la realtà unitaria del Divino di là dalla triplicità dei suoi attributi o
aspetti.
Con l’insediarsi della Gnosi supermentale nella manifestazione materiale si dà
il rovesciamento critico del processo evolutivo, il ribaltamento assiologico cruciale da
un progresso spirituale brancolante in un’insicurezza ignorante che cerca a tentoni il
Divino ad un’evoluzione nella Conoscenza sicura dei suoi passi e rapidamente
progrediente alla vetta grazie ad una chiara visione dello scopo teofanico della

30 Definizioni più pregnanti rispetto a Supermind nel mettere in luce gli aspetti positivi del quarto grado
dell’Essere oltre a sottolinearne l’ulteriorità, superiorità e differenza dal mentale. In The Synthesis of Yoga
il maestro sembra preferire tuttavia a tali espressioni il termine sanscrito vijñāna, alludendo così al
secondo kośa che avvolge il jīva, foriero di una gnosi integrale e sintetica contra la conoscenza analitica
e separativa che caratterizza il terzo involucro – manomayakośa. «The link between the spiritual and
the lower planes of the being is that which is called in the old Vedantic phraseology the vijñāna and
which we may describe in our modern turn of language as the Truth-plane or the ideal mind or
supermind», Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXIII-XXIV, The
Synthesis of Yoga, p. 417. L’espressione Real Idea vorrebbe invece veicolare il senso di intima
interdipendenza o profonda unità tra ideazione astratta e realizzazione concreta che rappresenta uno
degli attributi più caratteristici della Supermind: «The supramental thought […] creates no such sense of
a gulf between the idea and the real as we are liable to feel in the mind, but is itself a reality, it is real-
idea and the body of a reality», ibid., p. 835.


120
manifestazione. L’effusione del principio d’armonia e di gioia sulla Natura
ridimensionerebbe o trasformerebbe interamente il carattere conflittuale
dell’esistenza, sostituendo alla legge della lotta quella della reciproca fusione: ciò
grazie alla facoltà coscienziale di percepire la divina Unità in quelle che al mentale
appaiono come le più divergenti disparità o le contraddizioni più insanabili. Una tale
utopica immagine rappresenta, a detta di Aurobindo, l’inevitabile destino evolutivo
del genere umano ed anzi il suo prossimo passo sulla scala dell’Essere – ancora, ed è
bene non dimenticarlo mai, penultimo rispetto al supremo attingimento del Divino.
L’interesse del maestro per la Supermind si concentra precipuamente sulle possibilità
trasformative e integrative di questa nel complesso della manifestazione materiale. In
un’analisi dei gradi ontologici dovremmo però sottolineare anche la differenza
essenziale sussistente tra gli esseri supermentali nel loro proprio mondo-tipo – dove
l’espressione della divina Coscienza-di-Verità non trova ostacoli alla propria completa
affermazione – e l’apparizione nel cosmo materiale di una razza di esseri gnostici, i
quali si sforzerebbero di attuare una ben più difficoltosa opera di integrazione dei
poteri supermentali con i piani inferiori dell’Essere – in un confronto trasformativo
con i principi dell’emisfero di Avidyā.
Il piano supermentale, nonostante pretenda ancorarsi alla tradizione,
rappresenta una delle scoperte e delle tematiche filosofiche più tipiche e originali del
pensiero aurobindiano: nella Supermind si incarna tutta la possibilità di una vita divina
sulla terra come elevazione dell’uomo alla propria soprannatura. L'esistenza
supermentale è un’utopia concretizzabile e continua all’evoluzione naturale – nello
stesso senso in cui la vita umana si configura non come un inconcepibile miracolo
ma piuttosto quale soprannatura rispetto alla vita animale – e non un prodotto
astratto della fantasia immaginifica del mentale. Il superamento delle leggi naturali
note ad opera dell’insediamento terreno della Supermind non avrebbe dunque nulla di
prodigioso né potrebbe essere tacciato di incomprensibilità da parte di una critica di
matrice scientistica, poiché se l’apparizione del supermentale fosse definibile come
miracolosa allora anche la comparsa del protoplasma su un fondo di materia
inanimata dovrebbe essere considerata inammissibile e soprannaturale: «there would
be nothing supernatural or miraculous in such an evolution, except in so far as it
would be a supernature or superior nature to ours just as human nature is a

121
supernature or superior nature to that of animal»31. È forse possibile gettare un ponte
interculturale o interreligioso tra la Supermind aurobindiana e l’evangelica µετάνοια
nel significato attribuitovi da Panikkar di conversione esistenziale ad un piano
ultranoetico rovesciante le categorie mentali in una suprema coscienza advaita –
specchio di una medesima aspirazione al Divino che inventa e propone formule
affini nel rispondere alla crisi spirituale della modernità.
Ad un gradino inferiore si colloca l’Overmind, delegato della Truth-Consciousness
e sottolivello di questa, con la quale propriamente ha inizio la discesa dell’Essere
nell’Ignoranza, seppur in una dilatazione coscienziale incommensurabile alle facoltà
mentali. Nell’Oltremente32 ogni possibilità è accolta e lasciata libera di esprimersi
nella propria indipendenza accanto alle altre: questo permette sul piano umano una
coesistenza multiculturale serena e non più dilaniata da fanatismi settari ma tuttavia
incapace di pervenire ad una legge spirituale superiore di armonia e unitarietà
differenziata che possa conciliare le divergenti posizioni (un’autentica esistenza
interculturale) – ciò su cui si determina tutto il discrimine tra relativismo e
pluralismo: «the overmental view of things allows each possibility to formulate itself
in its own independent right and realise its own existence in cognition, in dynamic
self-presentation, in substantiating experience»33. Nella sfera oltrementale a ognuno è
concesso il diritto di formulare la propria verità e visione del mondo, seguendo la
linea di uno sviluppo personale e di specifiche possibilità realizzative nel
riconoscimento del diritto all’esistenza e del valore relativo della propria come delle
altrui cosmovisioni. Ma non si può esprimere così un autentico dialogo a causa
dell’autonomia di formulazioni vicendevolmente escludentisi ma pacificamente
conviventi – di là dalle conflittualità mentali. Ogni stato di coscienza è valido nella
sua partecipazione parziale ad una Verità infinita ma non si è ancora trovata la chiave
di una possibilità di unione differenziata: nell'Overmind ogni principio veritativo esiste
di per sé senza alcuna possibilità di un intimo contatto con l’alterità.

31 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 1079.
32 Preferiamo adottare una traduzione letterale del termine, contro la confusione che potrebbe essere
ingenerata dalle ormai invalse traduzioni italiane (Sovramentale o Surmentale) per rispondere in
maniera filologicamente corretta agli intendimenti aurobindiani.
33 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 324.

122
To the Overmind, for example, all religions would be true as developments of the one eternal religion,
all philosophies would be valid each in its own field as a statement of its own universe-view from its
own angle, all political theories with their practice would be the legitimate working out of an Idea
Force with its right to application and practical development in the play of the energies of Nature34

Questo grado possiede innegabili meriti: se tutta l’umanità fosse oggi


sollevata in blocco al piano della Overmind il nostro mondo culturalmente incrociato e
impuro35 vedrebbe immediatamente risolti i suoi conflitti etnici, religiosi e dottrinali
in una coesistenza pacifica delle diversità. Ma tale piano dimostra una carenza
strutturale a livello spirituale non riuscendo a ricomprendere entro una visione divina
di molteplice Unità il complesso delle forze veritative divergenti. Sono questi i
medesimi difetti e pregi che potremmo attribuire al Nietzsche teorico del
prospettivismo – le cui parole sembrano echeggiare nelle pagine dedicate da
Aurobindo alla disamina dell’Overmind – per il quale ogni angolo visuale o creazione
valoriale è legittima finché non pretenda ad un esclusivismo dogmatico e totalizzante
nel riconoscere la propria infondata parzialità: il filosofo tedesco tentò però di
oltrepassare questo limite con l’incompiuta concezione dell’affermazione dionisiaca, il cui
abbozzo è già nel sacro ja-sagen del fanciullo alla vita dello Zarathustra36.
Nell’esemplificare il potere e al contempo la parzialità dell’Overmind Aurobindo porta
l’esempio della comprensione oltrementale del rapporto tra Nirguṇa e Saguṇa.
Questo piano coscienziale permette di concepire la realtà e la validità di entrambi gli
aspetti brahmanici di passività e attività contemporaneamente, superando la loro
opposizione antinomica propria del mentale che li escluderebbe vicendevolmente:
ma non è in grado di pervenire a quel Principio trascendente e ineffabile nel quale le
due facce coesistenti del Divino ritrovano la loro originaria e fondamentale armonia
unitaria.
Rappresentante esemplare del gradino superiore nel cerchio dell’Ignoranza, la
Mente, nelle prime fasi della sua apparizione, si limita a compiti quasi esclusivamente

34Ibid., p. 298.
35 Nel significato positivo del termine – a favore del meticciamento culturale contra il predominio della
monocultura occidentale – che emerge dall’opera di James Clifford I Frutti Puri Impazziscono, trad. it. di
M. Marchetti, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.
36 Friedrich Nietzsche, Opere Complete, op. cit., Vol. VI, tomo I, Così Parlò Zarathustra, Delle Tre

Metamorfosi, p. 25.

123
pratici: risponde con una conoscenza funzionale e pragmatica ai bisogni fisiologici e
vitali di un essere non ancora completamente distinguibile dalle specie animali
superiori, se non per una maggiore scaltrezza d’azione – giudizio che non sarebbe
condiviso da buona parte dell’antropologia contemporanea. Nel percorso di piena
emergenza e distinzione dai gradi inferiori che la conduce ad una facoltà di
speculazione autonoma da fini esteriori immediati la Mente attualizza le proprie
potenzialità conoscitive analitiche, separative e dualistiche – efficaci quanto alle
applicazioni pratiche ma confuse e limitate quanto alla suprema gnosi divina. Il
mentale si dimostra incapace di raggiungere la talità del reale, la nuda verità delle cose
così come sono indipendentemente da una massa spesso inconscia di
condizionamenti ambientali, formativi, culturali e sociali nonché di determinazioni
personali relative al temperamento e al gusto individuali.
Aurobindo distingue tre sottolivelli gerarchici del mentale. La mente fisica
(manas) è interessata alla realtà oggettiva, alle entità percepibili dai sensi organici, ad
una conoscenza esteriore il cui sviluppo massimo e più raffinato è costituito dalla
scienza moderna: psicologicamente ed esistenzialmente è conservatrice, abitudinaria,
ottusa e fondamentalmente tamasica37. La mente vitale o di desiderio è alla costante
ricerca di novità, ama l’avventura e l’esplorazione di territori ignoti, l’allargamento
esperienziale e le possibilità insondate – in uno slancio rajasico. La mente pensante
riflette indefinitamente su ogni questione, dubita di tutto senza poter mai giungere a
soluzioni esaurienti o definitive – nella sua costituiva apertura alla conoscenza
manifesta tuttavia una qualità sattvica. A tali gradazioni del mentale corrispondono
tipologie psicologiche differenti che non pretendono – proprio in quanto tipi – di
fornire una descrizione accurata delle configurazioni psichiche individuali: queste si
presentano infatti in concreto come costituite da una mescolanza e un intreccio in
quantità e qualità diverse dei tre principi a forgiare individualità psicologiche distinte
e inconfondibili. La mentalità fisica produce l’uomo pragmatico, la vitale
l’avventuriero, l’uomo d’azione e di passione, la pensante il filosofo e lo scienziato. In
un ulteriore quarto grado nistraiguṇya o traiguṇyātitya – ossia oltrepassante le

33 «A pigmy Thought needing to live in bounds / For ever stooped to hammer fact and form. /
Absorbed and cabined in external sight, / It takes its stand on Nature’s solid base», Śrī Aurobindo, The
Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXXIII-XXXIV, Savitri, Libro II, Canto X, vv. 262-265,
p. 245.

124
qualità naturali – si situa la mente spirituale: apice di apertura alla gnosi raramente
raggiunto dall’umanità, fine ultimo di ogni yoga, religione, conoscenza occulta e
disciplina meditativa che ha prodotto il tipo umano superiore (e fino ad oggi
sommo) del veggente, del profeta, del saggio e del mistico. Importante notare la
convergenza di fondo con la teoria junghiana dei tipi psicologici di sensazione,
sentimento, pensiero ed intuizione in un pluralismo tipologico aperto al dialogo tra
individui diversi: l’influsso, se mai ci fu un’influenza diretta, sarebbe in questo caso di
difficile direzionamento, risalendo la prima pubblicazione completa di The Life Divine
a quello stesso 1921 che vide edito, all’altro capo del mondo, Tipi Psicologici – anche se
si deve ammettere che il relativismo junghiano trovò la sua prima espressione nella
conferenza del convegno psicoanalitico di Monaco del 1913 (Sulla Teoria dei Tipi
Psicologici).
La conoscenza mentale è costituita da un irrimediabile commistione di
elementi provenienti dall’ignoranza e da lampi di conoscenza, in un’opera di parziale
rivelamento e parziale occultamento dell’Essere. Non è dunque un’ignoranza
incosciente e incurabile ma una conoscenza parziale che si sforza di sottrarsi alla
propria finitezza cercando un’affermazione integrale attraverso poteri e strumenti
peculiari – pensiero, immaginazione, memoria, intuizione – ma insufficienti al
superamento delle limitazioni dualistiche. Il miglior pregio della mente (e la nostra
àncora di salvezza) è costituito proprio da tale tensione all’autotrascendimento quale
legge d’azione specifica dell’umanità mentalizzata – le stesse qualità che Nietzsche
rinvenne nella creatura umana instabile e insoddisfatta, per sua propria natura tesa al
superamento di sé. «This alone saves us that ours is an ignorance which is full of the
impulse and strives irresistibly, eternally, by the very law of its being towards the
realisation of self-possession and self-knowledge»38. Un’aspirazione al di là di sé che
potrebbe condurre l’umanità ai livelli superiori del mentale, intermedi tra la Mente
ordinaria e l’Overmind e distinti, seguendo una traiettoria ascendente, in tre gradazioni.
La Higher Mind (Mente Superiore) è una mente pensante luminosa conscia
dell’originale identità degli enti, scevra da argomentazioni discorsive e passi logici,
lontana da un ragionamento dialogico o dialettico suddiviso in fasi distinte e

38 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 585.

125
progressive e anche dall’intuizione («this thought is a self-revelation of eternal
Wisdom, not an acquired knowledge»39): la sua operazione specifica è l’ideazione di
sistemi integrali e onniabbraccianti dotati di un potere in grado di dirigere la volontà
e l’azione. La Illumined Mind (Mente Illuminata) è una mente di luce spirituale – la
divina luce di cui la luce materiale percepibile non è che un riflesso – oltre il pensiero,
modalità conoscitiva subordinata e non indispensabile alla suprema Gnosi,
procedente per visioni. L'Intuition (l’Intuizione) è una mente che possiede la Realtà
per contatto diretto e penetrazione immediata libera dalle deformazioni mentali
ordinarie che contaminano con la propria finitezza la purezza della luce spirituale – di
cui le cosiddette intuizioni note alla coscienza comune non sono che pallidi riflessi:
Aurobindo la raffigura, secondo un’immagine tratta dalla sapienza hindū tradizionale,
come «a sea or mass of “stable lightnings”»40.
Le descrizioni di tali poteri superiori del mentale risultano quantomai confuse
e interscambiabili, potendo probabilmente pretendere ad una maggior chiarezza solo
nel caso di un’esperienza diretta – dato che un linguaggio creato per soddisfare
esigenze mentali non potrebbe essere il veicolo appropriato di una comunicazione
relativa a realtà sovramentali. In uno scritto tardo – The Supramental Manifestation upon
Earth, 1949-1950 – va ad aggiungersi all’elenco la Mind of Light (Mente di Luce), da
non confondersi con la Mente Illuminata, elevatissimo principio direttamente
delegato o proiettato dalla Supermind quale proprio potere («The Mind of Light is a
subordinate action of Supermind, dependent upon it»41). Essa sembra addirittura
collocarsi in uno spazio ontologico superiore o almeno paritetico all’Overmind, se è
vero che con quest’ultima si esprime l’ultimo cerchio dell’emisfero inferiore
dell’Essere laddove la Mente di Luce consentirebbe la prima emergenza di Vidyā: «it
is [...] as the last word of the lower hemisphere of being, the first word of the higher
hemisphere that we have to look at the Mind of Light»42. Non possiamo tuttavia
sottrarci al dubbio di una tale collocazione ontologica, per la natura non
estremamente limpida delle riflessioni aurobindiane sul nuovo piano del mentale

39 Ibid., p. 975.
40 Ibid., p. 983.
41 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XIII, Essays in Philosophy and Yoga, p.

588.
42 Ibid., p. 592.

126
superiore introdotto per la prima e unica volta in un contesto particolare (il breve
saggio è stato concepito infatti per l’uditorio āśramitico) e per di più a dieci anni di
distanza dall’ultima revisione di The Life Divine. Motivi per cui non ci sentiamo sicuri
di pronunciare l’ultima parola sul tema, considerando l’evoluzione della speculazione
del maestro ancora in corso al momento della morte. Eviteremo altresì l’analisi di due
ulteriori formazioni coscienziali intermedie tra mente e Supermind («intuitive
mentality»43 e «supramental reason»44) le quali verrebbero unicamente ad offuscare
ancor più, se possibile, il complesso quadro dei piani di coscienza sovramentali non
apportando alcun contributo filosofico significativo alla nostra riflessione – in quanto
esplorate in senso realizzativo e non teoretico nel testo yogico principe del maestro.
Piano dell’essere già esteriormente cosciente sebbene non ancora
mentalizzato, anello intermedio dell’emisfero inferiore che permette la relazione tra
Mente e Materia, la Vita è il riflesso manifestato dell’Energia cosmica, δύναµις
creatrice di forme comprendente la morte come suo polo – una necessità disgregativa
alla volta di nuove e più libere esplorazioni creative, se Cit-Śakti è un movimento
energetico al contempo aggregatore, formatore e disgregatore. Nella sua più ampia
concezione la Vita non è condizionata per la sua esistenza dagli strumenti del
nutrimento, del respiro o del movimento: se questa concezione sembra in contrasto
con alcune delle speculazioni aristoteliche sul tema nel Περί τῆς Ψυχῆς, dovremo
però tener conto che l’integrazione nei piani superiori dell’esistenza delle qualità
proprie degli esseri inferiori (sino al livello mentale) parli in favore di un’affinità
filosofica tra il maestro hindū e lo Stagirita – per tacere delle assonanze fra Intelletto
Agente45 e Supermind. Se però le ordinarie forme di sussistenza degli esseri animati
non sono considerate le uniche e necessarie proprietà del vitale Aurobindo non
fornisce ulteriori delucidazioni nel senso di forme di vita altre da quelle a noi note.
Senza scomodare ipotesi extraterrestri potremmo avvicinarci alla comprensione del
problema considerando il debito aurobindiano nei confronti del fisico indiano, suo
lontano parente, Jagadish Chandra Bose: questi sostenne la presenza di un principio

43 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXIII–XXIV, The Synthesis of Yoga,
p. 808.
44 Ibid., p. 820.
45 Cfr. il celeberrimo Γ 5, Aristotele, Anima, trad. it. di G. Movia, Milano, Bompiani, 2001, p. 219.

127
di vita nelle rudimentali reazioni registrabili in oggetti apparentemente inanimati
come metalli e pietre – da cui la conclusione filosofica del maestro che la Vita è
ovunque, senza rigide demarcazioni tra la sfera organica e l’inorganica46. Interessante
l’alta considerazione riservata alla vita animale, normalmente negletta nell’opera
aurobindiana, con cui si libera l’animalità dall’immagine stereotipa di una reattività
incosciente e istintiva sostenendo la presenza di percezioni, ricordi, facoltà
associative e una forma rudimentale di intelligenza pratica, astuta e organizzatrice,
perlomeno nelle specie superiori del regno animale.
Principio di massima frammentazione e divisibilità estrema, apparentemente
inerte e incosciente ma contenente in sé involute e latenti tutte le potenzialità del
supercosciente, la Materia è in essenza ancora Brahman nel suo gioco di auto-
occultamento – pur occupando il grado infimo della manifestazione: «the Inconscient
guards in itself all the concealed Superconscient»47. La scienza vede meglio dei sensi
nel ricondurre la Materia ad Energia ma i Veda vanno ancora più a fondo scoprendo
in essa l’intero segreto della coscienza divina celato alla percezione e all’intelletto. In
sé piano di lotta fra unità atomiche o subatomiche separate, capaci di aggregarsi in un
costrutto associativo costantemente sottoposto al rischio della disgregazione e mai
realmente teso all’unificazione e alla fusione, nella sua ascesa trasformativa ad opera
dei superiori principi di Vita e Mente la Materia manifesta insospettate qualità di
fluidità, malleabilità e sottigliezza divenendo sempre meno densa e adattandosi ad
esprimere più ampi poteri dell’Essere in corpi naturali predisposti ad ospitare
energismi sovramateriali. In questo senso non potremmo non citare la sentenza
anassagorea secondo la quale l’uomo è intelligente perché ha le mani: nell’avvenire
dell’evoluzione anche l’essere gnostico dovrà forgiarsi un corpo materiale in grado di
sostenere ed esprimere la sconfinata potenza del Divino. Se tutto è già da sempre
contenuto nella Materia («Nothing can evolve out of Matter which is not therein
already contained»48) per il principio di unità differenziata che sostiene il cosmo
possiamo comprendere ancor più profondamente l’assenza di separazioni tra i gradi
ontologici, espressioni qualitativamente differenti di un’unica e medesima energia in

46 Una modernità di pensiero sconcertante in linea con alcune riflessioni di Jacques Derrida sul tema
contenute in L’Animale che, dunque, Sono (Segue), Rivista di Estetica, num. 8, 1998, pp. 29-69.
47 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 501.
48 Ibid., p. 95.

128
definitiva riconducibile alla divina Cit-Śakti. Di qui è anche possibile attingere
pienamente il senso di un oscuro principio di vita nel metallo e nella pietra e di una
rudimentale apparizione della coscienza nel vegetale, in un’interpretazione originale
del segreto vedico che permette di donare un senso divino a quel piano di realtà tanto
esecrato da spiritualismi di ogni sorta, condannato e torturato nella sua espressione
corporea da ascetismi intransigenti e ciechi. Aurobindo integra anche la Materia nel
progetto evoluzionistico del Divino, considerandola anzi il nodo cruciale della
possibilità stessa di una trasformazione supermentale: «Matter [...] is form and body
of Spirit and would never have been created if it could not be made a basis for the
self-expression of the Spirit»49.
Confidiamo di essere riusciti, almeno parzialmente, nel compito di restituire
la stupefacente ampiezza ontologica prospettata dalla filosofia aurobindiana,
inimmaginabile per uno stato di coscienza ordinario: in condizioni normali infatti
l’umanità non è in grado che di esperire meno della metà – e oltretutto la metà
inferiore – della Realtà. Ancor più sbalorditiva la natura della futura evoluzione
terrestre, nella quale ogni decisivo passo in avanti del Divino verso la propria
riscoperta configurerà una serie di rivoluzioni cosmiche ancor più immense, radicali e
decisive dell’apparizione della vita nell’universo materiale – l’ampiezza prospettica di
uno sguardo astrale davvero illuminato e sovramentale.

3. Divenire cosmico e storico: evoluzione, stasi o regresso spirituale?

La sussunzione del complesso delle energie cosmiche, riflessi materiali dell’operare


teofanico della Śakti divina, nel concetto di Natura, intesa dal maestro quale delegato
e agente del Divino nel suo gioco di automanifestazione e mai come principio
autonomo di creazione – riconducendo i movimenti di Prakṛti alla sanzione attiva del
Puruṣa, contra la visione Sāṁkhya – permette di rivelare un ulteriore e peculiare
aspetto dell’evoluzione spirituale aurobindiana nella sua declinazione cosmica,
filosoficamente fragile ed esposto a facili critiche. Aurobindo sostiene una piena
partecipazione della Natura allo sforzo di manifestazione del Divino nel finito – «A

49 Ibid., p. 668.

129
mystic motive drives the stars and suns»50 – considerando il suo contributo
fondamentale a quel Destino evolutivo che condurrà all’emergenza dell’essere
supermentale. Una visione che sembra essere contraddetta nell’uomo e ancor più
nell’animale dalla potenza di istinti naturali volti all’autoconservazione e al
perfezionamento delle facoltà ordinarie piuttosto che ad uno slancio di là da sé ma
che potrebbe trovare conferma nell’antropico anelito al sacro – una questione in
effetti indecidibile per la complessità pluridirezionale degli energismi cosmici:

And we have the outflowing of the infinite and absolute Existence, Truth, Good and Delight of being
on the Many in the world as the divine result towards which the cycles of our evolution move. This is
the supreme birth which maternal Nature holds in herself; of this she strives to be delivered51

Il peculiare ritmo del Divenire naturale è lento, con uno sviluppo pigro e
difficoltoso che si compiace di perdersi nell’indefinita creazione di forme sempre
nuove seguendo i più vari tentativi sperimentali senza puntare diritto allo scopo, con
processi molteplici e dispersivi incapaci di imboccare direttamente la via alla suprema
saggezza: «the evolutionary endeavour of Nature has experimented on all lines in
order to find her true way and her whole way towards the supreme consciousness
and the integral knowledge»52. Ma non è una tale descrizione del carattere
multilaterale e liberamente creativo, ateleologico o pluriteleologico del Divenire più
un indizio dell’estraneità di questo all’evoluzione che non una comprova della tesi
aurobindiana? O perlomeno una constatazione che dovrebbe condurre ad un
ridimensionamento dell’evoluzionismo spirituale quale uno dei possibili movimenti
esplorati da una Natura non arenata su uno scopo univoco? La pretesa di proiezione
dell’umana possibilità di elevazione sull’intero di un divenire cosmico che ama
perseguire ogni traiettoria e possibile meta nel gioco molteplice delle sue energie
rappresenta una semplificazione eccessiva e troppo umana – seppur mirante al
transumano – degli intrinsecamente plurali e irriducibili moti naturali.

50 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXXIII-XXXIV, Savitri, Libro II,
Canto V, p. 169.
51 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 65.
52 Ibid., p. 893.

130
Notando una progressiva accelerazione del ritmo evolutivo ad ogni
emergenza di un principio superiore Aurobindo ritiene di poter spiegare
soddisfacentemente un tale fenomeno appellandosi ad un sempre più consistente
predominio di Vidyā, progrediente sempre più senza sbagli e con sicurezza verso il
proprio fine ontofanico, nel mondo materiale: una giustificazione piuttosto arbitraria
di un evento forse sensatamente deducibile dalle tempistiche evolutive del nostro
pianeta ma non certo immediatamente applicabile alla totalità di un universo che
procede nel proprio corso materiale da miliardi di anni senza aver conosciuto, se non
in un suo remoto e infinitesimo angolo, l’apparizione di vita e mente quali noi li
intendiamo.

The first obscure material movement of the evolutionary Force is marked by an aeonic graduality; the
movement of life progress proceeds slowly but still with a quicker step, it is concentrated into the
figure of millenniums; mind can still further compress the tardy leisureliness of Time and make long
paces of the centuries; but when the conscious Spirit intervenes, a supremely concentrated pace of
evolutionary swiftness becomes possible53

La teoria accelerativa del corso evolutivo assume una consistenza più solida
solo nel momento in cui l’uomo, accollandosi coscientemente la responsabilità del
proprio destino evolutivo, decida di partecipare (il che non potrà ovviamente
accadere per tutti nel medesimo tempo e nemmeno necessariamente per l’intera
razza) con lo sforzo del pensiero, della volontà e della disciplina spirituale al sublime
compito divino assegnatogli quale più nobile orientamento delle energie del suo
essere. Un progresso più rapido e direttamente rivolto al fine senza pause,
ripensamenti o digressioni sarà confermato dalla decisione cosciente e dalla costanza
del sādhaka che abbia intrapreso il cammino della manifestazione divina in un corpo
umano: «There would be no farther need of a slow evolution counting many
millenniums for each step, the halting and difficult evolution operated by Nature in
the past in the unconscious creatures of the Ignorance»54. Una prospettiva filosofica
limitante la libera multidirezionalità creativa della Natura adottata, a quanto sembra di
poter dedurre da un passo cruciale in questo senso, in quanto unica soluzione

53 Ibid., p. 967.
54 Ibid., p. 957.

131
possibile rinvenuta nella volontà di attribuire un senso divino e infinito ad un
Divenire altrimenti incomprensibile. Ma ciò non convalida il valore di verità della
proposta; lascia apparire piuttosto il suo carattere di imposizione mentale ad un
processo cosmico eccedente le categorie razionali che vorrebbero ingabbiarlo proprio
di una scelta filosofica obbligata dalla precomprensione di uno scopo divino
univocamente riconoscibile nella manifestazione: «a progressive manifestation of this
kind can only have for its soul of significance the revelation of Being in a perfect
Becoming»55.
Ancor più delicata e difficilmente dimostrabile, sebbene Aurobindo non vi
alluda che sporadicamente dimostrando così il suo scarso debito in questo senso nei
confronti di Hegel, l’applicazione della concezione evoluzionistica al terreno del
divenire storico dell’umanità – talmente frastagliato e sfuggente nella sua intrinseca
complessità multipolare e pluriculturale da risultare uniformabile solo al prezzo di
mutilanti astrazioni56. Lo stesso maestro riconosce un andamento storico regressivo
dell’umanità a livello spirituale dalla antica sapienza sacra ispirata e intuitiva alla più
arida metafisica intellettuale sino all’appiattimento esclusivo sull’universo materiale da
parte della scienza: «inspired Scripture made room for metaphysical philosophy, even
as afterwards metaphysical philosophy had to give place to experimental Science [...]
this process which seems to be a descent, is really a circle of progress»57. Una tale
interpretazione si giustifica all’interno del pensiero aurobindiano quale apparente
curva discendente di un processo spiralico evolutivo, necessaria ad un’esplorazione
separata dei gradi ontologici inferiori per tornare al Divino compito con una
maggiore consapevolezza e una più ampia prospettiva sulle realtà dell’Essere: ma
questo avrebbe potuto darsi, se davvero il processo evoluzionistico fosse stato
ordinato da una mano divina, antecedentemente ad un’emergenza spirituale. Tuttavia
la più seria obiezione a questa tesi consiste nella possibilità di fornire una lettura

55 Ibid., p. 709.
56 Limitiamo l’analisi dell’evoluzionismo storico e sociale alle rare considerazioni sul tema contenute in
The Life Divine, poiché una disamina appropriata del pensiero sociopolitico aurobindiano – espresso
per lo più nelle opere The Human Cycle e The Ideal of Human Unity, entrambe contenute nel
venticinquesimo volume dell’opera omnia (Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit.) –
ci porterebbero troppo lontani dagli intenti della presente ricerca.
57 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, pp. 74-

75.

132
diversa e anche opposta del cammino storico dell’umanità, di cui Aurobindo isola
arbitrariamente alcune tappe ritenute centrali: si potrebbe ad esempio sottolineare il
fatto che i veggenti della tradizione rappresentassero un’esigua minoranza tra
popolazioni perlopiù incolte o che monasteri e āśrama odierni non siano meno
numerosi o più corrotti di quelli antichi.
Non è possibile appoggiarsi su alcuna evidenza storica per sostenere, con una
minima pretesa di validità filosofica, un progresso spirituale, lineare o spiralico,
dell’umanità dalla sua comparsa sino ad oggi: fatto del quale il maestro si dimostra
pienamente consapevole, quasi ritrattando la precedente posizione integrativa della
storia nel processo evoluzionistico.

the idea of human progress itself is very probably an illusion, for there is no sign that man, once
emerged from the animal stage, has radically progressed during his race history; at most he has
advanced in knowledge of the physical world, in Science [...] Man today is not wiser than the ancient
seers and sages and thinkers, not more spiritual than the great seekers of old, the first mighty mystics58

Né è possibile addurre alcuna prova soddisfacente, evidente o inconfutabile


della presenza di un’effettiva e continua tensione dell’uomo all’oltrepassamento delle
proprie facoltà. Ciò che si palesa come progresso riguarda piuttosto un raffinamento,
un’estensione e un più sicuro controllo di quelle qualità ideative ed operative che
hanno contraddistinto l’umanità fin dalla sua apparizione, in un allargamento delle
potenzialità del cerchio mentale che non ha mai prodotto un risultato duraturo
quanto ad una trasformazione spirituale e ad un trascendimento della finitezza
dualistica del pensiero: «there has been no straight line of progress, no indisputable,
fundamental or radical exceeding of his [dell'uomo] past nature: what he has done is
to sharpen, subtilise, make a more and more complex and plastic use of his
capacities»59. Anche se volessimo seguire separatamente i cicli culturali
registreremmo, piuttosto che un’evoluzione, una serie di andamenti spiritualmente
disordinati caratterizzati da ripetute decadenze e reviviscenze, accantonamenti della
sacralità alquanto duraturi e sporadici periodi di feconda e autentica efflorescenza

58 Ibid., pp. 864-865.


59 Ibid., p. 873.

133
religiosa – senza poter pretendere ad una concezione lineare o ad un senso univoco
nel dipanarsi temporale delle civiltà. «There have been falls from a high type of
culture, a sharp temporary descent into a certain obscurantism, cessations of the
spiritual urge, plunges into a barbaric natural materialism; but these are temporary
phenomena, at worst a downward curve of the spiral of progress»60.
L’argomentazione aurobindiana, che vorrebbe sostenere la natura temporanea e
accidentale dei fenomeni antispiritualistici sulla base di un processo evoluzionistico
spiralico attraversante fasi apparentemente discendenti nel proprio tortuoso viaggio
al Divino, risulta in questo caso quantomai tendenziosa, arbitraria e semplicistica. È
in definitiva inammissibile nel suo scontrarsi frontalmente con una massa di eventi
storici contraddittori sgretolanti, nella loro evidenza ricorsiva, ogni timido tentativo
di razionalizzazione. Si noti, a latere, l’aggettivo barbaric riferito a materialism, lampante
prova dell’incolmabile distanza che separa la concezione evoluzionistica di
Aurobindo dall’ottocentesca (ma ancora attuale nel senso comune) fede in un
progresso materiale di ordine scientifico e tecnologico.
Nell’unico passo in cui il maestro tenti un ordinamento complessivo della
storia della civiltà occidentale fondato su parametri spirituali l’interpretazione finisce
per tradursi in una critica della modernità occidentale, all’esatto opposto del
trionfalismo hegeliano. In seguito alle prime fasi di affermazione materiale e vitale
l’uomo avrebbe delineato e sviluppato la propria distintiva facoltà mentale grazie al
contributo della civiltà ellenica – e più tardi ellenistica e romana – per giungere alla
discoperta della spiritualità nell’era cristiana. In un’originale esegesi, ardua a
dimostrarsi, il Cristianesimo avrebbe derivato le proprie qualità da un influsso
buddhista estesosi sino all’Egitto: affermazione che dimostra la natura arbitraria e
semplicistica dell’analisi storica aurobindiana, la quale vorrebbe ridurre ad un
esclusivo contributo estremorientale la temperie culturale e religiosa, grondante di
fervori cultuali plurali – mitraici e isiaci su tutti ma anche di recente invenzione –
dalla quale emerse vincitore il vangelo di Cristo. Di contro ad una tale fase di
affermazione spirituale la modernità occidentale rappresenta un evidente caso di
regresso storico duraturo all’originaria preoccupazione materiale, fisica e vitale

60 Ibid., p. 874.

134
dell’uomo preistorico – seppur coadiuvata e sostenuta da strumenti mentali
pienamente sviluppati e raffinatissimi, i quali hanno permesso la nascita della scienza.

this ideal, this conscious stress on the material and economic life was in fact a civilised reversion to
the first state of man, his early barbaric state and its preoccupation with life and matter, a spiritual
retrogression with the resources of the mind of a developed humanity and a fully evolved Science at
its disposal61

Una situazione inspiegabile, dati i parametri evoluzionistici aurobindiani, che


comporta un serio rischio di regresso alla barbarie nell’uomo moderno dietro la
maschera della civilizzazione. Con un’Umwertung umiliante per un Occidente tronfio
di sé la primitività spirituale è rinvenuta proprio in quell’homo oeconomicus odierno,
benestante e civile, che si compiace di schernire come ‘selvaggi’ i rappresentanti di
etnie materialmente arretrate ma spesso spiritualmente evolutissime o, stando ad
un’ipotesi del maestro, frutti decadenti di civiltà un tempo fiorenti: «it is the
resurgence of the barbarian in ourselves, in civilised man, that is the peril, and this we
see all around us»62; «I cannot give to the barbarous comfort and encumbered
ostentation of European life the name of civilisation»63. Un’implicita frecciata alla
mentalità colonialista, ancora attuale qualora si considerino le ambiguità di un
processo decolonizzante spesso risolventesi in forme velate di neocolonialismo64, nel
tono sarcastico di un ex-attivista politico certamente non acquiescente al divenire
storico o alla mentalità politica dominante. Aurobindo fu un precursore della
decolonizzazione già mezzo secolo prima della liberazione indiana dalle maglie
inglesi: la quale rappresentò uno dei primissimi esempi di riconquista
dell’indipendenza da parte di una colonia dopo il caso delle Filippine nel 1946 –
volendo escludere dalla lista quell’insieme di eventi che portarono all’indipendenza
americana dalla madrepatria inglese, fenomeno imparagonabile ai processi di
decolonizzazione che ebbero luogo a partire dal secondo dopoguerra. Un ulteriore
pericolo cui la moderna fase materialistica sarebbe soggetta è l’indebolimento del

61 Ibid., p. 1089.
62 Ibid.
63 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XII, Essays Divine and Human, p. 474.
64 Sullo spinoso tema cfr. tra gli altri, per una disamina chiara e generale del problema, Raymond F.

Betts, La Decolonizzazione, trad. it. di M. Cupellaro, Bologna, il Mulino, 2003.

135
nisus evolutivo che finirebbe per arrestare l’umana scalata alla volta del Divino ad un
ripiegamento appagato su se stessi; un riposo e un’indolenza sul comfort offerto dalla
tecnologia che condurrebbe la razza umana ad una tipicità immobile e fissa, non più
anelante al di sopra di sé: «there is another danger, — for a cessation of the
evolutionary urge, a crystallisation into a stable comfortable mechanised social living
without ideal or outlook»65.
Tuttavia il giudizio aurobindiano sulla modernità occidentale è complesso e
anche in grado di riconoscere le occasioni spirituali offerte dall’attuale configurazione
della società euroamericana66. Infatti la liberazione dall’impellenza e dalla
preoccupazione dei bisogni materiali permessa dall’organizzazione industriale della
società occidentale contemporanea potrebbe considerarsi una condizione preziosa
per la concentrazione della volontà umana sulle proprie esigenze spirituali: il maestro
dunque non condanna la tecnologia o il mercato in sé ma l’uso che l’uomo ha deciso
di farne, trasformandoli in feticci stuzzicanti sempre nuovi appetiti egoici, desideri e
falsi bisogni vitali – con un’eco lontana della polemica propria della cosiddetta scuola
di Francoforte.

This new fullness of the means of life might be, by its power for a release from the incessant
unsatisfied stress of his economic and physical needs, an opportunity for the full pursuit of other and
greater aims [...] but it is being used instead for the multiplication of new wants and an aggressive
expansion of the collective ego67

Il predominio di una mentalità materialistica da qualche secolo a questa parte


in un Occidente che sta aggressivamente espandendo il proprio predominio
economico, militare e ideologico sull’intero nostro pianeta viene sbrigativamente
giudicato e spiegato da Aurobindo come una dilazione del processo evolutivo.
Dilazione di fatto ingiustificata, poiché se un apice di spiritualità era stato raggiunto
in Europa due millenni orsono col fiorire del Cristianesimo non si capisce per quale
strambo progetto evolutivo sia necessaria una fase regressiva così evidente e

65 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 1089.
66 Non irrimediabilmente pessimistico come quello di un Guénon che, non riuscendo a trovare vie
d’uscita soddisfacenti dalla crisi spirituale della nostra civiltà, decise di rifugiarsi nella mistica Sufi
affiliandosi ad una tariqah egiziana.
67 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 1090.

136
prolungata – e che peraltro non appare minimamente intenzionata ad uscire dal
proprio asse valoriale nel prossimo futuro. Di un’obiezione di tal sorta deve essere
ben consapevole il maestro nella sua critica al comportamento occidentale odierno e
nell’esplicito appello affinché l’uomo scientifico smetta al più presto i panni della
mente fisica per dedicare le sue energie alla ricerca spirituale. In definitiva gli sviluppi
storici, anche se sottoposti ad analisi tendenziose, disconfermano più che coadiuvare
la visione evoluzionistica aurobindiana costituendo un terreno applicativo di una
metafisica teofanica ancor più ambiguo e inconsistente di quello offerto dal Divenire
cosmico. Come ebbe a dire la regina di Madra alla figlia Savitri: «The centuries pile
man’s follies and man’s crimes / Upon the countless crowd of Nature’s ills»68.

4. Confutazione delle metafisiche non evoluzionistiche e critica dell’evoluzionismo spirituale


aurobindiano

Poiché il maestro si dilunga e compiace in polemiche serrate con scuole e


orientamenti filosofici e metafisici altri dall’evoluzionismo, portandone a galla
insufficienze e incoerenze senza sottoporre ad un vaglio critico altrettanto tagliente la
propria posizione, abbiamo deciso di sottolineare i punti deboli della prospettiva
evoluzionistica conseguentemente ad un attento ascolto delle obiezioni mosse da
Aurobindo ad alcune prospettive che si siano sforzate di donare un senso
complessivo al mondo e all’esistenza umana.
Abbiamo già avuto modo di analizzare le critiche al vuotismo e
all’illusionismo, sistemi incapaci di rinvenire un significato divino nella
manifestazione e che propongono quale rimedio esclusivo alla condanna esistenziale
una fuga dalla vita. Aurobindo riconosce la sempre attuale possibilità di un
assorbimento yogico nel puro Trascendente silenzioso ma ritiene che in tal modo
l’esistenza umana non ne risulti giustificata quanto piuttosto annullata e abbandonata
a se stessa: se il fine della Natura è invece una trasformazione e un’elevazione
spirituali di ogni porzione del nostro complesso essere, ivi compresi i gradi ontologici
inferiori che dimorano in noi, il valore e il senso della vita iniziano a stagliarsi più

68Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXXIII-XXXIV, Savitri, Libro V,
Canto II, vv. 116-117, p. 440.

137
distintamente sul fondo della manifestazione. È già stata affrontata anche la
confutazione delle varie declinazioni dell’idealismo – in cui potremmo includere pure
un rovesciamento delle istanze feuerbachiane: «We do not create God as a myth of
our consciousness, but are instruments for a progressive manifestation of the Divine
in the material being»69. Lo stesso dicasi dei riduzionismi spiritualistici e teistici,
nonché materialistici, i quali ultimi il maestro si diverte talvolta anche a dissacrare con
una vena satirica: «If pushed to its extreme, it [la mentalità materialistica] would give
to a stone or a plum-pudding a greater reality and to thought, love, courage, genius,
greatness, the human soul and mind [...] an inferior dependent reality or even an
unsubstantial and evanescent reality»70. Il materialismo non è altro dunque che un
aggrapparci alle nostre origini, alle sfere involute dell’Essere, all’animale subcosciente
che ancora ospitiamo in noi, non un tentativo di innalzamento e superamento di sé.
In altre filosofie il mondo potrebbe essere concepito come nonsense, scherzo e
accidente di una divinità annoiata dalla propria perfezione che si intratterrebbe con il
tragicomico spettacolo dell’esistenza: «a cosmic game, a Lila, a play, an amusement of
the Divine Being. It may be He pretends to be undivine, wears that appearance like
the mask or make-up of an actor for the sole pleasure of the pretence or the
drama»71. Una manifestazione estetica sulla scorta del Nietzsche di Die Geburt der
Tragödie, possibilità teofanica ammessa dal maestro nella sua costitutiva apertura
antidogmatica (o forse per uno scarso convincimento sulla cogenza della propria
proposta?) ma che si presenta più plausibilmente quale proiezione delle incapacità
mentali di comprendere l’operare del Divino piuttosto che quale disvelamento del
senso divino del mondo. Se poi il mondo fosse davvero solo un gioco dovremmo
comunque sforzarci di comprenderne le regole e lo scopo, «a reason in the All-
Wisdom that makes the play significant and intelligible»72.
In un’altra visione il principio del mondo potrebbe essere concepito come un
Caos dal quale l’ordine sia emerso accidentalmente o più radicalmente come un Caos
puro e semplice in cui non si dà essenzialmente nessun tipo di ordinamento, se non
quello inventato come artificio o proiezione dell’intelletto o dei sensi ai fini della

69 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 811.
70 Ibid., p. 674.
71 Ibid., p. 424.
72 Ibid., p. 425.

138
sopravvivenza e dell’adattamento ambientale umani – come giustapposizione
arbitraria ed astratta della ragione sul fondamento infondato del reale. Senza scartare
o confutare tali ipotesi Aurobindo si limita ad affermare che tali elucubrazioni non
avranno termine fino a che non siano falsificate o convalidate da un’esperienza
spirituale fondamentale e integrale: unico giudice in materia di verità in grado di
uscire dalla ridda interminabile delle opinioni, attingendo ad una fonte di Conoscenza
suprema contro la quale nessuno scetticismo intellettuale ha mordente. «All opinions
about the origins of things become of an equal force, since all are equally valid or
invalid; for all become equally possible where there is no sure starting-point and no
ascertainable goal of the revolutions of the becoming»73. Il problema in questo caso è
che Aurobindo non mostra di poter appellarsi a decisive esperienze yogiche per
sostenere una posizione evoluzionistica, il che degrada la sua impostazione ad un
livello dossologico non fondamentato su un terreno empirico.
Più consistente l’obiezione metafisica avanzata all’evoluzionismo che sostiene
il Divino essere talmente perfetto, completo e soddisfatto della propria infinità
onnipotente da non necessitare di alcuna esteriorizzazione emanativa. L’integrale
Brahman non potrebbe certo avere bisogno di un progresso evolutivo, dato che
altrimenti tale carenza invaliderebbe l’infinitezza del suo essere e lo declasserebbe al
rango di ente finito desiderante, nella propria costitutiva imperfezione, un’espansione
energetica o coscienziale. Il maestro non può che prendere atto della perfezione di
Brahman, asserendo che se l’Assoluto ha deciso di manifestarsi il senso profondo di
una tale creazione deve essere rinvenuto nella sua gioia – non mancando questi di
nulla nella propria natura onnicomprensiva. Tuttavia l’idea di un’evoluzione
nell’universo materiale non intaccherebbe minimamente il carattere integrale del
Divino né andrebbe ad aggiungere, ciò che per definizione è impossibile, nuove
proprietà, qualità o attributi all’Onnipresente ma proporrebbe più umilmente solo
l'espressione della totalità divina in una sua parte: il cosmo non rappresenta infatti
che una porzione dell’Origine e non pretende, panteisticamente, di esaurire la sua
infinità. Oppure si tratterebbe del compimento di uno scopo, da sempre già
raggiunto dal Brahman, nella manifestazione quale riflesso terreno dello splendore

73 Ibid., p. 590.

139
divino: «As the light of a star reaches the earth hundreds of years after the star has
ceased to exist, so the event already accomplished in Brahman at the beginning
manifests itself now in our material experience»74; la più volte menzionata facoltà
brahmanica di molteplicità coscienziale simultanea chiarirebbe poi in che senso sia
possibile la coesistenza della divina perfezione e dell’umana imperfezione.
Ma consideriamo ora fino a che punto sia convincente la prospettiva
evoluzionistica aurobindiana in sé e quali siano le argomentazioni a sostegno della sua
intrinseca validità di là da confronti con cosmovisioni altre – dai quali è sempre fatta
risultare vincitrice. Iniziamo con il considerare la supposta necessaria evoluzione
futura dell’uomo oltre i confini mentali. Il maestro argomenta che, se la Materia
conteneva in sé involuto il principio superiore della Vita che ha poi trovato
manifestazione e se la Vita racchiudeva nella propria interiorità la possibilità di
un’emergenza mentale poi effettivamente formulatasi con l’apparizione della razza
umana, la Mente – stante un principio di continuità evolutiva non dimostrabile –
necessariamente custodisce in sé latenti principi dell’Essere ancora superiori.

we accept the Vedantic solution that Life is already involved in Matter and Mind in Life because in
essence Matter is a form of veiled Life, Life a form of veiled Consciousness. And then there seems to
be little objection to a farther step in the series and the admission that mental consciousness may itself
be only a form and a veil of higher states which are beyond Mind75

Una pretesa deduzione che in effetti non è altro che una debole congettura
sull’avvenire dell’umanità – e che ricade peraltro sotto quella critica humiana della
causalità che Aurobindo sembra conoscere bene: «in fact what we call cause may very
well be only circumstance»76. Se il Divenire naturale ha fino ad oggi seguito il
processo e la legge d’azione di un’emergenza di nuovi principi dell’Essere
segretamente involuti negli enti non è possibile inferire necessariamente la continuità
di una tale procedura abitudinaria per la costitutiva imprevedibilità della sua futura
azione. Più avanti, seguendo lo stesso percorso logico ma non pretendendo di aver
provato alcunché, il maestro ridimensiona la portata della propria argomentazione

74 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XII, Essays Divine and Human, p. 465.
75 Ibid., p. 5.
76 Ibid., p. 532.

140
parlando del passato evolutivo solo come di un indizio (clue) della successiva tappa
del Divenire: «What is, is the realisation of an anterior potentiality; present
potentiality is a clue to future realisation»77.
Rapito dall’estasi di Ānanda talvolta Aurobindo si lancia in descrizioni ludiche
della manifestazione (la quale troverebbe la propria unica giustificazione nella
beatitudine del Divino) abbandonandosi a sublimi immagini poetiche le quali non
sono certo in grado di soddisfare uno sguardo complessivo sulla totalità dell’Essere e
che cozzano irrimediabilmente con le potenti verità della sofferenza, del male e della
menzogna – così irrimediabilmente tragiche e dilaganti nel nostro grado coscienziale.

if we look at World-Existence rather in its relation to the self-delight of eternally existent being, we
may regard, describe and realise it as Lila, the play, the child’s joy, the poet’s joy, the actor’s joy, the
mechanician’s joy of the Soul of things eternally young, perpetually inexhaustible, creating and re-
creating Himself in Himself for the sheer bliss of that selfcreation, of that self-representation78

Ma se l’unico fine della manifestazione è la gioia della manifestazione stessa –


«there is no other significance of life than the will of the Being to become [...] its
delight of becoming»79 – si sarebbe potuta evitare una presenza così massiccia del
male nel mondo. Si rovescia qui sullo stesso Aurobindo la critica da questi formulata
contro il teismo e le sue insoddisfacenti teodicee, nella piena consapevolezza
antileibniziana che il nostro, per l’ampia e ineluttabile realtà della sofferenza, è uno
dei peggiori mondi possibili:

A play? But why this stamp of so many undivine elements and characters in the play of One whose
nature must be supposed to be divine? [...] God could well have had better thoughts and the best
thought of all would have been to refrain from the creation of an unhappy and unintelligible
universe80

Un’interpretazione teleologica lineare potrebbe essere accolta anche entro i


confini di una rappresentazione del mondo quale līlā dell’Onnipresente, unicamente

77 Ibid., p. 62.
78 Ibid., p. 111.
79 Ibid., p. 695.
80 Ibid., p. 317.

141
significante l’espressione e la soddisfazione del divino Ānanda, poiché anche un
gioco può contemplare un ordine regolato e una meta da realizzare. Una concezione
contraria all’estatica danza di Śiva traente diletto dai suoi propri movimenti armonici
e disarmonici, noncurante di qualsivoglia fine predeterminato o cammino
progressivo, semplicemente pago del suo imprevedibile fluire, imparzialmente
gioioso nella creazione e nella distruzione. «All exists here, no doubt, for the delight
of existence, all is a game or Lila; but a game too carries within itself an object to be
accomplished»81: una scelta pienamente legittima ma non certo integrale, in quanto
incapace di ricomprendere in sé la possibilità di un insensato eppur gioioso flusso di
eventi non rigidamente regolati da ferree ed uniformi leggi – la quale non potrebbe
essere negata all’operare sovracosciente dell’Infinito. Inoltre la proposta teleologica
aurobindiana, seppur non possa essere scartata in una visione abbracciante infinite
potenzialità manifestative, non assicura in alcun modo (né mai si sforza di
argomentare) quei caratteri di necessità e inevitabilità ripetutamente attribuiti
all’evoluzione spirituale: riesce al massimo nel porsi al fianco di prospettive
metafisiche altre le quali possono pretendere ad un medesimo valore filosofico –
lasciando scetticamente in sospeso il giudizio sul senso della manifestazione o, in una
visione più ampia e davvero integrale, accogliendo tutte le possibili impostazioni
filosofiche della questione come visioni parziali del mondo simultaneamente valide.
Aurobindo deve, coerentemente all’immagine del Divino da lui sostenuta,
riconoscere le infinite potenzialità di manifestazione latentemente contenute in
Satcitānanda e dunque in ogni ente (non essendo questi altro che una sua diretta
emanazione). Ma il maestro si permette di affermare, ingiustificatamente e privo del
supporto e di una logica infinita e di una decisiva realizzazione spirituale, la
subordinazione di ogni tensione energetica ad un unico τέλος predeterminato e
inevitabile – aggettivi evidentemente utilizzati con eccessiva leggerezza e troppo
frequentemente, tanto da ricordare gli abusi kantiani dell’allgemeingültige – quale legge
superiore di Vidyā fin troppo razionale e umana nella sua forma e nel suo processo,
indirizzata ad un fine unico del Divenire cosmico (in una tale impostazione davvero
un divenire e non più soltanto un accadere). «Therefore every seed of things implies

81 Ibid., p. 867.

142
in itself all the infinity of various possibilities, but is kept to one law of process and
result [...] by the Knowledge-Force of the Conscious-Being who [...] predetermines
[...] his own forms and movements»82. Considerata l’assoluta libertà emanativa
attribuita al Divino non si capisce a quale verità logica o esperienziale il maestro
possa appigliarsi nel sostenere fermamente un’indebita mutilazione delle infinite
possibilità manifestative dell’Infinito entro le nette demarcazioni di un’evoluzione
spirituale: di contro una concezione di integralità armonica si sforzerebbe di
conciliare in un senso davvero divino e quindi sovrarazionale la coesistenza
simultanea di scopi divergenti – e anche dell’assenza di scopo – in un mondo
complesso pienamente rispondente alla multilateralità unitaria di Brahman.
Mascherando le debolezze filosofiche di una tale prospettiva talvolta
Aurobindo semplicemente rifiuta di fornire una legittimazione all’evoluzionismo,
proponendo pretestuosamente un’autogiustificazione del divino operare e pur nella
consapevolezza del fatto che un’evoluzione spirituale rappresenti solo una delle
indefinite configurazioni possibili della manifestazione. «A possibility was there in the
Infinite and outlined itself for manifestation, the lines of an evolutionary world [...]
To the Cosmic Spirit which sees things as a whole, the working out of this universe
or any universe is self-justified»83. Talaltra ammette schiettamente l’eccessiva
parzialità della propria prospettiva nel delineare il senso complessivo dell’esistenza,
alludendo alla validità di metafisiche altre dall’evoluzionismo e alla possibilità di
organizzazioni differenti della divina līlā: «a sole material universe and an evolution
there out of inconscience into spiritual consciousness cannot be the one solitary and
limited possibility of manifestation of the All-being»84. Infine, scoprendo le carte, il
maestro afferma di propugnare l’evoluzionismo in quanto unica possibile soluzione
capace di riempire di senso l’esistenza, terreno sul quale ogni altra metafisica ha
fallito o perlomeno dimostrato gravi limiti. Una scelta obbligata, dunque, anche se
non completamente soddisfacente: il che non implica affatto la verità o l’esclusiva
applicabilità alla realtà di una tale teoria ma solamente la sua migliore capacità di
placare le esigenze mentali nell’essenziale equipollenza alle restanti opinioni

82 Ibid., p. 137.
83 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XII, Essays Divine and Human, pp.
224-225.
84 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 800.

143
sull’origine e la natura del mondo. Un calmante dell’umana aspirazione alla scoperta
del senso delle cose, non una soluzione reale dell’enigma dell’universo: «A spiritual
evolution, an evolution of consciousness is the inner fact which alone illumines the
problem of earth existence and opens to it its true solution; apart from it our life here
has no intelligible significance»85.
L’evoluzionismo spirituale aurobindiano è essenzialmente deterministico, un
processo che non lascia nulla al caso e in cui ogni evento è prevedibile con largo
anticipo, deciso addirittura nei più minuti particolari ad ogni istante. Questo potrebbe
essere considerato un riflesso necessario dell’onniscienza divina ma cozza
irrimediabilmente con la libera e varia espressività dell’Infinito configurandosi
secondo i parametri eccessivamente semplificati di una progressione univoca: «from
the beginning the whole development is predetermined in its self-knowledge and at
every moment in its self-working»86. Non si comprende donde possa derivare la
necessità di un percorso ascensionale del Divino, senza con ciò voler negare la
possibilità di un tale movimento. Brahman avrebbe potuto decidere di negare se
stesso divenendo finito nell’assumere forme materiali senza perciò stabilire un
progresso a ritroso dell’universo intero verso la sua originaria perfezione: una tale
possibilità permetterebbe, tra l’altro, una più convincente integrazione del finito in
quanto tale nel tessuto divino, laddove l’evoluzionismo sembra spostare la pienezza
di senso degli enti ad un futuro indefinito nel quale la Supermind avrà preso le redini
della manifestazione naturale. Tra le ulteriori potenzialità teofaniche Aurobindo
stesso ammette la possibilità di varie organizzazioni del mondo, elencando una
realizzazione immediata dello Spirito priva degli ostacoli autorealizzativi costituiti
dalle tre sfere inferiori dell’Essere; un universo di esseri molteplici da sempre e per
sempre consci dell’intima unità reciproca e della profonda identità con il Divino – e
dunque perennemente felici; infine una manifestazione nella quale il principio
supermentale risulti dominante sin dalle prime fasi dell’evoluzione dirigendo un
rapido e gioioso progresso nella Conoscenza in grado di evitare i dolorosi lacci
dell’Ignoranza.

85 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XII, Essays Divine and Human, p. 242.
86 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 142.

144
Molti gli indizi o le allusioni del maestro ad un ridimensionamento del valore
centrale della prospettiva evoluzionistica, che potrebbero condurci ad
un’interpretazione meno critica della sua impostazione filosofica. Non avremmo
infatti nulla da obiettare all’evoluzione spirituale se questa si autorappresentasse quale
una delle infinite possibilità ontofaniche e se Aurobindo si limitasse a proporre o
auspicare un progresso umano ad una vita divina, sforzandosi esclusivamente di
convincere l’umanità della nobiltà di questo ideale, del grado massimo di potere e
felicità che una tale scelta potrebbe arrecare di contro a sentieri meno consoni al
supremo anelito umano al Divino, ai più alti e sacri desideri della nostra anima. Ma
tradurre in verità filosofica e in realtà cosmica un messaggio di speranza, un ideale
realizzativo – sostenuto da determinanti esperienze yogiche – rappresenta un eccesso
del tutto ingiustificato e incapace di reggere ad una critica seria. «A divine Life in the
manifestation is then not only possible as the high result and ransom of our present
life in the Ignorance but [...] it is the inevitable outcome and consummation of
Nature’s evolutionary endeavour»87.
Nei rari casi in cui il maestro si degni di concedere una positiva
giustificazione filosofica alla concezione evoluzionistica spiace registrare, considerata
l’ammirevole acutezza di un intelletto illuminato e sottile, una soluzione che rasenta il
ridicolo. Il Divino avrebbe manifestato un mondo evolutivo per il piacere di giocare
a nascondino con se stesso, per la gioia del celarsi e del ritrovarsi nel godere
dell’avventura duale della manifestazione, della ricerca e della lotta, della disfatta e
della vittoria88: ma questi sono desideri esplorativi rispecchianti piuttosto la natura
della mente vitale e il tipo psicologico rajasico che non un divino senso dell’esistenza,
superiore all’umana immaginazione.

The only question is the reason why this kind of progressive manifestation was itself necessary; [...] a
play of self-concealing and self-finding is one of the most strenuous joys that conscious being can give
to itself, a play of extreme attractiveness. [...] There is an attraction in ignorance itself because it
provides us with the joy of discovery, the surprise of new and unforeseen creation, a great adventure

87Ibid., p. 304.
88Cfr. «Evolution, thus, is a sort of home-sickness of the Spirit», Susil K. Maitra, The Meeting of the East
and the West in the Philosophy of Śrī Aurobindo, op. cit., p. 311.

145
of the soul; there is a joy of the journey and the search and the finding, a joy of the battle and the
crown, the labour and the reward of labour89

Nella consapevolezza della fragilità e delle insufficienze filosofiche connesse


all’evoluzionismo, poche righe più avanti, il maestro sembra ritrattare l’esagerazione
di una tale affermazione suggerendo come l’evoluzione spirituale rappresenti solo
una fra le tante possibilità (a possibility) di manifestazione del Divino, lasciando il
terreno metafisico aperto ad ulteriori – e veritativamente equivalenti, cioè
semplicemente opinabili – soluzioni. «If the Infinite’s right of various self-
manifestation is granted, this too as a possibility of its manifestation is intelligible and
has its profound significance»90. Oltre alla metafora del nascondimento brahmanico
Aurobindo parla di un Infinito dimentico di sé progrediente alla propria
reminiscenza, in un cammino di riscoperta della propria vera natura susseguente allo
sprofondamento nell’abissale oblio dell’incoscienza: un’anamnesi che potrebbe
veicolare una qualche profonda verità esistenziale forse nel caso di una coscienza
umana costretta nelle pastoie di Avidyā ma che non si addice di certo al supremo Cit.
«Sachchidananda, involved by one of His lower movements in the self-oblivious
absorption of Force [...] returns towards Himself out of the self-oblivion»91. Un
Divino che si autoinfligga un’amnesia scaraventandosi in un mondo di tremenda
sofferenza al fine di gioire dell’avventurosa riscoperta di sé sembra un’immagine
alquanto perversa di un Brahman masochista in grado di provare piacere nella
malattia e nella convalescenza – la proiezione di una troppo umana patologia
psichica. «That purpose for which all this exclusive concentration we call the
Ignorance is necessary, is to trace the cycle of selfoblivion and self-discovery for the
joy of which the Ignorance is assumed in Nature by the secret spirit»92.
Che l’evoluzione spirituale non rappresenti l’interezza della manifestazione è
facilmente deducibile dal fatto che solo all’umanità sarà aperta la possibilità di

89 Ibid., pp. 426-427.


90 Ibid., p. 427.
91 Ibid., pp. 124-125.
92 Ibid., p. 612. Vedi anche: «the perfect evolution of the involved and development of the

undeveloped for which the Purusha has sought in the material universe, as if in a wager with itself, the
conditions of the greatest difficulty»,
 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll.
XXIII-XXIV, The Synthesis of Yoga, p. 456.


146
un’elevazione alla vita divina, laddove il resto del cosmo – non solo gli oggetti
materiali ma pure la vita vegetale e animale nel suo complesso, più o meno cosciente
e intelligente – sarà condannato ad una stasi eterna nei gradini inferiori della scala
dell’Essere. Rafforzano una tale lettura le ripetute dichiarazioni aurobindiane volte a
sottolineare una scarsa probabilità di un’elevazione in blocco dell’intera razza umana
al livello supermentale – anzi talvolta limitata ad una minoranza di individui eccelsi
laddove la massima parte dell’umanità stazionerà indefinitamente, allo stesso modo
delle specie a lei inferiori, nella propria sfera ontologica. Un’unica affermazione
ambigua, isolata e contraddetta da numerose altre formulazioni permette di
immaginare un percorso progressivo al Divino da parte degli enti subumani al
momento dell’effettiva discesa della Supermind nella manifestazione terrestre – e
dunque contemporaneamente all’apparizione dei primi esseri gnostici: «even the
world of ignorance and inconscience might discover its own submerged secret and
begin to realise in each lower degree its divine significance»93. Tuttavia, dato che il
maestro non fornisce ulteriori indicazioni sulle modalità di attingimento di un
significato divino da parte del mondo materiale e vitale, non ci è permesso avanzare
un’interpretazione univoca e convincente del passo: dobbiamo intenderlo nel senso
di una trasformazione progressiva, di vita in vita, del metallo o della pietra in animale
e di questi in animale umano sino alla culminazione nell’essere gnostico o piuttosto in
un cammino sorretto da modalità peculiari di trasformazione spirituale e di
attingimento del Divino, con il vario proliferare di sempre nuove vie ātmiche alla
realizzazione di sé? Più comunemente Aurobindo presenta un’immagine dell’avvenire
del mondo quale manifestazione plurale non rigidamente vincolata al principio
evoluzionistico in cui alcuni enti conosceranno un arresto evolutivo mentre altri
proporranno sviluppi intermedi tra un’esistenza ignorante e un’esistenza gnostica:

the gnostic manifestation would be a circumstance, though a decisive circumstance, in the whole:
there would be a continuance of the lower degrees of the consciousness and life, some maintaining
the manifestation in the Ignorance, some mediating between it and the manifestation in the gnosis94

93 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 998.
94 Ibid., p. 1048.

147
Volendo tirare le somme sul valore filosofico della prospettiva evoluzionistica
aurobindiana si deve procedere, sulla base di un puntuale riscontro testuale e non di
arbitrarie illazioni, ad un progressivo ridimensionamento dell’universalità della
proposta comprendendo come il processo evolutivo investa non il cosmo nella sua
interezza ma soltanto un minuscolo pianeta collocato in un braccio periferico di una
fra le miliardi di galassie. E neppure tale pianeta in tutta la sua varietà ma
essenzialmente solo una fra le migliaia di specie viventi qui apparse. E neanche tale
specie in ogni suo elemento ma solamente alcuni individui eccezionalmente elevati
spiritualmente appartenenti ad essa: con quale sconsiderata audacia la teoria
evoluzionistica potrebbe dunque pretendere ad una validità universale, totalizzante e
integrale nel suo sforzo di donazione di un senso complessivo al divenire cosmico?
Forse la causa di un’insistenza così ferma sull’evoluzione è da ricercarsi nell’indubbio
valore pratico, cioè realizzativo, esistenziale e yogico della proposta: con ciò il vero
motivo dell’adozione di una tale cosmovisione da parte di Aurobindo sarebbe
ricondotto direttamente alla sua attività di maestro spirituale e innovativo yogi, senza
però che una possibilità trasformativa in senso divino dell’essere umano mentale
possa legittimare l’indebita estensione del cammino spirituale umano alla complessità
dell’universo manifestato – filosoficamente inaccettabile e pure malamente
argomentata. Il mistero del mondo resta lì dov’è, il suo senso segreto è ancora celato
ai nostri occhi: «the system we have chosen is of the greatest value because it is
fundamental and answers to a truth of the manifestation which is of the utmost
practical importance»95. Si noti come il maestro stesso ritenga che l’evoluzionismo
possa rispondere ad una verità (a truth) della manifestazione e non ad ogni sua verità,
cioè alla molteplice e unitaria Verità infinita: potremmo dedurne che il motivo della
scelta di un’impostazione teorica evoluzionistica si riduca ad una strategia filosofica,
alquanto capziosa e ingannevole, volta a persuadere i lettori sulla necessità della
pratica pūrṇa yogica. Così la prospettiva aurobindiana, perlomeno limitatamente al
suo aspetto evoluzionistico, subirebbe un ridimensionamento assiologico analogo a
quello operato dallo stesso maestro sul Sāṁkhya96.

95Ibid., p. 815.
96Un ulteriore indizio in questo senso potrebbe essere letto nell’esclusiva verificabilità yogica, ossia
pratica, dei fondamentali assiomi teorici aurobindiani. Analogamente potremmo considerare le

148
Una parzialità prospettica che è infine ammessa dal maestro stesso, il quale
giunge a ridurre drasticamente la portata di un’evoluzione non ragionevolmente
proiettabile sull’intero della manifestazione materiale ma più plausibilmente limitata
all’emergenza del supercosciente in un numero relativamente ridotto di esseri in
grado di concepirsi quali porzioni dell’Essere eterno e di trasformarsi a immagine e
somiglianza di Quello.

A question might arise whether the gnostic reversal, the passage into a gnostic evolution and beyond it
would not mean sooner or later the cessation of the evolution from the Inconscience [...] The latter
supposition is difficult to accept because of the tremendous force of pervasiveness and durability with
which the inconscient foundation has been laid for the whole material universe. Any complete reversal
or elimination of the first evolutionary principle would mean the simultaneous manifestation of the
secret involved consciousness in every part of this vast universal Inconscience; a change in a particular
line of Nature such as the earth-line could not have any such all-pervading effect97

In questa estrema improbabilità, per non dire impossibilità, di una cessazione


del processo evolutivo in un futuro nel quale tutta l’inerte materia sarà stata
trasformata dalla luce gnostica e avrà riscoperto la propria divina natura e
nell’irrazionalità di una riduzione della libera varietà dei movimenti cosmici e delle
possibilità manifestative del Divino ad un senso progressivo univoco98 dobbiamo
leggere la riflessione conclusiva e definitiva del maestro sul valore filosofico di una
prospettiva evoluzionistica. La sua ultima parola sul tema è autodistruttiva di una
giustificazione del cosmo palesemente insoddisfacente da un punto di vista teorico
eppure estremamente preziosa a livello esistenziale – poiché non potremmo che
inchinarci dinanzi all’altissimo ideale di una trasformazione terrena dell’esistenza
umana in una vita divina, rilucente dei poteri e delle facoltà dell’Onnipresente.

concezioni della discesa devolutiva e del tuffo involutivo nella materia del Divino quali stratagemmi
filosofici utili a dimostrare la possibilità o necessità dell’evoluzione ascendente, se ogni elemento
spirituale contenuto latentemente nel Nesciente dovrà trovare nuovamente esplicitazione.
97 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 1049.
98 Si consideri in questo senso anche il seguente monito di Aurobindo: «Voi parlate come se

l’evoluzione fosse l’unica creazione; la creazione o manifestazione è vastissima e contiene molti piani e
mondi che esistevano prima dell’evoluzione, tutti di carattere diverso e con diversi tipi di esseri», da
una lettera ad un discepolo, citata da Georges Van Vrekhem, Oltre la Specie Umana, op. cit., p. 124.

149
Capitolo Quarto

L’enigma del male

What need had the soul of ignorance and tears?


Whence rose the call for sorrow and for pain?
Or all came helplessly without a cause?1

Difficoltà tra le più ardue che l’impostazione metafisica teofanica di


Aurobindo si trovi ad affrontare, mistero incomprensibile all’intelletto e alla
sensibilità umani entro un sistema filosofico che pretenda porre un divino principio
d’armonia e d’ordine sovracoscienti nel tessuto della manifestazione mondana,
l’innegabile esistenza e pervasività del male – «enigma of the dusk of God»2, «The
mystery of God’s covenant with the Night»3 – rappresenta un nodo
fondamentalmente insolubile e dal lato teoretico e dal punto di vista esperienziale
anche per una filosofia advaita integrale di ampie vedute, moderna e capace di
risolvere problematiche ostiche, aporie e antinomie insormontabili alla mente logica.
Colmato il mondo di un divino Senso sovrarazionale e posto Brahman quale origine,
sostegno, sostanza e scopo degli enti finiti non sembra certo agevole – se non
addirittura possibile – rinvenire una giustificazione convincente della necessità teorica
ed esistenziale del male.
Sulla spinosa tematica del male teologi dei più vari orientamenti hanno
profuso per secoli le loro energie intellettuali senza tuttavia poter pervenire ad una
qualche spiegazione persuasiva o attualmente accettabile con l’erezione di teodicee
rassicuranti, compiaciute e ottimistiche quanto prive di mordente su una realtà
profondamente misteriosa eppure incontrovertibilmente tangibile e persistente. Ad
oggi l’annosa questione del male si ripresenta in modo perentorio all’attenzione

1 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXXIII-XXXIV, Savitri, Libro V,
Canto II, vv. 165-167, p. 441.
2 Ibid., Libro I, Canto II, v. 253, p. 18.
3 Ibid., Libro I, Canto V, v. 58, p. 75.

150
filosofica susseguentemente ai drammi conosciuti dalla storia del Novecento (la shoah
e le tragedie dei due conflitti mondiali su tutti) neutralizzando soluzioni
semplicistiche tese alla deontologizzazione del fenomeno del male e pretendendo una
radicale reimpostazione del problema in grado di rispondere a quel potente simbolo
di affermazione delle forze oscure che è Auschwitz: un evento che ha determinato la
rivoluzione della teologia protestante4 e per il quale non si è potuta trovare soluzione
migliore alla rinuncia di comprensione professata da filosofie pessimistiche e
nichilistiche quali quelle di Dostoevskij e Nietzsche – nell’accettazione del male puro
in sé, di là da redenzioni ed escatologie.
Non volendo arrendersi a tali tragici esiti filosofici, i quali trovano più
agevolmente spazio in una speculazione ontologicamente dualistica o ponente
all’origine del mondo un caotico Nihil di nonsenso che non in una metafisica advaita
tesa a tutto divinizzare, Aurobindo si sforza di argomentare variamente – e spesso
piuttosto goffamente – la necessità del male tentando di chiarificarne l’enigma da una
prospettiva sovracosciente eppure accettabile e comprensibile all’ordinaria
razionalità. Quale sottotema nella giustificazione del processo involuzionistico-
evoluzionistico l’esistenza del male è fatta discendere dal tuffo del Divino
nell’Ignoranza: radice di un egoismo dualistico, separativo e conflittuale dal quale
dipenderebbero i fenomeni di male, dolore, imperfezione, errore, insoddisfazione,
falsità e ingiustizia che angustiano e rendono talvolta intollerabile la nostra esistenza.
Seguendo molteplici tracce di giustificazione, piuttosto disparate e incapaci di
attaccare direttamente il cuore e il nucleo profondo della problematica, Aurobindo
tenta di rendere conto del senso del male quale strumento di crescita e
perfezionamento dell’uomo, perversione dell’originario e onnipresente Ānanda, bene
minore alla luce di un imperscrutabile progetto divino ridimensionandone la portata
da vari lati. Così la sofferenza fisica deriverebbe da un’incapacità della coscienza
finita di interpretare nel giusto modo i gioiosi contatti con l’intensità energetica
divina leggendoli quali urti dolorosi; i concetti finiti di bene e male sarebbero
transitori, condizionati da un particolare ambiente e temperamento culturali; la
Natura non conoscerebbe distinzioni fra bene e male in una suprema imparzialità

4 Si consideri ad esempio l’opera di Hans Jonas, Il Concetto di Dio dopo Auschwitz, trad. it. di C. Angelino
e M. Vento, Genova, il Melangolo, 19932.

151
indifferente al destino degli enti; lo stadio etico dell’umanità rappresenterebbe solo
una fase inferiore di evoluzione propedeutica all’attingimento del Bene supremo;
Avidyā quale fonte del male non sarebbe che un potere di concentrazione frontale del
Divino di natura parziale e temporanea, non originaria ed eterna.
Oltre tali limitate e insoddisfacenti elucubrazioni l’autentica e definitiva
risposta aurobindiana all’enigma del male deve essere rinvenuta in quell’elevazione e
allargamento coscienziali alla Verità spirituale i quali soli potrebbero, previa la
trasformazione della natura umana in un divino potere di coscienza, riconoscere la
segreta armonia dell’Essere dietro il velo di dolori e affanni – comprendere
l’ineluttabilità sovrarazionale e la finalità provvidenziale degli eventi più tragici e
ricondurre così il tormentato corso del mondo all’azione cosciente del Divino. Un
innalzamento dell’umanità alle sfere della mente spiritualizzata – antecedentemente
alla divinizzazione dell’umana natura, nei luoghi ultramentali dell’emisfero inferiore
dell’Essere – condurrebbe già alla definitiva scomparsa di guerre e conflitti di ogni
sorta: in questa fase si sarebbe oltrepassato quel principio coscienziale di divisione
ignorante ed egoista incapace di riconoscere l’essenziale unità del sé con l’alterità, le
infinitamente varie tensioni armoniche del cosmo e dei rapporti interpersonali o
interculturali. E tuttavia il problema del male persiste, poiché qui, nel mondo noto
all’ordinaria esperienza umana e alla coscienza mentale, le apologie del divino operare
non hanno presa alcuna e condannano l’umanità non ancora trasformata a immagine
del Divino al martirio di un’esistenza dilaniata da malattie, stragi, torture, mutilazioni,
oppressioni, schiavitù, stupri, morte: una vasta gamma di violenze fisiche e
psicologiche che attendono invano un divino senso e la possibilità di interpretare il
male altrimenti che mediante «il silenzio attonito o l’urlo disarticolato»5. È questo un
momento filosofico nel quale si palesa più che altrove l’incapacità aurobindiana di
preservare un valore o un senso divini per il finito in sé e per sé, nell’hic et nunc di
un’esistenza ignorante e limitata non ancora sveglia alla realtà sovracosciente
dell’Onnipresente – laddove le intenzioni di restituzione di valore all’esistenza terrena
nella sua concretezza immanente vorrebbero muoversi proprio in questo senso6.

5 Giangiorgio Pasqualotto, East & West, op. cit., p. 135.


6 Per un punto di vista diverso sul problema del male in Aurobindo cfr. Susil K. Maitra, The Meeting of
the East and the West in the Philosophy of Śrī Aurobindo, op. cit., Śrī Aurobindo and the Problem of Evil, capitolo

152
1. Il male in Brahman. Relatività e funzione della morale

Procedendo ad una disamina analitica del tema Aurobindo sottolinea


innanzitutto la realtà apparente o perlomeno temporanea del male («In God's
providence there is no evil, but only good or its preparation»7) in quanto destinata ad
un futuro dissolvimento ad opera dell’elevazione coscienziale umana al Divino – una
presunta inevitabilità evoluzionistica che abbiamo già avuto modo di contestare. In
seconda istanza il male è collocato in Brahman stesso. Una conclusione necessaria
dalla premessa dell’onnipervadenza del Divino, non potendo aspirare nel contesto di
una metafisica aduale e integrale ad una qualche consistenza ontologica un qualsiasi
principio altro da Quello che racchiude in sé ogni elemento dell’Essere, manifesto e
immanifesto: l’invenzione di Satana o Ariman viene così a dipendere esclusivamente
dalla parzialità mentale dualistica configurante un Dio di soli amore, bene e bellezza.
Brahman non è allarmato dal fenomeno del male che ospita in sé: al che si potrebbe
rispondere ‘Buon per lui!’, poiché tale consapevolezza non allevia minimamente la
nostra angoscia esistenziale.

The discord and apparent evil of the world must in their sphere be admitted, but not accepted as our
conquerors. [...] It is only our relative consciousness, alarmed or baffled by the phenomena of evil,
ignorance and pain in the cosmos, that seeks to deliver the Brahman from responsibility for Itself and
its workings by erecting some opposite principle, Maya or Mara, conscious Devil or self-existent
principle of evil. There is one Lord and Self and the many are only His representations and
becomings8

Satcitānanda sopporta con noi – cioè, su un piano spirituale o sovracosciente,


in sé, dato che gli enti non sono essenzialmente altro che frammenti dell’Essere – le
sofferenze del mondo, condivide con l’umanità il fardello del male, è presente nel

terzo, pp. 114-154. Limite fondamentale di quest'indagine – su questo come su ogni altro tema
concernente il maestro hindū – è la totale assenza di un momento critico: nota dolente della quasi
totalità degli studi apparsi ad oggi su Aurobindo che spiace registrare anche nell'opera del dotto e
intelligente professor Maitra (il quale non risparmia critiche lucide e taglienti ai maggiori filosofi
occidentali).
7 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XII, Essays divine and Human, p. 447.
8 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, pp. 35-36.

153
malato e nel ferito, vittima egli stesso del dolore di cui è scaturigine9.
Un'argomentazione che, distaccandosi dalla concezione di una Divinità extracosmica
beata nel suo proprio isolamento indifferente alle vicende della manifestazione e da
un Dio teisticamente caritatevole e provvidenziale ma sempre ontologicamente altro
dalle sue creature, pretenderebbe di risolvere in buona parte il problema del male: ma
in effetti essa non offre conforto alcuno alla nostra sofferenza, aggiungendo anzi
un’ulteriore tinta di masochismo all’immagine del Divino e spegnendo ogni speranza
ultraterrena di superamento del dolore. «Sachchidananda of the Vedanta is one
existence without a second; all that is, is He. If then evil and suffering exist, it is He
that bears the evil and suffering in the creature in whom He has embodied
Himself»10. Asserzione quest'ultima necessitata dalla logica di un Infinito resosi finito
e molteplice, calatosi nell’immanenza, che rende certamente conto di come il male sia
potuto entrare a far parte della manifestazione – ciò che è inspiegabile nei
monoteismi configuranti Dio con soli attributi positivi di benevolenza e amore – ma
che non indaga il senso profondo di una scelta divina così terribile esistenzialmente o
fornisce una risposta evoluzionistica davvero troppo fragile. Brahman ha ammesso,
per propria decisione ma con un imprecisato movente, la nascita, lo sviluppo e la
duratura proliferazione delle forze del male e delle tenebre: poteri dipendenti dal
divino imperscrutabile disegno e non assolutamente liberi di effondere la propria
perversa azione in piena autonomia – cosa che non rende tuttavia il male
umanamente meno tragico o insopportabile.

It is not impossible to concede that the supreme and immanent Divinity may leave a certain freedom
of working to [...] Forces of darkness and evil [...] But none of these things are independent of Its own
existence, nature and consciousness and none of them can act except [...] by Its sanction11

Di varia natura le critiche mosse agli intendimenti morali di perfezionamento


dell’umanità, in un quadro complessivamente ridimensionante l’apporto dello sforzo
etico alla comprensione della natura profonda del bene e del male e alla possibilità di

9 «To live with grief, to confront death on her road,— / The mortal’s lot became the Immortal’s
share», Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXXIII-XXXIV, Savitri, Libro
I, Canto I, p. 7.
10 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 102.
11 Ibid., p. 416.

154
un’effettiva divinizzazione della coscienza umana, eppure in grado di rintracciare un
ruolo temporaneo ma insostituibile alla moralità nel cammino spirituale dell’umanità.
L’insistenza etica sulla fuga dal peccato e il continuo ricorso all’espediente
psicologico del senso di colpa vorrebbero eliminare il male ad ogni costo ed in ogni
sua declinazione: ma questo potrebbe decurtare la realizzazione integrale da
potenzialità in apparenza non divine che acquisterebbero un valore prezioso ad un
livello supercosciente. Il male, perlomeno nella formulazione limitante datane da una
coscienza finita, non è da rifuggirsi ad ogni costo ma va accolto quale elemento
inferiore dell’Essere suscettibile di una trasformazione in senso spirituale grazie al
percorso di ascesa al Divino.

It would be, then, not when he has excised the evil in Nature out of himself by an act of moral surgery
[...] but when he has turned Death into a more perfect life, [...] transformed suffering into beatitude,
converted evil into its proper good, translated error and falsehood into their secret truth that the
sacrifice will be accomplished12

Limite fondamentale dell’etica è l’intento di ridurre il Divino alle concezioni


relative e troppo umane di bene e amore, un’indebita diminuzione delle potenzialità
dell’Infinito a immagine della finitezza umana. La morale non è in grado di rendere
integralmente conto dell’esistenza: il mondo materiale e vitale è essenzialmente non
etico o perlomeno configurato secondo parametri non universalizzabili di bene e
male dipendenti da un egoismo affermantesi a spese dell’altrui esistenza. A questi
livelli dell'Essere tutto ciò che è ottenuto come soddisfazione del desiderio e
dell’impulso acquista immediatamente un valore positivo e di contro tutto ciò che
minaccia l’essere vivente assume un valore negativo, a prescindere da considerazioni
di ordine sociale o spirituale nel puro gioco dell’appagamento e della frustrazione
degli istinti.

We have to recognise, if we thus view the whole, not limiting ourselves to the human difficulty and
the human standpoint, that we do not live in an ethical world [...] Material Nature is not ethical [...] We

12 Ibid., p. 54.

155
do not blame the tiger because it slays and devours its prey any more than we blame the storm
because it destroys or the fire because it tortures and kills13

L’universo materiale non conosce la dualità di bene e male nemmeno nei


termini limitati e fuorvianti di una coscienza animale superficiale ed egoista,
mantenendosi in una sfera di perfetta indifferenza e imparzialità morali. Il fuoco può
bruciare o scaldare l’uomo senza essere implicato in una valutazione di responsabilità
morale: un’azione imparziale e non benevola o maligna se non in relazione alle
considerazioni umane – che tuttavia leggono più ragionevolmente le relazioni con il
mondo della materia nel senso di lezioni esperienziali di adattamento o strumenti di
conoscenza della Natura piuttosto che proiettando sull’inanimato categorie mentali
estranee a un tale grado dell’Essere. «The world of pure Matter is neutral,
irresponsible; these values insisted on by the human being do not exist in material
Nature: as a superior Nature transcends the duality of good and evil, so this inferior
Nature falls below it»14. Non avendo ancora conosciuto il fenomeno morale la
Materia si pone ad un grado infraetico di indifferenza al bene e al male ben diverso
dall’imparzialità consapevole di una supercoscienza che sia passata attraverso il
dualismo etico e l’abbia poi superato trasfigurando bene e male in un ordine più
vasto e armonico di espressione veritativa e sovraetica dell’Essere.
Con l’emergenza del fenomeno vitale entra nel mondo un primo abbozzo di
distinzione fra bene e male puramente egoistico, dove bene è l’appagamento dei
bisogni vitali, male ciò che contrasta la conservazione o l’espansione della vita: «in
animal life there is no duality of sin or virtue, all action is neutral and permissible for
the preservation of life»15. Non ancora un giudizio morale in senso vero e proprio,
cioè umano, visto che la morale è antropologica e non ontologica. Un’imparzialità
amorale nei confronti degli eventi dell’esistenza è inoltre rintracciabile in vari equilibri
coscienziali: nell’amorfa materia come nella neutralità distaccata e avalutativa della
ragione scientifica e filosofica (ivi compresi il tattva hindū e il tathata buddhista oltre
al mito positivistico dell’Occidente); nella Verità sovrarazionale che accoglie tutto
imparzialmente (la nietzscheana affermazione dionisiaca) e anche nella karuṇā

13 Ibid., p. 103.
14 Ibid., p. 629.
15 Ibid., p. 630.

156
mahāyānica che, pur ponendosi al di là della morale, presta il suo aiuto
compassionevole agli esseri sofferenti. Al livello mentale la morale assume vari gradi:
dal giudizio vitale egoistico ancora fondamentalmente legato a quel passato evolutivo
animalesco che alberga nell’uomo («all that is pleasant, helpful, beneficial to the life-
ego is good, all that is unpleasant, malefic, injurious or destructive is evil»16); alla
moralità pubblica che estende il proprio campo d’indagine alla valutazione degli atti
socialmente meritori o deplorevoli; alla moralità filosofica che introduce leggi
universali e principi d’azione razionali nel tentativo troppo rigido di fornire una
regola comportamentale fissa – generando per un’eccessiva schematizzazione le più
grandi confusioni e incertezze nelle complesse e sfumate situazioni concrete. Infine
la moralità ispirata e intuitiva dell’essere psichico («the soul’s discernment, an inborn
light within our nature»17), in grado di cogliere spontaneamente la verità e di agire in
favore del bene seguendo gli interiori dettami animici e non gli artifici e i costrutti del
mentale o le sue leggi morali presunte universali.
Incurabilmente relativistiche, le concezioni umane di bene e male si
confinano nella loro intrinseca limitatezza ad uno spazio di validità storicamente
determinato, transeunte o addirittura soggettivistico: trovano configurazioni
differenti e talvolta opposte in ambienti culturali eterogenei che non possono mai
aspirare ad un’universalità sovratemporale immacolata da rivolgimenti sociali o
trasformazioni del gusto morale. «Human values of good and evil, as of truth and
error, are indeed uncertain and relative: what is held as truth in one place or time is
held in another place or time to be error; what is regarded as good is elsewhere or in
other times regarded as evil»18. Aurobindo sostiene l’inestricabile legame dualistico
sussistente tra bene e male al livello delle ordinarie concezioni mentali: una
considerazione che sembrerebbe supportare la logica di quanti, buddhisti in primis,

16 Ibid., p. 631. Ad un tale meschino livello potrebbe essere collocato il criterio morale della Wille zur
Macht sintetizzato da Nietzsche in termini chiarissimi nelle prime pagine del Der Antichrist: «Che cos'è
buono? – Tutto ciò che eleva il senso della potenza, la volontà di potenza, la potenza stessa nell'uomo.
Che cos'è cattivo? – Tutto ciò che ha origine dalla debolezza», Friedrich Nietzsche, Opere Complete, op.
cit., Vol. VI, Tomo III, L’Anticristo, pp. 168-169.
17 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 632.
18 Ibid., p. 622. Affermazione accostabile alle riflessioni nietzscheane sulla relatività morale. Cfr. ad

esempio: «Molte cose che questo popolo approva, sono per un altro un’onta e una vergogna: questo io
ho trovato. Molte cose che qui erano chiamate cattive, le ho trovate là ammantate di porpora regale»,
Friedrich Nietzsche, Opere Complete, op. cit., Vol. VI, tomo I, Così Parlò Zarathustra, Dei Mille e Uno Scopi,
p. 67.

157
nella tensione al superamento della moralità vorrebbero sbarazzarsi insieme al male
del bene quale suo opposto congiunto e complementare. Ma il maestro ritiene una
tale interdipendenza paritaria di principi oppositivi non più valida dalla prospettiva di
una Conoscenza suprema in cui il male continuerebbe a dipendere dal bene per la sua
esistenza inferiore e transitoria ma il bene, guadagnando piena autonomia, cesserebbe
di essere legato al male in quanto principio superno, più originario e vasto
dell’Essere: «a shadow depends on light for its existence, but light does not depend
for its existence on the shadow»19. Una soluzione a privilegio del bene sui generis nel
mondo di pensiero aurobindiano, in cui generalmente ciascuno dei poli di un
dualismo ottiene completo riconoscimento ontologico in un’armonizzazione
unificante: questa stranezza potrebbe forse essere ricondotta alla necessità di
ricorrere ad una giustificazione sovrarazionale per uscire indenne dall’impasse
filosofico in cui il maestro si è impantanato. Ciò su cui potremmo consentire è invece
l’accettazione delle concezioni morali a fini limitati e pratici nella piena
consapevolezza dell’incapacità etica di aprirsi alla sfera della Conoscenza integrale,
dipendendo queste al grado mentale da punti prospettici parziali ed egoistici non in
grado di leggere un possibile progetto divino dietro l’apparenza di eventi catastrofici
e tuttavia catartici.

A great war, destruction or violent all-upheaving revolution, for example, may present itself to us as
an evil, a virulent and catastrophic disorder, and it is so in certain respects, results, ways of looking at
it; but from others, it may be a great good, since it rapidly clears the field for a new good or a more
satisfying order20

La moralità, di là da intrinseche limitazioni, manifesta utilità di vario ordine


nel percorso di risalita al Divino se considerata quale tappa intermedia o momento
del pariṇāma di Brahman. Negativamente, avendo esperito la natura caduca, confusa
e inconcludente delle idee morali finite il ricercatore è sospinto a trascendere il bene e
il male umani volgendosi ad un divino cammino supermorale; positivamente, la
regola etica è strumento di purificazione, disciplina ascetica finalizzata al dominio

19 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 622.
20 Ibid., p. 398.

158
della natura istintuale inferiore e dell’anima vitale desiderante quale propedeutica ad
un salto di là dalla mente nel Bene supremo. Stadio mediano tra la materialità
infraetica e la spiritualità sovraetica, lo slancio morale dell’umanità è un importante
organo di perfezionamento e raffinamento psicologici e comportamentali per
l’elevazione antropica dall’istintualità animale alla ricerca delle superiori armonie
dell’Essere. L’esistenza del male rappresenterebbe dunque una strategia evolutiva
attraverso la quale la Natura sperimentale, non volendo scartare nulla quale mezzo
d’ascesa, consentirebbe all’uomo di pervenire ad una conoscenza e un potere
d’azione integrali nell'abbandono del concetto finito e mutilante del bene –
spronandolo ad un autotrascendimento della relatività morale alla volta dell’eterno e
infinito Bene divino. «The evolutionary intention acts through the evil as through the
good; it has to utilise all because confinement to a limited good would imprison and
check the intended evolution; it uses any available material»21. La lotta animica contro
i poteri dell’oscurità, simboleggiata da varie mitologie religiose, potrebbe così trovare
un senso filosofico quale strumento della crescita evolutiva – contra gli impulsi
inferiori gravitanti verso il passato animale – necessario al processo di divinizzazione.
Ospite dell’incessante lotta fra tendenze ed energie opposte e conflittuali, la
natura umana si presenta ad un attento sguardo psicologico come un miscuglio di
contrari in cui bene e male si equilibrano confusamente secondo proporzioni varie:
«Man’s house of life holds not the gods alone: / There are occult Shadows, there are
tenebrous Powers»22. Così Aurobindo risolve, in forza di una psicologia del profondo
sperimentale e non di astratti ragionamenti, la secolare e classica diatriba del
confucianesimo, la questione etica fondamentale della filosofia cinese riguardo
all’origine buona o maligna dell’umana natura sintetizzabile dalla polemica che
oppose Hsün-tzu a Meng-tzu. Oltre tali contrari possiamo giungere all’affermazione di
esistenza di un supremo Bene luminoso immacolato dall’ombra del male, ciò che è
esclusivamente possibile grazie ad un’estensione di coscienza che ci permetta di
comprendere il senso di quella divina imparzialità che è lezione fondamentale del
Kṛṣṇa della Gīta: «No man is simply good or simply bad; every man is a mixture of

21Ibid., p. 647.
22Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXXIII-XXXIV, Savitri, Libro VII,
Canto II, vv. 216-217, p. 480.

159
contraries [...] So too there is an absolute good and an absolute beauty: but we can
only get a glimpse of it if we embrace all things impartially»23.
L’autentica verità morale sovrarazionale è nell’uomo rappresentata dalla guida
psichica, dallo spontaneo rivolgersi dell’interiorità animica al Divino nel
riconoscimento intuitivo e certo del bene, oltre le insicure direttive della mente, come
ciò che consente un avvicinamento alla natura brahmanica e facilita la divina
trasformazione e del male come ciò che devia dal supremo sentiero spirituale. «The
soul’s perception of good and evil may not coincide with the mind’s artificial
standards, but it has a deeper sense, a sure discrimination of what points to the
higher Light and what points away from it»24. La divina Luce di coscienza si pone al
di là del bene e del male, poiché nel suo armonico alveo tali concezioni oppositive
non manifestano più alcuna ragion d’essere o utilità strumentale; scrollatisi di dosso il
dualismo di peccato e virtù non avremo altra guida e altro criterio della tensione al
Bene superiore nell’unificazione del nisus morale e spirituale: «the being arises to the
greater consciousness of the Infinite and Eternal and shakes away from itself the
burden of sin and virtue, for that belongs to the relativity and the Ignorance»25.
La stessa legge del karma, credenza solidamente fondamentata nella cultura
popolare indiana, ricade senza mezze misure nella critica aurobindiana della relatività
morale per il suo rigido sistema di ricompense e punizioni rispondente a bisogni e
desideri fisico-vitali piuttosto che ad elevate aspirazioni spirituali, manifestando un
troppo umano ideale di bene e male. Puerile e volgare creazione della mente vitale
ammantata di valore etico, il karma vorrebbe irragionevolmente limitare l’azione del
Brahman a quella di un divino Giudice soddisfacente i più bassi impulsi umani
piuttosto che a quella di un divino Amico volenteroso di aiutare il cammino di ascesa
all’Essere degli esseri: «ethics, the maintenance of human standards of morality,
cannot, therefore, be the sole preoccupation of the cosmic Law or the sole principle
of determination of the working of Karma»26. Negando recisamente ogni
rassegnazione fatalistica, Aurobindo sostiene la possibilità di superamento e
violazione della legge karmica da parte del ricercatore che abbia ottenuto una libertà

23 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 398.
24 Ibid., p. 633.
25 Ibid., p. 649.
26 Ibid., p. 841.

160
spirituale tale da forgiare il proprio destino senza dipendere deterministicamente dal
proprio passato. Il karma rappresenta l’espressione di una moralità popolare inferiore
attaccata a premi materiali laddove la più elevata e integra moralità si dimostra paga
della virtù quale ricompensa a se stessa – e la morale spirituale è ancor più
supremamente indifferente nella sua divina imparzialità a castighi e gratificazioni,
incurante del peccato come della virtù: «the truly ethical being does not need a
system of rewards and punishments to follow the path of good and shun the path of
evil; virtue to him is its own reward, sin brings with it its own punishment»27.
Il futuro evolutivo gnostico abbandonerà definitivamente i crucci morali e il
dualismo di bene e male in quanto nella natura luminosa e divina dell’essere
superumano non avrà più alcun senso il ruolo di controllo e purificazione dei
dinamismi inferiori dell’Essere a tuttoggi svolto dall’etica. Gli istinti vitali saranno
stati trasformati ed elevati ad una costituzione spontaneamente orientata al bene,
all’amore e alla giustizia autentici e l'essere divino non avrà più bisogno di desuete e
artificiali regole di condotta mentali utili all’ordinamento di turbolenti impulsi vitali e
desideri egoici: si concretizza in tal modo quell’idea vedāntina di liberazione così
intimamente connessa alla necessità di oltrepassare il dualismo oppositivo
bene/male: «There could be in it [nell’essere gnostico] no separate problem of an
ethical or any similar content, any conflict of good and evil. [...] a truth of good one
in all and for all even in an infinite diversity of its good»28.

2. Il problema del dolore

La realtà disarmante del dolore, terribile propaggine esistenziale dell’azione


del male, è giustificata in maniera piuttosto inconsistente quale strumento di
coglimento integrale dell’infinito Ānanda29: allo stesso modo in cui l’uomo è capace di
apprezzare maggiormente il valore del piacere dopo aver attraversato situazioni
dolorose o di stimare quale dono prezioso l’ordinaria condizione di salute cui troppo

27 Ibid., p. 844.
28 Ibid., p. 1032.
29 Favorendo la rinascita della medievale tortura della carne: «When I found that pain was the reverse

side and the training of delight, I sought to heap blows on myself and multiply suffering in all my
members», Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XII, Essays Divine and
Human, p. 493.

161
spesso non presta la dovuta attenzione in seguito ad una brutta malattia. Peccato
però che, proprio in quanto infinito, il principio divino di Delizia d’esistenza
dovrebbe logicamente porsi al di là degli umani opposti di piacere e dolore e delle
ordinarie esperienze coscienziali in questo senso, non reggendo all’analisi l’analogia.
Alternativamente e senza una mediazione armonica tra le due argomentazioni –
ricorre ancora una volta l’incoerenza rispetto alla logica dell’Infinito – la sofferenza è
dichiarata esistere in funzione del summum Bonum. La vecchia argomentazione
medievale, insufficiente oggi come ieri a rendere conto dell’inspiegabile tragicità dei
concreti eventi dell’esistenza nella loro singolarità: per potersi sostenere nella
contemporaneità con una qualche pretesa di consistenza essa dovrebbe spiegare – ciò
che non fa, pur se sarebbe curioso vederla arrampicarsi sugli specchi – il senso divino
e la delizia d’esistenza celata nei campi di concentramento nazisti e sovietici nella loro
cruda barbarie a discapito di innocenti.

For grief, pain, suffering, error, falsehood, ignorance, [...] all that makes up the effective figure of what
we call evil, are facts of the world-consciousness, not fictions and unrealities [...] For without
experience of pain we would not get all the infinite value of the divine delight of which pain is in
travail [...] All this imperfection is to us evil, but all evil is in travail of the eternal good30

Il dolore è un bene minore manifestante una funzione spirituale didattica e


propedeutica affinché l’uomo si decida ad abbracciare la superiore verità di Ānanda:
un’altra eco della teologia scolastica che risuona ormai alle nostre orecchie come una
puerile cantilena incapace di giustificare alcunché e che non lascia guarda caso mai
intravedere i contorni del divino disegno di un Bene superno che quel cosiddetto
bene minore dovrebbe spiegare. «Evil is good disintegrating to prepare for a higher
good [...] evil tends to good, it comes into existence in order that men may reject the
lesser good and rise to the higher»31; «all evil and pain a tuning of Nature for some
more intense bliss and good»32. Da notare come seppure in taluni passi Aurobindo

30 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, pp. 421-
422.
31 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XIII, Essays in Philosophy and Yoga, p.

205.
32 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XII, Essays Divine and Human, pp.

438-439.

162
riconosca la realtà effettuale del male senza tentare di ridimensionarne la portata mai
prende in considerazione la sua nudità inspiegabile: altro caso raro nel procedere
filosofico del maestro, che ama diffondersi sull’analisi del valore e dei limiti di
prospettive altre. La dura accettazione del male in sé è sempre ricoperta dalle pesanti
stratificazioni giustificatorie di un mentale terrorizzato da un confronto faccia a
faccia con le potenze diaboliche: laddove giunga quasi ad ammettere
l’ingiustificabilità del male da parte di una coscienza ordinaria, Aurobindo si affretta
subito ad aggiungere che un divino senso deve pur esserci in questo imbroglio irrisolto
– proiettando sul Divino una precomprensione razionalistica.

nor can they [male, errore, falsità, ignoranza, imperfezione, etc...] be a mere mistake of the Divine
Consciousness without any meaning in the divine wisdom, without any purpose of the divine joy,
power and knowledge to justify their existence. Justification there must be even if it reposes for us
upon a mystery which may confront us, so long as we live in a surface experience, as an insoluble
riddle33

Una soluzione più concretamente soddisfacente del problema, rappresentante


in effetti piuttosto un metodo di trascendimento della morsa della sofferenza che una
sua intrinseca giustificazione, proviene dal terreno empirico della sādhana yogica. Il
ricercatore che abbia discoperto nella propria interiorità quell’infinito Uno di gioia
raggiungendo il Sé psichico del profondo può dilettarsi di ogni possibile esperienza,
di là dall’organizzazione superficiale e temporanea di un ego mentale brancolante fra
sensazioni piacevoli, dolorose e indifferenti: al di sotto della personalità ordinaria
giace infatti un essere divino che ride, come Zarathustra, dei drammi seri e faceti
dello spettacolo umano34.

Behind there must be something in us, – much vaster, profounder, truer than the superficial
consciousness, – which takes delight impartially in all experiences [...] We are aware of it within

Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 423.
33

Cfr. «Chi sale sulle vette dei monti più alti, ride di tutte le tragedie, finte e vere», Friedrich Nietzsche,
34

Opere Complete, op. cit., Vol. VI, tomo I, Così Parlò Zarathustra, Del Leggere e dello Scrivere, p. 42.

163
supporting and helping the apparent and superficial self and smiling at its pleasures and pains as at the
error and passion of a little child35

Già per tramite di realizzazioni spirituali meno elevate il percorso yogico


consente di ritirare la coscienza dal dolore, rendendoci immuni ai suoi attacchi: si
ricordi come Rāmakṛṣṇa e Gandhi si siano sottoposti ad operazioni chirurgiche senza
ricorrere ad anestesie, placidamente ritirati in una supercoscienza intonsa dalle
sofferenze del corpo fisico. Ad un più alto grado, si può trasformare alchemicamente
l’urto del dolore in sensazione gioiosa, portando alla luce la segreta Ānanda
albergante nelle profondità di ogni evento e relazione energetica e modificando le
istintuali e meccaniche abitudini di reazione del corpo materiale: «It is equally within
our competence to accustom the superficial being to return instead of the mechanical
reactions of pleasure, pain and indifference that free reply of inalienable delight
which is the constant experience of the true and vast Bliss-Self within us»36.
L’allargamento coscienziale permette al Puruṣa in noi di divenire la guida e il
padrone delle reazioni agli urti cosmici, consentendoci di dismettere gli abiti
dell’afflizione di fronte al dolore fisico e psicologico. L’intervento di un dinamismo
spirituale superiore dimostra la possibilità effettiva di sospendere a volontà e
piacimento la sensibilità fisica alla sofferenza trascendendo la legge naturale di
reazione corporea – a torto considerata inamovibile e costante: «a power of willed
physical insensibility can intervene [...] which shows that the ordinary reactions and
the debile submission of the bodily self to the normal habits of response of material
Nature are not obligatory or unalterable»37. Oltrepassata la finitezza coscienziale, vera
causa dell’errata interpretazione di taluni contatti umani con il Divino come dolorosi,
saremo in grado di tradurre le vibrazioni di sofferenza in vibrazioni di beatitudine
permettendo ad ogni contatto di arrecare la sua porzione di felicità: sarà infatti stata
eliminata ogni divisione sussistente fra il limitato potere personale e l’intensità
energetica delle travolgenti forze divine – come il Buddha trasformò in petali di fiore
le armi dell’oscuro esercito di Mara che lo stavano assalendo: «the delight of the

35 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, pp. 112-
113.
36 Ibid., p. 113.
37 Ibid., p. 1024.

164
touch cannot be seized and it affects our sense with a reaction of discomfort or pain,
a defect or excess, [...] born of division between our power of being and the power
of being that meets us»38. L’ingresso nelle sfere superiori dell’Essere dissolverà ogni
sofferenza per l’acquisita capacità di armonizzare le nostre forze con le energie
universali, non più accecati dal bagliore di intensità dinamiche terrificanti e
insostenibili per una coscienza finita identificata con la personalità egoica: «they
[dolore e sofferenza] would not exist if in us there were an integral presence of the
luminous Consciousness and the divine Force of an integral Being»39.
Già, ma come giustificare il dolore allo stato mentale attuale dell’umanità, in
cui non sembra esistere altra via d’uscita ragionevole dal dilemma che riconoscere il
carattere insensato e gratuito di tanto male? Uno stratagemma della Natura a scopo
evolutivo?40 Davvero dunque Brahman sarebbe così crudele da lasciar morire di fame,
stenti e malattie centinaia di milioni di uomini nel terzo e quarto mondo, da
permettere abusi sessuali ai danni di ragazze e bambini, azioni terroristiche e cruente
guerre non altrimenti motivabili che per interessi economici? Per dirla con Nietzsche,
se davvero esistesse un Dio di tal fatta bisognerebbe ucciderlo tempestivamente. E
ciononostante Aurobindo persevera nel fornire giustificazioni astrattamente
intellettuali al male – lasciando il problema lì dov’è, irrisolto. La presenza del male
non rovinerebbe l’armonia dell’universo poiché è presente in quantità inferiore al
bene (argomentazione che fa sorridere, se non indignare) o come in un’opera d’arte
una singola porzione, presa di per sé, potrebbe risultare brutta ma complessivamente
funzionale all’efficacia estetica e alla bellezza d’insieme: e allora si dovrà portare
almeno un esempio concreto a sostegno della funzionalità benefica del male o
analizzare quei processi divini supercoscienti calati nella storia attraverso cui
pervenire ad una possibile rettificazione delle nostre concezioni del male, tema sul
quale il maestro non degna di spendersi. «A part broken off from the whole may be

38 Ibid., p. 420.
39 Ibid., p. 622.
40 «None can reach heaven who has not passed through hell», Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī

Aurobindo, op. cit., Voll. XXXIII-XXXIV, Savitri, Libro II, Canto VIII, v. 250, p. 227; «Knew loss as
the price of a celestial gain / And hell as a short cut to heaven’s gates», ibid., Libro II, Canto VIII, vv.
419-420, p. 231. Anche Mère sembra condividere un tale giudizio: «Quando la terra non avrà più
bisogno della sofferenza per progredire, non ci sarà più sofferenza», Mère, L’Agenda di Mère, a cura di
Satprem, Roma, Edizioni Mediterranee, 1987-1994, Vol. IV, p. 158.

165
imperfect, ugly, incomprehensible; but when we see it in the whole, it recovers its
place in the harmony, it has a meaning and a use»41. Se il male è davvero un bene
minore non si vede perché una tale affermazione debba essere accettata
pacificamente laddove ogni altro convincimento aurobindiano è a lungo discusso,
confrontato con prospettive differenti, argomentato magistralmente, analiticamente
delineato nel suo fondamento esperienziale e accuratamente legittimato da un punto
di vista teoretico. Ancor più della concezione evoluzionistica, la problematica del
male rappresenta un serio punto debole del sistema pūrṇadvaita: «Evil is good
disintegrating to prepare for a higher good [...] evil tends to good, it comes into
existence in order that men may reject the lesser good and rise to the higher»42.

3. Avidyā ed ego quali cause del male, divina trasformazione quale suo superamento

In un tentativo più articolato di donazione di senso al male e riconnettendo la


problematica alla complessa concezione del Divino e del suo percorso di
manifestazione involutivo ed evolutivo Aurobindo rinviene la causa originaria del
male in quella rottura dell’unità infinita operatasi con la discesa di Brahman
nell’Ignoranza separativa e conflittuale43. L'Ignoranza non è di per sé una assoluta
negazione della Conoscenza d’unità suprema quanto un potere di concentrazione
dell’Infinito su un suo particolare equilibrio: «the ignorance is a frontal power of that
all-consciousness which limits itself»44. Se dunque Avidyā non si configura quale
incomprensibile – anirvacanīya – mistero d’illusione cosmica ma è essa stessa
porzione della suprema Vidyā, di là dall’apparenza della propria natura imperfetta e
antidivina sarà dunque possibile disvelare il segreto della sua appartenenza ad un
disegno divino. Il che equivale pressappoco a spostare sul livello gnostico il problema
del male: se il male discende in toto dall’Ignoranza quale suo sottoprodotto qual è
dunque il significato dell’esistenza dell’Ignoranza all’interno di un mondo teofanico?

41 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 417.
42 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XIII, Essays in Philosophy and Yoga, p.
62.
43 «Where Ignorance is, there suffering too must come», Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī

Aurobindo, op. cit., Voll. XXXIII-XXXIV, Savitri, Libro V, Canto II, v. 218, p. 443.
44 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 418.

166
Accantonando le problematiche metafisiche Buddha si rifiutò di tentare una
risposta e riconosciuta l’Ignoranza non trovò soluzione migliore che fuggirne nel
nirvāṇa. Aurobindo non può accontentarsi, per lo spirito filosofico che lo
contraddistingue, di una tale scappatoia e si impegna quindi in un’indagine
approfondita della natura di Avidyā: termine questo col quale, ad evitare ancora una
volta fraintendimenti, si intende puramente un’ignoranza del carattere fondamentale
di unità infinita e armonica dell’Essere in senso advaita e non una carenza di
conoscenza mentale acquisibile tramite studio ed esperienza ordinaria. Poiché anche
la Mente è un prodotto dell’Ignoranza l’uomo non potrà pretendere di cogliere il
significato di Avidyā dall’interno ma dovrà prima di tutto elevarsi ad una visione
suprema di Conoscenza: da qui risulta evidente che Brahman abbraccia e racchiude in
sé tanto la Conoscenza che l’Ignoranza, allo stesso modo in cui riassume nel suo
complesso essere l’Uno e il Molteplice – e analogamente al risolversi degli opposti
poli di piacere e dolore nell’Ānanda infinito. Avidyā non è altro che potere diminuito
della Conoscenza, suo equilibrio inferiore che ne esprime parzialmente e
subordinatamente l’azione: «it [l’Ignoranza] is the capacity of the One Consciousness
[...] to regulate, to hold back, measure, relate in a particular way the action of its
Knowledge»45. La scomparsa dell’Ignoranza come forza di determinazione
temporanea dell’Uno, e con questa del male, è resa inevitabile dall’evoluzione
spirituale che la tramuterà in Conoscenza: un risultato non così necessario perlomeno
su larga scala, come s’è visto dalle critiche all’evoluzionismo aurobindiano del
capitolo precedente. In ogni caso l’Ignoranza non è un potere di coscienza originario
ed eterno dell’Essere, se al principio è il sovracosciente Satcitānanda: «it [l’Ignoranza]
belongs only to a partial action of the being»46. Stabilita solidamente la realtà di
Avidyā con la critica che ha ridotto l’illusoria Māyā ad un’Ignoranza che è
concentrazione del potere realissimo di Cit-Śakti, Aurobindo procede tuttavia ad un
ridimensionamento ontologico e assiologico dell’Ignoranza considerandola inferiore
alla Conoscenza secondo il tipico criterio della minore vastità e della parzialità della
sua azione subordinata e derivata propria di un potere d’essere ristretto e secondario
– e riportandoci alle sfumate considerazioni filosofiche sul rapporto gerarchico tra

45 Ibid., p. 515.
46 Ibid., p. 598.

167
Uno e molti che abbiamo già avuto modo di analizzare47: «The origin of the
Ignorance must then be sought for in some self-absorbed concentration of Tapas, of
Conscious-Force in action on a separate movement of the Force»48.
Adottando il principio dell’Ignoranza la Natura ha voluto di proposito
rendersi dimentica del Tutto-Uno scegliendo visuali separate e limitate in un gioco
che non permette l’essenzializzazione integrale di Avidyā ma le cui regole sono state
accolte al fine di rendere possibile la manifestazione del molteplice. Nella medesima
misura dell’Ignoranza dunque i fenomeni di male e falsità, pur reali e non
semplicemente accidentali o apparenti, non possono aspirare ad una natura eterna o
ad un’originarietà autonoma del loro potere d’essere e di coscienza: «If, then, the
limited Knowledge which is the nature of Ignorance renounces its limitations, if
Ignorance disappears into Knowledge, evil and falsehood can no longer endure»49.
Male e sofferenza sono prodotti subordinati di un potere inferiore dell’Essere50 e
come Mente e Vita, per quanto incontrovertibilmente reali, non potranno mai
fondamentarsi su una natura di assolutezza e integralità in sé, se non accettando
l’intervento trasformativo della supercoscienza divina in grado di elevarli alle superne
sfere dell’Essere – unica via di piena divinizzazione del finito.
La sola risposta all’enigma del male degna di attenzione sembra dunque
essere la trasformazione della nostra natura inferiore e ignorante nella soprannatura
divina ad opera dello yoga integrale, rifuggendo dall’identificazione coscienziale con
quel perverso potere d’Ignoranza che è l’ego alla volta di un’elevazione e un
allargamento delle potenzialità del nostro essere ancora inesplorati. Dal punto di vista
filosofico non una soluzione intrinseca del problema del male ma un’ulteriore
sentiero pratico al suo trascendimento, il cui unico punto di forza rispetto alla
proposta del Buddha è la valorizzazione tutta occidentale di quell’esistenza terrena
che sarà teatro della liberazione dell’umanità. Sette sono le forme dell’Ignoranza che
l’uomo dovrà oltrepassare: l’Ignoranza originale, ossia la manchevole o imperfetta
conoscenza di Brahman; l’Ignoranza cosmica, cioè l’assenza di consapevolezza

47 Cfr. supra, capitolo secondo, p. 93.


48 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 601.
49 Ibid., p. 620.
50 Interessante il recupero aurobindiano di un’argomentazione epicurea a sostegno della tesi della

relatività e finitezza del dolore: «If pain becomes immeasurable, it ends itself or ends that in which it
manifests», Ibid., p. 628.

168
dell’esistenza del Trascendente silenzioso e immobile, privo di qualità, oltre il velo del
Divenire; l’Ignoranza egoistica, che nasconde l’unità del nostro sé con il sé degli altri
e con ogni altro ente; l’Ignoranza temporale, che ci rende ignari del nostro eterno
divenire evolutivo di nascita in nascita, costringendoci per una ristrettezza visuale a
soffermarci sulla vita presente quale unica possibilità di espressione delle nostre
facoltà; l’Ignoranza psicologica, incapace di conoscere ed esplorare il subcosciente, il
sovracosciente, il circumcosciente, il subliminale dietro e al di sopra della superficie
egoica; l’Ignoranza costituzionale, strettamente legata alla psicologica, per cui siamo
ignari dell’entità psichica quale principio primo del nostro essere confondendolo con
mente, vita e/o corpo; l’Ignoranza pratica, che lascia vagabondare una volontà non
illuminata dalla divina Verità fra una serie sterminata di errori d’azione.
Le limitazioni coscienziali cui l’ego ignorante e finito è sottoposto dal potere
di Avidyā sono dunque le cause reali del male e del dolore esistenziali umani: una
condizione tragica da cui è però possibile distaccarsi con un divino anelito
d’autotrascendimento in grado di conciliare a livello supercosciente gli apparenti
opposti di bene e male – ferma restando l’impossibilità di risolvere la questione
permanendo nel cerchio dell’attuale condizione mentale, irredimibile per forza
propria e condannata ad un inferno di dura e insensata sofferenza.

if all is in truth Sachchidananda, death, suffering, evil, limitation can only be the creations [...] of a
distorting consciousness which has fallen from the total and unifying knowledge of itself into some
error of division and partial experience [...] States of consciousness there are in which Death is only a
change in immortal Life, pain a violent backwash of the waters of universal delight, limitation a
turning of the Infinite upon itself, evil a circling of the good around its own perfection51

L’essenza ānandica dell’esistenza può essere raggiunta solo tramite il


superamento dei dualismi egoici che oppongono il desiderio alla paura, i giudizi
arbitrari e relativi di bene e male:

51 Ibid., pp. 56-57.

169
For the universal soul all things and all contacts of things carry in them an essence of delight [...] It is
because we do not seek the essence of the thing in its contact with us, but look only to the manner in
which it affects our desires and fears [...] that grief and pain [...] are the forms taken by the Rasa52

Il che non significa certamente attribuire all’umana coscienza la responsabilità


originaria dell’esistenza del male lasciando il Divino in una condizione di immacolata
beatitudine non turbata dalle imperfezioni egoistiche. Ciò costituirebbe
un’imperdonabile incoerenza teorica anche in un’impostazione monoteistica, la quale
cadrebbe miseramente in un dualismo principiale ponendo il potere di Satana sullo
stesso piano di quello divino, se l’Onnipotente non è stato in grado di arrestare i
malvagi dinamismi del suo avversario; e sarebbe a rigore ancor più intollerabile in una
metafisica advaita ove non sussiste alcuna differenza essenziale fra l’Essere e i suoi
esseri. L’autentica causa – e non colpa – del male consisterebbe dunque nella
cosciente decisione di Satcitānanda di calarsi nel suo opposto discendendo
nell’Ignoranza, matrice dell’ego. Ma la gioia dell’avventura del celarsi a se stesso e del
progressivo riscoprirsi evoluzionistico del Divino nel viaggio dell’oblio di sé alla volta
dell’anamnesi non costituivano, s'è visto, argomentazioni cogenti o sufficientemente
sensate alla spiegazione del tuffo nella propria ombra del Brahman: l’aggiungersi al
quadro della fosca tinta del male non potrà certo rafforzare lo sforzo giustificatorio
di una manifestazione ontofanica quanto piuttosto rendere ancor più
esistenzialmente intollerabile una tale immagine dell’Onnipresente.
Nell’uomo il male prende la forma di un’anima di desiderio ignorante e
separata, mai definitivamente soddisfatta dalle sue brame finite e dai suoi transitori
successi, incapace di aprirsi interiormente a quell’essenza psichica che sola potrebbe
guarire l’umanità dalla sua malattia: «in this surface or desire-soul there is no true
soul-life, but a psychic deformation and wrong reception of the touch of things. The
malady of the world is that the individual cannot find his real soul»53. Da una
prospettiva spirituale tutto è il Divino, perfino la più meschina ignoranza, le azioni
più interessate e l’intemperanza più sfrenata: tuttavia, da un punto di vista pratico e

52 Ibid., p. 116.
53 Ibid., p. 234.

170
realizzativo dobbiamo riconoscere la nostra esistenza come intrisa di caratteri non
divini e di una costitutiva imperfezione.
Aurobindo conosce bene la vanità degli sforzi di spiegazione del male al
livello coscienziale mentale, ciò che potrebbe condurre in linea diretta ad una
filosofia atea: «the presence of evil, the insistence on suffering, the large, the
enormous part offered to pain, grief and affliction in the economy of Nature are the
cruel phenomena which baffle our reason and overcome the instinctive faith of
mankind in such an origin [un’origine divina]»54. E tuttavia non ritiene opportuno
arrestarsi ad una soluzione di questo tipo, giustificata da una scarsa familiarità della
coscienza mentale con i supremi Bene, Verità e Bellezza così frugalmente offerti
all’esperienza ordinaria e tuttavia così evidenti nel loro potere superiore ad un’anima
spiritualmente elevata – senza però fornire argomentazioni migliori di quelle del più
maturo nichilismo nella propria apologia divina del male. Il maestro comprende
anche perfettamente che l’affermazione dell’imperfezione umana quale discendente
dell’originaria rottura dell’unità brahmanica nelle divisioni di esistenze separate non
potrebbe pretendere di risolvere il mistero del male: «it leaves the problem unsolved,
why that which is in itself ever pure, perfect, blissful, infinite, should not only tolerate
but seem to maintain and encourage in its manifestation imperfection and limitation,
impurity and suffering and falsehood and evil»55. Non è nemmeno sufficiente asserire
che ogni cosa è già divina e relativamente perfetta nel manifestare una porzione
veritativa dell’Eterno nell’armonia cosmica complessiva: una visione esistenzialmente
insufficiente incapace di dimostrare concretamente l’ordine del mondo che dichiara,
contraddicendo «our acute human sense of the reality of evil and imperfection»56.
Contro tali soluzioni Aurobindo fornisce ancora una volta una legittimazione
evoluzionistica del male in cui l’attaccamento all’imperfezione sarebbe la controparte
dell’umano anelito al Divino: il che equivale a dire pressappoco che ora il male non
ha alcun senso ma che ne acquisterà uno grazie alla futura trasformazione dell’uomo
mentale nell’essere gnostico («For what is is only justifiable, finds its perfect sense

54 Ibid., p. 405.
55 Ibid., p. 407.
56 Ibid., p. 410.

171
and satisfaction by what can and will be»57). Il maestro condanna così il passato e il
presente dell’umanità ad un’impossibilità di redenzione in una tensione filosofica che
vorrebbe salvare a tutti i costi il finito in quanto tale ma che fallisce miseramente nel
suo compito: nel presente non resta all’uomo che accettare la sofferenza nel suo
nonsenso, essendosi mostrati velleitari gli sforzi mentali di legittimazione del male.
Sebbene non risparmi aspre critiche all’insufficienza teorica di dualismi
manichei o alla lontananza indifferente di divinità extracosmiche sul modello
epicureo l’aurobindiano sforzo advaita di conciliazione di bene e male, perfezione e
imperfezione non sembra poter condurre a risultati migliori di quelli conseguiti dalle
antiche teodicee – se non nel delineamento di un cammino yogico trasformativo che
potrà forse in un indefinito futuro illuminare l’attualmente insormontabile aporia del
male. In una tensione amorevole e caritatevole Aurobindo sa che il nostro compito di
divinizzazione e liberazione dal male non potrà arrestarsi ad un superamento
individuale delle catene egoiche: il principio spirituale di unità essenziale con tutti gli
esseri non permetterà infatti di considerare completata la nostra missione finché altri
esseri – che sono, su un piano sovracosciente, altrettanti nostri sé – soffrono e
implorano l’aiuto dei maestri sul sentiero della realizzazione. Questo fu precisamente
il motivo che spinse i grandi saggi (Buddha e Vivekānanda su tutti) a lottare con ogni
forza in favore della trasformazione del mondo intero e non solo di alcune
personalità eccelse: nella consapevolezza che se in profondità il nostro sé è
effettivamente uno con il sé di ogni ente apparentemente separato, nella coscienza di
superficie, dalla nostra individualità, la nostra stessa personale liberazione non potrà
considerarsi compiuta finché l’universo tutto, con il quale la nostra coscienza
allargata si sarà identificata, non sarà liberato.

But even if our personal deliverance is complete, still there is the suffering of others, the world travail,
which the great of soul cannot regard with indifference. There is a unity with all beings which
something within us feels and the deliverance of others must be felt as intimate to its own
deliverance58

57 Ibid., p. 411.
58 Ibid., p. 422.

172
L’insistenza sul superamento dell’ego finito, tematica frequentissimamente
ricorrente in tutta l’opera, non solo filosofica, aurobindiana, non tragga in inganno
con la supposizione di una perversità o malvagità intrinseca all’attuale conformazione
di coscienza mentale nell’uomo. L’esistenza e lo sviluppo dell’ego rappresentano
infatti una fase necessaria di affermazione e crescita delle porzioni subcoscienti
inferiori del nostro essere, propedeutica al loro ingresso nei domini superiori del
Divino entro i quali saranno, in seguito ad una debita trasformazione, integrate. La
soluzione è il trascendimento dell’ego e non la sua estinzione nel vuoto di un nirvāṇa
incapace di donare senso all’esistenza: i buddhisti intendono scrollarsi di dosso il male
dell’esistenza assieme al suo bene, considerandoli opposti congiunti da abbandonare
a sé, laddove una proposta autenticamente integrale potrà riassumere i poteri di
coscienza inferiori nell’alveo di una gloriosa palingenesi divina che nulla scarta o
disdegna.
Il maestro passa poi in rassegna una serie di soluzioni pratiche al male del
mondo, escogitate e tentate dalla creatività di una mente e una sensibilità finite,
dimostrando come ogni rimedio all’imperfezione umana non contemplante una
trasformazione psichica non possa effettivamente liberare l’uomo dai demoni
interiori – riducendosi ad un palliativo o ad un temporaneo calmante della malattia
dell’esistenza egoica. Non sarà certamente una benevolenza sentimentalistica e
caritatevole, una disposizione all’altruismo e all’assistenza dei bisognosi, lo slancio
missionario e umanitario a risolvere o estinguere la sofferenza del mondo,
considerato che l’integrità morale non è in grado di trasformare l’umana natura:
«Altruism, philanthropy and service, Christian love or Buddhist compassion have not
made the world a whit happier, they only give infinitesimal bits of momentary relief
here and there, throw drops on the fire of the world’s suffering»59. Di più, finché
l’uomo vivrà rinchiuso in una coscienza egoista non potrà soddisfare le condizioni
necessarie ad una pratica autentica e disinteressata dell’altruismo, ponendosi questo
piuttosto come un allargamento o una più o meno conscia sublimazione dell’ego che
non come un suo reale trascendimento: «the ego of the altruist [...] is a self-righteous

59 Ibid., p. 433.

173
and magnified ego»60; «Very usually, altruism is only the sublimest form of
selfishness»61. Non è dato ottemperare alla regola cristiana di amare il prossimo come
se stessi o di servire la karuṇā buddhista nella piena compartecipazione all’altrui
dolore (meri ideali mentali cui l’uomo attuale non può sufficientemente conformarsi
a causa della sua costitutiva struttura finita e separativa) finché un sé cosmico non
abbia sostituito la coscienza di superficie: sarà stata così infranta la barriera dualistica
che vede l’alterità come un non-sé e sarà stat colta esistenzialmente la variegata unità
degli esseri in grado di legare intimamente l’anima dell’altro alla propria –
quell’intuizione fondamentale della cultura hindū che riconosce un unico ātman nel
profondo di ogni ente. «It is when others are known and felt intimately as oneself
that this ideal can become a natural and spontaneous rule of our living and be
realised in practice as in principle»62.
Sanzioni religiose, regole sociali o ideali etici possono fino ad un certo punto
ottenere un controllo scostante degli appetiti egoici e delle brame animalesche: ciò
che non integra l’elemento inferiore ma lo assoggetta rendendolo schiavo di un
controllo razionale sempre sottoposto al rischio di una rivolta e di un pernicioso
disordine delle energie vitali e fisiche, oppresse da un giogo inadatto al loro
innalzamento e trasformazione. L’unico vero aiuto concreto ed efficace per l’umanità
sofferente è l’indicazione del sentiero di elevazione al Divino: «the raising of men
towards the Divine is in the end the one effective way of helping mankind»63.
A nulla sono valse o varranno le risistemazioni dell’ordine sociale, le riforme
politiche o le rivoluzioni storiche, gli utopici ideali di un nuovo mondo contro la
persistente imperfezione dell’uomo: questa tornerà infatti a farsi strada sotto nuove
spoglie e in forme impreviste negli artificiali ordini creati da una mente finita
incapace di perfezionare l’interiorità animica. Inoltre le ideologie sociali sostenute e
praticate fino ad oggi, a prescindere dal loro colore politico, hanno inteso sostituire
ad un ego individuale un ego collettivo, uno Stato, una gerarchia o un sistema di
principi cui offrire indiscussa fedeltà: si è così preteso che un meccanismo imperfetto

60 Ibid., pp. 651-652.


61 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XII, Essays Divine and Human, p. 455.
62 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 653.
63 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXIII-XXIV, The Synthesis of Yoga, p.

445.

174
e guidato da idee parziali e ignoranti potesse sostituirsi all’azione di Brahman e
all’anelito divino dell’uomo. Tali ideologie hanno voluto peraltro esigere
irragionevolmente la trasformazione dell’umanità nel suo complesso prima dei suoi
individui: ma la liberazione è in prima istanza un cammino di ricerca psicologica
personale radicato nell’interiorità di ciascun ricercatore. Nemmeno l’educazione
civica o la formazione intellettuale potranno essere sufficienti a placare l’ansia
desiderativa del vitale o il disordine e l’agitazione del mentale; né potranno fare di
meglio le religioni istituzionalizzate, le quali hanno ormai abbondantemente
dimostrato sul piano storico la loro inadeguatezza quanto ad un’estirpazione del male
dall’uomo – dogmi, principi morali e rituali sclerotizzati e superstiziosi possono al
massimo rallentare la corsa del desiderio, non estinguere la sua sete. Occorre far
piazza pulita di tutti quegli strumenti di rivoluzione, vecchi ideali e irrealizzabili
utopie che hanno ampiamente mostrato le loro insufficienze: «for to hope for a true
change of human life without a change of human nature is an irrational and
unspiritual proposition»64. Né l’idealismo o l’aspirazione spiritualizzata del mentale
potranno mai avere la meglio sulle turbolente ed oscure potenze che albergano in
noi. Di contro a tali inefficaci e anacronistici rimedi la proposta aurobindiana di
trasformazione dell’umana natura a immagine e somiglianza del Divino evita il
rischio di aggiungersi all’elenco delle utopie impraticabili in quanto fondamentata su
una tradizione culturale millenaria e una pratica spirituale empiricamente verificabile
– le quali dimostrano l’esistenza di potenzialità latenti e irrealizzate nel profondo del
nostro essere ancora tutte da esplorare. «But what is demanded by this change is not
something altogether distant, alien to our existence and radically impossible; for what
has to be developed is there in our being»65. Ogni altro tentativo di risoluzione del
problema è non più che un espediente: l’integrale trasformazione yogica dell’uomo è
la chiave dell’enigma del male, l’unica cura efficace al trascendimento del principio
d’Ignoranza foriero di divisioni, discordie e lotte. «All other expedients will only be
makeshifts or blind issues; a complete and radical transformation of our nature is the

64 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 1096.
65 Ibid.

175
only true solution [...] A total change of consciousness, a radical change of nature is
the one remedy and the sole issue»66.
Ma in sostanza e in definitiva il male non riesce a trovare in sé,
nell’impostazione aurobindiana, una legittimazione esauriente sul piano coscienziale
ordinario al momento attuale. Sul futuro dell’umanità sia concesso almeno il
beneficio del dubbio: ma in ogni caso il cammino trasformativo non può pretendere
ad un qualche valore teorico nell’apologetica del male. Il male continua a perpetrare
indisturbato i propri delitti e le proprie carneficine secondo una legge d’azione
metafisicamente insondabile o debolissimamente argomentata, al cui mistero non
resta che sottometterci con un’accettazione rassegnata, imparziale o perversamente
gioiosa. Ciò che Nietzsche vide meglio di Aurobindo quando parlò di un male
ingiustificabile e insensato, non ricoperto dai veli di teodicee e morali – puro, nudo e
crudo.

66 Ibid., pp. 650-651.

176
Capitolo Quinto

Trasformazione e vita divina

Find out thy soul, recover thy hid self,


In silence seek God’s meaning in thy depths,
Then mortal nature change to the divine.
Open God’s door, enter into his trance1

If our souls could see and love and clasp God’s Truth,
Its infinite radiance would seize our hearts,
Our being in God’s image be remade
And earthly life become the life divine2

To raise the world to God in deathless Light,


To bring God down to the world on earth we came,
To change the earthly life to life divine3

Dedichiamo infine la nostra attenzione all’intuizione cruciale di Aurobindo,


oggetto precipuo dell’opera spirituale del maestro quale yogin, poeta mistico e
filosofo: la possibilità di sviluppo di una vita divina sulla terra. Messaggio prezioso e
dono inestimabile ad una modernità sull’orlo della deriva religiosa, l’auspicio e il
progetto di una trasformazione della natura umana nello stampo del Divino
rappresentano la più ambiziosa utopia che la mente abbia mai formulato nonché
l’opera più elevata e degna dell’umano impegno. Si tratta di una delle tematiche più
originali dell’intera filosofia aurobindiana, in grado di superare e integrare la tensione
esclusivamente ascensionale dello yoga e delle mistiche al Divino con il movimento
discendente della sovracoscienza e onnipotenza dell’Infinito nel complesso mentale,
vitale e fisico umani finiti. Non ci troviamo di fronte ad un sogno chimerico o al
prodotto di un’immaginazione troppo fervida, né fu mai intenzione del maestro
quella di aggiungere alla già lunga lista degli ideali un ennesimo miraggio dell’umano

1 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXXIII-XXXIV, Savitri, Libro VII,
Canto II, vv. 87-90, p. 476.
2 Ibid., Libro X, Canto IV, vv. 802-805, p. 663.
3 Ibid., Libro XI, Canto I, vv. 761-763, p. 692.

177
anelito fondamentalmente irrealizzabile4: Aurobindo manifesta piuttosto la ferma
volontà di aprire una via bloccata, lasciar emergere una potenzialità divina che
l’umano contiene già in sé latente ed implicita.
Il maestro traccia le fasi di un cammino spirituale pionieristico dagli esiti
ancora imprevedibili fondandosi sulle rivelazioni esperienziali della propria
straordinaria sādhanā: l’oggetto concreto dello sforzo di Aurobindo, Mére e dei loro
numerosi discepoli quale tensione alla realizzazione in vita vissuta e non in astratto
concetto della vita divina. Sforzo di una vita intera che si arrestò allo scoglio di una
trasformazione cellulare la quale avrebbe dovuto rendere immortale il corpo fisico,
lasciando discendere la luce della coscienza divina a rimodellare il funzionamento
organico delle nostre componenti vitali di base. Tuttavia, nonostante il primo
fallimento5, il maestro e la sua collaboratrice spirituale hanno aperto le porte ad una
possibilità insospettata e facilitato il percorso di trasformazione a chiunque decida di
seguirli in tale ardua ed elevatissima missione: e ciò anche grazie ad un’opera di
esposizione e chiarificazione delle motivazioni, dei metodi yogici e delle difficoltà da
affrontare lungo il cammino – opera della quale The Life Divine può considerarsi la
porzione più filosoficamente consistente. L’idea di un’elevazione della razza umana al
livello supermentale, con il quale si accede all’emisfero superiore e propriamente
divino dell’Essere, rappresenta il coronamento esistenziale di una proposta filosofica
tesa a conciliare l’ineffabilità dell’Uno con la vita del molteplice, il silenzio del
Trascendente con le manifestazioni dell’energia cosmica: un’integrazione effettiva e
non meramente speculativa dello spirito nella materia, un’infusione del Divino
nell’umano nelle quali si riassume il significato profondo dell’esistenza e del destino
dell’umanità.
A dimostrazione della natura eminentemente concreta di un tale progetto,
Aurobindo si spende lungamente, anche nella sua opera filosofica, sulle modalità
attraverso cui il decisivo passaggio alla superumanità potrà essere compiuto:

4 Contro le obiezioni mosse alla realizzabilità delle utopie il filosofo si espresse più volte, anche
sarcasticamente: «Che magnifica obiezione! Dal momento che non è mai stato fatto, è impossibile
farlo! A questa stregua tutta la storia della Terra si sarebbe dovuta arrestare ben prima del
protoplasma», Georges Van Vrekhem, Oltre la specie umana, op. cit, p. 222, citato da Nirodbaran,
Correspondence with Śrī Aurobindo, Pondicherry, Śrī Aurobindo Ashram, 1983.
5 Peraltro previsto da Aurobindo, che parlò di un lasso di tempo di almeno tre secoli da attendersi per

l’apparizione del primo esemplare di un’umanità divina.

178
l’indiscussa forza dell’esperienza spirituale su cui si basa uno scavo psicologico nel
profondo che si avvale delle tecniche yogiche di espansione coscienziale fuga ogni
perplessità riguardo alla possibilità di un’attuazione materiale del progetto spirituale.
Mai forse un maestro spirituale si spinse tanto in là e con altrettanta fermezza nella
volontà di portare a realizzazione e compimento in tempi relativamente brevi
l’obiettivo di una vita divina sulla terra – sebbene intuizioni di simile natura furono
propugnate tra gli altri dai ṛṣi vedici, dalla visione agostiniana della città di Dio e dal
messaggio profondo della resurrezione di Cristo in un corpo di luce trasfigurato.
Di là dalla disamina di mezzi e metodi di indagine psicologica grazie ai quali
l’essere umano potrà giungere al trascendimento della propria costituzione attuale,
Aurobindo fornisce anche una descrizione piuttosto accurata della natura e del
significato dell’esistenza supermentale o gnostica calata nella fisicità del nostro
universo – per quanto ciò sia possibile entro i limiti di una comunicazione di ordine
mentale. L’essere gnostico sarà dotato di una superiore coscienza divina in perpetuo
e spontaneo possesso dei segreti della Verità infinita di Brahman; conoscerà per
identificazione e non più attraverso l’acquisizione separativa e ignorante del mentale;
agirà con un’onnipotenza pratica al fine di realizzare gli scopi divini; espanderà ed
eleverà ogni facoltà umana conducendola ad una superiore perfezione. Vivendo nella
consapevolezza incrollabile di esistere quale frammento ed espressione eterni
dell’Uno l’uomo spirituale non rinnegherà ma anzi intensificherà la varia ricchezza
creativa dell’operare umano conducendola ad orizzonti di imprevista ampiezza: una
realizzazione piena, armonica e integrale della Verità una e al contempo infinitamente
multipla e sfaccettata costituirà l’espressione tipica della sua natura. La vita gnostica
coesisterà con i regni inferiori della manifestazione dell’Essere – l’umano, l’animale, il
vegetale, il materiale – illuminando il cammino degli esseri oppressi dalle barriere
dell’ignoranza, armonizzando la loro convivenza e costituendo un solido riferimento
e una costante influenza per tutti coloro che decidessero di elevarsi ad un superiore
destino.
Inoltre, poiché la Supermind non rappresenta l’apice nella scala dell’Essere, gli
esseri gnostici più evoluti appronterebbero i metodi per un’ulteriore ascesa della
razza, procedendo all’audace compito di incarnare il più divino dei principi –
Satcitānanda: grazie alla discesa nel cosmo dell’Origine stessa lo scopo

179
dell’evoluzione spirituale nell’universo materiale potrà dirsi raggiunto e la lunga
parentesi dell’oblio di sé di Brahman nell’incoscienza, nell’ignoranza e nel male potrà
trovare definitiva conclusione. Eternamente chiuso il gioco a nascondino con se
stesso dell’Infinito la vita potrà procedere gioiosamente ad ogni passo,
profondamente consapevole ad ogni istante della presenza del Divino in tutto e di
tutto nel Divino, perfettamente felice e assolutamente appagata delle proprie svariate
ed esuberanti espressioni dell’Uno. Non si tratterà però di un universo monotono o
noiosamente uniforme, statico specchio dell’immobilità non qualificata dell’Essere
supremo – come una mente ignorante potrebbe essere tentata di figurarsi una vita
superiore: l’esistenza superumana conoscerà manifestazioni più ricche e pregne di
interesse rispetto ai progetti e agli scopi finiti di un’umanità brancolante
nell’ignoranza; superate le limitazioni del mentale saranno infatti spazzate via anche
tutte le ostruzioni al libero flusso della creatività che affliggono l’attuale condizione
umana. La sostanza stessa dell’esistenza sarà allora l’ispirazione continuamente e
spontaneamente affluente dai regni superiori dell’Essere: ogni opera la simbolica
espressione cosciente di un aspetto del Supremo, ogni gesto un respiro dell’Uno nelle
nostre membra, ogni atto la realizzazione di un decreto della volontà divina.
Non si voglia però confondere la vita gnostica con deliri di onnipotenza del
tutto egoici dai quali non è immune l’übermensch nietzscheano: la natura egoica con la
catena delle sue limitazioni e il fardello delle sue brame finite e ignoranti devono
essere abbandonate il più presto possibile nel percorso di realizzazione yogica e
certamente ben prima della divina palingenesi – ad evitare il rischio di volgere il
potere divino a scopi diabolici o di giungere ad un ingigantimento dei gradi vitale e
mentale senza poter pervenire ad un superiore ordine spirituale dell’Essere. In effetti
l’immagine nietzscheana dell’übermensch non è esente da un senso di sovrapotenza
configurata nei termini di un dominio e di un’oppressione dell’inferiore, espressione
di una volontà vitale e mentale titanica debordante dai propri limiti e fortemente
egocentrica. D’altro lato l’uomo divinizzato non deve essere nemmeno identificato
con i tipi umani spirituali più elevati che la storia abbia prodotto: è un essere ancora
di là da venire, luminoso, immortale, divino e onnipotente. Egli donerà alla terra un
volto nuovo, trasfigurandola nelle nozze mistiche che la legheranno eternamente al
cielo.

180
1. Trasformazione: una nuova psicologia del profondo

Cammino principe dell’unione al Divino e della trasformazione gnostica, lo


yoga conduce al discoprimento della natura pluristratificata del nostro essere
portando alla luce territori della psicologia del profondo ancora inesplorati
dall’Occidente: sebbene radicata nel solco della tradizione hindū la descrittiva
dell’interiorità antropica offerta da Aurobindo presenta una configurazione piuttosto
originale, venendo a complessificare e approfondire la classica strutturazione della
natura umana in cinque kośa – gusci o involucri sovrapposti all’ātman6. Nel percorso
di esplorazione psicologica giungiamo a scoprire una natura cosciente in ogni parte
del nostro essere, poiché tutto nell’uomo – come del resto nel cosmo – è
manifestazione più o meno deformata o pura del divino Cit: emergono così una
coscienza del fisico e del vitale le quali rappresentano senza ombra di dubbio forze
coscienti, seppure più rozze e inferiori rispetto alla mente – di là dall’apparenza di
incoscienza che il mentale tende ad attribuire a tutto ciò che non rientri entro il
proprio paradigma coscienziale. Nella condizione attuale dell’umanità le porzioni
psicologiche disvelate alla coscienza conoscono un insanabile conflitto tentando di
dominarsi a vicenda: ad esempio la mente si sforza di vincere il vitale frenandone gli
impulsi, la vita si impegna a sopraffare il mentale rendendolo uno strumento di
giustificazione dei propri desideri; è questa l’eterna lotta tra ragione e passioni in cui
si potrebbe sintetizzare la storia dell’etica occidentale, incapace di risolvere
esistenzialmente la questione per il rifiuto di appellarsi ad un principio superiore al
mentale. Nessuno dei principi inferiori dell’Essere, a causa dei limiti coscienziali ed
energetici che li contraddistinguono, è in grado di giungere ad una solida supremazia
o ad un’armonizzazione della vita psichica: per questo la lacerazione psicologica
provocata dai loro urti non potrà trovare scioglimento se non grazie all’intervento
risanatore e integrativo di un potere coscienziale divino. In questo senso lo yoga è un
essenziale strumento di risoluzione delle ansie e infelicità umane verso l’integrità

6 Nell’esposizione vedāntina le cinque guaine sono: annamayakośa o corpo alimentare – il fisico;


̄ ayakośa o guaina dell’energia vitale – il vitale; manomayakośa o mente empirica dotata del
prāṇam
senso dell’io – il mentale; vijñānamayakośa o intelletto puro – la Supermind; ānandamayakośa o corpo
di beatitudine – il quale non trova un riscontro diretto nella psicologia aurobindiana.

181
psicologica e l’armonizzazione delle lotte interiori: un compito solamente
propedeutico all’ascesa gnostica su cui non è dato riposare – come troppa psicanalisi
occidentale pretenderebbe – e che non rappresenta certamente il fine ultimo
dell’umano destino.
Al di sotto della personalità di facciata, della mente, della vita e del corpo che
appaiono alla nostra coscienza mentale come i soli elementi costitutivi dell’essere
umano l’approfondimento yogico della conoscenza di noi stessi rivela porzioni più
vaste della psiche che governano a nostra insaputa la nostra esistenza. In prima
istanza emergono i domini del subcosciente e del subliminale:

First, he [l’uomo] is aware only of a small part of his own being: his surface mentality, his surface life,
his surface physical being is all that he knows and he does not know even all of that; below is the
occult surge of his subconscious and his subliminal mind, his subconscious and his subliminal life-
impulses, his subconscious corporeality, all that large part of himself which he does not know and
cannot govern, but which rather knows and governs him7

Il subliminale è la forma più vera e vasta della nostra individualità, in costante


contatto con i principi universali, eterna e non limitata dal tempo: esistono una
mente subliminale, una vita subliminale, un fisico sottile subliminale ed anche un
principio psichico o animico subliminale – rispettivamente aperti all’influsso della
Mente universale, della Vita cosmica, del principio materiale universale e dell’Ānanda.
La scoperta dell’essere subliminale dà l’abbrivio all’espansione coscienziale e al
percorso di elevazione al Divino: con una progressiva integrazione delle facoltà
subliminali nel sé di veglia il sādhaka può divenire capace di proiettare la propria
coscienza intorno al sé egoico (circumconscient) ed estendere il proprio dominio sino
all’inclusione dell’universo intero nel proprio sé. Una realizzazione cosmica della
massima importanza, grazie a cui l’alterità degli enti nella cognizione separativa del
mentale è sostituita da una libera identificazione con l’oggetto del conoscere. Il
risultato dinamico di questa prima trasformazione è lo scorrere della Śakti divina,
dell’Energia universale nel proprio sé liberato:

7 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 225.

182
In this freedom of entry into cosmic self and cosmic nature there is a great liberation of the individual
being; it puts on a cosmic consciousness, becomes the universal individual. [...] an entire openness to
the universal Energy so that it is felt acting through the mind and life and body and the sense of
individual action ceases8

La sfera del subconscio va invece nettamente distinta dal subliminale,


configurandosi come uno stato di coscienza diminuita inferiore al mentale, prossima
alla nescienza della materia: qui sono ospitati gli stati coscienziali submentali, vitali e
fisici – la personalità animale, i ciechi impulsi e gli istinti incontrollabili. Talvolta
Aurobindo colloca il subcosciente nel subliminale quale sua regione inferiore e
ignorante: col che si viene ad estendere e gerarchizzare il mondo subliminale
includendovi vari gradi di coscienza – tra i quali sembra compreso in qualche
occasione anche il sovracosciente, aperto agli influssi di Overmind e Supermind. Al fine
di giungere ad una trasformazione piena del passato animale subcosciente risulta
necessario penetrare in questa zona d’ombra attraverso la luce rigenerante di una
coscienza superiore al mentale: questa potrà ristabilire il controllo del Divino là dove
la mente tenta di frenare e domare i demoni interiori senza poter pretendere ad una
loro elevazione.
Insomma, come direbbe Freud, ciò che conosciamo ordinariamente di noi
stessi non è che la sommità di un iceberg ancora insondato; la massima parte della
nostra natura è ancora sommersa sotto lo strato coscienziale di veglia: «our mind and
ego are like the crown and dome of a temple jutting out from the waves while the
great body of the building is submerged under the surface of the waters»9. Ma oltre a
scorgere nell’uomo tutta una serie di demoni della libido e impulsi bestiali Aurobindo
rinviene nell’interiorità anche una pura luce divina, che potrà sanare le scissioni
divenendo guida e maestra del nostro essere: l’anima o il principio psichico che è
l’immortale scintilla del Divino ospitata nella più segreta caverna del nostro cuore.

It is a flame born out of the Divine and, luminous inhabitant of the Ignorance, grows in it till it is able

8 Ibid., p. 561. Non intendiamo soffermarci oltre riguardo alla validità di questa e delle altre scoperte
psicologiche aurobindiane, verso le quali una mentalità materialistica si dimostra ancora piuttosto
scettica, rimandando alle considerazioni sulla legittimità epistemologica dell’esperienza spirituale
contenute nel primo capitolo del presente lavoro.
9 Ibid., p. 576.

183
to turn it towards the Knowledge. It is the concealed Witness and Control, the hidden Guide, the
Daemon of Socrates, the inner light or inner voice of the mystic. It is that which endures and is
imperishable in us from birth to birth, untouched by death, decay or corruption, an indestructible
spark of the Divine10

Lo psichico è la fiamma individuale ed eterna del Divino in noi, il nodo della


permanenza immortale dell’individuo nella vita divina: non ātman ma Persona
psichica che gioisce di ogni contatto, sempre spontaneamente rivolta alle potenzialità
divine ancora irrealizzate. La sua prima naturale occupazione è l’armonizzazione
integrale delle complesse tendenze umane. Se il subliminale è ancora un potere di
conoscenza frammisto all’ignoranza operante con una cognizione per contatto
diretto, l’essere psichico è invece perfettamente illuminato dalla luce divina e
spontaneamente rivolto alla Verità con una conoscenza per identificazione.
Discoprire l’entità psichica, risiedervi e farne il centro della nostra vita coscienziale è
il passo cruciale della trasformazione spirituale: il profondo significato, anche
etimologico, di esoterismo come sguardo nell’interiorità e conversione del nucleo
esistenziale dall’esterno all’interno. Abbandonati l’egoismo separativo del mentale e
l’attaccamento ad un’esistenza superficiale esteriorizzata l’anima potrà prendere il
controllo della nostra natura sostituendo in questo ruolo i suoi strumenti attualmente
insubordinati – mente, vita e corpo.
Ancora oltre nell’indagine psicologica giungiamo al regno del sovracosciente,
comunicante con il quaternario superiore dell’Essere: una coscienza divina esistente
già in nuce nell’umanità attuale, non un potere nuovo che debba essere inventato ma
una presenza interiore da esprimere nella coscienza di veglia – «it [la Conoscenza
integrale] is there veiled in our deeper and greater self; [...] it is by awaking to it even
in our surface self that we have to possess it»11. È così svelata quella coscienza
integrale che potrà dar corpo ad un’esistenza autenticamente advaita, in grado di
vivere i contrari nella loro complementarità cogliendo l’Infinito nel finito; illuminata
da una conoscenza integrale del Divino non rigetta gli elementi inferiori e abissali
dell’Essere ma vede l’unità essenziale celata nella molteplicità delle forme, l’eternità

10 Ibid., p. 238.
11 Ibid., pp. 659-660.

184
nel decorso spaziotemporale, l’onnipervadenza aduale di Brahman.

An integral spiritual consciousness carries in it a knowledge of all the terms of being; it links the
highest to the lowest [...] its vision discovers the manifestation of the One in the Many, the identity of
the Infinite in the disparity of things finite, the presence of the timeless Eternal in eternal Time12

Fondamentare la propria esistenza nel Trascendente non significa dunque


rinunciare alla vita terrena e alle gioie del molteplice ma armonizzare e rendere
compatibile la consapevolezza della natura ineffabile dell’Infinito con le
manifestazioni delle sue potenzialità: prerogativa di una coscienza davvero integrale
che accoglie in un unico abbraccio gli enti, senza cedere alla tentazione di rifuggire
l’esistenza mondana in un’estinzione nirguṇica – «to achieve foundation in the
supramundane and a self-aware manifestation in the mundane, is the integral
knowledge; [...] It is this whole consciousness with its complete knowledge that
builds the foundation of the Life Divine»13.
Essenziale la conciliazione dei tre principali equilibri brahmanici nel seno
della coscienza umana divinizzata: il Trascendente, l’Universale e l’Individuale
troveranno il loro proprio giusto valore e la loro esatta collocazione nell’esistenza
supermentale – capace di tradurre in realtà manifestata il carattere triuno del Divino.
Una triplicità radicata su un fondamento unitario al di là delle possibilità conoscitive
del mentale: «The conscious unity of the three, God, soul and Nature, in his
[dell’essere gnostico] own consciousness is the sure foundation of his perfection and
his realisation of all harmonies: this will be his highest and widest state, his status of a
divine consciousness and a divine life»14. La coscienza divina tocca e diviene la luce
spirituale: un’elevata formulazione delle potenzialità divine nell’umano resa possibile

12 Ibid., p. 660. «To seize the absolute in shapes that pass, / To fix the eternal’s touch in time-made
things, / This is the law of all perfection here», Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op.
cit., Voll. XXXIII-XXXIV, Savitri, Libro II, Canto II, vv. 193-195, p. 108.
13 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 662.

Nello stesso spirito si espresse in un sublime verso il cantante della band statunitense Tool, Maynard
James Keenan: «swing on the spiral of our divinity and still be a human», Lateralus, dall’album
Lateralus, Volcano Records, 2001. L’interesse profondo e la vasta cultura dimostrati dall’artista
nell’ambito delle tradizioni sapienziali, delle mistiche orientali e dell’alchimia nonché l’esercizio di
pratiche meditative cui questi si dedica assiduamente da anni bastino a stornare ogni dubbio sulla
liceità di questa apparentemente poco colta citazione.
14 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 729.

185
da una doppia concentrazione dell’essere verso l’alto nell’identificazione al Divino e
verso l’interno nella sostituzione dell’essere psichico al complesso egoico – «it is a
flow of light and knowledge and will from above and a reception from within [...]
The whole concentration of the being will be shifted from below upwards and from
without inwards; our higher and inner being now unknown to us will become
ourselves»15.
Nel capitolo XXV della seconda parte del libro secondo di The Life Divine,
The Triple Transformation, Aurobindo offre una strutturazione del percorso
trasmutatore parzialmente differente da quella appena esposta – mantenendo però
salde le proprie fondamentali coordinate psicologiche. Poiché ogni aspirante ad una
vita divina incontrerà sul proprio cammino difficoltà peculiari e traccerà traiettorie
sempre diverse del sentiero che conduce a Brahman, dipendenti dalla sua costituzione
individuale, non sarebbe in effetti opportuno pretendere in un tale ambito di
conoscenza una rigida univocità teorica. Il carattere esistenziale e non meramente
speculativo della ricerca aurobindiana impone una flessibilità mentale particolare e
propone una molteplicità di approcci trasformativi la cui valenza pratica andrà
vagliata caso per caso – evitando dogmatismi razionalistici nel rispetto delle diversità
di conformazione psicologica individuali. Il processo trasformativo conosce tre fasi
essenziali: un cambiamento psichico grazie al quale l’anima prenderà possesso dei
suoi strumenti e assumerà la guida di mente, vita e corpo; un cambiamento spirituale
sostanziato nella discesa della Conoscenza divina; una trasmutazione supermentale in
cui tutto il nostro essere sarà riplasmato dalla discesa della Supermind nel mondo
materiale.
La progressiva apertura all’entità psichica orienta spontaneamente la nostra
natura verso il Divino: il decentramento coscienziale dall’ego esteriore all’anima è il
risultato principale dell’integrazione delle discipline yogiche bhaktica, karmica e
jñānica che conduce allo sviluppo di un tipo psicologico molto elevato – «a
composite perfection of the saint, the selfless worker and the man of spiritual
knowledge»16. Una tale apertura alla scintilla del Divino che risiede nel profondo dei
nostri cuori esige un completo e sincero surrender alla volontà e potenza di Brahman

15 Ibid., p. 753.
16 Ibid., p. 937.

186
in ogni nostro pensiero, volontà e azione. Se l’aspirazione è sufficientemente pura il
ricercatore potrà abbandonare la personalità di superficie e trasformarsi nella vera
Persona interiore, il Puruṣa: «one must cease to be the surface personality and
become the inner Person, the Purusha»17 – in questo decentramento e riorientamento
della personalità risiede il nocciolo e la chiave del cambiamento psichico. Una volta
che abbia preso il comando della nostra natura, lo psichico procederà all’integrazione
delle complesse energie conflittuali ospitate dal nostro essere armonizzando gli
strappi dell’ordinaria vita psicologica e purificando l’interiorità con un potere e una
sicurezza sconosciuti alle tecniche psicoterapeutiche occidentali: «all is purified, set
right, the whole nature harmonised, modulated in the psychic key, put in spiritual
order»18. A questo punto possono liberamente affluire esperienze spirituali di ogni
tipo, senza limiti: il sādhaka conosce Īśvara, il Signore del mondo, Śakti, la madre
delle creature ed entra in comunione con la coscienza cosmica.
Il secondo passo, la trasformazione spirituale, richiede una solida base
psichica non egoica per dirigere il cammino verso le altezze sovracoscienti dei domini
ultramentali e supermentali. Dopo l’ardua ascesa ai territori superni dell’Essere è
possibile far discendere nella coscienza terrestre i poteri del Divino, con un processo
suggestivamente descritto:

a knowledge from above begins to descend, frequently, constantly, then uninterruptedly, and to
manifest in the mind’s quietude or silence; intuitions and inspirations, revelations born of a greater
sight, a higher truth and wisdom, enter into the being, a luminous intuitive discrimination works
which dispels all darkness of understanding or dazzling confusions, puts all in order; a new
consciousness begins to form, the mind of a high wide selfexistent thinking knowledge [...] the heart
and the sense become subtle, intense, large to embrace all existence, to see God, to feel and hear and
touch the Eternal [...] No limit can be fixed to this revolution; for it is in its nature an invasion by the
Infinite19

Ma tutta l’opera di trasmutazione è fino a questo punto difficoltosa ed


esposta ad ogni passo al rischio del fallimento o della ricaduta nelle vecchie abitudini:
l’impurità delle porzioni inferiori del nostro essere ci richiama costantemente al

17 Ibid.
18 Ibid., p. 941.
19 Ibid., pp. 946-947.

187
nostro passato animale e mentale. Solo la Supermind nella sua trionfale discesa potrà,
nella fase finale della trasformazione, agire per gli scopi divini superando con
sicurezza ogni ostacolo: la forza intrinseca della sua Coscienza-di-Verità, sempre
luminosamente conscia del Divino, è infatti inattaccabile e sorda alle richieste
meschine della triade inferiore dell’Essere. Il riduzionismo spiritualista si è sempre e
solo adoperato al dissolvimento di un’esistenza terrena problematica, tacciata di
irrealtà: unica sua meta era l’ascesa umana al Divino sino all’identificazione e alla
fusione nell’Assoluto, in cui ogni traccia di individualità finiva per perdersi
nell’insondabilità ineffabile dell’Infinito. La ricerca aurobindiana di contro raccoglie
anche la sfida di un’aspirazione individuale e terrena all’Infinito, includendo nel
processo realizzativo un movimento discensionale del Divino in quel cosmo che è la
sua manifestazione: l’Infinito abbraccia così i suoi finiti riempiendo di senso
un’esistenza umana infelice e tormentata. «The passionate aspiration of man upward
to the Divine has not been sufficiently related to the descending movement of the
Divine leaning downward to embrace eternally Its manifestation»20. Ora possono
aprirsi i cancelli di una vita divina sulla terra.

2. L’essere gnostico

L’obiettivo spirituale di una vita divina – il quale potrebbe porsi in parallelo


alla secolarità sacra panikkariana – compare già nelle prime righe di The Life Divine
come accenno e auspicio alla realizzazione di quell’anelito all’Infinito in cui
confluiscono le più alte speranze e le più profonde esigenze spirituali del genere
umano. L’esistenza spirituale è qui connotata con tratti cognitivi superiori alla norma,
la presenza costante di un’inalienabile εὐδαιµονία che è riflesso terrestre e
incarnazione dell’Ānanda divino, libertà di pensiero e azione dai meccanismi delle
leggi naturali e dagli impulsi subcoscienti. Ma soprattutto immortalità del corpo e
onnipotenza pratica: quel fine di dominio dell’esistenza materiale cui si sta
asintoticamente avvicinando la scienza moderna nelle sue applicazioni tecnologiche,
ma per scopi egoistici e violenti – ignorando il senso divino del proprio operare. Da

20 Ibid., p. 28.

188
subito la tematica è legata a doppio filo con quell’evoluzione spirituale della Natura
che abbiamo già avuto modo di contestare nel terzo capitolo21: lasciato cadere ogni
determinismo cosmico rimane però ancora aperta la possibilità di perseguire un fine
divino sulla terra – dipendente ora più dalla scelta cosciente della volontà umana che
da una necessità teleologica.

To know, possess and be the divine being in an animal and egoistic consciousness, to convert our
twilit or obscure physical mentality into the plenary supramental illumination, to build peace and a
self-existent bliss where there is only a stress of transitory satisfactions besieged by physical pain and
emotional suffering, to establish an infinite freedom in a world which presents itself as a group of
mechanical necessities, to discover and realise the immortal life in a body subjected to death and
constant mutation, – this is offered to us as the manifestation of God in Matter and the goal of
Nature in her terrestrial evolution22

Il capitolo XVII del libro primo dell’opera filosofica aurobindiana, The Divine
Soul, offre un primo abbozzo dell’immagine e del significato di una vita divina.
L’uomo divino gode dell’identità con Brahman e al contempo della differenza da
Quello in un’individualità cosciente della propria appartenenza essenziale all’Essere
unitario: avendo abbandonato i limiti di Avidyā ha raggiunto l’immortalità. Silenzioso
nella calma della propria pace interiore e nell’immutabilità imperturbabile della
serenità spirituale l’anima divina si diverte nondimeno a giocare con facoltà umane
ampliate ed elevate, conoscendo e creando forme adatte ad esprimere
simbolicamente il Divino nel molteplice – in una condizione coscienziale di perpetua
beatitudine, di costante estasi: «a pure and inalienable delight in its eternal self-
experience and in Time a free variation of bliss unaffected by our perversions of
dislike, hatred, discontent and suffering»23. La consapevolezza di esistere quale
frammento o porzione dell’Assoluto, essere dell’Essere, onda che è tutto il mare24
sarebbe permanente: un’esperienza spirituale non più discontinua o ripetutamente
richiamata a più basse quote da bisogni fisici e desideri vitali ma l’intimo e spontaneo

21 Cfr. supra, pp. 129-132.


22 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 4.
23 Ibid., p. 162.
24 «All ocean lived within a wandering drop», Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit.,

Voll. XXXIII-XXXIV, Savitri, Libro II, Canto I, v. 236, p. 101.

189
nucleo di una vita di ordine superiore. L’essere supermentale non perde la propria
grandezza nelle occupazioni più umili, investendo di un’aura di sacralità i gesti
quotidiani – senza disdegnare di dedicarsi ad opere servili e modeste. Non disse una
volta un maestro zen: se non riuscite a trovare un senso alla vita in un gesto semplice
come quello di lavare i piatti non sperate di poterlo trovare altrove25? «The divine
soul living in the Truth of things would [...] always have the conscious sense of itself
as a manifestation of the Absolute»26. L’uomo divino vive contemporaneamente nei
poli dell’Uno e del Molteplice in un’autentica e piena esperienza advaita ancora
ignota ai più grandi saggi, veggenti, mistici e yogin che l’umanità abbia mai
conosciuto: «The finite self mated with infinity»27.
Quanto ai rapporti interpersonali la vita divina sarà costituita da un’armonia
di relazione fra anime che si riconosceranno vicendevolmente come differenti su uno
sfondo di unità essenziale, fuse nella separatezza individuale, altri sé del proprio sé:
tale consapevolezza unitaria di fondo nella varietà contingente e sempre nuova degli
scambi comunicativi permetterà di evitare definitivamente tutte quelle
incomprensioni e cecità alla base dei conflitti e degli odii che angustiano la nostra
attuale esistenza.

Because this unity is the basis of all its experience, it [l’anima divina] will be free from the discords of
our divided consciousness, divided by ignorance and a separatist egoism; all these selves and their
relations will play consciously into each other’s hands; they will part and melt into each other as the
numberless notes of an eternal harmony28

Unica condizione essenziale per la realizzazione di una tale concretissima


utopia è, non vi si insisterà mai abbastanza, l’abolizione dell’egoismo separatore: il
vero peccato originale che lascia l’umanità immersa nel pantano dell’ignoranza
impedendole di trascendersi. I processi mentali saranno utilizzati solamente in qualità
di atti cognitivi subordinati e di secondaria importanza dall’essere gnostico –
esattamente nello stesso modo in cui a tutt’oggi la mente si serve del vitale per

25 Cfr. Huston Smith, Le Grandi Religioni Orientali, p. 181.


26 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 163.
27 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXXIII-XXXIV, Savitri, Libro I,

Canto III, v. 136, p. 25.


28 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 167.

190
raggiungere i propri scopi. L’uomo divino sarà infatti guidato dal potere di coscienza
della Supermind, nuovo fondamento del suo essere: una sovracoscienza advaita e
unificatrice, non più una mentalità analitica e separatrice vanamente tendente ad una
Verità ultima che i suoi stessi limiti costitutivi le impediscono di raggiungere. Dunque
il ruolo della mente, seppure non annullato, subirà un drastico ridimensionamento:
«it [l’anima divina] uses mind as a subordinate action of the infinite knowledge, a
definition of things subordinate to its awareness of infinity»29. Così ad esempio la
memoria non possederà più quel ruolo cruciale ad una conoscenza separativa,
essendo stata superata la condizione di soggezione al fluire lineare del tempo in uno
stato sovracosciente in cui presente, passato e futuro mostrino la loro essenziale
natura unitaria e indivisa.
Gli elementi inferiori, più rozzi e animali del nostro essere non vogliono
essere abbandonati a se stessi in una realizzazione esclusivamente celeste. La
proposta alchemica e integrale di Aurobindo non intende trascurare o disprezzare le
potenzialità divine latenti ovunque, nella materia bruta come nella fisicità più
grossolana: è certo però che il perseguimento di una vita divina richiede
un’elevazione e una trasformazione integrativa dell’inferiore affinché questo possa
farsi veicolo del superiore in un processo liberatorio onniabbracciante. Se Brahman,
nella sua unità multisfaccettata, concilia differenti e opposte condizioni coscienziali
assumendo simultaneamente le loro varie configurazioni e se la vita divina sulla terra
deve essere il riflesso e lo specchio sincero della natura del Divino parte integrante
della missione dell’essere gnostico sarà il dono di un pieno senso e valore divini alle
sfere inferiori dell’Essere:

Not to abandon the lower to itself, but to transfigure it in the light of the higher to which we have
attained, is true divinity of nature. Brahman is integral and unifies many states of consciousness at a
time; we also, manifesting the nature of Brahman, should become integral and all-embracing30

Non dovremo rinunciare a nulla di ciò che il nisus evolutivo ha già


conquistato ma portare ogni cosa, le nostre vette come i nostri abissi, al loro

29 Ibid., p. 177.
30 Ibid., p. 42.

191
compimento supremo. Data l’onnipresenza dell’Infinito tutto ciò che normalmente
riteniamo essere non-divino non può che ricondursi ad una parziale espressione o
manifestazione di Brahman: questa stessa conclusione implica una potenzialità di
divinizzazione e una capacità di trascendimento di sé della trinità ignorante
dell’Essere.

It is possible, even probable that mind, body and life are to be found in their pure forms in the divine
Truth itself, are there in fact as subordinate activities of its consciousness [...] Mind, life and body
must then be capable of divinity; [...] their present functioning might well be converted, would indeed
naturally be converted by a supreme evolution and progression into that purer working which they
have in the Truth-consciousness31

Mente, vita e corpo non saranno gettati via come residui di un’esistenza
inferiore condannata ad un confinamento nell’ignoranza ma troveranno anzi un più
vasto campo di possibilità a loro disposizione. La trasformazione spirituale
permetterà loro di esprimersi in maniera più libera, creativa ed ampia di quanto non
sia attualmente concesso in condizioni limitanti: il che ci riporta alle considerazioni
sul ruolo della creatività di cui parlavamo nella prefazione32. Il cambiamento divino
perfezionerà le facoltà umane ordinarie rendendole più plastiche, flessibili, ampie e
potenti di quanto non siano oggi: debordando dai loro confini le doti creative
dell’umanità raggiungeranno vette insospettate, espandendo i territori e le possibilità
esplorative del pensiero e dell’arte umani – e innervandole di gioia divina.

Our mental, physical, vital existence need not be destroyed by our self-exceeding, nor are they
lessened and impaired by being spiritualised; they can and do become much richer, greater, more
powerful and more perfect: in their divine change they break into possibilities which in their
unspiritualised condition could not be practicable or imaginable33

L’integralità di una visione che si proponga come fine il trascendimento di


uno spiritualismo ascetico riduzionista unicamente volto alla trance di un
assorbimento mistico nell’Ineffabile è legittimata dalla natura stessa del Divino.

31 Ibid., p. 172.
32 Cfr. supra, p. 9.
33 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 756.

192
Poiché Brahman, come si è visto, non è semplicemente coscienza illuminata e beata
in un’immacolata perfezione senza tratti ma anche Śakti onnipotente creatrice dei
mondi ed Energia universale si apre la possibilità di un’espansione delle potenzialità
dinamiche e pragmatiche dell’uomo – di là da un’illuminazione della coscienza che è
un dato assodato da millenni nelle realizzazioni mistiche.

if it [la coscienza supermentale] were in its nature only vision in knowledge and not at all dynamic
power of knowledge, we could hope to attain by its contact a beatific state of mental illumination, but
not a greater light and power for the works of the world. But since this consciousness is creatrix of the
world, it must be not only state of knowledge, but power of knowledge, and not only a Will to light
and vision, but a Will to power and works34

Il potere infinito del Divino si riversa nelle membra dell’essere gnostico: un


potere contenuto implicitamente nel silenzio trascendente, nel vuoto che è matrice di
ogni determinazione cui i metodi yogici permettono di pervenire – una volta che si
sia acquietato l’incessante turbinio delle idee finite in cui il mentale sciupa gran parte
delle proprie energie. «It is when we arrive at something of this silence, stability,
immobility that we can base on it a force and energy which in our superficial restless
state would be inconceivable»35. L’uomo divino potrebbe addirittura giungere ad un
potere alchemico di trasmutazione materiale, di là dai metodi artificiali della scienza e
verso un dominio diretto delle forze naturali. Qualora si sia scostato il velo e
penetrata la densa apparenza incosciente della materia alla volta del ritrovamento di
uno spiraglio di coscienza divina nel mondo inanimato – ciò che riassume, stando
all’interpretazione aurobindiana, l’intero messaggio segreto contenuto nei Veda –
cade ogni barriera al controllo umano delle energie naturali: «master that which all
material things are in their essence and we may arrive even at the power of
transmutation which would give the greatest possible control of material Nature»36. Il
che non significa che lo scopo della scienza nella sua applicazione tecnologica possa
identificarsi tout-court con l’obiettivo spirituale integrale: ma dimostra che l’ascesa
divina dell’umanità potrà portare a compimento e ad una superiore perfezione anche

34 Ibid., p. 131.
35 Ibid., p. 351.
36 Ibid., p. 396.

193
le utopie della mentalità materialistica – per quanto queste si rivelino parziali e
secondarie una volta attinta una dimensione superiore dell’esistenza.
Privata del suo aspetto dinamico, attivo e potente, la trasformazione
dell’uomo in un essere divino non potrà dirsi completa o rispondere in maniera
soddisfacente alle esigenze di un’aspirazione integrale all’Infinito. Un’intuizione
spirituale astratta o interiore non è sufficiente ad elevare ogni porzione della nostra
complessa natura, ivi compresi il fisico e il vitale, alla soprannatura divina:

there is needed an entire remoulding of what we are into a way and power of the divine Supernature.
The integration of our being cannot be complete unless there is this transformation of the dynamic
action; there must be an uplifting and change of the whole mode of Nature itself and not only some
illumination and transmutation of the inner ways of the being37

Una realizzazione integrale deve comprendere anche la sfera dell’attività


esteriore e non può accontentarsi di una perfezione intellettuale meramente teorica,
lasciando invariati i nostri modi d’essere o appagandosi di una rinascita puramente
interiore: «the truth, once discovered, must be realisable in our inner being and our
outer activities: if it is not, it may have an intellectual but not an integral
importance»38. La compresenza simultanea in un unico essere dei poli del silenzio
trascendente e dell’azione cosmica potrebbe risultare contraddittoria e inconcepibile
alla mente ordinaria: tuttavia, su un piano sovracosciente, rappresenta il logico
risultato pratico del superamento delle dualità – l’incarnazione dell’advaita divino.
L’essere gnostico vive contemporaneamente su tutti i piani manifesti e ancora
immanifesti del Divino, senza attaccamento o disprezzo per la terra o per il cielo:
nella sua coscienza integrale gode imparzialmente di ogni grado dell’Essere.

dobbiamo divenire, in tutte le parti del nostro essere, immobili nel Sé silenzioso, ma continuare ad
agire secondo il potere dello Spirito – Shakti, Prakriti –, secondo la sua alta e vera forza. E se ci
domandiamo come è possibile la simultaneità di ciò che sembra essere in opposizione, la risposta è
che questa è appunto la natura di un essere spirituale completo, egli contiene in sé il doppio equilibrio

37 Ibid., p. 655.
38 Ibid., p. 693.

194
dell’infinito39

Raggiunta una condizione divina, l’uomo spirituale non smarrisce la propria


individualità40. Nello stato di immortalità divina sulla terra la personalità non è
dispersa in una fusione con l’Assoluto: ma nemmeno è possibile continuare a
immedesimarsi con l’ego di superficie. Emerge un più vasto Sé capace di identificarsi
con il cosmo e con la trascendenza pur senza perdere le connotazioni individuali:
base dell’individuo divino è ora l’essere psichico, l’autentica vasta Persona che siamo
in segreto da sempre – di cui l’ego non è che un surrogato esteriore limitato. Se
l’essere gnostico non rinuncia all’individualità, qualità separativa e differenziale,
certamente però non si distacca come un essere finito e ignorante dall’identità con il
Divino: egli gioisce al contempo della sua nuova e ampia individualità, della coscienza
cosmica e della trascendenza ineffabile. Lucido specchio dell’Infinito, l’essere
supermentale non lascia l’unità quando si volge alla differenza, nello stesso modo in
cui Brahman non vede dispersa o diminuita la sua unità infinita quando si cala nel
molteplice della manifestazione.

in the end this Purusha, this cause and self of our individuality, comes to embrace the whole world
and all other beings in a sort of conscious extension of itself and to perceive itself as one with the
world-being. [...] the mind no longer thinks of a limited temporary individualisation as all ourselves
but only as a wave of becoming thrown up from the sea of its being41

Il riflesso di una tale simultaneità di coscienza advaita nelle relazioni


interpersonali è un nuovo fondamento della comunicazione: nel rapporto con gli altri
enti non interviene più quel senso di incolmabile alterità su cui si basa un
interscambio determinato dal senso egoico di separatezza individuale; né si dà una
pura e semplice fusione di anima con anima tale da interdire o rendere inutile ogni
ulteriore relazione. Una reciprocità pratica radicata sul fondamento di essenziale unità
di ogni ente con l’Uno si manifesta come la nuova qualità caratteristica del rapporto

39 Śrī Aurobindo, Lo Yoga della Bhagavad Gītā, op. cit., p. 346.


40 Il tema costituisce l’oggetto precipuo del terzo capitolo della prima parte del libro secondo di The
Life Divine, The Eternal and the Individual.
41 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, pp. 383-

384.

195
tra esseri liberati:

there is a true individual who is not the ego and still has an eternal relation with all other individuals
which is not egoistic or self-separative, but of which the essential character is practical mutuality
founded in essential unity. This mutuality founded in unity is the whole secret of the divine existence
in its perfect manifestation42

Occorre una breve parentesi relativa alle fonti della concezione di una
trasformazione divina dell’uomo: Aurobindo non fornisce in questo senso che rapidi
e sporadici cenni, sottolineando implicitamente la novità e l’originalità di una tale
proposta. Il vangelo del superuomo è rintracciato parzialmente nella Bhagavad-Gīta,
dove sembra di poter leggere nell’insegnamento di Kṛṣṇa ad Arjuna il monito ad una
realizzazione operativa e mondana dello spirito: «La perfetta libertà spirituale
dev’essere conquistata qui, sulla terra, e bisogna possederla e gioirne durante la vita
umana»43. L’essere divinizzato potrà allora abbandonare ogni tecnica yogica, poiché
vivrà costantemente in yoga – vale a dire, unito al Divino. Un debito tantrico è poi
innegabile, ma il maestro non vi si sofferma – né vi allude nella sua opera filosofica:
«Tantric discipline is in its nature a synthesis. [...] To raise nature in man into
manifest power of spirit is its method and it is the whole nature that it gathers up for
the spiritual conversion»44. Nessun’altra indicazione di un qualche rilievo
direttamente fornita dall’autore legittima la pretesa di un’influenza diretta di fonti
altre da quelle orientali sulla proposta aurobindiana di una vita divina. Come in ogni
altro caso tuttavia confronti e paralleli potrebbero essere davvero fecondi –
investendo ad esempio la sfera della mistica speculativa, dell’alchimia, dei Misteri e
delle tradizioni esoteriche d’Occidente. Basti qui sottolineare l’apporto cruciale della
mentalità materialistica occidentale nell’insistenza con cui il filosofo si mostra
intenzionato a trascendere i limiti di uno spiritualismo negatore della vita –
restituendo all’Oriente il valore delle cose terrene e all’Occidente il senso di una
profondità spirituale che l’imperante scientismo sta lentamente lasciando decadere.

42 Ibid., p. 387-388.
43 Śrī Aurobindo, Lo Yoga della Bhagavad Gītā, op. cit., p. 155.
44 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXIII-XXIV, The Synthesis of Yoga, p.

611.

196
L’essere gnostico è un perfetto strumento nelle mani del Divino, recettore e
canale della Śakti universale, fedele suddito del Volere eterno e agente dei progetti
divini: liberato per sempre dall’impulso vitale e dalle rigide regole di condotta mentali
diventa spontaneamente schiavo di Dio piuttosto che della natura inferiore.

Aware of the Divine as the Master of our being and action, we can learn to become channels of his
Shakti, the Divine Puissance, and act according to her dictates or her rule of light and power within
us. Our action will not then be mastered by our vital impulse or governed by a mental standard45

La sua natura incarna un principio spirituale superiore e completamente


differente dal mentale – la Supermind: per questo motivo non può essere identificato
con gli elevati tipi mentali spiritualizzati rappresentati dai grandi mistici, yogin e
veggenti. I più nobili rappresentanti della tipologia di un’umanità religiosa o spirituale
– santi, monaci, asceti e sciamani – non costituiscono che primitive formulazioni
esistenziali parziali della Verità infinita del Divino, non avendo potuto incarnare un
principio dell’Essere davvero nuovo nella manifestazione: «We may reasonably doubt
whether even a Plato or a Shankara marks the crown and therefore the end of the
outflowering of the spirit in man»46. La Natura ha tentato sperimentalmente di
esprimere il tipo divino servendosi di ogni strumento a sua disposizione – religione,
occultismo e filosofia spirituale – donando all’umanità saggi, santi e profeti: ma
l’unico vero strumento efficace per la trasformazione dell’umana natura resta
l’esperienza spirituale.
L’essere supermentale non è l’übermensch nietzscheano – su questo punto
Aurobindo è risoluto. L’oltreuomo profetizzato da Zarathustra non è in grado di
manifestare alcuna coscienza o potere superiori al mentale: questi esagera e potenzia
oltremodo il mentale e il vitale senza uscire dai cerchi di potenzialità umane già note.
«Any attempt to heighten inordinately the mental or exaggerate inordinately the vital
man, – a Nietzschean supermanhood, for example, – can only colossalise the human
creature, it cannot transform or divinise him»47. È il tipo del Titano o dell’Asura nella
mitologia hindū: l’uomo che ha potenziato le proprie facoltà senza essersi liberato

45 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 654.
46 Ibid., p. 793.
47 Ibid., p. 750.

197
dalle catene dell’ego e che ha bisogno di opprimere e schiacciare gli esseri più deboli
per confermare a se stesso la propria forza. Possedere un potere smisurato entro i
confini di una mente ignorante e legata al senso di separatezza non significa in alcun
modo avvicinarsi alla divinità della propria natura: si tratta al contrario di
un’affermazione smisurata di sé come ego, un’immersione ancora più completa nelle
maglie dell’ignoranza, un rovesciamento diabolico della forza infinita nel suo utilizzo
a scopi meschini e finiti – una ὕβρις intollerabile. «How shall he [il Titano] feel sure
of his empire unless he can feel something writhing helpless under his heel, – if in
agony, so much the better? [...] he is the son of division and the strong flowering of
the Ego»48.
Aurobindo riconosce nel filosofo tedesco una certa dose di ispirazione divina
e intuizione pura frammiste a deformazioni egoiche del messaggio spirituale: un
giudizio di valore conciso e incisivo che ci sentiamo di sottoscrivere, pur se rischia di
semplificare un po’ troppo la figura nietzscheana. Indubitabile la presenza di
un’ambivalenza o di una serie di scissioni nella prospettiva di Nietzsche. La sua
filosofia è dilaniata dalle opposte tensioni di una Wille zur Macht violenta e
terroristica, di un’Umwertung aller Werte sovvertitrice dell’ordine stabilito e creatrice, di
una divina intuizione, già più volte citata – l’affermazione dionisiaca – senza poter o
voler trovare un centro integrativo delle sue complesse istanze. Pagine che sono
espressione della più elevata libertà spirituale seguono senza soluzione di continuità a
terribili formulazioni della necessità del predominio del più potente sul più debole:
una serie di contraddizioni che nemmeno la logica dell’Infinito potrebbe discernere
adeguatamente e a cui la mente dello stesso Nietzsche non resse. Ma se una tale
compresenza di elementi opposti nella medesima filosofia fu qualcosa di voluto e
ricercato a bella posta per lasciare il diritto di espressione ad ogni punto visuale
prospettico senza aspirare ad una superiore armonizzazione, come negare al
pensatore di Röcken il merito di essere penetrato in quel grado sovracosciente
dell’Essere che Aurobindo ha definito Overmind?

the mystic of Will-worship, the troubled, profound, half-luminous Hellenising Slav with his strange

48Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XIII, Essays in Philosophy and Yoga, pp.
153-154.

198
clarities, his violent half-ideas, his rare gleaming intuitions that came marked with the stamp of an
absolute truth and sovereignty of light. But Nietzsche was an apostle who never entirely understood
his own message [...] sometimes he rose beyond his personal temperament and individual mind, his
European inheritance and environment, his revolt against the Christ-idea, his war against current
moral values and spoke out the Word as he had heard it, the Truth as he had seen it, bare, luminous,
impersonal and therefore flawless and imperishable49

Ad ogni modo la libertà e l’onnipotenza dell’essere gnostico, a differenza dell’


übermensch nietzscheano, non saranno schiave di brame vitali o pulsioni mentali ma si
lasceranno guidare come serve fedeli dal volere e dalla sovracoscienza del Divino. Si
potrà così giungere ad una conciliazione di un libero arbitrio vastissimo nelle proprie
possibilità con un determinismo che potremmo definire della luce, per distinguerlo
da quello della tenebra dell’impulso inframentale e del desiderio animale. Ma su
questo tema torneremo più avanti.
Come si è accennato nel capitolo sull’evoluzione non è detto che il cammino
della vita divina possa o debba necessariamente essere percorso da tutti gli esemplari
della razza umana per incarnare la nuova specie gnostica: «It is not indeed necessary
or possible that the whole race should transform itself from mental into spiritual
beings»50; ancor più recisamente: «there is not the least probability or possibility of
the whole human race rising in a block to the supramental level»51. Aurobindo non è
cieco di fronte all’evidente attaccamento della massima parte dell’umanità ai desideri
del vitale, seppure raffinati dalla maschera del mentale: nondimeno un tale ideale
potrebbe essere fruttuosamente accettato da tutti coloro che abbiano sentito il
richiamo dello Spirito e diffondersi progressivamente in strati sempre più ampi della
popolazione mondiale. Si risveglierebbe così in una porzione non esigua dell’umanità
quella tensione all’autotrascendimento e quell’anelito alla saggezza e all’Infinito che
costituisce il nocciolo dell’umana natura – venendo a configurarsi al contempo un
obiettivo preciso dello sforzo spirituale.
L’essere gnostico ha maturato pienamente la coscienza della propria natura
eterna ed intemporale. Non è più legato alla frenesia e all’ansia che corrodono una

49 Ibid., pp. 151-152.


50 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 752.
51 Ibid., p. 875.

199
vita autorappresentatasi effimera temendo lo scorrere del tempo verso una morte
nientificante dalla quale non vi è alcuna possibilità di ritorno ma gioisce del tempo
eterno, consapevole dell’immortalità intrinseca dello Spirito: «to exist consciously in
eternity and not in the bondage of the hour and the succession of the moments is the
substance of the change»52. Naturalmente l’essere divino dovrà sviluppare un nuovo
corpo in grado di sostenere la potenza dell’Infinito e di esprimere le sue superiori
armonie: un fisico immortale che trasformerà l’abitudine cellulare alla
disorganizzazione e alla morte in una persistente espressione della luce divina – «the
life divine assume a body divine»53. Ma prioritario nel passaggio ad un’esistenza
gnostica è l’allargamento di coscienza. Il nuovo principio corporale formulerà
spontaneamente la propria costituzione come conseguenza naturale del processo di
divinizzazione dell’interiorità: «the change of consciousness will be the chief factor,
the initial movement, the physical modification will be a subordinate factor, a
consequence»54.
Una descrizione approfondita e accurata della natura, delle qualità e del
significato di una vita gnostica sulla terra è affidata agli ultimi due capitoli – e in
particolare al penultimo – di The Life Divine55. Il tentativo di esposizione delle
modalità d’esistenza supermentali si riserva un limite cruciale: un resoconto mentale e
filosofico di un piano coscienziale superiore non potrà infatti che offrire allusioni e
indicazioni piuttosto astratte sulla natura della vita divina – costituendosi quest’ultima
come principio d’esistenza trascendente le coordinate dell’ordinaria mentalità.
Ancora una volta il vivido linguaggio del mistico o l’esperienza spirituale diretta
sarebbero veicoli di comunicazione più appropriati dei miracoli del sovracosciente.
Il passaggio alla vita gnostica è una totale rivoluzione della coscienza, una
Umwertung esistenziale a tutti i livelli, una µετάνοια propriamente intraducibile in
termini noetici. E tuttavia una facilitazione alla comprensione della nuova
manifestazione proviene dalla conservazione di una logica evoluzionistica che

52 Ibid., p. 767.
53 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XIII, Essays in Philosophy and Yoga, p.
522.
54 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 875.
55 The Gnostic Being e The Divine Life, rispettivamente capitoli XXVII e XXVIII della seconda parte del

libro secondo dell’opera.

200
prevede una discesa dall’alto di un superiore principio e la corrispondente ascesa ed
emergenza della Supermind involuta dai gradini inferiori dell’Essere. L’anima gnostica
diviene conscia dell’unità con Quello e della propria relativa differenza individuale dal
Divino, concependosi quale delegato, strumento e agente del Volere eterno: «aware
[...] of its own greater Self, the universal, the transcendent Reality, and of its own
Person as illimitably one with that and yet an individual being of Its being, an
instrument and a spiritual centre»56. Nella sua spontanea e intrinseca consapevolezza
di essenziale unità infinita la coscienza supermentale vede il filo segreto che
armonizza le più insanabili contraddizioni, i più acerrimi conflitti di opposti:
percepisce la profonda presenza del divino Uno dietro la maschera delle distinzioni
del molteplice. «Supramental Nature sees everything from the standpoint of oneness
and regards all things, even the greatest multiplicity and diversity, even what are to
the mind the strongest contradictions, in the light of that oneness»57. La discesa
terrena della Supermind e la nascita di esseri supermentali favoriranno l’armonia
cosmica influenzando in senso pacifico e dialogico la discordia e gli odii degli esseri
inferiori. L’intero processo dell’evoluzione subirà una trasformazione armoniosa con
l’appianarsi degli stridenti contrasti che oppongono ente ad ente, in una sempre più
profonda consapevolezza della catena unitaria che lega ogni essere all’Essere
supremo: «[la Supermind] would harmonise, steady, facilitate, tranquillise and to a great
extent hedonise the difficult and afflicted process of the evolutionary emergence»58.
La razza gnostica non potrà rispondere ad una tipologia di personalità
unitaria, omogenea e monotona: poiché la legge advaita della Supermind è
l’espressione della molteplicità nell’unità le esistenze gnostiche manifesteranno le più
grandi diversità possibili nella reciproca comprensione e identificazione. «A
supramental or gnostic race of beings would not be a race made according to a single
type, moulded in a single fixed pattern; for the law of the supermind is unity fulfilled
in diversity»59. L’essere gnostico sente concretamente vivere e prosperare in sé il
Divino: un contatto costante e mai oscurato da interferenze con le sfere
sovracoscienti, una suprema gioia inalienabile infusa in spirito, mente e corpo – non

56 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 962.
57 Ibid., p. 1000.
58 Ibid., p. 1005.
59 Ibid., p. 1006.

201
più deviante verso impulsi meschini – un’empatia universale conscia della presenza
śaktica in ogni operazione naturale costituiranno il fulcro della sua ordinaria
esperienza.

He would feel the presence of the Divine in every centre of his consciousness, in every vibration of
his life-force, in every cell of his body. In all the workings of his force of Nature he would be aware of
the workings of the supreme World-Mother [...] a complete joy of the spirit, an entire identity with the
cosmic self and a spontaneous sympathy with all in the universe60

La piena conoscenza illuminata si esteriorizzerà spontaneamente e


perfettamente in un’azione potente ed efficace rivolta a scopi divini – abbandonati
per sempre gli sforzi, i compromessi e le frustrazioni che, al grado mentale, creano
un abisso tra ideazione e realizzazione pratica. Si ricorderà che l’unità di conoscenza,
volontà e azione è uno dei principi cardine nelle operazioni della Truth-Consciousness:
l’essere gnostico incarnerà limpidamente tale simultaneità di conoscenza divina ed
espressione pragmatica della Verità infinita. «A complete self-knowledge in all things
and at all moments is the gift of the supramental gnosis [...] [l’autoconoscenza] would
be perfectly embodied in the will of the self, the will perfectly embodied in the action
of the self»61. Nessuna affermazione egoistica né alcun borioso altruismo potranno
entrare a far parte della vita gnostica: dato il suo allargamento coscienziale, aiutare gli
altri sarà percepito dall’essere supermentale come parte integrante della sua stessa
autorealizzazione. La conoscenza divina non procederà più alla ricerca dell’ignoto su
fragili basi acquisitive ma si costituirà in uno svelamento costante degli aspetti infiniti
di Quello mediante cui tutto il resto è conosciuto – e che la nostra entità psichica
conosce in segreto già da sempre: «all will be the finding “of the self by the self in the
self”»62. Un’intuizione gnostica e una conoscenza per identità sostituiranno la
cognizione mentale separativa, offrendo una visione integrale capace di accogliere in
sé le più disparate verità riconducendole ad un’opportuna e armonica collocazione in
seno alla Verità infinita. Non avranno più alcuna ragion d’essere il conflitto di verità
contrapposte o le sfide a colpi di dialettica: ogni verità sarà pienamente accettata nella

60 Ibid., p. 1007.
61 Ibid., p. 1008.
62 Ibid., p. 1018.

202
sua peculiarità e originalità ma completata dalle altre nel quadro di una visione di
ordine superiore. «It [l’essere gnostico] will proceed towards all knowledge, not
setting truth against truth to see which will stand and survive, but completing truth
by truth in the light of the one Truth of which all are the aspects»63.
Il corpo sarà perfezionato e trasformato, non rigettato. Si impareranno anche
i modi di un atteggiamento sacramentale nei rapporti con la materia: l’integralità della
prospettiva aurobindiana non disdegna infatti i gradi inferiori dell’Essere ma è in
grado di cogliervi altrettante manifestazioni del Divino. «The body will be turned by
the power of the spiritual consciousness into a true and fit and perfectly responsive
instrument of the Spirit [...] A certain reverence, even, for Matter and a sacramental
attitude in all dealings with it is possible»64. Lo sviluppo di un’immensa forza, di
calma ed equanimità imperiture nell’essere gnostico – diretto riflesso dell’imparzialità
di Brahman – impediscono in questi un qualsiasi contatto doloroso o urto del male.
Ogni relazione è accolta con una sensazione di delizia, immediatamente tradotta e
trasformata, nonostante le sue deformazioni, in una pura vibrazione ānandica: «a
tranquil and wide equality of the spirit to all shocks and contacts comes in and
becomes the habitual poise [...] even in the body this state may form itself and meet
inwardly the shocks of grief and pain and all kinds of suffering»65.
Condizione psicologica ordinaria e costante dell’essere gnostico sarà l’estasi e
la serenità spirituale dell’infinita energia originale di Felicità d’esistenza – il marchio
distintivo di una natura divina: «an illimitable intensity of participation in an eternal
ecstasy which is founded on the eternal Existence and therefore on a beatific
tranquillity of eternal peace»66. Persona spirituale e non più essere egoico di superficie
limitato da inclinazione, temperamento e formazione l’essere supermentale sarà
nondimeno ancora un individuo. Ma la sua individualità sarà illimitabile in
conoscenze e azioni: egli donerà formulazioni vaste, molteplici e sempre nuove alla
sua naturale espressione armonica e gioiosa del Divino. L’umanità divina si sarà
lasciata alle spalle qualsiasi problematica di natura etica, poiché il fondamento di
coscienza della nuova esistenza sarà la consapevolezza dell’unità nell’alterità: la natura

63 Ibid., p. 1019.
64 Ibid., pp. 1021-1022.
65 Ibid., p. 1024.
66 Ibid., p. 1026.

203
gnostica si rivolge spontaneamente al Bene supremo e non necessita di alcuna norma
mentale, regola di condotta o dharma. Le gravitazioni verso il fisico e il vitale non
costituiscono più spaventose fonti di discordia e malvagità, autoindulgenza o
affermazione egoistica – essendo state illuminate e trasformate le porzioni
subcoscienti dell’essere: dunque nessuna norma etica, individuale o pubblica,
potrebbe ormai pretendere ad una qualche utilità.
La libertà infinita dell’essere gnostico coincide essenzialmente con
l’obbedienza al Divino, in una spontanea armonia intrinseca e non imposta da
condizionamenti esterni tra il libero volere interiore e la flessibile legge dell’Infinito.
È questo un trascendimento di contrari arduo da concepire per la mente: l’advaita del
libero arbitrio e del determinismo. La ragione tende a concepire la libertà in vacuo
come imprevedibile possibilità di espressione di sé: ma la traduzione esistenziale di
un tale ideale, date le limitazioni della natura umana, tende inesorabilmente a ricadere
entro una sfera di operazioni circoscritte legate ai gradi mentale e vitale. La vita
gnostica può invece esprimere una sfera ben più vasta e libera di conoscenza e azione
sostanzialmente identica all’onniscienza e onnipotenza divine: «In the gnostic life,
therefore, there is an entire accord between the free self-expression of the being and
his automatic obedience to the inherent law of the supreme and universal Truth of
things»67. Ad un grado sovracosciente la legge dello Spirito si identifica all’infinita
libertà d’espressione del Brahman. Nella sua essenza l’anelito alla libertà rappresenta
una volontà di espansione coscienziale creativa: dunque la libertà gnostica non potrà
che rifuggire spontaneamente le piccole verità di errore, falsità, male e ignoranza –
espressioni troppo parziali e ristrette della divina potenza cui un grande spirito non
può conformarsi, per la stessa ampiezza animica che lo costituisce. «A drive for
fulfilment of falsehood or wrong will would be felt by him, not as a movement
towards freedom, but as a violence done to the liberty of the spirit»68. Sapendosi e
vivendo come essere dell’Essere, specchio e frammento dell’Uno l’essere gnostico
non potrà lasciare libero corso alla superbia egoistica dell’originalità: non potrà più
darsi alcun contrasto essenziale con la natura suprema del Divino. Aurobindo giunge
così a liberare la concezione mentale del libero arbitrio o la tanto decantata

67 Ibid., p. 1035.
68 Ibid., p. 1039.

204
democratica libertà – spesso solo una retorica propagandistica utilizzata da fazioni
politiche opposte per sostenere e mascherare nefandezze terrificanti – da
quell’egoismo ignorante che è la vera causa della schiavitù umana alla propria
imperfezione e infelicità: «The action of the person is the action of the Ishwara in the
person, of the One in the many, and there can be no reason for a separative assertion
of self-will or pride of independence»69.
Poiché la Supermind non costituisce l’apice e la vetta estrema del Divino,
l’essere gnostico non può essere considerato la culminazione definitiva del processo
evolutivo. In seguito allo sviluppo e all’affermazione di una razza supermentale sulla
terra un’avanguardia di esseri gnostici particolarmente evoluti prepareranno i metodi
e i percorsi per un’ulteriore ascesa a Satcitānanda, discoprendo nuove possibilità della
manifestazione – sempre più compiutamente divine. «There would naturally appear
in time many grades of the farther ascent of the evolutive supermind to its own
summits»70. Nonostante la libera varietà differenziata di espressioni spirituali proprie
di una vita divina, la comunità gnostica manterrà intatti un’armonia e un accordo
spontanei nella molteplicità delle formazioni individuali e culturali. Ogni
manifestazione vitale dello Spirito verrà ricondotta immediatamente alla sua origine
quale espressione di una potenzialità dell’Infinito: «the greatest richness of diversity
in the self-expression of oneness would be the law of the gnostic life [...] In the
collective gnostic life the integrating truth-sense, the concording unity of gnostic
nature would carry all divergences in itself as its own opulence»71. La conoscenza
trasparente di anima, mente, vita e corpo altrui costituirà il fondamento di relazioni
interpersonali armoniche, perfettamente consce della profonda unità spirituale di
ogni ente pur nell’irriducibile ed esuberante molteplicità delle espressioni individuali.
La divina unità è infinita e armonica, non vuota e monotona – in un’unità uniforme
infatti non ci sarebbe nulla da armonizzare: «A growing basis and structure of
conscious unanimism, [...] would be the character of this more evolved life. [...] In a
pure and blank unity there could be indeed no place for harmony, for there is

69 Ibid., p. 1042.
70 Ibid., p. 1045.
71 Ibid., pp. 1046-1047.

205
nothing to harmonise»72.
Negli stadi iniziali di apparizione della vita gnostica i primi individui divini
sentiranno forse la necessità di isolarsi monasticamente dalla comunità umana
dell’Ignoranza al fine di rendere salda la conquista della nuova coscienza. Essi
potranno attraversare così senza disturbi esterni le ardue prove del consolidamento di
una trasformazione la quale dovrà gettare in se stessa solide fondamenta prima di
poter riuscire a difendersi efficacemente ed affrontare vittoriosamente un mondo
incosciente, ignorante e ostile. Ma se l’isolamento e la fuga dall’esistenza mondana
hanno storicamente costituito il fine ultimo delle comunità monastiche, la collettività
gnostica non potrà accontentarsi di una realizzazione spirituale sublime ma parziale.
La volontà ultima di una coscienza divina integrale consiste nell’adempimento della
missione di trasformare la razza intera ad immagine del Divino: perciò, presto o tardi,
gli esseri supermentali dovranno aprire le loro porte al mondo e infondere una legge
d’armonia agli esseri inferiori, attirarli alla perfezione divina, guidarli con la luce di un
sapiente faro spirituale. Le guerre avranno perso la loro ragion d’essere e
scompariranno: una conseguenza ovvia e naturale della cessazione delle opposizioni
violente e delle dualità laceranti del mentale, nonché della trasmutazione di un’anima
di desiderio attaccata ai beni materiali in un’entità psichica divinamente imparziale.
Né d’altronde potranno persistere le turpitudini della lotta politica, con tutto il loro
fardello di corruzione, interesse personale e brama di potere.
Continua invece sarà la parabola dell’arte, sempre più spiritualizzata e tesa a
simboleggiare in forme e concetti il Divino. Alcuni cenni premonitori di una tale
tendenza sono a tuttoggi visibili in taluni artisti contemporanei che dedicano i loro
sforzi alla rivitalizzazione della sfera del sacro nelle sue declinazioni meno
istituzionalizzate: si ricordi qui la figura di Marcel Duchamp (1887-1968), dietro
l’ironia delle cui opere non è difficile scorgere significati spirituali e rimandi alle
tradizioni alchemica e rosacrociana; fondamentale anche il contributo di John Cage
(1912-1992), le cui composizioni sono intrise di vuotismo zen. Un altro importante

72 Ibid., p. 1077. Cfr. anche «non esistono armonie se non attraverso un equilibrio di forze opposte»,
Śrī Aurobindo, Lo Yoga della Bhagavad Gītā, op. cit., pp. 40-41. Sulla confusione tra armonia e
uniformità ammonisce anche Guénon: «la diversità delle civiltà [...] è la naturale conseguenza delle
differenze mentali che caratterizzano le razze. Ma la diversità delle forme non esclude affatto l’accordo
sui princìpi: intesa e armonia non vogliono assolutamente dire uniformità», Oriente e Occidente, op. cit., p.
100.

206
esempio è costituito dal compositore d’avanguardia Karlheinz Stockhausen (1928-
2007), il quale trovò un’ispirazione musicale fondamentale nelle opere di Śrī
Aurobindo nella svolta mistica che dal maggio 1968 segnò in maniera indelebile il
prosieguo della sua carriera73. «The arts and the crafts would exist, not for any
inferior mental or vital amusement, entertainment of leisure and relieving excitement
or pleasure, but as expressions and means of the truth of the spirit and the beauty
and delight of existence»74.
Nel suo perfetto compimento la vita spirituale non dovrà necessariamente
essere legata ad ascesi, povertà e rinuncia ai beni terreni. Criteri di questo tipo sono
certamente utili alla purificazione dall’ego e dai meschini desideri del vitale ma non
avranno più alcuna ragion d’essere in una vita gnostica, dal momento che nella fase
supermentale la personalità di superficie sarà stata rimodellata e trasformata a
immagine dell’entità psichica: «a complete purity and self-mastery would be in the
very grain of its [della coscienza gnostica] nature and that would remain the same in
poverty or in riches»75. La sessualità continuerà ad avere un suo ruolo, sebbene
purificata e liberata dal carattere grossolano e animalesco di soddisfazione di un
impulso irresistibile: «All gross animal indulgence of sex desire and impulse would
have to be eliminated»76. L’atto sessuale significherà simbolicamente l’unione di
Īśvara e Śakti che ha reso possibile la manifestazione del mondo: ma sembra di poter
dedurre da alcuni passaggi che ad una fase evolutiva ancor più avanzata il sesso sarà
eliminato dallo stabilirsi di un processo sottile di procreazione.
Molto di ciò che costituisce l’ordinario tessuto del mondo umano scomparirà
o subirà una radicale trasformazione – è davvero un nuovo ordine di vita: «Much that
is normal to human life would disappear»77; «All things shall change in God’s

73 Ci sia concesso citare anche la band americana Cynic, il cui compositore, cantante e chitarrista Paul
Masvidal è, da più di un ventennio, un meditante seguace del kriyā yoga di Paramahaṁsa Yogānanda
(1893-1952). Gli insegnamenti del maestro spirituale ricorrono costantemente nelle liriche dei suoi
brani e trovano un riflesso simbolico nelle atmosfere musicali della band.
74 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 1103.
75 Ibid., p. 1104.
76 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XIII, Essays in Philosophy and Yoga, p.

543.
77 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 1103.

207
transfiguring hour»78. Tanto per fare un esempio l’uomo divino non necessiterà più di
cibo animale o vegetale per sostentarsi ma vedrà rinnovate le proprie energie da un
interscambio con i dinamismi naturali, da cui potrà trarre direttamente le forze
necessarie alla continuazione del processo vitale: il corpo sarà «maintained by an
interchange of its forces with the forces of material Nature [...] taking from her
directly the sustaining energies of her universal existence»79.
La vita gnostica non sarà monotona e piatta, al contrario di quel che potrebbe
temere l’uomo innamorato del potere di creazione varia e molteplice dei gradi vitale e
mentale. Se è vero che l’unica luce spirituale contiene nella bianchezza della sua tinta
tutti i possibili colori del molteplice la creatività sarà ampliata e potenziata nel suo
raggio d’azione e nella gamma delle sue possibilità: «even the domain of pure spiritual
self-realisation and self-expression need not be a single white monotone, there can be
a great diversity in the fundamental unity»80. Contro una concezione mentale della
vita spirituale configurata come estremamente monotona e uniforme, cui sia annessa
la noia dell’assenza di sorprese, la privazione di un interessante gusto vitale, della
passione e della ricerca di nuove avventure alla volta dell’ignoto – prodotto
deformante di una mente che non riesce a immaginare nulla di superiore a se stessa –
la parola di Aurobindo è perentoria e limpidissima:

But this is a misconception; for an entry into the gnostic consciousness would be an entry into the
Infinite [...] and the interest of the Infinite is much greater and multitudinous as well as more
imperishably delightful than the interest of the finite. [...] The gnostic manifestation of life would be
more full and fruitful and its interest more vivid than the creative interest of the Ignorance; it would
be a greater and happier constant miracle81

L’essere gnostico è il fanciullo divino e regale che gioca con il potere dei
mondi, il fanciullo nietzscheano del sì incondizionato alla vita, il fanciullo eracliteo
cui appartiene il regno: «The gnostic soul is the child, but the king-child; here is the

78 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXXIII-XXXIV, Savitri, Libro III,
Canto IV, v. 259, p. 341.
79 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Vol. XIII, Essays in Philosophy and Yoga, p.

545.
80 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXI-XXII, The Life Divine, p. 921.
81 Ibid., pp. 1106-1107.

208
royal and eternal childhood whose toys are the worlds and all universal Nature is the
miraculous garden of the play that tires never»82.

Un nuovo orizzonte di vita, fecondo di potenzialità insospettate dai più arditi


voli della ragione umana, è dischiuso ai nostri occhi nel racconto dell’esperienza
yogica di uno dei più grandi maestri spirituali contemporanei. Un messaggio ricco e
carico di speranze e promesse per un futuro migliore dell’umanità liberata dal male,
dalle guerre e dalle scissioni limitanti di una psiche tormentata. Un percorso concreto
alla volta della trasformazione del piombo umano in divino oro, sostanziato
dall’esperienza del profondo e da una rigorosa teoresi. Un’identificazione al silenzio
del Brahman che non rifiuta il rumore del mondo ma giunge a compimento nel
giardino terrestre, transustanziando la mente, la vita e il corpo. Un anelito e una
missione al trascendimento di sé e alla perfezione infinita e integrale dello spirito che
chiunque possa ancora sentire il richiamo e il soffio del Divino – in un mondo
sempre più lontano dal sacro – deve avere il coraggio di abbracciare. Un’avventura di
espansione coscienziale ed energetica grazie alla quale l’uomo limitato e meschino
che siamo possa dismettere i panni dell’angoscia e dell’insoddisfazione e immergersi
gioiosamente nella propria vera natura divina: «The human in him paced with the
divine»83.

82 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXIII-XXIV, The Synthesis of Yoga, p.
503.
83 Śrī Aurobindo, The Complete Works of Śrī Aurobindo, op. cit., Voll. XXXIII-XXXIV, Savitri, Libro I,

Canto III, v. 806, p. 44.

209
Epilogo

Alla fine del nostro viaggio nel complesso mondo di senso di Śrī Aurobindo
riteniamo di poter confermare l'importanza cruciale del messaggio spirituale,
filosofico ed esistenziale trasmesso da The Life Divine. La modernità occidentale
necessita di nuovi e autentici sentieri religiosi che possano ad un tempo radicarsi in
una sfera esperienziale e agire nella dimensione del profondo senza essere sordi alle
esigenze della ragione e alla centralità del mondo materiale. Ad un tale appello il
pensiero e la ricerca spirituale di Aurobindo rispondono in modo concreto,
intellettualmente soddisfacente e integrale: il cuore, la mente e la volontà umani sono
armonizzati ed elevati al di là da sé in un ordine superiore dell'Essere in cui potranno
trovare un compimento trasformativo. L'esperienza yogica fondamenta la prospettiva
spirituale aurobindiana empiricamente, gnoseologicamente e psicologicamente,
dimostrando la serietà di uno sforzo e una tensione al Divino che non intendono mai
rinnegare la terra e la dimensione orizzontale del vivere umano. La natura infinita e
onnipervadente di Brahman esprime la possibilità di un'armonizzazione autentica ed
effettiva dei gradi ontologici superiori negli inferiori, veicolando una Verità divina in
grado di accogliere senza fratture la pluralità prospettica e culturale dell'umanità.
L'auspicio alla trasformazione gnostica raccoglie l'anelito antropico all'Infinito e lo
sostanzia con una promessa di un autotrascendimento terreno dell'umano.
Il lato critico del nostro lavoro vorrebbe però ammonire contro l'errore di
arrestarsi dogmaticamente e rigidamente sulle conclusioni aurobindiane. Per quanto
interessante, profonda, vasta e convincente possa risultare la prospettiva spirituale di
un maestro di grande spessore essa non è certo l'unica o la più appropriata a priori a
ricondurre un'umanità dispersa nel sentiero che la condurrà al Divino: in caso
contrario correremmo il rischio di ricadere in un'ottica riduzionistica che il filosofo
indiano stesso ha sempre combattuto aspramente. E nonostante ciò la via indicata da
Aurobindo è preziosa nell'indicare le coordinate future di una filosofia spirituale non
più appiattita su istanze materiali o dilaniata dai dubbi di un nichilismo disarmante. È
tempo perché la tensione alla sapienza possa nuovamente aspirare ad un attingimento
pieno della sapienza e non più compiacersi indefinitamente di riflessioni transeunti e

210
infruttuose.
È nel dialogo e nella mutua fecondazione interculturali che l'Occidente potrà
trovare una via d'uscita dall'inaridimento delle istanze spirituali e l'Oriente arricchire
le proprie tradizioni traducendo in realtà materiale le rivelazioni mistiche. La sfida
odierna dell'incontro delle civiltà non deve e non può ridursi ad una diffusione su
scala globale di modelli di pensiero e costumi sociali occidentalocentrici screziata da
esotiche tracce culturali altre, accolte superficialmente. L'impegno profondo dei
popoli deve concentrarsi su uno studio e un ascolto attenti delle civiltà altre al fine di
trovare un compimento alla propria altrimenti monca proposta di senso.
La filosofia e la testimonianza esistenziale di Śrī Aurobindo rappresentano in
questo senso uno dei tentativi più riusciti di armonizzazione di esigenze divergenti e
talvolta opposte. Nella cosmovisione del maestro trova spazio e conciliazione ogni
verità parziale formulabile dalla mente finita. Ma oltre l'armonizzazione delle facoltà e
possibilità note dell'umana creatività l'uomo attende coscientemente – con lo sforzo
di cuore, mente e volontà – il compimento futuro di un destino superiore dello
spirito. Quando il Divino scenderà ad abbracciare pienamente la propria
manifestazione colmandola di gioia, coscienza e potere infiniti. Quando l'uomo,
purificato e perfetto, sarà abbastanza degno da innalzarsi alla sfera superiore
dell'Essere, sapendosi particella finita dell'Infinito. Solo allora potrà dirsi soddisfatto
l'anelito umano al Divino e la vita umana trasformarsi in vita divina.

211
Bibliografia

A) Opere di Śrī Aurobindo

L’edizione più recente dell’opera omnia aurobindiana, di cui si vale la presente ricerca
quanto alle citazioni in lingua inglese, è curata dall’āśram di Śrī Aurobindo in
Pondicherry: costituita da trentasette volumi e non ancora integralmente pubblicata,
è in larga parte disponibile nel sito web dell’āśram (www.sriaurobindoashram.org, a
cura dello Śrī Aurobindo Ashram Trust – ultima consultazione 18 maggio 2009).

The Complete Works of Śrī Aurobindo, Pondicherry, Śrī Aurobindo Ashram Trust, 2006.

Volume I: Early Cultural Writings


Volume II: Collected Poems
Volumi III e IV: Collected Plays and Stories I-II
Volume V: Translations
Volumi VI e VII: Bande Mataram I-II
Volume VIII: Karmayogin
Volume IX: Writings in Bengali and Sanskrit
Volumi X e XI: The Record of Yoga I-II
Volume XII: Essays Divine and Human
Volume XIII: Essays in Philosophy and Yoga
Volume XIV: Vedic and Philological Studies
Volume XV: The Secret of the Veda
Volume XVI: Hymns to the Mystic Fire
Volume XVII: Isha Upanishad
Volume XVIII: Kena and Other Upanishads
Volume XIX: Essays on the Gita
Volume XX: The Renaissance in India with a Defence of Indian Culture
Volumi XXI e XXII: The Life Divine I-II
Volumi XXIII e XIV: The Synthesis of Yoga I-II

212
Volume XXV: The Human Cycle – The Ideal of Human Unity – War and Self-Determination
Volume XXVI: The Future Poetry with On Quantitative Metre
Volume XXVII: Letters on Poetry and Art
Volumi XXVIII, XXIX, XXX e XXXI: Letters On Yoga I-IV
Volume XXXII: The Mother with Letters on The Mother
Volumi XXXIII e XXXIV: Savitri – A Legend and a Symbol I-II
Volume XXXV: Letters on Himself and the Ashram
Volume XXXVI: Autobiographical Notes and Other Writings of Historical Interest
Volume XXXVII: Reference Volume
Volume non numerato (appendice ai volumi X e XI): Glossary to the Record of Yoga

B) Opere di Śrī Aurobindo tradotte in italiano

Riportiamo di seguito gli estremi bibliografici delle principali opere del maestro
reperibili in lingua italiana, tralasciando i troppi e troppo poco seri libretti miscellanei
contenenti stralci da opere e lettere di Śrī Aurobindo e Mère.

Il Ciclo Umano. Psicologia dello Sviluppo Sociale, trad. it. di A. Mattirolo, Milano, Arka,
1985.
Il Dio che Sorride. Riflessioni e Aforismi, trad. it. di B. Neroni, Parma, Ugo Guanda, 1995.
Eraclito, trad. it. di E. Cosentino, Savignano sul Panaro (Modena), Tapas/Germoglio,
2000.
Guida allo Yoga, Roma, Edizioni Mediterranee, 1996.
L’Ideale dell’Unità Umana, trad. it. di A. Mattirolo, Milano, Arka, 1987.
Ilio. La caduta di Troia, trad. it. di T. Iorco, Capiago Intimiano (Como), Aria Nuova,
2008.
La Isha Upanishad, Pondicherry, Śrī Aurobindo Ashram, 1995.
Lettere sullo Yoga. Vol. I, trad. it. di P. De Paolis, Milano, Arka, 1988.
Lettere sullo Yoga. Vol. II, trad. it. di P. De Paolis, Milano, Arka, 1989.
Lettere sullo Yoga. Vol. III, trad. it. di P. De Paolis, Milano, Arka, 1990.
Lettere sullo Yoga. Vol. IV, trad. it. di P. De Paolis, Milano, Arka, 1991.

213
Lettere sullo Yoga. Vol. V, trad. it. di P. De Paolis, Milano, Arka, 1992.
Lettere sullo Yoga Vol. VI, Savignano sul Panaro (Modena), Tapas/Germoglio, 2001.
La Madre, trad. it. di A. Gaeta, Pondicherry, Śrī Aurobindo Ashram, 1971.
La Manifestazione Supermentale sulla Terra, Pondicherry, Domani/Śrī Aurobindo
Ashram, 1990.
L’Ora di Dio, Pondicherry, Domani/Śrī Aurobindo Ashram, 2003.
Perseo il Liberatore, trad. it. di T. Iorco, Capiago Intimiano (Como), Aria Nuova, 2006.
Savitri. Leggenda e Simbolo (1), trad. it. di P. De Paolis, Roma, Edizioni Mediterranee,
1996.
Savitri. Leggenda e Simbolo (2), trad. it. di P. De Paolis, Roma, Edizioni Mediterranee,
2000.
Il Segreto dei Veda, trad. it. di G. Bua, M. Mariotti e M. Longeri, Capiago Intimiano
(Como), Aria Nuova, 2005, due volumi.
La Sintesi dello Yoga, trad. it. di E. Nata e G. Cogni, Roma, Astrolabio Ubaldini, 1967,
tre volumi.
I Visir di Bassora, trad. it. T. Iorco, Capiago Intimiano (Como), Aria Nuova, 2007.
La Vita Divina, trad. it. di P. De Paolis, Roma, Edizioni Mediterranee, 1998.
Lo Yoga della Bhagavad Gīta, trad. it. di E. Nata, Roma, Edizioni Mediterranee, 19902.

C) Monografie, saggi e studi critici su Śrī Aurobindo

Senza pretese di completezza elenchiamo alcune delle più importanti opere


concernenti la figura del maestro, includendo biografie e contributi critici i quali
rarissimamente rappresentano uno sforzo di comprensione eminentemente filosofico
del pensiero aurobindiano. Merita una considerazione a parte L’Agenda di Mère,
fondamentale testimonianza orale, registrata e trascritta da Satprem, sulla pratica, gli
obiettivi e le conquiste del pūrṇa yoga da parte della collaboratrice spirituale di Śrī
Aurobindo.

Śrī Aurobindo, Métaphysique et Psychologie, textes groupés, traduits et préfacés par Jean
Herbert, Parigi, Michel, 1988.

214
Kees Bolle, The Persistence of Religion: an Essay on Tantrism and Śrī Aurobindo’s philosophy,
Leida, Brill, 1965.
Beatrice Bruteau, Worthy is the World. The Hindu Philosophy of Śrī Aurobindo, Cranbury,
Fairleigh Dickinson University Press, 1971.
Selene Calloni, Il Mito del Superuomo. Da Nietzsche ad Aurobindo, Torino, Magnanelli,
2004.
Haridas Chaudhuri, The Philosophy of Integralism, Calcutta, Śrī Aurobindo Pathamandir,
1954.
Haridas Chaudhuri e Frederic Spiegelberg, The Integral Philosophy of Śrī Aurobindo,
Londra, Allen & Unwin, 1960.
Giovanni Dall’Anese, Critica sugli Aforismi di Śrī Aurobindo, Roma, Francioni, 1951.
Giovanni Dall’Anese, Critica sugli Infortuni di Śrī Aurobindo, Roma, Francioni, 1951.
Ranganath R. Diwakar, Mahayogi Śrī Aurobindo, Bombay, Bharatiya Vidya Bhavan,
1962.
Nolini K. Gupta, The Coming Race, Madras, Śrī Aurobindo Library, 1944.
Nolini K. Gupta, The Yoga of Śrī Aurobindo, Pondicherry, Śrī Aurobindo Ashram,
1969.
Tommaso Iorco, Savitri. L’Epopea della Vittoria sulla Morte, Savignano sul Panaro
(Modena), Tapas/Germoglio, 2006.
Hari K. Kaul, Śrī Aurobindo. A Descriptive Bibliography, New Delhi, Munshiram
Manoharlal, 1972.
Susil K. Maitra, An Introduction to the Philosophy of Śrī Aurobindo, Benares, Benares
Hindu University, 19452.
Susil K. Maitra, The Meeting of the East and the West in the Philosophy of Śrī Aurobindo,
Pondicherry, Śrī Aurobindo Ashram, 1956.
Michael McLaughlin, Knowledge, Consciousness and Religious. Conversion in Bernard Lonergan
and Śrī Aurobindo, Roma, Pontificia Università Gregoriana, 2003.
Mère, L’Agenda di Mère, a cura di Satprem, Roma, Edizioni Mediterranee, 1987-1994,
tredici volumi.
Peter Michel, Śrī Aurobindo. I Grandi indicano il Cammino, trad. it. di A. Carbone,
Milano, Armenia, 2001.
Angelo Morretta, Aurobindo e il Futuro dell’Uomo, Roma, Zephyr, 1974.

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M. P. Pandit, Dictionary of Śrī Aurobindo’s Yoga, Twin Lakes (Usa), Lotus Press, 1992.
Prema Nandakumar, Śrī Aurobindo’s Interpretation of the Mahabharata, Bangalore, Indian
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Nirodbaran, Correspondence with Śrī Aurobindo, Pondicherry, Śrī Aurobindo Ashram,
1983.
Nirodbaran, Twelve Years with Śrī Aurobindo, Pondicherry, Śrī Aurobindo Ashram,
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Nirodbaran, Talks with Śrī Aurobindo, Calcutta, Śrī Aurobindo Pathamandir, 1966.
Stephen H. Phillips, Aurobindo’s Philosophy of Brahman, Leida, Brill, 1986.
A. B. Purani, Evening Talks with Śrī Aurobindo, Pondicherry, Śrī Aurobindo Society,
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Anil K. Sarkar, Śrī Aurobindo’s Vision of the Supermind. Its Indian and non-Indian
interpreters, New Delhi, South Asian Publishers, 1989.
Roberto Sassone, La Ricerca dell’Amore. Un ponte tra Reich e Śrī Aurobindo, Milano,
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Piero Scanziani, Aurobindo, Chiasso, Elvetica, 1973.
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Chāndogya Upaniṣad: con il commento di Śaṅkara, trad. it. a cura del Gruppo Kevala,
Roma, Āśram Vidya, 2006.
Īśa Upaniṣad – Kaṭha Upaniṣad: con il commento di Śaṅkara, trad. it. a cura del Gruppo
Kevala, Roma, Āśram Vidya, 2007.
Kena Upaniṣad – Muṇḍaka Upaniṣad – Aitareya Upaniṣad: con il commento di Śaṅkara,
trad. it. a cura del Gruppo Kevala, Roma, Āśram Vidya, 2008.
Māṇḍūkya Upaniṣad: con le Kārikā di Gauḍapāda e il commento di Śaṅkara, trad. it. a cura
del Gruppo Kevala, Roma, Āśram Vidya, 1976-1984.
Śvetāśvatara Upaniṣad: con il commento di Śaṅkara, trad. it. a cura del Gruppo Kevala,
Roma, Āśram Vidya, 2007.
Taittirīya Upaniṣad: con il commento di Śaṅkara, trad. it. a cura del Gruppo Kevala,
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218
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E) Altre fonti

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Raymond F. Betts, La Decolonizzazione, trad. it. di M. Cupellaro, Bologna, il Mulino,
2003.
Graziano Biondi, L’Enigma della Serpe secondo Nietzsche, Roma, Manifestolibri, 2001.
James Clifford, I Frutti Puri Impazziscono, trad. it. di M. Marchetti, Torino, Bollati
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Giorgio Colli, La Nascita della Filosofia, Milano, Adelphi, 200419.
Giuseppe Cognetti, L’Arca Perduta. Tradizione e Critica del Moderno in René Guénon,
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Giuseppe Cognetti, La Pace è un’Utopia? La Prospettiva di Raimon Panikkar, Catanzaro,
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Jacques Derrida, L’Animale che, dunque, Sono (Segue), in Rivista di Estetica, num. 8, 1998,
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Sichirollo, Roma-Bari, Laterza, 2003.
Martin Heidegger, Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, Scandicci, La Nuova Italia,
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Werner Heisenberg, Indeterminazione e Realtà, trad. it. di G. Gembillo, Napoli, Guida,
20022.
Immanuel Kant, Fondazione della Metafisica dei Costumi, trad. it. di F. Gonnelli, Roma-
Bari, Laterza, 20022.
Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica, trad. it. di F. Capra, Roma-Bari, Laterza,
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Immanuel Kant, La Religione entro i Limiti della Sola Ragione, trad. it. di A. Poggi, Roma-
Bari, Laterza, 20005.
Immanuel Kant, Per la Pace Perpetua, trad. it. di R. Bordiga, Milano, Feltrinelli, 20039.
David Lynch, In Acque Profonde. Meditazione e Creatività, trad. it. di M. Pistidda, Milano,
Mondadori, 2008.
Friedrich Nietzsche, Opere Complete, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari,
Milano, Adelphi, 19862, otto volumi.
Marco Ravera, Introduzione alla Filosofia della Religione, Torino, UTET, 1995.
Gino Tarozzi, Filosofia della Microfisica, Modena, Accademia Nazionale di Scienze
Lettere e Arti, 1992.
Voltaire, Dizionario Filosofico, trad. it. di M. Bonfantini, Torino, Einaudi, 19953.

220
Ringraziamenti

A mio padre Anteo e mia madre Ivana per il costante affetto, sostegno e
vicinanza. Alla mia compagna Michela per l'amore sincero, la comprensione, la
tenerezza, il consiglio e il sorriso che rendono il nostro rapporto unico e splendido:
sei la stella che illumina il mio cammino. All'amico e collega Simone Malpocher per
l'affinità filosofica e la profondità del dialogo non scalfiti dalla lontananza. A Nicola
Terenzi, il cristiano più aperto al dialogo in materia spirituale, profondo e intelligente
che conosca. Al professor Leonardo Vittorio Arena per avermi introdotto al mondo
filosofico estremorientale con passione e partecipazione esistenziale. Al professor
Giuseppe Cognetti per l'insegnamento delle meraviglie filosofiche hindū, il consiglio,
l'introduzione alla pratica spirituale e il coraggio di aver portato in sede accademica la
disciplina yogica, la danza mistica del Tai-chi e la figura di Śrī Aurobindo. Al professor
Marco Pierini per la stima e l'amicizia dimostrati: il mondo filosofico e istituzionale
dell'arte contemporanea ha bisogno di una persona così straordinariamente
competente e aperta senza pregiudizio alcuno alla novità.
Agli amici e compagni di corso a Siena, in particolare Pia, Costanza e
Giacomo – per il buonumore che sa portare in ogni situazione. A Riccardo ed
Eleonora a Roma per l'eccezionale amicizia e la condivisione delle esperienze
musicali. Agli amici e colleghi musicisti a Pesaro, ai miei allievi – in particolare
Massimo ed Enrico – a Luciano e Luciana di Stazione Musica per la fiducia e la stima.
Per tutti voi e i molti altri che non posso qui citare la mia mano si porta al
cuore per esprimere sincera e profonda gratitudine. Senza di voi il mio percorso
esistenziale, filosofico e spirituale non avrebbe mai potuto essere così intenso, ricco,
vario e gioioso.

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