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Giacomo B. Contri

UN UOMO CHE HA
DOMANI
VOCAZIONE (BERUF)
E SILLOGISMO FREUDIANO

Prolusione al Corso «Enciclopedia del pensiero di natura»


del 26 Ottobre 2002

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e-book
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Sommario

1. Prima premessa: la facoltà originaria ................................................................................................. 4

2. Seconda premessa: «Amico» ............................................................................................................... 4

3. Un uomo che ha domani ..................................................................................................................... 5

4. Un concetto nuovo: il sillogismo di Freud........................................................................................... 7

5. Pensiero di partner .............................................................................................................................. 9

6. Vocazione ...........................................................................................................................................11

7. Appunti sparsi per finire (dopo l’intervallo) .......................................................................................12

A. .......................................................................................................................................................12
B. ........................................................................................................................................................12
C. ........................................................................................................................................................13
D. .......................................................................................................................................................13
E. ........................................................................................................................................................13
F. ........................................................................................................................................................13
G. .......................................................................................................................................................14
TEMI E AUTORI ....................................................................................................................................14

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GIACOMO B. CONTRI

UN UOMO CHE HA DOMANI [1]


Vocazione (Beruf) e sillogismo freudiano

1. Prima premessa: la facoltà originaria

Tocca ancora a me, e spero di essere all’altezza, come disse un albero fra diecimila altri alberi di una
foresta.
Avevo già menzionato questa metafora quando, nell’ormai abbastanza lontano 1977, per La
tolleranza del dolore: Stato Diritto Psicoanalisi, ero in cerca di un’illustrazione del diritto che non fosse
quella tradizionale di una celebre edizione del Leviatano di Hobbes, in cui il sovrano è rappresentato come
quel grande principe coronato e armato il cui corpo è composto dai corpi dei sudditi. Questa figurazione è da
respingere. Ricordo che invece in una rivista avevo trovato il disegno di una foresta i cui alberi erano tutti
più o meno della stessa altezza. L’albero è all’altezza. Mi verrebbe da dire, l’albero è sempre all’altezza: la
facoltà, o capacità, è originaria.
Se c’è un pensiero al quale tutto il nostro iter si contrappone è l’idea che l’uomo sia mancante, così
che ci debba essere un altro, uomo o Dio, o un «oggetto», a fare da tappabuchi del buco della mancanza.
Il nostro occuparci anche di Psicopatologia è l’occuparci dell’inettitudine come incapacità, sì, ma del capace.
Ciò vale anche per l’educazione. Non si tratta di colmare il mancante. Si tratta di fruttare. Vero però
che di solito si frutta sfruttando.
Ma già sto prendendo vie laterali. Riprendo il filo dell’ordine che avevo preparato. I pensieri di cui si tratta
sono quelli che ho raccolto negli ultimi mesi, la gran parte fra luglio e agosto, una lunga serie di appunti.

2. Seconda premessa: «Amico»

La premessa è un mio personale omaggio ai presenti: vi distribuisco il mio pezzo Giobbe apparso
come SanVoltaire nel 1988 [2]. Ancora oggi sottoscrivo quell’articolo senza togliere una virgola perché,
almeno a me, mostra che quella vita di pensiero che è Studium Cartello era già posta non poco tempo fa.
È sorprendente ciò che risulta essere questo Giobbe, che già anni fa proponevo di considerare come
il patrono dello Studium.
Commentavo a un certo punto: «Altro che vecchione esausto di vita», «Non male questo Giobbe.
Mica tanto ‘paziente’. Ben dotato quanto a facoltà di giudizio: intollerante degli intolleranti […]. E
anche piuttosto moderno, novecentesco anzi, ossia contromoderno, uno che del moderno ne ha non poco ma
… fin troppo».
L’altro, che del moderno ne aveva fin troppo, è stato Freud. E anche Marx, ma non facciamo
confusione ossia freudo-marxismo. E più in generale gettiamo nello sciacquone la categoria «maestri del
sospetto» del buon Ricoeur – Freud/Marx/Nietzsche –, robaccia, la categoria non i tre.
Noi stiamo con Freud perché lui sta con noi.
L’ossatura del libro di Giobbe è una disputa, serratissima, accanitissima, tra lui e i suoi – occorrono
qui le virgolette – «amici».

È una rissa. Ho tradotto in modo non convenzionale:

Mi fidavo e mi avete tradito!


Tutto ciò è violenza; bella rettitudine!
Manipolatori di parole! Sanguisughe della disperazione!
Ve la prendete con uno che non può difendersi! Traditori! […]
Banditi! Non la farete franca! […]

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Bestie! Ignoranti! […]
Ciarlatani! Stregoni! […]
Vi ricuso: non mi servite a niente, faccio da solo, mi tiro su da me con i denti come un cane! Se Lui
vuole – il riferimento è all’Altro, al partner – può farmi morire, ma la mia salvezza è lui […]

Il primo lemma del mio discorso di oggi, un abitato di parole, è «amico». Che cosa vuol dire amico?
Questione rilevantissima, che riprenderò quando in questa sede toccherà ancora a me prendere la
parola a proposito del diritto. Un importante giurista italiano, già qui nominato, Santi Romano, asseriva che
quello di amicizia è uno dei pochi concetti non giuridici. Lo controverto assolutamente: non vedo perché non
fare ricadere anche la massoneria sotto il concetto di amicizia – anche se non sono massone -, e gli esempi
potrebbero proseguire.
C’è una frase che tutti conoscono e che non butterei via del tutto: «Gli amici si riconoscono nel
bisogno». Si potrebbe dire di sì nella forma popolare «seee», «va be’…» o, più rigorosamente, nell’ordine
della sopravvivenza, tra la morte per fame e il pericolo da ferite fisiche e simili: nell’ordine della
sopravvivenza, ma solo nell’ordine della sopravvivenza, gli amici si riconoscono nel bisogno.
Ma noi lavoriamo nell’ordine non del bisogno, ma del profitto, e del rapporto (giuridico) come suo
generatore. Allora do un’altra definizione, su cui mi assesto: gli amici si riconoscono dal pensiero. E senza
neppure il bisogno di dire «Dimmi cosa pensi e ti dirò se sei un amico», perché il pensiero dell’altro non ha
bisogno della sua dichiarazione a tu per tu, confidenziale. Il pensiero dell’altro in quanto amico, oltre che
non ostile, si dichiara realisticamente nella predisposizione, nella premeditazione, nei suoi atti ossia nel suo
discorso, di un posto da me occupabile, e attivamente occupabile. Ed è chiaro che questo non è il caso del
posto di un letto d’ospedale o di una mensa popolare.
Ciò non toglie che, nel bisogno o nella sopravvivenza, dopo il bombardamento, la città disastrata o il
disastro psicotico, ben vengano, per un momento, il letto d’ospedale o la mensa popolare.
Riconosco l’amico dal pensiero di natura, e ciò funge anche da test per una delle più antiche
interrogazioni dell’umanità: infatti, nei secoli, quanti hanno scritto un De amicizia? Tra i primi Aristotele
quando si occupava della filia o amicizia.

3. Un uomo che ha domani

Dopo l’inizio dell’era cristiana – che secondo Freud in L’uomo Mosè e la religione monoteistica
sembrava inaugurare un’era senza la necessità della rimozione, che è la vanificazione del domani ridotto a
puro rimando dell’irrisolto oggi –, Freud è intervenuto sulla scena della Civiltà a riproporre la possibilità di
una tale era. «Psicoanalisi» è il nome di una tale proposta. «Pensiero di natura» è il pensiero che ha fatto
propria la proposta.
Freud ha fatto una tale proposta senza appellarsi ad alcuna Rivelazione: non soltanto perché non
credente, ma perché constatava che venti secoli di era cristiana erano anch’essi ricaduti sistematicamente
nella necessità della rimozione. Cioè nel domani come riproduzione irriconoscibile («anamorfosi»)
dell’irrisolto oggi.
Che uno abbia domani è dunque il dato meno certo, a ogni latitudine. Il Corso dell’anno scorso, La
pietra scartata, è anche servito per dire che, nella patologia, il domani altro non è che il ripostiglio, il
ricettacolo, la pattumiera di ciò che è scartato oggi. «Ci penserò domani»: quante volte abbiamo citato
Rossella O’Hara come l’esempio-principe e a tutti noto della rimozione.
Ricordo il vecchio ’68: all’inizio erano tempi brevi, poi diventarono tempi medi, alla fine erano
tempi lunghi.
Domani come il luogo temporale della rimozione. Rimozione vuol dire spazzare a domani, fare del
domani la pattumiera del pensiero malato o peggio, del pensiero di natura inibito o peggio. E questo rimando
richiede una spesa, ripetuta e accresciuta, forze sprecate per questa quotidiana nettezza urbana, per
amministrare in qualche modo questo rimando. Un’amministrazione produttiva di conformità deforme, di
sistematica disseminata delle discariche dei suoi resti, di un ordine disordinato: Civiltà come ossimoro
permanente
Il rimosso o rinviato non si lascia rinviare poi tanto. La similitudine migliore che trovo per la
rimozione è il caso del prestito, preso da un amico o da una banca. Il prestito sarà concesso, vuoi per le
ragioni tipiche della banca, vuoi perché l’amico è disponibile, ma in ambedue i casi un giorno dovrà essere
onorato, c’è scadenza. Nel momento in cui il prestito risulterà non onorato, cioè rimosso, vi sarà ritorno del

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rimosso: l’amico mi farà perdere almeno la sua amicizia, e anche quella di altri amici, e la banca farà tutto
ciò che è facile immaginare. È il ritorno del rimosso.
È pesante, il ritorno del rimosso. Di felice ha solo il fatto che la rimozione fallisce, ossia che
l’inettitudine umana non è totale.
Detto in un altro modo: il mondo della pietra scartata – per chi se ne intende rinvio alla dura
accezione giovannea di «mondo» – è la civiltà incivile della pietra scartata.

Detto in altro modo ancora: posso continuare ad asserire di essere un allievo di Jacques Lacan
perché, e solo perché, al centro del suo insegnamento c’è una questione che un giorno ha anche assunto la
forma di titolo di un suo seminario annuale, che ho anche citato nel nostro Sito: D’un discours qui ne serait
pas du semblant: Intorno a un discorso che non sia – è la traduzione immediata, da vocabolario, che
potrebbe essere arricchita –, a un discorso, o alla possibilità di pensiero, atto, azione, che non sia finta,
oppure che non provenga da una finta. Al momento traduco con la parola «finta» o «finzione» perché in
francese faire semblant significa «far finta».
Ma che cosa è un semblant? Che cosa è la finzione risultante dal non avere domani, dato che il
domani solo cronologico è il serbatoio anzi la pattumiera del rinviato ossia della pietra scartata? Poiché il
moto è ineludibile, poiché muoversi bisogna muoversi – il corpo c’è finché c’è moto, altrimenti è un
cadavere –, allora occorre trovare qualcosa che lo faccia muovere cioè una causa, e per questo inventiamo, o
cerchiamo, o attendiamo, tutte le possibili cause del nostro movimento. Pur di avere una causa del nostro
muoverci, ci inventeremo anche una causa politica, nobile o infame (ma anche le cause «nobili» non lo sono
tanto). A questo riguardo, come sono stati ingenui – o peggio, ingenui sarebbe il meno peggio – gli antichi, e
i medioevali!: cognoscere per causas. Quando c’è una causa del nostro movimento, siamo già nella patologia
(giudizio da modulare quando si tratta di causa finale). Sarà il tema del mio prossimo lavoro intorno al
diritto. Altro è un atto, altro è una causa. Atto è atto perché non ha causa. Anche se so che, detto così, è
troppo poco, e mi risparmio ora l’enumerazione delle specie di cause. Avere una causa per il proprio
movimento, significa avere trovato un sostituto di ciò che nel pensiero valido, nel pensiero di natura, è la
ragione del moto, la meta ma per mezzo di un altro, e ciò è diverso da causa anche quando la causa è finale.
La causa dell’agire è un sostituto della meta ottenuta per mezzo di altri, una meta – diciamo sempre –
produttiva di un profitto, il sostituto patologico necessitato dallo scarto della pietra. Nella lingua di Freud:
Ersatz.
Il famoso «oggetto a» di Lacan è esattamente questo: ciò che mi fa, nonché agire, anzitutto pensare,
la causa del mio pensiero. Cioè il peggio. Rammento che per Lacan, in un quasi-lapsus, «causa del
desiderio» e «causa del pensiero» sono la medesima cosa. Lapsus o non lapsus, questa identità è un
passaggio immenso di Lacan, io l’ho raccolto.

Alla causalità che consegue al rifiuto del pensiero come ragione del movimento, aggiungo una
conseguenza da vita quotidiana. Ho parlato di spazzare i rifiuti. Facciamo ora entrare in scena un verbo, un
verbaccio, il celebre usatissimo verbo «scopare» (lì per lì un francese non capirebbe che c’entra «balayer»).
Sembra solo un verbo volgaruccio – peraltro abbastanza ben supportato e sopportato collettivamente
– per designare certi atti. Non è così, non è una volgarità: è un verbo rigorosissimo, il massimo del rigore di
cui è capace la nostra università.
Lo osservava già Freud allorché scriveva che l’ordinario rapporto degli esseri umani con i sessi non è
quel bravo desiderio sessuale che esisterebbe in natura, l’«istinto», ma poi arrivano i preti anche laici e ci
reprimono. Bensì è la sopravvalutazione dei sessi, unita alla ripugnanza per essi, al loro rigetto: fino a
mantenere e promuovere la vita sessuale solo avendo come causa di essa il «farla fuori» con i sessi, che è
l’espressione corrente per un brutto affare, come la patata bollente che ci si deve levare di mano. Ossia il
verbo «scopare», non che non sia del tutto una volgarità, ma lo è in modo intimo, intrinseco, logico. Così che
non solo per la maggioranza delle persone, ma anche e forse soprattutto per le dottrine morali e psicologiche,
«lo» si fa per far fuori, per scopar via, per levarsi di torno la questione dei sessi. Ecco il punto: non i sessi,
ma la questione che le risulta correlata, e che non nasce affatto dai sessi. I sessi non sono la causa della loro
questione. Che non è quella né del godimento né della riproduzione: che non sono questioni, tanto meno
morali. L’impurità degli «atti impuri» del 6° non deriva dai sessi. La questione è un’altra.
In genere – questo è un dato d’esperienza – è quasi impossibile riuscire a parlare di vita sessuale: ne
risulta sempre, già nel lessico, volgarità, oscenità, fino al disgusto, oppure banalizzazione. È il lessico della
spazzatura. Tra le spazzature, la pornografia è quella più mite.
Il perverso con la sua forma di intelligenza – spazzatura per spazzatura – finirà per trovare oggetti

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sostitutivi decisamente sordidi. Ma anche questo è un passaggio logico. Sordido per sordido, si dice, andiamo
in fondo al sordido: ed ecco feticismo, stercorarismo, necrofilia ecc. Si possono dare molti torti all’isterico, e
in specie all’isterico donna, ma certo su questo punto è ragionevolmente sensibile più che l’uomo, e non si
può darle torto se pensa che non è bello essere una pattumiera, anche quando è una pattumiera bella.
Ecco dunque un esempio mondiale di causa per far«lo», quanto alla vita sessuale.
Ma se non ce ne fosse la causa che poi è un comando – ecco la «castrazione» freudiana –, come si
arriverebbe a farlo? È la domanda che suscita l’angoscia di castrazione (che è angoscia di non castrazione:
perché una tale castrazione è anche la soluzione).

Con il che accade poi logicamente ciò che è accaduto nei millenni: dato che il cosiddetto «amore
umano» è così fallace e fallimentare, ci si attende che gli subentri l’«amore divino», l’«alto» sostituto
(Ersatz) del basso. Quante volte abbiamo parlato della recezione cristiana di Amore e Psiche di Apuleio nel
secondo secolo, e della nascita della coppia eros e agape. O della coppia Venus vulgivaga e Venus urania
che tanto «piaceva» a Kant. Se fossi Dio, di fronte all’idea che l’amore divino subentra al fallimento
dell’amore umano, avrei già mandato il diluvio: cioè l’idea che io-Dio sarei l’avvoltoio che si precipita sulla
carogna del fallimento umano, il sublime tappabuchi della mancanza umana. È la perversione spostata in Dio
– Dio Superio –, magari con la fantasia delle nozze mistiche alla Santa Caterina. Se pensiamo che per il
cinquanta per cento circa i cristiani sono maschi, e che le nozze mistiche sono nozze dell’anima, spirituali
naturalmente, allora le nozze mistiche sono nozze gay: certo non ci si «fa» niente, sono «tecnicamente»
caste, ma in linea di principio sono gay. È perfino un’ovvietà. Non so se i gay ci abbiano pensato: forse sto
mettendo loro una pulce nell’orecchio. Un giorno o l’altro uscirà l’idea delle nozze gay-caste nel
cristianesimo (ma no, ha già cominciato a uscire). Sto facendo della logica e dello spirito. Alle volte la logica
ha il vantaggio di essere anche spiritosa.
Se i cristiani avessero contratto l’abitudine, l’habitus, di paragonarsi con il pensiero di Cristo,
anziché confezionarne un sembiante, si sarebbero accorti subito dell’errore, perché tale pensiero non
ammette equivoci sull’amore: in esso la parola «amore» è univoca, non può designare la distinzione
umano/divino, alto/basso.

4. Un concetto nuovo: il sillogismo di Freud

Vorrei dare alla pietra scartata un nome nuovo.


Diciamo da sempre che il pensiero di natura è che il corpo è chiamato, eccitato – ec-citato vuol dire
chiamato, vocato, e per il solo fatto che mia madre mi ha allattato, senza scomodare i cieli – ad approfittare
di un altro, facendogli posto, perché si produca soddisfazione sua e mia, e con profitto in senso economico.
Non è il profitto del voto di profitto scolastico: è sì «voto», ma nel significato francese di voeu e già
latino di votum, e anche politico di voto elettorale, che è più che auspicio perché è preparato-premeditato
affinché riesca. O anche desiderio ma onesto (non finto) ossia sostenuto affinché abbia successo.
Profitto, cioè si produce qualcosa che prima non c’era, e a partire da qualcosa che prima non c’era: il
pensiero di natura. E se non c’era non è perché il sistema nervoso centrale non era abbastanza maturo – vedi
la vecchia teoria della prematurità della nascita, cui Lacan in un primo tempo ha fatto concessioni.
Il punto che condivido di Max Weber – L’etica protestante e lo spirito del capitalismo – è la
correlazione vocazione-profitto, con o senza il protestantesimo di mezzo, o la secolarizzazione. Gioco un po’
con le parole, ricordando che nelle vocazioni si prendono i… voti, chiaro essendo che noi non abbiamo a che
fare con voti religiosi ma laici (a proposito: ma perché non sono laici anche quelli religiosi?).

Ebbene, non penso di essere imprudente – mi sono fatto da me ogni possibile obiezione quest’estate
– nel fare una nuova proposta logica, quella di una nuova organizzazione anzi successione ordinata di
termini.
Il pensiero di natura è un certo dispositivo grazie al quale, stanti certe premesse di pensiero, si
produrrà una certa conclusione. Il primo ad aver dato un nome storico a questo dispositivo – spinta-fonte-
oggetto-meta, Drang-Quelle-Objekt-Ziel – è stato Freud: lui l’ha chiamato «pulsione». Di nuovo, io ho
deciso (non è «decisionismo») di fare il passo di chiamarlo il sillogismo di Freud.
Anticipo subito che c’è un nesso tra la vocazione e quel sillogismo in cui ricapitolo la «pulsione». Il
Drang-spinta è la vocazione a un moto non predeterminato nel fine che fa del soggetto il suo imprenditore,
chiamato a un atto autonomo da cause. Vocazione-atto non è causa.
La parola «sillogismo» è già occupata – Aristotele – da secoli, anzi da più di due millenni, ma non

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sto facendo un’invasione di campo. Sto invece dicendo che, posto il concetto di sillogismo, i sillogismi sono
due, quello di Aristotele e, non meno meritatamente, quello di Freud. Aristotele con la parola «sillogismo»
ha denominato un dispositivo, una successione ordinata di termini del pensiero (il sillogismo si può sì
scrivere, ma come tale non sta… scritto da nessuna parte, tanto quanto il principio di non contraddizione)
obbedendo alla quale si otterrà una conclusione, e conclusione certa, non contraddittoria. Può bastarci ai
nostri fini il noto esempio scolastico: tutti gli uomini sono mortali; i greci sono uomini; i greci sono mortali.
Dispositivo di pensiero in ordine a una conclusione. Ebbene, anche la pulsione è un sillogismo, una
disposizione di termini del pensiero in ordine a una conclusione. Non anzitutto una sequenza di azioni, e
nemmeno di impulsi né di comandi, prima di essere una sequenza di pensieri.

Non dico di più, lo riprenderò nel mio Corso. Aggiungo soltanto che:
A. nel caso del sillogismo freudiano la conclusione ha anche un altro nome: soddisfazione (ciò è già
detto nel Pensiero di natura), ma ai fini presenti è più importante sottolineare che la
soddisfazione (psicologica) è una conclusione (logica). Conclusione ossia certa. In Freud trova
riunificazione il corpus di psicologia-morale-logica, storicamente fatto a brandelli: è questo il
vero corps morcelé.
B. l’uomo malato psichicamente è veramente e rigorosamente malato di logica: è pato-logico, psico-
pato-logico. E quotidianamente produttore, anziché di ricchezza, di paradossi, paralogismi, para-
noie (in un senso più lato delle specifiche patologie così dette), nonché di ogni effettivo
impoverimento, il che peraltro è sotto gli occhi di tutti. Così come tutti possono osservare che il
principio di non contraddizione è molto più – se non essenzialmente – disatteso in rapporto al
sillogismo freudiano che in rapporto a quello aristotelico.
Un esempio. «Fallico» è il nome della contraddizione (logica: A è non-A) che si produce per
disobbedienza non direttamente al sillogismo aristotelico, bensì al sillogismo freudiano. Gli esempi si
potrebbero moltiplicare al punto che il nostro mondo ne risulterebbe descritto, cioè dalla seconda
disobbedienza, anche se fosse abitato da filosofi professionisti della sillogistica aristotelica. Ricordo anche
quel medico che diagnosticò a una donna una prostatite (per questo solo fatto l’ho diagnosticato psicotico).
Dicevo una volta che anche un ginecologo di lungo corso continua a pensare che i bambini li porta la
cicogna.
Questo dispositivo di pensiero è presente nel sogno come attività di elaborazione pura di una
conclusione o soluzione, indipendente da motricità e impulsi.
Ho dato alla pulsione un nuovo nome che ha anche il vantaggio di smantellare dalla nostra testa ogni
idea di immediata «concretezza» della pulsione (caso dell’«istinto»). Senza l’astrattezza, la buona astrattezza
del sillogismo freudiano, sappiamo che sparisce il concreto dalla nostra vita: l’anoressico non mangia più.
Fine del concreto. E anche della pelle. Il cibo, il massimamente concreto, diventa, proprio lui, una
realtà astratta, letteralmente esiliata dall’esperienza. Lo stesso per i sessi che, nell’inosservanza del
sillogismo freudiano, diventano altrettanto astratti ed esiliati.
È la potenza di rivelazione – senza usare fuori luogo questa parola – che deriva dalla patologia: la
quale ci fa vedere fino all’ostentazione, e perfino all’oscenità e alla ferocia, che senza un certo dispositivo
del pensiero il concreto sparisce tutto: alimento, sessi, sensibilità tattile e uditiva, motricità (come in un certo
«Paradiso»). Occorre il sillogismo freudiano perché il cosiddetto concreto abbia posto sulle nostre tavole, nei
nostri letti, in tutta l’esperienza sensibile e motoria.

Colloco qui, a proposito di esperienza, un chiarimento a proposito della finzione in rapporto alla
psicoanalisi. Nella storia della mia «vita analitica», come si esprimevano i vecchi analisti, più volte e da più
parti ho sentito dire che l’analisi sarebbe sì in qualche modo un’esperienza, ma come rarefatta, una finzione o
una simulazione dell’esperienza, come un laboratorio o apartheid in cui si trasferiscono – e questo sarebbe il
transfert! – le cose dell’esperienza reale che invece starebbe altrove. Niente di più falso. Un’analisi è una
delle esperienze più reali, e proprio per il fatto di costituire l’esperienza pura del sillogismo freudiano, o
pensiero di natura, senza il quale si dissolvono concreto, esperienza, reale, sensibile, motorio. E pensiero, il
quale però fa sempre un colpo di coda inatteso: infatti ha la virtuosa facoltà, anche in patologia e delitto, di
ostinarsi a non dissolversi mai del tutto, a costo di pagare e far pagare i prezzi patologici e criminali più
gravi.
Mi spingo fino a dire che per avere un’idea consistente dell’aggettivo «reale», occorre riferirsi
all’analisi. L’analisi è quell’esperienza in cui i due posti della legge di moto sono realizzati senza finzione
alcuna – divano/poltrona -, con lavoro in ambedue i posti asimmetrici occupati da due soggetti reali. E

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semmai è l’analisi a sollecitare di trasformare in un tale laboratorio senza più apartheid tutte le esperienze:
infatti laboratorio è dove c’è chi lavora, e pensa come lavoro.
Capita di sentir dire che la fine dell’analisi sarebbe cominciare a camminare «sulle proprie gambe»,
il che significa senza partner cioè proprio come prima dell’analisi. Ma no: la psicoanalisi è un camminare a
quattro gambe – partnership, ossia senza confusione di soggetti né di gambe – che, se si conclude bene,
rimarrà come dotazione («dote») anche per la vita successiva.

5. Pensiero di partner

Ancora due aiuti, due esempi maggiori, per illustrare in che cosa consiste il dispositivo-sillogismo
già chiamato Trieb e tradotto «pulsione». Ossia il pensiero di natura, poi pietra scartata, come modo di
produzione del beneficio, modus recipientis dicevamo già.

A. Il primo è quel certo raccontino, noto come Parabola dei talenti, che racconto come se si trattasse
della scoperta del Manoscritto ritrovato a Saragozza. Non sono sul pulpito, ho solo imparato a leggere.
Vi si dice di un soggetto (S) che prende l’iniziativa di porre a disposizione di uno o più altri soggetti
(A) un certo oggetto, in questo caso un capitale, affinché a loro volta ne facciano qualcosa per mezzo di un
lavoro da cui è atteso un profitto. Il profitto è per tutti i partner, trafficante/i e imprenditore, imprenditore nel
senso di iniziatore della sequenza o dispositivo, ossia con un atto di investimento. Alcuni degli A fanno
questo lavoro, altri no. A questo punto il narratore della parabola attiva quello che noi chiamiamo «Tribunale
Freud», ossia fa il processo a chi non ha trafficato i denari, che risulterà essere un processo alle intenzioni.
Intenzione significa premeditazione e, nel processo penale, dolo.
Che cosa si scopre? Che un mafioso sarebbe stato più furbo e avrebbe fatto fruttare i soldi. Quel tale,
invece, non ne ha fatto niente, ma in questo modo ha procurato un danno (mancato profitto), perché non far
fruttare un investimento non è inerzia, quiete, quanto al risultato, bensì causa danno.
Ma c’è di più. Colui che non ha fatto fruttare il denaro pronuncia la celebre frase rivolta
all’imprenditore: «Io ti conosco: sei uno che miete dove non ha seminato». Che vuol dire mietere dove non si
è seminato? È chiaro, è il concetto economico di profitto, concetto tra i più semplici dell’economia. Il
profitto è raccogliere più di quanto si è seminato. La parabola dei talenti è un trattato di dottrina economica.
E anche di diritto penale per il fatto che là dove quel lavoratore dice: «L’ho fatto, anzi non ho fatto,
perché so che sei un duro che profitta là dove non ha seminato», il giudice ravvisa una vera e propria
ammissione, ossia non solo del danno ma anche del dolo, l’intenzione di non far fruttare e dunque di
produrre danno, donde condanna. E l’intenzione di non far fruttare neppure se c’è un proprio vantaggio
insieme a quello dell’altro, si chiama invidia.
Questo è solo uno dei numerosi esempi di legge del moto dei corpi che saprei estrarre, e ho già
estratto, dai Vangeli. In questa parabola è ripreso il medesimo dispositivo, sillogismo, o legge del moto a
profitto, a soddisfazione, che chiamiamo pensiero di natura.
Dico da anni che è il pensiero di Cristo (con tre varianti, rispetto al nostro pensiero di natura, di cui
parlerò un’altra volta). È il motivo per cui ho riconosciuto in lui un amico del pensiero – di natura -, dato che
lo ha, indipendentemente da qualsiasi fede.

Ho più volte menzionato la prima eresia dell’era cristiana, il «docetismo», per il quale l’incarnazione
di Dio era la finta – rieccoci al semblant lacaniano – di Dio. Si sarebbe messo addosso un ologramma umano,
o come un cyborg ante litteram, per una causa finale di natura pedagogica, per metterci qualcosa nella dura
cervice, ma non era vero niente. Per i docetisti Cristo non era un uomo neanche quando è morto in croce.
Notevole: i docetisti per primi avevano capito che occorreva dire che Cristo non aveva «pulsione» –
non era uomo –, non aveva il sillogismo freudiano, il pensiero di natura, insomma non pensava. Era un
programma, divino naturalmente: la perfezione del cognitivismo.
Oggi il docetismo si è ingrandito, evoluto, laicizzato, imperializzato fino a ricoprire la totalità della
Psicologia novecentesca, fatta apposta per scartare la pietra: l’uomo non ha pensiero di natura. Allora non c’è
uomo. Nella Psicologia novecentesca l’uomo non esiste, se non come articolo di fede. Curioso: non era Dio a
stare dalla parte della fede? oppure, kantianamente, del postulato? L’uomo sarebbe un postulato? Freud
risponde di no: la pulsione non è postulata, è posta (non è neanche scoperta). Ambedue i sillogismi,
aristotelico e freudiano, sono posti (come si dice che il diritto esiste in quanto «positivo» cioè posto), tanto
che «normalmente» passiamo la vita a infrangerli, tanto quanto le norme di diritto positivo. Non si tratta

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dunque di dare le prove della loro esistenza (molti psicoanalisti ci sono cascati, davanti allo psicologo o al
filosofo che gli domandavano «fuori le prove!»)
Che ci sia uomo significa partnership, e questa non esiste in natura ma soltanto nel pensiero di
natura, o «pulsione», o «inconscio», o sillogismo freudiano, o vita psichica come vita giuridica.
Ma che ci sia uomo significa anche che è uomo-e-donna (ecco perché Freud chiamava «sessuali» le
pulsioni), comunque essi si coniughino: ci sono più coniugi, monaci compresi. Il pensiero di natura, dicevo, è
sempre un grand lit, anche nel più santo monaco se non è patologico. E uomo-e-donna è lo scibbolet della
partnership, di ogni partnership o relazione d’affari, qual che sia l’«affare». La donna in affari non è mai
donna di malaffare (chissà perché poi non si dice «uomo di malaffare»: ne è pieno il mondo).

B. Anche per gli ultimi venuti, in questo che una volta chiamavamo «Club dello champagne» [3],
vorrei dare un nuovo e secondo esempio di che cosa sia l’«inconscio», un esempio di cui mi si è consolidata
la convinzione solo nell’ultimo anno. Uso raramente la parola «inconscio», ma in certi contesti può servire.
È la parola freudiana per pensiero di natura. Quando Freud avvertiva che si riferiva a esperienze che
tutti hanno, e qui indicava il sogno e il lapsus, e il motto di spirito, esperienze frequenti per tutti, mostrava
che è abbastanza facile entrarci. La distinzione freudiana fra inconscio e inconscio rimosso è già la
distinzione del grano dalla zizzania, come dicevamo già. Altro è l’inconscio come pensiero di natura, salus –
a dire che il pensiero-pensiero non è subordinato alla coscienza -, altro è l’«inconscio» degli schemi coattivi
della patologia. Se il nevrotico compulsivo è obbligato a lavarsi le mani per trenta volte in una giornata,
significa che lo schema coattivo gli è inconscio eccetto che al terminal sintomatico: ecco la zizzania che,
come giustamente dice la parabola, possiamo individuare ma non strappare. Alla guarigione basta la sua
distaccata individuazione, ossia il giudizio, perché il giudizio in quanto pubblico è già sanzione. Distaccata
ossia senza attaccarcisi: per strapparla bisognerebbe toccarla, ma si sa che chi va col lupo impara a ululare.
Ma allora la zizzania è eterna? Ecco un punto sul quale neppure Agostino ha saputo pronunciarsi
risolutivamente. Meglio così: chi ha tentato di farlo ha fantasticato un «Paradiso» stuporoso, oppiaceo, e si sa
che l’oppio non toglie la zizzania ma la copre, la eternizza, e la raddoppia.
Detto questo, ossia che il grano è il pensiero, e che la zizzania – o la patologia – è una Teoria che la
abbraccia malignamente, l’antica formula della conoscenza, cognoscere per causas, conoscere secondo
cause, va riesaminata molto bene.
Posta questa distinzione, mi sento di portare un altro esempio, frequentissimo ma al quale non si
pensa, universitarizzati come siamo, ossia indotti a confondere studio e lettura. Danno immenso.
L’inconscio, o pensiero di natura, è presente lì, nella lettura, in vita e in atto passivo. «Atto passivo»
non è un ossimoro come sembra. L’inconscio è lì presente, nel caso della lettura di un romanzo avvincente o
di qualsivoglia altro testo avvincente, occasione che ci fa dire di averlo letto tutto d’un fiato: «Non ho
dormito finché non ho finito l’ultimo capitolo». Esperienza comune, anche per analfabeti quando si tratti di
film anziché di libro.
Anzi, nella lettura il sillogismo freudiano è presente in modo particolarmente puro, perché in un
primo momento la legge di moto è solo pensiero in tutti i suoi punti (a parte i movimenti dei muscoli oculari
e della mano che volta pagina): in esso si è procurato un posto affinché un altro – il romanzo in questo caso –
lo occupasse, e realmente perché il libro è reale.
Si facciano le debite considerazioni per vedere in atto il sillogismo freudiano nel rapporto
psicoanalitico, implicante la materialità di poltrona e divano. [4]
Nell’accennata e nota esperienza di lettura appassionante nulla della composizione nonché delle
funzioni del soggetto è assente: io, coscienza – che se ne sta buona buona altrimenti ci distrae -, attenzione,
memoria, perfino critica, e ovviamente gusto, e umorismo. [5] Il pensiero è presente in tutte le sue
possibilità, tanto che appena finito il romanzo si sarebbe in grado di raccontarlo, commentarlo, criticarlo,
paragonarlo. In questa esperienza nel posto dell’Altro c’è il libro, e nei confronti di questo Altro il Soggetto
ha compiuto l’atto del recipiente – recipiens cioè attivo, non contenitore – passivo. Si faccia ora il paragone
col fare l’amore, anche solo per accorgersi in modo solare che non c’è nessun istinto.
Nella storia delle patologie individuali ho osservato più volte che quando il sillogismo freudiano non
è attivo – capacità di passività – nei confronti di un altro «in carne e ossa», verrà il giorno in cui non si
leggeranno neanche più romanzi. Tutt’al più si diventerà degli studiosi tristi.
La differenza tra studio e lettura mi sembra patente, comunque suggerisco di esaminarla
personalmente.
Non esiste lo studioso di psicoanalisi. E lo psicoanalista che legge poco ha poche chances. Una
battuta di Lacan: se uno si avvicina alla psicoanalisi per studiarla, renvoyez-le à ses chères études.

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6. Vocazione

Nell’uomo l’eccitamento è ec-citazione, chiamata, vocazione. Nulla di pretesco in questo, dato che è
così fin dal bambino, e fino a ogni età della vita, e in ogni campo, latitudine, credenza o non credenza. Anzi,
l’uomo è uomo per questo, che vale perfino come definizione rigorosa di «uomo». Senza di che l’esistenza
dell’uomo sarebbe puro atto di fede. «Credo in unum Deum» potrebbe andare, ma «Credo in hominem»…
È il Credo della Psicologia novecentesca, che dell’esistenza dell’homo non sa né vuole sapere nulla.
Freud se ne distingue perché – primo nella storia dell’umanità – ha avuto sapere su ciò che denota
l’uomo: non l’istinto, che lo de-nota, lo snota, lo depenna, lo scarta, bensì ciò che egli ha chiamato
«pulsione» – il sillogismo freudiano –, e senza lasciarsi affogare in dispute filosofiche sull’anima. Miglior
filosofo lui che ha introdotto la «pulsione».
Che cosa è vocazione? La vocazione non è causa, non causa nulla né come causalità naturale né
come causalità imperativa. Essa sollecita a dare soddisfazione, conclusione, meta, a una messa in moto
(l’eccitamento) senza alcuna determinazione in ordine alla meta. Se così, allora il primo passo potrà solo
essere un’elaborazione di pensiero, un’iniziativa, un atto di pensiero, un atto come pensiero (che è una
premeditazione: ma ci voleva il diritto penale per farci ammettere, a denti stretti, che esiste atto di pensiero?).
Da anni sosteniamo il «Pensiero di natura» – come Studium Cartello esistiamo per questo – come il
primo atto di costituzione della partnership, del mirare a quella meta che risulterà come invenzione dal
volerci un partner. «Pensa-vivi-tratta-agisci da partner» è la massima della legislazione universale detta
«pulsione». I sessi stessi non hanno vita propria («istinto»), ma la vita della partnership. Che condizionano
per una sola ragione: che non c’è partnership senza rispetto onnipresente per la loro differenza.
Da anni abbiamo redatto, come potrebbe fare un giurista, il Pensiero di natura, e alcune persone si
dedicano alla coltivazione di esso in ogni direzione possibile. Lo Studium ne è l’opificio, per definizione e
per Statuto.
Ebbene: curarsi, aver voglia di curarsi, avere l’eccitamento a curarsi del pensiero di natura – ovvio
che non è un dovere – è una vocazione, nel senso della grande storia delle vocazioni.
Assumo come valido l’esame della vocazione-Beruf compiuto da Max Weber nell’Etica protestante
e lo spirito del capitalismo, in cui egli distingue una prima antica vocazione religiosa sul modello
benedettino, da una seconda succeduta a quella, la vocazione del capitalista, in quanto nata dall’etica
protestante, ri-forma della precedente, rintracciabile poi anche nel lavoro scientifico e nel lavoro politico [6].
Weber afferma che questa seconda accezione di vocazione – Beruf in tedesco, perfettamente reso da
«vocazione» in italiano ancora più che da «professione» – è la forma secolarizzata o laicizzata di quella,
forma che, sempre secondo Weber, ha fatto il mondo («capitalismo»).
Ricorro ora a un «distinguo»: tra l’etica protestante cui Weber fa risalire la vocazione del capitalista,
e l’idea che «capitalista» significa – protestantesimo o no – vocazione, ossia iniziativa, intrapresa, primo atto,
atto non causa, produzione anzitutto di partnership («divisione del lavoro»). Ma non faccio confusioni di
sorta tra capitalista e psicoanalista.
Posso dunque parlare dell’aver cura del pensiero di natura come di una vocazione, come quella del
benedettino o del capitalista (con o senza etica protestante). E già Freud, in una lettera ma più ancora nella
Questione dell’analisi laica, parlava degli psicoanalisti come di uno stato di vita (Stand), una vocazione.
E una vocazione che anche nel massimo della perizia incontrerà sempre un amatore, ossia senza
alcuna distinzione tra amatore e professionista.
Una vocazione esiste nel mondo come una regola – e il pensiero di natura altro non è che
l’estrapolazione della regola psicoanalitica – che fa eccezione nel mondo, ma nel mondo come a sua volta
regime d’eccezione.
Nel mondo dove c’erano i monaci non tutti erano monaci, e la loro regola era eccezione rispetto al
mondo: che a sua volta non andava bene, cioè era un regime d’eccezione.
Il capitalista a sua volta, almeno in un primo tempo, è stato una regola come eccezione in un mondo
sociale ed economico anteriore che non andava bene cioè era un regime d’eccezione.
Nell’uno e nell’altro caso c’era un mondo anteriore in cui quella vocazione o regola entrava come
eccezione, e per la riforma del mondo che non andava bene, anzi per la fine del mondo ma senza nozione
apocalittico-volgare di fine del mondo: fine della patologia di quel mondo, della povertà di quel mondo. La
povertà – secondo qualsiasi parametro – è sempre patologica, perché è un prodotto, un prodotto al ribasso:
non esistono i poveri in natura, per avere i poveri occorre averli prodotti. C’è un modo di produzione della
povertà. Lo stesso vale per la psicopatologia: c’è un modo di produzione della psicopatologia.
Nell’essere eccitati alla cura – non medica – di tutto questo, si tratta di vocazione, che si tratti del

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monaco, del capitalista, dello psicoanalista: in tutti e tre i casi resta intatta la definizione di vocazione come
regola in regime d’eccezione.

7. Appunti sparsi per finire (dopo l’intervallo)

A.

Ho appena portato quattro termini inediti:


amici,
domani,
sillogismo freudiano,
vocazione,
tutti suscettibili di conclusioni. Che possono essere soltanto personali.
Quanto a «domani», aggiungo solo che il pensiero di Cristo su cui torno testardamente è quello di un
uomo che ha domani. Che non vive di rinvio, rimozione, domani finto. Resurrezione reale o messinscena di
seguaci, in ogni caso è l’asserzione del desiderio di avere domani.
Vale sempre il paragone con Buddha, cioè la negazione del desiderio di avere domani.
Buddha a parte, tutti i paradisi delle più diverse religioni sono i paradisi della rimozione, tutti senza
domani.
Ma se, dopo il cenno a Cristo, qualcuno tanto tanto pio dicesse «Ma che bello che si arriva a
questo!», a costui direi che non ha capito. Se viene a parlare con me, mi parli di sogni e di lapsus, di libri che
ha letto e quant’altro, allora potrà anche capitare che si parli del pensiero di Cristo. Che era un lettore, non
uno studioso.
Dunque, con rispetto per i monaci, non mettiamoci a fare i monachelli.
Insomma, il nostro Club è conclusioni da parte di ognuno, ossia il pensiero riposante «Chi c’è, c’è,
chi non c’è, non c’è». Non c’è dovere di esserci per nessuno.

B.

Nelle ragioni per esserci, o conclusioni personali, o modo di produzione della soddisfazione per
mezzo di un altro o partner, ci risiamo col Padre nostro, quello – è stata un’altra scoperta di questa estate –
del fiat voluntas tua, sia fatta la tua volontà. Da secoli ci insegnano l’idea più sbagliata: «la tua volontà»
vorrebbe dire che c’è un grande Capo con le sue idee, i suoi progetti o disegni, i suoi destini a nostro
riguardo, e noi lì nella nudità della nostra anima [7]. Ci vuole proprio la rimozione del pensiero perché si
produca questa crudele sciocchezza: la «sua volontà» starebbe al posto del nostro pensiero rimosso. Il
«Padre» ridotto all’immondezzaio del nostro pensiero scartato, e rispondente con una sua «misteriosa»
politica delle discariche. Si può essere più blasfemi!
Invece, tutti possiamo rintracciare il modello del «Sia fatta la tua volontà» in un’esperienza comune
(come lo sono il sogno e la lettura). Penso alla domanda che tutti possono fare a una banca per l’apertura di
una linea di credito: se la banca accetta la domanda – fiat – la linea di credito è accordata – facta est. Che
cosa è accaduto? Parlo di accadere, geschehen. In quella banca si è costituita una volontà che non c’era in
precedenza, si è costituito un volere a mio riguardo e beneficio che prima non c’era. Da quel momento,
avendo il fido, posso comprare la casa, l’auto, finanziare l’azienda, rifarmi dalla crisi economica dell’ultimo
anno e così via.
«Sia fatta la tua volontà» non è la risibile frase di Lucia Mondella davanti all’Innominato «Sono qua:
m’ammazzi!»: che differenza c’è da «Sono qua: mi salvi!«.
In quella banca, il fiat voluntas costituisce un posto come relazione fra posti: ecco un rapporto.
Ed ecco il Padre nostro, che tutti dovrebbero recitare. Ma non dico che esso benedice tutte le
divisioni del lavoro.
Quando voluntas è fatta, risultano benefici economici, che sono anche di guarigione («economico»
significa più cose). È la diseconomia a definire pertinentemente la patologia. La diseconomia ha tre figure, le
prime due già note alle Assicurazioni: lucro cessante, danno emergente; ne ho aggiunta una terza: lucro non
emergente.

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C.

So che molti si buttano in quello che in tutte le varietà possibili e immaginabili si chiama «il
sociale»: occuparsi dei poveri diavoli, alla fin fine vuol dire questo. Non scomodiamo Madre Teresa di
Calcutta, che non finiva qui. Per me va bene così, come si dice «Ben fa chi fa, sol chi non fa fa male». Ma è
anche bene sapere che qualsiasi cosa si faccia nel «sociale», in esso non è costituibile il secondo posto, il
posto dell’altro-partner, il modo di produzione del profitto, di far fruttare talenti.
«Sociale» significa sopravvivenza: quando serve ben venga, ma niente bugie.
Quelli del sociale non solo i luoghi del pensiero di natura. Il letto d’ospedale non sarà mai il divano
dello psicoanalista, non sarà mai uno di due posti. Ciò non toglie che quando mi servirà lo userò anch’io.
È servizievole che qualcuno si occupi di sopravvivenza: solo uno che sopravvive può interessarsi a
non soltanto sopravvivere. Ma l’ordine di precedenza, anche nel bisogno estremo, dev’essere inverso ossia
«Non di solo pane vive l’uomo», il che è vero per tutte le anoressiche anche ricche di famiglia. Poi viva il
pane, e tutto il resto.

D.

Stanti certe mie frequentazioni, mi imbatto in un uso frequentissimo della parola «mistero», e il
mistero di cui si tratterebbe è un mistero di cui non si dà conoscenza. Non commento.
Dico però che c’è un mistero che conosciamo sensibilmente, anche se resta un mistero, perché
«mistero» vuole soltanto dire che non c’è una causa che l’ha posto in essere, e non perché sia misteriosa la
causa, ma semplicemente perché non ha causa. C’è un mistero nitido: Freud l’ha denominato Es. Due anni fa
io l’ho tradotto con Chi. Chi, solo Chi, è. Nell’esempio del leggere diventa intellettualmente chiaro che l’Es è
Chi legge, senza fumi esoterici perché è un mistero senza misteri.

E.

Se ce ne fosse stato il tempo avrei fatto – però un po’ l’ho fatto – una specie di passerella di lemmi
aforistici, parole, tante, come anticipo del nostro progetto di Enciclopedia, che annunciamo da anno e che si
fa aspettare.
Equivale a parlare italiano (e ogni altra lingua), in cui siamo sempre più analfabeti di ritorno e di
andata, anche quando abbiamo studiato.
Parlare italiano significa: so. Ecco la psicoanalisi, per la quale non esiste non so: esiste rimozione,
ignoranza militata.
Spero che molto presto, non solo sul Sito ma anche su carta, troverete il Lemmario aforistico,
alfabetico, anticipatorio dell’Enciclopedia.

F.

Studium Cartello non è una baracca da mandare avanti. Non c’è niente da-fare. Vocazione è affare
personale, lavoro senza dovere, magari laborioso ma senza angoscia: anzi, lavoro (di pensiero) denota non
angoscia.
Nel passo compiuto quest’anno c’è un nuovo beneficio, la semplificazione per cui il Corso è
costituito di Corsi, insegnamenti autogestiti da ciascuno, ovviamente tutti in accordo con quel patto di lavoro
che chiamiamo Pensiero di natura.
Poiché la perfezione non è di questo mondo, qualche compito da «baracca» qualcuno lo assume:
Glauco Genga, il sottoscritto, qualcun altro. Spero che ci ringrazierete. Starei per fare l’apologia di Glauco
Genga, ma lui mi fermerebbe.
Se i Corsi di quest’anno diventeranno altrettanti libri, anzitutto su Sito, sarà ben fatto. Faccenda di
ambizione, che è una virtù, e meno diffusa che non si creda.

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Personalmente non cercherò di convincere nessuno. Lacan ha scherzato con questa parola (con-
vincere, con-vaincre), dicendo: «Io con-vaincre qualcuno? No grazie, con ou pas». Cercate la parola sul
vocabolario.
La nostra Scuola, che chiamerei indifferentemente Università – farei coincidere l’università con il
liceo [8] – si esercita con il mezzo dell’Enciclopedia. È una scelta precisa. Vuol dire rifare la lingua e le frasi
che escono dalla bocca [9].
C’è università e università. Ce n’è una del lontano passato che poco o tanto continua a ispirare la
storia dell’università: la chiamo l’università di Dante. Basta andare a leggere gli ultimi canti del Paradiso. Si
vedrà che l’università di Dante è il regno della rimozione, il regno della pietra scartata. Ve lo dimostro.
Sul finale – Beatrice ormai non serviva più ed era stata rimandata nei suoi accantonamenti, sul suo
sgabellino – Dante viene interrogato sulla fede, la speranza, la carità, rispettivamente dai Santi Pietro,
Giacomo, Giovanni. Quale modello di interrogazione vale per tutti? Quello universitario classico: non sono
tre Santi, Dante li de-santifica facendone tre Professori. E lo studente, Dante, diligentemente dà le risposte
che ha studiato. Poiché dà le risposte «giuste», viene ritenuto uomo di fede, speranza, carità (a ben vedere
non sono neanche tutte giuste, ma di ciò un’altra volta). Dovremo inventare un girone, infernale o
purgatoriale, per il peccato universitario.
Mi fa ricordare un compagno di Liceo, ateo e figlio di atei, che vinse il primo premio della Diocesi di
Milano per il migliore studente dell’ora di Religione.
E ancora mi ricorda gli esami alla facoltà di Psicologia, quando vi si insegna ancora un po’ di Freud,
in cui si chiede allo studente: «Quali sono le istanze di Freud?», e l’esaminando deve recitare – correttamente
cioè a pappagallo – «L’Io, l’Es, il Super-io».
La tripartizione stessa di ognuno dei temi dei nostri Corsi designa un’altra Università (lo dico troppo
in breve: L’uomo che ha domani realizza retroattivamente l’oggi).
Una Università in cui si sappia individuare la psicopatologia anche nei Tragici, e nella Filosofia
antica, come in quella moderna. In ciò Platone è stato più onesto di altri: dichiaratamente, l’omosessualità
platonica non è vizietto privato ma fa parte della teoria, del theorein.

G.

Come finale: scrivete il vostro libro. Con juicio però: di libri ce n’è tanti… Scrivere libri assomiglia
al lavoro nel «sociale» di cui sopra: male non fa e a volte può servire.
Ma io parlo di libri corrispondenti alla frase di Freud che scrive che l’ontogenesi – la vicenda
individuale – ricapitola la filogenesi – la storia dell’umanità. E che la ricapitoli bene, senza rimozione, con
domani.
Un’analisi, anche se pochi se ne accorgono, ricapitola la filogenesi.
E in essa si arriva a realizzare che tutti gli alberi sono all’altezza, e senza egualitarismo.

TEMI E AUTORI
Amico
Causa
Civiltà
Coscienza
Cristo
Docetismo
Domani
Facoltà originaria
Finzione
Giobbe
Inconscio
Mistero
Partner
Pattumiera

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Pensiero di natura
Professione
Profitto
Pulsione
Rimozione
Ritorno del rimosso
Sillogismo freudiano
Sopravvivenza
Vita sessuale
Vocazione

NOTE

[1] Il resoconto compare in forma rivista dall’autore. 


[2] Giacomo B. Contri, SanVoltaire, Guaraldi, Rimini 1994. 
[3] Chi frequenta il Club dello champagne? Colui cui piace lo champagne, non l’anoressico dello champagne, che
dice: «Vengo, apprezzo teoricamente lo champagne, ma non lo bevo». Per costoro «Quella è la porta!». Un giorno
avremo un Ordine professionale di cuochi anoressici, che non si siedono a tavola (come quel personaggio di
Manzoni). Il futuro presidente della FAO sarà una celebre anoressica! 
[4] L’analista è un analista se già nel proprio pensiero ha il posto fisico del divano. Ci sono analisti che non hanno
neanche il posto fisico della poltrona. In questo caso non sono analisti, non si comincia neanche o finisce male:
sono psicotici (ma questi, di solito, non fanno gli analisti – gli psichiatri sì -, mentre lo fanno i perversi). 
[5] Una delle definizioni già date della perversione: è il pensiero quando è tutto coscienza – la coscienza che prende su
di sé la psicopatologia. 
[6] Si vedano a tale proposito anche quei due più brevi saggi weberiani intitolati Scienza come professione e Politica
come professione. 
[7] Chissà perché poi l’anima sarebbe nuda, vedi i mistici: al ginnasio non lo capivo. Nudità spirituale = pornografia
spirituale! Ricordo che i sogni di nudità sono sogni di angoscia. Il 99% delle rappresentazioni della Maddalena,
salvo il grande George de la Tour, la rappresentano sempre discinta, con un’allusione prostituiva esegeticamente
insostenibile (l’ho già dimostrato). 
[8] Lo dico per esperienza: col passare degli anni, dopo la fine del liceo e dell’università, andavo sempre più
constatando che la fonte colta in cui pescavo i miei riferimenti era molto più nel liceo che nell’università. 
[9] Per questo risuggerisco a tutti di fare come me almeno su un punto: scrivete su pezzi di carta un pensiero che vi
viene e vi sorprende. Dopo tre o sei mesi guardate il risultato: sarete sorpresi dal frutto e dal progresso. Lo dico a
vostro beneficio, ci guadagnerete. Quanto a me, se non facessi così non riuscirei a combinare niente: quando devo
parlare o scrivere vado a prendere le mie carte dei mesi precedenti e trovo già tutto lì, quasi senza costi ulteriori.
Se anche scrivo un pensiero durante una seduta, di sicuro non porto via niente alla persona che è da me: anzi,
questo scrivere episodico migliora la mia «attenzione fluttuante». 

© Studium Cartello – 2007


Vietata la riproduzione anche parziale del presente testo con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine
senza previa autorizzazione del proprietario del Copyright

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