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RIOTTA, Ewa THOMPSON - Svizzera: Fausto CASTIGLIONE - Togo: Comi M. TOULABOR - Turchia: Yasemin
TAŞKIN - Città del Vaticano: Piero SCHIAVAZZI - Venezuela: Edgardo RICCIUTI
Ucraina: Leonid FINBERG, Mirosłav POPOVIC´- Ungheria: Gyula L. ORTUTAY
1Rivista mensile n. 11/2015 (dicembre)

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SOMMARIO n. 11/2015

EDITORIALE

7 Guerrieri del nulla

PARTE I AMICI, NEMICI E UTENTI DELLO STATO ISLAMICO

31 Daniele SANTORO - Per Erdoğan, malgrado tutto


l’Is resta il male minore
43 Fulvio SCAGLIONE - Contrordine: Putin è dei nostri (oppure no?)
49 Giovanni PARIGI - Il califfato, ovvero l’arrocco sunnita in Siraq
57 Lorenzo TROMBETTA - Raqqa, lo Stato Islamico
e le matriosche siriane
69 Autobiografia (non autorizzata) del ‘califfo’
77 Emanuela C. DEL RE - Il senso di Dā‘iš per lo Stato
87 Xavier RAUFER - Lo Stato Islamico è una banda di mercenari
95 Louise SHELLEY - ‘Criminalità e terrorismo sono due facce
della stessa medaglia’
99 Nicola PEDDE - Teheran, Baghdad e i molti padri
dello Stato Islamico
107 Dario FABBRI - Nonostante Parigi Obama resta fuori dalla mischia
115 Cinzia BIANCO - (Petro)pecunia non olet
125 Gianni VALENTE - La guerra asimmetrica di papa Francesco

PARTE II CHE FARE?

133 Rosario AITALA - Il terrorismo non si vince (solo) con le bombe


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141 Francesco VITALI - Comunicazione e controllo ai tempi del terrore


147 Carlo JEAN - I musulmani devono temere l’Occidente
più dei terroristi
155 Germano DOTTORI - Così l’Italia tenta di non finire nel mirino
163 Mattia TOALDO - Una strategia alternativa in cinque punti
171 Paolo RAFFONE - La brutta china dello stato d’eccezione
181 Virgilio ILARI - La battaglia di Parigi
PARTE III LA FRANCIA IN GUERRA CAMBIA L’EUROPA

189 Fabrizio MARONTA - Requiem per Schengen


197 Manlio GRAZIANO - Dieci tesi sulla guerra e la Francia
207 Edoardo BALDARO e Silvia D’AMATO - L’islamizzazione dell’(in)sicurezza
nazionale in Francia
217 Luca MAINOLDI - Nel labirinto delle spie francesi
225 Matteo OPPIZZI - In Mali Parigi ritrova la grandeur
233 Niccolò LOCATELLI - Molenbeek, da piccola Manchester a Belgikistan

AUTORI

237

LA STORIA IN CARTE a cura di Edoardo BORIA

239

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LA STRATEGIA DELLA PAURA

Guerrieri del nulla


1. I L TERRORISTA PORGE AL NEMICO LA CORDA CON CUI IMPICCARSI.
Il nodo scorsoio offertoci dai jihadisti ha un nome: guerra al terrori-
smo. Di più: «guerra all’islamismo radicale» secondo il presidente
della Repubblica Francese François Hollande, o addirittura al «sala-
fismo», come specifica il suo primo ministro Manuel Valls, evocando
gli epigoni del movimento riformista musulmano che nell’Ottocento
predicava il «ritorno agli antenati» 1. Dopo le stragi del 13 novembre,
perpetrate nel cuore di Parigi da un manipolo di terroristi francesi e
belgi di origine araba più o meno collegati allo Stato Islamico (Is),
la Francia sembra aver vestito la divisa della guerra di religione. E
con essa parte dell’Occidente, a cominciare dal vicino Belgio, base
logistica dei jihadisti che hanno massacrato 130 innocenti nei caffè
e nei teatri della Ville Lumière.
«Terrorismo» è termine inflazionato. Marchio con cui bollare il
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nemico, non categoria euristica. Eppure mai come oggi, quando l’e-
mozione e la rabbia minacciano di prendere il sopravvento sulla ra-
gione, è opportuno ricordare a noi stessi che il terrorismo è una tec-
nica di combattimento. Non una specialità islamica o di qualunque
altro credo, visto che a usarla lungo l’intero corso della storia umana
sono stati i soggetti più diversi, noi europei non esclusi. Per capirne il
1. Cfr. B. BONNEFOUS, D. REVAULT D’ALLONNES – «Valls dramatise encore plus la communication», Le
Monde, 21.11.2015. 7
GUERRIERI DEL NULLA

senso non serve compulsare il Corano. Meglio riprendere in mano i


nostri classici. Ripartendo dalla definizione clausewitziana della
guerra come «atto di forza che ha per iscopo di costringere l’avversa-
rio a sottomettersi alla nostra volontà» 2. Dunque a fare ciò che noi
vogliamo faccia. Non occorre disporre di particolari doti decrittatorie
per stabilire che il primo obiettivo di coloro che hanno colpito a Pari-
gi, come prima a New York e a Washington, a Londra e a Madrid, è
quello di spingere l’Occidente alla crociata, vero nome della guerra
al terrorismo. Così legittimando se stessi nelle proprie comunità e re-
gioni di origine – lì dove giocano le decisive partite di potere – come
guerrieri di Dio, avanguardie del riscatto di un mondo umiliato, fru-
strato ed esposto al diabolico fascino della modernità.
Il buon senso dovrebbe indurci a dubitare dell’opportunità di se-
guire il copione previsto da chi ci attacca. Ma questo argomento
non è decisivo: il nemico può sbagliare, dunque volere ciò che finirà
per perderlo. Prima di stabilire come rispondere alla sequenza di at-
tacchi suicidi contro i «bersagli molli» dell’Occidente – inteso come
dar al-harb, ovvero la «casa della guerra» abitata dagli infedeli –
converrà dunque ricordare quali siano i caratteri tipici di ogni ter-
rorismo. Per poi valutare quali varianti, in vista di quali scopi, vi
abbiano impresso i jihadisti, ammesso e non concesso che si tratti di
una galassia omogenea. Esercizio arduo, che sconta la nostra rela-
tiva ignoranza del nemico. Tanto più evidente se la confrontiamo
con l’intima conoscenza che quei terroristi hanno di noi.

2. Il terrorismo è di norma l’arma dei deboli. La risposta asim-


metrica alla prevalenza di chi disponendo di risorse militari, tecno-
logiche ed economiche superiori cerca la battaglia simmetrica. Agi-
sce per cellule quando non in solitario, seminando il panico nel
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fronte domestico del nemico. È quindi contraddizione in termini


evocare «l’esercito terrorista di Då‘iš» – dispregiativo arabo con cui
usiamo stigmatizzare lo Stato Islamico – come ha fatto Hollande su-
bito dopo gli attacchi del 13 novembre, quasi a convenzionalizzare
lo scontro 3. I terroristi non sono un’armata. Sono in ogni senso il

2. K. VON CLAUSEWITZ, Della Guerra, Milano 1988, Mondadori, p. 19.


8 3. Cfr. F. HOLLANDE, «Déclaration à l’issue du Conseil de Défense», 14.11.2015, http://www.elysee.fr
LA STRATEGIA DELLA PAURA

suo contrario. Chi ne dubitasse ha solo da paragonare l’aspetto di


un soldato occidentale, dotato di un’impalcatura tecnologica che lo
rende simile a un’astronauta, a quello di un attentatore suicida
cresciuto nelle banlieues parigine o brusselesi e addestrato nei deser-
ti arabi.
In ragione di tanta asimmetria, i terroristi non possono né voglio-
no schiacciare il nemico, cercano di farlo impazzire. Non devono
vincere: vincono in quanto dimostrano di esistere. Per questo cerca-
no di imporre le loro regole. Ovvero, dal nostro punto di vista, il loro
disprezzo delle regole. Di qui l’assoluta libertà di colpire chiunque,
quando e come vogliono. Senza limiti. Il terrorista non ha campagne
elettorali, cicli politici da rispettare. È pronto a morire per la causa. E
per colpire l’obiettivo impiega ogni arma disponibile, compreso il suo
corpo imbottito di esplosivo. Ma usa anche strumenti più sottili, come
la Rete – specie la sua regione oscura (Dark Web) – spazio virtuale di
molto concreto reclutamento e indottrinamento, oltre che di traffici
destinati ad alimentare le fortune accumulate dai capi.
Il terrorista è il cacciatore che sceglie le prede nelle file più espo-
ste e fragili del nemico. Per colpire dove fa più male, dove più facil-
mente eccita la paura e la reazione irriflessa della comunità e dello
Stato avversario. Chi si serve oggi di questa tecnica conosce il vinco-
lo degli eserciti occidentali: la priorità di preservare la vita dei pro-
pri soldati, dotandoli delle tecnologie più sofisticate ed evitando per
quanto possibile di esporli al combattimento diretto, sul terreno. Nel
caso, anche ricorrendo a bombardamenti terroristici dall’aria. La
soglia del dolore delle nostre società è infinitamente più bassa di
quella di coloro che ci colpiscono.
Soprattutto, il terrorista cerca pubblicità. Per reclutare adepti e
demoralizzare il nemico (grafico 1). La pervasività dei media molti-
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plica l’eco degli attacchi. Poiché la legge non scritta dell’informazio-


ne di massa è l’enfasi, chi ci colpisce sa che una strage di civili in
una capitale occidentale garantisce visibilità planetaria per mesi. E
la condanna altrui vale molto più dell’autoglorificazione. Tanto più
alto il volume della nostra retorica, tanto più robusta la promessa di
vendicare le vittime innocenti, quanto maggiore l’audience di chi
ha pianificato gli attacchi. Se vittoria e sconfitta si misurano oggi
soprattutto sul fronte della narrazione (narrative), i massacratori di 9
GUERRIERI DEL NULLA

civili innocenti godono di un vantaggio di partenza garantito dai


media. I nostri molto più dei loro.

3. I jihadisti innestano sui profili classici del terrorismo la loro


ideologia, le loro percezioni del mondo occidentale e le esperienze
belliche maturate nei teatri mediorientali. Consideriamole partita-
mente, anche per sgombrare il campo da alcuni luoghi comuni pro-
dotti dall’infecondo incrocio della loro propaganda con la nostra.
A) Quanto all’ideologia. I terroristi che fanno strage in Europa
non sono religiosi (carta 1). Hanno una conoscenza superficiale, se-
lettiva ed estremamente manipolata del Corano e delle tradizioni
islamiche. Talvolta nemmeno questa. Lo pseudo-islam decostruito e
riadattato da chi li guida nel processo di radicalizzazione volto a
trasformarli in automi sterminatori è un breviario di somministra-
zione della violenza. Un’ortoprassia – non un’ortodossia – di segno
totalmente apocalittico. Lo schema, elementare quanto magnetico, è
il seguente: siamo vicini alla fine dei tempi; nel giorno del giudizio
conviene farsi trovare sulla sponda dei seguaci del vero Dio, il no-
stro; perché noi siamo i soli detentori della Verità, tutti gli altri espri-
mono diverse gradazioni dell’errore, del cedimento alle seduzioni
diaboliche. In questo universo paranoico l’umanità è spartita in
cinque famiglie. Dal Bene al Male, dal puro all’impuro: noi giusti; i
«cattivi musulmani» – sunniti deviati; gli eretici – sciiti e seguaci di
altre correnti islamiche; gli ebrei; i crociati, ovvero gli occidentali
identificati con un cristianesimo aggressivo.
B) Chi fa strage di civili nelle metropoli europee si considera in
stato di legittima difesa contro noi «cani arrabbiati» che vorremmo
indurlo alla perdizione. Si intitola quindi il rango di eletto destinato
a redimere l’umanità. Quanto di più gratificante e mobilitante per
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un «soldato di Dio». Secondo Dounia Bouzar, l’antropologa francese


che ne studia sul campo la mentalità e i comportamenti, ciò che noi
classifichiamo terrorismo è per i jihadisti un meccanismo di «purifi-
cazione interna» attraverso lo «sterminio esterno». Siamo di fronte a
«persone senza emozioni pronte a uccidere gli impuri non per quello
che fanno ma per quello che sono» 4. Senza provare alcun senso di
4. Cfr. l’intervista a D. BOUZIAR nella trasmissione radiofonica di France Culture «Sommes nous en
10 guerre?», dedicata il 16/11/2015 alla strage di Parigi, www.franceculture.fr
LA STRATEGIA DELLA PAURA

Grafico 1 - DA DOVE VENGONO I FOREIGN FIGHTERS IN SIRIA

Numero stimato di jihadisti in Siria da paesi selezionati nel 2014*

numero di jihadisti popolazione musulmana

Russia 800+ 16.379.000


Francia 700+ 4.704.000
Regno Unito 500 2.869.000
Germania 300 4.119.000
Australia 250 399.000
Belgio 250 638.000
Paesi Bassi 120 914.000
Stati Uniti 100+ 2.595.000
Danimarca 100 226.000
Norvegia 50 144.000
Irlanda 30 43.000
Svezia 30 451.000

*esclusi paesi a maggioranza musulmana

Fonte: Cnn, National Governments Pew Research

colpa. I casi estremi potrebbero essere ascritti alla tipologia dell’as-


sassino di massa animato da un paranoico risentimento, noto come
«pseudocommando». Nulla di specificamente legato al jihadismo, se
non nel senso del desiderio di vendetta verso la «pseudocomunità»
– la nostra Europa – da cui crede d’essere perseguitato 5. Altri, come
l’analista americano James Hansen, li paragonano prosaicamente a
un branco di immaturi che vogliono attirare l’attenzione e guada- Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

gnare spazio nei media, visto che si comportano «come un’allar-


mante banda giovanile di Los Angeles»: «C’è qualcosa di infantile in
tutto ciò che (lo Stato Islamico, n.d.r.) fa, nella vanità e perfino nei
suoi comportamenti votati al suicidio. C’è niente di più tragicamen-
te romantico che uccidersi per un ideale? È la massima dimostrazio-
ne di “sincerità” di chi ritiene di essere incompreso e insufficiente-
5. Cfr. J.L. KNOLL, IV, «The “Pseudocommando” Mass Murderer: Part I, The Psychology of Revenge
and Obliteration», The Journal of the American Academy of Psychiatry and Law, vol. 38, n. 1, 2010,
pp. 87-94. 11
12
Islanda
<1.000 1 - L’ISLAM IN EUROPA
<1.000
Presenza dei
musulmani in Europa
nel 2010 Albania 2.302.000 2.601.000
Federazione Russa
Bosnia - Erz. 1.843.000 1.564.000
GUERRIERI DEL NULLA

Finlandia 13.634.000 16.379.000


fno a 1.000 Norvegia 11.000 Croazia 52.000 56.000
54.000 42.000 Kosovo 1.955.000 2.104.000
da 1.000 a 10 mila 144.000 Montenegro 94.000 116.000
da 10 mila a 100 mila Svezia Macedonia 441.000 713.000
Irlanda 109.000 Estonia 9.000 2.000
147.000 Serbia 412.000 280.000
226.000
da 100 mila a 1 milione 451.000 Lettonia 3.000 2.000 Slovenia 29.000 49.000
Danimarca
oltre 1 milione 15.000 Paesi Bassi Lituania 7.000 3.000
43.000 344.000
109.000 nel 1990 Regno 914.000
226.000 nel 2010 Unito Belgio Bielorussia
1.172.000 266.000 10.000
2.869.000 638.000 Germania
2.506.000 19.000
o Polonia
n tic 4.119.000 6.000 20.000

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t la Ucraina

A
Rep. Ceca

o
Francia <1.000 2.000 103.000 393.000

n
1.000 4.000 Slovacchia
568.000 Liechtenstein

ea
Austria <1.000 4.000 Moldova
4.704.000

Oc
161.000 475.000 Ungheria 4.000 15.000
Svizzera Slovenia 17.000 25.000 Romania
148.000 Croazia 46.000 73.000
Portogallo
430.000 San Bosnia - Georgia
10.000 Marino Azerbaigian
Erz. Serbia M a r N e ro 625.000 442.000
65.000 Andorra Monaco Italia <1.000 5.635.000 8.795.000
Bulgaria
Spagna <1.000 <1.000 858.000 1.000 1.155.000 1.002.000
271.000 <1.000 <1.000 1.583.000 Montenegro Armenia
Kosovo Macedonia 128.000
1.021.000
Città del 1.000
Vaticano Turchia
<1.000 <1.000 Albania
Mediterraneo
Mar
Grecia
254.000
Malta 527.000 2.000 200.000
<1.000 1.000 Fonti: Pew Research Center Cipro
LA STRATEGIA DELLA PAURA

mente apprezzato» 6. E se una buona quota di quei giovani killer so-


no passati attraverso i meandri della piccola criminalità e hanno
vissuto l’esperienza del carcere, classico ambiente di formazione e
associazione al delitto, altri amano presentarsi come idealisti re-
spinti dal corrotto Occidente i quali hanno abbracciato la «vera fe-
de» per non cedere alla tentazione del gangsterismo di strada.
C) Gli attentatori coinvolti nei recenti attacchi a Parigi sono mili-
ziani francesi e belgi, dei quali alcuni di ritorno dal «Siraq», dalle
guerre – quelle sì effettive – fra Stati e gruppi islamici che si conten-
dono territori, popolazioni e risorse. Una massa di quasi duemila
combattenti addestrati e temprati ad ogni ferocia, di cui molti sono
rientrati alla base, scegliendo la clandestinità o cambiando identità,
pronti a colpire nel teatro esterno di una guerra che per loro non co-
nosce confini. Nelle file dello Stato Islamico questi giovani, fra cui
molti convertiti, sono venuti a contatto con ufficiali formati nell’eser-
cito di Saddam Hussein (alcuni dei quali a loro volta allevati alla
scuola del Kgb) e passati alla lotta armata dopo che nel 2003, con
brillante noncuranza, gli occupanti americani decisero di sciogliere
le Forze armate del regime sconfitto. È difficile stabilire se ed even-
tualmente in quale misura gli assassini del 13 novembre fossero pilo-
tati da Raqqa – la capitale del «califfato» – secondo lo schema milita-
re della catena di comando e controllo, ma il coordinamento delle
azioni simultanee lascia trasparire una certa professionalità, non
acquisibile per pura imitazione. Eppure non sono supermen. Molti di
loro bevono, ascoltano musica proibita, si drogano. Talvolta esitano
o si ritraggono nell’ora della prova. Qualcuno cerca di tornare in-
dietro, finendo nel mirino dei compagni d’avventura.
Dall’esame dei tratti specifici del jihadista emerge che per capire
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questo nemico occorre scavare nelle nostre società almeno quanto


nel suo ambiente culturale e geopolitico di riferimento. In particola-
re per quanto riguarda le sue motivazioni ideologiche, l’idea di sé e
di noi – mondi incomunicabili, da separare per sfuggire alla conta-
minazione del nostro stile di vita. L’ossessione per l’apocalisse – tema
tipico di sette para-religiose lontanissime dall’islam, incluse alcune
variazioni sul cristianesimo assai diffuse nelle Americhe – spiega

6. J. HANSEN, «Brufoli e bombe», Nota diplomatica – Real Geopolitics, 20/11/2015. 13


GUERRIERI DEL NULLA

perché l’irradiamento dello Stato Islamico superi le barriere confes-


sionali e di classe. E perché il «califfato», che dell’apocalisse immi-
nente fa il cuore della sua propaganda, sia un cult anche per chi
non parrebbe contiguo al jihadismo, tanto che nell’agosto del 2014
un francese su sei simpatizzava per lo Stato Islamico 7.
Non sono solo musulmani, o secredenti tali, a ingrossare le file
del «califfo», ma anche atei, agnostici, cristiani, ebrei – fra cui centi-
naia di donne e diversi minorenni – convertiti all’ideologia della fi-
ne dei tempi. Né sono solo spostati maghrebini delle derelitte perife-
rie metropolitane ad imbracciare il kalashnikov «purificatore». Stan-
do a uno studio svolto in Francia dall’Unità di coordinamento della
lotta al terrorismo, i giovani candidati al jihåd, per il 63% compresi
fra i 15 e i 21 anni, provengono in maggioranza (67%) dai ceti me-
di, seguiti a distanza dai rampolli delle categorie socioprofessionali
superiori (17%) e dagli «ambienti popolari» (16%) (carta 2). Il 40%
di costoro ha conosciuto la depressione, a conferma che lo stato d’a-
nimo non è meno rilevante dell’indottrinamento pseudoreligioso
nella metamorfosi di un adolescente in macchina da strage 8.
C’è infine un’interpretazione opportunistica del fenomeno: i ter-
roristi che hanno colpito a Parigi sono dei nichilisti per i quali il sa-
lafismo rozzo e violento è copertura di comodo della loro ribellione
individuale o di piccolo gruppo. Spiega Olivier Roy, studioso dell’i-
slam: «In breve, questa non è la “rivolta dell’islam” o dei “musulma-
ni”, ma un problema preciso che concerne due categorie di giovani,
in maggioranza originari dell’immigrazione ma anche francesi “di
ceppo”. Non è la radicalizzazione dell’islam ma l’islamizzazione
della radicalità» 9. Il «califfato» attinge a questo pozzo. Nel momento
in cui sparisse, quei giovani in rivolta cercherebbero un altro mar-
chio per giustificare a se stessi e al mondo la propria irriducibile
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quanto confusa dissidenza.

4. Dopo la formazione dello Stato Islamico nella vasta area tri-


bale arabo-sunnita a cavallo dell’ormai cancellata frontiera fra Si-

7. Cfr. M. GRANT, «16% of French Citizens Support ISIS, Poll Finds», Newsweek, 26/8/2014.
8. Cfr. J.M. GRADT, «Plus jeune, plus varié: le nouveau visage de la radicalisation islamiste», Les Echos,
18/11/2015.
14 9. O. ROY, «Le djihadisme est une révolte nihiliste», Le Monde, 25/11/2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

2 - LA RADICALIZZAZIONE ISLAMICA IN FRANCIA


4.091 persone segnalate in Francia PAESI BASSI
(aprile 2014 - maggio 2015)
Uomini: 65% Donne: 35%
Conversioni: 1.672
Maggiorenni: 3.074
BELGIO
Minorenni: 1.017 Lilla
Partenze efettive 368 Île-de-France
verso Siria e Iraq Amiens
LUSS.
Rouen GERMANIA

Caen Metz

Strasburgo
Brest PARIGI
Colmar
Rennes
Orléans
Nantes Digione
F R A N C I A
SVIZZERA

Poitiers
La Rochelle
65%
uomini
Limoges Clermont Lione
Ferrand Grenoble ITALIA

Bordeaux

Segnalazioni Nîmes Avignone


per dipartimento Toulouse Nizza
Montpellier
> di 50
da 30 a 49 Marsiglia

da 21 a 29 Perpignan C o rs i c a
da 16 a 20
Ajaccio
da 11 a15 SPAGNA
da 1 a 10

Fonte: Unité de coordination de la lutte antiterroriste (Uclat), ministero dell’Interno


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ria e Iraq, i jihadisti dispongono di una base territoriale. Vantaggio


logistico e psicologico non irrilevante. Il califfato – in dottrina lo
spazio retto dal vicario di Dio (œaløfat Allåh), formalmente dissolto
nel 1924 – resta per i musulmani un magnete, un riferimento idea-
le, al di là della sua (in)consistenza geopolitica. Nelle parole di un
imam di Barcellona impegnato nel dialogo con cristiani ed ebrei:
«Io sono contro la violenza di al-Qå‘ida e dell’Isis. Ma quest’ultimo
ha messo la nostra predicazione in Europa e altrove sulla carta geo- 15
GUERRIERI DEL NULLA

grafica. Prima ci si ignorava. E il califfato… Noi lo sogniamo come


gli ebrei hanno a lungo sognato Sion. Forse può essere una federa-
zione – come l’Unione Europea – di popoli musulmani. Il califfato è
qui nei nostri cuori, anche se non sappiamo quale concreta forma
assumerà alla fine» 10.
Lo Stato Islamico è marchio di successo perché territorializza un
sogno (carta a colori 1). Ne disegna il provvisorio limes, nell’attesa
prevedibilmente interminabile della sua estensione planetaria. Hol-
lande e alcuni suoi omologhi occidentali – non Obama, che conti-
nua a bollarlo quale «rete di assassini» 11 – contribuiscono ad accre-
scerne la fama perché hanno bisogno di un nemico fisico da addi-
tare all’opinione pubblica, di un bersaglio da bombardare. Per ren-
dere la guerra al terrorismo più simile a un conflitto convenzionale.
O illudersi di farlo.
I lettori di Limes sono edotti sui tratti essenziali della parabola di
questo «mostro provvidenziale» 12. Ne conoscono le origini nel Trian-
golo sunnita sotto specie di guerriglia antiamericana prima e di ri-
volta contro il potere sciita di Baghdad poi, seguite dalla progressio-
ne in Siria. Sono informati sui suoi sponsor, ciascuno mosso da mo-
tivi propri: l’Arabia Saudita per scagliarlo contro la costellazione
sciita a guida iraniana; la Turchia che intende servirsene contro
l’ex amico Baššår al-Asad e per combattere il nemico curdo negan-
dogli la continuità territoriale dalla quale rischierebbe di scaturire
il Kurdistan unitario e indipendente, ennesimo miraggio geopolitico
mediorientale; il Qatar, per segnalare le sue ambizioni di protagoni-
smo; non ultime le maggiori potenze occidentali – Stati Uniti, Fran-
cia, Gran Bretagna – inizialmente decise a liquidare il regime filo-
iraniano di Damasco con ogni strumento, jihadisti inclusi. E sanno
quanto la mossa del cavallo di Putin, con il crescente impegno mili-
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tare in Siria, abbia costretto tutti gli attori citati, specie gli occiden-
tali, a rivedere gli algoritmi su cui orientavano il tentativo di mani-
polare una struttura sempre meno disponibile a prestarsi ai disegni
altrui. Che cosa cambia dopo Parigi? Più di qualcosa. Per punti.

10. Cfr. S. ATRAN, N. HAMID, «Paris: The War ISIS Wants», The New York Review of Books, 16/11/2015.
11. Cfr. C. WHITLOCK, E. NAKASHIMA, «For the Islamic State, paroxysms of violence portend apocaly-
pse», The Washington Post, 16/11/2015.
12. Vedi in particolare i volumi «Le maschere del califfo» (n. 9/2014), «Dopo Parigi. Che guerra fa»
16 (n. 1/2015), «La radice quadrata del caos» (n. 5/2015), «Le guerre islamiche» (n. 9/2015).
TURCHIA L’Ypg a guida di una coalizione 1 - LO STATO ISLAMICO
respinge l’Is ad al-Hawl Peshmerga/Pkk
e ad Hasaka
. liberano quasi Territorio dell’Is e Iraq
completamente K u r d Aree sotto controllo Is
a Sinjar ist
Kobani k an
Tall Abyad. asa IRAN Aree di sostegno Is
Aleppo H Mosul i
r Arbīl in larga parte
wl

ra
Ha ja

c
Sin desertiche
Base di Kweiris Kweiris Raqqa al- e disabitate

he
(Filogovernativi, russi
e iraniani sono riusciti Kirkūk Aree a prevalenza

no
ad aprirsi un varco Curdi
e a rompere assedio dell’Is) Dayr al-Zawr Curdi siriani sciita

Mayādīn Baiji Curdi iracheni Città sotto


Mar Mediterraneo Governativi respingono Curdi tuchi e iraniani il controllo dell’Is
l’Is oltre Baiji
Hims
. . SIRIA Albūkamāl Tikrīt Territorio dei
Palmira curdi iracheni
LIBANO Hadīta
.
al-Qaryatayn Assediata dall’Is Kurdistan iracheno
Beirut ma sotto il controllo
dei governativi Città curde
Damasco Baghdad Città controllate
Fallūğa dal governo iracheno
al-Rutba
.
ISRAELE Città irachene
sotto il controllo
Tigri

Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
del governo
Karbalā)
Is più debole a causa Territorio dei
dell’uccisione da parte di GIORDANIA curdi siriani
Ğabhat al-Nusra
. del suo capo locale IRAQ Kurdistan siriano
Ramādī circondata (Rojava)
da governativi Euf
Territorio dell’Is e Siria e milizie filogovernative
rate
Curdi siriani misti a ribelli
Aree sotto controllo Is Aree di sostegno Is ARABIA SAUDITA
in larga parte
Aree filo-governative, desertiche Mu
miliziani anti-regime e disabitate Situazione nelle città siriane ro
tra cui qaidisti della sa
Ğabhat al-Nusra. Città sotto Città divise tra curdi siriani e ribelli ud
ita
il controllo dell’Is (Kobani e Tall Abyad). in
Città contese Città divisa tra curdi siriani e forze del regime co
(Hasaka)
.
str
u Golfo
Strade importanti zio Persico
Città contesa per base aerea militare lealista ne KUWAIT
(Dayr al-Zawr)
Alture del Golan Città contese con varie fazioni ©Limes
Fonte: United Confict Analysts e autori di Limes sul terreno
DANIMARCA Attentati commessi dall’Is
2-ATTACCHI IS Copenaghen o da gruppi affiliati
Paesi coinvolti
NEL MONDO da attentati e da Attentati ispirati dall’Is
rivendicazioni
(2014-2015) territoriali AUSTRALIA
da parte dell’Is RUSSIA CANADA Montreal Sydney
Parigi Ottawa
USA
FR ANCI A Melbourne
EMIRATO Dallas
DEL CAUCASO
Mar Nero

Mar
TURCHIA Caspio
Tunisi Suruç Nangarhar

Tīzī Wuzū Sūsa Mar Mediterraneo AFG HANIS TAN


al- SI RI A
li Q
CABILIA TUNISIA po ata ub Beirut KHORASAN
Tri sur ba IRAN
Mi
IR AQ
TRIPOLITANIA
al-Gūra P

Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
ALGERIA Mabrūk R ost PA KI STAN
CIRENAICA SINAI al- afah i di b Kuwayt
Il Cairo Ša (Ar lo c

)
LIBIA y h īš co al-Qudayh.
Zu
EGITTO w ay al-Dammām
yid
Fizzān Riyad
ARABIA Mare
SAUDITA Arabico
’A s
īr

San’ā’
.
Zone autoproclamate wilayat (province) YEMEN Stato Islamico
dello Stato Islamico
Bo
)

CABILA (Algeria) gruppo: Gund al-Halīfa Fizzān (Libia)

ko H
SINAI (Egitto) gruppo: Bayt al-Maqdis BORNO (Nigeria) gruppo: Boko Haram

aram
ARABIA SAUDITA KHORASAN (AfPak)
NIGERIA YEMEN EMIRATO DEL CAUCASO Aree sotto controllo Is
TRIPOLITANIA (Libia) (Cecenia e Daghestan in Russia) Aree di sostegno Is in larga
©Limes CIRENAICA (Libia) parte desertiche e disabitate
3 - GUERRA E PULIZIA ETNICA IN SIRIA
T U R C H I A

Autostrada
Damasco-Beirut
Basi sul Mediterraneo
sotto il controllo russo Dal 2012 assediate da
Kafrayā Fū(a Aleppo milizie locali e difese
da Hizbullāh.
.
Autostrada L’accordo sul cessate
Damasco-Aleppo Drusi il fuoco di settembre
Idlib si è arenato a causa
dei bombardamenti russi.
La città è in mano a miliziani
iti

anti-regime sostenuti
S ci

Cristiani

da Turchia, Qatar e Arabia Saudita.


Latakia
ˇ
Gabla
S I R I A
Bāniyās
Hamā
.
La città è lo snodo tra la regione
Tartūs
. . Hims
. .
costiera e l’asse autostradale
Damasco-Aleppo.
Hizbullāh
. libanesi, Russia e Iran
vogliono il controllo totale della città
Palmira

Hims
. . prima del 2011 era
il primo polo industriale della Siria.
Connetteva Palmira con il Mediterraneo.
NO

I sunniti erano l’élite commerciale urbana


IBA

insieme ai cristiani ortodossi.


EL

BIQ
NT

LLA

CC.
MO

NO
DE

O
IBA
LLE

ŪN
TIL

Beirut
VA

AM
AN

.
Sargāyā
L

Zabadānī ora è in mano a Hizbullāh.


.
QA

Ha subìto pesanti bombardamenti


Zabadānī Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

a metà luglio 2015. Città cruciale


Madāyā
. Wādī Baradā per Hizbullāh
. e l’Iran.

L IBAN O Damasco

La resistenza che occupava il centro


Go la n

di Zabadānī, scacciata nel 2012,


si rifugia sulle montagne.
Altezza delle montagne
I SR A ELE Tra i 3.000 e i 2.000 metri
tra i 2.000 e i 1.500 metri
Hizbullāh
. tra i 1.500 e i 1.000 metri
4 - AMICI E NEMICI DELLO STATO ISLAMICO
Soci fondatori tuttora utenti dell’Is
QATAR
RUSSIA
TURCHIA rreno
KUWAIT i sul te
nt Kurdistan
atte Pkk siriano
b Kurdistan
m Ypg iracheno

co
l’Is
Nemici dell’Is combattenti sul terreno

l
de
ici
E.A.U.

Nem
ARABIA IRAN
SAUDITA S I R I A Esercito
iracheno

Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
I R A Q
Soci fondatori oggi ambigui Aree sotto controllo Is
Ğabhat Aree di sostegno Is in larga parte
al-Nusra
. desertiche e disabitate
Ex sponsor oggi nemici Esercito Ex sponsor oggi nemici
siriano

Hizbullāh
.
USA FRANCIA
REGNO
UNITO
©Limes
LA STRATEGIA DELLA PAURA

Primo. Lo Stato Islamico non combatte solo per proteggere ed


espandere le sue conquiste siro-irachene, ma è apparentemente capa-
ce di scatenare il panico nel cuore di una metropoli europea. Non im-
porta se i commando siano stati o meno azionati da un bottone pre-
muto a Raqqa. Nel momento in cui la Francia identifica nell’Is l’auto-
re dell’attacco e gli dichiara guerra, la narrazione prevale sul fatto. Le
rivendicazioni «califfali», con relative promesse di bombe a Washing-
ton, Londra e Roma, amplificano ulteriormente la minaccia, dalla
Francia all’ecumene «crociata» e molto oltre (carta a colori 2). Nessun
paese occidentale o islamico può sentirsi al sicuro (tabelle 1 e 2).
Secondo. Con termine orrendo e improprio, alcuni esperti se-
gnalano la «ri-qaidizzazione» dello Stato Islamico, ovvero la svolta
verso il terrorismo globale. La quale metterebbe in rilievo la faglia
che corre fra la tendenza di questa organizzazione a istituzionaliz-
zarsi, radicandosi nei territori e fra le popolazioni soggette, e la sua
dimensione terroristica. Tipica aporia fra ideologia e realismo, mes-
sianismo e vincoli amministrativi, prossima apocalissi e grigiore
quotidiano. Lo Stato Islamico ha i suoi martiri ma anche le sue ce-
ralacche e i suoi timbri, i suoi combattenti come le sue burocrazie,
autoreferenziali quanto le nostre. E i conti «pubblici» da tenere in
ordine grazie alle tasse e ai traffici di merci varie – petrolio, reperti
archeologici, esseri umani (comfort women comprese) – essenziali
per la gestione del consenso e per il reclutamento dei miliziani, fra
cui molti fanatici ma anche diversi mercenari. Alcuni analisti az-
zardano financo l’ipotesi che gli attacchi del 13 novembre segnalino
l’indebolimento dello Stato Islamico, colpito da pur limitati rovesci
sul campo e quindi indotto a rilanciare per non macchiare l’imma-
gine vincente che ne moltiplica il magnetismo.
Terzo. La sequenza che in cinque mesi parte dalla graduale ria-
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bilitazione dell’Iran via accordo con le maggiori potenze sul nuclea-


re (luglio) all’intervento russo in Siria (settembre) e alle stragi di Pa-
rigi (novembre) scompiglia il quadro già caotico degli allineamen-
ti/disallineamenti sullo scenario mediorientale. Scacchiera a più di-
mensioni, spesso contraddittorie. Così gli Stati Uniti rinunciano a
pretendere subito lo scalpo di al-Asad e dialogano tanto con gli ira-
niani quanto con i russi – malgrado l’incontenibile antipatia colti-
vata da Obama nei confronti di Putin – sempre tenendosi per quan- 17
GUERRIERI DEL NULLA

Tabella 1 - ATTENTATI COMMESSI DALL’IS O DA GRUPPI AFFILIATI

DATA LOCALITÀ DESCRIZIONE

27/1/15 Tripoli, Libia Attacco a un hotel


29/1/15 al-‘Arīš e Rafah. , Sinai Attacco a installazioni militari
3/2/15 Mabrūk, Libia Attacco a un giacimento di petrolio
15/2/15 Tripolitania, Libia Decapitazione 21 egiziani copti
20/2/15 al-Qubba, Libia Autobombe, 40 morti
18/3/15 Museo del Bardo, Tunisi 22 morti
20/3/15 S. an‘ā’, Yemen Attacco a moschee sciite zaidite, più di 130 morti
2/4/15 Sinai Attacco a posti di blocco
5/4/15 Misurata, Libia Attacco a posto di blocco
12/4/15 Tripoli, Libia Attacco ad ambasciate di Sud Corea ed Egitto
19/4/15 Cirenaica e Fizzān, Libia Esecuzione di decine di cristiani etiopi
30/4/15 Non specificato, Yemen Esecuzione di 15 soldati yemeniti
22/5/15 al-Qudayh. , Arabia Saudita Attacco a moschea sciita, 21 morti
22/5/15 S. an‘ā’, Yemen Attacco a moschea sciita, 13 morti
29/5/15 al-Dammām, Arabia Saudita Attacco a moschea sciita, 3 morti
31/5/15 Misurata, Libia Attacco a un posto di blocco
3/6/15 Nangarhar, Afghanistan Decapitazione di 10 taliban
9/6/15 al-Gūra, Sinai Lancio di razzi
17/6/15 S. an‘ā’, Yemen Autobomba, 30 morti
26/6/15 Kuwayt City Attentato suicida in una moschea sciita
26/6/15 Sūsa, Tunisia Sparatoria in località turistica, 38 morti
1/7/15 Šayh Zuwayyid, Sinai Attacco a installazioni militari
˘
11/7/15 Il Cairo, Egitto Bomba davanti a consolato italiano
20/7/15 Suruç, Turchia Attentato suicida, 32 morti
7/8/15 ‘Asīr, Arabia Saudita Attentato moschea sciita, 15 morti
12/8/15 Il Cairo, Egitto Decapitazione di un croato
20/8/15 Il Cairo, Egitto Attacco a installazione militare
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26/8/15 Sinai Sparatoria


2/9/15 S. an‘ā’, Yemen Attacchi a 2 moschee sciite, 20 morti
24/9/15 S. an‘ā’, Yemen Attacchi a moschea sciita, 25 morti
6/10/15 S. an‘ā’ e Aden, Yemen Bombe, almeno 25 morti
31/10/15 Sinai Bomba su un aereo russo, 224 morti
4/11/15 al-‘Arīš, Sinai Attacco a installazioni militari
12/11/15 Beirut, Libano Due bombe, 43 morti
13/11/15 Parigi, Francia 9 attacchi, 129 morti

18 Fonte: The New York Times


LA STRATEGIA DELLA PAURA

Tabella 2 - ATTENTATI ISPIRATI DALL’IS

DATA LOCALITÀ DESCRIZIONE

23/9/14 Melbourne, Australia Iniziativa isolata


24/9/14 Tīzī Wuzū, Algeria Rapimento e decapitazione di un francese
20/10/14 Montreal, Canada Iniziativa isolata
22/10/14 Ottawa, Canada Iniziativa isolata
22/11/14 Riyad, Arabia Saudita Omicidio di un danese
15/12/14 Sydney, Australia Rapimento di ostaggi
15/2/15 Copenhagen, Danimarca Sparatoria in una libreria
8/4/15 Riyad, Arabia Saudita Sparatoria
3/5/15 Dallas, Usa Sparatoria

Fonte: The New York Times

to possibile lontani dalla mischia. Persino la Francia riscopre russi e


persiani quali nemici del suo attuale arcinemico. E ai suoi vertici
cominciano a circolare dubbi sull’affidabilità dell’Arabia Saudita e
delle altre petromonarchie del Golfo, di cui si scoprono d’un tratto le
affinità ideologiche con lo Stato Islamico e i finanziamenti alle cas-
se del «califfo». Quanti Rafale – i caccia multiruolo della Dassault
che tanto piacciono ai monarchi del Golfo – vale la morte di propri
cittadini innocenti?
Quarto (e per noi più importante). Le mischie islamiche nel «Si-
raq» salgono doppiamente di grado: da locali/regionali rimbalzano
sulla scala globale con la potenza delle bombe esplose nei caffè pari-
gini; da non prioritario rompicapo delle cancellerie diventano osses-
sione nel discorso pubblico. Anche grazie ai frenetici rilanci media-
tici e alla cura con cui Hollande e altri leader europei (non Renzi)
ricorrono senza timore del ridicolo a toni e andature marziali per
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sfuggire alle accuse di mollezza. Di più, la contestualità della crisi


migratoria con l’emergenza terroristica eccita i razzisti, mai così
popolari. L’equazione arabo/musulmano=jihadista assassino corre
nei talk show come nelle chiacchiere da bar. È in questione il tono
della nostra convivenza.

5. Ci chiediamo chi siano coloro che ci hanno colpito. Giusto. Do-


vremmo però anche chiederci chi siamo o chi stiamo diventando noi. 19
GUERRIERI DEL NULLA

Dopo quindici anni di attentati jihadisti e di guerra al terrorismo,


dalle Torri Gemelle al Bataclan (grafico 2), il clima nelle società eu-
ropee è cambiato. Se l’obiettivo degli stragisti di Parigi era sconvolgere
il nostro modo di vivere, come assicura Hollande, dobbiamo ammet-
tere che stanno vincendo. Le immagini di Bruxelles, «capitale d’Euro-
pa», ridotta per lunghi giorni a città fantasma pattugliata da poliziot-
ti e militari in assetto di guerra, sono evocative del futuro che ci at-
tende se non sapremo riequilibrare il nostro approccio al terrorismo.
E poi, ha ancora senso usare la prima persona plurale riferendo-
ci agli europei? La morte di fatto del sistema Schengen, i blocchi alle
frontiere, i muri anti-migrante, il festival dei nazionalismi e dei par-
ticolarismi, il crollo dei flussi interbancari nello spazio comunitario
– questo e molto altro svela che l’Unione Europea è nuda. E malgra-
do l’invocazione francese dell’articolo 42 comma 7 del Trattato di Li-
sbona, a evocare il fantasma della solidarietà europea nella guerra
al terrorismo, ciascuno l’interpreta – o la nega – a suo modo.
Il primo effetto concreto dell’emergenza terrorismo è la messa in
mora del patto di stabilità sul fronte delle politiche di sicurezza e di-
fesa, dopo averlo già incrinato su quello migratorio. Fra tanta reto-
rica militarista, ciò che davvero resterà dei bellicosi proclami di Hol-
lande è una piccola frase: «Il patto di sicurezza prevale sul patto di
stabilità» 13. Con grande scorno della Germania, guardiana del ri-
gorismo letteralista nell’interpretazione di un testo ormai desacraliz-
zato. E con malcelata soddisfazione dell’Italia, capofila esplicito del
«partito della flessibilità», di cui la Francia è il leader coperto.
La decostruzione dell’Unione Europea precede di molto gli atten-
tati del 13 novembre, certo. Ma alla prova del terrorismo jihadista,
che mette in questione la ragione prima dell’esistenza di qualsiasi
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Stato – la protezione dei suoi cittadini – i Ventotto hanno conferma-


to che il processo di disintegrazione europea sta accelerando il rit-
mo. La valanga della paura, incentivata dai cinismi elettorali di chi
pensa di trarne beneficio, prevale sulla ragionevole necessità di af-
frontare insieme crisi ed emergenze. Vale per ciò che resta della ca-
sa comunitaria, ma anche per le singole società che vi convivono.

13. Cfr. «Discours du président de la République devant le Parlement réuni en Congrès», Versailles,
20 16/11/2015, http://elysee.fr
LA STRATEGIA DELLA PAURA

Grafico 2 - 14 ANNI DI TERRORE

VIOLENZA POLITICA IN EUROPA OCCIDENTALE ATTACCHI CON UNA VITTIMA, TOTALE CUMULATIVO
10 settembre 2001 - 16 novembre 2015
AUSTRIA 1 IRLANDA 2
BEGLIO 1 ITALIA 3
REGNO UNITO 14 PAESI BASSI 3
Attacchi con due o più vittime =1 vittima FRANCIA 5 SPAGNA 9
Autori GRECIA 5 SVEZIA 1
Islamisti Altri Afliazione sconosciuta
Svizzera
Regno Unito
Spagna
Spagna
Regno Unito
Spagna

(treni di Madrid) Spagna

Spagna
(metropolitana Regno Unito

Spagna
Regno Unito
Francia
Regno Unito
Paesi Bassi
Spagna
Germania
(Oslo e Norvegia

Francia
Francia
Grecia
Belgio
(Charlie Hebdo) Francia
Francia
Danimarca

(Parigi) Francia*
isola di Ut0ya)
e bus di Londra

2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2009 2011 2012 2013 2014 2015

*Bilancio al 16 novembre

Fonte: The Economist

Il caso della Grande Nazione è paradigmatico. Ben prima del


treno di paura partito a gennaio con l’attacco a Charlie Hebdo e
culminato nella triste notte del 13 novembre, la Francia doveva
constatare la crescente polarizzazione fra i suoi musulmani e la po- Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

polazione «di ceppo». Falliti i tentativi di organizzare i cinque milio-


ni di islamici che abitano l’Esagono – in gran parte relegati in
quartieri e banlieues di fatto extraterritoriali – ricorrendo a impro-
babili strutture verticistiche quali il Consiglio francese del culto mu-
sulmano, si è passati all’aperta stigmatizzazione di questa corposa
minoranza, nient’affatto unitaria (carta 3). In nome della «laicità»,
elevata nella pedagogia nazionale a religione di Stato, si fissano re-
gole dietetiche e di abbigliamento nei luoghi di pubblica educazione
per distinguere i musulmani – ma anche altre minoranze – dai 21
GUERRIERI DEL NULLA

francesi de souche, eredi di una comunità che s’immagina fissa nel


tempo, immune dalla storia.
Dirigenti politici e media mainstream inseguono e talvolta scaval-
cano le tirate islamofobiche della destra nazionalista, mentre stimati
intellettuali pretendono dai francesi di credo coranico una dichiara-
zione di fedeltà alla Repubblica. Traligna nel discorso pubblico la te-
si di una «razza» francese la cui «purezza» sarebbe messa in pericolo
dagli immigrati. Specialità di alcuni ideologi del Fronte nazionale,
ripresa senza ritegno da esponenti dell’establishment, come Nadine
Morano (Les Républicains, il partito di Nicolas Sarkozy): «Noi siamo
un paese giudaico-cristiano – lo diceva il generale de Gaulle – di
razza bianca, che accoglie persone straniere. Voglio che la Francia
resti la Francia. Non voglio che la Francia diventi musulmana» 14.
Qualcosa di questo sentire diffuso percola nella postura iperse-
curitaria assunta dalla République dopo il 13 novembre. Sull’onda
dell’emozione, ma in forma solenne ed esibita, il presidente Hollan-
de, proclamato lo stato d’emergenza, ha proposto di revocare la cit-
tadinanza ai francesi colpevoli di «attentato all’interesse nazionale».
E ha enunciato l’urgenza di «fare evolvere la nostra costituzione»
per meglio affrontare «il terrorismo di guerra» 15. Chi avrebbe imma-
ginato che un manipolo di jihadisti avrebbe spinto il potere a rivede-
re la Carta della Quinta Repubblica? Il rischio è di scivolare così
lungo un piano inclinato, verso regole sempre più restrittive. Autori-
tarie. Contribuendo ad accentuare la segregazione nei ghetti musul-
mani. Lo scenario ideale del nemico. Se questa è la logica di guerra
di Hollande, la Francia ha perso in partenza.

6. I problemi geopolitici si dividono in tre categorie: resolubili,


gestibili, insolubili – questi ultimi svelandosi in punto di logica non-
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problemi. Le guerre islamiche, di cui la partita del «califfato» è solo


la punta dell’iceberg, appartengono per ora alla seconda categoria,
ma possono slittare nella terza. La differenza rischiamo di farla noi,
tuffandoci in una mischia che non dovrebbe appartenerci (carta a
colori 3). Nella quale le parti in causa, a cominciare dallo stesso
Stato Islamico, vorrebbero invece inchiodarci. Per acquisire visibi-
14. «Nadine Morano évoque la ‘race blanche’ de la France», Le Monde, 27/9/2015.
22 15. Vedi nota 13.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

3 - MUSULMANI E/O FRANCESI


REGNO
UNITO

BELGIO Île-de-France
Lilla

Amiens
LUSS.
Rouen GERMANIA

Caen Metz
Strasburgo
PARIGI
Rennes
Orléans
Nantes Digione

F R A N C I A SVIZZERA
Percentuale di
credenti musulmani Poitiers
per Dipartimento

>6% Limoges Clermont Lione


dal 4 al 6% Ferrand ITALIA
dall’1 al 4%
Bordeaux
<1%

Numero di luoghi di

eo
culto e associazioni an
Montpellier rr
islamiche per Toulouse ite
Dipartimento ed
Marsiglia
a rM
>30 M Corsica
da 21 a 30
Ajaccio
da 6 a 20 SPAGNA
<5

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lità e legittimazione tra i seguaci effettivi e potenziali, molti dei qua-


li insediati negli angoli oscuri delle nostre metropoli.
Sgombriamo anzitutto il campo dall’equivoco della «grande
coalizione» che giura di combattere lo Stato Islamico. Allo stato dei
fatti (carta a colori 4) in questa gloriosa compagnia occorre distin-
guere fra coloro che non combattono affatto, offrendo al massimo
addestramento e qualche supporto (una quarantina, fra cui l’Ita-
lia), coloro che si impegnano con misura e quasi esclusivamente 23
GUERRIERI DEL NULLA

dall’aria – in particolare Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna – e


coloro che fingono di farlo (Turchia, Arabia Saudita e altri arabi
del Golfo), eseguendo qualche bombardamento pro forma, con una
mano, e sostenendo in modi visibili e invisibili le milizie dell’Is, con
l’altra. Gli unici a battersi efficacemente sul campo costituiscono
un insieme a parte, geopoliticamente eterogeneo e non coordinato
con la pseudocoalizione principale: la Russia – contro tutti i jihadi-
sti, dall’aria e non solo – ma soprattutto l’Iran, gli eserciti di Bagh-
dad (di fatto milizie sciite) e di Damasco, Õizbullåh e alcune for-
mazioni curde.
In questo caos le regole generali sono due: ognuno gioca o finge
di giocare la sua partita; chi la gioca cerca di farlo per quanto pos-
sibile con mezzi altrui. Il motto di quest’ultimo drappello è «cercasi
fanteria». Gli occidentali vorrebbero che iraniani, curdi, jihadisti
concorrenti dello Stato Islamico – possibilmente anche russi – conti-
nuassero a morire al posto loro, con gli stivali ben insabbiati nei de-
serti, fra le rovine di Siria ed Iraq. Chi si batte sul terreno vorrebbe
invece veder scendere dal cielo chi volteggia nell’aria.
A complicare il rompicapo contribuisce l’avventurismo turco.
Erdoãan cerca di trascinare il resto dell’Alleanza Atlantica nella
sua guerra levantina. Problema: il suo proxy tattico è il nostro arci-
nemico dichiarato. Ankara è infatti il massimo sponsor dello Stato
Islamico, strumento da scatenare prima contro al-Asad, poi contro
le milizie curde siriane (Ypg) e anatoliche (Pkk) per impedire loro di
materializzare, nella lotta contro il «califfato», il miraggio del Kurdi-
stan. La Turchia vorrebbe coinvolgere la Nato in un’operazione di
terra nel Nord della Siria, formalmente diretta contro l’Is, di fatto
contro il Pkk. A Erdoãan, in delirio solipsista, al suo eloquente ideo-
logo Davutoãlu e ai suoi servizi segreti non difetta la spregiudicatez-
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za, inclusa la vocazione a manipolare i terroristi.


L’abbattimento il 24 novembre scorso di un caccia russo, colpe-
vole secondo Ankara di avere sconfinato nel proprio spazio aereo, è
segno della determinazione con cui Erdoãan persegue l’obiettivo di
coinvolgere risorse atlantiche (leggi: americane) a protezione dei
propri interessi, poggiando sulle clausole di solidarietà del Trattato
di Washington. Forse è il momento per noi altri atlantici di chieder-
24 ci quale senso abbia tollerare che uno dei partner principali del co-
LA STRATEGIA DELLA PAURA

mune patto militare non solo protegga il nemico, ma se ne serva per


coinvolgerci nei suoi deliri di grandezza.
La Francia, che si dichiara in guerra, e i suoi alleati occidentali,
divisi e incerti sul se e sul come seguirla, sono di fronte a due alter-
native maestre: giocare fino in fondo la carta bellica «stivali per ter-
ra» oppure evitare di farsi coinvolgere direttamente sul terreno siro-
iracheno e trattare la minaccia jihadista con mezzi più sofisticati.
Proviamo ad esplorarle, consapevoli che la differenza fra le due di-
pende dalla scelta del nemico principale e dalle risorse materiali e
immateriali che si è disposti a spendere.
A) Guerra di terra. Questo scenario indica nello Stato Islamico il
nemico da abbattere. Si tratta perciò di rispondere al terrorismo con
la guerra vera. Parigi non ha i mezzi militari per farla. Le forze
operative di cui dispone sono già diluite su diversi scenari, dalla
protezione della madrepatria (Operazione Sentinelle, oltre 10 mila
uomini schierati nell’Esagono in funzione anti-terroristica) ai con-
tingenti distribuiti nel pré carré saheliano e centrafricano (Opera-
zioni Barkhane – 3.800 uomini – e Sangaris – 900), più i 2.700 mi-
litari dell’Operazione Chammal, con quartier generale ad Abu Dha-
bi, senza contare le truppe impiegate nelle principali basi avanzate
africane (Abidjan e Gibuti) e in varie missioni di pace. Fino al 13
novembre, il teatro siro-iracheno era affidato a 700 militari e 12
caccia, cui si sono subito aggiunti i 26 aerei della portaerei Charles
de Gaulle. La coperta è corta: per sfidare lo Stato Islamico su terra la
Francia dovrebbe scoprire il suo spazio tardo-imperiale (carta 4).
Quanto alle risorse di altri europei, al massimo sarebbero contorno.
Gli unici a poter rapidamente vincere la guerra allo Stato Islamico,
calando boots on the ground, sarebbero gli Stati Uniti d’America.
Ma Obama ha subito chiarito a Hollande che non se ne parla. A
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Washington siamo ormai in regime di sede vacante. In questo cli-


ma, l’ipotesi della guerra vera al «califfo» è da scartare.
Resta lo scenario della «mezza guerra», ovvero del rafforzamento
dell’impegno aeronavale occidentale per rispondere alla pressione di
opinioni pubbliche accecate dal terrore jihadista. L’ennesima guerra
senza strategia, in cui combattiamo le nostre paure, rischiando di
stravolgere il nostro stile di vita e le già precarie istituzioni. Così non
liquidiamo il nemico. Ne serviamo i disegni. 25
26
4 - TUTTI I FRONTI DI PARIGI Paesi d’intervento
Nome dell’operazione/
DAMAN Numero di militari
Basi operative avanzate FRANCIA 900 militari coinvolti al 20 novembre
Poli di cooperazione
SENTINELLE Aree d’operazione
10.000 militari prioritarie
GUERRIERI DEL NULLA

Punti d’appoggio
Portaerei
Base regionale STRISCIA Charles-de-Gaulle
SAHEL-SAHARA SIRIA
BARKHANE DAMAN
900 militari LIBANO IRAQ
MAROCCO 3.800 militari

ALGERIA GIORDANIA
LIBIA
EGITTO SIRIA-IRAQ QATAR E.A.U
CHAMMAL
2.700 militari Abu Dhabi
Atar
S Madama ARABIA SAUDITA

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A HTessalit Faya OMAN
MAURITANIA E L
- S A H A R A
Gao SUDAN ERITREA
SENEGAL
MALI
NIGER CIAD YEMEN
Bamako Niamey
Abéché
BURKINA Gibuti
GUINEA FASO N’Djamena 1.000 militari

BENIN
SIERRA COSTA NIGERIA
LEONE D’AVORIO SOMALIA

TOGO
LIBERIA ETIOPIA
GHANA REP.
SENEGAL CENTRAFRICANA SUD SUDAN
Dakar CAMERUN
350 militari
Libreville Oceano Indiano
Abidjan 350 militari SANGARIS KENYA
1.000 militari 900 militari ATALANTA
GABON UGANDA Nell’ambito
Golfo di Guinea dell’Unione Europea
CORYMBRE REP. DEM.
CONGO CONGO 350 militari
350 militari TANZANIA
Fonte: ministero della Difesa francese
LA STRATEGIA DELLA PAURA

B) Strategia multidimensionale di sicurezza. Qui il nemico prin-


cipale sono il terrorismo jihadista e la sua ideologia, non il sedicen-
te Stato Islamico. Il pericolo per noi italiani e per gli altri europei
non deriva dall’istituzionalizzazione di un gruppo di criminali fra
Tigri ed Eufrate, ma dal veleno che la loro propaganda apocalittica
può instillare fra i nostri giovani, non solo musulmani, mutandone
migliaia in foreign fighters con biglietto di andata e talvolta ritorno
in veste terroristica. La dimensione geopolitica – ovvero potenza e li-
miti del «califfato» – riguarda i conflitti di potere settari nel campo
arabo e musulmano. La capacità occidentale di incidere su di essi è
limitata. Peggio: ogni volta che abbiamo provato a mettere più di
un dito in dispute tanto caotiche ne siamo usciti con le ossa rotte.
Inoltre tendiamo a dimenticare che quanto più la banda del «ca-
liffo» si fa Stato, tanto meno credibile è il suo millenarismo. E tanto
più palese ne appare la radice criminale, votata al controllo di lu-
crosi traffici.
Conviene quindi ingaggiare una partita sottile su dimensioni
multiple e parallele, alcune palesi altre protette, il cui obiettivo non
sia l’improbabile liquidazione militare dell’Is ma la sterilizzazione
del suo irradiamento nella regione e soprattutto in casa nostra. È
immaginabile venire un giorno a patti con uno Stato Islamico depo-
tenziato, ricondotto alla sua dimensione tribal-sunnita, nel quadro
di una ristrutturazione geopolitica dell’area. Non è consentito inve-
ce cedere un millimetro sul fronte del contrasto alla sua pseudoreli-
gione criminale e alle sue derivazioni terroristiche.
In questa logica occorre concentrarsi su tre fronti.
Su quello militare, possiamo ridimensionare e contenere lo Stato
Islamico con le risorse disponibili, anche attraverso operazioni co-
perte e senza eccedere in proclami bellicosi. È imperativo definire gli
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schieramenti e costringere presunti alleati (Turchia) e partner (Ara-


bia Saudita più satelliti) a scegliere il campo nel quale battersi. O a
sgombrarlo. Così riportando il «califfo» alle sue dimensioni banali e
minandone l’aura vittoriosa, decisiva nel reclutamento degli adepti.
Su quello regionale, la chiave è disinnescare le guerre nel «Si-
raq», quelle sì vere, devastanti e sanguinosissime. Questo è compito
prioritario della diplomazia, da svolgersi in sintonia con le iniziati-
ve militari. Obiettivo non utopico, al quale giungeremo quando tutte 27
GUERRIERI DEL NULLA

le parti in causa stabiliranno di avere più da perdere che da guada-


gnare dal proseguimento dei conflitti.
Su quello domestico, le priorità sono controterrorismo e contro-
propaganda. Il primo è il terreno privilegiato delle intelligence, della
magistratura, delle polizie, davvero efficaci se rinunceranno a una
quota almeno delle reciproche idiosincrasie su scala nazionale ed
europea. La seconda riguarda la politica e l’opinione pubblica. In
modo specifico l’opinione pubblicata: è ora che i nostri media si ren-
dano conto di essere primario obiettivo e involontario strumento del
nemico jihadista. Non si richiedono censure né abiure. Riportare i
dati di fatto nella loro realtà, profondità e problematicità, ascoltan-
do ogni voce ed escludendo qualsiasi deriva razzista e islamofoba, è
il vaccino più efficace contro la strategia della paura.
Alla fine, l’obiettivo di ogni terrorismo è istupidirci. E come ri-
cordava il compianto storico Carlo Cipolla, lo stupido è la persona
più pericolosa che esista. Proviamo dunque a non farci del male.

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28
LA STRATEGIA
DELLA PAURA

Parte I
AMICI, NEMICI
e UTENTI
dello STATO ISLAMICO
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LA STRATEGIA DELLA PAURA

PER ERDOĞAN, MALGRADO TUTTO


L’IS RESTA IL MALE MINORE di Daniele SANTORO
La presunta ‘ambiguità’ turca verso lo Stato Islamico si rivela, a uno
sguardo più attento, una strategia coerente di sostegno al ‘califfato’
in chiave anticurda. Gli abbagli dei media occidentali. Il ruolo dei
servizi di Ankara. A combattere al-Baôdådi è rimasto solo l’Iran.

1. I N OCCIDENTE È DIFFUSA LA CONVINZIONE


che la Turchia di Erdoãan abbia adottato una politica ambigua nei confronti del-
lo Stato Islamico (Is), favorendone più o meno direttamente l’espansione e il
rafforzamento. Si tratta di una convinzione erronea: la strategia turca nei confron-
ti del «califfato» di Raqqa è tutt’altro che ambigua. Soprattutto nel corso dell’ulti-
mo anno, il governo turco ha infatti sviluppato un approccio coerente e raziona-
le volto a manipolare tale entità per perseguire i propri interessi in quel che resta
del Siraq (Siria e Iraq).
Sono però necessarie due precisazioni. La prima è che Ankara non è certo
l’unico attore a cercare di avvantaggiarsi della presenza dell’Is nelle aree deserti-
che a cavallo di Siria e Iraq. Il tentativo di manipolare questa entità rappresenta
la variante più popolare del grande gioco siriano, seguita da tutte le principali
potenze regionali e globali. In secondo luogo, il presidente turco Erdoãan non
può in alcun modo essere considerato il «padrino» di al-Baôdådø, come lascia in-
tendere la feroce campagna mediatica contro il «sultano» orchestrata da una parte
consistente del sistema mediatico anglo-americano (e non solo). Il progetto dello
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Stato Islamico, infatti, serve interessi che vanno al di là di quelli di una potenza
regionale in profonda crisi d’identità come la Turchia.
La dimensione delle relazioni tra Turchia e Stato Islamico più dibattuta in
Occidente è relativa al transito attraverso l’Anatolia dei jihadisti intenzionati ad
arruolarsi nelle milizie del «califfo» e alla fornitura di armi a queste ultime da par-
te del governo turco. Sul fatto che per diversi anni la Turchia abbia rappresenta-
to la rotta privilegiata per i jihadisti diretti in Siria e che Erdoãan per un certo pe-
riodo abbia diretto il traffico sulla «autostrada del jihåd», ci sono pochi dubbi. Al-
la fine del 2014 il vicepresidente americano Joe Biden si lasciò scappare che nel
corso del loro ultimo incontro il presidente turco gli aveva confidato di «averne 31
PER ERDOĞAN, MALGRADO TUTTO, L’IS RESTA IL MALE MINORE

lasciati passare troppi» 1. È difficile stabilire se Erdoãan – che smentì la frase – si


riferisse agli adepti del «califfato» o ai jihadisti di al-Qå‘ida. La vicenda degli uiguri
che la Turchia continua a trasferire dal Turkestan orientale alla Siria settentriona-
le, i quali a quanto pare si arruolano indifferentemente nelle milizie dello Stato
Islamico e in quelle di al-Qå‘ida 2, lascia intendere che per molto tempo Erdoãan
abbia lasciato passare chiunque avesse anche solo una vaga intenzione di com-
battere il regime di al-Asad, senza guardare troppo per il sottile.
Ciononostante, la campagna mediatica occidentale contro il presidente turco
sulla presunta fornitura di armi allo Stato Islamico ha un che di surrettizio. La
questione ha attirato l’attenzione dei media internazionali nel gennaio 2014,
quando la gendarmeria turca, su ordine di un procuratore gulenista, fermò a po-
chi chilometri dal confine con la Siria alcuni camion dell’intelligence turca (Mit)
pieni di armi. Il governo turco ha sempre sostenuto che i camion contenevano
aiuti diretti alle bande turkmene impegnate a combattere il regime di al-Asad, le
quali hanno alternato conferme e smentite. Pochi giorni prima delle elezioni legi-
slative del 7 giugno, la Reuters pubblicò uno scoop nel quale rivelava ciò che era
ormai noto a tutti: che i camion del Mit erano diretti verso una zona della Siria
controllata da Aõrår al-3åm, nella quale non c’era neanche l’ombra di un turkme-
no 3. In un clamoroso salto logico, tuttavia, l’agenzia britannica sostenne che le
forniture di armi turche ai jihadisti di al-Qå‘ida avrebbero contribuito a rafforzare
lo Stato Islamico. Cogliere il nesso tra la fornitura di armi ad Aõrår al-3åm e il
rafforzamento dell’Is è operazione improba, considerando che le due organizza-
zioni, all’epoca dei fatti, si combattevano militarmente 4.
Il presunto scoop della Reuters esemplifica una dinamica fondamentale per
comprendere la narrazione occidentale della liaison tra Turchia e Stato Islamico:
l’Occidente ha disperato bisogno di un capro espiatorio per giustificare l’emerge-
re di una metastasi che ha portato i conflitti mediorientali su suolo europeo e
che in realtà è stata generata dalle sue fallimentari e mortifere politiche nella re-
gione, come ha ammesso il più lucido tra i leader politici che promossero la
sconsiderata invasione dell’Iraq 5. Recep Tayyip Erdoãan è il capro espiatorio per-
fetto. Un signor Malaussène sui generis in cui la tendenza all’espiazione non è
certo dovuta alla rassegnazione, quanto a un’altezzosa indifferenza rispetto ai
giudizi di un Occidente che egli ritiene destinato a soccombere di fronte all’e-
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mergere di una Nuova Turchia foriera di un «nuovo ordine mondiale» 6.

1. Cit. in J. ZANOTTI, «Turkey: Background and U.S. Relations», Crs Report, Congressional Research
Service, 5/10/2015, p. 24.
2. A. BOZKURT, «Turkey’s Islamists Betrayed Uyghurs, Damaged Ties with China», Today’s Zaman,
13/4/2015.
3. H. PAMUK, N. TATTERSALL, «Exclusive: Turkish Intelligence Helped Ship Arms to Syrian Islamists Re-
bel Areas», Reuters, 21/5/2015.
4. D. SANTORO, «Al golpe! Le ragionevoli paranoie di Erdoãan in Turchia», Limesonline, 5/6/2015.
5. «Ex-British PM Blair Says Iraq War Contributed to ISIL Rise», Today’s Zaman, 25/10/2015.
6. Turkey Transformed: The Origins and Evolution of Authoritarianism and Islamization Under the
32 Akp, Bipartisan Policy Center, ottobre 2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

2. Le conseguenze fatali di questo approccio sono ben illustrate dalla vicen-


da delle tre adolescenti inglesi scappate di casa nel febbraio scorso per raggiun-
gere l’Is passando attraverso l’aeroporto Atatürk di Istanbul e il territorio turco. La
vicenda ebbe ampio risalto sui media britannici, i quali ovviamente ritennero il
governo turco responsabile dell’accaduto. Il primo ministro David Cameron ac-
cusò la compagnia di bandiera turca 7, il cui amministratore delegato venne persi-
no convocato alla Camera dei Comuni per un’audizione insieme all’ambasciatore
turco a Londra 8. A un’analisi più attenta, tuttavia, appare chiaro che la respon-
sabilità gravava esclusivamente sull’intelligence britannica. Le autorità di Londra
comunicarono infatti alle loro controparti turche la fuga delle tre adolescenti
verso la Turchia solo tre giorni dopo la loro scomparsa 9. È stato inoltre il presi-
dente della commissione Affari interni della Camera dei Comuni Keith Vaz a far
notare che «non è compito della polizia e delle autorità turche dare la caccia ai
nostri cittadini» e che sarebbe assurdo «aspettarsi che la Turkish Airlines diventi
un ufficio d’immigrazione. (…) Dal momento che la Turchia non fa parte del-
l’Unione Europea, non possiamo darle molte informazioni che ci piacerebbe
farle avere. Questo impedisce alla Turchia di fare il possibile per aiutarci» 10. At-
tribuire alla benevolenza di Erdoãan verso il «califfato» i fallimenti delle intelli-
gence occidentali nel bloccare i flussi di aspiranti jihadisti dall’Europa alla Siria
(e soprattutto viceversa) è stato un comodo diversivo.
Ciò non significa, ovviamente, che la Turchia non abbia offerto i propri ser-
vizi al «califfo». Al contrario. Il 6 marzo scorso, ad esempio, il governatore di De-
nizli ha rivelato che un cittadino turco arruolatosi nelle milizie dello Stato Islami-
co e che aveva combattuto contro le Ypg curde a Kobani stava ricevendo cure
mediche nell’ospedale di Pamukkale 11. Inoltre, secondo diverse fonti la Turchia
rappresenta la principale rotta attraverso la quale l’Is esporta il proprio petrolio 12,
nonché forse il principale partner commerciale di Raqqa. Le relazioni commer-
ciali tra Turchia e Stato Islamico vanno tuttavia contestualizzate. Occorre infatti
notare che quando si tratta di fare affari Erdoãan non va tanto per il sottile, come
dimostra il fatto che nel 2014 l’interscambio commerciale tra Turchia e Siria sia
tornato ai livelli pre-guerra 13. Un atteggiamento disinibito piuttosto comune nella
regione (lo stesso al-Asad figura nella lista degli acquirenti del petrolio e del gas
dell’Is 14). E non estraneo a «noi» occidentali 15. Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

7. B. RILEY-SMITH, M. EVANS, «David Cameron: Internet Extremism “Duped” British Schoolgirls to Join
Isil», The Telegraph, 23/2/2015.
8. «Missing Schoolgirls: Turkish Ambassador Summoned before MPs», The Guardian, 25/2/2015.
9. «Turkey: Timely Information Needed to Stop Flow of “Terrorists”», Anadolu Agency, 27/2/2015.
10. «UK Mulls Helping Turkey with Foreigners Headed for Syria», Anadolu Agency, 4/3/2015.
11. R. CENGIZ, «Valilik: IŞID komutanı Denizli’de tedavi görüyor» («Il governatorato: un comandante
dell’Isis sta ricevendo cure mediche a Denizli»), Zaman, 6/3/2015.
12. «US Policymakers Missed Importance of Islamic State Oil Trade Through Turkey», Sputnik News,
31/10/2015.
13. Z. DOÃAN, «Despite Ongoing War, is Trade between Turkey, Syria Rebounding?», Al Monitor,
11/11/2015.
14. D. BLAIR, «Oil Middleman between Syria and Isil is New Target for EU Sanctions», The Telegraph,
7/3/2015.
15. «È l’economia criminale, stupido!», Editoriale di Limes, «Chi ha paura del califfo», n. 3/2015. 33
PER ERDOĞAN, MALGRADO TUTTO, L’IS RESTA IL MALE MINORE

Ancor più significativamente, la Turchia – paese nel quale viene censurato


qualsiasi sito a contenuto anche solo vagamente pornografico e molti siti a con-
tenuto politico-informativo – ha consentito per molto tempo la messa online di
siti islamisti che perseguono apertamente l’obiettivo di reclutare combattenti per
il jihåd siriano. Inoltre, Ankara ha stretto le maglie sul network dello Stato Isla-
mico solo in coincidenza con la pseudo-svolta strategica del luglio scorso. La
stretta è stata peraltro piuttosto lasca: lo scorso 26 ottobre due militanti dello Sta-
to Islamico si sono fatti esplodere uccidendo due poliziotti e ferendone altri cin-
que nell’ambito di un’operazione di polizia a Diyarbakır. Molti commentatori
hanno espresso il proprio stupore per il comportamento dei due terroristi 16, es-
sendo risaputo che quanti vengono arrestati in queste operazioni di polizia tor-
nano a piede libero dopo qualche giorno. Le dinamiche delle operazioni di poli-
zia turche contro l’Is – così come l’incredibile vicenda di uno degli attentatori di
Ankara 17 – lasciano peraltro intendere che l’intelligence e il governo turchi sap-
piano perfettamente chi andare a prendere e dove. Per giustificare la compiacen-
te apatia di Ankara, il primo ministro Davutoãlu ha avuto il coraggio di affermare
che il rispetto dello Stato di diritto preclude alla Turchia di realizzare efficaci
operazioni antiterrorismo 18. Si tratta del classico caso in cui la pezza è peggio del
buco. Appellarsi allo Stato di diritto per non aver saputo/voluto arrestare dei ter-
roristi in un paese nel quale si finisce in galera per un tweet contro il presidente
va infatti ben oltre il grottesco. Infine, Ankara sinora ha accuratamente evitato di
combattere lo Stato Islamico: la montagna dei primi bombardamenti del 24 luglio
ha prodotto il topolino della guerra contro il Pkk 19.

3. Anche la più o meno interessata benevolenza del «sultano» nei confronti


del «califfo» va tuttavia contestualizzata. I turchi vengono accusati di non fare ab-
bastanza contro l’Is, anzi di non combatterlo affatto. È vero. Ma chi, realmente,
sta combattendo i men in black di al-Baôdådø? Non gli americani, che si limitano
a fornire armi e/o copertura aerea a soggetti che spesso si combattono tra loro
(curdi iracheni, curdi siriani, bande sciite). Non la Russia, che colpisce quasi
esclusivamente i ribelli sostenuti da Turchia, Arabia Saudita e Qatar 20. Non al-
Asad, che bombarda qualsiasi cosa tranne gli obiettivi dello Stato Islamico 21. A
ben vedere neanche i curdi, la cui relazione con il «califfo» è molto più comples-
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16. M. BOZARSLAN, «Islamic State Creeps in on Kurdish Stronghold», Al Monitor, 30/10/2015; M. GUR-
CAN, «Turkey Reconsiders Security Priorities», Al Monitor, 30/10/2015.
17. I. EMEM, «Polis Alagöz kardeşleri dinlemiş: Belki son görüşmem!» («La polizia ha ascoltato i fratelli
Alagöz: forse è la mia ultima conversazione!»), Radikal, 17/10/2015.
18. «Başbakan Ahmet Davutoãlu: “Şüpheli diye birisini tutuklayamazsınız”» («Il primo ministro Ahmet
Davutoãlu: “Non si può arrestare qualcuno nemmeno se è sospetto”»), Hürriyet, 15/10/2015.
19. D. SANTORO, «Il vero obiettivo della guerra di Erdoãan non è lo Stato Islamico», Limesonline,
27/7/2015.
20. J. CASAGRANDE, «Russian Airstrikes in Syria: November 4-November 15», Institute for the Study of
War, 16/11/2015.
21. R. SHERLOCK, R. SANCHEZ, «US Accuses Assad Regime of Helping Islamic State by Targeting Rival
34 Rebels in Strikes», The Telegraph, 2/6/2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

sa della versione romanzata narrata dai media occidentali 22. Forse solo l’Iran,
unico paese i cui interessi strategici sono seriamente minacciati dal «califfato».
Il presidente americano Barack Obama ha dichiarato che quella contro lo
Stato Islamico è una «guerra generazionale» che durerà molti anni 23. Almeno ven-
ti, secondo l’ex capo di Stato maggiore della Difesa americano Ray Odierno 24.
L’ex comandante supremo della Nato Wesley Clark ha ammesso che lo Stato Isla-
mico è un progetto finanziato da «amici e alleati» degli Stati Uniti 25, che infatti
non sono esattamente entusiasti all’idea di combatterlo. Si può dunque convenire
con Ramzy Baroud che l’Is è un prodotto occidentale generato dalle politiche
implementate dagli americani in Iraq dopo il 2003 e soprattutto dal settarismo
dell’ex primo ministro iracheno Nûrø al-Målikø 26.
Perché mai, dunque, i turchi dovrebbero combattere in prima linea una
guerra che nessuno ha interesse a combattere contro un Frankenstein con tutta
probabilità sfuggito al controllo dei suoi creatori? Soprattutto, perché mai dovreb-
bero farlo quando le circostanze storiche e geopolitiche potrebbero permettere
ad Ankara di emergere come il principale partner di un’entità che nei prossimi
decenni (questo l’orizzonte temporale di Erdoãan dopo le elezioni del 1° novem-
bre) potrebbe entrare a far parte della «comunità internazionale»?
L’ex consulente del Pentagono Rosa Brooks ha scritto di recente su Foreign
Policy che «se lo Stato Islamico continua a decapitare gente e se noi non siamo
capaci di distruggerlo, forse ci stancheremo di combatterlo e decideremo di strin-
gere accordi con esso. Passerà poi qualche decennio ed ecco che l’Is avrà un
seggio all’Onu – se l’Onu esisterà ancora» 27. Si tratta di una prospettiva cinica e
per certi versi piuttosto estrema, che tuttavia muove dal giusto assunto di base:
nessuno sembra avere intenzione di combattere lo Stato Islamico, figurarsi di di-
struggerlo. In un contesto di questo tipo, non deve sorprendere se la Turchia
cerca di calibrare con grande attenzione le relazioni con l’unico vero attore sun-
nita del Siraq. Un attore che qualora decida di rinunciare alla decapitazione co-
me forma di comunicazione politica potrebbe persino diventare, nel medio-lun-
go periodo, parte della soluzione al caos levantino-mesopotamico.
In tal senso è importante notare che lo Stato Islamico non considera la Tur-
chia come un territorio sul quale esportare il jihåd. Nel primo numero della rivi-
sta dell’Is in turco (Konstantiniyye), pubblicato significativamente nell’anniversa-
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rio della conquista di Costantinopoli da parte di Maometto II (29 maggio 1453) 28,
si parla apertamente di una conquista non violenta di Istanbul, la quale verrà

22. «IŞID ile PYD’nin kayıkçı kavgası!» («Isis e Pyd: una lite tra barcaioli»), Yeni Çaã, 1/7/2015.
23. S. SIDDIQUI, «Barack Obama Says Fight against Isis Will Be “generational struggle”», The Guar-
dian, 6/7/2015.
24. A. MEHTA, «Odierno: ISIS Fight Will Last “10 To 20 Years”», Defense News, 17/7/2015.
25. Trascrizione dell’intervista rilasciata alla Cnn l’11/2/2015.
26. R. BAROUD, «The Daesh Debate», The Jordan Times, 17/3/2015.
27. Cit. in «Ultime dalla Terra di Hobbes», Editoriale di Limes, «Le guerre islamiche», n. 10/2015.
28. Sul contenuto del primo numero della rivista si veda M. GURCAN, «Islamic State Releases First
Turkish Publication», Al Monitor, 8/6/2015. 35
36
IL CORRIDOIO CURDO Aree sotto controllo Is

Aree di sostegno Is in larga parte


desertiche e disabitate
Area curda siriana
Giacimenti di petrolio
n) Giacimenti di gas
-Ceyha T U R C H I A Diyarbakir
aku-Tbilisi
BTC (B Batman
Ole odotto
Oleodotto Kirkuk-Ceyhan

Ceyhan Kur
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us Tall Abyad.
no

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PER ERDOĞAN, MALGRADO TUTTO, L’IS RESTA IL MALE MINORE

H ATAY ‘Arbil
Esportazioni

Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
di petrolio
del Kurdistan Mosul
iracheno Raqqa
attraverso
infrastruture
turche Dayr al-Zawr
A L A U I S TA N
SIRIA F.

IRAQ
E

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ra
te

Mar
Mediterraneo

Palmira
LIBANO

©Limes
LA STRATEGIA DELLA PAURA

presa senza armi e senza spargimenti di sangue, al solo grido di «Allah è


grande» 29. Il carattere pacifico del rapporto che lo Stato Islamico intende svilup-
pare con Ankara è poi ben esemplificato da un articolo nel quale la Turchia vie-
ne descritta come una fondamentale fucina di risorse umane, in particolar modo
ingegneri, medici, educatori e militari 30.
Specularmente, la retorica dei leader turchi conferma che Ankara non vede
nello Stato Islamico una minaccia esistenziale. Anzi. Nell’agosto 2014 Davutoãlu
ha significativamente attribuito all’«indignazione» dei giovani arabi l’esponenziale
crescita dell’Is 31, esplicitando una linea di ragionamento per la quale i giovani
che si sono arruolati nelle milizie del «califfo» sono dei diseredati che, sia pure
con i metodi sbagliati, combattono per la giusta causa. Essi, dunque, non vanno
condannati ma riportati sulla retta via. Meglio, vanno eliminate le cause che stan-
no alla base della loro «indignazione». Leggi: per sconfiggere lo Stato Islamico
non c’è altra strada che rovesciare il regime di Baššår al-Asad.

4. Gli obiettivi perseguiti dalla Turchia attraverso la manipolazione dello Sta-


to Islamico sono cambiati nel corso del tempo. Inizialmente, Ankara intravedeva
nel «califfato» soprattutto un attore sunnita mediante il quale ribilanciare a proprio
favore i rapporti di forza con l’Iran e i suoi clienti sciiti nel Siraq. In questo con-
testo, la crisi di Kobani ha segnato una svolta importante. Erdoãan ha infatti cer-
cato di utilizzare l’assedio dell’Is alla città curda per indurre gli americani ad ap-
poggiare i suoi piani interventisti in Siria, cioè a cooperare con Ankara per creare
una zona di sicurezza nel Nord del paese che avrebbe dovuto fungere da base
logistica per i ribelli impegnati a rovesciare il regime di al-Asad. In quella fase,
infatti, i leader turchi pensavano ancora che fosse possibile rovesciare militar-
mente il presidente siriano.
La strategia di Erdoãan ha fallito su tutta la linea. Gli americani non sono
intervenuti in Siria. Kobani non è caduta. Peggio, la dimostrazione di forza di
cui diedero prova le Ypg curde indusse gli americani ad arruolarle come fante-
ria. Tutto ciò ha stravolto la strategia siriana della Turchia, oggi volta principal-
mente a prevenire la nascita di un’entità statuale curda nel Nord del paese. Do-
po Kobani, inoltre, Ankara ha iniziato gradualmente a percepire lo Stato Islami-
co come una minaccia indiretta ai propri interessi. L’alleanza tra Stati Uniti e
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Pkk siriano ha infatti creato una dinamica perversa per la quale qualsiasi terri-
torio siriano occupato dal «califfo» diveniva suscettibile di essere attaccato e
conquistato dalle milizie curde. In altri termini, la Turchia ha iniziato a percepi-
re lo Stato Islamico, in particolar modo le sue «province» siriane, come un Kur-
distan in potenza.

29. «Istanbul’un Fethi» («La conquista di Istanbul»), Konstantinniye, n. 1, maggio 2015 (Şaban 1436),
pp. 4-7.
30. «Hicret» («Trasmigrazione»), ivi, pp. 29-31
31. «Davutoãlu IŞID’e yine “terörist” diyemedi, “meşrulaştırıcı” laflar etti» («Ancora una volta Davuto-
ãlu non ha definito “terrorista” l’Isis, ha usato espressioni “legittimanti”»), Diken, 7/8/2014. 37
PER ERDOĞAN, MALGRADO TUTTO, L’IS RESTA IL MALE MINORE

Erdoãan ha visto avverarsi tale incubo a metà giugno, quando le Ypg hanno
sottratto all’Is il controllo delle città di confine di Tall Abyaî unificando i due
cantoni del Rojava di Cezire e Kobani. Per Ankara è stato uno shock. Anche per-
ché i leader politici curdi hanno cominciato a manifestare pubblicamente la pro-
pria intenzione di «andare a Ãaråbulus» 32. L’area di Ãaråbulus, attualmente con-
trollata dallo Stato Islamico, rappresenta l’ultimo ridotto siriano della Turchia. Se i
curdi riuscissero a conquistarlo, sarebbero in grado di unificare il cantone di
‘Afrøn al resto del Rojava, separando fisicamente la Turchia dalla Siria e preclu-
dendo ad Ankara la possibilità di continuare a sostenere le bande di ribelli da es-
sa controllate. Senza contare che l’unificazione del Rojava finirebbe per conferire
il crisma della statualità al Pkk. Molto probabilmente, la decisione di Erdoãan di
riaprire le ostilità con i terroristi curdi è maturata proprio in occasione della presa
di Tall Abyaî da parte delle Ypg. In ogni caso, da giugno l’intera strategia siriana
della Turchia ruota intorno all’obiettivo di impedire il «passaggio a ovest» dell’Eu-
frate dei curdi. Si tratta di una linea rossa sulla quale Ankara non ha alcuna in-
tenzione di transigere 33, come dimostra l’offensiva contro le milizie curde che
hanno provato ad attraversare il fiume a giugno e ottobre 34.
L’assicurazione degli americani che non forniranno più armi direttamente al-
le milizie curde ma solo a una coalizione curdo-araba nella quale comunque le
Ypg costituiscono la componente maggioritaria 35 ha confermato ad Ankara – an-
che alla luce della relazione sempre più intima tra Russia e curdi siriani 36 – che
la minaccia curda richiede un ulteriore cambio di strategia. I contorni di questa
nuova strategia sono stati delineati da Abdülkadir Selvi, uno dei commentatori
più vicini al «palazzo», in un articolo del 9 novembre dal significativo titolo: «Sta
per arrivare una grande operazione» 37. Secondo Selvi, turchi e americani stanno
preparando un’offensiva aerea in grande stile contro lo Stato Islamico per sottrar-
re a quest’ultimo il controllo dell’area di Ãaråbulus, nella quale, allo scopo di im-
pedire il «passaggio a ovest» dei curdi, verrebbero installate bande di non meglio
precisati ribelli arabo-turkmeni.
Queste ultime costituiscono evidentemente il punto debole della strategia.
Alla luce dell’ignominioso fallimento del programma di addestramento dei ribelli
«moderati» condotto in Turchia dagli Stati Uniti e delle alterne (s)fortune dei com-
battenti sostenuti da Ankara, appare difficile immaginare che i turchi siano in
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grado di mettere insieme un numero di ribelli adeguato anche in termini di ad-


destramento e armamenti per controllare un’area che si estenderebbe per un
32. «Kurds: We Have Right to Fight anywhere in Syria», Now, 15/7/2015; M. SOLMAZ, «YPG Readies
for Offensive on Non-Kurdish Regions of North Syria», Daily Sabah, 20/10/2015.
33. «Cumhurbaşkanı Erdoãan: “Fırat’ın batısına kimse geçemez”» («Il presidente della Repubblica Er-
doãan: “Nessuno può passare a ovest dell’Eufrate”»), Hürriyet, 10/11/2015.
34. «Turkey Hits PYD Twice for Crossing Euphrates: PM», Hürriyet Daily News, 27/10/2015.
35. A. ESMER, «ABD’nin YPG Açıklaması Ne Ifade Ediyor?» («Qual è il significato del chiarimento degli
Stati Uniti sulle Ypg?»), Amerikan’nın Sesi, 6/11/2015.
36. F. BALANCHE, «Syria’s Kurds Are Contemplating an Aleppo Alliance with Assad and Russia», Policy
Watch 2499, The Washington Institute, 7/10/2015.
38 37. A. SELVI, «Büyük operasyon geliyor», Yeni Şafak, 9/11/2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

centinaio di chilometri lungo il confine turco-siriano e per circa trenta chilometri


all’interno della Siria. Ciò ha indotto molti commentatori a discutere apertamente
la possibilità di un’operazione di terra nel Nord della Siria da parte dell’esercito
turco. Lo stesso Selvi è tornato sul tema con un articolo dal titolo «Parteciperemo
all’operazione di terra a Ãaråbulus?» 38. La risposta è «ni». Selvi sostiene infatti che
la Turchia è pronta a prendere parte a un’operazione di terra in Siria, ma solo a
patto che gli americani vi partecipino con la stessa intensità. Il che lascia intende-
re che la Turchia si stia infilando ancora una volta in un vicolo cieco. Come fa
notare Emre Uslu, infatti, se Ankara vuole rompere l’alleanza tra Stati Uniti e Pkk
siriano deve adattarsi a fare, senza troppe storie, il lavoro sporco condotto fino a
questo momento dalle milizie curde 39.
Negli ultimi mesi le dinamiche tra Turchia e Stato Islamico sono dunque en-
trate in una nuova dimensione. In questa fase Ankara sta evidentemente cercan-
do di utilizzare l’Is come uno specchietto per le allodole che le consenta di ven-
dere al mondo come un’offensiva contro il «califfo» un’operazione militare che in
realtà sarebbe null’altro che un nuovo fronte nella guerra contro il Pkk 40. Nono-
stante le dichiarazioni rilasciate dal segretario di Stato John Kerry e dal ministro
degli Esteri turco Feridun Sinirlioãlu il 17 novembre 41, Turchia e Stati Uniti conti-
nuano tuttavia ad avere posizioni piuttosto divergenti sulla creazione di una zona
di sicurezza in Siria 42.
Queste divergenze sono con tutta probabilità alla base dell’ultimo azzardo
geopolitico di Erdoãan: l’abbattimento di un caccia russo al confine turco-siriano
da parte degli F16 turchi il 24 novembre dimostra infatti che il «sultano» è dispo-
sto a tutto pur di costringere gli americani ad appoggiare il suo progetto siriano.
Persino a provocare un confronto militare tra la Nato e la Russia. Se analizzata
nel contesto dell’ambiguo intervento militare russo in Siria, la mossa di Erdoãan,
per quanto spericolata, appare tutt’altro che irrazionale. Il leader turco, infatti, co-
nosce il presidente russo Putin meglio di chiunque altro e sa perfettamente che
questi comprende un solo linguaggio: quello della forza.

5. Per la Turchia la relazione con lo Stato Islamico ha ovviamente anche


un’importante dimensione interna, che ha acquisito crescente rilievo a seguito
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degli attentati terroristici presumibilmente realizzati dalle milizie del «califfo» su


territorio turco: l’attentato di Diyarbakır del 5 giugno (quattro morti e un centi-
naio di feriti); l’attentato di Suruç del 20 luglio (33 morti e 104 feriti); l’attentato di
Ankara del 10 ottobre (102 morti e oltre 400 feriti). Tale dimensione è legata a

38. ID., «Cerablus’ta kara operasyonuna girecek miyiz?», Yeni Şafak, 12/11/2015.
39. E. USLU, «Is War on the Horizon?», Today’s Zaman, 11/11/2015.
40. D. SANTORO, «Per fermare i curdi, Erdoãan cambia strategia contro lo Stato Islamico», Limesonline,
12/11/2015.
41. D. ZEYREK, «Turkey, US to Begin Op for ISIL-Free Zone in Syria», Hürriyet Daily News, 18/11/2015.
42. S. DEMIRTAŞ, «Turkey, US Continue to Differ on ISIL Fight after G-20», Hürriyet Daily News,
18/11/2015. 39
PER ERDOĞAN, MALGRADO TUTTO, L’IS RESTA IL MALE MINORE

doppio filo ai rapporti tra gli apparati di sicurezza turchi e l’Is, genere letterario
che vanta diversi filoni.
Erdoãan e Davutoãlu hanno attribuito la responsabilità dell’attentato di
Ankara a un «cocktail terroristico» generato dall’alleanza stretta tra Pkk, Stato Isla-
mico e Dhkp-c (organizzazione terroristica di ispirazione marxista-leninista) con
la speciale partecipazione del regime di al-Asad 43. Le basi di questa alleanza sa-
rebbero state gettate a fine maggio in occasione di un incontro tra delegati del
regime siriano, del «califfo» e del Pkk andato in scena in una pompa di benzina
nei pressi di Õasaka 44. Se non rispecchiasse il riflesso condizionato più comune
tra le élite turche, la paranoia complottista, potrebbe essere liquidata come la tra-
ma di un romanzo di spionaggio di quart’ordine. Invece non è escluso che Da-
vutoãlu creda sul serio a quello che dice. Per i turchi, d’altra parte, la teoria del
complotto costituisce la chiave di lettura privilegiata della storia 45.
Più realisticamente, dopo l’attentato di Suruç diversi analisti giunsero alla
conclusione che lo Stato Islamico stava perseguendo una strategia volta a esacer-
bare le linee di faglia della società turca esportando il conflitto con i curdi in
Anatolia. Mümtazer Türköne fece giustamente notare che la strategia dell’Is pog-
gia sulla tendenza dei curdi a ritenere Erdoãan responsabile di qualsiasi attacco
sferrato contro di loro dalle milizie del «califfo» 46. Infatti, il Pkk si vendicò per l’at-
tentato di Suruç uccidendo due poliziotti turchi nel sonno. Due giorni dopo, Er-
doãan riaprì le ostilità contro i terroristi curdi 47.
In questo contesto, non è semplice capire quale ruolo stiano giocando i ser-
vizi segreti turchi. All’indomani dell’attentato di Ankara il deputato nazionalista
Lütfü Türkkan ha correttamente messo in evidenza che l’attacco poteva essere
spiegato solo in due modi: un clamoroso fallimento dell’intelligence o un lavoro
svolto dalla stessa intelligence. La prima ipotesi è persino più inquietante della
seconda, dal momento che se così fosse la Turchia sarebbe ridotta alla stregua di
uno Stato fallito nel quale le cellule jihadiste possono fare il bello e il cattivo
tempo. Non sembra essere questo il caso: uno dei capi dell’intelligence dell’Is ha
rivelato di recente che per molto tempo i servizi segreti turchi hanno fornito al
«califfo» ogni tipo di supporto logistico, compresi panini di McDonald’s, vacanze
in Turchia e cure mediche.
Anche senza il senno di poi, è possibile affermare che la strage di Ankara
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poteva essere evitata. Alla luce della logica sottostante agli attentati di Diyarbakır
e Suruç, qualsiasi persona di buonsenso avrebbe considerato l’evento che avreb-

43. «Four Terror Groups May Be behind Ankara Attack: Turkish PM», Hürriyet Daily News, 10/10/2015;
«ISIS, PKK, PYD, Syrian Intelligence behind Ankara Attack, President Erdoãan Says», Daily Sabah,
22/10/2015.
44. D. SANTORO, «La tentazione pericolosa di Erdoãan: intervenire in Siria», Limesonline.
45. D. SANTORO, «La grande strategia della Turchia neo-ottomana», Limes, «La radice quadrata del
caos», n. 5/2015, pp. 31-46.
46. M. TÜRKÖNE, «ISIL’s Turkey Calculation», Today’s Zaman, 24/7/2015.
47. D. SANTORO, «Erdoãan-Öcalan-Demirtaş: l’incrocio di tre ambizioni destabilizza la Turchia», Limes,
40 «Le guerre islamiche», n. 9/2015, pp. 173-180.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

IL MONDO DI ERDOGAN

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be dovuto avere luogo ad Ankara il 10 ottobre (una manifestazione per la pace


alla quale partecipavano soprattutto civili curdi) come un possibile obiettivo dei
terroristi. Chiunque abbia partecipato a un comizio di Erdoãan o Davutoãlu sa
perfettamente che tipo di misure di sicurezza draconiane vengano applicate, e
non può che essere rimasto esterrefatto nell’apprendere che alla manifestazione
di solidarietà svoltasi ad Ankara all’indomani dell’attentato i controlli di sicurezza
venivano svolti dai volontari delle associazioni organizzatrici.
Da qui la tesi secondo cui tra Erdoãan e il «califfo» esisterebbe una sorta di
patto implicito, in base al quale il «sultano» avrebbe consentito alle milizie dello
Stato Islamico di condurre su suolo turco attacchi contro il nemico comune, i Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

curdi. A questa versione soft della teoria complottista, che si contrappone a quel-
la del «cocktail terroristico» di Davutoãlu, si affianca una versione hard sostenuta
soprattutto dal co-segretario dell’Hdp Selahattin Demirtaş e dalla piazza curda,
per i quali Erdoãan è il mandante degli attentati degli ultimi mesi. In altri termini,
attraverso il suo capo dei servizi segreti, Hakan Fidan, Erdoãan controllerebbe
un certo numero di cellule jihadiste che, alla bisogna, userebbe come manodo-
pera. Tanto la teoria del «cocktail terroristico» quanto la tesi che vuole Erdoãan
come «terrorista in capo» lasciano spazio a evidenti dubbi. Purtroppo, però, è
possibile che la verità sia più vicina alla tesi complottista di Demirtaş che non a
quella di Davutoãlu. 41
PER ERDOĞAN, MALGRADO TUTTO, L’IS RESTA IL MALE MINORE

Dall’inizio delle ostilità contro il Pkk a fine luglio, Erdoãan non manca di ri-
petere a ogni occasione che «non esistono terroristi buoni e terroristi cattivi». La
litania del «sultano» reitera una verità consolidata, che tuttavia in Occidente conti-
nua a stupire molti: in Turchia la parola «terrorismo» è sinonimo di «Pkk». A fronte
del rischio di tripartizione del Siraq tra bande sciite, Asad e terroristi curdi, dun-
que, Ankara considera l’opzione della convivenza con lo Stato Islamico il male
minore. Per la Turchia, il «califfato» rimane la più inoffensiva tra le specie del va-
riegato bestiario geopolitico siracheno.

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42
LA STRATEGIA DELLA PAURA

CONTRORDINE:
PUTIN È DEI NOSTRI
(OPPURE NO?) di Fulvio SCAGLIONE
Soltanto dopo le stragi parigine abbiamo apprezzato l’impegno
russo in Siria contro lo Stato Islamico. Oggi Mosca ci serve,
anche dopo l’abbattimento di un suo jet militare per mano turca.
Ma siamo ancora lontani da una vera coalizione.

1. C HE BISOGNO C’ERA DI MOBILITARE L’UCRAINA


e la Turchia, fomentare una guerra sopita nel Donbas e rischiarne un’altra tra
Mosca e Ankara, incrinare quella parvenza (illusoria, certo) di fronte comune
contro lo Stato Islamico (Is), abbattere un aereo da guerra, mettere in imbarazzo
le cancellerie e pure la Nato, che di Ucraina e Turchia è il grande protettore, al
punto da tacere senza pudore sui maneggi tra gli uomini di Erdoãan e i terroristi
dell’Is che tutti dicono di voler eliminare?
Per capirlo bisogna fare come con le videocassette, tornare indietro. Fino a
quei pochi giorni tra la strage di Parigi (13 novembre) e l’abbattimento del caccia
russo sui cieli della Siria (24 novembre), due settimane che rischiavano di cam-
biare il mondo. Cosa che ovviamente non si poteva permettere. Ecco, in quei
tredici giorni la storia l’avremmo raccontata così.
Dunque, contrordine compagni! Adesso con Vladimir Putin si può. Vladimir
Putin si può. Tra i tanti effetti dell’orrenda strage di Parigi e della frenetica caccia
alla rete islamista annidata nelle periferie delle nostre città, c’è stato anche que-
sto: la Russia non è più uno Stato canaglia, il signore del Cremlino non è più un
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paria. Il presidente francese Hollande può coordinare con lui l’offensiva via ma-
re, cielo e forse anche terra contro le roccaforti dello Stato Islamico in Siria. Il
presidente americano Obama può trattare con lui al G20 e definirlo un «partner
costruttivo» nella ricerca di una soluzione al problema della Siria. Forse non do-
vremo più assistere a episodi vergognosi come quello dei giorni successivi al
massacro del teatro Bataclan: mentre nelle edicole della capitale francese stavano
ancora appese le vignette di Charlie Hebdo che satireggiavano sull’abbattimento
dell’aereo russo (224 morti) che volava sul Sinai, a Mosca crescevano i cumuli di
fiori davanti all’ambasciata di Francia e si allungavano sotto la neve le code di
russi pronti a manifestare ai francesi solidarietà e cordoglio. 43
CONTRORDINE: PUTIN È DEI NOSTRI (OPPURE NO?)

Il sacrificio delle 132 vittime di Parigi ha dunque cambiato la politica interna-


zionale. Di più: ha sbriciolato un progetto culturale solidissimo che da almeno
vent’anni ci impedisce di capire a fondo la natura globale del jihadismo interna-
zionale e, quindi, di combatterlo con efficacia.
Quando è stato chiaro che l’aereo dei turisti russi era stato fatto esplodere in
volo da una bomba dell’Is, e il Cremlino ha dovuto abbandonare ogni cautela
nel denunciare l’attacco terroristico, Vladimir Putin ha pronunciato parole molto
precise, parole che ogni russo adulto ha riconosciuto nel loro significato profon-
do. «Li perseguiremo ovunque essi siano», ha detto il presidente russo, «e li trove-
remo in ogni angolo del mondo». Sono in pratica le stesse che pronunciò, da pri-
mo ministro ancor quasi sconosciuto ma già sulla soglia del Cremlino, nel set-
tembre del 1999, quando a proposito dei ceceni promise ai russi quanto segue:
«Continueremo a perseguire i terroristi dappertutto: se li beccheremo al cesso li
ammazzeremo lì».
Riferimenti peristaltici a parte, la frase è la stessa, l’intento è lo stesso, la de-
terminazione è la stessa. Non è cambiato Putin, non è cambiata la Russia. Siamo
cambiati noi. Di colpo, la soluzione proposta dalla diplomazia russa (prima eli-
miniamo lo Stato Islamico, poi decidiamo che fare di Ba44år al-Asad) pare ragio-
nevole, l’unica forse concretamente realizzabile.

2. Il Putin del 1999 era il leader emergente di un paese confuso, che solo un
mese prima di quel discorso aveva visto le Brigate internazionali islamiche muo-
vere dalla Cecenia all’assalto del Daghestan. Vale la pena spendere due parole
sulle Brigate. Composte soprattutto da daghestani ma anche da ceceni, arabi, tur-
chi e altri foreign fighters, avevano in quel momento due capi: uno locale, il ce-
ceno Šamil Basaev; l’altro straniero, il (guarda combinazione) saudita Muãåhid
ibn al-Œa¿¿åb. L’islamizzazione del movimento indipendentista ceceno, finanziata
dai petrodollari in arrivo dal Golfo Persico, era ormai quasi compiuta. La brutalità
della reazione russa durante la prima guerra, scaricata soprattutto sulla popola-
zione civile, l’aveva accelerata: più disperata si faceva la causa cecena, più alta
sventolava la bandiera dell’islam fondamentalista e terrorista. Fino a quel 7 otto-
bre del 2007 quando, ormai stabilita la pacificazione «alla russa» della Cecenia,
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Doku Umarov, noto anche come Dokka Abu Usman, un tempo studente model-
lo della facoltà di Ingegneria civile dell’Università di Groznyj, proclamò il «califfa-
to» del Caucaso, con sostanziale anticipo sul «califfato» dell’Is.
Anche qui, vedi le simmetrie: nel luglio di quest’anno lo Stato Islamico, do-
po aver accettato il giuramento di fedeltà di una serie di gruppi islamisti russi, ha
resuscitato il «califfato» del Caucaso, tramutandolo in provincia del più grande
«califfato» guidato da al-Baôdådø. Doku Umarov fu ammazzato dai servizi segreti
russi nel settembre 2013. Dove? In Qatar, dove si era rifugiato. L’attuale guida del
«nuovo califfato» del Caucaso è Abû Muõammad al-Qa¿arø, cioè Abû Muõammad
44 il Qatariota.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

Vogliamo parlare dei simboli? Cercate sul Web le foto del presunto califfo
Umarov, la bandiera nera alle sue spalle vi ricorda qualcosa? E gli sgozzamenti?
Non li ha inventati lo Stato Islamico. Quando osserviamo i video dei boia di oggi
dovremmo forse ricordare le esecuzioni sommarie, da parte dei guerriglieri cece-
ni e dei foreign fighters con loro schierati, di molti militari russi catturati in batta-
glia. È diventato famoso il caso di Evgenij Rodionov e Andrej Trusov, due soldati
semplici presi prigionieri in territorio ceceno e decapitati con annesso filmato da
far pervenire alle televisioni russe, mentre due altri loro commilitoni venivano
«solo» fucilati. Per Rodionov, assassinato proprio nel giorno del suo ventesimo
compleanno, pende in Russia una «causa di beatificazione», perché in punto di
morte rifiutò di abiurare la fede cristiana e convertirsi all’islam.
Insomma, tra la fase culminante e poi terminale della rivolta cecena e l’o-
dierno Is sono più le somiglianze che le differenze: stessi soldi, stessi uomini,
stessi metodi, stessi simboli. Eppure per vent’anni abbiamo scientemente e osti-
natamente rifiutato di riconoscere ciò che era peraltro evidente: che la Russia
era stata il primo paese non mediorientale a subire l’offensiva militare dell’isla-
mismo armato.
Lo scopo è sempre stato piuttosto chiaro: delegittimare Mosca, toglierle qua-
lunque forma di appartenenza internazionale, negare fino al ridicolo che potesse
avere un ruolo all’interno di una battaglia comune con l’Occidente. Ovvero, ve-
nendo al Medio Oriente, lasciare mano libera agli Stati Uniti e ai loro alleati del
Golfo Persico.
Ora è cambiato tutto. Al punto che diventiamo spettatori di una rappresenta-
zione assai bizzarra: la nascita di un’alleanza che, in nome della lotta senza quar-
tiere allo Stato Islamico, potrebbe affiancare la Francia (cui l’Ue ha promesso aiu-
to e solidarietà) alla Russia, che si porta appresso l’esercito governativo siriano, i
guerriglieri di Õizbullåh e le milizie sciite organizzate dall’Iran. Mentre poco più
in là opera una coalizione che mette insieme americani e sauditi e che di sradica-
re l’Is ha poco o punto voglia e invece preferisce tenerlo in ammollo sperando
che, nel frattempo, faccia per loro il lavoro di liquidare al-Asad.
Con le potenziali conseguenze, quanto all’inedita partnership Parigi-Mosca,
di cui è prematuro parlare ma che già s’intravvedono: russi e francesi potranno
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domani aggredirsi a colpi di sanzioni economiche dopo essere stati alleati in una
guerra guerreggiata in Siria per riscattare la memoria dei propri morti, uccisi da
un brutale movimento terroristico che si è costituito in Stato? Che farà l’Unione
Europea se è vero ciò che dice il nostro premier Renzi, e cioè che ormai la mag-
gioranza dei paesi concorda sulla posizione italiana che vede indispensabile un
coinvolgimento della Russia nella soluzione delle grandi questioni mediorientali,
in Siria e magari anche in Libia?
Certo sembra passato un secolo da ciò che, al contrario, avveniva poche set-
timane fa, quando il norvegese Jens Stoltenberg, dall’ottobre 2014 segretario ge-
nerale della Nato, minacciava la Russia per qualche sconfinamento aereo nei cieli 45
CONTRORDINE: PUTIN È DEI NOSTRI (OPPURE NO?)

della Turchia durante le operazioni contro le formazioni islamiste anti-Asad. Lo


stesso Stoltenberg e la stessa Nato che finora non hanno speso una parola per
frenare le smanie della Turchia, paese membro dell’Alleanza Atlantica dal 1952
che, in odio ai curdi e al regime di Damasco e nella speranza di prendersi una
fetta di territorio siriano, ha dato ogni forma di aiuto allo Stato Islamico, facendo
passare i foreign fighters, comprando il petrolio commerciato dall’Is, chiudendo
un occhio sui rifornimenti che dal suo confine procedevano verso il territorio
controllato dagli islamisti.
Le cose cambiano. Tutto questo succede non perché l’Is (come al-Asad, ov-
viamente) ha fatto strage di siriani. Non perché ha cambiato la geografia del Me-
dio Oriente, tanto che ora si parla persino di Siraq. Non perché ha spinto le resi-
due comunità cristiane (le prime e più antiche comunità cristiane della storia)
sull’orlo dell’estinzione. Non perché ha ormai colpito ovunque, dalla Tunisia alla
Libia, dalla Turchia all’Egitto alla Russia per interposto Sinai. Ma perché, alla fine,
ha colpito noi: la Francia, l’Europa, il diritto che consideriamo inalienabile a una
vita serena e pacifica.

3. Tutto questo ha proiettato una luce nuova sulle ragioni dell’intervento rus-
so in Siria. Di colpo, la sua mission (colpire i terroristi ovunque, magari anche
nel cesso) si è sposata benissimo con il nostro senso di rivalsa, con la volontà di
impedire altri attacchi come quelli di Parigi stroncando le centrali ideologiche e
organizzative dello Stato Islamico.
Ma c’è un altro fattore che noi occidentali teniamo troppo poco in conto. I
primi a soffrire per mano delle formazioni islamiste che operano in Siria sono le
popolazioni locali. Di più le minoranze, già normalmente fragili. Il patriarca lati-
no di Gerusalemme, il patriarca maronita di Beirut, i vescovi cattolici dell’Iraq…
tutti hanno invocato per lungo tempo, e sempre invano, un intervento militare
serio contro le milizie jihadiste. Chiedete loro se preferiscono Obama o Putin.
Ma poi ci sono anche i musulmani, componente assai più «pesante» nella
geografia umana delle regione. I curdi, che a Arbøl e Sulaymåniyya vivevano un
boom economico tipo anni Sessanta in Italia e si sono ritrovati al fronte, pieni di
profughi e con l’economia in pezzi. I siriani che ancora combattono, magari con-
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tro gli islamisti più che per al-Asad, ma ancora combattono. I libanesi: loro 6 mi-
lioni, i profughi siriani 1,3 milioni. I giordani vicini al tracollo per il sostegno che
devono offrire ai siriani in fuga. Gli iracheni, che vedono il proprio paese minac-
ciato dagli estremisti sunniti e messo sotto tutela dagli sciiti dell’Iran. Agli occhi
di milioni e milioni di persone sono i metodi di Putin ad avvicinare la fine della
crisi, non certo quelli della coalizione americano-saudita, che sfoggia le sue 7.500
incursioni aeree in quattordici mesi ma non riesce nemmeno a impedire agli isla-
misti di organizzare cortei di auto per festeggiare la strage di Parigi.
Quando Putin dice che ci sono paesi che un giorno siedono nel G20 a par-
46 lare di pace e il giorno dopo finanziano lo Stato Islamico, forse fa propaganda.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

Mare
d’Azov

FED. RUSSA
VILAYAT DELLA STEPPA DI NOGAJ
Delyeshu

Nogaj-Šakhar
VILAYAT DI CIRCASSIA Mar
Myehyapye Caspio

Čerkessk

VI
LA
VILAYAT DI VILAYAT DI

YAT
CABARDA, BALCARIA NOHCHIYCHO
E KARAČAJ

DEL DAGHESTAN
Nal’čik VILAYAT DI
Mar GALGAYCHE Džhohar Šamilkala
ABKHAZIA Buro
Nero (Groznyj)
Glava
OSSEZIA Derbent
GEORGIA DEL SUD

Tbilisi

TURCHIA
AZERBAIGIAN

L’EMIRATO DEL CAUCASO SECONDO


A R M E N I A I JIHADISTI

Eravan

Ma con argomenti che per la gente del Medio Oriente sono addirittura scontati.
Quando il ministro degli Esteri russo Lavrov dice che «gli Stati Uniti in Siria evita-
no di nuocere troppo all’Is», solleva il velo su una realtà che milioni di persone
vivono sulla propria pelle giorno dopo giorno.
Putin, è superfluo dirlo, non ha impegnato la Russia in Siria per fare benefi-
cenza. E nemmeno perché sia affezionato a Ba44år al-Asad, che adesso gli serve
come simbolo ma che verrà prontamente liquidato nel momento in cui si smet-
terà di sparare e si comincerà a discutere tra potenze del futuro del paese. Il
Cremlino, con un impegno militare piuttosto limitato, punta invece a ottenere
una serie di obiettivi molto concreti.
Il primo, derivante da un problema che Putin conosce bene fin dagli anni in
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cui era impegnato a stroncare la guerriglia interna, è impedire che il jihadismo


internazionale, spedito fuori dalla porta con le crudeltà della guerra di Cecenia,
rientri in Russia dalla finestra siriana. Gli esperti russi calcolano che almeno cin-
que-sei mila combattenti dello Stato Islamico o delle altre milizie siano cittadini
russi o delle ex repubbliche sovietiche. E ricordano bene gli effetti sulla sicurezza
nazionale del viavai di miliziani tra i campi d’addestramento nell’Afghanistan tali-
bano e le montagne del Caucaso.
Il secondo obiettivo è mettere in mostra tutte le capacità dell’industria nazio-
nale degli armamenti. La Russia è seconda solo agli Stati Uniti (terza la Cina) nel-
la produzione ed esportazione di armi, un settore merceologico che non conosce 47
CONTRORDINE: PUTIN È DEI NOSTRI (OPPURE NO?)

vera crisi. La vetrina siriana sta facendo all’industria russa un’ottima pubblicità,
tramutando anche questa guerra in un profittevole investimento.
Il terzo obiettivo è strategico, di medio e lungo periodo. Putin può giocarsi
l’impegno militare e diplomatico in Siria come merce di scambio con Washington
nell’eterno braccio di ferro globale. Obama ha sorpreso Putin in Ucraina, ispiran-
do e finanziando il ribaltone del regime filorusso e raccogliendo i dividendi del-
l’operazione: l’economia ucraina, territorio decisivo per il transito del gas russo
verso l’Europa, è oggi controllata da una ministra, Natalija Jares’ko, nata negli
Usa, per molti anni funzionario del dipartimento di Stato e addirittura dell’amba-
sciata americana a Kiev. Ma Putin ha sorpreso Obama in Siria dove, per tutte le
ragioni fin qui elencate, è ora in vantaggio. La partita prosegue.
Ma il vero, decisivo scopo del Cremlino, quello che giustifica tutti gli sforzi
che vediamo in opera, è impedire che venga a mancare l’anello siriano alla cate-
na sciita che dall’Iran arriva al Libano, via Iraq e, appunto, Damasco. Essere l’in-
terlocutore politico ed economico privilegiato della Mezzaluna Fertile sciita è ciò
che permette alla Russia di giocare un ruolo in Medio Oriente, non certo la mo-
desta base navale di ¡ar¿ûs. Come si è visto con sufficiente chiarezza durante le
infinite trattative che poi hanno portato all’accordo sul nucleare tra il cosiddetto
«5+1» (i paesi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu più la Germania) e l’Iran.
In quest’ottica strategica, la Russia pensa alla Siria che uscirà dalla guerra ci-
vile con molto realismo. Certo, negli incontri diplomatici e nelle sedi internazio-
nali ribadisce la volontà di conservarne l’integrità territoriale. Ma intanto si prepa-
ra più o meno alla stessa spartizione a cui si preparano gli altri paesi: la Turchia
che ne vuole una fetta a nord per fugare il fantasma di un Kurdistan indipenden-
te, Israele che chiede l’annessione definitiva del Golan, la Giordania che reclama
una fascia di rispetto, Usa e Arabia Saudita che pensano a uno Stato dei sunniti,
da sempre maggioranza demografica e minoranza politica in Siria.
Si vede benissimo che le operazioni militari di russi, siriani e õizbullåh li-
banesi (i russi dal cielo, gli altri a terra) non hanno la pretesa di «liberare» la Si-
ria ma l’ambizione di allargare il più possibile l’area controllata dai governativi,
con particolare riferimento a una fascia nord-sud che dovrebbe andare da
Aleppo alla capitale Damasco, conservando e proteggendo gli sbocchi sul Me-
diterraneo di ¡ar¿ûs e Latakia, dove oggi Mosca ha rispettivamente la base na-
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vale e quella aerea.


Un obiettivo che, a ben vedere, non contrasta con quelli degli altri attori or-
mai da anni impegnati sul campo. Con la sua ruvida franchezza, il premier israe-
liano Netanyahu lo ha già detto a Obama: la Siria come Stato unitario è già finita.
Resta da vedere quanto durerà il processo di ripartizione, quanto costerà ai siria-
ni, agli iracheni e al Medio Oriente in generale. E quanto costerà, tra flussi migra-
tori e attentati, anche a noi.

48
LA STRATEGIA DELLA PAURA

IL CALIFFATO, OVVERO
L’ARROCCO SUNNITA IN SIRAQ di Giovanni PARIGI
Lo Stato Islamico affonda le radici nell’insorgenza antiamericana
conseguente alla liquidazione del regime baatista. Le scelte di
Målikø, che hanno favorito gli sciiti a danno dei sunniti, hanno
contribuito al successo di al-Baôdådø. Il nesso con i sunniti siriani.
Ecco, la scintilla è stata accesa in Iraq e, a Dio piacendo, le sue fiamme
arderanno sinchè non bruceranno le armate crociate a Dåbiq.
Abû Mu‘âa al-Zårqawø, 11/9/2004

1. ‘I ZZAT IBRÅHØM AL-DÛRØ ERA IL RE DI FIORI


nel celebre mazzo di carte dei most-wanted dagli americani. Nella foto appariva
sornione, quasi sorridente sotto i suoi celeberrimi baffoni rossi, mentre faceva un
saluto militare all’inglese.
Al-Dûrø era certamente una figura poliedrica. Nato vicino a Tikrit, condivide-
va con Saddam lo stesso ambiente tribale. Diventato generale dell’Esercito, era
anche vicepresidente del Comando del Consiglio rivoluzionario iracheno, organo
apicale del partito Ba‘ñ. Tra i vari incarichi, dopo la prima guerra del Golfo ebbe
anche il delicato compito di guidare la Õamla al-Īmåniyya, ovvero la campagna
per il Ritorno alla Fede. Infatti il regime, scosso alle fondamenta da Desert Storm
e dalle seguenti rivolte sciite e curde, per rinsaldare le file giocò la carta del pa-
tronaggio religioso sunnita, avviando una politica di reislamizzazione della so-
cietà e delle istituzioni. In altri termini, con la campagna della Fede fu concessa
maggior libertà religiosa ai sunniti. Nel frattempo il regime reprimeva violente-
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mente la popolazione sciita, colpendone duramente anche il clero.


Caduto il regime, al-Dûrø sfruttò contatti, armi e denaro messi da parte e tra-
sformò la confraternita sufi cui apparteneva in una milizia antiamericana, l’Arma-
ta degli uomini dell’ordine Naq4bandø. Molto carismatico, a seguito della esecu-
zione di Saddam, nel 2007 fu nominato leader del partito Ba‘ñ ormai clandestino.
Fu ucciso solo nell’aprile di quest’anno, in uno scontro con una milizia sciita.
Durante gli anni dell’embargo, al-Dûrø era stato anche al vertice dei traffici il-
leciti e di contrabbando condotti dal regime, tanto da essere il mediatore di fidu-
cia in quelli condotti dai figli di Saddam e dal figlio del presidente siriano Õåfi‰
al-Asad. In particolare, avrebbe fatto fortuna sovrintendendo al contrabbando di 49
IL CALIFFATO, OVVERO L’ARROCCO SUNNITA IN SIRAQ

petrolio tra i due paesi durante gli anni dell’embargo. Inoltre, questa posizione
gli avrebbe permesso di stringere legami non solo con le bande criminali attive
nel settore, ma anche con le tribù siriane e irachene a cavallo tra i due paesi. Du-
rante la sua latitanza, si rifugiò in Siria coperto da connivenze politiche e tribali.
Infatti, dopo la caduta del regime in Siria avevano trovato rifugio migliaia di ira-
cheni compromessi col regime del ra’øs. La frontiera tracciata cento anni fa da
Sykes e Picot tra i due paesi non aveva tagliato i profondi vincoli tribali, di reli-
gione e di cultura delle popolazioni arabe sunnite dell’Est siriano e dell’Ovest ira-
cheno. Dal lato siriano le province di Õasaka, Dayr al-Zawr, e parte di Õimâ e
Raqqa, da quello iracheno Anbår, Ninive, Âalåõ al-Døn e parte di Diyålå costitui-
scono un blocco omogeneo di popolazione sunnita, di origine rurale e cultura
beduina, dove si intrecciano legami tribali, economici e storici. Le conseguenze
inaspettate delle «primavere arabe» hanno poi cementato ulteriormente l’identità
di quest’area, definita con azzeccato neologismo Siraq: sia a Bagdad che a Dama-
sco il conflitto era settario e vedeva il potere centrale opprimere i sunniti.

2. Le radici dello Stato Islamico (Is) risalgono all’arrivo in Iraq di Abû Mu‘âab
al-Zarqåwø e all’inizio delle operazioni terroristiche del suo gruppo Ãamå‘at al-
Tawõød wa ’l Ãihåd. Affiliatosi ad al-Qå‘ida nel 2004, rinominò il suo movimento
al-Qå’ida in Iraq e a suon di attentati e decapitazioni cercò di scatenare la guerra
civile tra sciiti e sunniti iracheni, sinché non fu ucciso nel 2006. L’insuccesso di
al-Zarqåwø fu principalmente causato dal fatto di non esser riuscito a ibridare la
sua organizzazione con la società locale, così rimanendo sempre un corpo estra-
neo. Tant’è che al momento della sua morte, complice la brutalità degli attacchi
contro la popolazione, il gruppo islamista era isolato.
È in queste circostanze che, nel 2007, gli americani vanno alla riscossa: la
New Way Forward annunciata da Bush e guidata da Petraeus vede l’arrivo di
nuove truppe Usa, che si concentrano sul supporto e sulla protezione della po-
polazione. Questo cambio di strategia comporta che le milizie tribali che compo-
nevano l’insorgenza sunnita cambino casacca, complice anche il soldo, o meglio,
il dollaro americano. In tal modo i gruppi armati delle province sunnite diventa-
no filogovernativi ed entrano nel Movimento del risveglio sunnita, la Saõwa. L’in-
sorgenza è ai minimi termini. Nel frattempo, il progressivo inserimento dei partiti
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sunniti nell’arco parlamentare sembra aprire la strada a una soluzione politica


della crisi. Al-Målikø, eletto primo ministro nel 2006, con le pressioni iraniane e le
armi riesce poi a sedare le milizie del mercuriale Muqtadå al-Âadr, cooptandolo
nel gioco politico. A questo punto, a opporsi al governo rimangono solo disarti-
colate bande di jihadisti irriducibili e nostalgici baatisti, che in buona parte fini-
scono uccisi o ad affollare le carceri irachene. Dunque, nonostante le ambigue
politiche del governo, la comunità sunnita e i suoi politici sembrano aver trovato
un ruolo nello Stato e un’alternativa alla lotta armata.
In realtà, quando le truppe americane lasciano l’Iraq alla fine del 2011, l’e-
50 quilibrio del paese è solo apparente. Infatti al-Målikø, liberatosi degli americani
LA STRATEGIA DELLA PAURA

ma non degli iraniani e delle pressioni del blocco sciita che lo sostiene, pencola
tra tentazioni autocratiche e una pericolosa politica settaria. Partiti e movimenti
sunniti sono indeboliti e soppressi, i politici sono spesso uccisi o incarcerati,
mentre le province sunnite ricevono ben pochi fondi e investimenti dallo Stato
centrale. La comunità sunnita si ritrova di nuovo emarginata, ripudiata da uno
Stato che de facto è controllato da milizie sciite e politici filo-iraniani. La Âahwa,
simbolo dell’orgoglio sunnita, scompare: il governo di Maliki smette di pagare le
milizie tribali, senza peraltro averle mai definitivamente istituzionalizzate o inclu-
se nelle forze di sicurezza.
Dunque è col prematuro ritiro americano che il vento della guerra civile ri-
comincia a soffiare sulle braci irachene. Solo che ora il Medio Oriente è comple-
tamente stravolto dalla «primavera araba». A soli due mesi di distanza dal ritiro da
Baghdad dell’ultimo marine, in Tunisia, Yemen, Libia ed Egitto le rivolte portano
al crollo dei regimi. È però la guerra civile siriana a costituire il contraccolpo più
forte e destabilizzante per l’Iraq.
All’inizio, il quadro è chiaro: «al-3a‘b yurød isqå¿ al-ni‰åm», ovvero «il popolo
vuole la caduta del regime». Solo che poi le cose si complicano. Innanzitutto i
moderati filo-occidentali si rivelano fragili militarmente e inconsistenti politica-
mente; secondariamente il regime ottiene l’appoggio iraniano e di Õizbullåh, per
poi oggi esser salvato per la collottola dall’intervento russo; terzo, ben presto en-
trano nell’arena siriana anche i qaidisti. E sono proprio i jihadisti a cambiare le
regole del gioco. Infatti col loro intervento da rivolta popolare la tentata rivolu-
zione siriana si trasforma nella ennesima guerra settaria mediorientale. Complice
di questa deriva è anche il regime stesso. Infatti, l’azzardo – peraltro riuscito –
con cui al-Asad si è salvato è stato quello di giocare in attacco contro l’opposi-
zione moderata, indebolendola, e di limitarsi a giocare in difesa contro le forze
jihadiste. Scomodando Sergio Leone, potremmo dire che il Brutto, ovvero il regi-
me, fa fuori il Bello, ovvero l’opposizione filo-occidentale, per costringere la co-
munità internazionale a dover scegliere tra lui e il Cattivo, ovvero i jihadisti. E
questa scelta, per l’Occidente, è praticamente obbligata.
La guerra civile siriana sin dall’inizio rappresenta un’opportunità strategica ir-
rinunciabile per i movimenti jihadisti, in quanto offre le condizioni per il jihåd e
per la nascita di un emirato: popolazione sunnita in rivolta, territori fuori control-
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lo, armi. Soprattutto però c’è un nemico empio, il regime dei nuâayrø 1 con i suoi
alleati råfiîa 2, contro cui lanciare il jihåd. Il network di al-Qå‘ida si attiva ed è
inevitabile che sia proprio dall’Iraq che arrivi il primo emiro, Abû Muõammad al-
Ãawlånø, che fonda Ãabhat al-Nuâra. In breve, questa milizia si impone come
principale forza jihadista e comincia a inglobare numerose altre milizie minori
nonché ad attrarre i primi foreign fighters. Nel 2013, quando i rapporti tra al-
Qå‘ida e l’Is precipitano, al-Ãawlånø si schiera con al-‡awåhirø e al-Nuâra si pone

1. Termine dispregiativo con cui vengono chiamati gli alauiti.


2. Termine dispregiativo, a valenza religiosa, con cui vengono chiamati gli sciiti. 51
IL CALIFFATO, OVVERO L’ARROCCO SUNNITA IN SIRAQ

in conflitto aperto con lo Stato Islamico. Ma è ormai tardi: di lì a poco l’Is gli ru-
berà la scena. E agli inizi del 2014 gli strapperà con le armi Raqqa, futura capitale
del «califfato».

3. A questo punto torniamo all’ineffabile ‘Izzat al-Dûrø e alle affollate carceri


irachene. Dopo la morte di al-Zarqåwø, il movimento jihadista iracheno – sotto
pressione e sulla difensiva – è più volte decapitato. Dopo Ayyûb al-Maârø e Abû
‘Umar al-Baôdådø, entrambi uccisi, nel 2010 viene eletto Abû Bakr al-Baôdådø,
ovvero il futuro «califfo». È sunnita, è iracheno e ha un dottorato in studi islamici,
ma soprattutto è un jihadista della prima ora e per questo è stato anche in carce-
re a Camp Bucca, prigioniero degli americani. Ed è proprio il carcere a fungere
da perverso moltiplicatore di forze per i jihadisti iracheni. Questi in cella si trova-
no fianco a fianco con gli altri grandi protagonisti della insorgenza, ovvero gli ex
baatisti. Anche se con diverse accezioni, sono accomunati dal medesimo nemico
e dalla medesima religione, sono legati da trasversali vincoli tribali e affratellati
dalla vita di clandestinità e carcere. Dunque il carcere funge da catalizzatore tra
le principali componenti dell’insorgenza: nazionalisti, baatisti e islamisti.
Per quanto ambigui e conflittuali, i primi legami tra islamisti e baatisti erano
iniziati a metà degli anni Novanta, con la campagna per il Ritorno alla Fede, gui-
data da al-Dûrø . Poi, con l’attacco americano nel 2003, il regime fa appello a tut-
te le sue risorse. Si intensificano i contatti tra il network delle due anime della in-
sorgenza irachena, ovvero la rete clandestina baatista composta soprattutto dalle
milizie dei Fidå’iyyû Âaddåm, e gli islamisti, a cominciare dai salafiti di Ansar al-
Islam. Il tutto sotto l’egida di al-Dûrø, primula rossa della resistenza antigovernati-
va 3. Lo scopo degli ex baatisti era di manipolare e sfruttare gli islamisti, trasfor-
mandoli in una sorta di «cavallo di Troia» con cui far deragliare il processo di ri-
conciliazione nazionale avviato da Washington.
Sta di fatto che, con la campagna per la Fede, il «contrabbandiere di Stato»
aveva celebrato il matrimonio tra le élite Ba‘ñ e gli islamisti sunniti. I figli di que-
sto insano connubio nasceranno quasi un decennio dopo nelle carceri. E sono
proprio i salafiti-baatisti che oggi costituiscono la leadership dell’Is.
Dunque, ex sostenitori di Saddam e jihadisti diventano le due facce della
stessa diabolica moneta, che però fa fatica a circolare nel paese apparentemente
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pacificato dal surge e dalla Âaõwa. Col ritiro americano, le cose cambiano: le car-
ceri si svuotano, la Âaõwa è smobilitata, il governo emargina i sunniti e il golem
salafita-baatista alza la testa. La dote portata dai baatisti ai movimenti armati isla-
misti è infatti ricchissima, ma tre elementi sono essenziali: la rete di connivenze
maturata in più di trent’anni di dittatura, l’expertise militare, amministrativa, fi-
nanziaria e logistica portata dagli ex quadri e funzionari del regime, oltre all’ap-
3. Sfruttando la rete di resistenza preparata da Saddam alla vigilia dell’attacco americano, ‘Izzat al-
Dûrø divenne uno dei principali pupari della insurgency; addirittura pare abbia fornito appoggi an-
che a Ãabhat al-Nuâra in Siria, mentre la sua milizia Naq4bandø si unì allo Stato Islamico nella con-
52 quista di Tikrøt.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

poggio di quei clan tribali sunniti che per decenni erano stati reclutati in blocco
nelle unità più fedeli al regime. È proprio tra ex ufficiali della Guardia repubbli-
cana speciale, come l’ex tenente colonnello Abû Muslim al-Turkmånø, o alti uffi-
ciali dell’Istiœbåråt 4 come Abû Ayman al-‘Iråqø o generali dell’Esercito come Abû
‘Alø al-Anbårø, tutti radicalizzati in carcere, che lo Stato Islamico recluta i suoi lea-
der più abili. Per inciso, il ruolo di numero due dell’Is è stato rivestito da due ex
saddamisti come al-Turkmånø – poi ucciso – e al-Anbårø. Il ruolo dei baatisti è
però fortissimo anche tra i governatori, gli emiri e i membri della 4ûrå 5 dello Sta-
to Islamico; ad esempio, i governatori del «califfato» a Mosul e a Tikrøt sono due
ex generali di Saddam.
C’è però un ulteriore passaggio da evidenziare. Molti degli appartenenti al
deposto regime passati allo Stato Islamico sono di tribù che gli erano tradizional-
mente fedeli, come i Ãubûrø e i Dulaymø. Inoltre, molti degli ufficiali baatisti era-
no al contempo anche sceicchi di queste tribù. A questo punto, è evidente che
l’Is è «Iraqi-friendly», riuscendo dove al-Zarqåwø aveva fallito. Il movimento è
«glocal»: attira volontari stranieri, ma non è percepito come alieno dalla popola-
zione, poiché vertici e quadri intermedi sono quasi tutti iracheni. Secondariamen-
te, l’Is parte sin dalla nascita con un discreto supporto popolare, quello dei clan
sunniti da cui provengono sceicchi ed ex militari legati al movimento.
La leadership irachena e i legami con alcuni clan non spiegano come nell’e-
state del 2014 l’Is travolga ogni resistenza e arrivi a controllare un territorio che si
estende quasi dalla periferia di Baghdad ad alcune zone di Aleppo, compresa
Mosul, la seconda città dell’Iraq.
Se cerchiamo un’immagine simbolo di questo successo dobbiamo guardare
a quanto avvenuto l’anno prima: è quella delle tendopoli di protesta contro il go-
verno comparse nelle città sunnite. I manifestanti chiedevano due cose, ovvero
la lotta alla corruzione e un miglioramento delle condizioni dei sunniti, in termini
di servizi pubblici, rappresentanza politica e ruolo nelle Forze armate e di sicu-
rezza. Målikø rispose con le armi e ci furono anche dei morti. Questa chiusura
costò cara non solo al premier, ma a tutto il paese. Målikø aveva tradito ogni
aspettativa sunnita, scardinando il fragile equilibrio ereditato dagli americani e
portando il paese a una crisi etnica e settaria. Se in politica interna aveva repres-
so ed emarginato i sunniti, a livello internazionale non era riuscito a mantenere
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un equilibrio tra le pressioni iraniane e le aspettative dei paesi arabi del Golfo,
sbilanciandosi troppo verso Teheran. Inoltre, Målikø era arrivato a porsi in rotta di
collisione con l’ayatollah Sistani, autorevole e limpido interprete dell’animo
profondo del paese, che lo «scomunicò» con una fatwå.
In questo contesto, fu facile per l’Is conquistare in pochi anni il favore delle
popolazioni sunnite di Iraq e Siria, e in pochi mesi quasi un terzo dell’Iraq, dopo
aver già sotto controllo quasi metà Siria. Così il Siraq sunnita e tribale è diventato

4. Servizio segreto del regime di Saddam.


5. Organo consultivo dello Stato Islamico. 53
IL CALIFFATO, OVVERO L’ARROCCO SUNNITA IN SIRAQ

il cuore di tenebra mediorientale dove si è annidato lo Stato Islamico. E non è af-


fatto un caso che le zone irachene cadute in mano all’organizzazione in larga
parte coincidano, se non eccedano, quelle del Triangolo sunnita, roccaforte di
Saddam. Era poi naturale che l’Is riuscisse a saldare questo triangolo con le con-
tigue province sunnite siriane, dove correligionari e abnå’ al-‘a4iøra 6 erano in
guerra con un regime empio, oppressivo e filoiraniano.
Peraltro, a favorire lo Stato Islamico sono state anche due macrodinamiche
in atto in tutto il Medio Oriente: la crescente radicalizzazione religiosa e le pola-
rizzazioni politiche conseguenti al confronto strategico tra il blocco sunnita, gui-
dato dall’Arabia Saudita, e quello sciita, guidato dall’Iran.
In altri termini, lo Stato Islamico ha riempito il vuoto di istituzioni statali dele-
gittimate se non apertamente ostili, e ha fornito ai sunniti l’unica alternativa politi-
ca al momento esistente. Non a caso, l’Is cerca di presentarsi come un modello di
governo antitetico alla corruzione e all’inefficienza di Baghdad e di Damasco.

4. L’attuale premier iracheno al-‘Ibadø ha mangiato la foglia. E ha fatto delle


riforme e della lotta alla corruzione i suoi cavalli di battaglia. Sinora ha attuato
misure più che altro simboliche, come la riduzione degli stipendi ai politici o la
riduzione dei ministeri; inoltre sono stati spiccati mandati di arresto per corruzio-
ne contro un ministro e un ex ministro e si parla di eliminare la Zona verde, vista
come una torre d’avorio dalla popolazione.
Il paese ha bisogno di riforme ben più incisive – e controverse – a partire
dall’approvazione della legge sulla Guardia nazionale e dalla revisione di quella
sulla debaatificazione, più altre misure per ricomporre la frattura settaria, riconci-
liarsi coi curdi e debellare l’Is.
Il problema è che al-‘Ibadø non ha la forza politica per imporle, perché ciò
significherebbe rivedere i rapporti settari e indebolire partiti e movimenti sciiti,
ovvero gli stessi che formalmente lo appoggiano. In particolare i politici sciiti –
al-Målikø in testa – temono che i tentativi di al-‘Ibadø di riequilibrare gli assetti del
potere portino alla liquidazione delle milizie sciite, longa manus dei vari partiti.
Gli sforzi di al-‘Ibadø sono concentrati sul rafforzamento delle Forze armate. In
tale direzione trova un forte appoggio occidentale, inviso all’Iran. In altri termini,
mentre il premier punta sull’esercito per rafforzare lo Stato e dare spazio anche
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ai sunniti, partiti e movimenti filoiraniani come la Organizzazione Badr e la Ahl


al-Õaqq premono per dare riconoscimento istituzionale alle milizie sciite del-
l’Õa4d 4a‘bø, addestrate dai pasdaran iraniani.
Lo scorso 2 novembre, accusandolo di aver travalicato i limiti costituzionali
con alcune sue iniziative, il parlamento ha revocato il mandato di al-‘Ibadø per
l’attuazione delle promesse riforme. Peraltro, il confronto tra al-‘Ibadø e i partiti
sciiti intransigenti è fortemente polarizzato soprattutto sul piano della politica
estera. I rappresentanti sciiti, infatti, dopo la recente creazione di un centro di in-

54 6. «Figli della (stessa) tribù», termine che indica i legami tribali.


LA STRATEGIA DELLA PAURA

telligence congiunto tra Iran, Iraq, Siria e Russia, premono per una sempre mag-
giore influenza di Mosca in Iraq. In definitiva il rischio è che al-‘Ibadø, sebbene
abbia il supporto dell’ayatollah al-Søstånø, di buona parte della popolazione e de-
gli Stati Uniti, finisca per essere isolato politicamente, e non riesca ad attuare al-
cuna riforma. E senza riforme, ovvero senza l’alternativa di una uscita di sicurez-
za, i sunniti continueranno a precipitare nel tetro tunnel dello Stato Islamico.
In conclusione, il vero game changer nell’attuale scenario mesopotamico so-
no ancora una volta le comunità sunnite, forse le uniche ad avere la capacità per
sconfiggere l’Is. Ma per questo occorre offrirgli un incentivo politico e un aiuto
militare. Dopotutto, il «califfato» è nato in Iraq ed è in Iraq che deve morire.

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55
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LA STRATEGIA DELLA PAURA

RAQQA, LO STATO ISLAMICO


E LE MATRIOSCHE SIRIANE di Lorenzo TROMBETTA
Nei territori siriani le milizie del ‘califfo’ non sembrano in seria
difficoltà. I bombardamenti russi e occidentali non producono
effetti strategici. Intanto, fra tutte le fazioni in lotta si scambiano
merci e prigionieri. E Israele sta a guardare.

«L’ ORGANIZZAZIONE DELLO STATO ISLAMICO


qui rimane. E si espande». Lo slogan appare sui muri bassi, scalfiti da proiettili
sparati chissà quando. A Raqqa, come a Mosul in Iraq, quella scritta in vernice
nera racconta una verità che a Mosca, Washington e Parigi sembrano ignorare.
Dopo gli attacchi di Parigi, gli improvvisi e intensi raid aerei francesi e russi su
Raqqa – la cosiddetta capitale dell’Is in Siria – sono stati uno spot pubblicitario
trasmesso dal presidente François Hollande e dal suo omologo russo Vladimir
Putin a uso e consumo delle opinioni pubbliche interne e straniere. Hanno com-
piuto danni materiali e hanno ucciso un numero imprecisato di persone tra civili
e jihadisti. Ma non hanno cambiato molto sul terreno. Perché l’Is rimane a Raq-
qa. E a Raqqa, come altrove, continua a prosperare.
Dopo quattordici mesi di bombardamenti della coalizione guidata dagli Stati
Uniti e un mese e mezzo di sporadici attacchi aerei di Mosca, la crescita dell’Is in
Siria è stata fermata solo in un caso eclatante, mentre in altri teatri l’organizzazio-
ne jihadista è potuta avanzare. A danno, in primis, delle fazioni di insorti nazio-
nalisti. Questi si trovano a fronteggiare sia i jihadisti sia l’asse russo-iraniano.
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Ben altro ci vuole per sconfiggere militarmente lo Stato Islamico. E anche se


il lavoro sporco sul terreno venisse affidato in maniera coordinata e continuativa
alle milizie curde – siano esse siriane o irachene – queste potrebbero operare,
come già avviene, solo nei territori a maggioranza curda. Non a caso, la recente
avanzata dei peshmerga e dei miliziani del Pkk nella regione yazida irachena di
Sinãår è avvenuta in una zona dove la popolazione locale è solidale con i «libe-
ratori» e ostile nei confronti di una «forza occupante», i jihadisti arabi.
Analogamente, in Siria le milizie curde hanno creato una fascia di sicurezza
tra il confine turco e la zona amministrata dall’Is solo nelle zone dove i curdi so-
no demograficamente maggioritari. Anche per questo la questione della lotta allo 57
58
IL TESORO SIRIANO
Giacimenti di petrolio Raffinerie
Oleodotti in costruzione
in progetto solo stoccaggio
Giacimenti di gas Impianti di T U R C H I A Tall (Ads
Gasdotti trasformazione del gas Qāmišlī
in progetto Terminal
petroliferi Mosul
in costruzione Hasaka
.
Kisik Kupri

S I R I A
Aleppo
Raqqa
Idlib
F. Eufra
te
I R A Q
Dayr al-Zawr
RAQQA, LO STATO ISLAMICO E LE MATRIOSCHE SIRIANE

Latakia Muhrada
.
Ḥamāh
CIPRO Tartūs

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. .
Arak
Ḥimṣ
Tripoli Palmira
Gandar Hadīt-a
LIBANO Dayr al-Zawr .

Beirut
Mar Mediterraneo (Adrā

Damasco Al Mayādīn

F.
Eu
f
ra
te

ISRAELE Dar(ā
Swaydā
Abū Kamāl
al-Mahata
. .
al-Tāniya
-
G I O R D A N I A
LA STRATEGIA DELLA PAURA

Stato Islamico non può essere disgiunta dal contesto siro-iracheno. E dalle guer-
re, in alcuni casi sovrapposte e incrociate, che da anni si combattono su questo
territorio tra attori locali, regionali e internazionali.
Tra questi conflitti a matriosca emerge il fatto che i jihadisti di Abû Bakr al-
Baôdådø e i loro nemici giurati dialogano sul territorio: non solo con le armi, ma
con scambi di prigionieri, con la gestione condivisa di risorse energetiche e con
accordi taciti, quanto temporanei, di non belligeranza per il controllo del territo-
rio e delle vie di comunicazione.
Un’altra costante registrata finora è che in Siria gli sforzi maggiori degli attori
occidentali sono diretti a fare la guerra – almeno retorica – allo Stato Islamico. E
non si interviene invece in maniera determinante nelle altre guerre in corso. Men-
tre la Russia e l’Iran agiscono nel solco della continuità, avendo rafforzato il loro
sostegno al governo di Damasco: dal 30 settembre l’offensiva russo-iraniana si è
concentrata in larga parte su obiettivi di insorti nazionalisti e qaidisti locali antigo-
vernativi. E solo dopo i fatti di Parigi, i caccia russi hanno cominciato a bombar-
dare con insistenza Raqqa. Per il resto, la Siria centro-settentrionale è in mano ai
lealisti ed è rafforzata ora da una cintura protettiva allestita durante le sei settima-
ne di raid aerei di Mosca e di offensiva di terra guidata da Teheran. È questo l’o-
biettivo minimo di russi e iraniani. L’obiettivo auspicato, ma per il momento diffi-
cile da raggiungere, è invece la riapertura dell’autostrada Õamå-Aleppo – parte
della Damasco-Aleppo – e la «liberazione di Aleppo e di tutto il Nord della Siria».
Questo mentre a Palmira (Tadmur) e nella regione di Õimâ l’Is non retroce-
de. In alcuni casi è addirittura avanzato. Solo a est di Aleppo i governativi sono
riusciti a rompere un assedio dell’Is a una base aerea militare. Ma anche in quel
caso, come negli attacchi aerei di Raqqa post-13 novembre, l’evento ha avuto più
risonanza mediatica che ricadute concrete sugli equilibri di terreno.
In questo quadro, continuano a prosperare i vari capi milizia in quota a tutte
le fazioni, che traggono beneficio dalla guerra e dalla frammentazione del territo-
rio. Si approfondiscono così i confini tra le zone di influenza locali, collegate ai
disegni di attori regionali e internazionali. Porzioni di Aleppo e di Idlib continua-
no a cadere sotto l’egemonia diretta o indiretta turca, con una compartecipazione
saudita e del Qatar.
La regione costiera, la Siria centrale, Damasco e parte del Sud sono in mano
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al duo Russia-Iran. I curdi gestiscono in semiautonomia – ma con l’obbligo di


non infastidire troppo Ankara – una fascia a ridosso del confine turco e un’encla-
ve nel Nord-Ovest siriano. L’Is controlla gran parte del corso dell’Eufrate: dalla
campagna di Aleppo fino al confine – formalmente abbattuto – con l’Iraq; oltre a
una nebulosa di territori a est di Õamå, Õimâ, Suwaydå’, e due enclave-simbolo,
rispettivamente alla periferia di Damasco e nel Qalamûn occidentale al confine
col Libano.
Quel che resta è parte delle regioni di Aleppo, Idlib, Latakia, Qunay¿ra,
Dar‘å e la Ôû¿a a est e a sud di Damasco. Queste aree, in molti casi senza conti-
nuità territoriale, sono spartite tra una congerie di gruppi armati delle opposizio- 59
RAQQA, LO STATO ISLAMICO E LE MATRIOSCHE SIRIANE

ni o che si definiscono parte delle opposizioni. Tra loro c’è l’ala siriana di al-
Qå‘ida (Ãabhat al-Nuâra), che ha però ruolo, forza e atteggiamento differenti a
seconda dei contesti in cui opera. Tra gli oppositori ci sono gruppi jihadisti, co-
me i Liberi del Levante (Aõrår al-3åm), che ideologicamente sono molto vicini al-
lo Stato Islamico, ma che se ne distaccano per tipo di finanziamenti e schiera-
mento geopolitico. Ci sono poi gli oppositori nazionalisti, reduci di quel che ri-
mane dell’Esercito siriano libero (al-Ãay4 al-sûriyy al-õurr). Alcuni di questi grup-
pi sono sostenuti a singhiozzo e con poca convinzione dagli Stati Uniti.
Riflessi in questo specchio appaiono come un’attraente scatola vuota i collo-
qui di Vienna. Sebbene sia stato il primo incontro al quale iraniani e sauditi ab-
biano partecipato dopo cinque anni dallo scoppio delle violenze, il tavolo vien-
nese non ha portato alcuna novità di rilievo alla questione siriana. Nella capitale
austriaca i grandi del mondo hanno di fatto rispolverato il comunicato di Ginevra
dell’estate del 2012 depurandolo però dei temi sensibili. Primi fra tutti il destino
del presidente siriano Ba44år al-Asad, che il 16 novembre scorso ha festeggiato il
quarantacinquesimo anniversario della presa del potere da parte del padre Õåfi‰.
L’iniziativa diplomatica è ora saldamente in mano a Mosca. Non poteva esse-
re altrimenti visto l’impegno militare diretto e il confronto con un’amministrazio-
ne americana così indecisa e balbuziente. Per il presidente russo Putin è un gio-
co da ragazzi guadagnare tempo, non escludendo ai suoi rivali la possibilità di
mollare la presa su al-Asad mentre rinnova ai suoi alleati la convinzione che l’at-
tuale presidente debba rimanere in sella. Ufficialmente, i partecipanti al tavolo di
Vienna si sono messi d’accordo nel fare pressioni sui rispettivi clienti siriani per-
ché questi si incontrino entro il 1° gennaio prossimo per avviare le trattative. Ma
le posizioni rimangono lontanissime. Almeno quelle degli attori politico-militari.
Esiste invece una società civile siriana che non si arrende, nonostante le dif-
ficoltà e le sofferenze delle rispettive comunità di riferimento. E lavora in silen-
zio, spesso clandestinamente, per ricomporre le realtà siriane. Per mettere in rete
esperienze di attivismo non violento oltre gli steccati ideologici, confessionali, et-
nici, geografici. La loro voce è poco ascoltata sia dagli attori di Vienna sia dai
media occidentali. Ed è spesso sovrastata dal rumore sordo della battaglia.
Vediamo allora da vicino la situazione nei territori siriani.
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Raqqa
Descritta come la «capitale dell’Is» in Siria, dalla primavera al giugno 2013
Raqqa è stata preda dei jihadisti, che l’hanno conquistata senza colpo ferire do-
po che le forze governative si erano ritirate, così come hanno fatto in seguito
con Palmira e Idlib. Lo stesso al-Asad, in una recente intervista, ha affermato
che nell’attuale conflitto ci sono delle regioni più prioritarie di altre. Raqqa non
è la priorità. Né per al-Asad né per la coalizione russo-iraniana intervenuta in Si-
ria con l’obiettivo dichiarato di combattere il «terrorismo».
60
LA STRATEGIA DELLA PAURA

L’intensità dei raid aerei post-Parigi non durerà a lungo e non costringerà i
jihadisti ad abbandonare Raqqa. A nord, le milizie curde sono attente a limitare
la presenza dell’Is a ‘Ayn al-‘Īså, località a metà strada tra Raqqa e il confine tur-
co. Ma i curdi non potranno essere usati da nessuna coalizione straniera per «li-
berare» dai jihadisti un territorio profondamente arabo, tribale e non certo favore-
vole all’espansione dell’influenza curda nell’area.

Dayr al-Zawr
La regione siriana che ha l’onore di consegnare l’Eufrate alla regione irache-
na di al-Anbår è fortemente dominata dall’Is. L’omonimo capoluogo è per lo più
controllato dai jihadisti. Ai lealisti rimangono solo alcune sacche periferiche, tra
cui l’aeroporto militare fuori città. La presenza diretta dell’Is nella regione è limi-
tata al corso del fiume e a parte della strada che verso ovest va a Õimâ e Dama-
sco passando per l’oasi di Palmira, anch’essa controllata dai jihadisti. La guerra
tra governativi e Is si accende a fasi alterne. Ci sono periodi – a volte pochi gior-
ni, a volte un paio di settimane – in cui l’Is annuncia di aver lanciato «l’offensiva
finale» contro lo scalo aereo, oppure i lealisti affermano di aver «dominato i terro-
risti». In realtà, come avviene altrove, le parti si parlano con o senza armi.
Negli ultimi mesi ci sono stati scambi di prigionieri. Non è raro che tramite
mediatori locali ci si accordi per la mutua fornitura di servizi essenziali, come ac-
qua, elettricità, combustibile domestico (måzût). L’inasprimento dei bombarda-
menti aerei su Raqqa nel post-Parigi e l’offensiva curdo-irachena in Sinjar hanno
reso la regione di Dayr al-Zawr una delle retrovie più sicure dello Stato Islamico.
L’area offre inoltre profondità strategica ed è un vitale collegamento tra Iraq e Si-
ria. Sebbene velivoli della coalizione abbiano di recente colpito alcuni impianti
petroliferi e convogli di cisterne attorno a Dayr, nessun pericolo diretto sembra
per ora minacciare il dominio jihadista in quella che i seguaci del «califfo» chia-
mano Provincia del Bene (Wilåyåt al-œayr).

Area curda
Secondo la recente riorganizzazione amministrativa del Kurdistan Occiden-
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tale (Rojava) elaborata dal governo curdo-siriano, la più estesa zona a maggio-
ranza curda è divisa in cantoni. Le forze di protezione popolari (Ypg) sono l’ala
armata e operano nelle zone a maggioranza curda che vanno dal confine tur-
co-iracheno a est all’Eufrate a ovest. Nei mesi e nelle settimane scorse non so-
no mancate denunce di organizzazioni umanitarie siriane e straniere di atti di
pulizia etnica compiuti dalle milizie curde a danno di comunità arabe dell’area.
Le autorità curdo-siriane hanno sempre respinto le accuse. E si propongono in-
vece come una forza politico-militare in grado di proteggere le comunità non
curde, di assicurare stabilità-e-sicurezza, nel rispetto dei principi di «pluralismo»,
«laicità» e «democrazia». 61
62
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RAQQA, LO STATO ISLAMICO E LE MATRIOSCHE SIRIANE

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Wilāyat al-hayr Base militare
(Provincia del Bene) (sotto il controllo dei lealisti)
Dayr al-Zawr al- Gafra

Wilāyat al-Furāt
(Provincia dell’Eufrate)

Aeroporto di Dayr al-Zawr


Lo Stato Islamico è diviso in province. (sotto il controllo dei lealisti)
La provincia dell’Eufrate rappresenta
l’abbattimento del confne siro-iracheno
stabilito durante la prima guerra mondiale ©Limes
LA STRATEGIA DELLA PAURA

È questo lo slogan dell’Esercito siriano democratico (al-Ãay4 al-sûriyy al-


dimûqra¿iyy), una neonata formazione a guida curda e sostenuta ufficialmente da
Washington, composta da una rappresentanza simbolica di arabi, turcomanni e
assiri cristiani. Finora, questo gruppo ha ottenuto successi importanti nel Nord-
Est siriano, a sud di Õasaka, nei pressi di al-Hawl, in corrispondenza con l’offen-
siva curdo-irachena a Sinãår, dall’altra parte del confine. Fonti Usa citate da me-
dia americani hanno riferito di aver inviato armi via terra e dal cielo all’Esercito
democratico anche nella regione a nord di Raqqa, controllata dalle milizie Ypg.
Per ora in quell’area i curdi riescono solo a tener testa ad alcune sporadiche sor-
tite jihadiste. E il fronte tra i due gruppi è attestato ad‘Ayn al-‘Īså.

Aleppo
La regione del Nord della Siria è divisa in diverse zone d’influenza. Lo Stato
Islamico controlla dall’Eufrate fino ad al-Båb. In quest’area ha tenuto sotto asse-
dio fino al 10 novembre la base aerea governativa di Kwayris. L’offensiva russo-
iraniana è riuscita ad aprirsi un varco da sud-ovest verso nord-est e ad assicurare
un collegamento tra la strada controllata dai lealisti e Kwayris. In precedenza i
jihadisti erano riusciti a tagliare le vie di rifornimento dei governativi che da
Õamå giungevano ad Aleppo, passando per Œanåâir-Iñriya. Per alcuni giorni, la
parte di Aleppo controllata dai lealisti è rimasta di fatto isolata.
La situazione su questo lato orientale del fronte è di stallo. E non ci sono
indicazioni che il regime di Damasco e i suoi alleati possano (e vogliano) spin-
gersi oltre Kwayris. L’altra guerra in corso nella zona di Aleppo è tra i lealisti,
appoggiati in maniera decisiva dai raid aerei russi e dalle truppe iraniane, e op-
positori armati tra cui figurano sia insorti nazionalisti (i «moderati» degli Usa) sia
i qaidisti di al-Nuâra. I lealisti hanno incontrato inizialmente alcune difficoltà a
sfondare le linee di difesa a sud di Aleppo, ma dai primi giorni di novembre si
sono aperti varchi nella regione rurale di al-Haîir. È possibile che l’avanzata
lealista prosegua con successo e si arrivi a espandere il controllo governativo
su alcuni quartieri della città. Non è escluso invece che le forze anti-Damasco
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riescano a organizzare la resistenza, trasformando l’attuale offensiva in una di-


spendiosa guerra di trincea.
A nord di Aleppo è inoltre ancora aperto il passaggio di terra usato dagli in-
sorti per ricevere uomini e mezzi dal confine turco. Questo corridoio nelle ultime
settimane si è però ristretto a causa dell’avanzata in contemporanea dell’Is e dei
lealisti contro postazioni di insorti: i jihadisti hanno attaccato da est, mentre le
truppe di Damasco da sud-est. Per il momento, anche quel fronte è tornato in
stallo. Così come da mesi è in stallo il fronte orientale di Aleppo, testimone dalla
scorsa estate di un’avanzata delle opposizioni che si sono poi attestate su posi-
zioni fuori città. 63
RAQQA, LO STATO ISLAMICO E LE MATRIOSCHE SIRIANE

Idlib
La regione di passaggio dalla Siria centrale al Nord è cruciale per i collega-
menti tra la zona controllata dal governo e quella in mano agli insorti di varie si-
gle. La regione rimane divisa in aree direttamente controllate dai qaidisti, altre af-
fidate a gruppi affiliati all’Esercito della Conquista (Ãay4 al-Fatõ), sostenuto da
Arabia Saudita, Qatar e Turchia, e da enclave di territori in mano a insorti nazio-
nalisti. La linea del fronte continua a passare lungo il confine amministrativo tra
Idlib e Õamå.
Oltre un mese e mezzo di raid aerei russi e di sostegno militare iraniano ai
lealisti non hanno alterato in modo significativo il rapporto di forza tra i gruppi
locali. Anche perché gli oppositori, rafforzati dall’arrivo di moderni razzi anti-car-
ro, hanno dimostrato un coordinamento senza precedenti, trasversale all’apparte-
nenza ideologica e all’affiliazione regionale. Vista da questa trincea, la manovra
di Mosca e Teheran di «combattere il terrorismo» si rivela sempre più una mossa
strategica per proteggere le linee di difesa di al-Asad in vista di eventuali nego-
ziati internazionali.
L’annunciata avanzata lealista non sarebbe diretta verso il capoluogo Idlib,
ma verso l’asse viario Œån 3ayœûn-Ma‘arrat al-Nu‘man-Saråqib, verso la periferia
Sud di Aleppo. Nel breve-medio termine non ci sono però indicazioni di un pos-
sibile stravolgimento degli equilibri militari.

La costa
La retrovia degli Asad e dei clan alleati al potere da circa mezzo secolo asso-
miglia sempre più a una provincia russa. Quello che era l’aeroporto internaziona-
le di Latakia è stato chiuso al traffico aereo civile ed è stato trasformato da set-
tembre in una base militare di Mosca. L’accesso e l’uscita dallo scalo sono protet-
ti da posti di blocco di soldati russi e non da forze governative siriane. La pre-
senza di militari stranieri è visibile a Latakia, il principale porto sul Mediterraneo,
e nelle altre città come Ãabla – vicina all’aeroporto – e ¡ar¿ûs. Nei primi giorni di
novembre è stata anche potenziata la tratta ferroviaria Ãabla-Latakia per consen-
tire, tra l’altro, il più rapido spostamento di soldati siriani e miliziani governativi.
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Ed è in questa regione, vicino all’enclave sunnita di Båniyås, che si trova una


delle principali fabbriche dei tristemente noti barili-bomba, da oltre due anni
usati dall’aviazione di al-Asad per colpire in maniera indiscriminata i civili di zo-
ne fuori dal controllo governativo.
Il fronte di guerra è sulle montagne a nord-est di Latakia, a sud del Monte
dei Curdi (Ãabal al-Akråd) e del Monte dei Turcomanni (Ãabal al-Turkmån).
Queste aree controllate da qaidisti e insorti sostenuti dalla Turchia sono da otto-
bre sotto il fuoco dell’aviazione russa e dell’offensiva lealista appoggiata da mili-
ziani libanesi õizbullåh, da militari iraniani e da milizie locali. Per il momento, le
64 forze governative e i loro alleati si sono limitati a controllare alcune alture dalle
LA STRATEGIA DELLA PAURA

quali ci si affaccia sulla piana di Ôåb, tra Õamå e Idlib. Per il resto, non si regi-
strano cambiamenti degni di nota delle linee del conflitto. L’obiettivo minimo
dell’offensiva lealista in quest’area è la protezione della regione di Latakia e di
tutta la costa. L’obiettivo più ambizioso è la riapertura del collegamento stradale
Latakia-Aleppo.

Õimâ e Õamå
La Siria centrale è esposta all’avanzata da est dell’Is. Che però non sembra
avere l’intenzione di varcare il Rubicone, tagliando l’autostrada Damasco-Õimâ-
Õamå. Da oltre un anno i jihadisti si trovano a poche decine di chilometri da Salå-
miyya, di fatto capitale dell’ismailismo, la comunità sciita caratterizzata, tra l’altro,
dall’alto numero di dissidenti e oppositori politici. Dal 2014 Salåmiyya e i suoi
ismailiti sono però protetti dagli õizbullåh (sciiti duodecimani) e dalle milizie loca-
li filo-governative, composte in larga parte di alauiti (altra branca dello sciismo).
A Salåmiyya come in tutto il Medio Oriente l’avvento dell’Is ha mutato la per-
cezione su chi sia la minaccia più pericolosa. Eppure, a Salåmiyya come a Õamå
la presenza dello Stato Islamico non significa solo paura, ma anche scambio di ri-
sorse. Per esempio, nelle stazioni di benzina di Õamå, città profondamente milita-
rizzata da truppe di Damasco, si vende alla luce del sole il måzût raffinato nelle
zone dell’Is (a Mosul, in Iraq, o a Dayr al-Zawr) accanto al più scadente prodotto
lavorato nelle zone governative. Sempre a Õamå è stata ampliata da agosto una
base militare per i russi che ora indirizzano nelle retrovie l’offensiva di terra sul
fronte di Idlib. Tra Õimâ e Õamå l’offensiva russo-iraniana non è inoltre riuscita a
«bonificare» le sacche di resistenza delle opposizioni a nord di Õimâ e alla perife-
ria orientale della città, ormai quasi del tutto sottomessa all’influenza iraniana.
Più a sud, nella zona di Õimâ, i jihadisti non sono arretrati ma sono avanzati
nell’area a maggioranza cristiana di Qaryatayn, Mahøn e Âadad. Sono vicini poche
decine di chilometri all’autostrada Damasco-Õimâ, ma per il momento non sem-
brano poter andare oltre. A metà novembre, i governativi sostenuti dai raid russi
hanno con successo riconquistato alcune colline a ovest di Mahøn.
Gruppi locali affiliati all’Is sono inoltre presenti a sud-ovest di Õimâ, nell’area
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

confinante col Libano e dominata dal 2013 dagli õizbullåh. Le due anime jihadi-
ste appaiono essere unite da una comune linea ideologica, ma divise da diverse
linee di comando e di interessi locali. Solo una débâcle governativa nell’area po-
trebbe consentire a questi due gruppi jihadisti di congiungere il Qalamûn orien-
tale con quello occidentale, a cavallo dell’autostrada.

Damasco
Dopo un inasprimento del conflitto attorno alla capitale, dai primi di novem-
bre sono in corso trattative «serie» per il raggiungimento di un cessate-il-fuoco tra 65
66
Suruç
T U R C H I A

Tall Abyad.
al-Bab Hasaka
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Idlib

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(momentaneamente
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RAQQA, LO STATO ISLAMICO E LE MATRIOSCHE SIRIANE

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Protetta da Hizbullāh
. Stato Islamico

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(sciiti duodecimani) e dalle
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milizie locali filo-governative (L’interno è desertico Dayr al-Zawr


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(in larga parte alauiti, altra


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Hamā le vie di comunicazione


i

. branca dello sciismo)


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tra le tre città sono


il centro logistico)
Salamiya

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. . Mayādīn
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-H. im.s
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Palmira
LIBANO al-Qaryatayn
Albūkamāl

Autostrada Da
Area sotto il controllo
dello Stato Islamico
Area prevalentemente
desertica ma sotto
il controllo dell’Is ©Limes IL CUORE DELLO STATO ISLAMICO
LA STRATEGIA DELLA PAURA

le forze governative e i gruppi di oppositori nella Ôû¿a, la zona suburbana a est


e a sud di Damasco. La Ôû¿a orientale è dominata dall’Esercito dell’islam (Ãay4
al-Islåm), una formazione sostenuta da finanziatori del Golfo, principalmente
sauditi, e guidata da Zahrån ‘Allû4: è uno dei numerosi estremisti islamici messi
in libertà da al-Asad tra il 2011 e il 2012 nell’ambito delle amnistie decise proprio
mentre proseguivano gli arresti di dissidenti, attivisti della società civile e opposi-
tori non violenti.
Da settembre, l’Esercito dell’islam e suoi affiliati hanno tentato di allargare
l’influenza a nord, nei pressi di Õarastå, con l’obiettivo di interrompere un tratto
dell’autostrada Damasco-Õimâ. A ottobre erano riusciti a controllare alcune zone
che minacciavano il passaggio di veicoli lungo quel percorso, ma i governativi,
sostenuti anche da raid aerei russi, sono riusciti a respingere gli uomini di ‘Allû4.
La Ôû¿a è da oltre due anni assediata dalle truppe lealiste e l’eventuale cessate-il-
fuoco potrebbe allentare la sofferenza della popolazione. Questa è sottoposta a
continui e indiscriminati bombardamenti aerei governativi (da ottobre anche rus-
si) ed è vessata dalla gestione mafiosa degli uomini di ‘Allû4, sicché subisce la
cronica penuria di servizi essenziali sanitari, medici, scolastici e alimentari. Non
stupisce dunque se alcuni quartieri periferici meridionali di Damasco, vicini al
campo profughi palestinese di Yarmûk, siano in parte dominati da fazioni dell’Is
che ha ripetutamente minacciato di entrare nel centro moderno della capitale. Il
gruppo jihadista sembra piuttosto intenzionato a tenere alta l’allerta presso i ne-
mici, senza potere (o volere) affondare il coltello oltre le linee.

Il Sud composito
Il Sud siriano è diviso in tre zone di influenza: una iraniana dominata da mi-
lizie õizbullah e governative; un’altra giordano-statunitense grazie alla presenza
di milizie di oppositori nazionalisti vicini al regno hascemita, uno dei principali
alleati regionali di Washington; una israeliana, esercitata indirettamente per non
alterare l’equilibrio militare oltre la linea del cessate-il-fuoco del 1974.
Un gruppo affiliato all’Is, il Battaglione dei martiri dello Yarmûk (Liwå’
4uhadå’ al-Yarmûk) controlla una fascia di territorio a pochi passi dal settore
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

meridionale e centrale delle Alture del Golan, dal 1967 in mano a Israele. Que-
sto gruppo jihadista locale è in rotta con al-Nuâra, che opera invece nelle re-
gioni rurali di Dar‘å. Negli stessi giorni in cui si consumava la strage a Parigi, il
leader dello Yarmûk è stato ucciso in un attentato compiuto e rivendicato dai
qaidisti locali.
Al-Nuâra a Dar‘å ha una postura però diversa da quella di Idlib. Il riferi-
mento ideologico è lo stesso, ma il contesto è diverso. E anche gli obiettivi dei
signori della guerra locali. Lo hinterland di Dar‘å al confine con la Giordania è
fortemente dominato dalla secolare struttura clanica della società e, più di re-
cente, della forte influenza di Amman. Il regno hascemita ha dal 2012 stretto 67
RAQQA, LO STATO ISLAMICO E LE MATRIOSCHE SIRIANE

un accordo non scritto con i gruppi armati del Sud siriano: questi assicurano il
mantenimento di una zona cuscinetto dove gli estremisti possono nuotare sen-
za però dare troppo fastidio.
Tra jihadisti e qaidisti del Sud-Ovest siriano è in corso una guerra nella
guerra. Israele è rimasto finora a guardare. Lo Stato ebraico è ben consapevole
che gli equilibri oltre il reticolato non cambieranno. E che le baionette dei mili-
ziani siriani non sono puntate verso Tiberiade ma verso chiunque osi sfidare il
loro potere locale. La priorità per Israele continua a essere quella di evitare che
le milizie filo-iraniane si avvicinino troppo alle Alture e che possano minacciare
gli insediamenti d’oltre cortina. In questo quadro, ai primi di novembre, si è re-
gistrato un nuovo attacco aereo israeliano contro presunti carichi e depositi di
armi di Õizbullåh nei pressi dell’aeroporto internazionale di Damasco, a sud-
est della capitale.
Dall’altra parte del Meridione siriano, nella regione di Suwaydå’ a maggio-
ranza drusa, controllata in larga parte da milizie governative, si vive uno stato
d’animo simile a quello vigente nella zona di Salåmiyya. L’Is è a poche decine di
chilometri e sfrutta il decennale malcontento dei beduini (sunniti) delle regioni
desertiche a est di Suwayda’. Ma lo Stato Islamico e i suoi affiliati locali si sono
finora limitati a sortite mirate contro postazioni governative, in particolare contro
la base militare di Œalœala. Nelle scorse settimane, la sicurezza interna a
Suwaydå’ è stata inoltre scossa da scontri tra milizie locali. Ma all’orizzonte del-
l’altopiano basaltico non si addensa per il momento nessuna nuvola che possa
far pensare a un cambio improvviso degli equilibri geopolitico-militari.

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68
LA STRATEGIA DELLA PAURA

AUTOBIOGRAFIA
(NON AUTORIZZATA)
DEL ‘CALIFFO’ di Giulio ALBANESE
Limes ha chiesto a un analista esperto del contesto in cui vive
il sedicente califfo Abû Bakr al-Baôdådø di provare a mettersi
nei suoi panni. Ripercorrendo passo per passo i percorsi che lo
hanno elevato al rango attuale.

A
si fa più buia e non riesco ad addormentarmi al termine di una giornata lunga e
NCORA ADESSO, QUANDO LA NOTTE

tesa e di un’ininterrotta teoria di persone che pretendono da me la soluzione di


ogni loro problema, mi viene istintivo riandare con la memoria – mentre giaccio
sdraiato sul divano o sul letto che mi ospiterà per quella notte, e per quella sol-
tanto! – al periodo trascorso in prigionia, nelle strutture americane di detenzione
di Camp Adler e Camp Bucca, nel Sud del nostro paese.
Ci penso per ore. Il sonno non è facile quando sai che la morte può rag-
giungerti in ogni momento. Una morte silenziosa, che arriva dal cielo ed è pilota-
ta da una macchina. Dietro cui c’è un uomo, è vero, ma si tratta di un uomo che
è diventato anche lui quasi una macchina e che gioca con un joystick come se i
suoi droni fossero parte di un videogioco… e io un Packman o magari un Super-
mario, da inseguire e uccidere. Un uomo che se ne sta dall’altra parte del mon-
do, in Alabama, in Florida o in Sud Dakota e che finito l’orario di lavoro passerà
magari a un altro grigio impiegato i comandi dell’apparato e andrà a mangiare a
casa, dove l’attendono i suoi bambini – che lui ama, come del resto io amo i
miei – e una moglie che gli chiederà della giornata e a cui lui risponderà «routi-
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

ne!», anche se quello sarà il giorno in cui sarà riuscito a uccidermi.


Che morte triste, grigia e oscura sarebbe! E che differenza dai tempi eroici
della prima ondata di espansione dell’islam, quella che sogno di ripetere, quan-
do Ibn ‘Amr conquistava il Cairo, ¡åriq passava lo Stretto di Gibilterra e sotto-
metteva al-Andalus, mentre ‘Alø al-Walød, «la spada dell’islam», attraversava come
un bagliore scarlatto i campi di battaglia! C’era onore allora, c’era gloria! E la
morte poteva essere qualche cosa degna di una poesia o di un racconto, riem-
piendo per secoli i sogni di tutti coloro che volevano divenire guerrieri. Oltretut-
to Iddio, nella sua infinita generosità, ci aveva fatto dono dei due animali da
guerra più belli che esistessero: il cavallo, straordinario nel suo impeto e nel mo- 69
AUTOBIOGRAFIA (NON AUTORIZZATA) DEL ‘CALIFFO’

do in cui si fondeva in battaglia col cavaliere che lo montava sino a che i due di-
venivano una cosa sola; e il cammello, ammantato di un livello di dignità tanto
incredibile da arrivare a far dimenticare le vette della sua sgraziata goffaggine.
Ma è inutile che io mi lamenti e rimpianga. La realtà con cui devo fare i con-
ti ora è ben diversa. Una realtà di diavolerie elettroniche che non hanno margine
di errore nel momento in cui ti hanno individuato. Che ti infilano un missile nel-
l’orecchio, come successe al capo ceceno Dudaev quando parlò nel cellulare di
cui i russi avevano individuato il numero. Che scoprono il covo in cui ti stai na-
scondendo a dispetto di tutte le precauzioni che hai preso e le complicità di al-
tissimo livello di cui godi. Come si è verificato con il migliore di noi, Osama bin
Laden. O che colpiscono magari quando stai seduto a un pranzo di nozze – con
buona pace dei cosiddetti «danni collaterali», ma anche l’Occidente è capace di
avere il suo bel pelo sullo stomaco! – dopo che qualcuno di coloro che tu hai
più vicini e che stimi come amici ti ha tradito per incassare la taglia principesca
che pende sul tuo capo.
Io non uso mai né telefoni né altre attrezzature elettroniche, un obbligo che
mi sono imposto e che faccio rispettare anche a tutti coloro che mi sono vicini.
Non sto mai fermo e non passo mai due notti nello stesso luogo. È facile anzi –
succede spesso – che completi la notte in un luogo diverso da quello in cui l’ho
iniziata. Ciò che temo di più è quindi il tradimento. È la ragione per cui non ho
mai designato un delfino, né mai lo farò: perché dovrei farlo? Per tentarlo? Per-
ché si metta d’accordo con gli americani per eliminarmi e prendere il mio posto?
È sfiducia negli uomini? No, è semplicemente conoscenza di tutto ciò che es-
si possono fare, nel bene e nel male. Mantengo così ben potato il mio boschetto,
in modo tale che nessun albero possa svettare divenendo tanto grande da poter
far da solo, anziché trarre la propria forza unicamente dalla foresta che lo circon-
da.
Cosa possano essere e fare gli uomini, proprio a Camp Adler e a Camp Buc-
ca lo ho imparato. Alla fine il periodo di detenzione si è rivelato per me una
grande scuola, che ha completato la mia preparazione. È stato un periodo diffici-
le, duro al limite del disumano, in cui almeno all’inizio mi sono chiesto anch’io
se non sarebbe stato meglio cedere, lasciarsi andare e smettere di combattere co-
me facevano in tanti. Invece ho resistito, indurendomi progressivamente e sco-
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prendo dentro di me risorse che non avrei mai pensato di avere e di cui forse in
altre circostanze mai avrei sospettato l’esistenza.
Due fattori fra tutti gli altri mi hanno aiutato a non cedere. In prima istanza
l’orgoglio, un sentimento classificato sempre come vizio, ma che in circostanze
particolari si trasforma in virtù. Poi il senso del gruppo, dal momento in cui ho
scoperto che fra noi c’erano altri della mia stessa pasta, che non intendevano
piegarsi ed erano disposti a perdere anche la vita pur di mantenere la dignità in-
tatta e non rinunciare ai propri sogni.
Così proprio a Camp Adler e a Camp Bucca ci siamo trovati e riconosciuti
70 mettendo insieme capacità, aspirazioni e progetti sino a formare quella massa
LA STRATEGIA DELLA PAURA

critica di intelligenze e volontà che è indispensabile per far maturare un grande


disegno. I carcerieri americani passavano e controllavano, sequestrando tutto
quanto appariva sospetto, ma per fortuna non ebbero mai l’idea di mantenerci
separati. Disponevamo così in abbondanza della risorsa più preziosa di tutte,
quella che sempre difetta e molto spesso manca del tutto: il tempo. Nei campi
avevamo tutto il tempo che volevamo per maturare idee e progetti, sottoporli a
confronto e dibattito, migliorarli, riesaminarli e via di questo passo, con un ciclo
a spirale che si ripeteva in continuazione, come quando nei tempi andati si tem-
prava la lama di una spada e l’acciaio bisognava batterlo e ribatterlo e ogni volta
usciva migliorato dal crogiolo.
Quando siamo usciti dalla prigionia, rilasciati nel momento in cui i nostri
carcerieri stavano per andarsene dal paese e la situazione dell’Iraq sembrava
aprirsi a una prospettiva di relativa stabilità, sapevamo con precisione cosa vole-
vamo e come ci saremmo mossi tutti insieme per realizzare i nostri progetti.
Lo scenario oltretutto appariva particolarmente favorevole. Il mondo stava
cambiando con una rapidità tale da aprire grandi spazi all’ambizione e all’auda-
cia. I vecchi controllori, «i gendarmi della pace» di un tempo, apparivano logorati,
stanchi, desiderosi solo di tornarsene a casa rifilando prima possibile a qualcun
altro – chi fosse non importava, purché apparisse presentabile, almeno all’inizio,
alla loro opinione pubblica – il costoso compito di estrarre in continuazione, con
paziente tessitura, l’ordine dal caos. Nel vuoto di potere che in questo modo si
veniva a creare si scontravano le aspirazioni di potenze regionali in crescita, in
competizione fra loro per ritagliarsi aree di influenza quanto più ampie possibili.
Sull’area dell’Iraq e della Siria, in particolare, si concentravano le brame del-
l’Iran, della Turchia, dell’Egitto, dell’Arabia Saudita, di alcuni degli emirati del
Golfo. Un vero e proprio osso polposo, conteso da un branco di cani che non
voleva rischiare un coinvolgimento diretto ma che non lesinava mezzi, incita-
menti e sostegni per attizzare scontri intestini, giostrando sulla pluralità religiosa
dei credo praticati nell’area.
La religione, già proprio quella! La migliore delle eredità giunte a noi attra-
verso i secoli diveniva motivo e strumento del contendere, era sbandierata dall’u-
na e dall’altra delle parti in contrasto, veniva trasformata in veicolo per esaltare
ambizioni molto terrene. Ma del resto da noi è sempre andata così e la religione
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è costantemente rimasta al centro della nostra vita e della nostra storia: l’Iraq e la
Siria sono state le terre degli Abbasidi e degli Omayyadi, le due più grandi dina-
stie di califfi e il termine «califfo», è bene non scordarsene, significa successore.
Ovviamente del Profeta, che Dio benedica il suo nome!
E non è poi che le cose siano andate molto diversamente nei paesi che ci
circondano e che aspirano al primato regionale. L’Arabia Saudita è dominata da
una famiglia che ha avuto accesso al potere e al potere si mantiene solo grazie a
una simbiosi col credo wahhabita, proteso da sempre verso una costante espan-
sione che dovrebbe portarlo a dominare tutta la comunità dei credenti. L’Iran è
dominato, da più di una generazione ormai, da un clero rigidamente strutturato 71
AUTOBIOGRAFIA (NON AUTORIZZATA) DEL ‘CALIFFO’

che ne ha fatto il campione del mondo sciita. In Egitto la Fratellanza musulmana


rimane onnipresente anche se messa al bando, mentre l’Università di al-Azhar re-
sta il polo intellettuale per eccellenza di noi sunniti. In Giordania la dinastia ha-
scemita mantiene il trono solo perché nelle sue vene scorre il sangue del Profeta.
In Turchia infine l’idea di laicità del paese, che Atatürk aveva lasciato al popolo e
affidato alla custodia dell’esercito, sembra definitivamente sconfitta e il presidente
Erdoãan finirà col ricordarsi prima o poi che per secoli il sultano ottomano ha ri-
vestito anche la dignità di califfo dell’intero mondo islamico… e col rimpiangere
quei tempi.
E del resto perché non strumentalizzare la religione, l’unico fra i nostri co-
muni valori che rimanga intatto e sia passato indenne attraverso tutte le tempeste
della storia? Nel mondo arabo in particolare è soltanto essa che ancora siede in-
tatta sul cumulo di macerie materiali e ideologiche lasciate da tutti i governi che
hanno tentato di governarci e che sono invece riusciti solo a opprimerci. Gli
Omayyadi, gli Abbasidi, i Fatimidi, il Vecchio della Montagna: tutti passati! Mame-
lucchi: passati! Il sultano ottomano: passato! I governi coloniali: passati! Il sociali-
smo arabo: passato! Le pseudodemocrazie ispirate all’Occidente: passate! E poi
un misto che comprendeva tutto: democrazie, regni, dittature, partiti… tutto pas-
sato e ogni crollo aggiungeva macerie al mucchio. È venuta infine la primavera
araba e anche essa è passata con una rapidità proporzionale alla sua fragilità.
Macerie, ulteriori macerie.
Vi sembra strano che a questo punto anche a noi, chiusi a Camp Bucca e già
accusati di aver fatto del fanatismo religioso la matrice di una lotta che il nostro
carceriere americano definiva come terroristica, sia sembrato logico non soltanto
continuare per la strada intrapresa, ma cercare altresì di massimizzare tutto il
supporto che la religione poteva fornirci in vari modi? La scelta di insistere sulla
religione è stata dunque facile, obbligata. Altrettanto facile è stato decidere qua-
le orientamento religioso scegliere fra i numerosi rami cresciuti nei secoli dal vi-
goroso albero dell’islam.
La religione doveva infatti essere per tutti noi una bandiera capace di riunire
dai quattro angoli del globo un popolo disperso, un urlo che risvegliasse la gen-
te dal suo torpore, un motivo per cui valesse la pena vivere ed eventualmente
morire, un ricordo e una nostalgia del passato, una speranza per il presente, un
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sogno di speranza e riscatto per il futuro. Posti di fronte al problema della scelta
abbiamo così deciso di risolvere il problema non risolvendolo, scegliendo cioè il
tronco dell’origine e non uno dei suoi rami e facendo riferimento all’islam puris-
simo delle origini, quello che il Profeta – sia lode al suo nome benedetto! – illu-
strava agli anâår, ai propri compagni.
Non è stato facile, una volta usciti di prigione e ripresa la lotta, riuscire a far
sì che la comunità dei credenti giungesse a identificarci con quel tipo di religio-
ne. Non eravamo infatti i soli ad aver avuto questa idea e il novero di quanti mi-
ravano a ricoprire il ruolo si presentava particolarmente ampio. Sul piano dottri-
72 nale c’erano i wahhabiti e i salafiti, nonché altre sètte minori fattesi avanti da
LA STRATEGIA DELLA PAURA

tempo, ciascuna appoggiata da una costellazione di sostenitori più o meno im-


portanti. Dal punto di vista pratico, esisteva poi tutta una serie di movimenti
estremisti – al-Qå‘ida il maggiore e il più conosciuto di essi – che buona parte
del mondo islamico considerava ormai come i campioni di un ritorno alla purez-
za delle origini propiziato e accelerato dall’uso della violenza.
Nel primo periodo della nostra azione dovemmo quindi procedere con cau-
tela e mettere in atto quelle astuzie di guerra che il nostro credo ci consente,
purché siano indirizzate a buon fine. Siamo entrati così in altri movimenti e vi
abbiamo fatto carriera, acquisendone le tecniche, studiandone le strutture, affa-
scinando coloro con cui lavoravamo e salendo poco per volta i gradini del co-
mando sino a quando non siamo stati in grado di rivelare alla luce del sole la
nostra forza e di seguire senza più nasconderci una strada divenuta palesemente
e unicamente nostra.
A quel punto intervenire in Siria e in Iraq diveniva la strada ideale per inizia-
re a ricostruire la dår al-salåm, la casa della pace in cui l’islam regna (o dovreb-
be regnare) da incontrastato sovrano. Recuperare tutto ciò cui Iddio nella Sua
gloria e nella Sua luce ci ha dato diritto, riconquistare territori che un tempo
splendevano della nostra fede e cultura e che da secoli sono caduti nelle mani di
altri, riportare le nostre bandiere nelle fortezze della cristianità facendole garrire
al vento sulla Spagna, sulla Francia meridionale, sulla Sicilia, su Malta, sui Balca-
ni, sulla Crimea, sul Caucaso, respingere e progressivamente distruggere le schie-
re dei nuovi crociati per annientarli poi con un unico colpo mortale come fece il
Saladino (Âalåõ al-Døn) ai Corni di Hattin (Õi¿¿øn). Si può immaginare un sogno
più bello e più glorioso per riempire la propria vita e accettare eventualmente
con serenità e gioia anche la propria morte?
Così ci mettemmo in marcia nelle aree sunnite di due paesi in cui la popola-
zione era ormai matura per seguire chiunque riuscisse a darle una speranza di
affrancamento da un giogo sciita che si era fatto sempre più duro negli anni, si-
no a divenire insopportabile. In Iraq i governi centrali avevano infatti disatteso
per ben due volte le aspettative dei nostri correligionari che avevano accolto con
gioia la caduta di Saddam Hussein, considerandola come la premessa di un’èra
di democrazia e buona amministrazione. Col tempo era divenuto chiaro come gli
sciiti, massicciamente sostenuti da Teheran, non avessero intenzione di cedere al-
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la loro controparte sunnita nemmeno le briciole del potere che aveva finito con
l’essere interamente concentrato nelle loro mani. Alla delusione dei primi tempi,
sfociata in numerosi episodi di resistenza armata, se n’era poi sommata una se-
conda, innescata dalla violazione da parte del governo al-Målikø delle promesse
che gli americani avevano fatto alle tribù sunnite per convincerle ad appoggiare
la riconquista del generale Petraeus.
A quel punto non vi era ancora guerra nella parte dell’Iraq che ci interes-
sava, ma si viveva in uno stadio preinsurrezionale di totale insoddisfazione, co-
stellato di quotidiane violenze, di terrorismo di varie e differenti matrici, di cri-
minalità rampante, di povertà e disoccupazione, di malgoverno che a volte 73
AUTOBIOGRAFIA (NON AUTORIZZATA) DEL ‘CALIFFO’

giungeva addirittura a registrare la completa assenza dell’ordine e della legge.


L’esasperazione collettiva era tale che i cittadini apparivano pronti ad accettare
chiunque fosse capace di imporre, non importa con quali mezzi, una forma
qualsiasi di ordine. Noi ci infilammo in questo vuoto, sfruttando la loro aspira-
zione e dando alle tribù sunnite d’Iraq ciò che esse in quel momento più desi-
deravano: una regola!
All’inizio non eravamo molti, al punto che per qualche tempo gli amici di
Camp Bucca e di Camp Adler furono sufficienti a controllare le nostre poche
unità. Poi riuscimmo progressivamente ad attivare tre forme privilegiate di reclu-
tamento, coinvolgendo dapprima i vecchi quadri delle Forze armate di Saddam
Hussein, che ci portarono in dote la loro expertise militare; poi la diaspora inter-
nazionale dei jihadisti che avevano fatto della loro vita un combattimento ininter-
rotto per la causa e la fede, e che resero l’intero mondo islamico compartecipe
della nostra lotta; infine, e questo fu l’apporto più prezioso in termini di numeri,
entusiasmo e impatto psicologico sui crociati del cosiddetto Occidente, arrivò l’i-
slam di seconda o terza generazione delle periferie frustrate delle grandi città eu-
ropee, americane e russe.
In Siria le cose furono per molti aspetti più difficili, per altri decisamente più
agevoli. Lì ci inserimmo in una guerra civile feroce che l’accentuato frazionamen-
to delle forze antigovernative aveva trasformato in una guerra tra bande. Dopo
anni di combattimenti e di orrori da entrambe le parti il presidente al-Asad, pur
essendo soverchiato dal numero dei combattenti avversari, riusciva ancora a resi-
stere a Damasco e a tenere in tutta l’area sciita grazie proprio al frazionamento e
al fatto che le milizie, disposte a battersi fino alla morte per difendere la propria
città o zona, da esse non amassero allontanarsi. La situazione era resa ancor più
complessa dal fatto che ciascuna delle varie fazioni aveva trovato uno o più
sponsor in potenze regionali disposte a rifornirle di armi e denaro e a procurare
magari l’appoggio degli Stati Uniti, alla disperata ricerca di «moderati» disposti a
combattere e a morire al posto dei loro soldati. Come se fosse possibile che
qualcuno privo di una fede assoluta ed estrema nella propria causa e nel proprio
buon diritto sia disposto a mettere sul tavolo una posta tanto alta come la pro-
pria sopravvivenza!
Per inserirci in Siria anche noi abbiamo approfittato, come al-Asad, del fra-
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

zionamento dei nostri numerosi compagni di strada, associandoceli allorché ci


conveniva e combattendoli quando rifiutavano di seguirci. Un procedimento a
corrente alternata che è durato sino a quando l’impressione che stessimo vincen-
do non ha dato origine anche qui a un effetto di trascinamento, con la gente che
faceva la corsa per salire in tempo utile sul nostro carro e magari consegnarci le
armi ricevute la settimana prima dagli Stati Uniti.
Abbiamo veramente vinto? Per almeno due aspetti di sicuro. Da un lato in-
fatti, con la mia proclamazione a «califfo» abbiamo piantato un nuovo seme di
universalità e unicità nella umma, la comunità dei credenti. Un seme che in futu-
74 ro sarà ben difficile se non impossibile sradicare. Dall’altro abbiamo dimostrato
LA STRATEGIA DELLA PAURA

TURCHIA

S I R I A
Raqqa Mosul
Conquistata nel 2013 Conquistata nel
Mar giugno 2014; I R A N
dopo una cruenta battaglia

F. Tig
proclamazione

F.
Mediterr. diventa capitale de facto

Eu
dello Stato Islamico del Califfato

fra

r
Anni‘90, formazione teologica

i
te
all’Università Saddam Hussein
Sāmarrā’ per studi islamici, si unisce
LIBANO DAMASCO Città natale, 1971 anche ai Fratelli musulmani
2005 viene mandato da alcuni
sodali di al-Qā’ida in Iraq 2007, torna nella capitale per discutere
per aiutare la macchina la sua tesi di dottorato in scienze coraniche,
della propaganda Ramādī si laurea con una votazione eccellente
Conquistata nel 2014, secondo
avamposto iracheno dell’Is BAGHDAD
Fallūğa
E
AEL

2004, viene arrestato


dagli americani mentre
ISR

fa visita a un amico ricercato


Conquistata nel 2014 I R A Q
prima roccaforte
irachena dell’Is

G I O RDA N I A Umm Qasr


.
Camp Bucca
Luogo di detenzione
dopo l’arresto a Fallūğa
A R A B I A S A U D I T A

Golfo
KUWAIT Persico

AUTOBIOGRAFIA DEL CALIFFO ©Limes

come fosse ormai tempo di ridisegnare le frontiere di quest’area del Medio


Oriente, tenendo accuratamente conto di tutti gli elementi a suo tempo trascurati
dalle potenze europee che fissarono i confini. Cosicché quando l’Occidente si
sveglierà e i nuovi crociati, o peggio alcuni dei regimi arabi loro lacchè ci di-
struggeranno sul campo, quello che abbiamo realizzato qui non si potrà cancel-
lare del tutto. Rimarrà in ogni caso un nuovo Stato sunnita che ricoprirà l’area
della Siria e dell’Iraq da noi conquistata e liberata.
In molti altri settori la situazione invece è ancora incerta. Un sondaggio di
Aljazeera ci attribuisce un livello di simpatie pari a circa l’80% in tutto il mondo Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

arabo. Ora però stiamo vincendo; cosa succederà se e quando inizieremo a per-
dere? Gli arabi non amano i perdenti! E poi come sono distribuite le nostre simpa-
tie? Chi ci ama, le masse o le élite? E come ci amano, con il cuore o con la mente?
Sono interrogativi importanti, cui per il momento non sappiamo dare risposta.
Sappiamo invece molto bene come e quanto l’Occidente ci tema e quanto di
conseguenza ci odi. È un odio che abbiamo ricercato e costruito con tutti i mezzi
possibili, per rinforzare quella contrapposizione fra «noi e loro» che dovrà rima-
nere tanto dura da non consentire che qualcuno nutra un giorno la tentazione di
mediare, onde rimettere insieme le due parti della mela. Rendendo di conse-
guenza vano tutto ciò che noi abbiamo fatto e patito per far trionfare la verità! 75
AUTOBIOGRAFIA (NON AUTORIZZATA) DEL ‘CALIFFO’

Siamo così arrivati a estremi in altri tempi inconcepibili nell’attaccare le due


cose che l’Occidente più considera: il rispetto della vita umana da un lato, della
bellezza e dell’arte dall’altro. Lo abbiamo fatto con una crudeltà tanto più assolu-
ta in quanto del tutto fredda, impersonale, con prigionieri che le tenute arancioni
rendono tutti eguali, quasi si trattasse di robot o peggio di un gregge di pecore.
E proprio come pecore li abbiamo fatti sgozzare, uccisi da un boia mascherato e
vestito di scuro, in modo da far diventare anche lui una macchina o addirittura
l’uomo nero e cattivo dei racconti che ci facevano da bambini. Con la stessa
fredda impassibilità abbiamo poi infierito sui monumenti più significativi delle
aree conquistate, ben consci che cancellare Ninive o dinamitare Palmira signifi-
casse non solo ridurre in polvere blasfemi tentativi di scimmiottare l’inimitabile
capacità creatrice di Dio, ma anche tagliare una volta per tutte radici insostituibili
della storia e della cultura dei nostri nemici.
Finora il terrore usato come arma ha funzionato perfettamente. La coalizione
creata dagli americani per combatterci si limita a colpire dall’aria, senza osare
mettere piede a terra. I russi sembrano più intenzionati a rinforzare al-Asad –
rendendo coerente e quindi meglio difendibile l’area protetta dai suoi alauiti e
dalle altre minoranze siriane che l’appoggiano – che a guidare una riconquista
delle zone da noi occupate. L’Europa è bloccata da egoismi e paure che i nostri
attentati, programmati con un accurato scadenzario, le impediscono di superare.
Nel frattempo il nuovo esercito iracheno fugge o combatte male, mentre le uni-
che milizie guidate da un livello di convinzione paragonabile al nostro – gli sciiti,
i curdi, gli yazidi e i loro alleati iraniani e libanesi – non osano affacciarsi nelle
aree siro-irachene a maggioranza sunnita.
Comunque non mi illudo. Gli Stati Uniti e l’Europa sono magari lentissimi a
svegliarsi, ma quando finalmente escono dal loro torpore diventano un rullo
schiacciasassi che polverizza qualsiasi ostacolo gli si pari davanti. Prima o poi ar-
riverà quindi l’ondata che ci spazzerà via, distruggendo sino all’ultimo i nostri
mezzi e uccidendo uno dopo l’altro tutti i nostri uomini. Ma noi siamo solo un’a-
vanguardia e anche se trionferanno su di noi ci saranno altri compagni di fede
che verranno a prendere il nostro posto, accendendo nuovi focolai in luoghi di-
versi. Già siamo riusciti a espanderci al di là di ogni più ottimistica previsione;
inoltre movimenti che si rifanno a questo «califfato» e ne accettano la guida, pur
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

mantenendo caratteristiche locali, esistono in più di venti paesi diversi e molti di


loro controllano già ragguardevoli porzioni di territorio. Il giorno che Iddio vorrà
tutti questi fuochi sparsi finiranno con l’unirsi, trasformandosi in un grande rogo
che illuminerà la nostra inevitabile vittoria.

76
LA STRATEGIA DELLA PAURA

IL SENSO DI DĀ‘IŠ
PER LO STATO di Emanuela C. DEL RE
Il ‘califfato’ è organizzato come una struttura statale, con i suoi
dicasteri, le sue province, i suoi servizi al pubblico. Di fatto si dedica
a depredare i territori, da cui estrae le risorse che lo preservano.
Se vogliamo colpirlo, facciamo leva sulla sua burocratizzazione.

1. D Å‘IŠ È CRIMINALITÀ ORGANIZZATA,


movimento apocalittico violento, o uno Stato? Quali sono state le trasformazioni
strutturali che ha subito dalle sue origini come Ãamå‘at al-Tawõød wa-al-Ãihåd
(Gruppo del monoteismo e del jihåd) alla sua alleanza con al-Qå‘ida, alla sua or-
ganizzazione in Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, all’attuale strutturazione in
«califfato» sotto la guida di Abû Bakr al-Baôdådø? Le informazioni sull’attuale strut-
tura di Då‘i4 (lo Stato Islamico) sono finora state fornite da combattenti fuoriusci-
ti, da dati diffusi dall’amministrazione interna dell’organizzazione sequestrati a
Baghdad, da persone fuggite dalle zone conquistate, da rifugiati e persone che
hanno subito violenze.
Nell’aprile del 2015 Der Spiegel 1 ha avuto accesso e diffuso dei documenti
scritti dalla mente ideatrice dell’allora Isis, l’iracheno Õåãã Bakr (al secolo Samør
‘Abd Muõammad al-Œaløfåwø), ex colonnello della polizia segreta di Saddam, uc-
ciso nel gennaio 2014 per mano della Brigata dei martiri siriani, che non aveva
capito chi fosse e lo riteneva solo un antagonista sul territorio. I documenti, di
cui si conosceva l’esistenza già dal 2014 ma che non erano stati resi pubblici,
contengono la descrizione di un’organizzazione complessa. Dalle trentuno pagi-
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

ne scritte a mano con tanto di grafici e piani d’azione emerge che Då‘i4 è stato
fin dall’inizio immaginato come struttura articolata (Der Spiegel lo paragona alla
Stasi, la polizia segreta della DDR) con precisi obiettivi da raggiungere attraverso
strategie raffinate. Molti piani elaborati da Õåãã Bakr sono infatti stati attuati con
accuratezza, soprattutto per quanto riguarda la conquista di territori in Siria.
Per comprendere e conoscere la struttura di Då‘i4 ho avuto accesso dal 2013
a oggi a informazioni dirette sul terreno in Iraq, Siria e Giordania, provenienti da

1. C. REUTER, «The Terror Strategist: Secret Files Reveal the Structure of Islamic State», Der Spiegel,
18/4/2015, goo.gl/tahFqt (accesso: aprile 2015) 77
IL SENSO DI DĀ‘IŠ PER LO STATO

persone fuggite da quella organizzazione e da analisti locali, da combattenti sul


fronte opposto, da informatori. Maãøda, una rifugiata cristiana di Qaråqu4
(Baœdødå), in Iraq, che vive ora nel campo allestito nella parrocchia di Mår ’Īliyås
a Arbøl, mi ha raccontato il suo incontro con Då‘i4, da cui emerge la dimensione
contrattuale 2: «Quando abbiamo incontrato gli uomini di Då‘i4 per la prima volta
(agosto 2014), metà di loro aveva la faccia coperta, gli altri avevano barbe e ca-
pelli lunghi. Non parlavano arabo, ma una lingua che non conosco. Con noi c’e-
ra solo un peshmerga (soldato dell’esercito curdo, n.d.r.) che ci faceva da inter-
prete. Då‘i4 aveva già il completo controllo su Mosul, mentre i peshmerga aveva-
no una presa minima sul territorio. Quando abbiamo chiesto al peshmerga cosa
fare per prendere qualche vestito a casa, ci ha risposto: “Noi non possiamo dire
niente, dovete chiedere il permesso a Då‘i4”. Ma non riuscimmo a trovare un ac-
cordo quando ci dissero che potevamo pagare la fidya (donazione che i musul-
mani pagano quando non possono fare il digiuno e che viene data in elemosina
ai poveri) perché nessuno di noi si voleva convertire. E così cominciò ad andare
tutto storto. Ci dicevano che nessuno poteva fare aêån (pregare) se non i musul-
mani. Poi ci separarono dagli altri abitanti di Qaråqu4 e nessuno poteva più par-
lare con noi cristiani. Ma il peggio venne quando Då‘i4 non riuscì a concludere
un accordo per il pagamento della fidya con il nostro vescovo. Allora comincia-
rono a cacciarci e a depredarci. E non ci permisero di portarci dietro niente».
Non è infrequente vedere girare nelle zone rurali siro-irachene pick-up su
cui sventola la bandiera di Då‘i4. Lo Stato Islamico è a pochi chilometri di distan-
za, ma non lo si conosce veramente, perché è difficile districarsi tra le mille
informazioni su questa entità. L’attenzione di tutti è attratta per lo più dalla vio-
lenza, dal reclutamento di combattenti stranieri in particolare in Occidente, dalle
fonti di finanziamento. Racconti di presunti infiltrati si concentrano sulle esecu-
zioni pubbliche che avvengono in ogni piazza. Studiosi iracheni come Kåmarån
Muõammad sostengono che le informazioni non arrivano facilmente anche se
dozzine di persone scappano dai territori di Då‘i4 ogni giorno.
La struttura complessa di questa organizzazione non è percepita in profon-
dità da chi vive sotto Då‘i4 se non per quello che riguarda aspetti della vita quoti-
diana. Ricorrono affermazioni come «ci proibiscono di fumare» e «impongono alle
donne di indossare il niqåb» (abito con velo nero che copre tutto il viso). Chi
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

vuole uscire dai territori per andare in un ospedale per motivi di salute, ad esem-
pio, può farlo ma deve lasciare qualcosa (la casa, denaro) in pegno o qualcuno
in ostaggio. Quando Då‘i4 fa pagare una multa per una violazione, rilascia rego-
lare ricevuta. Le prescrizioni comportamentali sono diffuse anche altrove in Me-
dio Oriente. Il braccio di ferro tra secolarismo e 4arø‘a anche in Iraq è stato sem-
pre molto impegnativo – e su molte cose il secolarismo ha perso 3. È certo però

2. Intervista inclusa nel documentario: E.C. DEL RE, We, the Last Christians of Iraq, 2015, vimeo.-
com/139202991
3. Molte norme dei codici civile e penale sono oggetto di accese discussioni per le diverse interpre-
78 tazioni (come la norma che sarebbe sancita dal Corano secondo cui un uomo può picchiare la mo-
LA STRATEGIA DELLA PAURA

che larga parte dei cittadini assoggettati – anche molti fra i più fervidi musulmani
– non accetta tali restrizioni e ne subisce l’orrore con sgomento. Gli abitanti di al-
Raqqa, la capitale di Då‘i4, diffondono via twitter ora per ora i tragici eventi di
cui sono testimoni e vittime (@Raqqa_SL) e continuano a ribadire la loro non
complicità con quello che sta avvenendo in città ormai da più di un anno.
Chi conquista, governa su tutti gli aspetti della vita. L’ambizione di creare
uno Stato articolato è viva anche in altre zone della Siria controllate dai jihadisti,
perché rappresenta una forma di evoluzione dell’islam politico di fronte alle sfide
della modernità e alle spinte per la ridefinizione dell’identità delle molte anime
etnicamente diverse del mondo musulmano: nel Rojava (Kurdistan siriano) ad
esempio, è stato abbozzato uno Stato democratico ispirato all’ecologia sociale di
Murray Bookchin.

2. Ormai siamo in grado di delineare un profilo piuttosto accurato della na-


tura di Då‘i4. Hånø ’Īliyås Hermes, un cristiano caldeo rifugiato nel campo di Mår
’Īliyås ad ‘Ankåwå, quartiere di Arbøl nel Kurdistan iracheno, mi porge tenendola
con due dita una lettera che gli ha inviato Då‘i4. La lettera recita testualmente che
se il signor Hermes vuole restare nel califfato deve convertirsi all’islam o pagare
la ãizya (la tassa di compensazione che fino alla fine del XIX secolo i non mu-
sulmani dovevano versare), oppure ancora deve abbandonare la propria casa
entro la sera senza portarsi dietro nulla. È scritta al computer, con timbro, data e
numero di telefono per eventuali chiarimenti. È la dimostrazione di un sistema
burocratico efficiente.
L’ambizione di Då‘i4 a organizzarsi in Stato si è manifestata presto. Il 29 giu-
gno 2014 l’allora Stato Islamico dell’Iraq e del Levante proclamò l’instaurazione
del «califfato» nei territori conquistati in Siria e in Iraq. Con un comunicato diffuso
su Internet invitò tutti i fedeli musulmani ad allearsi. Il califfato era stato abolito da
Atatürk nel 1924, insieme ad altre manifestazioni della tradizione musulmana. Re-
stituendo il califfato, Då‘i4 sana una ferita mai rimarginata, che inquieta ancora i
sonni di molti giovani sunniti. Seguì poi il cambiamento del nome in Stato Islami-
co e l’individuazione di Abû Bakr al-Baôdådø come leader, insignito del rango di
califfo, ovvero successore e vicario del Profeta. Il titolo di califfo rappresenta una
forma di garanzia teologica per il leader di Då‘i4 perché è una derivazione diretta
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

dalla tradizione islamica e comporta implicitamente che tutte le altre autorità – i re


di Giordania, Marocco, Arabia Saudita, Bahrein – perdano legittimità, così come i
presidenti degli Stati musulmani, che vengono considerati asserviti all’Occidente.
Il califfo – che deve essere molto esperto in questioni della 4arø‘a, deve discende-
re dalla tribù Qurayš e deve essere in buona salute – esercita potere assoluto. A
lui tutti devono obbedienza, inclusi i membri dei vari dipartimenti dell’Is.

glie per richiamarla ai suoi doveri religiosi). Vi è una parte della popolazione che ambisce, anche
nel Kurdistan iracheno, a un’applicazione più rigida delle norme comportamentali dell’islam, secon-
do l’interpretazione del Corano più limitante per l’individuo. 79
IL SENSO DI DĀ‘IŠ PER LO STATO

La struttura dell’organizzazione utilizza elementi derivanti dalle norme della


4arø‘a adattati alle esigenze della vita moderna. Sta quindi diventando sempre
più sofisticata. Presenta elementi dei califfati islamici classici, base di uno Stato
teocratico, in cui sono stati inseriti elementi moderni relativi alla sicurezza milita-
re, con forte attenzione agli aspetti sia ideologici che burocratici. Sotto Abû Bakr
al-Baôdådø, il califfo, sono stati creati veri e propri dipartimenti. Si è dovuto tene-
re conto del fatto che andava trovato un nuovo ruolo per i propri professionisti
in ambito economico, militare e di polizia nei territori conquistati. Fra i dirigenti
dello Stato Islamico sono diversi coloro che hanno un curriculum professionale
di alto profilo, avendo ricoperto incarichi rilevanti nel regime di Saddam o in al-
Qå‘ida. La capacità di Då‘i4 di distribuire cariche a membri locali e stranieri è
strategicamente importante. L’idea di attribuirne anche agli stranieri serve per evi-
tare che chi viene da fuori si faccia tentare da ambizioni di sovvertimento del po-
tere. Questo approccio organizzativo è alla base della scelta di formare un calif-
fato. L’obiettivo è di mantenere la solidarietà interna e di tenere sotto controllo il
mondo etnicamente eterogeneo dei propri aderenti (iracheni, siriani, caucasici,
arabi, europei eccetera).
Altro elemento vincente di Då‘i4 è l’aver previsto istituzioni che possano
prendere il controllo del sistema dell’istruzione, dell’apparato giudiziario, dei me-
dia, per diffondere la propaganda, imporre nuove norme, perpetuare l’ideologia
trasmettendola alle nuove generazioni.
Då‘i4 batte moneta, pur continuando a pagare i suoi in dollari. Su una faccia
di una delle monete coniate vi è un planisfero, che sta a simboleggiare il potere
mondiale dell’organizzazione, con la scritta Stato Islamico. In termini teologici,
Allah ha creato un solo mondo e nessuno ha il diritto di dividerlo in Stati o na-
zioni. Då‘i4 ha infatti eliminato la definizione «dell’Iraq e della Siria» perché non
riconosce i confini definiti dai colonialisti.
Questo «Stato» ha una capitale, la città siriana di al-Raqqa, ed è suddiviso in
unità amministrative chiamate wilåyåt (province), termine e concetto storico del-
l’islam 4. Mentre alcuni territori sono effettivamente amministrati dal gruppo, di-
verse aree dichiarate annesse conoscono in realtà una sua presenza molto par-
ziale, dal momento che Då‘i4 non è riuscito a imporvisi. Il valore del wilåya, fi-
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

nora, è propagandistico: Då‘i4 vuole mostrare la progressiva istituzionalizzazione


del suo territorio e l’espansione del suo progetto.

3. In poco più di un anno, Då‘i4 si è trasformato da forza puramente militare


in organizzazione sistemica capace di gestire e fornire servizi essenziali ai territori
che controlla. Al vertice della piramide statale vi è il «califfo», Abû Bakr al-
Baôdådø, al secolo Ibråhøm ‘Awwåd ‘Alø al-Badrø al-Samarrå’ø. I vice di al-Baôdådø

4. A maggio 2015, in Iraq sono stati istituiti i wilåyåt di Baghdad, al-Anbår, Diyålå, Kirkûk, Âalåõ al-
Døn, al-Furåt, al-Fallûãa, Ninive e al-Ãanûb; in Siria i wilåyåt di Aleppo, Õimâ, Damasco, al-Œayr,
80 al-Raqqa (la capitale) e al-Baraka.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

sono due dei dieci membri del Consiglio della 4ûrå, il più importante organo del-
lo Stato di Då‘i4: uno responsabile dei wilåyåt iracheni e uno di quelli siriani. Il
vice di al-Baôdådø in Siria è Abû ‘Alø al-Anbårø, ex generale iracheno del regime
di Saddam Hussein, oggi supervisore dei consigli locali e delegato politico, men-
tre il suo ruolo militare consiste nel dirigere le operazioni contro i ribelli siriani
che si oppongono al regime del presidente Ba44år al-Asad e a Då‘i4 nella guerra
civile siriana. Il vice di al-Baôdådø in Iraq era Abû Muslim al-Turkmåniyy (al se-
colo Faîil Aõmad ‘Abd Allåh al-Õiyålø), rimasto ucciso in un raid di droni nell’a-
gosto 2015 presso Mosul. Il suo ruolo politico era quello di supervisore dei con-
sigli locali, mentre quello militare comprendeva la direzione di operazioni contro
gli oppositori dello Stato Islamico.
L’apparato statale del califfato è costituito da otto Consigli (figura).
A) Consiglio della 4arø‘a (che agisce a stretto contatto con il Consiglio della
4ûrå). È l’organo più importante e potente di Då‘i4, che ha il compito di gestire il
«califfato» dal punto di vista religioso e ha natura teologica. I suoi membri devo-
no assicurarsi che governatori e comitati aderiscano alla corretta interpretazione,
secondo Då‘i4, della legge islamica. Le decapitazioni (come ad esempio quelle di
Foley, Sotloff e Haines) vengono approvate dal Consiglio che di volta in volta le
giudica conformi alla 4arø‘a. Ad esso sono collegati due organi. Anzitutto, la
struttura giudiziaria che gestisce i tribunali della 4arø‘a, previene i crimini, stabili-
sce le pene, promuove i comportamenti virtuosi. Insieme, il dipartimento prepo-
sto alla predicazione, al reclutamento, al controllo e alla diffusione dei media,
guidato da Abû Muõammad al-‘Adnånø. Il Consiglio della 4arø‘a dissemina manua-
li e messaggi, scrive i discorsi di al-Baôdådø e produce commenti per la produ-
zione mediatica di Då‘i4. Il personale del Consiglio non è composto da iracheni,
ma per lo più da ex sudditi provenienti dai paesi del Consiglio di Cooperazione
del Golfo (Gcc) e da altri stranieri.
B) Consiglio della 4ûrå (che agisce a stretto contatto con il Consiglio della
4arø‘a). È formato dai decisori che definiscono le politiche dell’organizzazione. È
il più alto organo consultivo di Då‘i4, che oltre a nominare i governatori delle
province avrebbe anche la facoltà di deporre il «califfo» al-Baôdådø. Il Consiglio è
guidato da Abû Arkån al-‘Åmirø ed è formato da dieci membri nominati da al-
Baôdådø. Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

C) Dipartimento delle Finanze. Finanzia le operazioni dell’organizzazione, ri-


scuote le tasse e gestisce i bottini di guerra. Le entrate di Då‘i4 derivano dalla
vendita al mercato nero di petrolio greggio 5, fosfato, gas naturale, dai riscatti ot-

5. Secondo un documento del Døwån al-Rakå’iz, il ministero delle Finanze del «califfato», i ricavi del-
le vendite di petrolio ad aprile 2015 sono stati di 46 milioni e 700 mila dollari. Nello stesso docu-
mento sono indicati 253 pozzi sotto il controllo di Då‘i4 in Siria, di cui 161 operativi grazie all’impie-
go di 275 ingegneri e 1.107 operai. Per soddisfare il suo fabbisogno, Då‘i4 ha costruito una rete di
piccole raffinerie, alcune addirittura mobili, installate su autotreni. In Iraq si stima che il «califfato»
estragga ogni giorno tra i 10 e i 20 mila barili, per lo più dai giacimenti vicino Mosul: gran parte
della produzione irachena dello Stato Islamico è inviata in Siria, dove viene raffinata per ottenere
diversi prodotti combustibili. 81
82
STRUTTURA ORGANIZZATIVA DEL CALIFFATO

E’l’organo più importante. Gestisce tutti gli


Gestisce la sicurezza CONSIGLIO CONSIGLIO
aspetti militari: strategia, pianifcazione, armamenti,
e l’intelligence DI SICUREZZA MILITARE bottini di guerra, operazioni e forze militari
IL SENSO DI DĀ‘IŠ PER LO STATO

I territori conquistati vengono ORGANIZZAZIONE Gruppo esteso che comprende


Ahl al-hall
riorganizzati in province AMMINISTRATIVA
L IFFO i comandanti e gli emiri.
CA wa’l-‘aqd

Il le

Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
die nz

ader
be

p
ol
ob
o

iti
Finanzia le operazioni co CONSIGLIO Ha natura teologica e giuridica,
dell’organizzazione, riscuote le tasse DIPARTIMENTO on
er v DELLA agisce tramite due dipartimenti.
e gestisce i bottini di guerra DELLE FINANZE eli i de
gioso
cu i tutt ŠAR‘ĪA

Dipartimento preposto
alla predicazione, al reclutamento,
al controllo e alla difusione dei media
Cura la disseminazione dell’ideologia Formato dai decisori
CONSIGLIO CONSIGLIO che defniscono le politiche,
salafta e jihadista; elabora le dichiarazioni
DEI MEDIA DELLA è un’istituzione Organo giudiziario:
pubbliche da difondere in rete e nel Califato
ŠURA politica storica nell’islam gestisce i tribunali
e la giustizia, previene
i crimini e promuove
i comportamenti virtuosi
LA STRATEGIA DELLA PAURA

tenuti con i sequestri di persone, dalla vendita di reperti archeologici e dall’impo-


sizione di dazi sui camion di merci in transito. Contribuiscono anche donazioni
di persone (secondo Aljazeera provengono soprattutto dai paesi del Golfo, ma
anche ricchi iracheni hanno allargato i cordoni della borsa dopo la conquista di
Mosul); donazioni per beneficienza (zakåt) raccolte nelle moschee per il jihåd in
Siria poi finite nelle mani di Då‘i4; beni e risorse sequestrati nelle zone conquista-
te: ospedali, negozi, ristoranti, centrali idriche e altro, producono milioni di dolla-
ri; tasse e stipendi riscossi da uomini d’affari, agricoltori, possidenti; la ãizyah pa-
gata dai non musulmani per avere protezione; ricavi dalle vendite di prodotti
agricoli (Då‘i4 controlla un terzo della produzione di grano in Iraq).
D) Ahl al-õall wa al-‘aqd (coloro che sciolgono e legano). È un gruppo este-
so che comprende persone di alto rango, molto qualificate, quali comandanti ed
emiri, per elaborare disegni di legge e proposte politiche. È una specie di parla-
mento ispirato alla tradizione politico-giuridica islamica. È stato l’Ahl al-õall wa
al-‘aqd a decidere di istituire il «califfato» e a nominare il «califfo».
E) Consiglio militare. È l’organo esecutivo più importante che sovraintende
alle milizie del «califfo». Gestisce tutti gli aspetti militari dello Stato Islamico: stra-
tegia, pianificazione, armamenti, bottini di guerra, operazioni e forze militari, di-
fesa dei confini. Ha comandanti di settore. Ogni settore è formato da tre batta-
glioni di 300-350 combattenti. I battaglioni comprendono diverse compagnie di
50-60 combattenti. Il personale comprende anche comandi speciali, combattenti
suicidi, forze specializzate in logistica, cecchini e altro.
F) Consiglio di sicurezza. Gestisce la sicurezza e l’intelligence, le operazioni
di polizia interne, i servizi segreti per scovare i nemici interni ed esterni del calif-
fato. Fino a quando al-Turkmåniyy era in vita, il Consiglio aveva due branche,
una per la Siria e una per l’Iraq. Dopo la morte di al-Turkmåniyy sembra sia Abû
‘Alø al-Anbårø, ex ufficiale dell’intelligence di Saddam, a dirigere il Consiglio, con
numerosi collaboratori, tuttavia altre fonti parlano di Abû ‘Alå’ al-‘Afrø. Certo è
che al momento il Consiglio ha un unico vertice. Tra le sue mansioni c’è anche
la sicurezza personale del «califfo». Esso inoltre controlla che le disposizioni del
«califfo» vengano attuate nelle province. Lo stesso vale per le sanzioni giudiziarie.
È specializzato nell’infiltrare suoi membri nelle organizzazioni rivali e in opera-
zioni di controspionaggio. Controlla le unità speciali come i combattenti suicidi e
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

gli agenti sotto copertura in coordinamento con il Consiglio militare. I suoi ploto-
ni sono disseminati in tutte le province, con il compito di gestire la posta e coor-
dinare le comunicazioni tra gli organi del Consiglio. Ha anche un corpo specia-
lizzato in assassini politici, rapimenti, estorsioni.
G) Organizzazione amministrativa. I territori conquistati vengono riorganiz-
zati in province chiamate tradizionalmente wilåya. Ognuna delle quali è suddivi-
sa in qi¿å‘åt (settori), con responsabili dei due rami del governo locale: ammini-
strazione e servizi per i musulmani. Il governatore dei wilåyåt è il wålø, i cui im-
mediati sottoposti sono gli emiri (o comandanti) che controllano un settore a lo-
ro assegnato, ovvero quello della 4arø‘a, quello militare e altri. Sono sedici le di- 83
IL SENSO DI DĀ‘IŠ PER LO STATO

visioni amministrative di Då‘i4 in Iraq e Siria. I wilåyåt conservano il loro nome


originario e denominano le sottoprovince con il nome della loro città principale.
H) Consiglio per i media. Questo Consiglio cura la disseminazione dell’ideo-
logia salafita e jihadista; elabora le dichiarazioni pubbliche da diffondere in Rete
e nel «califfato». Si occupa della comunicazione, del marketing, dei social media,
delle pubblicazioni. C’è il Canale del Califfato (televisione), un mensile intitolato
Dåbiq che esce in diverse lingue fra cui inglese e arabo, oltre ad altre pubblica-
zioni. Ogni wilåya è dotato di un centro mediatico proprio: le varie province
possono così creare e distribuire contenuti propagandistici, facendo mostra delle
attività che vengono svolte al loro interno. Le diverse agenzie mediatiche sono
subordinate a un ministero centrale, che riversa i contenuti in quattro fonti: al-
Furqån, al-I‘tiâåm, al-Õayåt (solo in inglese) e Aãnåd Foundation, specializzato
nella creazione di anåšød (canti). A capo del Consiglio dei media c’è Ahmad
Abousamra (Aõmad Abû Samra), americano, che è la mente ideatrice dei video
di Då‘i4 diffusi finora.
L’amministrazione di Då‘i4 è dunque un complesso di istituzioni e norme tra
i cui obiettivi emerge chiaramente quello di liberare i territori dai non-sunniti e
dalle comunità inaffidabili: sciiti, cristiani, curdi, yazidi e altre minoranze etno-
religiose. Lo scopo è ristabilire un ordine basato su norme e valori condivisi. I
suoi bracci operativi sono: da‘wa, che fa rispettare la legge islamica, diffonde il
Corano e converte gli infedeli; al-õisba, la polizia religiosa col quartier generale
in una chiesa dissacrata di Raqqa, che deve «promuovere la virtù e perseguire i
vizi»; al-Ta‘løm, responsabile dell’insegnamento del Corano nelle scuole. Il para-
dosso burocratico è che se si vuole comunque vivere in quei territori basta pa-
gare una tassa. Questo elemento, più di ogni altro, evidenzia il «senso per lo
Stato» di Då‘i4.

4. Come contrastare Då‘i4? Anzitutto, bisogna comprenderne la natura e il


reale potenziale a medio ma soprattutto a lungo termine. Le principali strategie
anti-Då‘i4 finora proposte sono due: se il gruppo è in grado di accumulare sem-
pre più risorse per continuare ad espandersi, si può pensare ad azioni militari
per contrastarlo e batterlo; se il gruppo invece non è in grado di sostenere i costi
di una guerra tanto impegnativa, a causa dei limiti del suo modello economico e
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statuale, allora bisogna adottare una politica di contenimento. Dopo gli attacchi
terroristici di Parigi, nessuna delle due soluzioni sembra più adeguata. Se Då‘i4
vuole essere uno Stato, si possono sfruttare le conseguenze negative di questa
sua ambizione. Infatti, perseguendo questo obiettivo Då‘i4 subisce un processo
di graduale burocratizzazione che finisce per deludere gli estremisti (molti stra-
nieri stanno ritornando indietro) perché tende a «normalizzarlo». Inoltre, la strut-
tura statale di Då‘i4 in molti aspetti non è dissimile da quella di altri paesi ricono-
sciuti e vezzeggiati dall’Occidente, come ad esempio l’Arabia Saudita (tabella).
Nell’elaborazione di una strategia contro il «califfato» bisogna considerare che
84 vi sono due realtà uguali e contrarie di cui tenere conto: Då‘i4 è una struttura or-
LA STRATEGIA DELLA PAURA

ganizzata di tipo statale; Då‘i4 non è una struttura statale, sebbene sia organizza-
to. Entrambe le tesi sono vere. Vediamo perché.
A) Då‘i4 vuole parlare e parla secondo un linguaggio giuridico-amministrati-
vo che riproduce istituzioni tradizionali e storiche dell’islam pur stravolgendone il
significato, perché ha bisogno di creare coesione al suo interno soprattutto a
causa dell’eterogeneità dei suoi aderenti, che mette a rischio la struttura favoren-
do le rivalità intestine. E perché senza strutture istituzionali il tessuto sociale ed
economico degli assoggettati crollerebbe.
B) Då‘i4 è un gruppo militare che non governa realmente i territori conqui-
stati ma, in generale, ne prende le risorse e le sfrutta. Gli Stati predoni sono fre-
quenti nella storia del Medio Oriente. Ad esempio quello di Nadir Shah, nel
XVIII secolo, i cui progetti criminali a breve termine gli permettevano di racco-
gliere un bottino sufficiente a sopravvivere fino al saccheggio successivo. Allora
come oggi, ai predati veniva chiesto di pagare un riscatto o una tassa per poter
emigrare o vivere serenamente nei suoi territori. In quest’ottica, per Då‘i4 la ne-
cessità di organizzazione sul territorio – con un quartier generale e dei dicasteri –
sarebbe solo una necessità logistica, ad esempio per riporre le armi, per tenere
in custodia gli ostaggi, per alloggiare le truppe, custodire i numerosi blindati, le
armi e quant’altro catturato ai nemici. Entrambi questi aspetti sono concreti e
non si escludono l’un l’altro, anche perché il controllo di Då‘i4 sul territorio è di
intensità diversa a seconda delle zone e del loro valore in termini di risorse e po-
tenziale strategico.
Ma allora Då‘i4 è uno Stato? È possibile definirlo tale perché ha una struttura
verticistica e burocratica, con un capo del governo e vari ministeri? Se lo Stato è
un’entità che controlla un territorio, ha delle istituzioni governative ed è in grado
di elaborare le proprie politiche, di varare e applicare leggi nel territorio che
controlla, allora Då‘i4 è uno Stato. Se lo Stato deve poter difendere il proprio ter-
ritorio e i propri interessi tramite le forze di sicurezza, deve poter mantenere un
sistema amministrativo ed economico che permetta ai cittadini di vivere, allora
Då‘i4 è uno Stato.
Questo Stato è sostenibile? Dal punto di vista sociopolitico il livello di intimi-
dazione garantisce il controllo sulla popolazione. Sotto l’aspetto economico, le fi-
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nanze di Då‘i4 si basano sul mercato nero del greggio e su molto altro, potendo
garantire un sistema di retribuzione degli affiliati puntuale e soddisfacente, che
infatti attrae anche combattenti stranieri. Då‘i4 è un regime di occupazione strut-
turato e istituzionalizzato con infiltrati e sostenitori in molti villaggi in Siria e in
Iraq. Tuttavia, la capacità di Då‘i4 di espandersi, oltre che di mantenere il control-
lo dei territori conquistati, è dubitevole.
Då‘i4 è uno Stato e un sistema burocratico, o più semplicemente criminalità
organizzata? Entrambe le cose. Esso presenta certo una struttura statale articolata,
che si sovrappone a quella preesistente nei territori conquistati. Allo stesso tem-
po tale struttura non è solida perché: a) la composizione della sua leadership e 85
IL SENSO DI DĀ‘IŠ PER LO STATO

la sua forza militare/politica è a rischio perché simile a una forma di pirateria,


annoverando tra le sue file numerosi affiliati anche stranieri (molti con preceden-
ti penali), che avrebbero aderito a qualunque causa purché potesse portare pro-
fitto; b) il suo sistema verticistico è minacciato dall’esistenza di strutture parallele
al suo Stato vero e proprio, con comandanti veri e comandanti aggiunti, emiri di
Då‘i4 esautorati o messi in fuga da capetti improvvisati; c) l’ideologia che profes-
sa, basata sull’adesione completa e acritica, su un modello economico obsoleto
ispirato a modelli redistributivi che si sono dimostrati fallimentari in passato, met-
te a rischio la sua sostenibilità.
Sono le contraddizioni interne il principale nemico dello Stato Islamico. Su
queste crepe nel suo sistema si può far leva per meglio combatterlo. A partire
dalla consapevolezza che il livello di istituzionalizzazione e di burocratizzazione
raggiunto da Då‘i4 e il suo reale potere sono due cose ben distinte. Ed è dunque
sulla dimensione statuale di Då‘i4 che occorre orientare le strategie di contrasto.

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86
LA STRATEGIA DELLA PAURA

LO STATO ISLAMICO
È UNA BANDA
DI MERCENARI di Xavier RAUFER
Distratti da terrorismo e sgozzamenti, non ci s’interroga
sull’incredibile serie di coincidenze nella parabola dell’Is da meteora
a esercito di conquista. E se il califfo fosse il ‘mostro utile’ dell’Iran per
screditare il salafismo e obbligare Obama ad appoggiarsi a Teheran?

1. SENZA GRANDI GUERRE MA SEMPRE PROSSIMO


al caos e stretto nella morsa di due conflitti violenti, il mondo in cui viviamo
era stato anticipato nel 1938, con impressionante preveggenza, da Carl Schmitt:
«Una guerra globale asimmetrica, sottratta a ogni controllo e a ogni limite giuri-
dico, in cui una grande potenza neoimperiale si schiera non solo e non tanto
contro i singoli Stati, ma contro organizzazioni di “partigiani globali” (Kosmos-
partisanen) che operano su scala mondiale usando i mezzi e perseguendo gli
obiettivi della guerra civile» 1.
Ipnotizzati dagli attentati di Parigi, dagli sgozzamenti e da altri atti icono-
clastici, i media e politici finiscono per non porsi mai la domanda chiave attor-
no all’organizzazione partigiana globale che oggi risponde al nome di Stato
Islamico (Is). In tutto il frastuono mediatico prodotto dai racconti degli orrori
jihadisti, dalle minacce d’invasione dell’Europa, dalle stime dei loro arsenali e
delle loro «armate», nessuno si chiede: cos’è lo Stato Islamico? Qual è la sua na-
tura, la sua essenza ?
Dopo più di un anno di bombardamenti e in seguito ai tragici fatti del 13
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novembre, gli occidentali ancora s’interrogano sulla loro strategia contro i jiha-
disti. Ma perché non si cerca di capire quella di questo ormai formidabile ne-
mico, di cui tre anni fa nessuno conosceva neanche il nome, a parte qualche
raro esperto?
Paragoniamo l’Is a Õizbullåh. Descrivere il secondo è un’operazione bana-
le: entità paramilitare, milizia sciita in Libano, dalle tendenze terroriste, equi-
paggiata, addestrata e manipolata dalle forze speciali della Repubblica Islamica
d’Iran. In due righe, l’essenziale. Ora, definire con la stessa facilità l’Is è impos-

1. C. SCHMITT, Il concetto discriminatorio di guerra, Roma-Bari 2008, Laterza. 87


LO STATO ISLAMICO È UNA BANDA DI MERCENARI

sibile: apparentemente, lo Stato Islamico non è nulla. Partiamo da qualche do-


manda preliminare.
È un gruppo terroristico? No: il ricorso a modalità terroristiche non basta a
definire come tale un’organizzazione che – prima volta nella storia – possiede
più carri armati dell’esercito francese. Inoltre, dopo aver flagellato l’Iraq, a Bagh-
dad e dintorni si registrano molti meno attentati che in passato. Infine, i successi
dell’Is sul campo sono chiaramente di natura militare e non terrorista. Peggio: se
c’è una regola in Medio Oriente a cui non si sfugge è che tutte le entità terroriste
un minimo durevoli s’impossessano, prima o poi, del potere statuale. Abû Niîål
(Fatõ – Consiglio rivoluzionario), Aõmad Ãibrøl (Fplp – Comando generale), lo
stesso Õizbullåh ne sono la dimostrazione.
È lo Stato Islamico un gruppo di guerriglieri? Men che meno: contrariamente
alle regole più consolidate della «petite guerre», l’Is non ripiega dopo l’attacco, ma
affronta faccia a faccia eserciti regolari; si radica e controlla il territorio. Una stra-
tegia, da quel che ne sappiamo, senza precedenti. L’Is, infatti, si vuole «califfato»:
tutti i riferimenti coranici sunniti affermano che una simile istituzione coinvolge
obbligatoriamente un territorio fisico. Impossibile immaginare un califfato spiri-
tuale, clandestino, numerico o metafisico. Dal momento che la fedeltà viene giu-
rata al califfo, se il territorio dello Stato Islamico viene conquistato da un qualsia-
si nemico, tutti i giuramenti di fedeltà decadono: sul campo, l’Is si dissolve in
polvere – come Dracula nei film della Hammer.
Lo Stato Islamico propone una forma estrema di islam sunnita? Bel mistero.
Nell’islam sunnita, l’autorità suprema è al-Azhar, moschea del Cairo e insieme
centro d’insegnamento spirituale e dottrinale. Modello di prudenza e ponderazio-
ne, al-Azhar condanna il terrorismo in generale, sia esso islamico sia di altro tipo,
in modo studiatamente vago. Nel 2010, il segretario generale del suo consiglio di
ricerca si è limitato a certificare l’erudita fatwå di 600 pagine del sufi pakistano
Muhammad Tahir ul-Qadri, che rigetta il terrorismo come antislamico. Ma al-
Azhar – come istituzione o tramite uno dei suoi dirigenti a titolo personale – non
si pronuncia mai contro specifici individui, men che meno contro le organizza-
zioni. È rimasta muta, per esempio, su Osama bin Laden e su al-Qå‘ida, persino
dopo l’11 settembre. Ancora nel dicembre 2014, si rifiutava di qualificare l’Is co-
me «gruppo apostata», sentenza di morte che dalla sua fondazione non ha mai
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pronunciato. Nel febbraio 2015, dopo che gli uomini del «califfo» avevano arso
vivo un pilota giordano, la brusca svolta: lo 4ayœ di al-Azhar, Aõmad al-¡ayyib,
capo supremo dell’istituzione, tuonava contro lo Stato Islamico, contro quegli
«oppressori e corrotti che combattono Dio», chiedendo di «crocifiggere e smem-
brare i terroristi dell’Is» 2. Perché questa condanna, di una violenza inaudita, sen-
za che prima al-Azhar si fosse mai pronunciata sulla faccenda? Dopo molte lettu-
re, guidate da domande di ricerca ben precise, l’interrogativo resta.

88 2. «Al-Azhar Calls for Killing, Crucifixion of ISIS Terrorists», al-Arabiya News, 4/2/2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

2. Riprendiamo Carl Schmitt. In qualità di «grande potenza neoimperiale», gli


Stati Uniti sono senza dubbio l’attore mondiale più interessato dall’esistenza dello
Stato Islamico. Non il più minacciato, ma quello da cui il resto del pianeta si at-
tende una risposta, una strategia e in ultima istanza una controffensiva.
Attorno alla questione concettuale dell’Is, l’America annaspa 3. Nel dicembre
2014, il generale Michael Nagata, comandante delle forze speciali a stelle e stri-
sce in Medio Oriente, ha detto della banda di al-Baôdådø: «Non abbiamo sconfitto
la sua idea. Non l’abbiamo nemmeno capita» 4. Nel settembre 2014, il presidente
Obama, destinatario ultimo dell’intera produzione d’intelligence del suo paese,
aveva rasentato il ridicolo qualificando l’Is come «squadra di riserva di al-Qå‘ida».
Fra marzo e agosto 2015, le due riviste più serie e brillanti degli Stati Uniti,
The New York Review of Books e The Atlantic, hanno pubblicato tre studi 5 sullo
Stato Islamico. In quelle pagine c’è tanta fascinazione e tanto voyeurismo: dal
«salafismo degli ultimi» al jihadismo gore, dal programma dell’Is – tutto quel che
la sua propaganda-spauracchio dice di se stessa – ai suoi combattenti stranieri, fi-
no ai suoi costumi sociali o sessuali – o cielo, vogliono restaurare la schiavitù!
Niente, neanche una parola, un interrogativo o un sospetto, sull’autonomia deci-
sionale dell’Is. Nulla mette una pulce nell’orecchio di questi comunque eccellenti
giornalisti. Lo Stato Islamico va da sé, è un gruppo come tanti. Quegli articoli
prendono l’Is sul serio: quello che l’organizzazione dice di se stessa è realtà, non
viene criticato o questionato. Ma a che serve e a chi serve lo Stato Islamico? Da
dove viene veramente? Quali sono le sue reali intenzioni? Su queste domande ca-
la il silenzio e spuntano i paraocchi. Una stranezza non da poco nella già volu-
minosa letteratura sull’Is.

3. Abû Bakr al-Baôdådø non è il primo capo dell’organizzazione a fregiarsi di


questo nom de guerre. Il suo predecessore si chiamava Abû ‘Umar al-Baôdådø, al
secolo Õåmid Dåwd Muõammad Œaløl al-Zåwø (1947-2010), fino a non molto
tempo prima generale di brigata nella laicissima polizia di Saddam Hussein. Alla
morte di Abû ‘Umar nell’aprile 2010, la stampa di Baghdad (che sa quello di cui
parla) qualifica unanimemente l’allora Stato Islamico in Iraq come un «gruppu-
scolo». Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

Tre anni dopo, quel manipolo di disadattati armati di kalashnikov diventa al-
Dawla al-islåmiyya fi ’l-Iråq wa ’l-3åm (Stato Islamico in Iraq e nel Levante). Nel-

3. Cfr. per esempio la scheda di «identificazione» emessa dal dipartimento del Tesoro del governo
degli Stati Uniti nel luglio 2015, nel quadro delle misure per individuare persone d’interesse che
fanno circolare denaro criminale e/o terrorista. Contando tutte le possibili combinazioni, la sola
«identificazione» del diretto interessato prende 48 righe, un allegro zibaldone di nomi, tra quelli di
battaglia (al-Baôdådø), di città (al-Samarrå’ø, proveniente da Såmarrå’), di tribù (al-Quray4ø, tribù del
Profeta), clanico (al-Badrø, al-Õusaynø) eccetera.
4. E. S CHMITT , «In Battle to Defang ISIS, U.S. Targets Its Psychology», The New York Times,
28/12/2014.
5. «Inside the Islamic State», The New York Review of Books, 9/6/2015; «The Mystery of ISIS», The New
York Review of Books, 13/8/2015; «What is the Islamic State?», The Atlantic, marzo 2015. 89
LO STATO ISLAMICO È UNA BANDA DI MERCENARI

la prima metà del 2014 –sconfessato da al-Qå‘ida – conquista il Nord dell’Iraq,


più di 150 mila chilometri quadrati, con centinaia di carri armati rafforzati da una
potente artiglieria pesante. È capace, secondo alcuni esperti militari, «di accer-
chiare o isolare le unità rivali, di disorganizzare gli Stati maggiori e l’approvvigio-
namento nemico». È in grado di «lanciare attacchi coordinati e simultanei» e le
sue capacità antiaeree sono «serie», visti gli elicotteri abbattuti in volo. Possiede
una strategia idrica elaborata (cruciale per un paese desertico) per laghi e dighe,
cannoniere sui fiumi e droni in quantità. Le sue catene di comando sono «effica-
ci», così come i suoi commando e la sua intelligence, che praticano l’infiltrazione,
il reclutamento, la penetrazione, l’omicidio e l’attentato. Dispone di enormi de-
positi di armi e munizioni 6.
Come spiegare la repentina metamorfosi del gruppuscolo in formidabile ar-
mata da conquista? La natura, l’essenza dello Stato Islamico è innegabilmente
quella di un esercito mercenario. L’Is non è né un gruppo ribelle né di guerriglie-
ri, men che meno un’organizzazione terroristica. Ma allora, chi tira le sue fila? Di
chi è al soldo? Non certo di se stesso: le guardie svizzere sono pur sempre al ser-
vizio del papa. E nemmeno delle petromonarchie della Penisola Arabica e della
Turchia, che nel corso del 2014 hanno interrotto il sostegno diretto, cambiando i
loro punti di riferimento nei campi di battaglia del Siraq e dello Yemen, per so-
stenere qualche ramo di al-Qå‘ida: rispettivamente, Ãabhat al-Nuâra e al-Qå‘ida
nella Penisola Arabica. Figurarsi degli Stati Uniti: armi americane sono certamen-
te finite per vie traverse nelle mani jihadiste, ma in quasi 15 anni di guerre me-
diorientali Washington non è nemmeno riuscita a creare la parvenza di un eserci-
to nazionale in Iraq o in Afghanistan in grado di reggersi sui propri piedi. Per ri-
spondere alla domanda, bisogna risalire la corrente delle influenze subite dai vari
«Abû» succedutisi alla guida dello Stato Islamico e capire il presente e il futuro
del terrorismo islamista in Medio Oriente, così come in Europa.

4. Cosa sappiamo veramente dello Stato Islamico? Partiamo dal fondatore,


Abû Muâ‘ab al-Zarqåwø. Un jihadista fuori dal coro, capo della banda fra 2003 e
giugno 2006 e ancora presentato come tale dai video di propaganda dell’Is non
più tardi di questa primavera. Il suo vero nome è Aõmad Faîøl al-Nazål al-Œalåy-
la, della tribù Banø Õassån. Il suo nom de guerre fa riferimento a Muâ‘ab bin
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‘Umar, compagno del Profeta, e alla città giordana di Zarqå’ dov’è nato. Zarqåwø
è tutto fuorché una cavaliere bianco del salafismo. Piuttosto, uno sbandato, un
masso erratico à la Lee Harvey Oswald: commesso di un video store nei bas-
sifondi giordani, delinquente tatuato e tossicomane. Negli anni Novanta, la sua
famiglia lo manda dai salafiti a farsi disintossicare attraverso la purificazione e la
preghiera. Il recupero supera ogni aspettativa dei suoi parenti: verso il 1999 il
giovane Aõmad fonda un gruppetto jihadista dal nome – piuttosto comune in

6. L. TOUCHARD, «Organisation tactique et méthode de combat de l’Etat islamique», 20/5/2015, rap-


90 porto confidenziale non pubblicato.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

quegli ambienti – Ãamå‘at al-Tawõød wa-al-Ãihåd (Gruppo del monoteismo e


del jihåd). Di fatto, una microsetta omicida.
Sfruttando la reputazione di agent provocateur e sicario, al-Zarqåwø parte
per l’Afghanistan con la sua banda. Nel 2003 s’installa con i suoi uomini in Meso-
potamia, dove l’anno successivo crea Tan‰øm qå‘idat al-ãihåd fø bilåd al-Rafidayn:
al-Qå‘ida in Iraq. Tutt’a un tratto, Zarqåwø si appoggia alle reti baatiste e sufi 7
che lo aiutano e lo equipaggiano; tra questi figura il generale ‘Izzat al-Dûrø, un
fedele di Saddam Hussein. Frequentazioni bizzarre per un salafita… Le sue atro-
cità, a partire dalle decapitazioni filmate, sollevano un tale polverone mediatico
che Abû Muâ‘ab finisce per essere scaricato e maledetto dal suo clan giordano
(al-Œalåyla) e dalla sua tribù (Banø Õassån). Nel giugno 2006, al-Zarqåwø viene
ucciso dagli americani nei pressi di Ba‘qûba (Iraq). Gli succede un duopolio: co-
me capo militare l’egiziano Abû Õamza al-Muhåãir, soprannominato Abû Ayyûb
al-Maârø, e come vertice politico il già menzionato Abû ‘Umar al-Baôdådø. En-
trambi sono uccisi nell’aprile 2010 a Tikrøt durante un’operazione militare. Un
mese più tardi, ecco spuntare l’ormai arcinoto successore: Abû Bakr al-Baôdådø.
Sin dalla fine degli anni Novanta, il gruppo salafita-jihadista concepito e diret-
to da al- Zarqåwø si propone come pietra angolare del rigorismo sunnita. Si lancia
in una lotta all’ultimo sangue contro i peggiori nemici dell’integralismo sunnita: i
laici nazionalisti (à la Saddam o al-Søsø oggi) e gli sciiti, che questi salafiti percepi-
scono come eresia cleptocristiana in missione per corrompere l’islam più autenti-
co. Obiettivo finale autoproclamato: creare attraverso il jihåd un califfato su tutto
il pianeta, dove i musulmani di tutto il mondo vivranno osservando la 4arø‘a.
Fin qui la teoria, di cui è costellata la propaganda dello Stato Islamico. «La
teoria si verifica nella pratica», diceva Mao: bene, nel caso dell’Is non è affatto co-
sì. In ogni aspetto del sedicente califfato, teoria e pratica si contraddicono –
quando non si escludono a vicenda.
Consideriamo il comando e i quadri dello Stato Islamico: spesso usciti dal
campo di prigionia americano di Bucca, diversi capi dell’Is sono non tanto jihadi-
sti formatisi in Afghanistan e dintorni, ma ufficiali dell’esercito (laico, multiconfes-
sionale, sciita, sunnita, cristiano eccetera) di Saddam. Secondo varie fonti, quattro
membri del consiglio militare del «califfo», sette governatori provinciali su dodici
e il «ministro delle Finanze» sono passati per Bucca 8. Più in generale, nei quadri
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dell’Is fanno capolino fra i 100 e i 170 ufficiali di Saddam, nelle posizioni di intel-
ligence, armamenti e «programmi speciali» (come le armi chimiche).
Fino all’agosto 2015, il numero due dello Stato Islamico, il capo del Consi-
glio militare e l’architetto della strategia era Faîøl al-Õayålø 9, detto Abû Mu‘tazz,

7. Quelle appartenenti alla confraternita al-Naq4bandiyya, entrata in guerra contro l’occupazione


americana.
8. Base militare non lontana dalla città irachena di Umm Qaâr dove, negli anni dell’occupazione, le
Forze armate americane hanno ospitato una superba covata di terroristi, speriamo inconsapevol-
mente.
9. Pare sia stato ucciso vicino Mosul da un drone il 18 agosto 2015. 91
LO STATO ISLAMICO È UNA BANDA DI MERCENARI

ex maggiore dei servizi segreti militari di Saddam, reparto un po’ troppo incline
a farsi infiltrare dalle talpe salafite. Il numero tre invece è Abû ‘Alø al-Anbårø (il
nome vero è ignoto), ex baatista e generale dell’esercito, incaricato delle ope-
razioni militari in Siria. Un altro personaggio importante nei ranghi dell’Is è l’ex
colonnello baatista ¡aha ¡åhir al-‘Åni: all’inizio della caotica occupazione ame-
ricana si è impadronito di enormi quantità di armi e munizioni e in seguito le
ha devolute al «califfo».
In questo quadro, dove sono i jihadisti «storici»? Da nessuna parte, sembra.
Strano, per un «califfato» ultrasunnita.

5. Teoria e pratica: vediamo ora cos’ha fatto concretamente lo Stato Islamico


in Iraq, in Siria e le reali conseguenze del suo operato.
Partiamo dall’Iraq. Con una premessa: benché sciiti in maggioranza, gli ira-
cheni sono prima di tutto arabi e sono in gran parte rimasti fedeli all’Iraq di Sad-
dam durante la lunga e sanguinosa guerra contro l’Iran negli anni Ottanta. Questi
arabi sono senza dubbio legati spiritualmente e sentimentalmente allo sciismo
persiano e ai suoi luoghi santi; ma politicamente sono piuttosto reticenti all’aiuto
«fraterno» di Teheran, un peso gravoso che sentono troppo simile a quello riser-
vato dai sovietici ai polacchi.
È in questo contesto che nel 2003 l’autorità politica suprema degli sciiti ira-
cheni, l’ayatollah Muõammad Bakr al-Õåkim, capo del Consiglio superiore della
rivoluzione islamica in Iraq, rientra dal suo esilio iraniano e viene reintegrato nel-
la città santa sciita di Naãaf. Ci si aspetta che si scagli contro l’occupazione ame-
ricana e invece i suoi toni sono concilianti, pronti persino a una cooperazione li-
mitata con l’invasore. Al-Õåkim viene polverizzato assieme a un centinaio di suoi
fedeli in una gigantesca esplosione a Naãaf nell’agosto 2003. Si tratta del primo
attentato terroristico di Zarqåwø in Iraq, arrivato in Mesopotamia a inizio anno,
ma diversi esperti puntano il dito contro un’operazione delle forze speciali dei
pasdaran iraniani sotto copertura jihadista.
Va peggio nel febbraio 2006, quando un enorme attentato quasi distrugge la
moschea di Såmarrå’, dove giacciono sepolti ‘Alø al-Naqø e Õasan al-‘Askarø, ri-
spettivamente il decimo e l’undicesimo dei 12 santi imam dello sciismo. Que-
st’ultima carneficina di Zarqåwø scatena una feroce guerra civile tra sunniti e
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sciiti, in cui sono assassinati migliaia di fedeli di entrambe le comunità. Le vio-


lenze hanno l’effetto di gettare gli arabi sciiti nelle braccia dell’Iran, costringen-
doli a mendicare l’aiuto e la protezione del loro «grande fratello»: l’Iraq diventa
così un vassallo di Teheran. Da allora, il generale iraniano Qassim Suleimani –
capo della Forza Quds, l’unità dei guardiani della rivoluzione incaricata delle
operazioni speciali in Siria, Libano e Iraq – avrà voce in capitolo a Baghdad,
una sorta di proconsole.
Poi, fra 2007 e 2009, il rullo compressore del surge americano si abbatte sul-
l’Iraq: 170 mila soldati, un budget da 100 miliardi di dollari all’anno. Un sussulto
92 militare mirato ad annientare i qaidisti, dopo la liquidazione del suo capo nel
LA STRATEGIA DELLA PAURA

2006. Ma qui succede un altro miracolo: l’Is passa le forche caudine del surge
senza subire grossi danni. A fine 2011, gli Stati Uniti lasciano la Mesopotamia:
l’ultima unità operativa abbandona le sabbie d’Iraq il 18 dicembre.
Passiamo alla Siria. La guerra civile siriana inizia nella primavera 2011 con
l’apparizione tutt’a un tratto di un «Esercito libero siriano», che lancia operazioni
mirate a ritagliarsi delle «zone liberate». In seguito fa capolino una branca siriana
di al-Qå‘ida, sotto il nome di Ãabhat al-Nuâra. Le prime unità dello Stato Islami-
co, provenienti dalla provincia irachena dell’Anbår, varcano la cosiddetta fron-
tiera a fine 2011. Si uniscono alla coalizione anti-Asad, in quanto alauita alleato
di ferro dell’Iran sciita, la bestia nera dei salafiti? Tutt’altro: appena giunto in Si-
ria, l’Is attacca l’Esercito libero siriano e al-Nuâra, massacrandone i miliziani che
si rifiutano di giurare fedeltà al «califfo» e occupandone le posizioni servendosi
di fumosi pretesti religiosi.
I comportamenti dell’Is, come in Iraq poco tempo prima, sono così atroci
che al confronto pure al-Asad appare presentabile. E riecco apparire il generale
iraniano Suleimani, alle calcagna dello Stato Islamico; poco dopo, diverse mili-
zie sciite, Õizbullåh in testa, volano a migliaia in soccorso del regime di Dama-
sco. Intanto, l’Is prosegue il suo jihåd gore nel Nord del paese; questa volta, so-
no le milizie curde a scendere in guerra, alleviando il peso della controinsurre-
zione ad al-Asad.
Nel febbraio 2014, ad Aleppo, Abû Œålid al-Sûrø, capo della coalizione qaidi-
sta in Siria (Aõrår al-3åm e Ãabhat al-Nuâra) cade vittima di un attentato suicida
fomentato dall’Is. La sanguinosa «guerra civile jihadista» ha già fatto migliaia di
morti, mentre l’esercito lealista, ripiegato sulla Siria utile, tiene i punti in panchi-
na. Ancora a ottobre 2015, durante l’offensiva russo-iraniana pro al-Asad su Alep-
po, gli uomini del «califfo» attaccano le formazioni ribelli attorno alla città assedia-
ta, oltre a combattere altre milizie filoamericane alla periferia di Damasco.

6. Soffermiamoci su due punti. Primo, immaginiamo uno Stato animato da


un feroce odio contro il sunnismo estremista salafita-jihadista. Immaginiamo che
questo paese «salafobo» disponga di enormi mezzi e di agenti scafati. Per soffo-
care il salafismo, per terrorizzare il pianeta – musulmani compresi – cosa po-
trebbe volere di meglio dello Stato Islamico, del suo baccano mediatico, dei
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suoi sgozzamenti, dei suoi roghi, dei suoi stupri, delle sue bombe? Una volta ri-
dotto in polvere l’Is, chi oserà ancora chiamarsi salafita nel prossimo mezzo se-
colo? Secondo, in Medio Oriente, la «grande potenza neoimperiale» americana
aveva due progetti per sottrarsi alla trappola funesta che si era tesa da sola du-
rante gli anni di Bush. In Siria, creare un esercito di opposizione moderata a
Ba44år al-Asad, preludio a un cambio di regime a Damasco. In Iraq, dar vita a
un’alleanza politica fra sunniti e sciiti per superare la guerra settaria e governare
il paese in modo condiviso.
La nostra domanda è: chi ha totalmente annientato questi due progetti – ri-
dotti oggi a poco più di una barzelletta – se non lo Stato Islamico? E cosa resta 93
LO STATO ISLAMICO È UNA BANDA DI MERCENARI

alla Casa Bianca di Obama per tentare di rimettere in piedi una parvenza di ordi-
ne regionale se non imboccare la via di Teheran?
Facciamo un piccolo passo indietro per notare l’ennesima, enorme stranez-
za: quando si scatena l’offensiva americana in Afghanistan (ottobre 2001), i
mujåhidøn stranieri fuggono in maggioranza verso il Pakistan. Non al-Zarqåwø,
stanziato a Herat, molto più vicina – anche culturalmente – all’Iran, zeppa di
agenti sotto copertura di ogni tipo. Laggiù, la sua banda di fanatici si forma alle
tecniche del terrorismo. Dopo l’assalto statunitense, il salafita Zarqåwø si rifugia
nientemeno che in Iran (il paese degli apostati sciiti, ricordiamolo), dove dimora
per almeno qualche mese prima di fare ritorno in Giordania. Braccato dai servi-
zi antiterroristici, il jihadista scappa – pensate un po’ – nella Siria di al-Asad, nel-
le braccia degli eretici alauiti. Nel Levante, secondo un rapporto molto ben do-
cumentato, viene «ospitato e munito di documenti falsi». Da chi, perché e in
cambio di cosa?
A che gioco gioca la Repubblica Islamica d’Iran? Bastino due inquietanti pre-
cedenti. Il primo: dopo gli attentati di Parigi nel 1985-86 (13 morti, 300 feriti), il
terrorista Fu’åd ‘Alø Âåliõ, perfetto sunnita tunisino, era stato reclutato e formato
dagli agenti dei servizi speciali iraniani. Il secondo: negli anni Novanta, i servizi
militari turchi avevano favorito la nascita di un Õizbullåh anatolico, di fatto un
gruppuscolo curdo, per assassinare i quadri del Partito dei lavoratori del Kurdi-
stan, il Pkk. In seguito, i servizi iraniani hanno scippato questa formazione al con-
trollo di Ankara e negli anni successivi lo hanno usato per eliminare gli oppositori
del regime di Teheran in Anatolia. L’affare sollevò un gran polverone in Turchia,
con processi e una miriade di documenti accessibili dal pubblico. Fino a oggi, gli
interrogativi su questa incredibile serie di coincidenze – per essere indulgenti –
non hanno ancora catturato l’attenzione degli analisti ufficiali o dei giornalisti.

(traduzione di Federico Petroni)

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94
LA STRATEGIA DELLA PAURA

‘Criminalità e terrorismo sono


due facce della stessa medaglia’
Conversazione con Louise SHELLEY, professoressa e direttrice del Terrorism, Trans-
national Crime and Corruption Center alla George Mason University (Virginia, Usa)
a cura di Lucio CARACCIOLO e Fabrizio MARONTA

LIMES Lei ha di recente pubblicato un libro dal titolo Dirty Entanglements in cui
analizza gli stretti legami tra terrorismo, criminalità e corruzione. I tragici fatti di
Parigi confermano o smentiscono la sua tesi?
SHELLEY Gli elementi investigativi sin qui disponibili sembrano confermarla appie-
no. Il primo dei terroristi di Parigi ad essere identificato, grazie alle impronte di-
gitali rilevate da un frammento di dito, era stato arrestato otto volte per piccoli
reati. Il che conferma che le più recenti e temibili forme di terrorismo, come
quella dello Stato Islamico (Is), sono finanziate dalle attività criminali. Non solo
dalla criminalità organizzata, dai grandi traffici di droga e armi, ma anche e sem-
pre più dalla piccola criminalità urbana, cui gli apparati di sicurezza occidentali
non rivolgono grande attenzione. Spaccio, contrabbando di sigarette, vendita di
prodotti contraffatti: è di questo che vive la nuova manovalanza terroristica. Uno
degli attentatori di Charlie Hebdo, ad esempio, vendeva merce contraffatta e si-
garette di frodo. Quando ho appreso che la pianificazione degli attacchi di Parigi
è avvenuta in Belgio ho fatto un salto sulla sedia: nel mio libro parlo infatti dei
traffici di prodotti falsi ed esseri umani che avvengono nel paese e di cui lo stes-
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so governo belga dà conto in un rapporto sui diritti umani. Dopo gli attacchi di
Londra del 2005, la polizia belga ha fatto irruzione in casa di uno di questi traffi-
canti e vi ha trovato un modello in scala della metropolitana londinese.
LIMES Ma qual è esattamente il collegamento funzionale tra il terrorismo e la pic-
cola criminalità?
SHELLEY In passato il terrorismo era finanziato principalmente, ancorché non uni-
camente, dagli Stati e dai loro emissari. Al-Qå‘ida, lo sappiamo, è sostanzialmen-
te una creazione saudita. Man mano che questa fonte di finanziamento si è an-
data prosciugando, è sorta la necessità per le grandi organizzazioni terroristiche
di trovare fonti alternative di sostentamento. Lo Stato Islamico (Is), che ha rile- 95
‘CRIMINALITÀ E TERRORISMO SONO DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA’

vato il testimone dalla rete di Osama bin Laden, nella sua propaganda in arabo
si vanta di autofinanziarsi. Lo fa attraverso vari canali, tra cui la vendita del pe-
trolio prelevato dai pozzi siriani e iracheni in suo possesso (il cui volume è però
difficile da stimare, data la precaria gestione degli impianti di estrazione e tra-
sporto in una situazione di guerra), il traffico di reperti archeologici, i sequestri
a fini di riscatto, la tratta di esseri umani – come le donne yazide – e la «tassa-
zione» delle aree su cui insiste il sedicente califfato. Fatta parziale eccezione per
il traffico di reperti, queste attività si svolgono a livello regionale. La piccola cri-
minalità che ha per teatro le nostre periferie e per protagonisti gli aspiranti «mar-
tiri» svolge invece un ruolo fondamentale nella fase di reclutamento e addestra-
mento delle nuove leve. Non vi sono infatti evidenze che l’Is finanzi il sostenta-
mento dei foreign fighters quando sono ancora nei loro paesi di provenienza e
quando vi fanno ritorno come cellule dormienti in attesa di un segnale per col-
pire. Le piccole attività illecite danno dunque da vivere a questi individui, di cui
l’organizzazione ha vitale bisogno per colpire al cuore l’Occidente. Inoltre, an-
che quando i combattenti stranieri giungono in Siria, non sono «stipendiati» da
subito, per cui devono provvedere a se stessi per almeno tre o quattro mesi, fin-
ché l’addestramento militare non li rende «produttivi». Alcuni vendono i propri
passaporti in Turchia, ma molti altri giungono in Siria con i risparmi frutto degli
illeciti compiuti in patria. In media oltre il 50% degli individui reclutati dallo Sta-
to Islamico in Occidente risulta avere precedenti penali.
LIMES Si può dunque dire che la criminalità sia un mezzo al servizio del fine ter-
roristico?
SHELLEY Solo in parte. Nella misura in cui il terrorismo jihadista si ammanta di un
millenarismo ideologico e pseudoreligioso, esso è a sua volta un mezzo di «re-
denzione» dell’individuo emarginato. Lo stigma sociale connesso al crimine è
cancellato, agli occhi dell’aspirante terrorista, nel momento in cui egli si mette al
servizio di una causa presentata (e percepita) come nobile e importante. È un
meccanismo psicologico potente, che garantisce una devozione assoluta, fino al
sacrificio della vita – propria e altrui.
LIMES Per quale ragione i governi faticano a cogliere questo legame funzionale
tra terrorismo e criminalità?
SHELLEY Ne stanno acquisendo crescente consapevolezza, ma l’adattamento degli
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apparati normativi, istituzionali e di sicurezza è un processo che richiede tempo.


I francesi ad esempio hanno creato da qualche tempo un gruppo di lavoro fran-
co-statunitense per analizzare il fenomeno e prendere le relative contromisure.
Tuttavia gli ultimi attentati dimostrano che la strada da fare è ancora molta. In
parte è un problema di inerzia burocratica, in parte credo si tratti di un limite
culturale da superare. L’Italia ha alle spalle una lunga storia di lotta al crimine or-
ganizzato e al terrorismo interno, che l’ha portata a dotarsi di una cultura dell’an-
titerrorismo assente in Stati, come la Francia appunto, che non hanno conosciuto
stagioni eversive paragonabili agli anni di piombo italiani. Tuttavia, complici gli
96 ultimi, drammatici eventi, credo siano ormai maturi i tempi di una svolta cultura-
LA STRATEGIA DELLA PAURA

le. Del resto, il connubio tra crimine e terrorismo non è un’invenzione dell’Is. Al
principio del mio libro parlo di Muœtår Bilmuœtår, alias Mr Marlboro, già leader
di Aqmi (al-Qå‘ida nel Maghreb islamico), l’algerino che ha costruito una fortuna
sul contrabbando di sigarette e l’ha usata (anche) per finanziare la sua attività ter-
roristica. Anche Aqap (al-Qå‘ida nella Penisola Arabica) ha seguito un iter simile,
ma il trend precede la stagione jihadista: le Farc colombiane, ad esempio, hanno
usato a lungo il crimine per autofinanziarsi.
LIMES Che differenze vi sono tra Bilmuœtår e al-Baãdådø?
SHELLEY La principale differenza è che l’Is di al-Baãdådø beneficia delle compe-
tenze militari e amministrative dell’ex leadership sunnita irachena, passata armi e
bagagli al servizio del «califfo». Bilmuœtår non aveva a disposizione una simile ex-
pertise. Inoltre, gran parte della leadership dello Stato Islamico è stata forgiata
dalla prigionia nei centri di detenzione americani di Camp Bucca e Camp Adler.
LIMES Il suo libro è piovuto sull’establishment e sul pubblico americano quasi co-
me un fulmine a ciel sereno. Non sembra esservi in America grande consapevo-
lezza del legame crimine-terrorismo. È così?
SHELLEY Sì, finora le mie ricerche hanno suscitato più interesse fuori dagli Stati
Uniti – in Europa, ma anche in Asia – che nel mio paese. La ragione credo risie-
da nel tipo di approccio al terrorismo: quello statunitense tende ad essere essen-
zialmente militaristico. L’attenzione agli aspetti finanziari è riservata soprattutto ai
grandi flussi di denaro che transitano per banche e fondazioni, di solito «congela-
ti» con le sanzioni. Sfugge ancora quasi completamente la dimensione micro: i
piccoli trasferimenti di denaro frutto spesso di attività illecite come il contrabban-
do o lo spaccio, fatti da singoli individui di solito mediante i servizi di money
transfer. È tempo che Stati Uniti ed Europa adottino un approccio unitario ai
problemi del terrorismo, del crimine transnazionale e dei piccoli fenomeni crimi-
nali a questo variamente collegati, perché si tratta di facce dello stesso prisma. Il
crimine internazionale usa ad esempio i circuiti produttivi e commerciali mondia-
li per rifornire i mercati di stupefacenti e merci contraffatte, la cui vendita al det-
taglio contribuisce, come abbiamo visto, a finanziare il terrorismo. In America ab-
biamo due esempi virtuosi, quelli di New York e di Los Angeles: due grandi città
particolarmente esposte alle minacce esterne che stanno sperimentando un ap-
proccio integrato a questi fenomeni. Spero che presto tali eccezioni facciano
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scuola.

97
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LA STRATEGIA DELLA PAURA

TEHERAN, BAGHDAD
E I MOLTI PADRI
DELLO STATO ISLAMICO di Nicola PEDDE
L’Is nasce dalla de-baatificazione dell’Iraq decisa dagli Usa,
dalla miopia di al-Målikø e dall’ingerenza iraniana a sostegno degli
sciiti. Ora che il mostro è sfuggito di mano, Forza Quds e Guardie
rivoluzionarie si contendono tra le polemiche la strategia anti-califfo.

L O STATO ISLAMICO (IS) HA UNA SUA BEN


precisa collocazione storica e geografica: nasce dal processo di disgregazione
dell’Iraq e soprattutto dalla crescente incapacità di gestione politica delle nuove
autorità sciite subentrate al partito Batõ dopo la caduta di Saddam Hussein.
La genesi dell’Is si colloca geograficamente nell’Anbår iracheno, vasta pro-
vincia a maggioranza sunnita dove si è andata progressivamente costituendo e
rafforzando la presenza di tutte quelle formazioni politiche o sociali di estrazione
confessionale sunnita che dal 2003 in poi sono state oggetto di una crescente
marginalizzazione da parte delle nuove autorità di Baghdad.
Con la fine del regime di Saddam Hussein e con la disgregazione delle Forze
armate e del partito Batõ, non è stato difficile per la maggioranza sciita del paese
imporre una linea politica pervasiva e alquanto critica sulla possibilità di una rea-
le integrazione delle componenti sunnite. Questo in virtù di una duplice circo-
stanza: da un lato la volontà di riscatto e vendetta per le angherie subite negli ol-
tre quarant’anni di dominazione politica sunnita del paese; dall’altro l’incapacità
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culturale – ampiamente diffusa in tutta la regione – di concepire un ruolo com-


misurato per le minoranze etniche e religiose.
Le radici dell’odierno Stato Islamico – da non confondersi con le sempre
più numerose e spesso alquanto dubbie forme di autoaffiliazione in vasta parte
del Medio Oriente – devono quindi essere individuate nel deterioramento dei
rapporti tra la comunità sunnita e quella sciita nell’Iraq post-Saddam, dominati
dalla sempre più evidente incapacità (delle forze internazionali di occupazione
prima, della nuova maggioranza politica sciita poi) di individuare e attuare una
strategia per l’effettivo riconoscimento del peso e del ruolo della minoranza
sunnita. 99
100
Tabriz
Kurdistan
Ceyhan
Mosul Mazar-i-Sharif
SI RI A IR AQ Mashhad
Kirkūk Kashmir
Ba)īğī Qom Peshawar
Sāmarrā)

Karbalā)
Gerusalemme
Nağaf Lahore
Kandahar
Canale
di Suez Quetta
Shiraz

Dalbandin
TEHERAN, BAGHDAD E I MOLTI PADRI DELLO STATO ISLAMICO

Stretto di Hormuz

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Karachi
Medina

OMAN
La Mecca

Sciiti Principali città


sante sunnite
Duodecimani
Alauiti Principali conflitti
Nağrān in atto
Ismaeliti
Zaiditi Forti tensioni
geopolitiche
Principali città
sante sciite
Principali oleodotti
e gasdotti
Riserve e
prospezioni
di petrolio e gas
Golfo di Aden
LA STRATEGIA DELLA PAURA

La demografia irachena, in alcun modo tenuta in considerazione da Sykes


e Picot e poi brutalmente manipolata con l’istituzione del regno hashemita del-
l’Iraq nel 1921, presenta oggi un quadro particolarmente complesso e delicato.
Non essendo stato praticamente mai svolto un vero e proprio censimento nel
paese – quelli condotti all’epoca di Saddam Hussein non possono essere consi-
derati scientificamente validi – i dati demografici oggi in uso nella valutazione
del paese sono quelli di stima delle Nazioni Unite e del Fondo monetario inter-
nazionale, secondo i quali il totale della popolazione dovrebbe assestarsi sui
32,5 milioni di abitanti, di cui circa il 75-80% etnicamente arabi, il 15-20% curdi
e il restante 5% di varia estrazione.
Il dato religioso presenta invece una maggioranza di circa il 98-99% di musul-
mani, il restante 1-2% essendo costituito da minoranze religiose (in massima parte
cristiani). La popolazione musulmana è a sua volta suddivisa in una maggioranza
confessionale sciita pari al 64-66% – localizzata essenzialmente nelle regioni cen-
tro-meridionali del paese – e in una minoranza sunnita pari al 33-35%, localizzata
nelle aree centro-occidentali e in una piccola enclave nel Sud. Sono sunniti anche
la gran parte dei curdi, quasi esclusivamente localizzati nelle aree settentrionali.
Quando gli inglesi disegnarono l’impianto istituzionale del nuovo Iraq –
nei primi anni Venti del secolo scorso – al pari dei francesi stabilirono che gli
equilibri di forza sul terreno sarebbero stati meglio gestiti attraverso un disequi-
librio etnico-politico, in puntuale ossequio al principio del divide et impera di
romana memoria, collocando quindi al vertice del potere un sovrano di estra-
zione hashemita. Questo determinò la costituzione di gerarchie politiche, mili-
tari e amministrative in seno alla minoranza arabo-sunnita, che oggi come ieri
rappresenta circa il 17-18% della popolazione irachena, innescando in tal modo
la contrapposizione con la maggioranza sciita.
È in questa cinica miopia coloniale che affondano le radici dell’attuale dif-
ficoltà di gestione degli equilibri intraconfessionali in Iraq, come in vasta parte
della regione e del continente africano: successivamente il partito Batõ, sebbe-
ne di ispirazione laica e di matrice socialista, continuò a favorire l’ascesa della
componente sunnita ai vertici del sistema di comando. Le repressioni, spesso
violente e brutali, che per anni hanno caratterizzato l’evoluzione della politica
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irachena a danno della minoranza sciita – e di quella curdo-sunnita – hanno


quindi progressivamente rafforzato il senso di rivalsa degli sciiti, consolidando-
ne la coesione sociale attraverso la creazione di organizzazioni filantropiche e
caritatevoli poi risultate di fondamentale importanza durante la transizione poli-
tica gestita dalla comunità internazionale nel 2003.
Con il crollo dell’apparato politico centrale del partito Batõ e con la scelle-
rata decisione di disgregare le Forze armate irachene, gli Stati Uniti aprono
quindi un nuovo vaso di Pandora da cui si liberano in modo caotico e violento
tutte le forze presenti nell’eterogeneo mosaico etnico-religioso iracheno, provo-
cando ben presto l’avvio di un’accesa conflittualità. 101
TEHERAN, BAGHDAD E I MOLTI PADRI DELLO STATO ISLAMICO

Il fronte sunnita, la crisi di al-Qå‘ida e la nascita dell’Is


La comunità sunnita irachena è alquanto eterogenea – al pari di quella scii-
ta – e dalla caduta di Saddam Hussein a oggi si è assistito a una progressiva loca-
lizzazione dei diversi gruppi nelle aree geografiche di radicamento delle rispetti-
ve leadership. La principale ragione della conflittualità tra comunità sunnite e
sciite deve individuarsi nel caotico equilibrio nazionale successivo alla disintegra-
zione del sistema amministrativo del partito Batõ e alla contestuale ascesa della
comunità sciita alla guida dell’Iraq, che grazie alla miopia della sua classe diri-
gente non ha saputo comprendere la necessità di un vigoroso cambiamento di
marcia nel tradizionale rapporto tra le due comunità.
La memoria di oltre quarant’anni di prevaricazioni e violenze ha prodotto
come risultato un eccessivo settarismo, con il ricompattamento delle comunità su
basi confessionali e l’avvio di una politica di ostracismo e vessazione sistematica
della componente sunnita. Risultato: un’escalation della violenza e la progressiva
radicalizzazione delle posizioni.
L’inasprimento del settarismo e il disastroso effetto della dissoluzione delle
Forze armate portarono in breve tempo al ricompattamento di molti esponenti
dell’ex apparato militare saddamita in unità militari clandestine, che ben presto
transitarono dal laicismo del passato al più radicale islamismo di matrice settaria.
È quindi nell’ambito di formazioni di estrazione sunnita e baatista che, nel 2003,
devono essere individuati i sintomi di una progressiva metamorfosi: dall’adesione
ad al-Qå‘ida a un’evoluzione autoctona di matrice irachena – l’Is appunto.
Queste unità hanno saputo coagulare i sentimenti e la volontà di resistenza
della minoranza sunnita attraverso una rapida e radicale deriva confessionale di
gruppi un tempo squisitamente laici o blandamente confessionali, dando un
obiettivo ideologico oltre a quello pragmatico della conquista o difesa del terri-
torio. Non tutte le forze sunnite hanno tuttavia subìto questo processo di tra-
sformazione, come dimostra l’esperienza dell’Esercito islamico dell’Iraq (Iai):
operativo sin dal 2003, guidato da ex appartenenti alle Forze armate di Saddam
e caratterizzato sin dagli esordi da una posizione nettamente distinta dai gruppi
di ispirazione baatista o confessionale. L’elemento coagulante dell’Esercito isla-
mico dell’Iraq è stato principalmente il nazionalismo, con un forte connotato
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pragmatico e la capacità di ridefinire gli obiettivi in funzione della realtà opera-


tiva sul terreno. Non stupisce quindi che molti dei suoi appartenenti, dopo
aver combattuto tenacemente contro le forze americane, abbiano poi aderito a
organizzazioni finanziate dagli Stati Uniti (come i Consigli del risveglio) impie-
gate in funzione antijihadista.
I Consigli, costituiti e finanziati con il diretto sostegno degli Stati Uniti, erano
composti da esponenti delle tribù sunnite e strutturati su una pluralità distinta di
gruppi combattenti, autonomi tra loro ma raccordati da una comune linea di co-
mando. Sono stati senza dubbio i principali artefici del contrasto al jihadismo e al-
102 la diffusione del proselitismo qaidista nell’Iraq settentrionale; la loro naturale evo-
LA STRATEGIA DELLA PAURA

luzione avrebbe dovuto essere l’integrazione all’interno delle ricostituite Forze ar-
mate irachene, con pari dignità di ruolo e riconoscimento della linea di comando.
L’incapacità politica di al-Målikø e la contestuale uscita dal paese delle Forze
armate statunitensi hanno tuttavia interrotto il progetto di integrazione dei Consi-
gli, alimentando al contempo un crescente risentimento verso le istituzioni cen-
trali trasformatosi in aperta opposizione a partire dal 2012. Quando le formazioni
di estrazione baatista e confessionale entrarono in conflitto con la struttura qaidi-
sta regionale, iniziando a definire una loro realtà autonoma (lo Stato Islamico),
ancora una volta i Consigli dimostrarono il loro predominante sentimento nazio-
nalista, ricucendo i rapporti con il governo al-Målikø – che nel 2014 aveva accu-
sato il loro leader Aõmad Abû di terrorismo – e schierandosi al fianco delle forze
governative nella riconquista del paese.
È quindi ancora una volta nella mancanza di visione e di sintesi politica del-
l’ex primo ministro al-Målikø che deve individuarsi il vero elemento coesivo delle
formazioni radicali e jihadiste irachene in seno alle comunità sunnite. La repres-
sione nel 2011 delle istanze politiche della comunità sunnita è senza dubbio il
momento di sintesi di queste posizioni, con la conseguente sedimentazione e
amalgama di un generale sentimento di malcontento maldestramente trasformato
da al-Målikø in concreta e reale minaccia. Sono progressivamente confluiti in que-
sta nuova dimensione unitaria gruppi di diversa estrazione politica e ideologica,
tra i quali quello di maggior peso e consistenza è forse l’Esercito degli uomini
dell’ordine di Naq4bandi (Ãay4 riãål al-¿arøqa al-naq4bandiyya, Jrtn).
L’Is è dunque sorto dall’evoluzione di alcune organizzazioni jihadiste irache-
ne di ispirazione qaidista e si è sempre contraddistinto per un elevato grado di
autonomia, grazie al quale ha maturato nel corso degli ultimi anni una piattafor-
ma e una posizione politico-operativa del tutto distinte da quelle delle altre forze
qaidiste, con cui è entrato in diretto contrasto nell’ambito del sanguinoso conflit-
to siriano. Il connotato jihadista si sposa nell’Is con un’elevata capacità organizza-
tiva e con una forte vocazione economica, che ne ha fatto in pochi anni una del-
le realtà più ambiziose e finanziariamente solide, con intensi legami regionali
nella galassia salafita, ma anche con un’agenda individuale estremamente ben
definita e poco pluralista sotto il profilo delle sinergie operative.
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L’Iran e il settarismo in Iraq


Un complesso concorso di responsabilità è dunque alla base non solo del
settarismo iracheno, ma anche e soprattutto della nascita delle formazioni jihadi-
ste di estrazione qaidista prima e dello Stato Islamico poi.
Le prime e più evidenti responsabilità devono necessariamente essere ricon-
dotte alla pianificazione dell’operazione militare che portò alla caduta di Saddam
Hussein nel 2003, con la scellerata decisione degli Stati Uniti di dissolvere le For-
ze armate e di liberare quindi un potenziale di forze ben presto condotto dal set-
tarismo nell’ambito nella lotta armata. Non può tuttavia essere sottaciuta la re- 103
TEHERAN, BAGHDAD E I MOLTI PADRI DELLO STATO ISLAMICO

GOLFO PERSICO
Estahan
LE POSTE IN GIOCO
Yazd
al-Nāsiriyya
Ahwaz

Bassora IRAN
Abadan

Bandar-e
KUWAIT Deylam Rafsanjan
Kerman
al-Kuwayt Shiraz
Ganaveh
Kharg Island
Mīnā) Sa(ūd Firuzabad

Kangan

Bandar-e Abbas
BAHREIN
North
Pars
QATAR Abū
al-Buhūš al-Fātih Jask
Doha Rašīd Sağa(
Umm Šarīf
al-Bunduq Zākūm
Dubai
Abu Dhabi
Suhār
. .
Ğabal al-Zanna
.
EMIRATI Bāb al-Sāhil
ARABI UNITII (Asab Mīnā) al-Fahl
Bū Hasā
. . Šāh OMAN Mascate

Sūr
ARABIA SAUDITA

al-Huwaisa
Abū Ğīfān
Sayh Rawl
Basi militari Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

e/o aeroporti
Giacimenti petroliferi
Oleodotti
Giacimenti di gas
Gasdotti
Bū Hasa
. . Principali giacimenti
Z u f ā r
Rapporto tra sciiti e sunniti:
Kuwait: Sunniti 60%-Sciiti 25%
Bahrein Sunniti 30%-Sciiti 70%
Emirati
Arabi Uniti: Sunniti 81%-Sciiti 15%
104 Salāla
LA STRATEGIA DELLA PAURA

sponsabilità delle autorità sciite di governo dell’Iraq nell’aver dapprima promosso


un esasperato settarismo nella condotta della politica nazionale, per poi adottare
quelle politiche di esclusione e soggezione delle comunità sunnite ben presto
sfociate in una contrapposizione politica e militare assai cruenta.
Un terzo attore ha tuttavia svolto un ruolo fortemente indirizzato a rafforzare
le politiche settarie ed esclusiviste della leadership sciita irachena: la Repubblica
Islamica dell’Iran. Colta di sorpresa dagli eventi che tra il 2001 e il 2003 portaro-
no gli Stati Uniti a intervenire militarmente in due paesi confinanti, Teheran reagì
disordinatamente al collasso istituzionale iracheno, cercando di occupare spazi
politici, militari ed economici che si aprivano nell’insieme di un paese sì a mag-
gioranza sciita, ma di estrazione araba e tradizionalmente ostile all’Iran. La pene-
trazione iraniana all’interno del tessuto sociale iracheno avvenne quindi a com-
pensazione del vuoto provocato dall’intervento militare statunitense. Come due
anni prima nell’Afghanistan occidentale, l’Iran fece il suo ingresso in Iraq andan-
do cautamente a colmare il vuoto di potere e di capacità istituzionale creato dalla
coalizione internazionale, impossessandosi senza colpo ferire dei principali centri
del potere politico ed economico locale.
La vera barriera alla capillare penetrazione politica dell’Iran fu paradossal-
mente quella religiosa, laddove sin dapprincipio il clero iracheno fece muro. La
presenza in Iraq del grande ayatollah al-Søstånø (vera autorità di riferimento spiri-
tuale del mondo sciita) e la sua convinta difesa del principio di separazione tra la
sfera temporale e quella religiosa, determinò la prima grande sconfitta dell’Iran
nell’Iraq post-Saddam, con il deciso rigetto del principio giuridico del velayt-e fa-
qih e l’impossibilità quindi di favorire un’evoluzione politica in linea con quella
della Repubblica Islamica.
La strategia di penetrazione dell’Iran nel paese si volse allora al sostegno
delle iniziative di sviluppo economico nelle aree a maggioranza sciita e al conte-
stuale potenziamento delle milizie confessionali sciite che sempre più incisiva-
mente si insediarono nell’amministrazione civile e nell’esercito.
Al tempo stesso, Teheran favorì il consolidamento della nuova leadership
politica nazionale, incentivandone l’esclusivismo confessionale e lo sforzo di
marginalizzazione delle vecchie élite di tradizione baatista, considerate potenzial-
mente portatrici di quel sentimento antiraniano che così a lungo aveva caratteriz-
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zato l’orientamento del regime di Saddam Hussein. Così facendo, tuttavia, l’Iran
finì per alimentare un generale sentimento di avversione per qualsiasi forma di
partecipazione istituzionale delle minoranze sunnite, che ben presto si organizza-
rono su base territoriale in entità compatte e spesso impenetrabili, pronte a di-
fendersi dalla percepita volontà di riscatto e vendetta della maggioranza sciita.
Questo meccanismo portò al consolidamento delle formazioni armate che
nella provincia dell’Anbår si contrapposero militarmente al nuovo potere centrale
di Baghdad, abbracciando progressivamente un radicalismo che poco dopo as-
sunse i connotati dogmatici del più violento confessionalismo. Una trasformazio-
ne epocale per gruppi di estrazione baatista, che trova giustificazione nella ne- 105
TEHERAN, BAGHDAD E I MOLTI PADRI DELLO STATO ISLAMICO

cessità di consolidare un blocco coeso e motivato in seno alla minoranza sunnita


contro lo strapotere e la crescente violenza delle formazioni sciite. L’inasprirsi del
confronto militare provocò a sua volta il sempre più deciso sostegno dell’Iran al-
le dinamiche settarie, finendo per alimentare una crisi dalla quale l’Iraq non è
mai più uscito.
Il sostegno concesso dall’Iran al governo al-Målikø nella più totale miopia, ha
portato nel 2014 al consolidamento del ruolo e della capacità operativa dello Sta-
to Islamico in buona parte dell’Anbår iracheno e in altre regioni del Nord a mag-
gioranza curda. Il successivo ingresso nelle dinamiche del conflitto siriano e la
definitiva affermazione delle milizie dell’Is sul territorio hanno portato alla débâ-
cle militare del governo centrale e a un poderoso intervento militare iraniano,
svolto attraverso le unità speciali della Forza Quds e i consiglieri inviati nel tenta-
tivo di arginare la penetrazione del «califfato» verso Baghdad e il suo consolida-
mento nelle principali città a maggioranza sunnita.
La pianificazione dell’intervento è però avvenuta nell’ambito dell’eterogeneo
e alquanto conflittuale processo di definizione delle politiche di sicurezza irania-
ne, che ha visto scontrarsi l’interventismo del generale Soleimani della Forza
Quds e la cautela tattica del generale Jafari, comandante dell’Irgc (le Guardie ri-
voluzionarie).

E ora?
Nonostante le autorità centrali irachene pubblicizzino a gran voce i successi
delle operazioni volte alla riconquista di aree controllate dallo Stato Islamico, la
realtà sul terreno appare ben diversa. Le aree a maggioranza sunnita hanno di
fatto accolto lo Stato Islamico ritenendolo un’alternativa migliore rispetto al go-
verno sciita di Baghdad. Solo una minima parte dell’Anbår è stata riconquistata e
appare assai poco probabile che una campagna militare possa assicurare il ripri-
stino del controllo territoriale sino ai confini con la Siria.
Sono quindi poche le prospettive per l’Iran di trasformare la sua partecipa-
zione al processo di riconquista del paese in un vero successo politico e militare;
le campagne in Siria e in Iraq sono peraltro oggetto di un sempre più accesso e
conflittuale dibattito politico e sociale interno, tra chi ne sostiene a spada tratta
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l’importanza strategica e chi ne denuncia l’eccessivo costo e gli scarsi risultati.


Continua dunque a mancare sia a Baghdad sia a Teheran la capacità di
concepire una soluzione politica e sociale su base partecipativa che possa rico-
noscere alla pur modesta minoranza sunnita un ruolo nella futura gestione del
paese. Con il sempre più concreto rischio di convincere la comunità internazio-
nale della necessità di una partizione etnico-confessionale dell’Iraq, che sanci-
sca le prerogative e i diritti di entrambe le comunità.

106
LA STRATEGIA DELLA PAURA

NONOSTANTE PARIGI
OBAMA RESTA
FUORI DALLA MISCHIA di Dario FABBRI
Pur se solidale coi francesi, Washington non muta strategia: lo Stato
Islamico non è una minaccia per gli americani, va solo contenuto.
Mosca e gli altri si impantanino pure per Damasco. Col rischio però
di rivedere Putin senza sanzioni e a braccetto alla Merkel.

1. L’ INDOLENTE ATTEGGIAMENTO DI OBAMA


nei confronti dello Stato Islamico (Is o Då‘i4 nell’acronimo arabo) è tutto nel-
l’improvvisato e spettacolare incontro bilaterale avuto con Vladimir Putin a
margine del G20 di Antalya. Seduti su un divanetto, i due leader – più il consi-
gliere per la Sicurezza nazionale Usa Susan Rice – hanno discusso per circa 35
minuti dell’attuale situazione siriana e di come combattere fattivamente il terro-
rismo. In apparenza un momento produttivo, nel quale si è perfino accennata
la possibilità di un’ufficiale cooperazione militare tra le due potenze. In realtà
un incontro assai scenografico e poco concreto, come dimostrato dalla scelta di
Barack di affidarsi esclusivamente all’interprete russo, sebbene a differenza del-
la sua omonima Condoleezza, la Rice non potesse aiutarlo nella comprensione
della lingua di Tolstoj.
Obiettivo subliminale dell’estemporanea dignità riconosciuta al capo del
Cremlino era chiarire agli interlocutori internazionali chi dovrebbe accollarsi gli
oneri maggiori della guerra contro il «califfo» – rischio di impantanamento inclu-
so. Perché all’indomani degli attentati di Parigi, l’approccio della Casa Bianca allo
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Stato Islamico non cambia. L’internazionale jihadista è minaccia esiziale per euro-
pei, russi e (alcuni) levantini. Non per gli americani. Lontani geograficamente e
strategicamente dal Medio Oriente, gli Stati Uniti lasciano volentieri ad altri il
compito di affrontare l’Is. Consapevoli che nessuna nazione esterna sarà in grado
di dominare l’intera Siria, probabilmente divisa in futuro in sfere di influenza. Un
progetto in linea con l’utilitaristico e pressoché obbligato concerto di potenze
perseguito da Obama. A patto che la rinnovata collaborazione tra russi e occi-
dentali in terra siriana non si riverberi sugli equilibri europei, sanciti dalla crisi
ucraina a perfetto vantaggio della superpotenza.
107
NONOSTANTE PARIGI OBAMA RESTA FUORI DALLA MISCHIA

2. La Francia è in assoluto la nazione al mondo più simile agli Stati Uniti.


Portatrici di valori universali e laici, Parigi e Washington preferiscono da sempre
la cultura alla biologia, la cittadinanza percepita all’appartenenza per discenden-
za. Più di due Stati sovrani: due idee cui si può aderire per convinzione filosofi-
ca, al di là della provenienza etnica e dell’estrazione intellettuale. Nelle parole di
Thomas Jefferson: «Il destino delle due repubbliche è legato indissolubilmente.
Abbandonare la Francia significherebbe minare la nostra stessa nazione» 1. Non è
un caso che la Statua della Libertà, simbolo stesso dell’America, sia stata proget-
tata e realizzata dai francesi Frédéric Auguste Bartholdi e Gustave Eiffel e poi do-
nata da Parigi al Nuovo Mondo.
Tuttora esiste tra i due popoli un rapporto particolarissimo e ossimorico, con
i francesi che guardano con arroganza e invidia oltreoceano e gli americani che
pensano l’Esagono quale versione agée e oleografica del loro paese. Ne deriva
che gli attentati del 13 novembre abbiano notevolmente scosso l’opinione pubbli-
ca statunitense. Casa Bianca compresa. Eppure poco prima di salire sull’Air Force
One diretto in Turchia, Obama ha sintetizzato in due parole la risposta da fornire
a partner e rivali che, in seguito ai fatti parigini, avrebbero certamente chiesto alla
superpotenza di guidare l’assalto al «califfato». «No way», in nessun modo. Con i fa-
voriti Susan Rice e Ben Rhodes, viceconsigliere per la Sicurezza nazionale, incari-
cati di spiegare tanta coerente riluttanza ai 18 governi presenti ad Antalya.
Piuttosto, a cavallo degli ultimi drammatici eventi, Obama ha clamorosamen-
te palesato il suo reale sentimento nei confronti della lotta a Då‘i4 e dell’interven-
to russo in Siria. Come letteralmente scritto da Limes due mesi prima2, il 12 no-
vembre per la prima volta il presidente ha ammesso che intento primario della
sua amministrazione non è sbaragliare lo Stato Islamico, quanto «contenerlo».
«Non credo che l’Is stia diventando più forte. Dall’inizio il nostro obiettivo è sem-
pre stato contenerlo e ci siamo riusciti» 3, ha dichiarato con straordinaria schiettez-
za al network Abc.
Sostrato dell’attuale minimalismo Usa è una spiccata consapevolezza impe-
riale che, a differenza del recente passato, consiglia alla superpotenza di spen-
dersi soltanto nelle crisi potenzialmente in grado di annullarne la supremazia
globale. Nei calcoli di Obama la Siria ha smesso di rappresentare un dossier rile-
vante già nel marzo del 2013, quando durante un incontro clandestino tenutosi a
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Mascate, capitale dell’Oman, funzionari iraniani confermarono agli americani


d’essere disposti a trattare il futuro del loro programma nucleare e la collocazio-
ne della Repubblica Islamica sullo scacchiere internazionale. In quel momento il
proposito di rovesciare al-Asad, storico alleato di Teheran, per ridurre il potere
negoziale degli ayatollah fu definitivamente abbandonato. Anche perché nel frat-

1. Cfr. T. JEFFERSON, J.M. YARBROUGH, The Essential Jefferson, Indianapolis 2006, Hackett Publishing, p. XX.
2. Cfr. D. FABBRI, «Per Obama, questo è il miglior Medio Oriente possibile», Limes, n. 9/2015, pp. 29-36.
In particolare si veda p. 32: «In nuce [per la Casa Bianca]: il califfato va contenuto, non obliterato».
3. Cfr. Full transcript of the interview ABC News’ chief anchor George Stephanopoulos conducted
108 with President Barack Obama on November 12, 2015 at the White House, goo.gl/mxw7yT
LA STRATEGIA DELLA PAURA

tempo i guerriglieri anti-Damasco s’erano dimostrati tanto cruenti e inaffidabili


quanto il loro nemico alauita. Da qui lo sprezzante soprannome di «Abu Hussein»
conferito dai ribelli sunniti a Obama 4, in riferimento a Õusayn ibn ‘Alø ibn Abø
¡ålib, il terzo imam sciita della storia.
Oggi per gli analisti statunitensi la crisi siriana è semplicemente irrisolvibile.
E Då‘i4 rappresenta soltanto l’ultima versione dell’endemica insurrezione sunnita,
oltre che un soggetto utile a sottrarre preziose risorse economiche e militari ad
alleati e antagonisti, impossibilitati dagli eventi a puntare all’egemonia regionale.
Dalla Russia alla Turchia, fino all’Iran. Ancora una volta è stato lo stesso Obama
a illustrare con candore la propria opinione in merito. «Le nostre Forze armate
sono certamente capaci di cacciare i terroristi da Mosul, da Raqqa o da Ramådø,
ma dobbiamo chiederci: cosa succederebbe poi? Se la popolazione locale non si
impegna a creare un governo inclusivo», chiarisce il presidente americano ser-
vendosi di una serie di invettive retoriche, «assisteremmo alla ripetizione di una
storia già vista. Inoltre, seppure inviamo 50 mila truppe in Siria, che facciamo poi
se si verifica un attacco terroristico in Yemen? Inviamo truppe anche lì? E poi in
Libia? O in un’altra nazione del Nordafrica o del Sud-Est asiatico?» 5. Priva di alcun
pigmento lirico o umanitario, la dottrina presidenziale non affascina l’opinione
pubblica domestica, ma tiene la superpotenza fuori dai guai e obbliga le altre na-
zioni a schierarsi in prima linea. Consentendo a Washington di studiare tattiche e
progresso tecnologico delle Forze armate altrui.
Anche per questo Obama valuta positivamente l’intervento del Cremlino in
Siria 6. Seconda ammissione in concomitanza con la strage di Parigi, il 18 novem-
bre Barack ha dichiarato ufficialmente di «apprezzare l’azione russa, sebbene sa-
rebbe meglio che questa fosse maggiormente rivolta contro lo Stato Islamico an-
ziché contro i ribelli anti-Asad» 7. Gli analisti statunitensi sono certi che l’apporto
di Mosca non potrà modificare radicalmente i rapporti di forza esistenti sul terre-
no. Al massimo impedirà una possibile invasione sunnita della regione alauita
del paese e manterrà in vita il regime di Damasco, un’evenienza da tempo consi-
derata necessaria perfino dalla Casa Bianca. Mentre costringerà Putin a impegnar-
si ulteriormente, in una congiuntura economica fortemente negativa, per puntel-
lare il suo unico alleato mediorientale.
Già dagli inizi di ottobre, a dispetto dell’iniziale propaganda anti-Cremlino, il
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Pentagono ha inviato verso Mosca inequivocabili segnali di via libera. Prima ha


ritirato le batterie di missili Patriot dispiegate in Turchia, quindi ha trasferito nel
Pacifico la USS Roosevelt, l’unica portaerei statunitense presente nel Golfo Persi-
co. Infine, si è prodigato per stabilire con Mosca un efficace canale di comunica-

4. Cfr. J. ROGIN, «Syrian Rebels Give Obama a Bad Name: “Abu Hussein”», Bloomberg View,
13/11/2015.
5. Citato in S. JONES, «Obama: If We Send 50K Troops Into Syria, What Do We Do When Terrorists
Attack from Yemen? Or Libya?», Cnsnews.com, 17/11/2015.
6. Cfr. D. FABBRI, «Perché Obama apprezza la Russia in Siria», limesonline.com, 2/10/2015.
7. Citato in «US would welcome Russian air strikes on IS – Obama», BT, 18/11/2015. 109
NONOSTANTE PARIGI OBAMA RESTA FUORI DALLA MISCHIA

zione che scongiurasse qualsiasi scontro in cielo tra i caccia dei due paesi. Spe-
cie dopo che il sistema scelto dal Cremlino per annunciare l’inizio dei bombarda-
menti ha lasciato sgomente le autorità statunitensi. Il 30 settembre, primo giorno
dei raid di Mosca sulla Siria, un generale russo con tre stelle sulla divisa si è per-
sonalmente recato presso l’ambasciata americana di Baghdad chiedendo di con-
ferire con l’attaché militare, al quale ha rivelato l’imminente sviluppo. Da allora
Washington realizza con Mosca il cosiddetto deconflicting sfruttando una specia-
le linea di comunicazione stabilita da Mosca e Gerusalemme. Risultato: nel primo
mese di incursioni russe sulla Siria – molte delle quali hanno colpito i ribelli «mo-
derati» addestrati dalla Cia – l’Aeronautica Usa ha dimezzato la frequenza delle
proprie sortite 8.

3. Gli attentati di Parigi hanno ulteriormente persuaso Obama della bontà del-
la sua analisi. Vista da Washington, esattamente come nel 2001, quella tesa dallo
Stato Islamico è una trappola evidente. Il progetto dei jihadisti è indurre le poten-
ze, soprattutto occidentali, a rispondere al fuoco intervenendo sul terreno, oppure
a realizzare una spettacolare rappresaglia aerea che non ne inficia la sopravviven-
za. Cacciarsi in un tale ginepraio, come già capitato a Bush figlio, sarebbe imper-
donabile. Peraltro per la prima volta da decenni il basso profilo degli Stati Uniti ha
reso altre nazioni, in particolare Francia e Russia, bersaglio primario del jihåd e la
Casa Bianca non ha alcuna intenzione di porsi a beneficio dei riflettori. Anzi, in
queste ore sta spingendo al parossismo la propria cosciente remissività. Da una
parte investendo russi, iraniani e possibilmente turchi di rinnovate responsabilità.
Dall’altra suggerendo ai francesi di desistere dagli esagerati progetti bellici.
Secondo Obama dovrebbe essere Mosca a guidare informalmente la coali-
zione internazionale contro l’Is, così che continui a concentrarsi sull’impossibile
guerra siriana. Allo stesso modo la Casa Bianca legittima e incentiva il ruolo svol-
to dall’Iran e dalle milizie sciite invitando il governo di Teheran ai colloqui di
Vienna sul futuro della Siria. E, dopo averne respinto l’ennesimo tentativo di tele-
comandare un intervento statunitense contro Damasco, cerca di persuadere Er-
doãan a inviare truppe sul terreno.
Opposto è invece l’atteggiamento nei confronti della bellicosità francese, che
rischia di mettere Washington in grave imbarazzo. Nelle ore successive agli atten-
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tati contro la Ville Lumière, Obama ha immediatamente respinto la proposta del


presidente François Hollande di ricorrere all’articolo V del trattato atlantico emu-
lando la reazione di George W. Bush all’11 settembre, giacché questo avrebbe
costretto gli Stati Uniti ad esporsi pericolosamente. Nelle parole di un anonimo
diplomatico francese, caldeggiare l’applicazione dell’articolo V avrebbe significa-
to «chiedere ad Obama l’impossibile» 9. Successivamente la Casa Bianca ha negato

8. Cfr. A. TILGHMAN, A. MEHTA, «US Strikes Drop in Syria as Russia Digs In», Defense News, 27/10/2015.
9. Citato in S. ERLANGER, P. BAKER, «For France, an Alliance against ISIS May Be Easier Said than Do-
110 ne», The New York Times, 18/11/2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

per l’ennesima volta a Parigi l’accesso al club dei cinque occhi (five eyes), la con-
divisione dei più sensibili dati di intelligence tra le principali nazioni anglosasso-
ni del globo (Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda).
Quindi, a differenza del capo dell’Eliseo, Barack si è rifiutato di definire l’Occi-
dente «in guerra» contro lo Stato Islamico. Non solo perché, dato il suo retroterra
culturale, il presidente non si considera un uomo occidentale. A suo avviso l’at-
tuale retorica parigina richiama pericolosamente quella di Bush figlio e rischia di
tramutare una mera questione terroristica e geopolitica in un improbabile scontro
di civiltà.
Per Obama questione dirimente è piuttosto presentare all’opinione pubblica
internazionale l’azione americana, ancorché ridotta ed erratica, come chirurgica
ed efficace, così da bilanciare l’impegno profuso dal Cremlino e frenare le spinte
interventiste della sua amministrazione. Si spiegano così i numerosi rapporti gior-
nalistici che raccontano di minuziosi raid Usa contro i camion che trasportano il
petrolio estratto dall’Is 10 e magnificano la guerra economica condotta contro i
jihadisti, che pure non intacca gli sbocchi tutti occidentali dei loro commerci.
Emblematici e pressoché identici i concorrenti bollettini emessi dal Central Com-
mand del Pentagono e dal ministero russo della Difesa il 18 novembre, per cui
nelle precedenti ventiquattr’ore l’Aeronautica Usa avrebbe colpito 116 autocarri
usati per il contrabbando di petrolio e numerosi obiettivi nella regione di Raqqa,
mentre i caccia di Mosca avrebbero distrutto 500 camion e colpito almeno sei in-
stallazioni del «califfato» nella Siria nord-orientale 11.
Intanto la Casa Bianca è impegnata a impedire che i suoi ministri, abituati a
ragionare secondo le tipiche categorie dell’interventismo a stelle e strisce, dera-
glino dal tracciato per imporre al capo un’attitudine maggiormente muscolare. Se
ne è avuta riprova il 19 novembre quando, durante un’audizione al Congresso,
Carter ha definito l’Occidente «in guerra con lo Stato Islamico» e – orrore assoluto
– non ha escluso l’impiego di truppe di terra statunitensi 12. Gaffe particolarmente
imbarazzante, poiché Carter è considerato da Obama semplicemente un ministro
ad interim e spesso i collaboratori del presidente conferiscono con lui attraverso
il suo storico capo Leon Panetta. Discorso simile per il segretario di Stato John
Kerry che, incaricato di trattare con le varie cancellerie internazionali, finisce di
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solito per promettere ai suoi interlocutori un impegno bellico che il suo capo
non intende garantire. Con Obama che puntualmente ne stronca le speranze di
trovare una soluzione diplomatica al conflitto siriano. Come accaduto durante il
vertice di Vienna del 14 novembre, quando Kerry ha annunciato a sorpresa che
la Siria sarebbe «ad un passo da una grande svolta, anche se in pochi se ne ac-

10. Cfr. M.R G ORDON , «US Warplanes Strike ISIS Oil Trucks in Syria», The New York Times,
16/11/2015.
11. Cfr. K. DEYOUNG, C. MORELLO, «As France Seeks a Grand Coalition, Obama Is Wary of Allying
with Russia», The Washington Post, 18/11/2015.
12. Citato in E. COLLINS, «Defense Secretary Ash Carter Signals an Escalation against ISIL», Politico,
19/11/2015. 111
NONOSTANTE PARIGI OBAMA RESTA FUORI DALLA MISCHIA

corgono» 13 e il presidente ha invece riconosciuto «modesti progressi» sul «diffici-


lissimo» fronte negoziale 14.
Esattamente come prima di Parigi, la supposta guerra americana allo Stato
Islamico resta un proposito immaginario. Al Pentagono come al dipartimento di
Stato si elaborano piani militari per attaccare gli avamposti del «califfato» e, in at-
tesa di convincere i turchi a impegnarsi sul campo di battaglia, si scelgono minu-
ziosamente i guerriglieri indigeni utili a imporsi sul nemico. Tra questi spiccano i
miliziani curdo-siriani del Rojava, le fazioni sciite afferenti a Teheran e le truppe
regolari dell’esercito iracheno. Addirittura è stata illustrata ai media l’imminente
campagna delle tre «R», incentrata su un aumento dei raid aerei, sulla conquista
di Raqqa, capitale de facto del «califfato», e di Ramådø, capoluogo della provincia
irachena dell’Anbår. Ma Obama è consapevole che i miliziani scelti, qualora riu-
scissero a centrare la vittoria, in quanto non arabi o non sunniti non potrebbero
mantenere e amministrare il territorio strappato all’Is. Sicché l’auspicata strategia
anti-Stato Islamico torna puntualmente alla casella di partenza.
Per la Casa Bianca l’unica azione efficace e legittima è colpire i singoli jiha-
disti con missili lanciati dai droni. Come di recente capitato al tagliagole britan-
nico Jihadi John, evento di nessuna importanza strategica ma di rilevante impat-
to mediatico. La stessa sorte che alla Cia auspicano toccherà presto al «califfo»
al-Baghdadi. Né Barack è preoccupato dall’eventualità che una potenza esterna
possa estendere la propria egemonia sulla Siria. Dal momento che il paese vero-
similmente non avrà più una conformazione unitaria e al massimo le nazioni
impegnate nel conflitto riusciranno a controllarne solo brandelli di territorio.
Russia e Iran la fascia costiera alauita, Turchia e petromonarchie del Golfo le re-
gioni a maggioranza sunnita. Così come, nonostante la straordinaria dimostra-
zione di fedeltà fornita dal Cremlino al partner di Damasco, nessuna nazione
mediorientale sembra disposta a recidere l’alleanza con gli Stati Uniti per schie-
rarsi dalla parte di Mosca.

4. Date le risorse impiegate e l’impegno profuso, la (non) campagna siriana


può dunque considerarsi un successo statunitense e un innegabile fallimento al-
trui. Quasi per inerzia, l’America di Obama ha costretto i suoi antagonisti a com-
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battersi tra loro in un teatro secondario, nel tentativo di mantenere più che accre-
scere la propria influenza. Pur avendo contribuito al drammatico precipitare della
situazione, per vantaggio geografico e militare, Washington può lasciare ad altri il
compito di raccogliere i cocci. Come attestato dalle caustiche dichiarazioni del
ministro degli Esteri, Sergej Lavrov, i russi ne sono perfettamente consapevoli ma
non possono muoversi altrimenti. «L’America», ha spiegato il diplomatico, «è co-

13. Citato in I. BLACK, «Syria Could Be Weeks away from Big Transition, Says John Kerry», The Guar-
dian, 17/11/2015.
14. Citato in «Obama: US Had No Precise Intelligence Warning of Paris Attacks», Arutz Sheva,
112 16/11/2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

LE PRIORITÀ DI OBAMA IN MEDIO ORIENTE


Ankara CHIA
TUR
Tabriz Mar Caspio

Mashhad
Mar Teheran
Mediterraneo Kirkūk
Beirut Qom I R AN
S IR IA Sāmarrā)
Damasco IR AQ
AELE

Karbalā) Baghdad
ISR

Amman Nağaf
G IOR D.
KUWAIT Golfo
Persico

A R A BIA S AUDI TA
EGI T TO
QATAR Abu Dhabi
Riyad
EMIRATI ARABI
Mar Rosso UNITI Mascate

O M AN

Mantenimento di un equilibrio
tra le potenze della regione

Protezione dei giacimenti Guerre in atto


petroliferi dell’area orientale
dell’Arabia Saudita Sciiti
YE M EN
Protezione d’Israele (alleato storico) Principali città sante sciite
San(ā(
Parziale riavvicinamento tra Stato Islamico
Turchia e Israele
Aree più ricche
Stabilità del Bahrein per protezione Mare Arabico di petrolio e gas
V Flotta americana ©Limes

me un gatto che vuole catturare un pesce senza bagnarsi le zampe. Lascia che
siano altri a farlo» 15.
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Se non fosse che tanta inerzia e furbizia rischiano di produrre in Europa un


effetto collaterale di natura strategica. Qui lo storico proposito di Washington è
contenere la Russia e impedire la saldatura fra gli interessi di Berlino e quelli di
Mosca. Ora la rinnovata indispensabilità di Putin, che permane malgrado l’ab-
battimento del jet russo da parte della contaerea turca e che è stata opportunisti-
camente incentivata dagli americani, potrebbe alterare la congiuntura geopoliti-
ca e colmare il clivage creatosi in seguito all’invasione della Crimea tra il Cremli-

15. Citato in «Russian FM: US Deliberately Sparing Islamic State Seeking to Weaken Assad», Tass,
18/11/2015. 113
NONOSTANTE PARIGI OBAMA RESTA FUORI DALLA MISCHIA

no e gli europei occidentali. D’altronde se Mosca è necessaria per combattere lo


Stato Islamico e, soprattutto, per garantire la sopravvivenza del regime baatista,
obiettivo ormai dichiarato di ogni cancelleria occidentale, potrebbe rivelarsi
molto complicato rinnovare le sanzioni economiche ai suoi danni. Scenario fu-
nesto per Washington che già prima dei recenti sviluppi temeva una riconcilia-
zione tra le parti. Nonché una fastidiosa beffa, specie perché la Germania, av-
versario della superpotenza e attore pressoché inerme sullo scacchiere medio-
rientale, riceverebbe così dalla crisi siriana il placet per ricongiungersi alla Rus-
sia. E improvvisamente lo Stato Islamico assurgerebbe nei calcoli della Casa
Bianca da inutile disturbo a minaccia rilevante.

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114
LA STRATEGIA DELLA PAURA

(PETRO)PECUNIA
NON OLET di Cinzia BIANCO
I monarchi del Golfo, ‘apostati’ nella retorica jihadista, non
finanziano direttamente la guerra santa. Ma nei loro paesi operano
i grandi donatori, spinti da complicità ideologiche e convenienze
politiche. L’Is è sfuggito di mano, l’alleanza con gli Usa vacilla.

1. A LL’INDOMANI DEI TERRIBILI ATTACCHI


terroristici del 13 novembre a Parigi rivendicati dallo Stato Islamico (Is), tutti i
maggiori leader mondiali hanno espresso la loro condanna al terrorismo e la
solidarietà verso il popolo francese. Da Washington a Riyad, da Teheran a Pe-
chino, capi di Stato e di governo si sono stretti attorno alla Francia. L’unica di-
chiarazione fredda e dal tono accusatorio è venuta dal presidente siriano
Baššår al-Asad, secondo cui «gli attacchi terroristici che hanno colpito la capita-
le francese non possono essere separati da ciò che è accaduto di recente a Bei-
rut o da ciò che accade da cinque anni in Siria. Le politiche occidentali sbaglia-
te nei confronti della nostra regione – e soprattutto da parte della Francia, che
ha ignorato il sostegno dato da alcuni dei suoi alleati al terrorismo – hanno
contribuito alla situazione attuale» 1.
Con questa dichiarazione al-Asad criticava duramente la politica francese sul-
la Siria, in particolare per la stretta alleanza tra Parigi e le petromonarchie del
Golfo, attivamente schierate con l’opposizione sunnita a Damasco sin dal 2011. Il
riferimento di al-Asad al «sostegno al terrorismo» è duplice: da una parte rientra
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pienamente nella sua retorica di guerra, per la quale tra i gruppi che gli si op-
pongono vi sono solo organizzazioni terroristiche; dall’altra fa riferimento ad al-
cuni paesi del Golfo accusati di finanziare gruppi di stampo jihadista nella costel-
lazione dei ribelli siriani, inclusi l’Is, Aõrår al-3åm e Ãabhat al-Nuâra, gli ultimi
due legati strettamente ad al-Qå‘ida 2. L’accusa non è certo nuova. Da qualche
tempo ormai l’idea circola sulla stampa internazionale e nei rapporti degli anali-

1. H. NAYLAN, «Syria’s President Assad Says Paris Attacks Result from France’s Aiding of Rebels», The
Washington Post, 14/11/2015.
2. J. DI GIOVANNI, L. MCGRATH GOODMAN, D. SHARKOV, «How Does ISIS Fund Its Reign of Terror?»,
Newsweek, 6/11/2014. 115
(PETRO)PECUNIA NON OLET

sti. Infine si è diffusa anche in Occidente, con dichiarazioni da parte di diversi


funzionari americani 3, israeliani 4 ed europei, come il ministro dello Sviluppo te-
desco Gerd Müller che nel 2014 ha accusato il Qatar di finanziare l’Is 5.
Ma davvero le petromonarchie del Golfo – che figurano nella coalizione
anti-Is e in numerose organizzazioni internazionali contro il terrorismo, vittime
esse stesse di sanguinosi attacchi – sostengono il jihadismo e lo Stato Islamico
in particolare? Quali i dati e le analisi che possono eventualmente spiegare tale
contraddizione?

2. Le fonti di finanziamento del «califfato» sono state a lungo oggetto di anali-


si e scrutinio da parte di organismi nazionali e internazionali. Il dipartimento del
Tesoro statunitense, tramite il suo sottosegretario al Terrorismo e all’Intelligence
finanziaria David Cohen, ha prodotto rapporti dettagliati 6 secondo cui il gruppo
terroristico si finanzia sopratutto tramite l’estrazione e la vendita di petrolio, poi-
ché controlla all’incirca 350 raffinerie in Iraq e il 60% dei giacimenti siriani, per
un totale di circa 80 mila barili estratti al giorno e commercializzati sul mercato
nero attraverso la Giordania, la Turchia e il Kurdistan.
Un’ulteriore, proficua fonte di finanziamenti sono le attività criminali: riscatti
da rapimenti, contrabbando, rapine, estorsioni, traffico di esseri umani. Ogni per-
sona, attività commerciale, proprietà nel territorio controllato dall’Is è soggetta a
una «tassazione» di stampo estorsivo. Gli espropri avvengono senza sosta. A tutte
queste risorse vanno ad aggiungersi le âadaqåt, donazioni di facoltosi individui o
organizzazioni di stampo socioreligioso che desiderano supportare il progetto del
«califfato». Tracciando per quanto possibile questi movimenti, nella maggior parte
dei casi si è giunti sulle sponde del Golfo, ma mai alle istituzioni dei paesi che vi
insistono. Le donazioni sono giunte soprattutto da soggetti in Arabia Saudita, Qa-
tar e Kuwait; minori i contributi da Emirati Arabi Uniti e Bahrein 7, mentre non
un solo dollaro è partito dall’Oman.
Secondo i calcoli del dipartimento di Stato, grazie alle donazioni l’Is ha accu-
mulato circa 40 milioni di dollari tra il 2012 e il 2014 8. Tipicamente il denaro vie-
ne raccolto personalmente e spostato con il sistema delle õawåla, trasferimenti
informali di denaro contante basati sulla fiducia e l’onore. Il denaro passa di ma-
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no in mano fino ai punti di snodo cruciali, spesso in Kuwait. Da lì i percorsi so-


no vari: in passato i fondi venivano caricati su mezzi privati e trasportati via terra

3. J. KEANE, «An American-Led Coalition Can Defeat ISIS», The Washingotn Post, 24/8/2014.
4. R. PROSOR, «Club Med for Terrorists», The New York Times, 23/8/2014.
5. «German Minister Accuses Qatar of Funding Islamic State Fighters», Reuteurs, 20/8/2014.
6. «Remarks of Under Secretary for Terrorism and Financial Intelligence David S. Cohen at The Car-
negie Endowment for International Peace, “Attacking ISIS’s Financial Foundation”», Dipartimento
del Tesoro Usa, 23/10/2014.
7. M. LEVITT, «Terrorist Financing and the Islamic State», Washington Institute for Near East Policy,
novembre 2014.
8. Country Reports on Terrorism 2013, Chapter 2: «Middle East and North Africa», Dipartimento di
116 Stato Usa.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

dall’Arabia Saudita all’Egitto e alla Siria orientale. Alternativamente, il denaro è


stato trasportato via mare in Turchia e da lì in Siria tramite gli stessi miliziani. A
volte i donatori del Golfo si recano personalmente in Siria per incontrarsi o unirsi
alle truppe del «califfo» 9.
Ci si è interrogati a lungo sulla connivenza dei governi di detti paesi con i fi-
nanziatori del terrorismo, che sono per lo più privati facoltosi. Il primo elemento
di cui tener conto al riguardo è che in molti casi la giurisprudenza rimane abba-
stanza permissiva e l’applicazione delle norme antiterrorismo decisamente blan-
da 10. Ciò avviene soprattutto in Qatar e in Kuwait, al punto che associazioni ivi
basate sono diventate centri di coordinamento e raccolta fondi.
Accusato di essere il principale finanziatore dell’Is, il Qatar è stato negli ulti-
mi anni al centro di una notevole pressione internazionale, al punto che nel 2013
è stata promulgata una nuova legge che autorizza il governo a scrutinare tutte le
organizzazioni che ricevono soldi dall’estero o ve li mandano. È sicuramente un
passo importante, ma ciò che resta da verificare è se la legge sarà adeguatamente
applicata o se rimarrà lettera morta. Già nel 2005 il Qatar aveva infatti una legge
che criminalizzava il finanziamento a gruppi terroristici e aveva creato un’unità di
intelligence finanziaria. Nel 2006 una nuova legge aveva rafforzato i poteri dell’a-
genzia, stabilendo un obbligo di registrazione per i servizi di õawåla.
Nonostante ciò, quando nel 2008 un team del Fondo monetario internaziona-
le (Fmi) si è recato in Qatar per valutare il regime antiriciclaggio, i giudizi sono
stati tiepidi 11. Il rapporto indicava che la trasparenza richiesta dalla legislazione
era insufficiente e che l’agenzia governativa deputata a monitorare i finanziamenti
sospetti non aveva compiuto una sola confisca, o una sola indagine. Inoltre, seb-
bene nessuna õawåla risultasse registrata alle autorità competenti, il team dell’Fmi
aveva facilmente individuato diverse agenzie operanti in clandestinità. Queste cir-
costanze hanno fatto sì che l’attività di contrasto al terrorismo finanziario fosse
giudicata «lacunosa» 12. Contemporaneamente, il dipartimento del Tesoro statuni-
tense aggiungeva alla già lunga lista di sponsor del terrorismo un facoltoso qatari-
no, ‘Abd al-Raõmån al-Nu‘aymø, accusato di aver trasferito 600 mila dollari ad al-
Qå‘ida tramite l’intermediario siriano Abû Œålid al-Sûrø e circa 2 milioni al mese a
Stato Islamico, al-Qå‘ida nella Penisola arabica (Aqap) e al-3abåb in Somalia 13.
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3. Qualcosa di simile accade in Kuwait. Solo nel 2013 il paese ha promulga-


to una legge che criminalizza l’attività di finanziamento verso gruppi terroristici e
stabilisce la creazione di un’unità di intelligence finanziaria, che però, ad oggi,

9. E. DICKINSON, «Follow the Money: How Syrian Salafis Are Funded from the Gulf», Carnegie En-
dowment for International Peace, 23/12/2014.
10. Country Reports on Terrorism 2013, cit.
11. «Qatar: Detailed Assessment Report on Anti-Money Laundering and Combating the Financing of
Terrorism», Fmi, ottobre 2008.
12. Country Reports on Terrorism 2013, cit.
13. «Treasury Designates Al-Qa’ida Supporters in Qatar and Yemen», Dipartimento del Tesoro Usa,
18/12/2013. 117
(PETRO)PECUNIA NON OLET

non ha portato a termine una sola attività investigativa degna di nota. L’ormai fa-
moso rapporto del dipartimento del Tesoro descrive il Kuwait come «l’epicentro
dei finanziamenti verso la Siria» 14, un punto di snodo fondamentale per il forag-
giamento dei gruppi terroristici. I casi provati si sprecano e includono figure reli-
giose, uomini d’affari e anche individui legati alle istituzioni. Nella lista dei dona-
tori kuwaitiani all’Is è comparso ad esempio il parlamentare Muõammad Håyif
al-Mu¿ayrø e nel 2012 ha fatto rumore la dichiarazione di un altro gruppo ribelle
jihadista, Aõrår al-3åm, che ha ringraziato pubblicamente la Commissione popo-
lare di sostegno alla gente di Siria sostenuta dalla facoltosa famiglia ‘Aãmø del
Kuwait, per una donazione di 400 mila dollari 15.
Ancor più scalpore ha destato la nomina di Nåyif al-‘Aãmø, un componente
di quella stessa famiglia e ministro per la Giustizia e gli Affari islamici (dimessosi
nel maggio 2012), talmente attivo nel supporto ai siriani da comparire sui poster
di Ãabhat al-Nuâra. Il nocciolo della questione è evidentemente una visione dia-
metralmente opposta dei gruppi ribelli siriani in Occidente e nel Golfo. Il caso di
Ôanøm al-Mu¿ayrø lo evidenzia bene 16: noto mediatore kuwaitiano di finanzia-
menti verso la Siria, al-Mu¿ayrø ha organizzato una conferenza per la sua tribù in
Kuwait subito dopo che il governo siriano aveva condotto un’uccisione di massa
a Õûlå. Si dice che la conferenza abbia raccolto 14 milioni di dollari in cinque
giorni. Grande parte di questi fondi proveniva dall’Arabia Saudita, dove essendo
la legislazione più stringente i donatori approfittano delle profonde connessioni
tra tribù saudite e kuwaitiane per far arrivare le proprie donazioni in Siria.
Diverse fonti, incluso un memorandum dell’ex segretario di Stato Hillary
Clinton fatto circolare da WikiLeaks, annoverano individui sauditi tra le maggiori
fonti di finanziamento del terrorismo sunnita, anche se i destinatari principali di
tali donazioni sono gruppi in Afghanistan e in Pakistan 17.
Eppure, al contrario di quanto comunemente si crede, l’Arabia Saudita non è
un ambiente propizio al finanziamento dei gruppi terroristici. Dall’ondata di terro-
rismo qaidista che ha colpito l’Arabia Saudita nei primi anni Duemila infatti, i sau-
diti hanno adottato leggi e politiche abbastanza serie contro il terrorismo, in stret-
to coordinamento con gli americani 18. Le forze di sicurezza hanno lavorato a
stretto contatto con la società civile per incoraggiare i cittadini a fornire informa-
zioni su attività sospette. Il governo saudita ha processato e condannato diversi
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individui sospettati di aver combattuto con gruppi terroristici, di averli finanziati o


di aver reclutato combattenti per loro. Anche sugli aspetti più tecnici del finanzia-
mento al terrorismo l’Arabia Saudita ha mostrato un impegno concreto, entrando
in specifici accordi internazionali e formando operatori giudiziari e finanziari.

14. «Remarks of Under Secretary for Terrorism and Financial Intelligence …, cit., 4 marzo 2014.
15. W. MCCANTS, «Gulf Charities and Syrian Sectarianism», Foreign Policy, settembre 2013.
16. B. HUBBARD, «Private Donors’ Funds Add Wild Card to War in Syria», The New York Times,
12/11/2013.
17. D. MORGAN, «Wikileakes: Saudi Largest Source of Terror Funds», CBS News, dicembre 2010.
118 18. G. BAHGAT, «Saudi Arabia and the War on Terrorism», Arab Studies Quarterly, 26, 2004, pp. 51-63.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

Questi sforzi non sono però stati sufficienti a fermare il flusso di denaro che
dall’Arabia Saudita giunge anche nelle tasche dello Stato Islamico 19, né sono
stati sufficienti a silenziare le voci che sostengono l’esistenza di un legame tra i
sauditi e i jihadisti di Is, Ãabhat al-Nuâra o la stessa al-Qå‘ida. Questo perché se
sulla connivenza dei regimi monarchici con i gruppi terroristici vi sono seri e le-
gittimi dubbi, è difficile ignorare che esiste un collegamento ideologico tra il più
importante alleato e il più acerrimo nemico dell’Occidente nella regione medio-
rientale 20.

4. Spesso ci si interroga su quale sia il movente che spinge individui delle


petromonarchie a sostenere i gruppi di estremisti sunniti. La risposta è da cercare
nell’ambito identitario-ideologico e in un certo parallelismo di obiettivi strategici,
almeno a livello regionale.
La versione sunnita dell’islam professata dai gruppi jihadisti si basa sull’inter-
pretazione fondamentalista tipica del wahhabismo, «religione di Stato» dell’Arabia
Saudita e fonte di legittimità della casa regnante. Storicamente infatti l’autorità
della famiglia Sa‘ûd si fonda sul patto di ferro siglato nel XVIII secolo da Muõam-
mad bin ‘Abd al-Wahhåb (padre del wahhabismo) e ‘Abd al-‘Azøz bin ‘Abd al-
Raõmån Ål Sa‘ûd, il quale prevedeva che le constituencies wahhabite fossero as-
soggettate al dominio dei Sa‘ûd se questi si fossero impegnati a difendere la pu-
rezza dell’islam tramite la diffusione dell’interpretazione wahhabita 21.
Questo equilibrio, divenuto sempre più precario al consolidarsi dell’alleanza
con gli Stati Uniti, è stato ulteriormente logorato dalla guerra in Iraq e dall’accor-
do di Washington con l’arcinemico sciita iraniano. Mentre una parte dell’establi-
shment religioso ha accettato queste politiche, frange più radicali hanno deciso
di agire nell’ombra, perseguendo la difesa della patria da influenze straniere e
tentando di esportare l’integralismo wahhabita in tutto il mondo arabo-
islamico 22. Per compiere questa missione, gli 4uyûœ più radicali non si fanno
scrupoli a servirsi del terrorismo jihadista, che evidentemente ne condivide il di-
sprezzo verso la modernizzazione (leggi occidentalizzazione) del mondo arabo;
se necessario, sarebbero disposti anche a rovesciare la monarchia.
La leadership saudita si trova perciò in una situazione delicata: persegue il
terrorismo, ma non può combattere apertamente alcuni di questi potenti 4uyûœ e
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soprattutto non mette mai in discussione la base ideologica che li alimenta, utiliz-
zata anche per fini strategici. L’odio settario contro lo sciismo è infatti un elemen-
to chiave usato dalla leadership per far sì che la popolazione sostenga gli obietti-
vi strategici della monarchia, soprattutto la caduta del leader siriano (alauita e al-
leato di ferro dell’Iran) al-Asad e la lotta ai ribelli (sciiti) õûñø in Yemen.

19. L. PLOTKIN BOGHARDT, «Saudi Funding of ISIS», PolicyWatch 2275, Washington Institute for Near
East Policy, giugno 2014.
20. M. AL-RASHEED, «Saudis Struggle to Reconcile IS Fight, Wahhabism», Al-Monitor, febbraio 2015.
21. M. AL-RASHEED A History of Saudi Arabia, Cambridge 2010, Cambridge University Press.
22. D. COMMINS, The Wahhabi Mission and Saudi Arabia, London 2009, IB Tauris. 119
(PETRO)PECUNIA NON OLET

Qualcosa di simile accade in Qatar. L’odio settario supporta l’autoassegnato


e largamente pubblicizzato ruolo di campione antidittatori dell’emiro e il chiaro
obiettivo strategico della leadership qatarina di rovesciare al-Asad, perseguito an-
che tramite il sostegno semiufficiale ad alcuni gruppi estremisti, come Aõrår al-
3åm. Questa è parte di una coalizione di forze ribelli chiamata Armata della con-
quista, di cui fa parte anche Ãabhat al-Nuâra, formatasi nella regione di Idlib a
maggio di quest’anno con il sostegno di Turchia, Qatar e Arabia Saudita. Queste
ultime, apparentemente, forniscono circa il 40% dei fondi della coalizione 23. Pur
avendo sia Aõrår al-3åm che Ãabhat al-Nuâra espresso ostilità verso l’Is, la prima
ha in passato combattuto al fianco del «califfo» ed entrambe sono molto vicine ad
al-Qå‘ida. Oltre a rovesciare al-Asad, i qatarini ambiscono a guadagnare un posto
di potere per la Fratellanza musulmana, parte fondamentale della coalizione di
ribelli (giudicata moderata) nota come National Coalition for Syrian Revolution
and Opposition Forces, fondata e ospitata a Doha.
In Kuwait invece la prospettiva che fonde politiche identitarie, ideologia e
obiettivi politici è più domestica 24. Nel quadro della politica interna del Kuwait
infatti, unica monarchia del Golfo che prevede un parlamento, i gruppi di sun-
niti vicini ai politici o al clero salafita 25 sono una forza importante 26. Questi
gruppi si sono resi protagonisti di un inasprimento del settarismo nel dibattito
pubblico, specie dopo la caduta del regime di Saddam Hussein e l’ascesa dei
gruppi sciiti a Baghdad. Nello stesso parlamento però, siedono anche politici
sciiti che rappresentano una comunità socialmente ed economicamente bene
integrata. La monarchia kuwaitiana tenta pertanto di preservare un equilibrio
sociale molto delicato. Evidentemente, lasciare ai salafiti libertà di supportare la
causa sunnita in Siria è sembrato un buon escamotage per esternalizzare l’ideo-
logia settaria.

5. Eppure, questi calcoli politico-strategici e questi delicati bilanciamenti


iniziano a rivelarsi tragicamente errati. Innanzitutto, sia l’Is sia al-Qå‘ida conte-
stano vigorosamente la legittimità dei petromonarchi, soprattutto dei Sa‘ûd, e
ancor più vigorosamente il tipo di paese che la famiglia ha costruito. I gruppi
jihadisti hanno adottato una retorica molto aggressiva nei confronti della casa
regnante saudita – in cui il re è additato come «servo degli Stati Uniti che cospi-
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ra con l’Occidente per fare guerra ai musulmani» – e invitano a destabilizzare il


regno per istituire il vero califfato islamico nel paese più rappresentativo per
l’islam, che comprende Mecca e Medina 27.

23. H. HASSAN, «Syria’s Revitalized Rebels Make Big Gains in Assad’s Heartland», Foreign Policy, apri-
le 2015.
24. C. BIANCO, «Kuwait’s Sectarian Equation», Gulf State Analytics, agosto 2015.
25. L’ideologia salafita è pressoché identica a quella wahhabita nell’interpretazione della religione
islamica.
26. Z. PALL, «Kuwaiti Salafism and Its Growing Influence in the Levant», Carnegie Endowment Middle
East, 2014.
120 27. R. HAASS, «Saudi Arabia: Threat from Isis Will only Grow», Financial Times, 25/1/2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

La strategia potrebbe già essere in fase attuativa, con una serie di attentati ri-
vendicati dall’Is tra il 2014 e il 2015. Tra i più gravi, l’attacco alla moschea sciita
Imåm ‘Alø di al-Qadayõ (nella provincia orientale) che ha ucciso 21 persone e fe-
rito gravemente 80, quello dello stesso mese alla moschea sciita di Dammåm e
l’attacco di agosto alla moschea di Abhå, usata dalle forze speciali dell’esercito
saudita e per questo dichiarata dai terroristi «monumento degli apostati» 28. A
maggio 2014 poi, le forze di sicurezza saudite hanno sgominato una cellula di 62
persone che stavano tramando per attaccare personale ed edifici governativi: la
cellula era composta prevalentemente da cittadini sauditi, bene armati e ben fi-
nanziati e collegati a Is e ad Aqap 29.
In effetti, il regno saudita ha per anni mantenuto un atteggiamento poco
restrittivo nei confronti dei giovani sauditi che partivano per combattere al fian-
co di gruppi jihadisti, almeno fino a che nel 2014 il precedente re ‘Abdullåh ha
dichiarato illegale lasciare il paese per combattere all’estero. Troppo tardi forse,
e comunque dopo che un rapporto della Cia aveva notificato al governo saudi-
ta che dal regno erano partiti 7 mila foreign fighters per combattere con l’Is: in
assoluto il numero più alto tra tutte le nazionalità che militano nell’organizza-
zione terroristica 30.
La minaccia che questi combattenti rappresentano una volta tornati nel re-
gno è davvero significativa. In particolare, gli attacchi alla comunità sciita dell’A-
rabia Saudita rappresentano una strategia di destabilizzazione molto insidiosa,
perché rischiano di riaccendere le proteste antigovernative andate in scena nel
2011 (e poi sedate con un misto di soppressione e cooptazione) nella provincia
orientale di 3arqiyya, ricca di giacimenti petroliferi e le cui comunità sciite vivono
in uno stato di degrado e di semisegregazione. I cittadini sauditi di confessione
sciita hanno a lungo lamentato di essere vittime di politiche discriminatorie del
governo e se dovessero convincersi che questo non può o non vuole proteggerli
dal terrorismo, potrebbero facilmente riaccendere le proteste.
In Kuwait l’Is sembra aver adottato una strategia simile: a giugno 2015 ha
compiuto un attacco suicida durante la preghiera del venerdì nella più grande
e antica moschea sciita di Kuwait City, la moschea Imåm Âådiq, uccidendo 27
persone e ferendone circa 200, nel tentativo di spezzare il delicato equilibrio
settario del paese. Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

Anche dal punto di vista della strategia regionale, l’intenzione di usare i


gruppi estremisti per la loro efficacia in guerra, con la speranza che potessero far
cadere il regime di Damasco, si è rivelata fallimentare e controproducente, in
particolare per Qatar e Arabia Saudita. Mentre l’Is combatte indiscriminatamente
sia il regime di al-Asad che qualsiasi altro gruppo di ribelli, indebolendoli e di-

28. La dichiarazione è stata raccolta dal Site Intelligence Group in un’investigazione di account
Twitter collegati all’Is.
29. A. AL-OMRAN, «Saudi Arabia Arrests 62 Suspected Terrorists», The Wall Street Journal, 6/5/2014.
30. A.Y. ZELIN, «The Saudi Foreign Fighter Presence in Syria», CTC Sentinel, Washington Institute for
Near East Policy, aprile 2014. 121
122
Teheran
FRAGILITÀ SAUDITE
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(PETRO)PECUNIA NON OLET

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Regioni abitate da sciiti Eskan
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Basi Usa ( al-Harhayr

ss
ASĪR

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Muri in costruzione per arginare
lo Stato Islamico (nord) e le
incursioni dei ribelli yemeniti (sud)
Scontri frequenti tra truppe M ar
saudite e militanti yemeniti Ar abico
Tensioni derivanti dalla Governatorato
repressione degli sciiti di Hagga
. Y e m e n Fl
in Bahrein nel 2011 San’ā us
so
Controllata di
Montagne dai ribelli hūtī . - fo
rz
Zone con densità di popolazione 90 a lavor
> di 250 persone/km2 % o stra
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Presenza al-Qa(īda ra
LA STRATEGIA DELLA PAURA

stogliendoli dalla battaglia contro il regime, al-Asad e il suo esercito ricevono co-
stante supporto finanziario, logistico e operativo da Russia e Iran. Il risultato è lo
stallo che tutti conosciamo. Inoltre, la supremazia di gruppi jihadisti nel fronte
dei ribelli siriani e soprattutto la comparsa dell’Is hanno pesantemente giocato a
favore della retorica di al-Asad, che ha sempre sostenuto come l’alternativa al
suo regime sarebbe consegnare il paese in mano ai terroristi.
Al summit di Vienna sulla crisi siriana tenutosi il 14 novembre, all’indomani
dei fatti di Parigi, le potenze internazionali hanno in effetti concordato di concen-
trarsi sulla lotta allo Stato Islamico e la rimozione di al-Asad è passata in secondo
piano. Soprattutto perché mentre il fronte siriano è ancora fortemente frammenta-
to, il regime è considerato l’unico interlocutore capace di mantenere una minima
stabilità nel paese, necessaria per concentrarsi contro il «califfo». Questo nono-
stante le vivide proteste dei monarchi del Golfo, i quali sostengono che Europa e
Stati Uniti abbiano permesso ai terroristi di proliferare in Siria e in Iraq con la loro
negligenza e inazione e che, se avessero combattuto il dittatore al momento op-
portuno, non ci sarebbe stato lo spazio per questi gruppi 31. Ora, asseriscono, non
si pensi che la popolazione (sunnita) siriana possa accettare passivamente la per-
manenza del dittatore combattuto per anni.
È probabile che questa linea di pensiero si avvicini al vero; quel che è in-
dubbio è che quanti nel Golfo hanno appoggiato il conflitto contro al-Asad – in
primis l’Arabia Saudita – non potranno accettare passivamente una tale capitola-
zione. Al contempo, i sospetti – basati sui fatti – che alcune petromonarchie ab-
biano usato a proprio vantaggio formazioni di stampo jihadista in Siria e Iraq, o
che abbiano mantenuto un atteggiamento permissivo nei confronti di individui e
organizzazioni che hanno sostenuto o finanziato tali gruppi, non mettono certo
in buona luce i monarchi.
Chi invece potrebbe vedere la propria posizione acquistare peso nell’arena
diplomatica internazionale è l’Iran, paese che più di tutti ha combattuto l’Is in Si-
ria e Iraq 32. Forte del migliaio di pasdaran, consiglieri e generali sul terreno gui-
dati dalle forze speciali Quds, dei miliardi di dollari spesi in addestramento del-
l’esercito regolare siriano e iracheno e delle forniture di armi e copertura aerea,
Teheran ora rivendica la propria posizione di principale oppositore dell’Is. All’in-
domani del summit di Vienna, per spiegare le divergenze createsi durante le di-
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scussioni tra Iran e Arabia Saudita l’ex membro del National Security Council
Seyyed Hossein Mousavian dichiarava infatti che «la differenza chiave tra noi e i
sauditi è che la priorità dell’Arabia Saudita è spodestare al-Asad, mentre quella
dell’Iran è annientare i terroristi» 33. Una retorica odiosa per le petromonarchie del
Golfo, perché rischia di fare breccia nei partner occidentali rafforzando così la
posizione dell’arcinemico Iran a loro discapito.

31. K. AL-HABTOOR, «World Must Act to Destroy This Terrorist Disease», Al Arabiya, 17/11/2015.
32. D. ESFANDIARY, A. TABATABAI, «Iran’s ISIS policy», International Affairs, 91, 1, 2015, pp. 1-15.
33. T. ERDBRINK, S. CHAN, D. SANGER, «After a U.S. Shift, Iran Has a Seat at Talks on War in Syria», The
New York Times, 28/10/2015. 123
(PETRO)PECUNIA NON OLET

6. Tirando le somme, possiamo affermare che no, non si può imputare alle
monarchie del Golfo di appoggiare strutturalmente il terrorismo e su nessuno dei
regnanti della regione si può scaricare la responsabilità di aver fomentato diretta-
mente i gruppi jihadisti. Certamente non si possono ignorare le responsabilità oc-
cidentali rispetto all’attuale situazione del Medio Oriente. Allo stesso tempo, l’a-
nalisi dei rapporti tra componenti di alcune petromonarchie del Golfo e gruppi
jihadisti restituisce un quadro impietoso, in cui motivazioni socio-culturali hanno
indotto una certa noncuranza verso un fenomeno ormai fuori controllo e in cui
obiettivi politico-strategici di breve termine hanno generato politiche irresponsa-
bili, con conseguenze di lungo termine sulla regione mediorientale e oltre.
Le accuse di connivenza tra alcune famiglie reali del Golfo e le componenti
radicali della regione rischiano di compromettere le partnership di questi paesi
con gli Stati Uniti, l’Europa e gli altri Stati occidentali, fondamentali per la sicu-
rezza del Golfo stesso. La posizione delle monarchie potrà uscirne indebolita, e
così i loro interessi e obiettivi. Molto probabilmente, per limitare i danni, assiste-
remo nei prossimi mesi a un rafforzamento delle misure antiterrorismo negli Stati
del Golfo e a una più convinta partecipazione nella guerra contro l’Is in Siria o in
Iraq. Molto probabilmente si chiederà nuovamente alle leadership locali di impo-
stare un discorso serio sulla natura dell’ideologia e della retorica «di Stato».
In tanti sostengono che un simile discorso non potrà essere affrontato, per-
ché la Penisola Arabica sarebbe un’oasi granitica immune al cambiamento. Al
contrario, proprio la storia arabica dimostra come sia impossibile fermare il cam-
biamento. Certo, finché esisterà in alcuni paesi del Golfo un ambiente altamente
recettivo verso l’ideologia estremista, sarà impossibile recidere il filo che lega ter-
rorismo e petromonarchie.

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124
LA STRATEGIA DELLA PAURA

LA GUERRA ASIMMETRICA
DI PAPA FRANCESCO di Gianni VALENTE
Il vescovo di Roma davanti alle sfide dello Stato Islamico.
La propaganda apocalittica del ‘califfo’ e le pericolose variazioni
su questo tema. Il rifiuto di farsi legare le mani dal mainstream
mediatico. Il valore dell’Anno santo e l’accento sulla misericordia.

A
Francesco vive l’èra del «califfo» di Mosul. E le convulsioni scaricate sul mondo
NCHE LA CHIESA GUIDATA DA PAPA

dal tetano jihadista chiamano in causa la stessa Sede apostolica, in maniera


pressante. A tirarla in ballo sono direttamente i tagliagole del Då‘i4, coi loro ri-
correnti annunci sulla prossima conquista di Roma e i fotomontaggi con le
bandiere nere del «califfato» piazzate a sventolare dall’obelisco di piazza San
Pietro.
Di questo coinvolgimento non cercato, la narrazione mediatica main-
stream enfatizza alcuni effetti pratici – a cominciare dall’infittirsi di divise mili-
tari intorno al Vaticano – o i dettagli secondari più fruibili per le risse da talk
show, come gli attacchi più o meno sguaiati al «buonismo» pro immigrati del
papa argentino.
Lui, il pontefice «preso quasi alla fine del mondo», davanti allo svelarsi del-
la sindrome jihadista non enuncia teoremi onnicomprensivi. Non traccia for-
mule per inquadrare il «califfato» in letture preconfezionate. «Non capisco. Ma
queste cose sono difficili da capire, fatte da essere umani», ha dichiarato a
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Tv2000 il vescovo di Roma, poche ore dopo le stragi di Parigi. Parole che
esprimono diffidenza per tutte le meccaniche interpretative che censurano
ogni umanissimo senso di vertigine, davanti allo svelarsi storico del mistero del
male. «Questo abisso non può essere solo opera tua, delle tue mani, del tuo
cuore. Chi ti ha corrotto? Chi ti ha sfigurato? Chi ti ha contagiato la presunzio-
ne di impadronirsi del bene e del male?», aveva detto Bergoglio nella sua pre-
ghiera allo Yad Vashem, immaginando lo sconvolgimento di Dio, e le sue do-
mande all’uomo davanti all’Olocausto perpetrato dai nazisti 1.

1. Visita di papa Francesco al memoriale di Yad Vashem, 26/5/2014. 125


LA GUERRA ASIMMETRICA DI PAPA FRANCESCO

Contrappunto bergogliano
Dopo le stragi di Parigi, Francesco non addomestica il soprassalto dei fatti
dentro considerazioni d’ordinanza. Si lascia interrogare. Dice di «non capire». Ma
quelle parole non esprimono afasia da smarrimento davanti alla patologia jihadi-
sta che polarizza gli scenari del mondo. Le sue parole e le scelte del suo magiste-
ro attestano che tiene presenti tutti i fattori in gioco intorno alla vicenda del «ca-
liffato», compresi quelli spesso rimossi da leader politici e analisti di professione,
come il contributo fornito dal mattatoio siriano ai fatturati dei mercanti d’armi.
Davanti ai tanti fronti aperti e alle strategie conflittuali catalizzate dalla pe-
stilenza jihadista, Bergoglio e i suoi collaboratori più coinvolti sugli scenari in-
ternazionali manifestano una grande libertà di movimento. Non si lasciano rin-
chiudere nel ricatto delle scelte di campo obbligate, dei logoranti e logorati tor-
mentoni sulla necessità o sull’inutilità degli interventi militari sul campo. So-
prattutto, papa Francesco e i suoi collaboratori non offrono benedizioni alle
idee e alle strategie che da decenni continuano ad attestare i deficit di com-
prensione o la malafede delle leadership politiche e intellettuali d’Occidente
davanti alle convulsioni mediorientali.
Non c’è un parola di Francesco che possa essere strumentalizzata dalle folate
antimmigrati che cercano un traino nell’allarme sul terrorismo. Il papa argentino
– che nel sorprendente viaggio in Usa si è liberato anche del vestitino del desca-
misado anti-yankee – chiama in causa le parrocchie europee nell’accoglienza di
chi fugge dalle guerre. Ripete che respingere i migranti equivale a un «atto di
guerra». Nel giorno stesso degli attentati di Parigi invita a riconoscere che «Dio,
nella sua sapienza, ha inviato a noi, nell’Europa ricca, l’affamato perché gli dia-
mo da mangiare, l’assetato perché gli diamo da bere, il forestiero perchè lo acco-
gliamo, e l’ignudo perché lo vestiamo» 2. Non dà alcun appiglio alle teorie e alle
ossessioni – accarezzate da leader nazionalisti come l’ungherese Viktor Orbán –
che leggono l’immigrazione come «cavallo di Troia» per l’islamizzazione striscian-
te dell’Europa e l’erosione delle sue «radici cristiane». Il suo richiamo costante alle
rimosse opere di misericordia corporali e spirituali, quelle del catechismo (dar da
mangiare agli affamati, accogliere gli stranieri, vestire gli ignudi…), ha l’effetto
collaterale di svelare le aporie dell’«ideologia dell’89», che aveva spacciato il col-
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lasso del comunismo nei paesi dell’Est europeo come trionfo della presunta «ri-
sorgenza cristiana» di quei popoli.
L’insistita predicazione bergogliana sul martirio non si mescola con le cam-
pagne dei circoli occidentali che strumentalizzano disgrazie e persecuzioni dei
cristiani d’Oriente per fomentare sentimenti islamofobici generalizzati. Il vesco-
vo di Roma non si identifica neppure con alcune parole d’ordine dello sdegno
unanimista seguito alla strage di Charlie Hebdo. A gennaio, mentre vola da Co-

2. Papa Francesco, discorso ai partecipanti della conferenza organizzata dalla Fondazione Romano
126 Guardini, 13/11/2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

lombo a Manila, ripete ai giornalisti del volo papale che «non si può uccidere in
nome di Dio», ma anche che «non si può provocare. Non si può insultare la fede
degli altri», con evidente riferimento alle strisce antireligiose pubblicate dalla ri-
vista francese.
Davanti agli sviluppi aberranti del conflitto siriano e all’espansione del «calif-
fato» nelle terre irachene, papa Bergoglio e la diplomazia vaticana si muovono
lontano dall’intreccio di ignoranza, ideologia e interessi occulti che sembra ispira-
re le mosse sguaiate di diverse cancellerie d’Occidente. Mentre i paesi nord-
atlantici chiudono una dopo l’altra in chiave anti-Asad le loro rappresentanze di-
plomatiche in Siria, il nunzio vaticano Mario Zenari rimane a Damasco. Patriarchi
e vescovi dell’area – come il vicario latino di Aleppo, Georges Abou Khazen, il
patriarca caldeo Louis Raphael I e l’arcivescovo siro-cattolico di Hassaké, Jacques
Behnan Hindo – denunciano in maniera dettagliata e costante le connivenze re-
gionali e globali che alimentano dall’esterno l’espansione del «califfato». I raid ae-
rei a guida Usa, iniziati nell’estate 2014, come analoghe iniziative tentate dal «mi-
litarismo umanitario» non ricevono benedizioni vaticane 3. Anche davanti all’inter-
vento militare diretto della Russia, a fianco di al-Asad, la Sede apostolica e i ve-
scovi cattolici nelle terre d’Oriente si tengono alla larga dall’armamentario lessica-
le della «guerra santa» riciclato da esponenti del patriarcato di Mosca per consa-
crare le bombe russe contro il «male» jihadista. Nel contempo, fin dall’inizio del
suo pontificato, papa Francesco e la sua diplomazia hanno sempre sabotato nei
fatti il «cordone sanitario» che alcuni circoli occidentali volevano stendere intorno
alla Russia di Putin. Santa Sede e Cremlino avevano già trovato una convergenza
oggettiva quando – nell’autunno 2013 – venne disinnescata la minaccia di un in-
tervento militare a guida Usa contro al-Asad, e la Russia ebbe un ruolo chiave
nello smantellamento delle armi chimiche del regime siriano. Anche nella ostilità
e nelle reciproche accuse tra Russia e paesi occidentali cristallizzatesi intorno alla
crisi ucraina, le parole di papa Francesco non sono finite intrappolate nella mec-
canica dei blocchi contrapposti. Lo scorso aprile, lo stesso patriarca russo Kirill
ha elogiato la posizione della Santa Sede sulla crisi ucraina: «Papa Francesco e la
segreteria di Stato», ha detto il primate della Chiesa russa, «hanno preso una posi-
zione autorevole sulla situazione in Ucraina, evitando affermazioni unilaterali e
invocando la fine della guerra fratricida». Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

3. Il 18 agosto 2014, al giornalista statunitense che sul volo da Seoul a Roma, alla fine della visita
apostolica in Corea, gli ha chiesto esplicitamente se approvava i «bombardamenti americani» sui «ter-
roristi in Iraq per prevenire un genocidio» e «proteggere le minoranze», compresi «cattolici sotto la
sua guida», papa Francesco ha riproposto la formula generale (e generica) del catechismo secondo
cui è lecito «fermare l’aggressore ingiusto». Ma ha subito aggiunto: «sottolineo il verbo fermare. Non
dico bombardare, fare la guerra, ma fermarlo». Poi, ha ricordato che occorre aver memoria e che
tante volte, «con la scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli
e hanno fatto una vera guerra di conquista». Ha poi specificato che «una sola nazione non può giu-
dicare come si ferma un aggressore ingiusto» e ha indicato le Nazioni Unite come ambito in cui la
comunità internazionale è chiamata a «discutere» e trovare mezzi condivisi per fermare le ingiuste
aggressioni. Poi, con un inciso carico di implicazioni, ha ricordato che a pagare le violenze settarie
nel caos iracheno non sono solo i cristiani ma anche «uomini, donne, minoranze religiose, non tutte
cristiane», da considerarsi «uguali davanti a Dio». 127
LA GUERRA ASIMMETRICA DI PAPA FRANCESCO

In maniera analoga, anche l’Iran viene considerato dalla Santa Sede come un
attore non emarginabile, un soggetto coinvolto per forza di cose in ogni proces-
so per sottrarre i popoli e le nazioni mediorientali al contagio jihadista. Uno degli
effetti collaterali delle stragi di Parigi è stato l’annullamento dell’incontro tra papa
Francesco e il presidente iraniano Hassan Rohani, in programma lo scorso 14 no-
vembre. Appuntamento solo rimandato, e non di molto. Perché ambedue le parti
a quell’incontro riconoscono grande importanza.

I facilitatori dell’Apocalisse
Nella sua libertà di movimento, papa Francesco suggerisce con insistenza il
traffico d’armi come fattore sorgivo dei conflitti. Ripete anche la formula della
«guerra mondiale a pezzi» per indicare il disegno «globale» dei conflitti disseminati
in aree e continenti diversi. Il realismo e la contestualizzazione geopolitica non
sono solo antidoti tattici ai paradigmi ideologici autoreferenziali che in Occidente
si impongono come chiavi di lettura obbligate del jihadismo e delle sue epifanie
terroristiche. Con essi, papa Francesco e i suoi collaboratori alludono anche alla
vera partita in gioco che vedono realizzarsi intorno all’emersione del «califfato».
Quella connessa alla matrice ideologica «apocalittica» di Da‘i4, che lo rende ano-
malo rispetto ad altri movimenti jihadisti e islamisti contemporanei, colta anche
da analisti come Graeme Wood e William McCants 4.
Lo Stato Islamico ha obiettivi concretissimi di potere: conquista territori, am-
ministra la «sua» giustizia, traffica petrolio e armi, raccoglie fondi dalle reti di fi-
nanziatori mondiali. Nel far questo – ha scritto Wood – esso «è diverso da quasi
tutti gli altri movimenti jihadisti contemporanei» perché ritiene di «ricoprire un
ruolo centrale nel progetto di Dio»: quello di «far manifestare l’Apocalisse» 5. Lo
stesso Osama bin Laden – ha riferito McCants 6 – era stato avvertito fin dal 2008
che al-Qå‘ida in Iraq era guidata da millenaristi che parlavano tutto il tempo della
venuta del Mahdø, il Messia della tradizione islamica. Dal 2008 a oggi «la fine dei
giorni è diventata un elemento centrale nella propaganda dell’Isis». La stessa rivi-
sta Dåbiq, house organ di Då‘i4, prende il nome dalla località nel Nord della Siria
dove secondo le profezie care al «califfo» e ai suoi seguaci si svolgerà lo scontro
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finale tra le armate dell’islam e quelle del nemico, identificabile di volta in volta
con i «crociati» a guida Usa o a guida russa. Le prospettiva di una guerra «di ter-
ra», con eserciti occidentali inviati in territorio siriano a combattere i miliziani del-
lo Stato Islamico, sarebbe il segno che la profezia inizia a compiersi. «Se è vero
che molte organizzazioni estremiste islamiche hanno caratteristiche settarie», ha
scritto Marita La Palm dell’American University di Washington, «Då‘i4 è forse la

4. Cfr. L. BIONDI, «Apocalypse Now. L’Isis e altri movimenti apocalittici», www.piccolenote.it


5. Cfr. G. WOOD, «What Isis Really Wants», The Atlantic, marzo 2015.
6. Studioso di Medio Oriente e di gruppi islamisti presso la Brookings Institution, autore del volume
128 The ISIS Apocalypse: The History, Strategy, and Doomsday Vision of the Islamic State, 2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

più settaria della storia». I suoi adepti «vivono in un mondo immaginario in cui gli
eroi jihadisti si preparano all’Apocalisse»7. Un’esaltazione per la morte che risuo-
na nei proclami dei jihadisti, aumenta il loro potenziale sacrificale, offre vittime
come caparre della sanguinaria palingenesi.
Sul terreno del pensiero apocalittico ci si imbatte anche in filoni di lucido
delirio sgorgati ben lontano dall’islam, in territori e ambienti irrigati dalle altre
due «religioni del Libro». Compresi i millenarismi e i culti nutriti dal pensiero apo-
calittico cristiano che si ritrovano in una parte della galassia neoprotestante nor-
damericana e che secondo studi convergenti si rintracciano anche nelle dottrine
politiche neocon, con la giustificazione messianica del «disordine creativo» e delle
guerre contro gli «Stati canaglia» e gli «assi del Male».
A questa radice maligna e tragica rimanda papa Francesco quando accenna
al fattore «non umano» che traspare nei sacrifici umani imposti in tutto il mondo
dalla «terza guerra mondiale a pezzi». I «pianificatori del terrore» da lui denunciati
fanno a gara nell’avvicinare la fine dei tempi, sullo sfondo di un sistema di svi-
luppo globale – denunciato nell’enciclica Laudato si’ – che spinge il mondo al-
l’autoannientamento, sulle orme delle dottrine gnostiche vecchie e nuove che di-
sprezzano la creazione come un «male» da superare. Le categorie «solo» geopoliti-
che, di ogni scuola di pensiero, che delineano i rapporti di forza, riconoscono gli
errori compiuti in passato, abbozzano strategie e soluzioni davanti alle emergen-
ze e alle crisi, risultano insufficienti a delineare lo scenario intuito e suggerito da
papa Francesco. Scenario che fa apparire patetici e offensivi dell’intelligenza gli
agit-prop di tutte le risme che si affannano a cucire addosso a papa Francesco la
caricatura del «buonista dialogante», e gli rinfacciano il suo mancato arruolamento
tra i predicatori delle neo-crociate anti-islamiche.

L’Anno santo ‘pour tous’


Se la vera partita è tra il mondo e quelli che vogliono accelerare la fine del
mondo, essa chiama in causa il livello più intimo della missione della Chiesa. A
tale livello escatologico attinge anche l’indizione dell’Anno santo della miseri-
cordia. L’occasione per riproporre a tutti la promessa di una salvezza che non è
nelle mani degli uomini, diventa anche un assist a tutta la famiglia umana. L’of-
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ferta di una via di scampo per uscire insieme dalla spirale dell’autoannientamen-
to messa in moto dalle agenzie del terrore (e da chi, cavalcando l’onda dell’A-
pocalisse, non dimentica di incrementare anche i fatturati). «Nel mondo lacerato
dalla violenza», ha detto a La Croix il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin,
«è il momento giusto per lanciare l’offensiva della misericordia». Il papa – ha ag-
giunto il suo più vicino collaboratore – «vuole che il Giubileo serva alle persone
per incontrarsi, comprendersi e superare l’odio». Dopo gli attentati, «questa fina-

7. Cfr. M. LA PALM, Concerning Features of an Apocalyptic Cult in the Islamic State of Iraq and the
Levant (Isil) in Foreign Policy Journal, 28/10/2014. 129
LA GUERRA ASIMMETRICA DI PAPA FRANCESCO

lità esce rafforzata», e si rivolge con particolare sollecitudine proprio ai figli del-
l’islam: «Riceviamo la misericordia di Dio», ha detto apertis verbis Parolin, «per
adottare questo atteggiamento verso gli altri. La misericordia è anche il più bel
nome di Dio per i musulmani, che possono essere coinvolti in questo Anno
santo, come l’ha voluto il papa».
Nel tempo breve, con il guizzo di genio che riscopre la misericordia anche
come categoria geopolitica, papa Francesco prova anche a mettere in atto la
mossa che appare decisiva a ogni sguardo illuminato dal semplice buon senso:
quella di sottrarre i musulmani all’aggressione della peste apocalittica. La «cultura
dell’inclusione», per papa Francesco, vale anche sull’orizzonte geopolitico. Il
cammino indicato da lui e dallo sguardo cattolico sui segni dei tempi va in dire-
zione contraria rispetto a tutte le strategie miranti a intimidire, umiliare e isolare
in maniera indiscriminata la moltitudine orante dei seguaci del profeta. Per impe-
dire che gli idolatri del «califfo» trovino nelle masse frustrate dell’umma di Mao-
metto altra manovalanza a buon mercato occorre piuttosto suggerire anche a lo-
ro un punto di fuga dal «caos creativo» che dilania da decenni il Medio Oriente:
sciogliere i nodi con pazienza, offrendo un’immagine della convivenza umana
che non tagli fuori le dinamiche gratuite del perdono, dell’annullamento dei de-
biti pregressi, della riconciliazione tra nemici. Occorre farlo – pensa papa France-
sco – approfittando anche del Giubileo. Che fin dall’inizio non è stato da lui im-
maginato come macchina organizzativa per adunate autocelebrative e trionfalismi
clericali. La stessa bolla d’indizione Misericordiae vultus, con la disposizione di
aprire una Porta Santa in ogni diocesi e nei santuari, esprimeva l’intenzione di
rendere capillare la rete di luoghi dove vivere l’esperienza giubilare. Già quel te-
sto di indizione decongestionava la concentrazione d’attenzione e di masse di
pellegrini su Roma, tanto paventata da chi oggi consiglia il papa di fare marcia
indietro, annullando il Giubileo. Nel contempo la bolla esprimeva anche l’inten-
zione di non trasformare l’Anno santo in attività riservata in esclusiva ai devoti o
alle categorie dei cattolici «impegnati», ma di offrirlo come terreno comune d’in-
contro e fratellanza anche coi non cristiani, a partire dagli ebrei e dai musulmani.
Per suggerire vie di riconciliazione e per sanare le ferite, in un tempo in cui i de-
liri religiosi diventano terrore.
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130
LA STRATEGIA
DELLA PAURA

Parte II
che FARE?

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LA STRATEGIA DELLA PAURA

IL TERRORISMO
NON SI VINCE (SOLO)
CON LE BOMBE di Rosario AITALA
Nella violenza islamista confluiscono caos geopolitico, alienazione
sociale, religiosità distorta e dissociazione identitaria. I guasti del
laicismo à la française. I limiti dell’azione militare. L’Italia può far
tesoro degli errori altrui.

1. DEPERSONALIZZAZIONE DELLA VITTIMA 1.


L’espressione rende drammaticamente il sorteggio iscritto nell’atto più tipico del
terrorismo. Il fortunato lemma appare per la prima volta in politica nel supple-
mento del 1798 del Dictionnarie de l’Académie Française, che alla voce «terrori-
sme» annota: «Sistema, regime del terrore» 2. Per il terrorista non ha rilievo la na-
zionalità o la religione della vittima; meno che mai importa la sua identità, la sto-
ria della sua vita, le idee, i sogni, i fallimenti, i meriti, le nefandezze. Basta che
essa muoia, sia ferita, intimidita; che la sofferenza comunque inflitta soddisfi la fi-
nalità del terrore, quasi sempre politica, anche se mascherata da religiosa, o
ideologica. La vittima perde l’umanità, viene spersonalizzata: degradata da perso-
na a numero, ad ammasso di carne dolente. Da individuo a cosa, a mezzo per
un fine. Il terrorista così si sostituisce a Dio, al fato, al caso, prendendo di mira
chiunque si trovi in quel luogo, in quel momento. Un’idea che fa rabbrividire e
che fa bene il suo mestiere: suscitare paura, reverenza, terrore 3. E davanti all’in-
certezza cronica e all’inquietudine sorda che ne derivano, tutti diventano ugual-
mente fragili poiché ciascuno ha la sensazione che la propria sorte sia rimessa,
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1. La locuzione nella descrizione del terrorismo si deve ad A. CASSESE, International Criminal Law,
Oxford 2003, Oxford University Press, p. 125 ed è ripresa da M. DELMAS-MARTY, «Les crimes interna-
tionaux peuvent-ils contribuer au débat entre universalisme et relativisme des valeurs?», in A. CASSE-
SE, M. DELMAS-MARTY (a cura di), Crimes internationaux, p. 67.
2. L’espressione assume per la prima volta un significato politico in Francia, durante la Rivoluzione,
per designare la politica di violenta repressione operata dall’ala dura giacobina guidata da Robe-
spierre contro gli oppositori politici bollati come traditori della patria. Il Comitato di salute pubblica
si proponeva l’uso selettivo della violenza contro alcuni avversari al fine esplicito di terrorizzare tut-
ti gli altri. Solo dopo la caduta della dittatura giacobina il termine e i suoi derivati, che per i fautori
della Rivoluzione avevano valore positivo, cominciano ad assumere connotato negativo. Cfr. M.
FOSSATI, Terrorismo e terroristi, Milano 2003, Bruno Mondadori, pp. 17 ss.
3. Prendo a prestito le tre parole in sequenza da C. GINZBURG, Paura, reverenza, terrore, Milano
2015, Adelphi. 133
IL TERRORISMO NON SI VINCE (SOLO) CON LE BOMBE

invece che al Dio immortale, ai capricci di una lotteria perversa voluta da un dio
mortale, da un mostruoso Leviatano che amministra sgomento.
Il confine fra Charlie e Bataclan viaggia su questa non esile linea. Le vittime
designate di Charlie Hebdo erano (secondo il personale e inappellabile giudizio
dei carnefici) autori, concorrenti o figuranti occasionali di specifici atti immondi,
da punire con sanzioni dal valore retributivo e simbolico al tempo stesso. I morti
e i feriti del 13 novembre, di Beirut e del volo 9268 Kogalymavia, invece sono
vittime sacrificali designate dal caso, non obiettivo. Oggetto e obiettivo si divari-
cano. Non è differenza da poco. Ma le strategie sono più sottili dell’apparenza, e
bisogna saperle decifrare. Procediamo con ordine, per cerchi concentrici.
Il primo, più esterno, riguarda il contesto geopolitico regionale e mondia-
le. Lo Stato Islamico (Is) 4 è, per approssimazione, un’organizzazione terroristica
che si è evoluta in soggetto geopolitico confessionale riempendo gli spazi terri-
toriali e politici liberati dal fallimento di Iraq e Siria, con il concorso di respon-
sabilità occidentali, commissive e omissive. Da una diversa angolazione, è un
fenomeno nel quale si esprime una secolare contrapposizione confessionale in-
terna all’islam fra sunnismo e sciismo, e ha sfogo la «guerra per delega» delle
potenze regionali che incarnano le due anime. Illuminante una ricostruzione
temporale degli eventi.
1998: Abû Muâ‘ab al-Zarqåwø fonda un gruppo militante jihadista in Iraq. Nel
2003 gli Stati Uniti invadono l’Iraq: cade Saddam Hussein. Ba44år al-Asad, asceso
intanto alla presidenza siriana nel 2000, sostiene l’ingresso in territorio iracheno
di foreign fighters in funzione antiamericana. A ottobre 2004, il movimento di al-
Zarqåwø si affilia e si trasforma in al-Qå‘ida in Iraq. A maggio 2006 al-Målikø di-
venta primo ministro nell’Iraq in transizione post-bellica; nel frattempo viene fon-
dato lo Stato Islamico dell’Iraq (Isi). Nel marzo 2011 cominciano le rivolte in Si-
ria; un anno dopo l’Isi fonda una filiazione siriana in chiave anti-Asad, Ãabhat al-
Nuâra. Nel marzo 2013 viene fondato l’Isis (Stato islamico dell’Iraq e del Levante
– al-3åm, espressione che anticamente designava la Siria).
La separazione da al-Nuâra consacra una profonda divergenza «culturale», ma
anche intergenerazionale. Al modello prevalentemente utopico di islam globale e
allo schema operativo qaidista di «lotta al nemico lontano» attraverso sporadiche
azioni contro l’Occidente, si contrappone una visione moderna, saldamente terri-
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toriale, che predilige la «lotta al nemico vicino»: i governi regionali, visti come
corrotti, inefficienti e filo-occidentali. Il nuovo soggetto cattura così Raqqa, che
ne diventerà la «capitale», e Mosul, dove opera una feroce e rapida pulizia etno-
religiosa contro le componenti non sunnite 5; marcia su Baghdad e dichiara il ca-
liffato. Nasce lo Stato Islamico. Nel mese di agosto 2014 al-‘Ibadø sostituisce al-
Målikø, cui si addebita la responsabilità di aver marginalizzato la popolazione
sunnita che ora parteggia con il «califfo». Cominciano le operazioni aeree della

4. L. NAPOLEONI, ISIS. Lo Stato del terrore, Milano 2014, Feltrinelli, passim.


134 5. Ibidem.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

coalizione a guida americana: una serie di paesi (più o meno) volenterosi, che
spesso perseguono interessi contrapposti e intrecciati e in alcuni casi hanno so-
stenuto milizie che combattono in Siria, salvo perderne il controllo. Sul terreno
intanto il ruolo iraniano diventa cruciale, attraverso una complessa varietà di for-
mazioni militari e foreign fighters sciiti. Da alcune settimane è entrata in campo
la Russia al fianco di al-Asad, per salvaguardare le proprie posizioni di influenza
in Siria. La Francia, infine, dal 14 novembre si dichiara in guerra contro il «califfa-
to», che ha rivendicato le stragi di Parigi.

2. Battere l’Is è questione che non si risolve con le bombe. L’intervento mili-
tare è in qualche misura inevitabile, se concepito come misura per sottrarre allo
Stato Islamico la sua dimensione territoriale, ma non sarà risolutivo. Intanto, tutti
gli analisti militari convengono sul punto che una soluzione stabile, a partire dal-
la ripresa di Raqqa e di Mosul, richiede un esercito: stivali a terra. Ma non è chia-
ro quali stivali. L’esercito iracheno non ha le capacità necessarie a riguadagnare il
territorio e le milizie sciite verrebbero accolte con comprensibile sfiducia e paura
dai sunniti che vivono sotto il «califfato». Le forze siriane sono indebolite e impe-
gnate in altro, e comunque è lontanissima una soluzione del destino di al-Asad e
famiglia, che da quelle parti è la prima questione in ordine logico. Difficile con-
tare sulle potenze regionali, che hanno interessi, prospettive e priorità diverse e
molto eterogenee. La Russia non sembra averne intenzione, né convenienza.
I paesi occidentali non sono minimamente in grado di sostenere il costo po-
litico interno, prima ancora che finanziario, di un’altra guerra e delle immagini
dei propri ragazzi che rientrano a casa dentro bare avvolte in una bandiera. Il
prezzo geopolitico di un intervento occidentale sarebbe incalcolabile, e una be-
nedizione per la causa del jihadismo: genererebbe per i prossimi decenni mi-
gliaia di nuovi combattenti pronti a iscriversi fra gli eroi di una guerra santa con-
tro i crociati invasori. Resterebbe l’opzione di una forza autorizzata dalle Nazioni
Unite costituita dai paesi sunniti della regione che si sentono più direttamente
messi in pericolo dallo Stato Islamico, ma è prospettiva complicata e lunga da
realizzarsi.
In secondo luogo, le informazioni dal terreno convergono a indicare che
operativi dello Stato Islamico stanno spostandosi in Libia, dove il controllo del ter-
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ritorio è conteso da due governi e decine di milizie. Qui avrebbero già istituito di-
versi campi di addestramento e alcuni avamposti sarebbero pronti a issare la ban-
diera nera. A parte l’ulteriore instabilità che si determina in Libia, questo dimostra
come alla disfatta eventuale dell’Is non seguirebbe affatto la fine del terrorismo,
almeno finché tutte le condizioni che lo hanno generato rimarranno intatte.
Soprattutto, c’è una lezione che dovremmo avere imparato duramente, in
Iraq, in Afghanistan, in Libia: in geopolitica, come in fisica, i vuoti si riempiono,
se non ad opera di poteri legittimi, da altri illegali o di fatto. L’abbattimento del
«califfato» richiede che si lavori da subito su progetti di ricostruzione, processi po-
litici credibili per rimpiazzare gli equilibri attuali. Quella in corso non è guerra fra 135
IL TERRORISMO NON SI VINCE (SOLO) CON LE BOMBE

Occidente e Stato Islamico, se non nel senso infondato e deleterio di scontro di


civiltà, propagandato dagli interessati e dagli sciocchi. Sono in corso una serie di
conflitti di lontanissima origine storica – geopolitici, confessionali, economici, cri-
minali – che richiedono un accomodamento nella regione e nell’islam, necessa-
riamente lungo e complesso. Ma per fermare l’entropia è necessario favorire ag-
gregazioni politiche e istituzionali: la nascita in Iraq e Siria di Stati federali e multi
confessionali che a ogni componente etno-religiosa (curdi, sunniti, sciiti, alauiti)
e alle comunità tribali che controllano di fatto i territori assicurino uno spazio po-
litico-economico-territoriale soddisfacente. Ma per questo si richiede un governo
forte, autorevole e condiviso in Iraq e la fine della guerra civile in Siria. Obiettivi
lontani. A Vienna si sono fatti passi avanti, ma la strada è lunga.

3. Il cerchio intermedio riguarda il «califfato» visto da dentro: tattiche, strate-


gie, narrativa. Partiamo dai fatti. A Parigi agiscono all’unisono più gruppi di terro-
risti, tutti giovani jihadisti di ritorno, cittadini delle seconde e terze generazioni
delle comunità immigrate di Francia e Belgio. Scelgono obiettivi facili, imprevedi-
bili, poco protetti e di grande impatto in quanto frequentati da molte persone
inermi. Le operazioni richiedono solo una preparazione militare di base e la de-
terminazione necessaria per sacrificare la propria vita, esito pressoché invariabile
dell’azione. Il punto è se esista una strategia precisa e se questa unisca Parigi,
Beirut e 3arm al-3ayœ.
Intanto, sarebbe bizzarro immaginare che il supposto «dipartimento per la
Sicurezza esterna» del sedicente califfato abbia diretto gli attacchi da moderne
centrali operative. Lo è anche ipotizzare che i funzionari dell’Is conoscessero i
piani di attacco in dettaglio: probabilmente si saranno addestrati alcuni operati-
vi, fornite linee di indirizzo, indicazioni generali ai solerti che le hanno raccolte
e sviluppate. Certo è che le burocrazie dello Stato Islamico non hanno avuto
bisogno di esfiltrare dal proprio territorio sicari di fiducia, magari mischiandoli
ai disperati che fuggono, come nei peggiori incubi di certa politica. Hanno tro-
vato terreno fertile. I soldati erano cittadini europei, francesi e belgi; portavano
un carico endogeno, tutto europeo, di rabbia, di scelta della violenza, di predi-
sposizione al martirio.
Forse, dunque, più propaganda e furbo opportunismo che strategia 6. Non
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sembra fondata l’idea che i fatti di Parigi segnalino una nuova stagione di lotta al
nemico lontano come qualcuno pure argomenta. Lo Stato Islamico vuole restare
un soggetto moderno e genuinamente geopolitico, uno Stato: una comunità con
un territorio costituito sull’antica terra dell’islam sunnita che funge anche da po-
tente richiamo per i fondamentalisti di ogni parte del globo. La narrativa dell’Is,
anche quella trionfalistica che si attribuisce i meriti di ogni nefandezza, ha una
precisa funzione motivazionale e di reclutamento dei combattenti. Indirizzare le
azioni contro i paesi più attivi militarmente nella regione (la Francia ha svolto

136 6. L. CARACCIOLO, «Scacco al terrore in quattro mosse», la Repubblica, 17/11/2015.


LA STRATEGIA DELLA PAURA

ruoli precisi in Mali, in Libia e in Siria) è coerente con la retorica del nemico che
è centrale nella logica del «califfato» 7. Il mondo islamico radicale e le sue poten-
ziali nuove reclute sono il primo destinatario del messaggio di Parigi.
Poi c’è il pubblico occidentale, nel quale si vuole determinare (con succes-
so) uno stato di soggezione alla paura, modificandone i comportamenti quotidia-
ni e alimentando infondati e profondissimi meccanismi di sospetto e di rancore
nei confronti dell’islam, degli stranieri, dei profughi e della diversità: una saldatu-
ra mentale pericolosa fra migrazione e terrorismo, diversità e radicalismo. Non a
caso crescono i «crimini di odio», le intolleranze, le violenze, le ingiurie motivate
da odio religioso, etnico e culturale.
La politica occidentale è il terzo obiettivo. Nelle campagne elettorali entra
prepotentemente la retorica consunta dello scontro di civiltà 8 e i temi falsamente
connessi del terrorismo e delle migrazioni. Gli Stati, per rispondere alle nuove in-
quietudini dei cittadini, rimandate ossessivamente dai media e da continui allar-
mismi, sono incoraggiati a farsi attrarre nelle sabbie mobili del Medio Oriente, a
fare propria una guerra altrui. In questo quadro poi si colloca il richiamo abnor-
me dei terroristi a valori religiosi, con la funzione di alimentare odio e intolleran-
za; di motivare al sacrificio gli operativi; e di coprire ideologicamente operazioni
che hanno in realtà natura politica ed economica.

4. Il cerchio interno del ragionamento riguarda le motivazioni individuali e


l’humus sociale e politico che ha partorito i mostri di Francia e Belgio. Una
questione che non riguarda gli altri, ma noi. Per sfuggire i facili semplicismi bi-
sogna riconsiderare anche quelle certezze apparentemente consolidate. Per
smontare una prima falsa equazione bisogna separare la scelta ideologica radi-
cale 9 dall’opzione violenta, che riguarda una piccolissima minoranza. Anche
nell’esperienza storica dei movimenti ideologici eversivi, le scelte violente, in
particolare quelle a carattere stragista (non rivolte a precisi nemici o categorie
di nemici), sono state internamente molto controverse e anche fra coloro che
le condividevano in principio gli operativi sono stati sempre pochi. Gli altri so-
no brodo di coltura, istigatori, correi: rafforzano la determinazione altrui. Nel
jihadismo bisogna poi considerare che l’azione militare comporta l’autodistru-
zione e presuppone la non facile maturazione di una scelta autosacrificale 10.
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Bisogna quindi indagare partitamente le possibili ragioni delle due scelte indi-
viduali, fondamentalismo e terrorismo 11.
Nei paesi occidentali l’avvicinamento a posizioni ideologiche fondamentali-
ste di cittadini o di residenti di origine straniera dipende quasi sempre, oltre che

7. A. PLEBANI, P. MAGGIOLINI, «La centralità del nemico nel califfato di Al-Baghadi», in M. MAGGIONI, P.
MAGRI (a cura di), Twitter e jihad: la comunicazione dell’ISIS, Milano 2015, Ispi, pp. 29 ss.
8. R. AITALA, «Se la paura dei barbari ci rende barbari», Limes, «Dopo Parigi che guerra fa», n. 1/2015.
9. A. ELORZA, La religione politica. I fondamentalismi, Editori Riuniti, Roma 1996, pp. 46 ss.
10. R. AITALA, op. cit. e ivi riferimenti, pp. 87 s.
11. G. KEPEL, Storia del fondamentalismo islamico, Roma 2015, Carocci. 137
IL TERRORISMO NON SI VINCE (SOLO) CON LE BOMBE

da inclinazioni personali, da una crisi nel rapporto fra persona e società: dall’as-
senza o dal venir meno di quel senso di appartenenza che cementa una comu-
nità e una nazione. Sembra il caso dei giovani jihadisti francesi e belgi, prima an-
cora dei terroristi di Londra e di Madrid.
Un fattore di contesto specifico della società francese è la sua costruzione
attorno a una laïcité rigidissima, dogmatica, che relega la religione fuori dalla vi-
ta pubblica, esiliandola dentro il «santuario esistenziale della coscienza e in
quello spaziale del tempio e del culto» 12, pur non negandola, né interdicendola.
Al punto che dal 1872 in Francia è proibito indagare sul credo delle persone e
di conseguenza non è noto, nemmeno a spanne, quanti siano coloro che prati-
cano o si riconoscono in ciascuna religione, in particolare nell’islam 13. In realtà
quella francese non è laicità, piuttosto è laicismo; non secolarità, ma secolari-
smo. Come annota il teologo Gianfranco Ravasi, la secolarità è categoria di ori-
gine cristiana che «libera la religione da ogni concezione integralistica e teocrati-
ca», e discende dal «rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di
Dio» 14. Un processo interno alla Chiesa, che si propone di «condeterminare an-
che il cammino del mondo secolare, senza però volerlo determinare integristica-
mente e dottrinariamente» 15.
Per converso, laicismo e secolarismo sono forme organizzative del potere
politico che respingono tendenzialmente «ogni presenza storica e sociale della re-
ligione»: che ignorano Dio, per confinarlo «nel limbo inoffensivo della sua tra-
scendenza» 16. Il caso francese è di scuola. Il laicismo negli ultimi anni ha denu-
dato la difficoltà di concepire un islam francese e di ricondurre all’interno delle
dinamiche sociali gli appartenenti alle seconde e terze generazioni di immigrati,
in genere di religione musulmana. Questa incapacità della società francese forse
non deriva tanto da una paradossale «laicità cattolica» 17, da una sorta di implicita
preferenza dello Stato per la religione cristiana in danno di quella musulmana,
ma dalla crasi di caratteri costitutivi dell’islam e di strutture e contingenze della
società francese.
Nell’islam è difficile concepire un sistema politico e sociale che non concor-
di con la fede, di conseguenza si è raramente teorizzata una forma di laicità nel
rapporto fra politica e religione che consenta al credente di «codeterminare» il
cammino della società senza volerle imprimere una forte caratterizzazione reli-
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giosa. L’islam, per dirla con il giurista Qammûdø, «è una religione, non una poli-
tica, ma è una religione che conferisce alla politica il suo fondamento» 18. In

12. G. RAVASI, «Tra secolarità e secolarismo», Il Sole 24 Ore (Domenica), 22/11/2015.


13. F. PICHON, «Laicité cattolica e jihadisti secolari: la maionese francese è impazzita»; G. SACCO, «La
Francia e i suoi figliastri», Limes, «Dopo Parigi che guerra fa», n. 1/2015.
14. G. RAVASI, op. cit.
15. Così K. Rahner, in G. RAVASI, op. cit.
16. G. RAVASI, op. cit.
17. Cfr. F. PICHON, op. cit., p. 46.
18. M. CAMPANINI, Ideologia e politica nell’Islam. Fra utopia e prassi, Bologna 2008, il Mulino, p. 170;
M. CAMPANINI, L’alternativa islamica, Milano-Torino 2012, Bruno Mondadori; M. CAMPANINI, Oltre la
138 democrazia, Milano-Udine 2014, Mimesis.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

questa visione la democrazia è considerata uno strumento per raggiungere il fi-


ne religioso e non un principio fondamentale, una legge assoluta. Tantomeno è
accettabile la forma liberale della democrazia, costruita attorno all’individuo,
quando nell’islam domina semmai l’idea comunitaria e collettivista 19. Sul piano
della partecipazione politica individuale l’islam chiede al credente di impegnarsi
in uno sforzo (jihåd) di affermazione nella realtà degli ideali di fede che lo ani-
mano, uno sforzo che in origine è quasi sempre pacifico e interiore. Così per un
musulmano può essere complicato condividere i valori di una società che in no-
me del laicismo e del secolarismo reprime anche i segni esteriori della sua reli-
gione. Una profonda ragione culturale è dunque l’ingrediente remoto che ha
prodotto in Francia (e in diversa misura in altri paesi europei e occidentali) una
crisi identitaria, una lacerazione fra la lealtà alla religione e alle origini e la lealtà
al proprio paese.
Gli altri fattori sono economici e sociali. La crisi degli ultimi anni ha colpito
soprattutto i figli degli immigrati: fra loro si concentra la maggior parte dei disoc-
cupati, condannati alle periferie, esclusi, marginalizzati. Giovani che non votano
e per conseguenza non si sentono rappresentati politicamente 20. Nella successio-
ne causale dell’avvicinamento a posizioni radicali si combinano così domanda di
giustizia sociale e uno smarrimento che induce questi giovani a identificarsi nelle
visioni storpiate e massimaliste della religione: una forma di critica estrema, com-
plice la sensazione di diventare parte di un’esperienza totalizzante e universale
che riporta alla purezza delle origini, che ricostruisce un’identità incerta e spezza-
ta. In questo meccanismo si inserisce la spirale del sacrificio che riduce a un non
valore la propria stessa vita.

5. Quarto cerchio: noi. L’Italia sta pensando e agendo bene. Viviamo sotto lo
stesso cielo, ma noi abbiamo un orizzonte diverso 21. Noi sperimentiamo in ritar-
do rispetto ai paesi con un passato coloniale il fenomeno migratorio e le sue con-
seguenze sociali: se sapremo adottare lungimiranti politiche di attribuzione di cit-
tadinanza e diritti a chi partecipa alla nostra democrazia, potremo evitare questi
fenomeni di torsione identitaria degli immigrati. Naturalmente non siamo esenti
da rischi, ma questi sono in massima parte estranei alla nostra compagine sociale
ed entro certi limiti si possono prevenire con gli strumenti giuridici delle investi-
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gazioni e della prevenzione informativa. Per noi poi alzare muri non è possibile:
ostano geografia, storia, politica. E non conviene: perché i muri non possono ar-
restare i fenomeni sommersi e incontrollabili, ma invece ostacolano quelli positi-
vi: gli scambi economici, culturali, politici, quelli che perpetuano un’unità storica
millenaria nella quale abbiamo un ruolo di ponte, fisico ed ideale.

19. M. CAMPANINI, op. cit., p. 172; R. AITALA, «Le parole e le cose», Limes, «Afghanistan addio», n.
2/2010, pp. 97 s.
20. G. SACCO, op. cit., p. 53.
21. Riprendo Konrad Adenauer: «Viviamo tutti sotto lo stesso cielo, ma non abbiamo tutti lo stesso
orizzonte». 139
IL TERRORISMO NON SI VINCE (SOLO) CON LE BOMBE

Frattanto, alcuni paesi europei stanno attrezzandosi con leggi draconiane:


sorveglianza di massa per accumulare miliardi di metadati sulla vita e le comuni-
cazioni dei cittadini, incriminazioni di condotte di discutibilissima offensività e le-
gittimità, come il mero consultare determinati siti. Non è una bella prospettiva.
Perché spiare tutti non è possibile e non serve a niente: si devono controllare le
persone e questo in uno Stato di diritto deve seguire certe regole, di procedura e
di sostanza. Perché un’infinità di applicazioni sul Deep Web e sotterfugi di vec-
chia e nuova inventiva permettono di sfuggire ai controlli, mentre resta nelle ma-
glie la vita privata di milioni di cittadini incolpevoli e nessuno può dirsi in grado
di prevenire l’uso riprovevole di questi dati. Perché l’efficacia preventiva dipende
dalla personalità e dalla motivazione delle persone: chi ha accumulato una carica
di odio, di rancore e di disperazione tale da pensare di mettere fine alla propria
vita per un’ideologia non ha paura di una denuncia in pretura. Perché il pendio
scivoloso delle libertà imboccato dopo l’11 settembre ha scavato più profonda-
mente i solchi della storia e ha lasciato dietro di sé detriti non dissolti.
La politica in questi momenti ha un dovere difficile, ma chiaro. Proteggere la
vita e la serenità dei cittadini, ma difendendo sempre i valori di civiltà che dob-
biamo alla vita e alla sofferenza di altri che sono venuti prima di noi. In essi con-
siste la nostra identità più profonda, quello che noi siamo. Chi per combattere il
nemico cambia se stesso, ha già perso.

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140
LA STRATEGIA DELLA PAURA

COMUNICAZIONE
E CONTROLLO
AI TEMPI DEL TERRORE di Francesco VITALI
Invece di invocare lo spionaggio di massa, i servizi segreti ammettano
di non riuscire a star dietro a qualche migliaio di sospetti. Per
monitorare i terroristi, bisogna lasciarli parlare. Non servono leggi
speciali, basta il marketing. La pericolosa deriva dei valori europei.

1. I SANGUINOSI ATTENTATI DEL 13


novembre 2015 hanno aperto un intenso dibattito sulle capacità operative dei
terroristi legati allo Stato Islamico (Is), in particolare nel settore tecnologico e
della comunicazione. Anche se può sembrare presto – a pochi giorni dai tragi-
ci eventi – per analizzare l’ondata comunicativa e i relativi effetti politico-so-
ciali generati dagli attacchi, possiamo già riflettere su alcuni degli slogan e del-
le parole chiave adottate dai media – quasi sempre su indicazioni governative
e dei servizi segreti – per evitare pericolosi errori strategici nella risposta agli
assassini dell’Is.
Il primo punto riguarda le modalità comunicative e organizzative dei terro-
risti, spesso descritti come lupi solitari o, con un termine molto amato dalle for-
ze di sicurezza italiane, come molecole: un «terrorismo molecolare», dunque,
invisibile, fatto di soggetti autoformatisi e autoestremizzatisi su Internet. Più
che illustrare il fenomeno, questa descrizione appare come una scusa. Può es-
sere impiegata per spiegare di non poter fermare una persona con disturbi psi-
cotici che improvvisamente scende in strada armata di coltello e, invece di col-
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pire un familiare in casa (cosa che accade con una frequenza ben maggiore dei
casi raccontati dalla cronaca nera), colpisce uno sconosciuto perché ha un co-
lore diverso della pelle o perché l’abbigliamento ne svela la presumibile appar-
tenenza religiosa. Pur mostrando l’orrore della follia personale, questi gesti po-
co hanno a che spartire con atti ben studiati e coordinati come quelli parigini.
Gli attacchi del 13 novembre, come nel caso dell’attentato di Charlie Hebdo,
sono stati condotti da commando ben addestrati e, soprattutto, ben coordinati. I
lupi, salvo rare eccezioni, attaccano in branco, così come i terroristi. È quindi
possibile tracciarli, identificarne i complici e la rete di supporto. Qualunque so-
cietà di marketing e big data che studia la comunicazione sui social network e 141
COMUNICAZIONE E CONTROLLO AI TEMPI DEL TERRORE

analizza le dinamiche di comunicazione all’interno di «grafi sociali» ha strumenti


per ricostruire in modo dinamico le relazioni all’interno di un gruppo. Ne è con-
sapevole la National Security Agency (Nsa) che, come rivelato dai documenti di
Edward Snowden, utilizza da anni questi strumenti con grande efficacia. I terrori-
sti che hanno operato in Francia erano identificati e identificabili, andavano però
monitorati. Lo si è visto subito dopo gli attacchi quando, con gli adeguati con-
trolli sul giusto cluster, sono stati individuati numerosi altri soggetti pericolosi tra
Francia, Belgio e Italia.
Per spiegare la difficoltà di controllare i tre commando di Parigi, e gli altri
ancora in libertà, alcuni agenti dei servizi hanno inizialmente lasciato intendere
che i terroristi quasi sicuramente comunicavano attraverso le chat della Playsta-
tion 4 della Sony in giochi come War of Warcraft, magari addirittura attraverso
gesti, rendendo impossibile il monitoraggio. Tuttavia, qualunque servizio segreto
tecnologicamente avanzato pagherebbe per avere a casa propria un terrorista
con la Playstation della Sony o il sistema Xbox Kynect della Microsoft. Come tutti
gli strumenti tecnologici, questi oggetti per il gioco online sono infatti dei perfetti
cavalli di Troia, anche perché progettati, come tutte le tecnologie di largo consu-
mo, per diffondere i dati personali – non per proteggerli. Basti pensare che il si-
stema Kynect è stato più volte contestato perché trasmette qualunque informa-
zione sul giocatore ai server centrali della Microsoft, inclusi i gesti fatti davanti al-
la telecamera del sistema o la registrazione audio. Quest’ultimo aspetto, tra l’al-
tro, accomuna tutti gli strumenti dotati di microfono che abilitano forme di co-
mando vocale, dagli smartphone alle smart-tv, che per funzionare registrano la
voce degli utenti, la trasmettono sul cloud, procedono con tecniche di riconosci-
mento vocale e di analisi semantica del linguaggio e rinviano i corretti comandi
al gadget tecnologico. LG e Samsung, per fare un esempio tra le tante società
che producono smart-tv, sono già state accusate di violare la riservatezza delle
famiglie all’interno delle mura domestiche. Difficile quindi immaginare un servi-
zio segreto che, invece di effettuare una rischiosa incursione per installare sofisti-
cate cimici elettroniche in un appartamento, non sarebbe lieto di usare quelle già
disponibili al suo interno, attivabili da remoto.
In merito alle capacità di spionaggio elettronico in Europa, occorre tra l’altro
considerare che il Regno Unito è un membro primario del gruppo dei «Five Eyes»
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e ha accesso totale, come gli Stati Uniti, alle comunicazioni mondiali. Senza con-
tare che Germania e Francia – così come Olanda, Danimarca e altri paesi
europei 1 – hanno offerto un supporto determinante con le proprie infrastrutture
al sistema di spionaggio globale dell’Nsa.

1. In realtà i servizi segreti di tutti gli Stati europei, a partire dal Portogallo, da dove si diramano nu-
merose infrastrutture di comunicazione internazionale, fino ai paesi baltici e al Sud del continente,
hanno offerto supporto al sistema di intercettazione globale americano. L’Italia, anche in questo ca-
so, è vista come un soggetto passivo che garantisce l’accesso alle proprie banche dati e alle comu-
142 nicazioni non solo nazionali, ma anche a quelle verso Israele, il Medio Oriente e l’Asia.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

2. In seguito agli attentati, è stata lanciata una campagna contro la crittografia


che, secondo la versione ufficiale, limiterebbe le capacità di intercettazione su
scala globale, favorendo i terroristi. Come sanno gli specialisti del settore, un in-
debolimento a priori dei sistemi di cifratura, oltre a rischiare di mettere in crisi l’e-
conomia digitale per i suoi effetti nefasti sulla sicurezza delle transazioni, non è
neppure «indispensabile» per tracciare un sospettato. In particolare quelli francesi,
che non sembravano così assillati dalla segretezza, tanto da comunicare in chiaro,
persino con semplici sms. Tra l’altro, i messaggi scambiati tramite le «reti a cipolla»
come Tor (acronimo di The Onion Router) sono «quasi anonimi» se la comunica-
zione è intercettata nel mezzo, ma sono facilmente tracciabili e decodificabili se si
monitora la fonte, ovvero lo stesso terrorista mentre scrive il messaggio.
Anche in questo caso, i servizi di intelligence hanno reagito richiamando l’at-
tenzione dei governi sulla necessità di aumentare le capacità di intercettazione
indiscriminata, stile Nsa, così da sviare l’attenzione da altri problemi relativi agli
apparati di sicurezza. La capacità tecnologica e i presupposti giuridici per moni-
torare qualunque obiettivo già esiste, il problema è scegliere il target e non ag-
giungere ulteriore «rumore» al sistema, spiando tutti i cittadini. Occorre chiedersi
– e chiedere pubblicamente alle forze di sicurezza – perché quei 3 mila soggetti
pericolosi – le cosiddette Fiche S (abbreviazione di Sûreté de l’Etat, «sicurezza di
Stato») tra cui c’erano anche molti dei membri dei commando di Parigi – non fos-
sero adeguatamente monitorati, dal momento che erano già segnalati e schedati
nelle banche dati di vari paesi. I servizi di sicurezza francesi e belgi dovrebbero
avere il coraggio di dire – se questo è il problema – che non hanno le risorse per
monitorare anche da remoto alcune centinaia o migliaia di soggetti, invece di
chiedere riforme per creare ulteriori banche dati sui cittadini comuni e spiare l’in-
tera popolazione, sulla scia dell’Nsa.
Bisognerebbe estendere la domanda alle intelligence di tutti i paesi europei, a
partire da quelli tedeschi.
La commissione d’inchiesta avviata dal parlamento tedesco per verificare le at-
tività dell’NSA in Germania, ad esempio, sta indagando sul perché il BND (Bunde-
snachrichtendienst – i servizi segreti esteri tedeschi), spiasse, dalle proprie infra-
strutture di Bad Aibling su incarico dei servizi americani, numerosi cittadini france-
si a cominciare da esponenti del governo, delle istituzioni europee e di primarie
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aziende del paese transalpino. A questa domanda, la cui risposta è retorica, occor-
rerebbe aggiungerne una seconda più scomoda: ovvero perché nella lista dei tar-
get di cui intercettare tutte le comunicazioni non vi fossero anche tutti i pericolosi
estremisti islamici, già conosciuti, e di ritorno dai campi di addestramento in Siria.
Nel caso fosse stato inserito anche il loro nome, lo scorso 13 novembre 2015, a
Parigi, non avremmo probabilmente avuto alcun lutto da piangere.
Per quanto datati, gli studi del sociologo Max Weber 2 sull’autoconservazio-
ne dei sistemi sociali, fino a quelli autopoietici, ci aiutano a capire la reazione
2. Vedi ad esempio M. WEBER, Economia e società, Milano 1961, Edizioni di Comunità (Wirtschaft
und Gesellschaft, Tubinga 1922). 143
COMUNICAZIONE E CONTROLLO AI TEMPI DEL TERRORE

dei servizi segreti, in posizione di attacco proprio per difendersi dalle accuse di
incapacità e inefficienza. Difficile chiedere trasparenza ai servizi segreti, ma la
si può pretendere dalle istituzioni che li governano e che li dovrebbero con-
trollare. Se hanno sbagliato, forse sarebbe stato opportuno sostituirne da tempo
i vertici; in caso contrario, dovrebbe essere la politica ad assumersi le proprie
responsabilità.

3. Nella scelta degli obiettivi e delle modalità operative, i terroristi hanno


sfruttato alcuni meccanismi classici di rilancio mediatico per massimizzare gli
effetti degli attentati. Ogni evento catastrofico sembra infatti un punto zero che
cancella le lezioni precedentemente acquisite, lasciando spazio solo alle parole
chiave dell’opportunismo del potere politico, che si deve dimostrare forte e in-
flessibile per tranquillizzare la popolazione e per lucrare vantaggi elettorali e di
potere reale. I terroristi ne sono consapevoli e sfruttano le fragilità della nostra
società; ma sono in parte loro stessi succubi del clamore mediatico, che fa il
gioco dell’industria delle armi e delle lobby della sicurezza che dichiarano di
voler combattere.
Sarebbe quindi necessario riprendere studi, sempre attuali, come quelli di
Marco Lombardi 3 sugli tsunami della comunicazione in situazioni di emergenza e
quelli sul contagio emotivo attraverso i social network. Questi sono acceleratori,
non creatori sociali. Aumentano la velocità di crescita e di morte di un movimen-
to o di un’onda di comunicazione. Facilitano l’aggregazione e l’azione virtuale,
ma la campagna si sgonfia con velocità simili a quelle che l’hanno creata. Tutta-
via, benché l’ondata emotiva scemi, i suoi effetti nella vita reale sopravvivono.
Sulla base dell’esperienza francese, in Italia dobbiamo prepararci ad anticipare
l’onda, prevederne gli effetti per ridurne la potenza ed evitare che cresca fino a
diventare, appunto, uno tsunami. Tale riflessione si rivela assolutamente necessa-
ria anche in previsione di futuri (e altamente probabili) attentati, per evitare inuti-
li allarmismi senza però rinunciare a preparare la popolazione all’evento.
Per combattere il terrorismo e i suoi sanguinari artefici, occorre conoscerlo,
studiarne le cause, individuare i soggetti coinvolti. Proprio per questo può essere
molto pericoloso abbattere, come si propone dopo ogni attacco, i loro gruppi su
Internet, in particolare sui social network. È vero che rappresentano un’odiosa
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forma di propaganda ma, al tempo stesso, sono il miglior strumento per cono-
scere il fenomeno, studiarne le chiavi di comunicazione, identificare con preci-
sione le persone direttamente o indirettamente coinvolte. Nella società connessa,
per monitorare puntualmente un soggetto e per definirne il profilo, non servono
leggi speciali, è sufficiente adattare uno dei tanti strumenti di analisi utilizzati nel
marketing per studiare utenti/clienti. I soggetti che potrebbero fornire questi
esempi non mancano: dalle società di telecomunicazione, che offrono servizi te-
lefonici e di connessione dati, ai big della grande distribuzione e dei sistemi di

144 3. M. LOMBARDI, Tsunami: «Crisis management» della comunicazione, Milano 1993, Vita e pensiero.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

pagamento, fino agli over the top (ott) come i gestori dei motori di ricerca o dei
social network. Per raggiungere questo obiettivo occorrono però le informazioni
ricavabili dai gruppi che i governi e, ultimamente, anche gli hacker di Anony-
mous nella loro campagna contro l’Is si stanno sforzando di bloccare. Le demo-
crazie europee non hanno ancora trovato un modello narrativo sufficientemente
forte da contrapporre, nel mondo musulmano, a quello proposto dall’Is. Forse,
prima di combattere, sarebbe necessario studiare di più e più velocemente.

4. Nella lotta contro l’Is c’è un elemento preciso a favore dell’Occidente: la


dimensione spaziale. Per quanto non si voglia offrire un riconoscimento statuale
all’Is, va comunque considerato che i «nemici» non sono soggetti sconosciuti e in-
visibili come la Spectre dei film di spionaggio, ma fanno riferimento a un’entità
dotata di un territorio, con una precisa organizzazione gerarchica, un esercito ri-
conoscibile, addirittura un sistema di welfare a supporto delle popolazioni sog-
gette. I terroristi non vivono in un contesto solo virtuale, nel Web. Colpendo la
loro struttura sul territorio non si distruggeranno la loro rete e gli psicopatici che
li sostengono, ma sicuramente se ne indeboliscono le capacità operative e la for-
za di attrazione del messaggio politico.
Per avere risultati positivi nel medio periodo, occorre però guardare agli er-
rori commessi in Afghanistan, in Iraq e nei paesi delle ormai ex primavere arabe.
Eliminare il vertice politico-militare dell’Is non serve a nulla se non si promuove
un piano a lungo termine di ricostruzione di uno Stato e di istituzioni sovrane. A
un vuoto di potere corrisponde sempre una forza che ne approfitta e lo va a col-
mare, pacificamente o con la forza, nel caso siano presenti più contendenti.
Questa operazione richiede ai paesi occidentali ulteriori riflessioni, sia sulla
tempistica dell’azione sia sulla geopolitica dei valori. Nell’epoca dei media –
dove la notizia di una guerra viene sostituita dopo pochi minuti dal video di
un gattino su YouTube – e in quella dei social network – dove basta un click
per aprire e chiudere una campagna sociale – ci stiamo abituando a pensare
che fenomeni umani che richiedono decenni per poter maturare possano con-
cludersi nel giro di qualche mese.
Nel loro pensiero strategico, gli Stati Uniti e i paesi europei devono fare
due passi indietro rispetto alla comoda guerra psicologica di breve periodo –
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comandata a distanza da Internet quasi fosse il missile di un drone – per torna-


re alle operazioni di costruzione e supporto delle istituzioni sul territorio. Una
sorta di piano Marshall, volto a costruire istituzioni compatibili con la struttura
sociale in cui si devono inserire. Al costo di ogni missile lanciato da un aereo
dovrebbe corrispondere un investimento economico almeno equivalente in at-
tività sociali sul terreno. In questo modo si creerebbe un investimento ingentis-
simo, ovviamente non sostenuto dalle solite lobby al potere. Uno sforzo diffi-
cilmente immaginabile per un politico che pensa solo al suo elettorato, ma
possibile per uno statista che abbia a cuore la democrazia. Finora, la politica
estera di Barack Obama ha generato un caos utile, almeno a breve-medio ter- 145
COMUNICAZIONE E CONTROLLO AI TEMPI DEL TERRORE

mine, solo alla potenza americana. Alla fine del suo secondo e ultimo manda-
to, gli Stati Uniti dovrebbero cambiare obiettivo e pensare alla salute democra-
tica mondiale dei prossimi decenni.
In una conferenza stampa tenutasi a Kuala Lumpur il 22 novembre, il presi-
dente degli Stati Uniti ha dichiarato: «Distruggeremo l’Is sul campo di battaglia
senza rinunciare ai nostri valori», spostando l’attenzione sui valori della democra-
zia dei paesi occidentali. La sua affermazione non deve essere presa con legge-
rezza. Il peso geopolitico dell’Europa, infatti, si può misurare anche nella capa-
cità di difendere i suoi princìpi costituzionali e l’equilibrio tra sicurezza e libertà e
benessere diffuso che sono alla base del suo patto sociale. Eppure, la Francia
forte ereditata da de Gaulle, con istituzioni solide che le hanno consentito di su-
perare la guerra civile algerina con attentati molto più sanguinosi di quelli jihadi-
sti, dopo l’attacco a Charlie Hebdo ha scimmiottato la reazione americana post-11
settembre, garantendo capacità operative indiscriminate ai servizi segreti, a disca-
pito dei diritti dei cittadini. Ora, dopo il 13 novembre, si prostra a una modifica
costituzionale per garantire maggiori poteri al governo in caso di minaccia terro-
ristica. Gli altri Stati europei hanno seguito questa strada, modificando la norma-
tiva interna dal «banale» tracciamento di tutti i cittadini che prendono un aereo
(con la riforma del Passenger Name Record, Pnr) all’obbligo di scatole nere nelle
automobili (formalmente per finalità assicurative), fino a violazioni delle libertà
individuali o del domicilio, reale o virtuale. Con l’assillo della sicurezza, i paesi
dell’Ue hanno trascinato con loro le istituzioni europee in una compressione dei
valori fondanti dell’Unione.
Difficile immaginare quali sacrifici potrebbero chiedere i governi nazionali
alla democrazia, incluso quello italiano, in caso di ulteriori attentati, per altro
molto probabili 4. Se la potenza geopolitica si misura anche nella capacità di
proiettare i propri valori, noi europei non abbiamo perso occasione per mo-
strare la nostra debolezza. Invece di accettare la sfida jihadista, proponendo
con maggior forza la nostra democrazia e preparando i cittadini europei ad ac-
cettare anche i sacrifici di questa sfida, abbiamo fatto un passo indietro. Nella
speranza che l’arrocco salvi i governi o, addirittura, faccia guadagnare punti al-
le prossime elezioni.
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4. Al fine di rendere più equilibrata qualunque analisi sugli ultimi attentati in Europa, utilizzando
parametri di confronto non vincolati alle esigenze del sistema mediatico europeo, sarebbe opportu-
no considerare che, in base ai dati raccolti nel Global Terrorism Database (Gtd), gestito dall’Univer-
sità del Maryland, negli ultimi vent’anni si sono registrati quasi dieci attentati al giorno, con circa
146 165 mila persone morte e 280 mila feriti.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

I MUSULMANI DEVONO TEMERE


L’OCCIDENTE PIÙ DEI TERRORISTI di Carlo JEAN
Contro la retorica buonista: è ora di combattere sul serio i jihadisti.
La lettura apocalittica dei testi sacri affascina masse di islamici.
Bisogna togliere al ‘califfato’ l’aura di invincibilità colpendolo
duramente e poi distruggendolo.

1. L’ ONDATA DI VIOLENZA NEL MEDIO


Oriente, in Africa e in Europa – soprattutto dopo gli attentati del 13 novembre a
Parigi – ha riattivato il dibattito su origini e cause del terrorismo di matrice islami-
ca. Esse sono molteplici. Le loro correlazioni sono complesse: politiche, sociali,
economiche. Per taluni sono anche o soprattutto religiose. Il «Libro della spada»,
nell’interpretazione datagli dalle componenti più radicali del mondo islamico,
che seguono l’interpretazione più rigorosa della 4arø‘a – salafiti, wahhabiti e, più
in generale, islam politico – sarebbe all’origine della brutale violenza che con-
traddistingue il comportamento e l’escatologia di Då‘i4 (lo Stato Islamico – Is). Al-
la lettura apocalittica e millenaristica del Corano è strettamente raccordata la stra-
tegia del «califfato», che fa riferimento alla profezia di Maometto sull’inevitabilità
della vittoria dell’islam. Essa precederebbe la fine del mondo, dopo la distruzio-
ne a Dåbiq (località siriana a nord di Aleppo, da cui deriva il titolo della rivista
ufficiale del gruppo) dell’«esercito di Roma».
In molte parti del Corano e degli aõådøñ – i quasi cento volumi che raccolgo-
no i detti e raccontano le imprese del Profeta, tra cui la ventina di spedizioni mi-
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litari e le sette battaglie in cui ha combattuto di persona – si giustifica la violenza


necessaria per diffondere la «vera fede». Si prescrive, anche, il trattamento da ri-
servare ai popoli vinti: decapitazione dei prigionieri, schiavitù per le loro fami-
glie, pagamento di una tassa da parte degli appartenenti ai «popoli del Libro» per
poter vivere nei territori occupati dall’islam; dovere religioso della diffusione del-
l’islam con il jihåd e così via.
L’opinione che all’origine della violenza sia la religione, strettamente connes-
sa con la politica, è certamente condivisa dal presidente egiziano al-Søsø. Egli ha
auspicato più volte alla Direzione della Morale delle Forze armate egiziane e al-
l’Università al-Azhar, principale centro teologico del sunnismo, un’interpretazione 147
I MUSULMANI DEVONO TEMERE L’OCCIDENTE PIÙ DEI TERRORISTI

dei testi sacri diversa da quella letterale che ne danno i radicali, i quali pensano
di ripristinare l’antica grandezza dell’islam tornando alle sue origini. Al-Søsø vuole
invece adeguarlo al mondo moderno. Sostiene quindi la necessità di una profon-
da riforma religiosa. Nega che la crescita dei popoli islamici dipenda dalla rigida
imposizione della 4arø‘a – codice normativo e comportamentale divino, che ha
precedenza su ogni legge umana – basata sulle condizioni esistenti nell’islam
delle origini, millequattrocento anni fa.
Per altri l’islam, in quanto religione, non sarebbe all’origine dell’attuale on-
data di violenza. Quest’ultima dipenderebbe, invece, da circostanze contingenti:
politiche, economiche e sociali. E dalla manipolazione, o dallo scippo, che i ter-
roristi hanno fatto della religione, a danno in primo luogo proprio dei musulma-
ni. La maggior parte dei quali, poi, non condividerebbe la violenza e la brutalità
dei jihadisti.
In Occidente, tale interpretazione è politicamente corretta. Viene così negata
l’esistenza di una diretta connessione fra l’islam e i suoi testi sacri e la violenza,
intensificatasi da quando è nato Då‘i4, da quando gli Stati si sono indeboliti e so-
no riemerse le tribù con tutte le loro storiche rivalità. A parer mio, viene trascura-
to, per amor di pace, quanto è scritto nel Corano e negli aõådøñ, e si mettono tra
parentesi le motivazioni che spingono gli estremisti a richiederne la più letterale
e integrale applicazione. La pensano in tal modo i fautori del dialogo, della tolle-
ranza, coloro che sostengono che non si può giustificare la violenza in nome di
Dio, o che pensano alla possibilità di scoprire un islam moderato, disponibile ad
accettare i valori etici e politici universali, che sono poi quelli dell’Occidente.
Non mancano neppure coloro che sono persuasi che l’Occidente abbia una
diretta responsabilità nell’esplosione attuale della violenza. Essa sarebbe una rea-
zione e una vendetta per le colpe storiche dell’Europa e degli Usa nei confronti
dei popoli islamici, iniziate con le crociate e proseguite con la colonizzazione,
con lo sfruttamento economico e con il sostegno di regimi dispotici e corrotti e,
oggi, anche dello Stato d’Israele. L’islam sarebbe una religione di pace, non di
violenza e di guerra. Tutt’al più, sarebbe simile alle altre religioni. Tutte hanno
parti che predicano l’amore, mentre in altre viene esaltata la guerra e la conver-
sione anche forzata. Basti pensare a quella ebraica, in cui il «Dio degli eserciti» si
trasformò nella «guerra punizione di Dio» quando l’esercito di Israele, prima con-
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frontato a deboli tribù nomadi, si trovò di fronte agli eserciti dei grandi imperi,
dai babilonesi agli egiziani. Oppure al cristianesimo che abbandonò il pacifismo
assoluto («chi di spada ferisce, di spada perisce») quando divenne religione del-
l’impero, massacrò gli eretici e cristianizzò con la forza gli indios americani.
La massa dei musulmani, come quella dei cristiani, non pratica la violenza. A
differenza della seconda, però, non ripudia neppure esplicitamente le parti del
Corano e degli aõådøñ che la sostengono e la legittimano. I musulmani che vivo-
no in Europa non promuovono manifestazioni oceaniche per condannare gli atti
di terrorismo. Non condannano i correligionari che festeggiano gli atti di violenza
148 a danno dell’Occidente o dei musulmani considerati apostati o eretici.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

Questo atteggiamento è difficile da comprendere per noi occidentali. I rap-


presentanti delle comunità islamiche in Occidente e i fautori del dialogo interreli-
gioso, dell’integrazione e dell’accoglienza dei «fratelli» hanno spesso difficoltà e
denunciano imbarazzo a giustificare tale atteggiamento. Si arrampicano sugli
specchi, negando che il problema esista. A parer mio, ciò dipende da due fatti.
Primo, nell’islam sunnita non esiste gerarchia. Non c’è quindi, a differenza di
quanto avviene nello sciismo o nel cattolicesimo, un’autorità legittimata a dare
un’interpretazione indiscutibile dei testi sacri. Esistono, quindi, numerose inter-
pretazioni, che facilitano la manipolazione della religione per ottenere consenso
su obiettivi che non hanno nulla a che fare con essa. Secondo, il musulmano che
nega o critica le parti dei testi sacri che predicano la violenza viene accusato di
takfør, cioè di apostasia, se non di offesa al Profeta. Non si tratta di uno scherzo.
Un’accusa del genere fa obbligo a ogni buon musulmano di uccidere l’apostata.
Ciò che spesso avviene. Ben pochi vogliono correre tale rischio. Se ne stanno
quindi zitti, tenendo per sé dissenso o condanne.
Gli occidentali sono portati a fare di ogni erba un fascio. La scarsa partecipa-
zione di cittadini di fede islamica alle manifestazioni organizzate in seguito agli at-
tentati diffonde l’antislamismo. Ed è una manna per i partiti populisti e xenofobi.
Quanto ai governi, essi ritengono politicamente corretto affermare che l’islam, in
quanto religione, non c’entri nulla con gli attentati. Le opinioni pubbliche e le op-
posizioni politiche sono portate a sostenere la tesi contraria. L’effetto delle critiche
e dei sospetti di collusione con i terroristi rischia di radicalizzare la «maggioranza
silenziosa» dei musulmani contrari alla violenza, ma che temono più di essere ac-
cusati nella loro comunità che di scatenare con la loro reticenza una «caccia all’i-
slamico». Tutti temono, comunque, lo scoppio di un conflitto civile di enormi di-
mensioni, dato il numero crescente di musulmani che vivono in Europa.
Chi commenta il terrorismo di matrice islamica si trova così fra l’incudine e il
martello. Predicando la tolleranza rischia di delegittimarsi. Sostenendo la neces-
sità di una forte reazione contro il terrorismo sul proprio territorio o contro quel-
lo a cavallo fra la Siria e l’Iraq, oppure nelle aree in cui si sono installati gruppi
affiliati al Då‘i4, come in Libia o in Nigeria, rischia di accrescere il terrorismo in
Occidente. Esiste il dubbio che gli attentati del 13 novembre a Parigi e la diffu-
sione di reti terroristiche «dormienti», pronte a entrare in azione, possano essere
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utilizzati dalla direzione strategica dell’Is per provocare una dura reazione occi-
dentale. Essa accrescerebbe il numero di reclute per l’organizzazione terroristica.

2. Tra terrorismo e antiterrorismo esiste una profonda asimmetria. Essa ri-


guarda anzitutto i costi. Il terrorismo costa poco. L’antiterrorismo molto, in termi-
ni sia economico-finanziari sia di libertà personali e di diritti civili. La sicurezza è
essenziale per la libertà, ma per assicurarla è spesso necessario comprimere la
seconda. Ne sono testimonianze tutte le leggi antiterrorismo, l’intensificazione dei
controlli, la riduzione della privacy e i Patriot Acts approvati in Occidente dopo
gli attentati dell’11 settembre a New York e a Washington. Essi costarono ad al- 149
I MUSULMANI DEVONO TEMERE L’OCCIDENTE PIÙ DEI TERRORISTI

Qå‘ida meno di un milione di dollari, ma provocarono danni diretti e indiretti per


diverse centinaia di miliardi.
L’asimmetria riguarda anche l’efficacia. Il terrorista sceglie luogo, tempi e
modalità degli attentati. Deve «vincere» una volta sola. Ha il vantaggio dell’inizia-
tiva e della sorpresa. L’antiterrorismo dovrebbe proteggere tutto e sempre, contro
tutti i tipi e le entità delle possibili minacce. Questo è evidentemente impossibile.
Inoltre, se si protegge un obiettivo o una risorsa critica, si rende più probabile
che i terroristi decidano di attaccarne un’altra. Ulteriori difficoltà derivano dal fat-
to che il terrorismo originato da Då‘i4 è composto da fanatici disponibili a morire
o che addirittura cercano la morte. Non devono prevedere vie di fuga. La tecno-
logia moderna permette a individui singoli o a piccoli gruppi di disporre di una
potenza distruttiva nel passato disponibile solo agli Stati. Gli esplosivi possono
essere preparati, come è avvenuto a Parigi, con precursori facilmente reperibili
sul mercato. Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione per-
mettono ai terroristi di coordinare attacchi multipli, senza doversi concentrare.
Anche l’addestramento dei terroristi può essere fatto localmente tramite Internet.
A Parigi non hanno agito «lupi solitari», ma branchi di lupi. Tattiche e tecniche
sono sempre più di tipo militare. L’infiltrazione di agenti dell’intelligence in grup-
pi terroristici tanto frammentati è diventata più difficile del passato.
In molti commenti sugli attentati di Parigi si è insistito sull’esigenza di poten-
ziare l’intelligence e di unificarla a livello europeo. Sarebbe certamente importan-
te, ma non sarebbe un provvedimento risolutivo. È difficile penetrare una rete
terroristica. Lo possono fare solo altri immigrati o elementi dei servizi segreti de-
gli Stati islamici. Il problema è ancor più difficile di quanto si riscontri nel caso
della nostra criminalità organizzata, che diventa vulnerabile quando i proventi
della sua attività entrano nei mercati finanziari.
La conoscenza delle reti non è da sola sufficiente. Occorre una revisione in
senso efficientistico della legislazione. Il mullah Krøkår, detenuto in Norvegia, do-
veva essere espulso in Iraq, ma non lo è stato poiché rischierebbe la condanna a
morte. In queste condizioni non è praticabile una difesa contro il terrorismo. Se
si è in guerra, come ha affermato il presidente Hollande, prima di sparare sul ne-
mico non gli si manda un avviso di garanzia!
Di fronte a un pericolo così diffuso e crescente, considerando anche la non
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completa efficienza dei nostri apparati di sicurezza e i costi economici e di li-


bertà di misure solamente difensive, non esiste alternativa all’attacco, cioè alla
distruzione di Då‘i4 nelle sue basi. Beninteso, risultati decisivi possono essere
conseguiti solo con l’impiego di tutta la forza necessaria. Quanto meno, in caso
di una serie di attentati come quelli di Parigi, occorre un’immediata, quanto più
possibile rapida e pesante reazione su coloro che tengono le redini del movi-
mento. La Francia ha immediatamente reagito in questo senso concentrando gli
aerei disponibili in Medio Oriente per bombardare Raqqa. Verosimilmente, i ca-
pi dei movimenti terroristici sono meno disponibili a raggiungere il «paradiso di
150 Allah» della manovalanza reclutata sul posto o inviata in Europa per compiere
LA STRATEGIA DELLA PAURA

materialmente gli attentati. Occorre, in primo luogo, togliere all’Is l’aura di invin-
cibilità che possiede e che dà credibilità alla «profezia di Maometto» sull’inevita-
bilità della vittoria dell’islam.
Nei commenti sugli attentati si sono sentite parole virtuose come quelle che
evocano la necessità di eliminare il terrorismo mantenendo inalterati i valori e i
princìpi della democrazia occidentale. Si dice di non voler combattere l’islam ma
solo i terroristi, si invita a non comprimere il nostro grado di libertà, a rafforzare
l’integrazione europea e così via. Tali affermazioni dimostrano chiaramente le ca-
renze della nostra cultura della sicurezza. Si è anche ricordato che si sono scon-
fitte le Brigate rosse più con la persuasione che con la forza. Penso che il gene-
rale Carlo Alberto dalla Chiesa e il maresciallo dei carabinieri caduto a via Frac-
chia a Genova si siano girati nella tomba. Occorre rendersi conto che nella vita
reale le cose non stanno così. Nella lotta contro il terrorismo, il «punto culminan-
te della vittoria» di clausewitziana memoria va sostituito con il «punto culminante
della violenza». La «maggioranza silenziosa» dei musulmani deve temere l’Occi-
dente più dei terroristi. L’unico modo per dissociare la massa dei musulmani dal-
l’Is è quello di dimostrare che la profezia di Maometto è un bidone, che convie-
ne loro cessare di fare i furbi e che l’Occidente non è una tigre di carta, ma sa
picchiare duro quando viene colpito. Il resto sono chiacchiere, che servono a
giustificare i propri preconcetti, a fare un po’ di retorica buonista, a mascherare
la propria impotenza, limitandosi a condannare la barbarie, senza combatterla. E
a dire, come fanno i rappresentanti delle varie comunità islamiche in Europa, che
le vere vittime del terrorismo e dell’Is sono i musulmani e non noi occidentali. È
una manifestazione di decadenza morale, a meno che non sia solo un’ipocrisia
volta a servire interessi politici o di altra natura.

3. L’Is non è più quello dei primi tempi, quando poteva essere considerato
una branca di al-Qå‘ida. Le due organizzazioni pan-jihadiste sono molto diverse
fra loro, anche se gli obiettivi di lungo periodo sono identici. L’Is, erede dello
Stato Islamico dell’Iraq diretto dal giordano al-Zarqåwø fino alla sua uccisione nel
2006, mirava al «nemico vicino», all’estensione del territorio e della popolazione
sotto il suo controllo, alla loro organizzazione, per giungere nel 2014 alla costitu-
zione di un «califfato» fra l’Iraq, la Siria e la Giordania, che annullasse i confini fra
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i tre Stati imposti dalla Gran Bretagna e dalla Francia al termine della prima guer-
ra mondiale. Al-Qå‘ida è invece una rete immersa nelle società. La sua priorità è
stata sempre quella di combattere il «nemico lontano», cioè l’Occidente. Nella sua
strategia, l’attacco al «nemico vicino», cioè agli Stati islamici considerati apostati
ed eretici, avrebbe dovuto seguire la vittoria sul «nemico lontano». La sua strate-
gia non è stata mai basata sulla conquista e sul controllo del territorio, ma su un
terrorismo apocalittico. Esso avrebbe dovuto intimidire l’Occidente e spingerlo a
rinunciare alla difesa degli Stati islamici, a partire dalle dinastie del Golfo. Il loro
controllo avrebbe fornito ad al-Qå‘ida le risorse finanziarie per espandersi in tut-
to l’islam. E poi per conquistare il resto del mondo e convertirlo alla «vera fede». 151
I MUSULMANI DEVONO TEMERE L’OCCIDENTE PIÙ DEI TERRORISTI

CHI COMBATTE LO STATO ISLAMICO?

NAZIONI CHE PARTECIPANO ALL’INTERVENTO CONTRO LO STATO ISLAMICO IN SIRIA ED IRAQ

Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Canada, Giordania, Australia, Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Libano, Marocco,
Arabia Saudita, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein, Italia, Germania, Spagna, Portogallo, Polonia, Georgia,
62
totali
Giappone, Taiwan, Corea del Sud, Nuova Zelanda, Ungheria, Austria, Albania, Grecia, Bulgaria, Slovacchia, Slovenia,
Serbia, Romania, Kosovo, Bosnia- Erzegovina, Lussemburgo, Lettonia, Lituania, Islanda, Irlanda, Macedonia, Moldova,
Montenegro, Ucraina, Croazia, Repubblica Ceca, Cipro, Finlandia, Norvegia, Svezia, Estonia, Somalia, Kuwait, Oman,
Tunisia, Singapore, Indonesia, Malaysia, Russia e Iran.

ATTORI NON STATALI CHE COMBATTONO CONTRO L’IS

Hizbullāh (in Siria), curdi siriani (unità di protezione popolare Ypg e unità di protezione delle donne Ypj)
SIRIA milizie assire e yazidi, Partito marxista-leninista turco.

Governo regionale del Kurdistan (Peshmerga), milizie sadriste e sciite e Dwekh Nawsha (“coloro che sono pronti al sacrificio”,
IRAQ un insieme di milizie di autodifesa assiro-crisitiane nato nel 2014)

PAESI CHE HANNO BOMBARDATO IN IRAQ

Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Canada, Francia, Giordania, Paesi Bassi e Iran.

PAESI CHE HANNO BOMBARDATO IN SIRIA

Stati Uniti, Australia, Bahrein, Canada, Francia, Giordania, Arabia Saudita, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Russia.

PAESI CHE PARTECIPANO ALL’ADDESTRAMENTO DI TRUPPE E COMBATTENTI IN IRAQ

Australia, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti.

CHI SUPPORTA ASAD? Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

Iran, Russia, Corea del Nord e Iraq (direttamente). Cina, Venezuela, Bielorussia e Algeria (indirettamente).

CHI SUPPORTA I RIBELLI?

Arabia Saudita, Qatar, Stati Uniti e Turchia (direttamente). Regno Unito e Francia (indirettamente)

Gli Stati esclusi da queste liste partecipano con supporti di vario tipo, da quello diplomatico a quello umanitario.

152
LA STRATEGIA DELLA PAURA

Dopo la straordinaria espansione in Siria e in Iraq, con la conquista di Mo-


sul, Raqqa, Ramådø e Fallûãa, e dopo la proclamazione del «califfato», l’espansio-
ne dell’Is si è arrestata. L’attacco al Kurdistan iracheno ha provocato la costitu-
zione di una coalizione a guida americana che ha consentito il contenimento
dell’Is, infliggendogli gravi perdite, sostenendo le milizie curde, colpendo le sue
fonti di finanziamento. L’occupazione di un territorio e le esigenze di disporre
di ampie risorse finanziarie costituiscono le grandi vulnerabilità dell’Is, unita-
mente al rafforzamento delle forze terrestri locali, curde e arabe, che lo combat-
tono. Le perdite subite in Medio Oriente non possono essere mascherate dalla
sua brillante propaganda né dalle dichiarazioni di fedeltà di altri gruppi terrori-
stici in Africa e in Asia. L’aura di invincibilità che possedeva si è progressiva-
mente erosa. Per mantenerla, l’Is ha dato crescente importanza al terrorismo
contro il «nemico lontano», all’Europa e, dopo il suo intervento in Siria, alla Rus-
sia. Quella che non è mutata è stata la sua brutale propaganda, che la raziona-
lità occidentale ha difficoltà a comprendere. Appare illogico che l’Is faccia di
tutto per attirarsi nemici e bombardamenti. Sembra quasi che i suoi dirigenti vo-
gliano autodistruggersi. Ma è errato cercare d’interpretare l’ideologia apocalittica
e millenaristica dell’Is con il razionalismo strategico dell’Occidente. L’Is vuole at-
tirare il maggior numero possibile di nemici in Siria e in Iraq per poter ottenere
la vittoria decisiva che, secondo la profezia di Maometto, dovrebbe avvenire a
Dåbiq. La brutalità attira i nemici su quello che sarà il campo di battaglia decisi-
vo. Oltre che essere coerente con quanto scritto nei testi sacri dell’islam, è parte
integrante della missione divina che il «califfato» si è assegnato. Per i suoi mili-
ziani, uccidere in nome di Dio non è una bestemmia, come è stato recentemen-
te affermato dalla più alta autorità del cattolicesimo. È invece un preciso dovere
di ogni buon musulmano. Purtroppo, un certo numero di miliziani dell’Is ci cre-
de veramente. Non si spiegherebbe altrimenti il massiccio ricorso ad attentati
suicidi. Anche la maggior parte dei musulmani ci crede o, almeno, ha timore dei
«veri credenti». Ciò spiega anche le manifestazioni di gioia che si svolgono un
po’ ovunque quando gli attentati hanno successo.
Che fare allora? Come evitare che le nostre libertà vengano compresse dalle
misure di sicurezza? L’unico sistema possibile è quello di distruggere il «califfato»,
eliminandone, in un modo o nell’altro, i membri più pericolosi. Solo così si potrà
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dimostrare che la profezia su cui esso si regge è falsa e aiutare chi, come il presi-
dente egiziano al-Søsø, vuole procedere a una riforma dell’islam. Essa presuppone
una revisione profonda dei testi sacri, finora rifiutata dalla massa degli islamici. I
musulmani che intendono dissociarsi dal terrorismo devono poi essere protetti.
Nelle legislazioni occidentali deve essere previsto che il takfør, cioè l’accusa di
apostasia, sia un reato, come è stabilito nella recente costituzione tunisina. E infi-
ne, l’Occidente deve finirla con il chiedere scusa per le «cattiverie» fatte all’islam.
In fin dei conti, basterebbe ricordare che poco più di tre secoli fa gli ottomani
stavano per conquistare Vienna. È bizzarro, quando non criminoso, attribuire al-
l’Occidente la responsabilità di quanto avviene a opera dell’Is. Se non bisogna 153
I MUSULMANI DEVONO TEMERE L’OCCIDENTE PIÙ DEI TERRORISTI

dichiarare guerra all’islam è però indebito pensare che l’«islamo-fascismo», come


lo definisce Francis Fukuyama, non trovi i suoi riferimenti e le sue origini non
solo in un’interpretazione errata, ma nella lettera di una parte almeno di quelli
che considera i testi sacri della sua fede.

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154
LA STRATEGIA DELLA PAURA

COSÌ L’ITALIA TENTA


DI NON FINIRE
NEL MIRINO di Germano DOTTORI
Il carattere molecolare della minaccia terroristica e l’abbondanza
di obiettivi rende impossibile escludere attentati, ma sul fronte
diplomatico possiamo lavorare. La controversa entente con l’Egitto.
Le cautele militari in Siria. Il Vaticano è una variabile indipendente.

1. I L TERRORISMO NON È UNA FORMA ORDINARIA


di criminalità organizzata. È uno strumento d’azione politica, per quanto abietto,
e come tale va considerato. La violenza che lo contraddistingue non è mai gra-
tuita, ma sempre orientata alla generazione di effetti. È parte essenziale del
marketing a favore del progetto che si vuole propagandare e punta al condizio-
namento delle opinioni pubbliche e dei decisori politici, che debbono essere in-
dotti ad assumere atteggiamenti più funzionali ai disegni dei mandanti degli at-
tentati. Ogni attacco reca con sé la minaccia di ulteriori offese e al tempo stesso
serve a produrre consenso nei confronti degli obiettivi perseguiti dai vertici del-
le organizzazioni terroristiche.
Talvolta, al terrorismo si affidano persino mansioni pedagogiche. Lo imma-
ginava in questa chiave ad esempio Giuseppe Mazzini, che durante il Risorgi-
mento propugnò il ricorso agli omicidi politici nel contesto della sua predicazio-
ne nazionale. Il sangue dei principi e quello di coloro che cadevano nel tentati-
vo di ucciderli dovevano infatti educare alla causa dell’unità e dell’indipendenza
italiana. Certi testamenti multimediali realizzati da alcuni kamikaze dei nostri
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tempi paiono tuttora rispondere a questa logica. Il giudizio sulla moralità delle
azioni terroristiche è comunque definito a posteriori e dipende sia dal punto di
osservazione sia dai risultati ottenuti.
Al terrorismo ricorrono tanto gli imprenditori politici privati che cercano di
farsi largo all’interno di sistemi che non concedono loro possibilità alternative di
conquistare il potere, quanto – a determinate condizioni – Stati ai quali un dato
contesto internazionale e sfavorevoli rapporti di forza sconsigliano di ricorrere a
strumenti più tradizionali, come le sanzioni economiche o la guerra vera e pro-
pria. In questo senso, il moltiplicarsi degli attentati può essere assimilato alle
manifestazioni febbrili di una malattia molto più profonda: la diffusa insoddisfa- 155
COSÌ L’ITALIA TENTA DI NON FINIRE NEL MIRINO

zione nei confronti di un ordine politico che si vuole modificare a proprio favo-
re. Proprio per questo, il contrasto del terrorismo non può essere ridotto esclusi-
vamente all’adozione di misure difensive che servono a proteggere dalla violen-
za i presumibili bersagli. Necessita invece di un’accurata interpretazione delle
cause che lo scatenano, invariabilmente politiche anche quando poggino su un
sostrato sociale e culturale favorevole. Si deve capire chi ci stia veramente attac-
cando e cosa voglia, al di là di quello che affermano gli ingenui manovali chia-
mati a immolarsi.
Negli anni Settanta e Ottanta il brodo di coltura fu rappresentato dalla lotta
di classe, che tuttavia era sfruttata a fini politici di sovversione dalle superpoten-
ze leader dei due blocchi nel vecchio sistema bipolare. Ciò spiega, tra le altre co-
se, la tempistica del declino delle Brigate rosse, sconfitte non tanto dai pur bril-
lanti blitz della Digos e dal talento di uomini come il compianto generale Carlo
Alberto dalla Chiesa, quanto piuttosto dal collasso dell’Unione Sovietica e dalla
vittoria dell’Occidente nella guerra fredda.

2. Dopo il crollo del Muro di Berlino, lo sfruttamento dell’identità religiosa


ha sostituito l’ideologia classista come propellente della mobilitazione eversiva. E
così il fattore identitario è entrato prepotentemente nell’agenda della politica in-
ternazionale, al servizio di progetti dalle grandi ambizioni. Se l’islamizzazione
della politica è servita a sottrarre l’Iran alla predominante influenza occidentale
sulla sua politica interna, sfociando nella Rivoluzione che spodestò lo scia dal
trono nel febbraio del 1979, occorre riconoscere che anche gli Stati Uniti diedero
un contributo fondamentale al processo, arruolando l’islam politico sunnita nella
lotta contro l’Armata Rossa in Afghanistan. Tale tendenza riaffiora periodicamente
nella politica estera americana, persino in tempi di appeasement nei confronti
della Persia, come prova l’atteggiamento tenuto da Washington nei confronti del-
le primavere arabe.
Ovunque, la reislamizzazione ha fatto appello al ricordo del periodo d’oro
della prima espansione islamica in Africa ed Eurasia, presentandosi come forma
di riscatto individuale e collettivo, di liberazione dalla corruzione morale e politi-
ca che avrebbe condotto la umma (la comunità musulmana) a un’umiliante sog-
gezione nei confronti delle grandi potenze coloniali: condizione di cui l’esistenza
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di Israele non sarebbe che l’ultima evidenza, come se lo Stato ebraico non pos-
sedesse una sua specifica peculiarità e non fosse a sua volta il frutto di un pro-
getto politico basato sulla mobilitazione religiosa.
Si può concordare sulla rozzezza dell’analisi, ma non si può negare la straor-
dinaria capacità di aggregazione del messaggio, che ha posto e mette tuttora a
disposizione dei più spregiudicati imprenditori politici masse crescenti di indivi-
dui altamente motivati e determinati, asservibili a qualsiasi progetto che abbia
una parvenza di credibilità religiosa in chiave islamica. Il nostro nemico, così,
non è tanto una confessione che è ormai entrata a far parte del nostro panorama,
156 grazie a decenni di immigrazione africana e asiatica verso il nostro continente. È
LA STRATEGIA DELLA PAURA

piuttosto chi la sfrutta, per acquisire una leva anche all’interno delle nostre so-
cietà. Accadeva peraltro una cosa simile anche con la vecchia Internazionale co-
munista, le cui scelte erano solitamente funzionali agli interessi dell’Urss.
Se il terrorismo jihadista serve quindi obiettivi politici contingenti – in nes-
suna rivendicazione si rinvengono convincenti appelli alla conversione dell’Oc-
cidente – la prima vera linea di difesa è tenerne conto nella conduzione della
nostra azione diplomatica. È infatti ingenuo pensare che ci possa proteggere dal
terrorismo l’abdicazione ai simboli della nostra cultura: non dobbiamo infatti
placare una rabbia istintiva che si scatena contro di noi. Va invece compreso
che è in atto una complessa battaglia politica che coinvolge l’intero mondo mu-
sulmano, diviso su diverse linee di faglia: tra sciiti e sunniti, in primo luogo, e
poi tra sostenitori e avversari della Fratellanza musulmana e dell’islam politico
più in generale. Si combatte più prosaicamente per decidere in che misura le
ambizioni dell’Iran, della Turchia, dell’Arabia Saudita, dell’Egitto e, più oltre, del
Pakistan possano essere ricomposte in un quadro di equilibrio. Sono questi pae-
si, infatti, a mobilitare o a combattere l’islam politico, e in queste dinamiche ve-
niamo spesso coinvolti. Come cassa di risonanza, innanzitutto, perché un atten-
tato che fa morti a Parigi o a New York non è come uno che colpisca San‘å’. Ma
anche per indurci a condizionare le nostre scelte di schieramento. È di qui che
si deve partire.
Per terroristi in cerca di reclute e pubblicità, il nostro paese è fin troppo ric-
co di bersagli paganti: l’attenzione si concentra su Roma e Milano, le due città
più importanti d’Italia. Eppure, abbiamo in Firenze e Venezia due simboli dell’ar-
te e della cultura mondiale che garantirebbero un’immediata notorietà a chi ten-
tasse di colpirle, con la seconda che vanta oltretutto una storia di sanguinosa
contrapposizione all’impero ottomano. C’è già, in effetti, chi ci ha pensato. La
mafia scelse la prima nella stagione in cui cercò anch’essa di piegare la volontà
del governo e del parlamento di contrastarla più seriamente, dinamitando l’Acca-
demia dei Georgofili. Al campanile di San Marco, invece, volsero le loro attenzio-
ni i «serenissimi» che sognavano la restaurazione dell’antica Repubblica del Leo-
ne, assicurando un proscenio globale al secessionismo veneto. Rispetto a tutto
questo, non c’è veramente nulla da fare, salvo, per quello che vale, intensificare
la sorveglianza e la vigilanza. Essendo però ben consapevoli che le difese perfet-
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te non esistono, come prova la circostanza che siano state bucate quelli di paesi
ben più attrezzati del nostro: Francia, Israele e Stati Uniti inclusi.

3. Sul posizionamento geopolitico nazionale, invece, si può agire. A patto di


riuscire a orientarsi nel ginepraio mediorientale, soppesando bene rischi e op-
portunità insiti in ogni scelta di campo. Perché il pericolo dell’appeasement a
ogni costo è dietro l’angolo, insieme a quello di rinunciare alla nostra libertà po-
litica, che consiste nella capacità di autodeterminare alleanze, partnership econo-
miche, sistemi normativi e valori cui aderire. Sotto questo profilo, la maggiore
vulnerabilità rispetto alla minaccia jihadista è certamente il nostro asse con l’Egit- 157
COSÌ L’ITALIA TENTA DI NON FINIRE NEL MIRINO

to, che si è andato progressivamente consolidando parallelamente alla crescita


del rapporto personale tra Matteo Renzi e il generale ‘Abd al-Fattåõ al-Søsø e che
è ora cementato anche dalla prospettiva dello sfruttamento congiunto di Zuhr, il
gigantesco giacimento di gas di cui lo scorso 30 agosto l’Eni ha annunciato la
scoperta al largo del Cairo 1.
Il regime militare nato dal rovesciamento del presidente eletto Muõammad
Mursø è infatti da tempo nel mirino dei sostenitori dell’islam politico, che lo av-
versano tanto per il golpe in sé quanto in ragione della dura repressione scatena-
ta contro i quadri superiori della Fratellanza musulmana, colpita da centinaia di
condanne a morte, cui si è opposto da queste parti soltanto un fragoroso silen-
zio. Non c’è dubbio che il fallimento dell’esperimento egiziano stia ingrossando
le file di coloro che desiderano esplorare alternative più radicali, dentro e fuori
l’Egitto. Il Sinai è finito definitivamente fuori controllo, al punto che proprio in
quella zona il 31 ottobre scorso si è verificata la catastrofe del Metrojet russo, co-
stata la vita a ben 224 tra uomini, donne e bambini che avevano appena conclu-
so le loro vacanze a 3arm al-3ayœ per far ritorno a San Pietroburgo.
Il presidente egiziano e il nostro premier si sono incontrati piuttosto spesso
di recente 2, anche per concordare azioni comuni in Libia 3, che tuttavia non han-
no poi preso forma a causa del protrarsi del negoziato condotto senza alcun suc-
cesso da Bernardino Léon per pacificare le relazioni tra gli esecutivi di Tobruk e
di Tripoli. Il Cairo, in effetti, ha messo del suo nel provocare il rigetto sistematico
delle ipotesi di compromesso ritenute troppo morbide nei confronti della vecchia
capitale libica, anche perché ne persegue la sottomissione completa. D’altro can-
to, l’irriducibile simpatia di Tripoli e Misurata per la Fratellanza musulmana e per
il presidente turco Recep Tayyip Erdoãan è risultata evidente il 1° novembre
scorso, quando le rispettive popolazioni hanno festeggiato la nuova schiacciante
vittoria elettorale riportata dal leader dell’Akp.
È quindi comprensibile che ai terroristi non piaccia per niente la nostra spe-
cial relationship con l’Egitto, che tra l’altro ha pure iniziato a sostenere il regime
di Baššår al-Asad. Che le cose stiano così del resto lo ha dimostrato anche l’attac-
co che all’alba dell’11 luglio scorso ha distrutto con 450 chilogrammi di tritolo la
sede del consolato generale d’Italia al Cairo. Sicuramente un attentato di segnala-
zione – volto a veicolare l’ostilità di certi ambienti nei confronti della politica egi-
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ziana del nostro governo – concepito e realizzato in un’ora tale da escludere la


perdita di vite umane italiane, ma anche con modalità da rendere inequivocabile

1. «Eni scopre nell’offshore egiziano il più grande giacimento a gas mai rinvenuto nel Mediterraneo»,
Eni, Ufficio Stampa, 30/8/2015.
2. Matteo Renzi è stato il primo premier occidentale a visitare l’Egitto dopo il colpo di Stato, il 3
agosto 2014, preceduto da due missioni dell’allora ministro degli Esteri Federica Mogherini. Il presi-
dente al-Søsø ha restituito la visita tra il 24 e il 25 novembre 2014. Da quel momento, i contatti sono
rimasti regolari.
3. M. MOLINARI, «Renzi in Egitto, patto con al-Søsø sulla Libia, “Fermiamo Isis prima che dilaghi”», La
Stampa, 13/3/2015. Renzi partecipava a una riunione convenuta a 3arm al-3ayœ, insieme ad oltre
158 settanta capi di Stato e di governo.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

il messaggio che si voleva inoltrare. Inizialmente negata dal ministero degli Este-
ri, ma successivamente riconosciuta dallo stesso presidente del Consiglio nel cor-
so di un suo intervento alla Knesset (il parlamento israeliano)4, la matrice terrori-
stica dell’azione intimidatoria è stata infine apertamente rivendicata dallo Stato
Islamico (Is) ed è oggi generalmente accettata 5.

4. L’importante relazione annodata dal nostro governo con l’Arabia Saudita,


di recente visitata dal presidente del Consiglio, appare invece molto meno peri-
colosa. Dopo essere stati lungamente alla testa dello schieramento ostile alla Fra-
tellanza musulmana, con la scomparsa di re ‘Abdullåh e l’avvento al trono del
suo successore Salmån i sauditi hanno infatti cambiato postura. Il luogo dove le
novità sono apparse con maggior evidenza è lo Yemen, paese nel quale Riyad ha
modificato le proprie alleanze, abbandonando gli õûñø che aveva in precedenza
sostenuto per scatenare contro di loro un’aggressiva campagna nella quale si sta
giocando la reputazione il ministro della Difesa saudita e di cui sarebbero diretti
beneficiari gli iœwån, in precedenza avversati come minaccia esistenziale alla co-
rona e allo Stato. È degno di nota il fatto che proprio questa scelta sia stata all’o-
rigine di qualche tensione con l’Egitto.
Sotto la spinta del nuovo monarca e del suo entourage, si sono sensibilmen-
te attenuate anche le frizioni che avevano contraddistinto le relazioni intrattenute
dall’Arabia con la Turchia. E parallelamente si è addolcita anche la rivalità tra lo
Stato Islamico e al-Qå‘ida, come provano i diversi interventi con i quali nel 2015
Ayman al-‡awåhirø ha permesso ai suoi uomini di cooperare sul terreno con gli
adepti del «califfo» di Raqqa 6.
Il quadro è quindi assai complicato. Ma è importante tenerne conto tanto
per apprezzare l’atteggiamento tenuto dall’Italia – che si dice stia rifornendo l’A-
rabia Saudita delle bombe da questa utilizzate contro i propri nemici in Yemen –
quanto per comprendere per quali ragioni la Francia sia finita nel mirino dei jiha-
disti. Parigi ha cercato di tenere i piedi in troppe staffe. Proprio alla vigilia degli
attentati, dopo aver lungamente rappresentato gli interessi dei sauditi nel gruppo
P5+1 che negoziava con Teheran sul nucleare, la Francia stava apprestandosi a
ricevere la visita del presidente iraniano Hassan Rohani, probabilmente nell’in-
tento di aprirsi la via dei mercati persiani in vista della prossima cancellazione
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delle sanzioni. Esattamente l’opposto di quanto fatto da Roma, che dopo gli ac-

4. Rivolgendosi alle autorità israeliane, il 22 luglio scorso Renzi così si era espresso alla Knesset: «Ave-
te ricordato i terroristi che hanno attaccato il consolato italiano al Cairo, noi siamo ancora più al fian-
co del governo egiziano per affrontare le sfide che ci attendono, portando nel cuore le nostre ferite».
5. M. MOLINARI, «L’Isis rivendica l’autobomba contro il consolato italiano del Cairo», La Stampa,
11/7/2015.
6. Voci di una possibile convergenza tra al-Qå‘ida e l’Is sono più volte circolate nei primi mesi del
2015: data a quel periodo l’autorizzazione ai qaidisti a collaborare con gli elementi dell’Is. Il 12 set-
tembre, al-‡awåhirø ha invocato l’alleanza tra le due organizzazioni e di unità ha parlato ancora una
volta il 2 novembre 2015. Ciò non ha peraltro impedito al leader qaidista di evitare il riconoscimen-
to dello Stato Islamico. 159
COSÌ L’ITALIA TENTA DI NON FINIRE NEL MIRINO

cordi di Vienna sembra aver tentato di tutto per raffreddare le relazioni con l’I-
ran, secondo diversi analisti ponendo a rischio la possibilità di cogliere i frutti di
lunghi anni di buone relazioni anche a prezzo di qualche sospetto in Occidente.
L’Italia è molto vicina anche agli Emirati Arabi Uniti, ai quali chiediamo ca-
pitali senza sosta, in particolare per le nostre banche, ma non solo, come prova
il fatto che abbiano contribuito al salvataggio dell’Alitalia. Va inoltre ricordato
come investa in Italia lo stesso Qatar, che da più parti si sospetta di prossimità
al sedicente califfato.
Quanto alla Turchia, l’Italia continua ad annoverarsi tra i paesi che sostengo-
no con maggior convinzione la causa dell’ingresso di Ankara nell’Unione Euro-
pea, esattamente come ora fa anche la Germania, teatro peraltro di un fallito at-
tentato allo stadio di Hannover proprio all’indomani della strage al Bataclan. De-
gli interessi e delle aspirazioni turche l’Italia tiene conto anche nel delicato conte-
sto della sua partecipazione alla coalizione internazionale a guida statunitense
che combatte contro l’Is. Non solo, infatti, la nostra Aeronautica militare non
bombarda, limitandosi alla ricognizione fotografica; ma persino qualora si deci-
desse di onorare la richiesta che il segretario alla Difesa americana Ashton Carter
ha rinnovato il 7 ottobre scorso alla nostra Difesa, armando di bombe i nostri
Tornado rischierati nel Golfo, il premier Renzi ha chiarito che in nessun caso ver-
rebbero attaccati obiettivi in Siria.
È un caveat assai rivelatore di come a Roma si vedano le cose. Più significa-
tivo ancora è il fatto che il governo, nei giorni critici in cui si discuteva di come
potenziare la partecipazione italiana alla lotta contro il «califfato», abbia enfatizza-
to il ruolo svolto dai nostri addestratori nel preparare i peshmerga curdi alla con-
quista di Sinãår, località yazida e snodo cruciale degli assi di comunicazione tra
la parte siriana e quella irachena dello Stato Islamico. Invece di batterci diretta-
mente contro il «califfo», alienandoci le simpatie dei suoi molti sostenitori palesi e
occulti, abbiamo infatti preferito sostenere le truppe curdo-irachene, che non di-
sturbano alcun attore sunnita di rilievo e rispondono a Masud Barzani, da molti
considerato un cliente o comunque certamente non un nemico del presidente
turco Erdoãan. Una postura tipicamente bizantina, la nostra, come tante altre che
il nostro paese ha adottato in passato, in circostanze diverse e meno difficili di
quelle attuali, la cui efficacia nel proteggerci da questo nuovo terrorismo deve
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peraltro ancora essere testata.


Con la Turchia e più in generale con l’ala che sostiene nel mondo musulma-
no la causa dell’islam politico, l’unico punto di attrito concerne i nostri già richia-
mati rapporti con l’Egitto. Ma il teatro dove gli effetti della nostra preferenza per
al-Søsø sono destinati ad avvertirsi maggiormente non è quello critico del Levante,
bensì quello tutto sommato secondario libico, nel quale Roma ha optato per To-
bruk e dove misuratini e tripolini considerano la Turchia come il proprio punto
di riferimento. Di qui, l’estrema attenzione da prestare alle iniziative che saranno
assunte in futuro per arginare l’instabilità della nostra antica Quarta sponda. Il
160 ministro degli Esteri Paolo Gentiloni tiene in piedi esercizi trilaterali con Il Cairo
LA STRATEGIA DELLA PAURA

e Algeri, altra capitale fondamentale della nostra geopolitica energetica nordafri-


cana che certamente non gode dei favori di Ankara. Ma il profilo delle nostre ini-
ziative si è significativamente abbassato. Probabilmente, abbiamo fatto bene: se
si tiene conto di quanto è accaduto in Algeria negli anni Novanta, assume infatti
una diversa valenza anche l’attacco al Radisson di Bamako, città inserita nelle de-
stinazioni di Turkish Airlines e nella quale l’agenzia di stampa nazionale turca,
l’Anadolu, è risultata talmente ben accreditata da aver soppiantato France Press
come sorgente primaria delle informazioni che giungevano dal Mali sotto attacco.

5. La complessa miscela di rapporti e di scelte che costituiscono la nostra at-


tuale politica estera nei confronti degli attori e delle aree dove si sta consumando
la grande guerra civile musulmana pare al momento un ragionevole compromes-
so, anche se niente e nessuno possono garantirci che l’Italia non sarà mai attac-
cata. Qualche scontento, infatti, c’è. E comunque l’Italia ospita sul suo territorio
un attore ulteriore cui non può chiedere di adottare le medesime cautele, che è
la Santa Sede. Ed è proprio il profilo dell’azione di papa Francesco a impensieri-
re di più chi è preposto al mantenimento della sicurezza e dell’ordine pubblico
nel nostro paese. Bergoglio, infatti, ha fatto eccezionali aperture all’islam come
religione: di lui può essere ad esempio ricordato il fatto che abbia lavato i piedi a
una giovane musulmana durante i riti della sua prima settimana santa da pontefi-
ce. Ma nei confronti dell’islam politico, la chiusura di Francesco è stata ermetica.
Quando, dopo l’uso dei gas a Ôû¿å, sembrò che gli Stati Uniti fossero sul punto
di bombardare (loro malgrado) Damasco e al-Asad, Bergoglio chiamò al digiuno
e indisse una veglia di preghiera solenne a San Pietro. È invece rimasto silente
quando l’Aviazione russa ha iniziato a bombardare intensivamente i ribelli siriani.
Poi c’è stato, nel novembre 2014, il viaggio in Turchia, nel corso del quale
più volte il papa avrebbe sollecitato le autorità turche a condannare il «califfato»,
ottenendo per tutta risposta solo l’invito a denunciare per primo l’islamofobia
dilagante in Europa: un pericoloso dialogo tra sordi, cui avrebbe fatto seguito
l’abbraccio al patriarca di Costantinopoli, capo degli ortodossi, secondo France-
sco esposti insieme ai cattolici al martirio ad opera dei jihadisti in larghe parti
del Medio Oriente. Poche settimane dopo, il 27 dicembre, giungeva a piazza
San Pietro, da clandestino, il turco Ali Aãca, che sarebbe entrato nella grande
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basilica vaticana con i fiori in mano, seguito da giornalisti e fotografi, senza che
nessuno muovesse un dito. Un gesto del quale manca tuttora un’interpretazione
condivisa – forse un’intimidazione, più probabilmente l’amichevole invito di un
ex nemico ad adeguare la protezione del pontefice alla gravità del momento –
ma che resta comunque inquietante.
Di questa situazione e delle sue implicazioni sulla protezione del Giubileo
della Misericordia c’è massima consapevolezza anche ai più elevati livelli istitu-
zionali nazionali e da ben prima degli attacchi parigini del 13 novembre scorso.
A chi ne dubitasse, consigliamo la lettura del comunicato pubblicato sul sito In-
ternet del Quirinale al termine della più recente riunione del Consiglio supremo 161
COSÌ L’ITALIA TENTA DI NON FINIRE NEL MIRINO

di difesa, tenutasi il 21 ottobre. Non è difficile scorgervi il senso di un allarme


crescente e neanche troppo nascosto, condiviso dalla presidenza del Consiglio e
dai ministri degli Esteri, dell’Interno e della Difesa con il capo dello Stato. Nei
confronti del Vaticano, però, noi non possiamo né dobbiamo far nulla che limiti
la libertà del pontefice di gestire come meglio crede la comunità dei fedeli.
La strage del Bataclan ha solo aggiunto una pressante necessità di rassicura-
zioni ulteriori. Gli effetti sono visibili: oltre a schierare più soldati e poliziotti per
le strade, il governo ha chiesto e ottenuto dal parlamento l’approvazione di una
norma che consentirà anche ai nostri servizi di condurre all’estero operazioni
speciali con licenza di uccidere in collaborazione con i reparti d’élite delle Forze
armate. La rete diplomatica e le difese predisposte sul territorio nazionale potreb-
bero infatti rivelarsi insufficienti, imponendo infine anche a noi di considerare il
ricorso ad altri strumenti supplementari. Forse una nostra partecipazione ai bom-
bardamenti che vengono condotti sulla Siria non è ancora opportuna. Ma almeno
la predisposizione di una capacità di rappresaglia in teatro dovremmo conside-
rarla, mettendoci sulla scia di giordani e francesi. E chiarendo preventivamente a
noi stessi se dovremo o meno utilizzarla anche nel caso in cui ad esser attaccata
fosse la Santa Sede e non noi.

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162
LA STRATEGIA DELLA PAURA

UNA STRATEGIA ALTERNATIVA


IN CINQUE PUNTI di Mattia TOALDO
Che cosa possiamo fare dopo Parigi? Aggredire la parte criminale del
jihadismo, non il suo territorio. Spegnere gli incendi in Siria e in
Libia. Smettere di corteggiare i petromonarchi. Dotarci di una politica
sui rifugiati, per evitare la saldatura tra partiti xenofobi europei e Is.

N EI GIORNI SUCCESSIVI AGLI ATTACCHI


del 13 novembre a Parigi, il presidente francese – e al suo seguito quasi tutta la
stampa e la politica continentale – hanno parlato di «atto di guerra» da parte del-
l’«esercito dello Stato Islamico» (Is). Hollande ha fatto mostra di tutto l’armamen-
tario classico della guerra al terrorismo: un progetto per accrescere i poteri d’e-
mergenza del presidente; l’estensione per tre mesi dell’attuale stato d’emergenza;
l’allargamento degli attacchi aerei francesi all’Is in Siria; la richiesta di solidarietà
ai partner europei, senza una chiara volontà di discutere i contorni di questa lot-
ta comune. A differenza di Bush, Hollande ha di fronte un paese che si fa vanto
di mantenere la calma e non fa cenno alla guerra di civiltà, se non parlando di
«attacco ai nostri valori». Non sono differenze da poco. Ma ce n’è un’altra molto
importante: la «guerra» di Hollande non viene dichiarata dopo l’attentato jihadista
in grande stile sul patrio suolo. Al contrario, l’attacco del 13 novembre è parte di
uno scontro che la Francia ha ingaggiato già da molto tempo e nel quale si ritie-
ne abbandonata dai partner europei. Già tre anni fa, Parigi interveniva in Mali e
nel Sahel per contrastare le reti jihadiste nordafricane e nell’area resta in piedi
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l’operazione Barkhane, talvolta accusata di chiudere un occhio su fenomeni co-


me l’immigrazione clandestina. In Siria la Francia colpisce l’Is da settembre.

Guerra o terrorismo?
Dal punto di vista francese, quindi, la guerra era già stata dichiarata. Vale
però la pena cercare di capire se a questa risposta bellica corrisponde una simile
strategia «di guerra» da parte dello Stato Islamico. Se si pensa alla gravità dei fatti,
gli attacchi del 13 novembre hanno certamente alcuni contorni militari: per una
notte a Parigi l’intera popolazione ha avuto paura a causa di una serie di attacchi 163
UNA STRATEGIA ALTERNATIVA IN CINQUE PUNTI

coordinati che hanno mietuto 130 vittime e centinaia di feriti. Ma l’obiettivo era
spargere terrore, non conquistare o controllare territori.
Sembra una discussione di lana caprina ma non lo è: già la guerra al terrori-
smo americana dovette a un certo punto parzialmente riconoscere di non trovarsi
di fronte a un nemico convenzionale, a un esercito gerarchizzato che agisce unita-
riamente con lo scopo di conquistare territori. L’Is è anche questo, ma in Iraq e
Siria, non a Parigi o a Roma. Nel Siraq agisce come uno «Stato rivoluzionario», al-
trove come un’organizzazione terroristica. E la risposta che si dà a Raqqa non ne-
cessariamente funziona in Europa. Può anzi darsi il caso opposto. Ossia che una
guerra in piena regola all’Is in Siria e in Iraq lo spinga sempre più a usare il terro-
rismo in Europa e in Medio Oriente. È successo in passato con altri gruppi, per
esempio i somali di al-3abåb, che alla contrazione territoriale dovuta all’offensiva
di forze locali e occidentali sia corrisposta una controffensiva terroristica. Questo
non vuol dire che non si debba usare la forza contro un’organizzazione come l’Is.
Solo che non bisogna ridurla a un solo aspetto, quello della «guerra».
I due elementi si intrecciano e il terrorismo può diventare uno strumento
della «politica estera» dello Stato Islamico. Se si guarda agli attacchi commessi, or-
dinati o ispirati dall’Is fuori dai suoi «confini» sin da questa estate, si scorgono al-
cuni fili conduttori. Primo, punire la Turchia perché concede la base di Incirlik
agli americani per condurre attacchi aerei contro il «califfato» e i curdi, gli unici
nella regione che stanno facendo davvero la guerra via terra all’Is. Secondo, pu-
nire Õizbullåh per il sostegno al regime di al-Asad e per motivi religiosi, ma su
questo punto torneremo tra poco. Terzo, colpire la Russia in Egitto, due paesi di
recente impegnatisi in modo diverso nel doppio obiettivo di sostenere al-Asad e,
in subordine, contrastare l’Is. Infine, l’attacco di Parigi contro il paese europeo
che più di tutti ha condotto la «guerra» alla milizia di al-Baôdådø. Particolare poco
osservato, gli attacchi del 13 novembre avvengono poche ore prima dell’arrivo in
Europa del presidente iraniano Rohani. Una visita a Roma e a Parigi che avrebbe
fortemente riallacciato i legami anche politici con la potenza sciita odiata dall’Is –
e che difende i regimi siriano e iracheno combattendo, in seconda battuta, anche
al-Baôdådø. Come si vede, molti di questi attori hanno contrastato l’organizzazio-
ne jihadista solo in subordine; forse solo la Francia ne ha fatto una priorità.
Questo quadro serve a mettere nel giusto contesto gli attacchi e a capire che
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la strategia potrà essere replicata. Abbiamo parlato per decenni di «bombe spor-
che» o altri mezzi di attacco sofisticati; ora il 13 novembre ci riporta alla realtà. Sa-
ranno anche coordinati, ma gli attentati sono stati condotti con armi relativamente
semplici e poco costose, in gran parte reperibili sul mercato nero europeo.
E qui veniamo a un altro punto importante della natura di questa «al-
Qå‘ida 2.0». Come già fatto notare più volte da Limes, è difficile capire l’ascesa
e il consolidamento dello Stato Islamico se non se ne vedono i caratteri comuni
con il crimine organizzato. Come la mafia, l’Is esercita il potere con un misto di
forza e consenso. Quest’ultima componente non va sottovalutata: una parte
164 delle popolazioni sunnite in Iraq e Siria vede in questo gruppo l’unico stru-
LA STRATEGIA DELLA PAURA

mento di autodifesa contro la discriminazione di Stati centrali dominati da élite


politiche sciite. Anche i metodi di finanziamento dell’Is sono tipici delle orga-
nizzazioni criminali mafiose. Dopo una prima fase in cui avevano giocato un
ruolo fondamentale i finanziamenti dei ricchi individui dei paesi arabi del
Golfo, oggi una parte consistente dei flussi finanziari della banda di al-Baôdådø
proviene da attività illecite come le estorsioni, i rapimenti, il contrabbando sia
di beni di consumo sia di reperti archeologici. Infine, così come nelle organiz-
zazioni mafiose, la catena di comando è fortemente compartimentata, basata su
legami familiari (come nel caso di alcuni dei gruppi di fuoco del 13 novembre)
o sulla segretezza dei vertici militari, ignoti pure ai combattenti. Ci sono persi-
no fenomeni di «pentitismo» anche nell’Is, benché per ora sfruttati in maniera li-
mitata dalle forze di sicurezza occidentali.
In tutto questo la religione ha ovviamente un ruolo, ancorché non quello pre-
dominante che si tende ad attribuirle. È ovviamente religiosa l’ideologia che fa da
collante per lo «Stato rivoluzionario». Ed è su base religiosa che l’Is sceglie i suoi
nemici nella regione, a partire dagli «apostati» sciiti nel Levante o dagli immigrati
cristiani in Libia. Infine, ha origini nei testi sacri la teoria millenarista che vede nel-
la cittadina siriana di Dåbiq il luogo dell’apocalittico scontro con i crociati. Non a
caso Dåbiq è anche il nome della rivista dell’organizzazione.
Ma anche l’elemento religioso ha una sua dimensione politica: la forza mili-
tare dell’Is viene dalla saldatura con forze che rappresentano i sunniti marginaliz-
zati dal potere sciita in Iraq e alauita in Siria. In parte si tratta di ex ufficiali baati-
sti (specie in Iraq) caduti in disgrazia con l’invasione americana del 2003. In par-
te sono però anche cittadini comuni le cui proteste pacifiche non hanno ricevuto
risposta o forze tribali minacciate dalle milizie sciite. Lo Stato Islamico insomma è
anche il sottoprodotto dello scontro regionale tra la grande potenza sunnita (Ara-
bia Saudita) e la grande potenza sciita (Iran), che usano le leve settarie per i pro-
pri scopi geopolitici.

Non ci possiamo isolare dal Medio Oriente


Si parla spesso di «contenimento» dello Stato Islamico, molto spesso per ridi-
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colizzarlo. Ma non deve essere frainteso: contenimento non vuol dire delegare
alle Forze armate una lotta puramente militare da combattersi in terre relativa-
mente lontane da noi. Durante la guerra fredda, il contenimento del mondo so-
vietico era anzitutto una strategia politica. E di politica mediorientale dovremmo
occuparci in modo molto più attivo e propositivo, magari senza subirla come ac-
cade oggi troppo spesso.
Un primo punto problematico della politica mediorientale è che – non dal
13 novembre, ma dalla caduta di Mosul nelle mani dell’Is – la lettura occidentale
della regione è tornata a essere prevalentemente guidata dalle lenti della guerra
al terrorismo. È soprattutto quello il criterio in base al quale scegliamo amici e 165
UNA STRATEGIA ALTERNATIVA IN CINQUE PUNTI

nemici. Così, per esempio, l’Italia sostiene l’Egitto, anche se Il Cairo non na-
sconde di considerare terroristi anche i membri del partito che alle ultime ele-
zioni democratiche ottenne la maggioranza dei voti: la Fratellanza musulmana.
La democrazia – o, meglio, l’esistenza di regole del gioco condivise e consen-
suali – viene considerata un orpello inutile. Eppure è passato solo un anno tra il
rovesciamento (a fine giugno 2013) del governo dei Fratelli musulmani in Egitto
e la conquista jihadista di Mosul nel giugno 2014. È intercorso davvero poco
tempo fra la violenta chiusura della prima esperienza di governo più o meno
democratico dell’islam politico nel maggiore paese arabo e la riapertura delle
praterie per il jihadismo, per alcuni anni rimasto confinato (ma per nulla defun-
to) in alcune sacche in Iraq e Siria. Fra l’altro, il rovesciamento di Mursø, primo
presidente egiziano eletto democraticamente e membro della Fratellanza, era
avvenuto sotto la spinta di manifestazioni di piazza sostenute dai militari egizia-
ni, a loro volta generosamente foraggiati da decine di miliardi di dollari di Ara-
bia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Gli Emirati, ancor piú dei sauditi, hanno poi
allargato la lotta all’islam politico a tutta la regione, supportando chiunque di-
chiarasse guerra a questi «terroristi». Incidentalmente, hanno fornito armi a tutto
spiano anche a chi combatteva i «Fratelli» in Libia, fomentando la violenza a po-
che centinaia di chilometri dall’Italia.
Il punto chiave e strategico della repressione dell’islam politico è il messag-
gio che si manda agli islamisti più giovani: decapitata (idealmente quando non
letteralmente) la dirigenza dell’islam politico democratico, nella Fratellanza egi-
ziana sono rimasti gruppi di giovani ormai disillusi dal processo democratico, de-
diti ad attività violente certo meno intense rispetto a quelle dei jihadisti, ma co-
munque terreno fertile per reclutare estremisti. E infatti l’Egitto, chiusa la pagina
democratica, è oggi un paese meno sicuro, dove il governo ha scarso controllo
sia dell’Alto Sinai che del Deserto occidentale al confine con la Libia.
E qui veniamo alla seconda nota dolente della politica mediorientale. La stra-
tegia dei «pompieri incendiari» – le petromonarchie del Golfo che hanno sponso-
rizzato la repressione dell’islam politico un po’ ovunque – ha contribuito al caos
della regione, nella quale si sono aperti nuovi spazi ingovernati. La Libia è il caso
più eclatante, ma anche l’Egitto presenta problemi. Un grande regalo allo Stato
Islamico, che pure sui suoi media ufficiali spiegava l’espansione in Nordafrica
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pochi mesi dopo il golpe egiziano alla luce della ghiotta opportunità strategica. Il
problema più grande per noi occidentali è che i pompieri incendiari sono tra i
nostri migliori amici nella regione. Anzi, l’Egitto è forse l’alleato regionale più im-
portante dell’Italia – si guardi all’intensità dei contatti politici bilaterali e alla coo-
perazione proprio in materia di antiterrorismo – mentre gli Emirati sono una par-
te molto sostanziosa della politica estera commerciale del governo Renzi. Finora,
alla crescita dei rapporti bilaterali motivati in parte anche da esigenze economi-
che non è corrisposta una capacità di influenza sulle loro scelte politiche.
Delle due, è vero il contrario. La vicenda libica dimostra chi conduca le dan-
166 ze. È al Cairo che si decide se si fa la pace in Libia e sono gli Emirati che si pos-
LA STRATEGIA DELLA PAURA

sono «comprare» il mediatore Onu, quel Bernardino León, ex inviato speciale del-
le Nazioni Unite in Libia, le cui e-mail pubblicate dal Guardian rivelano stretti
contatti con Abu Dhabi proprio mentre questa forniva armi a una delle fazioni in
lotta. Collaborazione culminata con l’offerta di un lavoro da quasi 50 mila dollari
al mese per l’ex diplomatico spagnolo. Ovviamente negli Emirati.

L’uso politico del nesso terrorismo-migrazioni


Lo Stato-utopia del «califfato» non tollera i disertori mentre accoglie a braccia
aperte chi vuole combattere al suo fianco. Non c’è bisogno di fare congetture, lo
scrive sulla sua rivista in inglese Dåbiq. Quest’estate ha pubblicato la foto del
piccolo Aylan Kurdi, morto sulla spiaggia turca di Bodrum. Ma il messaggio era
opposto a quello di tutti gli altri esseri umani. Il titolo sotto la foto infatti era «il
pericolo di lasciare le terre dell’islam». L’emigrazione fuori dal califfato viene pre-
sentata come peccato, addirittura come apostasia se volontaria. L’associazione tra
parole e foto è chiara: questo succede agli apostati e ai loro figli.
L’emigrazione verso il califfato viene invece incoraggiata. È il fenomeno
dei cosidetti foreign fighters (combattenti stranieri), migliaia di europei trasferi-
tisi nelle terre conquistate dallo Stato Islamico che ne hanno accresciuto
senz’altro le capacità di comunicazione in Occidente. Quasi tutti gli attentatori
di Parigi avevano trascorso almeno un periodo in Siria. Eppure, l’attenzione è
subito andata sul passaporto di un siriano che sarebbe arrivato insieme ai pro-
fughi attraverso la Grecia proprio per realizzare l’attentato. La perfetta epifania
della minaccia paventata dall’ultradestra (e non solo) da quasi un anno: terrori-
sti mischiati ai migranti. Non conta che la statistica ci dica che il vero pericolo
non viene dai siriani che fuggono verso l’Europa ma dagli europei che fuggono
verso la Siria. È bastato quel passaporto (probabilmente falso) a cambiare il se-
gno dell’opinione pubblica in Europa occidentale e in America, dove decine di
governatori e sindaci hanno dichiarato (incostituzionalmente) che non accette-
ranno un solo rifugiato siriano.
Così si crea una convergenza involontaria tra xenofobi/islamofobi occiden-
tali e jihadisti mediorientali. Vogliono la stessa cosa: i musulmani fuori dall’Eu-
ropa. Sostenerne le tesi è il migliore favore che si possa fare allo Stato Islami-
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co. Non solo li si aiuta a rafforzare la loro idea dell’«utopia islamica» dalla quale
non si deve scappare, ma pure a destabilizzare i paesi vicini: già negli anni Set-
tanta larghe masse di profughi palestinesi mandarono in tilt il Libano, portan-
dolo alla guerra civile. Oggi, con un quarto della popolazione libanese formata
da rifugiati siriani, è solo per la mancanza di appetito delle potenze che si
spartiscono il paese dei Cedri che non si verifica una nuova esplosione. Ma per
quanto ancora resterà tappato questo vaso di Pandora? E quanto può resistere
la Giordania con un altro milione di profughi o la Tunisia, dove l’Is ha già mes-
so piede, con il suo milione di libici?
167
UNA STRATEGIA ALTERNATIVA IN CINQUE PUNTI

E quindi che fare?


Di fronte a un’offensiva di attacchi e minacce come quella attuale, la nuova
guerra al terrorismo è una tentazione irresistibile. Una «congiura della paura», co-
me l’ha definita Avvenire. Questo timore, come teorizzarono a suo tempo pensa-
tori con simpatie autoritarie, è il migliore terreno di coltura per uno «stato d’ecce-
zione» che consenta al potere di restare al di fuori e al di sopra della legge. La
stragrande maggioranza dei francesi, dopo il 13 novembre, ha dichiarato nei son-
daggi di essere pronta a cedere la propria libertà per avere più sicurezza. Come
se la mancanza di libertà non rendesse le persone già un po’ meno vive.
Quello che vogliono i jihadisti è proprio la contrazione degli spazi democra-
tici. Vogliono che l’Europa dia il peggio di se stessa, che scavi un fossato tra la
sua componente cristiana e i suoi milioni di cittadini musulmani, così da spinger-
li verso il «califfato» – perché questa è la fantasia dei suoi ideologi. Se si guarda al
curriculum di una parte importante della leadership jihadista, a cominciare dal
«califfo» al-Baôdådø, le prigioni e i luoghi di tortura messi in piedi in nome della
guerra al terrorismo sono stati quasi un’accademia.
C’è poi un’altra considerazione da tenere in mente. Come accennato in pre-
cedenza, c’è una componente dello Stato Islamico che ha origini molto meno re-
ligiose, dagli ex del regime di Saddam Hussein alle popolazioni sunnite dell’Iraq
che si sentono marginalizzate e minacciate fisicamente dal regime sciita, salito al
potere come risultato dell’invasione americana dell’Iraq del 2003. È oramai da un
decennio che queste fazioni sunnite, una volta anti-jihadiste, si sono alleate coi
jihadisti. Quando programmiamo nuovi interventi nella regione pensiamo se stia-
mo creando nuove coalizioni tra ex nemici.
Cosa si può e si deve fare, invece?
Primo, aggredire la componente criminale e terroristica dell’Is, senza confon-
derla con quella statuale e con il suo «esercito». Si tratta di fare meglio quello che
in inglese si chiama «law enforcement». Usare la forza, ma per far rispettare la
legge; non il contrario, modificando la legge per giustificare uno sterile esercizio
della forza. Quanti attentati ha aiutato a evitare la prigione di Guantanamo e
quante persone sono state invece radicalizzate grazie al solo messaggio che quel-
la prigione convoglia? In concreto, significa usare per davvero i mezzi di coordi-
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namento e condivisione delle informazioni previsti dal Trattato di Schengen.


Vuol dire applicare a uno sforzo investigativo e non bellico gli strumenti già usati
contro la criminalitá organizzata: i reati associativi; i pentiti; la confisca dei beni e
la lotta ai colletti bianchi. Combattere il traffico di armi all’interno dell’Europa,
applicando direttive europee che esistono già. Magari creando una polizia e
un’intelligence europee, cominciando da un rafforzamento di Europol.
Secondo, mentre si conduce la guerra all’Is in Medio Oriente, promuovere
iniziative di «diplomazia col pelo sullo stomaco» per risolvere i conflitti in Siria e
Libia. I colloqui di Vienna sulla Siria hanno già dimostrato che se si vuole si può
168 trovare una soluzione realistica per innescare un processo per stabilizzare alme-
LA STRATEGIA DELLA PAURA

no la parte del paese non controllata dall’Is. A Vienna, la grande differenza ri-
spetto al passato è stata la presenza contemporanea degli iraniani (pro Asad) e
dei sauditi (pro opposizione siriana, non sempre democratica). C’è voluta una
forzatura per costringere questi ultimi a sedersi al tavolo dei negoziati: fino a set-
tembre ponevano l’improbabile capitolazione di al-Asad come precondizione per
aprire le trattative. Che nel frattempo morissero migliaia di siriani e l’Is si espan-
desse era un dettaglio: i nostri alleati arabi nella regione erano occupati a com-
battere in Yemen e non consideravano prioritario il Siraq. Lo stesso pelo sullo
stomaco con i nostri alleati «pompieri incendiari» bisogna dimostrarlo in Libia. La
politica egiziano-emiratina ha finora condizionato pesantemente i negoziati; basti
pensare che il governo di Tobruk (quello della Libia «riconosciuta internazional-
mente») va al Cairo ogni volta che deve rifiutare una proposta di pace.
Terzo, proteggere le tessere del domino più fragili. Basta guardare una map-
pa: i paesi attorno alla Siria hanno strutture statali fragilissime, a partire da Libano
e Giordania. Ma è così anche per la Tunisia, sempre più scossa dalle conseguen-
ze del conflitto in Libia, con la relativa espansione dell’Is. La «protezione dei fra-
gili» implica sostegno politico, ma anche di sicurezza, così come prospettive serie
di sviluppo economico, magari scontentando qualche lobby europea dell’agricol-
tura. Soprattutto nel caso di Libano e Giordania, sostenere i deboli vuol dire ac-
cettare la realtà: questi paesi non saranno mai in grado di integrare tutti quei pro-
fughi. Mentre si lavora a una soluzione di pace in Siria che consenta almeno di
arrestare il flusso di persone, bisogna programmare e organizzare l’accoglienza in
Europa di una parte dei rifugiati oggi ospitati dai paesi fragili.
Quarto, al contrario della chiusura delle frontiere voluta da Is e xenofobi bi-
sogna realizzare una politica realistica sui profughi. Creare canali legali per chie-
dere asilo senza doversi affidare ai trafficanti, alimentando circuiti criminali in
molti casi contigui a quelli jihadisti o comunque pericolosi per le fragili strutture
statali della regione. Un canale legale, d’altronde, implica un più facile controllo
e flussi più programmati. Nel frattempo, laddove possibile, occorre migliorare le
condizioni dei rifugiati nella regione: le somme spese finora dall’Europa sono ri-
dicole, con alcune lodevoli eccezioni.
Quinto, fare politica anche in Medio Oriente. Fare i lacchè dei paesi del
Golfo nella speranza che investano da noi qualche petrodollaro in più (in calo,
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visto il crollo dei prezzi dell’oro nero) si è rivelato pericoloso: abbiamo avallato
le politiche dei pompieri incendiari. Continuiamo, per esempio, a fornire armi
che alimentano la guerra in Yemen, ignorando che quel conflitto sta allargando
gli spazi per al-Qå‘ida, dal momento che qui i jihadisti stanno dalla stessa parte
dei nostri alleati arabi. È necessario quanto prima mettere nella stessa stanza l’I-
ran con i nostri alleati nella regione, compiendo lo stesso sforzo fatto per rag-
giungere l’accordo sul nucleare, ma questa volta con l’obiettivo di spegnere gli
incendi che alimentano il jihadismo. E se questo farà arrabbiare i pompieri incen-
diari, pace. Continuiamo a provare, oggi è davvero in gioco la nostra sicurezza.
Infine, laddove possibile, bisogna sostenere coalizioni locali o singoli attori che 169
UNA STRATEGIA ALTERNATIVA IN CINQUE PUNTI

la lotta all’Is la fanno davvero. Non è sempre possibile, ma in alcuni casi è im-
portante non spararci sui piedi, per esempio lasciando che la Turchia bastoni gli
stessi curdi che lanciano offensive di terra contro l’Is.
Una lettura e una strategia alternativa a quelle della «guerra al terrorismo,
parte seconda» sono possibili, anche se inevitabilmente imperfette. Si può fare
pressione per realizzarle, ma senza farsi troppe illusioni. L’unica speranza è che
con questi attacchi così estesi contro Turchia, Russia (e indirettamente Egitto),
Õizbullåh, Francia e Iran, lo Stato Islamico si sia fatto troppi nemici. Cerchiamo
di impedire che questi attori si facciano attirare nella trappola tesa dai jihadisti.

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170
LA STRATEGIA DELLA PAURA

LA BRUTTA CHINA
DELLO STATO D’ECCEZIONE di Paolo RAFFONE
La minaccia terroristica giustifica una deriva securitaria che
maschera fini geopolitici e rischia di far regredire l’Europa. L’uso
storico e giuridico del concetto di terrorismo. Le incongruenze
di Hollande. I Patriot Acts all’europea sono una pessima idea.

1. T ERRORISMO, CONTROTERRORISMO E STATO


d’eccezione sono tutti fenomeni intrinseci all’esercizio del potere. Il terrorismo
è sempre esistito in relazione all’esercizio del potere. Episodi di «terrorismo»
sono infatti avvenuti in vari periodi storici e sotto diversi regimi politici: le
congiure di palazzo ai tempi dell’impero romano o dei principati rinascimen-
tali; gli attentati dinamitardi contro i sovrani autocratici; le azioni di guerriglia
di movimenti anticoloniali in periodi più recenti ne sono solo alcuni esempi.
Tuttavia, la parola «terrorismo» è apparsa per la prima volta il 30 gennaio 1795
in una lingua occidentale sul quotidiano britannico Times in riferimento ai ten-
tativi di alcuni gruppi di rovesciare la monarchia. Tutte le lingue indoeuropee
hanno adotatto questa parola, che mantiene la radice latina terror. È interes-
sante notare che nella lingua cinese esiste una traduzione del termine «terrori-
smo» che associa la violenza al caos e al disordine sociale, ma ancora non esi-
ste una definizione linguistica ufficiale e accettata. Durante l’impero il concet-
to di terrorismo non esisteva, ma si usava il termine «violenza politica» contro
l’imperatore ed era divisa in «cattiva» (se generava caos) e «buona» (se serviva
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a punire i governanti incapaci o corrotti che perdevano il mandato celeste). In


lingua russa il termine «terrorismo» è relativamente recente (secondo alcuni da-
ta al 1880) e il significante indicherebbe che esso è una delle opzioni della
lotta politica che fa uso di violenza ideologicamente motivata. Nel codice pe-
nale russo il terrorismo è definito come atto commesso pubblicamente per il
pubblico con lo scopo di intimidire la popolazione o gruppi sociali per avere
un impatto diretto o indiretto nell’adozione di decisioni favorevoli agli interes-
si dei terroristi 1.

1. goo.gl/TifKNt 171
LA BRUTTA CHINA DELLO STATO D’ECCEZIONE

Nel mondo non esiste ancora una definizione del «terrorismo» globalmente
condivisa ed accettata. Dopo l’assassinio dell’arciduca Ferdinando a Sarajevo nel
1914 e quelli negli anni Trenta a Marsiglia di un re iugoslavo e di un ministro de-
gli Esteri francese, nel 1937 la Lega delle Nazioni tentò una definizione condivisa,
ma non fu mai adottata 2. Dal 1996 le Nazioni Unite hanno tentato senza succes-
so di raggiungere un accordo per una Convenzione mondiale sul terrorismo. At-
tualmente esistono oltre cento definizioni diverse di terrorismo. Inoltre sono state
redatte una decina di convenzioni settoriali dell’Onu sul terrorismo e ogni orga-
nizzazione regionale si è dotata di strumenti per la lotta al «terrorismo».
Nonostante ciò, si possono inquadrare certe questioni importanti relative al
terrorismo. È in qualche modo terroristico un tentativo destituente del potere
costituito, ma anche un tentativo rivoluzionario, benché costituente nelle aspira-
zioni. In entrambi i casi si tratta di fatti eccezionali e di tentativi tesi al cambia-
mento della direzione politica di una società. Tranne qualche riferimento storico
di rivoluzione riuscita, anche se con effetti solo nel breve periodo, è bene non
dimenticare che tutti gli altri casi di organizzazioni o azioni «terroristiche» desti-
tuenti hanno fallito nel loro obiettivo politico diretto. Invece è solo il potere co-
stituito che può fare uso, in casi eccezionali (minaccia o azioni «terroristiche»), di
atti destituenti da esercitarsi senza i vincoli delle leggi. Non a caso, ad ogni
evento definito dal potere costituito come «terroristico» segue una dose di ecce-
zionalità nell’esercizio del potere stesso.
Paradossalmente, l’eccezionalità «terroristica» si trasferisce dunque al potere
costituito che adotta decisioni eccezionali, concentrando funzioni tali da evitare il
tracollo del sistema. Alle azioni di «terrorismo» (il male) si contrappongano quelle
legittime, perché sovrane, di controterrorismo (il bene). Negli antichi regimi me-
dioevali esisteva un gran numero di trattati sugli angeli che distinguevano in mo-
do inequivocabile e assoluto il bene dal male. Invece, nei regimi democratici le
definizioni sono sfumate, ambigue, incerte. La democrazia (il bene) è qualificata
prevalentemente attraverso la tecnica dell’amministrazione, cioè la tecnica del
potere. Il terrorismo (il male) è qualificato come un fenomeno che si manifesta
attraverso l’esercizio della violenza, anche armata, in modo illegittimo e illegale,
per incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e destabilizzarne
l’ordine, mediante attentati, rapimenti, dirottamenti di aerei e simili.
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Si intuisce quindi che il terrorismo è in relazione stretta con l’esercizio effetti-


vo della sovranità e per questo è contrastato e opposto. L’antiteticità non è tra
democrazia o «stile di vita» e terrorismo (concetti metagiuridici), ma tra esercizio
illegale del potere (terrorismo) ed esercizio effettivo della sovranità (le istituzioni
costituite). Infatti, qualsiasi potere costituito (dittatoriale, totalitario, teocratico, de-
mocratico) tratta il «terrorismo» come il male da prevenire o da annientare. Al

2. La Convenzione all’articolo 1 definisce il terrorismo come «criminal acts directed against a State
and intended or calculated to create a state of terror in the minds of particular persons or a group of
persons or the general public». È interessante notare che il grande dibattito e i documenti di allora sono
172 sostanzialmente gli stessi che cinquant’anni più tardi sono stati usati dall’Onu per lo stesso scopo.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

netto delle pratiche e tattiche usate nell’esercizio delle due attività e degli effetti
diretti e indiretti, violenti e terrorizzanti che ne conseguono, la vera posta in gio-
co tra le due antitetiche pratiche è l’esercizio del potere costituito stesso.
Per queste ragioni, la reazione tipica di quest’ultimo di fronte ad attacchi o
minacce di tipo «terroristico» è decretare lo stato d’eccezione, che Carl Schmitt,
secondo Giorgio Agamben, descriveva come «la forma legale di ciò che non
può avere forma legale» 3. Definizione pregnante, ma non valida in tutti i regimi.
Infatti, ai nostri tempi lo stato di eccezione subisce un trattamento diverso nelle
tradizioni giuridiche dell’Occidente. Vi sono ordinamenti che regolano lo stato
di eccezione nella costituzione o mediante una legge (come la Francia e la Ger-
mania) e ordinamenti che ne omettono la regolamentazione (quali l’Italia, la
Svizzera, il Regno Unito e gli Stati Uniti) 4. Nei primi si può legalmente sospen-
dere la legge, nei secondi è puro atto d’imperio, extralegale. Non è un formali-
smo perché se lo stato d’eccezione non è assimilato al diritto, si legittimano tutti
gli atti politici che, pur essendo evidenti violazioni dei codici, rimangono in uno
stato di indeterminazione giuridica solo per il fatto di essere commessi nell’am-
bito dello stato d’eccezione. L’insindacabilità degli atti metagiuridici compiuti
nello spazio temporale decretato dallo stato d’eccezione crea una norma per cui
la politica è superiore al diritto e all’etica pubblica di cui il diritto rappresenta la
traduzione istituzionale, convalidata dalla volontà generale.

2. Appare dunque chiaro che il potere costituito fa uso di azioni di controter-


rorismo per proteggersi da minacce o azioni terroristiche, a prescindere dall’uso
dello stato di eccezione, in tempo di pace e ovunque nel mondo. Quando lo stato
d’eccezione è decretato tali attività subiscono un’espansione che altrimenti risulte-
rebbe limitata dal quadro giuridico, sia legislativo sia costituzionale, che infatti vie-
ne in parte o in tutto sospeso. Tuttavia, le attività di controterrorismo rientrano
sempre nello spazio vuoto che il potere crea appositamente tra la violenza e il
suo rapporto con il diritto. Come il terrorismo, anche l’antiterrorismo è la massima
espressione dell’esercizio del potere reale, insindacabile e metagiuridico. Ciò spie-
ga perché non esiste una definizione di terrorismo comune e accettata a livello
mondiale, o anche solo europeo. Entrambe le attività fanno uso di tattiche militari,
tecnologie avanzate, strategie. L’obiettivo dell’una è infiltrare l’altra per renderla
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inoffensiva o neutralizzarla. Non è infrequente che la strategia di antiterrorismo in-


cluda anche il reclutamento di terroristi, il loro finanziamento o rifornimento.
Il confine tra le due attività può essere dunque molto labile. Il terrorismo per
definizione agisce al di fuori di qualsiasi riferimento giuridico, mentre il contro-
terrorismo agisce secondo la regolamentazione giuridica nazionale che definisce

3. Cfr. G. AGAMBEN, Stato d’eccezione, Torino 2003, Bollati Boringhieri (n.d.r.).


4. Ad esempio, in Italia la reazione al terrorismo si concretizza in leggi speciali che prendono la for-
ma di decreti del governo soggetti a periodico rinnovo e approvazione parlamentare. Proprio per-
ché non esiste una regolamentazione normata in costituzione, tali atti di legge sono puri atti politici,
in qualche modo eccezionali rispetto alle norme costituzionali. 173
LA BRUTTA CHINA DELLO STATO D’ECCEZIONE

funzioni e attività insindacabili e quindi anomiche. Come Giano, in queste attività


il potere ha due facce: l’una espressione della sovranità (il bene), l’altra del pote-
re reale (il male). Ad esempio, nel 2006 la Corte suprema di Israele ha sentenzia-
to che le attività di uccisione mirata con finalità antiterroristica sono legittime for-
me di autodifesa 5. In altri sistemi giuridici ciò non sarebbe possibile se non in
presenza dello stato di eccezione. Un altro esempio è dato dalle affermazioni del
primo ministro britannico Tony Blair nel 2003 per giustificare l’invasione dell’I-
raq. L’obiettivo strategico era di «cambiare il regime» e sostituire il governante
dell’Iraq. Poiché non esisteva alcuna base legale per usare la forza militare con
questa finalità, una vasta operazione di controterrorismo individuò l’esistenza di
armi di distruzione di massa in possesso di Saddam Hussein. Il regime fu abbat-
tuto manu militari, ma nel 2015 Blair ha pubblicamente riconosciuto che «si era
sbagliato nel valutare le informazioni della sua intelligence» e che quell’impresa
«ha favorito la nascita dell’Is» 6. La differenziazione tra terrorismo e controterrori-
smo appare ancor più labile.
Una breve digressione storica può aiutare a capire meglio. Il caso più inte-
ressante è quello della plurisecolare lotta all’eresia, cioè l’antiteticità tra ortodos-
sia (il bene = potere costituito) e la deviazione (eresia= terrorismo): iniziò a livello
teologico nel V secolo con sant’Agostino e trovò il suo apice militare nel XII e
XIII secolo con gli editti e le campagne militari di Federico II. Il vero salto di
qualità fu compiuto tra il XIII e il XVI secolo con la legittimazione degli inquisi-
tori (che oggi sarebbero i controterroristi) che compivano infiltrazioni, spionaggi,
schedature, assalti e uccisioni nel quadro di neocostituitesi strutture giuridiche,
armate e repressive. Lo scopo era di annientare il «nemico» e quando possibile di
«convertirlo» al bene. Questo fenomeno rassomigliò a una vasta guerra civile in-
tracristiana senza reali vincitori. Infatti, più le reti eretiche venivano colpite e più
l’eresia si diffondeva. Si risolse solo con un nuovo approccio strategico e con la
mediazione «politica» proposta al papa dalla neonata Compagnia di Gesù.

3. Veniamo ora alla guerra globale al terrorismo. Negli Stati Uniti la definizio-
ne di terrorismo è cambiata nel tempo ed è contenuta in vari atti legislativi che
presentano diversità interpretative e concettuali non marginali. Il più recente è il
cosiddetto Patriot Act del 2001, adottato tempestivamente dal Congresso in segui-
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to all’attacco alle Torri Gemelle. Il testo originale riguarda la definizione del ter-
rorismo qualificato come domestic, sia che si svolga sul suolo americano che al-
trove nel mondo 7. Le conseguenze dell’applicazione di questa legislazione anti-

5. goo.gl/6enEsl
6. N. WATT, «Tony Blair Makes Qualified Apology for Iraq War ahead of Chilcot Report», The Guar-
dian, 25/10/2015.
7. Activities that (A) involve acts dangerous to human life that are a violation of the criminal laws of
the U.S. or of any state; (B) appear to be intended (i) to intimidate or coerce a civilian population;
(ii) to influence the policy of a government by intimidation or coercion; or (iii to affect the conduct
of a government by mass destruction, assassination, or kidnapping; and (C) occur primarily within
174 the territorial jurisdiction of the U.S.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

terrorismo alle libertà civili, inclusa la libertà di espressione, i diritti degli immi-
grati, le transazioni monetarie, la ricerca e lo scambio di informazioni, i dati per-
sonali e la tutela della privacy, sono diventate note con il caso Edward Snowden.
I poteri di spionaggio dei servizi segreti americani sono stati considerevolmente
ampliati non solo sul territorio nazionale, ma anche all’estero. In pratica, si tratta
di una legislazione che ha istituzionalizzato uno stato di eccezione semiperma-
nente, con estensione internazionale.
È infatti proprio dall’entrata in vigore di questa legge che la percezione del
terrorismo è diventata di «minaccia alla pace e alla sicurezza mondiale». I lunghi
quattordici anni di durata dello stato d’eccezione americano hanno portato al li-
mite la tensione tra le forze del contratto sociale e quelle della auctoritas, crean-
do uno spazio non giuridico nel quale le agenzie di sicurezza hanno potuto agire
indisturbate e non sempre allineate al potere politico. I casi dei centri di deten-
zione in Iraq o a Cuba sono esemplificatori, ma anche le attività di controterrori-
smo che hanno condotto alla creazione di eserciti paralleli all’interno di più di un
paese e contro i governi legittimi. Le situazioni in Afghanistan, Siria e Libia sono
in contraddizione con le legislazioni adottate dopo le catastrofiche esperienze in
Vietnam, Iran e in Nicaragua (affare Contras), che prevedevano una limitazione
delle «attività di interferenza» diretta negli affari interni di un paese terzo.
La guerra globale al terrorismo non sembra aver ancora raggiunto il suo
obiettivo principale: doveva distruggere al-Qå‘ida ma ha creato l’Is e un intreccio
di altre sigle terroristiche più o meno collegate tra loro. Invece, la macchina è di-
ventata disfunzionale nella relazione tra apparati militari e di sicurezza da un lato
e la politica dall’altro. Intanto, come avvertiva Giorgio Agamben, il mondo sta
scivolando in una «guerra civile mondiale» 8.
In Francia si è fatto un uso ricorrente dello stato di eccezione dal dopoguer-
ra a oggi. Secondo la costituzione francese, che regola l’esercizio dello stato d’ec-
cezione, ne esistono vari livelli di applicazione, distinguibili in due grandi cate-
gorie: état d’urgence (regolato dalla legge del 1955, deroga al rispetto di alcune
norme costituzionali e legislative e amplia i poteri di prefetti governativi e forze
di sicurezza in un tempo e spazio determinati); état de siège (il solo di rango co-
stituzionale, trasferisce ai vertici militari il potere di governo del territorio). Ecco
un elenco della sua applicazione recente: 1955 (état d’urgence in seguito agli at-
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tentati del novembre 1955 compiuti dal Fronte di liberazione nazionale algerino;
fu prorogato per 6 mesi); 1958 (état d’urgence in seguito al colpo di Stato in Al-
geria, proclamato per tre mesi sull’insieme del territorio nazionale); 1961-1963
(état d’urgence in seguito al colpo di Stato in Algeria, proclamato da de Gaulle
su tutto il territorio nazionale); 1984 (l’allora primo mininstro Laurent Fabius de-
creta l’état d’urgence in Nuova Caledonia, territorio d’Oltremare amministrato
dalla Francia); 2005 (il presidente Jacques Chirac decreta l’état d’urgence in se-
guito alle rivolte delle minoranze etniche, principalmente di religione islamica,

8. G. AGAMBEN, Stato di eccezione, cit. 175


LA BRUTTA CHINA DELLO STATO D’ECCEZIONE

nelle periferie parigine; il decreto restò in vigore dall’8 novembre 2005 al 4 gen-
naio 2006); 14 novembre 2015 (François Hollande e il Consiglio dei ministri adot-
tano l’état d’urgence su tutto il territorio nazionale, inclusa la Corsica e tutti i do-
mini d’Oltremare; Hollande ha anche chiesto di modificare la costituzione per ri-
durre le limitazioni regolamentari nell’esercizio dell’état d’urgence).
Il 16 novembre 2015, subito dopo gli attentati di Parigi, il presidente Hollan-
de ha pronunciato un discorso al parlamento francese nel quale ha identificato
nell’Is un «nemico misurabile su un territorio» che ha «commesso atti di guerra in
Francia» 9. Si tratta di un’affermazione perentoria, insindacabile e sovrana. D’altra
parte, era anche l’unica che gli avrebbe permesso di dichiarare che «la Francia è
in guerra» (anche se la Francia era già in guerra contro al-Qå‘ida dal 2001 e poi
contro il «califfato» in Iraq dal 2014). Ciò preoccupa, visto che la Francia è un pae-
se membro dell’Onu, dell’Ue e della Nato, ma con la dichiarazione di guerra del
2015 ha agito tramite un atto militare di autodifesa per anticipazione (pre-
emptive), cercando solo dopo il sostegno dei suoi partner e alleati. Ad eccezione
delle dichiarazioni di «solidarietà» dell’Ue (ex articolo 42.7 del Trattato di Lisbona),
un atto dovuto ma dalle conseguenze pratiche limitate, nessun’altra organizzazio-
ne ha condiviso la posizione francese. Le due superpotenze, Stati Uniti e Russia,
si sono limitate a disporre «una forma di cooperazione di intelligence» con la
Francia per sostenerla nel corso dei bombardameti sulle postazioni dell’Is in Siria.
Sul piano giuridico, la decisone francese di bombardare le postazioni «terro-
riste» in Siria non trova conforto nelle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza del-
l’Onu. La sola norma internazionale alla quale può fare appello Parigi è l’autodi-
fesa prevista dall’articolo 51 della Carta, ma l’azione militare della Francia sem-
brerebbe piuttosto un’autodifesa per anticipazione, che esula dall’articolo 51.
Mentre la Russia è presente in Siria in base all’invito esplicito del legittimo go-
verno siriano di Damasco e gli Stati Uniti in Iraq in base alle risoluzioni Onu e
all’invito del governo di Baghdad, la Francia è intervenuta in Siria senza alcuna
solida base legale. Un atto di potere sovrano metagiuridico che rischia di avere
conseguenze indirette sull’Unione Europea: ristabilire la sovranità nazionale, co-
me ha fatto Hollande, significa farlo anche nei confronti delle strutture sovrana-
zionali, come l’Ue 10.
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4. L’altra affermazione problematica del discorso di Hollande è: «Gli atti di


guerra sono stati decisi, pianificati e preparati in Siria; organizzati in Belgio; e
condotti con dei complici sul territorio francese». Sull’origine siriana degli attacchi
la Francia non ha fornito alcuna prova credibile. Ad eccezione dello strano ritro-
vamento di un passaporto siriano falso sulla scena degli attacchi, null’altro. Inol-
tre, la voce della rivendicazione audio attribuita all’Is è stata identificata come
quella di Fabien Clain, un jihadista francese di Tolosa che dal 2014 si troverebbe

9. Testo ufficiale del discorso: goo.gl/ueuEc8


176 10. J. SAPIR, «Etat d’urgence et souveraineté», RussEurope, 16/11/2015,
LA STRATEGIA DELLA PAURA

in Siria, ma era ben noto ai servizi di sicurezza francesi (Dgse) sin dal 2008,
quando fu arrestato e poi nel 2012 in relazione agli attentati di Tolosa 11.
Molto strano è anche che il solitamente ben informato sito Site non abbia
pubblicato alcun video di rivendicazione da parte di esponenti di rango dell’Is,
mentre il 22 novembre è circolato in rete un video attribuito all’organizzazione
dal titolo Parigi è crollata, con voci e sottotitoli in francese nel quale si rivendica-
no gli attentati del 13 novembre e se ne annunciano di nuovi 12. In uno dei sotto-
titoli si legge «noi non vogliamo fare la guerra a voi ma alle trasgressioni dei vo-
stri sistemi». Il riferimento sembrerebbe chiaramente diretto alle politiche medio-
rientali della Francia e non al suo popolo, stile di vita o libertà. Quanto all’affer-
mazione che gli atti terroristici siano stati «organizzati in Belgio», ciò si scontra
con le affermazioni delle «autorità belghe che non hanno rilevato alcuna perico-
losità dei soggetti presuntamente coinvolti» 13.
Intanto, anche il Belgio ha dovuto imporre un parziale état d’urgence e com-
piuto raid e perquisizioni extragiudiziarie in vari quartieri di Bruxelles. Questi at-
tacchi sono stati «condotti con dei complici sul territorio francese» è un’afferma-
zione sorprendente. Quali complici e in che settori, ruoli o ambiti? In ogni caso è
una chiara ammissione dell’inefficienza delle forze di sicurezza francesi prima
degli attacchi. Questa affermazione sembra riferirsi a quello spazio vuoto in cui
sia il terrorismo sia il controterrorismo agiscono. Un’affermazione molto inquie-
tante che dovrebbe suscitare domande precise da parte degli organi comunitari e
degli altri Stati membri dell’Ue. Inoltre, poiché dopo l’attentato del 7 gennaio
2015 al giornale satirico Charlie Hebdo la Francia affermò di avere le prove che
«l’azione era stata preparata da al-Qå‘ida in Yemen», perché Parigi non ha iniziato
a bombardare questa organizzazione?
La terza considerazione riguarda la richiesta, del tutto illegittima, di sostituire
il presidente siriano al-Asad. Inoltre, la Francia si propone di fare una guerra «do-
vunque nel mondo» contro i terroristi, ma poi dichiara di voler «liberare le popo-
lazioni di Siria e Iraq». E perché non tutte le altre in almeno una ventina di paesi
che subiscono gli stessi effetti drammatici e violenti dell’Is e dei suoi affiliati?
Sembra che il riferimento solo a Siria e Iraq sia una scelta deliberata di Hollande.
Per quali ragioni? Il presidente afferma poi che il suo intervento militare contro il
«terrorismo ovunque nel mondo» serve affinché le «autorità di questi paesi possa-
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no restaurare la loro sovranità sull’insieme del territorio». Quale migliore occasio-


ne di far questo proprio in Siria? La Francia sembra perseguire propositi piuttosto
contraddittori e confusi su questo terreno.
Infine, Hollande chiede di «cambiare la costituzione francese [per] andare ol-
tre l’urgenza». Non è chiaro il suo pensiero, ma sembrerebbe che implichi la vo-

11. F. DEZZANI, «Quel filo che unisce i terroristi del 13/11 ai servizi segreti francesi», blog di Federico
Dezzani, 20/11/2015; «Attacchi Parigi, voce rivendicazione Isis è di jihadista francese», AskaNews,
17/11/2015
12. https://youtu.be/pbfb9az2YPQ
13. «La Belgique avait interrogé les deux frères Abdeslam avant les attentats», LeSoir, 18/11/2015. 177
LA BRUTTA CHINA DELLO STATO D’ECCEZIONE

lontà di avere un quadro normativo che permetta l’istituzionalizzazione dello sta-


to d’eccezione, sul modello del Patriot Act americano. Una tale decisione, se ap-
provata, provocherà un’ulteriore frattura in seno all’Ue, che vede sistemi giuridici
molto diversi tra loro in questa materia. La Francia può, compiere tale passo nel-
l’esercizio della propria sovranità, ma senza un’armonizzazione legislativa si tro-
verebbe fuori dal quadro giuridico comunitario.
In relazione alla richiesta di modifica costituzionale, il presidente Hollande
introduce un nuovo concetto, il «terrorismo di guerra», del quale non si capisco-
no né i contorni né gli aspetti sostanziali. Sul piano esegetico sembrerebbe sug-
gerire che esista una guerra che produce terrorismo. Se così fosse, allora la que-
stione principale sarebbe di fermare la guerra. Ad esempio, si dovrebbe vietare
di vendere armamenti ai paesi che sostengono i gruppi armati in conflitto o di
rifornirli o finanziarli. Ma sembra che su questo piano ogni Stato scelga il suo
amico (e nemico) in piena autonomia. Le istituzioni europee stanno adottando
con inusitata rapidità pacchetti di legislazione in materia di antiterrorismo che
prevedono di reintegrare i controlli alle frontiere per tutti coloro che vi transita-
no, ma anche una serie di altre misure restrittive delle libertà di cui finora l’Ue fa-
ceva vanto. Misure probabilmente necessarie, ma che certo avranno un effetto
sulla percezione dell’Unione Europea da parte dell’opinione pubblica.

5. La Francia ha dunque subìto degli attacchi di tipo terroristico sul suo ter-
ritorio che difficilmente avrebbero potuto mettere in pericolo la tenuta del siste-
ma istituzionale. L’inondazione di je suis Paris e je n’ai pas peur testimoniano di
una reazione sana della popolazione non solo francese, ma anche musulmana
residente in Europa. In realtà è solo il concetto americano di terrorismo, quello
del Patriot Act, che espande a dismisura la tipologia e l’intenzionalità di atti che
possono essere considerati come «terrorismo». Nella tradizione giuridica e cultu-
rale dei paesi europei una tale impostazione è difficilmente ricevibile, se non
imponendola con lo stato di eccezione. Finanche il modello di common law bri-
tannico ha creato solo dei limitati casi di eccezione alla legge ordinaria, mentre
la maggior parte del lavoro è svolto attraverso le attività delle agenzie di sicurez-
za e dell’antiterrorismo 14.
Inoltre, vige comunque il principio generale della proporzionalità della rea-
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zione rispetto all’attacco subìto. La dichiarazione di Hollande («la Francia è in


guerra») e la decisione di incrementare i bombardamenti in Siria non sembra pro-
porzionata; ha tutte le caratteristiche della rappresaglia che, va ricordato, è un at-
to vietato dal diritto internazionale. Come altro si può descrivere un’azione di
estrema violenza compiuta sul territorio di un altro Stato contro una specifica co-
munità umana ivi residente, oppure l’esecuzione di raid paramilitari extragiudi-
ziari che hanno per obiettivo soggetti di una specifica etnia o fede e in specifici

14. I casi di spionaggio di massa compiuti dalle agenzie britanniche per la sicurezza hanno genera-
178 to una valanga di critiche e di reazioni delle popolazioni, ma anche di alcuni partiti politici.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

luoghi? Solo lo stato d’eccezione può permettere la violazione di princìpi fondan-


ti come la non discriminazione e la tutela della privacy e del domicilio.
In considerazione di tutto ciò ci si può chiedere se i fatti avvenuti in Francia
siano realmente atti di terrorismo, o invece rappresaglie per la decisione della
Francia di smarcarsi dalle tradizionali e insindacabili relazioni con certi Stati me-
diorientali e gruppi ad essi collegabili. Ciò chiarirebbe meglio perché «la Francia
è in guerra». Non risulta, infatti, che le altre decine di paesi che hanno subìto at-
tacchi terroristici con danni a cose e persone ben superiori a quelli francesi ab-
biano dichiarato di essere in guerra. Sul fatto che 130 innocenti siano morti as-
sassinati a Parigi non vi è dubbio. Sul movente di tale eccidio restano molte om-
bre. Sugli esecutori materiali poca chiarezza, ma nell’insieme sembrerebbe un
gruppo di una ventina di soggetti di calibro piuttosto basso, con un armamento
modesto e una logistica semplice. Sui mandanti c’è incertezza. Non si capisce
quale sarebbe l’obiettivo strategico per l’Is: farsi bombardare anche dalla Francia
non è un obiettivo sensato, neppure se astrusamente volesse provocare fratture
tra i paesi europei e occidentali.
Certo è che la reazione francese, con l’invio finanche della portaerei Charles
de Gaulle nel teatro delle operazioni, fa intravedere obiettivi ben diversi da quelli
enunciati dal presidente Hollande: sembra proprio che si voglia (finire di) di-
struggere la Siria con la scusa del terrorismo comandato dal «califfo» 15.

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15. «Shame on UN Security Council’s P-5 Members!», Indian Punchline, 21/11/2015. 179
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LA STRATEGIA DELLA PAURA

LA BATTAGLIA
DI PARIGI di Virgilio ILARI
Noi europei siamo pedine di un processo di demolizione degli Stati
creati nel dopoguerra. Abbiamo lasciato che si frantumassero gli
argini che ci proteggevano nella guerra fredda. Ripeteremo gli
errori degli americani e impareremo a vivere come gli israeliani.

1. D OPO MACHIAVELLI, MONTECUCCOLI E


Douhet, l’unico testo italiano di strategia noto all’estero è un film. Fin dal 2003 il
Pentagono considera La Battaglia di Algeri del comunista Gillo Pontecorvo –
apologeta del tirannicidio 1 – più pertinente e istruttivo del Manuale di guerriglia
di «Che» Guevara. Il 27 agosto 2003 la Direzione per le operazioni speciali e i
conflitti a bassa intensità del Pentagono dichiarò che il film era un’utile illustrazio-
ne dei problemi da affrontare in Iraq. Nell’invito ad assistere alla proiezione si
leggeva: «Come vincere una battaglia contro il terrorismo e perdere la guerra del-
le idee. Bambini sparano a bruciapelo ai soldati. Donne mettono bombe nei
caffé. All’improvviso l’intera popolazione araba insorge. Vi ricorda qualcosa? I
francesi hanno un piano. Funziona tatticamente, ma fallisce strategicamente. Per
capire perché, venite ad assistere a una rara proiezione di questo film». L’edizione
restaurata del film, rilasciata il 12 ottobre 2004 dalla Criterion Collection, è corre-
data da interviste a due ex consulenti del Pentagono per il controterrorismo, Ri-
chard A. Clarke e Michael A. Sheehan, che discutono il modo in cui guerriglia e
terrorismo sono rappresentati nel film, mentre i registi Spike Lee, Mira Nair, Julian
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Schnabel, Steven Soderbergh e Oliver Stone discutono la resa cinematografica.


La Battaglia di Algeri è uno di quei film che non si dimenticano e non per-
ché abbia vinto nel 1966 il Leone d’Oro al Festival di Venezia e infiammato la ge-
nerazione che da un quarto di secolo incarna l’«immaginazione al potere». Il film
nacque nel 1965 su proposta di Yacef Saadi (Yåsif Sa‘dø), uno dei capi militari del
Fronte di liberazione nazionale (Fln) ad Algeri, che ne fu anche produttore e atto-
re e che scelse il titolo (quelli inizialmente pensati da Pontecorvo erano: «Tu par-

1. Nel film Ogro, sull’attentato basco a Carrero Blanco, girato l’anno del rapimento e dell’uccisione
di Aldo Moro. 181
LA BATTAGLIA DI PARIGI

torirai con dolore» oppure «Nascita di una nazione»). Fu però il regista a imprimere
al film l’effetto drammatico e documentaristico di un cinegiornale, non solo giran-
dolo in bianco e nero e con una cinepresa da 16 mm, ma sgranando l’immagine,
specialmente in alcune scene. Tranne Jean Martin (nel ruolo del colonnello
Mathieu), tutti gli altri sono attori non professionisti (tra cui Ibråhøm Õaããåã nel
ruolo di Ali Lapointe; Yacef Saadi interpreta se stesso con il nome di «Ãa‘far»).
Il film racconta l’inizio della rivoluzione algerina, in particolare l’operazione
militare condotta dalla 10a Divisione paracadutisti comandata dal generale Massu,
per circoscrivere la ribellione e riprendere il controllo della Qaâaba. Un netto suc-
cesso militare, ma conseguito anche mediante la tortura e le esecuzioni extragiu-
diziali, come ha ammesso e rivelato il generale Aussaresses in un libro del 2001.
Pur apertamente schierato dalla parte algerina, il film rappresenta con equilibrio e
obiettività la strategia dei repressori e lo sdegno degli europei vittime degli atten-
tati terroristici, né tace il passato di delinquente e prosseneta dell’eroe algerino
(Ali Lapointe).
Nel film non ci sono «buoni» e «cattivi»; proprio per questo, c’è un’alta tensio-
ne morale. Tortura, esecuzioni, terrorismo sono raccontati come cruda cronaca,
sia dal punto di vista degli autori sia da quello delle vittime, segnalando allo spet-
tatore che la verità e la comprensione storica rappresentano, come la tragedia, un
ampliamento di coscienza e sono perciò eticamente superiori al pregiudizio ideo-
logico o moralistico. Lo spettatore vede che il comandante dei parà (il colonnello
Mathieu) e il capo dell’Fln (Ãa‘far) si confrontano senza odio, con reciproca sti-
ma; mentre i giornalisti (inclusi quelli comunisti) che contestano a entrambi i ri-
spettivi sporchi metodi sono presentati come ambigui o ipocriti. «Il punto non è
se dobbiamo o no usare la tortura: il punto è se l’Algeria deve o no restare fran-
cese», ribatte il colonnello. «I vostri bombardieri uccidono la nostra gente. Dateci i
vostri bombardieri e noi vi daremo i nostri cestini bomba», risponde il capo dell’-
Fln. Con suspense drammatica, lo spettatore vede le donne dell’Fln che si prepa-
rano per la loro missione di morte, stirandosi i capelli e truccandosi per confon-
dersi con le europee; passano i posti di blocco con la bomba nascosta nel pas-
seggino del figlio o depistata da un sorriso malizioso; scelgono le vittime al bar o
all’aeroporto. Queste ultime scene furono però tagliate nella versione proiettata in
Algeria, segno che il terrorismo era un problema anche per chi lo aveva impiega-
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to. Del resto, il vero innesco della guerra non fu la battaglia di Algeri (gennaio-ot-
tobre 1957) ma furono le stragi di Costantina del 20 agosto 1955 (123 vittime fran-
cesi e 7.500 algerine), iniziate da un esponente regionale dell’Fln per provocare
l’iperreazione francese e determinare così il punto di non ritorno.

2. Diversamente dalla strage di Charlie Hebdo, il massacro di Parigi del 13


novembre non è cieca vendetta di frustrazioni personali, ma un atto di guerra.
Manifesta non solo un’elevata capacità operativa, ma una visione strategica e una
determinazione politica ben superiore a quella dei primi attentati algerini di ses-
182 sant’anni fa, di cui l’Fln approfittò ma che non pianificò. E non perché sia stato
LA STRATEGIA DELLA PAURA

commesso con il kalashnikov anziché con cestini bomba, e da martiri maschi an-
ziché da donne partigiane. La differenza non sta nei dettagli tecnici, ma nella po-
sta in gioco.
Paradossalmente, l’Fln rappresentava la vera giustificazione e il compimen-
to della missione civilizzatrice che la Francia si era arrogata nel 1830. I suoi va-
lori erano quelli della Rivoluzione francese del 1789 e della Giovane Europa
mazziniana (con Garibaldi che ancora nelle sue Memorie si esaltava per il «gio-
vane romano» che aveva pugnalato il riformista Pellegrino Rossi): la nazione, la
democrazia e il socialismo, declinazioni non scindibili e non contrapponibili
della sovranità popolare. La vera chiave del film, nella prospettiva algerina,
non va cercata nelle scene che ci impressionano, quelle degli attentati, delle
torture e dell’intervista a Ãa‘far. Il passaggio che dà il senso politico e storico
alla guerra è invece quello del matrimonio rivoluzionario, il primo celebrato in
forma laica e da un rappresentante dell’Fln: un gesto che proclama la nuova le-
gittimità nata dalla lotta e la speranza di una nuova vita personale e comunita-
ria. Naturalmente questa era la visione della componente più nazionalista dell’-
Fln, non quella della fazione capeggiata da Ben Bella (Bin Billa), panaraba e
meno laica. Ma in definitiva la posta in gioco, in quella guerra, era l’indipen-
denza, la rivendicazione di un rapporto paritario e dignitoso con la Francia, per
la quale oltre centomila algerini erano coraggiosamente caduti e che aveva in-
segnato ai capi dell’Fln i valori per cui si battevano.
Combattuta esclusivamente con il terrorismo e la guerriglia, la guerra di libe-
razione nazionale provocò 400 mila vittime algerine e 32 mila francesi (inclusi
3.600 civili) e fu, come sempre accade, anche una duplice guerra civile, non solo
tra nazionalisti e collaborazionisti, ma anche tra le varie fazioni nazionaliste: tra i
200 mila algerini immigrati in Francia vi furono 4 mila morti e 12 mila feriti 2, con-
tro i 57 uccisi dalla polizia il 17 ottobre 1961 a Parigi. Ripetutamente sconfitti sul
campo e infine respinti in Marocco e Tunisia da un potente surge di oltre mezzo
milione di uomini, gli 8 mila superstiti dell’Fln resistettero abbastanza a lungo da
vincere la battaglia per conquistare i cuori e le menti. Non solo degli algerini, ma
della stessa opinione pubblica francese, logorando le risorse finanziarie e la deter-
minazione del governo nemico, isolato dagli alleati e sabotato dagli Stati Uniti, an-
che con l’attivo concorso della grande Italia democristiana di Enrico Mattei – che
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lo pagò con la vita. Fu lo stesso de Gaulle – salito al potere nel maggio 1958 in
reazione a un putsch militare capeggiato dal generale Salan e con il programma,
inizialmente condiviso dallo stesso Partito comunista, di salvare l’Algeria francese
– a volere il referendum che l’8 gennaio 1961 approvò l’autodeterminazione del-
l’Algeria, a reprimere il secondo putsch dei generali, ad aprire i negoziati segreti
con il governo provvisorio della Repubblica Algerina che condussero all’indipen-
denza e, infine, a stroncare la resistenza dell’Oas (Organizzazione armata segreta),

2. B. STORA, Les Immigrés algériens en France: une histoire politique, 1912 à 1962, Paris 2009, Ha-
chette Littérature/Pluriel. 183
LA BATTAGLIA DI PARIGI

appoggiata da una parte del milione di europei immigrati in Algeria (i pieds


noirs). Amnistiati nel 1968, i generali golpisti furono riabilitati nel 1982, ma il ri-
cordo della «sale guerre» non ha cessato d’inquietare il presente.
La risposta francese alla guerra di liberazione non fu soltanto l’efficace con-
troinsurrezione militare e il disastroso controterrorismo dei coloni europei. Vi fu
pure un tentativo di recuperare il consenso della popolazione, facendo appello
alla tradizione religiosa musulmana per contrastare il proselitismo dell’Fln. Il con-
senso algerino alla Francia non venne mai del tutto meno, se si pensa che il rap-
porto tra i combattenti dell’Fln e i collaborazionisti algerini (harki, õarakø, pl: õa-
rakiyyûn) fu di 1 a 5. Dopo l’indipendenza, la Francia abbandonò i collaborazio-
nisti alla vendetta dei nazionalisti, una «responsabilité historique» formalmente e
ipocritamente riconosciuta da Sarkozy il 14 aprile 2012 di fronte agli 800 mila di-
scendenti degli harki che poterono rifugiarsi in Francia. Vituperati per decenni
dalla gauche, per loro le cose cambiarono solo dopo l’11 settembre: la Giornata
della riconoscenza nazionale dei franco-musulmans rapatriés fu infatti istituita
da Chirac 14 giorni più tardi 3. Una riconoscenza pelosa, perché, lungi dal favori-
re una presa di coscienza e un’assunzione di responsabilità, preludeva all’autori-
conoscimento del rôle positif de la présence française à l’étranger (ruolo positivo
della presenza francese all’estero) sancito dall’articolo 4 della controversa legge
sul colonialismo del 23 febbraio 2005. L’esatto contrario della salutare «decoloniz-
zazione della memoria» auspicata nel 1981 da Paul Ricoeur e che non può limi-
tarsi alla repentance per le stragi, manifestata da Sarkozy nel discorso di Costanti-
na del 5 ottobre 2007.
D’altra parte, la vittoria dell’Fln non metteva in questione, ma semmai raffor-
zava, il legame geoeconomico e strategico con la Francia 4. Nel 1991, invece,
quando il trasferimento del consenso popolare al Fronte islamico di salvezza
(Fis) minacciò il vitale gasdotto, le democrazie occidentali sostennero l’annulla-
mento del primo turno elettorale vinto dagli islamisti, il colpo di Stato militare e
la repressione della sanguinaria rivolta terroristica con gli stessi metodi usati qua-
rant’anni prima dai francesi 5.
Con la strage di Parigi, lo Stato Islamico mira invece – come sessant’anni fa
l’Fln a Costantina – a esasperare ulteriormente l’islamofobia6, sfruttata certo dal
populismo, ma seminata e coltivata dal fondamentalismo laicista, giunto, in no-
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me della tolleranza (sic), all’espulsione dall’università delle studentesse che in-


dossano lo õiãåb 7.

3. R. PIERRET, Les Filles et fils de harkis: Entre double rejet et triple appartenance, Paris 2008, L’Har-
mattan; V. CRAPANZANO, The Harkis: The Wounds that Never Heal, Chicago 2011, University of Chica-
go Press.
4. S.A. DENDANE, Déclin et renouveau: Algérie 1962-2007, Paris 2008, Publibook.
5. Si vedano le confessioni del colonnello algerino H. SOUAÏDIA, La sale guerre, Paris 2001, La Dé-
couverte.
6. T. DELTOMBE, L’Islam imaginaire: La construction médiatique de l’islamophobie en France, 1975-
2005, Paris 2013, La Découverte.
7. J.A. SELBY, Questioning French Secularism: Gender Politics and Islam in a Parisian Suburb, New
184 York 2012, Palgrave Macmillan.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

3. Ricordate la «trappola afghana» di Jimmy Carter rivendicata da Zbigniew


Brzezinski nell’intervista del 15 gennaio 1998 al Nouvel Observateur ? All’epoca, i
futuri islamo-fascisti erano freedom fighters contro il governo laico sostenuto dai
sovietici, che aveva intrapreso – con patriottismo, determinazione e successo ben
maggiori di quanto abbia poi fatto la Nato – la modernizzazione dell’Afghani-
stan 8. L’intervento anglo-americano per abbattere e sradicare i regimi baatisti in
Iraq, Libia e Siria e rinfocolare le identità e gli odi tribali e interreligiosi è stato
supportato in modo più o meno convinto dall’intera Europa, Italia e Germania
incluse. Le teorie etico-giuridiche, con tanto di imprimatur apostolico – «respon-
sibility to protect», «dovere di ingerenza umanitaria», «esportazione della democra-
zia», «nation building», «stabilizzazione» – hanno ipocritamente mistificato il nostro
concorso alla deliberata demolizione degli Stati nazionali costruiti nei Balcani 9, in
Medio Oriente e in parte dell’Africa fra il 1945 e il 1960. Indipendenze che erano
state favorite soprattutto nel nostro interesse, per consentirci di liberarci dalle co-
lonie, ma che hanno partorito entità spesso artificiali, deboli e corrotte – proprio
per questo più funzionali ai nostri interessi e comunque compartecipi della no-
stra razionalità.
Come avvenuto dopo la strage di Charlie Hebdo, la reazione emotiva al nuo-
vo massacro di Parigi contribuirà a ottundere, nell’Europa comunitaria, la com-
prensione del processo storico di cui siamo pedine passive e di cui non osiamo
nemmeno nominare gli strapotenti attori. Ma la cecità non è un’esimente. Abbia-
mo lasciato che altre forze, nel loro esclusivo interesse, distruggessero gli argini,
anche giuridici, che ci hanno protetti durante la guerra fredda. Alla strategia del
caos abbiamo pure cooperato tutti, più o meno attivamente, senza mai ricono-
scere, discutere e correggere gli errori.
Vero: il 13/11 è il 9/11 dell’Europa. Perciò imiteremo gli americani, reagendo
nel modo peggiore per noi e migliore per il «nemico», un camaleonte che i nostri
governi pensavano di conoscere e di poter pilotare. Tra un mese dimentichere-
mo, disinteressandoci degli ulteriori errori che i nostri governi commetteranno
tanto per fare qualcosa. E intanto il veleno continuerà a corrodere la coesione
sociale. Assuefacendoci a vivere in modo sempre più simile a quello in cui gli
israeliani vivono da settant’anni.
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8. E. GOULD, P. FITZGERALD, Crossing Zero: The AfPak War as the Turning Point of the American Em-
pire, San Francisco 2013, City Lights Books.
9. T. ALI (a cura di), Masters of the Universe? NATO’s Balkan Crusade, London-New York 2000, Ver-
so; D. JOHNSTONE, Fools’ Crusade: Yugoslavia, Nato, and Western Delusions, New York 2003, New
York University Press. 185
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LA STRATEGIA
DELLA PAURA

Parte III
la FRANCIA
in GUERRA CAMBIA
l’ EUROPA
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LA STRATEGIA DELLA PAURA

REQUIEM
PER SCHENGEN di Fabrizio MARONTA
Con pericolo jihadista e flussi migratori avremo a che fare a lungo.
Chiudere ognuno le proprie frontiere per frenarli sposta indietro le
lancette dell’integrazione. A rischio la libera circolazione di persone
e cose, la lenta ripresa economica e il peso geopolitico dell’Europa.

1. ÈGIÀ ABBASTANZA PENOSO FARE LA CONTA


delle vittime. Non vorremmo che in futuro i libri di storia indicassero nei barbari
attentati di Parigi anche il colpo mortale a una realtà ormai così consolidata da
essere data per scontata: il mercato unico europeo. Che di questa Europa econo-
micamente interdipendente e (ancora) politicamente acefala non è un orpello,
ma la colonna portante. E che già prima del 13 novembre vedeva insidiato uno
dei suoi presupposti fondamentali: il libero movimento delle persone.
A tempi eccezionali, misure eccezionali. Fa quindi notizia, ma non stupisce,
che nel pieno della caccia agli altri componenti della cellula omicida parigina la
Francia abbia decretato la temporanea sospensione del Trattato di Schengen, il
quale dalla sua entrata in vigore (1995) ha pressoché eliminato i controlli alle
frontiere interne dell’Unione. Il presidente della Commissione europea Jean-Clau-
de Junker si è affrettato a sottolineare che la misura «è una possibilità esplicita-
mente prevista e regolata» dal trattato, che consente appunto a un paese di ripri-
stinare i controlli ai propri confini per un periodo limitato in caso di «circostanze
eccezionali» 1. È vero, e non è la prima volta che succede. Il problema sta nella
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natura delle circostanze.


La maggior parte delle sospensioni è avvenuta sinora in relazione a eventi
specifici (vertici internazionali, manifestazioni sportive) cui ormai da anni è asso-
ciato il rischio di gravi disordini pubblici e che quindi richiedono l’adozione di
misure inconsuete. Così l’Austria ha sospeso Schengen per circa un mese nell’e-
state 2008, durante gli Europei di calcio; la Germania lo ha fatto tra maggio e
giugno 2015, durante il G7 di Garmisch-Partenkirchen; l’Italia nel luglio 2001, per

1. G. PELOSI, «Juncker: «Sospensione di Schengen prevista dal Trattato, non confondere terroristi e ri-
fugiati»», Il Sole 24 Ore, 15/11/2014. 189
REQUIEM PER SCHENGEN

il G8 di Genova (che peraltro è andato come è andato) e nell’estate 2009, per


quello dell’Aquila; mentre la Polonia ha sospeso il trattato per gli Europei del
2012 e ancora nel novembre 2013, in occasione della conferenza sul clima svol-
tasi a Varsavia.
Per il dizionario Treccani è eccezionale ciò che «deroga alla norma ordinaria,
talora per un tempo determinato»; qualcosa di «straordinario, singolare, insolito»,
in presenza di «particolari e gravi circostanze». Di certo lo sono un’azione terrori-
stica e le esigenze investigative che essa comporta. Ecco dunque la Francia so-
spendere Schengen nel 2005, a seguito degli attentati di Londra; e la Norvegia
(che non fa parte dell’Ue, ma è associata al regime di libera circolazione) nel lu-
glio 2011, successivamente agli attentati perpetrati a Oslo e sull’isola di Utøya dal-
l’estremista xenofobo Anders Breivik. Fino, appunto, alla sospensione odierna.
Il punto è se ha senso parlare di eccezionalità in presenza di situazioni per-
manenti. Non è solo una questione semantica. È un nodo squisitamente politico.
Schengen è stato riformato all’unanimità nel 2012, introducendo una clausola che
dilata a sei mesi (prorogabili per altri sei) la possibilità per uno o più Stati di ri-
pristinare controlli alle frontiere interne. Alla decisione si arrivò dopo che, nel
2011, un’Italia alle prese con l’ondata migratoria prodotta dalla guerra di Libia
aveva concesso ai nuovi arrivati un permesso di soggiorno di sei mesi, con con-
seguente possibilità di muoversi nell’area Schengen. La Francia si era opposta e
aveva chiuso la frontiera di Ventimiglia. Quello stesso anno la Danimarca, for-
malmente esclusa dalla zona di libera circolazione ma di fatto in essa integrata,
reintroduceva permanentemente i controlli alle proprie frontiere terrestri e marit-
time, per contrastare il crimine transfrontaliero.
A settembre di quest’anno, infine, il ministro dell’Interno tedesco Thomas de
Maizère annuncia il ripristino dei controlli alla frontiera con l’Austria, denuncian-
do il «fallimento completo» dell’Ue nel proteggere i suoi confini esterni e specifi-
cando che la misura, pur riguardando il tratto austro-tedesco, ha inevitabili riper-
cussioni sul resto del perimetro nazionale 2. E oltre: quasi contemporaneamente
la provincia autonoma di Bolzano emana un comunicato ufficiale in cui si infor-
ma che, su «richiesta d’aiuto» della Baviera e d’accordo con il governo italiano, si
ripristinano i controlli al confine con l’Austria 3.
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2. L’immigrazione di massa, ci piaccia o meno, non è una circostanza ecce-


zionale. È una realtà con cui il cosiddetto primo mondo dovrà convivere a lungo,
perché ha cause strutturali (demografia, squilibri economici) non meno potenti
di quelle contingenti (guerre, instabilità, persecuzioni). Lo stesso vale, purtroppo,
per il rischio terroristico e per le attività criminali, grandi e piccole, a esso varia-
mente collegate (si veda al riguardo l’intervista a Louise Shelley pubblicata in

2. I. TRAYNOR, «Germany Border Crackdown Deals Blow to Schengen System», The Guardian,
13/9/2015.
3. T. DURDEN, «Italy Is “Willing to Temporarily Suspend Schengen” in Response to Refugee Crisis»,
190 Zero Edge, 2/9/2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

questo volume). Se concordiamo sul fatto che tali fenomeni giustifichino sospen-
sioni ripetute e prolungate del regime di libera circolazione, è tale regime a esse-
re messo in discussione. E con esso il tipo di unione che siamo andati faticosa-
mente costruendo.
Le voci che reclamano una marcia indietro stanno diventando un coro assor-
dante, complice un pericoloso effetto domino che rischia di sfuggire di mano. La
decisione tedesca ha creato un «ingorgo migratorio» in Austria e in Ungheria:
quest’ultima, oltre a sigillare i suoi confini con Serbia e Croazia, ha introdotto il
reato di immigrazione clandestina e si è opposta fermamente al sistema di riparti-
zione (quote) pensato per alleviare la pressione sui principali paesi riceventi (Ita-
lia e Grecia) e sulla stessa Germania, che sinora ha accolto oltre un milione di
persone. Il cancelliere austriaco Werner Faymann, poi, ha accusato il governo
ungherese di «comportamento nazista»4 e ha inasprito i controlli al valico di Spiel-
feld con la Slovenia, mentre il ministro dell’Interno Johanna Mikl-Leitner ha la-
mentato che l’Austria è sopraffatta dai migranti perché «la Germania non ne acco-
glie abbastanza»5. Il primo ministro sloveno Miro Cerar ha replicato annunciando
la costruzione di una barriera al confine con la Croazia – da cui solo nelle due
settimane successive alla chiusura del confine croato-ungherese sono entrate ol-
tre 100 mila persone – e criticando fortemente Zagabria. Così mentre la Bulgaria
iniziava la costruzione del suo muro ai confini con la Turchia e mentre Romania
e Serbia minacciavano di fare altrettanto, con il greco Tsipras che denunciava
«l’incapacità dell’Europa di gestire questo dramma umano» 6, nella civile Scandina-
via volavano gli stracci, con Stoccolma che accusava la Danimarca di consentire
ai rifugiati di raggiungere la Svezia senza i documenti in regola. Dopo gli attenta-
ti di Parigi, anche l’accogliente paese nordico ha così sospeso Schengen.
Tra le prese di posizione più dure contro il sistema di quote spicca quella
della Polonia. Varsavia si guarda bene dal criticare Schengen, essendone uno dei
principali beneficiari, ma domenica 15 novembre il neoministro per gli Affari eu-
ropei Konrad Szymánski ha ammonito che «dopo gli attacchi di Parigi la Polonia
non può accettare il sistema di ripartizione dei migranti senza adeguate garanzie
di sicurezza» 7. Un sostanziale cambio di rotta, giunto all’indomani delle elezioni
che hanno visto il trionfo degli euroscettici di Diritto e giustizia (Pis). Pochi gior-
ni prima (30 settembre) la Slovacchia – che presiederà il Consiglio europeo da
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luglio a dicembre 2016 e in cui a marzo si vota per le politiche – aveva annun-
ciato, per bocca del premier Robert Fico, la sua intenzione di appellarsi alla Cor-
te di giustizia europea contro il piano di ripartizione dei profughi, dati gli «enor-
mi rischi di sicurezza connessi all’immigrazione» 8.

4. Ibidem.
5. E. GRAHAM-HARRISON, «Still the Refugees Are Coming, but in Europe the Barriers Are Rising», The
Guardian, 31/10/2015.
6. Ibidem.
7. «Poland Says Cannot Accept Migrants under EU Quotas after Paris Attacks», Reuters, 14/9/2015.
8. «Slovakia Pushes Ahead with Legal Action over EU Refugee Quotas», EurActiv, 1/10/2015. 191
REQUIEM PER SCHENGEN

La paura e le convenienze elettorali attenuano le differenze politiche e fanno


piombare l’Europa in una notte in cui tutte le vacche sono nere. Le parole del
socialista Fico potrebbero essere sottoscritte dal populista vicepremier ceco An-
drej Babiš («Siamo in guerra col terrorismo. Occorre sospendere Schengen» 9), o
dal leader dell’estrema destra olandese Geert Wilders («Primo ministro Rutte:
chiuda le frontiere dell’Olanda – ora! Protegga il popolo olandese!»), o dal leghi-
sta Matteo Salvini («Gli immigrati fuori controllo non aiutano la sicurezza. Ma se i
terroristi si rivelano di seconda, terza o quarta generazione è ancora peggio, per-
ché vuol dire che l’islam è incompatibile con la democrazia»), o ancora dalla
francese Marine Le Pen, per la quale «occorre ripristinare permanentemente i
controlli alle frontiere interne dell’Ue» 10.
Le Pen dà voce ai settori più xenofobi della società francese, ma l’indirizzo
del governo socialista di Hollande ha assunto, anche in tema di frontiere e mobi-
lità, un’impronta securitaria. Da dopo l’attacco a Charlie Hebdo – e ora più che
mai – la Francia preme per l’adozione immediata del controverso Passenger na-
me record (Pnr), un sistema di tracciamento degli spostamenti aerei (sia da fuori
che dentro l’Ue) sinora bloccato dai difensori della privacy perché giudicato con-
trario al Trattato di Lisbona. Parigi vuole anche incrementare l’uso del Sistema
informativo di Schengen, che incrocia i dati degli individui controllati alle frontie-
re con un vasto database di criminali, veicoli e passaporti rubati e altri dati.
Frattanto in Germania, il paese da cui più dipendono in questa fase storica il
clima e l’indirizzo politico dell’Unione, Angela Merkel è in serie difficoltà. L’arcigno
ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble ha ammonito sibillino che «uno sciatore
disattento (Angela Merkel, n.d.r.) rischia di provocare una valanga (di immigrati,
n.d.r.) quando si avventura sulla neve fresca» 11. Così facendo Schäuble ha voluto
mostrarsi solidale con la battaglia ingaggiata dal collega dell’Interno de Mazière
contro la politica delle porte aperte, dando contemporaneamente voce a un males-
sere sempre più diffuso tra i parlamentari dei partiti di coalizione (CDU e CSU).
Il tutto mentre il premier britannico David Cameron, nel tentativo di disinne-
scare il promesso referendum sul Brexit (l’uscita dall’Ue del Regno Unito, che
peraltro già non adotta Schengen) previsto per il 2017, si prepara a un duro ne-
goziato con Bruxelles per rivedere i termini di permanenza del paese nell’Unio-
ne, compreso lo spinoso capitolo dell’immigrazione dagli altri paesi europei. A
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essere messo in discussione, ancora una volta, è dunque il basilare principio del-
la «libera circolazione», ovvero il diritto delle persone di circolare e di soggiornare
liberamente nel territorio degli Stati membri.

3. Come se la tempesta non fosse già abbastanza forte, piove sul bagnato. La
spinta autarchica si inserisce in un quadro caratterizzato dal generale arretramen-

9. H. FOY, «Paris Attacks Fuel EU Immigration Debate», Financial Times, 14/11/2015.


10. P. TAYLOR, «Europe’s Populist Right Targets Migration after Paris Attacks», Reuters, 14/11/2015.
11. S. WAGSTYL, «Backclash over Refugees Leaves Angela Merkel Looking Vulnerable», Financial Ti-
192 mes, 13/11/2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

to del livello di integrazione finanziaria tra i paesi Ue e da una ripresa economica


quanto mai incerta, eredità avvelenate di questi anni di crisi.
Nel marzo 2013 un rapporto McKinsey 12 evidenziava che dal 2007 al 2012 i
flussi interbancari europei sono crollati di 3,7 trilioni (migliaia di miliardi) di dol-
lari, sostituiti in gran parte dalle iniezioni di liquidità della Banca centrale euro-
pea (Bce) e da un aumento dell’attività entro i patri confini, laddove dalle ban-
che salvate a spese del contribuente ci si aspetta che aumentino gli acquisti del
debito pubblico nazionale. In un rapporto 13 dello scorso luglio, la Bce sottoli-
nea che sebbene gli investimenti transnazionali privati siano tornati ad aumenta-
re, quelli in debito pubblico segnano il passo. «I flussi finanziari transfrontalieri
non sono tornati ai livelli pre-crisi; (…) il forte disinvestimento delle banche eu-
ropee dal debito spagnolo, italiano, greco e portoghese si è arrestato, ma la ten-
denza non si è invertita. Sia nei paesi debitori che nei creditori, i grandi investi-
tori restano fermi».
Nello stesso rapporto la Bce mette in risalto un’altra cruciale circostanza: in
un’unione monetaria i cui membri non possono più svalutare per rendere com-
petitive le proprie merci, gli spostamenti della forza lavoro rappresentano una
valvola di sfogo per le economie meno competitive, ovvero un aspetto delle co-
siddette «svalutazioni interne» (i cui indicatori più eclatanti sono la compressione
salariale e l’aumento della disoccupazione). Seppur ancora esigua rispetto a
realtà come gli Stati Uniti (dove quasi il 30% della popolazione in età da lavoro
vive in uno Stato diverso da quello di nascita), la mobilità intraeuropea (oggi pari
al 4% dell’intera forza lavoro, poco più di 2 milioni di persone) «è aumentata sen-
sibilmente in risposta agli shock economici dopo l’introduzione dell’euro». In par-
ticolare, «i flussi interni di cittadini sono aumentati molto durante la crisi. (…) I
dati disponibili indicano che la mobilità interna svolge un ruolo importante nel-
l’aggiustamento (delle economie nazionali, n.d.r.) post-crisi».
Che di tale aggiustamento vi sia acuto bisogno lo testimonia l’incertezza del-
la ripresa nel Vecchio Continente. In un articolo di luglio 14, l’ex presidente della
Riserva federale statunitense (Fed) Ben Bernanke indica nella debole performan-
ce complessiva dell’Eurozona e nei marcati, perduranti squilibri interni, i due sin-
tomi di una politica economica fallimentare. Se la disoccupazione media dell’Eu-
rozona (Germania esclusa) è del 13%, nella Bundesrepublik si attesta infatti sotto
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il 5%. Il presidente della Bce Mario Draghi ha recentemente sottolineato che l’Eu-
ropa sperimenta una ripresa economica diffusa, ma lenta. Una ripresa che, dopo
aver puntato tutto sulla competitività e sulle esportazioni in ossequio al modello
tedesco imposto attraverso le politiche di austerità, si trova ora a dipendere quasi
unicamente dalla domanda interna, essendosi fermato l’export verso i paesi

12. S. LUND, T. DARUVALA ET AL., Financial Globalization: Retreat or Reset?, McKinsey Global Institute,
marzo 2013.
13. Quarterly Report on the Euro Area, Commissione europea, vol. 14, n.1, luglio 2015.
14. B. BERNANKE, «Europe Has a Bigger Problem to Fix than Greece’s Debt», Business Insider,
17/7/2015. 193
194
FINL. Area Schengen
FORTEZZA EUROPA NORVEGIA
Paesi candidati
Stato Islamico SVEZIA Barriere costruite o in costruzione
EST.
Barriere in progetto
LETT. RUSSIA Barriere intorno ai passaggi di frontiera
DANIMARCA Muri intorno a Ceuta e Melilla
LIT. Paesi area Schengen che hanno
PA ripristinato i controlli alle frontiere
REQUIEM PER SCHENGEN

ES
IB
BE . BIELORUSSIA Rotta balcanica
Aree sotto controllo Is LG POLONIA
IO GERMANIA Rotta dei profughi siriani
Aree di sostegno Is in larga
parte desertiche e disabitate Calais LUSS. Isole di approdo dei profughi
UCRAINA e dei migranti
Campo migranti REP. CECA
”New Jungle” SLOV.
SVIZZ. AUSTRIA
UNGH.
FRANCIA ROMANIA
CROAZIA
ITALIA Mar Nero Mar
SPAGNA BULGARIA
PORTOGALLO Caspio
2.797 Salonicco

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Sardegna Lesbos
GRECIA
Mar Mediterraneo
142.400 673.916 ATENE Chios TURCHIA
Sicilia Samos
Ceuta 82
Lampedusa Agathonisi
(Spagna) MALTA
Melilla Kalymnos Simi SIRIA IRAN
2.870 Kos
(Spagna) TUNISIA
Tylos LIBANO
105 547
ISRAELE IRAQ
ALGERIA GIORD.
Tripolitania
ARABIA
SAUDITA ©Limes
L I B I A
EGITTO 142.400 2.870
Fezzan Cirenaica Numero di migranti e di profughi Numero di migranti e di profughi
arrivati in Europa attraverso scomparsi nello Stretto di Gibilterra,
la Spagna, l’Italia, Malta e la Grecia. nel Mar Mediterraneo e nel
MALI (periodo, gennaio-novembre 2015) Mar Egeo. (Periodo gennaio-novembre 2015)
Dati Unhcr aggiornati al 14/11/15 Dati Imo aggiornati al 14/11/15
LA STRATEGIA DELLA PAURA

emergenti, a loro volta colpiti dal rallentamento cinese. Come evidenziano i dati
Destatis, Insee e Istat usciti proprio il 13 novembre e relativi al terzo trimestre
2015, in nessuna delle tre maggiori economie europee – Germania, Francia e Ita-
lia – la domanda estera ha contribuito alla crescita del pil. Anzi, nel caso francese
il contributo è stato addirittura negativo (-0,5%) 15.
Per l’Italia (come per la Germania) pesano le sanzioni alla Russia. Nell’ultimo
anno (agosto 2014-agosto 2015) l’export italiano verso la Federazione Russa ha
perso infatti il 19%; nel secondo semestre del 2015, in particolare, il calo è stato
del 28,5%16. Ora, i rinnovati venti di guerra che spirano in Medio Oriente potreb-
bero compromettere ulteriormente l’interscambio commerciale tra l’Ue e i cosid-
detti paesi Enp-South (Algeria, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Libia, Marocco,
Palestina, Siria, Tunisia), dove ancora nel 2014 l’Italia figurava come secondo
esportatore (dopo la Francia) con 18,1 miliardi di euro, e come primo verso Liba-
no, Libia e Siria17.
A ricordare che la ripresa italiana è appesa a un filo ci ha pensato anche
Wolfgang Münchau sul Financial Times18. Dopo aver sottolineato che il pil italia-
no è tornato ai livelli del 2000 (una contrazione del 9% rispetto al 2008), l’ascol-
tato commentatore si dice scettico sulla «cura Renzi» per tre motivi: i dati Istat po-
co confortanti; la sostanziale insolvenza di molte banche medio-piccole, dato l’al-
to tasso di crediti in sofferenza (10%); le scelte politiche del governo, che privile-
giano il taglio a effetto delle tasse sulla casa rispetto a un’incisiva riforma di giu-
stizia e pubblica amministrazione (come attestano, al contrario, le dimissioni in
serie dei commissari alla spending review). Se nel 2016 la domanda aggregata
dovesse essere minore del previsto, le stime sul deficit italiano (2,2-2,4% del pil)
potrebbero rivelarsi troppo ottimistiche. La flessibilità sugli obiettivi di bilancio
faticosamente concordata con Bruxelles (l’obiettivo originale per il 2016 era un
deficit all’1,4%) andrebbe così a farsi benedire. Salvo non voler rubricare ogni ul-
teriore sforamento sotto la voce «spese militari e di sicurezza», momentaneamente
sottratte al patto di stabilità su pressione di Parigi.
In un momento come questo, di tutto abbiamo bisogno fuorché di gettare
alle ortiche quanto di più avanzato il processo d’integrazione europea abbia sa-
puto produrre sinora. Perché sarebbe economicamente dannoso. Perché potreb-
be risultare geopoliticamente esiziale per le sorti dell’Ue. E perché se cediamo le
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nostre sudate conquiste, avranno vinto loro.

15. M. FORTIS, «L’attentato che frena la ripresa», Il Sole 24 Ore, 15/11/2015.


16. «Il gelo commerciale», Rassegna Est, 18/10/2015.
17. M. FORTIS, art. cit.
18. W. MÜNCHAU, «Italy’s Recovery Is not What It Seems», Financial Times, 15/11/2015. 195
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LA STRATEGIA DELLA PAURA

DIECI TESI
SULLA GUERRA
E LA FRANCIA di Manlio GRAZIANO
L’errore di considerare L’Is uno Stato e di muovergli guerra.
I peculiari jihadisti di casa. Le tentazioni elettorali di Hollande. Le
derive razziste e crociate. L’imitazione degli Stati Uniti d’America
senza essere gli Stati Uniti d’America.

T AMBURI DI GUERRA. DOPO GLI ATTENTATI


di Parigi del 13 novembre son tornati a rullare i tamburi di guerra. Perfino il pa-
pa è caduto nella tentazione della facile metafora della «terza guerra mondiale»,
metafora che, tra l’altro era già entrata nel dibattito francese fin dall’inizio dell’in-
tervento russo in Siria. Se quella del papa sembra essere poco più che un’infelice
figura retorica, la proclamazione della guerra allo Stato Islamico da parte del pre-
sidente francese ha delle implicazioni geopolitiche molto più importanti.
François Hollande – e con lui tutta la classe politica e i media francesi – rico-
nosce agli assassini di Parigi una doppia legittimazione: di essere combattenti, e
di esserlo agli ordini di uno Stato. Il suo primo ministro, Manuel Valls, ha perfino
operato una svolta lessicale: fino al 13 novembre, Valls aveva insistito sul fatto
che il cosiddetto «Stato Islamico» non esiste, perché – diceva – non è né uno Sta-
to né è islamico; dopo il 13 novembre, il linguaggio è non solo mutato, ma si è
capovolto nel suo contrario. Vedremo più avanti di capire i perché di questo
cambio di marcia lessicale, e le sue implicazioni – in Francia e in Siria.
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Lo Stato e la guerra. È curioso che da più di vent’anni (accordi di Oslo) si di-


scuta della possibilità di vedere, un giorno, la nascita di uno Stato palestinese,
mentre la stessa qualifica di Stato è stata così rapidamente accreditata all’autopro-
clamato califfato di Abû Bakr al-Baôdådø. Eppure, il caso dell’Isis 1 è molto più si-
mile a quelli, per esempio, delle Farc in Colombia o dei cartelli della droga in
Messico, che controllano militarmente territori dai confini indefiniti e fluttuanti,

1. Useremo d’ora in poi questa sigla per mere ragioni di praticità. Il movimento di Abu Bakr al-
Baôdådø è anche noto come Isil, Stato Islamico (Is) e Då‘ish, che non è altro che l’acronimo arabo
di Isil. Fino agli attentati del 13 novembre, in Francia, solo l’estrema destra usava – per esteso – la
forma «Stato Islamico», mentre gli altri si riferivano a un meno espressivo Då‘ish. 197
DIECI TESI SULLA GUERRA E LA FRANCIA

senza essere rappresentati come Stato. Quello dell’Is si configura come il control-
lo provvisorio di un territorio da parte di un gruppo mafioso, che ha stabilito un
forte legame di protezione clientelare con una parte della popolazione di quello
stesso territorio.
La guerra c’è, effettivamente, ma non a Parigi: è una guerra per quel territo-
rio e in quel territorio, cioè quel pezzo di Grande Siria che va da Aleppo a Mo-
sul, passando per Raqqa; un territorio la cui storica continuità fu spezzata da bri-
tannici e francesi alla fine della prima guerra mondiale. Per quel territorio si stan-
no combattendo – direttamente o indirettamente – alcune potenze locali (Arabia
Saudita e Iran essenzialmente, con un ruolo importante della Turchia). E su quel
conflitto intervengono alcune grandi potenze (Russia, Francia e Stati Uniti princi-
palmente), affidandosi spesso ad attori locali che non dispongono di uno Stato, o
che dispongono solo di un residuo di Stato (il governo di Ba44år al-Asad, il go-
verno di Baghdad, i curdi, svariate milizie locali e, appunto, l’Isis).
Quegli attori locali ricevono aiuti e legittimazione dall’estero, sia da parte di
altri Stati che da parte di individui i quali, per ragioni diverse, abbandonano i lo-
ro paesi d’origine per raggiungere l’una o l’altra delle parti in conflitto (ci sono
volontari anche tra i peshmerga curdi).
L’Isis appare forte perché accumula più circostanze favorevoli: esiste in
grazia dello stato di deliquescenza in cui si trovano la Siria e l’Iraq, gode di ap-
poggi più o meno espliciti da parte di alcune potenze regionali, e mercanteggia
con tutti (secondo alcuni persino con il governo di al-Asad). Ma, soprattutto,
attira volontari dal mondo in quantità assolutamente incomparabili rispetto ai
suoi nemici, grazie, essenzialmente, alla sua ostentazione di una granitica iden-
tità religiosa.

Cafeteria islam. Molti teologi, musulmani e non, affermano che l’Isis usurpa
e insudicia la religione a cui pretende di richiamarsi. Ma ogni religione, ogni te-
sto sacro, può essere interpretato per affermare tutto e il suo contrario. Per cento
teologi secondo cui l’islam proibisce di uccidere gli innocenti, vi sono cento teo-
logi secondo cui tra gli infedeli non vi sono innocenti. Nel caso dell’islam sunni-
ta, l’assenza di un filtro clericale tra il fedele e il testo sacro moltiplica le interpre-
tazioni virtualmente per il numero stesso dei fedeli. E fa sì che ogni fedele scelga
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l’islam che più si confà alle proprie necessità, alle proprie aspettative e al proprio
temperamento. Non è il fedele che si adatta ai dettami della religione, ma è la re-
ligione che viene spiegazzata per adattarla ai bisogni del fedele.
Il successo dell’Isis sul piano delle motivazioni non può dunque essere fatto
risalire alla qualità più o meno pura della sua predicazione religiosa. Deve essere
fatto risalire alla sua capacità di trasmettere un messaggio rispondente alle esi-
genze spicciole di individui alla disperata ricerca di un’appartenenza identitaria
collettiva forte in cui annegare la propria vacuità identitaria personale.
L’aspirante tagliagole raggiunge l’Isis perché essenzialmente animato da
198 una sete di vendetta contro un mondo nel quale la sua esistenza è zero: è un
LA STRATEGIA DELLA PAURA

fallito paranoico, che ritiene gli altri colpevoli del suo fallimento e che si vuole
vendicare. La sua vita non vale nulla e quindi pensa che la vita degli altri non
valga nulla. L’Isis gli offre una giustificazione aureolata di santità: non solo po-
trai sfogare tutto il tuo furore distruttivo, ma lo potrai fare in nome di una cau-
sa santa. L’aspirante tagliagole, in particolare francese, è generalmente un so-
ciopatico, incapace di svolgere una qualunque attività, compresa la piccola ma-
novalanza delinquenziale; privo di pretesti religiosi, sarebbe rimasto un prepo-
tente ma insignificante teppista di strada. Molto più gratificante, per un fallito,
essere un combattente di una causa santa, piuttosto che un teppista marginale.
Uno specialista della materia, Sebastian Rotella, raccontava recentemente che
uno degli aspiranti tagliagole tornato dalla Siria si era così spiegato: «A me non
interessa l’islam; a me interessa il jihåd».

Quantità e qualità dei tagliagole francesi. Le cifre sembrerebbero dar ragio-


ne a chi sostiene che esista una specificità francese. Il numero dei francesi partiti
verso la Siria per arruolarsi nelle file dell’Isis è il più alto del mondo non musul-
mano in termini assoluti. Le cifre fornite da osservatori specializzati oscillano tra
700 e 1.200 persone; il ministro dell’Interno francese, Bernard Cazeneuve, parla-
va, a giugno di quest’anno, di 1.055 persone, di cui 457 effettivamente presenti
in Siria-Iraq 2. Tuttavia, in relazione alla popolazione, il Belgio (40 individui per
un milione di abitanti) e la Danimarca (27) sopravanzerebbero la Francia (26),
seguita a ruota dall’Australia (25). Cazeneuve stimava poi in 1.750 il numero di
persone implicate «in un modo o in un altro nelle filiere jihadiste», con una bru-
sca accelerazione dal febbraio 2013, quando erano soltanto 85.
Si tratta di cifre estremamente basse – sia in rapporto alla popolazione totale
(lo 0,0026%) che in rapporto al numero presunto di musulmani in Francia
(0,035%) 3 – ma anche di cifre estremamente in crescita (più di venti volte tra il
2013 e il 2105): 1.750 persone rappresentano un numero sufficiente a seminare il
caos in tutta la Francia. Ma 1.750 persone rappresentano anche un numero suffi-
cientemente ristretto da poter essere tenuto sotto costante sorveglianza dalle for-
ze di sicurezza. Quello che deve preoccupare non è il loro numero oggi, ma la
tendenza alla crescita (anche se non si può escludere che la repressione seguita
all’attentato possa portare a una sostanziale eradicazione del fenomeno).
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Oggi, quegli individui rappresentano un ristretto numero di disadattati ben


caratterizzati. Un’analista che si era occupata dei fratelli Kouachi, autori del mas-

2. La stima più bassa è proposta da The Economist, in un articolo del 30 agosto 2014, mettendo in-
sieme fonti diverse. La più alta risulta da un’inchiesta dell’International Centre for the Study of Radi-
calisation pubblicata il 26 gennaio 2015 («Foreign Fighters Total in Syria/Iraq Now Exceeds 20,000;
Surpasses Afghanistan Conflict in the 1980s»). I dati forniti dal ministro dell’Interno (457 in loco, più
320 in transito verso la Siria e 278 rientrati in Francia, senza contare i 521 «in attesa di partire») sono
riportati da Le Monde del 12 giugno 2015.
3. Le cifre reali sono indisponibili perché i sondaggi basati sulla confessione sono illegali in Francia.
Nonostante ciò, il ministero dell’Interno avanza un’ipotesi di cinque milioni, su cui ci siamo basati;
le stime di altre fonti oscillano tra i tre e i sette milioni. 199
DIECI TESI SULLA GUERRA E LA FRANCIA

sacro di Charlie Hebdo, ha dichiarato a France 24 di essere stupita che due per-
sone così debilitate mentalmente fossero riuscite a portare a termine quell’ope-
razione. In effetti i due, nel corso della loro azione, hanno sbagliato due volte
indirizzo degli uffici del giornale (prima il numero civico e poi il piano), uno
dei due ha perso una scarpa scappando, l’altro ha dimenticato la carta d’identità
in macchina, e nessuno si è preso cura di prevedere un rifugio per la fuga. L’al-
tro assassino, Ahmedi Coulibaly, intanto, invitava i suoi ostaggi ebrei al super-
mercato kosher a «tornare in Israele», mostrando di non avere la più pallida idea
del punto di vista arabo sulla situazione nel Vicino Oriente. All’atto di rivendica-
re gli attentati, gli uni hanno fatto riferimento ad al-Qå‘ida, l’altro all’Isis, nono-
stante che le loro azioni fossero certamente concertate. In aprile, l’aspirante at-
tentatore di Villejuif, Sid Ahmed Ghlam, si è sparato in una coscia prima di por-
tare a termine il suo attacco. Insomma, un’armata Brancaleone di incapaci e di
ignoranti. La cui preparazione religiosa non può non far pensare a quella di due
giovanotti di Birmingham, Yusuf Sarwar e Mohammed Ahmed, che avevano or-
dinato su Amazon una copia di Islam for Dummies e di The Koran for Dummies
prima di partire per la Siria.

Apartheid made in France. Nessuno ha mai sostenuto che un cretino non


possa essere pericoloso solo perché cretino. I fratelli Kouachi e Ahmedi Couli-
baly lo hanno dimostrato. I cretini suscettibili di essere pericolosi, molto perico-
losi, necessitano un controllo psichiatrico e un controllo poliziesco. Ma non co-
stituiscono, di per sé, né un fenomeno sociale né un fenomeno politico. Un disa-
dattato cretino non è rappresentativo di tutti i disadattati, un disadattato cretino
musulmano non è rappresentativo di tutti i musulmani.
In Francia esiste certamente un problema di disadattamento sociale di un’in-
tera parte della popolazione. In un articolo pubblicato su questa rivista nel 2012
ricordavamo che, nel 2009, il 43% dei giovani attivi nelle 751 Zone urbane sensi-
bili (Zus, 4,4 milioni di abitanti, il 7% circa della popolazione francese) era disoc-
cupato e che, nell’insieme del paese, erano senza lavoro il 21% dei figli di immi-
grati africani e il 17% dei figli di maghrebini, più del doppio della media nazio-
nale. La situazione è lungi dall’essere stata sanata, se nel marzo scorso il primo
ministro ha dovuto annunciare sessanta misure per eliminare quelli che egli stes-
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so ha definito i «ghetti urbani» e l’«apartheid» di cui soffrono i loro abitanti.


Tuttavia è azzardato stabilire un nesso causale tra gli assassini e l’«apartheid». I
1.750 individui localizzati dal ministero dell’Interno rappresenterebbero lo 0,04%
dei 4,4 milioni che vivono nelle Zus. Però il calcolo è sbagliato, perché non tutti
vengono da lì: i terroristi di gennaio gravitavano attorno a una moschea del XIX
arrondissement di Parigi, in una zona non inclusa nelle Zus 4, e quelli del 13 no-
vembre avevano più legami con la banlieue di Bruxelles che con quella di Parigi.

4. Dal 1° gennaio 2015, le Zus sono state abolite e sostituite dai Quartiers prioritaires de la politique
200 de la ville (Qpv), con il raddoppio del numero dei «quartieri sensibili» (da 751 a 1.300).
LA STRATEGIA DELLA PAURA

Il 2005 prossimo venturo. Il vero rischio politico sta nel fatto che una parte
della popolazione francese, tenuta ai margini della società, potrebbe un giorno
entrare in ebollizione.
Non è solo un problema di «ghetti», di Zus, di Qpv o di qualsivoglia altro
acronimo amministrativo; è un problema più generale, di natura sociale, beninte-
so, ma anche politica e identitaria. Da alcuni anni è in corso in Francia una siste-
matica stigmatizzazione delle tradizioni e delle credenze dei cittadini di cultura
musulmana: dalle imposizioni vestimentarie si è arrivati fino, in certi sporadici
ma significativi casi, al divieto del doppio menù nelle scuole elementari che ser-
vono carne di maiale. Alcuni politici – a dispetto del dogma della laicità – parla-
no ormai senza ritegno della Francia come di un paese «di tradizione cristiana», o
addirittura di «razza bianca». Insomma, dai francesi di tradizione musulmana si
esige un’incondizionata adesione a «valori» che qualcuno si sforza, al tempo stes-
so, di render loro sempre più estranei e, possibilmente, ostili.
Gli attentati di Londra del 2005 furono compiuti da cittadini britannici; dal
Belgio e dalla Danimarca partono proporzionalmente più volontari in Siria che
dalla Francia. Questi due esempi dimostrano che l’assimilazionismo formale fran-
cese (che fa corrispondere carta d’identità e identità) non procura necessaria-
mente più danni del multiculturalismo (per il quale ogni gruppo etnico e religio-
so è libero di coltivare le proprie tradizioni). Nel caso francese, tuttavia, occorre
tener conto di un’altra specificità: la piaga ancora aperta della guerra d’Algeria,
53 anni dopo la fine dei combattimenti. Un’identità è fatta non solo di interessi e
valori condivisi, ma anche di una storia condivisa. Se due (o più) categorie di
persone presenti in seno a uno stesso paese non condividono né interessi né va-
lori né storia, la possibilità stessa di una «comunità nazionale» sarà solo, nella mi-
gliore delle ipotesi, un pio desiderio e, nella peggiore, un randello politico per
gli uni e un incubo per gli altri.
L’aspirante tagliagole francese non è, oggi, un prodotto diretto di questa
realtà, ma, in questa realtà rischia di trovare un giorno un retroterra fertile. Tutti i
catechisti laici predicano incessantemente l’unione della comunità nazionale, ma
molte delle loro misure hanno come conseguenza – in certi casi voluta – la sua
frantumazione. Il rischio – e in certi casi lo scopo – è quello di alimentare le con-
dizioni per il ripetersi di una rivolta come quella del 2005: una jacquerie sotto-
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proletaria a carattere etnico e, se possibile, religioso. La profezia di chi campa


politicamente sulla stigmatizzazione dei musulmani si autorealizzerebbe, ma la
Francia entrerebbe in un ciclo di guerra civile, e si trasformerebbe, con tutta pro-
babilità, in un failed State.

La dichiarazione di guerra. Se l’aspirante tagliagole non è così ferrato da so-


spettare un nesso tra islam e jihåd, lo stesso non si può dire, o almeno si spera,
per François Hollande. Affermando di essere in guerra contro «un esercito di jiha-
disti», il presidente francese sa bene di riconoscere ai tagliagole lo status di belli-
geranti per la santa causa musulmana. Il suo primo ministro è andato oltre, met- 201
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DIECI TESI SULLA GUERRA E LA FRANCIA

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IL 13 NOVEMBRE
LA STRATEGIA DELLA PAURA

tendosi nella scia dei politici della destra francese che, dopo il 13 novembre,
hanno riscoperto l’urgenza semantica di accoppiare l’aggettivo «islamico» al so-
stantivo terrorista.
Si possono avanzare alcune ipotesi sulle ragioni di questa dichiarazione di
guerra, che non si escludono le une con le altre. La prima, e la più evidente, è
che François Hollande stia cercando di elevarsi al livello della Quinta Repubbli-
ca. L’idea di procedere a una riforma costituzionale tradisce in modo abbastanza
trasparente la speranza di controbilanciare una popolarità disastrosamente bassa
con ambizioni di taglio gollista. In questo tentativo di risalir la china giocano sia
le preoccupazioni elettorali sia la frustrazione personale di un uomo presentatosi
agli elettori come «presidente normale», per scoprire poi a suon di sondaggi cata-
strofici che la Quinta Repubblica aborre i presidenti normali come la natura
aborre il vuoto. Solo un clima da union sacrée, quale quello che si è creato dopo
gli attentati del 13 novembre, può consentire un tentativo del genere.
Una seconda ipotesi potrebbe riguardare l’indefessa volontà della Francia di
sottrarsi ai vincoli di bilancio europei. Già dopo gli attentati di gennaio il proget-
to di ristrutturazione militare – concepito per ridurre la spesa pubblica – era stato
ritirato; oggi, Hollande annuncia 600 milioni di spese supplementari affermando
che il «patto di sicurezza è più importante del patto di stabilità». Il presidente
francese sa bene che i margini di reazione dei guardiani delle stabilità, a Fran-
coforte, Bruxelles e Berlino, sono in questo frangente quantomai limitati. Insom-
ma, Draghi, Junker e Merkel non possono alzare troppo la voce con Hollande,
così come Sarkozy e Le Pen non lo possono fare in Francia. Il presidente france-
se non ha mai avuto margini di manovra così ampi né all’interno né all’estero.

La petite grandeur mediterranea. La terza ipotesi riguarda la necessità, per


un politico francese che voglia innalzarsi al rango di statista, di giocare la carta
della grandeur, dell’importanza della Francia nel mondo. Una politica estera atti-
va e bellicosa permette di titillare l’orgoglio dell’opinione pubblica in patria, ma,
al tempo stesso, permette di rallentare in qualche modo la tendenza alla perdita
di peso della Francia negli affari internazionali.
In termini geopolitici generali, la Francia – fin dai tempi di Francesco I – ha
compensato i suoi rovesci in Europa con un supplemento di attivismo mediterra-
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neo. Dopo la riunificazione tedesca, nel 1990, Parigi ha definitivamente perso la


supremazia nel tandem con Berlino ed è stata quindi costretta a riproiettarsi a
sud. Dopo il fallimento del progetto dell’Unione mediterranea, colpito e affonda-
to proprio da Berlino, la Francia ha condotto una serie di operazioni militari a
raffica: in Libia, in Mali, nella Repubblica Centrafricana e, nel 2013, ci ha provato
anche in Siria, senza successo. Secondo il ministero della Difesa, vi sono più di 7
mila soldati francesi impegnati in operazioni militari all’estero, di cui la metà nel-
la banda «sahelo-sahariana» (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad), 900 nel-
la Repubblica Centrafricana, 350 nel golfo di Guinea, 900 in seno alla Finul in Li-
bano, 900 in Siria-Iraq e 570 nell’Oceano Indiano. 203
DIECI TESI SULLA GUERRA E LA FRANCIA

La Francia «gioca in casa» quando si tratta del suo ex impero coloniale africa-
no e in Libano. Ma inserendosi nelle crisi in Libia e in Siria, ha fatto delle sortite
fuori dal suo antico pré carré 5. Questo può voler dire solo due cose: o la Francia
è ridiventata così forte da potersi permettere di penetrare nelle sfere di influenza
altrui, oppure è così debole da fare sempre più come l’Italia, cioè approfittare di
tutti i varchi aperti dagli altri.
La caratteristica principale delle relazioni internazionali degli ultimi venticin-
que anni è il ripiego delle due superpotenze: brusco e catastrofico quello del-
l’Urss, graduale ma inesorabile quello degli Stati Uniti. Nei vuoti che si sono crea-
ti in Medio Oriente si sono gettati tutti: dalla Turchia all’Iran e all’Arabia Saudita,
persino il Qatar. Anche a Parigi si stanno cercando gli angoli morti per tentare di
trarre vantaggio da questa situazione.

Les liaisons dangereuses. Il fatto è che, come gli italiani sanno bene, il gioco
di rimessa – puntare più sulle debolezze altrui che sulla forza propria – paga po-
co e male: primo perché si tratta, appunto, di una debolezza contro un’altra debo-
lezza, per cui il risultato è aleatorio (vedi guerra in Libia); secondo, perché co-
stringe, e questo gli italiani lo sanno proprio bene, a cambiare alleanze in corso
d’opera, per seguire il flusso delle opportunità. In Siria, la Francia ha invocato l’at-
tacco contro al-Asad a fianco degli americani, poi si è unita alla «coalizione inter-
nazionale» contro l’Isis, poi si è platealmente schierata con l’Arabia Saudita nella
fase finale dei negoziati con l’Iran, in maggio, poi ha mandato 134 imprenditori (e
due ministri) in Iran in settembre, poi, nel giro di pochi giorni dopo gli attentati,
ha chiesto il coinvolgimento dell’Europa sulla base dell’articolo 42-7 dell’Ue, trat-
tandolo come l’articolo 5 della Nato, e infine ha stretto un’alleanza di fatto con la
Russia amica di al-Asad, magari con la speranza, en passant, di far infuriare gli
americani. Come si dice, la boucle est bouclée.
In politica, e in politica internazionale ancor di più, le liaisons sono sempre
dangereuses. Gli attentatori dell’11 settembre provenivano in maggioranza dall’A-
rabia Saudita ed erano protetti dai taliban, creature del Pakistan. Ma gli Stati Uniti
sono gli Stati Uniti, e l’accordo con l’Iran del luglio scorso potrebbe segnalare
che la vendetta è pur sempre un piatto che si mangia freddo. In febbraio, la
Francia ha reso omaggio al generale golpista egiziano ‘Abd al-Fattåõ al-Søsø – un
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Pinochet delle piramidi, che ha spinto alla clandestinità migliaia di attivisti islami-
ci – vendendogli 24 dei suoi Rafale (il finora invenduto aereo da caccia multiruo-
lo prodotto dalla Dassault); in maggio, ha assicurato il suo sostegno ai sauditi
nella guerra in Yemen e, negli stessi giorni, ha finalizzato la vendita di altri 24
Rafale al Qatar. L’11 novembre, due giorni prima degli attentati, il capo di Stato
maggiore dell’Aviazione degli Emirati Arabi Uniti ha annunciato che la trattativa
per l’acquisto di 63 Rafale era entrata nella fase finale.

5. Vero che la Siria è stata protettorato francese dal 1920 al 1945, come il Libano, ma dopo la fine
della guerra i legami con Damasco si sono distesi fino a sparire, mentre quelli con Beirut sono ri-
204 masti a lungo vivaci.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

Ovviamente, il governo francese è qualcosa di più che il piazzista di Serge


Dassault (tra l’altro proprietario del Figaro, acerrimo nemico di Hollande). Ma,
al di là della vendita dei Rafale e delle missioni imprenditoriali in Iran, che han-
no una loro coerenza, sembra giocare troppe carte contemporaneamente e di-
sordinatamente. Di certo, non può non sapere che l’Isis è una delle armi delle
potenze sunnite nella regione (essenzialmente Arabia Saudita, Turchia e Qatar)
contro l’espansionismo iraniano, anche se nessuna di esse è in grado di control-
lare l’Isis (e questo gli si sta già ritorcendo contro). Infilarsi in quella partita si-
gnifica entrare in un labirinto di nessi che può facilmente condurre a effetti non
previsti e non voluti.

Fare gli Stati Uniti senza essere gli Stati Uniti. Da ultimo: la Francia risponde
al terrorismo in casa propria con un’azione militare in Medio Oriente. In patria,
sta adottando il suo Patriot Act, comprensivo, a quanto pare, di una Guantanamo
francese. La nemesi dei più fieri oppositori a George W. Bush nel 2003 è crudele.
Il problema è che gli Stati Uniti, pur essendo gli Stati Uniti, nel 2003 hanno com-
binato un disastro. Voler fare gli Stati Uniti senza essere gli Stati Uniti non fa pro-
prio presagire nulla di buono.

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205
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LA STRATEGIA DELLA PAURA

L’ISLAMIZZAZIONE
DELL’(IN)SICUREZZA
NAZIONALE IN FRANCIA di Daniele SANTORO
L’equazione fra terrorismo e musulmani è frutto di decenni di
attentati. Tra le cause le scelte strategiche di Parigi, il fallimento
dell’assimilation e l’inadeguatezza delle pratiche antiterroristiche.
La differenza fra Charlie Hebdo e 13 novembre.
di Edoardo BALDARO e Silvia D’AMATO

M
Con questo titolo l’antropologa francese Dounia Bouzar ci ricorda il pericolo di
ONSIEUR ISLAM N’EXISTE PAS 1.

«islamizzare» ogni dibattito sulle questioni di cittadinanza, partecipazione politica


e rapporti personali dei giovani musulmani francesi. Il rischio è rinchiudere que-
ste persone dentro predeterminate categorie comportamentali e rafforzare il loro
stesso senso di appartenenza e autoinclusione in un «mondo islamico» del tutto
presunto. Una simile dinamica, purtroppo, sembra affermarsi in Francia anche
nel settore della sicurezza. L’islamizzazione dell’(in)sicurezza nazionale transalpi-
na, tuttavia, non è nuova. La Métropole ha vissuto sulla sua pelle decenni di sfi-
de, confronti militari e accordi politici con gruppi appartenenti a quella che oggi
definiamo la categoria del «terrorismo islamico». Ma come si è evoluto il rapporto
tra Francia e islam nell’ottica terroristica? Quando sono nate le prime forme di
opposizione e violenza politica contro il paese della libertà, dell’uguaglianza e
della fratellanza? Quali contraddizioni si nascondono dietro questo rapporto
identitario, culminato tragicamente negli eventi di Parigi del 13 novembre, ma
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evolutosi durante quasi un secolo?

Dall’islam importato all’islam di Francia?


Il primo vero incontro della Francia con il «mondo islamico» risale alle spedi-
zioni napoleoniche in Egitto del 1798. È la prima occasione in cui le élite francesi
si occupano di studiare, capire e rappresentare un «islam popolare» che fosse ac-
cessibile, principalmente attraverso l’arte e la letteratura, al grande pubblico fran-

1. D. BOUZAR, Monsieur Islam n’existe pas, Paris 2004, Hachette Litt. 207
L’ISLAMIZZAZIONE DELL’(IN)SICUREZZA NAZIONALE IN FRANCIA

cese. Sono anche gli anni cui Edward Said fa riferimento quando parla della pri-
ma ondata di orientalismo 2. Un islam semplificato, positivamente caricaturato e
affascinante. Soprattutto, un islam lontano.
È l’esperienza coloniale che forza la Francia a pensare quale spazio concede-
re alle rappresentanze religiose. La soluzione è l’assimilation, la promessa di com-
pleta uguaglianza per gli individui civilizzati «capaci» di riconoscersi nel patto re-
pubblicano. Un modello la cui eredità si ritrova ancora oggi, nonostante mostras-
se le sue crepe già nei primi anni Venti, in molti aspetti della cultura francese.
La vera sfida sul territorio francese si presenta con la fine della seconda
guerra mondiale e con il boom economico bisognoso di manodopera. Masse di
lavoratori maghrebini, principalmente dall’Algeria, si stabiliscono in Francia, ma
con l’idea di fare ritorno nella madrepatria, prospettiva che mette temporanea-
mente fra parentesi le istanze di carattere religioso. La musica cambia nel 1965,
quando viene concesso il diritto di ricongiungimento familiare: durante la prima
metà degli anni Settanta iniziano i primi movimenti associativi a connotazione re-
ligiosa, principalmente di natura sindacale. A inizio anni Ottanta sono invece i
giovani a proporre nuove forme di associazionismo, basate principalmente su un
attivismo di quartiere (la successiva popolarità del pensiero di Tariq Ramadan 3
ne è un esempio). Il 1981 rappresenta un momento di svolta. È l’anno in cui vie-
ne riconosciuto il diritto per gli stranieri di riunirsi pubblicamente in associazioni.
In pochi anni si concretizzano, così, le domande di riconoscimento istituzionale
a carattere religioso.
Il tipico approccio centralizzatore francese spinge il governo a formulare ini-
ziative dall’alto per «organizzare l’organizzazione dell’islam». Sull’onda di una se-
rie di eventi internazionali, come l’affaire Rushdie e la progressiva presa di pote-
re del Fis (Fronte islamico di salvezza) in Algeria, si organizza nel 1990 il primo
Consiglio di riflessione sull’islam di Francia (Corif). È poi il futuro presidente Ni-
cholas Sarkozy, allora in veste di ministro dell’Interno, a proseguire tale cammino
sino alla fondazione nel 2003 del Consiglio francese del culto musulmano (Cfcm)
– non un’istituzione religiosa, ma un’entità incaricata di interloquire con l’autorità
francese sulle questioni di «interesse musulmano». Come interpretare la rappre-
sentanza riconosciuta tramite questo organismo? Nonostante il Cfcm rivendichi di
parlare a nome di circa 3,5 milioni di fedeli francesi, questa rappresentatività è
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però fittizia, in virtù dell’intrinseca eterogeneità dell’islam e delle significative dif-


ferenze nel rapporto dei musulmani con la loro religione, molto diverso dal più
uniforme cattolicesimo.

2. E. SAID, Orientalismo, Milano 1991, Feltrinelli.


3. Pensatore e accademico svizzero, Tariq Ramadan è la figura di spicco di una delle più diffuse
correnti di pensiero fra i giovani musulmani durante gli anni Novanta. In particolare Ramadan si è
fatto portatore di un islam impegnato nelle società europee. Ha spesso invitato i giovani a essere at-
tivi non solo nell’ambito della religione, ma più generalmente rispetto a questioni di natura sociale
e politica, in modo da liberarsi dell’immagine di «stranieri» e divenire cittadini attivi della società in
208 cui sono nati e cresciuti.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

Tuttavia, lo sguardo comunitarista di Sarkozy sostiene con forza la necessità


di un interlocutore unico: «La mia idea è creare le condizioni per l’espressione di
un islam di Francia e non un islam in Francia. Vorrei che l’islam uscisse dalla
clandestinità, si sedesse alla tavola della Repubblica, senza che mai il fondamen-
talismo abbia il diritto di sedersi» 4.
Una riflessione sorge spontanea. È lampante la discrasia tra l’accusa di co-
munitarismo tipicamente rivolta ai musulmani e il continuo sforzo delle autorità
di ingabbiare la rappresentanza politica del popolo musulmano in un’unica orga-
nizzazione che poco ha a che vedere con le Camere di rappresentanza democra-
tica, ovvero Assemblea nazionale e Senato. «L’islam di Francia» à la Sarkozy, pro-
tagonista di tutti gli anni Duemila, presenta almeno due problemi. Primo, crea un
eccezionalismo islamico rispetto alla laicità della Repubblica. Secondo, sempre in
virtù della religion laïcité, non ammette la presenza di parlamentari francesi aper-
tamente musulmani e democraticamente eletti su base nazionale proprio dall’in-
sieme dei cittadini francesi.

L’islamizzazione della guerra al terrorismo


La storia tra Francia e jihåd internazionale ha inizio ben prima che l’attacco
alle Torri Gemelle lo rendesse un tema e una sfida globale5. Esattamente come
avvenuto per la comunità musulmana, anche l’attenzione per un terrorismo di
matrice islamica in terra di Francia è la conseguenza di un lungo processo di in-
terazione tra politica interna e internazionale.
La società d’Oltralpe vive tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta e
Novanta un’ondata di attentati perfettamente riconducibili alle scelte strategiche
interne e internazionali compiute da Parigi negli anni precedenti 6. Nonostante le
proteste di molti suoi alleati – Stati Uniti in primis – la République aveva adottato
la «politica del santuario», accettando consapevolmente di divenire un porto fran-
co o quantomeno una terra d’accoglienza per oppositori politici e organizzazioni
(anche) terroristiche straniere, essenzialmente di origine mediorientale. In cam-
bio, questi avrebbero evitato di condurre azioni violente sul suolo francese. I
problemi per la Francia si manifestano però nel momento in cui il suo interventi-
smo in Medio Oriente inizia a scontrarsi con gli interessi degli sponsor dei gruppi
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

che essa aveva accolto sul suo territorio.


Il primo attentato avviene in rue Copernic a Parigi il 3 ottobre 1980 7, per
mano di una fazione interna all’Organizzazione per la liberazione della Palestina,

4. Discorso del 30 luglio 2002 presso il Senato della Repubblica francese in occasione della discus-
sione del progetto di legge di programmazione e orientamento della sicurezza interna.
5. Secondo alcuni osservatori, la prima esperienza di terrorismo islamico in Francia si sarebbe avuta nel
corso della guerra d’Algeria (1954-62). In realtà durante la sale guerre il fattore di conflitto verteva intor-
no all’identità nazionale e la vera posta in gioco era l’autodeterminazione politica del popolo algerino.
6. J. SHAPIRO, B. SUZAN, «The French Experience of Counter-Terrorism», Survival, 45, 1, 2013, pp. 67-98.
7. L’attentato, condotto con l’uso di un pacco bomba abbandonato davanti all’obiettivo, prese di mi-
ra una delle sinagoghe di Parigi e causò la morte di 4 persone e il ferimento di altre 11. 209
L’ISLAMIZZAZIONE DELL’(IN)SICUREZZA NAZIONALE IN FRANCIA

in risposta al contestato appoggio della Francia a Yasser Arafat 8. Di maggiore im-


patto è il 1986, quando non meno di 12 attacchi colpiscono Parigi fra febbraio a
settembre. Questa strategia del terrore è orchestrata da soggetti ben precisi: l’Iran
di Khomeini, la Siria di Õåfi‰ al-Asad e il loro alleato libanese Õizbullåh. Le ra-
gioni sono essenzialmente legate alla situazione internazionale: Teheran conduce
di fatto una guerra non dichiarata contro la Francia, nel tentativo di spezzare il
fortissimo legame, in termini di supporto economico e trasferimento di armi, che
il paese intrattiene con l’Iraq di Saddam, con cui l’Iran è in guerra ormai da sei
anni. Siria e Õizbullåh invece attaccano la Francia per il suo ruolo nel conflitto
civile che insanguina il Libano dal 1978.
Per quanto l’origine degli attentatori sia legata a regimi o gruppi ibridi che
professano più o meno ufficialmente un’ideologia ispirata al radicalismo islamico,
il dibattito pubblico non compie ancora la «fusione» tra terrorismo e islam. Le
cause degli attentati vengono giustamente individuate nelle scelte, di intervento e
di campo, operate in Medio Oriente dalla Francia. Un’analisi lucida e consapevo-
le, che avrebbe un suo valore anche oggi.
Il vero punto di svolta nell’equazione fra terrorismo e «islamisti» nel dibattito
pubblico francese si ha con la guerra civile algerina (1991-2002). Il conflitto, di
estrema complessità e violenza 9, si sviluppa in seguito al golpe con cui i generali
dell’esercito bloccano nel 1991 il processo elettorale – il primo libero e democrati-
co nella storia dell’Algeria – in cui avrebbe probabilmente vinto il Fronte islamico
di salvezza (Fis), partito d’ispirazione islamista capace di spezzare il monopolio
politico del Fronte di liberazione nazionale (Fln), consolidato fin dai tempi dell’in-
dipendenza.
Con l’inizio delle violenze nasce il braccio armato del Fis, il Gruppo islamico
armato (Gia). Tra i gruppi più intransigenti e violenti emersi nel corso dei dieci
anni di conflitto civile, il Gia è principalmente costituito da vecchi esperti del
jihåd, molti formatisi sui campi di battaglia afghani durante l’invasione sovietica,
e finanziati dalla stessa rete di cui faceva parte anche il giovane Osama bin La-
den. Divisioni interne, l’uccisione di diversi capi, ma probabilmente anche un’ac-
curata opera di infiltrazione dei servizi segreti algerini (Département du Rensei-
gnement et de la Sécurité), spingono il Gia verso una sanguinosa escalation di
radicalizzazione. Una volta spezzato ogni legame con i leader islamisti moderati,
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a metà anni Novanta il Gia dichiara takfør tutti coloro che – musulmani e non, ci-
vili o militari – non l’appoggiano apertamente. E decide di adottare una strategia
di «guerra totale» con stragi e attentati sul territorio nazionale e non solo.
Tra il 1994 e il 1996, anche la Francia, accusata di sostenere i militari golpisti,
diventa vittima delle operazioni del Gia. Diversi attentati, tra cui un dirottamento
aereo e alcune bombe nella metropolitana di Parigi, sconvolgono nuovamente il

8. M. KRAMER, D. CENTER, «France and Middle Eastern Terrorism», Terrorism and Political Violence, 2,
4, 2010, pp. 574-580.
9. In dieci anni, a seconda delle stime la guerra civile algerina ha causato tra le 60 mila e le 150 mi-
210 la vittime.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

paese. Questa volta, però, la reazione è diversa. Rispetto al decennio precedente, il


Gia è infatti un gruppo che agisce essenzialmente su basi ideologiche e religiose 10
e nella sua retorica l’islam radicale è l’elemento legittimante alla base del conflit-
to. L’ondata di repressione e arresti delle autorità francesi dopo gli attentati met-
te inoltre in luce come il Gia abbia goduto di una certa capacità di penetrazione
nei confronti di alcuni ambienti riconducibili alla «comunità musulmana» di Fran-
cia, in particolare presso i cittadini transalpini di seconda o terza generazione di
origini algerine.

L’islam dopo l’11 settembre: il bisogno di sicurezza e i suoi rischi


Nonostante l’esperienza decennale della Francia con il terrorismo di carattere
religioso, gli attacchi alle Torri Gemelle e il lancio della «global war on terror»
modificano il suo approccio con la sicurezza. I cambiamenti si materializzano
non tanto in termini d’innovazione legislativa o istituzionale, un arsenale già suf-
ficientemente adeguato, quanto piuttosto in quelle che Didier Bigo e Anastassi
Tsoukala chiamano «pratiche di sicurezza» 11.
Anzitutto, la Francia inizia ad attingere a una narrazione globale capace di
trasformare le insicurezze e i nemici di pochi Stati in un problema dell’umanità.
La normalizzazione e assimilazione della narrazione della «guerra al terrorismo»
permette poi di massimizzare pratiche restrittive, discriminatorie, troppo spesso
sproporzionate rispetto al livello di minaccia dei singoli individui o gruppi. Nu-
merose sono le denunce, tra cui l’eccellente rapporto del 2006 dell’International
Crisis Group 12 contro l’eccessiva parzialità della polizia francese: in nome della
sicurezza, per esempio, i leader delle varie comunità religiose musulmane vengo-
no posti sotto sorveglianza e i lavoratori musulmani, per essere assunti, sono
spesso soggetti a controlli preventivi 13.
Queste pratiche di sicurezza trovano nei giovani musulmani i loro principali
destinatari. La polizia stessa ammette di utilizzare criteri basati sulla provenienza
etnica e l’età per condurre interventi operativi. Nelle forme di violenza politica, i
giovani occupano senz’altro un ruolo importante. L’energia, il desiderio di affer-
mazione e la bassa considerazione del rischio fanno delle giovani generazioni
strumenti ideali per le strategie terroristiche. Basti considerare che negli attentati
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

10. O almeno cosi verrà percepito. Una possibile contronarrazione potrebbe far notare come le ac-
cuse mosse alla Francia di sostegno ai militari e al governo golpista algerini non fossero prive di
fondamento, rendendo il paese parte in causa nel conflitto. Spingendo ancora più in là il campo
delle ipotesi, se la strategia di delegittimazione interna e internazionale perseguita dalla Drs nei
confronti del Gia e di tutto il movimento islamista attraverso l’uso di infiltrati venisse confermata,
anche gli attentati condotti contro la Francia assumerebbero un significato diverso.
11. D. BIGO, A. TSOUKALA, Illiberal Practices of Liberal Regimes: The (In)security Games. A multilin-
gual Series, Paris 2006, L’Harmattan.
12. La France face à ses Musulmans: jihadisme et dépolitisation, International Crisis Group, Rapport
Europe 172, 2006.
13. Vedi «Islam in France», Euro-Islam: News and Analysis on Islam in Europe and North America,
disponibile su www.euro-islam.info/country-profiles/france 211
212
QUARTIERI DI FRANCIA FUORI CONTROLLO NORD
Lilla: Faubourg de Béthune,
59 Belfort, Moulins, L’Epi du Soleil
SEINE-MARITIME Roubaix: L’Alma-Gare,
59 NORD Tourcoing: La Bourgogne Le Havre: Montgaillard, La Forêt, Hommelet, Fosses-aux-Chênes, Cul du Four
Numero dipartimento/Nome dipartimento Mare Rouge, Bois de Bléville Tourcoing: La Bourgogne
Rouen, Les Hauts: Lombardie, 80 SOMME
Località/quartiere problematico Amiens: Quartier Nord
Le Châtelet, La Grand’Mare
76 OISE
60
VAL-D’OISE Creil, Les Hauts: Plateau Rouher,
Argenteuil: Le Val-d’Argent Les Cavées, Zac du Moulin
Garges-les-Gonesse: Dame Blanche, La Muette BAS-RHIN
Sarcelles: Les Lochères 67
PARIGI Strasburgo: Hautepierre, Neuhof
HAUTS-DE-SEINE ÎLE-DE-FRANCE
Gennevilliers: Le Luth
Nanterre: Pablo Picasso SEINE-SAINT-DENIS HAUT-RHIN
Aubervilliers: Les Quatre Chemins 68 Mulhouse, Boutzwiller: Brossolette,
Aulnay-sous-Bois: Les 3000 Les Coteaux
PARIGI Clichy-sous-Bois - Montfermeil:
18e: La Goutte d’Or – Barbès Le Grand Ensemble F R A N C I A
19e Flandre: Curial-Cambrai, 95 Epinay-sur-Seine: Orgemont
Riquet, Stalingrad 44
La Courneuve: Les 4000
93 Pierreftte-sur-Seine:
92 Les Poètes (Cité Rose) LOIRE ATLANTIQUE
75 Saint-Denis: Les Francs-Moisins Nantes, Saint-Herblain: Bellevue RHÔNE
L’ISLAMIZZAZIONE DELL’(IN)SICUREZZA NAZIONALE IN FRANCIA

VAL-DE-MARNE Saint-Ouen, Grand Ensemble: Vaulx-en-Velin: Mas du Taureau


94 Vénissieux: Les Minguettes

Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
Champigny- Arago, Cordon, 8 mai 1945, Soubise,
Dhalenne, Charles Schmidt, 69
sur-Marne:
Le Bois l’Abbé, Paul Vaillant – Zola ISÈRE
Mordacs 78 Sevran: Les Beaudottes Grenoble, Echirolles : La Villeneuve
91 Stains: Clos Saint-Lazare – Allende 38
Vitry-sur Seine: 77 (Arlequins, Baladins, Village olympique,
Balzac, Malherbe-Les Essarts, Surieux), Mistral
Marronniers HÉRAULT GARD
Montpellier: Nîmes: Zup Pissevin,
YVELINES Valdegour ALPES MARITIMES
La Paillade, L’Ariane
Les Mureaux: Hauts de Massane 06
Bougimonts, ESSONNE SEINE-ET-MARNE
Vigne Blanche, Meaux: Beauval, 30 84
Corbeil-Essonne:
Les Musiciens Les Tarterêts Pierre Collinet 31
Mantes-la-Jolie: 34 VAUCLUSE
Evry: Les Pyramides 13 Avignone: La Rocade,
Le Val Fourré Grigny: La Grande Borne,
Trappes: Barbière, Croix des Oiseaux,
Grigny 2 BOUCHES DU RHÔNE Monclar, Saint-Chamand
Les Merisiers Marsiglia 3e: Bellevue (Félix Pyat)
Marsiglia 11e: Bel-Air
HAUTE GARONNE Marsiglia 13e: Frais Vallon,
Toulouse, Le Grand Mirail: La Rose, Petit Séminaire
Tasso di povertà in percentuale (2012) Marsiglia 14e: Picon, La Busserine,
Reynerie, Bellefontaine, Faourette,
più del 20 dal 13 al 17 Bagatelle, Bordelongue Font Vert, Le Mail, Les Flamants, Iris
Marsiglia 15e: Bassens, La Castellane,
dal 17 al 20 dallo 0 al 13 La Bricarde, La Solidarité, Parc Kallisté
LA STRATEGIA DELLA PAURA

del luglio 2005 a Londra, i quattro attentatori avevano rispettivamente 19, 21, 23
e 29 anni. Risposte di antiterrorismo che garantiscano il dovuto peso a questo fe-
nomeno sono dunque fondamentali. Tuttavia, in molti considerano controprodu-
cente usare simili misure. Da una parte, l’attenzione rischia di focalizzarsi eccessi-
vamente sul tassello finale, l’anello operativo, perdendo di vista la complessità
della catena organizzativa. Dall’altra, queste pratiche rischiano di generare stig-
matizzazioni e di fomentare lo stesso fenomeno che intendono combattere 14.
La questione della gioventù musulmana, inoltre, si è manifestata con forza in
altre due dimensioni che vale la pena di menzionare: la conversione, spesso du-
rante periodi di detenzione, e la radicalizzazione tramite Internet e social network.
Come evidenzia il recente rapporto presentato alla Commissione Libe del
Parlamento europeo («Prevenire e contenere la radicalizzazione dei giovani nel-
l’Ue»), lo sviluppo di pensieri radicali in periodi di detenzione è un fatto certo.
Non si tratta, tuttavia, di una manifestazione nuova o legata prettamente all’estre-
mismo religioso, come dimostrano i casi degli attivisti Raf in Germania o dei
membri dell’Ira nord-irlandese. Inoltre, la conversione, come provano molti casi
empirici, sembra essere associata al malessere della vita in prigione. La ricerca
spirituale, quindi, pare più verosimilmente un tentativo di risposta e resistenza al
sistema penitenziario.
Lo stesso rapporto parla anche del «mito della autoradicalizzazione». Sebbene
le nuove tecnologie e la sempre più facile comunicazione transnazionale abbia-
no sicuramente un ruolo importante nelle scelte di propaganda, il loro ruolo nel
causare comportamenti violenti dovrebbe essere ridimensionato. Al contrario di
quanto sostenuto da molti esponenti politici, infatti, la comunicazione online non
sembra essere sufficiente a sviluppare una radicalizzazione violenta. Questa, in-
fatti, necessita di un’interazione umana fisica, oltre a una predisposizione partico-
lare dell’individuo.
Dunque, il fil rouge che unisce i tanti aspetti legati al terrorismo è la neces-
sità di reinserirli all’interno del contesto di socialità in cui emergono. È impossibi-
le comprendere questi fenomeni senza tenere in giusta considerazione il peso
delle relazioni sociali, positive o negative, che li costituiscono. Soffermarsi sulle
diverse sfaccettature permette anche di considerare il ruolo dei rapporti di potere
tra i diversi attori coinvolti. Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

Perché gli ‘islam’ di Charlie Hebdo e del 13 novembre sono diversi


Per far luce sulle differenze tra l’attentato a Charlie Hebdo e quelli del 13
novembre bisogna iniziare a decostruire e a mettere in discussione l’esistenza

14. Uno degli aspetti più problematici che l’insieme di questi report specializzati denuncia riguarda
la serie di «molestie» per i continui controlli di identità e i poteri di fermo e perquisizione (stop and
search) che colpiscono principalmente i giovani musulmani, si veda R. CAMILLERI, Impact of Counter-
Terrorism on Communities: France Background Report, London 2012, Institute for Strategic Dialo-
gue and Open Society Foundations. 213
L’ISLAMIZZAZIONE DELL’(IN)SICUREZZA NAZIONALE IN FRANCIA

I CRISTIANI IN FRANCIA
REGNO
UNITO

BELGIO
Lilla
GERMANIA
Amiens
LUSS.
Rouen

Caen Metz

PARIGI Strasburgo

Rennes
Orléans
Nantes Digione Besançon

SVIZZERA
F R A N C I A
Poitiers
AIN
Clermont-Ferrand
o Limoges
tic Lione
tl an ITALIA
no A
Ocea
Bordeaux

Montpellier
Toulouse
Marsiglia
o
ra ne
ed iter C o r s i c a
Mar M
Cattolici 80 - 100%
Ajaccio
Cattolici 50 - 79% SPAGNA
Maggioranza protestante

Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

G u a d a l u p a Saint-Denis
Cayenne
Fort-de-France
R i u n i on e G u y a na
M a r t i n i ca Fr a nc e s e

Basse-Terre

214 Brasile
LA STRATEGIA DELLA PAURA

stessa di un «terrorismo islamico». Un fenomeno che, come sottolinea Olivier


Roy 15, viene generalmente interpretato attraverso due letture contrastanti. La pri-
ma è quella secondo cui queste forme di violenza vengono considerate un’e-
spressione dell’estremismo religioso o come un tentativo di purificare un islam
ritenuto corrotto. Il Corano guiderebbe dunque i suoi fedeli più sinceri verso la
strada del jihåd. Come se ogni musulmano avesse dentro di sé un’imprescindi-
bile logica coranica che lo rende naturalmente incompatibile con i princìpi e le
norme liberali. A questa si oppone, invece, una seconda fazione che rinnega la
natura violenta dell’islam: il credo propugnato dai terroristi non sarebbe l’islam
della maggioranza dei musulmani e, forse, neppure una religione 16.
Secondo lo studioso delle religioni Reza Aslan, entrambe le posizioni sottova-
lutano il fatto che la religione è anzitutto una questione di affermazione e ricono-
scimento identitario dell’individuo, più che un sistema di credenze e comporta-
menti. Come tale, è estremamente complesso separarla dal resto delle sfaccettature
che fanno parte dell’autoconsapevolezza di una persona, come cultura, genere o
preferenze politiche. È erroneo pensare che le persone derivino i loro valori dalle
scritture o dai dettami religiosi. Sono piuttosto gli individui stessi a proiettare i pro-
pri valori e comportamenti nelle scritture. Un violento tenderà a trovare in esse la
giustificazione dei suoi comportamenti e a fare della sua religione una religione
violenta: «dopotutto, le scritture non hanno significato senza interpretazione» 17.
È dunque necessario insistere sulle differenze tra l’islam di Charlie Hebdo e
l’islam del 13 novembre. Prima di tutto, all’interno del nemico rappresentato dal
«terrorismo islamico» si nascondono decine di istanze diverse, di poteri decisiona-
li differenti che spesso hanno in comune solo qualche richiamo universalistico di
carattere pseudoreligioso. È, anzi, la competizione tra questi gruppi che spesso li
spinge a pianificare attacchi contro i paesi occidentali. Anche a causa della forte
risonanza garantita dai media che consente di assicurarsi una certa reputazione e
di rafforzare il loro «potere contrattuale».
Benché i due episodi terroristici parigini del 2015 sembrino entrambi spinti
dal desiderio dei mandanti di mostrare le proprie capacità al grande pubblico e
ai concorrenti, a prescindere dalla diversa intensità, essi lanciano due sfide diver-
se. Prettamente ideologica, nel caso di Charlie Hebdo, da parte della frangia ye-
menita di al-Qå‘ida, con il chiaro intento di sfruttare l’offesa satirica del giornale
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

per ribadire il rifiuto della subordinazione dell’islam in Francia e nel mondo. Più
operativa quella lanciata dallo Stato Islamico (Is), una risposta all’intervento fran-
cese in Siria.
Soprattutto, l’Is è molto diverso dal suo predecessore. Al-Qå‘ida nasceva in-
fatti dall’aggregazione di un network globale di combattenti recatisi in Afghani-

15. O. ROY, «La peur d’une communauté qui n’existe pas», Le Monde, 1/9/2015.
16. Per un’interessante e approfondita analisi sull’islam politico, si veda M. CAMPANINI, Oltre la demo-
crazia, Temi e problemi del pensiero islamico contemporaneo, Milano 2014, Mimesis.
17. R. ASLAN, «Bill Maher Isn’t the Only One Who Misunderstands Religion», The New York Times,
8/10/2014. 215
L’ISLAMIZZAZIONE DELL’(IN)SICUREZZA NAZIONALE IN FRANCIA

stan per combattere l’invasione sovietica. Il gruppo di bin Laden si concepiva


dunque subito come la guida (radicale) dei musulmani per la lotta globalizzata,
ma decentralizzata, contro gli oppressori mondiali. Pur formatosi anch’esso come
forma di resistenza a un’invasione – quella statunitense in Iraq nel 2003 – l’Is
possiede invece un’ineludibile dimensione territoriale. Il controllo del territorio è
uno degli aspetti chiave della banda di al-Baôdådø, che non è dunque un gruppo
terroristico, ma una compagine insurrezionale che usa una chiara, e finora effica-
ce, strategia di terrorismo18.
Con una quasi-forma di governo basato su una rigida interpretazione della
4arø‘a, l’Is si presenta come autorità politico-religiosa e militare di riferimento del
«mondo islamico», capace di rimodellare i confini imposti da secoli di ingerenza
occidentale. Ha una chiara struttura di potere, con un’amministrazione militare e
civile, tra i cui vertici si ritrovano ex ufficiali sunniti laici dell’esercito di Saddam
Hussein – destituito dagli americani, i quali hanno poi garantito il controllo delle
Forze armate irachene alla maggioranza sciita.
Indipendentemente da quanto «islamiche» siano queste due forme di jihadi-
smo, è comunque difficile comprendere i recenti attentati in Francia senza inserir-
li in una dinamica pluridecennale, non esclusivamente religiosa o nazionale, fatta
di azioni e reazioni da parte di diversi attori geopolitici. Il che rende i tentativi di
arginare questi fenomeni più difficilmente gestibili dalle sole autorità statuali.
Per almeno due decenni tra metà anni Novanta e 2015, la Francia è stata
sorprendentemente giudicata un ottimo esempio di strategia antiterroristica. Un
(pre)giudizio basatosi essenzialmente sull’assenza di attacchi sul suolo transal-
pino, nonostante la consapevolezza delle frustrazioni e dei malcontenti delle
comunità musulmane che le politiche nazionali o internazionali rischiavano di
sollevare. A prescindere dalle scelte effettuate in questi giorni e da quelle dei
prossimi mesi, è imperativo evitare di cadere nella trappola tesa dall’Is e scio-
gliere una volta per tutte l’equazione del «terrorismo islamico». È cruciale che
s’instauri un dibattito consapevole e profondo tra le élite e la società civile che
rifiuti l’enfatizzazione delle differenze e giochi piuttosto sulla massimizzazione
delle somiglianze.
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18. Numerosi studi sono stati fatti in merito, ma per un sintetico e interessante approfondimento si
veda A.K. CRONIN, «ISIS is not a Terrorist Group: Why Counterterrorism Won’t Stop the Latest Jihadist
216 Threat», Foreign Affairs, 94, 2, marzo-aprile 2015, pp. 87-98.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

NEL LABIRINTO
DELLE SPIE FRANCESI di Luca MAINOLDI
Le agenzie di intelligence della Quinta Repubblica sono troppe,
poco coordinate, tendenti a sovrapporre le proprie competenze.
Due riforme in cinque anni attendono di essere assorbite. Hollande
ricorre agli omicidi mirati. L’allarme del magistrato Trévidic.

1. G
LI ATTENTATI DEL 13 NOVEMBRE HANNO
colto la comunità di intelligence francese ancora una volta di sorpresa, dopo gli
attacchi di gennaio contro Charlie Hebdo e il minimarket Kosher. Come è possi-
bile che diverse squadre di terroristi ben armate e addestrate abbiano potuto col-
pire simultaneamente nel centro della capitale francese?
Eppure le autorità d’Oltralpe sapevano che la minaccia era reale. A fine
settembre Marc Trévidic, ex giudice antiterrorismo, in un’intervista «profetica» a
Paris Match affermava che Då‘i4 preparava «azioni di ampia portata» 1, aspiran-
do al «Prix Goncourt del terrorismo»: insomma un attentato di forte impatto
emotivo, paragonabile all’11 settembre. Così è avvenuto. Gli stessi servizi anti-
terrorismo francesi, dopo gli attacchi simultanei con prese di ostaggi in più luo-
ghi avvenuti nel 2008 a Mumbai, in India, avevano iniziato a pianificare rispo-
ste operative ad attacchi di questo genere. Nel 2009 si era svolta un’esercitazio-
ne antiterrorismo che prevedeva uno scenario simile a quello effettivamente
avvenuto a Parigi il 13 novembre: attacchi simultanei con kamikaze, sparatorie
in luoghi pubblici e centinaia di persone prese in ostaggio. La simulazione pre-
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vedeva l’intervento congiunto dei reparti speciali della polizia (Raid, Gipn, Bri)
e della gendarmeria (Gign).
Ma i recenti attentati hanno messo in luce lo scarso coordinamento fra le
diverse agenzie di intelligence francesi, non sempre capaci di dialogare e di
collaborare pienamente, tendendo anzi a sovrapporsi fra loro. Questo è anche
il frutto di due riforme del settore in cinque anni, il cui impatto deve ancora es-
sere assorbito.

1. F HELBERT, «On manque d’hommes pour neutraliser les terroristes», Paris Match, 30/9/2015. 217
NEL LABIRINTO DELLE SPIE FRANCESI

2. Occorre una considerazione preliminare. I servizi francesi devono affron-


tare un numero crescente di potenziali terroristi. Secondo un recente rapporto
del Senato francese il numero dei soli cittadini francesi coinvolti nelle filiere jiha-
diste a marzo 2015 era di 1.432 persone, non tutte di origine maghrebina ma an-
che francesi de souce («di ceppo») convertiti all’islam. Senza contare i cosiddetti
«combattenti stranieri» di origine europea (belga per esempio) e i possibili infiltra-
ti tra le file dei disperati richiedenti asilo. A questi si aggiungono altre persone
«attenzionate» dai servizi ma che non hanno commesso, finora, alcun reato.
Sul piano geopolitico i servizi francesi scontano probabilmente i moti ondi-
vaghi della politica estera francese, che hanno compromesso rapporti consolidati
da tempo. Il caso più evidente riguarda i servizi di Damasco. «Tradizionalmente
la Siria era uno degli elementi centrali del nostro sistema di sicurezza, non solo
in Medio Oriente ma anche per la gestione della minaccia interna», scrive Ber-
nard Squarcini, ex capo dell’allora Direction centrale du renseignement intérieur
(Dcri) 2. La relazione con l’intelligence del regime di Damasco (prima con Õåfi‰
al-Asad poi con il figlio, Ba44år) era stata avviata nel 1985 dopo i duri scontri tra i
servizi francesi e quelli siriani in Libano nei primi anni Ottanta, iniziati con l’ucci-
sione dell’ambasciatore francese a Beirut, Louis Delamare, da parte di una fazio-
ne filosiriana. Promotore dell’accordo da parte francese fu il generale Philippe
Rondot, uno dei massimi esperti della regione. Come nel caso dell’Algeria, tradi-
zionalmente era il servizio interno (prima la Direction de la surveillance du terri-
toire – Dst – poi la Dcri) a tenere i rapporti con l’intelligence siriana a scapito del
servizio esterno, la Direction générale de la sécurité extérieure (Dgse). Una divi-
sione del lavoro logica perché quest’ultima è incaricata dell’azione offensiva
(spionaggio estero) mentre i suoi omologhi dipendenti dal ministero dell’Interno
devono proteggere il territorio nazionale da minacce domestiche ed esterne. Gra-
zie alla collaborazione con Damasco, diversi jihadisti francesi passati per il terri-
torio siriano erano stati individuati ed arrestati nel periodo 2001-10 3. Nel 2011,
con la decisione francese di appoggiare la rivolta contro il regime alauita, i rap-
porti tra la Dcri e i suoi interlocutori siriani si sono sfilacciati ma non interrotti
del tutto, anche dopo la chiusura dell’ambasciata a Damasco.
Il punto focale dell’azione francese verso la Siria divenne quindi Amman, in
Giordania, dove però i rappresentanti dei servizi interni francesi e di quelli ester-
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ni propugnavano visioni e azioni opposte. Possibilisti sulle capacità di resistenza


del regime e disposti a proseguire la collaborazione con al-Asad i primi, operanti
attivamente per la sua caduta i secondi. Le relazioni nella rappresentanza ad Am-
man erano così tese che gli uomini delle forze speciali francesi dovevano fare da
arbitri tra i due servizi. Secondo Squarcini, con l’arrivo di Laurent Fabius al Quai
d’Orsay sono stati tagliati tutti i ponti con Damasco. Solo nel dicembre 2013 due
delegazioni rispettivamente della Dcri e della Dgse hanno ripreso la via di Dama-

2. B. SQUARCINI, E. PELLOT, Renseignement français: nouveaux enjeux, Paris 2013, Ellipse.


218 3. CH. CHESNOT, G. MALBRUNOT, Les Chemins de Damas, Paris 2014, Robert Laffont.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

sco per riallacciare i rapporti in funzione antiterrorismo. Nel frattempo però la Si-
ria come Stato unitario è scomparsa e probabilmente i servizi di al-Asad, anche
se volessero, avrebbero poco da offrire ai loro omologhi francesi rispetto ai mo-
vimenti di jihadisti che si spostano tra lo Stato Islamico e il resto del mondo pas-
sando per la Turchia. Con quest’ultima i rapporti sono migliorati dopo la visita
ad Ankara il 26 settembre 2014 del ministro dell’Interno, Bernard Cazeneuve. Se-
condo il citato rapporto del Senato la collaborazione franco-turca è buona ma
può essere migliorata, anche perché per Ankara la priorità è la lotta al Pkk e non
alle filiere jihadiste. Tra l’altro si dovrà verificare come e perché le informazioni
che la Turchia afferma di aver fornito alla Francia su alcuni dei terroristi del 13
novembre non siano state sfruttate dagli organi di sicurezza d’Oltralpe.

3. Un’altra delle relazioni tradizionali dell’intelligence interna francese è


quella con l’Algeria, con la quale però i rapporti non sempre sono stati idilliaci.
Pesano ad esempio i sospetti sull’implicazione delle autorità di Algeri sulla mor-
te, ufficialmente per mano dei terroristi del Gia, dei monaci francesi di Tibõirøn.
In Nordafrica il vuoto geopolitico libico e la rivolta tunisina hanno fatto spa-
rire altri interlocutori preziosi, mentre per quel che riguarda il Marocco un grave
incidente diplomatico ha bloccato per diversi mesi la collaborazione antiterrori-
smo tra Parigi e Rabat, dopo che il 20 febbraio 2014 sette poliziotti si presentaro-
no presso la residenza dell’ambasciatore marocchino a Parigi per notificare un
ordine di comparizione nei confronti di ‘Abd al-La¿øf al-Õammû4ø, il capo della
Direction générale de la surveillance du territoire (Dgst), il potente servizio di si-
curezza interna, a seguito di diverse denunce sulle torture praticate nelle carceri
gestite dal servizio. Per riallacciare la collaborazione con il Marocco, indispensa-
bile per seguire i movimenti di 1.500 marocchini e 1.200 francesi di origine ma-
ghrebina che si sono arruolati nei vari gruppi jihadisti in Siria, il ministro Caze-
neuve in persona ha annunciato durante una visita a Rabat a febbraio il conferi-
mento ad al-Õammû4ø del grado di ufficiale della Legione d’Onore.
Rimane poi la questione dello scambio di informazioni a livello europeo,
che a dispetto di sedi di confronto a livello multilaterale (Club di Berna, Gruppo
Trevi), rimane essenzialmente una questione bilaterale. La collaborazione di Stati
come il Belgio è essenziale, visto che questo paese rappresenta di fatto una re-
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trovia strategica per gli autori dei recenti attentati.


Il Belgio si conferma comunque il ventre molle della Francia: come nelle
due guerre mondiali, quando le truppe tedesche usarono il suo territorio per in-
vadere l’Esagono. In questo caso i jihadisti hanno usato il sobborgo bruxellese di
Molenbeek come retroterra logistico nel quale pianificare gli attentati parigini.
Sembra quindi profilarsi un fallimento dell’intelligence antiterrorismo belga anco-
ra più grave rispetto a quello degli apparati francesi.

4. Gli attentati del 2015 rimettono in discussione la riforma dell’intelligence


francese varata nel 2008 su impulso di Nicolas Sarkozy e quella del 2013, elabo- 219
NEL LABIRINTO DELLE SPIE FRANCESI

LA COMUNITÀ FRANCESE D’INTELLIGENCE

PRESIDENTE
DELLA REPUBBLICA

Eliseo

- Capo di Stato maggiore Segretario


particolare generale
Primo
- Consigliere diplomatico ministro
- Consigliere per
gli afari interni DINATO
OR
RE
CO

nazionale (Segretariato Organismo sotto


generale controllo del primo
e
de

l’I n della difesa


nc

t e lli g e ministro, gestisce


l

e della sicurezza in stretta


nazionale) collaborazione
con l’Eliseo,
SGDSN il segretario del Cnr.

Ministro CNR Ministro


dell’Economia degli Afari
Consiglio nazionale
e delle fnanze esteri
dell’intelligence
ed europei

Ministro Ministro
TRACFIN del Budget dell’Interno DGGN
(Sfruttamento (Direzione generale
dell’intelligence Ministro della gendarmeria
e azione contro della Difesa nazionale)
i circuiti fnanziari
clandestini).
DGSI
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Cellula francese DNRED


per la lotta (Direzione (Direzione generale
al riciclaggio nazionale della sicurezza
d’intelligence e DRM DPSD interna) nata
delle inchieste (Direzione DGSE nel 2013 dalla
(Direzione (Direzione della
doganali). dell’intelligence protezione e trasformazione
Specializzata militare). generale della della Dcri (Direzione
sicurezza della sicurezza
nella lotta Organizzazione della difesa) centrale
interforze esterna)
contro le frodi
responsabile controspionaggio dell'intelligence
(Esercito, militare e interna); responsabile
Marina, dell'intelligence del controspionaggio
estera antiterrorismo in
Aeronautica) ambito militare e dell'antiterrorismo

220
LA STRATEGIA DELLA PAURA

rata dai socialisti. La prima riforma ha creato una vera e propria comunità di in-
telligence francese coordinata da un alto funzionario che risponde al presidente
(grafico).
Per quanto riguarda la sicurezza interna e la lotta al terrorismo, i due servizi
interessati, la Direction de la surveillance du territoire e i Renseignements Géné-
raux (Rg) sono stati fusi in una nuova organizzazione, la Direction centrale du
renseignement intérieur (Dcri). Si è trattato in realtà di un assorbimento da parte
della Dst dei Rg, sotto la direzione di Bernard Squarcini, uomo di fiducia di
Sarkozy, che aveva svolto buona parte della sua carriera di funzionario di polizia
nei Renseignements Généraux ed era stato nominato nel 2007 alla direzione del-
la Dst. In teoria era l’uomo giusto per fondere le due organizzazioni dalle menta-
lità e metodologie diverse, un processo che ha preso comunque tempo e che
probabilmente non è stato concluso. La Dst, nata nel 1944 nella Francia in corso
di liberazione, era incaricata del controspionaggio interno e in seguito anche del-
la lotta al terrorismo sponsorizzato da Stati stranieri (come alcuni gruppi palesti-
nesi, ad esempio quello di Abû Niîål, che ha avuto diversi sponsor non solo me-
diorientali). I Rg erano invece «gli occhi e le orecchie» dei prefetti. Conducevano
inchieste sociali che spesso sconfinavano nel vero e proprio spionaggio politico
(costituzione di dossier su uomini e partiti politici). Sul piano dell’antiterrorismo i
Rg si concentravano sulla minaccia interna: la sinistra radicale dopo il Sessantotto
e Action Directe negli anni Settanta e Ottanta, per poi concentrarsi sui movimenti
di tipo jihadista, finendo però per sconfinare nel terreno dell’organizzazione riva-
le. La Dst infatti ha lavorato sul terrorismo di matrice islamista che ha colpito la
Francia negli anni Ottanta e Novanta. In particolare, sugli attentati che colpirono
Parigi nel 1995, attribuiti al Gia algerino. Per contrastare la minaccia del Gia, la
Dst aveva sviluppato un forte legame con il Département du renseignement et
de la sécurité (Drs) algerino, scavalcando la Dgse, il servizio esterno francese. Il
legame tra Dst e Drs non è stato esente da critiche da parte di coloro che sospet-
tano forti manipolazioni del Gia da parte del potere algerino.
Tra l’altro la presenza di due organizzazioni concorrenti nel campo dell’anti-
terrorismo ha permesso ai servizi di altri paesi di giocare sulle rivalità interne fran-
cesi, scambiando informazioni con la Dst e non con i Rg e viceversa. Per questi
motivi si è dunque deciso di razionalizzare l’organizzazione dedicata al contro-
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spionaggio interno e all’antiterrorismo, creando la Dcri, che è tra l’altro l’unica or-
ganizzazione abilitata a scambiare informazioni con le controparti straniere sul ter-
rorismo che potrebbe colpire il territorio nazionale. In realtà la duplicazione tra
servizi interni non è scomparsa, anzi si è forse accentuata. La riforma del 2008 ha
infatti creato la Sdig (Sous-direction de l’information générale), che riprende le
funzioni essenziali dei vecchi Rg. La differenza fondamentale è che la Sdig non è
inserita nella nuova comunità di intelligence. Quindi si rischia di creare un nuovo
cortocircuito informativo che potrebbe impedire l’afflusso di informazioni essen-
ziali per sventare attentati. Inoltre la Préfecture de police, la polizia della capitale,
che da sempre gode di una forte autonomia rispetto alla direzione centrale della 221
NEL LABIRINTO DELLE SPIE FRANCESI

polizia nazionale, continua a disporre di un proprio servizio di intelligence e anti-


terrorismo, la Direction des Renseignements généraux de la préfecture de police
de Paris (Rgpp), che a sua volta entra in concorrenza con le altre strutture.
A complicare il quadro è intervenuta la riforma del 2013, voluta dai socialisti,
che ha trasformato la Dcri nella Direction générale de la sécurité intérieure (Dg-
si), staccando questo organismo dalla polizia nazionale e facendolo diventare
un’amministrazione autonoma nell’ambito del ministero dell’Interno. Questa mi-
sura si è resa necessaria per far sì che la Dgsi possa avere un budget adeguato.
La vecchia Dcri, essendo una struttura della polizia, riceveva i propri finanzia-
menti attraverso la ripartizione del budget di quest’ultima, venendosi a scontrare
con le esigenze degli altri uffici di quell’amministrazione. La nuova Dgsi ha ora
uno status amministrativo simile a quello della Dgse (che risponde alla Difesa),
lo spionaggio estero. La riforma del 2013 ha inoltre tramutato la Sdig nel Service
central du renseignement territorial (Scrt), un servizio di intelligence di «prossi-
mità», incaricato tra l’altro di cogliere i «segnali deboli» di radicalizzazione special-
mente nelle banlieues. Ma così facendo il monopolio antiterrorismo della Dgsi
viene a cadere, tanto più che la riforma del 2013 ha pure concesso ai gendarmi
di dotarsi di una Sous-direction de l’anticipation opérationnelle (Sdao) al fine di
disporre di «una capacità autonoma di valutazione della situazione».
Insomma, secondo il rapporto, pubblicato a ottobre, del senatore Philippe
Dominati (Les Républicains), attualmente la Francia ha ben quattro servizi di in-
telligence interni antiterrorismo (Dgsi, Scrt, Rgpp, Sdao), ai quali si aggiungono
altre strutture coinvolte nella lotta al terrorismo, per un totale di diciannove orga-
nismi. Una chiara dispersione di forze e di informazioni preziose.
La lotta al terrorismo è coordinata a livello ministeriale dall’Uclat (Unité de
coordination de la lutte anti-terroriste), organismo formato nel 1984 e inserito
nell’ambito della direzione nazionale di polizia, al quale partecipano rappresen-
tanti di Interno, Difesa, Finanze, Giustizia, Ecologia (sic) e il coordinatore dell’in-
telligence. Dopo la vicenda di Muõammad Miråõ, il franco-algerino autore degli
attacchi terroristici nel Sud-Ovest della Francia (marzo 2012), si sono però molti-
plicati gli organismi di coordinamento tra servizi, che hanno creato nuove stratifi-
cazioni burocratiche non sempre funzionali. Secondo l’inchiesta Dominati, la
stessa Uclat è terreno di scontro tra polizia e gendarmeria, mentre il coordina-
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mento tra servizi dipende ancora troppo dalla buona volontà dei singoli funzio-
nari. La moltiplicazione delle strutture di coordinamento non ha posto fine alla
reciproca diffidenza tra le diverse articolazioni dell’intelligence, forse le ha addi-
rittura accentuate. Il rapporto Dominati sottolinea tra l’altro la debolezza dell’in-
telligence di «prossimità», assegnata all’Scrt e alla Sdao della gendarmeria, proprio
quella forma di raccolta informativa che sarebbe necessaria per controllare i gio-
vani islamisti radicali nelle banlieues.
La tendenza sembra quella di puntare sulla sorveglianza elettronica, soprat-
tutto dei social media, condotta con mezzi sempre più sofisticati autorizzati da
222 due leggi di recente approvazione. La legge sull’intelligence (Loi sur le rensei-
LA STRATEGIA DELLA PAURA

gnement) votata a giugno ed entrata in vigore a ottobre di quest’anno, autorizza


tra l’altro i servizi d’intelligence a piazzare apposite scatole nere direttamente nel-
le installazioni dei fornitori di accesso a Internet. Queste scatole nere contengo-
no un algoritmo finalizzato a scoprire comportamenti sospetti su Internet. Il 5
novembre è stata infine approvata la legge che regolamenta le attività di intercet-
tazione delle comunicazioni estere effettuate dalla Dgse.
Queste leggi rafforzano i poteri dell’intelligence. Ma il fatto che la Dgsi non
sia più un organo di polizia la esclude da un rapporto diretto con la magistratura,
come avveniva prima con la vecchia Dst.

5. La svolta extragiudiziale presa dalla lotta al terrorismo con un’intelligen-


ce rafforzata ma rispondente al solo potere politico è stata criticata dal magi-
strato Marc Trévidic, che non solo vi vede dei pericoli per la democrazia, ma
soprattutto la ritiene inefficace per un’adeguata azione di contrasto al terrori-
smo. «In Francia sono i giudici che decidono l’arresto di una persona. (…)
Ogni azione presa sulla base della pura intelligence, fuori dal controllo del giu-
dice, non ha alcun valore legale. (…) Il nostro sistema è stato molto efficace
perché si interveniva molto prima, in perfetta intesa con gli agenti della Dst. Si
raccoglievano prove e quando qualcuno minacciava di passare all’azione, il
mattino successivo alle 6 gli si piombava addosso. Mai una persona sotto sor-
veglianza giudiziaria è passata all’azione, mai! Non si può dire altrettanto di
questi jihadisti affiliati allo Stato Islamico, dei quali ci accorgiamo che tutti o
quasi sono stati oggetto di sorveglianza (da parte dell’intelligence, n.d.r.), dun-
que di una fiche “S” che non gli ha impedito di agire».
La fiche «S» concerne la schedatura di un individuo sospettato di propositi
terroristici o di attentato alla sicurezza dello Stato, senza peraltro che abbia
commesso alcun crimine. In Francia è soprattutto la Dgsi a emettere queste fi-
ches. I fratelli Kouachi e Amedy Coulibaly, gli autori degli attentati di gennaio,
erano stati fatti oggetto di una schedatura di questo tipo. Secondo Le Monde le
persone che sono schedate in questo modo in Francia sono da 5 a 10 mila; è
quindi impossibile seguirle tutte con regolarità.
Trévidic afferma di temere che per lottare contro il terrorismo «si arrivi pro-
gressivamente a metodi extragiudiziali, amministrativi, arbitrari. Come hanno
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fatto gli americani a Guantanamo. Questa strada a mio avviso farebbe il gioco
di coloro che combattiamo, fornendo argomenti ai sentimenti antioccidentali e
antifrancesi».
La risposta dura promessa da Hollande dopo gli attacchi del 13 novembre
andrà in questa direzione, spingendosi a seguire gli americani anche nelle ucci-
sioni extragiudiziali al di fuori del territorio nazionale? Secondo un libro inchiesta
recentemente apparso per la firma di Vincent Nouzille 4, Hollande, al pari di
Obama, disporrebbe da tempo di una lista di «nemici dello Stato» da eliminare.

4. V. NOUZILLE, Les Tueurs de la République, Paris 2015, Fayard. 223


NEL LABIRINTO DELLE SPIE FRANCESI

Una pratica che risalirebbe agli albori della Quinta Repubblica (che a sua volta
ha ripreso pratiche già diffuse nella Quarta) e che si sarebbe evoluta nel tempo.
Le operazioni Homo (da Homicide) dei servizi esteri francesi sono infatti una
consuetudine che rimonta ai tempi della Main Rouge, misterioso gruppo terrori-
stico che assassinava i dirigenti dell’Fln algerino e soprattutto i trafficanti (in gran
parte tedesco-occidentali, guarda caso) che vendevano loro le armi. Dietro la
Main Rouge si celava il Service action (Sa) dell’allora Service de documentation
extérieure et de contre-espionnage (Sdece, poi divenuto Dgse nel 1982). L’attuale
Sa dispone sia di un vero e proprio reparto militare per operazioni clandestine,
suddiviso in una componente terrestre, una marittima e una aerea (Gam 56) sia
di un nucleo di operativi che agiscono sotto la massima copertura, le cellule
Alpha. Queste ultime sono formate da persone, debitamente addestrate, che non
hanno nessun legame apparente con la Dgse, vivono una vita civile e sono chia-
mate in servizio solo per missioni particolari, in genere omicidi. Se prese, lo Stato
francese le disconoscerebbe abbandonandole al loro destino. Insomma, Luc Bes-
son con il suo film Nikita (1990) non sarebbe andato troppo lontano dal vero.
Secondo il libro inchiesta di Nouzille, Hollande è uno dei presidenti francesi
che più ha fatto ricorso agli omicidi mirati di jihadisti, specie nel Sahel, anche
con l’aiuto americano. Dopo i fatti del 13 novembre, la Francia sembra dunque
avviarsi a intraprendere una nuova «guerra al terrorismo», con azioni visibili e al-
tre invisibili, come promesso da George W. Bush dopo l’11 settembre. Una guer-
ra nella quale i servizi di intelligence saranno in prima linea. C’è quindi da aspet-
tarsi il rafforzamento dei servizi segreti con nuovi mezzi e risorse umane. E forse
anche il consolidamento dell’intelligence antiterrorismo interna, riducendo il nu-
mero degli organismi impiegati (da quattro a due) e rivalutando il ruolo della
raccolta informativa «di prossimità» per fronteggiare i fermenti delle banlieues.
Resta da vedere se verrà raccolto il grido di allarme lanciato da Trévidic su
una possibile deriva autoritaria della lotta al terrorismo nella patria dei diritti
umani.

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224
LA STRATEGIA DELLA PAURA

IN MALI
PARIGI RITROVA
LA GRANDEUR di Matteo OPPIZZI
Il paese non è un prodotto del colonialismo, ma le sue crisi sì.
La guerra del 2012 spiegata alla luce del passato e degli interessi
della Francia, che con l’operazione Barkhane fa del Sahel il cuore
della sua geopolitica africana. L’Ue come foglia di fico.

1. N EL GENNAIO 2013 IL MALI HA RISCHIATO


di scomparire. Perso ormai il controllo della metà settentrionale del paese, colon-
ne nere di pick-up carichi di jihadisti varcavano l’immaginaria frontiera tra i due
Mali con il deserto alle spalle e Bamako nel mirino a qualche centinaio di chilo-
metri. Ma la Francia «si è assunta le sue responsabilità», ha lanciato l’operazione
Serval, ha vinto, ed è per questo che «i terroristi hanno fatto della Francia il loro
nemico». Così parlava il presidente François Hollande il 19 novembre 2015 1.
Il giorno dopo la furia islamista, non paga degli orrori di Parigi, portava l’as-
salto al Radisson Blu, albergo per stranieri nel cuore della capitale maliana: oltre
venti morti, l’incubo degli ostaggi. Parigi e Bamako dunque legate, nel lutto cer-
tamente, ma anche nelle parole del presidente francese: perché mai la Francia si
è dovuta assumere le sue responsabilità in Mali? Forse che Parigi è (o vuole esse-
re) non solo capitale di uno Stato ma anche, ancora, del suo impero? E per con-
verso, il Mali è solo un prodotto del colonialismo?
Sul finire del XIX secolo il ministero degli Esteri e quello dell’Interno di
Francia tracciarono delle linee dritte ma dagli angoli spigolosi: di qua l’Algeria,
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dipartimento francese, di là le colonie africane. Il Mali, allora denominato Sudan


francese (e così il Niger, la Mauritania, l’Alto Volta, il Dahomey…) nacque come
porzione amministrativa di un territorio immenso, che nel 1895 verrà organizzato
in una struttura «federale»: l’Africa occidentale francese (Aof).
Di qui la domanda, legittima: il Mali esiste, cioè esisteva, prima che il ge-
nio francese decidesse per la sua nascita e per la sua successiva (eufemistica)
mise en valeur ?

1. F. HOLLANDE, «Discorso del Presidente della Repubblica alla consegna del premio della Fondazio-
ne Jacques Chirac», Parigi, 19/11/2015. 225
IN MALI PARIGI RITROVA LA GRANDEUR

La risposta è sì: esisteva fin dal XIII secolo, quando esso era un impero che
fioriva grazie all’oro e ai traffici transahariani. L’impero non esisteva più nell’Otto-
cento, il suo mito sì, ma soprattutto il Mali non era solo ciò che i francesi pensa-
vano. Il termine Sudan, scelto dai colonizzatori per indicare ciò che dal 1960 si
chiama (nuovamente) Mali, significa letteralmente «paese dei neri» e nere sono
infatti le popolazioni che abitano la sua metà meridionale. C’era tuttavia un altro
Mali, a nord delle pigre anse del fiume Niger, che trova la sua dimensione tra le
distese desertiche che collegano Timbuktu, Gao e Kidal (le «capitali» del Nord), il
suo rifugio tra i massicci dell’Adrar degli Ifoghas. In queste periferie del Sahara
(dette Sahel) dominava all’epoca dei conquistatori europei l’impero toucouleur di
El Hadj Oumar Tall, islamista da non far invidia ai jihadisti dei tempi nostri (ot-
tenne addirittura il titolo di «califfo» con un pellegrinaggio alla Mecca nel 1828).
La durata della conquista dei due Mali rende l’idea della distanza fisica che
ne separa i luoghi e della tenacia con cui il Nord, abitato da popolazioni berbe-
re, nomadi e dedite alla pastorizia, si difese: nel 1883 fu presa Bamako a sud, ma
Timbuktu cadde solo dieci anni dopo, Gao nel 1898 e Kidal addirittura nel 1909.
Durante i decenni coloniali le linee di frattura (etnica, economica, linguisti-
ca) furono come congelate e i francesi non se ne avvidero (o le sfruttarono a lo-
ro vantaggio), inebriati dal mito di un’universale missione civilizzatrice.

2. L’impianto coloniale franco-africano è crollato de iure assieme alla Quarta


Repubblica, sotto le picconate della storia e di de Gaulle, cosicché l’anno dell’in-
dipendenza venne formalmente celebrato nel 1960.
Nel 1960, esisteva il Mali? Di nuovo, risposta affermativa: lo incarnava con
potente miscela ideologica panafricana e socialista Modibo Keita, primo presi-
dente maliano (1960-68). Ma, repetita iuvant, esistevano come da principio due
Mali. E quello del Nord non aveva alcuna intenzione di far parte del nuovo Stato
indipendente. Il 30 giugno 1958 i leader terreni e spirituali delle popolazioni ber-
bere inviarono a de Gaulle una lettera dove definivano «storica e sentimentale» la
loro appartenenza al Sahara francese, dissociandosi tanto dall’Africa araba quanto
da quella nera. La lettera invocava una soluzione equa per tutti, in assenza della
quale il futuro sarebbe stato pieno di tensioni e scontri.
La previsione fu confermata e i decenni che seguirono costituirono l’età
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della ribellione del Nord berbero (in particolare tuareg) al Sud nero, con capi-
tale Bamako. Nel 1963 la prima storica alfellaga (ribellione), nel 1990 la secon-
da, ben più grande e seguita da un teatrale processo di riconciliazione naziona-
le terminato con un rogo di armi a Timbuktu nel 1996, conosciuto come la
«fiamma della pace».
Nei vent’anni successivi tutti furono dimentichi di questo frastagliato patri-
monio genetico: i maliani, la comunità internazionale e i francesi. I primi, depo-
sto il regime militare di Moussa Traoré (1968-91) con un clamorosa insurrezione
popolare ispirata da avanguardie studentesche, si dedicarono al processo di de-
226 mocratizzazione e non si curarono di redistribuire le risorse verso il Nord quan-
LA STRATEGIA DELLA PAURA

do avevano il vento in poppa, salvo accorgersi del malcontento (ribellione)


quando ormai era troppo tardi, nel 2012. La «comunità internazionale» da par suo
ha celebrato i successi del Mali di Alpha Oumar Konaré (1992-2002), esaltandolo
come la perla delle democrazie africane, paese fondatore della Community of
Democracies capitanata dagli Stati Uniti (2000) e ancora nel 2011 ritenuto da
Freedom House «paese libero», con alti livelli di libertà civili e diritti politici. Un
anno dopo (2012) vi fu la tragedia della guerra, l’abisso dello Stato fallito.
Ma proprio in quel 2011 la Francia, muovendo guerra alla Libia, dimenticò
il Mali. Gheddafi era (anche) un elemento stabilizzatore in Africa: centinaia di
migliaia di lavoratori stranieri si abbeveravano al suo petrolio e i tuareg maliani
servivano nella sua Legione straniera dando vita al sogno gheddafiano del pa-
narabismo. Il Colonnello non limitava il suo sostegno ai gruppi tuareg, i suoi
fondi puntellavano ugualmente il governo di Bamako. La televisione pubblica,
le scuole coraniche, persino la nuova cittadella amministrativa della capitale
maliana furono sponsorizzate dal regime libico. In Mali, Gheddafi era davvero
«il re dei re».
Quando Sarkozy vide nella risoluzione Onu 1973 (protezione dei civili libi-
ci) un via libera al cambio di regime, chiuse la valvola di sfogo per i tuareg
dell’Azawad (come essi chiamano il Mali del Nord) che tornarono armi e baga-
gli in terra propria, e privò il governo maliano di preziose risorse. La siccità e
l’aumento dei prezzi dei generi alimentari che hanno scosso il Sahel nel 2012
fecero il resto.

3. La guerra in Mali scoppiata nel gennaio 2012 è il frutto di questa storia, di


cause identitarie, politiche, economiche di breve e di lungo periodo. Unica im-
portante variante rispetto alle precedenti ribellioni: agli indipendentisti tuareg si
sono mischiati gli islamisti radicali di al-Qå‘ida nel Maghreb islamico (Aqmi), di
Anâår al-Døn e del Mujao (Movimento per l’unicità e il jihåd nell’Africa occiden-
tale), che hanno trovato nella povertà, nei traffici (droga, armi, ostaggi) e nell’as-
senza dello Stato terreno fertile per il loro gangsterismo con accenti messianici.
La guerra in Mali del 2012 ha però chiarito che esiste un terzo Mali, anch’es-
so frutto del periodo coloniale: non quello nero del Sud né quello berbero, bensì
quello francese. Perché la Gran Bretagna nei decenni postcoloniali non ha com-
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battuto che due guerre nei suoi ex territori africani mentre la Francia è sollecita-
mente intervenuta oltre quaranta volte? Perché lo Stato franco-africano non è mai
morto: (post)colonialismo o meno, tra métropole e Africa si era creato quello che
de Gaulle indicò come un «legame definitivo». Se gli amministratori coloniali fran-
cesi erano circa 7 mila nel 1956, i «cooperanti civili» francesi nelle (ex) colonie
crebbero fino a superare le 10 mila unità nel 1980. Il tutto per gestire cifre di aiu-
to pubblico allo sviluppo da capogiro (1% del pil francese). La moneta dei paesi
un tempo nell’Aof (il franco Cfa) era gestita direttamente dal tesoro francese e le-
gata al franco della madrepatria. La sicurezza stessa dei paesi africani, o più pre-
cisamente delle élite al potere, dipendeva direttamente da Parigi: il presidente ni- 227
IN MALI PARIGI RITROVA LA GRANDEUR

gerino Hamani Diori aveva in camera da letto una linea telefonica che lo collega-
va direttamente con l’ambasciatore francese a Niamey. La borsa e la spada, pre-
rogative di sovranità, erano insomma entrambe controllate dalla Francia, come se
si trattasse appunto di uno Stato franco-africano.
Questo era l’«universo a metà strada tra la corte dei Borgia e un’associazione
mafiosa» 2 definito – spregiativamente o meno – Françafrique e di cui il Mali face-
va parte (il Mali beninteso di Moussa Traoré, non quello fieramente indipendente
di Modibo Keïta). «Laggiù, ad Abidjan, Dakar, Cotonou, Libreville, circolavano le
stesse parole, le stesse auto, gli stessi uomini e le stesse idee, perché laggiù, indi-
pendenza o no, era ancora un po’, molto appassionatamente, la Francia» 3. E vi-
ceversa. Come spiegava qualche decennio fa ai colleghi della Comunità europea
del carbone e dell’acciaio (Ceca) il futuro primo ministro francese Michel Debré,
«la Francia non è solo un paese europeo». Per questo, su esplicita pressione (o ri-
catto) francese, i Trattati di Roma (1957) istitutivi della Comunità economica eu-
ropea (Cee) inclusero disposizioni speciali per i «paesi e i territori associati d’Ol-
tremare», a vantaggio e protezione dell’allora Unione francese (1946-58).
Oggi la presenza di Parigi nella «sua» Africa è molto ridimensionata rispetto
ai primi decenni postcoloniali. Dal 1994 il franco francese e quello delle ex colo-
nie d’Africa non sono più legati da un cambio 1 a 1; nel 1997, il primo ministro
socialista Lionel Jospin ha pronunciato a Bamako la formula del ni-ni (né inge-
renza né indifferenza), mentre la mondialisation ha portato altre potenze a rom-
pere i vecchi monopoli francesi. I decani della Françafrique sono morti, le auto
francesi hanno lasciato il posto a quelle cinesi, idee e parole simili celano inte-
ressi divergenti. Laggiù non è più (solo) la Francia, ma laggiù si combattono an-
cora guerre francesi.

4. Oggi forse ancor più che in passato, la presenza francese in Africa è un


fatto di hard, non di soft power, come ha ricordato il dispiegamento dell’opera-
zione Sangaris nella Repubblica Centrafricana (dicembre 2013), l’ultimo interven-
to militare francese nelle ex colonie africane. Ma se l’intervento militare a Bangui
fu dovuto in un certo senso alla contingenza umanitaria (dato il tangibile rischio
di genocidio nel vecchio Oubangui-Chari), di ben altra sostanza è la presenza (e
la capacità militare) dell’ex madrepatria nella fascia saheliana (Mauritania, Mali,
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Burkina Faso, Niger, Ciad). È qui che la Francia supera i suoi confini esagonali e
mantiene una dimensione globale (o quanto meno continentale), perché «senza
l’Africa non ci sarà una storia della Francia nel XXI secolo», come ammoniva
François Mitterrand nel 1957 4.
Oggi è il Sahel il cuore geopolitico dell’Africa francese. Non stupisce che la
Francia, dopo dieci anni di guerra di coalizione e dipendenza strategica dagli

2. S. SMITH, A. GLASER, Ces Messieurs Afrique, Paris 1992, Calmann Lévy, p. 10.
3. E. FOTTORINO, «France-Afrique: les liaisons dangereuses», Le Monde, luglio 1997.
228 4. F. MITTERRAND, Présence française et abandon, Paris 1957, Plon, p. 237.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

Usa in Afghanistan, abbia lanciato proprio in Mali l’11 gennaio 2013 l’operazione
Serval (dal nome di un felino africano), dispiegando sul terreno fino a 4 mila uo-
mini 5 (febbraio 2013), affiancati dagli istruttori europei (per metà francesi) della
missione Eutm-Mali. Il ritorno in grande stile delle armate tricolori a Timbuctu
non solo ha garantito alla Francia il mantenimento dello status di grande poten-
za, ma ha preservato i suoi soldati dai tagli che in tempi di rigore minacciano an-
che gli apparati militari. Sul lato maliano, la guerra ha garantito la sopravvivenza
di quello che stava per diventare a tutti gli effetti uno Stato fallito.
L’obiettivo della missione fu triplice: fermare l’avanzata dell’eterogenea arma-
ta jihadista che aveva posto una minaccia (potenziale) a Bamako e riconquistare
le «capitali del Nord» (Timbuctu, Gao, Kidal), assicurando poi la sovranità del go-
verno maliano e del suo esercito sull’intero territorio nazionale. Un territorio che
resta percorso da profondi clivages geografici, etnici e sociali, con l’Azawad ostile
al potere centrale e fisicamente difficile da amministrare poiché desertico. Labi-
rinto di sabbia e altopiani divenuto un santuario dell’estremismo islamico, l’Adrar
degli Ifoghas si era trasformato in una minaccia immediata agli interessi (econo-
mico-estrattivi, militari, strategici) della Francia.
Se la gestione della questione ostaggi è solita sollevare aspre discussioni,
l’intervento francese in Mali ha invece ricevuto una quasi unanime approvazione
in patria (e dalla comunità internazionale), proprio in virtù del percepito pericolo
per i cittadini francesi. Se cade Bamako, si disse, gli ostaggi francesi non saranno
più sei, ma seimila.
Riportato sotto controllo il rischio jihadista, resta da ricostruire e cementare il
Mali, uno e trino (nero, berbero e francese). Sotto l’impulso dell’intransigente
François Hollande, nel luglio 2013 il paese ha eletto democraticamente il suo
nuovo presidente, Ibrahim Boubacar Keïta, con elezioni mai così partecipate. Poi
un lungo processo negoziale, con la regia di Algeri, ha cercato di tessere una pa-
cificazione nazionale (tra Mali nero e berbero) sotto tutela internazionale. La
Francia ha appaltato all’Unione Europea (il cui rappresentante per il Sahel, ovvia-
mente francese, è marito del ministro della Salute) la sua partecipazione. Il pro-
cesso di pace prevede un’accentuata decentralizzazione e un Senato rappresenta-
tivo delle varie regioni, religioni, comunità del paese: se verrà attuato (fra maggio
e giugno 2015 è stato approvato da tutte le fazioni ribelli presenti al tavolo), il
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Mali potrà forse diventare pienamente Stato.


La Francia ha intanto ricalibrato la sua presenza nel Sahel. L’operazione Ser-
val de iure non esiste più: i suoi residui effettivi sono stati riorganizzati nella più
ampia operazione Barkhane. Non si tratta di un intervento di soccorso unilaterale
in profumo di neocolonialismo. L’operazione Barkhane (dal nome di una duna
del deserto) avrà come unico scopo la lotta al terrorismo islamico nell’area sahe-
liana e si svolgerà in partenariato con il G5 del Sahel: Mauritania, Burkina Faso,

5. Non a caso lo stesso ammontare di uomini che la Francia aveva disposto in Afghanistan nel mo-
mento di massimo impegno bellico. 229
IN MALI PARIGI RITROVA LA GRANDEUR

Mali, Niger e Ciad, tutte ex colonie francesi. Nessuna ambizione geopolitica in


senso lato, nessuna democrazia da instaurare.
In concomitanza con il lancio di Barkhane (primo agosto 2014) e nonostante
Kidal (roccaforte dell’irredentismo tuareg nel Nord del Mali) e ciò che si trova a
nord di questa (Tessalit e deserto) sfuggano ancora largamente al controllo di Ba-
mako, l’operazione Serval è stata dichiarata conclusa da François Hollande alla vi-
gilia del 14 luglio 2014, in occasione delle celebrazioni per la presa della Bastiglia.
La narrazione dei successi di Serval – per molti aspetti emblema della tecnica
militare d’Oltralpe – è stata peraltro macchiata, quel 14 luglio, da una delle tante
sigle della galassia jihadista africana, al-Muråbi¿ûn. Un attentato suicida ha colpito
un blindato a cento chilometri da Gao, uccidendo un militare. Nel comunicato
del gruppo islamista trasmesso all’agenzia di stampa mauritana al-Aœbår si legge:
«L’attentato è una risposta ai francesi che pretendono di aver annientato le forze
jihadiste e di aver portato a termine l’operazione Serval» 6. La morte del nono sol-
dato francese dal lancio della missione nel gennaio 2013 segna anche l’inquietan-
te apparizione della modalità di attentato suicida, finora assente nell’area sahelia-
na. Lo Stato Islamico (Is) ha intanto conquistato posizioni in Libia, a partire da
Derna (famosa per aver registrato il più alto tasso di jihadisti inviati in Iraq per
abitante): il tempo dirà se il rischio di un’escalation competitiva tra gruppi africa-
ni (non si dimentichi Boko Haram) e quelli di al-Baôdådø sia fondato o meno.

5. In quest’ottica, la guerra in Mali perde i suoi connotati meramente nazio-


nali (irredentismo tuareg) e viene sussunta nella guerra globale al terrorismo di
cui Barkhane è epigono su scala allargata. La stessa scala evocata dal ministro
della Difesa francese Jean-Yves Le Drian, che aveva parlato di un’«autostrada di
ogni traffico» (droga, armi, ostaggi, migranti) che corre dalla Libia all’Oceano
Atlantico. Già il Libro bianco di difesa e sicurezza nazionale francese del 2008 di-
segnava un «arco di crisi» esteso dall’Oceano Atlantico a quello Indiano: una re-
gione fondamentale (perché «le risorse in idrocarburi ivi presenti restano decisive
per l’approvvigionamento energetico dei paesi europei») la cui cifra specifica è
l’insicurezza («il radicamento dei gruppi terroristi è divenuto un elemento costan-
te» 7). L’esecutivo socialista del presidente François Hollande ha dunque recepito
l’analisi strategica sul Sahel elaborata dal suo predecessore, Nicolas Sarkozy.
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Barkhane è stata progettata in modo nettamente differente rispetto a Serval e


a Sangaris. In Mali e nella Repubblica Centrafricana l’esercito francese è interve-
nuto con una propria missione, in appoggio a contingenti africani e in attesa del

6. Il 5 agosto 2014 è tornato nuovamente a minacciare la Francia e i suoi alleati il leader di un altro
gruppo jihadista protagonista della guerre au Mali: Iyad Ag Ghali, che guida Anâår al-Døn, l’unica
formazione estremista di estrazione etnica tuareg. In un video caricato su YouTube, l’ex regista de-
gli accordi di pace tra Bamako e ribelli tuareg di inizio anni Novanta, conosciuto in Italia come «il
piccolo bin Laden d’Africa», ha invocato un fronte comune del popolo musulmano contro Parigi,
che «detesta l’islam e i musulmani». Da marzo 2013, per i suoi legami con Aqmi, Anâår al-Døn è sulla
lista nera dei terroristi stilata da Washington.
230 7. L’arc de crise, de l’Atlantique à l’Océan Indien, Livre blanc 2008, p. 43.
LA STRATEGIA DELLA PAURA

lancio di un’operazione delle Nazioni Unite (rispettivamente Minusma e Minu-


sca). La nuova iniziativa invece tiene in conto la dimensione regionale del pro-
blema (il terrorismo) e potrebbe spingere a una più effettiva collaborazione gli
Stati africani direttamente interessati.
Barkhane conta tremila uomini e si avvale di 20 elicotteri, 200 veicoli blindati,
10 aerei per il trasporto tattico e strategico, 6 aerei da caccia e 3 droni. Le sue due
basi permanenti sono a Gao (in Mali) e a N’Djamena, la capitale ciadiana, che fin
dal 1986 ha ospitato l’operazione francese Epervier, estintasi al pari di Serval. Il
teatro coperto da Barkhane è il più vasto per la Francia dalla conclusione della se-
conda guerra mondiale, ma gli effettivi impiegati saranno meno di quelli dispiega-
ti in Mali all’apice di Serval. Per essere efficace, la missione dovrà largamente pog-
giare su avamposti in aree desertiche e su un capillare lavoro di intelligence. Le
forze speciali resteranno dove attualmente sono, ovvero a Ouagadougou, e un
polo di intelligence sarà collocato a Niamey. Archiviata Serval, la Francia manterrà
dunque permanentemente in Mali un contingente di circa mille uomini.
Allo stesso modo, nonostante l’estinzione dell’operazione Epervier, il Ciad
sarà l’indiscutibile perno dell’operazione Barkhane e proprio su di esso si con-
centrano le speranze francesi di stabilizzare la regione. Pazienza che il paese gui-
dato dall’autoritario Idriss Déby non brilli nella difesa dei diritti umani e sia in
fondo alle classifiche dello sviluppo umano: l’elenco dei paesi confinanti non
permette di trovare altri appigli. Libia, Sudan, Repubblica Centrafricana, Camerun
e Nigeria: la Realpolitik impone a Parigi di non badare troppo al sottile. Tanto
più che le forze armate ciadiane sono tra le più forti del continente: con oltre 30
mila effettivi e buoni equipaggiamenti, rappresentano un unicum nella regione.

6. La Francia che vuole mantenere gli storici e privilegiati legami con l’Africa
settentrionale e saheliana deve dunque fare i conti con una non trascurabile serie
di buchi neri, dalla Libia alla Repubblica Centrafricana, passando per le terre di
Boko Haram. L’intervento sotto bandiere Nato a fianco dei ribelli libici nel 2011
ha in parte alimentato l’anarchia: non solo ha gettato nel caos la Libia, ma ha «li-
berato» tutti i combattenti saheliani che il Colonnello aveva assoldato nella sua
Legione islamica. Ormai privati del loro protettore, essi sono in parte tornati, di-
soccupati e armati, nelle loro regioni di origine, costituendo non l’ultima causa
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della guerre au Mali risolta dalla provvidenziale operazione francese Serval. Da


Tripoli a Bamako, gli ultimi cinque anni di storia africana sono la concreta rap-
presentazione della regola secondo cui le guerre non sono mai isolate, ma han-
no per forza risonanza regionale laddove i confini siano disegnati nella sabbia.
La guerra di Libia rappresenta il fallimento dell’interventismo francese (di
Sarkozy), laddove il Mali è oggi la nuova «perla dell’impero» parigino. «Se la
Francia non fosse intervenuta l’11 gennaio 2013 il paese sarebbe scomparso»,
ammette candidamente Moussa Mara, premier maliano fra l’aprile 2014 e il
gennaio 2015, rappresentante di uno Stato convalescente ancora sotto tutela in-
ternazionale. 231
IN MALI PARIGI RITROVA LA GRANDEUR

I colloqui di pace tra le varie sigle dei movimenti azawadiani e il governo


di Bamako intanto sono giunti a conclusione, dopo un percorso di due anni.
Restano presso Gao mille soldati francesi a vigilare: meglio una sovranità limita-
ta che nessuna sovranità, devono pensare a Bamako.
Mentre l’incendio maliano perdeva d’intensità, la Francia ha dunque riordi-
nato le sue pedine africane tramite Barkhane, in direzione degli altri buchi neri
dell’arco di crisi saheliano.
Per restare «non solo un paese europeo», la Francia coordina i propri stru-
menti diplomatici tramite l’Unione Europea e riorganizza la sua presenza milita-
re: se questa presenza non le dia ancora una veste imperiale è un altro discorso,
forse non totalmente sgradito ai decisori francesi.
Un filo rosso lega il Mali alla Francia: l’attentato che ha scosso Bamako nel
marzo 2015 al dramma del 14 novembre parigino. Nella capitale maliana sette
vittime, di cui un francese e un belga che lavorava per l’Unione Europea; a Parigi
una carneficina. Ma stesse modalità d’azione, stessa rivendicazione islamista. È
un filo non rettilineo che passa per la Siria, dove l’Aviazione francese ha iniziato i
suoi raid contro gli uomini di al-Baôdådø. Nella rivendicazione dell’Is si legge: «La
Francia manda i suoi aerei ogni giorno in Siria, bombardando bambini e anziani.
Oggi beve dallo stesso calice». La guerra al terrorismo della Francia si gioca (an-
che) nella Métropole.

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232
LA STRATEGIA DELLA PAURA

MOLENBEEK
DA PICCOLA MANCHESTER
A BELGIKISTAN di Niccolò LOCATELLI
Il sobborgo di Bruxelles assurto a santuario del jihadismo
espone la vulnerabilità del ventre molle d’Europa.
L’inadeguatezza dell’intelligence. I danni del federalismo
molecolare. Ora il Belgio corre ai ripari.

1. S E MOLENBEEK NON ESISTESSE, LA STRAGE


del 13 novembre a Parigi forse non sarebbe mai avvenuta. Abdelhamid Abaaoud
(‘Abd al-Hamød Abû‘Ûd), l’architetto degli attacchi, è nato qui. Almeno tre com-
ponenti del commando vivevano a Bruxelles ed erano noti alle Forze di sicurez-
za locali. Lo stesso Abaaoud aveva raccontato a Dåbiq, la rivista dello Stato Isla-
mico, di esser stato fermato e successivamente lasciato andare dalla polizia bel-
ga, che pur avendo un suo identikit non l’avrebbe riconosciuto.
Questo Comune di Bruxelles è vasto meno di 6 chilometri quadrati ed è abi-
tato da oltre 95 mila persone, di cui circa il 70% disoccupati o inattivi. Tra gli im-
migrati, che rappresentano poco più di un quarto della popolazione, la presenza
marocchina è preponderante. La percentuale di islamici è di molto superiore alla
media nazionale (pari al 6% della popolazione).
Un tempo nota come «piccola Manchester» in virtù delle attività industriali
che proliferavano nell’area, Molenbeek è stata la piattaforma logistica di alcune
delle più importanti operazioni jihadiste del XXI secolo: dall’omicidio di Ahmad
Massoud, il leone del Panshir che combatteva i taliban in Afghanistan (ucciso
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due giorni prima dell’11 settembre 2001) alle bombe di Madrid del 2004, dalla
sparatoria al museo ebraico di Bruxelles (maggio 2014) al massacro nella reda-
zione di Charlie Hebdo (7 gennaio 2015), fino alla tentata (e fallita) strage sul tre-
no Thalys Amsterdam-Parigi (21 agosto 2015).
Molenbeek esemplifica le mancanze e le disfunzionalità del Belgio, il paese
europeo che fornisce il numero pro capite più alto di foreign fighters. Secondo i
dati pubblicati a ottobre dall’analista Pieter Van Ostaeyen, 516 cittadini belgi sono
(stati) attivi in Siria o Iraq; di questi, risulta che solo cinque combattano a soste-
gno del presidente siriano al-Asad. Considerando che la popolazione islamica re-
sidente in Belgio è pari a 670 mila persone (su 11 milioni), ogni 1.300 islamici 233
MOLENBEEK, DA PICCOLA MANCHESTER A BELGIKISTAN

belgi ve n’è uno che è andato a combattere in Siria o in Iraq per lo Stato Islami-
co o per organizzazioni simili, tra cui Ãabhat al-Nuâra.
Per provare a capire come mai il primo paese dell’Europa continentale a co-
noscere la rivoluzione industriale sia oggi il primo esportatore europeo pro capi-
te di jihadisti – tanto da conquistarsi il soprannome di «Belgikistan» – è utile fare
un passo indietro.
Dopo le guerre mondiali l’industria ha attirato una cospicua immigrazione
dall’Europa meridionale e dal Nordafrica, in particolare da Marocco e Algeria (ol-
tre che dalla Turchia e dal Congo, ex colonia). Manodopera a basso costo per le
miniere, le industrie e le fonderie del paese, tra cui quella di Molenbeek.
A partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento, la spinta economica e
occupazionale del settore industriale è andata esaurendosi.
Mentre Bruxelles si consolidava nel ruolo di capitale d’Europa, chi non fosse
almeno bilingue, altamente qualificato o lottizzabile nella pubblica amministra-
zione è stato progressivamente espulso dal mercato del lavoro. Agli immigrati
maghrebini che avevano lavorato alla costruzione di strade e metropolitane fu of-
ferta la nazionalità belga e un posto nelle agenzie di trasporti, mentre i loro figli
sono rimasti privi di occupazione e hanno iniziato a dipendere dai sussidi statali.
A questi giovani figli di immigrati erano indirizzati i sermoni degli imam sala-
fiti indottrinati dall’Arabia Saudita, invitati dal Belgio negli anni Settanta per ingra-
ziarsi i favori (economici) di Riyad. La predicazione salafita, più radicale e favore-
vole alla violenza, inizialmente non ebbe molta presa. Ma assieme alla guerra
contro i sovietici in Afghanistan e al conflitto in Algeria, essa favorì il rapido
emergere di una nuova generazione di belgi islamici avversi ai valori occidentali
e in empatia con il jihåd.

2. La crisi economica, l’esposizione all’islam integralista e la sensazione di es-


sere considerati «altro» rispetto alla popolazione autoctona – a sua volta divisa in
comunità poco comunicanti tra loro – costituiscono il terreno fertile per reclutare
degli alienati e convertirli al terrorismo. È quello che ha fatto dal 2010 al 2012
Sharia4Belgium, l’organizzazione salafita che si opponeva alla democrazia e vole-
va fare del Belgio uno Stato islamico. Pochi mesi fa Sharia4Belgium è stata defi-
nita «organizzazione terroristica» da un giudice belga che ne ha condannato il lea-
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der, Fouad Belkacem (Fu’åd Bilqåsim), a 12 anni di prigione. Altri membri do-
vranno scontare 15 anni perché coinvolti in attacchi jihadisti in Siria.
Queste condizioni però sono riscontrabili in molte periferie d’Europa e non
spiegano come Molenbeek e il Belgio in generale siano diventati il retroterra
strategico del jihadismo veterocontinentale. Quest’ulteriore passaggio è stato reso
possibile da alcune specificità del regno. Il federalismo qui ha raggiunto livelli
parossistici: oltre al governo centrale c’è un governo fiammingo, uno della Vallo-
nia, uno della comunità francofona, uno della comunità germanofona e uno del-
la regione di Bruxelles. Nella sola capitale (1,2 milioni di abitanti) ci sono 19 Co-
234 muni, 19 sindaci e ben 6 dipartimenti di polizia diversi, poco propensi a collabo-
LA STRATEGIA DELLA PAURA

rare tra loro e ancor meno con le polizie dei paesi confinanti, tra cui la Francia.
L’emissione dei passaporti è stata centralizzata solo nel 1998: prima di allora a
chi avesse voluto dei documenti da falsificare sarebbe bastato fare irruzione in
uno dei 520 municipi del paese e rubare dei passaporti vergini.
A queste peculiarità di carattere amministrativo si aggiunge un apparato di in-
telligence assolutamente inadatto – in termini numerici e qualitativi – a raccogliere
informazioni in un paese di 11 milioni di abitanti e una città che ospita il quartier
generale dell’Unione Europea, della Nato e di oltre duemila agenzie internazionali.
Preoccupato di mantenere la sua tradizionale neutralità e di non urtare la su-
scettibilità delle sue diverse comunità linguistiche e nazionali, il Belgio ha sem-
pre dedicato poche attenzioni e poche risorse alla sicurezza. I servizi segreti so-
no stati per la prima volta oggetto di legislazione nel 1998, oltre 160 anni dopo la
loro nascita (con l’indipendenza, 1830). Hanno a che fare con atti di terrorismo
dal 1978, quando la Nuova resistenza armena iniziò a colpire anche in Belgio gli
interessi turchi, e con il terrorismo di matrice islamista dal 1987, quando i
mujåhidøn siriani uccisero il primo segretario dell’ambasciata siriana a Bruxelles.
Malgrado ciò, solo nel 2010 sono state loro garantite alcune prerogative basilari,
come la possibilità di effettuare intercettazioni telefoniche. Oggi l’intelligence ha
un ramo civile (Sv) e uno militare (Adiv), per un totale di poco superiore ai mille
effettivi, tra cui secondo fonti di stampa gli arabofoni sono pochi. Non c’è un’a-
genzia di intelligence esterna.

3. In questo contesto, per i jihadisti viaggiare indisturbati tra la Siria, il Belgio


e il resto d’Europa diventa relativamente facile, come segnalava lo stesso
Abaaoud a Dåbiq. Il rischio maggiore, solo a partire da ottobre 2014, è la revoca
del passaporto belga a chi è sospettato di voler andare a combattere in Siria; ma
la regola vale solo per i cittadini naturalizzati, non per i discendenti degli immi-
grati, come appunto Abaaoud.
Anche il passaggio dalla pianificazione di un attentato alla fase operativa è
stato per anni particolarmente facile a Molenbeek. Il Comune è una no-go zone
per la polizia: vi prosperano i traffici più disparati, tra cui quello di droga, che
garantisce una fonte di finanziamento stabile. La legislazione belga in materia di
armi è stata per decenni permissiva e anche dopo la riforma del 2006 (accelerata
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da una sparatoria ad Anversa in cui un uomo uccise due persone con una pistola
comprata poche ore prima) il mercato nero dietro la vicina stazione ferroviaria
Gare du Midi è rimasto florido: procurarsi dei fucili non è mai stato un problema.
Infine, i terroristi hanno colpito per anni solo obiettivi all’estero. Quando
hanno agito in Belgio, hanno scelto bersagli «di basso profilo» (perché tradiziona-
li del jihadismo), come un museo ebraico. Non attaccando obiettivi più clamorosi
come le istituzioni europee o la Nato, hanno saputo evitare la creazione di un
senso di urgenza che portasse le autorità a intensificare le indagini.
Quest’ultimo decisivo aspetto è stato intaccato l’estate scorsa dal fallito at-
tacco sul treno Thalys – l’attentatore era salito a Bruxelles – e definitivamente 235
MOLENBEEK, DA PICCOLA MANCHESTER A BELGIKISTAN

compromesso con la strage di Parigi del 13 novembre, che ha portato ai raid


della polizia nei giorni successivi e alla proclamazione dello stato di massima
allerta nella capitale belga sabato 21 novembre, un fatto senza precedenti nella
storia del paese.
Di fronte al fallimento dell’intelligence e delle Forze di sicurezza, il gover-
no del premier Charles Michel ha promesso nuove misure contro il terrorismo.
La pressione mediatica e la situazione di emergenza porteranno probabilmente
a una rapida approvazione di norme più stringenti, ma non necessariamente
più efficienti.
Forse si riuscirà a «ripulire» Molenbeek e a colpire il retroterra dello Stato
Islamico nel cuore dell’Europa, ma le ragioni profonde che alimentano il flusso
continuo di jihadisti da Bruxelles alla Siria non sono state ancora affrontate. Per
farlo, il Belgio deve ripensare se stesso.

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ROSARIO AITALA - Magistrato.
EDOARDO BALDARO - Dottorando presso la Scuola Normale Superiore, si occupa di politi-
che di sicurezza in Africa occidentale, specialmente in quella francofona.
CINZIA BIANCO - Master in Middle East and Mediterranean Studies presso il King’s College
di Londra. Research Fellow con lo Iai in Oman, Qatar ed Emirati Arabi Uniti per il
progetto Sharaka. Si occupa di analisi strategiche sul Levante per la Nato Defence Col-
lege Foundation.
EDOARDO BORIA - Geografo, insegna all’Università La Sapienza di Roma.
SILVIA D’AMATO - Dottoranda presso la Scuola Normale Superiore, si occupa delle risposte
di antiterrorismo di Francia, Italia e Regno Unito.
EMANUELA C. DEL RE - Esperta di geopolitica e sicurezza. Specialista di Balcani, Caucaso e
Medio Oriente. Docente di Sociologia politica, Università Unicusano di Roma. Presi-
dente e fondatrice di Epos International Mediating and Negotiating Operational
Agency.
GERMANO DOTTORI - Cultore di Studi strategici alla Luiss-Guido Carli di Roma. Consigliere
redazionale di Limes.
DARIO FABBRI - Giornalista, consigliere redazionale di Limes. Esperto di America e Medio
Oriente.
MANLIO GRAZIANO - Insegna Geopolitica delle religioni all’Università Paris IV e all’Ameri-
can Graduate School di Parigi.
VIRGILIO ILARI - Presidente della Società italiana di storia militare (Sism).
CARLO JEAN - Ufficiale degli alpini in congedo. Insegna Geopolitica alla Link Campus Uni-
versity e alla Scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia. È presidente del Centro
studi di geopolitica economica. Consigliere scientifico di Limes.
NICCOLÒ LOCATELLI - Editor (Web e social media) di limesonline.com. Membro del consi-
glio redazionale di Limes.
LUCA MAINOLDI - Collaboratore di Limes. Segue tematiche relative alla geopolitica e alla
storia dell’intelligence. Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

FABRIZIO MARONTA - Redattore e responsabile relazioni internazionali di Limes.


MATTEO OPPIZZI - Laureato in Relazioni internazionali alla Luiss-Guido Carli e master in
International Relations and Diplomacy of the EU al College of Europe (Bruges).
Esperto di Mali, Sahel e Corno d’Africa.
GIOVANNI PARIGI - Esperto di geopolitica del Medio Oriente, insegna Cultura araba presso
l’Università Statale di Milano.
NICOLA PEDDE - Direttore dell’Institute for Global Studies e direttore della ricerca per il
Medio Oriente al Centro militare di studi strategici.
PAOLO RAFFONE - Analista strategico, esperto in relazioni internazionali e fondatore della
Fondazione Cipi. 237
XAVIER RAUFER - Dottore in Geografia e geopolitica, Università Paris-Sorbonne.
DANIELE SANTORO - Studioso di geopolitica turca.
FULVIO SCAGLIONE - Vicedirettore di Famiglia Cristiana e responsabile dell’edizione online
del giornale.
LOUISE SHELLEY - Professoressa e direttrice del Terrorism, Transnational Crime and Corrup-
tion Center alla George Mason University (Virginia, Usa).
MATTIA TOALDO - Policy Fellow presso l’European Council on Foreign Relations. Membro
del consiglio scientifico di Limes.
LORENZO TROMBETTA - Studioso di Siria contemporanea e autore di Siria. Dagli ottomani
agli Asad. E oltre, Mondadori Università. Da Beirut è corrispondente per l’Ansa e col-
labora con numerose testate nazionali e straniere.
GIANNI VALENTE - Giornalista, redattore di 30Giorni.
FRANCESCO VITALI - Esperto nel campo della protezione dati, Information & Communica-
tion Technologies, studi strategici. Membro del collegio docenti del dottorato in Geo-
politica e geopolitica economica presso l’Università telematica Marconi di Roma.

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La storia in carte
a cura di Edoardo BORIA
1. La Parigi romana si chiamava Lutetia, conquistata da Giulio Cesare nel 52 a.C. a
spese della coalizione guidata da Vercingetorige. Questo condottiero gallo educato dagli
stessi romani alle tecniche della guerra, mitizzato in epoca moderna dalla storiografia
francese più nazionalista, evocato nell’indomito spirito guerriero persino dai fumetti di
Astérix e Obélix che irridono i romani, in realtà fallì il proprio progetto di scacciare gli
stranieri dalla Gallia e divenire il capo assoluto di tutti i popoli che la abitavano. Fu tra-
scinato a Roma come trofeo da Cesare e dopo sei anni nel Carcere Mamertino venne
condannato a morte, probabilmente per strangolamento. Contrariamente a quanto evi-
denzia la pianta, cioè il nucleo centrale sull’Île de la Cité, l’insediamento originario sorgeva
sulla rive gauche, nell’odierno Quartiere latino. D’altra parte, lo stato delle conoscenze sul
tema lascia ancora oggi delle incertezze e sicuramente di più ve ne erano all’inizio del-
l’Ottocento, per cui questa rappresentazione assume un carattere piuttosto ipotetico.
Però con il suo tono assertivo una carta geografica riesce bene a vendere finte certezze. E
allora si può soprassedere al rigore scientifico se si tratta di celebrare un simbolo della
nazione come Parigi, di cui il libro da cui è tratta questa pianta decanta, come dice il tito-
lo, non solo l’aspetto fisico ma anche il valore civile e morale. Proprio come fosse una
persona. Anzi, una personalità.
Fonte: Plan de Paris sous la domination romaine, da J.A. DULAURE, Histoire physique, civile
et morale de Paris. Atlas, Paris 1838, Imprimerie de H. Fournier, tav. 1.

2. Come in Algeria, a cui si riferisce questa carta dal sapore orientalista, anche in
tanti altri paesi di ogni continente la colonizzazione francese ha lasciato indelebili segni
materiali e immateriali, dall’architettura alla lingua e all’assetto istituzionale dello Stato.
Le logiche su cui venivano impostate le relazioni tra la comunità allogena e quella autoc-
tona sono le solite di ogni processo di colonizzazione, basato sulla distinzione netta e in-
contestabile tra dominatori e dominati. Con i secondi che, una volta emigrati sul suolo
francese, non si rivoltavano alla politica assimilazionista in quanto mentalmente ingab-
biati dentro quella logica. Ma lo fanno ora le generazioni successive.
Fonte: MM. DESBUISSONS ET AL., Province de Constantine, da Atlas Migeon historique,
scientifique, industriel et commercial, Paris 1985, J. Migeon Éditeur, tav. 36.
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3. Come si vede da questo opuscolo del governo siriano, la lingua di rappresentanza


delle istituzioni era il francese per via dei forti legami storici che il paese ha avuto con la
Francia. Subentrati agli ottomani al termine della prima guerra mondiale, i francesi rima-
sero in Siria fino al 1946. Al loro arrivo vennero accolti come liberatori dalla comunità
cristiana, che venne presto premiata con l’istituzionalizzazione di un’entità politica indi-
pendente in cui esercitava l’egemonia. Ne deriverà il Libano, considerato ancora oggi
nell’immaginario geografico locale un’appendice della Siria. La politica del divide et impera
dei francesi produsse anche uno Stato degli alauiti, uno dei drusi, uno di Aleppo, uno di
Damasco e uno di Alessandretta. Con l’eccezione di quest’ultimo, tutti gli altri andranno
successivamente a formare la Siria nei confini entro cui l’abbiamo conosciuta fino alla
guerra civile in corso. Il territorio degli alauiti in particolare, che aveva la capitale a La- 239
takia, fu teatro di numerose ribellioni anti-francesi e venne incorporato definitivamente
nello Stato di Siria solo nel 1936.
Fonte: La Syrie Economique. Faits et chiffres, Damasco 1955, Direzione Generale del-
l’Informazione del Governo di Siria.

4. Che i francesi fossero orgogliosi l’aveva capito già Niccolò Machiavelli: «I Fran-
cesi per natura sono più fieri che gagliardi o destri». I cinque secoli successivi hanno con-
fermato il giudizio. Questa carta è tratta da una pubblicazione dal titolo già indicativo
(«Parigi liberata dal suo popolo») uscita all’indomani della liberazione di Parigi dai nazi-
sti. Offre una ricostruzione cartografica di quel fatidico 23 agosto 1944: pochi cerchi in-
dicanti gli acquartieramenti nazisti sono sfidati da una miriade di piccoli punti sparsi in
tutta la città corrispondenti ai luoghi in cui gli insorti parigini avevano eretto le barricate.
Fonte: Paris délivré par son peuple, Parigi s.d., Braun et Cie Editeurs.

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