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CONSIGLIO SCIENTIFICO
Rosario AITALA - Geminello ALVI - Marco ANSALDO - Alessandro ARESU - Giorgio ARFARAS - Angelo
BOLAFFI - Aldo BONOMI - Edoardo BORIA - Mauro BUSSANI - Vincenzo CAMPORINI - Luciano CANFORA
Antonella CARUSO - Claudio CERRETI - Gabriele CIAMPI - Furio COLOMBO - Giuseppe CUCCHI - Marta
DASSÙ - Ilvo DIAMANTI - Augusto FANTOZZI - Tito FAVARETTO - Luigi Vittorio FERRARIS - Federico FUBINI
Ernesto GALLI della LOGGIA - Carlo JEAN - Enrico LETTA - Ricardo Franco LEVI - Mario G. LOSANO
Didier LUCAS - Francesco MARGIOTTA BROGLIO - Maurizio MARTELLINI - Fabio MINI - Luca MUSCARÀ
Massimo NICOLAZZI - Vincenzo PAGLIA - Maria Paola PAGNINI - Angelo PANEBIANCO
Margherita PAOLINI - Giandomenico PICCO - Romano PRODI - Federico RAMPINI - Andrea RICCARDI
Adriano ROCCUCCI - Sergio ROMANO - Brunello ROSA - Gian Enrico RUSCONI - Giuseppe SACCO
Franco SALVATORI - Stefano SILVESTRI - Francesco SISCI - Mattia TOALDO - Roberto TOSCANO
Giulio TREMONTI - Marco VIGEVANI - Maurizio VIROLI - Antonio ZANARDI LANDI - Luigi ZANDA
CONSIGLIO REDAZIONALE
Flavio ALIVERNINI - Luciano ANTONETTI - Marco ANTONSICH - Federigo ARGENTIERI - Andrée BACHOUD
Guido BARENDSON - Pierluigi BATTISTA - Andrea BIANCHI - Stefano BIANCHINI - Nicolò CARNIMEO -
Roberto CARPANO - Giorgio CUSCITO - Andrea DAMASCELLI - Federico D’AGOSTINO - Emanuela C. DEL RE
Alfonso DESIDERIO - Germano DOTTORI - Federico EICHBERG - Dario FABBRI - Ezio FERRANTE - Wl´odek
GOLDKORN - Franz GUSTINCICH - Virgilio ILARI - Arjan KONOMI - Niccolò LOCATELLI - Marco MAGNANI
Francesco MAIELLO - Roberto MENOTTI - Paolo MORAWSKI - Roberto NOCELLA - Giovanni ORFEI
Federico PETRONI - David POLANSKY - Alessandro POLITI - Sandra PUCCINI - Benedetta RIZZO
Angelantonio ROSATO - Enzo TRAVERSO - Charles URJEWICZ - Pietro VERONESE - Livio ZACCAGNINI
REDAZIONE, CLUB, COORDINATORE RUSSIE
Mauro DE BONIS
DIRETTORE RESPONSABILE
Lucio CARACCIOLO
COORDINATORE LIMESONLINE
Niccolò LOCATELLI
COORDINATRICE SCIENTIFICA
Margherita PAOLINI
CARTOGRAFIA E COPERTINA
Laura CANALI
COORDINATRICE PER I PAESI ARABI E ISLAMICI
Antonella CARUSO
HEARTLAND, RESPONSABILE RELAZIONI INTERNAZIONALI
Fabrizio MARONTA
CORRISPONDENTI
Keith BOTSFORD (corrispondente speciale)
Afghanistan: Henri STERN - Albania: Ilir KULLA - Algeria: Abdennour BENANTAR - Argentina: Fernando
DEVOTO - Australia e Pacifico: David CAMROUX - Austria: Alfred MISSONG, Anton PELINKA, Anton
STAUDINGER - Belgio: Olivier ALSTEENS, Jan de VOLDER - Brasile: Giancarlo SUMMA - Bulgaria: Antony
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TODOROV - Camerun: Georges R. TADONKI - Canada: Rodolphe de KONINCK - Cechia: Jan KR̆EN - Cina:
Francesco SISCI - Congo-Brazzaville: Martine Renée GALLOY - Corea: CHOI YEON-GOO - Estonia: Jan
KAPLINSKIJ - Francia: Maurice AYMARD, Michel CULLIN, Bernard FALGA, Thierry GARCIN - Guy HERMET,
Marc LAZAR, Philippe LEVILLAIN, Denis MARAVAL, Edgar MORIN, Yves MÉNY, Pierre MILZA - Gabon: Guy
ROSSATANGA-RIGNAULT - Georgia: Ghia ZHORZHOLIANI - Germania: Detlef BRANDES, Iring FETSCHER,
Rudolf HILF, Josef JOFFE, Claus LEGGEWIE, Ludwig WATZAL, Johannes WILLMS - Giappone: Kuzuhiro
JATABE - Gran Bretagna: Keith BOTSFORD - Grecia: Françoise ARVANITIS - Iran: Bijan ZARMANDILI - .Israele:
Arnold PLANSKI - Lituania: Alfredas BLUMBLAUSKAS - Panamá: José ARDILA - Polonia: Wojciech GIEŁZYŃSKI
Portogallo: José FREIRE NOGUEIRA - Romania: Emilia COSMA, Cristian IVANES - Ruanda: José KAGABO
Russia: Aleksej SALMIN, Andrej ZUBOV - Senegal: Momar COUMBA DIOP - Serbia e Montenegro: Tijana M.
DJERKOVIC´, Miodrag LEKIC´ - Siria e Libano: Lorenzo TROMBETTA - Slovacchia: Lubomir LIPTAK - Spagna:
Manuel ESPADAS BURGOS, Victor MORALES LECANO - Stati Uniti: Joseph FITCHETT, Igor LUKES, Gianni
RIOTTA, Ewa THOMPSON - Svizzera: Fausto CASTIGLIONE - Togo: Comi M. TOULABOR - Turchia: Yasemin
TAŞKIN - Città del Vaticano: Piero SCHIAVAZZI - Venezuela: Edgardo RICCIUTI
Ucraina: Leonid FINBERG, Mirosłav POPOVIC´- Ungheria: Gyula L. ORTUTAY
1Rivista mensile n. 11/2015 (dicembre)
Consiglio di amministrazione
Presidente Carlo De Benedetti
Amministratore delegato Monica Mondardini
Consiglieri Massimo Belcredi, Agar Brugiavini, Alberto Clò,
Rodolfo De Benedetti, Francesco Dini, Silvia Merlo,
Elisabetta Oliveri, Luca Paravicini Crespi, Michael Zaoui
Direttori centrali
Produzione e sistemi informativi Pierangelo Calegari
Relazioni esterne Stefano Mignanego
Risorse umane Roberto Moro
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SOMMARIO n. 11/2015
EDITORIALE
AUTORI
237
239
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LA STRATEGIA DELLA PAURA
nemico, non categoria euristica. Eppure mai come oggi, quando l’e-
mozione e la rabbia minacciano di prendere il sopravvento sulla ra-
gione, è opportuno ricordare a noi stessi che il terrorismo è una tec-
nica di combattimento. Non una specialità islamica o di qualunque
altro credo, visto che a usarla lungo l’intero corso della storia umana
sono stati i soggetti più diversi, noi europei non esclusi. Per capirne il
1. Cfr. B. BONNEFOUS, D. REVAULT D’ALLONNES – «Valls dramatise encore plus la communication», Le
Monde, 21.11.2015. 7
GUERRIERI DEL NULLA
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t la Ucraina
A
Rep. Ceca
o
Francia <1.000 2.000 103.000 393.000
n
1.000 4.000 Slovacchia
568.000 Liechtenstein
ea
Austria <1.000 4.000 Moldova
4.704.000
Oc
161.000 475.000 Ungheria 4.000 15.000
Svizzera Slovenia 17.000 25.000 Romania
148.000 Croazia 46.000 73.000
Portogallo
430.000 San Bosnia - Georgia
10.000 Marino Azerbaigian
Erz. Serbia M a r N e ro 625.000 442.000
65.000 Andorra Monaco Italia <1.000 5.635.000 8.795.000
Bulgaria
Spagna <1.000 <1.000 858.000 1.000 1.155.000 1.002.000
271.000 <1.000 <1.000 1.583.000 Montenegro Armenia
Kosovo Macedonia 128.000
1.021.000
Città del 1.000
Vaticano Turchia
<1.000 <1.000 Albania
Mediterraneo
Mar
Grecia
254.000
Malta 527.000 2.000 200.000
<1.000 1.000 Fonti: Pew Research Center Cipro
LA STRATEGIA DELLA PAURA
7. Cfr. M. GRANT, «16% of French Citizens Support ISIS, Poll Finds», Newsweek, 26/8/2014.
8. Cfr. J.M. GRADT, «Plus jeune, plus varié: le nouveau visage de la radicalisation islamiste», Les Echos,
18/11/2015.
14 9. O. ROY, «Le djihadisme est une révolte nihiliste», Le Monde, 25/11/2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
Caen Metz
Strasburgo
Brest PARIGI
Colmar
Rennes
Orléans
Nantes Digione
F R A N C I A
SVIZZERA
Poitiers
La Rochelle
65%
uomini
Limoges Clermont Lione
Ferrand Grenoble ITALIA
Bordeaux
da 21 a 29 Perpignan C o rs i c a
da 16 a 20
Ajaccio
da 11 a15 SPAGNA
da 1 a 10
tare in Siria, abbia costretto tutti gli attori citati, specie gli occiden-
tali, a rivedere gli algoritmi su cui orientavano il tentativo di mani-
polare una struttura sempre meno disponibile a prestarsi ai disegni
altrui. Che cosa cambia dopo Parigi? Più di qualcosa. Per punti.
10. Cfr. S. ATRAN, N. HAMID, «Paris: The War ISIS Wants», The New York Review of Books, 16/11/2015.
11. Cfr. C. WHITLOCK, E. NAKASHIMA, «For the Islamic State, paroxysms of violence portend apocaly-
pse», The Washington Post, 16/11/2015.
12. Vedi in particolare i volumi «Le maschere del califfo» (n. 9/2014), «Dopo Parigi. Che guerra fa»
16 (n. 1/2015), «La radice quadrata del caos» (n. 5/2015), «Le guerre islamiche» (n. 9/2015).
TURCHIA L’Ypg a guida di una coalizione 1 - LO STATO ISLAMICO
respinge l’Is ad al-Hawl Peshmerga/Pkk
e ad Hasaka
. liberano quasi Territorio dell’Is e Iraq
completamente K u r d Aree sotto controllo Is
a Sinjar ist
Kobani k an
Tall Abyad. asa IRAN Aree di sostegno Is
Aleppo H Mosul i
r Arbīl in larga parte
wl
ra
Ha ja
c
Sin desertiche
Base di Kweiris Kweiris Raqqa al- e disabitate
he
(Filogovernativi, russi
e iraniani sono riusciti Kirkūk Aree a prevalenza
no
ad aprirsi un varco Curdi
e a rompere assedio dell’Is) Dayr al-Zawr Curdi siriani sciita
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del governo
Karbalā)
Is più debole a causa Territorio dei
dell’uccisione da parte di GIORDANIA curdi siriani
Ğabhat al-Nusra
. del suo capo locale IRAQ Kurdistan siriano
Ramādī circondata (Rojava)
da governativi Euf
Territorio dell’Is e Siria e milizie filogovernative
rate
Curdi siriani misti a ribelli
Aree sotto controllo Is Aree di sostegno Is ARABIA SAUDITA
in larga parte
Aree filo-governative, desertiche Mu
miliziani anti-regime e disabitate Situazione nelle città siriane ro
tra cui qaidisti della sa
Ğabhat al-Nusra. Città sotto Città divise tra curdi siriani e ribelli ud
ita
il controllo dell’Is (Kobani e Tall Abyad). in
Città contese Città divisa tra curdi siriani e forze del regime co
(Hasaka)
.
str
u Golfo
Strade importanti zio Persico
Città contesa per base aerea militare lealista ne KUWAIT
(Dayr al-Zawr)
Alture del Golan Città contese con varie fazioni ©Limes
Fonte: United Confict Analysts e autori di Limes sul terreno
DANIMARCA Attentati commessi dall’Is
2-ATTACCHI IS Copenaghen o da gruppi affiliati
Paesi coinvolti
NEL MONDO da attentati e da Attentati ispirati dall’Is
rivendicazioni
(2014-2015) territoriali AUSTRALIA
da parte dell’Is RUSSIA CANADA Montreal Sydney
Parigi Ottawa
USA
FR ANCI A Melbourne
EMIRATO Dallas
DEL CAUCASO
Mar Nero
Mar
TURCHIA Caspio
Tunisi Suruç Nangarhar
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ALGERIA Mabrūk R ost PA KI STAN
CIRENAICA SINAI al- afah i di b Kuwayt
Il Cairo Ša (Ar lo c
)
LIBIA y h īš co al-Qudayh.
Zu
EGITTO w ay al-Dammām
yid
Fizzān Riyad
ARABIA Mare
SAUDITA Arabico
’A s
īr
San’ā’
.
Zone autoproclamate wilayat (province) YEMEN Stato Islamico
dello Stato Islamico
Bo
)
ko H
SINAI (Egitto) gruppo: Bayt al-Maqdis BORNO (Nigeria) gruppo: Boko Haram
aram
ARABIA SAUDITA KHORASAN (AfPak)
NIGERIA YEMEN EMIRATO DEL CAUCASO Aree sotto controllo Is
TRIPOLITANIA (Libia) (Cecenia e Daghestan in Russia) Aree di sostegno Is in larga
©Limes CIRENAICA (Libia) parte desertiche e disabitate
3 - GUERRA E PULIZIA ETNICA IN SIRIA
T U R C H I A
Autostrada
Damasco-Beirut
Basi sul Mediterraneo
sotto il controllo russo Dal 2012 assediate da
Kafrayā Fū(a Aleppo milizie locali e difese
da Hizbullāh.
.
Autostrada L’accordo sul cessate
Damasco-Aleppo Drusi il fuoco di settembre
Idlib si è arenato a causa
dei bombardamenti russi.
La città è in mano a miliziani
iti
anti-regime sostenuti
S ci
Cristiani
Hims
. . prima del 2011 era
il primo polo industriale della Siria.
Connetteva Palmira con il Mediterraneo.
NO
)Ā
BIQ
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Sargāyā
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L IBAN O Damasco
co
l’Is
Nemici dell’Is combattenti sul terreno
l
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E.A.U.
Nem
ARABIA IRAN
SAUDITA S I R I A Esercito
iracheno
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I R A Q
Soci fondatori oggi ambigui Aree sotto controllo Is
Ğabhat Aree di sostegno Is in larga parte
al-Nusra
. desertiche e disabitate
Ex sponsor oggi nemici Esercito Ex sponsor oggi nemici
siriano
Hizbullāh
.
USA FRANCIA
REGNO
UNITO
©Limes
LA STRATEGIA DELLA PAURA
13. Cfr. «Discours du président de la République devant le Parlement réuni en Congrès», Versailles,
20 16/11/2015, http://elysee.fr
LA STRATEGIA DELLA PAURA
VIOLENZA POLITICA IN EUROPA OCCIDENTALE ATTACCHI CON UNA VITTIMA, TOTALE CUMULATIVO
10 settembre 2001 - 16 novembre 2015
AUSTRIA 1 IRLANDA 2
BEGLIO 1 ITALIA 3
REGNO UNITO 14 PAESI BASSI 3
Attacchi con due o più vittime =1 vittima FRANCIA 5 SPAGNA 9
Autori GRECIA 5 SVEZIA 1
Islamisti Altri Afliazione sconosciuta
Svizzera
Regno Unito
Spagna
Spagna
Regno Unito
Spagna
Spagna
(metropolitana Regno Unito
Spagna
Regno Unito
Francia
Regno Unito
Paesi Bassi
Spagna
Germania
(Oslo e Norvegia
Francia
Francia
Grecia
Belgio
(Charlie Hebdo) Francia
Francia
Danimarca
(Parigi) Francia*
isola di Ut0ya)
e bus di Londra
2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2009 2011 2012 2013 2014 2015
*Bilancio al 16 novembre
BELGIO Île-de-France
Lilla
Amiens
LUSS.
Rouen GERMANIA
Caen Metz
Strasburgo
PARIGI
Rennes
Orléans
Nantes Digione
F R A N C I A SVIZZERA
Percentuale di
credenti musulmani Poitiers
per Dipartimento
Numero di luoghi di
eo
culto e associazioni an
Montpellier rr
islamiche per Toulouse ite
Dipartimento ed
Marsiglia
a rM
>30 M Corsica
da 21 a 30
Ajaccio
da 6 a 20 SPAGNA
<5
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Punti d’appoggio
Portaerei
Base regionale STRISCIA Charles-de-Gaulle
SAHEL-SAHARA SIRIA
BARKHANE DAMAN
900 militari LIBANO IRAQ
MAROCCO 3.800 militari
ALGERIA GIORDANIA
LIBIA
EGITTO SIRIA-IRAQ QATAR E.A.U
CHAMMAL
2.700 militari Abu Dhabi
Atar
S Madama ARABIA SAUDITA
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A HTessalit Faya OMAN
MAURITANIA E L
- S A H A R A
Gao SUDAN ERITREA
SENEGAL
MALI
NIGER CIAD YEMEN
Bamako Niamey
Abéché
BURKINA Gibuti
GUINEA FASO N’Djamena 1.000 militari
BENIN
SIERRA COSTA NIGERIA
LEONE D’AVORIO SOMALIA
TOGO
LIBERIA ETIOPIA
GHANA REP.
SENEGAL CENTRAFRICANA SUD SUDAN
Dakar CAMERUN
350 militari
Libreville Oceano Indiano
Abidjan 350 militari SANGARIS KENYA
1.000 militari 900 militari ATALANTA
GABON UGANDA Nell’ambito
Golfo di Guinea dell’Unione Europea
CORYMBRE REP. DEM.
CONGO CONGO 350 militari
350 militari TANZANIA
Fonte: ministero della Difesa francese
LA STRATEGIA DELLA PAURA
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28
LA STRATEGIA
DELLA PAURA
Parte I
AMICI, NEMICI
e UTENTI
dello STATO ISLAMICO
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LA STRATEGIA DELLA PAURA
Stato Islamico, infatti, serve interessi che vanno al di là di quelli di una potenza
regionale in profonda crisi d’identità come la Turchia.
La dimensione delle relazioni tra Turchia e Stato Islamico più dibattuta in
Occidente è relativa al transito attraverso l’Anatolia dei jihadisti intenzionati ad
arruolarsi nelle milizie del «califfo» e alla fornitura di armi a queste ultime da par-
te del governo turco. Sul fatto che per diversi anni la Turchia abbia rappresenta-
to la rotta privilegiata per i jihadisti diretti in Siria e che Erdoãan per un certo pe-
riodo abbia diretto il traffico sulla «autostrada del jihåd», ci sono pochi dubbi. Al-
la fine del 2014 il vicepresidente americano Joe Biden si lasciò scappare che nel
corso del loro ultimo incontro il presidente turco gli aveva confidato di «averne 31
PER ERDOĞAN, MALGRADO TUTTO, L’IS RESTA IL MALE MINORE
1. Cit. in J. ZANOTTI, «Turkey: Background and U.S. Relations», Crs Report, Congressional Research
Service, 5/10/2015, p. 24.
2. A. BOZKURT, «Turkey’s Islamists Betrayed Uyghurs, Damaged Ties with China», Today’s Zaman,
13/4/2015.
3. H. PAMUK, N. TATTERSALL, «Exclusive: Turkish Intelligence Helped Ship Arms to Syrian Islamists Re-
bel Areas», Reuters, 21/5/2015.
4. D. SANTORO, «Al golpe! Le ragionevoli paranoie di Erdoãan in Turchia», Limesonline, 5/6/2015.
5. «Ex-British PM Blair Says Iraq War Contributed to ISIL Rise», Today’s Zaman, 25/10/2015.
6. Turkey Transformed: The Origins and Evolution of Authoritarianism and Islamization Under the
32 Akp, Bipartisan Policy Center, ottobre 2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
7. B. RILEY-SMITH, M. EVANS, «David Cameron: Internet Extremism “Duped” British Schoolgirls to Join
Isil», The Telegraph, 23/2/2015.
8. «Missing Schoolgirls: Turkish Ambassador Summoned before MPs», The Guardian, 25/2/2015.
9. «Turkey: Timely Information Needed to Stop Flow of “Terrorists”», Anadolu Agency, 27/2/2015.
10. «UK Mulls Helping Turkey with Foreigners Headed for Syria», Anadolu Agency, 4/3/2015.
11. R. CENGIZ, «Valilik: IŞID komutanı Denizli’de tedavi görüyor» («Il governatorato: un comandante
dell’Isis sta ricevendo cure mediche a Denizli»), Zaman, 6/3/2015.
12. «US Policymakers Missed Importance of Islamic State Oil Trade Through Turkey», Sputnik News,
31/10/2015.
13. Z. DOÃAN, «Despite Ongoing War, is Trade between Turkey, Syria Rebounding?», Al Monitor,
11/11/2015.
14. D. BLAIR, «Oil Middleman between Syria and Isil is New Target for EU Sanctions», The Telegraph,
7/3/2015.
15. «È l’economia criminale, stupido!», Editoriale di Limes, «Chi ha paura del califfo», n. 3/2015. 33
PER ERDOĞAN, MALGRADO TUTTO, L’IS RESTA IL MALE MINORE
16. M. BOZARSLAN, «Islamic State Creeps in on Kurdish Stronghold», Al Monitor, 30/10/2015; M. GUR-
CAN, «Turkey Reconsiders Security Priorities», Al Monitor, 30/10/2015.
17. I. EMEM, «Polis Alagöz kardeşleri dinlemiş: Belki son görüşmem!» («La polizia ha ascoltato i fratelli
Alagöz: forse è la mia ultima conversazione!»), Radikal, 17/10/2015.
18. «Başbakan Ahmet Davutoãlu: “Şüpheli diye birisini tutuklayamazsınız”» («Il primo ministro Ahmet
Davutoãlu: “Non si può arrestare qualcuno nemmeno se è sospetto”»), Hürriyet, 15/10/2015.
19. D. SANTORO, «Il vero obiettivo della guerra di Erdoãan non è lo Stato Islamico», Limesonline,
27/7/2015.
20. J. CASAGRANDE, «Russian Airstrikes in Syria: November 4-November 15», Institute for the Study of
War, 16/11/2015.
21. R. SHERLOCK, R. SANCHEZ, «US Accuses Assad Regime of Helping Islamic State by Targeting Rival
34 Rebels in Strikes», The Telegraph, 2/6/2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
sa della versione romanzata narrata dai media occidentali 22. Forse solo l’Iran,
unico paese i cui interessi strategici sono seriamente minacciati dal «califfato».
Il presidente americano Barack Obama ha dichiarato che quella contro lo
Stato Islamico è una «guerra generazionale» che durerà molti anni 23. Almeno ven-
ti, secondo l’ex capo di Stato maggiore della Difesa americano Ray Odierno 24.
L’ex comandante supremo della Nato Wesley Clark ha ammesso che lo Stato Isla-
mico è un progetto finanziato da «amici e alleati» degli Stati Uniti 25, che infatti
non sono esattamente entusiasti all’idea di combatterlo. Si può dunque convenire
con Ramzy Baroud che l’Is è un prodotto occidentale generato dalle politiche
implementate dagli americani in Iraq dopo il 2003 e soprattutto dal settarismo
dell’ex primo ministro iracheno Nûrø al-Målikø 26.
Perché mai, dunque, i turchi dovrebbero combattere in prima linea una
guerra che nessuno ha interesse a combattere contro un Frankenstein con tutta
probabilità sfuggito al controllo dei suoi creatori? Soprattutto, perché mai dovreb-
bero farlo quando le circostanze storiche e geopolitiche potrebbero permettere
ad Ankara di emergere come il principale partner di un’entità che nei prossimi
decenni (questo l’orizzonte temporale di Erdoãan dopo le elezioni del 1° novem-
bre) potrebbe entrare a far parte della «comunità internazionale»?
L’ex consulente del Pentagono Rosa Brooks ha scritto di recente su Foreign
Policy che «se lo Stato Islamico continua a decapitare gente e se noi non siamo
capaci di distruggerlo, forse ci stancheremo di combatterlo e decideremo di strin-
gere accordi con esso. Passerà poi qualche decennio ed ecco che l’Is avrà un
seggio all’Onu – se l’Onu esisterà ancora» 27. Si tratta di una prospettiva cinica e
per certi versi piuttosto estrema, che tuttavia muove dal giusto assunto di base:
nessuno sembra avere intenzione di combattere lo Stato Islamico, figurarsi di di-
struggerlo. In un contesto di questo tipo, non deve sorprendere se la Turchia
cerca di calibrare con grande attenzione le relazioni con l’unico vero attore sun-
nita del Siraq. Un attore che qualora decida di rinunciare alla decapitazione co-
me forma di comunicazione politica potrebbe persino diventare, nel medio-lun-
go periodo, parte della soluzione al caos levantino-mesopotamico.
In tal senso è importante notare che lo Stato Islamico non considera la Tur-
chia come un territorio sul quale esportare il jihåd. Nel primo numero della rivi-
sta dell’Is in turco (Konstantiniyye), pubblicato significativamente nell’anniversa-
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rio della conquista di Costantinopoli da parte di Maometto II (29 maggio 1453) 28,
si parla apertamente di una conquista non violenta di Istanbul, la quale verrà
22. «IŞID ile PYD’nin kayıkçı kavgası!» («Isis e Pyd: una lite tra barcaioli»), Yeni Çaã, 1/7/2015.
23. S. SIDDIQUI, «Barack Obama Says Fight against Isis Will Be “generational struggle”», The Guar-
dian, 6/7/2015.
24. A. MEHTA, «Odierno: ISIS Fight Will Last “10 To 20 Years”», Defense News, 17/7/2015.
25. Trascrizione dell’intervista rilasciata alla Cnn l’11/2/2015.
26. R. BAROUD, «The Daesh Debate», The Jordan Times, 17/3/2015.
27. Cit. in «Ultime dalla Terra di Hobbes», Editoriale di Limes, «Le guerre islamiche», n. 10/2015.
28. Sul contenuto del primo numero della rivista si veda M. GURCAN, «Islamic State Releases First
Turkish Publication», Al Monitor, 8/6/2015. 35
36
IL CORRIDOIO CURDO Aree sotto controllo Is
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PER ERDOĞAN, MALGRADO TUTTO, L’IS RESTA IL MALE MINORE
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Esportazioni
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di petrolio
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LA STRATEGIA DELLA PAURA
Pkk siriano ha infatti creato una dinamica perversa per la quale qualsiasi terri-
torio siriano occupato dal «califfo» diveniva suscettibile di essere attaccato e
conquistato dalle milizie curde. In altri termini, la Turchia ha iniziato a percepi-
re lo Stato Islamico, in particolar modo le sue «province» siriane, come un Kur-
distan in potenza.
29. «Istanbul’un Fethi» («La conquista di Istanbul»), Konstantinniye, n. 1, maggio 2015 (Şaban 1436),
pp. 4-7.
30. «Hicret» («Trasmigrazione»), ivi, pp. 29-31
31. «Davutoãlu IŞID’e yine “terörist” diyemedi, “meşrulaştırıcı” laflar etti» («Ancora una volta Davuto-
ãlu non ha definito “terrorista” l’Isis, ha usato espressioni “legittimanti”»), Diken, 7/8/2014. 37
PER ERDOĞAN, MALGRADO TUTTO, L’IS RESTA IL MALE MINORE
Erdoãan ha visto avverarsi tale incubo a metà giugno, quando le Ypg hanno
sottratto all’Is il controllo delle città di confine di Tall Abyaî unificando i due
cantoni del Rojava di Cezire e Kobani. Per Ankara è stato uno shock. Anche per-
ché i leader politici curdi hanno cominciato a manifestare pubblicamente la pro-
pria intenzione di «andare a Ãaråbulus» 32. L’area di Ãaråbulus, attualmente con-
trollata dallo Stato Islamico, rappresenta l’ultimo ridotto siriano della Turchia. Se i
curdi riuscissero a conquistarlo, sarebbero in grado di unificare il cantone di
‘Afrøn al resto del Rojava, separando fisicamente la Turchia dalla Siria e preclu-
dendo ad Ankara la possibilità di continuare a sostenere le bande di ribelli da es-
sa controllate. Senza contare che l’unificazione del Rojava finirebbe per conferire
il crisma della statualità al Pkk. Molto probabilmente, la decisione di Erdoãan di
riaprire le ostilità con i terroristi curdi è maturata proprio in occasione della presa
di Tall Abyaî da parte delle Ypg. In ogni caso, da giugno l’intera strategia siriana
della Turchia ruota intorno all’obiettivo di impedire il «passaggio a ovest» dell’Eu-
frate dei curdi. Si tratta di una linea rossa sulla quale Ankara non ha alcuna in-
tenzione di transigere 33, come dimostra l’offensiva contro le milizie curde che
hanno provato ad attraversare il fiume a giugno e ottobre 34.
L’assicurazione degli americani che non forniranno più armi direttamente al-
le milizie curde ma solo a una coalizione curdo-araba nella quale comunque le
Ypg costituiscono la componente maggioritaria 35 ha confermato ad Ankara – an-
che alla luce della relazione sempre più intima tra Russia e curdi siriani 36 – che
la minaccia curda richiede un ulteriore cambio di strategia. I contorni di questa
nuova strategia sono stati delineati da Abdülkadir Selvi, uno dei commentatori
più vicini al «palazzo», in un articolo del 9 novembre dal significativo titolo: «Sta
per arrivare una grande operazione» 37. Secondo Selvi, turchi e americani stanno
preparando un’offensiva aerea in grande stile contro lo Stato Islamico per sottrar-
re a quest’ultimo il controllo dell’area di Ãaråbulus, nella quale, allo scopo di im-
pedire il «passaggio a ovest» dei curdi, verrebbero installate bande di non meglio
precisati ribelli arabo-turkmeni.
Queste ultime costituiscono evidentemente il punto debole della strategia.
Alla luce dell’ignominioso fallimento del programma di addestramento dei ribelli
«moderati» condotto in Turchia dagli Stati Uniti e delle alterne (s)fortune dei com-
battenti sostenuti da Ankara, appare difficile immaginare che i turchi siano in
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38. ID., «Cerablus’ta kara operasyonuna girecek miyiz?», Yeni Şafak, 12/11/2015.
39. E. USLU, «Is War on the Horizon?», Today’s Zaman, 11/11/2015.
40. D. SANTORO, «Per fermare i curdi, Erdoãan cambia strategia contro lo Stato Islamico», Limesonline,
12/11/2015.
41. D. ZEYREK, «Turkey, US to Begin Op for ISIL-Free Zone in Syria», Hürriyet Daily News, 18/11/2015.
42. S. DEMIRTAŞ, «Turkey, US Continue to Differ on ISIL Fight after G-20», Hürriyet Daily News,
18/11/2015. 39
PER ERDOĞAN, MALGRADO TUTTO, L’IS RESTA IL MALE MINORE
doppio filo ai rapporti tra gli apparati di sicurezza turchi e l’Is, genere letterario
che vanta diversi filoni.
Erdoãan e Davutoãlu hanno attribuito la responsabilità dell’attentato di
Ankara a un «cocktail terroristico» generato dall’alleanza stretta tra Pkk, Stato Isla-
mico e Dhkp-c (organizzazione terroristica di ispirazione marxista-leninista) con
la speciale partecipazione del regime di al-Asad 43. Le basi di questa alleanza sa-
rebbero state gettate a fine maggio in occasione di un incontro tra delegati del
regime siriano, del «califfo» e del Pkk andato in scena in una pompa di benzina
nei pressi di Õasaka 44. Se non rispecchiasse il riflesso condizionato più comune
tra le élite turche, la paranoia complottista, potrebbe essere liquidata come la tra-
ma di un romanzo di spionaggio di quart’ordine. Invece non è escluso che Da-
vutoãlu creda sul serio a quello che dice. Per i turchi, d’altra parte, la teoria del
complotto costituisce la chiave di lettura privilegiata della storia 45.
Più realisticamente, dopo l’attentato di Suruç diversi analisti giunsero alla
conclusione che lo Stato Islamico stava perseguendo una strategia volta a esacer-
bare le linee di faglia della società turca esportando il conflitto con i curdi in
Anatolia. Mümtazer Türköne fece giustamente notare che la strategia dell’Is pog-
gia sulla tendenza dei curdi a ritenere Erdoãan responsabile di qualsiasi attacco
sferrato contro di loro dalle milizie del «califfo» 46. Infatti, il Pkk si vendicò per l’at-
tentato di Suruç uccidendo due poliziotti turchi nel sonno. Due giorni dopo, Er-
doãan riaprì le ostilità contro i terroristi curdi 47.
In questo contesto, non è semplice capire quale ruolo stiano giocando i ser-
vizi segreti turchi. All’indomani dell’attentato di Ankara il deputato nazionalista
Lütfü Türkkan ha correttamente messo in evidenza che l’attacco poteva essere
spiegato solo in due modi: un clamoroso fallimento dell’intelligence o un lavoro
svolto dalla stessa intelligence. La prima ipotesi è persino più inquietante della
seconda, dal momento che se così fosse la Turchia sarebbe ridotta alla stregua di
uno Stato fallito nel quale le cellule jihadiste possono fare il bello e il cattivo
tempo. Non sembra essere questo il caso: uno dei capi dell’intelligence dell’Is ha
rivelato di recente che per molto tempo i servizi segreti turchi hanno fornito al
«califfo» ogni tipo di supporto logistico, compresi panini di McDonald’s, vacanze
in Turchia e cure mediche.
Anche senza il senno di poi, è possibile affermare che la strage di Ankara
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poteva essere evitata. Alla luce della logica sottostante agli attentati di Diyarbakır
e Suruç, qualsiasi persona di buonsenso avrebbe considerato l’evento che avreb-
43. «Four Terror Groups May Be behind Ankara Attack: Turkish PM», Hürriyet Daily News, 10/10/2015;
«ISIS, PKK, PYD, Syrian Intelligence behind Ankara Attack, President Erdoãan Says», Daily Sabah,
22/10/2015.
44. D. SANTORO, «La tentazione pericolosa di Erdoãan: intervenire in Siria», Limesonline.
45. D. SANTORO, «La grande strategia della Turchia neo-ottomana», Limes, «La radice quadrata del
caos», n. 5/2015, pp. 31-46.
46. M. TÜRKÖNE, «ISIL’s Turkey Calculation», Today’s Zaman, 24/7/2015.
47. D. SANTORO, «Erdoãan-Öcalan-Demirtaş: l’incrocio di tre ambizioni destabilizza la Turchia», Limes,
40 «Le guerre islamiche», n. 9/2015, pp. 173-180.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
IL MONDO DI ERDOGAN
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curdi. A questa versione soft della teoria complottista, che si contrappone a quel-
la del «cocktail terroristico» di Davutoãlu, si affianca una versione hard sostenuta
soprattutto dal co-segretario dell’Hdp Selahattin Demirtaş e dalla piazza curda,
per i quali Erdoãan è il mandante degli attentati degli ultimi mesi. In altri termini,
attraverso il suo capo dei servizi segreti, Hakan Fidan, Erdoãan controllerebbe
un certo numero di cellule jihadiste che, alla bisogna, userebbe come manodo-
pera. Tanto la teoria del «cocktail terroristico» quanto la tesi che vuole Erdoãan
come «terrorista in capo» lasciano spazio a evidenti dubbi. Purtroppo, però, è
possibile che la verità sia più vicina alla tesi complottista di Demirtaş che non a
quella di Davutoãlu. 41
PER ERDOĞAN, MALGRADO TUTTO, L’IS RESTA IL MALE MINORE
Dall’inizio delle ostilità contro il Pkk a fine luglio, Erdoãan non manca di ri-
petere a ogni occasione che «non esistono terroristi buoni e terroristi cattivi». La
litania del «sultano» reitera una verità consolidata, che tuttavia in Occidente conti-
nua a stupire molti: in Turchia la parola «terrorismo» è sinonimo di «Pkk». A fronte
del rischio di tripartizione del Siraq tra bande sciite, Asad e terroristi curdi, dun-
que, Ankara considera l’opzione della convivenza con lo Stato Islamico il male
minore. Per la Turchia, il «califfato» rimane la più inoffensiva tra le specie del va-
riegato bestiario geopolitico siracheno.
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42
LA STRATEGIA DELLA PAURA
CONTRORDINE:
PUTIN È DEI NOSTRI
(OPPURE NO?) di Fulvio SCAGLIONE
Soltanto dopo le stragi parigine abbiamo apprezzato l’impegno
russo in Siria contro lo Stato Islamico. Oggi Mosca ci serve,
anche dopo l’abbattimento di un suo jet militare per mano turca.
Ma siamo ancora lontani da una vera coalizione.
paria. Il presidente francese Hollande può coordinare con lui l’offensiva via ma-
re, cielo e forse anche terra contro le roccaforti dello Stato Islamico in Siria. Il
presidente americano Obama può trattare con lui al G20 e definirlo un «partner
costruttivo» nella ricerca di una soluzione al problema della Siria. Forse non do-
vremo più assistere a episodi vergognosi come quello dei giorni successivi al
massacro del teatro Bataclan: mentre nelle edicole della capitale francese stavano
ancora appese le vignette di Charlie Hebdo che satireggiavano sull’abbattimento
dell’aereo russo (224 morti) che volava sul Sinai, a Mosca crescevano i cumuli di
fiori davanti all’ambasciata di Francia e si allungavano sotto la neve le code di
russi pronti a manifestare ai francesi solidarietà e cordoglio. 43
CONTRORDINE: PUTIN È DEI NOSTRI (OPPURE NO?)
2. Il Putin del 1999 era il leader emergente di un paese confuso, che solo un
mese prima di quel discorso aveva visto le Brigate internazionali islamiche muo-
vere dalla Cecenia all’assalto del Daghestan. Vale la pena spendere due parole
sulle Brigate. Composte soprattutto da daghestani ma anche da ceceni, arabi, tur-
chi e altri foreign fighters, avevano in quel momento due capi: uno locale, il ce-
ceno Šamil Basaev; l’altro straniero, il (guarda combinazione) saudita Muãåhid
ibn al-Œa¿¿åb. L’islamizzazione del movimento indipendentista ceceno, finanziata
dai petrodollari in arrivo dal Golfo Persico, era ormai quasi compiuta. La brutalità
della reazione russa durante la prima guerra, scaricata soprattutto sulla popola-
zione civile, l’aveva accelerata: più disperata si faceva la causa cecena, più alta
sventolava la bandiera dell’islam fondamentalista e terrorista. Fino a quel 7 otto-
bre del 2007 quando, ormai stabilita la pacificazione «alla russa» della Cecenia,
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Doku Umarov, noto anche come Dokka Abu Usman, un tempo studente model-
lo della facoltà di Ingegneria civile dell’Università di Groznyj, proclamò il «califfa-
to» del Caucaso, con sostanziale anticipo sul «califfato» dell’Is.
Anche qui, vedi le simmetrie: nel luglio di quest’anno lo Stato Islamico, do-
po aver accettato il giuramento di fedeltà di una serie di gruppi islamisti russi, ha
resuscitato il «califfato» del Caucaso, tramutandolo in provincia del più grande
«califfato» guidato da al-Baôdådø. Doku Umarov fu ammazzato dai servizi segreti
russi nel settembre 2013. Dove? In Qatar, dove si era rifugiato. L’attuale guida del
«nuovo califfato» del Caucaso è Abû Muõammad al-Qa¿arø, cioè Abû Muõammad
44 il Qatariota.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
Vogliamo parlare dei simboli? Cercate sul Web le foto del presunto califfo
Umarov, la bandiera nera alle sue spalle vi ricorda qualcosa? E gli sgozzamenti?
Non li ha inventati lo Stato Islamico. Quando osserviamo i video dei boia di oggi
dovremmo forse ricordare le esecuzioni sommarie, da parte dei guerriglieri cece-
ni e dei foreign fighters con loro schierati, di molti militari russi catturati in batta-
glia. È diventato famoso il caso di Evgenij Rodionov e Andrej Trusov, due soldati
semplici presi prigionieri in territorio ceceno e decapitati con annesso filmato da
far pervenire alle televisioni russe, mentre due altri loro commilitoni venivano
«solo» fucilati. Per Rodionov, assassinato proprio nel giorno del suo ventesimo
compleanno, pende in Russia una «causa di beatificazione», perché in punto di
morte rifiutò di abiurare la fede cristiana e convertirsi all’islam.
Insomma, tra la fase culminante e poi terminale della rivolta cecena e l’o-
dierno Is sono più le somiglianze che le differenze: stessi soldi, stessi uomini,
stessi metodi, stessi simboli. Eppure per vent’anni abbiamo scientemente e osti-
natamente rifiutato di riconoscere ciò che era peraltro evidente: che la Russia
era stata il primo paese non mediorientale a subire l’offensiva militare dell’isla-
mismo armato.
Lo scopo è sempre stato piuttosto chiaro: delegittimare Mosca, toglierle qua-
lunque forma di appartenenza internazionale, negare fino al ridicolo che potesse
avere un ruolo all’interno di una battaglia comune con l’Occidente. Ovvero, ve-
nendo al Medio Oriente, lasciare mano libera agli Stati Uniti e ai loro alleati del
Golfo Persico.
Ora è cambiato tutto. Al punto che diventiamo spettatori di una rappresenta-
zione assai bizzarra: la nascita di un’alleanza che, in nome della lotta senza quar-
tiere allo Stato Islamico, potrebbe affiancare la Francia (cui l’Ue ha promesso aiu-
to e solidarietà) alla Russia, che si porta appresso l’esercito governativo siriano, i
guerriglieri di Õizbullåh e le milizie sciite organizzate dall’Iran. Mentre poco più
in là opera una coalizione che mette insieme americani e sauditi e che di sradica-
re l’Is ha poco o punto voglia e invece preferisce tenerlo in ammollo sperando
che, nel frattempo, faccia per loro il lavoro di liquidare al-Asad.
Con le potenziali conseguenze, quanto all’inedita partnership Parigi-Mosca,
di cui è prematuro parlare ma che già s’intravvedono: russi e francesi potranno
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domani aggredirsi a colpi di sanzioni economiche dopo essere stati alleati in una
guerra guerreggiata in Siria per riscattare la memoria dei propri morti, uccisi da
un brutale movimento terroristico che si è costituito in Stato? Che farà l’Unione
Europea se è vero ciò che dice il nostro premier Renzi, e cioè che ormai la mag-
gioranza dei paesi concorda sulla posizione italiana che vede indispensabile un
coinvolgimento della Russia nella soluzione delle grandi questioni mediorientali,
in Siria e magari anche in Libia?
Certo sembra passato un secolo da ciò che, al contrario, avveniva poche set-
timane fa, quando il norvegese Jens Stoltenberg, dall’ottobre 2014 segretario ge-
nerale della Nato, minacciava la Russia per qualche sconfinamento aereo nei cieli 45
CONTRORDINE: PUTIN È DEI NOSTRI (OPPURE NO?)
3. Tutto questo ha proiettato una luce nuova sulle ragioni dell’intervento rus-
so in Siria. Di colpo, la sua mission (colpire i terroristi ovunque, magari anche
nel cesso) si è sposata benissimo con il nostro senso di rivalsa, con la volontà di
impedire altri attacchi come quelli di Parigi stroncando le centrali ideologiche e
organizzative dello Stato Islamico.
Ma c’è un altro fattore che noi occidentali teniamo troppo poco in conto. I
primi a soffrire per mano delle formazioni islamiste che operano in Siria sono le
popolazioni locali. Di più le minoranze, già normalmente fragili. Il patriarca lati-
no di Gerusalemme, il patriarca maronita di Beirut, i vescovi cattolici dell’Iraq…
tutti hanno invocato per lungo tempo, e sempre invano, un intervento militare
serio contro le milizie jihadiste. Chiedete loro se preferiscono Obama o Putin.
Ma poi ci sono anche i musulmani, componente assai più «pesante» nella
geografia umana delle regione. I curdi, che a Arbøl e Sulaymåniyya vivevano un
boom economico tipo anni Sessanta in Italia e si sono ritrovati al fronte, pieni di
profughi e con l’economia in pezzi. I siriani che ancora combattono, magari con-
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tro gli islamisti più che per al-Asad, ma ancora combattono. I libanesi: loro 6 mi-
lioni, i profughi siriani 1,3 milioni. I giordani vicini al tracollo per il sostegno che
devono offrire ai siriani in fuga. Gli iracheni, che vedono il proprio paese minac-
ciato dagli estremisti sunniti e messo sotto tutela dagli sciiti dell’Iran. Agli occhi
di milioni e milioni di persone sono i metodi di Putin ad avvicinare la fine della
crisi, non certo quelli della coalizione americano-saudita, che sfoggia le sue 7.500
incursioni aeree in quattordici mesi ma non riesce nemmeno a impedire agli isla-
misti di organizzare cortei di auto per festeggiare la strage di Parigi.
Quando Putin dice che ci sono paesi che un giorno siedono nel G20 a par-
46 lare di pace e il giorno dopo finanziano lo Stato Islamico, forse fa propaganda.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
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VILAYAT DELLA STEPPA DI NOGAJ
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Nogaj-Šakhar
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CABARDA, BALCARIA NOHCHIYCHO
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DEL DAGHESTAN
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ABKHAZIA Buro
Nero (Groznyj)
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GEORGIA DEL SUD
Tbilisi
TURCHIA
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Ma con argomenti che per la gente del Medio Oriente sono addirittura scontati.
Quando il ministro degli Esteri russo Lavrov dice che «gli Stati Uniti in Siria evita-
no di nuocere troppo all’Is», solleva il velo su una realtà che milioni di persone
vivono sulla propria pelle giorno dopo giorno.
Putin, è superfluo dirlo, non ha impegnato la Russia in Siria per fare benefi-
cenza. E nemmeno perché sia affezionato a Ba44år al-Asad, che adesso gli serve
come simbolo ma che verrà prontamente liquidato nel momento in cui si smet-
terà di sparare e si comincerà a discutere tra potenze del futuro del paese. Il
Cremlino, con un impegno militare piuttosto limitato, punta invece a ottenere
una serie di obiettivi molto concreti.
Il primo, derivante da un problema che Putin conosce bene fin dagli anni in
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vera crisi. La vetrina siriana sta facendo all’industria russa un’ottima pubblicità,
tramutando anche questa guerra in un profittevole investimento.
Il terzo obiettivo è strategico, di medio e lungo periodo. Putin può giocarsi
l’impegno militare e diplomatico in Siria come merce di scambio con Washington
nell’eterno braccio di ferro globale. Obama ha sorpreso Putin in Ucraina, ispiran-
do e finanziando il ribaltone del regime filorusso e raccogliendo i dividendi del-
l’operazione: l’economia ucraina, territorio decisivo per il transito del gas russo
verso l’Europa, è oggi controllata da una ministra, Natalija Jares’ko, nata negli
Usa, per molti anni funzionario del dipartimento di Stato e addirittura dell’amba-
sciata americana a Kiev. Ma Putin ha sorpreso Obama in Siria dove, per tutte le
ragioni fin qui elencate, è ora in vantaggio. La partita prosegue.
Ma il vero, decisivo scopo del Cremlino, quello che giustifica tutti gli sforzi
che vediamo in opera, è impedire che venga a mancare l’anello siriano alla cate-
na sciita che dall’Iran arriva al Libano, via Iraq e, appunto, Damasco. Essere l’in-
terlocutore politico ed economico privilegiato della Mezzaluna Fertile sciita è ciò
che permette alla Russia di giocare un ruolo in Medio Oriente, non certo la mo-
desta base navale di ¡ar¿ûs. Come si è visto con sufficiente chiarezza durante le
infinite trattative che poi hanno portato all’accordo sul nucleare tra il cosiddetto
«5+1» (i paesi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu più la Germania) e l’Iran.
In quest’ottica strategica, la Russia pensa alla Siria che uscirà dalla guerra ci-
vile con molto realismo. Certo, negli incontri diplomatici e nelle sedi internazio-
nali ribadisce la volontà di conservarne l’integrità territoriale. Ma intanto si prepa-
ra più o meno alla stessa spartizione a cui si preparano gli altri paesi: la Turchia
che ne vuole una fetta a nord per fugare il fantasma di un Kurdistan indipenden-
te, Israele che chiede l’annessione definitiva del Golan, la Giordania che reclama
una fascia di rispetto, Usa e Arabia Saudita che pensano a uno Stato dei sunniti,
da sempre maggioranza demografica e minoranza politica in Siria.
Si vede benissimo che le operazioni militari di russi, siriani e õizbullåh li-
banesi (i russi dal cielo, gli altri a terra) non hanno la pretesa di «liberare» la Si-
ria ma l’ambizione di allargare il più possibile l’area controllata dai governativi,
con particolare riferimento a una fascia nord-sud che dovrebbe andare da
Aleppo alla capitale Damasco, conservando e proteggendo gli sbocchi sul Me-
diterraneo di ¡ar¿ûs e Latakia, dove oggi Mosca ha rispettivamente la base na-
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48
LA STRATEGIA DELLA PAURA
IL CALIFFATO, OVVERO
L’ARROCCO SUNNITA IN SIRAQ di Giovanni PARIGI
Lo Stato Islamico affonda le radici nell’insorgenza antiamericana
conseguente alla liquidazione del regime baatista. Le scelte di
Målikø, che hanno favorito gli sciiti a danno dei sunniti, hanno
contribuito al successo di al-Baôdådø. Il nesso con i sunniti siriani.
Ecco, la scintilla è stata accesa in Iraq e, a Dio piacendo, le sue fiamme
arderanno sinchè non bruceranno le armate crociate a Dåbiq.
Abû Mu‘âa al-Zårqawø, 11/9/2004
petrolio tra i due paesi durante gli anni dell’embargo. Inoltre, questa posizione
gli avrebbe permesso di stringere legami non solo con le bande criminali attive
nel settore, ma anche con le tribù siriane e irachene a cavallo tra i due paesi. Du-
rante la sua latitanza, si rifugiò in Siria coperto da connivenze politiche e tribali.
Infatti, dopo la caduta del regime in Siria avevano trovato rifugio migliaia di ira-
cheni compromessi col regime del ra’øs. La frontiera tracciata cento anni fa da
Sykes e Picot tra i due paesi non aveva tagliato i profondi vincoli tribali, di reli-
gione e di cultura delle popolazioni arabe sunnite dell’Est siriano e dell’Ovest ira-
cheno. Dal lato siriano le province di Õasaka, Dayr al-Zawr, e parte di Õimâ e
Raqqa, da quello iracheno Anbår, Ninive, Âalåõ al-Døn e parte di Diyålå costitui-
scono un blocco omogeneo di popolazione sunnita, di origine rurale e cultura
beduina, dove si intrecciano legami tribali, economici e storici. Le conseguenze
inaspettate delle «primavere arabe» hanno poi cementato ulteriormente l’identità
di quest’area, definita con azzeccato neologismo Siraq: sia a Bagdad che a Dama-
sco il conflitto era settario e vedeva il potere centrale opprimere i sunniti.
2. Le radici dello Stato Islamico (Is) risalgono all’arrivo in Iraq di Abû Mu‘âab
al-Zarqåwø e all’inizio delle operazioni terroristiche del suo gruppo Ãamå‘at al-
Tawõød wa ’l Ãihåd. Affiliatosi ad al-Qå‘ida nel 2004, rinominò il suo movimento
al-Qå’ida in Iraq e a suon di attentati e decapitazioni cercò di scatenare la guerra
civile tra sciiti e sunniti iracheni, sinché non fu ucciso nel 2006. L’insuccesso di
al-Zarqåwø fu principalmente causato dal fatto di non esser riuscito a ibridare la
sua organizzazione con la società locale, così rimanendo sempre un corpo estra-
neo. Tant’è che al momento della sua morte, complice la brutalità degli attacchi
contro la popolazione, il gruppo islamista era isolato.
È in queste circostanze che, nel 2007, gli americani vanno alla riscossa: la
New Way Forward annunciata da Bush e guidata da Petraeus vede l’arrivo di
nuove truppe Usa, che si concentrano sul supporto e sulla protezione della po-
polazione. Questo cambio di strategia comporta che le milizie tribali che compo-
nevano l’insorgenza sunnita cambino casacca, complice anche il soldo, o meglio,
il dollaro americano. In tal modo i gruppi armati delle province sunnite diventa-
no filogovernativi ed entrano nel Movimento del risveglio sunnita, la Saõwa. L’in-
sorgenza è ai minimi termini. Nel frattempo, il progressivo inserimento dei partiti
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ma non degli iraniani e delle pressioni del blocco sciita che lo sostiene, pencola
tra tentazioni autocratiche e una pericolosa politica settaria. Partiti e movimenti
sunniti sono indeboliti e soppressi, i politici sono spesso uccisi o incarcerati,
mentre le province sunnite ricevono ben pochi fondi e investimenti dallo Stato
centrale. La comunità sunnita si ritrova di nuovo emarginata, ripudiata da uno
Stato che de facto è controllato da milizie sciite e politici filo-iraniani. La Âahwa,
simbolo dell’orgoglio sunnita, scompare: il governo di Maliki smette di pagare le
milizie tribali, senza peraltro averle mai definitivamente istituzionalizzate o inclu-
se nelle forze di sicurezza.
Dunque è col prematuro ritiro americano che il vento della guerra civile ri-
comincia a soffiare sulle braci irachene. Solo che ora il Medio Oriente è comple-
tamente stravolto dalla «primavera araba». A soli due mesi di distanza dal ritiro da
Baghdad dell’ultimo marine, in Tunisia, Yemen, Libia ed Egitto le rivolte portano
al crollo dei regimi. È però la guerra civile siriana a costituire il contraccolpo più
forte e destabilizzante per l’Iraq.
All’inizio, il quadro è chiaro: «al-3a‘b yurød isqå¿ al-ni‰åm», ovvero «il popolo
vuole la caduta del regime». Solo che poi le cose si complicano. Innanzitutto i
moderati filo-occidentali si rivelano fragili militarmente e inconsistenti politica-
mente; secondariamente il regime ottiene l’appoggio iraniano e di Õizbullåh, per
poi oggi esser salvato per la collottola dall’intervento russo; terzo, ben presto en-
trano nell’arena siriana anche i qaidisti. E sono proprio i jihadisti a cambiare le
regole del gioco. Infatti col loro intervento da rivolta popolare la tentata rivolu-
zione siriana si trasforma nella ennesima guerra settaria mediorientale. Complice
di questa deriva è anche il regime stesso. Infatti, l’azzardo – peraltro riuscito –
con cui al-Asad si è salvato è stato quello di giocare in attacco contro l’opposi-
zione moderata, indebolendola, e di limitarsi a giocare in difesa contro le forze
jihadiste. Scomodando Sergio Leone, potremmo dire che il Brutto, ovvero il regi-
me, fa fuori il Bello, ovvero l’opposizione filo-occidentale, per costringere la co-
munità internazionale a dover scegliere tra lui e il Cattivo, ovvero i jihadisti. E
questa scelta, per l’Occidente, è praticamente obbligata.
La guerra civile siriana sin dall’inizio rappresenta un’opportunità strategica ir-
rinunciabile per i movimenti jihadisti, in quanto offre le condizioni per il jihåd e
per la nascita di un emirato: popolazione sunnita in rivolta, territori fuori control-
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lo, armi. Soprattutto però c’è un nemico empio, il regime dei nuâayrø 1 con i suoi
alleati råfiîa 2, contro cui lanciare il jihåd. Il network di al-Qå‘ida si attiva ed è
inevitabile che sia proprio dall’Iraq che arrivi il primo emiro, Abû Muõammad al-
Ãawlånø, che fonda Ãabhat al-Nuâra. In breve, questa milizia si impone come
principale forza jihadista e comincia a inglobare numerose altre milizie minori
nonché ad attrarre i primi foreign fighters. Nel 2013, quando i rapporti tra al-
Qå‘ida e l’Is precipitano, al-Ãawlånø si schiera con al-‡awåhirø e al-Nuâra si pone
in conflitto aperto con lo Stato Islamico. Ma è ormai tardi: di lì a poco l’Is gli ru-
berà la scena. E agli inizi del 2014 gli strapperà con le armi Raqqa, futura capitale
del «califfato».
pacificato dal surge e dalla Âaõwa. Col ritiro americano, le cose cambiano: le car-
ceri si svuotano, la Âaõwa è smobilitata, il governo emargina i sunniti e il golem
salafita-baatista alza la testa. La dote portata dai baatisti ai movimenti armati isla-
misti è infatti ricchissima, ma tre elementi sono essenziali: la rete di connivenze
maturata in più di trent’anni di dittatura, l’expertise militare, amministrativa, fi-
nanziaria e logistica portata dagli ex quadri e funzionari del regime, oltre all’ap-
3. Sfruttando la rete di resistenza preparata da Saddam alla vigilia dell’attacco americano, ‘Izzat al-
Dûrø divenne uno dei principali pupari della insurgency; addirittura pare abbia fornito appoggi an-
che a Ãabhat al-Nuâra in Siria, mentre la sua milizia Naq4bandø si unì allo Stato Islamico nella con-
52 quista di Tikrøt.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
poggio di quei clan tribali sunniti che per decenni erano stati reclutati in blocco
nelle unità più fedeli al regime. È proprio tra ex ufficiali della Guardia repubbli-
cana speciale, come l’ex tenente colonnello Abû Muslim al-Turkmånø, o alti uffi-
ciali dell’Istiœbåråt 4 come Abû Ayman al-‘Iråqø o generali dell’Esercito come Abû
‘Alø al-Anbårø, tutti radicalizzati in carcere, che lo Stato Islamico recluta i suoi lea-
der più abili. Per inciso, il ruolo di numero due dell’Is è stato rivestito da due ex
saddamisti come al-Turkmånø – poi ucciso – e al-Anbårø. Il ruolo dei baatisti è
però fortissimo anche tra i governatori, gli emiri e i membri della 4ûrå 5 dello Sta-
to Islamico; ad esempio, i governatori del «califfato» a Mosul e a Tikrøt sono due
ex generali di Saddam.
C’è però un ulteriore passaggio da evidenziare. Molti degli appartenenti al
deposto regime passati allo Stato Islamico sono di tribù che gli erano tradizional-
mente fedeli, come i Ãubûrø e i Dulaymø. Inoltre, molti degli ufficiali baatisti era-
no al contempo anche sceicchi di queste tribù. A questo punto, è evidente che
l’Is è «Iraqi-friendly», riuscendo dove al-Zarqåwø aveva fallito. Il movimento è
«glocal»: attira volontari stranieri, ma non è percepito come alieno dalla popola-
zione, poiché vertici e quadri intermedi sono quasi tutti iracheni. Secondariamen-
te, l’Is parte sin dalla nascita con un discreto supporto popolare, quello dei clan
sunniti da cui provengono sceicchi ed ex militari legati al movimento.
La leadership irachena e i legami con alcuni clan non spiegano come nell’e-
state del 2014 l’Is travolga ogni resistenza e arrivi a controllare un territorio che si
estende quasi dalla periferia di Baghdad ad alcune zone di Aleppo, compresa
Mosul, la seconda città dell’Iraq.
Se cerchiamo un’immagine simbolo di questo successo dobbiamo guardare
a quanto avvenuto l’anno prima: è quella delle tendopoli di protesta contro il go-
verno comparse nelle città sunnite. I manifestanti chiedevano due cose, ovvero
la lotta alla corruzione e un miglioramento delle condizioni dei sunniti, in termini
di servizi pubblici, rappresentanza politica e ruolo nelle Forze armate e di sicu-
rezza. Målikø rispose con le armi e ci furono anche dei morti. Questa chiusura
costò cara non solo al premier, ma a tutto il paese. Målikø aveva tradito ogni
aspettativa sunnita, scardinando il fragile equilibrio ereditato dagli americani e
portando il paese a una crisi etnica e settaria. Se in politica interna aveva repres-
so ed emarginato i sunniti, a livello internazionale non era riuscito a mantenere
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un equilibrio tra le pressioni iraniane e le aspettative dei paesi arabi del Golfo,
sbilanciandosi troppo verso Teheran. Inoltre, Målikø era arrivato a porsi in rotta di
collisione con l’ayatollah Sistani, autorevole e limpido interprete dell’animo
profondo del paese, che lo «scomunicò» con una fatwå.
In questo contesto, fu facile per l’Is conquistare in pochi anni il favore delle
popolazioni sunnite di Iraq e Siria, e in pochi mesi quasi un terzo dell’Iraq, dopo
aver già sotto controllo quasi metà Siria. Così il Siraq sunnita e tribale è diventato
telligence congiunto tra Iran, Iraq, Siria e Russia, premono per una sempre mag-
giore influenza di Mosca in Iraq. In definitiva il rischio è che al-‘Ibadø, sebbene
abbia il supporto dell’ayatollah al-Søstånø, di buona parte della popolazione e de-
gli Stati Uniti, finisca per essere isolato politicamente, e non riesca ad attuare al-
cuna riforma. E senza riforme, ovvero senza l’alternativa di una uscita di sicurez-
za, i sunniti continueranno a precipitare nel tetro tunnel dello Stato Islamico.
In conclusione, il vero game changer nell’attuale scenario mesopotamico so-
no ancora una volta le comunità sunnite, forse le uniche ad avere la capacità per
sconfiggere l’Is. Ma per questo occorre offrirgli un incentivo politico e un aiuto
militare. Dopotutto, il «califfato» è nato in Iraq ed è in Iraq che deve morire.
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55
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LA STRATEGIA DELLA PAURA
S I R I A
Aleppo
Raqqa
Idlib
F. Eufra
te
I R A Q
Dayr al-Zawr
RAQQA, LO STATO ISLAMICO E LE MATRIOSCHE SIRIANE
Latakia Muhrada
.
Ḥamāh
CIPRO Tartūs
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. .
Arak
Ḥimṣ
Tripoli Palmira
Gandar Hadīt-a
LIBANO Dayr al-Zawr .
Beirut
Mar Mediterraneo (Adrā
Damasco Al Mayādīn
F.
Eu
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ISRAELE Dar(ā
Swaydā
Abū Kamāl
al-Mahata
. .
al-Tāniya
-
G I O R D A N I A
LA STRATEGIA DELLA PAURA
Stato Islamico non può essere disgiunta dal contesto siro-iracheno. E dalle guer-
re, in alcuni casi sovrapposte e incrociate, che da anni si combattono su questo
territorio tra attori locali, regionali e internazionali.
Tra questi conflitti a matriosca emerge il fatto che i jihadisti di Abû Bakr al-
Baôdådø e i loro nemici giurati dialogano sul territorio: non solo con le armi, ma
con scambi di prigionieri, con la gestione condivisa di risorse energetiche e con
accordi taciti, quanto temporanei, di non belligeranza per il controllo del territo-
rio e delle vie di comunicazione.
Un’altra costante registrata finora è che in Siria gli sforzi maggiori degli attori
occidentali sono diretti a fare la guerra – almeno retorica – allo Stato Islamico. E
non si interviene invece in maniera determinante nelle altre guerre in corso. Men-
tre la Russia e l’Iran agiscono nel solco della continuità, avendo rafforzato il loro
sostegno al governo di Damasco: dal 30 settembre l’offensiva russo-iraniana si è
concentrata in larga parte su obiettivi di insorti nazionalisti e qaidisti locali antigo-
vernativi. E solo dopo i fatti di Parigi, i caccia russi hanno cominciato a bombar-
dare con insistenza Raqqa. Per il resto, la Siria centro-settentrionale è in mano ai
lealisti ed è rafforzata ora da una cintura protettiva allestita durante le sei settima-
ne di raid aerei di Mosca e di offensiva di terra guidata da Teheran. È questo l’o-
biettivo minimo di russi e iraniani. L’obiettivo auspicato, ma per il momento diffi-
cile da raggiungere, è invece la riapertura dell’autostrada Õamå-Aleppo – parte
della Damasco-Aleppo – e la «liberazione di Aleppo e di tutto il Nord della Siria».
Questo mentre a Palmira (Tadmur) e nella regione di Õimâ l’Is non retroce-
de. In alcuni casi è addirittura avanzato. Solo a est di Aleppo i governativi sono
riusciti a rompere un assedio dell’Is a una base aerea militare. Ma anche in quel
caso, come negli attacchi aerei di Raqqa post-13 novembre, l’evento ha avuto più
risonanza mediatica che ricadute concrete sugli equilibri di terreno.
In questo quadro, continuano a prosperare i vari capi milizia in quota a tutte
le fazioni, che traggono beneficio dalla guerra e dalla frammentazione del territo-
rio. Si approfondiscono così i confini tra le zone di influenza locali, collegate ai
disegni di attori regionali e internazionali. Porzioni di Aleppo e di Idlib continua-
no a cadere sotto l’egemonia diretta o indiretta turca, con una compartecipazione
saudita e del Qatar.
La regione costiera, la Siria centrale, Damasco e parte del Sud sono in mano
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ni o che si definiscono parte delle opposizioni. Tra loro c’è l’ala siriana di al-
Qå‘ida (Ãabhat al-Nuâra), che ha però ruolo, forza e atteggiamento differenti a
seconda dei contesti in cui opera. Tra gli oppositori ci sono gruppi jihadisti, co-
me i Liberi del Levante (Aõrår al-3åm), che ideologicamente sono molto vicini al-
lo Stato Islamico, ma che se ne distaccano per tipo di finanziamenti e schiera-
mento geopolitico. Ci sono poi gli oppositori nazionalisti, reduci di quel che ri-
mane dell’Esercito siriano libero (al-Ãay4 al-sûriyy al-õurr). Alcuni di questi grup-
pi sono sostenuti a singhiozzo e con poca convinzione dagli Stati Uniti.
Riflessi in questo specchio appaiono come un’attraente scatola vuota i collo-
qui di Vienna. Sebbene sia stato il primo incontro al quale iraniani e sauditi ab-
biano partecipato dopo cinque anni dallo scoppio delle violenze, il tavolo vien-
nese non ha portato alcuna novità di rilievo alla questione siriana. Nella capitale
austriaca i grandi del mondo hanno di fatto rispolverato il comunicato di Ginevra
dell’estate del 2012 depurandolo però dei temi sensibili. Primi fra tutti il destino
del presidente siriano Ba44år al-Asad, che il 16 novembre scorso ha festeggiato il
quarantacinquesimo anniversario della presa del potere da parte del padre Õåfi‰.
L’iniziativa diplomatica è ora saldamente in mano a Mosca. Non poteva esse-
re altrimenti visto l’impegno militare diretto e il confronto con un’amministrazio-
ne americana così indecisa e balbuziente. Per il presidente russo Putin è un gio-
co da ragazzi guadagnare tempo, non escludendo ai suoi rivali la possibilità di
mollare la presa su al-Asad mentre rinnova ai suoi alleati la convinzione che l’at-
tuale presidente debba rimanere in sella. Ufficialmente, i partecipanti al tavolo di
Vienna si sono messi d’accordo nel fare pressioni sui rispettivi clienti siriani per-
ché questi si incontrino entro il 1° gennaio prossimo per avviare le trattative. Ma
le posizioni rimangono lontanissime. Almeno quelle degli attori politico-militari.
Esiste invece una società civile siriana che non si arrende, nonostante le dif-
ficoltà e le sofferenze delle rispettive comunità di riferimento. E lavora in silen-
zio, spesso clandestinamente, per ricomporre le realtà siriane. Per mettere in rete
esperienze di attivismo non violento oltre gli steccati ideologici, confessionali, et-
nici, geografici. La loro voce è poco ascoltata sia dagli attori di Vienna sia dai
media occidentali. Ed è spesso sovrastata dal rumore sordo della battaglia.
Vediamo allora da vicino la situazione nei territori siriani.
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Raqqa
Descritta come la «capitale dell’Is» in Siria, dalla primavera al giugno 2013
Raqqa è stata preda dei jihadisti, che l’hanno conquistata senza colpo ferire do-
po che le forze governative si erano ritirate, così come hanno fatto in seguito
con Palmira e Idlib. Lo stesso al-Asad, in una recente intervista, ha affermato
che nell’attuale conflitto ci sono delle regioni più prioritarie di altre. Raqqa non
è la priorità. Né per al-Asad né per la coalizione russo-iraniana intervenuta in Si-
ria con l’obiettivo dichiarato di combattere il «terrorismo».
60
LA STRATEGIA DELLA PAURA
L’intensità dei raid aerei post-Parigi non durerà a lungo e non costringerà i
jihadisti ad abbandonare Raqqa. A nord, le milizie curde sono attente a limitare
la presenza dell’Is a ‘Ayn al-‘Īså, località a metà strada tra Raqqa e il confine tur-
co. Ma i curdi non potranno essere usati da nessuna coalizione straniera per «li-
berare» dai jihadisti un territorio profondamente arabo, tribale e non certo favore-
vole all’espansione dell’influenza curda nell’area.
Dayr al-Zawr
La regione siriana che ha l’onore di consegnare l’Eufrate alla regione irache-
na di al-Anbår è fortemente dominata dall’Is. L’omonimo capoluogo è per lo più
controllato dai jihadisti. Ai lealisti rimangono solo alcune sacche periferiche, tra
cui l’aeroporto militare fuori città. La presenza diretta dell’Is nella regione è limi-
tata al corso del fiume e a parte della strada che verso ovest va a Õimâ e Dama-
sco passando per l’oasi di Palmira, anch’essa controllata dai jihadisti. La guerra
tra governativi e Is si accende a fasi alterne. Ci sono periodi – a volte pochi gior-
ni, a volte un paio di settimane – in cui l’Is annuncia di aver lanciato «l’offensiva
finale» contro lo scalo aereo, oppure i lealisti affermano di aver «dominato i terro-
risti». In realtà, come avviene altrove, le parti si parlano con o senza armi.
Negli ultimi mesi ci sono stati scambi di prigionieri. Non è raro che tramite
mediatori locali ci si accordi per la mutua fornitura di servizi essenziali, come ac-
qua, elettricità, combustibile domestico (måzût). L’inasprimento dei bombarda-
menti aerei su Raqqa nel post-Parigi e l’offensiva curdo-irachena in Sinjar hanno
reso la regione di Dayr al-Zawr una delle retrovie più sicure dello Stato Islamico.
L’area offre inoltre profondità strategica ed è un vitale collegamento tra Iraq e Si-
ria. Sebbene velivoli della coalizione abbiano di recente colpito alcuni impianti
petroliferi e convogli di cisterne attorno a Dayr, nessun pericolo diretto sembra
per ora minacciare il dominio jihadista in quella che i seguaci del «califfo» chia-
mano Provincia del Bene (Wilåyåt al-œayr).
Area curda
Secondo la recente riorganizzazione amministrativa del Kurdistan Occiden-
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tale (Rojava) elaborata dal governo curdo-siriano, la più estesa zona a maggio-
ranza curda è divisa in cantoni. Le forze di protezione popolari (Ypg) sono l’ala
armata e operano nelle zone a maggioranza curda che vanno dal confine tur-
co-iracheno a est all’Eufrate a ovest. Nei mesi e nelle settimane scorse non so-
no mancate denunce di organizzazioni umanitarie siriane e straniere di atti di
pulizia etnica compiuti dalle milizie curde a danno di comunità arabe dell’area.
Le autorità curdo-siriane hanno sempre respinto le accuse. E si propongono in-
vece come una forza politico-militare in grado di proteggere le comunità non
curde, di assicurare stabilità-e-sicurezza, nel rispetto dei principi di «pluralismo»,
«laicità» e «democrazia». 61
62
F ium DAYR AL-ZAWR
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il controllo dell’Is
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RAQQA, LO STATO ISLAMICO E LE MATRIOSCHE SIRIANE
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)
Wilāyat al-hayr Base militare
(Provincia del Bene) (sotto il controllo dei lealisti)
Dayr al-Zawr al- Gafra
Wilāyat al-Furāt
(Provincia dell’Eufrate)
Aleppo
La regione del Nord della Siria è divisa in diverse zone d’influenza. Lo Stato
Islamico controlla dall’Eufrate fino ad al-Båb. In quest’area ha tenuto sotto asse-
dio fino al 10 novembre la base aerea governativa di Kwayris. L’offensiva russo-
iraniana è riuscita ad aprirsi un varco da sud-ovest verso nord-est e ad assicurare
un collegamento tra la strada controllata dai lealisti e Kwayris. In precedenza i
jihadisti erano riusciti a tagliare le vie di rifornimento dei governativi che da
Õamå giungevano ad Aleppo, passando per Œanåâir-Iñriya. Per alcuni giorni, la
parte di Aleppo controllata dai lealisti è rimasta di fatto isolata.
La situazione su questo lato orientale del fronte è di stallo. E non ci sono
indicazioni che il regime di Damasco e i suoi alleati possano (e vogliano) spin-
gersi oltre Kwayris. L’altra guerra in corso nella zona di Aleppo è tra i lealisti,
appoggiati in maniera decisiva dai raid aerei russi e dalle truppe iraniane, e op-
positori armati tra cui figurano sia insorti nazionalisti (i «moderati» degli Usa) sia
i qaidisti di al-Nuâra. I lealisti hanno incontrato inizialmente alcune difficoltà a
sfondare le linee di difesa a sud di Aleppo, ma dai primi giorni di novembre si
sono aperti varchi nella regione rurale di al-Haîir. È possibile che l’avanzata
lealista prosegua con successo e si arrivi a espandere il controllo governativo
su alcuni quartieri della città. Non è escluso invece che le forze anti-Damasco
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Idlib
La regione di passaggio dalla Siria centrale al Nord è cruciale per i collega-
menti tra la zona controllata dal governo e quella in mano agli insorti di varie si-
gle. La regione rimane divisa in aree direttamente controllate dai qaidisti, altre af-
fidate a gruppi affiliati all’Esercito della Conquista (Ãay4 al-Fatõ), sostenuto da
Arabia Saudita, Qatar e Turchia, e da enclave di territori in mano a insorti nazio-
nalisti. La linea del fronte continua a passare lungo il confine amministrativo tra
Idlib e Õamå.
Oltre un mese e mezzo di raid aerei russi e di sostegno militare iraniano ai
lealisti non hanno alterato in modo significativo il rapporto di forza tra i gruppi
locali. Anche perché gli oppositori, rafforzati dall’arrivo di moderni razzi anti-car-
ro, hanno dimostrato un coordinamento senza precedenti, trasversale all’apparte-
nenza ideologica e all’affiliazione regionale. Vista da questa trincea, la manovra
di Mosca e Teheran di «combattere il terrorismo» si rivela sempre più una mossa
strategica per proteggere le linee di difesa di al-Asad in vista di eventuali nego-
ziati internazionali.
L’annunciata avanzata lealista non sarebbe diretta verso il capoluogo Idlib,
ma verso l’asse viario Œån 3ayœûn-Ma‘arrat al-Nu‘man-Saråqib, verso la periferia
Sud di Aleppo. Nel breve-medio termine non ci sono però indicazioni di un pos-
sibile stravolgimento degli equilibri militari.
La costa
La retrovia degli Asad e dei clan alleati al potere da circa mezzo secolo asso-
miglia sempre più a una provincia russa. Quello che era l’aeroporto internaziona-
le di Latakia è stato chiuso al traffico aereo civile ed è stato trasformato da set-
tembre in una base militare di Mosca. L’accesso e l’uscita dallo scalo sono protet-
ti da posti di blocco di soldati russi e non da forze governative siriane. La pre-
senza di militari stranieri è visibile a Latakia, il principale porto sul Mediterraneo,
e nelle altre città come Ãabla – vicina all’aeroporto – e ¡ar¿ûs. Nei primi giorni di
novembre è stata anche potenziata la tratta ferroviaria Ãabla-Latakia per consen-
tire, tra l’altro, il più rapido spostamento di soldati siriani e miliziani governativi.
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quali ci si affaccia sulla piana di Ôåb, tra Õamå e Idlib. Per il resto, non si regi-
strano cambiamenti degni di nota delle linee del conflitto. L’obiettivo minimo
dell’offensiva lealista in quest’area è la protezione della regione di Latakia e di
tutta la costa. L’obiettivo più ambizioso è la riapertura del collegamento stradale
Latakia-Aleppo.
Õimâ e Õamå
La Siria centrale è esposta all’avanzata da est dell’Is. Che però non sembra
avere l’intenzione di varcare il Rubicone, tagliando l’autostrada Damasco-Õimâ-
Õamå. Da oltre un anno i jihadisti si trovano a poche decine di chilometri da Salå-
miyya, di fatto capitale dell’ismailismo, la comunità sciita caratterizzata, tra l’altro,
dall’alto numero di dissidenti e oppositori politici. Dal 2014 Salåmiyya e i suoi
ismailiti sono però protetti dagli õizbullåh (sciiti duodecimani) e dalle milizie loca-
li filo-governative, composte in larga parte di alauiti (altra branca dello sciismo).
A Salåmiyya come in tutto il Medio Oriente l’avvento dell’Is ha mutato la per-
cezione su chi sia la minaccia più pericolosa. Eppure, a Salåmiyya come a Õamå
la presenza dello Stato Islamico non significa solo paura, ma anche scambio di ri-
sorse. Per esempio, nelle stazioni di benzina di Õamå, città profondamente milita-
rizzata da truppe di Damasco, si vende alla luce del sole il måzût raffinato nelle
zone dell’Is (a Mosul, in Iraq, o a Dayr al-Zawr) accanto al più scadente prodotto
lavorato nelle zone governative. Sempre a Õamå è stata ampliata da agosto una
base militare per i russi che ora indirizzano nelle retrovie l’offensiva di terra sul
fronte di Idlib. Tra Õimâ e Õamå l’offensiva russo-iraniana non è inoltre riuscita a
«bonificare» le sacche di resistenza delle opposizioni a nord di Õimâ e alla perife-
ria orientale della città, ormai quasi del tutto sottomessa all’influenza iraniana.
Più a sud, nella zona di Õimâ, i jihadisti non sono arretrati ma sono avanzati
nell’area a maggioranza cristiana di Qaryatayn, Mahøn e Âadad. Sono vicini poche
decine di chilometri all’autostrada Damasco-Õimâ, ma per il momento non sem-
brano poter andare oltre. A metà novembre, i governativi sostenuti dai raid russi
hanno con successo riconquistato alcune colline a ovest di Mahøn.
Gruppi locali affiliati all’Is sono inoltre presenti a sud-ovest di Õimâ, nell’area
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confinante col Libano e dominata dal 2013 dagli õizbullåh. Le due anime jihadi-
ste appaiono essere unite da una comune linea ideologica, ma divise da diverse
linee di comando e di interessi locali. Solo una débâcle governativa nell’area po-
trebbe consentire a questi due gruppi jihadisti di congiungere il Qalamûn orien-
tale con quello occidentale, a cavallo dell’autostrada.
Damasco
Dopo un inasprimento del conflitto attorno alla capitale, dai primi di novem-
bre sono in corso trattative «serie» per il raggiungimento di un cessate-il-fuoco tra 65
66
Suruç
T U R C H I A
Tall Abyad.
al-Bab Hasaka
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Avanzata lealista
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(momentaneamente
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RAQQA, LO STATO ISLAMICO E LE MATRIOSCHE SIRIANE
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Il cuore dello
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Protetta da Hizbullāh
. Stato Islamico
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(sciiti duodecimani) e dalle
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Hims
. . Mayādīn
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masco
Palmira
LIBANO al-Qaryatayn
Albūkamāl
Autostrada Da
Area sotto il controllo
dello Stato Islamico
Area prevalentemente
desertica ma sotto
il controllo dell’Is ©Limes IL CUORE DELLO STATO ISLAMICO
LA STRATEGIA DELLA PAURA
Il Sud composito
Il Sud siriano è diviso in tre zone di influenza: una iraniana dominata da mi-
lizie õizbullah e governative; un’altra giordano-statunitense grazie alla presenza
di milizie di oppositori nazionalisti vicini al regno hascemita, uno dei principali
alleati regionali di Washington; una israeliana, esercitata indirettamente per non
alterare l’equilibrio militare oltre la linea del cessate-il-fuoco del 1974.
Un gruppo affiliato all’Is, il Battaglione dei martiri dello Yarmûk (Liwå’
4uhadå’ al-Yarmûk) controlla una fascia di territorio a pochi passi dal settore
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
meridionale e centrale delle Alture del Golan, dal 1967 in mano a Israele. Que-
sto gruppo jihadista locale è in rotta con al-Nuâra, che opera invece nelle re-
gioni rurali di Dar‘å. Negli stessi giorni in cui si consumava la strage a Parigi, il
leader dello Yarmûk è stato ucciso in un attentato compiuto e rivendicato dai
qaidisti locali.
Al-Nuâra a Dar‘å ha una postura però diversa da quella di Idlib. Il riferi-
mento ideologico è lo stesso, ma il contesto è diverso. E anche gli obiettivi dei
signori della guerra locali. Lo hinterland di Dar‘å al confine con la Giordania è
fortemente dominato dalla secolare struttura clanica della società e, più di re-
cente, della forte influenza di Amman. Il regno hascemita ha dal 2012 stretto 67
RAQQA, LO STATO ISLAMICO E LE MATRIOSCHE SIRIANE
un accordo non scritto con i gruppi armati del Sud siriano: questi assicurano il
mantenimento di una zona cuscinetto dove gli estremisti possono nuotare sen-
za però dare troppo fastidio.
Tra jihadisti e qaidisti del Sud-Ovest siriano è in corso una guerra nella
guerra. Israele è rimasto finora a guardare. Lo Stato ebraico è ben consapevole
che gli equilibri oltre il reticolato non cambieranno. E che le baionette dei mili-
ziani siriani non sono puntate verso Tiberiade ma verso chiunque osi sfidare il
loro potere locale. La priorità per Israele continua a essere quella di evitare che
le milizie filo-iraniane si avvicinino troppo alle Alture e che possano minacciare
gli insediamenti d’oltre cortina. In questo quadro, ai primi di novembre, si è re-
gistrato un nuovo attacco aereo israeliano contro presunti carichi e depositi di
armi di Õizbullåh nei pressi dell’aeroporto internazionale di Damasco, a sud-
est della capitale.
Dall’altra parte del Meridione siriano, nella regione di Suwaydå’ a maggio-
ranza drusa, controllata in larga parte da milizie governative, si vive uno stato
d’animo simile a quello vigente nella zona di Salåmiyya. L’Is è a poche decine di
chilometri e sfrutta il decennale malcontento dei beduini (sunniti) delle regioni
desertiche a est di Suwayda’. Ma lo Stato Islamico e i suoi affiliati locali si sono
finora limitati a sortite mirate contro postazioni governative, in particolare contro
la base militare di Œalœala. Nelle scorse settimane, la sicurezza interna a
Suwaydå’ è stata inoltre scossa da scontri tra milizie locali. Ma all’orizzonte del-
l’altopiano basaltico non si addensa per il momento nessuna nuvola che possa
far pensare a un cambio improvviso degli equilibri geopolitico-militari.
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
68
LA STRATEGIA DELLA PAURA
AUTOBIOGRAFIA
(NON AUTORIZZATA)
DEL ‘CALIFFO’ di Giulio ALBANESE
Limes ha chiesto a un analista esperto del contesto in cui vive
il sedicente califfo Abû Bakr al-Baôdådø di provare a mettersi
nei suoi panni. Ripercorrendo passo per passo i percorsi che lo
hanno elevato al rango attuale.
A
si fa più buia e non riesco ad addormentarmi al termine di una giornata lunga e
NCORA ADESSO, QUANDO LA NOTTE
do in cui si fondeva in battaglia col cavaliere che lo montava sino a che i due di-
venivano una cosa sola; e il cammello, ammantato di un livello di dignità tanto
incredibile da arrivare a far dimenticare le vette della sua sgraziata goffaggine.
Ma è inutile che io mi lamenti e rimpianga. La realtà con cui devo fare i con-
ti ora è ben diversa. Una realtà di diavolerie elettroniche che non hanno margine
di errore nel momento in cui ti hanno individuato. Che ti infilano un missile nel-
l’orecchio, come successe al capo ceceno Dudaev quando parlò nel cellulare di
cui i russi avevano individuato il numero. Che scoprono il covo in cui ti stai na-
scondendo a dispetto di tutte le precauzioni che hai preso e le complicità di al-
tissimo livello di cui godi. Come si è verificato con il migliore di noi, Osama bin
Laden. O che colpiscono magari quando stai seduto a un pranzo di nozze – con
buona pace dei cosiddetti «danni collaterali», ma anche l’Occidente è capace di
avere il suo bel pelo sullo stomaco! – dopo che qualcuno di coloro che tu hai
più vicini e che stimi come amici ti ha tradito per incassare la taglia principesca
che pende sul tuo capo.
Io non uso mai né telefoni né altre attrezzature elettroniche, un obbligo che
mi sono imposto e che faccio rispettare anche a tutti coloro che mi sono vicini.
Non sto mai fermo e non passo mai due notti nello stesso luogo. È facile anzi –
succede spesso – che completi la notte in un luogo diverso da quello in cui l’ho
iniziata. Ciò che temo di più è quindi il tradimento. È la ragione per cui non ho
mai designato un delfino, né mai lo farò: perché dovrei farlo? Per tentarlo? Per-
ché si metta d’accordo con gli americani per eliminarmi e prendere il mio posto?
È sfiducia negli uomini? No, è semplicemente conoscenza di tutto ciò che es-
si possono fare, nel bene e nel male. Mantengo così ben potato il mio boschetto,
in modo tale che nessun albero possa svettare divenendo tanto grande da poter
far da solo, anziché trarre la propria forza unicamente dalla foresta che lo circon-
da.
Cosa possano essere e fare gli uomini, proprio a Camp Adler e a Camp Buc-
ca lo ho imparato. Alla fine il periodo di detenzione si è rivelato per me una
grande scuola, che ha completato la mia preparazione. È stato un periodo diffici-
le, duro al limite del disumano, in cui almeno all’inizio mi sono chiesto anch’io
se non sarebbe stato meglio cedere, lasciarsi andare e smettere di combattere co-
me facevano in tanti. Invece ho resistito, indurendomi progressivamente e sco-
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
prendo dentro di me risorse che non avrei mai pensato di avere e di cui forse in
altre circostanze mai avrei sospettato l’esistenza.
Due fattori fra tutti gli altri mi hanno aiutato a non cedere. In prima istanza
l’orgoglio, un sentimento classificato sempre come vizio, ma che in circostanze
particolari si trasforma in virtù. Poi il senso del gruppo, dal momento in cui ho
scoperto che fra noi c’erano altri della mia stessa pasta, che non intendevano
piegarsi ed erano disposti a perdere anche la vita pur di mantenere la dignità in-
tatta e non rinunciare ai propri sogni.
Così proprio a Camp Adler e a Camp Bucca ci siamo trovati e riconosciuti
70 mettendo insieme capacità, aspirazioni e progetti sino a formare quella massa
LA STRATEGIA DELLA PAURA
è costantemente rimasta al centro della nostra vita e della nostra storia: l’Iraq e la
Siria sono state le terre degli Abbasidi e degli Omayyadi, le due più grandi dina-
stie di califfi e il termine «califfo», è bene non scordarsene, significa successore.
Ovviamente del Profeta, che Dio benedica il suo nome!
E non è poi che le cose siano andate molto diversamente nei paesi che ci
circondano e che aspirano al primato regionale. L’Arabia Saudita è dominata da
una famiglia che ha avuto accesso al potere e al potere si mantiene solo grazie a
una simbiosi col credo wahhabita, proteso da sempre verso una costante espan-
sione che dovrebbe portarlo a dominare tutta la comunità dei credenti. L’Iran è
dominato, da più di una generazione ormai, da un clero rigidamente strutturato 71
AUTOBIOGRAFIA (NON AUTORIZZATA) DEL ‘CALIFFO’
sogno di speranza e riscatto per il futuro. Posti di fronte al problema della scelta
abbiamo così deciso di risolvere il problema non risolvendolo, scegliendo cioè il
tronco dell’origine e non uno dei suoi rami e facendo riferimento all’islam puris-
simo delle origini, quello che il Profeta – sia lode al suo nome benedetto! – illu-
strava agli anâår, ai propri compagni.
Non è stato facile, una volta usciti di prigione e ripresa la lotta, riuscire a far
sì che la comunità dei credenti giungesse a identificarci con quel tipo di religio-
ne. Non eravamo infatti i soli ad aver avuto questa idea e il novero di quanti mi-
ravano a ricoprire il ruolo si presentava particolarmente ampio. Sul piano dottri-
72 nale c’erano i wahhabiti e i salafiti, nonché altre sètte minori fattesi avanti da
LA STRATEGIA DELLA PAURA
la loro controparte sunnita nemmeno le briciole del potere che aveva finito con
l’essere interamente concentrato nelle loro mani. Alla delusione dei primi tempi,
sfociata in numerosi episodi di resistenza armata, se n’era poi sommata una se-
conda, innescata dalla violazione da parte del governo al-Målikø delle promesse
che gli americani avevano fatto alle tribù sunnite per convincerle ad appoggiare
la riconquista del generale Petraeus.
A quel punto non vi era ancora guerra nella parte dell’Iraq che ci interes-
sava, ma si viveva in uno stadio preinsurrezionale di totale insoddisfazione, co-
stellato di quotidiane violenze, di terrorismo di varie e differenti matrici, di cri-
minalità rampante, di povertà e disoccupazione, di malgoverno che a volte 73
AUTOBIOGRAFIA (NON AUTORIZZATA) DEL ‘CALIFFO’
TURCHIA
S I R I A
Raqqa Mosul
Conquistata nel 2013 Conquistata nel
Mar giugno 2014; I R A N
dopo una cruenta battaglia
F. Tig
proclamazione
F.
Mediterr. diventa capitale de facto
Eu
dello Stato Islamico del Califfato
fra
r
Anni‘90, formazione teologica
i
te
all’Università Saddam Hussein
Sāmarrā’ per studi islamici, si unisce
LIBANO DAMASCO Città natale, 1971 anche ai Fratelli musulmani
2005 viene mandato da alcuni
sodali di al-Qā’ida in Iraq 2007, torna nella capitale per discutere
per aiutare la macchina la sua tesi di dottorato in scienze coraniche,
della propaganda Ramādī si laurea con una votazione eccellente
Conquistata nel 2014, secondo
avamposto iracheno dell’Is BAGHDAD
Fallūğa
E
AEL
Golfo
KUWAIT Persico
arabo. Ora però stiamo vincendo; cosa succederà se e quando inizieremo a per-
dere? Gli arabi non amano i perdenti! E poi come sono distribuite le nostre simpa-
tie? Chi ci ama, le masse o le élite? E come ci amano, con il cuore o con la mente?
Sono interrogativi importanti, cui per il momento non sappiamo dare risposta.
Sappiamo invece molto bene come e quanto l’Occidente ci tema e quanto di
conseguenza ci odi. È un odio che abbiamo ricercato e costruito con tutti i mezzi
possibili, per rinforzare quella contrapposizione fra «noi e loro» che dovrà rima-
nere tanto dura da non consentire che qualcuno nutra un giorno la tentazione di
mediare, onde rimettere insieme le due parti della mela. Rendendo di conse-
guenza vano tutto ciò che noi abbiamo fatto e patito per far trionfare la verità! 75
AUTOBIOGRAFIA (NON AUTORIZZATA) DEL ‘CALIFFO’
76
LA STRATEGIA DELLA PAURA
IL SENSO DI DĀ‘IŠ
PER LO STATO di Emanuela C. DEL RE
Il ‘califfato’ è organizzato come una struttura statale, con i suoi
dicasteri, le sue province, i suoi servizi al pubblico. Di fatto si dedica
a depredare i territori, da cui estrae le risorse che lo preservano.
Se vogliamo colpirlo, facciamo leva sulla sua burocratizzazione.
ne scritte a mano con tanto di grafici e piani d’azione emerge che Då‘i4 è stato
fin dall’inizio immaginato come struttura articolata (Der Spiegel lo paragona alla
Stasi, la polizia segreta della DDR) con precisi obiettivi da raggiungere attraverso
strategie raffinate. Molti piani elaborati da Õåãã Bakr sono infatti stati attuati con
accuratezza, soprattutto per quanto riguarda la conquista di territori in Siria.
Per comprendere e conoscere la struttura di Då‘i4 ho avuto accesso dal 2013
a oggi a informazioni dirette sul terreno in Iraq, Siria e Giordania, provenienti da
1. C. REUTER, «The Terror Strategist: Secret Files Reveal the Structure of Islamic State», Der Spiegel,
18/4/2015, goo.gl/tahFqt (accesso: aprile 2015) 77
IL SENSO DI DĀ‘IŠ PER LO STATO
vuole uscire dai territori per andare in un ospedale per motivi di salute, ad esem-
pio, può farlo ma deve lasciare qualcosa (la casa, denaro) in pegno o qualcuno
in ostaggio. Quando Då‘i4 fa pagare una multa per una violazione, rilascia rego-
lare ricevuta. Le prescrizioni comportamentali sono diffuse anche altrove in Me-
dio Oriente. Il braccio di ferro tra secolarismo e 4arø‘a anche in Iraq è stato sem-
pre molto impegnativo – e su molte cose il secolarismo ha perso 3. È certo però
2. Intervista inclusa nel documentario: E.C. DEL RE, We, the Last Christians of Iraq, 2015, vimeo.-
com/139202991
3. Molte norme dei codici civile e penale sono oggetto di accese discussioni per le diverse interpre-
78 tazioni (come la norma che sarebbe sancita dal Corano secondo cui un uomo può picchiare la mo-
LA STRATEGIA DELLA PAURA
che larga parte dei cittadini assoggettati – anche molti fra i più fervidi musulmani
– non accetta tali restrizioni e ne subisce l’orrore con sgomento. Gli abitanti di al-
Raqqa, la capitale di Då‘i4, diffondono via twitter ora per ora i tragici eventi di
cui sono testimoni e vittime (@Raqqa_SL) e continuano a ribadire la loro non
complicità con quello che sta avvenendo in città ormai da più di un anno.
Chi conquista, governa su tutti gli aspetti della vita. L’ambizione di creare
uno Stato articolato è viva anche in altre zone della Siria controllate dai jihadisti,
perché rappresenta una forma di evoluzione dell’islam politico di fronte alle sfide
della modernità e alle spinte per la ridefinizione dell’identità delle molte anime
etnicamente diverse del mondo musulmano: nel Rojava (Kurdistan siriano) ad
esempio, è stato abbozzato uno Stato democratico ispirato all’ecologia sociale di
Murray Bookchin.
glie per richiamarla ai suoi doveri religiosi). Vi è una parte della popolazione che ambisce, anche
nel Kurdistan iracheno, a un’applicazione più rigida delle norme comportamentali dell’islam, secon-
do l’interpretazione del Corano più limitante per l’individuo. 79
IL SENSO DI DĀ‘IŠ PER LO STATO
4. A maggio 2015, in Iraq sono stati istituiti i wilåyåt di Baghdad, al-Anbår, Diyålå, Kirkûk, Âalåõ al-
Døn, al-Furåt, al-Fallûãa, Ninive e al-Ãanûb; in Siria i wilåyåt di Aleppo, Õimâ, Damasco, al-Œayr,
80 al-Raqqa (la capitale) e al-Baraka.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
sono due dei dieci membri del Consiglio della 4ûrå, il più importante organo del-
lo Stato di Då‘i4: uno responsabile dei wilåyåt iracheni e uno di quelli siriani. Il
vice di al-Baôdådø in Siria è Abû ‘Alø al-Anbårø, ex generale iracheno del regime
di Saddam Hussein, oggi supervisore dei consigli locali e delegato politico, men-
tre il suo ruolo militare consiste nel dirigere le operazioni contro i ribelli siriani
che si oppongono al regime del presidente Ba44år al-Asad e a Då‘i4 nella guerra
civile siriana. Il vice di al-Baôdådø in Iraq era Abû Muslim al-Turkmåniyy (al se-
colo Faîil Aõmad ‘Abd Allåh al-Õiyålø), rimasto ucciso in un raid di droni nell’a-
gosto 2015 presso Mosul. Il suo ruolo politico era quello di supervisore dei con-
sigli locali, mentre quello militare comprendeva la direzione di operazioni contro
gli oppositori dello Stato Islamico.
L’apparato statale del califfato è costituito da otto Consigli (figura).
A) Consiglio della 4arø‘a (che agisce a stretto contatto con il Consiglio della
4ûrå). È l’organo più importante e potente di Då‘i4, che ha il compito di gestire il
«califfato» dal punto di vista religioso e ha natura teologica. I suoi membri devo-
no assicurarsi che governatori e comitati aderiscano alla corretta interpretazione,
secondo Då‘i4, della legge islamica. Le decapitazioni (come ad esempio quelle di
Foley, Sotloff e Haines) vengono approvate dal Consiglio che di volta in volta le
giudica conformi alla 4arø‘a. Ad esso sono collegati due organi. Anzitutto, la
struttura giudiziaria che gestisce i tribunali della 4arø‘a, previene i crimini, stabili-
sce le pene, promuove i comportamenti virtuosi. Insieme, il dipartimento prepo-
sto alla predicazione, al reclutamento, al controllo e alla diffusione dei media,
guidato da Abû Muõammad al-‘Adnånø. Il Consiglio della 4arø‘a dissemina manua-
li e messaggi, scrive i discorsi di al-Baôdådø e produce commenti per la produ-
zione mediatica di Då‘i4. Il personale del Consiglio non è composto da iracheni,
ma per lo più da ex sudditi provenienti dai paesi del Consiglio di Cooperazione
del Golfo (Gcc) e da altri stranieri.
B) Consiglio della 4ûrå (che agisce a stretto contatto con il Consiglio della
4arø‘a). È formato dai decisori che definiscono le politiche dell’organizzazione. È
il più alto organo consultivo di Då‘i4, che oltre a nominare i governatori delle
province avrebbe anche la facoltà di deporre il «califfo» al-Baôdådø. Il Consiglio è
guidato da Abû Arkån al-‘Åmirø ed è formato da dieci membri nominati da al-
Baôdådø. Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
5. Secondo un documento del Døwån al-Rakå’iz, il ministero delle Finanze del «califfato», i ricavi del-
le vendite di petrolio ad aprile 2015 sono stati di 46 milioni e 700 mila dollari. Nello stesso docu-
mento sono indicati 253 pozzi sotto il controllo di Då‘i4 in Siria, di cui 161 operativi grazie all’impie-
go di 275 ingegneri e 1.107 operai. Per soddisfare il suo fabbisogno, Då‘i4 ha costruito una rete di
piccole raffinerie, alcune addirittura mobili, installate su autotreni. In Iraq si stima che il «califfato»
estragga ogni giorno tra i 10 e i 20 mila barili, per lo più dai giacimenti vicino Mosul: gran parte
della produzione irachena dello Stato Islamico è inviata in Siria, dove viene raffinata per ottenere
diversi prodotti combustibili. 81
82
STRUTTURA ORGANIZZATIVA DEL CALIFFATO
Il le
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
die nz
ader
be
p
ol
ob
o
iti
Finanzia le operazioni co CONSIGLIO Ha natura teologica e giuridica,
dell’organizzazione, riscuote le tasse DIPARTIMENTO on
er v DELLA agisce tramite due dipartimenti.
e gestisce i bottini di guerra DELLE FINANZE eli i de
gioso
cu i tutt ŠAR‘ĪA
Dipartimento preposto
alla predicazione, al reclutamento,
al controllo e alla difusione dei media
Cura la disseminazione dell’ideologia Formato dai decisori
CONSIGLIO CONSIGLIO che defniscono le politiche,
salafta e jihadista; elabora le dichiarazioni
DEI MEDIA DELLA è un’istituzione Organo giudiziario:
pubbliche da difondere in rete e nel Califato
ŠURA politica storica nell’islam gestisce i tribunali
e la giustizia, previene
i crimini e promuove
i comportamenti virtuosi
LA STRATEGIA DELLA PAURA
gli agenti sotto copertura in coordinamento con il Consiglio militare. I suoi ploto-
ni sono disseminati in tutte le province, con il compito di gestire la posta e coor-
dinare le comunicazioni tra gli organi del Consiglio. Ha anche un corpo specia-
lizzato in assassini politici, rapimenti, estorsioni.
G) Organizzazione amministrativa. I territori conquistati vengono riorganiz-
zati in province chiamate tradizionalmente wilåya. Ognuna delle quali è suddivi-
sa in qi¿å‘åt (settori), con responsabili dei due rami del governo locale: ammini-
strazione e servizi per i musulmani. Il governatore dei wilåyåt è il wålø, i cui im-
mediati sottoposti sono gli emiri (o comandanti) che controllano un settore a lo-
ro assegnato, ovvero quello della 4arø‘a, quello militare e altri. Sono sedici le di- 83
IL SENSO DI DĀ‘IŠ PER LO STATO
statuale, allora bisogna adottare una politica di contenimento. Dopo gli attacchi
terroristici di Parigi, nessuna delle due soluzioni sembra più adeguata. Se Då‘i4
vuole essere uno Stato, si possono sfruttare le conseguenze negative di questa
sua ambizione. Infatti, perseguendo questo obiettivo Då‘i4 subisce un processo
di graduale burocratizzazione che finisce per deludere gli estremisti (molti stra-
nieri stanno ritornando indietro) perché tende a «normalizzarlo». Inoltre, la strut-
tura statale di Då‘i4 in molti aspetti non è dissimile da quella di altri paesi ricono-
sciuti e vezzeggiati dall’Occidente, come ad esempio l’Arabia Saudita (tabella).
Nell’elaborazione di una strategia contro il «califfato» bisogna considerare che
84 vi sono due realtà uguali e contrarie di cui tenere conto: Då‘i4 è una struttura or-
LA STRATEGIA DELLA PAURA
ganizzata di tipo statale; Då‘i4 non è una struttura statale, sebbene sia organizza-
to. Entrambe le tesi sono vere. Vediamo perché.
A) Då‘i4 vuole parlare e parla secondo un linguaggio giuridico-amministrati-
vo che riproduce istituzioni tradizionali e storiche dell’islam pur stravolgendone il
significato, perché ha bisogno di creare coesione al suo interno soprattutto a
causa dell’eterogeneità dei suoi aderenti, che mette a rischio la struttura favoren-
do le rivalità intestine. E perché senza strutture istituzionali il tessuto sociale ed
economico degli assoggettati crollerebbe.
B) Då‘i4 è un gruppo militare che non governa realmente i territori conqui-
stati ma, in generale, ne prende le risorse e le sfrutta. Gli Stati predoni sono fre-
quenti nella storia del Medio Oriente. Ad esempio quello di Nadir Shah, nel
XVIII secolo, i cui progetti criminali a breve termine gli permettevano di racco-
gliere un bottino sufficiente a sopravvivere fino al saccheggio successivo. Allora
come oggi, ai predati veniva chiesto di pagare un riscatto o una tassa per poter
emigrare o vivere serenamente nei suoi territori. In quest’ottica, per Då‘i4 la ne-
cessità di organizzazione sul territorio – con un quartier generale e dei dicasteri –
sarebbe solo una necessità logistica, ad esempio per riporre le armi, per tenere
in custodia gli ostaggi, per alloggiare le truppe, custodire i numerosi blindati, le
armi e quant’altro catturato ai nemici. Entrambi questi aspetti sono concreti e
non si escludono l’un l’altro, anche perché il controllo di Då‘i4 sul territorio è di
intensità diversa a seconda delle zone e del loro valore in termini di risorse e po-
tenziale strategico.
Ma allora Då‘i4 è uno Stato? È possibile definirlo tale perché ha una struttura
verticistica e burocratica, con un capo del governo e vari ministeri? Se lo Stato è
un’entità che controlla un territorio, ha delle istituzioni governative ed è in grado
di elaborare le proprie politiche, di varare e applicare leggi nel territorio che
controlla, allora Då‘i4 è uno Stato. Se lo Stato deve poter difendere il proprio ter-
ritorio e i propri interessi tramite le forze di sicurezza, deve poter mantenere un
sistema amministrativo ed economico che permetta ai cittadini di vivere, allora
Då‘i4 è uno Stato.
Questo Stato è sostenibile? Dal punto di vista sociopolitico il livello di intimi-
dazione garantisce il controllo sulla popolazione. Sotto l’aspetto economico, le fi-
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
nanze di Då‘i4 si basano sul mercato nero del greggio e su molto altro, potendo
garantire un sistema di retribuzione degli affiliati puntuale e soddisfacente, che
infatti attrae anche combattenti stranieri. Då‘i4 è un regime di occupazione strut-
turato e istituzionalizzato con infiltrati e sostenitori in molti villaggi in Siria e in
Iraq. Tuttavia, la capacità di Då‘i4 di espandersi, oltre che di mantenere il control-
lo dei territori conquistati, è dubitevole.
Då‘i4 è uno Stato e un sistema burocratico, o più semplicemente criminalità
organizzata? Entrambe le cose. Esso presenta certo una struttura statale articolata,
che si sovrappone a quella preesistente nei territori conquistati. Allo stesso tem-
po tale struttura non è solida perché: a) la composizione della sua leadership e 85
IL SENSO DI DĀ‘IŠ PER LO STATO
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86
LA STRATEGIA DELLA PAURA
LO STATO ISLAMICO
È UNA BANDA
DI MERCENARI di Xavier RAUFER
Distratti da terrorismo e sgozzamenti, non ci s’interroga
sull’incredibile serie di coincidenze nella parabola dell’Is da meteora
a esercito di conquista. E se il califfo fosse il ‘mostro utile’ dell’Iran per
screditare il salafismo e obbligare Obama ad appoggiarsi a Teheran?
novembre, gli occidentali ancora s’interrogano sulla loro strategia contro i jiha-
disti. Ma perché non si cerca di capire quella di questo ormai formidabile ne-
mico, di cui tre anni fa nessuno conosceva neanche il nome, a parte qualche
raro esperto?
Paragoniamo l’Is a Õizbullåh. Descrivere il secondo è un’operazione bana-
le: entità paramilitare, milizia sciita in Libano, dalle tendenze terroriste, equi-
paggiata, addestrata e manipolata dalle forze speciali della Repubblica Islamica
d’Iran. In due righe, l’essenziale. Ora, definire con la stessa facilità l’Is è impos-
pronunciato. Nel febbraio 2015, dopo che gli uomini del «califfo» avevano arso
vivo un pilota giordano, la brusca svolta: lo 4ayœ di al-Azhar, Aõmad al-¡ayyib,
capo supremo dell’istituzione, tuonava contro lo Stato Islamico, contro quegli
«oppressori e corrotti che combattono Dio», chiedendo di «crocifiggere e smem-
brare i terroristi dell’Is» 2. Perché questa condanna, di una violenza inaudita, sen-
za che prima al-Azhar si fosse mai pronunciata sulla faccenda? Dopo molte lettu-
re, guidate da domande di ricerca ben precise, l’interrogativo resta.
88 2. «Al-Azhar Calls for Killing, Crucifixion of ISIS Terrorists», al-Arabiya News, 4/2/2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
Tre anni dopo, quel manipolo di disadattati armati di kalashnikov diventa al-
Dawla al-islåmiyya fi ’l-Iråq wa ’l-3åm (Stato Islamico in Iraq e nel Levante). Nel-
3. Cfr. per esempio la scheda di «identificazione» emessa dal dipartimento del Tesoro del governo
degli Stati Uniti nel luglio 2015, nel quadro delle misure per individuare persone d’interesse che
fanno circolare denaro criminale e/o terrorista. Contando tutte le possibili combinazioni, la sola
«identificazione» del diretto interessato prende 48 righe, un allegro zibaldone di nomi, tra quelli di
battaglia (al-Baôdådø), di città (al-Samarrå’ø, proveniente da Såmarrå’), di tribù (al-Quray4ø, tribù del
Profeta), clanico (al-Badrø, al-Õusaynø) eccetera.
4. E. S CHMITT , «In Battle to Defang ISIS, U.S. Targets Its Psychology», The New York Times,
28/12/2014.
5. «Inside the Islamic State», The New York Review of Books, 9/6/2015; «The Mystery of ISIS», The New
York Review of Books, 13/8/2015; «What is the Islamic State?», The Atlantic, marzo 2015. 89
LO STATO ISLAMICO È UNA BANDA DI MERCENARI
‘Umar, compagno del Profeta, e alla città giordana di Zarqå’ dov’è nato. Zarqåwø
è tutto fuorché una cavaliere bianco del salafismo. Piuttosto, uno sbandato, un
masso erratico à la Lee Harvey Oswald: commesso di un video store nei bas-
sifondi giordani, delinquente tatuato e tossicomane. Negli anni Novanta, la sua
famiglia lo manda dai salafiti a farsi disintossicare attraverso la purificazione e la
preghiera. Il recupero supera ogni aspettativa dei suoi parenti: verso il 1999 il
giovane Aõmad fonda un gruppetto jihadista dal nome – piuttosto comune in
dell’Is fanno capolino fra i 100 e i 170 ufficiali di Saddam, nelle posizioni di intel-
ligence, armamenti e «programmi speciali» (come le armi chimiche).
Fino all’agosto 2015, il numero due dello Stato Islamico, il capo del Consi-
glio militare e l’architetto della strategia era Faîøl al-Õayålø 9, detto Abû Mu‘tazz,
ex maggiore dei servizi segreti militari di Saddam, reparto un po’ troppo incline
a farsi infiltrare dalle talpe salafite. Il numero tre invece è Abû ‘Alø al-Anbårø (il
nome vero è ignoto), ex baatista e generale dell’esercito, incaricato delle ope-
razioni militari in Siria. Un altro personaggio importante nei ranghi dell’Is è l’ex
colonnello baatista ¡aha ¡åhir al-‘Åni: all’inizio della caotica occupazione ame-
ricana si è impadronito di enormi quantità di armi e munizioni e in seguito le
ha devolute al «califfo».
In questo quadro, dove sono i jihadisti «storici»? Da nessuna parte, sembra.
Strano, per un «califfato» ultrasunnita.
2006. Ma qui succede un altro miracolo: l’Is passa le forche caudine del surge
senza subire grossi danni. A fine 2011, gli Stati Uniti lasciano la Mesopotamia:
l’ultima unità operativa abbandona le sabbie d’Iraq il 18 dicembre.
Passiamo alla Siria. La guerra civile siriana inizia nella primavera 2011 con
l’apparizione tutt’a un tratto di un «Esercito libero siriano», che lancia operazioni
mirate a ritagliarsi delle «zone liberate». In seguito fa capolino una branca siriana
di al-Qå‘ida, sotto il nome di Ãabhat al-Nuâra. Le prime unità dello Stato Islami-
co, provenienti dalla provincia irachena dell’Anbår, varcano la cosiddetta fron-
tiera a fine 2011. Si uniscono alla coalizione anti-Asad, in quanto alauita alleato
di ferro dell’Iran sciita, la bestia nera dei salafiti? Tutt’altro: appena giunto in Si-
ria, l’Is attacca l’Esercito libero siriano e al-Nuâra, massacrandone i miliziani che
si rifiutano di giurare fedeltà al «califfo» e occupandone le posizioni servendosi
di fumosi pretesti religiosi.
I comportamenti dell’Is, come in Iraq poco tempo prima, sono così atroci
che al confronto pure al-Asad appare presentabile. E riecco apparire il generale
iraniano Suleimani, alle calcagna dello Stato Islamico; poco dopo, diverse mili-
zie sciite, Õizbullåh in testa, volano a migliaia in soccorso del regime di Dama-
sco. Intanto, l’Is prosegue il suo jihåd gore nel Nord del paese; questa volta, so-
no le milizie curde a scendere in guerra, alleviando il peso della controinsurre-
zione ad al-Asad.
Nel febbraio 2014, ad Aleppo, Abû Œålid al-Sûrø, capo della coalizione qaidi-
sta in Siria (Aõrår al-3åm e Ãabhat al-Nuâra) cade vittima di un attentato suicida
fomentato dall’Is. La sanguinosa «guerra civile jihadista» ha già fatto migliaia di
morti, mentre l’esercito lealista, ripiegato sulla Siria utile, tiene i punti in panchi-
na. Ancora a ottobre 2015, durante l’offensiva russo-iraniana pro al-Asad su Alep-
po, gli uomini del «califfo» attaccano le formazioni ribelli attorno alla città assedia-
ta, oltre a combattere altre milizie filoamericane alla periferia di Damasco.
suoi sgozzamenti, dei suoi roghi, dei suoi stupri, delle sue bombe? Una volta ri-
dotto in polvere l’Is, chi oserà ancora chiamarsi salafita nel prossimo mezzo se-
colo? Secondo, in Medio Oriente, la «grande potenza neoimperiale» americana
aveva due progetti per sottrarsi alla trappola funesta che si era tesa da sola du-
rante gli anni di Bush. In Siria, creare un esercito di opposizione moderata a
Ba44år al-Asad, preludio a un cambio di regime a Damasco. In Iraq, dar vita a
un’alleanza politica fra sunniti e sciiti per superare la guerra settaria e governare
il paese in modo condiviso.
La nostra domanda è: chi ha totalmente annientato questi due progetti – ri-
dotti oggi a poco più di una barzelletta – se non lo Stato Islamico? E cosa resta 93
LO STATO ISLAMICO È UNA BANDA DI MERCENARI
alla Casa Bianca di Obama per tentare di rimettere in piedi una parvenza di ordi-
ne regionale se non imboccare la via di Teheran?
Facciamo un piccolo passo indietro per notare l’ennesima, enorme stranez-
za: quando si scatena l’offensiva americana in Afghanistan (ottobre 2001), i
mujåhidøn stranieri fuggono in maggioranza verso il Pakistan. Non al-Zarqåwø,
stanziato a Herat, molto più vicina – anche culturalmente – all’Iran, zeppa di
agenti sotto copertura di ogni tipo. Laggiù, la sua banda di fanatici si forma alle
tecniche del terrorismo. Dopo l’assalto statunitense, il salafita Zarqåwø si rifugia
nientemeno che in Iran (il paese degli apostati sciiti, ricordiamolo), dove dimora
per almeno qualche mese prima di fare ritorno in Giordania. Braccato dai servi-
zi antiterroristici, il jihadista scappa – pensate un po’ – nella Siria di al-Asad, nel-
le braccia degli eretici alauiti. Nel Levante, secondo un rapporto molto ben do-
cumentato, viene «ospitato e munito di documenti falsi». Da chi, perché e in
cambio di cosa?
A che gioco gioca la Repubblica Islamica d’Iran? Bastino due inquietanti pre-
cedenti. Il primo: dopo gli attentati di Parigi nel 1985-86 (13 morti, 300 feriti), il
terrorista Fu’åd ‘Alø Âåliõ, perfetto sunnita tunisino, era stato reclutato e formato
dagli agenti dei servizi speciali iraniani. Il secondo: negli anni Novanta, i servizi
militari turchi avevano favorito la nascita di un Õizbullåh anatolico, di fatto un
gruppuscolo curdo, per assassinare i quadri del Partito dei lavoratori del Kurdi-
stan, il Pkk. In seguito, i servizi iraniani hanno scippato questa formazione al con-
trollo di Ankara e negli anni successivi lo hanno usato per eliminare gli oppositori
del regime di Teheran in Anatolia. L’affare sollevò un gran polverone in Turchia,
con processi e una miriade di documenti accessibili dal pubblico. Fino a oggi, gli
interrogativi su questa incredibile serie di coincidenze – per essere indulgenti –
non hanno ancora catturato l’attenzione degli analisti ufficiali o dei giornalisti.
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94
LA STRATEGIA DELLA PAURA
LIMES Lei ha di recente pubblicato un libro dal titolo Dirty Entanglements in cui
analizza gli stretti legami tra terrorismo, criminalità e corruzione. I tragici fatti di
Parigi confermano o smentiscono la sua tesi?
SHELLEY Gli elementi investigativi sin qui disponibili sembrano confermarla appie-
no. Il primo dei terroristi di Parigi ad essere identificato, grazie alle impronte di-
gitali rilevate da un frammento di dito, era stato arrestato otto volte per piccoli
reati. Il che conferma che le più recenti e temibili forme di terrorismo, come
quella dello Stato Islamico (Is), sono finanziate dalle attività criminali. Non solo
dalla criminalità organizzata, dai grandi traffici di droga e armi, ma anche e sem-
pre più dalla piccola criminalità urbana, cui gli apparati di sicurezza occidentali
non rivolgono grande attenzione. Spaccio, contrabbando di sigarette, vendita di
prodotti contraffatti: è di questo che vive la nuova manovalanza terroristica. Uno
degli attentatori di Charlie Hebdo, ad esempio, vendeva merce contraffatta e si-
garette di frodo. Quando ho appreso che la pianificazione degli attacchi di Parigi
è avvenuta in Belgio ho fatto un salto sulla sedia: nel mio libro parlo infatti dei
traffici di prodotti falsi ed esseri umani che avvengono nel paese e di cui lo stes-
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so governo belga dà conto in un rapporto sui diritti umani. Dopo gli attacchi di
Londra del 2005, la polizia belga ha fatto irruzione in casa di uno di questi traffi-
canti e vi ha trovato un modello in scala della metropolitana londinese.
LIMES Ma qual è esattamente il collegamento funzionale tra il terrorismo e la pic-
cola criminalità?
SHELLEY In passato il terrorismo era finanziato principalmente, ancorché non uni-
camente, dagli Stati e dai loro emissari. Al-Qå‘ida, lo sappiamo, è sostanzialmen-
te una creazione saudita. Man mano che questa fonte di finanziamento si è an-
data prosciugando, è sorta la necessità per le grandi organizzazioni terroristiche
di trovare fonti alternative di sostentamento. Lo Stato Islamico (Is), che ha rile- 95
‘CRIMINALITÀ E TERRORISMO SONO DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA’
vato il testimone dalla rete di Osama bin Laden, nella sua propaganda in arabo
si vanta di autofinanziarsi. Lo fa attraverso vari canali, tra cui la vendita del pe-
trolio prelevato dai pozzi siriani e iracheni in suo possesso (il cui volume è però
difficile da stimare, data la precaria gestione degli impianti di estrazione e tra-
sporto in una situazione di guerra), il traffico di reperti archeologici, i sequestri
a fini di riscatto, la tratta di esseri umani – come le donne yazide – e la «tassa-
zione» delle aree su cui insiste il sedicente califfato. Fatta parziale eccezione per
il traffico di reperti, queste attività si svolgono a livello regionale. La piccola cri-
minalità che ha per teatro le nostre periferie e per protagonisti gli aspiranti «mar-
tiri» svolge invece un ruolo fondamentale nella fase di reclutamento e addestra-
mento delle nuove leve. Non vi sono infatti evidenze che l’Is finanzi il sostenta-
mento dei foreign fighters quando sono ancora nei loro paesi di provenienza e
quando vi fanno ritorno come cellule dormienti in attesa di un segnale per col-
pire. Le piccole attività illecite danno dunque da vivere a questi individui, di cui
l’organizzazione ha vitale bisogno per colpire al cuore l’Occidente. Inoltre, an-
che quando i combattenti stranieri giungono in Siria, non sono «stipendiati» da
subito, per cui devono provvedere a se stessi per almeno tre o quattro mesi, fin-
ché l’addestramento militare non li rende «produttivi». Alcuni vendono i propri
passaporti in Turchia, ma molti altri giungono in Siria con i risparmi frutto degli
illeciti compiuti in patria. In media oltre il 50% degli individui reclutati dallo Sta-
to Islamico in Occidente risulta avere precedenti penali.
LIMES Si può dunque dire che la criminalità sia un mezzo al servizio del fine ter-
roristico?
SHELLEY Solo in parte. Nella misura in cui il terrorismo jihadista si ammanta di un
millenarismo ideologico e pseudoreligioso, esso è a sua volta un mezzo di «re-
denzione» dell’individuo emarginato. Lo stigma sociale connesso al crimine è
cancellato, agli occhi dell’aspirante terrorista, nel momento in cui egli si mette al
servizio di una causa presentata (e percepita) come nobile e importante. È un
meccanismo psicologico potente, che garantisce una devozione assoluta, fino al
sacrificio della vita – propria e altrui.
LIMES Per quale ragione i governi faticano a cogliere questo legame funzionale
tra terrorismo e criminalità?
SHELLEY Ne stanno acquisendo crescente consapevolezza, ma l’adattamento degli
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le. Del resto, il connubio tra crimine e terrorismo non è un’invenzione dell’Is. Al
principio del mio libro parlo di Muœtår Bilmuœtår, alias Mr Marlboro, già leader
di Aqmi (al-Qå‘ida nel Maghreb islamico), l’algerino che ha costruito una fortuna
sul contrabbando di sigarette e l’ha usata (anche) per finanziare la sua attività ter-
roristica. Anche Aqap (al-Qå‘ida nella Penisola Arabica) ha seguito un iter simile,
ma il trend precede la stagione jihadista: le Farc colombiane, ad esempio, hanno
usato a lungo il crimine per autofinanziarsi.
LIMES Che differenze vi sono tra Bilmuœtår e al-Baãdådø?
SHELLEY La principale differenza è che l’Is di al-Baãdådø beneficia delle compe-
tenze militari e amministrative dell’ex leadership sunnita irachena, passata armi e
bagagli al servizio del «califfo». Bilmuœtår non aveva a disposizione una simile ex-
pertise. Inoltre, gran parte della leadership dello Stato Islamico è stata forgiata
dalla prigionia nei centri di detenzione americani di Camp Bucca e Camp Adler.
LIMES Il suo libro è piovuto sull’establishment e sul pubblico americano quasi co-
me un fulmine a ciel sereno. Non sembra esservi in America grande consapevo-
lezza del legame crimine-terrorismo. È così?
SHELLEY Sì, finora le mie ricerche hanno suscitato più interesse fuori dagli Stati
Uniti – in Europa, ma anche in Asia – che nel mio paese. La ragione credo risie-
da nel tipo di approccio al terrorismo: quello statunitense tende ad essere essen-
zialmente militaristico. L’attenzione agli aspetti finanziari è riservata soprattutto ai
grandi flussi di denaro che transitano per banche e fondazioni, di solito «congela-
ti» con le sanzioni. Sfugge ancora quasi completamente la dimensione micro: i
piccoli trasferimenti di denaro frutto spesso di attività illecite come il contrabban-
do o lo spaccio, fatti da singoli individui di solito mediante i servizi di money
transfer. È tempo che Stati Uniti ed Europa adottino un approccio unitario ai
problemi del terrorismo, del crimine transnazionale e dei piccoli fenomeni crimi-
nali a questo variamente collegati, perché si tratta di facce dello stesso prisma. Il
crimine internazionale usa ad esempio i circuiti produttivi e commerciali mondia-
li per rifornire i mercati di stupefacenti e merci contraffatte, la cui vendita al det-
taglio contribuisce, come abbiamo visto, a finanziare il terrorismo. In America ab-
biamo due esempi virtuosi, quelli di New York e di Los Angeles: due grandi città
particolarmente esposte alle minacce esterne che stanno sperimentando un ap-
proccio integrato a questi fenomeni. Spero che presto tali eccezioni facciano
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scuola.
97
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LA STRATEGIA DELLA PAURA
TEHERAN, BAGHDAD
E I MOLTI PADRI
DELLO STATO ISLAMICO di Nicola PEDDE
L’Is nasce dalla de-baatificazione dell’Iraq decisa dagli Usa,
dalla miopia di al-Målikø e dall’ingerenza iraniana a sostegno degli
sciiti. Ora che il mostro è sfuggito di mano, Forza Quds e Guardie
rivoluzionarie si contendono tra le polemiche la strategia anti-califfo.
Karbalā)
Gerusalemme
Nağaf Lahore
Kandahar
Canale
di Suez Quetta
Shiraz
Dalbandin
TEHERAN, BAGHDAD E I MOLTI PADRI DELLO STATO ISLAMICO
Stretto di Hormuz
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Karachi
Medina
OMAN
La Mecca
luzione avrebbe dovuto essere l’integrazione all’interno delle ricostituite Forze ar-
mate irachene, con pari dignità di ruolo e riconoscimento della linea di comando.
L’incapacità politica di al-Målikø e la contestuale uscita dal paese delle Forze
armate statunitensi hanno tuttavia interrotto il progetto di integrazione dei Consi-
gli, alimentando al contempo un crescente risentimento verso le istituzioni cen-
trali trasformatosi in aperta opposizione a partire dal 2012. Quando le formazioni
di estrazione baatista e confessionale entrarono in conflitto con la struttura qaidi-
sta regionale, iniziando a definire una loro realtà autonoma (lo Stato Islamico),
ancora una volta i Consigli dimostrarono il loro predominante sentimento nazio-
nalista, ricucendo i rapporti con il governo al-Målikø – che nel 2014 aveva accu-
sato il loro leader Aõmad Abû di terrorismo – e schierandosi al fianco delle forze
governative nella riconquista del paese.
È quindi ancora una volta nella mancanza di visione e di sintesi politica del-
l’ex primo ministro al-Målikø che deve individuarsi il vero elemento coesivo delle
formazioni radicali e jihadiste irachene in seno alle comunità sunnite. La repres-
sione nel 2011 delle istanze politiche della comunità sunnita è senza dubbio il
momento di sintesi di queste posizioni, con la conseguente sedimentazione e
amalgama di un generale sentimento di malcontento maldestramente trasformato
da al-Målikø in concreta e reale minaccia. Sono progressivamente confluiti in que-
sta nuova dimensione unitaria gruppi di diversa estrazione politica e ideologica,
tra i quali quello di maggior peso e consistenza è forse l’Esercito degli uomini
dell’ordine di Naq4bandi (Ãay4 riãål al-¿arøqa al-naq4bandiyya, Jrtn).
L’Is è dunque sorto dall’evoluzione di alcune organizzazioni jihadiste irache-
ne di ispirazione qaidista e si è sempre contraddistinto per un elevato grado di
autonomia, grazie al quale ha maturato nel corso degli ultimi anni una piattafor-
ma e una posizione politico-operativa del tutto distinte da quelle delle altre forze
qaidiste, con cui è entrato in diretto contrasto nell’ambito del sanguinoso conflit-
to siriano. Il connotato jihadista si sposa nell’Is con un’elevata capacità organizza-
tiva e con una forte vocazione economica, che ne ha fatto in pochi anni una del-
le realtà più ambiziose e finanziariamente solide, con intensi legami regionali
nella galassia salafita, ma anche con un’agenda individuale estremamente ben
definita e poco pluralista sotto il profilo delle sinergie operative.
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GOLFO PERSICO
Estahan
LE POSTE IN GIOCO
Yazd
al-Nāsiriyya
Ahwaz
Bassora IRAN
Abadan
Bandar-e
KUWAIT Deylam Rafsanjan
Kerman
al-Kuwayt Shiraz
Ganaveh
Kharg Island
Mīnā) Sa(ūd Firuzabad
Kangan
Bandar-e Abbas
BAHREIN
North
Pars
QATAR Abū
al-Buhūš al-Fātih Jask
Doha Rašīd Sağa(
Umm Šarīf
al-Bunduq Zākūm
Dubai
Abu Dhabi
Suhār
. .
Ğabal al-Zanna
.
EMIRATI Bāb al-Sāhil
ARABI UNITII (Asab Mīnā) al-Fahl
Bū Hasā
. . Šāh OMAN Mascate
Sūr
ARABIA SAUDITA
al-Huwaisa
Abū Ğīfān
Sayh Rawl
Basi militari Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
e/o aeroporti
Giacimenti petroliferi
Oleodotti
Giacimenti di gas
Gasdotti
Bū Hasa
. . Principali giacimenti
Z u f ā r
Rapporto tra sciiti e sunniti:
Kuwait: Sunniti 60%-Sciiti 25%
Bahrein Sunniti 30%-Sciiti 70%
Emirati
Arabi Uniti: Sunniti 81%-Sciiti 15%
104 Salāla
LA STRATEGIA DELLA PAURA
zato l’orientamento del regime di Saddam Hussein. Così facendo, tuttavia, l’Iran
finì per alimentare un generale sentimento di avversione per qualsiasi forma di
partecipazione istituzionale delle minoranze sunnite, che ben presto si organizza-
rono su base territoriale in entità compatte e spesso impenetrabili, pronte a di-
fendersi dalla percepita volontà di riscatto e vendetta della maggioranza sciita.
Questo meccanismo portò al consolidamento delle formazioni armate che
nella provincia dell’Anbår si contrapposero militarmente al nuovo potere centrale
di Baghdad, abbracciando progressivamente un radicalismo che poco dopo as-
sunse i connotati dogmatici del più violento confessionalismo. Una trasformazio-
ne epocale per gruppi di estrazione baatista, che trova giustificazione nella ne- 105
TEHERAN, BAGHDAD E I MOLTI PADRI DELLO STATO ISLAMICO
E ora?
Nonostante le autorità centrali irachene pubblicizzino a gran voce i successi
delle operazioni volte alla riconquista di aree controllate dallo Stato Islamico, la
realtà sul terreno appare ben diversa. Le aree a maggioranza sunnita hanno di
fatto accolto lo Stato Islamico ritenendolo un’alternativa migliore rispetto al go-
verno sciita di Baghdad. Solo una minima parte dell’Anbår è stata riconquistata e
appare assai poco probabile che una campagna militare possa assicurare il ripri-
stino del controllo territoriale sino ai confini con la Siria.
Sono quindi poche le prospettive per l’Iran di trasformare la sua partecipa-
zione al processo di riconquista del paese in un vero successo politico e militare;
le campagne in Siria e in Iraq sono peraltro oggetto di un sempre più accesso e
conflittuale dibattito politico e sociale interno, tra chi ne sostiene a spada tratta
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106
LA STRATEGIA DELLA PAURA
NONOSTANTE PARIGI
OBAMA RESTA
FUORI DALLA MISCHIA di Dario FABBRI
Pur se solidale coi francesi, Washington non muta strategia: lo Stato
Islamico non è una minaccia per gli americani, va solo contenuto.
Mosca e gli altri si impantanino pure per Damasco. Col rischio però
di rivedere Putin senza sanzioni e a braccetto alla Merkel.
Stato Islamico non cambia. L’internazionale jihadista è minaccia esiziale per euro-
pei, russi e (alcuni) levantini. Non per gli americani. Lontani geograficamente e
strategicamente dal Medio Oriente, gli Stati Uniti lasciano volentieri ad altri il
compito di affrontare l’Is. Consapevoli che nessuna nazione esterna sarà in grado
di dominare l’intera Siria, probabilmente divisa in futuro in sfere di influenza. Un
progetto in linea con l’utilitaristico e pressoché obbligato concerto di potenze
perseguito da Obama. A patto che la rinnovata collaborazione tra russi e occi-
dentali in terra siriana non si riverberi sugli equilibri europei, sanciti dalla crisi
ucraina a perfetto vantaggio della superpotenza.
107
NONOSTANTE PARIGI OBAMA RESTA FUORI DALLA MISCHIA
1. Cfr. T. JEFFERSON, J.M. YARBROUGH, The Essential Jefferson, Indianapolis 2006, Hackett Publishing, p. XX.
2. Cfr. D. FABBRI, «Per Obama, questo è il miglior Medio Oriente possibile», Limes, n. 9/2015, pp. 29-36.
In particolare si veda p. 32: «In nuce [per la Casa Bianca]: il califfato va contenuto, non obliterato».
3. Cfr. Full transcript of the interview ABC News’ chief anchor George Stephanopoulos conducted
108 with President Barack Obama on November 12, 2015 at the White House, goo.gl/mxw7yT
LA STRATEGIA DELLA PAURA
4. Cfr. J. ROGIN, «Syrian Rebels Give Obama a Bad Name: “Abu Hussein”», Bloomberg View,
13/11/2015.
5. Citato in S. JONES, «Obama: If We Send 50K Troops Into Syria, What Do We Do When Terrorists
Attack from Yemen? Or Libya?», Cnsnews.com, 17/11/2015.
6. Cfr. D. FABBRI, «Perché Obama apprezza la Russia in Siria», limesonline.com, 2/10/2015.
7. Citato in «US would welcome Russian air strikes on IS – Obama», BT, 18/11/2015. 109
NONOSTANTE PARIGI OBAMA RESTA FUORI DALLA MISCHIA
zione che scongiurasse qualsiasi scontro in cielo tra i caccia dei due paesi. Spe-
cie dopo che il sistema scelto dal Cremlino per annunciare l’inizio dei bombarda-
menti ha lasciato sgomente le autorità statunitensi. Il 30 settembre, primo giorno
dei raid di Mosca sulla Siria, un generale russo con tre stelle sulla divisa si è per-
sonalmente recato presso l’ambasciata americana di Baghdad chiedendo di con-
ferire con l’attaché militare, al quale ha rivelato l’imminente sviluppo. Da allora
Washington realizza con Mosca il cosiddetto deconflicting sfruttando una specia-
le linea di comunicazione stabilita da Mosca e Gerusalemme. Risultato: nel primo
mese di incursioni russe sulla Siria – molte delle quali hanno colpito i ribelli «mo-
derati» addestrati dalla Cia – l’Aeronautica Usa ha dimezzato la frequenza delle
proprie sortite 8.
3. Gli attentati di Parigi hanno ulteriormente persuaso Obama della bontà del-
la sua analisi. Vista da Washington, esattamente come nel 2001, quella tesa dallo
Stato Islamico è una trappola evidente. Il progetto dei jihadisti è indurre le poten-
ze, soprattutto occidentali, a rispondere al fuoco intervenendo sul terreno, oppure
a realizzare una spettacolare rappresaglia aerea che non ne inficia la sopravviven-
za. Cacciarsi in un tale ginepraio, come già capitato a Bush figlio, sarebbe imper-
donabile. Peraltro per la prima volta da decenni il basso profilo degli Stati Uniti ha
reso altre nazioni, in particolare Francia e Russia, bersaglio primario del jihåd e la
Casa Bianca non ha alcuna intenzione di porsi a beneficio dei riflettori. Anzi, in
queste ore sta spingendo al parossismo la propria cosciente remissività. Da una
parte investendo russi, iraniani e possibilmente turchi di rinnovate responsabilità.
Dall’altra suggerendo ai francesi di desistere dagli esagerati progetti bellici.
Secondo Obama dovrebbe essere Mosca a guidare informalmente la coali-
zione internazionale contro l’Is, così che continui a concentrarsi sull’impossibile
guerra siriana. Allo stesso modo la Casa Bianca legittima e incentiva il ruolo svol-
to dall’Iran e dalle milizie sciite invitando il governo di Teheran ai colloqui di
Vienna sul futuro della Siria. E, dopo averne respinto l’ennesimo tentativo di tele-
comandare un intervento statunitense contro Damasco, cerca di persuadere Er-
doãan a inviare truppe sul terreno.
Opposto è invece l’atteggiamento nei confronti della bellicosità francese, che
rischia di mettere Washington in grave imbarazzo. Nelle ore successive agli atten-
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8. Cfr. A. TILGHMAN, A. MEHTA, «US Strikes Drop in Syria as Russia Digs In», Defense News, 27/10/2015.
9. Citato in S. ERLANGER, P. BAKER, «For France, an Alliance against ISIS May Be Easier Said than Do-
110 ne», The New York Times, 18/11/2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
per l’ennesima volta a Parigi l’accesso al club dei cinque occhi (five eyes), la con-
divisione dei più sensibili dati di intelligence tra le principali nazioni anglosasso-
ni del globo (Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda).
Quindi, a differenza del capo dell’Eliseo, Barack si è rifiutato di definire l’Occi-
dente «in guerra» contro lo Stato Islamico. Non solo perché, dato il suo retroterra
culturale, il presidente non si considera un uomo occidentale. A suo avviso l’at-
tuale retorica parigina richiama pericolosamente quella di Bush figlio e rischia di
tramutare una mera questione terroristica e geopolitica in un improbabile scontro
di civiltà.
Per Obama questione dirimente è piuttosto presentare all’opinione pubblica
internazionale l’azione americana, ancorché ridotta ed erratica, come chirurgica
ed efficace, così da bilanciare l’impegno profuso dal Cremlino e frenare le spinte
interventiste della sua amministrazione. Si spiegano così i numerosi rapporti gior-
nalistici che raccontano di minuziosi raid Usa contro i camion che trasportano il
petrolio estratto dall’Is 10 e magnificano la guerra economica condotta contro i
jihadisti, che pure non intacca gli sbocchi tutti occidentali dei loro commerci.
Emblematici e pressoché identici i concorrenti bollettini emessi dal Central Com-
mand del Pentagono e dal ministero russo della Difesa il 18 novembre, per cui
nelle precedenti ventiquattr’ore l’Aeronautica Usa avrebbe colpito 116 autocarri
usati per il contrabbando di petrolio e numerosi obiettivi nella regione di Raqqa,
mentre i caccia di Mosca avrebbero distrutto 500 camion e colpito almeno sei in-
stallazioni del «califfato» nella Siria nord-orientale 11.
Intanto la Casa Bianca è impegnata a impedire che i suoi ministri, abituati a
ragionare secondo le tipiche categorie dell’interventismo a stelle e strisce, dera-
glino dal tracciato per imporre al capo un’attitudine maggiormente muscolare. Se
ne è avuta riprova il 19 novembre quando, durante un’audizione al Congresso,
Carter ha definito l’Occidente «in guerra con lo Stato Islamico» e – orrore assoluto
– non ha escluso l’impiego di truppe di terra statunitensi 12. Gaffe particolarmente
imbarazzante, poiché Carter è considerato da Obama semplicemente un ministro
ad interim e spesso i collaboratori del presidente conferiscono con lui attraverso
il suo storico capo Leon Panetta. Discorso simile per il segretario di Stato John
Kerry che, incaricato di trattare con le varie cancellerie internazionali, finisce di
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solito per promettere ai suoi interlocutori un impegno bellico che il suo capo
non intende garantire. Con Obama che puntualmente ne stronca le speranze di
trovare una soluzione diplomatica al conflitto siriano. Come accaduto durante il
vertice di Vienna del 14 novembre, quando Kerry ha annunciato a sorpresa che
la Siria sarebbe «ad un passo da una grande svolta, anche se in pochi se ne ac-
10. Cfr. M.R G ORDON , «US Warplanes Strike ISIS Oil Trucks in Syria», The New York Times,
16/11/2015.
11. Cfr. K. DEYOUNG, C. MORELLO, «As France Seeks a Grand Coalition, Obama Is Wary of Allying
with Russia», The Washington Post, 18/11/2015.
12. Citato in E. COLLINS, «Defense Secretary Ash Carter Signals an Escalation against ISIL», Politico,
19/11/2015. 111
NONOSTANTE PARIGI OBAMA RESTA FUORI DALLA MISCHIA
battersi tra loro in un teatro secondario, nel tentativo di mantenere più che accre-
scere la propria influenza. Pur avendo contribuito al drammatico precipitare della
situazione, per vantaggio geografico e militare, Washington può lasciare ad altri il
compito di raccogliere i cocci. Come attestato dalle caustiche dichiarazioni del
ministro degli Esteri, Sergej Lavrov, i russi ne sono perfettamente consapevoli ma
non possono muoversi altrimenti. «L’America», ha spiegato il diplomatico, «è co-
13. Citato in I. BLACK, «Syria Could Be Weeks away from Big Transition, Says John Kerry», The Guar-
dian, 17/11/2015.
14. Citato in «Obama: US Had No Precise Intelligence Warning of Paris Attacks», Arutz Sheva,
112 16/11/2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
Mashhad
Mar Teheran
Mediterraneo Kirkūk
Beirut Qom I R AN
S IR IA Sāmarrā)
Damasco IR AQ
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KUWAIT Golfo
Persico
A R A BIA S AUDI TA
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QATAR Abu Dhabi
Riyad
EMIRATI ARABI
Mar Rosso UNITI Mascate
O M AN
Mantenimento di un equilibrio
tra le potenze della regione
me un gatto che vuole catturare un pesce senza bagnarsi le zampe. Lascia che
siano altri a farlo» 15.
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
15. Citato in «Russian FM: US Deliberately Sparing Islamic State Seeking to Weaken Assad», Tass,
18/11/2015. 113
NONOSTANTE PARIGI OBAMA RESTA FUORI DALLA MISCHIA
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
114
LA STRATEGIA DELLA PAURA
(PETRO)PECUNIA
NON OLET di Cinzia BIANCO
I monarchi del Golfo, ‘apostati’ nella retorica jihadista, non
finanziano direttamente la guerra santa. Ma nei loro paesi operano
i grandi donatori, spinti da complicità ideologiche e convenienze
politiche. L’Is è sfuggito di mano, l’alleanza con gli Usa vacilla.
pienamente nella sua retorica di guerra, per la quale tra i gruppi che gli si op-
pongono vi sono solo organizzazioni terroristiche; dall’altra fa riferimento ad al-
cuni paesi del Golfo accusati di finanziare gruppi di stampo jihadista nella costel-
lazione dei ribelli siriani, inclusi l’Is, Aõrår al-3åm e Ãabhat al-Nuâra, gli ultimi
due legati strettamente ad al-Qå‘ida 2. L’accusa non è certo nuova. Da qualche
tempo ormai l’idea circola sulla stampa internazionale e nei rapporti degli anali-
1. H. NAYLAN, «Syria’s President Assad Says Paris Attacks Result from France’s Aiding of Rebels», The
Washington Post, 14/11/2015.
2. J. DI GIOVANNI, L. MCGRATH GOODMAN, D. SHARKOV, «How Does ISIS Fund Its Reign of Terror?»,
Newsweek, 6/11/2014. 115
(PETRO)PECUNIA NON OLET
3. J. KEANE, «An American-Led Coalition Can Defeat ISIS», The Washingotn Post, 24/8/2014.
4. R. PROSOR, «Club Med for Terrorists», The New York Times, 23/8/2014.
5. «German Minister Accuses Qatar of Funding Islamic State Fighters», Reuteurs, 20/8/2014.
6. «Remarks of Under Secretary for Terrorism and Financial Intelligence David S. Cohen at The Car-
negie Endowment for International Peace, “Attacking ISIS’s Financial Foundation”», Dipartimento
del Tesoro Usa, 23/10/2014.
7. M. LEVITT, «Terrorist Financing and the Islamic State», Washington Institute for Near East Policy,
novembre 2014.
8. Country Reports on Terrorism 2013, Chapter 2: «Middle East and North Africa», Dipartimento di
116 Stato Usa.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
9. E. DICKINSON, «Follow the Money: How Syrian Salafis Are Funded from the Gulf», Carnegie En-
dowment for International Peace, 23/12/2014.
10. Country Reports on Terrorism 2013, cit.
11. «Qatar: Detailed Assessment Report on Anti-Money Laundering and Combating the Financing of
Terrorism», Fmi, ottobre 2008.
12. Country Reports on Terrorism 2013, cit.
13. «Treasury Designates Al-Qa’ida Supporters in Qatar and Yemen», Dipartimento del Tesoro Usa,
18/12/2013. 117
(PETRO)PECUNIA NON OLET
non ha portato a termine una sola attività investigativa degna di nota. L’ormai fa-
moso rapporto del dipartimento del Tesoro descrive il Kuwait come «l’epicentro
dei finanziamenti verso la Siria» 14, un punto di snodo fondamentale per il forag-
giamento dei gruppi terroristici. I casi provati si sprecano e includono figure reli-
giose, uomini d’affari e anche individui legati alle istituzioni. Nella lista dei dona-
tori kuwaitiani all’Is è comparso ad esempio il parlamentare Muõammad Håyif
al-Mu¿ayrø e nel 2012 ha fatto rumore la dichiarazione di un altro gruppo ribelle
jihadista, Aõrår al-3åm, che ha ringraziato pubblicamente la Commissione popo-
lare di sostegno alla gente di Siria sostenuta dalla facoltosa famiglia ‘Aãmø del
Kuwait, per una donazione di 400 mila dollari 15.
Ancor più scalpore ha destato la nomina di Nåyif al-‘Aãmø, un componente
di quella stessa famiglia e ministro per la Giustizia e gli Affari islamici (dimessosi
nel maggio 2012), talmente attivo nel supporto ai siriani da comparire sui poster
di Ãabhat al-Nuâra. Il nocciolo della questione è evidentemente una visione dia-
metralmente opposta dei gruppi ribelli siriani in Occidente e nel Golfo. Il caso di
Ôanøm al-Mu¿ayrø lo evidenzia bene 16: noto mediatore kuwaitiano di finanzia-
menti verso la Siria, al-Mu¿ayrø ha organizzato una conferenza per la sua tribù in
Kuwait subito dopo che il governo siriano aveva condotto un’uccisione di massa
a Õûlå. Si dice che la conferenza abbia raccolto 14 milioni di dollari in cinque
giorni. Grande parte di questi fondi proveniva dall’Arabia Saudita, dove essendo
la legislazione più stringente i donatori approfittano delle profonde connessioni
tra tribù saudite e kuwaitiane per far arrivare le proprie donazioni in Siria.
Diverse fonti, incluso un memorandum dell’ex segretario di Stato Hillary
Clinton fatto circolare da WikiLeaks, annoverano individui sauditi tra le maggiori
fonti di finanziamento del terrorismo sunnita, anche se i destinatari principali di
tali donazioni sono gruppi in Afghanistan e in Pakistan 17.
Eppure, al contrario di quanto comunemente si crede, l’Arabia Saudita non è
un ambiente propizio al finanziamento dei gruppi terroristici. Dall’ondata di terro-
rismo qaidista che ha colpito l’Arabia Saudita nei primi anni Duemila infatti, i sau-
diti hanno adottato leggi e politiche abbastanza serie contro il terrorismo, in stret-
to coordinamento con gli americani 18. Le forze di sicurezza hanno lavorato a
stretto contatto con la società civile per incoraggiare i cittadini a fornire informa-
zioni su attività sospette. Il governo saudita ha processato e condannato diversi
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
14. «Remarks of Under Secretary for Terrorism and Financial Intelligence …, cit., 4 marzo 2014.
15. W. MCCANTS, «Gulf Charities and Syrian Sectarianism», Foreign Policy, settembre 2013.
16. B. HUBBARD, «Private Donors’ Funds Add Wild Card to War in Syria», The New York Times,
12/11/2013.
17. D. MORGAN, «Wikileakes: Saudi Largest Source of Terror Funds», CBS News, dicembre 2010.
118 18. G. BAHGAT, «Saudi Arabia and the War on Terrorism», Arab Studies Quarterly, 26, 2004, pp. 51-63.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
Questi sforzi non sono però stati sufficienti a fermare il flusso di denaro che
dall’Arabia Saudita giunge anche nelle tasche dello Stato Islamico 19, né sono
stati sufficienti a silenziare le voci che sostengono l’esistenza di un legame tra i
sauditi e i jihadisti di Is, Ãabhat al-Nuâra o la stessa al-Qå‘ida. Questo perché se
sulla connivenza dei regimi monarchici con i gruppi terroristici vi sono seri e le-
gittimi dubbi, è difficile ignorare che esiste un collegamento ideologico tra il più
importante alleato e il più acerrimo nemico dell’Occidente nella regione medio-
rientale 20.
soprattutto non mette mai in discussione la base ideologica che li alimenta, utiliz-
zata anche per fini strategici. L’odio settario contro lo sciismo è infatti un elemen-
to chiave usato dalla leadership per far sì che la popolazione sostenga gli obietti-
vi strategici della monarchia, soprattutto la caduta del leader siriano (alauita e al-
leato di ferro dell’Iran) al-Asad e la lotta ai ribelli (sciiti) õûñø in Yemen.
19. L. PLOTKIN BOGHARDT, «Saudi Funding of ISIS», PolicyWatch 2275, Washington Institute for Near
East Policy, giugno 2014.
20. M. AL-RASHEED, «Saudis Struggle to Reconcile IS Fight, Wahhabism», Al-Monitor, febbraio 2015.
21. M. AL-RASHEED A History of Saudi Arabia, Cambridge 2010, Cambridge University Press.
22. D. COMMINS, The Wahhabi Mission and Saudi Arabia, London 2009, IB Tauris. 119
(PETRO)PECUNIA NON OLET
23. H. HASSAN, «Syria’s Revitalized Rebels Make Big Gains in Assad’s Heartland», Foreign Policy, apri-
le 2015.
24. C. BIANCO, «Kuwait’s Sectarian Equation», Gulf State Analytics, agosto 2015.
25. L’ideologia salafita è pressoché identica a quella wahhabita nell’interpretazione della religione
islamica.
26. Z. PALL, «Kuwaiti Salafism and Its Growing Influence in the Levant», Carnegie Endowment Middle
East, 2014.
120 27. R. HAASS, «Saudi Arabia: Threat from Isis Will only Grow», Financial Times, 25/1/2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
La strategia potrebbe già essere in fase attuativa, con una serie di attentati ri-
vendicati dall’Is tra il 2014 e il 2015. Tra i più gravi, l’attacco alla moschea sciita
Imåm ‘Alø di al-Qadayõ (nella provincia orientale) che ha ucciso 21 persone e fe-
rito gravemente 80, quello dello stesso mese alla moschea sciita di Dammåm e
l’attacco di agosto alla moschea di Abhå, usata dalle forze speciali dell’esercito
saudita e per questo dichiarata dai terroristi «monumento degli apostati» 28. A
maggio 2014 poi, le forze di sicurezza saudite hanno sgominato una cellula di 62
persone che stavano tramando per attaccare personale ed edifici governativi: la
cellula era composta prevalentemente da cittadini sauditi, bene armati e ben fi-
nanziati e collegati a Is e ad Aqap 29.
In effetti, il regno saudita ha per anni mantenuto un atteggiamento poco
restrittivo nei confronti dei giovani sauditi che partivano per combattere al fian-
co di gruppi jihadisti, almeno fino a che nel 2014 il precedente re ‘Abdullåh ha
dichiarato illegale lasciare il paese per combattere all’estero. Troppo tardi forse,
e comunque dopo che un rapporto della Cia aveva notificato al governo saudi-
ta che dal regno erano partiti 7 mila foreign fighters per combattere con l’Is: in
assoluto il numero più alto tra tutte le nazionalità che militano nell’organizza-
zione terroristica 30.
La minaccia che questi combattenti rappresentano una volta tornati nel re-
gno è davvero significativa. In particolare, gli attacchi alla comunità sciita dell’A-
rabia Saudita rappresentano una strategia di destabilizzazione molto insidiosa,
perché rischiano di riaccendere le proteste antigovernative andate in scena nel
2011 (e poi sedate con un misto di soppressione e cooptazione) nella provincia
orientale di 3arqiyya, ricca di giacimenti petroliferi e le cui comunità sciite vivono
in uno stato di degrado e di semisegregazione. I cittadini sauditi di confessione
sciita hanno a lungo lamentato di essere vittime di politiche discriminatorie del
governo e se dovessero convincersi che questo non può o non vuole proteggerli
dal terrorismo, potrebbero facilmente riaccendere le proteste.
In Kuwait l’Is sembra aver adottato una strategia simile: a giugno 2015 ha
compiuto un attacco suicida durante la preghiera del venerdì nella più grande
e antica moschea sciita di Kuwait City, la moschea Imåm Âådiq, uccidendo 27
persone e ferendone circa 200, nel tentativo di spezzare il delicato equilibrio
settario del paese. Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
28. La dichiarazione è stata raccolta dal Site Intelligence Group in un’investigazione di account
Twitter collegati all’Is.
29. A. AL-OMRAN, «Saudi Arabia Arrests 62 Suspected Terrorists», The Wall Street Journal, 6/5/2014.
30. A.Y. ZELIN, «The Saudi Foreign Fighter Presence in Syria», CTC Sentinel, Washington Institute for
Near East Policy, aprile 2014. 121
122
Teheran
FRAGILITÀ SAUDITE
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Siria
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(PETRO)PECUNIA NON OLET
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Muri in costruzione per arginare
lo Stato Islamico (nord) e le
incursioni dei ribelli yemeniti (sud)
Scontri frequenti tra truppe M ar
saudite e militanti yemeniti Ar abico
Tensioni derivanti dalla Governatorato
repressione degli sciiti di Hagga
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in Bahrein nel 2011 San’ā us
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Controllata di
Montagne dai ribelli hūtī . - fo
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Zone con densità di popolazione 90 a lavor
> di 250 persone/km2 % o stra
nie
Presenza al-Qa(īda ra
LA STRATEGIA DELLA PAURA
stogliendoli dalla battaglia contro il regime, al-Asad e il suo esercito ricevono co-
stante supporto finanziario, logistico e operativo da Russia e Iran. Il risultato è lo
stallo che tutti conosciamo. Inoltre, la supremazia di gruppi jihadisti nel fronte
dei ribelli siriani e soprattutto la comparsa dell’Is hanno pesantemente giocato a
favore della retorica di al-Asad, che ha sempre sostenuto come l’alternativa al
suo regime sarebbe consegnare il paese in mano ai terroristi.
Al summit di Vienna sulla crisi siriana tenutosi il 14 novembre, all’indomani
dei fatti di Parigi, le potenze internazionali hanno in effetti concordato di concen-
trarsi sulla lotta allo Stato Islamico e la rimozione di al-Asad è passata in secondo
piano. Soprattutto perché mentre il fronte siriano è ancora fortemente frammenta-
to, il regime è considerato l’unico interlocutore capace di mantenere una minima
stabilità nel paese, necessaria per concentrarsi contro il «califfo». Questo nono-
stante le vivide proteste dei monarchi del Golfo, i quali sostengono che Europa e
Stati Uniti abbiano permesso ai terroristi di proliferare in Siria e in Iraq con la loro
negligenza e inazione e che, se avessero combattuto il dittatore al momento op-
portuno, non ci sarebbe stato lo spazio per questi gruppi 31. Ora, asseriscono, non
si pensi che la popolazione (sunnita) siriana possa accettare passivamente la per-
manenza del dittatore combattuto per anni.
È probabile che questa linea di pensiero si avvicini al vero; quel che è in-
dubbio è che quanti nel Golfo hanno appoggiato il conflitto contro al-Asad – in
primis l’Arabia Saudita – non potranno accettare passivamente una tale capitola-
zione. Al contempo, i sospetti – basati sui fatti – che alcune petromonarchie ab-
biano usato a proprio vantaggio formazioni di stampo jihadista in Siria e Iraq, o
che abbiano mantenuto un atteggiamento permissivo nei confronti di individui e
organizzazioni che hanno sostenuto o finanziato tali gruppi, non mettono certo
in buona luce i monarchi.
Chi invece potrebbe vedere la propria posizione acquistare peso nell’arena
diplomatica internazionale è l’Iran, paese che più di tutti ha combattuto l’Is in Si-
ria e Iraq 32. Forte del migliaio di pasdaran, consiglieri e generali sul terreno gui-
dati dalle forze speciali Quds, dei miliardi di dollari spesi in addestramento del-
l’esercito regolare siriano e iracheno e delle forniture di armi e copertura aerea,
Teheran ora rivendica la propria posizione di principale oppositore dell’Is. All’in-
domani del summit di Vienna, per spiegare le divergenze createsi durante le di-
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scussioni tra Iran e Arabia Saudita l’ex membro del National Security Council
Seyyed Hossein Mousavian dichiarava infatti che «la differenza chiave tra noi e i
sauditi è che la priorità dell’Arabia Saudita è spodestare al-Asad, mentre quella
dell’Iran è annientare i terroristi» 33. Una retorica odiosa per le petromonarchie del
Golfo, perché rischia di fare breccia nei partner occidentali rafforzando così la
posizione dell’arcinemico Iran a loro discapito.
31. K. AL-HABTOOR, «World Must Act to Destroy This Terrorist Disease», Al Arabiya, 17/11/2015.
32. D. ESFANDIARY, A. TABATABAI, «Iran’s ISIS policy», International Affairs, 91, 1, 2015, pp. 1-15.
33. T. ERDBRINK, S. CHAN, D. SANGER, «After a U.S. Shift, Iran Has a Seat at Talks on War in Syria», The
New York Times, 28/10/2015. 123
(PETRO)PECUNIA NON OLET
6. Tirando le somme, possiamo affermare che no, non si può imputare alle
monarchie del Golfo di appoggiare strutturalmente il terrorismo e su nessuno dei
regnanti della regione si può scaricare la responsabilità di aver fomentato diretta-
mente i gruppi jihadisti. Certamente non si possono ignorare le responsabilità oc-
cidentali rispetto all’attuale situazione del Medio Oriente. Allo stesso tempo, l’a-
nalisi dei rapporti tra componenti di alcune petromonarchie del Golfo e gruppi
jihadisti restituisce un quadro impietoso, in cui motivazioni socio-culturali hanno
indotto una certa noncuranza verso un fenomeno ormai fuori controllo e in cui
obiettivi politico-strategici di breve termine hanno generato politiche irresponsa-
bili, con conseguenze di lungo termine sulla regione mediorientale e oltre.
Le accuse di connivenza tra alcune famiglie reali del Golfo e le componenti
radicali della regione rischiano di compromettere le partnership di questi paesi
con gli Stati Uniti, l’Europa e gli altri Stati occidentali, fondamentali per la sicu-
rezza del Golfo stesso. La posizione delle monarchie potrà uscirne indebolita, e
così i loro interessi e obiettivi. Molto probabilmente, per limitare i danni, assiste-
remo nei prossimi mesi a un rafforzamento delle misure antiterrorismo negli Stati
del Golfo e a una più convinta partecipazione nella guerra contro l’Is in Siria o in
Iraq. Molto probabilmente si chiederà nuovamente alle leadership locali di impo-
stare un discorso serio sulla natura dell’ideologia e della retorica «di Stato».
In tanti sostengono che un simile discorso non potrà essere affrontato, per-
ché la Penisola Arabica sarebbe un’oasi granitica immune al cambiamento. Al
contrario, proprio la storia arabica dimostra come sia impossibile fermare il cam-
biamento. Certo, finché esisterà in alcuni paesi del Golfo un ambiente altamente
recettivo verso l’ideologia estremista, sarà impossibile recidere il filo che lega ter-
rorismo e petromonarchie.
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124
LA STRATEGIA DELLA PAURA
LA GUERRA ASIMMETRICA
DI PAPA FRANCESCO di Gianni VALENTE
Il vescovo di Roma davanti alle sfide dello Stato Islamico.
La propaganda apocalittica del ‘califfo’ e le pericolose variazioni
su questo tema. Il rifiuto di farsi legare le mani dal mainstream
mediatico. Il valore dell’Anno santo e l’accento sulla misericordia.
A
Francesco vive l’èra del «califfo» di Mosul. E le convulsioni scaricate sul mondo
NCHE LA CHIESA GUIDATA DA PAPA
Tv2000 il vescovo di Roma, poche ore dopo le stragi di Parigi. Parole che
esprimono diffidenza per tutte le meccaniche interpretative che censurano
ogni umanissimo senso di vertigine, davanti allo svelarsi storico del mistero del
male. «Questo abisso non può essere solo opera tua, delle tue mani, del tuo
cuore. Chi ti ha corrotto? Chi ti ha sfigurato? Chi ti ha contagiato la presunzio-
ne di impadronirsi del bene e del male?», aveva detto Bergoglio nella sua pre-
ghiera allo Yad Vashem, immaginando lo sconvolgimento di Dio, e le sue do-
mande all’uomo davanti all’Olocausto perpetrato dai nazisti 1.
Contrappunto bergogliano
Dopo le stragi di Parigi, Francesco non addomestica il soprassalto dei fatti
dentro considerazioni d’ordinanza. Si lascia interrogare. Dice di «non capire». Ma
quelle parole non esprimono afasia da smarrimento davanti alla patologia jihadi-
sta che polarizza gli scenari del mondo. Le sue parole e le scelte del suo magiste-
ro attestano che tiene presenti tutti i fattori in gioco intorno alla vicenda del «ca-
liffato», compresi quelli spesso rimossi da leader politici e analisti di professione,
come il contributo fornito dal mattatoio siriano ai fatturati dei mercanti d’armi.
Davanti ai tanti fronti aperti e alle strategie conflittuali catalizzate dalla pe-
stilenza jihadista, Bergoglio e i suoi collaboratori più coinvolti sugli scenari in-
ternazionali manifestano una grande libertà di movimento. Non si lasciano rin-
chiudere nel ricatto delle scelte di campo obbligate, dei logoranti e logorati tor-
mentoni sulla necessità o sull’inutilità degli interventi militari sul campo. So-
prattutto, papa Francesco e i suoi collaboratori non offrono benedizioni alle
idee e alle strategie che da decenni continuano ad attestare i deficit di com-
prensione o la malafede delle leadership politiche e intellettuali d’Occidente
davanti alle convulsioni mediorientali.
Non c’è un parola di Francesco che possa essere strumentalizzata dalle folate
antimmigrati che cercano un traino nell’allarme sul terrorismo. Il papa argentino
– che nel sorprendente viaggio in Usa si è liberato anche del vestitino del desca-
misado anti-yankee – chiama in causa le parrocchie europee nell’accoglienza di
chi fugge dalle guerre. Ripete che respingere i migranti equivale a un «atto di
guerra». Nel giorno stesso degli attentati di Parigi invita a riconoscere che «Dio,
nella sua sapienza, ha inviato a noi, nell’Europa ricca, l’affamato perché gli dia-
mo da mangiare, l’assetato perché gli diamo da bere, il forestiero perchè lo acco-
gliamo, e l’ignudo perché lo vestiamo» 2. Non dà alcun appiglio alle teorie e alle
ossessioni – accarezzate da leader nazionalisti come l’ungherese Viktor Orbán –
che leggono l’immigrazione come «cavallo di Troia» per l’islamizzazione striscian-
te dell’Europa e l’erosione delle sue «radici cristiane». Il suo richiamo costante alle
rimosse opere di misericordia corporali e spirituali, quelle del catechismo (dar da
mangiare agli affamati, accogliere gli stranieri, vestire gli ignudi…), ha l’effetto
collaterale di svelare le aporie dell’«ideologia dell’89», che aveva spacciato il col-
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lasso del comunismo nei paesi dell’Est europeo come trionfo della presunta «ri-
sorgenza cristiana» di quei popoli.
L’insistita predicazione bergogliana sul martirio non si mescola con le cam-
pagne dei circoli occidentali che strumentalizzano disgrazie e persecuzioni dei
cristiani d’Oriente per fomentare sentimenti islamofobici generalizzati. Il vesco-
vo di Roma non si identifica neppure con alcune parole d’ordine dello sdegno
unanimista seguito alla strage di Charlie Hebdo. A gennaio, mentre vola da Co-
2. Papa Francesco, discorso ai partecipanti della conferenza organizzata dalla Fondazione Romano
126 Guardini, 13/11/2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
lombo a Manila, ripete ai giornalisti del volo papale che «non si può uccidere in
nome di Dio», ma anche che «non si può provocare. Non si può insultare la fede
degli altri», con evidente riferimento alle strisce antireligiose pubblicate dalla ri-
vista francese.
Davanti agli sviluppi aberranti del conflitto siriano e all’espansione del «calif-
fato» nelle terre irachene, papa Bergoglio e la diplomazia vaticana si muovono
lontano dall’intreccio di ignoranza, ideologia e interessi occulti che sembra ispira-
re le mosse sguaiate di diverse cancellerie d’Occidente. Mentre i paesi nord-
atlantici chiudono una dopo l’altra in chiave anti-Asad le loro rappresentanze di-
plomatiche in Siria, il nunzio vaticano Mario Zenari rimane a Damasco. Patriarchi
e vescovi dell’area – come il vicario latino di Aleppo, Georges Abou Khazen, il
patriarca caldeo Louis Raphael I e l’arcivescovo siro-cattolico di Hassaké, Jacques
Behnan Hindo – denunciano in maniera dettagliata e costante le connivenze re-
gionali e globali che alimentano dall’esterno l’espansione del «califfato». I raid ae-
rei a guida Usa, iniziati nell’estate 2014, come analoghe iniziative tentate dal «mi-
litarismo umanitario» non ricevono benedizioni vaticane 3. Anche davanti all’inter-
vento militare diretto della Russia, a fianco di al-Asad, la Sede apostolica e i ve-
scovi cattolici nelle terre d’Oriente si tengono alla larga dall’armamentario lessica-
le della «guerra santa» riciclato da esponenti del patriarcato di Mosca per consa-
crare le bombe russe contro il «male» jihadista. Nel contempo, fin dall’inizio del
suo pontificato, papa Francesco e la sua diplomazia hanno sempre sabotato nei
fatti il «cordone sanitario» che alcuni circoli occidentali volevano stendere intorno
alla Russia di Putin. Santa Sede e Cremlino avevano già trovato una convergenza
oggettiva quando – nell’autunno 2013 – venne disinnescata la minaccia di un in-
tervento militare a guida Usa contro al-Asad, e la Russia ebbe un ruolo chiave
nello smantellamento delle armi chimiche del regime siriano. Anche nella ostilità
e nelle reciproche accuse tra Russia e paesi occidentali cristallizzatesi intorno alla
crisi ucraina, le parole di papa Francesco non sono finite intrappolate nella mec-
canica dei blocchi contrapposti. Lo scorso aprile, lo stesso patriarca russo Kirill
ha elogiato la posizione della Santa Sede sulla crisi ucraina: «Papa Francesco e la
segreteria di Stato», ha detto il primate della Chiesa russa, «hanno preso una posi-
zione autorevole sulla situazione in Ucraina, evitando affermazioni unilaterali e
invocando la fine della guerra fratricida». Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
3. Il 18 agosto 2014, al giornalista statunitense che sul volo da Seoul a Roma, alla fine della visita
apostolica in Corea, gli ha chiesto esplicitamente se approvava i «bombardamenti americani» sui «ter-
roristi in Iraq per prevenire un genocidio» e «proteggere le minoranze», compresi «cattolici sotto la
sua guida», papa Francesco ha riproposto la formula generale (e generica) del catechismo secondo
cui è lecito «fermare l’aggressore ingiusto». Ma ha subito aggiunto: «sottolineo il verbo fermare. Non
dico bombardare, fare la guerra, ma fermarlo». Poi, ha ricordato che occorre aver memoria e che
tante volte, «con la scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli
e hanno fatto una vera guerra di conquista». Ha poi specificato che «una sola nazione non può giu-
dicare come si ferma un aggressore ingiusto» e ha indicato le Nazioni Unite come ambito in cui la
comunità internazionale è chiamata a «discutere» e trovare mezzi condivisi per fermare le ingiuste
aggressioni. Poi, con un inciso carico di implicazioni, ha ricordato che a pagare le violenze settarie
nel caos iracheno non sono solo i cristiani ma anche «uomini, donne, minoranze religiose, non tutte
cristiane», da considerarsi «uguali davanti a Dio». 127
LA GUERRA ASIMMETRICA DI PAPA FRANCESCO
In maniera analoga, anche l’Iran viene considerato dalla Santa Sede come un
attore non emarginabile, un soggetto coinvolto per forza di cose in ogni proces-
so per sottrarre i popoli e le nazioni mediorientali al contagio jihadista. Uno degli
effetti collaterali delle stragi di Parigi è stato l’annullamento dell’incontro tra papa
Francesco e il presidente iraniano Hassan Rohani, in programma lo scorso 14 no-
vembre. Appuntamento solo rimandato, e non di molto. Perché ambedue le parti
a quell’incontro riconoscono grande importanza.
I facilitatori dell’Apocalisse
Nella sua libertà di movimento, papa Francesco suggerisce con insistenza il
traffico d’armi come fattore sorgivo dei conflitti. Ripete anche la formula della
«guerra mondiale a pezzi» per indicare il disegno «globale» dei conflitti disseminati
in aree e continenti diversi. Il realismo e la contestualizzazione geopolitica non
sono solo antidoti tattici ai paradigmi ideologici autoreferenziali che in Occidente
si impongono come chiavi di lettura obbligate del jihadismo e delle sue epifanie
terroristiche. Con essi, papa Francesco e i suoi collaboratori alludono anche alla
vera partita in gioco che vedono realizzarsi intorno all’emersione del «califfato».
Quella connessa alla matrice ideologica «apocalittica» di Da‘i4, che lo rende ano-
malo rispetto ad altri movimenti jihadisti e islamisti contemporanei, colta anche
da analisti come Graeme Wood e William McCants 4.
Lo Stato Islamico ha obiettivi concretissimi di potere: conquista territori, am-
ministra la «sua» giustizia, traffica petrolio e armi, raccoglie fondi dalle reti di fi-
nanziatori mondiali. Nel far questo – ha scritto Wood – esso «è diverso da quasi
tutti gli altri movimenti jihadisti contemporanei» perché ritiene di «ricoprire un
ruolo centrale nel progetto di Dio»: quello di «far manifestare l’Apocalisse» 5. Lo
stesso Osama bin Laden – ha riferito McCants 6 – era stato avvertito fin dal 2008
che al-Qå‘ida in Iraq era guidata da millenaristi che parlavano tutto il tempo della
venuta del Mahdø, il Messia della tradizione islamica. Dal 2008 a oggi «la fine dei
giorni è diventata un elemento centrale nella propaganda dell’Isis». La stessa rivi-
sta Dåbiq, house organ di Då‘i4, prende il nome dalla località nel Nord della Siria
dove secondo le profezie care al «califfo» e ai suoi seguaci si svolgerà lo scontro
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finale tra le armate dell’islam e quelle del nemico, identificabile di volta in volta
con i «crociati» a guida Usa o a guida russa. Le prospettiva di una guerra «di ter-
ra», con eserciti occidentali inviati in territorio siriano a combattere i miliziani del-
lo Stato Islamico, sarebbe il segno che la profezia inizia a compiersi. «Se è vero
che molte organizzazioni estremiste islamiche hanno caratteristiche settarie», ha
scritto Marita La Palm dell’American University di Washington, «Då‘i4 è forse la
più settaria della storia». I suoi adepti «vivono in un mondo immaginario in cui gli
eroi jihadisti si preparano all’Apocalisse»7. Un’esaltazione per la morte che risuo-
na nei proclami dei jihadisti, aumenta il loro potenziale sacrificale, offre vittime
come caparre della sanguinaria palingenesi.
Sul terreno del pensiero apocalittico ci si imbatte anche in filoni di lucido
delirio sgorgati ben lontano dall’islam, in territori e ambienti irrigati dalle altre
due «religioni del Libro». Compresi i millenarismi e i culti nutriti dal pensiero apo-
calittico cristiano che si ritrovano in una parte della galassia neoprotestante nor-
damericana e che secondo studi convergenti si rintracciano anche nelle dottrine
politiche neocon, con la giustificazione messianica del «disordine creativo» e delle
guerre contro gli «Stati canaglia» e gli «assi del Male».
A questa radice maligna e tragica rimanda papa Francesco quando accenna
al fattore «non umano» che traspare nei sacrifici umani imposti in tutto il mondo
dalla «terza guerra mondiale a pezzi». I «pianificatori del terrore» da lui denunciati
fanno a gara nell’avvicinare la fine dei tempi, sullo sfondo di un sistema di svi-
luppo globale – denunciato nell’enciclica Laudato si’ – che spinge il mondo al-
l’autoannientamento, sulle orme delle dottrine gnostiche vecchie e nuove che di-
sprezzano la creazione come un «male» da superare. Le categorie «solo» geopoliti-
che, di ogni scuola di pensiero, che delineano i rapporti di forza, riconoscono gli
errori compiuti in passato, abbozzano strategie e soluzioni davanti alle emergen-
ze e alle crisi, risultano insufficienti a delineare lo scenario intuito e suggerito da
papa Francesco. Scenario che fa apparire patetici e offensivi dell’intelligenza gli
agit-prop di tutte le risme che si affannano a cucire addosso a papa Francesco la
caricatura del «buonista dialogante», e gli rinfacciano il suo mancato arruolamento
tra i predicatori delle neo-crociate anti-islamiche.
ferta di una via di scampo per uscire insieme dalla spirale dell’autoannientamen-
to messa in moto dalle agenzie del terrore (e da chi, cavalcando l’onda dell’A-
pocalisse, non dimentica di incrementare anche i fatturati). «Nel mondo lacerato
dalla violenza», ha detto a La Croix il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin,
«è il momento giusto per lanciare l’offensiva della misericordia». Il papa – ha ag-
giunto il suo più vicino collaboratore – «vuole che il Giubileo serva alle persone
per incontrarsi, comprendersi e superare l’odio». Dopo gli attentati, «questa fina-
7. Cfr. M. LA PALM, Concerning Features of an Apocalyptic Cult in the Islamic State of Iraq and the
Levant (Isil) in Foreign Policy Journal, 28/10/2014. 129
LA GUERRA ASIMMETRICA DI PAPA FRANCESCO
lità esce rafforzata», e si rivolge con particolare sollecitudine proprio ai figli del-
l’islam: «Riceviamo la misericordia di Dio», ha detto apertis verbis Parolin, «per
adottare questo atteggiamento verso gli altri. La misericordia è anche il più bel
nome di Dio per i musulmani, che possono essere coinvolti in questo Anno
santo, come l’ha voluto il papa».
Nel tempo breve, con il guizzo di genio che riscopre la misericordia anche
come categoria geopolitica, papa Francesco prova anche a mettere in atto la
mossa che appare decisiva a ogni sguardo illuminato dal semplice buon senso:
quella di sottrarre i musulmani all’aggressione della peste apocalittica. La «cultura
dell’inclusione», per papa Francesco, vale anche sull’orizzonte geopolitico. Il
cammino indicato da lui e dallo sguardo cattolico sui segni dei tempi va in dire-
zione contraria rispetto a tutte le strategie miranti a intimidire, umiliare e isolare
in maniera indiscriminata la moltitudine orante dei seguaci del profeta. Per impe-
dire che gli idolatri del «califfo» trovino nelle masse frustrate dell’umma di Mao-
metto altra manovalanza a buon mercato occorre piuttosto suggerire anche a lo-
ro un punto di fuga dal «caos creativo» che dilania da decenni il Medio Oriente:
sciogliere i nodi con pazienza, offrendo un’immagine della convivenza umana
che non tagli fuori le dinamiche gratuite del perdono, dell’annullamento dei de-
biti pregressi, della riconciliazione tra nemici. Occorre farlo – pensa papa France-
sco – approfittando anche del Giubileo. Che fin dall’inizio non è stato da lui im-
maginato come macchina organizzativa per adunate autocelebrative e trionfalismi
clericali. La stessa bolla d’indizione Misericordiae vultus, con la disposizione di
aprire una Porta Santa in ogni diocesi e nei santuari, esprimeva l’intenzione di
rendere capillare la rete di luoghi dove vivere l’esperienza giubilare. Già quel te-
sto di indizione decongestionava la concentrazione d’attenzione e di masse di
pellegrini su Roma, tanto paventata da chi oggi consiglia il papa di fare marcia
indietro, annullando il Giubileo. Nel contempo la bolla esprimeva anche l’inten-
zione di non trasformare l’Anno santo in attività riservata in esclusiva ai devoti o
alle categorie dei cattolici «impegnati», ma di offrirlo come terreno comune d’in-
contro e fratellanza anche coi non cristiani, a partire dagli ebrei e dai musulmani.
Per suggerire vie di riconciliazione e per sanare le ferite, in un tempo in cui i de-
liri religiosi diventano terrore.
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130
LA STRATEGIA
DELLA PAURA
Parte II
che FARE?
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LA STRATEGIA DELLA PAURA
IL TERRORISMO
NON SI VINCE (SOLO)
CON LE BOMBE di Rosario AITALA
Nella violenza islamista confluiscono caos geopolitico, alienazione
sociale, religiosità distorta e dissociazione identitaria. I guasti del
laicismo à la française. I limiti dell’azione militare. L’Italia può far
tesoro degli errori altrui.
1. La locuzione nella descrizione del terrorismo si deve ad A. CASSESE, International Criminal Law,
Oxford 2003, Oxford University Press, p. 125 ed è ripresa da M. DELMAS-MARTY, «Les crimes interna-
tionaux peuvent-ils contribuer au débat entre universalisme et relativisme des valeurs?», in A. CASSE-
SE, M. DELMAS-MARTY (a cura di), Crimes internationaux, p. 67.
2. L’espressione assume per la prima volta un significato politico in Francia, durante la Rivoluzione,
per designare la politica di violenta repressione operata dall’ala dura giacobina guidata da Robe-
spierre contro gli oppositori politici bollati come traditori della patria. Il Comitato di salute pubblica
si proponeva l’uso selettivo della violenza contro alcuni avversari al fine esplicito di terrorizzare tut-
ti gli altri. Solo dopo la caduta della dittatura giacobina il termine e i suoi derivati, che per i fautori
della Rivoluzione avevano valore positivo, cominciano ad assumere connotato negativo. Cfr. M.
FOSSATI, Terrorismo e terroristi, Milano 2003, Bruno Mondadori, pp. 17 ss.
3. Prendo a prestito le tre parole in sequenza da C. GINZBURG, Paura, reverenza, terrore, Milano
2015, Adelphi. 133
IL TERRORISMO NON SI VINCE (SOLO) CON LE BOMBE
invece che al Dio immortale, ai capricci di una lotteria perversa voluta da un dio
mortale, da un mostruoso Leviatano che amministra sgomento.
Il confine fra Charlie e Bataclan viaggia su questa non esile linea. Le vittime
designate di Charlie Hebdo erano (secondo il personale e inappellabile giudizio
dei carnefici) autori, concorrenti o figuranti occasionali di specifici atti immondi,
da punire con sanzioni dal valore retributivo e simbolico al tempo stesso. I morti
e i feriti del 13 novembre, di Beirut e del volo 9268 Kogalymavia, invece sono
vittime sacrificali designate dal caso, non obiettivo. Oggetto e obiettivo si divari-
cano. Non è differenza da poco. Ma le strategie sono più sottili dell’apparenza, e
bisogna saperle decifrare. Procediamo con ordine, per cerchi concentrici.
Il primo, più esterno, riguarda il contesto geopolitico regionale e mondia-
le. Lo Stato Islamico (Is) 4 è, per approssimazione, un’organizzazione terroristica
che si è evoluta in soggetto geopolitico confessionale riempendo gli spazi terri-
toriali e politici liberati dal fallimento di Iraq e Siria, con il concorso di respon-
sabilità occidentali, commissive e omissive. Da una diversa angolazione, è un
fenomeno nel quale si esprime una secolare contrapposizione confessionale in-
terna all’islam fra sunnismo e sciismo, e ha sfogo la «guerra per delega» delle
potenze regionali che incarnano le due anime. Illuminante una ricostruzione
temporale degli eventi.
1998: Abû Muâ‘ab al-Zarqåwø fonda un gruppo militante jihadista in Iraq. Nel
2003 gli Stati Uniti invadono l’Iraq: cade Saddam Hussein. Ba44år al-Asad, asceso
intanto alla presidenza siriana nel 2000, sostiene l’ingresso in territorio iracheno
di foreign fighters in funzione antiamericana. A ottobre 2004, il movimento di al-
Zarqåwø si affilia e si trasforma in al-Qå‘ida in Iraq. A maggio 2006 al-Målikø di-
venta primo ministro nell’Iraq in transizione post-bellica; nel frattempo viene fon-
dato lo Stato Islamico dell’Iraq (Isi). Nel marzo 2011 cominciano le rivolte in Si-
ria; un anno dopo l’Isi fonda una filiazione siriana in chiave anti-Asad, Ãabhat al-
Nuâra. Nel marzo 2013 viene fondato l’Isis (Stato islamico dell’Iraq e del Levante
– al-3åm, espressione che anticamente designava la Siria).
La separazione da al-Nuâra consacra una profonda divergenza «culturale», ma
anche intergenerazionale. Al modello prevalentemente utopico di islam globale e
allo schema operativo qaidista di «lotta al nemico lontano» attraverso sporadiche
azioni contro l’Occidente, si contrappone una visione moderna, saldamente terri-
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toriale, che predilige la «lotta al nemico vicino»: i governi regionali, visti come
corrotti, inefficienti e filo-occidentali. Il nuovo soggetto cattura così Raqqa, che
ne diventerà la «capitale», e Mosul, dove opera una feroce e rapida pulizia etno-
religiosa contro le componenti non sunnite 5; marcia su Baghdad e dichiara il ca-
liffato. Nasce lo Stato Islamico. Nel mese di agosto 2014 al-‘Ibadø sostituisce al-
Målikø, cui si addebita la responsabilità di aver marginalizzato la popolazione
sunnita che ora parteggia con il «califfo». Cominciano le operazioni aeree della
coalizione a guida americana: una serie di paesi (più o meno) volenterosi, che
spesso perseguono interessi contrapposti e intrecciati e in alcuni casi hanno so-
stenuto milizie che combattono in Siria, salvo perderne il controllo. Sul terreno
intanto il ruolo iraniano diventa cruciale, attraverso una complessa varietà di for-
mazioni militari e foreign fighters sciiti. Da alcune settimane è entrata in campo
la Russia al fianco di al-Asad, per salvaguardare le proprie posizioni di influenza
in Siria. La Francia, infine, dal 14 novembre si dichiara in guerra contro il «califfa-
to», che ha rivendicato le stragi di Parigi.
2. Battere l’Is è questione che non si risolve con le bombe. L’intervento mili-
tare è in qualche misura inevitabile, se concepito come misura per sottrarre allo
Stato Islamico la sua dimensione territoriale, ma non sarà risolutivo. Intanto, tutti
gli analisti militari convengono sul punto che una soluzione stabile, a partire dal-
la ripresa di Raqqa e di Mosul, richiede un esercito: stivali a terra. Ma non è chia-
ro quali stivali. L’esercito iracheno non ha le capacità necessarie a riguadagnare il
territorio e le milizie sciite verrebbero accolte con comprensibile sfiducia e paura
dai sunniti che vivono sotto il «califfato». Le forze siriane sono indebolite e impe-
gnate in altro, e comunque è lontanissima una soluzione del destino di al-Asad e
famiglia, che da quelle parti è la prima questione in ordine logico. Difficile con-
tare sulle potenze regionali, che hanno interessi, prospettive e priorità diverse e
molto eterogenee. La Russia non sembra averne intenzione, né convenienza.
I paesi occidentali non sono minimamente in grado di sostenere il costo po-
litico interno, prima ancora che finanziario, di un’altra guerra e delle immagini
dei propri ragazzi che rientrano a casa dentro bare avvolte in una bandiera. Il
prezzo geopolitico di un intervento occidentale sarebbe incalcolabile, e una be-
nedizione per la causa del jihadismo: genererebbe per i prossimi decenni mi-
gliaia di nuovi combattenti pronti a iscriversi fra gli eroi di una guerra santa con-
tro i crociati invasori. Resterebbe l’opzione di una forza autorizzata dalle Nazioni
Unite costituita dai paesi sunniti della regione che si sentono più direttamente
messi in pericolo dallo Stato Islamico, ma è prospettiva complicata e lunga da
realizzarsi.
In secondo luogo, le informazioni dal terreno convergono a indicare che
operativi dello Stato Islamico stanno spostandosi in Libia, dove il controllo del ter-
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ritorio è conteso da due governi e decine di milizie. Qui avrebbero già istituito di-
versi campi di addestramento e alcuni avamposti sarebbero pronti a issare la ban-
diera nera. A parte l’ulteriore instabilità che si determina in Libia, questo dimostra
come alla disfatta eventuale dell’Is non seguirebbe affatto la fine del terrorismo,
almeno finché tutte le condizioni che lo hanno generato rimarranno intatte.
Soprattutto, c’è una lezione che dovremmo avere imparato duramente, in
Iraq, in Afghanistan, in Libia: in geopolitica, come in fisica, i vuoti si riempiono,
se non ad opera di poteri legittimi, da altri illegali o di fatto. L’abbattimento del
«califfato» richiede che si lavori da subito su progetti di ricostruzione, processi po-
litici credibili per rimpiazzare gli equilibri attuali. Quella in corso non è guerra fra 135
IL TERRORISMO NON SI VINCE (SOLO) CON LE BOMBE
sembra fondata l’idea che i fatti di Parigi segnalino una nuova stagione di lotta al
nemico lontano come qualcuno pure argomenta. Lo Stato Islamico vuole restare
un soggetto moderno e genuinamente geopolitico, uno Stato: una comunità con
un territorio costituito sull’antica terra dell’islam sunnita che funge anche da po-
tente richiamo per i fondamentalisti di ogni parte del globo. La narrativa dell’Is,
anche quella trionfalistica che si attribuisce i meriti di ogni nefandezza, ha una
precisa funzione motivazionale e di reclutamento dei combattenti. Indirizzare le
azioni contro i paesi più attivi militarmente nella regione (la Francia ha svolto
ruoli precisi in Mali, in Libia e in Siria) è coerente con la retorica del nemico che
è centrale nella logica del «califfato» 7. Il mondo islamico radicale e le sue poten-
ziali nuove reclute sono il primo destinatario del messaggio di Parigi.
Poi c’è il pubblico occidentale, nel quale si vuole determinare (con succes-
so) uno stato di soggezione alla paura, modificandone i comportamenti quotidia-
ni e alimentando infondati e profondissimi meccanismi di sospetto e di rancore
nei confronti dell’islam, degli stranieri, dei profughi e della diversità: una saldatu-
ra mentale pericolosa fra migrazione e terrorismo, diversità e radicalismo. Non a
caso crescono i «crimini di odio», le intolleranze, le violenze, le ingiurie motivate
da odio religioso, etnico e culturale.
La politica occidentale è il terzo obiettivo. Nelle campagne elettorali entra
prepotentemente la retorica consunta dello scontro di civiltà 8 e i temi falsamente
connessi del terrorismo e delle migrazioni. Gli Stati, per rispondere alle nuove in-
quietudini dei cittadini, rimandate ossessivamente dai media e da continui allar-
mismi, sono incoraggiati a farsi attrarre nelle sabbie mobili del Medio Oriente, a
fare propria una guerra altrui. In questo quadro poi si colloca il richiamo abnor-
me dei terroristi a valori religiosi, con la funzione di alimentare odio e intolleran-
za; di motivare al sacrificio gli operativi; e di coprire ideologicamente operazioni
che hanno in realtà natura politica ed economica.
Bisogna quindi indagare partitamente le possibili ragioni delle due scelte indi-
viduali, fondamentalismo e terrorismo 11.
Nei paesi occidentali l’avvicinamento a posizioni ideologiche fondamentali-
ste di cittadini o di residenti di origine straniera dipende quasi sempre, oltre che
7. A. PLEBANI, P. MAGGIOLINI, «La centralità del nemico nel califfato di Al-Baghadi», in M. MAGGIONI, P.
MAGRI (a cura di), Twitter e jihad: la comunicazione dell’ISIS, Milano 2015, Ispi, pp. 29 ss.
8. R. AITALA, «Se la paura dei barbari ci rende barbari», Limes, «Dopo Parigi che guerra fa», n. 1/2015.
9. A. ELORZA, La religione politica. I fondamentalismi, Editori Riuniti, Roma 1996, pp. 46 ss.
10. R. AITALA, op. cit. e ivi riferimenti, pp. 87 s.
11. G. KEPEL, Storia del fondamentalismo islamico, Roma 2015, Carocci. 137
IL TERRORISMO NON SI VINCE (SOLO) CON LE BOMBE
da inclinazioni personali, da una crisi nel rapporto fra persona e società: dall’as-
senza o dal venir meno di quel senso di appartenenza che cementa una comu-
nità e una nazione. Sembra il caso dei giovani jihadisti francesi e belgi, prima an-
cora dei terroristi di Londra e di Madrid.
Un fattore di contesto specifico della società francese è la sua costruzione
attorno a una laïcité rigidissima, dogmatica, che relega la religione fuori dalla vi-
ta pubblica, esiliandola dentro il «santuario esistenziale della coscienza e in
quello spaziale del tempio e del culto» 12, pur non negandola, né interdicendola.
Al punto che dal 1872 in Francia è proibito indagare sul credo delle persone e
di conseguenza non è noto, nemmeno a spanne, quanti siano coloro che prati-
cano o si riconoscono in ciascuna religione, in particolare nell’islam 13. In realtà
quella francese non è laicità, piuttosto è laicismo; non secolarità, ma secolari-
smo. Come annota il teologo Gianfranco Ravasi, la secolarità è categoria di ori-
gine cristiana che «libera la religione da ogni concezione integralistica e teocrati-
ca», e discende dal «rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di
Dio» 14. Un processo interno alla Chiesa, che si propone di «condeterminare an-
che il cammino del mondo secolare, senza però volerlo determinare integristica-
mente e dottrinariamente» 15.
Per converso, laicismo e secolarismo sono forme organizzative del potere
politico che respingono tendenzialmente «ogni presenza storica e sociale della re-
ligione»: che ignorano Dio, per confinarlo «nel limbo inoffensivo della sua tra-
scendenza» 16. Il caso francese è di scuola. Il laicismo negli ultimi anni ha denu-
dato la difficoltà di concepire un islam francese e di ricondurre all’interno delle
dinamiche sociali gli appartenenti alle seconde e terze generazioni di immigrati,
in genere di religione musulmana. Questa incapacità della società francese forse
non deriva tanto da una paradossale «laicità cattolica» 17, da una sorta di implicita
preferenza dello Stato per la religione cristiana in danno di quella musulmana,
ma dalla crasi di caratteri costitutivi dell’islam e di strutture e contingenze della
società francese.
Nell’islam è difficile concepire un sistema politico e sociale che non concor-
di con la fede, di conseguenza si è raramente teorizzata una forma di laicità nel
rapporto fra politica e religione che consenta al credente di «codeterminare» il
cammino della società senza volerle imprimere una forte caratterizzazione reli-
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giosa. L’islam, per dirla con il giurista Qammûdø, «è una religione, non una poli-
tica, ma è una religione che conferisce alla politica il suo fondamento» 18. In
5. Quarto cerchio: noi. L’Italia sta pensando e agendo bene. Viviamo sotto lo
stesso cielo, ma noi abbiamo un orizzonte diverso 21. Noi sperimentiamo in ritar-
do rispetto ai paesi con un passato coloniale il fenomeno migratorio e le sue con-
seguenze sociali: se sapremo adottare lungimiranti politiche di attribuzione di cit-
tadinanza e diritti a chi partecipa alla nostra democrazia, potremo evitare questi
fenomeni di torsione identitaria degli immigrati. Naturalmente non siamo esenti
da rischi, ma questi sono in massima parte estranei alla nostra compagine sociale
ed entro certi limiti si possono prevenire con gli strumenti giuridici delle investi-
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gazioni e della prevenzione informativa. Per noi poi alzare muri non è possibile:
ostano geografia, storia, politica. E non conviene: perché i muri non possono ar-
restare i fenomeni sommersi e incontrollabili, ma invece ostacolano quelli positi-
vi: gli scambi economici, culturali, politici, quelli che perpetuano un’unità storica
millenaria nella quale abbiamo un ruolo di ponte, fisico ed ideale.
19. M. CAMPANINI, op. cit., p. 172; R. AITALA, «Le parole e le cose», Limes, «Afghanistan addio», n.
2/2010, pp. 97 s.
20. G. SACCO, op. cit., p. 53.
21. Riprendo Konrad Adenauer: «Viviamo tutti sotto lo stesso cielo, ma non abbiamo tutti lo stesso
orizzonte». 139
IL TERRORISMO NON SI VINCE (SOLO) CON LE BOMBE
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140
LA STRATEGIA DELLA PAURA
COMUNICAZIONE
E CONTROLLO
AI TEMPI DEL TERRORE di Francesco VITALI
Invece di invocare lo spionaggio di massa, i servizi segreti ammettano
di non riuscire a star dietro a qualche migliaio di sospetti. Per
monitorare i terroristi, bisogna lasciarli parlare. Non servono leggi
speciali, basta il marketing. La pericolosa deriva dei valori europei.
pire un familiare in casa (cosa che accade con una frequenza ben maggiore dei
casi raccontati dalla cronaca nera), colpisce uno sconosciuto perché ha un co-
lore diverso della pelle o perché l’abbigliamento ne svela la presumibile appar-
tenenza religiosa. Pur mostrando l’orrore della follia personale, questi gesti po-
co hanno a che spartire con atti ben studiati e coordinati come quelli parigini.
Gli attacchi del 13 novembre, come nel caso dell’attentato di Charlie Hebdo,
sono stati condotti da commando ben addestrati e, soprattutto, ben coordinati. I
lupi, salvo rare eccezioni, attaccano in branco, così come i terroristi. È quindi
possibile tracciarli, identificarne i complici e la rete di supporto. Qualunque so-
cietà di marketing e big data che studia la comunicazione sui social network e 141
COMUNICAZIONE E CONTROLLO AI TEMPI DEL TERRORE
e ha accesso totale, come gli Stati Uniti, alle comunicazioni mondiali. Senza con-
tare che Germania e Francia – così come Olanda, Danimarca e altri paesi
europei 1 – hanno offerto un supporto determinante con le proprie infrastrutture
al sistema di spionaggio globale dell’Nsa.
1. In realtà i servizi segreti di tutti gli Stati europei, a partire dal Portogallo, da dove si diramano nu-
merose infrastrutture di comunicazione internazionale, fino ai paesi baltici e al Sud del continente,
hanno offerto supporto al sistema di intercettazione globale americano. L’Italia, anche in questo ca-
so, è vista come un soggetto passivo che garantisce l’accesso alle proprie banche dati e alle comu-
142 nicazioni non solo nazionali, ma anche a quelle verso Israele, il Medio Oriente e l’Asia.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
aziende del paese transalpino. A questa domanda, la cui risposta è retorica, occor-
rerebbe aggiungerne una seconda più scomoda: ovvero perché nella lista dei tar-
get di cui intercettare tutte le comunicazioni non vi fossero anche tutti i pericolosi
estremisti islamici, già conosciuti, e di ritorno dai campi di addestramento in Siria.
Nel caso fosse stato inserito anche il loro nome, lo scorso 13 novembre 2015, a
Parigi, non avremmo probabilmente avuto alcun lutto da piangere.
Per quanto datati, gli studi del sociologo Max Weber 2 sull’autoconservazio-
ne dei sistemi sociali, fino a quelli autopoietici, ci aiutano a capire la reazione
2. Vedi ad esempio M. WEBER, Economia e società, Milano 1961, Edizioni di Comunità (Wirtschaft
und Gesellschaft, Tubinga 1922). 143
COMUNICAZIONE E CONTROLLO AI TEMPI DEL TERRORE
dei servizi segreti, in posizione di attacco proprio per difendersi dalle accuse di
incapacità e inefficienza. Difficile chiedere trasparenza ai servizi segreti, ma la
si può pretendere dalle istituzioni che li governano e che li dovrebbero con-
trollare. Se hanno sbagliato, forse sarebbe stato opportuno sostituirne da tempo
i vertici; in caso contrario, dovrebbe essere la politica ad assumersi le proprie
responsabilità.
forma di propaganda ma, al tempo stesso, sono il miglior strumento per cono-
scere il fenomeno, studiarne le chiavi di comunicazione, identificare con preci-
sione le persone direttamente o indirettamente coinvolte. Nella società connessa,
per monitorare puntualmente un soggetto e per definirne il profilo, non servono
leggi speciali, è sufficiente adattare uno dei tanti strumenti di analisi utilizzati nel
marketing per studiare utenti/clienti. I soggetti che potrebbero fornire questi
esempi non mancano: dalle società di telecomunicazione, che offrono servizi te-
lefonici e di connessione dati, ai big della grande distribuzione e dei sistemi di
144 3. M. LOMBARDI, Tsunami: «Crisis management» della comunicazione, Milano 1993, Vita e pensiero.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
pagamento, fino agli over the top (ott) come i gestori dei motori di ricerca o dei
social network. Per raggiungere questo obiettivo occorrono però le informazioni
ricavabili dai gruppi che i governi e, ultimamente, anche gli hacker di Anony-
mous nella loro campagna contro l’Is si stanno sforzando di bloccare. Le demo-
crazie europee non hanno ancora trovato un modello narrativo sufficientemente
forte da contrapporre, nel mondo musulmano, a quello proposto dall’Is. Forse,
prima di combattere, sarebbe necessario studiare di più e più velocemente.
mine, solo alla potenza americana. Alla fine del suo secondo e ultimo manda-
to, gli Stati Uniti dovrebbero cambiare obiettivo e pensare alla salute democra-
tica mondiale dei prossimi decenni.
In una conferenza stampa tenutasi a Kuala Lumpur il 22 novembre, il presi-
dente degli Stati Uniti ha dichiarato: «Distruggeremo l’Is sul campo di battaglia
senza rinunciare ai nostri valori», spostando l’attenzione sui valori della democra-
zia dei paesi occidentali. La sua affermazione non deve essere presa con legge-
rezza. Il peso geopolitico dell’Europa, infatti, si può misurare anche nella capa-
cità di difendere i suoi princìpi costituzionali e l’equilibrio tra sicurezza e libertà e
benessere diffuso che sono alla base del suo patto sociale. Eppure, la Francia
forte ereditata da de Gaulle, con istituzioni solide che le hanno consentito di su-
perare la guerra civile algerina con attentati molto più sanguinosi di quelli jihadi-
sti, dopo l’attacco a Charlie Hebdo ha scimmiottato la reazione americana post-11
settembre, garantendo capacità operative indiscriminate ai servizi segreti, a disca-
pito dei diritti dei cittadini. Ora, dopo il 13 novembre, si prostra a una modifica
costituzionale per garantire maggiori poteri al governo in caso di minaccia terro-
ristica. Gli altri Stati europei hanno seguito questa strada, modificando la norma-
tiva interna dal «banale» tracciamento di tutti i cittadini che prendono un aereo
(con la riforma del Passenger Name Record, Pnr) all’obbligo di scatole nere nelle
automobili (formalmente per finalità assicurative), fino a violazioni delle libertà
individuali o del domicilio, reale o virtuale. Con l’assillo della sicurezza, i paesi
dell’Ue hanno trascinato con loro le istituzioni europee in una compressione dei
valori fondanti dell’Unione.
Difficile immaginare quali sacrifici potrebbero chiedere i governi nazionali
alla democrazia, incluso quello italiano, in caso di ulteriori attentati, per altro
molto probabili 4. Se la potenza geopolitica si misura anche nella capacità di
proiettare i propri valori, noi europei non abbiamo perso occasione per mo-
strare la nostra debolezza. Invece di accettare la sfida jihadista, proponendo
con maggior forza la nostra democrazia e preparando i cittadini europei ad ac-
cettare anche i sacrifici di questa sfida, abbiamo fatto un passo indietro. Nella
speranza che l’arrocco salvi i governi o, addirittura, faccia guadagnare punti al-
le prossime elezioni.
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4. Al fine di rendere più equilibrata qualunque analisi sugli ultimi attentati in Europa, utilizzando
parametri di confronto non vincolati alle esigenze del sistema mediatico europeo, sarebbe opportu-
no considerare che, in base ai dati raccolti nel Global Terrorism Database (Gtd), gestito dall’Univer-
sità del Maryland, negli ultimi vent’anni si sono registrati quasi dieci attentati al giorno, con circa
146 165 mila persone morte e 280 mila feriti.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
dei testi sacri diversa da quella letterale che ne danno i radicali, i quali pensano
di ripristinare l’antica grandezza dell’islam tornando alle sue origini. Al-Søsø vuole
invece adeguarlo al mondo moderno. Sostiene quindi la necessità di una profon-
da riforma religiosa. Nega che la crescita dei popoli islamici dipenda dalla rigida
imposizione della 4arø‘a – codice normativo e comportamentale divino, che ha
precedenza su ogni legge umana – basata sulle condizioni esistenti nell’islam
delle origini, millequattrocento anni fa.
Per altri l’islam, in quanto religione, non sarebbe all’origine dell’attuale on-
data di violenza. Quest’ultima dipenderebbe, invece, da circostanze contingenti:
politiche, economiche e sociali. E dalla manipolazione, o dallo scippo, che i ter-
roristi hanno fatto della religione, a danno in primo luogo proprio dei musulma-
ni. La maggior parte dei quali, poi, non condividerebbe la violenza e la brutalità
dei jihadisti.
In Occidente, tale interpretazione è politicamente corretta. Viene così negata
l’esistenza di una diretta connessione fra l’islam e i suoi testi sacri e la violenza,
intensificatasi da quando è nato Då‘i4, da quando gli Stati si sono indeboliti e so-
no riemerse le tribù con tutte le loro storiche rivalità. A parer mio, viene trascura-
to, per amor di pace, quanto è scritto nel Corano e negli aõådøñ, e si mettono tra
parentesi le motivazioni che spingono gli estremisti a richiederne la più letterale
e integrale applicazione. La pensano in tal modo i fautori del dialogo, della tolle-
ranza, coloro che sostengono che non si può giustificare la violenza in nome di
Dio, o che pensano alla possibilità di scoprire un islam moderato, disponibile ad
accettare i valori etici e politici universali, che sono poi quelli dell’Occidente.
Non mancano neppure coloro che sono persuasi che l’Occidente abbia una
diretta responsabilità nell’esplosione attuale della violenza. Essa sarebbe una rea-
zione e una vendetta per le colpe storiche dell’Europa e degli Usa nei confronti
dei popoli islamici, iniziate con le crociate e proseguite con la colonizzazione,
con lo sfruttamento economico e con il sostegno di regimi dispotici e corrotti e,
oggi, anche dello Stato d’Israele. L’islam sarebbe una religione di pace, non di
violenza e di guerra. Tutt’al più, sarebbe simile alle altre religioni. Tutte hanno
parti che predicano l’amore, mentre in altre viene esaltata la guerra e la conver-
sione anche forzata. Basti pensare a quella ebraica, in cui il «Dio degli eserciti» si
trasformò nella «guerra punizione di Dio» quando l’esercito di Israele, prima con-
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frontato a deboli tribù nomadi, si trovò di fronte agli eserciti dei grandi imperi,
dai babilonesi agli egiziani. Oppure al cristianesimo che abbandonò il pacifismo
assoluto («chi di spada ferisce, di spada perisce») quando divenne religione del-
l’impero, massacrò gli eretici e cristianizzò con la forza gli indios americani.
La massa dei musulmani, come quella dei cristiani, non pratica la violenza. A
differenza della seconda, però, non ripudia neppure esplicitamente le parti del
Corano e degli aõådøñ che la sostengono e la legittimano. I musulmani che vivo-
no in Europa non promuovono manifestazioni oceaniche per condannare gli atti
di terrorismo. Non condannano i correligionari che festeggiano gli atti di violenza
148 a danno dell’Occidente o dei musulmani considerati apostati o eretici.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
utilizzati dalla direzione strategica dell’Is per provocare una dura reazione occi-
dentale. Essa accrescerebbe il numero di reclute per l’organizzazione terroristica.
materialmente gli attentati. Occorre, in primo luogo, togliere all’Is l’aura di invin-
cibilità che possiede e che dà credibilità alla «profezia di Maometto» sull’inevita-
bilità della vittoria dell’islam.
Nei commenti sugli attentati si sono sentite parole virtuose come quelle che
evocano la necessità di eliminare il terrorismo mantenendo inalterati i valori e i
princìpi della democrazia occidentale. Si dice di non voler combattere l’islam ma
solo i terroristi, si invita a non comprimere il nostro grado di libertà, a rafforzare
l’integrazione europea e così via. Tali affermazioni dimostrano chiaramente le ca-
renze della nostra cultura della sicurezza. Si è anche ricordato che si sono scon-
fitte le Brigate rosse più con la persuasione che con la forza. Penso che il gene-
rale Carlo Alberto dalla Chiesa e il maresciallo dei carabinieri caduto a via Frac-
chia a Genova si siano girati nella tomba. Occorre rendersi conto che nella vita
reale le cose non stanno così. Nella lotta contro il terrorismo, il «punto culminan-
te della vittoria» di clausewitziana memoria va sostituito con il «punto culminante
della violenza». La «maggioranza silenziosa» dei musulmani deve temere l’Occi-
dente più dei terroristi. L’unico modo per dissociare la massa dei musulmani dal-
l’Is è quello di dimostrare che la profezia di Maometto è un bidone, che convie-
ne loro cessare di fare i furbi e che l’Occidente non è una tigre di carta, ma sa
picchiare duro quando viene colpito. Il resto sono chiacchiere, che servono a
giustificare i propri preconcetti, a fare un po’ di retorica buonista, a mascherare
la propria impotenza, limitandosi a condannare la barbarie, senza combatterla. E
a dire, come fanno i rappresentanti delle varie comunità islamiche in Europa, che
le vere vittime del terrorismo e dell’Is sono i musulmani e non noi occidentali. È
una manifestazione di decadenza morale, a meno che non sia solo un’ipocrisia
volta a servire interessi politici o di altra natura.
3. L’Is non è più quello dei primi tempi, quando poteva essere considerato
una branca di al-Qå‘ida. Le due organizzazioni pan-jihadiste sono molto diverse
fra loro, anche se gli obiettivi di lungo periodo sono identici. L’Is, erede dello
Stato Islamico dell’Iraq diretto dal giordano al-Zarqåwø fino alla sua uccisione nel
2006, mirava al «nemico vicino», all’estensione del territorio e della popolazione
sotto il suo controllo, alla loro organizzazione, per giungere nel 2014 alla costitu-
zione di un «califfato» fra l’Iraq, la Siria e la Giordania, che annullasse i confini fra
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i tre Stati imposti dalla Gran Bretagna e dalla Francia al termine della prima guer-
ra mondiale. Al-Qå‘ida è invece una rete immersa nelle società. La sua priorità è
stata sempre quella di combattere il «nemico lontano», cioè l’Occidente. Nella sua
strategia, l’attacco al «nemico vicino», cioè agli Stati islamici considerati apostati
ed eretici, avrebbe dovuto seguire la vittoria sul «nemico lontano». La sua strate-
gia non è stata mai basata sulla conquista e sul controllo del territorio, ma su un
terrorismo apocalittico. Esso avrebbe dovuto intimidire l’Occidente e spingerlo a
rinunciare alla difesa degli Stati islamici, a partire dalle dinastie del Golfo. Il loro
controllo avrebbe fornito ad al-Qå‘ida le risorse finanziarie per espandersi in tut-
to l’islam. E poi per conquistare il resto del mondo e convertirlo alla «vera fede». 151
I MUSULMANI DEVONO TEMERE L’OCCIDENTE PIÙ DEI TERRORISTI
Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Canada, Giordania, Australia, Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Libano, Marocco,
Arabia Saudita, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein, Italia, Germania, Spagna, Portogallo, Polonia, Georgia,
62
totali
Giappone, Taiwan, Corea del Sud, Nuova Zelanda, Ungheria, Austria, Albania, Grecia, Bulgaria, Slovacchia, Slovenia,
Serbia, Romania, Kosovo, Bosnia- Erzegovina, Lussemburgo, Lettonia, Lituania, Islanda, Irlanda, Macedonia, Moldova,
Montenegro, Ucraina, Croazia, Repubblica Ceca, Cipro, Finlandia, Norvegia, Svezia, Estonia, Somalia, Kuwait, Oman,
Tunisia, Singapore, Indonesia, Malaysia, Russia e Iran.
Hizbullāh (in Siria), curdi siriani (unità di protezione popolare Ypg e unità di protezione delle donne Ypj)
SIRIA milizie assire e yazidi, Partito marxista-leninista turco.
Governo regionale del Kurdistan (Peshmerga), milizie sadriste e sciite e Dwekh Nawsha (“coloro che sono pronti al sacrificio”,
IRAQ un insieme di milizie di autodifesa assiro-crisitiane nato nel 2014)
Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Canada, Francia, Giordania, Paesi Bassi e Iran.
Stati Uniti, Australia, Bahrein, Canada, Francia, Giordania, Arabia Saudita, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Russia.
Australia, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti.
Iran, Russia, Corea del Nord e Iraq (direttamente). Cina, Venezuela, Bielorussia e Algeria (indirettamente).
Arabia Saudita, Qatar, Stati Uniti e Turchia (direttamente). Regno Unito e Francia (indirettamente)
Gli Stati esclusi da queste liste partecipano con supporti di vario tipo, da quello diplomatico a quello umanitario.
152
LA STRATEGIA DELLA PAURA
dimostrare che la profezia su cui esso si regge è falsa e aiutare chi, come il presi-
dente egiziano al-Søsø, vuole procedere a una riforma dell’islam. Essa presuppone
una revisione profonda dei testi sacri, finora rifiutata dalla massa degli islamici. I
musulmani che intendono dissociarsi dal terrorismo devono poi essere protetti.
Nelle legislazioni occidentali deve essere previsto che il takfør, cioè l’accusa di
apostasia, sia un reato, come è stabilito nella recente costituzione tunisina. E infi-
ne, l’Occidente deve finirla con il chiedere scusa per le «cattiverie» fatte all’islam.
In fin dei conti, basterebbe ricordare che poco più di tre secoli fa gli ottomani
stavano per conquistare Vienna. È bizzarro, quando non criminoso, attribuire al-
l’Occidente la responsabilità di quanto avviene a opera dell’Is. Se non bisogna 153
I MUSULMANI DEVONO TEMERE L’OCCIDENTE PIÙ DEI TERRORISTI
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154
LA STRATEGIA DELLA PAURA
tempi paiono tuttora rispondere a questa logica. Il giudizio sulla moralità delle
azioni terroristiche è comunque definito a posteriori e dipende sia dal punto di
osservazione sia dai risultati ottenuti.
Al terrorismo ricorrono tanto gli imprenditori politici privati che cercano di
farsi largo all’interno di sistemi che non concedono loro possibilità alternative di
conquistare il potere, quanto – a determinate condizioni – Stati ai quali un dato
contesto internazionale e sfavorevoli rapporti di forza sconsigliano di ricorrere a
strumenti più tradizionali, come le sanzioni economiche o la guerra vera e pro-
pria. In questo senso, il moltiplicarsi degli attentati può essere assimilato alle
manifestazioni febbrili di una malattia molto più profonda: la diffusa insoddisfa- 155
COSÌ L’ITALIA TENTA DI NON FINIRE NEL MIRINO
zione nei confronti di un ordine politico che si vuole modificare a proprio favo-
re. Proprio per questo, il contrasto del terrorismo non può essere ridotto esclusi-
vamente all’adozione di misure difensive che servono a proteggere dalla violen-
za i presumibili bersagli. Necessita invece di un’accurata interpretazione delle
cause che lo scatenano, invariabilmente politiche anche quando poggino su un
sostrato sociale e culturale favorevole. Si deve capire chi ci stia veramente attac-
cando e cosa voglia, al di là di quello che affermano gli ingenui manovali chia-
mati a immolarsi.
Negli anni Settanta e Ottanta il brodo di coltura fu rappresentato dalla lotta
di classe, che tuttavia era sfruttata a fini politici di sovversione dalle superpoten-
ze leader dei due blocchi nel vecchio sistema bipolare. Ciò spiega, tra le altre co-
se, la tempistica del declino delle Brigate rosse, sconfitte non tanto dai pur bril-
lanti blitz della Digos e dal talento di uomini come il compianto generale Carlo
Alberto dalla Chiesa, quanto piuttosto dal collasso dell’Unione Sovietica e dalla
vittoria dell’Occidente nella guerra fredda.
di Israele non sarebbe che l’ultima evidenza, come se lo Stato ebraico non pos-
sedesse una sua specifica peculiarità e non fosse a sua volta il frutto di un pro-
getto politico basato sulla mobilitazione religiosa.
Si può concordare sulla rozzezza dell’analisi, ma non si può negare la straor-
dinaria capacità di aggregazione del messaggio, che ha posto e mette tuttora a
disposizione dei più spregiudicati imprenditori politici masse crescenti di indivi-
dui altamente motivati e determinati, asservibili a qualsiasi progetto che abbia
una parvenza di credibilità religiosa in chiave islamica. Il nostro nemico, così,
non è tanto una confessione che è ormai entrata a far parte del nostro panorama,
156 grazie a decenni di immigrazione africana e asiatica verso il nostro continente. È
LA STRATEGIA DELLA PAURA
piuttosto chi la sfrutta, per acquisire una leva anche all’interno delle nostre so-
cietà. Accadeva peraltro una cosa simile anche con la vecchia Internazionale co-
munista, le cui scelte erano solitamente funzionali agli interessi dell’Urss.
Se il terrorismo jihadista serve quindi obiettivi politici contingenti – in nes-
suna rivendicazione si rinvengono convincenti appelli alla conversione dell’Oc-
cidente – la prima vera linea di difesa è tenerne conto nella conduzione della
nostra azione diplomatica. È infatti ingenuo pensare che ci possa proteggere dal
terrorismo l’abdicazione ai simboli della nostra cultura: non dobbiamo infatti
placare una rabbia istintiva che si scatena contro di noi. Va invece compreso
che è in atto una complessa battaglia politica che coinvolge l’intero mondo mu-
sulmano, diviso su diverse linee di faglia: tra sciiti e sunniti, in primo luogo, e
poi tra sostenitori e avversari della Fratellanza musulmana e dell’islam politico
più in generale. Si combatte più prosaicamente per decidere in che misura le
ambizioni dell’Iran, della Turchia, dell’Arabia Saudita, dell’Egitto e, più oltre, del
Pakistan possano essere ricomposte in un quadro di equilibrio. Sono questi pae-
si, infatti, a mobilitare o a combattere l’islam politico, e in queste dinamiche ve-
niamo spesso coinvolti. Come cassa di risonanza, innanzitutto, perché un atten-
tato che fa morti a Parigi o a New York non è come uno che colpisca San‘å’. Ma
anche per indurci a condizionare le nostre scelte di schieramento. È di qui che
si deve partire.
Per terroristi in cerca di reclute e pubblicità, il nostro paese è fin troppo ric-
co di bersagli paganti: l’attenzione si concentra su Roma e Milano, le due città
più importanti d’Italia. Eppure, abbiamo in Firenze e Venezia due simboli dell’ar-
te e della cultura mondiale che garantirebbero un’immediata notorietà a chi ten-
tasse di colpirle, con la seconda che vanta oltretutto una storia di sanguinosa
contrapposizione all’impero ottomano. C’è già, in effetti, chi ci ha pensato. La
mafia scelse la prima nella stagione in cui cercò anch’essa di piegare la volontà
del governo e del parlamento di contrastarla più seriamente, dinamitando l’Acca-
demia dei Georgofili. Al campanile di San Marco, invece, volsero le loro attenzio-
ni i «serenissimi» che sognavano la restaurazione dell’antica Repubblica del Leo-
ne, assicurando un proscenio globale al secessionismo veneto. Rispetto a tutto
questo, non c’è veramente nulla da fare, salvo, per quello che vale, intensificare
la sorveglianza e la vigilanza. Essendo però ben consapevoli che le difese perfet-
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te non esistono, come prova la circostanza che siano state bucate quelli di paesi
ben più attrezzati del nostro: Francia, Israele e Stati Uniti inclusi.
1. «Eni scopre nell’offshore egiziano il più grande giacimento a gas mai rinvenuto nel Mediterraneo»,
Eni, Ufficio Stampa, 30/8/2015.
2. Matteo Renzi è stato il primo premier occidentale a visitare l’Egitto dopo il colpo di Stato, il 3
agosto 2014, preceduto da due missioni dell’allora ministro degli Esteri Federica Mogherini. Il presi-
dente al-Søsø ha restituito la visita tra il 24 e il 25 novembre 2014. Da quel momento, i contatti sono
rimasti regolari.
3. M. MOLINARI, «Renzi in Egitto, patto con al-Søsø sulla Libia, “Fermiamo Isis prima che dilaghi”», La
Stampa, 13/3/2015. Renzi partecipava a una riunione convenuta a 3arm al-3ayœ, insieme ad oltre
158 settanta capi di Stato e di governo.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
il messaggio che si voleva inoltrare. Inizialmente negata dal ministero degli Este-
ri, ma successivamente riconosciuta dallo stesso presidente del Consiglio nel cor-
so di un suo intervento alla Knesset (il parlamento israeliano)4, la matrice terrori-
stica dell’azione intimidatoria è stata infine apertamente rivendicata dallo Stato
Islamico (Is) ed è oggi generalmente accettata 5.
delle sanzioni. Esattamente l’opposto di quanto fatto da Roma, che dopo gli ac-
4. Rivolgendosi alle autorità israeliane, il 22 luglio scorso Renzi così si era espresso alla Knesset: «Ave-
te ricordato i terroristi che hanno attaccato il consolato italiano al Cairo, noi siamo ancora più al fian-
co del governo egiziano per affrontare le sfide che ci attendono, portando nel cuore le nostre ferite».
5. M. MOLINARI, «L’Isis rivendica l’autobomba contro il consolato italiano del Cairo», La Stampa,
11/7/2015.
6. Voci di una possibile convergenza tra al-Qå‘ida e l’Is sono più volte circolate nei primi mesi del
2015: data a quel periodo l’autorizzazione ai qaidisti a collaborare con gli elementi dell’Is. Il 12 set-
tembre, al-‡awåhirø ha invocato l’alleanza tra le due organizzazioni e di unità ha parlato ancora una
volta il 2 novembre 2015. Ciò non ha peraltro impedito al leader qaidista di evitare il riconoscimen-
to dello Stato Islamico. 159
COSÌ L’ITALIA TENTA DI NON FINIRE NEL MIRINO
cordi di Vienna sembra aver tentato di tutto per raffreddare le relazioni con l’I-
ran, secondo diversi analisti ponendo a rischio la possibilità di cogliere i frutti di
lunghi anni di buone relazioni anche a prezzo di qualche sospetto in Occidente.
L’Italia è molto vicina anche agli Emirati Arabi Uniti, ai quali chiediamo ca-
pitali senza sosta, in particolare per le nostre banche, ma non solo, come prova
il fatto che abbiano contribuito al salvataggio dell’Alitalia. Va inoltre ricordato
come investa in Italia lo stesso Qatar, che da più parti si sospetta di prossimità
al sedicente califfato.
Quanto alla Turchia, l’Italia continua ad annoverarsi tra i paesi che sostengo-
no con maggior convinzione la causa dell’ingresso di Ankara nell’Unione Euro-
pea, esattamente come ora fa anche la Germania, teatro peraltro di un fallito at-
tentato allo stadio di Hannover proprio all’indomani della strage al Bataclan. De-
gli interessi e delle aspirazioni turche l’Italia tiene conto anche nel delicato conte-
sto della sua partecipazione alla coalizione internazionale a guida statunitense
che combatte contro l’Is. Non solo, infatti, la nostra Aeronautica militare non
bombarda, limitandosi alla ricognizione fotografica; ma persino qualora si deci-
desse di onorare la richiesta che il segretario alla Difesa americana Ashton Carter
ha rinnovato il 7 ottobre scorso alla nostra Difesa, armando di bombe i nostri
Tornado rischierati nel Golfo, il premier Renzi ha chiarito che in nessun caso ver-
rebbero attaccati obiettivi in Siria.
È un caveat assai rivelatore di come a Roma si vedano le cose. Più significa-
tivo ancora è il fatto che il governo, nei giorni critici in cui si discuteva di come
potenziare la partecipazione italiana alla lotta contro il «califfato», abbia enfatizza-
to il ruolo svolto dai nostri addestratori nel preparare i peshmerga curdi alla con-
quista di Sinãår, località yazida e snodo cruciale degli assi di comunicazione tra
la parte siriana e quella irachena dello Stato Islamico. Invece di batterci diretta-
mente contro il «califfo», alienandoci le simpatie dei suoi molti sostenitori palesi e
occulti, abbiamo infatti preferito sostenere le truppe curdo-irachene, che non di-
sturbano alcun attore sunnita di rilievo e rispondono a Masud Barzani, da molti
considerato un cliente o comunque certamente non un nemico del presidente
turco Erdoãan. Una postura tipicamente bizantina, la nostra, come tante altre che
il nostro paese ha adottato in passato, in circostanze diverse e meno difficili di
quelle attuali, la cui efficacia nel proteggerci da questo nuovo terrorismo deve
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basilica vaticana con i fiori in mano, seguito da giornalisti e fotografi, senza che
nessuno muovesse un dito. Un gesto del quale manca tuttora un’interpretazione
condivisa – forse un’intimidazione, più probabilmente l’amichevole invito di un
ex nemico ad adeguare la protezione del pontefice alla gravità del momento –
ma che resta comunque inquietante.
Di questa situazione e delle sue implicazioni sulla protezione del Giubileo
della Misericordia c’è massima consapevolezza anche ai più elevati livelli istitu-
zionali nazionali e da ben prima degli attacchi parigini del 13 novembre scorso.
A chi ne dubitasse, consigliamo la lettura del comunicato pubblicato sul sito In-
ternet del Quirinale al termine della più recente riunione del Consiglio supremo 161
COSÌ L’ITALIA TENTA DI NON FINIRE NEL MIRINO
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162
LA STRATEGIA DELLA PAURA
Guerra o terrorismo?
Dal punto di vista francese, quindi, la guerra era già stata dichiarata. Vale
però la pena cercare di capire se a questa risposta bellica corrisponde una simile
strategia «di guerra» da parte dello Stato Islamico. Se si pensa alla gravità dei fatti,
gli attacchi del 13 novembre hanno certamente alcuni contorni militari: per una
notte a Parigi l’intera popolazione ha avuto paura a causa di una serie di attacchi 163
UNA STRATEGIA ALTERNATIVA IN CINQUE PUNTI
coordinati che hanno mietuto 130 vittime e centinaia di feriti. Ma l’obiettivo era
spargere terrore, non conquistare o controllare territori.
Sembra una discussione di lana caprina ma non lo è: già la guerra al terrori-
smo americana dovette a un certo punto parzialmente riconoscere di non trovarsi
di fronte a un nemico convenzionale, a un esercito gerarchizzato che agisce unita-
riamente con lo scopo di conquistare territori. L’Is è anche questo, ma in Iraq e
Siria, non a Parigi o a Roma. Nel Siraq agisce come uno «Stato rivoluzionario», al-
trove come un’organizzazione terroristica. E la risposta che si dà a Raqqa non ne-
cessariamente funziona in Europa. Può anzi darsi il caso opposto. Ossia che una
guerra in piena regola all’Is in Siria e in Iraq lo spinga sempre più a usare il terro-
rismo in Europa e in Medio Oriente. È successo in passato con altri gruppi, per
esempio i somali di al-3abåb, che alla contrazione territoriale dovuta all’offensiva
di forze locali e occidentali sia corrisposta una controffensiva terroristica. Questo
non vuol dire che non si debba usare la forza contro un’organizzazione come l’Is.
Solo che non bisogna ridurla a un solo aspetto, quello della «guerra».
I due elementi si intrecciano e il terrorismo può diventare uno strumento
della «politica estera» dello Stato Islamico. Se si guarda agli attacchi commessi, or-
dinati o ispirati dall’Is fuori dai suoi «confini» sin da questa estate, si scorgono al-
cuni fili conduttori. Primo, punire la Turchia perché concede la base di Incirlik
agli americani per condurre attacchi aerei contro il «califfato» e i curdi, gli unici
nella regione che stanno facendo davvero la guerra via terra all’Is. Secondo, pu-
nire Õizbullåh per il sostegno al regime di al-Asad e per motivi religiosi, ma su
questo punto torneremo tra poco. Terzo, colpire la Russia in Egitto, due paesi di
recente impegnatisi in modo diverso nel doppio obiettivo di sostenere al-Asad e,
in subordine, contrastare l’Is. Infine, l’attacco di Parigi contro il paese europeo
che più di tutti ha condotto la «guerra» alla milizia di al-Baôdådø. Particolare poco
osservato, gli attacchi del 13 novembre avvengono poche ore prima dell’arrivo in
Europa del presidente iraniano Rohani. Una visita a Roma e a Parigi che avrebbe
fortemente riallacciato i legami anche politici con la potenza sciita odiata dall’Is –
e che difende i regimi siriano e iracheno combattendo, in seconda battuta, anche
al-Baôdådø. Come si vede, molti di questi attori hanno contrastato l’organizzazio-
ne jihadista solo in subordine; forse solo la Francia ne ha fatto una priorità.
Questo quadro serve a mettere nel giusto contesto gli attacchi e a capire che
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la strategia potrà essere replicata. Abbiamo parlato per decenni di «bombe spor-
che» o altri mezzi di attacco sofisticati; ora il 13 novembre ci riporta alla realtà. Sa-
ranno anche coordinati, ma gli attentati sono stati condotti con armi relativamente
semplici e poco costose, in gran parte reperibili sul mercato nero europeo.
E qui veniamo a un altro punto importante della natura di questa «al-
Qå‘ida 2.0». Come già fatto notare più volte da Limes, è difficile capire l’ascesa
e il consolidamento dello Stato Islamico se non se ne vedono i caratteri comuni
con il crimine organizzato. Come la mafia, l’Is esercita il potere con un misto di
forza e consenso. Quest’ultima componente non va sottovalutata: una parte
164 delle popolazioni sunnite in Iraq e Siria vede in questo gruppo l’unico stru-
LA STRATEGIA DELLA PAURA
colizzarlo. Ma non deve essere frainteso: contenimento non vuol dire delegare
alle Forze armate una lotta puramente militare da combattersi in terre relativa-
mente lontane da noi. Durante la guerra fredda, il contenimento del mondo so-
vietico era anzitutto una strategia politica. E di politica mediorientale dovremmo
occuparci in modo molto più attivo e propositivo, magari senza subirla come ac-
cade oggi troppo spesso.
Un primo punto problematico della politica mediorientale è che – non dal
13 novembre, ma dalla caduta di Mosul nelle mani dell’Is – la lettura occidentale
della regione è tornata a essere prevalentemente guidata dalle lenti della guerra
al terrorismo. È soprattutto quello il criterio in base al quale scegliamo amici e 165
UNA STRATEGIA ALTERNATIVA IN CINQUE PUNTI
nemici. Così, per esempio, l’Italia sostiene l’Egitto, anche se Il Cairo non na-
sconde di considerare terroristi anche i membri del partito che alle ultime ele-
zioni democratiche ottenne la maggioranza dei voti: la Fratellanza musulmana.
La democrazia – o, meglio, l’esistenza di regole del gioco condivise e consen-
suali – viene considerata un orpello inutile. Eppure è passato solo un anno tra il
rovesciamento (a fine giugno 2013) del governo dei Fratelli musulmani in Egitto
e la conquista jihadista di Mosul nel giugno 2014. È intercorso davvero poco
tempo fra la violenta chiusura della prima esperienza di governo più o meno
democratico dell’islam politico nel maggiore paese arabo e la riapertura delle
praterie per il jihadismo, per alcuni anni rimasto confinato (ma per nulla defun-
to) in alcune sacche in Iraq e Siria. Fra l’altro, il rovesciamento di Mursø, primo
presidente egiziano eletto democraticamente e membro della Fratellanza, era
avvenuto sotto la spinta di manifestazioni di piazza sostenute dai militari egizia-
ni, a loro volta generosamente foraggiati da decine di miliardi di dollari di Ara-
bia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Gli Emirati, ancor piú dei sauditi, hanno poi
allargato la lotta all’islam politico a tutta la regione, supportando chiunque di-
chiarasse guerra a questi «terroristi». Incidentalmente, hanno fornito armi a tutto
spiano anche a chi combatteva i «Fratelli» in Libia, fomentando la violenza a po-
che centinaia di chilometri dall’Italia.
Il punto chiave e strategico della repressione dell’islam politico è il messag-
gio che si manda agli islamisti più giovani: decapitata (idealmente quando non
letteralmente) la dirigenza dell’islam politico democratico, nella Fratellanza egi-
ziana sono rimasti gruppi di giovani ormai disillusi dal processo democratico, de-
diti ad attività violente certo meno intense rispetto a quelle dei jihadisti, ma co-
munque terreno fertile per reclutare estremisti. E infatti l’Egitto, chiusa la pagina
democratica, è oggi un paese meno sicuro, dove il governo ha scarso controllo
sia dell’Alto Sinai che del Deserto occidentale al confine con la Libia.
E qui veniamo alla seconda nota dolente della politica mediorientale. La stra-
tegia dei «pompieri incendiari» – le petromonarchie del Golfo che hanno sponso-
rizzato la repressione dell’islam politico un po’ ovunque – ha contribuito al caos
della regione, nella quale si sono aperti nuovi spazi ingovernati. La Libia è il caso
più eclatante, ma anche l’Egitto presenta problemi. Un grande regalo allo Stato
Islamico, che pure sui suoi media ufficiali spiegava l’espansione in Nordafrica
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pochi mesi dopo il golpe egiziano alla luce della ghiotta opportunità strategica. Il
problema più grande per noi occidentali è che i pompieri incendiari sono tra i
nostri migliori amici nella regione. Anzi, l’Egitto è forse l’alleato regionale più im-
portante dell’Italia – si guardi all’intensità dei contatti politici bilaterali e alla coo-
perazione proprio in materia di antiterrorismo – mentre gli Emirati sono una par-
te molto sostanziosa della politica estera commerciale del governo Renzi. Finora,
alla crescita dei rapporti bilaterali motivati in parte anche da esigenze economi-
che non è corrisposta una capacità di influenza sulle loro scelte politiche.
Delle due, è vero il contrario. La vicenda libica dimostra chi conduca le dan-
166 ze. È al Cairo che si decide se si fa la pace in Libia e sono gli Emirati che si pos-
LA STRATEGIA DELLA PAURA
sono «comprare» il mediatore Onu, quel Bernardino León, ex inviato speciale del-
le Nazioni Unite in Libia, le cui e-mail pubblicate dal Guardian rivelano stretti
contatti con Abu Dhabi proprio mentre questa forniva armi a una delle fazioni in
lotta. Collaborazione culminata con l’offerta di un lavoro da quasi 50 mila dollari
al mese per l’ex diplomatico spagnolo. Ovviamente negli Emirati.
co. Non solo li si aiuta a rafforzare la loro idea dell’«utopia islamica» dalla quale
non si deve scappare, ma pure a destabilizzare i paesi vicini: già negli anni Set-
tanta larghe masse di profughi palestinesi mandarono in tilt il Libano, portan-
dolo alla guerra civile. Oggi, con un quarto della popolazione libanese formata
da rifugiati siriani, è solo per la mancanza di appetito delle potenze che si
spartiscono il paese dei Cedri che non si verifica una nuova esplosione. Ma per
quanto ancora resterà tappato questo vaso di Pandora? E quanto può resistere
la Giordania con un altro milione di profughi o la Tunisia, dove l’Is ha già mes-
so piede, con il suo milione di libici?
167
UNA STRATEGIA ALTERNATIVA IN CINQUE PUNTI
no la parte del paese non controllata dall’Is. A Vienna, la grande differenza ri-
spetto al passato è stata la presenza contemporanea degli iraniani (pro Asad) e
dei sauditi (pro opposizione siriana, non sempre democratica). C’è voluta una
forzatura per costringere questi ultimi a sedersi al tavolo dei negoziati: fino a set-
tembre ponevano l’improbabile capitolazione di al-Asad come precondizione per
aprire le trattative. Che nel frattempo morissero migliaia di siriani e l’Is si espan-
desse era un dettaglio: i nostri alleati arabi nella regione erano occupati a com-
battere in Yemen e non consideravano prioritario il Siraq. Lo stesso pelo sullo
stomaco con i nostri alleati «pompieri incendiari» bisogna dimostrarlo in Libia. La
politica egiziano-emiratina ha finora condizionato pesantemente i negoziati; basti
pensare che il governo di Tobruk (quello della Libia «riconosciuta internazional-
mente») va al Cairo ogni volta che deve rifiutare una proposta di pace.
Terzo, proteggere le tessere del domino più fragili. Basta guardare una map-
pa: i paesi attorno alla Siria hanno strutture statali fragilissime, a partire da Libano
e Giordania. Ma è così anche per la Tunisia, sempre più scossa dalle conseguen-
ze del conflitto in Libia, con la relativa espansione dell’Is. La «protezione dei fra-
gili» implica sostegno politico, ma anche di sicurezza, così come prospettive serie
di sviluppo economico, magari scontentando qualche lobby europea dell’agricol-
tura. Soprattutto nel caso di Libano e Giordania, sostenere i deboli vuol dire ac-
cettare la realtà: questi paesi non saranno mai in grado di integrare tutti quei pro-
fughi. Mentre si lavora a una soluzione di pace in Siria che consenta almeno di
arrestare il flusso di persone, bisogna programmare e organizzare l’accoglienza in
Europa di una parte dei rifugiati oggi ospitati dai paesi fragili.
Quarto, al contrario della chiusura delle frontiere voluta da Is e xenofobi bi-
sogna realizzare una politica realistica sui profughi. Creare canali legali per chie-
dere asilo senza doversi affidare ai trafficanti, alimentando circuiti criminali in
molti casi contigui a quelli jihadisti o comunque pericolosi per le fragili strutture
statali della regione. Un canale legale, d’altronde, implica un più facile controllo
e flussi più programmati. Nel frattempo, laddove possibile, occorre migliorare le
condizioni dei rifugiati nella regione: le somme spese finora dall’Europa sono ri-
dicole, con alcune lodevoli eccezioni.
Quinto, fare politica anche in Medio Oriente. Fare i lacchè dei paesi del
Golfo nella speranza che investano da noi qualche petrodollaro in più (in calo,
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visto il crollo dei prezzi dell’oro nero) si è rivelato pericoloso: abbiamo avallato
le politiche dei pompieri incendiari. Continuiamo, per esempio, a fornire armi
che alimentano la guerra in Yemen, ignorando che quel conflitto sta allargando
gli spazi per al-Qå‘ida, dal momento che qui i jihadisti stanno dalla stessa parte
dei nostri alleati arabi. È necessario quanto prima mettere nella stessa stanza l’I-
ran con i nostri alleati nella regione, compiendo lo stesso sforzo fatto per rag-
giungere l’accordo sul nucleare, ma questa volta con l’obiettivo di spegnere gli
incendi che alimentano il jihadismo. E se questo farà arrabbiare i pompieri incen-
diari, pace. Continuiamo a provare, oggi è davvero in gioco la nostra sicurezza.
Infine, laddove possibile, bisogna sostenere coalizioni locali o singoli attori che 169
UNA STRATEGIA ALTERNATIVA IN CINQUE PUNTI
la lotta all’Is la fanno davvero. Non è sempre possibile, ma in alcuni casi è im-
portante non spararci sui piedi, per esempio lasciando che la Turchia bastoni gli
stessi curdi che lanciano offensive di terra contro l’Is.
Una lettura e una strategia alternativa a quelle della «guerra al terrorismo,
parte seconda» sono possibili, anche se inevitabilmente imperfette. Si può fare
pressione per realizzarle, ma senza farsi troppe illusioni. L’unica speranza è che
con questi attacchi così estesi contro Turchia, Russia (e indirettamente Egitto),
Õizbullåh, Francia e Iran, lo Stato Islamico si sia fatto troppi nemici. Cerchiamo
di impedire che questi attori si facciano attirare nella trappola tesa dai jihadisti.
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170
LA STRATEGIA DELLA PAURA
LA BRUTTA CHINA
DELLO STATO D’ECCEZIONE di Paolo RAFFONE
La minaccia terroristica giustifica una deriva securitaria che
maschera fini geopolitici e rischia di far regredire l’Europa. L’uso
storico e giuridico del concetto di terrorismo. Le incongruenze
di Hollande. I Patriot Acts all’europea sono una pessima idea.
1. goo.gl/TifKNt 171
LA BRUTTA CHINA DELLO STATO D’ECCEZIONE
Nel mondo non esiste ancora una definizione del «terrorismo» globalmente
condivisa ed accettata. Dopo l’assassinio dell’arciduca Ferdinando a Sarajevo nel
1914 e quelli negli anni Trenta a Marsiglia di un re iugoslavo e di un ministro de-
gli Esteri francese, nel 1937 la Lega delle Nazioni tentò una definizione condivisa,
ma non fu mai adottata 2. Dal 1996 le Nazioni Unite hanno tentato senza succes-
so di raggiungere un accordo per una Convenzione mondiale sul terrorismo. At-
tualmente esistono oltre cento definizioni diverse di terrorismo. Inoltre sono state
redatte una decina di convenzioni settoriali dell’Onu sul terrorismo e ogni orga-
nizzazione regionale si è dotata di strumenti per la lotta al «terrorismo».
Nonostante ciò, si possono inquadrare certe questioni importanti relative al
terrorismo. È in qualche modo terroristico un tentativo destituente del potere
costituito, ma anche un tentativo rivoluzionario, benché costituente nelle aspira-
zioni. In entrambi i casi si tratta di fatti eccezionali e di tentativi tesi al cambia-
mento della direzione politica di una società. Tranne qualche riferimento storico
di rivoluzione riuscita, anche se con effetti solo nel breve periodo, è bene non
dimenticare che tutti gli altri casi di organizzazioni o azioni «terroristiche» desti-
tuenti hanno fallito nel loro obiettivo politico diretto. Invece è solo il potere co-
stituito che può fare uso, in casi eccezionali (minaccia o azioni «terroristiche»), di
atti destituenti da esercitarsi senza i vincoli delle leggi. Non a caso, ad ogni
evento definito dal potere costituito come «terroristico» segue una dose di ecce-
zionalità nell’esercizio del potere stesso.
Paradossalmente, l’eccezionalità «terroristica» si trasferisce dunque al potere
costituito che adotta decisioni eccezionali, concentrando funzioni tali da evitare il
tracollo del sistema. Alle azioni di «terrorismo» (il male) si contrappongano quelle
legittime, perché sovrane, di controterrorismo (il bene). Negli antichi regimi me-
dioevali esisteva un gran numero di trattati sugli angeli che distinguevano in mo-
do inequivocabile e assoluto il bene dal male. Invece, nei regimi democratici le
definizioni sono sfumate, ambigue, incerte. La democrazia (il bene) è qualificata
prevalentemente attraverso la tecnica dell’amministrazione, cioè la tecnica del
potere. Il terrorismo (il male) è qualificato come un fenomeno che si manifesta
attraverso l’esercizio della violenza, anche armata, in modo illegittimo e illegale,
per incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e destabilizzarne
l’ordine, mediante attentati, rapimenti, dirottamenti di aerei e simili.
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2. La Convenzione all’articolo 1 definisce il terrorismo come «criminal acts directed against a State
and intended or calculated to create a state of terror in the minds of particular persons or a group of
persons or the general public». È interessante notare che il grande dibattito e i documenti di allora sono
172 sostanzialmente gli stessi che cinquant’anni più tardi sono stati usati dall’Onu per lo stesso scopo.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
netto delle pratiche e tattiche usate nell’esercizio delle due attività e degli effetti
diretti e indiretti, violenti e terrorizzanti che ne conseguono, la vera posta in gio-
co tra le due antitetiche pratiche è l’esercizio del potere costituito stesso.
Per queste ragioni, la reazione tipica di quest’ultimo di fronte ad attacchi o
minacce di tipo «terroristico» è decretare lo stato d’eccezione, che Carl Schmitt,
secondo Giorgio Agamben, descriveva come «la forma legale di ciò che non
può avere forma legale» 3. Definizione pregnante, ma non valida in tutti i regimi.
Infatti, ai nostri tempi lo stato di eccezione subisce un trattamento diverso nelle
tradizioni giuridiche dell’Occidente. Vi sono ordinamenti che regolano lo stato
di eccezione nella costituzione o mediante una legge (come la Francia e la Ger-
mania) e ordinamenti che ne omettono la regolamentazione (quali l’Italia, la
Svizzera, il Regno Unito e gli Stati Uniti) 4. Nei primi si può legalmente sospen-
dere la legge, nei secondi è puro atto d’imperio, extralegale. Non è un formali-
smo perché se lo stato d’eccezione non è assimilato al diritto, si legittimano tutti
gli atti politici che, pur essendo evidenti violazioni dei codici, rimangono in uno
stato di indeterminazione giuridica solo per il fatto di essere commessi nell’am-
bito dello stato d’eccezione. L’insindacabilità degli atti metagiuridici compiuti
nello spazio temporale decretato dallo stato d’eccezione crea una norma per cui
la politica è superiore al diritto e all’etica pubblica di cui il diritto rappresenta la
traduzione istituzionale, convalidata dalla volontà generale.
3. Veniamo ora alla guerra globale al terrorismo. Negli Stati Uniti la definizio-
ne di terrorismo è cambiata nel tempo ed è contenuta in vari atti legislativi che
presentano diversità interpretative e concettuali non marginali. Il più recente è il
cosiddetto Patriot Act del 2001, adottato tempestivamente dal Congresso in segui-
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to all’attacco alle Torri Gemelle. Il testo originale riguarda la definizione del ter-
rorismo qualificato come domestic, sia che si svolga sul suolo americano che al-
trove nel mondo 7. Le conseguenze dell’applicazione di questa legislazione anti-
5. goo.gl/6enEsl
6. N. WATT, «Tony Blair Makes Qualified Apology for Iraq War ahead of Chilcot Report», The Guar-
dian, 25/10/2015.
7. Activities that (A) involve acts dangerous to human life that are a violation of the criminal laws of
the U.S. or of any state; (B) appear to be intended (i) to intimidate or coerce a civilian population;
(ii) to influence the policy of a government by intimidation or coercion; or (iii to affect the conduct
of a government by mass destruction, assassination, or kidnapping; and (C) occur primarily within
174 the territorial jurisdiction of the U.S.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
terrorismo alle libertà civili, inclusa la libertà di espressione, i diritti degli immi-
grati, le transazioni monetarie, la ricerca e lo scambio di informazioni, i dati per-
sonali e la tutela della privacy, sono diventate note con il caso Edward Snowden.
I poteri di spionaggio dei servizi segreti americani sono stati considerevolmente
ampliati non solo sul territorio nazionale, ma anche all’estero. In pratica, si tratta
di una legislazione che ha istituzionalizzato uno stato di eccezione semiperma-
nente, con estensione internazionale.
È infatti proprio dall’entrata in vigore di questa legge che la percezione del
terrorismo è diventata di «minaccia alla pace e alla sicurezza mondiale». I lunghi
quattordici anni di durata dello stato d’eccezione americano hanno portato al li-
mite la tensione tra le forze del contratto sociale e quelle della auctoritas, crean-
do uno spazio non giuridico nel quale le agenzie di sicurezza hanno potuto agire
indisturbate e non sempre allineate al potere politico. I casi dei centri di deten-
zione in Iraq o a Cuba sono esemplificatori, ma anche le attività di controterrori-
smo che hanno condotto alla creazione di eserciti paralleli all’interno di più di un
paese e contro i governi legittimi. Le situazioni in Afghanistan, Siria e Libia sono
in contraddizione con le legislazioni adottate dopo le catastrofiche esperienze in
Vietnam, Iran e in Nicaragua (affare Contras), che prevedevano una limitazione
delle «attività di interferenza» diretta negli affari interni di un paese terzo.
La guerra globale al terrorismo non sembra aver ancora raggiunto il suo
obiettivo principale: doveva distruggere al-Qå‘ida ma ha creato l’Is e un intreccio
di altre sigle terroristiche più o meno collegate tra loro. Invece, la macchina è di-
ventata disfunzionale nella relazione tra apparati militari e di sicurezza da un lato
e la politica dall’altro. Intanto, come avvertiva Giorgio Agamben, il mondo sta
scivolando in una «guerra civile mondiale» 8.
In Francia si è fatto un uso ricorrente dello stato di eccezione dal dopoguer-
ra a oggi. Secondo la costituzione francese, che regola l’esercizio dello stato d’ec-
cezione, ne esistono vari livelli di applicazione, distinguibili in due grandi cate-
gorie: état d’urgence (regolato dalla legge del 1955, deroga al rispetto di alcune
norme costituzionali e legislative e amplia i poteri di prefetti governativi e forze
di sicurezza in un tempo e spazio determinati); état de siège (il solo di rango co-
stituzionale, trasferisce ai vertici militari il potere di governo del territorio). Ecco
un elenco della sua applicazione recente: 1955 (état d’urgence in seguito agli at-
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tentati del novembre 1955 compiuti dal Fronte di liberazione nazionale algerino;
fu prorogato per 6 mesi); 1958 (état d’urgence in seguito al colpo di Stato in Al-
geria, proclamato per tre mesi sull’insieme del territorio nazionale); 1961-1963
(état d’urgence in seguito al colpo di Stato in Algeria, proclamato da de Gaulle
su tutto il territorio nazionale); 1984 (l’allora primo mininstro Laurent Fabius de-
creta l’état d’urgence in Nuova Caledonia, territorio d’Oltremare amministrato
dalla Francia); 2005 (il presidente Jacques Chirac decreta l’état d’urgence in se-
guito alle rivolte delle minoranze etniche, principalmente di religione islamica,
nelle periferie parigine; il decreto restò in vigore dall’8 novembre 2005 al 4 gen-
naio 2006); 14 novembre 2015 (François Hollande e il Consiglio dei ministri adot-
tano l’état d’urgence su tutto il territorio nazionale, inclusa la Corsica e tutti i do-
mini d’Oltremare; Hollande ha anche chiesto di modificare la costituzione per ri-
durre le limitazioni regolamentari nell’esercizio dell’état d’urgence).
Il 16 novembre 2015, subito dopo gli attentati di Parigi, il presidente Hollan-
de ha pronunciato un discorso al parlamento francese nel quale ha identificato
nell’Is un «nemico misurabile su un territorio» che ha «commesso atti di guerra in
Francia» 9. Si tratta di un’affermazione perentoria, insindacabile e sovrana. D’altra
parte, era anche l’unica che gli avrebbe permesso di dichiarare che «la Francia è
in guerra» (anche se la Francia era già in guerra contro al-Qå‘ida dal 2001 e poi
contro il «califfato» in Iraq dal 2014). Ciò preoccupa, visto che la Francia è un pae-
se membro dell’Onu, dell’Ue e della Nato, ma con la dichiarazione di guerra del
2015 ha agito tramite un atto militare di autodifesa per anticipazione (pre-
emptive), cercando solo dopo il sostegno dei suoi partner e alleati. Ad eccezione
delle dichiarazioni di «solidarietà» dell’Ue (ex articolo 42.7 del Trattato di Lisbona),
un atto dovuto ma dalle conseguenze pratiche limitate, nessun’altra organizzazio-
ne ha condiviso la posizione francese. Le due superpotenze, Stati Uniti e Russia,
si sono limitate a disporre «una forma di cooperazione di intelligence» con la
Francia per sostenerla nel corso dei bombardameti sulle postazioni dell’Is in Siria.
Sul piano giuridico, la decisone francese di bombardare le postazioni «terro-
riste» in Siria non trova conforto nelle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza del-
l’Onu. La sola norma internazionale alla quale può fare appello Parigi è l’autodi-
fesa prevista dall’articolo 51 della Carta, ma l’azione militare della Francia sem-
brerebbe piuttosto un’autodifesa per anticipazione, che esula dall’articolo 51.
Mentre la Russia è presente in Siria in base all’invito esplicito del legittimo go-
verno siriano di Damasco e gli Stati Uniti in Iraq in base alle risoluzioni Onu e
all’invito del governo di Baghdad, la Francia è intervenuta in Siria senza alcuna
solida base legale. Un atto di potere sovrano metagiuridico che rischia di avere
conseguenze indirette sull’Unione Europea: ristabilire la sovranità nazionale, co-
me ha fatto Hollande, significa farlo anche nei confronti delle strutture sovrana-
zionali, come l’Ue 10.
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in Siria, ma era ben noto ai servizi di sicurezza francesi (Dgse) sin dal 2008,
quando fu arrestato e poi nel 2012 in relazione agli attentati di Tolosa 11.
Molto strano è anche che il solitamente ben informato sito Site non abbia
pubblicato alcun video di rivendicazione da parte di esponenti di rango dell’Is,
mentre il 22 novembre è circolato in rete un video attribuito all’organizzazione
dal titolo Parigi è crollata, con voci e sottotitoli in francese nel quale si rivendica-
no gli attentati del 13 novembre e se ne annunciano di nuovi 12. In uno dei sotto-
titoli si legge «noi non vogliamo fare la guerra a voi ma alle trasgressioni dei vo-
stri sistemi». Il riferimento sembrerebbe chiaramente diretto alle politiche medio-
rientali della Francia e non al suo popolo, stile di vita o libertà. Quanto all’affer-
mazione che gli atti terroristici siano stati «organizzati in Belgio», ciò si scontra
con le affermazioni delle «autorità belghe che non hanno rilevato alcuna perico-
losità dei soggetti presuntamente coinvolti» 13.
Intanto, anche il Belgio ha dovuto imporre un parziale état d’urgence e com-
piuto raid e perquisizioni extragiudiziarie in vari quartieri di Bruxelles. Questi at-
tacchi sono stati «condotti con dei complici sul territorio francese» è un’afferma-
zione sorprendente. Quali complici e in che settori, ruoli o ambiti? In ogni caso è
una chiara ammissione dell’inefficienza delle forze di sicurezza francesi prima
degli attacchi. Questa affermazione sembra riferirsi a quello spazio vuoto in cui
sia il terrorismo sia il controterrorismo agiscono. Un’affermazione molto inquie-
tante che dovrebbe suscitare domande precise da parte degli organi comunitari e
degli altri Stati membri dell’Ue. Inoltre, poiché dopo l’attentato del 7 gennaio
2015 al giornale satirico Charlie Hebdo la Francia affermò di avere le prove che
«l’azione era stata preparata da al-Qå‘ida in Yemen», perché Parigi non ha iniziato
a bombardare questa organizzazione?
La terza considerazione riguarda la richiesta, del tutto illegittima, di sostituire
il presidente siriano al-Asad. Inoltre, la Francia si propone di fare una guerra «do-
vunque nel mondo» contro i terroristi, ma poi dichiara di voler «liberare le popo-
lazioni di Siria e Iraq». E perché non tutte le altre in almeno una ventina di paesi
che subiscono gli stessi effetti drammatici e violenti dell’Is e dei suoi affiliati?
Sembra che il riferimento solo a Siria e Iraq sia una scelta deliberata di Hollande.
Per quali ragioni? Il presidente afferma poi che il suo intervento militare contro il
«terrorismo ovunque nel mondo» serve affinché le «autorità di questi paesi possa-
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11. F. DEZZANI, «Quel filo che unisce i terroristi del 13/11 ai servizi segreti francesi», blog di Federico
Dezzani, 20/11/2015; «Attacchi Parigi, voce rivendicazione Isis è di jihadista francese», AskaNews,
17/11/2015
12. https://youtu.be/pbfb9az2YPQ
13. «La Belgique avait interrogé les deux frères Abdeslam avant les attentats», LeSoir, 18/11/2015. 177
LA BRUTTA CHINA DELLO STATO D’ECCEZIONE
5. La Francia ha dunque subìto degli attacchi di tipo terroristico sul suo ter-
ritorio che difficilmente avrebbero potuto mettere in pericolo la tenuta del siste-
ma istituzionale. L’inondazione di je suis Paris e je n’ai pas peur testimoniano di
una reazione sana della popolazione non solo francese, ma anche musulmana
residente in Europa. In realtà è solo il concetto americano di terrorismo, quello
del Patriot Act, che espande a dismisura la tipologia e l’intenzionalità di atti che
possono essere considerati come «terrorismo». Nella tradizione giuridica e cultu-
rale dei paesi europei una tale impostazione è difficilmente ricevibile, se non
imponendola con lo stato di eccezione. Finanche il modello di common law bri-
tannico ha creato solo dei limitati casi di eccezione alla legge ordinaria, mentre
la maggior parte del lavoro è svolto attraverso le attività delle agenzie di sicurez-
za e dell’antiterrorismo 14.
Inoltre, vige comunque il principio generale della proporzionalità della rea-
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14. I casi di spionaggio di massa compiuti dalle agenzie britanniche per la sicurezza hanno genera-
178 to una valanga di critiche e di reazioni delle popolazioni, ma anche di alcuni partiti politici.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
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15. «Shame on UN Security Council’s P-5 Members!», Indian Punchline, 21/11/2015. 179
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LA STRATEGIA DELLA PAURA
LA BATTAGLIA
DI PARIGI di Virgilio ILARI
Noi europei siamo pedine di un processo di demolizione degli Stati
creati nel dopoguerra. Abbiamo lasciato che si frantumassero gli
argini che ci proteggevano nella guerra fredda. Ripeteremo gli
errori degli americani e impareremo a vivere come gli israeliani.
1. Nel film Ogro, sull’attentato basco a Carrero Blanco, girato l’anno del rapimento e dell’uccisione
di Aldo Moro. 181
LA BATTAGLIA DI PARIGI
torirai con dolore» oppure «Nascita di una nazione»). Fu però il regista a imprimere
al film l’effetto drammatico e documentaristico di un cinegiornale, non solo giran-
dolo in bianco e nero e con una cinepresa da 16 mm, ma sgranando l’immagine,
specialmente in alcune scene. Tranne Jean Martin (nel ruolo del colonnello
Mathieu), tutti gli altri sono attori non professionisti (tra cui Ibråhøm Õaããåã nel
ruolo di Ali Lapointe; Yacef Saadi interpreta se stesso con il nome di «Ãa‘far»).
Il film racconta l’inizio della rivoluzione algerina, in particolare l’operazione
militare condotta dalla 10a Divisione paracadutisti comandata dal generale Massu,
per circoscrivere la ribellione e riprendere il controllo della Qaâaba. Un netto suc-
cesso militare, ma conseguito anche mediante la tortura e le esecuzioni extragiu-
diziali, come ha ammesso e rivelato il generale Aussaresses in un libro del 2001.
Pur apertamente schierato dalla parte algerina, il film rappresenta con equilibrio e
obiettività la strategia dei repressori e lo sdegno degli europei vittime degli atten-
tati terroristici, né tace il passato di delinquente e prosseneta dell’eroe algerino
(Ali Lapointe).
Nel film non ci sono «buoni» e «cattivi»; proprio per questo, c’è un’alta tensio-
ne morale. Tortura, esecuzioni, terrorismo sono raccontati come cruda cronaca,
sia dal punto di vista degli autori sia da quello delle vittime, segnalando allo spet-
tatore che la verità e la comprensione storica rappresentano, come la tragedia, un
ampliamento di coscienza e sono perciò eticamente superiori al pregiudizio ideo-
logico o moralistico. Lo spettatore vede che il comandante dei parà (il colonnello
Mathieu) e il capo dell’Fln (Ãa‘far) si confrontano senza odio, con reciproca sti-
ma; mentre i giornalisti (inclusi quelli comunisti) che contestano a entrambi i ri-
spettivi sporchi metodi sono presentati come ambigui o ipocriti. «Il punto non è
se dobbiamo o no usare la tortura: il punto è se l’Algeria deve o no restare fran-
cese», ribatte il colonnello. «I vostri bombardieri uccidono la nostra gente. Dateci i
vostri bombardieri e noi vi daremo i nostri cestini bomba», risponde il capo dell’-
Fln. Con suspense drammatica, lo spettatore vede le donne dell’Fln che si prepa-
rano per la loro missione di morte, stirandosi i capelli e truccandosi per confon-
dersi con le europee; passano i posti di blocco con la bomba nascosta nel pas-
seggino del figlio o depistata da un sorriso malizioso; scelgono le vittime al bar o
all’aeroporto. Queste ultime scene furono però tagliate nella versione proiettata in
Algeria, segno che il terrorismo era un problema anche per chi lo aveva impiega-
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to. Del resto, il vero innesco della guerra non fu la battaglia di Algeri (gennaio-ot-
tobre 1957) ma furono le stragi di Costantina del 20 agosto 1955 (123 vittime fran-
cesi e 7.500 algerine), iniziate da un esponente regionale dell’Fln per provocare
l’iperreazione francese e determinare così il punto di non ritorno.
commesso con il kalashnikov anziché con cestini bomba, e da martiri maschi an-
ziché da donne partigiane. La differenza non sta nei dettagli tecnici, ma nella po-
sta in gioco.
Paradossalmente, l’Fln rappresentava la vera giustificazione e il compimen-
to della missione civilizzatrice che la Francia si era arrogata nel 1830. I suoi va-
lori erano quelli della Rivoluzione francese del 1789 e della Giovane Europa
mazziniana (con Garibaldi che ancora nelle sue Memorie si esaltava per il «gio-
vane romano» che aveva pugnalato il riformista Pellegrino Rossi): la nazione, la
democrazia e il socialismo, declinazioni non scindibili e non contrapponibili
della sovranità popolare. La vera chiave del film, nella prospettiva algerina,
non va cercata nelle scene che ci impressionano, quelle degli attentati, delle
torture e dell’intervista a Ãa‘far. Il passaggio che dà il senso politico e storico
alla guerra è invece quello del matrimonio rivoluzionario, il primo celebrato in
forma laica e da un rappresentante dell’Fln: un gesto che proclama la nuova le-
gittimità nata dalla lotta e la speranza di una nuova vita personale e comunita-
ria. Naturalmente questa era la visione della componente più nazionalista dell’-
Fln, non quella della fazione capeggiata da Ben Bella (Bin Billa), panaraba e
meno laica. Ma in definitiva la posta in gioco, in quella guerra, era l’indipen-
denza, la rivendicazione di un rapporto paritario e dignitoso con la Francia, per
la quale oltre centomila algerini erano coraggiosamente caduti e che aveva in-
segnato ai capi dell’Fln i valori per cui si battevano.
Combattuta esclusivamente con il terrorismo e la guerriglia, la guerra di libe-
razione nazionale provocò 400 mila vittime algerine e 32 mila francesi (inclusi
3.600 civili) e fu, come sempre accade, anche una duplice guerra civile, non solo
tra nazionalisti e collaborazionisti, ma anche tra le varie fazioni nazionaliste: tra i
200 mila algerini immigrati in Francia vi furono 4 mila morti e 12 mila feriti 2, con-
tro i 57 uccisi dalla polizia il 17 ottobre 1961 a Parigi. Ripetutamente sconfitti sul
campo e infine respinti in Marocco e Tunisia da un potente surge di oltre mezzo
milione di uomini, gli 8 mila superstiti dell’Fln resistettero abbastanza a lungo da
vincere la battaglia per conquistare i cuori e le menti. Non solo degli algerini, ma
della stessa opinione pubblica francese, logorando le risorse finanziarie e la deter-
minazione del governo nemico, isolato dagli alleati e sabotato dagli Stati Uniti, an-
che con l’attivo concorso della grande Italia democristiana di Enrico Mattei – che
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lo pagò con la vita. Fu lo stesso de Gaulle – salito al potere nel maggio 1958 in
reazione a un putsch militare capeggiato dal generale Salan e con il programma,
inizialmente condiviso dallo stesso Partito comunista, di salvare l’Algeria francese
– a volere il referendum che l’8 gennaio 1961 approvò l’autodeterminazione del-
l’Algeria, a reprimere il secondo putsch dei generali, ad aprire i negoziati segreti
con il governo provvisorio della Repubblica Algerina che condussero all’indipen-
denza e, infine, a stroncare la resistenza dell’Oas (Organizzazione armata segreta),
2. B. STORA, Les Immigrés algériens en France: une histoire politique, 1912 à 1962, Paris 2009, Ha-
chette Littérature/Pluriel. 183
LA BATTAGLIA DI PARIGI
3. R. PIERRET, Les Filles et fils de harkis: Entre double rejet et triple appartenance, Paris 2008, L’Har-
mattan; V. CRAPANZANO, The Harkis: The Wounds that Never Heal, Chicago 2011, University of Chica-
go Press.
4. S.A. DENDANE, Déclin et renouveau: Algérie 1962-2007, Paris 2008, Publibook.
5. Si vedano le confessioni del colonnello algerino H. SOUAÏDIA, La sale guerre, Paris 2001, La Dé-
couverte.
6. T. DELTOMBE, L’Islam imaginaire: La construction médiatique de l’islamophobie en France, 1975-
2005, Paris 2013, La Découverte.
7. J.A. SELBY, Questioning French Secularism: Gender Politics and Islam in a Parisian Suburb, New
184 York 2012, Palgrave Macmillan.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
8. E. GOULD, P. FITZGERALD, Crossing Zero: The AfPak War as the Turning Point of the American Em-
pire, San Francisco 2013, City Lights Books.
9. T. ALI (a cura di), Masters of the Universe? NATO’s Balkan Crusade, London-New York 2000, Ver-
so; D. JOHNSTONE, Fools’ Crusade: Yugoslavia, Nato, and Western Delusions, New York 2003, New
York University Press. 185
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LA STRATEGIA
DELLA PAURA
Parte III
la FRANCIA
in GUERRA CAMBIA
l’ EUROPA
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LA STRATEGIA DELLA PAURA
REQUIEM
PER SCHENGEN di Fabrizio MARONTA
Con pericolo jihadista e flussi migratori avremo a che fare a lungo.
Chiudere ognuno le proprie frontiere per frenarli sposta indietro le
lancette dell’integrazione. A rischio la libera circolazione di persone
e cose, la lenta ripresa economica e il peso geopolitico dell’Europa.
1. G. PELOSI, «Juncker: «Sospensione di Schengen prevista dal Trattato, non confondere terroristi e ri-
fugiati»», Il Sole 24 Ore, 15/11/2014. 189
REQUIEM PER SCHENGEN
2. I. TRAYNOR, «Germany Border Crackdown Deals Blow to Schengen System», The Guardian,
13/9/2015.
3. T. DURDEN, «Italy Is “Willing to Temporarily Suspend Schengen” in Response to Refugee Crisis»,
190 Zero Edge, 2/9/2015.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
questo volume). Se concordiamo sul fatto che tali fenomeni giustifichino sospen-
sioni ripetute e prolungate del regime di libera circolazione, è tale regime a esse-
re messo in discussione. E con esso il tipo di unione che siamo andati faticosa-
mente costruendo.
Le voci che reclamano una marcia indietro stanno diventando un coro assor-
dante, complice un pericoloso effetto domino che rischia di sfuggire di mano. La
decisione tedesca ha creato un «ingorgo migratorio» in Austria e in Ungheria:
quest’ultima, oltre a sigillare i suoi confini con Serbia e Croazia, ha introdotto il
reato di immigrazione clandestina e si è opposta fermamente al sistema di riparti-
zione (quote) pensato per alleviare la pressione sui principali paesi riceventi (Ita-
lia e Grecia) e sulla stessa Germania, che sinora ha accolto oltre un milione di
persone. Il cancelliere austriaco Werner Faymann, poi, ha accusato il governo
ungherese di «comportamento nazista»4 e ha inasprito i controlli al valico di Spiel-
feld con la Slovenia, mentre il ministro dell’Interno Johanna Mikl-Leitner ha la-
mentato che l’Austria è sopraffatta dai migranti perché «la Germania non ne acco-
glie abbastanza»5. Il primo ministro sloveno Miro Cerar ha replicato annunciando
la costruzione di una barriera al confine con la Croazia – da cui solo nelle due
settimane successive alla chiusura del confine croato-ungherese sono entrate ol-
tre 100 mila persone – e criticando fortemente Zagabria. Così mentre la Bulgaria
iniziava la costruzione del suo muro ai confini con la Turchia e mentre Romania
e Serbia minacciavano di fare altrettanto, con il greco Tsipras che denunciava
«l’incapacità dell’Europa di gestire questo dramma umano» 6, nella civile Scandina-
via volavano gli stracci, con Stoccolma che accusava la Danimarca di consentire
ai rifugiati di raggiungere la Svezia senza i documenti in regola. Dopo gli attenta-
ti di Parigi, anche l’accogliente paese nordico ha così sospeso Schengen.
Tra le prese di posizione più dure contro il sistema di quote spicca quella
della Polonia. Varsavia si guarda bene dal criticare Schengen, essendone uno dei
principali beneficiari, ma domenica 15 novembre il neoministro per gli Affari eu-
ropei Konrad Szymánski ha ammonito che «dopo gli attacchi di Parigi la Polonia
non può accettare il sistema di ripartizione dei migranti senza adeguate garanzie
di sicurezza» 7. Un sostanziale cambio di rotta, giunto all’indomani delle elezioni
che hanno visto il trionfo degli euroscettici di Diritto e giustizia (Pis). Pochi gior-
ni prima (30 settembre) la Slovacchia – che presiederà il Consiglio europeo da
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luglio a dicembre 2016 e in cui a marzo si vota per le politiche – aveva annun-
ciato, per bocca del premier Robert Fico, la sua intenzione di appellarsi alla Cor-
te di giustizia europea contro il piano di ripartizione dei profughi, dati gli «enor-
mi rischi di sicurezza connessi all’immigrazione» 8.
4. Ibidem.
5. E. GRAHAM-HARRISON, «Still the Refugees Are Coming, but in Europe the Barriers Are Rising», The
Guardian, 31/10/2015.
6. Ibidem.
7. «Poland Says Cannot Accept Migrants under EU Quotas after Paris Attacks», Reuters, 14/9/2015.
8. «Slovakia Pushes Ahead with Legal Action over EU Refugee Quotas», EurActiv, 1/10/2015. 191
REQUIEM PER SCHENGEN
essere messo in discussione, ancora una volta, è dunque il basilare principio del-
la «libera circolazione», ovvero il diritto delle persone di circolare e di soggiornare
liberamente nel territorio degli Stati membri.
3. Come se la tempesta non fosse già abbastanza forte, piove sul bagnato. La
spinta autarchica si inserisce in un quadro caratterizzato dal generale arretramen-
il 5%. Il presidente della Bce Mario Draghi ha recentemente sottolineato che l’Eu-
ropa sperimenta una ripresa economica diffusa, ma lenta. Una ripresa che, dopo
aver puntato tutto sulla competitività e sulle esportazioni in ossequio al modello
tedesco imposto attraverso le politiche di austerità, si trova ora a dipendere quasi
unicamente dalla domanda interna, essendosi fermato l’export verso i paesi
12. S. LUND, T. DARUVALA ET AL., Financial Globalization: Retreat or Reset?, McKinsey Global Institute,
marzo 2013.
13. Quarterly Report on the Euro Area, Commissione europea, vol. 14, n.1, luglio 2015.
14. B. BERNANKE, «Europe Has a Bigger Problem to Fix than Greece’s Debt», Business Insider,
17/7/2015. 193
194
FINL. Area Schengen
FORTEZZA EUROPA NORVEGIA
Paesi candidati
Stato Islamico SVEZIA Barriere costruite o in costruzione
EST.
Barriere in progetto
LETT. RUSSIA Barriere intorno ai passaggi di frontiera
DANIMARCA Muri intorno a Ceuta e Melilla
LIT. Paesi area Schengen che hanno
PA ripristinato i controlli alle frontiere
REQUIEM PER SCHENGEN
ES
IB
BE . BIELORUSSIA Rotta balcanica
Aree sotto controllo Is LG POLONIA
IO GERMANIA Rotta dei profughi siriani
Aree di sostegno Is in larga
parte desertiche e disabitate Calais LUSS. Isole di approdo dei profughi
UCRAINA e dei migranti
Campo migranti REP. CECA
”New Jungle” SLOV.
SVIZZ. AUSTRIA
UNGH.
FRANCIA ROMANIA
CROAZIA
ITALIA Mar Nero Mar
SPAGNA BULGARIA
PORTOGALLO Caspio
2.797 Salonicco
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Sardegna Lesbos
GRECIA
Mar Mediterraneo
142.400 673.916 ATENE Chios TURCHIA
Sicilia Samos
Ceuta 82
Lampedusa Agathonisi
(Spagna) MALTA
Melilla Kalymnos Simi SIRIA IRAN
2.870 Kos
(Spagna) TUNISIA
Tylos LIBANO
105 547
ISRAELE IRAQ
ALGERIA GIORD.
Tripolitania
ARABIA
SAUDITA ©Limes
L I B I A
EGITTO 142.400 2.870
Fezzan Cirenaica Numero di migranti e di profughi Numero di migranti e di profughi
arrivati in Europa attraverso scomparsi nello Stretto di Gibilterra,
la Spagna, l’Italia, Malta e la Grecia. nel Mar Mediterraneo e nel
MALI (periodo, gennaio-novembre 2015) Mar Egeo. (Periodo gennaio-novembre 2015)
Dati Unhcr aggiornati al 14/11/15 Dati Imo aggiornati al 14/11/15
LA STRATEGIA DELLA PAURA
emergenti, a loro volta colpiti dal rallentamento cinese. Come evidenziano i dati
Destatis, Insee e Istat usciti proprio il 13 novembre e relativi al terzo trimestre
2015, in nessuna delle tre maggiori economie europee – Germania, Francia e Ita-
lia – la domanda estera ha contribuito alla crescita del pil. Anzi, nel caso francese
il contributo è stato addirittura negativo (-0,5%) 15.
Per l’Italia (come per la Germania) pesano le sanzioni alla Russia. Nell’ultimo
anno (agosto 2014-agosto 2015) l’export italiano verso la Federazione Russa ha
perso infatti il 19%; nel secondo semestre del 2015, in particolare, il calo è stato
del 28,5%16. Ora, i rinnovati venti di guerra che spirano in Medio Oriente potreb-
bero compromettere ulteriormente l’interscambio commerciale tra l’Ue e i cosid-
detti paesi Enp-South (Algeria, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Libia, Marocco,
Palestina, Siria, Tunisia), dove ancora nel 2014 l’Italia figurava come secondo
esportatore (dopo la Francia) con 18,1 miliardi di euro, e come primo verso Liba-
no, Libia e Siria17.
A ricordare che la ripresa italiana è appesa a un filo ci ha pensato anche
Wolfgang Münchau sul Financial Times18. Dopo aver sottolineato che il pil italia-
no è tornato ai livelli del 2000 (una contrazione del 9% rispetto al 2008), l’ascol-
tato commentatore si dice scettico sulla «cura Renzi» per tre motivi: i dati Istat po-
co confortanti; la sostanziale insolvenza di molte banche medio-piccole, dato l’al-
to tasso di crediti in sofferenza (10%); le scelte politiche del governo, che privile-
giano il taglio a effetto delle tasse sulla casa rispetto a un’incisiva riforma di giu-
stizia e pubblica amministrazione (come attestano, al contrario, le dimissioni in
serie dei commissari alla spending review). Se nel 2016 la domanda aggregata
dovesse essere minore del previsto, le stime sul deficit italiano (2,2-2,4% del pil)
potrebbero rivelarsi troppo ottimistiche. La flessibilità sugli obiettivi di bilancio
faticosamente concordata con Bruxelles (l’obiettivo originale per il 2016 era un
deficit all’1,4%) andrebbe così a farsi benedire. Salvo non voler rubricare ogni ul-
teriore sforamento sotto la voce «spese militari e di sicurezza», momentaneamente
sottratte al patto di stabilità su pressione di Parigi.
In un momento come questo, di tutto abbiamo bisogno fuorché di gettare
alle ortiche quanto di più avanzato il processo d’integrazione europea abbia sa-
puto produrre sinora. Perché sarebbe economicamente dannoso. Perché potreb-
be risultare geopoliticamente esiziale per le sorti dell’Ue. E perché se cediamo le
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DIECI TESI
SULLA GUERRA
E LA FRANCIA di Manlio GRAZIANO
L’errore di considerare L’Is uno Stato e di muovergli guerra.
I peculiari jihadisti di casa. Le tentazioni elettorali di Hollande. Le
derive razziste e crociate. L’imitazione degli Stati Uniti d’America
senza essere gli Stati Uniti d’America.
1. Useremo d’ora in poi questa sigla per mere ragioni di praticità. Il movimento di Abu Bakr al-
Baôdådø è anche noto come Isil, Stato Islamico (Is) e Då‘ish, che non è altro che l’acronimo arabo
di Isil. Fino agli attentati del 13 novembre, in Francia, solo l’estrema destra usava – per esteso – la
forma «Stato Islamico», mentre gli altri si riferivano a un meno espressivo Då‘ish. 197
DIECI TESI SULLA GUERRA E LA FRANCIA
senza essere rappresentati come Stato. Quello dell’Is si configura come il control-
lo provvisorio di un territorio da parte di un gruppo mafioso, che ha stabilito un
forte legame di protezione clientelare con una parte della popolazione di quello
stesso territorio.
La guerra c’è, effettivamente, ma non a Parigi: è una guerra per quel territo-
rio e in quel territorio, cioè quel pezzo di Grande Siria che va da Aleppo a Mo-
sul, passando per Raqqa; un territorio la cui storica continuità fu spezzata da bri-
tannici e francesi alla fine della prima guerra mondiale. Per quel territorio si stan-
no combattendo – direttamente o indirettamente – alcune potenze locali (Arabia
Saudita e Iran essenzialmente, con un ruolo importante della Turchia). E su quel
conflitto intervengono alcune grandi potenze (Russia, Francia e Stati Uniti princi-
palmente), affidandosi spesso ad attori locali che non dispongono di uno Stato, o
che dispongono solo di un residuo di Stato (il governo di Ba44år al-Asad, il go-
verno di Baghdad, i curdi, svariate milizie locali e, appunto, l’Isis).
Quegli attori locali ricevono aiuti e legittimazione dall’estero, sia da parte di
altri Stati che da parte di individui i quali, per ragioni diverse, abbandonano i lo-
ro paesi d’origine per raggiungere l’una o l’altra delle parti in conflitto (ci sono
volontari anche tra i peshmerga curdi).
L’Isis appare forte perché accumula più circostanze favorevoli: esiste in
grazia dello stato di deliquescenza in cui si trovano la Siria e l’Iraq, gode di ap-
poggi più o meno espliciti da parte di alcune potenze regionali, e mercanteggia
con tutti (secondo alcuni persino con il governo di al-Asad). Ma, soprattutto,
attira volontari dal mondo in quantità assolutamente incomparabili rispetto ai
suoi nemici, grazie, essenzialmente, alla sua ostentazione di una granitica iden-
tità religiosa.
Cafeteria islam. Molti teologi, musulmani e non, affermano che l’Isis usurpa
e insudicia la religione a cui pretende di richiamarsi. Ma ogni religione, ogni te-
sto sacro, può essere interpretato per affermare tutto e il suo contrario. Per cento
teologi secondo cui l’islam proibisce di uccidere gli innocenti, vi sono cento teo-
logi secondo cui tra gli infedeli non vi sono innocenti. Nel caso dell’islam sunni-
ta, l’assenza di un filtro clericale tra il fedele e il testo sacro moltiplica le interpre-
tazioni virtualmente per il numero stesso dei fedeli. E fa sì che ogni fedele scelga
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l’islam che più si confà alle proprie necessità, alle proprie aspettative e al proprio
temperamento. Non è il fedele che si adatta ai dettami della religione, ma è la re-
ligione che viene spiegazzata per adattarla ai bisogni del fedele.
Il successo dell’Isis sul piano delle motivazioni non può dunque essere fatto
risalire alla qualità più o meno pura della sua predicazione religiosa. Deve essere
fatto risalire alla sua capacità di trasmettere un messaggio rispondente alle esi-
genze spicciole di individui alla disperata ricerca di un’appartenenza identitaria
collettiva forte in cui annegare la propria vacuità identitaria personale.
L’aspirante tagliagole raggiunge l’Isis perché essenzialmente animato da
198 una sete di vendetta contro un mondo nel quale la sua esistenza è zero: è un
LA STRATEGIA DELLA PAURA
fallito paranoico, che ritiene gli altri colpevoli del suo fallimento e che si vuole
vendicare. La sua vita non vale nulla e quindi pensa che la vita degli altri non
valga nulla. L’Isis gli offre una giustificazione aureolata di santità: non solo po-
trai sfogare tutto il tuo furore distruttivo, ma lo potrai fare in nome di una cau-
sa santa. L’aspirante tagliagole, in particolare francese, è generalmente un so-
ciopatico, incapace di svolgere una qualunque attività, compresa la piccola ma-
novalanza delinquenziale; privo di pretesti religiosi, sarebbe rimasto un prepo-
tente ma insignificante teppista di strada. Molto più gratificante, per un fallito,
essere un combattente di una causa santa, piuttosto che un teppista marginale.
Uno specialista della materia, Sebastian Rotella, raccontava recentemente che
uno degli aspiranti tagliagole tornato dalla Siria si era così spiegato: «A me non
interessa l’islam; a me interessa il jihåd».
2. La stima più bassa è proposta da The Economist, in un articolo del 30 agosto 2014, mettendo in-
sieme fonti diverse. La più alta risulta da un’inchiesta dell’International Centre for the Study of Radi-
calisation pubblicata il 26 gennaio 2015 («Foreign Fighters Total in Syria/Iraq Now Exceeds 20,000;
Surpasses Afghanistan Conflict in the 1980s»). I dati forniti dal ministro dell’Interno (457 in loco, più
320 in transito verso la Siria e 278 rientrati in Francia, senza contare i 521 «in attesa di partire») sono
riportati da Le Monde del 12 giugno 2015.
3. Le cifre reali sono indisponibili perché i sondaggi basati sulla confessione sono illegali in Francia.
Nonostante ciò, il ministero dell’Interno avanza un’ipotesi di cinque milioni, su cui ci siamo basati;
le stime di altre fonti oscillano tra i tre e i sette milioni. 199
DIECI TESI SULLA GUERRA E LA FRANCIA
sacro di Charlie Hebdo, ha dichiarato a France 24 di essere stupita che due per-
sone così debilitate mentalmente fossero riuscite a portare a termine quell’ope-
razione. In effetti i due, nel corso della loro azione, hanno sbagliato due volte
indirizzo degli uffici del giornale (prima il numero civico e poi il piano), uno
dei due ha perso una scarpa scappando, l’altro ha dimenticato la carta d’identità
in macchina, e nessuno si è preso cura di prevedere un rifugio per la fuga. L’al-
tro assassino, Ahmedi Coulibaly, intanto, invitava i suoi ostaggi ebrei al super-
mercato kosher a «tornare in Israele», mostrando di non avere la più pallida idea
del punto di vista arabo sulla situazione nel Vicino Oriente. All’atto di rivendica-
re gli attentati, gli uni hanno fatto riferimento ad al-Qå‘ida, l’altro all’Isis, nono-
stante che le loro azioni fossero certamente concertate. In aprile, l’aspirante at-
tentatore di Villejuif, Sid Ahmed Ghlam, si è sparato in una coscia prima di por-
tare a termine il suo attacco. Insomma, un’armata Brancaleone di incapaci e di
ignoranti. La cui preparazione religiosa non può non far pensare a quella di due
giovanotti di Birmingham, Yusuf Sarwar e Mohammed Ahmed, che avevano or-
dinato su Amazon una copia di Islam for Dummies e di The Koran for Dummies
prima di partire per la Siria.
4. Dal 1° gennaio 2015, le Zus sono state abolite e sostituite dai Quartiers prioritaires de la politique
200 de la ville (Qpv), con il raddoppio del numero dei «quartieri sensibili» (da 751 a 1.300).
LA STRATEGIA DELLA PAURA
Il 2005 prossimo venturo. Il vero rischio politico sta nel fatto che una parte
della popolazione francese, tenuta ai margini della società, potrebbe un giorno
entrare in ebollizione.
Non è solo un problema di «ghetti», di Zus, di Qpv o di qualsivoglia altro
acronimo amministrativo; è un problema più generale, di natura sociale, beninte-
so, ma anche politica e identitaria. Da alcuni anni è in corso in Francia una siste-
matica stigmatizzazione delle tradizioni e delle credenze dei cittadini di cultura
musulmana: dalle imposizioni vestimentarie si è arrivati fino, in certi sporadici
ma significativi casi, al divieto del doppio menù nelle scuole elementari che ser-
vono carne di maiale. Alcuni politici – a dispetto del dogma della laicità – parla-
no ormai senza ritegno della Francia come di un paese «di tradizione cristiana», o
addirittura di «razza bianca». Insomma, dai francesi di tradizione musulmana si
esige un’incondizionata adesione a «valori» che qualcuno si sforza, al tempo stes-
so, di render loro sempre più estranei e, possibilmente, ostili.
Gli attentati di Londra del 2005 furono compiuti da cittadini britannici; dal
Belgio e dalla Danimarca partono proporzionalmente più volontari in Siria che
dalla Francia. Questi due esempi dimostrano che l’assimilazionismo formale fran-
cese (che fa corrispondere carta d’identità e identità) non procura necessaria-
mente più danni del multiculturalismo (per il quale ogni gruppo etnico e religio-
so è libero di coltivare le proprie tradizioni). Nel caso francese, tuttavia, occorre
tener conto di un’altra specificità: la piaga ancora aperta della guerra d’Algeria,
53 anni dopo la fine dei combattimenti. Un’identità è fatta non solo di interessi e
valori condivisi, ma anche di una storia condivisa. Se due (o più) categorie di
persone presenti in seno a uno stesso paese non condividono né interessi né va-
lori né storia, la possibilità stessa di una «comunità nazionale» sarà solo, nella mi-
gliore delle ipotesi, un pio desiderio e, nella peggiore, un randello politico per
gli uni e un incubo per gli altri.
L’aspirante tagliagole francese non è, oggi, un prodotto diretto di questa
realtà, ma, in questa realtà rischia di trovare un giorno un retroterra fertile. Tutti i
catechisti laici predicano incessantemente l’unione della comunità nazionale, ma
molte delle loro misure hanno come conseguenza – in certi casi voluta – la sua
frantumazione. Il rischio – e in certi casi lo scopo – è quello di alimentare le con-
dizioni per il ripetersi di una rivolta come quella del 2005: una jacquerie sotto-
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DIECI TESI SULLA GUERRA E LA FRANCIA
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tendosi nella scia dei politici della destra francese che, dopo il 13 novembre,
hanno riscoperto l’urgenza semantica di accoppiare l’aggettivo «islamico» al so-
stantivo terrorista.
Si possono avanzare alcune ipotesi sulle ragioni di questa dichiarazione di
guerra, che non si escludono le une con le altre. La prima, e la più evidente, è
che François Hollande stia cercando di elevarsi al livello della Quinta Repubbli-
ca. L’idea di procedere a una riforma costituzionale tradisce in modo abbastanza
trasparente la speranza di controbilanciare una popolarità disastrosamente bassa
con ambizioni di taglio gollista. In questo tentativo di risalir la china giocano sia
le preoccupazioni elettorali sia la frustrazione personale di un uomo presentatosi
agli elettori come «presidente normale», per scoprire poi a suon di sondaggi cata-
strofici che la Quinta Repubblica aborre i presidenti normali come la natura
aborre il vuoto. Solo un clima da union sacrée, quale quello che si è creato dopo
gli attentati del 13 novembre, può consentire un tentativo del genere.
Una seconda ipotesi potrebbe riguardare l’indefessa volontà della Francia di
sottrarsi ai vincoli di bilancio europei. Già dopo gli attentati di gennaio il proget-
to di ristrutturazione militare – concepito per ridurre la spesa pubblica – era stato
ritirato; oggi, Hollande annuncia 600 milioni di spese supplementari affermando
che il «patto di sicurezza è più importante del patto di stabilità». Il presidente
francese sa bene che i margini di reazione dei guardiani delle stabilità, a Fran-
coforte, Bruxelles e Berlino, sono in questo frangente quantomai limitati. Insom-
ma, Draghi, Junker e Merkel non possono alzare troppo la voce con Hollande,
così come Sarkozy e Le Pen non lo possono fare in Francia. Il presidente france-
se non ha mai avuto margini di manovra così ampi né all’interno né all’estero.
La Francia «gioca in casa» quando si tratta del suo ex impero coloniale africa-
no e in Libano. Ma inserendosi nelle crisi in Libia e in Siria, ha fatto delle sortite
fuori dal suo antico pré carré 5. Questo può voler dire solo due cose: o la Francia
è ridiventata così forte da potersi permettere di penetrare nelle sfere di influenza
altrui, oppure è così debole da fare sempre più come l’Italia, cioè approfittare di
tutti i varchi aperti dagli altri.
La caratteristica principale delle relazioni internazionali degli ultimi venticin-
que anni è il ripiego delle due superpotenze: brusco e catastrofico quello del-
l’Urss, graduale ma inesorabile quello degli Stati Uniti. Nei vuoti che si sono crea-
ti in Medio Oriente si sono gettati tutti: dalla Turchia all’Iran e all’Arabia Saudita,
persino il Qatar. Anche a Parigi si stanno cercando gli angoli morti per tentare di
trarre vantaggio da questa situazione.
Les liaisons dangereuses. Il fatto è che, come gli italiani sanno bene, il gioco
di rimessa – puntare più sulle debolezze altrui che sulla forza propria – paga po-
co e male: primo perché si tratta, appunto, di una debolezza contro un’altra debo-
lezza, per cui il risultato è aleatorio (vedi guerra in Libia); secondo, perché co-
stringe, e questo gli italiani lo sanno proprio bene, a cambiare alleanze in corso
d’opera, per seguire il flusso delle opportunità. In Siria, la Francia ha invocato l’at-
tacco contro al-Asad a fianco degli americani, poi si è unita alla «coalizione inter-
nazionale» contro l’Isis, poi si è platealmente schierata con l’Arabia Saudita nella
fase finale dei negoziati con l’Iran, in maggio, poi ha mandato 134 imprenditori (e
due ministri) in Iran in settembre, poi, nel giro di pochi giorni dopo gli attentati,
ha chiesto il coinvolgimento dell’Europa sulla base dell’articolo 42-7 dell’Ue, trat-
tandolo come l’articolo 5 della Nato, e infine ha stretto un’alleanza di fatto con la
Russia amica di al-Asad, magari con la speranza, en passant, di far infuriare gli
americani. Come si dice, la boucle est bouclée.
In politica, e in politica internazionale ancor di più, le liaisons sono sempre
dangereuses. Gli attentatori dell’11 settembre provenivano in maggioranza dall’A-
rabia Saudita ed erano protetti dai taliban, creature del Pakistan. Ma gli Stati Uniti
sono gli Stati Uniti, e l’accordo con l’Iran del luglio scorso potrebbe segnalare
che la vendetta è pur sempre un piatto che si mangia freddo. In febbraio, la
Francia ha reso omaggio al generale golpista egiziano ‘Abd al-Fattåõ al-Søsø – un
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Pinochet delle piramidi, che ha spinto alla clandestinità migliaia di attivisti islami-
ci – vendendogli 24 dei suoi Rafale (il finora invenduto aereo da caccia multiruo-
lo prodotto dalla Dassault); in maggio, ha assicurato il suo sostegno ai sauditi
nella guerra in Yemen e, negli stessi giorni, ha finalizzato la vendita di altri 24
Rafale al Qatar. L’11 novembre, due giorni prima degli attentati, il capo di Stato
maggiore dell’Aviazione degli Emirati Arabi Uniti ha annunciato che la trattativa
per l’acquisto di 63 Rafale era entrata nella fase finale.
5. Vero che la Siria è stata protettorato francese dal 1920 al 1945, come il Libano, ma dopo la fine
della guerra i legami con Damasco si sono distesi fino a sparire, mentre quelli con Beirut sono ri-
204 masti a lungo vivaci.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
Fare gli Stati Uniti senza essere gli Stati Uniti. Da ultimo: la Francia risponde
al terrorismo in casa propria con un’azione militare in Medio Oriente. In patria,
sta adottando il suo Patriot Act, comprensivo, a quanto pare, di una Guantanamo
francese. La nemesi dei più fieri oppositori a George W. Bush nel 2003 è crudele.
Il problema è che gli Stati Uniti, pur essendo gli Stati Uniti, nel 2003 hanno com-
binato un disastro. Voler fare gli Stati Uniti senza essere gli Stati Uniti non fa pro-
prio presagire nulla di buono.
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205
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LA STRATEGIA DELLA PAURA
L’ISLAMIZZAZIONE
DELL’(IN)SICUREZZA
NAZIONALE IN FRANCIA di Daniele SANTORO
L’equazione fra terrorismo e musulmani è frutto di decenni di
attentati. Tra le cause le scelte strategiche di Parigi, il fallimento
dell’assimilation e l’inadeguatezza delle pratiche antiterroristiche.
La differenza fra Charlie Hebdo e 13 novembre.
di Edoardo BALDARO e Silvia D’AMATO
M
Con questo titolo l’antropologa francese Dounia Bouzar ci ricorda il pericolo di
ONSIEUR ISLAM N’EXISTE PAS 1.
1. D. BOUZAR, Monsieur Islam n’existe pas, Paris 2004, Hachette Litt. 207
L’ISLAMIZZAZIONE DELL’(IN)SICUREZZA NAZIONALE IN FRANCIA
cese. Sono anche gli anni cui Edward Said fa riferimento quando parla della pri-
ma ondata di orientalismo 2. Un islam semplificato, positivamente caricaturato e
affascinante. Soprattutto, un islam lontano.
È l’esperienza coloniale che forza la Francia a pensare quale spazio concede-
re alle rappresentanze religiose. La soluzione è l’assimilation, la promessa di com-
pleta uguaglianza per gli individui civilizzati «capaci» di riconoscersi nel patto re-
pubblicano. Un modello la cui eredità si ritrova ancora oggi, nonostante mostras-
se le sue crepe già nei primi anni Venti, in molti aspetti della cultura francese.
La vera sfida sul territorio francese si presenta con la fine della seconda
guerra mondiale e con il boom economico bisognoso di manodopera. Masse di
lavoratori maghrebini, principalmente dall’Algeria, si stabiliscono in Francia, ma
con l’idea di fare ritorno nella madrepatria, prospettiva che mette temporanea-
mente fra parentesi le istanze di carattere religioso. La musica cambia nel 1965,
quando viene concesso il diritto di ricongiungimento familiare: durante la prima
metà degli anni Settanta iniziano i primi movimenti associativi a connotazione re-
ligiosa, principalmente di natura sindacale. A inizio anni Ottanta sono invece i
giovani a proporre nuove forme di associazionismo, basate principalmente su un
attivismo di quartiere (la successiva popolarità del pensiero di Tariq Ramadan 3
ne è un esempio). Il 1981 rappresenta un momento di svolta. È l’anno in cui vie-
ne riconosciuto il diritto per gli stranieri di riunirsi pubblicamente in associazioni.
In pochi anni si concretizzano, così, le domande di riconoscimento istituzionale
a carattere religioso.
Il tipico approccio centralizzatore francese spinge il governo a formulare ini-
ziative dall’alto per «organizzare l’organizzazione dell’islam». Sull’onda di una se-
rie di eventi internazionali, come l’affaire Rushdie e la progressiva presa di pote-
re del Fis (Fronte islamico di salvezza) in Algeria, si organizza nel 1990 il primo
Consiglio di riflessione sull’islam di Francia (Corif). È poi il futuro presidente Ni-
cholas Sarkozy, allora in veste di ministro dell’Interno, a proseguire tale cammino
sino alla fondazione nel 2003 del Consiglio francese del culto musulmano (Cfcm)
– non un’istituzione religiosa, ma un’entità incaricata di interloquire con l’autorità
francese sulle questioni di «interesse musulmano». Come interpretare la rappre-
sentanza riconosciuta tramite questo organismo? Nonostante il Cfcm rivendichi di
parlare a nome di circa 3,5 milioni di fedeli francesi, questa rappresentatività è
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4. Discorso del 30 luglio 2002 presso il Senato della Repubblica francese in occasione della discus-
sione del progetto di legge di programmazione e orientamento della sicurezza interna.
5. Secondo alcuni osservatori, la prima esperienza di terrorismo islamico in Francia si sarebbe avuta nel
corso della guerra d’Algeria (1954-62). In realtà durante la sale guerre il fattore di conflitto verteva intor-
no all’identità nazionale e la vera posta in gioco era l’autodeterminazione politica del popolo algerino.
6. J. SHAPIRO, B. SUZAN, «The French Experience of Counter-Terrorism», Survival, 45, 1, 2013, pp. 67-98.
7. L’attentato, condotto con l’uso di un pacco bomba abbandonato davanti all’obiettivo, prese di mi-
ra una delle sinagoghe di Parigi e causò la morte di 4 persone e il ferimento di altre 11. 209
L’ISLAMIZZAZIONE DELL’(IN)SICUREZZA NAZIONALE IN FRANCIA
a metà anni Novanta il Gia dichiara takfør tutti coloro che – musulmani e non, ci-
vili o militari – non l’appoggiano apertamente. E decide di adottare una strategia
di «guerra totale» con stragi e attentati sul territorio nazionale e non solo.
Tra il 1994 e il 1996, anche la Francia, accusata di sostenere i militari golpisti,
diventa vittima delle operazioni del Gia. Diversi attentati, tra cui un dirottamento
aereo e alcune bombe nella metropolitana di Parigi, sconvolgono nuovamente il
8. M. KRAMER, D. CENTER, «France and Middle Eastern Terrorism», Terrorism and Political Violence, 2,
4, 2010, pp. 574-580.
9. In dieci anni, a seconda delle stime la guerra civile algerina ha causato tra le 60 mila e le 150 mi-
210 la vittime.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
10. O almeno cosi verrà percepito. Una possibile contronarrazione potrebbe far notare come le ac-
cuse mosse alla Francia di sostegno ai militari e al governo golpista algerini non fossero prive di
fondamento, rendendo il paese parte in causa nel conflitto. Spingendo ancora più in là il campo
delle ipotesi, se la strategia di delegittimazione interna e internazionale perseguita dalla Drs nei
confronti del Gia e di tutto il movimento islamista attraverso l’uso di infiltrati venisse confermata,
anche gli attentati condotti contro la Francia assumerebbero un significato diverso.
11. D. BIGO, A. TSOUKALA, Illiberal Practices of Liberal Regimes: The (In)security Games. A multilin-
gual Series, Paris 2006, L’Harmattan.
12. La France face à ses Musulmans: jihadisme et dépolitisation, International Crisis Group, Rapport
Europe 172, 2006.
13. Vedi «Islam in France», Euro-Islam: News and Analysis on Islam in Europe and North America,
disponibile su www.euro-islam.info/country-profiles/france 211
212
QUARTIERI DI FRANCIA FUORI CONTROLLO NORD
Lilla: Faubourg de Béthune,
59 Belfort, Moulins, L’Epi du Soleil
SEINE-MARITIME Roubaix: L’Alma-Gare,
59 NORD Tourcoing: La Bourgogne Le Havre: Montgaillard, La Forêt, Hommelet, Fosses-aux-Chênes, Cul du Four
Numero dipartimento/Nome dipartimento Mare Rouge, Bois de Bléville Tourcoing: La Bourgogne
Rouen, Les Hauts: Lombardie, 80 SOMME
Località/quartiere problematico Amiens: Quartier Nord
Le Châtelet, La Grand’Mare
76 OISE
60
VAL-D’OISE Creil, Les Hauts: Plateau Rouher,
Argenteuil: Le Val-d’Argent Les Cavées, Zac du Moulin
Garges-les-Gonesse: Dame Blanche, La Muette BAS-RHIN
Sarcelles: Les Lochères 67
PARIGI Strasburgo: Hautepierre, Neuhof
HAUTS-DE-SEINE ÎLE-DE-FRANCE
Gennevilliers: Le Luth
Nanterre: Pablo Picasso SEINE-SAINT-DENIS HAUT-RHIN
Aubervilliers: Les Quatre Chemins 68 Mulhouse, Boutzwiller: Brossolette,
Aulnay-sous-Bois: Les 3000 Les Coteaux
PARIGI Clichy-sous-Bois - Montfermeil:
18e: La Goutte d’Or – Barbès Le Grand Ensemble F R A N C I A
19e Flandre: Curial-Cambrai, 95 Epinay-sur-Seine: Orgemont
Riquet, Stalingrad 44
La Courneuve: Les 4000
93 Pierreftte-sur-Seine:
92 Les Poètes (Cité Rose) LOIRE ATLANTIQUE
75 Saint-Denis: Les Francs-Moisins Nantes, Saint-Herblain: Bellevue RHÔNE
L’ISLAMIZZAZIONE DELL’(IN)SICUREZZA NAZIONALE IN FRANCIA
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
Champigny- Arago, Cordon, 8 mai 1945, Soubise,
Dhalenne, Charles Schmidt, 69
sur-Marne:
Le Bois l’Abbé, Paul Vaillant – Zola ISÈRE
Mordacs 78 Sevran: Les Beaudottes Grenoble, Echirolles : La Villeneuve
91 Stains: Clos Saint-Lazare – Allende 38
Vitry-sur Seine: 77 (Arlequins, Baladins, Village olympique,
Balzac, Malherbe-Les Essarts, Surieux), Mistral
Marronniers HÉRAULT GARD
Montpellier: Nîmes: Zup Pissevin,
YVELINES Valdegour ALPES MARITIMES
La Paillade, L’Ariane
Les Mureaux: Hauts de Massane 06
Bougimonts, ESSONNE SEINE-ET-MARNE
Vigne Blanche, Meaux: Beauval, 30 84
Corbeil-Essonne:
Les Musiciens Les Tarterêts Pierre Collinet 31
Mantes-la-Jolie: 34 VAUCLUSE
Evry: Les Pyramides 13 Avignone: La Rocade,
Le Val Fourré Grigny: La Grande Borne,
Trappes: Barbière, Croix des Oiseaux,
Grigny 2 BOUCHES DU RHÔNE Monclar, Saint-Chamand
Les Merisiers Marsiglia 3e: Bellevue (Félix Pyat)
Marsiglia 11e: Bel-Air
HAUTE GARONNE Marsiglia 13e: Frais Vallon,
Toulouse, Le Grand Mirail: La Rose, Petit Séminaire
Tasso di povertà in percentuale (2012) Marsiglia 14e: Picon, La Busserine,
Reynerie, Bellefontaine, Faourette,
più del 20 dal 13 al 17 Bagatelle, Bordelongue Font Vert, Le Mail, Les Flamants, Iris
Marsiglia 15e: Bassens, La Castellane,
dal 17 al 20 dallo 0 al 13 La Bricarde, La Solidarité, Parc Kallisté
LA STRATEGIA DELLA PAURA
del luglio 2005 a Londra, i quattro attentatori avevano rispettivamente 19, 21, 23
e 29 anni. Risposte di antiterrorismo che garantiscano il dovuto peso a questo fe-
nomeno sono dunque fondamentali. Tuttavia, in molti considerano controprodu-
cente usare simili misure. Da una parte, l’attenzione rischia di focalizzarsi eccessi-
vamente sul tassello finale, l’anello operativo, perdendo di vista la complessità
della catena organizzativa. Dall’altra, queste pratiche rischiano di generare stig-
matizzazioni e di fomentare lo stesso fenomeno che intendono combattere 14.
La questione della gioventù musulmana, inoltre, si è manifestata con forza in
altre due dimensioni che vale la pena di menzionare: la conversione, spesso du-
rante periodi di detenzione, e la radicalizzazione tramite Internet e social network.
Come evidenzia il recente rapporto presentato alla Commissione Libe del
Parlamento europeo («Prevenire e contenere la radicalizzazione dei giovani nel-
l’Ue»), lo sviluppo di pensieri radicali in periodi di detenzione è un fatto certo.
Non si tratta, tuttavia, di una manifestazione nuova o legata prettamente all’estre-
mismo religioso, come dimostrano i casi degli attivisti Raf in Germania o dei
membri dell’Ira nord-irlandese. Inoltre, la conversione, come provano molti casi
empirici, sembra essere associata al malessere della vita in prigione. La ricerca
spirituale, quindi, pare più verosimilmente un tentativo di risposta e resistenza al
sistema penitenziario.
Lo stesso rapporto parla anche del «mito della autoradicalizzazione». Sebbene
le nuove tecnologie e la sempre più facile comunicazione transnazionale abbia-
no sicuramente un ruolo importante nelle scelte di propaganda, il loro ruolo nel
causare comportamenti violenti dovrebbe essere ridimensionato. Al contrario di
quanto sostenuto da molti esponenti politici, infatti, la comunicazione online non
sembra essere sufficiente a sviluppare una radicalizzazione violenta. Questa, in-
fatti, necessita di un’interazione umana fisica, oltre a una predisposizione partico-
lare dell’individuo.
Dunque, il fil rouge che unisce i tanti aspetti legati al terrorismo è la neces-
sità di reinserirli all’interno del contesto di socialità in cui emergono. È impossibi-
le comprendere questi fenomeni senza tenere in giusta considerazione il peso
delle relazioni sociali, positive o negative, che li costituiscono. Soffermarsi sulle
diverse sfaccettature permette anche di considerare il ruolo dei rapporti di potere
tra i diversi attori coinvolti. Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
14. Uno degli aspetti più problematici che l’insieme di questi report specializzati denuncia riguarda
la serie di «molestie» per i continui controlli di identità e i poteri di fermo e perquisizione (stop and
search) che colpiscono principalmente i giovani musulmani, si veda R. CAMILLERI, Impact of Counter-
Terrorism on Communities: France Background Report, London 2012, Institute for Strategic Dialo-
gue and Open Society Foundations. 213
L’ISLAMIZZAZIONE DELL’(IN)SICUREZZA NAZIONALE IN FRANCIA
I CRISTIANI IN FRANCIA
REGNO
UNITO
BELGIO
Lilla
GERMANIA
Amiens
LUSS.
Rouen
Caen Metz
PARIGI Strasburgo
Rennes
Orléans
Nantes Digione Besançon
SVIZZERA
F R A N C I A
Poitiers
AIN
Clermont-Ferrand
o Limoges
tic Lione
tl an ITALIA
no A
Ocea
Bordeaux
Montpellier
Toulouse
Marsiglia
o
ra ne
ed iter C o r s i c a
Mar M
Cattolici 80 - 100%
Ajaccio
Cattolici 50 - 79% SPAGNA
Maggioranza protestante
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
G u a d a l u p a Saint-Denis
Cayenne
Fort-de-France
R i u n i on e G u y a na
M a r t i n i ca Fr a nc e s e
Basse-Terre
214 Brasile
LA STRATEGIA DELLA PAURA
per ribadire il rifiuto della subordinazione dell’islam in Francia e nel mondo. Più
operativa quella lanciata dallo Stato Islamico (Is), una risposta all’intervento fran-
cese in Siria.
Soprattutto, l’Is è molto diverso dal suo predecessore. Al-Qå‘ida nasceva in-
fatti dall’aggregazione di un network globale di combattenti recatisi in Afghani-
15. O. ROY, «La peur d’une communauté qui n’existe pas», Le Monde, 1/9/2015.
16. Per un’interessante e approfondita analisi sull’islam politico, si veda M. CAMPANINI, Oltre la demo-
crazia, Temi e problemi del pensiero islamico contemporaneo, Milano 2014, Mimesis.
17. R. ASLAN, «Bill Maher Isn’t the Only One Who Misunderstands Religion», The New York Times,
8/10/2014. 215
L’ISLAMIZZAZIONE DELL’(IN)SICUREZZA NAZIONALE IN FRANCIA
18. Numerosi studi sono stati fatti in merito, ma per un sintetico e interessante approfondimento si
veda A.K. CRONIN, «ISIS is not a Terrorist Group: Why Counterterrorism Won’t Stop the Latest Jihadist
216 Threat», Foreign Affairs, 94, 2, marzo-aprile 2015, pp. 87-98.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
NEL LABIRINTO
DELLE SPIE FRANCESI di Luca MAINOLDI
Le agenzie di intelligence della Quinta Repubblica sono troppe,
poco coordinate, tendenti a sovrapporre le proprie competenze.
Due riforme in cinque anni attendono di essere assorbite. Hollande
ricorre agli omicidi mirati. L’allarme del magistrato Trévidic.
1. G
LI ATTENTATI DEL 13 NOVEMBRE HANNO
colto la comunità di intelligence francese ancora una volta di sorpresa, dopo gli
attacchi di gennaio contro Charlie Hebdo e il minimarket Kosher. Come è possi-
bile che diverse squadre di terroristi ben armate e addestrate abbiano potuto col-
pire simultaneamente nel centro della capitale francese?
Eppure le autorità d’Oltralpe sapevano che la minaccia era reale. A fine
settembre Marc Trévidic, ex giudice antiterrorismo, in un’intervista «profetica» a
Paris Match affermava che Då‘i4 preparava «azioni di ampia portata» 1, aspiran-
do al «Prix Goncourt del terrorismo»: insomma un attentato di forte impatto
emotivo, paragonabile all’11 settembre. Così è avvenuto. Gli stessi servizi anti-
terrorismo francesi, dopo gli attacchi simultanei con prese di ostaggi in più luo-
ghi avvenuti nel 2008 a Mumbai, in India, avevano iniziato a pianificare rispo-
ste operative ad attacchi di questo genere. Nel 2009 si era svolta un’esercitazio-
ne antiterrorismo che prevedeva uno scenario simile a quello effettivamente
avvenuto a Parigi il 13 novembre: attacchi simultanei con kamikaze, sparatorie
in luoghi pubblici e centinaia di persone prese in ostaggio. La simulazione pre-
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
vedeva l’intervento congiunto dei reparti speciali della polizia (Raid, Gipn, Bri)
e della gendarmeria (Gign).
Ma i recenti attentati hanno messo in luce lo scarso coordinamento fra le
diverse agenzie di intelligence francesi, non sempre capaci di dialogare e di
collaborare pienamente, tendendo anzi a sovrapporsi fra loro. Questo è anche
il frutto di due riforme del settore in cinque anni, il cui impatto deve ancora es-
sere assorbito.
1. F HELBERT, «On manque d’hommes pour neutraliser les terroristes», Paris Match, 30/9/2015. 217
NEL LABIRINTO DELLE SPIE FRANCESI
sco per riallacciare i rapporti in funzione antiterrorismo. Nel frattempo però la Si-
ria come Stato unitario è scomparsa e probabilmente i servizi di al-Asad, anche
se volessero, avrebbero poco da offrire ai loro omologhi francesi rispetto ai mo-
vimenti di jihadisti che si spostano tra lo Stato Islamico e il resto del mondo pas-
sando per la Turchia. Con quest’ultima i rapporti sono migliorati dopo la visita
ad Ankara il 26 settembre 2014 del ministro dell’Interno, Bernard Cazeneuve. Se-
condo il citato rapporto del Senato la collaborazione franco-turca è buona ma
può essere migliorata, anche perché per Ankara la priorità è la lotta al Pkk e non
alle filiere jihadiste. Tra l’altro si dovrà verificare come e perché le informazioni
che la Turchia afferma di aver fornito alla Francia su alcuni dei terroristi del 13
novembre non siano state sfruttate dagli organi di sicurezza d’Oltralpe.
PRESIDENTE
DELLA REPUBBLICA
Eliseo
Ministro Ministro
TRACFIN del Budget dell’Interno DGGN
(Sfruttamento (Direzione generale
dell’intelligence Ministro della gendarmeria
e azione contro della Difesa nazionale)
i circuiti fnanziari
clandestini).
DGSI
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220
LA STRATEGIA DELLA PAURA
rata dai socialisti. La prima riforma ha creato una vera e propria comunità di in-
telligence francese coordinata da un alto funzionario che risponde al presidente
(grafico).
Per quanto riguarda la sicurezza interna e la lotta al terrorismo, i due servizi
interessati, la Direction de la surveillance du territoire e i Renseignements Géné-
raux (Rg) sono stati fusi in una nuova organizzazione, la Direction centrale du
renseignement intérieur (Dcri). Si è trattato in realtà di un assorbimento da parte
della Dst dei Rg, sotto la direzione di Bernard Squarcini, uomo di fiducia di
Sarkozy, che aveva svolto buona parte della sua carriera di funzionario di polizia
nei Renseignements Généraux ed era stato nominato nel 2007 alla direzione del-
la Dst. In teoria era l’uomo giusto per fondere le due organizzazioni dalle menta-
lità e metodologie diverse, un processo che ha preso comunque tempo e che
probabilmente non è stato concluso. La Dst, nata nel 1944 nella Francia in corso
di liberazione, era incaricata del controspionaggio interno e in seguito anche del-
la lotta al terrorismo sponsorizzato da Stati stranieri (come alcuni gruppi palesti-
nesi, ad esempio quello di Abû Niîål, che ha avuto diversi sponsor non solo me-
diorientali). I Rg erano invece «gli occhi e le orecchie» dei prefetti. Conducevano
inchieste sociali che spesso sconfinavano nel vero e proprio spionaggio politico
(costituzione di dossier su uomini e partiti politici). Sul piano dell’antiterrorismo i
Rg si concentravano sulla minaccia interna: la sinistra radicale dopo il Sessantotto
e Action Directe negli anni Settanta e Ottanta, per poi concentrarsi sui movimenti
di tipo jihadista, finendo però per sconfinare nel terreno dell’organizzazione riva-
le. La Dst infatti ha lavorato sul terrorismo di matrice islamista che ha colpito la
Francia negli anni Ottanta e Novanta. In particolare, sugli attentati che colpirono
Parigi nel 1995, attribuiti al Gia algerino. Per contrastare la minaccia del Gia, la
Dst aveva sviluppato un forte legame con il Département du renseignement et
de la sécurité (Drs) algerino, scavalcando la Dgse, il servizio esterno francese. Il
legame tra Dst e Drs non è stato esente da critiche da parte di coloro che sospet-
tano forti manipolazioni del Gia da parte del potere algerino.
Tra l’altro la presenza di due organizzazioni concorrenti nel campo dell’anti-
terrorismo ha permesso ai servizi di altri paesi di giocare sulle rivalità interne fran-
cesi, scambiando informazioni con la Dst e non con i Rg e viceversa. Per questi
motivi si è dunque deciso di razionalizzare l’organizzazione dedicata al contro-
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spionaggio interno e all’antiterrorismo, creando la Dcri, che è tra l’altro l’unica or-
ganizzazione abilitata a scambiare informazioni con le controparti straniere sul ter-
rorismo che potrebbe colpire il territorio nazionale. In realtà la duplicazione tra
servizi interni non è scomparsa, anzi si è forse accentuata. La riforma del 2008 ha
infatti creato la Sdig (Sous-direction de l’information générale), che riprende le
funzioni essenziali dei vecchi Rg. La differenza fondamentale è che la Sdig non è
inserita nella nuova comunità di intelligence. Quindi si rischia di creare un nuovo
cortocircuito informativo che potrebbe impedire l’afflusso di informazioni essen-
ziali per sventare attentati. Inoltre la Préfecture de police, la polizia della capitale,
che da sempre gode di una forte autonomia rispetto alla direzione centrale della 221
NEL LABIRINTO DELLE SPIE FRANCESI
mento tra servizi dipende ancora troppo dalla buona volontà dei singoli funzio-
nari. La moltiplicazione delle strutture di coordinamento non ha posto fine alla
reciproca diffidenza tra le diverse articolazioni dell’intelligence, forse le ha addi-
rittura accentuate. Il rapporto Dominati sottolinea tra l’altro la debolezza dell’in-
telligence di «prossimità», assegnata all’Scrt e alla Sdao della gendarmeria, proprio
quella forma di raccolta informativa che sarebbe necessaria per controllare i gio-
vani islamisti radicali nelle banlieues.
La tendenza sembra quella di puntare sulla sorveglianza elettronica, soprat-
tutto dei social media, condotta con mezzi sempre più sofisticati autorizzati da
222 due leggi di recente approvazione. La legge sull’intelligence (Loi sur le rensei-
LA STRATEGIA DELLA PAURA
fatto gli americani a Guantanamo. Questa strada a mio avviso farebbe il gioco
di coloro che combattiamo, fornendo argomenti ai sentimenti antioccidentali e
antifrancesi».
La risposta dura promessa da Hollande dopo gli attacchi del 13 novembre
andrà in questa direzione, spingendosi a seguire gli americani anche nelle ucci-
sioni extragiudiziali al di fuori del territorio nazionale? Secondo un libro inchiesta
recentemente apparso per la firma di Vincent Nouzille 4, Hollande, al pari di
Obama, disporrebbe da tempo di una lista di «nemici dello Stato» da eliminare.
Una pratica che risalirebbe agli albori della Quinta Repubblica (che a sua volta
ha ripreso pratiche già diffuse nella Quarta) e che si sarebbe evoluta nel tempo.
Le operazioni Homo (da Homicide) dei servizi esteri francesi sono infatti una
consuetudine che rimonta ai tempi della Main Rouge, misterioso gruppo terrori-
stico che assassinava i dirigenti dell’Fln algerino e soprattutto i trafficanti (in gran
parte tedesco-occidentali, guarda caso) che vendevano loro le armi. Dietro la
Main Rouge si celava il Service action (Sa) dell’allora Service de documentation
extérieure et de contre-espionnage (Sdece, poi divenuto Dgse nel 1982). L’attuale
Sa dispone sia di un vero e proprio reparto militare per operazioni clandestine,
suddiviso in una componente terrestre, una marittima e una aerea (Gam 56) sia
di un nucleo di operativi che agiscono sotto la massima copertura, le cellule
Alpha. Queste ultime sono formate da persone, debitamente addestrate, che non
hanno nessun legame apparente con la Dgse, vivono una vita civile e sono chia-
mate in servizio solo per missioni particolari, in genere omicidi. Se prese, lo Stato
francese le disconoscerebbe abbandonandole al loro destino. Insomma, Luc Bes-
son con il suo film Nikita (1990) non sarebbe andato troppo lontano dal vero.
Secondo il libro inchiesta di Nouzille, Hollande è uno dei presidenti francesi
che più ha fatto ricorso agli omicidi mirati di jihadisti, specie nel Sahel, anche
con l’aiuto americano. Dopo i fatti del 13 novembre, la Francia sembra dunque
avviarsi a intraprendere una nuova «guerra al terrorismo», con azioni visibili e al-
tre invisibili, come promesso da George W. Bush dopo l’11 settembre. Una guer-
ra nella quale i servizi di intelligence saranno in prima linea. C’è quindi da aspet-
tarsi il rafforzamento dei servizi segreti con nuovi mezzi e risorse umane. E forse
anche il consolidamento dell’intelligence antiterrorismo interna, riducendo il nu-
mero degli organismi impiegati (da quattro a due) e rivalutando il ruolo della
raccolta informativa «di prossimità» per fronteggiare i fermenti delle banlieues.
Resta da vedere se verrà raccolto il grido di allarme lanciato da Trévidic su
una possibile deriva autoritaria della lotta al terrorismo nella patria dei diritti
umani.
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224
LA STRATEGIA DELLA PAURA
IN MALI
PARIGI RITROVA
LA GRANDEUR di Matteo OPPIZZI
Il paese non è un prodotto del colonialismo, ma le sue crisi sì.
La guerra del 2012 spiegata alla luce del passato e degli interessi
della Francia, che con l’operazione Barkhane fa del Sahel il cuore
della sua geopolitica africana. L’Ue come foglia di fico.
1. F. HOLLANDE, «Discorso del Presidente della Repubblica alla consegna del premio della Fondazio-
ne Jacques Chirac», Parigi, 19/11/2015. 225
IN MALI PARIGI RITROVA LA GRANDEUR
La risposta è sì: esisteva fin dal XIII secolo, quando esso era un impero che
fioriva grazie all’oro e ai traffici transahariani. L’impero non esisteva più nell’Otto-
cento, il suo mito sì, ma soprattutto il Mali non era solo ciò che i francesi pensa-
vano. Il termine Sudan, scelto dai colonizzatori per indicare ciò che dal 1960 si
chiama (nuovamente) Mali, significa letteralmente «paese dei neri» e nere sono
infatti le popolazioni che abitano la sua metà meridionale. C’era tuttavia un altro
Mali, a nord delle pigre anse del fiume Niger, che trova la sua dimensione tra le
distese desertiche che collegano Timbuktu, Gao e Kidal (le «capitali» del Nord), il
suo rifugio tra i massicci dell’Adrar degli Ifoghas. In queste periferie del Sahara
(dette Sahel) dominava all’epoca dei conquistatori europei l’impero toucouleur di
El Hadj Oumar Tall, islamista da non far invidia ai jihadisti dei tempi nostri (ot-
tenne addirittura il titolo di «califfo» con un pellegrinaggio alla Mecca nel 1828).
La durata della conquista dei due Mali rende l’idea della distanza fisica che
ne separa i luoghi e della tenacia con cui il Nord, abitato da popolazioni berbe-
re, nomadi e dedite alla pastorizia, si difese: nel 1883 fu presa Bamako a sud, ma
Timbuktu cadde solo dieci anni dopo, Gao nel 1898 e Kidal addirittura nel 1909.
Durante i decenni coloniali le linee di frattura (etnica, economica, linguisti-
ca) furono come congelate e i francesi non se ne avvidero (o le sfruttarono a lo-
ro vantaggio), inebriati dal mito di un’universale missione civilizzatrice.
della ribellione del Nord berbero (in particolare tuareg) al Sud nero, con capi-
tale Bamako. Nel 1963 la prima storica alfellaga (ribellione), nel 1990 la secon-
da, ben più grande e seguita da un teatrale processo di riconciliazione naziona-
le terminato con un rogo di armi a Timbuktu nel 1996, conosciuto come la
«fiamma della pace».
Nei vent’anni successivi tutti furono dimentichi di questo frastagliato patri-
monio genetico: i maliani, la comunità internazionale e i francesi. I primi, depo-
sto il regime militare di Moussa Traoré (1968-91) con un clamorosa insurrezione
popolare ispirata da avanguardie studentesche, si dedicarono al processo di de-
226 mocratizzazione e non si curarono di redistribuire le risorse verso il Nord quan-
LA STRATEGIA DELLA PAURA
battuto che due guerre nei suoi ex territori africani mentre la Francia è sollecita-
mente intervenuta oltre quaranta volte? Perché lo Stato franco-africano non è mai
morto: (post)colonialismo o meno, tra métropole e Africa si era creato quello che
de Gaulle indicò come un «legame definitivo». Se gli amministratori coloniali fran-
cesi erano circa 7 mila nel 1956, i «cooperanti civili» francesi nelle (ex) colonie
crebbero fino a superare le 10 mila unità nel 1980. Il tutto per gestire cifre di aiu-
to pubblico allo sviluppo da capogiro (1% del pil francese). La moneta dei paesi
un tempo nell’Aof (il franco Cfa) era gestita direttamente dal tesoro francese e le-
gata al franco della madrepatria. La sicurezza stessa dei paesi africani, o più pre-
cisamente delle élite al potere, dipendeva direttamente da Parigi: il presidente ni- 227
IN MALI PARIGI RITROVA LA GRANDEUR
gerino Hamani Diori aveva in camera da letto una linea telefonica che lo collega-
va direttamente con l’ambasciatore francese a Niamey. La borsa e la spada, pre-
rogative di sovranità, erano insomma entrambe controllate dalla Francia, come se
si trattasse appunto di uno Stato franco-africano.
Questo era l’«universo a metà strada tra la corte dei Borgia e un’associazione
mafiosa» 2 definito – spregiativamente o meno – Françafrique e di cui il Mali face-
va parte (il Mali beninteso di Moussa Traoré, non quello fieramente indipendente
di Modibo Keïta). «Laggiù, ad Abidjan, Dakar, Cotonou, Libreville, circolavano le
stesse parole, le stesse auto, gli stessi uomini e le stesse idee, perché laggiù, indi-
pendenza o no, era ancora un po’, molto appassionatamente, la Francia» 3. E vi-
ceversa. Come spiegava qualche decennio fa ai colleghi della Comunità europea
del carbone e dell’acciaio (Ceca) il futuro primo ministro francese Michel Debré,
«la Francia non è solo un paese europeo». Per questo, su esplicita pressione (o ri-
catto) francese, i Trattati di Roma (1957) istitutivi della Comunità economica eu-
ropea (Cee) inclusero disposizioni speciali per i «paesi e i territori associati d’Ol-
tremare», a vantaggio e protezione dell’allora Unione francese (1946-58).
Oggi la presenza di Parigi nella «sua» Africa è molto ridimensionata rispetto
ai primi decenni postcoloniali. Dal 1994 il franco francese e quello delle ex colo-
nie d’Africa non sono più legati da un cambio 1 a 1; nel 1997, il primo ministro
socialista Lionel Jospin ha pronunciato a Bamako la formula del ni-ni (né inge-
renza né indifferenza), mentre la mondialisation ha portato altre potenze a rom-
pere i vecchi monopoli francesi. I decani della Françafrique sono morti, le auto
francesi hanno lasciato il posto a quelle cinesi, idee e parole simili celano inte-
ressi divergenti. Laggiù non è più (solo) la Francia, ma laggiù si combattono an-
cora guerre francesi.
Burkina Faso, Niger, Ciad). È qui che la Francia supera i suoi confini esagonali e
mantiene una dimensione globale (o quanto meno continentale), perché «senza
l’Africa non ci sarà una storia della Francia nel XXI secolo», come ammoniva
François Mitterrand nel 1957 4.
Oggi è il Sahel il cuore geopolitico dell’Africa francese. Non stupisce che la
Francia, dopo dieci anni di guerra di coalizione e dipendenza strategica dagli
2. S. SMITH, A. GLASER, Ces Messieurs Afrique, Paris 1992, Calmann Lévy, p. 10.
3. E. FOTTORINO, «France-Afrique: les liaisons dangereuses», Le Monde, luglio 1997.
228 4. F. MITTERRAND, Présence française et abandon, Paris 1957, Plon, p. 237.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
Usa in Afghanistan, abbia lanciato proprio in Mali l’11 gennaio 2013 l’operazione
Serval (dal nome di un felino africano), dispiegando sul terreno fino a 4 mila uo-
mini 5 (febbraio 2013), affiancati dagli istruttori europei (per metà francesi) della
missione Eutm-Mali. Il ritorno in grande stile delle armate tricolori a Timbuctu
non solo ha garantito alla Francia il mantenimento dello status di grande poten-
za, ma ha preservato i suoi soldati dai tagli che in tempi di rigore minacciano an-
che gli apparati militari. Sul lato maliano, la guerra ha garantito la sopravvivenza
di quello che stava per diventare a tutti gli effetti uno Stato fallito.
L’obiettivo della missione fu triplice: fermare l’avanzata dell’eterogenea arma-
ta jihadista che aveva posto una minaccia (potenziale) a Bamako e riconquistare
le «capitali del Nord» (Timbuctu, Gao, Kidal), assicurando poi la sovranità del go-
verno maliano e del suo esercito sull’intero territorio nazionale. Un territorio che
resta percorso da profondi clivages geografici, etnici e sociali, con l’Azawad ostile
al potere centrale e fisicamente difficile da amministrare poiché desertico. Labi-
rinto di sabbia e altopiani divenuto un santuario dell’estremismo islamico, l’Adrar
degli Ifoghas si era trasformato in una minaccia immediata agli interessi (econo-
mico-estrattivi, militari, strategici) della Francia.
Se la gestione della questione ostaggi è solita sollevare aspre discussioni,
l’intervento francese in Mali ha invece ricevuto una quasi unanime approvazione
in patria (e dalla comunità internazionale), proprio in virtù del percepito pericolo
per i cittadini francesi. Se cade Bamako, si disse, gli ostaggi francesi non saranno
più sei, ma seimila.
Riportato sotto controllo il rischio jihadista, resta da ricostruire e cementare il
Mali, uno e trino (nero, berbero e francese). Sotto l’impulso dell’intransigente
François Hollande, nel luglio 2013 il paese ha eletto democraticamente il suo
nuovo presidente, Ibrahim Boubacar Keïta, con elezioni mai così partecipate. Poi
un lungo processo negoziale, con la regia di Algeri, ha cercato di tessere una pa-
cificazione nazionale (tra Mali nero e berbero) sotto tutela internazionale. La
Francia ha appaltato all’Unione Europea (il cui rappresentante per il Sahel, ovvia-
mente francese, è marito del ministro della Salute) la sua partecipazione. Il pro-
cesso di pace prevede un’accentuata decentralizzazione e un Senato rappresenta-
tivo delle varie regioni, religioni, comunità del paese: se verrà attuato (fra maggio
e giugno 2015 è stato approvato da tutte le fazioni ribelli presenti al tavolo), il
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5. Non a caso lo stesso ammontare di uomini che la Francia aveva disposto in Afghanistan nel mo-
mento di massimo impegno bellico. 229
IN MALI PARIGI RITROVA LA GRANDEUR
6. Il 5 agosto 2014 è tornato nuovamente a minacciare la Francia e i suoi alleati il leader di un altro
gruppo jihadista protagonista della guerre au Mali: Iyad Ag Ghali, che guida Anâår al-Døn, l’unica
formazione estremista di estrazione etnica tuareg. In un video caricato su YouTube, l’ex regista de-
gli accordi di pace tra Bamako e ribelli tuareg di inizio anni Novanta, conosciuto in Italia come «il
piccolo bin Laden d’Africa», ha invocato un fronte comune del popolo musulmano contro Parigi,
che «detesta l’islam e i musulmani». Da marzo 2013, per i suoi legami con Aqmi, Anâår al-Døn è sulla
lista nera dei terroristi stilata da Washington.
230 7. L’arc de crise, de l’Atlantique à l’Océan Indien, Livre blanc 2008, p. 43.
LA STRATEGIA DELLA PAURA
6. La Francia che vuole mantenere gli storici e privilegiati legami con l’Africa
settentrionale e saheliana deve dunque fare i conti con una non trascurabile serie
di buchi neri, dalla Libia alla Repubblica Centrafricana, passando per le terre di
Boko Haram. L’intervento sotto bandiere Nato a fianco dei ribelli libici nel 2011
ha in parte alimentato l’anarchia: non solo ha gettato nel caos la Libia, ma ha «li-
berato» tutti i combattenti saheliani che il Colonnello aveva assoldato nella sua
Legione islamica. Ormai privati del loro protettore, essi sono in parte tornati, di-
soccupati e armati, nelle loro regioni di origine, costituendo non l’ultima causa
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232
LA STRATEGIA DELLA PAURA
MOLENBEEK
DA PICCOLA MANCHESTER
A BELGIKISTAN di Niccolò LOCATELLI
Il sobborgo di Bruxelles assurto a santuario del jihadismo
espone la vulnerabilità del ventre molle d’Europa.
L’inadeguatezza dell’intelligence. I danni del federalismo
molecolare. Ora il Belgio corre ai ripari.
due giorni prima dell’11 settembre 2001) alle bombe di Madrid del 2004, dalla
sparatoria al museo ebraico di Bruxelles (maggio 2014) al massacro nella reda-
zione di Charlie Hebdo (7 gennaio 2015), fino alla tentata (e fallita) strage sul tre-
no Thalys Amsterdam-Parigi (21 agosto 2015).
Molenbeek esemplifica le mancanze e le disfunzionalità del Belgio, il paese
europeo che fornisce il numero pro capite più alto di foreign fighters. Secondo i
dati pubblicati a ottobre dall’analista Pieter Van Ostaeyen, 516 cittadini belgi sono
(stati) attivi in Siria o Iraq; di questi, risulta che solo cinque combattano a soste-
gno del presidente siriano al-Asad. Considerando che la popolazione islamica re-
sidente in Belgio è pari a 670 mila persone (su 11 milioni), ogni 1.300 islamici 233
MOLENBEEK, DA PICCOLA MANCHESTER A BELGIKISTAN
belgi ve n’è uno che è andato a combattere in Siria o in Iraq per lo Stato Islami-
co o per organizzazioni simili, tra cui Ãabhat al-Nuâra.
Per provare a capire come mai il primo paese dell’Europa continentale a co-
noscere la rivoluzione industriale sia oggi il primo esportatore europeo pro capi-
te di jihadisti – tanto da conquistarsi il soprannome di «Belgikistan» – è utile fare
un passo indietro.
Dopo le guerre mondiali l’industria ha attirato una cospicua immigrazione
dall’Europa meridionale e dal Nordafrica, in particolare da Marocco e Algeria (ol-
tre che dalla Turchia e dal Congo, ex colonia). Manodopera a basso costo per le
miniere, le industrie e le fonderie del paese, tra cui quella di Molenbeek.
A partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento, la spinta economica e
occupazionale del settore industriale è andata esaurendosi.
Mentre Bruxelles si consolidava nel ruolo di capitale d’Europa, chi non fosse
almeno bilingue, altamente qualificato o lottizzabile nella pubblica amministra-
zione è stato progressivamente espulso dal mercato del lavoro. Agli immigrati
maghrebini che avevano lavorato alla costruzione di strade e metropolitane fu of-
ferta la nazionalità belga e un posto nelle agenzie di trasporti, mentre i loro figli
sono rimasti privi di occupazione e hanno iniziato a dipendere dai sussidi statali.
A questi giovani figli di immigrati erano indirizzati i sermoni degli imam sala-
fiti indottrinati dall’Arabia Saudita, invitati dal Belgio negli anni Settanta per ingra-
ziarsi i favori (economici) di Riyad. La predicazione salafita, più radicale e favore-
vole alla violenza, inizialmente non ebbe molta presa. Ma assieme alla guerra
contro i sovietici in Afghanistan e al conflitto in Algeria, essa favorì il rapido
emergere di una nuova generazione di belgi islamici avversi ai valori occidentali
e in empatia con il jihåd.
der, Fouad Belkacem (Fu’åd Bilqåsim), a 12 anni di prigione. Altri membri do-
vranno scontare 15 anni perché coinvolti in attacchi jihadisti in Siria.
Queste condizioni però sono riscontrabili in molte periferie d’Europa e non
spiegano come Molenbeek e il Belgio in generale siano diventati il retroterra
strategico del jihadismo veterocontinentale. Quest’ulteriore passaggio è stato reso
possibile da alcune specificità del regno. Il federalismo qui ha raggiunto livelli
parossistici: oltre al governo centrale c’è un governo fiammingo, uno della Vallo-
nia, uno della comunità francofona, uno della comunità germanofona e uno del-
la regione di Bruxelles. Nella sola capitale (1,2 milioni di abitanti) ci sono 19 Co-
234 muni, 19 sindaci e ben 6 dipartimenti di polizia diversi, poco propensi a collabo-
LA STRATEGIA DELLA PAURA
rare tra loro e ancor meno con le polizie dei paesi confinanti, tra cui la Francia.
L’emissione dei passaporti è stata centralizzata solo nel 1998: prima di allora a
chi avesse voluto dei documenti da falsificare sarebbe bastato fare irruzione in
uno dei 520 municipi del paese e rubare dei passaporti vergini.
A queste peculiarità di carattere amministrativo si aggiunge un apparato di in-
telligence assolutamente inadatto – in termini numerici e qualitativi – a raccogliere
informazioni in un paese di 11 milioni di abitanti e una città che ospita il quartier
generale dell’Unione Europea, della Nato e di oltre duemila agenzie internazionali.
Preoccupato di mantenere la sua tradizionale neutralità e di non urtare la su-
scettibilità delle sue diverse comunità linguistiche e nazionali, il Belgio ha sem-
pre dedicato poche attenzioni e poche risorse alla sicurezza. I servizi segreti so-
no stati per la prima volta oggetto di legislazione nel 1998, oltre 160 anni dopo la
loro nascita (con l’indipendenza, 1830). Hanno a che fare con atti di terrorismo
dal 1978, quando la Nuova resistenza armena iniziò a colpire anche in Belgio gli
interessi turchi, e con il terrorismo di matrice islamista dal 1987, quando i
mujåhidøn siriani uccisero il primo segretario dell’ambasciata siriana a Bruxelles.
Malgrado ciò, solo nel 2010 sono state loro garantite alcune prerogative basilari,
come la possibilità di effettuare intercettazioni telefoniche. Oggi l’intelligence ha
un ramo civile (Sv) e uno militare (Adiv), per un totale di poco superiore ai mille
effettivi, tra cui secondo fonti di stampa gli arabofoni sono pochi. Non c’è un’a-
genzia di intelligence esterna.
da una sparatoria ad Anversa in cui un uomo uccise due persone con una pistola
comprata poche ore prima) il mercato nero dietro la vicina stazione ferroviaria
Gare du Midi è rimasto florido: procurarsi dei fucili non è mai stato un problema.
Infine, i terroristi hanno colpito per anni solo obiettivi all’estero. Quando
hanno agito in Belgio, hanno scelto bersagli «di basso profilo» (perché tradiziona-
li del jihadismo), come un museo ebraico. Non attaccando obiettivi più clamorosi
come le istituzioni europee o la Nato, hanno saputo evitare la creazione di un
senso di urgenza che portasse le autorità a intensificare le indagini.
Quest’ultimo decisivo aspetto è stato intaccato l’estate scorsa dal fallito at-
tacco sul treno Thalys – l’attentatore era salito a Bruxelles – e definitivamente 235
MOLENBEEK, DA PICCOLA MANCHESTER A BELGIKISTAN
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236
ROSARIO AITALA - Magistrato.
EDOARDO BALDARO - Dottorando presso la Scuola Normale Superiore, si occupa di politi-
che di sicurezza in Africa occidentale, specialmente in quella francofona.
CINZIA BIANCO - Master in Middle East and Mediterranean Studies presso il King’s College
di Londra. Research Fellow con lo Iai in Oman, Qatar ed Emirati Arabi Uniti per il
progetto Sharaka. Si occupa di analisi strategiche sul Levante per la Nato Defence Col-
lege Foundation.
EDOARDO BORIA - Geografo, insegna all’Università La Sapienza di Roma.
SILVIA D’AMATO - Dottoranda presso la Scuola Normale Superiore, si occupa delle risposte
di antiterrorismo di Francia, Italia e Regno Unito.
EMANUELA C. DEL RE - Esperta di geopolitica e sicurezza. Specialista di Balcani, Caucaso e
Medio Oriente. Docente di Sociologia politica, Università Unicusano di Roma. Presi-
dente e fondatrice di Epos International Mediating and Negotiating Operational
Agency.
GERMANO DOTTORI - Cultore di Studi strategici alla Luiss-Guido Carli di Roma. Consigliere
redazionale di Limes.
DARIO FABBRI - Giornalista, consigliere redazionale di Limes. Esperto di America e Medio
Oriente.
MANLIO GRAZIANO - Insegna Geopolitica delle religioni all’Università Paris IV e all’Ameri-
can Graduate School di Parigi.
VIRGILIO ILARI - Presidente della Società italiana di storia militare (Sism).
CARLO JEAN - Ufficiale degli alpini in congedo. Insegna Geopolitica alla Link Campus Uni-
versity e alla Scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia. È presidente del Centro
studi di geopolitica economica. Consigliere scientifico di Limes.
NICCOLÒ LOCATELLI - Editor (Web e social media) di limesonline.com. Membro del consi-
glio redazionale di Limes.
LUCA MAINOLDI - Collaboratore di Limes. Segue tematiche relative alla geopolitica e alla
storia dell’intelligence. Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
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La storia in carte
a cura di Edoardo BORIA
1. La Parigi romana si chiamava Lutetia, conquistata da Giulio Cesare nel 52 a.C. a
spese della coalizione guidata da Vercingetorige. Questo condottiero gallo educato dagli
stessi romani alle tecniche della guerra, mitizzato in epoca moderna dalla storiografia
francese più nazionalista, evocato nell’indomito spirito guerriero persino dai fumetti di
Astérix e Obélix che irridono i romani, in realtà fallì il proprio progetto di scacciare gli
stranieri dalla Gallia e divenire il capo assoluto di tutti i popoli che la abitavano. Fu tra-
scinato a Roma come trofeo da Cesare e dopo sei anni nel Carcere Mamertino venne
condannato a morte, probabilmente per strangolamento. Contrariamente a quanto evi-
denzia la pianta, cioè il nucleo centrale sull’Île de la Cité, l’insediamento originario sorgeva
sulla rive gauche, nell’odierno Quartiere latino. D’altra parte, lo stato delle conoscenze sul
tema lascia ancora oggi delle incertezze e sicuramente di più ve ne erano all’inizio del-
l’Ottocento, per cui questa rappresentazione assume un carattere piuttosto ipotetico.
Però con il suo tono assertivo una carta geografica riesce bene a vendere finte certezze. E
allora si può soprassedere al rigore scientifico se si tratta di celebrare un simbolo della
nazione come Parigi, di cui il libro da cui è tratta questa pianta decanta, come dice il tito-
lo, non solo l’aspetto fisico ma anche il valore civile e morale. Proprio come fosse una
persona. Anzi, una personalità.
Fonte: Plan de Paris sous la domination romaine, da J.A. DULAURE, Histoire physique, civile
et morale de Paris. Atlas, Paris 1838, Imprimerie de H. Fournier, tav. 1.
2. Come in Algeria, a cui si riferisce questa carta dal sapore orientalista, anche in
tanti altri paesi di ogni continente la colonizzazione francese ha lasciato indelebili segni
materiali e immateriali, dall’architettura alla lingua e all’assetto istituzionale dello Stato.
Le logiche su cui venivano impostate le relazioni tra la comunità allogena e quella autoc-
tona sono le solite di ogni processo di colonizzazione, basato sulla distinzione netta e in-
contestabile tra dominatori e dominati. Con i secondi che, una volta emigrati sul suolo
francese, non si rivoltavano alla politica assimilazionista in quanto mentalmente ingab-
biati dentro quella logica. Ma lo fanno ora le generazioni successive.
Fonte: MM. DESBUISSONS ET AL., Province de Constantine, da Atlas Migeon historique,
scientifique, industriel et commercial, Paris 1985, J. Migeon Éditeur, tav. 36.
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4. Che i francesi fossero orgogliosi l’aveva capito già Niccolò Machiavelli: «I Fran-
cesi per natura sono più fieri che gagliardi o destri». I cinque secoli successivi hanno con-
fermato il giudizio. Questa carta è tratta da una pubblicazione dal titolo già indicativo
(«Parigi liberata dal suo popolo») uscita all’indomani della liberazione di Parigi dai nazi-
sti. Offre una ricostruzione cartografica di quel fatidico 23 agosto 1944: pochi cerchi in-
dicanti gli acquartieramenti nazisti sono sfidati da una miriade di piccoli punti sparsi in
tutta la città corrispondenti ai luoghi in cui gli insorti parigini avevano eretto le barricate.
Fonte: Paris délivré par son peuple, Parigi s.d., Braun et Cie Editeurs.
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