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1Rivista mensile n. 12/2015 (dicembre)

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La Terza Guerra Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

MONDIALE?
T E R Z O F E S T I VA L D I L I M E S
Genova, Palazzo Ducale, 4-6 marzo 2016

Come ogni anno, Limes e la Fondazione per la Cultura Palazzo Ducale organizzano a Genova,
nelle sale di Palazzo Ducale, il Festival di Limes. Quest’anno il tema prende spunto dalla
denuncia di papa Francesco:“Siamo entrati nella terza guerra mondiale, solo che si combatte a
pezzetti, a capitoli”. La domanda che ci porremo a Genova è se sia dunque in corso una terza
guerra mondiale, per quanto sui generis. La discussione prenderà spunto dal volume di Limes in
uscita per l’inaugurazione del Festival, dedicato interamente a questo tema, a partire dai
rapporti attuali fra le maggiori potenze.
Il Festival si articolerà come d’abitudine in tavole rotonde, destinate ad approfondire diversi
aspetti della domanda centrale, con la partecipazione di analisti e decisori italiani e stranieri. In
particolare, verranno afrontate questioni quali le conseguenze geopolitiche delle migrazioni,
il terrorismo jihadista e i modi per combatterlo, le strategie della Chiesa, le nuove tecniche
militari, le guerre economico-fnanziarie, gli aspetti ambientali, demografci e tecnologici delle
crisi in corso, la competizione fra Stati Uniti e Cina, lo scontro fra Russia e Occidente.
Tutti gli incontri sono aperti al pubblico, che potrà intervenire nei dibattiti con domande dirette
o online. Limesonline seguirà l’evento in diretta per tutta la sua durata.
Di qui all’apertura del Festival vi aggiorneremo sul programma, tanto via Limes che con
Limesonline, oltre che attraverso comunicati afdati ai principali media.

Ci vediamo a Genova!

Un grato saluto ai nostri lettori


SOMMARIO n. 12/2015

PARTE I NELLE TERRE DI BOKO HARAM

9 Gerardo FORTUNA - E pluribus, multi:


il caleidoscopio dei musulmani di Nigeria
15 Andrea DE GEORGIO - Diffa, viaggio tra gli ultimi
23 ISSA, ADAMA, OLIVIER E MAMADOU - ‘Perché Boko Haram affascina
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tanti ragazzi’
29 Emanuela C. DEL RE - Kaduna, Nigeria: la convivenza possibile
37 Beatrice BOTTO, Benedetta PELUSIO, Vittoria STEFANINI, Michelangelo VALLICELLI - Lagos
la megalopoli del futuro
47 Marina BERTONCIN e Andrea PASE - I confini mobili del Lago Ciad
59 Esoh ELAMÉ - Il lago morente non si salva senza chi ci vive
67 Marina BERTONCIN e Andrea PASE - Perché non funzionano i piani
di agricoltura irrigua nel bacino del Lago Ciad
77 Marco FIORI - Il business delle specie rare che finanzia il terrorismo
83 Luca RAINERI - Il miracolo della pax mafiosa in Niger

PARTE II AFRICHE PROFONDE

95 Gianni BALLARINI e Raffaello ZORDAN - Quante Afriche in Africa?


103 Mario GIRO - ‘L’Africa è la nuova frontiera’
109 Giorgio MUSSO - Corsa al Nilo
117 Vittorio ROBECCHI - La triste parabola dell’Eritrea
125 Mauro GAROFALO - Repubblica Centrafricana, anno zero
133 Jean-Léonard TOUADI - Le guerre invisibili del Congo
143 Giulio ALBANESE - Il serpente del jihād ha deposto
le uova oltre il Sahara
151 Roberto ROVEDA - L’Africa è la sua storia
159 Paolo SANNELLA - In memoria di Lumumba

PARTE III RICCHEZZE CONTESE

165 Giuliano MARTINIELLO - Il ‘land grabbing’ fra mito e realtà


175 Giorgio CUSCITO - Perché la Cina punta ancora sull’Africa
183 Paolo RAIMONDI - Il debito torna a minacciare lo sviluppo africano
191 Luca MAINOLDI - L’Africa in Rete
199 Giorgio CUSCITO - Il grande balzo verso le rinnovabili
207 Flavio ALIVERNINI - La nuova primavera dell’arte africana
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LIMES IN PIÙ

215 Daniel SCHADE e James BARTHOLOMEUSZ - Vota Brexit e perdi


il posto a tavola

AUTORI

221

LA STORIA IN CARTE a cura di Edoardo BORIA

224
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
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Parte I
nelle TERRE
di BOKO HARAM
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

E PLURIBUS, MULTI:
IL CALEIDOSCOPIO DEI
MUSULMANI DI NIGERIA di Gerardo FORTUNA
La travagliata genesi storica dell’islam nigeriano ha dato luogo a
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una complessità e a un’eterogeneità irriducibili. Il jihåd di Dan


Fodio. L’influenza malichita. I tolleranti yoruba e l’impenetrabilità
della Middle Belt. Boko Haram resta un’eccezione.

1. L RAPIMENTO DELLE STUDENTESSE NELLA


scuola di Chibok (15 aprile 2014) e la recente alleanza con lo Stato Islamico
I
(Is) hanno moltiplicato esponenzialmente l’interesse mediatico per Boko Ha-
ram. L’accanimento dei terroristi verso la popolazione cristiana è stato spesso
visto in un’ottica di scontro di civiltà, presente più nella testa dei commentato-
ri occidentali che nella realtà storico-politica nigeriana. Boko Haram stesso
viene il più delle volte considerato come la maggiore, se non l’unica, espres-
sione dell’islam in Nigeria. All’osservatore distratto può dunque giungere stra-
na la notizia dell’attentato kamikaze contro una processione sciita del 27 no-
vembre scorso, in cui hanno perso la vita oltre venti persone in un villaggio a
sud di Kano. Occorre invece fare luce sull’eterogeneità della componente mu-
sulmana in Nigeria, frammentata dall’enorme peso di esperienze storiche di-
verse delle varie etnie che popolano il paese.
La popolazione musulmana in Nigeria è attualmente stimata tra i 68 1 e i
78 milioni di persone 2, la più grande dell’Africa subsahariana. Una presenza
rilevante se si considera che si tratta di quasi il 5% della popolazione musul-
mana globale 3. Scontiamo la mancanza di dati ufficiali poiché dal 1963, per
motivi politici, sono state escluse dai censimenti le appartenenze religiose.
Pertanto ogni stima risulta controversa e sia i cristiani sia i musulmani rivendi-
cano la maggioranza relativa per il loro culto.

1. Secondo l’Aeda (Association of Religious and Data Archives), i musulmani ammonterebbero al


45,4% della popolazione, stimata da loro fonti in circa 152 milioni di persone nel 2010.
2. Il Pew Forum on Religion and Public Life, nel suo rapporto su peso e distribuzione della popola-
zione musulmana nel mondo, riprende i dati del Demographic and National Survey del 2003, che
asserisce vi siano 78 milioni di nigeriani musulmani, il 50,4% degli abitanti totali.
3. Ibidem. 9
E PLURIBUS, MULTI: IL CALEIDOSCOPIO DEI MUSULMANI DI NIGERIA

Il censimento del 1963 attestava la popolazione musulmana al 47,3% di quel-


la totale 4. Tuttavia i dati sulla distribuzione territoriale islamica apparivano in-
completi, come dimostravano i pochi cenni sulla presenza (all’epoca bassa) di
comunità musulmane nelle province meridionali ad alta concentrazione cristiana.
Nonostante ciò, emergeva lo stesso come già all’epoca fosse chiaramente l’area
settentrionale quella a più alta densità islamica, con particolare riferimento al ter-
ritorio su cui è stanziato il gruppo etnico degli hausa-fulani.
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2. L’islam mise piede nel Nord del paese già ai tempi dell’impero Kanem-
Borno, che sin dal periodo medievale era considerato come il più importante
centro di cultura islamica del Sudan centrale 5. L’impero si estendeva su un terri-
torio limitato dell’attuale Nigeria, coincidente con la zona del Borno, abitata dal-
le popolazioni di lingua kanuri. La vera espansione islamica nell’area settentrio-
nale avvenne infatti con il jihåd lanciato agli inizi del XIX secolo da Usman Dan
Fodio contro gli Stati hausa 6. Sheu, come veniva chiamato, guidò le milizie di
etnia fulani alla conquista di tutta la regione abitata dagli hausa, giungendo al-
l’attuale Nord-Ovest del Camerun.
In seguito allo scontro politico e militare che vide vincitori i fulani, Dan Fo-
dio poté instaurare il califfato di Sokoto, che per influenza e prestigio sopra-
vanzò in Africa occidentale l’impero Kanem-Borno ormai in avanzata decaden-
za. Il jihåd di Dan Fodio e la potenza politica raggiunta dal califfato contribuiro-
no a islamizzare profondamente il Nord della Nigeria e l’eredità di tale esperien-
za politica permane viva nell’area. Al giorno d’oggi ci si riferisce collettivamente
agli hausa-fulani per indicare il gruppo etnico più numeroso dell’intera Nigeria:
fu proprio l’unità religiosa a costituire il collante sociale che permise ai due
gruppi etnici originari di parti diverse dell’Africa occidentale e precedentemente
in conflitto di mescolarsi, promuovendo i matrimoni misti e l’adozione di una
lingua comune.
Se con il califfato di Sokoto si è avuta per l’islam quella penetrazione territo-
riale che resiste ancora oggi, è stato il colonialismo a giocare un ruolo fondamen-
tale per l’affermazione del culto islamico nella regione. Secondo Mervyn Hiskett 7,
in meno di un secolo d’occupazione coloniale l’islam si sarebbe diffuso in Africa
occidentale più di quanto avesse fatto nei nove secoli precedenti 8. Nel califfato di
Sokoto i musulmani erano stimati in circa il 50% della popolazione all’inizio del
colonialismo 9; nel 1952, secondo il censimento ufficiale, erano arrivati al 73% 10.

4. A.I. DOI, Islam in Nigeria, Zaria 1984, Gaskiya, p. 8.


5. O. KANE, Muslim Modernity in Postcolonial Nigeria, Leiden 2003, Brill Academic Publishers, p. 29.
6. B.G. MARTIN, Muslim Brotherhoods in Nineteenth-Century Africa, Cambridge 1976, Cambridge
University Press, p. 14.
7. Importante storico inglese della Nigeria, fu vicedirettore della Scuola di studi arabi nella città di
Kano.
8. M. HISKETT, The development of Islam in West Africa, London 1984, Longman, p. 281.
9. Ivi, pp. 281-282.
10 10. O. KANE, op. cit., p. 34.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

Tra i motivi dell’esplosione di conversioni può essere annoverato un certo


favore con cui l’autorità coloniale vedeva le tradizioni dei musulmani. In partico-
lare, gli inglesi preferirono adottare la legge islamica perché di più facile com-
prensione e applicazione per gli ufficiali coloniali, che quindi iniziarono a rela-
zionarsi in modo quasi esclusivo con i quadri musulmani, cooptando inoltre le
milizie islamiche nelle truppe coloniali regolari. Ma ebbero un ruolo importante
anche l’introduzione di moderni strumenti di comunicazione che aiutarono la dif-
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fusione del Corano e, non da ultimo, un certo pregiudizio dei locali verso il cri-
stianesimo, visto come la religione dell’occupante bianco.

3. Oggi la predominanza musulmana resiste saldamente in tutto il Nord-


Ovest, specie nelle zone limitrofe ai sette Stati hausa originari di Daura, Kano,
Rano, Gobir, Biram (l’attuale città di Sokoto, il cui sultano è ancora un punto di
riferimento spirituale per i musulmani nigeriani), Zamfara e Zazzau (l’attuale
città di Zaria più l’area dell’importantissimo Stato centro-settentrionale di Kadu-
na). L’islam prevale inoltre nella regione nord-orientale del Borno e negli Stati
di Yobe e Gombe.
Nell’area settentrionale i musulmani sono stimati tra il 90 e il 95% della po-
polazione, ma per quanto vi sia una prevalenza schiacciante, va tenuta in con-
siderazione una caratteristica dell’islamismo nigeriano: la sua eterogeneità. Coe-
sistono in questi territori numerosissime sètte, tanto che si parla – non a torto –
di frammentazione dell’autorità religiosa. Un certo rilievo aveva assunto sin dal
XIX secolo la sètta sufi della Qådiriyya, la cui popolarità nel Nord trae origine
dalla leggenda secondo cui ‘Abd al-Qådir al-Ãølånø sarebbe apparso in sogno a
Usman Dan Fodio e lo avrebbe cinto della spada della verità, ordinandogli di
lanciare il jihåd all’Hausaland 11. Ben presto fu riconosciuto come l’ordine uffi-
ciale del califfato di Sokoto, ma vi erano anche altre congregazioni sufite anta-
goniste, come la Tiãåniyya – importata in Nigeria dallo 4ayœ ‘Umar ¡a‘l – o la
¿arøqa 12 Aõmadiyya e l’Islåmiyya.
Grande considerazione negli anni ha avuto la scuola giurisprudenziale
sunnita malichita, che ha creato il clima favorevole all’adozione della 4arø‘a
nel Nord del paese. La frammentazione è aumentata anche in seguito ai cam-
biamenti sociali che la Nigeria ha affrontato dopo l’indipendenza, come nel
caso della nuova allocazione di risorse seguita alla scoperta del petrolio. Dagli
anni Sessanta comparvero poi sulla scena religiosa di Kano i gruppi Da‘wa
(ispirato alla dottrina õisba) e Yan Izala, la cui attenzione per l’educazione
giovanile è stata ripresa anche da Boko Haram. Entrambi sono molto attivi
nella zona di Kano.
È interessante rilevare anche una presenza significativa di sciiti, che alcune
fonti considerano essere meno di quattro milioni (intorno al 5% della popolazio-

11. Ivi, p. 72.


12. «Via spirituale», confraternita sufita a carattere mistico. Fa capo a un santo fondatore, detto 4ayœ. 11
E PLURIBUS, MULTI: IL CALEIDOSCOPIO DEI MUSULMANI DI NIGERIA

ne musulmana della Nigeria 13), stanziati soprattutto nella zona di Sokoto e di Ka-
no, ma anche nella città di Zaria. Lo sciismo era pressoché sconosciuto in Nigeria
prima degli anni Ottanta del Novecento e senza dubbio la sua diffusione è dovu-
ta all’opera di Ibrahim Zakzaki, il quale introdusse una forma sincretica che com-
bina elementi di sciismo e di sunnismo. Sebbene non si tratti di sciismo puro,
viene comunemente identificato come tale poiché enormi sono le somiglianze
con la tradizione khomeinista. Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

4. Una situazione particolare si incontra nell’area della cosiddetta Middle


Belt, termine che designa l’estesa fascia centrale nigeriana popolata da più di
duecento minoranze etniche, che conferiscono a tutto il territorio una considere-
vole diversità culturale e linguistica 14. I confini di questa regione sono sfumati,
ma generalmente l’area in questione va dai territori bagnati dal Niger e abitati da
popolazioni nupe, agli Stati orientali di Taraba e Adamawa, confinanti col Came-
run, passando per i più centrali Stati di Kogi, Benue, Nassa Rawa e Plateau. Rien-
trano nella definizione storica di Middle Belt anche aree di Stati a predominanza
musulmana, come alcuni territori meridionali degli Stati di Kaduna, Kebbi, Gom-
be e Borno, nonché le aree di Bogoro e Tafawa Balew nello Stato di Bauchi.
L’estrema varietà delle popolazioni della fascia centrale e la strenua difesa
delle loro diversità ha sempre reso difficile penetrazioni religiose di culti diversi
da quelli indigeni, essenzialmente animisti. Lo stesso Dan Fodio dovette fermare
alla Middle Belt la sua strepitosa azione di conquista e conversione di territori, li-
mitandosi a imporre una serie di dinastie musulmane su popolazioni a maggio-
ranza animista 15. La situazione si è perpetuata fino ai giorni nostri: in questa zo-
na i musulmani rappresentano solo una minoranza della popolazione totale, pur
essendo politicamente dominanti.
A tutt’oggi sono a predominanza islamica alcuni territori della Middle Belt
settentrionale che hanno subìto fortemente l’influenza delle province del Nord,
mentre le infiltrazioni cristiane dal Sud sono in rapido aumento nella parte meri-
dionale dell’area. Pur restii all’indottrinamento religioso, le popolazioni della
Middle Belt hanno subìto dall’unificazione in poi l’egemonia politica dei big
three, i tre gruppi etnici dominanti in Nigeria: hausa, igbo e yoruba.
Nell’area a predominanza cristiana del Sud-Ovest nigeriano, dov’è stanziato
il gruppo etnico-linguistico yoruba, vi sono delle comunità islamiche minoritarie.
Secondo alcune stime la presenza musulmana si attesterebbe a circa il 20% della
popolazione, sebbene altre fonti, non solo islamiche 16, parlino di sostanziale pa-
reggio tra culto islamico e culto cristiano (40% circa).

13. Pew Forum…, cit.


14. O.S.M. TEMPLE, Notes on the Tribes, Provinces, Emirates and States of the Northern Provinces of
Northern Nigeria, London-Liverpool 1965, Frank Cass & Co. Ltd.
15. K.M. BUCHANAN, J.C. PUGH, Land and People in Nigeria: the Human Geography of Nigeria and its
Environmental Background, London 1955, University of London Press, p. 88.
16. D. LAITIN, Hegemony and Religious Conflicts, British Imperial Control and Political Cleavages in
12 Yorubaland, New York 1985, Cambridge University Press.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

Come i grandi imperi Kanem-Borno e Fulani ebbero un ruolo fondamenta-


le nella penetrazione islamica presso i gruppi etnici kanuri e hausa, così fu
l’impero del Mali di Mansa Musa a esportare presso i popoli yoruba la religione
musulmana. La diversa provenienza del culto spiegherebbe solo in parte le tan-
te differenze che intercorrono tra i musulmani del Nord e gli yoruba, decisa-
mente più moderati.
Bisogna considerare come una precisa e unitaria etnicità yoruba sia emersa
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solo recentemente 17. Quelli che oggi sono considerati yoruba, in tempi antichi
erano indicati con una pluralità di nomi che identificavano gruppi diversi (oyo,
ekiti, ondo, ijesha, ijebu, igbomina, egba, egbado, yaba, bunu), i quali adottava-
no un sistema politico per nulla unitario, simile invece a quello delle città Stato.
Ancora nel XIX secolo, questi gruppi erano in lotta per il controllo dei porti sul-
l’Atlantico, strategici per il commercio degli schiavi.
La peculiarità della costruzione successiva e volontaria dell’identità yoruba
ha permesso di improntare le relazioni interne alla tolleranza della diversità e alla
convivenza pacifica tra più culture. Il Nord, al contrario, trovò coercitivamente la
sua unificazione attraverso l’islam e il jihåd di Usman Dan Fodio. La centralizza-
zione del potere era necessaria alla sopravvivenza del califfato di Sokoto e fu
usata proprio la religione come strumento di solidarietà sociale. L’intransigenza e
l’integralismo dei musulmani del Nord è forse eredità di un’unità imposta, che
pure ha portato alla successiva accettazione di una convivenza pacifica tra hausa
e fulani. Al contrario, l’islamismo moderato degli yoruba è intrinsecamente colle-
gato alla natura tollerante affermatasi storicamente in una popolazione essenzial-
mente dominata da ceti mercantili.
Tutte queste circostanze consentono di contestualizzare l’estremismo di
Boko Haram e di fare giustizia di una vulgata che vuole l’islam nigeriano (e so-
vente, per esteso, l’islam tout court) un blocco monolitico ideologicamente «in
guerra» con le altre fedi, a cominciare da quella cristiana.

17. O. KANE, op. cit., p. 31. 13


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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

DIFFA, VIAGGIO
TRA GLI ULTIMI di Andrea DE GEORGIO
In questa città al confine tra Niger e Nigeria devastata da guerra
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e miseria, la lotta armata è spesso una scelta di sopravvivenza. Le


strategie di Boko Haram. Il dramma dei profughi e gli arruolamenti
forzati. L’ambiguità di Abuja fa il gioco dei ‘buoni uomini’.

1. N
ON È UN FIUME NÉ UN RUSCELLO. LO
chiamano rivière Komadugu Yobé. Un timido corso d’acqua che nasce dal Lago
Ciad, si dirama fra arbusti spelacchiati, tanta sabbia e qualche candida ninfea e
che aumenta sensibilmente la propria portata durante la stagione delle piogge,
da maggio-giugno a ottobre-novembre. «Da quando sono cominciate le piogge
ed è salito il Komadugu sono diminuiti gli attacchi dei “buoni uomini”». Già, per-
ché alla frontiera fra Niger e Nigeria i nemici non si possono nemmeno nomina-
re, tanto fanno paura.
Olivier è un congolese di una quarantina d’anni che lavora per l’Ufficio affari
umanitari (Ocha) dell’Onu a Diffa, «il capoluogo della regione più povera del
paese più povero al mondo», ed è responsabile per la sicurezza della pletora di
attori umanitari presenti e di cui deve rispettare anche le regole non scritte. Co-
me ad esempio non dire mai Boko Haram e sostituirlo con quel «buoni uomini»
che, pur avendo le medesime iniziali francesi, suona meno aggressivo. Tanto più
che da marzo la setta fanatica nigeriana ha cominciato a firmarsi «Stato Islamico
dell’Africa occidentale», confermando l’avvenuta affiliazione ai cugini ben più po-
tenti, ricchi e mediatizzati dell’Is. Un matrimonio che rende la setta jihadista
saheliana ancora più pericolosa.
Ali gioca nervosamente col kalashnikov senza staccare lo sguardo di ragazzi-
no cresciuto troppo in fretta dalla sponda opposta della rivière. La gomma che
mastica senza sosta non riesce a coprire l’alito alcolico. Gli occhi rossi tradiscono
tutto il «gin in sacchetto» tracannato stamattina per non sentire la paura della mis-
sione. L’esercito nigerino di stanza a Diffa è formato quasi esclusivamente da gio-
vanissimi soldati male equipaggiati, che vengono spediti al fronte senza addestra-
mento e con poca voglia di morire per servire in una guerra che non gli è mai
stata nemmeno spiegata. «Non so chi siano, se sono musulmani, cristiani, nigeria- 15
DIFFA, VIAGGIO TRA GLI ULTIMI

ni, nigerini o di quale altro paese. A noi hanno detto solo di stare attenti all’altra
riva. E se vediamo qualcuno spariamo».
Alcuni mesi fa, quando la stagione secca bruciava questa terra, il Komadu-
gu era quasi completamente asciutto e lo si poteva attraversare con un passo.
Dall’altra parte del rigagnolo d’acqua, a neanche tre chilometri in linea d’aria
dalla strada asfaltata che segna l’inizio del Niger meridionale, c’è la Nigeria.
Una striscia lunga oltre 350 chilometri sul confine dei due paesi completamente
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controllata dagli uomini di Boko Haram. Un territorio brullo e impervio su cui


sventolano le bandiere bianche e nere del jihåd subsahariano e da cui partono
rappresaglie, attacchi suicidi, raffiche di mitra e colpi di mortaio. «Ma adesso
che il Komadugu è alto ci sentiamo più sicuri», si ripete Ali forzando un sorriso
e continuando a maneggiare il fucile. La paga mensile di questo diciottenne
palestrato non raggiunge i 100 euro. Lui che è «più coraggioso degli altri», però,
arrotonda il misero salario facendo la scorta alle missioni fuori città delle ong e
ai rari giornalisti che si avventurano fin qui. Qualche soldo in più per comprare
al mercato nero il gin o il whisky che, assicura, «funzionano meglio del giub-
botto antiproiettile».

2. Anche Olivier, che ascolta da lontano, lancia uno sguardo allo scorrere
lento dell’acqua prima di alzarlo verso la sponda opposta. «Più in là, a qualche
chilometro, c’è un ponte che prima collegava il Niger alla Nigeria. Ma ora è sbar-
rato, militarizzato. Nessuno si può avvicinare. Qualche chilometro dopo si co-
mincia a intravedere il Lago Ciad».
Quel lago, condiviso da Nigeria, Niger, Ciad e Camerun e che da sempre ha
collegato genti e merci di questi paesi, è oggi un buco nero nella cartina della re-
gione. Ai primi attacchi di Boko Haram sulle isole del lago a inizio anno hanno
risposto le incursioni di Ciad, Niger e Camerun che hanno temporaneamente
soffocato la minaccia. Dai primi di novembre, però, il Ciad ha nuovamente di-
chiarato lo stato d’emergenza nella regione lacustre a causa dei continui attentati.
Come ricorda Olivier, dell’Ocha, «oggi pochi civili sono rimasti a vivere sulle iso-
le. Ci sono solo militari male organizzati e guerriglieri della setta. La regione di
Diffa, come quella di Bosso (l’altra località nigerina che si affaccia sul Lago Ciad,
n.d.r.) aspettano il dispiegamento della forza multinazionale contro Boko Haram.
Per adesso sul terreno sono rimasti solo degli avamposti degli eserciti locali, ma
non si sono ancora visti gli 8.700 uomini promessi dagli incontri internazionali».
Il problema principale riguardo al dispiegamento della Multinational Joint
Task Force (cui gli Stati Uniti hanno promesso 45 milioni di dollari, supporto lo-
gistico e formazione da aggiungere ai 300 uomini e ai droni di sorveglianza già
dispiegati in Camerun e ai due aerei regalati al Niger) pare essere legato, secon-
do fonti diplomatiche ben informate, ai crescenti dubbi circa la volontà del neo-
presidente nigeriano Muhammadu Buhari di farla finita con Boko Haram e alla
leadership della stessa Nigeria, osteggiata dal Ciad (per ora l’unico attore ad aver
16 sconfitto i fanatici di Abubakar Shekau sul campo).
Discariche Mercati e-waste
LAGOS, LA MEGALOPOLI DEL FUTURO
Sviluppo urbano di Lagos Conformazione
Nel 1850 del territorio
Mangrovie - Rifuti - Importazione di materiale elettrico
nel 1900 - Riciclaggio plastica alla fne del suo ciclo di vita.
Foresta - Metalli - Esportazione e vendita in Nigeria
dal 1963 al 1978 e all’estero delle stesse
Laguna apparecchiature ricondizionate
Lagos oggi
(area costruita) Confne tra Stati Principali strade
nigeriani Porti importanti Ikorodu Nomi dei quartieri
0 6 12 km
Zone di case galleggianti

Stato di Ogun
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OKE-ODO Stato di Lagos


Canada 0,57
Libano 0,57
Marocco 3,98 Alagba Agege Agidingbi Ikorodu
Taiwan 3,4 Ipaja
Belgio 1,14
Sudafrica 0,57 Ebute Ikorodu
Akowonjo Ikeja OLOSOSUN
Giappone 2,2 Aeroporto
Sviluppo del progetto BRT Gbogdo
(Banca mondiale) Ikeja Gra OJOTA SCRAP
Cardoso
Cina IKEJA COMPUTER VILLAGE
Hong Kong 1,1 8,2 Mafoluku Ilupeju Ibese
Egbe Oworonshoki Isesi
Stati Uniti 2,8 Ofn
Regno Unito Ejigbo Papa Ajao
Igando Ikotun Bariga
Germania 59,1 Isolo
15,9 Idioro Akoka
Università di Lagos
SOLOUS DUMPSITE Idiaraba Onike
IMPORTAZIONI E-WASTE
fonte: E-waste Country Assessment 2012 Ikate Alaka Makoko La guna
Basel Convention - Unep) LAWANSON
Oyingbo
ALABA Iganmu
Banana Island
Ijora Iddo
Idumota Dolphin E.
WESTMINSTER MARKET Obalende
Apapa
Tincan
EKO ATLANTIC CITY
(nuova espansione che ospiterà
250 mila abitanti) Golfo di Benin ©Limes
I CONFLITTI INTORNO AL LAGO CIAD TURCHIA

TUNISIA SIRIA Stato


IRAN
islamico
MAROCCO
IRAQ
ALGERIA
Tripolitania
m
Wilayat
0k Cirenaica
Sinai
.00 LIBIA
Sahara Occ. 2
EGITTO
Fezzan ARABIA
SAUDITA
e r t o
D e sMnla d e l S a h a r a
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MAURITANIA m
0k
00
1. NIGER SUDAN
SENEGAL
Sahel MALI ERITREA
CIAD YEMEN
GAMBIA Sahel Lago Ciad
BURKINA Dārfūr Sahel
GUINEA B.
GUINEA FASO BOKO GIBUTI
HARAM SOMALIA
NIGERIA

BENIN
COSTA
SIERRA LEONE Seleka SUD SUDAN ETIOPIA

TOGO
D’AVORIO

GHANA
CENTRAFRICA
LIBERIA
CAMERUN
anti-Balaka Lra al-
al-Š
Šabab
REP. DEM. KENYA
UGANDA
O

Paesi rivieraschi del Lago Ciad GABON DEL CONGO


NG

Zone di conflitto a forte


CO

componente islamista Movimento nazionale


Altri tipi di conflitto Mnla per la liberazione dell’Azawad
Aqim Aqim Al-Qā(ida nel Maghreb islamico TANZANIA
Lra Lord’s Resistance Army ©Limes
Fonte: Atlas du Lac Tchad - Passages 2015 e autori di Limes
DIFFA E IL LAGO CIAD Area del lago prosciugatasi nel 1973
Paludi quasi permanenti
N’guigmi Rig Rig Zona paludosa irregolarmente inondata
Acque libere permanenti
Doro Léléwa
Mao
CIAD
Gadira
Liwa
NIGER Boulatoungour
Bosso
Ngouri

Bol
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é Baga Sola
Yob
gu
adu
Difa m
Ko Lago Ciad
me
Fiu
]
]
Koulfoua
Stato del Borno Baga Kawa
Damassak Tétéwa
Kouloudia Massakory
Kofya Kinasserom

Kukawa Guitté
NIGERIA Karal
Darak
Tourba
Monguno Mani
Strade
Blangoa Douguia
Strade in costruzione Fiu
me Il Fiume Chari porta
Strade in progetto/ Ch
sentieri Makari ari l’83% dell’acqua
Villaggi/cittadine presente nel Lago Ciad
Fotokol
CAMERUN
Moli permanenti Negli ultimi due decenni la superfcie
Goulfey del lago si è ristretta e la maggior parte
Moli esistenti solo in Marte
presenza di acque alte di essa risulta coperta da acquitrini,
Ngala mentre le acque libere sono vicine
Campi profughi ©Limes al delta del fume Chari.
Fonte: Atlas du Lac Tchad - Passages 2015 e autori di Limes
BOKO HARAM
NIGER
Regione di Difa Attacco ad un mercato
Bosso e a un campo profughi
ZINDER 57 attacchi tra febbraio e ottobre 2015
Almeno 41 morti
(Regione del Niger) Baga Sola
Lago Ciad
SOKOTO Geidam Baga
Maiduguri
YOBE 23/11/2015 N’Djamena
Attentato in una moschea BORNO
2/10/2015
5 ragazze kamikaze
Kano Hazare Potiskum si fanno esplodere 11/07/2015
Esplosione in un mercato
circa 14 morti
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Foresta Bama
Tundun-Wada Gujba di Sambisa
Yana
Raid di uomini armati
contro una scuola Gwoza
Zaria Ikara 29/9/2013 Mora CIAD
Chibok
15/4/2014 Maroua
Rapimento di quasi
Bauchi 300 ragazze minorenni
Gombe da una scuola superiore CAMERUN
N I G E R I A Jos ©Limes
6/7/2015
Madalla Due esplosioni e uccisione ADAMAWA Lo heartland
25/12/2011- Attentato in una chiesa di un leader religioso Yola di Boko Haram
schierato contro Boko Haram 18/11/2015
Fiu
Esplosione in un mercato. I 3 Stati federati
me in cui Boko Haram
N ige Oltre 30 persone uccise commette più attentati
r ABUJA e 80 ferite.
26/8/2011 - Attentato alle Nazioni Unite 23/11/2015 Altri Stati federati
14/4/2014 - Attacco suicida a una fermata dell’autobus 27 persone uccise da un’esplosione della Nigeria
in una moschea e 96 ferite 14/10/2015 Città controllate
Dispiegamento da Boko Haram
Califato di Sokoto di 300 soldati americani
e droni da sorveglianza Montagne
(1809-1903) in Camerun Mandara
Creazione della Multi-National Joint Task Force
con 10.500 soldati di Camerun, Nigeria, Niger, Attacchi terroristici
nel Nord del Camerun
Ciad, Benin. Quartier generale a N’Djamena.
Base operativa a Mora (Camerun) Incursioni e attentati
Lagos Confni Stati di Boko Haram
@Limes della Nigeria dal 2014 al 2015
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

Il Niger, come il Camerun, ha mostrato i muscoli solo in sporadiche rappre-


saglie. A inizio novembre, per esempio, quando a seguito della ripresa degli at-
tacchi ai villaggi e alla città di Diffa, l’esercito nigerino ha utilizzato per la prima
volta l’aviazione bombardando Dagaya, località a metà strada fra Diffa e Bosso
dove qualche giorno prima i militari erano caduti vittime di un’imboscata.
Come dimostra la frequenza dei più recenti attacchi nel Sud-Est del Niger,
Boko Haram non era sconfitto (come dichiarato a più riprese nel corso dell’ulti-
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mo anno dai governanti dei paesi del Lago Ciad), era in letargo. Probabilmente
viveva una fase di riorganizzazione e ridispiegamento di cellule periferiche nelle
città e nei villaggi fuori dai confini della Nigeria, soprattutto attorno al lago,
mentre il comando operativo si è ritirato prima nella foresta di Sambisa e poi sui
monti Mandara, al confine fra Nigeria e Camerun. I capi restano in costante co-
municazione con i comandanti di cellule dormienti di 5, 10, massimo 20 ele-
menti e ne dirigono da lontano le azioni destabilizzatrici. Per dare meno nell’oc-
chio, queste unità si muovono e attaccano prevalentemente a piedi o a cavallo.
Gli operativi sono giovani e giovanissimi spesso drogati e armati di coltello o
bastoni; solo il capo brigata ha il fucile, le granate (quando ne hanno) e il te-
lefono cellulare.
Attraverso repentini cambi di strategia, i seguaci di Shekau hanno sorpreso
ancora una volta le Forze di sicurezza nigerine con l’attacco a Diffa del 4 otto-
bre: quattro kamikaze in quattro zone diverse della città che agiscono contem-
poraneamente gettando la popolazione nel panico. Un quinto elemento del
gruppo di fuoco fermato appena prima di azionare la cintura esplosiva. Cinque
civili e un militare ucciso, oltre ai quattro kamikaze. Il risultato principale dell’a-
zione terroristica è aver riportato in un sol colpo diffidenza e paura a Diffa. «Gli
attentatori erano tutti giovani della città, li conoscevamo. Questo ci ha sconvol-
to. Pensavamo che il fiume ci proteggesse dall’esterno, dal Nord della Nigeria, e
invece il nemico era già all’interno della città». Olivier non può che ammettere,
rammaricato, gli errori delle proprie analisi prima dell’attacco a Diffa, il 57° at-
tentato da febbraio nella regione.
Ogni città e villaggio che si affaccia sul Lago Ciad è controllato da spie e
sentinelle di Boko Haram, che oltre alla qualità del proprio sistema d’intelligen-
ce denota presenza e capacità persuasiva sempre più capillare, fondata soprat-
tutto sulla violenza della repressione contro chi si ribella o tradisce la setta. Se
alcuni attacchi ai villaggi sono scorribande per terrorizzare i civili e procurarsi
da mangiare, altri appaiono piuttosto spedizioni punitive nei confronti di colla-
borazionisti e informatori delle Forze speciali francesi o americane presenti sul
terreno, a cui viene tagliata la gola e bruciata la casa.

3. Per capire meglio la situazione occorre descrivere il terreno. La strada


che costeggia dal lato nigerino il Komadugu Yobé è stata costruita da poco ed è
l’unica arteria di cemento nel raggio di chilometri. Per il resto sono solo piste
polverose che attraversano campi secchi. Questa strada collega Diffa al piccolo 17
DIFFA, VIAGGIO TRA GLI ULTIMI

aeroporto, in cui atterrano e ripartono soltanto i velivoli umanitari del Program-


ma alimentare mondiale (Pam) e quelli militari, ma dopo alcuni chilometri s’in-
terrompe all’improvviso, restituendo le gomme dei veicoli alla più consueta sab-
bia battuta. Nel progetto iniziale della società cinese incaricata dei lavori, la stra-
da sarebbe dovuta arrivare fino al confine con il Ciad per favorire i commerci
(soprattutto pesce) gravitanti sul lago. Quando ci stavano lavorando sotto scorta
dell’esercito nigerino, però, sono ricominciati gli attacchi di Boko Haram e i ci-
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nesi hanno abbandonato tutto, compresi i mezzi, dopo aver completato soltanto
metà dei 120 chilometri previsti.
Prima di arrivare al primo posto di blocco ed entrare in città la strada asfal-
tata divide la sponda del Komadugu da un mare di campi rinsecchiti, nonostan-
te le piogge abbondanti di quest’anno. Piantine basse coprono la terra brulla a
perdita d’occhio. Il pepe era l’oro rosso di Diffa: prima del passaggio dei “buoni
uomini” il principale volano dell’economia della regione di Diffa era rappresen-
tato dalla coltivazione ed esportazione del pepe. Ai primi di febbraio, però, so-
no cominciati a spuntare fucili e munizioni nascosti nei cassoni di camion cari-
chi di pepe, impossibili da controllare senza il metal detector di cui sono sprov-
viste le Forze di sicurezza nigerine.
Come succede anche nel commercio del pesce del Lago Ciad e nelle altre
principali attività economiche delle popolazioni locali, Boko Haram riesce a ri-
scuotere il pizzo sul passaggio nei territori che controlla. Per questo il governo
di Niamey ha deciso di imporre a Diffa lo stato d’emergenza, con il divieto di
alcune coltivazioni che giovano alla setta (il pepe, appunto) o che, impiegando
piante a stelo alto, potrebbero nascondere persone (il mais), oltre al commercio
di molti altri beni (come il pesce). Altra misura preventiva è il divieto assoluto
dell’utilizzo di motocicli, mezzo preferito da Boko Haram per gli attacchi veloci,
oltre che principale mezzo di trasporto in zone rurali come quella di Diffa.
L’assenza di moto e motorini, generalmente onnipresenti nei centri abitati
del Sahel, rende questa città ancora più desolata e spettrale. Per i giovani avere
il motorino è anche, dopo il cellulare e prima di una casa propria, una tappa
importante della costruzione identitaria. Il primo effetto di tali restrizioni è stato
l’aumento della disoccupazione, che unito alla crescita sfrenata dei prezzi al
consumo ha messo in ginocchio le popolazioni locali. Circa un migliaio di auti-
sti di moto-taxi, un mezzo molto utilizzato per collegare la città ai villaggi, ha
improvvisamente perso il lavoro senza capirne il motivo. Di questi solo trecento
erano legalmente registrati. Di questi trecento regolari, un progetto finanziato da
Usaid ne ha selezionati cinquanta per un programma di finanziamento di nuove
«attività generatrici di rendita». Ognuno di loro ha ricevuto quattro montoni da
allevare e rivendere prima della festa del tabaski (equivalente della festa islami-
ca del sacrificio, ‘ød al-aîõå). A fronte dei cinquanta aiutati però, vi sono 950
nuovi esclusi che, in assenza di alternative, prima o poi passeranno nelle file
dello Stato Islamico.
18
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

4. Diffa appare subito una città fantasma da cui scappare. Le strade del cen-
tro, i banchi del grand marché, i luoghi di culto come moschee e chiese cristiane
(ce ne sono due) sono vuoti, desolati. Sguardi tetri e vagamente ostili di giovani
nullatenenti sdraiati all’ombra degli alberi rincorrono le jeep militari e delle ong
che sfrecciano alzando la polvere. Per la grave crisi socioeconomica e l’aumento
progressivo dell’insicurezza, più di un terzo della popolazione della regione di
Diffa (secondo i dati Ocha) ha abbandonato le proprie case, prima spostandosi
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dai quartieri meridionali a quelli settentrionali della città, poi scappando a Mara-
di, Zinder e Niamey. Successivamente è toccato agli amministratori mandati da
Niamey e agli operatori umanitari «espatriati», africani non nigerini o europei neri
che hanno temporaneamente chiuso progetti per motivi di sicurezza, come ha
fatto Medici senza frontiere a febbraio dopo la prima ondata di attacchi.
C’è da considerare anche che più di 150 mila profughi nigeriani in fuga dal
terrore sono arrivati a Diffa negli ultimi due anni, investendo una popolazione
autoctona che non raggiunge le 600 mila anime. La maggior parte dei nigeriani
vengono da Maiduguri, Damasak e Baga e sono ospitati da famiglie di Diffa che
affittano le case abbandonate dai propri familiari scappati, ottenendo così il sup-
porto delle ong. I campi profughi come quello di Assaga, a una settantina di chi-
lometri da Diffa, sono abitati da profughi nigeriani e da sfollati nigerini in condi-
zioni igienico-sanitarie precarie, cui si aggiungono malnutrizione e crisi alimenta-
ri cicliche. Una lingua di cemento attraversa tutto il campo e divide le tende che
puntellano l’orizzonte di sabbia in Assaga-Niger (a sinistra) e Assaga-Nigeria (a
destra). Le donne, in netta maggioranza nel campo, raccontano che uomini di
Boko Haram tentano di rapirle la sera, quando si allontanano dalle tende per fa-
re i propri bisogni, e che i loro mariti sono stati arrestati dall’esercito nigerino so-
lo perché nigeriani. I bambini, invece, raccontano gli orrori di cui sono stati testi-
moni in Nigeria attraverso disegni intrisi di sangue, fuoco e donne mascherate
che indossano cinture esplosive. Nuovi confini di diffidenza e paura che si ag-
giungono a quelli reali, dislocati solo qualche chilometro più a sud. In questa
convivenza forzata nei campi profughi i nigerini sospettano dei nigeriani e vice-
versa, proprio come in città.
Per le strade di Diffa circolano pochi uomini, soprattutto adolescenti, tanti
anziani e donne. Gli uomini riempiono le carceri in attesa di processo oppure le
file di Boko Haram in attesa di vendetta. I padri non ci sono più, spariti fra le
pieghe di una guerra locale ma anche molto globale, perché le domande e le cri-
si identitarie dei giovani uomini rimasti a tenere in piedi famiglie sfilacciate dai
conflitti sono simili a quelle che si pongono i loro coetanei nelle periferie parigi-
ne. A Diffa le madri non hanno di che sfamare i piccoli, le ragazze si sposano
giovani per scappare lontano, i figli maggiori non hanno lavoro né futuro e ven-
gono continuamente sospettati di simpatizzare per Boko Haram.
Quelli che non riescono a intercettare qualche soldo dei progetti o a lavora-
re come autisti o vigilantes nelle ong, prima o poi effettivamente entrano nei
ranghi dell’Is, che promette uno stipendio attorno ai 500 euro, di cui una parte 19
DIFFA, VIAGGIO TRA GLI ULTIMI

versata subito alla famiglia. Ecco come le incursioni in città e villaggi portano a
gendarmeria e brigata speciale antiterrorismo dell’Esercito nigerino un bottino
giornaliero di 25-30 arrestati, tutti sospettati di essere “buoni uomini”, compresi
quelli accusati di reati comuni. Al calar del sole a Diffa si vedono sfrecciare
pick-up verdi o blu carichi di prigionieri. File di ragazzotti spalluti legati e ingi-
nocchiati, con il volto coperto da sciarpe o turbanti. Vengono portati nelle basi
militari o alla gendarmeria, picchiati, interrogati, schedati e spediti nelle carceri
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di Niamey in attesa di processo.

5. Sono più di 1.100 i presunti militanti di Boko Haram arrestati nella regio-
ne di Diffa da febbraio a novembre, secondo dati ufficiali del governo nigerino
che chissà quanti ne tralascia. Più di una cinquantina di loro sono reclusi nella
sezione minorile del carcere di Niamey. Ragazzini come Mamadou, che non ar-
riva a quattordici anni e non è mai andato a scuola. I suoi compagni di cella so-
no metà nigeriani e metà nigerini, tutti accusati di aver combattuto o collaborato
con lo Stato Islamico dell’Africa occidentale. Mamadou guarda a terra e si tira la
maglietta del Milan davanti alle domande dello psicologo dell’ong italiana Coo-
pi. Racconta la propria storia come ogni volta che gli viene chiesto, come fosse
un disco rotto. «Sono stato prigioniero di Boko Haram per quaranta giorni, poi
sono riuscito a scappare».
Tolto qualche particolare le storie di questi adolescenti dallo sguardo sperso
sono tutte simili. Parlano di reclutamenti forzati o vendite da parte della propria
famiglia affamata e di lavaggi del cervello in cui la componente religiosa, l’islam,
sembra un elemento ideologico secondario rispetto al tribalismo e al militarismo.
Mamadou, che al villaggio vendeva pesce alla bancarella del padre e cantava
canzoncine irriverenti contro Boko Haram, è stato rapito dal vicino di casa e rin-
chiuso in un campo d’addestramento in Nigeria. Qui gli è stato proposto per tre
volte di indossare una cintura esplosiva e farsi saltare in aria all’aeroporto di Dif-
fa. Al terzo rifiuto del ragazzino, cioè davanti a morte certa, una guardia s’impie-
tosisce e lo lascia scappare. Arrivato dopo un viaggio rocambolesco a Diffa il
racconto si chiude con il sospetto, l’arresto, l’invio in questo carcere di Niamey e
la reclusione da oltre sei mesi senza processo né assistenza legale.
Diffidenza, dinamiche di esclusione e autoesclusione, ghettizzazione, degra-
do sociale ed economico, disoccupazione. Elementi trascurati da governanti lon-
tani indaffarati a spartirsi torte planetarie, mentre una fascia crescente della po-
polazione, in maggioranza giovani ma non solo, crede di poter curare delusioni
e crisi identitarie ricercando nuove forme di comunità, a volte estreme e violente.
Nuovi modi (distorti) di far sentire la propria voce in un mare d’indifferenza e
autoreferenzialità. Succede ai foreign fighters nostrani, succede ai giovani di
Boko Haram e di al-3abåb in Somalia, succede in Francia come in Niger. Ovun-
que si continua a sottovalutare la portata deflagrante di tali sconvolgimenti.
A Diffa l’esercito nigerino è teso, nervoso. Quando interviene per qualche
20 segnalazione in un bar o in un’abitazione di un quartiere periferico, «la prima co-
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

sa che fa è sparare. E non sempre in aria», raccontano in città. Il coprifuoco che


comincia ogni sera alle 20 e dura fino alle 6 del mattino è ferreo. Viene disturba-
to soltanto da qualche rado colpo di kalashnikov. Polizia ed esercito non tollera-
no nessuno fuori casa dopo il calar del sole, nemmeno le coppiette che si attar-
dano ad ammirare il tramonto. La notte cala come una lama su Diffa, dove spes-
so ci si mettono pure i guasti ai generatori e i tagli a luce e acqua a martoriare
questa periferia del mondo. Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

21
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

‘Perché Boko Haram affascina Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

tanti ragazzi’
Conversazione con ISSA, nigerino, funzionario dell’Organizzazione internazionale
per le migrazioni a Diffa; ADAMA, nigerino, medico di Medici Senza Frontiere nella
regione di Diffa; OLIVIER, congolese, responsabile della sicurezza dell’Organizza-
zione Onu per gli affari umanitari nella regione di Diffa; MAMADOU, quattordicen-
ne nigeriano recluso a Niamey con l’accusa di aver combattuto per Boko Haram*,
a cura di Andrea DE GEORGIO

LIMES Cos’è cambiato nella vostra vita quotidiana dall’arrivo di Boko Haram?
MAMADOU Ero bambino quando nel nostro villaggio, nel Nord della Nigeria, ab-
biamo cominciato a sentir parlare di questo gruppo. Da piccolo pensavo fosse-
ro leggende inventate dai grandi per spaventarci, ma poi crescendo ho capito
che era tutto vero. Queste storie le ascoltavamo da persone che arrivavano nel
nostro villaggio da posti lontani o alla radio. Nessuno pensava che un giorno
questa gente potesse arrivare da noi.
ISSA È dalla fine del 2014 che sono cominciati gli attacchi di Boko Haram nella
parte settentrionale della Nigeria, quella che confina col Niger: a Damasak e a
Malam Fatori. Già dal novembre di quell’anno la minaccia ha cominciato a pe-
sare sulla regione di Diffa. Numerosi tentativi d’infiltrazione di combattenti del-
la setta terroristica sono stati registrati dal febbraio 2015 a oggi. Sono interessati
alla regione di Diffa perché qui molti simpatizzano già per loro e ci sono le
condizioni socioeconomiche adatte a reclutare nuovi militanti. Molti giovani e
meno giovani della regione si sono uniti a Boko Haram negli ultimi mesi, for-
nendo informazioni preziose al gruppo per poter organizzare attentati che mol-
to spesso sono indirizzati, oltre che a obiettivi militari sensibili, anche a liberare
i prigionieri dal carcere della città, per poi magari tentare di occuparla.
OLIVIER Oggi si parla di Diffa solo in relazione al movimento di persone classi-
ficate come profughi e sfollati nella guerra a Boko Haram, ma la situazione
umanitaria di questa regione – che, bisogna ricordarlo, è la più povera del pae-
se più povero al mondo secondo l’Indice di sviluppo umano – era già critica. I
primi volontari intervenuti nell’emergenza dei profughi nigeriani sono stati gli

* Per ragioni di sicurezza gli intervistati hanno chiesto di essere citati senza cognome. 23
‘PERCHÉ BOKO HARAM AFFASCINA TANTI RAGAZZI’

stessi abitanti di Diffa, nonostante le gravi condizioni di vulnerabilità, dimo-


strando così grande solidarietà. Un intervento degli operatori umanitari e delle
associazioni locali e internazionali sarebbe stato necessario anche prima, ma
sappiamo come funzionano le logiche delle emergenze: ci si mobilita solo
quando vi sono interessi politici e, di conseguenza, una copertura mediatica.
ADAMA Dall’inizio del 2015 [i miliziani di Boko Haram] hanno attraversato il fiu-
me Komadugu Yobe per venire a installarsi nella regione di Diffa. Oggi si tro-
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vano soprattutto nei villaggi di Chetimari, Kaghamari e Assaga, a pochi chilo-


metri dalla città. Sono anche più a nord-est, verso Inghighimi e Bosso. Dopo
che gli eserciti di Ciad e Niger hanno lanciato l’assalto alla città di Damasak,
nel Nord della Nigeria, ci sono stati diversi rifugiati e sfollati che hanno abban-
donato i propri villaggi, ma visto che l’acqua del Komadugu è salita con la sta-
gione delle piogge, i gruppi armati si sono ritirati dal Niger e sono tornati a
Damasak e nelle retrovie nigeriane. Dopo la ritirata degli eserciti, Boko Haram
ha ripreso Damasak, causando una seconda ondata di rifugiati nella regione di
Diffa e Bosso.
ISSA Io comunque ora vivo solo, qui a Diffa. Ho mandato mia moglie e i bam-
bini a Niamey dopo i primi attacchi in città, otto mesi fa. Tutti quegli spari nel-
la notte non fanno bene ai bambini. Mio figlio di sei anni un giorno mi ha
chiesto di comprargli un fucile. Capite? Un bimbo di sei anni! Fra di loro gioca-
vano simulando di spararsi, mimavano la guerra. Dopo aver visto queste rea-
zioni da parte dei miei figli ho deciso di mandarli a vivere a Niamey. Li rag-
giungo ogni tanto nei fine settimana, quando la situazione qui lo permette.
Cioè raramente.
LIMES Qual è il modus operandi e l’obiettivo di questa setta estremista, secondo
voi?
OLIVIER Negli attacchi ai villaggi vengono presi di mira soprattutto i mercati,
perché nella strategia di Boko Haram terrorizzare i civili è determinante. Attac-
cando i mercati, infatti, riescono a paralizzare i piccoli commerci di cui vivono
le regioni che si affacciano sul Lago Ciad. L’importante per loro non è uccidere
molte persone, come invece accade negli attentati ai mercati in Nigeria, ma
spaventare e spezzare i legami sociali su cui si è sempre fondata la convivenza
fra le diverse comunità locali. Facendo esplodere una bomba artigianale o un
kamikaze in un mercato la setta ottiene, con uno sforzo e un dispendio econo-
mico minimo, un grande risultato: destabilizza il quieto vivere e la quotidianità
dei civili, aggravando la crisi socioeconomica degli strati più bassi della popo-
lazione e incrementando così il reclutamento dei giovani e la penetrazione del-
la propria ideologia estremista fra la povera gente. Utilizzano sia reclutamenti
forzati sia pacifici e volontari. Moltissimi giovani soprattutto. Secondo le infor-
mazioni che abbiamo promettono grandi guadagni, ma in realtà i ragazzini re-
clutati sono tenuti in una sorta di schiavitù militare, drogati e sottoposti a un
24 forte lavaggio del cervello, sfruttando la loro scarsa scolarizzazione. Molti gio-
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

vani diventano dipendenti dalla droga che viene loro somministrata nei campi
di addestramento. I nuovi arrivati vengono inoltre minacciati di continuo: se la-
sciano il gruppo le loro famiglie verranno perseguitate e uccise. Sono in trap-
pola, sono obbligati a restare legati alla setta. Sono carne da macello, schiavi
della guerra.
ISSA È risaputo però che le famiglie incassano i salari dei giovani partiti con
Boko Haram. Esistono reti di trasferimento di denaro che mantengono interi
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villaggi con le rimesse dei combattenti. La composizione etnica di questa regio-


ne meridionale del Niger è la stessa della confinante regione settentrionale del-
la Nigeria: hausa, kanuri e peul. Sono popoli in continuo contatto, che condivi-
dono famiglie e lignaggi e che quindi sono facilmente condizionabili dalla
componente etnica della strategia di Boko Haram. Queste popolazioni parlano
le stesse lingue e soffrono degli stessi problemi di lontananza dai rispettivi Stati
centrali. Sono regioni remote di Stati molto estesi, che faticano a controllarne le
periferie. Qui l’assenza di potere legittimo lascia spazio al fiorire del radicali-
smo, del banditismo e del caos. Sono come al-3abåb e come lo Stato Islamico:
comprano la fedeltà di schiere di giovani senza patria al prezzo di un motorino
cinese o di un salario da operaio. E con la droga e il lavaggio del cervello li
convincono a immolarsi nella lotta contro gli Stati locali e il lontano Occidente,
colpevole di tutti i mali del mondo nella loro facile propaganda.
MAMADOU Mi hanno rapito perché sapevano che cantavo sempre canzoni con-
tro di loro e che li detesto. Un mio vicino di casa che è diventato barbuto una
mattina dopo la preghiera dell’alba è venuto dove lavoro, al banco del pesce di
mio padre, e mi ha caricato con la forza su una moto. Era accompagnato da al-
tra gente armata che mi ha portato in un grande centro [di addestramento] nel-
la foresta, dove sono stato quaranta giorni. Lì ero rinchiuso con tanti altri ra-
gazzi, ci picchiavano, ci minacciavano e ci facevano recitare il Corano tutto il
giorno. Per tre volte hanno cercato di convincermi a portare una cintura-bom-
ba fino all’aeroporto di Diffa, ma io ho sempre rifiutato. All’inizio cercavano di
convincermi con parole gentili, con cibo e acqua, poi hanno cominciato a pic-
chiarmi e a urlare. La terza volta una guardia mi ha detto che se non avessi ac-
cettato mi avrebbero ammazzato. Gli ho risposto che non avrei mai fatto una
cosa del genere e che potevano anche uccidermi. Così ha avuto pietà di me e
mi ha fatto scappare senza farsi vedere dai compagni. Loro erano tutti vestiti
con pantaloni e tenuta mimetica, non facevano altro che pregare e dire che
avevano una missione per conto di Allah da portare avanti contro l’Occidente,
la Francia, gli Stati Uniti e il Niger.
ADAMA Oggi è difficile conoscere le cifre reali degli effettivi di Boko Haram.
Penso ci sia ancora un cuore operativo molto ben organizzato che si trova nel-
la foresta di Sambisa. A metà anno erano stati cacciati dalla foresta dai raid del-
l’esercito ciadiano, ma secondo le nostre informazioni sono tornati a nascon-
dersi lì e sui monti Mandara, al confine fra Nigeria e Camerun. Sono armati fi- 25
‘PERCHÉ BOKO HARAM AFFASCINA TANTI RAGAZZI’

no ai denti e organizzati militarmente come un vero e proprio esercito. Ci sono


molti sottogruppi meno organizzati che si occupano degli attacchi ai piccoli vil-
laggi al di là dei confini della Nigeria, in Niger, Camerun e Ciad. Sono queste
cellule distaccate che si occupano dei rifornimenti e dei reclutamenti per la ca-
sa madre. Le cellule sono generalmente formate da cinque, dieci, venti persone
al massimo, fra cui un capobanda in contatto diretto tramite telefono cellulare
con gli strateghi nella foresta e l’unico dotato di armi da fuoco; gli altri non
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hanno che armi bianche, coltelli soprattutto. Questo è dovuto alla carenza di
armi e munizioni dopo l’offensiva di Ciad e Niger, ma anche alla necessità di
confondersi con le popolazioni locali e sfuggire ai controlli di polizia ed eserci-
to del Niger. Prima facevano attacchi in moto, oggi invece usano i cavalli o
marciano a piedi. Questa è la prova che sanno cambiare a seconda delle circo-
stanze. Sono questi gruppuscoli che si spostano a piedi o a cavallo i più peri-
colosi; attaccano i piccoli villaggi per razziare quello che riescono, anche cibo,
e mandarlo nella foresta. I quadri militari preferiscono rimanere nascosti, per
dare meno nell’occhio. Con questa organizzazione capillare e dislocata, Boko
Haram riesce a trovare sempre nuove soluzioni per aggirare le misure messe in
campo dagli eserciti regolari. È la guerriglia asimmetrica, che sfrutta a proprio
favore la pesantezza dei dispositivi militari e le difficoltà organizzative e logisti-
che d’intervento in campo aperto.
LIMES Cosa rappresenta il Lago Ciad in tutto questo?
MAMADOU Mi ricordo che andavo con mio padre e gli altri bambini del villaggio
a pescare sul lago [Ciad]. Poi trasportavamo il pesce fino a casa e durante il
viaggio lo vendevamo nei mercati delle città che attraversavamo. Papà era con-
tento: il lavoro era duro, ma riuscivamo sempre a portare un po’ di soldi alla
mamma. Nel lago c’era pesce per tutti. Ma negli ultimi anni è stato diverso. È
sempre più difficile pescare, uomini armati ci infastidiscono e ci chiedono soldi
lungo il percorso. Il lago si è riempito di militari ed è pericoloso avvicinarsi.
Chiedono soldi anche loro.
OLIVIER Il controllo del Lago Ciad è senza dubbio uno degli obbiettivi di Boko
Haram: ecco perché continuano le operazioni di rastrellamento sulle rive e sul-
le isole. Destabilizzando l’intera regione del lago, che si estende per oltre venti-
mila chilometri quadrati – la dimensione del Belgio per intenderci – la setta è
riuscita a infiltrarsi in tutte le attività economiche delle popolazioni che viveva-
no dei commerci lacustri. Ma non bisogna sottovalutare l’aspetto ambientale.
Tra il 2013 e il 2014 una serie di esondazioni del Komadugu Yobe ha causato
diversi danni e sfollati nella regione di Diffa. L’anno scorso sulla zona si è ab-
battuta anche un’epidemia di colera. Quella che oggi è una barriera securitaria,
domani potrebbe tornare ad essere fonte di ulteriori problemi per la popolazio-
ne locale, se non si rispetta la natura.
ISSA Bisognerebbe pensare a una sorta di Piano Marshall per la regione di Diffa
26 e per l’intero Lago Ciad. Tutta l’economia che gravitava attorno al lago è stata
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

messa in crisi dal conflitto. Il lago è pieno di pesce che non viene pescato, è
una grande potenzialità sprecata, una risorsa mal gestita e trascurata dai gover-
ni degli Stati che ne condividono le sponde. Molte persone che vivono in que-
sta regione dipendevano dalla pesca e oggi sono sul lastrico, anche a causa
della militarizzazione dell’intera zona.
ADAMA In più, gli eserciti della regione – come ad esempio quello nigerino – so-
no malpagati, male equipaggiati e disorganizzati. Fanno fronte a un gruppo che
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dimostra sempre più intelligenza militare e strategica, moltiplicando attacchi e


fronti; nonché grande versatilità e capacità mimetiche, sfruttando al meglio le co-
noscenze del terreno e la presenza nei suoi ranghi di esponenti delle comunità
locali. La pace è condizione necessaria per restaurare gli equilibri socioeconomi-
ci, ma anche ambientali, di questa grande e importante regione africana.
LIMES Quale potrebbe essere una risposta possibile alle velleità espansionisti-
che di Boko Haram nella regione?
ISSA Finché i giovani di Diffa resteranno a bere tè senza un’occupazione e senza
futuro, saranno tentati da qualsiasi sirena. L’unica soluzione è migliorare l’istru-
zione, la formazione e le politiche occupazionali. Alcuni sforzi in questo senso
sono stati compiuti dal governo del Niger, che però sta attraversando un momen-
to difficile per l’avvicinarsi delle elezioni. Ancora molta strada resta da fare.
OLIVIER Perché non si affronta, ad esempio, la mancanza cronica di ospedali e
di scuole? Una carenza infrastrutturale ma anche di risorse umane, soprattutto
nelle zone più remote della regione. In questo si notano gli effetti negativi del-
l’assenza dello Stato, che soffre sicuramente di una grave mancanza di risorse
economiche, ma che denota anche un colpevole disinteresse verso zone sensi-
bili come quella di Diffa. Nessuno parla di questo luogo sperduto, che invece è
centrale nella lotta a Boko Haram. Diffa ha bisogno di essere sostenuta, al di là
della attuale situazione d’emergenza; serve una reale ricostruzione socioecono-
mica in questa periferia del mondo.
ISSA Un altro grave problema è che la regione, già difficilmente accessibile agli
aiuti umanitari, lo è diventata ancor più dopo la proclamazione dello stato d’e-
mergenza. Per ragioni di sicurezza, nel seguire i progetti sul terreno dobbiamo
per forza avvalerci delle scorte militari nigerine, il che mette a disagio le popo-
lazioni locali. La gente ci avvicina meno volentieri, hanno timore del loro stes-
so esercito, non sono abituati alla militarizzazione. Dobbiamo sottostare a pro-
tocolli di sicurezza ferrei per poter continuare a operare in un ambiente perico-
loso come quello della regione di Diffa.
ADAMA Noi di Medici Senza Frontiere siamo l’unica ong che rifiuta categorica-
mente di spostarsi con la scorta e siamo anche fra le poche presenti oggi sul La-
go Ciad e in molti villaggi sperduti della regione di Bosso e Diffa, spesso dimen-
ticati dai grandi programmi d’aiuto umanitario. Preferiamo assumerci il rischio
che presentarci scortati ai locali. Il nostro più grande problema è la mancanza di
risorse umane: siamo una trentina a operare nel Sud-Est del Niger, ma mancano 27
‘PERCHÉ BOKO HARAM AFFASCINA TANTI RAGAZZI’

operatori che accettino di esporsi in zone così rischiose e remote come Diffa e
Bosso. Ci arrangiamo con quello che abbiamo. Stiamo comunque cercando di re-
clutare infermieri e ostetriche locali per lanciare nuovi programmi nei campi pro-
fughi, come quello di Assalga, ma è difficile trovare persone qualificate e motiva-
te a lavorare qui. Lo stesso problema riguarda i funzionari di Stato. Anche noi di
Msf abbiamo sospeso i progetti nella regione e richiamato il personale non locale
a Niamey. Oggi siamo di nuovo sul terreno, ma le nostre famiglie – come quelle
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dei funzionari – restano confinate nella capitale, costringendoci a tornare di tanto


in tanto per il fine settimana con gli aerei dell’Onu.

28
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

KADUNA, NIGERIA:
LA CONVIVENZA POSSIBILE di Emanuela C. DEL RE
Lo Stato federato nigeriano e l’omonima città sono un
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esperimento di convivenza tra cristiani e musulmani. La genesi


della comunità. La geografia del potere politico e religioso.
Così l’imam Ashafa e il pastore Wuye hanno fatto scuola.

N EL GRANDE IPPODROMO AHMADU YAKUBU


Polo Club di Kaduna, in Nigeria, alla mattina presto i facchini cominciano a riem-
pire i gradini degli spalti con comodi divani a due e tre posti in cui si siederanno
le autorità. Tutti gli altri si accontenteranno dei sedili di plastica. È un colpo d’oc-
chio grandioso, con il governatore e i dignitari, l’emiro e altri rappresentanti con
i loro sontuosi abiti tradizionali e grandi ombrelli finemente ricamati, riuniti per
assistere a uno spettacolo equestre e inaugurare un incontro internazionale orga-
nizzato dal Forum for Cities in Transition di cui Kaduna fa parte, perché è una
città divisa. I cristiani e i musulmani che la abitano si combattono da anni e la
scia di sangue che questo conflitto lascia dietro di sé è sconvolgente. I divani e
gli abiti sontuosi sembrano voler esorcizzare e nascondere una realtà sociale
molto dura. Fuori dall’ippodromo una massa di kadunesi in abiti per lo più logo-
ri, scalzi, preme per vedere i vip.
È il 2014. Il governatore Mukhtar Ramalan Yero sta facilitando (ovvero: non
ostacolando) un percorso anche istituzionale di riconciliazione dopo gli ennesimi
sanguinosi scontri avvenuti nel 2012, in un contesto sociale sconfortante per la
povertà, il livello di corruzione, la criminalità, il rischio che corre la gente ogni
giorno per via degli abusi spaventosi da parte anche delle forze dell’ordine, per
le superstizioni che portano a violenze inenarrabili perfino sui bambini accusati
di stregoneria, per i rapimenti di migliaia di ragazze e altro.
La fiorente industria cinematografica di Nollywood (tanto importante quanto
Bollywood, ma meno esportabile in Occidente perché troppo lontana cultural-
mente) non disdegna di produrre numerosi film in hausa, la lingua di Kaduna,
che a volte riflettono realtà sociali molto crude, pur esaltandone il lato comico.
Secondo un senso dello humour comprensibile solo se ci si mette nei panni di
chi non ha altro modo per sublimare l’orrore, gli stupri da parte della polizia an- 29
KADUNA, NIGERIA: LA CONVIVENZA POSSIBILE

che a danno di uomini in pieno giorno e in mezzo alla strada diventano fonte di
grande ilarità nei film. Si ripiomba nella realtà quando si visitano i villaggi rurali
nello Stato di Kaduna, dove piccole case di adobe ospitano centri per la riconci-
liazione tra parenti delle vittime degli scontri violenti e parenti dei perpetratori. Si
riuniscono confortati dai simboli della loro fede: piccoli poster di Madonne e Ge-
sù, copie dorate del Corano. Molti i corpi mutilati, orrende le cicatrici anche sui
corpi e i volti dei bambini. Si incontrano spesso nelle campagne inquietanti vil-
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laggi fantasma in cui tutte le case sono state date alle fiamme e i cui abitanti fug-
giti sono sfollati da anni. Nessuno si sente al sicuro, ed è per questo che è neces-
sario creare un clima di fiducia e riconciliazione.

Compromesso del futuro e futuro compromesso


Kaduna è la capitale dello Stato federato omonimo, che si trova nel Cen-
tro-Nord della Nigeria. In lingua hausa «kada» significa coccodrillo, di cui è pie-
no il fiume Kaduna, il maggior tributario del Niger, e da cui prende il nome lo
Stato con i suoi sei milioni di abitanti. Fondata dai britannici come quartier ge-
nerale militare nel 1907, Kaduna divenne rapidamente uno snodo commerciale,
industriale e politico, e più tardi la capitale del protettorato della Nigeria del
Nord. La città è stata caratterizzata da un’urbanizzazione molto rapida e ha rag-
giunto una popolazione di circa 1,6 milioni di abitanti. Il processo di urbaniz-
zazione ha contribuito alla multiculturalità e all’integrazione dei residenti, il che
ne fa un esempio in un paese dove di regola vi è una netta separazione tra na-
tivi e coloni. Ciononostante, la città è stata teatro di tensioni religiose fortissime
tra musulmani – che costituiscono circa il 60% della popolazione – e cristiani,
che ne rappresentano il 40%.
La demografia di Kaduna riflette una situazione più generale in Nigeria. La
Nigeria di oggi è il prodotto dell’opera di unificazione compiuta nel 1914 dai bri-
tannici, che raggrupparono la maggioranza dei musulmani a nord e la maggio-
ranza dei cristiani a sud, sotto un’unica zona amministrativa. Tuttavia, il Sud ha a
lungo tratto beneficio da opportunità molto più consistenti per quanto riguarda
l’istruzione e lo sviluppo economico. Queste disparità tra Nord e Sud hanno por-
tato alla situazione politica attuale: il paese ha tentato di mitigare la politica setta-
ria attraverso diversi processi di formazione dello Stato, per dare ai gruppi etnici
più autonomia e per raggruppare gli Stati in zone che permettessero la rotazione
delle cariche pubbliche tra le varie etnie, ma sul piano locale le tensioni restano.
Un tempo Kaduna era un fiorente centro industriale tessile, ma molte fabbri-
che hanno chiuso a causa dell’abbandono durante i vari periodi di controllo mili-
tare del territorio e più di recente si sono trovate a dover competere con le im-
portazioni cinesi. L’economia di Kaduna continua a reggersi sull’industria tessile e
automobilistica. Un oleodotto scarica il petrolio dal delta del Niger alla raffineria e
agli impianti petrolchimici, tra i pochi ad assumere manodopera. Secondo gli ulti-
30 mi dati resi noti dalla Banca mondiale e dall’Ufficio statistico nigeriano (2009), il
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

tasso di disoccupazione in Nigeria è di circa il 20% e in alcune aree del Nord rag-
giunge il 50%. Abukabar 1 sostiene che sia questo il motivo alla base di terrori-
smo, rapimenti, rapine a mano armata, attacchi bomba, corruzione e altro. Il pro-
blema sta nel tasso di disoccupazione della popolazione in età lavorativa, perché
i giovani poveri e pieni di energia sono i primi a cadere nelle reti criminali come
manovalanza o a intraprendere percorsi criminali individuali o di gruppo.
Kaduna è tra le sei città con il più alto tasso di disoccupazione del paese.
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Il nuovo governatore di Kaduna, Mukhtar Ramalan Yero, ha affermato di re-


cente che la disoccupazione aumenta l’insicurezza dell’intera nazione. Yero so-
stiene che i giovani disoccupati devono sentire l’impatto positivo della demo-
crazia sulle loro vite. La situazione per cui soltanto poche persone privilegiate
che occupano posizioni di prestigio beneficino del sistema di governo a spese
delle masse impoverite mette seriamente a rischio la pace sociale 2. Il linguag-
gio squisitamente marxista non è infrequente in Nigeria e in particolare a Ka-
duna, che peraltro è sede di prestigiosi istituti per l’istruzione, tra cui il Politec-
nico, l’Università Ahmadu Bello a Zaria (la seconda della Nigeria), l’Università
statale, il College per la tecnologia dell’aviazione, l’Istituto per la ricerca sulla
tripanosomiasi e il College di addestramento militare (l’unico istituto che adde-
stra ufficiali dell’Esercito, dell’Aviazione e della Marina). L’élite dei giovani di
Kaduna si forma con il sistema britannico, ma l’eredità del colonialismo e l’an-
timperialismo hanno dato al marxismo notevole diffusione in gran parte dell’A-
frica e in particolare in zone come Kaduna.
K.U. Omoyibo 3 sostiene che il contratto sociale con lo Stato nigeriano è falli-
to, perché consolida solo gli interessi delle élite. Lo Stato nigeriano manca di una
base su cui possano essere ancorate le forze produttive e le relazioni sociali deri-
vanti dalla produzione per poter creare un’economia che trasformi la società.
Gran parte della popolazione è composta di contadini che vivono in zone rurali
molto distanti dai centri e questo, secondo Omoyibo, ha indebolito la coscienza
di classe. In Nigeria, egli afferma, «non produciamo ricchezza, ridistribuiamo la
ricchezza accumulata con il petrolio alle élite politiche; élite che, in costante lotta
tra loro per avere una parte più consistente dei profitti, creano clientelismo. In
questo sistema l’individuo è incapacitato a reagire, con la conseguenza che il
compito di definire la vita sociale viene demandato a gruppi di giovani militanti
(ad esempio Boko Haram) che colmano il vuoto. Secondo il pastore James
Wuye 4, i giovani scontenti (che spesso vengono addestrati in Iran e altrove) tro-
vano accoglienza soprattutto nei gruppi con connotazione religiosa perché la re-
ligione è l’elemento identitario più forte in Nigeria, dove la quasi totalità della
popolazione si identifica con una fede.

1. M. ABUBAKAR, «NDE’s Failure to Reduce Unemployment in Nigeria», Daily Independent, agosto 2012.
2. M. IBRAHIM, «Addressing Threat of Youth Unemployment in the North», People’s Daily, 25/2/2014.
3. K.U. OMOYIBO, «Marx and the Nigerian State», European Scientific Journal, vol. 8, n. 11, 2012,
pp. 20-33.
4. Intervista concessa all’autore dal pastore Wuye sui giovani in Nigeria, goo.gl/W0Rln1 31
KADUNA, NIGERIA: LA CONVIVENZA POSSIBILE

Tra le molte donne che ricoprono ruoli significativi vi è Lydia Umar 5 del
Gender Awareness Trust (Gat) di Kaduna, impegnata ora a far sì che lo Stato ni-
geriano metta in atto il National Action Plan previsto dalla risoluzione 1325 delle
Nazioni Unite per le donne. Lydia, educatrice per formazione, combatte per in-
nalzare il livello d’istruzione delle donne a Kaduna, per trovare loro impiego e
favorire l’imprenditoria femminile, la partecipazione politica e altro. Sostiene che
sono le iniziative della società civile le più promettenti per l’economia e lo stan-
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dard di vita della popolazione.

Equilibrismi di mentalità
Nel Duemila Kaduna si ritrovò sulle prime pagine dei giornali mondiali per-
ché il governo dello Stato aveva annunciato l’adozione della šarø‘a (la legge isla-
mica), causando violenti scontri tra cristiani e musulmani con circa duemila mor-
ti, oltre diecimila feriti e sessantamila sfollati. Furono distrutte migliaia di abitazio-
ni e 170 tra chiese e moschee. La città divenne un luogo diviso tra due comunità:
i cristiani a sud e i musulmani a nord.
Nel 2002 Kaduna ha vissuto ancora momenti di terrore per l’ondata di vio-
lenza causata da un controverso articolo di giornale che suggeriva che il profeta
Maometto avrebbe approvato il concorso di Miss Mondo che doveva aver luogo
proprio in città. Durante i tre giorni di violenza, noti come «scontri di Miss Mon-
do», vi furono duecentocinquanta morti e un esodo di trentamila persone.
Quegli eventi portarono il governatore dello Stato di Kaduna Ahmed Makarfi
ad approvare delle importanti riforme conosciute come «compromesso di Kadu-
na», diventate un modello di riferimento per altri Stati nigeriani. Secondo le nor-
me, il codice penale della šarø‘a viene applicato solo nella comunità musulmana;
è stato creato un sistema tripartito di tribunali in cui coesistono un tribunale se-
colare, uno tradizionale e uno islamico, offrendo un sistema giudiziario che co-
pre tutto lo spettro religioso. Inoltre, i leader religiosi e tradizionali hanno ancora
una forte influenza nelle comunità e spesso danno assistenza nei processi di me-
diazione. Il compromesso ha anche il merito di garantire che i cristiani abbiano
dei leader riconosciuti dallo Stato nelle loro zone amministrative, per facilitare la
risoluzione pacifica del conflitto in atto.
Dal 2009 la più grande minaccia alla pace a Kaduna proviene dal gruppo
islamico radicale di Boko Haram (Ãamå‘at Ahl al-sunn li’l-da‘wa wa ’l-ãihåd,
Gruppo per la propagazione degli insegnamenti del Profeta e del jihåd). Esso ha
finora colpito obiettivi come le stazioni di polizia e altri edifici governativi, ma
anche scuole e chiese, proprio allo scopo di scatenare scontri tra cristiani e mu-
sulmani. Nel 2011 il gruppo aveva attirato l’attenzione con l’attacco agli uffici del-
le Nazioni Unite ad Abuja. In seguito, ha bombardato molte città in tutto il paese
negli «attacchi di Natale» e nel giugno 2012 ha colpito una chiesa a Kaduna. Sono

32 5. Intervista concessa all’autore da Lydia Umar, goo.gl/oOYLAj


AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

seguiti sanguinosi scontri tra musulmani e cristiani in tutto lo Stato, in cui è stato
imposto il coprifuoco di 24 ore fino al successivo agosto.
Le azioni di Boko Haram, che hanno causato la morte di migliaia di persone
dal 2009, hanno lasciato la società civile sgomenta e incapace di reagire. Il gover-
no sta però attuando una politica di sicurezza basata sull’aumento delle campa-
gne militari, più che sul rafforzamento delle forze di polizia. Se il governo è stato
capace di colpire i leader del gruppo estremista, al contempo vi sono sempre at-
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tacchi e la sicurezza resta precaria rendendo la vita quotidiana difficile.


Di recente il governo nigeriano, insieme ad alcuni gruppi regionali e nazio-
nali, avrebbe avviato dei negoziati di pace con alcune sètte di Boko Haram, seb-
bene la circostanza sia messa in dubbio da più parti. I gruppi coinvolti sarebbero
il Forum degli anziani del Nord, il Forum degli anziani di Borno, il Forum dei
governatori del Nord, il Forum consultivo arewa e alcune organizzazioni non go-
vernative come il Centro di mediazione interconfessionale.
Poiché di recente si sono palesate altre fazioni di Boko Haram, diversi grup-
pi nazionali e regionali hanno cominciato a tentare di negoziare con i leader del
movimento. Tuttavia, nel luglio 2015 vi è stato un altro grave attentato con alme-
no 25 morti, tra cui bambini, a Zaria, nello Stato di Kaduna, attribuito proprio a
Boko Haram, durante una cerimonia per dare il benvenuto a un’autorità pubbli-
ca 6. Il governatore Nasir Ahmad El-Rufai, eletto a maggio, ha annunciato il dislo-
camento di altri reparti delle forze dell’ordine e ha invitato la popolazione a non
riunirsi in grandi folle.

Braccio di ferro tra vecchio e nuovo


Oluwakemi Ojo 7, una ragazza nigeriana, pubblica in un blog quaranta vec-
chie foto che dimostrano come i tempi siano cambiati in Nigeria. A parte le im-
magini storiche che ritraggono la regina Elisabetta d’Inghilterra che «incontra il
suo popolo (i nigeriani)» negli anni Cinquanta, o quelle in cui appaiono vecchi
mezzi di trasporto, non pare che molto sia cambiato. Anche le foto di inizio No-
vecento che ritraggono capitribù, in realtà potrebbero essere state scattate oggi.
Tra le immagini scelte da Oluwakemi c’è il palazzo dell’emiro di Zaria nello Stato
di Kaduna. Ho incontrato l’emiro Sheu Idris nel suo palazzo nel 2013. Ad acco-
glierci c’erano le guardie con le loro lunghe fruste, i cui schiocchi tenevano a di-
stanza i curiosi locali, dall’apparenza poverissima e dall’aria intimorita. Introdotti
nella sala del trono, gli alti dignitari si sdraiavano in terra di fronte all’emiro in se-
gno di rispetto. Zazzau, oggi Zaria, era un punto di raccolta degli schiavi che ve-
nivano riversati nei mercati di Kano e Katsina, dove erano barattati in cambio di
sale con i trafficanti che li portavano a nord del Sahara.

6. M. WINDSOR, «Suspected Boko Haram Bombing In Kaduna State Kills at Least 25 People», Interna-
tional Business Times, 7/7/2015.
7. O. OJO, 40 Old Photos that Will Show You How Times Have Changed in Nigeria, 29/4/2015. 33
KADUNA, NIGERIA: LA CONVIVENZA POSSIBILE

La zona è rischiosa per via dei rapimenti e delle altre violenze, nonché per
la presenza del gruppo. Ed è ormai nota l’esperienza dell’imprenditore francese
che riuscì a evadere nel 2013 dalla prigionia in cui lo teneva il gruppo Ansaru 8
(Ãamå‘at al-anâår al-muslimøn fø bilådi al-sûdån, Avanguardia per la protezione
dei musulmani dell’Africa nera), ritenuto responsabile anche del rapimento e del-
la morte dell’imprenditore italiano Silvano Trevisan nel 2013. Ansaru è una fazio-
ne dissidente di Boko Haram emersa nel 2012 che rifiuta la leadership del grup-
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po; pare coordini le sue operazioni con Aqmi (al-Qå‘ida nel Maghred islamico, di
base nel Mali settentrionale) e con il Mujao (Movimento per l’unicità e il jihad
nell’Africa occidentale). Questa fazione costituisce la minaccia più grave e immi-
nente soprattutto per gli interessi occidentali, mentre Boko Haram potrebbe esse-
re considerata una minaccia strategica a lungo termine 9.
I gruppi terroristici costituiscono un pericolo per la sicurezza, ma il proble-
ma sta anche nella difficoltà di Kaduna di trovare un equilibrio tra strutture politi-
che e sociali, mentalità tradizionali e modi di vita e di pensiero che derivano dal-
l’elaborazione nigeriana dell’incontro (forzato in passato, oggi voluto) con altri
mondi, Occidente in primis.
Questa tensione tra tradizione e filosofia politica contemporanea è emersa
con violenza il 29 maggio 2015: l’emiro di Zaria Shehu Idris è stato preso a sas-
sate da giovani arrabbiati durante una cerimonia d’insediamento del nuovo go-
vernatore di Kaduna. Shehu era accusato di aver sostenuto il partito Pdp (Peo-
ple’s Democratic Party) alle elezioni vinte dall’Apc (All Progressives Congress).
Uno dei giovani assalitori, Haruna Gambo, ha affermato: «L’emiro di Zazzau è
un membro del Pdp e non è il nostro capo tradizionale, ha dimostrato di essere
di parte. Noi ci aspettiamo che egli sia il padre di tutti gli abitanti dello Stato di
Kaduna, ma ha scelto di sostenere il Pdp apertamente contro il nostro candida-
to. Allora perché è venuto alla cerimonia d’insediamento del candidato del par-
tito vincitore? Penso che oggi abbia imparato la lezione. Ringraziamo Allah che
l’emiro non sia restato ferito, ma l’umore dei giovani gli farà capire che egli non
è in armonia con i suoi sudditi» 10.

Coesistenza, potente strategia di riconciliazione


James Movel Wuye 11, pastore cristiano dell’Assemblea di Dio, non mostra
volentieri il suo braccio di gomma; lo fa quando può servire a spiegare il livello
di violenza e di rischio a Kaduna. Ha perso il braccio nel 1992 in un corpo a cor-
po con un musulmano che glielo staccò di netto con un machete e da allora la

8. P. LEPIDI, «Nigeria, comment Francis Collomp a réussi son evasion», Le Monde, 13/3/2015.
9. J. ZENN, «Ansaru: A Profile of Nigeria’s Newest Jihadist Movement», Terrorism Monitor, vol. 11, n.
1, ottobre 2013.
10. G. AHMAD, «Irate Youths Attack Emir of Zaria during El-Rufai’s Inauguration as Kaduna Gover-
nor», News Express, 29/5/2015.
34 11. Intervista concessa all’autore dal pastore Wuye, cit.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

sua vita è cambiata. Era un combattente, dice, ma quell’episodio lo fece riflettere


sull’assurdità della violenza e decise di dedicarsi alla riconciliazione. Sul fronte
opposto si trovava l’imam musulmano Muhammad Nurayn Ashafa, che sconvolto
dalla crudeltà e dall’inutilità delle ostilità tra cristiani e musulmani decise di dedi-
carsi alla pace. Entrambi nati nel 1960, da quando si sono incontrati nel 1995
hanno scoperto di avere in comune più cose di quante li dividessero e hanno
deciso di diventare il simbolo vivente della riconciliazione. Vivono e viaggiano
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sempre insieme, testimonianza vivente di una possibile coesistenza.


L’imam Ashafa 12 mi racconta che durante un venerdì, sentì un «collega» rac-
contare in una moschea che quando il profeta Maometto andò a predicare a
¡å’if, fu preso a sassate e ferito. A Maometto un angelo chiese se voleva distrug-
gere coloro che lo avevano aggredito e rifiutato, ma Maometto disse di no. Allora
Ashafa comprese che a Kaduna avrebbe dovuto agire per la pace e andò a trova-
re il pastore James Wuye, che si trovava in ospedale per via del braccio.
Il pastore James dice che un tempo si esprimeva con odio contro i musul-
mani incitando la sua comunità, ma poi sentendo un antimusulmano parlare in
una conferenza, si rese conto che – come dicono i sufi – non si può predicare
Dio con l’odio nel cuore e si sentì «istantaneamente deprogrammato». L’incontro
tra l’imam Ashafa e il pastore James ha portato alla fondazione del Forum dei
giovani per il dialogo tra cristiani e musulmani, da cui poi è nato l’Interfaith Me-
diation Center di Kaduna. L’attività di Ashafa e Wuye è indefessa. Persone molto
colte con notevoli qualifiche, girano il mondo sempre insieme per portare il loro
messaggio di pace con umiltà e dedizione. Li incontro regolarmente ogni anno
dal 2010 e seguo le loro attività da vicino. Ashafa ha quattro mogli e diciotto figli,
con il Wuye ha avuto molti riconoscimenti. Su di loro è stato realizzato il film
The Imam and the Pastor 13.
Uno degli elementi che colpisce maggiormente è la loro capacità di convive-
re serenamente lasciando intatte le rispettive convinzioni etiche e religiose. Han-
no portato la loro strategia di pace a Kirkûk in Iraq, a Belfast, a Londonderry, a
Mitrovica, in Giordania e in molti altri luoghi lacerati. La loro «riconciliazione vis-
suta» sta trasformando Kaduna e la Nigeria in un esempio per tutti.

12. Intervista concessa all’autore dall’imam Ashafa, goo.gl/b7JbyL


13. The Imam and the Pastor, FLTfilms, 2013. 35
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

LAGOS
LA MEGALOPOLI
DEL FUTURO di Giulio ALBANESE
Ventuno milioni di abitanti che raddoppieranno entro il 2050,
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enormi problemi infrastrutturali, sociali e ambientali. Ma anche


ambiziosi progetti di ammodernamento. La città nigeriana
condensa tutte le contraddizioni dei grandi centri africani.
di Beatrice BOTTO, Benedetta PELUSIO, Vittoria STEFANINI
Michelangelo VALLICELLI

1. L
AGOS RAPPRESENTA UNA FINESTRA SUL
futuro delle grandi metropoli, racchiudendo in sé tutte le criticità e le contraddizio-
ni delle grandi città africane. Nonostante la crescita esponenziale della popolazione
– ad oggi oltre 21 milioni di abitanti, destinati a raddoppiare entro il 2050 – gli
standard di vita rimangono bassissimi. Tolti pochi grandi milionari concentrati nei
quartieri centrali della città 1 – Lagos Island, Victoria Island e Ikoyi – la maggior
parte della popolazione vive in baracche fatiscenti prive di servizi primari (strade,
acqua potabile, elettricità e allaccio alle fognature), la microcriminalità dilaga, le in-
frastrutture non sono in grado di sostenere il denso traffico, la burocrazia e le forze
dell’ordine sono arbitrarie e corrotte 2.
A questo si aggiungono le continue e devastanti alluvioni che spazzano via
ogni iniziativa migliorativa e la difficoltà di gestione dei rifiuti da parte del gover-
no, che riesce a raccogliere nelle principali discariche urbane – Olososun, Solous,
Abule Egba e Isolo – solo il 40% della spazzatura della città 3.
Fondata nel XV secolo da mercanti portoghesi di avorio, spezie e schiavi, la
città-porto di Lagos era il centro del commercio di schiavi lungo la tratta atlantica
durante il XVIII e il XIX secolo. Nel 1850 era una comunità piccola e compatta di
25 mila abitanti, che occupava poco più di 5 kmq su Lagos Island 4.

1. M. VASELINOVIC, «Where Do Africa’s Multimillionaires Live?», Cnn, 17/4/2015.


2. M. MACKAY, G. WEBSTER, T. KERMELIOTIS, «On the Front Line of Climate Change: Five Cities Battling
Floods, Heat and Storms», Cnn, 15/6/2012.
3. Wecyclers Nigeria, consultato a ottobre 2015, www.wecyclers.com
4. A. OLUKOJU, Infrastructure Development and Urban Facilities in Lagos: 1861-2000, Institut
français de recherche en Afrique, 2013. 37
LAGOS, LA MEGALOPOLI DEL FUTURO

Nel 1911 l’area metropolitana di Lagos si estendeva su circa 46 kmq compren-


dendo Apapa e Ebute Metta sulla terraferma, a seguito di un aumento della popo-
lazione a quasi 74 mila abitanti. Negli anni successivi Lagos subì una crescita de-
mografica costante, dovuta al succedersi di diversi eventi: l’afflusso di saro (sierra-
leonesi), schiavi liberati e rimpatriati dal Brasile, la cessazione delle guerre civili
nella regione di Yoruba, la progressiva espansione della dominazione britannica a
partire dal 1914, con lo sviluppo del porto e del commercio locale ed estero. La
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crescita più spettacolare è stata registrata nella seconda metà del secolo: 400 mila
persone in più nella città e 390 mila nelle periferie.
Nel 1963 Lagos era costituita da un centro metropolitano e da numerose co-
munità satelliti, con una popolazione totale di oltre un milione di persone. L’e-
spansione è stata facilitata da sistemi di bonifica di paludi e lagune, che costituiva-
no una minaccia per la salute delle persone. Nonostante questi sforzi, lo sviluppo
urbano non regolamentato ha prevalso. La migrazione degli abitanti dell’isola ver-
so nuove aree della terraferma (Ajegunle, Mushin e Lawanson), gli spostamenti
della popolazione negli interstizi tra queste aree e il centro metropolitano (Oba-
nikoro, Maryland e Ilupeju), l’emergere di interi nuovi insediamenti come Amuwo-
Odofin e di nuove aree industriali e residenziali come Oregun, Ojota e Agidingbi,
unitamente a una scarsa applicazione delle leggi urbanistiche, hanno impedito
un’adeguata occupazione del suolo.
Le comunità ai margini urbani di Lagos – Ajeromi, Mushin, Shomolu, Ikeja,
Agege e Oshodi – sono state amministrate da consigli rurali privi delle capacità le-
gali e materiali per applicare un piano urbanistico, lasciando ampio margine a spe-
culatori privati nella costruzione non regolamentata di abitazioni.
Tra gli anni Ottanta e Novanta la città ha avuto una crescita spettacolare verso
nord-est nelle aree di Ikotun, Egbe, Isolo, Ojota, Ogudu, Ketu, Ikosi, Iyana-Ipaja,
Agege, Abule Egba, Okokomaiko e Badagary. Molti di questi terreni erano fattorie
o snodi commerciali attestati lungo la ferrovia Lagos-Abeokuta, che in seguito all’e-
sproprio dei terreni nell’area di Ikeja da parte del governo per la costruzione del-
l’aeroporto, della Scuola di polizia e della Gra (Ikeja Government Residential Area)
sono stati ricollocati in nuove aree suburbane emergenti.
Capitale nigeriana fino al 1992, Lagos è oggi una delle metropoli in più rapida
espansione al mondo: la popolazione, che nel 1971 era di 1,4 milioni di abitanti,
ha raggiunto oggi i 21 milioni, facendone la città più popolata dell’Africa e la sesta
città al mondo per dimensioni e rapidità di crescita demografica 5.

2. Lagos si trova a fronteggiare difficoltà infrastrutturali sempre maggiori, in


particolar modo nel settore dei trasporti. La città, infatti, deve gestire ogni giorno 7
milioni di spostamenti di passeggeri 6. Di questi, solo 8 mila vengono assorbiti dal-
la rete ferroviaria – ad oggi costituita da sole due linee – e dalle rotte urbane dei

5. Digest of Statistics, Lagos State Government, Bureau of Statistics, 2013.


38 6. O. TAIWO, Challenges of Transportation in Lagos, United Nations Environment Programme (Unep).
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

traghetti sulla laguna. Gli spostamenti rimanenti avvengono lungo le arterie stradali
della città, che si estendono per una lunghezza complessiva di 4.921 km con un
andamento prevalentemente Nord-Sud (Agege Motor Road, Lagos-Ikorodu Road,
Murtala Muhammed Way e il Third Mainland Bridge), intercettate da un asse est-
ovest (Lagos-Badagry Expressway) e dal raccordo anulare che da Apapa raggiunge
Oworonshoki.
Gli spostamenti cittadini si basano, quindi, sul trasporto su gomma: auto priva-
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te, mini-taxi su due ruote (okada) e bus urbani di diverse dimensioni (molue da
40-60 posti in piedi e danfo da 12-14 posti a sedere) che si addensano lungo le
strade generando traffico costante, incidenti continui e un inquinamento altissimo.
Il valore della densità veicolare media, che nel resto della Nigeria è di 11 auto/km,
a Lagos raggiunge le 222 auto/km 7, facendo sì che un lagosiano impieghi quasi tre
ore per percorrere un tragitto urbano di 10 chilometri in auto. Inoltre, statistiche
governative mostrano che il 40% dei nuovi veicoli della Nigeria vengono registrati
a Lagos, con un consumo dell’85% del petrolio importato e un’emissione di gas
serra pari al 50% di tutto il paese.
Diverse sono le motivazioni che hanno prodotto la difficile situazione infra-
strutturale odierna di Lagos. Da un lato questioni strettamente politico-amministra-
tive, quali l’assenza di un inquadramento normativo specifico per i trasporti, la de-
bole sinergia tra le differenti agenzie pubbliche dedicate alle infrastrutture e la
scarsa integrazione tra pianificazione urbana e dei trasporti. A queste si aggiungo-
no questioni fisiche, quali la notevole estensione stradale su terreni acquitrinosi e
privi di un efficiente sistema di drenaggio e la scarsa capienza delle strade, dovuta
all’affastellarsi lungo il loro corso dei più grandi mercati della città.
A Lagos, infatti, in mancanza di specifiche aree designate, l’industria e il mer-
cato locale si sono insediati lungo gli assi infrastrutturali 8. Il tracciato ferroviario,
l’area tra i piloni dei viadotti, le zone di terra delimitate dagli svincoli autostradali
sono stati colonizzati da una fitta rete di industria secondaria: produttori di blocchi
di cemento, gommisti, meccanici, parrucchieri, chiese, scuole, mercati locali e ba-
racchini di ogni genere. Il governo di Lagos ha accettato quest’occupazione infor-
male di spazi statali in cambio del pagamento di una tassa. È il caso di famosi mer-
cati «infrastrutturali» come Jankara (su Lagos Island) e Oshodi (lungo l’Agege Motor
Road), luoghi di attività incessante nell’arco dell’intera giornata.
Diverse le proposte mirate a risolvere le criticità infrastrutturali della città. Da
un lato iniziative dal basso legate all’utilizzo di nuove tecnologie, come il sito La-
gos traffic crowdmap 9, che consente agli utenti di localizzarsi e segnalare le diffi-
coltà incontrate lungo le strade. Dall’altro iniziative dall’alto, come il progetto ap-
provato dalla Banca mondiale nel 2002 con un investimento di 150 milioni di dol-

7. W. ALADE, Trip Length Characteristics In Lagos Metropolis, Department of Urban and Regional
Planning, University of Lagos, Nigeria.
8. R. KOOLHAS, S. BOERI, S. KWINTER, N. TAZI, H. OBRIST, Mutations, Barcellona 2001, Actar.
9. Lagos Traffic Crowdmap, consultato a ottobre 2015, www.lagostraffic.crowdmap.com 39
LAGOS, LA MEGALOPOLI DEL FUTURO

lari volto a migliorare la capacità del governo nigeriano di gestire i trasporti a La-
gos. La Banca ha finanziato uno studio per verificare la fattibilità di un sistema di
autobus veloci lungo un corridoio prioritario.
Parallelamente, il governo dello Stato di Lagos ha creato l’autorità metropolita-
na dei trasporti di Lagos (Lamata) e ha offerto un cofinanziamento di circa 35 mi-
lioni di dollari al progetto della Banca mondiale. Così è nato il programma Bus Ra-
pid Transit (Brt) 10, già sperimentato in Colombia e in Brasile, che ha portato nel
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2008 all’introduzione di una corsia esclusiva dedicata agli autobus che consente
spostamenti più rapidi e in sicurezza. Il programma si basa su uno schema innova-
tivo di partenariato pubblico-privato in cui i tracciati, le corsie preferenziali e le fer-
mate di autobus sono di proprietà del governo di Lagos, mentre i mezzi di traspor-
to, la loro manutenzione e le autorimesse sono di proprietà dei privati coinvolti.
Ad oggi sono stati realizzati 22 km del corridoio pilota in prossimità dell’aeroporto,
su cui viaggiano 18 mila persone al giorno. Altri due corridoi saranno completati
nel 2015 ed entro il 2020 il governo prevede di avere otto tracciati attivi, che copri-
ranno gran parte della città.

3. La Nigeria è dotata di enormi risorse umane e materiali, ma nonostante


gli sforzi dei governi più recenti per ridurre la disoccupazione, negli ultimi anni
l’incremento occupazionale è stato marginale. A causa dell’inadeguatezza dei
dati a disposizione risulta anche difficile per le istituzioni programmare politiche
di pianificazione su questo aspetto e determinare le caratteristiche degli impie-
ghi attuali 11.
In questo quadro, lo Stato di Lagos ha registrato negli ultimi anni il minor gra-
do di disoccupazione, ad eccezione delle attività agricole e manifatturiere concen-
trate prevalentemente a Benue e Katsina. In particolare, l’area urbana di Lagos ve-
de nelle microimprese e nelle attività di commercio informale uno dei principali
motori della sua vertiginosa urbanizzazione.
Il processo di modernizzazione di Lagos avviene con un’intensità tale per
cui la città si trova a consumare più di quello che produce, generando una conti-
nua riorganizzazione del proprio assetto produttivo e commerciale. La sua geo-
grafia urbana, in continua ridefinizione, rispecchia un lavoro e un’economia fles-
sibili e mutevoli. Sebbene una vera e propria industria locale non si sia ancora
consolidata, la dimensione produttiva della città è fortemente legata al settore del
riciclo di materiale elettronico.
Una delle più consistenti realtà economiche è il mercato internazionale di
Alaba. Fondato nel 1978, è oggi la più grande struttura per il commercio di pro-
dotti elettronici di prima e seconda mano in Africa, dove vengono distribuite le
principali marche internazionali. Occupa una superficie di circa 2 kmq a sud-

10. BRT System, Lagos Metropolitan Area Transport Authority website, consultato a ottobre 2015,
www.lamata-ng.com/brt
40 11. 2006 Digest of Statistics, Office of the Surveyor, General Lagos, 2012.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

ABITANTI DELLO STATO DI LAGOS PER PROVINCIA

5,9%
Agege
7,3%
Surulere 8,2%
Ajeromi-Ifeldun
5,8%
Shomolu Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

6,5%
Oshodi-Isolo
11,7%
Alimosho

5,4%
Ojo
POPOLAZIONE
17.552.942 ab. 3%
Amuwo-Odofn
7,5%
Mushin 3%
Apapa

3,6 % 2,2 %
Lagos terraferma Badagary
1,8 %
Epe
4,9 % 5,6 %
Lagos isola Eti-Osa
5,3 % 3,9 %
3,7 %
kosofe Ikeja 4,2 %
Iko rodu
Ifako-Ljaye 0,6 %
Ibeju-Lekki

Fonte: censimento 2006 - Digest of Statistics 2012 - Lagos State Government

ovest di Lagos e la sua offerta copre qualsiasi prodotto di elettronica per le tele-
comunicazioni (computer, televisori, telefoni), elettrodomestici (refrigeratori, vi-
deogiochi), fino ai generatori e ai sistemi satellitari. I principali acquirenti pro-
vengono da Ghana, Niger, Ciad, Togo, Benin e Africa orientale. Dal momento
che ad Alaba abbondano i clienti nei giorni festivi, la maggior parte delle impre-
se non osserva le feste nazionali.
Lagos si è sviluppata anche come principale sbocco commerciale nell’Africa
occidentale per le apparecchiature elettroniche alla fine del loro ciclo di vita. An-
che se gran parte di tali congegni è recuperata e venduta a famiglie e rivenditori
provenienti dalla Nigeria e da altri paesi dell’Africa occidentale e centrale, il set-
tore genera consistenti quantità di e-waste (spazzatura elettronica), problema
messo in luce nel 2005 dal film La discarica digitale prodotto dall’ong Basel Ac-
tion Network (Ban). 41
LAGOS, LA MEGALOPOLI DEL FUTURO

DENSITÀ DELLA POPOLAZIONE NELLO STATO DI LAGOS

60.768,5
Agege
47.111,3
Surulere

70.213,9 Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

Shomolu
103.258,6
Ajeromi-Ifelodun

27.025,9
Oshodi-Isolo

5.173,2
Ojo
DENSITÀ 14.855,1
4.906,8 ab./km2 Alimosho

2.931,2
Amuwo-Odofn
13.568,4
Apapa

94.058,1
Mushin
858,7
Bagdary
335,4
152,4 Epe
Ibeju-Lekky
12.995,2
Ikeja 3.288,2
Eti-Osa
1.997,2 17.309,8
Ikorodu Ifako-Ijaye
32.083
Lagos terraferma
11.073,6
92.856,3 Kosofe
Lagos isola

Fonte: censimento 2006 - Digest of Statistics 2012 - Lagos State Government

La Commissione Europea, i governi norvegese e britannico e l’Associazione


olandese per lo smaltimento dei metalli e prodotti elettronici (Nvmp) hanno finan-
ziato il progetto Africa E-waste, gestito dal segretariato della Convenzione di Basi-
lea (Sbc) 12. Si tratta di un insieme di attività volte a migliorare la governance am-
bientale relativa a questa problematica e a creare condizioni sociali ed economiche
favorevoli per i partenariati e le piccole imprese nel settore del riciclaggio.
A Lagos, le comunità più colpite dalle conseguenze dello smaltimento dell’e-
waste sono quelle dei distretti di Alaba, Ikeja Computer Village e Odo Iya Alaro. La
discarica Olusosun contamina un’area che si espande verso Ojota, Ikeja fino all’as-
se stradale del mercato di Alaba. In altre città la spazzatura elettronica viene smalti-
12. Socio Economic Assessment and Feasibility Study on Sustainable E-Waste in Nigeria 2011, Öko-
42 Institut.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

NUMERO DEI VEICOLI NELLO STATO DI LAGOS

341.027
2002 261.893
2003
240.138
1.114.429 2004
2011 Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

275.095
2005

365.499
2006
QUANTITÀ
1.041.751 DEI VEICOLI
2010

657.353
2007

885.612 795.143
2009 2008

Fonte: Motor Vechicles Statistics 2012, Lagos State Government

ta in discariche assieme ad altri rifiuti urbani. La maggior parte delle attività che
producono rifiuti elettronici si svolgono quindi all’interno di zone abitate, dove
vengono realizzati i collettori e i riciclatori. Nonostante l’attività di gestione di que-
sto materiale abbia inciso negativamente sui residenti inquinando aria, acqua e
suolo, si riscontra un impatto economicamente positivo: creando posti di lavoro
vengono garantiti cibo ed acqua. Il numero di posti di lavoro forniti dal settore
dell’e-waste, formale e non, è notevole considerando il livello di disoccupazione:
le persone impiegate prevalentemente presso le discariche a Olusosun, Odo Iya
Alaro e Alabarago oscillano tra 600 e 4 mila 13.

4. La particolare conformazione morfologica dell’area di Lagos, unico porto


naturale africano sull’Oceano Atlantico, rende la città ancora oggi il più importante
approdo commerciale dell’Africa occidentale. Essa si sviluppa sulle tre isole princi-

13. O. OGUNGBUYI, I. CHIDI NNOROM, O. OSIBANJO, M. SCHLUEP, E-Waste Country Assessment Nigeria,
E-Waste Project of the Secretariat of the Basel Convention, 2012. 43
LAGOS, LA MEGALOPOLI DEL FUTURO

pali (Lagos Island, Victoria Island, Ikoyi) che costituiscono il centro storico, econo-
mico e politico, estendendosi sulla terraferma intorno alla laguna per circa 800
kmq. Tre ponti carrabili collegano le isole tra loro e con la parte continentale della
città, dove risiede e lavora la maggioranza della popolazione e dove si trova l’aero-
porto internazionale.
Proprio la laguna è fondamentale per la vita della metropoli, che si basa per
molti versi sul rapporto con l’acqua: da un lato il problema di prim’ordine è la ca-
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renza di acqua potabile sicura, dall’altro l’acqua come vettore commerciale ha fatto
la fortuna della città, e ancora oggi vi sono interi quartieri costruiti su palafitte co-
me lo slum di Makoko, la cui popolazione vive in funzione dell’acqua e in totale
simbiosi con essa. Si tratta di un’area che da qualche anno è assurta agli onori del-
la cronaca per essere stata oggetto di ripetuti tentativi di sgombero da parte delle
autorità cittadine, tentativi ai quali per il momento la popolazione sta resistendo.
L’amministrazione governativa non mira però allo sgombero di Makoko per
ragioni umanitarie. Essendo infatti Lagos una città in forte ascesa economica e
demografica, molti investitori hanno messo gli occhi su quest’area costiera, dove
potrebbero sorgere quartieri residenziali di lusso con vista laguna. Makoko, che
secondo le stime governative ospita tra i 30 e i 250 mila abitanti, è un agglome-
rato urbano unico al mondo, fatto di canali e palafitte percorribili interamente
dalle tipiche imbarcazioni in legno 14. Nel 2013 uno studio di architetti locale, Nlé
studio, con finanziamenti delle Nazioni Unite e di varie fondazioni private, ha
concepito un nuovo tipo di costruzione: una scuola galleggiante realizzata dagli
stessi abitanti con i materiali facilmente reperibili nella zona lagunare. Obiettivo
dell’iniziativa è quello di conferire know-how alla popolazione locale per trasfor-
mare una zona fatiscente, carente dal punto di vista igienico e pericolosamente
soggetta a inondazioni, in un nuovo tipo di comunità galleggiante ed ecososteni-
bile. Non solo a Lagos, ma in tutte le città costiere africane, ugualmente minac-
ciate dai cambiamenti climatici. Queste costruzioni sono infatti dotate di un im-
pianto fotovoltaico, di sistemi di riciclo delle acque piovane, di un’area verde e
di dispositivi ad aria compressa che stabilizzano le botti galleggianti in caso di
innalzamento del livello delle acque 15.
Lagos è dunque una città circondata dall’acqua, dove però l’accesso all’acqua
potabile è molto difficile per la maggior parte degli abitanti. Le tubature, quando ci
sono, sono vecchie e sporche, e in molte zone dai rubinetti esce una sostanza fan-
gosa inutilizzabile. Ciò porta la popolazione ad acquistare acqua potabile da privati
che sempre più lucrano su questo business. Inoltre l’acqua viene spesso venduta
in sacchetti di polietilene che inquinano gravemente la città, ostruendo i canali di
scolo e formando pozze d’acqua che diventano pericolosi ricettacoli di malattie,
anche a causa delle zanzare malariche che vi si annidano.

14. «Lagos, the Mega-City of Slums», Irin, consultato a ottobre 2015, www.irinnews.org/report/60811/-
nigeria-lagos-the-mega-city-of-slums
44 15. «Makoko Floating School», Nlé studio, 2012.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

SETTORI ECONOMICI DELLO STATO DI LAGOS

3,5% 2,0%
Finanza Immobiliare

3,7% Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

Telecomunicazioni
29,6%
Industria manufatturiera

8,4%
Commercio

ECONOMIA
19,6% DI LAGOS
Costruzioni

26,47%
Trasporti

Fonte: Eia

Alcune associazioni private promuovono da qualche anno una maggiore co-


noscenza delle problematiche legate all’acqua: girando per i quartieri più poveri
insegnano alla popolazione a tenere in condizioni igieniche migliori le proprie ca-
se e le regole da seguire per evitare malattie come colera e tifo. Esiste inoltre un
problema di percolazione delle sostanze inquinanti nel terreno, a causa dei nume-
rosi stabilimenti industriali della città che avvelenano le acque sotterranee con so-
stanze come nitrati, piombo, ferro, muffe e coliformi 16.
Dal recente vertice tenutosi a Lagos sul tema dei cambiamenti climatici sono
emerse due strategie per arginare gli effetti del surriscaldamento globale17: la mas-
siccia piantumazione di essenze arboree e la costruzione di un nuovo quartiere, la
cosiddetta Eko Atlantic City, che dovrebbe proteggere la città dall’innalzamento
dell’oceano. La nuova area sorgerà su una penisola artificiale adiacente a Victoria

16. Lagos Case Study, Stimson Center, 2014.


17. Lagos Water Corporation, www.LagosWater.org 45
LAGOS, LA MEGALOPOLI DEL FUTURO

Island e ospiterà circa 250 mila abitanti oltre a uffici, zone commerciali, aree verdi
serviti da un efficiente sistema energetico e di smaltimento rifiuti. In tal modo La-
gos cerca di reinventarsi, attenuando alcuni degli annosi problemi che l’affliggono
e candidandosi ambiziosamente a modello, non solo negativo, delle megalopoli
del XXI secolo.
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46
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

I CONFINI MOBILI
DEL LAGO CIAD di Marina BERTONCIN e Andrea PASE
Anatomia di un bacino conteso fra Nigeria, Camerun, Ciad
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e Niger, che cambia di continuo profilo e non si lascia afferrare


sulle carte. L’eredità coloniale. Il ruolo dei poteri informali.
I villaggi si muovono con le acque. Boko Haram e i suoi usi.

regioni più interne e lontane dai mari, c’è un lago che cambia continuamente
N EL CUORE DELL’AFRICA, IN UNA DELLE

forma. Si tratta del Lago Ciad, diviso oggi tra Nigeria, Camerun, Ciad e Niger.
Lo Chari, l’affluente di gran lunga più importante del lago (conferisce
l’83% degli apporti totali), proviene dalle regioni montagnose del Sud, nella
Repubblica Centrafricana e in Camerun, dove più intense sono le precipitazio-
ni. La piena annuale che così si forma varia notevolmente a seconda di quanto
piove a monte. La differenza di portata delle piene dello Chari si ripercuote sul
livello del lago e sulle superfici allagate. Lo specchio lacustre è infatti poco
profondo (non più di 5 metri) e così la sua estensione può passare in pochi
anni da grande superficie di acque libere a insieme di stagni, e viceversa. An-
che la variabilità stagionale del livello del lago è considerevole: tra le acque al-
te e basse, la differenza può arrivare al metro, con effetti notevoli su area alla-
gata e profilo delle rive nelle diverse stagioni. Nella tormentata superficie lacu-
stre, caratterizzata dalle digitazioni sabbiose dell’erg (al-‘irq) del Kanem che
entra nel lago, da una miriade di isole, da isolotti di erbe flottanti, l’effetto di
questi cambiamenti di spessore della lente d’acqua sono rilevantissimi: difficile,
se non impossibile, segnare una linea di riva. La sua variabilità non solo è così
pronunciata ma può essere anche molto rapida: si sono registrati nella storia
repentini inaridimenti e improvvisi ritorni delle acque, che si sono tradotti in
pericolose inondazioni.
Già nel 1910 il comandante francese Tilho annotava sorpreso come nella
parte settentrionale del lago, dove la sua missione aveva navigato in battello
solo sei anni prima, in quel momento invece passassero carovane sul fondo
completamente secco. Il lago si trasformava nel passato e si trasforma oggi,
sottoponendo la rappresentazione cartografica a un compito che le è difficile 47
I CONFINI MOBILI DEL LAGO CIAD

affrontare: la carta ha bisogno di stabilità nelle forme della terra e ad esse si


appoggia. Come può registrare cambiamenti così repentini? Fino a pochi anni
fa sugli atlanti il lago era indicato come un’ampia distesa di acque libere con ri-
ve precise, definite. Solo negli ultimi due decenni la rappresentazione è cam-
biata: si è ristretta la sua superficie e la maggior parte di essa risulta coperta da
acquitrini, mentre le acque libere sono limitate a una piccola area prospiciente
il delta dello Chari. Questa rappresentazione riflette la consapevolezza larga-
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mente diffusasi nell’ultimo periodo che il Lago Ciad si sia ridotto e che addirit-
tura rischi di «sparire», a seguito delle grandi siccità saheliane degli anni Settan-
ta e Ottanta e del sovrasfruttamento delle risorse idriche.
I molti allarmi lanciati in questa direzione sulla stampa internazionale riflet-
tono in realtà un’approssimazione conoscitiva che è speculare a quella dei vec-
chi atlanti. Il lago non è quello esteso e ben definito delle prime carte e non è
neppure quello residuale delle carte più recenti. Il lago è l’uno e l’altro e non
si lascia facilmente afferrare.
I colonizzatori erano stati tratti in inganno da questo lago. Prima ancora
della conquista militare della regione, che si realizzerà compiutamente nei pri-
mi anni del Novecento, le potenze europee avevano iniziato a contendersi il
bacino lacustre. Nel gioco diplomatico tra le cancellerie grande importanza era
attribuita alle vie d’acqua per la penetrazione coloniale nel continente: tale opi-
nione fece sovrastimare il valore strategico del lago e dei suoi affluenti. Inoltre,
nel vuoto conoscitivo del cuore del continente, lo specchio d’acqua forniva un
riferimento chiaro. Per questo, inglesi, tedeschi e francesi scelsero la direzione
del lago per sviluppare i loro possedimenti: una «corsa al lago» che influenza la
forma finale dei territori coloniali (evidente in particolare nel «dito» del Came-
run tedesco a toccare le acque lacustri). Paradossalmente, alla fine si scoprirà
che era totalmente privo di interesse strategico, tanto che i confini che lo attra-
versano non verranno demarcati, al di là delle difficoltà pratiche, perché il lago
si era rivelato essere, nella parole del comandante Tilho, autentico protagonista
dell’avventura coloniale francese nell’area, «senza valore, sia dal punto di vista
commerciale, sia come via di comunicazione» (1909).
In ogni caso, nel volgere di vent’anni, aree in precedenza a malapena cono-
sciute furono spartite tra Francia, Gran Bretagna e Germania e i confini dei pos-
sedimenti coloniali furono inscritti nei trattati e sulle carte 1. Con la sconfitta tede-
sca nella prima guerra mondiale, i territori del Camerun furono divisi tra un man-

1. Il 5 agosto 1890 inglesi e francesi definiscono la linea Say (sul Niger) e Barruwa (sul lago Ciad)
come limite delle sfere di influenza francese a nord e della Niger Company a sud. Il 14 giugno 1898
le due potenze coloniali ridisegnano con più precisione la medesima linea, che sarà ritoccata a fa-
vore della Francia (e della sua necessità di avere un corridoio percorribile dal fiume Niger al Ciad)
con la convenzione dell’8 aprile 1904. Negli stessi anni sono fissati i limiti dei possedimenti tedeschi
del Camerun tanto verso la Nigeria come verso il Congo francese, in cui all’epoca erano inseriti i
territori del Ciad, garantendo anche alla Germania l’accesso al lago (I. BROWNLIE, African Bounda-
ries. A Legal and Diplomatic Encyclopaedia, London 1979, Hurst & C.; M. BERTONCIN, A. PASE, Au-
48 tour du lac Tchad. Enjeux et conflits pour le contrôle de l’eau, Paris 2012, Harmattan).
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

dato inglese e uno francese 2. Un plebiscito nel 1961 decise che i territori del
mandato britannico fossero attribuiti, nella parte settentrionale, alla Nigeria: in tal
modo nell’area ciadiana si confermò il limite tra i mandati britannico e francese
come confine tra i due nuovi Stati indipendenti. Il confine attuale tra Niger e
Ciad deriva invece da un limite interno all’impero coloniale francese.
Pur conservando i confini ereditati dai colonizzatori, i governi locali tentaro-
no un coordinamento formale della loro azione rispetto al lago e al suo bacino.
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L’obiettivo dichiarato era la gestione congiunta dello sfruttamento dell’acqua e


delle altre risorse, la predisposizione di programmi di sviluppo, la prevenzione
dei conflitti. L’organismo incaricato di questo compito è la commissione del Baci-
no del Lago Ciad (Cblt/Lcbc) nata nel 1964, una struttura che si dimostrerà nel
tempo poco incisiva per le differenze di opinione e di potere tra i paesi coinvolti
e di fatto poco presente sul territorio.

Tutto si muove
Situata nel Sahel, fascia di transizione fra il clima desertico e quello sudanese
umido, l’area presenta una grande variabilità interannuale delle piogge. Già que-
sto conferisce movimento allo spazio naturale e alle forme antropiche di uso del-
le risorse: si muovono le mandrie, si spostano le coltivazioni per seguire e sfrutta-
re l’umidità, cambiano le aree di pesca e le traiettorie dei circuiti commerciali. Ma
nella regione sono soprattutto le trasformazioni del lago a determinare la fluidità
degli spazi: è il movimento primo che porta con sé, che ritma tutti gli altri movi-
menti. Seguendo gli avanzamenti e i ritorni delle acque e delle rive mutano le at-
tività principali, si modificano le reti di trasporto, si spostano gli insediamenti.
Gli spazi anfibi del lago si prestano a molte attività: offrono opportunità per
la pesca, per l’agricoltura sulle terre inumidite dalla piena (décrue), per il pasco-
lo, per il taglio della legna, per il commercio. Il cambiamento continuo delle li-
nee di riva e delle forme del bacino comporta un ridisegno incessante dell’orga-
nizzazione produttiva e territoriale. Il ritirarsi delle rive offre nuove terre da colo-
nizzare, dà spazio alla crescita rapida della vegetazione arbustiva e arborea. Il ri-
torno del lago aumenta le risorse alieutiche, favorisce le reti di navigazione, ridà
vita ai porti sul lago e ai loro mercati.
La navigazione nel lago si effettua su piroghe in legno, la cui misura può
raggiungere i 15 metri. Le piroghe sono usate per la pesca e per il commercio: le
maggiori sono a motore. Le rotte vanno di isola in isola, per i percorsi di cabo-
taggio dei piccoli commerci. I grandi traffici sono quelli di attraversamento, in
particolare a partire dai porti di Baga Sola e Bol a nord, in Ciad, e Baga Kawa, in
Nigeria, e Blangoua, in Camerun, a sud. Vi è una forte stagionalità dei movimen-
ti: le barche attendono nei porti l’arrivo della piena per partire. A ostacolare la

2. La dichiarazione Milner Simon del 10 luglio 1919 fissava il limite dei due mandati, nella regione
del lago, sull’Ebeji (El Beïd) e sul Kalia, due corsi d’acqua minori. 49
I CONFINI MOBILI DEL LAGO CIAD

navigazione vi è il rischio delle acque basse e il proliferare delle erbe invasive: i


commercianti fanno aprire con i propri mezzi, da manodopera locale, canali at-
traverso i canneti per poter raggiungere le acque libere. I circuiti commerciali
sfruttano anche i differenziali di prezzo e di quotazione delle monete fra i paesi
(tre monete diverse: naira nigeriana, franco Cfa – Colonies françaises d’Afrique –
Ovest, franco Cfa Centrale). Il mercato è dominato dalla Nigeria: in tutto il lago si
commercia in naira, che è di fatto la moneta franca della regione. La richiesta di
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merci proviene dalle grandi e medie città dell’area, immediatamente alle spalle
del lago: Maiduguri in Nigeria, N’Djaména in Ciad (tutte e due oltre il milione di
abitanti), Kousséri e Maroua in Camerun, Diffa in Niger. Si tratta soprattutto di
prodotti alimentari: sono in particolare quelli animali – pesce (fumigato, essiccato
o anche fresco) e bestiame – ad animare i commerci transfrontalieri. Centrale è il
ruolo giocato dai grandi commercianti, organizzati in reti etniche, hausa e ka-
nembu su tutte.
Oltre alle vie acquatiche, ovviamente ci si muove nella regione anche attra-
verso percorsi terrestri. Attorno al lago, discoste dalle rive incerte, vi sono piste
permanenti, percorse da uomini e animali (cavalli, dromedari, vacche), oltre che
da automezzi (sempre più diffusi i motocicli cinesi). Durante le fasi di arretra-
mento delle acque, sul fondo del lago si aprono piste per drenare la produzione
alieutica verso i mercati: se non si passa con le piroghe, si passa con automezzi
carichi di cartoni in cui è stipato il banda, il pesce fumigato. Numerosi sono
però gli ostacoli al movimento terrestre: a sud, stagionalmente le pianure argillo-
se sono allagate dalla piena dei fiumi e il fango rende le piste quasi impraticabili;
a nord, una difficoltà permanente è costituita dalla sabbia dell’erg del Kanem. Le
poche strade «moderne», spesso create per raggiungere i grandi progetti di irriga-
zione, sono in pessimo stato. Per tutti questi motivi, appena possibile si preferi-
sce l’acqua. I cambiamenti del lago portano alla ridefinizione continua dei per-
corsi: la posizione dei porti varia nel tempo seguendo l’avanzata e il ritrarsi delle
acque. La centralità del commercio è testimoniata anche dalla capacità di innova-
zione e di integrazione delle reti: un esempio significativo sono i servizi di moto-
taxi integrati da canoe per passare di isola in isola nell’arcipelago di Bol, che si
attivano quando non è possibile far passare le grandi piroghe perché le acque
sono troppo basse.
Per le sue risorse, soprattutto per la pesca e quindi per l’agricoltura, la regio-
ne del lago, poco significativa agli occhi dei colonizzatori, dagli anni Sessanta è
diventata un polo attrattivo di grande valore per le popolazioni locali. Questa ca-
pacità di richiamo si è resa particolarmente evidente con l’aumento della pressio-
ne demografica e in tempo di siccità 3. Infatti, sulle terre liberate dal ritirarsi del
Lago Ciad durante le grandi siccità degli anni Settanta e Ottanta del Novecento si

3. G. MAGRIN, «De longs fleuves tranquilles? Les mutations des plaines refuges du bassin du lac
Tchad», in J.-P. RAISON, G. MAGRIN (a cura di), Des fleuves entre conflits et compromis. Essais d’hydro-
50 politique africaine, Paris 2009, Khartala, pp. 125-172.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

riversano due successive ondate migratorie, in particolare a partire dal Borno (lo
Stato nigeriano che si affaccia sul lago). La prima è composta dagli abitanti delle
aree vicine, essenzialmente kanuri e arabi showa, che già coltivavano in décrue
le rive del lago. Lo spostamento delle coltivazioni sempre più lontano dai villaggi
di origine porta alla proliferazione di insediamenti prima temporanei, poi stabili.
La fertilità di queste terre diventa nota e nella regione giungono nuovi coloni,
una seconda ondata appunto. La provenienza etnica stavolta è molto differenzia-
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ta. Se normalmente si è di fronte a migrazioni spontanee, nel caso del Ciad lo


Stato è direttamente coinvolto (anni Ottanta e Novanta) nell’organizzare sposta-
menti di popolazione legati all’emergenza alimentare e alla volontà politica di fa-
vorire l’unità nazionale dopo la guerra civile: sono i cosiddetti «rifugiati climatici»
(ma sarebbe meglio dire «climatico-politici»).
Il ritorno del lago nell’ultimo decennio ha da un lato ristretto le terre da col-
tivare, ma dall’altro ha attirato pescatori anche da molto lontano: oltre a nigerini,
ciadiani, camerunesi e nigeriani, questi ultimi provenienti anche dal Sud, trovia-
mo maliani, burkinabé, liberiani, ghanesi, ivoriani, centrafricani. Per quanto ri-
guarda gli insediamenti si distinguono i villaggi permanenti dagli accampamenti
stagionali, legati alla pesca, alla transumanza e all’agricoltura di décrue. Anche i
villaggi permanenti peraltro si muovono. Sono fondati e abbandonati seguendo
le acque, in una dinamica anarchica.

Di chi è il lago?
Questo spazio così fortemente caratterizzato dal movimento è stato appro-
priato a diversi livelli:
a) dagli Stati, per fissare e difendere la loro giurisdizione territoriale e per
trarne risorse (attraverso la tassazione, in primo luogo);
b) dai poteri consuetudinari (o meglio dagli utilizzatori delle terre e delle ac-
que, autorizzati dai poteri tradizionali).
Entrambe le forme di appropriazione hanno portato a dispute, che costitui-
scono una chiave di entrata importante per comprendere quanto avviene nella
regione.
L’espansionismo della Nigeria sulle terre del fondo lacustre ha aperto il gio-
co delle vertenze, in particolare nei confronti del Camerun 4. Già negli anni Ses-
santa le rive camerunesi del lago, precedentemente poco popolate, iniziano ad
essere occupate da nigeriani, prima pescatori, quindi commercianti e agricoltori.
Il valore assunto dalla zona, in un contesto di scarsità di risorse per la siccità, e
l’insediamento permanente di nuovi villaggi hanno alzato la posta in gioco. L’a-
vanzata del fronte pioniere ha giustificato l’occupazione militare nigeriana e la
presenza dell’amministrazione sulle terre nuove.

4. H. ABDOURAMAN, «Le conflit frontalier Cameroun-Nigeria dans le lac Tchad: les enjeux de l’île de
Darak, disputée et partagée», Cultures & Conflits [en ligne], 72, 2008. 51
I CONFINI MOBILI DEL LAGO CIAD

Le truppe nigeriane occupano nel 1987 l’isola di Darak, importante polo di


produzione ittica e di commercio del pesce seccato o fumigato verso il mercato
nigeriano. Una trentina di isole cade sotto il controllo nigeriano. Il Camerun
contesta queste acquisizioni di fatto: all’interno del paese non mancano però
critiche per l’assenteismo del governo centrale in queste regioni periferiche, co-
sì lontane da Yaoundé. I confini sul lago diventano così una delle maggiori
questioni che oppongono la Nigeria ai vicini, soprattutto al Camerun ma anche
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al Ciad. Già nel 1983 erano infatti avvenuti scontri tra soldati nigeriani e ciadia-
ni. La commissione del Bacino del Lago Ciad era stata quindi incaricata di de-
marcare i confini per prevenire conflitti. Dal 1988 al 1990 erano stati collocati
cippi confinari nel lago. L’accordo, raggiunto nel 1994, non fu però ratificato
dalla Nigeria. Il Camerun si rimette nello stesso anno alla Corte internazionale
di giustizia che nel 2002 gli attribuisce i territori contesi. In realtà l’oggetto del
contendere più rilevante tra i due paesi era la penisola di Bakassi, a sud, con le
sue riserve petrolifere. Nel dicembre 2003 inizia il ritiro dei soldati nigeriani.
Nel 2004 il Camerun stabilisce Darak come capoluogo di arrondissement, per
materializzare la presenza statale: vi assegna un plotone della gendarmeria e
posti di polizia. Vi è ancora chi in Nigeria sostiene che questo verdetto sia sba-
gliato. La situazione rimane comunque fluida (ben s’intende…): recentemente
sono state riportate notizie sull’occupazione di due isole camerunesi da parte
di pescatori e di soldati del Ciad, a indicare che la mobilità degli spazi (e i dif-
ferenziali di potere politico – anch’essi in trasformazione – tra i quattro paesi)
mettono comunque sotto pressione la griglia dei confini statali.
I poteri tradizionali, o meglio neotradizionali (perché la loro definizione e
stabilizzazione è spesso avvenuta in età coloniale), sono ben insediati attorno
al lago: in Ciad si trovano il sultanato kotoko di Mani, quello arabo di Karal,
quelli kanembu di Mao e di Bol (kanembu e kuri/buduma); in Camerun i sulta-
nati kotoko di Makari e Goulfey; in Nigeria il principato kanuri diretto dallo
shehu del Borno (duplicato nel 2010 dallo shehu di Dikwa); in Niger le cheffe-
rie di Bosso (mobber) e di Nguigmi (manga). Il ritirarsi delle acque del lago
nei decenni Settanta e Ottanta ha generato dispute anche tra queste strutture
politiche tradizionali: come quella in Ciad, tra i sultani di Mao e di Bol (sulla
sponda Nord) e Karal (sulla sponda Sud) a proposito dei diritti di riscossione
delle imposte tradizionali sulle nuove terre. Il potere consuetudinario lo si tro-
va in azione soprattutto nella gestione fondiaria (in senso esteso, terre e risor-
se: pascoli, pesce, foreste), ovvero nella dinamica dell’occupazione e dell’asse-
gnazione delle possibilità del lago. Sul fondo asciutto, la pressione sulla terra è
andata progressivamente crescendo all’aumentare della popolazione immigrata,
raggiungendo punti di crisi più intensi nel momento in cui il livello dell’acqua
è tornato a salire togliendo spazio alle coltivazioni. Nascono per questo tensio-
ni interetniche nell’attribuzione della terra, quantomeno della terra migliore.

52
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

«Quatre croquis montrant les variations du Tchat», da L’Illustration


10/7/1909, p. 28. Fondo Marina Bertoncin

Un’immagine ambivalente: zona rifugio o luogo ostile?


Gli orizzonti in continua trasformazione del lago aiutano a spiegare perché
vi sia stata e ancora vi sia un’ambivalenza nell’immagine, nelle rappresentazioni
che nel tempo sono date di questa regione: da un lato il lago è visto e interpreta-
to come un rifugio, una zona ricca di potenzialità; dall’altro è descritto come luo-
go dell’insicurezza, come un posto ostile.
In effetti, nei diversi contesti storici questo centro geografico è risultato es-
sere repulsivo oltre che attraente. Come si è visto, ha attirato lo sguardo delle
potenze europee al momento della spartizione dell’Africa centrale, ma poi è ri-
sultato essere privo di reale interesse per la «valorizzazione» coloniale. Le sue
rive e le sue acque oggi richiamano flussi migratori anche da lontano, ma le
principali città della regione lacuale sono distanti da esso. Le motivazioni di
questa ambiguità del lago, di questo suo attrarre e allontanare, sono molteplici.
La continua ridefinizione della sua estensione e del profilo delle sue coste non
ha favorito la fissazione di strutture stabili. L’estensione delle paludi, gli insetti,
le malattie legate all’acqua hanno ostacolato per lungo tempo l’insediamento
delle popolazioni. La gente della regione vedeva il lago come un luogo selvag-
gio, uno spazio associato a forze spirituali e ad animali selvaggi, in contrasto
con la stabilità della terra. Certamente ha contribuito a questa fama la presenza
dei Buduma, i cosiddetti «pirati del lago». Buduma era un nome che suscitava
paura nei popoli delle vicine aree agricole: questi allevatori transumanti, che
sfruttavano i pascoli sulle isole e sulle rive, erano noti soprattutto perché prati-
cavano la razzia contro le genti di terraferma. Arrivavano improvvisamente dal-
le acque e rientrano nel lago con le loro canoe, trasportando le prede, animali
e uomini. Gli schiavi erano utilizzati per coltivare o pescare e anche come mer-
ce di scambio. La pace coloniale ha interrotto le razzie, costringendo i Buduma
a individuare nuove fonti di reddito, come il commercio, soprattutto del pesce
affumicato.
Il lago anche in tempi recenti ha continuato a presentare questo carattere di
ambiguità. Certo è una zona di rifugio, soprattutto in tempo di siccità. Ma rimane 53
I CONFINI MOBILI DEL LAGO CIAD

anche una zona densa di attività informali o illegali. Vi si trovavano ribelli fin dal-
l’epoca della lunga guerra civile ciadiana e, in seguito, è stata frequente la pre-
senza di reduci, di banditi transfrontalieri, di contrabbandieri (armi leggere, car-
burante, farmaci, pezzi di ricambio, refurtiva di vario genere). Molte sono le atti-
vità abusive, praticate senza permessi e senza regole: pesca, taglio del legname,
caccia. Gli spazi in movimento del Lago Ciad sembrano essere il luogo ideale per
l’illegalità: gli assetti territoriali in continua trasformazione rendono più fragile la
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presa del potere statale. Ma proprio il proliferare di pratiche illegali (politiche e/o
comuni; organizzate o diffuse) fa sì che, seppur in modo spazialmente e tempo-
ralmente disomogeneo, si sia intensificata l’attività di controllo, anche per ricava-
re risorse dalla tassazione (formale e informale): ciò ha comportato sovente una
notevole densità di corpi militari nell’area.
La spartizione del lago e l’intreccio di confini costituiscono un elemento di
attivazione dell’instabilità: alla volontà statale di controllo e di imposizione del-
le norme (peraltro non sempre efficace) corrisponde una formidabile attività di
trasgressione. I confini non sono di ostacolo, per certi versi anzi alimentano il
commercio e il movimento, creando ulteriori differenziali, nuovi stimoli allo
scambio. Sono confini porosi: è più ciò che lasciano passare di quello che fer-
mano e definiscono. Sono confini intermittenti: al variare delle situazioni am-
bientali (avanzamenti e arretramenti delle acque) e politiche (tensioni interne
o tra paesi), i confini si accendono o si spengono, sono attivi e presidiati op-
pure abbandonati e ignorati. La stessa cittadinanza non è unica ma sovente
molteplice: sono frequenti i casi di possessori di carte d’identità di più paesi
(nigeriani in Nigeria, ciadiani in Ciad, senza che questo sia però evidente alle
autorità), così com’è diffusa l’iscrizione, chiaramente illegale, alle liste elettorali
di paesi vicini.
Un altro motivo di insicurezza è dato dalla frammentazione tra le forze di
polizia e militari presenti nell’area: si sono registrati più volte scontri ed è la-
tente la conflittualità tra i soldati dei quattro eserciti. Gli Stati si sono posti il
problema di come prevenire tali scontri attraverso la collaborazione militare e
di polizia transfrontaliera e, più in generale, di come stabilire il controllo in
un’area divisa in quattro giurisdizioni 5. Nel 1983 fu decisa la costituzione di
una forza congiunta. Nel 1986 furono stabilite quattro sedi interforze: Blan-
goua, Baga Kawa, Gadira e Baga Sola. Il vantaggio in termini di sicurezza fu
soprattutto di evitare contrasti tra le diverse pattuglie nazionali. A partire dal
1990 è cresciuta ancora l’attività delle bande armate a sfondo politico o crimi-
nale. Si decise quindi di riformare questa forza congiunta. Ma gli sforzi in tale
direzione non portarono a molto: i diversi paesi si ritirarono, formalmente o di
fatto, dagli accordi.

5. S. ISSA, «Les cadres territoriaux du développement: frontières, gestion des conflits et sécurisation»,
in J. LEMOALLE, G. MAGRIN (a cura di), Le développement du lac Tchad: situation actuelle et futurs pos-
54 sibles, Marseille 2014, IRD Editions, coll. Expertise collégiale, pp. 581-598 (clé USB).
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

Il lago Ciad, dettaglio da: West Africa II, published under the superintendence of the Society
for the Diffusion of Useful Knowledge, Great Britain, London 1839. Fondo Marina Bertoncin

Margini di incertezza
È in questa situazione di indeterminatezza che si affaccia un nuovo poten-
te fattore di destabilizzazione: la rivolta del gruppo islamista conosciuto come
Boko Haram 6. L’epicentro dell’insurrezione è la capitale del Borno, Maiduguri,
dove l’organizzazione è sorta nei primi anni Duemila. Gli scontri violenti del
luglio-agosto 2009 (che hanno visto la morte, dopo il suo arresto, del fondatore
Mohammed Yusuf), la ripresa delle lotte dal dicembre 2010 (che perdurano si-
no ad oggi) hanno causato la perdita di migliaia di persone tra civili uccisi in
attentati; omicidi mirati di responsabili della sicurezza, esponenti politici e reli-
giosi moderati; membri delle forze dell’ordine e militanti dell’organizzazione
caduti nei combattimenti, cui si aggiungono le vittime della drastica repressione
militare. Gli appartenenti a questa organizzazione e al gruppo Ansaru, nato da
una sua scissione, sono schierati su posizioni ideologiche estreme, che com-
portano tra l’altro il rifiuto della scienza, dell’educazione e delle istituzioni poli-

6. M.-A. PÉROUSE DE MONTCLOS, Nigeria’s Interminable Insurgency? Addressing the Boko Haram
Crisis, London 2014, Chatham House. 55
I CONFINI MOBILI DEL LAGO CIAD

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Le rive del lago Ciad, dettaglio da: H. BARTH, Travels and Discoveries in North and Central Africa,
Sheet n. 11, «Map of the Route from Kukawa to Masena», 1850. Fondo Marina Bertoncin

tiche di origine occidentale. Il rapimento di centinaia di allieve di un liceo a


Chibok ha avuto recentemente risalto mondiale.
L’area di maggior densità delle attività rivoltose è la Nigeria nordorientale,
ma attentati sanguinosi sono stati compiuti anche nel centro di Abuja, la capita-
le federale. Il raggio d’azione del gruppo si estende in molti degli Stati della Ni-
geria settentrionale, e ormai si protende anche verso gli Stati vicini: Niger, Ca-
merun, Ciad. In particolare, rapimenti di cittadini francesi, italiani e cinesi, as-
salti a villaggi e scontri con forze militari sono avvenuti negli ultimi tre anni nei
territori camerunesi che costeggiano il lungo confine con la Nigeria. Appena
oltre frontiera vi sono infatti le principali zone di insediamento degli insorti, in
particolare la foresta di Sambisa e le colline di Gwoza.
I ribelli si dimostrano abili nello sfruttare i margini di incertezza forniti dalle
frontiere e dal mancato coordinamento tra i paesi. Al crescere della minaccia e su
pressioni internazionali, gli Stati interessati hanno preso la decisione di procedere
congiuntamente alla lotta contro il terrorismo. Di particolare significato l’impegno
diretto dell’esercito del Ciad, il più organizzato, che ormai si muove in tutta la re-
56 gione: la sua sfera d’azione a questo punto comprende anche gli Stati vicini.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

Le rive del lago sono state coinvolte direttamente dagli scontri 7: in partico-
lare nell’aprile 2013 circa duecento civili sono stati uccisi a Baga Kawa, cittadina
portuale sul lago, durante la repressione seguita alla morte di un militare a un
posto di blocco. Combattimenti e sequestri di armi sono avvenuti a più riprese
nei villaggi lacustri. A partire da agosto 2014, numerosi profughi hanno iniziato
a rifugiarsi su alcune isole appena oltre il confine tra Nigeria e Ciad, per sfuggi-
re ai violenti scontri tra esercito e ribelli. Campi profughi sono stati costruiti sul-
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

le isole e sulle rive ciadiane. Nelle testimonianze dei fuggiaschi vi è il racconto


delle incursioni dei militanti di Boko Haram, che incendiano alcune case, e del-
la risposta dei militari, che bruciano le case rimanenti, accusando i proprietari di
essere adepti o comunque simpatizzanti dell’organizzazione terroristica. Nel
2015 di particolare gravità sono stati l’attacco a Baga Kawa compiuto da Boko
Haram a gennaio, che ha comportato la distruzione di gran parte dell’abitato e
di alcuni villaggi vicini, e a ottobre tre attentati suicidi al mercato del pesce e a
un campo profughi di Baga Sola, che hanno causato quarantuno morti. A no-
vembre, il succedersi di attentati ha indotto il governo del Ciad a dichiarare lo
stato di emergenza nella regione del lago. Nelle intenzioni del governo, alla re-
pressione dovrebbero affiancarsi significative iniziative per lo sviluppo economi-
co e sociale dell’area.
La formazione nel Borno di una forza di difesa civile (comitati di autodifesa)
contro Boko Haram, la Cjtf, Civilian Joint Task Force, se da un lato può essere vi-
sta come la reazione all’aggressione terroristica, dall’altro introduce un nuovo fat-
tore di destabilizzazione, una nuova fazione che agisce al di fuori di ogni con-
trollo legale: la violenza sembra non avere limiti, né giuridici né territoriali.

7. R. POURTIER, «Le lac Tchad sous la menace de Boko Haram», in G. MAGRIN, J. LEMOALLE, R. POURTIER
(a cura di), Atlas du lac Tchad, Paris 2015, Passages-IRD, pp. 162-163. 57
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

IL LAGO MORENTE
NON SI SALVA
SENZA CHI CI VIVE di Esoh ELAMÉ
I progetti legati allo specchio d’acqua rischiano di diventare
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l’ennesimo esempio africano di malsviluppo. Educazione,


divulgazione e formazione del capitale umano (deoccidentalizzato)
le armi contro il prosciugamento per i paesi rivieraschi.

1. I
L LAGO CIAD, CONOSCIUTO NEL MONDO A
causa dell’importante variabilità delle sue acque, minaccia nel medio-lungo pe-
riodo di prosciugarsi 1, con gravi conseguenze sul piano ambientale, sociale,
economico e culturale. Pur senza adottare un approccio pessimista e men che
meno catastrofico 2, non si esagera dicendo che la presa di coscienza politica e
istituzionale dell’emergenza climatica è stata molto lenta. Nonostante i numero-
si campanelli d’allarme, è stato necessario l’intervento della Nasa per suscitare
la preoccupazione dei diretti interessati. Non sono stati sfruttati al meglio nem-
meno gli appositi momenti istituzionali. Ci riferiamo alla conferenza delle Na-
zioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo, riunita a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giu-
gno 1992. Un appuntamento che si presentava come la piattaforma ideale per
sollevare la questione, visto il dichiarato scopo di gettare le basi per un parte-
nariato mondiale equo, all’interno del quale creare nuovi livelli di cooperazio-
ne. Allo stesso modo, la conferenza di Rio +10 a Johannesburg avrebbe per-
messo di fare passi avanti nelle discussioni sulla sostenibilità dei sistemi socio-
ecologici e culturali del bacino.
Il risultato è che gli Stati rivieraschi hanno sì preso coscienza dei problemi
del Lago Ciad, ma non hanno affrontato con sufficiente vigore e determinazione

1. C. BATELLO, M. MARZOT, A.H. TOURÉ, The Future Is an Ancient Lake.Traditional Knowledge, Biodi-
versity and Genetic Resources for Food and Agriculture in Lake Chad Basin Ecosystems, Fao, Roma
2004; C. BOUQUET, Insulaires et riverains du lac Tchad. Etude géographique, Paris 1990, l’Harmattan;
A. BOUCHARDEAU, R. LEFÈVRE, Monographie du lac Tchad. Édition provisoire, Paris 1957, Orstom; J.
MALEY, «Mécanisme des changements climatiques aux basses latitudes. Palaeogeog., palaeoclim., pa-
laeoecol.», 14, 1973, pp. 193-227.
2. G. MAGRIN, «Le lac Tchad n’est pas la mer d’Aral», mouvements, 2007, www.mouvements.info-
/spip.php?article201; G. MAGRIN, «L’imbroglio territorial du lac Tchad à l’épreuve de l’incertitude hy-
drologique», Revue scientifique du Tchad, 11, 1, 2012, pp. 96-113. 59
IL LAGO MORENTE NON SI SALVA SENZA CHI CI VIVE

la questione con le rispettive popolazioni. Il fatto che il bacino sia il punto di in-
crocio fra cinque paesi africani – Camerun, Ciad, Niger, Mali e Nigeria – non è fi-
nora servito a dare impulso alla ricerca di soluzioni sostenibili nella lotta contro il
suo prosciugamento. Una carenza imputabile a due fattori: la debole mediatizza-
zione del problema e la totale assenza della prospettiva educativa dalle misure
intraprese finora dalla Commissione del bacino del Lago Ciad (Cblt). Creata il 22
maggio 1964 dai quattro paesi che si affacciano sullo specchio d’acqua, essa non
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ha mai realmente condotto azioni specifiche di divulgazione e sensibilizzazione


delle popolazioni locali e dell’opinione pubblica internazionale.
I problemi del Lago Ciad dovrebbero essere risolti utilizzando perlopiù ca-
pitale umano locale, in linea con i princìpi della crescita endogena. L’obiettivo
presuppone un contesto in cui l’educazione è considerata un investimento (per
gli individui e la società) per accrescere la produttività di coloro che la ricevo-
no, dotando il paese di competenze endogene per migliorare le condizioni di
vita. La marginalizzazione delle popolazioni del bacino è imputabile proprio al
loro scarso livello di istruzione che ne limita le possibilità di emancipazione. Lo
sviluppo scientifico e tecnologico della maggioranza dei paesi rivieraschi è
molto limitato e non permette di disporre del capitale umano necessario in set-
tori determinanti per il futuro del Lago Ciad come l’ingegneria geotecnica, l’in-
gegneria delle strutture, l’ingegneria idraulica, l’ingegneria ambientale e l’archi-
tettura. Nell’Africa subsahariana già in passato diversi progetti internazionali di
sviluppo hanno generato risultati deludenti a causa dell’impreparazione delle
risorse umane locali.
Tenendo conto di queste lacune, bisogna porsi la domanda in modo chiaro.
La riabilitazione del Lago Ciad sfocerà nell’ennesimo esempio di malsviluppo? 3.
Diventerà l’ennesimo progetto in cui esperti scientifici e tecnici internazionali in-
tervengono in Africa senza che a monte siano state adottate misure per un’ade-
guata appropriazione endogena da parte dei beneficiari?
Per rispondere all’interrogativo, abbiamo condotto un’analisi di diversi docu-
menti ufficiali della Cblt per capire quale posto occupino nelle politiche di svi-
luppo per il Lago Ciad tre temi fondamentali. Il primo è l’educazione; il secondo
è la comunicazione, la sensibilizzazione e la divulgazione dei problemi dello
specchio d’acqua presso l’opinione pubblica; il terzo è il capitale umano.

2. La ricerca ha esaminato molto materiale, tra cui la Vision 2025 della Cblt e
il Programma di azione strategica (Pas) del bacino del Lago Ciad, adottato nel
2008 e realizzato nel quadro del progetto Undp-Banca Mondiale-Gef intitolato

3. Il concetto si pone in contrasto con quello di sottosviluppo, che fa riferimento a un deficit quan-
titativo di risorse e investimenti. Il malsviluppo misura invece l’inadeguatezza qualitativa delle politi-
che di sviluppo e di progetti che non tengono conto delle esigenze reali dei beneficiari malgrado
l’investimento e l’indebitamento prodotti e le cui azioni sul campo finiscono per accrescere le disu-
guaglianze economiche e socio-spaziali. In un contesto di malsviluppo, della crescita economica
60 profitta solo una minoranza, che continua ad arricchirsi a discapito dei più vulnerabili.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

«Renversement de la Tendance à la Dégradation de la Terre et de l’Environne-


ment de l’Ecosystème du Bassin du Lac Tchad» 4.
Sia dai documenti tecnici sia da quelli divulgativi emerge che la Cblt ha
concentrato le sue prime attività sulla lotta alla siccità che ha colpito il Sahel tra
il 1973 e il 1983-84. Alla fine degli anni Ottanta, la Commissione ha condotto
uno studio sulla diagnosi del degrado dell’ambiente del bacino convenzionale
del Lago Ciad con l’aiuto del programma dell’Onu per l’ambiente (Unep). In se-
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

guito allo studio, con l’appoggio di organizzazioni Onu come la Fao e l’Unep,
sono stati realizzati un piano direttivo e uno d’azione. Il primo presenta lo stato
generale del bacino, proponendo in particolare una visione di insieme dei pro-
blemi, dei vincoli e delle opportunità identificate per il suo mantenimento e il
suo sviluppo. Il secondo comprende 36 progetti, tra cui il trasferimento dell’ac-
qua dall’Ubangi al lago.
La Cblt ha poi adottato nel 2003 il documento strategico Vision 2025 riguar-
dante il Lago Ciad. Il piano di azione che da essa origina si articola in due fasi
distinte. La prima, della durata di otto anni, è destinata «in primo luogo a supera-
re le barriere che impediscono una gestione concorde del bacino attraverso un
rafforzamento della cooperazione e delle capacità fra i paesi rivieraschi e i prota-
gonisti. In secondo luogo, si tratta di condurre un’analisi diagnostica transfronta-
liera e di elaborare un quadro per la gestione integrata dell’acqua. In terzo luo-
go, si tratta di preparare la realizzazione a lungo termine delle azioni prioritarie
che permettono di risolvere i problemi transfrontalieri». La seconda fase, della
durata di vent’anni, propone una suddivisione in sottobacini dotati dei rispettivi
programmi 5. Strutturandola in questo modo, i promotori del documento cercano
di facilitare la flessibilità dell’appoggio dei donatori bilaterali 6.
La Vision 2025 prevede le seguenti azioni prioritarie: «1) iniziare una gestio-
ne condivisa delle risorse idriche con meccanismi di cooperazione e integrazio-

4. Abbiamo anche analizzato i seguenti progetti faro della Cblt: 1) programma di sviluppo sostenibi-
le del bacino del Lago Ciad (Prodebalt); 2) gestione integrata delle risorse idriche del bacino del La-
go Ciad (Gire); 3) Gestione sostenibile delle risorse idriche del bacino del Lago Ciad; 4) elaborazio-
ne della Carta dell’acqua del bacino del Lago Ciad. I documenti sono stati analizzati nella loro inte-
gralità, dividendoli in segmenti tematicamente omogenei. Di fronte al bisogno di caratterizzare in
modo più scrupoloso il contenuto dei documenti digitali studiati, abbiamo proceduto a un’analisi
tematica per individuare le unità semantiche costitutive dell’universo discorsivo. Attraverso l’indivi-
duazione delle idee significative e loro categorizzazione, abbiamo ottenuto informazioni sul posi-
zionamento dei documenti analizzati rispetto ai nostri temi di analisi: l’educazione, la comunicazio-
ne e il capitale umano.
5. Il dettaglio dei singoli programmi: «1) programma di sviluppo sostenibile del lago Ciad e del suo
bacino (è un programma regionale e globale che mira a realizzare meccanismi di consultazione e a
facilitare le negoziazioni con gli altri donatori per cofinanziare i programmi 2, 3, 4, n.d.a.); 2) pro-
gramma del sottobacino della Komadougou-Yobé (che interessa la Nigeria e il Niger); 3) program-
ma del sottobacino di Chari-Logone-El Beid (che interessa la Rca, il Camerun, il Ciad e la Nigeria);
4) progetti a carattere nazionale ma di importanza regionale per il bacino».
6. Fra questi, ci sono banche importanti come il Gruppo della Banca africana dello sviluppo (Afdb),
la Banca mondiale, la Banca islamica dello sviluppo. Ci sono inoltre delle organizzazioni internazio-
nali come l’Unione Africana, l’Unione Europea, il Consiglio dei ministri africani sull’Acqua, il Nepad,
le organizzazioni sorelle quali l’Autorità del bacino del Niger e la Commissione internazionale Con-
go-Oubangui-Sangha, le Commissioni economiche subregionali, Cemac, Ecowas. 61
IL LAGO MORENTE NON SI SALVA SENZA CHI CI VIVE

ne a diversi livelli (nazionale, sottobacino e bacino); 2) attuare reti viabili di rac-


colta di informazioni di base per identificare e controllare le risorse idriche, gli
ecosistemi e il loro sfruttamento in modo più preciso; 3) condurre azioni setto-
riali di base per la gestione della domanda di acqua e per lottare contro la de-
sertificazione e la perdita di biodiversità; 4) assicurare una prevenzione e un
controllo degli agenti contaminanti e la preservazione delle risorse ittiche; 5) mi-
gliorare i metodi di sfruttamento degli ecosistemi acquatici e proteggere le pia-
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nure dall’inondazione in rapporto alla gestione del territorio; 6) avviare studi di


prefattibilità (fisica, tecnica, economica) e sugli effetti ambientali legati ai trasfe-
rimenti di acqua all’interno dei sottobacini e fra di essi per la ricostruzione e la
conservazione dell’ecosistema».
Analizzandole una per una, tuttavia, si può constatare che sul piano della
formulazione tecnica le misure dalla 1 alla 5 presentano lacune enormi. Non so-
no enunciate chiaramente, non descrivono un’azione osservabile e non si vede
il risultato atteso. Così come sono enunciate, non individuano un metodo per
valutarle o per misurarne i risultati (in termini di qualità, quantità, costo, tempo
eccetera). L’obiettivo di ognuna di queste azioni non è né realistico né raggiun-
gibile. Alcune sono impossibili da realizzare. La numero 3, per esempio, la dice
lunga sulla sua scarsa coerenza logica, confermandone la natura di misura di
pianificazione strategica.

3. La Vision 2025 non prende per nulla in considerazione il legame fra la


lotta contro il prosciugamento del Lago Ciad e i tre temi oggetto della nostra
analisi: il livello di educazione delle popolazioni, il grado di sensibilizzazione
delle persone e l’esistenza di capitale umano locale. Quel che è peggio è che il
documento della Cblt non prefigura un cambiamento della mentalità delle po-
polazioni del bacino.
Nel 2003, attorno al lago si stimava abitassero 37,2 milioni di persone, men-
tre la popolazione totale dei paesi del bacino si avvicinava a quota 232 milioni.
In virtù di questi dati demografici, gli Stati rivieraschi dovrebbero dotarsi di una
visione condivisa, al centro della quale il lago sia considerato un patrimonio cul-
turale comune. Lo specchio d’acqua è d’altronde l’espressione stessa della diver-
sità delle tradizioni culturali che convivono da secoli sullo stesso territorio. Un
fatto molto raro nel mondo, che meriterebbe programmi di educazione intercul-
turale e all’ambiente incentrati sul lago, per suscitare una presa di coscienza col-
lettiva dei giovani sul suo ruolo nello sviluppo sostenibile dei rispettivi paesi e
del continente africano, nonché per l’umanità.
Tuttavia, fino a oggi le popolazioni dei paesi del bacino si sentono poco toc-
cate dal prosciugamento del lago: in pochissimi fra coloro che abitano quei terri-
tori sanno che fra il 1963 e il 2012 la superficie dello specchio d’acqua è drastica-
mente diminuita, da 25 mila a circa 2 mila kmq, e che si sta producendo una mi-
grazione forzata di tipo ambientale. L’ignoranza prevale sul fenomeno stesso.
62 Nell’istruzione primaria, secondaria e universitaria non è stato fatto nulla per ren-
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

CITTÀ E INFRASTRUTTURE SUL LAGO CIAD


N’guigmi Rig Rig
NIGER Mao
Kabelawa CIAD
Liwa
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

Malam-Fatori
Nguri
Baga Sola
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Difa bé
gu Yo
Lago Ciad
u
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m
Ko
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Fi

Baga Kawa Kuludia


Massakory
Guitté
Karal
Kukawa Darak Mani Turba
NIGERIA
Hile-Halifa
Monguno Makari
Fotokol Massaguet
CA

Marte
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Gambaru
Ngala
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RU

N’Djamena
se

Kusseri
ed

Maiduguri Y
e
m
iu
F

Capitale nazionale o di Stato federale Numero di abitanti Confni internazionali


>1 milione Strada asfaltata principale
Capoluogo di Regione Strada asfaltata in costruzione
Funzioni amministrative sovralocali Da 50 a 150 mila Strada asfaltata in progetto
Da 20 a 50 mila Altre strade a circolazione permanente
Altre città Da 5 a 20 mila Piste con praticabilità saltuaria

dere il Lago Ciad oggetto d’insegnamento, affrontando le sue varie dimensioni:


ecologica, economica, sociale, interculturale e politica. A livello accademico, po-
chi ricercatori lavorano su questi temi e sono rarissime le tesi che riguardano
questioni tecniche, in particolare l’ingegneria civile: al massimo si arriva a qual-
che tesi di master di secondo livello in scienze sociali.
Come spiegare questo mutismo? I programmi di insegnamento nei paesi del
bacino non tengono sufficientemente conto dei contesti socioculturali endogeni
e locali e sono sbilanciati sui problemi e sui temi che riguardano l’Occidente. La
crisi del Lago Ciad esige invece un allargamento della dimensione critica dell’in-
segnamento secondario e universitario e di essere posta al centro degli studi lo-
cali relativi alle minacce ambientali. La Vision 2025 dovrebbe riflettere l’idea che
la lotta contro il prosciugamento si fa anche attraverso un’educazione ancorata al
contesto culturale locale. 63
IL LAGO MORENTE NON SI SALVA SENZA CHI CI VIVE

La situazione attuale del Lago Ciad è anche la conseguenza del fallimento


dei paesi di questa regione in ambito educativo. Come il resto dell’Africa nera
francofona, questo spicchio di continente soffre di un deficit evidente di forma-
zioni tecniche. Il numero di ingegneri all’avanguardia formati ogni anno, indi-
spensabili per il decollo industriale, non permette nemmeno di rispondere alle
esigenze di una grande metropoli africana. Prevalgono di gran lunga sociologi e
giuristi. Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

La Vision 2025 non dispone di alcuna informazione sul bisogno di capitale


umano. Non fa nessuna previsione sui tipi di competenze necessari alla regione
per concretizzare le azioni previste. Una mancanza piuttosto grave, che mette in
discussione la pertinenza del documento e la valutazione finanziaria di questi
progetti. Bisognerebbe che le popolazioni locali si appropriassero della lotta al
prosciugamento del lago, che offre ai loro cittadini opportunità professionali. È
tempo che questi paesi prendano coscienza che la loro indipendenza va difesa
dotandosi di capitale umano autoctono per affrontare le sfide di progetti struttu-
rali che richiedono competenze specialistiche.
Per condurre azioni incisive sul Lago Ciad si sarebbero dovute già creare al-
cune competenze, mentre altre dovrebbero già essere in fase di formazione per
renderle operative nel 2017-18. Purtroppo, la maggioranza degli ingegneri formati
in loco non è sempre competitiva e all’altezza delle aspettative. La riabilitazione
del Lago Ciad presuppone la ricerca di competenze di base e avanzate in geotec-
nica, calcolo strutturale, topografia, idraulica, ingegneria ambientale, architettura
autoctona, meccanica, logistica, mobilità, energie rinnovabili, agricoltura, alleva-
mento, pesca, medicina eccetera. Competenze al momento rare, quando non ine-
sistenti.

4. L’assenza della dimensione educativa nei progetti finora realizzati dalla


Cblt è un limite grave. Il bacino del Lago Ciad ha bisogno di un approccio inno-
vativo dove venga valorizzato chiaramente un legame fra le pratiche culturali e le
azioni per lo sviluppo.
Per evitare che il progetto della riabilitazione del lago diventi l’ennesimo
esempio africano di malsviluppo, è obbligatorio condurre azioni mirate di forma-
zione, informazione e sensibilizzazione nel breve, medio e lungo periodo. È ur-
gente una presa di coscienza nelle scuole, nelle università, nei contesti associati-
vi, valorizzando il lago come entità territoriale dotata di una sua peculiare dimen-
sione ecologica, economica, sociale, culturale e interculturale. Senza il coinvolgi-
mento della gente comune, le soluzioni tecniche non bastano. Bisogna pensare a
nuove pratiche pedagogiche e didattiche capaci di rafforzare l’appartenenza terri-
toriale. La Cblt dovrebbe sviluppare una serie di misure specifiche allo scopo di
rafforzare la sensibilizzazione e la divulgazione delle conoscenze locali, tecniche
e scientifiche fra tutti i paesi rivieraschi. Bisognerebbe rafforzare la convergenza
fra i diversi sistemi educativi nazionali dei paesi del bacino per costruire un’iden-
64 tità comune attorno al Lago Ciad. Se non si registrerà una brusca inversione di
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

LE POPOLAZIONI DEL LAGO CIAD Gruppi etnici dominanti


1 Kanembu
2 Kanuri
3 Buduma
N’guigmi 4 Kuri
5 Haddad
6 Mawar
7 Kotoko
8 Arabi
NIGER 9 Popolazione cosmopolita
1 Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a 1 Superficie d’acqua e paludi
Bosso senza abitanti permanenti
Baga
Sola 5
3 Bol

gu Yo
6 Lago Ciad
u
ad

m
e Ko
um 10 9 4
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5
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Kawa 10

Kukawa Kofia CIAD


Hağar
. al-Hamīs

NIGERIA 8
CA

Wulgo 7
9
ME
RU

8
N

N’Djamena

Maiduguri

rotta nei settori dell’educazione e della divulgazione, molto probabilmente non si


riuscirà a raggiungere i progressi attesi dalla Vision 2025.
È anche importante realizzare una costante formazione del capitale umano
chiamato ad accompagnare l’implementazione dei progetti strutturali della Cblt,
in collaborazione con le università e le grandi scuole locali. È dunque necessa-
ria un’innovazione strategica per situare i problemi del Lago Ciad in una logica
di ingegneria dei sistemi complessi, che necessita la presenza di esperti locali
altamente qualificati. Sarebbe quindi indicato che la Cblt dia la priorità a queste
figure professionali. La pianificazione strategica deve anche mettere l’accento
sulla dimensione critica dell’ingegneria. Il Lago Ciad ha bisogno di figure in
grado di integrare le conoscenze autoctone ed endogene con le soluzioni inge-
gneristiche, per evitare di proporre soluzioni foriere di ulteriori problemi. Fino
a oggi, la formazione di ingegneri nei paesi del bacino è stata soffocata a van-
taggio di un capitale umano molto occidentalizzato. Una classe di tecnici che
però è incapace di formulare un discorso critico e di includere nelle soluzioni
tecnologiche i saperi autoctoni.
Riteniamo sia utile alla Cblt convergere verso un altro modello di concezio-
ne dello sviluppo locale. È necessario un aggiornamento della Vision 2025 in
prospettiva postcoloniale, in particolare rispetto alle lacune segnalate da questo 65
IL LAGO MORENTE NON SI SALVA SENZA CHI CI VIVE

articolo. Vero, non esistono soluzioni standard, ma la lotta al prosciugamento


del lago esige progetti all’altezza delle aspettative tecniche. Non tenere conto
delle questioni educative e formative affrontate qui in prospettiva postcoloniale
ostacola la realizzazione di misure sostenibili contro il prosciugamento. Ecco
una delle maggiori sfide e poste in gioco dei progetti di sviluppo del bacino
del Lago Ciad.
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

(traduzione di Elena Bonfiglioli)

66
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

PERCHÉ NON FUNZIONANO I PIANI


DI AGRICOLTURA IRRIGUA
NEL BACINO DEL LAGO CIAD
Come favorire l’accesso all’acqua per coltivare i campi in una
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

regione provata dalle siccità. L’approccio francese e la moderna


logica tecnicista. I grandi progetti producono poco o nulla:
puntiamo sui saperi locali, partendo dai villaggi.
di Marina BERTONCIN e Andrea PASE

A
scarse e incerte. In tutto il Sahel, le medie annue delle precipitazioni diminuisco-
TTORNO AL LAGO CIAD LE PIOGGE SONO

no andando da sud verso nord, mentre parallelamente aumenta la variabilità in-


terannuale. E la zona del lago è ormai ai confini del grande deserto. Frequenti
sono quindi le annate siccitose, in cui l’agricoltura pluviale (miglio, soprattutto)
non produce il necessario per le popolazioni. In questo contesto l’irrigazione è
essenziale per liberare la produzione agricola dall’incertezza legata alle piogge.
Si può irrigare dove è possibile attingere a riserve d’acqua: i grandi fiumi che
vengono dalle più umide regioni meridionali, gli specchi d’acqua dove si accu-
mulano le piene dei fiumi e le acque delle piogge, la falda acquifera sotterranea.
Nella regione gli schemi irrigui si situano quindi lungo i principali fiumi (lo Chari
e il suo affluente Logone; la Komadugu Yobé, che nella parte finale del suo cor-
so segna il confine tra Nigeria e Niger) e nei pressi del Lago Ciad 1. Come si può
capire, l’irrigazione riveste un considerevole significato per la sicurezza alimenta-
re e assume un rilievo strategico nelle politiche di governo del territorio. La mag-
gior parte del ruolo degli Stati e degli organismi di cooperazione internazionale
si gioca dunque sull’acqua per l’agricoltura.

Lo sviluppo che viene da fuori: i grandi progetti


La proposta di sperimentare l’agricoltura irrigua fu lanciata già in epoca colo-
niale: la politica della «mise en valeur», secondo la dottrina di Sarraut, ministro

1. Il lavoro di riferimento è M. BERTONCIN, A. PASE, Autour du lac Tchad. Enjeux et conflits pour le
contrôle de l’eau, Paris 2012, L’Harmattan. Si veda anche M. BERTONCIN, A. PASE, «Irrigation et déve-
loppement dans le bassin tchadien. Un modèle à inventer», in G. MAGRIN, J. LEMOALLE, R. POURTIER (a
cura di), Atlas du lac Tchad, Paris 2015, Passages-IRD, pp. 104-106. 67
PERCHÉ NON FUNZIONANO I PIANI DI AGRICOLTURA IRRIGUA NEL BACINO DEL LAGO CIAD

francese delle Colonie, si basava su un intervento esterno di infrastrutturazione e


organizzazione della produzione al fine di sfruttare adeguatamente le risorse di-
sponibili. Le società africane erano considerate carenti e le soluzioni non poteva-
no che venire dalla capacità tecnica e organizzativa dei colonizzatori. La Com-
mission scientifique du Logone et du Tchad, presieduta dal generale J. Tilho e
istituita nel 1947, elaborò studi idrologici e sulla vocazione agricola delle terre
che permisero di individuare lungo le rive del Logone i siti idonei per l’insedia-
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mento di progetti irrigui.


Con la fine dell’età coloniale, questa idea di sviluppo portato dall’esterno si
mantiene, adattandosi alle nuove circostanze politiche e sociali. Si pensa di poter
raggiungere l’obiettivo attraverso la realizzazione di grandi progetti che portino
innovazioni nei prodotti, nel processo produttivo, nelle tecniche impiegate. Il
grande progetto risponde alla volontà di incidere su un’area estesa trasformando
radicalmente territorio e società, in un processo di transizione «rivoluzionaria»
verso la modernità. La grandezza dimensionale è motivata anche da una neces-
sità di spettacolarizzazione del potere: dighe, grandi canali, migliaia di ettari coin-
volti garantiscono una visibilità significativa agli attori dello sviluppo. Questa visi-
bilità è spendibile nella creazione di consenso, così necessario in paesi da poco
indipendenti con una legittimazione politica in gran parte da costruire. La logica
tecnicista che guida i grandi progetti replica un pacchetto uniforme di strumenti
e soluzioni, spesso non dimostrandosi in grado di riconoscere il significato delle
differenze locali. Prevale una strategia «taglia e incolla»: un intervento, ritenuto
valido in una determinata situazione, è applicato in tutti i contesti «simili», o che
almeno dall’esterno sembrino tali. I progetti presentano programmi d’azione che
intendono rispondere alle inevitabili incertezze (tecniche, finanziarie, di mercato)
con un’elencazione esaustiva di provvedimenti che dovrebbero consentire la so-
luzione di ogni problema. Una caratteristica comune dei diversi grandi schemi ir-
rigui nel Sahel è proprio la predisposizione di studi di fattibilità e di progetti ese-
cutivi che appaiono «totali» nella descrizione delle condizioni ambientali e umane
(dai dati climatici a quelli pedologici, dalle considerazioni antropologiche a quel-
le sulla possibilità di commercializzazione della produzione) e nell’identificazione
di tutti i passaggi necessari per l’attivazione: ogni fase e ogni singolo intervento
(dighe, canali eccetera) sono descritti nel dettaglio. I progetti puntano a una tra-
sformazione onnicomprensiva del territorio che dalla dimensione produttiva arri-
va a investire l’insieme degli aspetti sociali e dei servizi alla popolazione: le case,
le scuole, i dispensari. Sono laboratori significativi per osservare il dispiegarsi
della modernità a partire da un «grado zero» del territorio: il punto di partenza, la
prima azione proposta è spesso lo svuotamento di ogni contenuto sociale e terri-
toriale antecedente l’impianto. Nulla, o molto poco, di ciò che precede il proget-
to (diritti consuetudinari, saperi produttivi, forme sociali e politiche) è considera-
to utile e da valorizzare.
Sulla tabula rasa così creata entra in azione la «macchina» del progetto, che
68 può esplicitare in pieno la sua capacità di cambiamento territoriale e sociale sen-
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

za dover sottostare a vincoli derivanti da forme di resistenza o dover scendere a


patti con gli attori locali. Si costituisce un dispositivo territoriale, determinato dal-
l’applicazione di competenze scientifiche e tecnologie moderne, che permette
(almeno sulla carta) di garantire la produzione agricola. I grandi perimetri irrigui
sono pensati come «isole di modernità», esempi efficaci di cosa significhi il pro-
gresso, centri di diffusione delle innovazioni colturali e sociali in tutto il mondo
rurale tradizionale. Le attese di sviluppo si concentrano così sui grandi progetti.
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Modi di irrigare
Diverse sono le modalità individuate nel tempo per ottenere l’acqua indi-
spensabile a praticare l’agricoltura irrigua nella regione del Lago Ciad.
Un primo tipo di irrigazione si basa sul controllo della piena, ovvero sulla
costruzione di argini che contengano le acque di piena dei fiumi, che saranno
poi indirizzate ai canali irrigui attraverso chiuse di regolazione, nelle quantità e
nei tempi necessari. Le installazioni sono relativamente semplici, ma evidente-
mente la campagna agricola dipende dalla durata e dall’altezza delle piene, che
sono molto variabili negli anni.
Un secondo tipo prevede l’installazione di impianti di pompaggio sugli argi-
ni, così da essere in grado di avere acqua anche se il livello del fiume non è otti-
male. La produzione è più sicura ma aumentano molto i costi di costruzione, di
funzionamento e di manutenzione.
Un terzo tipo prevede la costruzione di dighe per ritenere l’acqua in laghi ar-
tificiali: l’irrigazione in questo caso si effettua per gravità. È certamente più eco-
nomica del pompaggio nella gestione, ma richiede elevati investimenti iniziali e
ha un pesante impatto di modificazione del territorio: spesso bisogna spostare
villaggi, si turbano le dinamiche idrologiche togliendo acqua alle zone umide a
valle, si interrompono i corridoi di passaggio del bestiame. E l’allevamento è
un’attività che per le popolazioni saheliane riveste un valore che va ben di là del
solo significato economico.
Vi sono poi modalità di irrigazione tipiche del contesto del lago. In età pre-
coloniale le popolazioni di Bol, sulla riva Nord del lago, avevano sviluppato
un’originale tecnica per ricavare terreni da coltivare, chiudendo con rudimentali
dighe le digitazioni del lago che si spingono all’interno dei cordoni dunari del-
l’erg del Kanem 2. Il ritirarsi progressivo delle acque imprigionate permetteva la
coltivazione in décrue dei terreni dei polders così costruiti. Lo scavo di pozzi e
l’uso dello 4aduf consentiva in un secondo tempo di continuare a irrigare anche
le terre più alte. La salinizzazione dei suoli e l’abbassamento progressivo della
falda mettevano però a rischio la funzionalità e l’efficacia del sistema. A questo

2. CH. BOUQUET, Insulaires et riverains du lac Tchad: une étude géographique, 2 voll., Paris 1990,
Harmattan; M. BERTONCIN, A. PASE, «Les polders. Histoire, actualité et diversité», in G. MAGRIN, J. LE-
MOALLE, R. POURTIER (a cura di), op. cit., pp. 98-100. 69
PERCHÉ NON FUNZIONANO I PIANI DI AGRICOLTURA IRRIGUA NEL BACINO DEL LAGO CIAD

punto gli argini venivano abbattuti per consentire nuovamente l’ingresso delle
acque del lago nel polder. Questa operazione permetteva la lisciviazione dei suo-
li e la ricarica della falda. Negli anni successivi si richiudeva la diga e il ciclo di
coltivazione poteva ricominciare. Questa ingegnosa tecnica sarà imitata e «miglio-
rata» dagli amministratori coloniali.
Sempre il lago è la risorsa d’acqua di grandi progetti moderni che hanno in-
teressato le rive nigeriane del Ciad a partire dagli anni Settanta del Novecento:
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lunghi canali adduttori portavano l’acqua dal lago fino a impianti di pompaggio
che la distribuivano negli schemi irrigui.

Geografie d’acqua
Il Logone è il fiume che più precocemente, a partire dagli anni Cinquanta del
Novecento, e con maggior intensità è interessato dalla diffusione dell’irrigazione
moderna. In Camerun ha svolto un ruolo essenziale la Société d’expansion et de
modernisation de la riziculture de Yagoua (Semry). Tre sono le aree interessate: la
Semry I a Yagoua, con quattro impianti di pompaggio dal Logone (5.500 ettari), la
Semry II di Maga (6 mila ettari), che ha comportato la costruzione di un bacino di
ritenuta alimentato dalla piena del fiume e dai mayo (corsi d’acqua stagionali) che
scendono dai monti Mandara, e infine la Semry III nel dipartimento Logone e Cha-
ri, con dieci medi perimetri alimentati per pompaggio (1.927 ettari in tutto). Sulla
riva ciadiana del Logone, a parte il rapido insuccesso del casier A di Bongor, le ini-
ziative maggiori sono il casier B sempre di Bongor (800 ettari, in parte con control-
lo della piena e in parte per pompaggio) e il perimetro di Satégui Déréssia (1.500
ettari, in controllo della piena). Più a monte, a Nya nei pressi di Doba, sorge il ca-
sier C (250 ettari circa). Sempre in Ciad, lungo lo Chari a nord di N’Djamena, sono
stati costruiti sette piccoli perimetri (30-40 ettari ciascuno) per pompaggio.
L’altro fiume lungo il quale si sviluppano schemi irrigui è la Komadugu
Yobé, con i suoi affluenti Hadejia e Jama’are. Nella sezione prossima al lago si
registrano numerose iniziative sia sulla riva nigerina sia su quella nigeriana. In
Niger molti piccoli perimetri prendono acqua dal fiume o dalla falda; sulla spon-
da nigeriana sono stati costruiti tre perimetri in controllo della piena o per pom-
paggio dal fiume per un totale di 1.700 ettari. Ma i progetti più importanti sono a
monte, lontano dalla zona del lago: si tratta del Kano River Irrigation Project
(13.300 ettari) che prende acqua dalla diga di Tiga e del Hadejia Valley Irrigation
Project (2.200 ettari), che attinge dal Hadejia Barrage. Altri minori schemi irrigui
sono collegati a sbarramenti secondari lungo gli affluenti del fiume.
Per quanto riguarda il lago, sulla sponda nord-orientale nella zona di Bol e
Baga Sola si utilizza, su ispirazione dei metodi tradizionali prima descritti, il siste-
ma dei polders moderni (ovvero con pompaggio dal lago; 2.500 ettari) o «miglio-
rati», che ricevono acqua per gravità attraverso paratie sulle dighe di separazione
70 in terra battuta (6 mila ettari).
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

In Nigeria la Chad Basin Development Authority (Cbda) aveva previsto di


realizzare, grazie alla costruzione di canali che prendevano acqua dal lago, due
polders da 20 mila ettari ciascuno, uno a Baga Kawa e l’altro a Kirinowa, e il
South Chad Irrigation Project, 67 mila ettari, nella zona di Marte, tutte aree nello
Stato del Borno. In realtà il polder di Kirinowa restò solo sulla carta. Gli altri due
progetti furono invece iniziati ma non completati nelle dimensioni e nelle forme
ipotizzate, perché in breve tempo presentarono gravi difficoltà.
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La delusione della modernizzazione


Al momento della sua massima espansione, negli anni Settanta, questa strate-
gia di modernizzazione agricola sembra essere vincente e promette di cambiare
il destino della regione. In realtà, i successi dell’agricoltura sono effimeri: gli ele-
vati rendimenti per ettaro che avevano giustificato i grandi finanziamenti interna-
zionali durano pochi anni. La storia di questi progetti irrigui è subito travagliata e
i risultati ottenuti sono sempre minori rispetto alle attese: le produzioni non rag-
giungono o quanto meno non si stabilizzano sulle quote ipotizzate, la commer-
cializzazione è difficile, l’accesso ai mercati è ostacolato dalle distanze, le reti irri-
gue e stradali rapidamente si deteriorano, non si trovano i ricambi per le macchi-
ne agricole e per le pompe, i tassi di rientro dei canoni sono molto bassi, i turni
d’acqua e le indicazioni agronomiche sono mal rispettati. I contadini, semplici as-
segnatari di terre controllate dal progetto, senza alcun potere e senza possibilità
di iniziativa, si dimostreranno spesso indifferenti e alle volte ostili alle imposizio-
ni del management.
Il progresso, che sembrava ormai saldamente in mano ai funzionari del pro-
getto, fugge come polvere tra le dita: gli schemi irrigui, all’apparenza così «sem-
plici» perché obbligati nella localizzazione e nelle tecniche da impiegare, dimo-
strano una fragilità intrinseca per il loro carattere sistemico, ovvero per l’interdi-
pendenza dei molti fattori in gioco.
I gravi problemi tecnici, finanziari, fondiari, sociali hanno portato i grandi
progetti a una crisi profonda: la richiesta di nuovi finanziamenti per rilanciare l’a-
gricoltura irrigua e riabilitare i progetti è all’ordine del giorno. Ma ormai i governi
e i donatori internazionali si sono disaffezionati a queste politiche di modernizza-
zione agricola e le risorse fresche non arrivano o arrivano con il contagocce. Il
blocco delle attività è un esito frequente. Le vie di soluzione ipotizzate passano
attraverso lo snellimento drastico del personale dei progetti e la «responsabilizza-
zione» degli assegnatari con la costituzione di associazioni contadine – ma con
ancora minori mezzi a disposizione dell’età d’oro dell’avvio dei progetti.
I grandi progetti, le «isole di modernità» che dovevano portare al decollo eco-
nomico della regione, hanno finito per essere delle trappole da cui non è sempli-
ce uscire. La semplificazione proposta dall’agricoltura moderna (monocultura,
meccanizzazione, sistemi di gestione basati su «comando e controllo») ha sottova-
lutato ed eroso la densità culturale, sociale, politica dei territori interessati. I sape- 71
PERCHÉ NON FUNZIONANO I PIANI DI AGRICOLTURA IRRIGUA NEL BACINO DEL LAGO CIAD

ri locali, l’organizzazione socio-politica delle popolazioni coinvolte sono stati con-


siderati inutili, arretrati, addirittura un ostacolo verso il progresso. Al contrario, i
sistemi tradizionali, con la policoltura, con la differenziazione degli usi delle risor-
se, con la mobilità delle attività hanno caratteristiche di flessibilità e di adattamen-
to alla variabilità climatica ben più elevate del rigido modello produttivo dei gran-
di progetti. La miopia nello spazio e nel tempo, l’incapacità di leggere le conse-
guenze delle scelte attuate anche solo pochi chilometri a valle o nella successiva
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stagione produttiva, faranno sbattere i progetti contro ostacoli insuperabili.

Storia di un fallimento. E di una sorprendente innovazione


Esemplare di queste storie travagliate è il più grande tra i progetti citati, lo
Scip, nel Borno, Nigeria 3. Nel 1973 si definiscono gli obiettivi del progetto: incre-
mentare il settore agricolo sfruttando il potenziale di irrigazione del Lago Ciad,
per passare da un raccolto a due all’anno. Punti di forza sono la meccanizzazio-
ne agricola, la lavorazione industriale e la commercializzazione di tutta la produ-
zione. I raccolti di base sarebbero stati grano, cotone e riso. Il riso e il grano era-
no però prioritari perché costituivano un prodotto strategico nelle importazioni
della Nigeria. Si voleva costruire una vera agrotown in grado di controbilanciare
l’inurbamento massiccio di Maiduguri, la capitale dello Stato. Ci si attendeva che
la popolazione installata raggiungesse al 2010 le 220 mila unità.
Il progetto era diviso in tre fasi, da implementare una dopo l’altra. L’intake
channel era l’unica fonte di approvvigionamento d’acqua dell’intero Scip: inizial-
mente era lungo 29 km. Attraverso il canale adduttore, l’acqua del lago giungeva
alla stazione di pompaggio di Kirinowa, che alimentava il canale principale fino
a una seconda stazione di pompaggio (Gadadai), da cui partiva la rete di distri-
buzione per gravità. Una centrale termoelettrica da 30 megawatt di potenza dava
l’energia elettrica per il funzionamento degli impianti.
Nello Scip alcune attività erano di competenza esclusiva del management del
progetto (preparazione della terra, irrigazione e raccolto), mentre ai contadini
spettava la pratica agricola, l’acquisto dei fertilizzanti e dei pesticidi. Il raccolto
era diviso al 50% tra gli assegnatari e la direzione.
Nel momento in cui è stato pensato, lo Scip era la più ambiziosa pianifica-
zione irrigua tentata in Nigeria.
I problemi erano già iniziati ancor prima dell’avvio dei lavori. Il progetto era
stato disegnato per una condizione di buona alimentazione del lago, che negli

3. R. BLENCH, «The History and Future of Water Management of the Lake Chad Basin in Nigeria», in
H. JUNGRAITHMAYR, D. BARRETEAU, U. SEIBERT (a cura di), L’homme et l’eau dans le bassin du lac
Tchad, Paris 1997, Orstom, pp. 143-166; M. ADAM, «The Chad Basin Development Project. Rise and
fall of a giant irrigation project in West Africa», in M. KRINGS, E. PLATTE (a cura di), Living with the
Lake. Perspectives on History, Culture and Economy of Lake Chad, Studien zur Kulturkunde vol. 121,
Köln 2004, Rüdiger Köppe, pp. 191-203; M. BERTONCIN, A. PASE, M. WAZIRI, «L’irrigation sur les rives
nigérianes. Grands projets contrariés et hybridation contemporaine», in G. MAGRIN, J. LEMOALLE, R.
72 POURTIER (a cura di), op. cit., pp. 107-109.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

L’IRRIGAZIONE SULLA RIVA Progetto di sistemazione idrica


Realizzato
NIGERIANA DEL LAGO CIAD Realizzato,
parzialmente funzionante
Previsto,
parzialmente realizzato
Previsto, non realizzato

Canali di adduzione idrica


NIGER
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Realizzato
Non realizzato

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anni Cinquanta e Sessanta aveva una superficie estesa. Si dimenticò che il Lago
Ciad può presentare una grande variabilità anche in tempi brevi. Le siccità degli
anni Settanta stavano infatti creando una situazione ben diversa: l’altezza del lago
era al di sotto della soglia minima per alimentare l’intake channel. Il ritiro del la-
go rese necessario prolungare il canale di altri dieci chilometri, nel tentativo di
alimentare lo schema. L’esecuzione dei lavori rallentò: si completò solo la prima 73
PERCHÉ NON FUNZIONANO I PIANI DI AGRICOLTURA IRRIGUA NEL BACINO DEL LAGO CIAD

fase (22 mila ettari predisposti) e parte della seconda fase (4 mila ettari). Dal
1979 al 1984 la produzione pian piano aumentò. Il picco di 10 mila ettari si rag-
giunse nella stagione 1983-84. La stagione seguente il ritirarsi drastico del lago
impedì l’approvvigionamento d’acqua al canale adduttore. Dei 14 mila ettari pre-
parati nessuno giunse a raccolto. Il progetto si fermò. Quando nel 1988 l’acqua
del lago tornò, le strutture inattive da lungo tempo non erano più efficienti.
Negli anni a seguire, di tanto in tanto le pompe sono state riavviate irrigando
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però superfici sempre più ridotte. Nel paesaggio desolato dell’argilla bruciata dal
sole, alcuni contadini sono tornati a coltivare ritagli di terra all’interno dei canali
del progetto, dove si accumula un po’ di umidità. La Cbda continua a chiedere al
governo la riabilitazione dello schema, ancora considerato strategico.
Ma intanto l’attività irrigua più significativa si è spostata lungo il canale ad-
duttore. Dopo il periodo delle piogge, la piena allaga le terre circostanti. Da
gennaio, i contadini iniziano a seguire l’acqua che si ritira seminando cereali e
prodotti orticoli, secondo una pratica ben consolidata. Nella stagione secca,
compaiono le piccole motopompe, di proprietà dei contadini che, attingendo
dal canale, consentono di prolungare le possibilità produttive delle terre vicine.
Così il canale adduttore è affiancato per molti chilometri da terreni agricoli: i
buoni raccolti sono convogliati sul mercato di Maiduguri. L’invenzione di questo
nuovo utilizzo delle strutture di progetto da parte dei contadini nigeriani è un
esempio particolarmente efficace dell’integrazione tra saperi agricoli tradizionali
e il know-how esterno.

Eredità, sfide e avvertenze per il futuro


Se il bilancio della stagione dei grandi progetti è complessivamente fallimen-
tare, un’eredità importante rimane comunque: le competenze nella costruzione e
nella gestione degli schemi si sono diffuse nella regione. Spesso oggi sono im-
prese locali, con tecnici propri e investimenti nazionali (alle volte derivati dalle
rendite petrolifere, come succede in Ciad), ad essere impegnate nella realizzazio-
ne di opere idrauliche e di nuovi perimetri irrigui per conto dei governi. Così sta
accadendo ad esempio con le nuove espansioni irrigue nella zona di Laï. Ma vi è
anche un’altra via nella diffusione dell’irrigazione: è quella che passa per i piccoli
progetti di villaggio, costituiti grazie ad aiuti di ong o di donatori internazionali,
oppure su iniziativa autonoma dei coltivatori. Una piccola imprenditoria caratte-
rizza in particolare l’orticoltura irrigua, orientata al mercato delle grandi città re-
gionali (N’Djamena, Maiduguri, Maroua) o delle metropoli del Sud in Nigeria e in
Camerun. È il caso della produzione delle cipolle nella piana di Diamaré o del
peperone da seccare sulle due rive della Komadugu Yobé. Gli investitori nell’or-
ticoltura irrigua sono spesso i grandi commercianti o i funzionari governativi che
abitano in città e le aree di maggior diffusione sono quelle prossime alle vie di
comunicazione con i mercati urbani. La piccola motopompa è l’emblema che
74 contraddistingue queste esperienze: ovunque sia possibile attingere a fonti d’ac-
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

qua sicure, sui bordi dei fiumi o degli stagni stagionali, si installano le motopom-
pe e si coltivano minuscoli spazi irrigui.
A questa vitalità interna si affiancano possibili interessi stranieri rivolti al
suolo agricolo, come sta avvenendo in altre aree del Sahel, lungo il Senegal, il
Niger e il Nilo, coinvolte nel fenomeno dell’accaparramento fondiario. Qualche
primo segnale dell’affacciarsi di attori stranieri, magari collegati in qualche mo-
do alla presenza di rilevanti riserve petrolifere nel sottosuolo, si inizia a scorge-
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re. Nella regione del lago vi sono però difficoltà di particolare rilievo: la lonta-
nanza dal mare e le reti di trasporto malridotte, la violenza politico-religiosa le-
gata a Boko Haram e alla repressione delle forze di polizia e militari, e poi le
incertezze legate al regime idrologico del Lago Ciad, al grido di allarme più vol-
te lanciato sulla sua «imminente sparizione». Come descritto nell’altro nostro arti-
colo in questo dossier, in realtà questa diagnosi è frutto di un’approssimazione
conoscitiva delle dinamiche idrologiche del bacino lacustre e della sua connatu-
rata variabilità nel tempo.
Fin dagli anni Ottanta è stata comunque proposta una soluzione ingegneri-
stica a questo problema: un trasferimento d’acqua dal bacino del Congo a quel-
lo ciadiano, per dare sicurezza al destino del lago e ridare vita ai grandi progetti
di sviluppo irriguo. Di là delle differenti opzioni tecniche in campo, alcune più
realistiche altre quasi visionarie, appare curioso che si punti ancora al grande
progetto, anzi enorme in questo caso, dopo gli esiti così difficili delle esperien-
ze passate. Con più umiltà bisogna partire dalla rilevanza economica e sociale
dell’agricoltura familiare e di villaggio, bisogna considerare la risorsa dei saperi
locali, della capacità di innovazione dimostrata dai contadini sui «resti» dei pro-
getti. Non è più il tempo di un unico percorso di sviluppo e un unico modello
produttivo per un territorio che è, per sua natura, mutevole e proprio per que-
sto, nonostante tutto, ricco di possibilità.

75
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

IL BUSINESS DELLE SPECIE RARE


CHE FINANZIA IL TERRORISMO di Marco FIORI
Il proliferare in Africa di gruppi armati, autoctoni e non, ha
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prodotto una recrudescenza del contrabbando di piante e animali


a rischio di estinzione. I protagonisti del saccheggio. La geografia
dei traffici e le strategie di contrasto. Si rischia il disastro ecologico.

1. L E IMMAGINI DEGLI UOMINI DELLO STATO


Islamico (Is) con le mazze, le ruspe e il tritolo alle prese con la distruzione dei si-
ti archeologici, come a Palmira, hanno fatto il giro del mondo. Come quelle dei
grossi Toyota con uomini armati fino ai denti e la bandiera nera davanti ai pozzi
petroliferi della zona di Mosul (ogni mese l’Is incassa circa 50 milioni di dollari
dai giacimenti di greggio controllati in Iraq e in Siria), a riprova che il primo
obiettivo del neo-Stato islamico è quello, comune a ogni gruppo ribelle che si
vuole imporre con la violenza in un determinato territorio, di assicurarsi mezzi di
sostegno finanziario. La vendita delle opere d’arte e del petrolio, nelle zone con-
trollate, sono le principali entrate del sedicente califfato. I ricchi introiti sono usa-
ti per mantenere il dominio sul territorio conquistato e servono a pagare i mili-
ziani, le armi, i mezzi, a riparare le infrastrutture colpite dai raid e a finanziare le
scuole e altri servizi sociali.
A queste fonti si aggiunge la gestione e lo sfruttamento delle risorse naturali.
È proprio il carattere opportunistico del fenomeno criminale legato ai gruppi ri-
belli, alle milizie non governative e all’arcipelago jihadista, l’elemento più signifi-
cativo per capire l’interesse, sempre maggiore, di queste formazioni verso le ri-
sorse naturali, soprattutto nel continente africano. Carattere evidenziato e analiz-
zato dai massimi esperti di fenomeni criminali transnazionali, come il procuratore
generale di Roma Giovanni Salvi e la professoressa Louise Shelley.
Le stime prodotte dai massimi organismi che monitorano a livello mondiale
il traffico illegale di specie animali e vegetali selvatiche e dei prodotti da esse de-
rivati illuminano un giro d’affari di oltre 20 miliardi di dollari l’anno, su un com-
mercio legale stimato in 160 miliardi annui, incluse le risorse ittiche e forestali. In
particolare: 826 milioni di dollari è il valore del commercio di animali vivi, 40 mi-
lioni quello della medicina tradizionale, 2 miliardi per la moda e l’ornamento, 77
IL BUSINESS DELLE SPECIE RARE CHE FINANZIA IL TERRORISMO

705 milioni per l’alimentazione (esclusa la pesca), 250 milioni per le piante vive,
11 milioni per i prodotti forestali secondari (per quelli primari, in primis il legna-
me, si stima un valore annuo di oltre 320 miliardi di dollari).
Un corno di rinoceronte può fruttare da 250 a 400 mila dollari (sino a 60 mi-
la dollari al chilo); una zanna di avorio grezzo di 20 chili può fruttare ai traffican-
ti 1.300 dollari, per arrivare a 3.500 dollari al chilo se ridotta in statue, collane,
timbri (i famosi hanko), bracciali o altro nel mercato di Hong Kong e in quello
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occidentale; una tartarughina di terra egiziana (in un solo sequestro operato dalla
Forestale al porto di Palermo se ne contarono 2.500 stipate nei doppifondi di
una jeep), viene venduta nel mercato del porto di Napoli a 100 euro. Ancora,
animali vivi, soprattutto scimmiette e rettili, uccelli, anfibi, coralli e conchiglie.
Tra i derivati, uno scialle di shatush (prodotto con lana di antilope tibetana)
può fruttare sino a 20 mila dollari, un chilo di caviale beluga (dallo storione Hu-
so huso del Mar Caspio) può essere pagato anche 8 mila dollari, una borsetta
griffata in caimano dagli occhiali o alligatore viene pagata migliaia di dollari nel-
le boutique di mezzo mondo, un cappotto in lana di vigogna può costare anche
8 mila dollari, un pappagallo ara giacinto può costare fino a 15 mila dollari, e
via elencando.

2. Le nuove frontiere del commercio illegale di specie protette sono ben


rappresentate, proprio in Africa, dal recrudescente traffico dell’«oro bianco» (l’a-
vorio di elefante e il corno del rinoceronte bianco e nero), dal taglio illegale
delle foreste per il commercio di legname tropicale e per il carbone, dal traffico
di animali vivi e di pelli di rettili. Sono settori che permettono di ricavare grandi
quantità di denaro pur presentando limitati coefficienti di rischio. I governi dei
paesi di origine delle specie, spesso i più poveri, cercano di combattere il feno-
meno del bracconaggio e del prelievo illegale di queste risorse, ma la percezio-
ne della gravità del fenomeno rispetto ad altre forme di crimine è ancora molto
bassa. I mezzi impiegati sono ancora scarsi, comprese le risorse finanziarie. Fio-
riscono rapporti di intelligence sempre più dettagliati che organismi internazio-
nali, governativi (Interpol, Europol, Cites, Banca Mondiale, Wco, Unep, Unocd)
e non (Wwf, Greenpeace), producono annualmente sul fenomeno ormai cono-
sciuto come wildlife crime.
Un gruppo cui partecipa anche la Forestale italiana, è stato istituito già a
metà degli anni Novanta dall’Interpol (organizzazione internazionale di polizia
criminale) e riunisce tutti gli anni polizie, dogane e forestali di tutto il mondo.
Nel meeting vertice di Lione di quest’anno è stata istituita una sezione dedicata al
Forestry Crime: questo gruppo ha promosso e coordinato operazioni globali tese
a combattere il fenomeno come l’Operazione Tram (2010) sulla medicina tradi-
zionale cinese che impiega specie protette, o l’Operazione Ramp sul traffico in-
ternazionale di rettili. Ancora, l’Operazione Worthy (2012) sul traffico di avorio
ha coinvolto quattordici paesi dell’Africa subsahariana, portando al sequestro di
78 tonnellate di avorio, corni di rinoceronte e a circa duecento arresti. A fine no-
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

vembre 2015, l’Interpol ha raccolto a Singapore i risultati delle operazioni Log e


Amazon II. La prima ha visto coinvolti nove Stati dell’Africa occidentale (Benin,
Burkina Faso, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Mali, Mauritania, Senegal e Togo)
e ha portato al sequestro di 200 milioni di dollari di legname tropicale (palissan-
dro africano) e all’arresto di 44 persone. Alla seconda hanno collaborato 12 paesi
dell’America centro-meridionale e ha portato al sequestro di 53 mila m3 di legna-
me segato, oltre a 2.500 tronchi e all’arresto di 200 persone.
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Le connessioni del wildlife trafficking con il finanziamento del terrorismo è


talmente cruciale da essere stato inserito, su richiesta di Stati Uniti e Germania,
nell’ordine del giorno del G7 riunitosi a Berlino a marzo e a novembre 2015, do-
ve i capi delegazione hanno condiviso le analisi e le strategie per contrastare a li-
vello d’intelligence questo fenomeno. Il rapporto The Environmental Crime Crisis
redatto da Unep e Interpol nel 2014, a sua volta ripreso dal rapporto Wwf Natu-
ra Connection del 2014, propone un quadro drammatico e dettagliato del feno-
meno con particolare riferimento al continente africano. Il traffico di avorio appa-
re la prima fonte di finanziamento di gruppi armati collegati, in vario modo, con
i terroristi affiliati ad al-Qåi‘da e all’Is; il denaro ricavato costituisce una parte
considerevole delle entrate di milizie irregolari in molti paesi africani, come nel
caso della Lra (Lord’s Resistance Army) che opera tra Repubblica Democratica
del Congo, Repubblica Centrafricana e Sud Sudan.
L’avorio, proveniente dai massacri di elefanti – circa 25 mila abbattimenti al-
l’anno – effettuati in varie zone d’Africa (Tanzania, Kenya, Mozambico, Congo)
viene nascosto in depositi illegali dove staziona in attesa di essere trasferito verso
l’Etiopia e la Libia, per essere poi imbarcato alla volta della Cina o dell’Europa.
Ogni anno la lotta al traffico di avorio costa la vita a centinaia di ranger africani:
il rapporto parla di oltre mille ranger deceduti negli ultimi dieci anni, soprattutto
in Congo, Kenya e Repubblica Centrafricana. Una squadra intera di 12 ranger fu
sorpresa in preghiera, nel 2012, in una remota zona del Nord del Kenya durante
una pausa in un’operazione antibracconaggio e trucidata senza pietà. Tra di loro
una donna. Nel mese di ottobre 2015 altri tre ranger, tra cui un ufficiale, sono
stati uccisi a mitragliate nel Parco di Garamba, eccidio che fa salire a nove i ran-
ger morti quest’anno in Congo, dove la popolazione di elefanti è stata decimata,
con una riduzione del 90% dal 2013.
Il rapporto parla anche degli estremisti islamici di al-3abåb, storicamente
coinvolti nel traffico di avorio e carbone vegetale tra Somalia, Kenya ed Etiopia.
Questo traffico frutta miliardi di dollari – dai 3 ai 9 miliardi solo nell’area sub-
sahariana. Il commercio illegale di carbone e legna da ardere copre in Africa il
90% del consumo di legname, in massima parte sottratto illegalmente in aree fo-
restali protette. Fonti d’intelligence indicano che l’attacco al centro commerciale
Westgate di Nairobi, perpetrato da al-3abåb nel settembre 2013, fu in gran parte
finanziato con il commercio illegale dell’avorio. Secondo l’Eal (Elephant Advo-
cacy League) e l’Accord (African Centre for the Constructive Resolution of Dispu-
tes), il 40% dei finanziamenti del gruppo terroristico proviene da questi traffici. 79
IL BUSINESS DELLE SPECIE RARE CHE FINANZIA IL TERRORISMO

I temibili ãanãåwød del Sudan, famosi predoni del deserto assoldati dal go-
verno del Sudan e responsabili di violenze indicibili contro le popolazioni civili
in Dårfûr, ma anche nelle regioni del Sud Kurdufån e nel Blue Nile, si finanziano
con il commercio dell’avorio, del corno di rinoceronte e di animali braccati in
paesi limitrofi (come la Repubblica Democratica del Congo e la Repubblica Cen-
trafricana). In Nigeria, Boko Haram si finanzia con il commercio dell’avorio di
elefanti braccati in Camerun e in Ciad e con la gestione delle risorse forestali; i
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Mai Mai del Congo con il commercio dell’avorio; in Mozambico, il Renamo


(gruppo di resistenza nazionale) si finanzia con il commercio di avorio e corni di
rinoceronte, prelevati soprattutto entro i confini sudafricani.

3. È quindi accertato che gruppi armati e gruppi terroristici fanno soldi, tra
l’altro, con il controllo delle concessioni di taglio nelle foreste e con il commer-
cio di specie protette, come rinoceronte ed elefante. In alcuni casi, come per
l’Lra in Congo, in mancanza di altre risorse l’utilizzo di quelle naturali diventa
una raison d’être dei conflitti stessi. Significa che economie di porzioni di terri-
torio africano, in mancanza di presidio delle autorità costituite e di alternative
fonti di finanziamento, si autoalimentano con queste risorse, creando un’eco-
nomia di guerra.
Tale meccanismo provoca l’impoverimento di masse di persone che assisto-
no impotenti alla distruzione di opportunità di sviluppo sostenibile legale alle ri-
sorse naturali; l’esacerbarsi di violenza interetnica e intercomunitaria; l’aumento
di criminalità, corruzione e instabilità; la proliferazione di armi e il loro utilizzo
per il bracconaggio, ma anche per la commissione di altre violenze e crimini. Le
comunità locali sono sottoposte a minacce, privazione di diritti, abusi, lavoro for-
zato, reclutamento di bambini soldato, traffico di esseri umani, schiavitù sessuale.
Drammatico e rappresentativo di questo fenomeno, rilevato soprattutto in
Africa, è il caso del parco nazionale di Garamba, emblematico della situazione
in tutta la Repubblica Democratica del Congo. La riserva accoglieva fino al
2000 una popolazione del rinoceronte bianco, fatto estinguere in pochi anni
dalle bande ãanãåwød sudanesi. Parallelamente, la popolazione di elefanti è
stata decimata (-90%). Operano in quest’area simultaneamente, contendendosi
il territorio, Lra, ãanãåwød, Forza di difesa del Ruanda, Mai Mai e altre bande
locali. In tutto il Congo questi gruppi gestiscono anche il legname, il carbone,
l’oro e le altre attività estrattive.
Nemmeno il famoso parco del Virunga, che ospita gli ultimi gorilla di mon-
tagna (non più di 880), è stato risparmiato: è rifugio per sfollati e ribelli armati
(tra cui i temibili M23). Dal 1996 sono stati uccisi duecento ranger e nel 2007,
in risposta alle azioni del parco contro i tagli abusivi, un intero gruppo di goril-
la fu sterminato a colpi di MK27. Quest’anno il direttore De Merode è scampa-
to a un’imboscata.
Per meglio comprendere la drammaticità del fenomeno vale la pena citare
80 un dettagliato reportage realizzato da Bryan Christy per National Geographic,
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

che riporta un resoconto di razzie di elefanti operate dai soldati del generale Jo-
seph Kony, responsabile di violenze e rappresaglie contro le truppe governative
e i civili. Kony opera tra Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centra-
fricana, Sudan e Ciad e avrebbe contatti con Boko Haram a ovest e con i guerri-
glieri dell’Is in Siria, Iraq, Libia ed Egitto. Il generale compare nella lista dei glo-
bal terrorists redatta dal Dipartimento di Stato americano. Le informazioni arriva-
no anche da due importanti ong africane, Invisible Children ed Enough Project
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and Resolve, che sulla falsariga del lavoro fatto da Greenpeace in Brasile con il
legname illegale (Amazon’s silent crisis) hanno tracciato il movimento di avorio
illegale apponendo un rilevatore Gps su una zanna.
L’avorio viene trasferito in mesi e mesi di viaggio, spesso a dorso di cam-
mello, verso nord attraverso il deserto e immagazzinato in depositi sotterranei
(usati anche per l’acqua), da dove poi viene trasferito a tappe verso la Somalia
o l’Etiopia, per essere poi imbarcato verso la Cina, Taiwan, Hong Kong e la
Thailandia. Altro avorio esce dai porti di Mombasa in Kenya, Dar es Salaam in
Tanzania o Gibuti nel Mar Rosso e viene occultato in container di legname o di
altri materiali.
L’ultima frontiera del traffico di risorse naturali interessa i residui lembi di fo-
resta primaria soprattutto nel Centro e nel Sud America, nel Sud-Est Asiatico e in
Africa centrale. Ramino, palissandro, mogano e afrormosia le essenze più ricerca-
te nei mercati occidentali (che almeno si giovano di un sistema di tutela legato
alla Cites, Convention on International Trade in Endangered Species), cui vanno
aggiunte l’ipè, l’imbuia, il moabi, il bubinga, l’ayous, il wengè e centinaia di altre:
tutte essenze pregiate per ottenere le quali si tagliano a raso le foreste, si aprono
piste forestali in aree demaniali e remote senza autorizzazione.
Il fenomeno dell’illegal logging frutta ogni anno dai 30 ai 100 miliardi di
dollari e produce violenze contro i nativi, abusi, omicidi, limitazioni di diritti
primari, contribuendo a distruggere uno degli ecosistemi più preziosi del pia-
neta. Dal 10 al 30% del volume totale del legname commercializzato nel mon-
do è stimato di origine illegale, con punte che arrivano al 90% nel triangolo Ca-
merun-Gabon-Congo.

4. Come reagisce la comunità internazionale a questa nuova aggressione del


continente nero? Gli strumenti a salvaguardia della biodiversità esistono e a volte
sono anche efficaci, specie se mettono insieme la cooperazione politica, ammini-
strativa e giudiziaria tra gli Stati consumatori e quelli produttori di risorse. La so-
luzione è l’uso sostenibile delle risorse naturali e la gestione sempre più diretta e
responsabile delle stesse da parte dei popoli che ne possono esercitare il control-
lo diretto. La Cites, che risale al 1973 e a cui aderiscono oltre 180 paesi, tutela
con questi princìpi oltre 35 mila specie, tra cui i grandi primati e le scimmie in
genere, i grandi felini, i rapaci notturni e diurni, i mammiferi marini, i pappagalli,
i coralli, alcune conchiglie, il legname tropicale proveniente da determinate spe-
cie, le rane, le salamandre, i serpenti, i coccodrilli, i caimani e i gaviali, gli elefan- 81
IL BUSINESS DELLE SPECIE RARE CHE FINANZIA IL TERRORISMO

ti e i rinoceronti. Una miriade di colori e di forme che rappresentano la biodiver-


sità del pianeta, sempre più minacciata dall’espansione umana.
L’Italia tenta di dare il suo contributo alla prevenzione e alla repressione del
wildlife crime con l’azione di intelligence e la cooperazione di polizia in ambito
Interpol, Cites ed Europol (recente la partecipazione italiana all’Operazione Euro-
pol Cobra III sul traffico illegale di specie protette) ad opera del servizio Cites
del Corpo forestale dello Stato. Si cerca di contrastare il fenomeno svolgendo i
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controlli in dogana e all’interno. Esiste una Wildlife Web Crime Unit presso la Fo-
restale perché, come tutti i traffici illeciti, anche quelli in questione avvengono
sempre più sulla Rete. Sono 28 i nuclei Cites della Forestale che, con le dogane,
vigilano sulle importazioni illegali di animali e piante e da poco anche sulla cor-
retta applicazione della EU Timber Regulation e del Flegit per bloccare le partite
illegali di legname. Si possono usare scanner e cani per scoprire l’avorio nei con-
tainer soprattutto a Civitavecchia, uno dei principali varchi container doganali
d’Europa insieme a Rotterdam, Ravenna, Livorno e Gioia Tauro.
L’Italia, paese relativamente più scevro di altri da un opportunismo di stampo
postcolonialista, potrebbe fare molto di più in Africa. Molta parte del continente
subisce infatti una nuova e forse ancor più incontrollata e disastrosa fase di depre-
dazione, gestita da gruppi e organizzazioni che traggono vantaggio dalla debolez-
za delle autorità governative e da uno scenario geopolitico frammentato. Se dun-
que assistiamo a interessanti processi di emancipazione in molti paesi africani,
dobbiamo purtroppo rilevare che nella cruciale partita delle risorse naturali, l’Afri-
ca è nuovamente aggredita e, ancora una volta, lasciata sola.

82
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

IL MIRACOLO
DELLA PAX MAFIOSA
IN NIGER di Luca RAINERI
La resistenza del paese all’assalto del crimine organizzato non
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dipende dalla presunta integrità delle sue istituzioni, ma dalla


connivenza di queste con i trafficanti. Le rotte del contrabbando.
Il ruolo del presidente Issoufou. L’Ue ha preso un abbaglio.

1. N
EL GIUGNO 2011, IN PIENO DESERTO DEL
Sahara, ottanta chilometri a nord della località nigerina di Arlit, una pattuglia
dell’esercito del Niger intercetta un convoglio di contrabbandieri. Tre fuoristra-
da trasportano armi leggere ed esplosivi dalla Libia in preda alla guerra civile
verso il Mali, dove la guerra scoppierà pochi mesi dopo. Ne segue uno scontro
a fuoco e uno dei tre veicoli dei contrabbandieri viene catturato. A bordo sono
rinvenuti 645 chili di Semtex, esplosivo dall’alto potenziale proveniente dagli
arsenali di Gheddafi.
Alla luce dei successivi sviluppi nell’area saheliana, che porteranno alla de-
stabilizzazione del Mali e a una guerra civile ancora in corso, questo episodio
sarà additato dai commentatori internazionali come la prova dell’efficacia dei
dispositivi di difesa – e più in generale della solidità politica – del Niger. Uno
dei paesi più poveri al mondo, che tuttavia si è mostrato in grado di difendere
pace e democrazia in un territorio accerchiato da focolai di conflitto: la Libia a
nord, il Mali a ovest, la Nigeria a sud, i regimi autoritari di Algeria, Burkina Fa-
so e Ciad nei restanti scampoli di frontiera. Il Niger pertanto diverrà, negli anni
successivi, l’alleato di riferimento delle potenze internazionali preoccupate di
ripristinare l’ordine nella regione: a Niamey verranno posizionati i droni ameri-
cani e francesi per il controllo del Sahara, mentre l’Unione Europea sceglierà
proprio il Niger come interlocutore privilegiato nella lotta al «traffico» di mi-
granti subsahariani in rotta verso l’Europa.
I retroscena di questa storia apparentemente edificante rivelano tuttavia l’in-
quietante prezzo della stabilizzazione del Niger. Oltre al carico di esplosivo, nel
veicolo recuperato dall’esercito nigerino sono rinvenuti documenti che permetto-
no di risalire all’identità dei conducenti degli altri fuoristrada: si tratta di Ibrahim
Alambo – fratello di Aghali Alambo, ex leader della rivolta tuareg che ha infiam- 83
IL MIRACOLO DELLA PAX MAFIOSA IN NIGER

mato il Nord del Niger fra il 2007 e il 2010, in seguito divenuto consigliere di
Gheddafi – e di Abta Hamidine, ex leader della componente araba della medesi-
ma rivolta. Sapendosi braccato, Abta si consegnerà pochi giorni dopo al generale
Maikido, già plenipotenziario di Niamey nella guerra con i tuareg, nel frattempo
diventato presidente del Consiglio regionale di Agadez, la capitale del Nord nige-
rino, cuore di tutti i traffici del Sahara.
Abta viene (illegalmente) trattenuto e interrogato per quaranta giorni dai ser-
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vizi nigerini, a cui finirà per rivelare il più ampio disegno geopolitico di cui il suo
convoglio era un tramite: Gheddafi, incalzato dall’attivismo di Sarkozy, aveva ne-
goziato un accordo con Aqmi (al-Qå‘ida nel Maghreb islamico) per farsi conse-
gnare (vivi) i cinque ostaggi francesi rapiti nel settembre 2010 dai mujåhidøn
presso la miniera di uranio di Arlit, gestita dalla multinazionale transalpina Areva.
Gli ostaggi sarebbero serviti al Colonnello per smorzare il fervore guerriero di
Sarkozy e, per estensione, della Nato. Il Semtex e una somma imprecisata in dol-
lari contanti erano il pagamento per la riuscita dell’operazione orchestrata – rive-
lerà Abta – proprio da Aghali Alambo. Il contenuto dei due veicoli sfuggiti, tutta-
via, non sarà mai rinvenuto. A seguito dell’interrogatorio, Abta riuscirà a ottenere
un colloquio privato con il presidente della Repubblica Mahamadou Issoufou.
Verrà infine processato e condannato, insieme ad Aghali Alambo, nel marzo
2012. Ma dopo neanche dieci giorni di carcere entrambi saranno liberati per in-
tercessione di Issoufou e inspiegabilmente insigniti di cariche prestigiose: Alam-
bo è nominato segretario alla presidenza del parlamento, Abta consigliere specia-
le di Issoufou stesso. La liberazione degli ostaggi francesi rimasti nelle mani di
Aqmi, avvenuta nell’ottobre 2013, avrebbe quindi consentito al movimento jiha-
dista di ottenere venti milioni di euro di riscatto (versati dai contribuenti francesi
nelle tasche dei terroristi 1) e di integrare un proprio esponente (Abta) nell’esecu-
tivo nigerino, il miglior alleato dell’Occidente nel Sahel.
Abta e Alambo non rappresentano casi isolati. Rhissa Ag Boula, altro nome
di spicco della rivolta tuareg, è stato identificato alla testa di un convoglio di
oltre duecento veicoli militari proveniente dalla Libia e destinato al Mali nel
settembre 2011; ciò non ha impedito a Issoufou di nominarlo suo consigliere
speciale pochi mesi dopo. Molti altri ex leader del Mnj (Movimento dei nigerini
per la giustizia, la più significativa fazione della recente rivolta tuareg) si trova-
no ora alla guida di Comuni e Regioni del Nord. La sorprendente resistenza del
Niger agli shock esterni sembrerebbe quindi dipendere non tanto dalla straor-
dinaria integrità delle sue istituzioni democratiche, quanto dalla capacità di as-
sestamento di un sistema di cooptazione ben oliato. Negli ambienti della sicu-
rezza a Niamey non pochi alludono al fatto che la resa dell’Mnj nel 2009 po-
trebbe essere stata ottenuta in cambio di una contropartita inconfessabile. Ver-
sione confermata da alcuni ex militanti del movimento, che accusano la diri-
genza dello stesso – in primis Aghali Alambo – di «aver venduto la propria base

84 1. Cifra e circostanza ovviamente smentite da Parigi.


AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

politica in cambio di un tacito lasciapassare da parte delle autorità per i traffici


di ogni sorta che imperversano al Nord» 2.

2. In effetti, gli anni in cui l’Mnj prende il controllo del Nord del Niger (2007-
9) coincidono con il periodo di picco del traffico di droga, in particolare di co-
caina, nell’Africa occidentale e nel Sahel. Dati Onu parlano di 40-50 tonnellate di
cocaina sudamericana pura che transitano nel 2008 attraverso l’Africa occidentale
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verso i mercati europei, per un valore finale al consumo di quasi due miliardi di
dollari. Nel percorso che collega i porti sul Golfo di Guinea a quelli sul Mediter-
raneo, in Libia e in Egitto, e fino in Medio Oriente, la lunga frontiera scarsamente
presidiata che divide l’Algeria dal Niger rappresenta un corridoio privilegiato, che
ricalca le antiche piste carovaniere, nonché le collaudate rotte dell’hashish pro-
dotto in Marocco e in Ghana.
È plausibile che, con un meccanismo sperimentato in altri contesti, l’Mnj ab-
bia inteso sfruttare i proventi colossali dei traffici vendendo protezione ai traffi-
canti in transito nelle aree sotto il suo controllo; salvo poi finire per confondere il
mezzo con il fine e piegare la rivendicazione politica alle finalità più pragmatica-
mente economiche. In questo senso la resa delle armi, in realtà mai portata a ter-
mine, potrebbe essere stata negoziata in cambio di un sostanziale salvacondotto
alla perpetuazione dei traffici nella regione, concesso dalle autorità ai ribelli più
«malleabili». La deliberata negligenza nella repressione dei traffici avrebbe inoltre
consentito all’esercito di inserirsi progressivamente nel business più lucroso del
deserto. Negli ultimi anni, in effetti, il Niger si sta affermando come uno hub re-
gionale del traffico di droga. Sequestri senza precedenti interessano in maniera
crescente il territorio del paese: le intercettazioni di passeggeri carichi di pochi
chili di cocaina effettuate a più riprese all’aeroporto di Niamey nel dicembre
2014, che pure avevano inizialmente suscitato un certo scalpore mediatico, paio-
no risibili di fronte ai 500 chili segnalati alla frontiera con il Mali (marzo 2015),
alle centinaia di intercettazioni denunciate alla frontiera con l’Algeria (aprile
2015), ai quintali nascosti fra le grotte nel deserto del Nord-Est del paese rinve-
nuti dai soldati francesi (maggio 2015).
Tali episodi tuttavia potrebbero rappresentare solo la punta di un iceberg
che rimane sommerso da connivenze e complicità intrecciate fin nelle più alte
sfere del potere locale. Significativamente, nessuna intercettazione di rilievo è
stata finora effettuata con il concorso dell’esercito nigerino, che in molti accusa-
no di partecipare alla protezione dei convogli e alla spartizione dei proventi. «La
corruzione dell’esercito è risaputa», affermano gli esponenti locali di Transpa-
rency International, «eppure ad oggi nessun processo è stato intentato contro alti
esponenti della gerarchia militare. I generali rimangono intoccabili» 3. Fonti giudi-

2. Intervista con attivisti tuareg condotta a Niamey, settembre 2015


3. Intervista con Transparency International condotta a Niamey, ottobre 2015. Fonti giudiziarie con-
fermano l’assenza di processi a carico di alti responsabili militari. 85
86
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IL MIRACOLO DELLA PAX MAFIOSA IN NIGER

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2022 m

Agadez

Gao TAHOUA DIFFA C I A D

Tahoua ZINDER
TILLABÉRI
Ex area
Niamey del lago Ciad Corridoio K-K-M per il commercio
MARADI di beni per lo più leciti
ora paludosa (benzina, prodotti sovvenzionati)
DOSSO Maradi
Sokoto Lago Ciad Probabili trafci di medicinali
Ouagadougou contrafatti e sigarette
Katsina Corridoio principale dei trafci
di armi e cocaina
BURKINA FASO Kano
Frontiere strategiche porose

Da Cotonou Zaria Strade


N I G E R I A
(porto del Benin) CAMERUN Confni delle Regioni nigerine
GHANA
TOGO BENIN DIFFA Nomi delle Regioni nigerine
©Limes
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

ziarie, ad esempio, indicano che nel febbraio 2010 un aereo cargo si è posato in
territorio nigerino al confine fra Libia e Algeria. Distribuito il carico di cocaina,
stimabile in decine di quintali, l’aereo ha potuto riprendere il volo indisturbato.
Nonostante la disponibilità di diverse testimonianze concordanti, nessuna proce-
dura né inchiesta è stata intrapresa. La prossimità sia geografica sia temporale
con il noto caso dell’Air Cocaine (il Boeing carico di cocaina rinvenuto nel Saha-
ra maliano nel novembre 2009) suggerisce la possibilità che anche il grado di pe-
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netrazione delle reti criminali all’interno delle strutture dello Stato sia comparabi-
le nei due paesi. Il che conferma l’avventatezza delle sperticate lodi alla supposta
«solidità» della democrazia nigerina.
Parallelamente all’ascesa delle gerarchie militari, nuovi attori si sono inseriti
con prepotenza nel business dei traffici di droga in Niger. Molti osservatori addi-
tano con sospetto l’improvviso successo delle grandi compagnie locali di traspor-
to privato, come Rimbo e 3Stv, sorte dal nulla a seguito delle cure di austerity
imposte al Niger dai grandi finanziatori internazionali negli anni Novanta. Le diri-
gono imprenditori appartenenti alla comunità araba, gli unici a disporre delle ri-
sorse, della logistica e dei legami familiari estesi su scala regionale indispensabili
a garantire la movimentazione sicura di beni (più o meno leciti) e persone su
percorsi lunghi, accidentati e pericolosi: rispettivamente Rhissa Mohamed e Ché-
rife Abidine (non a caso soprannominato Chérife Cocaïne, o il Boss di Agadez). I
loro mezzi sono ritenuti vettori di traffici che, per quanto illeciti, sono considerati
innocui dalle autorità, dal momento che il danno cagionato, sia in termini finan-
ziari che di salute pubblica, si ripercuote su paesi limitrofi o lontani, mentre i
guadagni sono redistribuiti localmente e alimentano un’economia altrimenti pro-
sciugata dalle conseguenze devastanti del cambiamento climatico.
Oltre al traffico di cocaina, la flotta di camion e autobus di Rhissa Mohamed
sarebbe specializzata nel mercato delle sigarette di contrabbando: prodotte in Ci-
na e a Dubai, sbarcate nei porti di Cotonou e Lagos, le bionde di frodo prose-
guono la loro rotta attraverso il Niger, via Agadez, per essere infine svendute in
Algeria o Libia, dove più della metà del tabacco consumato è importato illegal-
mente. La stessa direttrice (e presumibilmente la stessa infrastruttura logistica)
serve il crescente traffico di medicinali di contrabbando venduti nella regione. In
alcuni paesi dell’area, un quarto dei medicinali antimalarici risulta contraffatto e
inefficace; mentre in Egitto il Tramadol, un medicinale a base oppiacea opportu-
namente (e illegalmente) modificato, è divenuto una sostanza stupefacente di lar-
ghissimo consumo.
L’impunità dilagante nella quale fioriscono i traffici di ogni tipo è frutto an-
che degli equilibri politici del modello neopatrimoniale nigerino e del capillare
sistema di reti clientelari, consorterie, nepotismi e oscure obbligazioni recipro-
che. La presidenza di Issoufou e la preminenza del suo partito (il Pnds, Partito
nigerino per la democrazia e il socialismo) devono infatti molto ai due attori pro-
tagonisti dei traffici nel paese: i militari e l’élite mercantile araba. Issoufou è stato
eletto a seguito di un periodo di «transizione» militare e si è guardato bene dal- 87
IL MIRACOLO DELLA PAX MAFIOSA IN NIGER

LO SNODO DEL NIGER


L I B I A

A L G E R I A
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AGADEZ
10 27

Arlit Dirkou
M A L I

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NIAMEY
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7
BURKINA
FASO
N I G E R I A
B E N I N

Origine dei migranti non nigerini Flussi migratori

Benin 1 In uscita
Bloccati alle frontiere
Burkina Faso 39 e costretti a tornare
Camerun 41 Centri di transito
e di assistenza
Costa d’Avorio 26 dell’Organizzazione
Internazionale
Gambia 261 per le Migrazioni (Oim)
Confni regionali
Ghana 31
T A H O U A Nomi delle regioni
Guinea Bissau 57 14 3
Guinea Conakry 25 Numeri su fondo bianco:
verso la Libia
Liberia 9 Numeri su fondo nero:
verso l’Algeria
Mali 170
Dati basati sulla raccolta
Nigeria 68 di testimonianze di migranti
Rep. Centrafricana 3 (2.127) accolti e assistiti
dall’Oim nel periodo
Rep. Dem. del Congo 1 tra gennaio e settembre 2014.
Senegal 546

88 Togo 4

Fonte: Oim
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

l’intaccare i diversi privilegi accumulati nel frattempo dall’élite in divisa. Al con-


trario, non appena nominato ha sconfessato la sua piattaforma elettorale d’im-
pronta progressista e, approfittando della delicata situazione securitaria e della
sindrome d’accerchiamento del paese, ha dirottato investimenti e risorse sulla di-
fesa. Una campagna acquisti tanto generosa quanto opaca ha portato il paese più
povero del mondo a dotarsi di cacciabombardieri ed elicotteri d’assalto russi e
francesi. Si stima che dal 2011 a oggi le risorse pubbliche destinate al settore del-
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la sicurezza siano state moltiplicate per dieci; deputati dell’opposizione e della


società civile lamentano l’assoluta mancanza di trasparenza e l’inaccessibilità di
qualsivoglia informazione.
La campagna elettorale di Issoufou ha inoltre ampiamente beneficiato del
generoso appoggio offerto dalla ricca comunità araba del paese. Significativa-
mente, alle elezioni del 2011 sia Chérife «Cocaïne» Abidine sia Rhissa Mohamed
sono eletti deputati nelle file del Pnds. La Corte dei conti ha in seguito denuncia-
to le dichiarazioni fraudolente circa l’origine dei finanziamenti per la campagna
elettorale del Pnds, ma l’allarme è rimasto, ancora una volta, inascoltato.

3. Fra il 20 e il 24 agosto 2015, i funzionari delle dogane dell’aeroporto di


Niamey sequestrano tre valigie, in rotta verso Dubai, contenenti moneta contan-
te, non denunciata, per un valore complessivo di quasi 50 milioni di euro. Il 27
agosto, tuttavia, il presidente Issoufou impone, in contravvenzione alla legge, di
restituire le valigie e il loro contenuto intatti al loro «legittimo» proprietario. Que-
st’ultimo è Dahiru Mangal, noto boss mafioso di Katsina, città della Nigeria al
confine col Niger considerata dalle autorità locali la capitale del contrabbando.
Katsina è il punto medio del cosiddetto corridoio K-K-M, dalle iniziali delle loca-
lità di Kano, Katsina e Maradi che ne costituiscono gli snodi. Qui la frontiera Ni-
geria-Niger taglia in due un territorio storicamente e culturalmente omogeneo,
culla della civiltà hausa e dell’antico impero islamista di Sokoto. Le dogane, inol-
tre, sono tanto concettualmente astratte quanto praticamente trascurabili. Beni e
idee circolano liberamente: è proprio lungo l’asse K-K-M che negli anni Novanta
si diffonde la dottrina integralista di Izala e la sua versione più politicamente
eversiva propugnata da Boko Haram.
Negli anni Mangal ha costruito un impero basato sui traffici transfrontalieri,
prevalentemente di generi leciti sovvenzionati in Nigeria e rivenduti in Niger: car-
burante (acquistato a circa 30 centesimi di euro al litro, e rivenduto al triplo),
prodotti tessili, sigarette. Pare che il 90% delle merci presenti a Maradi siano con-
vogliate dai traffici di Mangal. Alcune di queste procedono poi verso Cotonou
per essere spedite all’estero aggirando i dazi doganali nigeriani. Secondo un rap-
porto del 2006 dell’autorità anticorruzione nigeriana, le attività di Mangal coste-
rebbero due milioni di posti di lavoro all’industria nazionale. Ma Mangal sa come
farsi perdonare: in qualità di primo finanziatore del Pdp, il partito di governo ad
Abuja, intrattiene ottimi rapporti con l’allora presidente federale Goodluck Jo-
nathan e il processo a suo carico viene prontamente insabbiato. 89
IL MIRACOLO DELLA PAX MAFIOSA IN NIGER

Con l’elezione di Muhammadu Buhari (anch’egli originario di Katsina), nel


maggio 2015 Mangal sente la sua rete di protezione vacillare e organizza la fuga a
Dubai. Sceglie di passare da Niamey, dove può contare sulla riconoscenza del
Pnds e di Issoufou in persona, che tanto hanno beneficiato del generoso sostegno
del magnate nigeriano per finanziare la propria ascesa politica. Fra gli spalloni che
trafugano il patrimonio di Mangal in contanti figurano dei deputati in quota al
Pnds, fra cui nientemeno che Rhissa Mohamed. Issoufou coglie l’occasione per
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saldare il suo debito, arrecando incidentalmente un vulnus di circa 13 milioni di


euro alle finanze pubbliche del Niger: una cifra non insignificante per un paese
dove più della metà della popolazione vive con meno di due dollari al giorno.

4. La visita a Niamey dell’alto rappresentante dell’Unione Europea Federica


Mogherini, nel settembre di quest’anno, ha sottolineato che per l’Europa la mi-
naccia principale alla sicurezza, contro cui schierare prioritariamente uomini e
mezzi, è rappresentata dal traffico dei migranti: scelta quanto meno arbitraria in
un paese corroso da traffici di armi, droghe, merci contraffatte, petrolio e capitali.
Non c’è dubbio che Agadez rappresenti uno snodo fondamentale nelle rotte dei
migranti subsahariani diretti verso il Nordafrica e (in misura minore) l’Europa. Se-
condo l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni da qui transitano ogni
anno 120 mila persone, in maggioranza nigerini, senegalesi e gambiani.
Tuttavia, in questo caso l’uso della parola «traffico» è improprio e fuorviante.
La stragrande maggioranza dei migranti di passaggio da Agadez non è vittima di
tratta, vessata da criminali senza scrupoli con la minaccia, l’inganno e l’estorsio-
ne; si tratta di individui che intraprendono consapevolmente viaggi volti a mi-
gliorare la loro esistenza. In barba al sensazionalismo mediatico, ad Agadez i
candidati alla migrazione non sono gettati in pasto a grandi cartelli criminali de-
diti al trasferimento di massa di popolazioni a fini di lucro; al contrario, qui pos-
sono avvalersi di una serie di «servizi» – dall’accoglienza presso le famiglie all’ac-
compagnamento a bordo di camion di commercianti – che rispondono a iniziati-
ve capillarmente diffuse sul territorio, a carattere prevalentemente individuale o
familiare, spesso unica fonte di reddito in un contesto martoriato dal cambiamen-
to climatico. Le testimonianze dei migranti riferiscono spesso della solidarietà e
dell’aiuto ricevuto dalle popolazioni locali, mentre sono le forze dell’ordine a es-
sere identificate sistematicamente come responsabili di abusi e maltrattamenti.
Tuttavia, le iniziative promosse dall’Unione Europea per arginare «l’esodo»
preferiscono foraggiare queste ultime: lo conferma la nuova legge nigerina an-
titraffico adottata nel maggio 2015 su pressione dell’Unione Europea. Non risul-
ta che da Bruxelles siano giunte pressioni analoghe per l’adozione di una legge
contro il crimine organizzato o il traffico di armi, ad oggi inesistenti nel codice
nigerino.
L’approccio populistico e superficiale dell’Unione Europea potrebbe deter-
minare errori strategici dalle conseguenze imprevedibili. Mentre uomini e risorse
90 sono impegnati a dare la caccia a migranti derelitti, ci si dimentica che ad oggi
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

manca ancora all’appello la maggior parte delle armi utilizzate nelle rivolte saha-
riane e trafugate dagli arsenali libici. Non sono in pochi a sospettare che, in osse-
quio a una consolidata tradizione delle tribù locali, kalashnikov, esplosivi, lancia-
razzi e armamenti antiaerei siano stati nascosti sotto la sabbia e nelle montagne
dell’Aïr e dell’Hoggar, dove si conserveranno in buone condizioni in attesa di es-
sere rimesse in circolazione al servizio di una nuova causa. Le ragioni di malcon-
tento non mancano: dall’impatto del cambiamento climatico all’indignazione per
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la corruzione dilagante, fino al malumore delle popolazioni del Nord progressi-


vamente estromesse dal controllo dei traffici regionali (di cui gli scontri attuali ad
Awbårø, nel Sud libico, rappresentano una prima, inquietante avvisaglia). Non
appena gli occhi indiscreti della comunità internazionale, oggi puntati sul Nord
del Niger, saranno costretti a guardare altrove accecati dal sole del Sahara, le ar-
mi torneranno a sparare.

91
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
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Parte II
AFRICHE
PROFONDE
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

QUANTE AFRICHE
IN AFRICA? di Gianni BALLARINI e Raffaello ZORDAN

Il continente si divide in due macrocategorie di paesi: quelli


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a sovranità decorativa e quelli a sovranità effettiva. Alcuni


dei quali, come Etiopia, Nigeria, Sudafrica, Uganda, Ruanda,
e Ciad, dotati di proprie aree d’influenza mobili e contestate.

C
delle strutture militari, controllo sociale e spinta demografica sono fattori che,
RESCITA ECONOMICA E PESO

abbinati alle visioni geopolitiche di questo o quel regime, consentono di va-


lutare quali sono i paesi africani che esercitano una sovranità effettiva, anche
oltre i propri confini nazionali e quali, invece, sono titolari di una sovranità
decorativa.
In questi anni stiamo assistendo a una graduale trasformazione del gioco
geopolitico nel continente. Non sono più i colpi di Stato a caratterizzare i pas-
saggi di potere e a inaugurare stagioni politiche, come è avvenuto a lungo do-
po lo sgretolarsi del colonialismo europeo. Si moltiplicano le elezioni multipar-
titiche, anche se il cemento istituzionale, troppo fresco, manifesta problemi di
tenuta. Molte le crepe: statualità fragile; difficili equilibri interni fra comunità ed
etnie; architetture istituzionali d’importazione; partiti spesso espressione di lea-
lismi etnici e regionali; livelli ancora elevati di corruzione percepita; una palese
debolezza delle infrastrutture.
E se è vero che, almeno formalmente, il voto è ormai uno strumento diffu-
so di espressione del consenso, l’Africa subsahariana presenta 9 dei primi 15
leader politici più longevi al mondo, con Paul Biya, presidente incontrastato
del Camerun, che svetta con i suoi quarant’anni di potere. Senza dimenticare i
tanti (troppi) capi di Stato che forzano le carte costituzionali per poter prolun-
gare i loro mandati.
In questo quadro è possibile individuare gli interessi e i protagonisti che
animano alcune macroregioni geopolitiche in Africa, con particolare riferimento
all’area subsahariana. Sono territori fluttuanti, soggetti a spinte e controspinte.
Si tratta di capirne le logiche.
95
QUANTE AFRICHE IN AFRICA?

Le ambizioni di Addis Abeba


La classe dirigente etiopica è convinta di vivere «un autentico rinascimento».
Parola di moda nell’ex colonia italiana: s’era battezzata così, inizialmente, anche
la più imponente opera pubblica in fase di costruzione nel paese: la diga sul Ni-
lo. La più grande d’Africa. Un’opera che a regime dovrebbe produrre seimila MW
d’elettricità, creando un bacino con una superficie di 1.800 kmq (quella del lago
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di Garda è di 370 kmq), per un volume di 63 miliardi di metri cubi d’acqua. I co-
sti dell’opera, i cui lavori sono affidati all’italiana Salini-Impregilo, sono saliti a 4,5
miliardi di dollari. Il governo, per farvi fronte, si è appellato al nazionalismo etio-
pico proponendo alla popolazione di sottoscrivere nuovi buoni del Tesoro e
chiedendo donazioni private.
Un’opera che – assieme alle altre due dighe in fase di costruzione (Gibe III
sul fiume Omo e quella sul fiume Ganale-Dawa) – dovrebbe non solo liberare
l’Etiopia dall’aleatorietà della meteorologia, ma ridefinire da una posizione di for-
za le relazioni diplomatiche e le geopolitiche regionali di Addis Abeba. Il disegno
strategico etiopico, infatti, è di sviluppare fonti energetiche diversificate al fine di
soppiantare il caffè come principale voce nel capitolo esportazione. Progetto che
si fonda sulla grande fame di elettricità disponibile e conveniente che c’è nel se-
condo paese più popolato del continente e nell’Africa intera. Una politica ambi-
ziosa. Vissuta come pericolosa da vicini ingombranti come il Sudan e l’Egitto del
generale-presidente al-Søsø, che impronta da sempre gran parte delle sue politi-
che estere sulla sicurezza idrica.
Il rinascimento di Addis Abeba, che si esplicita in un’accelerata modernizza-
zione, si basa su un fiume ininterrotto di investimenti pubblici, molti sostenuti
economicamente dalla Cina. Immensi quartieri popolari sui luoghi delle estese
baraccopoli rase al suolo; nuove arterie stradali; la già inaugurata metropolitana
di Addis Abeba, la prima nell’Africa subsahariana; la costruzione di una rete fer-
roviaria di cinquemila km che prevede i collegamenti tra la capitale e il porto di
Gibuti e tra le regioni del Sud-Est e il Nord del paese; la prevista costruzione di
un nuovo aeroporto, alla periferia della capitale, che possa accogliere 120 milioni
di passeggeri l’anno e dal costo di 4 miliardi di dollari.
L’obiettivo è trasformare l’Etiopia nella locomotiva continentale, riconoscen-
do ad Addis Abeba il titolo di capitale d’Africa. Gli organismi internazionali sono
entusiasti della sua crescita economica. Il Fondo monetario, che ha rivisto al ri-
basso i dati africani per il 2015, elogia il paese del Corno, classificandolo tra le
cinque economie che crescono più rapidamente nel mondo. Gli Usa, poi, la con-
siderano un baluardo continentale contro il terrorismo islamista.
Dati, tuttavia, da leggere criticamente: stiamo sempre parlando, infatti, di un
paese tra i più poveri al mondo (al 173° posto su 187 nell’Indice di sviluppo
umano 2014) e che è guidato, in questa fase di transizione, dalla mano pesante
del governo. Il quale esercita un controllo sociale molto stringente. Dalle prime
96 elezioni parlamentari libere post-Menghistu, nel 1995, l’Etiopia è retta, di fatto, da
La popolazione urbana in Africa
LA POPOLAZIONE AFRICANA 67 (2014 - Fonte: Banca mondiale - in percentuale)
60
Tunisia
Casablanca Alessandria 70
3.537.000 4.791.000 78 43
Marocco
Ovest
(Tripolitania) Il Cairo
Algeria 11.663.000 59 39
Libia 18
Est 34 22
Sahara Occ. Fezzan Egitto 65 43 22
(Cirenaica) 77
59 29
37 39
39 47 19
Mauritania 53 53 40 19
40
Dakar Niger 49 54
3.308.000 Mali 44
Eritrea 39
Senegal 65 16 25
Sudan 87 65
Gambia 40 28
B. Faso Gibuti 42 12
Ciad Etiopia
Guinea B. Guinea 00 31

Benin
Costa ano 22.0 eria Somalia 54
9 28

Togo
K 3. ig
N
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L. d’Avorio

Ghana
rra un Sud Sudan Addis Abeba
Sie er Centrafrica 43
ia m 3.365.000 16 32
er s 40
n Ca
Lib ja 00 Kenya 34
ago 7.000
2 Uganda 33
b id 88.0
7 L .4 Rep. Dem. 57
A 4. 12 46
Gabon Br. del Congo Ruanda Nairobi 40
o 4,303.000
ng Burundi 21
Co Kinshasa 27
10.668.000 Tanzania Dar es Salaam 64
4.153.000 Seychelles
Luanda Paesi per percentuale
6.013.000 di popolazione urbana
Comore
Angola Îles Glorieuses (Francia) (2014 - Fonte: Banca mondiale)

Mala
Zambia Mayotte Meno del 20

wi
o (Francia)
Densità della bic tra il 20 e il 40
z am
popolazione Zimbabwe Mo tra il 40 e il 60
Le megacittà Namibia Maurizio
(numero di abitanti per km2)
più di 200 Da 10 a 22 milioni Botswana Madagascar ©Limes sopra il 60
Ekurhuleni Riunione (Francia)
da 100 a 200 3.380.000 I milioni di abitanti indicati accanto alle megacittà,
da 50 a 100 Swaziland sono una stima per il 2015 dell’African Development Bank.
da 5 a 9 milioni Johannesburg
da 25 a 50
3.867.000 Una stima precisa in Africa è molto difcile da ottenere.
da 10 a 25 Sudafrica Lesotho
da 4 milioni a 4.900.000 Secondo le informazioni di Limes, raccolte da ricerche specifche e dagli
da 1 a 10
Città del Capo autori sul campo, come quella che troverete nell’articolo dedicato a Lagos,
da 0 a 1 da 3 milioni a 3.900.000 3.579.000 ci risulta che le megacittà siano molto più popolose già ora di tutte le stime disponibili.
LE RETI DEI JIHADISTI AFRICANI Tunisi
Algeri
Rabat TUNISIA SIRIA
Tripoli Stato Islamico
MAROCCO
Tobruk Da e verso
il Medio IRAQ
Oriente
Tripolitania
Il Cairo
ALGERIA Cirenaica
Sahara Occ. LIBIA
EGITTO
Fezzan
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MAURITANIA
Nouakchott
NIGER SUDAN
MALI ERITREA YEMEN
SENEGAL
GAMBIA Niamey CIAD Khartum Asmara
Bamako
BURKINA GIBUTI
GUINEA B. N’Djamena
GUINEA FASO Gibuti
Conakry NIGERIA Da e verso
Freetown Addis Abeba lo Yemen
COSTA Abuja

BENIN
SIERRA LEONE SUD SUDAN

GHANA
D’AVORIO

TOGO
Monrovia CENTRAFRICA ETIOPIA
SOMALIA
LIBERIA Yamoussoukro CAMERUN Giuba
Bangui al-Šabab
Vie di comunicazione Yaoundé
e snodi jihadisti UGANDA
GUINEA EQ. Mogadiscio
Kampala KENYA
Presenza di afliati dell’Is
O

Muslim Defence
GABON International
Violenze di gruppi
NG

Nairobi
di matrice islamista
CO

Aqim Presenza di gruppi afliati REP. DEM.


o legati all’Is Brazzaville DEL CONGO
Centri d’irradiamento Kinshasa
e reclutamento del jihadismo Wilayat Sinai TANZANIA
(Stato Islamico e Aqap) Boko Haram ©Limes ANGOLA
Aree agricole
LE TRAVERSATE DEL DESERTO
Savana arida, steppa
Ceuta Melilla LAMPEDUSA Deserto del Sahara
t e 2.328 Mar Mediterraneo Altre zone desertiche
MAROCCO a n Alessandria
t l TUNISIA Savana e savana-foresta
OCEANO A Tripoli Bengasi
Béchar Foresta pluviale tropicale
ATLANTICO 4.165
ALGERIA
Il Cairo Vegetazione di alta montagna
LIBIA Terre irrigate o paludose
EGITTO
Altri boschi di alto fusto
Sabhā
Sahara Occ. Hogga
r

Ma
r
Tamanrasset 1.934

Ro
MAURITANIA

sso
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i
20° NIGER
3.415
MALI Aïr
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SUDAN
Nouakchott Aoudaghost Timbuctu Gao
Kiffa Agadez ERITREA
Khartum
SENEGAL Niamey Mao CIAD
GAMBIA
Bamako BURKINA F.
Ouagadougou N’Djamena 3.088 1.786 GIBUTI
12°
GUINEA B. NIGERIA Kano
GUINEA
SOMALIA
Addis Abeba ETIOPIA

BENIN
Abuja
SIERRA L. SUD SUDAN
COSTA

TOGO
REP. CENTRAFRICANA
D’AVORIO
Bangui

CA
Giuba

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LIBERIA

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GHANA

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REP. DEM. DEL CONGO KENYA
Le rotte dei migranti Golfo di Guinea UGANDA
GUINEA EQ.
Rotta occidentale 5.109 4.321 5.199 EQUATORE
EQUATORE GABON 4.507 RUANDA
Rotta centrale 5.895
CONGO BURUNDI OCEANO
Rotta orientale
INDIANO
(Cabinda) ANGOLA
Montagne rilevanti (altitudine in metri) TANZANIA
Fascia di crisi sahariano-saheliana ANGOLA
© Limes
LE NON SOVRANITÀ AFRICANE Principali aree d’infuenza

Tunisia
Marocco
Ovest
(Tripolitania)
Algeria
Libia
Sahara Occ. Est
Fezzan (Cirenaica) Egitto Ciad
Nigeria
Mauritania Etiopia
Capo Niger Uganda
Verde Mali Eritrea
Senegal Ciad Sudan
Gambia Gibuti
B. Faso Ruanda
Guinea B. Etiopia
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Guinea
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Nigeria

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Co del Congo Burundi
Tanzania Sudafrica
Seychelles

Nigeria
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Angola Îles Glorieuses (Francia) Benin, Burkina Faso, Capo Verde, Costa d’Avorio,

Mala
Mayotte Gambia, Ghana, Guinea, Guinea Bissau, Liberia,
Zambia

wi
o (Francia) Mali, Niger, Senegal, Sierra Leone, Togo
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Zimbabwe Mo Mali, Niger, Rep. Centrafricana, Camerun


Maurizio Etiopia
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Namibia
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Botswana Eritrea, Somalia, Egitto, Sudan, Gibuti, Kenya


Ma

Riunione (Francia) Ruanda


Sovranità efettiva Rep. Dem. del Congo, Burundi, Uganda
Sovranità debole Swaziland Uganda
Rep. Dem. del Congo, Burundi, Sud Sudan, Ruanda, Kenya
Sovranità“decorativa” Sudafrica
Sudafrica Lesotho Angola, Lesotho, Swaziland, Mozambico, Zimbabwe,
Stati falliti
Rep. Dem. del Congo, Botswana, Madagascar,
Non classifcabile ©Limes Malawi, Maurizio, Namibia, Seychelles, Tanzania, Zambia
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

un partito unico, il Fronte rivoluzionario democratico del popolo etiopico, che


alle ultime elezioni del 27 maggio 2015 ha fatto bingo, occupando tutti i 547 po-
sti dell’Assemblea parlamentare. Un potere, il suo, esercitato violando diritti uma-
ni, arrestando centinaia di oppositori ed esponenti di movimenti religiosi, impo-
nendo, per legge, restrizioni alla libertà di stampa e di espressione. Le più impor-
tanti tipografie e testate giornalistiche sono in mano all’esecutivo, come pure l’u-
nica compagnia di telecomunicazioni. Secondo un rapporto di Human Rights
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Watch, dal 2010 ai primi mesi del 2015 almeno sessanta giornalisti non allineati
(trenta dei quali solo nel 2014) hanno lasciato il paese per evitare denunce e ar-
resti. Il 16 ottobre scorso sono stati assolti quattro blogger del collettivo Zone 9,
in carcere da 18 mesi con l’accusa di terrorismo.
Il paese ha una rete poliziesca diffusa e un esercito tra i primi in Africa (180
mila militari), utile per tenere a freno le minacce di vicini ostili. Le tensioni con
l’Eritrea sono costanti. Il primo ministro etiopico Hailemariam Desalegn è tornato
ancora il 1° novembre a invitare la comunità internazionale a fare pressioni per
un cambiamento al potere in Eritrea, con la scusa della crisi migratoria. Da parte
sua Asmara continua ad armarsi, violando l’embargo imposto dalla risoluzione
1907 del 2009 dell’Onu, sostenendo gruppi di opposizione armata nei paesi con-
finanti, come ribadito dalla risoluzione 2244 adottata il 23 ottobre scorso. Una
tensione che si riverbera nelle relazioni internazionali dei due paesi.

Nigeria, dominio all’Ovest


La forza della Nigeria sta nei numeri. Un gigante da oltre 177 milioni di per-
sone (444 milioni le previsioni al 2050); con il pil più ricco del continente (568,5
miliardi di dollari); con uno degli eserciti più potenti (130 mila militari, e un bud-
get per la difesa di 2,3 miliardi dollari nel 2014); primo produttore africano di pe-
trolio (1,8 milioni di barili al giorno, ma con riserve pari a 37 miliardi di barili).
Questo gigante esercita un indubbio primato regionale. Con i 14 vicini di
casa riuniti nella Comunità Economica dell’Africa Occidentale (Ce-
deao/Ecowas), la Nigeria si permette spesso di alzare la voce, visto che il suo
pil è di due volte e mezza superiore alla somma di tutti i pil degli altri paesi
Ecowas (il Ghana, la seconda economia dell’area, è distante anni luce da
Abuja, con i suoi 38 miliardi di dollari). La Nigeria, talvolta, abusa di questo
suo dominio in un’area tanto frammentata, utilizzando l’Ecowas per scopi che
esulano da quelli economici originari. Spesso per ragioni di sicurezza e militari.
Tanto che Ecowas, in passato, è stata l’organizzazione regionale africana che
ha maggiormente investito nel peacekeeping. Le esperienze nelle crisi in Liberia
e Sierra Leone insegnano.
Ma le mire di Abuja s’allargano ben al di là dei confini regionali. Da anni
gioca una partita per la leadership continentale con l’unico player in grado di
ostacolarla: il Sudafrica. La corsa per la presidenza dell’Unione Africana (vinta nel 97
QUANTE AFRICHE IN AFRICA?

luglio 2012 dalla sudafricana Dlamini Zuma); la presenza solitaria di Pretoria tra i
G-20; la cooptazione del Sudafrica nel gruppo Brics e la corsa a ostacoli per l’e-
ventuale seggio permanente riservato a uno Stato africano nel Consiglio di Sicu-
rezza dell’Onu raccontano di un’affannosa rincorsa nigeriana.
La situazione attuale appare anche più fragile. Sia per ragioni interne sia in-
ternazionali. Il voto del marzo scorso ha eletto presidente il candidato dell’oppo-
sizione Muhammadu Buhari, rafforzando nel paese un esercizio ininterrotto di
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potere democratico che dura da 16 anni. Per la prima volta un capo di Stato è
stato scalzato per via elettorale e non da un putsch militare. Ma la Nigeria è un
paese a sistema federale (36 Stati) che deve far fronte a continue spinte centrifu-
ghe. È diviso quasi in egual modo fra musulmani (al Nord) e cristiani (al Sud),
che vivono una situazione economica radicalmente diversa: il 72% dei nigeriani
del Nord campa con meno di un dollaro al giorno, contro il 27% del Sud. Ci so-
no più di 250 gruppi etnici che incidono sull’architettura istituzionale, influenzan-
do la composizione del parlamento. Un paese che deve rivedere al ribasso i dati
di crescita economica, a causa del dimezzamento, da metà 2014, del prezzo del
petrolio (la redistribuzione dei suoi proventi resta uno dei punti oscuri nelle rela-
zioni tra i 36 Stati).
Inoltre, l’esplosione della violenza jihadista di Boko Haram nel Nord-Est ne
mina la stabilità e la sicurezza. E deteriora anche i rapporti internazionali del
paese, che ha dovuto subire l’umiliazione di eserciti stranieri sul suo territorio
per combattere il terrorismo. Ora Abuja guida la Multinational Joint Task Force
che ha la sua sede a N’Djamena (Ciad) e che comprende novemila militari pro-
venienti, oltre che dalla Nigeria, da Benin, Ciad, Camerun e Niger. Un’iniziativa
militare chiamata a far fronte alle milizie islamiste guidate da Abubakar Shekau.
Ma è guardata con sospetto da alcuni ambienti nigeriani, soprattutto per il ruolo
di primo piano giocato dal Ciad, ritenuto l’avamposto della Francia nel continen-
te. Anche perché Parigi ha cercato di frenare, in questi anni, l’attivismo e le am-
bizioni nigeriane in Africa.

L’ombrello sudafricano
Il Sudafrica targato African National Congress ha un doppio fardello sulle
spalle. È chiamato a consolidarsi quale democrazia compiuta e inclusiva, che
riesce a far convivere economia liberale, diritti del lavoro (brucia ancora la re-
pressione dei lavoratori in sciopero a Marikana nel 2012) e welfare. Ed è obbli-
gato a esercitare un’egemonia geopolitico-economica in particolare sugli Stati
che fanno parte della Comunità Economica di Sviluppo dell’Africa Meridionale
(Sadc). L’obbligo gli deriva dall’essere la seconda economia dell’Africa (suo il
25% del pil continentale, 350 miliardi di dollari) e titolare di quel progetto politi-
co denominato «rinascimento africano» che ha nella Nepad (Nuova Partnership
per lo Sviluppo dell’Africa, fondata nel 2001 con Algeria, Egitto, Nigeria e Sene-
98 gal) uno dei suoi bracci operativi.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

S’intende che il grado di pressione e di coinvolgimento non è uguale in tutte


le direzioni. L’Angola vuole fare da sé e va a cercarsi sponde in Estremo Oriente
(Cina), mentre Lesotho e Swaziland sono di fatto sotto tutela. Per il Mozambico,
Pretoria è un referente economico fondamentale che funziona anche da polo di
attrazione di manodopera migrante; più politico, invece, il rapporto con lo Zim-
babwe di Robert Mugabe. L’ex compagno di lotte di liberazione oggi governa da
autocrate ma può sempre far comodo. Tanto che nel 2014 il presidente sudafri-
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cano Zuma non ha partecipato al summit Ue-Africa in solidarietà con Mugabe,


accusato dall’Unione Europea di non rispettare i diritti umani.
La Sadc ha tra i suoi impegni prioritari la stabilizzazione geopolitica della Re-
pubblica Democratica del Congo (Rdc). Il Sudafrica (che da gennaio ha la presi-
denza dell’organo di difesa e sicurezza della Sadc) partecipa con una brigata
d’intervento alla Monusco, la missione Onu nel Nord-Est del paese. Una Rdc sta-
bile significa più possibilità che si costruisca Inga III, la centrale idroelettrica da
4.800 MW sul fiume Congo, a ovest di Kinshasa. Nel costo dell’operazione (12
miliardi di dollari, i lavori dovevano iniziare l’ottobre scorso) è compreso il colle-
gamento con il Sudafrica, che di energia elettrica ha gran bisogno e che si è im-
pegnato ad acquistare metà di quella prodotta da Inga III.
Della Sadc fanno parte anche Botswana, Madagascar, Malawi, Maurizio, Na-
mibia, Seychelles, Tanzania, Zambia: tutti hanno l’attenzione di Pretoria, vuoi per
ragioni di import-export, vuoi per missioni di osservazione dell’esercizio del voto.
Naturalmente una nazione che gioca su tavoli globali – è nel gruppo paesi
emergenti Brics con Brasile, Russia, India, Cina, e nel G20, il forum dei paesi in-
dustrializzati – non sottovaluta il ruolo dell’Unione Africana per accrescere il pro-
prio peso specifico nelle dinamiche politiche del continente.
Così, oltre a finanziare il 15% del budget annuale dell’organizzazione che ha
sede ad Addis Abeba, si è assicurata nel 2012 la presidenza della Commissione
dell’Unione Africana con Nkosazana Dlamini-Zuma, più volte ministro in patria,
e un seggio nel Consiglio per la pace e la sicurezza. Lo slogan, un tantino ideo-
logico, di Pretoria è sempre «trovare soluzioni africane ai problemi africani». Un
piglio da potenza regionale ben attenta ai propri interessi quanto ai dettami della
globalizzazione economica, che tende a ignorare i confini degli Stati e a esercita-
re una sovranità quantomeno parallela a quella dei parlamenti e dei governi dei
paesi che considera parte della sua sfera d’influenza.
Quale che sia il disegno egemonico, la «nazione arcobaleno» non può sfuggi-
re al compito di indicare un’idea di futuro, che magari abbia ricadute tangibili su
tanti paesi nei quali la povertà è ancora diffusa, né si sono ancora affermati i di-
ritti dell’individuo e la partecipazione dei cittadini alla vita politica.

I cugini dei Grandi Laghi


Vestono in giacca e cravatta, appaiono sorridenti ai summit continentali e in-
ternazionali, mandano truppe a sostegno delle operazioni di pace dell’Unione 99
QUANTE AFRICHE IN AFRICA?

Africana, esibiscono dati economici positivi (non altrettanto quelli sullo sviluppo
umano) e godono della simpatia degli Stati Uniti. Sembrerebbero due presidenti
come altri, ma restano dei capi militari e, appena possono, mostrano i muscoli e
recitano il ruolo di primi attori sulla scena politica della regione dei Grandi Laghi.
Yoweri Museveni (Uganda) e Paul Kagame (Ruanda) hanno conquistato il potere
– il primo in sella dal 1986 ha aiutato il secondo a imporsi nel 1994 – guidando
formazioni guerrigliere che si sono via via consolidate in eserciti ben strutturati.
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Anche se, secondo i dati del Sipri, la spesa militare in rapporto al pil nel periodo
2011-14 si è mantenuta stabile per il Ruanda (1,1%) e in calo per l’Uganda (dal
3,3% del 2011 all’1,2% del 2014).
Abituati a guardarsi alle spalle, entrambi hanno risolto con durezza, pur con
tonalità diverse, il problema dell’opposizione interna e di una possibile alternan-
za al potere, chiudendo ogni spazio. Sono abituati anche a guardarsi attorno, al
di là degli stretti confini nazionali, e a interpretare a loro modo la politica dell’in-
tegrazione regionale. A farne le spese sono ampi territori dell’Est della Repubbli-
ca Democratica del Congo, che sulla carta è un gigante e nei fatti fa molta fatica
a tenersi insieme. Così i «cugini» Museveni e Kagame (quest’ultimo e il suo Fronte
patriottico ruandese hanno preparato in Uganda, fin dal 1990, la presa di Kigali
nel 1994) hanno dapprima sostenuto (1996-97) la cacciata di Mobutu e l’avvento
di Laurent-Désiré Kabila – padre dell’attuale presidente congolese Joseph che sta
concludendo in maniera anonima il suo secondo mandato presidenziale – e poi
hanno occupato ampie aree della Rdc (1998-2003).
E i «cugini», anche in concorrenza tra loro, non hanno perso questa attitudi-
ne in anni più recenti. Si danno da fare a mantenere destabilizzato il Nord-Est
della Rdc, già di per sé lontano da Kinshasa, storicamente con frontiere porose e
attraversato da guerriglie autoctone. Con il pretesto di rispondere alla minaccia di
gruppi guerriglieri – le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda e l’E-
sercito di liberazione del Signore (Lra) di Joseph Kony – e con l’intento di mette-
re le mani su minerali strategici come il coltan, eccoli sostenere ribelli filoruande-
si (Cndp prima e M23 poi). Un rapporto Onu del 2012 dice di armi, di assistenza
tecnica e di consigli militari che arrivano direttamente dall’Uganda e dal Ruanda.
Gli interessati hanno smentito, come sempre.
Ad oggi la situazione sul terreno è ancora fuori controllo, come rileva un
rapporto di Human Rights Watch del 2015 sul reclutamento di bambini soldato. E
appare quasi decorativo l’accordo-quadro, voluto dalla comunità internazionale e
firmato nel 2013 ad Addis Abeba, che impegna i paesi della regione a rispettare
la sovranità e l’integrità territoriale di ciascuno.
Non va dimenticato che Kampala presta attenzione, non da oggi, anche a
quello che accade in Sud Sudan, fornendo sostegno militare al presidente Salva
Kiir, intrappolato in una guerra civile che dura da due anni. E tiene settemila mi-
litari in Somalia nel contesto della missione dell’Unione Africana. Mentre Kigali
ha fornito uomini e mezzi alle missione Onu in Mali e in Darfûr (Sudan) e alla
100 missione internazionale nella Repubblica Centrafricana.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

Ciad, il gendarme
La Banca mondiale classifica il Ciad tra le nazioni piuttosto vulnerabili sul
piano economico. Ma è un dettaglio irrilevante per le ambizioni del presidente
Idriss Déby. Il quale punta ad acquisire credito politico, non tanto per come ge-
stisce il proprio paese, ma per come si rapporta con i paesi confinanti e con gli
interessi internazionali che agiscono nell’area, in primis quelli della Francia che è
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anche un rilevante partner economico di N’Djamena.


Giunto al potere con un colpo di mano nel 1990, Déby aspira a perpetuarsi
grazie al suo acume politico (già nel 2004 ha cancellato dalla costituzione i limiti
di mandato presidenziale), alla risorsa petrolio e a un ben oliato dispositivo mili-
tare. I proventi dei giacimenti petroliferi del Sud – oggi il 73% delle entrate dello
Stato e il 90% delle esportazioni – sono gestiti in famiglia: dalla moglie Hinda e
dal ministro del Petrolio e suo braccio destro Djerassem Le Bemadjiel. E non so-
no certo utilizzati per ridurre la povertà. L’ultimo dato disponibile sulla spesa mi-
litare risale al 2011 (Sipri) e dice del 5% del pil. Difficile ipotizzare una flessione
negli anni successivi, considerato l’attivismo dei circa trentamila uomini e delle
truppe speciali.
Ed eccoli all’opera i guerrieri di Déby. L’esercito ciadiano è presente in Nige-
ria per contrastare la setta islamista Boko Haram, ma non si limita a questo. All’i-
nizio di quest’anno, di fronte al debordare del gruppo terroristico in Camerun
(dove sbocca l’oleodotto che consente la commercializzazione del petrolio cia-
diano) e in Niger (paese strategico per Parigi che lì si approvvigiona di uranio),
ecco le truppe di N’Djamena schierarsi in entrambi i paesi.
Quando nel gennaio 2013, per respingere l’offensiva di al-Qå‘ida nel Maghreb
islamico che aveva conquistato le maggiori città del Nord del Mali, l’Eliseo fa
scattare l’Operazione Serval, Déby è pronto a fornire truppe scelte che ancora
oggi pattugliano quei territori. E il balletto continua qualche mese dopo quando
un colpo di Stato nella Repubblica Centrafricana scalza Bozizé e mette in pista
Djotodia. La crisi centrafricana si è evoluta, la transizione incespica a ogni passo
e tuttavia Parigi e N’Djamena hanno buoni motivi per indirizzare le sorti di un
paese che, oltre ad avere buone potenzialità petrolifere, è un’utile area di raccor-
do tra la regione sudanese e quella congolese.
C’è da starne certi: in ogni consesso africano in cui si discuterà di terrorismo
o di instabilità, di relazioni economiche o di integrazioni regionali, il Ciad di
Déby, dove il 90% della popolazione non ha accesso all’energia elettrica, non
farà mancare la sua voce.

101
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

‘L’Africa è la nuova frontiera’


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Conversazione con Mario GIRO, sottosegretario agli Esteri


a cura di Niccolò LOCATELLI

LIMES Cos’è l’Africa per l’Italia?


GIRO L’Africa è la nuova frontiera. In senso stretto e in senso lato.
In senso stretto perché le nostre frontiere si sono allungate, soprattutto a Sud, vi-
sto il caos in Libia e l’instabilità diffusa in tutta la sponda meridionale del Mediter-
raneo. Adesso siamo strategicamente interessati a capire cosa succede nel Sahel:
con l’aumento dei flussi migratori, è qui che si concentra la nostra attenzione.
In senso lato è la nuova frontiera degli investimenti delle imprese italiane, sem-
pre più interessate a penetrare questi mercati, cominciando dai settori in cui tra-
dizionalmente siamo più forti. Oltretutto, il modello delle piccole e medie impre-
se (pmi) ben si attaglia alle economie del continente.
Il presidente del Consiglio Renzi ha individuato l’Africa come nuova direzione
per la diplomazia della crescita italiana e come nuovo obiettivo per l’internazio-
nalizzazione del nostro paese.
LIMES Quali sono le nostre priorità in Africa? Quali i paesi più importanti?
GIRO Una priorità è quella della sicurezza e della presenza strategica. Sotto que-
sto profilo, i paesi del Sahara e del Sahel sono decisivi. Economicamente abbia-
mo rapporti molto sviluppati con il Mozambico, il Kenya, l’Angola e altri.
LIMES E noi cosa siamo per l’Africa?
GIRO Attualmente siamo un paese di transito nei flussi migratori. La nostra ambi-
zione è diventare un luogo dove si viene a studiare per poi tornare in patria: una
politica delle risorse umane. Vogliamo formare una classe intermedia di tecnici e
operativi che sia utile all’Africa di domani. Scuola lì, formazione qui.
Già ora formiamo forze di sicurezza, di polizia, insegnanti, medici. La nostra coo-
perazione – sia istituzionale sia delle ong – è molto presente nel continente con
attenzione alla sostenibilità. È bello mandare medici italiani in Africa ma ancor
meglio formare in loco. Penso per esempio al programma Dream contro l’Aids,
gestito da tecnici e attivisti africani grazie a Sant’Egidio. Questo è scambio parita-
rio di know-how e di tecnologie. Perché la cooperazione sia efficace è necessa-
rio anche rendere più forti le istituzioni statali nel continente. 103
‘L’AFRICA È LA NUOVA FRONTIERA’

LE INDIPENDENZE AFRICANE

Marocco Tunisia 1956


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1956

Algeria 1962 Egitto


Sahara Occ.
Libia 1951 Ind. formale:
1922
sostanziale:
Mauritania 1952
1960
Senegal Mali 1960
1960 Niger 1960 Sudan 1957 Eritrea
1993
Ciad 1960
Gibuti 1977
Nigeria
1960 Sud Sudan 2011 Etiopia
Centrafrica
Camerun 1960
São Tomé e Príncipe 1975 1960
Uganda Somalia 1960
Guinea Eq. 1968 1962 Kenya
Gabon 1963
1960 Rep. Dem. Ruanda 1962
del Congo Burundi 1962
1960
Congo Br. 1960
Tanzania
1961 Malawi 1964

Angola
1975
Zambia
1964

Zimbabwe
1980 Madagascar
Mozambico 1960
Botswana 1975
Namibia 1966
1990
Gambia 1965
Guinea Bissau 1974 Swaziland 1968
Guinea 1958
Sudafrica Lesotho 1966
Sierra Leone 1961
1961
Liberia Tra il 1949 e il 1959
Costa d’Avorio 1960
Burkina Faso 1960 Tra il 1960 e il 1961

Ghana 1957 Tra il 1962 e il 1970


Togo 1960
Benin 1960 Dopo il 1970
Capo Verde 1975 Stati liberi
Comore 1975
Seychelles 1976 1968 Data dell’Indipendenza

104 Maurizio 1968 Territorio conteso


AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

LIMES Che reputazione abbiamo in Africa?


GIRO Buona, perché il nostro modello economico non è invasivo e il sistema del-
le pmi può avere successo in Africa. Certo, il terreno su cui operare non è sem-
pre facile e c’è bisogno di un certo accompagnamento del governo italiano, co-
me facciamo per esempio in America Latina.
LIMES Anche nelle nostre ex colonie?
GIRO Sì, anche se ognuna di loro merita considerazioni specifiche. In Somalia e Li-
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bia dobbiamo augurarci che i lunghi negoziati arrivino a conclusioni positive. A


Mogadiscio c’è la minaccia di al-3abåb e la questione dello status di alcune regio-
ni ormai ampiamente autonome come Somaliland e Puntland. In Libia stiamo la-
vorando per un accordo; il processo di stabilizzazione sarà lungo, anche se il pae-
se può contare sulla presenza economica italiana. Qui una delle minacce è lo Sta-
to Islamico, la cui capacità propagandistica è spesso superiore alle forza effettiva.
Indubbiamente – il discorso vale sia per la Somalia sia per la Libia – la geopolitica
come la fisica aborre il vuoto: là dove si crea un vuoto di potere possono prende-
re il sopravvento mostri. Con l’Etiopia abbiamo un ottimo rapporto. Riconosciamo
il valore non solo economico ma anche politico di questo paese: Addis Abeba è
sede dell’Unione Africana, di numerosi tavoli negoziali e della Commissione eco-
nomica per l’Africa. Abbiamo intenzione di continuare a investire qui.
Anche con l’Eritrea abbiamo buoni rapporti, che potranno migliorare quando si
concluderà il conflitto tra Asmara e Addis Abeba. Un’altra questione che dobbia-
mo affrontare con l’Eritrea è naturalmente quella migratoria.
LIMES La questione migratoria si lega, non solo in Eritrea, a demografia e povertà.
GIRO Non esattamente. L’Africa è sottopopolata e non ci sarebbe bisogno di emi-
grare se non fosse per le guerre, le pandemie o per l’assenza di democrazia. Esi-
ste anche il problema degli emigranti ambientali, si pensi alla desertificazione.
Come ragione per emigrare, la povertà viene dopo.
Dobbiamo aiutare l’Africa a costruire la sua democrazia, perché da lì può venire
lo sviluppo. Serve una più equa ripartizione delle risorse a livello mondiale: co-
me l’Asia è entrata nella globalizzazione attraverso l’industria, l’Africa può farlo
tramite l’agricoltura. Ci sono ancora milioni di ettari incolti, oggetto delle atten-
zioni di paesi extra-africani – da cui il land grabbing.
Con la modernizzazione dell’agricoltura, l’Africa può trasformarsi da area di emi-
grazione a meta di immigrazione, come già successo con i portoghesi e con gli
spagnoli durante gli anni peggiori della crisi finanziaria esplosa nel 2009.
Servono a tal fine accordi più trasparenti e una forte lotta alla corruzione.
LIMES Non sempre i presidenti sono disposti a lasciare il potere al termine del lo-
ro mandato. La democrazia è in pericolo?
GIRO Non sarei così pessimista. Innanzitutto, parliamo di un problema non nuo-
vo ma ricorrente. Siamo in una fase in cui la democrazia si sta rafforzando e i
tentativi di mantenersi al potere non sono più accettati dalla società. L’opinione
pubblica sta assumendo un proprio ruolo e la conservazione indefinita degli au-
tocrati non è più data per scontata. 105
‘L’AFRICA È LA NUOVA FRONTIERA’

Certo, stiamo passando per una fase di disordine – inevitabile, dato che la demo-
crazia all’inizio è sempre disordine. Ma questo disordine è comunque positivo,
perché mostra che le Afriche sanno quello che vogliono. Se si agisce in un qua-
dro di regole che garantiscono un dibattito non violento, si può essere ottimisti.
In Africa occidentale la democrazia, per quanto imperfetta, è ormai una realtà. In
Africa orientale e australe deve progredire. Alcuni casi specifici: in Burkina Faso
si può essere ottimisti. Compaoré è stato costretto a cedere il potere e si sono te-
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nute le elezioni presidenziali. In Burundi c’è motivo di essere più preoccupati;


speriamo che il conflitto trovi una sua composizione. In Sud Sudan l’accordo re-
cente sembra tenere. Bisogna ricomporre il contenzioso tra le anime del movi-
mento indipendentista e risolverlo politicamente, non con le armi.
LIMES Il Sud Sudan, lo Stato più giovane del mondo, ci porta a un altro tema: i
confini formali aumentano di numero ma contano sempre meno, mentre quelli
informali (controllati da poteri altrettanto informali) diventano decisivi.
GIRO C’è un problema oggettivo: gli Stati spesso non hanno la forza di controlla-
re tutto il loro territorio. Possono quindi nascere dei vuoti e, come detto, la geo-
politica ha orrore dei vuoti. Si sviluppano allora dei luoghi di «non-diritto» e «non-
Stato» che si riempiono di ribellioni armate. Esiste oggi il pericolo di saldature
con il jihadismo; è il frutto avvelenato della globalizzazione. La risposta dev’esse-
re quindi duplice: contenere la sfida militare e affrontare le questioni interne.
Prendiamo qualche esempio. In Mali si è avuta la confluenza tra due fattori: la
presenza di terroristi di emanazione algerina (Gia, poi Gspc, poi Aqmi), attivi
nell’area da anni, e lo scoppio del caos in Libia che ha rovesciato verso sud armi,
mercenari e traffici. Il risultato è stato l’occupazione del Nord del Mali da parte
dei jihadisti fino all’intervento francese. La situazione deve essere tenuta sotto os-
servazione: è un classico esempio dello scivolamento verso sud delle frontiere di
cui parlavamo prima.
In Nigeria la questione è inizialmente interna: il paese è enorme, difficile da go-
vernare, ma le ultime tornate elettorali sono state corrette. Una ribellione malge-
stita dal governo centrale si è tinta di connotazioni jihadiste in seguito all’influen-
za degli avvenimenti mediorientali, ma non vanno perse di vista le ragioni endo-
gene che hanno portato alla nascita di Boko Haram. Il nuovo presidente Buhari
è l’uomo giusto al posto giusto; eredita una posizione pesantissima, ma le élite
musulmane del Nord avevano già perso il controllo dei guerriglieri più violenti
una decina di anni fa.
La Repubblica Centrafricana è un altro esempio di Stato fallito che sta cercando
di riemergere. Il caos centrafricano è la conseguenza dell’abbandono dell’Africa
degli anni Novanta: un paese periferico a tutto. Per questo papa Francesco ha
voluto visitarlo: per iniziare dalla periferia, per usare le sue parole.
LIMES Che cos’è l’Africa per Francesco?
GIRO È uno dei continenti nei quali aprire le porte della misericordia. Questo
sarà un Giubileo diverso dai precedenti, perché non si svolge solo a Roma. Con
106 la scelta di aprire l’Anno Santo in Africa, il papa che viene «dalla fine del mondo»
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

vuole aprire la porta santa anche dove sembra esserci la fine del mondo. France-
sco ha sempre parlato di una Chiesa in uscita, missionaria in un modo nuovo,
una Chiesa che non teme di sporcarsi le mani con le sofferenze. Lui farà appello
al popolo cristiano affinché sia portatore di misericordia e non si faccia manipo-
lare da estremismi etnici, religiosi o politici.
LIMES Il panafricanismo è morto con Gheddafi?
GIRO Gheddafi aveva sfruttato il panafricanismo per i suoi scopi, anche se in ef-
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fetti – in una sorta di eterogenesi dei fini – aveva contribuito alla nascita dell’U-
nione Africana. Oggi il panafricanismo è in sofferenza ma non è morto; il sogno
resiste, pur attraversando una fase di difficoltà comune a tutti i progetti di inte-
grazione, quelli che La Pira definì «unitivi». Va difeso.
L’africanismo del XXI secolo non può però coagularsi attorno ai temi degli anni
Sessanta del Novecento: la negritudine e la razza. I padri nobili – Senghor, Nkru-
mah – non avevano idee etnicistiche, anzi prevedevano il superamento dell’etni-
cismo. Anche la Chiesa deve aiutare questo processo, essendo forse l’unica gran-
de rete africana. Servono altri elementi culturali e politici: l’umanesimo africano,
a differenza del nostro, è poco scritto, ma esiste. Ci vuole tempo.
L’unità africana sarà il portato della democrazia. L’integrazione europea fu una
scelta dei leader, se questi avessero fatto votare i loro popoli non sarebbe mai
partita. Oggi questo non più è possibile: i popoli vogliono far sentire la loro vo-
ce. Anche in Africa l’integrazione è partita sospinta dai leader (Senghor, Nkru-
mah, Nyerere, fino a Mandela), oggi tocca alla società farla propria.
LIMES C’è in questo momento un paese o una figura leader in Africa?
GIRO Difficile dirlo. Ci sono diversi leader: ciò spiega l’integrazione economica,
ma non basta. Non c’è in questo momento un nuovo Mandela o, se c’è, non l’ab-
biamo ancora scoperto.

107
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

CORSA
AL NILO di Giorgio MUSSO
Le acque del grande fiume africano restano contese fra molti attori
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regionali. Con Egitto ed Etiopia protagoniste nel determinarne il


futuro sfruttamento. I problemi gestionali e politici del Cairo contro
le ambizioni e i progetti ‘faraonici’ di Addis Abeba.

1. I
L NILO E I SUOI AFFLUENTI COSTITUISCONO
il più lungo bacino fluviale al mondo, scorrendo attraverso foreste equatoriali, sa-
vane e deserti per oltre 5.500 chilometri 1. Il Nilo può essere diviso in due tronco-
ni: da Khartûm al delta, esso scorre nitido e sinuoso tra le sabbie del Sahara, ri-
cevendo il tributo d’acqua di un solo grande affluente, l’‘A¿bara, e riempiendo lo
smisurato invaso dell’Alta diga di Assuan (Aswån); a meridione della capitale su-
danese non esiste invece un solo Nilo, bensì due bacini idrografici distinti che
come una cerniera confluiscono nella caratteristica Y rovesciata che segna la to-
pografia di Khartûm. Il primo è il Nilo Bianco, che si abbevera alle fonti dei
grandi laghi africani e si disperde nei mille rivoli del Sudd, una delle paludi più
vaste al mondo, collocata nel cuore del Sud Sudan. Stagnando in questi stermina-
ti acquitrini il Nilo Bianco perde per evaporazione circa il 50% della sua portata.
Per questa ragione, circa l’85% dell’acqua che raggiunge l’Egitto proviene dall’al-
tro bacino nilotico, quello del Nilo Azzurro, che dopo essere sgorgato dal lago
Tana discende bruscamente dall’altopiano etiopico sino a raggiungere, 1.300 me-
tri più in basso, la diga di al-Rûâayriâ, in territorio sudanese. Proprio nel breve e
ripido pendio tra la sorgente del Nilo Azzurro e il confine tra Etiopia e Sudan si
concentrano i progetti di sviluppo idroelettrico di Addis Abeba che hanno susci-
tato le ire del Cairo.
Il bacino del Nilo copre il 10% dell’intera superficie africana, interessando
ben undici paesi: Egitto, Sudan, Sud Sudan, Etiopia, Eritrea, Uganda, Kenya,
Ruanda, Burundi, Repubblica Democratica del Congo e Tanzania. La portata me-
dia annua del fiume è di 84 milioni di metri cubi d’acqua, meno della metà di
1. Tale stima considera il lago Vittoria come sorgente del Nilo. Altri calcoli si rifanno invece al suo
affluente più remoto, il fiume Ruvyironza in Burundi, determinando una lunghezza complessiva del
Nilo di 6.671 chilometri. 109
CORSA AL NILO

quella del Niger (180) e addirittura un quindicesimo di quella del grande fiume
Congo (1250). Infine, data la sua estensione latitudinale, il bacino del Nilo è
estremamente eterogeneo in termini climatici e geomorfologici, e i confini politi-
ci creati dalla storia recente hanno dato vita a entità statali profondamente dissi-
mili sotto il profilo demografico, politico ed economico. È evidente come, in pre-
senza di condizioni così fortemente disomogenee, la condivisione delle risorse
idriche non si possa basare su un semplice principio aritmetico di ripartizione,
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fosse anche proporzionale. Ed è qui che l’acqua cessa di essere un fluido, e di-
venta una questione prettamente politica.

2. Se la politica, nella celeberrima definizione di Harold D. Lasswell, è l’ambi-


to in cui si determina «chi ottiene cosa, quando e come», quella che viene oggi de-
finita idropolitica è il campo della politica estera in cui si definisce «chi ottiene
quanta acqua, quando e come». Nel caso del Nilo, i presupposti citati – la presen-
za di un elevato numero di attori, legati da un’interdipendenza fortemente asim-
metrica, in competizione per una risorsa scarsa – rendono particolarmente ostica
la riconciliazione di priorità e interessi nazionali con la gestione collettiva di un
bene comune come l’acqua. In ragione di ciò, sono in molti a credere che una
guerra per l’acqua in Africa nord-orientale sia un’eventualità molto probabile. Per
fortuna i conflitti idrici, pur essendo uno degli allarmismi più in voga tra gli anali-
sti geopolitici a vocazione ambientalista, sono per ora privi di riscontri empirici 2.
L’unico dato di fatto, per il momento, è che l’egemonia egiziana nella valle
del Nilo, che al Cairo si considera come coessenziale alla stessa identità naziona-
le e che è stata a lungo ritenuta non negoziabile, è stata messa in discussione
dall’Etiopia e dagli altri paesi dell’alto bacino. La geografia – il banale fatto che
l’acqua scorre da sud a nord, e non viceversa – ha permesso agli Stati subsaha-
riani una rivincita sulla storia, che aveva attribuito all’Egitto e al Sudan il diritto di
utilizzare in maniera esclusiva le acque del fiume.
Il problema dell’utilizzo delle acque del Nilo va compreso in particolare al-
l’interno della complessa relazione tra Egitto ed Etiopia. Due Stati forti di tradi-
zioni politiche millenarie, animati da ambizioni imperiali sovente entrate in con-
trapposizione. La comune appartenenza alla cristianità copta costituisce un lega-
me storico antico, ma con la progressiva islamizzazione della valle del Nilo e del-
la costa somala si è formata e radicalizzata l’idea di un’Etiopia bastione della cri-
stianità circondato da un oceano musulmano.
L’odierna controversia sulle acque del Nilo ha iniziato a profilarsi nell’età
dell’imperialismo, quando, con la tracciatura dei confini politici, alcune risorse

2. Non v’è dubbio che l’acqua sia, in molte aree del pianeta, un bene scarso il cui accesso sicuro è
precluso a centinaia di milioni di esseri umani. Proprio per questo, le risorse idriche sono al centro
di numerosi conflitti locali intra- o intercomunitari, anche molto violenti. Non si è tuttavia mai verifi-
cato un conflitto militare interstatale causato dalle risorse idriche, ad eccezione forse dei ripetuti
scontri tra Israele e Siria per il controllo del Giordano alla metà degli anni Sessanta, che vanno tut-
110 tavia collocati nel più ampio contesto del conflitto arabo-israeliano.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

naturali divennero transfrontaliere. Il primo trattato in cui si menziona lo sfrutta-


mento delle acque del Nilo è un protocollo firmato nel 1891 da Gran Bretagna e
Italia, in cui quest’ultima si impegnava a non attuare alcun progetto idroelettrico
sugli affluenti eritrei dell’‘A¿bara, a sua volta tributario del Nilo.
Molto presto, alcuni funzionari coloniali britannici iniziarono a intuire che la
via maestra per una gestione efficiente delle risorse idriche era quella di una ge-
stione integrata del bacino. Prese così forma negli anni Venti del Novecento un
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progetto denominato Century Storage Scheme, che prevedeva la costruzione di


una serie di infrastrutture – dighe, chiuse, canali – distribuite su tutta l’estensione
del bacino a seconda delle caratteristiche geomorfologiche delle sue numerose
ramificazioni. Una visione olistica di questo genere poteva maturare solo in un’e-
poca, unica nella storia, durante la quale il bacino del Nilo si trovava quasi inte-
ramente sottoposto a un’unica autorità politica. Dopo il 1941, Londra poteva an-
che godere di un’ottima relazione con l’Etiopia, dopo aver contribuito alla restau-
razione al potere di Hailé Selassié.
Solo alcune delle opere previste dal Century Storage Scheme, come ad
esempio la prima diga di Assuan, videro effettivamente la luce. La fine del colo-
nialismo tramutò la valle del Nilo e l’Africa orientale in un puzzle di Stati nazio-
nali determinati ad affermare la neo-acquisita sovranità. Da allora in poi, molti
dei siti che avrebbero visto sorgere nuove dighe erano spesso gli stessi previsti
dal progetto inglese. L’entità delle opere realizzate dai governi nazionali fu tutta-
via notevolmente superiore rispetto a quella pianificata dai funzionari coloniali
britannici. Si era infatti compiuta una svolta fondamentale nella logica di sfrutta-
mento del bacino: dall’idea di una gestione integrata – in cui ogni singola infra-
struttura ha dimensioni contenute perché funzionale a un sistema complesso –
all’affermazione di priorità e interessi nazionali.

3. Nulla esemplifica meglio questa transizione della costruzione dell’Alta diga


di Assuan da parte dell’Egitto. Con l’edificazione di un nuovo e imponente sbar-
ramento, pochi chilometri a sud di quello costruito dagli inglesi all’inizio del No-
vecento, Ãamål ‘Abd al-Nåâir (Nasser) volle realizzare attraverso una singola
opera ciò che l’intero Century Storage Scheme si proponeva di ottenere in una
prospettiva sistemica: controllare il flusso del fiume per regolarizzarlo, permet-
tendone uno sfruttamento agricolo più efficiente e affrancando l’Egitto dalla di-
pendenza dalle piene e dal timore delle siccità, che per millenni aveva condizio-
nato la vita del paese. L’Alta Diga divenne il simbolo del progetto di modernizza-
zione e sviluppo egiziano, e dopo la crisi di Suez (al-Suways) – scatenata proprio
dalla necessità di finanziare la costruzione della diga – la sua realizzazione ce-
mentò l’alleanza antimperialista tra Il Cairo e Mosca.
Prima di iniziare la costruzione dell’Alta Diga, Nasser volle concludere con il
Sudan – nel territorio del quale si sarebbe inoltrato l’enorme lago artificiale creato
dallo sbarramento – un accordo per lo sfruttamento delle acque del Nilo. L’Etiopia
chiese di poter partecipare ai colloqui, ma non fu ammessa. Gli altri Stati del baci- 111
CORSA AL NILO

no, tutti ancora sotto dominio inglese e belga, vennero egualmente esclusi. Fu co-
sì firmato nel 1959 un trattato bilaterale la cui intestazione non si prestava ad am-
biguità: «Accordo tra la Repubblica del Sudan e la Repubblica Araba Unita sul
completo utilizzo delle acque del Nilo» 3. Il trattato conferiva all’Egitto e al Sudan il
diritto di utilizzare ogni anno rispettivamente 55,5 e 18,5 miliardi di metri cubi
d’acqua, che al netto dell’evaporazione esaurivano l’intera portata del fiume. Al
capitolo 5 del trattato, inoltre, i contraenti affermavano il proprio diritto di veto
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

nei confronti di futuri progetti di sfruttamento delle acque del Nilo da realizzarsi al
di fuori dei loro confini. Addis Abeba non riconobbe la legittimità dell’accordo,
così come lo rigettarono gli altri Stati del bacino una volta divenuti indipendenti.
Hailé Selassié, facendo leva sui meccanismi della guerra fredda, commissionò al
Bureau of Land Reclamation, Land and Water Resources 4 degli Stati Uniti uno stu-
dio di fattibilità delle infrastrutture idroelettriche realizzabili sul corso del Nilo Az-
zurro. Dopo avere accumulato polvere negli archivi per alcuni decenni, il rappor-
to stilato dall’ente statunitense avrebbe costituito il punto di partenza dell’ambizio-
so piano di sviluppo idroelettrico varato dal governo etiopico tra il 2009 e il 2010.

4. Fino agli anni Novanta, l’Egitto riuscì a fare in modo che l’accordo del
1959 non venisse messo seriamente in discussione. L’avvento di una nuova e
ambiziosa classe dirigente in Etiopia e nei paesi dei Grandi Laghi ha però rotto
questo equilibrio, riportando in auge i grandi piani infrastrutturali e lo sfrutta-
mento delle risorse naturali. L’Etiopia, che tra il 1990 e il 2010 ha quasi raddop-
piato la propria popolazione passando da 48 a 83 milioni di abitanti, ha fatto del
proprio potenziale idroelettrico – stimato in 45 mila MW, di cui solo 2 mila sono
attualmente sfruttati 5 – il perno di una strategia di sviluppo il cui obiettivo è l’in-
gresso nel novero delle middle income countries 6 entro il 2025. «L’Etiopia è come
un’enorme colonna d’acqua collocata in un deserto», mi ha spiegato pochi mesi
fa un ingegnere egiziano, «e vuole diventare una sorta di Arabia Saudita dell’ac-
qua». Il parallelo è suggestivo, anche se va sottolineato come Addis Abeba guardi
all’acqua soprattutto come fonte di energia da esportare in tutta la regione, piut-
tosto che come input agricolo o bene di consumo.
Le rivendicazioni dell’Etiopia – cui si sono presto aggregati l’Uganda e gli al-
tri paesi nilotici subsahariani – hanno condotto alla creazione, sostenuta dalla
Banca mondiale nel 1999, di un’organizzazione intergovernativa nota come Nile
Basin Initiative (Nbi). L’Egitto e il Sudan vedevano l’Nbi come un utile forum per
consolidare i propri diritti acquisiti ed evitare una degenerazione della situazione
in senso conflittuale, mentre il «fronte meridionale» guidato dall’Etiopia voleva

3. Tale accordo in realtà ampliava e aggiornava un precedente trattato bilaterale firmato da Egitto e
Gran Bretagna nel 1929, quando entrambi controllavano il Sudan attraverso un’amministrazione co-
loniale congiunta.
4. L’ente statunitense responsabile per la progettazione delle dighe sul suolo americano.
5. In Etiopia, solo il 20% della popolazione ha accesso all’energia elettrica.
6. I «paesi a medio reddito», che la Banca mondiale definisce quando il pil lordo pro capite è com-
112 preso tra i 1.026 e i 12.475 dollari.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

IL BACINO DEL NILO


Alessandria Port Sa(īd
Bacino del Nilo

Il Cairo Suez Paesi interessati


dal Bacino del Nilo
Dighe funzionanti
ARABIA Cateratte

N
ilo
EGITTO
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SAUDITA
Fiumi stagionali
Luxor
LIBIA Fiumi perenni
1ª cateratta
DIGA DI ASSUAN Lago Canali
Nasser
Nilo Bianco
2ª cateratta Wādī Halfa Nilo Azzurro
Mar Fiume Ruvyironza
Rosso
3ª cateratta Fiume ‘Atbara
.
4ª cateratta Canale del Jonglei
(incompleto)
CIAD

(Atbara
5ª cateratta
6ª cateratta ERITREA
Massaua
Khartum
Asmara YEMEN

SUDAN
Lago
DIGA DI ROSEIRES Tana Gibuti

Berbera
Malakāl SOMALIA
Addis Abeba
Nil
od

Wāw GERD
elle

Grand Ethiopian ETIOPIA


M

REP. SUD SUDAN


Renaissance Dam
ont

Bor (Diga in costruzione)


CENTRAFR.
agn
e

Ğūbā
Lago
Rodolfo
UGANDA Mogadiscio
Lago
Alberto Lago Kyoga
KENYA
REP. DEM. Kampala
Kisumu
DEL CONGO Nakuru
Lago Chisimaio
Vittoria
Mogadiscio
RUANDA Oceano Indiano

BURUNDI Arusha
TANZANIA ©Limes Mombasa

giungere a un accordo che abrogasse il trattato del 1959. Le rispettive rivendica-


zioni erano fondate su due princìpi legali contrapposti: mentre Il Cairo e
Khartûm invocavano l’»obbligo di non causare un danno significativo», Addis
Abeba e i suoi alleati si rifacevano al concetto della «condivisione ragionevole ed
equa» delle risorse idriche. Entrambi erano stati recepiti dalla Convention on the 113
CORSA AL NILO

Law of the Non-Navigational Uses of International Watercourses redatta nel 1997


presso l’Onu, che presentava tuttavia una spiccata enfasi sul secondo 7.
I negoziati in seno all’Nbi hanno proceduto a rilento, sino allo strappo deci-
so da Etiopia, Uganda, Ruanda e Tanzania il 14 maggio 2010, quando questi pae-
si hanno firmato un Cooperative Framework Agreement (Cfa) volto a sostituire
l’accordo del 1959 e a permettere la realizzazione di nuove infrastrutture tali da
«non influenzare significativamente la sicurezza idrica» degli altri Stati del bacino 8.
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Burundi e Kenya hanno presto aggiunto la propria firma al Cfa, la cui ratifica da
parte dei parlamenti nazionali è stata però sospesa come segno di distensione
nei confronti dell’Egitto.

5. La rivolta di piazza Taõrør ha tuttavia aperto per l’Etiopia una finestra d’op-
portunità irrinunciabile. Consapevole del fatto che l’instabilità interna avrebbe as-
sorbito le energie della classe politica egiziana per un lungo periodo, a soli due
mesi dalla destituzione di Hosni Mubarak l’ex primo ministro etiopico Meles Ze-
nawi – poi scomparso nell’agosto 2012 – ha inaugurato i lavori di costruzione di
una diga progettata per divenire la più grande di tutto il continente africano.
La Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd) 9 dovrà sorgere nella regione di
Benishangul/Gumuz, in un’area scarsamente popolata ad appena 15 chilometri
dal confine con il Sudan. Se Nasser disse che l’Alta Diga di Assuan avrebbe sim-
boleggiato la «rinascita dell’Egitto», la Gerd dovrà segnare il battesimo di una
nuova Etiopia, affrancata dalla povertà. Il governo, che nel 2012 ha impiegato il
60% della spesa pubblica per questo singolo progetto, ha emesso un bond appo-
sito per consentire il finanziamento «popolare» della diga, caldamente sollecitato
anche presso le comunità della diaspora.
L’appalto da quasi 5 miliardi di dollari è stato attribuito all’italiana Salini-Im-
pregilo, incaricata di realizzare un colosso alto 170 metri e largo quasi 2 chilome-
tri, capace di contenere, a seconda delle stime, tra i 63 e i 74 miliardi di metri cu-
bi d’acqua. Una volta operativa, la Gerd dovrebbe generare 5.250 MW di elettri-
cità, pari a due volte e mezzo l’energia prodotta dall’Alta Diga di Assuan e più
dell’intero fabbisogno nazionale etiopico.
Il sito su cui l’impresa italiana sta costruendo lo sbarramento era già stato
identificato come idoneo dai consulenti americani incaricati da Hailé Selassié ne-
gli anni Sessanta, i quali tuttavia avevano raccomandato la costruzione di una di-
ga alta la metà e il riempimento di un bacino di poco più di 11 miliardi di metri
cubi d’acqua. Questa sarebbe ancora, secondo gli ingegneri egiziani, la dimen-
sione ottimale della diga. A detta di molti – ma è difficile verificare quelle che so-
no supposizioni ingegneristiche dibattute – la Gerd sarebbe infatti in grado di

7. La convenzione è entrata in vigore solamente nell’agosto 2014, e nessuno degli Stati del bacino
del Nilo ne fa parte.
8. Egitto e Sudan avrebbero voluto che l’articolo in questione (14.b) imponesse di «non influenzare
negativamente la sicurezza idrica e l’attuale utilizzo e i diritti» degli altri Stati del bacino.
114 9. In precedenza nota anche come Millennium Dam.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

sfruttare appieno il proprio potenziale idroelettrico solo nei mesi di piena del Ni-
lo. «Tale sproporzione tra la misura ottimale e il progetto effettivo», mi chiarisce
uno dei negoziatori egiziani, «si spiega solo in un modo: questa non è una diga
per produrre energia elettrica, è una diga per immagazzinare acqua». Non biso-
gna inoltre dimenticare che la Gerd è l’opera più consistente della strategia di
sviluppo idroelettrico del Nilo A, ma non l’unica. Sono infatti in fase di progetta-
zione altre quattro dighe nel tratto compreso tra il lago Tana e la Gerd, nei siti di
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Baro, Karadobi, Mandaya e Beko Abo.


Al Cairo sono preoccupati innanzitutto per la fase di riempimento della diga,
durante la quale il flusso d’acqua registrato ad Assuan si ridurrà in maniera più o
meno sensibile a seconda del tempo impiegato e dei livelli di piena del fiume 10.
Ma il vero problema permanente di sicurezza nazionale, per l’Egitto, riguarderà
la capacità etiopica di gestire il flusso del Nilo in maniera tale da determinare va-
riazioni molto consistenti della sua portata d’acqua. In un tempo in cui l’acqua,
su pressione della Banca mondiale, sta perdendo il suo valore in quanto bene
pubblico e sta divenendo una commodity come le altre, Addis Abeba vuole mo-
netizzare il proprio enorme potenziale idrico. L’Egitto, diceva Erodoto, è «un do-
no del Nilo». Il dono, d’ora in poi, rischia di non essere più tale ma di dover es-
sere pagato a un prezzo più o meno caro.

6. Il timore della classe dirigente egiziana è che la strategia di Addis Abeba,


se attuata sino in fondo, possa determinare il definitivo collasso di un settore
agricolo già stremato da decenni di negligenza politica e scarsi investimenti. L’a-
gricoltura contribuisce attualmente a poco meno del 15% del pil egiziano, ma dà
ancora lavoro a un quarto della popolazione attiva. Una sensibile diminuzione
dell’acqua disponibile per l’irrigazione dei campi potrebbe comportare l’abban-
dono delle campagne da parte di milioni di contadini, che andrebbero a ingros-
sare le file del sottoproletariato urbano del Cairo e delle grandi città del delta.
Per questa ragione, l’Egitto ha chiesto e ottenuto l’apertura di un negoziato
con l’Etiopia, a cui partecipa anche il Sudan, per discutere delle implicazioni fu-
ture dei progetti di Addis Abeba. Malgrado la firma, nel marzo 2015, di una di-
chiarazione congiunta da parte di Hailemariam Desalegn, ‘Abd al-Fattåõ al-Søsø e
‘Umar al-Ba4ør, i colloqui non hanno prodotto alcun risultato tangibile, che so-
stanzialmente implicherebbe un ridimensionamento dei piani di Addis Abeba.
Attualmente, il negoziato si trova in una fase di stallo dovuta alla rinuncia all’in-
carico da parte di una delle due società di consulenza internazionali incaricate
di portare a termine uno studio sull’impatto della Gerd su Egitto e Sudan. Men-
tre la diplomazia procede a rilento, il cantiere avanza rapidamente, con il 50%
della diga ormai completato e l’avvio del riempimento previsto per la seconda
metà del 2016.

10. Come è facile capire, più è breve il tempo di riempimento della diga, più consistente sarà la sot-
trazione d’acqua. Parte dei negoziati tra Egitto, Etiopia e Sudan è incentrata su questo aspetto. 115
CORSA AL NILO

Una concentrazione eccessiva sull’esito dei colloqui rischia tuttavia di sviare


l’attenzione dal cuore del problema. L’Egitto è infatti già oggi un paese che soffre
di acuta scarsità di risorse idriche, e non saranno i negoziati a porre termine a
questa situazione. Il miglior risultato auspicabile da parte del Cairo è semplice-
mente la conservazione della quota d’acqua spettante all’Egitto in base all’accor-
do del 1959. Un coinvolgimento del Sud Sudan potrebbe riportare sul tavolo del-
la trattativa il Canale del Jonglei, vecchio progetto volto a convogliare parte delle
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acque del Sudd prevenendone l’evaporazione. L’Egitto preme da decenni per la


realizzazione di questa infrastruttura, che è fortemente osteggiata a livello locale
– dove causerebbe un disastro ecologico con un forte impatto sulle popolazioni
native – e che comunque appare irrealizzabile nella condizione di instabilità in
cui versa il più giovane Stato al mondo. «Lucy», l’enorme trivella di fabbricazione
tedesca fatta arrivare dal Pakistan alla fine degli anni Settanta per scavare il cana-
le, è ancora incagliata in una desolata pianura sudsudanese dopo essere stata sa-
botata dalla Sudan People’s Liberation Army nel 1984.
Il Cairo non può perciò più rimandare le riforme e gli investimenti necessari
a rendere più efficiente la gestione dell’acqua – a partire dall’abbandono di alcu-
ni futuristici quanto inefficienti progetti di sviluppo agricolo in pieno deserto. Lo
sfruttamento delle falde acquifere profonde – comunque non rinnovabili – e la
creazione di stabilimenti di desalinizzazione potrebbero inoltre offrire risorse
supplementari vitali. In ogni caso, l’Egitto è destinato a rimanere un importatore
di ingenti derrate alimentari. Tale condizione richiede un’economia capace di ge-
nerare un flusso costante di valuta estera, che attualmente il sistema egiziano rie-
sce a garantire solo grazie alle generose elargizioni dei propri alleati del Golfo.
In questa prospettiva, la Gerd non è la causa di un’imminente crisi idrica in
Egitto, ma rischia di rendere definitivamente insostenibile – e perciò politicamen-
te esplosiva – una situazione di scarsità maturata da tempo a causa di fattori in-
terni di natura demografica e politica. I colloqui con Etiopia e Sudan, perciò, so-
no necessari per guadagnare tempo e prevenire il degenerare di una situazione
che destabilizzerebbe ulteriormente il regime di al-Søsø. La siccità, paradossalmen-
te, potrebbe portare una nuova primavera. Che sarebbe più amara, arrabbiata e
disperata della prima.

116
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

LA TRISTE PARABOLA
DELL’ERITREA di Vittorio ROBECCHI
Da uno dei paesi più poveri e militarizzati del mondo proviene
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un consistente flusso migratorio verso l’Europa. È lo stesso


potere eritreo a incentivarlo, per estrarre tasse dalla diaspora.
L’indifferenza occidentale.

I
ai più in seno all’opinione pubblica internazionale, l’Eritrea ha evocato per
GNORATA DAI MEDIA GLOBALI, SCONOSCIUTA

vent’anni solo vaghe memorie coloniali agli italiani, senza mai conquistare un
posto nelle cronache dal Corno d’Africa. Questa posizione defilata e silenziosa
ha tuttavia nascosto la deriva di un autoritarismo politico che dal 1991 (anno in
cui si liberò dal giogo dell’Etiopia) ha trasformato un movimento di liberazione
popolare partecipativo in uno dei più rigidi sistemi dittatoriali del pianeta.
Dopo un lunghissimo periodo di silenzio, l’Eritrea ha tuttavia riconquistato
da qualche tempo gli onori della cronaca internazionale. Dell’enorme massa di
profughi che dall’Africa subsahariana cerca di raggiungere le coste dell’Europa,
infatti, un numero sempre maggiore è eritreo, portando con sé storie di violenza,
povertà e soprattutto negazione dei diritti umani.

Il sogno infranto
Quando nel 1991 le forze del Fronte di liberazione del popolo eritreo (Flpe)
riuscirono a cacciare le truppe etiopi da Asmara, Massaua e dalle altre città del-
l’Eritrea, riconquistando il territorio arbitrariamente annesso dal negus nel 1962,
gli eritrei credettero di aver finalmente riconquistato non solo l’indipendenza ma
anche e soprattutto la libertà e la democrazia.
Isaias Afewerki, leggendario comandante dell’Flpe, venne acclamato a furor
di popolo primo presidente dopo il referendum del 1993, che sancì con il 99%
delle preferenze l’indipendenza dell’Eritrea, trasformando poco dopo il vecchio
movimento guerrigliero nel primo partito della nuova unità nazionale, il Fronte
popolare per la democrazia e la giustizia (Pfdj).
117
LA TRISTE PARABOLA DELL’ERITREA

Da quel momento in poi, tuttavia, il percorso dell’Eritrea verso la democra-


zia si è bruscamente arrestato. Non viene implementata la costituzione. Le au-
torità politiche impediscono lo sviluppo di un sistema pluripartitico. Le relazio-
ni con l’Etiopia e con le nuove autorità politiche di Addis Abeba – un tempo
alleate dell’Fple – sprofondano in un baratro sempre più profondo. Gli uomini
che in Etiopia hanno deposto il sanguinario regime del Derg comandato da
Menghistu vedono a quel punto Isaias Afewerki come un nemico. Né tardano a
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manifestarsi i primi problemi nella determinazione delle tante questioni sospe-


se tra i due paesi.
I confini tra Etiopia ed Eritrea, stabiliti con l’indipendenza secondo la vec-
chia suddivisione cartografica italiana, diventano oggetto di una crescente serie
di incomprensioni e reciproche denunce. Nel 1998 i due paesi entrano in guerra
per il controllo di una limitata porzione di confine in prossimità del villaggio di
Badme, dando in tal modo avvio a un conflitto che terminerà solo nel 2000, con
il ripristino dello status quo stabilito con gli accordi di Algeri. Viene costituita una
commissione per la definizione dei confini tra i due paesi, che nel 2002 sancisce
definitivamente l’assegnazione del villaggio di Badme all’Eritrea, ma che l’Etiopia
non riconosce continuando a mantenere il proprio dispositivo militare nelle aree
rivendicate dallo Stato rivale.
Questa impasse politico-militare, sebbene non più sfociata in conflitto, deter-
mina tra Asmara e Addis Abeba un clima di profondo sospetto e tensione, con la
costante mobilitazione di ingenti quantitativi di soldati e mezzi militari lungo l’in-
tera linea di confine. La crisi politica che ne deriva costituisce il presupposto sul-
la base del quale Isaias Afewerki reitera la sospensione della costituzione del
1997, instaurando un regime militare autoritario e repressivo, giustificato dalla su-
periore necessità di proteggere il paese dalla costante minaccia etiope.
Vengono in tal modo frustrate tutte le aspirazioni al pluralismo degli eritrei,
segregati in uno Stato dominato sempre più da un partito unico che stabilisce le
linee guida della politica e dell’economia in accordo alle esigenze di una ristretta
élite che circonda un presidente di fatto mai più confermato nel suo mandato da
una vera sessione elettorale.
La spesa militare sale alle stelle, favorendo gli interessi dell’élite di governo
che, nascosta dall’ipocrisia di una costante minaccia militare, arricchisce il suo
vertice e insieme trasforma la popolazione in una sorta di enorme massa di mo-
bilitazione, sempre in armi e all’erta.
Isaias Afewerki non ha tuttavia alcuna reale progettualità economica. Gli sfor-
zi per modernizzare il tessuto produttivo ed estrattivo del paese finiscono non so-
lo per allontanare gli investitori stranieri, ma anche e soprattutto per impoverire
ulteriormente il paese. L’Eritrea si trova così ad essere sempre più dipendente da-
gli aiuti internazionali e dalle rimesse degli emigrati in Europa e negli Stati Uniti,
entrando in una spirale di crisi dai sempre più drammatici risvolti sociali.
Le ambizioni della società vengono sistematicamente frustrate, così come le
118 aspettative economiche. Il comparto agricolo e quello della pastorizia entrano in
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

crisi in conseguenza dell’arbitraria determinazione dei prezzi calmierati dal go-


verno, favorendo l’ulteriore abbandono delle terre, le migrazioni in direzione dei
centri urbani e la congestione dei segmenti produttivi già oberati e incapaci di
offrire nuovi posti di lavoro.
La stampa viene ridotta al silenzio e un numero elevatissimo di giornalisti
imprigionato senza specifiche accuse, così come tutti gli oppositori del regime, in
una crescente spirale di violenza, intimidazioni, minacce e sistematica violazione
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dei più elementari diritti umani.


La vera crisi sociale del regime si determina tuttavia con l’estensione sine die
del servizio militare obbligatorio. Per far fronte alla crescente disoccupazione e
all’evidente malcontento della popolazione, il regime decide di estendere la du-
rata del servizio militare in modo indeterminato, costringendo i giovani eritrei al-
la dura esperienza di una coscrizione di fatto imprevedibile in termini di durata
ed assegnazione di servizio.
La corruzione e il malgoverno permettono ai rampolli delle famiglie più ab-
bienti o di quelle connesse al regime di evitare il servizio militare, mentre per gli
altri si aprono le porte di caserme ubicate nelle più inospitali aree rurali, dove
l’abuso di potere e la violenza sono la regola di convivenza. La maggior parte
del personale militare viene impiegata nella gestione dei lavori pubblici commis-
sionati dal regime alle Forze armate, costruendo strade, ponti e infrastrutture in
ogni angolo del paese, servendo come manodopera a costo zero e a tempo in-
determinato. Una sorta di moderna schiavitù che alla fine esaspera gli eritrei
spingendoli alla fuga.
Decine di migliaia di giovani da alcuni anni fuggono sistematicamente dal
paese attraversando le frontiere con il Sudan o con l’Etiopia nell’intento di rag-
giungere la Libia e da lì tentare la traversata verso l’Italia, sfidando i rischi della
delinquenza organizzata, dei trafficanti di esseri umani, del deserto e del mare.
Decine di migliaia di profughi che cercano quindi di raggiungere parenti e
amici in Europa e negli Usa, dove sperano di poter essere integrati dalle locali
comunità della diaspora e poi, con un po’ di fortuna, inseriti nel tessuto produtti-
vo del paese di destinazione.
Un esodo dall’Eritrea che lascia sul terreno o in mare un numero di morti di
gran lunga superiore a quello dei pochi fortunati che riescono nella difficile im-
presa della migrazione verso l’Europa. E che offre senza possibilità di errori intre-
pretativi l’immagine di un paese dominato da una feroce dittatura, dove il sogno
dell’indipendenza e della democrazia è ormai da tempo offuscato dalla brutale
realtà di uno dei più spietati autoritarismi del pianeta.

Chi governa l’Eritrea?


L’odierno assetto istituzionale eritreo rappresenta un ibrido giuridico-ammi-
nistrativo, parzialmente costruito sui valori di una costituzione ratificata ma mai 119
LA TRISTE PARABOLA DELL’ERITREA

applicata, di fatto attribuendo l’intero insieme dei poteri al presidente e a un ri-


stretto numero di figure chiave del partito unico, il Pfdj.
Questo sistema di potere è autoritariamente controllato al suo vertice da
Isaias Afewerki, con la collaborazione di una decina tra i più fedeli membri del-
l’apparato politico e militare, abilmente selezionati nel tempo tra coloro che non
contestano la sua leadership ed al tempo stesso sono interessati a goderne dei
benefici politici e – soprattutto – economici.
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All’inizio dello scorso decennio, un nutrito gruppo di esponenti storici del


partito produsse un documento con il quale denunciava la deriva autoritaria del-
lo Stato e il tradimento dei valori etici e morali che avevano caratterizzato la lun-
ga guerra di liberazione, chiedendo ad Isaias Afewerki di riportare il paese nei
binari della democrazia e dello sviluppo economico-sociale.
Per tutta risposta, il presidente ordinò l’incarcerazione di tutti i dissidenti, an-
nientando sul nascere ogni forma di dissenso sul proprio ruolo e innescando an-
zi un meccanismo di ulteriore rigidità nella gestione della politica e delle libertà
individuali. I pochi esponenti di questo gruppo di dissidenti che si sottrassero al-
la cattura si rifugiarono all’estero e dettero vita a piccoli e frammentati gruppi di
opposizione politica, senza mai riuscire tuttavia a dar vita ad una formazione
coesa e credibile con cui coinvolgere i governi europei e degli Stati Uniti.
In Eritrea, invece, la repressione e la censura, con l’arresto di decine di gior-
nalisti e la chiusura di tutti gli organi di stampa indipendenti, permise al regime
di consolidare definitivamente il suo ruolo e il suo piano, innescando tuttavia un
processo degenerativo nella gestione dell’economia nazionale che in meno di un
decennio ha portato al collasso l’intero paese.
L’amministrazione formale dello Stato, oggi, avviene attraverso il ruolo del
partito unico e del presidente, mediante una struttura formale e definita di incari-
chi ed una parallela architettura informale – nelle cui mani risiede la vera capa-
cità di esercizio del potere politico ed economico – gestita dalla cerchia ristretta
dei più fedeli collaboratori di Afewerki.
Isaias Afewerki non è solo il capo dello Stato, ma anche il capo del governo
e il referente del sistema giudiziario, di fatto esercitando il pieno e totale control-
lo su ognuno dei tre poteri dello Stato.
La mancata applicazione della costituzione, l’assenza di votazioni e l’immobi-
lità dell’Assemblea nazionale sono dal 2001 giustificate dalle esigenze della sicu-
rezza nazionale conseguenti al conflitto con l’Etiopia. Il costante ricorso all’emer-
genza in atto e al rischio di un’invasione da parte dell’Etiopia ha permesso ad
Afewerki di militarizzare la società eritrea, adottando una ferrea interpretazione
personale delle leggi in funzione delle esigenze di sicurezza del paese.
Il servizio militare, a partire dal 2000, è stato reso obbligatorio per tutti i cit-
tadini, di ambo i sessi, compresi tra i 18 e i 40 anni d’età, prolungando progressi-
vamente la durata del servizio di leva in modo indefinito e sfruttando l’enorme
disponibilità di coscritti come manodopera a bassissimo costo da impiegare nello
120 sviluppo di infrastrutture e opere pubbliche.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

La militarizzazione del paese ha comportato l’incremento esponenziale della


spesa militare nazionale, riducendo drasticamente il bilancio destinato allo svi-
luppo, all’educazione e alla sanità.
Ai proclami politici inneggianti ai risultati raggiunti dall’Eritrea in ogni settore
dello sviluppo economico e sociale fa da contraltare la miserevole condizione
della gran parte della popolazione e della gioventù, costretta ad aderire al siste-
ma militarizzato o a fuggire dal paese affrontando i rischi di una lunga e perico-
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losa traversata del continente africano.


Il sistema istituzionale è ufficialmente organizzato sulla figura del presidente
e di un governo composto da 16 ministri 1, espressione di un parlamento (l’As-
semblea Nazionale) composto da 150 membri, che rappresenta sulla carta l’orga-
no sovrano del potere di indirizzo politico e legislativo della nazione. La reale
gestione degli affari istituzionali è invece nelle sole mani del presidente e di una
ristretta cerchia di fedelissimi collaboratori, tra cui spiccano le figure di Hagos
Ghebrehiwet (responsabile per l’Economia e le Finanze del Pfdj), Yemane Ghe-
breab (direttore degli Affari politici del Pfdj) e Yemane Gebremeskel (direttore
dell’Ufficio presidenziale).
In seno alle Forze armate, in conseguenza dei tentativi di golpe degli ultimi
anni, la fiducia di Isaias Afewerki è limitata a un ristretto entourage, il cui compi-
to è quello di amministrare la sicurezza nazionale contenendo i tentativi di desta-
bilizzazione attuati dall’Etiopia e insieme qualsiasi spinta interna di dissenso o di
insubordinazione nei ranghi militari.
Il paese è infine diviso in 6 regioni 2 (definite zoba) e 55 distretti regionali
(definiti sub-zoba). Tali entità sono amministrate localmente da appendici del
Pfdj e prive di qualsiasi reale autonomia se non nella gestione degli affari corren-
ti e dei piccoli commerci.

Il ruolo della diaspora e la ‘trappola psicologica’


La sopravvivenza economica del paese è assicurata da tre principali sorgenti:
le rimesse della diaspora, gli aiuti internazionali e lo sviluppo delle risorse natu-
rali locali.
La crescente consistenza della diaspora eritrea in Europa e negli Stati Uniti
costituisce senza alcun dubbio la principale voce del bilancio nazionale, con l’a-
dozione da parte del regime di una sofisticata politica di gestione e controllo dei
flussi. Il regime, quindi, non solo di fatto agevola l’emigrazione – i controlli alle
frontiere sono volutamente labili e scarni – ma organizza esso stesso delle reti di

1. I ministeri eritrei sono quelli dell’Agricoltura, della Difesa, dell’Educazione, dell’Energia e delle Mi-
niere, della Pesca, delle Finanze, degli Esteri, della Salute, dell’Informazione, della Giustizia, della Ter-
ra, Acqua e Ambiente, del Lavoro e del Benessere, del Governo locale, dello Sviluppo nazionale, dei
Lavori pubblici, del Turismo, del Commercio e dell’industria, dei Trasporti e delle telecomunicazioni.
2. Centrale (o Maekel/Al Wasat), Meridionale (o Debub/Al Janobi), Gash-Barka, Anseba, Mar Rosso
Settentrionale (o Semienawi-Qeyh-Bahr/Shamal Al-Abahar Al-Ahmar) e Mar Rosso Meridionale (o
Debubawi-Qeyh-Bahri/Janob Al-Bahar Al-Ahmar). 121
LA TRISTE PARABOLA DELL’ERITREA

controllo delle comunità della diaspora, esigendo il pagamento di una tassazione


informale presso le locali ambasciate. Questa coercizione, ottenuta il più delle
volte a fronte di ricatti o minacce alla sicurezza dei congiunti ancora nel paese, è
stata oggetto di indagine da parte degli inquirenti di numerosi paesi europei,
provocando la reazione soprattutto dei governi scandinavi.
Ciononostante, molto poco è stato fatto dal mondo esterno per impedire alle
autorità eritree di intervenire in modo così invasivo sulle comunità della diaspora,
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permettendo anzi nel recente passato un poderoso incremento delle intrusioni gra-
zie al ruolo e alla solerzia di figure come quella di Yemane Ghebreab, che esercita
di fatto per conto del regime il ruolo di raccordo con le comunità all’estero.
Tra le attività connesse all’esazione informale spicca quella di repressione
del dissenso in seno alla diaspora, per mezzo della minaccia a congiunti ancora
residenti in Eritrea ma anche attraverso una rete di attivisti in loco il cui principa-
le compito è quello di monitorare il dibattito pubblico sul paese – soprattutto
sulla Rete – partecipandovi con centinaia di profili fasulli che esaltano il ruolo
del regime e l’amore del popolo eritreo per il suo presidente. Una strategia bana-
le e ai limiti del ridicolo, che è tuttavia riuscita – complice la tradizionale ignavia
delle autorità politiche europee – a conseguire il primo e non trascurabile suc-
cesso di impedire la coesione tra i gruppi della diaspora e la diffusione di infor-
mazioni precise sulla natura del regime e sulle sue brutalità.
Al tempo stesso sono oggetto di uno stretto controllo governativo i fondi
connessi agli aiuti internazionali, soprattutto grazie all’assenza oggi in Eritrea del-
le ong straniere, dopo la cacciata in massa della gran parte delle organizzazioni
lo scorso decennio, con l’accusa di essere al servizio delle strutture di intelligen-
ce americane ed europee.
Gli aiuti vengono ripartiti dal regime sulla base delle logiche di spartizione
interne all’apparato del partito, raggiungendo solo in minima parte il tessuto ru-
rale – cui sono primariamente indirizzati – senza quindi fornire reale beneficio
alla società e alle dinamiche di gestione di un’economia ormai evidentemente al
collasso.
Da oltre dieci anni, infine, l’Eritrea annuncia pomposamente di essere alla vi-
gilia di un poderoso sviluppo economico nel settore dell’estrazione mineraria,
con l’approntamento di infrastrutture in grado di sfruttare i ricchi giacimenti mi-
nerari. La dissennata politica di sviluppo economico del regime e la contestuale
assenza di reali strumenti di garanzia per gli investimenti degli stranieri, hanno
alla fine scoraggiato la gran parte dei – pochi – attori internazionali potenzial-
mente interessati a operare nel paese, limitando drasticamente le opzioni perse-
guibili e favorendo lo sperpero e la sottrazione dei proventi delle poche materie
prime effettivamente prodotte.
L’attività della pesca e del turismo, potenzialmente molto promettente lun-
go le coste del Mar Rosso, non è mai stata oggetto di reale interesse da parte
delle autorità, relegando le attività dei pochi natanti da pesca alla mera soddi-
122 sfazione del mercato locale e bloccando sul nascere ogni iniziativa turistica so-
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

prattutto nelle aree di Massaua e in prossimità dello splendido arcipelago delle


Dahlak.
Resta quindi centrale il ruolo della diaspora per la sopravvivenza economica
del regime e per la contestuale necessità di gestione del rapporto all’interno di
questi gruppi. La diaspora eritrea, con gruppi radicati di seconda e terza genera-
zione sia negli Stati Uniti che in Europa, è di difficile misurazione quantitativa. A
fronte di una popolazione di circa 6 milioni di abitanti, il numero della diaspora
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è stimato intorno ai due milioni, di cui un milione circa emigrato all’epoca della
dominazione etiope, e la restante parte dopo la conquista dell’indipendenza.
La forte identità nazionale della prima generazione di migranti eritrei ha de-
terminato lo sviluppo di una comunità coesa ma non particolarmente attiva sotto
il profilo politico, anche in conseguenza del sostegno storicamente accordato al-
l’Etiopia dalla gran parte dei paesi occidentali. Le più recenti generazioni di mi-
granti sono invece figlie di quel contesto culturale oppressivo e invasivo creato
dal regime dopo l’indipendenza, quindi segnate dal timore della reazione violen-
ta da parte del potere, ma anche fortemente condizionate dal retaggio della nar-
rativa resistenziale, particolarmente radicato all’interno della società eritrea. Ogni
attacco al regime, quindi, viene di fatto confuso e considerato come un attacco
alla memoria stessa dei padri e dei fratelli morti per l’indipendenza della patria,
creando un clima di profonda diffidenza in seno alle stesse comunità della dia-
spora e finendo quindi per agevolare la cultura dell’omertà e del silenzio.
Un vantaggio enorme per il regime, che può quindi contare sull’involontaria
capacità della diaspora di controllare il flusso delle accuse e delle informazioni
circa il ruolo del governo e dei suoi emissari, anche all’estero.
Attraverso questa rete informale di sostegno, costruita più sull’identità nazio-
nale e sull’esigenza di aiuto alle famiglie ancora residenti in Eritrea che sul reale
appoggio al dittatoriale regime di Isaias Afewerki, si è quindi costruita la barriera
del silenzio dietro cui il paese ha potuto continuare indisturbato nella sua politica.
L’evidenza di un enorme numero di migranti eritrei che ogni giorno raggiun-
ge le coste dell’Europa – e del contestuale enorme numero di perdite umane nel
lungo e pericoloso tragitto attraverso il Sahara e il Mar Mediterraneo – ha solo
parzialmente sollevato il problema politico e sociale del regime eritreo. La gran
parte dei governi occidentali ha manifestato il proprio sentimento di condanna
verso Afewerki, senza tuttavia adottare alcuna concreta misura verso il regime
eritreo per arginare il devastante fenomeno dei flussi migratori e, più a valle, il
problema che tali flussi alimenta.
All’Eritrea viene in tal modo concesso di reiterare la propria condotta politica
e sociale senza alcuna misura di controbilanciamento che ne possa alterare il per-
corso, di fatto garantendo continuità politica al regime e impunità ai suoi vertici.

123
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

REPUBBLICA
CENTRAFRICANA
ANNO ZERO di Mauro GAROFALO
Le elezioni presidenziali sono l’ultima chance di porre fine a una
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transizione segnata da violenza e vuoto istituzionale. La faida Seleka


vs anti-Balaka. Le infiltrazioni esterne. Il ruolo di Parigi e la
mediazione di Roma. Il successo del viaggio di papa Francesco.

1. E SPERANZE E LE EMOZIONI SUSCITATE


dalla recente visita di papa Francesco in Centrafrica, paese marginale nell’atlan-
L
te geopolitico del mondo e assai poco avvezzo alla ribalta internazionale, non
si sono ancora affievolite nella capitale Bangui. Il rapido ma sofferto passaggio
del papa ha originato una grande festa di popolo, caotica e pacifica. Si è tratta-
to di un vero evento di riconciliazione, quasi terapeutico, inteso come il segno
per il paese intero della guarigione dal morbo della violenza: «Il papa è venuto,
non ha avuto paura, ha dormito in città: la pace è tornata in Centrafrica», era il
pensiero di molti.
Tra le iniziative più significative nel corso delle trenta ore passate a Bangui
spicca senza dubbio la visita al quartiere musulmano PK5, da mesi sottoposto a
un assedio asfissiante. I giovani musulmani sono usciti per la prima volta dal ri-
fugio seguendo il corteo papale e innalzando palme in segno di pace, tra gli ap-
plausi dei giovani cristiani. Quel tratto di strada tra il quartiere musulmano e lo
stadio «20.000 places» 1, percorso dalla folla festante, è stata forse l’immagine più
emblematica della vittoria di un processo di riconciliazione in corso da oltre due
anni, tra molti ostacoli e frequenti ripensamenti.
Eppure la visita del pontefice aveva suscitato comprensibili perplessità da
parte degli addetti alla sicurezza e dei rappresentanti di Minusca, la forza d’in-
tervento Onu nel paese, una delle più grandi al mondo con oltre 10 mila solda-
ti provenienti da vari paesi. Particolarmente critica era stata alla vigilia la posi-
zione francese, che dal dicembre 2013 è presente con la missione Sangaris, for-
te oggi di quasi un migliaio di uomini ben equipaggiati. Il ministro della Difesa
francese Le Drian aveva dichiarato pochi giorni prima che non sarebbe stato

1. Luogo della messa di lunedì 30 novembre con oltre 50 mila fedeli. 125
REPUBBLICA CENTRAFRICANA, ANNO ZERO

possibile mettere in sicurezza tutti i luoghi della visita del pontefice, che invece
ha voluto confermare l’intero programma. Inoltre, come annunciato durante
l’Angelus del 1° novembre, il papa ha aperto la Porta Santa a Bangui. Il fatto è
stato straordinario sotto molti aspetti. Al di là dell’anticipazione di una settima-
na, rispetto alla data prevista, dell’inizio del Giubileo della misericordia, colpi-
sce il fatto che la piccola cattedrale di Nôtre Dame de l’Immaculée Conception
di Bangui abbia anticipato la basilica di San Pietro in questo privilegio. La prio-
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rità data dal papa alle periferie del mondo (Lampedusa, Albania, Cuba), è stata
ribadita con forza attraverso tali scelte.

2. Il Centrafrica è stato dunque al centro dell’attenzione della comunità in-


ternazionale. Dal colpo di Stato del 2013, compiuto dalle milizie del Nord a pre-
valenza musulmana autodefinitesi Seleka 2, la violenza, se si esclude un breve
interludio, è costantemente cresciuta di intensità. Alla fine dello scorso settem-
bre, gli scontri tra bande armate hanno nuovamente paralizzato la capitale, ral-
lentando le ultime operazioni di censimento del corpo elettorale. La dinamica
degli scontri ha seguito purtroppo un copione ben noto a chi ha frequentato la
città negli ultimi anni.
Le violenze sono cominciate con l’assassinio di un giovane musulmano, con-
duttore di moto-taxi su una via del centro. Si è trattato certamente di una provo-
cazione premeditata verso la comunità musulmana di Bangui da parte delle mili-
zie anti-Balaka 3. Non si sa se concepita in ambienti legati all’ex presidente Bo-
zizé o frutto di una mai sopita tensione tra bande ancora presenti in città. Il cor-
po del giovane è stato portato di notte presso una moschea, provocando l’ira
della comunità musulmana e dei gruppi estremisti che, dallo scioglimento dei Se-
leka, sono asserragliati nel quartiere musulmano.
La mattina successiva sono iniziate rappresaglie nei quartieri controllati dagli
anti Balaka. Gli scontri si sono allargati a buona parte della città, con barricate e
incendi. Alcuni luoghi cristiani sono stati attaccati, tra cui la casa del pastore
Guerekoyame Gbangou, uno dei tre «santi» di Bangui 4. Lui e la sua famiglia sono
riusciti a scappare ma la loro casa è stata data alle fiamme. Gli anti Balaka hanno
in seguito attaccato la sede centrale della gendarmeria alla ricerca di munizioni,
senza riuscire ad entrare e lasciando alcuni morti sul terreno.
La reazione delle forze internazionali è stata tardiva. Solamente dopo molte
ore i caschi blu dell’Onu hanno cominciato a rispondere alle barricate con atti di
forza e con alcune sortite nei quartieri più problematici. Alla fine di tre giorni di
violenze si sono contate una sessantina di vittime e numerosi feriti. Per lunghe

2. In lingua sango, «coalizione».


3. «Milizie di autodifesa». Una traduzione precisa del termina Balaka non esiste in sango o nelle lin-
gue della regione. L’interpretazione più accettata è che si tratti di una crasi dei termini Anti, Balle
(proiettile) e AK (riferimento ai fucili kalashnikov) e sia quindi un richiamo all’invulnerabilità dei
combattenti.
126 4. R. OURDAN, «Centrafrique: les trois saints de Bangui», Le Monde, 27/12/2013.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

ore parte della città è rimasta inaccessibile, mentre il coprifuoco notturno era già
entrato in vigore all’indomani dei primi scontri.
Nel corso di questi disordini è avvenuto un episodio di particolare gravità:
l’attacco alla prison centrale, con la conseguente fuga di numerosi capi dei movi-
menti di guerriglia. È stato un duro colpo al processo di ricostruzione della credi-
bilità dello Stato e alla lotta contro l’impunità dei crimini. La prigione, tra l’altro,
si trova a poche decine di metri dalla residenza del presidente pro tempore
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Catherine Samba Panza, rientrata precipitosamente nel paese da New York, dove
si trovava per l’Assemblea Generale dell’Onu. La situazione è ancora tesa, come
testimoniato da numerosi episodi di violenza. L’escalation ha avuto un salto di
qualità nell’attacco a posti di blocco di Minusca con l’uccisione di un casco blu
camerunese, nell’assalto a un convoglio della Croce Rossa e nel rapimento di al-
cune importanti figure istituzionali, come la vicepresidente del parlamento di
transizione il 19 ottobre scorso.
Allo stato attuale non è possibile distinguere con certezza quanti degli inci-
denti siano dovuti a una regia occulta: di Bozizé da un lato, o di Michel Djotodia
e Noureddine Addam dall’altro, con lo scopo di sabotare la transizione e rientra-
re in gioco. Oppure al fatto che le bande di guerriglieri siano ormai sfuggite al
controllo di chi le aveva favorite e armate per perseguire i propri scopi.

3. La visita del papa non è il solo avvenimento decisivo di questo scorcio del
2015. C’è la fine del periodo di transizione, che va avanti a colpi di proroghe dal
2013. Sono passati infatti più di due anni e mezzo da quando Djotodia, leader
dei Seleka, ha sospeso la costituzione e dichiarato di voler rimettere i poteri en-
tro un anno, attraverso nuove elezioni. Dopo meno di un anno lo sdegno inter-
nazionale per il comportamento delle milizie Seleka e le continue esazioni ai
danni della popolazione avevano costretto Djotodia a precipitose dimissioni du-
rante il meeting di N’djamena, sotto l’egida del presidente del Ciad. I 135 membri
del parlamento di transizione, trasferiti in Ciad, si erano accordati per l’elezione
di Catherine Samba Panza, allora sindaco di Bangui, alla guida del paese.
Al nuovo corso della transizione, malgrado gli appelli alla concordia nazio-
nale e il pieno sostegno della comunità internazionale, non ha purtroppo fatto
seguito una maggiore efficacia dell’azione di governo. Molti rimproverano a Sam-
ba Panza un atteggiamento di ostilità verso i paesi della Ceeac (Comunità econo-
mica degli Stati centrafricani) e in particolare verso Denis Sassou Nguesso, presi-
dente della Repubblica del Congo e mediatore internazionale nella crisi centrafri-
cana. Nemmeno il tentativo di inglobare alcuni gruppi armati, ponendone alcuni
leader a capo di importanti dicasteri, ha ottenuto l’effetto sperato.
La fine della transizione è legata a due scadenze elettorali: l’approvazione
della nuova costituzione (meno problematica) e le elezioni del nuovo presidente,
il quale avrà sulle sue spalle il peso di ricostruire un paese allo stremo. L’autorità
nazionale per le elezioni, organo indipendente previsto dalla carta costituzionale
di transizione, ha dovuto in questi mesi far fronte a difficoltà di ogni genere, co- 127
REPUBBLICA CENTRAFRICANA, ANNO ZERO

me la mancanza di fondi adeguati o l’impossibilità di estendere il censimento


elettorale a tutte le prefetture per la presenza di gruppi armati. Non a caso, a po-
chi mesi dalle elezioni, presidente e vicepresidente di tale organo si sono dimessi
in segno di protesta.

4. La fragilità dello Stato centrafricano può essere in parte spiegata ripercor-


rendo la sua storia a partire dall’indipendenza dal potere coloniale francese. Si
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può delineare il ritratto non di un paese fallito, quanto piuttosto di uno Stato che
in più di cinquant’anni di storia repubblicana (e per un breve tratto imperiale)
non ha trovato un’efficace soluzione per la gestione del potere politico e per
l’amministrazione territoriale. Il padre della patria Barthélemy Boganda, ex prete,
deputato alla Assemblea nazionale francese, aveva immaginato un Centrafrica
moderato, legato in maniera costruttiva alla Francia e in stretta connessione con i
paesi vicini 5, come simboleggiato dalla sua stessa bandiera, che mescola il trico-
lore francese con le bandiere dei paesi vicini. La sua morte, alla vigilia dell’indi-
pendenza, in un incidente aereo, alimenta oscuri sospetti e il paese perde l’unico
vero leader carismatico riconosciuto, che lascia incompiuta l’opera di fondazione
nella sua fase più delicata. Lo sostituisce David Dacko, rovesciato nel 1965 da
Jean-Bedel Bokassa.
Bokassa, prototipo del tiranno africano, rimane celebre per la cerimonia di
incoronazione imperiale nel 1976, ma la sua gestione del potere non può essere
riassunta nelle stravaganze della sua retorica napoleonica. Il suo regime concen-
tra progressivamente le energie e le risorse nazionali nella costruzione di un siste-
ma di potere più simile a una corte tradizionale africana che a un moderno Stato
di diritto 6. Il tutto in stretta collaborazione con il sistema di gestione postcoloniale
dell’Eliseo, la cosiddetta Françafrique di Jacques Foccart 7. Paradossalmente è
proprio il desiderio di Bokassa di mostrare la sua vicinanza politica e culturale al-
la Francia che determina la sua caduta. La cerimonia di incoronazione (così come
lo scandalo relativo ai diamanti elargitigli durante la presidenza Giscard d’Estaing)
spinge la presidenza francese a liberarsi di un alleato rivelatosi non solo pittore-
sco, ma anche dannoso. Con disinvoltura, Bokassa viene deposto da un’operazio-
ne militare gestita da Parigi, con il ritorno al potere di David Dacko.
Dacko, Bokassa, di nuovo Dacko e poi Kolingba: dopo tre colpi di Stato 8 e
quattro mandati presidenziali in poco più di trent’anni di indipendenza, nel 1993
il Centrafrica apre alla democrazia, eleggendo per la prima volta liberamente il
suo presidente, Ange-Félix Patassé. I tentativi di costruzione di un sistema demo-
cratico, avvenuti come accennato sotto la sua presidenza, vengono completa-
mente vanificati dalla presa di potere di Bozizé nel 2003. Bozizé però non ha vi-

5. A. ROMANO, «Centrafrica, la convivenza lacerata», in J.M. DI FALCO, A. RICCARDI, Il libro nero della
condizione dei cristiani nel mondo, Milano 2014, Mondadori, pp. 352-360.
6. E. GERMAIN, La Centrafrique et Bokassa 1965-1979, Paris 2001, L’Harmattan.
7. J. FOCCART, Foccart parle, con P. GAILLARD, Fayard-Jeune Afrique, 2 voll. 1995-1997.
128 8. Il numero dei colpi di Stato in Rca, tra quelli riusciti e non, è di circa 15.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

FRANÇAFRIQUE
Tunisia
Marocco

Algeria
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a Libia
Egitto

Capo
Verde Mauritania Niger
Mali

Senegal Ciad Sudan Eritrea


Dakar
Gambia Burkina
Guinea-Bissau Guinea Faso N‘Djamena ***Gibuti
Benin

Nigeria
Togo

Sierra Leone Costa Etiopia


d’Avorio **Bouar Rep. Sud Sudan
Liberia Ghana Camerun Centrafr. ia
*Bangui al
m
Abidjan So
Guinea Equatoriale Uganda
Congo Kenya
São Tomé e Príncipe Libreville
Gabon Repubblica Ruanda
Democratica
del Congo Burundi
Seychelles
Tanzania
Comore
Malawi

Angola

Zambia

Zimbabwe Madagascar
Ex possedimenti francesi Namibia Mozambico
Paesi che hanno avuto un ruolo Botswana
di “intermediario regionale”
della metropoli Swaziland
Ex colonie belghe Lesotho
Sudafrica
Ex colonie portoghesi

Paesi nei quali la compagnia


Elf Aquitaine ha giocato un ruolo
politico di primo piano

Principali basi dell’esercito francese

* Bangui: chiusa nel dicembre del 1997


** Bouar: chiusa nell’aprile del 1998
*** Gibuti: militari efettivi nel 2015: 1.500
©Limes

ta facile: nel 2004 inizia l’ennesima ribellione interna, che negli anni successivi si
concentra nel Nord del Centrafrica (prefettura di Birao), zona a maggioranza mu-
sulmana. Bozizé, cercando di compattare il paese contro i suoi oppositori armati,
usa la carta religiosa e inizia a parlare dei suoi nemici come di musulmani stra-
nieri non originari del paese; in generale, accusa le comunità islamiche di com-
plicità con i ribelli venuti dall’esterno. I vertici delle Chiese cristiane rifiutano tale 129
REPUBBLICA CENTRAFRICANA, ANNO ZERO

linguaggio, ma è una lenta semina di odio i cui frutti avvelenati scuotono tuttora
la convivenza tra le comunità religiose del paese.
Non va tralasciato il complesso scenario regionale e il problematico vicina-
to. A diretto contatto con la striscia sahelo-sahariana e con le perduranti crisi
del Dårfûr, del Sud Sudan e della Repubblica Democratica del Congo, il Cen-
trafrica soffre periodicamente le conseguenze degli sconfinamenti dei più di-
sparati gruppi armati che, in assenza dello Stato e di un controllo delle frontie-
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re, trovano nel paese un vero e proprio santuario. Ãånãawød (milizie filo-
Khartûm accusate di crimini contro l’umanità in Dårfûr), ex ribelli ciadiani op-
positori del presidente Déby, perfino la famigerata Lord’s Resistance Army di
Joseph Kony. Ognuno di questi movimenti, insieme ad altre presenze meno
decifrabili, sono stati o sono presenti in Centrafrica. Che gruppi fondamentalisti
islamici possano guardare a questo paese come a una possibile area di rifugio
e consolidamento è una possibilità che rende inquieti gli ambienti politici e di-
plomatici francesi e di molti paesi della regione.

5. Gli attentati di Parigi avranno certamente delle conseguenze sull’impe-


gno militare francese nel continente africano, ridimensionandone il peso a van-
taggio dello scacchiere mediorientale, anche se non è ancora chiaro in quali
termini e tempi.
La missione Sangaris, iniziata alla fine del 2013 quando era chiaro il logora-
mento del potere di Djotodia e si manifestava la possibilità di una degenerazione
interetnica e interreligiosa degli scontri, ha avuto il merito di arginare la violenza
e di porre dei limiti alla libertà d’azione dei guerriglieri. L’insistita azione diplo-
matica francese in ambito Onu e Ue ha inoltre chiarito, fin dall’inizio, che la
Francia non avrebbe voluto e potuto far fronte all’emergenza centrafricana con le
sue sole forze. Il Consiglio di sicurezza ha di conseguenza votato due
risoluzioni 9 che hanno modificato il mandato e la struttura della forza internazio-
nale (da Misca a Minusca) e successivamente inviato diverse migliaia di caschi
blu. Più tiepida è stata la reazione in ambito europeo: la creazione e l’invio di un
corpo di intervento Eufor ha avuto un impatto modesto sia in termini numerici
(circa 800 uomini), sia di durata.
Occorre ricordare che la Francia, anche dopo l’indipendenza del Centrafrica,
aveva mantenuto nel paese basi militari, ma la sua presenza si era fortemente ri-
dimensionata alla fine degli anni Novanta, anche in seguito alla crisi ruandese. Il
generale disimpegno africano della Francia sotto Mitterrand ha significato, per il
Centrafrica, la chiusura della base militare di Bouar, per molti anni l’unico vero
presidio in grado di garantire un certo controllo del territorio e delle frontiere.
Più in generale le missioni francesi in Africa, come quelle in Ciad, in Costa
d’Avorio e più recentemente in Mali, sono state certamente un elemento stabiliz-
9. Risoluzioni 2127 e 2149. Quest’ultima fissa i limiti dell’intervento Minusca a 10 mila caschi blu e 1.800
poliziotti. Il mandato è stato rinnovato quest’anno e fino al 2016 da un’ulteriore risoluzione, la 2217.
130
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

zatore di fronte al potenziale fallimento degli assetti istituzionali di questi paesi e


hanno agito in alcuni casi come puntello di regimi ormai logori, preda di ribellio-
ni e tentativi di secessione. Il mutamento degli scenari e la lotta al terrorismo di
matrice islamica potranno generare un cambiamento del modus operandi france-
se in Africa e altrove. Tale cambiamento è già in atto nella striscia sahelo-saharia-
na, dove alla missione Serval, che ha impedito il definitivo collasso del Mali sotto
i colpi dei movimenti armati del Nord, è subentrata Barkhane, che intende piut-
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tosto arginare il proliferare dei gruppi islamisti operanti nella regione.


Non stupisce perciò la forte diminuzione del contingente francese in Centra-
frica, oggi di circa 800 soldati, così come si comprende l’insistenza della diploma-
zia francese a non posticipare ulteriormente la scadenza elettorale.

6. In questi due anni e mezzo di transizione politica in Centrafrica, molte


volte e in molti modi diversi si è tentato di avviare un processo di riconciliazione
nazionale. Alcune importanti tappe hanno avuto luogo a Roma e hanno visto
protagonista la Comunità di Sant’Egidio, impegnata nel paese fin dal 2003. Nel
settembre 2013, dopo un lungo negoziato con Djotodia, Sant’Egidio ha raccolto a
Roma esponenti musulmani e cristiani del Centrafrica, insieme a personalità del
mondo politico e della società civile: ne è scaturito il Patto repubblicano per la
pacificazione del paese 10.
Negli ultimi mesi l’impegno di Sant’Egidio si è concentrato soprattutto sul so-
stegno al processo elettorale e sulla creazione di un clima di collaborazione e ri-
spetto reciproci tra i principali partiti. Un incontro tra i candidati di maggior peso
alla presidenza ha avuto luogo a Roma nel marzo scorso. L’Appelle Patriotique,
frutto di quell’incontro, è stato consegnato al mediatore Sassou Nguesso, in quei
giorni in visita di Stato a Roma 11. Più recentemente, alla vigilia della visita del pa-
pa, una seconda riunione si è tenuta a Bangui con la partecipazione di tutti i
candidati a meno di un mese dal primo turno delle elezioni presidenziali. Una
lettera di ringraziamento e di impegno per il futuro del paese è stata infine sotto-
scritta da tutti i partecipanti e consegnata dalla delegazione di Sant’Egidio a papa
Francesco durante la sua visita 12. La scommessa è che l’intera classe politica si
dimostri, a differenza del passato, all’altezza della situazione, superando odi e ri-
valità che l’affliggono.
Con la diminuzione dell’impegno francese il peso della sicurezza ricadrà
maggiormente sui caschi blu dell’Onu, in attesa delle condizioni che consentano
la ricostituzione dell’esercito repubblicano e delle forze di sicurezza nazionali. Al-
la reputazione delle truppe Onu non hanno certo giovato gli scandali relativi agli

10. Il patto repubblicano, citato nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza 2127, è stato adottato
formalmente dal presidente Djotodia il novembre successivo. L. LARCHER, «Sant’Egidio obtient un
“Pacte Républicain” en Centrafrique», La Vie, 7/11/2013. Sia il Patto repubblicano, che l’Appello per
la pace in Centrafrica sono disponibili su www.santegidio.org
11. Il testo dell’appello firmato è disponibile su www.santegidio.org
12 Il testo e la lista completa delle adesioni su www.santegidio.org 131
REPUBBLICA CENTRAFRICANA, ANNO ZERO

abusi sui minori, tanto che il segretario generale Ban Ki-moon è stato costretto a
sostituire il suo rappresentante speciale. I problemi più urgenti rimangono quelli
del disarmo dei guerriglieri e del controllo del territorio. Se ciò non avverrà, il
nuovo regime si ritroverà nell’impossibilità di esercitare pienamente il suo man-
dato. Infine, la comunità internazionale avrà l’oneroso compito di sostenere la ri-
costruzione del paese e di accompagnare i nuovi dirigenti in tale sforzo. Ma ne
vale la pena. L’opportunità di un nuovo inizio non va sprecata.
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132
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

LE GUERRE
INVISIBILI
DEL CONGO di Jean-Léonard TOUADI
Cinque milioni di morti, due milioni di sfollati: l’infinito
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conflitto congolese continua nell’indifferenza generale.


Lo ‘scandalo geologico’ di un paese dotato di preziosi minerali,
oggetto di appetiti internazionali. La ‘geopolitica del cinismo’.

N
sanguinosi in Africa sono cessati (Angola, Mozambico, Sierra Leone, Liberia…) e
EGLI ULTIMI DECENNI, MOLTI CONFLITTI

i paesi coinvolti sono ora dentro un faticoso processo postbellico. In alcuni casi
– l’Angola e il Mozambico per esempio – alla fase bellica e postbellica è suben-
trato un grande dinamismo economico, fino a diventare le principali aree di at-
trazione africane degli investimenti esteri diretti; ciò all’interno di un contesto che
vede l’insieme del continente diventare una delle aree di maggiore crescita eco-
nomica del mondo, soprattutto guardando alle proiezioni dei prossimi decenni.
Altre aree di conflitto persistono e altre sono esplose negli ultimi anni. I conflitti
in Sud Sudan e in Somalia, i grandi sconvolgimenti violenti che interessano l’area
sahelo-sahariana in seguito alla guerra in Libia, continuano a minare la stabilità
del continente africano e rappresentano un macigno pesante nella strada verso il
consolidamento delle incoraggianti performance economiche dell’ultimo decen-
nio. La stabilità politica è un prerequisito per rendere lo scacchiere africano ido-
neo a sostenere la crescita globale, come indicato dai più accreditati outlook glo-
bali. Difficile pensare che queste proiezioni possano realizzarsi con vaste aree
del continente in preda all’instabilità cronica.
La perdurante guerra nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc, ex Zai-
re) assume le dimensioni preoccupanti di un pericoloso vulcano che, per dimen-
sioni e intensità lavica, è in grado di minare dall’interno e in modo duraturo gli
equilibri geopolitici, economici, ecologici e sociali dell’intero continente. Le ra-
gioni di quest’alto rischio di contagio della guerra congolese sullo scacchiere pa-
nafricano sono molteplici.
Anzitutto, il Congo è un territorio nevralgico grande come tutta l’Europa occi-
dentale in un’area geografica attraversata da interessi geostrategici e geoeconomi-
ci considerevoli. Inoltre, il paese è da sempre indicato come uno «scandalo geolo- 133
LE GUERRE INVISIBILI DEL CONGO

gico», con il 33% dei giacimenti mondiali di cobalto, il 10% delle riserve mondiali
di rame, un terzo delle riserve di diamanti, estesi giacimenti di uranio, zinco,
manganese e tre quarti delle risorse mondiali di coltan (colombo-tantalite) indi-
spensabile per la fabbricazione dei computer, dei telefoni mobili e di altri stru-
menti elettronici. Infine, nuovi giacimenti di petrolio sono stati scoperti nell’area
protetta del parco nazionale del Virunga. Inoltre, l’area di confine a cavallo tra
Uganda e Ruanda, che si estende dagli altipiani fino alla Valle del Rift, è conside-
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rata dai geologi come uno dei principali serbatoi di minerali dell’intero pianeta.
Il Congo confina con ben nove paesi africani (Congo-Brazzaville, Repub-
blica Centrafricana, Sudan, Uganda, Ruanda, Burundi, Tanzania, Zambia, Ango-
la). «Se l’Africa fosse raffigurata come una pistola, il grilletto si troverebbe in
Congo», scriveva Frantz Fanon, l’intellettuale francese di origini caraibiche auto-
re del saggio cult degli anni Sessanta, I dannati della terra. Questo grilletto
congolese è, purtroppo, ininterrottamente premuto dalla Conferenza di Berlino
fino all’odierno leader Kabila, passando per il regime coloniale più abietto, che
ha portato a un genocidio d’indigeni calcolato in 11 milioni di congolesi fino al
regime di Mobutu, ossia la più lunga e repressiva cleptocrazia che l’Africa ab-
bia mai conosciuto. La pressione del grilletto prosegue con il genocidio in
Ruanda del 1994, con le sue tragiche conseguenze che si riversano sul vicino
territorio congolese del Kivu con la «prima guerra mondiale africana», iniziata
nel 1996 e che dura ancora oggi nella parte orientale e nordorientale del paese.
La Rdc appare, quindi, come una gigantesca culla d’instabilità e un terreno fer-
tile per crimini di ogni tipo resi possibili dal crollo verticale dell’autorità dello
Stato. Il collasso delle istituzioni ha conseguenze gravissime, ad esempio incen-
tivando il commercio illecito di materie prime. Sicché la Rdc è oggi un crocevia
d’interessi economici ed energetici di paesi africani e potenze mondiali, secon-
do la logica della cosiddetta geopolitica del cinismo dove non sono più in gio-
co motivazioni ideologiche o/e strategiche, ma solo corposi interessi di lucro:
traffico di droga e di esseri umani; commercio delle armi per alimentari i con-
flitti locali congolesi e/o verso altri teatri di guerra regionali; uso di bambini
per fare la guerre; stupri collettivi come arma. Il conflitto congolese allunga e
arricchisce mese dopo mese i gironi del suo inferno con costi umani pesanti:
più di cinque milioni di morti, due milioni di sfollati; un pil pro capite (meno
di 500 dollari) tra i più bassi del pianeta nonostante le immense ricchezze; de-
vastazione irreversibile della foresta equatoriale che costituisce, insieme all’A-
mazzonia, la più grande ricchezza per l’ecosistema del pianeta.
Una guerra lunga, con estensione e intensità altissime, ma dimenticata. L’in-
differenza dell’opinione pubblica mondiale e l’impotenza della comunità inter-
nazionale rappresentano un colossale enigma nella storia dei conflitti in Africa.
Non solo: nello stesso continente il conflitto congolese non è seguito con l’at-
tenzione che meriterebbe. L’Unione Africana gli dedica solo sporadicamente in-
teresse e operatività. Nel corso dei decenni le definizioni si sono sprecate a pro-
134 posito della «prima guerra mondiale africana» – «guerra etnica», «guerra a bassa
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

intensità». Forse converrebbe parlare di «guerra cancellata» o «guerra invisibile».


Nel suo Dizionario critico delle nuove guerre, il sociologo Marco Deriu definisce
come «guerre invisibili» quelle che «sono condotte – sia dal punto di vista milita-
re che della comunicazione – in modo tale da non essere viste o registrate dal-
l’opinione pubblica. (…) Nell’epoca della televisione di massa, a livello comuni-
cativo esiste solo ciò di cui esistono le immagini. Se le immagini non arrivano o
sono censurate, l’evento, dal punto di vista della percezione comune, non è mai
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successo». Per quanto riguarda le «guerre cancellate», Deriu ammonisce che «è


necessario tener conto che in diversi casi si deve supporre anche una certa vo-
lontà di censurare l’informazione, di tenere nascoste certe realtà da parte di po-
tentati politici ed economici, per non provocare l’opinione pubblica e per conti-
nuare nei propri traffici senza essere disturbati o dover subire interferenze di
qualche genere. In questo senso più che di guerre dimenticate si dovrebbe par-
lare di guerre cancellate». Questa «guerra cancellata» ha divorato lo Stato congo-
lese nato dall’indipendenza conquistata dal Belgio nel 1960 e sta minacciando
un’area geografica che si estende dall’Oceano Atlantico all’Indiano, dal lago
Ciad fino al Capo di Buona Speranza.

Dallo Stato fallito allo Stato imploso


Esiste ancora lo Stato congolese? La domanda non è nuova. È un interrogati-
vo che rimanda addirittura alle manovre di re Leopoldo II del Belgio di accredi-
tarsi alla Conferenza di Berlino del 1889 quale titolare di potestà sul bacino del
Congo. Il Congo nacque come entità territoriale unificata in modo rocambolesco.
Non esisteva lo Stato Libero del Congo, ratificato poi da Bismarck e dagli altri
convenuti a Berlino. Nella sua opera monumentale dedicata al Congo (2014), lo
storico e giornalista belga van Reybrouck parla in questo modo dell’attribuzione
del Congo a Leopoldo II: «Un primissimo abbozzo del futuro territorio l’aveva
elaborato insieme a Stanley, il 7 agosto 1884, nella villa di Ostenda. Stanley
spiegò la cartina, molto provvisoria, che aveva disegnato dopo la sua traversata
dell’Africa, un foglio in gran parte bianco che riproduceva il fiume Congo con le
sue centinaia di villaggi rivieraschi. Fu su quel foglio di carta che il sovrano, in-
sieme a Stanley, tracciò dei segni a matita, con un’arbitrarietà insuperabile. Non
c’era un’entità naturale, né una necessità storica o una concezione metafisica se-
condo la quale gli abitanti di questa regione fossero destinati a diventare compa-
trioti. C’erano soltanto due uomini bianchi, uno con i baffi e l’altro con la barba,
che in un pomeriggio estivo, da qualche parte sulla costa del Mare del Nord, con
una matita rossa univano alcune linee su un grande foglio di carta».
Nonostante questo peccato originale, il territorio resta unito sotto il giogo del
pesante colonialismo belga fino all’inizio del processo che porta all’indipenden-
za, segnato da rivalità etniche tra gruppi che non avevano mai negoziato un pat-
to di convivenza nazionale all’interno di confini comuni. La secessione del Ka- 135
LE GUERRE INVISIBILI DEL CONGO

tanga, l’assassinio del primo capo di governo del Congo indipendente e l’ascesa
al potere di Mobutu possono essere lette anche – non solo ovviamente – come
altrettanti episodi delle dispute interetniche per la conquista del potere nel futuro
Congo indipendente. L’unico cemento unitario era la lotta contro il colonizzatore
belga. Unità che si sgretola appena conquistata l’indipendenza.
L’apparente unità degli anni del mobutismo non era il frutto virtuoso di un
contrat social, era solo il frutto avvelenato di un’unità formale sotto il totalitari-
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smo repressivo di Mobutu, con crepe vistose visibili negli anni Settanta e Ottanta
in seguito alle guerre scoppiate nelle regioni orientali del paese: Shaba I e Shaba
II. Già allora si parlava dello Zaire di Mobutu come di un «État néant», uno Stato
fallito, le cui istituzioni non erano più in grado di assicurare la protezione del ter-
ritorio, dei cittadini e dei loro beni. Senza giustizia indipendente, senza esercito e
polizia strutturate, l’autorità dello Stato non riusciva a garantire le prerogative di
ordine, pace e sicurezza pubblica nonché i servizi di base alla sua popolazione.
La mancanza d’infrastrutture di comunicazione, il peggioramento del funziona-
mento della macchina amministrativa e la corruzione dilagante avevano già certi-
ficato la morte dello Stato in Congo. Negli ultimi anni del suo lungo «regno» Mo-
butu controllava solo la capitale Kinshasa e la sua roccaforte tribale dell’Étquateur
al Nord. Il resto del territorio sperimentava già una secessione di fatto.
Questa situazione si è aggravata e fortemente compromessa in seguito alla
«guerra mondiale africana». La situazione attuale è quella di un passaggio dallo
Stato fallito allo Stato inesistente. Uno Stato devastato militarmente ed economi-
camente è piombato nel caos totale al punto da non avere più la capacità di ri-
costruirsi oppure di rispondere alle attese legittime dei suoi cittadini. Certo, esiste
ancora formalmente lo Stato congolese con le sue istituzioni, le sue cariche poli-
tiche, la capitale e tutti gli attributi formali normalmente previsti. Nella realtà però
il perimetro della sua azione non supera i confini della capitale Kinshasa.
Questo non-Stato esprime un caos caratterizzato da quattro fattori principali.
A) Fragilità del sistema politico, accentuata dalle elezioni presidenziali del
2011, fortemente contestate, e dalle legislative truccate nello stesso anno. L’attuale
presidente Kabila sta manovrando per modificare la costituzione attuale che gli
impedisce di presentarsi per un terzo mandato. Tutta la comunità internazionale e
le forze di opposizione stanno chiedendo il rispetto scrupoloso del dettame costi-
tuzionale e quindi l’uscita di scena di Kabila. Nel gennaio scorso vi sono stati mo-
vimenti di protesta repressi nel sangue a Kinshasa e in altre città del paese.
B) Fragilità o/e deliquescenza delle istituzioni dello Stato (esercito, magistra-
tura, polizia, amministrazione pubblica), non più in grado di rispondere alle esi-
genze dei cittadini e minate da una corruzione cronica su larga scala.
C) Povertà endemica in cui fiorisce la criminalità transfrontaliera promossa
da un numero incalcolabile di gruppi armati, di potentati economici che sfrutta-
no le ricche regioni minerarie.
D) Porosità delle frontiere e continui attraversamenti dei paesi vicini a scopi
136 predatori, come registrato dal rapporto degli esperti delle Nazioni Unite pubbli-
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

cato nell’autunno del 2010: «Ogni giorno, nell’Est del Congo circa sette o dieci
aerei carichi di tonnellate di cassiterite vanno da Mubi a Goma per spedire il loro
contenuto verso il Ruanda. Il traffico di oro, diamanti, rame, cobalto non conosce
sosta. Lo Stato congolese non ricava nulla da questo intenso traffico organizzato
dai contrabbandieri. Anzi, poco è stato fatto negli ultimi anni per impedirlo. Le
uniche vittime di questo turpe commercio sono i minatori congolesi».
La legittimità dello Stato congolese è minata dall’interno, oltre che dall’ester-
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no. Alcune regioni del paese stanno attuando una secessione di fatto. È il caso
della ricca regione mineraria del Katanga che vive oramai sganciata dal controllo
di Kinshasa. Il suo aeroporto internazionale accoglie ospiti stranieri senza i visti
rilasciati dalle autorità nazionali e il suo potente governatore firma contratti con
aziende straniere senza renderne conto al governo di Kabila, approfittando della
fine del monopolio statale nel settore delle miniere. Sul piano politico, il gover-
natore del Katanga appare sempre più come il rivale di Kabila alle prossime ele-
zioni. Sicché quel territorio di 496.877 chilometri quadrati, nella parte più ricca
del paese, sta ottenendo per la via economica ciò che tentò di conquistarsi con
le armi negli anni Sessanta.
Al di là del Katanga, il caos che regna nel Congo pone la questione dell’inte-
grità territoriale del paese. Fino a ieri, un argomento tabù nei discorsi pubblici in
Congo e in Africa in generale. Rammentiamo che le indipendenze africane sono
nate sotto il rigido principio del «rispetto delle frontiere ereditate dalla colonizza-
zione», temendo una balcanizzazione dagli esiti imprevedibili. Molti Stati non sono
stati però in grado di tenere insieme la triade popolazione, territorio e autorità po-
litica che caratterizza lo Stato sovrano. E molti osservatori e attori politici comincia-
no a infrangere il tabù dell’intangibilità delle frontiere, facendo notare che il Con-
go nella sua attuale estensione territoriale non ha agibilità né operatività, quindi
tanto vale accettare la spartizione. È la tesi avanzata da forze politiche domestiche,
sostenute dai vicini del Congo interessati allo sfruttamento delle materie prime, ma
soprattutto in cerca di spazi vitali per via di un rapporto popolazione-ecosistema
che in alcuni paesi, come Ruanda e Burundi, sta diventando insostenibile. La clas-
se dirigente congolese è tuttavia generalmente contraria alla spartizione.
A nostro parere l’unità formale della Rdc potrà essere mantenuta a una sola
condizione: una riforma in senso federalista, con ampie autonomie concesse alle
regioni seguendo il modello ora sperimentato di fatto dal Katanga. Questa rifor-
ma in senso federalista dovrà essere accompagnata da una seria politica di coe-
sione territoriale, in grado di conferire un minimo di omogeneità di condizioni
sociali ed economiche di base a tutta la popolazione dell’immenso territorio. Infi-
ne, in un orizzonte più ampio, occorre mirare alla collocazione del Congo dentro
una dinamica regionale animata dalla libera circolazione dei beni e delle persone
e da cessioni di sovranità. Tale nuovo quadro regionale risolverebbe anche la
questione del sovrappopolamento di Ruanda e Burundi e aiuterebbe a stempera-
re la contrapposizione mortale tra popolazioni rivali, che così entrerebbero a far
parte di un contesto più largo di cooperazione e solidarietà. 137
LE GUERRE INVISIBILI DEL CONGO

Allo stato nessuna di queste riforme interne ed esterne può essere attuata.
Per la fragilità prima descritta delle istituzioni congolesi e per il quadro regionale
deteriorato da conflitti e condizioni di marginalità economica. Ma occorre dare
una risposta al fallimento pressoché generalizzato del progetto di formare Stati
nazionali all’interno delle frontiere ereditate dalla colonizzazione. Il dogma del-
l’integrità territoriale deve essere interpretato in modo dinamico, inserendo il ter-
ritorio congolese in un movimento di accordi tra soggetti interni ed esterni, un
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patto federativo e un’alleanza regionale per la sopravvivenza. L’alternativa è la


balcanizzazione imposta da fattori e agenti esterni, con la tragica conseguenza di
un’implosione irreversibile.

Il nuovo scramble delle grandi potenze


La Rdc è il gigante ferito della caotica scena geopolitica dei Grandi Laghi
africani. E come accade in natura, la scia di sangue indica la preda da aggredi-
re. Fedele alla sua storia il Congo è al centro di un nuovo arrembaggio delle
potenze economiche tradizionali ed emergenti. La sua instabilità ha offerto lo
scenario perfetto per l’economia di guerra con la triangolazione tipica – con-
trollo del territorio da parte dei signori della guerra, compravendita dei minera-
li, commercio delle armi – in un ciclo che si autoalimenta senza fine. Oltre a
questa triangolazione il Congo e la sua parte nord-orientale sono il tragico la-
boratorio di quella che possiamo chiamare la geopolitica del cinismo. Non più
contrapposizione Est-Ovest; nessuna apparente mira egemonica ma corposi in-
teressi da difendere.
I protagonisti della geopolitica del cinismo non sono gli Stati direttamente.
Essi sono presenti sullo scenario congolese per il tramite di soggetti privati (grup-
pi armati, multinazionali, trust funds finanziari, associazioni) che agiscono con
modalità prettamente economicistiche per massimizzare i loro profitti saccheg-
giando il Congo. Ecco perché è assai fuorviante chiamare il conflitto in Congo,
come fanno tanti, una guerra «etnica». Dentro la guerra del Congo c’è certamente
una componente etnica, innegabile nella funzione combattente strumentale. Ma
le strategie, le finalità e il bottino finale sono extracongolesi. Questo dato rende
difficile stringere accordi di pace perché gli attori in campo non sono dichiarati e
non hanno interesse a interrompere il business ormai consolidato nei decenni.
Tuttavia, nella giungla delle sigle combattenti e degli operatori economici
globali e locali che alimentano la geopolitica del cinismo in Congo, alcuni attori
sono identificabili e portano avanti alla luce del sole i loro piani di aggressione
al gigante ferito.
A) In primo luogo, gli attori occidentali in perdita di posizione nell’area.
Soprattutto la Francia, che sperava a metà degli anni Novanta di contrastare le
«lobby anglosassoni» accusate di voler impadronirsi del Ruanda e del Burundi e
in seguito occupare la Rdc. In questa chiave si deve capire il forte sostegno di
138 Parigi al regime hutu di Habyarimana in Ruanda, fino al genocidio. S’inquadra
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

REP. CENTRAFRICANA
IL TESORO DEL CONGO SUD SUDAN

Bangui N
CAMERUN
Watsa
Buta Isiro O
e Congo
Fium
Lago
Bunia Alberto
Basoko
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Basankusu O
GABON Kisangani
Equatore D S UGANDA
Lago
N Edoardo
CONGO N
S
S
Inongo R E P . D E M . Lago Kigali
D E L C O N G O Kivu RUANDA
S
S
Bukavu BURUNDI
Lodja O
S
Brazzaville D Bujumbura
Kinshasa Kasongo
TANZANIA
Kananga C
Boma
D Kalemie
Tshikapa D Lago
D Tanganica
S
Manono
O c e a inc o
o

PZ
Atlant

Pweto
Lago
ANGOLA S S Mweru
S C
M RC
Risorse minerarie Kolwezi RC RC
D Diamanti S Stagno U RC RC

O Oro M Manganese Lubumbashi


RC
RC
N Niobio PZ Piombo e zinco
RC Rame e cobalto
ZAMBIA
Risorse energetiche
C Carbone U Uranio Petrolio

in questa strategia l’Operazione Turquoise (giugno-luglio 1994) portata avanti


dalle truppe francesi su mandato dell’Onu con il duplice scopo di favorire la
fuga verso il Congo dei rifugiati ma anche di offrire sostegno per l’ex filtrazio-
ne del personale politico e militare legato al regime di Habyarimana, almeno
secondo l’analisi dell’attuale uomo forte di Kigali, Kagame. La stessa Francia
tentava invano di ritardare l’avanzata delle truppe dell’Adlf di Laurent-Désiré
Kabila verso Kinshasa per mettere fine al lungo regno di Mobutu sostenuto dal-
la Francia. La presa di potere di Kabila a Kinshasa segnava la fine dell’influenza
francese nei Grandi Laghi.
B) L’altro protagonista occidentale nell’area sono gli Usa, sostenitori dei
«combattenti per la libertà» che attraverso la lotta armata prendono il potere in 139
LE GUERRE INVISIBILI DEL CONGO

Etiopia (Meles), Uganda (Museveni) e Ruanda (Kagame). Erano i decenni dell’e-


saltazione della cosiddetta «legittimità combattente» di nuovi leader africani in
grado di rovesciare i dittatori usciti dal periodo postcoloniale. Essi hanno goduto
e godono ancora del sostegno pieno degli Stati Uniti interessati a gestire diretta-
mente – e non più tramite alleati europei – i propri interessi nell’area. L’interesse
degli Usa nell’area è accentuato dalla vicinanza del Sudan, considerato un san-
tuario del terrorismo internazionale. Gli attentati di al-Qå‘ida alle rappresentanze
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americane di Nairobi e di Dar al-Salam hanno aumentato a Washington la con-


vinzione di dover giocare un ruolo decisivo nel «nuovo disordine africano» dei
Grandi Laghi. Ovviamente in Africa come in altri scenari globali la politica ameri-
cana è sempre la risultante di un processo d’interazione e di negoziato tra sog-
getti diversi dentro gli Usa (inter-agency bargaining), in particolare tra diparti-
mento di Stato, Consiglio per la Sicurezza nazionale e Congresso. Da ciò risulta,
a volte, una strategia non lineare. Esempio: quale posizione prendere nei con-
fronti del presidente del Ruanda Kagame, che intende modificare la costituzione
per avere la possibilità di un successivo mandato? Barack Obama ha ripetuta-
mente condannato con la massima fermezza i tentativi di alcuni leader africani di
erigersi a presidenti a vita. Ciononostante Kagame gode ancora di grandi soste-
gni da parte del dipartimento di Stato e di alcune lobby nel Congresso, oltre che
del Black Caucus (la lobby afroamericana). La stessa titubanza si osserva nei con-
fronti di Museveni, ex esponente della legittimità combattente, al potere da
trent’anni e pronto a ricandidarsi.
C) Inoltre, la Cina, vero dominus della politica economica africana negli ultimi
vent’anni. Pechino ha affinato una sua strategia di penetrazione e consolidamento
nella Rdc. Strategia declinata in due punti principali: ottenere un accesso duraturo
alle abbondati risorse dell’Africa e del Congo; assicurarsi il consenso dei governi
africani nelle istanze internazionali o multilaterali. Le performance della Cina sono
multisettoriali nel campo dei minerali, delle grandi infrastrutture, dell’edilizia. Pe-
chino ha firmato un megacontratto – noto come «le contrat du siècle» – con Kinsha-
sa caratterizzato da due iniziative in particolare: un prestito di 8,5 miliardi di dollari
della cinese Exim Bank destinati all’ammodernamento della produzione mineraria;
inoltre, due imprese cinesi – la Sinohydro e la Crec (China Railways Engineering
Company) – hanno ricevuto l’incarico di realizzare 3.500 chilometri di strade e fer-
rovie, 31 ospedali e 145 centri sanitari e opere di fognature in varie città, per un
valore complessivo di 6,5 miliardi. La Cina ha chiesto e ottenuto nell’ambito di
questo contratto lo sfruttamento delle risorse congolesi ad opera della Socomine,
società mista sino-congolese. Dopo il contratto del secolo, Pechino ha consolidato
le sue posizioni diventando un partner strategico di prima importanza del governo
di Kinshasa.
D) Infine, gli interessi dei mullah dello Õizbullåh libanese, i cui tentacoli eco-
nomici e commerciali si estendono ormai in tutto il Congo con una fitta rete di al-
leanze sostenute dall’attivismo diplomatico dell’Iran – soprattutto durante la gestio-
140 ne Ahmadi-Nejad. Si parlò allora di un interesse di Teheran per l’uranio congolese.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

La storia si ripete in Congo. Oggi come due secoli fa, il paese si trova al cen-
tro di una dura battaglia che ha come posta in gioco le sue immense ricchezze.
Nell’èra della rivoluzione industriale lo «scandalo geologico» congolese doveva
foraggiare le accresciute capacità produttive della macchina a vapore. Oggi sono
i settori di punta della globalizzazione (telefonia mobile, informatica, robotica e
aeronautica) che trasformano il Congo nell’eldorado da conquistare a tutti i costi.
Di qui l’occultamento globale delle vicende tragiche del Congo. Il conflitto
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in corso si presta a letture complesse. E si ricollega alla vicenda politica del falli-
mento sostanziale del processo delle indipendenze africane intese come capacità
di riappropriarsi del proprio destino storico e di orientare i progetti politici ed
economici verso la soddisfazione di aspirazioni endogene. Tocca inoltre le logi-
che di una globalizzazione che opera sui flussi (di merci, di capitali e d’informa-
zioni) ignorando i luoghi, ossia quegli spazi materiali e simbolici dove le donne
e gli uomini inventano il loro futuro. La guerra del Congo parla di noi attraverso
le sofferenze multisecolari di un popolo sfortunato.

141
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

IL SERPENTE DEL JIHĀD


HA DEPOSTO LE UOVA
OLTRE IL SAHARA di Giulio ALBANESE
Storicamente confinato ai paesi di cultura araba, l’islamismo ha
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oltrepassato il deserto, sfruttando la libertà religiosa e di associazione


a fini eversivi. Esclusione sociale e conflitti locali alimentano le
milizie in Nigeria, in Somalia e nella Repubblica Centrafricana.

1. P
ER CAPIRE L’ISLAMIZZAZIONE DELL’AFRICA
a sud del Sahara bisogna partire dal deserto stesso. Dall’Egitto, per la precisione,
dove si è sviluppato un pensiero rivoluzionario che ha contaminato l’intero mon-
do arabo: quello di Sayyid Qu¿b. Nato all’inizio del Novecento nell’Alto Egitto,
Qu¿b fu fatto arrestare da Ãamål ‘Abd al-Nåâir (Nasser) per le sue idee eversive.
Ma gli anni trascorsi da Qu¿b in carcere resero le sue tesi ancora più radicali. E
soprattutto fruibili. L’impiccagione di Qu¿b, il 29 agosto del 1966, sembrò liberare
l’Egitto. Ma non fu così: il jihadismo divenne un incubo per il regime nasseriano.
C’è una parola d’ordine per comprendere l’insegnamento di Qu¿b, padre
riconosciuto del fondamentalismo: ãåhiliyya, l’epoca dell’ignoranza, quella pre-
cedente alla rivelazione coranica. Per Qu¿b, ãåhiliyya diventa ignoranza del-
l’autorità di Dio sull’uomo e coinvolge i sistemi democratici, il comunismo so-
vietico, i regimi arabi, opponendoli al vero islam, quello che il jihåd deve im-
porre. Qu¿b descrive i regimi filoccidentali e filosovietici come usurpatori, per-
ché seguono la legge umana e non quella divina e pertanto devono essere ro-
vesciati con le armi. Il vero Stato islamico, in questa prospettiva, è il solo che
può salvare il mondo dalla ãåhiliyya perché riaffida a Dio il potere, tramite la
4arø‘a. Il pensiero del sunnita Qu¿b ha posto le basi per un’ideologia sovversiva
che ha prima contaminato il Medio Oriente e successivamente ha interessato il
continente africano, proponendosi come paradigma di una visione teocratica
totalitaria e violenta.

2. Storicamente, il primo vero atto terroristico compiuto in Africa risale al


1973, quando la sera del 1° marzo i militanti della fazione palestinese Settem-
bre Nero, affiliata a Fatõ, occuparono l’ambasciata saudita a Khartûm in Sudan
mentre era in corso un ricevimento, prendendo in ostaggio l’ambasciatore ame- 143
IL SERPENTE DEL JIHĀD HA DEPOSTO LE UOVA OLTRE IL SAHARA

ricano Cleo Noel, l’incaricato d’affari George Curtis Moore e altre persone. Il
giorno successivo, Noel, Moore e il diplomatico belga Guy Eid vennero assassi-
nati dai sequestratori, in seguito al rifiuto del presidente statunitense Richard
Nixon di negoziare la loro liberazione in cambio del rilascio di Sirõan Sirõan –
il palestinese che aveva ucciso Robert Kennedy – e di altri terroristi detenuti
nelle carceri israeliane ed europee. Tuttavia, la presenza di cellule terroristiche
islamiche nell’Africa subsahariana divenne una questione centrale solo dalla fi-
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ne degli anni Novanta. Il 7 agosto 1998 furono simultaneamente compiuti due


attentati rivendicati da al-Qå‘ida nelle sedi diplomatiche degli Stati Uniti in
Kenya e in Tanzania, con un bilancio complessivo di 223 morti (tra cui 12 citta-
dini statunitensi) e circa 4 mila feriti.
In questo periodo, il regime sudanese del generale ‘Umar Õasan Aõmad
al-Ba4ør svolgeva un ruolo rilevante nella diffusione dell’ideologia jihadista.
Asceso al potere con il golpe del 30 giugno 1989, al-Ba4ør godeva dell’appog-
gio della fazione sudanese della Fratellanza musulmana guidata da Õasan al-
Turåbø, intellettuale poco amante delle cariche pubbliche che assunse il ruolo
di ideologo del fondamentalismo islamico locale e di eminenza grigia del regi-
me. Predicando una politica dichiaratamente antioccidentale, Khartûm finì nella
lista degli «Stati canaglia» del dipartimento di Stato americano, con l’accusa di
sostenere il terrorismo. Oltre a essere considerato uno dei principali covi di al-
Qå‘ida, il Sudan venne tacciato di essere uno dei maggiori centri di addestra-
mento per terroristi e di ospitare membri di Õizbullåh libanese, dell’egiziana
Ãamå‘a al-Islåmiyya, di al-Jihåd, della Jihåd islamica palestinese, di Õamås e
dell’organizzazione Abû Niîål. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, il go-
verno sudanese ha però condannato ogni atto violento contro i civili e da allo-
ra il regime di al-Ba4ør si è sforzato di prendere le distanze – sul piano formale,
s’intende, non nella sostanza – dal terrorismo.
Il Sudan, comunque, non è stata l’unica culla del terrorismo di matrice isla-
mica. Dopo la rivoluzione del 1969, il leader libico Muammar Gheddafi coltivò
ambizioni egemoniche all’interno del mondo arabo e musulmano e per questo
appoggiò e sovvenzionò a lungo gruppi islamici radicali, in particolare quelli
legati a movimenti di liberazione nazionale e di guerriglia. Durante la guerra
fredda, nei pressi di Bengasi, venne istituito il Centro rivoluzionario mondiale
(World Revolutionary Center, Wrc). Lo storico Stephen Ellis, autore del saggio
The Mask of Anarchy: The Destruction of Liberia and the Religious Dimension
of an African Civil War, spiega che la Cia considerava il Wrc estremamente pe-
ricoloso, trattandosi di una base di addestramento per gruppi ribelli in grado di
destabilizzare numerosi paesi.
Si pensi a Foday Sankoh, fondatore del Fronte unito rivoluzionario, il movi-
mento antigovernativo che negli anni Novanta mise a ferro e fuoco la Sierra Leo-
ne. Pare addirittura che la tecnica di reclutamento dei bambini soldato venne
suggerita a Sankoh durante i corsi al Wrc. Lo stesso vale per l’ex dittatore liberia-
144 no Charles Taylor, il quale dimostrò grande perspicacia non solo nell’apprendi-
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

mento delle tecniche di combattimento, ma anche nello studio delle scienze poli-
tiche, che al Wrc si richiamavano agli ideali della rivoluzione libica. Da questa
controversa accademia militare sono passati anche l’ex presidente burkinabé
Blaise Compaoré e l’attuale capo di Stato ciadiano Idriss Déby 1. Sono ampiamen-
te documentate le azioni di destabilizzazione degli anni Ottanta e Novanta (ma
non solo) agevolate dall’appoggio libico in Algeria, Burkina Faso, Ciad, Egitto,
Sierra Leone, Sudan, Zaire, Tunisia e Niger.
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Benché in grado di innescare turbolenze islamiche nell’Africa subsahariana,


il pensiero geopolitico di Gheddafi aveva una smaccata connotazione colonia-
le. Più rilevante, nel processo di affermazione del cosiddetto integralismo estre-
mista islamico, fu la guerra civile algerina negli anni Novanta. Inizialmente, il
fronte dell’insurrezione era guidato dal Gruppo islamico armato (Gia), operativo
dal 1992, dopo il colpo di Stato dei militari che aveva estromesso e arrestato gli
esponenti del Fronte islamico di salvezza (Fis), il partito filoislamico vincitore alle
elezioni. Successivamente, nel 1996, l’ex militante Õasan Œa¿¿åb accusò il Gia di
colpire indiscriminatamente la popolazione civile, modus operandi che alienava
le simpatie e il sostegno della gente. Per questo, decise di fondare la sua forma-
zione: il Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (Gspc), con lo
scopo di rovesciare il governo algerino e istituire uno Stato islamico.
Dopo anni di scontri con le autorità e l’esercito senza riuscire a prendere il
potere, il Gspc si ritirò verso sud, affiliandosi nel 2005 ad al-Qå‘ida, con la deno-
minazione al-Qå‘ida nel Maghreb islamico (Aqim). Con questa mossa, il gruppo
voleva compiere un salto di qualità, dal contesto algerino a un più ampio scena-
rio internazionale. Un indirizzo sancito il 3 gennaio del 2007 dall’emiro ‘Abd al-
Malik Drukdel, alias Abû Muâ‘ab ‘Abd al-Wadûd, che comunicò l’intenzione di
associarsi a Osama bin Laden con un video diffuso su Internet. Nel filmato, l’emi-
ro attaccò anche il presidente algerino ‘Abd al-‘Azøz Bouteflika e la sua politica di
«concordia» nazionale fatta di repressione e di finti negoziati. E accusò le autorità
del suo paese di sfruttare e dilapidare le risorse energetiche nazionali, denun-
ciando inoltre il neocolonialismo francese e statunitense e le politiche aggressive
di questi paesi contro la comunità musulmana.
Da allora, Aqim cominciò a diffondersi lungo il Sahel, in Mauritania, Niger,
Ciad e soprattutto in Mali, dove nel 2012, assieme ad altre formazioni estremiste,
è riuscita a intercettare la debole insurrezione tuareg nell’Azawad. Ad aiutare i
jihadisti nell’impresa sono stati il dissolvimento del regime di Gheddafi e la razzia
degli arsenali del Colonnello, di cui Aqim ha approfittato anche grazie ai contatti
stretti sin dal 2007 con il Gruppo combattente islamico libico (Gicl). Una milizia
che, si vocifera, ha ricevuto un corposo sostegno dall’Occidente. I servizi segreti
statunitensi e britannici, infatti, avrebbero per anni appoggiato i leader del Gicl

1. I corsi potevano durare da poche settimane a oltre un anno ed erano aperti anche a reclute pro-
venienti dall’America Latina. Per esempio, alcuni dei quadri del movimento sandinista di Manuel
Ortega e delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) sono passati dal Wrc. 145
IL SERPENTE DEL JIHĀD HA DEPOSTO LE UOVA OLTRE IL SAHARA

in funzione anti-Gheddafi e, durante la guerra del 2011, la Nato avrebbe addirit-


tura fornito «armi, addestramento, forze speciali e perfino aerei per aiutarla a ro-
vesciare il governo della Libia» 2.

3. Dipingere la galassia delle forze d’ispirazione jihadista in Africa esclusiva-


mente come impegnata in una lotta globale contro l’Occidente, condotta da una
struttura di comando centralizzata (prima al-Qå‘ida, poi lo Stato Islamico), non
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rende conto della complessità del fenomeno. L’obiettivo di questi movimenti non
è solo provocare uno scontro tra la civiltà occidentale e quella islamica, ma an-
che innescare l’implosione degli Stati ereditati dal periodo coloniale. I miliziani
colpiscono chiunque si opponga al loro folle progetto egemonico. La somala al-
3abåb semina morte e distruzione fra i suoi stessi correligionari e la nigeriana
Boko Haram ha ucciso in questi anni più musulmani che cristiani. Quando que-
ste formazioni attaccano chiese e istituzioni cristiane – in Nigeria, Camerun e
Kenya – lo scopo è farsi rilanciare dalle testate giornalistiche mainstream e dare
risonanza internazionale alle proprie azioni. Anche il ricorso di questi gruppi ar-
mati al concetto di network va preso con le pinze. L’affiliazione a una struttura
jihadista più ampia, ramificata fra Medio Oriente e Africa, serve infatti ad attribui-
re identità e peso geopolitico alla lotta contro le forze governative.
Per spiegare la proliferazione delle milizie jihadiste bisogna inserire nell’e-
quazione le questioni locali. La diffusione delle bande armate estremiste è
spesso la conseguenza, non la causa, dei conflitti tra le oligarchie per il con-
trollo del potere nei rispettivi territori. Prendiamo il caso di Boko Haram in Ni-
geria, movimento pieno di pericolosi fanatici che vogliono fondare un nuovo
califfato e imporre la 4arø‘a a tutta la federazione nigeriana, ora in vigore solo
nei 12 Stati del Nord. Nonostante le prove dei suoi legami con organizzazioni
come Aqim (fornite dall’intelligence nigeriana all’Ecowas) e degli aiuti finanzia-
ri del salafismo intransigente di matrice saudita, l’esistenza di questo movimen-
to insurrezionalista va letta alla luce dei fragili equilibri politici e sociali della
Nigeria. Le ragioni dell’aumento della sua attività terroristica vanno infatti rin-
tracciate, almeno in parte, nei rapporti stretti negli ultimi due anni con politici
locali e membri delle forze di sicurezza originari del Nord, interessati a radica-
lizzare il conflitto per rendere ingovernabile il paese. In Nigeria, peraltro, nes-
sun governo democraticamente eletto ha ancora affrontato la questione della
ridistribuzione dei proventi petroliferi e la quasi totalità della ricchezza resta
concentrata nelle mani dell’1% della popolazione.
Finora l’attenzione degli analisti si è concentrata sulle crudeltà perpetrate da
Boko Haram. Ma sarebbe un errore considerare il terrorismo islamico nigeriano
come una questione a sé stante. Nonostante abbia causato la morte di 14-15 mila
persone e generato un milione e mezzo di profughi, Boko Haram rappresenta

2. T. CARTALUCCI, «The Geopolitical Reordering of Africa: Us Covert Support to Al Qaeda in Northern


146 Mali, France “Comes to the Rescue”», Global Research, gennaio 2013.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

solo un sintomo – sicuramente il più doloroso e inquietante – dei problemi inter-


ni della Nigeria. Ma non la causa. Molto dipenderà, negli anni a venire, dall’im-
pegno della società civile, se riuscirà a offrire personaggi illuminati, in grado di
scendere in campo nell’arena politica per difendere lo Stato di diritto.
È importante soffermarsi sui recenti sviluppi della crisi nigeriana nel Nord-
Est. Lo scorso 14 settembre si è verificata l’ennesima strage di civili, con 80 morti,
nel tormentato Stato del Borno. Questa volta però è avvenuto un fatto inedito: le
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vittime – tra le quali anche alcuni bambini – sono state uccise da misteriosi uo-
mini a cavallo in due distinte località: Kolori e Ba’ana Imam. Cavalcando destrieri
velocissimi e ben addestrati, secondo la tipica tradizione araba, i miliziani hanno
seminato morte e distruzione lanciando ordigni esplosivi e con raffiche di kalash-
nikov. Nonostante brandissero le insegne di Boko Haram, è evidente che gli ag-
gressori non erano nigeriani, i quali solitamente utilizzano mezzi meccanici per i
loro spostamenti. Come mai questa volta si è verificato un attacco equestre? Fonti
locali ritengono che i responsabili siano miliziani ciadiani e sudanesi, i feroci
ãanãawød, i «diavoli a cavallo» appartenenti alla famiglia estesa dei Baqqåra, inse-
diata nel Sudan Occidentale e nel Ciad Orientale. Il nome Baqqåra comprende
vari gruppi etnici seminomadi come i Õumr/Masøriyya, i Rizayqåt, i 3uwiyya, i
Õawåzma, i Ta‘åy4a e i Õabbåniyya. Sono gli stessi predoni che hanno commes-
so nefandezze di ogni genere nel Dårfûr e in Ciad.
Il dato davvero inquietante è che questi diavoli equestri hanno avviato una
collaborazione militare con gli insorti nigeriani, a riprova della disinvoltura nella
mobilità delle formazioni jihadiste nel cuore dell’Africa subsahariana. D’altronde,
negli ultimi due anni, nella Repubblica Democratica del Congo sono segnalati
mercenari libici, sudanesi e ciadiani al fianco delle Forze democratiche alleate,
un gruppo eversivo ugandese, in passato finanziato dal governo di Khartûm, che
proprio nell’ex Zaire ha allestito da tempo le proprie basi operative. Secondo al-
cune testimonianze di rifugiati congolesi, ospitati nel distretto di Bundibugyo in
Uganda, in Congo combattono miliziani arabofoni e tra essi vi sarebbero i già ci-
tati Õumr/Masøriyya. Operano sulle Montagne del Ruwenzori, le mitiche Monta-
gne della Luna, una catena montuosa al confine tra l’ex Zaire e l’Uganda.

4. Sul versante somalo le cose non vanno affatto meglio. Dalla caduta del re-
gime di Siad Barre, nel 1991, la Somalia è precipitata nell’anarchia, nonostante i
ripetuti ma controversi interventi della comunità internazionale e di alcune can-
cellerie occidentali. Il 10 settembre 2012 a Mogadiscio si è inaugurato un nuovo
corso, con l’elezione del presidente Hassan Sheikh Mohamud (Õasan 3ayœ
Maõmûd), sostenuto dai governi occidentali. Ma non cambia il dato di fondo: la
Somalia è parte di un complesso scacchiere geopolitico in cui si confrontano e si
sovrappongono i più svariati interessi. Ci sono gli antagonismi tra clan locali. Ci
sono i signori della guerra, la nemesi di qualunque organo statuale, dal momento
che polverizzano il monopolio della legittima coercizione e controllano scampoli
di territorio cui non intendono rinunciare. Ci sono inoltre potenze straniere che 147
IL SERPENTE DEL JIHĀD HA DEPOSTO LE UOVA OLTRE IL SAHARA

anelano alle risorse energetiche del sottosuolo, dal petrolio al gas, per non parla-
re dell’uranio. Sull’altra sponda del Golfo di Aden, poi, l’irrequietezza yemenita
porta a salpare pattuglie di estremisti lautamente foraggiati dai movimenti salafiti.
Finché la Somalia sarà parcellizzata, pur avendo un governo internazional-
mente riconosciuto, sarà ostaggio degli estremisti. Gli 4abåb continueranno a col-
pire il vicino Kenya, come ricorda l’eccidio di Garissa del 2 aprile scorso all’uni-
versità locale, in cui hanno perso la vita 150 persone. E minacceranno di conta-
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minare l’intero Corno d’Africa. Per quanto riguarda la loro espansione, pesa l’er-
rore macroscopico della diplomazia statunitense del dicembre del 2006, quando
non riconobbe, all’interno delle Corti islamiche, l’allora prevalente ala moderata
che avrebbe potuto segnare la svolta. Il gran rifiuto americano ha dato modo alla
frangia radicale delle Corti, gli 4abåb, di monopolizzare il conflitto contro le fra-
gili istituzioni transitorie di Mogadiscio e dintorni. Sostenere le autorità politiche
insediate a Mogadiscio è doveroso, ma non si può prescindere da un’azio-
ne persuasiva che induca tutti gli attori somali a dialogare.

5. Oltre a Nigeria e Somalia, fra i paesi subsahariani più esposti all’estremi-


smo islamico figurano Camerun, Ciad, Eritrea, Etiopia, Kenya, Mali, Mauritania,
Niger, i due Sudan, Tanzania, Uganda e Repubblica Centrafricana. Quest’ultima
merita una speciale menzione. L’instabilità dell’ex colonia francese è stata spes-
so associata negli ultimi tre anni all’irruzione di gruppi estremisti islamici. La
scintilla della guerra civile è stata la formazione nell’agosto 2012 della coalizio-
ne musulmana Séléka, responsabile della destituzione del presidente François
Bozizé. Il cartello ribelle è stato sciolto nel settembre 2013, ma da allora gli ef-
fetti sperati non si sono materializzati. Il paese centrafricano è stato meta di un
progressivo ma costante flusso di mercenari sudanesi e ciadiani, molti dei quali
inquadrati in cellule eversive jihadiste alle quali si sono contrapposti gruppi di
autodifesa fedeli a Bozizé, per proteggere la popolazione dai banditi che im-
perversavano nella regione.
La stampa internazionale ha attribuito a questo conflitto un carattere religio-
so, ma dietro le quinte si celano interessi economici. In ballo c’è la smisurata ric-
chezza del sottosuolo. A parte i giacimenti di petrolio a Birao, capoluogo della
prefettura di Vakaga, la più settentrionale tra le 14 del paese, i grandi depositi al-
luvionali delle regioni occidentali nascondono grandi quantità di diamanti. Come
se non bastasse, sono stati identificati giacimenti di oro, ferro e uranio, questi ulti-
mi intorno a Bakouma, località a circa 500 chilometri dalla capitale Bangui. L’ex
presidente Bozizé – personaggio controverso, con una spiccata propensione per
il nepotismo – già nel 2007 si era ribellato contro l’egemonia delle imprese mine-
rarie francesi. I dissapori sulle concessioni per lo sfruttamento del petrolio da par-
te della Total e dell’uranio tanto caro alla potentissima società Areva hanno porta-
to il governo di François Hollande a scaricare Bozizé, costringendolo all’esilio.
I delicatissimi problemi di State-building fanno di questa martoriata nazione
148 africana la cartina di tornasole della debolezza della politica internazionale, inca-
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

LE RELIGIONI IN AFRICA

TUNISIA
MAROCCO

SAHARA ALGERIA
OCC. LIBIA
EGITTO
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MAURITANIA
MALI
SENEGAL NIGER
CIAD SUDAN
GUINEA
SOMALIA
NIGERIA
SUD SUDAN ETIOPIA
REP. CENTRAFRICANA
GUINEA BISSAU
GAMBIA UGANDA
KENYA
GABON
CAPO VERDE REP. DEM.
DEL CONGO
RUANDA
BURUNDI
TANZANIA
SEYCHELLES
COMORE
ANGOLA

ZAMBIA

Paesi a religione dominante


(dal 65% al 100%) MOZAMBICO
NAMIBIA
Islam ZIMBABWE
BOTSWANA
Cristianesimo
Paesi a religione maggioritaria SWAZILAND
Islam MADAGASCAR
Cristianesimo
LESOTHO
SUDAFRICA
Animismo Paesi dove gli animisti
sono la seconda religione
Paesi con forte presenza di animisti (in percentuale)

Sierra Leone Togo Eritrea


Liberia Benin Gibuti
ZAMBIA 27
ZIMBABWE 41,6
Costa d’Avorio Camerun Congo Br.
CONGO BR. 32,8
Burkina Faso Guinea Eq. Malawi
BENIN 30,2
Ghana São Tomé e Príncipe GUINEA BISSAU 39,5

pace di affermare l’universalità dei diritti. Una cosa è certa. Le infiltrazioni jihadi-
ste nell’Africa subsahariana sono un dato di fatto incontrovertibile, reso possibile
soprattutto dalla fragilità dei governi locali e dall’acuirsi dell’esclusione sociale.
Sebbene gli islamisti siano contrari ai princìpi democratici, in molti casi essi ap-
149
IL SERPENTE DEL JIHĀD HA DEPOSTO LE UOVA OLTRE IL SAHARA

profittano della libertà concessa dai governi, inviando predicatori sia nei centri
urbani sia nei villaggi, per promuovere la religione e la cultura islamica. Sono
inoltre tutelati da normative che regolano la libertà d’associazione, la creazione
di partiti politici e l’iniziativa imprenditoriale; pertanto creano organizzazioni non
governative e partiti spesso finanziati da fondi privati o pubblici provenienti pre-
valentemente dalle petromonarchie del Golfo.
A questo proposito è sufficiente riflettere su quanto sta avvenendo in
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Kenya. Il riconoscimento delle Corti civili islamiche, le cosiddette Kadhi Courts,


nella nuova costituzione (approvata nel 2010 con un controverso referendum)
contrasta palesemente con il sistema giurisprudenziale di uno Stato laico. Storica-
mente, le popolazioni costiere del Kenya di tradizione islamica hanno sempre
goduto di un particolare status, una sorta di privilegio, che dall’indipendenza dal-
la Gran Bretagna si è andato via via rafforzando. E in quegli stessi territori affac-
ciati sull’Oceano Indiano oggi si registrano azioni violente perpetrate da forma-
zioni jihadiste, con le relative e pesantissime perdite nel settore del turismo. L’au-
mento dell’insicurezza scaturisce dalla costante penetrazione somala, in parte
sponsorizzata da confraternite islamiche saudite e yemenite. Predicatori prove-
nienti dal Medio Oriente hanno occupato moschee, dalle quali fomentano l’odio
contro chiunque si opponga ai loro progetti. Centinaia di giovani keniani si sono
uniti a loro, con l’obiettivo di destabilizzare la nazione.
Sebbene con modalità diverse, il fenomeno dell’islamizzazione radicale tocca
anche la vicina Tanzania, dove le autorità locali, in cambio di denaro o per la co-
mune fede musulmana, hanno consentito l’afflusso di soggetti poco raccomanda-
bili appartenenti all’area salafita. Inoltre, il paese è diventato un canale di transito
per gli estremisti islamici europei: il tristemente noto «Jihadi John», il membro bri-
tannico dello Stato Islamico che ha decapitato alcuni ostaggi davanti a una tele-
camera, ha soggiornato a Dar es Salaam prima di raggiungere la Siria. Il jihadi-
smo, parafrasando un proverbio africano, è come «quel serpente che ha già de-
posto le uova nel nido delle aquile».

150
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

L’AFRICA È
LA SUA STORIA di Roberto ROVEDA
A lungo gli europei hanno preferito raccontare il ‘continente nero’
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come privo di passato. Un atteggiamento figlio dell’imperialismo


ottocentesco che ha cancellato dalla nostra memoria, e in parte da
quella africana, il ricordo delle grandi civiltà precoloniali.

1. U
NA DELLE GRANDI BATTAGLIE CHE GLI
africani si sono trovati ad affrontare nel momento in cui hanno voluto attestare
la loro emancipazione dal dominio europeo è stata quella di affermare l’esi-
stenza di una storia dell’Africa totalmente africana, estranea a ogni rapporto
con l’Europa. Una storia che parte da un presupposto irrinunciabile: la vicenda
dell’Africa non comincia con i viaggi di esplorazione europei del tardo medioe-
vo e non si risolve in quelle maledizioni che sono state la tratta negriera e il
colonialismo imperialista.
Si è quindi dovuto fare apertamente i conti con l’idea di matrice euro-otto-
centesca che l’Africa fosse un continente senza storia, senza civiltà, ai margini
delle vicende mondiali con l’eccezione dell’Egitto e della altre terre affacciate
sul Mar Mediterraneo divenute prima romane, poi bizantine e infine islamiche.
Più a sud di queste zone cominciava quell’hic sunt leones che faceva dire anco-
ra nel 1963 allo storico inglese H.R. Trevor-Roper: «Forse nel futuro ci sarà una
storia africana (…) ma al presente non ce n’è nessuna, c’è solo la storia degli
europei in Africa».
Questa immagine dell’Africa come continente sine historia se privato del
contributo dell’Europa deriva chiaramente dall’immaginario razzista del colo-
nialismo ottocentesco e dalle dinamiche dell’imperialismo che concepiva il do-
minio europeo su tutto il resto del mondo come frutto di una presunta superio-
rità della civiltà «bianca». Nacque così l’idea di una missione civilizzatrice del-
l’Europa – il famigerato fardello dell’uomo bianco evocato nella celebre poesia
di Rudyard Kipling del 1899 – che giustificava l’occupazione di territori, la di-
scriminazione, lo sfruttamento di persone e risorse. In quest’ottica Hegel pote-
va scrivere nel suo saggio sopra la Filosofia della storia del 1831: «L’Africa è
una parte del mondo che non ha storia, essa non presenta alcun movimento o 151
L’AFRICA È LA SUA STORIA

sviluppo, alcun svolgimento proprio. Vale a dire che la parte settentrionale ap-
partiene al mondo asiatico ed europeo. Ciò che noi intendiamo propriamente
come Africa è lo spirito senza storia, lo spirito non sviluppato, ancora avvolto
nelle condizioni naturali…».
Una prospettiva totalmente distorta ed eurocentrica della vicenda storica
africana che ha innervato gli studi sul continente fino ad anni molto recenti.
Così, ancora a metà del Novecento, provocò sconcerto la semplice constatazio-
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ne dello storico e antropologo senegalese Cheikh Anta Diop (1926-83) che la


storia dell’Africa ha inizio con l’antico Egitto e che la civiltà dei faraoni era
prettamente africana anche per i legami con la Nubia abitata dagli antichi etio-
pi (africani neri quindi). Questa tesi suscitò reazioni scandalizzate tra gli studio-
si europei ma ebbe il merito di risvegliare il dibattito su una questione di pri-
maria importanza: l’Africa ha avuto una storia e una civiltà le cui radici sono
antiche quanto e più di quelle europee.

2. Storia e civiltà non riguardano solo le aree affacciate sul Mar Mediterraneo
ma concernono anche l’Africa subsahariana, quella che gli europei hanno chia-
mato per troppo tempo «continente nero» per sottolinearne gli aspetti oscuri, mi-
steriosi e «selvaggi». Una vasta area a sud del grande deserto del Sahara che, co-
me mostrano tanti studi recenti 1, apparve ai primi esploratori europei del XV e
XVI secolo abitata da popoli con usanze e credenze differenti da quelle presenti
in Europa. Differenti, non inferiori. Le fonti della prima età moderna, precedenti
alla tratta degli schiavi e all’imperialismo colonialista, parlano infatti di stupore
per il lusso e la ricchezza di alcuni sovrani africani, per le loro tante mogli e i nu-
merosi schiavi. Questi primi europei in Africa non si confrontarono con nulla che
ai loro occhi poteva apparire incomprensibile, frutto di una civiltà inferiore o di
un’assenza di civiltà. Vennero in contatto, soprattutto nell’area subsahariana occi-
dentale, con Stati di grandi dimensioni, dediti ai commerci su vasta scala e lun-
ghe distanze come avveniva in Europa. Stati caratterizzati da norme e gerarchie
sociali con sovrani dall’autorità semidivina. Insomma, un quadro sociale e politi-
co non lontanissimo da quello dell’Europa al passaggio tra medioevo ed età mo-
derna. E quanto ci è pervenuto delle testimonianze di parte africana mostra che
gli abitanti del cosiddetto «continente nero» non furono impressionati più di tanto
da una presunta superiorità degli europei. Li accolsero anch’essi come diversi e
dotati di armi e soluzioni per la navigazione che erano sconosciute agli africani.
Non ci fu all’origine del rapporto tra i due continenti alcun impatto immedia-
to tra una civiltà superiore europea e una civiltà inferiore africana. Ci fu un con-
tatto basato sulla similitudine, sulla compatibilità e sulla volontà di instaurare
proficue e pacifiche relazioni commerciali.

1. Pensiamo solo ai lavori dello storico britannico Basil Davidson (1914-2010) e al suo contributo
152 sull’evoluzione della storiografia africana moderna in senso anticolonialista.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

3. Vale ora la pena descrivere, anche se in maniera necessariamente non


esaustiva, quali sono state le civiltà che hanno fatto la storia africana in epoca
precoloniale, prendendo come punto di partenza cronologico i primi secoli della
nostra èra. In quest’epoca il Sahara rappresentava (come in parte oggi) il grande
spartiacque del continente africano, dividendo l’area mediterranea dalle savane e
dalle foreste delle zone a meridione del deserto. Per molti secoli il Sahara, che
era andato sempre più desertificandosi, aveva rappresentato una barriera presso-
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ché insormontabile. Le cose cambiarono con la diffusione, a partire dal III secolo
d.C., nelle zone sahariane del dromedario, animale che consentì ai nomadi ber-
beri del Nord di instaurare relazioni commerciali durevoli con i regni dell’Africa
subsahariana. Queste relazioni diventarono ancora più fitte quando gli arabi si
insediarono nella fascia mediterranea dell’Africa a partire dal VII secolo.
Gli arabi e i loro intermediari berberi, negli otto secoli che intercorsero prima
dell’arrivo degli europei, si confrontarono con Stati organizzati, vasti, straordinaria-
mente ricchi e potenti, soprattutto perché in grado di controllare l’estrazione e il
commercio dell’oro. Tra questi vi era l’impero del Ghana (cioè la «terra del signore
dell’oro»), esteso fin dal V secolo nell’attuale Sud-Est della Mauritania e in parte
del Mali. Si trattava di un regno molto ricco: oltre all’oro, lo sfruttamento dell’avo-
rio dalle zanne degli elefanti, le pietre preziose e le pellicce di animali esotici per-
mettevano ai sovrani del Ghana intensi scambi commerciali con gli arabi, che pa-
gavano le merci con un prodotto che scarseggiava nella regione equatoriale, il sa-
le. Nell’XI secolo il Ghana divenne un regno vassallo della dinastia araba degli Al-
moravidi 2 per poi venire assorbito attorno al 1240 dall’impero del Mali, un altro
regno africano islamizzato che sorgeva lungo l’alto corso dei fiumi Senegal e Ni-
ger. Al culmine del suo splendore, l’impero del Mali veniva abitualmente indicato
anche nella antiche carte geografiche arabe. Nel corso del Trecento il Mali decad-
de per l’emergere di un altro Stato-guida dell’Africa subsahariana occidentale: l’im-
pero Songhai di Gao, che si estendeva su un territorio vastissimo lungo il corso
del fiume Niger e che controllò i traffici commerciali nell’area a sud del Sahara fi-
no alla fine del Cinquecento. A questi Stati maggiori potremmo aggiungere molte
entità grandi o piccole come, per esempio, l’impero Yoruba o le città-Stato degli
Hausa nell’attuale Nigeria, a completare un quadro molto variegato e complesso.
Quello che però ci interessa sottolineare è come si trattasse di organismi sta-
tuali ben strutturati, dominati solitamente da una élite militare di cui il sovrano
era la massima espressione. Organismi capaci di riunire sotto un unico controllo
regioni anche molto estese così da poter garantire la presenza di mercati, merci,
circolazione di denaro e prosperità di commerci che si irradiavano per tutta l’A-
frica occidentale e oltre. Erano Stati rappresentati da grandi città come la mitica
Timbuktu o Djenné, con quest’ultima che tra il XV e il XVI secolo contava circa
20 mila abitanti ed era circondata da possenti mura.

2. Dinastia berbera proveniente dal Sahara che regnò sul Maghreb (Marocco) e sulla Spagna islami-
ca tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo. 153
L’AFRICA È LA SUA STORIA

4. A questo complesso sistema di organismi statuali l’islam portò un contri-


buto fondamentale che si concretizzò nel corso di rapporti durati secoli. Prima
di tutto dobbiamo pensare che queste civiltà, per quanto evolute e organizzate,
acquisirono dagli arabi la prima forma codificata di scrittura e in arabo sono i
primi testi giunti fino a noi riguardanti i popoli dell’Africa subsahariana. Un con-
tributo culturale che ha avuto il suo esempio migliore nella città di Timbuktu,
divenuta il fulcro della cultura islamica nelle regioni a sud del Sahara tra il XV e
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il XVI secolo grazie alle sue biblioteche che comprendevano manoscritti di tutta
la letteratura araba. La città, inoltre, fu uno dei grandi centri scientifici del mon-
do islamico dell’epoca.
Altro contributo importante dovuto agli arabi fu la religione islamica, che
però si diffuse molto lentamente rispetto a quanto era avvenuto con la conquista
araba dei territori affacciati sul Mediterraneo. L’islam si diffuse principalmente tra
le classi dominanti. Le conversioni procedettero con molta lentezza e solo dopo
secoli di contatti e relazioni, segno di quanto i riti tradizionali e le usanze ance-
strali fossero radicate, soprattutto tra la popolazione comune. L’islamizzazione
dei ceti dominanti era anche legata al fatto che l’islam offriva un quadro di gran-
de stabilità sociale, permetteva di sentirsi parte di una grande comunità estesa a
nord e a sud del Sahara e rendeva più semplici relazioni e traffici, anche da un
punto di vista meramente pratico, grazie a standard di misura e monetizzazione
uniformi in tutti i vastissimi territori arabi.
Alla fine del XIV secolo imperi come il Mali o Songhai erano considerati a
tutti gli effetti Stati islamici. Si moltiplicarono i viaggi di africani subsahariani ver-
so nord, spesso per compiere il doveroso pellegrinaggio alla Mecca. Così è pas-
sato alla storia il viaggio del sovrano del Mali Mansa Musa nel 1324, raccontato
dal cronista arabo Ibn Œaldûn. Il sovrano giunse al Cairo accompagnato da circa
dodicimila schiavi vestiti di tuniche di broccato e seta e con tali quantità d’oro (i
cammelli, secondo il cronista, portavano 80 carichi di polvere d’oro ciascuno del
peso di tre quintali!) da provocare una vera e propria inflazione del metallo pre-
zioso nell’area egiziana.
Questo aneddoto ci consente, soprattutto, di comprendere meglio quanto le
riserve d’oro di quello che gli arabi chiamavano Sahel (dall’arabo såõil, bordo
del deserto, per indicare le terre dove si giungeva dopo aver traversato il «mare
di sabbia» del Sahara) fossero in grado di incidere anche sul mondo mediterra-
neo. Studi sempre più approfonditi sulla storia economica dell’Africa subsaharia-
na fanno ritenere che la circolazione aurea nel bacino del Mar Mediterraneo, Eu-
ropa compresa, dipendesse strettamente dall’oro africano, almeno fino alla sco-
perta delle miniere aurifere del Nuovo Mondo.

5. Il connubio tra civiltà e culture autoctone, relazioni commerciali e cultura


islamica ha caratterizzato anche le zone orientali dell’Africa subsahariana, in par-
ticolare quelle affacciate sull’Oceano Indiano. In quest’area la navigazione com-
154 merciale era già attiva molto prima della nostra èra e lo divenne ancora di più
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

nel momento in cui l’Arabia venne unificata dalla fede islamica. A favorire gli
scambi tra queste zone dell’Africa e la Penisola Arabica, ma anche con il subcon-
tinente indiano e la Persia, fu la presenza di una serie di grandi città portuali pre-
senti lungo la costa orientale, dall’attuale Somalia fino al Mozambico. Si trattava
di centri prosperi come Zanzibar, Malindi, Mogadiscio oppure Mombasa, che im-
pressionò i primi navigatori portoghesi per le sue case in muratura, le vie allinea-
te e il porto in grado di permettere l’attracco anche a grandi imbarcazioni.
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Questi centri erano abitati originariamente da popolazioni di origine bantu e


ospitavano quartieri destinati ai mercanti arabi, indiani e persiani. Si trattava di
città molto attive dove lo scambio culturale era decisamente aperto, tanto da da-
re origine alla cultura e all’idioma swahili (la «lingua della costa»). In particolare,
la lingua era una sorta di codice franco che facilitava i contatti tra i mercanti pro-
venienti dalle diverse aree affacciate sull’Oceano Indiano. L’islam ebbe anche in
queste zone una forte penetrazione tra le élite dominanti e la cultura arabo-isla-
mica ebbe un deciso impatto sulla società, tanto che la prima forma scritta dello
swahili utilizzava l’alfabeto arabo.
Queste città della costa svolgevano anche la funzione di mettere in collega-
mento il mondo arabo, quello persiano, l’Estremo Oriente e l’India con le zone
di produzione dell’oro e dell’avorio dell’interno. In particolar modo, tra l’XI e il
XV secolo ebbe la sua massima fioritura la cultura dello Zimbabwe, che prende-
va il nome dalla sua capitale, Grande Zimbabwe, città fortificata di cui oggi sono
ancora visibili le mura alte nove metri del palazzo reale e i resti di un grande
santuario. Intorno al 1450 il grosso della popolazione della città emigrò a circa
300 chilometri verso nord a causa del progressivo isterilimento delle terre e si in-
sediò a Mupata (chiamata dai portoghesi Monomopata). Da qui continuò a con-
trollare ancora per molto tempo i commerci dell’oro e dell’avorio. Esempio della
grande interrelazione che esisteva tra le zone interne del continente e i commer-
ci delle città costiere è il ritrovamento tra le rovine di Grande Zimbabwe di alcu-
ne porcellane cinesi, giunte nella città senza che siano mai stati attestati contatti
diretti tra Cina e zimbabwesi.

6. La Nubia e l’Altopiano etiopico sono le uniche aree del continente afri-


cano in cui gli europei hanno riconosciuto la presenza di una civiltà assimilabi-
le alla loro. A favorire questa riconoscibilità fu la precoce diffusione e la tenace
resistenza alla penetrazione islamica del cristianesimo, introdotto, secondo la
tradizione, nell’area nubiana-etiopica da San Frumezio (per gli etiopi Abuna Sa-
lama, il «padre della pace») già nella prima metà del IV secolo. Epicentro della
cristianizzazione – nella variante monofisita3, definita anche «copta» – e baluar-
do per secoli contro la diffusione verso sud dell’islam furono principalmente i

3. Monofisismo, (da monos, in greco uno, e physis, natura), dottrina elaborata nel IV secolo che so-
stiene la tesi di un’unica natura (quella divina) in Cristo, mentre viene negata la sua natura umana.
La dottrina venne condannata dalla Chiesa cattolica nel concilio di Calcedonia del 451. 155
L’AFRICA È LA SUA STORIA

regni cristiani della Nubia, il regno di Axum e l’impero di Etiopia. La Nubia, re-
gione compresa tra l’Egitto meridionale e il Sudan centrosettentrionale, era
sempre stata un’area di grande produzione aurifera e per questo soggetta alle
mire dell’Egitto.
Con la conquista araba del territorio egiziano la situazione tra nubiani e ara-
bi fu di conflitto fino a che nell’VIII secolo non venne firmato un trattato. Esso
prevedeva la costruzione di una moschea a Dongola, città principale della Nu-
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bia, e la libertà di culto per gli islamici. In cambio i nubiani videro preservata la
loro indipendenza politica e religiosa. Il trattato resse per sette secoli e la Nubia
rimase per tutto questo tempo una sorta di muro all’avanzata dell’islam, fino al
crollo, dovuto soprattutto a conflitti interni tra regni cristiani. Un crollo che fa-
vorì, a partire dal Cinquecento, la penetrazione islamica nella regione dando ini-
zio a quel contrasto tra cristiani e musulmani presente ancora oggi in molte zo-
ne del Sudan e dell’Alto Egitto.
Ancora più importante fu la funzione di barriera nei confronti dell’islam
esercitata dalle entità statali della regione etiopica, dove per lungo tempo eser-
citò la sua egemonia il regno di Axum. Questo estendeva la sua influenza attra-
verso le zone dell’odierna Eritrea, Etiopia, Yemen, Arabia Saudita meridionale,
Somalia occidentale, Gibuti e Sudan settentrionale e la sua capitale era la splen-
dida Axum, oggi situata nella zona settentrionale dell’Etiopia. Il regno axumita,
grazie alla sua favorevolissima posizione, fu profondamente coinvolto nei com-
merci tra l’India e il Mediterraneo orientale e decadde quando, tra il IX e il X se-
colo, gli arabi imposero il loro controllo sui porti affacciati sul Mar Rosso, iso-
lando Axum dal resto del mondo.
Dopo queste vicende il baricentro della cultura copto-etiopica si spostò ver-
so sud, in Etiopia. Lo Stato etiope, isolato dal resto del mondo cristiano dalla po-
tenza araba, visse un lungo periodo di decadenza fino alla rinascita del XIII seco-
lo quando Lalibela (1190-1225) riaffermò l’identità cristiana assumendo il nome
di negusa nagast (re dei re) e il titolo di imperatore cristiano dell’Etiopia. Secon-
do la tradizione Lalibela avrebbe visitato Gerusalemme e, a imitazione dello
splendore della città santa, avrebbe deciso di costruire le famose dodici chiese
scavate nella roccia nella sua capitale.
L’impero d’Etiopia si rafforzò ulteriormente con la presa del potere di Yeku-
no Amlak (1270-1285), che rese ancora più stretto il rapporto tra monarchia e
Chiesa etiope. Così, nei secoli successivi l’Etiopia poté rivendicare il ruolo di uni-
ca potenza africana in grado di fronteggiare l’avanzata islamica, oltre che di
realtà statuale impegnata nella conversione delle genti pagane e capace di intes-
sere rapporti con l’Occidente. Scambi testimoniati dalla presenza di una delega-
zione etiope al concilio di Ferrara del 1439-41 dove venne sancita una breve ed
effimera riunione tra le Chiese d’Occidente e d’Oriente.

7. All’inizio dell’età moderna, dunque, l’Africa poteva anche essere poco o


156 per nulla conosciuta dagli europei, però si presentava tutt’altro che priva di sto-
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

ria. Una storia che continuò ancora per secoli nonostante la presenza europea,
dato che la colonizzazione dell’Africa è stata soprattutto un fenomeno tardo-ot-
tocentesco.
Il diffuso disprezzo degli europei per i neri d’Africa fu un prodotto della trat-
ta atlantica degli schiavi e poi della cultura dell’imperialismo europeo. Man mano
che crebbe il valore degli africani come «merce» venne meno la loro immagine di
esseri umani e sulla base di questa svalutazione e disumanizzazione gli europei
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costruirono il loro immaginario e la loro storiografia dell’Africa. Gli africani di-


ventarono esseri inferiori, valutazione che forniva il pretesto ideologico alla loro
riduzione in schiavitù in un momento in cui l’Europa affermava, con l’illumini-
smo e la rivoluzione francese, i princìpi di uguaglianza e libertà. Questo disprez-
zo crebbe a dismisura con l’aumento della disparità tecnologica ed economica
dovuto alla rivoluzione industriale e all’affermarsi del capitalismo imprenditoriale.
E il disprezzo fornì le basi per il razzismo basato sul colore della pelle che fece
da sostrato teorico al colonialismo imperialista.
L’Africa divenne un continente primitivo, sanguinario e selvaggio, e la sua
storia riletta in un’ottica puramente eurocentrica. Una visuale priva di fondamen-
to ma che col tempo divenne più reale della realtà, tanto da offuscare generazio-
ni di storici ed essere introiettata anche dagli africani stessi, soprattutto tra le élite
dominanti. Gruppi di potere incapaci di liberarsi di questa lettura distorta della
storia anche dopo la fine del colonialismo, forse per timore di un rovesciamento
di quello status quo che garantisce privilegi.
Per tutte queste ragioni la riscoperta della storia africana è diventata negli
ultimi anni un elemento fondante per il recupero di un’identità radicata nel
continente e non «costruita» dall’esterno attraverso i filtri della cultura europea.
Un recupero che passa probabilmente anche attraverso un nuovo modo di in-
tendere le vicende storiche africane, perché «nonostante i molti caratteri simili»,
scrive Albert Adu Boahen, «le vicende delle singole unità che compongono il
continente nero possono essere comprese pienamente solo se studiate in sé,
con le proprie fonti e le proprie ragioni». Per lo storico ghanese «la storia del-
l’Africa è la somma di storie locali differenziate. Il solo fattore comune è una
stessa metodologia. La storia del continente deve essere gradualmente rimpiaz-
zata da storie dell’Africa o delle Afriche»4.

4. G. CALCHI NOVATI, P. VALSECCHI, Africa: la storia ritrovata, Roma 2005, Carocci editore, p. 38. 157
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

IN MEMORIA
DI LUMUMBA di Paolo SANNELLA
Nel gennaio 1961 muore il campione dell’indipendenza congolese,
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tradito dal suo amico e sodale Mobutu. La sua ‘lotta


di lacrime, fuoco e fiamme’ si lascia dietro un’enorme eredità
morale, con cui ancora oggi l’Africa si misura.

1. ELLA SUA MAGNIFICA RICOSTRUZIONE


della storia del Congo, David Van Reybrouck così vede il giovane Patrice Lu-
N
mumba all’inizio di quel cruciale anno per l’indipendenza del suo paese che fu il
1959. Il 4 gennaio Lumumba era da poco uscito di prigione, dov’era stato rin-
chiuso per il suo ruolo di già affermato ispiratore dei movimenti politici impe-
gnati con sempre maggior forza sul fronte della lotta per l’indipendenza. Da po-
co aveva conosciuto un altro combattente per la stessa causa, Joseph Mobutu, il
militare diventato giornalista di cui leggeva in prigione gli articoli su Actualités
Africaines. Quel giorno la situazione era tesa nel paese, con le prospettive di in-
dipendenza sempre più concrete e imminenti. Si avevano notizie di scontri e gli
animi sempre più eccitati nutrivano paure e speranze.
Lumumba era reduce da una grande manifestazione popolare tenutasi la set-
timana precedente, dove aveva tenuto un grande discorso davanti a una folla fe-
stante ed elettrizzata. Quel giorno invece, come ormai da alcune domeniche, ave-
va deciso di recarsi a pranzo a casa di Mobutu, della cui moglie apprezzava con
gusto la cucina. I due amici sapevano che in centro città era in programma un al-
tro grande raduno politico organizzato dal movimento Abako ed erano consape-
voli della pericolosità del momento. Non disponevano di un’automobile, ma solo
del vecchio scooter di Mobutu. Così li vede Van Reybrouck, insieme sul motori-
no: Mobutu, ventotto anni, alla guida e Lumumba, trentatré, seduto dietro, che
parlano ad alta voce per superare il rumore del motore nell’aria calda di quel po-
meriggio a Léopoldville. Due amici uniti da una comunanza ideale e da una spe-
ranza, su cui invece incombe un drammatico destino. Non passerà infatti molto
tempo che proprio l’amico Mobutu condannerà Lumumba alla sua tragica morte.
Pochi anni e si compie il destino di Lumumba, che lascia dietro di sé un’ere-
dità enorme con cui l’Africa ancora si misura. Troppo in troppo poco tempo. Un 159
IN MEMORIA DI LUMUMBA

quinquennio forse la sua vita politica, pochi mesi quella di uomo di governo. Ca-
po del primo esecutivo del Congo indipendente il 30 giugno 1960, giorno della
festa e del trionfo, a settembre viene allontanato dal potere, accusato di ogni in-
famia in un crescendo di umiliazioni, tradimenti e atroci torture, prima della sua
barbara uccisione il 17 gennaio dell’anno successivo. Muore lasciando un’imma-
gine di coerenza e determinazione che incarna valori profondi e inalienabili.
Umiliazione è parola poco impiegata in politica, che appare di rado anche
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nell’analisi storica. Eppure, si commetterebbe un grave errore di prospettiva a


trascurare questo fattore allorché si parla di colonizzazione in Africa e dei movi-
menti di resistenza. Di ciò sono profondamente consapevoli gli africani, che pro-
mossero e animarono quella commissione nata nel 1998 sotto gli auspici delle
Nazioni Unite per individuare priorità e prospettive per il continente nel terzo
millennio. Sotto la guida del professor Albert Tévoédjirè, un gruppo di intellet-
tuali africani di diversa origine e provenienza lavorò per tre anni all’elaborazione
di un rapporto che si intitolava molto significativamente Vincere l’umiliazione.
Umiliazione di un continente, della sua cultura, dei suoi cittadini, delle sue istitu-
zioni. Interessante notare che di quel gruppo faceva parte anche il professore
Georges Nzongola, lo stesso che ci propone oggi la lettura dei discorsi di Patrice
Lumumba, uno dei più amati e riconosciti eroi dell’indipendenza africana. Nella
prefazione al rapporto, Amartya Sen scrive: «Non si esagera parlando di effetti
devastanti dell’umiliazione sulla vita degli uomini e sull’efficacia dell’organizza-
zione sociale. (…) L’assoggettamento e la denigrazione a cui l’Africa è stata sotto-
posta nello scorso millennio hanno trasmesso ai popoli africani un’eredità forte-
mente negativa contro cui essi devono battersi».
Ritengo che la battaglia di Lumumba e l’eroico, drammatico sacrificio della sua
vita vadano inquadrati su questo sfondo e letti alla luce di questa verità storica.

2. Del periodo coloniale, dei suoi fatti e misfatti, si è molto scritto e discusso.
Condannato senza riserve dai più, viene difeso da chi vi vede uno strumento per
rendere effettiva la trasmissione dei modelli di sapere e di organizzazione socia-
le. Nessuno però nega che il sistema politico coloniale fosse basato sulla domi-
nazione e sull’esercizio della violenza. Nei regimi politici imposti dall’Europa a
quasi tutta l’Africa e a gran parte dell’Asia e del Medio Oriente, il colonizzatore
aveva il diritto d’imporre il proprio modello culturale sostituendo o emarginando
quelli locali, di cui si denigravano o negavano valori e qualità.
La storia è certo un lungo elenco di vittorie e di sconfitte, di popoli che si
affermano a danno di altri, di regimi sostituiti da altri, di modelli di vita che si
intrecciano per superarsi continuamente. Queste vicende sono state sempre ac-
compagnate dal dolore dei vinti, dall’angosciosa attesa delle guerre e dal terro-
re della violenza.
Raramente però era accaduto in passato quanto divenne invece regola nel
sistema di governo proprio del colonialismo europeo ottocentesco e in parte dei
160 primi del Novecento. In modo particolare di quello europeo in Africa e in modo
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

ancora più evidente nel sistema coloniale belga imposto alle popolazioni del
Congo. Siamo lontanissimi dalle guerre fra popoli che si richiamano agli stessi si-
stemi di valori: da una Roma che sconfigge la Grecia per farsi poi vincere da
quella cultura e aprirsi senza riserve alla «grecizzazione». Alle culture e tradizioni
dell’Africa, ai popoli vinti dell’Africa si nega ogni riconoscimento, ogni virtù, ogni
rispetto, consentendo solo ad alcuni la possibilità di farsi assimilare dalla cultura
dei vincitori dimenticando e annientando se stessi. Sembrava addirittura lecito e
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corretto chiedersi se l’uomo africano avesse un’anima e se quindi esistessero li-


miti al suo sfruttamento e alla dominazione.
Lumumba ha tutto questo nel suo passato di giovane intellettuale nero, figlio
di quel Congo del rapporto di Roger Casement. Questa è la profonda radice del-
la sua rivolta, di quell’amore fatto di compassione e di orgoglio ferito per il suo
popolo, per i suoi fratelli e per gli antenati che hanno tanto sofferto. Nel celebre
discorso di Accra, Lumumba pone alla base della lotta per la libertà la sua oppo-
sizione «alla dominazione, all’ingiustizia e agli abusi» che sono propri del colonia-
lismo. Molti hanno scritto sul valore politico della sua eredità, come lo stesso
Nzongola nella sua ricca e dotta prefazione. Così come hanno scritto del suo co-
raggio e della sua determinazione. Nel suo pregevole libro sul pensiero politico
africano, Guy Martin colloca Lumumba nella categoria un po’ anomala dei socia-
listi-populisti o popolar-socialisti ed è certo che egli, chiamato a prendere posi-
zione su temi di attualità, espresse orientamenti classificabili in queste pur incerte
categorie. Tuttavia calcolò male i rapporti di forza, non seppe distinguere i veri
amici, non valutò adeguatamente la malvagia e oscura forza dei suoi nemici: fu-
rono questi errori che gli costarono la vita e l’orrore del barbaro martirio. Guar-
dava infatti lontano e con occhi diversi il dolore che vedeva intorno a sé.
Per questo mi sembra di poter dire che l’essenza del suo messaggio e della
sua eredità va al di là di queste classificazioni, del suo essere congolese, africano
e nero. Lumumba è il grande, luminoso campione che rivendica la dignità degli
oppressi, il loro diritto a vivere senza il giogo dei potenti. Nel suo grande discor-
so dell’indipendenza il 30 giugno 1960, Lumumba sembra dettare il suo epitaffio
allorché, ricordando la lotta di «lacrime, fuoco e fiamme» del suo popolo per la li-
bertà, dice: «Fu una lotta giusta, una lotta indispensabile per porre fine all’umi-
liante schiavitù che ci è stata imposta con la forza».*

* Questo articolo è tratto dal volume Discorsi di Patrice Lumumba, a cura di G. NZONGOLA-NTALAJA,
prefazione di P. SANNELLA, Monterotondo 2016, edizioni Fuorilinea. 161
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
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Parte III
RICCHEZZE
CONTESE
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

IL ‘LAND GRABBING’
FRA MITO
E REALTÀ di Giuliano MARTINIELLO
Sia i movimenti contro le acquisizioni di terra sia chi le vede come
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oro colato sbagliano. Il caso del distretto ugandese di Amuru rivela


come il potere centrale e le élite nazionali sfruttino gli investimenti
fondiari a scopi strategici. Il nodo della proprietà fondiaria.

1. L’
8 APRILE 2012, NEL DISTRETTO RURALE
di Amuru nell’estremo Nord dell’Uganda, al confine con il Sud Sudan, è scoppia-
ta una veemente protesta, guidata da un nutrito gruppo di donne. A scatenarla, il
tentativo del governo di Kampala e della compagnia Sugar Works di avviare i la-
vori per una piantagione di canna da zucchero di circa 40 mila ettari. Storie ana-
loghe si sono moltiplicate negli ultimi anni, non solo in Africa, spingendo ong in-
ternazionali, gruppi di monitoraggio per i diritti umani, organizzazioni di comu-
nità e movimenti sociali a denunciare l’ondata di acquisizioni di terra su larga
scala, definendole in termini negativi come «land grabbing» 1. Dall’altro lato della
barricata, Stati e istituzioni finanziarie internazionali classificano invece questo
processo come un’opportunità di sviluppo, tracciando linee guida non vincolanti
per favorire forme di «investimento responsabile» 2.
I media internazionali hanno avuto il merito di aver attirato l’attenzione su
temi scottanti come le espropriazioni della terra, le devastazioni ambientali, la so-
vranità alimentare e la gestione delle risorse idriche. Tuttavia, essa ha contribuito
a costruire una narrazione ipersemplificata che impedisce di cogliere la storicità e
le specificità del fenomeno delle acquisizioni territoriali.
Nel calderone del land grabbing sono finiti numerosi processi diversi fra lo-
ro. Alcuni studiosi hanno rilevato la mancanza di rigore metodologico nello stu-

1. Sull’utilizzo del termine si vedano Seized: The 2008 Land Grab for Food and Financial Security.
Barcellona: «Corporate Investors Lead the Rush for Control over Overseas Farmland», Grain, ottobre
2009; J.S. BORRAS, J. FRANCO, «Global Land Grabbing and Trajectories of Agrarian Change: A Prelimi-
nary Analysis», Journal of Agrarian Change, 12, 1, 2012, pp. 34-59.
2. La cornice entro cui questi attori elaborano la propria agenda politica è fornita dalla convergenza
degli organismi sovranazionali competenti in materia. Si veda Principles for Responsible Agricultural
Investments that Respect Rights, Livelihoods and Resources, Washington, DC 2010, World Bank. 165
IL ‘LAND GRABBING’ FRA MITO E REALTÀ

dio del fenomeno e una generalizzata inflazione della sua portata 3: esiste infatti
una discrepanza notevole tra il numero di acquisizioni di terra ufficialmente regi-
strate e la loro effettiva mise en valeur 4. All’origine di questo iato ci sarebbero
problemi burocratici e legislativi, le difficoltà e i rischi intrinseci negli investimen-
ti nel settore agricolo e i conflitti sociali generati dalle trasformazioni indotte da-
gli investimenti stessi. È esemplare il caso di Procana, un irrealistico investimento
multimilionario del Brasile in Mozambico in piantagioni di canna da zucchero su
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circa sei milioni di ettari, osteggiato dalle comunità locali che ne hanno impedito
l’implementazione 5. In controtendenza con l’idea del land grabbing come mani-
festazione di un neocolonialismo rampante, i recenti investimenti commerciali
nell’agroalimentare si sono mostrati vulnerabili alle difficili condizioni agroecolo-
giche dei territori interessati, in cui intervengono fattori come le mutevoli tenden-
ze del mercato e le specificità della politica locale. Resta, tuttavia, una costante:
la perdita di pascoli, terra arabile, foreste e risorse idriche pesa sulle popolazioni
locali. Anche se questi investimenti creano benefici di cui si avvantaggiano speci-
fici gruppi locali, spesso i progetti terrieri sono indifferenti alle questioni della le-
galità e della relativa (in)formalità dei contratti 6.
Sarebbe però fuorviante citare le difficoltà dei progetti per negare la portata
e le implicazioni del processo delle acquisizioni di terra. La Banca mondiale ha
stimato che nel 2009, soltanto in Africa, circa 45 milioni di ettari di terra – gestita
in precedenza attraverso ordinamenti fondiari consuetudinari – sono stati acquisi-
ti e sottratti al controllo delle comunità locali 7. Gli investitori globali riservano
una grande attenzione alle opportunità d’investimento ad alti tassi di redditività
che offre la terra in Africa: si pensa infatti che il continente ospiti il 75% delle ri-
sorse fondiarie inutilizzate di tutto il mondo, circa 200 milioni di ettari.
Il prisma del capitale globale riproduce un’immagine distorta del continente
africano come tabula rasa. La terra viene classificata come asset inutilizzato, scar-
samente utilizzato o non abitato. In questo modo, le istituzioni internazionali fini-
scono per reificare le costruzioni coloniali imperniate sul principio della terra nul-
lius, utilizzato nel diritto internazionale per descrivere un territorio che, non ap-
partenendo a nessuno, poteva essere reclamato dalla nazione europea che lo oc-
cupasse per prima. Spogliata delle sue dimensioni sociali, territoriali, storiche e
culturali, la terra diviene oggetto dell’appetito delle corporation transnazionali che
operano nel settore dell’agribusiness, di speculatori, broker, trader, holding d’inve-

3. M. EDELMAN, «Messy Hectares: Questions about the Epistemology of Land Grabbing Data», Journal
of Peasant Studies, 40, 3, 2013, pp. 485-501.
4. T. BRUCKNER, «The Myth of the African Land Grab». Foreign Policy, 2015, accessibile su goo.gl/5T-
657H
5. J. BORRAS ET AL., «The Politics of Agro-Fuels and Mega-Land Deals: Insights from the Procana Case,
Mozambique», Review of African Political Economy, 38, 128, 2011, pp. 215-234.
6. Si veda L. COTULA, The Great African Land Grab: Agricultural Investments and the Global Food
System, London-New York 2013, Zedbooks.
7. Rising Global Interest in Farmland: Can it Yield Sustainable and Equitable Benefits?, Washington,
166 DC 2011, World Bank.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

stimento e grandi compagnie estrattive. Per non parlare della dimensione locale,
con élite nazionali e apparati militari che la gestiscono in modo patrimonialistico.

2. Sia la narrazione che legittima il land grabbing sia quella che vi si oppone
soffrono dunque di grossi limiti. La prima è vittima di una visione armonica dei
programmi di investimento, concepiti come portatori di occupazione, infrastruttu-
re e tecnologie. E pertanto tende a negare le nefaste conseguenze sociali e am-
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bientali di questi giganteschi interventi. La seconda, a sua volta, soffre di un’inter-


pretazione manichea dei processi di accaparramento della terra e costruisce la
sua trama sul dualismo tra capitale e piccoli produttori, sulla falsariga delle pre-
cedenti costruzioni binarie colonizzato-colonizzatore e carnefice-vittima. Ha inol-
tre il difetto di presentare il fenomeno come una novità, senza menzionare le
preesistenti fratture generazionali, di genere, di classe ed etniche nelle comunità
rurali. Lungi dall’essere un fenomeno nuovo, il land grabbing ha profonde radici
storiche che s’intrecciano con questioni come la schiavitù e il colonialismo.
La narrazione egemonica sul land grabbing tende a caratterizzarlo come una
«reazione» al rincaro dei prezzi dei beni agricoli di base da parte dei paesi emer-
genti – Cina, India, quelli del Golfo, ma non solo – non autosufficienti dal punto
di vista alimentare e con popolazioni in crescita. Tale aumento avrebbe spinto
questi attori a una corsa per aggiudicarsi il controllo di vaste aree di terra arabile.
Quest’interpretazione, che ha primeggiato nel panorama accademico 8, offre una
prospettiva epifenomenica del processo e ne ignora le ramificazioni storiche e la
portata sistemica 9. Il land grabbing va piuttosto visto come saldatura tra varie
crisi, da quelle finanziarie a quelle energetiche, fino a quelle alimentari 10. Philip
McMichael 11, per esempio, lo colloca all’interno delle più ampie trasformazioni
del regime alimentare internazionale, del crescente intervento del capitale finan-
ziario in quest’ambito, della «meatification» delle diete12 e dell’avvento dell’eco-
nomia delle biomasse.
Imprese monopoliste e potenze mondiali si fronteggiano così in una serrata
competizione geopolitica e geoeconomica per la terra e le risorse naturali africa-
ne, in una nuova manifestazione dello «scramble for Africa» 13. I suoi precedenti
vanno dai piani di aggiustamento strutturale alla finanziarizzazione delle econo-

8. L. COTULA ET AL., Land Grab or Development Opportunity? Agricultural Investment and Internatio-
nal Land Deals in Africa, London-Roma 2009, Iied/Fao/Ifad; Rising Global Interest in Farmland, cit.
9. G. MARTINIELLO, «Social Struggles in Uganda’s Acholiland: Understanding Resistance and Respon-
ses to Sugar Works», Journal of Peasant Studies, 42, 3-4, 2015, pp. 653-669.
10. Letture più sofisticate sono state prodotte nell’ambito dei Critical Agrarian Studies, si veda per
esempio J.S. BORRAS, J. FRANCO, op. cit.
11. P. MCMICHAEL, «The World Food Crises in World Historical Perspectives», Monthly Review , 61,
2009; P. MCMICHAEL, «Food Sovereignty, Social Reproduction and the Agrarian Question», in A. AK-
RAM-LODHI, C. KAY, (a cura di), Peasants and Globalization: Political Economy, Rural Transforma-
tion and the Agrarian Question, London-New York 2009, Routledge, pp. 288-312.
12. T. WEIS, «The Meat of the Global Food Crisis». Journal of Peasant Studies, 40, 1, 2013, pp. 65-85.
13. S. MOYO, P. YEROS, P. JHA, «Imperialism and Primitive Accumulation: Notes on the New Scramble
for Africa», Agrarian South: Journal of Political Economy, 1, 2, 2012, pp. 181-203. 167
IL ‘LAND GRABBING’ FRA MITO E REALTÀ

mie nazionali governata dal debito degli anni Ottanta; dalle privatizzazioni di
imprese statali e proprietà comunitarie alla silenziosa concentrazione di terra
nelle mani di capitale nazionale e straniero degli anni Novanta; dalle guerre per
procura nella regione dei Grandi Laghi agli interventi «umanitari» di ex potenze
coloniali in territori cruciali nello scacchiere geopolitico continentale (Costa d’A-
vorio e Libia) 14.
Dopo il decennio della monopotenza statunitense (1990-2001), il (dis)ordine
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mondiale si muove verso una fase caratterizzata da un accentuato scontro multi-


polare che spinge il mondo capitalistico verso un instabile caos sistemico 15. La
regione dei Grandi Laghi e l’Africa orientale in generale sono uno degli epicentri
di queste contraddizioni geopolitico-economiche. Qui si registra il più alto nume-
ro di acquisizioni di terra su larga scala 16, con un ventaglio di attori coinvolti che
va dai paesi occidentali ai Brics, più qualche altro emergente. Insieme, cresce la
militarizzazione dell’area, rubricata come «lotta al terrorismo», soprattutto per ma-
no di Africom, il comando regionale statunitense i cui contingenti sono dispiegati
in vari paesi (Uganda e Gibuti per fare un esempio).
Sarebbe tuttavia un grave errore ritenere il land grabbing un fenomeno che
riguarda esclusivamente il capitale estero. Troppo spesso si trascura il ruolo delle
élite e dei capitali nazionali, nonché l’esistenza di altri importanti attori e moventi
di carattere politico, che si servono delle appropriazioni di terra a fini strategici.
In particolare, occorre sondare il ruolo dello Stato nelle sue varie incarnazioni:
locali, regionali, nazionali. L’esempio proveniente dal distretto di Amuru in Ugan-
da menzionato in avvio rappresenta un punto d’ingresso privilegiato per dissoda-
re ulteriormente il terreno attorno al land grabbing.

3. In Uganda, tra il 2008 e il 2010 gli accaparramenti di terra su grande scala


per mano d’investitori stranieri hanno raggiunto il 14,6% dell’intera area coltiva-
bile. L’ondata di «enclosures» si è manifestata in varie forme: produzione di col-
ture (soia, riso, olio di palma e canna da zucchero) e di biocarburanti per l’e-
sportazione per mano di corporation transnazionali dell’agribusiness; allevamen-
to di bestiame da parte di imprenditori nazionali; riserve naturali e di caccia a
scopi turistici; schemi di conservazione o di afforestamento; appropriazioni ad
opera di alti ufficiali governativi e militari, soprattutto nelle aree di recente inte-
resse petrolifero nel Nord.
Per il governo e la classe politica nazionale, le vaste appropriazioni terriere
sono un modo per innescare vantaggi comparati nella produzione di beni selezio-
nati. Nonché per carpire le opportunità di guadagno del recente – ma congiuntu-
rale – rincaro del prezzo delle derrate agricole. Nel linguaggio governativo, le ac-

14. R. BUSH, G. MARTINIELLO, C. MERCER, «Humanitarian Imperialism», Review of African Political Eco-
nomy, 38, 129, 2010, pp. 357-365.
15. G. ARRIGHI, B. SILVER, Chaos e Governo del Mondo. Come cambiano le egemonie e gli squilibri
planetari, Milano 2003, Mondadori.
168 16. Land Matrix, accessibile su goo.gl/DV6NxC
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

quisizioni di terra promuovono occupazione, generano infrastrutture e gettito fi-


scale, mentre le dislocazioni e gli sgomberi che spesso ne derivano sono il prezzo
da pagare per garantire la modernizzazione agricola del paese. Nelle parole del
presidente ugandese Yoweri Museveni in un discorso del 2012: «Le iniziative agri-
cole su grande scala operate dall’agribusiness e da alcuni grandi e medi produttori
nazionali sono la via maestra per usufruire dei vantaggi offerti dall’attuale fase
economica. Ogni piantagione di canna da zucchero è un pozzo di petrolio» 17.
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In quest’ottica, l’allocazione di 40 mila ettari di terra nel distretto di Amuru


alla compagnia Kakira Sugar Works da parte del governo ugandese risponde a
un duplice scopo. Primo, stimolare un preciso modello di produzione e svilup-
po battendo il ferro dei vantaggi comparati finché caldo. Secondo, sfruttare il
monopolio della ripartizione della terra come modo per creare e mantenere
network clientelari politico-economici. Non è un caso che il distretto di Amuru
sia stato uno degli epicentri delle espropriazioni statali. Sfruttando l’assenza del-
la popolazione – internata in campi di accoglienza in seguito alla ventennale
guerra civile tra il National Resistance Movement, diverse formazioni ribelli e al-
tri movimenti politici di carattere etnico – il governo ha illegalmente allocato lar-
ghe porzioni di terra fertile a un gruppo ristretto di produttori commerciali, uffi-
ciali militari, leader politici e familiari.
La natura clientelare dell’accordo si evince anche da un’altra circostanza. Al
bando emesso dal governo ugandese per lo stabilimento della piantagione di
canna da zucchero e dei relativi impianti di raffinazione e produzione di bio-
massa o elettricità «verde» aveva risposto anche una compagnia canadese, la Ni-
lecan. L’offerta di quest’ultima era persino risultata migliore, sia dal punto di vi-
sta finanziario sia in termini di occupazione e impatto sulle popolazioni locali.
Ciononostante, il governo ugandese ha deciso di premiare la proposta della
Kakira Sugar Works, di proprietà del gruppo Madhvani, una corporation tran-
snazionale il cui portafoglio d’investimenti include settori quali energia, agribusi-
ness, turismo, costruzioni, assicurazioni.
Le motivazioni di questa scelta mettono in luce le relazioni preferenziali tra
lo Stato e la classe di affaristi di origine indiana residenti in Uganda – tra cui fi-
gura appunto il gruppo Madhvani. Insediatisi nella parte orientale e meridionale
del continente, insieme a migliaia di lavoratori migranti indiani nelle piantagioni
e nelle miniere, in epoca coloniale essi avevano giocato un ruolo fondamentale
nel lubrificare gli ingranaggi dell’estrazione di valore. La nascente classe mer-
cantile e poi proprietaria indiana si è consolidata nel periodo successivo all’indi-
pendenza, offrendosi non solo come intermediario chiave nelle transizioni com-
merciali, ma anche come partner privilegiato del governo nei settori agroalimen-
tare e manifatturiero 18.

17. Y. MUSEVENI, State of the Nation, Kampala 2012, Apertura della seconda sessione del nono parla-
mento.
18. M. MAMDANI, Politics and class formation in Uganda, New York-London 1976, Monthly Review
Press. 169
170
LAND GRABBING ERITREA
I primi 5 investitori SUDAN
in Africa orientale
Paese N’Djamena GIBUTI
investitore N° contratti ETIOPIA
India 24 CIAD
Regno Unito 15
n° contratti Finalità SOMALIA
Stati Uniti 14 n° contratti Finalità
10 5 Alimentare Addis Abeba
Arabia S. 11 57 41 Alimentare
Ettari 5 Legname
Canada 7 Ettari 12 Energia
4.091.453 1 Turismo
Fonte: Land Matrix 15 Legname
R E P. 884.710
SUD SUDAN 1 Conservazione
IL ‘LAND GRABBING’ FRA MITO E REALTÀ

NIG. C E N T R A F R I C A N A 2 Allevamento
CAMERUN n° contratti Finalità Giuba
Bangui 13 9 Alimentare
1 Energia
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Yaoundé Ettari
48.233 1 Industria
3 Non alimentare
UGANDA n° contratti Finalità Mogadiscio
G. E Q. 1 Allevamento 4 2 Alimentare
3 Legname Ettari 1 Allevamento
Libreville Kampala 28.387 2 Energia
C O N G O 1 Non alimentare
G A B O N R E P. D E M .
D E L C O N G O Kigali Nairobi O c e a n o
n° contratti Finalità RUANDA K E N Y A I n d i a n o
11 8 Alimentare BURUNDI
Ettari 4 Legname n° contratti Finalità
Brazzaville Bujumbura
2.760.356 2 Energia 3 1 Alimentare
T A N Z A N I A
Kinshasa 1 Non alimentare Ettari 1 Legname
Dodoma 21.130 1 Energia

n° contratti Finalità
26 17 Alimentare
O c e a n o
Ettari 3 Allevamento
A t l a n t i c o
234.533 10 Energia
3 Legname

A N G O L A Z A M B I A

M O Z A M B .
©Limes
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

Espulsi dall’Uganda nel 1972 dal dittatore Idi Amin Dada, che ne aveva
confiscato beni e proprietà, i Madhvani sono stati reintegrati a cavallo degli an-
ni Ottanta e Novanta con l’ascesa del National Resistance Movement di Muse-
veni. Assieme ad altre facoltose famiglie di affaristi, come i Mehta, hanno stret-
to forti rapporti con il nuovo presidente, finanziando generosamente le sue
campagne elettorali. Il patto fra regime e affaristi di origine indiana assicura il
sostegno politico dei secondi e, per certi versi, della comunità di lavoratori di
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origini asiatiche. In cambio, da quando Museveni è al potere, il governo ha


elargito 95 milioni di dollari – 68 milioni al gruppo Mehta e 27 al gruppo
Madhvani 19 – sotto forma di sostegno ad aziende operanti in settori strategici o
di strategie di riduzione della povertà.
Nel caso del distretto di Amuru, la politica delle prebende assolve a un’altra
funzione, squisitamente geopolitica. Kampala sembra sfruttare i network politico-
economici come strumento per consolidare il controllo e la sorveglianza sul
Nord del paese, una regione da sempre avversa alle mire espansive dello Stato,
quello coloniale prima e quello indipendente poi. La popolazione locale, gli
acholi, è infatti generalmente refrattaria ai tentativi del regime di integrarla nei
suoi network di patronage.

4. Al di là della natura fraudolenta dell’allocazione a Kakira Sugar Works dei


40 mila ettari nel distretto di Amuru, e dell’evidente carattere coloniale dell’inizia-
tiva – in affitto per 99 anni a costo zero – altri aspetti relativi alla natura contrat-
tuale dell’accordo meritano di essere messi in rilievo. Quello più intricato riguar-
da il colpevole silenzio sui termini dell’accesso alle acque del Nilo a fini d’irriga-
zione. Sul tema, i rapporti tra gli Stati rivieraschi sono già tesi: Etiopia – da cui
proviene l’85% delle risorse idriche del fiume 20 – Kenya, Tanzania e Uganda
contestano le quote di accesso alle acque del Nilo. Per di più, il governo di Kam-
pala promuove – in teoria per lo sviluppo agricolo del paese, in pratica per scopi
privati – forme di appropriazione e privatizzazione delle risorse idriche del paese
senza alcuna trasparenza.
Un altro spunto fornito dal caso di Kakira Sugar Works sono le contestazioni
e le mobilitazioni sociali innescate dal progetto tra le popolazioni locali. General-
mente percepite in termini omogenei e monocromatici, le comunità rurali tendo-
no invece a caratterizzarsi per le molteplici stratificazioni e differenziazioni sociali
che le animano. Nonostante la maggioranza della popolazione delle comunità di
Kololo e Lakang abbia rappresentato il nocciolo duro della resistenza al progetto,
una frazione di esse – costituita da piccoli amministratori locali, salariati urbani,
politici e imprenditori – ha invece cercato a tutti i costi un accordo. Potremmo
definirla un’élite rurale, povera di risorse monetarie e accesso al credito, che
svende la terra al primo offerente.
19. L.D. KIBIKYO, Assessing Privatization in Uganda, tesi di dottorato 2008, Roskilde University, Da-
nimarca.
20. Si veda Limes, accessibile su goo.gl/P43FSE 171
IL ‘LAND GRABBING’ FRA MITO E REALTÀ

La frattura all’interno delle comunità poggia su un’idiosincrasia interpreta-


tiva della questione «terra». Per molti, la terra comunitaria non è una merce. La
sua allocazione, nell’ambito dei sistemi fondiari tradizionali nel Nord dell’U-
ganda, non equivale a una cessione in termini di proprietà. Questo ovviamen-
te non significa che non esistano mercati fondiari «vernacolari», derivati cioè
della parziale commercializzazione e privatizzazione della terra. Piuttosto, la
questione mostra come il regime fondiario consuetudinario, per quanto domi-
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nato per molti versi da dinamiche patriarcali, rappresenti un elemento centrale


nelle strategie di sostentamento degli aggregati domestici rurali. Appartenere a
una comunità significa avere accesso alle risorse della terra, concepita come
un bene inalienabile. E un accesso sicuro alla terra, dopo la guerra civile e an-
ni di dipendenza dall’aiuto alimentare, rimane il modo migliore per permette-
re la riproduzione sociale delle comunità domestiche rurali ed evitare la mi-
grazione verso le città.
I conflitti che hanno animato le comunità e gli stessi aggregati domestici
dopo la guerra civile sono per certi versi legati a questa divergenza sulla di-
mensione ontologica della terra. La proprietà privata, infatti, rappresenta un
attacco al regime fondiario «tradizionale» perché mina alla base la sua funzione
sociale, culturale e politica di gestione e distribuzione della terra. Organismi
come la Banca mondiale hanno investito ingenti fondi in campagne mediati-
che e di sensibilizzazione sulla formalizzazione dei diritti di proprietà terriera
e sul suo ruolo nello sviluppo rurale. L’economista peruviano Hernando de
Soto sostiene che sia la mancanza di rappresentazione formale della terra a
impedire al capitalismo di svilupparsi nei paesi del Sud del mondo 21. Secondo
de Soto, l’assenza di titoli formali di proprietà dissuade gli investimenti rurali
del capitale finanziario e limita la generazione di credito rurale. Alla proprietà
privata, questa narrazione ascrive il potere magico di «riportare la vita» in «un
bene defunto».
Teorie a parte, la maggior parte dei poveri rurali in Uganda sembra predi-
ligere il regime fondiario tradizionale, visto come unico strumento per garanti-
re sicurezza sociale in un precario contesto post-guerra civile. Nel distretto di
Amuru, per esempio, il regime fondiario tradizionale garantisce accesso alla
terra al 98% della popolazione. L’emissione di titoli di proprietà formali sulla
terra si tradurrebbe, secondo Tim Mitchell della Columbia University, in un
trasferimento di ricchezza dalle classi meno abbienti a quelle proprietarie 22. Il
noto africanista Mahmood Mamdani 23 ha messo in luce come le riforme e le
appropriazioni della terra in Uganda rappresentino solo un momento nella

21. H. DE SOTO, The Mystery of Capital: Why Capitalism Triumphs in the West and Fails Everywhere
Else, London 2000, Black Swan.
22. T. MITCHELL, «The Properties of Markets», in D. MACKENZIE ET AL., Do Economists Make Markets?
On the performativity of Economics, Princeton 2007, Princeton University Press, pp. 244-275.
23. M. MAMDANI, «The Contemporary Ugandan Discourse on Customary Tenure: Some Historical And
Theoretical Considerations», paper presentato al Workshop «The Land Question: Socialism, Capitali-
172 sm and the Market», organizzato dal Makerere Institute of Social Research, Kampala 9-10/8/2012.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

lunga strategia dello Stato coloniale prima e di quello nazionale poi di coloniz-
zare la società ed estendere la logica del Buganda Agreement a tutto il paese 24.
Il discorso dello Stato ugandese sulla terra reitera gli argomenti usati per
giustificare il land grabbing a livello internazionale. Kampala caratterizza la
terra come vuota, non utilizzata o scarsamente utilizzata e si attribuisce il po-
tere di espropriarla. I dispositivi e le tecnologie del potere combinano vecchie
e nuove strategie (post)coloniali di divide et impera e di «define and rule» (de-
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finisci e governa). Nel caso di Amuru, nonostante l’area fosse stata da sempre
abitata da popolazioni acholi, lo Stato centrale l’ha definita di sua proprietà,
venendo persino suffragato dal dibattimento processuale. Nell’ultimo grado di
giudizio, infatti, si è sostenuto che la terra in oggetto, in quanto vuota e non
messa a valore, può essere espropriata dallo Stato a fini di sviluppo, se que-
st’ultimo lo ritiene necessario.
Per stemperare l’avversione al progetto, il regime di Museveni ha spesso
elargito doni ai giovani sotto forma di alcool e tabacco, nel tentativo di coopta-
re i segmenti sociali che si erano dichiarati contrari all’instaurazione della pian-
tagione in luogo delle loro piccole unità di agricoltura familiare. Quanto alle
comunità rurali di Kololo e Lakang, hanno combinato differenti strategie di lot-
ta: legali, simboliche, pacifiche, ma anche proteste e altre forme di organizza-
zione militante volte a mobilitare il consenso della società civile. Riuscendo, in-
fine, a impedire l’attuazione del progetto.
Alla luce dei successi delle mobilitazioni rurali, il prisma delle lotte di resi-
stenza consente di refutare le letture unilineari delle trasformazioni agrarie in-
nescate dal land grabbing e di costruire analisi delle traiettorie e delle politiche
di sviluppo rurale partendo dal basso. Tale affrancamento porta al centro della
questione la geopolitica della terra. Se, come suggeriamo, essa rappresenta il
terreno di lotta sulle norme e sulle regole che gestiscono il controllo, l’alloca-
zione, la produzione e l’uso delle risorse naturali, e sui valori e le idee che la
governano, allora la politica delle comunità rurali incorpora le tensioni che de-
rivano dall’accettazione o contestazione di queste idee e norme25. Per arrivare
a una più approfondita interpretazione del processo – oltre a realizzare come
l’appropriazione della terra sia spesso impiegata dalle élite nazionali a scopi
politici – è dunque necessario estendere lo studio del land grabbing oltre il pe-
rimetro della politica o dell’economia convenzionale. E sondare il terreno opa-
co e spesso sotterraneo delle lotte ordinarie e quotidiane delle comunità rurali,
dall’aggregato domestico al villaggio.

24. Nel 1900, tramite il Buganda Agreement il potere coloniale inglese, in ottemperanza al principio
dell’Indirect Rule, concesse ai capi tribali in proprietà privata tremila miglia quadrate di terra, crean-
do per la prima volta nella storia della regione una classe di notabili locali.
25. B.J.T. KERKVLIET, «Everyday Politics In Peasant Societies (and Ours)», Journal of Peasant Studies,
36, 1, 2009, pp. 227-243. 173
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

PERCHÉ LA CINA
PUNTA ANCORA
SULL’AFRICA di Giorgio CUSCITO
Malgrado il rallentamento economico, la Repubblica Popolare vuole
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consolidare la sua presenza nel continente africano. Energia,


agricoltura e sicurezza le priorità. I numeri dell’avanzata. Il mito
del land grabbing va sfatato.

1. L’
AFRICA CONTINUERÀ A RIVESTIRE UN
ruolo fondamentale nei piani della Repubblica Popolare Cinese. Questo è emer-
so dal Forum per la cooperazione Cina-Africa (noto con l’acronimo inglese Fo-
cac) svoltosi a Johannesburg, in Sudafrica, tra il 4 e il 5 dicembre.
Il presidente cinese Xi Jinping ha messo in chiaro quali saranno i cinque
pilastri delle relazioni sino-africane 1 nei prossimi anni: insistere sull’uguaglian-
za politica e la fiducia reciproca; consolidare la cooperazione economica win-
win; proseguire con gli scambi culturali; aiutarsi reciprocamente nel settore
della sicurezza; consolidare l’unità e la coordinazione negli affari internazionali;
difendere gli interessi comuni.
In sostanza, Xi ha voluto rinforzare i princìpi cardine 2 formalizzati per la pri-
ma volta durante il forum del 2006 e su cui si basa la crescita del commercio e
degli investimenti cinesi nel continente nero. Questi, descritti all’epoca in un do-
cumento intitolato «La politica della Cina in Africa» 3, includono anche l’imprescin-
dibile rispetto della politica «una sola Cina» 4 e del principio di non ingerenza ne-
gli affari interni degli altri Stati. Quest’ultimo consente all’Impero del Centro di fa-
re affari senza affrontare con i partner questioni legate al rispetto dei diritti uma-
ni, in patria come in Africa.

1. «Xi Jinping chuxi Zhong Fei hezuo luntan Yuehanneisibao fenghui kaimu shi bing fabiao zhici»
(«Xi Jinping partecipa alla cerimonia di apertura del summit di Johannesburg del Forum per la coo-
perazione Cina-Africa e pronuncia un discorso»), goo.gl/eHXMF3
2. «Declaration of the Beijing Summit of the Forum on China-Africa Cooperation», 5/11/2006,
goo.gl/1jBA98
3. «China’s African Policy», Focac, 12/1/2006, goo.gl/Pc8HL2
4. «White Paper – The One-China Principle and the Taiwan Issue», Ambasciata della Repubblica Po-
polare Cinese negli Stati Uniti d’America. 175
PERCHÉ LA CINA PUNTA ANCORA SULL’AFRICA

A quindici anni della creazione del forum, la Cina ha divulgato un secondo


paper 5 e ha rilanciato il sodalizio con i paesi africani. Analizziamo i risultati del
summit.

2. A ottobre, il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha detto 6 che il crol-


lo dei prezzi delle materie prime, la volatilità dei mercati emergenti e il rallen-
tamento economico registrato dalla Repubblica Popolare potrebbero frenare le
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economie dell’Africa subsahariana, il cui tasso di crescita del pil nel 2016 pas-
serebbe dal 5 al 4,3%.
Ciò è un problema soprattutto per gli Stati del continente che puntano sul-
l’export di idrocarburi. Si aggiunga che in paesi come Zambia, Uganda e Ango-
la, gli accordi che prevedono la vendita del petrolio africano in cambio di in-
frastrutture cinesi sta creando crisi di liquidità 7.
Eppure, durante il forum, Xi ha annunciato 8 che la Cina fornirà 60 miliardi
di dollari per l’attuazione di dieci grandi progetti di cooperazione con l’Africa
da attuare nei prossimi tre anni. Questi dovrebbero riguardare diversi settori:
industrializzazione, modernizzazione dell’agricoltura, infrastrutture, servizi fi-
nanziari, energia sostenibile, commercio, agevolazione degli investimenti, ridu-
zione della povertà, welfare pubblico, sanità, scambi culturali, pace e sicurezza.
La cifra messa a disposizione da Pechino comprenderà 5 miliardi in sovvenzio-
ni e prestiti senza interessi, 35 miliardi di prestiti preferenziali e crediti all’e-
sportazione, 5 miliardi di credito aggiuntivo per il Fondo per lo sviluppo Cina-
Africa, 5 miliardi per il Prestito speciale per lo sviluppo delle piccole e medie
imprese africane, 10 miliardi come capitale iniziale di un Fondo di cooperazio-
ne Cina-Africa per la capacità produttiva. Nel documento pubblicato durante il
forum, l’industrializzazione figura come primo argomento nella sezione sul mi-
glioramento della cooperazione sino-africana. Il termine non era presente nel
rapporto del 2006.
La Cina è il maggior partner commerciale 9 dell’Africa e con essa ha scam-
biato beni per un valore di 220 miliardi di dollari nel 2014. Pechino importa dal
continente africano grandi quantità di petrolio e gas, vi costruisce infrastrutture
a basso costo (strade, ferrovie, edifici) e vi esporta prodotti manifatturieri di
scarsa qualità.
Negli ultimi vent’anni, oltre un milione di cinesi 10 – per lo più operai e com-
mercianti – si sono trasferiti in Africa. La manodopera locale è largamente impie-
gata dalle aziende della Repubblica Popolare, anche se le cariche dirigenziali so-

5. «Full Text: China’s Second Africa Policy Paper», Xinhua, 4/12/2015.


6. A. ENGLAND, «African Growth Feels the Strain from China’s Slowdown», Financial Times,
27/10/2015.
7. E. OLANDER, «FOCAC 6: This Time It’s Different», ChinaAfrica Project, 17/11/2015.
8. «Xi Ushers in New Chapter for China-Africa Relations», Xinhua, 5/12/2015.
9. «China-Africa Cooperation in Numbers», Xinhua, 4/12/2015.
10. «One among many – China has become big in Africa. Now for the backlash», The Economist,
176 17/1/2015.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

no solitamente riservate ai cinesi. Un sondaggio 11 effettuato dall’Institute for


Emerging Market Studies di Hong Kong su un campione di 400 aziende cinesi at-
tive in 40 paesi africani ha rilevato che oltre l’80% dei lavoratori sono locali.
Nonostante le impressionanti cifre legate al commercio, la Cina non è il prin-
cipale investitore in Africa. Questo primato è detenuto al momento dagli Usa, se-
guiti dal Regno Unito. In questa speciale classifica la Cina è solo settima 12.
Gli investimenti diretti esteri (Ide) della Repubblica Popolare in Africa han-
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no raggiunto in totale i 30 miliardi di dollari in termini di stock 13, circa sessanta


volte quelli del 2000. Tra il 2009 e il 2012 sono cresciuti del 20,5% 14, ma hanno
rappresentato 15 solo il 3% degli Ide totali diretti in Africa. Il settore minerario è
senza dubbio quello in cui la Cina investe di più (30,6% nel 2011), seguito dal-
la finanza (19,5%), dalle infrastrutture (16,4%) e dall’industria manifatturiera
(15,3%) 16.
Ad oggi, oltre 3 mila imprese 17 cinesi risultano attive in Africa. Pechino ha
costruito qui circa 600 mila chilometri di ferrovie e 4.500 chilometri di strade. Tra
il 1998 e il 2012, i paesi africani con cui la Cina ha avviato il maggior numero di
progetti sono (nell’ordine) Nigeria, Sudafrica (primo partner commerciale cinese
nella regione), Zambia, Etiopia, Egitto, Repubblica Democratica del Congo, Gha-
na, Angola e Zimbabwe 18.
Prima del summit Focac, Xi Jinping ha avuto un cordiale incontro con il pre-
sidente dello Zimbabwe Robert Mugabe 19, uno dei dittatori africani più aspra-
mente criticati in Occidente. La Cina è il più grande importatore di tabacco dal
paese e vi investe in infrastrutture, estrazione mineraria e manifattura.
Mugabe ha recentemente vinto il premio Confucio per la pace. Si tratta di
una sorta di risposta al premio Nobel, rilasciato da un ente non governativo di
base a Hong Kong e assegnato per la prima volta nel 2010. Proprio quell’anno il
Nobel andò a Liu Xiaobo, dissidente cinese imprigionato nella Repubblica Popo-
lare. Secondo Qiao Wei, a capo della commissione che assegna il premio Confu-
cio, Mugabe ha ottenuto il riconoscimento perché «ha tentato di stabilizzare la
politica e l’economia del paese da quando esso è stato fondato. Ha portato bene-
fici al popolo dello Zimbabwe». Prima di lui, anche Fidel Castro e Vladimir Putin
avevano vinto il premio, ma Mugabe lo ha rifiutato dopo aver saputo che non
proveniva dal governo cinese.
11. B. SAUTMAN, Y. HAIRONG, Localizing Chinese Enterprises in Africa: from Myths to Policies, Institute
for Emerging Markets Studies, Thought Leadership Brief, n. 5, febbraio 2015.
12. Africa 2015 – Making Choices, EY’s Attractiveness Survey, Emerging Markets Center.
13. «China-Africa Cooperation in Numbers», Xinhua, 4/12/2015.
14. «Zhongguo yu Feizhou de jingmao hezuo (2013) baipishu» («Libro bianco sulla cooperazione
commerciale tra Cina e Africa (2013)», goo.gl/nECcTo
15. W. CHEN, D. DOLLAR, H. TANG, Why is China Investing in Africa? Evidence from the Firm Level,
Brookings Institution, agosto 2015.
16. Vedi nota 14
17. «China-Africa Cooperation in Numbers», cit.
18. W. CHEN, D. DOLLAR, H. TANG, op. cit.
19. «Robert Mugabe Greets China’s Xi Jinping as “True and Dear Friend” of Zimbabwe», The
Guardian, 2/12/2015. 177
PERCHÉ LA CINA PUNTA ANCORA SULL’AFRICA

3. In Africa, la Cina vuole anche consolidare il suo soft power. Per questo
lancerà duecento progetti per la riduzione della povertà incentrati su donne e
bambini e cancellerà i debiti in forma di prestiti governativi a tasso zero contratti
dai paesi africani meno sviluppati, che matureranno a fine 2015. Pechino offrirà a
duemila studenti africani l’opportunità di conseguire diplomi e lauree e trentami-
la borse di studio governative. Inoltre, ogni anno inviterà dal continente duecen-
to ricercatori e cinquecento studenti e formerà mille professionisti nel settore del-
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la comunicazione.
Secondo sondaggi effettuati (rispettivamente) dal Pew Research Center 20 e
dalla Bbc 21, l’Africa è il continente in cui la Cina riscuote più consenso al mon-
do. Questo dato dipende probabilmente dall’aumento del commercio e degli in-
vestimenti dell’Impero del Centro nel continente. Tuttavia, secondo un’analisi di
AidData 22 (un progetto di ricerca americano che monitora l’assistenza allo svilup-
po), la China Development Bank, la China Export-Import Bank e le ambasciate
della Repubblica Popolare non godono di grande credibilità nei paesi a basso e
medio reddito. In una classifica di 86 istituzioni finanziarie di sviluppo bilaterali e
multilaterali, la prima si è classificata 75a, la seconda 59a e le ambasciate al 70°
posto in termini di «utilità della consulenza politica».
Invero, questo dato non è molto significativo. In virtù del principio di non
ingerenza, Pechino non ha tra i suoi obiettivi principali offrire «consulenza politi-
ca». Dal medesimo documento si evince peraltro che il numero di quanti hanno
espresso un’opinione sugli enti cinesi rispetto al totale degli intervistati è molto
basso e che nella classifica dei soggetti più utili nel campo della consulenza
commerciale le ambasciate cinesi sono seconde solo alla Banca mondiale.
In termini di assistenza estera 23 (aiuti, prestiti senza interessi, prestiti agevo-
lati), tra il 2010 e il 2012 la Cina ha speso globalmente 14 miliardi di dollari, di
cui il 50% è stato destinato all’Africa.

4. Al forum, Pechino ha annunciato che condurrà progetti per lo sviluppo


dell’agricoltura in cento villaggi africani per «migliorare gli standard di vita nelle
campagne», invierà trenta squadre di esperti del settore e svilupperà un meccani-
smo di cooperazione tra istituti ricerca cinesi e africani.
Nel settore della sicurezza alimentare Cina e Africa possono essere comple-
mentari. La Repubblica Popolare è abitata dal 22% della popolazione mondiale
(1,4 miliardi di abitanti), ma possiede solo il 7% delle terre coltivabili del pianeta.
La cifra è destinata a scendere nei prossimi anni, a causa dell’erosione del suolo,
della deforestazione e dell’inquinamento di fiumi e laghi. Secondo Pechino, il
40% delle terre coltivabili cinesi si è degradato.
20. R. WIKE, B. STOKES, J. POUSHTER, «Views of China and the Global Balance of Power», Pew Re-
search Center Global Attitudes & Trends, 23/6/2015.
21. «Negative Views of Russia on the Rise: Global Poll», BBC World, 3/6/2014.
22. «Listening to Leaders: Which Development Partners Do They Prefer and Why», AidData, 2015,
goo.gl/bLLSM3
178 23. «China’s Foreign Aid», Xinhua, 10/7/2014.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

L’Africa ha potenzialmente grandi risorse alimentari, eppure la Fao ha stima-


to 24 che qui circa 220 milioni di persone sono sottoalimentate. L’Impero del Cen-
tro può fornire ai paesi africani tecnologia, know-how e finanziamenti necessari
per aumentare la produttività e ridurre il numero di affamati. Inoltre, i prodotti
agricoli africani potrebbero in futuro svolgere un ruolo importante nel soddisfaci-
mento del fabbisogno alimentare cinese.
Negli ultimi anni, la Cina è stata accusata in più occasioni di attuare in Africa
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il cosiddetto land grabbing, ovvero l’accaparramento di terre coltivabili. Questa


convinzione, alimentata soprattutto dai media, dovrebbe essere riveduta.
È vero che Pechino qui compra e affitta appezzamenti di terra, ma i dati affi-
dabili sono scarsi e non vi sono prove sufficienti per dimostrare che si tratti di
un’attività su larga scala volta alla vendita di prodotti alimentari in Cina. Secondo
uno studio 25 condotto da Deborah Brautigam, direttore della China Africa Re-
search Initiative presso la Johns Hopkins University, tra il 1987 e il 2014 gli inve-
stitori cinesi avrebbero acquisito solo 240 mila ettari dei sei milioni stimati prece-
dentemente. Infatti, solo 38 dei 60 accordi annunciati sono stati portati a compi-
mento. La maggior parte di essi non ha riguardato la bonifica di terreni da colti-
vare per poi esportarne i prodotti in Cina, ma la privatizzazione di risorse e pian-
tagioni di proprietà statale. In larga misura tali investimenti si concentrano in Mo-
zambico, Camerun ed Etiopia.
Nel 2014 la Cina ha importato dall’Africa subsahariana prodotti agricoli per
un totale di 2,9 miliardi di dollari 26.

5. La Cina fornirà all’Unione Africana (Ua) 60 miliardi di dollari in aiuti per


sostenere la creazione e l’attività dell’African Stanby Force (le forze di peacekee-
ping africane) e dell’African Capacity for the Immediate Response to Crisis.
Pechino è particolarmente presente in Africa nell’ambito delle missioni
Onu: con 3 mila unità è il nono fornitore di militari e forze di polizia per le
operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite 27. Tuttavia, in questa speciale
classifica (guidata dal Bangladesh con 8.420 unità) precede di gran lunga gli al-
tri membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu: Francia (912), Re-
gno Unito (291), Russia (81) e Stati Uniti (79). Le missioni cui i cinesi partecipa-
no con maggiore intensità sono Minusma (Mali, 402 unità), Monusco (Repub-
blica Democratica del Congo, 226), Unifil (Libano, 418 unità), Unmil (Liberia,
672), Unmiss (Sud Sudan, 1.070 unità). Tuttavia, la Cina è solo sesta nella clas-
sifica dei principali finanziatori delle missioni di peacekeeping. Usa, Giappone
e Francia sono i primi tre 28.

24. Regional Overview of Food Insecurity: Africa, Fao, 2015.


25. C. ARSENAULT, «Chinese Firms Buy, Lease Far Less African Farmland than Thought – Book»,
12/10/2015.
26. Ibidem.
27. «Ranking of Military and Police Contributions to UN Operations», Onu, 30/9/2015.
28. «Financing Peacekeeping», United Nations Peacekeeping, Onu. 179
PERCHÉ LA CINA PUNTA ANCORA SULL’AFRICA

Il 28 settembre scorso Xi Jinping ha promesso che i cinesi con il casco blu


diventeranno 8 mila 29. In più, ha annunciato 30 la creazione di un fondo «per la
pace e lo sviluppo» di sostegno al lavoro delle Nazioni Unite dotato di un miliar-
do di dollari per i prossimi dieci anni. La Cina sta discutendo 31 con il Gibuti la
creazione di una base militare nello Stato africano alle porte dello Stretto di Båb
al-Mandab, nello strategico Corno d’Africa, dove la Repubblica Popolare è impe-
gnata nell’attività di pattugliamento antipirateria.
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Pechino starebbe pianificando 32 anche la costruzione di una base navale


nella Baia di Walvis, in Namibia. Se così fosse, acquisirebbe un punto di osserva-
zione strategico sull’Oceano Atlantico.
L’aumento delle minacce terroristiche in Africa potrebbe spingere la Cina
a consolidarvi la sua presenza militare e diplomatica. Per ora il paese combat-
te il jihadismo solo nell’instabile regione dello Xinjiang, patria della minoranza
etnica degli uiguri, musulmani di lingua turcofona, le cui frange estremiste
avrebbero condotto attentati in tutto il paese. Eppure, l’uccisione di un cine-
se 33 ad opera dello Stato Islamico e il recente attentato di Bamako in Mali, in
cui sono morti altri tre cinesi, evidenziano che Pechino non potrà astenersi a
lungo dallo svolgere un ruolo più attivo nella lotta al terrorismo fuori dai pro-
pri confini. Non solo per tutelare gli interessi economici, ma anche la vita dei
propri cittadini.

6. Come confermato al forum, l’Africa fa parte del progetto infrastrutturale e


commerciale «una cintura, una via» (yi dai, yi lu) ideato dal presidente cinese Xi
Jinping. Questo è composto dalla nuova via della seta e dalla via marittima della
seta del XXI secolo, che di fatto servono a consolidare la presenza economica,
politica e culturale cinese nel resto del mondo.
La seconda rotta, nella versione originaria, parte dalla provincia del Fujian,
passa per lo Stretto di Malacca, per l’India, per il Kenya e poi s’immette nel Mar
Mediterraneo. Le potenzialità e le diramazioni del grande progetto voluto da Xi
sono molteplici. Lo scorso gennaio, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha vi-
sitato il Kenya e ha annunciato un accordo da 3,8 miliardi di dollari per la costru-
zione di una ferrovia che colleghi la capitale Nairobi a Mombasa, città che si af-
faccia sull’Oceano Indiano e ospita il più grande porto keniano 34. Si tratta del
primo passo per la realizzazione di una rotta che dovrebbe poi collegare anche
Uganda, Ruanda, Burundi e Sud Sudan.

29. M. MARTINA, D, BRUNNSTROM, «China’s Xi Says to Commit 8,000 Troops for U.N. Peacekeeping
Force», Reuters, 29/9/2015.
30. J. PAGE, «China to Create $1 Billion Fund to Support U.N.», The Wall Street Journal, 28/9/2015.
31. «China Military in Talks for Logistics “Facilities” in Djibouti», Reuters, 26/11/2015.
32. R.C. O’BRIEN, «China’s Next Move: A Naval Base in the South Atlantic?», 25/3/2015.
33. J.C. HERNÁNDEZ, «Chinese Citizen Held by ISIS Poses Test for Beijing», The New York Times,
10/9/2015.
180 34. «China to Build Railway Linking East Africa», Aljazeera, 12/5/2014.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

Inoltre, durante il Focac la Cina ha accolto con favore la partecipazione di


Gibuti al progetto delle vie della seta 35. Alla luce della costruzione della base nel
Corno d’Africa, non bisogna sottovalutare la dimensione militare delle strategie
globali di Xi Jinping, in procinto peraltro di riformare le Forze armate cinesi.
I dubbi 36 circa gli effetti del rallentamento economico cinese sui rapporti tra
Cina e Africa permangono. In ogni caso, il continente africano rientra ormai pie-
namente nei piani di Pechino, non più solo per ragioni di natura energetica.
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35. «China Welcomes Djibouti’s Participation in Developing Maritime Silk Road», GlobalPost,
3/12/2015.
36. E. OLANDER, K. BOSIELO, H. HONGXIANG, Y.-S. WU, «Will China’s Slowing Economy Derail Its Africa
Strategy?», Foreign Policy, 2/12/2015. 181
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

IL DEBITO TORNA
A MINACCIARE
LO SVILUPPO AFRICANO di Paolo RAIMONDI
L’Africa si finanzia sempre più emettendo obbligazioni pubbliche e
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private. Ma così facendo si espone alla volatilità e alle manipolazioni


geofinanziarie. Prezzi delle materie prime, tassi di cambio e tassi
d’interesse i fattori che possono rendere insolventi i governi.

1. L
E STATISTICHE DICONO CHE L’AFRICA
è il continente che cresce di più nel pianeta. Tuttavia, il suo debito aggregato –
quello di governi, imprese e famiglie – cresce a un ritmo ancora maggiore. Quel-
lo dell’indebitamento è un capitolo delicato, nonché storicamente doloroso, per
l’Africa: dagli anni Ottanta fino alle cancellazioni d’inizio millennio, il continente
ha già vissuto una devastante e lunghissima crisi del debito, un fattore determi-
nante del sottosviluppo e delle carestie. Nella gestione di questo particolare
aspetto finanziario si sono verificati negli ultimi anni almeno tre cambiamenti che
meritano un’attenta disamina, anche perché le nuove tendenze possono provo-
care effetti dirompenti, se non addirittura una nuova crisi.
In primo luogo, i creditori ufficiali (governi, Fondo monetario internazionale,
Banca mondiale e Banca africana per lo sviluppo) sono stati sostituiti da fonti
private (banche, fondi di investimenti, fondi di private equity). In secondo luogo,
i prestiti tradizionali e altre forme consolidate di assistenza finanziaria sono stati
soppiantati da obbligazioni pubbliche e private che competono sul libero merca-
to. In terzo luogo, il debitore africano non è più soltanto il governo, ma anche
l’impresa, che dà origine al cosiddetto corporate debt: sono infatti in aumento le
grandi compagnie africane – per esempio in Etiopia, Mozambico, Nigeria e Suda-
frica – che emettono obbligazioni per raccogliere nuovi capitali. Vi sarebbe poi
una quarta tendenza, in verità non nuova, ossia la denominazione delle obbliga-
zioni e del debito in generale in valute internazionali: dollari, principalmente, ma
anche euro. Osserviamo nel dettaglio questi sviluppi.

2. Nel 2000, i paesi dell’Africa subsahariana dovevano in totale ai creditori uf-


ficiali 130 miliardi di dollari, mentre oggi il dato raggiunge i 150 miliardi: una cre-
scita apparentemente controllata. Il debito dovuto ai creditori privati, invece, è 183
IL DEBITO TORNA A MINACCIARE LO SVILUPPO AFRICANO

cresciuto dai 30 miliardi del 2010 ai circa 160 miliardi del 2015: più di cinque vol-
te in cinque anni (grafico). L’accelerazione è avvenuta a partire dal 2009, quando
l’Africa subsahariana ha emesso nuove obbligazioni pubbliche e private per 5 mi-
liardi. Nel 2013 le nuove obbligazioni ammontavano a 14 miliardi, nel 2014 a 20.
Di conseguenza, il rapporto debito totale/pil è aumentato notevolmente: nel
2008 era inferiore al 30%, ma alla fine del 2014 i prestiti di medio e lungo termi-
ne sui mercati internazionali hanno superato il 50% del pil e in alcuni Stati si ag-
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girano intorno al 70%. Dalla metà del 2009 alla metà del 2015, il debito pubblico
africano è mediamente aumentato di 2,6 volte, mentre nello stesso periodo nei
paesi in via di sviluppo in generale è cresciuto di 2,3 volte.
Le analisi del 2012 della Banca mondiale su Ghana, Uganda, Senegal, Niger,
Malawi, Benin, Mozambico e São Tomé e Príncipe sottolineano che questi paesi
– che dopo la cancellazione dei debiti hanno sempre più attinto alle nuove for-
me di prestito – potrebbero ricadere in meno di un decennio nella stessa, inso-
stenibile situazione precedente alla moratoria d’inizio millennio. Una delle ragio-
ni è proprio il fatto che i rispettivi governi sono costretti a pagare tassi di interes-
se sempre più alti per le obbligazioni denominate in valuta estera.
Un rapporto debito/pil intorno al 50% può apparire accettabile, se paragona-
to con quello statunitense (105%), quello medio dell’Unione Europea (90%) o
quello italiano (135%). Tuttavia, il suo tasso di crescita desta grande preoccupa-
zione – tant’è vero che nel maggio 2014 l’Fmi ha ammonito i governi africani.
Negli ultimi anni, il debito era stato controbilanciato e contenuto da una crescita
del pil mediamente sostenuta e durante lo scorso decennio i bilanci subsahariani
erano nel complesso in surplus. Ma ora all’orizzonte si affaccia lo spettro del de-
ficit, dovuto al fatto che i governi hanno mantenuto elevata la spesa per salari,
sussidi e infrastrutture, nonostante la diminuzione degli introiti dovuta al calo dei
prezzi delle materie prime. In sé, il debito non sarebbe nemmeno un problema,
se fosse usato per promuovere lo sviluppo reale delle infrastrutture e dei settori
agroindustriali e sociali. Diventa un fardello insostenibile se, crescendo a ritmi
troppo veloci, viene utilizzato per finanziare le spese correnti, le spese militari, le
guerre e la corruzione. In tali circostanze, il pagamento di una quota crescente di
interessi «cannibalizza» tutte le entrate e l’intero budget.

3. Secondo la Banca di sviluppo africana, entro il 2040 il continente avrebbe


bisogno di investimenti in infrastrutture per 360 miliardi di dollari. Per finanziare
queste spese è partita un’accesa competizione globale fra le più svariate fonti di
capitale. In questo processo le obbligazioni sovrane sono diventate un’alternativa
alla vecchia politica dei prestiti concessi dai paesi donatori. Le obbligazioni so-
vrane africane (Sudafrica compreso) costituiscono una fetta sempre più impor-
tante del debito totale dei paesi in via di sviluppo: nell’ultimo decennio, la quota
è quadruplicata dall’1 al 4%.
In assenza di risparmio interno e di corrette politiche governative orientate
184 al credito produttivo e allo sviluppo, l’Africa dipende sempre più dai capitali in-
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

ternazionali, che operano prevalentemente in dollari. Questa dinamica ha preso


in contropiede pure Standard & Poor’s. L’agenzia di rating prevedeva, infatti, che
nel 2014 almeno 17 paesi subsahariani avrebbero raccolto sui mercati interni
l’80% dei prestiti commerciali. Oggi, invece, sono solo poco più di una dozzina i
mercati africani che offrono obbligazioni in valuta locale. E comunque la mag-
gioranza di essi non possiede le dimensioni, la liquidità, la stabilità monetaria e
le prospettive di profitto necessarie ad attirare investitori internazionali.
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Il drastico e generalizzato abbassamento dei tassi di interesse nel mondo


occidentale ha spinto molti investitori, e anche molti speculatori, alla ricerca di
nuovi mercati e di rendimenti più alti, anche se più rischiosi. Grazie a questo
fenomeno, diversi paesi africani hanno avuto accesso per la prima volta al mer-
cato obbligazionario in valuta straniera. Uno sviluppo presentato come un’otti-
ma opportunità per racimolare i grandi investimenti nelle infrastrutture del con-
tinente. Oggi, tuttavia, bisogna monitorare attentamente questi processi. La ca-
duta dei prezzi delle materie prime, la svalutazione delle valute nazionali ri-
spetto al dollaro e all’euro e l’inevitabile risalita dei tassi di interesse statuniten-
si si scontreranno, in Africa, con la crescita del debito e con il conseguente au-
mento del rischio.
Il debito delle imprese è quasi completamente denominato in dollari e quindi
ostaggio delle fluttuazioni monetarie. E il debito pubblico, benché emesso in di-
verse valute, è sotto pressione. Di recente, alcuni paesi in difficoltà, tra cui Ghana
e Mozambico, sono stati costretti a denominare le obbligazioni pubbliche soltanto
in dollari per trovare acquirenti, e non più nelle divise locali. L’Uganda invece si è
rifiutata di emettere titoli in valuta americana: secondo le autorità monetarie di
Kampala, una gestione non attenta del debito potrebbe trasformare l’operazione
in un pesante fardello, qualora cambino le tendenze dell’economia mondiale.
Fintanto che i tassi d’interesse nel mondo occidentale rasentano lo zero, i
mercati continueranno a essere attratti dalle obbligazioni pubbliche e private
africane. Il 2013 e il 2014 sono stati anni d’oro per le emissioni di titoli in valuta
estera sui mercati internazionali. Alla sua prima emissione di bonds da 400 mi-
lioni di dollari, persino il Ruanda, che versa in una grave crisi politica, ha trova-
to compratori a Bnp Paribas e Citigroup. Il Senegal e la Costa d’Avorio hanno
piazzato senza problemi obbligazioni per un totale di un miliardo di dollari. I 2
miliardi di titoli keniani avevano compratori per un valore quadruplo. Persino il
Ghana, nonostante l’alto debito e una moneta instabile, non ha avuto difficoltà
a trovare acquirenti per il suo miliardo di euro in obbligazioni con un rendi-
mento del 4,71% e la B affibbiata da Standard & Poor’s. I bonds dello Zambia
hanno raccolto 750 milioni con un rendimento del 5,6% e un rating B. La Nige-
ria ha in programma una serie di emissioni, di cui una da un miliardo di dollari
anche per i nigeriani della diaspora. La Tanzania ha incaricato l’americana Citi-
group di aiutarla a ottenere un rating affidabile per emettere nuove obbligazio-
ni pubbliche. Simili emissioni sono state compiute anche nella Repubblica De-
mocratica del Congo, in Gabon e in Namibia. 185
IL DEBITO TORNA A MINACCIARE LO SVILUPPO AFRICANO

Tuttavia, il debito contratto vendendo obbligazioni denominate in dollari, e


in misura minore in euro, contiene alte potenzialità di rischio collegate alla vola-
tilità valutaria. Secondo uno studio del britannico Overseas Development Institu-
te, se il cambio del dollaro dovesse rafforzarsi, soltanto per il servizio sul debito
acceso fra 2013 e 2014 l’Africa subsahariana potrebbe fronteggiare costi aggiunti-
vi per 10 miliardi di dollari, circa l’1,1% del suo pil aggregato. Si calcola che, in
termini reali, il debito obbligazionario africano sia aumentato del 30% rispetto al
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

tasso di cambio del dollaro del marzo 2011.


Uno dei problemi futuri potrebbe scaturire proprio dalla natura dei nuovi
creditori. Se in passato gli attori ufficiali erano quasi sempre costretti ad accettare
le ristrutturazioni del debito dei paesi in difficoltà o concedevano nuovi prestiti
di emergenza, lo stesso non accadrà con i creditori privati che, in situazioni di
stress finanziario, domanderanno interessi più alti o addirittura si rifiuteranno di
acquistare le nuove obbligazioni. I privati non impongono condizioni, ma, nel
caso in cui un governo o un’impresa africana non sia in grado di pagare le obbli-
gazioni, il debitore sarà esposto ai rischi valutari e ad altri specifici rischi legali da
parte degli investitori.

4. Il passaggio dai prestiti ottenuti con accordi bilaterali e multilaterali ai de-


biti contratti sui mercati finanziari espone le economie africane a nuovi condizio-
namenti. I cambiamenti del clima economico globale – come l’aumento del tasso
di cambio del dollaro o il rallentamento della crescita cinese e di altre economie
emergenti – potrebbero mettere a rischio la sostenibilità di medio-lungo termine
dei prestiti. È bastato che si spargesse la voce di un inevitabile aumento del tasso
di interesse da parte della Federal Reserve statunitense per scatenare una serie di
reazioni speculative: infatti, a giugno 2015, lo spread tra i premi pagati per i
bonds del Tesoro americano e quelli delle obbligazioni sovrane dei paesi emer-
genti è salito a quota 330. Nello stesso periodo, il dollaro si è rivalutato in media
del 10% rispetto alle valute principali e molto di più rispetto a quelle dei paesi
emergenti, generando un’inevitabile emorragia di capitali dai mercati periferici ed
effetti negativi sulle esportazioni delle commodities africane. Alla Fed è bastato
per esempio annunciare un ridimensionamento del quantitative easing per far
uscire 1,65 miliardi di dollari di capitali dal Sudafrica nel novembre 2013.
Non va poi dimenticato il ruolo della caduta dei prezzi delle commodities. Se
le entrate fiscali e le riserve in valuta estera dei governi africani restano troppo di-
pendenti dalle esportazioni, il calo dei prezzi delle risorse energetiche o nel setto-
re alimentare sconvolge i bilanci nazionali e indebolisce le valute locali. Purtrop-
po, è quello che sta avvenendo. Tra giugno 2014 e marzo 2015 il prezzo del pe-
trolio è sceso del 50%, incidendo fortemente sui budget dei produttori di energia.
Ma il caso dell’oro nero non è l’unico: da giugno 2014 i prezzi di molte altre com-
modities esportate dall’Africa subsahariana sono scesi drammaticamente: -41% per
il gas naturale, -44% per il ferro, -22% per il carbone, -21% per il cotone, -7,5%
186 per il rame, -22% per il platino. Solo il prezzo dello zinco è aumentato.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

IL NUOVO FARDELLO DEL DEBITO (in miliardi di dollari)

Il debito di medio e lungo periodo dell’Africa subsahariana

200
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

150

100

50

0
2000 01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12 13 14* 15*

*Previsione

Creditori ufciali (governi, agenzie pubbliche, organizzazioni internazionali) Creditori privati

Fonte: Economist Intelligence Unit

In questo quadro, il rischio monetario è troppo sottovalutato: fra 2000 e


2013, le valute subsahariane si sono svalutate a un tasso medio annuo compreso
fra il 3 e il 4% e, in totale, del 45%. Un dato impressionante. Alcuni esempi di
paesi africani in difficoltà chiariranno il punto.
In Zambia, il rame rappresenta il 70% delle esportazioni e il 30% delle entra-
te in valuta estera. Quando il suo prezzo è precipitato nell’aprile 2014, la divisa
nazionale, la kwacha, ha perso un terzo del suo valore. Nel frattempo, il governo
zambiano emetteva obbligazioni sul mercato per un miliardo di dollari a un tasso
di interesse dell’8,5% – il 3,5% in più rispetto alla stessa operazione di due anni
prima – e si presentava all’Fmi per discutere un nuovo programma di riforme
economiche. Ma Lusaka ha bisogno di liquidità per onorare gli impegni: nel
2013, per esempio, il governo aveva aumentato del 45% circa i salari pubblici, un
livello oggi insostenibile senza un sostegno alle entrate. In seguito, questa spirale
involutiva si è fermata, ma la volatilità economica e la vulnerabilità agli shock
improvvisi restano. Bisogna prestare molta attenzione anche allo sfasamento fra i
tempi del pagamento degli interessi e il ritorno del profitto dell’investimento: lo
Zambia ha infatti pagato interessi superiori al 5% nel 2012 per un prestito obbli- 187
IL DEBITO TORNA A MINACCIARE LO SVILUPPO AFRICANO

gazionario di 750 milioni di dollari prima ancora di iniziare a spendere i soldi in


strade, scuole e ospedali.
Un’altra situazione critica è quella del Ghana. Con un debito pubblico supe-
riore al 60% del pil, Accra, anche in seguito alla caduta del prezzo del cacao e
dell’oro, ha dovuto chiedere aiuto all’Fmi per pagare i debiti acquisiti attraverso
obbligazioni sovrane. Lo scorso febbraio le due parti hanno raggiunto un accor-
do per un miliardo di dollari. Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

Infine, il caso dell’Angola. Per affrontare le difficoltà economiche e il rallen-


tamento della crescita derivanti dal crollo dei prezzi del petrolio, Luanda, secon-
da potenza petrolifera dell’area subsahariana, ha ottenuto dalla Cina un prestito
di 6 miliardi di dollari, aumentando l’indebitamento dal 32% al 46% del pil. Nel
breve periodo, però, l’ex colonia portoghese ha evitato una recessione e man-
terrà un tasso di crescita del 4% anche nel 2015.

5. La crisi del debito, come accennato in apertura, ha un precedente triste-


mente noto. All’inizio degli anni Ottanta, i paesi in via di sviluppo furono vittime
della «bomba del debito». Nel 1979-81, infatti, la Fed aveva alzato il tasso ufficiale
di sconto oltre il 20% per far fronte alla crescente inflazione negli Stati Uniti. Le
conseguenze della manovra colpirono prima l’America Latina, poi il resto del
mondo e in particolare l’Africa, dove questi tassi di interesse si rivelarono di fatto
un moltiplicatore del debito.
In molti paesi africani, infatti, nella seconda metà degli anni Settanta e all’ini-
zio degli anni Ottanta si era scatenata una «frenesia del debito facile», favorita da
un boom delle commodities e sostenuta irresponsabilmente dai governi occiden-
tali e dalle grandi organizzazioni internazionali, a cominciare dall’Fmi. I fondi
erano concessi per realizzare investimenti che, però, non si materializzarono mai,
a causa della corruzione, delle guerre e di politiche economiche disastrose. Ad
aggravare la situazione debitoria sopraggiunse poi la svalutazione del dollaro fra
il 1985 e il 1990: più della metà del debito africano, infatti, era denominato in
monete che si erano rivalutate nei confronti della divisa americana. A ciò si ag-
giunsero le punitive condizioni del commercio internazionale, soprattutto per i
prodotti agricoli e le commodities africane d’esportazione, oppure per i prezzi
dei beni di importazione maggiorati in certi casi del 30-40%.
Nel 1990, il debito subsahariano era contenuto rispetto a quello degli altri
paesi in via di sviluppo (circa un nono del totale). Ma il confronto internazionale
inganna, meglio scegliere una prospettiva nazionale: a metà anni Novanta, infatti,
il debito medio africano superava il valore della produzione interna annua. No-
nostante nel 1990 i paesi subsahariani pagassero solo il 37% degli interessi e de-
gli arretrati dovuti, questa cifra equivaleva già al 28% delle entrate derivanti dal-
l’esportazione e a circa l’8% del pil. E ovviamente i crediti ottenuti in valuta este-
ra andavano ripagati nella stessa moneta: i governi africani si videro costretti a ta-
gliare le spese per sanità, istruzione e infrastrutture. Impoverendo ulteriormente
188 una popolazione già vittima del sottosviluppo, del neocolonialismo e di regimi
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

I LIVELLI DEL DEBITO ESTERNO (% sul pil) corrotti. L’Africa era finita nella «trap-
pola del debito»: secondo la United
PAESE DEBITO ESTERNO Nations Conference on Trade and
Angola 20,6 Development, dal 1970 al 2002 l’A-
Benin 19,2 frica aveva ricevuto 540 miliardi di
Botswana 19,3
Burkina Faso
dollari in prestito e ripagato ai credi-
14,5
Burundi 26,3
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

tori circa 550 miliardi di dollari. Ep-


Camerun 11 pure il debito ancora da corrispon-
Capo Verde 79,9 dere ammontava a 295 miliardi.
Rep. Centrafricana 16,1
Ciad 21,2
L’immagine dei paesi ricchi che
Comore 31,8 costringevano i più poveri a chiu-
Rep. Dem. Congo 20,1 dere scuole e ospedali suscitò gran-
Costa d’Avorio 54,2 di imbarazzi politici. I creditori isti-
Gibuti 57,2
Guinea Equatoriale 8,4
tuirono iniziative come la Heavily
Eritrea 22,6 Indebted Poor Countries Initiative o
Etiopia 21,1 la Multilateral Debt Relief Initiative
Gabon 19,8 per discutere come alleviare le con-
Gambia 32
Ghana 28,3
dizioni relative al pagamento dei
Guinea 57,5 debiti. Sotto la pressione della so-
Guinea-Bissau 19,9 cietà civile e di molte ong, furono
Kenya 27,1 avviati programmi di assistenza (re-
Lesotho 54,1
Liberia 25
lief), fino ad arrivare alla cancella-
Madagascar 46,6 zione (forgiveness) del debito. Negli
Malawi 12,9 ultimi 15 anni, 35 paesi africani
Mali 25,5 hanno visto il loro debito estero
Mauritania 69,5
Maurizio 17,4
quasi completamente cancellato,
Mozambico 54,6 per una somma totale di circa 100
Namibia 34,3 miliardi di dollari. La cifra può in-
Niger 25,1 dubbiamente apparire notevole. Ma
Nigeria 2,5
Ruanda 17,9
diventa quasi risibile se si considera
São Tomé e Príncipe 74,3 che, in seguito alla crisi finanziaria
Senegal 65,2 del 2007, il governo americano ha
Seychelles 48,4 stanziato 170 miliardi di dollari solo
Sierra Leone 37,5
Somalia n.d.
per salvare dalla bancarotta la com-
Sudafrica 39,1 pagnia assicurativa Aig.
Sud Sudan n.d. Per essere ammessi alla cancel-
Sudan 87,8 lazione del debito, i paesi africani
Swaziland 10,3
Tanzania 37,8
hanno dovuto sottostare a quattro
Togo 25,6 condizioni: a) programmi di riduzio-
Uganda 27,5 ne della povertà; b) buona gestione
Zambia 31,1 dell’economia, controllata anche dal-
Zimbabwe 188,8
l’esterno; c) rinuncia a crediti costo-
Fonte: previsioni 2014 di African Economic Outlook si; d) utilizzo del denaro risparmiato 189
IL DEBITO TORNA A MINACCIARE LO SVILUPPO AFRICANO

con la moratoria per programmi sociali. Il tutto sotto la supervisione – e l’even-


tuale intervento nelle politiche interne – degli organismi internazionali che han-
no sostenuto la cancellazione del debito.
La moratoria ha indubbiamente migliorato la situazione, facendo quasi tripli-
care le «spese per la riduzione della povertà». Secondo la Banca mondiale, tra il
2001 e il 2012 la spesa sociale è aumentata in media del 3,5% l’anno. Il Benin ha
usato i fondi risparmiati per investire nella sanità nei settori rurali. La Tanzania ha
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

abolito la tassa sulla scuola primaria. Il Mozambico ha lanciato una campagna di


vaccinazioni gratuite per i bambini. Inoltre, verso la metà del decennio scorso,
l’aumento del prezzo del petrolio, del gas e di molte materie prime ha permesso
a diversi governi africani di incrementare la disponibilità finanziaria, sostenuta
anche da nuove offerte di credito provenienti dai settori bancari privati. In breve,
i paesi africani si sono trovati in condizioni finanziarie migliori rispetto alle altre
economie emergenti, sia pur in termini relativi. Negli ultimi dieci anni, anche do-
po la recessione globale del 2009, l’Africa è cresciuta in media del 5% l’anno, il
maggiore aumento del pil dopo quello dei paesi dell’Asia meridionale.
Ma la crescita è tutt’altro che equa. La massa dei poveri è in aumento. Il tas-
so di povertà assoluta nell’Africa subsahariana è vicino al 50%. Cala in termini
percentuali (-17% nell’ultimo decennio), ma non in assoluto: nel 1981, gli africani
in stato di povertà assoluta erano 205 milioni, l’11% del totale mondiale; nel 2010
erano 414 milioni, circa un terzo di tutti i poveri del pianeta.
Viene alla mente un altro sinistro precedente: 35-40 anni fa l’America Latina
sperimentò una crescita dei bilanci combinata a un grande afflusso di capitali
provenienti dalle banche americane, attirate da tassi d’interesse accettabili. I soldi
servirono a coprire i buchi dei deficit delle partite correnti. Così, nella prima
metà degli anni Ottanta, il debito latinoamericano aumentò di 10 volte rispetto a
quello del decennio precedente, raggiungendo quota 320 miliardi di dollari. Con
lo shock petrolifero i debiti divennero stratosferici e l’aumento del tasso di inte-
resse praticato dalla Fed provocò una fuga di capitali dal continente, innescando
crisi finanziarie che mandarono in bancarotta intere nazioni. Oggi anche l’Africa
corre questo rischio.

190
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

L’AFRICA
IN RETE di Luca MAINOLDI
Google, Facebook e gli altri giganti del Web si contendono
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

un mercato potenzialmente enorme. Le strategie di penetrazione.


Le nuove partnership pubblico-privato. Gli effetti politicamente
dirompenti dei social media. La tentazione del modello cinese.

1. STENDERE INTERNET ALLE ZONE RURALI


dei paesi africani e di altri continenti rientra non solo nelle strategie commer-
E
ciali dei giganti americani del Web, in primis Google e Facebook, ma anche
nella strategia geopolitica statunitense in Africa, che vede nel favorire l’adozio-
ne delle nuove tecnologie uno dei suoi punti di forza per contrastare l’azione
degli altri contendenti nel continente.
La politica adottata da Obama 1 prevede da un lato l’ampliamento delle po-
litiche precedenti (iniziate da Bush e ancor prima da Clinton) volte a proporre
gli Stati Uniti come principale partner della sicurezza di gran parte degli Stati
africani (esercizio dello hard power), dall’altro il rilancio delle iniziative di svi-
luppo basate sugli scambi commerciali e sulla progressiva apertura dei mercati,
estendendole in particolare alle nuove tecnologie, con il coinvolgimento so-
prattutto dei giovani (soft power).
L’esplicazione della strategia di sicurezza è data dalla creazione dell’appo-
sito Comando del Pentagono per l’Africa (Africom, annunciato nel 2006 e dive-
nuto operativo nel 2008) e dalla firma di accordi militari con buona parte degli
Stati africani. La strategia economica è invece incentrata sull’African Growth
and Opportunity Act (Agoa), varato sotto Clinton e poi progressivamente este-
so da Bush e Obama.
La politica africana di Obama è stata esplicitata nel giugno 2012 nella U.S.
Strategy Toward Sub-Saharan Africa, secondo cui gli Stati Uniti sono interessati a
collaborare con i paesi africani per promuovere, tra l’altro, lo Stato di diritto, la
lotta alla corruzione, lo sviluppo economico, l’apertura dei mercati, l’uso delle
nuove tecnologie per saltare alcune tappe dello sviluppo. Tra le iniziative promes-

1. L. MAINOLDI, «Il Nuovo Scramble for Africa», Nomos&Khaos, 2014. 191


L’AFRICA IN RETE

se dall’amministrazione vi sono il progetto Power Africa, il cui scopo è raddoppia-


re la produzione elettrica continentale; Trade Africa, per incrementare i commerci
intra-africani e tra l’Africa e gli Stati Uniti; la Young African Leaders Initiative (Yali),
nata nel 2010 per formare le nuove élite africane creando forti connessioni con le
realtà americane pubbliche e private. Essendo tali iniziative rivolte ai giovani del
continente più giovane del pianeta (circa il 60% della popolazione africana è sotto
i 35 anni), l’uso delle nuove tecnologie dell’informazione gioca un ruolo impor-
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

tante. Tra i programmi rientranti nell’ambito di Yali e sponsorizzati dal dipartimen-


to di Stato vi sono Lions@frica e Apps4Africa, finalizzati a creare un ambiente im-
prenditoriale giovanile fatto di start-up e di incubatori tecnologici.
Si è quindi creata una comunanza di interessi tra il settore pubblico e quello
privato d’Oltreoceano per contribuire a ridurre il ritardo digitale del continente
nero, dove solo il 21% degli abitanti ha accesso a Internet. L’azione pubblica sta-
tunitense è guidata dai princìpi definiti nell’International Strategy for Cyberspace
del maggio 2011, incentrata sulla formazione e condivisione di esperienze e pro-
cedure e sulla messa a disposizione di mezzi tecnici.
Una delle preoccupazioni principali di Washington è rafforzare la capacità dei
paesi africani di lottare contro i crimini informatici, contribuendo alla formazione
di giuristi e di esperti nel campo della polizia cibernetica. Si tratta di porre le pre-
messe che consentano alle aziende americane di estendere i loro mercati digitali
in Africa, evitando truffe e raggiri da parte di criminali informatici che possono es-
sere rintracciati e puniti da un sistema giudiziario efficiente. Il dipartimento di Sta-
to coordina le diverse azioni con il suo Office of International Communications
and Information Policy, che ha avviato il Technology Leadership Program (Tlp).
Altri dipartimenti coinvolti sono quelli del Commercio e della Sicurezza interna,
oltre ad agenzie come la Usaid, la Fcc (Federal Communications Commission) e la
Ntia (National Telecommunications and Information Administration).

2. Sono però soprattutto i giganti del Web a stelle e strisce che hanno inte-
resse a far avanzare la Rete in Africa: un mercato di 1,2 miliardi di persone, desti-
nate a raddoppiare entro il 2050. A guidare le danze sono Facebook, Google e
Microsoft. Quest’ultima ha annunciato nel febbraio 2013 la Microsoft 4Afrika Ini-
tiative, che prevede entro il 2016 di portare nelle mani degli africani decine di
milioni di smartphone e tablet, mettere online un milione di piccole e medie
aziende africane, migliorare le capacità di 100 mila lavoratori africani nel campo
dell’It (information technology) e formarne altri 100 mila, il 75% dei quali verrà
aiutato da Microsoft a trovare lavoro. Al momento la formazione è concentrata in
Sudafrica ed Egitto (dove sono attive app factories per concepire applicazioni mi-
rate al mercato africano), in Kenya e Nigeria (formazione dei venditori su come
insegnare ai potenziali clienti l’uso degli smartphone Lumia) e in Nordafrica (for-
mazione dell’imprenditoria femminile nel campo dell’It).
L’azienda di Redmond ha inoltre allacciato un’alleanza con la cinese Huawei
192 (a sua volta molto attiva in Africa, dove ha creato un centro di formazione a Kin-
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

shasa) per lanciare sul mercato africano Huawei4Afrika, uno smartphone basato
sul Windows Phone 8 e dotato di alcune applicazioni precaricate pensate specifi-
camente per l’Africa. Il nuovo telefono è stato reso disponibile inizialmente in An-
gola, Costa d’Avorio, Egitto, Kenya, Marocco, Nigeria e Sudafrica. Microsoft (come
anche Google) ha inoltre avviato progetti in Kenya e Sudafrica volti a sfruttare gli
«spazi bianchi» dei segnali televisivi per portare Internet nelle aree non servite da
linee terrestri. Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

Facebook già nel settembre 2014 annunciava di avere 100 milioni di utenti e
di voler aumentare il loro numero attraverso il programma Internet.org, per per-
mettere alle persone che vivono nelle aree più povere del mondo (specie in Afri-
ca e Asia) di accedere gratuitamente ad alcuni servizi Internet di base, grazie ad
accordi con alcune telecom locali. L’iniziativa è stata però criticata, soprattutto in
India dove è stata definita «l’Internet povero per persone povere» 2. La connessio-
ne offerta su cellulari, o comunque sistemi wireless, permette infatti di connetter-
si solo ad alcuni siti e servizi web, tra cui Facebook. I critici affermano che Inter-
net.org violerebbe il principio della neutralità della Rete, costringendo gli utenti
in una sorta di imbuto digitale dove l’offerta è limitata e soprattutto regolata dal
gigante americano, che in questo modo soffocherebbe sul nascere qualsiasi start
up digitale africana indipendente.
Il principale concorrente di Facebook sui mercati emergenti appare comun-
que Google. «Mentre Facebook e Google hanno un numero di utenti simile, circa
1,3 miliardi in tutto il mondo, il primo ne ricava 12 miliardi di dollari e il secondo
66 miliardi – ben 5 volte di più. Non essendo in grado di colmare il divario, [Fa-
cebook] deve fare di tutto per aumentare il numero di utenti, impedendo loro di
andare su Google per effettuare ricerche» 3.
Quanti appoggiano il progetto sostengono che fornire un accesso sia pure li-
mitato a Internet è sempre meglio di niente e che l’offerta di Facebook si adatta
perfettamente alle necessità delle utenze dell’Africa rurale: navigazione con
smartphone con il più basso consumo di dati possibile. La società americana ha
comunque ribadito il suo impegno a fornire un accesso senza limiti alla Rete e
ha annunciato di recente un accordo con Eutelsat per sfruttare un payload a ban-
da larga del futuro satellite Amos6 gestito dalla società israeliana Spacecom al fi-
ne di coprire gran parte dell’Africa subsahariana, specie le zone rurali. «Non ve-
diamo l’ora di collaborare con Eutelsat a questo progetto e di cercare nuovi modi
di utilizzare i satelliti per connettere le persone nelle zone più remote del mon-
do, in modo più efficiente», ha detto annunciando l’accordo Chris Daniels, vice-
presidente di Internet.org.
Facebook sta valutando di impiegare droni ad alta quota dotati di pannelli
solari che, sorvolando le aree più remote del mondo, porteranno la connessione
ad alta velocità nelle zone sottostanti. A questo scopo l’azienda era intenzionata

2. M. MURTHY, «Poor Internet for Poor People: Why Facebook’s Internet.org Amounts to Economic
Racism», Quartz, 17/4/2015.
3. Ibidem. 193
L’AFRICA IN RETE

a comprare la Titan Aerospace, un fabbricante di droni, ma Google l’ha precedu-


ta, comprando la compagnia nell’aprile 2014. La società di Mountain View inten-
de integrare i droni della Titan con il programma Loon, un progetto simile a
quello immaginato da Facebook, ma basato su dirigibili ad alta quota.
Si delinea quindi una lotta tra Facebook e Google per la conquista dei
mercati emergenti. La società californiana infatti, dopo aver deciso di ritirarsi
dal mercato cinese (340 milioni di internauti) punta su quello africano, dove vi
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

sono 500 milioni di utilizzatori di telefoni cellulari che potrebbero presto acce-
dere alla Rete grazie agli smartphone. L’azienda di Mountain View ha avviato la
sua strategia africana di lungo termine fin dal 2006, quando ha aperto i suoi tre
centri regionali nel continente: al Cairo, a Nairobi e a Johannesburg. Google ha
impostato una strategia di prossimità – avvicinarsi il più possibile ai propri
utenti – che mira a valorizzare le risorse africane, come annunciato da un ap-
posito blog bilingue inglese-francese 4. Tra l’altro, ha lanciato Google Maps nel-
l’intera Africa subsahariana, Gmail e Chrome in alcune lingue africane (amari-
co, swahili e wolof, la lingua più parlata del Senegal) e YouTube in Sudafrica.
Attraverso il Project Link ha finanziato la costruzione di una rete di 170 chilo-
metri a fibra ottica ad alta velocità a Kampala, la capitale dell’Uganda, mentre
un’altra è in costruzione nel Ghana. La rete ghaniana sarà lunga mille chilome-
tri e collegherà l’area metropolitana della capitale Accra con Tema e Kumasi.

3. Google afferma di essere politicamente neutrale, ma di fatto si comporta


come un forte attivista. Ad esempio, si è associata all’Onu e a diverse ong nell’at-
tuare il progetto di George Clooney volto a sorvegliare con i satelliti la frontiera
tra Sudan e Sud Sudan per denunciare i crimini di guerra. Ha inoltre sostenuto le
«primavere arabe» in Nordafrica, specie in Egitto, dove Wael Ghonim – responsa-
bile marketing di Google per l’area nordafricana – è stato uno dei più noti cibe-
rattivisti, con il pieno supporto del suo datore di lavoro.
Anche la Manager of Policy in Africa di Google dal 2011 al 2013, Ory
Okolloh, è stata un’attivista digitale in Kenya. Ory, che ha studiato legge ad
Harvard e scienze politiche a Pittsburgh, ha vinto una borsa di studio presso il
Department of Institutional Integrity della Banca mondiale e ha fondato Mza-
lendo, un sito che permette agli elettori di seguire le attività dei parlamentari
keniani. In seguito è stata co-fondatrice di Ushahidi, una piattaforma open
source per permettere lo scambio di informazioni su aree di crisi, combinando
mappe con rapporti di testimoni oculari. Ushahidi è stato usato per controllare
le elezioni in Kenya, Messico e India, tracciare le violenze nell’Est della Repub-
blica Democratica del Congo ed elaborare una mappa di Haiti dopo il terremo-
to del gennaio 2010. Presso Google, Ory Okolloh era responsabile della gestio-
ne delle relazioni con i governi e guidava le politiche per aumentare l’accesso
a Internet nel continente.

194 4. Google Africa Blog, google-africa.blogspot.it


AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

GOOGLE, FACEBOOK E MICROSOFT IN AFRICA


M M M
Tunisia
M M
Marocco
M
Algeria M G M
Egitto
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

Libia
M M
Mauritania
Mali Niger
M Ciad
Eritrea
Senegal Sudan
Burkina
Gibuti
Gambia Guinea
Faso M
M
Benin

M
Togo

Guinea- Costa Nigeria Rep. Sud Sudan


Bissau d’Avorio Centrafr. Etiopia
Sierra Camerun ia
Leone Ghana al
Previsione di a
M So
m
i ne l e 170 km di Uganda
Liberia 1.000 km di Guoria Congo fbra ottica KAMPALA G M
fbra ottica a t
di Google u Gabon di Google Kenya
Eq Ruanda
Rep. Dem.
del Congo Burundi
Tanzania
Malawi

Cavi fbra ottica M Mozambico


Zambia
Paesi d’interesse strategico di Facebook Angola

Attività di formazione di Microsoft Zimbabwe Madagascar


M AppFactory per concepire applicazioni M M
mirate al mercato africano Namibia Botswana
Formazione dei venditori su come M
M insegnare ai potenziali clienti l’uso Swaziland
degli smartphone Lumia Riunione
In Nordafrica formazione dell’imprenditoria
M femminile nel campo dell’IT
G F M Lesotho Maurizio
Sudafrica M
Ufci regionali
G Google F Facebook M Microsoft ©Limes

Ory ha lasciato Google per diventare a Johannesburg direttore degli inve-


stimenti dell’Omidyar Network’s Governance & Citizen Engagement Initiative
in Africa, con l’incarico di «investire in organizzazioni for-profit e non-profit
per favorire la partecipazione civica e aumentare la trasparenza e la responsa-
bilità nei governi». L’Omidyar Network, fondato nel 2004 dal patron di Ebay
Pierre Morad Omidyar e da sua moglie 5, ha promosso l’African Media Initiative
(Ami), il cui scopo è «aumentare la qualità del giornalismo, favorire l’innova-

5. P. Omidyar ha fondato di recente First Look Media insieme a Glenn Greenwald, Laura Poitras e
Jeremy Scahill, i primi due «custodi» delle rivelazioni di Edward Snowden. 195
L’AFRICA IN RETE

zione e assicurare la sostenibilità dei media». L’Ami è sponsorizzato, oltre che


dall’Omidyar Network, dal ministero degli Esteri norvegese, dalla Bill and Me-
linda Gates Foundation e dalla Mo Ibrahim Foundation. Quest’ultima è la fon-
dazione del magnate sudanese delle telecomunicazioni Mo Ibrahim, fondatore
di Celtel, una delle principali compagnie di telefonia mobile in Africa, con 24
milioni di abbonati in 14 paesi africani. Nel 2010 Celtel è stata acquistata dal
gigante indiano delle comunicazioni Bharti Airtel Limited, cambiando denomi-
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

nazione in Airtel.
Unire attivisti dei diritti umani, ong, fondazioni private, multinazionali del
settore ed enti governativi è tipico del sistema americano di partnership pubbli-
co-privato. Ne è un esempio NetHope (con sede a Fairfax, in Virginia, area a for-
te presenza di uffici della Cia e di agenzie «riservate» del Pentagono), una rete di
43 ong (la maggior parte americane e inglesi) che si propone di permettere alle
organizzazioni aderenti di «cambiare il mondo attraverso il potere della tecnolo-
gia». Tra i partner di supporto vi sono Usaid, la fondazione Gates, la G. Allen Fa-
mily Foundation, Google, Microsoft, Hewlett Packard, Intel, Facebook, Emc, Ci-
sco, Accenture, Dell, Visa, Palantir (una società fortemente legata alla comunità
dell’intelligence statunitense).

4. La promozione della «digitalizzazione dell’Africa» da parte americana sem-


bra seguire non solo logiche strettamente economiche e commerciali, ma una
strategia più ampia basata sullo smart power. Gli Stati Uniti guardano alle nuove
generazioni africane desiderose sì di accedere alle nuove tecnologie, ma anche
di possibilità di sviluppo, di democrazia, di determinare il proprio futuro. Nel
breve termine si può riproporre quindi uno scenario simile a quello visto nelle
«primavere arabe», dove hanno giocato un ruolo di rilievo gli attivisti e ciberattivi-
sti formati da organizzazioni americane pubbliche e private o da altre, come la
serba Otpor, legate a interessi statunitensi 6.
Il possibile uso (e strumentalizzazione da parte di ong legate agli interessi
americani) di Internet da parte di attivisti locali ha messo in allarme i governi
africani, che nei forum internazionali si sono accodati alle richieste russe e cinesi
(ma anche iraniane e arabe) di maggiore controllo governativo sulla Rete 7.
I sospetti dei regimi africani sono rafforzati dall’atteggiamento di Washing-
ton, sempre più contraria alla logica dei «presidenti a vita» che cercano di modifi-
care la costituzione dei loro paesi per rimanere al potere. In Burkina Faso la ri-
volta popolare ha costretto alle dimissioni e alla fuga il presidente Blaise Com-
paoré, al potere dal 1987: un fatto che ricorda le rivoluzioni colorate e le prima-
vere arabe, dove i social media hanno avuto un ruolo fondamentale nel mobilita-
re gli attivisti, con la benedizione del governo statunitense.

6. A. MACCHI, ««Metodo Belgrado», i segreti delle rivolte colorate», Limes, «A che servono i servizi», n.
7/2014, pp. 83-96.
7. L. MAINOLDI, «I padroni di Internet», Quaderni speciali di Limes, «Media come armi», n. 1/2012, pp.
196 9-16.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

In altri casi (Burundi, Repubblica del Congo e forse un domani Repubblica


Democratica del Congo) gli ambasciatori americani hanno criticato le modifiche
costituzionali volte a permettere ai presidenti in carica un terzo mandato. Fra
questi vi è pure il Ruanda, dove il presidente Paul Kagame intende presentarsi
per la terza volta alle presidenziali del 2017. Kagame però è un forte sostenitore
della rivoluzione digitale nel suo paese, e può essere considerato il pioniere afri-
cano nel settore. Fin dal 2000 il Ruanda ha avviato il programma National Infor-
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

mation Communications Infrastructure (Nici) per dotarsi di un’impianto di Ict al


passo coi tempi; con la Vision2020 intende passare entro pochi anni da un’eco-
nomia agricola a una incentrata sul terziario avanzato e sul digitale.
I programma ruandesi sono fortemente appoggiati da istituzioni statunitensi
come la Carnegie Mellon University, la quale ha fondato una sua filiale in Ruan-
da che ha svolto un ruolo di rilievo nel Transform Africa Summit tenutosi a Kigali
l’ottobre scorso. L’evento era presieduto congiuntamente da Kagame e dal segre-
tario generale dell’International Telecommunications Union (Itu), il maliano Ha-
madoun Touré. I lavori, ai quali hanno partecipato i presidenti di Ruanda, Ugan-
da, Burkina Faso, Gabon, Sud Sudan, Kenya e Mali, erano incentrati su come
usare le nuove tecnologie per accelerare lo sviluppo dei rispettivi paesi.
Contemperare lo sviluppo digitale con le possibili conseguenze sociali e po-
litiche dello stesso è la sfida che attende diversi governi africani. Prevarrà infine il
modello cinese (apertura controllata) su quello americano?

197
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

IL GRANDE BALZO
VERSO LE RINNOVABILI di Giorgio CUSCITO
La mancanza di elettricità, la crescita demografica ed economica
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

e il problema del cambiamento climatico possono spingere i paesi


del continente africano a puntare sull’energia pulita. Il modello
Sudafrica. Il grandioso progetto della diga Grand Inga.

1. A SCARSA PRESENZA DI SERVIZI DI


forniture energetiche efficienti è uno dei principali freni alla crescita dell’Afri-
L
ca. In tale contesto, lo sviluppo del settore delle rinnovabili potrebbe svolgere
un ruolo molto importante. Nel continente circa 600 milioni di persone (due
terzi della popolazione complessiva) non hanno accesso all’elettricità. La mag-
gior parte vive nella regione subsahariana. Questa (escluso il Sudafrica) conta
860 milioni di abitanti e consuma 139 miliardi di kilowattora (kWh). Quasi 100
miliardi in meno di quelli consumati in Spagna, che di abitanti ne ha 47 milio-
ni 1. Negli ultimi dieci anni i paesi dell’Africa subsahariana hanno registrato un
tasso di crescita medio del 5-6%, ma solo sette (Camerun, Costa d’Avorio, Ga-
bon, Ghana, Namibia, Senegal e Sudafrica) hanno un tasso di accesso all’elet-
tricità superiore al 50%; negli altri questo è inferiore al 20% 2. La maggior parte
degli Stati inoltre sono soggetti a cali di tensione che annualmente generano
per le rispettive economie perdite pari al 2-4% del pil. Le aziende in Tanzania
e Ghana perdono il 15% del valore delle vendite a causa delle interruzioni di
corrente. Ciò ostacola la creazione di nuovi posti di lavoro e scoraggia gli in-
vestimenti. In Burkina Faso, Camerun, Malawi e Niger circa l’80% delle scuole
è al buio 3.
La situazione potrebbe peggiorare in futuro. Secondo l’Africa Progress Pa-
nel, un gruppo di esperti guidato dal ghanese ex segretario generale dell’Onu
Kofi Annan, l’Africa subsahariana è l’unica regione al mondo in cui si stima che
per il 2030 il numero assoluto di persone senza accesso all’energia moderna sia

1. «Power, People, Planet», Africa Progress Report 2015, goo.gl/eaGy7j


2. «Brighter Africa: The Growth Potential of the Sub-Saharan Electricity Sector», McKinsey, febbraio
2015, goo.gl/ZU1Cg3
3. Vedi nota 1. 199
IL GRANDE BALZO VERSO LE RINNOVABILI

destinato ad aumentare. Del resto, nei prossimi 35 anni dovrebbero nascere nel
continente – che conta già oltre 1 miliardo di abitanti – 1,8 miliardi di
bambini 4. Per la fine del secolo la popolazione africana potrebbe raggiungere i
4 miliardi, pari a quasi il 40% degli abitanti della Terra. A questi ritmi bisognerà
aspettare il 2080 prima che tutto il continente acceda all’elettricità, la cui do-
manda è aumentata dell’80% rispetto al 2005.
Come se non bastasse, in Africa 730 milioni di abitanti si affidano al tradi-
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zionale utilizzo della biomassa per cucinare 5 e circa 600 mila muoiono ogni
anno a causa dell’aria inquinata che questa produce nelle abitazioni. La metà
sono bambini di età inferiore ai cinque anni 6. Nel 2012, il carbone ha rappre-
sentato il 18% della domanda energetica dell’Africa subsahariana, seguito da
petrolio (15%), gas naturale (4%) ed energie rinnovabili (meno del 2%) 7.
Queste ultime offrono diversi vantaggi: possibilità di fornire elettricità a zo-
ne che ne sono prive in tempi più rapidi e a costi inferiori rispetto al tradizio-
nale ampliamento della rete elettrica locale; creazione di nuovi posti di lavoro
per la costruzione e la gestione di nuove infrastrutture; riduzione dell’inquina-
mento. L’Africa è ricca di risorse rinnovabili: quella solare abbonda in tutto il
continente; le zone umide della fascia centrale e del Sud procurano soprattutto
quella idroelettrica e la biomassa; l’eolica è particolarmente presente al Nord e
all’Est; quella geotermica lungo la Rift Valley, sempre nella zona orientale. Per
farsi un’idea delle potenzialità africane, si pensi che dove il fiume Congo si tuf-
fa nelle cascate Inga, tra Kinshasa (capitale della Repubblica Democratica del
Congo) e l’Oceano Atlantico, è stato avviato un progetto per costruire la più
grande centrale idroelettrica al mondo (la diga Grand Inga), capace di generare
40 mila megawatt (MW) di energia: il doppio rispetto alla diga delle Tre Gole
in Cina e un terzo della quantità totale prodotta in Africa. Qualora il progetto
fosse realizzato, si ridurrebbero di 63 megatoni le emissioni annuali di carbone
in tutto il continente.
Secondo un rapporto di McKinsey, nel 2040 l’energia idroelettrica potrebbe
fornire il 16% di quella totale africana. Il fatto che l’89% degli abitanti della Re-
pubblica Democratica del Congo non abbia accesso all’elettricità è a dir poco
paradossale 8.
Per ridurre il numero di abitanti e aziende africani privi di energia sarebbero
necessari investimenti per 55 miliardi di dollari all’anno, contro gli 8 attuali 9. An-
che se la maggior parte di essi è diretta verso i combustibili fossili, come carbone
e gas, le rinnovabili stanno guadagnando rapidamente terreno. Queste potrebbe-

4. «Generation 2030/Africa», Unicef, agosto 2014, goo.gl/KqjQGi


5. «Africa 2030: Roadmap for a Renewable Energy Future», Irena (Renewable Energy Agency), Abu
Dhabi 2015, goo.gl/AqytQM
6. Vedi nota 1.
7. «Energy in Sub-Saharan Africa Today», World Energy Outlook 2014 Factsheet, goo.gl/shOYY6
8. «Emission Reduction Profile on Energy, Climate and Sustainable Development», Repubblica De-
mocratica del Congo, giugno 2013.
200 9. «The Leapfrog Continent», The Economist, 6/6/2015, goo.gl/txF6ea
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

ro generare quasi un quarto dell’energia dell’Africa entro il 2030, anno in cui si


stima che la domanda di elettricità si triplicherà 10. Tra i paesi più impegnati del
continente nella diversificazione dell’utilizzo di risorse energetiche e nello svilup-
po delle rinnovabili vi sono Marocco, Kenya, Etiopia, Egitto e Sudafrica.

2. Quest’ultimo è il paese più sviluppato dell’Africa, anche se la sua situa-


zione economica al momento non è rosea. Nel secondo trimestre del 2015 il pil
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

sudafricano è decresciuto dell’1,3%, dopo aver registrato una crescita di uguali


dimensioni nei tre mesi precedenti 11.
Nel 2104, Ihs Technology ha definito il Sudafrica il mercato emergente più
attrattivo nel settore dell’energia solare ed è stato uno dei dieci principali inve-
stitori al mondo nelle rinnovabili. Non è un caso quindi se nell’ottobre 2015
questo sia stato il primo paese africano a ospitare la Conferenza internazionale
organizzata dal Renewable Energy Policy Network for the 21st Century.
Il Sudafrica consuma nove volte l’energia della Nigeria, la cui popolazione è
tre volte più grande. Eppure, nei mesi scorsi il paese che ha dato i natali a Nelson
Mandela ha registrato la peggiore crisi energetica dal 2008. Il fornitore nazionale
Eskom, che qui produce il 96% dell’elettricità, fatica a soddisfare la domanda.
Il Sudafrica possiede il 95% delle riserve di carbone dell’intero continente.
Non a caso questa è la principale fonte di energia (73% del totale consumato),
seguita da petrolio (22%), gas naturale (3%), nucleare (entrambi 2%), idroelet-
trica (0,37%). Le rinnovabili rappresentano solo lo 0,06% 12. Tuttavia, per attrar-
re investimenti e finanziamenti dall’estero al fine di diversificare il mix energeti-
co e valorizzare l’utilizzo di queste risorse, il presidente sudafricano Jacob Zu-
ma ha lanciato il Renewable Independent Power Producer Procurement Pro-
gram (Reipppp). Come risultato, negli ultimi quattro anni il paese ha ricavato
attraverso le rinnovabili oltre mille MW di potenza 13. Il programma ha stimola-
to la partecipazione di aziende private sudafricane (attualmente quelle impe-
gnate sono il 72%), ma ha attirato anche importanti imprenditori esteri, la mag-
gior parte provenienti dall’Europa e dagli Usa. Sino a oggi il Reipppp ha attrat-
to complessivamente investimenti e finanziamenti stranieri del valore di 53,2
miliardi di rand (circa 3,5 miliardi di euro) 14.
Tra le aziende più attive in Sudafrica vi è l’italiana Enel Green Power. La
società del Gruppo Enel, impegnata nello sviluppo e nella gestione delle atti-
vità di generazione di energia da fonti rinnovabili, opera anche in Kenya e la-
vora allo sviluppo di nuovi progetti in Marocco, Egitto e Namibia.
10. Vedi nota 5.
11. «S.Africa’s Economy Contracts, Weakens Case for Rate Hikes, Reuters, 25/8/2015,
goo.gl/nDZeVn
12. «State of Renewable Energy in South Africa», Dipartimento dell’Energia del Sudafrica, settembre
2015, p. 65, goo.gl/f7wxfZ
13. P. GOVENDER, «South Africa Seen Green Energy Model for the Continent», Reuters, 6/10/2015,
goo.gl/hkFLxV
14. Vedi nota 12. 201
IL GRANDE BALZO VERSO LE RINNOVABILI

La scorsa primavera questa azienda ha avviato i lavori per la costruzione di


sei impianti, di cui quattro solari fotovoltaici (Pulida, Adams, Tom Burke e Pa-
leisheuwel) e due eolici (Gibson Bay e Nojoli) per complessivi 513 MW. Un
suo impianto fotovoltaico da 10 MW ad Upington è in esercizio dal 2014. Inol-
tre, nel corso dell’anno Enel Green Power si è aggiudicata altri cinque progetti
eolici per un totale di 705 MW. Come ha affermato l’amministratore delegato
dell’azienda Francesco Venturini, con questa ulteriore capacità eolica l’azienda
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

«si posiziona stabilmente come il più grande attore privato del settore delle rin-
novabili di tutto il continente africano». Ad oggi, nell’ambito del Reipppp, Enel
Green Power ha ottenuto nelle gare pubbliche in Sudafrica più di 1.200 MW di
capacità eolica e solare dalla fine del 2012.
In Sudafrica, la compagnia italiana intende anche vendere direttamente alla
popolazione residenziale e alle piccole e medie aziende impianti fotovoltaici
solari e batterie di accumulo per produrre e immagazzinare energia. Progetti di
questo tipo possono portare grandi benefici ai sudafricani, che devono soppor-
tare periodiche interruzioni di elettricità. I costi di queste apparecchiature stan-
no progressivamente calando e ciò consentirà l’acquisto a una fetta sempre più
ampia della popolazione.
Attività simili sono sviluppate anche da altre aziende. Per esempio in Kenya
M-Kopa ha combinato la tecnologia solare e quella mobile per fornire elettricità
nelle campagne. I clienti pagano un piccolo deposito per un impianto domestico
(solitamente venduto al dettaglio per 200 dollari) composto da un pannello foto-
voltaico, tre luci per il soffitto, una radio e prese di ricarica per i telefoni cellulari.
In base alla quantità di energia consumata, il conto viene saldato a rate attraverso
M-Pesa, una piattaforma di pagamento mobile usata da un terzo della popolazio-
ne. Anche altre aziende stanno seguendo questo modello. In totale circa 60 mila
mini impianti sarebbero stati venduti nell’Africa subsahariana nel 2013 15.

3. Tuttavia realizzare in questo contesto progetti di larga scala non è affatto


semplice. In Africa, la fornitura di moderni servizi energetici è ostacolata da di-
versi fattori: infrastrutture insufficienti o assenti; scarsa presenza di personale
preparato, pochi fondi a disposizione dei paesi per investire nello sviluppo del
settore; mancanza di un quadro normativo adeguato e di good governance;
scarsa trasparenza nelle transazioni governative.
Per compiere un salto di qualità pare necessario colmare innanzitutto le ul-
time due lacune. Come dimostra la crescita del Sudafrica nel campo delle rin-
novabili, la maggior parte degli imprenditori sono più propensi a investire se
considerano stabile e affidabile il contesto politico ed economico in cui posso-
no operare. Pertanto sviluppare una cornice normativa trasparente che regoli
in maniera adeguata il settore energetico è indispensabile per non esporre le
aziende a rischi finanziari.

202 15. Vedi nota 1.


AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

L’AFRICA AL BUIO

<1
Tunisia
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<1
Marocco
<1
Algeria <1 <1
Libia Egitto

Capo 3
Verde
Mauritania 11
<1 Mali 15 12
Ciad 24 4
6 Niger Eritrea
Senegal Sudan
14
Burkina
Gambia 10 Faso
Gibuti <1
1 Guinea 93 9
Benin

Guinea- 15 4 70
Ghana

Nigeria
11
Togo

Bissau Costa Etiopia


Rep. Sud Sudan
1 d’Avorio 10 Centrafr.
Sierra Camerun ia
Leone 7 31 al
m
6 5 a
i ne l e
3 Uganda 35 So
Guoria
Br.

Liberia
7 ua
t 1 Kenya
10
go -

4 Ruanda
Eq Gabon
60
<1 <1
Con

Rep. Dem. Burundi 9 Seychelles


del Congo 36
Tanzania

15 14 Comore
<1
Malawi

Angola
10 15
Zambia Mozambico

8
2 Zimbabwe Madagascar 19
Namibia
Popolazione senza accesso
1 <1
all’elettricità (2012) Botswana
4 in milioni Swaziland
Maurizio
> del 75%
Lesotho
1
dal 50 al 75% 8
dal 25 al 49%
Sudafrica 1
< del 25%

Inoltre, i governi africani dovrebbero periodicamente sviluppare previsioni


di lungo periodo per comprendere le necessità future dei singoli paesi. In base
ad esse dovrebbero elaborare strategie onnicomprensive per l’approvvigiona-
mento energetico nazionale compatibili con le loro possibilità. Magari prenden-
do come riferimento la Sustainable Energy for All. Questa iniziativa delle Na-
zioni Unite si pone entro il 2030 tre obiettivi: assicurare l’accesso universale ai 203
IL GRANDE BALZO VERSO LE RINNOVABILI

ENEL GREEN POWER ZIMBABWE

MOZAMBICO
IN SUDAFRICA Enel Green Power RSA
Quartier generale
80 impiegati
BOTSWANA
Tom Burke Solar Park
LIMPOPO
Pulida Solar Park MW: 66
NAMIBIA
MW: 82.5
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MPUMALANGA
Pretoria
AuroraSolar PV2
Sublunary-Upington MW: 82.5 NORTH-WEST Johannesburg
GAUTENG SWAZ.
MW: 10

FREE STATE
Garob Wind Farm KWAZULU/NATAL
MW: 138
Bloemfontein LESOTHO Durban

Paleisheuwel S U D A F R I C A
Solar Park NORTHERN CAPE
In
MW: 82.5
EASTERN CAPE Nojoli Wind Farm
MW: 88
Nxuba Wind Farm
MW: 141
WESTERN CAPE
Oyster Bay Wind Farm
Karusa Wind Farm MW: 142
MW: 142 Gibson Bay Wind Farm
Città del Capo
Soetwater Wind Farm MW: 111
MW: 142
Impianti fotovoltaici Impianti eolici

servizi energetici tecnologicamente moderni, raddoppiare il tasso di efficienza


energetica, raddoppiare l’utilizzo delle rinnovabili a livello globale.
Il supporto delle organizzazioni regionali e internazionali è indispensabi-
le, sia in termini economici sia come supporto per lo sviluppo di strategie di
medio-lungo periodo. Grandi progetti come quello solare da 520 MW del Ma-
rocco e quello eolico da 300 MW in Kenya sono riusciti a ottenere finanzia-
menti chiave tramite la Banca mondiale 16 e la Banca africana di sviluppo 17. La
già menzionata diga Grand Inga è considerata una priorità per organizzazioni
quali South Grand Southern Africa Development Community (Sadc), New
Partnership for Africa’s Development (Nepad), Eastern African Power Pool
(Eapp), Southern African Power Pool (Sapp) e il World Energy Council. I pro-

16. «Expansion of Morocco’s Largest Solar Complex to Provide 1.1 Million Moroccans with Clean
Energy», World Bank, 30/9/2014, goo.gl/5ZM6WQ
17. «Lake Turkana Wind Power Project: The Largest Wind Farm project in Africa», African Develop-
204 ment Bank, goo.gl/4wZ3C2
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

getti di integrazione energetica regionale realizzati dai paesi africani nel corso
degli ultimi dieci anni non hanno ancora prodotto i risultati sperati a causa de-
gli interessi economici dei singoli Stati e della gestione spesso inadeguata. La
maggior parte dei governi cerca di non dipendere dalle risorse dei vicini e
preferisce affidarsi a fonti energetiche meno costose, senza preoccuparsi di
quanto inquinino.
L’Africa può potenziare sin da ora il settore delle rinnovabili per continuare
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

a crescere e ridurre allo stesso tempo l’uso degli idrocarburi e l’inquinamento.


Considerate le dimensioni geografiche, la potenziale crescita demografica e
l’aumento della domanda energetica, questo balzo tecnologico da parte dei
paesi del continente pare prioritario nell’interesse non solo dei suoi abitanti,
ma anche per la salute del pianeta.

205
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

LA NUOVA PRIMAVERA
DELL’ARTE AFRICANA di Flavio ALIVERNINI
Non più fenomeni antropologici relegati a musei didattici, pittura
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

e scultura del continente nero si stanno affermando in Occidente


e presso le nuove classi medie di Nigeria e Sudafrica. I grandi nomi
del momento. Il ruolo dell’Italia. L’originalità sopravvivrà al mercato?

1. ULLA RIVA NORD DEL TAMIGI, VICINO A


Waterloo Bridge e allo Strand, sorge Somerset House, un imponente edificio in
S
stile neoclassico che Edward Seymour, duca di Somerset, fece costruire a Londra
nel 1500. Nel corso della storia Somerset House è stata sede di diversi ministeri e
uffici governativi, dell’Ammiragliato, della Royal Academy e della Royal Society;
oggi al suo interno è possibile visitare le celebri Courtauld Insitute Galleries 1,
collezioni con dipinti di grandi maestri dell’arte italiana, inglese, fiamminga e
francese fra cui Autoritratto con orecchio bendato di Van Gogh e il famoso
Déjeuner sur l’herbe di Manet.
Tra le stanze di questo gioiello della cultura britannica, l’archistar di origi-
ni ghanesi David Adjaye ha allestito recentemente la terza edizione di 1:54.
Contemporary African Art Fair, la più importante fiera di arte contemporanea
africana che ormai viene universalmente riconosciuta non solo come un’occa-
sione unica per esplorare la produzione artistica del continente nero, ma an-
che come punto di riferimento in Occidente per galleristi, artisti, critici d’arte e
collezionisti.
La manifestazione – che ha visto aumentare del 40% le gallerie presenti, se-
gno che sempre più imprenditori dell’arte puntano sul mercato africano – ha fat-
to registrare un incremento notevole sia sul fronte delle presenze sia su quello
delle vendite; «i visitatori sono aumentati del 50%», racconta Touria El Glaoui, fi-
glia del celebre artista marocchino Hassan El Glaoui e ideatrice di questa rasse-
gna, «dal 14 al 20 ottobre 2015 più di 15 mila persone sono giunte da tutto il
mondo per visitare 1:54. Più di una galleria è stata costretta a riappendere alle
pareti per ben tre volte le opere vendute durante la settimana della fiera».

1. Blog di Alessia Carbone Vivilondra.it 207


LA NUOVA PRIMAVERA DELL’ARTE AFRICANA

La manifestazione ha dato la possibilità all’arte contemporanea africana di


varcare i confini del proprio territorio d’origine e di essere apprezzata per i
suoi poliedrici stili e linguaggi. A Londra l’Africa si sta ritagliando da tempo
uno spazio nelle più importanti istituzioni museali: il British Museum ne ha ac-
quisito una vasta collezione e la Tate ha varato un programma biennale di atti-
vità incentrate sull’Africa, con mostre dedicate agli artisti Otobong Nkanga, Ná-
stio Mosquito, Meschac Gaba, Ibrahim El-Salahi. «L’arte africana contempora-
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

nea», continua Touria El Glaoui, «è attualmente la più emozionante e dinamica


del mondo e i prezzi non sono ancora diventati inaccessibili: si va dalle 2 alle
200 mila sterline» 2.
Tra gli stand di Somerset si parlava soprattutto francese, inglese, fiammingo.
Ma continuano ad aumentare le gallerie africane, provenienti soprattutto da Nige-
ria e Sudafrica. Anche l’Italia era presente con la bresciana A Palazzo, che nella
sua scuderia conta il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia Edson Chagas e Sonya
Boyce, artista da sempre impegnata a denunciare la mancanza di donne nere nel
mondo dell’arte. «Lavorare con artisti africani», racconta Francesca Migliorati, la
direttrice di A Palazzo, «non è una scelta geografica, ma estetica e di mercato.
Qui a Londra abbiamo venduto moltissimo, anche se gli acquirenti erano in larga
parte europei o americani. Il nostro obiettivo adesso è allargare il mercato e arri-
vare al collezionismo africano, che potenzialmente è quello che ci interessa di
più. Sono certa che chi vuole investire in arte continuerà a puntare sull’Africa,
dove assistiamo a un dinamismo che l’Occidente non è più in grado di trascura-
re. La nostra artista più costosa è Ibrahim Mahama, una sua foto in edizione da
tre costa 5 mila euro per una misura di 60x97. Per le sue installazioni, invece, il
prezzo medio è di 20 mila euro» 3.
Storicamente in Occidente l’arte africana è stata oggetto di interesse per ra-
gioni legate alla tradizione o al folklore. La maggior parte dei progetti espositivi
veniva concepita all’interno di spazi particolari: musei di arte africana, dell’uomo,
di storia naturale, dei tropici, di arte naïf. Oggi invece si moltiplicano le mostre
collettive o personali allestite nei luoghi dell’arte contemporanea internazionale
che contano: Beauté Congo alla Fondazione Cartier di Parigi e il College of Art
and Design Museum of Art di Savannah (Scad), che ha presentato le opere di ol-
tre quaranta artisti contemporanei provenienti da diciannove paesi africani e del-
la diaspora africana nella mostra La Divina Commedia: Paradiso, Purgatorio e
Inferno rivisitati da artisti africani contemporanei.
Sempre più importanza va acquistando Dak’Art – Biennale di arte contem-
poraneamente africana in Senegal, nata per la letteratura e ora consacrata alle arti
visive; la presenza di artisti africani nelle rassegne di punta – dOCUMENTA, Trienna-
le de Paris, Biennale di Venezia – non è più solo un eccezione. Basti pensare che
il consiglio di amministrazione della Biennale di Venezia quest’anno ha nominato

2. Intervista a Touria El Glaoui concessa all’autore.


208 3. Intervista a Francesca Migliorati concessa all’autore.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

il critico nigeriano Okwui Enwezor direttore del Settore arti visive, con lo specifi-
co incarico di curare la 56a Esposizione internazionale d’arte.

2. La crescente fama degli artisti africani sulla scena internazionale inizia ad


alimentare mostre personali, come quella offerta dal Museo di Brooklyn allo
scultore ghanese El Anatsui, la cui Nuova mappa del mondo è stata venduta all’a-
sta per 541 mila sterline. Una fiera, una mostra, un riconoscimento o qualunque
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altro avvenimento condizionano fortemente la percezione dell’arte africana da


parte del pubblico e questo, naturalmente, si riverbera fisiologicamente sui prezzi
delle gallerie e delle case d’asta.
Prendiamo ad esempio la parabola dell’artista di origini camerunensi Pascale
Marthine Tayou, un autodidatta di 48 anni che quest’anno ha visto le sue quota-
zioni salire di molto. Inizia il 2015 stabilendo un record a Londra con due
Poupées Pascale (che rievocano le sculture rituali africane), vendute per 41.500
dollari. Riceve un’accoglienza entusiasta alla 46a edizione di Art Basel (17-21 giu-
gno), partecipa all’inaugurazione della galleria parigina VNH (Gri-Gri, 25 aprile-
20 giugno), espone al Bozar di Bruxelles (Boomerang, 24 giugno-20 settembre) e
viene annunciato per la prevista riapertura del Musée de l’Homme di Parigi. Poi
accade un evento tragico ma allo stesso tempo di incredibile risalto mediatico: in
Ucraina una delle sue opere subisce un attentato dinamitardo. Il 22 giugno 2015,
le forze filorusse distruggono Make Up, un’enorme installazione a forma di ros-
setto dedicata alle donne del Donbas per ringraziarle del ruolo svolto nella rico-
struzione di Donec’k dopo la seconda guerra mondiale. La galleria Continua –
una fra le più affermate a livello europeo – reagisce scegliendo Pascale Marthine
Tayou per produrre il poster della mostra collettiva che celebra i 25 anni della
galleria, esponendo le opere di altri artisti impegnati come Ai Weiwei, Kader At-
tia, Cai Guo-Qiang, Chen Zhen e Kendell Geers 4.
Tayou non è un caso isolato. Si inserisce in una tendenza generale di au-
mento del valore dell’arte africana nel suo insieme, tanto che anche la regina del-
le case d’asta, Sotheby’s, sta valutando l’ipotesi di specializzarsi sull’Africa dopo
che lo scorso anno ha incassato 84 milioni di dollari – erano appena 4 dieci anni
fa – dalle vendite di arte africana e oceanica. Se pensiamo che opera principal-
mente a Londra e a New York, due piazze che si dividono il 60% del fatturato
mondiale delle vendite all’asta di arte, possiamo immaginare quanto importante
sia un investimento del genere.
Arthouse, casa d’aste con sede a Lagos (Nigeria), ha visto i prezzi delle ope-
re decuplicarsi dalla prima asta battuta nel 2008. E Bonhams, celebre casa d’aste
britannica, ha visto i suoi prezzi di lotto aumentare cinque volte da quando si è
specializzata, nel 2007, in arte contemporanea africana. Si calcola che almeno
metà degli acquisti siano effettuati in Africa, soprattutto in Nigeria e in Sudafrica.
Certo, gran parte dei miliardari africani vive tra questi due paesi, ma gli esperti

4. Il mercato dell’arte contemporanea 2015, rapporto di Artprice. 209


LA NUOVA PRIMAVERA DELL’ARTE AFRICANA

indicano anche il forte sviluppo delle economie africane e la ricchezza crescente


della classe media come motivi principali dell’ampliamento di un mercato il cui
prezzo d’ingresso non è più quello di dieci anni fa, ma che consente ancora di
sperare in un ottimo margine di capitalizzazione dell’investimento.
«Ho iniziato a collezionare negli anni Settanta», afferma Yemisi Shyllon, il
più grande collezionista d’arte privato in Nigeria, che possiede oltre 7 mila ope-
re, «e i lavori che compravo non avevano quasi nessun valore. Si poteva acqui-
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stare una buona opera a 100 dollari; oggi alcune di queste ne valgono milioni.
Ho studiato il movimento dei prezzi delle opere d’arte vendute alle aste in Nige-
ria dal 1999 e posso dirvi che l’arte contemporanea africana è diventata una so-
lida forma di investimento» 5.
Pare se ne stiano accorgendo anche in Cina, paese dove si fattura il 21% del-
le vendite nel settore: Dabing Chen, imprenditore già attivo nel Vecchio Conti-
nente quale fondatore dell’Africa-China Friendship Association, appassionato col-
lezionista di arte tribale, ha voluto guardare all’arte africana come investimento,
unendosi ad alcuni manager sudafricani. Il fondo che hanno creato – stimato in-
torno ai 40 milioni di dollari – verrà impiegato in un vasto programma di prestiti
per accrescere il valore della collezione, tra cui mostre temporanee e internazio-
nali, prestigiosi musei, fondazioni, eventi speciali, fiere d’arte. Già stanziata anche
una donazione a favore del futuro Zeitz Museum of Contemporary African Art di
Cape Town, che aprirà i battenti nel 2017 con la collezione dell’ex presidente
dell’azienda di abbigliamento sportivo Puma, Jochen Zeitz 6.

3. Un’ascesa inimmaginabile fino a qualche anno fa, di cui molti ignorano


le origini storiche. Pochi sanno, infatti, che lo sdoganamento dell’arte contem-
poranea africana a livello internazionale può in gran parte attribuirsi all’Italia.
Nel 1988 il critico d’arte Achille Bonito Oliva segnalò alla Biennale di Venezia
Fathi Assan, primo artista di origini africane a partecipare alla più importante e
prestigiosa rassegna per le arti visive al mondo. «Ho sempre praticato nomadi-
smo culturale», racconta Bonito Oliva. «Il critico d’arte deve essere come un me-
dico senza frontiere. Ho trovato che il linguaggio di questo artista egiziano cor-
rispondeva a una forte affermazione identitaria. Non un’affermazione autarchica,
ma di contaminazione. Per questo mi sono sentito in dovere di segnalarlo alla
Biennale d’arte di Venezia».
Il circuito dell’arte contemporanea ha imparato solo da poco ad apprezzare il
lavoro degli artisti africani, sebbene siano in tanti ad affermare che senza l’Africa,
l’arte non sarebbe stata la stessa per noi occidentali e che sia stata un serbatoio
importante per l’immaginario di grandi artisti. D’altra parte, è impossibile negarne
l’influenza in alcune opere di primo piano come Demoiselles d’Avignon di Pablo
Picasso, la Testa d’uccello di Max Ernst o L’uomo che cammina di Giacometti.

5. J. PRISCO, «Africa’s Contemporary Art Is Booming… So Buy It While You Can», Cnn, 16/7/2014.
210 6. M. GAMBILLARA, «Mercato. La Cina investe in Africa», Artribune, 31/8/2015.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

IL MERCATO DELL’ARTE CONTEMPORANEA

Fatturato delle vendite all’asta di arte contemporanea per categoria, luglio 2014 - giugno 2015

Stampa
1,2%
Pittura Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a

Scultura

15,3%
61,2%

4,6%
Fotografa

17,4%

Disegno
Altri
0,3%

Fonte: arteprice.com

«L’Occidente», ricorda Bonito Oliva, «si è abbeverato a lungo alle fonti delle
arti primitive. Iniziamo a scoprirle all’inizio del secolo scorso, quando le avan-
guardie riprendono vigore dopo l’anemia accademica; poi il colonialismo, l’i-
dea del viaggio, la tecnologia che ha ridotto le distanze. Tutti questi fattori han-
no concorso a creare un’idea di contaminazione, di meticciato culturale. Sul
piano antropologico si è prodotto un dialogo fra culture e il critico d’arte ha
usato le parole per creare un contatto fra queste immagini, che altrimenti sa-
rebbero rimaste mute» 7.
Ma adesso questi popoli hanno intrapreso un percorso di avvicinamento allo
stile e al linguaggio dell’arte occidentale, annacquando le loro fonti d’ispirazione
legate alle tradizioni e alla terra d’origine. Anche perché se a inizio secolo il cen-
tro dell’arte e della cultura europea era Parigi e poi, per un periodo, è diventato
New York, «oggi nella nostra società c’è un policentrismo per cui il nucleo del si-
stema è il soggetto che attraversa le culture più disparate».
L’ingresso nel gotha dell’arte contemporanea ha consentito agli artisti africani
di promuovere la propria arte fuori dai confini continentali. L’ascesa dei prezzi
sul mercato sta creando un fermento tra gli addetti ai lavori (e non solo) di tutto
il mondo, che vedono l’Africa come un’opportunità di investimento. Sarebbe in-
7. Intervista ad Achille Bonito Oliva concessa all’autore. 211
LA NUOVA PRIMAVERA DELL’ARTE AFRICANA

teressante capire se e in che misura le case d’asta, le grandi gallerie, i collezioni-


sti e le fiere internazionali condizionino la vena creativa degli artisti africani in
nome delle regole d’ingaggio. E quanto sia possibile per loro mantenere un lega-
me con la tradizione pur inserendosi in dinamiche di mercato a cui gli artisti oc-
cidentali sono ormai sottoposti e abituati.
«L’arte africana», afferma Ezio Bassani, esperto e collezionista di arte antica
africana, «non ha mantenuto caratteristiche fisse nel corso del tempo; la sua evo-
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luzione testimonia l’evoluzione di una civiltà, com’è successo in ogni parte del
mondo. È sempre esistita una corrispondenza tra forma e funzione, mentre ades-
so gli artisti africani lavorano per esportare i loro lavori, non li fanno più ad uso
e consumo della popolazione. La globalizzazione li ha spinti a produrre oggetti
per immetterli sul mercato. Anche se la committenza e il collezionismo sono
sempre esistiti: i Medici a Firenze nel 1550 possedevano dei bellissimi avori che
provenivano in larga parte dalla Sierra Leone, dalla Liberia e dalla Nigeria» 8.

212 8. Intervista a Ezio Bassani concessa all’autore.


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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

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A TAVOLA di Daniel SCHADE e James BARTHOLOMEUSZ

Lasciando l’Ue, il Regno Unito non smetterebbe di essere


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influenzato dalla legislazione europea che tanto aborrisce.


I potenziali contraccolpi nel continente. L’alternativa meno
indesiderabile al caos è continuare a far parte del dibattito.

1. « OBBIAMO COSTRUIRE UNA SORTA DI


Stati Uniti d’Europa». Pronunciate per la prima volta nel 1946 da Winston Chur-
D
chill all’Università di Zurigo, queste parole vengono ripetute con reverenza da
generazioni e generazioni di eurofili. Spesso, però, se ne dimentica il contesto.
Nello stesso discorso, l’allora ex primo ministro britannico disse chiaramente che
«la Gran Bretagna deve essere amica e sponsor della nuova Europa», non parte di
essa. La posizione di Churchill enuclea perfettamente la contraddizione al cuore
della relazione britannica con il resto del continente. Benché il Regno Unito ab-
bia sempre svolto un ruolo attivo in Europa e sia sempre stato influenzato dal
comune sviluppo della civiltà europea, raramente si è percepito come parte del-
l’Europa. E questa è oggi la visione predominante, man mano che il paese si av-
vicina al referendum sull’appartenenza all’Ue.
Tuttavia, scendendo più in profondità degli assunti nel dibattito sul Brexit, la
storia dei rapporti euro-britannici risulta molto più complessa di quanto non ap-
paia in superficie. Riesaminando le relazioni internazionali allo scoppio della se-
conda guerra mondiale, appare chiaro come la visione di Churchill fosse plasmata
più dal pragmatismo che non da convinzioni ideologiche.
Al momento dell’invasione nazista della Francia nel 1940, in un episodio
quasi dimenticato della storia diplomatica del conflitto, il governo Churchill pro-
pose una dichiarazione di unione che avrebbe saldato il Regno Unito e la Terza
Repubblica francese in un solo Stato. Pur non riuscendo a dissuadere la Francia
dalla resa ai tedeschi per una serie di errori di comunicazione, la disperata pro-
posta infranse secoli di ortodossia costituzionale. In un momento di crisi, persino
la Gran Bretagna non era necessariamente un’entità singola e indivisibile.
Solo sei anni dopo il politico conservatore propose la sua visione di Stati
Uniti d’Europa. Un discorso ancora oggi considerato dagli storici e dai paladini 215
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del federalismo come uno dei momenti fondativi dell’odierna Unione Europea.
La grande ironia è che Churchill dopo la parentesi unionista in tempo di guerra
ritornò nell’alveo dell’eccezionalismo britannico. Eppure, due decenni dopo,
un’umile Gran Bretagna avrebbe bussato alle porte dell’Europa, invocando l’in-
gresso nel club.
Mentre sul continente i paesi iniziavano lentamente a unirsi nella Comunità
europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) e in seguito nella Comunità europea
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(Ce) – un processo accompagnato da una significativa crescita economica – l’e-


sperienza britannica postbellica fu molto più irregolare. Non solo il Regno Unito
visse una prolungata recessione economica, ma nello spazio di pochi anni il suo
impero coloniale fu ridotto in polvere. Se per la Francia il percorso nell’integra-
zione continentale rappresentò una parziale compensazione per la sua turbolenta
decolonizzazione, Londra fu lasciata senza impero e senza Europa.
È in queste condizioni che all’inizio degli anni Sessanta Londra decise di
fare domanda per l’adesione alle comunità europee. Anche qui non mancano
le ironie. Fu lo stesso presidente Charles de Gaulle, leader della resistenza fran-
cese con base a Londra durante la guerra e fiero sostenitore della dichiarazione
di unione del 1940, a porre il veto sulla richiesta britannica nel 1963. Come dis-
se al suo ministro dell’Informazione Alain Peyrefitte, «l’Inghilterra non è più
grande». Soprattutto, de Gaulle temeva che l’ingresso di Londra avrebbe per-
messo al «cavallo di Troia» degli Stati Uniti di varcare le mura del progetto eu-
ropeo. Un’eventualità incompatibile con la sua visione di un’Europa a guida
francese, che sarebbe dovuta emergere come terzo polo globale per confron-
tarsi con Usa e Urss.
Disperata, la Gran Bretagna aumentò i suoi sforzi per entrare nelle comunità
europee solo per ricevere un altro veto da de Gaulle nel 1967. Un rapporto del-
l’allora ambasciatore britannico a Parigi, Christopher Soames, arrivò persino a in-
vocare che Londra facesse tutto quello che era in suo potere per avvicinarsi il
più possibile all’Europa, anche senza la piena membership. Solo la caduta di de
Gaulle sull’onda delle proteste del maggio 1968 schiuse al Regno Unito la via di
Bruxelles, dieci anni dopo il primo veto, nel 1973. In un referendum di due anni
dopo, i due terzi del paese votarono per restare nella Ce.
Dopo un travaglio di dodici anni, la quarantennale adesione britannica al
progetto europeo è stata caratterizzata sia da momenti in cui Londra ha persegui-
to il suo stretto interesse sia da altri in cui è stata portavoce di posizioni illumina-
te. Sul primo versante figura il cosiddetto «sconto britannico» negoziato durante il
premierato di Margaret Thatcher. In quanto politico neoliberale per eccellenza, la
«Lady di ferro» era inorridita dal sistema continentale di sussidi all’agricoltura, per-
cepiti come un danno al competitivo e liberalizzato settore agricolo britannico. In
un colpo di genio negoziale, Thatcher riuscì a strappare l’esenzione di cui Lon-
dra tuttora profitta. Ciononostante, il fatto che la Gran Bretagna possa contribuire
proporzionalmente meno di qualunque altro Stato membro al bilancio comune
216 europeo è un tema quasi del tutto assente nel dibattito sul Brexit.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

Quanto al secondo versante, a volte Londra ha contribuito significativa-


mente all’avanzamento del progetto europeo, con la sua posizione pragmatica
sul mercato unico o nel campo della politica estera. Nel settore della legislazio-
ne europea, il paese ha nel tempo rappresentato un utile confronto con la
realtà per gli ambiziosi progetti dei politici, prediligendo sempre soluzioni
pragmatiche alla grandeur politica. Senza Londra, oggi l’Europa sarebbe proba-
bilmente più ripiegata su se stessa, più protezionista di quanto non sia e più in
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balia degli interessi dei partiti e delle loro ideologie.


Al contempo il Regno Unito è stato al centro di un ambizioso salto in avanti
del progetto europeo, effettuato nel campo della politica estera. In qualità di
membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e di robusta potenza
militare, con la sua sola adesione ha dato all’Ue un peso maggiore nel mondo.
Inoltre, lo sviluppo forse più significativo nell’ambito della politica estera euro-
pea è proprio un’iniziativa franco-britannica. In seguito alle guerre balcaniche, i
leader dei due paesi erano desiderosi di assicurare all’Europa la capacità di fare
la sua parte nella difesa dell’Unione e del suo intorno geopolitico senza dover
sempre contare sul contributo decisivo degli Stati Uniti. Con la Dichiarazione di
Saint-Malo del 1998, Francia e Gran Bretagna diedero il la alla creazione della
Politica di sicurezza e di difesa comune (Pesd), dotando così l’Ue della possibilità
di inviare missioni di peacekeeping militari e civili al di fuori della cornice della
Nato. Dalla creazione della Pesd, l’Unione ha intrapreso decine di queste opera-
zioni, nonostante Londra si sia dimostrata piuttosto riluttante a contribuirvi.

2. Negli ultimi settant’anni, il Regno Unito ha giocato un ruolo importante


nella storia dell’Ue, prima in qualità di sponsor e poi di membro. Benché il pre-
mierato di Thatcher negli anni Ottanta abbia instradato il paese su un binario più
euroscettico, la «Lady di ferro» era come Churchill una pragmatica filoeuropea: ri-
conosceva che i benefici della membership erano di gran lunga maggiori dei costi.
Come ha fatto dunque il paese a ritrovarsi nel punto in cui è oggi, a meno di due
anni da un referendum che potrebbe sancire la sua uscita dall’Ue? In parte risulta-
to della crisi dell’Eurozona, i sentimenti antibrussellesi sono più o meno presenti
in ogni Stato membro. Il caso britannico rileva tuttavia per due aspetti peculiari
che rendono particolarmente acuta la febbre dell’euroscetticismo.
In primo luogo, la consueta frattura politica sul tema dell’Europa – una fa-
coltosa élite cosmopolita contro le forze del populismo reazionario – non è l’uni-
co clivage; c’è un conflitto anche tra le diverse nazioni che compongono il Re-
gno Unito. È passato poco più di un anno da quando la Scozia ha votato di stret-
ta misura (il 10% circa) per continuare a farne parte. Il Partito nazionale scozzese
ha usato i poteri devoluti a Edimburgo a fine anni Novanta per costruire quella
che sembra un’inarrestabile valanga politica a nord del vallo di Adriano. Per tutta
risposta, a sud si è creata una risposta all’eccezionalismo scozzese. La destra in-
glese cerca di sbarazzarsi sia di Bruxelles sia di Edimburgo, facendosi portavoce
dell’idea di una larga fetta della popolazione d’Inghilterra che il paese sia ostag- 217
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gio sia dei celti sia dei latini. La rabbia contro l’establishment europeo è parte di
una sensazione più ampia che l’ormai disfunzionale unione britannica potrebbe
non durare ancora a lungo.
In secondo luogo, e legato a questo, è la risurrezione dell’essenziale diver-
sità storica della Gran Bretagna rispetto al resto d’Europa. Anche la maggioranza
dei cittadini che non dispongono di un’approfondita conoscenza legale hanno la
vaga idea che il Regno Unito alberghi al di fuori della tradizione continentale
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della civil law. Senza una costituzione scritta, il sistema politico britannico è fon-
dato sul principio della sovranità parlamentare: tutto il diritto deriva dalla legisla-
zione – con l’approvazione formale della monarchia – e i precedenti sono di vol-
ta in volta fissati e aggiornati dalle corti giudiziarie.
Tuttavia, il Regno Unito è pure vincolato da una moltitudine di accordi inter-
nazionali, compresa la Convenzione europea per i diritti umani con la sua corte
a Strasburgo, cui i governi britannici del passato hanno liberamente dato il loro
assenso. Non tanto tempo fa, questi princìpi basilari sono stati persino incapsula-
ti nel diritto interno britannico, dando al paese per la prima volta nella storia una
Corte suprema. Oggi, questi traguardi nella protezione dei diritti umani sono sfi-
dati dal governo, che li vuole sostituire con un bill of rights autoctono, nel tenta-
tivo di riprendere il controllo su questo particolare aspetto della legislazione in-
ternazionale. Una mossa che permetterebbe all’esecutivo di alterare la protezione
dei diritti umani in modo da essere contestato meno spesso di quanto non acca-
da ora. L’idea è che la Gran Bretagna sia in fin dei conti un caso a parte.
Lo stesso principio del controllo legislativo è stato preso come cause céle-
bre dallo United Kingdom Independence Party (Ukip), prima forza euroscettica
del paese – un’ironia, visto che detiene solo uno dei 650 seggi della Camera
dei comuni e nessuno in quella dei Lord. Il suo leader, Nigel Farage, diffonde
impunemente le menzogne più plateali sulla natura e sull’entità del diritto co-
munitario, aizzato dalla stampa. Il successo dello Ukip può essere attribuito
principalmente alla sua capacità di alimentare la paura del cambiamento della
società, sia esso il risultato dell’immigrazione, della globalizzazione o di en-
trambe. Ma ecco un’altra lampante ironia: essendosi autoesclusa sia dalla mo-
neta unica sia da Schengen, la Gran Bretagna è stata meno lambita dalle crisi
dell’Eurozona e dei rifugiati.
A prescindere dalle sfortune parlamentari, l’impatto dell’Ukip sul dibattito po-
litico è stato così rilevante da rendere elettoralmente poco saggio per qualunque
politico britannico dimostrarsi filoeuropeo e persino sfidare i luoghi comuni sul-
l’Ue. I conservatori hanno reagito alla percepita ascesa dell’Ukip solo con azioni
difensive, a partire dal ritiro dei Tories dal gruppo parlamentare europeo di cen-
tro-destra, il Partito popolare europeo. Il primo passo verso l’abbandono di una
posizione mainstream di centro-destra, in cui il partito era collocato sin dall’ade-
sione del 1973, ottenuta proprio sotto la guida di un conservatore, Edward Heath.
L’egemonia dell’Ukip nel dibattito sull’Ue – unita al galoppante euroscettici-
218 smo tra i parlamentari conservatori senza incarichi di governo – ha poi forzato
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO

Cameron a promettere questo maldestro referendum sul Brexit nel manifesto


elettorale dei Tories del 2015. Una promessa ovviamente in cattiva fede, conce-
pita come misura per calmare le acque interne al partito e destinata a essere ce-
stinata da qualunque governo laburista e persino da una riedizione della coali-
zione fra conservatori e liberal-democratici. Dopo l’incredibile e non preventiva-
to successo elettorale di Cameron a maggio, che gli ha permesso di governare
da solo per la prima volta dal 1997, il premier si è trovato con le mani legate e
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ha dovuto far approvare una legge che impegna il paese a tenere un referen-
dum entro la fine del 2017. Nel frattempo, sarebbe in corso una rinegoziazione
dei termini della membership britannica nell’Ue, senza particolare successo.
Comprensibilmente, nessun altro Stato membro è propenso a riaprire il dibattito
sui trattati fondativi dell’Unione.

3. Essendo ormai il referendum in agenda, con i favorevoli all’uscita al mo-


mento in vantaggio nei sondaggi, dobbiamo iniziare a esplorare i diversi scenari.
Una cosa è chiara: il voto avverrà nel momento sbagliato e con modalità sbagliate.
Immaginiamo che una maggioranza dei britannici voti per restare nell’Ue.
Pur non alterando in teoria lo status quo, qualche danno si sarà comunque pro-
dotto, specie se la maggioranza sarà risicata. Idealmente questa eventualità da-
rebbe a Londra margine di manovra per riconsiderare la sua governance inter-
na, dalle promesse di maggiore autonomia per le nazioni del regno e per la
stessa Inghilterra fino a una revisione dell’antiquato sistema elettorale e all’aboli-
zione della Camera dei Lord. Al di là della Manica, nessuna questione sulla go-
vernance europea sarebbe però risolta, dal momento che uno dei membri più
importanti dell’Unione resterebbe ripiegato su se stesso e discretamente euro-
scettico per parecchio tempo.
Il secondo scenario vede invece il Regno Unito uscire dall’Ue, recuperando la
sua piena sovranità. Nel mondo di oggi, tuttavia, la sovranità conta solo se si è in
grado di farla rispettare. In qualità di vicino di un gigantesco blocco commerciale,
Londra dovrebbe accettare diversi princìpi della legislazione europea per non per-
dere l’accesso al mercato comune sul quale fonda all’incirca la metà del volume
dei suoi scambi. Un esempio tratto dal campo della cooperazione di polizia e giu-
stizia illustrerà meglio il punto. Quando il Regno Unito, per placare l’Ukip, ha de-
ciso di chiamarsi fuori dall’applicazione di alcune delle misure più controverse co-
me il mandato di arresto europeo, si è poi visto costretto per necessità a rientrarvi.
La Gran Bretagna non è la Svizzera o la Norvegia, ma si ritroverebbe comunque
nella stessa posizione in cui è ora senza però poter influenzare la legislazione eu-
ropea. Alla fine è la sovranità materiale, non quella formale, che conta.
Non deve dunque meravigliare che la maggior parte degli stakeholders del-
l’economia britannica – compresi la Confederation of British Industry e il Trade
Union Congress, in rappresentanza dei due lembi della faglia business-lavoro – si
stiano radunando attorno alla campagna per mantenere il paese nell’Ue. Lo stes-
so Barack Obama ha detto abbastanza chiaramente che in caso di uscita dall’Eu- 219
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ropa la Gran Bretagna non godrebbe della stessa special relationship del passato.
Invece di restare l’ideale «cavallo di Troia» degli americani come temuto da de
Gaulle, Londra finirebbe per isolarsi pure dagli Stati Uniti.
Contrariamente alle fantasie euroscettiche di Fortress Britannia, qualora la-
sci l’Ue il Regno Unito non smetterà miracolosamente di essere parte dell’Euro-
pa. Sarà ancora influenzato dalle stesse questioni geopolitiche ed economiche
del resto del continente, ancora affacciato su un Mare del Nord le cui acque si
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stanno inesorabilmente alzando e ancora nel mezzo di una crisi dei rifugiati.
L’unica cosa che perderà senza alcun dubbio è la più importante: il suo posto al
tavolo dei negoziati. Non ci saranno deputati britannici al parlamento europeo,
nessun rappresentante del governo di Londra al Consiglio dei ministri, nessun
diplomatico a gestire la protopolitica estera ora guidata da Federica Mogherini.
E i residuali britannici nel servizio civile dell’Ue potrebbero scoprire che le pro-
prie fedeltà personali sono improvvisamente cambiate. Questo scenario riporte-
rebbe in auge pure la questione scozzese. Vista l’attuale situazione politica a
nord del confine inglese, non sembra plausibile che Edimburgo vorrà restare in
un Regno Unito senza Ue.
Se le conseguenze dei due scenari per la Gran Bretagna sembrano relativa-
mente chiare, lo stesso non può dirsi per l’Europa. Si potrebbe sperare che l’esi-
lio di Londra funga da catalizzatore per un’integrazione più profonda. Dopotut-
to, con uno dei paesi più euroscettici fuori dal ring, alterare l’equilibrio di po-
tenza in favore di questa opzione potrebbe apparire più semplice. Tuttavia, vista
l’ascesa dei sentimenti antibrussellesi sul continente e l’infinita sequenza di crisi,
bisogna tenere in considerazione anche l’eventualità opposta. Con uno dei suoi
tre maggiori attori fuori dall’equazione, potrebbe prodursi un colpo di coda na-
zionalista in tutto il continente. Dell’uscita di Londra beneficerebbe nell’imme-
diato Marine Le Pen, che capitalizzerebbe le paure di un’Ue diventata di fatto
strumento del dominio imperiale tedesco. Nel peggiore dei casi, tutto ciò si po-
trebbe tradurre nel collasso delle politiche comuni europee, in una corsa a ri-
vendicare la sovranità nazionale formale. Un processo di disintegrazione del tut-
to comparabile a quello jugoslavo. Una volta recisi i vincoli che rendono la
guerra «materialmente impossibile», il ricorso alle armi, benché improbabile,
rientra nel campo delle possibilità.
Nessuno di questi scenari è ideale, ma il meno indesiderabile è che la
Gran Bretagna decida di restare nell’Unione Europea. Gli esercizi di democra-
zia diretta devono essere incoraggiati e la loro pratica applaudita. Tuttavia, allo
stato attuale delle cose il referendum non sarebbe una consultazione realmente
democratica, dal momento che nessuno è in grado di capire a favore di cosa si
stia effettivamente votando. Il rischio dell’uscita è il caos. Restare nell’Ue con-
sentirebbe almeno a Londra di restare parte del dibattito europeo.

(traduzione di Federico Petroni)


220
GIULIO ALBANESE - Padre comboniano.
FLAVIO ALIVERNINI - Consigliere redazionale di Limes e collaboratore di La Stampa.
GIANNI BALLARINI - Giornalista di Nigrizia, mensile dei missionari comboniani.
JAMES BARTHOLOMEUSZ - Ricercatore, Project for Democratic Union.
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MARINA BERTONCIN - Professore ordinario di Geografia all’Università di Padova. Insegna


Territory and Local Development.
EDOARDO BORIA - Geografo, insegna all’Università La Sapienza di Roma.
BEATRICE BOTTO - Architetto e dottorando in Paesaggi della città contemporanea, diparti-
mento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre.
GIORGIO CUSCITO - Consigliere redazionale di Limes. Analista, studioso di geopolitica cinese.
ANDREA DE GEORGIO - Giornalista freelance, vive in Mali dove ha seguito il conflitto per
media nazionali e internazionali quali Cnn, Rainews24, Radio 3, Corriere della Sera,
Stampa, Nigrizia. È Ispi Associate Research Fellow su terrorismo nel Sahel e islam
dell’Africa Occidentale.
EMANUELA C. DEL RE - Esperta di geopolitica e sicurezza. Specialista di Balcani, Caucaso e
Medio Oriente. Docente di Sociologia politica, Università Unicusano di Roma. Presi-
dente e fondatrice di Epos International Mediating and Negotiating Operational
Agency.
ESOH ELAMÉ - Università di Padova, dipartimento di Ingegneria civile, edile e ambientale,
Icea.
MARCO FIORI - Responsabile operativo Sezione investigativa Cites del Corpo forestale del-
lo Stato.
GERARDO FORTUNA - Laureato in Scienze politiche all’Università La Sapienza di Roma, è at-
tualmente responsabile comunicazione del Movimento Europeo – Italia (Cime). Ha
scritto il saggio Ripensare i Balcani. La percezione identitaria tra costruzione diploma-
tica e complessità politiche.
MAURO GAROFALO - Responsabile Esteri della Comunità di Sant’Egidio.
MARIO GIRO - Sottosegretario agli Esteri.
NICCOLÒ LOCATELLI - Editor (web e social media) di limesonline.com. Membro del consi-
glio redazionale di Limes.
LUCA MAINOLDI - Collaboratore di Limes. Segue tematiche relative alla geopolitica e alla
storia dell’intelligence.
GIULIANO MARTINIELLO - Ricercatore in Sviluppo rurale, facoltà di Scienze agrarie e alimen-
tari, American University, Beirut.
GIORGIO MUSSO - Assegnista di ricerca presso l’Università per Stranieri di Perugia.
ANDREA PASE - Professore associato di Geografia all’Università di Padova. Insegna Geogra-
fia storica.
BENEDETTA PELUSIO - Architetto e dottorando in Paesaggi della città contemporanea, dipar-
timento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre.
PAOLO RAIMONDI - Economista e docente universitario.
LUCA RAINERI - Dottorando presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
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L’IRAN NEI BALCANI

ROBERTO ROVEDA - Si occupa di storia del Medioevo e di storia del Cristianesimo. Scrive
per la rivista svizzera Ticino 7, per Focus storia e per il quotidiano L’Unione Sarda.
PAOLO SANNELLA - Diplomatico italiano.
DANIEL SCHADE - Vicepresidente del Project for Democratic Union.
VITTORIA STEFANINI - Architetto e dottorando in Paesaggi della città contemporanea, dipar-
timento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre.
JEAN-LÉONARD TOUADI - Giornalista, esperto di geopolitica africana. Docente di Geografia
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dello sviluppo in Africa all’Università di Tor Vergata, Roma.


MICHELANGELO VALLICELLI - Architetto e dottorando in Paesaggi della città contemporanea,
dipartimento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre.
RAFFAELLO ZORDAN - Giornalista di Nigrizia, mensile dei missionari comboniani.

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La storia in carte
a cura di Edoardo BORIA
1. Per diversi secoli la più diffusa forma di rappresentazione cartografica non ha
riguardato la terraferma ma gli spazi marittimi. Portolani e carte nautiche, con le loro
rose e linee dei venti, i loro toponimi ordinatamente allineati in senso perpendicolare
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alle coste, erano infatti i veri oggetti immancabili nelle borse dei viaggiatori, che si spo-
stavano preferibilmente tramite il cabotaggio sotto costa. I portoghesi sono stati mae-
stri nel genere, come evidenzia questa carta dell’Africa nord-occidentale, tanto detta-
gliata sulla costa quanto fantasiosa per l’interno.
Fonte: L. LAZARO, Portolano della Costa Occidentale dell’Africa con le isole Cana-
rie, da Portugaliae Monumenta Cartographica, 1563.

2. «Il tempo delle scoperte è quello delle invenzioni dei toponimi. Ciascuno vuole
imporre la propria nomenclatura, che magari vive appena per il tempo di una carta»
(CH. JACOB, Introduction, in Atlas. L’Histoire de l’humanité, 1989). È durata un po’ di più
– ma non troppo – la nomenclatura imposta dai belgi al Congo, con i vari centri di
Stanleyville, Léopoldville, Elisabethville eccetera e gli omonimi dipartimenti ammini-
strativi ben visibili con caratteri rossi su questa carta. Quando un misto di rivalsa anti-
colonialista e delirio di onnipotenza del maresciallo presidente Mobutu imposero una
nuova riforma dei nomi, Léopoldville divenne Kinshasa, Stanleyville fu ribattezzata
Kisangani ed Elisabethville diventò Lubumbashi, solo per dire di questi tre. Lo stesso
Mobutu rinnegò il proprio nome di battesimo, Joseph-Désiré, smaccata prova della
sudditanza alla cultura del colonizzatore e forse anche troppo delicato per le sue orec-
chie, a favore di un più autoctono e bellicoso Mobutu Sese Seko Koko Ngbendu Wa
Zabanga che in lingala, lingua evidentemente succinta, significa «Mobutu, il potente
guerriero che non conosce sconfitte grazie alla sua resistenza e inflessibile volontà di
vittoria, che lo portano di conquista in conquista lasciando una scia di fuoco».
Fonte: Carte du Congo Belge, J. Lebegue & C., Bruxelles 1896.

3. Le ricchezze naturali dell’Africa sono risapute. Quelle di superficie come quelle


del sottosuolo, oggi come secoli fa, prendono preferibilmente la strada dell’esportazio-
ne. Lo mostra eloquentemente questa immagine destinata ai giovani rampolli del colo-
nizzatore francese. Ma i problemi delle economie africane non sono tanto dovuti all’ac-
caparramento indiscriminato delle risorse a profitto di soggetti esterni al continente
(più qualche potentato locale), quanto all’imposizione di modelli economici estranei a
quelle realtà e all’impossibilità di seguire percorsi di sviluppo propri.
Fonte: Copertina di un quaderno di scuola francese, 1935 ca.

4. Antenati delle immagini satellitari erano i panorami cartografici, cioè quelle ve-
dute prospettiche che offrono la visione di un territorio dallo spazio. Sublimando l’ica-
rio desiderio di volteggiare liberamente nell’aria, la loro evoluzione è rivelatrice di
quanto la cartografia sia specchio dei tempi: i panorami apparvero infatti in epoca ri-
nascimentale mentre Leonardo conduceva i suoi esperimenti sul volo e conobbero la
gloria nell’Ottocento dopo che i fratelli Montgolfier avevano sbalordito tutti con i loro
palloni aerostatici.
224 Fonte: Africa vista dall’alto, Antica ditta F. & C. Vallardi, Milano 1845 ca.
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Internazionale Sviluppo Sostenibile

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