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Collana I Manuali dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative – Edizioni Circolo Virtuoso
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
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INTRODUZIONE …………………………………...……………..pag. 13
6. Lo Psicodramma sonoro-musicale
di Giuseppa Pistorio e Niccolò Cattich ..................................... pag. 210
8. La Musicoterapia Recettiva
di Niccolò Cattich ...................................................................... pag. 273
9. L’Effetto Mozart
di Antonio Montinaro ................................................................ pag. 285
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15.1 Lineamenti per una storia delle Arti Terapie ...................... pag. 453
15.2 Elementi di teoria e tecnica dell’Arteterapia
Plastico Pittorica ................................................................. pag. 458
15.3 L’uso di modalità espressive in terapia .............................. pag. 467
15.4 Applicazione dell’Arteterapia Plastico Pittorica
in un contesto formativo ..................................................... pag. 476
15.5 Il laboratorio: Ri-costruire Auto-strade comunicative ........ pag. 480
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Introduzione
professione e, con essa, alla crescita dell’Istituto di Arti Terapie che così
brillantemente ne rappresenta un’importante testimonianza nel panorama
nazionale. Senza la loro ultradecennale esperienza, grande professionalità
e sensibilità, non sarebbe stato possibile approdare a questo risultato.
Stefano Centonze
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Gli autori
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SEZIONE I
L’approccio globale alla
persona in cura
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1.4 Le pseudosperimentazioni
Ciò che appare singolare è la evidente tendenza a costruire, su enumera-
zioni di dati e risultanze poco dimostrati, degli edifici altrettanto evane-
scenti che, nel corso del tempo, assumono, sorprendentemente, il valore di
realtà e di verità, non propriamente falsificati, in una spirale vicina a quella
paranoide, per la quale sono vere e dimostrate le conseguenze di un qual-
sivoglia assunto di partenza, dimenticando, però, che questo muove da un
dato ipotetico e non provato. La particolare attenzione rivolta da alcuni
Operatori sanitari ai settori delle “neuroscienze”, trova alimento in oppor-
tunità professionali meno impegnative e più remunerative, in esigenze di
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1.10 Empatia
La si può riassumere dotata delle seguenti componenti:
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Viktor Frankl
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SEZIONE II
Premesse scientifiche
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scente, diventano parte integrante del vivere sociale. Ancora oggi la sco-
perta continua; c’è sempre, dunque, una parte di noi che non conosciamo e
che, di conseguenza, temiamo. In virtù di questo è lecito affermare, quindi,
che la “paura” è, fondamentalmente, “ignoranza”, cioè “non conoscenza”.
Da secoli si assiste a un atteggiamento che a volte è improntato al tentativo
di conoscere e quindi di capire l’uomo, altre volte a quello di reprimere e
allontanare l’ignoto, comune atteggiamento, evidentemente dettato dal ti-
more che, in ogni uomo, esista qualcosa di “folle”. Se anche adesso cer-
cassimo di capire, riusciremmo, probabilmente, a sconfiggere il divario e-
sistente tra il normodotato e l’ipodotato. D’altronde, il comportamento ge-
nerale dei nostri ultimi due secoli, piagati da crisi profonde e altrettanti
profondi cambiamenti, è espressione di una situazione di dubbio esisten-
ziale: andare avanti o tornare indietro?
I popoli primitivi non pensarono in termini medici e psicologici.
L’atteggiamento verso la malattia non era basato sulla sintesi intellettuale
delle osservazioni, bensì risultava una reazione spontanea, emotiva, al do-
lore; era anche paura. L’uomo spaventato si lasciava trascinare nel regno
della fantasia. Incapace di pensare e sentire il mondo esterno, in termini
diversi dai propri, lo popolava di esseri immaginari: alcuni utili, quasi im-
pulsi suoi stessi, altri maligni, a somiglianza degli elementi ostili. Questa
fu l’origine psicologica delle fantasie intorno agli spiriti, benigni e maligni,
della cosmogonia mistica. Questo atteggiamento non cambiò neanche mol-
to tempo dopo, per esempio tra gli ebrei dell’età biblica, che giustiziavano
ottusamente i malati mentali, credendoli puniti da Dio, con l’infusione di
spiriti maligni. Solo in alcune civiltà, diverse dalla nostra, compaiono i
primi tentativi di studio dei fenomeni psichiatrici. In quella Indù, per e-
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fermò, per esempio, che una lesione nel cervello o una malattia possono
essere la causa di disturbi mentali, ma credette anche che alcuni stati emo-
tivi potessero produrre mutamenti psicologici nell’uomo. Si batté per libe-
rare la psichiatria dai pregiudizi mistici ma la sua psicologia medica fu, es-
senzialmente, di natura fisiologica.
I Romani misero il loro impero al servizio della cultura greca, che rimase
sempre predominante, trasferendosi, pian piano, nell’Europa medievale e
moderna. È l’epoca della geometria di Euclide, della fisica di Archimede,
l’astronomia di Ipparco. Asclepiade, verso la prima metà del primo secolo
A. C., fece alcune scoperte. Egli pensava che la malattia mentale scaturisse
da disturbi emotivi che chiamava “passioni delle sensazioni”. Introdusse
alcuni espedienti per alleviare le sofferenze degli infermi (letti sospesi,
musica, si oppose alle celle e all’oscurità).
Nell’era precristiana, al tempo di Asclepiade, Roma attraversò un periodo
di umanesimo e i problemi del malato di mente vennero analizzati più con-
cretamente. Cicerone e Plutarco ci hanno lasciato esatte descrizioni dei
sintomi e hanno contribuito alla chiarificazione del concetto di malattia
mentale. I sistemi di cura di questo periodo erano, spesso, oggetto di con-
troversie, da parte degli addetti ai lavori, tuttavia decisamente opposti alle
osservazioni psicologiche che in quel tempo furono fatte. Cornelio Celso
parla di frequente uso del salasso e perfino dei clisteri, dei decotti di papa-
veri (oppio o morfina). Quando il malato si comportava in modo “strano”
era tenuto in catene e ridotto alla fame; ci si valeva anche di improvvisi
spaventi e la testa del malato veniva rasa a zero e unta di olio di rosa. Que-
sti metodi stridevano con quelli proposti e utilizzati dai più sensibili: alcu-
ni medici, come Areteo e Sorano, già sostenevano soluzioni terapeutiche
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fanno parte del Super Io, istanza che equivale alla morale del soggetto,
componente che si forma per introiezione dei divieti che i genitori impon-
gono al bambino in tenera età e che scaturiscono dal comune senso morale,
proprio di una determinata società. Quando i genitori premiano il bambino,
non fanno altro che provocare, nello stesso, l’introiezione di un ideale che
è la parte positiva del Super Io. Le fasi di sviluppo della personalità sono:
la fase orale, la fase anale e la fase fallica che caratterizzano il periodo
pregenitale; in ultimo la fase genitale.
Ogni fase dello sviluppo è definita in base alla localizzazione della libido
in una particolare zona del corpo. Questa infatti, se stimolata, provocherà
sensazioni gradevoli.
Nel primo periodo della vita, la zona erogena è rappresentata dalla bocca,
che serve soprattutto per mangiare. Svolgendosi la fase orale in un mo-
mento in cui il bambino dipende quasi totalmente dalla madre che lo nutre,
lo cura e lo protegge, insorgono, in questo periodo, sentimenti di dipen-
denza. Tali sentimenti tendono a persistere durante tutta la vita, nonostante
gli ulteriori sviluppi dell’Io, e ad assumere una parte preponderante ogni
volta che l’individuo si sente ansioso e insicuro. Durante la fase anale, la
zona erogena è rappresentata dallo sfintere anale. L’espulsione delle feci
comporta l’eliminazione di una fonte di fastidio e la comparsa di un senso
di sollievo. Quando ha inizio il graduale controllo degli sfinteri, il bambino
impara a rimandare il piacere, derivante dal sollievo della tensione anale.
In rapporto al metodo particolare adottato dalla madre, il controllo degli
sfinteri potrà avere notevoli conseguenze sulla formazione di tratti specifi-
ci del carattere.
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signata, del peso della patogenicità unica. I conflitti presenti nel gruppo
vengono evidenziati tramite il colloquio tra i vari componenti davanti al te-
rapeuta e le relazioni tra questi tendono allora a divenire più armoniche.
Tra gli allievi di Freud dobbiamo ancora ricordare Melanie Klein, che ri-
prese la teoria del maestro occupandosi soprattutto della patologia infantile
e facendo risalire le malattie mentali degli adulti ad alcune situazioni psi-
cologiche dell’infanzia.
Ella distinse nel neonato due fasi:
Prima della nascita, il feto, nell’utero materno, vive come parassita della
madre. Dopo la nascita avviene il trauma della separazione che, nel corso
della sua evoluzione, tenderà a diventare sempre più completa, tanto da
permettergli di assumere una sua identità psicofisica. Tale processo di se-
parazione sarà in parte desiderato e in parte temuto, dal momento che la
fusione con la madre garantisce sicurezza assoluta.
Alla nascita, il neonato non ha la sensazione di sé stesso come unità, ma si
sente un tutt’uno con la madre, che non percepisce anche come unità. Av-
verte solamente un certo disagio, proveniente dai visceri, che si placa dopo
essersi nutrito. La relazione con la realtà e con gli oggetti fuori di lui non è
possibile, in quanto non percepisce sé stesso come unità e quindi non per-
cepisce i propri confini e quelli degli altri. La Klein disse, allora, che il
bambino scinde oggetti o cose della realtà. Ad esempio, se la mamma sod-
disfa il suo bisogno di nutrimento, sarà vissuta come oggetto buono dentro
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psichiche, il più delle volte non era utile allo psicotico per capire l’essenza
fantasmatica del suo problema. Nonostante ciò, questo movimento ebbe il
grosso merito di creare una grossa spaccatura ideologica nel mondo mani-
comiale. Dobbiamo ricordare a questo punto che, negli anni Quaranta e
Cinquanta, l’approccio al malato di mente migliorò anche per merito della
scoperta dei primi psicofarmaci e delle terapie da SHOCK che diedero agli
psichiatri la possibilità di sottrarre, almeno in parte, il malato di mente dal
suo mondo totalmente fantastico e porre le basi per un dialogo terapeutico.
I primi farmaci scoperti furono la Reserpina, il Largactil, ecc.; prima anco-
ra, però, Ugo Cerletti scoprì l’ELETTROSHOCKTERAPIA. Questa terapia
veniva applicata tramite un apparecchio erogatore di corrente elettrica ad
intensità e voltaggio da stabilire e regolare. L’erogazione avviene attraver-
so due manopole-elettrodi, caricate di segno opposto, così da creare una
differenza di potenziale che favorisce la conduzione della corrente elettri-
ca. Le due manopole vengono applicate sulle tempie del malato, bagnate di
una soluzione salina conduttrice; quindi viene erogata la scarica elettrica.
Il malato viene colto da una crisi epilettica in piena regola (perdita di co-
scienza, fase tonica di irrigidimento dei muscoli, fase clonica di contrazio-
ni muscolari, respiro stertoroso e sonno profondo) a causa dello scaricarsi
sincrono di tutte le cellule cerebrali. Ricordiamo infatti che normalmente
le cellule cerebrali si scaricano in maniera asincrona, a gruppetti più nume-
rosi onde alfa, onde beta che si formano in seguito all’apertura degli occhi
o in conseguenza di stimoli esterni, onde teta, delta, all’E.E.G. più grandi e
più alte). Dopo la scarica sincrona, che si ha nella crisi epilettica, le cellu-
le, per una breve frazione di tempo, entrano in una fase refrattaria, durante
la quale non ricevono stimoli. In questa fase la membrana cellulare subisce
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delle modificazioni della sua struttura chimica, tanto da diventare più per-
meabile e permettere l’ingresso massivo di glucosio nella cellula nervosa.
Infatti il glucosio è materiale di nutrimento ed energetico indispensabile
per questa cellula, molto più che per le altre cellule dell’organismo. Questo
spiega perché, all’inizio del suo impiego, l’E.S. venne usato nella terapia
degli schizofrenici, il cui cervello è notevolmente povero di glucosio (vedi
TOMOGRAFIA AD EMISSIONE DI POSITRONI o P.E.T., in cui il cervello
degli schizofrenici appare costellato di ampie zone colorate in blu, prive di
glucosio). Altro effetto dell’E.S. è la liberazione dalle terminazioni sinapti-
che (collegamenti tra il nevrite di una cellula nervosa e il corpo cellulare di
un’altra) di grandi quantità di catecolammine (adrenalina, noradrenalina,
dopamina, serotonina ecc.); ciò spiega l’uso che venne e viene fatto di
questa terapia per la cura della depressione. Inizialmente Cerletti, come
anche i suoi seguaci, usò l’E.S. libero, generando immagini e scene terrifi-
canti nel manicomio e lo trasformò in strumento di tortura, piuttosto che di
cura. Ancora, fu anche responsabile di numerose fratture ossee e traumati-
smi bucco-linguali. In seguito si cominciò ad usare (e tutt’oggi si usa)
l’E.S. con anestesia generale, che dà una crisi epilettica abortiva. Al risve-
glio, il paziente ha delle lacune mnemoniche che si prolungano ancora per
circa un mese dopo la fine delle cure.
Sullo stesso principio delle modificazioni di membrana, con successivo in-
gresso massivo di glucosio nella cellula, si basano le altre due terapie da
shock, a suo tempo scoperte ma oggi in disuso:
l’INSULINOSHOCKTERAPIA e la VACCINOTERAPIA. La prima terapia con-
sisteva nell’iniezione quotidiana di insulina in dosi crescenti di 8 unità
giornaliere, fino al raggiungimento del coma con successiva crisi epilettica
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aperti per quelli calmi. Al centro c’era un viale alberato che conduceva
all’ingresso, accanto al quale vi era il centro sociale o di incontro. Questa
suddivisione in padiglioni infliggeva umiliazioni continue al malato, che,
se meritevole, veniva condotto nel padiglione aperto. Nel momento in cui
si lasciava sopraffare da una crisi di agitazione, veniva condotto nel padi-
glione chiuso; la sua carriera di malato era costellata di successi o insuc-
cessi, di premi o punizioni. Questa situazione rappresentava, comunque,
una forma di progresso rispetto alle catene, all’impossibilità di muoversi
liberamente, precedenti al Sessantotto. Anche nel resto dell’Europa e in
America, la psicologia sociale faceva il suo ingresso nei manicomi.
L’isolamento del malato veniva sostituito da momenti comunitari, di socia-
lizzazione (assemblee di reparto, limitazione dei mezzi di contenzione,
permessi all’esterno). Alcuni medici facevano ricerche sociologiche su
campioni di malati provenienti da un certo strato sociale, allo scopo di in-
dividuare le eventuali cause ambientali delle malattie (cosiddetta Psichia-
tria di Settore in Francia), altri tentavano di usare terapie relazionali e psi-
coanalitiche all’interno delle istituzioni. In Inghilterra, un eminente psi-
chiatra e sociologo auspicò la sostituzione del manicomio con la comunità
terapeutica. Si tratta di Maxwell Jones, autore anche di un saggio teorico
sulla comunità terapeutica.
La COMUNITÀ TERAPEUTICA è alternativa all’OSPEDALE PSICHIATRICO
perché:
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• Ha una struttura dinamica e non statica, nel senso che deve esserci
un ricambio di ammalati; l’ammalato deve utilizzare la comunità
finché può ritornare in famiglia o in una struttura più piccola. Inol-
tre, è possibile uno scambio con l’esterno (ad esempio visite per-
sonali o di volontari, attività culturali, sportive, di spettacolo, con-
tatti con altre strutture comunitarie).
• Il personale che opera all’interno deve essere organizzato non ver-
ticalmente, ma orizzontalmente, in modo da permettere un conti-
nuo confronto per esaminare le dinamiche di gruppo esistenti tra
gli operatori e tra operatori ed utenti.
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2.3 La depressione
La depressione, o abbassamento del tono dell’umore, è spesso presente in
qualità di sintomo aggiunto in seno alle diverse nevrosi o psicosi. Quando
rappresenta il sintomo fondamentale di un disturbo psicopatologico, si par-
la di DEPRESSIONE, da distinguere in reattiva o endogena. La prima è ne-
vrotica, la seconda psicotica. La depressione reattiva compare in seguito ad
un dolore o a uno spiacevole accaduto. Il paziente si accorge di una gradu-
ale diminuzione del suo interesse per la vita, del “tono vitale”, accompa-
gnata spesso da astenia intensa, ansia e insonnia. La depressione endogena
invece è caratterizzata da una forte autosvalutazione, oltre alla svalutazio-
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2.4 La schizofrenia
È la psicosi per eccellenza. L’etimologia del nome significa “rottura della
mente”. Questo significato si riferisce a uno dei sintomi fondamentali della
schizofrenia e cioè la dissociazione mentale. Questa indica la frattura che
esiste tra le varie funzioni psichiche (memoria, ideazione, volontà, com-
portamento, affettività) le quali non funzionano più armonicamente tra di
loro e tutte insieme. Per tale motivo si troverà sempre una notevole incoe-
renza nello schizofrenico, per esempio, tra ciò che pensa e il suo umore o
ciò che dice e ciò che fa.
Altro sintomo fondamentale della schizofrenia è l’autismo, inteso come
chiusura del paziente in un mondo suo, da lui costruito, completamente
avulso dalla realtà circostante.
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1. FORMA CATATONICA
Questa forma è un’esasperazione dell’autismo, in cui il paziente rinforza
ulteriormente la sua barriera nei confronti del mondo esterno tramite
l’irrigidimento statuario del proprio corpo. La sua rigidità è però plastica,
nel senso che può essere modificabile. Se il paziente inizialmente è in una
determinata posizione e si induce in lui una modificazione della posizione,
continuerà a mantenere quest’ultima fino ad un’ulteriore modificazione.
Spesso si inseriscono anche delle stereotipie (movimenti ripetuti conti-
nuamente e sempre uguali) che possono essere verbali o motorie e che
rappresentano un ulteriore tentativo di difesa dalla realtà col meccanismo
della ripetitività, che sembra quasi produrre idealmente l’arresto del tem-
po. La catatonia può sconfinare nel NEGATIVISMO in cui si aggiunge, al
resto delle manifestazioni, l’interruzione delle funzioni vegetative (orina-
zione e defecazione). La catatonia era spettacolo frequente nei manicomi,
dove il malato non trattato rimaneva per anni in una posa statuaria; im-
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2. FORMA PARANOIDE
Questa forma colpisce soprattutto persone adulte ed è caratterizzata da una
grossa produzione delirante a sfondo persecutorio, di veneficio, di influen-
zamento, di riferimento, allucinatoria e interessante tutti i sensi. Sono pre-
senti anche pseudoallucinazioni (allucinazioni provenienti dall’interno del
corpo) e fenomeni di “furto del pensiero” (gli altri rubano il pensiero del
paziente, gli leggono nella mente, gli fanno fare ciò che vogliono toglien-
dogli ogni libertà). La forma paranoide è una forma già più strutturata,
meno confusa, in cui il SÉ frammentato dello schizofrenico organizza le
sue difese nei confronti della realtà oggettuale, realizzando appunto dei de-
liri persecutori.
3. FORMA EBEFRENICA
È caratterizzata da un comportamento fatuo, superficiale, fanciullesco. Il
paziente passa il tempo organizzando giochi molto puerili; presenta una
grossa componente dissociativa. Colpisce quasi sempre individui in giova-
ne età.
4. FORMA SIMPLEX
È una forma paucisintomatica, che va gradatamente verso
l’indementimento. Talvolta si manifesta come una forma pseudonevrotica
e passa piuttosto inosservata. Spicca l’autismo, poche le produzioni deli-
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2.5 La Paranoia
La paranoia è una psicosi caratterizzata da un radicato delirio di persecu-
zione o più spesso di gelosia, ben strutturato e lucido, a differenza dello
schizofrenico paranoide, il quale non è mai coerente al suo delirio, ma so-
lamente per quella parte che riguarda il delirio stesso. Al di fuori di ciò,
egli è una persona normale. La paranoia è spesso una malattia difficile da
diagnosticare e viene per lo più riscontrata al di fuori delle strutture ospe-
daliere, in quanto sufficientemente compatibile con la vita quotidiana. Alla
base della malattia sembra esserci una forte tendenza omosessuale misco-
nosciuta dal paziente che proietta l’eventuale tradimento subito dal partner
ideale su altre persone a lui vicine.
La PARAFRENIA invece è una psicosi delirante cronica; si può ancora me-
glio definire una schizofrenia paranoide cronicizzata, che non ha infatti
quelle caratteristiche di coerenza al delirio della paranoia; il paziente però
appare meno decaduto mentalmente di come in genere appare lo schizo-
frenico. Sono molto frequenti i deliri bizzarri e le pseudoallucinazioni.
dal parasimpatico dalle cui cellule partono altre fibre destinate ai visceri).
In tal modo le risposte viscerali si hanno anche in maniera indipendente ri-
spetto al sistema endocrino. Tale sistema è sotto il controllo dell’encefalo e
in particolare di alcune strutture, come la corteccia frontale e il rinencefalo
o lobo olfattorio. La prima comprende tutta la porzione di corteccia situata
nel lobo frontale e nella zona prefrontale. La seconda comprende invece
tutta la zona situata al centro degli emisferi fino all’ippocampo posto nella
profondità del lobo temporale.
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in questi ultimi anni le malattie mentali sono in netto incremento. Ciò però
può essere dovuto anche al fatto che il sentimento di vergogna e quello di
paura dei familiari o delle altre persone vicine al malato sono stati in parte
sostituiti dalla fiducia nei progressi della scienza e dalla speranza che il
proprio caro possa ottenere la guarigione e il reinserimento nella società
(da cui il maggior afflusso di “anormali” negli ospedali psichiatrici). Il
concetto di normalità è un concetto molto relativo, in quanto varia con
l’evoluzione della cultura, del pensiero e quindi del comportamento della
società. Questa in genere stabilisce dei canoni solo ottemperando ai quali è
possibile una pacifica convivenza. Il mancato adeguamento a tali canoni,
viene immediatamente definito anormale, prescindendo completamente dai
motivi contingenti, di ordine costituzionale o ambientale, che hanno porta-
to ad esso. La società allora vuole che il soggetto tenti di rientrare entro i
limiti della normalità e non accetta la soluzione di farlo vivere entro se
stessa aiutandolo ad adattarsi nel miglior modo possibile. Infatti
l’ennesima giustificazione prima del ricovero dice che il malato di mente,
in quanto tale, è pericoloso e di conseguenza si è autorizzati a rinchiuderlo
in istituzioni che garantiscono la salvaguardia dei sani. È saturo a questo
punto il processo, per cui i familiari e chi ne fa le veci sono indotti ad affi-
dare il paziente alle cure dell’istituto assistenziale, confidando forse nella
completa guarigione. Non appena il malato viene condotto in un istituto di
cura, ospedale o clinica privata che sia, viene messo in moto un meccani-
smo che condurrà ben presto quest’ultimo al decadimento psichico o “ne-
vrosi istituzionale”; questo succede nell’ospedale come in qualsiasi altra
istituzione massificante che tiene in nessun conto le esigenze e i diritti del
singolo individuo. Se poi vogliamo prendere in considerazione quei rari
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primi anni di vita, al complesso edipico non risolto. Il paziente cerca in tut-
ti i modi di difendersi da questo desiderio, sentito come spregevole, e fan-
tastica piuttosto la seduzione da parte del genitore o di altre figure sostitu-
tive. Non riesce comunque mai a stabilire relazioni sentimentali soddisfa-
centi.
La struttura psichica dell’isterico è tale che ricerca continuamente
l’attenzione di altri, si comporta come se fosse su un palcoscenico con evi-
denti doti di teatralità. L’isterico è una persona che sembra cercare sempre
qualcosa, ma quando la trova si accorge che non è ciò che desiderava.
Nel DSM IV l’isteria è stata abolita e chiamata DISTURBO DI SOMATIZZA-
ZIONE. Alcune manifestazioni isteriche in cui sono presenti sintomi alluci-
natori in un contesto crepuscolare, amnesia totale e talvolta personalità
multiple, ognuna delle quali è perfettamente distinta e non ha conoscenza
e/o ricordo delle altre, vengono classificate come DISTURBI DISSOCIATI-
VI, da non confondere con la sindrome dissociativa, che è una modalità di
chiamare la schizofrenia al suo esordio.
È bene ancora sottolineare la differenza tra i “disturbi di somatizzazione”,
in cui lo stato patologico imita una malattia organica, ma non è caratteriz-
zata da alcuna lesione coesistente, e le MALATTIE PSICOSOMATICHE (ul-
cera, asma, psoriasi, ecc.), in cui è presente una lesione organica. In
quest’ultimo caso il paziente, prevalentemente, non ha coscienza dei propri
conflitti e non prova alcuna ansia.
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3.1 Definizione
Con il termine psicologia dell’età evolutiva si intende quel settore della
psicologia che studia lo sviluppo e l’organizzazione psicologica
dell’individuo, dalla nascita fino alla giovinezza. Attualmente, i recenti
contributi dell’indagine psicologica, pur derivando da differenti matrici te-
oriche, convergono verso l’affermazione di un paradigma interattivo che
comprenda simultaneamente le caratteristiche del bambino, innate e acqui-
site, quelle del genitore e per estensione di tutto l’ambiente circostante,
ovvero:
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sempre più complessa. Kandel afferma che tutti i processi mentali, anche
quelli psicologici più complessi, derivano da operazioni del cervello. Par-
tendo proprio da alcuni concetti salienti della teoria della complessità, Sie-
gel (La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale,
2001) afferma che una mente sana può essere pensata come un sistema che
riesce a muoversi verso la complessità, ad articolare i processi di differen-
ziazione e integrazione, staticità e flessibilità, dipendenza e indipendenza,
sapendo mantenere l'identità e la continuità, senza assumere una configu-
razione rigida. Per esempio, da un punto di vista neurofisiologico, attiva-
zioni ripetute di determinate connessioni sinaptiche consentono quella che
è stata definita SPECIALIZZAZIONE FUNZIONALE, per cui determinate a-
ree corticali risultano deputate a svolgere specifiche funzioni, come il lin-
guaggio, la percezione, la memoria.
In particolare, gli studi sulla specializzazione emisferica hanno evidenziato
che l'emisfero destro è considerato dominante ai fini dell'elaborazione del-
le informazioni socio-emozionali; è maggiormente connesso con le struttu-
re del sistema limbico (il circuito emozionale) e controlla, bilateralmente,
il sistema nervoso simpatico nel riconoscimento dei volti, delle espressioni
emotive del viso e dell'elemento emotivo nel discorso, ossia nella prosodia,
nell'abilità musicale, in particolare per la melodia. Esso possiede maggiori
abilità nei compiti visuo-spaziali, nell'orientamento del corpo nello spazio
e nell'elaborazione delle sensazioni somatosensoriali per la costituzione
dell'immagine corporea.
L'emisfero sinistro invece è dominante riguardo al linguaggio, in particola-
re nell'uso della grammatica, nel ragionamento analitico, nella risoluzione
di problemi, nella capacità di trarre inferenze e di interpretare. È inoltre
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STERN DAMASIO
Sé emergente Proto Sé
Il corpo integra i dati sensoriali e il bam- Mappe neurali di primo ordine
bino ha il senso dell’organizzazione e-
mergente del mondo di cui fa esperienza Prime interazioni, risposte riflesse, dirette
diretta
Si parla di uno sviluppo adulto “sano”, quando una persona è capace di:
• Coerenza narrativa;
• Autonoesi (autoconoscenza);
• Integrazione della mente nel tempo, per effetto positivo delle espe-
rienze precoci;
• Flessibilità emotiva.
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più avanti negli anni, a fronte di genitori che sembrano non voler invec-
chiare, che non accettano il cambiamento dei figli e si presentano come
genitori-adolescenti che non sanno farsi da parte. In ogni caso è un periodo
di cambiamento, in cui vengono mobilitate molte dinamiche, che portano a
progressivi allontanamenti e a repentini ritorni, nella ridefinizione dei mo-
delli di riferimento, dei codici di valori condivisi con la famiglia, il gruppo
di amici e la società in generale. Ci sono adolescenti che prolungano que-
sta fase di transizione verso il mondo adulto, negando le trasformazioni in
atto, magari cercando il modo migliore di rispondere alle alte aspettative
dei genitori, ma senza sentirsi mai all’altezza di un confronto adulto e ma-
turo, paritetico; altri che anticipano le tappe di uno svincolo, assumendosi,
troppo in fretta, responsabilità più grandi di loro sia in ambito lavorativo,
sia sul piano affettivo ed emotivo, arrivando anche all’inversione dei ruoli
di accudimento rispetto al genitore, senza permettersi di essere ancora un
po’ bambini. E poi ci sono gli adolescenti patologici, quelli dei comporta-
menti asociali e problematici, della tossicodipendenza e dell’anoressia,
della trasgressione e della ribellione bullista, quelli che fanno i “cattivi”,
gli antieroi, i dissidenti, i provocatori, gli impulsivi. Sicuramente in cia-
scuno di essi c’è una storia da rintracciare, da ricostruire, da ascoltare.
«Dal mio punto di vista, che è fondato sull'esperienza (debbo dire che la
mia esperienza è stata principalmente acquisita con bambini piccoli, che
stanno appena cominciando ad avere guai e che non provengono dalle peg-
giori condizioni sociali), la tendenza antisociale è collegata intrinsecamente
alla deprivazione. In altre parole, la responsabilità non è tanto dovuta al fal-
limento sociale in genere, quanto allo specifico fallimento dell’individuo.
Si può dire che per il bambino che stiamo considerando, inizialmente le co-
se sono andate bene, e poi non sono più andate bene. Vi è stato un cambia-
mento che ha alterato la vita del bambino nel suo insieme e questo cam-
biamento, nell'ambiente, è avvenuto quando egli era già abbastanza grande
da esserne consapevole».
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«Il bambino, senza saperlo, spera di poter portare chi lo sta ascoltando fino
al momento della sua deprivazione o fino alla fase in cui la deprivazione si
è consolidata, configurandosi come una realtà ineludibile. La speranza è
che il ragazzo possa ri-sperimentare, nel rapporto con la persona che opera
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3.11 Posizioni
La Klein preferisce il termine POSIZIONE a quello di fase, perché ha un ca-
rattere più flessibile e meno statico, e meglio indica la natura oscillatoria e
dinamica dei meccanismi mentali. Le posizioni individuano la costellazio-
ne di angosce, difese, impulsi, la natura delle relazioni oggettuali e la si-
tuazione dell’Io che il bambino attraversa nel corso del suo sviluppo evo-
lutivo e che rivive nel corso di tutta la sua vita.
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In sintesi:
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che molti eventi vissuti dal soggetto possano non essere mai divenuti auto-
biografici, ovvero vengano conservati nella memoria soltanto come fatti
accaduti, magari immagazzinati nella memoria procedurale o implicita,
priva quindi di consapevolezza, testimoniando, sul piano clinico, che è ac-
caduto qualcosa di profondamente importante, senza però averne un ricor-
do comunicabile. Questo discorso ha un’enorme ricaduta rispetto alla pos-
sibilità che la psicoterapia possa intervenire, rimodellando le connessioni e
attivando percorsi più funzionali.
La domanda di Kandel, se la terapia possa funzionare con la stessa modali-
tà, cioè indurre cambiamenti strutturali a lungo termine, è la sfida che le
ricerche neuropsicologiche, insieme agli studi psicoanalitici, hanno davan-
ti. Sicuramente significa mettere a punto metodologie di ricerca che possa-
no verificare gli eventuali cambiamenti psicoterapeutici, come modifica-
zione delle associazioni sinaptiche disfunzionali e patologiche, sostituen-
dole con altre più adattive e sane. Si delinea così la possibilità di trovare
una verifica empirica degli assunti psicoanalitici nella biologia, risponden-
do quindi alle richieste di quelle prove di efficacia di cui la comunità
scientifica lamenta l'assenza, approntando piani di ricerca differenziati a
seconda delle patologie e mettendo a punto confronti incrociati. Emerge
inoltre l’importanza del coinvolgimento emotivo dello psicoterapeuta, del-
la sua capacità di risuonare sul piano emozionale, prima ancora di dare un
significato astratto o un'interpretazione simbolica, una versione narrativa
del disagio portato e vissuto dal paziente. Si valorizza cioè non solo la pre-
parazione e la competenza intellettuale e cognitiva, ma anche la capacità di
empatizzare, in modo autentico, con la storia e la sofferenza del paziente,
di riuscire a identificarsi con i vissuti, mettendo a disposizione anche il
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lorosa da indurre una sostituzione con elementi appartenenti alla realtà in-
terna, quindi più sopportabili, l'analisi del discorso del paziente fa emerge-
re l'incidenza del fattore emozionale nella scelta dei temi portati in analisi,
nella maggiore o minore tolleranza di alcuni pensieri, emotivamente signi-
ficativi, nell’interazione dinamica tra la parte della mente che controlla la
realtà e un’altra forza, di solito tenuta a bada. Tutto questo fa pensare che
non si tratti solo di un deficit mnestico a livello cognitivo, o meglio, che al
di là della problematica organica esista una stretta interrelazione tra aspetti
anatomici, funzionali e psicologici.
Un altro tema su cui il confronto tra neuroscienze e psicoanalisi è molto
vivace riguarda il sogno. Le ricerche biologiche sulle regioni cerebrali e
sui processi psicologici implicati hanno attaccato, per un certo periodo,
l’ipotesi freudiana del sogno come “soddisfazione allucinatoria di un desi-
derio”. Gli studi di Hobson e McCarley, in particolare, riportano l’evento
fisiologico del sogno all’attivazione del tronco encefalico, durante la fase
REM, e affermano che non esiste nessuna relazione simbolica con le emo-
zioni e i ricordi, ancor meno quindi con i processi di censura e lavoro oni-
rico ipotizzati da Freud, secondo i quali il contenuto latente, indicibile e
inaccettabile, viene criptato in un codice da interpretare. Secondo questi
autori, si tratterebbe soltanto di un tentativo del cervello di organizzare le
percezioni interne ed esterne, di tessere una trama cercando un senso simi-
le a quello della veglia per le immagini e i frammenti di memoria, risve-
gliati e attivati in seguito a un’ attività elettrica costante, ma caotica e priva
di causalità (spiegando così la stranezza e la bizzarria del sogno). Succede
però che siano proprio studi in ambito neurofisiologico a mettere in crisi
queste teorie, nel momento in cui evidenziano il ruolo di altre strutture ce-
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a evidenziare almeno tre strade percorribili, per cui la clinica potrebbe be-
neficiare delle ricerche neuroscientifiche sul cervello.
Per prima cosa, questi studi ci confortano nell’idea, portante e mai messa
in discussione dai clinici di formazione psicoanalitica e psicodinamica, che
la maggior parte della nostra vita psichica non è consapevole, che esiste
una corrispondenza tra i meccanismi di difesa, rilevabili nella pratica clini-
ca (come la mania o l’isolamento) e le risposte del cervello (quali
l’ipereccitabilità o la dissociazione dei circuiti). Questo implica una valo-
rizzazione dell’importanza delle emozioni, delle relazioni primarie e
dell’inconscio, tutti elementi significativi e determinanti per lo sviluppo
futuro della personalità. In secondo luogo, la possibilità di una base cere-
brale ci permette di descrivere meglio quello che sentiamo, di tracciare i
percorsi della mente alle prese con le proprie evoluzioni, i tentativi di cre-
scita, di strutturare un apparato capace di pensare. In questo ambito, molto
proficuo, a ben vedere, è il raffronto tra la teoria di Damasio e la posizione
di Bion. Il terzo motivo mette in luce la possibilità di arricchire le ipotesi
sul funzionamento dei processi mentali, a partire dall’acquisizione di nuo-
ve conoscenze (dalle molteplicità di circuiti neuronali, che attivano con-
nessioni sinaptiche insospettabili, all’evoluzione del concetto di linearità,
alle modifiche che anche il codice genetico può subire per effetto
dell’ambiente).
Dal punto di vista clinico, si tratta di ipotizzare quindi modelli coerenti ri-
spetto alla psicopatologia e alla patogenesi, in funzione dei quali costruire
strategie di intervento che traducano, sul piano tecnico, quanto acquisito
sul piano teorico. L’importanza di questo confronto risiede, dunque, nello
sforzo prezioso di integrare punti di vista differenti, vertici di osservazione
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4.1 Il Neurone
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Anatomia
Il neurone è la cellula costituente il tessuto nervoso. Caratteristica neuro-
nale è l'eccitabilità, cioè la capacità di generare e propagare impulsi elet-
trochimici in seguito a stimolazioni sia chimiche che meccaniche.
Altri componenti del tessuto nervoso sono le cellule gliali, cellule deputate
al trofismo, alla protezione ed all’isolamento elettrico tra i neuroni. I neu-
roni mostrano forma e dimensioni molto variabili, in cui possiamo indivi-
duare sempre degli elementi costanti:
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Fisiologia
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Possibile meccanismo di funzionamento della pompa Na+/K+-ATPasi. Nel primo stadio del ciclo
(a) la pompa lega l’ATP e lo idrolizza; durante questo processo il gruppo fosforico viene trasferito
dall’ATP alla proteina trasportatrice. La pompa fosforilata può essere considerata un complesso ad
alta energia. (b) Il legame del fosfato fa sì che il sito di interazione con Na+ passi allo stato ad alta
affinità, nel quale lega avidamente gli ioni Na+ che si trovano dal lato citoplasmatico della mem-
brana. (c) L’interazione con Na+ induce una transizione conformazionale che determina
l’esposizione del sito di legame del Na+ all’esterno della cellula. (d) A transizione ultimata, il sito
di legame per Na+ passa allo stato a bassa affinità e rilascia gli ioni Na+ nel mezzo circostante. Al
tempo stesso, viene attivato il sito di legame del K+ che quindi è ora in grado di legare i K+ presenti
all’esterno con alta affinità. (e) L’interazione con K+ induce una transizione conformazionale che
determina l’esposizione del sito di legame del K+ all’interno della cellula e rilascia il gruppo fosfo-
rico. Contemporaneamente, il sito di legame del K+ passa ad uno stato a bassa affinità e rilascia
quindi lo ione K+. (f) Il compimento di questo passaggio riporta il trasportatore allo stato iniziale,
in cui è pronto a ripetere il ciclo. Ad ogni ciclo di pompaggio, il trasportatore funziona in modo da
espellere tre ioni Na+ e da assumere due ioni K+.
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Perché la cellula neuronale attua tutti questi processi per portare l’impulso
dal centro (monticolo assonico) alla periferia (sinapsi)? Perché è qui che il
PDA esplica la sua funzione di messaggero, causando oltre all’apertura dei
consueti canali, l’apertura di CANALI DEL CALCIO VOLTAGGIO-
DIPENDENTI, in modo che il calcio, entrando nella cellula, possa fungere
da messaggero e causare il rilascio delle vescicole sinaptiche, che conten-
gono i neurotrasmettitori, che, una volta liberati, andranno a stimolare altre
cellule nervose o i muscoli.
Riassumendo, il neurone riceve degli stimoli sui DENDRITI, che si propa-
gano fino al corpo cellulare. Da questo, se lo stimolo è abbastanza forte, a
livello del monticolo assonico, si innesca una reazione a catena, stereotipa-
ta, chiamata potenziale d’azione, che consiste in una brusca depolarizza-
zione seguita da una ripolarizzazione/iperpolarizzazione e dal ritorno al
potenziale di riposo. Questa risposta è dovuta all’azione di diverse proteine
che hanno la funzione di canali selettivi per diverse specie ioniche (Sodio
in depolarizzazione e Potassio in ripolarizzazione). Nel punto dove è av-
venuto il PDA si attiva, a seguito dello stesso, la POMPA NA-K, per ristabi-
lire le concentrazioni ioniche iniziali. Propagandosi lungo l’assone per
conduzione saltatoria (nelle fibre mielinizzate), il PDA arriva al terminale
sinaptico, dove attiva canali del Calcio, che, in seguito all’interazione di
questo ione con specifiche proteine intracellulari, causa l’esocitosi di neu-
rotrasmettitori che andranno a stimolare la cellula post-sinaptica.
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Nella metà posteriore del lobo parietale si possono individuare altre fun-
zioni di notevole importanza. Superiormente si trovano le aree stereogno-
siche, aree associative in cui avviene il riconoscimento di un oggetto in
virtù sia delle componenti tattili, che di quelle visive. Inferiormente, inve-
ce, i compiti sono diversi a seconda che sia coinvolto l’emisfero destro o
quello sinistro. In questa sede, infatti, è necessaria allo schema corporeo ed
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Da allora gli studi non solo hanno confermato la presenza di queste cellule
nei primati, uomo compreso, ma le hanno anche localizzate con precisione,
mediante tecniche di risonanza magnetica funzionale, elettroencefalografi-
a, stimolazione magnetica transcranica e test comportamentali.
Nell’uomo, inoltre, il sistema a “specchio” è capace di codificare sia il tipo
di azione, sia la sequenza dei movimenti di cui essa è composta. La fun-
zione di questo sistema neuronale è a tutt’oggi oggetto di svariate teorie.
Dal punto di vista evolutivo, potrebbero aver avuto un ruolo nella previ-
sione dei rischi/benefici che una data azione potrebbe portare ad un indivi-
duo, fornendo quasi un “campo di prova” neuronale alla base della proget-
tazione delle azioni. Ovviamente questo non è il solo ruolo.
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SEZIONE III
Musicoterapia
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Già, per convenzione e brevità le chiamiamo Arti Terapie. Per non dover
portare volumi di esempi d’applicazione e di definizioni. Per brevità, per-
ché il nome scientifico che oggi hanno le medicine cosiddette olistiche,
ovvero quella branca della medicina che considera l’uomo nella sua globa-
lità di essere che comunica - tra cui la Musicoterapia, l’Arteterapia Plastico
Pittorica, la Dramma Teatro Terapia e la Danza Movimento Terapia - mol-
to poco raccontano di sé nei termini pur avendo da sempre, anche se si
scrive di questo solo da 50 anni, dato voce, colore e forma al disagio. Per
brevità, perché esse vanno molto al di là di quanto il nome stesso possa
raccontare.
L’idea che i più hanno ancora oggi delle Arti Terapie tende ad identificarle
con l’ascolto di brani datati per pazienti anziani in Case di Riposo, con i
laboratori di pittura e cartapesta dei pazienti psichiatrici nei Centri Diurni
dei Dipartimenti di Salute Mentale o con le feste di Natale delle Comunità
Terapeutiche. C’è, dunque, la necessità di chiarire la linea di demarcazione
tra una piacevole esperienza, emotivamente significativa e gratificante, ed
un percorso mirato e orientato alla cura per poter restituire alle Arti Tera-
pie la dimensione di linguaggio universale, espressione dell’inconscio e
delle emozioni facilitata dall’uso delle Arti.
Non è raro, ad esempio, il caso in cui un medico, edotto nel suonare uno
strumento musicale, asserisca di fare Musicoterapia. O il caso
dell’infermiere del Centro di Salute Mentale che, facendo disegnare i pa-
zienti, dica di fare Arteterapia. Più frequenti ancora sono i casi in cui artisti
e musicisti vengono a riciclarsi spendendo impropriamente il nome delle
Arti Terapie. Dunque, in molti oggi assaporano sulla punta della lingua la
pastosità del nome di queste affascinanti discipline, ma in pochi conoscono
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• Transdisciplinarietà;
• Modalità di somministrazione;
• Finalità;
• Campi d’applicazione.
5.3 Transdisciplinarietà
La prima caratteristica della Musicoterapia è la transdisciplinarietà, ovve-
ro l’essere il risultato dell’incontro tra più discipline. Affronterò, nella se-
zione dedicata alla preponderanza del fatto musicale, in che rapporto deb-
bano essere Musica e Terapia perché il risultato sia definibile Musicotera-
pia. In questa sezione mi limiterò a definirla in termini, circoscrivendo il
campo affinché questa “terra di mezzo”, luogo di disputa tra Terapeuti e
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• Facilitare la diagnosi;
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• Facilitare la psicoterapia;
5.5 Applicazioni
Trattandosi di un intervento finalizzato alle necessità del Paziente, anche la
cura musicale scelta dal Terapeuta prevede delle modalità di somministra-
zione che variano da caso a caso. In Musicoterapia, infatti, l’intervento può
richiedere l’uso di musiche registrate o consigliare i suoni prodotti per il
mezzo della voce e strumenti musicali, convenzionali e non. Attualmente
sono cinque i modelli di Musicoterapia ufficialmente riconosciuti
dall’Associazione Mondiale di Musicoterapia. Essi si distinguono tra loro
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Oltre ai 5 modelli descritti, ne esistono degli altri che non trovano spazio
nell’Olimpo dei metodi riconosciuti dall’Associazione Mondiale di Musi-
coterapia, ma che non per questo sono da considerare meno importanti.
Tra i fondatori di altri importantissimi modelli, benché meno considerati
dai salotti buoni della Musicoterapia mondiale, cito DALCROZE, il cui me-
todo, definito di animazione musicale, viene prevalentemente usato con
bambini in età scolare, e ALDRIDGE, il cui metodo, frutto di studi effettuati
sulle demenze, viene utilizzato esclusivamente con pazienti anziani e non
disdegna, oltre alla musica, prodotta e registrata, l’uso di altri linguaggi ar-
tistici come la pittura, la danza o la drammatizzazione. In particolare,
quest’ultimo modello, utilizzato nel presente studio, prevede un lavoro con
il paziente anziano diviso in tre fasi, successive alla raccolta di dettagliata
anamnesi circa i suoi gusti e le conoscenze musicali:
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• I FASE: uso di musiche registrate facenti parte del bagaglio delle co-
noscenze di ogni paziente anziano che compone il gruppo, e verba-
lizzazione sulle emozioni ridestate dai ricordi legati ai brani ascoltati.
• II FASE: accompagnamento strumentale di gruppo sulla base di musi-
che registrate.
• III FASE: una volta creata l’integrazione di gruppo, la parte conclusi-
va viene riservata alle improvvisazioni di gruppo ed ai dialoghi sono-
ri di coppia guidati dal conduttore.
5.6 Finalità
Ogni intervento in Musicoterapia è connotato da un obiettivo, che riguarda
il risultato a cui l’intervento mira, come ad esempio descritto nelle appli-
cazioni della Musica in Terapia della sezione dedicata alla preponderanza
del fatto musicale, ed una finalità, che riguarda le strategie, attiene alla sfe-
ra clinica ed agisce sulle aree della prevenzione, della riabilitazione e della
terapia.
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La presente trattazione non appare la sede idonea per affrontare il tema dei
confini di ciascuna delle finalità di un progetto di Musicoterapia. Quello
che è possibile dire è che un intervento dalle dichiarate finalità terapeuti-
che non è raro che sfumi, ad esempio, nella riabilitazione, e viceversa.
Concettualmente, però, ogni professionista dovrebbe avere chiara la pro-
pria sfera clinica di intervento: così l’Educatore dovrebbe preoccuparsi di
fare prevenzione, il Tecnico della Riabilitazione ed il Terapeuta, rispetti-
vamente, riabilitazione e terapia.
5.7 Prevenzione
Fare prevenzione vuol dire porre in essere una serie di interventi finalizzati
a prevenire l’insorgenza di un disagio. In linea di massima e nell’accezione
più classica, dirò che in questa sfera clinica l’operato del Musicoterapista
mira a prevenire l’insorgenza di difficoltà relazionali ed il manifestarsi di
comportamenti antisociali in ambienti non patologici (come, ad esempio,
la scuola). Occorre, però, tener presente che quando si parla di prevenzione
bisogna distinguere tra:
5.8 Riabilitazione
Riabilitare vuol dire restituire al paziente una funzionalità, un’abilità che
prima aveva e che ha perduto a causa del sopravvenire di un insulto, neu-
rologico o psichiatrico. Esistono, dunque, due accezioni della riabilitazione
che agiscono su distinte aree.
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5.9 Terapia
Come accennato in precedenza, è considerata Terapia tutto ciò che attiene
al cambiamento in una relazione d’aiuto in cui il Terapeuta presta il pro-
prio Sé al paziente che presenta una particolare disfunzionalità nella sua
vita relazionale, affinché quegli possa porsi in maniera ottimale nei con-
fronti di se stesso e della realtà circostante.
In Musicoterapia, la relazione d’aiuto si svolge in uno spazio protetto, lo
spazio relazionale, in cui il Musicoterapista agisce in senso terapeutico,
lavorando per una trasformazione, per un cambiamento, realizzando ogni
volta, con il paziente, un prodotto sonoro.
Nel modello più accreditato di Musicoterapia con finalità terapeutiche, il
succitato modello di Rolando Benenzon, al centro della relazione terapeu-
tica è il rapporto Terapeuta-Paziente e la risonanza delle loro identità sono-
re (ISO). Attraverso i suoni, strutturati e non, che fungono da oggetto in-
termediario della relazione, il Terapeuta attua, con il Paziente, un viaggio a
ritroso nel suo disagio, che culmina con la regressione fino all’epoca pre-
natale per ricostruire, da quel momento in poi, nuovi canali di comunica-
zione non verbali. In questo modo inizierà un percorso di recupero del pa-
ziente per la società, nei confronti della quale egli potrà porsi in modo dif-
ferente.
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posito di questo, il Prof. Benenzon, più volte chiamato in causa, dice che
«la Musicoterapia accompagna l’uomo da nove mesi prima della nascita e
fino ad una serena morte». Immaginando, dunque, un ideale viaggio lungo
la vita di un uomo, dirò che la Musicoterapia è applicabile:
• in culla;
• in famiglia;
• nel coma.
5.11 In conclusione
Molte parole sono state spese per definire e collocare la Musicoterapia.
Non tener conto di ciascuna di esse vuol dire, a mio avviso, non rendere
giustizia ad una così affascinante e complessa disciplina. La Musicoterapia
è un mezzo per attivare e favorire la comunicazione laddove ci sono diffi-
coltà nel comunicare, senza necessità di passare attraverso il canale verba-
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
gruppo può dare dei rimandi al protagonista della scena, protagonista che
nello Psicodramma junghiano cambia di scena in scena. In tal modo, il
gruppo fa un cammino proprio che è al di sopra della somma dei percorsi
di ogni singolo individuo, percorsi che si intersecano, ma nello stesso tem-
po si distinguono, consentendo una reciproca crescita. Nello Psicodramma
c’è spazio per il verbale e per il non verbale, il primo rappresentato dal
racconto fatto dal protagonista e dalle parole del “doppio”, il conduttore,
che, identificandosi col protagonista, mette in luce le sue parti-ombra che
si sovrappongono a quelle evidenti, il secondo dal gesto, dal movimento
che si utilizza nella rappresentazione scenica. Ancora, nello Psicodramma
junghiano sono importanti gli “IO AUSILIARI”, figure spesso di riferimen-
to per i partecipanti al gruppo, che fungono da supporto, interpretano i ruo-
li che a loro vengono assegnati, danno dei rimandi particolarmente impor-
tanti e incisivi, ma che non propongono mai dei contenuti propri da mette-
re in scena.
Un elemento cardine dello Psicodramma è il cambio di ruolo, talvolta pro-
posto dal conduttore, talaltra richiesto dallo stesso protagonista; esso per-
mette agli attori della scena di rappresentare i diversi punti di vista sul
“dramma” messo in scena, ma non porta ad alcuna conclusione, nello psi-
codramma junghiano, contrariamente a ciò che accade in quello morenia-
no. Quest’ultimo infatti ha, nel susseguirsi delle scene, che hanno tutte un
unico protagonista, per ogni seduta, un inizio, uno svolgimento e una con-
clusione, mentre nel primo caso la seduta si conclude con lo schiudersi di
una molteplicità di sensi possibili. Il conduttore, alla fine di ogni scena, fa-
cilita la verbalizzazione da parte di ogni attore, così da permettere anche
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
Alla base del pensiero di questi personaggi e dello stesso Koenig, c’è la
convinzione che l’umanità possa e debba lavorare per costruire un nuovo
ordine sociale, nel quale possa esprimersi una vera e propria FRATELLAN-
ZA SOCIALE.
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e della tragedia nazista, in-
tuisce che questa spinta può venire proprio da comunità che si formano e si
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
uniscono attorno ai più deboli. Koenig individua quelle che per lui sono le
due spinte essenziali del Movimento Camphill:
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curatissima nello scandire lo scorrere ritmico del tempo, che si esplica, na-
turalmente, nella successione in giorni, settimane, anni, ma anche in ricor-
renze e festività, come elemento unificante e imprescindibile. Da subito la
musica, prima ancora di divenire Musicoterapia, ha ricoperto in ciò un
ruolo decisivo, attraverso vari momenti:
• Il cerchio della mattina e della sera (luogo di ritrovo dove tutti si
incontrano, recitano il pensiero del giorno della settimana, cantano
un piccolo brano musicale o ascoltano qualcuno che ne suona uno
per gli altri, si danno il buongiorno quando cominciano la giornata,
si salutano e si augurano la buonanotte al termine della giornata);
• Le feste dell’anno;
• La domenica, come momento di aggregazione della comunità.
Fra coloro che contribuirono a creare una nuova modalità di utilizzo della
musica, nell’ambito della Pedagogia Curativa e della Socioterapia, vanno
annoverati sicuramente:
Dal 1948 vennero così praticate, nei Camphill, delle sedute individuali di
Musicoterapia, che in genere prevedevano una frequenza di due, tre volte
alla settimana, per un trimestre o più. Le sedute avevano una durata intor-
no ai 15-20 minuti, si svolgevano in una stanza apposita, dove il ragazzo
veniva condotto dalla sua classe e dove, a seconda delle indicazioni
dell’equipe medico-terapeutica, ascoltava musica, suonava uno strumento
o accompagnava col movimento la musica eseguita da uno o più terapisti.
Lo strumento più usato era sempre la lira, progettata e costruita intorno a-
gli anni Venti da Lothar Gartner e Pracht. Ne esistono varie misure e into-
nazioni, con sonorità molto diverse fra loro, ma con una caratteristica es-
senziale comune: la “morbidezza” e la “rotondità” del suono. È un suono
limpido e delicato, che si adatta sia a un ambiente intimo che a una grande
sala. Fu pensata e progettata con lo scopo di intensificare e stimolare la
“qualità” dell’ascolto. Nella mia esperienza ho constatato che è lo stru-
mento maggiormente “accettato” da tutti, anche dai soggetti ipersensibili.
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Lo definirei il più “equilibrato”, nel senso che si pone, per le sue qualità
timbriche, al centro della vasta gamma di strumenti acustici utilizzati: per-
cussioni, strumenti a fiato, pianoforte, chitarra, metallofoni, marimba, sal-
teri ad arco, ecc., tutti ugualmente utilizzati in ambito musicoterapeutico.
La melodia, gli intervalli, le singole note, la tonalità, l’armonia, il ritmo e
la misura sono elementi usati a scopo terapeutico per agire in profondità
sul processo vitale di determinati organi o su parti costitutive dell’essere
umano, secondo la visione antropologica e medica di Rudolf Steiner, cui
questa pratica fa riferimento e di cui si parlerà più avanti. Si può dire che
gli elementi cui si faceva riferimento (melodia, intervalli, note, ecc.) pos-
sono contribuire all’integrazione dell’Io in un individuo in crescita e influi-
re sulla sua emotività. La musica viene sempre prodotta dal vivo senza far
mai uso di strumentazione o ricorrere ad ausili elettronici. La capacità te-
rapeutica dei suoni emessi è strettamente collegata da un lato alla natura
dello specifico strumento usato, con la sua capacità maggiore o minore di
far distinguere i suoni “armonici”, il suo specifico potenziale di risonanza
nello spazio circostante, il suo valore simbolico (potremmo dire storico,
culturale, archetipico e relazionale) e dall’altro all’energia messa in gioco
direttamente dalla coppia o dal gruppo Terapeuta/i-Paziente.
La qualità del suono e dello spazio d’ascolto, verso cui l’approccio antro-
posofico ha una particolare attenzione, come fondamento proprio della te-
rapeuticità dell’intervento musicale, verrebbe “alterato”, “falsato”, proprio
dal passaggio elettronico e dalla meccanicità del processo che comunque
lascia poca possibilità di azione immediata, “libera”, legata al “qui ed ora”
dell’interazione fra terapeuta e paziente.
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
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cato di alcuni suoni rispetto alla costituzione umana e ai dodici sensi, così
come li aveva elaborati. La base su cui si fondano queste indicazioni ha
radici lontane. Alcune chiarificazioni ed elaborazioni di antiche teorie che
mettevano in relazione le note musicali e l’armonia delle sfere si possono
trovare, al di fuori dell’ambito antroposofico, negli studi di Marius
Schneider (Il significato della musica, Rusconi Editore, Milano 1970 - Pie-
tre che cantano, Guanda Editrice, Milano 1976).
A partire dalle intuizioni dei pitagorici che trovarono una corrispondenza
precisa fra rapporti numerici e suoni e fra questi e le distanze fra sfere pla-
netarie, alle varie cosmogonie (indiana arcaica, antica egizia e arcaica ci-
nese) che mettono in relazione la creazione con la nascita di “suoni”, for-
matori della materia, passando per Platone (nel famoso passo della Repub-
blica), Schneider tenta di dare un ordine alla catalogazione delle singole
note, in relazione ai pianeti, andando contro le riduzioni “scientificizzanti”
di studiosi come J. Handschin (Der Toncharakter, Zurigo 1948), rifiutando
il concetto di metafora e sostenendo quello di simbolo, al quale è connesso
il rimando a una realtà e a un’entità spirituale. L’approfondimento di que-
sti studi sulle varie tonalità o scale musicali ha portato molti Musicoterapi-
sti Antroposofi ad avvalersi di schemi di corrispondenza fra queste ultime
e i segni zodiacali, gli organi bersaglio, le patologie, i temperamenti e così
via, al fine di avere uno strumento strettamente musicale di diagnosi e di
indicazione terapeutica. Al di là del merito e del dibattito sulla “non scien-
tificità” o meno di questo modello, così come in molti altri campi delle
medicine cosiddette alternative, come l’omeopatia, nell’ambito accademi-
co ufficiale, una considerazione fondamentale, nell’approccio alla discus-
sione, viene subito in evidenza: il concetto di musica come terapia in sé.
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
Per dirla con altre parole, è l’applicazione del principio della “musica co-
me terapia”, che prevale su quello della “musica nella terapia”.
Per fare un esempio di un’elaborazione delle ricerche sopra citate, si può
osservare questo schema, elaborato da Luciano Tancredi, in cui
l’espressione musicale dello Zodiaco è data dal cosiddetto “circolo delle
quinte”, dove i toni vengono ordinati secondo dodici intervalli di quinta
consecutivi (fig.1), con una corrispondenza fra segni zodiacali, organi ber-
saglio e i dodici sensi, così come li ha pensati e nominati Rudolf Steiner
(con preghiera ai lettori di perdonare la qualità delle immagini, di questa
come di quelle che seguono, non disponibili in modalità differenti da come
riportate).
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Tancredi parte dall’idea che, come gli strumenti musicali sono impostati
ciascuno su un tono di base particolare, ogni essere umano è organizzato a
partire da un determinato suono, che chiama Tonica Individuale (TI).
L’identificazione della TI gli fornisce la base terapeutica da cui partire per
elaborare una serie di melodie, da fargli ascoltare e fargli suonare, al fine
di dargli una soluzione musicale rispetto alla sua difficoltà e aiutarlo ad
armonizzare le unilateralità del suo essere. Il principio su cui si basa questa
terapia, così come le altre terapie artistiche in ambito antroposofico, è
quello di partire (rispecchiare) dal punto in cui la persona si trova per con-
durlo, lentamente, verso un’esperienza diversa, polarmente opposta o
compensatrice. Una sorta di partenza omeopatica, per finire a una soluzio-
ne allopatica: una strada possibile e percorribile, suggerita con un lin-
guaggio musicale.
loro posto, fuori dalla sua vista, seduti nel retro, alle sue spalle. Le tende
sono tirate e l’ambiente è immerso in una luce calda e tenue. Anche in
questo caso, il principio è quello di ricreare, musicalmente, la situazione
interiore del ragazzo e dolcemente trasformarla per condurlo alla “polari-
tà” opposta. Nello specifico, si comincia cogliendo l’inquietudine e la con-
tinua attività del ragazzo ipercinetico, iperattivo, per condurlo lentamente a
un’esperienza di pace, permeata dalla qualità dell’ascolto. La musica suo-
nata, inizialmente, si compone di note brevi e veloci; il bambino (o ragaz-
zo) viene incoraggiato a compiere, con lo stesso ritmo, molti piccoli, rapidi
passi in avanti. Ciò corrisponde, come immagine e come esperienza vissu-
ta, attraverso il movimento associato al suono, al suo “entrare” nel mondo,
“frettolosamente”. Poi, per un breve tempo, vengono suonate note lunghe e
lente ed egli viene aiutato a compiere dei passi lenti all’indietro. Segue di
nuovo la musica “veloce” con la corsa in avanti. Gradualmente, la durata
delle note lunghe e lente e dei passi lenti all’indietro aumenta, mentre
quella delle note rapide diminuisce, portando il bambino al riposo e ad
un’esperienza di pace che gli dà la possibilità di essere calmo e di ascolta-
re. Nella seconda parte della terapia il bambino sta seduto e ascolta sem-
plicemente la musica che viene suonata alle sue spalle.
La mia esperienza, nel partecipare a questa terapia, è stata molto positiva.
Ho visto bambini con cui era quasi impossibile lavorare, per il loro conti-
nuo movimento e agitazione, carichi di una forte irrequietezza e aggressi-
vità, calmarsi progressivamente e arrivare ad ascoltare in silenzio, per 5-10
minuti. Infine, con calma, venivano ricondotti in classe, dove diventava
più facile integrarli e renderli partecipi delle attività di tutto il gruppo.
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• CORPO FISICO
• CORPO ANIMICO
• IO
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agire nel mondo, proprio in virtù di questa facoltà. Per poter agire e com-
penetrare i vari corpi costituenti l’Io, possiederebbe, per Steiner, degli “in-
volucri”, fra loro strettamente congiunti, così chiamati:
• ANIMA SENZIENTE
• ANIMA RAZIONALE (o affettiva)
• ANIMA COSCIENTE
La prima di queste sarebbe così legata, unita, al Corpo Animico, che costi-
tuirebbe con esso un insieme chiamato CORPO ASTRALE (il cui nome è
preso in prestito dalla letteratura antica), dove agiscono i desideri, gli ap-
petiti, le passioni, in quanto luogo dove vengono sentite ed elaborate le
percezioni sensoriali.
A questo schema si deve ora aggiungere il concetto di “SÉ SPIRITUALE”.
Per Steiner, esso è una manifestazione del mondo spirituale, così come, dal
lato opposto, la “SENSAZIONE” è una manifestazione del mondo fisico. In
entrambi i casi, essi si manifestano all’individuo (nel senso che l’individuo
ne può avere coscienza) sempre e solo attraverso l’Io. A questo proposito
egli fa questo esempio: «In ciò che è rosso, verde, chiaro, scuro, duro, mol-
le, caldo, freddo, si riconoscono le manifestazioni del mondo fisico; in ciò
che è vero e buono, le manifestazioni del mondo spirituale. Nello stesso
senso in cui le manifestazioni del mondo corporeo sono chiamate SENSA-
ZIONI, le manifestazioni di quello spirituale si possono chiamare INTUI-
ZIONI. Il pensiero più semplice contiene già intuizione, perché non può es-
sere toccato con le mani, né veduto con gli occhi: bisogna riceverne la ri-
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dinare ha un suo richiamo nella musica stessa. Qui si apre un capitolo ri-
guardo al rapporto strettissimo fra la matematica e la musica, scoperto
nell’antichità da Pitagora e dai suoi seguaci: i rapporti numerici degli in-
tervalli, degli armonici puri, i sette gradi della gamma tonale, ecc. Pensia-
mo alla misura che regola l’ordine del flusso musicale. Quest’ultimo, in
virtù di quanto asserito prima, si rispecchia in quello dei pensieri e dei sen-
timenti e, in qualche modo, anche nella volontà che li accompagna. Una
misura o un’altra imprimeranno, sicuramente, un ordine diverso a questi
flussi.
In virtù di questo principio, la medicina antroposofica può affermare che la
musica può avere un effetto di chiarezza e distensione o, in senso polare,
chiarezza e consolidamento della psiche, che per Steiner assume la forma
dell’anima razionale-affettiva, quando essa è in difficoltà.
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ste persone, un processo che permetteva loro di diventare più attivi e abili,
anche in altri ambiti della vita. All’origine di quegli esercizi c’è il testo di
Rudolf Steiner, Antropologia generale.
La Baumann prende le mosse dalla tripartizione che deriva dalle tre fasi
fondamentali dello sviluppo del bambino e dalla ripercussione di queste
sull’elemento fisico-animico-spirituale, così come intese da Steiner stesso.
Normalmente, il bambino sviluppa le prime tre qualità, nei loro stadi ini-
ziali, pressappoco nei primi tre anni di vita. Secondo la visione antropolo-
gica di Steiner, queste tre fasi del camminare/parlare/pensare sono conse-
quenziali l’una all’altra, anche quando sembra, in alcuni casi, che l’ordine
di sviluppo di queste sia invertito o simultaneo. La Baumann osservò, nella
sua pratica, la veridicità di questo principio. Prendendo in considerazione
un giovane che non controlla in modo giusto i propri movimenti, si muove,
ad esempio, in modo goffo, è impacciato nel camminare e nell’uso delle
mani, oppure è specializzato in movimenti stereotipati, si può affermare
che un ragazzo di questo tipo ha quasi sempre difficoltà a esprimersi in
maniera fluida o, in generale, ad articolare le parole, e in molti casi è im-
possibile determinare il suo pensiero.
L’educatore steineriano si pone come compito di aiutare l’Io di questa per-
sona a inserirsi, in modo armonico, nella sua realtà fisico-corporea e, a tal
fine, si applica per cercare di stimolare TUTTI i sensi (che, come abbiamo
accennato in precedenza, per Steiner sono dodici e non cinque). Dice la
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Fig. 2) Particolare della tavoletta mostrata a Pitagora nel dipinto “La Scuola di Ate-
ne” di Raffaello, elaborata dal Bellori nel suo Descrizioni
Così è un fatto che, storicamente, fin dagli antichi modi greci (frigio, dori-
co, ionico, lidio, misolidio, ecc., tutti nomi che indicavano la regione in cui
erano più usati e da cui probabilmente nacquero), attraversando il canto
gregoriano (sorta di passaggio “neutro”), i rapporti fra le note, gli “inter-
valli” e il loro ordinamento in scale o “gamme”, in Occidente, assunsero le
caratteristiche di un sistema, all’interno del quale le tonalità esprimevano
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
ben precisi caratteri e rimandi, proprio come nelle arti figurative, special-
mente sacre, ritraenti animali o figure che rappresentavano una determina-
ta virtù o divinità.
Ad esempio, in epoca barocca:
• La tonalità di DO+ era associata alla Luce.
• Il MI minore si assimilava al concetto della sofferenza purificatrice
(Bach la associò spesso alla “Crocifissione”).
• Il RE+ al potere, alla gloria (spesso associata a composizioni per
fiati, trombe).
• Il FA# minore, la dominante del SI minore che esprime anche la
sofferenza, era associato tradizionalmente al Dolore, o a
un’esperienza straordinaria; i liutisti barocchi la ribattezzarono la
“Chiave della Capra” a causa dei suoi problemi d’intonazione.
• Il MI+ in età barocca, era associato al cielo, al Paradiso o alla Gra-
zia, in senso sia fisico che metafisico.
• E così via....
nel tempo, sono accettati comunemente alcuni punti fermi, come la qualità
melanconica, introspettiva, delle tonalità minori rispetto alle maggiori, o
certi intervalli che caratterizzano aspetti della vita di tutti i giorni o cultura-
li, come l’intervallo di quarta, usato per le sirene dei vigili del fuoco o altri
allarmi (nei canti di caccia era l’intervallo principale, suonato spesso dai
corni). Pensiamo che tutti i bambini europei, per chiamare da lontano la
mamma, lo fanno con un intervallo di terza maggiore discendente (anche
se in Germania spesso è una terza minore). Questo carattere, che io chia-
merei anche energia, presente negli aspetti armonici dei suoni, ha un suo
corrispettivo negli aspetti ritmici della musica. C’è un’energia diversa insi-
ta in ogni ritmo. Nessun esercito si sarebbe mai sognato di fare una marcia,
in guerra, in una misura ternaria. Che differenza c’è nell’esperienza che
facciamo ballando un valzer o una mazurca (che hanno una misura in ¾)
rispetto a un tango? Perché i bambini cantano, ballano, fanno filastrocche,
prevalentemente in tempo binario? Che esperienza si fa suonando, viven-
do, un ritmo in 5/4 o 7/8 o 15/8, come in molti canti e musiche dei Balcani
(oggi utilizzati anche nel jazz e nella musica contemporanea)?
Il RITMO, come espressione di MOVIMENTO dell’elemento musicale, as-
sume forme che recano in sé una forte ENERGIA, che ci mette in contatto
con aspetti profondi del nostro essere e con degli archetipi, delle forze che
appartengono alla natura, alla terra, al cosmo. Spesso usiamo frasi come
“trovare il proprio ritmo” per indicare un raggiungimento di benessere con
noi stessi. Quando stiamo bene con noi stessi ci sentiamo in armonia col
mondo. Personalmente, ho l’immagine di un grande RESPIRO che prescin-
de dal passato/presente/futuro, ma che, piuttosto, li ingloba. Quando respi-
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riamo, dentro a questo respiro universale, ci sentiamo bene, “in pace col
mondo”.
Anni fa, durante un tirocinio presso un Musicoterapista di nome Michael
Binder, che lavorava nel Camphill “Perceval”, in Svizzera, ho provato
un’esperienza corporea di poliritmia, con un gruppo che non era composto
solo da musicisti. Fu un’esperienza determinante. Egli aveva appreso que-
sta tecnica di approfondimento ritmico attraverso il corpo dal suo stesso
ideatore, tale Reinhard Flatischler, un musicista tedesco, in seguito ad una
forte esperienza di “musicoterapia tribale” operatagli da uno sciamano co-
reano, Kim Sok Chul. Quando, in piena tournèe in Corea, fu colto da forte
dissenteria e febbre alta, che gli impedirono di tornare in Europa, scoprì
che gli mancava qualcosa, pur essendo un percussionista affermato, che lo
rendesse veramente LIBERO. Questa era stata, infatti, la critica mossa da
Kim Sok Chul al termine di un suo concerto in quel paese, qualche giorno
prima: gli mancava un qualcosa verso cui il suo inconscio tendeva, ma che
non riusciva a trasformare in una forza vera. Questa forza era la coscienza,
l’esperienza profonda del potere del ritmo. Tale affermazione, che dap-
prima lo colse di sorpresa e lo fece reagire con una certa stizza interiore,
gli divenne chiara dopo questa esperienza, che indusse Flatischler a uno
studio più approfondito delle tecniche e della filosofia orientale legate al
ritmo.
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HEARTBEAT
VOICE GO GO GO GO GO GO GO
• LA VOCE
• LE MANI
• I PIEDI
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È un semplice ritmo ternario inserito in uno, in quattro, una cosa che i mu-
sicisti imparano a gestire abbastanza presto, ma l’approccio è sostanzial-
mente diverso: il percepire l’intero ciclo come un’unità anche in silenzio è
una facoltà da conquistare ed affinare. La particolarità dell’esperienza del-
la pulsazione, con il suo “tempo” e “controtempo”, le suddivisioni in due e
tre, le unità doppie e triple, così radicata nel profondo della conoscenza
umana, come una parte della nostra memoria ancestrale, è dovuta alla sua
universalità. Certo anche qui ci sarà un’influenza della tradizione di un po-
polo rispetto ad un altro, con una predilezione per dei ritmi in levare o in
battere; oppure la familiarità con dei tempi composti o dispari, come ac-
cennavo prima riguardo ai Balcani, o la stessa diffusione o meno di un ge-
nere musicale rispetto ad un altro in quel preciso momento storico. Ma
questo, l’aspetto culturale potremmo dire, a ben guardare non è così de-
terminante o vincolante come lo è, invece, nell’ambito della melodia o an-
cor più dell’armonia, dove lo spirito di un popolo si è sviluppato al fianco
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Si può così dire che alla base dell’educazione musicale di Dalcroze c’è il
recupero e lo sviluppo di un’educazione dei sensi. Anche per me
l’educazione ritmica, attraverso il movimento e la musica, è in realtà una
forma artistica di educazione sensoriale, la cui influenza sullo sviluppo del
sentimento artistico, del temperamento e della personalità è enorme. Il rit-
mo, così inteso, non è solo l’elemento liberatorio per la musica in sé, ma
per l’uomo stesso, nella misura in cui quest’ultimo ne è sempre più co-
sciente, padrone, ed in sintonia con esso.
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Fig. 3
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Fig. 4
Fig. 5
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Fig. 6
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Fig. 7
Sulla lunga (la semiminima), una fila batte il bastoncino su quello del
compagno che lo tiene davanti a sé, orizzontale, con le due mani. Alla bat-
tuta successiva, sarà la volta del compagno che farà lo stesso con lui.
Quando il gruppo ha preso il ritmo e va all’unisono, si può passare alla va-
riazione, con l’aggiunta di un battito:
Fig. 8
Nel primo esercizio si può cantare con un qualsiasi fonema, come “là”; nel
secondo scandiremo le due semiminime cantando: “un-due”.
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Fig. 9
ognuno fa sette passi in direzione del tavolo, prende il bastoncino più stret-
to e torna al proprio posto, camminando all’indietro, sempre con i sette
passi corrispondenti alle sette note. In genere si fa coincidere la melodia
ascendente con i passi in avanti e quella discendente con quelli indietro e,
prima di cambiare melodia o di fare variazioni, si aspetta che tutti abbiano
prima familiarizzato con essa.
4) Una variante sempre valida per tutti gli esercizi è il farlo con andature
diverse. Certo, se il tempo è veloce, si dovrà a volte modificare anche la
musica e non è detto che sia possibile mantenere lo stesso numero di passi.
Si potrà per esempio ridurlo a cinque, con una melodia simile:
Fig. 10
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Fig. 11
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porta dietro. In una società dove tutto ha bisogno di essere mostrato, possi-
bilmente al più vasto pubblico possibile, per poter esistere, rivendichiamo
l’importanza del processo, del percorso. Non è forse nella sua “irripetibili-
tà” l’essenza stessa di ogni autentico evento musicale? A volte sono acca-
dute cose, da un punto di vista musicale, durante le varie “prove”, di
un’importanza e di una “bellezza” tali da renderle, appunto, irripetibili, ir-
riproducibili. Un laboratorio di ricerca musicale che diviene un’esperienza
formativa per il gruppo, nel quale anche il più debole, chiamato, comun-
que, a dare il suo contributo, seppur con un piccolissimo, unico gesto, riu-
scendo a restare insieme agli altri per tutto il processo, è certamente
l’obiettivo fondamentale. Grazie alla musica suonata insieme, chi resta ai
margini del processo può “integrarsi” e il resto del gruppo sentirlo come
elemento attivo.
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Note
• EMIL MOLT (1876-1936), direttore della fabbrica di sigarette Waldorf-
Astoria, organizzò corsi di formazione per i dipendenti della sua fabbrica.
Da qui nacque l’idea di una scuola per i figli dei lavoratori e, per
l’organizzazione e la direzione della scuola Waldorf, chiamò Rudolf Stei-
ner. Molt era, nel 1919, uno dei rappresentanti più impegnati nell’idea di
triarticolazione sociale (E. Molt, Entwurf einer Lebensbeschreibung, Stut-
tgard 1972). La scuola Waldorf di Stoccarda fu inaugurata il 7 settembre
1919, con un discorso dello stesso Steiner, a conclusione di un corso di 14
conferenze, dal 20 agosto al 5 settembre, per gli insegnanti della scuola,
che gettò le fondamenta della Pedagogia Waldorf o, per dirlo con le sue
stesse parole: «di un’antropologia, di una scienza dell’educazione che po-
tesse diventare un’ARTE dell’educazione e una scienza dell’umanità».
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La scelta dei brani viene fatta seguendo due intenzioni parallele, che si e-
videnziano, alternandosi, a seconda delle necessità emergenti, e cioè a se-
conda che il gruppo, piuttosto che un singolo, abbia bisogno di un inter-
vento terapeutico specifico:
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nile prevalente era imposta alla sua coscienza da uno stereotipo che era
causa di sofferenza cronica nella sua storia di relazioni sentimentali, e ve-
derlo così, chiaramente, in quella occasione gruppale, gli risultò illuminan-
te, ma anche sostenibile, grazie alla mediazione creativa e convincente del
non verbale.
Un altro suggestivo esempio di corrispondenza fra struttura sonoro-
musicale e dimensione cognitivo-affettiva, è rappresentato da quei brani
che propongono, implicitamente, un vissuto di ambivalenza, a causa della
compresenza di aspetti sonoro-musicali che esprimono vissuti opposti. Un
brano di world music, contenente due pattern musicali che scorrono con-
temporaneamente, il primo puramente percussivo, rapido e aritmico e il
secondo andante, arpeggiato e timbricamente suadente, viene spesso vissu-
to come turbativo, a causa della contraddizione del messaggio mediato dal
linguaggio sonoro-musicale; infatti, il primo pattern, soprattutto grazie alla
struttura aritmica, evoca indefinizione e inquietudine, mentre il secondo
suggerisce una regressione resa, però, impossibile dalla contemporanea ir-
requietezza del primo pattern. Ne consegue che l’ascolto di questo ed altri
brani analoghi mette alla prova le risorse psicologiche personali, così che
una struttura nevrotica in compenso rileverà la complessità del vissuto e-
vocato, riuscendo anche ad integrare in qualche modo gli aspetti opposti,
attraverso immagini strutturate; un individuo nevrotico con meccanismi di
compenso labili, invece, patirà manifestamente l’ascolto, individuando, in
uno dei due pattern, l’elemento estraneo e inopportuno; mentre una struttu-
ra di personalità borderline rifiuterà, più grossolanamente, l’esperienza o
utilizzerà la scissione per negare la presenza di uno dei due messaggi sono-
ro-musicali (atteggiamento antiambivalente).
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8.6 Considerazioni
Ciò che il lettore può intuire, a questo punto, è che la probabile utilità di
questa tecnica di psicoterapia, mediata dal non verbale, si fondi sul pre-
supposto che vi siano correlati oggettivi fra parametri sonoro-musicali e
determinati vissuti. Di conseguenza, sarebbe possibile anche evidenziare la
soggettività delle proiezioni cognitivo-affettive dell’individuo.
Nella mia esperienza risulta molto incoraggiante, al limite del sorprenden-
te, che molto materiale cognitivo e affettivo espresso dal gruppo vada a
coagularsi intorno al veicolo sonoro-musicale (il brano ascoltato), a partire
da una condizione inconscia o preconscia, per risultare, improvvisamente,
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Musica e Cervello: incontro fra due entità sublimi, tanto più arcane e mi-
steriose quanto più vicine e somiglianti nella loro intima struttura ed es-
senza fenomenica, immense e indecifrabili, patrimonio inalienabile di ogni
essere umano che umano sia, eppure sfuggenti nell’attimo in cui ci si ap-
presti a formulare un tentativo, anche minimo, di definizione, catalogazio-
ne, interpretazione.
Grazie alle nuove straordinarie possibilità diagnostiche e di ricerca, le neu-
roscienze negli ultimi anni, sono protese, grazie anche alla grande passione
degli addetti ai lavori, allo studio del complesso rapporto musica-cervello,
nel tentativo di decifrarne i connotati anatomici e funzionali, e al contempo
di esplorare le possibilità terapeutiche della musica. La musica, guidandoci
verso la riconciliazione con i nostri ritmi vitali perduti, può favorire una
metamorfosi, una rinascita, un cambiamento nel modo di percepire noi
stessi e l’altro, nel modo di rapportarsi alla vita. La funzione terapeutica
della musica risiede nel suo potere comunicativo, nella sua capacità di a-
prire canali di comunicazione non verbali, nell’esprimere quindi un campo
della vita mentale che esula dalle potenzialità della parola. Nella musica si
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
Le onde cerebrali possono essere modificate sia dalla musica sia da suoni
autogenerati. Il normale stato di consapevolezza consiste di onde beta, che
vibrano fra i 14 e i 30 hertz. Si producono onde beta quando ci concen-
triamo su attività quotidiane, nel mondo esterno, o quando proviamo forti
emozioni negative. La consapevolezza profonda e la calma sono caratte-
rizzate da onde alfa, che si attestano fra gli 8 e i 13 hertz. Più lente sono le
onde cerebrali, più ci sentiamo rilassati e soddisfatti. La musica può spo-
stare la consapevolezza della gamma beta a quella alfa, aumentando
l’attenzione ed il benessere. La musica, guidandoci verso la riconciliazione
con i nostri ritmi vitali perduti, i ritmi vitali specifici di ognuno di noi, può
favorire una metamorfosi, una ri-nascita, un cambiamento nel modo di
percepire noi stessi e l’altro, nel modo di rapportarsi alla vita.
Nell’antica Grecia, Apollo era considerato il dio della Medicina e della
Musica. Francis Bacon, nella sua opera fondamentale, dal titolo The A-
dvancement of Learning, afferma:
Il suono della lira di Orfeo, sceso nell’Ade alla ricerca della sua Euridice,
commuove alle lacrime le terribili Furie e l’amata gli viene restituita; la li-
ra di Orfeo anestetizza dunque il male, frena le passioni e spiana la via alla
realizzazione di un percorso che, per quanto sia tinto di dolore e dispera-
zione, condurrà all’unione definitiva della coppia.
«La musica congiunge perché porta a consuonare tutto ciò che è capace di
vibrare». (A. Romano)
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«Grazie alla potenza della Musica andremo con gioia attraverso le tenebre
della morte».
«Lo spirito del Signore si era allontanato da re Saul ed uno spirito malva-
gio di Dio lo aveva invaso»;
rapia musicale, si rileva un livello più alto di ormone della crescita e una
diminuzione dell’interleuchina 6 e dell´epinefrina. Questa riduzione, nei
livelli ematici degli ormoni dello stress, si associa anche a una diminuzio-
ne della pressione arteriosa e del ritmo cardiaco. È stato dimostrato che la
stimolazione musicale aumenta il rilascio di endorfine, gli oppiacei natura-
li del cervello che hanno la capacità di diminuire il dolore ed indurre un
naturale buonumore, incrementando la funzione immunitaria, stimolando i
livelli delle cellule T, i linfociti che aumentano l’immunità naturale alle
malattie, e aumentando i livelli ematici di interleuchina 1, a sua volta, sti-
molante linfocitario oltre che piastrinico ed eritrocitario. Inoltre, l’ascolto
di musica rilassante riduce sensibilmente il livello degli ormoni dello stress
(ACTH, Prolattina, GH).
La musica di Mozart è stata finora quella maggiormente utilizzata sia nelle
sperimentazioni sui rapporti musica-cervello sia nella musicoterapia, e si
sostiene che con essa si ottengano i migliori e più costanti risultati, in ge-
nere e nello sviluppo delle capacità cognitive in particolare (il cosiddetto
Effetto Mozart). Il termine è stato coniato nel 1991 da Alfred Tomatis. Ri-
scontri positivi vennero riportati nel 1993 da Rauscher, Shaw, e Ky, che
pubblicarono su Nature i risultati, dopo aver effettuato un test su un grup-
po di studenti volontari. Secondo i ricercatori, l’ascolto della Sonata in
RE+, per due pianoforti (KV448), aveva determinato “a short term impro-
vement on the performance of certain kinds of mental tasks known as spa-
tial-temporal reasoning”. I risultati della teoria, volgarizzata in “listening
to Mozart makes you smarter”, vennero confermati esclusivamente da
Rauscher e Shaw in un successivo articolo del 1997, pubblicato su Neuro-
logical Research.
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The Mozart Effect è il titolo di un volume del 1997 scritto da Don Cam-
pbell, il cui enorme successo ha spinto l’autore alla creazione di un mar-
chio che egli definisce “an inclusive term signifying the transformational
powers of music in health, education and well-being”. Il suo consiglio di
far ascoltare Mozart ai bambini per accrescere il loro QI, ha reso talmente
popolare negli USA la nozione di “Effetto Mozart” da far scoppiare una
moda che, nel 1998, porta il Governatore della Georgia, Zell Miller, a
stanziare 105.000 dollari l’anno per regalare un CD di musica classica a
ogni neonato.
Ma quale sarebbe la peculiarità della musica di Mozart? L’ipotesi formula-
ta da Gordon Shaw è che, oltre alle incredibili doti logiche, mnestiche e
musicali di cui era dotato Mozart, il musicista componeva in giovane età,
sfruttando al massimo le capacità di fissazione spazio-temporale di una
corteccia cerebrale in fase evolutiva, cioè al culmine delle sue potenzialità
percettive e creative. Tomatis sostiene invece che, essendo la musica di
Mozart la più conosciuta e la più amata, essa può esplicare il massimo ef-
fetto terapeutico sul corpo umano, favorendo l’organizzazione dei circuiti
neuronali e rafforzando i processi cognitivi e creativi dell’emisfero destro.
La mia personale opinione è che solo le incomplete conoscenze musicali
degli sperimentatori e la grande notorietà e familiarità di parte della vasta
produzione mozartiana, soprattutto dopo l’effetto mediatico del pluripre-
miato Amadeus di Forman, abbiano, in un certo senso, “guidato” le speri-
mentazioni e portato all’individuazione di un Effetto Mozart, piuttosto che
di un effetto Haydn o di un effetto Vivaldi o di un effetto Mendelssohn.
Inoltre, i risultati assai contrastanti, ottenuti con le sperimentazioni succe-
dutesi negli ultimi quindici anni, riguardo alla possibilità che l’ascolto si-
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«[...] nella mia opera la musica è per ogni genere di ascoltatori, tranne che
per quelli con le orecchie lunghe».
«[...] essi sono una via di mezzo fra il troppo difficile e il troppo facile: so-
no molto brillanti, piacevoli all’orecchio, naturali senza cadere nella vuo-
tezza, qui e là solo gli intenditori possono ricavarne soddisfazione, ma an-
che i non intenditori proveranno piacere, pur non sapendo perché».
Ma torniamo allo studio realizzato dal Dipartimento di Neonatologia del
Sourasky Medical Center di Tel Aviv e pubblicato su Pediatrics: lo scopo
della ricerca era verificare se la musica di Mozart poteva diminuire il livel-
lo di consumo di energia, a riposo, nei bambini sani, nati prima del termine
fisiologico della gravidanza. È stato quindi condotto uno studio prospettico
su venti bambini sani e pretermine. I bambini sono stati esposti a 30 minuti
di musica di Mozart per due giorni consecutivi e il livello di dispendio di
energia è stato misurato con la calorimetria. Gli Autori hanno osservato
che dopo i primi 10 minuti, in cui il dispendio calorico rimane uguale in
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«Ma perché tento, io stolto, di sciogliere le parole in suoni? Non è mai co-
me io sento. Venite voi, suoni, avvicinatevi, e salvatemi da questo doloroso
sforzo terrestre verso le parole, avviluppatemi con i vostri raggi milliformi
nelle vostre nuvole splendenti e sollevatemi su, nel vecchio abbraccio del
cielo che tutto ama!».
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SEZIONE IV
Danza Movimento Terapia
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della danza come terapia mentale, tanto quanto fin ad oggi si è posto
l’accento sui suoi usi nell’ambito della formazione fisica».
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«Si tendono i tessuti sul dorso, sulle braccia, sui fianchi, sulle gambe, in
modo che rappresentino la nostra pelle. Si deve naturalmente porre un li-
mite alla tensione, altrimenti si arriva alla rottura».
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(prodotto dalla relazione tra il ritmo interiore del musicista e il tempo og-
gettivo del brano che sta eseguendo) genera quel senso di movimento che
coinvolge l’ascoltatore: «non si può comprendere la musica senza il mo-
vimento corporeo» afferma, infatti, la Fux, preludendo all’importanza, nel
suo modello, assegnata al binomio “oggetto sonoro-movimento”, perché
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conoscenza del proprio corpo, dei limiti che esso svela, delle possibilità
che porta con sé e della presa di consapevolezza dei processi di trasforma-
zione attraverso il lavoro di gruppo.
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dal movimento, dalla forma, dal colore, dalla parola e che ad esso ritorna-
no. Così, l’ascolto del respiro e il battito cardiaco possono divenire musica.
Nel nostro corpo, infatti, tutto è ritmo, poiché esso rimanda all’esistenza,
allo spazio ed agli stati emozionali. E, dunque, attraversa e definisce quelle
che Rolando Benenzon, Psichiatra e Musicoterapeuta argentino, fondatore
dell’omonimo modello applicativo in Musicoterapia, definisce associazio-
ni corporo-sonoro-musicali, frequenti in chi, addestrato al sentire, decodi-
fica con risposte di carattere corporeo gli stimoli creativi a cui è esposto,
tanto in un contesto di cura, quanto in quello didattico, sia da conduttore
che da fruitore.
10.5 La musica
Secondo Maria Fux, solo il movimento è in grado di far cogliere, nella to-
tale interezza, il messaggio portato dalla musica e la musica stessa. La mu-
sica, dunque, svolge un ruolo sostanziale per via delle sue immediate cor-
relazioni con la danza. Ecco perché, in un setting di DMT, la scelta della
musica non può, né deve essere casuale. Essa svolge una duplice funzione
e può, dunque, essere utilizzata con due finalità diverse: come supporto ad
altri stimoli (se usata come sottofondo durante lo svolgimento di un lavoro
incentrato su altro) o può essere essa stessa lo stimolo centrale (valoriz-
zando il suo potenziale evocativo e comunicativo che le permette di rivol-
gersi direttamente al corpo e alle emozioni).
Due, per concludere, sono gli aspetti essenziali legati all’uso della musica,
voce delle emozioni interne che si comunicano all’esterno, nella pratica
operativo-metodologica della danzaterapia di Maria Fux. Intanto, il conti-
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«la parola mobilizzatrice deve essere la sintesi di idee non statiche, in mo-
do tale che, quando essa verrà sviluppata attraverso un’immagine, scatu-
risca nel gruppo il bisogno di muoversi».
«il suo concetto di parole madri è la comprensione del contesto non verba-
le. La parola madre è la parola che ha sintesi, la parola motivazionale. Es-
sa assume, nel corpo, un valore di comunicazione che si trasforma senza
movimento, nel quale la parola emessa, semplicemente pensata, si trasfor-
ma, senza musica, in ritmo e in senso di espressione».
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Vediamo.
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10.12 Ripetizione
La ripetizione porta all’ebbrezza, all'entusiasmo, alla trance. Nel ripetere i
movimenti, l'individuo sente crescere la loro forza, la loro intensità e, at-
traverso una specie di rilassamento dinamico, se ne appropria sempre più.
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10.15 Binarietà
In E.P. si parla di binarietà/polarità riferendosi allo sdoppiamento dei mo-
vimenti che inizia con la pulsazione dei piedi sulla terra e si estende a tutto
il corpo. Sappiamo che l’essere umano, nel corso del suo sviluppo, ha do-
vuto confrontarsi con differenti polarità:
10.16 Trance
Tipica dello sciamanesimo, a cui l’E.P. si rifà, la trance è un elemento ca-
ratterizzante del metodo, poiché agevola il lasciare la presa attraverso la
ripetizione quasi ipnotica dei gesti e del ritmo trascinante del tamburo.
Produce un leggero stato alterato di coscienza, ragion per cui sospende
temporaneamente i livelli censori della psiche, abbassa le difese (rendendo
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
10.19 Ritualizzazione
L’E.P., secondo il modello di France Schott-Billmann, si attua tramite un
Cours Type (Corso Tipo), strutturato in tre parti, di cui la prima e l’ultima
sono rituali di apertura e chiusura e quella centrale è di mobilitazione delle
parti del corpo. Il Cours Type va visto come un’esplorazione del proprio sé
corporeo nelle sue articolazioni con sé stesso e il mondo esterno.
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bi riguardo al fatto che da questa esperienza io sia uscito più maturo, come
persona e come professionista. L’intensità dell’esperienza era infatti così
forte, così totale, da attraversare ogni cellula del mio corpo, ogni pensiero e
insinuarsi, progressivamente, nella mia vita. Soprattutto all’inizio del corso,
ogni giorno in carcere mi sembrava paragonabile a dieci vissuti all’esterno.
11.2 Preliminari
Le fasi antecedenti l’avvio dei corsi mi hanno visto impegnato nel reperire
e selezionare i docenti (otto in totale). In seguito, mi sono occupato del tu-
toraggio delle attività didattiche, dei docenti e degli allievi. Mi sono trova-
to, dunque, a gestire buona parte delle relazioni fra i docenti, i corsisti,
l’istituzione carcere e l’ente attuatore. L’Istituzione era “presente” in aula
sotto varie forme (concretamente era rappresentata dall’assistente che pian-
tonava lo spazio di lavoro, ma anche dalle telecamere, dalle mura e dalle
sbarre di ferro che ci ricordavano dovunque ci trovassimo). Ad ogni modo,
che sia presente “fisicamente” o no, essa incide fortemente nelle dinamiche
del gruppo e nello sviluppo del lavoro. In ogni caso, i rapporti con
l’istituzione vanno evidentemente trattati (e curati) in maniera specifica
(contrattuale e relazionale), prevenendo eventuali fratture che potrebbero
compromettere gli equilibri del gruppo e lo sviluppo dell’intervento di DMT
e del corso di teatro. In qualità di tutor, io rappresentavo l’ente attuatore,
ma ero anche co-docente e conduttore del laboratorio di DMT. Il grafico che
segue mostra i soggetti presenti nel processo del gruppo di DMT e le diver-
se modalità relazionali che intercorrono tra loro (Fig. 1).
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conduttore istituzione
utente gruppo
Fig. 1
Il conduttore (il primo paziente del gruppo), così come ogni soggetto parte-
cipante, sono parte dello stesso gruppo e le modalità relazionali che si in-
staurano e sviluppano nel corso del processo creativo sono basate su criteri
diversi (evidentemente) rispetto a quelle che vedono impegnata
l’istituzione carcere. Quest’ultima, infatti, funziona come una specie di mi-
nistero (a livello gestionale ed amministrativo) e si basa semplicemente su
canoni gerarchici (di tipo militare), ma anche politici (clientelari) per non
dire mafiosi. Le circostanze mi obbligavano a far “pesare” il mio ruolo e a
dover vigilare e lottare per mantenere quel piccolo spazio “di potere” che
mi veniva concesso. In virtù di questo, dunque, mi sembrava quasi un ob-
bligo adottare due pesi e due misure nei confronti del gruppo e
dell’istituzione. Nello specifico del lavoro di DMT e Arte Terapia, comun-
que, non ho avuto vita facile, ho dovuto modulare le mie modalità relazio-
nali per riportare ogni acting-out in un contesto di gruppo, e questo per evi-
tare che il mio ruolo venisse sgretolato da un tanto raffinato quanto crudele
contesto, in cui regnava la selezione “naturale” e la lotta per la sopravvi-
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11.3 I progetti
In questo primo paragrafo illustrerò, a grandi linee, i due progetti di forma-
zione in cui ho lavorato in qualità di tutor, nell’anno accademico
2004/2005, nell’ambito dei quali ho avuto la possibilità di attuare due labo-
ratori di Danza Movimento Terapia. I corsi hanno avuto inizio nel novem-
bre del 2004 e sono giunti al termine nell’agosto del 2005. I percorsi for-
mativi ed esperienziali (della durata di 400 ore ciascuno) riguardavano le
tecniche di costruzione ed animazione di burattini e figure animate ed erano
rivolti a due gruppi di detenuti di età e nazionalità diverse. Il primo corso,
denominato “Teatro di figura: percorso all’imprenditorialità e
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
Sulla base delle mie precedenti esperienze, ho ritenuto utile sopperire alla
mancanza di uno spazio dedicato all’espressione corporea, realizzando,
all’interno dei corsi, un modulo di Danza Movimento Terapia, svolto nella
parte centrale del percorso, con la collaborazione della Dott.ssa M. L. Pa-
squarella, amica e collega.
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Obiettivi generali
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che, il mondo là fuori è una tastiera troppo grande, immensa, tale da inibire
la sua creatività musicale.
L’utilizzo dell’Arte Terapia, in un contesto quale quello di un carcere, può
agevolare l’emergere di contenuti emotivi spesso inespressi, creando uno
spazio dedicato all’espressione di sé, alla relazione e alla condivisione con
il gruppo. Anche in questo caso, è necessario strutturare l’intervento in rap-
porto al contesto, agli obiettivi e all’utenza di riferimento, differenziandosi
naturalmente da altre modalità di intervento o iniziative di “animazione”
(non riconducibili, a mio avviso, all’universo delle terapie espressive). Po-
nendo dei vincoli tematici, temporali, spaziali o materiali il conduttore può
così avviare e successivamente agevolare lo sviluppo del processo creativo
di ciascun individuo e del gruppo, permettendone poi l’integrazione e la
condivisione attraverso una verbalizzazione dei vissuti relativi
all’esperienza di DMT.
Riportiamo, qui di seguito, gli obiettivi specifici dell’intervento:
• Allentare le tensioni articolari e muscolari attraverso il massag-
gio, il riscaldamento ed il movimento isolato e coordinato dei sin-
goli distretti corporei e dell’insieme;
• Sviluppare il “grounding”, il radicamento a terra e una postura
equilibrata;
• Migliorare la respirazione e l’uso della voce quale strumento so-
noro ed espressivo;
• Affinare le capacità percettive, di ascolto e relazione fra il singolo
e il gruppo;
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di varie attività in sicurezza. Non è affatto così. Nel carcere niente è defini-
to, tutto può essere, tutto può succedere, ma soprattutto niente deve accade-
re. Ogni giorno vi era un tempo di attesa di circa 30-40 minuti, prima che ci
venisse assegnato un agente e che quindi ci introducesse; attese intermina-
bili prima che i detenuti venissero chiamati e che scendessero. Insomma,
agenti e detenuti facevano a “scaricabarile”, l’ora d’inizio era sempre
un’incognita e, ogni volta, mantenere costante la durata dell’incontro era
assai arduo. Infatti spesso l’agente chiamava ora uno, ora l’altro, o in in-
fermeria, o a colloquio, o altrove. Un inizio e una conclusione “sfrangiati”
sono certamente fattori che pregiudicano non poco il lavoro, ma siamo an-
dati avanti e via via i partecipanti hanno fatto il possibile per esserci, o
quantomeno, per comunicare anticipatamente le proprie difficoltà ad esser-
ci. Un altro problema riguardava il fumo, infatti alcuni tra i partecipanti
non riuscivano a stare più di 5 minuti senza fumare e gli altri seguivano
l’esempio con un effetto domino. Gradualmente siamo riusciti a dilatare il
tempo tra una sigaretta e l’altra e poi a fumare fuori dallo spazio in cui si
lavorava durante uno o più mini break.
to” più intimo e profondo con il proprio corpo e quindi con sé stessi. Fami-
liarizzare con questo incredibile strumento dinamico ed espressivo, mentre
ci si mette in movimento, è propedeutico all’eventuale incontro con altri
corpi “pensanti e danzanti”. Per facilitare il massaggio degli arti inferiori,
generalmente propongo di iniziare seduti a terra, ognuno secondo le proprie
possibilità. Nel nostro caso, preso atto delle caratteristiche inadatte e delle
pessime condizioni igieniche, ho ritenuto opportuno lavorare dapprima se-
duti sulle sedie e poi in piedi. Ho proposto un massaggio che, partendo dal-
le mani, attraverso le braccia e le spalle, arrivasse al collo. Passando per la
testa esso proseguiva lungo la direttrice cranio-caudale attraversando il
tronco e il bacino fino ad arrivare ai piedi lungo gli arti inferiori. La qualità
del massaggio veniva modulata a seconda delle caratteristiche del distretto
corporeo che si voleva contattare. La pelle è stata accarezzata e sfregata, i
muscoli compressi e rilasciati attraverso manipolazioni a carattere pulsato-
rio, mentre le ossa erano fatte risuonare attraverso una percussione (con i
polpastrelli, le nocche o il pugno). La progressione prossimo-distale o di-
stale-prossimale, da me preferita, veniva scelta in base agli sviluppi previsti
nella parte centrale dell’incontro. Con la scusa di non poterci massaggiare
la schiena da soli, o quantomeno non in maniera del tutto soddisfacente, ho
proposto di concludere questo lavoro in assetto duale, alternandosi nel mas-
saggio “percussivo” sulla schiena del compagno (funzione esplorativo-
empatica). Con mio grande stupore le coppie si formavano con naturalezza
e tempismo (probabilmente ciò era anche indotto dall’assetto circolare in
cui ci trovavamo al momento della consegna). Di contro, però, si innescava
un chiacchiericcio che, via via, ha assunto, in alcuni casi, i toni che abi-
tualmente si sentono nei mercati. Probabilmente tutto ciò nasceva dalla dif-
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fidenza che alcuni di loro avevano nel voltare le spalle ad un altro uomo
ma, più sottilmente, dall’idea che questo potesse dar loro “piacere”, un pia-
cere che faticavano terribilmente a concedersi. Ma ben vengano, mi dissi,
anche le battute, le risate, i fischi, le lamentele, i vocaboli coloriti o deni-
gratori. Eravamo in una grande piazza dove gli uomini del villaggio si mi-
suravano a colpi di machismo, forza, carattere e personalità. Era commo-
vente vedere questi uomini adulti che, gradualmente, si lasciavano andare
sublimando la propria energia sessuale in piéces teatrali autoironiche e, a
tratti, addirittura esilaranti. Alternativamente, ho proposto di continuare il
massaggio in assetto circolare sulla schiena del compagno che stava dinan-
zi. Curiosamente, non appena creato, questo serpente umano cominciava a
girare autonomamente in un vortice che, ai miei occhi, manifestava, ancora
una volta, la fuga dal contatto o la corsa verso qualcosa di sfuggente, in-
sieme a una gran voglia di muoversi e di giocare. Una grossa risata ha con-
cluso questo allegro carosello.
P., un ragazzo colombiano, con un viso tanto bello quanto inespressivo e
con una voce profonda e monotona, alla fine dell’esperienza si era lasciato
cadere a terra spossato, ma sorridente come mai. In questo sviluppo (come
pure nel successivo), lo scopo è quello di fondare uno spazio di relazione
transpersonale (individuo-gruppo-individuo) e interpersonale (individuo-
individuo), passaggio obbligato per entrare nella fase centrale della seduta.
Si tratta di predisporre uno scenario in cui il partecipante si senta il più pos-
sibile a proprio agio e, di conseguenza, si lasci coinvolgere dal gioco cor-
poreo, dalla danza, dalla musica, ma soprattutto dall’opportunità di sentire
il proprio sé attraverso l’incontro/confronto con l’altro da sé. Una terza
possibilità è costituita dal “tunnel”, a rappresentare simbolicamente un rito
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ni, e piani spaziali), rivelava una limitata consapevolezza del proprio corpo,
delle proprie potenzialità motorie e una scarsa tonicità corporea generale. I
piedi, generalmente, erano poco radicati a terra e le modalità respiratorie
poco efficaci (ipotonia diaframmatica e addominale). Ho cercato, per quan-
to possibile, di stimolare il movimento attraverso proposte che permettesse-
ro l’esplorazione dello spazio interno, i propri confini e la dimensione rela-
zionale con l’altro e con il gruppo.
Per raggiungere questi obiettivi (o quanto meno attivare una consapevolez-
za e stimolare il processo di evoluzione psico-corporea), mi sono avvalso
dell’ Expression Primitive, che permette di lavorare sui singoli distretti
corporei e le catene muscolari, conseguendo una migliore coordinazione
all’interno del quadro contenitivo del ritmo. Ho iniziato il lavoro dalla
semplice pulsazione dei piedi, per poi introdurre il battito delle mani e, in-
fine, l’uso della voce. Successivamente ho introdotto strutture ritmiche più
complesse, richiedenti capacità di coordinazione e/o dissociazione dei mo-
vimenti (omo e controlaterali).
Alcuni strumenti, come il lavoro su azione e stop, le posizioni fantastiche
insieme ad alcune strutture del riscaldamento del Cours Type, sono state,
per la loro semplicità e capacità di coinvolgimento, le basi essenziali su cui
poter costruire un percorso di DMT relazionale con i detenuti, seppur breve,
ma assolutamente stimolante e produttivo. Inizialmente, il movimento è
stato percepito più sotto forma di ginnastica terapeutica, mentre la danza è
entrata in scena nella parte centrale e conclusiva del percorso. Registrando
la voglia, il piacere di cantare e le capacità ritmico-vocali di alcuni elemen-
ti, sono riuscito ad aggirare la naturale inibizione riguardo all’espressione
corporea e alla danza. L’apporto di alcuni soggetti, provenienti da culture
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Prima di passare alla fase conclusiva ho proposto più volte un lavoro che
prevedeva la seguente struttura: in assetto circolare, ciascun partecipante, a
turno, occupava il centro e danzava (possibilmente tenendo gli occhi chiu-
si). Il gruppo, oltre a definire lo spazio del lavoro (funzione contenitiva e
protettiva), stimolava ed agevolava un sicuro movimento nello spazio. La
proposta, volutamente essenziale e generica, era soggetta a varie interpreta-
zioni. Alcuni danzavano ad occhi aperti, emettendo dei suoni e interagendo
con il gruppo, altri si abbandonavano facendosi sostenere dalla rete del
gruppo che, come un elastico, ne stimolava il movimento (passivo), qual-
cuno, con gli occhi chiusi, danzava senza un contatto diretto, altri ancora,
attraverso un viaggio (sensoriale e cinestesico) di esplorazione dello spazio,
contattato un compagno, cercavano di indovinare chi fosse. Successiva-
mente ci si prendeva per mano e, sviluppando una trazione, ci si concedeva
un piacevole allungamento della parte superiore delle catene muscolari po-
stero-mediale e postero-laterale. A turno poi, ognuno si lasciava sostenere
dal gruppo portando il busto ed il capo indietro per permettere
l’allungamento della porzione superiore della catena muscolare antero-
mediale. Dalla trazione si passava, poi, alla spinta (sempre attraverso le
mani) per agevolare, a seconda delle posizioni da me indotte,
l’allungamento delle catene muscolari antero-mediale ed antero-laterale su-
periori e postero-laterale inferiore (con le gambe tese). Le catene A.P. e
P.A., delegate al sostegno della colonna e alla sinergia tra la parte anteriore
e posteriore del corpo, erano stimolate dall’alternanza fra posizione eretta,
“pliè” e “relevè”.
L’azione di spinta in questa fase del lavoro era altresì funzionale ad una de-
finizione dei propri confini corporei. Partendo da questa spinta (di differen-
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turoso viaggio alla ricerca di una terra fantastica dove felicità e ricchezze
sono alla portata di chiunque vi approdi. Colombo partirà, a bordo di una
barchetta, senza una meta precisa, senza sapere cosa troverà fuori dal pro-
prio mondo, oltre il mare aperto. Lascerà l’isola nativa, la propria donna,
gli amici e tutto il resto, per cercare altrove ciò che non conosce, ma di cui
ha sentito solo parlare. Un vecchio capitano di fregata gli aveva raccontato
di un luogo meraviglioso, ricco di ogni ben di Dio e abitato da gente straor-
dinariamente felice. A causa di quel racconto, Colombo, un bel dì, armato
di coraggio, prende il mare deciso a scovare quel paradiso. Dopo aver af-
frontato una burrasca, trova l’approdo sulla terraferma, raggiungendo varie
isole:
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“affare”. Il povero Omar, allora, consegna tutto il suo denaro in cambio del
“pacco” e riprende la sua strada. Egli desidera ardentemente ritrovare la sua
amata; allora pensa che, forse, con il cellulare, potrebbe parlarle, ma, aper-
ta la confezione, l’ingenuo giovane si trova fra le mani una vecchia lampa-
da a petrolio. Non comprendendo di essere stato truffato, Omar cerca di
chiamare Sella con la lampada e, dopo qualche goffo tentativo, gli risponde
EuGenio. Purtroppo, però, il genio della lampada si rivelerà maldestro e
svogliato, procurando non pochi problemi al giovane contadino. La sce-
neggiata prosegue con una serie di disavventure e di personaggi, buoni e
cattivi, finchè, finalmente, Omar riuscirà a trovare la sua ragazza, che, nel
frattempo, era finita in balia di un brutto ceffo che non ci pensa due volte a
riempire di botte il povero innamorato. L’intervento di due vecchietti, che
in precedenza Omar aveva aiutato, sarà decisivo per convincere Petronio
Pretorio, detto “Er Caligola”, a lasciar andare Capricciosella. La vicenda,
dunque, ha un lieto fine; infatti, il Genio convince Aladrino a restituire il
maltolto e i due innamorati potranno tornare al loro paese per sposarsi e vi-
vere felici e contenti.
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Nella mia esperienza, ho avuto modo di incontrare due o tre soggetti con
queste caratteristiche. Abbiamo attraversato dei momenti difficili quando,
questi, con spirito distruttivo, hanno tentato di screditare noi e il progetto
creando tensioni e conflitti, derivanti, nella maggior parte dei casi, dalla
scarsa disponibilità al dialogo da parte della direzione. In questi momenti
cruciali, le parole di questi persone, spesso confabulanti nell’ombra, risul-
tavano taglienti e disgreganti. Il superamento di questi “inconvenienti” ha
richiesto un grande sforzo da parte mia, dei docenti e del gruppo stesso,
perché non venisse annullato tutto ciò che era stato fatto fino ad allora.
L’aspirante leader del gruppo di Cassino ha ceduto le armi quando il suo
“compare” ha cominciato ad entrare nel lavoro (di lì a poco avrebbe inter-
pretato il ruolo di narratore di tutta la vicenda). Fino ad allora, infatti, i due
si erano spalleggiati, rimanendo uniti. Il futuro narratore amava scrivere,
parlare, prodursi in simpaticissime gag e battute esilaranti; è stato allora
che il mio collega (insegnante di teatro) è riuscito a coinvolgerlo nella ste-
sura del copione, in vista dello spettacolo. Un altro aspetto che abbiamo po-
tuto “sfruttare” era rappresentato dalla necessità di sentirsi considerato e di
godere di una certa visibilità. Presto detto, come narratore avrebbe potuto
parlare a volontà e fare lo spiritoso, oltre ad essere l’unico attore in scena.
Il suo ex “socio” allora ha iniziato a frequentare di più l’aula, ma senza in-
tervenire attivamente, sempre in silenzio. Un giorno l’ho colto mentre sor-
rideva nel vedere i suoi compagni all’opera in simpatiche gag, ho incrocia-
to il suo sguardo e lui sentitosi scoperto, è uscito dall’aula. Dopo pochi at-
timi ho notato che spiava, guardando il seguito delle prove da una piccola
finestrella del corridoio. Da allora ha smesso di assillarci con le sue conti-
nue richieste (cartine per fumare, il compenso dovuto per la frequenza al
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corso, ecc.) e, con mio grande piacere, non sono sparite più le penne che
ogni giorno lasciavo sul registro per le firme. Grazie anche ai contributi
scritti delle colleghe, sono in grado di elencare una serie di elementi che sa-
rebbe utile considerare per attuare un progetto di intervento in strutture de-
tentive (soprattutto in ambienti multietnici e con un alto tasso di tossicodi-
pendenti). Schematizzando, i fattori di maggiore interesse, da me rilevati,
oltre a ciò che è già stato detto, sono i seguenti:
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sono state le nostre mostre. Ma ciò che è stato più importante è stato il pro-
cesso, il percorso, proprio come per me ora è importante questo viaggio,
esperienza indispensabile per coronare questi anni di lavoro e formazione.
Mi sono immerso in un mare di danze afro-brasiliane, percussioni e lotte
tradizionali. Qui tutto è impregnato di tradizioni, credenze e rituali che par-
lano di un passato di sofferenza, ma anche di un popolo che ha saputo so-
pravvivere al ferro e al fuoco di mille dominazioni e che oggi continua a
vivere, nella miseria del quotidiano, ma fiero delle proprie tradizioni, ri-
spettoso dei propri Orixas (divinità sincretiche afro-brasiliane del Candom-
blè), folle nelle notti magiche del suo psichedelico carnevale, famoso in tut-
to il mondo per i suoi ritmi, le sue luci, i suoi colori vibranti.
La Capoeira (danza-lotta tradizionale originaria dell’Angola) è praticata da
tutti, bambini, donne, portatori di handicap e, chiunque passi da lì, non può
non fermarsi ad assistere alle evoluzioni dei lottatori-acrobati, accompagna-
ti dal suono del berimbau. I bambini, qui, iniziano a suonare e a danzare da
piccoli, in gruppi. Vengono iniziati alla musica e impegnati in attività crea-
tive, scongiurando, in tal modo, il pericolo di vederli vittime del crack, del-
la colla, della criminalità e della prostituzione, dilagante anche in età infan-
tile.
Questo mio viaggiare, per questa terra bella e disperata, mi porta a confron-
tarmi col disagio e la sofferenza, tuttavia, sono qui per “trovare me stesso”:
voglio incontrare la parte migliore e quella peggiore delle persone e scopri-
re che anch’io ho una parte migliore e una peggiore! Penso che la sofferen-
za esista ovunque, si può decidere di vederla o no, di sentirla o no, di a-
scoltarla o no, di farsene carico o no e, a seconda dell’atteggiamento che
avremo, potrà cambiare la nostra vita, il nostro modo di rapportarci con le
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persone, con il mondo, la nostra visione delle cose. L’esperienza nel carce-
re mi ha provato, non poco, sia umanamente che professionalmente. Avevo
la sensazione che molti dei detenuti si aspettassero da me più di quanto io
potessi o fossi disposto a dare o fare per loro. Il contatto diretto con questa
dolorosa realtà non sempre è avvenuto con il dovuto distacco emotivo,
condizione necessaria per poter attuare una relazione di aiuto. Mi sono do-
vuto confrontare con vicende strazianti e vissuti, spesso, opposti e stridenti
con la mia esperienza personale. Dentro di me sentimenti contrastanti: con-
divisione, fusione, ma anche difesa e, quindi, differenziazione. Ho filtrato
questa drammatica realtà per non venire inghiottito da questo tourbillon di
sentimenti ed emozioni. Tali difese mi hanno permesso di portare avanti
l’intervento, modulando il grado di “confidenza” nei confronti del gruppo e
dei singoli. Ogni mia modalità relazionale, lievemente “collusiva”, inco-
raggiava risposte fortemente seduttive, manipolatorie, vittimismo o aggres-
sività. D’altro canto, un’eccessiva difesa era potenzialmente percepita come
debolezza, o paura, e rischiava di pregiudicare il rapporto con il gruppo.
Questo gioco di equilibrismo è durato nove mesi (il tempo di una gestazio-
ne!) e mi ha permesso di crescere, affinando le mie capacità relazionali,
professionali, dosando e gestendo le mie energie, intuendo e decidendo i
tempi e le modalità di intervento nel percorso di DMT. Questo percorso ha
fortificato il rapporto con me stesso e con l’equipe di lavoro. Sono molto
soddisfatto, poiché il nostro certosino lavoro, viste le premesse, ha portato
a dei risultati insperati. L’esperienza di DMT, seppur breve e con modeste
ambizioni, si è rivelata coerente con il progetto di teatro e certamente ri-
spondente ai bisogni dell’utenza. Instillando la curiosità, il piacere ed il de-
siderio di investire le energie in un'attività che veniva percepita come “co-
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struttiva”, siamo riusciti a porre le basi per uno sviluppo del processo crea-
tivo attraverso il movimento, la danza e le Arti Terapie. Lavorare in gruppo
mi ha aiutato molto. Ho avuto la possibilità di non sentire tutta la responsa-
bilità del progetto sulle mie spalle e, gradualmente, (non mi viene facile
chiedere o delegare) sono riuscito anche a fidarmi degli altri. Sono convin-
to che sia una possibilità che dobbiamo concederci, sfatando il mito del te-
rapeuta “supereroe”, che non conosce problemi personali, di salute, contrat-
tempi o cose simili. Tutti i fattori che concorrono al burn out del terapeuta
vanno monitorati, sentiti e possibilmente prevenuti. Ma il lavoro in equipe
mi ha permesso anche di imparare dall’altro, integrando le reciproche com-
petenze e ricevendo un feedback sul mio lavoro che, insieme con la super-
visione e una buona psicoterapia individuale, costituiscono, per me, prezio-
si strumenti di lavoro e formazione.
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J. L.
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SEZIONE V
Dramma Teatro Terapia
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12.1 Introduzione
Quando ancora Cartesio è in vita, si manifestano i primi tentativi di supe-
rare il dualismo delle sostanze nella visione della realtà, nella concezione
dell’uomo e nella giustificazione della conoscenza umana. Il parallelismo
psicofisico di Spinoza nasce da un’unità di sostanza che, tuttavia, si espri-
me in due forme diverse e totalmente distinte.
Lo stesso Spinoza afferma:
vederle insieme tutte e due. Ma la medaglia con le sue due facce è cosa i-
nerte, l’essere umano, al contrario, è vivo, vibrante, pulsante, stimolante
sia nella sua faccia “sopra” (il corpo con le sue sensazioni) sia nella sua
faccia “sotto” (l’anima con i suoi pensieri).
In una visione olistica della persona, Ezio Aceti parla di corpo animato.
Corpo animato, cioè mosso ad agire e reagire non più solo dal determini-
smo cosmico o delle leggi fisiche, ma anche da un’altra forza (o pulsione)
la cui natura è difficile spiegare. Il corpo appare quindi come una realtà
complessa, in grado di manifestare noi stessi, animato da un’energia parti-
colare. Per Jean Le Boulch il nostro corpo è ciò attraverso cui io appaio a-
gli altri. Noi siamo il nostro corpo. Avere coscienza del proprio corpo è la
via per entrare in tutto il proprio essere, perché corpo e spirito non sono
dualità dell’essere, ma la sua unità. Il modo migliore per acquisire questa
coscienza è “vivere il nostro corpo” in tutte le sue potenzialità, compresa
quella della “espressione corporea”.
Dropsy, esaminando il termine espressione corporea, vi ritrova tre elemen-
ti:
Al confine fra queste due realtà il corpo è il luogo in cui esse si incontrano,
modellato, contemporaneamente, da entrambe, attraverso un flusso conti-
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nuo fra esse. L’espressione corporea concorre alla riscoperta della realtà
personale nella ricchezza della sua vita profonda. In questi anni si assiste a
una rivalutazione dell’espressione corporea, riconoscendole un ruolo in
campo pedagogico e in particolare nei percorsi educativi e formativi della
persona. Ampio risalto ne viene dato nelle recenti Indicazioni per il Curri-
colo per la Scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione, emanati
dal Ministero della Pubblica Istruzione. L’espressione corporea è presente
anche in molte terapie a mediazione corporea, nell’ambito delle diversabi-
lità. Sempre più numerose sono le evidenze scientifiche su come
l’educazione corporea incida, positivamente, sulla maturazione della per-
sonalità in soggetti con deficit fisici, mentali o sensoriali. Pertanto, il per-
corso di formazione sull’espressione corporea nell’ambito delle arti tera-
pie, si pone l’ambizioso obiettivo di far acquisire al terapeuta quelle com-
petenze utili a realizzare esperienze significative sul piano della formazio-
ne della persona umana. Le Arti Terapie diventano lo spazio nel quale re-
cuperare e sviluppare quelle capacità che una minorazione ha inibito nelle
sue manifestazioni quotidiane. Il laboratorio arteterapico è il tempo duran-
te il quale ricostruire la corporeità vissuta come un recipiente vuoto, senza
contenuto, come un mondo di frammenti separati e privi di connessione. Si
intuisce la rilevante responsabilità del terapeuta inteso nel suo significato
originario (therapeía) di “prendersi cura”.
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L’analizzatore
La denominazione è stata introdotta da I. Pavlov per indicare
l’apparato neuronico che veicola le informazioni sensorie dalla
periferia alla corteccia cerebrale.
L’A. si compone del Recettore dell’organo di senso, dei
neuroni afferenti e delle terminazioni centrali
dell’analizzatore, cioè dei gruppi di cellule cerebrali che
operano l’elaborazione dell’informazione.
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una grave forma di neuropatia che le ha leso le fibre nervose che trasmet-
tono l’informazione propriocettiva, di conseguenza, ha perso ogni sensa-
zione corporea: non sente più il proprio corpo. Quando la si stimola è ca-
pace di descrivere le stimolazioni e di localizzare il punto del corpo stimo-
lato su una sua foto. Invece è incapace di indicare con la mano la parte del
corpo che è stata stimolata. La paziente sembra avere conservato intatta
l’immagine obiettiva del proprio corpo; il suo schema corporeo, invece, è
gravemente alterato. I disturbi della rappresentazione del corpo possono
quindi provenire sia dallo schema corporeo, sia dall’immagine corporea.
Tuttavia, questi due tipi di rappresentazione corporea interagiscono:
l’immagine corporea struttura lo schema corporeo, mentre è essa stessa,
almeno in parte, il risultato di una rappresentazione del corpo. Alla luce di
quanto esposto, la capacità di esprimersi attraverso il corpo sarà tanto più
pregnante quanto più l’immagine del corpo e lo schema corporeo saranno
evoluti, quanto più si avrà coscienza del proprio corpo. Un percorso sulla
percezione del sé corporeo vedrà un suo inizio nello sviluppo delle capaci-
tà senso–percettive e dello schema corporeo (vedi l’e-book “70 GIOCHI DI
CREATIVITÀ PER LA CONDUZIONE DEI GRUPPI IN AMBITO CLINICO, PE-
DAGOGICO E FORMATIVO”, di Fausto Cino e Stefano Centonze, Edizioni
Circolo Virtuoso 2011).
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verso il mondo esterno e quella tonica, con la quale egli può regolare il
grado di tensione muscolare.
Il movimento è lo spostamento del corpo o di un suo segmento attorno a
un’articolazione, è generato dall’incontro tra la spinta vitale e il processo
di adattamento alla realtà, è un’espressione immediatamente percepibile da
chi lo esegue e da chi lo osserva; è determinato da una motivazione, è o-
rientato verso uno scopo. Le vie attraverso cui il movimento si esprime
come comunicazione, passano attraverso indici intenzionali ed espressivi,
quali movimenti naturali, volontari, concreti ed astratti.
La comunicazione non verbale distingue il piano della gestualità naturale
da quello della gestualità volontaria. I movimenti naturali tendono
all’equilibrio tra organismo e ambiente, utilizzano il corpo per agire e per
esprimersi in situazione. Il movimento volontario è prassico e costituisce
un’azione transitiva, che modifica la realtà, l’ambiente. Il movimento con-
creto è determinato dall’azione-reazione sul mondo e lo stimolo ne è la
causa. Immediatezza della motivazione e intenzionalità sono le sue caratte-
ristiche. Il movimento astratto non ha punti di riferimento concreti o diretti
ad una causa, ma è una proiezione verso ciò che non esiste, verso un pos-
sibile, verso una rappresentazione di qualcosa. Questo tipo di movimento
esprime un livello di pensiero superiore, riflessivo, che avvia al gesto sim-
bolico, richiamando significati più generali di contenuti cognitivi ed emo-
tivi, condizionati dalla cultura. È qui che si colloca il movimento espressi-
vo, che trasforma in segni motori significati e contenuti astratti. Questa
motricità mantiene agganci con il movimento naturale, ed è perciò ad esso
funzionale, ma se ne discosta per creare una realtà simulata: le azioni ac-
quistano un significato analogico, passando dal senso proprio a quello fi-
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TOMATICO VOLONTARIO
• la mimica;
• i gesti;
• le posture;
• il contatto corporeo;
• la prossemica.
• gesti simbolici;
• gesti illustratori;
• gesti di adattamento;
• gesti regolatori.
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Moltissimi gesti delle braccia, e in particolare delle mani, sono delle vere e
proprie comunicazioni complete, che usano simboli o codici non verbali di
immediata comprensione.
La POSTURA è l’atteggiamento abituale di ogni persona e va considerata
come espressione personale del sé. È l’espressione soggettiva
dell’individuo, il modo di ogni singola persona di porsi fisicamente nel
mondo, il modo in cui ogni soggetto si presenta in qualsiasi situazione. La
postura è una qualità psicomotoria, caratterizzata da una situazione dina-
mica e ricorrente, determinata da componenti psichiche, anatomiche e dal-
le capacità propriocettive. La componente psichica è data dal tono di rela-
zione che dipende da dinamiche emotive dettate dalla quantità e dalla qua-
lità dei rapporti che un soggetto ha con le atre persone e con le cose. Le
componenti anatomiche sono rappresentate dalla personale conformazione
morfologica, dall’apparato scheletrico e muscolare, da eventuali patologie
connesse. Le capacità propriocettive costituiscono la componente fonda-
mentale della postura. È attraverso le componenti propriocettive che il
soggetto percepisce l’immagine di sé statica e dinamica. Più l’immagine di
sé è vicina alla norma, più la postura sarà corretta, al contrario se essa si
allontana dalla norma si ha una postura scorretta, che può essere l’origine
o il risultato di squilibri muscolari ed articolari. In base ai codici espressi-
vo-comunicativi che in un determinato contesto socioculturale regolano
l’interazione sociale, ogni postura, sulla base dei diversi modi di “essere”,
rivela stati d’animo, percezioni di sé, atteggiamenti interpersonali e tratti
della personalità.
La PROSSEMICA è la scienza che definisce l’insieme di osservazioni e teo-
rie sull’uso umano dello spazio (Hall). Il corpo non ha segreti, ma non tut-
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12.7 Lo spazio
Esistere è occupare uno spazio. Nel dimorare il mondo secondo i modi de
“l’in-essere”, l’uomo determina la sua costituzione fondamentale di esse-
re-nel-mondo (Heidegger). Lo spazio vissuto non riguarda la collocazione
dell’oggetto nello spazio in modo indipendente dalle intenzioni del sogget-
to, in quanto è la significatività dell’oggetto rispetto al soggetto desideran-
te a determinare la scoperta della distanza spaziale. La spazialità vissuta ri-
ceve attribuzione di distanza o orientamento in base all’intenzionalità del
soggetto in situazione di relazione con altri corpi presenti. Lo spazio di-
venta significativo, gravido di senso, allorché viene percorso da una cor-
rente di desiderio o di rinuncia. Lo spazio non si rifà unicamente alla
sommazione-combinazione di elementi logico-metrici e percettivo-
rappresentativi, a un sistema di coordinate astratte, in quanto esso, come
qualsiasi altra unità categoriale, risulta influenzato da componenti emotive
e affettive.
Lo spazio viene vissuto, oltre che sul piano cognitivo, anche su quello e-
mozionale, e ciò lo si può facilmente osservare in soggetti che presentano
disturbi di rappresentazione spaziale. Lo spazio non è dato da una serie di
cognizioni esistenti a priori, ma si costruisce attraverso gli adattamenti di
ogni individuo con il mondo circostante, tramite un passaggio combinato e
progressivo da mezzi concreti a mezzi astratti di rappresentazione dello
spazio stesso (dall’egocentrismo al prospettivismo). In un primo momento
le cognizioni di base si realizzano attraverso le proiezioni dello schema
corporeo, ossia in rapporto ai punti di riferimento della topografia corporea
(Werner); poi in una seconda fase, lo spazio diventa interoggettuale, ossia
si basa sulle rappresentazioni delle relazioni tra corpo-oggetti e degli og-
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12.8 Il tempo
Tempo e spazio sono dimensioni fenomenologicamente universali e sem-
pre co-presenti nel sensibile, ed implicano un sistema di rapporti tra loro
costanti. Ogni corpo è dato per l’azione, e ogni azione concreta, pensata e
vissuta, non prescinde da entità spaziotemporali. Lo spazio presuppone il
tempo, in quanto la nozione di spostamento è dipendente dal prima e dal
poi; il tempo presuppone lo spazio, in quanto esso si collega a eventi che
lo riempiono e pertanto lo definiscono.
Scrive Umberto Galimberti:
vare il senso della propria identità, il cui costituirsi rimanda a una coscien-
za temporale nella quale presente, passato e futuro si vincolano nel loro
perenne susseguirsi. L’ontogenesi della nozione di tempo non prende ini-
zio con la costruzione di uno schema quantitativo; essa, primariamente, si
identifica “in una specie di sostanza riunita, costituita da pezzi discontinui
e caratterizzata da qualità concrete e affettive” (Werner).
I valori temporali del bambino, che inizialmente coesistono indifferenziati
con quelli spaziali, hanno un carattere pragmatico, concreto, si strutturano
solo per livelli di operazioni di diverso grado in rapporto all’esperienza
personale del bambino.
«Il tempo – afferma Wallon – si disperde e si ricostruisce a seconda che si
confonda con i gesti, con l’attesa, con i ritmi, con le periodicità fisiologi-
che o sociali, i sincronismi, le durate, reciprocamente correlative o indi-
pendenti, il trasferimento del presente nel passato o nell’avvenire». Come
ha dimostrato Piaget, la nozione di tempo evolve in quanto riproduzione
sul piano rappresentativo di ciò che, in un flusso di esperienze temporali e
soggettive, è stato vissuto sul piano pratico. Inizialmente il tempo si con-
fonde con le impressioni psicologiche inerenti il movimento, gli atteggia-
menti di soddisfazione e contatto, poi, in tempi successivi avviene
un’obiettivizzazione della struttura del tempo, in quanto tale struttura non
dipende più percettivamente dall’interiorizzazione degli schemi di azione.
Per il bambino, inizialmente, il tempo ha un carattere egocentrico, ed è le-
gato al presente e alle circostanze nelle quali agisce. Solo nella fanciullez-
za, grazie ai processi di astrazione e generalizzazione, il concetto di tempo
viene maggiormente colto nei suoi aspetti convenzionali, in base alle rela-
zioni spazio, velocità, durata, successione, ritmo.
405
Collana I Manuali dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative – Edizioni Circolo Virtuoso
Come per lo spazio, anche la nozione temporale può subire una sua de-
strutturazione a causa di minorazioni sensoriali o psichiche, con conse-
guenti alterazioni strutturali del senso d’identità e difficoltà
nell’elaborazione senso-percettiva dei dati del mondo esterno ed interno. Il
tempo può essere definito come la nozione che organizza la modalità con-
tinua di stati in cui si identificano le vicende umane e naturali, in collega-
mento all’idea di successione ed evoluzione, e comprende sempre due di-
mensioni: quella oggettiva e quantificabile e quella soggettiva ed individu-
ale.
Nella didattica si utilizzeranno attrezzi non codificati sia per mantenere un
feeling strutturale con le proposte a corpo libero, sia perché tali attrezzi si
disancorano da concetti prefigurati, standardizzati, dogmatici che, di nor-
ma, identificano l’attrezzo noto; quindi, si è preferito proporre una serie di
esperienze motorie che si allontanano dagli “assoluti imposti esistenti”
(vedi l’e-book “70 GIOCHI DI CREATIVITÀ PER LA CONDUZIONE DEI
GRUPPI IN AMBITO CLINICO, PEDAGOGICO E FORMATIVO”, di Fausto Ci-
no e Stefano Centonze, Edizioni Circolo Virtuoso 2011).
406
Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
12.10 La valutazione
La valutazione si configura come un vero e proprio processo, nella misura
in cui il comportamento del formatore coinvolge globalmente la personali-
tà dell’allievo; è un processo che promuove decisioni e scelte di contenuti,
inseparabile dal sistema di relazioni che caratterizzano l’insegnamento-
apprendimento.
407
Collana I Manuali dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative – Edizioni Circolo Virtuoso
Nelle Arti Terapie, i problemi della valutazione delle attività proposte ri-
guardano sia l’individuazione dell’oggetto di controllo pedagogico, sia
l’interpretazione integrata dei dati, in funzione delle scelte operative da
compiere, cioè l’organizzazione e la trasformazione delle informazioni ac-
quisite ai fini della prassi didattica. Un sistema di verifica e valutazione u-
tilizza prove e metodi differenti e complementari per acquisire informa-
zioni integrate. L’individuazione dei metodi di verifica richiede, paralle-
lamente, la strutturazione di un sistema di prove o indicatori, che rendano
possibile la rilevazione di dati quantitativi e qualitativi, la loro misurazione
e, soprattutto, la loro lettura integrata, al fine di formulare un giudizio di
valutazione sull’apprendimento-sviluppo dei fattori cognitivi, psicomotori
e socio affettivi, e sulle loro relazioni.
Prima di passare ad esaminare gli strumenti della valutazione si vuole
prendere in esame la relazione tra progettazione e valutazione. La proget-
tazione terapeutica costituisce per ogni operatore il riferimento principale
per la realizzazione di una corretta azione rieducativa, verificabile in ogni
sua fase. Essa consiste nell’organizzare le attività secondo una precisa se-
quenza, cioè secondo una serie di unità terapeutiche successive, che gra-
dualmente consentono al soggetto di raggiungere gli obiettivi rieducativi
predefiniti. Progettare significa definire una realistica ipotesi di lavoro.
Una progettazione terapeutica si fonda sulla previsione degli effetti delle
attività proposte e realizzate e si articola in varie fasi, differenti, ma tra lo-
ro complementari, a seconda del modello utilizzato (lineare, per obiettivi,
modulare, per unità d’apprendimento, ecc.). Progettare nell’ambito delle
Arti Terapie significa strutturare percorsi rieducativi secondo i seguenti
criteri:
408
Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
409
Collana I Manuali dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative – Edizioni Circolo Virtuoso
• un progetto rieducativo/terapeutico;
• una periodicità prestabilita;
• l’organizzazione di prove;
• la registrazione e la misurazione dei risultati;
• l’utilizzo dei dati in funzione della regolazione del processo tera-
peutico.
410
Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
12.16 I descrittori
Per compiere la verifica di un apprendimento può essere opportuno ricor-
rere all’uso di un linguaggio descrittivo, cioè alla descrizione del compor-
411
Collana I Manuali dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative – Edizioni Circolo Virtuoso
12.17 Obiettività
Si riferisce al grado di concordanza e uniformità con cui diversi osservato-
ri attribuiscono un valore a una variabile osservata. Naturalmente un eleva-
to livello di obiettività si registra quando non ci sono apprezzabili influen-
ze soggettive sull’esecuzione, da parte dell’osservatore, la valutazione e
l’interpretazione della prova.
12.18 Attendibilità
Riguarda il grado di precisione con cui le caratteristiche studiate vengono
effettivamente misurate. Viene giudicata ripetendo più volte la stessa pro-
va nelle stesse condizioni e rilevando la concordanza tra le prove.
412
Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
12.19 Validità
Riguarda la questione metodologica, cioè se l’indicatore prescelto misura
realmente ciò che si propone di misurare. La validità è la caratteristica
principale che una prova deve avere. Un test poco obiettivo e poco atten-
dibile può comunque avere un significato o valore informativo. Al contra-
rio, una prova attendibile e oggettiva, che però non sia valida, non serve
assolutamente a nulla.
413
Collana I Manuali dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative – Edizioni Circolo Virtuoso
Per tutto ciò, come afferma nella prefazione al loro manuale Ajuriaguerra,
il test si struttura in item decisamente non verbali, che comportano la pre-
sentazione di gesti né familiari, né simbolici, che il soggetto è invitato a ri-
produrre. Secondo gli autori, l’imitazione corretta del gesto che viene pro-
posto presuppone sia la conoscenza e la padronanza del proprio corpo che
la volontà di utilizzarlo per uniformarsi al modello. La risposta imitativa
presupporrebbe, pertanto, da un lato, la capacità di percepire correttamente
il modello, dall’altro, la presenza di una dinamica di apprendimento del si-
gnificato, proposto dal gesto del modello stesso.
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
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Collana I Manuali dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative – Edizioni Circolo Virtuoso
Studio longitudinale
416
Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
• C.M.R. (F, 29): ritardo mentale di medio grado e turbe del compor-
tamento;
• C.D. (F, 29): deficit intellettivo grave in soggetto con sindrome
malformativa multipla;
• G.G. (M, 40): cerebropatia epilettica, oligofrenia e turbe del com-
portamento;
• I.A. (M, 39): disturbo schizofrenico cronico con delirio polimorfo
scarsamente strutturato;
• I.E. (M, 40): insufficienza mentale grave (Q.I.= 44);
• L.R. (F, 34): ritardo mentale non specificato in soggetto con positi-
vità anamnestica per epilessia e turbe del comportamento;
• L.F. (M, 36): sindrome dissociativa in gracile di mente (Q.I.= 66);
• T.M. (M, 40): schizofrenia;
• S.R. (F, 22): deficit intellettivo di grado severo (Q.I.= 43);
• S.E. (F, 29): sindrome di down con disturbi comportamentali;
• S.G. (M, 36): oligofrenia di medio grado in soggetto con disturbi
comportamentali;
• M.A. (F, 37): insufficienza mentale di grado medio (Q.I.= 49);
• S.A. (F, 41): oligofrenia somatoforme;
• S.V. (M, 47): disturbo bipolare;
• P.R. (M, 23): schizofrenia;
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
P. R. (M 23)
1. Relazioni emotive 2. Sicurezza nelle proprie abilità
3
2
1 3
2
0 1
-1 0
-2 -1
-2
-3 -3
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 1 2 3 4 5 6 7 8 910
lezioni lezioni
3
2 3
2
1 1
0 0
-1 -1
-2 -2
-3
-3
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
lezioni
lezioni
3
2 3
1 2
1
0 0
-1 -1
-2 -2
-3 -3
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
lezioni lezioni
1 3
0 2
1
-1 0
-2 -1
-2
-3 -3
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
lezioni lezioni
421
Collana I Manuali dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative – Edizioni Circolo Virtuoso
9. Controllo sociale
3
2
1
0
-1
-2
-3
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
lezioni
422
Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
valutazione Valutazione
ITEM
ITEM
12 3 41 2 3 4 12 3 412 3 4
1 X X 1 X X
2 X X 2 X X
3 X X 3 X X
4 X X 4 X X
5 X X 5 X X
Imitazione di gesti semplici
6 X X 6 X X
Imitazione gesti complessi
Movimenti delle mani
7 X X 7 X X
8 X X 8 X X
9 X X 9 X X
10 X X 10 X X
423
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11 X X 11 X X
12 X X 12 X X
13 X X 13 X X
14 X X 14 X X
15 X X 15 X X
16 X X 16 X X
17 X X 11 X X
18 X X 12 X X
19 X X 13 X X
20 X X 14 X X
X 15 X X
16 X X
Movimenti delle braccia
17 X X
18 X X
19 X X
Contrari
20 X X
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
3
2
1
scala
0
-1
-2
-3
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
lezioni
426
Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
«(…) Questo corso mi aiuta a tirare fuori stati d’animo e a viverli, cosa
che nel quotidiano non sempre abbiamo la possibilità di fare e nello stesso
tempo di condividere queste emozioni con gli altri (…)».
C.
Parole chiave
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S.
Parole chiave
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
«Sono una ragazza down di 24 anni, da tre anni frequento questo laborato-
rio. Questi incontri mi danno molto: la possibilità di conoscere persone, ri-
spettarle, capirle, avere fiducia in loro. Il laboratorio mi ha aiutato a leg-
germi dentro e ad esprimermi superando imbarazzi e paure (…)».
F.
Parole chiave
• assenza di giudizio;
• relazione.
ESSERE UN ALBERO
432
Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
«Sono un abete, 100 anni, superbo, un po’ fragile e col terrore del taglia-
erbe. Sono la radice più nera che esiste. Più nera del buio che c’è». (F.)
«Sono una quercia che risponde solo se c’è un altro che domanda». (L.)
«Sono un vecchio albero bucato con dentro i bruchi canterini, stanco per-
ché parlano sempre». (L.)
«Sono una quercia di poche parole. Faccio la linfa, le foglie e muoio dopo
100 anni. E basta». (D.)
Parole chiave
• ricerca;
• sperimentazione;
• proiezione.
•
433
Collana I Manuali dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative – Edizioni Circolo Virtuoso
«(...) Qui è possibile uno scambio tra persone speciali, tanto diverse eppu-
re tanto simili quando si tratta di creare insieme, di esprimere sentimenti,
difficoltà o semplicemente di condividere un sorriso o un gesto (…)».
A.
«(…) Nello spazio e nel tempo del laboratorio non è la parola ad essere
importante ed invadente, ne abbiamo fin troppe ogni giorno. Qui è il corpo
con tutta la sua diversa espressività ad essere valorizzato e riconosciuto. È
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
da qui che nasce la voglia e la possibilità di giocare ancora gli uni con gli
altri (…)».
R.
Parole chiave
435
Collana I Manuali dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative – Edizioni Circolo Virtuoso
R.
Parole chiave
• elaborazione;
• restituzione;
• separazione.
13.8 La conduzione
Il conduttore, nella fase di fondazione, è la figura di riferimento: crea le
condizioni per uno stimolante clima di fiducia, capace di promuovere e tu-
telare tutti. Per far ciò, si mette personalmente in gioco e partecipa agli e-
sercizi, facendosi testimone della loro fattibilità. Spesso ci è accaduto di
sentirci dire “vedere te, conduttore, giocare con noi, fa sembrare tutto pos-
sibile”. Ma è anche il custode di quello spazio prezioso, neutro e senza
giudizi, che attiva e veicola le risorse dei partecipanti perché ha ricevuto
436
Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
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Collana I Manuali dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative – Edizioni Circolo Virtuoso
tazione teatrale, qualora il gruppo senta la necessità e sia pronto per mo-
strarsi a un pubblico. È questo il caso dell’ultimo spettacolo, che mette in
scena una “fiera delle emozioni”, profonde, con tanto di bancarelle della
rabbia o della dolcezza, sperimentabili direttamente dal pubblico, in base
ai propri bisogni. Lo spunto è partito da un esercizio in cui ognuno, con
una statua, rappresentava l’emozione che più spesso pensa di provare.
Nell’esercizio, svolto in coppia, è stato chiesto a chi vedeva la statua del
compagno di esagerarla e, insieme, trovarle degli aspetti legati al movi-
mento, al suono, ecc.
Collaborando, in un continuo lavoro di specchi e di rimandi reciproci, si è
arrivati, nel corso dell’anno, alla costruzione di veri e propri personaggi,
nati dall’emozione espressa in questa primissima fase, in grado di condurre
il pubblico, nello spettacolo, a sperimentare e scaricare l’emozione prota-
gonista. Dopo i primi esercizi, sul riconoscimento della propria emozione
guida, col tempo tutti i personaggi emersi hanno trovato, tra loro, elementi
di comunanza e di differenziazione. Nell’arco di un paio d’incontri si sono
delineati personaggi vicini a tre grandi aree emotive:
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
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Collana I Manuali dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative – Edizioni Circolo Virtuoso
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
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SEZIONE VI
Arteterapia Plastico Pittorica
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
Di questa distinzione parla Niccolò Cattich nel suo testo L’oltre e l’altro
(Priuli e Verlucca Editore), quando distingue tra dinamiche contro le dife-
se (associate alla Danza Movimento Terapia, alla Musicoterapia ed alla
Dramma Teatro Terapia, maggiormente orientate ad abbattere le difese) e
lungo le difese (tipiche dell’Arteterapia Plastico Pittorica, poiché vissuta
come meno invasiva e più rassicurante).
La nostra opinione in merito, tuttavia, è che la richiesta di formazione in
Arti Terapie passi anche dal desiderio di mettersi in gioco e dal bisogno,
avvertito dagli operatori della relazione d’aiuto, di rimuovere dei propri
blocchi emotivi che, con i linguaggi di Danza, Musica e Teatro, trovano ri-
sposte in tempi relativamente più brevi di quanto non accada con le tecni-
che pittoriche. Prima di abbandonare questa sezione introduttiva, passiamo
in rapida rassegna i principali modelli applicativi dell’Arteterapia Plastico
Pittorica secondo i criteri A.P.I.Art. (dal sito www.artiterapielecce.it).
Nel gioco degli scambi e delle trasformazioni dei disegni, emerge una sto-
ria intra-seduta o che si sviluppa ulteriormente in più sedute, anche per
lunghi periodi di tempo. La trasformazione dei disegni è mossa dalle pres-
sioni inconsce transferali del cliente e dalle spinte controtransferali, sia in-
consce che diventate consapevoli (attraverso un’elaborazione sia in tempo
reale, che in sede di supervisione), dell’ arteterapeuta. Tale metodo è ap-
plicabile anche in gruppo, attraverso opportuni adeguamenti tecnici.
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
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Collana I Manuali dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative – Edizioni Circolo Virtuoso
anche negli spazi della cura, della riabilitazione e della socializzazione del-
la diversabilità fisica, psichica e sociale troviamo operatori che attuano in-
terventi che prevedono l’uso sistemico di tecniche espressive. A fronte di
questa enorme diffusione di metodologie, così importanti nella pratica so-
ciale e clinica, risulta, però, carente, come gli stessi operatori lamentano
nel richiederla a gran voce, una specifica formazione arteterapeutica.
Le arti terapie rappresentano, dunque, per la loro valenza innovativa e tra-
sformativa, una sfida per il presente e la scommessa per un futuro in cui il
benessere dell’individuo e della collettività si basi anche sulla creatività,
sull’immaginazione, sulle risorse inesplorate e sulle possibilità date a cia-
scuno di esprimerle.
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
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Collana I Manuali dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative – Edizioni Circolo Virtuoso
accudimento e sostegno nelle prime fasi di vita, con una particolare atten-
zione alla stretta relazione tra sviluppo psichico-emotivo e corporeità. Ciò
sarà importante anche negli interventi con finalità diverse da quella tera-
peutica o riabilitativa, come nel caso di interventi in realtà scolastiche o
formative, poiché, in ogni caso, la dimensione del corpo, così come affer-
mato precedentemente, risulta di fondamentale importanza per tutti gli es-
seri umani, per la loro relazione con il mondo, non solo, dunque, per quelli
che sviluppano una data patologia.
La società moderna ha in sé degli aspetti che sembrano rendere difficile
l’integrazione dell’unità psiche-corpo. Già in tenera età, infatti, le relazioni
madre-bambino sono spesso mediate da oggetti (il ciuccio, il passeggino, il
girello, il guinzaglio per aiutare a camminare, ecc.) che, in un’ottica di re-
sponsabilizzazione e raggiungimento di una certa precoce autonomia, da
parte del piccolo, spesso legata alla necessità della madre di continuare a
lavorare o di non sentirsi troppo oppressa e spersonalizzata dalla relazione
simbiotica con il figlio, pone, già dalle prime fasi di vita, un potenziale de-
ficit di contatto corporeo con una conseguente maggiore difficoltà ed insi-
curezza nelle successive fasi dello sviluppo. L’adulto, poi, nel qui ed ora,
tende a rimettere in scena gli schemi di relazione appresi durante tutto
l’arco della vita, in particolar modo quelli così emotivamente carichi delle
prime relazioni, e questo fa ben sperare che, se sostenuto ed aiutato a rie-
laborare questi schemi operativi interni, possa superare le sue difficoltà at-
tuali, sperimentando nel futuro un modo più appagante e costruttivo di en-
trare in relazione con l’altro. Ultimamente, in ambito educativo, si è co-
minciato a definire un insegnante capace di accompagnare e sostenere i
suoi alunni, nella delicata fase dell’individualizzazione con empatia, come
462
Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
«L’Art Brut ha in sé tutti gli elementi che richiede un’opera d’arte: una
bruciante tensione mentale, invenzione senza freni, libertà totale. Pazzi?
Certamente. Potreste concepire un’arte che non fosse un poco folle?».
dell’arteterapia plastico pittorica, sono applicabili anche a tutti gli altri tipi
di terapie basate sull’espressività e all’utilizzo delle capacità artistiche pre-
senti in ciascuno di noi.
468
Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
derato come qualcosa di diverso e più complesso della somma delle sue
singole parti), di vivere un momento del tutto personale all’interno del
quale sia rispettato il suo essere, nonché la sua patologia, la sua età o, an-
cora più semplicemente, le sue abilità e competenze (si pensi alla teorizza-
zione, prima citata, di Winnicott che afferma la necessità che una madre
sufficientemente buona si adatti al proprio bambino ed alle sue peculiarità
perché esso possa avere uno sviluppo felice).
Il setting nel quale gli interventi si esplicano è un setting fluido, libero, ma
rispettoso di ciascuno, che possa essere vissuto come uno spazio di demo-
crazia che permetta la creazione di un involucro protettivo nel quale ogni
persona possa sentirsi sufficientemente protetta, tanto da provare a scio-
gliere i nodi e le corazze caratteriali, spesso presenti in ciascuno di noi,
abbattute le quali, diventa più semplice e piacevole guardarsi dentro con
sincerità.
Un altro aspetto importante è la dimensione di co-costruzione del setting:
la stessa modularità dei modelli arteterapeutici fa sì che il luogo, i modi, il
focus degli incontri possa essere pensato e condiviso con tutti i partecipan-
ti al percorso di progettazione e realizzazione degli interventi. Questo a-
spetto che, in prima battuta, potrebbe sembrare un mero tecnicismo, in re-
altà si rivela un aspetto fondamentale dello stesso raggiungimento degli
obiettivi che le Arti Terapie si pongono: favorire il processo di individua-
zione del singolo e armonizzare la sua essenza con il gruppo. Troppo spes-
so, infatti, gli interventi psicosociali, psicopedagogici quando non anche
quelli psicoterapici, tendono a riprodurre un’azione che parte dalla teoria e
dalla tecnica posseduta dal conduttore, terapeuta o formatore, e non dalle
reali necessità, desideri, aspettative dei fruitori dell’intervento. In tal senso,
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Collana I Manuali dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative – Edizioni Circolo Virtuoso
il rischio è quello di aderire a una teoria e a una tecnica standard, che non
prevede l’inclusione e la responsabilizzazione del paziente nel percorso di
cura. Il rischio, dunque, è quello di promuovere processi di normalizzazio-
ne secondo criteri e concetti prestabiliti che non tengano conto delle neces-
sità reali e naturali dell’individuo nella costruzione della sua identità. Ren-
dere i partecipanti protagonisti di ciascuna delle fasi del laboratorio è, in
quest’ottica, un primo e necessario passo per l’acquisizione di questa nuo-
va consapevolezza, relativa alla necessità di diventare protagonisti del pro-
prio processo trasformativo ed individuativi.
Altra dimensione, importantissima nell’applicazione e nell’insegnamento
delle Arti Terapie, è riferibile al concetto di interpretazione dell’opera
d’arte, del manufatto o della semplice esperienza di fare arte, risultante dal
processo di creatività, nel quale il singolo ed il gruppo si trovano coinvolti.
In più occasioni, il disegno, con la sua immediatezza e significatività, è
stato paragonato al sogno, intendendo con ciò la possibilità di dare un si-
gnificato al segno grafico, capace di rinviare immediatamente e con molta
forza a contenuti inconsci. La Psicoanalisi, in particolare, ha costruito
buona parte della sua teoria della tecnica su questa possibilità di interpre-
tazione del materiale onirico del paziente che, attraverso una adeguata re-
stituzione, scioglie molti dei nodi che lo attanagliano, annettendo parti di
contenuti inconsci al piano della consapevolezza, con una conseguente re-
missione dei sintomi e maggiore chiarezza sul proprio modo di funzionare.
Seppure questa analogia tra materiale onirico e materiale plastico pittorico
o, più in generale, artistico appaia pertinente sotto molti aspetti, è pur vero
che i modelli arteterapeutici vestono di un nuovo significato questo ele-
mento, legato alla scoperta del significato profondo della manifestazione
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Manuale di Arti Terapie – A.A.V.V. a cura di Stefano Centonze
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Collana I Manuali dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative – Edizioni Circolo Virtuoso
modo di stare insieme, un essere con e nel gruppo concreto e non solo ide-
ale. Una maggiore consapevolezza del gruppo è, da una parte, un obiettivo
stesso delle Arti Terapie, data l’importanza, illustrata anche dai contributi
di Sartre, Anzieau e Neri, dell’essere in gruppo, dall’altra, però, questo ri-
sulta essere anche un fattore facilitante la formazione di quell’involucro-
base sicuro nel quale loro si sentano in grado di riplasmare il loro mondo e
le loro esperienze e questo costituisce, naturalmente, uno dei fattori tera-
peutici più potenti a nostra disposizione. Così come una buona relazione
simbiotica, fusionale, con la madre, rende possibile, nella prima infanzia,
un avvio del processo di individuazione per il bambino. In egual maniera,
nel gruppo è fondamentale che ci sia un vissuto positivo, rispettoso, non
asfissiante che aiuti l’individuo in questa nuova plasmazione di sé. Questa
esperienza di simbiosi è l’elemento portante delle prime fasi dell’incontro,
ma, così come nello sviluppo infantile sono previste, durante il periodo
dell’individuazione, delle specie di regressioni, nel periodo simbiotico, nel
quale il bambino cerca conforto, sicurezza e sostegno nella madre, allo
stesso modo, queste fasi sono previste e proposte anche all’interno del mo-
dello di intervento arteterapeutico. Nell’opera d’arte condivisa, creata du-
rante la fase fusionale, l’individuo sa essere una parte di sé e una parte del
resto del gruppo. Un palesamento di quello spazio protomentale dentro il
quale, quasi sospesi e mal individuabili, circolano elementi molto persona-
li di ciascuna delle persone che ha intorno, in senso fisico e psicologico.
La letteratura scientifica, in tema di test proiettivi e, in generale, sulla ten-
denza degli uomini a proiettare contenuti interni su stimoli visivi non ben
definiti, è vastissima. Basti pensare al ben noto Test di Rorschach in cui
figure, o meglio macchie, non strutturate vengono usate come stimoli per
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indagare parti molto intime e profonde della personalità dei soggetti testati.
Data la forte carica emotiva che questa tavolozza riveste per ognuno dei
partecipanti, questa sarà utilizzata nelle fasi successive, al fine di favorire,
attraverso la manipolazione della materia, l’elaborazione delle parti con-
fusive del gruppo. Ciò renderà possibile una sorta di azione di trasforma-
zione, attuata dal gruppo/grande madre, di quegli elementi scissi e proietta-
ti, affidati dall’individuo alla collettività, secondo una funzione similare a
ciò che Corrao ha definito come Funzione Gamma, ossia il corrispettivo,
nel gruppo, del ruolo elaborativo rivestito dalla madre nei confronti degli
elementi bizzarri ed incomprensibili del vissuto del bambino che Bion de-
finì come Funzione Alfa (Corrao, 1981).
Una volta realizzata questa fase è possibile, per il soggetto, riappropriarsi
delle parti, prima scisse e proiettate, che saranno questa volta elaborate, ar-
ricchite, in un termine trasformate dalla potente azione riequilibratrice del
gruppo. Ciò che prima non era tollerabile, confuso, talvolta perturbante,
privo di un significato, ora risulta illuminato da una nuova luce, appare tri-
dimensionale e non appiattito dalla bidimensionalità. Ciò restituisce
all’individuo la possibilità di annettere nuovi contenuti e di pervenire, così,
all’auspicata integrazione della personalità, secondo un’ottica di condivi-
sione, tolleranza, valorizzazione di sé attraverso gli altri. Prendersi cura
delle proprie parti diventa, attraverso le arti terapie e l’esperienza ludica
che esse propongono, un avvenimento auspicabile perché vissuto in un
clima gioioso ed allegro, in cui i sentimenti percepiti come negativi (ansia,
paura, frustrazione) vengono esplicitati e riferiti rispetto al compito che il
gruppo si pone, dunque condivisi e ridimensionati durante un’esperienza
che risulta essere, con l’attenzione e la cura del conduttore, un’occasione
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BIBLIOGRAFIA
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Pezin, P. (2003) - Il libro degli esercizi per attori, Roma, Dino Audino.
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http://www.web.tiscalinet.it/mediazionepedagogica
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ISBN 978-88-97521-02-0
Prezzo: € 24,90
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