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Roberto Lorenzetti

Le condizioni di vita nel Lazio postunitario (dall’Inchiesta


Jacini)
In “Il Lunario Romano 1982”. ottocento nel Lazio. Palombi 1982

Ancor prima che la penisola italiana fosse stata completamente unificata la


nuova classe dirigente si sentì fortemente sollecitata alla conoscenza del
reale stato del paese in prospettiva di una sua radicale trasformazione. E'
infatti del 1861 il primo censimento della popolazione così come il primo
tentativo di Alessandro Polsi di censire la produzione industriale e, dello
stesso anno, la promulgazione della legge che istituì le giunte provinciali e
comunali di statistica, organi periferici della Dirstat (Direzione di statistica
del ministero di Agricoltura)1.
Da allora fu un affannoso susseguirsi di iniziative riguardanti l'indagine
sociale che, nel loro complesso, comportarono la trasformazione di ogni
atto amministrativo in dato conoscitivo statistico.

Il nuovo stato unitario e l'inchiesta Jacini


Cinque anni dopo la pubblicazione del primo censimento del Regno
d'Italia, vennero gettate le basi per quello che è stato considerato il più
grande momento conoscitivo del paese all'indomani della sua unificazione:
l'inchiesta Jacini 2.
Nel 1869 giunse infatti la proposta di Marco Minghetti di una inchiesta sulle
condizioni della produzione e dei produttori agricoli, e nel 1870 quella di
Paolo Boselli e Giuseppe Guerrazzi sulle condizioni delle classi operaie
italiane che Agostino Bertani, forte del sostegno di Crispi, Cairoli e Ni-
cotera, trasformò in proposta di legge illustrandola alla Camera il 7 giugno
1871. L'indagine che Marco Minghetti proponeva, era focalizzata tout-court
sulle condizioni della produzione agraria mentre quella di Bertani — che
sembrava tener conto della cosiddetta «Questione sociale» emergente dalle
recenti agitazioni contadine come quelle di due anni prima contro la tassa
sul macinato — era maggiormente posta nella dimensione di una analisi
delle condizioni materiali di vita dei lavoratori della terra.
Il mediatore delle proposte fu nel 1875 l'allora Ministro dell'agricoltura
Gaspare Finali che risolse il dissidio tra le due tipologie di indagine nel
modo più semplice, proponendo cioè una inchiesta agraria la quale tenesse
anche conto delle condizioni della classe agricola.
La promulgazione della legge sulla Inchiesta agraria e sulle condizioni della
classe agricola giunse, dopo un lungo dibattito, il 15 marzo 18773. A
presiedere la Giunta fu chiamato il conte Stefano Jacini che dal 1874 era alla
guida del Consiglio superiore dell'agricoltura, mentre vicepresidente fu
nominato Agostino Bertani. Tralasicando le tumultuose polemiche tra
Jacini e Bertani che accompagnarono come un'ombra tutta l'inchiesta,
occorre spendere alcune parole sul modo in cui i lavori furono condotti.
Dopo la nomina dei dodici membri della giunta, si divise la penisola in varie
circoscrizioni non tenendo tanto conto delle omogeneità storico-fisico
amministrative individuabili nelle varie regioni, ma piuttosto delle esigenze
dei singoli commissari. Oltre che dal materiale già elaborato, in particolar
modo per quanto concerne quello statistico, le notizie e i dati furono forniti
dai comizi agrari, dai medici condotti, dalle preture e da varie organiz-
zazioni di interesse agricolo.
Ma lo strumento primario adottato dall'inchiesta fu un programma
questionario particolareggiato fornito come guida ai singoli commissari
nella stesura delle loro relazioni circoscrizionali. Il programma-questionario
della giunta era diviso in sei punti fondamentali: 1) Terreno e clima; 2)
Popolazione e sua distribuzione; 3) Agricoltura, industrie agrarie, fattori
della produzione; 4) Proprietà fondiaria; 5) Relazioni esistenti tra i
proprietari e i coltivatori del suolo; 6) Delle condizioni fisiche, intellettuali,
e morali dei lavoratori della terra4.

L'inchiesta Jacini nella Provincia Romana


La provincia romana fu compresa nella quinta circoscrizione la cui cura fu
affidata al senatore Francesco Nobili-Vitelleschi, grande proprietario
terriero di idee liberai-conservatrici, certamente — ma non meno, degli altri
commissari —poco esperto di indagini sociali ma con un forte interesse nei
riguardi delle problematiche agricole. Non era certamente la prima volta
che la provincia romana riceveva l'attenzione di studi sociali — si pensi
all'Etudes statistiques sur Rome et la parte occidentale des étas romains del conte De
Turnon del 1855, o ai Cenni economico-statistici dello stato pontificio del Galli
(1840) — e questo facilitò non di poco il senatore Nobili-Vitelleschi che,
insieme ai suoi collaboratori, fu messo in condizione di produrre una
copiosa monografia su questo circondario.
Così come per gli altri circondari anche per la provincia romana sono di
primaria importanza le monografie settoriali che privati e associazioni
agrarie di vario genere inviarono ad un concorso a premi in denaro indetto
nel quadro dell'inchiesta. Esse avrebbero dovuto fornire i materiali per la
realizzazione di monografie regionali particolareggiate i cui lavori non
furono mai intrapresi, non ultima, la causa della scarsa preparazione tecnica
dei singoli commissari5.
Delle 174 memorie presentate al concorso non poche furono quelle
riguardanti la Provincia Romana le quali, se all'epoca furono marginalmente
e superficialmente prese in considerazione, oggi possono costituire una
importante fonte per la storia sociale del Lazio post-unitario6.

Le due aree della Provincia Romana


« Per la provincia di Roma mi trovai nella difficoltà di dover trattare
insieme due parti del territorio di natura affatto distinta ed in condizioni
assai diverse »7, esordiva il senatore Francesco Nobili-Vitelleschi nella
premessa alla relazione finale sulla 5a circoscrizione, comprendendo come
questo territorio fosse scindibile in due parti ben distinte ognuna delle quali
necessitante di una propria specifica analisi: « il cosiddetto Agro Romano e
quei tratti di paese che bensì limitrofi per essere elevati e montuosi, sono
già coltivati o si trovano in una condizione intermedia fra la campagna
romana e l'Umbria ». Infatti in queste due aree, alle profonde differenze
geografiche si accompagnavano altrettanto dissimili condizioni della proprietà
terriera, inevitabilmente esercitanti « una influenza determinante sopra quelle dei
lavoratori ».

a) L'agro romano
... Lasciata l'alta valle del Tevere verso Poggio Mirteto, o i colli Albani verso
Colonna, o i Simbruini verso Tivoli, l'occhio spazia su un'immensa distesa
di territorio incolto o solo in qualche zona coltivato a cereali: non alberi
annosi, non vigne, non filari di pioppi, non ubertosi poderi e case
coloniche, ma campi e pascoli che si estendono fino alla lontana linea della
marina e nei quali solo qualche capanna
e qualche raro casolare attesta la presenza dell'uomo »8.
Così Ercoli Metalli, verso la fine dello scorso secolo, dipingeva gli oltre
200.000 ettari malarici dell'agro romano i quali nel loro insieme offrivano
uno dei più desolanti paesaggi agrari dell'intera Europa.
Oltre la metà di questo vasto territorio era concentrato nelle mani della
mano morta e di poche famiglie nobili che su di esso esercitavano un tipo
di conduzione vecchia di secoli. La mancata rivoluzione agraria e la
conseguente permanenza del potere feudale e semifeudale nelle campagne
del Regno è stato da molti considerata un argine invalicabile al necessario
rinnovamento del paese all'indomani della sua Unità9.
Lo stesso Stefano Jacini, personalità certamente non sospetta, nel tirare il
bilancio dell'inchiesta affermò:

« Nulla è più certo che in Italia esiste un grosso problema agrario;


racchiudente l'avvenire del Paese, che la nuova Italia trascina con sé fin
dalla sua origine e che ella ha il dovere di risolvere completamente se vuol
mostrarsi degna della sua fortuna politica; un problema che il Governo
nazionale deve prendere in mano risolutamente e senza indugio (dopo 25
anni di esistenza del nostro regno, durante i quali lo ha lasciato sempre
sospeso), se il governo vuol meritare il titolo di nazionale, e sfuggire la
taccia di imperdonabile imprevidenza. E ciò senza aspettare che le
moltitudini vengano e forzargli la mano; imperoché indugiando, potrebbe
d'arsi che egli allora non fosse più a tempo a provvedere ».
L'unico processo agrario avviato dalla nuova classe dirigente del nuovo
Stato fu quello che portò ad una trasformazione in un senso borghese delle
proprietà della mano morta. Queste proprietà — estese per oltre 2.500.000
ettari in gran parte concentrati nel Lazio, in alcune aree del sud e nelle isole
— vennero commercializzate in migliaia di quote che, nello spirito
dell'operazione, avrebbero dovuto consentire un rigoglioso aumento dei
proprietari di terreni, i quali, anziché aumentare, diminuirono da 191/1000
nel 1861 a 118/1000 nel 1881 per scendere a 101/1000 nel 1901.
Questo fenomeno è particolarmente ben osservabile nell'Agro Romano nel
quale la proprietà borghese, al termine della liquidazione dei beni dell'asse
ecclesiastico, aumentò dal 5 al 30% a scapito appunto di quella della mano
morta che diminuì dal 30 al 7%; mentre rimase pressoché invariata quella
nobiliare che scese dal 55 al 53%10.
I tecnici del collegio degli ingegneri agronomi nella loro memoria rimasta
manoscritta Relazione per la inchiesta agraria delle provincie di Roma e
Grosseto, notavano
« Passate le grandi proprietà dalle manimorte a pochi possidenti o mercanti
di campagna che già le tenevano in affitto viddero che il loro migliore
interesse era quello che per loro avevano sperimentato, ed in tal guisa
grandi restarono le proprietà in mano di pochi, coltivate com'erano [...] la
divisione sola delle terre potrà cambiare l'attuale aspetto, migliorare nell'alta
coltura, e richiamarvi la popolazione agricola ».
Il grande proprietario terriero, riconfermato dall'inchiesta Jacini come il
grande assenteista della situazione, non conduceva quasi mai direttamente il
suo fondo ma il più delle volte lo cedeva in affitto ai mercanti di campagna i
quali si contornavano di tutta una gerarchia di Butteri, Capoccia dei Buoi,
Capo Vaccaro, Vergaro, e via via fino ai Guitti, ai Cafoni ed altri lavoratori
impiegati nelle attività più dure e meno retribuite del fondo11.
L'Ufficio di statistica municipale fornì al senatore Nobili Vitelleschi alcuni
dati dai quali risultò che nell'agro romano vivevano in modo permanente
appena 12.802 uomini e 3.121 donne contenuti in 530 abitazioni, 347
capanne e 34 grotte, e che solo la miseria più nera poteva essere l'elemento
convincente a far loro affrontare le paludi malariche per l'intero anno.
Queste poche migliaia di lavoratori, descritti da Nobili-Vitelleschi come una
classe « nella quale non v' ha concetto di economia, poco o nessun senso
morale, nessuna educazione ne cultura», erano appena in numero
sufficiente per garantire un minimo di controllo alle proprietà per la cui
coltivazione era necessario che ogni anno decine di migliaia di «bifolchi»
«guitti » «burini» e «cafoni», scendessero dalla Sabina, Ciociaria, Cicolano ed
altre regioni meridionali stanziandosi per un periodo più o meno lungo
nell'agro12.
Giungevano in Compagnie le quali venivano arruolate dai caporali, una
categoria che si era da sempre frapposta tra proprietario terriero o
affittaiuolo e lavoratore della terra. Le compagnie, in base alle potenzialità
lavorative delle singole « braccia » di cui erano composte, venivano divise in
tre categorie: Scelta (uomini robusti); Bastarda (donne e uomini meno
robusti); Monelli (vecchi e bambini)13.
«L'ultima preoccupazione di un proprietario o di un fittaiuolo, è che la
tenuta da esso posseduta o condotta abbia almeno ricoveri per i suoi
lavoratori, i quali per nullameno vi dimorano per nove mesi notava il
senatore Vitelleschi, nell'osservare che le compagnie di immigrati nell'agro
romano trovavano asilo in grotte naturali o più spesso in capanne costruite
con paglia e canne di granoturco14.
In questi insalubri e angusti alloggi «vivevano per nove mesi queste famiglie
senza alcuna distinzione gli uni dagli altri, senza letto, senza latrine,
assolutamente come bestie. E' uno spettacolo quanto si può dire doloroso
quello che si para innanzi al viandante che passa avanti a quelle selvaggie
abitazioni. Donne che hanno appena figura umana, masse di bambini
seminudi che circondano il visitatore per chiedergli l'elemosina ».
In ogni capanna vivevano insieme più famiglie e si calcola che nel 1881, 556
di esse contenevano 12.734 persone con una media di 23 individui per
ognuna, ma in alcuni casi il numero delle famiglie era di 10-15 e il relativo
numero dei conviventi superava le 150 unità. Dall'igenista Angelo Celli
riprendiamo una descrizione di queste abitazioni15:
« In ognuna abitano sino a 150 persone tra grandi e piccoli. E' una vista che
impressiona fortemente chi entra in una di queste capanne dopo il
tramonto del sole: sembra addirittura di stare in una bolgia dantesca.
Le donne più anziane, attorno agli accesi focolari, sono attente a preparare
la polenta che poi versano sopra una tavola cosparsa di un po' di sale.
Il chiasso, il fumo, l'accumolo di persone in luogo ristretto, il rumore e il
cicaleggio e soprattutto il caldo eccessivo, fanno disorientare e perdere la
testa a chi v'entra per la prima volta».
L'esistenza di questi lavoratori che «vivono come possono e muoiono
sapendo appena di aver vissuto» era costantemente accompagnata dal
terrore della malaria: la loro più grande nemica. Dai dati dell'inchiesta si
deduce che nel solo ospedale di S. Spirito nel sessennio 1877-82 furono
ricoverati 43.773 contadini provenienti dalla campagna romana e questo
dato fece ipotizzare al senatore Nobili-Vitelleschi che ogni anno la malaria
faceva vittima «la metà dell'effettivo dei lavoratori della terra degenti
nell'agro romano».
Di questa precarietà esistenziale faceva parte integrante una alimentazione
incredibilmente povera ed insufficiente:
«ogni erba che non sia ributtante, ogni animale morto comechessia, e non
di rado di malattie contagiose, diviene un cibo favorito per fare una
diversione alla cosidetta pizza o stiacciata cotta sotto la brace, ovvero
semplice polenta di farina di granoturco».
Questo passo ben sintetizza i risultati delle risposte date a un questionario
che l'inchiesta fece diramare nei vari circondari della provincia romana dal
quale risultò quasi inesistente l'uso della carne: 4 soli comuni segnalarono
l'uso di carne ma solo per eccezionalità festive.
Va inoltre detto che la mancanza di vie e di mezzi di comunicazione in un
territorio sterminato quale era quello dell'agro romano, costringevano il
lavoratore della terra in un assoluto isolamento dai centri abitati e quindi da
mercati e fiere, suoi abituali luoghi di acquisto di scorte alimentari. Egli era
quindi costretto a chiedere anticipi in natura alle dispense dei caporali i
quali «non di rado ne profittano per rincarare il prezzo, o distribuire merci
avariate».
Il subire ingiustizie da parte dei caporali non era certamente cosa nuova per
i guitti, cafoni e burini che da sempre si sono recati a lavorare nell'agro
romano, e testimonianze possiamo averle da diversi documenti del XVII
sec. tra i quali un editto del 1651 che tra l'altro denunciava «li grandi aggravi
che si fanno da caporali ed altre persone alli monelli et operai] della
campagna romana per li grandi abusi che fin qui si sono osservati da
suddetti con rivender cose commestibili a poveri operai] et monelli con
prezzi alterati et di mala qualità et senza peso e misura»16.
Gli anticipi ricevuti dal lavoratore della terra andavano nel loro complesso
ad ingrossare un debito la cui somma era di solito superiore a quello che
l'immigrato riusciva a guadagnare nella sua stagione di lavoro nell'agro
romano17. Tale debito diveniva lo strumento attraverso il quale il lavoratore
della terra veniva costretto dal caporale ad accettare nuovi arruolamenti
altrimenti rifiutati, e ciò può costituire una risposta alle perplessità del
senatore Nobili-Vitelleschi il quale si chiedeva costantemente la
motivazione che spingeva questi lavoratori ad intraprendere la strada
dell'agro romano se « nei loro paesi nativi hanno una esistenza
relativamente migliore».

b) Nei circondari di Velletri, Viterbo e Frosinone


«Appena si abbandona il circondario di Roma apparisce tosto una notevole
differenza nelle proporzioni fra la grande e la piccola proprietà»18 scriveva il
Nobili Vitelleschi, constatando che, se nel circondario di Roma la quasi
totalità del territorio era occupata dalla grande proprietà, nei circondari di
Frosinone, Velletri e Viterbo questa rappresentava appena 1/5 o 1/6
dell'intera superficie territoriale. Agli sterminati latifondi dell'agro Romano
si opponeva in queste altre zone della medesima provincia un estremo
frazionamento della proprietà, per il quale quasi ogni contadino era
proprietario di almeno una striscia di terra, ma da questa, in alcun modo
egli poteva trarre il bastevole al sostentamento suo e a quello della sua
famiglia.
Nel circondario di Viterbo il valore di estimo della proprietà terriera era di
L. 35.293.045, ma se da questa cifra si sottraggono 7.242.655 lire pari al
valore complessivo delle proprietà al di sopra dei 1.000 ettari appartenenti a
40 possidenti, restano 28.050.750 lire di valore divise tra 42.779 piccolissimi
proprietari. Del tutto simile era la situazione nei circondari di Frosinone
dove il numero dei piccoli proprietari era di 43.967 con un valore
complessivo della piccola proprietà di L. 21.148.063, e quella di Velletri in
cui 13.589 piccoli proprietari si dividevano 11.871.754 lire di valore dei loro
terreni. Riassumendo i dati dell'inchiesta, scaturisce che, su un totale di
111.687 proprietà dell'intera provincia Romana, 66.600 di queste, quasi tutte
concentrate nei circondari di Velletri, Frosinone e Viterbo, non
raggiungevano l'estensione di un ettaro, inoltre 16.717 erano possedute in
comune da 50.714 proprietari con il risultato che esse non superavano quasi
mai il valore fondiario di 80-90 lire.
I lavoratori della terra di questi circondari non potendo trovare il necessario
per i propri bisogni nelle loro proprietà si recavano a lavorare con rapporti
di mezzadria i pochi grandi fondi presenti in quei territori e, quando ciò
non era loro possibile, erano costretti alla dura strada dell'agro romano. Dai
questionari fatti diramare dal Nobili-Vitelleschi risulta infatti che la
mezzadria era estremamente diffusa in queste zone nelle quali risultava
essere il rapporto agrario predominante nella maggior parte dei comuni.
L'economia colonica di questi circondari si presentava con forti
componenti di tipo semifeudale, quindi con scarsissime aperture verso il
mercato. Dal terreno che coltivava il colono ricavava i cereali, componenti
quasi esclusivi della sua alimentazione, la canapa e la lana con le quali le
donne tessevano gli abiti necessari a tutta la famiglia, e con gli altri prodotti
egli pagava i servizi del medico, del veterinario, dell'artigiano, dell'avvocato.
Le colture erano esercitate con «aratri, zappe e vanghe e più raramente [...]
erpici di una forma molto primitiva »19; rudimentali strumenti quasi sempre
frutto di attività artigianali domestiche che il senatore Nobili-Vitelleschi non
esitò definirli del tutto simili a quelli descritti da Virgilio.
La mezzadria, come è stato da più parti detto20, nei primi decenni unitari è
risultata una forma contrattuale comportante « ... una stasi quasi completa
nell'agricoltura ». Nelle zone in trattazione questo rapporto agrario, definito
come momento intermedio tra il sistema feudale e quello capitalistico, si
presentava in forme decisamente più vicine al primo piuttosto che al
secondo. Infatti sia il proprietario terriero che il colono si opponevano, per
differenti ragioni, ad ogni qualsivoglia innovazione nel fondo. Il discorso di
entrambi era semplice: per ogni iniziativa intesa a migliorare la produzione,
il colono avrebbe dovuto inserire nella sua già dura giornata lavorativa un
ulteriore appesantimento del cui maggior frutto avrebbe beneficiato solo
per metà in quanto l'altra sarebbe andata a beneficio padronale. Inoltre in
una condizione di semisussistenza quale era quella colonica di questi
circondari, dove era sufficiente il benché minimo errore nella conduzione
del fondo a scagliare nella fame più nera l'intera famiglia, ogni iniziativa in
qualche modo comportante un tale rischio era temuta e subito allontanata.
Da parte dei proprietari le resistenze erano di altro genere: per ogni
miglioramento del fondo sarebbero occorsi dei nuovi capitali i quali non
potevano certamente essere cercati nelle tasche dei coloni ma solo in quelle
dei proprietari i quali avrebbero dovuto dividere il maggior guadagno con i
coloni quando, per aumentare i loro lucri, era ad essi sufficiente allargare
quelle zone del fondo tenute in economia.
Dai contratti di mezzadria di queste zone, dalla costante presenza in essi di
vocaboli latini, altisonanti terminologie giuridiche e frasi contorte che
sembrano esser state appositamente create per rimanere incomprese alla
moltitudine dei contadini analfabeti, scaturisce in modo più che evidente la
totale dipendenza materiale e psicologica dei coloni dai proprietari terrieri.
In un contratto di colonia stipulato nel 1880 a Magugnano si legge quanto
segue21:
« dovrà il colono come parte e come ricognizione In dominum come regalia
allevare e far grassi n° sei paia di pollastri capponati che il padrone ritirerà
dal Natale in poi durante l'anno, più portare nel Natale capponi N° quattro;
nel Carnevale galline N° tre; nella Pasqua uova N° cento e nel ferragosto
N° due paia di pollastri. Più portare una volta la settimana nel giorno
assegnato, degli erbaggi e frutti. Ne preverrà al contadino la ragione di non
avere erbaggi, mentre in deficenza di questi, dovrà supplire con N° dieci
uova la settimana. [...] Dovrà inoltre il colono portare N° quattro sacchi di
foglia di granoturco, N° quattro scope di saggina; farà annualmente e senza
ripetere compreso N° trenta fossi da piante, ovvero N° 60 da viti »22.
Questa norma non differisce affatto dall'art. 1 di un contratto del 1763 nel
quale si obbliga il contadino ad offrire a titolo di regalia verso il padrone « un
paro di capponi da consegnarsi il giorno di S. Andrea... » né, se si vuol scendere
nel medioevo, da un'altra contenuta in un contratto del 1541 per la quale il
colono era obbligato a far dono di « ... quattro para di capponi et para otto di
polastri, et ova dusento [...] due chioppe di formaggio fresco [...] grande
dusento e cinquanta granadelli [...] due porci di pesi nove l'uno »23. Si noti che
le viti e gli alberi da frutto erano tenuti in economia dal proprietario.
Oltre a ciò il padrone aveva il potere di interferire nella vita privata del
colono il quale «...sarà ciecamente obbediente e rispettoso. Manterrà la pace
della propria famiglia, interponendo l'autorità del padrone, in caso che
qualche individuo di essa la turbasse, [...] o non volesse assoggettarsi alla
dipendenza del capo. Si guarderà dal frequentare le bettole quanto per se
quanto per tutti gli individui della famiglia»24.
Malgrado che il colono forniva alla conduzione del fondo il suo duro lavoro
e quello della sua famiglia ed erano a suo carico, oltre che gli attrezzi, tutte
le spese delle lavorazioni fino alla raccolta, quasi tutte le direttive venivano
impartite dal proprietario terriero, dal quale si dovevano ottenere dei
permessi scritti per poter dare inizio alla raccolta del grano e degli altri
prodotti. Inoltre il « padrone determinerà la qualità e quantità delle semente,
ne potrà il colono seminare in più, o in meno, ne variare le qualità », e
quando si doveva accantonare la sementa per la prossima semina che
incideva in misura non minore del 20/25% sul totale del raccolto, questa
veniva prelevata « scegliendo sulla parte colonica la qualità migliore ».
Gravata da sempre più duri gravami fiscali, deprivatizzata degli usi civici
esercitati sui beni della mano morta, ormai divenuti proprietà privata,
l'economia del colono di questi circondari era tale che anche nelle migliori
annate a stento raggiungeva un livello di sufficienza tale da poter garantire il
minimo indispensabile alla sopravvivenza della famiglia. Il nuovo stato oltre
alle nuove tasse e al servizio di leva obbligatorio che sottrasse all'economia
domestica l'uso delle sue migliori braccia, portò con sé una grande crisi
agraria generata dalla forzata creazione di un unico mercato nazionale che a
duro prezzo si inserì nei forti squilibri economici e culturali regionali e
dall'introduzione dei più concorrenziali prodotti esteri come i famosi grani
americani che provocarono inevitabilmente un crollo totale nei prezzi di
prodotti agricoli nazionali.
Uno dei fenomeni che una tale situazione non poteva che generare fu
quello codificato dall'inchiesta Jacini come Furto campestre. Alla
superficialità con la quale la destra agraria si rivolgeva a questo fenomeno,
l'inchiesta agraria sostituì un attento esame di esso che non mancò di essere
correlato con le condizioni materiali di esistenza della classe agricola e con
la sopravvivenza di certe prassi tardofeudali.
Accadde infatti che, con la trasformazione in senso borghese delle proprietà
ecclesiastiche e demaniali, il raccogliere legna, erbaggi, tartufi, ghiande ed
altri prodotti offerti naturalmente dal suolo e sui quali esisteva un millenario
diritto comunitario, era ormai divenuto un furto. Nei circondari di Viterbo,
Velletri e Frosinone tutti i comuni che risposero al questionario fatto
diramare dalla Giunta per l'inchiesta agraria lamentarono la frequenza dei
furti campestri in massima parte rivolti verso la legna, erbaggi, frutti ed altri
prodotti di immediato consumo domestico.
L'Inchiesta Agraria concluse giudicando questo fenomeno come una delle
tante sopravvivenze feudali che si ponevano come ostacolo ad ogni
qualsivoglia progresso nell'agricoltura lo stesso Stefano Jacini si espresse nel
seguente modo:
«Esistono tuttora delle servitù e dei condomini che la legge ha abolito in
massima; ma che sussistono in fatto e rendono illusoria la proprietà in
parecchie provincie»25.

Conclusioni
Ciò che in ultima analisi scaturisce dall'Inchiesta agraria per quanto
concerne la Provincia Romana, è una società contadina arcaica, un
«medioevo» che sopravvive e fa da ostacolo alla trasformazione capitalistica
dell'agricoltura tanto auspicata da Jacini quanto da tutta la nuova classe di-
rigente.
Ma per i guitti, i burini e i cafoni dell'agro romano così come per i coloni
del Viterbese e del Frusinate, ogni invito al progresso, all'istruzione, ai
miglioramenti tecnologici erano solo parole che il duro rapporto con la terra,
la fatica scandita dal ritmo del sorgere e del tramontare del sole, il continuo chinarsi
di fronte ai forti, la malaria, la pellagra, e la fame, rendevano del tutto
incomprensibili: una amara ironia.

1
R. ROMANELLI, La nuova Italia e la misurazione dei fatti sociali. Una premessa «Quaderni
Storici », XV, 45, 1980, pp. 765-778.
2
A. CARACCIOLO, L'Inchiesta agraria Jacini, Torino 1958; D. NOVACCO, L'Inchiesta
Jacini, in « Storia del Parlamento Italiano », vol. XVIII, Palermo 1963, p. 56 seg.
3
Gli Atti della giunta per l'Inchiesta Agraria e sulle condizioni della classe agricola, (d'ora in poi
A.G.A.) furono pubblicati tra il 1881 e il 1886 in XV voll., Roma (V Circoscrizione,
insieme a Grosseto, Perugia, Ascoli, Ancona, Macerata e Pesaro) fu compresa nei tre tomi
del vol. XI.
4
A.G.A. v. 1°, pp. 52-54.
5
R. SALVATORI, Premessa a " L'Inchiesta Romilli", Torino 1979.
6
Copiosa fu la relazione presentata dal Collegio degli ingegneri agronomi, dal titolo
Relazione per la inchiesta agraria per le provincie di Roma e Grosseto così come quella di Antonio
Tittoni, Condizioni della classe agricola nella provincia di Roma. Meno estese, ma non meno
ricche di notizie e dati, furono quelle di Gaetano Barbieri, Cenni sulle condizioni dell'agricoltura
e della classe agricola nel circondario di Viterbo e di Nicola Troiani, Breve memoria intorno alle
condizioni dell'agricoltura e della classe agricola in alcuni paesi del circondario di Frosinone, quella di
Francesco Lombardini riguardante il circondario di Viterbo e quelle presentate dal comizio
agrario di Roma i cui autori furono: Augusto Poggi, Pietro Santini, Francesco Apolloni,
Vincenzo Salvatori, Don Augusto dei Conti Borgia, Pietro Salustri Galli e Enrico Cortesi.
Se si vuole estendere il discorso a quelle zone che allo stato attuale fanno parte dell'area
laziale, ma che nel periodo dell'inchiesta erano inserite in altre provincie, occorre
menzionare le monografie di Giuseppe Palmeggiani e Pietro Fallerini sul circondario di
Rieti, all'epoca inserito nella provincia dell'Umbria, quelle di Luigi Giacomelli, Domenico
Monterumaci, Antonio Piccinini, e Francesco Lojacono riguardanti l'ex circondario di
Cittaducale, quella di Luigi Darti Informazioni relative al programma della giunta agraria per quanto
concerne il territorio di Corneto Tarquinia.
Vanno inoltre ricordate la Relazione sul progetto di bonifica di un latifondo enfiteutico riferito ad una
area del circondario di Gaeta, la Memoria sull'organismo agrario del circondario di Sora e la Illustrazione
agraria del circondario di Gaeta. Le monografie settoriali non ritirate dai partecipanti al
concorso sono depositate presso l'Archivio Centrale di Stato in 24 bb. La memoria di G.
Palmeggiani e P. Fallerini, con l'aggiunta di altro materiale, è stata stampata nel 1879 con il
titolo Annuale del Comizio Agrario Sabino per l'anno 1879. Rieti, Tip. Trinchi 1879.
7
A.G.A., p. 62.
8
ERCOLE METALLI, Usi e costumi della Campagna Romana, Roma 1903, rist. 1924, p. 15.
9
Si vedano: E. SERENI, Il Capitalismo nelle campagne, Torino 1947; R. ZANGERRI,
Agricoltura e contadini nella storia d'Italia, Torino 1977; G. GIORGETTI, Contadini e proprietari
nell'Italia moderna, Torino 1974.
10
E. SERENI, Op. Cit., pp. 132 seg.
11
li Per una definizione completa delle varie figure lavorative dell'Agro Romano si veda: E.
METALLI, Usi e costumi della Campagna romana, cit. e WERNER SOMBART, La
campagna romana: Studio economico-sociale, Città di Castello 1925.
12
A.G.A., XI, f. 1, pp. 133-34, p. 786.
13
Ibid., p. 720.
14
Ibid., pp. 787-788.
15
ANGELO CELIA, Come vive il campagnolo dell'Agro Romano, Roma 1900, pp. 22-23.
16
CESARE DE CUPIS, Le vicende dell'agricoltura e pastorizia nell'Agro romano, Roma 1911, p.
634. Si veda anche PASQUALE TESTINI, Il caporale nella campagna romana, in « Strenna dei
romanisti », XXXIII, 1972, pp. 366-70.
17
W. SOMBART, op. cit., p. 95.
18
A.G.A., XI, f. 1, p. 568.
19
Ibid., p. 322.
20
" Si vedano: E. SERENI, Il capitalismo nelle campagne, cit. e Agricoltura e mondo rurale, «
Storia d'Italia », Enaudi, Torino 1972, v. 1°, pp. 136-247; F. ROMANO, Le classi sociali ín
Italia, Torino 1965, L. RADI, I mezzadri, Roma 1960; AA.VV., Agricoltura e sviluppo del
capitalismo, Roma 1970; G. GIORGETTI, Contadini e proprietari nell'Italia moderna, cit. e
Contratti e rapporti sociali nelle campagne, in « Storia d'Italia », Enaudi, Torino 1973, v. 5°, t. 1°;
P. VILLANI, Il capitalismo agrario in Italia, in « Studi Storici », (1966), n. 3, pp. 471-513.
21
A.G.A., XI, f. 1, p. 769.
22
22 Ibid., art. 19, p. 773.
23
23 Archivio di Stato di Bologna, Famiglia Ranuzzi, Istrumenti, b. 6 riportato anche da G.
GIORGETTI, Contadini e Proprietari nell'Italia moderna, cit., p. 43.
24
A.G.A., XI, f. 1, p. 774, V, XV, relazione finale di S. Jacini, p. 84.
25
Ibid., pp. 772-625.

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