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Tommaso Vangelisti 5°AINF 05/06/2022

Programma di Italiano 5°AINF 2021 – 2022

Sommario
Modulo 1 ............................................................................................................................................................................ 2
Il Positivismo: Verismo e Naturalismo (P. A24) ............................................................................................................ 2
Émile Zola (P. A38) ......................................................................................................................................................... 2
Giovanni Verga (P. A70) ................................................................................................................................................. 3
La Scapigliatura (P. A144) .............................................................................................................................................. 8
Modulo 2 ............................................................................................................................................................................ 8
Il Decadentismo (P. A208) ............................................................................................................................................. 8
Charles Baudelaire (P. A224) ....................................................................................................................................... 10
Gabriele D’Annunzio (P. A310) .................................................................................................................................... 11
Modulo 3 .......................................................................................................................................................................... 18
Giovanni Pascoli (P. A252) ........................................................................................................................................... 18
Modulo 4 .......................................................................................................................................................................... 32
La poesia italiana dei primi del Novecento (Sintesi p. 397) ....................................................................................... 32
• Il crepuscolarismo ........................................................................................................................................... 32
• “La Voce” ........................................................................................................................................................ 32
Le Avanguardie (Sintesi p. 483) ................................................................................................................................... 33
• L’Espressionismo ............................................................................................................................................ 33
• Il Futurismo ..................................................................................................................................................... 33
• Il Dadaismo ..................................................................................................................................................... 33
• Il Surrealismo .................................................................................................................................................. 33
Italo Svevo (p. 488) ...................................................................................................................................................... 34
Modulo 5 .......................................................................................................................................................................... 39
Luigi Pirandello (p. A542) ............................................................................................................................................ 39
Modulo 6 .......................................................................................................................................................................... 55
Giuseppe Ungaretti (p. A620) ...................................................................................................................................... 55
Modulo 7 .......................................................................................................................................................................... 66
Novecentismo e Anti-novecentismo (P. B70) ............................................................................................................. 66
• L’Ermetismo .................................................................................................................................................... 66
Salvatore Quasimodo (P. A77) .................................................................................................................................... 67
Umberto Saba (P. A620) .............................................................................................................................................. 69
Modulo 8 .......................................................................................................................................................................... 73
Eugenio Montale (P. B144) .......................................................................................................................................... 73
Modulo 9 .......................................................................................................................................................................... 80
Il Neorealismo .............................................................................................................................................................. 80

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Tommaso Vangelisti 5°AINF 05/06/2022

Modulo 1
Il Positivismo: Verismo e Naturalismo (P. A24)
Il naturalismo è un movimento letterario nato in Francia alla fine dell'800 come applicazione del pensiero
positivista. Fondatore della corrente è Emile Zola, romanziere e giornalista francese. Altri personaggi
importanti sono stati Guy de Maupassant, Gustave Flaubert con la sua teoria dell'impersonalità e i fratelli
Goncourt.

I poeti si prefiggono di denunciare le condizioni sociali e di miseria economica di quel tempo, raccontano la
realtà psicologica e sociale in modo scientifico, oggettivo e impersonale.

Il verismo invece è una corrente letteraria nata in Italia nella seconda metà dell'800 e riproduce
sostanzialmente il naturalismo francese anche se con varie differenze.

Il primo teorico verista è Luigi Capuana, famoso per la sua poesia del vero.

I due movimenti condividono:

• la volontà di aderire alla realtà, quindi


seguono un realismo oggettivo;
• l'impersonalità del narratore;
• il riferimento del testo sperimentale di
Zolà;
• l'atteggiamento scientifico che è alla base
del positivismo;
• il fenomeno del determinismo secondo
Hippolyte Taine per cui l'uomo è il
risultato di tre elementi race, milieu e
moment;

l'esigenza di un narratore popolare e di utilizzare


un linguaggio adatto al luogo e alle classi sociali di
cui si parla.

La differenza sostanziale è che il naturalismo vuole


denunciare una determinata condizione con la
speranza che si possa verificare un cambiamento
in positivo, mentre nel verismo è presente un
forte pessimismo nella sfiducia del progresso
derivato da una mentalità conservatrice, per cui
chi cambia lo fa per forza in negativo e in peggio.

Émile Zola (P. A38)


o L'assommoir (P. A39)

la protagonista è Gervasia, una donna che ha alle spalle una vita di stenti e di sofferenze, è delusa dal
secondo uomo di cui si è fidata e non ha più energie per far fronte alle difficoltà del vivere quotidiano
rifugiandosi a bere nella taverna. Quando è ancora sobria considera con distacco gli uomini ubriachi,
osserva la loro sporcizia e i segni del degrado fisico e morale, così come sente fastidio per il fumo delle pipe
e l’odore dell’alcool. La macchina che distilla l’acquavite è sorgente di veleno ma il desiderio di Gervasia è

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proprio quello di bere quel veleno perché di fatto le dà benessere. Anche la percezione del luogo e delle
persone cambia: ora le sembra che sia un luogo caldo e accogliente e non prova più alcun disgusto.

Zola descrive in modo efficacissimo l’ambiente corrotto e squallido attraverso una ricchezza di particolari
che li rende reali, come se in disparte annotasse tutto ma senza commentare; nell’opera applica i principi
del determinismo, ritenendo che certe situazioni oggettive, come l’ambiente in cui l’uomo vive, le tare che
ha ereditato, le compagnie che frequenta, siano determinanti per il suo destino e per il suo “male sociale”.
In tal senso, il suo compito è proprio quello di cercare le cause di questo male al fine di modificare la
società. L’ambiente influenza le persone.

Giovanni Verga (P. A70)


Vita

Nasce a Catania nel 1840 in pieno risorgimento da una famiglia nobile. Nel 1858 si iscrive alla facoltà di
legge, ma la lascia per entrare nella guardia nazionale. Nel 1865 si trasferì a Firenze all’epoca capitale, per
avere una maggiore fonte di ispirazione. Nel 1872 si traferisce a Milano, li conobbe Emilio Sala e degli
esponenti della Scapigliatura. Nel 1878 scrive la prima opere verista “rosso mal pelo”, dal 1880 al 1889 si ha
il periodo di maggiore produzione di Verga. Nel 1893 torna a Catani, in questo periodo cominciò ad avere
una crisi creativa, venne addirittura coinvolto in una causa legale per i diritti d’autore della cavalleria
rusticana con Pietro Mascagni, e la vinse nel 1903. Nel 1920 divenne senatore a vita, muore nel 1922 a
Catania.

Tecniche narrative

Dopo una prima fase di ispirazione patriottica e sentimentale, Verga si orientò verso una narrativa più
oggettiva, ispirata soprattutto alla realtà degli umili. La concezione dell’esistenza umana che emerge nelle
opere veriste è decisamente pessimistica e risente dei modelli ideologici dominanti del tempo come il
Positivismo, il Determinismo e, soprattutto, l’Evoluzionismo darwiniano: la vita, secondo Verga, è un impari
lotta contro il destino, una lotta, per la sopravvivenza che si conclude con la sconfitta di chi cerca di mutare
la propria condizione. Verga non, credeva, come Zola e gli altri esponenti del Naturalismo, che l’arte
potesse contribuire al rinnovamento e miglioramento sociali: lo scrittore non può che limitarsi a registrare
la realtà in modo oggettivo.

Fra le tecniche narrative ricordiamo:

o l’«artificio della regressione»: il narratore regredisce al livello sociale e culturale dei personaggi;
o l’artificio dello straniamento: evidenzia il divario fra il punto di vista del narratore e dei personaggi
da un lato e quello (implicito) dell’autore e dei lettori dall’altro;
o il discorso indiretto libero: in terza persona, Verga presenta fatti, pensieri e ricordi secondo il punto
divista e il modo di sentire dei personaggi.

Al linguaggio è affidata la funzione di registrare i fatti con la massima precisione e fedeltà, adattandoli al
mondo rappresentato. A ciò concorrono il lessico, la sintassi e anche l’uso di proverbi popolari.

L'ideale dell'Ostrica si basa sulla convinzione che per coloro che appartengono alla fascia dei deboli è
necessario rimanere legati ai valori della famiglia, al lavoro, alle tradizioni ataviche, per evitare che il
mondo, cioè il "pesce vorace", li divori.

L'artificio della regressione è una tecnica narrativa usata dagli scrittori facenti parte del verismo.

Questa tecnica consiste nell'annullare tutte le radici "colte" del narratore. Il narratore si riduce cioè allo
stesso piano dei personaggi di cui parla, venendo meno tutte le terminologie colte che possano in qualche
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modo far rilevare l'autore/narratore in modo evidente rispetto al testo; è un modo di scrivere secondo cui il
narratore adotta le categorie culturali della comunità che descrive a tutti i livelli: conoscenze, credenze,
lingua, modo di pensare, metafore.

Opere della raccolta “Vita dei campi”

o Cavalleria rusticana:

Turiddu Macca, appena tornato dal servizio militare, venne a sapere che Lola, la sua compagna, si era
fidanzata con Alfio, un ricco carrettiere. Dapprima egli voleva vendicarsi su Alfio ma poi si limitò a cantare
canzoni di sdegno sotto la finestra della bella.

Dopo il matrimonio, in presenza di Lola, Turiddu fingeva indifferenza, andava dietro ad altre ragazze ma
dentro di lui prevaleva ancora la gelosia e progettava una vendetta. Per questo proposito, si fece assumere
come contadino dall’uomo che abitava di fronte ai due sposi e iniziò a corteggiare, anche pubblicamente,
Santa, la figlia dell’uomo. Lola, rossa dalla gelosia per ciò che sentiva ogni sera da Turiddu alla finestra di
Santa, un giorno invitò il suo ex-fidanzato a casa sua, approfittando della momentanea assenza di Alfio: così
i due ricominciarono a frequentarsi, all’insaputa del marito di lei.
Santa venne a conoscenza della relazione di Turiddu e Lola e, per vendetta, lo disse ad Alfio.
Egli, tradito e furioso, sfidò l’amante della moglie a duello. Così Turiddu e Alfio si diedero appuntamento in
un campo, entrambi consapevoli che tutti e due erano disposti a tutto per non rinunciare a Lola e al loro
orgoglio.
Lo scontro si conclude con la morte di Turiddu, colpito in modo sleale da Alfio. Alla fine del racconto,
tuttavia, non si ristabilisce un equilibrio perché l’autore lascia in sospeso le sorti dei protagonisti dopo la
morte di Turiddu.

o Fantasticheria:

Essa racconta di una nobile donna, da quanto si evince amica del narratore, che giunge ad Aci Trezza, una
frazione di un piccolo paese della Sicilia, ed essendosene innamorata, decide di trattenersi per addirittura
un mese.

In realtà ben presto, affievolitisi lo stupore e l'ammirazione per la bellezza del paesaggio, la donna termina
le attività da poter svolgere e si scopre stanca di quel luogo che tanto aveva amato. Decide perciò di
tornare a casa propria e, una volta pronta per la partenza, si chiede come possa la gente del luogo
trascorrervi una vita intera. Recensione di Fantasticheria di Giovanni Verga

A questo punto il narratore, utilizzando una serie di flashback e intrecci temporali, inizia a raccontare le
storie del popolo di Aci Trezza, costituito prevalentemente da pescatori. Costoro conducevano una vita
grama, fatta di stenti, miseria e molte sventure. Nonostante tutto il loro desiderio più grande era proprio
quello di morire laddove erano nati.

Questo loro principio di vita è definito "l'ideale dell'ostrica", poiché i Trezzani, così si chiamano gli abitanti
di Aci Trezza, proprio come le ostriche, non volevano staccarsi dal proprio scoglio per nessuna ragione.
Quando tuttavia decidevano di farlo, allora venivano inghiottiti dal mare della vita, che se li portava via.

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o Rosso Malpelo:

Malpelo è un ragazzino con i capelli rossi. All'epoca in cui è ambientata la novella di Verga, per via delle
superstizioni popolari, i capelli rossi erano indice di malizia e per questo motivo il ragazzo viene trattato
male dai concittadini. Preferisce, quindi, starsene per conto suo. Neanche la madre lo ama molto: non ha
mai accettato il fatto che ha deciso di andare a lavorare nella cava e non si fida di lui, pensa che rubi i soldi
dello stipendio che porta a casa. Pure la sorella lo accoglie sempre picchiandolo.

L'unico con cui sembra andare d'accordo è il padre, Mastro Misciu, il cui soprannome è Bestia. Anche il
padre lavora alla cava ed è l'unico ad avergli dimostrato un po' di affetto. Per questo motivo quando gli altri
operai cercano di prendere in giro il padre, Malpelo lo difende sempre. Un giorno Mastro Misciu, su ordine
del padrone, accetta di abbattere un vecchio pilastro inutile: il lavoro è pericoloso, gli altri operai si sono
rifiutati, ma Mastro Misciu ha bisogno di soldi. Prevedibilmente il pilastro cade addosso all'uomo e Malpelo,
disperato, comincia a scavare a mani nude sotto le macerie, si spezza le unghie, chiede aiuto, ma quando gli
altri arrivano il padre è ormai morto.

Un giorno alla cava arriva a lavorare Ranocchio, un ragazzino che si è lussato il femore e che non può più
fare l'operaio a causa della sua zoppia. Malpelo lo prende subito di mira e cerca di farlo reagire a suon di
insulti e botte. Ranocchio non si difende e Malpelo lo picchia sempre di più: vuole che Ranocchio impari a
reagire e che capisca che la vita non è facile, bensì una sfida continua.

In realtà Malpelo si è affezionato a Ranocchio e spesso gli dà parte del suo cibo e lo aiuta nei lavori più
pesanti. Finalmente viene recuperato il cadavere di Mastro Misciu e Malpelo tiene come un tesoro i pochi
oggetti posseduti dal padre. Purtroppo, ben presto anche Ranocchio muore, di tisi, Malpelo è sempre più
solo (la madre si è risposata e non vuole avere a che fare con lui e anche la sorella si è trasferita in un altro
quartiere) e finisce per scomparire nella cava dopo che gli era stato assegnato il compito di esplorare una
galleria sconosciuta.

Nessuno avrebbe mai accettato un compito così pericoloso, ma Malpelo ormai non ha più niente da
perdere: prende pane, vino, attrezzi e vestiti del padre ed entra nella galleria per non uscirne mai più. La
sua unica vendetta da morto è aver instillato il terrore negli altri operai che hanno sempre paura di vederlo
spuntare fuori all'improvviso con i suoi capelli rossi e i suoi occhiacci.

o La lupa:

Nel villaggio dove viveva, la chiamavano la Lupa perché ella non era mai sazia delle relazioni che aveva con
gli uomini e le altre donne avevano paura di lei perché ella attirava con la sua bellezza i loro mariti e i loro
figli anche se solo li guardava. Di ciò soffriva la figlia, Maricchia, che era emarginata per il comportamento
della madre e nessuno la voleva in sposa.

Un giorno la Lupa si innamorò di un giovane, Nanni, che mieteva il grano con lei, e lo guardava avidamente
e lo seguiva; una sera gli dichiarò il suo amore ma lui rispose piuttosto che voleva in sposa Maricchia,
interessato alla buona dote.

La donna se ne andò via, ma si ripresentò ad ottobre per la spremitura delle olive offrendogli in sposa
Maricchia e Nanni accettò. La ragazza non ne voleva sapere ma la madre la costrinse con le minacce.

Maricchia diede dei figli a Nanni, e la Lupa aveva deciso di non farsi più vedere, anche perché lavorava
molto durante la giornata. Sintesi de La lupa di Giovanni Verga

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Un pomeriggio caldo però svegliò Nanni che dormiva in un fosso e gli offrì del vino, ma egli la pregò di
andarsene via, ma lei tornò altre volte incurante dei divieti di Nanni dando il via ad una relazione
incestuosa.

Maricchia era disperata e accusava al madre di volerle rubare il marito e andò anche dal brigadiere e Nanni
lo supplicò di metterlo in prigione pur non rivedere la Lupa, ma ella non lo lasciava in pace. Una volta Nanni
prese un calcio al petto da un asino e stava sul punto di morire, il prete si rifiutò di confessarlo se la Lupa
fosse stata là, ella se ne andò ma, visto che Nanni sopravvisse ella continuò a tormentarlo e lui alla fine la
minacciò di ucciderla. La Lupa gli si presentò ancora davanti e Nanni la uccise, senza che lei opponesse
resistenza.

Opere della raccolta “il ciclo dei vinti”

o Malavoglia:

Il romanzo I Malavoglia è ambientato in Aci Trezza, in Sicilia, negli anni successivi all'unità d'Italia. Al centro
delle vicende narrate è la famiglia Malavoglia: il padre Bastianazzo, la madre Maruzza la Longa, i figli 'Ntoni,
Luca, Alessi, Mena, Lia. Su tutti domina il nonno, Padron 'Ntoni, figura di patriarca, dispensatore di
saggezza. 'Ntoni, l'unico dei nipoti che può aiutare nel governo della barca "Provvidenza", parte soldato.
Padron 'Ntoni tenta una piccola speculazione su un carico di lupini: ma il mare, in una notte di tempesta,
ingoia il carico assieme al figlio Bastianazzo ed a un garzone. I Malavoglia da padroni diventano poveracci:
la barca è dissestata, inoltre devono pagare i lupini, presi a credito. 'Ntoni torna dal servizio militare: al suo
posto parte Luca. La barca è di nuovo pronta all'uso, ma 'Ntoni non vuol saperne più di lavorare, di
spaccarsi le ossa per nulla, e magari anche di fare la fine del padre. Mena ama Alfio Mosca, ma è promessa
sposa ad un ricco del paese, Brasi Cipolla. Durante la festa di fidanzamento, arriva la notizia che Luca è
morto a Lissa. Per pagare il debito dei lupini, i Malavoglia sono costretti a vendere la propria abitazione
natia, la casa del nespolo. Mena, ora che è di nuovo povera, deve rinunciare al matrimonio, e anche 'Ntoni,
perché la sua promessa, Barbara Zuppidda, gli volta le spalle. Superate le difficoltà, la famiglia Malavoglia
sembra riprendersi: ma 'Ntoni è stanco di quella vita, e non se ne va solo perché la madre lo prega di
restare. Quando Maruzza muore di colera, non lo trattiene più niente al paese e parte. Torna dopo non
molto, più avvilito e deluso di prima. Don Michele, il brigadiere, corteggia Lia e avverte lei e la sorella che
'Ntoni si sta mettendo nei guai. Il giovane, infatti, coinvolto in un traffico di contrabbando, viene colto in
fallo, e, tentando una difesa, ferisce Don Michele con una coltellata. al processo Padron 'Ntoni è colto da un
malore quando scopre che Lia se la intendeva con Don Michele. 'Ntoni è condannato a cinque anni; Lia se
ne va di casa per sempre. I Malavoglia sono rimasti in pochi. Alessi lavora per poter ricomprare la casa.
Padron 'Ntoni, che si sta spegnendo a poco a poco, vuole essere portato all'ospedale per non gravare sui
nipoti: parte sul carro di Alfio Mosca. Questi vuole sposare Mena, che rifiuta; ormai è vecchia, si occuperà
dei figli di Alessi e di sua moglie Nunziata. La casa del nespolo è finalmente riscattata, ma è troppo tardi per
Padron 'Ntoni, che muore lontano. Una sera 'Ntoni, uscito di prigione, bussa alla porta per chiedere
perdono. ma non può fermarsi, dopo che ha infangato l'onore della famiglia. Se ne va, e nessuno lo
trattiene.

o Mastro-Don Gesualdo:

Narra la storia di Gesualdo Motta, un uomo avido che ha avuto come unico scopo nella vita quello di
accumulare ricchezze. Compie un percorso che da Mastro, ovvero da muratore, lo porta a diventare Don,
cioè diventa nobile, grazie al suo matrimonio con una donna nobile di nome Bianca Trao., che però non lo
ama. Bianca è stata costretta a sposarlo, sia perché la sua famiglia era in difficoltà economiche sia perché
era incinta di un cugino di nome Ninì Rubiera, che non poteva sposare.
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Per questo matrimonio interesse Gesualdo rinuncia a sposare la serva Diodata, dalla quale ha diversi figli.
Ma il matrimonio si ritorce ben presto contro di lui.

La moglie lo evita, e tutto il paese lo disprezza poiché è un uomo dedito solo ai suoi interessi. Bianca muore
giovane di colera ma gli dà una figlia, Isabella, che in realtà è figlia di Ninì Rubiera.

Isabella, benché viziata enormemente da Gesualdo, prova a vergogna per le sue umili origini e lo disprezza
a causa delle sue imposizioni; infatti, Gesualdo prima la allontana da casa e dalla madre per mandarla in un
prestigioso collegio, poi la costringe ad un matrimonio infelice.

Quando si ammala; rimasto completamente isolato, Gesualdo viene preso dal genero e portato nella sua
residenza di Palermo dove può constatare di persona come il marito della figlia abbia distrutto il suo
patrimonio.

Mastro don Gesualdo è un uomo che ha accumulato nel tempo molte ricchezze a video e ambizioso verde
in senso ironico lo chiama mastro-don perché nonostante abbia acquisito il titolo di don nell'anima è
rimasto un mastro cioè un muratore Verga non lo descrive in modo dettagliato ma mette in evidenza le sue
mani ruvide e le spalle grosse un fisico da lavoratore insomma che contrasta con la posizione raggiunta è
sposato con Bianca Trao ma il matrimonio si rivela un affare sbagliato e lo porta alla rovina economica e ad
una morte solitaria senza nemmeno il conforto di Isabella che lui ha cresciuto come se fosse sua figlia.

Novelle rusticane

o La roba

Il protagonista della novella La roba è il contadino Mazzarò che viene presentato subito come un uomo
basso, con una grossa pancia e la testa a forma di brillante. A presentarlo è un viandante che attraversa la
strada di Catania, lungo il Lago Lentino, il quale si stupisce ammirando tutti i possedimenti di Mazzarò qui
collocati: fattorie, magazzini, vigne, campi e uliveti. A questa descrizione si accompagna quella fisica del
contadino Mazzarò che, in modo molto astuto, pur essendo ricco, si spaccia come un uomo povero,
vestendo abiti vecchi e dismessi e mangiando il minimo indispensabile per la sopravvivenza proprio per
accumulare più "roba" possibile. Mazzarò non ha famiglia e nemmeno vizi, lavora e vive insieme ai suoi
braccianti evitando come il male peggiore le donne, il vino, il fumo e il gioco. Per il contadino Mazzarò,
l'ossessione di accumulare più ricchezza possibile è l'unica ragione di vita. Mazzarò è un analfabeta, nato
povero, ma che nella sua vita riesce a fare una vera e propria ascesa sociale. Da bracciante sfruttato, grazie
alla sua intelligenza e ai suoi sacrifici, riesce a sottrarre al suo primo padrone tutti i possedimenti. Mazzarò,
infatti, nella prima parte della sua vita, lavora duramente ed è sfruttato, ma deride il suo padrone per la
mancata astuzia nel gestire i braccianti e per la sua incapacità nella gestione degli affari. Lentamente così
Mazzarò si impossessa delle tenute del suo padrone, ma una volta raggiunto un certo tipo di potere e di
posizione sociale, non cerca di migliorare le condizioni lavorative di chi, come lui, era un bracciante, anzi.
Mazzarò sfrutta l'ingenuità dei suoi "ex-colleghi" solo per migliorare la propria condizione di vita e avere più
vantaggi possibili. Non teme niente e nessuno e le lamentele e le rimostranze fatte dai braccianti sono per
lui solo un'inutile scocciatura. L'unica cosa che turba Mazzarò è la morte perché, nell'aldilà, non potrà
portare con sé la sua roba, la sua ricchezza terrena. Così, nella sua vecchiaia, l'idea di doversi separare dai
suoi possedimenti lo fa letteralmente impazzire. Negli ultimi giorni di vita diverse persone si avvicinano a
Mazzarò cercando di fargli capire che è giunto il momento di pensare alla sua anima e non alla sua
ricchezza, ma è tutto vano, al punto tale che l'uomo poco prima di morire esce nelle sue campagne e inizia
a uccidere gli animali a colpi di bastone urlando: "Roba mia, vientene con me!".

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La Scapigliatura (P. A144)


Con l’esaurirsi delle idealità romantiche, ormai scadute nel sentimentalismo languido ed estenuato del
secondo Romanticismo si impose, soprattutto a Milano, il movimento artistico-letterario della Scapigliatura,
così chiamato dal nome di un romanzo di Cletto Arrighi, La scapigliatura e il 6 febbraio (1862). I suoi
esponenti, poeti, romanzieri e pittori accomunati da anticonformismo, spirito d’indipendenza e tormento
interiore, non accettavano i princìpi e i modi di vita borghesi e si rivolgevano a forme e contenuti
scandalosi, assumendo spesso pose da “poeti maledetti”. Essi contribuirono a sprovincializzare la cultura
italiana, introducendo temi insoliti per la nostra tradizione: il macabro, il funereo, l’umorismo nero, il
brutto, il patologico, il sogno e l’incubo. I loro principali modelli furono autori come Hoffmann, l’americano
Edgar Allan Poe e soprattutto Baudelaire con i suoi Fiori del male. Gli scapigliati contestavano i valori
borghesi del profitto, in nome di
concetti quali il Bello, il Vero, la
Virtù; tale contrapposizione
assunse spesso le forme di un
dualismo, che si rifletteva anche
nello stile anticonvenzionale,
basato sull’uso del dialetto e su
effetti impressionistici. Proprio
l’attenzione agli aspetti più bassi e
degradati della quotidianità fu uno
dei temi caratteristici della
letteratura scapigliata e aprì la
strada all’interesse per il
Naturalismo.

Modulo 2
Il Decadentismo (P. A208)
• Il superamento del Positivismo

Nella seconda metà dell’Ottocento si diffuse nella cultura europea una nuova sensibilità che rifiutava le
pretese di scientificità del Positivismo e del Naturalismo e, in polemica contro i valori borghesi, esaltava
alcuni motivi tipici del Romanticismo, come l’interiorità, l’eccezionalità dell’artista e il suo sentimento di
esclusione nei confronti della società.

• L’affermarsi del Decadentismo

Tali fermenti si tradussero in nuove esperienze artistiche e letterarie, che vanno sotto il nome di
Decadentismo e si imposero in Europa intorno agli anni Ottanta dell’Ottocento. Il termine “decadenza” fu
usato per la prima volta da Verlaine, per esprimere l’idea di un’epoca ormai al tramonto ed ebbe
inizialmente una connotazione negativa, con cui la critica indicava la nuova generazione dei “poeti
maledetti”. Intellettuali e artisti decadenti erano accomunati dalla critica alla società borghese (anche per il
mutato contesto sociale seguito alla Grande depressione) e dal risalto dato alla soggettività e alla
dimensione interiore. Negli stessi anni questi aspetti furono analizzati filosoficamente e scientificamente da
alcuni pensatori, che crearono di fatto le premesse per la crisi del razionalismo ottocentesco. Tra i più
importanti temi della letteratura decadente ricordiamo: la malattia e la morte, il vitalismo, il sogno, il
vagheggiamento di epoche e paesi lontani, il rifiuto della morale e dei valori borghesi. In poesia, i decadenti

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si ispirarono alla lezione simbolista, privilegiando l’aspetto fonico e musicale e il potere simbolico ed
evocativo della parola, rifiutando i modelli tradizionali.

• Le correnti del Decadentismo

Il Simbolismo, che si diffuse anche grazie a riviste come “Le Symboliste” (1886), è una corrente poetica
nata in Francia e ispirata all’esperienza del Parnassianesimo. Alla base del Simbolismo vi è l’idea che
l’artista può penetrare i significati nascosti della realtà e scoprire le corrispondenze che si celano dietro alle
cose, grazie al potere evocativo e allusivo della parola: dal momento che le parole acquistano un significato
simbolico, grande importanza riveste l’aspetto fonico e musicale del linguaggio e l’uso della sinestesia e
dell’analogia. Precursore del movimento, oltre a Gérard De Nerval, fu Charles Baudelaire (1821-1867). Egli
condusse una vita di eccessi e sregolatezza, in polemica contro le convenzioni borghesi; con la sua raccolta I
fiori del male aprì la stagione dei “poeti maledetti”. Temi centrali della poetica di Baudelaire sono le
corrispondenze tra le varie manifestazioni della realtà (che solo il poeta è in grado di cogliere) e la noia
esistenziale (spleen) che assale l’individuo nella vita squallida e degradata delle città. A Baudelaire si ispirò
esplicitamente Paul Verlaine (1844-1896), per la condotta di vita ribelle e anticonformista, per i temi della
malinconia e dello spleen e per la ricerca continua della musicalità del verso. Fu proprio Verlaine a
pubblicare, nel 1884, l’antologia poetica dal nome I poeti maledetti. Arthur Rimbaud (1854-1891) teorizzò
la concezione del poeta “veggente”, in grado di esplorare l’ignoto attraverso il «disordine dei sensi» e di
renderlo poeticamente mediante una lingua nuova, ricca di simboli e allusioni. Secondo Stéphane Mallarmé
(1842-1898), il caposcuola del Simbolismo, la poesia doveva servire per evadere dalla quotidianità
dell’esistenza e per cogliere, attraverso un linguaggio oscuro e simbolico, l’essenza profonda delle cose.

L’Estetismo è un movimento artistico e letterario nato in Inghilterra e ispirato al principio dell’“arte per
l’arte”, che esalta la bellezza come valore supremo e polemizza con la fiducia nella scienza e nella ragione.
Ciò si traduce nell’esaltazione dell’artista, figura d’eccezione che deve vivere la propria vita come un’opera
d’arte, rifiutando la mediocrità della vita borghese: tale concezione si espresse nella figura dell’esteta, un
individuo che ama circondarsi di piaceri raffinati e non tiene conto delle regole della morale comune. I
principali esponenti dell’Estetismo furono il francese Joris-Karl Huysmans (1848-1907, A ritroso), l’inglese
Oscar Wilde (1854-1900, Il ritratto di Dorian Gray) e Gabriele D’Annunzio (1863-1938, Il piacere), che, con le
loro opere, diedero vita al nuovo genere del romanzo estetizzante. Huysmans, in particolare, introdusse
alcune novità narrative destinate a influenzare il romanzo del Novecento come l’attenzione verso un solo
personaggio, la focalizzazione interna al personaggio, il tempo del racconto non lineare ma modellato sui
pensieri del protagonista, lo spazio come luogo simbolico. In Italia la poesia decadente, caratterizzata da un
linguaggio allusivo e musicale, dal verso libero e da una sintassi franta, è rappresentata soprattutto da
Pascoli e D’Annunzio, mentre la prosa trova i suoi più significativi esponenti in D’Annunzio, Fogazzaro,
Svevo e Pirandello. Tra gli scrittori decadenti europei ricordiamo: Rilke, Swinburne, Blok, Maeterlinek e
Machado.

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Charles Baudelaire (P. A224)


La vita e le opere

Charles Baudelaire nacque a Parigi nel 1821. Suo padre morì quando lui aveva sei anni e la madre si risposò
con un ufficiale di carriera, uomo rigido e autoritario. Con la maggiore età entrò in possesso della cospicua
eredità paterna ma, poiché con il suo tenore di vita dimezzò in pochi anni il patrimonio, fu messo dal
patrigno sotto la tutela di un notaio, dal quale riceveva un modesto stipendio mensile. Cominciò allora a
lavorare come giornalista e critico d’arte e di musica. Nel 1848 partecipò alla rivoluzione parigina per spirito
di contestazione e di rivolta. Si diede poi alla vita elegante e dispendiosa del dandy, ma incalzato dai debiti
e dagli usurai si immerse nella vita squallida e miserevole della metropoli, cercando di evadere dai problemi
attraverso l’alcol e la droga. Al tempo stesso, però, avvertiva un fortissimo senso di colpa e il bisogno di
riscattarsi, di vivere una vita ordinata e normale. Nel 1857 pubblicò I fiori del male (Les Fleurs du Mal), la
raccolta di poesie che segna la rottura definitiva con la tradizione e inaugura la lirica moderna. Quest’opera
venne condannata per oscenità e oltraggio alla morale e fu parzialmente censurata. Colpito da paralisi, morì

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nel 1867, assistito dalla madre. Tra le altre opere di Baudelaire ricordiamo il racconto Fanfarlo (1847), il
saggio I paradisi artificiali (1860) e i Poemetti in prosa (o Lo Spleen di Parigi), pubblicati postumi nel 1869.

I temi

Nei Fiori del male (1857) Baudelaire usa un lessico ricchissimo, in cui si possono individuare vere e proprie
parole chiave, capaci di svelare il mondo interiore del poeta, quali Cielo, Terra, Inferno, Sogno (e
ovviamente i loro sinonimi e i termini dei rispettivi campi semantici). Le prime tre suggeriscono l’idea
dell’esilio dalla vita (L’albatro, vedi p. seg.) e della caduta, mentre il sogno libera l’uomo dalla sua
condizione di noia e di dolore, permettendogli di fuggire in un mondo immaginario, dove la natura è
perfetta e dove regna l’armonia. L’evasione, quella nei paradisi artificiali, precipita il poeta nell’abisso;
l’euforia dell’ascendere è sempre accompagnata dal terrore del precipizio.

• Corrispondenze (P. A229)

Gabriele D’Annunzio (P. A310)


Vita
Gabriele D’Annunzio nasce a Pescara (Abruzzo) il 12 marzo 1863 da una famiglia agiata. Compì
privatamente gli studi elementari e frequentò il prestigioso Reale Collegio Cicognini di Prato, nel 1881
consegue la licenza liceale. Già a sedici anni, dopo aver scritto una lettera senza alcun timore reverenziale,
al maggior poeta dell’epoca, Giosue Carducci, raccolse le sue prime poesie in un libro pubblicato a spese del
padre col titolo “Primo vere”.

Nel 1881 si trasferisce a Roma, dove venne accolto subito nei salotti mondani e nell’ambiente della società
letteraria dove cominciò a collaborare con molti giornali e riviste, che pubblicarono alcuni suoi articoli di
critica letteraria e artistica. A causa delle difficoltà economiche e al suo stile di vita, nel 1891 si traferì a
Napoli dove si legò sentimentalmente a Maria Gravina Cruyllas (sposata con il conte Anguissola che li
denunciò per adulterio) dal quale ebbe una figlia, Renata.

Abbandonata Napoli, per qualche anno D’Annunzio tornò in Abruzzo e fece poi un lungo viaggio in Grecia.
Nel 1894 incontra l’attrice teatrale Eleonora Duse con la quale intrecciò una lunga relazione. Nello stesso
anno entrò in politica come deputato nelle file della destra per, per poi dopo passare alla sinistra in seguito
alle leggi liberticide alle quali era contrario.

Nel 1898 si trasferisce con la Duse nei pressi di Firenze, in una lussuosa villa, “la Capponcina”, che arredò
secondo i suoi gusti in stile decadente. In questi anni D’Annunzio si dedica al teatro, ispirato dal suo
rapporto con la Duse che interpreto molte sue opere, pubblicando opere rivolte ad un pubblico di massa.

Dopo la pubblicazione nel 1910 del romanzo Forse che sì forse che no, D’Annunzio si trasferì in Francia per
sfuggire ai numerosi creditori e rimase li fino allo scoppio della Prima guerra mondiale. Nel 1914 si cimentò
anche nel cinema collaborando al film muto Cabiria. Acceso interventista nel 1915 tornò in Italia dove
tenne numerosi discorsi alle folle, raccolti nel volume “Per la più grande Italia”, volti a convincere l’opinione
pubblica della necessità della guerra. In questo modo assume il ruolo de poeta “vate” che guida la patria
verso un glorioso destino nazionalista e imperialista. Nonostante l’età partecipa a numerose azioni belliche.
Nel 1918 fu protagonista di due celebri episodi: la “beffa di Buccari”, un’incursione nel golfo del Carnaro e il
“volo su Vienna”, durante la quale il poeta per dimostrare il coraggio del popolo italiano fece cadere dei
volantini propagandistici.

Nel 1919, a guerra finita, D’Annunzio guidò l’occupazione della città di Fiume, occupandola per oltre un
anno. Fin quando nel dicembre 1920, il governo italiano non lo costrinse a ritirarsi per non violare i trattati
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internazionali. I caratteri populisti e nazionalisti lo avvicinarono al nascente partito fascista, tanto è che
mussolini preoccupato della sua influenza lo emarginò dalla vita politica. D’Annunzio trascorre gli ultimi
anni della sua vita in una sorta di esilio volontario a Gardone sul lago di Garda con la sua ultima amante,
Luisa Baccara, dedicandosi all’allestimento dell’ennesima “casa-museo” lasciata in dono al popolo italiano
con il nome “Vittoriale degli italiani”. Mori il 1° marzo 1938.

Pensiero e poetica
In una prima fase D’Annunzio fu influenzato dal classicismo carducciano in poesia e dal Verismo verghiano
in prosa e nel teatro; ma l’ambientazione popolare fu spesso un pretesto per rappresentare gli istinti
primordiali di un ambiente violento e selvaggio. D’Annunzio incarnò con la sua vita l’eroe decadente,
facendo dell’estetismo l’aspirazione a un’esistenza d’eccezione, dedita al culto della bellezza e ispirata
all’ideale della vita come opera d’arte. In un forte intreccio fra elementi biografici e letteratura, D’Annunzio
tratteggia il prototipo dell’esteta nell’Andrea Sperelli del Piacere, che insegue il mito del “vivere
inimitabile”. Successivamente, sotto l’influenza di Tolstoj e Dostoevskij, mostrò interesse per le cose
semplici e per un’ideale aspirazione alla purezza. Dopo la lettura di Nietzsche, si aprì la fase del superuomo,
che si intreccia con la lezione dei simbolisti francesi, e che trova traduzione poetica nelle Laudi: qui la parola
si fa musica, soprattutto nella celebrazione della natura come fonte di ispirazione per l’uomo, che in essa si
identifica fino alla piena compenetrazione (panismo). L’ultima produzione, detta “notturna”, si distingue
per una prosa lirica caratterizzata dall’autobiografismo e dal frammentismo.

Opere

o Dagli esordi all’estetismo decadente


D’Annunzio fu un poeta e prosatore molto precoce. Passiamo in rassegna le sue prime opere che abbiamo
visto.

o Primo vere (1879), la prima raccolta lirica, venne criticato dai suoi professori per la libertà dei temi
e del linguaggio e per la forte sensualità. I componimenti risento della metrica “barbara” di
Carducci.
o Il piacere (1889), imperniato sull’edonismo del protagonista Andrea Sperelli, avido di piaceri,
cultore del bello, stanco di tutto, ma deciso a fare della sua vita un’inimitabile opera d’arte.

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o Produzione ispirata alla letteratura russa


Dopo il successo ottenuto con il romanzo “il piacere”, D’Annunzio, suggestionato dalla moda del romanzo
russo, si dedicò alla sperimentazione letteraria accostandosi al tema della purezza, della bontà d’animo, del
commosso ritorno alla natura, e all’indagine psicologica, attenta ai confini interiori e agli stati mentali. Dai
modelli letterari nacquero due opere in prosa: il romanzo breve “Giovanni Episcopo” e “L’innocente”.

Il “Poema paradisiaco” anch’esso ispirato alla letteratura russa, è una raccolta di 54 liriche in cui gli accessi
del passato, i temi erotici e trasgressivi sembrano lasciar posto al desiderio di purificazione, alla ricerca di
un mondo di affetti familiari, di innocenza e di originaria purezza; lo stile si caratterizza per l’adozione di
forme colloquiali.

o La produzione del superuomo


Nel 1892 la letteratura dell’opera di Nietzsche (nice), il filosofo che aveva elaborato fra l’altro la teoria del
superuomo, segnò l’avvio di una nuova vitalità poetica in D’Annunzio, che applicò questa teoria alla figura
del poeta, rendendolo un essere superiore svincolato da ogni regola morale, cultore del bello,
propugnatore di una visione politica aggressiva e imperialista e del dominio di una classa privilegiata e
violenta.

Il mito del superuomo è incarnato dai protagonisti di quattro romanzi di questo periodo.

o Il trionfo della morte (1894), costruito sulla vicenda del folle amore di Giorgio Aurispa per Ippolita,
un sentimento torbido e morboso che si conclude con un omicidio-suicidio. Dopo “il piacere” e
“L’innocente”, è la terza opera dei “Romanzi della rosa”, basati su atmosfere sensuali e di languore.
o Le vergini delle rocce (1895) è il romanzo il cui protagonista, Claudio Cantelmo, unendosi in
matrimonio a una nobile, sogna un figlio di sangue puro, futuro re di Roma.
o Il fuoco (1900), l’incarnazione più compiuta dell’estetismo e del superomismo dannunziani
attraverso l’esperienza di vita i Stelio Effrena, è l’unico romanzo realizzato tra quelli dei “Romanzi
del melagrano”. “Il fuoco” è un’opera autobiografica in cui, attraverso il personaggio di Foscarina,
viene rievocato l’amore di D’Annunzio per Eleonora Duse.
o Forse di forse che no (1910), l’ultimo romanzo, che sancisce la definitiva affermazione della morale
superomistica, prende corpo in un contesto storico e culturale caratterizzato da una tecnologia
avanzata e dal mito della velocità.

Nel 1903 D’Annunzio pubblica anche diversi libri, dedicandoli alla Duse. Tra il 1898 e il 1908 si dedicò alla
composizione di drammi teatrali nei quali mise in scena il culto del superuomo, passioni sensuali e
propaganda imperialistica.

o Le opere del periodo francese e l’ultimo D’Annunzio


Dopo la pubblicazione di “forse sì forse che no”, D’Annunzio si trasferì in Francia, dove si dedicò ai drammi
in francese “Le martyre de Saint Sébastien” e “La Pisanelle”.

Tra le opere in prosa dell’ultimo periodo, detto “notturno” dal titolo dall’opera più significativa di questo
periodo, il “Notturno” nel quale D’Annunzio riprende lo stile frammentario e impressionistico dei drammi in
francese; l’opera fu composta nel periodo di convalescenza dopo l’incidente aereo che gli procurò lesioni
ad un occhio.

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Analisi delle opere


o Il piacere
La vicenda è ambientata in una lussuosa Roma di fine secolo. Ultimo rampollo di un'antica famiglia nobile,
Andrea Sperelli è un giovane che vive esclusivamente per l'amore, per l'arte e per la cultura. Sensibilissimo
e raffinatissimo, conduce un'esistenza estetizzante. Quando la sua amante, Elena Muti, con cui Andrea
aveva allacciato una burrascosa relazione, l'abbandona senza alcun motivo, Andrea cerca conforto in
numerose avventure, finché incappa nella vendetta di un amante tradito che lo ferisce in duello. Si rifugia
allora nella villa di campagna di una sua cugina per farsi curare; qui ha occasione di rigenerarsi, di ripensare
alla propria vita dissoluta e di incontrare una giovane donna, Maria Ferres, moglie del ministro del
Guatemala, di spiritualità elevatissima, bella e sensibile al fascino dell'arte. Finita la convalescenza, Andrea
si trasferisce a Roma, dove ritorna alla solita vita mondana e dissoluta, ha frequenti incontri con Elena,
decisa però a respingerlo, e inizia a sedurre la Ferres. La duplice relazione con Elena, segnata
dall'eccitazione e dal desiderio sessuale, e con Maria, espressione di un amore puro, finisce per
ossessionarlo e spingerlo al gioco perverso del possesso di Elena attraverso Maria. Ma, quando riesce a
ottenere da Maria il dono di una notte d'amore, si tradisce: al culmine dell'amplesso, Andrea, che
nell'inconscio sta rivivendo l'amore per Elena, si lascia sfuggire il nome di costei e Maria, inorridita, fugge
abbandonandolo nella disperazione dell'amore perduto.

Andrea Sperelli è un eroe decadente, raffinato cultore del bello aristocratico, sprezzante del «grigio diluvio
democratico odierno che tante belle cose e rare sommerge miseramente». Egli ricerca l'eleganza, la
bellezza e il piacere e regola la sua condotta sul principio che la vita deve essere modellata come un'opera
d'arte. Tuttavia, è privo della profondità psicologica che caratterizza il protagonista del romanzo
estetizzante francese, attento a perseguire come unico scopo quello di un estetismo raffinato ed elitario
che lo spinge a isolarsi dal mondo.

▪ Leggi “il ritratto di un esteta” a pag. A322

o Laudi
Le Laudi rappresentano l’opera poetica in cui D’Annunzio sviluppa il concetto di super uomo (A i romanzi
della fase del super uomo corrispondono: Trionfo della morte, Il piacere e il fuoco (dedicata ad Eleonora
Duse). Le Laudi sono una raccolta poetica dove sviluppa il concetto di super uomo. L’ architettura è
complessa perché con questa D’Annunzio aspirava fare un canto totale che comprendesse il reale dal
passato mitico della Grecia fino ad Esaltare il nazionalismo del suo tempo.

Le Laudi dovevano essere costituite da sette libri che prendono il nome dalle stelle che compongono la
costellazione delle Pleiadi vicino ad Orione e sono: Maia, Elettra, Alcyone, Merope, Asterope, Taigete e
Celeno. Già nel titolo dell’opera si evidenzia la volontà di un canto totale, infatti, il titolo completo è: Laudi
del cielo, del mare, della terra, degli eroi.

La sera fiesolana
Originale Parafrasi
Fresche le mie parole ne la sera Le mie fresche parole nella sera ti fanno
ti sien come il fruscìo che fan le foglie sentire come quel fruscio che fanno le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie del gelso nella mano quando vengono raccolte
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta in silenzio e ancora ritarda nel lavoro sulla
su l’alta scala che s’annera scala alta che diventa scura strofinandosi con il
contro il fusto che s’inargenta fusto color argento con i suoi rami spogli
con le sue rame spoglie mentre la luna è prossima ad uscire dalle soglie
mentre la Luna è prossima a le soglie azzurre e sembra che davanti a sé distenda un
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo velo dove il nostro sogno giace e sembra che la

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ove il nostro sogno si giace campana senta già sommersa nel gelo
e par che la campagna già si senta notturno e beva da lei la pace sperata senza
da lei sommersa nel notturno gelo vederla.
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.

Laudata sii pel tuo viso di perla, Tu sia lodata per il tuo viso di perla, o sera, e
o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace per i tuoi grandi occhi umidi dove si tace
l’acqua del cielo! l’acqua del cielo!

Dolci le mie parole ne la sera Le mie parole dolci nella sera ti sentono come
ti sien come la pioggia che bruiva la pioggia che faceva rumore tiepida e
tiepida e fuggitiva, sfuggente, pianto lacrimoso della primavera,
commiato lacrimoso de la primavera, sui gelsi e sugli olmi e sulle viti e sui novelli pini
su i gelsi e su gli olmi e su le viti con le dita rosa che giocano con l’aria che si
e su i pini dai novelli rosei diti perde, e sopra il grano che non è ancora verde,
che giocano con l’aura che si perde, e sopra il fieno che già tagliato sta ingiallendo,
e su ‘l grano che non è biondo ancóra e sopra gli olivi, sopra i fratelli olivi che fanno di
e non è verde, pallida santità i clivi sorridenti.
e su ‘l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.

Laudata sii per le tue vesti aulenti, Tu sia lodata per le tue vesti profumate, o sera,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce e per la cinta che ti cinge come il salice cinge il
il fien che odora! fieno che profuma!

Io ti dirò verso quali reami Io ti dirò verso quali reami d’amore ci chiama il
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti fiume, le cui fonti eterne all’ombra degli
eterne a l’ombra de gli antichi rami antichi rami parlano del mistero sacro dei
parlano nel mistero sacro dei monti; monti, e ti dirò per quale mistero le colline
e ti dirò per qual segreto sugli orizzonti limpidi s’incurvano come labbra
le colline su i limpidi orizzonti che chiudono un divieto, e perché la volontà di
s’incùrvino come labbra che un divieto dire, le faccia belle oltre ogni desiderio umano
chiuda, e perché la volontà di dire e nel silenzio loro sono sempre consolatrici
le faccia belle novelle, così che sembra che ogni sera l’anima
oltre ogni uman desire le possa amare di un amore più forte.
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.

Laudata sii per la tua pura morte, Tu sia lodata per la tua morte pura, o sera, e
o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare per l’attesa che fa palpitare in te le prime
le prime stelle! stelle. (quest'ultima strofa è un forte richiamo
alla speranza, infatti nel panismo la morte non
è la fine, semmai può essere un nuovo inizio
poiché tutto può avere vita in un'altra forma).

Varie sono le figure retoriche presenti ne La sera fiesolana:

La poesia si apre con una sinestesia (Fresche le mie parole; si accosta la sensazione uditiva delle parole a
quella tattile della freschezza), figura che ritroviamo al v. 18 (Dolci le mie parole).

Ai vv. 1-2 (Fresche le mie parole ne la sera / ti sien come il fruscio che fan le foglie) si può notare
l’allitterazione di /f/ e /r/ riproduce il suono delle foglie nella mano del contadino, rendendo l’espressione
onomatopeica. Tutto il componimento è comunque pervaso da allitterazioni.

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Sono presenti varie similitudini (v. 2, come il fruscio; v. 19, come la pioggia; v. 33, come il salce; v. 41, come
labbra.

Anche le metafore sono ricorrenti (vv. 8-9, soglie / cerule; v. 13, beva la sperata pace; v. 16-17, grandi umidi
occhi ove si tace / l’acqua del ciel); v. 23, rosei diti; v. 32, vesti aulenti; v. 33, cinto che ti cinge; v. 49, pura
morte).

Notevole è il ricorso alla figura retorica della personificazione (v. 8, Luna; v. 16, 33, 50, Sera; v. 23, pini dai
novelli rosei diti; v. 29, fratelli olivi; vv. 30-31, pallidi i clivi / e sorridenti).

Sono presenti anche la figura dell’apostrofe e dell’anafora (vv. 16, 33, 50; O Sera).

La figura dell’anafora ricorre anche ai vv. 15, 32, 49 (Laudata sii), ai vv. 2 e 19 (ti sien come); ai vv. 23, 25,
27, 29 (e su).

È presente anche la figura del polisindeto (vv. 23-29; su i gelsi e su gli olmi e su le viti / e su i pini … / e su il
grano … / e su ‘l fieno … / e su gli olivi).

Al v. 30 è presente un’anastrofe (che fan di santità pallidi i clivi).

Ai vv. 47-48 è presente una figura etimologica (amare / d’amor).

Numerosi gli enjambement (vv. 2-3, 8-9, 16-17, 19-20, 35-36, 36-37, 41-42, 45-46).

La pioggia nel pineto


Originale Parafrasi Originale Parafrasi
Taci. Su le soglie Taci. All’ingresso per i fiori raccolti in mazzi,
del bosco non odo del bosco non sento sui ginepri ricoperti
parole che dici parole che puoi definire di gemme profumate,
umane; ma odo umane. Ma sento piove sui nostri visi
parole più nuove parole più straordinarie che fanno parte della
che parlano gocciole e foglie che parlano le gocce di foresta,
lontane. pioggia e le foglie piove sulle nostre mani
Ascolta. Piove lontane (perché il suono nude,
dalle nuvole sparse. proviene dal folto del sui nostri abiti
Piove su le tamerici bosco). leggeri (attraverso i quali
salmastre ed arse, Ascolta. Piove filtra la pioggia),
piove sui pini dalle nuvole disseminate nel
scagliosi ed irti, cielo.
piove su i mirti Piove sulle tamerici su i freschi pensieri sui freschi pensieri
divini, che sanno di sale e sono che l'anima schiude che l’anima fa sbocciare
su le ginestre fulgenti bruciate dalla calura, novella, rinnovata,
di fiori accolti, piove sui pini su la favola bella sulla favola bella
su i ginepri folti scagliosi (perché i tronchi che ieri che ieri
di coccole aulenti, sono ruvidi e come coperti t'illuse, che oggi m'illude, ti illuse, che oggi mi illude,
piove su i nostri volti di scaglie) e o Ermione. o Ermione.
silvani, ispidi (per le foglie aguzze)
piove su le nostre mani piove sui mirti
ignude, divini (perché sacri a
su i nostri vestimenti Venere),
leggeri, sulle ginestre che splendono

Odi? La pioggia cade Odi? Ascolta, ascolta. L'accordo Ascolta, ascolta. Il canto
su la solitaria La pioggia che cade delle aeree cicale delle cicale che stanno
verdura sul fogliame della pineta a poco a poco nell’aria va diminuendo
con un crepitio che dura deserta più sordo sotto la pioggia che

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e varia nell'aria secondo le fronde producendo un crepitio che si fa sotto il pianto aumenta. Ma in crescendo
più rade, men rade. dura che cresce; si mescola un canto più
Ascolta. Risponde e varia secondo quanto è ma un canto vi si mesce rauco, che sale dall’ombra
al pianto il canto folto il fogliame. più roco scura dello stagno in
delle cicale Ascolta. Alla pioggia che di laggiù sale, lontananza. Solo una nota
che il pianto australe risponde dall'umida ombra remota. ancor trema, si spegne,
non impaura, il canto delle cicale Più sordo e più fioco risorge, trema, si spegne.
né il ciel cinerino. che non è fermato s'allenta, si spegne. Non arriva il suono delle
E il pino né dalla pioggia né dal Sola una nota onde sulla spiaggia. Non si
ha un suono, e il mirto colore scuro del cielo. ancor trema, si spegne, sente sulle fronde degli
altro suono, e il ginepro E il pino risorge, trema, si spegne. alberi scrosciare la pioggia
altro ancora, stromenti ha un suono, e il mirto Non s'ode su tutta la fronda d’argento che purifica, lo
diversi altro suono, e il ginepro crosciare scroscio che varia secondo i
sotto innumerevoli dita. altro ancora, e le gocce di l'argentea pioggia rami più folti, meno folti.
E immensi pioggia sono come miriadi di che monda, Ascolta.
noi siam nello spirito dita che fanno suonare il croscio che varia La cicala è muta, ma la figlia
silvestre, diversamente queste piante. secondo la fronda del lontano fango, la rana,
d'arborea vita viventi; Noi siamo nel più intimo più folta, men folta. canta nell’ombra più
e il tuo volto ebro della foresta, non più esseri Ascolta. profonda, chissà dove,
è molle di pioggia umani ma vivi d’una vita La figlia dell'aria chissà dove.
come una foglia, vegetale; è muta: ma la figlia E piove sulle tue ciglia,
e le tue chiome E il tuo volto bagnato ed del limo lontana, o Ermione.
auliscono come inebriato dalla gioia e le tue la rana,
le chiare ginestre, chiome profumano come le canta nell'ombra più fonda,
o creatura terrestre ginestre, o creatura chi sa dove, chi sa dove!
che hai nome originata dalla terra che hai E piove su le tue ciglia,
Ermione. nome Ermione. Ermione.

Piove su le tue ciglia nere Piove sulle tue ciglia nere sull’illusoria favola
sì che par tu pianga che sembra tu pianga ma di dell’amore
ma di piacere; non bianca piacere; che ieri
ma quasi fatta virente, non bianca ma quasi verde, mi illuse, che oggi ti illude,
par da scorza tu esca. sembri uscita dalla corteccia o Ermione.
E tutta la vita è in noi fresca di un albero.
aulente, E tutta la vita è in noi fresca
il cuor nel petto è come pesca e odorosa,
intatta, il cuore nel petto è come
tra le palpebre gli occhi una pesca non ancora
son come polle tra l'erbe, toccata,
i denti negli alveoli gli occhi tra le palpebre
son come mandorle acerbe. sono come fonti d’acqua in
E andiam di fratta in fratta, mezzo all’erba;
or congiunti or disciolti i denti nelle gengive
( e il verde vigor rude sembrano mandorle acerbe.
ci allaccia i melleoli E andiamo di cespuglio in
c'intrica i ginocchi) cespuglio, ora tenendoci per
chi sa dove, chi sa dove! mano ora separati
E piove su i nostri volti (la ruvida e forte stretta
silvani, delle erbe aggrovigliate ci
piove su le nostre mani blocca le ginocchia)
ignude, chissà dove, chissà dove!
su i nostri vestimenti Piove sui nostri volti
leggeri, divenuti tutt’uno con il
su i freschi pensieri bosco,
che l'anima schiude piove sulle nostre mani
novella, nude,
su la favola bella sul nostro corpo,
che ieri sui nuovi pensieri sbocciati
m'illuse, che oggi t'illude, dall’anima rinnovata,
o Ermione.
Figure retoriche:
Climax: c’è una tensione che sale e che raggiunge l’apice nel nome di Ermione: che ieri/ t'illuse, che oggi
m'illude,/o Ermione.
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Personificazione: Ermione rappresenta non solo una figura reale ma un concetto, e cioè un amore
dimenticato e puro a cui tornare.

Apostrofe: il personaggio si rivolge direttamente all’amata, chiamandola più volte.


Onomatopee: gocciole; crepitio, crosciare il suono delle parole richiama il rumore della pioggia.

Allitterazione: es. 1) tamerici salmastre ed arse dove torna il suono della –t- e della –s-
2) d’arborea vita viventi/e il tuo volto ebro dove i suoni ripetuti sono –r- e –v-
Tutto questo è necessario a “incantare” chi legge,su questa scia continua tutta la poesia, provate a scorgere
anche voi questo tipo di figura retorica molto semplice da rintracciare.

Asindeto: trema, si spegne, risorge, trema, si spegne cioè un elenco di termini che, usando anche
l’allitterazione danno un senso di andata e ritorno dentro e fuori la natura.

o Notturno

o L’innocente

Modulo 3
Giovanni Pascoli (P. A252)
Vita

Giovanni Pascoli nasce il 31 dicembre 1855 a San Mauro di Romagna, da una famiglia di condizione
piuttosto agiata: il padre, Ruggiero, è fattore di una tenuta di proprietà dei principi Torlonia. La sua famiglia
è molto numerosa: Giovanni è il quarto di ben dieci figli.

La vita familiare viene presto sconvolta da una tragedia: il 10 agosto 1867, mentre torna a casa dal mercato
di Cesena, Ruggiero Pascoli viene ucciso a fucilate. La morte del padre crea difficoltà economiche alla
famiglia, che deve lasciare la tenuta, trasferirsi a San Mauro e in seguito a Rimini, dove il figlio maggiore
Giacomo ha trovato lavoro, assumendo il ruolo paterno (viene chiamato infatti “piccolo padre”).

Al primo lutto in un breve giro di anni, ne seguono altri: nel 1868 muoiono la madre e la sorella maggiore,
nel ’71 il fratello Luigi, nel ’76 Giacomo.

Giovanni frequenta il collegio degli Scolopi ad Urbino, dove riceve una rigorosa formazione classica. Nel ’71,
per le ristrettezze della famiglia, deve lasciare il collegio, ma può proseguire gli studi a Firenze. Nel ’73,
grazie al brillante esito di un esame (della commissione fa parte Carducci), ottiene una borsa di studio
presso l’Università di Bologna, dove frequenta Lettere.

Negli anni universitari Pascoli subisce il fascino dell’ideologia socialista di Andrea Costa. Partecipa a
manifestazioni contro il governo, viene arrestato nel ’79 e si trova a dover trascorrere alcuni mesi in
carcere, per venire alla fine assolto. L’esperienza è però per lui traumatica e determina il suo definitivo
distacco dalla politica militante.

Si laureò nel 1882 e inizia subito dopo la carriera di insegnante liceale, prima a Matera, poi dal 1884 a
Massa. Qui chiama a vivere con sé le due sorelle, Ida e Mariù, ricostituendo così idealmente quel nido
familiare che i lutti hanno distrutto. Nel 1887, sempre con le sorelle, va ad insegnare a Livorno, dove rimane
fino al ’95.

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Nel 1895 Pascoli prende in affitto una casa a Castelvecchio di Barga, nella campagna lucchese, dove va a
vivere con la sorella Mariù, dopo le nozze di Ida. Sempre nel ’95 ottiene la cattedra di grammatica greca e
latina all’Università di Bologna, poi di letteratura latina all’Università di Messina, dove insegna fino al 1903.

Passa quindi a Pisa e dal 1905 subentra al suo maestro Carducci sulla cattedra di letteratura italiana a
Bologna.

Poetica

• Fra umanitarismo e nazionalismo


L’esperienza del carcere segnò profondamente Pascoli, e in particolare gli fece capire quanto fossero
importanti i valori della concordia tra gli uomini e la solidarietà.

Per questo, quando parliamo della sua ideologia, parliamo di umanitarismo.

A partire invece dal fenomeno dell’emigrazione vediamo nascere in Pascoli l’ideale nazionalistico, tanto che
si schiera a favore dell’intervento coloniale in Africa.

Ciò che portò Pascoli a considerare l’emigrazione come un fattore del tutto negativo, è che essa aveva
come effetto la devastante distruzione del “nido” familiare.

• Una nuova poetica


La poetica di Pascoli si basa principalmente su quanto esposto dal poeta stesso nel saggio “Il fanciullino”, in
cui Pascoli sostiene che dentro ogni uomo è nascosto un fanciullino in grado di provare meraviglia e
stupore e di scoprire, pertanto, i misteri che si nascondono in ogni cosa.

Di questo però è capace solo il poeta. Ed è così che nasce la poetica della meraviglia e dello stupore,
attraverso la quale si può conoscere la realtà vera, quella inaccessibile per via razionale.

Ed è proprio perché solo la poesia (secondo Pascoli) può essere usata come strumento di conoscenza del
mondo, che egli matura una forte sfiducia nella scienza.

Entrambi gli aspetti appena citati, ci portano a collocare Pascoli all’interno di una prospettiva decadente.

Infatti, ad esempio, il ritorno all’infanzia può essere considerato una sorta di tentativo di evasione dalla
realtà presente.

Ma la sua sensibilità decadente la si nota soprattutto da ciò che egli ha in comune con il Simbolismo
francese, ovvero:

la ricerca dei significati nascosti delle cose

l’uso di un linguaggio simbolico e musicale (soprattutto di analogie) per esprimere suddetti significati.

Il suo stile può essere definito impressionistico, perché vuole dare delle impressioni sensoriali immediate
attraverso l’uso di legami di suono tra le parole (il significato grammaticale, quindi, è messo in secondo
piano).

• I temi della poesia di Pascoli


I temi ricorrenti nella sua poesia sono:

- Il ricordo dei cari defunti e l’assassinio del padre, quindi in generale il pensiero della morte.

- L’esaltazione del “nido”, visto come SIMBOLO del mondo chiuso, accogliente e protettivo degli affetti
familiari.

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- la celebrazione della natura (che il poeta riesce a vedere in profondità grazie alla sua sensibilità da
fanciullino).

- il significato simbolico e misterioso attribuito ad alcuni elementi del paesaggio

- il senso di angoscia e smarrimento di fronte all’immensità del cosmo

- l’affrontare temi esistenziali riprendendo i miti del mondo classico

• L’innovazione stilistica
Linguaggio analogico e allusivo

il linguaggio analogico in Pascoli si basa analogie tra le cose che creano legami tra realtà anche
profondamente diverse e lontane. in questo modo è possibile scoprire legami nascosti, e quindi parliamo di
potenza allusiva del linguaggio.

o I simboli
le parole spesso assumono un significato simbolico, cioè creano un nesso tra il simbolo e la realtà
simboleggiata.

ad esempio, il “nido” simboleggia la realtà del legame familiare.

o la struttura sintattica
la struttura sintattica è prevalentemente PARATATTICA, cioè costituita solo da frasi principali

o la metrica
pascoli usa versi, strofe e rime propri della tradizione, ma li rende nuovi grazie al variare degli accenti
ritmici, che creano effetti musicali particolari.

questo grazie all’inserimento nei versi di:

- puntini di sospensione

- incisi

- punti fermi

- punti esclamativi e interrogativi

Le pause a volte riescono a conferire alla poesia una certa drammaticità

o Aspetti fonici
fa uso dell’ONOMATOPEA, ovvero il riprodurre il suono di un oggetto o di un’azione tramite una parola che
dal punto di vista semantico non ha significato, ma che descrive il modo in cui il nostro orecchio sente quel
suono (es. “gre di ranelle")

importante è anche il FONOSIMBOLISMO, cioè quel procedimento basato sulle suggestioni provenienti dai
suoni delle parole (scelte più per il loro valore fonico che semantico).

o il plurilinguismo
si parla di “Plurilinguismo Pascoliano” perché egli usa

sia termini aulici che colloquiali o dialettali;

o anche termini tecnici e scientifici;

o ancora, espressioni straniere.

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Opere

Myricae (raccolta)

È una raccolta dei primi componimenti scritti dal 1890. Sono 156 liriche ispirate alla cultura classica.
Mirycae è il nome latino di un arbusto: le tamerici. Nella quarta ecloga di Virgilio (bucoliche) c’è una frase
importante che Virgilio rivolge alle muse «Non omnis arbusta iuvant humilsque mirycae» nella prefazione
dell’Eneide (trad.: Non a tutti giovano gli arbusti e le umili tamerici). Il senso risiede nella volontà di Virgilio
di discorrere dei grandi temi ed argomenti senza affidarsi alle quotidiane sottigliezze.

Pascoli, invece, ribalta il significato poiché l’obbiettivo è parlare di cose semplici e umili, che facciano parte
dell’uomo ordinario.

I Temi:

• Rapporto con i Classici; mentre il mondo classico tendeva a comunicare grandi contenuti con
l’apologia e l’esaltazione degli eroi, Pascoli esalta l’importanza delle piccole cose

• La Natura; è intesa sia come paesaggio che come simbolo. Essa non è solo sfondo della vita del
poeta ma per la prima volta viene colta nella sua accezione lavorativa.

• Il nido familiare; inaugura tale tema nella lirica X Agosto. Nucleo tematico della produzione
Pascoliana è il tema del «nido» familiare, che si eleva a vero contrassegno della sua poetica.

• Lutto e morte; L’autore non riesce a elaborare e superare il lutto e il grande dolore per la perdita
del padre e dei suoi familiari.

• Tema della fratellanza; La solidarietà intesa come comunanza con gli altri uomini, la condivisione
delle tendenze comuni.
Lavandare (da Myricae)
Testo Parafrasi
Nel campo mezzo grigio e mezzo nero In mezzo al (Nel) campo per metà grigio e per metà nero
resta un aratro senza buoi, che pare (mezzo grigio e mezzo nero: mezzo arato e mezzo no - la
dimenticato, tra il vapor leggero. metà grigia è quella non ancora arata, mentre la metà
nera è quella in cui la terra è stata rivoltata dall’aratro e
seminata) giace (resta) un aratro abbandonato (aratro
senza buoi) che sembra (che pare) abbandonato
(dimenticato), in una nebbia leggera (vapor).

E cadenzato dalla gora viene Dal fossato (gora – termine tecnico) giunge (viene)
lo sciabordare delle lavandare ritmato (cadenzato) lo sciabordio (lo sciabordare -
con tonfi spessi e lunghe cantilene: onomatopea) delle lavandaie (lavandare) con frequenti
(spessi) colpi (tonfi - onomatopea) e lenti (lunghe) canti
monotoni (lunghe cantilene – spessi-tonfi/lunghe-
cantilene: chiasmo):

il vento soffia e nevica la frasca, il vento soffia e fa cadere come neve (nevica – il verbo
e tu non torni ancora al tuo paese! nevicare è usato transitivamente) le foglie (la frasca –
quando partisti, come son rimasta! vento-soffia/nevica- frasca: chiasmo) e tu [la persona
come l'aratro in mezzo al maggese. amata] non torni ancora al tuo paese! Quando sei
partito come sono rimasta (sola)! [abbandonata] come
l’aratro (come l'aratro - similitudine) in mezzo al campo
incolto (maggese - campo lavorato in maggio e lasciato
poi a riposo perché possa tornare ad essere fertile).
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Riassunto

Il poeta passeggia in campagna in una giornata d’autunno. Il paesaggio è avvolto in una nebbiolina che sale
leggera dal terreno e Pascoli scorge nel mezzo di un campo, arato a metà, un aratro abbandonato. Da un
fosso arriva il canto triste e lento delle lavandaie al lavoro. Il canto racconta di un’innamorata rimasta sola,
in attesa che l’amato ritorni, ella si sente triste e malinconica come l’aratro abbandonato in mezzo al
campo.

Analisi del testo della poesia:

La poesia “Lavandare” è un esempio di impressionismo pascoliano in quanto il poeta come in un quadro


rappresenta, accostandoli, gli elementi che compongono la descrizione: Il campo arato a metà con un
aratro abbandonato nel mezzo, il canto triste delle lavandaie ed il malinconico e spoglio paesaggio della
campagna autunnale.

Si distinguono diverse aree sensoriali:

La prima strofa è tutta giocata sui colori e prevalgono le sensazioni visive: l’aratro abbandonato, il campo
mezzo nero e mezzo grigio, la nebbiolina creano un’immagine pittorica a impressionismo visivo;

nella seconda strofa prevalgono invece le sensazioni uditive, parte onomatopeica: rumore sordo dei panni
battuti nell’acqua e il canto triste delle donne ha impressionismo uditivo

nella quartina conclusiva, contenente le parole della canzone cantata dalle lavandaie, entrambi i sensi
partecipano: le sensazioni uditive del soffiare del vento (il vento soffia) e visive del cadere delle foglie
(nevica la frasca) e dell’aratro abbandonato (l'aratro in mezzo al maggese) fanno da contorno all’emergere,
nei due versi centrali, della verità esistenziale della dolorosa solitudine dell’uomo ha componente
simbolistica.

Tematica

I temi principali sviluppati da questo breve componimento poetico sono quelli dell’abbandono e della
solitudine. Pascoli si serve degli aspetti della natura e delle cose in maniera emblematica, simbolista, per
creare corrispondenze che conducono ad un’immagine desolata che trova il suo corrispettivo nello stato
d’animo del poeta colmo di malinconia e di smarrimento.

L’immagine dell’aratro in mezzo al campo apre e chiude il componimento, dandogli una struttura circolare.
Il campo arato solo a metà suggerisce un senso di incompletezza e l’aratro anticipa la sensazione di
abbandono. Questi aspetti oggettivi della vita contadina diventano simbolo della solitudine dell’uomo.

Il canto delle lavandaie, riportato nella quartina finale (vv.7-10), è la trascrizione quasi alla lettera di due
canti popolari marchigiani. Nonostante ciò, possa indurre, unitamente alla rappresentazione oggettiva della
realtà delle prime due strofe, a dare una connotazione di tipo impressionistico-verista alla poesia in quanto
rappresenta il tipico “documento umano”, caro ai veristi, in realtà l’interpretazione conclusiva è di tipo
simbolista: emerge il destino di solitudine e di abbandono proprio della condizione umana.

Figure retoriche

Enjambement:

vv.2/3 pare /dimenticato;

vv.4/5 viene / lo sciabordare.

Chiasmi:
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v.6 con tonfi spessi e lunghe cantilene - sostantivo-aggettivo/aggettivo-sostantivo;

v. 7 vento soffia e nevica la frasca - sostantivo-verbo/verbo-sostantivo.

Sinestesia v.6 tonfi spessi.

Allitterazioni

in r - nero, aratro, pare, vapor leggero, gora, sciabordare, lavandare, torni ancora, rimasta, aratro;

in f, tonfi, soffia, frasca;

in s e sc, spessi, soffia, sciabordare;

in t, tu non torni, al tuo, partisti, rimasta;

in m, in mezzo alla maggese.

Onomatopee contribuiscono fonicamente a produrre la sensazione della nebbia, del suono dell’acqua (es.:
sciabordare, tonfi) e del rumore del vento (es.: soffia).

Similitudine vv.9/10 son rimasta! / come l'aratro in mezzo al maggese

Metafora v. 7 nevica la frasca immagine che evoca il cadere delle foglie come fiocchi di neve.2

X Agosto (da Myricae)


Testo Parafrasi
San Lorenzo, Io lo so perché tanto San Lorenzo, io so il motivo per cui così tante stele
di stelle per l’aria tranquilla brillano e cadono nell’aria tranquilla, il motivo per cui
arde e cade, perché sì gran pianto nel cielo concavo risplende un pianto così grande.
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto: Una rondine stava ritornando al tetto, quando la
l’uccisero: cadde tra spini: uccisero e cadde tra le spine dei rovi. Nel becco aveva
ella aveva nel becco un insetto: un insetto, che era la cena dei suoi rondinini.
la cena dei suoi rondinini.

Ora è là come in croce, che tende Ora è lì come in croce, che porge quel verme al cielo
quel verme a quel cielo lontano; lontano e i suoi piccoli sono nell’ombra, che la
e il suo nido è nell’ombra, che attende, aspettano e pigolano sempre più piano.
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido: Anche un uomo stava tornando al suo nido, quando lo
l’uccisero: disse: Perdono; uccisero. Prima di morire disse: «Perdono». Negli occhi
e restò negli aperti occhi un grido aperti restò un grido. Portava in dono due bambole.
portava due bambole in dono…

Ora là, nella casa romita, Ora là, nella casa solitaria, la sua famiglia lo aspetta
lo aspettano, aspettano in vano: inutilmente. Egli immobile e stupito mostra le bambole
egli immobile, attonito, addita a Dio.
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi E tu, Cielo infinito e immortale, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale, sereni, inondi di un pianto di stelle questo atomo opaco
oh! d’un pianto di stelle lo inondi del Male!
quest’atomo opaco del Male!

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Tematica

Rappresenta la principale poesia in cui rievoca la tragedia familiare scoppiata in seguito all’uccisione del
padre avvenuta proprio il 10 agosto del 1867, nella notte di San Lorenzo

Siamo a un anno dall’uccisione del padre e Pascoli contempla il cielo nel suo luccichio di stelle cadenti le
quali a parere dello stesso corrispondono a un pianto del cielo per l’uccisione del padre. Al centro della
poesia vi è l’accostamento della famiglia di Pascoli con una famiglia di rondini. Pascoli descrive così un
parallelismo fra una rondine uccisa mentre porta il cibo al nido e il padre del poeta assassinato mentre
tornava a casa. La rondine rimane tra gli spini senza vita come in croce accostando così le vittime (rondine e
padre) al sacrificio di Cristo. Nel frattempo, il nido con i rondinini si avvia alla fine data la mancanza della
rondine unica fonte di sostentamento. Analogamente anche un uomo sta tornando a casa ma viene ucciso
rimanendo con gli occhi sbarrati con in mano due bambole da portare in dono ai suoi figlioletti. Nella casa
ormai desolata tutti lo aspettano invano mentre l’uomo come la rondine rimane esposto al cielo il quale
ignora di quanto male pervada la terra.

Figure Retoriche

Apostrofe: San Lorenzo (v. 1) = il poeta si rivolge al santo celebrato il 10 agosto, anniversario dell'assassinio
del padre.

Enjambement: - tanto/di stelle (v. 1-2) - tende/quel verme (vv. 9-10) - addita/le bambole (vv. 19-20) -
mondi/sereni (vv. 21-22) - inondi/quest'atomo (vv. 23-24)

Sineddoche: al tetto (v. 5) = invece di dire al suo nido.

Allitterazioni: - vv. 1-2, v. 5, v. 12, v. 19, v. 24

Personificazioni: - Cielo e Male (vv. 21; 24)

Anastrofe: ritornava una rondine al tetto = il soggetto inserito dopo il verbo (v. 5)

Similitudini: - come in croce

Metonimia - il suo nido che pigola (v. 11) - al suo nido (v. 13)

Metafore: - perché si gran pianto = le stelle che cadono diventano il simbolo del pianto (v. 3) - d'un pianto
di stelle (v. 23) - quest'atomo opaco del Male (v.24) = indica la Terra.

Sinestesie: - restò negli aperti occhi un grido (v. 15)

Anafora: - Ora è là (vv. 9 e 17) = evidenziano il parallelo tra le due morti, quella della rondine e quella del
padre.

Temporale (da Myricae)


Testo Parafrasi
Un bubbolìo lontano… Si sente in lontananza un brontolio. In direzione del
mare l’orizzonte si colora di rosso, come se fosse
Rosseggia l’orizzonte, infuocato. Verso il monte il cielo è nero come la pece. Ci
come affocato, a mare: sono degli stralci di nuvole chiare. In mezzo al nero si
nero di pece, a monte, vede un casolare, che sembra l’ala di un gabbiano.
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un’ala di gabbiano.

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Riassunto

La poesia descrive un paesaggio su cui incombe un imminente temporale. All'orizzonte il cielo sta
tramontando, quindi è tutto rosso, ma di spalle, sul monte, tutto appare nero e cupo. In mezzo al nero del
cielo e del monte, si intravede un casolare. Con una metafora piuttosto ardita, il poeta ci dice anche che
l'immagine del casolare in mezzo al nero gli fa pensare a quella dell'ala di un gabbiano, presumibilmente
mentre vola (altrimenti l'ala, in sé, non è così visibile e importante perché appiattita sul corpo).

Figure retoriche

Bubbulìo: onomatopea. Comunica una sensazione di tristezza.

Allitterazione: segnata dal colore rosso. Comunica la sensazione di prolungamento del temporale.

Similitudine: “Rosseggia l’orizzonte come affocato, a mare”. Comunica sensazione di un paesaggio caldo.

Metafora: “nero di pece” e “stracci di nubi”. La prima comunica una sensazione di buio e la seconda di
tristezza.

Analogia: casolare/ala di gabbiano. Vi è il linguaggio analogico: "tra il nero un casolare: un'ala di gabbiano".
In pratica, sono accostate tra loro in modo impensato e sorprendente due realtà tra loro remote,
eliminando tutti i passaggi logici intermedi. Tra il casolare e l'ala di gabbiano vi è un rapporto di somiglianza
dovuto al colore bianco, e al fatto che entrambi si stagliano sul cielo.

Linguaggio analogico (analogia e simbolismo)

Il lampo (da Myricae)


Testo Parafrasi
E cielo e terra si mostrò qual era: E il cielo e la terra apparvero come erano:
la terra ansante, livida, in sussulto; la terra affannata, buia, in agitazione;
il cielo ingombro, tragico, disfatto: il cielo occupato dalle nuvole, cupo, a pezzi:
bianca bianca nel tacito tumulto nel silenzioso tumulto una casa bianchissima
una casa apparì sparì d’un tratto; apparve all’improvviso e subito scomparve;
come un occhio, che, largo, esterrefatto, come un occhio che, grande, stupito,
s’aprì si chiuse, nella notte nera. si aprì e si chiuse, nella notte buia.
Analisi

Il titolo è parte integrante del testo poetico, poiché ne esplicita l’oggetto.

La poesia si apre con l’immagine di sofferenza, agitazione, oscurità che riguarda cielo e terra. Nello
sconvolgimento dovuto all’arrivo del temporale, improvvisamente appare agli occhi dell’io poetico una casa
bianca, che contrasta con il nero d’intorno e scompare subito dopo, con la rapidità di un occhio che si apre,
si dilata e si chiude.

Come in molti altri testi di Pascoli anche in Il lampo, la rappresentazione del reale nasconde un significato
simbolico, poiché filtrata dalle impressioni soggettive.

Il lampo può rappresentare la ragione che, per un attimo, mostra il male connaturato al mondo.

La casa bianca che appare all’improvviso può rappresentare il “nido”, il rifugio protettivo, che si oppone alla
sofferenza che sta fuori.

L’occhio dei versi finali può legarsi al lampo, da cui scaturisce l’immagine del paesaggio: se il lampo è
l’illuminazione della ragione, l’occhio è ciò che osserva, «stupito», il male del mondo e poi si richiude per
non vederlo più.

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Figure Retoriche

La figura del climax è presente al v. 2 (ansante, livida, in sussulto), al v. 3 (ingombro, tragico, disfatto) e al v.
6 (largo, esterrefatto).

Al v. 4 bianca bianca è una ripetizione del termine che ne rafforza il significato, mentre tacito tumulto è un
ossimoro con allitterazione del suono /t/.

Al v. 5 si ha una antitesi apparì sparì (che è anche una paronomasia), figura che ritroviamo anche al v. 7 con
s’aprì si chiuse.

Ai vv. 6-7 è presente un enjambement (come un occhio, che, largo, esterrefatto / s’apri); i due versi sono al
tempo stesso una similitudine.

Nel verso finale troviamo l’allitterazione dei suoni /n/ ed /e/ (nella notte nera).

Il tuono (da Myricae)


Testo Parafrasi
E nella notte nera come il nulla, E nella notte nera come il nulla,
a un tratto, col fragor d’arduo dirupo all’improvviso, con il fragore di una rupe
che frana, il tuono rimbombò di schianto: scoscesa che frana, il tuono rimbombò di colpo:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo, rimbombò, riecheggiò a tratti, rotolò cupamente,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto, e tacque, e poi risuonò come fa l’onda che rifluisce dopo
e poi vanì. Soave allora un canto essersi infranta sugli scogli,
s’udì di madre, e il moto di una culla. e poi svanì. Allora si udì il canto
di una madre, e il movimento di una culla.

Analisi

Il tuono e Il lampo, poste una dopo l’altra nella raccolta, descrivono due momenti contigui: all’apparizione
del lampo, segue il fragore improvviso del tuono. Il legame tra i due testi è esplicitato anche dalla ripresa, a
incipit de Il tuono, del sintagma «nella notte nera» presente nel verso di chiusura de Il lampo.

A differenza della poesia che la precede, però, Il tuono ha una conclusione consolatoria e protettiva, poiché
gli ultimi due versi presentano l’immagine della madre che canta una ninna nanna al bambino in culla. Se la
«casa» (v. 5) de Il lampo rappresentava il “nido”, il rifugio protettivo, che però appariva e spariva subito
dopo, qui l’immagine della madre e del bambino suggerisce una quiete più duratura.

Un’altra differenza che si rintraccia tra le due poesie è che Il lampo è costruita su una serie di impressioni
visive, mentre ne Il tuono prevalgono quelle uditive, come dimostrano i termini onomatopeici utilizzati:
«fragor» (v. 2), «rimbombò» (vv. 2-3), «rimbalzò», «rotolò cupo» (v. 3), «rimareggiò rinfranto» (v. 4).

Figure Retoriche

Per quanto riguarda le figure retoriche, frequente è l’allitterazione: quella della /n/ al v. 1 («nella notte nera
come il nulla»), della /r/ al v. 2 («a un tratto, col fragor d’arduo dirupo») e al v. 4 («rimbombò, rimbalzò,
rotolò»).

Al v. 1 troviamo anche una similitudine: il colore nero, riferito alla notte, viene paragonato al vuoto
assoluto. Il «nulla» del primo verso rima con la «culla» del verso finale, a simboleggiare che l’angoscia del
vuoto ha lasciato spazio alla serenità del nido.

Al v. 4 troviamo la figura dell’enumerazione per asindeto, che raggruppa una serie di parole come un elenco
(«rimbombò, rimbalzò, rotolò») e, in questo caso, velocizza il ritmo della poesia.
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Sempre al v. 4 possiamo notare la presenza della figura dell’onomatopea (rimbombò) e di quella della
sinestesia («rimbombò, rimbalzò, rotolò»; sono associate infatti la sensazione uditiva e quella visiva).

L’enumerazione, stavolta per polisindeto, la troviamo anche ai vv. 5-6 («e tacque, e poi rimareggiò
rinfranto, / e poi vanì»), dove si rintraccia anche un anticlimax, come dimostrano i termini posti dal poeta in
ordine decrescente di intensità: questo non solo segna lo svanire del tuono, ma anche il passaggio
dall’atmosfera negativa e angosciosa a quella positiva e rassicurante del finale.

Temporale, Lampo, Tuono

Il nido minacciato
Il motivo centrale delle liriche è la contrapposizione tra la natura minacciosa e il nido-casa.
- Temporale: tra le nuvole minacciose si intravede un casolare, un luogo in cui rifugiarsi;
- Lampo: una casa appare bianchissima allo sprigionarsi della luce, per poi scomparire nel buio;
- Tuono: si chiude con il canto di una madre, china a confrontare il bambino spaventato.

Il procedimento analogico
La tecnica usata da Pascoli accosta i particolari del paesaggio senza legami logici, anche se la struttura regge
sulle contrapposizioni.

- Temporale: al bubbolio del verso iniziale è contrapposta l’ala di gabbiano nell’ultima immagine;
- Lampo: all’immagine della terra e del cielo lividi segue la visione improvvisa della casa bianca, paragonata
a un occhio umano, isolato dal volto, che si apre e chiude impaurito dalla visione del cielo in tempesta;
- Tuono: il rimbombo viene associato all’immagine materna e al movimento di una culla.

L’interpretazione simbolica
Nelle tre liriche il poeta proietta nella natura la sua sensibilità e il suo turbamento interiore; i particolari del
paesaggio sono accostati senza legame logico e il significato dei versi è aperto e affidato al lettore.
- Temporale: nel cielo minaccioso il bianco è simbolo positivo di speranza;
- Lampo: fa riferimento alla tragica morde del padre, il richiamo all’occhio è un’allusione agli ultimi
momenti del padre che vede il bagliore della fucilata;
- Tuono: il nero e il nulla della similitudine creano una forte sospensione ed esprimono la mancanza di ogni
certezza; il nero è simbolo dell’ignoto.

La tecnica impressionistica
- Temporale: il poeta antepone l’aggettivo al sostantivo (nero di pece), dando rilievo all’oscurità;
- Lampo: la tecnica impressionistica vuole rendere l’idea di un ordine interrotto dalla violenza della
tempesta;
- Tuono: inizia con il fragore che rimbomba nell’oscurità. All’impressione visiva della notte e quella uditiva
del tuono si contrappone l’impressione affettiva della madre, che veglia il sonno del bambino.

La trama sonora
- Temporale: l’unica sensazione acustica è l’onomatopea del bubbolio;
- Lampo: sono molto usate le onomatopee, che mimano l’improvvisa rapidità del lampo;
- Tuono: sono centrali le sensazioni uditive, rese da allitterazioni.

Il Fanciullino (saggio)

Il Fanciullino è il più importante saggio di teoria poetica di Giovanni Pascoli. È composto da venti capitoli ed
è stato pubblicato integralmente nel 1907, dopo un’elaborazione durata circa dieci anni. Il nucleo
fondamentale del saggio è contenuto nel titolo: secondo il poeta, infatti, dentro di noi esiste un fanciullino,
un bambino che rimane così com’è anche quando cresciamo e diventiamo adulti. Il fanciullino continua a
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comunicare emozioni e sensazioni con la stessa voce, ma quando cresciamo non lo ascoltiamo, in quanto
siamo impegnati con i problemi che dobbiamo affrontare quotidianamente. Solo il poeta riesce ad ascoltare
la voce del fanciullino, il quale vede tutto come nuovo e meraviglioso e viene affascinato da avventure ed
eroi. Questo bambino che non cresce mai è presente in tutti gli esseri umani e in ognuno di noi ride, sogna,
si meraviglia, prova entusiasmo e curiosità.

Canti di Castelvecchio

Al pari di Myricae, i Canti di Castelvecchio conoscono numerose edizioni. Il legame tra queste due raccolte
non si esaurisce nel carattere di opere in fieri, ma risulta ancora più profondo: lo stesso Pascoli lo pone
idealmente sulla stessa linea, nel momento in cui, nella Prefazione alla prima edizione, definisce i Canti
“myricae”. I canti si chiamano così perché prendono il nome dal luogo dove vengono generati.

Da questa ritrovata serenità, nascono i canti di Castelvecchio che sono ispirati all’ambiente romagnolo. La
natura è la stessa, dal punto di vista paesaggistico è un po’ diversa ma come habitat le caratteristiche sono
le stesse. Il poeta fanciullo è capace di ascoltare, ciò che ritorna nella sua mente è ciò che ha vissuto a San
Mauro durante l’infanzia. Questi componimenti propongono nuovamente al lettore un’immersione tutta
lirica ed emozionale nella campagna. In una misura di versi più ampia e distesa rispetto alle poesie di
Myricae, l’autore si abbandona alla descrizione dei paesaggi di Castelvecchio, che si intreccia e si mescola
continuamente con la rievocazione della realtà romagnola vissuta nell’infanzia.

È la dimensione della memoria, del doloroso passato, dei cari perduti che permea interamente i Canti; la
raffigurazione della natura si carica così delle ansie, delle inquietudini e delle angosce del poeta. Egli ha
tentato di ricostruire un “nido” che potesse sostituirsi a quello della sua infanzia, distrutto tanto
precocemente e atrocemente. Questo bisogno intimamente sentito dall’autore nei versi dei Canti si traduce
in immagini simboliche quali il “nido” o la “siepe”, confine che separa quel mondo chiuso e accogliente, in
cui il poeta si è rifugiato, dalla realtà esterna inquietante e minacciosa; ciò che il poeta ha cercato di creare
intorno a sé è un universo fatto di piccole cose, di affetti sinceri e di emozioni semplici.

Il gelsomino notturno (da Canti di Castelvecchio)


Testo Parafrasi
E s’aprono i fiori notturni, E si aprono, i gelsomini notturni, nell’ora in cui penso ai
nell’ora che penso ai miei cari. miei cari defunti. Le farfalle del crepuscolo sono apparse
Sono apparse in mezzo ai viburni in mezzo ai viburni.
le farfalle crepuscolari.

Da un pezzo si tacquero i gridi: Da un po’ di tempo già è calato il silenzio: solamente là,
là sola una casa bisbiglia. in una casa, si sentono bisbigliare voci umane. Sotto le
Sotto l’ali dormono i nidi, loro ali dormono gli uccellini, così come gli occhi umani
come gli occhi sotto le ciglia. riposano sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esala Dai calici aperti dei gelsomini arriva un profumo che
l’odore di fragole rosse. sembra di fragole rosse. Nel salotto si vede la luce
Splende un lume là nella sala. ancora accesa. L’erba cresce sopra le tombe dei morti.
Nasce l’erba sopra le fosse.

Un’ape tardiva sussurra Un’ape, che è arrivata tardi, si aggira ronzando poiché
trovando già prese le celle. tutte le cellette sono già state occupate. In cielo la
La Chioccetta per l’aia azzurra costellazione delle Pleiadi risplende nel cielo azzurro, in
va col suo pigolio di stelle. un tremolio di stelle (come una Chioccia circondata dal
pigolio dei suoi pulcini).

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Per tutta la notte s’esala Durante tutta la notte si sente il profumo (di gelsomino)
l’odore che passa col vento. che riempie l’aria portato dal vento. La luce nella casa si
Passa il lume su per la scala; accende su per le scale, poi passa al primo piano,
brilla al primo piano: s’è spento... nella camera nuziale, e infine si spegne…

È l’alba: si chiudono i petali Arriva l’alba: i petali dei fiori si chiudono un poco
un poco gualciti; si cova, appassiti, ma dentro l’ovario molle e profondamente
dentro l’urna molle e segreta, nascosto, cresce una sensazione di felicità che non
non so che felicità nuova. conosco.
Analisi

Tutta la poesia ruota attorno a due tematiche opposte ma da sempre legata indissolubilmente: la vita e la
morte. Non mancano riferimenti alla natura, elemento centrale per i simbolisti per cui la stessa appare
impregnata appunto di simboli riconducibili a molteplici aspetti dell’esperienza umana. Inoltre, nel
componimento sono presenti dei cenni al tema della sessualità vista nell’ottica del concepimento di una
nuova vita.

Ma procediamo con ordine.

Nella prima strofa Pascoli parla di fiori notturni, noti anche come belle di notte o gelsomini notturni che
hanno la caratteristica di schiudersi solo al calar del sole ma anche di farfalle crepuscolari, alludendo
simbolicamente all’uomo ed alla donna. Queste immagini, simbolo di vita, vengono però affiancate ad un
altro elemento. Mente lì fuori, di sera, i fiori si schiudono, per il poeta questo è invece il momento della
giornata in cui ripensa ai suoi cari, ormai defunti.

Ecco il primo accostamento tra vita e morte.

Nella seconda strofa viene descritto un paesaggio silente in cui si sente soltanto un suono simile ad un
bisbiglio proveniente da una casa. Il resto tace, ognuno riposa nel proprio nido. Quello del nido, inteso
come luogo sicuro ed al riparo da ogni difficoltà, è un tema ricorrente nella produzione letteraria di Pascoli.

Nella terza e nella quarta strofa viene descritto l’atto sessuale, sempre per mezzo di similitudini ed
analogie, v. 10 “l’odore di fragole rosse” che avviene v.11 “là nella sala”, come a voler sottolineare
l’estraneità del poeta a questo piacere.

Il concepimento nuovamente contrapposto alla morte v.12 “Nasce l’erba sopra le fosse”.

Il componimento si conclude con un’immagine carica di speranza vv. 22, 23, 24 “si cova, dentro l’urna molle
e segreta, non so che felicità nuova.”.

L’urna molle e segreta indica il grembo della moglie che si prepara ad ospitare una nuova vita, fonte di
felicità.

Figure retoriche

Metonimia: non sono i “nidi” (v. 7) a dormire, ma gli uccelli che vi abitano.

Personificazione: “una casa bisbiglia” (v. 6), “un’ape tardiva sussurra” (v. 13).

Sineddoche: “ciglia” al v. 8 è usato per indicare le palpebre.

Sinestesia: “odore di fragole rosse” (v. 10), “pigolìo di stelle” (v. 16).

Metafora: “aia azzurra” (v. 15); “urna” (v. 23).

Analogia: i vv. 15-16 sono costruiti sull’analogia tra la Chioccia con i suoi pulcini pigolanti e la costellazione
delle Pleiadi (il cui nome nella tradizione popolare è, appunto, Chioccetta).
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Similitudine: “come gli occhi sotto le ciglia” (v. 8)

Reticenza: “s’è spento...” (v. 20)

La mia sera (da Canti di Castelvecchio)


Testo Parafrasi
Il giorno fu pieno di lampi; Il giorno è stato pieno di lampi (per un temporale), ma
ma ora verranno le stelle, adesso arriveranno le stelle, le stelle silenziose. Nei
le tacite stelle. Nei campi campi si sente il gracidio delle rane. Le foglie dei pioppi
c’è un breve gre gre di ranelle. tremano, scosse da un vento leggero e sereno. Nel
Le tremule foglie dei pioppi giorno che fulmini, che tuoni! E che pace, la sera!
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!

Si devono aprire le stelle Compariranno le stelle nel cielo così tenero e vitale. Là,
nel cielo sì tenero e vivo. vicino alle allegre ranocchie, un fiume gorgoglia
Là, presso le allegre ranelle, monotono. Di tutto quel tumulto cupo, di tutta quella
singhiozza monotono un rivo. bufera così aspra, non rimane che un dolce singhiozzo in
Di tutto quel cupo tumulto, questa sera umida.
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.

È, quella infinita tempesta, Quella tempesta infinita è finita in un fiume canoro. Dei
finita in un rivo canoro. fulmini fragili non restano che nuvole di porpora e oro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.

O stanco dolore, riposa! O stanco dolore, riposa! La nube che nel giorno era più
La nube nel giorno più nera nera è quella che ora vedo più rosa, in questa sera che
fu quella che vedo più rosa finisce.
nell’ultima sera.

Che voli di rondini intorno! E come volano le rondini qui intorno! Che grida per
che gridi nell’aria serena! l’aria serena! La fame accumulata nel corso del giorno
La fame del povero giorno prolunga la cena gioiosa degli uccelli. I pulcini nel nido,
prolunga la garrula cena. nel corso del giorno, non hanno potuto avere intera la
La parte, sì piccola, i nidi propria razione idi cibo. E neppure io... E che voli, che
nel giorno non l’ebbero intera. gridi, mia limpida sera!
Nè io... e che voli, che gridi,
mia limpida sera!

Don... Don... E mi dicono, Dormi! Don... Don... (Rintoccano le campane) E voci di tenebra
mi cantano, Dormi! sussurrano, azzurra mi dicono: dormi! Mi cantano: dormi!
Dormi! bisbigliano, Dormi! Sussurrano: dormi! Bisbigliano: dormi! Mi sembrano
là, voci di tenebra azzurra... canti di culla, che mi fanno tornare com’ero... Sentivo
Mi sembrano canti di culla, mia madre... poi più nulla... sul far della sera.
che fanno ch’io torni com’era...
sentivo mia madre... poi nulla...
sul far della sera.
Analisi

Come già detto, La mia sera è costruita su un’analogia: la serenità del paesaggio di campagna serale, dopo
una giornata di tempesta, è specchio dell’animo del poeta. Questi due nuclei tematici (natura vs poeta)
polarizzano il componimento, che progressivamente si sposta dall’osservazione della natura alla riflessione
personale.
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Il paesaggio circostante è caratterizzato da una quiete resa ancor più evidente dal contrasto con il giorno.
Questo contrasto, a livello semantico, è reso dalle continue coppie antitetiche: “scoppi” /"pace", “cupo
tumulto”/"dolce singulto", “fulmini”/ “cirri”, le nubi prima nere e poi rosa...

Non solo: il temporale del giorno è strumento fondamentale perché la quiete stessa possa esistere. Sotto
questo aspetto, la poesia richiama un altro componimento: La quiete dopo la tempesta di Giacomo
Leopardi.

Entrambe le poesie partono dallo stesso evento fisico per spostarsi poi su un piano ragionativo, di
astrazione spirituale, ma se la riflessione di Leopardi culmina in una legge universale (sintetizzabile in
“piacer figlio d’affanno”), l’approdo di Pascoli sfocia in discorso personale.

La quiete della sera, infatti, rievoca le ninne nanne della madre nella culla. La vita del poeta, vissuta come
travaglio fin dall’infanzia (segnata dalla morte del padre, al centro della poesia X agosto), sarà riassorbita
nel nido originario, nel sonno della morte.

Figure retoriche

Onomatopea: l’osservazione della natura da cui prende le mosse il componimento è sottolineata


dall’utilizzo di onomatopee (es. “gre gre” e “Don... Don...”).

Antitesi: come accennato, la quiete della sera appare grazie alla contrapposizione con il tormento del
giorno, realizzata tramite l’accostamento di termini come “scoppi” /"pace", “cupo tumulto”/"dolce
singulto". Un’antitesi evidente è anche quella presente ai vv. 17-18: “infinita tempesta / finita”.

Personificazione: “singhiozza monotono un rivo”.

Climax discendente: “cantano”, “sussurrano”, “bisbigliano”.

Sinestesia: “voci di tenebra”.

Ossimoro: “fulmini fragili”, “tenebra azzurra”.

Apostrofe: “O stanco dolore, riposa”, “mia limpida sera”.

Reticenza: dal penultimo verso della penultima strofa e per tutti i successivi la poesia è caratterizzato da un
sempre crescente uso dei puntini di sospensione, che rafforzano con inquietudine ipnotica l’immagine
finale del sonno (e, in ultimo, del sonno come metafora della morte).

Sineddoche: “nidi”.

Metafora: l’invito al sonno finale è metafora della morte.

Anastrofe: “è quella infinita tempesta / finita in un rivo canoro”, “la parte, sì piccola, i nidi / nel giorno non
l’ebbero intera”

o Italy

o la grande proletaria si è mossa

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Modulo 4
La poesia italiana dei primi del Novecento (Sintesi p. 397)
• Il crepuscolarismo
Il Crepuscolarismo fu una corrente poetica attiva tra il 1903 e il 1911, principalmente a Roma e a Torino.
L’origine del termine si deve al critico Borgese, che intendeva definire il declino (“crepuscolo”) della poesia
ottocentesca incarnata da Carducci e D’Annunzio. La sensibilità crepuscolare si ispirava al Simbolismo
francese (soprattutto alla poesia malinconica e intimistica di Verlaine), alla poesia delle “piccole cose” di
Pascoli e all’estenuata sensualità decadente del Poema paradisiaco di D’Annunzio. Da questi modelli
discende un sentimento di crisi dei valori in un mondo ormai dominato dalla massificazione della cultura, e
la perdita di centralità del ruolo del poeta, che si traduce in atteggiamenti isolati e appartati e in accenti
ironici nei confronti della società borghese. I maggiori esponenti della poesia crepuscolare sono Corazzini,
Gozzano, Moretti e Palazzeschi. Tra gli elementi centrali del Crepuscolarismo si possono citare: i temi
quotidiani e dimessi, legati alle piccole cose familiari (le «buone cose di pessimo gusto» di Gozzano); i toni
sommessi e distaccati, ma venati da una continua ironia; un lessico comune e quotidiano, impreziosito però
da termini aulici e da citazioni della tradizione poetica italiana e straniera; una sintassi lineare e
prevalentemente paratattica, che crea un ritmo cadenzato simile alla prosa; l’uso prevalente
dell’endecasillabo e, in misura minore, del settenario e del novenario. Il più precoce fra i poeti crepuscolari
fu Sergio Corazzini, sia per la sua giovane età (morì a ventuno anni), sia perché le sue raccolte furono le
prime a essere conosciute. Corazzini attenua e smorza il suo senso tragico della vita entro un’atmosfera di
stanchezza e di abbandono. Molti dei suoi motivi e scenari (desolati pomeriggi domenicali, vie senza luci e
colori) furono poi ripresi da Moretti. Guido Gozzano espresse la consapevolezza del ruolo ormai periferico
del poeta attraverso il distacco ironico, affiancando toni “bassi” e quotidiani a parole preziose e
arcaicizzanti, specchio del contrasto tra un passato nobile e un presente grigio e anonimo. La vena ironica
caratterizza anche la produzione poetica di Marino Moretti, in cui però, rispetto a Gozzano, prevale una
visione amara della realtà che ne rivela il vuoto e l’assenza di valori. Il linguaggio è prosastico e dimesso,
quasi a significare che la poesia è ormai diventata un’occupazione inutile e oziosa. Meno lineare fu l’opera
di Aldo Palazzeschi, che dapprima condivise temi e forme dei crepuscolari e in seguito aderì al Futurismo,
per poi allontanarsene nel 1914. Palazzeschi mantenne sempre uno stile personalissimo, arguto e bizzarro,
al di là della corrente di appartenenza.

• “La Voce”
Importante fu anche l’esperienza dei “vociani”, poeti legati all’ambiente della rivista “La Voce” nella fase in
cui fu diretta da Giuseppe De Robertis: Pietro Jahier, Clemente Rebora, Arturo Onofri, Dino Campana,
Camillo Sbarbaro. Questa tendenza portò al recupero della “poesia pura” e del frammento inteso come
breve e fulminea illuminazione della realtà interiore. La produzione di Rebora fu influenzata dalla
drammatica esperienza della guerra, resa nelle sue liriche con un espressionismo crudo e violento. L’opera
più nota di Campana, i Canti orfici, è formata da testi in prosa e in poesia, composti sul modello dei
simbolisti, soprattutto Rimbaud. Testo di grande modernità, è caratterizzato da una sorta di simbolismo
evocativo e da uno stile che lo avvicina all’Espressionismo. Altra figura singolare fu Camillo Sbarbaro. La sua
poesia, frutto dello scavo interiore e dell’autoanalisi, tratta «i motivi più alti della letteratura novecentesca:
la solitudine dell’uomo, l’estraneità dal mondo, l’angoscia, la rassegnazione disperata» (G. Petronio).

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Le Avanguardie (Sintesi p. 483)


• Un fenomeno di rottura
I movimenti d’avanguardia, attivi in Europa dai primi del ’900 alla metà degli anni Venti circa, ebbero alcuni
caratteri comuni: la critica alla società borghese; la critica radicale ai tradizionali codici artistici e la
conseguente ricerca di nuove forme espressive; la diffusione di enunciati di poetica attraverso i “manifesti”;
la contaminazione fra le diverse arti. Fra le correnti d’avanguardia, le più rilevanti in ambito letterario
furono l’Espressionismo, il Futurismo, il Dadaismo e il Surrealismo.

• L’Espressionismo
Alla base della poetica dell’Espressionismo, un movimento nato in Germania agli inizi del Novecento, vi è la
soggettività nella rappresentazione del reale, che si traduce (soprattutto in pittura) nella deformazione,
nell’astrazione e nella negazione della figura. In letteratura si manifesta la rottura dei principali elementi
comunicativi: lessico, sintassi, metrica e schemi narrativi.

• Il Futurismo
Il Futurismo nacque nel 1909 con il Manifesto del Futurismo scritto da Marinetti. Alla base di questo
movimento vi è la volontà di rompere radicalmente con i modelli del passato e di contestare apertamente il
perbenismo della società borghese. La poetica futurista, infatti, si diffuse non solo attraverso vari manifesti
programmatici, ma anche con spettacolari serate nei teatri (le “serate futuriste”), polemiche e
provocazioni, che avevano l’obiettivo di far conoscere il programma culturale del gruppo; importante fu
anche il ruolo della rivista “Lacerba” che, per circa due anni, fu di fatto l’organo ufficiale del movimento. La
letteratura futurista si proponeva di sovvertire sia i contenuti sia le forme tradizionali, attraverso nuovi temi
(esaltazione delle macchine e della velocità, celebrazione della guerra e del vitalismo, rifiuto della
dimensione intima e soggettiva, attenzione per l’intuizione) e nuove soluzioni stilistiche (distruzione della
sintassi, abolizione della punteggiatura, uso del verso libero, linguaggio analogico secondo il principio delle
«parole in libertà», uso delle onomatopee, sconvolgimento dell’aspetto grafico della pagina). I principali
autori futuristi furono gli italiani Marinetti, Palazzeschi e Govoni e il russo Majakovskij. Mentre i primi erano
interessati soprattutto allo sconvolgimento stilistico e grafico (poesia visiva) e alla sperimentazione
linguistica, quella di Majakovskij fu una poesia antilirica, che si proponeva soprattutto di scuotere le masse
in favore dell’ideologia rivoluzionaria. Legato in parte al Futurismo, ma sensibile anche alle proposte di altre
avanguardie artistiche, specie pittoriche (Cubismo, pittura metafisica), fu il poeta francese Guillaume
Apollinaire. Il vertice della sua ricerca formale è rappresentato dalla raccolta Calligrammi (1918), in cui le
poesie sono disposte sulla pagina in modo da formare immagini evocative dei contenuti del testo.

o Vedi Manifesto del Futurismo (p. 466)


• Il Dadaismo
La poetica del Dadaismo, elaborata a Zurigo e poi a Parigi da Tristan Tzara, esasperava il rifiuto di ogni
convenzione artistica in nome della spontaneità assoluta e dell’anarchia espressiva, con la distruzione delle
basi stesse del linguaggio, del lessico e della sintassi, fino ad arrivare al nonsense e agli estremi dei collages
verbali, composti di accostamenti liberi e casuali delle parole.

• Il Surrealismo
Molte delle idee enunciate da Tristan Tzara furono alla base del Surrealismo, teorizzato da André Breton.
Anche il Surrealismo prendeva le mosse dal rifiuto della tradizione, ma, diversamente dal Dadaismo, non fu
solo mera negazione, ma anche proposta di una nuova forma d’arte, che potesse liberare l’immaginazione,
la fantasia e i desideri più profondi, racchiusi nell’inconscio. La scrittura automatica fu considerata il
metodo più efficace per raggiungere questo obiettivo.
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Italo Svevo (p. 488)


• La vita
Nasce a Trieste nel 1861 da una famiglia borghese, il padre, un imprenditore che lavora in un'azienda di
vetrami, cerca di fornire ai figli un'educazione commerciale consentendogli di studiare lingue e mandandoli
in Germania, paese molto più sviluppato dell'Italia a livello scolastico. La Trieste di fine 800 è una realtà
molto distaccata dal resto dell'Italia, infatti è una città di porto, molto orientata verso l'est Europa. Il nome
Italo Svevo, in realtà è uno pseudonimo, il suo vero nome è infatti è Ettore Smithz. Terminati gli studi Svevo
inizia a lavorare in banca, in una filiale della banca di Vienna, dove resterà per vent'anni (infatti la ditta del
padre aveva avuto un crack economico ed era fallita). Tutte le sue conoscenze letterarie sono frutto di studi
personali eseguiti da autodidatta nel tempo libero, egli approfondisce i classici italiani, soprattutto
Carducci, legge i testi dei naturalisti francesi, e, sapendo il tedesco, analizza molte tragedie di Smiller e dei
romantici tedeschi. Inizia a comporre per diletto, non pubblicando però niente fino al 1892, anno in cui dà
alle stampe “una vita”, romanzo che però fu totale fallimento sia a livello di critica che di pubblico. Nel 1896
si sposa, abbandona la banca, e, nel 1899 inizia a lavorare nella ditta del suocero (una ditta di vernici
sottomarine) dove fa tantissima esperienza commerciale. Nel 1898 scrive “Senilità”, che però si rivela un
altro flop. Decide per questo di smettere di scrivere e dedicarsi solo al lavoro. In questi anni continua a
leggere, approfondisce la sua conoscenza dei romanzieri russi, dei filosofi i quali Schopenhauer e Nietzsche,
e nel 1908 si avvicina alla psicoanalisi di Freud, che sperimenta anche su di sé. Questa la porta a
considerare la malattia dell'uomo come strettamente legata alla condizione della vita moderna: Svevo
pensa che la società si divida in due categorie: i sani e i malati. Nel 1923 decide di tornare a scrivere e
pubblica “la coscienza di Zeno”, che però all'inizio, similmente ai libri precedenti, si rivelerà un fallimento.
Dopo tre anni, però, la critica inizia ad elogiarlo, grazie a molti articoli fatti da Montale e Joyce. Svevo inizia
quindi ad essere apprezzato non solo in Italia, ma in tutta Europa. Nel 1927 decide di pubblicare, dopo una
revisione stilistica, “senilità”, che questa volta gli darà un discreto successo. Nel 1928 muore in un incidente
automobilistico.

• La poetica
Nell’impostazione strutturale, i primi romanzi e, in particolare, Una vita, restano legati a modelli di matrice
realista e naturalista sulla scia di Balzac, Flaubert, Zola; l’ambiente in cui operano i personaggi è indagato
con precisione e realismo. L’indagine sociale riveste un ruolo predominante in Una vita, dove si avverte
l’influsso delle teorie darwiniane; Senilità si concentra, invece, principalmente sullo scavo della psiche,
condotto soprattutto alla luce della filosofia di Schopenhauer. Per quanto riguarda le tecniche narrative, nei
primi due romanzi il racconto si svolge in terza persona e la struttura è costruita tradizionalmente secondo
l’ordine cronologico degli eventi. La Coscienza di Zeno, invece, scardina l’impianto narrativo del romanzo
ottocentesco:

o il racconto è scritto in prima persona e la narrazione esprime il punto di vista interno alla coscienza
del protagonista;
o il narratore non è onnisciente, ma segue le vicende nel loro evolversi e le scopre insieme al lettore;
o l’io narrante (Zeno che scrive a 57 anni) è distinto dall’io narrato (Zeno durante la giovinezza e la
maturità): il narratore guarda al proprio passato con ironia e disincanto e svela le vere motivazioni
che hanno guidato il suo modo di agire, le sue meschinità e le sue ipocrisie, come se parlasse di un
altro;
o vi è una continua mescolanza di passato e presente la quale annulla l’ordine cronologico dei fatti.
Secondo Svevo, il tempo della coscienza è un tempo misto, in cui non esiste un prima e un dopo.
Ricorre spesso l’analessi che determina repentini cambi di tempo e di luogo.

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Per quanto riguarda lo stile, Svevo si esprime in una lingua non letteraria, ma anche per questo molto
espressiva. La sintassi è spezzata, il linguaggio è spontaneo e privo di formalismi; non mancano spunti
ironici.

• Le opere
Una Vita (p. 495)

Il primo romanzo di Italo Svevo, Una vita, fu pubblicato nel 1892, a spese dell’autore e in sole mille copie,
dall’editore Vram di Trieste. L’opera, in cui si trova riflessa l’avvilente esperienza autobiografica della
monotona routine impiegatizia, fu ignorata dalla critica ufficiale. La vicenda è ambientata nella società
borghese triestina e presenta i tratti tipici del romanzo realista e naturalista per il rigore con cui sono
descritti ambienti, fatti e situazioni. Tuttavia, Svevo, con intento analitico, indaga i rapporti tra società e
individuo e, in particolare, si sofferma sulle difficoltà di chi aspira alla scalata sociale e sulle falsità delle
relazioni interpersonali. Al centro della vicenda compare la figura dell’inetto, un individuo mediocre,
alienato dalla realtà e vittima della propria inadeguatezza e debolezza. Alfonso Nitti, il protagonista, è un
impiegato che vive una vita vuota e inappagante; egli non riesce a instaurare un rapporto autentico con i
colleghi e perde l’occasione di fare un vantaggioso matrimonio e di conquistare il successo, preso da una
totale passività. Costretto a vivere in un mondo che premia solo gli intraprendenti e schiacciato dalla
propria inettitudine, Alfonso, nel timore di un’ulteriore sconfitta, decide di suicidarsi.

Senilità (p. 499)

Svevo iniziò la stesura del secondo romanzo, Senilità, nel 1892, subito dopo la pubblicazione di Una vita, e
vi lavorò fino al 1897. Pubblicata nel 1898, anche quest’opera fu ignorata dalla critica ed ebbe un’edizione
definitiva solo nel 1927. Come in Una vita, sono presenti spunti autobiografici: la vicenda si svolge a Trieste
e il protagonista, l’impiegato Emilio Brentani, è un inetto che vive tra il rimpianto di una carriera letteraria
irrealizzata (in realtà è un intellettuale fallito che, in passato, ha pubblicato un romanzo, senza successo) e
la monotonia di un’esistenza destinata al fallimento. Condannato così a una precoce “vecchiaia” (la
«senilità» a cui allude il titolo), condizione psicologica di chi, come chiarisce Svevo, ha l’abitudine di
«ripiegarsi su se stesso e analizzarsi» rinunciando alla lotta per la vita, Emilio, triste e apatico, in cerca di
una rivincita sulla vita, potrà solo amaramente scoprire l’impossibilità di qualsiasi riscatto. Emilio Brentani,
proprio come Alfonso Nitti, rispetto ai tradizionali protagonisti dei romanzi romantici, mostra
l’inadeguatezza dell’uomo alla vita. Come in Una vita, anche in quest’opera è presente l’analisi
dell’ambiente sociale, che però rimane sullo sfondo, lasciando maggiore spazio alla rappresentazione delle
dinamiche dei rapporti tra i personaggi

La coscienza di Zeno (p. 505)

o I modelli e il genere dell’opera

Nei venticinque anni che separano l’uscita di Senilità da quella della Coscienza di Zeno, Svevo non aveva
mai smesso di scrivere, pur non osando pubblicare nulla. Aveva con la scrittura un rapporto di amore-odio,
considerandola uno stimolo a vivere e, al tempo stesso, una condanna: «fuori della penna non c’è
salvezza», scrive in una delle Pagine di diario (2 ottobre 1899), ma, qualche anno più tardi, si dichiara deciso
a eliminare definitivamente dalla sua vita «quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura».
Diventato un abile uomo d’affari dell’ambiente commerciale triestino, gli pareva che aver scritto due
romanzi fosse una debolezza di cui vergognarsi. Tuttavia, grazie all’incoraggiamento di Joyce, in un periodo

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di «forte e travolgente ispirazione», avvertiva che «bisognava fare quel romanzo [La coscienza di Zeno]»,
come si legge nel Profilo autobiografico (1928).

Nell’opera, l’influenza di Joyce si rintraccia nel bisogno di scavare nella coscienza per comprendere le cause
remote dei comportamenti dell’individuo. Anche altri autori ispirarono Svevo: da Honoré de Balzac (1799-
1850) riprese, come aveva già fatto nei primi romanzi, un tipo di narrazione realistica, in cui ambienti e
personaggi sono minutamente caratterizzati, mentre da Marcel Proust (1871-1922) derivò l’idea del fluire
della memoria che ripercorre il passato per prenderne coscienza e analizzarlo.

Tra la stesura di Senilità e quella della Coscienza, Svevo si accostò alla psicoanalisi di Freud alla quale fa
diretto riferimento nel romanzo. Alle teorie freudiane si riallacciano: l’interpretazione dei sogni (nel
romanzo ne sono riferiti nove), il fenomeno della rimozione (Zeno ricorda una figura paterna debole e
buona per tacitare i suoi sensi di colpa), il complesso di Edipo (Zeno in realtà odia il padre), il meccanismo
dell’atto mancato (Zeno sbaglia corteo funebre e non partecipa al funerale del cognato), i dolori di natura
psicosomatica che costringono Zeno a zoppicare.

I critici si sono chiesti che cosa significhi il termine “coscienza”. Coscienza morale? Lucidità di pensiero?
Consapevolezza? Non si può escludere nessuna di queste accezioni: il termine concentra in sé una
molteplicità di significati. Anche per questa sua complessità, La coscienza si configura come una delle opere
più importanti della narrativa novecentesca; la sua ricchezza e novità, sfuggite inizialmente alla critica,
furono via via sempre meglio capite e apprezzate.

Nelle memorie di Zeno vari elementi sono riconducibili alla vita di Svevo. Infatti il romanzo, così come Una
vita e Senilità, è ambientato quasi interamente a Trieste, città natale di Svevo; nelle opere precedenti
l’autore, impiegato di banca, presenta due protagonisti anch’essi impiegati ed entrambi desiderosi di
affermazione in ambito letterario, mentre nel terzo romanzo Svevo, diventato ormai dirigente d’azienda,
sceglie come protagonista un ricco borghese triestino che non ha preoccupazioni economiche; Zeno non
scrive romanzi, suona però il violino, che è un hobby di Svevo; Zeno è un irriducibile fumatore come Svevo;
Augusta è una donna dalla florida salute, come Livia, la moglie di Svevo. Ma, nonostante le molte
coincidenze, La coscienza di Zeno non è un romanzo autobiografico; ogni episodio, anche se trae spunto da
fatti reali, mentre viene rievocato e scritto, diventa qualcosa di nuovo e di originale. La coscienza deve
piuttosto essere considerato un romanzo psicoanalitico. Come afferma lo psicoanalista Cesare Musatti in
un saggio del 1974, La coscienza è una storia psicoanalitica, e non tanto per la Prefazione del dottor S.,
quanto per l’attenzione prestata a quel particolare linguaggio che è la voce dell’inconscio.

o La struttura e i contenuti

L’opera ha una struttura originale ed è costituita da otto capitoli: dopo la Prefazione e il Preambolo
seguono le memorie di Zeno, che non sono riferite secondo l’ordine cronologico ma per nuclei tematici.
L’ottavo capitolo è composto dalle pagine di un diario che Zeno scrive tra il 1915 e il 1916 e che invia al
proprio psicoanalista. La coscienza di Zeno non segue un disegno organico e assume piuttosto i caratteri di
un’opera aperta. Il protagonista, per liberarsi da una nevrosi che condiziona il suo rapporto con gli altri e
con se stesso, si sottopone alla cura psicoanalitica del dottor S., che gli propone come terapia di scrivere la
propria autobiografia; Zeno esegue con iniziale riluttanza il compito assegnatogli e scrive squarci della sua
vita secondo libere associazioni. Nella brevissima Prefazione (cap. 1) il dottor S. dichiara di voler pubblicare
le memorie di Zeno, per vendicarsi della scelta del paziente di sottrarsi alla cura. Nel Preambolo (cap. 2), di
poco più lungo, Zeno spiega le difficoltà incontrate nel recuperare la memoria del proprio passato e mostra
grandi perplessità sull’efficacia della cura cui si è sottoposto. Nei capitoli successivi il protagonista racconta
i ricordi che sono affiorati alla sua coscienza, organizzati attorno a circostanze o eventi importanti. Li
presentiamo qui di seguito.
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▪ “Il fumo” (cap. 3): Zeno analizza l’incorreggibile vizio del fumo ripercorrendo circa vent’anni della
propria vita, costellati dal proposito, mai realizzato, di smettere di fumare. Anche la terapia
psicoanalitica, intrapresa a questo scopo, ha avuto esito negativo.
▪ “La morte di mio padre” (cap. 4): Zeno traccia un ritratto del padre, verso il quale mostra di nutrire
un sentimento di odio, nonostante le ripetute dichiarazioni di affetto.
▪ “La storia del mio matrimonio” (cap. 5): Zeno racconta le circostanze che l’hanno indotto a sposare
Augusta, pur essendo innamorato della sorella Ada. Quest’ultima si sposa poi con Guido Speier,
ricco, bello, elegante, fine conversatore, bravo violinista, detestato da Zeno fin dal primo incontro.
▪ “La moglie e l’amante” (cap. 6): pur vivendo un matrimonio felice, per noia Zeno tradisce la moglie
con una cantante, Carla Gerco. Continuamente tormentato dal rimorso, vorrebbe interrompere
questa relazione, senza tuttavia riuscirci.
▪ “Storia di un’associazione commerciale” (cap. 7): lavorando assieme al cognato Guido, suo rivale in
amore da sempre, Zeno ne scopre i limiti negli affari che portano la loro associazione commerciale
sull’orlo del fallimento. Quando Guido muore suicida, Zeno salva l’impresa e restituisce a Ada la
tranquillità finanziaria, ma la cognata ha ormai capito che lui ha sempre odiato Guido.
▪ “Psico-analisi” (cap. 8): questo capitolo è costituito dalle pagine di un diario e chiude la cornice
aperta dalla Prefazione e dal Preambolo. È il 3 maggio 1915: Zeno, dopo mesi di cura psicoanalitica,
si sente peggio di prima. Il dottor S. gli ha diagnosticato il complesso di Edipo, ma Zeno è scettico e
decide di sospendere la terapia. Infuria la guerra; Zeno si mette in affari e, dopo brillanti successi, si
persuade da solo di essere sano.

Il romanzo si chiude con l’apocalittica visione di un’inaudita catastrofe per opera di un uomo «un po’ più
ammalato» degli altri, che farà esplodere un potente e micidiale ordigno. E la Terra, tornata nebulosa,
«errerà nei cieli priva di parassiti e malattie». Solo così, forse, in questa vita «inquinata alle radici», tornerà
la salute.

o L’impianto narrativo e lo stile


▪ Le tecniche narrative

Nella sua attenzione agli aspetti psicologici del protagonista, quest’opera rappresenta il definitivo
superamento delle tecniche narrative naturaliste. Per seguire i processi inconsci di Zeno – rivelandone gli
aspetti più nascosti nell’intento di interpretare, alla luce di essi, il significato dei suoi comportamenti – e per
rendere con maggiore efficacia e immediatezza le tortuosità del suo percorso interiore, Svevo adopera
tecniche narrative dalla forte carica innovativa. Vediamole.

A differenza dei due romanzi precedenti, La coscienza di Zeno è scritta in


prima persona. Questa scelta comporta che il punto di vista, da cui
vengono guardati e giudicati gli avvenimenti, sia quello interno alla
coscienza del protagonista, il quale non conosce il punto di vista altrui (gli
risultano particolarmente enigmatici i personaggi femminili, il cui punto
di vista è per lui inafferrabile). Il narratore non è onnisciente, ma ne sa
quanto il personaggio. Tuttavia, lo Zeno che scrive a 57 anni (l’io
narrante) è diverso da quello della giovinezza e della maturità (l’io
narrato); egli è, inoltre, un narratore inattendibile: a svelarlo è lo stesso
dottor S. nella prima pagina del romanzo, in cui denuncia le «tante verità
e bugie» accumulate nelle memorie del suo paziente. Le menzogne sono
omissioni o camuffamenti della realtà, un modo per Zeno di costruirsi
“alibi” e autogiustificazioni per tacitare la propria coscienza e dimostrarsi
innocente da ogni colpa nei rapporti con gli altri.
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Nel 1922, un anno prima della pubblicazione del suo terzo romanzo, Svevo aveva letto l’Ulisse di Joyce (vedi
p. 439) e aveva appreso la tecnica del flusso di coscienza, una registrazione dei pensieri del personaggio
così come si susseguono nella sua mente, senza alcun controllo razionale e senza il filtro del narratore.
Questa tecnica fu illuminante per Svevo, che comunque preferì usare nella Coscienza il procedimento del
monologo interiore per presentare il pensiero del protagonista, secondo una parvenza di logicità. Zeno,
infatti, non si abbandona alla libera trascrizione dei pensieri, poiché quanto emerge dall’inconscio viene
subito sottoposto al lucido controllo della coscienza; egli scrive per il dottore e per farsi capire, perciò
costruisce discorsi logici e consequenziali.

Caratteristica del romanzo è l’alternanza di tempo presente della scrittura e tempo passato, in cui si sono
verificati gli eventi. Nei capitoli delle memorie il tempo è continuamente “ripreso”. Per esempio, il capitolo
“Il fumo” copre un periodo di circa vent’anni, cioè dalla fanciullezza a un’epoca in cui Zeno è già sposato e
ha due figli; nel capitolo successivo (“La morte di mio padre”) si ritorna al tempo in cui Zeno era studente
universitario. Secondo una celebre definizione di Svevo, il tempo della coscienza è un tempo «misto»
perché in essa convivono presente e passato. Da notare anche la differenza fra il tempo degli eventi e il
tempo del racconto. Il protagonista-narratore ora contrae, ora dilata la sua narrazione: ci sono stati lunghi
periodi che non hanno lasciato traccia in lui e quindi li ricorda sinteticamente, mentre su giorni o ore che
hanno segnato svolte importanti nella sua esistenza, si sofferma a lungo.

▪ Lo stile

La lingua di Svevo contiene espressioni dialettali triestine e termini presi dal tedesco; vi compaiono anche
espressioni toscane letterarie e del parlato. Come dice il critico Giacomo Debenedetti, la sua lingua
assomiglia all’italiano, perché usa parole italiane, ma non è italiana nei modi: è lenta e analitica, la sintassi è
ora contorta ora spezzata, l’uso dei tempi verbali è complicato da un continuo spostamento tra passato e
presente. Il dialogo a volte risulta pesante e duro: non è un dialogo colto sulle labbra dei personaggi, ma
fissato sull’onda dei ricordi di Zeno; si spiega così l’uso del passato remoto quando ci si aspetterebbe il
passato prossimo. I primi critici dichiararono senza mezze misure che Svevo scriveva “male”. Ora si
preferisce dire che Svevo consapevolmente ha usato una lingua non letteraria, per non tradire la sua
identità di intellettuale di frontiera e per dare voce a una scrittura del tutto nuova.

La narrazione è caratterizzata da una sottile ironia. Zeno guarda con atteggiamento ironico il proprio
passato, rilevandone meschinità e ipocrisie, minimizzando l’importanza di eventi e azioni e costruendo, al
tempo stesso, la sua “innocentizzazione”. Il fine ultimo della sua corrosiva visione della vita è quello di
smascherare gli inganni e le false apparenze della “normalità borghese”, nella quale vorrebbe integrarsi, ma
da cui, in forma contraddittoria, si mantiene estraneo, per poter svelare le inconsistenti certezze di
quell’ingannevole sistema.

o Vedi Prefazione e Preambolo (p. 509)


o Vedi L’ultima sigaretta (p. 512)

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o Vedi Un rapporto conflittuale (p. 516)


o Vedi Una catastrofe inaudita (p. 532)

Modulo 5
Luigi Pirandello (p. A542)
• La vita
Luigi Pirandello nacque il 28 giugno 1867 ad Agrigento nella tenuta di famiglia, denominata “Caos”. Il padre
Stefano era discendente di una famiglia di imprenditori liguri stabilitasi in Sicilia all’inizio del secolo, dove
aveva preso in affitto alcune solfare. La vita familiare non era serena, soprattutto a causa della personalità
prevaricatrice del padre, e forse proprio da allora si insinuò nel giovane Luigi l’idea della famiglia come
trappola, come luogo soffocante in cui i rapporti non possono essere autentici. Dopo il liceo si iscrisse alla
facoltà di lettere, prima a Palermo, poi a Roma e infine a Bonn, dove si laureò e approfondì la conoscenza
della letteratura tedesca e pubblicò la sua prima raccolta di versi, Mal giocondo.

Dopo la laurea, nel 1892 si trasferì a Roma, dove strinse amicizia con alcuni letterati. Nel 1894 sposò Maria
Antonietta Portulano, donna bellissima ma di salute cagionevole e psicologicamente fragile; dalla loro
unione nacquero tre figli.

Nel 1893 scrisse il suo primo romanzo, L’esclusa, e dal 1897 iniziò a comporre drammi e atti unici per il
teatro, che tuttavia non trovarono accoglienza presso le compagnie. Nello stesso anno ottenne un incarico
di insegnante di lingua italiana all’Istituto Superiore di Magistero di Roma. Il 1903 fu per Pirandello e per la
sua famiglia un anno drammatico: una frana distrusse la miniera di zolfo in cui il padre aveva investito tutto
il suo capitale e anche la dote di Maria Antonietta.

La donna, alla notizia del disastro finanziario, ebbe una crisi nervosa che si manifestò prima come paralisi
isterica che la costrinse a letto per lungo tempo, poi come «una forma irrimediabile di paranoja» che la
tormentò per tutta la vita. Mentre assisteva la moglie malata, Pirandello compose in pochi mesi il suo
romanzo più famoso, Il fu Mattia Pascal, pubblicato a puntate sulla rivista “Nuova Antologia” fra l’aprile e il
giugno 1904.

Nel frattempo, e già da diversi anni, aveva iniziato a scrivere moltissime novelle. Dopo le delusioni dei primi
tempi si riavvicinò al teatro; traspose allora alcune delle sue novelle in opere teatrali. Nel 1919 Pirandello
prese la sofferta decisione di ricoverare la moglie in una clinica per malattie mentali, dove rimase fino alla
morte, avvenuta nel 1959. Nel 1921 scrisse Sei personaggi in cerca d’autore.

Nel 1922 abbandonò l’insegnamento e cominciò a viaggiare all’estero per seguire le compagnie che
mettevano in scena i suoi drammi. Nel 1924, dopo il delitto Matteotti, si iscrisse al Partito fascista e l’anno
seguente firmò il Manifesto degli intellettuali fascisti di Gentile. Tuttavia, successivamente, il suo giudizio
sul fascismo si modificò e i suoi rapporti con il regime si andarono raffreddando. Sempre nel 1924, assieme
ad altri scrittori e uomini di teatro, fondò la Compagnia Teatro d’Arte di Roma. Nel 1934, ormai raggiunta la
fama mondiale come drammaturgo e mentre erano cominciate le trasposizioni cinematografiche di molti
suoi drammi, ricevette il premio Nobel per la letteratura. Morì il 10 dicembre 1936 per un attacco di
polmonite mentre seguiva a Cinecittà la realizzazione del film tratto dal Fu Mattia Pascal. Il regime avrebbe
voluto funerali di Stato, ma le disposizioni lasciate da Pirandello erano perentorie: «Nessuno
m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta». Per sua volontà il corpo fu
cremato e le ceneri furono disperse nella tenuta di Caos, ad Agrigento, dov’era nato.

• Le opere
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▪ Le poesie, le novelle e i saggi

Durante la giovinezza Pirandello si dedicò alla poesia e pubblicò sette raccolte di versi. Questa nutrita
produzione poetica, nella quale si avverte soprattutto l’influsso di Carducci, è giudicata dalla critica di
scarso valore.

Durante tutta la sua attività letteraria, Pirandello compose molte novelle, che via via pubblicava su riviste e,
a partire dal 1894, anche in volume (Amori senza amore è la prima raccolta). Nel 1922 avviò l’ambizioso
progetto di scrivere una «novella al giorno per tutt’un anno». Cominciò così a ripubblicare in più volumi
tutto il materiale novellistico già edito aggiungendovi i testi nuovi, in ordine sparso, sotto il titolo di Novelle
per un anno. Dal 1922 al 1937 uscirono quindici raccolte, ma il numero delle novelle rimase lontano da
quello progettato, arrivando a 225 contro le 365 previste. La raccolta presenta un panorama articolato di
vicende, storie paradossali, un mosaico di figure, spesso deformate e grottesche, che costituiranno un
materiale prezioso per romanzi e testi teatrali successivi.

Fra il 1904 e il 1905 la scrivania di Pirandello era un vero e proprio laboratorio di scrittura. Oltre a scrivere
novelle e romanzi, egli stese l’importante saggio L’umorismo, pubblicato nel 1908, in cui l’autore pose le
basi teoriche della poetica, applicata nella sua produzione successiva.

Nel saggio egli definisce:

o la comicità come l’avvertimento del contrario, che induce al riso;


o l’umorismo come il sentimento del contrario, che porta alla «riflessione», a un atteggiamento più
problematico su fatti che, all’apparenza comici, celano una reale condizione esistenziale altrimenti
inconoscibile.

In questo processo, che provoca reazioni contrastanti, quali il riso e il pianto, consiste l’umorismo. La
pubblicazione dell’Umorismo e, nello stesso anno, del saggio Arte e scienza, fu alla base della polemica con
Benedetto Croce per il quale l’arte è un atto di creazione “pura”, separato dalla riflessione. Secondo
Pirandello, invece, l’immaginazione, il sentimento e la riflessione sono alla base dell’opera d’arte, volta a
cogliere tutte le contraddizioni della realtà.

▪ I romanzi

Il primo romanzo di Pirandello, scritto su suggerimento di Capuana, risale al 1893 e aveva come titolo
Marta Ajala, ma fu pubblicato solo nel 1901, a puntate, sul quotidiano romano “La tribuna” con il titolo
L’esclusa. È la storia di Marta, una donna che, sebbene innocente, viene accusata dal marito di essere
un’adultera. La voce si diffonde in tutto il paese e Marta è costretta a trasferirsi a Palermo. Qui incontra
Alvignani e, quasi con indifferenza, consuma realmente l’adulterio. Intanto il marito, ora convinto della sua
innocenza e pentito di averla cacciata ingiustamente, la riaccoglie in casa. Già in questo primo romanzo,
caratterizzato da un’attenta analisi della psicologia della protagonista e della vicenda paradossale che l’ha
travolta, nonché dei condizionamenti dell’ambiente, Pirandello introduce l’elemento grottesco, ossia una
deformazione della realtà per cui ciò che dovrebbe commuovere provoca il riso e viceversa.

Il fu Mattia Pascal (1904) è il terzo romanzo di Pirandello. Composto in soli quattro mesi, presenta tutti gli
elementi che saranno caratteristici della produzione successiva: il problema della definizione della propria
identità, il “doppio”, il relativismo conoscitivo, la poetica dell’umorismo. È un romanzo in cui predomina la
“filosofia del lontano”, cioè un modo di guardare la realtà con distacco che consente di cogliere gli aspetti
più assurdi della vita.

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Uno, nessuno e centomila è il romanzo più filosofico di Pirandello, frutto di una lunga elaborazione che va
dal 1910 alla pubblicazione in volume avvenuta nel 1926. Protagonista e voce narrante è Vitangelo
Moscarda, il quale, in una serie di capitoletti di riflessione sui fatti e sui modi di vita convenzionali, percorre
un itinerario di liberazione dalle forme in cui è rinchiuso dagli altri e nelle quali non si riconosce. La vicenda
paradossale del protagonista, per il quale vivere significa morire e rinascere attimo per attimo, ogni volta
nuovo, senza ricordi, senza coscienza, in una sorta di fusione panica con la natura, segna il completo
annullamento dell’identità, la dissoluzione dell’io. Da qui la definizione dell’opera, data dallo stesso
Pirandello, come il romanzo «più amato di tutti, profondamente umoristico di scomposizione della vita».

▪ Il teatro
o L’innovazione teatrale

La produzione teatrale di Pirandello conta più di quaranta drammi, riordinati dallo stesso autore nella
raccolta Maschere nude. La sua innovazione teatrale, che assunse i caratteri di una vera rivoluzione, fu la
rottura con il teatro naturalistico in voga a quell’epoca, che proponeva drammi borghesi d’impianto
realistico, e soprattutto la rappresentazione di personaggi dalla personalità problematica, allo stesso tempo
comici e tragici, che lo scrittore smaschera e analizza mediante il potente strumento dell’umorismo.

È significativo che Pirandello, raccogliendo nel 1922 in un unico corpus tutti i drammi scritti, abbia scelto
come titolo unitario Maschere nude. Il titolo è un ossimoro, cioè contiene una contraddizione in termini:
infatti, nella convenzione teatrale, la maschera è uno schermo imposto sul volto dell’attore perché possa
meglio rappresentare la sua parte; essa comporta un’operazione di occultamento e di copertura ed è
impensabile volerla togliere. Ma per Pirandello la maschera non è una convenzione teatrale bensì il simbolo
della condizione esistenziale stessa: togliere le maschere, che l’individuo stesso si impone, o che gli sono
imposte dalla società, significa penetrare oltre la fittizia apparenza della forma per mostrare l’io frantumato
e diviso per il quale non esiste una identità personale perché l’uomo è in perenne trasformazione. In
ambito teatrale lo stesso risultato può essere ottenuto principalmente con le modalità proprie del
metateatro che permette di smascherare le trappole liberando i personaggi dalle maschere che li
cristallizzano nel loro ruolo, sia sociale (il ruolo che ciascuno ricopre in famiglia o nella società) sia teatrale
(il ruolo sostenuto durante una recita da ogni attore).

Nel teatro pirandelliano ognuno recita la propria parte e ogni tentativo di strapparsi la maschera per vivere
una vita più autentica finisce in un fallimento, in quanto la società punisce con l’emarginazione chi rifiuta i
suoi canoni di normalità. Noi siamo dunque maschere, e per vivere accettiamo i condizionamenti che la
società ci impone, dai quali la follia potrebbe veramente liberarci.

o Il teatro dialettale e il teatro grottesco

La prima produzione teatrale è in dialetto. Pirandello compose pièces e atti unici per Angelo Musco, un
brillante attore del teatro siciliano, e le sue opere vennero rappresentate sia in dialetto sia in italiano.

Il teatro del grottesco nacque nel solco dell’esperienza futurista, di cui condivideva il rifiuto dei modelli
letterari preesistenti e della cultura borghese, ma di cui non accettava il gusto della provocazione. Gli autori
di questo nuovo tipo di teatro si proponevano di mostrare – in opere a metà tra la commedia e il dramma –
gli aspetti paradossali e assurdi dell’esistenza e lo scarto tra ciò che l’uomo è realmente e il modo in cui è
visto dagli altri. Altro tema ricorrente nel teatro del grottesco è l’alienazione dell’uomo contemporaneo,
che sulla scena teatrale viene resa spesso attraverso l’uso delle marionette. Nel teatro pirandelliano il
grottesco si risolve nel concetto di umorismo, ossia nel «sentimento del contrario».

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Così è (se vi pare) (1917) rappresenta la visione “umoristica” della vita, colta nella sua tragica mancanza di
certezze e nei suoi aspetti contraddittori. È la piena espressione della teoria del relativismo conoscitivo,
secondo cui esistono tante verità quanti sono i punti di vista. Lo stesso Pirandello, giovanissimo, esprime
questa concezione della vita in una lettera inviata alla sorella in cui scrive che la vita nella società moderna
si presenta ai suoi occhi come «un’enorme pupazzata», cioè come una grande recita, in cui ognuno sostiene
la propria parte. In Così è (se vi pare), il cui soggetto è tratto dalla novella La signora Frola e il signor Ponza,
suo genero, Pirandello mette in scena il consueto salotto borghese, ma il dramma che vi si svolge è del
tutto particolare; nessuno riuscirà mai a scoprire la vera identità della protagonista.

o Il “teatro nel teatro”

I drammi del metateatro, definito da Pirandello «teatro nel teatro», ovvero il teatro che mette in scena non
la vita, ma se stesso, segnano, negli anni tra il 1921 e il 1930, il definitivo attacco alle concezioni del teatro
naturalistico del tempo. Sei personaggi in cerca d’autore inaugura la trilogia del metateatro; l’opera
rappresenta il contrasto tra attori e personaggi e l’impossibilità dell’arte di riprodurre la vita. Lo spettatore
assiste alla costruzione del dramma, con il capocomico che fornisce indicazioni e gli attori che si preparano
a fare le prove. È questa la novità di Pirandello: non limitarsi a “rappresentare” un soggetto, ma “fare” il
soggetto, cioè costruire l’azione scenica coinvolgendo gli spettatori, rendendoli partecipi della sua
realizzazione. Sulla scena, infatti, gli attori non solo interpretano un soggetto, ma interpretano se stessi
mentre “costruiscono” il soggetto e ne discutono con il regista, con i personaggi reali e con gli stessi
spettatori. La parola “metateatro” sta quindi a significare un tipo di teatro in cui si affrontano i problemi e
le tematiche della rappresentazione teatrale dall’interno, mettendo in scena il suo farsi spettacolo.

o Il “teatro dei miti”

Gli anni dal 1928 al 1930 sono quelli dell’ultima fase del teatro pirandelliano, costituita dalla trilogia del
“teatro dei miti”. Queste opere mettono in scena vicende ai confini con l’oltre, caratterizzate da elementi
surreali, magici e simbolici e ambientate non più nel mondo borghese contemporaneo, ma in contesti
naturali. Pirandello, nella sua incessante ricerca di una verità, intende comunicare allo spettatore
l’impossibilità di trovare nella realtà le soluzioni ai problemi dell’uomo: solo nella dimensione dell’utopia è
possibile ipotizzare un mondo migliore, basato su valori universali che possano riscattare la misera
condizione dell’uomo moderno.

I miti cui allude Pirandello sono il mito sociale (La nuova colonia), il mito religioso (Lazzaro) e il mito
dell’arte (I giganti della montagna).

• Il pensiero e la poetica
▪ La formazione verista e gli studi di psicologia e filosofia

La formazione culturale di Pirandello si compì in un clima di delusione per il crollo degli ideali risorgimentali
e di condanna della classe dirigente liberale, incapace di sottrarsi al disordine morale e alla corruzione che
accompagnarono il sorgere della nuova società postunitaria. Essa fu influenzata dall’opera dei due grandi
veristi suoi conterranei, Luigi Capuana e Giovanni Verga, e di Federico De Roberto, dai quali, tuttavia, prese
le mosse per il superamento della loro visione del mondo e dei loro modelli narrativi. In Pirandello il fatto
oggettivo si dissolve nell’infinità dei casi umani e le forme della realtà assumono i caratteri di casualità ed
effimera consistenza. L’indagine delle vicende umane, presentate secondo i canoni dell’impersonalità, si

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tramutò in uno scavo nella vita psichica, per scoprirne la fragilità e l’incoerenza che il razionalismo
positivistico non era in grado di cogliere.

Pirandello si dedicò allo studio della psicologia sui testi del francese Alfred Binet, in particolare sul saggio Le
alterazioni della personalità, in cui è analizzato il concetto di “io debole”, cioè la psiche di un individuo con
una personalità complessa e instabile. Inoltre, Pirandello si interessò del pensiero del filosofo francese
Henri Bergson, da cui riprese la concezione dell’universo in perpetuo divenire, in perenne «movimento
vitale», e di quello del filosofo e sociologo tedesco Georg Simmel, che avevano decretato il fallimento del
Positivismo e della fiducia nella scienza. Secondo Simmel, uno dei padri del relativismo contemporaneo,
non esiste alcuna verità assoluta, perché l’uomo, nella sua ricerca, non si avvale di categorie dalla validità
universale, ma piuttosto di categorie soggettive (relativismo conoscitivo). Il risultato della ricerca,
specialmente quella storica, non sono i fatti come obiettivamente si sono svolti, ma come soggettivamente
sono stati interpretati. Di fondamentale importanza in Simmel è anche il concetto di vita come incessante
fluire, continua trasformazione da uno stato all’altro, senza ragione e senza scopo, che crea «forme» e
mondi ideali (scienze, arti, religioni), destinati ad essere distrutti nel suo perenne divenire. Il complesso di
queste teorie, e in particolare il relativismo conoscitivo e le categorie di “vita” e “forma”, influenzarono la
visione del mondo di Pirandello, che le sentiva vicine al suo modo di pensare e di rapportarsi con la realtà.

▪ La maschera e la crisi dei valori

L’indagine di Pirandello sul disagio esistenziale dà vita a personaggi problematici, privi di certezze, in
dissonanza con la società e spesso in preda a gravi crisi d’identità. Influenzato dalle teorie di Simmel, lo
scrittore si convinse che la vita, flusso incessante e perenne divenire profondo e autentico, per avere
consistenza deve fissarsi in una forma che ne smorzi però la vitalità originale. Per dare consistenza alla
propria vita e sopravvivere nella società, l’uomo è costretto a adeguarsi alla forma e alle convenzioni,
indossando una maschera (una delle manifestazioni della forma), anzi diverse maschere, a seconda dei ruoli
o delle circostanze. Ma se ciascun individuo interpreta una parte e indossa una maschera, ne consegue che
i rapporti umani non sono autentici. D’altra parte, chiunque tenti di vivere una vita meno falsa viene
relegato ai margini della società. Solo l’estraniazione e la follia possono strappare la maschera che opprime
l’uomo e liberarlo dalle costrizioni che la società gli impone.

La visione pirandelliana della vita è pessimistica e disperante: l’uomo è perennemente scisso tra le esigenze
della «vita» e la negatività della «forma», cioè della maschera. Per ogni maschera, che ciascuno indossa, ve
ne sono infinite altre che gli vengono attribuite dalla società e che lo imprigionano nella trappola delle
convenzioni sociali, come il lavoro e la famiglia, la prima cellula di vita associata in cui l’uomo si trova a
sostenere un ruolo.

Al penoso senso di strozzatura della vita e di inganno, il personaggio pirandelliano reagisce adeguandosi,
come Chiàrchiaro della novella La patente, o tentando vanamente di ricostruirsi una propria vita, come
Mattia Pascal, oppure rifiutando qualsiasi forma per ricongiungersi con la «vita», con la natura, come
Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila.

▪ La difficile interpretazione della realtà

Dalla concezione della realtà come continuo e inafferrabile fluire, Pirandello dedusse il concetto
dell’inconoscibilità del reale, del relativismo conoscitivo, poiché ciascun individuo si crea un’immagine del
mondo esterno in base al proprio punto di vista, probabilmente non condiviso dagli altri. Anche il
linguaggio, secondo Pirandello, risente della stessa precarietà ed è fonte di incomunicabilità, poiché non
sempre le parole che ciascuno adopera hanno il medesimo significato per gli altri.
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Pirandello si fa testimone della crisi dell’uomo moderno che ha visto crollare i valori della società borghese
ottocentesca (primo fra tutti la famiglia), senza poter giungere a elaborarne di nuovi. Voce isolata e
inquietante nel panorama letterario del tempo, egli è testimone dell’irriducibile infelicità dell’uomo, che è
solo con la sua pena di vivere in un mondo ostile e indecifrabile. Originale esito della sua riflessione intorno
al rapporto tra l’uomo e il mondo che lo circonda è la cosiddetta “lanterninosofia”, esposta a Mattia Pascal
da Anselmo Paleari, un altro personaggio del romanzo (cap. XIII), secondo la quale, oltre ai «lanternoni»,
cioè i valori e le ideologie collettive che costituiscono i punti di riferimento per l’uomo, esiste il sentimento
della vita di ogni uomo, il suo “sentirsi vivere”, paragonato a una piccola lanterna che lo distingue dal buio
circostante dell’abisso verso cui ogni cosa tende. Ma questa debole luce non è sufficiente a illuminare e
conoscere il reale, anzi, la visione che ne deriva è parziale, deformata e costituisce una trappola che rende
l’individuo incapace di ricongiungersi al flusso vitale.

▪ Gli influssi del Decadentismo e dell’Espressionismo

L’influenza del Decadentismo è evidente nella denuncia della relatività di ogni cosa e nel conseguente
processo di frantumazione della personalità, causata dalla molteplicità dei punti di vista. Di ascendenza
decadente è, inoltre, la ripresa di personaggi inetti, incapaci all’azione e ai margini della società, e
nell’intreccio di alcune opere, dove fanno la loro comparsa tematiche scandalose, come l’adulterio, non
trattate però con gusto morboso di stampo dannunziano, ma piegate verso il grottesco, verso la
rappresentazione dell’assurdo sociale, che in alcune opere si allarga all’assurdo dell’intera esistenza umana.

La produzione di Pirandello può essere per molti versi accostata all’Espressionismo, un movimento
d’avanguardia nato in Germania all’inizio del Novecento. Con questa corrente il drammaturgo siciliano ha in
comune soprattutto la rappresentazione deformata e grottesca della realtà, tipica dell’arte espressionista, e
la descrizione di smorfie e volti ghignanti dei suoi personaggi. Tuttavia, è nel campo teatrale che si possono
individuare legami diretti tra Pirandello e gli espressionisti.

▪ I personaggi e lo stile

Il tipico personaggio pirandelliano è l’esatto contrario dell’eroe


dannunziano. Appartiene solitamente al ceto borghese e si porta dentro un
senso di frustrazione e di vuoto; ha scarsa considerazione di se stesso, non
è ben sicuro del suo ruolo nella società e non ha una meta certa verso cui
orientare la propria vita, perché attraversa una crisi d’identità. Prigioniero
delle «trappole», come la famiglia e il lavoro, che impongono maschere e

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ruoli fittizi, spesso è tormentato da tic nervosi o difetti fisici, espressione di sofferenza interiore dovuta alla
necessità di vivere nelle trappole delle convenzioni sociali.

Pirandello si propose di rinunciare a tutti gli espedienti della retorica a favore di una lingua media,
stilisticamente non ricercata, facilmente comprensibile e traducibile in altre lingue.

• Il fu Mattia Pascal
▪ Le vicende editoriali e la trama

Pirandello scrisse Il fu Mattia Pascal a Roma nel 1903, dopo la grave crisi che portò alla perdita dei capitali
investiti nella solfara paterna e alla conseguente malattia mentale della moglie. Il romanzo fu pubblicato
inizialmente a puntate sulla rivista “Nuova Antologia”.

Il protagonista, Mattia Pascal, vive in un piccolo paese della Liguria (Miragno, nome di fantasia) in una
situazione opprimente. Dopo aver trascorso una giovinezza agiata, in cui non si è minimamente
preoccupato di gestire il patrimonio familiare (che ha fatto di lui, per sua stessa ammissione, un «inetto»),
ha scoperto che Batta Malagna, l’amministratore nominato dalla madre, lo ha ridotto in rovina; costui, per
giunta, è anche diventato il marito della ragazza di cui Mattia era innamorato (e alla quale ha dato anche un
figlio). Mattia sposa dunque un’altra donna, Romilda Pescatore, che aveva avvicinato solo come
intermediario per conto di un amico e, gravato dai debiti, trova un impiego come bibliotecario. Prigioniero
di una vita familiare insostenibile, fatta di continui litigi con la moglie e la suocera, decide di fuggire
all’estero. Si ferma a Montecarlo, dove comincia a giocare al casinò e qui, con una incredibile serie di colpi
di fortuna, in pochi giorni riesce a vincere una grossa somma di denaro. Mentre sta tornando a casa in
treno, legge sul giornale che è stato ritrovato il cadavere di un suicida, identificato proprio in Mattia Pascal.
Consapevole che il destino gli ha offerto un’opportunità forse irripetibile, matura la decisione di farsi
credere morto e di cominciare una nuova vita. Prende il nome fittizio di Adriano Meis e inizia a viaggiare in
Italia e Germania, ma presto avverte il vuoto di una vita senza radici e relazioni sociali. Decide quindi di
stabilirsi a Roma e affitta una camera nella casa di Anselmo Paleari, uno strano personaggio che si interessa
di filosofia e spiritismo. Qui si innamora, ricambiato, della figlia Adriana, attirandosi per questo l’ostilità del
cognato, Terenzio Papiano, il quale, dopo la morte della moglie, vorrebbe risposarsi proprio con Adriana
per non dover restituire a Paleari i soldi della dote. Durante una seduta spiritica, Papiano ruba una parte del
denaro di Adriano Meis e l’accaduto innesca nel protagonista una serie di riflessioni: privo com’è di una
vera identità, egli non può denunciare il ladro, e non può neanche sposare Adriana. Decide allora di tornare
al suo paese e riassumere la sua vecchia identità; inscena così il finto suicidio di Adriano Meis, lasciando gli
abiti e un messaggio su un ponte. Ma una volta giunto a Miragno, Mattia Pascal si trova di fronte a una
realtà ormai mutata: la moglie si è risposata con il suo migliore amico, Pomino, e anche il suo posto di
bibliotecario è stato dato a un’altra persona. Mattia decide allora di scrivere le sue memorie, ormai
rassegnato a restare «fuori dalla vita» e a essere «il fu Mattia Pascal». La materia di questo memoriale
costituisce il romanzo.

▪ Le struttura e i temi

Il fu Mattia Pascal è composto di 18 capitoli, che possono essere suddivisi in quattro parti:

o la prima parte è costituita dai capitoli I-II, rispettivamente la Premessa e la Premessa seconda
(filosofica) a mo’ di scusa, nei quali il protagonista racconta in prima persona la propria trasformazione
da Mattia nel «fu Mattia»; commenta l’accaduto quando i fatti sono ormai avvenuti ed egli si trova
estraniato dalla vita. Questi capitoli, assieme ai capitoli XVII e XVIII, formano una sorta di cornice e

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possono essere avvicinati al genere dell’antiromanzo (non vi è infatti nessuna azione narrativa e anche
il tempo della storia è fermo);
o la seconda parte corrisponde ai capitoli III-VI; vi si racconta la giovinezza di Mattia Pascal all’interno di
uno scenario idillico (il paesino di campagna non contaminato dal progresso), con una parabola
discendente che lo conduce a sposare una donna di cui non è innamorato e a rimanere prigioniero di
una vita coniugale opprimente;
o il capitolo VII funge da snodo tra la seconda e la terza parte, in quanto vi sono narrate la fuga e la
vincita al casinò che, unite alla falsa notizia del suo suicidio, permettono a Mattia di farsi credere morto
e cambiare identità;
o la terza parte occupa i capitoli VIII-XVI e ricalca il genere del romanzo di formazione: Mattia Pascal
diventa Adriano Meis e cerca di costruirsi una nuova vita, ma è costretto ad abbandonare il suo
proposito in seguito a un furto che lo induce a riflettere sulla sua mancanza di identità. È dunque
costretto a tornare a Miragno e, quindi, la sua si configura alla fine come una formazione alla rovescia;
o la quarta parte occupa i capitoli XVII-XVIII, che riportano la storia al punto di partenza in modo
circolare: viene spiegato come Mattia Pascal sia diventato il «fu Mattia Pascal» e come abbia rinunciato
alla vita.

Esaminiamo i temi principali del romanzo.

o La famiglia vista come nido o come prigione: mentre la famiglia in cui Mattia Pascal nasce è
rappresentata come un nido e un rifugio, minacciata dall’avidità dell’amministratore Batta
Malagna, la vita coniugale con moglie e suocera è considerata una prigione soffocante, che lascia
come unica alternativa la fuga e l’evasione. Il motivo si ricollega alla vicenda autobiografica di
Pirandello, all’idealizzazione della famiglia e della figura materna contrapposta all’infelicità della
vita matrimoniale.

o L’inettitudine: Mattia Pascal confessa nella prima parte del romanzo che in gioventù era «inetto a
tutto»; egli aveva lasciato che la vita gli scivolasse addosso e non era stato capace di imporsi per
sposare la ragazza amata. Solo con la fuga da casa sembra superare la sua inettitudine, ma si tratta
solo di una breve parentesi: anche nei panni di Adriano Meis non riesce a uscire dalla sua passività
ed è costretto a rinunciare ai suoi propositi.

o Il doppio e la crisi d’identità: Mattia Pascal è uno dei personaggi che meglio rappresentano la crisi
d’identità dell’uomo del primo Novecento, come appare sia dal suo “sdoppiamento”, sia da alcuni
tratti fisici e psicologici che si ripresentano lungo il corso del romanzo. Espressione della sua
difficoltà a identificarsi con se stesso sono il suo occhio strabico e la sua tendenza a porsi spesso
davanti allo specchio. Mattia si configura come un antieroe, emarginato dalla vita, incapace di
capire chi sia realmente e di trovare se stesso.

o La forma-trappola in cui la vita imprigiona gli individui: la storia di Mattia Pascal è emblematica
dell’impossibilità di sfuggire alla trappola dell’esistenza, nella quale il protagonista si trova
imbrigliato suo malgrado. Mattia Pascal assume una nuova identità attraverso cui crede di poter
vivere un’altra vita e diventare finalmente «artefice del suo nuovo destino». Ma si tratta di
un’illusione destinata al fallimento: il protagonista prima si rende conto che guardare dal di fuori
«lo spettacolo della vita» non vuol dire vivere; quindi, comprende che l’identità fittizia di Adriano
Meis non gli permette di agire come vorrebbe. Per soddisfare il desiderio di «vivere, vivere, vivere»,
Mattia Pascal decide allora di riassumere la sua vecchia identità, ma anche questo tentativo fallisce.

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Il protagonista deve così rassegnarsi a non avere un’identità, se non quella negativa del «fu Mattia
Pascal».

o La polemica contro il progresso: questo aspetto è particolarmente evidente nei capitoli centrali (IX
e X), nei quali Adriano Meis si trasferisce prima a Milano e poi a Roma; nella città lombarda egli si
interroga sulle conseguenze del progresso, polemizzando contro la scienza e contro le macchine (in
particolare contro il tram, da poco introdotto in Italia). A Roma, invece, lo splendore delle rovine e
dei resti del passato viene polemicamente contrapposto allo squallore del presente. A questo
motivo si accompagna anche la riflessione politica di Pirandello che esprime la sfiducia nei confronti
del sistema politico liberale, definito «tirannia mascherata di libertà».

o Il gioco d’azzardo: Pirandello descrive in maniera molto dettagliata le scene del casinò, nelle quali
Mattia Pascal vince una grossa somma di denaro. Oltre a essere un espediente narrativo per
giustificare la fuga del protagonista, il gioco d’azzardo riveste anche un significato più profondo
nell’economia dell’opera: è il simbolo della casualità della vita contro cui poco possono la ragione e
la volontà umane.

▪ La visione del mondo

Il fu Mattia Pascal presenta numerose riflessioni intorno ad alcuni elementi chiave del pensiero di
Pirandello.

o L’infinita «piccolezza» dell’uomo: nella Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa, Mattia Pascal
racconta la decisione di presentare la propria storia e le conversazioni con il prete don Eligio. Dopo i
suoi suggerimenti su quale tipo di romanzo scrivere, Mattia risponde con una frase
apparentemente priva di senso: «Maledetto sia Copernico!». Tale affermazione sta a significare
che, dopo la rivoluzione copernicana del Cinquecento, l’uomo ha perduto la sua certezza di essere
al centro dell’universo in cui ormai non conta più nulla. Ne deriva, da parte di Pirandello, la scelta di
un atteggiamento “umoristico”, che induce alla riflessione, a prendere atto di una tragica
disarmonia della vita.

o Le trappole e la forma: spinto dalle trappole insopportabili di una vita grigia e infelice, Mattia coglie
l’occasione della sua presunta morte per liberarsi da ogni forma e si illude di imboccare una via
d’uscita prima attribuendosi una nuova identità, quella di Adriano Meis, poi cercando di riprendere
la vecchia forma, quella di Mattia Pascal, ma i suoi tentativi lo rendono consapevole dei suoi errori:
solo la società impone le maschere e toglierle equivale a non avere un’identità. A Mattia non resta
che accettare la sua condizione di «forestiere della vita», escluso dai rapporti umani, essere per
sempre «il fu Mattia Pascal», vivere solo come personaggio che racconta la sua strana storia.

o La filosofia del lontano: tutto il romanzo ne può essere considerato come il manifesto, dal
momento che il personaggio di Mattia Pascal incarna lo “spettatore” della vita il quale, solo
rinunciando a vivere una propria esistenza, riesce a riflettere con distacco sulla propria vicenda
personale. Anche la struttura a cornice, che collega premesse e conclusione, ha lo scopo di
osservare retrospettivamente il resto della storia alla luce della filosofia del lontano, con un
evidente effetto di straniamento.

o La crisi delle certezze: legata al principio del relativismo conoscitivo, viene esplicitamente
teorizzata nella famosa scena dello «strappo nel cielo di carta di un teatrino». Oreste, eroe che

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incarna il senso della responsabilità e dell’onore (deve infatti vendicare la morte del padre
Agamennone), saldamente legato alle sue certezze che lo stimolano all’azione, rimarrebbe così
sconcertato di fronte a quell’improvviso «buco nel cielo» di carta (che rappresenta una incrinatura
nelle sue convinzioni) da diventare Amleto, l’eroe incapace di agire (e quindi di vendicare la morte
del padre perché tormentato dai dubbi).

o La «lanterninosofia»: è esposta a Mattia Pascal da Anselmo Paleari nel capitolo XIII. Secondo
questa teoria, gli uomini, rispetto alle altre specie, che vivono e non si vedono vivere, hanno il triste
privilegio di «sentirsi vivere», cioè di accorgersi di essere viventi; questo sentimento della vita è
come un «lanternino» colorato che ciascun essere umano porta con sé, ma che ha una luce così
debole da far sembrare ancora più minacciose le tenebre al di là del breve cerchio della sua luce. Gli
uomini alimentano i propri lanternini ai «lanternoni» delle fedi e delle ideologie, ma quando i
lanternoni, nei periodi di grandi mutamenti e di crisi, si spengono, essi si trovano a vagare nel buio
senza alcun punto di riferimento, perché i loro lumicini sono strumenti inadeguati di conoscenza:
da essi viene ricavata non chiarezza di idee, ma senso di smarrimento per tutto il buio che li
circonda; solo quando i lanternini si spegneranno, gli uomini piomberanno nel nulla che li
ricongiungerà con il flusso vitale, l’unica loro certezza.

o L’umorismo: Pirandello collegò esplicitamente il romanzo al saggio L’umorismo, la cui prima


edizione fu dedicata «Alla buon’anima di Mattia Pascal bibliotecario». Vari critici hanno definito Il
fu Mattia Pascal un “romanzo umoristico”; sono molti, infatti, i passi in cui è espressa la poetica
dell’«umorismo» che l’autore teorizzerà quattro anni più tardi nel saggio omonimo: in particolare,
nel capitolo V, di fronte a un litigio tra la suocera e una vecchia zia, il riso di Pascal è generato
proprio dal “sentimento del contrario”, poiché egli si rende conto che non dovrebbe né ridere né
rimanere a guardare, ma capisce anche i motivi che lo spingono a comportarsi in quella
determinata maniera.

▪ Le tecniche narrative e lo stile

La vicenda è narrata in prima persona dal personaggio protagonista (focalizzazione interna), in un sottile
gioco di prospettive che accompagna le diverse esperienze vissute da Mattia. Il lettore è condotto a seguire
gli eventi che via via si dipanano, gli imprevisti, le difficili scelte, gli errori, i tormenti, le drammatiche svolte
della vicenda attraverso il punto di vista di Mattia, di Mattia-Adriano e del fu Mattia. La scelta della
narrazione in prima persona, fondata sulla soggettività, costituisce un netto superamento della narrativa
naturalista, impersonale e oggettiva, e induce il lettore a percepire ogni evento come imprevedibile, frutto
del caso.

In questo romanzo Pirandello adotta tecniche narrative particolari: la prospettiva dell’analessi, la


narrazione in prima persona, la diversificazione fra l’io narrante e il personaggio, il conseguente passaggio
dal piano temporale del passato di cui racconta a quello del presente in cui si esamina e discute,
coinvolgendo spesso il lettore. Il linguaggio assume una caratteristica teatrale per la presenza del monologo
interiore, di interrogazioni, esclamazioni, riflessioni, espressioni colloquiali.

• L’umorismo
Il saggio L’umorismo, iniziato nel 1906, fu pubblicato nel 1908, come testo da presentare per un concorso
universitario relativo a un posto di professore ordinario presso l’Istituto Superiore di Magistero di Roma. Si
compone di due parti: nella prima l’autore passa in rassegna i testi da lui considerati umoristici, mentre
nella seconda propone la sua definizione di umorismo, analizza i processi psicologici che creano la
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situazione umoristica e il modo di rapportarsi alla realtà da parte dello scrittore. La seconda parte del
saggio si configura come una dichiarazione programmatica di poetica, nella quale, grazie a esempi antichi e
contemporanei, vengono fornite le chiavi interpretative per analizzare la produzione letteraria di
Pirandello.

Nel saggio Pirandello introduce una distinzione tra due concetti apparentemente vicini, ma in realtà diversi,
il “comico” e l’“umoristico”: il comico viene definito l’«avvertimento del contrario», ovvero come la
percezione del contrario di quello che, in realtà, dovrebbe essere e che induce al riso; l’umoristico, invece, è
il «sentimento del contrario», poiché consiste nella riflessione su fatti apparentemente comici che, tuttavia,
osservati in maniera più approfondita, danno origine a un sentimento di compassione. Il termine
«sentimento» significa appunto solidarietà e «identificazione col soggetto che produce il ridicolo». Ma la
definizione di «sentimento del contrario» ha implicazioni più profonde nel contesto della poetica
pirandelliana: il «contrario», infatti, è generato dalla consapevolezza, da parte dell’osservatore, dell’oltre,
che contrasta con l’apparenza e svela una realtà altrimenti inconoscibile. Lo scrittore umorista, quindi, vede
nella realtà «una costruzione o finta o fittizia del sentimento e con arguta, sottile e minuta analisi la smonta
e la scompone», portando alla luce le contraddizioni e le assurdità della vita.

Nel saggio (soprattutto nella seconda parte) sono evidenti i richiami alla psicologia di Alfred Binet da cui
Pirandello riprende la concezione dell’io diviso, e all’opera di Henri Bergson Il riso. Saggio sul significato del
comico: anche il filosofo francese, infatti, parla di contrasto tra vita e forma e di convenzioni sociali imposte
dalla forma: «proprio come la vita dello spirito può essere ostacolata nel suo realizzarsi dalle esigenze della
macchina corporea, così la forma della vita sociale può soffocarne il senso».

o Il sentimento del contrario

Questo brano è stato preso da uno dei suoi testi più importanti. Pirandello dice che nella concezione di ogni
opera umanistica, la riflessione non si nasconde e non resta una forma di sentimento che si analizza. Da
questa analisi nasce un nuovo sentimento che potrebbe chiamarsi: il sentimento del contrario. In seguito,
appare il ritratto di una vecchia signora con i capelli ritinti e unti e vestita con abiti giovanili e Pirandello la
vede come il contrario di come deve essere un signore di quell'età. La comicità dell'autore nasce dal fatto
che ci si accorge che qualcosa è in contrasto con le regole e abitudini. Pirandello, analizza in modo migliore
la questione e pensa che la signora si veste e atteggia in questo modo per rendersi più giovane e da questo
momento scompare la parte comica.

• Sei personaggi in cerca d’autore


▪ Le rappresentazioni e le novità dell’opera
Il titolo Sei personaggi in cerca d’autore richiama il tema caro a Pirandello dell’autonomia dei personaggi
dall’autore, già presente nel racconto Personaggi del 1906, ripreso nelle novelle La tragedia di un
personaggio del 1911 e Colloqui coi personaggi del 1915. Il dramma fu scritto e portato sulla scena nel
1921, per la prima volta a Roma al teatro Valle, dove divise drasticamente il pubblico e, cinque mesi dopo,
al teatro Manzoni di Milano, dove fu invece apprezzato in modo unanime.

Con i Sei personaggi Pirandello supera definitivamente il teatro borghese ottocentesco, basato sulla
rappresentazione realistica di problematiche di natura sociale: porta sulla scena il conflitto fra attori e
personaggi e l’incapacità dell’arte a cogliere la vita; la scena rimane sempre aperta, vuota, priva di finzioni,
non più separata dagli altri spazi teatrali. Non c’è più la suddivisione netta in atti. La tecnica del teatro nel
teatro consiste nel far recitare sulla scena, durante la rappresentazione di un dramma, un altro dramma,

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che si configura come discussione sul dramma stesso: nel caso dei Sei personaggi, come si è detto,
sull’impossibilità del teatro di conoscere la vita, di darle un senso universale e di riprodurla.

A questa nuova concezione del teatro si affianca una rivoluzione della scena: le didascalie sono vere e
proprie note di regia. L’effetto della “commedia da fare” è ottenuto presentando la scena senza sipario,
dove gli attori si preparano a provare una precedente e già nota commedia pirandelliana; il capocomico dà
le sue indicazioni, il suggeritore è sotto gli occhi di tutti col copione aperto: come le maschere, anche il
teatro viene “denudato”. A un tratto, non dalle quinte ma dalla sala, attraverso una scaletta laterale, si
presentano sul palcoscenico prima l’usciere e dietro di lui i sei personaggi cui volutamente Pirandello non
assegna un nome proprio, limitandosi a chiamarli in modo generico (la Madre, il Padre, il Figlio, la Figliastra
ecc.). Per mezzo di questo espediente, che si chiama tecnicamente “sfondamento della quarta parete” (la
“quarta parete” è quella ideale, e fino allora invalicabile, che separa il palcoscenico dalla platea), lo
spettatore si rende conto che i personaggi non sono creature “teatrali”, ma vengono, per così dire, da
un’altra dimensione, e ne prova sorpresa e disagio. Sul palcoscenico i sei personaggi provano a interpretare
una scena che rappresenta un episodio da loro vissuto, ma entrano in conflitto con gli attori, mostrando
reciproca insofferenza e perseguitandosi a vicenda. È l’espressione più completa dell’impossibilità di
rappresentare in modo univoco e oggettivo la realtà: ogni personaggio presenta la propria “verità” e gli
attori, da par loro, non riescono a calarsi completamente nel dramma dei personaggi, poiché lo vivono solo
dall’esterno.

▪ La vicenda e i temi
Una compagnia teatrale sta facendo le prove di una rappresentazione di Pirandello, Il gioco delle parti,
quando dal fondo della sala entrano sei personaggi: il Padre, la Madre, la Figliastra, il Figlio, la Bambina e il
Giovinetto. Essi, concepiti da un autore che si è rifiutato di scrivere il loro dramma, cercano un altro autore
che sappia far rivivere la loro storia e degli attori che sappiano interpretarla. Il loro dramma è questo: la
Madre, dopo aver dato alla luce il Figlio, è fuggita con il segretario del Padre da cui ha avuto altri tre figli (la
Figliastra, la Bambina e il Giovinetto). L’amante muore e la Madre torna nella città d’origine con i tre figli. La
Figliastra cade nelle insidie di Madama Pace, che del suo negozio di moda ha fatto una casa di
appuntamenti, e ha un incontro d’amore con il Padre, ma l’incesto non è consumato per l’intervento della
Madre. Il Padre, vergognoso, accoglie in casa tutta la famiglia, ma si crea una situazione insostenibile a
causa dell’ostilità del Figlio (che era sempre rimasto con lui). Ed ecco la tragedia: la Bambina muore
affogata e il Giovinetto, che l’ha vista morire senza intervenire, si uccide. Queste le vicende da
rappresentare, ma il capocomico e gli attori non riescono a far entrare questi personaggi negli schemi
dell’arte e a rappresentare sulla scena il loro dramma. Solo questi ultimi possono far rivivere la loro realtà
e, recitando, ricostruirla secondo i limiti dell’arte.

La struttura dell’opera è piuttosto complessa, specchio della relatività della verità e della concezione
dell’arte. Nella vicenda possono essere individuati quattro piani che s’intrecciano:

1. i fatti accaduti: la storia di una famiglia borghese, con un matrimonio fallito, il tentativo della Madre
di ricostruirsi una famiglia, il mancato incesto;
2. il rapporto fra personaggi e autore, che li ha creati senza definire la loro parte, cosicché essi sono
come fantasmi vaganti alla ricerca di una forma che dia loro una consistenza;
3. le interpretazioni dei personaggi stessi, irriducibili all’unicità: ciascuno ha il proprio dramma e le
proprie verità che non coincidono con quelli degli altri;
4. il conflitto fra personaggi e attori: i primi non accettano le interpretazioni dei secondi perché la vita
non può essere rappresentata dall’arte, che la deforma e la rende inautentica.

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Nessuno di questi piani s’impone sull’altro, ma tutti s’intersecano creando quella perplessità che
dichiaratamente l’autore intendeva comunicare.

• Novelle per un anno


Pirandello compose novelle per più di cinquant’anni: dapprima le pubblicava su giornali e riviste, poi le
raccoglieva in volumi, nei quali compariva anche qualche novella inedita. Nel 1922 decise di raccoglierle
tutte in un’opera in più volumi dal titolo Novelle per un anno. Dalle novelle Pirandello attinse il materiale
per molte opere teatrali. Il titolo della raccolta rappresenta una sfida dell’autore a se stesso nel prefiggersi
di raggiungere il numero di 365, quanti sono appunto i giorni dell’anno. Nell’edizione definitiva le novelle
sono 255.

All’interno del corpus delle novelle non c’è un ordine e uno sviluppo. Esse sono paragonabili ai frammenti di
uno specchio rotto, ciascuno dei quali riflette la realtà secondo una sua inevitabile deformazione. Dalla
lettura si ricava un senso amaro e penoso dell’esistenza, che addossa agli uomini, piccoli esseri
insignificanti, enormi carichi di dolore. Talvolta i personaggi cercano di ribellarsi attraverso una temporanea
fuga nell’irrazionale, talvolta trovano tragico sfogo nella follia; essi costituiscono un vasto campionario di
individui, ritratti con intento “umoristico” nella loro vita quotidiana, costellata di sofferenze e di ossessioni.
Ad eccezione delle prime novelle ambientate in Sicilia, né gli ambienti né i personaggi sono guardati
attraverso i canoni dell’impersonalità verista: gli ambienti fanno da sfondo a storie paradossali, poco
plausibili se guardate con criteri realistici, storie nelle quali i protagonisti tentano invano di uscire dalla
cristallizzazione della forma, di togliersi la maschera delle convenzioni sociali. Le novelle di ambiente
siciliano hanno per protagonisti i contadini, figure primitive e grottesche, mentre quelle, numerosissime,
ambientate a Roma rappresentano la piccola borghesia, spesso impiegatizia, afflitta da frustrazioni e
miserie.

Spesso la novella inizia in medias res, cioè quando l’azione è già a un buon punto del suo sviluppo; a volte la
conclusione è addirittura anticipata e la novella è l’analisi delle circostanze che hanno provocato
quell’epilogo; a volte, invece, l’inizio è un antefatto di cui la novella è lo svolgimento. La successione logica
e cronologica dei fatti è manipolata dall’autore mediante un intreccio libero e vario. Nelle novelle sono
presenti tutti gli aspetti della problematica pirandelliana: dall’uomo soffocato dalle trappole (la famiglia, il
lavoro e la società), al contrasto tra la vita e la forma, dalla frantumazione dell’io, al relativismo
conoscitivo.

Il linguaggio è comune, antiletterario, adatto a rappresentare l’immediatezza del parlato, la quotidianità


colta nei suoi aspetti più inconsueti e vari; l’ampio uso del discorso indiretto libero permette di indagare
l’interiorità dei personaggi, di metterne a nudo gli impulsi più segreti, gli istinti più brutali.

o La patente

Il giudice D'Andrea è una persona molto ordinata e svolge con precisione e puntualità il suo lavoro. Non
lascia mai in sospeso le pratiche; però questa volta ne ha una che giace da una settimana sulla scrivania
perché si tratta di un caso che lo lascia molto perplesso.

Un uomo, di nome Chiàrchiaro, è considerato uno iettatore da tutto il paese.

Un giorno, vede due giovani che, nei suoi confronti fanno, un atto osceno di scongiuro per proteggersi dalla
iella; per questo l’uomo ha sporto querela per diffamazione nei loro confronti.

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Il giudice D’Andrea è convinto che non sarà possibile eliminare la superstizione che circonda Chiàrchiaro e
siccome prevede che la causa sarà persa, ritiene che sia più opportuno ritirare la querela, anche perché il
paese non aspetta altro di vedere l’uomo condannato.

Dopo una lunga riflessione, il giudice decide di far chiamare il querelante nel suo ufficio per convincerlo a
ritirare la querela, perché alla fine lo avrebbe penalizzato ancor di più, dato che il giudice non avrebbe mai
potuto incriminare i due ragazzi querelati per un fatto così banale e alla fine la fama di iettatore di
Chiàrchiaro si sarebbe ancor di più diffusa, ottenendo così l'effetto contrario di quello desiderato.

Quando arriva nell'ufficio, Chiàrchiaro si presenta con il tipico aspetto di un iettatore e ammette addirittura
di esserlo; il giudice meravigliato gli chiede perché inizialmente abbia querelato i ragazzi che lo ritenevano
un portatore di sfortuna, se poi egli si ritiene di esserlo; nella risposta Chiàrchiaro chiarisce la sua
intenzione: chiede al giudice di istruire al più presto il processo: perdendo la causa, egli sarà considerato
ufficialmente uno portatore di sfortuna e chiederà così che gli sia rilasciata la patente di iettatore. In questo
modo potrà guadagnarsi da vivere: si metterà davanti ai negozi, nelle prossimità delle case da gioco, vicino
alle industrie i cui i proprietari lo pagheranno perché se ne vada; così, egli potrà riscattarsi anche dalla
sottile malvagità della gente che fino ad ora lo ha sempre scansato.

Tema dell'identità

o Il treno ha fischiato

Belluca è un uomo modesto. Lavora come contabile, con rigore e rispetto. È un uomo scrupoloso, mite,
umile, puntuale, sottomesso e sempre servizievole. La sua vita scorre monotona tra la routine domestica e
la carriera lavorativa. I suoi colleghi e il capoufficio non hanno molta stima o particolare considerazione di
lui, e anche la sua famiglia sembra non valorizzarlo affatto. Se la situazione lavorativa è sempre deludente e
umiliante, quella familiare è a dir poco complessa: sua moglie, sua suocera e la sorella della suocera, sono
tutte non vedenti e vivono nella sua casa, insieme alle 2 figlie vedove con i loro 7 bambini. Belluca è ora
ricoverato in un ospedale psichiatrico. Ha avuto un brutto crollo e un giorno che sembrava essere un giorno
qualunque, sul posto di lavoro si è letteralmente scagliato contro il proprio capoufficio inveendo contro di
lui.

Tra le grida sconclusionate di Belluca si ode uno strano verso: il fischio del treno. È lo stesso che l’uomo
continua a ripetere di averlo sentito nella notte e che lo ha trascinato via lontano.

Il fischio di quel treno nel cuore della notte spalanca per Belluca prospettive nuove e mai esplorate e lo
mette di fronte alla totale mancanza di evasione e leggerezza nella sua vita.

Il protagonista comprende l’importanza, di tanto in tanto, di concedersi dei momenti di libertà ed evasione
da tutto, fosse anche nel mondo del sogno e della fantasia

Temi

Tema della famiglia come trappola, della pazzia come fuga dalla realtà, tema del relativismo conoscitivo

Analisi

Per quanto riguarda la struttura del testo troviamo una parte iniziale in media res, cioè il lettore si trova già
nella parte centrale della storia, senza una vera e propria introduzione. La narrazione appare destrutturata
rispetto allo svolgimento logico-cronologico, e la vicenda viene osservata da tre punti di vista ben distinti:
quello dei colleghi d’ufficio, quello del narratore vicino di casa e quello del protagonista stesso.

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Tommaso Vangelisti 5°AINF 05/06/2022

I temi affrontati da Pirandello in questa novella sono molteplici: la falsità delle apparenze; la concezione
relativistica della realtà; l’importanza della libertà; la ribellione alla realtà.

Dal punto di vista del lessico ne troviamo due tipi, quello tecnico è legato alla professione di Belluca; quello
semplice invece all’evasione mentale. Nel testo troviamo numerose metafore e similitudini.

Nell’opera riscontriamo il forte contrasto tra quella che tutti sembrano definire follia (l’improvvisa
ribellione di Belluca) e la realtà dei fatti: la vera follia è adeguarsi alla vita di tutti i giorni rinunciando al
sogno e alla libertà.

o La signora Frola e il signor Ponza, suo genero

Discorso indiretto libero

Relativismo conoscitivo

Il racconto è ambientato a Valdana dove si trasferiscono tre nuovi personaggi che improvvisamente
catturano l’attenzione dell’intero paese. Il signor Ponza, sua moglie e la signora Frola, sua suocera, non
vivono insieme, ma occupano due case diverse. Non solo, l’anziana signora non può accedere a casa del
signor Ponza e per vedere sua figlia deve accontentarsi di lasciarle dei bigliettini in un paniere calato dalla
ringhiera.

Il narratore tenta di far chiarezza sul fatto, vissuto con inquietudine a Valdana, ricostruendo con attenzione
le tre successive dichiarazioni rilasciate alle signore del paese da parte della signora Frola e del signor
Ponza.

La signora Frola, la prima a recarsi al cospetto delle donne, offre loro una prima giustificazione per il
comportamento apparentemente inaccettabile: l’uomo non è per niente crudele, è anzi amorevole e
innamorato della figlia, tanto da volerla “tutta per sé”. Non si tratta di crudeltà, ma di “una specie di
malattia”, su cui la donna non dice altro.

Non appena terminata la visita della signora Frola, anche il signor Ponza decide di fornire alle donne la sua
“doverosa dichiarazione”. In preda all’agitazione, racconta che la signora Frola è in realtà impazzita dopo la
morte della figlia e che lui, per evitarle un dolore ulteriore, da quattro anni porta avanti una messa in scena:
la sua seconda moglie continua a fingersi, da lontano, figlia della donna, perché lei possa continuare a
illudersi che il lutto non sia mai esistito e sia il genero a impedirle di avere un contatto diretto con la figlia.

A questo punto prende nuovamente parola la signora Frola, chiarendo quanto prima taciuto: non è lei a
essere impazzita, ma suo genero, il signor Ponza, che crede che sua moglie sia morta da quattro anni e di
averla sostituita con una seconda. I parenti, preoccupati per lui, hanno acconsentito a questa messinscena:
l’intera famiglia ha celebrato un secondo matrimonio fittizio, la moglie finge d’essere un’altra donna, la
suocera si rassegna a poter vedere la figlia solo da lontano.

Stabilire chi dei due dica la verità è impossibile: la moglie del signor Ponza può parlare solo in presenza del
marito e non può che confermarne la versione, rendendo impossibile capire se stia mentendo per il suo
bene o se stia dicendo la verità.

L’unica cosa concessa al paese è rassegnarsi nel dilemma.

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• Uno, nessuno e centomila


Uno, nessuno e centomila, pubblicato a puntate sulla “Fiera Letteraria” nel 1925 e in volume l’anno
successivo. È l’ultimo romanzo di Pirandello, rielaborato all’epoca dei capolavori teatrali, con i quali ha in
comune spunti, temi e riflessioni.

La struttura di questo romanzo è semplice, assai simile a quella di un saggio, al quale si avvicina molto per il
procedimento dimostrativo. È costituito da otto libri, ciascuno dei quali viene suddiviso in capitoletti che,
coi loro brevi sottotitoli, collegano il procedimento ragionativo e quasi ne fanno una sintesi.

La tranquilla esistenza del protagonista Vitangelo Moscarda, chiamato affettuosamente Gegè dalla
consorte, agiato borghese, viene sconvolta un giorno dalla moglie, che gli fa osservare che il suo naso
pende un po’ a destra. Guardandosi allo specchio, egli si accorge così per la prima volta della sua
imperfezione. Da questa casuale constatazione prendono il via nel protagonista, tormentato ragionatore,
una serie di considerazioni inquietanti: egli non si vede come lo vedono gli altri, e gli altri vedono in lui cose
che egli ignora; anzi, le immagini che gli altri hanno di lui sono “centomila”, ed egli non si riconosce in
nessuna di esse. Insomma, Vitangelo Moscarda è insieme “uno” e “centomila” e anche, dato che non è
possibile definire in modo univoco la sua identità, «nessuno». Anche lui, come Mattia Pascal, si ribella, ma
in maniera più aggressiva e con azioni sconcertanti. Cerca di cancellare la propria immagine pubblica di
figlio inetto di un banchiere e usuraio: si introduce autoritariamente nella banca, fra lo sgomento degli
impiegati e dei soci e, nonostante l’opposizione del suo amministratore, Quantorzo, esige di occuparsi
direttamente degli affari e dei beni che gli spettano. Regala un appartamento a un certo Marco di Dio e
compie azioni tali da indurre la moglie e i soci a considerarlo pazzo e a volerlo interdire. Con l’aiuto di Anna
Rosa, amica della moglie, si accorda col vescovo per donare i propri beni a opere di carità. Un giorno,
mentre Vitangelo tenta di abbracciare Anna Rosa, viene colpito da un colpo di pistola sparato dalla donna,
che lo ferisce gravemente. Una nuova maschera si posa sul volto di Moscarda, quella dell’amante adultero.
La donna è accusata di tentato omicidio; al processo Moscarda la scagiona attribuendo l’accaduto al caso.
Egli decide quindi di andare a vivere anonimamente in un ospizio, diventato finalmente «nessuno», come
una pianta e il vento, tutto immerso nel fluire vitale della natura.

Come Mattia Pascal, anche Moscarda si ribella all’identità che gli altri gli hanno attribuito: non si riconosce
nel proprio corpo, non accetta l’opinione che la moglie ha di lui, rifiuta l’accusa di usuraio che il paese gli ha
mosso, si sottrae alla potestà paterna e a quella dell’amministratore dei suoi beni. Ma, mentre Mattia
Pascal tenta la propria affermazione cercando di approfittare di un caso fortuito, Vitangelo Moscarda si fa
protagonista attivo e consapevole della propria liberazione; scopre la vita autentica attraverso la rinuncia al
desiderio di essere «uno per tutti» e l’autoesclusione dalla società, che gli consente di rifiutare ogni forma e
di abbandonarsi al fluire della vita universale. In questa mancanza di identità consiste l’esito positivo della
ricerca, che fa di Moscarda il capofila di un’umanità nuova che si affermerà in altri personaggi della
creazione pirandelliana.

Pirandello non si ispira alla tradizione letteraria, da lui definita «guardaroba dell’eloquenza», ma si affida a
una lingua rapida e nervosa, che riduce fortemente la distanza fra lo scritto e il parlato; la sintassi è agile e
movimentata, ricca di esclamazioni e di interrogativi, che evidenziano le caratteristiche grottesche dei
personaggi e delle situazioni; il lessico è perlopiù medio, ma ravvivato da aggettivi dissonanti, da
espressioni concitate. Queste caratteristiche sintattiche e lessicali, unite a frequenti dialoghi, monologhi,
discussioni con un interlocutore immaginario che viene perfino introdotto nella vicenda come personaggio
vero e proprio, conferiscono a questo romanzo, forse più degli altri, uno stile teatrale.

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Modulo 6
Giuseppe Ungaretti (p. A620)
• La vita
Nacque nel 1888 ad Alessandria d'Egitto da genitori lucchesi che vi si trasferirono in cerca di lavoro negli
anni in cui cominciò lo scavo del canale di Suez. In seguito nel 1912 si trasferì a Parigi per studiare alla
Sorbona. Visse nella capitale francese molti anni dove maturò le sue prime esperienze letterarie entrando
in contatto con l'ambiente simbolista, che tanto influenzò la sua poesia. Frequentò esponenti di spicco della
classe intellettuale europea, tra i quali Apollinarre, De Chirico, Modigliani, Picasso, Braque. Nel 1914
partecipa come volontario alla Prima Guerra Mondiale, combattendo da soldato semplice in Francia e sul
Carso. Nel 1915 pubblica le prime poesie sul giornale "Lacerba" e nel 1916 vide le stampe la sua prima
raccolta di liriche, Il porto sepolto alla quale seguirà Allegria di naufragi nel 1919. Le due raccolte con
l'aggiunta di alcune poesie verranno riproposte in un unico volume dal titolo L'Allegria (1931). Fu attivo
collaboratore di alcune riviste letterarie e inviato speciale di quotidiani tra cui "Il Popolo d'Italia", "La
Gazzetta del Popolo" di Torino. Al termine della guerra ritornò alcuni anni a Parigi lavorando per
l'ambasciata italiana. Nel 1936 fu nominato docente di Letteratura italiana all'Università di San Paolo in
Brasile dove rimase fino 1942. Tornato in Italia fu docente di Letteratura italiana contemporanea
all'Università di Roma. Sempre nel '42 Ricevette la nomina di Accademico d'Italia. Le raccolte poetiche del
secondo dopoguerra (Il dolore, 1947; La terra promessa, 1950) risentono dei lutti vissuti dal poeta: prima
morì il fratello nel '37 e dopo due anni il figlio Antonietto di nove anni. Nella produzione ungarettiana
annoveriamo anche prose e saggi. Prima di morire nel giugno 1970, Ungaretti riuscì a vedere pubblicata da
Mondadori la raccolta definitiva dei suoi versi: Vita d'un uomo. Tutte le poesie.

• Le opere
La raccolta Il porto sepolto fu trasformata nella prima sezione della seconda raccolta, Allegria di naufragi
(1919), a sua volta ampliata e modificata con il titolo L’Allegria. Le liriche di questa raccolta, che
appartengono alla prima fase della produzione poetica di Ungaretti, si distinguono per un marcato
sperimentalismo sul piano formale e una forte componente autobiografica: rievocano gli anni della
giovinezza trascorsa in Egitto e la cruda esperienza della guerra vissuta dal poeta come soldato al fronte.

Il dolore segna il passaggio alla terza fase della poesia di Ungaretti, in cui emergono la sensazione di vuoto
di fronte al dolore per la perdita dei propri cari (il fratello e il figlioletto) e la sofferenza per le atrocità della
guerra. Qui i ricordi del passato affiorano sotto lo sguardo triste e disincantato del poeta, nel tentativo di
lenire proprio quel vuoto attraverso la poesia.

Parallelamente all’attività poetica, Ungaretti intraprese quella di traduttore. Risale agli anni giovanili ad
Alessandria la sua prima prova con la traduzione delle poesie di Edgar Allan Poe, caratterizzate dalla cura
formale e dalla brevità. Nel 1936 pubblicò il volume Traduzioni, una raccolta di testi di autori stranieri, tra
cui Góngora e Blake. Successivamente uscirono traduzioni dei sonetti di Shakespeare, delle poesie di
Mallarmé e dell’opera Fedra di Racine, a testimonianza della varietà delle sue letture e dei suoi interessi
culturali. Egli selezionava di volta in volta gli autori cui si sentiva vicino per ispirazione poetica, nel tentativo
di realizzare un «compromesso tra due spiriti», un «confronto di ispirazione», nella convinzione che i testi
poetici erano intraducibili e che tradurre significava «fare opera originale di poesia».

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• Il pensiero e la poetica
▪ La prima fase: lo sperimentalismo

La prima fase della produzione poetica ungarettiana presenta un forte sperimentalismo, che risente
dell’inlusso della poesia simbolista francese, la cui conoscenza fu approfondita dal poeta durante gli anni
parigini, e una decisa impronta autobiografica: secondo Ungaretti, che si era avvicinato all’opera di Proust,
non vi può essere «né sincerità né verità in un’opera d’arte se in primo luogo tale opera d’arte non sia una
confessione». La poesia trova così fondamento nelle esperienze esistenziali, recuperate attraverso la
memoria. Segno evidente della prospettiva autobiografica è l’indicazione del luogo e della data di
composizione, che accompagna le liriche dell’Allegria. La poesia, tuttavia, non si esaurisce in un’ottica
puramente individualistica perché Ungaretti intende innalzare la dimensione privata a simbolo di una
condizione universale; proprio in questo aspetto si riconosce la lezione simbolista. Inoltre, sull’esempio dei
simbolisti francesi, Ungaretti, per indagare la realtà nei suoi aspetti più profondi, si serve di ardite metafore
e dell’analogia, che gli permette di superare i legami logici in favore di associazioni basate sull’intuizione
immediata, e «di mettere a contatto immagini lontane, senza fili. Dalla memoria all’innocenza, quale
lontananza da varcare, ma in un baleno», come scrive lo stesso poeta.

La poesia di questa fase risente dell’impegno di rinnovamento del linguaggio poetico promosso dai futuristi,
che avevano teorizzato la poetica delle «parole in libertà», di cui Ungaretti, tuttavia, rifiutava il carattere
casuale e meccanico. La parola poetica si carica di significati profondi, diventa un mezzo per cogliere
l’essenza delle cose, per recuperare una purezza originaria in grado di riscattare dalle atrocità del presente
mediante un sofferto scavo interiore che porta a improvvise e folgoranti illuminazioni. L’esperienza del
fronte è sempre presente nelle poesie, anche al di fuori di quelle che ne affrontano direttamente il tema,
come Veglia, Fratelli, San Martino del Carso. Gli orrori della guerra, che il poeta visse in prima persona,
influirono notevolmente sulla scelta e sulla creazione di un linguaggio poetico nuovo.

Le liriche di questa prima fase sono improntate soprattutto alle seguenti innovazioni stilistiche:

o l’adozione di un linguaggio scarno, essenziale;


o il ricorso al verso libero, anche se spesso, unendo due o più versi consecutivi, si ricompone la
misura di un verso regolare;
o la riduzione del verso anche a una singola parola, considerata come improvvisa illuminazione e
dotata di capacità di evocare immagini e concetti;
o l’uso dell’analogia, che crea inaspettati legami tra immagini lontane, rivelando significati profondi e
nuovi;
o la frantumazione della sintassi e l’abbandono della punteggiatura (a eccezione del punto
interrogativo) a favore del semplice accostamento delle parole, nelle quali, però, l’uso della
maiuscola facilita l’individuazione della fine dei periodi;
o la presenza di spazi bianchi, sull’esempio dei futuristi e del poeta francese Apollinaire, di pause e
silenzi, che conferiscono rilievo semantico agli articoli, alle congiunzioni e alle preposizioni;
o la “verticalizzazione” della lirica, data dalla prevalenza di versi molto brevi che creano un
andamento verticale con effetto di essenzialità.

▪ La seconda fase: il recupero della tradizione

Superata la fase in cui la poesia si fondava sulle improvvise illuminazioni, Ungaretti assume come tema
centrale della nuova raccolta la percezione del tempo, il “sentimento del tempo”, da intendersi sia come
legame con il passato, sia come dimensione fugace e provvisoria della vita, che diventa quindi occasione
per meditare sulla morte. Le novità della raccolta, a livello formale, consistono nella scelta di una sintassi
strutturata, nel recupero della punteggiatura e delle forme metriche tradizionali, in particolare
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dell’endecasillabo, in linea con il clima culturale e ideologico dell’Europa tra le due guerre, che aspirava a
un ritorno all’ordine. L’operazione di recupero formale era legata all’influsso dei classici italiani assunti
come modello in un momento in cui Ungaretti sentiva l’esigenza di ricostruirsi un’identità attraverso la
riscoperta delle proprie radici.

La scelta di una forma più strutturata ha implicazioni anche a livello linguistico: il linguaggio è ricercato,
arricchito da un ampio uso dell’aggettivazione, di immagini originali e preziose; predominano associazioni
analogiche e metafore piuttosto impegnative e audaci, tanto che i critici hanno parlato di barocco
ungarettiano. L’interesse per il Barocco venne significativamente a coincidere con il soggiorno romano del
poeta. Roma, dominata dalle architetture barocche e dai resti archeologici della classicità, era, per
ammissione dello stesso Ungaretti, il luogo ideale della riflessione sui temi dell’eterno, della caducità, della
decadenza, della rovina.

Per reagire al sentimento della decadenza, al «sentimento del vuoto», come lo definì Ungaretti, l’uomo in
epoca barocca si era rifugiato nella grandiosità della forma, segnata da una «pienezza implacabile» di
elementi.

▪ La terza fase: la compostezza formale

La terza fase della produzione poetica di Ungaretti comprende le


raccolte Il dolore, La terra promessa, Un grido e paesaggi e Il taccuino
del vecchio. Con Il dolore, il poeta prosegue nel recupero della
tradizione classica attraverso l’impiego di nuovi ritmi ottenuti mediante
pause e suggestioni musicali. Il tono delle liriche è meno intimo: l’autore
si apre al colloquio con gli altri uomini, trattando temi concreti di
carattere universale, comunicando il proprio dolore per la morte del
figlioletto, e quello dell’umanità intera per la Seconda guerra mondiale,
verso la quale manifestò pubblicamente il suo profondo dissenso.

La riflessione degli ultimi anni condusse l’autore a un progressivo


distacco dalla vita, alla serenità di chi guarda le cose terrene da un punto
di vista privilegiato, di chi si accinge a separarsi definitivamente
dall’esistenza per approdare alla meta più alta: la morte e la dimensione
ultraterrena. Lontana tanto dallo sperimentalismo della prima fase
quanto dal “barocco” e dalle ricercatezze linguistiche della seconda, la
poesia delle ultime raccolte si caratterizza prevalentemente per la compostezza formale, pur conservando
la complessità delle strutture sintattiche e delle immagini, sempre più orientate verso una dimensione
classica.

▪ L’influenza di Ungaretti sulla poesia del Novecento

Pur nella loro diversità, le tre fasi della produzione di Ungaretti sono caratterizzate da un aspetto costante:
la ricerca della potenza espressiva della parola poetica. È un’operazione che oscilla tra due poli della
personalità del poeta: il bisogno dirompente di essenzialità e la ricerca di equilibrio e armonia. Dapprima
prevale la frantumazione delle forme tradizionali, poi subentrano il recupero della tradizione classica e l’uso
di forme più composte, che consentono di cogliere più nitidamente il messaggio ungarettiano. Sono questi i
momenti di una continua ricerca della verità insita nella parola, testimoniata dal magico incontro tra
autenticità dell’ispirazione e abilità tecnico-espressiva.

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Ma la fase più innovativa della produzione poetica ungarettiana è senza dubbio la prima stagione, quella in
cui lo sperimentalismo, con la dissoluzione delle forme e la ricerca dell’essenzialità, porta a un nuovo modo
di fare poesia, anticlassico e di rottura con la tradizione. Proprio per questo i critici hanno riconosciuto in
Ungaretti uno dei più grandi innovatori del linguaggio poetico novecentesco. I primi estimatori furono gli
intellettuali che gravitavano intorno alla rivista “La Voce”, mentre in generale la critica accolse le poesie
della guerra in modo tiepido, se non apertamente polemico. Intorno agli anni Trenta il riconoscimento
cominciò a farsi unanime, ma fu solo con gli anni Cinquanta che si assistette alla definitiva consacrazione
del poeta nel panorama letterario del Novecento italiano, quando Gianfranco Contini arrivò a definire
Ungaretti «il solo innovatore, o liberatore, nella catena dei poeti moderni».

L’esperienza poetica del Novecento fu influenzata dalla lezione ungarettiana; tuttavia, è soprattutto la
corrente dell’Ermetismo, di cui Ungaretti fu considerato il precursore, a presentare consistenti tratti
comuni. Tra le innovazioni stilistiche più vistose della poesia del primo Ungaretti che si ritrovano, almeno in
parte, nella poesia ermetica, ricordiamo l’adozione del verso libero, la ricerca della “parola essenziale” e
l’uso dell’analogia che, costruita su accostamenti inediti, suggerisce immagini suggestive e potenti,
favorendo la concentrazione dei concetti.

• L’Allegria
La raccolta Il porto sepolto, stampato a Udine nel 1916 dall’amico Ettore Serra, comprende le poesie scritte
in trincea a partire dal 1914; tra esse ne compaiono alcune apparse sulla rivista “Lacerba” già nel 1915. Il
titolo rimanda all’adolescenza egiziana del poeta e all’antichissimo porto sommerso di Alessandria d’Egitto,
di cui allora si favoleggiava. Il «porto sepolto intende rappresentare – sono ancora le parole dell’autore –
ciò che di segreto rimane in noi indecifrabile», cioè il mistero dell’essenza della poesia che il poeta conserva
solo per sé. Nel 1919 la raccolta fu inserita in una più ampia, Allegria di Naufragi, il cui titolo ossimorico
intende alludere allo sprofondare nell’abisso, ma allo stesso tempo anche alla volontà di reagire alla
sconfitta, di riprendere il viaggio dopo il naufragio. È questa l’allegria, l’attaccamento alla vita, lo spirito
vitale che nasce anche in mezzo ai naufragi esistenziali, provocati dalla tragedia della guerra. Nel 1931 le
prime due raccolte, Il porto sepolto e Allegria di Naufragi, confluirono nella raccolta con il nuovo e
definitivo titolo L’Allegria, che presenta una diversa successione delle sezioni, disposte ora in ordine
cronologico, e molte liriche profondamente rimaneggiate e corrette. Dell’assiduo lavoro di revisione sui
testi restano ampie tracce anche nell’edizione del 1936 e in quella definitiva del 1942, collocata nella
raccolta Vita d’un uomo.

La testimonianza più evidente di un’infaticabile ricerca di essenzialità appare già dal titolo della raccolta
che, da Allegria di Naufragi, diventò semplicemente L’Allegria. La variante, anche se minima, assume in
realtà una grande importanza nell’interpretazione dell’opera. Eliminando il riferimento ai «naufragi», il
poeta scelse di valorizzare soltanto l’elemento positivo e salvifico.

▪ La struttura e i temi

L’Allegria è suddivisa in cinque sezioni: “Ultime” (titolo che indica il superamento dei modi poetici giovanili;
i componimenti di questa sezione non erano infatti inseriti nelle precedenti raccolte), “Il porto sepolto”,
“Naufragi”, “Girovago” e “Prime” (allusione al nuovo modo di poetare). Le liriche, scritte negli anni in cui
Ungaretti prestò servizio come soldato, recano la data e il luogo di composizione, come se si trattasse di un
diario (il poeta lo definì, a distanza di anni, «un esame di coscienza quotidiano») che deve testimoniare la
veridicità della tragedia vissuta in prima persona, la drammatica e sofferta lotta per la sopravvivenza, il
doloroso senso di precarietà (Soldati). Tuttavia, quanto più il poeta è a diretto contatto con la morte, tanto
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più sente crescere in lui la ferma volontà di vivere («quell’esaltazione quasi selvaggia dello slancio vitale,
dell’appetito di vivere, che è moltiplicato dalla prossimità e dalla quotidiana frequentazione della morte»),
un forte attaccamento «alla vita» (Veglia). E in mezzo alla brutalità della guerra ecco farsi strada anche il
valore della fratellanza: la vicinanza della morte genera nell’uomo una reciproca solidarietà, che rende uniti
nella comune sofferenza (Fratelli). Ma l’elemento autobiografico, da cui ha origine la poesia, non riguarda
solo l’esperienza della guerra: affiorano nella raccolta anche ricordi lontani, soprattutto quelli legati
all’infanzia trascorsa in Egitto (In memoria, Il porto sepolto).

Oltre alla guerra, alla morte, al dolore e al ricordo ricorre un altro significativo tema che percorre l’intera
raccolta, quello della natura, spesso rappresentata dal paesaggio carsico arido e desolato; esso diventa
specchio dell’animo straziato del poeta (Sono una creatura, San Martino del Carso), ma anche mezzo per
ritrovare l’identità perduta e sentirsi parte di un “Tutto”, in un processo di identificazione che ricorda il
panismo dannunziano.

▪ Il ruolo del poeta e della poesia

La concezione della poesia che emerge dall’Allegria è esplicitata in alcuni componimenti che, pur senza
essere vere e proprie dichiarazioni di poetica, offrono elementi utili a comprendere l’idea che Ungaretti
aveva, in quegli anni, della poesia e del ruolo del poeta. A tale riguardo ricordiamo le liriche più
significative.

o In memoria. Scritta nel 1916, è la lirica che apre la sezione Il porto sepolto ed è dedicata a
Moammed Sceab, un amico d’infanzia di Ungaretti che, come lui, aveva lasciato Alessandria
d’Egitto ed era emigrato a Parigi. Ma nella capitale francese il giovane arabo non era riuscito a
integrarsi e a trovare una propria identità e aveva finito con il suicidarsi.
o Il porto sepolto. Questa poesia, che dà il titolo all’omonima sezione, riflette sull’origine della poesia
e dell’ispirazione poetica: riallacciandosi alla poetica del Simbolismo, Ungaretti afferma che il poeta
nel «porto sepolto» deve immergersi per recuperare l’essenza stessa della parola poetica.
o Allegria di naufragi. In questa breve lirica Ungaretti definisce (attraverso immagini analogiche e
simboliche) il processo che è alla base della creazione poetica: se la poesia si configura come un
«viaggio» senza fine, il poeta è colui che, anche «dopo il naufragio» a cui la vita lo sottopone,
riprende il cammino con slancio vitale, senza timore, come un «lupo di mare».

▪ Lo stile

Il dramma della guerra è per Ungaretti anche un’occasione per ripensare alle proprie radici (l’infanzia
trascorsa in Egitto) e all’Italia, la patria per cui si è arruolato, ma che non sente ancora pienamente sua.
Questo processo di analisi interiore, che caratterizza le liriche dell’Allegria, si traduce, sul piano formale, in
una continua ricerca della purezza e dell’essenzialità della parola, che acquista rilievo dagli spazi bianchi ed
è ottenuta attraverso una costante opera di eliminazione dei nessi logici e dei passaggi descrittivi, fino al
raggiungimento di parole “scavate” nella. Nello scavo intorno alla parola si realizza così una duplice
rivelazione: quella poetica che cerca di definire l’intima essenza delle cose, e quella umana, in cui,
attraverso la poesia, l’autore riesce a trovare il significato profondo della propria vita e delle proprie
esperienze. La concezione di poesia che ne emerge è quella di una ricerca laboriosa di «ciò che di segreto
rimane in noi, indecifrabile» e che, per essere scoperto, impone di calarsi nell’abisso delle cose per
recuperarne l’essenza più intima e profonda, come testimonia la lirica Allegria di naufragi. In questa ricerca,
Ungaretti segue la lezione dei simbolisti e dei futuristi, convinti che la poesia debba esprimere le

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inquietudini e le contraddizioni dell’uomo moderno con forme innovative e libere dalle sovrastrutture
retoriche della tradizione.

Nell’Allegria sono presenti tutte le innovazioni stilistiche introdotte da Ungaretti, sia sul piano strutturale e
lessicale, sia su quello sintattico e metrico. Tra le più significative ricordiamo:

o l’abolizione della punteggiatura (resta solo il punto interrogativo), sostituita con spazi bianchi che
hanno funzione di pausa semantica ed espressiva;
o il rifiuto della lingua aulica e dello stile di D’Annunzio e dei futuristi; alle parole della tradizione
classica Ungaretti sostituisce quelle comuni e semplici, le sole adatte a esprimere l’universalità
del suo pensiero;
o la scelta di costruire la poesia intorno all’essenzialità della parola, a folgorazioni, a frammenti di
immagini ed espressioni scarne, ridotte all’essenziale;
o l’uso dell’analogia che porta all’essenzialità di immagini e contenuti;
o lo scardinamento della sintassi: il verso franto e l’uso dell’enjambement rompono sintagmi e
gruppi di parole legate da nessi logici per esprimere le lacerazioni dell’animo;
o il ricorso al verso libero: l’abbandono delle strofe con rime e ritmi ben scanditi e misurati porta a
ritmi spezzati o a versi brevissimi (spesso formati anche da una sola parola isolata, «nuda»).

o I Fiumi
Cotici, il 16 agosto 1916

Mi tengo a quest’albero mutilato Il mio supplizio Questo è il Nilo


Abbandonato in questa dolina È quando Che mi ha visto
Che ha il languore Non mi credo Nascere e crescere
Di un circo In armonia E ardere d’inconsapevolezza
Prima o dopo lo spettacolo Nelle distese pianure
E guardo
Il passaggio quieto
Delle nuvole sulla luna

Stamani mi sono disteso Ma quelle occulte Questa è la Senna


In un’urna d’acqua Mani E in quel suo torbido
E come una reliquia Che m’intridono Mi sono rimescolato
Ho riposato Mi regalano E mi sono conosciuto
La rara
Felicità

L’Isonzo scorrendo Ho ripassato Questi sono i miei fiumi


Mi levigava Le epoche Contati nell’Isonzo
Come un suo sasso Della mia vita
Ho tirato su
Le mie quattro ossa
E me ne sono andato
Come un acrobata
Sull’acqua

Mi sono accoccolato Questi sono Questa è la mia nostalgia


Vicino ai miei panni I miei fiumi Che in ognuno
Sudici di guerra Mi traspare
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E come un beduino Ora ch’è notte


Mi sono chinato a ricevere Che la mia vita mi pare
Il sole Una corolla
Di tenebre

Questo è l’Isonzo Questo è il Serchio


E qui meglio Al quale hanno attinto
Mi sono riconosciuto Duemil’anni forse
Una docile fibra Di gente mia campagnola
Dell’universo E mio padre e mia madre.

Nella prima parte il poeta è seduto durante la notte, si riposa e fissa la luce della luna; in questo momento
romantico scaturisce la riflessione sulla sua vita.

Nella seconda parte della poesia il poeta si classifica come solo e unico superstite, sentendosi come fosse
una reliquia, un oggetto antico conservato in un’urna d’acqua. Ungaretti si immerge così nel fiume (c’è qui
anche una rievocazione al momento del battesimo, invocato come una sorta di rinascita) e i suoi movimenti
per uscire dall’acqua sono fragili e precari come quelli di un acrobata. Tornando poi vicino ai suoi vestiti,
che definisce “sudici di guerra”, si scopre come un abitante del deserto, un beduino, anela il sole e si
prostra per riceverlo. Di tutti i fiumi è proprio l’Isonzo quello in cui il poeta si riconosce fino in fondo e
quello che gli fa capire come sia una piccola parte del tutto e dell’immenso universo. L’esperienza della
guerra consente all’uomo di comprendere la propria incredibile piccolezza e gli permette di raggiungere
una maggiore consapevolezza di sé.

Nella terza parte della poesia il poeta ripercorre le fasi del suo passato prima della guerra, utilizzando quei
fiumi che le rappresentano così come l’Isonzo rappresenta la sua vita in guerra. Così il Serchio (in provincia
di Lucca) rappresenta le sue origini, i posti dove i genitori abitavano prima di andare via per questioni
lavorative, così come fecero molti altri italiani all’epoca; il Nilo, invece, parla dell’infanzia e della prima
giovinezza dell’autore, di quell’età in cui aveva molti sogni ma un sentiero ancora non tracciato; la Senna
rappresenta Parigi, la città dove Ungaretti ha studiato e ha compreso che sarebbe diventato poeta; l’Isonzo,
infine, che riporta al presente e all’autore che, pur se in guerra, riesce immergendosi a vivere un attimo di
felicità.

Nell’ultima parte della poesia, la quarta, Ungaretti torna al presente pieno di nostalgia e tristezza,
paragonando la sua vita alla corolla di un fiore, resa precaria dall’idea della morte che può sempre
affacciarsi, soprattutto vivendo in guerra.

Come le altre poesie di Allegria, I fiumi è caratterizzata da alcuni elementi tipici della produzione

Analisi metrica e figure retoriche

Il componimento, articolato dal punto di vista contenutistico in quattro parti, non presenta uno schema
metrico definito. Si compone di 15 strofe, ciascuna di diversa lunghezza, di versi liberi sciolti.

Per quanto riguarda le figure retoriche del componimento, citiamo:

Enjambement: sono numerosissimi, a causa della sintassi particolarmente frammentata dell’intera poesia,
tanto che alcuni versi sono composti esclusivamente da una parola o due parole.

Anafore: “questi”, “questo”, “questa” (anafora con polittoto ai vv. 45, 47, 52, 57, 61, 63).

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Tommaso Vangelisti 5°AINF 05/06/2022

Metafore: “questa dolina / che ha il languore / di un circo” (vv. 2-4), “in un’urna d’acqua” (v. 10), “una
docile fibra / dell’universo” (vv. 30-31), “ma quelle occulte / mani / che mi intridono” (vv- 36-38, è anche
una personificazione).

Personificazioni: “questa dolina / che ha il languore” (vv. 2-3), “il Nilo / che mi ha visto” (vv. 52-53), “quelle
occulte mani” (v. 36).

Sineddoche: “le mie quattr’ossa” (v. 17)

Similitudini: “come una reliquia” (v. 11), “come un sasso” (v. 19), “come un acrobata” (v. 19), “come un
beduino” (v. 24).

Analogia: “che ha il languore / di un circo” (vv. 3-4)

o San Martino del Carso

Valloncello dell'albero isolato, 27


agosto 1916

Di queste case Di tanti Ma nel cuore


non è rimasto che mi corrispondevano nessuna croce manca
che qualche non è rimasto
brandello di muro neppure tanto è il mio cuore
il paese più straziato

anfora = "di" e "di" (vv. 1 e 5). Ripetizione della stessa parola a inizio del verso.

Metafora = "brandello di muro" (v. 4). Si parla di muro, un oggetto, ma richiama l'immagine di un corpo
lacerato, ovvero i brandelli di carne.

Anafora = "non è rimasto" (vv. 2 e 7). Per la ripetizione delle stesse parole.

Epifora = "tanti" e "tanto" (vv. 5 e 8). Ripetizione di una stessa parola alla fine di più versi per rafforzarne
l'importanza.

Metafora = "Ma nel mio cuore nessuna croce manca" (vv. 8-9). Il poeta con questo intende dire che se pur i
suoi compagni sono morti, e di loro non restano nemmeno i corpi, nei suoi ricordi (nel suo cuore) ci saranno
tutti (nessuna croce manca), come in un grande cimitero.

Anafora = cuore (vv. 9 e 11). Ripetizione della parola.

Analogia = "E' il mio cuore il paese più straziato" (vv. 10-11). Cuore-paese: con ciò il poeta afferma
allegoricamente che la sua anima è più martoriata quanto la gente del paese, e il paese stesso.

Allitterazione della A = case-rimasto-qualche-tanti-tanto-manca-straziato

Allitterazione della R = rimasto-brandello-muro-corrispondevano-neppure-cuore-croce-straziato

Allitterazione della C = cuore-croce-manca.

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o Allegria di naufragi

Versa il 14 febbraio 1917

E subito riprende
il viaggio
come
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare.

La poesia ci dice chiaramente che ogni evento traumatico o un qualcosa di devastante travolge l'uomo, egli
per natura ritrova la sua forza vitale per riprendere il proprio viaggio della vita. L'istinto di sopravvivenza, o
forse ancor di più l'animo umano sembra fatto apposta per dare il meglio di sè a livello di forza ed energia
dopo un "naufragio", quando cioè l'uomo è travolto completamente dagli eventi e tutto sembra perduto.

Il titolo della poesia presenta la parola "allegria". Ciò può apparire come un controsenso. Un naufrago, cioè
colui che ha subito qualcosa di devastante, come può essere allegro? In realtà l'allegria è intesa come lo
stato d'animo di un uomo che dopo essere sopravvissuto rinasce, risorge e si rimette all'opera per
ricominciare a vivere dopo la tempesta.

o Soldati

Bosco di Courton, luglio 1918

Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie

o Mattina

Santa Maria la Longa 26 gennaio 1917

M'illumino
d'immenso

Il messaggio che la lirica vuol comunicare è la fusione di due elementi contrapposti:


- da una parte il singolo, ciò che è finito (l'autore);
- dall'altra l'immenso, ciò che respira in una dimensione d'assolutezza.

• Il dolore
Nel 1939, a San Paolo, in Brasile, Ungaretti, già dolorosamente provato dalla morte del fratello maggiore,
avvenuta due anni prima, perde il figlio Antonietto, di nove anni. In Europa intanto scoppia la Seconda
guerra mondiale e il poeta ritorna per assistere all’immane tragedia. Sono momenti di sofferenza, di
angoscia, di paura, di rovina che ispirano le liriche della raccolta Il dolore, pubblicata nel 1947.

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L’opera è suddivisa in diverse sezioni che scandiscono momenti differenti del dramma del poeta e del suo
smarrimento di fronte alla morte e alla distruzione:

o “Tutto ho perduto”, dedicata alla memoria del fratello;


o “Giorno per giorno” e “Il tempo è muto”, scritte per ricordare il figlioletto scomparso;
o “Incontro a un pino”, “Roma occupata” e “I ricordi”, che spostano l’attenzione dal dolore privato a
quello collettivo di un’intera nazione, sconvolta dalla Seconda guerra mondiale.

Il dolore è dunque il diario del tormento, dello strazio per la perdita e la separazione imposta dalla morte,
ma anche dello smarrimento di fronte alla tragedia della guerra. Anche nel Dolore, come nelle altre
raccolte, è quindi evidente e centrale l’autobiografismo.

Dal punto di vista stilistico, le poesie sono ricche di analogie che evocano immagini di morte e distruzione,
sottolineate anche dal ritmo e dal tono a volte triste, definito dal poeta «amaro accordo». Quanto alla
metrica, le strofe tendono a diventare più lunghe rispetto alle raccolte precedenti e i versi (soprattutto
endecasillabi) si susseguono in forma distesa e piana. Il tono intimistico della prima parte della raccolta
lascia il posto alla descrizione, a tratti apocalittica, della distruzione di una civiltà, che solo attraverso i valori
della solidarietà e della fede potrà riscattarsi.

o Non gridate più

Cessate d’uccidere i morti, Hanno l’impercettibile sussurro,


Non gridate più, non gridate Non fanno più rumore
Se li volete ancora udire, Del crescere dell’erba,
Se sperate di non perire. Lieta dove non passa l’uomo.

Nella prima si esorta a sospendere la violenza e, con una provocazione, a porsi in ascolto dei morti. Ma
soprattutto a cercare di non morire invece di uccidere chi è già passato a miglior vita.

Nella seconda strofa è presente un parallelismo tra l’erba che cresce e il sussurro dei morti. L’erba viene
definita lieta nei punti in cui non passa l’uomo perché esso sta commettendo troppe barbarie.

o La madre
Poesia Parafrasi
E il cuore quando d’un ultimo battito E quando l’ultimo battito del mio cuore (E il cuore…battito –
Avrà fatto cadere il muro d’ombra, anastrofe), avrà fatto cadere il muro d’ombra che ci separa (il
Per condurmi, Madre, sino al Signore, muro d’ombra = l’ostacolo terreno, cioè quel limite impalpabile
Come una volta mi darai la mano. come un’ombra che separa gli uomini dal mondo ultraterreno -
analogia) per condurmi, Madre, davanti a Dio (al Signore, per
essere giudicato dal detentore della legge morale), come
quando ero bambino (Come una volta – prima similitudine,
attraverso l’anafora come Ungaretti inserisce nelle prime tre
strofe delle similitudini) mi darai la mano.

In ginocchio, decisa, In ginocchio, decisa (la madre è determinata nel voler ottenere
Sarai una statua di fronte all’Eterno, il perdono per il figlio), resterai ferma come una statua (sarai
Come già ti vedeva una statua – aspettando il giudizio divino) di fronte a Dio
Quando eri ancora in vita.

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(all’Eterno), così come ti vedevo (vedeva) [quando pregavi] in


vita (come…in vita – seconda similitudine).

Alzerai tremante le vecchie braccia, Alzerai tremante le braccia, come quando morendo (come
Come quando spirasti quando spirasti – terza similitudine) dicesti: eccomi mio Dio.
Dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato, E solo quando mi avrà perdonato (m’avrà perdonato: il
Ti verrà desiderio di guardarmi. soggetto è Dio) vorrai guardarmi.

Ricorderai d’avermi atteso tanto, Ricorderai di avermi aspettato tanto e i tuoi occhi riveleranno il
E avrai negli occhi un rapido sospiro. tuo sollievo (un rapido sospiro = un sospiro di tenerezza e di
sollievo per la salvezza del figlio - sinestesia = sensazione di
sollievo percepita attraverso la sensazione visiva).

Riassunto:
La madre, verte sul tema del rapporto tra vita terrena e vita ultraterrena. Ungaretti riflette sulla propria
morte. La morte darà modo al poeta di ricongiungersi con la madre. Ungaretti immagina che quando si
troverà davanti a Dio per essere giudicato, la madre intercederà per lui, attraverso la preghiera, presso il
Signore per ottenere, con gli atteggiamenti abituali di determinazione ed umiltà che aveva in vita, la
salvezza del figlio. In lei vi è la stessa ansia di salvezza per il figlio provata per se stessa in punto di morte e
solo quando avrà ottenuto per lui il perdono divino potrà voltarsi a guardare il figlio. La figura della madre
amorosa subentra, nella conclusione della poesia, alla madre credente.

Analisi del testo della poesia:


Nella poesia La madre la dimensione degli affetti è subordinata all’ambito dei valori morali e di
conseguenza l’atteggiamento della madre è severo nelle prime strofe della lirica per divenire negli ultimi
versi affettuoso e colmo di amore per il figlio.
Ungaretti torna frequentemente sul ricordo del passato, attraverso l’uso delle similitudini (come una volta,
come già ti vedevo, come quando spirasti) e stabilisce un legame di continuità, attraverso il futuro incontro
con la madre nella sfera dell’eternità.
La morte non ha più i toni drammatici dell’Allegria, ma è solo un passaggio da superare per ottenere la
salvezza e la gloria eterna. Un profondo sentimento cristiano pervade la poesia e fa sì che l’immagine
dell’oscurità non faccia parte della morte ma al contrario della vita, la cui fine comporterà la caduta di
quello che Ungaretti definisce “muro d’ombra”, che la separa dalla luce divina.

Analisi metrica:
Il testo della poesia è composto da cinque strofe di endecasillabi e settenari alternati liberamente (due
quartine, una terzina e due distici).
La struttura del componimento è simmetrica, nel senso che ogni strofa coincide con un periodo e con un
gesto compiuto dalla madre.
Ungaretti non usa più il linguaggio scarnificato ed essenziale dal ritmo poetico frammentario della sua
precedente produzione poetica (L’allegria) ma recupera le forme poetiche tradizionali, attraverso la
punteggiatura e il ricorso ad endecasillabi e settenari, le inversioni (anastrofi), che danno maggiore rilievo a
una parte del discorso rispetto ad un’altra (quando d’un ultimo battito / avrà fatto cadere il muro d’ombra;
Come una volta mi darai la mano) e nella sinestesia, che chiude la poesia, degli occhi della madre, che
“sospirano” di amore e di sollievo.
Il ritmo è regolare e la musicalità composta, effetti ottenuti attraverso l’uso prevalente di parole piane,
fatta qualche eccezione: alcune parole tronche, “battito”, “eccomi”.
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Il tono è elevato e a tratti solenne ed i versi sono più ermetici, di difficile interpretazione e con analogie più
oscure.

Modulo 7
Novecentismo e Anti-novecentismo (P. B70)
Nel periodo compreso tra la fine della Grande guerra e i primi anni del secondo dopoguerra, il panorama
della poesia italiana mutò in maniera rilevante. Scomparsi Pascoli e D’Annunzio ed esauritasi la spinta
rivoluzionaria del Futurismo, si imposero nel panorama culturale nuovi autori destinati a influenzare in
modo significativo la poesia del Novecento. Il paese passò da un clima di diffuso malcontento per la
“vittoria mutilata” all’avvento e al consolidamento del fascismo, destinato a governare l’Italia fino al 1943.
Per comprendere la poesia di questi decenni è necessario tener conto del nuovo scenario politico: sotto il
regime fascista era infatti proibita qualsiasi forma di critica e opposizione al governo di Mussolini e si
cercava in tutti i modi di dissuadere gli intellettuali dall’affrontare tematiche civili e sociali; a questo va
aggiunta la ferrea censura sulla traduzione di opere straniere considerate non conformi al gusto e alla
cultura fascista, con il risultato di precipitare l’Italia in una sorta di isolamento culturale, al quale si
sottraggono soltanto piccoli gruppi di intellettuali, come i redattori della rivista fiorentina “Solaria”. Tutti
questi fattori fecero sì che la poesia italiana si ripiegasse sempre di più verso una dimensione intima e
privata e abbandonasse completamente la riflessione sul ruolo della letteratura nella società, che aveva
invece caratterizzato le esperienze poetiche di inizio secolo come il Futurismo. Tale stato di cose rimase
immutato fino alla caduta del regime e agli anni della liberazione dal nazifascismo, quando anche nel nostro
paese riprese vigore una poesia civile e politicamente impegnata che, parallelamente a quanto avveniva
nella narrativa con il Neorealismo, iniziò a riflettere sugli anni della dittatura e sulla tragica esperienza della
guerra, ponendosi come obiettivo primario quello di “ricostruire” l’Italia, sia materialmente sia
moralmente.

Nonostante le peculiarità dovute alla particolare situazione politica del paese, la poesia italiana del periodo
fascista è comunque in parte riconducibile a due tendenze dominanti che possiamo definire attraverso la
terminologia suggerita nel 1957 da Pier Paolo Pasolini e oggi ampiamente condivisa:

o la prima, detta “novecentista”, si rifaceva all’esperienza francese del Simbolismo e a un ideale di


poesia pura, fondata sul potere evocativo e allusivo della parola e sulla ricerca di musicalità; fu
all’origine dell’Ermetismo, un movimento che fece dell’oscurità la sua cifra stilistica;
o la seconda, “anti novecentista”, trovò il suo modello nella “poesia semplice” di Saba e, prima di lui,
nella poetica pascoliana degli oggetti quotidiani; essa si prolunga anche nel secondo Novecento e
riunisce molte esperienze che non si riconoscono nella tradizione ermetica.

• L’Ermetismo
Il Novecentismo, che si ispirava a un ideale di poesia “pura” e all’esperienza dei poeti simbolisti ed esaltava
il potere allusivo e musicale della parola, diede origine all’Ermetismo, un movimento attivo a Firenze tra il
1933 e il 1942, caratterizzato dall’oscurità che esprimeva anche l’isolamento degli intellettuali durante gli
anni del regime fascista. Tra le principali innovazioni stilistiche dei poeti ermetici, derivate in parte da
Ungaretti e Montale e dalla poesia musicale e simbolista di Mallarmé e Valéry, ricordiamo:

o la scelta di privilegiare la musicalità del linguaggio e i legami fonici tra le parole rispetto ai normali
legami logici e sintattici;

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o l’uso di un linguaggio oscuro e allusivo, ottenuto attraverso un duplice registro linguistico, che
combina termini comuni con parole rare e preziose;
o la frantumazione della sintassi, mediante l’abolizione della punteggiatura e dell’articolo;
o la scelta di metri tradizionali (endecasillabo e settenario).

Tra i maggiori rappresentanti dell’Ermetismo, che per molti poeti del Novecento rappresentò la fase iniziale
dell’attività poetica, ricordiamo Quasimodo, la cui produzione ermetica è contrassegnata dalla parola
allusiva e dal gusto per analogie, metafore e sinestesie, Betocchi, Gatto, Sereni, Luzi, Bigongiari, Sinisgalli.

▪ La linea antiermetica

All’oscurità dell’Ermetismo si oppose la linea antiermetica, attenta ai temi e al linguaggio della vita
quotidiana, che ebbe il suo principale modello nella poesia semplice di Saba. Tra i più importanti esponenti
di questo filone vi furono Cardarelli, Penna e Pavese.

▪ La poesia civile

Con la caduta del fascismo e la guerra di liberazione, la poesia fu animata da un nuovo bisogno di
comunicare, che portò al superamento del linguaggio oscuro dell’Ermetismo. Ciò si tradusse in una poesia
civile, che muoveva dall’esigenza di documentare le sofferenze patite durante il conflitto e si poneva come
obiettivo quello di “ricostruire” moralmente e culturalmente il paese, abbandonando i toni intimi e privati
per parlare alla collettività con toni corali ed epici. Esponenti di questo filone sono Ungaretti, Quasimodo,
Montale, Sereni, Fortini.

Salvatore Quasimodo (P. A77)


• La vita e le opere
Salvatore Quasimodo nacque a Modica (Ragusa) nel 1901; durante l’infanzia seguì in varie località siciliane
gli spostamenti del padre ferroviere. Nel 1919 si trasferì a Roma per frequentare il Politecnico, ma dovette
rinunciare a laurearsi per problemi economici. Nel 1926 trovò un lavoro al Genio civile e fu inviato a Reggio
Calabria e poi, nel 1929, a Firenze. Qui, grazie al cognato Elio Vittorini, conobbe i letterati raccolti intorno
alla rivista “Solaria”, presso la quale pubblicò la sua prima raccolta di versi, Acque e terre (1930). Seguirono
Oboe sommerso (1932), Odore di eucalyptus e altri versi (1933), Erato e Apollion (1936), Poesie (1938). Nel
1941, per l’apprezzata traduzione dei Lirici greci (1940), venne nominato «per chiara fama» professore di
letteratura italiana al conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano. Nel 1942 pubblicò una raccolta delle sue
poesie antiche e recenti, Ed è subito sera, che prende il titolo dalla sua lirica più conosciuta. Dopo la
Seconda guerra mondiale, Quasimodo si allontanò gradualmente dall’Ermetismo, nella convinzione che la
poesia non dovesse rivolgersi a una ristretta cerchia di lettori, ma coinvolgere un pubblico più ampio e
affrontare problematiche sociali e civili. Questa connotazione caratterizzò le sue raccolte successive: Con il
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piede straniero sopra il cuore (1946), Giorno dopo giorno (1947), La vita non è sogno (1949), Il falso e vero
verde (1956), La terra impareggiabile (1958), Dare e avere (1966). Nel 1959 gli fu conferito il premio Nobel
per la letteratura. Quasimodo morì a Napoli nel 1968.

• Acque e terre
▪ I temi

In Acque e terre Quasimodo raccolse 25 liriche, composte tra il 1920 e il 1929, di carattere autobiografico.
Venati di un sentimento di pessimismo di fronte al tempo che passa, i componimenti sono legati alla sua
esperienza personale: la nostalgica rievocazione dei luoghi dell’infanzia trascorsa in Sicilia, l’amore del
poeta per una donna, il suo rapporto con Dio e con la natura, con la quale egli tende a identificarsi,
accomunando in un unico destino la vita dell’uomo e delle piante.

▪ L’adesione all’Ermetismo

La raccolta inaugura la prima fase della produzione poetica di Quasimodo, decisamente ermetica, come
sarà fino a Ed è subito sera (1942). Sul piano stilistico, si colgono ancora influssi del linguaggio pascoliano e
dannunziano, ma risuonano anche echi leopardiani, ed è forte la vicinanza ai simbolisti francesi, per il
frequente uso dell’analogia, del simbolo, della sintassi nominale. Oltre alla musicalità e al ritmo, Quasimodo
punta alla perfezione della forma e del verso, che spesso è breve e franto

o Ed è subito sera
Testo Parafrasi
Ognuno sta solo sul cuore della terra Ogni uomo vive in solitudine, (credendo di essere)
trafitto da un raggio di sole: al centro del mondo, colpito da un raggio di sole. E
ed è subito sera. in un attimo arriva la sera.

Ed è subito sera vede svilupparsi alcuni dei temi più cari all’ermetismo. Lo scopo di Quasimodo, al di là di
quello che può apparire in un primo momento, è quello di contribuire alla ricomposizione dell’uomo
contemporaneo, che all’epoca era molto scosso dai tumulti della Seconda guerra mondiale.

Così come tutti i poeti dell’ermetismo più in generale, Quasimodo mira al rifacimento dell’uomo. Obiettivo
della poesia ermetica era infatti quello di immergersi nella vita e contribuire alla vita.

Tra le soluzioni stilistiche adottate da Quasimodo c’è l’uso di immagini astratte in una retorica raffinata che
ama gli effetti di luce.

Le figure retoriche non mancano, nonostante la brevità del testo. Possiamo trovare

➢ metafore: “sul cuor della terra”, “sera”


➢ allitterazioni e richiami sonori: “sta solo sul”; “subito sera”; “cuor della terra”
➢ analogia: “trafitto da un raggio di sole”
➢ sineddoche: “un raggio di sole”
➢ assonanze: “terra-sera”
➢ paronomasie: “solo-sole”

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• Giorno dopo giorno


o Alle fronde dei salici
Testo Parafrasi
E come potevano noi cantare E come facevamo noi, poeti, a continuare a
con il piede straniero sopra il cuore, scrivere durante l’oppressione nazista, col piede
fra i morti abbandonati nelle piazze degli stranieri sopra al nostro cuore, tra i morti
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento abbandonati nelle piazze, sparsi sui prati congelati,
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero col pianto innocente dei bambini, e l’urlo disperato
della madre che andava incontro al figlio della madre che cercava il figlio, impiccato a un
crocifisso sul palo del telegrafo? palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto, Anche le nostre cetre, per un voto di silenzio,
anche le nostre cetre erano appese, oscillavano appese inerti, al triste vento di guerra,
oscillavano lievi al triste vento. appese alle fronde dei salici.

Il tema affrontato ne “Alle fronde dei salici” è chiaro fin da subito: Quasimodo parla di come si vive da
poeta durante la Seconda guerra mondiale, nel periodo della resistenza ai tedeschi.

La poesia è stata costruita a partire da un passo biblico, il Salmo 136, che racconta degli israeliti che,
deportati a Babilonia, si rifiutano di cantare lontani da casa loro.

Questo passo è contestualizzato nel recente passato di Quasimodo, che ha vissuto come tutti oppresso
dall’invasore tedesco, costantemente circondato da dolore e morte. In questo contesto è impossibile per il
popolo, per i poeti, abbandonarsi al canto e alla scrittura.

Umberto Saba (P. A620)


• La vita
Umberto Saba nasce a Trieste il 9 marzo del 1883. Abbandona gli studi e si forma da autodidatta, leggendo i
grandi scrittori dell’epoca e restando molto attivo verso la cultura dell’Europa centrale: in particolare si
interessa alla filosofia di Nietzsche e alla psicanalisi di Freud. Nel 1903 esce la prima raccolta di versi Il mio
primo libro di poesie, dove manifesta già i primi sintomi di nevrastenia (malattia di cui soffrì tutta la vita).
Nel 1909 sposa Carolina Wolfer, la Lina cui dedicò vari componimenti. Nel 1920 inizia a gestire una libreria
antiquaria a Trieste, cosa che farà per quasi tutta la vita. Nel 1921 pubblica la prima edizione del
“Canzoniere”, mentre la sua malattia nervosa si aggrava costringendolo a iniziare delle cure. A questa
situazione si aggiunge l’applicazione delle leggi razziali in Italia. Saba, per metà ebreo, è costretto ad
abbandonare Trieste. Rientrato in città, dopo svariati anni, viene ricoverato presso l’ospedale di Gorizia (dal
quale uscirà solo per la morta della moglie) dove muore il 25 agosto del 1957. Dopo la sua morte verrà
pubblicata l’edizione definitiva del Canzoniere, la raccolta complessiva delle prose e il romanzo Ernesto.

• Il pensiero e la poetica
Saba ebbe una formazione prevalentemente da autodidatta rimanendo isolato rispetto allo
sperimentalismo delle Avanguardie e all’Ermetismo e aperto piuttosto alle esperienze culturali europee
contemporanee, rappresentate dalla filosofia di Nietzsche e dalla psicoanalisi di Freud. Quella di Saba è una
«poesia onesta», cioè autentica ispirata alla quotidianità e alla “chiarezza”, ancorata alle cose semplici e
reali, espressa in un linguaggio limpido e concreto. Il realismo di Saba, con la sua attenzione alla semplicità

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delle cose, risponde all’esigenza di una comunicazione chiara e sincera e si orienta verso il recupero di un
rapporto più stretto con la realtà quotidiana.

• Le opere
• Il Canzoniere

Il Canzoniere comprende più di 400 testi, distribuiti in tre libri e in numerose sezioni, organizzate secondo
criteri tematici e cronologici. L’opera, che ha comunque carattere unitario, può essere letta, secondo le
indicazioni dell’autore, come una sorta di romanzo autobiografico ideale, dove l’attenzione si concentra su
risvolti intimi ed emotivi di episodi di per sé poco significativi. Il Canzoniere è specchio della vita di Saba,
dove si alternano momenti di gioia serena ad altri più scuri e dolorosi; in essi il poeta dà voce ai suoi
sentimenti, in tutta la loro complessità e profondità. Tema dominante della poesia di Saba è l’amore in
tutte le sue manifestazioni. Egli dedica molte delle sue liriche alla moglie, che rappresenta la donna-madre,
ma sono presenti anche la figlia Linuccia e la nutrice. Emerge, inoltre, nei componimenti l’amore per la sua
città, Trieste, e per tutti gli esseri viventi, in una parola, per la vita. In questa sincera ricerca dell’amore si
nasconde comunque un inquieto malessere, a testimoniare che l’amore talvolta può essere anche
«doloroso amore». Egli recupera il patrimonio lessicale della tradizione (soprattutto di Petrarca e Leopardi),
fondendo spesso il linguaggio quotidiano con quello letterario. Anche dal punto di vista metrico il poeta
ricorre frequentemente a strutture tradizionali. Il linguaggio umile acquista valore poetico grazie a una
struttura sintattica ricca di inversioni, iperbati ed enjambement, e a uno studiato gioco delle rime e delle
assonanze.

o La capra
Testo Parafrasi
Ho parlato ad una capra. Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata. Era legata in un prato ed era sola.
Sazia d'erba, bagnata Aveva appena mangiato, era bagnata
dalla pioggia, belava. per la pioggia e belava.
Quel belato mi sembrava solidale con il mio dolore.
Quell'uguale belato era fraterno Ed io risposi, prima
al mio dolore. Ed io risposi, prima per scherzo, poi perché il dolore è eterno,
per celia, poi perché il dolore è eterno, ha un'unica voce ed è immutabile.
ha una voce e non varia. Sentivo questa voce
Questa voce sentiva gemere nel verso di una capra solitaria.
gemere in una capra solitaria. In una capra dal viso simile a quello degli ebrei,
sentivo il lamento di tutti i mali,
In una capra dal viso semita di ogni altra creatura.
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

Il poeta incontra per caso una capra solitaria, e in essa vede materializzarsi il destino di sofferenza proprio
di qualsiasi esistenza.

Figure retoriche

➢ Assonanze = "capra-legata" (vv. 1-2), "bagnata-belava" (vv. 3-4), "prima-sentiva" (vv. 6-9), "semita-
sentiva" (vv. 11-12).

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➢ Similitudine sottintesa = "Quell'uguale belato era fraterno" (v. 5). Seppure non sia esplicita nel testo
lui paragona il suo dolore a quello della capra.
➢ Iperbole = "il dolore è eterno" (v. 7).
➢ Metafora = "In una capra dal viso semita" (v. 11).
➢ Sineddoche = "In una capra dal viso semita sentiva querelarsi ogni altro male, ogni altra vita" (vv.
11-12-13).
➢ Anafora = "sentiva" (vv. 9-12).
➢ Enjambements = vv. 3-4; 5-6; 6-7; 9-10; 11-12.
➢ Sono presenti diverse rime liberamente disposte come fraterno-eterno, varia-solitaria, semita-vita.

o Trieste
Testo Parafrasi
Ho attraversata tutta la città. Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un'erta, Poi ho percorso una strada in salita,
popolosa in principio, in là deserta, trafficata in principio e poi deserta,
chiusa da un muricciolo: che terminava con un piccolo muro:
un cantuccio in cui solo un angolino in cui siedo
siedo; e mi pare che dove esso termina solo; e mi pare che dove esso finisce,
termini la città. finisca anche la città.

Trieste ha una scontrosa Trieste ha una grazia


grazia. Se piace, scontrosa. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace, è come un ragazzaccio dal carattere aspro e
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi vorace,
per regalare un fiore; dagli occhi azzurri e mani troppo grandi
come un amore per regalare un fiore;
con gelosia. come un amore
Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via pervaso dalla gelosia.
scopro, se mena all'ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa Da questa salita ogni chiesa, e ogni via della città
cima, una casa, l'ultima, s'aggrappa. (di Trieste)
Intorno scopro, e posso scorgere fino all'affollata spiaggia
circola ad ogni cosa o alla collina in cui sulla cima
un'aria strana, un'aria tormentosa, ricoperta di sassi, sorge una casa, l'ultima, come se
l'aria natia. si aggrappasse.
Intorno
La mia città che in ogni parte è viva, ad ogni cosa
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita c'è un'aria strana e tormentosa,
pensosa e schiva. è l'aria del paese natio (del luogo in cui sono nato).

La mia città è viva in ogni sua parte


e mi riserva un cantuccio solo per me, adatto alla
mia vita
pensosa e solitaria.

"Trieste" è la prima poesia di Saba che testimonia la sua volontà di cantare Trieste proprio in quanto tale, e non solo
come città natale. Saba ama osservare la realtà che gli sta attorno, che lo circonda.

Figure retoriche

➢ Enjambements = vv. 5-6; 8-9; 11-12; 15-16.


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➢ Similitudine = "come un ragazzaccio" (v. 10).


➢ Similitudine = "come un amore" (v. 13).
➢ Interiezione = "un'aria strana, un'aria tormentosa" (v. 21).
➢ Personificazione = "Trieste" (v. 8). Nomina la città come se fosse dotata di vita propria.
➢ Ipallage = "Alla mia vita pensosa e schiva" (vv. 24-25).
➢ Iperbato= "Intorno / circola ad ogni cosa" (vv. 19-20).
➢ Anastrofe = "da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via scopro" (v. 15-16).
➢ Chiasmo = "popolosa in principio, in là deserta" (v. 3).
➢ Allitterazione = "solo siedo" (vv. 5-6).
➢ Poliptoto = "termina /termini" (vv. 6-7).
➢ Ossimoro = "scontrosa grazia" (vv. 8-9).
➢ Ossimoro = "amore / gelosia" (vv. 13-14)

o Goal
Testo Parafrasi
Il portiere caduto alla difesa Il portiere tuffatosi nell'inutile
ultima vana, contro terra cela ultimo tentativo di difendere la porta,
la faccia, a non veder l’amara luce. nasconde il volto a terra,
Il compagno in ginocchio che l’induce, per non rivedere la luce.
con parole e con mano, a rilevarsi, Il compagno in ginocchio che lo incita
scopre pieni di lacrime i suoi occhi. a rialzarsi, con parole e con gesti,
scopre che i suoi occhi sono pieni di lacrime.
La folla- unita ebrezza - per trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno, Gli spettatori, uniti nell'euforica esultanza,
al suo collo si gettano i fratelli. pare che dilaghino nel campo. Avvicinatosi
all'autore del goal,
Pochi momenti come questo belli, i compagni di squadra gli si gettano al collo.
a quanti l’odio consuma e l’amore, Ben pochi sono i momenti belli come questo,
è dato, sotto il cielo, di vedere. per gli uomini oppressi dall'odio e dall'amore,
a cui è possibile trarne godimento nella vita
Presso la rete inviolata il portiere terrena.
- l’altro - è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasta sola. Nella porta che non ha subito goal è rimasto
La sua gioia si fa una capriola, l'altro portiere da solo. Ma la sua anima
si fa baci che manda di lontano. non è rimasta sola come il suo corpo.
Della festa - egli dice - anch'io son parte. La sua gioia è espressa con una capriola,
e baci che manda da lontano.
Egli dice: «Anch'io sono parte della festa».

Saba fu il primo scrittore della nostra letteratura a occuparsi di calcio: prima di lui sul gioco più popolare
erano fiorite le cronache e le narrazioni dei giornali sportivi, ma mai nessun poeta aveva pensato di
assumerlo come materia di rappresentazione artistica. La scelta tematica è bene intonata alle scelte di
poetica di Saba: egli intendeva fare della poesia una pratica quotidiana, voleva accostarsi alla vita della
gente comune, anche nei suoi tristi gesti rituali, come possono esserlo quelli dei tifosi di calcio
amorevolmente descritti nelle Cinque poesie per il gioco del calcio.

In Goal la suddivisione in tre strofe corrisponde esattamente alle tre immagini in cui si concentra
l’attenzione del poeta, ciascuna dedicata alla rappresentazione di un sentimento:

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1. il dolore del portiere battuto;


2. l’ebbrezza della folla, che partecipa alla gioia della squadra che ha segnato;
3. la gioia solitaria dell’altro portiere.

Figure retoriche

➢ Sinestesia: "amara luce" (v. 3). Amara = senso del gusto, luce = senso della vista.
➢ Anafora: "si fa" (vv. 16-17).
➢ Enjambements: vv. 1-2; 2-3; 7-8; 13-14; 14-15.
➢ Iperbato: "scopre pieni di lacrime i suoi occhi" (v. 6).
➢ Iperbato: "anch'io son parte" (v. 18).
➢ Anastrofe: "Intorno al vincitore stanno, al suo collo si gettano i fratelli" (vv. 8-9).
➢ Anastrofe: "Presso la rete inviolata il portiere - l’altro - è rimasto" (vv. 13-14).
➢ Antitesi: "a quanti l’odio consuma e l’amore, è dato" (vv. 11-12). Cioè l'odio e l'amore.
➢ Metafora: "la sua gioia si fa una capriola / si baci" (v. 16). La gioia sembra avere una vita propria.
➢ Paronomasia = "ginocchio ... occhi" (vv. 4-6).

Modulo 8
Eugenio Montale (P. B144)
• Vita

Eugenio Montale nasce nel 1896 a Genova da famiglia di commercianti. Interrompe studi commerciali per
problemi di salute e studia canto (arriva a 30 anni senza un vero lavoro). Partecipa a Prima guerra mondiale
in Trentino. Le varie estati trascorse alle 5 Terre costituiscono lo sfondo di Ossi di seppia (1925).

Firma il Manifesto degli intellettuali antifascisti (in realtà posizione apolitica ma ha sue idee). Nel 1927
Eugenio Montale va a Firenze dove diventa poi direttore del Gabinetto Vieusseux, istituzione culturale
antica e prestigiosa con un archivio enorme qui conosce Irma Brandais, da lui chiamata Clizia (= señal
personaggio mitologico: innamorata di Apollo e gelosa del suo amore per sorella punita e trasformata in
girasole) = giovane statunitense che viene in Italia per studiare Dante (lo fa conoscere a Montale). Nel 1938
viene allontanato perché si rifiuta di prendere la tessera del partito fascista, ed assume ruolo di primo
piano nella rivista “Solaria”. Nel 1939 esce la seconda raccolta di poesie Le occasioni, e dopo la II guerra
mondiale collabora con la Resistenza e si iscrive al Partito d’Azione. Nel 1948 va a Milano dove diventa
prima correttore di bozze e poi redattore del “Corriere della Sera” su cui pubblica racconti e articoli di vario
genere (si occupa anche di critica letteraria e musicale). Dopo la raccolta La bufera e altro (1956) che
raccoglie le poche poesie degli anni della guerra (bufera) e quelli immediatamente successivi (altro) per un
decennio non scrive quasi nulla. Nel 1964 a Eugenio Montale muore la moglie e ciò dà avvio a una nuova
fase di poesia (nuovi temi e stile): Satura (1971), Diario del ’71 e del ’72 (1973) e Quaderno di quattro anni
(1977). Nel 1967 viene nominato senatore a vita e nel 1975 riceve il premio Nobel per la letteratura. Muore
nel 1981.

• Poetica

Quella di Eugenio Montale è una figura emblematica della letteratura italiana del Novecento, così come lo
sono la sua poetica e il suo pensiero. Spesso erroneamente presentato come esponente dell’ermetismo,
Montale ne prese pubblicamente le distanze e la sua poesia, che pur può condividere con l’ermetismo
alcune caratteristiche, non è del tutto riconducibile al movimento letterario.

La poesia per Montale è in realtà uno strumento che egli stesso utilizza per effettuare una vera e propria
indagine sull’esistenza dell’uomo nella società contemporanea, sempre alla ricerca di qualcosa che non è
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conoscibile. La sua poesia non ha quindi un ruolo di elevazione spirituale: il poeta non ha a disposizione una
verità da fornire all’uomo, gli spetta solo il compito di dire “ciò che non siamo” (come scrive in Non
chiederci la parola).

Questo accade perché in fondo l’uomo del Novecento è dilaniato dai fatti e dagli accadimenti storici:
Montale nei suoi scritti apre alla riflessione sull’uomo moderno, a cui è difficile dare un’identità.
L’individuo, ormai scisso dal mondo, è vittima di una solitudine e di una frustrazione esistenziali e dominato
dal male di vivere (Spesso il male di vivere ho incontrato)

A questo male, il poeta, in quanto uomo, non può avere una soluzione (il poeta di Montale è ben diverso
dal poeta-vate dannunziano). Tuttavia, la poesia è strumento di indagine: esiste qualcosa di altro e
irraggiungibile, che pure ogni tanto riesce a schiudersi, a essere visto da lontano — il mare o i limoni di Ossi
di seppia, Clizia nelle Occasioni sono alcuni lampi di salvezza, i miracoli che schiudono il senso reale
dell’esistenza.

La poesia è inoltre per l’autore un’espressione della ricerca di dignità, un modo per comunicare fra gli
uomini. Le sue opere sono caratterizzate da un’esigenza di moralità (da non confondere con le intenzioni
moralistiche): fragilità, incompiutezza e debolezza fanno parte dell’essere umano. Da questa
consapevolezza deriva la sfiducia generalizzata verso “leggi immutabili e fisse”, siano esse filosofiche,
religiose o ideologiche.

Fondamentali nella sua produzione poetica sono i simboli. Montale sfrutta il correlativo oggettivo
teorizzato da T.S. Eliot nel saggio Il bosco sacro: i dati sensibili della realtà diventano testimonianza
materiale di una condizione esistenziale. Gli oggetti che compaiono, più o meno ricorrentemente, nelle sue
raccolte sono simboli della condizione umana: lo sono, in negativo, il muro che chiude (Meriggiare pallido e
assorto il rivo strozzato che apre) Spesso il male di vivere ho incontrato, ma anche, in positivo, i limoni de I
limoni.

• Ossi di seppia

Ossi di seppia è la prima raccolta di Eugenio Montale. L’opera vede una prima pubblicazione nel 1925 per
mano dell’amico editore Gobetti, ed è successivamente rieditata nel 1928 con l’aggiunta di alcune poesie,
che non mitigano il tono esistenzialista e filosoficamente "negativo" della prima edizione. Il titolo scelto dal
poeta è espressione del sentimento di emarginazione ed aridità nel rapporto con la realtà che caratterizza
la prima parte della sua opera poetica. Il rapporto dell’uomo con la natura non è più simbiotico; Montale
rifiuta la tradizione a lui antecedente (quella di discendenza romantico-decadente, e ben rappresentata da
Gabriele D'Annunzio) della fusione tra l'io poetico e il mondo naturale, così che il paesaggio ligure diventa
nudo e desolato come un osso di seppia. Il sole è una presenza costante che secca tutto ciò che raggiunge
coi suoi raggi, e l'aspro paesaggio naturale ed animale che l'occhio del poeta descrive è un trasparente
simbolo di un suo profondo ed inestirpabile disagio esistenziale.

Ossi di seppia esprime l’impossibilità quasi filosofica da parte di Montale di scrivere di argomenti e valori
‘alti’, e la conseguente rinuncia alla prospettiva di diventare un poeta vate, come D’Annunzio prima di lui.
Non si riesce più ad utilizzare la poesia per spiegare realmente la vita e il rapporto dell’uomo con la natura:
la realtà stessa appare incomprensibile e inesprimibile, ed il poeta non può che mettere in evidenza questa
percezione negativa del suo stare al mondo, scegliendo volutamente un paesaggio aspro e scabro, e un
linguaggio poetico che si modella su questa profonda inquietudine personale. Solo di tanto in tanto
intravediamo qualche guizzo di speranza, in cui sembra che, per un breve momento, l’uomo possa scoprire
la verità ultima che si cela dietro le apparenze del mondo. Questi toni pessimistici e il connesso "male di
vivere" montaliano si riflettono nello stile prevalente delle poesie di Ossi di seppia, scritte all'insegna di un
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linguaggio antilirico e quotidiano, che privilegia un lessico non aulico, una sintassi tendenzialmente
prosastica resa vivida da un'accurata ricerca fonico-simbolica sui termini prevalentemente usati. Il recupero
e la profonda rielaborazione formale e contenutistica della tradizione letteraria italiana fanno sì che la
prima raccolta montaliana - come dimostrano emblematicamente alcuni testi, tra cui I limoni, Non
chiederci la parola, Meriggiare pallido e assorto - sia un punto fermo tra i più noti e penetranti della nostra
poesia novecentesca.

I limoni

Poesia Parafrasi
Ascoltami, i poeti laureati Ascoltami, i poeti laureati si muovono solamente tra
si muovono soltanto fra le piante le piante dai nomi poco adoperati: bossi, ligustri,
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. acanti; io, da parte mia, invece, amo le strade che
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi sfociano nelle fosse piene d'erba, dove nelle
fossi dove in pozzanghere pozzanghere metà seccate i ragazzi acchiappano
mezzo seccate agguantano i ragazzi qualche anguilla isolata; io amo le vie che seguono le
qualche sparuta anguilla: sponde delle strade e discendono a impennarsi tra i
le viuzze che seguono i ciglioni, ciuffi delle canne e mettono negli orti tra gli alberi i
discendono tra i ciuffi delle canne limoni.
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gazzarre degli uccelli Meglio se gli strepiti degli uccelli si fermano
si spengono inghiottite dall’azzurro: all'interno del cielo azzurro; si ascolta più chiaro il
più chiaro si ascolta il sussurro fruscio dei rami nostri amici, che sono nell'aria ferma
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove, che sembrano muoversi e i sensi di questo profumo
e i sensi di quest’odore che non sa staccarsi da terra, mentre nel nostro
che non sa staccarsi da terra petto sentiamo una dolcezza inquietante. Qui, quasi
e piove in petto una dolcezza inquieta. come un miracolo, non c'è la guerra mentre le
Qui delle divertite passioni nostre passioni risultano deviate; qui anche a noi
per miracolo tace la guerra, poveri tocca la nostra parte di ricchezza ed è il
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di profumo dei limoni.
ricchezza
ed è l’odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose Vedi, in questi silenzi nei quali le cose si
s’abbandonano e sembrano vicine abbandonano e sembrano vicine quasi a farci
a tradire il loro ultimo segreto, conoscere il loro ultimo segreto, talvolta noi ci
talora ci si aspetta aspettiamo di trovare un errore che la natura
di scoprire uno sbaglio di Natura, compie per farci capire qualcosa, il punto morto del
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, mondo, e un anello di una catena che si rompe e
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta quindi ci apre un varco; il filo da sbrogliare che
nel mezzo di una verità. finalmente ci mette nel mezzo di una verità;

Lo sguardo fruga d’intorno, lo sguardo indaga intorno l'ambiente, indaga


la mente indaga accorda disunisce accorda e scompone nel profumo che si sparpaglia
nel profumo che dilaga quando il giorno sta per finire e questi sono i silenzi
quando il giorno più languisce. nei quali si vede in ogni ombra di un uomo che si
Sono i silenzi in cui si vede allontana qualche divinità che appare però
in ogni ombra umana che si allontana disturbata.
qualche disturbata Divinità.

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Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo Ma l’illusione manca e il tempo ci riporta nelle città
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra affollate dove il cielo azzurro è visibile solamente a
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase. pezzetti nell'alto tra gli spazi lasciati liberi dagli
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta edifici; la pioggia si riversa sulla terra, la noia
il tedio dell’inverno sulle case, dell'inverno aumenta sopra le case, la luce si fa
la luce si fa avara – amara l’anima. sempre più rara e l'anima sempre più triste. Quando
Quando un giorno da un malchiuso portone un giorno da un portone che è chiuso male tra gli
tra gli alberi di una corte alberi di un cortile ci si mostrano i limoni di colore
ci si mostrano i gialli dei limoni; giallo, e il gelo del cuore si disfa, allora nel petto
e il gelo del cuore si sfa, irrompono numerose, come in uno scroscio, le
e in petto ci scrosciano canzoni di questi limoni e le trombe d'oro della luce
le loro canzoni solare.
le trombe d’oro della solarità.

Commento: Siamo d’estate: il poeta è tornato a trascorrere un periodo di vacanze nelle Cinque Terre, il
luogo dove passò i momenti più felici dell’infanzia. Questo ritorno gli ispira in primo luogo la presa di
distanza dai poeti laureati (Pascoli, Carducci, D'Annunzio), in particolare con D'Annunzio, poeta dal
linguaggio altisonante e dal lessico scelto o dai paesaggi classici e dal mito del superuomo. Ad egli Montale
contrappone per la semplicità una pianta banale, mai trattata in poesia: il limone. Le parole adoperate dal
poeta sono ricavate non dal gergo della retorica ma dal linguaggio comune.

L'altro piano di lettura del testo è quello simbolista: i limoni rappresentano anche una pianta che è in grado
di far interagire tutti i sensi: vista, udito, tatto e quindi un qualcosa che permette una conoscenza quasi
miracolosa della realtà.

Il paesaggio descritto da Montale è un paesaggio campestre, quasi deserto, silenzioso, attraversato da


viottoli che coinvolge tutti nostri i sensi: la vista (il colore azzurro), l'udito (gli uccelli ed il sussurro dei rami),
l’olfatto, l'odore (di cui abbiamo diverse espressioni metaforiche).

Meriggiare pallido e assorto

Poesia Parafrasi
Meriggiare pallido e assorto Trascorrere il meriggio (le ore più calde del
presso un rovente muro d’orto, pomeriggio) pallidi e intorpiditi dal calore, vicino al
ascoltare tra i pruni e gli sterpi muro caldo di un orto, ascoltare tra i rovi e le
schiocchi di merli, frusci di serpi. sterpaglie i versi dei merli e il frusciare delle serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia Sporgersi a spiare le file di formiche rosse che, nelle
spiar le file di rosse formiche crepe della terra arida o sulla veccia (pianta
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano erbacea), si rompono e si riordinano di nuovo in
a sommo di minuscole biche. cima a mucchietti di terra.

Osservare tra frondi il palpitare Osservare tra le fronde degli alberi il tremolio del
lontano di scaglie di mare mare in lontananza mentre si sente il frinire tremulo
mentre si levano tremuli scricchi delle cicale dalle alture aride e senza vegetazione.
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia E camminando nel sole che abbaglia accorgersi con
sentire con triste meraviglia triste stupore che la vita e il tormento che porta con
com’è tutta la vita e il suo travaglio sé non sono che un continuo camminare accanto
in questo seguitare una muraglia
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che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. una muraglia invalicabile, che ha in cima aguzzi cocci
di vetro.

Commento: La poesia è tutta incentrata sul paesaggio quasi deserto e molto caldo. Il poeta osserva la
natura che lo circonda, assorto e pallido a causa del sole rovente, soffermandosi sugli elementi naturali.

Le formiche sembrano fare avanti e indietro senza meta, proprio come gli uomini; ii serpenti si muovono tra
l'erba con un fruscio appena percettibile; si scorge in lontananza il mare tremolante; si ode il canto tremulo
delle cicale. Queste descrizioni non danno certo una visione positiva della vita che ci circonda e infatti
Montale rimarca tutto ciò per descrivere l'incertezza umana e lo stato di "abbandono" in cui l'uomo, come
il paesaggio, riversa.

La figura della muraglia nell'ultima strofa descrive l'isolamento dell'uomo. Si tratta di una strofa notevole
per costruzione e contenuti. Il muro è invalicabile e presenta in cima cocci aguzzi di bottiglia, a formare una
vera prigione per l'uomo.

Da notare l'ambientazione nell'orto, luogo chiuso e confinato, e il fatto che il sole nella poesia non è visto
come qualcosa che dà luce e speranza, ma bensì acceca e stanca. L'uomo non riesce e non è in grado di
andare oltre tutto ciò, è bloccato e non riesce a elevarsi. Solo in lontananza l'autore vede uno spiraglio,
rappresentato dalle scaglie di mare.

Spesso il male di vivere ho incontrato

Poesia Parafrasi
Spesso il male di vivere ho incontrato Spesso ho visto la sofferenza che vivere procura. Era
era il rivo strozzato che gorgoglia il faticoso fluire di un ruscello secco che, come
era l’incartocciarsi della foglia lamentandosi, gorgoglia, era l’accartocciarsi di una
riarsa, era il cavallo stramazzato. foglia bruciata dal sole, era il cavallo spezzato dalla
fatica.
Bene non seppi, fuori del prodigio Non ho potuto trovare conosciuto altro bene, altra
che schiude la divina Indifferenza: salvezza, se non nell’eccezionale condizione di
era la statua nella sonnolenza distacco superiore: era la statua del meriggio, e la
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato. nuvola, e il falco che vola lontano e in alto.

Commento: Questa poesia esprime perfettamente il correlativo oggettivo montaliano, cioè quel rapporto
che la parola intesse con gli oggetti che nomina.

Stabilito ciò, è facile capire come la sofferenza di vivere sia rappresentata in maniera emblematica dal
ruscello che fluisce faticosamente, dalle foglie che si accartocciano perché riarse dal sole, dal cavallo che,
esausto, stramazza.

Tutte queste vivide immagini vengono riproposte come aspetti della realtà e di un quotidiano segnato dalla
sofferenza degli uomini. Il senso di fatica e quello di dolore sono espressi magistralmente da Montale con
l’accurata scelta dei vocaboli, crudi e duri nell’espressione del disagio (es. stramazzato, strozzato). Il fatto
che siano parole in cui le lettere s e r si ripetono costantemente non fa altro che accentuare ancor di più
l’asprezza.

Una volta snocciolati i modi in cui il male si manifesta in tutto ciò che ci circonda in maniera costante,
Eugenio Montale propone un’unica soluzione: la “divina Indifferenza”. La i maiuscola non è, come
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facilmente intuibile, posta a caso. Lo scopo è quello di deificare il distacco e la freddezza, rappresentati in
questa poesia da tre elementi: la statua (perché insensibile), la nuvola (perché impalpabile e lontana) e il
falco (perché libero nel cielo).

L’atmosfera, caratterizzata da immobilità ed estraneità, è percepibile anche attraverso il meriggio,


momento sospeso tra torpore e stupore e caro a Montale e presente in altre due opere, come ad esempio
Meriggiare pallido e assorto.

le occasioni: Le occasioni: il titolo riveste un significato, Montale aveva la volontà di esprimere una nuova
poetica. L'occasione deve essere sempre spinta verso l'oggetto, ricollegandosi agli ossi di seppia in questo
caso Montale esprime la possibilità di trovare un varco, un'epifania, attraverso le occasioni. Fu edito nel
1940 da Einaudi e successivamente nel 1949 con Mondadori. Questa raccolta è dedicata ad Irma Brandeis,
americana ebrea conosciuta al Viesseux.

Abbiamo descrizioni di paesaggi diversi da quello ligure di "Ossi di Seppia”, il paesaggio qui descritto è
urbano. Il tema principale trattato è quello del viaggio, con particolare accento sulle donne ebraiche in fuga
dai conflitti storici del momento. Le donne sono individuate con l'uso di senhal (Mosca per Drusilla; Clizia
per Irma; Arletta o Annetta per Anna degli Uberti).

Il poeta instaura un dialogo con le donne che gli fa comprendere il ruolo della donna nella vita e nella
poesia. Abbiano una donna angelo, "visiting angel”, donna che porta un messaggio di salvezza, simile a
quella dei grandi poeti dello stil novo. Un altro tema è quello della memoria: nulla si può contro il passare
del tempo. Abbiamo l'impossibilità di recuperare il passato. Inoltre, nell'ultima fase abbiamo anche il tema
dell'assenza della donna: donna come messaggera celeste, tema influenzato anche dalla guerra.

La casa dei doganieri

Poesia Parafrasi
Tu non ricordi la casa dei doganieri Tu non ricordi la casa dei doganieri su un rilievo a
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera: picco sulla costa di scogli: ti aspetta abbandonata
desolata t’attende dalla sera dalla sera nella quale vi entrò la ricchezza dei tuoi
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri pensieri, e vi si fermò con inquieta vivacità.
e vi sostò irrequieto. il vento (da sud ovest) colpisce da anni le vecchie
Libeccio sferza da anni le vecchie mura mura e il suono del tuo riso non è più felice: la
e il suono del tuo riso non è più lieto: bussola si muove senza senso da una parte e
la bussola va impazzita all’avventura dall'altra e la somma dei dadi non è più corretta. tu
e il calcolo dei dadi più non torna. non ricordi; un altro tempo distrae la tua memoria;
Tu non ricordi; altro tempo frastorna si raggomitola un filo.
la tua memoria; un filo s’addipana. Ne tengo ancora un’estremità, ma la casa si
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana allontana e la banderuola affumicata in cima al tetto
la casa e in cima al tetto la banderuola gira senza interruzione. Ne tengo un’estremità, ma
affumicata gira senza pietà. tu resti sola e non respiri qui nel buio.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola Oh, l'orizzonte che si allontana, sul quale raramente
né qui respiri nell’oscurità. si accende la luce di una petroliera! è qui il
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende passaggio?
rara la luce della petroliera! (l'onda che si rompe riappare ancora sul precipizio
Il varco è qui? (Ripullula il frangente che scende...). tu non ricordi la casa di questa mia
ancora sulla balza che scoscende ...) sera. ed io non so chi (di noi due) va e chi resta.
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

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Tommaso Vangelisti 5°AINF 05/06/2022

Commento: "La casa dei doganieri" scritta nel 1930, viene pubblicata nel 1932 e poi inserita nella raccolta
del '39 "Le occasioni". In questa poesia il paesaggio estivo della Liguria dell'infanzia e dell'adolescenza del
poeta ha acquisito una tinta oscura, tenebrosa e minacciosa. Lo stesso paesaggio delle prime poesie appare
cambiato, privo di luce, se non di quella "rara" di una petroliera. Si introduce una componente emblematica
della poesia di Montale, il Tu a cui il poeta si rivolge. Questo Tu si riferisce a una donna realmente esistita,
ma finisce per allontanarsi dalla sua identità anagrafica per diventare un'istanza grammaticale assoluta,
attraverso cui l'Io del poeta si confronta e si specchia. Gli oggetti e le ambientazioni diventano emblemi
della memoria e della mancanza di memoria. Montale canta l'oblio, l'impossibilità di trovare salvezza nel
ricordo. L'immagine più angosciosa e memorabile è quella della banderuola affumicata che gira senza
pietà, l'impazzito segnavento sembra annunciare l'arrivo di qualcosa di terribile e angoscioso.

• Satura

Satura è una raccolta di Eugenio Montale che vede la pubblicazione nel 1971. L’opera racchiude e presenta
al pubblico gli scritti dell’autore composti tra il 1962 e il 1970, dopo anni trascorsi dedicandosi alla
professione di giornalista.

Satura è suddivisa in quattro sezioni, Xenia I e II e Satura I e II. La differenza tra le varie sezioni è molto
importante dal punto di vista cronologico e, di conseguenza, tematico: se nelle due sezioni di Xenia, scritte
tra il 1962 e il 1966, Montale si concentra sul ricordo della moglie, Drusilla Tanzi, deceduta nel 1963, in
Satura I e II, dove troviamo testi degli anni 1968-70, l’autore riflette in modo satirico su vicende legate al
quotidiano. Le poesie acquistano così un sapore diaristico, in stretta connessione alla realtà e alla vita di
ogni giorno.

In Xenia, titolo che rimanda agli epigrammi latini di Marziale, Montale porge in regalo alla moglie
scomparsa le poesie che compongono queste prime due parti della raccolta. L’universo femminile,
dominato questa volta dalla consorte di Montale, chiamata affettuosamente con l’appellativo di "mosca" a
causa della sua miopia, subisce un cambiamento: si passa dall’immagine di una donna salvatrice ma
sfuggevole a una donna che si manifesta come concreta compagna del poeta, che lo indirizza nella loro vita
coniugale, grazie ad un’acutezza di sguardo più profonda rispetto a quella del marito.

In Satura I e II, titolo che richiama invece il genere letterario latino della satira, caratterizzato dalla varietà
degli argomenti trattati e del linguaggio scelto, assistiamo a una critica alla Storia e al mondo
contemporaneo del poeta. Lo stile di Satura oscilla continuamente tra la poesia e la prosa, mescolando al
ritmo poetico un linguaggio più scorrevole e quotidiano.

Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale

Poesia Parafrasi
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di Ho sceso, aiutandoti e facendomi aiutare,
scale moltissime scale ed ora che tu non ci sei mi sento
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. sempre più solo ed ogni gradino per me è vuoto.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Anche vivendo assieme a lungo tempo, io sono
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono infelice in quanto il tempo passato con te e la nostra
le coincidenze, le prenotazioni, vita insieme non sono durati abbastanza. Il mio
le trappole, gli scorni di chi crede viaggio dura tuttora, e non mi servono più le
che la realtà sia quella che si vede. coincidenze dei treni, le prenotazioni degli alberghi, i
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio viaggi, le umiliazioni della gente che crede che la vita
vera sia quella che si vede. Ho sceso moltissime scale

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Tommaso Vangelisti 5°AINF 05/06/2022

non già perché con quattr’occhi forse si vede di aiutandoti e facendomi aiutare, non perché con
più. quattro occhi si vede di più e meglio. Le ho scese con
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due te perché sapevo che tra di noi, i veri occhi che
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, vedevano la realtà più profonda, anche se indeboliti
erano le tue. dalla miopia erano i tuoi.

Commento: Il poeta traccia con tenerezza la figura della moglie in una dimensione di quotidianità,
ricordandone l'accentuata miopia, il buon senso e la saggezza. Montale offriva alla moglie il braccio per
scendere le scale, metaforicamente condivideva con lei le difficoltà quotidiane nel viaggio della vita e ora,
rimasto solo, ne sente la mancanza.

Previdente ed accorta, era Mosca (il soprannome datole affettuosamente dal marito) a fargli da guida e le
sue pupille offuscate erano le uniche a vedere: era lei, cioè, a cogliere con gli occhi dell'anima il senso
profondo del reale. La miopia della moglie assume un significato particolare nel momento in cui il poeta
sottolinea la propria stanchezza esistenziale: vivendo con lei, egli ha conquistato la capacità di vedere, non
teme più gli inganni e gli insuccessi, e ora le preoccupazioni della vita gli, appaiono trappole prive di
significato. Attraverso la metafora del viaggio, Montale ribadisce la propria concezione dell'esistenza: la
realtà non è quella che si vede con gli occhi e si percepisce con i sensi, fatta di impegni e casualità
(coincidenze e prenotazioni), insidie e delusioni (trappole e scorni), ma è qualcosa che va al di là delle
apparenze e resta misterioso per l'uomo.

Modulo 9
Il Neorealismo

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