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Émile Pouget

Il Sabotaggio
Indice
Nota biobibliografica......................................................................................4
Alcuni cenni Storici........................................................................................7
La: “Merce Lavoro”.......................................................................................19
Morale di Classe.............................................................................................22
I Metodi Del Sabotaggio................................................................................25
L’Ostruzionismo............................................................................................39
Conclusioni....................................................................................................45
Note................................................................................................................47
Nota biobibliografica
Émile Pouget nasce a Pont-de-Salars, nel dipartimento francese
dell'Aveyron, il 12 ottobre 1860 e muore a Lozère, oggi quartiere di
Palaiseau, il 21 luglio 1931. Influenzato dall’esperienza comunarda,
partecipa appena diciannovenne alla creazione del Sindacato degli
impiegati del tessile (1879). Nel 1881 fa parte del gruppo di anarchici
francesi che partecipa al congresso internazionale di Londra. Il 9 marzo
1883, durante un corteo di disoccupati, che sfocia nel saccheggio di
alcuni negozi, è arrestato insieme a Louise Michel mentre tenta di
difenderla dalla violenza poliziesca. Viene condannato a otto anni per
rapina a mano armata (sic) e incarcerato a Melun fino al 1886.
Dal 24 febbraio 1889, edita un giornale di propaganda, Le Père Peinard,
con l’obiettivo di spronare il proletariato all’azione diretta e allo
sciopero generale. nel 1894, dopo l’uccisione del presidente Sadi Carnot
per mano dell’anarchico italiano Sante Caserio, Pouget fugge in
Inghilterra per scampare all’ondata repressiva antianarchica.
amnistiato nel 1895, rientra in Francia, dove gli ambienti antiautoritari
si dividono sull’ipotesi di collaborazione coi sindacati. Pouget è a favore
dell’entrata degli anarchici nelle organizzazioni operaie e s’impegna in
prima persona nella neonata
Confédération générale du travail (sorta col congresso costitutivo di
Limoges del 1895) sostenendovi attivamente le tendenze rivoluzionarie.
Fa adottare dalla Cgt, nel congresso di Tolosa del 1897, la tattica del
sabotaggio come strumento di lotta contro il padronato. A partire dal
1900, assume la direzione del primo organo di stampa della Cgt, La Voix
du Peuple. Sempre su suo impulso, vengono definite le rivendicazioni
sulla giornata di otto ore e sul riposo settimanale al congresso di
Bourges del 1904. Nel 1906, partecipa poi alla redazione del documento
che sarà adottato dalla Cgt durante il congresso di Amiens e che segna
la temporanea vittoria del sindacalismo rivoluzionario in seno
all’organizzazione. La Carta di Amiens porrà infatti la centralità della
lotta di classe e l’autonomia del sindacato rispetto alle formazioni
politiche, propugnando sia miglioramenti immediati per i lavoratori,
sia la loro completa emancipazione attraverso l’abolizione del salariato
e l’espropriazione dei capitalisti. Nel 1908, Pouget è arrestato insieme
ad altri trenta quadri della Cgt in seguito agli scioperi di Draveil e
Villeneuve-Saint-Georges. Il sindacato
viene praticamente decapitato e la corrente moderata prende il
sopravvento, anche per lo scacco e la sanguinosa repressione degli
scioperanti. Pouget tenta nel 1909 di dar vita ad un quotidiano, La
Révolution, il quale però cessa ben presto le pubblicazioni per
mancanza di fondi spingendolo
al ritiro dal movimento sindacalista, al cui interno stava ormai
prevalendo la deriva riformista che avrebbe portato la Cgt all’Union
sacrée del 1914, ossia all’avallo della politica interventista e bellicista
dello Stato francese. L’opuscolo Le Sabotage viene pubblicato a Parigi
dalla “Librairie des Sciences Politiques & Sociales” di Marcel Marcele et
Cie (31, rue Jacob). La pubblicazione, in sedicesimi, ha 68 pagine ed
appare (col n. Xiii) nella collana “Bibliothèque du mouvement
prolétarien”. Non presenta alcuna data d’edizione, ma questa si può
desumere agevolmente sia dai contenuti (gli ultimi eventi ivi narrati
risalgono all’agosto 1910), sia da una posteriore versione italiana
pubblicata dalla “Casa editrice di avanguardia” (Milano 1911, con
un’introduzione di u. notari).
Per la presente traduzione italiana, ci si è attenuti scrupolosamente alla
copia conservata presso la bibliothèque nationale de France, la cui
scansione è disponibile in formato digitale PDF sul portale “gallica”: <
http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k54897842 >.
La note al testo sono del curatore italiano, salvo dove diversamente
indicato. Pouget aveva già trattato in precedenti pubblicazioni il tema
del sabotaggio. In un opuscolo del 1908, dal titolo La Confédération
Générale du Travail, pubblicato dallo stesso editore e nella medesima
collana del posteriore Le Sabotage, il dirigente rivoluzionario della Cgt
ne parla nel terzo paragrafo del secondo capitolo dedicato alle tattiche
di lotta (“Boycottage et Label; Sabotage”, pp. 42-45). In precedenza,
l'Almanach du Père Peinard del 1898, quasi integralmente redatto da
Pouget, conteneva un breve testo intitolato Le Sabottage (pp. 28-31; la
doppia t del titolo non è un refuso), nel quale, usando a tratti un
linguaggio più “popolare”, l’autore già incentra il suo discorso intorno
al Go Canny e allo slogan “A cattiva paga, cattivo lavoro!”. Se ne
propone qui di seguito un breve estratto: «(...) Meno ci lasceremo
domare dai padroni e meno intenso sarà il nostro sfruttamento; più
forte sarà la nostra resistenza rivoluzionaria, più grande sarà la
coscienza della nostra dignità e più vigorosi i nostri desideri di libertà e
benessere; Di conseguenza, saremo più abili a preparare lo fioritura
della splendida società ove non vi saranno più né governanti, né
capitalisti; E anche più preparati, quando vi giungeremo, ad evolvere
nel nuovo ambiente. Al contrario, se invece di cominciare da ora
l’apprendistato della libertà, ci disinteressiamo della vita corrente,
disprezzando i bisogni e le passioni dell’ora attuale, non tarderemo a
disseccarci nell’astrazione e a diventare degli illustri spaccatori di
capello in quattro. In tal modo, vivendo troppo nel sogno, la nostra
attività si smorzerà e, perduto ogni contatto con la massa, il giorno in
cui vorremo scuotere il nostro torpore, saremo impacciati come un
elefante di fronte ad un clistere. Non c’è quindi da far piroette: per
realizzare l’equilibrio della vita, in modo da condurre l’attività umana
al più alto grado, non bisogna trascurar né il presente, né l’avvenire.
(...)» (p. 31).
Il sabotaggio
Alcuni cenni Storici

La parola “sabotaggio”, fino ad una quindicina d’anni fa, era solo un


termine gergale, indicante non l’atto di costruire zoccoli [sabots], ma
quello, immaginoso ed espressivo, di lavoro eseguito “a colpi di
zoccolo”, “a zoccolate”. in seguito, si è trasformato in una formula di
lotta sociale, e al Congresso Confederale di Tolosa, nel 1897, ha ricevuto
il suo battesimo sindacale. All’inizio, il nuovo arrivato non fu certo
accolto negli ambienti operai con caloroso entusiasmo. alcuni lo videro
assai di cattivo occhio, rimproverandogli le sue origini plebee,
anarchiche e anche la sua… immoralità. In ogni modo, malgrado questa
diffidenza, che rasentava l’ostilità, il sabotaggio ha fatto strada. Ormai
ha le simpatie operaie. E non è tutto. Ha conquistato il diritto di
cittadinanza nel Larousse [1], e non v’è dubbio che anche l’accademia –
a meno che non venga sabotata essa stessa prima di giungere alla
lettera S del suo dizionario – si deciderà a fare al vocabolo “sabotaggio”
la più cerimoniosa riverenza e ad aprirgli le pagine della sua raccolta
ufficiale. Tuttavia si avrebbe torto a credere che la classe operaia, al
fine di praticare il sabotaggio, abbia atteso che questo tipo di lotta
ricevesse la consacrazione dei Congressi Corporativi. Come tutte le
forme di rivolta, il sabotaggio è vecchio quanto lo sfruttamento umano.
Da quando un uomo ha avuto la criminale ingegnosità di trarre profitto
dal lavoro di un suo simile, da quel giorno lo sfruttato ha cercato
d’istinto di dare meno di quanto esigesse il suo padrone. Ciò facendo,
con la medesima incoscienza che il sig. Jourdain [2] metteva nel fare
della prosa, lo sfruttato ha praticato il sabotaggio, manifestando, senza
saperlo, l’irriducibile antagonismo che spinge capitale e lavoro l’uno
contro l’altro. Questa conseguenza ineluttabile del conflitto
permanente che divide la società, il geniale Balzac la mise in luce tre
quarti di secolo fa. in La Maison Nucingen [3], a proposito dei
sanguinosi moti di Lione del 1831 [4], ci ha dato una chiara ed incisiva
definizione del sabotaggio: Ecco – spiega Balzac –, si è parlato molto dei
fatti di Lione, della repubblica presa a cannonate per le strade, ma
nessuno ha detto la verità. La repubblica si era impossessata della
sommossa come un insorto s’impadronisce d’un fucile. La verità, che è
strana e profonda, ve la dico io. Il commercio di Lione è un commercio
senz’anima, che non fa fabbricare una sola auna [5] di seta se prima non
è stata ordinata e se non si forniscono garanzie per il pagamento.
Quando l’ordinazione si ferma, l’operaio muore di fame, lavorando egli
guadagna a stento di che vivere, i galeotti son più fortunati di lui. Dopo
la rivoluzione di luglio, la miseria è arrivata a tal punto che i setaioli
hanno issato la bandiera del Pane o morte! Uno di quei proclami su cui
il governo avrebbe dovuto meditare. Tutto ciò era il risultato del
carovita a Lione, città che vuole edificare teatri e diventare una
capitale, da
cui l’imposizione di dazi insensati. I repubblicani hanno presagito la
rivolta per il pane e hanno organizzato i setaioli, i quali si son battuti
con valore. Lione ha avuto i suoi giorni di fuoco, ma poi tutto è tornato
all’ordine, come pure il setaiolo al suo tugurio. Il setaiolo, onesto fino a
quel momento, che trasformava in stoffa la seta che gli si pesava in
balle, ha messo l’onestà
alla porta pensando che i negozianti lo imbrogliassero e ha sporcato
d’olio le sue dita; ha restituito lo stesso peso, ma vendendo seta trattata
con l’olio. il commercio dei setifici è stato infestato da stoffe ingrassate,
cosa che avrebbe potuto portare alla rovina di Lione e a quella di un
ramo del commercio francese... i tumulti hanno dunque prodotto il
“grosso di napoli” a quaranta soldi l’auna… Balzac si cura di
sottolineare che il sabotaggio dei setaioli fu rappresaglia di vittime.
Facendo la “cresta” sulla seta macchiata con l’olio, essi si vendicavano
dei fabbricanti feroci... di quei fabbricanti che avevano promesso agli
operai della Croix-rousse [6] di dar loro baionette al posto del pane... e
che non fecero solo promesse!
Ma, può presentarsi un caso in cui il sabotaggio non sia una
rappresaglia? nei fatti, all’origine di ogni atto di sabotaggio, non si
riscontra come antecedente un atto di sfruttamento? Quest’ultimo,
nelle condizioni particolari in cui si manifesta, non produce forse – e
anche legittima – tutti i gesti di rivolta nessuno escluso?
Ciò ci riporta quindi alla nostra prima affermazione: il sabotaggio è
vecchio quanto lo sfruttamento umano! Non è d’altronde limitato
all’interno delle nostre frontiere. Infatti, nella sua attuale formulazione
teorica, è un’importazione inglese. Il sabotaggio è conosciuto e
praticato oltre Manica da lungo tempo, con il nome di Ca’ Canny o Go
Canny, termine dialettale scozzese del quale la traduzione più esatta
che si possa dare è “Va’ piano”. Un esempio della potenza persuasiva
del Go Canny ci è data dal Musée Social [7]: nel 1889, a Glasgow era
scoppiato uno sciopero. gli scaricatori di porto unionisti avevano
chiesto un aumento salariale di 10 centesimi l’ora. I datori di lavoro si
erano opposti e, per rimpiazzarli, avevano fatto venire, a costo di
grandi spese, un numero considerevole di lavoratori agricoli. Gli
scaricatori si dettero per vinti e accettarono di lavorare per
lo stesso prezzo di prima, a condizione che si mandassero via gli operai
agricoli. Prima però di riprendere il lavoro, il loro segretario generale li
riunisce e gli dice: «Voi oggi riprendete il lavoro al vecchio prezzo. i
datori di lavoro hanno detto e ripetuto che essi erano stracontenti dei
servigi resi dagli operai agricoli che ci hanno rimpiazzato per qualche
settimana. Noi li abbiamo visti; abbiamo
visto che non sapevano neanche camminare su una nave, che
lasciavano cadere metà delle merci che trasportavano; insomma, che
due di loro non arrivavano a fare il lavoro di uno di noi. Eppure, i datori
di lavoro si dichiarano soddisfatti del lavoro di questa gente, quindi non
c’è che da fornirgli un lavoro uguale e praticare il Ca’ Canny. Lavorate
come lavoravano i contadini. Con una sola differenza: qualcuno di loro
arrivava talvolta a lasciarsi cadere in acqua; è inutile che facciate
altrettanto». Questa consegna venne eseguita, e per due o tre giorni gli
scaricatori applicarono la politica del Ca’ Canny. alla fine, i datori di
lavoro convocarono il segretario generale e gli dissero di chiedere agli
uomini di lavorare come prima. In questo modo, avrebbero ottenuto i
10 centesimi di aumento… Questa la pratica, ora veniamo alla teoria. La
prendiamo da un opuscolo inglese di divulgazione del Go Canny,
pubblicato intorno al 1895 [8]: Se volete comprare un cappello il cui
costo è di 5 Fr., dovete pagare 5 Fr. Se volete pagarne solo 4, bisognerà
che vi accontentiate di
un cappello di qualità inferiore. un cappello è una merce. Se volete
comprare una mezza dozzina di camicie a 2,50 Fr. l’una, dovete pagare
15 Fr. Se volete spendere 12,50 Fr. avrete solo 5 camicie. La camicia è
una merce. I datori di lavoro dichiarano che il lavoro e l’abilità sono
delle semplici merci come i cappelli e le camicie. «Benissimo – diciamo
noi – vi prendiamo in parola». Se il lavoro e l’abilità sono delle merci, i
possessori di queste merci hanno il diritto di vendere il loro lavoro e la
loro abilità esattamente come il cappelliere vende un cappello o il
camiciaio una camicia. Essi danno valore per valore. Per un prezzo più
basso avrete un articolo inferiore o di minore qualità. Pagate al
lavoratore un buon salario e vi darà il meglio in fatto di lavoro ed
abilità. Pagate al lavoratore un salario insufficiente e non avrete più il
diritto di esigere la migliore qualità e una maggiore quantità di lavoro,
più di quanto non l’abbiate esigendo un cappello di 5 Fr. Per 2,50. Il Go
Canny consiste dunque nel mettere sistematicamente in pratica la
formula «a cattiva paga, cattivo lavoro!». Ma non si limita solo a questo.
Da questa formula derivano, per conseguenza logica, diverse
manifestazioni della volontà operaia in conflitto con la rapacità
padronale. Questa tattica, che vediamo divulgata dal 1889 in
Inghilterra, propugnata e praticata dalle organizzazioni sindacali, non
poteva tardare a varcare la Manica. Infatti, qualche anno dopo, essa
s’infiltrava negli ambienti sindacali francesi. È nel 1895 che, per la
prima volta, troviamo traccia in Francia di una manifestazione teorica e
cosciente di sabotaggio. Il Sindacato nazionale delle Ferrovie portava
avanti all’epoca una campagna contro un progetto di legge – il progetto
Merlin-trarieux [9] – che cercava d’interdire ai ferrovieri i diritti
sindacali. Si pose allora la questione di rispondere alla votazione di
questa legge con lo sciopero generale e a questo proposito Guérard,
segretario del sindacato, e a tale titolo delegato al Congresso
dell’unione Federativa del Centro (partito allemanista)[10], pronunciò
un discorso categorico e preciso. Affermò che i ferrovieri non sarebbero
arretrati davanti a nessun mezzo per difendere la libertà sindacale e
avrebbero saputo, all’occorrenza, rendere efficace lo sciopero grazie a
certi metodi; egli faceva allusione ad un metodo ingegnoso e poco
costoso: «...con due soldi di una certa materia [11] utilizzata
sapientemente, dichiarò, ci è possibile mettere una locomotiva
nell’impossibilità di funzionare...». Questa netta e brutale affermazione,
che apriva orizzonti imprevisti, fece grande scalpore e suscitò una
profonda agitazione negli ambienti capitalisti e governativi, i quali non
potevano ormai affrontare senz’angoscia la minaccia di uno sciopero
delle ferrovie. Tuttavia, se col discorso di Guérard veniva posta la
questione del sabotaggio, sarebbe inesatto dedurne che esso abbia fatto
la sua apparizione il 2 giugno 1895. È da quel momento che comincia a
diffondersi nelle organizzazioni sindacali, ma ciò non implica che prima
lo si ignorasse. Per provare quanto fosse conosciuto e praticato anche
in precedenza, basterà ricordare, come esempio tipico, un “mastice”
rimasto celeberrimo nella storia del telegrafo: si era verso il 1881. i
telegrafisti dell’ufficio centrale, scontenti della tariffa delle ore
notturne supplementari, indirizzarono una petizione al ministro di
allora, Cochery. Chiedevano 10 Fr. per assicurare il servizio dalla sera
alle 7 del mattino, al posto dei 5 che ricevevano. Attesero per diversi
giorni la risposta dell’amministrazione. Alla fine, non arrivando nulla, e
avvisati tra l’altro che non si sarebbe neanche risposto loro, una sorda
agitazione cominciò a manifestarsi tra gli impiegati dell’ufficio centrale.
Essendo impossibile lo sciopero, si fece ricorso al “mastice”. Un bel
mattino, Parigi si svegliò sprovvista di comunicazioni telegrafiche (il
telefono non era stato ancora installato). Per quattro o cinque giorni
l’andazzo fu questo: i funzionari dell’amministrazione e gli ingegneri,
con numerose squadre di sorveglianti e operai, arrivati all’ufficio
centrale, aprirono tutti i quadri delle linee, seguirono i cavi dalle fogne
fino agli apparecchi. non scoprirono niente. Cinque giorni dopo
l’applicazione del “mastice”, rimasto memorabile negli annali della
Centrale, un avviso dell’amministrazione annunciava al personale che,
da quel momento, il servizio notturno avrebbe avuto come tariffa 10 Fr.
anziché 5. Non si chiedeva altro. L’indomani mattina tutte le linee
furono ristabilite come per incanto. Gli autori del “mastice” non
vennero mai scoperti e, benché l’amministrazione ne indovinò il
motivo, il mezzo utilizzato rimase sempre sconosciuto [12]. A partire
dal 1895, lo scossone è dato. Il sabotaggio, fino a quel momento
praticato dai lavoratori in modo inconscio e istintivo, riceve – con
l’appellativo popolare che gli è rimasto – la sua consacrazione teorica e
prende posto tra i mezzi di lotta accertati, riconosciuti, approvati e
propugnati dalle organizzazioni sindacali. Nel 1897 si sarebbe tenuto a
Tolosa il Congresso Confederale. Il prefetto della Senna, de Selves,
aveva rifiutato ai delegati del sindacato dei Lavoratori municipali i
permessi che chiedevano per partecipare al Congresso. L’unione dei
sindacati della Senna protestò, qualificando tale divieto, giustamente,
come un attentato alla libertà sindacale. Di questa proibizione si parlò
durante la prima seduta del Congresso e fu presentata una proposta di
biasimo contro il prefetto. Uno dei delegati – che altri non era se non
l’autore del presente studio – fece osservare quanto poco de Selves si
curasse dell’anatema di un congresso operaio. E aggiunse: «il mio
parere è che, invece di limitarsi a protestare, sarebbe meglio entrare in
azione; invece di subire le ingiunzioni dei dirigenti, abbassando la testa
quando dettano le loro fantasie, sarebbe più efficace rispondere per le
rime. Perché non rispondere allo schiaffo con un calcio?...». Spiegai che
le mie osservazioni derivavano da una tattica di lotta sulla quale il
Congresso si sarebbe dovuto pronunciare. Ricordai, a tale proposito,
l’agitazione e la paura che avevano fatto trasalire la classe capitalista
quando il compagno Guérard aveva dichiarato che la piccola somma di
10 centesimi... dispensata intelligentemente... sarebbe bastata ad un
operaio delle ferrovie per mettere un treno, agganciato a potenti
macchine a vapore, nell’impossibilità di muoversi. Poi, ricordando che
questa tattica rivoluzionaria sarebbe stata discussa nel corso del
Congresso, conclusi suggerendo la seguente proposta: il Congresso,
riconoscendo che è superfluo biasimare il governo – poiché è nel suo
ruolo serrare le briglie ai lavoratori – esorta i lavoratori municipali a
fare centomila franchi di danni ai servizi della Città di Parigi per
ricompensare de Selves del suo veto. Era una vera bomba!... E non fece
cilecca, all’inizio lo stupore fu grande presso tanti delegati che non
compresero subito il senso volutamente esagerato della proposta. Ci
furono proteste e l’ordine del giorno puro e semplice sotterrò la mia
proposta. Che importava? Lo scopo era raggiunto: l’attenzione del
Congresso era destata, la discussione aperta, la riflessione provocata.
Così, qualche giorno dopo, il rapporto che la commissione su
boicottaggio e sabotaggio sottoponeva all’assemblea sindacale era
accolto con la più grande e calorosa simpatia [13]. In questo rapporto,
dopo aver definito, spiegato e propugnato il sabotaggio, la Commissione
aggiungeva: Finora i lavoratori si sono dichiarati rivoluzionari, ma sono
rimasti per lo più sul terreno teorico: hanno lavorato alla diffusione
delle idee d’emancipazione, elaborando e cercando di abbozzare un
piano della società futura nella quale sarà eliminato lo sfruttamento
dell’uomo. Solo che, accanto a quest’opera educatrice, la cui necessità è
incontestabile, non si è tentato nulla per resistere agli abusi capitalisti e
rendere meno dure agli operai, laddove possibile, le esigenze padronali.
Nelle nostre riunioni si sciolgono sempre le sedute al grido di “Viva la
rivoluzione Sociale!”, ma lungi dal concretarsi in un qualsiasi atto,
questi proclami si perdono nel frastuono. Allo stesso modo, è
deplorevole che i Congressi, affermando sempre la loro fermezza
rivoluzionaria, non abbiano ancora propugnato delle soluzioni pratiche
per uscire dal terreno delle parole ed entrare in quello dell’azione.In
materia di armi e comportamenti rivoluzionari, finora si è propugnato
solo lo sciopero, del quale si è fatto e si fa uso quotidianamente. Oltre
allo sciopero, noi pensiamo che ci siano altri metodi da impiegare, i
quali possono, in una certa misura, tenere in scacco i capitalisti...Uno di
questi metodi è il boicottaggio. Però la Commissione constata che è
inefficace contro l’industriale ed il fabbricante. Occorre quindi un altro
mezzo. E quest’altro mezzo è il sabotaggio. Citiamo il rapporto: Questa
tattica, come il boicottaggio, viene dall’Inghilterra, dove ha reso grandi
servigi alla lotta che i lavoratori sostengono contro i padroni. Laggiù è
nota con il nome di Go Canny. A questo proposito, riteniamo utile
citarvi l’appello lanciato recentemente dall’unione internazionale degli
scaricatori portuali, che ha sede a Londra: Cos’è il Go Canny? È
un’espressione breve e comoda per definire una nuova tattica,
impiegata dagli operai al posto dello sciopero. Se due scozzesi
camminano insieme ed uno corre un po’ troppo, l’altro gli dice: “va’
piano, fa’ con comodo”. Se qualcuno vuole comprare un cappello che
costa cinque franchi, deve pagare cinque franchi. Se ne vuole pagare
solo quattro, allora ne avrà uno di qualità inferiore. il cappello è una
merce. Se qualcuno vuole comprare sei camicie da due franchi l’una,
deve pagare dodici franchi. Se vuole pagarne solo dieci, non avrà che
cinque camicie. Anche la camicia è una merce in vendita sul mercato. Se
una domestica vuole comprare un pezzo di bue che vale 3 franchi,
bisogna che paghi l’intera somma. Se ne offre solo due, allora le si dà
una carne scadente. anche il bue è una merce in vendita sul mercato.
Ebbene, i padroni dichiarano che il lavoro e l’abilità sono merci in
vendita sul mercato – come cappelli, camicie e bue. Perfetto,
rispondiamo noi, vi prediamo in parola. Se sono delle merci, noi le
venderemo come il cappelliere vende i suoi cappelli ed il macellaio la
sua carne. ad un prezzo inferiore, essi danno una merce scadente. noi
faremo altrettanto. I padroni non hanno il diritto di poter contare sulla
nostra carità. Se si rifiutano anche di discutere le nostre richieste,
ebbene, possiamo mettere in pratica il Go Canny – la tattica del
lavoriamo con comodo, nell’attesa che ci ascoltino.
Ecco definito chiaramente il Go Canny, il sabotaggio: a Cattiva Paga ,
Cattivo Lavoro . Questa linea di condotta, impiegata dai compagni
inglesi, la riteniamo applicabile in Francia, perché la nostra situazione
sociale è identica a quella dei nostri fratelli inglesi. Ci resta da definire
in quali forme bisogna praticare il sabotaggio. Tutti noi sappiamo che lo
sfruttatore, per aumentare il nostro asservimento, sceglie abitualmente
il momento in cui per noi è più difficile resistere ai suoi abusi nel corso
dello sciopero parziale, solo metodo impiegato finora. Presi
nell’ingranaggio, nell’impossibilità di mettersi in sciopero, i lavoratori
son costretti a subire le nuove esigenze del capitalista. Col sabotaggio
va tutto in ben altro modo: i lavoratori possono resistere; non sono più
alla completa mercè del capitale; non sono più la carne tenera che il
padrone lavora a suo piacimento: hanno un mezzo per affermare la
proprio virilità e provare all’oppressore che sono uomini. D’altronde, il
sabotaggio non è così nuovo come sembra: i lavoratori lo hanno
praticato individualmente da sempre, benché senza metodo. D’istinto,
hanno sempre rallentato la produzione quando il padrone accresceva le
sue esigenze; senza rendersene conto chiaramente, hanno applicato la
formula: a cattiva paga , cattivo lavoro . E si può dire che in alcune
industrie, in cui il lavoro a cottimo ha preso il posto di quello a
giornata, una delle cause di questa sostituzione è stata il sabotaggio,
che consisteva, in tali casi, nel fornire giornalmente la minore quantità
possibile di lavoro. Se questa tattica, praticata saltuariamente, ha già
dato dei risultati, non ne darà forse ben altri il giorno in cui diventasse
una continua minaccia per i capitalisti? E non crediate, compagni, che
rimpiazzando il lavoro alla giornata con il lavoro a cottimo, i padroni si
siano messi al riparo dal sabotaggio: questa tattica non è limitata al
lavoro alla giornata. Il sabotaggio può e deve essere praticato nel lavoro
a cottimo. Ma qui la linea di condotta cambia: ridurre la produzione
significherebbe per l’operaio ridurre il proprio salario; bisogna dunque
che egli applichi il sabotaggio alla qualità anziché alla quantità. Ed
allora, non solo il lavoratore non darà all’acquirente della sua forza
lavoro più del suo salario, ma lo colpirà inoltre nella sua clientela, la
quale gli permette indefinitamente il rinnovamento del capitale,
fondamento dello sfruttamento della classe operaia. Con questo
metodo, lo sfruttatore si troverà costretto a capitolare, accogliendo le
rivendicazioni avanzate, nonché ad affidare i mezzi di produzione in
mano ai soli produttori. In genere si presentano due casi: il caso in cui il
lavoro a cottimo si svolge a domicilio, con i mezzi di produzione
appartenenti all’operaio, e l’altro in cui il lavoro è centralizzato
nell’officina di proprietà del padrone. In questo secondo caso, al
sabotaggio della merce, s’aggiunge il sabotaggio dei mezzi di
produzione. E a tal proposito, ci basta rammentare la paura prodotta
nell’ambiente borghese, tre anni or sono, quando si seppe che i
lavoratori delle ferrovie potevano, con due soldi di una certa sostanza,
mettere una locomotiva nell’impossibilità di funzionare.Questa paura,
per noi, è un’avvisaglia di ciò che potrebbero i lavoratori coscienti e
organizzati. Con il boicottaggio, ed il suo inseparabile complemento, il
sabotaggio, abbiamo un’efficace arma di resistenza, che ci permetterà
di tener testa allo sfruttamento di cui siamo vittime, in attesa del
giorno in cui i lavoratori saranno abbastanza potenti per emanciparsi
completamente. Bisogna che i capitalisti ne siano a conoscenza: il
lavoratore non rispetterà la macchina se non il giorno in cui essa sarà
diventata per lui un’amica che allevia il lavoro, anziché essere, come
oggi, la nemica, la ladra di pane, l’assassina di lavoratori. A conclusione
di questa relazione, la Commissione propose al Congresso la seguente
risoluzione: Ogni volta che scoppierà un conflitto tra padroni ed operai,
sia quando il conflitto è dovuto ad esigenze padronali, sia quando
provocato dall’iniziativa operaia, nel caso in cui lo sciopero possa non
dare i risultati voluti dai lavoratori: che questi ultimi applichino il
boicottaggio o il sabotaggio – o entrambi contemporaneamente –
rifacendosi ai dati che abbiamo esposto. La lettura di questo rapporto
venne accolta dagli applausi unanimi del Congresso. Fu più di
un’approvazione: si trattò di un vero e proprio impeto
irrefrenabile.Tutti i delegati erano conquistati, entusiasti. non si alzò
alcuna voce discordante a criticare o anche solo a presentare la minima
osservazione od obiezione. Il delegato della Federazione del Libro,
Hamelin [14], non fu dei meno entusiasti. Egli approvò pienamente la
tattica proposta e lo dichiarò in termini precisi, di cui il resoconto del
Congresso non dà che questa pallida eco: tutti i mezzi sono buoni per
arrivare allo scopo, si dice. io aggiungo che c’è un’infinità di mezzi da
impiegare; essi sono facili da mettere in pratica purché lo si faccia
intelligentemente. Con questo, voglio dire che ci sono cose che bisogna
fare e che non bisogna dire: voi mi capite. So bene che se fossi più
preciso, qualcuno potrebbe contestarmi il diritto a fare questa o
quell’altra cosa; ma se si continuasse a fare solo ciò che è permesso non
si otterrebbe nulla. Quando si marcia sulla via rivoluzionaria, bisogna
farlo con coraggio, e quando passa la testa, bisogna che passi anche
tutto il corpo. Calorosi applausi sottolinearono il discorso del delegato
della Federazione del Libro e, dopo che altri oratori ebbero aggiunto
parole di approvazione, senza che nulla in contrario venisse
pronunciato, fu approvata all’unanimità la seguente mozione: il
Sindacato degli impiegati del commercio di Tolosa invita il Congresso a
votare per acclamazione le conclusioni del rapporto e a metterlo in
pratica alla prima occasione che si presenterà. Il battesimo del
sabotaggio non poteva essere più elogiativo. E non fu un successo
momentaneo, un fuoco di paglia, conseguenza di un entusiasmo
passeggero dell’assemblea; le simpatie unanimi che lo accompagnavano
non furono smentite. Al successivo Congresso federale, che si tenne a
Rennes nel 1898, non furono lesinati i consensi alla nuova tattica. Tra
gli oratori che presero la parola nel corso della discussione, citiamo, tra
gli altri, il cittadino Lauche, oggi deputato di Parigi, il quale fece notare
quanto il sindacato dei Meccanici della Senna, di cui era il delegato,
fosse stato soddisfatto delle decisioni prese al Congresso di Tolosa
relativamente al boicottaggio e al sabotaggio. Il delegato della
Federazione dei cuochi riscosse un gran successo e divertì il Congresso
narrando con ironia un bizzarro caso di sabotaggio: i cuochi di un
grosso ristorante parigino, scontenti del trattamento padronale,
restarono al loro posto tutto il giorno coi fornelli accesi, ma, nel
momento in cui i clienti affluivano nelle sale, essi non avevano in
pentola che dei mattoni “cotti” in abbondante acqua... insieme
all’orologio a pendolo del ristorante. Dal rapporto che chiuse la
discussione – e che venne approvato all’unanimità – estraiamo il
seguente passo: ...La Commissione tiene a specificare che il sabotaggio
non è una novità; i capitalisti lo attuano ogni volta che ne hanno un
tornaconto; gli appaltatori non rispettando le clausole per la buona
qualità dei materiali, ecc., e non si limitano a praticarlo solo sui
materiali: che cosa sono le loro diminuzioni di salario se non un
sabotaggio sulla pelle dei proletari? D’altronde, bisogna aggiungere che
i lavoratori hanno risposto ai capitalisti rallentando la produzione,
sabotando inconsciamente. Ma sarebbe auspicabile che i lavoratori si
rendessero conto che il sabotaggio può essere per loro un’utile arma di
resistenza, tanto per la pratica in sé quanto per la paura che ispirerà ai
padroni il giorno in cui questi sapranno di doverlo temere. E,
aggiungiamo, la minaccia del sabotaggio può spesso dare risultati utili
quanto il sabotaggio stesso. Il Congresso non può entrare nei dettagli di
questa tattica; essi dipendono dall’iniziativa e dal temperamento di
ciascuno e sono subordinati alla diversità degli ambiti lavorativi. Noi
non possiamo che fornire la teoria e augurarci che il sabotaggio entri
nell’arsenale delle armi di lotta dei proletari contro i capitalisti, allo
stesso modo dello sciopero e che, sempre più, l’orientamento del
movimento sociale abbia per tendenza l’azione diretta degli individui
ed una maggiore coscienza delle loro facoltà...una terza ed ultima volta,
il sabotaggio ebbe le attenzioni del Congresso confederale che si tenne a
Parigi nel 1900. Si viveva allora un periodo confuso. Sotto l’influenza di
Millerand, ministro del Commercio [15], si manifestò una deviazione
che aveva origine nelle tentazioni del Potere. Molti militanti si fecero
attrarre dal fascino corruttore del ministerialismo ed alcune
organizzazioni sindacali si indirizzarono verso una politica di “pace
sociale”, che, se avesse predominato, si sarebbe rivelata funesta per il
movimento corporativo. Sarebbe stata, se non la rovina e la morte,
quantomeno lo stallo e l’impotenza. Nasceva l’antagonismo tra
sindacalisti rivoluzionari e riformisti, che doveva accentuarsi negli anni
seguenti. Di questa lotta intestina, la discussione ed il voto sul
sabotaggio furono una prima, embrionale manifestazione. Il dibattito fu
breve. Dopo che qualche oratore ebbe parlato a favore del sabotaggio,
una voce si levò per condannarlo: quella del presidente della seduta.Egli
dichiarò che «se non avesse avuto l’onore di presiedere, si sarebbe
impegnato a combattere il sabotaggio proposto dal compagno Riom e da
Beausoleil[16], ed aggiunse che lo considerava più dannoso che utile
agli interessi dei lavoratori, e ripugnante alla dignità di molti operai.
Sarà sufficiente, per apprezzare in tutto il suo valore questa condanna
del sabotaggio, far osservare che, qualche settimana dopo, non sarà
“ripugnante alla dignità” di questo moralista impeccabile e scrupoloso
l’essere assegnato, grazie ai buoni uffici di Millerand a una sinecura di
tutto riposo [17]. Il relatore della Commissione cui competeva la
questione del sabotaggio, scelto per il suo “potere contrattuale”
all’interno del sindacato, era un avversario di questo metodo di lotta.
Egli eseguì dunque il suo compito usando i termini seguenti: Mi resta da
dire una parola a proposito del sabotaggio. La dirò in modo franco e
preciso. ammiro coloro che hanno il coraggio di sabotare uno
sfruttatore; devo anche aggiungere che ho riso spesso per le storie che
vengono raccontate a proposito del sabotaggio, ma, da parte mia, non
oserei fare ciò che questi buoni amici hanno fatto. allora la mia
conclusione è che, se io non ho il coraggio di fare una cosa, sarebbe viltà
da parte mia incitare un altro a farla. Vi confesso che, nell’atto di
deteriorare uno strumento o una cosa affidata alle mie cure, non è il
timore di Dio a paralizzare il mio coraggio, ma il timore del gendarme!
Lascio alla vostra buon cura le sorti del sabotaggio. Il congresso non
sposò tuttavia le opinioni del relatore. Ebbe luogo una votazione, a
scrutinio segreto, su questo tema specifico – approvazione o
disapprovazione del sabotaggio – che diede i seguenti risultati: a favore
del sabotaggio 117, contro 76, astenuti 2. Con questo voto si chiuse il
periodo di gestazione e di infiltrazione teorica del sabotaggio.Da allora,
ammesso senza discussioni, riconosciuto ed accettato, non è stato più
evocato ai Congressi corporativi e ha preso posto definitivamente nel
novero dei mezzi di lotta propugnati e praticati nella lotta contro il
capitalismo. Occorre notare che la suddetta votazione, risalente al
congresso del 1900, è già un’indicazione del cedimento che andava
aprendosi nelle organizzazioni sindacali e che avrebbe diviso
rivoluzionari e riformisti su poli opposti. In effetti, in tutti i successivi
Congressi confederali, allorché rivoluzionari e riformisti si son ritrovati
di fronte, la maggioranza rivoluzionaria è rimasta all’incirca nella
proporzione dei 2/3, come nella votazione sul sabotaggio, contro una
minoranza riformista di un 1/3.
La: “Merce Lavoro”
Nell’esposizione storica che precede, abbiamo constatato che il
sabotaggio, sotto la forma inglese del Go Canny, deriva dalla concezione
capitalista del lavoro umano ridotto a merce. Gli economisti borghesi
sono d’accordo nel sostenere questa tesi, unanimi nel dichiarare che c’è
un mercato del lavoro, così come c’è un mercato del grano, del pesce o
del pollame. Ammesso questo, è dunque logico che i capitalisti si
comportino, nei riguardi della “carne da lavoro” che trovano sul
mercato, come quando comprano merci o materie prime: cercano cioè
di ottenerla al prezzo più basso possibile. Date le premesse, è una cosa
normale. Siamo nel pieno di quel gioco costituito dalle leggi dell’offerta
e della domanda. È meno comprensibile, però, che i capitalisti vogliano
ricevere, non una quantità di lavoro proporzionale al prezzo del salario
che pagano, ma, indipendentemente dal livello del salario, il massimo
del lavoro che l’operaio possa fornire. in poche parole, essi pretendono
di comprare non una quantità di lavoro equivalente alla somma che
sborsano, bensì la forza-lavoro intrinseca dell’operaio: infatti è
l’operaio intero – corpo e sangue, forza e intelligenza – che essi esigono.
Quando avanzano questa pretesa, i datori di lavoro non tengono conto
che questa “forza di lavoro” è parte integrante di un essere pensante,
capace di volontà, resistenza e rivolta. Certo, tutto andrebbe nel
migliore dei modi, nel mondo capitalista, se gli operai fossero
incoscienti come le macchine di ferro e d’acciaio di cui sono gli
inservienti e se, come le macchine, avessero una caldaia o una dinamo
al posto di cuore e cervello. Ma non è così! i lavoratori conoscono le
condizioni cui sono sottoposti e, se le subiscono, non è certo di
spontanea volontà. Si sanno possessori della “forza lavoro” e, quando
accettano che il padrone che li assume ne “consumi” una quantità data,
fanno il possibile perché questa quantità sia in rapporto più o meno
diretto col salario che ricevono. anche tra i meno coscienti, tra coloro
che subiscono il giogo padronale senza mettere in dubbio il suo
fondamento, scaturisce istintivamente la nozione di resistenza alle
pretese capitaliste: essi tendono a non darsi senza calcolare. I datori di
lavoro hanno constatato questa tendenza degli operai ad economizzare
la loro “forza di lavoro”. Per questo, alcuni di loro hanno abilmente
ovviato al danno che ne deriva ricorrendo all’emulazione, per far
dimenticare al loro personale questa prudenza restrittiva. Così, gli
imprenditori edili, soprattutto a Parigi, hanno diffuso una pratica, che è
comunque già in disuso dal 1906, ossia da quando gli operai della
corporazione son raggruppati in potenti sindacati. Tale pratica consiste
nell’assumere un “pezzo d’uomo” che in cantiere dia il ritmo ai suoi
compagni. Egli “ce la mette tutta” più di chiunque altro... e bisogna
seguirlo, altrimenti i ritardatari rischiano di essere mal visti e licenziati
come incapaci. Una simile maniera di procedere mostra chiaramente
che questi imprenditori si comportano nei confronti dei lavoratori
come quando trattano per l’acquisto di una macchina. Essi comprano
quest’ultima con la funzione produttiva che vi è incorporata [18]; allo
stesso modo considerano l’operaio come uno strumento di produzione
che pretendono di acquistare in toto, per un periodo dato, mentre, in
realtà, essi siglano un contratto con lui solo per la funzione del suo
organismo che si traduce in lavoro effettivo. Questa discordanza, che è
alla base dei rapporti tra padroni ed operai, mette in rilievo
l’opposizione fondamentale degli interessi in gioco: la lotta della classe
che possiede i mezzi di produzione contro la classe che, priva di
capitale, non ha altra ricchezza se non la sua forza-lavoro. Non appena
dipendenti e datori di lavoro entrano in contatto sul terreno
economico, si rivela quest’irriducibile antagonismo che li scaglia ai due
poli opposti e che, di conseguenza, rende sempre instabili ed effimeri i
loro accordi. tra gli uni e gli altri, in effetti, non può mai concludersi un
contratto nel senso preciso ed equo del termine. Un contratto implica
l’eguaglianza dei contraenti, la loro piena libertà d’azione e, in più, deve
presentare per tutti i suoi firmatari un interesse reale e personale, nel
presente come pure per l’avvenire. Ora, quando un operaio offre le sue
braccia ad un padrone, i due “contraenti” sono lungi dall’essere su un
piano di parità. L’operaio assillato dall’urgenza di assicurarsi un domani
– anche quando non attanagliato dalla fame –, non ha la serena libertà
d’azione di cui gode il suo datore di lavoro. Inoltre, il beneficio che
ricava dall’affittare il suo lavoro appare momentaneo, perché, pur
traendone per la sua vita un beneficio immediato, non è raro che il
rischio al quale è costretto dal bisogno metta poi in pericolo la sua
salute e il suo avvenire. Dunque, tra padroni e operai non si possono
avere impegni che meritino il nome di contratto. Ciò che si è convenuto
designare col nome di contratto di lavoro non ha i caratteri specifici e
bilaterali del contratto; si tratta, in senso stretto, di un contratto
unilaterale, favorevole solo ad uno dei contraenti – un patto leonino. Ne
deriva quindi che, sul mercato del lavoro, si hanno soltanto dei faccia a
faccia tra belligeranti in conflitto permanente; di conseguenza, tutte le
relazioni, tutti gli accordi, tra gli uni e gli altri, possono solo essere
precari, in quanto viziati alla base, fondati come sono sulla maggiore o
minore forza e resistenza degli antagonisti. Ecco perché, tra padroni ed
operai, non si conclude mai – e mai può concludersi – un’intesa
durevole, un contratto nel vero senso della parola; tra loro, ci possono
solo essere degli armistizi, i quali, sospendendo per un certo tempo le
ostilità, concedono una tregua momentanea al bollettino di guerra. Ci
sono due mondi che si urtano con violenza: il mondo del capitale e il
mondo del lavoro. Certo, si possono avere – e si hanno – delle
infiltrazioni dall’uno all’altro; grazie ad una sorta di capillarità sociale,
dei transfughi passano dal mondo del lavoro a quello del capitale e,
dimenticando o rinnegando le loro origini, prendono posto tra i più
intrattabili difensori della loro casta d’adozione. Ma queste fluttuazioni
nei corpi d’armata in lotta non annullano l’antagonismo delle due
classi. Da un lato e dall’altro gli interessi in gioco sono diametralmente
opposti, e quest’opposizione si manifesta in tutta la trama
dell’esistenza. Dietro le declamazioni democratiche, dietro il falso verbo
dell’uguaglianza, anche l’esame più superficiale scopre le divergenze
profonde che separano borghesi e proletari: condizioni sociali, modi di
vivere, abitudini di pensiero, aspirazioni, ideali... tutto! tutto differisce!
Morale di Classe
Vista la radicale differenza tra la classe operaia e la classe borghese, è
comprensibile che ne derivi una diversa moralità. In effetti, sarebbe
quanto meno strano che, pur non essendoci nulla in comune tra un
proletario e un capitalista, la morale vi facesse eccezione. Le azioni e i
gesti di uno sfruttato devono forse venir valutati e giudicati con il
criterio del suo nemico di classe? Sarebbe semplicemente assurdo! La
verità è che, essendoci in questa società due classi, ci sono anche due
morali – quella dei capitalisti e quella dei proletari. La morale naturale
o zoologica, scrive Max Nordau [19], indicherebbe nel riposo il valore
supremo, mentre il lavoro sarebbe desiderabile e glorioso per l’uomo
soltanto quand’è indispensabile alla sua esistenza materiale. Ma così gli
sfruttatori non vi avrebbero alcun tornaconto. Il loro interesse esige
infatti che la massa lavori più di quanto le è necessario e produca più di
quanto le occorra, perché vogliono impadronirsi del surplus della
produzione; a tale scopo, hanno soppresso la morale naturale e ne
hanno in-ventata un’altra, facendola stabilire dai loro filosofi, lodare
dai loro predicatori, cantare dai loro poeti: la morale per cui l’ozio
sarebbe la fonte di tutti i vizi e il lavoro una virtù, la più bella fra tutte
le virtù… È inutile sottolineare che questa morale è ad uso esclusivo dei
proletari, visto che i ricchi che la predicano non hanno l’obbligo di
sottomettervisi: l’ozio è un vizio unicamente tra i poveri. In nome delle
prescrizioni di questa morale particolare, gli operai devono sgobbare
duro e senza tregua per il profitto dei loro padroni, e ogni rilassamento
che tenda, nel corso della produzione, a ridurre i benefici dello
sfruttatore, è qualificato come atto immorale. D’altra parte, è sempre
invocando questa morale di classe che si glorifica l’abnegazione agli
interessi padronali, l’assiduità ai compiti più fastidiosi e meno
remunerativi, gli scrupoli ingenui che creano “l’operaio onesto”, in
poche parole tutte le catene ideologiche e sentimentali che fissano il
salariato alla gogna del capitale, meglio e più sicuramente degli anelli in
ferro battuto. Per completare l’opera di asservimento, si fa appello alla
vanità umana: tutte le qualità dello schiavo provetto sono esaltate,
magnificate, e si è persino pensato di distribuire delle ricompense – la
medaglia del lavoro! – ad ogni operaio-cagnolino che si è distinto per la
flessibilità della spina dorsale, lo spirito di rassegnazione e la fedeltà al
padrone. Di questa morale scellerata la classe operaia è riempita a
profusione. Dalla nascita alla morte, il proletario ne è invischiato: egli
succhia questa morale con il latte più o meno adulterato del biberon,
che sostituisce per lui troppo spesso il seno materno; più tardi, a scuola,
gliela s’inculca ancora, con dosaggio sapiente, ed il condizionamento
poi continua attraverso mille e mille modi diversi, finché, riposto nella
fossa comune, non dorme il suo sonno eterno. L’intossicazione
risultante da questa morale è talmente profonda e persistente che
uomini dallo spirito sottile, dal ragionamento chiaro ed acuto, ne
restano comunque contaminati. È il caso del cittadino Jaurès [20] che, al
fine di condannare il sabotaggio, si è rifatto a tale etica, creata ad uso
dei capitalisti. in un dibattito parlamentare sul Sindacalismo, l’11
maggio 1907, egli dichiarava: ah! Pur nel caso di una propaganda
sistematica, metodica del sabotaggio, correndo io il rischio che voi mi
tacciate di ottimismo e di compiacenza verso noi stessi, non temo che
essa andrebbe molto lontano. ripugna a tutta la natura, a tutte le
tendenze dell’operaio… Ed insisteva con fermezza: il sabotaggio ripugna
al valore tecnico dell’operaio. Il valore tecnico dell’operaio è la sua
unica ricchezza: ecco perché il teorico, il metafisico del sindacalismo,
Sorel [21], dichiara che, pur accordando all’azione sindacale l’uso di
tutti i mezzi possibili, ve n’è uno che si deve interdire: quello che
rischia di deprezzare, di umiliare nell’operaio questo valore
professionale, che non è solo la sua ricchezza precaria di oggi, ma anche
il suo titolo di sovranità nel mondo di domani… Le affermazioni di
Jaurès, benché poste sotto l’egida di Sorel, son tutto ciò che si vuole –
finanche metafisica – fuorché la constatazione di una realtà economica.
Dove diamine ha incontrato degli operai che, con “tutta la loro natura,
tutte le loro tendenze”, mettono la loro forza fisica ed intellettuale a
completa disposizione di un padrone, nonostante le condizioni
derisorie, infime ed odiose che questi gli impone? D’altra parte, in che
cosa il “valore tecnico” di questi ipotetici operai verrebbe messo in
discussione, il giorno in cui, accorgendosi dello sfruttamento
vergognoso di cui sono vittime, tentassero di sottrarvisi e, per prima
cosa, si rifiutassero di sottomettere muscoli e cervello ad una fatica
senza fine e per il solo profitto del padrone? Perché mai gli operai
sprecherebbero questo “valore tecnico” che costituisce la loro “vera
ricchezza” – per dirla con Jaurès – e perché ne farebbero dono al
capitalista quasi gratuitamente? Non sarebbe più logico, anziché
sacrificarsi come agnelli belanti sull’ara del padronato, che essi si
difendano, lottino e, facendo stimare al prezzo più alto possibile il loro
“valore tecnico”, cedano tutta o parte di questa “vera ricchezza” solo
alle condizioni migliori o alle meno cattive? A queste domande, non
avendo approfondito la questione, l’oratore socialista non risponde. Egli
si è limitato ad affermazioni di natura sentimentale, ispirate dalla
morale degli sfruttatori, e che non sono altro che il rimescolamento
delle arguzie di quegli economisti che rimproverano agli operai francesi
le loro pretese e i loro scioperi, accusandoli di mettere in pericolo
l’industria nazionale. Il ragionamento del cittadino Jaurés, in effetti, è
dello stesso tipo, ma con una differenza: invece di far vibrare la corda
patriottica, prova ad esaltare, a toccare il punto d’onore, la vanità, la
gloriuzza del proletario. La sua tesi sfocia nella negazione formale della
lotta di classe, perché non tiene conto del permanente stato di guerra
tra capitale e lavoro. Ora, il semplice buon senso suggerisce che non è
sleale tendere imboscate al padrone, anziché combatterlo a viso aperto,
proprio perché egli è nemico dell’operaio. Dunque, nessuno degli
argomenti derivanti dalla morale borghese può giudicare il sabotaggio
o qualsiasi altra tattica proletaria; allo stesso modo, nessuno di tali
argomenti è valido per giudicare i fatti, le gesta, i pensieri o le
aspirazioni della classe operaia. Se si desidera ragionare correttamente
su tutti questi punti, non bisogna far riferimento alla morale capitalista,
ma ispirarsi alla morale dei produttori elaborata quotidianamente in
seno alle masse operaie, la quale è chiamata a rigenerare i rapporti
sociali, perché sarà essa a regolare quelli del mondo di domani.
I Metodi Del Sabotaggio
Sul campo di battaglia del mercato del lavoro, dove i belligeranti si
affrontano senza scrupoli e senza riguardi, occorre, come abbiamo
constatato, che essi si presentino ad armi pari. il capitalista oppone una
corazza d’oro ai colpi del suo avversario, mentre quest’ultimo,
consapevole della propria inferiorità difensiva e offensiva, cerca di
supplirvi facendo ricorso alle astuzie della guerra. L’operaio,
impossibilitato a colpire frontalmente l’avversario, cerca di prenderlo
ai fianchi attaccandolo nel suo punto vitale: la cassaforte. I proletari si
comportano come quel popolo che, volendo resistere all’invasione
straniera e non sentendosi abbastanza forte per affrontare il nemico in
campo aperto, si lancia nella guerra d’imboscata, nella guerriglia. Lotta
spiacevole per i grandi corpi d’armata, lotta talmente orripilante e
micidiale da indurre gli invasori, molto spesso, a non riconoscere ai
franchi-tiratori il carattere di belligeranti. Questa esecrazione della
guerriglia da parte degli eserciti regolari, non ci pare lontana
dall’orrore ispirato ai capitalisti dal sabotaggio. In effetti, nella guerra
sociale, il sabotaggio corrisponde a ciò che è la guerriglia nelle guerre
nazionali: nasce dagli stessi sentimenti, risponde alle medesime
necessità e ha identiche conseguenze sulla mentalità operaia. Si sa bene
quanto la guerriglia sviluppi il coraggio individuale, l’audacia e lo
spirito di decisione; altrettanto si può dire del sabotaggio: tiene svegli i
lavoratori, impedisce loro di affondare in una fiacchezza perniciosa e,
necessitando di un’azione permanente e senza respiro, sviluppa lo
spirito d’iniziativa, abitua ad agire da soli, eccita la combattività.
L’operaio ha un grande bisogno di queste qualità, perché il padrone
agisce nei suoi riguardi con la stessa mancanza di scrupoli degli eserciti
invasori in un paese conquistato: rapina più che può. Questa rapacità
capitalista, il miliardario Rockefeller[22], l’ha biasimata... salvo,
ovviamente, praticarla senza vergogna. Il torto di alcuni datori di
lavoro, egli ha scritto, è di non pagare l’esatta somma che dovrebbero
all’operaio: allora questi ha tendenza a ridurre il lavoro. Questa
tendenza alla riduzione del lavoro constatata da Rockefeller – riduzione
che egli legittima e giustifica biasimando i padroni – è il sabotaggio
nella forma che si presenta spontaneamente alla mente di ogni operaio:
il rallentamento del lavoro. Si tratta, potremmo dire, della forma
istintiva e primaria del sabotaggio. A Beaford, nell’indiana, Stati uniti
(si era nel 1908), la sua applicazione fu decisa da un centinaio di operai,
non appena furono avvertiti che sarebbe stata loro imposta una
riduzione di salario di una dozzina di soldi all’ora. Senza dire una
parola, si recarono in una vicina officina e fecero ridurre le loro pale di
due pollici e mezzo. Dopo di che, tornarono al cantiere e risposero al
padrone: “a piccola paga, piccola pala!”. Questa forma di sabotaggio è
praticabile solo dagli operai a giornata. È evidente infatti che i
lavoratori a cottimo, rallentando la produzione, sarebbero le prime
vittime di questa rivolta passiva, poiché finirebbero per sabotare il
proprio salario. Essi devono dunque ricorrere ad altri metodi e la loro
preoccupazione sarà quella di diminuire la qualità e non la quantità del
prodotto. A questi metodi, il Bullettin de la Bourse du Travail de
Montpellier faceva alcuni accenni in un articolo pubblicato nei primi
mesi del 1900, qualche settimana prima del Congresso confederale che
si tenne a Parigi: Se siete meccanici, diceva l’articolo, vi è facilissimo,
con due soldi di una polvere qualsiasi, o anche solamente con della
sabbia, far inceppare la macchina, causare una perdita di tempo e una
riparazione fortemente costosa al vostro padrone. Se siete falegnami o
ebanisti, cosa c’è di più facile che deteriorare un mobile senza che il
padrone se ne accorga e fargli perdere così dei clienti? un sarto può
facilmente rovinare un abito o una pezza di stoffa; un venditore di
articoli di moda, con qualche macchia abilmente messa su un tessuto, lo
fa vendere a un prezzo ribassato; un garzone di droghiere confeziona
male il pacco, fa cadere la merce, la colpa non è di nessuno e il padrone
perde il cliente. il venditore di lane, di mercerie, ecc. con qualche goccia
di acido su una merce da imballare scontenta il cliente, questo rimanda
indietro il pacco e si irrita; gli si risponde che è successo durante il
trasporto... il risultato, di sovente, è la perdita del cliente. Il lavorante
agricolo, di tanto in tanto, dà un colpo di zappa mal assestato – cioè ben
assestato – o semina delle cattive sementi in un campo, ecc. Come
mostrato sopra, i metodi di sabotaggio variano all’infinito. Tuttavia, in
ogni caso, richiedono una ben precisa qualità dal militante operaio: la
loro messa in opera non deve andare a danno del consumatore. Il
sabotaggio attacca il padrone, sia rallentando il lavoro, sia rendendo
invendibili i prodotti fabbricati, oppure paralizzando o rendendo
inutilizzabile lo strumento di produzione, ma il consumatore non deve
risentire della guerra fatta allo sfruttatore. Un esempio dell’efficacia del
sabotaggio è l’applicazione metodica che ne hanno fatto i parrucchieri
parigini: abituati a frizionare teste, hanno pensato bene di estendere il
sistema dello shampoo alle vetrine padronali. a tal punto da far sì che la
paura della tintura sia diventata per i padroni parrucchieri la più
convincente delle sanzioni. Grazie alla “tintura” – praticata
principalmente dal 1902 al maggio del 1906 –, gli operai parrucchieri
hanno ottenuto la chiusura delle botteghe ad un’ora meno tarda; ed è
stata sempre la paura della “tintura” che ha permesso loro di ottenere,
molto rapidamente (prima della votazione della legge sul riposo
settimanale), il diffondersi del giorno di chiusura settimanale delle
botteghe. Ecco in cosa consiste la “tintura”: dentro un recipiente
qualsiasi, ad esempio un uovo precedentemente svuotato, il “tintore”
mette un prodotto caustico; poi, al momento opportuno, lancia
contenente e contenuto contro la vetrina del padrone refrattario.
Questo “shampoo” rovina la vernice del negozio e il padrone, mettendo
a frutto la lezione ricevuta, diventa più accomodante. Ci sono circa
2.300 botteghe di parrucchiere a Parigi, delle quali, durante la
campagna di “tintura”, 2.000 sono state trattate almeno una volta... se
non di più. L’Ouvrier coiffeur, l’organo sindacale della Federazione dei
parrucchieri, ha stimato in circa 200.000 franchi le perdite finanziarie
causate ai padroni dal metodo della “tintura”. Gli operai parrucchieri
sono entusiasti del loro metodo e nient’affatto disposti ad
abbandonarlo. Ha dato prova di funzionare, essi affermano, e gli
attribuiscono un valore moralizzatore ritenuto superiore ad ogni
sanzione legale. La “tintura”, come qualsiasi buon metodo di
sabotaggio, attacca la cassa del padrone, mentre le teste dei clienti non
hanno niente da temere. I militanti operai insistono molto su questo
carattere specifico del sabotaggio: colpire il padrone e non il
consumatore. resta però da vincere il partito preso della stampa
capitalista, che snatura a piacimento la loro tesi e presenta il sabotaggio
come un pericolo soprattutto per il consumatore. Non è svanita
l’emozione suscitata, qualche anno fa, dai pettegolezzi dei quotidiani a
proposito del pane con polvere di vetro. I sindacalisti si prodigarono nel
dichiarare che mettere polvere di vetro nel pane sarebbe stato un atto
odioso, stupidamente criminale e che gli operai fornai non avrebbero
mai avuto una simile intenzione. Ora, malgrado i dinieghi e le smentite,
la menzogna si diffondeva, veniva ripubblicata e, ovviamente, metteva
contro gli operai fornai molte di quelle persone per le quali ciò che
stampa il proprio giornale è vangelo.Nei fatti, durante i vari scioperi dei
panettieri, il sabotaggio appurato si è limitato finora al deterioramento
delle botteghe padronali, delle madie o dei forni. Quanto al pane,
laddove ne è stato prodotto di immangiabile – pane bruciato o cotto
male, senza sale, senza lievito, ecc., ma mai con polvere di vetro, lo
ribadiamo – non sono stati i consumatori a farne le spese, ne potevano
esserlo, bensì unicamente i padroni. bisognerebbe infatti supporre
consumatori tanto imbecilli e asini da accettare un miscuglio indigesto
e nauseabondo al posto del pane. Se il caso si fosse presentato, essi
avrebbero certamente riportato al fornitore il pane cattivo esigendo in
cambio un prodotto commestibile. Il pane alla polvere di vetro deve
dunque essere considerato solo come un argomento capitalista
destinato a gettare il discredito sulle rivendicazioni degli operai
panettieri. Altrettanto si può dire della “balla” lanciata nel 1907 da un
quotidiano – specialista in istigazioni contro il movimento sindacale –
che raccontò di come un aiuto farmacista, patito di sabotaggio, avesse
sostituito stricnina e altri potenti veleni a innocenti droghe prescritte
per la preparazione dei cachet. Contro questa storia, una vera
menzogna – e per giunta un’infamia –, il sindacato degli aiuto
farmacisti protestò a giusta ragione. In realtà, se un aiuto farmacista
avesse propositi di sabotaggio, non penserebbe mai di avvelenare i
malati... cosa che, dopo aver condotto questi ultimi alla tomba,
porterebbe lui di fronte alla corte d’assise e non arrecherebbe nessun
serio pregiudizio al padrone. Di certo, lo “speziale” sabotatore agirebbe
diversamente. Si limiterebbe a scialacquare i prodotti farmaceutici e a
farne generosa distribuzione; potrebbe inoltre impiegare per le
ordinazioni i prodotti più puri – ma molto costosi – al posto dei prodotti
adulterati che si usano correntemente. In questo ultimo caso si
libererebbe di una complicità colpevole... della sua partecipazione al
sabotaggio padronale – questo davvero criminale! – e che consiste nel
consegnare prodotti di cattiva qualità, di effetto quasi nullo, invece dei
prodotti puri ordinati dal medico.Inutile insistere di più per dimostrare
che il sabotaggio farmaceutico può essere vantaggioso per il malato, ma
mai e poi mai gli può nuocere. D’altronde, è con risultati simili,
favorevoli al consumatore, che in molte corporazioni – tra cui quella
alimentare – si manifesta il sabotaggio operaio. L’unico rimpianto, a tal
proposito, è che il sabotaggio non sia entrato più massicciamente nelle
abitudini operaie. È triste, infatti, il dover constatare che i lavoratori,
troppo spesso, si rendono partecipi delle più abominevoli sofisticazioni
a danno della salute pubblica; e ciò senza considerare la parte di
responsabilità che compete loro negli intrallazzi che il Codice potrà
scusare, ma che restano pur sempre dei crimini. Un appello alla
popolazione parigina – che si riproduce qui nell’essenziale – lanciato
nel 1908 dal sindacato dei Cuochi, è più chiaro di tante parole: il primo
giugno scorso, un capo cuoco, arrivato quella mattina stessa in un
ristorante popolare, constatava che la carne che gli era stata data era
così avariata che servirla in tavola sarebbe stato un rischio per i
consumatori; egli lo disse al padrone, ma questi comandò che fosse
ugualmente servita; il lavoratore, sdegnato da ciò che si esigeva da lui,
rifiutò di farsi complice dell’avvelenamento della clientela. Il padrone,
reso furioso da questa sfrontata onestà, si vendicò licenziandolo e
segnalandolo al sindacato padronale dei ristoranti popolari La
Parisienne, in modo da impedirgli di trovare un nuovo posto di lavoro.
Fin qui, l’incidente evidenzia un atto individuale ed ignobile del
padrone e un atto di coscienza da parte di un operaio; ma il seguito
della faccenda rivela, come vedremo, una solidarietà padronale
talmente scandalosa e pericolosa da sentirci obbligati a denunciarla:
Quando l’operaio s’è ripresentato all’ufficio di collocamento del
sindacato padronale, l’addetto all’ufficio gli ha detto che, in quanto
operaio, a lui non doveva importare se le derrate erano avariate o no;
che di questo non era lui il responsabile; che dal momento che lo si
pagava doveva soltanto obbedire; che il suo gesto era inammissibile e
che non doveva più contare sul loro servizio di collocamento per
trovare lavoro. Crepare di fame o farsi complici dell’avvelenamento,
ecco il dilemma posto agli operai da questo sindacato padronale. D’altra
parte, un tale discorso stabilisce chiaramente che, lungi dal riprovare la
vendita di derrate avariate, questo sindacato copre e difende simili atti
perseguitando con accanimento coloro che cercano di impedire
l’avvelenamento. Non è certamente un caso unico a Parigi, quello di
questo ristoratore senza scrupoli che serve carne mar cia alla clientela.
Son tuttavia pochi i cuochi che hanno il coraggio di prendere esempio
da quello citato. Purtroppo, quando hanno troppo coscienza, questi
lavoratori rischiano di perdere il pane e persino di essere boicottati!
Considerazioni, queste, che inducono tanta gente a desistere, facendo
vacillare la volontà di molti e frenando i gesti di rivolta. Ecco perché
restano così pochi i segreti delle trattorie, popolari o aristocratiche, che
ci vengono svelati. Sarebbe invece utile al consumatore sapere che gli
enormi quarti di bue che oggi sono esposti all’entrata della trattoria che
frequenta, son carni appetitose che domani saranno portate alle Halles
e vendute al dettaglio... mentre in trattoria si smerceranno carni
sospette. E gli sarebbe ugualmente utile sapere che la zuppa di gamberi
che assapora è fatta coi gusci delle aragoste lasciate ieri nel piatto da lui
o da altri; gusci accuratamente raschiati per staccarne la polpa che vi
era ancora attaccata, la quale, pestata nel mortaio, è stata passata
finemente attraverso un colino colorato di rosa con del carminio. È da
sapere anche che: i filetti di rombo si “fanno” con lasca o merluzzo; i
filetti di capriolo sono un “taglio” di bue reso piccante da una
marinatura fortissima; per togliere al pollame il sapore di vecchio e
farlo “ringiovanire” vi si fa passare all’interno un ferro rovente. E
ancora, tutto il materiale del ristorante: cucchiai, bicchieri, forchette,
piatti, ecc. viene asciugato con i tovaglioli lasciati dai clienti dopo il
pasto – da cui il rischio di un possibile contagio di tubercolosi... se non
peggio! L’elenco sarebbe lungo – e alquanto nauseante! – se volessimo
enumerare tutti i “trucchi” e le “furbizie” dei commercianti rapaci e
senza vergogna che, imboscati in un angolo del proprio locale, non
paghi di rapinare gli avventori, giungono per sovrappiù ad intossicarli.
D’altra parte, non basta conoscerne i metodi; bisogna anche sapere
quali di queste case “rispettabili” sono avvezze a tali modi criminali.
Ecco perché dobbiamo desiderare, nell’interesse della salute pubblica,
che gli operai dell’industria alimentare sabotino la reputazione indebita
dei loro padroni e ci mettano in guardia contro questi malfattori.
Osserviamo, per di più, che è praticabile dai cuochi un altro tipo di
sabotaggio: ossia preparare i piatti in maniera eccelsa, con tutti gli
ingredienti necessari e apportandovi tutte le cure richieste dall’arte
culinaria; oppure, nei ristoranti a prezzo fisso, avere la mano pesante e
copiosa a vantaggio dei clienti. Da ciò che precede deriva quindi che il
sabotaggio, per gli addetti alle cucine, s’identifica con l’interesse del
consumatore, sia che essi decidano di essere dei cuochi perfetti, sia che
ci inizino agli arcani poco appetitosi delle loro cucine. Alcuni forse
obietteranno che i cuochi, in quest’ultimo caso, anziché fare un atto di
sabotaggio, danno un esempio di integrità e di onestà professionale
degna di essere incoraggiata. Che stiano attenti! Essi s’impegnano su
una china molto scivolosa e rischiano di rotolare verso l’abisso...cioè
verso la condanna formale da parte dell’attuale società. In effetti la
falsificazione, la sofisticazione, la frode, la menzogna, il furto e la truffa
costituiscono la trama della società capitalista, sopprimerli
equivarrebbe aducciderla. Non bisogna farsi illusioni: il giorno in cui si
tentasse d’introdurre nei rapporti sociali, a tutti i piani e i livelli, una
rigorosa onestà, una scrupolosa buona fede, non resterebbe in piedi più
niente, né industria, né commercio, né banca... niente, proprio niente!
Ora, è evidente che per condurre a buon fine tutte le operazioni losche
cui si dedica, il padrone non può agire da solo; gli occorrono degli aiuti,
dei complici...e li trova tra i suoi operai, i suoi impiegati. ne consegue
logicamente che associando i suoi operai alle sue manovre – ma non ai
suoi profitti – il padrone, in qualsiasi ramo d’attività, esige da loro una
sottomissione completa ai suoi interessi e gli impedisce di valutare e
giudicare gli atti e i metodi della sua ditta; se questi hanno un carattere
fraudolento e persino criminale, ciò non li riguarda. «Essi non sono
responsabili... Dal momento che sono pagati, devono solo obbedire...»,
così osservava molto borghesemente l’incaricato della Parisienne di cui
sopra. In virtù di tali sofismi, il lavoratore deve fare strame della
propria personalità, soffocare i propri sentimenti e agire da incosciente;
ogni disobbedienza agli ordini dati, ogni violazione dei segreti
professionali, ogni divulgazione delle pratiche disoneste alle quali è
costretto, costituisce da parte sua un atto di fellonia nei riguardi del
padrone. Dunque, se egli si rifiuta alla cieca e passiva sottomissione, se
osa denunciare le bassezze cui viene associato, è considerato uno che si
ribella al proprio datore di lavoro, uno che gli fa la guerra – che lo
sabota! Ma il vedere in certe cose un atto di guerra o di sabotaggio, non
è appannaggio solo dei padroni: anche i sindacati operai accolgono
come tale ogni fuga di notizie contraria agli interessi capitalisti.
Quest’ingegnoso metodo per combattere lo sfruttamento umano ha
anche ricevuto un nome speciale: sabotaggio per mezzo della bocca
aperta. L’espressione non potrebbe essere più significativa. A ben
vedere è chiaro che molte fortune son state edificate solo grazie al
silenzio mantenuto dagli sfruttati che hanno collaborato agli atti di
pirateria dei padroni. Senza questo mutismo, per i datori di lavoro
sarebbe stato difficile, se non impossibile, condurre a buon fine i propri
affari; se vi sono riusciti, se la clientela è caduta nella rete, se i loro
profitti sono cresciuti a dismisura, ciò è grazie al silenzio dei salariati.
Ebbene! Questi muti del serraglio industriale e commerciale sono
stanchi di starsene a bocca chiusa. Vogliono parlare! E ciò che stanno
per dire è così grave che le loro rivelazioni finiranno per fare il vuoto
intorno al padrone, facendo scappare tutta la clientela. Questa tattica di
sabotaggio che, nelle sue forme normali e prive di violenza, può essere
per molti capitalisti temibile quanto la brutale manomissione di un
prezioso attrezzo, si va diffondendo considerevolmente. È ad essa che
ricorrono gli edili che svelano all’architetto o al proprietario i difetti
dell’immobile che hanno appena costruito, imposti dall’imprenditore a
suo profitto: muri che mancano di spessore, impiego di cattivi
materiali, strati di vernice mancanti, ecc. Bocca aperta, ugualmente,
quando gli operai della metropolitana denunciano con gran clamore i
criminali vizi di costruzione delle gallerie. Bocca aperta anche quando i
garzoni dei droghieri, per costringere alla ragione i padroni refrattari
alle loro rivendicazioni, rendono pubblici, per mezzo di manifesti, gli
autori dei trucchi e delle truffe del mestiere. Bocca aperta, inoltre, i
manifesti dei preparatori farmaceutici – in lotta per la chiusura alle 9 di
sera – che denunciano il colpevole sabotaggio dei malati ad opera dei
padroni incuranti. Ed è alla pratica della bocca aperta che hanno deciso
di ricorrere anche gli impiegati di banca e della borsa. In un’assemblea
generale, tenuta nel luglio scorso, il sindacato di questa categoria ha
adottato un ordine del giorno che minacciava i padroni, nel caso fossero
rimasti sordi alle rivendicazioni presentate, di rompere il silenzio
professionale e rivelare al pubblico tutto ciò che succede in quei covi di
ladri che sono le società finanziarie. E qui si pone un problema: che cosa
diranno della bocca aperta i puntigliosi e i pignoli che condannano il
sabotaggio in nome della morale? Contro chi lanceranno i loro anatemi?
Contro i padroni o contro gli impiegati? Contro i padroni, disonesti,
predatori, avvelenatori, ecc... che intendono associare gli impiegati alle
loro iniquità, rendendoli complici dei propri reati e crimini? Opure
contro gli impiegati che, sottraendosi alla disonestà ed alle
scelleratezze che i padroni esigono da loro, si liberano la coscienza
mettendo in guardia il pubblico e i consumatori? Abbiamo esaminato i
processi di sabotaggio messi in atto dalla classe operaia senza
sospensione di lavoro, senza che vi sia abbandono del cantiere o
dell’officina; ma il sabotaggio non si limita a questa ristretta azione; può
diventare – e diventa sempre più – un aiuto potente in caso di sciopero.
Il miliardario Carnegie [23], il re del Ferro, ha scritto: aspettarsi che un
uomo che difende il suo salario per un bisogno vitale assista
tranquillamente alla sua sostituzione con un altro uomo, è aspettarsi
troppo. È ciò che non smettono di dire, di ripetere, di gridare i
sindacalisti. Ma, si sa, non vi è peggior sordo di chi non vuol sentire – e
il capitalista ne è un esempio! Il pensiero del miliardario Carnegie è
stato parafrasato dal cittadino Bousquet, segretario del Sindacato dei
Fornai parigini, in un articolo su La Voix du Peuple [24]: Possiamo
constatare, egli scriveva, che il semplice blocco del lavoro non basta per
dar vita ad uno sciopero. Sarebbe necessario, anzi indispensabile, per il
buon esito della lotta, che anche gli attrezzi – cioè i mezzi di produzione
della fabbrica, della tessitura, della miniera, del forno, ecc. – siano
messi in sciopero, cioè in uno stato di non funzionamento...I crumiri
vanno a lavorare. trovano le macchine, gli utensili, i forni in buono
stato – e questo succede per grave colpa degli scioperanti, i quali,
avendo lasciato in buono stato i mezzi di produzione, si son lasciati alle
spalle la causa del proprio smacco rivendicativo… Mettersi in sciopero e
lasciare in condizioni normali macchine e attrezzature, è tempo perso
per l’efficacia della lotta. Il padronato, infatti, disponendo dei crumiri,
dell’esercito e della polizia, farà funzionare le macchine... e lo scopo
dello sciopero non sarà raggiunto. Il primo dovere, prima di scioperare,
è dunque ridurre all’impotenza gli strumenti di lavoro. È l’abc della
lotta operaia. In questo modo, la partita tra padrone e operaio diventa
pari, poiché si ha allora la reale cessazione del lavoro e si raggiunge lo
scopo desiderato, cioè un blocco vitale nel clan borghese. Si vuole
scioperare nel settore alimentare?... Qualche litro di petrolio o di
un’altra materia grassa ed odorosa sparsi sul fondo del forno... E
crumiri e soldati possono anche venirci a fare il pane. un pane siffatto
sarà immangiabile, perché i mattoni (per almeno tre mesi)
conserveranno l’odore della sostanza e lo trasmetteranno al pane.
Risultato: forno inutilizzabile e da demolire. Si vuole scioperare nel
settore metallurgico? Sabbia o smeriglio negli ingranaggi di quelle
macchine che scandiscono, come orologi mostruosi, lo sfruttamento del
proletariato; la sabbia farà stridere le macchine, più del padrone e del
capo-reparto, e il colosso di ferro che secerne lavoro sarà ridotto
all’impotenza, ed anche i crumiri… È la stessa tesi ventilata dal
cittadino A. Renault, impiegato della compagnia ouest-Etat, nel suo
opuscolo Le Syndacalisme dans les Chemins de fer [25], tesi che gli ha
valso, nel settembre scorso, di essere revocato da un Consiglio
d’inchiesta, trasformatosi per la circostanza in un consiglio di guerra:
per essere certi del successo, spiegava renault, nel caso in cui la
maggioranza degli impiegati delle ferrovie non cessi il lavoro all’inizio,
è indispensabile che un’azione, sulla quale qui è inutile dilungarsi, sia
attuata contemporaneamente in tutti i centri importanti al momento
della dichiarazione di sciopero. Per questo, bisognerebbe che squadre di
compagni risoluti, decise ad impedire, costi quel che costi, la
circolazione dei treni, siano costituite fin da ora in ogni gruppo e in
ogni punto cruciale. bisognerebbe scegliere dei compagni tra i
professionisti, tra coloro che, conoscendo al meglio i meccanismi del
servizio, saprebbero trovare i settori sensibili, i punti deboli e
intervenire a colpo sicuro senza compiere una stupida distruzione, così
da rendere inutilizzabile in un sol colpo e per qualche giorno, con
un’azione efficace, accorta, intelligente ed energica, il materiale
indispensabile al funzionamento del servizio e alla circolazione dei
treni. Occorre pensarci seriamente. bisogna fare i conti con crumiri e
soldati… Questa tattica, che consiste nel sommare allo sciopero delle
braccia lo sciopero delle macchine, può sembrare indotta da moventi
bassi e meschini. non è affatto vero! I lavoratori coscienti sanno di
essere una minoranza e temono che i loro compagni non abbiano la
tenacia e l’energia per resistere fino alla fine. Così, per ostacolare la
diserzione della massa, le rendono impossibile la ritirata: tagliano i
ponti dietro di essa. Questo risultato lo ottengono togliendo gli attrezzi
dalle mani degli operai succubi delle potenze capitaliste e paralizzando
la macchina che ne rende produttivo lo sforzo. Con questi mezzi,
evitano il tradimento degli incoscienti e impediscono loro di scendere a
patti col nemico riprendendo il lavoro nel momento sbagliato. Vi è però
un altro motivo per questa tattica: come fanno notare i cittadini
Vousquet e Renault, gli scioperanti non hanno da temere solo i crumiri,
ma devono diffidare anche dell’esercito. In effetti, diventa sempre più
usuale per i capitalisti sostituire agli scioperanti la manodopera
militare. Così, non appena c’è uno sciopero dei fornai, degli elettricisti,
dei ferrovieri, ecc., il governo pensa subito a infiacchire lo sciopero, a
renderlo inutile, a svuotarlo, rimpiazzando gli scioperanti coi soldati.
Ad esempio, il governo ha istruito un corpo di genieri ai quali è stato
insegnato il funzionamento dei generatori elettrici, così come la
manutenzione degli apparecchi, e che son sempre pronti ad intervenire
per prendere il posto degli operai dell’industria elettrica al primo
segnale di sciopero. È dunque chiaro che se gli scioperanti, ben al
corrente delle intenzioni del governo, trascurano – prima di sospendere
il lavoro – di porre rimedio all’intervento dei militari, rendendolo
impossibile ed inefficace, sono vinti in partenza. Prevedendo il pericolo,
gli operai che scendono in lotta sarebbero senza scuse se non si
tutelassero. Quindi non mancano di porvi rimedio! Ma allora capita che
li si accusi di vandalismo, che si biasimi e si condanni la loro mancanza
di rispetto per la macchina. Queste critiche sarebbero fondate se vi
fosse da parte degli operai una sistematica volontà di danneggiamento
a scapito dei reali obiettivi. Ma non è così! Se i lavoratori attaccano le
macchine non è per piacere o dilettantismo, ma perché costretti da una
imperiosa necessità. Non bisogna dimenticare che per loro si tratta di
una questione di vita o di morte: se non bloccassero le macchine
andrebbero incontro alla disfatta, allo smacco delle loro speranze;
sabotandole, hanno invece delle grandi possibilità di successo, ma così
incorrono nella riprovazione borghese e vengono colpiti da epiteti
ingiuriosi. Dati gli interessi in gioco, è comprensibile che essi affrontino
questi anatemi a cuor leggero e che il timore di essere disprezzati dai
capitalisti e dal loro servitorame non li faccia rinunciare alle probabilità
di vittoria che vengono da un’ingegnosa ed audace iniziativa. Essi si
trovano in una situazione identica a quella di un esercito costretto alla
ritirata, il quale si decida a malincuore a distruggere gli armamenti e le
vettovaglie che intralcerebbero la marcia e rischierebbero di cadere in
mano al nemico. in questo caso, la distruzione è legittima, mentre in
ogni altra circostanza sarebbe follia. Di conseguenza, non vi è motivo di
biasimare gli operai che ricorrono al sabotaggio per assicurarsi la
vittoria, non più di quanto se ne abbia a biasimare quell’esercito che
sacrifichi i suoi impedimenti per salvarsi. Si può dunque concludere
che, per il sabotaggio, come per tutte le tattiche e le armi, la
giustificazione del suo impiego deriva dalle necessità e dallo scopo che
si persegue. È proprio alla preoccupazione delle necessità ineluttabili e
degli obiettivi da raggiungere che obbedivano, alcuni anni fa, i
dipendenti della tramvia di Lione, i quali, per rendere impossibile la
circolazione dei “carri” con dei crumiri per conduttori, colavano del
cemento negli scambi delle rotaie. Altrettanto si può dire del personale
delle ferrovie di Médoc che scioperò nel luglio 1908: prima di
sospendere il lavoro ebbe cura di tagliare la linea telegrafica che univa
le varie stazioni e, allorché la compagnia volle organizzare un servizio
di fortuna, ci si accorse che i meccanismi delle prese d’acqua delle
locomotive erano stati svitati e nascosti. Un metodo originale fu
applicato negli anni scorsi a Filadelfia, in una grande industria di
pellicceria: prima di cessare il lavoro, gli operai tagliatori furono
invitati dal Sindacato a modificare la grandezza dei loro “capi” di un
pollice in più o in meno. ogni operaio seguì il consiglio, diminuendo o
aumentando i “capi” a piacere... al che, dopo il blocco del lavoro,
vennero ingaggiati dei sostituti senza che gli scioperanti ne fossero
preoccupati. i crumiri si misero al lavoro e fu un gran pasticcio! i
tagliatori tagliavano...e niente s’accordava! Dopo aver perso un bel po’
di dollari il padrone fu costretto a riassumere gli scioperanti... Ciascuno
riprese il suo posto e riaggiustò i “capi” in più o in meno.Non è stata
dimenticata la formidabile disorganizzazione causata dallo sciopero di
Poste e telegrafi nella primavera del 1909. Questo sciopero sorprese
tutti quelli che non volevano vedere in faccia la realtà e ai quali
sfuggivano i sintomi sociali più evidenti; avrebbero manifestato meno
stupore se avessero saputo che il Cri Postal, l’organo di categoria dei
sotto-agenti delle P.t.t., dichiarava, nel mese di aprile del 1907: Voi ci
parlate a colpi di bastone, noi vi risponderemo a colpi di randello... Ciò
che voi non potrete mai impedire è che un giorno le corrispondenze e i
telegrammi per Lille facciano un giro a Perpignan. Ciò che voi non
potrete mai impedire è che le comunicazioni telefoniche diventino
improvvisamente confuse e gli apparecchi telegrafici improvvisamente
guasti. Ciò che voi non potrete mai impedire è che diecimila impiegati
restino al loro posto ma a braccia incrociate. Ciò che voi non potrete
mai impedire è che diecimila impiegati vi consegnino lo stesso giorno,
alla stessa ora, la loro domanda di aspettativa e, legalmente, smettano
subito di lavorare. E ciò che voi non potrete mai fare è sostituirli con
dei soldati...Molti altri esempi sarebbero da riportare. non essendo però
questo un trattato di sabotaggio, è impossibile esporre qui i mezzi,
tanto complessi quanto vari, ai quali ricorrono e possono ricorrere i
lavoratori. Quelli che abbiamo ricordato, bastano ampiamente per far
cogliere il carattere del sabotaggio. Oltre ai metodi esposti sopra ve n’è
un altro – diffusosi discretamente dopo lo scacco del secondo sciopero
dei Postali – che si può definire sabotaggio tramite rappresaglia. In
seguito a questo secondo sciopero, alcuni gruppi rivoluzionari, che le
ricerche della polizia e del procuratore non hanno individuato, decisero
di sabotare le linee telegrafiche e telefoniche per protestare contro il
licenziamento in massa di molte centinaia di scioperanti. annunciarono
la loro intenzione di insistere in questa guerriglia di nuovo genere
finché i postali revocati per sciopero non fossero reintegrati. Una
circolare confidenziale, inviata da questi gruppi ad indirizzi sicuri,
precisava in quali condizioni doveva attuarsi questa campagna di
sabotaggio delle linee. I compagni che ti inviano questo foglio, diceva la
circolare, ti conoscono, anche se tu non conosci loro; scusali se non si
firmano. Essi ti conoscono come un serio rivoluzionario. ti chiedono di
tagliare i fili telegrafici e telefonici che saranno alla tua portata nella
notte tra lunedì e martedì 1° giugno. Le notti seguenti continuerai
senz’altro ordine, il più che potrai. Quando il governo ne avrà
abbastanza, riassumerà i 650 postali che ha licenziato. Nella seconda
parte, questa circolare conteneva un formulario dettagliato e tecnico
che esponeva i diversi modi per tagliare i fili evitando di restare
fulminati. Essa raccomandava inoltre, con molta insistenza, di non
toccare i fili dei segnali né i fili telegrafici delle compagnie ferroviarie e,
per rendere impossibile ogni errore, insisteva minuziosamente sul
modo per riconoscere i fili delle compagnie da quelli delle linee dello
Stato. L’ecatombe dei fili telegrafici e telefonici fu considerevole in tutti
i punti della Francia e continuò senza posa fino alla caduta del
ministero Clemenceau. All’avvento del ministero Briand si ebbe una
sorta di armistizio, una sospensione delle ostilità contro le linee
telegrafiche, perché i nuovi ministri avevano lasciato intravedere come
prossima la riassunzione delle vittime dello sciopero. Successivamente,
in diverse circostanze, certi gruppi, volendo protestare contro l’arbitrio
del potere, hanno preso l’iniziativa di dedicarsi a questa guerra contro i
fili telegrafici e telefonici. Ecco, a scopo informativo, un resoconto di
uno tra i gruppi più attivi in questo genere di operazioni: Settimo
bilancio del gruppo rivoluzionario segreto della regione di Joinville e
delle sue succursali: Fili telefonici e telegrafici tagliati per protestare
contro l’arresto arbitrario del compagno Ingweiller, segretario
dell’unione sindacale degli operai del metallo, e contro le persecuzioni
scandalose contro il comitato di sciopero della bi-Métal e le condanne
pronunciate il 15 luglio 1910 [26]: regione di Montesson, Le Vesinet,
Pont du Pecq 25 luglio: 78 linee – Strada da Melun a Montgeron 25
luglio: 32 linee – Strada da Corbeil a Draveil 28 luglio: 24 linee – linea di
P.-L.-M. (porta di Charenton) 87 linee. Totale: 221 linee. Riporto dei 6
precedenti bilanci: 574 linee. Totale: 795 linee.
Fin qui abbiamo affrontato il sabotaggio solo come mezzo di difesa
usato dal produttore contro il padrone. Può però diventare anche un
mezzo di difesa del pubblico contro lo Stato o le grandi compagnie. Lo
Stato – diamo a Cesare quel che è di Cesare! – ne ha già sofferto. Si sa
con quale disinvoltura sfrutti i servizi pubblici che ha inglobato. Si sa
anche quanto i viaggiatori della rete dell’ovest siano tra i più sfavoriti.
Così, a più riprese, un’ondata di rabbia è passata tra di essi portando, in
un moto di rivolta, ad unire le classi contro lo Stato maledetto. Abbiamo
assistito ad un rude sabotaggio della stazione di St.-Lazare... ma quello
fu solo un gesto di esasperazione impulsivo e momentaneo. Ora, ecco
che un sindacato di “difesa degli interessi dei viaggiatori” viene a
costituirsi alla fine dell’agosto scorso. Dalla sua fondazione, convinto
dell’inutilità dei mezzi legali, tiene ad affermare (in una riunione tenuta
a Houilles) la sua volontà di ottenere soddisfazione ricorrendo a tutti i
mezzi possibili e immaginabili, dichiarandosi partigiano di un
sabotaggio intensivo del materiale. Prova, questa, che il sabotaggio
prende sempre più piede!
L’Ostruzionismo
L’ostruzionismo è un metodo di sabotaggio alla rovescia, che consiste
nell’applicare con cura meticolosa i regolamenti svolgendo il compito,
cui ciascuno è adibito, con sapiente lentezza ed esagerata attenzione.
Questo metodo è utilizzato soprattutto nei paesi germanici, ma una
delle prime, più importanti applicazioni è stata fatta nel 1905 dai
ferrovieri italiani. È inutile insistere per dimostrare quanto le circolari
e i regolamenti, nello sfruttamento delle vie ferrate, si accavallino fra di
loro, e non è difficile immaginare quanti disservizi possa comportare la
loro stretta e scrupolosa applicazione. In Italia, al tempo dell’ostruzione
dei Ferrovieri [27], la confusione e la disorganizzazione furono
fantastiche e formidabili. Di fatto, la circolazione dei treni fu quasi
sospesa. L’evocazione di ciò che è stato quel periodo di resistenza
passiva potrà far cogliere tutta l’ingegnosità di questa tattica operaia. i
cronisti che vissero l’ostruzione ci hanno lasciato delle testimonianze
che valgono più di un’esposizione teorica. Dunque, lasciamo a loro la
parola:il regolamento vuole che lo sportello per la distribuzione dei
biglietti si apra trenta minuti prima dell’ora di partenza del treno e che
lo si chiuda cinque minuti prima. Si aprono dunque gli sportelli. La folla
si accalca e si spazientisce. Un signore offre una banconota da 10
franchi per pagare un biglietto da 4,50 Fr. L’impiegato gli legge
l’articolo che obbliga i viaggiatori a presentarsi col denaro contato fino
al centesimo. Che vada dunque a far moneta. L’incidente si ripete per
otto viaggiatori su dieci. Contro ogni uso, ma secondo il regolamento,
non si dà resto. Dopo venticinque minuti, solo una trentina di persone
ha preso il biglietto. Le altre arrivano affannate, con il denaro contato.
Ma lo sportello è chiuso perché il tempo regolamentare è scaduto. Non
crediate comunque che coloro che son riusciti a prendere il biglietto
siano meno da compatire. Le loro traversie sono solo all’inizio. una
volta sul treno, il treno non parte. Deve attendere che altri treni
arrivino, treni che son fermi a cinquecento metri dalla stazione, perché,
seguendo il regolamento, si sono eseguite delle manovre che hanno
provocato una sosta interminabile. Alcuni viaggiatori, spazientiti, sono
scesi per arrivare a piedi fino alla stazione, ma i sorveglianti li hanno
fermati e hanno steso loro un verbale di multa. D’altronde, nel treno
che deve partire, ci sono dei tubi di riscaldamento da verificare e una
minuziosa ispezione può durare anche due ore. Finalmente il treno si
muove. Si manda un sospiro di sollievo. Si pensa che sia la volta buona.
Illusione! Alla prima stazione, il capotreno esamina tutte le vetture ed
impartisce gli ordini del caso. in particolare, si verifica che tutte le
portiere siano ben chiuse. Ci si dovrebbe fermare un minuto, invece
bisogna mettere nel conto almeno un quarto d’ora… Questi incidenti,
che si verificarono a Roma e un po’ ovunque il primo giorno, danno solo
un’idea imprecisa della situazione. Per le manovre nelle stazioni e per
la formazione dei treni merci le cose erano ben più complesse. E tutto
questo inframmezzato a incidenti grotteschi e spassosi da far morire
dal ridere anche i numi di Sapeck [28]. A Milano, un treno si era
formato faticosamente dopo un’ora e mezza di lavoro. il sorvegliante
passa e vede al centro una di quelle vecchie ed orribili carrozze che, per
avarizia, le compagnie si ostinano a far circolare. “Vettura fuori uso”,
sentenzia. E subito fa staccare la vettura e riformare il treno. A Roma,
un macchinista deve riportare la sua macchina al deposito. Ma si
accorge che dietro il tender non sono state messe le tre lanterne
regolamentari. Rifiuta dunque di muoversi. Si vanno a cercare le
lanterne; ma al deposito non vogliono consegnarle perché è necessario
un ordine scritto del capostazione. Quest’incidente porta via mezz’ora.
Allo sportello della biglietteria si presenta un viaggiatore con un
biglietto a prezzo ridotto al momento di timbrarlo, l’impiegato
domanda: – Voi siete il sig. tal dei tali, il cui nome figura sul biglietto? –
Certamente. – avete un documento che attesti la vostra identità? – no,
non con me. – allora, siate tanto gentile da trovare due testimoni che mi
garantiscano la vostra identità. Al medesimo sportello si presenta un
deputato – ah! Voi siete l’onorevole X...? – Sì, sono io. – La vostra
medaglia? – Eccola. – Vi prego di mettere una firma. – Volentieri. un
calamaio. – Sfortunatamente non ne ho. – E allora come posso firmare?
L’impiegato, calmo ed imperturbabile, risponde: – io credo che al
buffet… Il corrispondente di un grande giornale parigino narrò,
all’epoca, il suo burlesco viaggio durante l’ostruzione: Mi feci condurre
alla stazione termini (a Roma), dove arrivai giusto all’ora della partenza
regolamentare del treno per Civitavecchia, Genova, Torino, Modane. Mi
presentai allo sportello della biglietteria, che era libero. – Sono ancora
in tempo per il treno diretto a Genova? – chiesi all’impiegato. Quello mi
guarda un attimo con aria stupita, poi mi risponde flemmatico,
scandendo le sillabe: – Certamente, il treno per Genova non è ancora
partito. – Datemi un biglietto di andata e ritorno per Civitavecchia,
dissi, passandogli il denaro già contato. L’impiegato prende i soldi,
osserva minuziosamente ad uno ad uno tutti i pezzi, li tasta, li fa
suonare per verificarli, il tutto con tale lentezza che gli dico, fingendo
l’impazienza: – Ma voi mi farete perdere il treno! – bah! il vostro treno
non parte ancora… – Come! Come! Feci io. – Sì... Dicono che c’è qualcosa
di guasto nella macchina. – Ebbene! La si cambierà! – Chi lo sa?... [29]
Lascio quell’uomo impassibile e raggiungo la banchina, che ha un
aspetto strano. Il febbrile andirivieni di fattorini e impiegati è cessato;
questi sono riuniti in piccoli gruppi e parlano posatamente tra loro,
mentre i viaggiatori vanno su e giù davanti alle portiere aperte del
treno. Dappertutto regna la calma di una piccola stazione di provincia.
Mi avvicino ad una vettura di prima classe. una decina di manovali
lucida le maniglie di rame, pulisce i vetri, apre e chiude le portiere per
assicurarsi che funzionino bene, spolvera i cuscini, prova i rubinetti
dell’acqua e gli interruttori della luce elettrica. Una vera furia di
pulizia, fatto inaudito nelle ferrovie italiane! Son trascorsi otto minuti e
la vettura non è ancora pronta. – Dio mio! [30], grida improvvisamente
uno dei lavoratori, c’è della ruggine sulle maniglie di questa portiera! E
sfrega la ruggine con ardore senza pari. – avete intenzione di pulire in
questo modo tutte le vetture? gli domando. – tutte! Mi risponde con
voce grave quest’uomo coscienzioso. E ce ne sono da pulire ancora
quindici! Intanto la locomotiva non c’è ancora. M’informo. un
impiegato compiacente mi assicura che il macchinista è entrato in
deposito all’ora regolamentare, ma ha perso molto tempo per mettere
la sua macchina in ordine, perché ha voluto pesare i sacchi del carbone,
contare ad uno ad uno i pezzi agglomerati, infine, preoccupato per
alcuni apparecchi, ha dovuto pregare il suo caposervizio di venire a
discuterne con lui – conformemente al regolamento! Assisto al seguente
dialogo tra un vicecapostazione e il capotreno: – ascoltate, dice il vice-
capostazione, lo sapete anche voi che se esigete che il treno si formi
secondo il regolamento, non si partirà più. – Scusate, capo, replica
l’altro con calma. bisogna prima far rispettare l’articolo 293 che esige
che le vetture a respingenti fissi siano alternate alle vetture a
respingenti a molla. Poi, il treno è tutto da riformare, perché nessun
respingente combacia esattamente con il suo contrario, come invece
prescritto dall’articolo 236, lettera a. alcune vetture mancano in parte
delle catene di sicurezza e di conseguenza si dovrà ripararle, come esige
l’articolo 326, lettera b. inoltre, la formazione del treno non è fatta
come prescritto perché le vetture per... – Voi avete perfettamente
ragione, grida il vice-capostazione, ma per fare tutto questo ci vuole
una giornata! – Questo è troppo vero, sospira il capotreno, beffardo. Ma
che v’importa? una volta partiti, la responsabilità ricadetutta su di me.
insisto dunque perché il regolamento sia rispettato...--. Finalmente un
fischio annuncia che sta arrivando la locomotiva, la quale però si
arresta ad ogni scambio a causa di lunghe discussioni tra il macchinista
e lo scambista. avanzando sul binario dove l’attende il nostro treno, il
macchinista si ferma ancora una volta per prudenza: prima di andare
avanti, e di attaccarsi alla testa del treno, vuole sapere se i freni delle
vetture sono in buono stato, se non vi sono lampisti o altri addetti sui
tetti dei vagoni... Un incidente fa presto a succedere! Alla fine, il
macchinista si dichiara soddisfatto e dirige la sua locomotiva
all’aggancio. Stiamo per partire?... neanche per sogno! Il manometro
della macchina deve segnare 5 gradi e ne segna 4. abitualmente, si parte
lo stesso e la pressione sale in viaggio. Ma il regolamento esige i 5 gradi
alla partenza e stasera il nostro macchinista non partirebbe a 4 gradi e
9 decimi per niente al mondo. Finiamo per partire con un’ora e mezza
di ritardo. Usciamo dalla stazione con sapiente lentezza, fischiando a
tutti gli scambi, passando accanto a sei treni fermi a 2 km da Roma, i cui
viaggiatori fanno a gara nell’imprecare, ed eccoci sotto il tiro dei
controllori che passano il tempo a far firmare i viaggiatori muniti di
biglietti gratuiti, a metà prezzo e chilometrici. Si arriva intanto alla
prima stazione. Salgono dei viaggiatori. Il personale verifica lentamente
la chiusura di tutte le portiere, aprendole e richiudendole. Si perdono
altri dieci minuti. Nonostante tutto, il capostazione fischia la partenza.
– Momento! [31] gli grida il capotreno. Momento! – Che c’è?, chiede il
capostazione. – Vado a chiudere il vetro di quello scompartimento, là in
fondo, come prescrive l’articolo 676 del regolamento. E va davvero a
chiuderlo! Si riparte... Alla stazione successiva, nuova commedia. Ci
sono dei bagagli da prendere, nove bauli e cinque valigie, che il
capotreno controlla prima di ammettere a bordo – come prescrive
l’articolo 739 del regolamento. Finalmente arriviamo a Civitavecchia, a
mezzanotte e quaranta, con circa tre ore di ritardo, su un percorso che,
di norma, si fa in due ore… Ecco cos’è l’ostruzionismo: rispetto ed
applicazione, spinti fino all’assurdo, dei regolamenti; adempimento
delle mansioni assegnate applicando un’attenzione eccessiva e una non
meno eccessiva lentezza. Detto questo, non è inutile conoscere
l’apprezzamento di questa tattica di lotta data dal Congresso
internazionale degli operai dei trasporti, che si tenne a Milano nel
giugno del 1906. Il relatore era un delegato austriaco, il cittadino
Tomschick [32]: non è facilissimo da spiegare, egli dichiarò: il Congresso
raccomanda ai ferrovieri di mettersi in sciopero o d’impiegare la
resistenza passiva. Però, ciò che va bene e si può fare in austria, può
non andar bene e potersi fare in altri paesi. Quanto alla resistenza
passiva: è un vecchio metodo, applicato sin dal 1895. i compagni italiani
hanno utilizzato la resistenza passiva molto malamente estendendola
anche ai treni viaggiatori. Così hanno irritato la popolazione in maniera
assolutamente inutile, perché la circolazione dei viaggiatori non è la
parte più importante del commercio, essa viene in secondo piano. Per il
trasporto su rotaia, va presa in considerazione soprattutto la
circolazione delle merci e occorre colpire le ferrovie bloccando questa.
Se i compagni italiani lo avessero fatto, ne avrebbero senza dubbio
ottenuto grandi vantaggi. Più le merci si intasano, più l’intera
circolazione è intralciata e la conseguenza è che i viaggiatori protestano
perché devono restare a terra ad attendere invano il loro mezzo di
trasporto. in questo caso, i reclami dei viaggiatori non saranno diretti ai
lavoratori delle ferrovie, ma all’amministrazione. In Italia si è
constatato il contrario: la popolazione era contro i lavoratori delle
ferrovie. Io vi dico che la resistenza passiva è molto più difficile da
attuare dello sciopero. Con la resistenza passiva, i lavoratori delle
ferrovie sono sempre sotto la sferza dei superiori; ogni quarto d’ora
devono difendersi da ogni sorta di comando e, rifiutandosi di
collaborare, possono essere licenziati in qualsiasi momento. Se
consideriamo i funzionari, vedremo che tutt’al più solo il dieci per
cento conosce il regolamento, e questo perché gli impiegati non sono
istruiti dai loro capi. Potete dunque immaginare quanto sia difficile
organizzare ed informare i lavoratori delle ferrovie durante una
resistenza passiva. C’è anche un’altra importante circostanza che non
bisogna dimenticare: durante la resistenza passiva si caricano di lavoro
gli indifferenti, che devono correre continuamente, hanno poco riposo
e, nello stesso tempo, perdendo l’indennità chilometrica, vedono
diminuire il proprio guadagno. Per questo, e lo ripetiamo ancora una
volta, l’attuazione della resistenza passiva non è affatto un compito
facile...Il Congresso d’altronde non disapprovò l’ostruzione: non si
pronunciò tra i due metodi – la resistenza passiva e lo sciopero –,
lasciando così al giudizio degli interessati l’uso dell’una o dell’altro. Che
le riserve del Congresso nei confronti della resistenza passiva non
fossero una condanna, è dato dal fatto che l’anno seguente, nell’ottobre
1907, i ferrovieri austriaci fecero ricorso proprio a questo mezzo di
lotta: l’ostruzione durò per una quindicina di giorni e le compagnie
furono costrette a capitolare. Da allora, in svariate circostanze,
l’ostruzionismo è stato praticato nei paesi austriaci: tra le corporazioni
che vi hanno fatto ricorso citiamo quelle degli impiegati delle poste e
dei tipografi. Aggiungiamo, prima di concludere, che questo mezzo di
lotta ha acquistato diritto di cittadinanza anche in Germania: alla soglia
dell’anno 1908 gli impiegati delle grandi case editrici di Lipsia hanno
usato questo sabotaggio alla rovescia che è l’ostruzionismo. Un giornale
della loro corporazione così espose i fatti: Questi impiegati che
dovevano lavorare, malgrado il carovita, in condizioni estremamente
precarie, avevano sottoposto ai padroni un progetto di tariffa,
chiedendo un salario minimo di 110 marchi al mese. i padroni,
contando sulla mancanza di unione degli impiegati (esistono 5 sindacati
diversi, di cui uno socialista), avrebbero voluto protrarre le trattative
per arrivare alla stagione morta e così non tener conto delle
rivendicazioni operaie. Ma avevano fatto i conti senza la vigilanza del
Sindacato socialista, che convocò una riunione di tutti gli impiegati,
nella quale si decise di adottare il sabotaggio per costringere i padroni
ad una soluzione. Il giorno dopo, gli impiegati entrarono in resistenza
passiva, cioè cominciarono a lavorare coscienziosamente, senza troppa
fretta; contarono più volte le fatture prima di spedirle, misero la più
grande cura nell’imballaggio, ecc… E il risultato fu che una gran
quantità di libri non poté essere spedita. I padroni, l’indomani, vedendo
che le cose prendevano questa piega, accordarono l’aumento richiesto.
Ci resta da osservare che l’ostruzionismo, benché abbia dato già prova
di sé in Germania, non è stato ancora praticato in Francia – salvo
un’eventuale svista da parte nostra. Ciò nonostante, non è improbabile
che si acclimati anche qui... basta solo che se ne presentino le occasioni
e le circostanze propizie.
Conclusioni
Esaminando le modalità del sabotaggio operaio, abbiamo avuto modo di
constatare che la sua particolarità, a prescindere dalla forma e dal
momento in cui esso si palesa, è sempre e comunque quella di colpire i
profitti del padrone. Contro il sabotaggio, indirizzato com’è a colpire
solo i mezzi di sfruttamento e le cose inerti e senza vita, la borghesia
spreca i suoi anatemi. Diversamente, i detrattori del sabotaggio operaio
non s’indignano di fronte ad un altro tipo di sabotaggio – questo, sì,
davvero criminale, mostruoso e abominevole! – e che è l’essenza stessa
della società capitalista; non si scompongono di fronte a un sabotaggio
che, non pago di derubare le proprie vittime, toglie loro la salute e
aggredisce le fonti stesse della vita! Vi è in questa loro impossibilità una
ragione superiore: i beneficiari di questo tipo di sabotaggio sono
proprio loro! Sabotatori i commercianti che, alterando il latte, alimento
dei piccoli, falciano le generazioni in erba che crescono; sabotatori i
mugnai e i fornai che aggiungono farine di talco o altri prodotti nocivi,
adulterando così il pane, cibo di prima necessità; sabotatori i
fabbricanti di cioccolato all’olio di palma o di cocco; di caffè all’amido,
alla cicoria e alle ghiande; di pepe al guscio di mandorle o alla sansa di
olive; di confetture al glucosio; di torte alla vaselina, di miele all’amido
e alla polpa di castagne; di aceto all’acido solforico; di formaggi al gesso
o alla fecola; di birra alle foglie di bosso, ecc, ecc. Sabotatori i
trafficanti, questi veri patrioti! – più e meglio di Bazaine [33] –, che nel
1870-71 contribuirono al sabotaggio della loro patria rifornendo i
soldati con scarponi dalle suole di cartone e con cartucce contenenti
polvere di carbone; sabotatori anche i loro rampolli che,
intraprendendo la stessa carriera dei padri, hanno costruito le caldaie
difettose delle grandi corazzate, gli scafi incrinati dei sommergibili o
rifornito l’esercito con scatolame marcio, carne avariata o
tubercolotica, pane al talco o alle fave, ecc. [34] Sabotatori gli
imprenditori edili, i costruttori di ferrovie, i fabbricanti di mobili, i
mercanti di concimi chimici, gli industriali di ogni pelo ed ogni
categoria… Tutti sabotatori! tutti, senza eccezioni!... Perché tutti loro
truccano, rovinano, falsificano a più non posso. Il sabotaggio è ovunque
e in ogni cosa: industria, commercio, agricoltura... ovunque! Ovunque!…
Ora, il sabotaggio capitalista che impregna la società attuale, che
costituisce l’elemento di cui essa vive – come noi viviamo dell’ossigeno
che è nell’aria –, questo sabotaggio che sparirà solo con essa, è ben
altrimenti condannabile rispetto al sabotaggio operaio. Quest’ultimo –
occorre sottolinearlo – se la prende soltanto col capitale, con la
cassaforte, mentre l’altro attacca la vita umana, rovina la salute, popola
ospedali e cimiteri. Dalle ferite inferte dal sabotaggio operaio sprizza
solo oro; al contrario, da quelle prodotte dal sabotaggio capitalista, il
sangue cola a fiotti. Il sabotaggio operaio si ispira a principi generosi ed
altruisti: è un mezzo di difesa e di protezione contro le vessazioni
padronali; è l’arma del diseredato che lotta per la sua esistenza e per
quella della sua famiglia; esso mira a migliorare le condizioni sociali
delle masse operaie e a liberarle dallo sfruttamento che le opprime e le
schiaccia.... È un fermento di vita raggiante e migliore. Il sabotaggio
capitalista, invece, è un mezzo per intensificare lo sfruttamento;
condensa appetiti sfrenati e mai sazi; è l’espressione di una ripugnante
rapacità, di una insaziabile sete di ricchezza che non indietreggia
davanti al crimine per soddisfarsi... Lungi dal generare la vita, semina
intorno a sé solo rovine, dolore e morte.
Note
[1] il Petit Larousse illustré, del quale abbiamo consultato la 185 a
edizione del 1922, riporta la seguente definizione del vocabolo
sabotage: «n.m. (…) tecn. Atto disonesto dell’operaio che,
volontariamente, introduce errori o difetti nei prodotti del lavoro,
oppure deteriora il materiale che gli è confidato.». all’epoca, il
significato prevalente del termine rimaneva però quello relativo alla
fabbricazione di zoccoli.
[2] Personaggio della comédie-ballet di Molière: Il borghese gentiluomo
(Lebourgeois gentilhomme, 1670).
[3] La banca Nucingen è un romanzo scritto da Honoré de balzac nel
1837. Pubblicato originariamente come roman-feuilleton sul giornale La
Presse, fu riedito in volume l’anno seguente.
[4] riferimento alla cosiddetta “rivolta dei Canuts”, i tessitori di seta di
Lione. Scoppiata il 21 novembre 1831, fu tra le prime sommosse
proletarie dell’epoca industriale.
[5] antica unità di misura, equivalente a ca. 1,20 metri. Era calcolata
prendendo come oggetto di riferimento l’osso del braccio chiamato
ulna (da cui il suo nome).
[6] La Croix-rousse è oggi un quartiere di Lione che sorge sulla collina
omonima. nei primi decenni del XiX sec. divenne in breve tempo il più
grande nucleo produttivo e abitativo degli operai tessili lionesi.
[7] Circolare n. 9, 1896 [NdA]. Pubblicazione mensile di scienze sociali
(Parigi, 1896-1939), il Musée Social era l’organo dell’omonima
fondazione privata. Vero e proprio istituto di ricerche, l’ente era stato
riconosciuto d’utilità pubblica con decreto del 31 agosto 1894. il numero
cui si riferisce Pouget (la “circulaire” n. 9, serie a, del 30 novembre
1896) raccoglie il testo di una conferenza di Octave Festy: Les ouvriers
des docks et entrepôts en Angleterre. Le métier, les hommes et les
syndicats.
[8] Pouget non dà alcuna indicazione bibliografica sul pamphlet inglese
in questione.
[9] il Ministro della giustizia Ludovic Trarieux nel 1895 e il senatore
Merlin nel 1896 erano stati tra coloro che avevano proposto un
inasprimento della repressione contro la cessazione concertata del
lavoro nei pubblici servizi.
[10] Eugène guérard (1859-1931) fu segretario del Syndicat national des
chemins de fer e 4° segretario generale della Cgt dal 21 aprile al 26
novembre 1901. La corrente “allemanista” era vicina all’ex comunardo
e politico socialista Jean Allemane (1843-1935), fondatore del Partito
operaio Socialista rivoluzionario (PoSr) nel 1890 e fautore dello
scioperò generale come mezzo di pressione.
[11] La lettera del testo recita: une certaine manière. Evidente refuso.
[12] Le Travailleur des P.T.T., n. di settembre 1905 [NdA].
[13] Cfr.: Boycottage et Sabottage: Rapport de la Commission du
Boycottage au Congrès Corporatif tenu à Toulouse en septembre 1897.
opuscolo di 18 pagine che raccoglie l’intero rapporto approvato dal
Congresso di Tolosa della Cgt. La commissione in questione era formata
da otto membri, tra cui lo stesso Pouget, il quale, citando in Le Sabotage
alcuni passaggi del rapporto, elimina la doppia t dall’ortografia del
vocabolo.
[14] alfred Hamelin, tipografo, membro della Fédération Française des
travailleurs du Livre e militante del PoSr (cfr. nota 10).
[15] alexandre Millerand (1859-1943), uomo politico socialista. Fu anche
Primo Ministro dal 20 gennaio al 24 settembre 1920 e Presidente della
repubblica di Francia dal 23 settembre 1920 al 11 giugno 1924.
[16] Riom era delegato della Fédération du bâtiment, mentre
l’allemanista Clément beausoleil apparteneva al sindacato “des
employés de la Seine”.
[17] Si tratta di Treich, allora segretario della borsa del Lavoro di
Limoges e focoso “guesdiste”... nominato poco dopo esattore dell’ufficio
del registro a bordeaux [NdA].
[18] Vi sono tuttavia dei casi in cui il venditore di una macchina non
cede integralmente al suo acquirente la funzione produttrice della
stessa. Ad esempio, quelle macchine per fabbricare calzature che sono
munite di un contatore registrante il numero di scarpe prodotte e che
sono vendute con la clausola che l’acquirente pagherà indefinitamente
un certo canone per ogni paio di calzature prodotte [NdA].
[19] Max Simon Nordau, il cui vero nome era Simon Miksa Südfeld
(1849-1923), è stato un sociologo positivista ungherese. Di origini
ebraiche, fu tra i fondatori, insieme al connazionale Theodor Herzl, del
movimento sionista. La citazione di Pouget è tratta da: M. nordau, Die
conventionellen Lügen der Kulturmenschheit, 1883; traduz. it.: Le
menzogne convenzionali della nostra civiltà, Madella, Sesto S. giovanni,
1914. La versione italiano del 1914, che si deve a Cimone (pseudonimo
del giornalista Emilio Faelli, 1866-1941), diverge un po’ dal testo in
francese utilizzato da Pouget: «Una morale naturale e fisiologica
dichiarerebbe che il riposo è il premio massimo, e non renderebbe
desiderabile e glorioso se non quel tanto di lavoro che è indispensabile
per vivere. Ma questa morale non sarebbe utile agli sfruttatori, il cui
interesse invece esige che la massa del popolo produca più di quello che
essa consuma e lavori più di quello che le è necessario, acciocchè essi
possano impossessarsi della eccedenza dei prodotti. Per ciò hanno
soppressa la morale naturale e ne inventarono un’altra, la quale viene
dai loro filosofi spiegata, dai loro predicatori esaltata, e cantata dai loro
poeti; e, secondo questa morale, l’ozio è il padre d’ogni vizio e il lavoro
è una virtù, anzi la più nobile delle virtù».
[20] Jean Jaurès (1859-1914), politico socialista francese. Anti-
interventista e pacifista, venne assassinato dal nazionalista Raoul
Villani il 31 luglio 1914, lo stesso giorno in cui la Germania dichiarò
guerra a Francia e Russia.
[21] Georges Eugène Sorel (1847-1922), pensatore francese, teorico del
sindacalismo rivoluzionario. Sorel svilupperà le sue idee sulla lotta
sindacale soprattutto in Réflexions sur la violence (1908).
[22] John Davison rockefeller (1839-1937), uno dei più noti capitalisti di
tutti i tempi, monopolista con la Standard oil nel ramo petrolifero fino
al 1911. Divenne in pochi decenni proprietario di una ricchezza
spaventosa, finendo per controllare, col suo patrimonio, circa l’1,5% del
PiL statunitense (sic).
[23] Andrew Carnegie (1835-1919), grande industriale scozzese (ma
naturalizzato statunitense) del comparto siderurgico. nel 1865 fondò la
Carnegie Steel Company, con sede a Pittsburgh, che lo renderà uno dei
capitalisti più ricchi del mondo.
[24] nel numero del 21 maggio 1905 [Nda]. La Voix du Peuple era
l’organo della Cgt, a cadenza settimanale, il cui primo responsabile
redazionale, dal 1900, fu proprio Pouget.
[25] A. Renault, Le Sindacalisme dans les Chemins de fer, prefazione di
Victor griffuelhes, Paris-St. Lazare-batignolles, 1910.
[26] Lo sciopero presso la fabbrica bi-Métal di Joinville-le-Pont, una
cittadina posta nella Valle della Marna, era durato dal 19 gennaio al 18
aprile 1910, con modalità estremamente violente (scontri di piazza, uso
di armi da fuoco da parte degli scioperanti, ecc.). L’agitazione sindacale
era stata coordinata dal segretario dell’union des métaux de la Seine,
Gaspard Ingweiller, appartenente all’ala rivoluzionaria della Cgt, il
quale verrà arrestato il 12 aprile e condannato a sei mesi di carcere.
[27] in italiano nel testo.
[28] Sapeck era lo pseudonimo di Eugène Bataille (1854-1891),
illustratore e autore satirico della terza repubblica.[29] in italiano nel
testo.
[30] Ibidem.
[31] Ibidem.
[32] Si tratta, più precisamente, di Josef Tomschik (1867-1945), che fu
segretario generale del sindacato socialdemocratico dei ferrovieri
austriaci e, all’indomani della grande guerra, parlamentare della
SDaPÖ, il Partito dei Lavoratori Social-Democratici dell’Austria.
[33] François Achille Bazaine (1811-1888), generale francese, fu
processato e condannato per alto tradimento nel 1873, diventando una
sorta di capro espiatorio per la disfatta di Sedan (1870) e la conseguente
capitolazione nella guerra franco-prussiana.
[34] un altro recente esempio di sabotaggio capitalista: Durante il
Circuito dell’Est [una gara d’aviazione dell’agosto 1910; NdT], si fece un
gran chiasso col pretesto di presunti sabotaggi agli aeroplani. È
superfluo discolpare i rivoluzionari di un tale crimine. Essi hanno
troppa stima per questa meravigliosa invenzione da poter pensare di
sabotare un aeroplano... sia pure pilotato da un ufficiale. Dopo
l’inchiesta, è stato scoperto che il solo ed unico sabotatore degli
aeroplani era un onesto commerciante... un patriota, per giunta! Era
stato ordinato, a questo commerciante, dell’olio di ricino di prima
qualità (utilizzato per ingrassare i motori) ed egli, invece, consegnò del
solforicinato di ammoniaca, prodotto inferiore e nocivo, allo stesso
prezzo dell’olio di ricino. Sotto l’azione del calore sviluppato dalla
rotazione eccessivamente rapida del motore, il solforicinato di
ammoniaca si dissociò e si formò dell’acido solforico, la cui azione
corrosiva fu disastrosa, perché deteriorò e bloccò gli organi metallici,
anziché ingrassarli. Questo sabotaggio capitalista avrebbe potuto
causare la morte dell’aviatore Legagneux e del tenente Aquaviva...
[NdA].

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