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LA VEGLIA DEI GIGANTI

a cura di GM Willo

Foto di copertina ed elaborazione grafica di GM Willo

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ALTRE EDIZIONI WILLOWORLD

L'Albero delle Parole ­ a cura di GM Willo
La raccolta delle opere dei membri di Willoworld.net, il 
portale di creatività di GM Willo, nel suo secondo anno di 
attività.

Elia in cerca di amici nello spazio ­ di GM Willo
Una favola per bambini davvero spaziale!

Un Mondo a Gambe Aperte ­ di Gano
Il primo libro del personaggio più caratteristico della 
Giostra di Dante, il gioco dei poeti e degli scrittori.

La Leggenda di Udrien e altre fantastiche storie ­ 
a cura di GM Willo
Una raccolta fantasy presentata eslusivamente in veste 
digitale. 

Il Mondo oltre lo Spazio Disco ­ a cura di GM Willo
Un e­book che raccoglie tutte le storie cyberpunk apparse 
su Willoworld.net.

Per le altre pubblicazioni consultare la pagina: 
www.edizioniwilloworld.co.nr

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PRELUDIO DI 101 PAROLE

Oltre le nuvole si trova la città dei giganti, fatta di palazzi 
di nebbia e castelli di grandine. Ma i giganti son gente 
ansiosa, si sa… Tengono sempre un occhio al suolo, 
domandandosi come mai il loro mondo galleggi.
La notte, per paura che mentre tutti dormono la città si 
sfracelli a terra, tre di loro montano la guardia, e per non 
addormentarsi si raccontano delle storie. Son storie 
piccine, perché quelle lunghe potrebbero annoiare e far 
sbadigliare… Raccontano di noi piccoli uomini, del tutto 
ignari di una città di ghiaccio e nebbia che galleggia sulle 
nostre teste. Le volete ascoltare? 

GM Willo

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INTRODUZIONE

Un amanuense, un giorno, si infuriò contro le macchine da 
stampa, perché il suo lavoro diventava lento, folle, inutile. 
I  caratteri  mobili  avevano  dato  una  spinta  alla 
divulgazione delle idee, il mondo doveva apparire sull'orlo 
di una crisi epocale: a Venezia Aldo Manunzio (1449­1515) 
fondò  la  prima  tipografia  italiana  e  per  tutto  il  700  vi  si 
stampava  la  metà  dei  libri  prodotti  in  Italia.  Non  si 
pubblicava  tutto,  ovviamente:  i  costi  erano  ancora 
altissimi, i libri erano un bene di lusso, la conoscenza era 
per  pochi,  sia  la  sua  fruizione,  sia  la  sua  produzione.  Ed 
intanto compare la prima lista nera dei libri proibiti. 
Passano  secoli...  compare  l'informatica  dai  sogni  di 
Turing: arrivano le prime stampanti ad aghi. Il suono quasi 
alieno  di  quelle  macchine  all'opera,  che  iniziano  a 
produrre  “istantaneamente”  nella  materia  un'idea,  a 
concretizzare  una  storia  sotto  forma  di  un  bene  tangibile. 
Stampanti  a  getto  d'inchiostro,  laser...  I  processori 
accelerano i loro battiti, aumenta lo spazio nei dischi fissi, 
in  maniera  esponenziale.  L'editoria  si  moltiplica,  il  tutto 
durante l'arco di una vita umana.
Ed arriviamo ad oggi. Chi aveva dei privilegi a pubblicare 
un libro si infuria contro l'auto pubblicazione perché i suoi 
costi sono addirittura inferiori al prezzo finale del libro, se 
stampato  attraverso  una  casa  editrice  ufficiale.  Lulù, 
ilmiolibro,  blurb,  sono  solo  alcune  delle  isole  felici  in  un 
cui  un  uomo  può  scrivere  le  sue  idee,  ed  in  pochi  click, 
pubblicare in forma cartacea il suo libro.
Adesso  ascoltatemi,  lettori...  È  solo  la  tecnica  che  è 
cambiata,  o  si  tratta  anche  e  soprattutto  di  un 
cambiamento di vedute, di una rivoluzione dei costumi, di 
un  mutamento  epocale?  Capisco  le  preoccupazioni  delle 
case  editrici  ufficiali,  così  come  capisco  la  rabbia 
dell'amanuense.

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Sicuramente si troveranno in circolazioni dei libri che MAI 
sarebbero stati pubblicati prima di oggi, veri e propri idoli 
alla  cattiva  scrittura.  Ma  si  troveranno  ANCHE  libri  che 
trattano temi scottanti, libri che incorrerebbero in censure 
preventive,  libri  che  parlano  un  linguaggio  che  l'uomo 
moderno  sembra  essersi  scordato:  la  sincerità,  l'onestà 
intellettuale che ogni Uomo dovrebbe indossare come una 
veste  magica  contro  i  vizi  del  mondo.  Libri  scomodi  che 
infurieranno  nell'umanità,  alterando  le  nostre  idee, 
cambiando  i  comportamenti.  La  reazione  a  questo 
mutamento?  Lo  sgomento  o  l'innamoramento,  il  rifiuto  o 
l'accettazione.  Sono  tempi  difficili,  ma  è  mai  esistito  un 
tempo “facile” per l'umanità?
Copiamo,  condividiamo,  rubiamo  all'altro  le  sue  IDEE:  è 
anche  merito  nostro  se  le  ha  potuto  sviluppare,  merito  di 
quella  cultura  contemporanea  di  cui  siamo  attori  e 
spettatori. E non sentiamoci derubati se qualcuno sviluppa 
un  tuo  romanzo,  un  tuo  racconto:  non  era  tua  neanche 
quello, in fin dei conti... La scintilla vitale: quella era tua... 
Quella  inesprimibile  essenza  che  è  la  tua  vita  puoi  usarla 
al meglio o non usarla affatto.
E  quando  un  libro  manifesta  questa  magnifica  volontà, 
allora hai nelle mani un piccolo tesoro.

Tommaso Guzzo

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NOTE SULLE OPERE PRESENTATE

Questo libro raccoglie i lavori di diversi autori appartenenti 
a  Rivoluzione  Creativa,  una  community  on­line  gestita  da 
GM  Willo  e  dedita  ad  ogni  forma  di  comunicazione 
mediatica  nel  segno  del  copyleft  e  della  filosofia  del  file­
sharing. Alcuni di questi racconti sono legati a dei progetti 
del circuito Willoworld, la pagina ufficiale di GM Willo, il 
quale  si  occupa  da  tempo  di  alcuni  giornali  on­line  e  di 
svariati  esperimenti  di  scrittura  creativa.  Uno  di  questi  si 
chiama "La Giostra di Dante", il gioco di ruolo dei poeti e 
degli  scrittori.  Infatti  gli  autori  Jonathan  Macini,  Gano  e 
Aeribella  Lastelle  non  sono  altro  che  i  personaggi  di  un 
gioco  di  rappresentazione  per  scrittori,  dietro  ai  quali  si 
nasconde la mano dello stesso GM Willo.
Sono  presenti  inoltre  alcuni  interventi  di  101  parole,  un 
formato di racconto brevissimo presentato attraverso il blog 
http://101parole.blogspot.com.
Se  desiderate  partecipare  alla  community  e  alle  future 
pubblicazioni  della  Edizioni  Willoworld,  registratevi  a 
Rivoluzione  Creativa  e  iniziate  a  condividere  i  vostri 
lavori: http://rivoluzionecreativa.ning.com.

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SOLO UNA ROSA
di Bruno Magnolfi

Vendere  fiori  non  sempre  era  semplice.  Si  doveva  avere 


un sorriso per tutti, come il commercio al dettaglio spesso 
richiede,  però  c’erano  anche  clienti  che  portavano  i  fiori 
sopra a una tomba, altri che invece omaggiavano i vivi, che 
facevano  la  corte  a  una  donna,  c’era  chi  festeggiava  una 
nascita, o chi andava a una festa per un compleanno, e chi 
a  un  matrimonio.  Poi  c’erano  quelli  che  amavano  i  fiori, 
indipendentemente  da  tutto,  e  in  casa  propria  ne 
riempivano  un  vaso  ogni  giorno,  e  infine  coloro  dei  quali 
non si capiva quale ragione ci fosse per spingerli lì. Uno di 
questi  con  uno  strano  cappello  si  era  infilato  dentro  al 
negozio  con  l’aria  di  chi  non  sa  che  pesci  pigliare,  aveva 
girato  con  gli  occhi  tra  tutti  i  colori  e  le  specie  di  piante, 
infine aveva comprato solo una rosa. La settimana seguente 
era  tornato,  ed  aveva  ugualmente  acquistato  una  semplice 
rosa. Poi non si era più fatto vedere per un lungo periodo, 
ma quando era tornato, ero da sola in negozio ed era quasi 
l’ora di chiudere, si era fatto ancora confezionare una rosa, 
la  più  bella che avessi, e alla fine, quando aveva pagato e 
non gli restava altro da fare che uscire, si era invece girato 
verso di me, mi aveva donato quel fiore, e in un fiato aveva 
spiegato:  “Ciao,  Marisa,  tu  non  puoi  riconoscermi,  ma  io 
sono  Eugenio,  il  tuo  compagno  di  giochi  di  quando 
avevamo  dieci  anni”.  Naturalmente  io  rimasi  di  sasso, 
primo  perché  quell’uomo  non  assomigliava  a  nessuno  che 
io  ricordassi,  poi  perché  non  capivo  quel  suo 
comportamento  un  po’  ambiguo.  Gli  chiesi  qualcosa  per 
sincerarmi  che  fosse  davvero  l’Eugenio  che  io  ricordavo 
tanti  anni  prima,  e  tutto  emerse  in  poche  parole  come  un 
miracolo  dai  nostri  ricordi.  Era  impossibile  non  chiedergli 
che  cosa  gli  fosse  successo,  perché  non  si  fosse  fatto 

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riconoscere  fin  dalla  prima  volta,  ma  lui  parlò  di  cose 
difficili da dire e spiegare, che era meglio per tutti non fare 
domande.  Parlammo  dei  nostri  anni  bellissimi,  di  quando 
eravamo  bambini,  quando  le  cose  erano  ancora  tutte  da 
essere,  e  la  vita  pareva  leggera,  priva  di  serietà  e  di 
amarezze.  Mi  aiutò  a  chiudere  il  negozio,  poi  si  rimase 
ambedue per un attimo fermi, in silenzio, da soli, lì, su quel 
marciapiede, e a me venne da piangere, in maniera un po’ 
stupida, forse infantile, mentre l’ora serale ovattava le cose 
e rendeva tutto forse più triste. La vita di ognuno di noi è 
un  libro  da  scrivere,  pensai,  mentre  salutavo  Eugenio 
ignorando  praticamente  tutto  di  lui:  però  delle  volte  certe 
pagine combaciano in maniera inattesa, e forse è questo il 
senso  di  tutto,  è  sufficiente  quell’attimo,  anche  se  giunge 
solo una volta ogni tanto, perché dentro di sé ha già tutto, e 
non serve nient’altro.

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QUEL GIORNO A ZACATECAS
di Massimo Mangani

Quando  la  Division  del  Norte  riuscì  a  sfondare  la 


resistenza  delle  truppe  federali,  il  caldo  si  era  fatto  ormai 
insopportabile  e  l’acqua  iniziava  a  scarseggiare.  I  giovani 
soldati si arrendevano nella speranza di non essere fucilati 
mentre  gli  ufficiali,  che  sarebbero  andati  incontro  a  morte 
certa, si davano alla fuga dopo essersi tolte le uniformi.
A mezzogiorno Zacatecas era tornata ad essere libera e gli 
abitanti,  affacciati  alle  finestre,  salutavano  i  rivoluzionari 
sventolando  lenzuola  e  fazzoletti  bianchi.  Sotto  un 
meraviglioso  cielo  azzurro  i  prigionieri  venivano  condotti 
nelle  caserme  della  polizia,  requisite  durante  l’attacco, 
dove  sarebbero  stati  posti  davanti  ad  una  drastica  scelta: 
arruolarsi  nella  Division  del  Norte  o  ricevere  un  proiettile 
alla  nuca.  Ovviamente  quasi  tutti  sceglievano  la  prima 
opzione  andando  ad  ingrossare  le  fila  della  Rivoluzione 
che, visti gli ultimi sviluppi pareva essere vicina al trionfo 
in tutto il Paese.
Intorno alle due del pomeriggio la voce iniziò a circolare 
in  città,  la  notizia  era  certa:  a  momenti  sarebbe  arrivato  il 
Generale  Villa  in  persona.  Uomini,  donne  e  bambini  si 
riversarono per le strade nella speranza di poter acclamare 
il loro eroe, in pochi minuti una massa enorme si accalcava 
nella  Piazza  della  Cattedrale.  Soltanto  alcuni  preti, 
insegnanti  presso  il  collegio  lasalliano  si  erano  barricati 
nelle  loro  stanze  pregando  affinché  tutto  quel  tumulto 
finisse  alla  svelta.  La  paura  di  essere  arrestati  e  condotti 
davanti  al  Generale,  che  aveva  fama  di  essere  un  gran 
mangiapreti, li aveva ridotti ad esseri tremanti, incapaci di 
fare  qualunque  cosa  che  non  fosse  stare  inginocchiati 
davanti alle immagini sacre.

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Così  quando  l’ufficiale  inviato  da  Manuel  Chao, 
luogotenente  di  Villa,  bussò  alle  porte  del  collegio,  lo 
spavento fu tale e tanto che i poveretti si misero a piangere. 
Condotti  al  cospetto  dell’ufficiale  non  riuscivano  a 
spiccicare  parola,  aspettandosi  di  veder  arrivare  da  un 
momento all’altro il Generale, con il suo sombrero norteno 
e gli inconfondibili baffoni neri.
Arrivò  invece  il  Console  francese,  barcollando 
vistosamente  dato  che  aveva  passato  le  ultime  due  ore 
bevendo pulque in compagnia di Chao ed intercedendo, fra 
un bicchiere e l’altro, affinchè i preti potessero continuare 
ad insegnare ai ragazzini del collegio. Forse perché il “latte 
di miele” era salito alla testa troppo in fretta, forse perché 
in  fondo,  a  lui  di  quei  religiosi  non  gli  importava  un  fico 
secco, alla fine aveva convenuto che le condizioni poste dai 
rivoluzionari  erano  ben  ragionevoli  ed  aveva  acconsentito 
ad andarle a proporre ai sacerdoti.
Dato  che  il  console  strascicava  le  parole,  l’ufficiale,  con 
fare gentile si propose di esporre le condizioni:

1)  Al  posto  di  lezioni  religiose,  insegnare  ai  bimbi  i 


precetti  della  riforma  laica  dello  Stato  voluta  da  Benito 
Juarez.

2)  Al  posto  delle  messe,  organizzare  eventi  di  pubblica 


utilità.

Rispettando  queste  due  semplici  condizioni  i  preti 


avrebbero potuto continuare a dirigere il collegio.
Nessuno  ha  mai  saputo  con  certezza  cosa  avvenne  dopo 
che  l’ufficiale  ebbe  esposto  le  condizioni,  l’unica  certezza 
è  che  mentre  il  Generale  Villa  cavalcava  alla  volta  di 
Zacatecas  costeggiando  i  binari  della  ferrovia,  incrociò  un 
treno  merci  che  correva  verso  la  frontiera  con  gli  Stati 
Uniti;  pare  che  voltandosi  verso  Rodolfo  Fierro  abbia 
esclamato: “Che mi venga un colpo, quel treno era pieno di 
preti!”

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PASSAMI LA CICCA
di Marco Muzzi

Un  disperato  bisogno  di    vita…  danneggiando  i 


rivestimenti  in  pelle  del  sedile  sulla  carrozza  24,  Stefano 
ripercorreva  i  chilometri  passati  come  un  risucchio 
doloroso. 
Niente  ti  avrebbe  riportato  indietro  e  la  fuga  era  ora 
possibile. Un groviglio di forchette ti divorava lo stomaco, 
logoro  dagli  eccessi  e  dalla  rabbia  degli  ultimi  eventi,  la 
vita  a  Roma  si  era  fatta  incandescente  e  gli  scontri  in 
facoltà avevano dato l’occasione per ulteriori indagini della 
polizia,  poi  le  perquisizioni,  l’intimità  violata,  il  senso  di 
impotenza, gli scatoloni di libri nascosti per non alimentare 
il  suo  profilo  di  persona  non  grata  alle  istituzioni.  Una 
voglia di ordine e disciplina cozzava con lo spesso strato di 
ideologie  e  convinzioni,  sempre  meno  lucide,  sempre  più 
estreme,  ormai  ti  sentivi  come  un  cuneo,  senza  facce, 
tendente a una dimensione sola, con un vertice che partiva 
dalla  sommità  del  suo  capo:  un  razzo.  “Sono  un  razzo...”, 
pensavi  “ora  parto,  sfondo  il  tetto  del  treno,    passo  in 
mezzo ai fili e schizzo alla verticale, via”. Giovanna l’avevi 
abbandonata  nel  momento  che  era  andata  in  bagno,  con  il 
caffé  che stava fischiando dalla cucina...
“Spegni il gas?” slam, la porta si chiude sferragliando le 
inutili  catenelle,  rotte  quando  la  pula  aveva  forzato  dopo 
che, alla vista del mandato, avevi impavidamente tentato di 
richiudere.  Ora  l’avevi  aperta  di  fretta  come  un  ladro, 
quella  porta  che  in  altre  occasioni  non  vedevi  l’ora  di 
spalancare per vederla a cosce aperte tra l’odore d’incenso 
e  fumo  scaldato.  E  ora  eri  lì,  a  guardare  la  famiglia 
meridionale che torna dal paesello nelle livide pianure del 
nord,  eppure  a  loro  dello  smog,  della  nebbia  e  delle  luci 
gialle  non  importa,  tanto  hanno  i  Motta,  le  bicicross,  i 
cinema, i negozi con le nuove marche di phon e i televisori 

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a  colori…  mica  la  Sila!  A  te  invece  la  cosa  spaventa,  si 
passa  dal  giallo  pastello  dei  tramonti  capitolini 
all’atmosfera saturnina di una Milano tignosa.
“Macchè  Milano”,  Franco  aveva  ragione:  “ti  beccano 
subito. Roma­Milano oggi è tutt’uno, la prima città su cui 
indagare  è  quella,  devi  andare  un  po’  fuori”.  “Ma  fuori 
dove?” gli chiedesti “Non conosco un cazzo di nulla di lì, 
a  Fra’!”  Mentre  li  guardavi  accartocciavi  il  pacchetto  di 
MS,  stringendo  con  le  grinze  delle  labbra  il  filtro 
dell’ultima delle venti cancerose, un getto di vapore subito 
dopo aver azionato il bic e...
“Scusa passami la cicca...”
“Eh?”
“Sì, ho visto che è l’ultima, non avendo sigarette… me la 
passi?”
Aveva  gli  occhi  più  verdi  che  tu  avessi  mai  visto,  una 
cornice  di  riccioli  le  incorniciava  un  viso  color  pesca, 
ticchiolato  da  lentiggini  appena  sotto  gli  occhi,  respirava 
affannosamente  sotto  la  camicetta  a  grinze  tenuta  a  bada 
dalle varie collane che non servivano altro che a delineare 
i due seni capricciosi che ti sovrastavano. Ti alzasti quasi di 
scatto e il seggiolino sbatté con violenza scomparendo nella 
parete  di  compensato,  porgendogli  la  mano  come  se  ti 
dovesse mettere un anello, con la cicca dritta all’altezza del 
viso. “Oh, piano, mica è ‘na canna…” rise, “ fumiamocela 
con calma.”
Perdesti il senso del tempo e dello spazio…

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IL TEMPO PER AMARE
di GM Willo

Malgrado Marina mi guardasse con gli occhi velati da un 
pianto  represso,  io  continuai  a  riversarle  addosso  le  frasi 
che avevo impresso così bene nella mente e che avrebbero 
decretato  la  fine  della  nostra  lunga  storia.  Solo  adesso,  a 
distanza  di  due  anni,  mi  accorgo  che  quelle  parole  erano 
false, seppure le avessi ragionate ed in parte sentite. Ma la 
verità  non  è  mai  così  semplice  come  la  si  immagina.  La 
verità non è esclusivamente sentimento o razionalità, anche 
se  è  probabilmente  figlia  delle  due,  e  soprattutto  non  è 
definibile in un momento, ma solo attraverso il ciclo degli 
eventi,  il  trasformismo  delle  cose  e  le  conseguenze  delle 
proprie decisioni.
Non ero io quell’uomo che la guardava negli occhi senza 
vederla, in quel pomeriggio di marzo stranamente caldo nel 
giardino di casa. Non era la mia voce quella che cercava di 
convincerla  che  tra  noi  due  ormai  non  esisteva  più  nulla. 
Non  erano  i  miei  gesti  quelli  che  mascheravano  la  mia 
risoluzione.  “Non  tornare  indietro!  Non  cadere  nella 
trappola”, continuava a ripetermi una vocina da dentro, un 
disco  che  avevo  inciso  durante  i  giorni  in  cui  mi  ero 
preparato ad affrontarla.
Quando  incominciò  a  mancarmi  ignorai  i  sintomi. 
Quando  stavo  male  davo  la  colpa  al  lavoro,  o  al  primo 
capro espiatorio che mi capitava sotto mano; parenti, amici, 
vicini di casa. Qualcuno iniziò a pensare che c’era qualcosa 
di  sbagliato  in  me,  e  come  potevo  dargli  torto.  In  pochi 
mesi ero diventato espertissimo a scansare le relazioni e a 
rinchiudermi nel mio malumore. Quella fu la fase più triste, 
ma  in  qualche  modo  meno  dolorosa,  perché  ancora  non 
riuscivo  ad  ammettere  a  me  stesso  l’errore  che  avevo 
commesso e quello che avevo per sempre perduto.

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La  rividi  per  caso  in  un  sabato  di  pioggia,  era  settembre 
ed io avevo superato la prima fase ed ricominciato il solito 
tram­tram di incontri inutili, aperitivi, cene, sesso veloce e 
mai  appagante  e  letti  vuoti  al  mattino.  Lei  passeggiava 
insieme a un tipo sui quaranta, alto e con un certo charme. 
Ricordava  me  tra  dieci  anni  e  la  cosa  mi  procurò  una 
masochistica  soddisfazione.  Quel  giorno  mi  convinsi  che 
ero  stato  uno  stupido  a  lasciarla  e  me  ne  feci  pure  una 
ragione,  perché  nonostante  Marina  fosse  probabilmente  la 
donna della mia vita, erano stati i tempi sbagliati a fregarci. 
Di quale colpa avrei mai potuto accusarmi se non quella di 
aver  ascoltato il mio cuore in quel pomeriggio di marzo e 
averle detto come stavano le cose? Ed il mio cuore strillava 
una  cosa  sola,  ed  era  paura.  Paura  con  la  “P”  maiuscola. 
Potevo forse ignorarla? No, quella era l’unica verità.
Dopo l’incontro passarono alcune settimane tranquille, un 
periodo che ricordo come la classica calma che precede la 
tempesta.  Poi arrivarono i matrimoni, tre in un botto solo. 
Nel  giro  di  appena  un  anno  i  miei  amici  più  cari  si  erano 
sistemati,  andando  contro  a  tutte  le  aspettative.  Artistoidi 
matti,  ragazzacci  scapestrati,  zingari  per  natura  e  per 
diletto,  tutti,  chi  più  chi  meno,  allo  scoccare  dei  trenta 
avevano imboccato la strada verso l’altare. Una parte di me 
li  detestava,  nonostante  li  amassi  come  sempre,  e  la  cosa 
che mi faceva più rabbia era che mi sembravano felici per 
davvero.  Cercavo  di  convincermi  dell’opposto,  ma  mi 
accorsi  che  non  ero  più  così  abile  nell’ingannarmi.  Erano 
felici  ed  invece  di  sforzarmi  di  essere  felice  per  loro  li 
prendevo in giro pavoneggiandomi della mia vita da single. 
Ed erano tutte bugie.
Dopo la scenata del terzo matrimonio, alla fine del quale 
io,  completamente  ubriaco,  brindavo  ironicamente  alle 
semplici  vite  dei  tre  compagni  di  vita,  incominciai  a  non 
rispondere  più  alle  chiamate.  Il  sentirmi  vittima  di  uno 
strano gioco del destino mi faceva stare così male che, per 
convincermi  della  mia  invincibilità,  iniziai  a  respingere 
ogni affetto. Allontanare i miei amici, che avevano altro a 

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cui  pensare,  lavoro,  mutuo  e  bimbi  in  arrivo,  fu  più  facile 
del previsto. Le serate iniziai a passarle insieme a gente alla 
quale non mi sarei mai avvicinato in passato, ed in breve lo 
spinello del sabato sera divenne due righe di coca, oppure 
un  paio  di  pasticche.  Seguivo  un  tracciato  illuminato  a 
giorno da fiaccole accecanti, una strada dritta e buia priva 
di meta, e le luci delle città riuscivo appena a scorgerle al 
di  là  del  guardrail,  mentre  spingevo  incurante 
sull’acceleratore. Nella città vivevano i miei amici che non 
si meritavano altro di essere derisi, e viveva anche Marina 
col suo nuovo uomo, e forse era felice, più felice di quanto 
non lo sarebbe mai stata con me.
Mi  ci  sono  voluti  due  anni  per  capire  e  smettere 
finalmente  di  punirmi  per  quelle  parole  che  le  dissi  quel 
giorno. La paura non c’entra e il destino è un placebo per 
menti  facili.  Ho  riaperto  finalmente  la  porta  del  cuore,  la 
stessa  che  avevo  richiuso  quel  giorno  di  marzo  e  che  ho 
tenuto  sbarrata  per  tutto  questo  tempo,  negando  l’accesso 
persino ai miei amici più cari.
Non  esistono  uomini  o  donne  della  vita.  Esiste  il  tempo 
per amare, e quando c’è quello ci sono tutti gli ingredienti 
giusti per creare qualcosa di meraviglioso.
Adesso lo so; è finalmente tornato anche per me il tempo 
per amare.

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LA STORIA DI JACK IL VENTRILOQUO
di Dario De Giacomo

Ho  scoperto  che  Jack  il  ventriloquo  vive  una  vita 


normale. Che poi, pensaci!, non vuol dire proprio un cazzo 
di  niente.  Quanto  vivi  tra  la  gente,  vivi  sempre  una  vita 
normale, a modo tuo. Bene! Jack la vive proprio così la sua 
vita,  ma  parla  con  la  pancia.  Lui  dice  che  parlare  con  la 
pancia gli fa male, che in ogni caso è peggio che muovere 
la  bocca.  Jack  ha  ragione:  lo  stomaco  non  mente,  quello 
che  sente  lo  vomita  magari,  ma  difficilmente  lo  trattiene. 
Jack però non vorrebbe parlarvi di questo. Lui, in una notte 
di luna piena… già, ma Jack non è un licantropo, non fatevi 
trascinare  dall’entusiasmo,  questa  non  è  davvero  una  nera 
novella,  perché  lui  vive  una  vita  normale.  Dunque,  in  una 
notte di luna piena Jack afferra il volante di pelle della sua 
auto, ingrana la marcia, che entra sempre male, e parte.
Gli  sfila  davanti  un  cunicolo  d’asfalto  pieno  di  notte, 
buio, lunghissimo e anche a Jack, come a tutti quelli che lo 
percorrono, sembra che quel rettilineo d’asfalto, duro sotto 
le quattro ruote, non finirà mai. Tutto quel buio è presidiato 
di  carne  avariata,  mignotte  incatenate  ai  due  margini 
dell’incubo, illuminate dalla rapidità dei lampi: si sa che le 
stelle declinano in fretta nel backstage, per trenta euro con 
ingoio.
Jack  ingoia  saliva  e  succo  acre,  dolciastro,  di  eroina, 
accelera,  schiaccia  il  piede  dentro  quel  rettangolo  di 
lamiera sparato nel buio. La sua auto è una discarica a cielo 
aperto, puzza di gomma bruciata, come la strada, fetore di 
rimmati. Dritta in gola brucia l’eroina, corre veloce Jack il 
ventriloquo, ma la puzza la porta dentro, dentro quell’auto, 
dentro quella strada dove la città scarica le immondizie di 
esseri  umani.  Prima  o  poi  ti  abitui,  Jack,  a  sopportare  il 
fetore dei tuoi tappetini di gomma lerci di birra e piscio. Ti 
abitui  a  tutto  Jack,  prima  o  poi.  Devi  solo  correre  veloce! 

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Le mani strette sulla pelle lucida del volante, rattrappito, e 
la  pancia  non  ti  farà  più  male,  soffrirai  di  meno.  Ora  lui 
respira  con  la  bocca  per  non  parlare,  per  non  sentire  il 
fetore.
Jack  suda  come  un  malato  allo  stadio  terminale.  È 
arrapato, non di sole puttane, e poi non ha con se il guanto. 
Non  è  gentile  scopare  qualcuno  senza  il  guanto,  è  da 
incivili scopare le puttane senza indossare il guanto: se te lo 
sfili  troppo presto, puoi rischiare di beccarti un’emozione, 
ma non c’è un guanto abbastanza duttile per il suo cuore, e 
lui non vuole prendersi lo scolo del sentimento.
Jack  è  arrapato,  sì,  ma  proprio  di  vita.  Per  questo  suda 
come  un  maiale  scannato,  perché  quando  sbavi  dietro  alla 
vita,  quella  ti  si  attacca  addosso  come  un  profumo  da 
quattro soldi, il profumo che senti alla periferia dell’anima. 
Perché,  Jack,  Tu  un’anima  ce  l’hai!  E  non  è  dentro  i  tuoi 
coglioni,  come  pensi  sempre,  cercando  di  sborrarla  svelto 
e  dappertutto,  ogni  volta  che  ti  si  riempie.  No  Jack!  Tu 
l’anima  ce  l’hai  nello  stomaco,  ecco  perché  parlare  con 
quello  ti  fa  star  male.  Però  ora  senti  solo  il  tanfo  alla 
periferia del sentimento. Solo per questo.
Cazzo  che  notte  stanotte,  una  notte  come  tutte  le  altre 
notti, ma cazzo se è strana forte stanotte. Ma insomma Jack 
che vai cercando qui, in culo ai lupi, fuori della tua tana?
Slitta  il  rettangolo  di  lucido  acciaio,  sbanda.  Bestemmi 
con cortesia. Jack è cortese, sapete?, sa come vivere tra la 
gente, sa vivere normalmente, ma parla con la pancia e gli 
fa  male.  Jack  guarda  che  ti  ammazzerai  così!  Non  te  ne 
fotte  niente,  credo.  Figurati  se  importa  a  me  che  ti  vedo 
sfrecciare veloce e nemmeno ti conosco, né stasera né mai.
Jack non vede più nulla avanti a sé, immagina solo che la 
strada  sia  dritta, l’ha sempre vista dritta davanti a sé. Ma! 
Cristo!  Jack  punta  i  piedi,  si  riscuote  all’improvviso,  un 
lampo freddo di coscienza, come i postumi dolorosi di una 
sbronza.  Una  curva  maledetta  gli  si  para  di  fronte 
all’improvviso.  L’auto  derapa,  slitta,  frena  scivolando 
sull’asfalto, non la controlla, si anima e guida la sua corsa, 

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lambisce  il  parapetto  scintillando  frammenti  di  vita 
metallica  che  si  spezzando  nel  buio.  Uno  stridio  ferroso, 
Jack  curva,  curva  ed  esce.  Accosta  l’auto  e  scende.  Esce 
alla luce. La luce. Sì Jack, la luce. Lui esce in un campo di 
grano macchiato di papaveri rossi.
Jack davvero non è stato mai bravo a scrivere i finali, ma 
non importa ora. Qui c’è tanta luce bionda e il finale scatta 
da  sé  e  la  storia  finisce. Allora  è  l’alba.  Dio  com’è  bella 
quest’alba.  Allora  l’alba  è  proprio  così  e  odora  di 
salmastro, mentre le grosse formiche nere gli ballano sulle 
dita.  Ora  canta  una  canzone  di  pancia.  Cantare  di  pancia 
non fa male ora sotto il cielo illuminato di luce immensa.
“Sai  che  ti  dico?”  –  Jack  sorride  –  “  Cantare  di  pancia, 
all’alba, in un campo di grano macchiato di papaveri rossi 
non fa male!”

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IL GESÙ DELLE PERIFERIE
di Marco Filipazzi

La catastrofe era arrivata con un gran trambusto e se n’era 
andata in silenzio, lasciando dietro di sé una scia di macerie 
calpestata ora da rifugiati e profughi, stralci e caricature di 
una civiltà che fu. 
Tra  di  loro  vi  è  una  figura  che  in  molti  definiscono  un 
profeta,  alcuni  addirittura  il  nuovo  messia,  perché  la  fede, 
adesso,  è  l’unica  cosa  a  cui  ci  si  può  aggrappare  per 
proseguire.  La  sua  silhouette  nera  si  staglia  all’orizzonte, 
contro il cielo verdastro di esalazioni tossiche, e la sua voce 
riecheggia  nella  desolazione  che  lo  circonda,  portata  dal 
vento che sparge le sue parole come fossero semi. Diffonde 
le sue canzoni come un microfono naturale. Un altoparlante 
a  10.000  watt.  Canta  di  Città  del  Paradiso  dove  l’erba  è 
così verde e le ragazze così belle. Canta di autostrade che 
portano all’Inferno, dove non ci sono precedenze né limiti 
di  velocità.  Canta  del  crollo  della  civiltà  del  ventunesimo 
secolo. Indosso ha una toga logora, come se con quella toga 
ci  fosse  nato  e  cresciuto,  come  se  la  indossasse  da  prima 
della  catastrofe.  Ai  piedi  porta  un  paio  di  converse 
scolorite,  tanto  usurate  che  sembrano  sul  punto  di 
squarciarsi. Sul petto gli sobbalza una croce d’osso. Alcuni 
dicono che si intagliata da un osso umano e lui non ha mai 
confermato né smentito.
Ha  il  volto  incorniciato  da  una  barba  bruciacchiata, 
raccolta  in  piccole  trecce,  e  da  lunghi  capelli  bloccati  in 
dreadlocks di sporco. Il suo sguardo incavato dalle occhiaie 
di troppe notti insonni è celato dietro occhiali lucidi, come 
se fossero nuovi, dalle lenti viola e tonde. Nel suo sorriso vi 
sono pochi denti, sparsi come pedoni su di una scacchiera, 
e  attorno  alla  bocca  si  notano  le  prime  increspature  delle 
rughe.  Tra  le  labbra  secche  ha  sempre  stretto  qualcosa. 
Spesso  è  un  ramoscello,  una  sigaretta  quando  qualcuno  fa 

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lui  carità,  saltuariamente  uno  spinello  e  non 
necessariamente di marijuana. Su di lui circola uno sciame 
di  voci,  alcune  fantasiose,  altre  più  realistiche,  tutte  che 
precedono il suo arrivo. Vaga di città in città, dorme dove 
può, mangia quando capita, ma cammina tutti i giorni, tutto 
il giorno, dal sorgere al calare del sole livido, attraverso le 
lande desolate, le macerie delle città, i villaggi che la gente 
disastrata  cerca  di  rimettere  insieme.  Non  ha  pretese,  se 
non quella di cantare il suo vangelo punk, fatto di estratti di 
strofe,  frasi  scritte  da  apostoli  perduti  e  maledetti  che  la 
catastrofe  non  l’hanno  mai  vista.  Hendrix,  Morrison, 
Rotten, i fratelli Young, Axl Rose.
Canta  a  squarciagola,  con  le  vene  rosse  e  gonfie  che  gli 
affiorano sul collo magro, come gli aveva insegnato Darby 
Crash nelle scene di The Decline of Western Civilization (e 
mai  titolo  fu  più  appropriato)  in  un’altra  vita,  prima  della 
catastrofe. Professa la sua fede fatta di parole che un tempo 
suonavano  come  insulti,  eresie,  degenerazione  e  gioventù 
consumate in fretta nelle tragedie dell’alcool, della droga e 
del sesso perverso. Così almeno dicevano i perbenisti.
Ora  tutto  questo  è  diventato  la  normalità,  senza 
compromessi,  e  dei  perbenisti  non  si  sente  più  parlare.  Il 
mondo è cambiato per sempre e le persone sono tornate ad 
essere  animali,  gettando  le  maschere  di  ipocrisia  che  la 
società  moderna  aveva  loro  donato,  rivelando  i  loro  veri 
volti,  primordiali  e  selvaggi.  Lui  è  il  Gesù  delle  periferie, 
non  ha  altri  nomi,  così  lo  ha  battezzato  la  gente  che  l’ha 
incontrato,  ed  è  il  tipo  di  persona  che  prima,  qualcuno, 
avrebbe  definito  pazzo.  Ora  va  su  e  giù  per  il  mondo,  a 
cantare,  ed  il  suo  canto  stonato,  che  non  ha 
accompagnamento,  riecheggia  nel  vuoto,  con  la  sola 
pretesa  che  qualche  orecchio  lo  colga,  che  possa  portare 
speranza,  anche  se  labile,  nei  cuori  di  chi  ascolta  le  sue 
frasi tormentate.

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INCOMPRENSIONI RAVVICINATE DI UNO 
STRANO TIPO 
di Aeribella Lastelle (101 Parole)

I miei nuovi amici venivano dalla costellazione di Ofiuco, 
più precisamente dalla Nebulosa Farfalla che si trova lì nei 
paraggi.  Erano  piccoli,  gialli  fosforescenti  e  sfoggiavano 
una  manciata  di  antenne  che  spuntavano  dal  loro  capino. 
Uno strano marchingegno che si portavano appresso e che 
faceva  da  traduttore  simultaneo  ci  aiutava  a  comunicare. 
Gli esserini si stavano divertendo, ma ogni volta che me ne 
venivo  fuori  con  un  articolo  possessivo  il  marchingegno 
s’inceppava. Mi dissero che nell’universo nessuno li usava.
Andò  a  finire  che  con  tutti  i  “miei”,  “mio”  e  “nostro” 
glielo  ruppi,  perciò  se  ne  andarono  e  non  tornarono  mai 
più. 

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L’ULTIMA MISSIONE DI COCISSE (DETTO DIO) 
E LA NASCITA DELLA LUNA
di GM Willo

Tutti credono che esista ma nessuno lo ha mai visto
Tutti lo chiamano ma lui non risponde mai
Tutti dicono che è buono e onnipotente…
…e di sicuro non gli manca il senso dell´umorismo.

Il  capitano  Cocisse  fece  atterrare  l´astronave  su  un 


promontorio  abbagliato  dalla  luce  di  quella  stella  appena 
nata, che lui aveva immediatamente battezzato col nome di 
“Sole”.  Il  razzo  a  forma  di  triangolo  bruciò  un  po’  d’erba 
coi reattori, fece due balzelli e poi rimase immobile, primo 
ed  unico  battello  spaziale  ad  aver  toccato  la  superficie  di 
quello strano pianeta pieno d’acqua.
«Siamo  arrivati.  Potete  raccogliere  le  vostre  cose  e 
prepararvi  allo  sbarco»  disse  il  capitano,  e  la  sua  voce 
rimbalzò  in  tutti  gli  altoparlanti  dell’astronave. 
L’equipaggio,  un  centinaio  di  persone  in  tutto  equamente 
divise in uomini e donne, incominciò a prendere posizione 
vicino  allo  sportello  d’uscita,  brontolando  e  lamentandosi 
come  solo  gli  uomini  sanno  fare.  Qualcuno  diceva  che  il 
viaggio era stato terribile, che il cibo servito faceva schifo, 
che  il  capitano  Cocisse,  che  tutti  chiamavano  col  curioso 
soprannome di “Dio”, non sapeva guidare e che era stato un 
miracolo, o semplice fortuna, che non era andato a sbattere 
contro  un  nugolo  di  asteroidi  quando  ormai  erano  quasi 
arrivati a destinazione.
Il  capitano  s’infiló  tra  la  calca  che  attendeva  impaziente 
di scendere e prese posto davanti allo sportello. Indossava 
la  divisa  con  i  gradi  ben  in  mostra  sulle  spalle  e  la  barba 
bianca  e  lanuginosa  gli  ricadeva  sulle  medaglie  vinte  in 
gioventù,  quando  era  stato  un  pilota  provetto.  Ne  era 
passato  di  tempo  da  allora.  Le  mani  non  erano  più  ferme 

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come il giorno in cui uscì dalla scuola di volo, ed era stato 
per davvero un miracolo, o forse solo fortuna sfacciata, che 
era  riuscito  a  scansare  quei  maledetti  asteroidi.  Sarebbe 
stata  una  grande  beffa  inciampare  nella  sua  ultima 
missione, prima della meritatissima pensione.
Azionò  la  leva  che  apriva  lo  sportello  e  attese  con  gli 
occhi  abbassati  che  i  meccanismi,  con  suoni  stridenti  e 
sbuffanti, facessero il loro lavoro. Il sole splendette sul suo 
volto  e  su  quello  degli  uomini  e  delle  donne  che 
attendevano  alle  sue  spalle.  «Ecco  la  vostra  nuova  casa!» 
dichiarò  Cocisse,  accendendosi  subito  una  sigaretta.  Non 
che fosse vietato fumare a bordo, intendiamoci, ma nessuno 
fumava  per  rispetto  di  quelli  che  non  fumavano,  ed  era 
sempre stato così.
I  passeggeri  discesero  lentamente  la  scaletta 
dell’astronave  trascinandosi  dietro  ogni  sorta  di  bagagli, 
borse, zaini, portacappelli, gabbie per uccelli e via dicendo. 
Andarono  a  disporsi  in  semicerchio  sul  pratino  del 
promontorio  lamentandosi  subito  dell’umidità,  del  vento, 
del  sole,  e  delle  nubi  all’orizzonte  che  secondo  qualcuno 
avrebbero  portato  pioggia.  Perché  si  sa,  gli  uomini  non  si 
accontentano mai.
Cocisse  rimase  ai  piedi  della  scaletta  pronto  a  dare 
istruzioni. Appena ci fu un po’ di silenzio il capitano iniziò 
a parlare al popolo impaziente.
«Mi  auguro  che  vi  siate  letti  bene  le  regole  durante  il 
viaggio.  In  ogni  caso  le  ripeterò  adesso,  prima  di 
congedarmi  da  voi. Allora…»  Qualcuno  tra  i  cento  indicò 
in cielo un uccello e molti si distrassero, ma Cocisse non ci 
badò e proseguì. Ve ne furono molte di distrazioni durante 
il suo discorso.
«Regola  numero  uno:  non  litigate.  Cercate  sempre  di 
andare  d’accordo  e  risolvete  le  vostre  incomprensioni  con 
le  parole  e  non  con  la  forza.  Rispettatevi  a  vicenda, 
sempre…» L’uccello, che era un tucano, era scomparso nel 
frattempo dentro i boschi della valle.

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«Regola  numero  due:  godete  dei  frutti  di  questo  mondo. 
Non  sprecateli,  non  sfruttateli  oltre  il  necessario,  non 
inquinateli  e  neanche  banditeli.  Questo  mondo  non  è 
vostro, è solo in affitto, ricordatevelo…» Intanto qualcuno 
si era messo a prendere il sole e poco sentiva di quello che 
veniva detto.
«Regola numero tre: riproducetevi e divertitevi nel farlo. 
Se  per  caso  qualcuno  di  voi  preferisse  divertirsi  con 
compagni dello stesso sesso, allora che si diverti pure senza 
riprodursi,  che  di  sicuro  non  ce  ne  sarà  bisogno…»  Qui 
alcuni  starnutirono  e  persero  metà  della  frase,  ma  erano 
troppo  arroganti  per  chiedere  ai  vicini  che  cosa  era  stato 
detto.
«Regola  numero  quattro:  aiutatevi.  Se  qualcuno  è  in 
difficoltà,  dategli  una  mano.  Ricordate  che  la  vita  è  un 
gioco,  non  una  competizione…»  E  a  questo  punto  molti 
alzarono  la  mano  per  chiedere  spiegazioni  perché  non 
riuscivano a capire la differenza tra gioco e competizione. 
Cocisse provò a spiegarglielo e tutti annuirono soddisfatti, 
per non ammettere di non aver capito un bel nulla.
«Infine, quinta ed ultima regola: amatevi e amate il vostro 
mondo!»  Ma  a  questo  punto  molti  si  erano  già  dileguati 
perché  pensavano  che  le  regole  fossero  finite.  Davanti  al 
capitano  erano  rimaste  solo  una  decina  di  persone  con  le 
mani  alzate  le  per  domande  di  rito.  Qualcuno  chiese  se  si 
poteva eleggere un capo, ma un altro disse che era meglio 
formare un governo. Una donna che aveva freddo domandò 
se si potevano usare le pelli degli animali per vestirsi, e un 
uomo  distinto  invece  parlò  di  qualcosa  di  assolutamente 
astratto  che  si  chiamava  denaro  e  che  di  sicuro  avrebbe 
semplificato la vita di tutti. Non mancarono frasi di elogio 
al  capitano  e  un  gruppo  di  quattro  ammiratori  chiese  si 
poteva  erigere  un  effige  in  suo  onore,  per  ringraziarlo  di 
averli  portati  su  quel  nuovo  mondo.  Cocisse,  che  tutti 
chiamavano Dio, rispose educatamente a tutte le domande 
ma  nessuno  davvero  lo  ascoltò.  Poi  giunse  finalmente  il 
tempo di ripartire. Risalì la scaletta, salutò le poche persone 

26
rimaste  sul  promontorio  (le  altre  si  erano  già  allontanate 
per  ispezionare  il  territorio  e  alcuni  di  queste 
incominciarono  a  pensare  al  concetto  di  “proprietà 
privata”)  e  riprese  posizione  nella  cabina  di  comando.  Il 
razzo  a  forma di triangolo descrisse un arco nel cielo e in 
pochi istanti sparì all’occhio dell’umanità.
“Finalmente! Ora potrò riposarmi e godermi la pensione” 
pensò  il  vecchio  capitano  mentre  si  lasciava  alle  spalle  il 
pianeta  azzurro.  Peccato  che  non  fu  altrettanto  fortunato 
come all’andata, e appena oltrepassò un pianeta tutto rosso 
andò  a  schiantarsi  su  un  grosso  asteroide,  deviandone  la 
traiettoria e portandolo su una nuova orbita.
«Che  cos’è  quello?»  domandò  la  sera  stessa  uno  degli 
uomini sbarcati sul nuovo pianeta.
«Un satellite, credo…» rispose un altro.
«Ma non ci avevano detto che questo posto era tranquillo. 
Lo  sai  come  sono  i  satelliti,  con  le  maree  e  gli  sbalzi  di 
umore…»
«Non  ci  si  può  mai  fidare  delle  agenzie  planetarie! 
Comunque,  almeno  di  notte  si  riesce  a  vedere  qualcosa. 
Che ne dici se la chiamiamo Luna?»
«Luna? E che razza di nome è? E poi è un satellite, cioè 
un  maschio.  Chiamiamolo  Armando,  un  nome 
importante…»
«Armando! Ma tu sei scemo!» Così iniziarono a litigare, 
infrangendo subito la prima regola. E non furono gli unici.

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IL PICCOLO PIERROT
di Fida (101 Parole)

Su  un  foglio  bianco  riporto  le  immagini  e  i  pensieri  che 


nella  mia  mente  si  accalcano,  si  urtano  e  litigano  tra  loro 
rendendo  tutto  estremamente  confusionario.  Riguardano 
me,  te,  noi.  Se  è  vero  che  in  amore  e  in  guerra  tutto  è 
permesso  allora  ho  fatto  di  tutto  per  tenerti  accanto  a  me. 
Intanto,  i  miei  pensieri  prendono  il  volo  e  dalla  finestra 
giungono  fino  alla  luna,  che,  luminosa  e  discreta,  mi 
contempla dal suo angolo di cielo. Una lacrima scende sul 
mio  viso  a  ricordo  di  un  amore  che  ancora  mi  tormenta 
perché non ti ho mai scordato, non l'ho fatto mai. 

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NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE
di Miriam Carnimeo

Ho solo dei fogli per raccontare.
“Quando  arriva  il  sole,  guardando  il  mare,  si  ricordano 
grandi  storie  e  la  mente  smette  di  essere  prigioniera  di 
uomini  e  di  donne,  di  case  o  città,  ed  ecco  che  il  tempo 
altro  non  sembra  che…  un  miracolo  di  carta.”  E  la  carta 
brucia, che contenga delle verità indissolubili o la storia di 
un  orrore  piagnucolante,  la  carta  brucia.  Difficile  allora 
diviene  raccontare  una  storia,  annoiati  la  si  sbuffa, 
spaventati  la  si  dimentica,  ma  questo  cambia,  se  la  storia 
altro  non  è  che  una  sensazione,  la  vera  versione  di  quello 
che  sulla  mia  faccia  è  stampato:  file  di  denti  freddi  che 
battono  abbondanti  fino  a  trovare  uno  strano  ordine  di 
cose…  la  realtà.  Fosse  solo  la  tua  più  personale  fantasia, 
l’immagine  al  rovescio  di  importanti  figure,  i  simboli 
intoccabili ormai sbranati che ora sono famiglie massacrate 
di termini e parole, le visioni ammesse, solo follie originali 
di teste solo timidamente curiose.
Gentilmente,  la  paura  diviene  tentativo  banale  di 
difenderla  questa  realtà,  e  tutti  nudi  i  sentimenti  paiono 
vergognarsi  e  così  si  coprono,  si  raggomitolano  e  poco 
dopo  divengono  carta.  Carta  su  cui  scrivere  la  propria 
presenza,  impreziosendola  di  nastri  e  musica, 
alleggerendola  dei  mal  di  stomaco  e  della  febbre  che  non 
passa.  Splendido  inchiostro  nero,  duro  da  cancellare, 
meravigliose  parole  che  rendono  sacro  il  foglio  per 
intuizione  o  come  semplice  gesto  regalato  ai  muri,  che 
d’impatto  sembrano  farsi  più  morbidi  e  scricchiolano  per 
ogni  idea  compresa.  Scrivere  di  un  tempo  che  si  blocca  e 
della sua voce che bisbiglia, bisbiglia la sua storia, quella di 
una  grossa  menzogna  che  si  è  venduta  la  nostra  vita  per 
l’ennesima maschera da passante.

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Intere  città  prendono  forma,  le  loro  finestre  sono  case 
deserte  e  le  facce  sono  maschere  dalle  labbra  tirate, 
fotografie inedite di lunghi anni trascorsi senza aria. Hanno 
costruito  e  poi  abbandonato,  non  si  riesce  più  a  pensare  a 
dolci frasi o ad occhi languidi, ci si diverte abbandonandosi 
a  forti  forme  di  fame,  bugie,  raggiri.  Come  ciechi  si 
cammina  sull’asfalto  che  pur  serpeggiando  non  porta  a 
nessuna  verità.  Si  cammina  di  lato  senza  toccare  chi  solo 
con  gli  occhi  ti  tramuta  in  profonda  ferita,  chi  pensa  di 
rubare ciò che viene donato, senza timore.
Con  delle  facce  senza  più  rispetto  si  diventa  seri,  non  si 
ride  più,  vediamo  avanzare  chi  ha  fretta  di  esibirsi  e  lo 
sguardo  sfugge,  trova  riparo  altrove,  tra  i  linguaggi  più 
arditi, quello della bocca, meravigliosamente radicato tra le 
luci di questa stessa mortale città. Sono notti uniche queste, 
il vento gonfia le tende, cigola il ferro, la corrente elettrica 
parla tra i muri… ed è così che la magia si racconta, nella 
mano che di giorno si passa nei capelli e di notte sorregge 
la  testa  con  tutti  quegli  occhi  e  quella  bocca.  Poi  attesa 
calda  di  fronte  al  volo,  successioni  di  idee  imparentate  ai 
ricordi,veloce  aprire  e  chiudersi,  batticuore  gonfio  fino  al 
mattino.
Ma  non  si  dorme  mai  ed  il  resto  vive  alle  spalle  degli 
uomini  e  se  la  spassa.  Se  la  spassa  il  mare  in  burrasca 
dentro  al  quadro,  e  se  la  spassano  le  lenzuola 
sfacciatamente pulite, e i vetri, sempre quelli, appannati ora 
dal  caldo,  se  la  spassano  le  arti  classiche  radicate  nel 
prestigio  irremovibile,  e  la  luce  delle  ombre  fuori  e 
passante  per  un  filo  dentro…  dentro  le  case,  curioso 
accumulo  di  respiri,  come  traduzioni  di  stelle  in  terra,  le 
case si accendono e viceversa si spengono. Tutto della notte 
fa svegliare e le puttane non se la spassano. I visi amati si 
moltiplicano, come stelle se ne accarezza la distanza ma dei 
lineamenti  neanche  una  traccia.  Nel  vuoto  di  un  divano 
illuminato le persone pensano all’amore con altre persone. 
Ci sono da fare lunghi discorsi sull’attesa, su gambe e piedi 
che più non avvolgono, su facce stanche che prima o poi si 

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stendono  nel  sorriso.  Le  ali  nello  stomaco  altro  non  sono 
che  un  bel  pensiero  d’amore.  Andare  e  tornare,  anche 
questo è amore, l’amore di chi si combina con la memoria, 
scatola  piena  a  pressione,  risucchio  da  un  lato,  tampona 
dall’altro.  L’amore  che  nidifica  nello  sguardo  strane 
convinzioni  e  la  memoria  che  ne  mostra  la  nudità: 
paesaggi, espressioni diverse che velocizzano l’azione fino 
a renderla abitudine.
Il miracolo allora affiora, la follia…
…semplicemente, come la migliore delle idee, lo sfogo di 
un genio isolato, nascosto nella bocca chiusa e negli occhi 
brillanti.
CLICK.

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L'AUTOSTRADA DEL SOLE
di Bruno Magnolfi

La  mia  casa  è  sotto  al  margine  del  cavalcavia  di  un 
sentiero  poco  frequentato  che  scavalca  l’autostrada. 
Quando mi metto a dormire, durante la notte, mi sembra di 
vivere  il  confine  tra  la  civiltà  e  la  natura.  In  quel  punto, 
attorno  a  quella  mia  specie  di  abitazione,  ci  sono  solo 
campi  verdi  a  distesa  tra  file  sfumate  di  alberi,  e  per 
arrivare  al  paese  più  vicino  ci  si  impiega  a  piedi  più  di 
mezz’ora. Sopra la mia testa transitano pochi mezzi, lungo 
quella via non ci passa quasi nessuno. In autostrada invece 
il  traffico  non  termina  mai,  è  un  fiume  continuo  di 
materiale  umano  e  di  merci  che  scorrono  accanto  a  me, 
quasi ai miei piedi. Certe volte mi chiedo se qualcuno che 
guida  tutti  quei  mezzi  non  immagina  che  ci  sia  io  al 
margine della sua traiettoria, e poi qualche volta sogno che 
qualcuno di loro si fermi e mi porti con sé. Non immagino 
un  posto  preciso  dove  recarmi,  però  dentro  di  me 
formicolano  spesso  così  tante  voglie  che  devo  per  forza 
ricacciarle  all’indietro,  e  questo,  penso,  non  è  da  persona, 
ed io, certe volte me lo ripeto per darmi più forza, sono una 
persona, anche se sono da solo, e anche se sono arrivato fin 
qui  non  mi  ricordo  neanche  più  in  quale  maniera.  Ho 
ricavato  due  pareti  con  delle  lamiere  lungo  il  margine  del 
cemento armato del ponte, e davanti a me, con delle assi di 
legno,  mi  chiudo  la  notte  all’interno  del  mio  spicchio  di 
mondo.  Il  rumore  continuo  del  traffico  sull’autostrada  è 
fortissimo, però ci si abitua. Ho una vecchia bicicletta con 
me,  e  con  quella  durante  le  belle  giornate  arrivo  fino  al 
fiume, e lì a volte mi lavo, prendo l’acqua che mi serve per 
la mia casa, mi siedo, osservo la natura bellissima di quella 
campagna.  Qualche  volta,  di  giorno,  passano  da  sotto  al 
cavalcavia gli operai che svolgono le manutenzioni, oppure 

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le squadre per il taglio dell’erba al margine dell’autostrada, 
con i loro trattori giganteschi, le attrezzature meccaniche e 
tutta  una  serie  di  segnali  luminosi  bellissimi,  e  a  volte  mi 
salutano,  mi  gridano  qualcosa  nella  loro  maniera:  sono 
calabresi,  rumeni,  marocchini.  Certe  volte  li  invidio,  mi 
sembrano  persone  importanti,  svolgono  un  mestiere  che  li 
pone al disopra di tutti: lavorano per gli altri, penso, per la 
sicurezza  di  quelli  che  non  si  accorgono  neppure  che  c’è 
chi  li  veglia.  Ho  conosciuto  Artur,  un  giorno,  uno  della 
manutenzione  dell’autostrada,  con  la  polvere  e  l’asfalto 
appiccicati  sui  suoi  vestiti  arancione  ed  il  viso  di  chi  non 
ride  mai.  Ha  detto  che  la  vita  è  uno  schifo,  ma  io  gli  ho 
sorriso,  non  poteva  dire  sul  serio.  In  primavera  l’erba 
cresce giorno per giorno, siamo già usciti da questo inverno 
freddo  e  piovoso,  tra  qualche  mese  lavorerò  nei  campi 
vicini  a  raccogliere  gli  ortaggi,  poi  i  pomodori,  forse  mi 
prenderanno per tagliare l’uva. La mia vita è naturale, con 
la  luce  del  giorno  e  con  le  stagioni,  ed  i  miei  sogni 
viaggiano  con gli autoarticolati che passano davanti a me. 
Sembrano tutti uguali, ma non è vero. Uno di loro prima o 
poi mi porterà via, in fondo a questo braccio di autostrada, 
e sarà là che inizierà tutto il riscatto della mia vita. Ci sarà 
qualcuno  su  un  camion  che  si  fermerà  sulla  corsia  di 
emergenza,  sorriderà  senza  chiedermi  niente,  ed  io  andrò 
assieme a lui e mi ricorderò che sono anch’io come lui, una 
persona, e tutto inizierà ad andare in maniera migliore, ed il 
futuro  mi  farà  scordare  del  tutto  di  avere  abitato  sotto 
questo  cavalcavia. Forse tornerò indietro, un giorno in cui 
tutto  scorrerà  per  me  nella  maniera  migliore,  cercherò  di 
ritrovare  questo  cavalcavia,  e  gli  alberi,  i  campi,  anche  il 
fiume,  e  aspetterò  la  squadra  della  manutenzione 
dell’autostrada,  e  sarò  tanto  contento  di  ritrovare  tutte 
quelle  persone,  perchè  potrò  dire  ad  Artur  che  si  era 
sbagliato, che la vita non era come diceva lui.

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EREDITÀ SEGRETA
di Aeribella Lastelle

Tullia si lasciò cadere dallo scivolo, col sole in faccia che 
le rubava il sorriso. Atterrò sulla sabbia e si rialzò in piedi 
di  scatto,  perché  la  sua  amica  Chiara  stava  venendo  giù. 
Ebbe  una  breve  sensazione  di  vertigine  e  avvertì  qualcosa 
di caldo e bagnato. Il primo pensiero, il più imbarazzante, 
fu  che  si  era  fatta  la  pipì  addosso.  Ma  c’era  qualcosa  di 
strano…
Allungò le dita sotto la gonnellina di fiori, sfiorando una 
patina umida che ricopriva le mutandine. Quando si guardò 
i  polpastrelli  trattenne  un  urlo  e  scappò  via.  Le  amiche 
erano troppo sorprese per correrle dietro.
Sua madre l’aveva avvertita che sarebbe successo. Ormai 
aveva  dodici  anni  compiuti,  e  le  ragazze  a  quell’età 
diventavano donne, o almeno così si diceva dalle sue parti. 
A  Chiara  ad  esempio  erano  venute  un  mese  prima,  ed  era 
stata una mezza tragedia. A scuola si era data per malata e 
ai giardini non si era vista per una settimana. Quando Tullia 
la rivide sembrava davvero cambiata. Che strano che era il 
corpo  delle  ragazze,  aveva  pensato.  E  adesso  succedeva  a 
lei.  Doveva  tornare  subito  a  casa,  ma  non  dire  niente  al 
papà  e  alla  mamma,  perché  quella  situazione  era  davvero 
imbarazzante.  Glielo  avrebbe  detto  con  calma,  magari  a 
cena, o meglio domani. 
Entrò  in  casa  dalla  porta  sul  retro,  quella  che  dava  sul 
giardino,  salutò  veloce  la  madre  che  era  impegnata  col 
piccolo  Luca,  salì  le  scale  tre  alla  volta  e  si  infilò  nel 
bagno.  La  doccia  avrebbe  gettato  troppi  sospetti  sul  suo 
rientro  inaspettato,  così  optò  per  il  bidè.  Si  sfilò  le 
mutandine e le gettò lontano, poi si sedette sopra l’acqua e 
incominciò a pulirsi. Voleva vedere meno sangue possibile, 
non perché le facesse impressione, figuriamoci, ma perché 
la faceva sentire sporca.

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La sua testa lavorava a cento all’ora. Doveva trovare quei 
pannolini che usava la mamma, afferrarne uno al volo e poi 
schizzare  veloce  in  camera  da  letto  per  cambiarsi.  Suo 
padre era a lavoro e non sarebbe tornato fino all'ora di cena. 
La  madre  la  chiamò  un  paio  di  volte  da  basso,  ma  lei  era 
stata  veloce  a  risponderle  con  naturalezza  che  doveva 
urgentemente  usare  il  bagno,  il  che  non  era  proprio  una 
bugia.  Il  problema  più  grosso  erano  le  mutandine,  che 
senza  neanche  degnare  loro  di  un’occhiata  aveva 
scaraventato oltre il bordo della vasca da bagno. Giacevano 
laggiù,  piene  di  sangue,  ad  imbrattare  la  ceramica  tirata  a 
lucido  dalla  madre.  Le  avrebbe  sciacquate  velocemente 
nella vasca e poi nascoste da qualche parte.
Si riscosse da quei pensieri. Quanti minuti erano passati, 
uno, dieci, cento? L’acqua del bidè continuava a lambirle le 
parti intime. Poteva bastare, pensò, e chiuse il rubinetto. Si 
asciugò  con  della  carta  igienica  per  non  lasciare  tracce  e 
finalmente si alzò in piedi. Adesso le mutandine, pensò…
Si avvicinò alla vasca da bagno, gettò lo sguardo oltre il 
bordo,  e  vide  esattamente  quello  che  si  era  aspettata,  ma 
non proprio…
“Che  caspita significa?” sussurrò la ragazza appena fatta 
donna.  Non  era  la  prima  volta  che  vedeva  il  sangue,  però 
quello  era  diverso.  Glielo  aveva  accennato  la  mamma,  e 
Chiara  le  aveva  detto  infatti  era  molto  più  scuro,  quasi 
marrone.  Ma  ciò  che  vedeva  nella  vasca  era  ben  altro. 
Quando  poco  prima  si  era  guardata  le  mani  non  ci  aveva 
fatto caso. Il sole abbagliante le aveva giocato uno scherzo, 
o  forse  era  stata  la  sua  testa,  fatto  sta  che  aveva  dato  per 
scontato che fosse rosso. Invece…

A Tullia non erano mai piaciuti i broccoletti. La mamma 
ci faceva la pasta perché suo padre ci andava matto, ma lei 
la  preferiva  col  burro  e  formaggio.  A  tavola  gli  adulti 
parlavano dell’assicurazione dell’auto, delle ferie in agosto 
e della lavatrice che perdeva acqua. Luca afferrava le penne 
con le mani e se le metteva in bocca, sorridendo con i suoi 

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sei dentini. Aveva le guance così imburrate che riflettevano 
il neon sopra la tavola. Lei invece spostava con precisione 
la  pasta  rimastale  nel  piatto,  formando  piccole  figure 
geometriche, un triangolo, un quadrato, un pentagono…
«Che c’è Tullia, non hai fame?» domandò suo padre. Era 
un uomo molto gentile, e a volte lei riusciva a perdersi nei 
suoi  occhi,  ma  che  ne  poteva  sapere  lui  delle  ragazze  di 
dodici anni e dei loro problemi.
«No…» rispose lei svogliatamente.
«C’è  qualcosa  che  non  va?»  incalzò  sua  madre.  Perché 
dovrebbe esserci sempre qualcosa che non va se non si ha 
appetito, pensò. Era sul punto di dare voce a quel pensiero 
quando  si  fermò  e  abbassò  la  testa.  In  quel  momento 
successe  qualcosa  di  veramente  strano.  Fu  come  se 
un’ombra, non proprio cattiva ma in qualche modo aliena, 
fosse calata sulla tavola. Persino Luca se ne accorse perché 
smise  di  sorridere  e  lasciò  andare  la  penna  che  aveva  in 
mano.  Tullia  alzò  lo  sguardo  e  vide  i  suoi  che  si 
guardavano  intensamente  negli  occhi.  I  loro  volti 
sembravano  cambiati,  il  silenzio  stava  diventando  ancora 
più  imbarazzante  del  segreto  di  Tullia,  per  questo  la 
ragazza decise di romperlo.
«Che succede?»
Allora la madre la guardò. «Ti sono venute?»
La  ragazza  diventò  rossa  come  un  peperone.  «Ma 
mamma…» mormorò lei, facendo un cenno con la testa in 
direzione del padre, per lasciarle intendere che quelle erano 
cose di cui non si poteva parlare in presenza di uomini. E 
poi la questione era un po’ più complicata di così…
«Di  che  colore…»  la  domanda  del  padre,  inaspettata  e 
incompiuta, la fece voltare di scatto.
«Cosa?»
«Amore,  non  preoccuparti,  rispondi  a  tuo  padre»  la 
rassicurò la madre.
Un parte di lei voleva sputare fuori quell’assurdo segreto, 
abbracciare  il  padre,  chiarire  quella  stupita  situazione,  ma 
un  secondo  prima  di  riuscire  a  liberarsi  di  quel  peso,  fu 

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colta da un pianto isterico, irrazionale e diluviante. Lasciò 
la tavola e corse al piano di sopra, sbattendo violentemente 
la  porta  della  sua  stanza.  Poi  affondò  il  volto  nel  suo 
cuscino.

«Lasciatemi in pace…»
Si era aspettata che sarebbero venuti a bussare alla porta, 
ma  ce  ne  avevano  messo  di  tempo.  Lei  si  era  quasi 
addormentata, e forse sarebbe stato meglio così, pensò.
«Vuoi parlarne domani?» Era la voce di suo padre. Perché 
lui?  Che  cosa  c’entrava  lui?  Quelle  erano  cose  che 
normalmente  si  discutevano  insieme  alle  madri…  Ma 
quella non era una situazione normale, e lei lo sapeva bene. 
E poi quell’ombra caduta sulla tavola, pochi minuti prima, 
che significava?
«No,  entra…»  riuscì  a  rispondere,  ma  rimase  aggrappata 
al cuscino. Se suo padre voleva davvero parlarle, allora lo 
avrebbe fatto con la sua schiena. Lo sentì chiudere la porta 
e  accomodarsi sul bordo del letto. Ascoltò il suo respiro e 
avvertì  l’odore  pungente  del  dopobarba,  anche  se  a  fine 
giornata  ne  rimaneva  ben  poco  ed  era  mescolato  al  suo 
odore. C’era qualcosa nell’odore di suo padre che la faceva 
sentire  strana,  più  vicina  a  lui  ma  in  modo  diverso.  Era 
innegabile  il  fatto  che  si  somigliassero  molto,  lo  dicevano 
tutti.
«Se  hai  delle  domande  sono  qui…»  disse  lui.  E  che 
cavolo  significava,  pensò  Tullia.  Certo  che  aveva  delle 
domande,  mille  domande,  ma  lui  non  era  certo  la  persona 
alla quale voleva porle. Oppure…
«Siamo diversi, non è vero?» riuscì a dire, senza neanche 
sapere bene perché.
«Tutti siamo diversi, amore…» rispose lui.
Al diavolo la difensiva. Al diavolo l’imbarazzo. Tullia si 
alzò  mettendosi  a  sedere  sul  letto  di  fronte  a  suo  padre. 
Aveva gli occhi bagnati di lacrime e i capelli arruffati.
«Sanguino oro! Che cavolo significa papà?»
Lui le prese le mani tra le sue e le disse: «Guardami!»

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Tullia  guardò  negli  occhi  di  suo  padre,  occhi  castani  e 
profondi,  e  li  vide  cambiare,  diventare  verdi  accesi,  come 
due pietre preziose in controluce. Il respiro le si bloccò nel 
petto.  Provò  a  parlare  ma  non  riuscì  ad  emettere  alcun 
suono.  Seguì  invece  la  luce  di  quegl’occhi,  che  la 
invitavano  a  guardare  più  da  vicino,  a  sprofondare  in 
quell’abisso  smeraldino.  Avvertì  il  cambiamento,  ma  lo 
riconobbe  solamente  nel  momento  in  cui  intravide  la  sua 
immagine  riflessa  negli  occhi  del  padre.  Anche  gli  occhi 
della ragazza erano cambiati.
«Riesci a sentirlo?» domandò lui, stringendole più forte le 
mani. Era il cuore di fuoco, fulgido e dirompente, pulsava 
nel suo petto pompando sangue e lava.
«Padre, chi siamo?»
«Lo devi scoprire da sola… Seguimi…» E Tullia seguì il 
padre dentro l’abisso. Vide cieli striati di nuvole e tramonti 
su paesaggi stranieri, picchi innevati e valli incontaminate, 
un  giro  di  giostra  nel  cielo  azzurro,  a  cavallo  di  un’aquila 
reale  oppure di un pegaso, come nelle favole… Giravolte, 
virate  e  picchiate,  col  vento  tra  i  capelli  e  il  profumo  dei 
sempreverdi nelle narici.
«Chi siamo…?» sussurrò ancora. Ma aveva già risposto a 
quella  domanda.  Doveva  solo  convincersi.  Continuò  a 
volare  insieme  al  padre,  perché  era  davvero  bellissimo  e 
non  avrebbe  mai  voluto  smettere. Tullia  volò,  riscoprendo 
le  sue  radici,  accettando  il  suo  destino,  abbracciando 
l’ignoto. Sono un drago, pensò. È incredibile, ma è davvero 
così…

«E mamma?» domandò Tullia, una volta rientrata nel suo 
corpo.
«Mamma è umana…» rispose il padre.
«E Luca?»
«Ancora  non  è  possibile  saperlo.  L’eredità  si  riconosce 
col passaggio all’età adulta.»
«Capisco…»

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Adesso  il  padre  aveva  assunto  un’espressione  distaccata, 
quasi preoccupata.
«C’è dell’altro, vero?» intuì la ragazza.
«C’è sempre dell’altro…» rispose il padre sforzandosi di 
sorridere.  «Però  per  adesso  può  bastare.  Sappi  solo  una 
cosa;  c’è  una  guerra  in  corso  tra  noi  draghi  di  smeraldo  e 
quelli di rubino. Sono ormai millenni che va avanti. Molti 
di noi si sono persino dimenticati le ragioni che ci spingono 
ancora a combatterci. Un giorno te ne parlerò…»
«Ok papà…»
I due si abbracciarono, uniti da un segreto troppo grande 
per  il  mondo  di  tutti  i  giorni;  lavoro,  scuola,  assicurazioni 
e lavatrici difettose.
«Promettimi solo una cosa.»
«Cosa?»
«Se dovessi incontrare un Rubino… scappa!»

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RACCONTAMI UNA STORIA
di GM Willo (101 Parole)

“Papà, raccontami una storia...”
L’uomo guardò il figlio e sorrise. Poi incominciò: “C’era 
una volta…”
“Che cosa?” domandò una vocina nella testa.
“No, non è vero…” sussurrò l’uomo. Poi tornò a guardare 
il figlio.
“C’era una volta…”
“Chi? Rispondimi. Risponditi! Chi c’era?”
“Lasciami in pace!” urlò l’uomo alla vocina.
Scosse  la  testa,  riprese  fiato  e  continuò:  “C’era  una 
volta…”
“…tuo figlio!”
L’uomo  si  disconnesse  e  sprofondò  nel  pianto,  ma  il 
programma  che  faceva  rivivere  i  ricordi  continuò  a  girare 
nel deck. Poteva ancora sentire la voce del piccolo Matteo 
dalle casse dell’apparecchio.
“Papà, raccontami una storia...”
Ma Matteo non c’era più.

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L’UTILITÁ E IL DANNO DEL BIDET PER LA VITA
di Dario De Giacomo

“Chi  non  sa  sedersi  sulla  soglia  dell’attimo, 


dimenticando  tutto  il  passato,  chi  non  sa  stare  ritto  su  un 
punto  senza  vertigini  e  paura  come  una  dea  della  vittoria 
non  saprà  mai  cos’è  la  felicità,  e  peggio  ancora  non  farà 
mai qualcosa che rende felici gli altri.” (Nietzsche)

­  È  bellissimo.  Vero?  –  ci  stringiamo  attorno  a  quella 


culla,  spalla  a  spalla  nell’ambiente  angusto  e  caldissimo, 
con occhi intenti. È arrivato oggi, da pochi minuti e, siamo 
ancora increduli e indecisi. È nelle occasioni solenni che la 
famiglia  si  stringe  come  un  pugno.  Oggi  siamo  qui  e  ci 
siamo ritrovati proprio tutti.
Solo  per  sciatteria  le  crepe  da  invisibili  che  sono  si 
ingrossano, mettono radici fino a dilatarsi dappertutto. Così 
se  non  oggi,  allora  sarà  domani,  preannunciato  da 
scricchiolii  sordi  che  si  insinuano  negli  attimi  di  felicità, 
però l’incrinatura presto si spezzerà in uno schianto. Ieri lo 
schianto,  oggi  la  famiglia  è  riunita  per  ricucire  i  legami 
solidi  della  lealtà  invisibile.  È  toccato  a  me  ieri  rovinare 
sotto  il  peso  della  lesione:  mentre  ero  seduto,  il  bidet  ha 
ceduto  aprendosi  in  due  come  il  mar  rosso  al  mio 
passaggio.  Questo  strumento  di  civiltà,  bianco  come  un 
trono, ci inquieta tutti e alimenta rancori generazionali.
Sono tutti contenti che sia bellissimo il nuovo trono, però 
nell’aria avverto una nota pesante di biasimo: mi accusano 
di aver rotto il vecchio bidet. Però qui tra tutti loro mi trovo 
bene, le riunioni di famiglia sono tranquille, conosco tutte 
le domande e anche le risposte: ci rassicuriamo a vicenda in 
questo bozzolo che altri hanno filato per noi, da sempre. Le 
idee  nuove  attecchirebbero  male  qui  dentro,  le  troviamo 

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semplicemente  ostili,  spazzandole  con  il  piede, 
distrattamente, appena arrivano a tiro.
­ Bada di non rompere anche questo, ora! – la voce di mia 
madre  mi  colpisce  tra  le  scapole,  mi  manca  il  respiro 
all’improvviso.
­ Non l’ho rotto –
­  Non  si  è  rotto  da  solo  comunque,  dunque…  –  la  sua 
logica  stringente  rimane  sospesa  a  mezz’aria,  ondeggia 
nelle  esplosioni  oro  delle  piastrelle.  Questo  bidet  nuovo  è 
inquietante, come tutti i bidet di tutte le generazioni che lo 
hanno  preceduto.  Sembra  innocuo,  ma  la  sua  malignità  è 
sfacciata,  quasi  oscena:  ovale  perversione  geometrica  di 
ceramica bianca, perfetta e senza centro. La storia delle mie 
disgrazie inizia giusto al centro della sua perfezione.
È  deciso.  –  Tu  non  sai  usarlo  –  mi  dicono  ,  allora  mi 
guardo  intorno  cercando  alleati,  in  cerca  di  qualcuno  che 
conosca  la  verità.  L’ho  rotto  perché  mi  ci  siedo  a 
cavalcioni,  lo  cavalco  a  cosce  aperte  di  fronte  alla 
rubinetteria:  adoro  sentire  il  fiotto  d’acqua  calda  che  mi 
schizza  tra  le  gambe.  Per  questo  l’ho  rotto,  dicono.  Mi 
sento perverso, lo uso contro natura. Mia madre giunge al 
parossismo, si siede sul bidet per spiegarmi. Con le spalle 
alla  rubinetteria  e  il  pudore  di  non  mostrare  il  sesso:  così 
quella protuberanza metallica che spruzza l’acqua lambisce 
il culo, scivolando tra le cosce.
­ È questo il modo giusto – urla.
Cazzo se mi sento perverso ora! Devo smetterla di andare 
contro corrente, anche contro la corrente della rubinetteria. 
Bisogna  imparare  ad  usare  le  cose  nel  modo  giusto.  Sono 
confuso! La tradizione mi aggredisce con tutto il suo peso, 
generazioni  di  liberi  fruitori  del  bidet  mi  guardano  e  nel 
loro sguardo leggo lo sgomento, il disprezzo. Non lo userò 
più,  fino  a  quando  non  avrò  capito  la  segreta  virtù  delle 
cose.
Volto le spalle a tutti. Anche al bidet, finalmente!

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L’ULTIMO LAMPIONE
di Massimo Mangani

Ritto sulla balaustra affaciata sul fiume, me ne sto fermo 
da  quasi  tre  secoli,  povero  vecchio  lampione  mezzo 
arrugginito. Per la verità non sono come tutti gli altri; sono 
l’ultimo  lampione  di  questa  antica  e  polverosa  strada 
costruita per le carrozze ed ormai percorsa ogni giorno da 
migliaia di mostri di latta rombanti e strombazzanti. Molti 
di  voi  si  staranno  domandando  perché  mi  considero 
l’ultimo e non il primo, la risposta è presto detta: io guardo 
sempre verso l’oscurità!
Un  tempo,  quando  il  padrone  della  città  era  un  certo 
“Granduca”,  oltre  la  mia  fievole  luce  si  estendevano 
immensi  campi,  ricchi  di  grano  viti  ed  olivi;  oggi  nell’era 
dei  “sindaci”  il  panorama  è  completamente  cambiato  e  la 
città, dopo di me, continua ad estendersi a perdita d’occhio. 
Durante  il  giorno  sonnecchio  cullato  dai  rumori  della 
metropoli  ma  all’arrivo  della  notte  mi  accendo,  inizio  a 
vegliare,  divento  un  importante  punto  di  riferimento. 
Anticamente  ero  l’ultima  luce  visibile  al  viandante  prima 
del  buio  totale  poi,  piano  piano,  dopo  di  me  sono  stati 
piantati  dei  moderni  lampioni,  altissimi  e  con  luci  troppo 
potenti,  presuntuosi  da  morire!  Comunque  non  me  la 
prendo  più  di  tanto,  in  fondo  posso  tranquillamente 
considerarmi il segno di distinzione fra il centro della città, 
bello ed elegante e la periferia, brutta, anonima, pericolosa. 
Io  faccio  parte  del  centro,  i  lampioni  allo  Iodio  della 
periferia!
Certo,  in  questi  tre  secoli  ne  ho  viste  davvero  di  tutti  i 
colori  ma  soprattutto  sono  cambiato  alquanto:  ricordo 
ancora  quando,  con  il  serbatoio  pieno  d’olio  aspettavo 
trepidante l’arrivo del lampionaio col suo attizzatoio. Tutti 
quelli  che  ho  conosciuto  mi  hanno  sempre  voluto  bene,  si 
sono presi cura di me, hanno curato le mie scalfiture e mi 

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hanno portato rispetto. Poi è arrivato il Gas e l’accensione 
automatica ed i lampionai sono scomparsi… peccato, sono 
cessati i rapporti diretti con il genere umano! Le scrostature 
piano  piano  sono  arrugginite  e  ci  sono  voluti  anni  prima 
che qualcuno se ne accorgesse e venisse a medicarmi.
Le cose non sono migliorate con la corrente elettrica, anzi 
il  momento  dell’accensione  è  diventato  un  pò  fastidioso: 
appena  arriva  la  scarica  sento  un  formicolio  piuttosto 
intenso  che  mi  attraversa.  La  ruggine  continua  ad  essere 
lasciata sul mio corpo per molto tempo, e quando arrivano 
i “tecnici del Comune” sono molto scortesi, frettolosi, non 
si  fermano  a  parlare  neanche  un  pò  con  me.  Nonostante 
tutto, da quassù continuo a vigilare sulla sicurezza notturna 
dei  viandanti,  che  da  sporadici  si  sono  trasformati  in 
“massa”  ed  ogni  notte,  per  buona  parte  di  essa,  affollano 
questo  pezzo  di  strada  schiamazzando  e  bivaccando.  Solo 
verso l’alba la via torna ad essere deserta, come un tempo, 
le  persone  che  passano,  dopo  di  me  affrettano  il  passo  a 
meno che non siano coppiette che si fermano ai miei piedi 
per scambiarsi un ultimo bacio.
Lontani  sono  i  tempi  delle  congiure  ordite  sapendo  che 
tanto  io  non  avrei  mai  potuto  parlare…  quante  ne  ho 
sentite,  andate  poi  a  buon  fine  o  meno!  Penso  che  a  volte 
mi  sarebbe  piaciuto  davvero  parlare,  raccontare  al  mondo 
intero  cose  viste  e  sentite:  “Signor  Granduca,  proprio 
stanotte l’ambasciatore di Francia si è incontrato qui con il 
capo  dei  rivoluzionari,  hanno  deciso  di  attentare  alla  sua 
vita  all’alba  di  Venerdì…..”  oppure:  “Lord  Stratton  che 
piacere,  sa  proprio  ieri  notte  sua  figlia,  quella  carina  che 
pare  una  santerella,  era  qui  sotto  con  un  ragazzo  che  in 
quattro e quattr’otto le ha rubato la verginità…”
Certo  a  distanza  di  tre  secoli  le  cose  sono  cambiate,  di 
verginità perdute ne vedo tutte le sere e se dovessi fermare 
tutti  i  padri  che  passano  il  giorno  dopo,  starei  fresco!  Io 
comunque  continuo  a  starmene  qui  fermo,  immobile, 
impettito,  mi  accendo  al  calar  della  sera  e  mi  spengo 

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all’alba,  adesso  con  una  lampada  che  dice  faccia 
risparmiare molti soldi al comune… bah!
Mi  piace  specchiarmi  nel  fiume  e  soprattutto  continuare 
ad  accompagnare  i  viandanti  verso  l’oscurità…  io,  povero 
vecchio lampione mezzo arrugginito!

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RADIO BLUES
di GM Willo

La radio sta andando con un mood lento, da estate, perché 
fuori  non  tira  un  alito  di  vento  ed  è  pieno  di  dannati 
moscerini.  È  rimasta  solo  lei  a  raccontarmi  le  storie, 
vecchia  scatola  nera  con  l’antenna  rotta,  riesci  ancora  a 
prendere  quella  stazione  blues,  e  chissà  perché  continua  a 
trasmettere. Ma quanti ubriaconi come me vivono in questa 
maledetta città, e ascoltano vecchi pezzi di Tom Waits e dei 
primi Deep Purple? Quanti?
Lei  se  n’é  andata.  È  già  passata  una  settimana  e  non 
accenna  a  piovere.  La  pioggia  fa  cambiare  gli  odori, 
sapete?  Non  sopporto  più  di  sentire  il  suo  profumo 
dappertutto,  in  camera,  in  salotto,  in  auto,  persino  nello 
scantinato, tra gli scatoloni ammuffiti e la catasta di legna 
per il camino. Ve lo dico subito, così evito di prendervi per 
il culo; la colpa é solo mia. Quando sei lì con una birra di 
troppo nello stomaco e una perfetta sconosciuta che ti apre 
le  gambe,  se  sei  un  vero  uomo  non  ci  capisci  più  niente. 
Non sai più distinguere il giusto dallo sbagliato. La vista ti 
s’annebbia,  il  male  diventa  bene,  il  bene  diventa  roba  per 
poppanti,  e  il  passato,  i  ricordi,  i  sacrifici  e  le  meraviglie 
della vita di coppia, tutto questo diventa un’accozzaglia di 
colori  sfumati,  un’immagine  poco  chiara,  come  uno  di 
quegli  assurdi  quadri  moderni  che  piacciono  così  tanto  ai 
ricchi.  No,  non  sto  cercando  scusanti.  Sto  solo 
temporeggiando  per  vedere  se  finalmente  questo  tempo  si 
decide a cambiare. Sento dei brontolii nella distanza, forse 
la tempesta é vicina, forse l’odore cambierà… forse.
Lee  Hooker  farfuglia  di  una  donna  che  lo  fregherà,  e 
come  lo  capisco,  in  questo  istante  ti  sono  proprio  vicino 
Johnny,  vai,  continua  a  strimpellare  quelle  corde  e 
cantamela,  cantagliela  a  quelle  nuvole  ancora  troppo 
lontane, oltre le colline, le colline che abbiamo percorso in 

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lungo e in largo, io e lei sul vecchio chopper. Cristo, perché 
te  ne  sei  andata!  Potevamo  parlarne,  potevamo  passare 
anche questa, come ne abbiamo passate tante… Il problema 
é  che  ne  abbiamo  parlato  anche  troppo,  e  quando  non  c’é 
più da parlare non ti rimane altro che bere. Bere, scrivere e 
ascoltare vecchi pezzi blues.
Ci siamo conosciuti a un rave per motociclisti nel lontano 
’87.  Ventidue  anni  insieme,  ve  ne  rendete  conto?  Lei 
c’aveva due trecce platinate, sembrava uscita da una favola 
dei  fratelli  Grimm,  io  invece  a  quel  tempo  ero  ancora  in 
forma,  maglietta  dei  Motorhead  e  coda  di  cavallo,  nera 
come il velluto. Oggi non posso dire altrettanto; il ventre ha 
risentito dei fiumi di birra passati e il crine si schiarito per 
l’età  e  ingiallito  per  le  cicche.  Però  mi  ritengo  ancora  un 
bel figliolo, altrimenti la rossa di l’altra sera non si sarebbe 
avventata  così  famelicamente  sui  miei  calzoni.  Maledetta 
rossa!
Era davvero bellissima la mia piccola. Le offrii la boccia 
di  Jack  e  ce  l’andammo  a  bere  defilati,  mentre  il  povero 
Ben  Scott,  pace  all’anima  sua,  urlava  dalle  casse 
dell’apparecchio  stereo.  Al  rave  ci  saranno  state  più  di 
cento  persone,  ma  era  come  se  fossimo  soli.  Lei  c’era 
venuta col suo ragazzo, ma quando mi vide lo mollò su due 
piedi. Ce ne tornammo a casa sulla mia prima Harley, forse 
il mio unico amore.
Cavolo,  questi  ricordi  fanno  troppo  male,  ma  sono 
esattamente  le  scuse  che  cerco  per  versarmi  un  altro 
bicchiere.  Tanto  la  radio  continua  il  suo  blues  ed  io  per 
oggi non ho niente da fare. Anzi, per la verità la casa senza 
di  lei  é  diventata  un  tugurio,  avrei  da  fare  la  lavatrice, 
rimettere a posto la camera, lavare i piatti di tre giorni, ma 
non  riesco  proprio  a  muovermi  da  questo  dannato  divano, 
lo  stesso  su  cui  abbiamo  fatto  l’amore  cento,  forse  mille 
volte.  JD  é  quasi  alla  fine  e  incomincio  a  vedere  storto, 
come  quella  sera  balorda  insieme  alla  rossa.  Cacchio,  ci 
mancava  solo  quel  Bowie  con  la  vocina  stridula  che  mi 
racconta  dei  ragni  marziani.  Ma  aspetta,  forse  aiuta…  Le 

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nuvole sono più vicine adesso… ma si, è la radio, è come la 
danza  della  pioggia,  quella  degli  indiani  d’america,  è  la 
stessa cosa… forse se alzo il volume…
Goccioloni grandi come sassi battono il tempo insieme al 
vecchio  Bob  Dylan.  Ci  voleva  proprio  lui  per  far  piovere. 
Ecco, l’odore è già cambiato, finalmente. Mi finisco il Jack 
e poi vado fuori a farmi lavare via la tristezza. Mi è tornato 
il buonumore, e se mi prende bene stasera scendo al bar per 
vedere se ribecco la rossa…
…perché  il  lato  positivo  di  ogni  brutta  storia  è  che  la 
storia può sempre cambiare.

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DOTTOR JACOB
di Jonathan Macini (101 Parole)

Con Layla giocavamo a fare i dottori...
Tutto incominciò per sbaglio, perché spesso succede così, 
la vita intendo, è tutta un dannatissimo errore! L’attrazione, 
il  sesso,  la  complicità,  l’amore  (o  quello  che  è)  e  poi  le 
prime  litigate,  gli  umori,  le  noie… Arriva  il  tempo  in  cui 
servono  distrazioni,  nuovi  stimoli,  accelerazioni  cardiache 
e  sballi  di  testa. Ti prende una fantasia che poi proponi al 
partner… e una cosa tira l’altra.
Quello stupido gioco risvegliò qualcosa in me che doveva 
rimanere per sempre sopito.
“Chiamami  dottor  Jacob”  le  dissi,  avvicinandomi  con  il 
bisturi in mano.
Poi fu una pioggia di sangue. 

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DIO TAGLIA 60
di Mastro Tensione

La  piscina  comunale  era  l’unico  posto  dove  andare  in 


estate.  Con  le  scuole  chiuse  e  il  campetto  di  calcio 
occupato  dalle  prime  roulotte  di  zingari,  non  ci  rimaneva 
che  infilarci  il  costume,  e  correre  lì  con  le  bici.  Grazielle, 
Bmx e strani ibridi di ferro con ruote di dimensioni diverse 
e  senza  freni.  Qualche  volta  con  l’acciaio  dei  cerchioni  a 
far scintille sull’asfalto. Immortali e bellissimi, a gruppi di 
cinque  o  sei,  abbandonavamo  le  bici,  lasciandole  cadere  a 
terra con non curanza. Tra noi non ce lo dicevamo, ma più 
rimbalzavano  sull’asfalto  e  facevano  rumore  di  rotto,  più 
eri  figo.  Ci  incamminavamo  verso  l’ingresso,  esaltati  dal 
sole, con le croste che bruciavano. Le ferite sulle ginocchia 
erano  le  peggiori.  Impiegavano  un  tempo  infinito  a 
rimarginarsi. Era proprio un posto di merda per farsi male, 
quello  più  complicato  da  asciugare  dopo  il  bagno. 
All’ingresso  della  piscina  Squartapanza,  soldato  del  finto 
esercito  dell’amministrazione  comunale  del  tempo: 
tangenti e raccomandazioni, cascate di prosciutto e melone, 
ostriche  e  falanghina  ai  matrimoni,  foto  con  dedica  di 
Gianni  Morandi  e  Peppino  Di  Capri  per  le  figlie  degli 
amici.  Il  trionfo  del  niente.  Spazzini  trasformati  in 
infermieri, posteggiatori in consiglieri comunali, ex galeotti 
in bagnini. Era questa la nostra democrazia, assolutamente 
cristiana,  di  metà  anni  ‘80.  Tutti  amici  di  tutti.  Ognuno 
aveva  uno  zio,  un  nonno,  un  cugino  che  conosceva 
qualcun’altro che ti regalava l’abbonamento per la piscina. 
Squartapanza se ne stava seduto in canottiera con gli angoli 
dei baffi che pendevano verso il basso. “Uno alla volta, con 
l’abbonamento  in  vista”.  Entravamo  così,  in  fila  indiana, 
cercando di tenere una certa calma, con l’eccitazione che ci 
pizzicava  le  pupille.  L’abbonamento  in  una  mano,  il 
sacchetto  coi  panini  nell’altra.  Le  piscine  erano  due.  Una 

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piccola  per  noi  bambini,  l’altra,  quella  grande,  la  usavano 
per  le  partite  di  pallanuoto.  In  quel  periodo  la  squadra 
locale era così forte, da essere finita in serie A. Nonostante 
nessuno  del  posto  avesse  idea  di  come  si  giocasse  quello 
sport,  a  tutte  le  partite  gli  spalti  erano  strapieni.  Adulti, 
bambini,  famiglie.  I  ragazzi  più  grandi  portavano  dentro 
grandi  bidoni  di  ferro  su  cui  battevano  pesanti  mazze  di 
legno. Ne veniva fuori un frastuono difficile da spiegare. I 
giocatori  della  nostra  squadra  se  la  ridevano,  gli  avversari 
invece  erano  terrorizzati.  Una  roba  così  non  si  vedeva 
neanche  negli  stadi  di  calcio.  Di  quelle  domeniche 
trascorse  sugli  spalti,  travolto  da  una  bolgia  senza  senso, 
ricordo  distintamente  due  cose:  la  struttura  che  trema  ad 
ogni  gol,  come  se  dovesse  venir  giù  da  un  momento 
all’altro, e l’umidità da sauna. Era un continuo strofinare di 
occhiali  appannati  sulle  magliette.  A  maniche  corte  a 
Dicembre.  Sudati.  Scalmanati.  Non  capivo  bene,  ma 
confuso  in  quella  folla  impazzita,  mi  sentivo  parte  di 
qualcosa  di  grande  e  inattaccabile.  A  metà  settembre  la 
piscina  veniva  chiusa  al  pubblico,  coperta  con  dei  teloni 
color blu piscina, e dedicata solo a quello sport che in città 
praticavano  in  dieci.  Una  disciplina  troppo  distante  dalle 
nostre  vite.  Senza  terra  che  sale  in  gola,  dove  non  puoi 
correre  e  fare  sgambetti,  senza  risse,  senza  pantaloni 
strappati  e  gomiti  sanguinanti.  Senza  pallonate  in  faccia 
che  spaccano  il  naso.  Una  roba  così  lontana  che  per  noi 
manco  esisteva.  Per  noi  la  piscina  era  altro.  In  inverno 
bidoni  di  ferro,  in  estate  pizzette  riscaldate,  Coca  Cola  in 
lattina  grande  e  bomboloni  alla  fragola  con  la  gomma 
dentro.  La  piscina  per  noi  era  quella  col  sole  che  sbatte 
sulle mattonelle, fa evaporare l’acqua e salire il cloro fino 
al cielo.
Subito dopo il passaggio sotto gli occhi di Squartapanza, 
c’era quello sotto gli occhi di Limbocchio. Sempre seduto 
su uno sgabello altissimo, manco fosse un arbitro di tennis, 
ci  osservava  sfilare  e  ogni  santa  mattina  ci  rivolgeva  la 
solita porcata: “Uè, come stiamo a pesce oggi?”. Rideva lo 

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stronzo. Arrivare  per  primi  era  impossibile.  C’era  sempre 
qualcuno che era lì prima di te. Nonostante l’ingresso fosse 
consentito  dalle  9,00  e  noi  fossimo  lì  da  ben  prima,  c’era 
sempre  un  gruppo di bambini già a mollo nell’acqua. Che 
erano lì già da un po’, lo capivi dalle loro labbra viola. Mi 
ero  convinto  che  abitassero  lì,  tra  gli  spalti.  In  realtà  in 
questa  città,  lavorare  in  un  posto  significava  esserne 
padrone.  Per  cui  se  eri  il  custode  della  piscina,  la  sera 
potevi organizzarci una festa di compleanno solo con i tuoi 
parenti, proprio come fosse casa tua.
In piscina non c’erano regole particolari da rispettare. La 
doccia prima di entrare in acqua non era obbligatoria, nè lo 
era  indossare  la  cuffia.  Era  obbligatorio  avercela,  non 
indossarla.  Sul  bordo  della  piscina  si  aggirava  il  bagnino: 
Elpidio.  In  qualche  modo  era  parte  della  mia  vita,  benché 
non lo sapesse. Grosso come un Apecar, si raccontava che 
la domenica mangiasse sei fette di carne. Alto, imponente, 
massiccio,  doppio,  duro.  Venticinque  anni  di  carcere  per 
omicidio,  di  botte  con  gli  stranieri,  di  un’ora  d’aria  al 
giorno,  di  pacchi  con  cibo,  vestiti  nuovi  e  sigarette.  Le 
riviste  porno  gliele  portavano  gli  amici  più  cari.  Fedeli 
compari  di  vita,  presenti  ai  colloqui  tutti  i  giovedì.  Per 
venticinque  anni.  In  cella  aveva  accumulato  così  tanti 
numeri  de  Le  Ore,  da  averli  legati  con  lo  spago  e  usati 
come  sgabelli.  Elpidio,  di  tanto  in  tanto,  ci  controllava: 
“Oeee,  la  cuffia?”  Ce  la  sfilavamo  dal  costume,  e 
l’agitavamo sulle nostre teste per mostrargliela. Un giorno 
mi  successe  di  perderla.  Forse  mentre  facevamo  il  gioco 
della  200  lire.  Bisognava  lanciare  una  moneta  sul  fondo  e 
recuperarla  in  apnea.  La  200  lire  era  la  più  difficile  da 
recuperare perché più piccola di tutte le altre monete. Fatto 
sta  che  quando  cercai  la  mia  cuffia  tra  l’elastico  del 
costume  e  il  fianco  non  la  trovai.  Elpidio  fu  categorico: 
“Senza  cuffia,  no”.  Parlava  senza  verbi.  Quella  mattina  i 
soldi della pizzetta, li intascò Limbocchio in cambio di una 
cuffia  nuova.  Non  potevi  mica  contestare  o  giustificarti. 
Nessuno si era mai sognato una cosa del genere. Elpidio lì 

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dentro era la legge. Non aveva neanche bisogno di imporsi 
o di fare la voce grossa. Bastava la sua presenza a far calare 
il  silenzio.  Nonostante  siano  passati  più  di  venti  anni, 
ricordo  perfettamente  l’impressione  di  grandezza  che  mi 
fece  la  prima  volta  che  lo  vidi.  La  voglia,  il  desiderio  di 
essere come lui. Se ne stava seduto sul bordo con le gambe 
a mollo nell’ acqua e la pelle ricoperta di inchiostro. Sulla 
schiena  una  madonna  enorme,  sul  braccio  un  pugnale  con 
un serpente e una data, sul petto una bara con una croce e 
un’altra  data.  Una  donna  nuda  a  gambe  aperte  sull’altro 
braccio, poco sotto un cuore trafitto e una scritta che diceva 
“mamma  perdonami”.  Indossava  un  costume  nero  che 
quasi  spariva  sotto  la  piega  della  sua  pancia.  Aveva  un 
posacenere di plastica gialla, con il logo di un autoricambi 
Fiat,  appoggiato  sulla  pancia  e  la  sigaretta  che  penzolava 
tra  le  labbra.  Di  certo  il  posacenere  glielo  aveva  regalato 
mio zio, che all’autoricambi ci lavorava fin da ragazzo. Era 
lui che mi aveva fatto avere l’abbonamento gratis. Prima di 
allora non avevo mai visto un uomo tatuato. Su Elpidio si 
raccontavano un sacco di storie, ma sempre e solo a mezza 
voce e a debita distanza dalle sue orecchie. Avrebbe potuto 
schiacciarci  con  un’occhiata,  tanto  era  grosso.  La  verità  è 
che aveva ucciso un amico di famiglia, quando la figlia gli 
aveva  raccontato  delle  sue  attenzioni  e  delle  sue  carezze. 
Lo aveva accoltellato alla gola, incaprettato col fil di ferro 
e  gettato  nel  Volturno.  Il  corpo  venne  a  galla  dopo  pochi 
giorni.  In  città  tutti  sapevano  chi  fosse  stato  a  compiere 
quell’omicidio  e  in  breve  la  notizia  giunse  anche  alla 
polizia.  Assolto  dalla  gente,  se  ne  stava  seduto,  pieno  di 
disegni, a far rispettare la regola della cuffia e a sindacare 
sulle liti di noi bambini. “Colpa tua. Via dall’acqua”. Non 
avevi scelta. Prendevi le tue cose e te ne andavi. Punto. Né 
quell’estate,  né  quelle  successive,  lo  abbiamo  mai  visto 
scendere  in  acqua.  Mai  una  volta.  Si  bisbigliava  che 
neanche  sapesse  nuotare.  Non  aveva  nessuna  importanza. 
Lui  il  bagnino  lo  faceva  a  modo  suo,  dal  bordo.  Come 
quella volta in cui una ragazzina si lanciò nella piscina dei 

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grandi e finì quasi affogata. Si tuffò e sparì sott’acqua, per 
ricomparire,  dopo  un  tempo  che  ci  sembrò  lunghissimo, 
boccheggiando e agitandosi in cerca di un appiglio. Elpidio 
tirò  fuori  le  gambe  dall’acqua  senza  dire  una  parola,  fece 
due passi, piegò le ginocchia, infilò il braccio nell’acqua e 
tirò fuori la bambina tenendola per i capelli come un mago 
che  tira  fuori  il  coniglio  dal  cilindro.  Le  diede  un  paio  di 
schiaffi  per farla respirare e la adagiò su un asciugamano. 
Eccolo  l’eroe  senza  gloria.  Cazzuto,  calmo  e  pieno  di 
inchiostro. Col potere della vita e della morte. Eccolo. Dio 
taglia 60. Con gli occhi trasparenti e la voce che fa tremare. 
Quando  tornai  a  casa  raccontai  tutta  la  storia  ai  miei 
genitori. Ero entusiasta, parlavo e non riuscivo a star fermo. 
Non capivano il mio entusiasmo. Non capivano perché non 
si  fosse  tuffato  a  salvarla.  Non  capivano  che  lui,  ai  miei 
occhi,  era  di  più.  Lui  non  aveva  bisogno  di  fare  le  cose 
come  le  fanno  gli  altri. Aveva  il  suo  segreto,  prendeva  la 
sua forza dal pugnale col serpente, non dall’ostia attaccata 
al palato della domenica a messa.
Mancavo  da casa dei miei genitori da un po’. Ero uscito 
di  galera  da  due  giorni,  ma  mi  ero  preso  un  po’  di  tempo 
per rendermi presentabile ai loro occhi. Dopo gli abbracci, 
i  “come  stai”  e  i  “ma  sei  sempre  più  magro”,  è  stata  una 
delle prime cose che mia madre mi ha detto. “Ah, sai chi è 
morto  la  settimana  scorsa?  Elpidio.  Quello  che  faceva  il 
bagnino alla piscina comunale, te lo ricordi?. Era diventato 
talmente  grosso  che  nella  cassa  non  ci  stava.  Ne  hanno 
dovuta  far  arrivare  una  apposta  per  lui  da  Napoli.  Gianlu’ 
ma hai capito Elpidio chi? Quello pieno di tatuaggi come a 
te”.

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ROSI E NIENT’ALTRO
di Bruno Magnolfi

Avevamo trascorso un lungo periodo cercando lo scopo e 
le  soluzioni  da  definire.  La  direzione  strategica  poi  mi 
aveva assegnato a quella città del Nord, e di quei compagni 
iniziali  con  i  quali  avevo  trascorso  i  primi  tempi  di 
clandestinità non avevo avuto più alcuna notizia.
Eravamo  tre  adesso,  e  ci  si  era  conosciuti  nello  snodo 
della  metropolitana,  un  posto  pieno  di  gente  nella  fascia 
oraria  che  avevamo  pattuito.  Si  era  finto  di  osservare  con 
interesse  una  vetrina,  guardandoci  a  lungo  senza  farci 
notare.  Io  ero  l’unica  donna.  Abitavamo  tre  appartamenti 
differenti,  e  si  era  scelto  di  vedersi  solo  una  volta  a 
settimana,  in  luoghi  e  giorni  sempre  differenti.  Quando 
iniziammo  a  spiare  le  mosse  e  le  abitudini  dell’obiettivo 
designato,  ci  vedemmo  più  spesso.  In  pubblico  non 
parlavamo  mai  tra  noi:  ci  scambiavamo  furtivamente  dei 
foglietti  con  su  scritte  le  idee  e  le  piccole  personali 
decisioni.  Tutto  il  resto  ci  arrivava  nella  cassetta  per  la 
posta con una scrittura in codice.
Dei  miei  compagni  conoscevo  solo  i  nomi  di  battaglia: 
Frenchi  e  Lesli.  Per  me  avevo  scelto  Rosi.  In  tutto  quel 
periodo  di  solitudine  forzata  avevo  iniziato  a  ripensare  a 
tante  cose:  mi  era  preso  anche  il  desiderio  struggente  di 
telefonare alla mia mamma, poi l’avevo cancellato. Spesso 
mi  divertivo  a  ricordare  i  miei  capricci  da  bambina.  Non 
c’era  mai  un  vero  e  proprio  motivo  per  intestardirsi  su 
qualcosa  che  desideravo  per  me  o  che  volevo  gli  altri 
facessero.  Era  una  prova  a  cui  sottoponevo  chi  mi  era 
vicino  per  misurare  i  loro  sentimenti.  Superata  quella  mi 
sentivo dolce e affettuosa con tutti. Forse non ero cambiata 
molto crescendo.

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Il  mio  programma  di  lavoro  prevedeva  l’uscita  da  casa, 
ogni mattina, alle ore sette e dieci. Qualche volta, sopra al 
pianerottolo  del  palazzo,  incontravo  un  uomo  che  abitava 
l’appartamento  accanto  al  mio.  In  genere  cercavo  di 
evitarlo  anche  se  non  sempre  era  possibile.  Sua  moglie 
dava l’idea della persona che origlia alla porta per riuscire 
a  sapere  i  fatti  degli  altri.  Non  potevo  rischiare  niente, 
neanche  che  mi  rivolgessero  qualche  domanda  sottile, 
magari  sorridendo.  Così  normalmente  mostravo  fretta, 
limitandomi  ad  un  semplice  e  generico  “buongiorno”.  Il 
personaggio  cui  mi  ispiravo  era  quello  di  una  segretaria 
impiegata  in  una  direzione  assicurativa.  Ma  per  tutto  quel 
periodo nessuno chiese niente.
Quasi  ogni  giorno  cambiavo  occhiali  e  parrucche 
seguendo i percorsi del mio obiettivo. Mi sedevo sopra una 
panchina, dentro a qualche bar, nella mia stessa auto, e mi 
annotavo  gli  orari  dei  passaggi,  descrivendo  tutti  i 
particolari  che  osservavo.  Non  era  troppo  difficile  far 
trascorrere l’intera mattinata mentre studiavo, con modo di 
fare disinvolto e insospettabile, tutte le possibili traiettorie 
seguite dal mio uomo. Al pomeriggio tornavo a casa presto, 
in  genere  verso  le  cinque,  e  sopra  le  piantine  dettagliate 
delle strade cittadine ripercorrevo con matite colorate ogni 
tragitto.  Tutte  le  informazioni  che  ogni  volta  riuscivo  a 
completare  le  passavo  ai  miei  compagni  tramite  i  soliti 
foglietti.
Gli  avvistamenti  del  pomeriggio  e  della  sera  erano  un 
compito di Lesli. Una sera andammo assieme nel quartiere 
residenziale  interessato.  Si  fece  un  giro  a  piedi  fingendo 
una  passeggiata  di  piacere.  In  realtà  tenevamo  sotto 
osservazione tutto quanto. Non parlammo molto, giusto le 
cose  essenziali.  Poi  Lesli  decise  di  entrare  in  un  bar.  Il 
nostro  uomo  era  rientrato  in  casa  e  non  avevamo 
praticamente  altro  da  fare.  “Sei  carina”,  disse 
semplicemente,  quando  fummo  seduti  al  tavolino.  “Non 
avrei  creduto  di  trovare  dei  tipi  come  te 
nell’organizzazione”.  “Perché”,  risposi,  “cosa  ci  trovi  di 

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tanto strano?”. “Forse niente”, disse, “però immaginavo un 
mondo  di  duri  che  non  si  preoccupa  del  trucco  o  del 
rossetto,  tutto  qua…”.  Guardai  Lesli  negli  occhi  e  mi 
accorsi  che  era  convinto  di  quello  che  diceva,  così  lasciai 
cadere  l’argomento.  “Ti  sei  visto  con  Frenchi?”,  chiesi. 
Prese tempo, guardò qualcosa oltre le mie spalle, poi disse: 
“certo;  qualche  volta  sono  andato  assieme  a  lui  ad 
osservare  i  movimenti  dei  conoscenti  del  bersaglio”.  Poi 
pensò  qualcos’altro  che  voleva  dirmi,  ma  rimase  in 
silenzio,  forse  per  evitare  di  parlare  di  sé.  Bevve  alcuni 
sorsi della sua birra, poi riprese: “perché sei qua?”. Avevo 
voglia di parlare di mille cose, ma non con lui, così risposi 
con  uno  stupido  sorriso:  “e  tu?”,  dissi,  “pensi  di  cambiare 
città una volta colpito l’obiettivo?”. “Certo”, disse, “questa 
è  soltanto  una  prova;  sarà  soltanto  dopo  che  faremo 
veramente  sul  serio”.  Ci  alzammo  lasciando  i  soldi  delle 
bevute  sopra  al  tavolo,  e  un  quarto  d’ora  più  tardi  ci 
salutammo senza enfasi.
La  solitudine  pesava,  ma  avevo  come  l’impressione  di 
abituarmi  velocemente  a  starmene  da  sola,  con  i  miei 
pensieri,  i  miei  segreti.  Quando  rientravo  nel  mio 
appartamento  evitavo  l’ascensore,  nonostante  i  quattro 
piani di scale. Una precauzione in più: evitare contatti con 
il vicinato, oltre al fatto di salire con calma per accorgermi 
se  per  caso  i  poliziotti  mi  stessero  aspettando  sopra  al 
pianerottolo.  Per  il  resto,  mi  sentivo  felice,  una  volta  in 
casa. Mi guardavo allo specchio e pensavo: “sarà migliore 
il  futuro;  dovranno  rendersi  conto  che  ci  siamo  sacrificati 
per il bene di tutti. Dobbiamo solo superare questi dettagli; 
alcuni  particolari  per  scuotere  le  coscienze.  Ma  di  fronte 
alla  storia  sarà  un’inezia…”.  Poi  pensavo  alla  mamma. 
Spesso mi perdevo a fantasticare sopra le giornate trascorse 
a scuola, negli anni del liceo. Le battaglie contro il potere 
dei  professori,  contro  l’usurpazione  dei  diritti  dei  poveri 
studenti.  Mi  faceva  ridere  rivedermi  alle  assemblee,  a 
sostenere il mio pensiero.

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Al  pomeriggio  spesso  uscivo  a  fare  delle  compere.  Non 
andavo  mai  due  volte  in  uno  stesso  negozio  o  in  un 
supermercato,  per  cui  in  certi  casi  dovevo  fare  numerosi 
giri  prima  di  trovare  quello  che  cercavo.  Avevo  a 
disposizione  una  grossa  disponibilità  di  soldi  che 
l’organizzazione mi aveva fornito, così non avevo problemi 
di  quel  genere.  Mi  divertivo  a  cucinare,  pur  non  essendo 
molto  brava,  così  variavo  il  più  possibile  la  mia 
alimentazione.  In  casa  avevo  quattro  pistole  di  forme  e 
calibri  diversi.  Ne  avevo  sistemata  una  in  ogni  stanza,  in 
angoli  riparati  e  strategici,  esclusa  la  più  piccola  che 
necessariamente portavo sempre con me. Dopo cena a volte 
le pulivo e le tenevo in ordine, sempre ben cariche. Quando 
ero  stata  nel  campo  paramilitare  di  addestramento  avevo 
acquisito tutte le informazioni e la pratica che serviva.
Una  delle  attività  importanti  della  mia  giornata  era  data 
dalla  lettura  dei  quotidiani.  Considerata  l’importanza 
politica  dell’obiettivo  cui  era  destinata  la  mia  militanza  di 
quel  periodo  nell’organizzazione,  seguivo,  tramite  le 
informazioni  e  i  commenti  dei  giornalisti,  tutto  ciò  che  in 
qualche modo riguardasse la sua figura. Vista la quantità di 
giornali che così mi vedevo costretta ad acquistare, per non 
destare alcun sospetto, ero quasi costretta a girare con delle 
grandi borse in cui infilavo giornali e riviste comperate in 
edicole  diverse.  Nel  mio  appartamento  continuavo  ad 
accumulare sopra uno scaffale, tutti i ritagli che risultavano 
importanti.
Una  sera  ci  ritrovammo  tutti  nell’appartamento  di 
Frenchi.  Era  la  prima  volta  che  vi  mettevo  piede  e  mi 
meravigliai di come fosse piccolo e scomodo. Ci sedemmo 
in  cucina  e  dopo  pochi  minuti  arrivò  anche  Lesli  assieme 
ad  un  altro  compagno  dell’organizzazione  che  non  avevo 
mai visto prima. Parlammo a lungo di tutte le informazioni 
che si era riusciti a mettere assieme, poi si decise di agire di 
martedì, la terza settimana a partire da quel giorno, all’ora 
in  cui  il  nostro  obiettivo  usciva  da  casa.  Per  i  dettagli  e  il 
resto ci saremmo riuniti un’altra volta, da decidere. Lesli e 

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l’altro,  quasi  di  fretta,  si  alzarono  e  uscirono,  senza 
aggiungere nient’altro, io decisi di rimanere ancora un po’.
Frenchi  era  decisamente  un  bel  ragazzo.  Probabilmente 
era più giovane di me, ma era uso nell’organizzazione non 
farsi  mai  domande  personali.  “Penso  di  non  poter  essere 
altro che contenta se questa faccenda riusciamo a risolverla 
in fretta”, dissi. “Quest’attesa ha iniziato a snervarmi già da 
parecchi  giorni,  e  non  riesco  più  ad  individuare  variabili 
degne  di  nota  nelle  mie  osservazioni”.  Lui  continuava  ad 
osservare le mie piantine del quartiere, quelle disegnate con 
i vari percorsi. Poi sollevò gli occhi. “Credo che dovremo 
preparare  un  colpo  per  autofinanziarci”,  disse.  “Ne  parlo 
intanto  a  te,  ma  poi  lo  proporrò  anche  all’organizzazione. 
Ho individuato una piccola filiale che gestisce gli stipendi 
di una grossa azienda. Ci vorrebbero sei o sette persone al 
momento che il portavalori scarica i soldi. Potrebbe essere 
un gioco da ragazzi”.
Frenchi  mi  pareva  completamente  sincero  nei  suoi 
comportamenti.  Si  era  dedicato  agli  scopi 
dell’organizzazione, e questo gli bastava. Pensai che in lui 
ci  fosse  come  un  rifiuto  nell’affrontare  argomenti  che 
investissero  altre  cose.  Per  cui  decisi  che  non  avrei  fatto 
commenti.  “Sarà  meglio  che  ora  vada”,  dissi  con 
semplicità.  “Aspetta”,  ribatté,  “immagino  che  dovremo 
metterci d’accordo su qualcosa”. “Che cosa, per esempio?”, 
dissi  mentre mi alzavo dalla sedia. Lui ripiegava con cura 
le  mie  piantine,  poi  disse:  “penso  che  saremo  io  e  te  ad 
andare  all’appuntamento  con  il  nostro  uomo”.  “Cosa  te  lo 
fa  pensare?”.  “Niente,  solo  che  siamo  i  più  determinati”. 
Riflettei  a  lungo  su  quello  che  dovevo  dire,  poi  mentre 
infilavo il soprabito grigio, cercai di stanarlo sui suoi stessi 
pensieri.  “Hai  paura  ad  andare  solo?”,  dissi  senza 
guardarlo. Lui non rispose, solo ribadì il concetto: “vedrai, 
toccherà a noi due…”.
La strada per tornare al mio appartamento mi parve lunga 
quella  sera.  Era  come  se  trovassi  molte  più  convinzioni 
standomene  da  sola  a  portare  avanti  le  mie  attività, 

59
piuttosto  che  incontrarmi  con  gli  altri  dell’organizzazione. 
Quando  mi  misi  a  letto  stentai  a  prendere  sonno.  Avevo 
voglia di portare in fondo quel lavoro di preparazione che 
avevamo  intessuto  durante  tutto  quel  periodo.  Volevo 
leggere  i  giornali  il  giorno  dopo;  vedere  le  prime  pagine 
che riportavano la sigla dell’organizzazione, che riferivano 
dell’esattezza,  della  meticolosità  della  nostra  operazione. 
Tornò  mia  mamma  con  la  sua  voce  di  sempre  a  dirmi 
qualche cosa. Poi mi addormentai.
Due  settimane  dopo  fu  deciso  che  a  piedi,  sopra  al 
marciapiede,  sarei  andata  incontro  al  nostro  uomo  con 
calma,  camminando  lentamente.  Avrei  tenuto  una  mano 
nella  borsa,  con  dentro  la  pistola  ed  il  dito  pronto  sul 
grilletto. A  distanza  di  tre  metri  avrei  sparato  due  colpi,  il 
secondo  di  sicurezza. Avrei  mirato  basso,  tra  le  cosce  e  le 
ginocchia,  nello  stesso  momento  che  Frenchi,  con  una 
grossa  moto,  si  sarebbe  fermato  accanto  a  me,  giusto  il 
tempo per tirarmi su e schizzare via velocemente. Io avrei 
avuto una parrucca, occhiali da vista con la montatura nera 
e  un  trucco  vistoso  per  camuffare  i  lineamenti.  Frenchi 
avrebbe  indossato  un  casco  integrale.  Lesli,  un’ora  dopo, 
avrebbe  lasciato  un  volantino  con  la  rivendicazione 
dell’attentato nella cassetta per la posta di una piccola sede 
sindacale. Poi, per una settimana, avremo continuato la vita 
d’ogni giorno.
Fu la domenica precedente che qualcosa dentro me parve 
prendere  una  piega  inaspettata. Avevo  tutta  la  giornata  da 
dedicare  alla  lettura  dei  giornali  e  al  ripasso  generale  dei 
gesti  e  dei  percorsi.  Un  giorno  da  trascorrere  in  casa, 
conservando la calma dei gesti quotidiani, nella rilassatezza 
delle convinzioni. Invece uscii, senza motivo, giusto per un 
giro  senza  meta.  Avevo  indossato  un  tailleur  chiaro,  un 
foulard  al  collo  ed  un  soprabito  semplice,  senza  alcun 
eccesso.  Avevo  camminato  con  calma  lungo  alcuni 
marciapiedi cercando di non pensare a niente. Poi ero stata 
attratta  da  una  cabina  del  telefono.  Ero  entrata,  ancora 
quasi  senza  motivo.  Avevo  composto  il  numero  in  fretta, 

60
dopo avere inserito la tessera magnetica. “Pronto…”, aveva 
detto la voce serena e compassata di mia madre. Io avevo 
atteso  qualche  secondo,  poi,  proprio  mentre  stavo  per 
riattaccare la cornetta: “…sei tu Silvia… come stai?”, ed io 
avevo interrotto la comunicazione.
Il martedì alle cinque di mattina ero già in piedi. Feci la 
doccia, preparai tutto con calma e attenzione. Quando uscii 
di  casa  erano  le  sette.  Velocemente  arrivai  nei  pressi  del 
luogo  pattuito.  La  strada  era  deserta.  Lentamente 
fiancheggiai  i  palazzi  residenziali  costeggiati  da  siepi  ben 
curate. Poi, davanti a me, vidi il mio uomo. Non mi guardò, 
come  invece  avevo  immaginato;  mi  venne  incontro  con 
indifferenza,  senza  alcuna  variazione  rispetto  ad  ogni 
mattina del mese trascorso. Quando ci incontrammo io non 
mi fermai, continuai a camminare senza alcun gesto, senza 
far  nulla.  Sentii  la  moto  di  Frenchi  che  frenava  alla  mia 
destra.  Mi  volsi  e  andai  verso  di  lui.  Frenchi  non  disse 
niente,  tirò  su  la  visiera  del  suo  casco  e  mi  guardò,  quasi 
con  un’espressione  rassegnata.  Lo  abbracciai  mentre  la 
moto  prendeva  velocità,  e  velocemente  ci  allontanammo 
dalla  zona.  Piansi,  quando  la  tensione  mi  abbandonò,  ma 
non seppi spiegarmene il motivo.

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STRIPPER
di Fida (101 Parole)

Stasera si lavora e quelle donne lì fuori aspettano solo me. 
Vogliono  che  le  faccia  divertire,  emozionare,  divagare: 
cercano  in  me  quello  che  nei  loro  compagni  non  riescono 
più a trovare. Il mio corpo è il loro nutrimento: è il cibo per 
il  loro  spirito.  Urlano  il  mio  nome,  reclamano  la  mia 
presenza:  ogni  sera  temo  di  essere  assalito  da  quell'orda 
famelica  di  donne.  A  fine  serata  la  mia  più  grande 
soddisfazione è aver dato loro una parte di me.
Ormai  non  mi  imbarazza  più  presentarmi  a  loro  come 
mamma mi ha fatto, perché sono le mie donne e le amo alla 
follia. 

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NOTTE A SHANGHAI
di Hermes

Osservo  il  mio  viso  allo  specchio  dopo  essermi  truccata, 


cerco  qualche  imperfezione,  dopo  un’attenta  analisi  mi 
ritengo soddisfatta. I capelli perfettamente acconciati come 
la  moda  occidentale  impone,  il  viso  un  ovale  perfetto 
accarezzato  dalla  cipria,  sugli  occhi  un  velo  di  trucco,  le 
ciglia marcate da una linea nera. La bocca rossa, un piccolo 
cuore morbido in cui sbocciare. Indosso il vestito migliore, 
lui ha scelto un raffinato tessuto di seta indaco con dei fiori 
di  ibisco  color  crema,  il  taglio  aderente  e  la  forma  li  ho 
scelti  apposta  per  provocarlo.  Un  ultimo  tocco,  apro  il 
profumo,  il  contagocce  di  vetro  accarezza  il  mio  collo 
bianco  e  i  polsi  lasciando  una  delicata  essenza  di 
gelsomino. So bene quanto lo ecciti sentirlo sulla mia pelle.
Ora  sono  perfetta,  sono  pronta  per  lui.  Mi  faccio  trovare 
in  salotto  dove  verrà  servita  la  cena.  I  domestici  sono 
addestrati  a  non  vedere  e  non  sentire.  Lui  è  a  capo  dei 
servizi  segreti  e  la  sua  crudeltà  è  rinomata  in  tutta 
Shanghai,  basta  un  suo  gesto  e  le  persone  spariscono,  lui 
non  si  fida  di  nessuno  eccetto  me,  io  sono  la  sua  amante, 
eppure mi tremano le gambe ogni volta che mi guarda. 
Vedo  i  fari  dell’auto;  è  arrivato.  Poco  dopo  entra  in 
salotto,  bello  con  il  suo  completo  di  sartoria  francese,  il 
viso  è  tirato,  gli  occhi  di  una  fiera  braccata,  la  fine  della 
guerra  ormai  è  questione  di  settimane,  abbasso  lo  sguardo 
pudicamente  con  deferenza,  lui  adora  sottomettermi,  io  so 
essere  una  perfetta  e  cedevole  concubina.  Mi  scruta  con 
quello  sguardo  da  diavolo,  il  cuore  manca  un  battito,  mi 
fingo  imbarazzata, lui ne viene lusingato… stupido uomo. 
Ci  sediamo  a  tavola  ma  lui  non  tocca  cibo,  si  nutre  di 
sguardi,  i  domestici  educatamente  si  dileguano,  sanno  che 
griderò  stanotte.  So  cosa  vuole,  la  sua  sola  fame  è  quella 
del mio corpo. Lo amo e lo odio al tempo stesso.

63
Poche  frasi  di  rito,  il  nostro  gioco  è  già  cominciato,  mi 
interroga  su  come  ho  trascorso  la  giornata  e  io  inizio  pur 
remissiva a provocarlo con lo sguardo. Questo lo eccita e lo 
fa arrabbiare al tempo stesso, ma è proprio ciò che voglio. 
Apre  un  porta  sigarette  d’argento,  me  ne  offre  una, 
condiscendente  accetto  e  con  la  punta  della  lingua 
distrattamente  umetto  il  labbro  inferiore,  mentre  porto  la 
sigaretta  alla  bocca  appena  accesa.  Lui  non  perde  nessun 
dettaglio,  soffio  delicatamente  il  fumo  azzurrognolo  verso 
il  suo  viso.  Un  terribile  gioco  dove  la  vittima  provoca  il 
carnefice,  sento  la  sua  eccitazione  aumentare,  il  mio 
sguardo  si  fa  più  insolente,  attendo  una  reazione  decisiva 
da  un  momento  all’altro,  mi  farà  molto  male,  ma  questo 
non mi impedisce di eccitarmi.
Spengo la sigaretta con insolente disprezzo mentre i nostri 
guardi non vogliono lasciarsi. Ha ceduto, si alza di scatto e 
mi afferra il braccio, mi sovrasta, so quanto adora lasciare 
segni  sul  mio  corpo.  Bene,  ci  siamo  quasi,  mi  mostro 
turbata  e  oppongo  un’indignata  quanto  vana  resistenza. 
Questo lo sta facendo incazzare ancora di più. Mi trascina 
verso la stanza da letto in stile coloniale, dopo tutto questa 
villa  una  volta  era  l’ambasciata  britannica  prima 
dell’invasione giapponese. Tento di divincolarmi e grido, la 
mia  acconciatura  perfetta  tirata  dalle  sue  mani  crudeli  si 
scioglie  in  una  cascata  di  boccoli  sulle  spalle.  È  eccitato, 
conosco  quella  luce  nei  suoi  occhi,  mi  butta  per  terra  ai 
piedi del letto a baldacchino davanti al grande specchio, io 
rispondo  con  uno  sguardo  feroce.  La  pagherò  cara…  lo 
schiaffo  arriva  in  un  istante,  neppure  l’ho  visto  partire  e 
sono già terra, la stanza inizia a girare, la guancia pulsa, ma 
và tutto bene… è quello che voglio.
Devo  rimanere  concentrata  anche  se  sento  caldo  tra  le 
gambe,  non  vedo  l’ora  che  mi  prenda.  Il  trucco  del  mio 
viso  viene  rigato  da  false  lacrime  mentre  lui  si  toglie  la 
cinta, la userà su di me lo so, la chiude intorno al mio collo 
come  un  cappio,  l’aria  passa  appena  ma  non  oppongo 
resistenza  neppure  quando  mi  strappa  di  dosso  il  mio  bel 

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vestito.  Con  il  tempo  ho  imparato  quando  smettere  di 
oppormi  e  cedere  passivamente  ai  suoi  giochi  perversi, 
prima costretta per dovere, poi con il tempo conoscendo un 
piacere che mai avrei creduto possibile.
Ora  sono  ai  suoi  piedi  in  ginocchio,  tenuta  al  guinzaglio 
come una cagna. Nei suoi occhi leggo laida lussuria mentre 
guarda il mio corpo nudo come la prima volta. Lui non si 
spoglia,  lo  tira  semplicemente  fuori  dai  pantaloni  e  me  lo 
sbatte  in  faccia.  La  sua  mano  ancora  mi  tiene  stretta  per  i 
capelli  costringendomi  a  prenderlo  in  bocca,  provo  ad 
opporre  una  vaga  resistenza  ma  la  verità  e  che  mi  eccita 
farlo.  Adoro  il  suo  sapore,  la  calda  consistenza  della  sua 
eccitazione  tra  le  mie  labbra  rosse. Alzo  lo  sguardo  come 
piace  a  lui,  osservo  come  sussulta  ad  ogni  affondo.  Mi 
costringo  ad  uno  sguardo  da  bambina  imbarazzata,  anche 
se adoro quando scopa la mia bocca, ma questo è il nostro 
gioco,  o  quello  che  voglio  fargli  credere.  Mi  gira  la  testa 
obbligandomi  a  guardare  lo  specchio,  vedo  riflesso  il  mio 
corpo  nudo  umiliato  a  terra,  totalmente  prostrata  alle  sue 
perversioni.  Sento  le  ginocchia  cedermi  vedendo  la  mia 
immagine  mentre  compio  quell’atto  volgare,  mi  vuole 
umiliare,  non  sa  invece  che  la  mia  eccitazione  non  fa  che 
crescere a dismisura e questo non aiuta i miei piani. Lui è 
stato il mio primo uomo, la sua violenza mi da piacere, mi 
scuote  il  corpo  e  mi  tocca  l’anima,  ma  ignora  quanto  sia 
disposta a fare pur di raggiungere il mio obbiettivo.
Cambia  gioco  e  mi  sbatte  sul  letto,  magari  si  deciderà  a 
scoparmi,  non  aspetto  altro.  Dannazione,  odio  come  mi 
tocca e fruga con quelle dita, non riesco ad essere razionale 
quando  fa  cosi. Ti  odio,  glielo  grido  a  denti  stretti,  lui  mi 
frusta  le  natiche  sino  a  farmi  urlare,  provo  a  divincolarmi 
senza  successo.  Ancora  mi  obbliga  in  quella  posizione 
oscena;  la  mia  faccia  affondata  sui  cuscini  e  il  sesso 
oscenamente  esposto  al  suo  sguardo,  ora  la  sua  bocca  ha 
sostituito  le  mani,  quella  lingua  mi  farà  impazzire 
maledetto.  Sto  per  cedere  ma  non  voglio,  mi  serve 
mantenere  controllo  e  lucidità.  La  necessità  mi  porta  a 

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rischiare. Con rabbia gli chiedo se è diventato impotente e 
cosa  aspetta  a  scoparmi.  Non  ho  mai  osato  tanto.  Me  ne 
pento  ben  presto,  mi  possiede  con  ferocia,  mi  accorgo  di 
stare urlando di dolore e piacere al tempo stesso, urla che si 
sentiranno per tutta la villa.
Mi  fa  male,  devo  sopportare  il  dolore,  devo  tenere  duro 
ancora  un  po’.  I  suoi  assalti  si  fanno  più  veloci,  il  suo 
sudore  e  il  mio  si  mischiano.  Quanto  sa  essere  divino  in 
questi  momenti,  come  una  serpe  non  solo  prende  il  mio 
corpo ma avvinghia la mia anima in una morsa fatale, non 
devo  cedere  al  piacere,  non  prima  di  lui.  Si  eccolo,  si 
muove  più  veloce,  manca  poco,  non  resisto,  il  piacere  ci 
raggiunge  ad  unisono,  lo  sento  esplodermi  dentro  ed 
esausta  e  appagata  mi  accascio  sul  letto,  quindi  recito  la 
mia  parte.  Prendo  fiato  e  rompo  il  silenzio  con  un  pianto 
accompagnato  da  soffocati  singhiozzi.  Lui  sussurra  delle 
scuse, pare davvero mortificato, odio questa sua debolezza, 
mi  promette un gioiello, non immagina quanto ho goduto, 
mai  come  stanotte  mi  sento  puttana  e  appagata  tanto  dal 
sesso  quanto  dai  suoi  sensi  di  colpa.  Con  goffe  carezze 
cerca di calmarmi, gli do l’illusione di esserci riuscito. Lui 
si  alza  dal  letto  e  mi  osserva,  la  pietà  lo  costringe  a 
rimanere, inizia a fumare e si accomoda su una poltrona di 
vimini. Accanto, in una bottiglia di cristallo, il suo liquore 
preferito  è  li  che  lo  attende,  si  versa  da  bere.  Osservo  dal 
letto  in  posizione  fetale,  stringendo  le  lenzuola  e 
trattenendo il respiro, lui trangugia il liquido scuro. Ancora 
qualche istante, ecco fatto. Il collo gli si irrigidisce di colpo 
e intravedo il suoi occhi spalancati dal terrore. Il bicchiere 
cade a terra. Il veleno inizia a fare effetto.
Mi  alzo  avvicinandomi  a  lui,  ma  fitte  dolore  mi  fanno 
barcollare, avverto colare lungo le cosce seme e sangue, mi 
avvicino  a  lui  osservando  i  suoi  ultimi  istanti  di  vita.  È 
strano,  non  mi  aspettavo  che  fosse  cosi  doloroso  vederlo 
morire, ma mi sforzo di ricordarmi chi è. Il carnefice della 
mia famiglia e di centinaia di cinesi sta morendo davanti ai 
miei occhi. Mi impongo di ignorarlo, mi rivesto in silenzio. 

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Scivolerò  fuori  dalla  villa  inosservata,  dopo  quello  che  è 
accaduto  i  domestici  non  oseranno  disturbarci  prima 
dell’ora di pranzo e per quell’ora sarò molto distante.
Lascio la stanza con il suo sguardo ormai vitreo, mantiene 
un’espressione carica di domande, non saprà mai chi sono 
realmente  e  perché  l’ho  fatto.  Dopotutto  sono  una  spia  e 
lui, per quando fosse l’uomo che ho imparato ad amare, era 
un  traditore  collaborazionista.  Ed  io  ho  avuto  la  mia 
vendetta.

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LA LEGGENDA DEL BRISCOLONE
di Gano

­ Brutta caccola, dov’eri finito! ­
­ Come dov’ero finito, non mi sono mai mosso di qui, io!­
­ Non è possibile, è la terza volta che faccio il giro della 
piazza… ­
­ Fatti una visita agli occhi, che ti devo dire… ­
­ Vieni, monta, sennò si fa tardi. ­
Rocco e Pelo si conoscevano da una vita, o forse si erano 
visti  anche  prima,  e  come  dicono  certe  filosofie  orientali 
può  essere  che  quelle  due  anime  balorde  siano  destinate  a 
reincarnarsi  all’infinito  per  stare  sempre  vicine.  Asilo 
insieme,  scuola  insieme,  militare  insieme,  prima  volta 
insieme,  ovviamente  sul  vialone,  non  c’era  cosa  che  uno 
non  sapesse  dell’altro.  Neanche  le  rispettive  mogli  li 
conoscevano come si conoscevano tra di loro.
Il  giorno  di  cui  vi  racconto  era  uno  di  quei  pomeriggi 
piovigginosi  di  novembre,  ancora  non  freddo  ma  buio  e 
tristo. Rocco aveva fissato alle tre davanti al bar, e in effetti 
Pelo era già lì alle tre meno un quarto, ma tra le sambuche 
e  le  chiacchiere era rimasto ancorato al banco. Rocco non 
c’aveva  le  traveggole,  era  davvero  passato  davanti  al  bar 
due  volte  senza  trovarlo,  ma  Pelo  non  voleva  mai  pigliar 
torto, e Rocco questo lo sapeva bene, così lo lasciava dire.
­ Ma quando ti decidi a pulirla questa carriola? ­
­  Sta  a  vedere  la  prossima  volta  ti  verrò  a  prendere  in 
limousine… ­
­ Cosa vorresti insinuare, che non me la meriterei? Io ho 
guadagnato  tanti  di  quei  soldi  nella  mia  vita  che  avrei 
potuto comprarmi come minimo tre limousine. ­
­ E invece non c’hai neanche il motorino! ­
­ Perché me li son goduti io i quattrini. Mica come quegli 
schifosi  che  si  fanno  chiamare  vip,  con  le  loro  donne  di 

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plastica,  il  Don  Perignon,  la  barca  in  Sardegna.  Li  ho 
conosciuti sai, al casinò. Vanno tutti alla roulette a puntare 
due fiches, per farsi notare e basta. A San Remo nel ‘98 io 
ci lasciai mezzo miliardo al tavolo del poker, capito nini? ­
­ Oh, ancora con la storia di San Remo? Basta, dai. ­
Il  traffico  era  quello  del  venerdì,  che  malgrado  fosse 
ancora  primo  pomeriggio  c’erano  già  le  code  dei  rientri. 
L’ignoranza  del  popolino  si  manifesta  in  tutto  il  suo 
splendore tra gli scarichi delle marmitte e i semafori rossi. 
L’omicidio  diventa  un’ottima  soluzione  ai  problemi 
dell’uomo  medio.  Ma  i  nostri  due  eroi  erano  in  largo 
anticipo  per  l’appuntamento  che  li  aspettava,  così 
procedevano a singhiozzo su una vecchia uno verde, calmi 
come  due  oranghi  sedati,  marlboro  light  per  Pelo  e 
toscanello per Rocco.
­  Menomale  abbiamo  fissato  per  le  quattro,  con  questo 
traffico c’è da diventar matti! ­
­ Poi non ti credere, di sicuro Panfilo si farà aspettare… ­
Panfilo era il terzo in comodo, compagno d’avventure ma 
defilato,  perché  lui  c’aveva  l’azienda  e  la  ganza,  e  quindi 
non  c’era  praticamente  mai.  Ma  quando  c’era  ai  due  era 
permesso  di  fare  un  salto  dal  greco,  che  imbastiva  il 
briscolone con puntate più che dignitose. Panfilo assicurava 
Pelo,  che  dopo  il  fattaccio  di  un  pagherò  saltato  era  stato 
bandito  dalla  bisca,  e  prendeva  un  buon  venti  percento 
delle  vincite,  se  c’erano.  Ma  con  Rocco  e  Pelo  al  tavolo 
della briscola non c’era scampo per nessuno.
Arrivarono davanti alla casa del popolo alle quattro meno 
dieci, e dovettero aspettare quasi mezz’ora prima di vedere 
sopraggiungere un omone col piumino e il berretto.
­  Guardalo  come  sta  con  quel  giubbotto,  come  se  fosse 
freddo… ­
­  È  sempre  stato  così  Panfilo.  Anche  d’agosto  con  40 
gradi indossa camicia e gilet. ­
­ Oh ragazzi, che siete già qui? ­
­ No, ora s’arriva… ­

69
­  Non  fare  lo  spiritoso  te,  che  se  non  fosse  per  quel 
bischero  del  sottoscritto  col  cavolo  sederesti  al  tavolo  del 
greco. ­
­ Boni ragazzi, boni… ­
Entrarono insieme al circolino e ordinarono tre sambuche 
con  quattro  mosche.  Quattro  era  il  numero  che  apriva  la 
porta  della  stanza  del  greco,  quella  dietro  la  dispensa, 
allestita con tre tavoli professionali da gioco. Non avevano 
ancora  finito  il  caffè  che  una  ragazza  bionda  molto  fuori 
luogo apparve dietro il banco accanto al vecchio barman, e 
li  invitò  a  seguirla.  Passarono  per  uno  stretto  corridoio 
illuminato da una trappola per zanzare, scavalcarono alcuni 
fusti di vino e cocacola, attraversarono una tenda di ciniglia 
verde vomito, e giunsero infine davanti a una porta chiusa. 
La ragazza aveva la chiave e fece scattare la serratura.
­ Belle cosce! ­
­ Eh già! ­
Ma  la  ragazza  non  si  girò  neanche  a  guardare  i  due 
commentatori,  ovviamente  Rocco  e  Pelo.  Aprì  la  porta  e 
una zaffata di fumo li investì.
­ Aria di casa mia… ­
­ Parla per te, Pelo. ­
­ Ah,  perdonami  Panfilo,  dimenticavo  che  hai  smesso  di 
fumare da… quanti giorni? Tre? ­
­ Boniiiii… ­
Il  tavolo  era  già  imbandito.  La  luce  puntava  il  mazzo  di 
carte  Del  Negro  e  il  portacenere  mezzo  pieno,  sopra  una 
pratino  verde  con  qualche  bruciatura  di  cicca.  Il  greco 
sedeva  defilato  al  tavolo  di  destra,  con  una  vecchia 
romagna  in  mano  e  una  senza  filtro  in  bocca.  Lui 
riscuoteva  subito.  La  bionda  era  la  sua  compagna  ma 
fungeva  anche  da  soubrette  e  da  cameriera.  Il  costo  delle 
consumazioni subiva un leggero rialzo ai tavoli del greco, 
qualcosa  tipo  un  caffè  quattro  euro  e  dieci  pezzi  per  i 
superalcolici.  Ma  questo  era  accettato  da  tutti  i 
frequentatori.  D’altra  parte  se  volevi  puntare  grosso  non 
c’era che lui in città.

70
Ma  adesso  parliamo  degli  avversari  dei  nostri  due  eroi, 
una coppia di tutto rispetto. In piazza erano conosciuti coi 
nomi di Checco e Occhiolino, il primo perché sicuramente 
faceva  di  nome  Francesco,  il  secondo  per  la  sua 
reputazione di grande segnalatore di briscola. L’occhio più 
veloce dell’Appennino, alcuni dicevano. Non c’era verso di 
sorprenderlo  da  quanto  era  veloce,  ma  Pelo  quella  storia 
l’aveva sempre snobbata; “ma quali segni… non penserete 
che usino i segni classici, non lo fa nessuno ormai. Ti fanno 
solo credere di stare al gioco, ma in realtà sono due figli di 
buona  donna,  ecco  tutto!”  Rocco  invece  era  più  umile  e 
riconosceva  il  valore  dei  due  avversari.  Li  aspettava  una 
grande sfida, ma il piatto era un signor piatto, e poi c’era il 
discorso  del  prestigio,  al  quale  Rocco  e  Pelo  tenevano 
senz’altro  di  più.  Quella  sarebbe  stata  la  giocata  che 
avrebbe proclamato la coppia campione.
­ Siete pronti per un bella risolata? ­
­ Che canti già vittoria Pelo? ­
­ Beh, con due morti come voi, anche a occhi chiusi… ­
­ Non incominciare a offendere, eh! ­
­ E chi offende… ­
­ Bono Pelo, dai. Tu ci tiri addosso il malaugurio… ­
E  così  incominciò,  e  le  carte  girarono  per  ore  su  quel 
tavolo  verde.  Panfilo  rimase  a  bere  e  chiacchierare  con  il 
greco, la bionda fece un paio di su e giù coi bicchieri, e il 
fumo  divenne  più  denso  che  mai.  Non  venne  nessun  altro 
quel  giorno. La sala da gioco era tutta per loro. Diecimila 
euro  di  piatto  e  una  tirata  assicurata  fino  al  mattino. Alle 
otto  il  greco  se  ne  andò  a  cena  con  la  sua  bionda  e  un 
giovane  tunisino  gli  dette  il  cambio. Anche  Panfilo  se  ne 
tornò  a  casa,  ma  i  giocatori  si  accorsero  appena  di  questi 
eventi.
Le carte giravano, perché come girano loro girano solo i 
coglioni  in  quelle  giornate  no,  specialmente  d’inverno 
quando lo scaldabagno non ti funziona e ti è finita la scorta 
di  Lavazza.  Fino  a  mezzanotte  i  nostri  due  eroi  potevano 
dirsi  in  vantaggio,  ma  insieme  alla  stanchezza  subentrò 

71
anche  quella  bastarda  della  signora  sfortuna.  Le  carte 
avevano  smesso  di  girare  ed  erano  solo  dalla  parte  di 
Checco e Occhiolino. Pelo schiumava, e non solo per colpa 
della decima sambuca. Rocco si puntellava sui gomiti, col 
toscanello che gli penzolava dalle labbra.
­ Ragazzi, ma non provate un po’ di vergogna per il culo 
che vi ritrovate? ­
­ Le carte girano, Pelo… ­
­  Girano  un  paio  di  palle  Checco!  Son  cinque  mani  che 
non ci entra una briscola decente! ­
­  Ma  smettetela  di  lamentarvi!  Fino  a  due  ore  fa  ce 
l'avevate voi le carte migliori! ­
Ma quando si sfora una certa ora, tipo le tre o le quattro di 
notte  (o  per  alcuni  del  mattino)  la  realtà  incomincia  a 
perdere consistenza, e se la storia diventa mito nessuno se 
ne accorge. Dovete sapere infatti che al bar questo grande 
briscolone  è  diventato  col  tempo  una  specie  di  cantata 
epica,  e  ognuno  c’ha  il  suo  modo  di  raccontarla.  Perché, 
prima di tutto, e ve lo dico subito così vi metto l’anima in 
pace,  nessuno  ne  uscì  vincitore.  Poi  dei  nostri  quattro 
giocatori solamente il povero Rocco, pace all’anima sua se 
ne andato tre mesi fa, cancro bastardo, ha avuto il coraggio 
di  raccontare  qualcosa.  Gli  altri  si  sono  tutti  chiusi  in  un 
silenzio  imbarazzato,  tipico  da  dopo  sbornia,  e  hanno 
smesso  di  giocare  a  briscola  e  di  frequentare  il  locale  del 
greco.
Per quello che ci è dato di sapere sembrerebbe che verso 
l’alba  le  due  coppie  si  trovavano  nuovamente  in  parità,  e 
mentre  si  avvicinava  l’ora  che  avrebbe  decretato  la  fine 
delle  ostilità,  ovvero  le  sette  del  mattino,  i  punti  che 
separavano  le  due  squadre  continuavano  ad  assottigliarsi. 
Allo  scoccare  delle  sette  precise,  mentre  il  tunisino  se  la 
dormiva della grossa e le bottiglie di vecchia romagna e di 
sambuca  sul  tavolo  verde  erano  più  morte  del  mio  povero 
nonno, i punti di Rocco e Pepe erano esattamente gli stessi 
di  quelli  di  Checco  e  Occhiolino.  Cioè,  per  spiegarmi  in 
parole spicce, soprattutto per i meno esperti di briscola, si 

72
era verificata una situazione di parità assoluta che neanche 
nella peggiore casistica ci si poteva aspettare.
­ E adesso cosa si fa? ­
­ Come cosa si fa? La bella si fa! ­
­ Vuoi dire una secca? ­
­ Per forza! ­
E  così  tornarono  a  girare  le  carte  sul  tavolo.  Una  partita 
meravigliosa,  trascinata  dagli  ultimi  residui  alcolici  nei 
corpi  dei  quattro  eroi.  Ma  che  burla  del  destino  quando 
andarono  a  contare  le  carte  e  si  accorsero  di  un’altra 
incredibile parità: sessanta a sessanta.
­ Maremma impestata! ­
­ Questo tavolo dev’essere stregato! ­
A quel punto la storia si fa confusa, o almeno è quello che 
ci è dato di sapere. C’erano delle voci nella stanza, e le luci 
sui tavoli sembravano si fossero smorzate da sole. Entrò la 
donna  del  greco  vestita  da  regina  di  picche,  con  dietro  il 
greco in persona, ma non era proprio lui. Era il re di picche, 
ovviamente,  vestito  col  mantello  pellicciato  e  la  corona 
pacchiana.  Insomma,  lei  si  avviò  al  tavolo  di  gioco  e  si 
distese supina con la testa indietro rivolta a Pelo.
­ Come va la partita, ragazzi? ­
Subito  dietro  di  lei  c’era  il  re,  cioè  il  greco,  che  con  gli 
occhi  lucidi  come  fondi  di  bottiglia  dichiarò:  –  Signori,  è 
arrivata l’ora di levarsi dai coglioni! ­
Poi tirò su la gonna della regina e incominciò a fare i suoi 
comodi davanti a tutti, con un ghigno spaventoso sotto due 
baffi da greco. Il greco c’aveva i baffi, mi ero dimenticato 
di dirvelo…
Col vecchio su e giù la bionda di picche iniziò a cantare 
l’Aida,  salendo  di  ottave  insieme  al  movimento  del  re.  I 
quattro  giocatori  restarono  immobili  con  le  sigarette  in 
bocca e le carte in mano (toscanello per Rocco, s’intende.)
­ Vai, vai, vai… ­
­ E vadoooooooooo! ­

73
Più  stranulati  che  imbarazzati  per  quell’assurda 
situazione,  i  quattro  si  guardarono  negli  occhi  e  insieme 
proposero la patta.
­ Che si finisce qui? ­
E così sembra infatti che sia finita. Ognuno riprese la sua 
parte  della  posta  in  gioco  e  ritornò  a  casa,  rimuginando 
bene sull’accaduto. Sogno o realtà? Verità o delirio?
Beh, vedete, quando alcuni personaggi di grossa caratura 
come  quelli  di  cui  vi  ho  appena  narrato  le  vicissitudini 
vengono  coinvolti  in  situazioni  estreme,  la  realtà 
automaticamente  viene  alterata,  distorta  e  amplificata. 
Colpa  dell’alcol,  del  fumo  e  della  stanchezza?  Ma  certo, 
siete  liberissimi  di  pensarla  così.  D’altronde  è  più  facile 
accettare  una  spiegazione  razionale.  Ma  il  mito  e  la 
leggenda  si reggono sempre su delle  solide fondamenta di 
verità.  Il  re  e  la  regina  di  picche  cavalcarono  il  tavolo 
verde, decretando la fine del gioco, suggellando una parità 
fuori dalla norma. Da quel giorno tutti e quattro smisero di 
giocare a briscola, ma li potevi vedere insieme alla casa del 
popolo  al  tavolo  del  ramino,  a  ridere,  scherzare  e  bere 
sambuca.  Ma  se  qualcuno  tirava  fuori  in  loro  presenza  la 
leggenda del briscolone, quelli lo guardavano storto e se ne 
andavano.  Perché le leggende, specialmente quelle da bar, 
bisogna saperle tramandare in segreto, farle aleggiare sopra 
il  banco  delle  paste  e  i  tavolini  di  plastica.  Bisogna 
prendersi cura di loro.
Io,  nel  mio  piccolo,  spero  di  esserci  riuscito  con  questo 
breve racconto.

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IL CORVO E LA COLOMBA
di GM Willo (101 Parole)

C’era una volta un corvo e una colomba nel mezzo di una 
strada  di  periferia,  ed  eran  appena  le  sei  del  mattino  e  la 
città  dormiva  beata.  Il  corvo  beccava  gli  angoli  di  una 
paginetta  della  settimana  enigmistica.  Fu  in  quel  mentre 
che la colomba gli si avvicinò.
«Che fai?»
«Leggo.»
«Tu?»
«Certo, perché le colombe non sanno leggere?»
«Certamente… ah, ah!»
«Perché ridi?»
«Per la battuta di quella vignetta.»
«Si, l’avevo già letta. Sto facendo il cruciverba, io…»
«Difficile?»
«No, l’ho quasi finito…»
Presi  dalla  lettura  o  dalla  loro  vanità,  i  due  uccelli  non 
udirono il camion del latte sopraggiungere. 

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IL MALE
di Bruno Magnolfi

Iniziai  con  un  sottile  dolore  a  una  gamba,  in  una  zona 
appena  sopra  al  ginocchio.  Passarono  i  giorni  ma  quel 
penetrante  dolore  non  voleva  passare.  Concentrai  i  miei 
pensieri proprio intorno a quel male, per parecchie sere, da 
solo,  in  silenzio.  Infine  scomparve.  Poco  tempo  più  tardi, 
una  sensazione  di  affaticamento  perenne  iniziò  a  farsi 
sentire  dentro  al  mio  addome,  in  una  zona  compresa  tra  i 
polmoni  e  lo  stomaco.  Pensai  quasi  di  tutto:  qualcosa  che 
continuavo a mangiare e a cui ero allergico senza saperlo, 
l’aria  inquinata  di  questa  periferia  puzzolente,  il  mio 
nervosismo perenne. Mi concentravo, combattevo il dolore, 
che intanto aveva iniziato ad emergere, con la forza di tutti 
i pensieri che avevo, ma i risultati sperati non c’erano. Per 
esorcizzare  il  mio  male  iniziai  a  pensare  alle  cose  più 
brutte: ulcera, tumore, principio di infarto, qualunque cosa 
mi  sembrava  possibile.  Pensai  alla  mia  morte  come  ad  un 
evento  vicino,  ma  continuavo  a  passare  le  sere 
concentrandomi  sulle  mie  sofferenze,  e  tutto  mi  sembrava 
sempre  più  legato  ad  un  semplice  filo  sottile.  Mi  sentivo 
sempre  più  in  bilico  tra  il  conservare  tutto  quello  che  ero, 
se  il  mio  malessere  si  fosse  in  breve  risolto,  e  il  perdere 
tutto in una babele infinita di ospedali, dottori, ricoveri, che 
avrebbero  tolto  in  un  attimo  la  mia  libertà  di  pensiero,  il 
mio equilibrio col mondo, il mio vivere così come lo avevo 
impostato  da  sempre.  Confidavo  ogni  sera  nel  pensiero 
finale,  prima  di  dormire  il  mio  sonno  agitato,  pieno  di 
incubi  e  di  zone  non  chiare:  tutto  si  sarebbe  in  qualche 
modo risolto, forse bastava girarmi nel letto nella posizione 
più  giusta,  su  un  fianco,  oppure  sull’altro,  e  tutto  sarebbe 
passato.  Mi  svegliai  una  mattina  con  l’assenza  miracolosa 
e  insperata  di  ogni  dolore:  era  la  prova  esauriente  di 
superiorità del pensiero rispetto alla carne, al concreto, alla 
vile  materia.  Passò  un  po’  di  tempo,  poi  lo  stesso  dolore 

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riprese.  Stavolta  non  ci  poteva  essere  alcun 
fraintendimento.  Cominciai  a  combattere  il  male  con  una 
forza  cocciuta  che  contrastava  il  dolore,  e  tanto  sforzai  la 
mia mente che alla fine non sentivo più niente. Sapevo che 
il male era presente, qualcosa lavorava dentro di me senza 
che potessi realmente aggredirlo, ma io ne tenevo a bada il 
vigore,  e  con  indifferenza  superiore  a  qualsiasi  negativo 
sentire,  ne  neutralizzavo  il  potere.  In  quel  periodo  la  mia 
vita  si  era  di  fatto  avvitata  attorno  a  quel  duello  supremo, 
gettandosi  dietro  le  spalle  ogni  altro  risvolto,  ma  il 
fondamentale  equilibrio  tra  il  dentro  ed  il  fuori,  del  quale 
ero  sempre  stato  sostenitore  agguerrito,  si  era  confuso  in 
mezzo  ai  miei  sforzi;  la  mia  giornata  apparentemente 
sembrava  identica  a  prima,  ma  in  realtà  era  radicalmente 
diversa. C’ero e non c’ero, mi sentivo sparire in ogni attimo 
che  pensavo  al  futuro,  tenevo  frenato  ogni  mio  desiderio 
che mi spingesse più in là del presente, proprio ad evitare 
qualsiasi delusione. Quando iniziai ad avere gli attacchi di 
tosse  non  mi  parve  neppure  un  peggioramento  inatteso: 
anzi,  questo  espellere  aria  e  catarri,  mi  parve  mostrasse 
fuori  di  me  qualcosa  che  c’era  e  che  faceva  parte  del  mio 
intimo  esistere;  niente  di  meglio  se  non  essere  chiaro, 
esauriente, sincero con tutti. Ero quasi felice di mostrarmi 
agli  altri  come  ammalato:  giustificava  ogni  mio 
comportarmi,  i  pensieri  contorti,  il  mio  agire  a  volte 
enigmatico,  il  mio  corpo  dalla  forma  non  bella,  forse 
devastato  al  suo  interno  da  chissà  quali  tarme  che  ne 
rodevano l’intimo, ne succhiavano le parti più molli, quelle 
più  fragili  e  a  disposizione  di  ogni  predatore  di  umani. 
Infine, mi fu raccontato, che in preda ad un attacco di tosse 
e di asma, fui raccolto privo di sensi su un marciapiede di 
fronte  alla  mia  abitazione.  Trascorsi  soltanto  tre  giorni  in 
quella  clinica  medica,  e  quando  ne  uscii  ero 
apparentemente guarito. Tutto era a posto, dissero i medici, 
ma dentro di me, in quelle zone dove non si poteva scrutare 
con il semplice ausilio di uno dei loro strumenti, mi sentivo 
definitivamente  cambiato,  e  quel  fulcro  sul  quale  il  mio 

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equilibrio aveva sempre trovato la maniera per essere vivo, 
efficace,  presente,  completamente  perduto,  come  la  mia 
identità  che  da  allora  non  avrei  più  saputo  qual’era.

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IL RE DEL PORNO 
OVVERO “DAL COMPLESSO AL SUCCESSO”
di Massimo Mangani

Francamente non ricordo bene quando è stato il momento 
in cui ho capito di avere qualcosa di anormale; forse a otto 
anni,  la  sera  in  cui  una  mia  cugina  adolescente,  dopo 
avermi costretto a fare la doccia insieme a lei con la scusa 
che  sporchi  non  si  può  andare  a  letto,  era  rimasta  per  un 
sacco  di  tempo  inginocchiata  davanti  a  me  con  aria 
stupefatta.  In  effetti  la  vicinanza  della  sua  faccia  al  mio 
pisello lo aveva fatto lievitare a tal punto che me lo sentivo 
esplodere  e  soltanto  allora  mi  ero  reso  conto  delle  sue 
dimensioni abnormi.
Ovviamente,  benché  intuissi  qualcosa,  ancora  non 
riuscivo  a  realizzare  fino  in  fondo  il  perché  di  tanto 
interesse da parte di una ragazza quindicenne, che da quel 
momento  non  perse  occasione  per  restare  sola  con  me 
facendomi  spogliare  con  le  scuse  più  bizzarre.  La  cosa 
iniziò  a  diventare  alquanto  fastidiosa  quando  mia  cugina 
smise  di  guardarlo  e  cominciò  a  pretendere  di  toccarlo. 
Benché  inizialmente  avessi  provato  un  certo  piacere,  ben 
presto  la  sensazione  predominante  iniziò  a  diventare  il 
solletico: non riuscivo proprio a resistere e mi torcevo dalle 
risate,  provocando  la  sua  ira.  Dopo  un  po’  quei  giochi 
cessarono,  forse  perché  la  cuginetta  non  provava 
abbastanza  soddisfazione  o  forse  a  causa  del  suo  primo 
fidanzatino.  Da  quel  momento  tuttavia  iniziai  ad  essere 
consapevole  dell’interesse  che  il  mio  membro  suscitava 
ogniqualvolta  si  rendeva  visibile,  anche  da  sotto  un 
indumento  intimo.  Quell’estate  infatti,  sulla  spiaggia  dove 
ero solito trascorrere le vacanze con i nonni prima, e con i 
genitori  poi,  mi  divertivo  ad  osservare  gli  sguardi  che 
arrivavano  in  mezzo  alle  mie  gambe.  Devo  dire  che  tutti, 

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proprio tutti quelli che incrociavo, fossero uomini o donne, 
giovani  o  anziani,  non  potevano  resistere  dal  dare 
un’occhiatina  al  mio  costumino.  La  cosa  mi  appariva 
divertente, tranne quando percepivo sguardi morbosi, per lo 
più  di  uomini  di  una  certa  età,  ma  ben  presto  le  cose 
cambiarono.  Già  l’anno  successivo  più  che  fierezza 
cominciai a provare vergogna, non volevo più girare per la 
spiaggia in costume e quindi rimanevo vestito.
I  pochi  amici  che  mi  ero  fatto  mi  prendevano  in  giro  e 
dicevano  che  ero  pazzo,  che  il  caldo  mi  faceva  male,  che 
mi comportavo come i vecchi ma ciò non faceva altro che 
rafforzare la mia percezione di essere diverso. Il fatto è che 
avevo iniziato a fare confronti e mi ero reso conto di essere 
davvero  l’unico,  almeno  fra  quelli  della  mia  età,  ad  avere 
un  pisello  così  grosso.  Di  nascosto  leggevo  e  rileggevo 
l’enciclopedia  medica  di  mio  padre  per  capire  se  quella 
potesse essere una malattia, ma non riuscivo a trovare nulla 
in  tal  senso.  Con  i  miei  genitori  non  avevo  intenzione  di 
confidarmi,  non  ce  la  facevo  e,  nonostante  mi  vedessero 
spesso nudo, il fatto che non dicessero nulla poteva essere 
spiegabile  con  la  volontà  di  non  farmi  soffrire.  Un  po’ 
come  era  accaduto  ad  un  mio  compagno  di  scuola  che  si 
era ammalato di leucemia e, nonostante avesse perso tutti i 
capelli  e  fosse  dimagrito,  i  parenti  facevano  finta  di  nulla 
finché  un  bel  giorno  era  morto.  Io  ero  convinto  che  avrei 
fatto la stessa fine! Questa convinzione rimase viva fino al 
mio ingresso nella scuola media, dove accadde un episodio 
alquanto spiacevole che tuttavia mi fece capire che la data 
della mia morte era ancora lontana.
Durante  una  festa  di  compleanno,  alla  quale  i  miei 
genitori  mi  avevano  costretto  a  partecipare  con  la  forza, 
alcuni  miei  compagni  si  erano  chiusi  in  bagno  insieme  a 
due ragazzine. Per mia sventura, visto che avevo una gran 
voglia di fare pipì, avevo aperto la porta improvvisamente 
e li avevo sorpresi: i maschi avevano pantaloni e mutande 
a  mezza  gamba  mentre  le  ragazze  si  scambiavano 
commenti  e  ridacchiavano.  Vedendomi  entrare  così 

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all’improvviso,  il  gruppetto  aveva  pensato  che  volessi 
partecipare  al  gioco  e  le  ragazze  avevano  iniziato  ad 
incitarmi affinché mostrassi il mio coso. Poiché ero fuggito 
a gambe levate, e poiché le due pischelle erano considerate 
le  più  carine  della  scuola,  iniziai  ad  essere  chiamato 
“finocchio”. Fu uno dei periodi più tristi della mia vita, tutti 
i  giorni  tornavo  a  casa  in  lacrime  dopo  esser  stato 
sbeffeggiato da chiunque, quasi quasi anche dai professori. 
“Finocchio”,  “ecco  il  finocchietto”  “chissà  che  cazzettino 
minuscolo ti ritrovi!” e la più tremenda, pronunciata da una 
ragazza:  “Sei  troppo  carino,  è  un  peccato  che  tu  sia  un 
finocchio  di  merda!”  Le  due  cretinette  poi  non  perdevano 
occasione  per  umiliarmi  finché  un  bel  giorno,  durante  un 
corso di recupero pomeridiano, le trovai ridenti davanti alla 
porta  del  bagno  delle  femmine.  Forse  fu  uno  scatto 
improvviso  di  orgoglio,  forse  la  frase  abbozzata  da  una 
delle due: «Ecco il finoch...» , fulmineamente le afferrai per 
il  collo  e,  dato  che  ero  abbastanza  forzuto,  le  trascinai 
dentro.  Chiusi  la  porta  a  chiave  e  le  spinsi  contro  il  muro 
beandomi  dei  loro  sguardi  terrorizzati,  lentamente  mi 
slacciai  la  cintura,  sbottonai  i  Jeans  e  li  feci  scivolare 
insieme  alle  mutande.  Data  l’eccitazione  che  quella 
situazione  mi  stava  provocando,  ce  l’avevo  talmente  ritto 
che  svettava  oltrepassando  di  qualche  centimetro 
l’ombelico. Subito le parole mi uscirono dalla bocca senza 
che me ne rendessi conto, tremende: «ora me lo succhiate, 
o  vi  ammazzo!»  Le  poverette  scoppiarono  a  piangere 
riportandomi  alla  realtà,  senza  dire  una  parola  mi  rivestii, 
aprii  la  porta  e  me  ne  andai  lasciando  le  due  cretine 
singhiozzanti. Il giorno dopo successe il finimondo, i miei 
genitori furono convocati dal preside ed io fui espulso dalla 
scuola,  consapevole  che  quella  mia  malformazione  non 
fosse altro che un’innocua disgrazia.
La  mia  sofferenza  tuttavia  continuava,  il  senso  di 
vergogna era più forte di me, non osavo guardare le ragazze 
per  paura  di  innamorarmi  e  dover  rendere  pubblico  il  mio 
problema.  Cercavo  di  non  pensarci,  ma  era  quasi 

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impossibile,  l’unica  cosa  che  potevo  fare  era  nasconderlo 
indossando  indumenti  larghi.  Con  il  sopraggiungere 
dell’adolescenza mi trovai a dover combattere con un vero 
mostro che alzava la testa quando meno me lo aspettavo e, 
nonostante  i  larghi  indumenti,  si  rendeva  visibile  agli 
sguardi.  Improvvisamente  il  complesso  si  modificò; 
avvenne il giorno che beccai mia cugina a letto con il suo 
ennesimo fidanzato.
Eravamo in campagna durante una rimpatriata familiare e 
dopo pranzo gli adulti e i bambini più piccoli erano andati 
a  fare  una  passeggiata  digestiva.  Nel  casale  eravamo 
rimasti soltanto io, mia cugina ormai ventunenne ed il suo 
fidanzato che per la verità avrebbe voluto rimanere da solo 
con lei. Mi appisolai sulla sedia accanto al caminetto e fui 
svegliato da alcuni gemiti provenienti dalla camera da letto; 
subito  il  mostro  si  mise  sugli  attenti  e  la  mia  curiosità 
divenne  irrefrenabile.  Ovviamente  sapevo  benissimo  cosa 
stava accadendo ma preferii fare l’ingenuo, così mi alzai e 
mi  recai  verso  la  fonte  di  quell’idillio.  La  porta  era 
socchiusa e sbirciando si poteva vedere il letto su cui i due 
stavano facendo sesso: mia cugina era sdraiata in posizione 
supina,  le  gambe  larghe  ed  i  piedi  per  aria,  indossava 
soltanto  un  paio  di  calze  autoreggenti  bianche,  il  suo 
ragazzo,  completamente  nudo  si  muoveva 
spasmodicamente sopra di lei, su e giù, su e giù, sempre più 
veloce  finché  ad  un  tratto  i  due  iniziarono  ad  urlare 
all’unisono. Dopo qualche istante di silenzio, il ragazzo si 
scostò, si alzò dal letto ed iniziò a rivestirsi.
«Devo proprio andare, i miei a casa mi aspettano.»
Mi nascosi dietro la porta accanto, praticamente in bagno 
ed attesi che se ne fosse andato. Rimasi fermo, immobile in 
attesa che anche la cugina se ne andasse e sussultai quando 
udii la sua voce: «Lo so che sei lì dietro, vieni un po’ qui!» 
Era  ancora  nuda  sul  letto  e  mi  guardava  con  uno  sguardo 
divertito;  erano  passati  ormai  i  tempi  in  cui  eravamo  due 
bambini  che  giocavano  nella  doccia,  lei  era  una  donna  ed 
anch’io non me la cavavo poi così male come uomo!

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«E bravo il mio cuginetto, è tanto che non ci vediamo… 
chissà come sarà cresciuto!»
Notando il mio imbarazzo mi fece cenno di avvicinarmi, 
il  mostro  tirava  da  impazzire  sia  per  la  scena  a  cui  avevo 
assistito,  sia  per  la  posizione  che  la  cuginetta  aveva 
assunto,  seduta  sul  letto  con  le  gambe  incrociate,  le  calze 
sempre più lucide, la fica in bella mostra. Allungò le mani 
ed  iniziò  ad  armeggiare  con  la  cintura,  dopo  pochi  istanti 
l’affare  svettava  abnorme  e  lei  lo  strinse  guardandolo 
avidamente. Feci per sdraiarmi sopra di lei ma mi respinse. 
«Ho  appena  fatto  l’amore  con  il  mio  ragazzo,  non  posso, 
ma voglio comunque farti capire una cosa… »
Fece quello che sotto la doccia non aveva mai osato fare, 
avvicinò le labbra al membro e, molto lentamente, lo prese 
in  bocca.  Provai  una  sensazione  paradisiaca,  era  la  prima 
volta  che  facevo  sesso,  non  mi  ero  mai  nemmeno 
masturbato  e  se  qualche  volta  la  mattina  avevo  trovato  le 
lenzuola  bagnate  da  un  liquido  appiccicoso,  avevo 
immediatamente  cambiato  il  letto.  Adesso  non  potevo 
ignorare  quelle  labbra  golose,  quella  lingua  ruvida,  quegli 
occhietti assassini, stavo godendo da morire!
Non  so  nemmeno  quanto  tempo  andai  avanti,  ricordo 
soltanto  che  ad  un  certo  punto  mia  cugina  sfilò  il  mostro 
dalla  bocca  se  lo  appoggiò  alle  labbra  continuando  ad 
accarezzarlo con entrambe le mani. Ci fu un’eruzione, otto, 
dieci  schizzi  di  un  liquido  biancastro  ed  appiccicaticcio  al 
termine  dei  quali  il  viso  di  mia  cugina  era  una  maschera 
acquosa.  Non  disse  più  nulla  ma  dopo  essersi  ripulita  e 
rivestita sussurrò: «non sai che fortuna potresti avere fra le 
gambe!» Poi se ne andò.
Da  quel  momento  la  mia  attività  sessuale  divenne  a  dir 
poco  frenetica,  mi  feci  tutte  le  compagne  del  college,  le 
amiche di mia madre e perfino una professoressa che volle 
constatare  se  le  voci  che  a  scuola  giravano  sul  mio  conto 
fossero vere! Parevo la persona più felice di questo mondo, 
ma in cuor mio ero triste, mi accorgevo che mi mancava la 
cosa  più  importante:  l’amore!  Provavo  invidia  per  i  miei 

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amici che avevano la fidanzata, non facevano solo sesso ma 
c’era  un  rapporto  fatto  di  tenerezze,  di  aiuto  reciproco,  di 
poter contare sul partner nei momenti di difficoltà. Con me 
le ragazze facevano sesso e poi… arrivederci e grazie! La 
rabbia  mi  divorava  e  per  spregio  iniziai  ad  insidiare  le 
fidanzate  dei  miei  compagni  che,  più  per  la  curiosità  che 
per  altro,  spesso  cedevano.  Sovente  aspettavo  che  fossero 
riaccompagnate a casa, che i ragazzi le credessero al caldo 
sotto le coperte a dormire e non a scopare selvaggiamente 
complimentandosi  per  le  dimensioni  del  mio  pene. 
Raggiunsi  punte  di  cattiveria  così  alte  che  un  giorno, 
durante il matrimonio di un mio ex compagno di classe, mi 
scopai  la  sposina  nel  cesso  del  ristorante  mentre  lo  sposo, 
che ci aveva sentiti, piangeva come un disperato battendo i 
pugni sull’uscio, il tutto cercando di non farsi sentire dagli 
invitati. Tutto ciò terminò quando conobbi Serena…
Non voglio soffermarmi più di tanto sulla storia… Serena 
era la ragazza perfetta… si era davvero innamorata di me. 
Non chiese di fare subito sesso, anzi, trascorsero molti mesi 
prima di farlo. A letto pareva indemoniata, è vero, ma per il 
resto  era  la  ragazza  più  dolce  e  sensibile  che  avessi  mai 
conosciuto! Iniziai a fare progetti… una vita insieme… dei 
figli…  ero  finalmente  un  uomo  realizzato!  Ancora  non 
posso credere che quel giorno sia stato reale: la telefonata 
improvvisa di Serena.
«Dobbiamo vederci, è importante!»
L’incontro a casa sua, le parole secche come un proiettile 
in mezzo agli occhi: «Ti lascio!»
«Perché?»
«Mi sono innamorata di Luigi, lui non è solo un cazzo, è 
anche un uomo!» CRASH!!!!

Ed eccomi qui, a 37 anni uno dei più famosi attori porno 
del Mondo, 38 centimetri di cazzo, 4 in più del mitico John 
Holmes,  milioni  di  dollari  sparsi  in  tutte  le  banche  del 
mondo,  villa  a  Roma,  villa  a  Parigi  e  naturalmente  mega 

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villa a Beverly Hills, oltre ad una collezione invidiabile di 
Ferrari d’epoca! 
Dopo  la  storia  con  Serena  tutto  mi  è  stato  chiaro, 
soprattutto le parole di mia cugina. È bastato un provino e 
subito  i  miei  film  sono  divenuti  dei  cult…  porno  di  tutti  i 
tipi, con trama e senza. Ho recitato sia con le più importanti 
attrici  hard  di  Hollywood,  sia  con  le  studentesse 
universitarie di Praga o Budapest, tutti i generi, dall’anal al 
cum­shot, dal gang bang al fetish. Pagato profumatamente 
non ho disdegnato di inchiappettarmi un paio di ragazzetti 
ventenni,  film  divenuto  il  più  apprezzato  dalle  comunità 
Gay internazionali ma anche il più scaricato dalle massaie 
di  tutto  il  Globo  (e  ovviamente  dai  padri  di  famiglia). 
Fama,  successo,  denaro  finanche  la  partecipazione  ad  un 
film  non  porno,  una  commedia,  un  blockbuster  con  attori 
famosissimi.  Ogni  tanto  mi  diverto  ad  andare  a  fare  la 
spesa  al  supermercato  e  vedo  che  mi  riconoscono  quasi 
tutti, dagli adolescenti che scaricano i film di nascosto, alle 
madri  di  famiglia…  qualche  volta  qualcuna  di  loro  mi  si 
avvicina,  mi  sfiora  accidentalmente.  Quando  esco  frugo 
nelle  tasche  e  trovo  biglietti  con  numeri  di  telefono  ed 
indirizzi.
Solo  una  volta  ho  accettato  una  di  quelle  avances;  ero  a 
Los  Angeles  in  uno  Wall  Mart  ed  ho  visto  entrare  una 
donna,  molto  carina,  accompagnata  da  due  bambini  ed  un 
uomo, un buzzurro che la trattava malissimo. La donna ha 
aperto  bocca  ed  il  marito  l’ha  strattonata,  poi  ha  fatto  il 
verso  di  darle  un  ceffone.  Ho  notato  che  l’occhio  sinistro 
della  signora  era  nero;  lei  mi  ha  guardato  e  mi  ha 
palesemente  riconosciuto.  Ho  aspettato  che  si  avvicinasse, 
che  mi  sfiorasse  accidentalmente,  sono  uscito,  ho  frugato 
nelle tasche… la sera l’ho chiamata.
L’ho scopata 5 ore di seguito in un Motel sulla PCH, non 
riuscivo  a  farla  smettere  di  ansimare,  scopava  e  rideva, 
scopava  e  rideva!  Quando  se  ne  è  andata  era  felice… 
qualche giorno dopo, per caso ho letto sul giornale che una 
donna  di  Santa  Monica  aveva  denunciato  il  marito  per 

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violenze, l’aveva fatto arrestare per maltrattamenti ed abusi 
sui  figli…  c’era  la  foto  del  buzzurro  e  me  ne  sono 
rallegrato! Una scopata terapeutica.
Qualche giorno fa però, mi è accaduta la cosa più curiosa: 
stavo facendo il mio solito giro al supermercato quando mi 
si  è  avvicinata  una  donna  allampanata,  pallida,  che  io  ho 
scambiato per un’accattona. Invece del solito approccio, mi 
ha teso la mano, ha abbozzato un sorriso e mi ha detto: «Ti 
ricordi di me?» Sono rimasto interdetto.
«Sono Serena, ricordi?»
«Scusa, sono passati tanti anni… io non…»
Siamo  usciti,  l’ho  fatta  salire  sulla  mia  Testarossa  e  ci 
siamo diretti ad uno Starbucks vicino Malbù. Davanti ad un 
buon caffè mi ha raccontato la sua storia: si era sposata con 
Luigi e tutto sembrava filare liscio, avevano avuto tre figli 
meravigliosi.  I  soldi  non  mancavano  e  nemmeno  dopo  la 
separazione aveva avuto problemi economici.
Poi Luigi era stato arrestato per corruzione e truffa, aveva 
perso  tutto,  si  era  beccato  vent’anni  e  non  le  aveva  più 
pagato l’assegno di mantenimento. Disperata aveva cercato 
un  lavoro,  almeno  per  mantenere  la  casa,  ma  con  tre 
bambini  era  stato  impossibile  e  così  si  era  ritrovata  a 
dormire in macchina con le creature. I Servizi Sociali erano 
intervenuti e le avevano tolto l’affidamento, i piccini erano 
finiti  in  un  istituto.  Adesso  vivacchiava  con  lavoretti 
saltuari,  dormiva  in  un  camper,  non  riusciva  a  riottenere 
l’affidamento dei figli.
La  guardavo  con  commiserazione,  pensavo  a  quanto  la 
vita a volte può essere crudele… fosse rimasta con me… Si 
è  fatto  tardi,  l’ho  riaccompagnata  al  camper,  ci  siamo 
abbracciati,  lei  non  voleva  quasi  staccarsi…  ha  iniziato  a 
singhiozzare. «Perdonami, perdonami!»
«Non ci pensare, sono passati tanti anni!»
L’ho guardata allontanarsi, ancora un po’ mi faceva male. 
Prima  di  ripartire  ho  frugato  nelle  tasche,  ho  trovato  un 
bigliettino  con  un  numero,  il  suo  numero.  Ho  messo  in 
moto e in un baleno sono arrivato nella mia villa a Beverly 

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Hills, sono sceso dalla Ferrari e a passo svelto sono entrato 
in  casa.  In  cucina  mi  sono  fermato  a  riflettere,  ho  rigirato 
nelle mani il biglietto, l’ho letto e riletto. Ho aperto bene il 
fogliolino, poi l’ho appallottolo, l’ho buttato nel trita rifiuti 
e l’ho distrutto…
…’sta stronza!

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LE TRE CARAFFE
di GM Willo

Il vecchio piumato continuava ad osservarmi, in bilico su 
una sola zampa, con le spalle rivolte al tempio ed il becco 
all’insù, come se stesse annusando il vento.
­ Hai riempito le tre caraffe oggi? – domandò ad un tratto.
­ Le tre caraffe? ­
­ Mente, cuore e corpo… le hai riempite, ragazzo? ­
­  Vecchio,  non  ho  la  più  pallida  idea  di  cosa  tu  stia 
dicendo. ­
Allora il vecchio ricoperto di piume (e ne aveva di tutti i 
colori,  credetemi!)  si  mosse  e  mi  venne  incontro, 
scendendo  i  gradini  del  tempio  con  le  sue  due  gambine 
magre. Si avvicinò così rapidamente che i miei occhi fecero 
fatica a metterlo a fuoco.
­  Le  tre  caraffe…  –  ripeté,  e  mi  toccò  in  tre  punti,  sulla 
fronte, sul petto e sopra l’inguine. Le sue dita erano gelide. 
Le sue piume puzzavano di humus. – Riempile e svuotale, 
di continuo, e nel svuotarle riempi quelle degli altri, di chi 
ti  è  vicino.  Non  farle  traboccare,  e  vivrai  una  vita  degna, 
tutto qui. – Poi si voltò e prese il volo.
Avevo  fatto  così  tanta  strada  per  arrivare  al  tempio  che 
d’improvviso  la  stanchezza  mi  fece  vacillare.  Caddi  per 
molte ore, o forse sognai solo di cadere. Quando riaprii gli 
occhi mio figlio più piccolo mi stava porgendo un bicchiere 
vuoto,  quello  del  succo  d’arancia,  e  mi  sorrideva  con  due 
abissi negl’occhi.

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IL PORTICO
di Marco Muzzi

Un  soffio  di  vento  le  pettinava  i  capelli…  “che  miseria” 


pensava,  aveva da poco intravisto il bagliore di un amore 
e  lo  aveva  perso  per  la  testardaggine  di  una  convinzione 
troppo  ostinatamente  espressa.  Ora,  quello  che  era  una 
sirena sparata a 10.000 decibel delle sue urgenze di ormai 
ex­adolescente,  le  ritornava    come  l’eco  di  un  fischio 
lamentoso fra costole e costole. La pelle lucida delle gote a 
mezza  pesca  si  divideva  a  strisce  dalle  lacrime  che 
gareggiavano  a  file,  e  tutto  lo  sniffare  a  vuoto  le  faceva 
sussultare il capo, ormai già abbassato alle ginocchia. Se ne 
stava  sull’inutile  gradinata  del  chiaro  gazebo  con  i  suoi 
vani vuoti ghirigori dove anni prima giocava ad incastrare 
le  dita  e  scorrere  nelle  curve,  così  come  ripeteva  nella 
testata  del  letto  matrimoniale,  quando  le  era  permesso 
entravi,  aprire  gli  armadi,  toccare  la  pelliccia  di  volpe, 
odorare  la  colonia  del  padre,  carezzare  i  fazzoletti  stirati. 
La  solitudine  viziosa  dei  pomeriggi  infantili  era  un  dolce 
rimpianto,  ora  che  non  aveva  consolazione  per  la  persa 
innocenza.
  “Che  miseria,  e  che  idiota”,  si  arrovellava  sui  possibili 
inutili  passi  falsi  di  una  storia  i  cui  sviluppi  le  erano 
sconosciuti;  nessuno  l’aveva  addestrata  sui  processi 
dell’amore,  non  c’era  iniziazione  o  insegnamento  che 
teneva  per  evitare  i  dolori.  S’era  fin  troppo  lasciata 
ondeggiare nel fango del rimpianto, quando Lisa le prestò 
finalmente attenzione.
“Angela!”  (che  rabbia  quel  nome)  “Angela  hai  visto, 
ormai le guardie hanno abbandonato le postazioni, saremo 
liberi,  tutti,    tra  poco”. Angela  rispose  all’appello  con  una 
smorfia  e  una  tirata  di  naso,  stabilendo  finalmente  un 
contatto di sguardi con l’amica fraterna, saettando le orbite 
a indicare le finestre della Villa.

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“Ma  ti  stai  zitta!”  ringhiò  “…vuoi  svegliare  tutti?  Che 
vuoi  che  m’importi  ora.  Già,  tu  non  sai  neanche  cosa 
provo: le guardie, e questo e quello… Stupida! Almeno le 
guardie  ci  davano  un  minimo  di  protezione,  ora  che  se  ne 
vanno vedrai il casino…”

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IL NASTRO ROSSO
di Fida

Il salice piangente è la mia casa: non fraintendetemi, non 
ho  né  una  capanna  sull’albero  né  vivo  accampato  sotto  di 
esso. Ogni salice ha un suo spirito guida ed io sono uno di 
loro:  il  mio  nome  è  Ghitash.  Il  mio  compito?  È  aiutare  i 
puri di cuore a riconoscere e perseguire il proprio destino. 
Non  si  tratta  di  magia,  ma  è  una  questione  di  propria 
consapevolezza  interiore.  Sono  relativamente  giovane.  Ho 
solo 1300 anni.
La mia casa è subito riconoscibile: si trova in un giardino, 
ha rami lunghi che toccano terra come braccia amorevoli e 
su di ognuno c’è un nastro rosso annodato in ricordo di un 
desiderio  avverato.  La  tradizione  vuole  che  il  giorno  del 
solstizio  d’estate  chiunque  può  venire  da  me,  vedermi  e 
farmi  una  domanda  o  esprimere  un  desiderio;  solo 
annodando  un  nastro  bianco  ai  miei  rami  si  potrà  vedere 
realizzato  il  proprio  desiderio  più  grande.  Una  volta  che 
questo  accadrà,  allora  e  solo  allora  si  dovrà  tornare  per 
sciogliere il nastro e sostituirlo con uno rosso.
Ho visto ogni sorta di persone, dalla coppia col desiderio 
di  un  figlio  alla  vecchietta  con  problemi  di  salute:  per 
ognuna  di  loro  sono  stato  di  aiuto  e  conforto.  Ma  ancora 
oggi  mi  rimane  un  dubbio,  una  perplessità:  ogni  giorno 
guardo quel nastro bianco tra i tanti rossi. Un bianco che un 
tempo era immacolato, un nastrino in raso che col tempo e 
le  intemperie  ha  perso  di  lucidità.  Ricordo  la  ragazza  che 
venne  ad  annodarlo:  aveva  circa  16  anni,  capelli  neri  e 
lunghi,  una  pelle  candida  e  due  grandi  occhiali  che  le 
coprivano  quasi  tutto  il  volto.    Sentivo  che  era  nervosa, 
intimidita.  La  percepivo  nell’aria  la  sua  paura,  il  suo 
timore, ma aveva qualcosa di diverso rispetto agli altri: lei 
era impenetrabile. Se con le altre persone mi riusciva facile 
capire  il  loro  desiderio  e  comprendere  il  motivo  che  le 

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spingeva a rivolgersi a me, con lei non mi è stato possibile 
saperlo.  Ancora  oggi  non  so  perché  abbia  annodato  quel 
nastro al mio ramo.  C’era tenerezza nei suoi gesti; ricordo 
che le mani le tremavano e per ben due volte il nastrino le 
cadde  a  terra  e  ci  mise  più  del  dovuto  per  fare  un  fiocco 
come si deve. Ma ancora oggi, a distanza di due anni, quel 
nastro è ancora là! Ogni giorno lo guardo e spero sempre di 
poter penetrare il mistero che lo avvolge: cerco di carpirne 
i segreti, i timori e le paure che la ragazza lasciò su di esso 
attraverso le sue mani.

Un  giorno,  quando  ormai  avevo  perso  le  speranze,  ecco 


avvicinarsi  una  donna  al  salice:  lo  sguardo  triste,  la  pelle 
chiara,  gli  occhi  arrossati  dal  pianto.  Indossava  un  abito 
scuro, nero, e portava un fazzoletto in mano stretto con una 
tale morsa che sembrava volesse che gli penetrasse le mani. 
Questa  donna  aveva  qualcosa  di  familiare:  pensavo  fosse 
venuta  ad  esprimere  il  suo  desidero  ma  poi  ripensandoci 
non poteva essere così, poiché ancora non era arrivato il 21 
giugno.  La  vidi  titubare,  guardarsi  attorno  come  per  non 
farsi  notare  da  sguardi  indiscreti  e  poi  risoluta  avvicinarsi 
ai  miei  rami.  Con  mia  grande  sorpresa  si  fermò  proprio 
davanti  al  nastro  che  era,  per  me,  fonte  di  profondo 
mistero.  Con  gesti  frettolosi,  sciolse  il  pezzo  di  stoffa 
sostituendolo  con  un  nastro  di  un  rosso  splendente,  di  un 
rosso  che  non  se  ne  vedono  tutti  i  giorni:  un  rosso  che 
vuole dire “eccomi qui, esisto anche io!”.
La  donna,  giunta  a  piedi,  a  passo  lento,  quasi  solenne, 
davanti  alla  mia  dimora,  era  venuta  a  terminare  il  lavoro 
che  la  giovane  donna  non  era  riuscita  a  finire.  Lei,  a 
differenza della ragazza più giovane, mi permise di entrarle 
dentro,  nel cuore e nell’animo, così da poterle leggere nel 
profondo  e  scoprire  finalmente  che  il  desiderio  della 
ragazza  si  era  avverato.  Quando  ebbe  finito  si  girò  per 
andare  via  e  in  quel  momento  mi  venne  in  mente  di 
apparirle  per  poterle  parlare,  rompendo  la  regola  che  vige 
tra  noi  spiriti  dei  salici.  Nel  mentre  però  la  signora  si 

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fermò,  si  girò  e  con  voce  flebile  guardando  nella  mia 
direzione pronunciò queste parole: “avrei voluto non dover 
mai  venire,  avrei  preferito  rimanesse  per  sempre  bianco. 
Ma  lei  voleva  essere  davvero  libera.  Di  notte  sognava 
sempre di essere una farfalla piccola e delicata. Sognava di 
volare via. Questo desiderava venendo qui: di poter lasciare 
quel suo corpo pesante e ferito”.
Terminato  che  ebbe  di  parlare,  dal  cielo  caddero  i  primi 
fiocchi  di  neve,  di  quella  neve  che,  con  lo  splendore  che 
conferisce al paesaggio, porta con sé un silenzio che non è 
soltanto immaginario.

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AMORE RITROVATO
di Marco Filipazzi (101 Parole)

Quarant'anni  a  sezionare  cadaveri  in  una  stanza  sterile 


dove il fascino e le ambizioni della medicina erano presto 
sfumate in cinismo e noia. Ancora un paio di giorni, la fine 
della settimana, e sarebbe arrivata la pensione.
Quella  notte,  sul  lettino  dell'obitorio,  la  sua  paziente  era 
una  donna  sulla  sessantina,  caucasica,  bionda.  Due 
coltellate al petto, sopra il seno sinistro. Segni particolari: il 
tatuaggio  di  una  piccola  farfalla  sulla  spalla;  lo  stesso 
tatuaggio di trent'anni prima.
Lui  la  osservò  meglio  riconoscendo  quel  volto,  celato 
sotto un velo di rughe. Per la prima volta in quarant'anni di 
servizio, pianse per una paziente. 

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LA CALZA DELL’ACROBATA
di Federica De Angelis

È  la  notte  di  San  Lorenzo  e  fa  un  caldo  cane,  me  sento 
tutto  appiccicoso,  così,  me  dico,  vado  sul  terrazzo  del 
palazzo  a  fumamme  ‘na  sigaretta  in  santa  pace.  Stasera  il 
cielo  sembra  più  scuro,  non  ne  vedo  molte  di  stelle.  Me 
rilasso cò ‘na bella sigaretta e poi domani che è sabato sai 
che faccio?
Me ne vado prima al bar a fà colazione, quello vicino alle 
poste,  dove  c’è  Gina  la  bionda  che  me  fà  sempre 
l’occhietto  quando  me  allunga  la  tazzina  der  caffè  e  se 
sporge sempre a mostrà la scollatura quando me chiede se 
lo  voglio  “corretto”.  Poi  dù  chiacchiere  cò  li  amici  fino  a 
che  nun  se  fà  ora  de  pranzo,  tanto  tra  il  giornale,  la 
schedina,  ogni  volta­  stavolta­  vinco  ­me  ­lo  ­sento,  e 
qualche  mano  de  carte,  la  mattinata  vola.  Dopo  un  bel 
piatto  de  bucatini  annaffiato  da  un  vinello  genuino,  me 
faccio  il  solito  riposino;  così,  verso  le  cinque,  me  metto  a 
lustro e col dopobarba, quello buono, che ho comprato alla 
profumeria del centro commerciale, mica alla Conad vicino 
casa, me ne vado al Bingo e dopo cena a ballà un bel liscio. 
Oh sta colonia è infallibile, me lo sento, domani sera faccio 
‘na  strage  in  pista  …  anche  Gina  ieri  m’ha  detto  “Oh  ma 
che  te  sei  messo  il  profumo?”  “Che  se  sente?”  gli  ho 
risposto… e là ho capito che je piace…
Salgo le scale mentre penso al sorriso di Gina, anzi, alla 
scollatura della camicetta bianca che si slaccia sempre là in 
mezzo,  sempre  al  punto  giusto,  né  troppo,  ma  mai  poco, 
giusto giusto dove arriva il pendente della collana, proprio 
quello  dove  tiene  la  foto  del  fratello  che  s’è  sfracellato  in 
moto dieci anni fa, poveraccio…
Arrivo sul terrazzo che c’ho già la sigaretta in bocca, … 
figuramose, io fumo da quando c’ho 11 anni, ormai sto in 
automatico, manco ce devo pensà a accennèla che già sto a 

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fumà…  insomma…  me  pare  de  vedè  con  la  coda 
dell’occhio ‘na stella cadente. Cerco de riacchiappalla con 
lo sguardo, me giro de scatto ma, .. niente! E poi non avrei 
fatto in tempo a esprime manco un desiderio… ma che me 
sò  impazzito?!  Le  stelle  cadenti,  il  desiderio…  …  Queste 
sò cose da femminucce!!… me devo proprio èsse bevuto il 
cervello…
Mi appoggio coi gomiti al davanzale del terrazzo, è bello 
alto  e  largo,  ce  potrei  salì  sopra  e  camminacce  come  ho 
fatto ‘na volta, a mi moje je stava a pià ‘n colpo! A Marì ­je 
ho  detto  –  lo  sai  come  me  chiamano  a  me  sur  cantiere? 
L’acrobata!  Ce  sarà  ‘n  perché…  Perché  tu  marito  sui 
ponteggi CE VOLA! Ecco perché…
Me  metto  a  guardà  giù  per  la  strada.  I  soliti  movimenti. 
Da quassù se vede pure fino all’incrocio cò Via Sarti dove 
se  mette  sempre  Rosa,  eccola  là  che  se  la  sta  a  caricà  un 
cliente,  me  viè  da  ride  se  penso  a  quella  volta  che  ce  sò 
voluto annà pure io, eravamo in tre e gli abbiamo chiesto lo 
sconto, ma allora era ancora bella, mo è vecchia e cò tutta 
sta  concorrenza  de  belle  ragazzette  straniere  me  meravijo 
che  sta  ancora  là  a  batte,  dovrebbe  pagatte  lei,  ma  qua  è 
pieno  de  pervertiti…  guarda  che  te  riguarda,  vedo  che  la 
finestra al terzo piano del palazzo di fronte al mio­ sa non 
è  molto  distante  ma  di  notte  con  la  luce  accesa  si  vede 
abbastanza  bene­  è  la  prima  volta  che  vedo  la  serranda 
alzata,  di  solito  non  guardo  mai  da  quella  parte  perché  è 
sempre chiuso, ma stavolta vedo nella penombra una figura 
femminile. Ammazza quanto è bella! Avrà… boh non lo so 
quanto  c’avrà,  ma  so  che  è  una  gran  figa,  lo  vedo  dalla 
sottoveste che indossa, è seduta davanti ad un computer. La 
luce  bianco  blu  del  monitor  evidenzia  i  contorni  del  suo 
corpo. Ha i capelli raccolti sembra intenta a scrivere.
E poi, cazzo, me se stanno a brucià le dita! Butto la cicca 
giù  dal  terrazzo,  solo  per  un  attimo  me  ricordo  che  la 
Signora Cambi ch’ha le lenzuola stese proprio là sotto, ma 
che me frega! Manco un incendio me può distoglie ora.

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Altro che venticello, quassù sento ancora più caldo… me 
sposto pè vedè meglio la donna nella finestra. Mò la vedo 
meglio, c’ha ‘na piccola lampada alla sua sinistra, la vedo 
che  sta  a  scrive  e  guarda  lo  schermo,  sembra  che  sta  a 
sorride,  poi  all’improvviso  se  slega  i  capelli  e  inizia  a 
massaggiasse la nuca e poi lentamente se passa la mano sul 
collo  e  poi  sul  viso  e  poi  sulle  labbra. A  quel  punto  sento 
che  me  sta  a  venì  duro.  Me  tocco  un  po’  pè  sistemamme 
ma, più me tocco e più me viene duro: è pazzesco, lei se sta 
a  piegà  un  po’  sulla  sedia,  ha  una  mano  in  mezzo  alle 
cosce, poi se slega i capelli e se gira di scatto verso di me. 
Me so sentito gelà il sangue! Ma poi ho pensato ­ Come fa 
a  vedemme  che  sto  più  in  alto  e  al  buio?..  Oh,  nun  ce 
crederà ma me sò sentito ancora più eccitato, ho aumentato 
il ritmo e poi la troia ­ lei me deve scusà ma io già avevo 
deciso  che  era  una  troia,  perché  me  piaceva  pensà  che 
m’aveva visto e che je piaceva pure a lei che io la stavo a 
guardà  mentre  se  toccava  ­  la  zozza  continuava  ad 
accarezzasse  e  a  toccasse  fino  a  che…  ho  visto  una  stella 
cadente,  ma  era  grossa  e  faceva  pure  rumore,  almeno  me 
sembrava che veniva sempre più verso de me, fino a che sta 
stella, sta luce, nun è diventata come un faro, anzi proprio 
un  faro,  e  il  rumore  sempre  più  forte,  ma  io  nun  sentivo 
gnente perché stavo… ­ Insomma me so ritrovato de notte 
sul terrazzo sopra casa mia, con la mano tutta bagnata ­ ha 
capito  no?  ­  cò  sto  faro  davanti.  Poi  i  poliziotti  se  so 
affacciati  dall’elicottero  coi  mitra  come  nei  film,  e 
m’hanno  detto:  “Mani  in  alto!  Non  ti  muovere!”  e  io  le 
mani in alto le ho messe, da quella destra un po’ bagnata e 
appiccicaticcia  me  colava  pure  un  po’  de..  ha  capito  no? 
Che  vergogna!…  N’  omo  all’età  mia  beccato  così  sul 
terrazzo,  de  notte,  sorpreso  a  smanazzasse  come  un 
regazzino su una sconosciuta… Lei si immagina la scena? 
Lei  capirà,  io  c’ho  ‘na  reputazione  da  difenne  sur 
cantiere…  al  bar,  cò  mì  moje,  che  m’ha  lasciato  sì,  ma 
perché  nun  c’ho  ‘na  lira,  anzi  n’euro…  io  devo  esse 
sincero, già qualche anno prima che mi moje me lasciasse, 

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pè  mettese  cò  quel  cornuto  del  fornaro,  cò  cui  me 
paragonava sempre, che lei diceva un uomo tanto moderno, 
al passo coi tempi, io nun è che la reggevo più de tanto, ...e 
sempre  discussioni,  e  sempre  che  voleva  vedè  sti  film 
pallosi da femmine, sempre robba da piagne, ste donne con 
le camicie a scacchi e sti cappelli de paglia in testa che se 
incontrano in mezzo ad un campo e se raccontano le storie 
d’amore e piangono, oppure lui e lei che si amano tanto ma 
poi arriva l’altro e indovina un po’?… E’ il Destino che li 
separa  e  poi  si  rincontrano  e  poi…  ma  un  pover’omo  che 
lavora  tutta  la  settimana  quanno  torna  a  casa  se  vole 
distrarre un po’, vole vedè che so… un bel film de guerra, 
d’azione, no robba da piagne tutte le volte, e poi me diceva 
pure, “hai visto? Almeno nei film finisce bene. Mica come 
te  che  sei  sempre  uguale  e  nun  ce  capisci  niente  da  sti 
film…”
Ma che ne so io Dottoreè, io dallo pissicologo prima nun 
ce sò mai annato… mi moje me diceva che ce sarei dovuto 
annà  ma  io  nun  c’avevo  ‘na  lira  pè  annà  a  vedè  le  partite 
della Roma, figurate se c’avevo i soldi pè ste cazz… ehm 
volevo dì pè ste cose.
Le calze, durante la perquisizione m’hanno detto ­ che ci 
fa lei con queste calze da donna a casa visto che sua moglie 
non  abita  più  qui?  ­  Io  glielo  ho  detto  che  sono  l’unico 
ricordo  de  mi moje che nun me vole vedè più e che io sò 
romantico  alla  fine,  mica  come  dicevano  lei  e  mi  socera. 
Ma  i  poliziotti  hanno  detto  sta  calza  è  un  sintomo  di 
“feticismo”,  ­  oh  io  fascista  nun  ce  sò  mai  stato!  ­  gli  ho 
risposto  ­  Dottoreè  glielo  giuro  ho  sempre  votato 
comunista!!
E poi hanno trovato qualche rivista, cò qualche signorina 
un  po’  svestita,  ma  nun  so  le  mie,  glielo  giuro,  so  de 
Maxim, il rumeno che lavorava con me e che qualche volta 
rimaneva  a  dormì  a  casa  mia,  così  quando  lui  non  c’era, 
beh, un’occhiata gliel’ho data, ma io je devo confessà che 
preferisco  le  modelle  de  postalmarket,  m’attizzano  de  più 
de ste porcate, c’è tutto un groviglio de corpi là sopra che 

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ce metto sempre un po’ a capì che sta a succede… io vado 
sul classico invece, so n’omo de classe...
Dottooreè  me  volevano  dà  20  anni!!!  Lo  sai  che  vor  dì? 
Potevo morì ar gabbio, ecco che vor dì, e poi a me chi me li 
ridà  i  giorni,  le  settimane  che  ho  perso  in  galera? 
NESSUNO!  Tutti  i  colloqui  cò  voi  pissicologi,  pè 
convinceme che io sò malato… ma i malati siete voi! Che 
m’avete  condannato  e  mò  pure  assolto,  e  mò  me  tocca  fa 
altri “colloqui” come li chiamate voi altri, perché così state 
cò la coscienza a posto che io coi colloqui me ripjo…
Ma che ne so io Dottoreè! Lei me deve da crede, io nun 
c’entro  gniente  cò  sti  maniaci  de  internet,  sto  sfasebruk 
come se chiama…
­  Si  si,  facebook.  Il  maniaco  adescava  le  sue  vittime  su 
facebook  e  altri  social  network,  costruendosi  identità 
fittizie, avvicinando e conquistando la fiducia delle vittime, 
per  la  maggior  parte  donne  giovani  e  in  alcuni  casi 
addirittura  minorenni,  per  poi  spiarle,  adescarle  e 
perseguitarle,  forse  in  alcuni  casi  avrebbe  anche  potuto 
abusarne se non lo avessimo fermato, ma oramai non deve 
più  preoccuparsi  Sig.  Lama,  il  colpevole  è  stato  preso, 
questa  volta  con  prove  INCONFUTABILI.  Purtroppo  il 
colpevole aveva assunto una identità molto simile alla sua, 
creandosi un avatar virtuale… ­
­ Un che? ­
­  …diciamo  che  aveva  creato  un  profilo,  costruito  una 
descrizione molto simile a quello che è lei, cosa le piace, le 
sue  abitudini  ecc…  sembrava  conoscerla  molto  bene,  fino 
nei particolari più intimi tanto che nei suoi giochi virtuali si 
faceva  soprannominare  “l’acrobata”.  Inoltre  il  segnale  del 
computer  da  cui  proveniva  quello  tracciato  dalla 
connessione  internet  veniva  dal  suo  stabile.  La  polizia  la 
stava tenendo sotto controllo già da tempo. La notte del suo 
arresto,  quella  che  lei  ha  appena  rievocato,  una  nostra 
agente  sotto  copertura  aveva  preso  posizione 
all’appartamento  al  terzo  piano  di  fronte  a  casa  sua,  ed 
essendo  in  chat  in  attesa  del  maniaco,  ha  iniziato  a 

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provocarla sperando che lei si collegasse in modo da essere 
colto in fallo. ­
­ Eh proprio in fallo m’avete colto Dottoreè… e poi io il 
computer  nun  lo  so  manco  usà,  avoja  a  spiegà  ar 
maresciallo  che  de  computer  a  casa  mia  ne  è  entrato  solo 
uno,  quello  de  Maxim  che  lo  usava  pe  telefonà  a  casa  in 
Romania, diceva lui, anche se io nun j’ ho mai creduto, ma 
come  se  fa  a  telefonà  cò  ‘n  computer,  mica  è  un  telefono 
noooo?  ma,  me  dica  ‘na  cosa,  ma  chi  era  questo,  sto 
maniaco, se po’ sapè? ­
­ Ovviamente c’è il più stretto riserbo sulle indagini che si 
sono  appena  concluse.  Tuttavia,  anche  se  non  abbiamo 
ancora  divulgato  particolari  alla  stampa,  penso  che  glielo 
dobbiamo, dopo questo imperdonabile errore commesso nei 
suoi  confronti…  dunque…  grazie  ad  inconfutabili  prove 
tecnologiche abbiamo scoperto che il maniaco era Sabino il 
fornaio, quello del negozio sotto casa sua… ­
­  Nooo!  Il  fornaro!!!  Quel  cornuto  che  s’è  pijato  mi 
moglie… Ma tu pensa un po’… ­
­  Si  proprio  lui.  Il  segnale  infatti  veniva  dallo  stabile 
perché  il  Signor  Sabino  utilizzava  anche  lui,  come  il  suo 
coinquilino  Maxim,  in  Romania  al  momento  del  suo 
arresto,  una  chiavetta  internet  per  collegarsi  non  avendo 
linea  telefonica  al  negozio…  non  è  stato  semplice 
individuarlo  perché  dopo  il  suo  arresto  ha  cessato 
completamente le sue perverse attività per un bel pò… ma 
per  fortuna  per  lei,  alla  fine  ce  l’abbiamo  fatta  ad 
inchiodarlo e ha confessato… ­
­ Hai capito sto fijo de ‘na mignotta!!! L’omo romantico, 
moderno e tecnologico, come diceva mi moje… beh anche 
lui lo sapevo che nun gliela poteva fà alla fine a regge quei 
film  pallosi  tutto  il  tempo  e  s’è  trovato  qualcos’altro  da 
fà… sa che je dico? Evviva la tecnologia che m’ha liberato 
in un colpo solo de mi moje e de ‘no stronzo! ­

100
COME UN FIUME
di Bruno Magnolfi

Il  giorno  in  cui  decisi  di  entrare  in  clandestinità  i 


carabinieri  mi  stavano  cercando  da  giorni.  L’unica 
possibilità  che  mi  era  rimasta  era  quella  di  comprare  dei 
documenti fasulli e di cambiare città. Gli amici mi avevano 
fatto capire di tenermi fuori dal giro per un po’ di tempo, ed 
io avevo seguito quel loro consiglio, e con quei pochi soldi 
che avevo da parte mi ero preso un monolocale in affitto e 
un  televisore  per  tenermi  aggiornato.  Ero  solo,  e  di  quella 
città  dove  ero  arrivato  col  treno,  cambiando  diversi 
convogli locali, non conoscevo un bel niente, e neppure mi 
incuriosiva  andarmene  in  giro.  Niente  telefono,  niente 
contatti,  niente  di  niente.  Ma  in  poco  tempo  quella 
solitudine  che  inizialmente  mi  pareva  un  rifugio,  iniziò  a 
trasformarsi  in  una  condanna  terribile.  Il  mio  monolocale 
pareva  una  gabbia,  e  tutti  i  pensieri  che  riuscivo  ad  avere 
tramavano  contro  di  me,  dimostrandosi  ogni  giorno 
inconcludenti e monotoni. Così iniziai ad uscire, giusto per 
vedere la gente, per sentire gli altri parlare e scambiarsi le 
idee,  ed  anche  se  evitavo  di  entrare  in  locali  e  luoghi 
affollati, le semplici persone che incontravo per strada o sui 
marciapiedi  mi  sembravano  ricche  di  cose  da  dire,  forti 
della loro vita ordinaria. Una sera un barbone mi chiese dei 
soldi, ed io spontaneamente lo scansai, ma quando lo rividi, 
qualche sera più tardi, gli misi nella mano gli spiccioli che 
avevo con me. Quello mi guardò, come si guarda qualcosa 
di strano, mi strinse leggermente la mano dentro alla sua e 
mi disse: “Io ti conosco”, in un modo che mi fece tremare. 
Non  era  vero,  non  poteva  essere  vero,  eppure  qualcosa 
dentro ai suoi modi pareva affermare che la sua non era una 
stupidaggine sparata lì a caso. Ritirai la mia mano e tornai 
sui  miei  passi,  però  il  giorno  seguente  percorsi  di  nuovo 
quel marciapiede dove in genere stava il barbone, e lui era 

101
lì,  con  la  stessa  espressione  sorniona,  quasi  aspettandomi. 
Gli chiesi se voleva qualcosa di caldo, così lo portai dentro 
al bar poco lontano. Sorrideva, senza guardarmi, sembrava 
perso  tra  sé  dietro  chissà  quali  pensieri.  Biascicò  qualche 
frase,  come  parlasse  da  solo,  io  capivo  solamente  qualche 
parola,  così  gli  chiesi  qualcosa,  niente  di  particolarmente 
diretto.  Lui  continuava  a  sorridere,  e  rispondeva  a  suo 
modo con qualcosa che aveva a che fare con la sua scarsa 
memoria di vagabondaggio e probabilmente di alcol. Poi si 
fermò,  come  se  avesse  d’improvviso  trovato  quello  che  in 
mezzo  a  chissà  quante  altre  cose  della  sua  vita  andava 
cercando;  mi  guardò  in  fondo  agli  occhi  come  già  aveva 
fatto e disse di nuovo: “Conosco il tuo viso; la tua faccia è 
quella  di  un  uomo  che  ha  paura  di  tutto,  anche  di  me.  So 
cosa  significa  essere  in  fuga.  Si  inizia  un  giorno,  quando 
siamo  pieni  di  tutto,  e  si  va  via.  Ma  poco  alla  volta  ci  si 
sente  sempre  più  soli,  fino  al  punto  in  cui  non  è  più 
possibile tornarsene indietro. Tu sei a quel punto, riconosco 
il tuo sguardo. Del resto non so, per me non è interessante: 
ognuno  ha  un  motivo  per  fare  o  non  fare  qualcosa,  non 
esistono i buoni e i cattivi, esistono solo i pensieri difficili 
e quelli più facili, ma certe cose si sentono dentro e non si 
può  andare  contro  natura,  bisogna  essere  ciò  che  si  è, 
bisogna dare fiato a ciò che sentiamo. Troverai anche tu la 
tua soluzione: sarà stasera, fra un giorno o tra un anno, ma 
quando  saprai  finalmente  che  cosa  vuoi  dalla  vita,  tutto 
scorrerà  come  il  fiume,  non  ci  sarà  più  alcun  bisogno  di 
chiedere in giro, di girare con lo sguardo perso nel vuoto”. 
Cercai  anch’io  di  dire  qualcosa,  ma  le  sue  parole  non 
lasciavano  spazio,  eppoi  non  avevo  veramente  niente  da 
dire,  ero  vuoto,  così  come  lui  aveva  appena  finito  di  dire. 
Uscimmo  dal  bar  poco  dopo,  lui  mi  salutò  nella  stessa 
maniera con cui ringraziava chi gli allungava dei soldi, ed 
io  ritornai  verso  il  mio  monolocale,  con  la  sensazione  di 
sentirmi scoperto, nudo in quello che ero, ma consapevole 
di avere davanti delle decisioni da prendere, in fretta però, 
prima che l’inerzia mi prendesse la mano.

102
IL COLORE DELL'ANIMA
di GM Willo

Mi  chiamo  Valerio  Parisi,  ho  cinquantotto  anni  e  da 


tredici  mesi  combatto  una  malattia  terminale  che  a  breve 
mi  porterà  nella  tomba.  Ne  hanno  provate  di  tutte,  ma  il 
cancro  l’ha  avuta  vinta,  al  solito.  Ho  visto  morire  prima 
mia madre e poi mia sorella; stessa storia, stesse procedure. 
Chemio, sofferenze, false speranze, miglioramenti e poi la 
sentenza.  Intendiamoci,  non  mi  aspettavo  di  guarire. 
Quando  mi  hanno  diagnosticato  il  tumore  maligno  sapevo 
come  sarebbe  andata  a  finire,  e  mi  va  bene  così.  Nessuno 
piangerà  la  mia  dipartita.  Mia  madre  e  mia  sorella  mi 
hanno  preceduto,  mentre  mio  padre  non  l’ho  mai  neanche 
conosciuto,  e  quindi  sono  più  che  sicuro  che  morirò  da 
solo, in pace, insieme ai miei fantasmi.
Ma di uno di questi fantasmi, il più terribile e vergognoso, 
vorrei  lasciare  testimonianza  in  queste  pagine.  Quando 
qualcuno  verrà  a  ripulire  il  mio  appartamento  forse  si 
metterà a leggere questo quaderno e scoprirà un assassino. 
Per  allora  mi  troverò  beatamente  sotto  terra,  a  dare  da 
mangiare ai vermi. 
Questa non è una semplice confessione. Questo non è un 
atto  di  redenzione.  Per  quanto  colpevole  di  un  orribile 
omicidio,  non  cerco  né  scusanti  né  perdoni.  Questo  è 
semplicemente  un  omaggio  alla  verità,  quell’inafferrabile 
chimera che gli uomini hanno da sempre la presunzione di 
rincorrere,  ma  che  solo  raramente,  o  forse  mai,  sono  in 
grado di afferrare pienamente.
Il  18  settembre  1983  invitai  a  cena  una  mia  collega  di 
lavoro, tale Francesca De Luca, ventisette anni laureata in 
giurisprudenza,  impiegata  presso  la  medesima  compagnia 
d’assicurazioni  per  la  quale  ricoprivo  l’incarico  di 
consulente.  Non  ho  mai  avuto  successo  con  le  donne  e  a 
trentadue anni contavo solamente un paio di brevi relazioni 

103
deragliate nella noia. Ma Francesca era una tipa in gamba, 
me ne accorsi subito, come mi accorsi che era di un livello 
troppo al di sopra di me. Sapete cosa intendo, vero? Prima 
dell’attrazione  esiste  un  altro  importante  fattore  che 
permette  a  due persone di convergere in una relazione, ed 
ha che fare con l’anima. Si, l’anima. Io credo fermamente 
nell’anima.  Quella  di  Francesca  era  fulgida  e  grande, 
mentre  la  mia…  beh,  se  continuerete  a  leggere  queste 
pagine,  ve  ne  renderete  conto  voi  stessi  di  pasta  è  fatta  la 
mia anima.
L’anima  è  qualcosa  di  più  complesso  di  un  codice 
genetico  o  di  un  profilo  caratteriale.  Se  nasci  con  l’anima 
sbagliata,  non  puoi  fare  altro  che  accettarla,  e  cercare  di 
fare  meno  danni  possibile.  Quella  sera  presi  pienamente 
coscienza  della  natura  della  mia  anima  e  da  allora  ho 
sistematicamente  evitato  di  avvicinarmi  alle  persone,  per 
paura di fare loro del male.
Invitai  Francesca  a  cena  a  casa  mia,  un  incontro  di 
cortesia  e  di  lavoro.  Ero  sicuro  che  avrebbe  rifiutato  ed 
invece  accettò  e  si  presentò  alle  otto  in  punto  con  una 
bottiglia di vino e la bozza di una presentazione che stava 
preparando per la compagnia. Voleva avere la mia opinione 
ed io ero felicissimo di poterla aiutare. Preparai la bistecca, 
l’insalata,  bevemmo  il  vino  e  poi  sparecchiammo  insieme 
e  incominciammo  a  parlare  di  lavoro.  Mi  mostrò  il 
fascicolo  che  aveva  con  se,  lessi,  commentai,  feci  due 
battute,  lei  rise,  versai  altri  due  bicchieri  di  rosso  e 
bevemmo  di  nuovo.  La  serata  procedeva  alla  grande.  Poi 
successe qualcosa di sbagliato.
Prima di quella sera non avevo mai preso l’iniziativa con 
una  donna.  Non  sono  mai  riuscito  a  percepire  i  segni  e  i 
tempi giusti. Le donne che avevo avuto fino a quel giorno 
avevano sempre fatto il primo passo, ma quella volta provai 
ad  andare  contro  la  mia  natura  passiva  ed  insicura.  Le 
afferrai  la  mano, la guardai e provai a baciarla. Gli eventi 
che  seguirono  rimangono  confusi  nella  mia  mente, 
nonostante  abbia  provato  per  molti  anni  a  riesumarli  nei 

104
minimi dettagli. Ricordo che lei evitò il mio bacio e ritirò la 
mano,  ricordo  che  si  alzò  dal  tavolo  e  disse  qualcosa,  ma 
non ricordo assolutamente cosa. Ricordo che incominciò a 
raccogliere  le  sue  cose  per  andarsene,  ma  non  ho  idea  di 
come la raggiunsi davanti alla porta di casa, per afferrarle i 
capelli e sbatacchiarle la testa contro il tavolino di marmo 
dell’ottocento che avevo nell’ingresso. Ricordo le mie mani 
che  le  stringevano  la  gola,  ricordo  lei  agonizzante  sulla 
moquette grigia, ricordo il suo sguardo supplichevole poco 
prima di esalare l’ultimo respiro, ma non ricordo affatto la 
ragione per la quale mi era improvvisamente scattata quella 
furia omicida.
Rimasi  seduto  accanto  al  corpo  di  Francesca  per  più  di 
un’ora, a contemplare l’abatjour riversa sul pavimento, con 
la  lampadina  che  nella  caduta  doveva  essersi  svitata  e 
perciò lampeggiava convulsamente. La contemplazione mi 
aiutò  a  decifrare  il  colore  della  mia  anima,  ma  non  a 
farmene  una  ragione.  La  mia  anima  è  nera,  obliante, 
succhiatrice di luce, un assurdo vortice del nulla. Dopotutto 
mi ritengo un uomo fortunato, o forse i fortunati siete voi. 
Se  avessi  ascoltato  la  mia  anima  più  spesso  avrei 
continuato  a  mietere  vittime,  invece  ho  preso  coscienza 
della mia natura e mi sono fermato lì, nell’ingresso del mio 
vecchio  appartamento,  accanto  al  corpo  senza  vita  di  una 
giovane avvocatessa.
Quello  che  successe  in  seguito  potreste  trovarlo 
rivoltante. Se così fosse vi assicuro che il problema è solo 
vostro.  Se  siete  della  anime  chiare  oppure  grigie,  potreste 
pensare  di  me  come  ad  un  folle.  Se  siete  delle  anime 
candide penserete che sia l’incarnazione del male. In realtà 
questo  è  solo  un  gioco  di  percezioni.  La  verità  va  oltre  la 
rappresentazione  di  noi  stessi  in  questa  farsa  che 
chiamiamo  vita.  Ma  non  complichiamo  troppo  la  storia  e 
cerchiamo di tornare al punto.
Francesca  era  morta  e  niente  l’avrebbe  fatta  ritornare  in 
vita.  Capii  che  il  bisogno  di  esorcizzare  quell’evento  e  di 
fare i conti con il colore della mia anima era l’unica priorità 

105
plausibile di quella storia di morte. Compresi che se avessi 
cercato  di  accettare  la  mia  natura  con  troppa  leggerezza 
avrei rischiato di rimanerne sopraffatto, per questo nascosi 
immediatamente il corpo. L’anno prima un amico mi aveva 
chiesto se avevo posto per un congelatore a pozzo, di quelli 
che i bar usano per i gelati. Si era separato dalla moglie ed 
era  tornato  a  vivere  con  sua  madre,  ma  era  in  attesa  di 
comprare casa e andare a vivere da solo. Chissà per quale 
motivo aveva fatto dodici rate per quel congelatore, che poi 
aveva piazzato nel mio appartamento. Non è mai tornato a 
riprenderselo, perché sei mesi dopo tornò a vivere con sua 
moglie  e  non  c’era  spazio  per  quell’affare  che  alla  fine 
rimase  a  me.  A  quei  tempi  i  cibi  congelati  non  avevano 
ancora un grande mercato, ma io, vivendo da solo, lo trovai 
molto  utile.  Congelavo  praticamente  tutto;  carne,  pesce, 
pane,  verdure,  pasta  fresca.  Ciononostante  il  frigo  era 
sempre mezzo vuoto.
Quella sera lo svuotai completamente e ci infilai il corpo 
di  Francesa.  Mi    preoccupai  di  toglierle  i  vestiti  prima  di 
metterla  dentro,  per  una  semplice  questione  di  igiene.  Poi 
ricoprii  il  suo  corpo  con  sacchettini  di  piselli,  broccoletti, 
bistecchine  di  maiale,  ossi  buchi,  orate,  ravioli  di  patate  e 
filoncini  da  mezzo  chilo.  Non  riuscì  a  ricoprirla 
completamente.  Rimanevano  fuori  un  piedino  con  le 
unghie  smaltate,  un  gomito  e  una  ciocca  di  capelli. 
Pazienza, pensai, e chiusi il congelatore.
Ci  furono  le  indagini  della  polizia  sulla  sua  scomparsa, 
articoli  in  terza  pagina  sui  quotidiani  più  importanti  e  ne 
parlò  anche  il  telegiornale.  Mi  aspettavo  che  la  polizia 
irrompesse nel mio appartamento da un momento all’altro. 
So  che  vi  parrà  strano  ma  la  cosa  non  mi  preoccupava 
minimamente.  Se  avessero  bussato  alla  porta  li  avrei 
condotti immediatamente al congelatore a pozzo. L’idea di 
farmi l’ergastolo o di passare per un pazzo non mi turbava. 
Avevo altro a cui pensare. Dovevo fare i conti con il colore 
della mia anima.

106
Ancora  mi  chiedo  perché  nessuno  venne  a  chiedermi 
niente.  Quella  sera  Francesca  venne  in  taxi,  quindi  la 
polizia  avrebbe  potuto  risalire  a  me  solo  attraverso  il 
tassista,  che  sicuramente  non  aveva  prestato  attenzione  a 
una delle sue tante clienti. Ancora più strano mi sembrò il 
fatto  che  non  avesse  parlato  con  nessuno  del  nostro 
incontro.  Insomma,  anche  se  avessi  voluto  cancellare  gli 
indizi  su  di  me,  non  ce  ne  sarebbe  stato  bisogno,  per  il 
semplice fatto che non c’era alcun indizio su di me. Dopo 
tre mesi nessuno parlò più di Francesca De Luca, neanche 
a  lavoro,  eppure  lei  era  sempre  con  me,  sotto  i  pisellini 
primavera e gli ossi buchi.
A  quel  tempo  abitavo  a  poco  più  di  dieci  minuti  di 
cammino dal mio ufficio, una passeggiata molto piacevole 
interrotta da un cappuccino e un cornetto al bar Jolly che si 
trovava  a  metà  strada.  Prima  del  bar  oltrepassavo  un 
ponticino  che  dava  sopra  un  canale  di  scolo,  buio  e 
melmoso.  Fu  in  quel  canale  che  nell’arco  di  tre  mesi  e 
mezzo mi liberai del corpo di Francesca, un pezzettino alla 
volta,  così  come  un  poco  alla  volta  accettai  la  mia  natura 
deviata.
Mi alzavo la mattina, facevo la doccia, prendevo il caffè, 
e prima di vestirmi andavo a prendere, dalla cassetta degli 
utensili,  il  flessibile  che  mi  ero  comprato  per  l’occasione. 
Indossavo  una  mascherina  e  un  grembiule  bianco 
impermeabile e aprivo il congelatore. Dopo avere estratto i 
cibi in superficie, azionavo la lama rotante e amputavo un 
pezzettino  del  suo  corpo.  Incominciai  con  la  mano  destra, 
all’altezza  del  polso.  Il  flessibile  riscaldandosi  scongelava 
velocemente  la  carne  e  qualche  gocciolina  di  sangue 
schizzava  sulle  pareti  del  congelatore  oppure  sui  miei 
occhiali di protezione, ma niente che non si potesse levare 
con un colpo di spugna. Il pezzo lo infilavo in un sacchetto 
di  plastica  per  alimenti  surgelati  (all’epoca  era  davvero 
difficile  trovarli  per  uso  privato)  e  poi  rimettevo  tutto  a 
posto, ragazza e broccoletti.

107
Per  quasi  quattro  mesi,  come  vi  dicevo,  me  ne  andai  a 
lavoro  con  un  sacchettino  di  plastica  ed  un  pezzo  di 
Francesca  nella  borsa  dei  documenti  della  compagnia.  Mi 
fermavo  sopra  il  ponte  e  con  noncuranza,  senza  neanche 
preoccuparmi  che  qualcuno  potesse  trovare  curioso  quel 
mio  comportamento,  svuotavo  il  sacchetto  nel  canale  di 
scolo.  Ogni  volta  che  eseguivo  questo  rituale  mattutino, 
apparentemente  efferato  e  folle,  sentivo  una  strana  quiete 
depositarsi  sul  mio  cuore,  come  una  cicatrice  che  si 
rimargina  pian  piano.  Immaginavo  che  stessi  lentamente 
chiudendo  la  porta  segreta  che  avevo  spalancato  dentro  di 
me,  quella  sera  funesta  in  cui  mi  avventai  su  Francesca. 
Volevo  chiudere  a  mandata  quella  stanza  e  gettare  via  la 
chiave, segregando la mia nera anima una volta per tutte.
E così riuscii a fare. Insieme all’ultimo pezzo di lei, il suo 
piedino  sinistro,  in  una  bella  mattinata  di  marzo  tornai  ad 
essere  quello  che  ero  prima  dell’omicidio,  tuttavia 
cosciente delle mie crudeli potenzialità.
Questa  è  la  verità.  Adesso  la  conoscete,  e  per  quanto 
terribile dovrete anche voi fare i conti con lei, come li feci 
io  sopra  il  canale  di  scolo.  Non  ho  rimorsi.  Non  ho 
rimpianti, e credo che se esiste davvero un dio, dimostrerà 
la sua comprensione nei miei confronti. Se davvero è stato 
lui  a  soffiare  l’alito  di  vita  nella  mia  anima,  deve  averci 
avuto i suoi motivi.
Ed  io  non  mancherò  di  chiedergli  spiegazioni,  molto 
presto, appena ne avrò l’occasione.

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IL FIUME
di Giulia Riccò

Asia  se  ne  stava  appoggiata  al  parapetto  del  ponte  e 


guardava  lo  scorrere  del  fiume  in  piena. Accanto  a  lei  un 
fagotto  di  lenzuola  arrotolate.  Restava  lì,  immobile  nella 
notte, ad ascoltare i suoi pensieri sommersi dallo scrosciare 
dell’acqua. A  quell’ora  non  passava  più  nessuno.  Era  sola 
nella notte e così voleva essere.
Un brivido la scosse. Dalle colline circostanti cominciava 
a scendere la nebbia, e con lei una sottile pioggia. Si strinse 
dentro  al  cappotto.  Lo  scrosciare  del  fiume  era  assordante 
ed  ipnotico  e  Asia  rimaneva  lì  senza  sapere  che  fare. 
Guardò il polso destro, un grosso livido nero si era formato 
su  di  esso.  Le  lacrime  cominciarono  a  scorrere  silenziose 
sul suo volto. Prima piano, poi divennero come il fiume in 
piena.  Travolta  dalle  emozioni  che  fino  ad  allora  aveva 
provato  a  reprimere,  Asia  si  accovacciò  piangendo,  una 
mano aggrappata al bordo del parapetto, il corpo scosso dai 
singhiozzi  che  dirompevano  dal  suo  petto. 
Improvvisamente  si  alzò  urlando,  vomitando  in  quell’urlo 
tutto il suo dolore, tutta la sua rabbia, tutto il mondo che in 
un  solo  momento  si  era  rovesciato  dentro  di  lei 
sconvolgendola  e  distruggendola.  Quell’urlo  feroce 
scagliato  contro  il  mondo  la  lasciò  priva  di  forze,  ancora 
piangente. La schiena appoggiata al parapetto del ponte.
Sotto  di  lei  la  piena  aumentava.  Non  le  restava  nulla,  si 
sentiva  come  morta,  appoggiata  a  quel  parapetto  di  dura 
pietra. Le emozioni fino a poco fa provate si erano perse e 
non  era  rimasto  che  il  suo  spirito  spezzato  dalla  violenza 
dell’uomo.  Lentamente  Asia  si  alzò,  raccolse  il  fagotto 
immobile  accanto  a  lei  e  scavalcò  il  parapetto.  Si  mise  a 
sedere con entrambe le gambe a ciondoloni. Guardò come 
ipnotizzata  l’acqua  che  scorreva  tumultuosa  sotto  di  lei. 
Con  i  piedi  si  sfilò  le  scarpe  e  le  lasciò  cadere  tra  i  flutti 

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affamati  che  subito  le  inghiottirono.  Guardò  i  palmi  delle 
mani. Erano ancora sporchi di sangue, del suo sangue. Poi, 
prese  un  capo  del  fagotto  e  lasciò  che  il  suo  contenuto  si 
riversasse nel fiume. Fantasmi bianchi macchiati di sangue 
scuro  si  riversarono  nella  notte  abbracciati  tra  loro 
nell’acqua  tumultuosa.  Asia  rimase  a  guardare  quei 
silenziosi  testimoni  della  violenza  subita  con  freddo 
distacco. Chiuse gli occhi, e si alzò in piedi sul parapetto. 
Allargò  le  braccia  buttando  la  testa  indietro  come  a  voler 
prendere  il  volo  sollevata  da  un  filo  invisibile.  Che  senso 
aveva  ormai  stare  lì  in  quel  buio  freddo,  senza  nessuna 
speranza, l’animo a pezzi, il corpo ferito. Che senso aveva 
ormai? Il freddo l’avvolgeva, l’essenza stessa della vita non 
era  altro  che  una  visione  lontana.  Esisteva  ormai  solo  il 
buio. Buio e freddo.
Aprì  gli  occhi  e  mentre  stava  per  lasciarsi  andare  nella 
morsa gelida dell’acqua, all’orizzonte, si intravide una luce 
leggera e delicata, ma abbastanza forte da penetrare la fitta 
nebbia  della  notte.  Una  luce  abbastanza  calda  da  far 
rialzare lo sguardo ormai cieco di uno spirito straziato.
Un  uccellino  cantò  dando  vita  al  nuovo  giorno,  mentre 
una figura stretta in un cappotto, camminava scalza lungo il 
ponte ancora deserto.

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L'UOMO CON TUTTE LE RISPOSTE
di GM Willo (101 Parole)

Al  suo  risveglio  scoprì  di  non  avere  più  alcun  dubbio,  e 
ciò  lo  rese  inquieto.  Camminò  quel  pezzo  di  strada  che 
percorreva  ogni  giorno  per  recarsi  a  lavoro,  conscio  di 
avere  una  risposta  per  ogni  quesito,  e  si  sentì  soffocare. 
Sedette  alla  sua  scrivania  davanti  allo  schermo  acceso, 
convinto di potersene restare lì tutto il giorno, immobile e 
sereno, perchè niente poteva ormai sorprenderlo.
Per  questo  motivo,  nonostante  il  vento,  la  pioggia  e  i 
quindici piani sotto di lui, non esitò a spalancare la finestra 
dell'ufficio. E il telefonò squillò.
"Rispondo, poi si vedrà..." pensò.
Ma mise un piede in fallo. 

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SIMILE SONO IO, CHE PARLO DA SOLA
di Miriam Carnimeo

Tra le lamiere di questa luminosa città, i topi se la ridono 
nascosti  sotto  le  macchine.  All’angolo  di  una  strada,  una 
banda  di  volti  segnati  dal  freddo  fa  partire  una  bella 
canzonetta,  una  marcia  gioiosa,  sui  suoni  di  trombe  e 
tromboni,  fa  ricordare  a  chi  siede  con  le  spalle  ricurve  su 
solitarie panchine, le belle serate del dopo guerra trascorse 
ubriache  a  ballare  sui  tavoli,  le  piccole  lucine  e  le 
penombre  di  teste  che  oscillano,  le  voci  delle  donne  tra 
cristalli e brindisi. Un assolo di tromba spacca la memoria, 
all’improvviso, inghiottendo i passanti, gli amici, gli amori. 
In un deserto di slanci, tra il rumore delle macchine veloci 
e  il  suono  costante  della  corrente  elettrica  tra  i  muri  e  i 
lampioni,  nascono  pensieri  tra  i  denti,  immagini  fisse  di 
sagome  in  lontananza,  che  si  ingrandiscono  lunghe,  senza 
mai  toccarsi,  così  stanche,  deboli  e  lente,  si  schiudono 
come bolle di sapone nella testa. Guardi il mondo, lo guardi 
molto ma sogni altro. Lo scandire di un "si" riempirebbe la 
bocca,  fermerebbe  il  tempo  senza  lasciare  niente  al  cosa 
resta. Adesso,  svolazzano  le  tende  adagiate  sui  vetri  delle 
finestre,  amanti  di  questo  stesso  silenzio  costruiscono 
fotografie  che,  in  questa  città,  sembreranno  domani  un 
ricordo  ragionevole.  Ci  vorrebbe  una  bella  passeggiata 
lontana dal posto in cui mi trovo, lontano dal rumore, dalla 
forma  dell’acciaio  che  lampeggia  come  sedotto  dalle  luci. 
Alzando  la  testa  guarderei  alcune  nuvole  come  sfumate 
macchie  bianche  correre  veloci  nel  cielo  senza  aspettare  i 
miei passi lenti e incerti, disegnerebbero nuovi percorsi da 
seguire solo con gli occhi, senza più lacrime da dedicare al 
tempo  ladro.  Ma  per  fortuna  c´è  il  mare,  lo  guardo 
consolare  ogni  dentro  perso,  ogni  desiderio  di  sconfinare. 
Mi  aiuta  a  godermi  un  sogno,  dell’intensità  di  un  grande 
amore,  un  abisso  scuro  forse,  ma  materno  e  senza  porte 

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chiuse  in  cui  sentirsi  vigliaccamente  al  sicuro.  L´aquilone 
di un bambino guarda con interesse il mio filo legato a lui, 
intravisto, sottile, coreografico ponte tra le voci dei passanti 
ed  i  loro  lamenti.  È  notte,  il  cielo  è  carico  a  scoppio,  le 
stelle  sono  ovunque,  giù  e  su  si  confondono,  simile  a  me, 
che  parlo  da  sola.  Calmo  le  urla  mentre  il  cuore  batte, 
attendendo il momento in cui scorgere il volto di un uomo 
che torna, ha con se solo l’entusiasmo di un presente, e la 
raffinata  arte  della  dimenticanza.  Il  passato  non  più  punto 
fermo  di  un  vissuto  senza  trasparenze  né  gioie  con  l’eco, 
senza  più  gabbie  che  tra  i  fumi  emergono  immense. 
Nell’adesso salvo, mai più perduto. Io, assettata di sincerità 
morderei  il  suo  cuore  per  ricordare  del  mio,  il  senso.

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MADONNA DI STRADA
di Dario De Giacomo

Sul  mio  corpo  ruderale  non  cresce  l’erba.  Con  questa 


consapevolezza, stamattina, mi sono insinuato di nuovo nei 
vicoli  stretti  di  una  città  qualsiasi  affacciata  sul  mare. 
Dentro  ho  l’ansia  furiosa  che  cerca  madonne  antiche,  di 
cappella in cappella, per strappare una grazia. Sto frugando 
tra i miei pensieri, nell’acqua sporca di ieri dove le donne 
lavavano  i  panni  sporchi,  strofinando  pezzi  squadrati  di 
sapone, così grossi da enfiarmi la pelle fresca di bucato.
Nella Chiesa del Carmine c’è un’aria stagnante di incensi, 
imputridita di litanie ripetute a bassa voce. Quando varco la 
soglia  soprannaturale  divento  serio,  l’ho  imparato  da  mia 
madre, ma non ho ancora imparato a segnarmi: è un gesto 
talmente  strano,  come  salutare  un  morto.  Invece  mi  piace 
sedermi  tra  i  banchi  di  legno,  perché  mi  accascio  e 
sonnecchio reggendomi la testa tra le mani. C’è il cristallo 
spesso,  appannato,  intorno  alla  teca,  per  proteggere  la 
verginità  di  questa  madonna  dai  fedeli,  che  depongono 
peccati  rancidi,  primizie  marcite,  ai  suoi  piedi.  Vorrei 
incontrare  i  suoi  occhi,  almeno  una  volta  nella  vita,  ma 
sono rivolti al cielo, scavati nell’incarnato cereo solcato da 
gocce  di  sangue  grosse  come  grani;  sono  gli  occhi 
sfuggenti della verginità che hanno orrore del peccato.
Le madonne vere non fissano mai i loro sguardi nei nostri. 
Dentro  il  broccato  prezioso  degli  abiti  candidi  la  Vergine 
non sanguina, se ne sta in disparte, con il cuore già altrove 
fermo per sempre. 
All’improvviso,  nel  buio  intriso  di  porpora,  stinta  da 
ginocchia  umane,  avverto  la  freddezza  diabolica  di  quella 
forma  in  cera,  prigioniera  della  sua  santità:  l’indifferenza 
fatale del piede che schiaccia il serpente. Provo pena per le 
spire  esanimi  del  serpente,  mi  ci  avvolgo,  attorciglio  e  ne 

114
faccio  un  rosario.  In  fretta  esco  alla  luce  del  giorno,  che 
esplode nel buio oltre il confine della fede.
­ Mi lascio alle spalle la tua gloria, Madonna! ­ urlo.
I  lastroni  di  pietra  nel  cortile  della  Chiesa  del  Carmine 
scivolano  verso  Piazza  Mercato,  stridente  di  urla 
forsennate,  che  strozzano  i  sensi.  Precipito  tra  la  folla, 
urtando  corpi  di  carne  scintillanti  di  sudore.  Svolto  in 
direzione  della  stazione  degli  autobus,  palpando 
avidamente lo squallore del luogo. In un attimo mi assale lo 
sgomento del contrasto di colori, ma incontro occhi umani 
in quell’attimo di vertigine. Sono gli occhi della Madonna 
di  strada,  selvaggia  nell’umanità  nera  dei  suoi  capelli 
scomposti,  che  non  pretende  preghiere.  Lei  mi  parla  col 
torbido linguaggio di movimenti languidi; già troppe volte 
ha  abbandonato  la  verginità,  sbattuta  contro  i  muri  della 
città,  nel  clamore  dei  vicoli.  Spogliata  delle  virtù 
sovrumane,  la  Madonna  di  strada  vive  soltanto  di  virtù 
piccole, stringe i denti cattiva quando la adorano, sorride se 
la  amano.  L’ho  vista  fumare  cento  sigarette  al  bar  della 
stazione, respirando fiati alcoolici al braccio di un barbone 
e  l’ho  riconosciuta  così.  Quando  barcollo,  avvicinandomi, 
mi  si  fa  incontro  e  mi  stende  la  mano.  È  calda  ed  ha  il 
sapore di pelle viva, senza il profumo di santità scostante. 
Sono  belli  i  suoi  colori,  gialli  grassi  e  azzurri  intensi, 
scrostata  rozzamente  sul  selciato  dalle  mani  spaccate  dei 
madonnari  anonimi.  I  madonnari  sanno  inginocchiarsi 
senza arroganza, senza adorazione, per disegnarla in fretta 
con quattro rapidi colpi di gessetto.
E non c’è gloria, non c’è osanna nel suo colore, nessuna 
indifferenza nel suo dolore per noi. Mi fa cenno di seguirla. 
Mostra i denti tra la folla che la insegue. Quando restiamo 
soli mi parla.
­ Non mi piego sulle ginocchia, non lo faccio mai. ­
­ Perché? ­ 
­  Perché  mi  inginocchierei  solo  per  dio  umile,  che  non 
pretenda interessi usurari sulla sofferenza. ­
Poi si siede sui talloni, sento di amarla, così vicina.

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­ Vieni – mi dice. ­ Guarda! mi inginocchio davanti a te.   
Ma  ricorda!  Sarò  sempre  solo  una  Madonna  di  strada.  ­

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CLARISSA
di Jonathan Macini

La  notte  che  uccisi  Clarissa  scoprii  l’irresistibile  fascino 


della morte. Ma prima di raccontarti questa storia, mia cara 
lettrice, desidero che tu conosca una grande verità: più ti è 
vicina  la  persona  reclamata  dalla  nera  signora,  più 
meravigliosamente profondo è l’abisso in cui la tua anima 
vorrebbe abbandonarsi.
L’omicidio di Clarissa incominciò per gioco. Glielo dissi 
pure, mentre possedevo il suo corpo minuto e spigoloso sul 
tavolo della cucina. Nella luce morbida degli spot, ricordo 
i suoi seni appena accennati, come quelli di una tredicenne, 
la sua bocca vorace, i suoi occhi con quel taglio vagamente 
orientale, sopra un nugolo di deliziose lentiggini. “Vienimi 
dentro!”  mi  urlò.  Ed  io,  trascinato  dall’onda  irrefrenabile 
dell’orgasmo, le risposi “Prima o poi ti uccido, Clarissa!” Il 
giorno  dopo  mi  portò  il  caffè  a  letto,  ed  era  più  dolce  del 
solito. A me basta una puntina di zucchero per ammazzare 
l’amaro,  invece  ne  aveva  messo  un  intero  cucchiaino. 
Appena  lo  assaggiai  mi  venne  la  bizzarra  idea  che  avesse 
paura  e  che  inconsciamente  avesse  zuccherato  il  caffè, 
pensando così di potere addolcire anche me.
“Davvero  mi  vuoi  uccidere?”  sghignazzò  lei, 
arruffandomi con la mano i capelli.
“Difesa  personale” gli risposi. “Ti ucciderò prima che tu 
uccida  me…”  Poi  risi,  e  quella  fu  la  mia  prima  risata 
macabra. Col tempo sono riuscito a perfezionarla, e adesso 
ne  vado  quasi  fiero.  Lei  rise  di  rimando,  ma  non  riuscì  a 
nascondere lo sforzo che faceva per rimanere allegra.
Il  gioco  continuò  per  una  settimana,  poi  lei  cedette.  Una 
sera  mi  chiese  di  smetterla  con  gli  scherzi  sulla  morte 
perché la mettevano a disagio. Io le dissi “va bene” e non 
ne  parlammo  più.  Ma  intanto  nella  mia  testa  l’idea  aveva 

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già  assunto  proporzioni  ben  più  realistiche  di  un  semplice 
gioco.
Il  pensiero  più  affascinante  fu  la  scelta  dell’arma.  Come 
avrei rubato la vita della piccola Clarissa, gracile come un 
fuscello, una bambola di pelle candida profumata di fiori di 
pesco? Il coltello lo trovai subito troppo scontato, l’arma da 
fuoco  troppo  volgare  e  il  veleno  assolutamente  borghese. 
Mi ci volle un mese per prendere una decisione, ma posso 
dire adesso di aver fatto bene i miei calcoli. Quando chiudo 
gli occhi posso ancora avvertire sui palmi delle mie mani il 
viscido  calore  dei  suoi  liquami,  rievocare  il  profumo  dei 
suoi  organi,  rimirare  il  cremisi  delle  sue  interiora, 
un’esperienza davvero straordinaria.
L’altro  dettaglio che mi premeva era il momento, perché 
richiamare  la  morte  è  una  specie  di  atto  liturgico.  Il 
movente in realtà è assolutamente irrilevante, ma il modo e 
il  tempo,  così  come  il  luogo,  sono  elementi  essenziali  per 
portare a termine il rituale in modo soddisfacente. Il luogo 
era quasi scontato; il letto in cui ci eravamo amati per più 
di un anno. Mancava solo il tempo… Fu lei a porgermi la 
data su un piatto d’argento.
“Amore, cosa facciamo venerdì?”
“Venerdì? Cosa succede venerdì?”
“Ma come che succede? È il tuo compleanno!”
“Ah, già… lo dimentico sempre…”
Ma quella volta non me lo dimenticai…

Cena a base di pesce, antipasto freddo servito su un letto 
di  ghiaccio  tritato,  risotto  all’astice  e  lime,  spiedi  di 
calamari  e  gamberoni  alla  brace  con  radicchi  ed  erbe 
aromatiche. Un pinot grigio per annaffiare ed una bottiglia 
di Berlucchi per festeggiare. Lei vestita di classe, col nero 
che  le  dona  sempre,  io  in  jeans  e  camicia,  nonostante  il 
ristorante di livello. Non ho mai sopportato i completi e le 
cravatte…
Usciamo  sazi  e  lievemente  ubriachi.  Fumo  la  mia  cicca 
prima  di  entrare  in  auto,  lei  manda  due  messaggi  col 

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cellulare, poi mi chiede se voglio che guidi lei. Le rispondo 
di  no  e  le  apro  la  portiera,  come  un  vero  gentleman.  È 
davvero bella…
Le  chiedo  del  mio  regalo  e  lei  mi  guarda  con  un  sorriso 
malizioso negli occhi. Mi dice che ce l’ha indosso e che me 
lo  mostrerà  tra  poco.  Al  provocante  invito  rispondo  con 
fare  lento,  lasciandomi  scorrere  addosso  il  momento.  Non 
ho  fretta  di  arrivare  a  casa.  Ho  tutta  la  notte  a  mia 
disposizione  e  non  voglio  commettere  errori. Ai  semafori 
gialli  rallento  e  mi  fermo,  evitando  scrupolosamente  di 
superare i limiti di velocità. Lei intanto gioca di nuovo con 
il telefonino.
«A chi scrivi?» le chiedo.
«A Linda. Domani andiamo a fare shopping…»
«In centro?»
«Si…»  No,  Clarissa,  domani  sarai  alla  corte  della  nera 
signora,  penso  io,  stringendo  più  forte  il  volante  in 
similpelle della C3.
Saliamo  nel  suo  appartamento,  che  è  stato  anche  il  mio 
per  quasi  quattro  mesi.  Convivere  è  meraviglioso.  Solo 
vivendo  sotto  lo  stesso  tetto  riesci  veramente  a  conoscere 
qualcuno,  o  comunque  una  parte  sostanziale  di  questo 
qualcuno. Vedere Clarissa lavarsi i denti, sentirla imprecare 
per  una  macchia  sul  pavimento,  annusare  i  suoi  vestiti 
sporchi,  trovare  i  suoi  capelli  dalla  vasca  da  bagno,  sono 
state  emozioni  molto  più  intense  delle  scopate  che 
facevamo  nei  primi  tempi,  quelle  di  puro  abbandono.  Il 
sesso  non  mi  è  mai  veramente  interessato,  anche  se  non 
gliel’ho mai dato a vedere.
Lei  s’infila  in  bagno  mentre  io  mi  verso  un  goccio  di 
J&B.  Mi  trovo  in  uno  stato  quieto,  fluido.  Sento  che  i 
movimenti  usciranno  fuori  da  soli,  basterà  lasciar  fare  al 
demone che ho coltivato negli ultimi mesi, come una bestia 
affamata  prigioniera  dentro  la  mia  anima.  Credo  che  alla 
fine ce l’abbiamo tutti. La differenza tra me e te, carissima 
lettrice, è che io non ho più paura di aprire la sua gabbia.

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Metto su un po’ di lounge e mi distendo sul letto, vestito 
e  con  il  bicchiere  in  mano.  Per  adesso  faccio  fare  a  lei. 
Devo  conservare  le  energie  per  ripulire  la  stanza,  quando 
tutto  sarà  finito.  Lei  esce  dal  bagno  con  indosso  un 
completino blu che riesce appena a mostrare le sue forme, 
tanto è minuta. Si avvicina, mi leva il bicchiere di mano e 
incomincia a baciarmi. Le sue mani armeggiano abilmente 
i  bottoni  della  camicia,  ma  quando  si  spingono  più  giù  le 
blocco. Continuiamo per un po’ così, poi le sussurro: “ti vá 
di fare un giochino?” Mi guarda sorpresa, è una cosa nuova 
per noi, ma oggi è il mio compleanno e pare si senta quasi 
in  obbligo  di  dirmi  di  si.  Scendo  dal  letto  e  frugo 
nell’armadio  sotto  i  miei  vestiti.  So  bene  cosa  cerco;  due 
paia  di  manette.  Ce  le  ho  messe  la  sera  prima,  insieme  a 
qualcos’altro…
Torno da lei e le leggo un velo di paura negli occhi, ma io 
la  tranquillizzo  con  un  bacio  e  la  promessa  di  un  piacere 
nuovo.  Con  movimenti  dolci  e  lenti  l’aiuto  a  posizionarsi 
nel mezzo al letto, le passo attorno ai polsi il freddo metallo 
dei  ceppi  ed  infine  la  fermo  alla  testiera  di  ferro  battuto. 
Inizio  a  baciarla,  scendo  giù  con  esperienza,  sosto  per  un 
po’  attorno  all’ombelico,  poi  le  sfilo  delicatamente  le 
mutandine.  Dopo  averla  provocata  abbastanza,  le  affondo 
la  bocca  nella  vagina,  iniziando  a  muovere  dolcemente  la 
lingua.  La  sento  gemere,  dimenarsi,  salire  fino  alle  alte 
vette  dell’orgasmo.  Il  suo  urlo  di  piacere  precede  di  un 
attimo  le  contrazioni  muscolari  del  corpo  e  delle  sue 
gambe,  strette  attorno  alla  mia  testa.  Adesso  tocca  a  me, 
penso.
«Lo voglio in bocca…» mi dice.
«No  aspetta, ho un’altra idea…» le rispondo. Poi vado a 
prendere la corda, il nastro adesivo e le cesoie…

La  notte  che  uccisi  Clarissa  scoprii  l’irresistibile  fascino 


della morte. Fu lei la prima, e come in amore, la prima non 
si  scorda  mai.  Adesso  hai  capito,  mia  piccola  lettrice, 

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perché  nel  mio  guardaroba  conservo  ancora  la  sua  pelle, 
liscia, candida, profumata di fiori di pesco.
Su  tesoro,  smettila  di  tremare.  È  arrivata  l’ora  del 
rituale…

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IL PENSIONATO
di Massimo Mangani

Seduto su una vecchia poltrona, sto leggendo un Elizabeth 
George  d’annata  circondato  dal  silenzio  della  mia  casa 
solitaria.  Sono  ormai  arrivato  alla  rispettabile  età  di  75 
anni,  da  circa  dieci  sono  stato  collocato  a  riposo  dopo  35 
anni  di  insegnamento,  mai  un  giorno  di  assenza,  sempre 
ligio al mio dovere di servitore dello Stato. Purtroppo mia 
moglie  mi  ha  lasciato  cinque  anni  fa,  dopo  una  brutta 
malattia ed io sono rimasto solo, o meglio con due figli, un 
maschio ed una femmina che ormai non abitano più con me 
da  tempo,  viste  le  brillanti  carriere  che  hanno  fatto: 
Lorenzo è diventato uno stimato cardiochirurgo ed opera a 
Firenze,  Londra  e  New  York  mentre  Gemma  ha  da  poco 
vinto il concorso come prima ballerina all’Operà di Parigi. 
Come  padre  dunque,  non  posso  che  essere  orgoglioso, 
anche  perché  almeno  una  volta  la  settimana  ricevo  una 
telefonata da ciascuno e, pensate, la visita di entrambi ogni 
Natale. 
Con  la  mia  povera  pensione  tiro  avanti  dignitosamente, 
pago  regolarmente  le  bollette  e  riesco  a  cucinare  tutti  i 
giorni  qualche  prelibatezza.  Per  fortuna  l’appartamento  in 
cui  abito  è  di  proprietà  e  in  più,  tutti  i  mesi,  ricevo  metà 
dell’affitto  dagli  inquilini  della  casa  che  i  miei  poveri 
genitori hanno lasciato a me ed a mio fratello. Non avendo 
dunque  da  rendere  conto  a  nessuno,  passo  le  giornate 
immerso nella lettura.
Mi è sempre piaciuto leggere di tutto anche se la mia vera 
passione  sono  i  gialli:  ho  iniziato  a  12  anni  con  le 
“Inchieste  del  commissario  Maigret”  di  Simenon,  e  da 
allora  ho  cercato  ossessivamente  libri  che  riproducessero 
quelle ambientazioni, dove la ricerca di un colpevole fosse 
il fulcro della storia. In pochi anni ho divorato tutti i libri di 

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Agatha  Christie, di Conan Doyle e sono perfino riuscito a 
procurarmi  alcuni  introvabili  romanzi  di  S.S.  Van  Dyne. 
“Dieci Piccoli Indiani” è stato per molto tempo il mio libro 
della  buonanotte  sostituito  qualche  volta  dal  “Mastino  dei 
Baskerville”.  Città  fredde  e  nebbiose,  villaggi  sperduti, 
località  balneari  calde  e  spensierate  sono  stati  i  miei 
paesaggi  interiori,  accomunati  da  quella  cosa  molto 
inquietante ma anche molto umana che si chiama “delitto”. 
Questa mia passione mi ha portato a seguire sempre anche 
i delitti reali, quelli di cui si sente parlare al Telegiornale e 
che  tengono  con  il  fiato  sospeso  milioni  di  persone.  Così 
fin  dalla  gioventù  non  mi  sono  perso  un  approfondimento 
su Cogne, uno speciale Garlasco, un Talk Show su Perugia. 
Sarà  perché  sono  nato  e  cresciuto  in  una  città  che  ha 
vissuto  uno  dei  più  inquietanti  romanzi  gialli  della  storia 
italiana  e  dove  tutt’oggi  la  vera  identità  del  “mostro”, 
l’assassino, è avvolta in una coltre di mistero.
Il Ticchettio dell’orologio continua imperterrito a pulsare 
nel mio cervello in questa fredda serata autunnale, la trama 
di “Scuola Omicidi” della cara Elizabeth si fa più intricata 
e credo a questo punto di aver bisogno di una pausa caffè, 
ben zuccherato e con panna. Mi avvio verso la cucina, apro 
la caffettiera (una vecchia moka Bialetti) metto l’acqua fino 
alla valvola e riempio il filtro di fragrante polvere marrone. 
Mentre  aspetto  di  sentire  l’inconfondibile  gorgoglio, 
constato  che  la  panna  sta  per  finire.  Domani  dovrò  uscire 
ed andare a fare un po’ di spesa. Dovrò stare molto attento 
a  non  far  tardi  perché  altrimenti  rischio  di  perdermi  la 
nuova puntata dell’ “Ispettore Barnaby”. Dopo aver bevuto 
il  caffè  torno  a  sprofondarmi  in  poltrona,  apro  il  libro  al 
segno e ricomincio a leggere. Improvvisamente un pensiero 
mi balena nella testa… cerco di scacciarlo ma si fa sempre 
più  insistente…  oggi  quando  la  polizia  è  venuta  a  farmi 
visita…
La signora del piano di sotto ha purtroppo avuto un brutto 
infarto,  è  stata  trovata  morta  dalla  donna  delle  pulizie  e 
tutto  sarebbe  sembrato  regolare,  se  non  fosse  stato  per  il 

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fatto  che  anche  i  suoi  cinque  gatti  sono  stati  trovati 
cadaveri,  forse  morti  di  fame.  Effettivamente  potrebbe 
essere  una  trama  perfetta  per  un  giallo,  un  cadavere  in  un 
appartamento,  cinque  gatti  morti  stecchiti  ed  un  assassino 
che  si  cela  nel  condominio…  mi  sarebbe  sempre  piaciuto 
scriverne uno.
Poso nuovamente il libro e mi metto a pensare… continue 
liti condominiali, i gatti danno fastidio, puzzano, miagolano 
di notte, i vicini sono esasperati finché qualcuno decide di 
farla  finita,  con  il  metodo  più  elegante  che  esista…  una 
buona dose di veleno! La vecchia Agatha ci insegna che il 
Curaro  provoca  l’arresto  cardiaco  ed  è  pressoché 
impossibile  da  individuare…  anche  oggi,  con  i  moderni 
sistemi  autoptici  è  molto  difficile  rilevarne  le  tracce  in  un 
organismo. Sarebbe bastato poco, un tè come segno di pace 
e poi, nella più classica delle maniere un pizzico di polvere 
nella  tazza  della  vittima  che,  ignara  di  tutto,  muore 
rapidamente.  Poi  viene  il  turno  dei  gatti  e  per  quello  è 
molto facile, basta mettere il veleno nella ciotola del latte. 
Fatto  tutto  questo,  l’assassino  se  ne  torna  nel  suo 
appartamento  con  la  boccetta  di  Curaro  in  mano,  meglio 
non lasciarla in giro, se ne libererà in un secondo momento.
Proprio  sul  più  bello  il  campanello  suona,  mi  alzo  dalla 
poltrona  e  vado  a  chiedere  chi  è:  «Commissario  Bianchi» 
apro e mi trovo davanti il poliziotto che con un sorriso mi 
dice  che  il  corpo  della  vicina  è  stato  rimosso  e  di  non 
preoccuparmi,  di  dormire  tranquillo,  si  è  trattato  di  una 
morte  naturale.  Gli  sorrido,  tendo  la  mano  e  lui  me  la 
stringe, mi chiede se prima di andarsene può fare qualcosa 
per me.
«Potrebbe buttare la nettezza nel cassonetto, così mi evita 
di  uscire  a  quest’ora,  con  questa  umidità».  Gli  porgo  il 
sacchetto  che  contiene  quasi  interamente  vetro,  bottiglie, 
boccette… Il Commissario riprende la sua aria da duro, mi 
saluta quasi militarmente e se ne va.
Dalla  finestra sento il cassonetto aprirsi, rumore di vetri, 
come se qualcuno stesse frugando fra le bottiglie poi, dopo 

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un interminabile istante in cui il tempo pare essersi fermato 
sento il tonfo ed il rumore del cassonetto che si richiude.
Tiro  un  sospiro  di  sollievo?  No,  caro  lettore  perché  quel 
sacchetto  non  contiene  la  bottiglietta  di  veleno.  È  troppo 
difficile procurarsi del Curaro, quello che mi è avanzato lo 
conservo… non si sa mai!
Serenamente  mi  rimetto  in  poltrona,  posso  tirar  nottata, 
tanto i gatti non miagolano più.

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L'EROE
di Aeribella Lastelle (101 Parole)

L’eroe sa che non farà ritorno, ma ha bisogno di legare ad 
un  filo  la  speranza.  Ci  sono  la  pioggia,  il  vento  e  le 
montagne,  e  poi  chissà  quante  strane  creature  si 
frapporranno  tra  lui  e  la  sua  meta;  lupi,  orsi  e  ragni 
giganteschi.
La foresta nasconde antichi segreti. Sulle alture abitano i 
giganti  delle  rocce.  Piccolo  eroe,  fin  dove  credi  di  poter 
arrivare?
Ma  è  solo  nell’intento  che  si  nasconde  tutto  l’ardire 
dell’avventuriero.  “Andiamo…”  sussurri.  La  tua  piccola 
casa sembra un palazzo. Vorresti rimandare la partenza, ma 
sai bene che non puoi. È il vento che ti supplica di partire. 

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L'UOMO A FUMETTI
di Bruno Magnolfi

Il  disegnatore  di  fumetti  generalmente  partiva  da  un 


personaggio  per  poi  costruirci  attorno  una  storia.  Era 
sufficiente  che  ne  disegnasse  il  viso,  i  capelli,  i  vestiti,  le 
mani, il resto veniva quasi da sé. Tutto dipendeva da pochi 
dettagli: stilizzava un’espressione, un gesto, la posizione, e 
poi tutto cominciava a ruotare, a prendere forma, come se il 
suo  personaggio  uscisse  all’improvviso  dal  foglio  di  carta 
e  si  disegnasse  da  solo.  Certe  volte  le  storie  che  venivano 
fuori  sembravano  lo  specchio  di  quello  che  lui  aveva 
pensato quel giorno, o che gli era ritornato alla mente da un 
periodo  passato  per  chissà  quale  ragione;  ma  in  certi  rari 
casi nessuna relazione, a striscia finita, pareva sussistere tra 
sé e quel suo nuovo fumetto. Ed erano questi i personaggi 
a cui lui si affezionava di più. I suoi fogli, disegnati e finiti, 
in  quelle  occasioni  pareva  prendessero  vita,  come  se 
avessero  voglia  di  parlare  di  se  stessi,  come  se  avessero 
dentro uno spirito, e lui certe volte cercava di dar seguito a 
questa  esigenza,  ma  in  tanti  casi  la  stanchezza  diventava 
fortissima,  e  lui  si  sentiva  stremato,  perdeva  quella 
concentrazione di cui aveva bisogno, e tutto fermava il suo 
corso. Ma quella sera qualcosa era diverso. Aveva ritrovato 
nella confusione del suo tavolo da lavoro, una striscia che 
non  aveva  finito,  e  si  era  messo  a  pensare  come  poteva 
continuare  la  storia.  Una  ragazza,  sopra  al  suo  motorino, 
libera, lungo le strade della città. Non sapeva di molto, ma 
era un inizio. L’aria fresca della sera sul viso, immagini di 
gente sui marciapiedi, negozi scintillanti delle loro vetrine: 
andare incontro a qualcosa come sfuggendo a qualcos’altro 
che  sa  di  saputo,  voglia  di  nuovo,  di  diverso  da 
quell’ordinario, e poi i colori, la velocità, tutto alle spalle, 
in  una  ricerca  spasmodica  di  qualcosa  che  sta  un  po’  più 
avanti.  Una  ragazza  come  tutte  le  altre,  come  tutte  quelle 

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ragazze  che  hanno  quindici,  sedici  anni,  ma  con  qualcosa 
dentro  al  suo  casco  che  non  è  proprio  da  tutti:  la  voglia 
improvvisa  di  sentirsi  diversa,  migliore,  non  incastrata 
dentro  ad  un  ruolo  egoistico,  non  un  pensiero  solo  per  sé, 
ma per tutti, come compiere un gesto che lascia gli altri di 
stucco,  che  li  fa  ragionare,  li  porti  a  pensare  che  non  c’è 
storia  per  chi  pensa  soltanto  a  se  stesso.  Le  strade,  le 
piazze,  continuano  a  correre  inseguendo  il  suo  motorino, 
quello  della  ragazza,  e  il  disegnatore  di  fumetti  cerca 
disperato di dar vita al suo bisogno di esistere, di essere al 
di fuori di sé, di un disegno finito, completato, esauriente, 
ma che manca ancora di spirito. Poi, l’idea finale per il suo 
fumetto  si  fa  strada  poco  alla  volta,  dentro  a  un  pensiero 
che  diverge  dal  resto:  la  ragazza  corre  da  lui,  dal 
disegnatore  strampalato  di  quei  fumetti,  a  portargli  lei 
stessa  il  finale  di  tutta  la  striscia,  e  lui  è  ancora  giovane, 
dentro al disegno, ha la sua stessa età, può aspettarla uscire 
da dentro la carta, da quelle strade grigie che adesso sanno 
di lei, della sua libertà, e vogliono assomigliare a quel suo 
meraviglioso  entusiasmo.  Perché  è  di  questo  che  la  città 
adesso  ha  bisogno,  della  voglia  di  amore  e  di  gioia  che 
superi il grigio della gente sui marciapiedi, e dei negozi che 
continuano  imperterriti  ad  ammaliarla,  con  le  loro  vetrine 
scintillanti e monotone che non hanno niente di nuovo, e in 
questo slancio oltre le cose, tutti possono di nuovo ritrovare 
le idee, i sentimenti più forti, l’energia, quella creatività che 
era venuta a mancare da tempo.

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MASTRO LINDO
di Gano

«Che c’è Ciccio?»
Al  bar  Mastro  Lindo  chiamava  tutti  “Ciccio”,  perché  i 
nomi  non  erano  il  suo  forte.  L’interesse  disinvolto  che 
dimostrava per le persone aveva un che di genuino. Lungo 
e magro come un giunco, si chinava con la testa pelata per 
guardarti  in  faccia  e  stabilire  un  contatto. Aveva  gli  occhi 
lucidi, inumiditi dai troppi camparini, ma azzurri e sinceri 
come quelli di un cucciolo. Riusciva a vederti dentro, non 
so  se  mi  spiego.  Ci  sono  persone  che  nonostante  abbiano 
imboccato  strade avverse e con gli anni siano diventate le 
ombre di una città malata, rimangono in qualche modo pure 
dentro, e quella purezza affiora nei momenti più impensati, 
magari verso l’ora dell’aperitivo quando la giornata ce l’hai 
tutta  sul  groppone,  e  ti  aggrappi  al  negroni  come  un 
naufrago, perdendo lo sguardo oltre le porte a vetri del bar, 
dove la pioggia batte e l’asfalto graffia.
«Che c’è Ciccio?»
Me  lo  chiese  a  me  quella  volta,  perché  era  un  giorno  di 
quelli.  Ne  ho  pochi,  per  fortuna,  ma  ogni  tanto  arrivano. 
Sono  i  giorni  in  cui  detesti  ogni  fibra  del  tuo  corpo,  ogni 
particella del tuo vivere, ogni frammento di secondo del tuo 
incessante  scorrere,  un  inutile  e  claudicante  trascinamento 
di  membra  già  in  putrefazione.  In  quei  momenti  sei 
consapevole  solo  dell’esistenza  delle  tue  appendici;  la 
lingua,  il  cazzo  e  il  buco  dell’ano.  Sono  gli  unici 
interruttori  capaci  di  farti  sentire  un  po’  vivo.  Ma  poi  ti 
ritrovi  a  pensare  a  tutte  quelle  dannate  budella  che  si 
trovano  nel  mezzo,  quelle  lasciate  ai  gatti  di  strada  e 
all’ennesima ribevuta…
«Niente Mastro, sto bene. Non preoccuparti…»
«No Ciccio, non stai bene… dai mettiti a sedere, ti offro 
qualcosa…»

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Esistono  le  forze  della  natura  e  le  forze  da  bar.  Mastro 
Lindo era una forza da bar, uno tzunami di buoni propositi 
e sorrisi gentili. Ti prendeva il braccio e a volte ti stringeva 
un  po’  forte,  ma  anche  quando  ti  faceva  male  era  un 
piacere, perché ti sentivi al sicuro vicino a lui. Era più alto 
di  quanto  sembrasse,  perché  se  ne  stava  un  po’  gobbo.  Di 
sicuro  toccava  il  metro  e  novantacinque.  Teneva  la  zucca 
pelata  in  bella  mostra  e  i  neon  del  bar  vi  si  riflettevano 
sopra  come  sulle  palle  da  biliardo.  Sulla  pelle  tirata 
spiccavano un paio di fitte, reminescenze di alcune ferite da 
curva. Il calcio era una delle sue fisse.
«Insomma  Ciccio,  che  cosa  c’hai?  Non  ti  ho  mai  visto 
così…»
Perché non mi faccio mai vedere così, pensai io. Gano al 
bar  ci  va  quando  è  di  buon  umore.  Le  “giornate  no”  le 
passo sotto le coperte ad osservare il soffitto e a stringermi 
le trippe. Ma oggi è successo tutto così d’improvviso, tutto 
così dannatamente di botto…
«Che  ti  devo  dire  Mastro,  è  la  vita.  A  volte  fa  proprio 
schifo…»
«Ma no dai! Là fuori forse, ma qui dentro si sta d’incanto. 
Guarda che vestitino si è messa la Giorgia oggi…»
Si, la Giorgia stava divinamente con quel vestitino a fiori 
e  i  capelli  tirati  su.  E  fuori  effettivamente  era  tutto  una 
merda,  e  starsene  ai  tavolini  di  plastica,  cullato  dal  brusio 
del  bar  e  dall’ennesimo  aperitivo,  era  come  sedere  alla 
corte di Giove circondato dalle ninfette. Però…
«Si,  c’hai  ragione,  ma  oggi  è  una  di  quelle  giornate, 
sai…»
«Dai Ciccio, che te ne frega! Pensi davvero che potrebbe 
andare meglio di così? Pensi che una moglie, dei figli, una 
casa  col  giardino  possano  farti  sentire  meglio  di  come  ti 
senti adesso, su queste seggiole da quattro soldi? Pensi che 
il grano ti possa risolvere tutto? O le Mauritius? O che ne 
so…  No,  Ciccio,  non  farti  fregare.  Se  le  cose  andassero 
meglio  non  te  accorgeresti  neanche,  ma  lo  avvertiresti 

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subito se andassero peggio. Perché le cose possono sempre 
andare peggio, non pensi?»
Aveva  centrato  il  punto,  e  lo  sapevo  bene  perché  erano 
esattamente  le  frasi  che  io  ero  solito  dispensare  alla  gente 
del  bar.  Grande  Mastro  Lindo,  ce  l’hai  fatta,  pensai.  Hai 
detto proprio quello che volevo sentire. Beviamoci su…
E così rimanemmo a bere fino all’ora del TG.
È passato mezz’anno da quando la cirrosi si è portata via 
il  vecchio  Mastro.  A  volte  gli  occhi  mi  diventano  umidi 
senza  che  me  ne  accorga.  Ripenso  alla  sua  testa  pelata,  al 
suo sorriso e a quegli occhi celesti e giusti. Alla sua anima, 
che adesso vaga solitaria nell’etere del bar, sopra le fettine 
di  limone  adagiate  dentro  i  bicchieri  del  campari  soda. Al 
suo  “Ciccio”,  che  metteva  allegria.  Alla  sua  postura, 
piegata dall’altezza ma non dalla vita…
Penso a tutto ciò ed è come se fosse ancora qui…
…e forse è qui per davvero.

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NEVE AL SOLE
di Silvia Petrianni

La porta si chiudeva, lasciando sempre tra quelle quattro 
mura  tutta  l’amarezza,  le  paranoie,  l’inquietudine  che 
ancora, dopo tre anni, non lo mollavano. Tirava su col naso, 
usciva  di  casa  e  non  potevi  fare  altro  che  camminargli 
affianco.  Lui  aveva  il  suo  passo,  il  suo  ritmo, 
accompagnato solo dalla sua musica.
Da  dietro  era  uno  schianto.  Quei  lunghi  capelli 
oscillavano  sotto  i  glutei  verso  destra  e  sinistra,  come  un 
pendolo,  seguendo  la  cadenza  dei  suoi  passi.  Le  spalle 
larghe e dotate rimanevano immobili. Un cazzotto sferrato 
bene  sarebbe  potuto  arrivare  all’improvviso,  che  lui 
avrebbe  proseguito  a  camminare,  perché  il  dolore  non 
esiste,  il  dolore  è  solo  una  percezione  e  le  parole  che  ci 
mettiamo su sono una perdita di tempo, domani moriremo 
e il dolore non può fermarci oggi. Gli occhi freddi perché 
feriti ma allo stesso modo intensi, perché vivevano ancora, 
erano  visibili  solo  nel  buio  senza  fenditure.  Come  piccoli 
riverberi bianchi, rivelavano che i cazzotti fanno male. Per 
questo, in quel letto riscaldato, tornava con le spalle girate 
e il vuoto davanti.
E lei gli arrivò proprio da dietro. Lei che gli tirò i capelli. 
Morbida e pura come la neve che non si fa toccare, come la 
neve fredda e dissetante ma come la neve così delicata, con 
un  po’  di  calore  si  scioglie  e  con  il  fuoco  di  una  stella 
scompare.  Morbida  e  pura  come  la  neve,  che  è  morbida 
solo  se  la  guardi,  che  è  pura  solo  se  la  guardi.  Che  se  la 
tocchi contamini, che se la tocchi ti ghiaccia i polpastrelli, 
che  se  te  ne  innamori  ti  ferma  il  cuore  e  se  non  ne  hai 
riguardo  ti  travolge,  che  se  l’accarezzi  si  scioglie  e  che  al 
fuoco di una stella scompare.
Gli tirò i capelli e le spalle rimasero immobili, ma il buio 
è  dietro  l’angolo  a  brillare.  Finito  di  bere,  il  dolore  fu 

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percezione e domani moriremo ma oggi siamo vivi e oggi 
continuiamo  a  farci  ferire,  ancora  più  se  fingiamo  che  la 
sedia  sia  a  terra  e  che  il  vuoto  stia  sotto.  Lei  si  sciolse  e, 
come  la  neve  a  un  sole  feroce,  senza  travolgerlo, 
scomparve. Lui chiuse la porta dietro di sé e da dietro era 
uno schianto, con le spalle larghe e dotate che rimanevano 
immobili  e  i  lunghi  capelli  che,  fino  a  sotto  i  glutei, 
oscillavano verso destra e sinistra, seguendo la cadenza dei 
suoi passi.

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UN ATTIMO DI VITA
di Daniela Silvestro

E  così  quell’angelo  cadde,  cadde  qui  sulla  terra  e  ne  fu 


felice. Fu felice perché gli fu data la sua possibilità, gli fu 
data la vita e la morte e fu gioia per lui, che viveva la sua 
monotona esistenza, intrappolato nel destino crudele che gli 
era    stato  assegnato.  Lui  voleva  soffrire,  voleva  dormire, 
voleva sperare, ma soprattutto voleva amare…
E allora vi chiederete che stupido angelo è questo, e lui vi 
dirà “se vivere è da stupidi, allora io voglio essere stupido. 
Nulla  è  più  divino  di  un’emozione,  un’emozione  che  da 
angelo  non  ho  mai  provato,  un’emozione  che  solo  adesso 
sento viva dentro di me… Si, ora finalmente mi sento vivo 
e ringrazio di essere caduto”.
Quell’anima  silente  aveva  trovato,  volando  attraverso  le 
stelle, il suo posto nel mondo, il suo flebile respiro lo aveva 
reso innocuo dinanzi agli occhi di Sophie, che era rimasta 
incantata  nel  guardarlo  solo  respirare,  e  le  sembrava  di 
sentire  l’eco  di  quell’anima  antica,  e  lui  era  felice  di  quel 
sudore che gli scendeva lungo la fronte, perché sudare era 
un  problema  umano.  Ora  lei  poteva  vederlo,  lui  che  tanto 
aveva vegliato sui suoi sogni.
Lei vedendolo soffrire gli domandò «Cosa succede ora?»
Lui le sorrise e disse  «Sto male…»
Allora  Sophie  gli  fece  una  triste  domanda  «Stai  forse 
morendo?»
Lui fece cenno di no con la testa. «No, non sto morendo, 
sto nascendo» disse e chiuse gli occhi per sempre.
E la sua vita durò poco più di quanto dura un brivido, ma 
quell’angelo aveva vissuto finalmente la sua vita: era sorto, 
aveva  amato,  aveva  sorriso  e  aveva  sofferto,  poi  si  era 
incamminato verso l’ultimo viaggio. Ma lui ora era felice, 
e sarebbe stato per sempre nel cuore di Sophie.

134
L'AMORE INGOMBRANTE
di GM Willo (101 Parole)

La storia d’amore, con i suoi slanci e i bruschi arresti, le 
passioni  iniziali  e  le  domande  del  poi,  delle  serate  pigre, 
davanti ad un bicchiere o ad un piatto di pasta insipida. Gli 
occhi di lei che non ti guardano, la forchetta che batte sul 
bordo del piatto, la sua pelle che non profuma più come il 
primo  giorno.  Il  cellulare  vibra  e  diventa  il  pretesto  per 
lasciare la tavola. Qualcosa di unico è rimasto sommerso da 
uno strato di noia.
O  forse  l’amore  è  diventato  così  ingombrante  da  non 
riuscire più a mostrarsi?
«Io esco?»
«Quando torni?»
«Non so…» 

135
GLI AMANTI DELLA FINE DEL GIORNO
di Bruno Magnolfi

Il  silenzio  nella  radura  era  perfetto.  Il  Presidente 


dell’Associazione, una volta che tutti erano scesi dalle loro 
auto private parcheggiate alla meglio al bordo della strada 
statale, e affrontato con le loro scarpe da trekking il lungo 
sentiero che li aveva portati fin lì, si era auspicato, da parte 
di  tutti,  e  nella  sua  mente  sin  da  quando  aveva  convocato 
quella  bella  comitiva  di  quasi  cinquanta  persone  in 
quell’insolito  posto  di  meditazione  e  d’incontro,  un 
riguardo  adeguato  al  motivo  che  li  aveva  spinti  in  quel 
luogo,  ed  un  rispetto  coerente  con  gli  scopi  della  loro 
escursione. Mancava ancora molto al tramonto del Sole, ma 
alcuni  membri  del  gruppo  avevano  già  mostrato  dei  segni 
evidenti  di  frenesia  e  agitazione.  In  quella  primavera 
avanzata le colline apparivano verdi, e le piante rigogliose 
e  brillanti,  formicolanti  di  vita.  Il  piccolo  lago  al  fondo 
della  vallata  specchiava  tremolando  il  cielo  ancora 
luminoso e azzurrino, e la luce nell’aria aveva ormai preso 
il colore di un giallo sempre più teso verso l’arancio. Tutti 
si erano portati delle coperte per sistemarsi seduti o sdraiati 
sul prato destinato alla loro riunione, e camminando con gli 
zaini  colmi  di  oggetti  diversi,  non  ultime  le  lampade 
portatili  per  illuminare  la  strada  al  ritorno,  ognuno  aveva 
continuato a parlare in maniera vivace, conversando con il 
proprio  vicino  delle  proprie  emozioni,  e  dell’ultima 
riunione  che  si  era  tenuta,  o  magari  di  quella  che  l’aveva 
preceduta,  distillando  con  parole  forbite,  pensieri, 
sensazioni,  esperienze,  tutto  quello  che  avevano  tratto  da 
quelle  serate.  Poi  ognuno  si  era  sistemato  nel  posto 
assegnato, e ogni conversazione lentamente aveva spento la 
foga iniziale, lasciando ad un progressivo silenzio e ad un 
uso sempre più rarefatto delle parole, la porzione di tempo 
sempre  più  breve,  fino  alla  scomparsa  definitiva  del 

136
Giorno.  Il  Presidente  dell’Associazione,  solo  con  i  gesti 
delle sue mani, aveva richiamato l’attenzione di tutti su di 
un  gruppo,  affascinante  per  forme  e  colori,  di  nuvole 
ammantate di arancio, su un lato della porzione di cielo che 
era stata assunto a spettacolo per quella serata, e quando il 
disco solare era entrato in contatto con la collina di fronte, 
traspirando  la  luce  tra  i  rami  degli  alberi  che  sembravano 
mani ammalate a reclamare una goccia di linfa vitale, una 
soffusa vocale di infantile stupore era sfuggita alla maggior 
parte  dei  membri  presenti.  La  porzione  di  tempo  che 
intercorreva tra quel circoscritto momento e l’istante in cui 
anche  l’ultimo  barbaglio  di  Sole  spariva,  era  ben  definito, 
e  alcuni  riuscivano  a  provare  un’estasi  vera  solo  in  quel 
determinato  lasso  di  tempo,  come  se  tutto  il  resto 
dell’intera  giornata  concentrasse  la  forza,  la 
determinazione,  la  sua  vera  sostanza,  solo  in  quei  pochi 
minuti.  Poi  il  Sole,  ormai  rosso,  si  avviò  a  compiere 
l’ultimo  balzo,  lasciando  la  porzione  di  cielo  interamente 
avviluppata  dalla  sua  ingombrante  presenza  e  sparendo 
infine  alla  vista,  e  in  quell’attimo  stesso  qualcuno  lanciò 
delle  grida  soffuse  assolutamente  involontarie,  proprio  nel 
momento  in  cui  il  cielo  rimaneva  privo  del  suo  potente 
inquilino,  lasciando  il  suo  spazio  sterminato  preda  del 
nulla.

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LA NATURA PERDUTA
proseguo de "Gli amanti della fine del giorno"
di Bruno Magnolfi

Dalla  cima  deldo  spegneva  la  sua  motosega,  il  vento  in 
mezzo  alle  foglie,  l’aria  fresca  che  accarezzava  il  fianco 
della  collina,  la  contemplazione  di  quella  natura  speciale. 
Per questo quel giorno, quando vide quel gruppo di uomini 
e  donne  nella  radura  giù  in  basso,  fermo,  in  un  orario  un 
po’  insolito,  a  fine  giornata,  rimase  per  lunghi  momenti 
incuriosito  e  perplesso.  Aveva  fatto  un  po’  tardi  per  via 
della  luce  brillante  di  quella  giornata  serena,  e  il  sole  a 
quell’ora,  fiammeggiando  da  sopra  una  lontana  montagna, 
arrossava  gli  alberi  e  il  cielo  di  sfumature  e  di  tinte  più 
chiare e più scure, tutte imparentate tra loro, come uscite da 
una  medesima  tonalità  di  colore.  Scendendo  lungo  il 
sentiero era arrivato alle spalle del gruppo, e aveva chiesto 
ad uno degli ultimi che cosa stessero a fare sopra quel prato 
a quell’ora. Non ci fu una vera e propria risposta, ma solo 
l’indicazione  del  cielo  al  tramonto,  senza  alcuna  parola, 
con  un  gesto  esaustivo  che  contemporaneamente  lasciava 
qualcosa nel vago. Il taglialegna si fermò assieme agli altri, 
forse  aspettando  qualcosa  di  strano  di  cui  lui  non  era  a 
conoscenza:  un’eclissi,  il  passaggio  di  un  meteorite  nel 
cielo,  una  stella  cometa,  ma  quando  vide  che  quelle 
persone  si  ubriacavano  del  semplice  tramonto  del  sole, 
comprese che forse lui, nonostante le difficoltà che doveva 
affrontare  ogni  giorno,  era  più  fortunato  di  loro.  Se  ne 
andò,  allora,  riprendendo  con  calma  il  sentiero  che 
conosceva perfettamente anche a quell’ora serale, e quando 
arrivò  all’osteria  del  paese  si  fece  versare  un  bicchiere  di 
vino,  un  vino  speciale,  il  migliore  che  avessero  in  quella 
bottega,  e  senza  spiegare  niente  a  nessuno  degli  amici 
presenti, brindò prima di tutto a se stesso e alla sua vita, e 

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poi  a  tutti  coloro  nel  mondo  che  non  potevano  neanche 
capire cosa avessero perso.la collina non si vedeva un gran 
panorama, giusto il paese lungo la strada che si snodava su 
un  fianco,  con  i  suoi  tetti  rossicci,  e  alcune  altre  colline 
grigie e sfumate proprio davanti. Però il senso di libertà che 
si  respirava  là  sopra,  lui  non  avrebbe  proprio  saputo  dove 
altro  trovarlo,  e  questo  concetto  era  quello  che  nella  sua 
mente  aveva da sempre giustificato la sua scelta di fondo. 
Certo,  c’erano  stati  momenti  di  crisi  in  tutti  quegli  anni, 
durante  i  quali  aveva  pensato  perfino  di  smettere,  di 
cercarsi  un  mestiere  diverso,  dipendente  presso  una  ditta, 
per  esempio,  come  altri  in  paese  facevano,  invece  di 
continuare a tagliare alberi e boschi in solitudine per farne 
legna  da  ardere.  Ma  era  il  suo  mondo,  gli  era  stato 
tramandato  così  da  suo  padre,  non  aveva  neanche  avuto 
bisogno  di  scegliere,  e  lui  si  sentiva  parte  attiva  di  quel 
divenire, anche mentre gestiva la sua attività in accordo con 
le stagioni e con la natura, e doveva resistere a quell’odore 
forte  di  legno  tagliato  nelle  narici,  e  a  quelle  sue  mani 
callose  perennemente  macchiate  di  tannino  e  di  resina. 
Ormai sapeva tutto sugli alberi, sui boschi, sulle ceduazioni 
da  fare  e  su  quelle  che  avrebbe  fatto  l’anno  seguente, 
conosceva perfettamente colline e sentieri di tutti i dintorni 
del  suo  paese,  per  chilometri  e  chilometri,  senza  fermarsi, 
in un’area così vasta ma anche così familiare da sentirsela 
un  po’  casa  sua.  Ogni  sera  rientrando  al  paese  passava 
dall’osteria  a  bere  un  bicchiere  di  rosso,  e  tutti  gli 
chiedevano sempre qualcosa sul lavoro e sul bosco, con suo 
grande  piacere.  L’abitudine  a  starsene  ogni  giorno  da  solo 
a lavorare in mezzo a quegli alberi, era un altro aspetto del 
quale  si  sentiva  particolarmente  orgoglioso:  era  bello  il 
silenzio  quando  spegneva  la  sua  motosega,  il  vento  in 
mezzo  alle  foglie,  l’aria  fresca  che  accarezzava  il  fianco 
della  collina,  la  contemplazione  di  quella  natura  speciale. 
Per questo quel giorno, quando vide quel gruppo di uomini 
e  donne  nella  radura  giù  in  basso,  fermo,  in  un  orario  un 
po’  insolito,  a  fine  giornata,  rimase  per  lunghi  momenti 

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incuriosito  e  perplesso.  Aveva  fatto  un  po’  tardi  per  via 
della  luce  brillante  di  quella  giornata  serena,  e  il  sole  a 
quell’ora,  fiammeggiando  da  sopra  una  lontana  montagna, 
arrossava  gli  alberi  e  il  cielo  di  sfumature  e  di  tinte  più 
chiare e più scure, tutte imparentate tra loro, come uscite da 
una  medesima  tonalità  di  colore.  Scendendo  lungo  il 
sentiero era arrivato alle spalle del gruppo, e aveva chiesto 
ad uno degli ultimi che cosa stessero a fare sopra quel prato 
a quell’ora. Non ci fu una vera e propria risposta, ma solo 
l’indicazione  del  cielo  al  tramonto,  senza  alcuna  parola, 
con  un  gesto  esaustivo  che  contemporaneamente  lasciava 
qualcosa nel vago. Il taglialegna si fermò assieme agli altri, 
forse  aspettando  qualcosa  di  strano  di  cui  lui  non  era  a 
conoscenza:  un’eclissi,  il  passaggio  di  un  meteorite  nel 
cielo,  una  stella  cometa,  ma  quando  vide  che  quelle 
persone  si  ubriacavano  del  semplice  tramonto  del  sole, 
comprese che forse lui, nonostante le difficoltà che doveva 
affrontare  ogni  giorno,  era  più  fortunato  di  loro.  Se  ne 
andò,  allora,  riprendendo  con  calma  il  sentiero  che 
conosceva perfettamente anche a quell’ora serale, e quando 
arrivò  all’osteria  del  paese  si  fece  versare  un  bicchiere  di 
vino,  un  vino  speciale,  il  migliore  che  avessero  in  quella 
bottega,  e  senza  spiegare  niente  a  nessuno  degli  amici 
presenti, brindò prima di tutto a se stesso e alla sua vita, e 
poi  a  tutti  coloro  nel  mondo  che  non  potevano  neanche 
capire cosa avessero perso.

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L’ATTILLATO
proseguo de "Gli amanti della fine del giorno"
di Bruno Magnolfi

L’angoscia si era diffusa dentro di me giorno dopo giorno. 
Senza  neanche  sapere  perché,  mi  ritrovavo  a  tremare,  a 
stringere  le  ginocchia  tra  le  braccia,  a  mettermi  le  mani 
dentro  ai  capelli,  certe  volte  anche  a  piangere.  Spesso 
desideravo  con  tutto  me  stesso  che  arrivasse  qualcuno  o 
qualcosa  ad  interrompere  una  situazione  così  negativa, 
anche se sentivo nel profondo che era impossibile. A volte 
facevo un giro a caso con la mia macchina e mi sembrava 
incredibile  che  ancora  si  costruissero  case,  strade,  palazzi, 
sterminate periferie incolori dove la gente perdeva qualsiasi 
identità. I vestiti attillati mi erano sempre piaciuti, le pieghe 
e  le  grinze  mi  pareva  deturpassero  il  corpo,  dovevano 
essere addosso nel numero minore possibile, e piccole. La 
stoffa di troppo attorno alla pelle era qualcosa che rovinava 
l’estetica  della  persona,  ne  cambiava  qualsiasi  connotato, 
andava  evitata.  Qualcuno  mi  disse  che  dovevo  conoscere 
gente, scambiare le idee, confrontare i pensieri con quelli di 
altri, così entrai dentro ai bar della zona cercando di essere 
un po’ spiritoso per attaccare bottone con qualche soggetto 
che si giocava la briscola o segnava i punti al biliardo, ma 
non  legai  con  nessuno,  e  un  paio  di  persone  mi  dissero  di 
levarmi dai piedi. Non ci credevo, non credevo più a nulla, 
mi  pareva  tutta  una  fregatura  continua,  mi  rendevo  conto 
che  nessuno  aveva  bisogno  di  me.  Giravo  per  strada  e 
vedevo  persone  che  erano  più  corazzate  di  me,  e  quindi 
stavano bene. Spesso, con il mio abbigliamento attillato, io 
mi sentivo più nudo degli altri. Non avrei potuto cambiare 
i calzoni con un paio meno stretti, non era per me, non sarei 
stato lo stesso: alla mia identità ci tenevo. Quando mi misi 
con quel gruppo di persone completamente fuori di testa, lo 
feci perché mi sembrarono subito pieni di tanto entusiasmo, 

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ma  soprattutto  perché  non  mi  chiesero  niente.  Mi 
chiamavano,  a  volte,  ci  si  ritrovava  in  luoghi  improbabili, 
spesso c’era anche gente che non conoscevo, che non c’era 
la volta passata, e mi offrivano qualcosa da bere, dei panini 
imbottiti,  erano  tutti  cortesi  e  parlavano,  qualche  volta 
parlavano anche con me. Ci si sistemava sull’erba, a volte 
seduti sopra le pietre, e poi si guardava il tramonto. Infine 
si  tornava  alle  macchine  e  via,  ognuno  per  sé.  Una  volta 
dissi  a  qualcuno  che  avevo  iniziato  a  guardarlo  anche  da 
solo  il  tramonto,  ma  quello  si  arrabbiò,  fece  un  mezzo 
casino,  alla  fine  andò  a  dirlo  anche  al  capo,  un  tipo  che 
faceva il discorso per tutti, e quello venne da me, scuro in 
faccia  come  la  notte,  e  mi  disse  che  non  dovevo  tornare. 
Non capii dove avevo sbagliato, però fui contento lo stesso: 
avevo detto la mia, non ero stato del tutto a quello stupido 
gioco;  e  poi  quella  gente  portava  mantelli,  giacconi, 
tuniche, tutti vestiti larghi e pieni di grinze e di pieghe, non 
avrei  potuto  andarci  d’accordo  parecchio,  anzi  forse  era 
troppo anche quel poco di tempo che era appena trascorso. 
Me ne andai, e questo fu tutto.

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GLI AMANTI DI FACEBOOK
proseguo de "Gli amanti della fine del giorno"
di Bruno Magnolfi

Il silenzio era forte. Dava quasi fastidio, tanto costringeva 
ad ascoltarne il respiro. Come fragili animali impauriti, tutti 
si  erano  assiepati  tra  loro,  accucciandosi  e  abbassando  le 
teste.  Il  mare,  sotto  al  costone  di  terra,  appariva  grigio 
come  il  ferro  ed  immobile,  e  la  cala,  come  un  anfiteatro, 
zeppa  di  vegetazione  spontanea,  sembrava  cedere  il  suo 
naturale  color  verde,  variegato  sotto  al  sole  in  ogni 
sfumatura  possibile,  a  quel  crepuscolo  che  non  concedeva 
più  alcuna  tonalità,  con  il  cielo,  così  come  era,  coperto  di 
nubi, e l’orizzonte poco lontano, confuso con l’acqua e con 
l’aria.  Qualcuno  aveva  cercato  tra  i  propri  pensieri  una 
parola  che  riuscisse  a  descrivere  l’immagine  che  avevano 
tutti di fronte, ma nessuno aveva osato parlare. Poi, uno per 
tutti,  si  era  sollevato  dalla  posizione  che  gli  altri  avevano 
assunto, e con voce vibrante aveva scandito il nome latino 
del sole, come a invocarne la forza, pur nascosto com’era. 
Ma  niente  era  cambiato,  neppure  il  silenzio  che  in  fretta 
aveva  recuperato  il  suo  spazio.  Avevano  tutti  camminato 
per  diversi  chilometri  prima  di  arrivare  fin  lì,  le  nubi  li 
avevano  colti  mentre  erano  a  metà  del  tragitto,  ma  tutti 
imperterriti  avevano  finto  indifferenza  completa, 
spingendosi  avanti.  Il  loro  rituale  non  era  assolutamente 
mai  stato  in  discussione:  il  sole  coperto  di  nubi  non 
cambiava  la  sostanza  alle  cose.  La  fine  comunque  era 
prossima,  lo  si  intuiva  da  diversi  fattori,  ed  anche  se  non 
sarebbe stato possibile individuare l’esatto momento in cui 
il  giorno  cedeva  il  suo  potere  alla  notte,  il  meccanismo 
degli  astri  non  avrebbe  registrato  variazioni  di  sorta. 
Improvviso  un  uccello  rapace  attraversò  l’aria  ferma, 
spandendo  il  suo  grido  sopra  di  loro,  per  sparire  in  un 
attimo oltre le cime degli alberi. Forse fu reputato quello il 

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momento  finale,  e  tutti  alzarono  gli  occhi  come  per  un 
ultimo saluto ad un periodo e ad un giorno che non sarebbe 
mai  più  ritornato.  Forse  fu  quello  il  momento  per  una 
riflessione  più  forte:  niente  era  assurdo  come  fingere 
persino  a  se  stessi  che  il  mondo  si  dominava  solo 
raggruppandosi  assieme.  Non  era  così,  la  paura  naturale 
instillata  dentro  di  loro  fin  da  quando  il  sole  aveva 
cominciato a girare, non sarebbe stata sconfitta associando 
il  terrore  di  ognuno  in  una  matematica  somma,  bensì  da 
ciascuno  di  loro,  nella  solitudine  silenziosa  per  lui  più 
congeniale,  combattendo  dentro  di  sé  la  propria  battaglia, 
per  poi  confrontarne  i  risultati  con  gli  altri.  La  luce  si 
spense,  il  silenzio  dominò  la  radura:  ognuno,  dentro  se 
stesso, si riappropriò poco per volta della propria dignità di 
individuo. Poi, scese la notte.

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L'ALLUCE
di GM Willo

Potrei  rimanere  delle  ore  ad  osservarmi  l’alluce.  In  quel 


dito vi è nascosto un mistero, ne sono certo.
La botta non è quella di sempre. Non mi ricordo neanche 
com’era  di  solito,  perché  sono  tre  mesi  che  non  mi  faccio 
un giro coi santi, il creatore e le sue puttane, ma qualcosa 
mi dice che questa volta è diverso. Con la coda dell’occhio 
rilevo  Friz  in  collasso  pieno  nell’angolo,  ma  non  mi 
distraggo dall’alluce, per paura di perderlo.
La  roba  ce  l’ha  data  uno  nuovo,  un  certo  Phon,  proprio 
come  l’aggeggio  per  asciugarsi  i  capelli.  Friz  diceva  di 
conoscerlo,  ma  secondo  me  mentiva  in  stile  piena 
astinenza,  che  per  convincermi  ad  andare  a  braccetto 
insieme si sarebbe tranquillamente venduto anche l’anima. 
Io questo lo sapevo bene perché mi ci ero trovato più volte 
nei  suoi  panni,  ma  anche  se  ero  pulito  non  me  ne  fregava 
un  cazzo,  perché  tanta  era  la  voglia  di  farmi  un  giro 
sull’ottovolante.  Eppure  ve  lo  ripeto,  questa  storia  è 
diversa. C’è qualcosa che non riesco a capire. Friz è sempre 
lì…  e  chi  lo  muove!  Ha  ancora  l’ago  nel  braccio  che  gli 
penzola  come  un  lampione  rotto.  Cavolo,  che  paragone  di 
merda!
Dicevamo  dell’alluce.  Ne  vado  fiero  e  non  lo  nascondo. 
Ho dei bei piedi, io. Anche se ho fatto la vita del tossico per 
dodici anni i piedi me li sono sempre curati. L’essenziale è 
avere  le  scarpe  buone,  la  soletta  che  respira  e  il  calzino 
giusto.  Cavolo  che  alluce  bello  che  c’ho,  anche  se  non 
riesco  a  capire  come  mai  non  riesco  a  muoverlo.  Forse  è 
proprio per questo che mi sembra che la botta sia diversa.
La  stanza  di  Friz  è  un  letamaio,  ma  almeno  non  ci 
disturba nessuno. I suoi sono fuori e comunque non entrano 
mai qui dentro. Friz è un stronzo patentato che arriva anche 
a ricattare la madre con la siringa sporca per una ventina di 

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euro. Io queste cose non le ho mai fatte. A diciotto anni mi 
sono infilato il primo ago e due mesi dopo ho lasciato casa. 
Poveri  vecchi,  per  quale  ragione  avrei  dovuto  dar  loro  la 
pena di convivere insieme a un tossico? Loro non mi hanno 
mai  fatto  niente  di  male,  anzi,  sono  stati  due  genitori 
esemplari.  Chissà  cosa  penserete  adesso,  ma  è  vero.  Mi 
hanno  insegnato  tutto  quello  che  c’era  da  insegnare  per 
vivere una vita degna, per trovarmi una ragazza, un lavoro, 
una  casa  e  così  via,  e  forse  avrei  potuto  farle  tutte  queste 
cose,  se  una  sera  di  dicembre  non  fossi  andato  insieme  a 
Elvis a farmi un bagno nella vasca di Bacco, riempita fino 
all’orlo  degli  umori  sessuali  di  Afrodite.  Elvis  mi 
sussurrava  Tread  Me  Nice  con  le  sue  labbra  sensuali.  Gli 
chiesi un pompino e lui si avventò sull’uccello e per poco 
non mi succhiò anche l’anima.
L’alluce  rimane  immobile.  C’è  qualcosa  che  non  va, 
adesso  ne  sono  tremendamente  sicuro.  Vorrei  chiamare 
Friz,  anche  se  probabilmente  sarebbe  inutile  perché  da 
quanto  riesco  a  vedere  mi  sembra  più  andato  di  me. 
Comunque  le  mie  corde  vocali  sono  morte. Amplificatore 
spento, ragazzi…
Forse  dovrei  metterci  dello  smalto,  mi  vien  da  pensare. 
Forse  sono  finocchio.  Smalto  alle  unghie  dei  piedi  e 
pompini  di  Elvis.  I  segnali  ci  sono  tutti.  Non  che  me  ne 
freghi  poi  molto.  Nella  mia  vita  avrò  scopato  per  piacere 
non  più  di  una  decina  di  volte,  più  qualche  centinaio  di 
sveltine per portarmi a casa la pagnotta.
Cazzo,  non  ci  avevo  pensato.  E  se  fossi…  ma  no,  dai! 
Eppure  fuori  è  già  buio.  Saranno  le  otto  ormai  e  questo 
vuol  dire  che  sono  tre  ore  che  ci  siamo  fatti  e  Friz  non 
accenna  a  muoversi,  mentre  io  sono  ancora  rapito  dal 
grande  mistero  dell’alluce.  Che  cazzo  ci  sarà  mai  di  così 
interessante in un dito di un piede?
Ma no dai, non può essere…
…siamo morti!
Cazzo che figata!

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AMPLESSO FURTIVO
di Fida (101 Parole)

Piegata  in  magazzino  alla  ricerca  di  una  scatola,  d'un 


tratto mi sentii toccare da dietro. Sobbalzando mi girai e lui 
mi  prese  e  mi  baciò.  La  lingua,  calda  e  avvolgente,  entrò 
nella  mia  bocca ed io non seppi resistere. Ero già sua. Mi 
toccò  le  cosce,  il  sedere,  mi  avvolse  con  il  suo  corpo, 
mentre il suo membro si strusciava sul mio ventre. Sentivo 
il desiderio salire fino alla bocca dello stomaco: ero agitata, 
emozionata,  eccitata.  Mi  alzò  la  gonna  ed  "iniziò 
l'amplesso":  questione  di  due  minuti  e  mi  fece  sua,  poi  lo 
lasciai lì, a risistemarsi i calzoni. 

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LA PRIMA VOLTA
di Massimo Mangani

La  ragazza  mi  fa  accomodare,  sorride  meravigliosa  nel 


suo vestitino corto attillato, le gambe affusolate avvolte in 
un  paio  di  calze  color  carne.  L’emozione  è  fortissima, 
tremo eccitato dalla testa ai piedi e non riesco a spiccicare 
parola,  sono  consapevole  del  mio  sorriso  ebete  stampato 
sulla bocca ma non posso farci davvero niente. La mente è 
confusa,  non  mi  rendo  conto  se  13  anni  sia  l’età  giusta  o 
meno  per  la  “prima  volta”;  so  che  c’è  chi  ha  vissuto 
quest’esperienza  prima  di  me,  ma  la  maggior  parte  la 
sperimenta dopo, qualcuno anche da adulto. Certo un po’ di 
paura credo sia normale: paura di non farcela, di non essere 
all’altezza  della  situazione,  di  scoppiare  a  piangere  una 
volta  iniziato.  L’importante  è  tenere  sempre  presente  che 
bene o male finirà, che si tratta di un misero attimo rispetto 
all’intera  vita,  di  un  istante  rispetto  all’eternità 
dell’universo.
La ragazza si china su di me, mi lascia intarvedere i suoi 
seni, mi sussurra qualcosa all’orecchio, credo abbia capito 
perfettamente  il  mio  stato  d’animo;  inizio  a  sudare 
copiosamente,  lei  si  volta  e  si  allontana  sculettando  molto 
dolcemente,  è  bellissima  con  i  suoi  riccioli  neri. 
Paradossalmente  non  riesco  ad  apprezzarla  più  di  tanto,  il 
pensiero di ciò che sta per accadere offusca la mia mente. 
Sotto  di  me  percepisco  la  potenza  che  inizia  a  scatenarsi, 
penso  ai  miracoli  che  l’uomo  è  in  grado  di  fare  e 
segretamente  gioisco  di  tanto  vigore;  tra  qualche  istante 
l’oggetto di tante passioni si ergerà libero ed incontrastato, 
pronto ad essere ammirato e desiderato.
La ragazza torna da me, in una mano stringe un bicchier 
d’acqua  mentre  nell’altra  tiene  un  piccolo  involucro 
d’alluminio,  molto  sottile  ma  con  un  rigonfiamento  al 
centro,  un  omaggio  per  rendere  più  piacevole  la  nostra 

148
avventura.  Fisso  le  sue  splendide  gambe  e  per  un  istante 
penso  come  sarebbe  bello  poterle  toccare,  sentire  sotto  le 
dita  il  nylon  liscio  e  delicato,  ma  subito  un’ombra  oscura 
questo pensiero: la consapevolezza che ogni giorno decine 
di  occhi  ammirano  quelle  bellezze  e  probabilmente 
desiderano  deliziarsi  con  esse.  D’altronde  è  il  suo  lavoro, 
intrattenere persone che la tormentano con le richieste più 
starne,  esaudire  le  voglie  dei  clienti,  anche  quelli  più 
bizzarri.  Probabilmente  è  felice  di  potersi  prendere  cura 
ogni  tanto  di  un  ragazzino  della  mia  età,  di  poterlo 
coccolare,  vezzeggiare  liberando  una  punta  di  istinto 
materno,  consapevole  di  doverlo  accompagnare 
delicatamente  per  tutta  l’esperienza  evitando  il  più 
possibile traumi che potrebbero rivelarsi molto duri.
Con  mano  tremante  bevo  l’acqua,  sento  crescere  la 
potenza,  percepisco  vibrazioni  fortissime  che  francamente 
mi  mettono  a  disagio,  afferro  l’involucro  di  alluminio  ed 
inizio  a  scartarlo.  Contiene  una  specie  di  palloncino 
trasparente,  un  pò  viscido,  non  riesco  a  capire  bene  cosa 
sia.
Finalmente  la  ragazza  mi  si  siede  accanto,  mi  guarda  un 
pò  divertita  e  mi  domanda  se  so  come  usarlo.  Annuisco 
imbarazzato, mi porge il palmo aperto della mano, le rendo 
l’oggetto  misteroso  e  lei  mi  da  una  dimostrazione  pratica, 
con le dita e la bocca! Rimango estasiato, improvvisamente 
sento  la  sua  mano  che  cerca  la  mia,  gliela  stringo,  una 
mano dalla pelle morbida e delicata… finalmente ci siamo, 
non resisto davvero più!

I  motori  girano  al  massimo,  non  riesco  a  muovermi, 


guardo la ragazza che mi sorride proprio mentre prendiamo 
il  volo…  sorride…  sorride  ad  uno  stupido  ragazzino 
impaurito  che  stringe  in  mano  un  palloncino  con  scritto: 
“Lufthansa vi da il benvenuto!”.

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QUANDO HANNO ABBATTUTO IL PONTE…
di Dario De Giacomo

Dietro di sé il narratore ha uno specchio,
che lo riflette nell’atto di scrivere.
(Jack il ventriloquo)

Quando hanno abbattuto il ponte io non c’ero. Al ritorno 
da  un  viaggio  al  suo  posto  ho  trovato  un  buco  riempito 
d’aria.  Ma  questo  lo  so  perché  l’ho  sentito  in  treno, 
dicevano  che  avevano  demolito  il  ponte  della  ferrovia, 
quello che divide via Oberdan in due. Mi chiedo dove passa 
il treno ora: mi faccio sempre un mucchio di domande così.
Non  trovo  più  il  ponte  dentro  la  mia  testa,  né  la 
prospettiva  di  case  in  fuga  dietro  l’arco.  Il  fatto  è  che  io 
proprio  non  ricordo  mai  nulla  e  le  immagini  sono 
ammucchiate  alla  rinfusa.  Ma  se  la  mia  memoria  è  vuota, 
penso, non sono mai vissuto? Questo pensiero mi spaventa, 
perché  anche  della  mia  infanzia  conservo  solo  ricordi 
lontanissimi.  Sono  convinto  che  tutti  ricordino  tutto  e  che 
soltanto io sono escluso da questa festa di memorie, se non 
per brevi, dolorosissimi lampi. Mio padre è un rigido abito 
marrone  in  un  letto  contro  il  muro,  senza  sorriso.  Gli 
occhiali da sole nel taschino della giacca. Le persiane sono 
abbassate  per  proteggere  i  singhiozzi.  Al  buio  si  muore 
meglio, perché si dimentica più in fretta la luce.
Alla  mia  fermata  scendo  dal  treno,  subito  in  cerca  del 
ponte  per  orientarmi,  ma  ovviamente  non  c’è.  Allora 
avverto  una  fitta  tra  lo  stomaco  e  lo  sterno  che  mi  dà  la 
nausea,  non  so  perché.  Senza  il  ponte,  qui  nella  mia  città, 
mi sento in un altro luogo. Sono altrove da sempre. Ignoro 
tutti i nomi delle strade e quando mi chiedono indicazioni 
fingo  di  essere  straniero,  dissimulando  l’imbarazzo,  e  non 
sono  nemmeno  capace  di  tirare  una  linea  dritta  tra  gli 
angoli, i vicoli, le curve che girano intorno agli edifici.
Ora  il  calore  alle  tempie  cresce.  Sono  di  nuovo  altrove: 
mentre festeggiano il mio compleanno. Tutti si affollano tra 

150
le  mie  cose,  ma  io  mi  sento  spaesato  perché  questa  non  è 
casa  mia.  “Voglio  tornare  a  casa  mia”  urlo,  mentre  lo 
stupore  corre  divertito  da  un  volto  all’altro  di  tutti  gli 
stranieri che affollano le stanze. Perché gli altri riescono a 
ricordare  gli  eventi,  i  volti,  i  luoghi  con  una  precisione 
nitida e nella trama della mia vita, invece, ci sono dei buchi 
enormi?
Mi  ricordo  di  un  attimo:  stringo  il  pigiama  di  mio  padre 
tra  le  mani,  ne  accarezzo  la  stoffa  ruvida,  la  annuso. 
Nell’angusto vano del bagno di servizio sento il suo odore. 
Ora non so che svanirà. Ancora ignoro che le immagini di 
ieri  spariranno.  Mio  padre  è  morto  in  una  sera  di  giugno: 
svanito,  come  il  suo  odore.  Semplicemente  ha  smesso  di 
muoversi, poi si è decomposta la sua immagine, poi la sua 
memoria.  Ora  hanno  abbattuto  anche  il  ponte,  che 
sosteneva tutta la fragile impalcatura dei miei passi dentro 
la  città.  Le  cose  sono  messe  lì  apposta  per  indicarci  dove 
andare  e  come  arrivarci.  Altrimenti  è  il  caos,  una  mappa 
disegnata senza punti di riferimento.
Deve  esserci  qualcuno  che  costruisce  i  ponti,  le  strade,  i 
vicoli  che  tagliano  in  due  le  arterie  principali  per 
abbreviarci il cammino quando siamo diventati abbastanza 
abili  da  camminare  speditamente.  Noi  poi,  dentro  la  testa, 
rinominiamo quegli oggetti per ritrovarli facilmente. Ma io 
alcuni  li  ho  dimenticati  subito  e  gli  altri  vanno  e  vengono 
come  sabbia  nella  clessidra.  Però  se  il  panorama  cambia 
troppo rapidamente mi sento smarrito e anche se mi sforzo 
di  esumare  i  luoghi,  com’erano  prima,  è  tutto  inutile. 
Perché  le  immagini  sono  come  un  ponte.  Dopo  la 
demolizione, nello spazio vuoto, restano solo i moncherini 
aggrovigliati  di  fili  metallici:  il  treno  passerà  da  un’altra 
parte, ma non so dove, e io non riuscirò a trovare la strada.
La folla, in piazza Matteotti (ho dovuto leggere la targa di 
pietra  in  cima  al  muro  di  fronte),  davanti  alla  stazione, 
sciama scompostamente in tutte le direzioni. Ognuno però 
con  un  orientamento  netto,  preciso.  Cioè  sanno  dove 
andare, mentre io rimango immobile dentro lo spazio vuoto 

151
che prima era un ponte. Mi abbandono a quel vuoto senza 
nemmeno  la  speranza  di  un  appiglio,  è  come  morire.  Il 
mistero delle superfici vuote che diventano talmente piene 
da  poterne  seguire  il  perimetro  con  le  dita,  e  si  disfano, 
prima o poi, senza nemmeno il ricordo nell’aria.
Ogni  volta  che  tento  un  passo  mi  assale  l’incertezza.  È 
vero, so che è tardi, devo andare. Ma per andare da qualche 
parte devo decidere la direzione, ed è come riempire i miei 
buchi con qualcosa molto più duro di uno sforzo di volontà. 
Se decido, poi non ho problemi con la volontà, magari mi 
lascio andare ma cammino comunque. Ma senza il ponte la 
fatica è tremenda.
A poco a poco, continuando ad entrare ed uscire dalla mia 
consapevolezza  del  luogo,  noto  che  la  folla  traccia  delle 
forme precise nel suo fluire e rifluire al centro della piazza. 
Prima  non  ci  avevo  fatto  caso.  Ognuno  segue  la  sua 
direzione,  ma  tutti  insieme,  impercettibilmente,  creano 
delle  tracce.  Se  avessi  una  matita  rosso­blu  con  me  potrei 
sottolinearle, per tenerle meglio a mente.
In  un  punto  la  massa  si  coagula  densa,  come  un  trombo 
duro  nelle  arterie  principali  di  questa  città.  Fluisce 
lentamente, addensandosi. Inizio a camminare seguendo la 
traccia  corposa  di  gente  che  cammina,  spintonandosi, 
urtandosi.  Una  fiumana  di  carne  che  si  precipita  in  quella 
direzione, come una guaina attorno alla mia trama sfibrata. 
Ho sentito dire a qualcuno che vanno verso il ponte. “Dove 
prima c’era il ponte della ferrovia?” chiedo ansiosamente.
Nessuno lo sa. Ma andiamo insieme.

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SUL TETTO DEL MONDO
di Marco Muzzi

Le  avevano  detto  che  il  suo  nome  traeva  origine  dalla 
Luna, e con essa poteva crescere e ciclicamente rinnovarsi, 
le  avevano  detto  di  chiamarsi  Thana,  e  che  i  raggi  della 
luna  l’avrebbero  protetta,  come  la  giovinetta  che  nel 
pericolo di essere violata venne soccorsa da essi, uccidendo 
il  persecutore.  Le  avevano  anche  detto  che  la  Luna  che  si 
arrampicava  sulla  sommità  della  volta  oscura  era 
intoccabile, ma i raggi l’avrebbero attinta egualmente, non 
vi  era  necessità  dunque  di  arrampicarsi  per  esserle  più 
prossima,  tanto  meno  per  raggiungerla.  Thana  era  papacs 
del  patriarca  Vel,  che  amava  sopra  ogni  cosa,  perfino  dei 
genitori,  tanto  che  qualsiasi  segno  negativo  del  cielo,  dei 
boschi o degli animali era oggetto di consulenza benevola 
dell’avo.
“Papa,  che  vuol  dire  quando  il  passero  cambia  direzione 
con una capriola?”
“Papa,  ho  sognato  la  capra  destinata  al  sacrificio  che  mi 
parlava, che significa?”
Papa  (l’avo),  che  degli  aruspici  aveva  appreso  la  nobile 
arte,    trovava  sempre  una  risposta  pronta,  leggeva  le 
interiora  e  dispensava  consigli  e  saggezza,  sebbene Thana 
richiedesse  più  del  dovuto  e  si  tentava  di  carpire  responsi 
oltre  il  necessario,  carezzando  il  capo  all’avo,  come  ogni 
nipote sa fare per intenerire e ottenere il regalo sperato. Ma 
Thana  andava  oltre  e  il  fascino  della  Luna  non 
l’abbandonava;  aveva  sentito  dire  che  la  sommità  del 
monte  era  raggiungibile  da  un  sentiero  più  visibile  al 
crepuscolo  che  durante  il  giorno,  per  cui  ogni  sera  di 
plenilunio  (o  anche  qualche  giorno  prima  o  dopo)  si 
inerpicava dopo essersi tolta gli stivaletti a punta e essersi 
calzata  i  sandali,    per  il  suo  particolare  rito  si  cingeva  la 
vita con i rami di un’erba profumata e si metteva il tutulus 

153
per poi scoprire il capo all’ultimo, liberare i capelli quando 
giungesse  alla  sommità  del  monte,  lasciando  scintillare  la 
chioma  ai  riflessi  lunari.  Più  saliva,  più  sentiva  una 
leggerezza nell’animo, le disgrazie che avevano costretto la 
famiglia ad abbandonare i lussi antichi e la scomparsa della 
madre  diventavano  più  sopportabili,  sentiva  una  forza 
sovrannaturale che la portava quasi a correre, salendo, per 
raggiungere  il  prima  possibile  la  punta  del  monte.  La 
montagna,  era  appuntita  alla  sommità  da  una  cresta 
rocciosa non facile da arrampicare, ma le membra giovani 
e la leggerezza del corpo di Thana non offrivano resistenza 
e  la  ragazza  raggiungeva  con  rapidità  fulminea  la  punta. 
Sulla  vetta  osservava  i  campi,  la  vallata  delle  abitazioni, 
che  insieme  alla  sua,  costituivano  uno  dei  centri  più 
importanti, l’orizzonte era sfumato dal chiarore bianco latte 
e  quando  alzava  gli  occhi,  il  satellite  appariva  con  un 
pallore  accecante,  un  lume  freddo  che  per  un  istante  le 
infastidiva l’iride.
Sulla vetta Thana si sentiva l’essere vivente più in alto di 
tutti,  le  piaceva  pensare  di  essere  privilegiata  e  di  avere 
libero  accesso  ai  segreti  della  notte,  libera  com’era  di 
staccarsi dal suolo, a due bracciate dal cielo.

154
EUPHORIA
di Marco Filipazzi

La luce è soffusa. La grande sala è appannata di fumo. La 
musica  rimbomba.  La  massa  brulica,  si  muove  come  un 
cumulo di formiche intrappolate che stanno per impazzire, 
ma anche in mezzo a loro la scorgo. La sua massa di capelli 
arancioni  si  agita  forsennata.  Cattura  subito  la  mia 
attenzione.
Finisco  la  birra  d’un  fiato  e  le  vado  incontro.  Getto  il 
bicchiere  di  plastica  a  terra,  un  secondo  dopo  viene 
calpestato  sotto  una  miriade  di  suole  sporche.  Mi  faccio 
largo  tra  la  folla.  Quando  la  raggiungo  lei  non  mi  nota 
subito.  Continua  a  dimenarsi  al  suono  di  quel  punk 
frastornante. Ac/Dc. Ramones. Germs. Emana un odore di 
fumo  e  sudore.  Ha  una  minigonna  rosa  shocking  con 
motivo  scozzese.  Le  calze  a  rete  bucate.  Una  maglietta 
scolorita  dei  Punkreas  annodata  a  scoprirle  la  pancia.  Un 
borsello  borchiato,  tempestato  di  spille  tonde,  portato  a 
tracolla.  Le  sobbalza  su  un  fianco.  Finalmente  si  gira.  Si 
accorge di me. Mi fulmina con lo sguardo. Mi cattura.
La  canzone  cambia.  Balliamo  insieme  quella  canzone 
stonata.  Al  secondo  ritornello  lei  si  getta  verso  di  me,  le 
braccia  attorno  al  mio  collo,  e  mi  ficca  la  lingua  in  bocca 
con tanta violenza che quasi mi fa male. È una forza della 
natura. Non so come si chiama, ma per me è la Regina del 
Punk.  Si  struscia  un  po’,  poi  avvicina  la  bocca  al  mio 
orecchio e sussurra. “Vieni con me.” Mastica una gomma.
Prendendomi per mano mi trascina tra la folla. Mi porta in 
bagno. Mi spinge dentro uno dei cessi e chiude la porta. La 
serratura scatta. Clack! Il fetore di piscio e fumo e vomito 
è  insopportabile.  Lo  sguardo  di  lei  è  lucido  di  libido. 
Suppongo debba esserlo anche il mio. Con foga mi slaccia 
i  pantaloni  e  a  quel  punto  sono  disposto  a  farmi  fare  di 
tutto. Di tutto.

155
“Sei  carino”  dice  lei.  Si  toglie  la  gomma  dalla  bocca  e 
l’incolla  alla  parete.  Rovista  nel  borsello  con  una  mano, 
con l’altra si infila nei miei boxer.
“Anche tu non sei male” dico. Le parole mi escono come 
un  mugugno.  Lei  sorride  maliziosa.  Mi  poggia  una  mano 
sullo sterno e mi costringe a sedermi sul water.
“Hai  qualcosa  per  mandarci  in  orbita?”  si  mette  a 
cavalcioni su di me. 
Sorrido. Un sorriso da ebete. Mi metto una mano in tasca 
e le agito davanti al naso un sacchetto. Dentro ci sono delle 
pastiglie rosse. Pastiglie di Euphoria. Quanto di più potente 
esista sul mercato per mandarti in orbita e fare punk tutta la 
notte. Fresche fresche dalla Colombia. Il suo viso si contrae 
in una smorfia di sadico piacere. Mi toglie il sacchetto dalle 
mani. Si toglie da sopra di me. Pantaloni e boxer ricadono 
a  terra,  sul  pavimento  sudicio.  Si  acciambellano  intorno 
alle mie caviglie.
“Rilassati” mi dice. Mi ordina. Getto la testa all’indietro, 
l’appoggio contro il muro. Chiudo gli occhi. Mi concentro 
sul piacere. Poi tutto accade in meno di un secondo.
Mi  sento  accarezzare  la  gola  dalle  sue  dita  fredde.  Un 
brivido  mi  percorre  la  schiena.  Mi  scende  giù  nello 
stomaco. Riapro gli occhi e provo a dire qualcosa. L’unico 
suono  che  mi  esce  dalla  gola  è  un  rantolo  strozzato. 
Attorno  a  me  le  pareti  del  bagno  sono  affrescate  con  glifi 
rossi. Rosso sangue. Mio sangue. Alzo gli occhi su di lei. Si 
è  appiattita  contro  la  porta  del  bagno.  Alcuni  schizzi  di 
sangue le hanno rigato la maglietta. La pancia. Mi porto le 
mani alla gola come per cercare conferma. Si, sono io che 
sanguino.  Noto  un  taglierino  nella  sua  mano.  Gocciola 
gocce  vermiglie.  Lei  sorride  malefica.  Attende  la  mia 
morte.
Mentre  le  forze  mi  abbandonano  la  vedo  sfilarsi  la 
parrucca arancione. Una cascata di capelli neri, lisci come 
spaghetti, le ricadono sulle spalle. Solo allora la riconosco. 
Una  delle  puttane  di  Don  Fernando.  La  più  pericolosa.  Il 

156
suo nome d’arte è Black Julie, mi pare. Ed io mi sono fatto 
inculare una partita di Euphoria per un pompino.
In  fondo,  forse,  meglio  morire  così  che  affrontare  il  mio 
boss.

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NOTTURNO D'AMORE
di Giulia Riccò (101 Parole)

Seduta in giardino, guardavo le stelle. 
Improvvisamente le sue mani si posarono sulle mie spalle, 
e mi baciò sul collo.
«Vieni dentro?» mi chiese dolcemente.
«No, fa caldo, e voglio le stelle come spettatrici» gli dissi 
alzandomi  e  attirandolo  a  me.  Lo  baciai.  Cominciammo  a 
spogliarci  l’un  l’altra.  Piano  mi  allargò  le  gambe  e 
cominciò a farmi godere con le sue mani forti e delicate. Lo 
fermai e lo sdraiai sull’erba mettendomi sopra di lui.
«Oggi  comando  io»  gli  sussurrai.  Lo  possedei  con  dolce 
passione  fino  a  che  le  nostre  urla  di  piacere  non  fecero 
arrossire le stelle che osservano invidiose. 

158
IL TEMPIO
di GM Willo

Dio  mi  ha  parlato  attraverso  un  canale  criptato.  Era  lui, 
adesso lo so.
Al  Tempio  le  anime  venivano  e  andavano,  più  per 
curiosare che per altro. Il server poteva ospitare fino ad un 
miliardo  di visitatori, ma a volte era costretto a rallentare. 
Le anime non si lamentavano. Pensavano che facesse parte 
della  visione,  e  poi  il  servizio  era  pagato  dalla  pubblicità 
all’entrata,  o  almeno  così  tutti  credevano;  Midas,  la  bibita 
del  profeta.  Chi  non  era  soddisfatto  del  servizio  o  se  ne 
andava o se ne stava zitto.
Facevamo  un  mucchio  di  soldi  io  e  il  prete.  Il  prete 
l’avevo conosciuto dentro una blind­orgy, quell’esperienze 
di sesso random che andavano di moda lo scorso anno. Non 
erano  male,  ma  poi  quando  hanno  cominciato  a  usare  le 
ragazze  spot  mi  sono  scocciato.  Mi  ero  beccato  molte  più 
spinte  pubblicitarie  di  quanto  potessi  soffrire.  Me  ne 
accorsi  quando  mi  risvegliai  d’improvviso  davanti  a  uno 
scaffale di sapone per l’igiene intima. Dissi basta, e tornai 
alle  normali  pink­chat.  Però  rimasi  in  contatto  con  questo 
Thomas  Serpe,  come  si  faceva  chiamare.  Ci  eravamo 
incontrati in una di quelle situazioni estreme di gioco; isola 
di sabbia bianca, palme color verde smeraldo e un centinaio 
di ragazze in bikini a nostra completa disposizione.
­  Questi  fanno  un  mucchio  di  soldoni  con  gli  innesti 
pubblicitari – dissi io, mentre afferravo per la vita un paio 
di bionde.
­ Appena esco mi faccio un bel lavaggio. Se vuoi ti passo 
il programma?­ offrì lui.
­  Volentieri.  Maledetti  spot!  Però  adesso  funziona  tutto 
così. ­
­ Beh, non ci sono solo gli spot? ­
­ Che vorresti dire? ­

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­ Ho un progetto in mente ma mi manca liquidità. Se vuoi 
te ne parlo, "fuori" però… ­ E così ci demmo appuntamento 
in un locale del centro, uno dei pochi rimasti ancora attivi 
"fuori". Metà dei clienti era comunque attaccata al deck del 
tavolino,  con  le  bevande  lasciate  a  mezzo  e  ormai 
trasformate in brodaglie imbevibili.
Thomas  era  vestito  come  un  vero  uomo  d’affari,  con  un 
completo beige di marca e una valigetta di pelle nera. Forse 
voleva  fare  impressione,  oppure  gli  piaceva  vestirsi  bene. 
Non mi sentivo a disagio con i miei jeans, specialmente in 
quel locale defilato.
­ Cosa posso offrirti? ­
­ Una birra va benissimo. ­
Quella  sera  fondammo  il Tempio,  qualcosa  di  veramente 
sensazionale.

Qual’è il migliore settore per fare affari dopo il porno? La 
droga,  è  ovvio.  E  dopo  quella?  La  religione…  miliardi  di 
consumatori  sparsi  in  tutto  il  mondo.  Adesso  immaginate 
un  mercato  che  fa  convergere  questi  ultimi  due.  Ecco  che 
cos’era  il  Tempio.  La  promessa  di  vedere  dio,  di  poterci 
parlare,  di  poterlo  addirittura  toccare,  questo  era  ciò  che 
vendevamo  io  e  il  prete.  Ovviamente  nessuno  sospettava 
che elevassimo le anime con le ultime sinto­droghe digitali 
in  circolazione.  I  fedeli  entravano  in  chiesa,  vedevano  la 
pubblicità  della  bibita  e  si  sedevano  tranquilli  davanti  alle 
effigi  sacre.  Poi  arrivava  il  prete  per  il  sermone,  e  nel 
frattempo  un  programma  ghost  alterava  le  derivazioni  dei 
clienti  con  un  boost  di  roba  ben  tagliata.  La  visione  era 
assicurata  e  gratuita,  almeno  la  prima  volta.  Se  poi 
l’esperienza  divina  ti  prendeva  bene  potevi  sempre 
abbonarti; dodicimila crediti l’anno. Dopo il primo mese di 
attività avevamo già quattrocentomila registrazioni in PRO, 
e un traffico di due milioni di visite al giorno. Il mio conto 
in banca nel frattempo era decuplicato.
Gli sbirri avevano annusato la roba, ma noi saltavamo da 
un  server  all’altro  con  la  rapidità  di  una  cavalletta.  Era 

160
praticamente  impossibile  risalire  ai  nostri  indirizzi  e  conti 
correnti.  Qualcuno  dette  l’allarme,  ma  la  gente  preferisce 
credere al divino che alla cruda realtà, e come biasimarla. Il 
Tempio era il luogo della rivelazione, la cosa più sacra mai 
accaduta  dall’invenzione  della  fibra  ottica.  Alcuni 
interruppero  l’abbonamento  quando  la  voce  sulla  droga 
venne  fuori,  ma  fu  una  goccia  nell’oceano.  L’afflusso  di 
visite  ci  costrinse  ad  investire  e  ad  esporci  di  più.  Per 
mantenere  la  reputazione  non  potevamo  più  nasconderci. 
Contattai un vecchio amico che ci sapeva fare e, sotto lauto 
compenso, gli chiesi di insabbiare il programma ghost che 
innestava  la  roba.  Se  ne  uscì  fuori  con  un  piccolo 
capolavoro.  Gli  sbirri  potevano  piombare  sul  server  in 
qualunque  momento  e  non  avrebbero  trovato  niente  di 
strano.  Eravamo  pronti  ad  uscire  dalla  tana  e  a  fare  un 
mucchio di soldi.
Alla fine dell’anno il Tempio era la sensazione. Quindici 
milioni di iscritti e cento milioni di visitatori. Io e il prete 
avremmo  potuto  ritirarci  davvero  su  un’isola  deserta 
insieme  a  un  centinaio  di  ragazze  in  carne  e  ossa,  invece 
rimanevamo  attaccati  al  deck,  fino  a  venti  ore  il  giorno. 
Perché  il  denaro  è  una  fottutissima  droga,  la  peggiore  di 
tutti. Credetemi!
Sapevamo  che  sarebbe  venuto  il  giorno  in  cui  la  bomba 
sarebbe  esplosa. Avevamo  trasformato  milioni  di  fedeli  in 
tossicodipendenti. Bussavano alle porte del Tempio ad ogni 
ora e non se ne volevano più andare. Si erano avute diverse 
overdosi  e  alcuni  casi  fatali  di  disidratazione  al  deck. 
Cercammo  di  sedare  le  voci,  mettemmo  la  questione  in 
mano  ad  un  buon  avvocato  e  inserimmo  nuove  regole  per 
gli  utenti.  Prendemmo  tempo,  ma  sapevamo  entrambi  che 
non  poteva  durare.  Il  prete  venne  da  me  un  giorno  e  mi 
disse in tutta sincerità che dovevamo staccare tutto, finché 
ci  era  concesso.  Io,  accecato  dalla  bramosia,  provai  a 
prendere  ancora  un  po’  di  tempo.  Litigammo  e  lui  se  ne 
andò sbatacchiando la porta. Non lo rividi mai più.

161
Tirai  avanti  da  solo  per  un  mese,  poi  le  cose  si  fecero 
ancora  più  complicate.  Chi  ci  vendeva  la  roba  pretendeva 
di  entrare  in  società,  una  questione  che  era  sempre  stata 
fuori discussione, ma il prete se n’era andato e da solo non 
riuscivo  a  stare  dietro  a  tutto.  I  casini  si  moltiplicarono 
velocemente  una  volta  che  gli  spacciatori  presero  sotto  il 
loro controllo il programma di innestamento. La roba perse 
di  qualità,  le  overdosi  aumentarono,  la  polizia  ci  fu 
nuovamente col fiato sul collo.
Mentre guardavo rifluire le anime nel Tempio, molte delle 
quali si trascinavano come amebe, cercai di dare un senso 
alla follia di cui ero stato, insieme a Thomas, l’artefice. Fu 
in quell’istante che si aprì una finestra bianca ed accecante, 
una  luce  rotta  da  un  cursore  nero  come  lo  spazio  infinito, 
un  occhio  abissale  che  lampeggiava  in  alto  a  sinistra.  Le 
parole presero forma lentamente, lettera dopo lettera.
“Fermati adesso! Te lo ordino.”
­ Chi sei? – domandai, senza accorgermi di tremare.
“Fermati,  figlio.  Hai  venduto  abbastanza  bugie  e  falsi 
miracoli  da  far  rimpiangere  il  mio  nome  per  almeno  un 
altro secolo. Basta!”
­ Vuoi dire che tu… ­
Ma  la  finestra  di  luce  era  già  stata  inghiottita  dalla 
matrice.

Dio mi ha parlato attraverso un canale criptato. Non posso 
provarlo, ma questa è la ragione per la quale ho distrutto il 
suo  falso Tempio  e  ho  accettato  di  farmi  questi  venti  anni 
dentro la cella di un penitenziario: solo così, forse, riuscirò 
a riedificarne uno vero, dentro di me.

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IL SENSO AUTOCRITICO
di Bruno Magnolfi

I ragazzi adesso apparivano tutti abbastanza tranquilli. Si 
erano  agitati  nel  pomeriggio,  tutto  per  causa  di  due  o  tre 
incomprensioni,  ed  erano  subito  volate  parole  offensive, 
frasi di scherno, segnali che dimostravano la scarsa volontà 
di  capire  ognuno  le  ragioni  dell’altro.  L’argomento  era 
sempre il medesimo: scegliere le strategie più adeguate per 
reclutare  sempre  nuovi  sostenitori  della  causa  a 
fondamento  della  vita  civile.  Qualcuno  provocatoriamente 
aveva  spiegato  che  era  giunto  il  momento  di  dare  una 
spallata  ai  modi  garbati  usati  da  sempre  in  quel  gruppo;  i 
volantini  e  gli  appelli  non  servivano  a  niente,  aveva 
spiegato,  si  doveva  provare  a  percorrere  strade  diverse, 
sistemi  per  scrollare  in  maniera  più  forte  le  persone 
assopite  davanti  ai  televisori  e  ai  computer.  Qualcun  altro 
aveva risposto che era giusto lasciare la libertà di spendere 
il  tempo  ognuno  come  voleva,  ed  altri  avevano  incalzato 
che unicamente lo stimolo per cambiare le cose era il solo 
possibile  elemento  da  introdurre  nella  vita  ordinaria  di 
persone  qualsiasi,  alle  quali  tutto  andava  bene  così.  Uno 
poi  si  era  alzato  e  aveva  parlato  senza  mezze  parole  di 
superficialità e di “opinioni dettate dalla cultura assorbita”, 
che  quindi  non  erano  proprie,  bensì  indotte  da  un  sistema 
che  portava ciascuno a credere di avere pareri individuali, 
ma  che  alla  fine  dei  giochi  erano  quelli  di  tutti,  foggiati 
sopra  un  modello  di  disinteresse  diffuso  verso  qualsiasi 
diverso argomento. Metà dei ragazzi, a queste parole, si era 
scagliata  contro  l’altra  metà:  sembrava  impossibile  che 
ogni  persona  non  avesse,  in  base  a  quanto  spiegato,  la 
libertà  vera  di  stabilire  che  cosa  era  bello  e  che  cosa  era 
brutto,  o  meglio,  che  cosa  a  loro  piaceva  e  che  cosa 
risultava  sgradevole,  mentre  gli  altri,  incalzando  con 
termini accesi, continuavano a dire che il senso autocritico 

163
di  porre  le  cose  era  ormai  inesistente,  e  che  tutto  era 
plasmato  dai  mezzi  di  massa,  i  quali  con  facilità 
plasmavano  anche  i  pensieri  e  i  cervelli.  Fu  trovato 
l’accordo soltanto più tardi, quando ciascuno di loro tornò 
sui  suoi  passi,  e  moderando  i  termini  e  i  modi,  fu  deciso 
che  si  sarebbe  messo  in  campo  di  nuovo  la  strategia  già 
adoprata,  scegliendo  così  di  non  scegliere  niente, 
conservando  in  questa  maniera  almeno  ciò  che  era  stato 
fino ad allora raggiunto.

164
FRENESIA
di Massimo Mangani

Nel traffico congestionato di Firenze, con il mio vecchio 
motorino,  mi  trovo  spesso  a  riflettere  sullo  scorrere  della 
vita  quotidiana. La routine è sempre la stessa: sveglia alle 
6.00, abbondante colazione leggendo la rassegna stampa su 
internet,  alle  7.00  sveglia  di  moglie  e  figli  e  fin  qui  la 
dimensione  quotidiana  appare  ancora  sostanzialmente 
umana.  Dopo  aver  salutato  la  consorte  ed  accompagnato  i 
pargoli  a  scuola,  salgo  in  sella  al  mio  vecchio  catorcio  e, 
proprio in quel momento, inizia la Frenesia!
Con  un  occhio  all’orologio  sul  cruscotto  e  l’altro  alla 
strada,  mi  infilo  nella  bolgia  fra  fumo  azzurrognolo,  colpi 
di  clacson  e  berci  di  automobilisti  esasperati.  Ogni 
sorpasso, ogni incrocio costituiscono un rischio, i pali della 
luce  sono  tappezzati  di  fiori  e  foto  di  morti…  più  che  i 
viali… il Vietnam! Una piccola emozione, tutte le mattine, 
all’apparire  dello  skyline  del  centro  città,  la  Cupola,  il 
Campanile,  Palazzo  Vecchio,  poi  nuovamente  nella  ressa 
per  accaparrarmi  la  pole­position  ai  semafori  rossi.  Verso 
Piazza  Pitti  c’è  un  attimo  di  tregua,  il  traffico  è  ridotto  ai 
minimi  termini  grazie  anche  alla  ZTL,  così  posso 
percorrere  via  Sant’Agostino  senza  il  terrore  di  essere 
schiacciato  da  un  momento  all’altro  da  un  camion  della 
nettezza.  Passato  S.  Spirito  ecco  che  faccio  l’incontro. 
Proprio  all’incrocio  con  via  de’  Serragli,  fuori  da  una 
piccola  bottega,  come  poche  sono  rimaste  in  città,  un 
anziano  se  ne  sta  seduto  su  una  seggiolina  di  vimini. 
Ufficialmente  è  un  venditore  di  libri  usati,  basta  sbirciare 
nel suo negozio per rendersene conto… in realtà osserva… 
Richiama alla memoria quei filosofi greci, studiati sui libri, 
che  praticavano  l’Agorazein,  l’osservazione  del  genere 
umano in piazza! Ebbene sì, con un’aria serafica che mi fa 
un’invidia pazzesca, il vecchietto osserva lo scorrere della 

165
quotidianità  e  quando  qualcuno  gli  passa  davanti  a  passo 
svelto,  lui  sorride  e  saluta…  la  cosa  straordinaria  è  che 
tutti,  di  fronte  a  quel  disarmante  atto  umano,  rallentano  il 
passo e ricambiano il saluto.
Sorride, saluta, osserva… sorride, saluta, osserva…
Dall’interno  della  mia  boccia  di  vetro  sposto  lo  sguardo 
sull’anziano signore, pronto a distoglierlo immediatamente 
qualora  venisse  ricambiato.  Tutte  le  mattine  mi  chiedo 
come  abbia  fatto  il  venditore  di  libri  usati  a  non  lasciarsi 
coinvolgere  dalla  frenesia  del  mondo  contemporaneo; 
confesso  che  la  prima  volta  che,  passando  di  lì  l’ho  visto, 
ho  provato un po’ di pena… quella botteguccia malandata 
coi  vecchi  libri  accatastati  in  terra,  senza  nessun’insegna, 
nessun  espediente  che  possa  attirare  l’attenzione  dei 
passanti  occasionali,  che  so,  l’immagine  di  una  donna 
nuda…
Riflettendo  ho  capito  che  forse  non  avevo  capita  nulla! 
Quello  sguardo  sereno,  quel  sorriso  vero  e…  (beh,  ci  ho 
messo  un  po’  a  realizzarlo)  beffardo  sono  la 
rappresentazione  di  come  dovrebbe  essere  l’umanità  per 
poter vivere degnamente. Da un lato il traffico, i fumi che 
bruciano  i  polmoni,  i  vaffanculo  pronunciati  per  qualche 
metro in più, dall’altro una botteguccia piena di libri usati, 
dal cui interno si percepiscono appena, in maniera ovattata, 
i  rumori  del  mondo  contemporaneo.  Da  un  lato  facce 
incazzate,  congestionate,  dall’altro  lo  sguardo  serafico,  il 
sorriso solare!
Una mattina, dopo l’ennesimo litigio ad un semaforo con 
conseguente svuotamento di bile, sono arrivato davanti alla 
bottega  e  come  al  solito  ho  dato  una  sbirciatina…  questa 
volta  l’anziano  libraio  mi  ha  anticipato,  i  suoi  occhi  gia 
puntati  verso di me. Non fosse stato per il rombo del mio 
catorcio  avrei  creduto  di  sognare  quando,  con  il  solito 
sorriso  sulle  labbra,  il  libraio  mi  ha  fatto  cenno  di  entrare 
nella sua bottega. D’istinto ho sgassato e mi sono involato 
verso Piazza del Carmine.

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Lì per lì mi è mancato il coraggio ma, dato che suppongo 
l’invito  sia  sempre  valido,  una  mattina  ho  deciso  che  mi 
fermerò… entrerò nella bottega dei libri usati e forse…
…non ne uscirò più…

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TERRORISTA PER FORZA
di Bruno Magnolfi (101 Parole)

Vorrei  non  avere  ancora  nelle  orecchie  il  sibilo  delle 


sirene. In questura mi trattarono male, mi interrogarono per 
tutta  la  notte. A  niente  era  valso  continuare  a  ripetere  che 
niente  c’entravo  con  i  terroristi  di  cui  andavano  in  cerca. 
Sulla rubrica di quello che avevano preso c’ero anch’io, ma 
neanche  io  sapevo  spiegarmi  il  perché.  Infine  arrivò 
l’avvocato  d’ufficio  e  mi  disse  di  stare  tranquillo.  Al 
processo  mi  condannarono,  mi  fecero  uscire  solo  perché 
avevo  la  fedina  penale  pulita.  In  seguito  fui  contattato 
dall’organizzazione,  e  così  diventai  terrorista  davvero, 
tanto ormai ne avevo la fama. 

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LO SPETTACOLO DI SPYRA PER IL CAOS
di Jonathan Macini

Un demone l’aveva ribattezzata Spyra, e quello era adesso 
il suo nome. La via oscura parrebbe la più facile, ma sono 
molti  i  sacrifici  che  attendono  colui  che  desidera  entrare 
nella  cerchia  dei  prescelti,  e  guardare  oltre  il  velo 
dell’oblio, là dove la morte muore e qualcosa di orribile ed 
eterno incomincia.
La donna attraversava i corridoi del tempio con una torcia 
in  mano.  Portava  i  capelli  sciolti,  neri  e  lunghi  fino  alla 
vita, e aveva indosso soltanto una veste leggera, blu scura, 
che  le  ricadeva  sulle  forme  prosperose,  grossi  seni  dai 
turgidi  capezzoli  e  fianchi  sensuali.  Conosceva  tutti  gli 
aspetti  di  quel  rituale.  Le  prime  volte  che  se  n’era  servita 
era  stata  male,  ma  il  ricordo  dell’umiliazione  e  del  dolore 
era  ormai  stato riposto in quei cassetti della mente che un 
mago  deve  sapere  tenere  ben  chiusi.  Spyra  avanzava  con 
passo deciso, i nudi piedi sulla fredda roccia del pavimento, 
il  profumo  di  muschio  e  acqua  stagnante  nelle  narici,  il 
rumore  smorzato  delle  cascate  sopra  il  tempio.  Lei  era  la 
sacerdotessa  suprema,  divinatrice  e  negromante, 
conoscitrice  dei  subdoli  giochi  dei  signori  della  morte. 
Aveva  bisogno  del  loro  aiuto,  aveva  bisogno  di  altre 
risposte,  e  sapeva  bene  qual’era  il  prezzo  che  doveva 
pagare…
A volte, anche nella quotidanietá degli eventi più terribili, 
ai  quali  ci  si  abitua  perché  la  mente  di  un  uomo  non  ha 
confini,  affiorano  dei  ricordi  inaspettati,  non  voluti.  Spyra 
ricordò  la  canzone  che  cantava  insieme  a  suo  fratello,  nel 
cortile  della  fattoria  in  cui  era  cresciuta,  in  tempi 
antecedenti  la  grande  guerra.  Afferrò  una  serie  di  cinque 
note,  che  ripeté  nella  sua  testa  per  cercare  di  ricordare  il 
resto  del  ritornello,  ma  per  quanto  si  sforzasse  non  ci 
riusciva.  Si  sentì  sciocca  a  pensare  a  Demion,  ucciso 

169
durante una delle tante scorribande degli orchi. Neanche un 
graffio sulla corteccia del suo cuore. Neanche l’accenno di 
una lacrima. Era solo la canzone che la turbava, perché non 
riusciva a venirne a capo.
Era  quasi  giunta  in  fondo  al  corridoio.  Oltre  una  porta 
scura  di  legno  e  ferro  vi  era  la  sala  delle  invocazioni. 
Laggiù non ci sarebbe stato posto per degli insulsi giochi di 
musica.  Cancellò  dalla  mente  il  ritornello  e  appoggiò  la 
mano sulla maniglia, avvertendo il freddo contatto col ferro 
umido.  Spalancò  la  porta  ed  entrò  in  una  sala  circolare, 
rischiarata  lievemente  da  due  bracieri  posti  ai  lati  di  un 
altare  di  pietra.  La  temperatura  della  stanza  era  più 
temperata,  grazie  ai  due  fuochi,  e  l’aria  leggermente 
fumosa.  Spyra  inalò  le  essenze  sparse  sopra  il  fuoco  dai 
suoi assistenti, che avevano preparato la sala, assaporando 
i  primi  effetti  stordenti  che  aiutavano  il  rituale  evocativo. 
Sul  pavimento  sette  cerchi  tracciati  con  della  polvere 
d’argento  si  intersecavano  nel  punto  in  cui  si  trovava 
l’altare.  Spyra  prese  posto  davanti  al  tavolo  di  roccia, 
calcato da strani disegni. Gettò la torcia in un angolo della 
stanza  e  appoggiò  le  mani  sulla  fredda  pietra  che  le  stava 
davanti. Controllò il respiro, chiuse gli occhi, alzò la testa 
e poi incominciò a toccarsi…
L’incantesimo  le  salì  alla  bocca  come  un‘entità  distinta 
dal  suo  volere.  Con  gli  occhi  chiusi  salmodiò  la  litania 
scandendo  perfettamente  ogni  sillaba,  attenta  ad  ogni 
cambio  di  tonalità.  Un  errore  poteva  costarle  molto  più 
della  vita.  E  mentre  le  parole,  graffianti  e  indecifrabili, 
gremivano  le  ombre  della  stanza,  la  mano  dell’evocatrice 
scendeva  verso  il  basso,  sotto  la  veste  turchina,  tra  le 
insenature  del  piacere. Adeguò  il  movimento  al  ritmo  del 
salmodiare, lasciandosi trasportare dalle onde calde che dal 
basso  ventre  le  salivano  fino  alle  guance.  Il  canto  salì  di 
tonalità  e  di  volume,  la  bocca  carnosa  della  negromante 
intrecciava articolati vocaboli di un linguaggio sicuramente 
non  umano,  la  luce  dei  bracieri  divenne  più  intensa, 
tremolò  e  si  offuscò  alla  cadenza  del  movimento  del  suo 

170
bacino. Spyra, ormai preda e predatrice del suo organo del 
piacere,  appoggiò  un  piede  sull’altare,  divaricando  al 
massimo  le  cosce. Accostò  la  sua  vulva,  piena  e  rossa,  al 
bordo  della  pietra  rituale,  continuando  a  sfregarla 
avidamente  con  le  sue  dita.  L’evocazione  era  giunta  al 
culmine.  Dai  bracieri  una  luce  gialla  ed  abbagliante  si 
riversò  nella  stanza.  La  temperatura  era  diventata  quasi 
insopportabile.  Rivoli  di  sudore  le  scendevano  copiosi  dal 
volto,  deturpato  dagli  spasimi  di  piacere,  ma  lei  non 
accennava a fermare la sua ascesa. Si adagiò con la schiena 
sulla  fredda  pietra  dell’altare  e  continuò  a  urlare 
l’incantesimo, cavalcando onde di piacere inarrestabili.
La  porta  era  stata  aperta  e  qualcuno  la  stava  guardando. 
Demoni  e  anime  corrotte,  nefandezze  dell’oscurità,  esseri 
dimoranti  nel  caos,  frattaglie  di  esistenze  un  tempo 
appartenute  all’umanità.  Lo  spettacolo  era  per  loro,  per 
invitarle al suo cospetto, e in tal modo poterle corrompere 
per un ennesimo bagliore di conoscenza. Il finale le montò 
in gola, insieme all’orgasmo. L’ultima parola della canzone 
si  perse  in  un  urlo  di  piacere,  infrangendosi  sui  bracieri  e 
spegnendoli  definitivamente.  L’oscurità  l’avvolse,  ma  non 
aveva bisogno di vedere chi era entrato nella stanza. Spyra 
rimase  dov’era,  distesa  sull’altare  a  riprendere  fiato, 
conscia del drappo scostato.
«Ti è piaciuto lo spettacolo, demone?»
«Come  sempre,  Spyra»  rispose  una  voce  grave  come  la 
notte delle notti.
«Allora  adesso  mi  dirai  ciò  che  ho  desiderio  di 
conoscere…»
«Certo,  tesoro»  disse  il  demone.  «Poi  ci  divertiremo  un 
po’…»

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CERCHI DI FUMO
di Miriam Carnimeo

L’ennesima partenza nel viaggio di una vita..
Ancora abbracciata alla notte, guardo i primi occhi di luce 
venir  fuori  dal  morbido  grigiore.  I  sassi  della  strada  sono 
ancora  illuminati  dalle  stelle  basse  ed  i  neon  riflessi  sui 
piccoli tavolini, lasciano spiare scarpe rosse di donne dietro 
muretti e finestre crepitanti di fuochi e coperte avvolgenti. 
La pioggia lucida di specchi, ondeggia su figure di ombrelli 
dietro porte che chiudendosi fanno vibrare l’acqua rimasta 
a  guardare.  C’è  una  donna  affacciata  ad  un  balcone,  si 
muove vibrante al ritmo del vento, con capelli, erba e fiori, 
che si muovono nello stesso movimento. Fa muovere il suo 
piede  attraverso  una  ringhiera  per  stendere  bene  una 
gamba,  dopo  tanto  cammino  il  vento  le  arrossa  la  faccia 
con  un  sorriso  senza  fretta,  sagome  e  contorni,  persi,  tra 
l’ombra scura dietro di se di un abbraccio ed un tuffo dritto 
nella  carne.  Non  trattengo  la  sua  immagine,  ma  vivo 
l’atmosfera  con  il  suo  stesso  sapore,  con  quello  stesso 
freddo  che  indaga  nelle  ossa,  seccando  la  pelle  nel  vuoto 
gridare di uno scroscio. I passi rintronano ormai nella notte, 
un pensiero di pietra nei muri ascolta, la storia del silenzio, 
tra la calma dei tiepidi movimenti dei fianchi e la tempesta 
dei rumori fuori.
Spunti per inventarsi la notte, tenda, coperta, cielo rosso, 
si riflettono sulla spalla. I pensieri più agili si snodano tra i 
fumi  dell’aria  a  riscaldarne  l’invisibile  pelle,  le  luci 
colorate  della  strada  ed  i  suoi  slanciati  lamenti. Anche  la 
luna  buca  la  notte  come  nero  inchiostro  sulla  carta.  Mi 
raccolgo  in  un  letto  con  un  idea  sull’amore,  ha  le  braccia 
stese per tener lontano il freddo, i brividi sui vetri, lo strillo 
che viene su con la notte.
Cerchi  di  fumo  fatti  volare  via  da  un  sospiro,  la  bella 
immagine  di  una  bocca  che  si  stringe  in  un  bacio  come 

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fosse  una  risposta.  Si  raggiungono  quei  cerchi  dentro  un 
eco.  Niente  più  parole  tra  cieli  fatti  di  strade  e  la  carezza 
calda della sorte. Le mani fredde si chiudono tra le gambe, 
i pensieri finalmente respirano e bagnati aspettano.
Sia  benvenuta  la  pioggia,  i  piedi  fradici  ed  i  capelli  a 
coprire gli occhi.

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L'UNICORNO
di Aeribella Lastelle (101 Parole)

L’unicorno  era  confinato  in  un  recinto  di  filo  spinato  e 


corrente  elettrica.  I  dottori  gli  facevano  di  continuo  dei 
prelievi  per  trasformare  il  suo  sangue  dorato  in  costose 
medicine.  Gli  scienziati  invece  studiavano  i  suoi  poteri 
telepatici per applicarli all’industria bellica. Un cameraman 
lo  seguiva  ventiquattro  ore  su  ventiquattro  per  il  reality 
show  più  in  voga  del  momento.  Ogni  tanto  la  creatura 
guardava  dritta  nell’occhio  della  telecamera,  come  se 
volesse parlare al suo accalorato pubblico. Di solito in quel 
preciso istante partiva lo stacco pubblicitario, per ricordare 
alla  gente  che,  malgrado  gli  orrori  e  le  ingiustizie,  lo 
spettacolo doveva andare avanti.

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LA MEMORIA DEL SASSO
di Dario De Giacomo

Mi  accade  così,  all’improvviso,  di  scoprire  che  la  mia 


casa è un museo di stili scadenti, eppure è ancora familiare, 
ma  opprimente  come  un  abbraccio  decrepito.  Poi  il  buio 
tracima nelle stanze e avverto la presenza della mia donna.
­ Non ho fatto niente io. ­
Quelle parole di Milena naufragano ad intermittenza sulla 
mia  esasperazione.  Pugno  batte  carta,  la  morra  del  nostro 
amore. Lei mi tiene sigillato qui dentro casa, con il silenzio 
e  la  pelle.  Ma  io  vivo  superfluo  rasente  i  giorni,  perché  è 
una  vita  che  mi  assento  spesso  da  me  stesso.  Ci  sono 
talmente tanti cassetti chiusi nella mia mente, così zeppi di 
rabbia  e  odio  repressi  che  potrei  far  esplodere  questa 
palude tra me e lei.
Io  cerco  di trovare qualcosa che mi tenga tranquillo. Ma 
la notte arriva sempre, cala giù fino in fondo allo stomaco 
e  lo  riempie  di  immagini  sconnesse  e  affilate. 
Rabbrividisco  quando  il  buio  mi  sorprende,  spiandomi 
dallo  spazio  vuoto  tra  i  mobili.  Provo  a  scappare  a  piedi 
nudi  sul  pavimento  gelato,  ma  annego  in  quello  spazio 
vuoto,  senza  luce,  dove  non  c’e’  colpa  solo  punizione, 
nessun  dolore  solo  orrore.  La  pelle  nuda  di  Milena  è  una 
sforbiciata  netta  nello  stomaco,  uno  scandaglio  gettato  in 
fondo agli incubi, che avvolge di oscurità le mie immagini. 
Forse stanotte non riuscirò a diradarle.
La  memoria  è  un  sasso  tondo  e  molti  sassi  formano  un 
mucchio compatto. Qualcuno me li ha fatti ingoiare tutti in 
questi  anni,  però  è  strano  che  questa  notte  li  senta  più 
pesanti.  Milena  sta  rannicchiata  contro  la  parete,  con  la 
testa  chinata  in  avanti  diventa  piccola  piccola.  Le  braccia 
magre sono strette intorno al corpo, i capelli le nascondono 
lo  sguardo.  La  sua  innocenza  ha  uno  spessore,  ragiona  di 

175
neri  desideri  e  si  struscia  pesante,  lasciando  le  sue  tracce 
addosso a me. La sua ingenuità diventa minuscola, vittima 
di quella stanza enorme che la contiene.
­ Io non ho fatto niente – ripete.
Ma il colpevole non è l’assassino, è la vittima. Milena ha 
imparato  a  resistere  senza  muoversi.  La  lapido  con  i  miei 
sassi e lei si copre il volto con le mani, perché ha paura che 
possa scoprire qualcosa dentro il suo sguardo. Anni oscuri, 
molti  anni  di  dolorose  memorie  si  sfaldano  in  quel  gesto, 
sgretolandosi  un  secondo  dopo  l´altro.  Il  nostro  passato 
marcisce nero, come un dente marcio che ci ha storditi per 
mesi  ed  ora  ci  solletica,  di  tanto  in  tanto,  con  una  fitta 
estranea.  C´è  un  lungo  istante  in  cui  le  parole  divampano 
come la brace, ma salgono verso l´alto in spirali di fumo e 
scompaiono, portandosi dietro il loro significato.
­ Sono stata iniziata al sesso con la violenza. ­
­ Dentro ogni gesto che fai – le dico – sento che usi la tua 
vita per disarmare la mia. ­
Ma era ineluttabile che la sopraffacessero, necessario. Lei 
usa  il  suo  sesso  con  gli  uomini  come  si  usa  un  bisturi, 
affondandolo dove sono più sensibili, incidendo i loro nervi 
scoperti e provocando dolore. Sì, molto dolore. Il perverso 
gioco  di  Milena,  la  sopraffazione,  una  slot  machine  per 
guadagnare la loro fiducia: ottengono quello che vogliono, 
quando  lo  vogliono.  Si  avvolge  rampicante  dentro  il  loro 
orgoglio, fino allo spasimo dell’umiliazione. Allora affonda 
il  bisturi  ben  affilato.  Dolore.  Poi  li  umilia  con  le  loro 
stesse  parole,  tra  le  sue  mani  quelle  parole  diventano  cera 
liquida  che  si  scioglie  sui  corpi.  Bastarda,  la  eccita 
umiliarli.  Ma  non  umiliarli  davanti  agli  altri,  no,  deve 
umiliarli  davanti  a  loro  stessi.  Ride  quando  si  torturano  le 
loro virilità inermi per lei.
Ora  i  sassi  mi  pesano  nello  stomaco,  mi  fanno  male.  La 
notte  sa  bene  come  cucire  insieme  le  immagini  dentro  la 
mia  testa.  Una  depressione  fredda  nelle  viscere,  lei  che 
sculetta  su  tacchi  altissimi  e  tutti  la  guardano.  Milena 
guarda  gli  uomini  negli  occhi,  non  li  spia,  li  guarda 

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affamata.  Sto  gelando.  Sussurra  frasi  ambigue  gli  altri,  a 
me invece sorride, con quel sorriso che mi inchioda ad una 
colpa. Una colpa mia, mia, mia!
Prima  Milena  ha  telefonato  a  qualcuno,  la  sentivo  ridere 
forte,  sguaiata.  Fa  caldo  ora.  Ascolto  la  sua  voce  e  sto 
meglio, ma poi odierò il suo tono mellifluo. Lo so. Sempre 
uguale.  Carta  batte  pugno,  la  nostra  morra  d’amore.  La 
colpa di Milena è vivere. Vivere ingenuamente in un corpo 
insinuante.  Un’anima  sottile  dentro  una  carne  enorme  e 
nera. Il suo movente, forse, l’ingenuità.
Ho  voglia  di  farla  finita,  con  questa  notte  e  con  tutte  le 
altre.  Le  mie  mani  stringono  la  sua  gola,  è  calda,  pulsa 
ancora  sensualmente.  Si  contorce  come  se  danzasse  e 
ancora  non  riesco  ad  uccidere  la  sua  ingenuità.  Gli  occhi 
neri sbiancano appena, liquidi di una voglia nuova.
­ Non ho fatto niente, io – lo dice di nuovo.
­ Lo so. Ora lo so davvero. Buonanotte amore mio.­

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LE REGOLI SOCIALI
di Bruno Magnolfi

L’interminabile  corridoio  dal  pavimento  di  piastrelle 


chiare e lucide lasciava intravedere, lungo i muri a destra e 
a  sinistra,  due  serie  di  porte  grigie  posizionate  in  maniera 
regolare  e  simmetrica  tra  loro,  e  la  sala  d’attesa  a  quegli 
uffici,  ricavata  mediante  batterie  di  sedie  collegate  tra  di 
loro  e  poste  in  quattro  o  cinque  file  uniformi  nella  larga 
sala che fronteggiava il corridoio stesso, era piena a metà di 
persone  che  attendevano  pazienti  il  proprio  turno. Andrea 
era appena arrivato, si era seduto nel primo posto libero che 
aveva  visto  osservando  contemporaneamente  il  suo 
talloncino  numerato  distribuito  da  una  apposita  macchina 
all’entrata, confrontandolo con l’altro numero che riportava 
il  grande  tabellone  elettronico  che  fronteggiava  tutta  la 
stanza. Aveva  immediatamente  dedotto  tra  sé  che  avrebbe 
schiacciato  in  quella  sala  d’attesa  non  meno  di  una 
mezz’ora, forse anche molto di più, così aveva cercato con 
lo  sguardo  un  qualche  elemento  confortevole  che  gli 
potesse  far  trascorrere  quel  tempo  nella  maniera  migliore. 
Ma  poco  dopo  era  arrivata  lei,  apparentemente  una  donna 
qualsiasi, forse quasi timida, ma di un modo di intendere la 
timidezza  assolutamente  fuori  dal  comune.  Non  aveva 
numero,  naturalmente,  solo  una  strana  cartella  con  dentro 
fogli e documenti: si era soffermata un momento, quasi per 
prendere fiato, poi a voce alta aveva chiesto, senza riferirsi 
a nessuno di preciso, ma neanche parlando proprio a tutti, 
come  funzionasse  il  meccanismo  per  accedere  agli  uffici. 
Qualcuno  razionalmente  le  aveva  detto  del  numero  in 
funzione  di  ciò  che  aveva  da  trattare,  ma  quasi  subito  lei 
aveva tirato fuori le sue carte, spiegando le proprie cose e 
coinvolgendo  più  persone  circa  i  propri  guai.  I  suoi 
argomenti  erano  particolari,  ma  ciò  che  più  colpiva  era 
l’ingenuità  con  cui  manifestava  le  sue  cose,  come  se 

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rifiutasse  l’accesso  a  regole  sociali  da  tutti  accettate  e 
confermate.  Infine  si  era  stufata,  forse  anche  troppo  in 
fretta,  di  tutte  le  raccomandazioni  che  sembravano 
continuare a farle le due o tre persone che si erano occupate 
di  lei,  e  togliendo  d’improvviso  interesse  e  importanza  a 
ciò che aveva chiesto fino allora si era seduta casualmente 
accanto  ad  Andrea,  dopo  essersi  fatta  consegnare  un 
talloncino numerato da qualcuno dei presenti più gentile e 
paziente degli altri. Aveva subito sistemato bene quei fogli 
all’interno  della  sua  cartella,  tolto  il  soprabito,  ravviato  i 
capelli lunghi e sciolti, sistemato con attenzione e in modo 
adeguato  il proprio corpo sopra la sua sedia, accavallando 
le  gambe  in  due  o  tre  maniere  differenti,  invadendo  di 
profumo  l’aria  intorno  e  guardando  dappertutto  come  per 
carpire  qualcosa  che  ancora  non  le  era  perfettamente 
chiaro. Poi, come se non avesse ascoltato niente fino allora, 
aveva  chiesto ad Andrea con fare distaccato, ma con voce 
calma  e  pacata,  se  era  giusto  l’ufficio  al  quale  era  stata 
consigliata di rivolgersi, e se andava bene fare tutta quella 
attesa per quei suoi piccoli problemi. Andrea, nella risposta 
aveva  usato  il  minimo  di  parole  disponibili,  cercando  di 
sviare l’interesse verso di lui, ma lei aveva insistito subito 
pungolandolo  con  due  o  tre  domande  abbastanza  dirette 
alle  quali  era  impossibile  non  dare  seguito.  Era  venuta  in 
soccorso  la persona accanto, che aveva detto il suo parere 
in modo simpatico e puntuale, ma a lei evidentemente non 
interessava  affatto  far  parlare  qualcuno  che  non  fosse  chi 
aveva deciso, così aveva chiesto ad Andrea se le teneva il 
posto  mentre  lei  cercava  il  bagno.  Tornò  in  un  attimo, 
ringraziando  con  larghi  sorrisi  e  con  apprezzamenti 
impersonali  per  quegli  uffici,  cosa  alla  quale  Andrea  si 
mostrò  subito  solidale.  Infine,  sempre  parlando,  si  alzò 
immediatamente quando si aprì la prima porta grigia lungo 
il corridoio, sparendo dentro a quell’ufficio e lasciando tutti 
come scemi.

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NATALE AL BAR
di Gano

È  una  di  quelle  giornate  fredde  di  dicembre  in  cui  hai 
bisogno  sicuramente  del  doppio  calzino,  specialmente  se  i 
calzini  ce  l’hai  tutti  bucati.  È  un  vecchio  trucco  quello  di 
metterne due paia per tappare i buchi, ed io li conosco tutti 
i vecchi trucchi. A dicembre, se il sole basso abbaglia, vuol 
dire  che  fa  un  freddo  della  madonna. Te  ne  accorgi  anche 
dai  vetri  delle  finestre  appena  metti  il  naso  fuori  dalle 
coperte,  però  non  ce  la  fai  a  rimanere  a  letto  perché  quel 
sole è proprio una meraviglia, pare quasi dipinto e forse lo 
è per davvero, ti chiedi perplesso picchiettando con l’indice 
la colonnina di mercurio in terrazza, che durante la notte è 
scesa abbondantemente sotto lo zero. Ti avvii in cucina per 
preparare il caffè e ti accorgi che ti hanno appena tagliato il 
gas. Ti spieghi il freddo padrone della stanza, ti spieghi le 
bollette abbandonate ancora chiuse sullo scaffale, ti spieghi 
anche perché il mondo faccia così schifo; tagliare il gas ad 
un povero cristo proprio la vigilia di Natale. Quasi quasi ti 
vien da ridere, se solo il freddo non ti avesse paralizzato i 
muscoli della faccia. Unica soluzione; il bar.
Spingi la porta a vetri e subito ti rendi conto che non sei il 
solo  ad  averla  pensata  alla  stessa  maniera.  Certo  non  è 
proprio Natale, è solo la vigilia, ma tutti sanno che il 25 il 
bar  resta  chiuso  e  quindi  è  meglio  approfittarne.  I  tavoli 
sono  già  occupati  dai  soliti  avventori.  Avranno  tagliato  il 
gas pure a loro, ti chiedi. E mentre te lo continui a chiedere 
ordini  quel  maledetto  caffè  che  non  sei  riuscito  a  farti  a 
casa.  La  Giorgia  ha  un  cappellino  rosso  che  è  una 
meraviglia.  Ti  sorride  e  si  adopera  a  farti  una  crema  che 
sveglierebbe anche Morfeo.
«Mettici  un  po’  di  mommo,  tanto  son  gia  le  nove…»  le 
dico, e lei sa già dove andare a pescarlo, il mommo. Bevo il 
corretto e incomincio il giro. Fantomas col cappuccino e la 

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Gazzetta,  il  Lalli  spaparanzato  con  la  Repubblica, 
Giulianino appoggiato al frigo dei gelati con gli occhi persi 
su  una  foto  della  Ventura  in  mezzo  al  Venerdì  (sempre 
quello  della  Repubblica,  il  giornale  dei  finti  comunisti),  e 
poi  c’è  il  Mignozzi  col  telefonino  in  mano  a  messaggiare 
alla  ganza,  tutti  in  posizione  come  se  fosse  un  giorno 
normale,  ignari  delle  palline  colorate  e  delle  lucine 
disseminate per il bar.
«Buon  Natale  ,  ragazzi…»  saluto  io.  Nessuno  si  muove. 
Tutti fanno finta di nulla, ma è ordinaria amministrazione. 
Bisogna aspettare perché la gente del bar c’ha i suoi tempi. 
In ritardo, ma una reazione arriva sempre.
«Oh  Gano,  anche  oggi  qui  a  rompere  i  coglioni?» 
domanda il Lalli da dietro il giornale. Avrete già capito che 
personaggio  è  questo  Lalli.  Parlarne  in  maniera  più 
dettagliata sarebbe come sparare alla croce rossa. Il Lalli è 
semplicemente il Lalli, una grande faccia di culo….
«Che  fanno  i  tuoi  amici  DS  quest’anno?  Tortellini  in 
brodo  e  lenticchie a fine anno?» rispondo io, graffiando il 
suo cuoricino rosso bandiera.
«L’ho sempre saputo io che il Gano è un fascistone» dice 
lui  di  rimando.  Ma  in  verità  a  me  la  politica  non  ha  mai 
detto  niente.  Destra  e  sinistra,  alla  fine  mi  sembrano  tutti 
uguali,  specialmente  in  quest’ultimi  tempi.  A  me 
interessano concetti più semplici, diciamo pure basilari, che 
alla  fine  son  solo  due;  il  bel  mangiare  e  lo  stare  in 
compagnia, cose che tra l’altro si fanno bene insieme, ed è 
proprio per questo motivo che propongo un bel pranzo dal 
Freddy…
«Quando,  domani?»  chiede  Fantomas,  ripiegando  la 
Gazzetta.
«Si  fa  il  pranzo  di  Natale;  bollito  misto,  tortelli  e 
vinello… Che ne dite?» rilancio io.
Il  Mignozzi  se  n’esce  fuori  con  una  “’sta  stronza!”,  e 
rimette  in  tasca  il  cellulare.  «Io  ci  sono!»  aggiunge,  poi 
guadagna l’uscita per accendersi una sigaretta.

181
«Vai,  ci  sono  anch’io»  conferma  Giuliano,  sfogliando  le 
cosce della Simona.
«E  tu  Lalli,  cosa  ne  dici?»  lo  provoco,  perché  so  che 
vorrebbe  dirmi  di  no  per  farmi  uno  spregio,  ma  questo 
significherebbe passare il Natale da solo.
«Ma, ora ci penso…» risponde lui, ed io so già che dovrò 
chiamare il Freddy e prenotare per cinque.
«Bene, a posto allora» dico io, poi me ne vado a farmi il 
primo cicchetto.
È incominciata la vigilia. I santi zampettano un cha­cha­
cha  nei  cieli,  il  vecchio  Santa  ritira  l’assegno  dalla 
Cocacola, gli elfetti se lo menano tra di loro, Gesù fa finta 
di  rinascere  anche  se  non  è  il  suo  giorno,  i  bimbi  aprono 
milioni  di  regali  inutili  e  l’economia  continua  a  macinare 
carne umana.
Però  le  palline  colorate  e  le  lucine  mettono  tanta  gioia, 
non trovate anche voi?
«Giorgia, fammene uno…»
«Arrivo Gano!»

182
AMBARABACCICCICOCCÒ
di Fida (101 Parole)

Rannicchiato  nell'angolo  della  sua  stanza  il  piccolo 


Valerio si stringeva le gambe al petto. Con gli occhi chiusi 
cantava una canzoncina imparata a scuola, per non sentire 
le urla che provenivano dal salotto. Le lacrime scendevano 
dai  suoi  occhi,  leggermente  a  mandorla  e  del  colore  del 
cielo.  Desiderava  fuggire,  non  essere  lì,  per  non  dover 
sopportare  l'ennesima  lite  dei  suoi  genitori;  d'un  tratto  un 
ultimo  urlo,  un  rumore  tonfo  alla  porta  e  poi  dei  passi 
pesanti  che  si  avvicinavano  veloci.  Una  mano  lo  aveva 
afferrato  per  i  capelli  e  trascinato  fuori:  ora  lui,  avrebbe 
"preso il resto". 

183
NOTTE SILENTE
di Marco Filipazzi

Un  elicottero  tagliò  il  cielo  notturno  come  una  lama  di 
rasoio,  gettando  luci  rosse  e  blu  tutt'intorno.  Rallentò  in 
prossimità di un'imponente edificio scuro. Dalla finestra il 
Commissario  lo  vide  scomparire  dalla  propria  visuale, 
immaginandoselo mentre si poggiava delicato sul tetto e un 
drappello di poliziotti saltava giù, portandosi dietro il loro 
uomo.
Tra  le  mani  il  Commissario  si  passò  una  pallina  anti 
stress. Aveva  la  fronte  umida  di  sudore  ed  una  morsa  allo 
stomaco  di  strana  tensione,  ancestrale  paura.  La  porta 
dell'ufficio si spalancò alle sue spalle.
“Portatemelo  qui  e  lasciateci  soli”  disse  senza  nemmeno 
voltarsi,  senza  nemmeno  ascoltare  veramente.  Quando 
l'agente uscì, il commissario attese qualche attimo prima di 
andare alla sua scrivania e far sparire la pallina anti stress 
dentro  uno  dei  cassetti,  quindi  tornò  davanti  alla  finestra. 
Quella pallina gli sarebbe mancata.
Il tempo di socchiudere gli occhi, poggiare la testa contro 
il  vetro  freddo,  ed  un  rumore  alle  sue  spalle  lo  strappò  di 
nuovo  alla  realtà.  Il  Commissario  si  voltò  a  guardare  di 
sottecchi,  ed  eccolo  lì.  Il  loro  uomo  se  ne  stava  seduto 
all'altro  capo  della  scrivania,  le  mani  legate  dietro  la 
schiena, le caviglie ammanettate alla sedia, la testa china ed 
una  massa  di  capelli  unti  che  gli  ricadevano  sul  viso.  La 
porta  si  richiuse  e  tutto  ripiombò  nella  penombra.  Il 
commissario si poggiò con la schiena alla finestra e tacque 
per un lungo attimo. I rumori della città notturna arrivavano 
da fuori.
“Sai,  vedo  persone  come  te  un  giorno  si  e  l'altro  pure, 
quindi  non  pensare  di  impressionarmi  con  il  tuo  fare  da 
duro,  ok?”  il  Commissario  si  staccò  dalla  finestra  e  andò 

184
verso un mobiletto scuro, relegato in un angolo. “Per farti 
capire,  negli  ultimi  tre  giorni  ho  avuto  a  che  fare  con  la 
reincarnazione  di  Elvis  ed  un  sodomita  di  cani,  tira  tu  le 
conclusioni”  prese  una  bottiglia  ed  un  bicchiere  dal 
mobiletto. “Questo solo nell'ultima settimana eh, immagina 
che ho visto in vent'anni di servizio. Cose da non credere. Il 
lato  peggiore  della  specie  umana.  E  adesso  arrivi  tu.  Per 
quanto  mi  riguarda  non  mi  fai  né  caldo  né  freddo. 
Whisky?” Il tizio tacque. Il Commissario rimise a posto la 
bottiglia ed ingollò un sorso di liquore.
“Ammetto che la trovata dei canini è stata ingegnosa e la 
stampa ci è andata a nozze. Hai regalato un po' di brivido a 
questa  città  morta,  il  che  non  è  da  tutti,  ma  lascia  che  ti 
spieghi una cosa: Bela Lugosi è morto da un pezzo e come 
forse avrai già capito da te, a me non vanno proprio a genio 
certe buffonate.”
Il  tizio  cacciò  un  rantolo  soffocato  ed  un  filo  di  bava 
mista  a  sangue  gli  colò  dal  mento.  Il  Commissario  si 
sedette alla scrivania; sospirò, guardò l'ora.
“Le tre. La mezzanotte del Diavolo. Un orario perfetto per 
la  resa  dei  conti,  no?”  bevve  un  sorso  di  whisky.  “Ora, 
voglio che tu sappia che sei fottuto comunque, ma la spada 
di  Damocle  qui  la  faccio  io.  Hai  sette  cadaveri  nella  tua 
cantina, tutti completamente dissanguati, una prova più che 
sufficiente  per  sbatterti  in  un  manicomio  criminale  questa 
notte  stessa,  buttare  la  chiave  nel  cesso  e  tirare  lo 
sciacquone,  solo  che  abbiamo  un  problema,  non 
grandissimo  ma  c'è.  La  scientifica  ha  trovato  tracce  di  un 
ottava  vittima.  Macchie  di  sangue  incrostato  in  un 
barattolo. Sangue non appartenente a nessuna delle vittime. 
Come ho detto, sei fottuto comunque, ma se ci dici dove sta 
la numero otto allora forse potrei presentare alla corte una 
perizia  clinica  con  su  scritto  che  soffri  di  ematodipsia  o 
qualche  altra cazzata del genere e magari ottieni pure uno 
sconto  della  pena”  bevve  un'altra  lunga  sorsata.  “Ora  la 
palla torna a te, campione.”

185
Nell'oscurità e nel silenzio, fu allora che il tizio parlò per 
la prima volta in un sussurro morente.
“A cena...” disse.
Il Commissario aggrottò la fronte. “Come, prego?”
“Non  dove  mangia,  ma  dov'è  mangiato.  Un  concilio  di 
politici vermi cena con lui.”
“Bravo Amleto, hai studiato Shakespeare, vuoi un dieci in 
pagella?  No,  perché  questo  non  ti  aiuterà  a  salvare  il  tuo 
culo  secco”  finì  il  whisky  nel  bicchiere,  quindi  si  sporse 
sulla scrivania, verso il tizio. Emanava un odore rancido di 
cane bagnato. “Dimmi dove hai messo il corpo.”
“In  cielo.  Mandatelo  a  cercare  lassù.  Se  poi  non  lo 
trovate,  andatevelo  a  cercare,  voi  di  persona,  a  quell'altro 
recapito.  Se  non  lo  trovate  neanche  lì,  entro  il  corrente 
mese vi salterà lui stesso al naso su per la scala del faro.”
Il Commissario agguantò il telefono e compose il numero 
di  un  interno.  “Al  faro!  Mandate  subito  una  pattuglia.  E 
venite  a  riprendervi questo stronzo tra dieci minuti. Prima 
me  lo  torchio  ancora  un  po'...”  dopodiché  riappese.  Senza 
esitazioni fece il giro della scrivania ed andò alla porta. Il 
tizio seguiva i suoi movimenti con lo sguardo basso, celato 
dietro  il  muro  di  capelli.  Il  Commissario  fece  scattare  la 
serratura  e  si  allentò  il  nodo  della  cravatta,  quindi  si 
avvicinò  alle  spalle  del  tizio.  Si  chinò  su  di  lui  e  gli  fece 
scivolar via le manette dai polsi e dalle caviglie.
“Senti,  te  lo  dirò  una  sola  volta  e  te  lo  dirò  chiaro.  Ho 
preso  in  mano  quest'indagine  dal  quarto  omicidio  in  poi  e 
ho fatto di tutto per evitare questo momento, ma tu quando 
ti  muovi  sembri  un  elefante  che  si  lascia  dietro  un 
olocausto di prove, quindi mi è stato inevitabile catturarti. 
Solo che non voglio. Hai reso un grande servizio a questa 
città uccidendo i capisaldi di alcuni tra i più pericolosi clan 
della città. C'è gente scontenta di ciò, molto scontenta, ma 
non  io.  Ho  combattuto  nella  merda  per  una  vita  e  poi  mi 
sono  reso  conto  che  la  merda  infestava  anche  questa 
centrale.”
Il tizio si alzò, voltandosi a fissare il Commissario.

186
“Per  quel  che  mi  riguarda  posso  solo  dirti  grazie.  Hai 
avuto  le  palle  di  fare  quello  che  io  ho  solo  e  sempre 
sognato.  Far  cagare  addosso  Don  Fernando,  Kiriyama  e 
tutto il resto della feccia.”
Il  tizio  non  disse  nulla,  solo  un  flebile  spicchio  d'avorio 
fece  capolino  attraverso  la  giungla  di  capelli  corvini.  Un 
secondo  dopo  il  Commissario  venne  tramortito  da  un 
gancio che pareva un tir e finì lungo e disteso a terra.
Quando  rinvenne  il  tizio  era  sparito,  di  lui  restava  solo 
l'odore rancido dei suoi vestiti. 

187
LA SPIAGGIA
di GM Willo

La linea che divide l’acqua dalla sabbia segna il passaggio 
tra  due  mondi.  Camminare  seguendo  quella  linea  è  come 
galleggiare  in  un  limbo  a  metà  strada  tra  due  verità.  La 
spiaggia  è  il  luogo  in  cui  convergono  le  domande.  Le 
uniche  risposte  che  sarai  pronto  a  dare  saranno  tracciate 
sulla sabbia dai tuoi piedi. Cento, mille, diecimila impronte 
lavate  via  dal  vento  e  dalla  risacca.  E  animali  antichi  ti 
guarderanno  da  dentro  i  loro  rifugi,  piccole  conchiglie 
disseminate  lungo  il  percorso.  Le  loro  risa  stridenti 
rimbomberanno tra le galassie più remote del cosmo.
Avanzare col sole in faccia è conveniente. Con la scusa di 
esserne  accecato  puoi  far  finta  di  non  vedere  quelle 
domande, ed ignorare gli scherni degli dei. Il sole ci sa fare, 
anche  in  ottobre  avanzato.  Il  sole  è  il  tuo  unico  amico. 
L’unico problema è che devi tornare indietro, e allora avrai 
il  sole  alle  spalle,  e  si  alzerà  un  vento  bastardo  che  ti 
sputerà  ingiurie  in  faccia,  perché  il  vento  arriva  sempre, 
prima o poi…
Segui  la  linea.  Non  pensare  al  ritorno.  Può  succedere  a 
volte  che  la  linea  curvi,  che  una  striscia  di  sabbia  si 
protragga verso l’acqua, formando un piccolo appendice di 
spiaggia. Quello potrebbe diventare il tuo nuovo obbiettivo.
Adesso il sole ti scalda da un lato del volto e dall’altro c’è 
il vento che te la canta. Davanti a te la distesa d’acqua è tua 
completa  disposizione.  Potresti  anche  approfittarne  per 
affogare una ad una quelle domande…
Succede  a  volte  che  una  barca  appaia  dal  nulla.  Se 
dovesse accadere proprio adesso, sarai pronto a saltarci su, 
e a lasciarti alle spalle la spiaggia e tutto il resto?

188
ASSEMBLEA
di Bruno Magnolfi

I primi dissensi sugli argomenti di fondo si manifestarono 
quando  qualcuno  disse  tra  i  denti  che  così  non  si  sarebbe 
andati  lontano.  Le  ultime  riunioni  erano  scivolate  via  in 
modo tranquillo ma probabilmente era stata soltanto calma 
apparente.  La  sostanza  cambiò  durante  l’ultima  assemblea 
generale.  “In  questa  associazione  trovo  che  ormai 
l’interesse  individuale  abbia  soppiantato  quello  pubblico”, 
disse  uno  appena  avuta  la  parola;  “perciò  dichiaro  che  da 
questo  momento  tramonta  la  mia  esperienza  con  voi”. 
Ecco, fu come aver rotto la diga, tutti da quel momento si 
dichiararono solidali con quella presa di coscienza iniziale, 
e  i  più  lo  fecero  in  maniera  verbalmente  violenta, 
autoritaria,  quasi  come  se  fino  ad  allora  non  si  fossero 
accorti  di  niente,  o  non  volessero  rimanere  tra  quelli  più 
silenziosi che pensavano a come salvare il salvabile. Alcuni 
dissero  che  se  l’erano  immaginati  fin  dall’inizio  che  tutto 
prima  o  poi  sarebbe  andato  per  quel  verso,  però  ci  furono 
altri che fecero notare quanto interesse individuale ci fosse 
nelle  parole  di  chi  si  indignava  per  l’interesse  individuale 
degli  altri,  e  così  tutto  quanto  divenne  un  inestricabile 
continuo distinguere e distinguersi gi uni dagli altri, fino a 
trovare posizioni leggermente diverse e isolate per ciascuno 
di  coloro  che  prendeva  la  parola  e  spandeva  sugli  altri  la 
propria  dichiarazione.  A  fine  assemblea  a  terra  rimasero 
una moltitudine incredibile di stampe, di fogli, fogliacci di 
carta, appunti strappati e tessere usate, mozziconi di sigaro 
e  sigarette  di  ogni  tipo  e  misura,  gomme  già  masticate, 
penne,  lapis,  e  altre  cianfrusaglie  rotte  e  inservibili.  Il 
personale  incaricato  di  svolgere  le  pulizie  non  capì  cosa 
fosse accaduto là dentro, però tutti loro compresero subito 
che  l’impegno  richiesto  per  far  ritornare  tutto  pulito  era 
tanto, e forse persino superiore alle loro piccole forze.

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OGGETTI SENZA SOGGETTI
di Dario De Giacomo

Qualche  volta  mi  accade  di  essere  risucchiato  in  una 


stanchezza  deprimente.  Allora  lascio  la  presa  sui  miei 
pensieri, che ne approfittano immediatamente, dileguandosi 
ognuno  per  suo  conto,  come  i  servi  infedeli  appena  il 
padrone  si  allontana  da  casa.  Io  resto  qui,  solo  nella  mia 
penombra  sonnolenta,  assaggiando  il  gusto  nuovo 
dell’irresponsabilità, loro, invece, se ne vanno in giro per il 
mondo, a godersi lo spettacolo alla luce del sole. Se sento 
bussare alla porta, maledico lo scocciatore che è arrivato a 
scompaginare  l’ordine  beato  dei  miei  silenzi:  perché  devo 
parlargli almeno per maledirlo.
­ Ah, sei Tu! – dico al visitatore, riconoscendolo. Ma nel 
mio  tono  non  c’è  la  convinzione  del  malumore.  La 
stanchezza  ha  approfondito  il  diaframma  tra  me  e  le 
sensazioni del mondo esterno. Lui è solo un oggetto, tra gli 
altri,  che  posso  collezionare,  sistemare  come  credo  e  poi 
spostare davanti o dietro di me. È questo il potere segreto 
contenuto  negli  oggetti,  posso  metterli  dove  voglio  e, 
soprattutto,  quando  voglio  io:  quindi  nessun  fastidio  per 
una cosa che, al limite, posso buttare.
­  Si,  sono  io  –  mi  risponde,  con  una  voce  stanca  e 
abbattuta. Dunque, penso, lui è affaticato. Perché mi rifiuto 
di  attribuire  anche  a  lui  quello  che  immagino  sulla  mia 
stanchezza. Però riflettendoci meglio, anche lui è stanco, e 
anche il portiere, prima, quando mi ha salutato per le scale, 
mi è sembrato stremato e anche…
Un mondo di stanchezza, di cui Io… sono l’oggetto. Per 
arrivare, tranquillamente, in fondo ai miei pensieri, ho fatto 
accomodare  la  cosa  importuna  nella  poltrona  di  fronte  a 
me. Ora ci fronteggiamo esausti. Ma se io sono solo il suo 
oggetto e lui è il mio, chi è l’essere umano tra noi due? 

190
SHARONA
di GM Willo

Tra  meno  di  un’ora  sarà  qui.  Lei,  con  quel  portamento 
elegante  da  fotomodella,  sofisticata  come  una  straniera, 
lunghe  ciglia  di  velluto  che  ombreggiano  uno  sguardo 
austero  in  cui  adoro  perdermi.  Lei,  Sharona  come  la 
canzone, che stringe il mio corpo con le sue lunghe gambe 
quando mi vuole dentro, che urla disinibita con le finestre 
aperte,  mentre  l’orgasmo  le  esplode  nella  gola.  Al  solo 
pensiero tremo, e mi sento già in tiro…
Il  sugo  bolle  da  un’ora.  Ho  preso  la  macinata  magra 
perché so che le piace. Le pennette sono quelle piccole per 
la  sua  bocca  minuta,  coperta  appena  da  una  patina  di 
rossetto.  Poi  la  carne.  Bistecca  al  sangue  per  lei  che  la 
vuole sugosa, perché la fa sentire vampira al punto giusto. 
Il vino è un Sassicaia, dato che per lei non bado a spese. E 
poi l’insalatina di radicchi, la frutta, il gelato, il caffè… A 
stomaco pieno il sesso ludico è giustificato.
Sharona conosce tutto di me eppure io non conosco nulla 
di  lei.  Sharona  è  stata  dai  miei  genitori  ed  ha  fatto  una 
buonissima impressione a mio padre. Mia madre d’altronde 
non mi parla più. Mia sorella la odia. Per due ore ha tenuto 
testa  a  tutti,  davanti  alla  tavola  imbandita  a  festa  con 
l’agnello  sacrificato  e  i  pisellini  verdi.  Una  pasqua  con  i 
tuoi può essere peggio di un pasto in una cella del braccio 
della  morte.  Mi  alzai  per  andare  in  cantina  a  prendere  il 
moscato  e  lei  mi  venne  dietro.  Mia  madre  ci  sorprese 
mentre mi costringeva ad andarle giù, alla tenue luce della 
lampadina  a  quaranta  volt  del  seminterrato.  Difficile 
resistere alla dolcezza dei suoi succhi…
Sharona è un mistero di odio­amore, di sesso frenetico, di 
donna  allo  stato  puro.  È  come  se  incarnasse  il  femmineo 
spirito  della  terra  nel  tepore  delle  sue  cosce,  dentro  gli 
abissi  smeraldini  dei  suoi  occhi.  Non  so  niente  di  lei.  È 

191
apparsa  d’improvviso  nella  mia  vita  o  forse  vi  ci  sono 
sbadatamente  inciampato.  Ricorderò  sempre  quel  primo 
caffè insieme e le sue domande a bruciapelo, accompagnate 
da lunghi ed imbarazzanti sguardi. No, non è mai stata mia 
una scelta…
Tra  mezz’ora  sarà  qui.  Lei  spacca  sempre  il  minuto.  La 
magnolia  intensa  del  Dior  precede  il  suo  ingresso  sul 
palcoscenico  della  mia  vita.  Io  sono  un  mero  spettatore 
delle  sue  imprese.  Dannazione,  devo  girare  il  sugo 
altrimenti  rischio  di  bruciare  tutto,  e  se  dovesse  accadere 
per me sarebbe la fine…
Sharona  mi  sta  divorando  un  pezzettino  alla  volta  ed  io 
non  riesco  a  fermarla.  Non  voglio  fermarla. Adoro  questa 
pratica cannibalesca che lei sapientemente porta avanti già 
da  un  anno.  Non  è  rimasto  molto  della  mia  anima.  Lei 
succhia,  succhia,  succhia  ed  io  la  lascio  fare.  Ed  è 
bellissimo  così.  Le  servirò  l’aperitivo  dentro  i  bicchieri  di 
mia  madre,  quelli  antichi.  È  una  sorta  di  rituale  contro  il 
bigottismo della mia vecchia. Sharona sa che mia madre è 
un  punto  dolente.  Quando  mi  lega  al  letto  e  si  siede  su  di 
me, contorcendo la sua schiena come una lamia, mi guarda 
dritta negli occhi e mi dice che mia madre ci sta guardando 
dal  buco  della  serratura,  e  mentre  ci  guarda  scopare  lei  si 
tocca,  non  ne  può  fare  a  meno.  È  così  che  mi  fa  venire, 
sempre…
Ormai  manca  poco.  Metterò  sul  fornello  l’acqua  per  la 
pasta  e  inizierò  a  preparare  l’insalata. Voglio  che  sia  tutto 
pronto  per  quando  arriva.  Ho  staccato  il  telefono  e  presto 
spengerò  anche  il  computer.  Lascerò  accese  solo  le  luci 
della  cucina  e  le  candele  sparse  per  la  casa.  A  lei  piace 
giocare con la cera…
Ecco, questa è la sua auto. Ne riconoscerei il suono anche 
nel  traffico  cittadino  all’ora  di  punta.  O  forse  avverto 
semplicemente  la  sua  presenza,  l’energia  che  sprigiona, 
qualcosa  che  ha  che  fare  con  le  frequenze  che  legano  noi 
umani  agli  spiriti  della  natura.  L’essenza  femminea  della 

192
terra.  Sharona,  il  sugo,  le  bistecche,  mia  madre…  driiin, 
driin… 
Sto arrivando… 
Sono tuo!

193
IL PICCOLO TOBIAS
di Jonathan Macini (101 Parole)

La mamma del piccolo Tobias era diversa quella sera. Se 
n’era  rimasta  tutto  il  pomeriggio  a  fissare  la  TV 
sintonizzata su un canale morto, due vacui occhi ancorati al 
tremolante  nevischio  grigio. Tobias  giocava  tranquillo  con 
i  treni  sul  tappeto rosso del soggiorno. Quando sua madre 
gli  disse  di  mettersi  il  pigiama  gli  sembrò  la  cosa  più 
naturale del mondo. Lei gli avrebbe rimboccato le coperte 
e, prima di spengere la luce, dato un bacio sulla fronte.
La  sua  testolina  non  ebbe  il  tempo  di  spiegarsi  perché 
quella  sera  sua  madre,  invece  di  augurargli  la  buonanotte, 
gli infilò le forbici negl’occhi. 

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L'UOMO DI CASA
di Bruno Magnolfi

Era  da  quando  aveva  compiuto  otto  anni  che  la  nonna 
aveva  iniziato  a  rivolgersi  a  lui  dicendo:  “ecco  il  mio 
ometto…”; oppure: “eccolo qua il nostro uomo di casa…”; 
e Robertino quelle volte si era sentito ancora più timido di 
come  era  davvero,  non  all’altezza,  tanto  da  arrossire  e 
abbassare  i  suoi  occhi,  nonostante  gli  piacesse  da  matti 
sentirsi  grande,  importante,  o  forse  anche  proprio  per 
questo.  La  mamma  lavorava  tutto  il  giorno  e  rientrava 
sempre tardi a fine giornata, sempre di corsa com’era, con 
quelle  buste  di  spesa  del  supermercato  per  preparare  in 
fretta  la  cena  e  poi  dopo  poco  metterlo  a  letto.  Al 
pomeriggio Roberto stava con lei, con la nonna, e si sentiva 
bene  quando  incontrava  il  suo  sguardo  pacato  uscendo  da 
scuola  assieme  ai  compagni,  ci  trovava  un  senso  di 
rassicurante in quei suoi vestiti, in quell’espressione dolce 
e  simpatica  che  aveva  tutta  per  lui.  La  mamma  non  era 
così,  la  mamma  era  sempre  nervosa,  certe  volte  non 
lasciava  neanche  il  tempo  di  dire  le  cose.  Del  periodo 
quando  il  papà  abitava  ancora  con  loro,  Robertino  non 
ricordava  quasi  più  niente,  giusto  qualche  giorno  speciale 
in  cui  era  successo  qualcosa  di  bello,  una  gita,  un  regalo, 
ma  pochissime  cose;  soprattutto,  se  proprio  doveva 
pensarci, ricordava le discussioni di sera con quelle stridule 
voci  mezze  gridate,  e  la  difficoltà,  nonostante  il  cuscino 
sopra  la  testa,  nel  riuscire  a  prendere  sonno,  con  quelle 
porte sbattute che certo non erano mai un bel segnale. Poi 
era andato via, suo papà, quasi senza avvertirlo, ma lui era 
ancora  piccolo,  e  non  aveva  mai  detto  alla  mamma  che 
quell’assenza  gli  sembrava  terribile.  La  nonna  gli  aveva 
spiegato qualcosa, ma Robertino non voleva sapere, non gli 
interessavano gli affari dei suoi genitori, così aveva sempre 
cambiato discorso, non voleva saperne di niente. La nonna 

195
gli aveva anche promesso che il papà sarebbe andato spesso 
a trovarlo, magari all’uscita da scuola, ma era successo solo 
tre o quattro volte, e quelle volte suo padre era andato lì, lo 
aveva  tenuto  per  mano  per  dieci  minuti,  gli  aveva  chiesto 
come  gli  andava,  poi  basta.  Ma  quel  giorno  di  maggio 
sembrava fosse cambiato qualcosa: la mamma aveva detto 
che il papà avrebbe fatto un giro con lui, quel pomeriggio, 
lo  avrebbe  portato  con  sé,  a  fargli  trascorrere  un’ora 
diversa,  e  Robertino  era  rimasto  in  silenzio,  non  aveva 
detto niente, ma solo per paura di sbagliare parole, perché 
dentro  di  sé  si  era  sentito  contento,  contento  come  mai 
prima.  Era  venuto  a  prenderlo  con  la  sua  moto  nuova,  il 
papà, la nonna gli aveva fatto un sacco di raccomandazioni, 
aveva coperto Roberto fino all’inverosimile, poi finalmente 
loro due erano partiti. Sotto di loro la moto rombava, era la 
prima volta che Roberto ci saliva, il vento arrivava da tutte 
le parti e lui si stringeva forte al papà, proprio come lui gli 
aveva  spiegato  di  fare  mentre  lo  sistemava  sopra  la  sella. 
Era  bello  vedere  le  case  che  scappavano  via,  dietro  le 
spalle,  e  Roberto  guardava  le  macchine,  gli  alberi  lungo  i 
viali, le persone sui marciapiedi. Era bella quella strada che 
facevano  assieme,  a  Roberto  piaceva  tantissimo,  e  con  la 
mente cercava di rallentare ogni fase, come a gustarsi più a 
fondo  ogni  particolare.  Poi  si  erano  fermati  ai  giardini,  ad 
un  tavolo  di  un  chiosco  all’aperto,  giusto  il  tempo  per 
mangiare  un  gelato.  Non  aveva  parlato  molto  Roberto,  e 
neanche  suo  padre,  però  si  erano  guardati,  e  forse  andava 
bene  così.  Poi  erano  saliti  di  nuovo  sopra  la  moto,  e  via, 
verso  casa.  Adesso  Robertino  si  sentiva  più  triste,  chissà 
quando avrebbe rivisto il papà: giurava a se stesso che nei 
giorni  seguenti  avrebbe  scrutato  tutte  le  moto  lungo  la 
strada,  quando  usciva  da  scuola,  nella  speranza  di  vederlo 
arrivare. Ma adesso assaporava ancora quegli ultimi attimi 
prima  di  arrivare  ai  saluti,  e  si  stringeva  ancora  più  forte 
sopra  la  moto,  e  pensava  tra  sé  che  non  gli  sarebbe 
importato  un  bel  niente  se  la  nonna  non  lo  avesse  più 
chiamato “l’ometto di casa”: suo papà adesso era lì, proprio 

196
con  lui,  stretto tra le sue braccia, e lui non lo avrebbe più 
voluto  lasciare;  ma  Roberto  si  sentiva  ancora  troppo 
bambino,  e  sapeva  benissimo  che  quelle  sue  braccia  non 
erano davvero quelle di un uomo, come diceva la nonna, e 
per  quanto  avesse  potuto  sforzarsi,  erano  deboli,  non 
sarebbero mai riuscite a tenere suo padre con sé.

197
LO STRANO CASO DELLA SIGNORINA PARISI
di Aeribella Lastelle

La  Terra  scrive  sul  mio  corpo.  La  gente  ammira  i  miei 
tatuaggi,  segni  tribali  e  simboli  simmetrici,  poi  mi  chiede 
chi me li abbia fatti ed io rimango interdetta. Mi piacerebbe 
dire  loro  la  verità  ma  non  posso  perché  mi  prenderebbero 
per  matta.  Allora  m’invento  qualcosa  per  non  destare 
sospetti. L’ultimo di questi, una serie di cerchi concentrici 
all’interno di un triangolo (anche se secondo me si tratta di 
una freccia), me lo sono fatto in Portogallo la scorsa estate. 
È  questo  quello  che  ho  raccontato  in  giro  e  i  miei  amici 
l’hanno  bevuta.  Se  invece  sapessero  la  verità, 
probabilmente  smetterebbero  di  chiamarmi  e  mi 
consiglierebbero un buon dottore. Ma io non ho bisogno di 
dottori,  sto  benissimo.  Anzi,  non  mi  sono  mai  sentita 
meglio.
Ammetto  che  all’inizio  la  faccenda  mi  disturbava 
alquanto. Svegliarmi sudata nel mio letto dopo strani incubi 
che non riuscivo mai a ricordare, e poi guardarmi il corpo 
allo  specchio  per  scoprire  se  il  sogno  aveva  lasciato  il 
segno, come succedeva quasi sempre. Sono due anni che va 
avanti questa storia, esattamente dal giorno in cui mi persi 
nel  bosco.  Proprio  come  Pollicino,  dannazione…  Che 
scema!  Gettai  nel  cestino  dei  ricordi  tre  anni  di  relazione, 
sbattendo la porta in faccia a Nicco dagli occhi verdi, gran 
bell’affare!  Ubriaco  alla  festa  di  ognissanti  si  era  buttato 
sulla  sua  ex  e  poi  era  venuto  con  la  coda  tra  le  gambe  a 
chiedermi  scusa.  Il  minimo  che  si  meritava  era  che  lo 
mandassi  al  diavolo,  ed  è  quello  che  feci.  Schiumante  di 
rabbia  incominciai  a  girare  a  vuoto  col  motorino  per  le 
strade  di  una  periferia  che  non  conoscevo.  Poi  mi  lasciai 
alle spalle anche le case e mi ritrovai sulle colline. Sentii la 
marmitta scoppiettare e solo in quel momento mi resi conto 
che  ero  rimasta  senza  benzina.  Che  stupida…  Lasciai  il 

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motorino sul bordo della statale e provai a tornare indietro 
a piedi, ma la strada saliva ripidamente e le luci della città 
erano sulla mia destra, oltre gli alberi. Così lasciai la strada 
con  l’intenzione  di  tagliare  per  il  bosco.  E  feci  la  fine  di 
Pollicino…  Il  buio  mi  sorprese  che  ero  ancora  tra  la 
vegetazione. Non vedevo più niente, né strade né luci, solo 
alberi,  rami  ed  arbusti.  Nonostante  tutto  provai  una  strana 
sensazione di quiete. Mi sedetti su un letto di foglie secche 
per riprendere fiato ed invece mi addormentai. Fu la prima 
volta che sognai quelle cose che non riesco mai a ricordare. 
Quando  mi  svegliai  era  giorno  e  mi  rimisi  subito  in 
cammino.  Non  potevo  credere  di  aver  passato  la  notte  nel 
bosco, da sola. Era tutto molto strano. Era come se mi fossi 
appena appisolata, anche se mi sentivo fresca e riposata, e 
non  come  se  avessi  appena  passato  la  notte  sulla  terra 
umida di un bosco alla fine di ottobre.
Quando  tornai  a  casa  mi  buttai  sotto  la  doccia  e  lo  vidi, 
poco sopra la caviglia destra. Era il primo messaggio della 
Madre  sul  mio  corpo,  una  farfalla  stilizzata,  poco  più 
grande  di  un’unghia.  Da  quel  giorno  è  successo  altre 
ventitre  volte.  Il  mio  corpo  è  il  foglio  bianco  della  mia 
signora, che piange per le pene inflittele dai suoi figli. Ella 
ci  parla  in  molti  modi,  ma  noi  continuiamo  ad  ignorarla. 
Per due anni mi sono chiesta perché io. Perché la Madre ha 
scelto  di  parlare  specificatamente  a  me.  Ancora  non 
conosco  la  risposta,  ma  so  che  il  giorno  in  cui  riuscirò  ad 
afferrare il senso dei miei sogni, sarò in grado finalmente di 
leggere i simboli di cui il mio corpo è ormai disseminato.
E fino a quel giorno sarà un onore per me essere la carta 
da lettere della mia signora.

Questa  nota  è  stata  ritrovata  nel  diario  della  signorina 


Parisi,  il  giorno  dopo  il  tragico  attentato  in  cui  hanno 
perso  la  vita  alcuni  dei  personaggi  più  influenti  del 
panorama  economico  ed  industriale  del  paese.  La 
signorina Parisi ricopriva da circa un anno la funzione di 
“personal  assistent”  per  l’ingegner  Damiani,  noto 

199
imprenditore  anche  lui  vittima  dell’esplosione  di  venerdì 
scorso.  Gli  inquirenti  presumono  che  la  ragazza  abbia 
agito da sola e che il suo gesto sia stato il risultato di una 
lunga  e  convulsa  escalation  di  stati  mentali  deviati. 
Qualcuno  invece  sospetta  che  la  storia  dei  tatuaggi  possa 
aver  a  che  fare  con  altri  strani  fenomeni  che  si  stanno 
ripetendo  negli  ultimi  tempi,  come  i  sempre  più  numerosi 
casi  inspiegabili  di  cerchi  di  grano  nel  nord  Europa. 
Purtroppo  l’esplosivo  indossato  dalla  Parisi  ha 
completamente divelto il suo corpo e non è stato possibile 
accertare la presenza di questi peculiari tatuaggi, anche se 
i conoscenti della ragazza dichiarano di averli visti in più 
occasioni.
Ci  si  chiede  a  questo  punto,  nel  caso  la  favola  della 
Parisi  contenesse  un  minimo  di  verità,  a  quante  altre 
persone la Terra stia parlando in questo momento, e quante 
altre bombe ad orologeria stiano per essere innescate.

200
UNA CAREZZA ANCORA, PASSERA'
di Claudia Cafarelli (101 Parole)

Un'autostrada  corre  libera  e  veloce;  i  treni  sfrecciano 


nervosi  sui  binari;  un  uomo  sotto  un  ombrello, 
ventiquattrore in mano. Un istante.
La  strada  è  ora  bloccata,  i  binari  deviati,  l'uomo  fermo. 
Lontano, una macchina rovesciata. Un bambino la osserva 
incredulo  tra  i  vetri  appannati  dalle  lacrime  di  un  cielo 
livido. Passa oltre. Da qualche parte suona un telefono. Chi 
lo  sente,  se  lo  sente,  forse  percepisce  il  tono  diverso  di 
quello  squillare.  Se  non  risponde,  ad  avvertirlo  sarà  il 
silenzio  di  quattro  mura  appena  illuminate;  raggi  di  luce 
invadenti  riescono  a  intrufolarsi  nella  stanza  deserta. 
Fredda sensazione del nulla. Un vuoto. 

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IL VERME ZANNATO
di GM Willo

Ho  solo  trentatre  minuti  per  raccontarvi  tutto,  e  dico 


proprio  tutto,  perché  se  mi  dimentico  di  qualcosa  potreste 
fare  la  mia  stessa  fine,  perciò  devo  essere  preciso.  No, 
niente introduzioni, solo fatti. Fatti.
Mi trovo nel sottosuolo cittadino e posso già sentirlo, un 
rumore  distinto  e  greve  dal  centro  della  terra.  L’ho 
svegliato con il tocco di un pensiero. Non volevo, vi giuro, 
ma adesso è sveglio e sta venendo a prendermi. Siete liberi 
di non credermi, ma vi sono cose oltre gli spazi di memoria 
consentiti  che  possono  distorcere  completamente  la  realtà 
come la si conosce, e non solo la realtà. Per anni abbiamo 
sentito  la  necessità  di  dividere  il  mondo  reale  da  quello 
binario, del tutto ignari dell’esistenza di un terzo mondo, o 
forse  addirittura  di  un  quarto,  di  un  quinto  e  di  chissà 
quanti  altri.  Perdersi  in  un  sogno  alterato  dalle  droghe 
digitali  è  come  viaggiare  attraverso  molte  dimensioni.  La 
tua essenza si assottiglia, diventa un filamento di luce. Amo 
avvolgermi attorno alle comunità mentali o alle proiezioni 
dei  sognatori,  entrare  in  una  storia,  una  di  quelle  che  la 
gente  spara  inavvertitamente  nella  ruota  del  giro­tempo. 
C’è  chi  cerca  ancora  di  imprimere  il  tempo  alla  matrice. 
Sciocchi… Lo sapete tutti il motivo, no? È perché il tempo 
è  solo  stramaledettissimo  denaro,  ecco  perché.  Quando  si 
sono  accorti  che  laggiù  il  tempo  non  esiste  hanno  provato 
di  tutto,  ma  nessun  simulatore  è  in  grado  di  convincerti 
della tua caducità. Soldi sprecati. Fatica sprecata. L’oblio è 
solo l’oblio.
Ma  non  divaghiamo,  perché  siamo  a  fare  i  conti  con  la 
realtà adesso, e non mi rimane più molto tempo. Il rumore 
sale,  ad  ogni  minuto  si  fa  più  vicino,  insistente,  miete, 
rastrella,  mangiucchia  pezzi  di  crosta  terrestre.  È  un  baco 
con fauci d’avorio che rode la terra sotto i miei piedi. È il 

202
dio  dell’oscurità  che  viene  a  pranzare  insieme  a  me,  con 
me,  di  me.  C’è  un  buco  oltre  il  tredicesimo  quadro,  nei 
fondali  sconfinati  della  matrice.  Laggiù  ognuno  deve  fare 
con  quello  che  ha.  Galleggiano  meduse  letali  e  fameliche 
murene,  ma  di  pesciolini  curiosi  ve  ne  sono  sempre 
tantissimi.  La  libertà,  quella  totale  e  imbarazzante,  ha  il 
prezzo  più  alto.  Il  tredicesimo  quadro  è  un  luogo  buio. 
Laggiù  i  codici  ritornano  indietro  a  sbalzi  e  spesso  si 
alterano,  mandando  in  corto  il  sistema.  Più  volte  mi  sono 
risvegliato di botto senza capire dove mi trovavo o da dove 
ero  riemerso.  Laggiù  il  filamento  può  perdersi  in  un 
labirinto di specchi, e farti assaggiare un brivido di eternità. 
Roba  da  farti  perdere  la  testa!  Ma  c’è  un  buco.  Forse  è 
proprio uno di quegli specchi che, mutandosi, ha creato una 
voragine, un accesso verso qualcosa di se possibile ancora 
più obliante. E laggiù ho risvegliato Lui, il verme, colui che 
striscia  attraverso  chilometri  di  cunicoli  sotterranei 
anelando la mia anima. Ancora dieci minuti e sarà qui.
Ne  esistono  molti  altri  come  lui.  Ve  ne  sono  migliaia  e 
dimorano  nelle  profondità  della  terra.  Come  faccio  a 
saperlo?  Me  lo  ha  detto  lui,  prima  che  iniziasse  la  sua 
rapida  ascesa.  Nella  grotta  la  sua  testa  dentata  si  è  sporta 
fin  sopra  il  filamento  che  mi  rappresentava.  La  sua  forma 
anelloide si è avvinghiata al mio non­corpo, sussurrandomi 
parole  feroci.  Mi  ha  anche  detto  il  suo  nome,  ma  l’ho 
dimenticato,  oppure  semplicemente  non  sono  in  grado  di 
decodificarlo  in  questa  sembianza.  Adesso  lo  chiamo  il 
Verme Zannato, e mi sembra un nome bellissimo.
Il  rumore  è  diventato  insopportabile.  Le  pareti  della 
stanza  hanno  incominciato  a  tremare,  i  vetri  delle  finestre 
che  danno  sui  marciapiedi  della  città  tra  poco 
esploderanno,  perché  il  dio  della  terra  farà  il  suo  ingresso 
per il banchetto. Addio, corpo, ti lascio per sempre. Sarai la 
colazione del mio sublime signore, Verme Zannato, essere 
dormiente e padrone di una razza defunta. Vieni… sono il 
tuo pranzo...

203
E  voi,  prestate  molta  attenzione.  Non  anelate  troppo 
l’oblio, perché lui adora soddisfare le vostre richieste…

204
LA SAGGEZZA DEL VECCHIO
di Bruno Magnolfi

Tutto è già stato spiegato; la comprensione delle cose non 
ha  più  scopo:  tutto  è  ormai  chiaro,  evidente,  palese.  La 
libertà che offre il nuovo stato di cose è enorme, e chiunque 
gioisce  in  cuor  suo  dello  scopo  raggiunto.  Solo  qualcuno, 
isolato dagli altri per le più differenti ragioni, non è conscio 
dei cambiamenti avvenuti. Tra loro un vecchio che vive da 
solo, in una casa lontana. Lui ogni giorno, quando il sole è 
su in alto, si siede sopra una pietra, e riflette su quel mondo 
imperfetto  da  cui  fortunatamente  vive  distante.  Poi,  un 
pomeriggio,  qualcuno  lo  vede,  si  avvicina  cautamente,  lo 
saluta  con  un  gesto  forse  un  po’  esagerato,  come  per 
accennare alla nuova stagione, regalando alla sua direzione 
un sorriso che è persino troppo sfarzoso, tanto da apparire 
un  po’  falso,  inadeguato.  Il  vecchio  ricambia  con  un 
semplice cenno, poi, lentamente, come fa sempre, si alza da 
sopra  la  pietra,  e  senza  guardarsi  più  attorno  rientra  nella 
sua casa, scomparendo alla vista.

205
F I N E S T R E I N S O N N I
di Miriam Carnimeo

Una donna guarda fuori dalla finestra, un uomo le cinge le 
spalle e le bacia il collo, lei continua a guardare fuori quasi 
impassibile, sembra che in quel buco di vetro trovi riposo, 
un passaggio segreto da un dentro apparentemente ordinato 
ad  un  fuori  caotico  ma  interessante.  Anche  in  inverno, 
molte finestre rimangono aperte, molti i volti scrutare dalle 
trasparenze,  gli  sguardi  rivolti  verso  l’alto  come  cercando 
di se il più intimo pensiero .
Così anche quando si cammina, quando distrattamente la 
testa spinta dal basso cerca un buco nell’aria, quel pezzo di 
cielo sembra farti ricordare la tua umanità. I tuoi passi sono 
tra migliaia di scarpe, automobili, buste di plastica, edifici 
compatti, così simili e a volte anche tristi, se non fosse per 
quelle finestre e per alcuni balconi, piccoli giardini sospesi, 
talmente  fitti  da  riuscire  a  malapena  ad  affacciarsi,  ma 
spezzano  il  grigio  e  lo  fermano  il  passo.  Attraverso  le 
finestre le giornate si lasciano guardare già dal primo sole 
del  mattino,  il  suo  spegnersi  lento,  lo  sviluppo  di  una 
fotografia  a  colori  che  d’improvviso  muta  in 
impressionante  bianco  e  nero.  Solo  a  tratti  si  illumina  di 
piccole  macchie  gialle  sfumate  dai  silenzi  chiusi  dei 
lampioni,  falene  che  ci  girano  intorno  ed  i  soliti  gatti  già 
nascosti nei buchi del cemento.
La  luce  di  ogni  finestra  accendendosi,  racconta  storie, 
umori,  sogni  sudati,  canzoni  che  spesso  echeggiano 
nell’aria, lasciando sperare nella carezza finale di una vita 
che corre. In estate con il caldo le vedi aprirsi al volo libero 
delle  rondini,  facendo  gustare  agli  occhi  e  alle  labbra  il 
sapore dolce del mare fattosi vicino alle risate frettolose dei 
passanti.  Nel  freddo,  i  suoi  vetri  diventano  fogli  su  cui 
alitare il caldo fiato dei propri pensieri, in attesa che il buio 
li inghiotta.

206
Qualche  volta  accade,  certe  espressioni  dell’anima 
divampano nello sguardo attento, richiamato da una donna 
dai capelli rossi che attraversando una strada, regala sorrisi 
senza  conoscere nessuno, lei sembra  avere solo quello, un 
bel sorriso che emerge tra maschere e passanti. Guardi tutte 
quelle facce nascoste tra le mani, i passi stanchi di chi non 
ha  ancora  dormito,  un  padre  che  saluta  la  figlia  dalla  sua 
finestra  gridando  il  suo  nome,  un  uomo  seduto  su  un 
muretto  che  si  lascia  accarezzare  dal  vuoto,  una  ragazza 
grassa  guardarsi  preoccupata  in  uno  specchio.  Con  le 
gambe a ciondoloni delle ringhiere i bambini ci guardano, 
e  nei  loro  occhi  il  ricordo  di  come  eravamo,  loro,  ancora 
seduti su una soglia, verso mattini che conservano odori e 
piccole mani di un mondo che non riesce a pensarli.
A loro rimane almeno il tempo di sorridere, a volte anche 
un  semplice  osservare.  Un  pensare  lento  nello  scorrere 
veloce che riconosce solo il presente, senza nessuna paura 
di vivere né di morire. Così, illuminati dalla luce filtrata dai 
vetri, la loro vista accompagna il tatto emozionante del dito 
contro l’aria, cancellando ogni tempo. Questa è l’immagine 
che viene fuori dal caos con tenerezza infinita, si scrive da 
sola su un muro, suggerendo l’interruzione del giorno in un 
miracoloso, simbolico fermarsi.
“Basterebbe  guardarci  negli  occhi  per  osservare  di 
ognuno la propria storia e la verità canterebbe con la stessa 
voce.”
In  certe  notti,  la  parola  si  presenta  come  semplice, 
coreografico fantasma di se stessa, ha l’odore della polvere, 
crepita  dal  di  dentro  come  legna  sul  fuoco,  tutta  sotto  i 
vestiti, resa ormai gracile da un’autentica fame di ritornare 
ad  essere.  In  quest’ora  tutto  non  si  muove.  La  nostalgia 
indaga sulla notte aperta. Percepisco l’aria e i dintorni con 
la  pelle  che  d’improvviso  si  fa  dura  e  tesa,  anche  il  vento 
ha cominciato a soffiare, ma solo per un istante, su ciocche 
di  capelli  e  profili,  di  un  caldo  fiato  tra  naso  e  bocca. 
Chiudo  gli  occhi,  le  ombre  brillano  su  ponti  di  polvere 

207
vivendo immagini di lenti passi e parole in lontananza. Nel 
regno  sensibile  ,  il  visibile  imprime  e  si  svela,  il  buio  in 
piedi  mentre  la  mente  si  risveglia.  Quanto  cammino  per 
arrivare in questo luogo così lontano dalle luci della città ed 
il respiro malato delle strade.
Dalla  finestra, ora, il corpo abbondante di una montagna 
ancora  vestita  di  abiti  estivi,  di  un  verde  fitto  e  spesso, 
come coperta da una vernice indelebile, si ha la sensazione 
che rimarrà sempre così, poi gli odori aprono un taglio, si 
svuotano  leggeri  dentro  quella  piccola  fessura,  e  la 
memoria ne viene fuori con occhi di un diverso colore, lei, 
amichevolmente  che  accoglie  e  ricorda,  finalmente 
dimenticando  un  presente  schiacciato  dal  continuo 
borbottare del suo stesso stomaco.
In  questa  stanza  la  scopro  tacere  e  spingersi  oltre  il 
mistero della logica, ogni perché si scandisce nel ritmico e 
cadenzato ticchettare delle mie unghia sul vetro. La luce si 
spegne  mentre  la  mano  sorregge  ancora  i  sogni  di  un 
leggero  vibrare  di  cuore  tra  il  cuscino  e  la  memoria  della 
luce che domani, spaccherà immensa la finestra. Mi scopro 
tradita  dal  mio  stesso  pensare,  così  tutto  ridiventa  e 
nell’attimo dopo si ricrea.
Poi  qualcuno  apre  la  bocca,  tira  fuori  una  rabbia  con  la 
faccia da mostro, e seminando fiamme allontana emozioni 
che  debolmente  divengono  banali  e  troppo  delicate  per  i 
suoi bruschi gesti. Quella voce si alza, scuote i muscoli ad 
ogni  variare  di  frequenza,  soffoca  il  silenzio  come  mano 
ingorda,  padrona  del  giorno  si  aspetta  solo  un’ambigua 
stanchezza a risucchiare ogni nera energia. Facile davvero, 
penso.
Poi  trovi  puttane  di  sentimenti  vendersi  al  miglior 
offerente, e gli animali nei piatti d’argento, con odori forti, 
aromatizzati per palati esigenti, flusso di macchine colorate 
soffiare fumo già ai primi attimi di respiro. Al primo urlare 
è  già  pronta  una  bestemmia  covata  nell’insonnia  e  dalle 
mancanze  che  hanno  scavato  buchi  profondi  nell’anima, 
marci e della stessa puzza dei rifiuti per strada.

208
In  questi  luoghi  dove  nascerebbe  la  poesia?  Una  voce 
fuori campo suggerisce, nella prima luce che si specchia sul 
viso,  ma  dovresti  svegliarti  di  soprassalto  per  inseguirla, 
magari  obbligandola  a  rimanere  nuda  per  imparare  a 
goderla in silenzio.
Arriva  l’odore  del  caffé,  ha  già  una  forma,  lasci  che  si 
estenda  nella  tua  camera  di  pensieri  scheletrici,  le  dai  una 
voce  corposa  che  ravvivi  la  gola  di  un  suono  che  diventa 
canzone,  magari,  la  poesia  sta  nel  cantarla  solo  al  vento 
freddo  dell’inverno  che  ghiaccia  il  cuore  in  un  solitario 
toccarsi. La luce dura poco, il buio si protrae. L’ispirazione 
è  una  sposa  dal  velo  lungo  che  strisciando  ti  lascia 
inciampare. La scrittura di un inchiostro nero che sporca il 
claustrofobico bianco di emozione incredula, ad ogni tratto 
ti convince a lasciarla da sola ed in luoghi più aperti.
Poi  se  la  ride  in  un  portacenere,  dove  una  sigaretta  non 
aspirata  si  brucia autonoma. Attimi dopo qualcosa accade, 
un  altro  qualcuno  che  conosci,  apre  la  porta,  si  siede  con 
fare nervoso e ti guarda simpaticamente rilassato. Ha fatto 
una passeggiata ieri sera, camminato nell’unico giardino di 
fronte ad una fontana, le tasche piene di mollica di pane per 
sfamare  uccelli  e  pesci  di  un  appetito,  senza  rimedio. 
Continuava a fare domande a passanti solo con gli sguardi, 
loro con la testa bassa e le mani trattenute da guanti di lana 
a  mezze  dita.  Lui  ha  sempre  cercato  la  poesia,  senza 
conoscere  sfumature,  né  aria  fresca  nel  naso,  per 
assaporarne  le  intuizioni.  In  quel  suo  giorno  il  cielo  ha 
cominciato  a  lamentarsi,  la  pioggia  ha  inondato  ogni 
possibile memoria, solo il presente a strizzargli gli occhi di 
lacrime poggiate sulle labbra cadenti.
Poi  le  mani,  tempo  visibile  tra  le  macchie  scure 
tinteggiargli  la  pelle,  non  più  chiuse  nel  pugno  di  un 
esistenza trascorsa a difenderla nel contenuto. Il suo sangue 
scorrendo  firma  la  propria  presenza  in  uno  spazio  così 
piccolo  da  non riuscire ad accettare la ragione del proprio 
smarrimento.  La  memoria  ancora  emerge,  come  sacco 
pesante,  che  continua  a  ricordargli  il  valore  intoccabile  di 

209
una  semplice  carezza  accolta  ad  occhi  chiusi  e  sole  in 
faccia.  Tutti  i  suoi  resti  sono  nel  palmo  segnato,  che  si 
stende  come  una  benedizione  sulla  testa.  Raccolto  nel 
cappotto  scriveva  racconti  senza  penna,  poi  di  corsa  a 
raggiungere  il  calore  di  una  luce  così  accogliente  da  far 
rabbrividire  anche  i  vetri.  Sotto  una  finestra  ad 
immaginarne  il  calore,  poi  con  le  orecchie  sul  palo  della 
luce  per  catturare  l’unica  voce  di  una  notte  di  strada.  Lui 
una memoria c’è l’aveva, gli bastava aprire di più gli occhi 
per  ricostruire  paesaggi,  volti,  luoghi,  e  raccontare  il  tutto 
come guardandolo galleggiare in uno specchio.
“Quanto hai scritto tanto?” e poi rideva di me.
“Io  scrivo  di  cuore”  mi  diceva  “e  non  ho  bisogno  di 
scrivere,  ci  sono  altri  che  scrivono  di  culo  non  avendo 
niente  da  dire,  io  non  li  ho  mai  visti  sia  ben  inteso,  ma 
quelli che scrivono di testa e di cuore si!”
La  testa  te  la  possono  rubare,  facile  preda  con  i  suoi 
preziosi  pensieri  e  nomi,  ma  il  cuore,  quello  no,  quello 
viene con te ovunque e parla anche quando fuori ma molto 
freddo, le sigarette sono finite, e poco lontano bruciano un 
vecchio  sulla  panchina  addormentatosi  magari  nel  tuo 
stesso  sogno.  Nell’odore  di  quell’aria,  le  parole  diventano 
così  piccole  da  perdere  ogni  valore,  ed  è  solo  il  cuore  a 
ricordare e a saperne scrivere.
Questo tipo di poesia non si inventa, non chiede nulla ma 
felicemente  esiste.  Adesso  leggi  pure,  mi  disse,  siamo 
quello  che  scriviamo,  con  delle  ali  nello  stomaco, 
nidificando  in  ogni  sguardo  il  senso  di  ogni  memoria  e 
della sua consolante nudità.

210
CYBERBLUES 
di GM Willo

Una bottiglia di bourbon e il cielo grigio della città. Non 
ho  bisogno  di  altro  per  stasera.  Il  malto  attanaglia  le 
budella come solo lui sa fare, e la testa galleggia tra le note 
di un vecchio disco, lontana dai baci e dalle carezze di lei, 
che non è più con me…
Si chiamava Alice, ma per gli amici era solo uno dei tanti 
modelli Kaifer­5600, ed io per lei me li sono giocati tutti… 
gli  amici.  No,  non  era  un  semplice  oggetto  da  vetrina.  Io 
l’amavo,  com’è  vero  questo  cielo  grigio  ed  il  bicchiere 
vuoto  che  ho  in  mano.  Non  me  n’è  mai  fregato  niente  di 
quello che pensava la gente. Come se non lo sapessi di che 
pasta erano fatti quegl’ipocriti dei miei colleghi…
Io sono un tipo all’antica. Da quando hanno legalizzato i 
programmi Truesex, le bimbe di lattice sono diventate roba 
per  i  nostalgici.  Le  ho  provate  quelle  dannate  Orgychats, 
ma  non  sono  mai  riuscito  a  partire  completamente.  Le 
simulazioni  sono  così  esatte  che  non  puoi  fare  a  meno 
d’intuire l’inganno. Alla fine il sesso è solo nella tua testa, 
e il risveglio è assolutamente deprimente. I vecchi modelli 
Kaifer invece sono una sicurezza…
Alice  mi  guardava  attraverso  due  smeraldi  sintetici  e 
lunghe  sopracciglia  in  similcorno.  I  suoi  occhi  dicevano 
sempre la verità. Il nostro amore è cresciuto nel tempo, tre 
anni  e  undici  mesi  dissipati  di  momenti  meravigliosi;  le 
serate  al  teatro  olografico,  il  ristorante  tailandese  al 
cinquantatreesimo  piano  del  boulevard,  le  corse  in  auto 
sulla  sopraelevata,  ma  soprattutto  le  notti  d’amore  tra  le 
sete porpora del nostro letto. Dio come l’amavo…
Ricordo  la  sera  che  mandai  a  quel  paese  il  mio  capo. 
Eravamo a una cena di lavoro e lei era bellissima. Accanto 
alle mogli dei miei colleghi, Alice sembrava una regina in 
mezzo  a  un  manipolo  di  mummie.  Sorrideva,  parlava 

211
disinvolta  senza  mai  sembrare  invadente,  sensuale  e 
intelligente  al  tempo  stesso.  Tutti  sapevano  quanto  era 
importante per me che la trattassero con il dovuto rispetto, 
ma  la  gelosia  è  una  brutta  bestia.  Al  mio  capo  uscirono 
dalla bocca un paio di battute fuori luogo e io non ci pensai 
su due volte; mi alzai dal tavolo e mandai al diavolo tutti i 
presenti, poi me ne uscii fiero con lei accanto, splendida nel 
suo  completo  in  vinile  rosso.  Quella  notte  si  dette  a  me 
completamente,  attingendo  ai  programmi  più  seducenti, 
improvvisando sulle informazioni che aveva registrato fino 
ad allora, mostrandomi senza mai rivelarmi l’inganno. Ma 
potevo davvero parlare d’inganno con lei? No, e adesso lo 
so.  Ho  amato  un  modello  Kaifer,  e  allora?  Non  sono  il 
primo uomo che ha perso la testa per una macchina, e non 
sarò neanche l’ultimo.
Il disco è finito e la bottiglia pure. Lei giace riversa sulla 
poltrona,  con  gli  smeraldi  chiusi  e  il  led  spento.  Una 
manciata  di  cavi  le  ricadono  sul  collo.  Ho  provato  a 
recuperare  qualche  dato,  ma  il  disco  è  completamente 
partito;  niente  back  up!  Quasi  quattro  anni  di  relazione 
cancellati  per  colpa  di  un  dannato  corto  circuito.  Dio, 
perché mi hai fatto questo…
Ma dio non c’entra niente. Anche lui è roba da nostalgici, 
perché una donna perfetta come Alice dio non sarebbe mai 
riuscito a concepirla.
Addio amore. Non ti dimenticherò…

212
LIBERO
di Bruno Magnolfi

La  posizione  che  ho  dovuto  assumere  nel  letto  è 


scomodissima. La cinghia attorno alle braccia mi ha quasi 
tagliato  la  carne,  e  il  dolore  nella  schiena,  che  non  posso 
muovere  neppure  di  un  millimetro,  mi  impedisce  di 
chiudere  gli  occhi  nonostante  l’iniezione  di  tranquillante. 
Non li capisco questi infermieri, si sono arrabbiati con me 
solo  perché  me  la  sono  fatta  addosso.  E’  normale,  cosa 
devo fare? Mi hanno gonfiato di botte e mi hanno lasciato 
nudo  sul  materasso  umido:  unica  accortezza,  mi  hanno 
coperto  fino  alle  spalle  con  un  lenzuolo,  che  non  si  veda 
niente,  che  tutto  appaia  normale,  e  invece  sono  loro  che 
non riescono a vedere oltre il proprio naso. Di là dalla mia 
stanza piccolissima e vuota, a parte il letto, c’è una ragazza 
che  urla  da  ore  e  si  lamenta  di  continuo.  Sono  tutti  pazzi 
qui dentro, e il personale tratta tutti nello stesso modo. Ma 
io  non  sono  così,  non  sono  come  loro.  Io  sono  posseduto, 
se ne accorgeranno presto. Non mi conoscono ancora, è da 
pochi giorni che sono qui, ma dovranno cominciare presto 
a  capire  che  con  me  è  tutta  un’altra  cosa.  Il  mio  vero 
problema è che siccome l’unica cosa da cui sono attratto è 
la contemplazione, non posso essere distratto quando sono 
in  questa  fase.  Potrei  stare  ore  ad  osservare  un  ragno 
mentre  tesse  la  sua  tela,  o  ad  ascoltare  le  microvariazioni 
del motore di un frigorifero. E’ quando vengo interrotto in 
queste mie attività che dentro di me si scatena qualcosa che 
non  sono  più  io,  è  il  mio  inquilino  che  non  desidera 
interruzioni  di  alcun  genere.  Sono  posseduto,  non  posso 
dirlo, non mi crederebbero, però è così. Guardo un angolo 
sporco  della  stanza,  e  in  quell’angolo  ci  vedo  tutto  il 
mondo.  Non  mi  importa  osservare  dalla  finestra,  o 
strisciare lo sguardo sulla gente. La gente non è niente, non 
capisce.  Un  capello  che  si  muove  con  l’aria  di  un 

213
ventilatore:  è  sufficiente,  è  tutto  quello  che  mi  attira.  Lì 
dentro  c’è  tutto  quello  di  cui  abbiamo  bisogno,  lo  dovrò 
dire in giro un giorno o l’altro. E’ la contemplazione l’unica 
soluzione a tutti i problemi. Il mio inquilino lo sa, forse lo 
ha capito anche prima di me, e lascia che io faccia le mie 
osservazioni  anche  per  lui.  Però  non  provate  ad 
interrompermi.  Il  mio  inquilino  mi  picchia  da  dentro,  si 
arrabbia  e  mi  percuote  la  testa,  lo  stomaco,  tutto.  Mi  fa 
provare  dei  dolori  assurdi  quando  viene  interrotta  la 
contemplazione, e per ora se la rifà solo con me, ma io so 
che  non  durerà  per  molto.  Questi  infermieri  non  hanno 
ancora  capito  niente.  Vengono  qui  e  mi  legano,  come  se 
fosse  una  soluzione.  Non  hanno  ancora  capito  che  il  mio 
inquilino  può  sciogliere  tutte  le  loro  cinghie,  può  farmi 
alzare  da  questo  letto,  farmi  andar  via,  ma  io  non  voglio. 
Non  voglio  ritrovarmi  per  la  strada  dove  c’è  tutta  quella 
gente  che  si  muove  in  fretta  e  cambia  continuamente 
immagine  davanti  ai  miei  occhi.  No,  questo  non  va  bene, 
perciò  l’ho  detto  al  mio  inquilino,  bisogna  stare  qui  e 
sopportare le idiozie degli infermieri. Bisogna stare al loro 
gioco,  finché  è  possibile,  fino  al  punto  in  cui  io  e  lui  non 
perderemo  del  tutto  la  pazienza.  La  contemplazione  è  il 
motore  del  mondo:  lo  lessi  sopra  a  un  libro  quando  ero 
ragazzo, e dopo che l’ebbi letto seppi che era vero, che era 
così,  come  diceva  il  libro.  Fu  allora  che  qualcosa  iniziò  a 
muoversi  dentro  di  me,  a  dirmi  che  non  c’ero  solo  io,  a 
farmi  capire  che  ero  posseduto.  Lo  farò  capire  a  tutti,  un 
giorno  di  questi,  e  quando  finalmente  lo  capiranno,  sarò 
libero.

214
PREFERENZE
di Federica De Angelis (101 Parole)

«Sara  mi  piace  perché  è  una  bambina,  così  ingenua. 


Vittoria invece perché è una donna, sexy e consapevole di 
sé. Di Roberta mi ricordo solo il culo, ma proprio bene. E 
di Elisa mi è sempre piaciuta la sua allegria...»
«Lo  sai  che  mi  fa  soffrire  tutto  questo,  a  me  che  ho 
sempre  voluto  essere  l’UNICA.  Io  bambina,  io  donna,  io 
con  il  mio  culo,  con  la  mia  allegria.  Perché  mi  provochi 
questo dolore? Perché mi dici che mi ami se continuano ad 
esserci anche loro?»
«Perché  tu  sei  l’unica  che  sa  delle  altre  e  nonostante 
questo continui ad amarmi.» 

215
GENERAZIONE DISTACCATA
di GM Willo

­ Perché fai quella faccia? ­
­ Niente… ­
­ Dai, su col morale! È Natale! ­
­ Appunto. Il minimo sarebbe passarlo insieme a mà e pà, 
invece guardali… chissà dove sono adesso… ­
Jeremy  e  Gaia  facevano  colazione  sul  tavolino  della 
cucina, fiocchi d’avena e latte biologico. La luce era forte 
e  veniva  dalla  finestra,  perché  nonostante  fosse  il  25 
dicembre la giornata era spettacolare e l’inverno sembrava 
lontano  molte  settimane.  Babbo  Natale  era  stato  generoso 
quest’anno;  upgrade  originali  per  il  sistema  operativo  di 
Jeremy  e  un  nuovo  interfaccia  per  la  sorellina.  Il 
divertimento era assicurato per entrambi, eppure…
­ Da quanto tempo sono dentro? ­
­ Da ieri sera. Quando sono rientrato dalla festa del liceo 
erano già lì. ­
­ A proposito, come è andata? C’era anche Linda? ­
­ No… ci siamo lasciati. ­
­  Cavolo  fratellino,  com’è  possibile  che  non  riesci  a 
durare neanche un mese con le ragazze? ­
Jeremy contemplava la montagna di schiuma sopra i piatti 
sporchi,  quelli  del  giorno  prima,  e  i  riflessi  multicolori  su 
ogni singola bollicina. La schiuma l’aveva fatta lui prima di 
sedersi a mangiare, cospargendo le stoviglie di abbondante 
sapone e aprendo il getto a doccia del rubinetto. La cucina 
aveva bisogna di una risistemata, ma ci avrebbe pensato la 
donna  delle  pulizie  dopo  le  vacanze.  Fino  ad  allora  sua 
madre  avrebbe  continuato  ad  ammucchiare  piatti  nel 
lavandino, incurante del casino. Tanto valeva darsi da fare, 
pensava lui. Se sua sorella gli dava una mano sarebbe stata 
questione di una mezz’ora al massimo.
­ Dai, puliamo questa roba. ­

216
­ E loro? ­
­  Li  lasciamo  attaccati.  Lo  sai  che  non  vogliono  essere 
disturbati. ­
­ E il pranzo di Natale? ­
­ Ti va il cinese? ­
Papà  e  mamma  erano  immersi  nel  programma  natalizio, 
con tanto di renne, elfetti e col vecchio Santa adagiato sulla 
slitta,  più  grasso  che  mai.  L’esperienza  era  offerta  dalla 
medesima  bibita  che  aveva  inventato  l’omone  rosso  che 
porta  i  regali.  La  promessa  nello  slogan  di  presentazione 
aveva richiamato oltre 300 milioni di accessi nei giorni che 
precedevano  la  festa  sacra:  “In  Christmasworld  2032 
tornerai a credere a Babbo Natale!” Più tardi un ragazzo di 
nome  Lee  suonò  il  campanello  e  porse  a  Jeremy  un 
sacchetto  di  carta  con  dentro  due  porzioni  di  gamberi 
agrodolci e quattro involtini fritti.
­ Ci sediamo in salotto? ­
­  No,  ti  prego.  Non  ne  posso  più  di  sentire  il  frinio  del 
processore. Andiamo in terrazza, che si sta bene… ­
Fratello  e  sorella  consumarono  il  pranzo  di  Natale  in 
silenzio,  nell’arietta  gentile  di  quello  strano  dicembre. 
Diciassette anni lui, dodici lei. Alcuni già la chiamavano la 
“Unplugged Generation”.

217
LE POLITICHE
di Gano (101 Parole)

Mirco  dondolava  insieme  alla  sua  Tennent’s,  la  cenere 


lunga  sul  punto  di  cadere,  il  corpo  magro  piegato 
innaturalmente  dall’ultima  pera.  Si  stava  insieme  al  banco 
ad aspettare il mio corretto…
«Gano, te che sai tutto, chi le vince le politiche?»
La  Giorgia  mi  sistemò  la  tazzina  davanti  e  si  girò  ad 
afferrare  la  bottiglia  di  Stravecchio,  una  manovra  d’anche 
sublime che mi fece fare un balzo al cuoricino.
«Credo  che  questa  volta  vincerà  la  sinistra»  risposi, 
sorridendo alla Giorgia.
«Speriamo  Gano!»  esclamò  Mirco,  grattandosi  il 
ginocchio e sfregandosi violentemente il naso.
“Perché,  che  differenza  farà  mai!”  pensai  io,  girando  il 
caffè. 

218
ELISA A NATALE
di Bruno Magnolfi

Molte  volte  si  era  ripetuta  tra  sé  nei  momenti  in  cui  lo 
sconforto era stato maggiore, che lo svolgere quel lavoro di 
positivo aveva diversi elementi: le permetteva di conoscere 
molte  persone,  per  esempio,  di  interagire  con  loro,  di 
imparare cosa dire, come sorridere, come parlare, in poche 
parole ad essere più socievole di come non fosse mai stata 
in  precedenza.  Ma  non  era  facile,  neppure  così,  neanche 
con  l’entusiasmo  che  continuamente  cercava  di  avere, 
affrontare  i  problemi  che  ogni  giorno  le  si  presentavano. 
Erano  trascorsi  solo  due  mesi  da  quando  era  stata  assunta 
come  commessa  in  quel  negozio  di  abiti  confezionati  per 
uomo e per donna, e certi giorni per lei erano stati davvero 
duri,  pesanti,  infiniti,  quasi  insopportabili.  Le  era  stato 
detto già al primo giorno che non c’era una scuola, doveva 
essere sveglia, imparare da sé, fare quello che facevano le 
altre, le sue colleghe, non c’era il tempo per darle consigli. 
E  lei  aveva  fatto  così,  pur  avendo  tantissimi  dubbi.  Poi, 
dopo  la  prima  settimana  si  era  sentita  più  forte.  Però  non 
riusciva a capire perché quei clienti certe volte fossero così 
scortesi,  aggressivi,  mai  soddisfatti.  Se  assumeva 
l’espressione  della  servizievole,  della  vittima  a 
disposizione di chi voleva provare le giacche, le camicie, le 
gonne,  i  calzoni  e  tutto  quello  che  era  esposto  dentro  al 
negozio, allora era peggio. L’unica possibilità per resistere 
era  quella  di  dare  poca  importanza  a  ciò  che  veniva 
richiesto, ascoltare una persona alla volta e incoraggiarla il 
più  presto  possibile  a  comprare  ciò  per  cui  era  entrata 
dentro  al  negozio,  magari  usando  soltanto  un  semplice 
gesto,  un’espressione  del  viso,  o  una  brevissima  frase,  o 
uno  stupido  giudizio  affettato.  Il  cliente  alcune  volte  non 
chiedeva  nient’altro  se  non  quel  minimo  apprezzamento, 
quel  surrogato  sociale  di  incoraggiamento  alla  vita,  quella 

219
semplice spinta a stare con gli altri, a sentirsi bene con gli 
altri,  ed  era  sufficiente  quella  sua  convinzione,  non 
occorreva nient’altro. Lei certe volte si vergognava di quei 
modi  che  imparava  ad  usare,  si  sentiva  finta,  ridicola, 
insulsa,  ma  vedeva  le  altre  colleghe  più  esperte  di  lei  e 
capiva che era quello il modello a cui stare dietro. Però con 
tutte quelle ore in piedi ogni giorno a fare la sorridente con 
tutti  per  quei  pochi  soldi,  e  con  un  contratto  che  scadeva 
dopo sei mesi, le pareva che il mondo reale fosse più triste 
di quello che si era aspettata. Elisa aveva quasi vent’anni, si 
era  presa  quel  diploma  irreale  ed  inutile  con  sacrificio, 
perché  studiare  e  andarsene  a  scuola  non  le  piaceva,  e 
quindi  aveva  cercato  un  lavoro  appena  le  era  stato 
possibile,  con  gioia,  con  un  senso  di  liberazione,  e  aveva 
girato e bussato alle porte di tutti, solo per rendersi conto in 
un  anno  di  tempo  che  era  ben  più  difficile  di  quello  che 
aveva  pensato.  Poi  era  capitata  quella  occasione,  tramite 
qualche  amicizia  dei  suoi  genitori,  e  si  era  ritrovata  lì,  ad 
occuparsi  di  taglie,  colori  e  camerini  di  prova,  ma  lei  si 
sentiva una tosta, non avrebbe mollato, voleva un lavoro e 
quello era tale. Poi era arrivato il periodo di Natale, e tutto 
si  era  complicato  in  un  modo  incredibile:  non  vedeva 
neanche più le persone dentro al negozio, correva avanti e 
indietro  cercando  di  dire  a  tutti  le  medesime  cose, 
sorridendo  quando  era  il  momento,  ripiegando 
continuamente  camicie  provate  che  non  andavano  bene  e 
spiegandone altre, per cercare lo stile, il colore, la maniera 
di  far  contento  il  cliente.  Poi,  nella  confusione  di  un 
pomeriggio  identico  a  tutti,  era  arrivato  quel  ragazzo 
carino, un po’ timido, che era entrato dentro al negozio con 
le  idee  poco  chiare;  sottovoce  le  aveva  chiesto  qualcosa, 
una camicia e una giacca, e lei si era subito immedesimata 
nei  pensieri  di  lui,  quasi  come  se  i  loro  desideri  fossero 
identici. Elisa gli aveva consigliato i capi di abbigliamento 
migliori, o quelli che a lei piacevano di più, ma soprattutto 
aveva visto le cose tramite lui, attraverso i suoi occhi, i suoi 
modi, i suoi gusti, i suoi giudizi garbati, senza spiegarsi il 

220
perché.  Lui  si  era  lasciato  convincere,  la  giacca  che  Elisa 
aveva  consigliato  andava  benissimo,  anche  la  camicia,  le 
aveva  spiegato  che  era  per  andare  a  una  festa,  a  una  cena 
importante, e lei lo aveva visto già lì, in mezzo alla gente, 
con  la  sua  giacca,  con  quella  camicia  e  quei  suoi  modi 
cortesi.  Poi  lui  era  andato  alla  cassa,  aveva  pagato,  si  era 
fatto piegare la camicia e la giacca dentro a una busta e si 
era incamminato verso la porta, già proiettato al di fuori da 
lì, come tutti i clienti quando ormai avevano scelto, quando 
soddisfatti  lasciavano  tutto  alle  spalle,  ma  prima  di  uscire 
era tornato un momento da Elisa: “Grazie”, le aveva detto 
con  semplicità,  “Vorrei  tanto  tu  fossi  con  me  a  quella 
festa…”.

221
CINDERELLA
di GM Willo

Chiara  era  un  ricordo,  o  forse  solamente  un  sogno.  Il 


corpo magro privo di forme, la pelle candida, gli occhioni 
da  cucciola,  le  efelidi  attorno  al  naso  all'insù  e  i  lunghi 
capelli  castani  formavano  un  delizioso  avatar  di  carne. 
Quattordici  anni  appena  compiuti,  prima  liceo,  ragazza  a 
posto,  ubbidiente,  buoni  voti,  pochi  amici,  nessun 
fidanzato.  Chiara  passava  le  giornate  nella  sua  cameretta 
rosa,  circondata  dagli  orsacchiotti  e  dalle  bambole.  Sua 
madre,  accostando  l'orecchio  alla  porta  per  controllare  se 
tutto andava bene, poteva sentire distintamente il ronzio del 
processore, quello che i suoi genitori le avevano comprato 
per il compleanno. Le avrebbe fatto comodo per la scuola, 
pensavano...
Ma nella cameretta Chiara non c'era. Vi si trovava il suo 
corpicino,  le  caviglie  strette  dagli  elastici  dei  calzini  di 
cotone,  quelli  coi  disegni  scozzesi,  la  gonna  sotto  il 
ginocchio  e  le  mutandine  di  cotone,  assolutamente  rosa,  e 
poi  gli  elastici  per  i  capelli  e  il  ferretto  ai  denti  per 
correggerle il sorriso. Tutto quanto era lì, disteso sul letto, 
ma Chiara era altrove, anzi non era era neanche più Chiara. 
Nei  luoghi  che  amava  visitare,  rapita  dal  cybersonno, 
l'innocente ragazzina si faceva chiamare Cinderella. Laggiù 
il  suo  corpo  era  quello  di  una  donna  fatta,  eppure  quando 
accettava  un  incontro  era  costretta  a  rivelare  la  sua  vera 
natura.  Questo  mandava  sempre  su  di  giri  l'altro,  e  l'altro 
poteva essere tante cose...
Tutto  era  iniziato  per  gioco,  perchè  queste  cose 
incominciano  sempre  così.  Un'amica  le  aveva  dato  gli 
accessi  per  i  mondi  proibiti,  quelli  ormai  lasciati  fuori 
controllo  dalla  polizia  della  rete.  Laggiù  si  aggiravano  gli 
orchi  e  i  vampiri,  e  le  emozioni  forti  erano  sempre 

222
assicurate.  La  prima  volta  fu  un  banale  incontro  random. 
L'avatar  dell'uomo  le  si  avvicinò  con  un  sorriso  stretto,  il 
membro maldestramente allungato da alcuni programmi di 
dubbia  fama,  il  corpo  statuario  poco  credibile.  Lei  era 
rimasta  lei,  perchè  all'inizio  non  era  capace  di  alterare  la 
sua  immagine.  Incominciò  a  giocare  attingendo  alla  sua 
immaginazione.  Non  aveva  neanche  mai  visto  un  uomo 
nudo, né nella realtà né tanto meno laggiù. Lui non era un 
esperto  ma  le  regalò  un  piacere  che  non  avrebbe  mai 
creduto  potesse  esistere.  Al  risveglio  avvertì  un  grande 
calore  tra  le  cosce  e  una  senzazione  umida  e  piacevole. 
Mentre  cercava  di  ricomporsi  per  l'esperienza  appena 
vissuta, avvertì la mancanza, come un colpo al basso ventre 
che  ti  toglie  il  fiato.  Il  bisogno  di  quella  sensazione  le  si 
insinuò violentemente nella testa, e non potè fare altro che 
riconnettere in cavi al plug sotto pelle.
Nel  giro  di  due  mesi  Cinderella  è  diventata  una  habituè 
della  Loggia,  il  portale  di  giochi  erotici  più  in  voga  del 
momento.  Gli  esaltatori  sensoriali  di  nuova  generazione 
permettono  rapporti  multiplici  in  tempi  ristretti.  In  questo 
modo  la  piccola  Chiara  riesce  a  soddisfare  fino  a  trecento 
proiezioni  in appena due ore. Le proiezioni non sono solo 
uomini e donne ma spesso anche creature bizzarre, oppure 
animali.  Le  era  capitato  di  farsi  penetrare  dalla  verga 
d'acciaio  di  un  uomo  di  metallo,  di  ingoiare  litri  di  seme 
rosso fuoriusciti dal membro di una creatura antropomorfa, 
di ritrovarsi in una stanza imbottita insieme a trentacinque 
incontri  random  in  una  volta  sola.  Chi  si  trovava  dietro 
queste  rappresentazioni  virtuali?  Durante  l'atto  sessuale 
spesso lei riusciva a riconoscere l'identità del proiettore. La 
maggior parte delle volte si trattava di sconosciuti, persone 
che probabilmente abitavano dall'altra parte del mondo, ma 
in un paio di occasioni intuì chi si nascondeva dietro quelle 
perverse  proiezioni.  Il  professore  di  matematica  amava 
assumere  la  forma  di  un  uomo  grosso  provvisto  di  seni  e 
vagina, e con un membro grande quanto un braccio. E poi 
c'era  il  prete  ovviamente,  quello  che  le  aveva  fatto  la 

223
comunione.  Non  sembrava  molto  preoccupato  di  poter 
essere  riconosciuto  dentro  quella  Babilonia  di  impulsi.  Il 
suo avatar era ottimo, assolutamente reale, e poi ci sapeva 
fare davvero. Più di una volta Chiara aveva pensato di fare 
un  salto  alla  chiesetta  in  fondo  alla  strada  e  constatare  di 
persona le qualità di Don Gilberto, ma sapeva bene che era 
sempre  meglio  non  mischiare  la  realtà  con  il  sogno.  Ogni 
mondo ha le sue regole...
Anche  oggi  Chiara  è  tornata  a  casa  con  due  ottimi  voti. 
Dà un bacio alla madre che prepara il sugo in cucina e poi 
sale  in  camera  per  accontentare  un  irrefrenabile  impluso 
che regolarmente le sale ogni pomeriggio dal basso ventre. 
Lei non sa che l'impulso si chiama Aphrodite, e che si tratta 
dell'ultimo  virus  elaborato  dalla  Hamato  Videogames,  la 
società  produttrice  di  videogiochi  per  adulti  più  famosa 
della rete.

224
POI TI HA BACIATA
di Mastro Tensione (101 Parole)

Dopo  venti  anni  e  truccata  da  puttana  è  stato  difficile 


riconoscerti. L'odore dell'erba incolta, il prurito alle gambe, 
un Super Santos per cuscino: "Mi piace Maurizio". Perché 
ti piacesse non l'ho mai capito. Ha ancora lo stesso taglio di 
capelli  che  aveva  alle  elementari  e  la  stessa  faccia  da 
vincente. "Tu sei la mia ragazza non può piacerti un altro". 
Ridesti e dicesti che ti aveva anche baciato sulla bocca, giù, 
nel garage. La sera stessa lo stesi nel parco, mi sedetti su di 
lui schiacciandogli le mani con le ginocchia. Maurizio era 
amico mio, ma poi lui ti ha baciata. 

225
IL RAGAZZO E LA STRADA
di Bruno Magnolfi

Le  giostre  andavano  avanti  come  sempre  avevano  fatto. 


C’era stato un periodo di crisi negli ultimi due anni, ma con 
qualche  rinnovamento  alle  attrezzature  le  cose  adesso 
sembravano avere ripreso. La vita dietro alle quinte del mio 
Luna Park era sempre la stessa. Si viveva con la gente, in 
mezzo  alla  gente,  si  cercava  ogni  giorno  di  capirne  le 
voglie,  di  interpretarne  le  idee,  di  immedesimarsi  nel 
bisogno  di  tutti  di  tornare  bambini.  Quel  ragazzo  era 
arrivato dal nulla, aveva chiesto se poteva lavorare con noi, 
ed  io  gli  avevo  risposto  che  si  poteva  fare  un  periodo  di 
prova.  Era  sveglio, imparava le cose  alla svelta, sembrava 
non  avere  un  passato;  e  poi  parlava  poco  ed  era  italiano, 
l’ingrediente  più  strano  di  tutti.  “Ehi,  ragazzo”,  a  volte 
dicevo; e lui scattava in piedi e faceva subito quello che gli 
si chiedeva di fare. Al mattino si faceva la manutenzione ai 
meccanismi, e lui con le mani piene di grasso faceva la sua 
bella figura, perché si vedeva che aveva fatto il meccanico, 
e se ne intendeva di ferri e motori. Altro non si riusciva a 
strappargli  di  bocca:  certo,  in  galera  non  c’era  mai  stato, 
questo lo avevo saputo da subito, e poi non sembrava uno 
che  scappasse  da  qualcosa  o  qualcuno,  piuttosto  era  come 
se  avesse  di  dentro  una  febbre,  un  ingrediente  diverso  da 
tutti, che ne faceva quasi un estraneo, uno che non sarebbe 
mai stato dei nostri, neanche fossero passati cent’anni. Per 
il  pomeriggio,  quando  le  giostre  erano  in  funzione,  gli 
avevo trovato un compito di tutto rispetto, e lui lo svolgeva 
senza  distrarsi,  con  tutto  l’impegno  che  ci  voleva. A  volte 
era simpatico, aveva quasi l’età dei miei tre figlioli, ma era 
migliore  di  loro,  mi  sarebbe  piaciuto  che  si  fosse  fermato 
con  noi  ad  insegnarci  qualcosa  nelle  serate  di  magra, 
quando  c’era  più  tempo  per  parlare  e  ascoltarci.  Invece, 
com’era arrivato, andò via. Mi incontrò quasi per caso, tra 

226
i corridoi che formavano i baracconi del tiro al bersaglio, e 
mi  disse  soltanto:  “devo  smettere,  vado  a  raggiungere  un 
amico”, non ricordo più in quale città. Non era vero niente, 
naturalmente,  ed  io  pur  lisciandomi  i  baffi  quanto  potevo, 
non  riuscivo  per  nulla  a  capire  perché  andava  via  proprio 
adesso,  ora  che  aveva  imparato  quel  che  c’era  da  sapere, 
che  si  era  guadagnato  il  rispetto  di  tutti,  che  qualcuno, 
quasi  senza  saperlo,  aveva  iniziato  a  volergli  anche  bene. 
Probabilmente la sua strada era quella, lui lo sapeva, aveva 
qualcosa  di  dentro  che  lo  trascinava  da  qualche  parte, 
qualcosa che non avrebbe mai rivelato a nessuno. Gli detti 
i suoi soldi, anche qualcosa di più, lo abbracciai, come si fa 
sempre  tra  noi,  e  non  gli  chiesi  più  niente,  era  inutile;  e 
invece lui disse che mi avrebbe spedito una lettera. Non ci 
credetti, naturalmente, ma dopo un po’ iniziai a chiedere, a 
volte,  se  era  arrivata  posta  per  me,  come  se  ci  sperassi 
davvero.  Non  mi  passava  di  mente,  speravo  che  dopo  un 
periodo  di  tempo  ritornasse  da  noi,  che  riprendesse  a 
lavorare  alle  giostre.  Dopo  un  anno  invece  arrivò  la  sua 
lettera.  Poche  righe,  un  solo  foglio  piegato,  lo  lessi  d’un 
fiato e non capii niente, così lo rilessi da capo. Non diceva 
un bel niente, non chiedeva un bel niente, però tra le righe 
si  capiva  che  era  lui  che  scriveva,  che  mi  voleva  dare 
qualcosa  di  sé.  Rilessi  di  nuovo  tutto  da  capo,  e  infine 
capii.  Parlava  di  un  sogno  che  aveva  sempre  avuto,  ma 
neanche  lui  sapeva  cos’era.  Diceva  di  un  percorso  che 
aveva iniziato, tutto dentro ai suoi sentimenti, alla sua testa. 
“Forse sono un po’ matto”, spiegava; “però devo seguire la 
strada che sento, non sarei una persona se non facessi così”. 
Poi  passava  ai  saluti,  e  mi  diceva  che  era  contento  di 
avermi  conosciuto,  perché  gli  avevo  dato  molto  di  più  di 
quello  che  io  avevo  creduto  di  dargli;  e  poi  concludeva: 
“non preoccuparti per me, le risposte ad ogni domanda che 
adesso ti poni è lì, sopra ai tuoi baffi…”.

227
CUCCIOLO
di GM Willo

Al piccolo Giacomo piaceva la sua scimmietta di peluche, 
quella  con  le  calamite  sui  palmi  e  gli  occhi  leggermente 
storti.  Gliel'avevano  regalata  a  maggio  durante  la  gita  al 
parco degli animali, un'occasione speciale per festeggiare il 
suo  quarto  compleanno,  trascorso  meravigliosamente 
insieme  ai  suoi  genitori,  che  purtoppo  vedeva  solo  nel 
weekend, o a sera tardi prima di andare a letto. Loro erano 
molto  indaffarati;  lavoro,  appuntamenti,  amici,  palestra, 
tutti i giorni c'era qualcosa, e anche il sabato poteva vederli 
solo  di  sfuggita,  perchè  c'era  la  spesa  da  fare  e  poi  tutte 
quelle cose che non avevano il tempo di sbrigare durante la 
settimana. Insiema a Giacomo ci stava la tata, Carmela, una 
donna  un  po'  strana  con  la  pelle  scura  ma  sempre  gentile. 
La  domenica  invece  c'era  la  partita;  papà  se  ne  stava  in 
salotto  davanti  alla  TV,  a  volte  c'erano  anche  degli  amici, 
mentre  la  mamma  si  metteva  a  leggere,  oppure  andava  a 
fare  shopping  quando  i  negozi  restavano  aperti.  Lui  il 
pomeriggio rimaneva nella sua cameretta a giocare a duplo 
oppure  con  i  treni,  e  ogni  tanto  si  affacciava  in  soggiorno 
per  chiedere  un  bicchiere  di  latte  o  un  biscotto,  con  la 
scimmietta  sempre  avvolticciolata  al  braccio.  Non  la 
lasciava mai.
Proprio  perchè  poteva  vederli  solo  di  rado  le  giornate 
insieme  ai  suoi  erano  sempre  delle  occasioni  di  festa.  In 
estate  succedeva  anche  due  volte  al  mese,  perchè  la 
domenica  non  non  c'era  il  campionato  e  le  giornate  erano 
belle  e  fuori  si  stava  d'incanto.  Allora  lo  portavano  ai 
giardini  oppure  al  mare,  e  poi  al  ristorante  dove  poteva 
ordinare un piatto di patatine fritte tutto per lui, e al ritorno 
si  addormentava  in  macchina  ed  era  bellissimo  lasciarsi 
cullare dalle vibrazioni dell'auto. Quelli erano i momenti in 
cui  sentiva  tanto  caldo  al  cuore,  una  sensazione 

228
meravigliosa  che  lo  lasciava  tramortito.  Era  l'amore  che 
provava  per  suo  padre  e  sua  madre.  Li  osservava  seduto 
nell'oscurità  della  monovolume,  con  le  luci  dell'autostrada 
che  rimbalzavano  sui  finestrini.  Si  perdeva  nel  profilo 
aguzzo  di  lui,  concentrato  alla  guida,  gli  occhiali  con  la 
montatura  fine,  il  ciuffo  appena  striato  di  grigio  che  gli 
ricadeva  sulla  tempia  destra.  E  poi  accanto  c'era  lei, 
bellissima con la sua chioma dorata dalla quale spuntava un 
orecchio perfetto, soffice come un marshmallow. Oh, come 
amava i suoi genitori. Avrebbe voluto stare sempre insieme 
a loro, sera e mattina. Ma c'era l'asilo e poi tra poco sarebbe 
iniziata  la  scuola.  Il  padre  aveva  appena  ricevuto  una 
promozione  e  quindi  il  lavoro  sarebbe  aumentato,  e  la 
madre  aveva  intenzione  di  scrivere  un  libro  e  quindi 
avrebbe  avuto  ancora  meno  tempo  da  dedicare  a  lui.  Di 
sicuro però ci sarebbero state altre giornate come quella al 
parco degli animali, per il suo compleanno e poi per le feste 
di natale, oppure in agosto quando tutti vanno in ferie.
Il pensiero di quelle prossime avventure lo cullò insieme 
alla  musica  di  sottofondo  dell'autoradio.  Il  piccolo 
Giacomo,  col  calore  confortante  all'altezza  del  petto,  si 
lasciò  andare  al  sonno  di  un  amore  limpido  ed 
incondizionato.
Ore  dopo,  davanti  ai  volti  stravolti  dei  suoi  genitori,  il 
medico  disse  che  il  suo  cuoricino  aveva  semplicemente 
cessato di battere.

229
PAMELA
di Jonathan Macini (101 Parole)

Dovevo assolutamente trovare l'assassino di Pamela, non 
per vendicarla ma per riuscire finalmente a dormire la 
notte. Appena chiudevo gli occhi lei arrivava, con quel 
vestitino bianco a fiori tanto grazioso, lo stesso che 
indossava quando la trovammo riversa nel vicolo dietro il 
Saturnia, il locale dove lavorava.
Dopo aver interrogato ogni inserviente di quel postaccio, 
mi convinsi che l'assassino non poteva nascondersi lì. Nel 
frattempo riuscivo a tollerare i mal di testa causati 
dall'insonnia solo grazie alle pillole che mi allungava un 
informatore.
Alla fine gli indizi mi condussero ad un seminterrato a tre 
isolati dal bar. Era il mio. 

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INDICE DELLE OPERE

SOLO UNA ROSA di Bruno Magnolfi   9
QUEL GIORNO A ZACATECAS di Massimo Mangani  11
PASSAMI LA CICCA di Marco Muzzi  13
IL TEMPO PER AMARE di GM Willo  15
LA STORIA DI JACK IL VENTRILOQUO 
di Dario De Giacomo  18
IL GESÙ DELLE PERIFERIE di Marco Filipazzi  21
INCOMPRENSIONI RAVVICINATE DI UNO STRANO 
TIPO di Aeribella Lastelle (101 Parole)  23
L’ULTIMA MISSIONE DI COCISSE (DETTO DIO) E 
LA NASCITA DELLA LUNA di GM Willo  24
IL PICCOLO PIERROT di Fida (101 Parole)  28
NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE di Miriam Carnimeo  29
L'AUTOSTRADA DEL SOLE di Bruno Magnolfi  32
EREDITÀ SEGRETA di Aeribella Lastelle  34
RACCONTAMI UNA STORIA di GM Willo (101 Parole)  40
L’UTILITÁ E IL DANNO DEL BIDET PER LA VITA 
di Dario De Giacomo  41
L’ULTIMO LAMPIONE di Massimo Mangani  43
RADIO BLUES di GM Willo  46
DOTTOR JACOB di Jonathan Macini (101 Parole)  49
DIO TAGLIA 60 di Mastro Tensione  50
ROSI E NIENT’ALTRO di Bruno Magnolfi  55
STRIPPER di Fida (101 Parole)  62
NOTTE A SHANGHAI di Hermes  63
LA LEGGENDA DEL BRISCOLONE di Gano  68
IL CORVO E LA COLOMBA di GM Willo (101 Parole)  75
IL MALE di Bruno Magnolfi  76
IL RE DEL PORNO OVVERO “DAL COMPLESSO 
AL SUCCESSO” di Massimo Mangani  79
LE TRE CARAFFE di GM Willo  88
IL PORTICO di Marco Muzzi  89
IL NASTRO ROSSO di Fida  91
AMORE RITROVATO di Marco Filipazzi (101 Parole)  94
LA CALZA DELL’ACROBATA di Federica De Angelis  95
COME UN FIUME di Bruno Magnolfi  101
IL COLORE DELL'ANIMA di GM Willo  103
IL FIUME di Giulia Riccò  109
L'UOMO CON TUTTE LE RISPOSTE 
di GM Willo (101 Parole)  111

231
SIMILE SONO IO, CHE PARLO DA SOLA 
di Miriam Carnimeo  112
MADONNA DI STRADA di Dario De Giacomo  114
CLARISSA di Jonathan Macini  117
IL PENSIONATO di Massimo Mangani  122
L'EROE di Aeribella Lastelle (101 Parole)  126
L'UOMO A FUMETTI di Bruno Magnolfi  127
MASTRO LINDO di Gano  129
NEVE AL SOLE di Silvia Petrianni  132
UN ATTIMO DI VITA di Daniela Silvestro  134
L'AMORE INGOMBRANTE di GM Willo (101 Parole)  135
GLI AMANTI DELLA FINE DEL GIORNO PT.1­2­3­4 
di Bruno Magnolfi  136
L'ALLUCE di GM Willo  145
AMPLESSO FURTIVO di Fida (101 Parole)  147
LA PRIMA VOLTA di Massimo Mangani  148
QUANDO HANNO ABBATTUTO IL PONTE… 
di Dario De Giacomo  150
SUL TETTO DEL MONDO di Marco Muzzi  153
EUPHORIA di Marco Filipazzi  155
NOTTURNO D'AMORE di Giulia Riccò (101 Parole)  158
IL TEMPIO di GM Willo  159
IL SENSO AUTOCRITICO di Bruno Magnolfi  163
FRENESIA di Massimo Mangani  165
TERRORISTA PER FORZA di Bruno Magnolfi (101 Parole)  168
LO SPETTACOLO DI SPYRA PER IL CAOS 
di Jonathan Macini  169
CERCHI DI FUMO di Miriam Carnimeo  172
L'UNICORNO di Aeribella Lastelle (101 Parole)  174
LA MEMORIA DEL SASSO di Dario De Giacomo  175
LE REGOLI SOCIALI di Bruno Magnolfi  178
NATALE AL BAR di Gano  180
AMBARABACCICCICOCCÒ di Fida (101 Parole)  183
NOTTE SILENTE di Marco Filipazzi  184
LA SPIAGGIA di GM Willo  188
ASSEMBLEA di Bruno Magnolfi  189
OGGETTI SENZA SOGGETTI di Dario De Giacomo  190
SHARONA di GM Willo  191
IL PICCOLO TOBIAS di Jonathan Macini (101 Parole)  194
L'UOMO DI CASA di Bruno Magnolfi  195
LO STRANO CASO DELLA SIGNORINA PARISI 
di Aeribella Lastelle  198
UNA CAREZZA ANCORA, PASSERA' 
di Claudia Cafarelli (101 Parole)  201
IL VERME ZANNATO di GM Willo  202
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LA SAGGEZZA DEL VECCHIO di Bruno Magnolfi  205
F I N E S T R E I N S O N N I di Miriam Carnimeo  206
CYBERBLUES di GM Willo  211
LIBERO di Bruno Magnolfi  213
PREFERENZE di Federica De Angelis (101 Parole)  215
GENERAZIONE DISTACCATA di GM Willo  216
LE POLITICHE di Gano (101 Parole)  218
ELISA A NATALE di Bruno Magnolfi  219
CINDERELLA di GM Willo  222
POI TI HA BACIATA di Mastro Tensione (101 Parole)  225
IL RAGAZZO E LA STRADA di Bruno Magnolfi  226
CUCCIOLO di GM Willo  228
PAMELA di Jonathan Macini (101 Parole)  230

233
234
FINITO DI PUBBLICARE NEL GENNAIO 2010

Ogni opera presente in questo libro è protetta dalla 
licenza Creative Commons. È possibile divulgare 
liberamente i suoi contenuti citando sempre la fonte e gli 
autori e comunque mai a scopo di lucro. 

www.willoworld.net

http//:rivoluzionecreativa.ning.com

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RINGRAZIAMENTI

Ringrazio tutti i membri di Rivoluzione Creativa che 
hanno reso possibile la realizzazione di questo libro. Spero 
di poter dare molti seguiti a questa prima raccolta della 
community, sempre nel segno della positività e della 
condivisione. 

GM Willo, Gennaio 2010

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