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a cura di GM Willo
Foto di copertina ed elaborazione grafica di GM Willo
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ALTRE EDIZIONI WILLOWORLD
L'Albero delle Parole a cura di GM Willo
La raccolta delle opere dei membri di Willoworld.net, il
portale di creatività di GM Willo, nel suo secondo anno di
attività.
Elia in cerca di amici nello spazio di GM Willo
Una favola per bambini davvero spaziale!
Un Mondo a Gambe Aperte di Gano
Il primo libro del personaggio più caratteristico della
Giostra di Dante, il gioco dei poeti e degli scrittori.
La Leggenda di Udrien e altre fantastiche storie
a cura di GM Willo
Una raccolta fantasy presentata eslusivamente in veste
digitale.
Il Mondo oltre lo Spazio Disco a cura di GM Willo
Un ebook che raccoglie tutte le storie cyberpunk apparse
su Willoworld.net.
Per le altre pubblicazioni consultare la pagina:
www.edizioniwilloworld.co.nr
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PRELUDIO DI 101 PAROLE
Oltre le nuvole si trova la città dei giganti, fatta di palazzi
di nebbia e castelli di grandine. Ma i giganti son gente
ansiosa, si sa… Tengono sempre un occhio al suolo,
domandandosi come mai il loro mondo galleggi.
La notte, per paura che mentre tutti dormono la città si
sfracelli a terra, tre di loro montano la guardia, e per non
addormentarsi si raccontano delle storie. Son storie
piccine, perché quelle lunghe potrebbero annoiare e far
sbadigliare… Raccontano di noi piccoli uomini, del tutto
ignari di una città di ghiaccio e nebbia che galleggia sulle
nostre teste. Le volete ascoltare?
GM Willo
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INTRODUZIONE
Un amanuense, un giorno, si infuriò contro le macchine da
stampa, perché il suo lavoro diventava lento, folle, inutile.
I caratteri mobili avevano dato una spinta alla
divulgazione delle idee, il mondo doveva apparire sull'orlo
di una crisi epocale: a Venezia Aldo Manunzio (14491515)
fondò la prima tipografia italiana e per tutto il 700 vi si
stampava la metà dei libri prodotti in Italia. Non si
pubblicava tutto, ovviamente: i costi erano ancora
altissimi, i libri erano un bene di lusso, la conoscenza era
per pochi, sia la sua fruizione, sia la sua produzione. Ed
intanto compare la prima lista nera dei libri proibiti.
Passano secoli... compare l'informatica dai sogni di
Turing: arrivano le prime stampanti ad aghi. Il suono quasi
alieno di quelle macchine all'opera, che iniziano a
produrre “istantaneamente” nella materia un'idea, a
concretizzare una storia sotto forma di un bene tangibile.
Stampanti a getto d'inchiostro, laser... I processori
accelerano i loro battiti, aumenta lo spazio nei dischi fissi,
in maniera esponenziale. L'editoria si moltiplica, il tutto
durante l'arco di una vita umana.
Ed arriviamo ad oggi. Chi aveva dei privilegi a pubblicare
un libro si infuria contro l'auto pubblicazione perché i suoi
costi sono addirittura inferiori al prezzo finale del libro, se
stampato attraverso una casa editrice ufficiale. Lulù,
ilmiolibro, blurb, sono solo alcune delle isole felici in un
cui un uomo può scrivere le sue idee, ed in pochi click,
pubblicare in forma cartacea il suo libro.
Adesso ascoltatemi, lettori... È solo la tecnica che è
cambiata, o si tratta anche e soprattutto di un
cambiamento di vedute, di una rivoluzione dei costumi, di
un mutamento epocale? Capisco le preoccupazioni delle
case editrici ufficiali, così come capisco la rabbia
dell'amanuense.
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Sicuramente si troveranno in circolazioni dei libri che MAI
sarebbero stati pubblicati prima di oggi, veri e propri idoli
alla cattiva scrittura. Ma si troveranno ANCHE libri che
trattano temi scottanti, libri che incorrerebbero in censure
preventive, libri che parlano un linguaggio che l'uomo
moderno sembra essersi scordato: la sincerità, l'onestà
intellettuale che ogni Uomo dovrebbe indossare come una
veste magica contro i vizi del mondo. Libri scomodi che
infurieranno nell'umanità, alterando le nostre idee,
cambiando i comportamenti. La reazione a questo
mutamento? Lo sgomento o l'innamoramento, il rifiuto o
l'accettazione. Sono tempi difficili, ma è mai esistito un
tempo “facile” per l'umanità?
Copiamo, condividiamo, rubiamo all'altro le sue IDEE: è
anche merito nostro se le ha potuto sviluppare, merito di
quella cultura contemporanea di cui siamo attori e
spettatori. E non sentiamoci derubati se qualcuno sviluppa
un tuo romanzo, un tuo racconto: non era tua neanche
quello, in fin dei conti... La scintilla vitale: quella era tua...
Quella inesprimibile essenza che è la tua vita puoi usarla
al meglio o non usarla affatto.
E quando un libro manifesta questa magnifica volontà,
allora hai nelle mani un piccolo tesoro.
Tommaso Guzzo
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NOTE SULLE OPERE PRESENTATE
Questo libro raccoglie i lavori di diversi autori appartenenti
a Rivoluzione Creativa, una community online gestita da
GM Willo e dedita ad ogni forma di comunicazione
mediatica nel segno del copyleft e della filosofia del file
sharing. Alcuni di questi racconti sono legati a dei progetti
del circuito Willoworld, la pagina ufficiale di GM Willo, il
quale si occupa da tempo di alcuni giornali online e di
svariati esperimenti di scrittura creativa. Uno di questi si
chiama "La Giostra di Dante", il gioco di ruolo dei poeti e
degli scrittori. Infatti gli autori Jonathan Macini, Gano e
Aeribella Lastelle non sono altro che i personaggi di un
gioco di rappresentazione per scrittori, dietro ai quali si
nasconde la mano dello stesso GM Willo.
Sono presenti inoltre alcuni interventi di 101 parole, un
formato di racconto brevissimo presentato attraverso il blog
http://101parole.blogspot.com.
Se desiderate partecipare alla community e alle future
pubblicazioni della Edizioni Willoworld, registratevi a
Rivoluzione Creativa e iniziate a condividere i vostri
lavori: http://rivoluzionecreativa.ning.com.
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SOLO UNA ROSA
di Bruno Magnolfi
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riconoscere fin dalla prima volta, ma lui parlò di cose
difficili da dire e spiegare, che era meglio per tutti non fare
domande. Parlammo dei nostri anni bellissimi, di quando
eravamo bambini, quando le cose erano ancora tutte da
essere, e la vita pareva leggera, priva di serietà e di
amarezze. Mi aiutò a chiudere il negozio, poi si rimase
ambedue per un attimo fermi, in silenzio, da soli, lì, su quel
marciapiede, e a me venne da piangere, in maniera un po’
stupida, forse infantile, mentre l’ora serale ovattava le cose
e rendeva tutto forse più triste. La vita di ognuno di noi è
un libro da scrivere, pensai, mentre salutavo Eugenio
ignorando praticamente tutto di lui: però delle volte certe
pagine combaciano in maniera inattesa, e forse è questo il
senso di tutto, è sufficiente quell’attimo, anche se giunge
solo una volta ogni tanto, perché dentro di sé ha già tutto, e
non serve nient’altro.
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QUEL GIORNO A ZACATECAS
di Massimo Mangani
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Così quando l’ufficiale inviato da Manuel Chao,
luogotenente di Villa, bussò alle porte del collegio, lo
spavento fu tale e tanto che i poveretti si misero a piangere.
Condotti al cospetto dell’ufficiale non riuscivano a
spiccicare parola, aspettandosi di veder arrivare da un
momento all’altro il Generale, con il suo sombrero norteno
e gli inconfondibili baffoni neri.
Arrivò invece il Console francese, barcollando
vistosamente dato che aveva passato le ultime due ore
bevendo pulque in compagnia di Chao ed intercedendo, fra
un bicchiere e l’altro, affinchè i preti potessero continuare
ad insegnare ai ragazzini del collegio. Forse perché il “latte
di miele” era salito alla testa troppo in fretta, forse perché
in fondo, a lui di quei religiosi non gli importava un fico
secco, alla fine aveva convenuto che le condizioni poste dai
rivoluzionari erano ben ragionevoli ed aveva acconsentito
ad andarle a proporre ai sacerdoti.
Dato che il console strascicava le parole, l’ufficiale, con
fare gentile si propose di esporre le condizioni:
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PASSAMI LA CICCA
di Marco Muzzi
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a colori… mica la Sila! A te invece la cosa spaventa, si
passa dal giallo pastello dei tramonti capitolini
all’atmosfera saturnina di una Milano tignosa.
“Macchè Milano”, Franco aveva ragione: “ti beccano
subito. RomaMilano oggi è tutt’uno, la prima città su cui
indagare è quella, devi andare un po’ fuori”. “Ma fuori
dove?” gli chiedesti “Non conosco un cazzo di nulla di lì,
a Fra’!” Mentre li guardavi accartocciavi il pacchetto di
MS, stringendo con le grinze delle labbra il filtro
dell’ultima delle venti cancerose, un getto di vapore subito
dopo aver azionato il bic e...
“Scusa passami la cicca...”
“Eh?”
“Sì, ho visto che è l’ultima, non avendo sigarette… me la
passi?”
Aveva gli occhi più verdi che tu avessi mai visto, una
cornice di riccioli le incorniciava un viso color pesca,
ticchiolato da lentiggini appena sotto gli occhi, respirava
affannosamente sotto la camicetta a grinze tenuta a bada
dalle varie collane che non servivano altro che a delineare
i due seni capricciosi che ti sovrastavano. Ti alzasti quasi di
scatto e il seggiolino sbatté con violenza scomparendo nella
parete di compensato, porgendogli la mano come se ti
dovesse mettere un anello, con la cicca dritta all’altezza del
viso. “Oh, piano, mica è ‘na canna…” rise, “ fumiamocela
con calma.”
Perdesti il senso del tempo e dello spazio…
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IL TEMPO PER AMARE
di GM Willo
Malgrado Marina mi guardasse con gli occhi velati da un
pianto represso, io continuai a riversarle addosso le frasi
che avevo impresso così bene nella mente e che avrebbero
decretato la fine della nostra lunga storia. Solo adesso, a
distanza di due anni, mi accorgo che quelle parole erano
false, seppure le avessi ragionate ed in parte sentite. Ma la
verità non è mai così semplice come la si immagina. La
verità non è esclusivamente sentimento o razionalità, anche
se è probabilmente figlia delle due, e soprattutto non è
definibile in un momento, ma solo attraverso il ciclo degli
eventi, il trasformismo delle cose e le conseguenze delle
proprie decisioni.
Non ero io quell’uomo che la guardava negli occhi senza
vederla, in quel pomeriggio di marzo stranamente caldo nel
giardino di casa. Non era la mia voce quella che cercava di
convincerla che tra noi due ormai non esisteva più nulla.
Non erano i miei gesti quelli che mascheravano la mia
risoluzione. “Non tornare indietro! Non cadere nella
trappola”, continuava a ripetermi una vocina da dentro, un
disco che avevo inciso durante i giorni in cui mi ero
preparato ad affrontarla.
Quando incominciò a mancarmi ignorai i sintomi.
Quando stavo male davo la colpa al lavoro, o al primo
capro espiatorio che mi capitava sotto mano; parenti, amici,
vicini di casa. Qualcuno iniziò a pensare che c’era qualcosa
di sbagliato in me, e come potevo dargli torto. In pochi
mesi ero diventato espertissimo a scansare le relazioni e a
rinchiudermi nel mio malumore. Quella fu la fase più triste,
ma in qualche modo meno dolorosa, perché ancora non
riuscivo ad ammettere a me stesso l’errore che avevo
commesso e quello che avevo per sempre perduto.
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La rividi per caso in un sabato di pioggia, era settembre
ed io avevo superato la prima fase ed ricominciato il solito
tramtram di incontri inutili, aperitivi, cene, sesso veloce e
mai appagante e letti vuoti al mattino. Lei passeggiava
insieme a un tipo sui quaranta, alto e con un certo charme.
Ricordava me tra dieci anni e la cosa mi procurò una
masochistica soddisfazione. Quel giorno mi convinsi che
ero stato uno stupido a lasciarla e me ne feci pure una
ragione, perché nonostante Marina fosse probabilmente la
donna della mia vita, erano stati i tempi sbagliati a fregarci.
Di quale colpa avrei mai potuto accusarmi se non quella di
aver ascoltato il mio cuore in quel pomeriggio di marzo e
averle detto come stavano le cose? Ed il mio cuore strillava
una cosa sola, ed era paura. Paura con la “P” maiuscola.
Potevo forse ignorarla? No, quella era l’unica verità.
Dopo l’incontro passarono alcune settimane tranquille, un
periodo che ricordo come la classica calma che precede la
tempesta. Poi arrivarono i matrimoni, tre in un botto solo.
Nel giro di appena un anno i miei amici più cari si erano
sistemati, andando contro a tutte le aspettative. Artistoidi
matti, ragazzacci scapestrati, zingari per natura e per
diletto, tutti, chi più chi meno, allo scoccare dei trenta
avevano imboccato la strada verso l’altare. Una parte di me
li detestava, nonostante li amassi come sempre, e la cosa
che mi faceva più rabbia era che mi sembravano felici per
davvero. Cercavo di convincermi dell’opposto, ma mi
accorsi che non ero più così abile nell’ingannarmi. Erano
felici ed invece di sforzarmi di essere felice per loro li
prendevo in giro pavoneggiandomi della mia vita da single.
Ed erano tutte bugie.
Dopo la scenata del terzo matrimonio, alla fine del quale
io, completamente ubriaco, brindavo ironicamente alle
semplici vite dei tre compagni di vita, incominciai a non
rispondere più alle chiamate. Il sentirmi vittima di uno
strano gioco del destino mi faceva stare così male che, per
convincermi della mia invincibilità, iniziai a respingere
ogni affetto. Allontanare i miei amici, che avevano altro a
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cui pensare, lavoro, mutuo e bimbi in arrivo, fu più facile
del previsto. Le serate iniziai a passarle insieme a gente alla
quale non mi sarei mai avvicinato in passato, ed in breve lo
spinello del sabato sera divenne due righe di coca, oppure
un paio di pasticche. Seguivo un tracciato illuminato a
giorno da fiaccole accecanti, una strada dritta e buia priva
di meta, e le luci delle città riuscivo appena a scorgerle al
di là del guardrail, mentre spingevo incurante
sull’acceleratore. Nella città vivevano i miei amici che non
si meritavano altro di essere derisi, e viveva anche Marina
col suo nuovo uomo, e forse era felice, più felice di quanto
non lo sarebbe mai stata con me.
Mi ci sono voluti due anni per capire e smettere
finalmente di punirmi per quelle parole che le dissi quel
giorno. La paura non c’entra e il destino è un placebo per
menti facili. Ho riaperto finalmente la porta del cuore, la
stessa che avevo richiuso quel giorno di marzo e che ho
tenuto sbarrata per tutto questo tempo, negando l’accesso
persino ai miei amici più cari.
Non esistono uomini o donne della vita. Esiste il tempo
per amare, e quando c’è quello ci sono tutti gli ingredienti
giusti per creare qualcosa di meraviglioso.
Adesso lo so; è finalmente tornato anche per me il tempo
per amare.
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LA STORIA DI JACK IL VENTRILOQUO
di Dario De Giacomo
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Le mani strette sulla pelle lucida del volante, rattrappito, e
la pancia non ti farà più male, soffrirai di meno. Ora lui
respira con la bocca per non parlare, per non sentire il
fetore.
Jack suda come un malato allo stadio terminale. È
arrapato, non di sole puttane, e poi non ha con se il guanto.
Non è gentile scopare qualcuno senza il guanto, è da
incivili scopare le puttane senza indossare il guanto: se te lo
sfili troppo presto, puoi rischiare di beccarti un’emozione,
ma non c’è un guanto abbastanza duttile per il suo cuore, e
lui non vuole prendersi lo scolo del sentimento.
Jack è arrapato, sì, ma proprio di vita. Per questo suda
come un maiale scannato, perché quando sbavi dietro alla
vita, quella ti si attacca addosso come un profumo da
quattro soldi, il profumo che senti alla periferia dell’anima.
Perché, Jack, Tu un’anima ce l’hai! E non è dentro i tuoi
coglioni, come pensi sempre, cercando di sborrarla svelto
e dappertutto, ogni volta che ti si riempie. No Jack! Tu
l’anima ce l’hai nello stomaco, ecco perché parlare con
quello ti fa star male. Però ora senti solo il tanfo alla
periferia del sentimento. Solo per questo.
Cazzo che notte stanotte, una notte come tutte le altre
notti, ma cazzo se è strana forte stanotte. Ma insomma Jack
che vai cercando qui, in culo ai lupi, fuori della tua tana?
Slitta il rettangolo di lucido acciaio, sbanda. Bestemmi
con cortesia. Jack è cortese, sapete?, sa come vivere tra la
gente, sa vivere normalmente, ma parla con la pancia e gli
fa male. Jack guarda che ti ammazzerai così! Non te ne
fotte niente, credo. Figurati se importa a me che ti vedo
sfrecciare veloce e nemmeno ti conosco, né stasera né mai.
Jack non vede più nulla avanti a sé, immagina solo che la
strada sia dritta, l’ha sempre vista dritta davanti a sé. Ma!
Cristo! Jack punta i piedi, si riscuote all’improvviso, un
lampo freddo di coscienza, come i postumi dolorosi di una
sbronza. Una curva maledetta gli si para di fronte
all’improvviso. L’auto derapa, slitta, frena scivolando
sull’asfalto, non la controlla, si anima e guida la sua corsa,
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lambisce il parapetto scintillando frammenti di vita
metallica che si spezzando nel buio. Uno stridio ferroso,
Jack curva, curva ed esce. Accosta l’auto e scende. Esce
alla luce. La luce. Sì Jack, la luce. Lui esce in un campo di
grano macchiato di papaveri rossi.
Jack davvero non è stato mai bravo a scrivere i finali, ma
non importa ora. Qui c’è tanta luce bionda e il finale scatta
da sé e la storia finisce. Allora è l’alba. Dio com’è bella
quest’alba. Allora l’alba è proprio così e odora di
salmastro, mentre le grosse formiche nere gli ballano sulle
dita. Ora canta una canzone di pancia. Cantare di pancia
non fa male ora sotto il cielo illuminato di luce immensa.
“Sai che ti dico?” – Jack sorride – “ Cantare di pancia,
all’alba, in un campo di grano macchiato di papaveri rossi
non fa male!”
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IL GESÙ DELLE PERIFERIE
di Marco Filipazzi
La catastrofe era arrivata con un gran trambusto e se n’era
andata in silenzio, lasciando dietro di sé una scia di macerie
calpestata ora da rifugiati e profughi, stralci e caricature di
una civiltà che fu.
Tra di loro vi è una figura che in molti definiscono un
profeta, alcuni addirittura il nuovo messia, perché la fede,
adesso, è l’unica cosa a cui ci si può aggrappare per
proseguire. La sua silhouette nera si staglia all’orizzonte,
contro il cielo verdastro di esalazioni tossiche, e la sua voce
riecheggia nella desolazione che lo circonda, portata dal
vento che sparge le sue parole come fossero semi. Diffonde
le sue canzoni come un microfono naturale. Un altoparlante
a 10.000 watt. Canta di Città del Paradiso dove l’erba è
così verde e le ragazze così belle. Canta di autostrade che
portano all’Inferno, dove non ci sono precedenze né limiti
di velocità. Canta del crollo della civiltà del ventunesimo
secolo. Indosso ha una toga logora, come se con quella toga
ci fosse nato e cresciuto, come se la indossasse da prima
della catastrofe. Ai piedi porta un paio di converse
scolorite, tanto usurate che sembrano sul punto di
squarciarsi. Sul petto gli sobbalza una croce d’osso. Alcuni
dicono che si intagliata da un osso umano e lui non ha mai
confermato né smentito.
Ha il volto incorniciato da una barba bruciacchiata,
raccolta in piccole trecce, e da lunghi capelli bloccati in
dreadlocks di sporco. Il suo sguardo incavato dalle occhiaie
di troppe notti insonni è celato dietro occhiali lucidi, come
se fossero nuovi, dalle lenti viola e tonde. Nel suo sorriso vi
sono pochi denti, sparsi come pedoni su di una scacchiera,
e attorno alla bocca si notano le prime increspature delle
rughe. Tra le labbra secche ha sempre stretto qualcosa.
Spesso è un ramoscello, una sigaretta quando qualcuno fa
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lui carità, saltuariamente uno spinello e non
necessariamente di marijuana. Su di lui circola uno sciame
di voci, alcune fantasiose, altre più realistiche, tutte che
precedono il suo arrivo. Vaga di città in città, dorme dove
può, mangia quando capita, ma cammina tutti i giorni, tutto
il giorno, dal sorgere al calare del sole livido, attraverso le
lande desolate, le macerie delle città, i villaggi che la gente
disastrata cerca di rimettere insieme. Non ha pretese, se
non quella di cantare il suo vangelo punk, fatto di estratti di
strofe, frasi scritte da apostoli perduti e maledetti che la
catastrofe non l’hanno mai vista. Hendrix, Morrison,
Rotten, i fratelli Young, Axl Rose.
Canta a squarciagola, con le vene rosse e gonfie che gli
affiorano sul collo magro, come gli aveva insegnato Darby
Crash nelle scene di The Decline of Western Civilization (e
mai titolo fu più appropriato) in un’altra vita, prima della
catastrofe. Professa la sua fede fatta di parole che un tempo
suonavano come insulti, eresie, degenerazione e gioventù
consumate in fretta nelle tragedie dell’alcool, della droga e
del sesso perverso. Così almeno dicevano i perbenisti.
Ora tutto questo è diventato la normalità, senza
compromessi, e dei perbenisti non si sente più parlare. Il
mondo è cambiato per sempre e le persone sono tornate ad
essere animali, gettando le maschere di ipocrisia che la
società moderna aveva loro donato, rivelando i loro veri
volti, primordiali e selvaggi. Lui è il Gesù delle periferie,
non ha altri nomi, così lo ha battezzato la gente che l’ha
incontrato, ed è il tipo di persona che prima, qualcuno,
avrebbe definito pazzo. Ora va su e giù per il mondo, a
cantare, ed il suo canto stonato, che non ha
accompagnamento, riecheggia nel vuoto, con la sola
pretesa che qualche orecchio lo colga, che possa portare
speranza, anche se labile, nei cuori di chi ascolta le sue
frasi tormentate.
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INCOMPRENSIONI RAVVICINATE DI UNO
STRANO TIPO
di Aeribella Lastelle (101 Parole)
I miei nuovi amici venivano dalla costellazione di Ofiuco,
più precisamente dalla Nebulosa Farfalla che si trova lì nei
paraggi. Erano piccoli, gialli fosforescenti e sfoggiavano
una manciata di antenne che spuntavano dal loro capino.
Uno strano marchingegno che si portavano appresso e che
faceva da traduttore simultaneo ci aiutava a comunicare.
Gli esserini si stavano divertendo, ma ogni volta che me ne
venivo fuori con un articolo possessivo il marchingegno
s’inceppava. Mi dissero che nell’universo nessuno li usava.
Andò a finire che con tutti i “miei”, “mio” e “nostro”
glielo ruppi, perciò se ne andarono e non tornarono mai
più.
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L’ULTIMA MISSIONE DI COCISSE (DETTO DIO)
E LA NASCITA DELLA LUNA
di GM Willo
Tutti credono che esista ma nessuno lo ha mai visto
Tutti lo chiamano ma lui non risponde mai
Tutti dicono che è buono e onnipotente…
…e di sicuro non gli manca il senso dell´umorismo.
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come il giorno in cui uscì dalla scuola di volo, ed era stato
per davvero un miracolo, o forse solo fortuna sfacciata, che
era riuscito a scansare quei maledetti asteroidi. Sarebbe
stata una grande beffa inciampare nella sua ultima
missione, prima della meritatissima pensione.
Azionò la leva che apriva lo sportello e attese con gli
occhi abbassati che i meccanismi, con suoni stridenti e
sbuffanti, facessero il loro lavoro. Il sole splendette sul suo
volto e su quello degli uomini e delle donne che
attendevano alle sue spalle. «Ecco la vostra nuova casa!»
dichiarò Cocisse, accendendosi subito una sigaretta. Non
che fosse vietato fumare a bordo, intendiamoci, ma nessuno
fumava per rispetto di quelli che non fumavano, ed era
sempre stato così.
I passeggeri discesero lentamente la scaletta
dell’astronave trascinandosi dietro ogni sorta di bagagli,
borse, zaini, portacappelli, gabbie per uccelli e via dicendo.
Andarono a disporsi in semicerchio sul pratino del
promontorio lamentandosi subito dell’umidità, del vento,
del sole, e delle nubi all’orizzonte che secondo qualcuno
avrebbero portato pioggia. Perché si sa, gli uomini non si
accontentano mai.
Cocisse rimase ai piedi della scaletta pronto a dare
istruzioni. Appena ci fu un po’ di silenzio il capitano iniziò
a parlare al popolo impaziente.
«Mi auguro che vi siate letti bene le regole durante il
viaggio. In ogni caso le ripeterò adesso, prima di
congedarmi da voi. Allora…» Qualcuno tra i cento indicò
in cielo un uccello e molti si distrassero, ma Cocisse non ci
badò e proseguì. Ve ne furono molte di distrazioni durante
il suo discorso.
«Regola numero uno: non litigate. Cercate sempre di
andare d’accordo e risolvete le vostre incomprensioni con
le parole e non con la forza. Rispettatevi a vicenda,
sempre…» L’uccello, che era un tucano, era scomparso nel
frattempo dentro i boschi della valle.
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«Regola numero due: godete dei frutti di questo mondo.
Non sprecateli, non sfruttateli oltre il necessario, non
inquinateli e neanche banditeli. Questo mondo non è
vostro, è solo in affitto, ricordatevelo…» Intanto qualcuno
si era messo a prendere il sole e poco sentiva di quello che
veniva detto.
«Regola numero tre: riproducetevi e divertitevi nel farlo.
Se per caso qualcuno di voi preferisse divertirsi con
compagni dello stesso sesso, allora che si diverti pure senza
riprodursi, che di sicuro non ce ne sarà bisogno…» Qui
alcuni starnutirono e persero metà della frase, ma erano
troppo arroganti per chiedere ai vicini che cosa era stato
detto.
«Regola numero quattro: aiutatevi. Se qualcuno è in
difficoltà, dategli una mano. Ricordate che la vita è un
gioco, non una competizione…» E a questo punto molti
alzarono la mano per chiedere spiegazioni perché non
riuscivano a capire la differenza tra gioco e competizione.
Cocisse provò a spiegarglielo e tutti annuirono soddisfatti,
per non ammettere di non aver capito un bel nulla.
«Infine, quinta ed ultima regola: amatevi e amate il vostro
mondo!» Ma a questo punto molti si erano già dileguati
perché pensavano che le regole fossero finite. Davanti al
capitano erano rimaste solo una decina di persone con le
mani alzate le per domande di rito. Qualcuno chiese se si
poteva eleggere un capo, ma un altro disse che era meglio
formare un governo. Una donna che aveva freddo domandò
se si potevano usare le pelli degli animali per vestirsi, e un
uomo distinto invece parlò di qualcosa di assolutamente
astratto che si chiamava denaro e che di sicuro avrebbe
semplificato la vita di tutti. Non mancarono frasi di elogio
al capitano e un gruppo di quattro ammiratori chiese si
poteva erigere un effige in suo onore, per ringraziarlo di
averli portati su quel nuovo mondo. Cocisse, che tutti
chiamavano Dio, rispose educatamente a tutte le domande
ma nessuno davvero lo ascoltò. Poi giunse finalmente il
tempo di ripartire. Risalì la scaletta, salutò le poche persone
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rimaste sul promontorio (le altre si erano già allontanate
per ispezionare il territorio e alcuni di queste
incominciarono a pensare al concetto di “proprietà
privata”) e riprese posizione nella cabina di comando. Il
razzo a forma di triangolo descrisse un arco nel cielo e in
pochi istanti sparì all’occhio dell’umanità.
“Finalmente! Ora potrò riposarmi e godermi la pensione”
pensò il vecchio capitano mentre si lasciava alle spalle il
pianeta azzurro. Peccato che non fu altrettanto fortunato
come all’andata, e appena oltrepassò un pianeta tutto rosso
andò a schiantarsi su un grosso asteroide, deviandone la
traiettoria e portandolo su una nuova orbita.
«Che cos’è quello?» domandò la sera stessa uno degli
uomini sbarcati sul nuovo pianeta.
«Un satellite, credo…» rispose un altro.
«Ma non ci avevano detto che questo posto era tranquillo.
Lo sai come sono i satelliti, con le maree e gli sbalzi di
umore…»
«Non ci si può mai fidare delle agenzie planetarie!
Comunque, almeno di notte si riesce a vedere qualcosa.
Che ne dici se la chiamiamo Luna?»
«Luna? E che razza di nome è? E poi è un satellite, cioè
un maschio. Chiamiamolo Armando, un nome
importante…»
«Armando! Ma tu sei scemo!» Così iniziarono a litigare,
infrangendo subito la prima regola. E non furono gli unici.
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IL PICCOLO PIERROT
di Fida (101 Parole)
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NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE
di Miriam Carnimeo
Ho solo dei fogli per raccontare.
“Quando arriva il sole, guardando il mare, si ricordano
grandi storie e la mente smette di essere prigioniera di
uomini e di donne, di case o città, ed ecco che il tempo
altro non sembra che… un miracolo di carta.” E la carta
brucia, che contenga delle verità indissolubili o la storia di
un orrore piagnucolante, la carta brucia. Difficile allora
diviene raccontare una storia, annoiati la si sbuffa,
spaventati la si dimentica, ma questo cambia, se la storia
altro non è che una sensazione, la vera versione di quello
che sulla mia faccia è stampato: file di denti freddi che
battono abbondanti fino a trovare uno strano ordine di
cose… la realtà. Fosse solo la tua più personale fantasia,
l’immagine al rovescio di importanti figure, i simboli
intoccabili ormai sbranati che ora sono famiglie massacrate
di termini e parole, le visioni ammesse, solo follie originali
di teste solo timidamente curiose.
Gentilmente, la paura diviene tentativo banale di
difenderla questa realtà, e tutti nudi i sentimenti paiono
vergognarsi e così si coprono, si raggomitolano e poco
dopo divengono carta. Carta su cui scrivere la propria
presenza, impreziosendola di nastri e musica,
alleggerendola dei mal di stomaco e della febbre che non
passa. Splendido inchiostro nero, duro da cancellare,
meravigliose parole che rendono sacro il foglio per
intuizione o come semplice gesto regalato ai muri, che
d’impatto sembrano farsi più morbidi e scricchiolano per
ogni idea compresa. Scrivere di un tempo che si blocca e
della sua voce che bisbiglia, bisbiglia la sua storia, quella di
una grossa menzogna che si è venduta la nostra vita per
l’ennesima maschera da passante.
29
Intere città prendono forma, le loro finestre sono case
deserte e le facce sono maschere dalle labbra tirate,
fotografie inedite di lunghi anni trascorsi senza aria. Hanno
costruito e poi abbandonato, non si riesce più a pensare a
dolci frasi o ad occhi languidi, ci si diverte abbandonandosi
a forti forme di fame, bugie, raggiri. Come ciechi si
cammina sull’asfalto che pur serpeggiando non porta a
nessuna verità. Si cammina di lato senza toccare chi solo
con gli occhi ti tramuta in profonda ferita, chi pensa di
rubare ciò che viene donato, senza timore.
Con delle facce senza più rispetto si diventa seri, non si
ride più, vediamo avanzare chi ha fretta di esibirsi e lo
sguardo sfugge, trova riparo altrove, tra i linguaggi più
arditi, quello della bocca, meravigliosamente radicato tra le
luci di questa stessa mortale città. Sono notti uniche queste,
il vento gonfia le tende, cigola il ferro, la corrente elettrica
parla tra i muri… ed è così che la magia si racconta, nella
mano che di giorno si passa nei capelli e di notte sorregge
la testa con tutti quegli occhi e quella bocca. Poi attesa
calda di fronte al volo, successioni di idee imparentate ai
ricordi,veloce aprire e chiudersi, batticuore gonfio fino al
mattino.
Ma non si dorme mai ed il resto vive alle spalle degli
uomini e se la spassa. Se la spassa il mare in burrasca
dentro al quadro, e se la spassano le lenzuola
sfacciatamente pulite, e i vetri, sempre quelli, appannati ora
dal caldo, se la spassano le arti classiche radicate nel
prestigio irremovibile, e la luce delle ombre fuori e
passante per un filo dentro… dentro le case, curioso
accumulo di respiri, come traduzioni di stelle in terra, le
case si accendono e viceversa si spengono. Tutto della notte
fa svegliare e le puttane non se la spassano. I visi amati si
moltiplicano, come stelle se ne accarezza la distanza ma dei
lineamenti neanche una traccia. Nel vuoto di un divano
illuminato le persone pensano all’amore con altre persone.
Ci sono da fare lunghi discorsi sull’attesa, su gambe e piedi
che più non avvolgono, su facce stanche che prima o poi si
30
stendono nel sorriso. Le ali nello stomaco altro non sono
che un bel pensiero d’amore. Andare e tornare, anche
questo è amore, l’amore di chi si combina con la memoria,
scatola piena a pressione, risucchio da un lato, tampona
dall’altro. L’amore che nidifica nello sguardo strane
convinzioni e la memoria che ne mostra la nudità:
paesaggi, espressioni diverse che velocizzano l’azione fino
a renderla abitudine.
Il miracolo allora affiora, la follia…
…semplicemente, come la migliore delle idee, lo sfogo di
un genio isolato, nascosto nella bocca chiusa e negli occhi
brillanti.
CLICK.
31
L'AUTOSTRADA DEL SOLE
di Bruno Magnolfi
La mia casa è sotto al margine del cavalcavia di un
sentiero poco frequentato che scavalca l’autostrada.
Quando mi metto a dormire, durante la notte, mi sembra di
vivere il confine tra la civiltà e la natura. In quel punto,
attorno a quella mia specie di abitazione, ci sono solo
campi verdi a distesa tra file sfumate di alberi, e per
arrivare al paese più vicino ci si impiega a piedi più di
mezz’ora. Sopra la mia testa transitano pochi mezzi, lungo
quella via non ci passa quasi nessuno. In autostrada invece
il traffico non termina mai, è un fiume continuo di
materiale umano e di merci che scorrono accanto a me,
quasi ai miei piedi. Certe volte mi chiedo se qualcuno che
guida tutti quei mezzi non immagina che ci sia io al
margine della sua traiettoria, e poi qualche volta sogno che
qualcuno di loro si fermi e mi porti con sé. Non immagino
un posto preciso dove recarmi, però dentro di me
formicolano spesso così tante voglie che devo per forza
ricacciarle all’indietro, e questo, penso, non è da persona,
ed io, certe volte me lo ripeto per darmi più forza, sono una
persona, anche se sono da solo, e anche se sono arrivato fin
qui non mi ricordo neanche più in quale maniera. Ho
ricavato due pareti con delle lamiere lungo il margine del
cemento armato del ponte, e davanti a me, con delle assi di
legno, mi chiudo la notte all’interno del mio spicchio di
mondo. Il rumore continuo del traffico sull’autostrada è
fortissimo, però ci si abitua. Ho una vecchia bicicletta con
me, e con quella durante le belle giornate arrivo fino al
fiume, e lì a volte mi lavo, prendo l’acqua che mi serve per
la mia casa, mi siedo, osservo la natura bellissima di quella
campagna. Qualche volta, di giorno, passano da sotto al
cavalcavia gli operai che svolgono le manutenzioni, oppure
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le squadre per il taglio dell’erba al margine dell’autostrada,
con i loro trattori giganteschi, le attrezzature meccaniche e
tutta una serie di segnali luminosi bellissimi, e a volte mi
salutano, mi gridano qualcosa nella loro maniera: sono
calabresi, rumeni, marocchini. Certe volte li invidio, mi
sembrano persone importanti, svolgono un mestiere che li
pone al disopra di tutti: lavorano per gli altri, penso, per la
sicurezza di quelli che non si accorgono neppure che c’è
chi li veglia. Ho conosciuto Artur, un giorno, uno della
manutenzione dell’autostrada, con la polvere e l’asfalto
appiccicati sui suoi vestiti arancione ed il viso di chi non
ride mai. Ha detto che la vita è uno schifo, ma io gli ho
sorriso, non poteva dire sul serio. In primavera l’erba
cresce giorno per giorno, siamo già usciti da questo inverno
freddo e piovoso, tra qualche mese lavorerò nei campi
vicini a raccogliere gli ortaggi, poi i pomodori, forse mi
prenderanno per tagliare l’uva. La mia vita è naturale, con
la luce del giorno e con le stagioni, ed i miei sogni
viaggiano con gli autoarticolati che passano davanti a me.
Sembrano tutti uguali, ma non è vero. Uno di loro prima o
poi mi porterà via, in fondo a questo braccio di autostrada,
e sarà là che inizierà tutto il riscatto della mia vita. Ci sarà
qualcuno su un camion che si fermerà sulla corsia di
emergenza, sorriderà senza chiedermi niente, ed io andrò
assieme a lui e mi ricorderò che sono anch’io come lui, una
persona, e tutto inizierà ad andare in maniera migliore, ed il
futuro mi farà scordare del tutto di avere abitato sotto
questo cavalcavia. Forse tornerò indietro, un giorno in cui
tutto scorrerà per me nella maniera migliore, cercherò di
ritrovare questo cavalcavia, e gli alberi, i campi, anche il
fiume, e aspetterò la squadra della manutenzione
dell’autostrada, e sarò tanto contento di ritrovare tutte
quelle persone, perchè potrò dire ad Artur che si era
sbagliato, che la vita non era come diceva lui.
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EREDITÀ SEGRETA
di Aeribella Lastelle
Tullia si lasciò cadere dallo scivolo, col sole in faccia che
le rubava il sorriso. Atterrò sulla sabbia e si rialzò in piedi
di scatto, perché la sua amica Chiara stava venendo giù.
Ebbe una breve sensazione di vertigine e avvertì qualcosa
di caldo e bagnato. Il primo pensiero, il più imbarazzante,
fu che si era fatta la pipì addosso. Ma c’era qualcosa di
strano…
Allungò le dita sotto la gonnellina di fiori, sfiorando una
patina umida che ricopriva le mutandine. Quando si guardò
i polpastrelli trattenne un urlo e scappò via. Le amiche
erano troppo sorprese per correrle dietro.
Sua madre l’aveva avvertita che sarebbe successo. Ormai
aveva dodici anni compiuti, e le ragazze a quell’età
diventavano donne, o almeno così si diceva dalle sue parti.
A Chiara ad esempio erano venute un mese prima, ed era
stata una mezza tragedia. A scuola si era data per malata e
ai giardini non si era vista per una settimana. Quando Tullia
la rivide sembrava davvero cambiata. Che strano che era il
corpo delle ragazze, aveva pensato. E adesso succedeva a
lei. Doveva tornare subito a casa, ma non dire niente al
papà e alla mamma, perché quella situazione era davvero
imbarazzante. Glielo avrebbe detto con calma, magari a
cena, o meglio domani.
Entrò in casa dalla porta sul retro, quella che dava sul
giardino, salutò veloce la madre che era impegnata col
piccolo Luca, salì le scale tre alla volta e si infilò nel
bagno. La doccia avrebbe gettato troppi sospetti sul suo
rientro inaspettato, così optò per il bidè. Si sfilò le
mutandine e le gettò lontano, poi si sedette sopra l’acqua e
incominciò a pulirsi. Voleva vedere meno sangue possibile,
non perché le facesse impressione, figuriamoci, ma perché
la faceva sentire sporca.
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La sua testa lavorava a cento all’ora. Doveva trovare quei
pannolini che usava la mamma, afferrarne uno al volo e poi
schizzare veloce in camera da letto per cambiarsi. Suo
padre era a lavoro e non sarebbe tornato fino all'ora di cena.
La madre la chiamò un paio di volte da basso, ma lei era
stata veloce a risponderle con naturalezza che doveva
urgentemente usare il bagno, il che non era proprio una
bugia. Il problema più grosso erano le mutandine, che
senza neanche degnare loro di un’occhiata aveva
scaraventato oltre il bordo della vasca da bagno. Giacevano
laggiù, piene di sangue, ad imbrattare la ceramica tirata a
lucido dalla madre. Le avrebbe sciacquate velocemente
nella vasca e poi nascoste da qualche parte.
Si riscosse da quei pensieri. Quanti minuti erano passati,
uno, dieci, cento? L’acqua del bidè continuava a lambirle le
parti intime. Poteva bastare, pensò, e chiuse il rubinetto. Si
asciugò con della carta igienica per non lasciare tracce e
finalmente si alzò in piedi. Adesso le mutandine, pensò…
Si avvicinò alla vasca da bagno, gettò lo sguardo oltre il
bordo, e vide esattamente quello che si era aspettata, ma
non proprio…
“Che caspita significa?” sussurrò la ragazza appena fatta
donna. Non era la prima volta che vedeva il sangue, però
quello era diverso. Glielo aveva accennato la mamma, e
Chiara le aveva detto infatti era molto più scuro, quasi
marrone. Ma ciò che vedeva nella vasca era ben altro.
Quando poco prima si era guardata le mani non ci aveva
fatto caso. Il sole abbagliante le aveva giocato uno scherzo,
o forse era stata la sua testa, fatto sta che aveva dato per
scontato che fosse rosso. Invece…
A Tullia non erano mai piaciuti i broccoletti. La mamma
ci faceva la pasta perché suo padre ci andava matto, ma lei
la preferiva col burro e formaggio. A tavola gli adulti
parlavano dell’assicurazione dell’auto, delle ferie in agosto
e della lavatrice che perdeva acqua. Luca afferrava le penne
con le mani e se le metteva in bocca, sorridendo con i suoi
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sei dentini. Aveva le guance così imburrate che riflettevano
il neon sopra la tavola. Lei invece spostava con precisione
la pasta rimastale nel piatto, formando piccole figure
geometriche, un triangolo, un quadrato, un pentagono…
«Che c’è Tullia, non hai fame?» domandò suo padre. Era
un uomo molto gentile, e a volte lei riusciva a perdersi nei
suoi occhi, ma che ne poteva sapere lui delle ragazze di
dodici anni e dei loro problemi.
«No…» rispose lei svogliatamente.
«C’è qualcosa che non va?» incalzò sua madre. Perché
dovrebbe esserci sempre qualcosa che non va se non si ha
appetito, pensò. Era sul punto di dare voce a quel pensiero
quando si fermò e abbassò la testa. In quel momento
successe qualcosa di veramente strano. Fu come se
un’ombra, non proprio cattiva ma in qualche modo aliena,
fosse calata sulla tavola. Persino Luca se ne accorse perché
smise di sorridere e lasciò andare la penna che aveva in
mano. Tullia alzò lo sguardo e vide i suoi che si
guardavano intensamente negli occhi. I loro volti
sembravano cambiati, il silenzio stava diventando ancora
più imbarazzante del segreto di Tullia, per questo la
ragazza decise di romperlo.
«Che succede?»
Allora la madre la guardò. «Ti sono venute?»
La ragazza diventò rossa come un peperone. «Ma
mamma…» mormorò lei, facendo un cenno con la testa in
direzione del padre, per lasciarle intendere che quelle erano
cose di cui non si poteva parlare in presenza di uomini. E
poi la questione era un po’ più complicata di così…
«Di che colore…» la domanda del padre, inaspettata e
incompiuta, la fece voltare di scatto.
«Cosa?»
«Amore, non preoccuparti, rispondi a tuo padre» la
rassicurò la madre.
Un parte di lei voleva sputare fuori quell’assurdo segreto,
abbracciare il padre, chiarire quella stupita situazione, ma
un secondo prima di riuscire a liberarsi di quel peso, fu
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colta da un pianto isterico, irrazionale e diluviante. Lasciò
la tavola e corse al piano di sopra, sbattendo violentemente
la porta della sua stanza. Poi affondò il volto nel suo
cuscino.
«Lasciatemi in pace…»
Si era aspettata che sarebbero venuti a bussare alla porta,
ma ce ne avevano messo di tempo. Lei si era quasi
addormentata, e forse sarebbe stato meglio così, pensò.
«Vuoi parlarne domani?» Era la voce di suo padre. Perché
lui? Che cosa c’entrava lui? Quelle erano cose che
normalmente si discutevano insieme alle madri… Ma
quella non era una situazione normale, e lei lo sapeva bene.
E poi quell’ombra caduta sulla tavola, pochi minuti prima,
che significava?
«No, entra…» riuscì a rispondere, ma rimase aggrappata
al cuscino. Se suo padre voleva davvero parlarle, allora lo
avrebbe fatto con la sua schiena. Lo sentì chiudere la porta
e accomodarsi sul bordo del letto. Ascoltò il suo respiro e
avvertì l’odore pungente del dopobarba, anche se a fine
giornata ne rimaneva ben poco ed era mescolato al suo
odore. C’era qualcosa nell’odore di suo padre che la faceva
sentire strana, più vicina a lui ma in modo diverso. Era
innegabile il fatto che si somigliassero molto, lo dicevano
tutti.
«Se hai delle domande sono qui…» disse lui. E che
cavolo significava, pensò Tullia. Certo che aveva delle
domande, mille domande, ma lui non era certo la persona
alla quale voleva porle. Oppure…
«Siamo diversi, non è vero?» riuscì a dire, senza neanche
sapere bene perché.
«Tutti siamo diversi, amore…» rispose lui.
Al diavolo la difensiva. Al diavolo l’imbarazzo. Tullia si
alzò mettendosi a sedere sul letto di fronte a suo padre.
Aveva gli occhi bagnati di lacrime e i capelli arruffati.
«Sanguino oro! Che cavolo significa papà?»
Lui le prese le mani tra le sue e le disse: «Guardami!»
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Tullia guardò negli occhi di suo padre, occhi castani e
profondi, e li vide cambiare, diventare verdi accesi, come
due pietre preziose in controluce. Il respiro le si bloccò nel
petto. Provò a parlare ma non riuscì ad emettere alcun
suono. Seguì invece la luce di quegl’occhi, che la
invitavano a guardare più da vicino, a sprofondare in
quell’abisso smeraldino. Avvertì il cambiamento, ma lo
riconobbe solamente nel momento in cui intravide la sua
immagine riflessa negli occhi del padre. Anche gli occhi
della ragazza erano cambiati.
«Riesci a sentirlo?» domandò lui, stringendole più forte le
mani. Era il cuore di fuoco, fulgido e dirompente, pulsava
nel suo petto pompando sangue e lava.
«Padre, chi siamo?»
«Lo devi scoprire da sola… Seguimi…» E Tullia seguì il
padre dentro l’abisso. Vide cieli striati di nuvole e tramonti
su paesaggi stranieri, picchi innevati e valli incontaminate,
un giro di giostra nel cielo azzurro, a cavallo di un’aquila
reale oppure di un pegaso, come nelle favole… Giravolte,
virate e picchiate, col vento tra i capelli e il profumo dei
sempreverdi nelle narici.
«Chi siamo…?» sussurrò ancora. Ma aveva già risposto a
quella domanda. Doveva solo convincersi. Continuò a
volare insieme al padre, perché era davvero bellissimo e
non avrebbe mai voluto smettere. Tullia volò, riscoprendo
le sue radici, accettando il suo destino, abbracciando
l’ignoto. Sono un drago, pensò. È incredibile, ma è davvero
così…
«E mamma?» domandò Tullia, una volta rientrata nel suo
corpo.
«Mamma è umana…» rispose il padre.
«E Luca?»
«Ancora non è possibile saperlo. L’eredità si riconosce
col passaggio all’età adulta.»
«Capisco…»
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Adesso il padre aveva assunto un’espressione distaccata,
quasi preoccupata.
«C’è dell’altro, vero?» intuì la ragazza.
«C’è sempre dell’altro…» rispose il padre sforzandosi di
sorridere. «Però per adesso può bastare. Sappi solo una
cosa; c’è una guerra in corso tra noi draghi di smeraldo e
quelli di rubino. Sono ormai millenni che va avanti. Molti
di noi si sono persino dimenticati le ragioni che ci spingono
ancora a combatterci. Un giorno te ne parlerò…»
«Ok papà…»
I due si abbracciarono, uniti da un segreto troppo grande
per il mondo di tutti i giorni; lavoro, scuola, assicurazioni
e lavatrici difettose.
«Promettimi solo una cosa.»
«Cosa?»
«Se dovessi incontrare un Rubino… scappa!»
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RACCONTAMI UNA STORIA
di GM Willo (101 Parole)
“Papà, raccontami una storia...”
L’uomo guardò il figlio e sorrise. Poi incominciò: “C’era
una volta…”
“Che cosa?” domandò una vocina nella testa.
“No, non è vero…” sussurrò l’uomo. Poi tornò a guardare
il figlio.
“C’era una volta…”
“Chi? Rispondimi. Risponditi! Chi c’era?”
“Lasciami in pace!” urlò l’uomo alla vocina.
Scosse la testa, riprese fiato e continuò: “C’era una
volta…”
“…tuo figlio!”
L’uomo si disconnesse e sprofondò nel pianto, ma il
programma che faceva rivivere i ricordi continuò a girare
nel deck. Poteva ancora sentire la voce del piccolo Matteo
dalle casse dell’apparecchio.
“Papà, raccontami una storia...”
Ma Matteo non c’era più.
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L’UTILITÁ E IL DANNO DEL BIDET PER LA VITA
di Dario De Giacomo
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semplicemente ostili, spazzandole con il piede,
distrattamente, appena arrivano a tiro.
Bada di non rompere anche questo, ora! – la voce di mia
madre mi colpisce tra le scapole, mi manca il respiro
all’improvviso.
Non l’ho rotto –
Non si è rotto da solo comunque, dunque… – la sua
logica stringente rimane sospesa a mezz’aria, ondeggia
nelle esplosioni oro delle piastrelle. Questo bidet nuovo è
inquietante, come tutti i bidet di tutte le generazioni che lo
hanno preceduto. Sembra innocuo, ma la sua malignità è
sfacciata, quasi oscena: ovale perversione geometrica di
ceramica bianca, perfetta e senza centro. La storia delle mie
disgrazie inizia giusto al centro della sua perfezione.
È deciso. – Tu non sai usarlo – mi dicono , allora mi
guardo intorno cercando alleati, in cerca di qualcuno che
conosca la verità. L’ho rotto perché mi ci siedo a
cavalcioni, lo cavalco a cosce aperte di fronte alla
rubinetteria: adoro sentire il fiotto d’acqua calda che mi
schizza tra le gambe. Per questo l’ho rotto, dicono. Mi
sento perverso, lo uso contro natura. Mia madre giunge al
parossismo, si siede sul bidet per spiegarmi. Con le spalle
alla rubinetteria e il pudore di non mostrare il sesso: così
quella protuberanza metallica che spruzza l’acqua lambisce
il culo, scivolando tra le cosce.
È questo il modo giusto – urla.
Cazzo se mi sento perverso ora! Devo smetterla di andare
contro corrente, anche contro la corrente della rubinetteria.
Bisogna imparare ad usare le cose nel modo giusto. Sono
confuso! La tradizione mi aggredisce con tutto il suo peso,
generazioni di liberi fruitori del bidet mi guardano e nel
loro sguardo leggo lo sgomento, il disprezzo. Non lo userò
più, fino a quando non avrò capito la segreta virtù delle
cose.
Volto le spalle a tutti. Anche al bidet, finalmente!
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L’ULTIMO LAMPIONE
di Massimo Mangani
Ritto sulla balaustra affaciata sul fiume, me ne sto fermo
da quasi tre secoli, povero vecchio lampione mezzo
arrugginito. Per la verità non sono come tutti gli altri; sono
l’ultimo lampione di questa antica e polverosa strada
costruita per le carrozze ed ormai percorsa ogni giorno da
migliaia di mostri di latta rombanti e strombazzanti. Molti
di voi si staranno domandando perché mi considero
l’ultimo e non il primo, la risposta è presto detta: io guardo
sempre verso l’oscurità!
Un tempo, quando il padrone della città era un certo
“Granduca”, oltre la mia fievole luce si estendevano
immensi campi, ricchi di grano viti ed olivi; oggi nell’era
dei “sindaci” il panorama è completamente cambiato e la
città, dopo di me, continua ad estendersi a perdita d’occhio.
Durante il giorno sonnecchio cullato dai rumori della
metropoli ma all’arrivo della notte mi accendo, inizio a
vegliare, divento un importante punto di riferimento.
Anticamente ero l’ultima luce visibile al viandante prima
del buio totale poi, piano piano, dopo di me sono stati
piantati dei moderni lampioni, altissimi e con luci troppo
potenti, presuntuosi da morire! Comunque non me la
prendo più di tanto, in fondo posso tranquillamente
considerarmi il segno di distinzione fra il centro della città,
bello ed elegante e la periferia, brutta, anonima, pericolosa.
Io faccio parte del centro, i lampioni allo Iodio della
periferia!
Certo, in questi tre secoli ne ho viste davvero di tutti i
colori ma soprattutto sono cambiato alquanto: ricordo
ancora quando, con il serbatoio pieno d’olio aspettavo
trepidante l’arrivo del lampionaio col suo attizzatoio. Tutti
quelli che ho conosciuto mi hanno sempre voluto bene, si
sono presi cura di me, hanno curato le mie scalfiture e mi
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hanno portato rispetto. Poi è arrivato il Gas e l’accensione
automatica ed i lampionai sono scomparsi… peccato, sono
cessati i rapporti diretti con il genere umano! Le scrostature
piano piano sono arrugginite e ci sono voluti anni prima
che qualcuno se ne accorgesse e venisse a medicarmi.
Le cose non sono migliorate con la corrente elettrica, anzi
il momento dell’accensione è diventato un pò fastidioso:
appena arriva la scarica sento un formicolio piuttosto
intenso che mi attraversa. La ruggine continua ad essere
lasciata sul mio corpo per molto tempo, e quando arrivano
i “tecnici del Comune” sono molto scortesi, frettolosi, non
si fermano a parlare neanche un pò con me. Nonostante
tutto, da quassù continuo a vigilare sulla sicurezza notturna
dei viandanti, che da sporadici si sono trasformati in
“massa” ed ogni notte, per buona parte di essa, affollano
questo pezzo di strada schiamazzando e bivaccando. Solo
verso l’alba la via torna ad essere deserta, come un tempo,
le persone che passano, dopo di me affrettano il passo a
meno che non siano coppiette che si fermano ai miei piedi
per scambiarsi un ultimo bacio.
Lontani sono i tempi delle congiure ordite sapendo che
tanto io non avrei mai potuto parlare… quante ne ho
sentite, andate poi a buon fine o meno! Penso che a volte
mi sarebbe piaciuto davvero parlare, raccontare al mondo
intero cose viste e sentite: “Signor Granduca, proprio
stanotte l’ambasciatore di Francia si è incontrato qui con il
capo dei rivoluzionari, hanno deciso di attentare alla sua
vita all’alba di Venerdì…..” oppure: “Lord Stratton che
piacere, sa proprio ieri notte sua figlia, quella carina che
pare una santerella, era qui sotto con un ragazzo che in
quattro e quattr’otto le ha rubato la verginità…”
Certo a distanza di tre secoli le cose sono cambiate, di
verginità perdute ne vedo tutte le sere e se dovessi fermare
tutti i padri che passano il giorno dopo, starei fresco! Io
comunque continuo a starmene qui fermo, immobile,
impettito, mi accendo al calar della sera e mi spengo
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all’alba, adesso con una lampada che dice faccia
risparmiare molti soldi al comune… bah!
Mi piace specchiarmi nel fiume e soprattutto continuare
ad accompagnare i viandanti verso l’oscurità… io, povero
vecchio lampione mezzo arrugginito!
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RADIO BLUES
di GM Willo
La radio sta andando con un mood lento, da estate, perché
fuori non tira un alito di vento ed è pieno di dannati
moscerini. È rimasta solo lei a raccontarmi le storie,
vecchia scatola nera con l’antenna rotta, riesci ancora a
prendere quella stazione blues, e chissà perché continua a
trasmettere. Ma quanti ubriaconi come me vivono in questa
maledetta città, e ascoltano vecchi pezzi di Tom Waits e dei
primi Deep Purple? Quanti?
Lei se n’é andata. È già passata una settimana e non
accenna a piovere. La pioggia fa cambiare gli odori,
sapete? Non sopporto più di sentire il suo profumo
dappertutto, in camera, in salotto, in auto, persino nello
scantinato, tra gli scatoloni ammuffiti e la catasta di legna
per il camino. Ve lo dico subito, così evito di prendervi per
il culo; la colpa é solo mia. Quando sei lì con una birra di
troppo nello stomaco e una perfetta sconosciuta che ti apre
le gambe, se sei un vero uomo non ci capisci più niente.
Non sai più distinguere il giusto dallo sbagliato. La vista ti
s’annebbia, il male diventa bene, il bene diventa roba per
poppanti, e il passato, i ricordi, i sacrifici e le meraviglie
della vita di coppia, tutto questo diventa un’accozzaglia di
colori sfumati, un’immagine poco chiara, come uno di
quegli assurdi quadri moderni che piacciono così tanto ai
ricchi. No, non sto cercando scusanti. Sto solo
temporeggiando per vedere se finalmente questo tempo si
decide a cambiare. Sento dei brontolii nella distanza, forse
la tempesta é vicina, forse l’odore cambierà… forse.
Lee Hooker farfuglia di una donna che lo fregherà, e
come lo capisco, in questo istante ti sono proprio vicino
Johnny, vai, continua a strimpellare quelle corde e
cantamela, cantagliela a quelle nuvole ancora troppo
lontane, oltre le colline, le colline che abbiamo percorso in
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lungo e in largo, io e lei sul vecchio chopper. Cristo, perché
te ne sei andata! Potevamo parlarne, potevamo passare
anche questa, come ne abbiamo passate tante… Il problema
é che ne abbiamo parlato anche troppo, e quando non c’é
più da parlare non ti rimane altro che bere. Bere, scrivere e
ascoltare vecchi pezzi blues.
Ci siamo conosciuti a un rave per motociclisti nel lontano
’87. Ventidue anni insieme, ve ne rendete conto? Lei
c’aveva due trecce platinate, sembrava uscita da una favola
dei fratelli Grimm, io invece a quel tempo ero ancora in
forma, maglietta dei Motorhead e coda di cavallo, nera
come il velluto. Oggi non posso dire altrettanto; il ventre ha
risentito dei fiumi di birra passati e il crine si schiarito per
l’età e ingiallito per le cicche. Però mi ritengo ancora un
bel figliolo, altrimenti la rossa di l’altra sera non si sarebbe
avventata così famelicamente sui miei calzoni. Maledetta
rossa!
Era davvero bellissima la mia piccola. Le offrii la boccia
di Jack e ce l’andammo a bere defilati, mentre il povero
Ben Scott, pace all’anima sua, urlava dalle casse
dell’apparecchio stereo. Al rave ci saranno state più di
cento persone, ma era come se fossimo soli. Lei c’era
venuta col suo ragazzo, ma quando mi vide lo mollò su due
piedi. Ce ne tornammo a casa sulla mia prima Harley, forse
il mio unico amore.
Cavolo, questi ricordi fanno troppo male, ma sono
esattamente le scuse che cerco per versarmi un altro
bicchiere. Tanto la radio continua il suo blues ed io per
oggi non ho niente da fare. Anzi, per la verità la casa senza
di lei é diventata un tugurio, avrei da fare la lavatrice,
rimettere a posto la camera, lavare i piatti di tre giorni, ma
non riesco proprio a muovermi da questo dannato divano,
lo stesso su cui abbiamo fatto l’amore cento, forse mille
volte. JD é quasi alla fine e incomincio a vedere storto,
come quella sera balorda insieme alla rossa. Cacchio, ci
mancava solo quel Bowie con la vocina stridula che mi
racconta dei ragni marziani. Ma aspetta, forse aiuta… Le
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nuvole sono più vicine adesso… ma si, è la radio, è come la
danza della pioggia, quella degli indiani d’america, è la
stessa cosa… forse se alzo il volume…
Goccioloni grandi come sassi battono il tempo insieme al
vecchio Bob Dylan. Ci voleva proprio lui per far piovere.
Ecco, l’odore è già cambiato, finalmente. Mi finisco il Jack
e poi vado fuori a farmi lavare via la tristezza. Mi è tornato
il buonumore, e se mi prende bene stasera scendo al bar per
vedere se ribecco la rossa…
…perché il lato positivo di ogni brutta storia è che la
storia può sempre cambiare.
48
DOTTOR JACOB
di Jonathan Macini (101 Parole)
Con Layla giocavamo a fare i dottori...
Tutto incominciò per sbaglio, perché spesso succede così,
la vita intendo, è tutta un dannatissimo errore! L’attrazione,
il sesso, la complicità, l’amore (o quello che è) e poi le
prime litigate, gli umori, le noie… Arriva il tempo in cui
servono distrazioni, nuovi stimoli, accelerazioni cardiache
e sballi di testa. Ti prende una fantasia che poi proponi al
partner… e una cosa tira l’altra.
Quello stupido gioco risvegliò qualcosa in me che doveva
rimanere per sempre sopito.
“Chiamami dottor Jacob” le dissi, avvicinandomi con il
bisturi in mano.
Poi fu una pioggia di sangue.
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DIO TAGLIA 60
di Mastro Tensione
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piccola per noi bambini, l’altra, quella grande, la usavano
per le partite di pallanuoto. In quel periodo la squadra
locale era così forte, da essere finita in serie A. Nonostante
nessuno del posto avesse idea di come si giocasse quello
sport, a tutte le partite gli spalti erano strapieni. Adulti,
bambini, famiglie. I ragazzi più grandi portavano dentro
grandi bidoni di ferro su cui battevano pesanti mazze di
legno. Ne veniva fuori un frastuono difficile da spiegare. I
giocatori della nostra squadra se la ridevano, gli avversari
invece erano terrorizzati. Una roba così non si vedeva
neanche negli stadi di calcio. Di quelle domeniche
trascorse sugli spalti, travolto da una bolgia senza senso,
ricordo distintamente due cose: la struttura che trema ad
ogni gol, come se dovesse venir giù da un momento
all’altro, e l’umidità da sauna. Era un continuo strofinare di
occhiali appannati sulle magliette. A maniche corte a
Dicembre. Sudati. Scalmanati. Non capivo bene, ma
confuso in quella folla impazzita, mi sentivo parte di
qualcosa di grande e inattaccabile. A metà settembre la
piscina veniva chiusa al pubblico, coperta con dei teloni
color blu piscina, e dedicata solo a quello sport che in città
praticavano in dieci. Una disciplina troppo distante dalle
nostre vite. Senza terra che sale in gola, dove non puoi
correre e fare sgambetti, senza risse, senza pantaloni
strappati e gomiti sanguinanti. Senza pallonate in faccia
che spaccano il naso. Una roba così lontana che per noi
manco esisteva. Per noi la piscina era altro. In inverno
bidoni di ferro, in estate pizzette riscaldate, Coca Cola in
lattina grande e bomboloni alla fragola con la gomma
dentro. La piscina per noi era quella col sole che sbatte
sulle mattonelle, fa evaporare l’acqua e salire il cloro fino
al cielo.
Subito dopo il passaggio sotto gli occhi di Squartapanza,
c’era quello sotto gli occhi di Limbocchio. Sempre seduto
su uno sgabello altissimo, manco fosse un arbitro di tennis,
ci osservava sfilare e ogni santa mattina ci rivolgeva la
solita porcata: “Uè, come stiamo a pesce oggi?”. Rideva lo
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stronzo. Arrivare per primi era impossibile. C’era sempre
qualcuno che era lì prima di te. Nonostante l’ingresso fosse
consentito dalle 9,00 e noi fossimo lì da ben prima, c’era
sempre un gruppo di bambini già a mollo nell’acqua. Che
erano lì già da un po’, lo capivi dalle loro labbra viola. Mi
ero convinto che abitassero lì, tra gli spalti. In realtà in
questa città, lavorare in un posto significava esserne
padrone. Per cui se eri il custode della piscina, la sera
potevi organizzarci una festa di compleanno solo con i tuoi
parenti, proprio come fosse casa tua.
In piscina non c’erano regole particolari da rispettare. La
doccia prima di entrare in acqua non era obbligatoria, nè lo
era indossare la cuffia. Era obbligatorio avercela, non
indossarla. Sul bordo della piscina si aggirava il bagnino:
Elpidio. In qualche modo era parte della mia vita, benché
non lo sapesse. Grosso come un Apecar, si raccontava che
la domenica mangiasse sei fette di carne. Alto, imponente,
massiccio, doppio, duro. Venticinque anni di carcere per
omicidio, di botte con gli stranieri, di un’ora d’aria al
giorno, di pacchi con cibo, vestiti nuovi e sigarette. Le
riviste porno gliele portavano gli amici più cari. Fedeli
compari di vita, presenti ai colloqui tutti i giovedì. Per
venticinque anni. In cella aveva accumulato così tanti
numeri de Le Ore, da averli legati con lo spago e usati
come sgabelli. Elpidio, di tanto in tanto, ci controllava:
“Oeee, la cuffia?” Ce la sfilavamo dal costume, e
l’agitavamo sulle nostre teste per mostrargliela. Un giorno
mi successe di perderla. Forse mentre facevamo il gioco
della 200 lire. Bisognava lanciare una moneta sul fondo e
recuperarla in apnea. La 200 lire era la più difficile da
recuperare perché più piccola di tutte le altre monete. Fatto
sta che quando cercai la mia cuffia tra l’elastico del
costume e il fianco non la trovai. Elpidio fu categorico:
“Senza cuffia, no”. Parlava senza verbi. Quella mattina i
soldi della pizzetta, li intascò Limbocchio in cambio di una
cuffia nuova. Non potevi mica contestare o giustificarti.
Nessuno si era mai sognato una cosa del genere. Elpidio lì
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dentro era la legge. Non aveva neanche bisogno di imporsi
o di fare la voce grossa. Bastava la sua presenza a far calare
il silenzio. Nonostante siano passati più di venti anni,
ricordo perfettamente l’impressione di grandezza che mi
fece la prima volta che lo vidi. La voglia, il desiderio di
essere come lui. Se ne stava seduto sul bordo con le gambe
a mollo nell’ acqua e la pelle ricoperta di inchiostro. Sulla
schiena una madonna enorme, sul braccio un pugnale con
un serpente e una data, sul petto una bara con una croce e
un’altra data. Una donna nuda a gambe aperte sull’altro
braccio, poco sotto un cuore trafitto e una scritta che diceva
“mamma perdonami”. Indossava un costume nero che
quasi spariva sotto la piega della sua pancia. Aveva un
posacenere di plastica gialla, con il logo di un autoricambi
Fiat, appoggiato sulla pancia e la sigaretta che penzolava
tra le labbra. Di certo il posacenere glielo aveva regalato
mio zio, che all’autoricambi ci lavorava fin da ragazzo. Era
lui che mi aveva fatto avere l’abbonamento gratis. Prima di
allora non avevo mai visto un uomo tatuato. Su Elpidio si
raccontavano un sacco di storie, ma sempre e solo a mezza
voce e a debita distanza dalle sue orecchie. Avrebbe potuto
schiacciarci con un’occhiata, tanto era grosso. La verità è
che aveva ucciso un amico di famiglia, quando la figlia gli
aveva raccontato delle sue attenzioni e delle sue carezze.
Lo aveva accoltellato alla gola, incaprettato col fil di ferro
e gettato nel Volturno. Il corpo venne a galla dopo pochi
giorni. In città tutti sapevano chi fosse stato a compiere
quell’omicidio e in breve la notizia giunse anche alla
polizia. Assolto dalla gente, se ne stava seduto, pieno di
disegni, a far rispettare la regola della cuffia e a sindacare
sulle liti di noi bambini. “Colpa tua. Via dall’acqua”. Non
avevi scelta. Prendevi le tue cose e te ne andavi. Punto. Né
quell’estate, né quelle successive, lo abbiamo mai visto
scendere in acqua. Mai una volta. Si bisbigliava che
neanche sapesse nuotare. Non aveva nessuna importanza.
Lui il bagnino lo faceva a modo suo, dal bordo. Come
quella volta in cui una ragazzina si lanciò nella piscina dei
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grandi e finì quasi affogata. Si tuffò e sparì sott’acqua, per
ricomparire, dopo un tempo che ci sembrò lunghissimo,
boccheggiando e agitandosi in cerca di un appiglio. Elpidio
tirò fuori le gambe dall’acqua senza dire una parola, fece
due passi, piegò le ginocchia, infilò il braccio nell’acqua e
tirò fuori la bambina tenendola per i capelli come un mago
che tira fuori il coniglio dal cilindro. Le diede un paio di
schiaffi per farla respirare e la adagiò su un asciugamano.
Eccolo l’eroe senza gloria. Cazzuto, calmo e pieno di
inchiostro. Col potere della vita e della morte. Eccolo. Dio
taglia 60. Con gli occhi trasparenti e la voce che fa tremare.
Quando tornai a casa raccontai tutta la storia ai miei
genitori. Ero entusiasta, parlavo e non riuscivo a star fermo.
Non capivano il mio entusiasmo. Non capivano perché non
si fosse tuffato a salvarla. Non capivano che lui, ai miei
occhi, era di più. Lui non aveva bisogno di fare le cose
come le fanno gli altri. Aveva il suo segreto, prendeva la
sua forza dal pugnale col serpente, non dall’ostia attaccata
al palato della domenica a messa.
Mancavo da casa dei miei genitori da un po’. Ero uscito
di galera da due giorni, ma mi ero preso un po’ di tempo
per rendermi presentabile ai loro occhi. Dopo gli abbracci,
i “come stai” e i “ma sei sempre più magro”, è stata una
delle prime cose che mia madre mi ha detto. “Ah, sai chi è
morto la settimana scorsa? Elpidio. Quello che faceva il
bagnino alla piscina comunale, te lo ricordi?. Era diventato
talmente grosso che nella cassa non ci stava. Ne hanno
dovuta far arrivare una apposta per lui da Napoli. Gianlu’
ma hai capito Elpidio chi? Quello pieno di tatuaggi come a
te”.
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ROSI E NIENT’ALTRO
di Bruno Magnolfi
Avevamo trascorso un lungo periodo cercando lo scopo e
le soluzioni da definire. La direzione strategica poi mi
aveva assegnato a quella città del Nord, e di quei compagni
iniziali con i quali avevo trascorso i primi tempi di
clandestinità non avevo avuto più alcuna notizia.
Eravamo tre adesso, e ci si era conosciuti nello snodo
della metropolitana, un posto pieno di gente nella fascia
oraria che avevamo pattuito. Si era finto di osservare con
interesse una vetrina, guardandoci a lungo senza farci
notare. Io ero l’unica donna. Abitavamo tre appartamenti
differenti, e si era scelto di vedersi solo una volta a
settimana, in luoghi e giorni sempre differenti. Quando
iniziammo a spiare le mosse e le abitudini dell’obiettivo
designato, ci vedemmo più spesso. In pubblico non
parlavamo mai tra noi: ci scambiavamo furtivamente dei
foglietti con su scritte le idee e le piccole personali
decisioni. Tutto il resto ci arrivava nella cassetta per la
posta con una scrittura in codice.
Dei miei compagni conoscevo solo i nomi di battaglia:
Frenchi e Lesli. Per me avevo scelto Rosi. In tutto quel
periodo di solitudine forzata avevo iniziato a ripensare a
tante cose: mi era preso anche il desiderio struggente di
telefonare alla mia mamma, poi l’avevo cancellato. Spesso
mi divertivo a ricordare i miei capricci da bambina. Non
c’era mai un vero e proprio motivo per intestardirsi su
qualcosa che desideravo per me o che volevo gli altri
facessero. Era una prova a cui sottoponevo chi mi era
vicino per misurare i loro sentimenti. Superata quella mi
sentivo dolce e affettuosa con tutti. Forse non ero cambiata
molto crescendo.
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Il mio programma di lavoro prevedeva l’uscita da casa,
ogni mattina, alle ore sette e dieci. Qualche volta, sopra al
pianerottolo del palazzo, incontravo un uomo che abitava
l’appartamento accanto al mio. In genere cercavo di
evitarlo anche se non sempre era possibile. Sua moglie
dava l’idea della persona che origlia alla porta per riuscire
a sapere i fatti degli altri. Non potevo rischiare niente,
neanche che mi rivolgessero qualche domanda sottile,
magari sorridendo. Così normalmente mostravo fretta,
limitandomi ad un semplice e generico “buongiorno”. Il
personaggio cui mi ispiravo era quello di una segretaria
impiegata in una direzione assicurativa. Ma per tutto quel
periodo nessuno chiese niente.
Quasi ogni giorno cambiavo occhiali e parrucche
seguendo i percorsi del mio obiettivo. Mi sedevo sopra una
panchina, dentro a qualche bar, nella mia stessa auto, e mi
annotavo gli orari dei passaggi, descrivendo tutti i
particolari che osservavo. Non era troppo difficile far
trascorrere l’intera mattinata mentre studiavo, con modo di
fare disinvolto e insospettabile, tutte le possibili traiettorie
seguite dal mio uomo. Al pomeriggio tornavo a casa presto,
in genere verso le cinque, e sopra le piantine dettagliate
delle strade cittadine ripercorrevo con matite colorate ogni
tragitto. Tutte le informazioni che ogni volta riuscivo a
completare le passavo ai miei compagni tramite i soliti
foglietti.
Gli avvistamenti del pomeriggio e della sera erano un
compito di Lesli. Una sera andammo assieme nel quartiere
residenziale interessato. Si fece un giro a piedi fingendo
una passeggiata di piacere. In realtà tenevamo sotto
osservazione tutto quanto. Non parlammo molto, giusto le
cose essenziali. Poi Lesli decise di entrare in un bar. Il
nostro uomo era rientrato in casa e non avevamo
praticamente altro da fare. “Sei carina”, disse
semplicemente, quando fummo seduti al tavolino. “Non
avrei creduto di trovare dei tipi come te
nell’organizzazione”. “Perché”, risposi, “cosa ci trovi di
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tanto strano?”. “Forse niente”, disse, “però immaginavo un
mondo di duri che non si preoccupa del trucco o del
rossetto, tutto qua…”. Guardai Lesli negli occhi e mi
accorsi che era convinto di quello che diceva, così lasciai
cadere l’argomento. “Ti sei visto con Frenchi?”, chiesi.
Prese tempo, guardò qualcosa oltre le mie spalle, poi disse:
“certo; qualche volta sono andato assieme a lui ad
osservare i movimenti dei conoscenti del bersaglio”. Poi
pensò qualcos’altro che voleva dirmi, ma rimase in
silenzio, forse per evitare di parlare di sé. Bevve alcuni
sorsi della sua birra, poi riprese: “perché sei qua?”. Avevo
voglia di parlare di mille cose, ma non con lui, così risposi
con uno stupido sorriso: “e tu?”, dissi, “pensi di cambiare
città una volta colpito l’obiettivo?”. “Certo”, disse, “questa
è soltanto una prova; sarà soltanto dopo che faremo
veramente sul serio”. Ci alzammo lasciando i soldi delle
bevute sopra al tavolo, e un quarto d’ora più tardi ci
salutammo senza enfasi.
La solitudine pesava, ma avevo come l’impressione di
abituarmi velocemente a starmene da sola, con i miei
pensieri, i miei segreti. Quando rientravo nel mio
appartamento evitavo l’ascensore, nonostante i quattro
piani di scale. Una precauzione in più: evitare contatti con
il vicinato, oltre al fatto di salire con calma per accorgermi
se per caso i poliziotti mi stessero aspettando sopra al
pianerottolo. Per il resto, mi sentivo felice, una volta in
casa. Mi guardavo allo specchio e pensavo: “sarà migliore
il futuro; dovranno rendersi conto che ci siamo sacrificati
per il bene di tutti. Dobbiamo solo superare questi dettagli;
alcuni particolari per scuotere le coscienze. Ma di fronte
alla storia sarà un’inezia…”. Poi pensavo alla mamma.
Spesso mi perdevo a fantasticare sopra le giornate trascorse
a scuola, negli anni del liceo. Le battaglie contro il potere
dei professori, contro l’usurpazione dei diritti dei poveri
studenti. Mi faceva ridere rivedermi alle assemblee, a
sostenere il mio pensiero.
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Al pomeriggio spesso uscivo a fare delle compere. Non
andavo mai due volte in uno stesso negozio o in un
supermercato, per cui in certi casi dovevo fare numerosi
giri prima di trovare quello che cercavo. Avevo a
disposizione una grossa disponibilità di soldi che
l’organizzazione mi aveva fornito, così non avevo problemi
di quel genere. Mi divertivo a cucinare, pur non essendo
molto brava, così variavo il più possibile la mia
alimentazione. In casa avevo quattro pistole di forme e
calibri diversi. Ne avevo sistemata una in ogni stanza, in
angoli riparati e strategici, esclusa la più piccola che
necessariamente portavo sempre con me. Dopo cena a volte
le pulivo e le tenevo in ordine, sempre ben cariche. Quando
ero stata nel campo paramilitare di addestramento avevo
acquisito tutte le informazioni e la pratica che serviva.
Una delle attività importanti della mia giornata era data
dalla lettura dei quotidiani. Considerata l’importanza
politica dell’obiettivo cui era destinata la mia militanza di
quel periodo nell’organizzazione, seguivo, tramite le
informazioni e i commenti dei giornalisti, tutto ciò che in
qualche modo riguardasse la sua figura. Vista la quantità di
giornali che così mi vedevo costretta ad acquistare, per non
destare alcun sospetto, ero quasi costretta a girare con delle
grandi borse in cui infilavo giornali e riviste comperate in
edicole diverse. Nel mio appartamento continuavo ad
accumulare sopra uno scaffale, tutti i ritagli che risultavano
importanti.
Una sera ci ritrovammo tutti nell’appartamento di
Frenchi. Era la prima volta che vi mettevo piede e mi
meravigliai di come fosse piccolo e scomodo. Ci sedemmo
in cucina e dopo pochi minuti arrivò anche Lesli assieme
ad un altro compagno dell’organizzazione che non avevo
mai visto prima. Parlammo a lungo di tutte le informazioni
che si era riusciti a mettere assieme, poi si decise di agire di
martedì, la terza settimana a partire da quel giorno, all’ora
in cui il nostro obiettivo usciva da casa. Per i dettagli e il
resto ci saremmo riuniti un’altra volta, da decidere. Lesli e
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l’altro, quasi di fretta, si alzarono e uscirono, senza
aggiungere nient’altro, io decisi di rimanere ancora un po’.
Frenchi era decisamente un bel ragazzo. Probabilmente
era più giovane di me, ma era uso nell’organizzazione non
farsi mai domande personali. “Penso di non poter essere
altro che contenta se questa faccenda riusciamo a risolverla
in fretta”, dissi. “Quest’attesa ha iniziato a snervarmi già da
parecchi giorni, e non riesco più ad individuare variabili
degne di nota nelle mie osservazioni”. Lui continuava ad
osservare le mie piantine del quartiere, quelle disegnate con
i vari percorsi. Poi sollevò gli occhi. “Credo che dovremo
preparare un colpo per autofinanziarci”, disse. “Ne parlo
intanto a te, ma poi lo proporrò anche all’organizzazione.
Ho individuato una piccola filiale che gestisce gli stipendi
di una grossa azienda. Ci vorrebbero sei o sette persone al
momento che il portavalori scarica i soldi. Potrebbe essere
un gioco da ragazzi”.
Frenchi mi pareva completamente sincero nei suoi
comportamenti. Si era dedicato agli scopi
dell’organizzazione, e questo gli bastava. Pensai che in lui
ci fosse come un rifiuto nell’affrontare argomenti che
investissero altre cose. Per cui decisi che non avrei fatto
commenti. “Sarà meglio che ora vada”, dissi con
semplicità. “Aspetta”, ribatté, “immagino che dovremo
metterci d’accordo su qualcosa”. “Che cosa, per esempio?”,
dissi mentre mi alzavo dalla sedia. Lui ripiegava con cura
le mie piantine, poi disse: “penso che saremo io e te ad
andare all’appuntamento con il nostro uomo”. “Cosa te lo
fa pensare?”. “Niente, solo che siamo i più determinati”.
Riflettei a lungo su quello che dovevo dire, poi mentre
infilavo il soprabito grigio, cercai di stanarlo sui suoi stessi
pensieri. “Hai paura ad andare solo?”, dissi senza
guardarlo. Lui non rispose, solo ribadì il concetto: “vedrai,
toccherà a noi due…”.
La strada per tornare al mio appartamento mi parve lunga
quella sera. Era come se trovassi molte più convinzioni
standomene da sola a portare avanti le mie attività,
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piuttosto che incontrarmi con gli altri dell’organizzazione.
Quando mi misi a letto stentai a prendere sonno. Avevo
voglia di portare in fondo quel lavoro di preparazione che
avevamo intessuto durante tutto quel periodo. Volevo
leggere i giornali il giorno dopo; vedere le prime pagine
che riportavano la sigla dell’organizzazione, che riferivano
dell’esattezza, della meticolosità della nostra operazione.
Tornò mia mamma con la sua voce di sempre a dirmi
qualche cosa. Poi mi addormentai.
Due settimane dopo fu deciso che a piedi, sopra al
marciapiede, sarei andata incontro al nostro uomo con
calma, camminando lentamente. Avrei tenuto una mano
nella borsa, con dentro la pistola ed il dito pronto sul
grilletto. A distanza di tre metri avrei sparato due colpi, il
secondo di sicurezza. Avrei mirato basso, tra le cosce e le
ginocchia, nello stesso momento che Frenchi, con una
grossa moto, si sarebbe fermato accanto a me, giusto il
tempo per tirarmi su e schizzare via velocemente. Io avrei
avuto una parrucca, occhiali da vista con la montatura nera
e un trucco vistoso per camuffare i lineamenti. Frenchi
avrebbe indossato un casco integrale. Lesli, un’ora dopo,
avrebbe lasciato un volantino con la rivendicazione
dell’attentato nella cassetta per la posta di una piccola sede
sindacale. Poi, per una settimana, avremo continuato la vita
d’ogni giorno.
Fu la domenica precedente che qualcosa dentro me parve
prendere una piega inaspettata. Avevo tutta la giornata da
dedicare alla lettura dei giornali e al ripasso generale dei
gesti e dei percorsi. Un giorno da trascorrere in casa,
conservando la calma dei gesti quotidiani, nella rilassatezza
delle convinzioni. Invece uscii, senza motivo, giusto per un
giro senza meta. Avevo indossato un tailleur chiaro, un
foulard al collo ed un soprabito semplice, senza alcun
eccesso. Avevo camminato con calma lungo alcuni
marciapiedi cercando di non pensare a niente. Poi ero stata
attratta da una cabina del telefono. Ero entrata, ancora
quasi senza motivo. Avevo composto il numero in fretta,
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dopo avere inserito la tessera magnetica. “Pronto…”, aveva
detto la voce serena e compassata di mia madre. Io avevo
atteso qualche secondo, poi, proprio mentre stavo per
riattaccare la cornetta: “…sei tu Silvia… come stai?”, ed io
avevo interrotto la comunicazione.
Il martedì alle cinque di mattina ero già in piedi. Feci la
doccia, preparai tutto con calma e attenzione. Quando uscii
di casa erano le sette. Velocemente arrivai nei pressi del
luogo pattuito. La strada era deserta. Lentamente
fiancheggiai i palazzi residenziali costeggiati da siepi ben
curate. Poi, davanti a me, vidi il mio uomo. Non mi guardò,
come invece avevo immaginato; mi venne incontro con
indifferenza, senza alcuna variazione rispetto ad ogni
mattina del mese trascorso. Quando ci incontrammo io non
mi fermai, continuai a camminare senza alcun gesto, senza
far nulla. Sentii la moto di Frenchi che frenava alla mia
destra. Mi volsi e andai verso di lui. Frenchi non disse
niente, tirò su la visiera del suo casco e mi guardò, quasi
con un’espressione rassegnata. Lo abbracciai mentre la
moto prendeva velocità, e velocemente ci allontanammo
dalla zona. Piansi, quando la tensione mi abbandonò, ma
non seppi spiegarmene il motivo.
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STRIPPER
di Fida (101 Parole)
Stasera si lavora e quelle donne lì fuori aspettano solo me.
Vogliono che le faccia divertire, emozionare, divagare:
cercano in me quello che nei loro compagni non riescono
più a trovare. Il mio corpo è il loro nutrimento: è il cibo per
il loro spirito. Urlano il mio nome, reclamano la mia
presenza: ogni sera temo di essere assalito da quell'orda
famelica di donne. A fine serata la mia più grande
soddisfazione è aver dato loro una parte di me.
Ormai non mi imbarazza più presentarmi a loro come
mamma mi ha fatto, perché sono le mie donne e le amo alla
follia.
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NOTTE A SHANGHAI
di Hermes
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Poche frasi di rito, il nostro gioco è già cominciato, mi
interroga su come ho trascorso la giornata e io inizio pur
remissiva a provocarlo con lo sguardo. Questo lo eccita e lo
fa arrabbiare al tempo stesso, ma è proprio ciò che voglio.
Apre un porta sigarette d’argento, me ne offre una,
condiscendente accetto e con la punta della lingua
distrattamente umetto il labbro inferiore, mentre porto la
sigaretta alla bocca appena accesa. Lui non perde nessun
dettaglio, soffio delicatamente il fumo azzurrognolo verso
il suo viso. Un terribile gioco dove la vittima provoca il
carnefice, sento la sua eccitazione aumentare, il mio
sguardo si fa più insolente, attendo una reazione decisiva
da un momento all’altro, mi farà molto male, ma questo
non mi impedisce di eccitarmi.
Spengo la sigaretta con insolente disprezzo mentre i nostri
guardi non vogliono lasciarsi. Ha ceduto, si alza di scatto e
mi afferra il braccio, mi sovrasta, so quanto adora lasciare
segni sul mio corpo. Bene, ci siamo quasi, mi mostro
turbata e oppongo un’indignata quanto vana resistenza.
Questo lo sta facendo incazzare ancora di più. Mi trascina
verso la stanza da letto in stile coloniale, dopo tutto questa
villa una volta era l’ambasciata britannica prima
dell’invasione giapponese. Tento di divincolarmi e grido, la
mia acconciatura perfetta tirata dalle sue mani crudeli si
scioglie in una cascata di boccoli sulle spalle. È eccitato,
conosco quella luce nei suoi occhi, mi butta per terra ai
piedi del letto a baldacchino davanti al grande specchio, io
rispondo con uno sguardo feroce. La pagherò cara… lo
schiaffo arriva in un istante, neppure l’ho visto partire e
sono già terra, la stanza inizia a girare, la guancia pulsa, ma
và tutto bene… è quello che voglio.
Devo rimanere concentrata anche se sento caldo tra le
gambe, non vedo l’ora che mi prenda. Il trucco del mio
viso viene rigato da false lacrime mentre lui si toglie la
cinta, la userà su di me lo so, la chiude intorno al mio collo
come un cappio, l’aria passa appena ma non oppongo
resistenza neppure quando mi strappa di dosso il mio bel
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vestito. Con il tempo ho imparato quando smettere di
oppormi e cedere passivamente ai suoi giochi perversi,
prima costretta per dovere, poi con il tempo conoscendo un
piacere che mai avrei creduto possibile.
Ora sono ai suoi piedi in ginocchio, tenuta al guinzaglio
come una cagna. Nei suoi occhi leggo laida lussuria mentre
guarda il mio corpo nudo come la prima volta. Lui non si
spoglia, lo tira semplicemente fuori dai pantaloni e me lo
sbatte in faccia. La sua mano ancora mi tiene stretta per i
capelli costringendomi a prenderlo in bocca, provo ad
opporre una vaga resistenza ma la verità e che mi eccita
farlo. Adoro il suo sapore, la calda consistenza della sua
eccitazione tra le mie labbra rosse. Alzo lo sguardo come
piace a lui, osservo come sussulta ad ogni affondo. Mi
costringo ad uno sguardo da bambina imbarazzata, anche
se adoro quando scopa la mia bocca, ma questo è il nostro
gioco, o quello che voglio fargli credere. Mi gira la testa
obbligandomi a guardare lo specchio, vedo riflesso il mio
corpo nudo umiliato a terra, totalmente prostrata alle sue
perversioni. Sento le ginocchia cedermi vedendo la mia
immagine mentre compio quell’atto volgare, mi vuole
umiliare, non sa invece che la mia eccitazione non fa che
crescere a dismisura e questo non aiuta i miei piani. Lui è
stato il mio primo uomo, la sua violenza mi da piacere, mi
scuote il corpo e mi tocca l’anima, ma ignora quanto sia
disposta a fare pur di raggiungere il mio obbiettivo.
Cambia gioco e mi sbatte sul letto, magari si deciderà a
scoparmi, non aspetto altro. Dannazione, odio come mi
tocca e fruga con quelle dita, non riesco ad essere razionale
quando fa cosi. Ti odio, glielo grido a denti stretti, lui mi
frusta le natiche sino a farmi urlare, provo a divincolarmi
senza successo. Ancora mi obbliga in quella posizione
oscena; la mia faccia affondata sui cuscini e il sesso
oscenamente esposto al suo sguardo, ora la sua bocca ha
sostituito le mani, quella lingua mi farà impazzire
maledetto. Sto per cedere ma non voglio, mi serve
mantenere controllo e lucidità. La necessità mi porta a
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rischiare. Con rabbia gli chiedo se è diventato impotente e
cosa aspetta a scoparmi. Non ho mai osato tanto. Me ne
pento ben presto, mi possiede con ferocia, mi accorgo di
stare urlando di dolore e piacere al tempo stesso, urla che si
sentiranno per tutta la villa.
Mi fa male, devo sopportare il dolore, devo tenere duro
ancora un po’. I suoi assalti si fanno più veloci, il suo
sudore e il mio si mischiano. Quanto sa essere divino in
questi momenti, come una serpe non solo prende il mio
corpo ma avvinghia la mia anima in una morsa fatale, non
devo cedere al piacere, non prima di lui. Si eccolo, si
muove più veloce, manca poco, non resisto, il piacere ci
raggiunge ad unisono, lo sento esplodermi dentro ed
esausta e appagata mi accascio sul letto, quindi recito la
mia parte. Prendo fiato e rompo il silenzio con un pianto
accompagnato da soffocati singhiozzi. Lui sussurra delle
scuse, pare davvero mortificato, odio questa sua debolezza,
mi promette un gioiello, non immagina quanto ho goduto,
mai come stanotte mi sento puttana e appagata tanto dal
sesso quanto dai suoi sensi di colpa. Con goffe carezze
cerca di calmarmi, gli do l’illusione di esserci riuscito. Lui
si alza dal letto e mi osserva, la pietà lo costringe a
rimanere, inizia a fumare e si accomoda su una poltrona di
vimini. Accanto, in una bottiglia di cristallo, il suo liquore
preferito è li che lo attende, si versa da bere. Osservo dal
letto in posizione fetale, stringendo le lenzuola e
trattenendo il respiro, lui trangugia il liquido scuro. Ancora
qualche istante, ecco fatto. Il collo gli si irrigidisce di colpo
e intravedo il suoi occhi spalancati dal terrore. Il bicchiere
cade a terra. Il veleno inizia a fare effetto.
Mi alzo avvicinandomi a lui, ma fitte dolore mi fanno
barcollare, avverto colare lungo le cosce seme e sangue, mi
avvicino a lui osservando i suoi ultimi istanti di vita. È
strano, non mi aspettavo che fosse cosi doloroso vederlo
morire, ma mi sforzo di ricordarmi chi è. Il carnefice della
mia famiglia e di centinaia di cinesi sta morendo davanti ai
miei occhi. Mi impongo di ignorarlo, mi rivesto in silenzio.
66
Scivolerò fuori dalla villa inosservata, dopo quello che è
accaduto i domestici non oseranno disturbarci prima
dell’ora di pranzo e per quell’ora sarò molto distante.
Lascio la stanza con il suo sguardo ormai vitreo, mantiene
un’espressione carica di domande, non saprà mai chi sono
realmente e perché l’ho fatto. Dopotutto sono una spia e
lui, per quando fosse l’uomo che ho imparato ad amare, era
un traditore collaborazionista. Ed io ho avuto la mia
vendetta.
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LA LEGGENDA DEL BRISCOLONE
di Gano
Brutta caccola, dov’eri finito!
Come dov’ero finito, non mi sono mai mosso di qui, io!
Non è possibile, è la terza volta che faccio il giro della
piazza…
Fatti una visita agli occhi, che ti devo dire…
Vieni, monta, sennò si fa tardi.
Rocco e Pelo si conoscevano da una vita, o forse si erano
visti anche prima, e come dicono certe filosofie orientali
può essere che quelle due anime balorde siano destinate a
reincarnarsi all’infinito per stare sempre vicine. Asilo
insieme, scuola insieme, militare insieme, prima volta
insieme, ovviamente sul vialone, non c’era cosa che uno
non sapesse dell’altro. Neanche le rispettive mogli li
conoscevano come si conoscevano tra di loro.
Il giorno di cui vi racconto era uno di quei pomeriggi
piovigginosi di novembre, ancora non freddo ma buio e
tristo. Rocco aveva fissato alle tre davanti al bar, e in effetti
Pelo era già lì alle tre meno un quarto, ma tra le sambuche
e le chiacchiere era rimasto ancorato al banco. Rocco non
c’aveva le traveggole, era davvero passato davanti al bar
due volte senza trovarlo, ma Pelo non voleva mai pigliar
torto, e Rocco questo lo sapeva bene, così lo lasciava dire.
Ma quando ti decidi a pulirla questa carriola?
Sta a vedere la prossima volta ti verrò a prendere in
limousine…
Cosa vorresti insinuare, che non me la meriterei? Io ho
guadagnato tanti di quei soldi nella mia vita che avrei
potuto comprarmi come minimo tre limousine.
E invece non c’hai neanche il motorino!
Perché me li son goduti io i quattrini. Mica come quegli
schifosi che si fanno chiamare vip, con le loro donne di
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plastica, il Don Perignon, la barca in Sardegna. Li ho
conosciuti sai, al casinò. Vanno tutti alla roulette a puntare
due fiches, per farsi notare e basta. A San Remo nel ‘98 io
ci lasciai mezzo miliardo al tavolo del poker, capito nini?
Oh, ancora con la storia di San Remo? Basta, dai.
Il traffico era quello del venerdì, che malgrado fosse
ancora primo pomeriggio c’erano già le code dei rientri.
L’ignoranza del popolino si manifesta in tutto il suo
splendore tra gli scarichi delle marmitte e i semafori rossi.
L’omicidio diventa un’ottima soluzione ai problemi
dell’uomo medio. Ma i nostri due eroi erano in largo
anticipo per l’appuntamento che li aspettava, così
procedevano a singhiozzo su una vecchia uno verde, calmi
come due oranghi sedati, marlboro light per Pelo e
toscanello per Rocco.
Menomale abbiamo fissato per le quattro, con questo
traffico c’è da diventar matti!
Poi non ti credere, di sicuro Panfilo si farà aspettare…
Panfilo era il terzo in comodo, compagno d’avventure ma
defilato, perché lui c’aveva l’azienda e la ganza, e quindi
non c’era praticamente mai. Ma quando c’era ai due era
permesso di fare un salto dal greco, che imbastiva il
briscolone con puntate più che dignitose. Panfilo assicurava
Pelo, che dopo il fattaccio di un pagherò saltato era stato
bandito dalla bisca, e prendeva un buon venti percento
delle vincite, se c’erano. Ma con Rocco e Pelo al tavolo
della briscola non c’era scampo per nessuno.
Arrivarono davanti alla casa del popolo alle quattro meno
dieci, e dovettero aspettare quasi mezz’ora prima di vedere
sopraggiungere un omone col piumino e il berretto.
Guardalo come sta con quel giubbotto, come se fosse
freddo…
È sempre stato così Panfilo. Anche d’agosto con 40
gradi indossa camicia e gilet.
Oh ragazzi, che siete già qui?
No, ora s’arriva…
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Non fare lo spiritoso te, che se non fosse per quel
bischero del sottoscritto col cavolo sederesti al tavolo del
greco.
Boni ragazzi, boni…
Entrarono insieme al circolino e ordinarono tre sambuche
con quattro mosche. Quattro era il numero che apriva la
porta della stanza del greco, quella dietro la dispensa,
allestita con tre tavoli professionali da gioco. Non avevano
ancora finito il caffè che una ragazza bionda molto fuori
luogo apparve dietro il banco accanto al vecchio barman, e
li invitò a seguirla. Passarono per uno stretto corridoio
illuminato da una trappola per zanzare, scavalcarono alcuni
fusti di vino e cocacola, attraversarono una tenda di ciniglia
verde vomito, e giunsero infine davanti a una porta chiusa.
La ragazza aveva la chiave e fece scattare la serratura.
Belle cosce!
Eh già!
Ma la ragazza non si girò neanche a guardare i due
commentatori, ovviamente Rocco e Pelo. Aprì la porta e
una zaffata di fumo li investì.
Aria di casa mia…
Parla per te, Pelo.
Ah, perdonami Panfilo, dimenticavo che hai smesso di
fumare da… quanti giorni? Tre?
Boniiiii…
Il tavolo era già imbandito. La luce puntava il mazzo di
carte Del Negro e il portacenere mezzo pieno, sopra una
pratino verde con qualche bruciatura di cicca. Il greco
sedeva defilato al tavolo di destra, con una vecchia
romagna in mano e una senza filtro in bocca. Lui
riscuoteva subito. La bionda era la sua compagna ma
fungeva anche da soubrette e da cameriera. Il costo delle
consumazioni subiva un leggero rialzo ai tavoli del greco,
qualcosa tipo un caffè quattro euro e dieci pezzi per i
superalcolici. Ma questo era accettato da tutti i
frequentatori. D’altra parte se volevi puntare grosso non
c’era che lui in città.
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Ma adesso parliamo degli avversari dei nostri due eroi,
una coppia di tutto rispetto. In piazza erano conosciuti coi
nomi di Checco e Occhiolino, il primo perché sicuramente
faceva di nome Francesco, il secondo per la sua
reputazione di grande segnalatore di briscola. L’occhio più
veloce dell’Appennino, alcuni dicevano. Non c’era verso di
sorprenderlo da quanto era veloce, ma Pelo quella storia
l’aveva sempre snobbata; “ma quali segni… non penserete
che usino i segni classici, non lo fa nessuno ormai. Ti fanno
solo credere di stare al gioco, ma in realtà sono due figli di
buona donna, ecco tutto!” Rocco invece era più umile e
riconosceva il valore dei due avversari. Li aspettava una
grande sfida, ma il piatto era un signor piatto, e poi c’era il
discorso del prestigio, al quale Rocco e Pelo tenevano
senz’altro di più. Quella sarebbe stata la giocata che
avrebbe proclamato la coppia campione.
Siete pronti per un bella risolata?
Che canti già vittoria Pelo?
Beh, con due morti come voi, anche a occhi chiusi…
Non incominciare a offendere, eh!
E chi offende…
Bono Pelo, dai. Tu ci tiri addosso il malaugurio…
E così incominciò, e le carte girarono per ore su quel
tavolo verde. Panfilo rimase a bere e chiacchierare con il
greco, la bionda fece un paio di su e giù coi bicchieri, e il
fumo divenne più denso che mai. Non venne nessun altro
quel giorno. La sala da gioco era tutta per loro. Diecimila
euro di piatto e una tirata assicurata fino al mattino. Alle
otto il greco se ne andò a cena con la sua bionda e un
giovane tunisino gli dette il cambio. Anche Panfilo se ne
tornò a casa, ma i giocatori si accorsero appena di questi
eventi.
Le carte giravano, perché come girano loro girano solo i
coglioni in quelle giornate no, specialmente d’inverno
quando lo scaldabagno non ti funziona e ti è finita la scorta
di Lavazza. Fino a mezzanotte i nostri due eroi potevano
dirsi in vantaggio, ma insieme alla stanchezza subentrò
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anche quella bastarda della signora sfortuna. Le carte
avevano smesso di girare ed erano solo dalla parte di
Checco e Occhiolino. Pelo schiumava, e non solo per colpa
della decima sambuca. Rocco si puntellava sui gomiti, col
toscanello che gli penzolava dalle labbra.
Ragazzi, ma non provate un po’ di vergogna per il culo
che vi ritrovate?
Le carte girano, Pelo…
Girano un paio di palle Checco! Son cinque mani che
non ci entra una briscola decente!
Ma smettetela di lamentarvi! Fino a due ore fa ce
l'avevate voi le carte migliori!
Ma quando si sfora una certa ora, tipo le tre o le quattro di
notte (o per alcuni del mattino) la realtà incomincia a
perdere consistenza, e se la storia diventa mito nessuno se
ne accorge. Dovete sapere infatti che al bar questo grande
briscolone è diventato col tempo una specie di cantata
epica, e ognuno c’ha il suo modo di raccontarla. Perché,
prima di tutto, e ve lo dico subito così vi metto l’anima in
pace, nessuno ne uscì vincitore. Poi dei nostri quattro
giocatori solamente il povero Rocco, pace all’anima sua se
ne andato tre mesi fa, cancro bastardo, ha avuto il coraggio
di raccontare qualcosa. Gli altri si sono tutti chiusi in un
silenzio imbarazzato, tipico da dopo sbornia, e hanno
smesso di giocare a briscola e di frequentare il locale del
greco.
Per quello che ci è dato di sapere sembrerebbe che verso
l’alba le due coppie si trovavano nuovamente in parità, e
mentre si avvicinava l’ora che avrebbe decretato la fine
delle ostilità, ovvero le sette del mattino, i punti che
separavano le due squadre continuavano ad assottigliarsi.
Allo scoccare delle sette precise, mentre il tunisino se la
dormiva della grossa e le bottiglie di vecchia romagna e di
sambuca sul tavolo verde erano più morte del mio povero
nonno, i punti di Rocco e Pepe erano esattamente gli stessi
di quelli di Checco e Occhiolino. Cioè, per spiegarmi in
parole spicce, soprattutto per i meno esperti di briscola, si
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era verificata una situazione di parità assoluta che neanche
nella peggiore casistica ci si poteva aspettare.
E adesso cosa si fa?
Come cosa si fa? La bella si fa!
Vuoi dire una secca?
Per forza!
E così tornarono a girare le carte sul tavolo. Una partita
meravigliosa, trascinata dagli ultimi residui alcolici nei
corpi dei quattro eroi. Ma che burla del destino quando
andarono a contare le carte e si accorsero di un’altra
incredibile parità: sessanta a sessanta.
Maremma impestata!
Questo tavolo dev’essere stregato!
A quel punto la storia si fa confusa, o almeno è quello che
ci è dato di sapere. C’erano delle voci nella stanza, e le luci
sui tavoli sembravano si fossero smorzate da sole. Entrò la
donna del greco vestita da regina di picche, con dietro il
greco in persona, ma non era proprio lui. Era il re di picche,
ovviamente, vestito col mantello pellicciato e la corona
pacchiana. Insomma, lei si avviò al tavolo di gioco e si
distese supina con la testa indietro rivolta a Pelo.
Come va la partita, ragazzi?
Subito dietro di lei c’era il re, cioè il greco, che con gli
occhi lucidi come fondi di bottiglia dichiarò: – Signori, è
arrivata l’ora di levarsi dai coglioni!
Poi tirò su la gonna della regina e incominciò a fare i suoi
comodi davanti a tutti, con un ghigno spaventoso sotto due
baffi da greco. Il greco c’aveva i baffi, mi ero dimenticato
di dirvelo…
Col vecchio su e giù la bionda di picche iniziò a cantare
l’Aida, salendo di ottave insieme al movimento del re. I
quattro giocatori restarono immobili con le sigarette in
bocca e le carte in mano (toscanello per Rocco, s’intende.)
Vai, vai, vai…
E vadoooooooooo!
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Più stranulati che imbarazzati per quell’assurda
situazione, i quattro si guardarono negli occhi e insieme
proposero la patta.
Che si finisce qui?
E così sembra infatti che sia finita. Ognuno riprese la sua
parte della posta in gioco e ritornò a casa, rimuginando
bene sull’accaduto. Sogno o realtà? Verità o delirio?
Beh, vedete, quando alcuni personaggi di grossa caratura
come quelli di cui vi ho appena narrato le vicissitudini
vengono coinvolti in situazioni estreme, la realtà
automaticamente viene alterata, distorta e amplificata.
Colpa dell’alcol, del fumo e della stanchezza? Ma certo,
siete liberissimi di pensarla così. D’altronde è più facile
accettare una spiegazione razionale. Ma il mito e la
leggenda si reggono sempre su delle solide fondamenta di
verità. Il re e la regina di picche cavalcarono il tavolo
verde, decretando la fine del gioco, suggellando una parità
fuori dalla norma. Da quel giorno tutti e quattro smisero di
giocare a briscola, ma li potevi vedere insieme alla casa del
popolo al tavolo del ramino, a ridere, scherzare e bere
sambuca. Ma se qualcuno tirava fuori in loro presenza la
leggenda del briscolone, quelli lo guardavano storto e se ne
andavano. Perché le leggende, specialmente quelle da bar,
bisogna saperle tramandare in segreto, farle aleggiare sopra
il banco delle paste e i tavolini di plastica. Bisogna
prendersi cura di loro.
Io, nel mio piccolo, spero di esserci riuscito con questo
breve racconto.
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IL CORVO E LA COLOMBA
di GM Willo (101 Parole)
C’era una volta un corvo e una colomba nel mezzo di una
strada di periferia, ed eran appena le sei del mattino e la
città dormiva beata. Il corvo beccava gli angoli di una
paginetta della settimana enigmistica. Fu in quel mentre
che la colomba gli si avvicinò.
«Che fai?»
«Leggo.»
«Tu?»
«Certo, perché le colombe non sanno leggere?»
«Certamente… ah, ah!»
«Perché ridi?»
«Per la battuta di quella vignetta.»
«Si, l’avevo già letta. Sto facendo il cruciverba, io…»
«Difficile?»
«No, l’ho quasi finito…»
Presi dalla lettura o dalla loro vanità, i due uccelli non
udirono il camion del latte sopraggiungere.
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IL MALE
di Bruno Magnolfi
Iniziai con un sottile dolore a una gamba, in una zona
appena sopra al ginocchio. Passarono i giorni ma quel
penetrante dolore non voleva passare. Concentrai i miei
pensieri proprio intorno a quel male, per parecchie sere, da
solo, in silenzio. Infine scomparve. Poco tempo più tardi,
una sensazione di affaticamento perenne iniziò a farsi
sentire dentro al mio addome, in una zona compresa tra i
polmoni e lo stomaco. Pensai quasi di tutto: qualcosa che
continuavo a mangiare e a cui ero allergico senza saperlo,
l’aria inquinata di questa periferia puzzolente, il mio
nervosismo perenne. Mi concentravo, combattevo il dolore,
che intanto aveva iniziato ad emergere, con la forza di tutti
i pensieri che avevo, ma i risultati sperati non c’erano. Per
esorcizzare il mio male iniziai a pensare alle cose più
brutte: ulcera, tumore, principio di infarto, qualunque cosa
mi sembrava possibile. Pensai alla mia morte come ad un
evento vicino, ma continuavo a passare le sere
concentrandomi sulle mie sofferenze, e tutto mi sembrava
sempre più legato ad un semplice filo sottile. Mi sentivo
sempre più in bilico tra il conservare tutto quello che ero,
se il mio malessere si fosse in breve risolto, e il perdere
tutto in una babele infinita di ospedali, dottori, ricoveri, che
avrebbero tolto in un attimo la mia libertà di pensiero, il
mio equilibrio col mondo, il mio vivere così come lo avevo
impostato da sempre. Confidavo ogni sera nel pensiero
finale, prima di dormire il mio sonno agitato, pieno di
incubi e di zone non chiare: tutto si sarebbe in qualche
modo risolto, forse bastava girarmi nel letto nella posizione
più giusta, su un fianco, oppure sull’altro, e tutto sarebbe
passato. Mi svegliai una mattina con l’assenza miracolosa
e insperata di ogni dolore: era la prova esauriente di
superiorità del pensiero rispetto alla carne, al concreto, alla
vile materia. Passò un po’ di tempo, poi lo stesso dolore
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riprese. Stavolta non ci poteva essere alcun
fraintendimento. Cominciai a combattere il male con una
forza cocciuta che contrastava il dolore, e tanto sforzai la
mia mente che alla fine non sentivo più niente. Sapevo che
il male era presente, qualcosa lavorava dentro di me senza
che potessi realmente aggredirlo, ma io ne tenevo a bada il
vigore, e con indifferenza superiore a qualsiasi negativo
sentire, ne neutralizzavo il potere. In quel periodo la mia
vita si era di fatto avvitata attorno a quel duello supremo,
gettandosi dietro le spalle ogni altro risvolto, ma il
fondamentale equilibrio tra il dentro ed il fuori, del quale
ero sempre stato sostenitore agguerrito, si era confuso in
mezzo ai miei sforzi; la mia giornata apparentemente
sembrava identica a prima, ma in realtà era radicalmente
diversa. C’ero e non c’ero, mi sentivo sparire in ogni attimo
che pensavo al futuro, tenevo frenato ogni mio desiderio
che mi spingesse più in là del presente, proprio ad evitare
qualsiasi delusione. Quando iniziai ad avere gli attacchi di
tosse non mi parve neppure un peggioramento inatteso:
anzi, questo espellere aria e catarri, mi parve mostrasse
fuori di me qualcosa che c’era e che faceva parte del mio
intimo esistere; niente di meglio se non essere chiaro,
esauriente, sincero con tutti. Ero quasi felice di mostrarmi
agli altri come ammalato: giustificava ogni mio
comportarmi, i pensieri contorti, il mio agire a volte
enigmatico, il mio corpo dalla forma non bella, forse
devastato al suo interno da chissà quali tarme che ne
rodevano l’intimo, ne succhiavano le parti più molli, quelle
più fragili e a disposizione di ogni predatore di umani.
Infine, mi fu raccontato, che in preda ad un attacco di tosse
e di asma, fui raccolto privo di sensi su un marciapiede di
fronte alla mia abitazione. Trascorsi soltanto tre giorni in
quella clinica medica, e quando ne uscii ero
apparentemente guarito. Tutto era a posto, dissero i medici,
ma dentro di me, in quelle zone dove non si poteva scrutare
con il semplice ausilio di uno dei loro strumenti, mi sentivo
definitivamente cambiato, e quel fulcro sul quale il mio
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equilibrio aveva sempre trovato la maniera per essere vivo,
efficace, presente, completamente perduto, come la mia
identità che da allora non avrei più saputo qual’era.
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IL RE DEL PORNO
OVVERO “DAL COMPLESSO AL SUCCESSO”
di Massimo Mangani
Francamente non ricordo bene quando è stato il momento
in cui ho capito di avere qualcosa di anormale; forse a otto
anni, la sera in cui una mia cugina adolescente, dopo
avermi costretto a fare la doccia insieme a lei con la scusa
che sporchi non si può andare a letto, era rimasta per un
sacco di tempo inginocchiata davanti a me con aria
stupefatta. In effetti la vicinanza della sua faccia al mio
pisello lo aveva fatto lievitare a tal punto che me lo sentivo
esplodere e soltanto allora mi ero reso conto delle sue
dimensioni abnormi.
Ovviamente, benché intuissi qualcosa, ancora non
riuscivo a realizzare fino in fondo il perché di tanto
interesse da parte di una ragazza quindicenne, che da quel
momento non perse occasione per restare sola con me
facendomi spogliare con le scuse più bizzarre. La cosa
iniziò a diventare alquanto fastidiosa quando mia cugina
smise di guardarlo e cominciò a pretendere di toccarlo.
Benché inizialmente avessi provato un certo piacere, ben
presto la sensazione predominante iniziò a diventare il
solletico: non riuscivo proprio a resistere e mi torcevo dalle
risate, provocando la sua ira. Dopo un po’ quei giochi
cessarono, forse perché la cuginetta non provava
abbastanza soddisfazione o forse a causa del suo primo
fidanzatino. Da quel momento tuttavia iniziai ad essere
consapevole dell’interesse che il mio membro suscitava
ogniqualvolta si rendeva visibile, anche da sotto un
indumento intimo. Quell’estate infatti, sulla spiaggia dove
ero solito trascorrere le vacanze con i nonni prima, e con i
genitori poi, mi divertivo ad osservare gli sguardi che
arrivavano in mezzo alle mie gambe. Devo dire che tutti,
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proprio tutti quelli che incrociavo, fossero uomini o donne,
giovani o anziani, non potevano resistere dal dare
un’occhiatina al mio costumino. La cosa mi appariva
divertente, tranne quando percepivo sguardi morbosi, per lo
più di uomini di una certa età, ma ben presto le cose
cambiarono. Già l’anno successivo più che fierezza
cominciai a provare vergogna, non volevo più girare per la
spiaggia in costume e quindi rimanevo vestito.
I pochi amici che mi ero fatto mi prendevano in giro e
dicevano che ero pazzo, che il caldo mi faceva male, che
mi comportavo come i vecchi ma ciò non faceva altro che
rafforzare la mia percezione di essere diverso. Il fatto è che
avevo iniziato a fare confronti e mi ero reso conto di essere
davvero l’unico, almeno fra quelli della mia età, ad avere
un pisello così grosso. Di nascosto leggevo e rileggevo
l’enciclopedia medica di mio padre per capire se quella
potesse essere una malattia, ma non riuscivo a trovare nulla
in tal senso. Con i miei genitori non avevo intenzione di
confidarmi, non ce la facevo e, nonostante mi vedessero
spesso nudo, il fatto che non dicessero nulla poteva essere
spiegabile con la volontà di non farmi soffrire. Un po’
come era accaduto ad un mio compagno di scuola che si
era ammalato di leucemia e, nonostante avesse perso tutti i
capelli e fosse dimagrito, i parenti facevano finta di nulla
finché un bel giorno era morto. Io ero convinto che avrei
fatto la stessa fine! Questa convinzione rimase viva fino al
mio ingresso nella scuola media, dove accadde un episodio
alquanto spiacevole che tuttavia mi fece capire che la data
della mia morte era ancora lontana.
Durante una festa di compleanno, alla quale i miei
genitori mi avevano costretto a partecipare con la forza,
alcuni miei compagni si erano chiusi in bagno insieme a
due ragazzine. Per mia sventura, visto che avevo una gran
voglia di fare pipì, avevo aperto la porta improvvisamente
e li avevo sorpresi: i maschi avevano pantaloni e mutande
a mezza gamba mentre le ragazze si scambiavano
commenti e ridacchiavano. Vedendomi entrare così
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all’improvviso, il gruppetto aveva pensato che volessi
partecipare al gioco e le ragazze avevano iniziato ad
incitarmi affinché mostrassi il mio coso. Poiché ero fuggito
a gambe levate, e poiché le due pischelle erano considerate
le più carine della scuola, iniziai ad essere chiamato
“finocchio”. Fu uno dei periodi più tristi della mia vita, tutti
i giorni tornavo a casa in lacrime dopo esser stato
sbeffeggiato da chiunque, quasi quasi anche dai professori.
“Finocchio”, “ecco il finocchietto” “chissà che cazzettino
minuscolo ti ritrovi!” e la più tremenda, pronunciata da una
ragazza: “Sei troppo carino, è un peccato che tu sia un
finocchio di merda!” Le due cretinette poi non perdevano
occasione per umiliarmi finché un bel giorno, durante un
corso di recupero pomeridiano, le trovai ridenti davanti alla
porta del bagno delle femmine. Forse fu uno scatto
improvviso di orgoglio, forse la frase abbozzata da una
delle due: «Ecco il finoch...» , fulmineamente le afferrai per
il collo e, dato che ero abbastanza forzuto, le trascinai
dentro. Chiusi la porta a chiave e le spinsi contro il muro
beandomi dei loro sguardi terrorizzati, lentamente mi
slacciai la cintura, sbottonai i Jeans e li feci scivolare
insieme alle mutande. Data l’eccitazione che quella
situazione mi stava provocando, ce l’avevo talmente ritto
che svettava oltrepassando di qualche centimetro
l’ombelico. Subito le parole mi uscirono dalla bocca senza
che me ne rendessi conto, tremende: «ora me lo succhiate,
o vi ammazzo!» Le poverette scoppiarono a piangere
riportandomi alla realtà, senza dire una parola mi rivestii,
aprii la porta e me ne andai lasciando le due cretine
singhiozzanti. Il giorno dopo successe il finimondo, i miei
genitori furono convocati dal preside ed io fui espulso dalla
scuola, consapevole che quella mia malformazione non
fosse altro che un’innocua disgrazia.
La mia sofferenza tuttavia continuava, il senso di
vergogna era più forte di me, non osavo guardare le ragazze
per paura di innamorarmi e dover rendere pubblico il mio
problema. Cercavo di non pensarci, ma era quasi
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impossibile, l’unica cosa che potevo fare era nasconderlo
indossando indumenti larghi. Con il sopraggiungere
dell’adolescenza mi trovai a dover combattere con un vero
mostro che alzava la testa quando meno me lo aspettavo e,
nonostante i larghi indumenti, si rendeva visibile agli
sguardi. Improvvisamente il complesso si modificò;
avvenne il giorno che beccai mia cugina a letto con il suo
ennesimo fidanzato.
Eravamo in campagna durante una rimpatriata familiare e
dopo pranzo gli adulti e i bambini più piccoli erano andati
a fare una passeggiata digestiva. Nel casale eravamo
rimasti soltanto io, mia cugina ormai ventunenne ed il suo
fidanzato che per la verità avrebbe voluto rimanere da solo
con lei. Mi appisolai sulla sedia accanto al caminetto e fui
svegliato da alcuni gemiti provenienti dalla camera da letto;
subito il mostro si mise sugli attenti e la mia curiosità
divenne irrefrenabile. Ovviamente sapevo benissimo cosa
stava accadendo ma preferii fare l’ingenuo, così mi alzai e
mi recai verso la fonte di quell’idillio. La porta era
socchiusa e sbirciando si poteva vedere il letto su cui i due
stavano facendo sesso: mia cugina era sdraiata in posizione
supina, le gambe larghe ed i piedi per aria, indossava
soltanto un paio di calze autoreggenti bianche, il suo
ragazzo, completamente nudo si muoveva
spasmodicamente sopra di lei, su e giù, su e giù, sempre più
veloce finché ad un tratto i due iniziarono ad urlare
all’unisono. Dopo qualche istante di silenzio, il ragazzo si
scostò, si alzò dal letto ed iniziò a rivestirsi.
«Devo proprio andare, i miei a casa mi aspettano.»
Mi nascosi dietro la porta accanto, praticamente in bagno
ed attesi che se ne fosse andato. Rimasi fermo, immobile in
attesa che anche la cugina se ne andasse e sussultai quando
udii la sua voce: «Lo so che sei lì dietro, vieni un po’ qui!»
Era ancora nuda sul letto e mi guardava con uno sguardo
divertito; erano passati ormai i tempi in cui eravamo due
bambini che giocavano nella doccia, lei era una donna ed
anch’io non me la cavavo poi così male come uomo!
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«E bravo il mio cuginetto, è tanto che non ci vediamo…
chissà come sarà cresciuto!»
Notando il mio imbarazzo mi fece cenno di avvicinarmi,
il mostro tirava da impazzire sia per la scena a cui avevo
assistito, sia per la posizione che la cuginetta aveva
assunto, seduta sul letto con le gambe incrociate, le calze
sempre più lucide, la fica in bella mostra. Allungò le mani
ed iniziò ad armeggiare con la cintura, dopo pochi istanti
l’affare svettava abnorme e lei lo strinse guardandolo
avidamente. Feci per sdraiarmi sopra di lei ma mi respinse.
«Ho appena fatto l’amore con il mio ragazzo, non posso,
ma voglio comunque farti capire una cosa… »
Fece quello che sotto la doccia non aveva mai osato fare,
avvicinò le labbra al membro e, molto lentamente, lo prese
in bocca. Provai una sensazione paradisiaca, era la prima
volta che facevo sesso, non mi ero mai nemmeno
masturbato e se qualche volta la mattina avevo trovato le
lenzuola bagnate da un liquido appiccicoso, avevo
immediatamente cambiato il letto. Adesso non potevo
ignorare quelle labbra golose, quella lingua ruvida, quegli
occhietti assassini, stavo godendo da morire!
Non so nemmeno quanto tempo andai avanti, ricordo
soltanto che ad un certo punto mia cugina sfilò il mostro
dalla bocca se lo appoggiò alle labbra continuando ad
accarezzarlo con entrambe le mani. Ci fu un’eruzione, otto,
dieci schizzi di un liquido biancastro ed appiccicaticcio al
termine dei quali il viso di mia cugina era una maschera
acquosa. Non disse più nulla ma dopo essersi ripulita e
rivestita sussurrò: «non sai che fortuna potresti avere fra le
gambe!» Poi se ne andò.
Da quel momento la mia attività sessuale divenne a dir
poco frenetica, mi feci tutte le compagne del college, le
amiche di mia madre e perfino una professoressa che volle
constatare se le voci che a scuola giravano sul mio conto
fossero vere! Parevo la persona più felice di questo mondo,
ma in cuor mio ero triste, mi accorgevo che mi mancava la
cosa più importante: l’amore! Provavo invidia per i miei
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amici che avevano la fidanzata, non facevano solo sesso ma
c’era un rapporto fatto di tenerezze, di aiuto reciproco, di
poter contare sul partner nei momenti di difficoltà. Con me
le ragazze facevano sesso e poi… arrivederci e grazie! La
rabbia mi divorava e per spregio iniziai ad insidiare le
fidanzate dei miei compagni che, più per la curiosità che
per altro, spesso cedevano. Sovente aspettavo che fossero
riaccompagnate a casa, che i ragazzi le credessero al caldo
sotto le coperte a dormire e non a scopare selvaggiamente
complimentandosi per le dimensioni del mio pene.
Raggiunsi punte di cattiveria così alte che un giorno,
durante il matrimonio di un mio ex compagno di classe, mi
scopai la sposina nel cesso del ristorante mentre lo sposo,
che ci aveva sentiti, piangeva come un disperato battendo i
pugni sull’uscio, il tutto cercando di non farsi sentire dagli
invitati. Tutto ciò terminò quando conobbi Serena…
Non voglio soffermarmi più di tanto sulla storia… Serena
era la ragazza perfetta… si era davvero innamorata di me.
Non chiese di fare subito sesso, anzi, trascorsero molti mesi
prima di farlo. A letto pareva indemoniata, è vero, ma per il
resto era la ragazza più dolce e sensibile che avessi mai
conosciuto! Iniziai a fare progetti… una vita insieme… dei
figli… ero finalmente un uomo realizzato! Ancora non
posso credere che quel giorno sia stato reale: la telefonata
improvvisa di Serena.
«Dobbiamo vederci, è importante!»
L’incontro a casa sua, le parole secche come un proiettile
in mezzo agli occhi: «Ti lascio!»
«Perché?»
«Mi sono innamorata di Luigi, lui non è solo un cazzo, è
anche un uomo!» CRASH!!!!
Ed eccomi qui, a 37 anni uno dei più famosi attori porno
del Mondo, 38 centimetri di cazzo, 4 in più del mitico John
Holmes, milioni di dollari sparsi in tutte le banche del
mondo, villa a Roma, villa a Parigi e naturalmente mega
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villa a Beverly Hills, oltre ad una collezione invidiabile di
Ferrari d’epoca!
Dopo la storia con Serena tutto mi è stato chiaro,
soprattutto le parole di mia cugina. È bastato un provino e
subito i miei film sono divenuti dei cult… porno di tutti i
tipi, con trama e senza. Ho recitato sia con le più importanti
attrici hard di Hollywood, sia con le studentesse
universitarie di Praga o Budapest, tutti i generi, dall’anal al
cumshot, dal gang bang al fetish. Pagato profumatamente
non ho disdegnato di inchiappettarmi un paio di ragazzetti
ventenni, film divenuto il più apprezzato dalle comunità
Gay internazionali ma anche il più scaricato dalle massaie
di tutto il Globo (e ovviamente dai padri di famiglia).
Fama, successo, denaro finanche la partecipazione ad un
film non porno, una commedia, un blockbuster con attori
famosissimi. Ogni tanto mi diverto ad andare a fare la
spesa al supermercato e vedo che mi riconoscono quasi
tutti, dagli adolescenti che scaricano i film di nascosto, alle
madri di famiglia… qualche volta qualcuna di loro mi si
avvicina, mi sfiora accidentalmente. Quando esco frugo
nelle tasche e trovo biglietti con numeri di telefono ed
indirizzi.
Solo una volta ho accettato una di quelle avances; ero a
Los Angeles in uno Wall Mart ed ho visto entrare una
donna, molto carina, accompagnata da due bambini ed un
uomo, un buzzurro che la trattava malissimo. La donna ha
aperto bocca ed il marito l’ha strattonata, poi ha fatto il
verso di darle un ceffone. Ho notato che l’occhio sinistro
della signora era nero; lei mi ha guardato e mi ha
palesemente riconosciuto. Ho aspettato che si avvicinasse,
che mi sfiorasse accidentalmente, sono uscito, ho frugato
nelle tasche… la sera l’ho chiamata.
L’ho scopata 5 ore di seguito in un Motel sulla PCH, non
riuscivo a farla smettere di ansimare, scopava e rideva,
scopava e rideva! Quando se ne è andata era felice…
qualche giorno dopo, per caso ho letto sul giornale che una
donna di Santa Monica aveva denunciato il marito per
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violenze, l’aveva fatto arrestare per maltrattamenti ed abusi
sui figli… c’era la foto del buzzurro e me ne sono
rallegrato! Una scopata terapeutica.
Qualche giorno fa però, mi è accaduta la cosa più curiosa:
stavo facendo il mio solito giro al supermercato quando mi
si è avvicinata una donna allampanata, pallida, che io ho
scambiato per un’accattona. Invece del solito approccio, mi
ha teso la mano, ha abbozzato un sorriso e mi ha detto: «Ti
ricordi di me?» Sono rimasto interdetto.
«Sono Serena, ricordi?»
«Scusa, sono passati tanti anni… io non…»
Siamo usciti, l’ho fatta salire sulla mia Testarossa e ci
siamo diretti ad uno Starbucks vicino Malbù. Davanti ad un
buon caffè mi ha raccontato la sua storia: si era sposata con
Luigi e tutto sembrava filare liscio, avevano avuto tre figli
meravigliosi. I soldi non mancavano e nemmeno dopo la
separazione aveva avuto problemi economici.
Poi Luigi era stato arrestato per corruzione e truffa, aveva
perso tutto, si era beccato vent’anni e non le aveva più
pagato l’assegno di mantenimento. Disperata aveva cercato
un lavoro, almeno per mantenere la casa, ma con tre
bambini era stato impossibile e così si era ritrovata a
dormire in macchina con le creature. I Servizi Sociali erano
intervenuti e le avevano tolto l’affidamento, i piccini erano
finiti in un istituto. Adesso vivacchiava con lavoretti
saltuari, dormiva in un camper, non riusciva a riottenere
l’affidamento dei figli.
La guardavo con commiserazione, pensavo a quanto la
vita a volte può essere crudele… fosse rimasta con me… Si
è fatto tardi, l’ho riaccompagnata al camper, ci siamo
abbracciati, lei non voleva quasi staccarsi… ha iniziato a
singhiozzare. «Perdonami, perdonami!»
«Non ci pensare, sono passati tanti anni!»
L’ho guardata allontanarsi, ancora un po’ mi faceva male.
Prima di ripartire ho frugato nelle tasche, ho trovato un
bigliettino con un numero, il suo numero. Ho messo in
moto e in un baleno sono arrivato nella mia villa a Beverly
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Hills, sono sceso dalla Ferrari e a passo svelto sono entrato
in casa. In cucina mi sono fermato a riflettere, ho rigirato
nelle mani il biglietto, l’ho letto e riletto. Ho aperto bene il
fogliolino, poi l’ho appallottolo, l’ho buttato nel trita rifiuti
e l’ho distrutto…
…’sta stronza!
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LE TRE CARAFFE
di GM Willo
Il vecchio piumato continuava ad osservarmi, in bilico su
una sola zampa, con le spalle rivolte al tempio ed il becco
all’insù, come se stesse annusando il vento.
Hai riempito le tre caraffe oggi? – domandò ad un tratto.
Le tre caraffe?
Mente, cuore e corpo… le hai riempite, ragazzo?
Vecchio, non ho la più pallida idea di cosa tu stia
dicendo.
Allora il vecchio ricoperto di piume (e ne aveva di tutti i
colori, credetemi!) si mosse e mi venne incontro,
scendendo i gradini del tempio con le sue due gambine
magre. Si avvicinò così rapidamente che i miei occhi fecero
fatica a metterlo a fuoco.
Le tre caraffe… – ripeté, e mi toccò in tre punti, sulla
fronte, sul petto e sopra l’inguine. Le sue dita erano gelide.
Le sue piume puzzavano di humus. – Riempile e svuotale,
di continuo, e nel svuotarle riempi quelle degli altri, di chi
ti è vicino. Non farle traboccare, e vivrai una vita degna,
tutto qui. – Poi si voltò e prese il volo.
Avevo fatto così tanta strada per arrivare al tempio che
d’improvviso la stanchezza mi fece vacillare. Caddi per
molte ore, o forse sognai solo di cadere. Quando riaprii gli
occhi mio figlio più piccolo mi stava porgendo un bicchiere
vuoto, quello del succo d’arancia, e mi sorrideva con due
abissi negl’occhi.
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IL PORTICO
di Marco Muzzi
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“Ma ti stai zitta!” ringhiò “…vuoi svegliare tutti? Che
vuoi che m’importi ora. Già, tu non sai neanche cosa
provo: le guardie, e questo e quello… Stupida! Almeno le
guardie ci davano un minimo di protezione, ora che se ne
vanno vedrai il casino…”
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IL NASTRO ROSSO
di Fida
Il salice piangente è la mia casa: non fraintendetemi, non
ho né una capanna sull’albero né vivo accampato sotto di
esso. Ogni salice ha un suo spirito guida ed io sono uno di
loro: il mio nome è Ghitash. Il mio compito? È aiutare i
puri di cuore a riconoscere e perseguire il proprio destino.
Non si tratta di magia, ma è una questione di propria
consapevolezza interiore. Sono relativamente giovane. Ho
solo 1300 anni.
La mia casa è subito riconoscibile: si trova in un giardino,
ha rami lunghi che toccano terra come braccia amorevoli e
su di ognuno c’è un nastro rosso annodato in ricordo di un
desiderio avverato. La tradizione vuole che il giorno del
solstizio d’estate chiunque può venire da me, vedermi e
farmi una domanda o esprimere un desiderio; solo
annodando un nastro bianco ai miei rami si potrà vedere
realizzato il proprio desiderio più grande. Una volta che
questo accadrà, allora e solo allora si dovrà tornare per
sciogliere il nastro e sostituirlo con uno rosso.
Ho visto ogni sorta di persone, dalla coppia col desiderio
di un figlio alla vecchietta con problemi di salute: per
ognuna di loro sono stato di aiuto e conforto. Ma ancora
oggi mi rimane un dubbio, una perplessità: ogni giorno
guardo quel nastro bianco tra i tanti rossi. Un bianco che un
tempo era immacolato, un nastrino in raso che col tempo e
le intemperie ha perso di lucidità. Ricordo la ragazza che
venne ad annodarlo: aveva circa 16 anni, capelli neri e
lunghi, una pelle candida e due grandi occhiali che le
coprivano quasi tutto il volto. Sentivo che era nervosa,
intimidita. La percepivo nell’aria la sua paura, il suo
timore, ma aveva qualcosa di diverso rispetto agli altri: lei
era impenetrabile. Se con le altre persone mi riusciva facile
capire il loro desiderio e comprendere il motivo che le
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spingeva a rivolgersi a me, con lei non mi è stato possibile
saperlo. Ancora oggi non so perché abbia annodato quel
nastro al mio ramo. C’era tenerezza nei suoi gesti; ricordo
che le mani le tremavano e per ben due volte il nastrino le
cadde a terra e ci mise più del dovuto per fare un fiocco
come si deve. Ma ancora oggi, a distanza di due anni, quel
nastro è ancora là! Ogni giorno lo guardo e spero sempre di
poter penetrare il mistero che lo avvolge: cerco di carpirne
i segreti, i timori e le paure che la ragazza lasciò su di esso
attraverso le sue mani.
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fermò, si girò e con voce flebile guardando nella mia
direzione pronunciò queste parole: “avrei voluto non dover
mai venire, avrei preferito rimanesse per sempre bianco.
Ma lei voleva essere davvero libera. Di notte sognava
sempre di essere una farfalla piccola e delicata. Sognava di
volare via. Questo desiderava venendo qui: di poter lasciare
quel suo corpo pesante e ferito”.
Terminato che ebbe di parlare, dal cielo caddero i primi
fiocchi di neve, di quella neve che, con lo splendore che
conferisce al paesaggio, porta con sé un silenzio che non è
soltanto immaginario.
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AMORE RITROVATO
di Marco Filipazzi (101 Parole)
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LA CALZA DELL’ACROBATA
di Federica De Angelis
È la notte di San Lorenzo e fa un caldo cane, me sento
tutto appiccicoso, così, me dico, vado sul terrazzo del
palazzo a fumamme ‘na sigaretta in santa pace. Stasera il
cielo sembra più scuro, non ne vedo molte di stelle. Me
rilasso cò ‘na bella sigaretta e poi domani che è sabato sai
che faccio?
Me ne vado prima al bar a fà colazione, quello vicino alle
poste, dove c’è Gina la bionda che me fà sempre
l’occhietto quando me allunga la tazzina der caffè e se
sporge sempre a mostrà la scollatura quando me chiede se
lo voglio “corretto”. Poi dù chiacchiere cò li amici fino a
che nun se fà ora de pranzo, tanto tra il giornale, la
schedina, ogni volta stavolta vinco me lo sento, e
qualche mano de carte, la mattinata vola. Dopo un bel
piatto de bucatini annaffiato da un vinello genuino, me
faccio il solito riposino; così, verso le cinque, me metto a
lustro e col dopobarba, quello buono, che ho comprato alla
profumeria del centro commerciale, mica alla Conad vicino
casa, me ne vado al Bingo e dopo cena a ballà un bel liscio.
Oh sta colonia è infallibile, me lo sento, domani sera faccio
‘na strage in pista … anche Gina ieri m’ha detto “Oh ma
che te sei messo il profumo?” “Che se sente?” gli ho
risposto… e là ho capito che je piace…
Salgo le scale mentre penso al sorriso di Gina, anzi, alla
scollatura della camicetta bianca che si slaccia sempre là in
mezzo, sempre al punto giusto, né troppo, ma mai poco,
giusto giusto dove arriva il pendente della collana, proprio
quello dove tiene la foto del fratello che s’è sfracellato in
moto dieci anni fa, poveraccio…
Arrivo sul terrazzo che c’ho già la sigaretta in bocca, …
figuramose, io fumo da quando c’ho 11 anni, ormai sto in
automatico, manco ce devo pensà a accennèla che già sto a
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fumà… insomma… me pare de vedè con la coda
dell’occhio ‘na stella cadente. Cerco de riacchiappalla con
lo sguardo, me giro de scatto ma, .. niente! E poi non avrei
fatto in tempo a esprime manco un desiderio… ma che me
sò impazzito?! Le stelle cadenti, il desiderio… … Queste
sò cose da femminucce!!… me devo proprio èsse bevuto il
cervello…
Mi appoggio coi gomiti al davanzale del terrazzo, è bello
alto e largo, ce potrei salì sopra e camminacce come ho
fatto ‘na volta, a mi moje je stava a pià ‘n colpo! A Marì je
ho detto – lo sai come me chiamano a me sur cantiere?
L’acrobata! Ce sarà ‘n perché… Perché tu marito sui
ponteggi CE VOLA! Ecco perché…
Me metto a guardà giù per la strada. I soliti movimenti.
Da quassù se vede pure fino all’incrocio cò Via Sarti dove
se mette sempre Rosa, eccola là che se la sta a caricà un
cliente, me viè da ride se penso a quella volta che ce sò
voluto annà pure io, eravamo in tre e gli abbiamo chiesto lo
sconto, ma allora era ancora bella, mo è vecchia e cò tutta
sta concorrenza de belle ragazzette straniere me meravijo
che sta ancora là a batte, dovrebbe pagatte lei, ma qua è
pieno de pervertiti… guarda che te riguarda, vedo che la
finestra al terzo piano del palazzo di fronte al mio sa non
è molto distante ma di notte con la luce accesa si vede
abbastanza bene è la prima volta che vedo la serranda
alzata, di solito non guardo mai da quella parte perché è
sempre chiuso, ma stavolta vedo nella penombra una figura
femminile. Ammazza quanto è bella! Avrà… boh non lo so
quanto c’avrà, ma so che è una gran figa, lo vedo dalla
sottoveste che indossa, è seduta davanti ad un computer. La
luce bianco blu del monitor evidenzia i contorni del suo
corpo. Ha i capelli raccolti sembra intenta a scrivere.
E poi, cazzo, me se stanno a brucià le dita! Butto la cicca
giù dal terrazzo, solo per un attimo me ricordo che la
Signora Cambi ch’ha le lenzuola stese proprio là sotto, ma
che me frega! Manco un incendio me può distoglie ora.
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Altro che venticello, quassù sento ancora più caldo… me
sposto pè vedè meglio la donna nella finestra. Mò la vedo
meglio, c’ha ‘na piccola lampada alla sua sinistra, la vedo
che sta a scrive e guarda lo schermo, sembra che sta a
sorride, poi all’improvviso se slega i capelli e inizia a
massaggiasse la nuca e poi lentamente se passa la mano sul
collo e poi sul viso e poi sulle labbra. A quel punto sento
che me sta a venì duro. Me tocco un po’ pè sistemamme
ma, più me tocco e più me viene duro: è pazzesco, lei se sta
a piegà un po’ sulla sedia, ha una mano in mezzo alle
cosce, poi se slega i capelli e se gira di scatto verso di me.
Me so sentito gelà il sangue! Ma poi ho pensato Come fa
a vedemme che sto più in alto e al buio?.. Oh, nun ce
crederà ma me sò sentito ancora più eccitato, ho aumentato
il ritmo e poi la troia lei me deve scusà ma io già avevo
deciso che era una troia, perché me piaceva pensà che
m’aveva visto e che je piaceva pure a lei che io la stavo a
guardà mentre se toccava la zozza continuava ad
accarezzasse e a toccasse fino a che… ho visto una stella
cadente, ma era grossa e faceva pure rumore, almeno me
sembrava che veniva sempre più verso de me, fino a che sta
stella, sta luce, nun è diventata come un faro, anzi proprio
un faro, e il rumore sempre più forte, ma io nun sentivo
gnente perché stavo… Insomma me so ritrovato de notte
sul terrazzo sopra casa mia, con la mano tutta bagnata ha
capito no? cò sto faro davanti. Poi i poliziotti se so
affacciati dall’elicottero coi mitra come nei film, e
m’hanno detto: “Mani in alto! Non ti muovere!” e io le
mani in alto le ho messe, da quella destra un po’ bagnata e
appiccicaticcia me colava pure un po’ de.. ha capito no?
Che vergogna!… N’ omo all’età mia beccato così sul
terrazzo, de notte, sorpreso a smanazzasse come un
regazzino su una sconosciuta… Lei si immagina la scena?
Lei capirà, io c’ho ‘na reputazione da difenne sur
cantiere… al bar, cò mì moje, che m’ha lasciato sì, ma
perché nun c’ho ‘na lira, anzi n’euro… io devo esse
sincero, già qualche anno prima che mi moje me lasciasse,
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pè mettese cò quel cornuto del fornaro, cò cui me
paragonava sempre, che lei diceva un uomo tanto moderno,
al passo coi tempi, io nun è che la reggevo più de tanto, ...e
sempre discussioni, e sempre che voleva vedè sti film
pallosi da femmine, sempre robba da piagne, ste donne con
le camicie a scacchi e sti cappelli de paglia in testa che se
incontrano in mezzo ad un campo e se raccontano le storie
d’amore e piangono, oppure lui e lei che si amano tanto ma
poi arriva l’altro e indovina un po’?… E’ il Destino che li
separa e poi si rincontrano e poi… ma un pover’omo che
lavora tutta la settimana quanno torna a casa se vole
distrarre un po’, vole vedè che so… un bel film de guerra,
d’azione, no robba da piagne tutte le volte, e poi me diceva
pure, “hai visto? Almeno nei film finisce bene. Mica come
te che sei sempre uguale e nun ce capisci niente da sti
film…”
Ma che ne so io Dottoreè, io dallo pissicologo prima nun
ce sò mai annato… mi moje me diceva che ce sarei dovuto
annà ma io nun c’avevo ‘na lira pè annà a vedè le partite
della Roma, figurate se c’avevo i soldi pè ste cazz… ehm
volevo dì pè ste cose.
Le calze, durante la perquisizione m’hanno detto che ci
fa lei con queste calze da donna a casa visto che sua moglie
non abita più qui? Io glielo ho detto che sono l’unico
ricordo de mi moje che nun me vole vedè più e che io sò
romantico alla fine, mica come dicevano lei e mi socera.
Ma i poliziotti hanno detto sta calza è un sintomo di
“feticismo”, oh io fascista nun ce sò mai stato! gli ho
risposto Dottoreè glielo giuro ho sempre votato
comunista!!
E poi hanno trovato qualche rivista, cò qualche signorina
un po’ svestita, ma nun so le mie, glielo giuro, so de
Maxim, il rumeno che lavorava con me e che qualche volta
rimaneva a dormì a casa mia, così quando lui non c’era,
beh, un’occhiata gliel’ho data, ma io je devo confessà che
preferisco le modelle de postalmarket, m’attizzano de più
de ste porcate, c’è tutto un groviglio de corpi là sopra che
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ce metto sempre un po’ a capì che sta a succede… io vado
sul classico invece, so n’omo de classe...
Dottooreè me volevano dà 20 anni!!! Lo sai che vor dì?
Potevo morì ar gabbio, ecco che vor dì, e poi a me chi me li
ridà i giorni, le settimane che ho perso in galera?
NESSUNO! Tutti i colloqui cò voi pissicologi, pè
convinceme che io sò malato… ma i malati siete voi! Che
m’avete condannato e mò pure assolto, e mò me tocca fa
altri “colloqui” come li chiamate voi altri, perché così state
cò la coscienza a posto che io coi colloqui me ripjo…
Ma che ne so io Dottoreè! Lei me deve da crede, io nun
c’entro gniente cò sti maniaci de internet, sto sfasebruk
come se chiama…
Si si, facebook. Il maniaco adescava le sue vittime su
facebook e altri social network, costruendosi identità
fittizie, avvicinando e conquistando la fiducia delle vittime,
per la maggior parte donne giovani e in alcuni casi
addirittura minorenni, per poi spiarle, adescarle e
perseguitarle, forse in alcuni casi avrebbe anche potuto
abusarne se non lo avessimo fermato, ma oramai non deve
più preoccuparsi Sig. Lama, il colpevole è stato preso,
questa volta con prove INCONFUTABILI. Purtroppo il
colpevole aveva assunto una identità molto simile alla sua,
creandosi un avatar virtuale…
Un che?
…diciamo che aveva creato un profilo, costruito una
descrizione molto simile a quello che è lei, cosa le piace, le
sue abitudini ecc… sembrava conoscerla molto bene, fino
nei particolari più intimi tanto che nei suoi giochi virtuali si
faceva soprannominare “l’acrobata”. Inoltre il segnale del
computer da cui proveniva quello tracciato dalla
connessione internet veniva dal suo stabile. La polizia la
stava tenendo sotto controllo già da tempo. La notte del suo
arresto, quella che lei ha appena rievocato, una nostra
agente sotto copertura aveva preso posizione
all’appartamento al terzo piano di fronte a casa sua, ed
essendo in chat in attesa del maniaco, ha iniziato a
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provocarla sperando che lei si collegasse in modo da essere
colto in fallo.
Eh proprio in fallo m’avete colto Dottoreè… e poi io il
computer nun lo so manco usà, avoja a spiegà ar
maresciallo che de computer a casa mia ne è entrato solo
uno, quello de Maxim che lo usava pe telefonà a casa in
Romania, diceva lui, anche se io nun j’ ho mai creduto, ma
come se fa a telefonà cò ‘n computer, mica è un telefono
noooo? ma, me dica ‘na cosa, ma chi era questo, sto
maniaco, se po’ sapè?
Ovviamente c’è il più stretto riserbo sulle indagini che si
sono appena concluse. Tuttavia, anche se non abbiamo
ancora divulgato particolari alla stampa, penso che glielo
dobbiamo, dopo questo imperdonabile errore commesso nei
suoi confronti… dunque… grazie ad inconfutabili prove
tecnologiche abbiamo scoperto che il maniaco era Sabino il
fornaio, quello del negozio sotto casa sua…
Nooo! Il fornaro!!! Quel cornuto che s’è pijato mi
moglie… Ma tu pensa un po’…
Si proprio lui. Il segnale infatti veniva dallo stabile
perché il Signor Sabino utilizzava anche lui, come il suo
coinquilino Maxim, in Romania al momento del suo
arresto, una chiavetta internet per collegarsi non avendo
linea telefonica al negozio… non è stato semplice
individuarlo perché dopo il suo arresto ha cessato
completamente le sue perverse attività per un bel pò… ma
per fortuna per lei, alla fine ce l’abbiamo fatta ad
inchiodarlo e ha confessato…
Hai capito sto fijo de ‘na mignotta!!! L’omo romantico,
moderno e tecnologico, come diceva mi moje… beh anche
lui lo sapevo che nun gliela poteva fà alla fine a regge quei
film pallosi tutto il tempo e s’è trovato qualcos’altro da
fà… sa che je dico? Evviva la tecnologia che m’ha liberato
in un colpo solo de mi moje e de ‘no stronzo!
100
COME UN FIUME
di Bruno Magnolfi
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lì, con la stessa espressione sorniona, quasi aspettandomi.
Gli chiesi se voleva qualcosa di caldo, così lo portai dentro
al bar poco lontano. Sorrideva, senza guardarmi, sembrava
perso tra sé dietro chissà quali pensieri. Biascicò qualche
frase, come parlasse da solo, io capivo solamente qualche
parola, così gli chiesi qualcosa, niente di particolarmente
diretto. Lui continuava a sorridere, e rispondeva a suo
modo con qualcosa che aveva a che fare con la sua scarsa
memoria di vagabondaggio e probabilmente di alcol. Poi si
fermò, come se avesse d’improvviso trovato quello che in
mezzo a chissà quante altre cose della sua vita andava
cercando; mi guardò in fondo agli occhi come già aveva
fatto e disse di nuovo: “Conosco il tuo viso; la tua faccia è
quella di un uomo che ha paura di tutto, anche di me. So
cosa significa essere in fuga. Si inizia un giorno, quando
siamo pieni di tutto, e si va via. Ma poco alla volta ci si
sente sempre più soli, fino al punto in cui non è più
possibile tornarsene indietro. Tu sei a quel punto, riconosco
il tuo sguardo. Del resto non so, per me non è interessante:
ognuno ha un motivo per fare o non fare qualcosa, non
esistono i buoni e i cattivi, esistono solo i pensieri difficili
e quelli più facili, ma certe cose si sentono dentro e non si
può andare contro natura, bisogna essere ciò che si è,
bisogna dare fiato a ciò che sentiamo. Troverai anche tu la
tua soluzione: sarà stasera, fra un giorno o tra un anno, ma
quando saprai finalmente che cosa vuoi dalla vita, tutto
scorrerà come il fiume, non ci sarà più alcun bisogno di
chiedere in giro, di girare con lo sguardo perso nel vuoto”.
Cercai anch’io di dire qualcosa, ma le sue parole non
lasciavano spazio, eppoi non avevo veramente niente da
dire, ero vuoto, così come lui aveva appena finito di dire.
Uscimmo dal bar poco dopo, lui mi salutò nella stessa
maniera con cui ringraziava chi gli allungava dei soldi, ed
io ritornai verso il mio monolocale, con la sensazione di
sentirmi scoperto, nudo in quello che ero, ma consapevole
di avere davanti delle decisioni da prendere, in fretta però,
prima che l’inerzia mi prendesse la mano.
102
IL COLORE DELL'ANIMA
di GM Willo
103
deragliate nella noia. Ma Francesca era una tipa in gamba,
me ne accorsi subito, come mi accorsi che era di un livello
troppo al di sopra di me. Sapete cosa intendo, vero? Prima
dell’attrazione esiste un altro importante fattore che
permette a due persone di convergere in una relazione, ed
ha che fare con l’anima. Si, l’anima. Io credo fermamente
nell’anima. Quella di Francesca era fulgida e grande,
mentre la mia… beh, se continuerete a leggere queste
pagine, ve ne renderete conto voi stessi di pasta è fatta la
mia anima.
L’anima è qualcosa di più complesso di un codice
genetico o di un profilo caratteriale. Se nasci con l’anima
sbagliata, non puoi fare altro che accettarla, e cercare di
fare meno danni possibile. Quella sera presi pienamente
coscienza della natura della mia anima e da allora ho
sistematicamente evitato di avvicinarmi alle persone, per
paura di fare loro del male.
Invitai Francesca a cena a casa mia, un incontro di
cortesia e di lavoro. Ero sicuro che avrebbe rifiutato ed
invece accettò e si presentò alle otto in punto con una
bottiglia di vino e la bozza di una presentazione che stava
preparando per la compagnia. Voleva avere la mia opinione
ed io ero felicissimo di poterla aiutare. Preparai la bistecca,
l’insalata, bevemmo il vino e poi sparecchiammo insieme
e incominciammo a parlare di lavoro. Mi mostrò il
fascicolo che aveva con se, lessi, commentai, feci due
battute, lei rise, versai altri due bicchieri di rosso e
bevemmo di nuovo. La serata procedeva alla grande. Poi
successe qualcosa di sbagliato.
Prima di quella sera non avevo mai preso l’iniziativa con
una donna. Non sono mai riuscito a percepire i segni e i
tempi giusti. Le donne che avevo avuto fino a quel giorno
avevano sempre fatto il primo passo, ma quella volta provai
ad andare contro la mia natura passiva ed insicura. Le
afferrai la mano, la guardai e provai a baciarla. Gli eventi
che seguirono rimangono confusi nella mia mente,
nonostante abbia provato per molti anni a riesumarli nei
104
minimi dettagli. Ricordo che lei evitò il mio bacio e ritirò la
mano, ricordo che si alzò dal tavolo e disse qualcosa, ma
non ricordo assolutamente cosa. Ricordo che incominciò a
raccogliere le sue cose per andarsene, ma non ho idea di
come la raggiunsi davanti alla porta di casa, per afferrarle i
capelli e sbatacchiarle la testa contro il tavolino di marmo
dell’ottocento che avevo nell’ingresso. Ricordo le mie mani
che le stringevano la gola, ricordo lei agonizzante sulla
moquette grigia, ricordo il suo sguardo supplichevole poco
prima di esalare l’ultimo respiro, ma non ricordo affatto la
ragione per la quale mi era improvvisamente scattata quella
furia omicida.
Rimasi seduto accanto al corpo di Francesca per più di
un’ora, a contemplare l’abatjour riversa sul pavimento, con
la lampadina che nella caduta doveva essersi svitata e
perciò lampeggiava convulsamente. La contemplazione mi
aiutò a decifrare il colore della mia anima, ma non a
farmene una ragione. La mia anima è nera, obliante,
succhiatrice di luce, un assurdo vortice del nulla. Dopotutto
mi ritengo un uomo fortunato, o forse i fortunati siete voi.
Se avessi ascoltato la mia anima più spesso avrei
continuato a mietere vittime, invece ho preso coscienza
della mia natura e mi sono fermato lì, nell’ingresso del mio
vecchio appartamento, accanto al corpo senza vita di una
giovane avvocatessa.
Quello che successe in seguito potreste trovarlo
rivoltante. Se così fosse vi assicuro che il problema è solo
vostro. Se siete della anime chiare oppure grigie, potreste
pensare di me come ad un folle. Se siete delle anime
candide penserete che sia l’incarnazione del male. In realtà
questo è solo un gioco di percezioni. La verità va oltre la
rappresentazione di noi stessi in questa farsa che
chiamiamo vita. Ma non complichiamo troppo la storia e
cerchiamo di tornare al punto.
Francesca era morta e niente l’avrebbe fatta ritornare in
vita. Capii che il bisogno di esorcizzare quell’evento e di
fare i conti con il colore della mia anima era l’unica priorità
105
plausibile di quella storia di morte. Compresi che se avessi
cercato di accettare la mia natura con troppa leggerezza
avrei rischiato di rimanerne sopraffatto, per questo nascosi
immediatamente il corpo. L’anno prima un amico mi aveva
chiesto se avevo posto per un congelatore a pozzo, di quelli
che i bar usano per i gelati. Si era separato dalla moglie ed
era tornato a vivere con sua madre, ma era in attesa di
comprare casa e andare a vivere da solo. Chissà per quale
motivo aveva fatto dodici rate per quel congelatore, che poi
aveva piazzato nel mio appartamento. Non è mai tornato a
riprenderselo, perché sei mesi dopo tornò a vivere con sua
moglie e non c’era spazio per quell’affare che alla fine
rimase a me. A quei tempi i cibi congelati non avevano
ancora un grande mercato, ma io, vivendo da solo, lo trovai
molto utile. Congelavo praticamente tutto; carne, pesce,
pane, verdure, pasta fresca. Ciononostante il frigo era
sempre mezzo vuoto.
Quella sera lo svuotai completamente e ci infilai il corpo
di Francesa. Mi preoccupai di toglierle i vestiti prima di
metterla dentro, per una semplice questione di igiene. Poi
ricoprii il suo corpo con sacchettini di piselli, broccoletti,
bistecchine di maiale, ossi buchi, orate, ravioli di patate e
filoncini da mezzo chilo. Non riuscì a ricoprirla
completamente. Rimanevano fuori un piedino con le
unghie smaltate, un gomito e una ciocca di capelli.
Pazienza, pensai, e chiusi il congelatore.
Ci furono le indagini della polizia sulla sua scomparsa,
articoli in terza pagina sui quotidiani più importanti e ne
parlò anche il telegiornale. Mi aspettavo che la polizia
irrompesse nel mio appartamento da un momento all’altro.
So che vi parrà strano ma la cosa non mi preoccupava
minimamente. Se avessero bussato alla porta li avrei
condotti immediatamente al congelatore a pozzo. L’idea di
farmi l’ergastolo o di passare per un pazzo non mi turbava.
Avevo altro a cui pensare. Dovevo fare i conti con il colore
della mia anima.
106
Ancora mi chiedo perché nessuno venne a chiedermi
niente. Quella sera Francesca venne in taxi, quindi la
polizia avrebbe potuto risalire a me solo attraverso il
tassista, che sicuramente non aveva prestato attenzione a
una delle sue tante clienti. Ancora più strano mi sembrò il
fatto che non avesse parlato con nessuno del nostro
incontro. Insomma, anche se avessi voluto cancellare gli
indizi su di me, non ce ne sarebbe stato bisogno, per il
semplice fatto che non c’era alcun indizio su di me. Dopo
tre mesi nessuno parlò più di Francesca De Luca, neanche
a lavoro, eppure lei era sempre con me, sotto i pisellini
primavera e gli ossi buchi.
A quel tempo abitavo a poco più di dieci minuti di
cammino dal mio ufficio, una passeggiata molto piacevole
interrotta da un cappuccino e un cornetto al bar Jolly che si
trovava a metà strada. Prima del bar oltrepassavo un
ponticino che dava sopra un canale di scolo, buio e
melmoso. Fu in quel canale che nell’arco di tre mesi e
mezzo mi liberai del corpo di Francesca, un pezzettino alla
volta, così come un poco alla volta accettai la mia natura
deviata.
Mi alzavo la mattina, facevo la doccia, prendevo il caffè,
e prima di vestirmi andavo a prendere, dalla cassetta degli
utensili, il flessibile che mi ero comprato per l’occasione.
Indossavo una mascherina e un grembiule bianco
impermeabile e aprivo il congelatore. Dopo avere estratto i
cibi in superficie, azionavo la lama rotante e amputavo un
pezzettino del suo corpo. Incominciai con la mano destra,
all’altezza del polso. Il flessibile riscaldandosi scongelava
velocemente la carne e qualche gocciolina di sangue
schizzava sulle pareti del congelatore oppure sui miei
occhiali di protezione, ma niente che non si potesse levare
con un colpo di spugna. Il pezzo lo infilavo in un sacchetto
di plastica per alimenti surgelati (all’epoca era davvero
difficile trovarli per uso privato) e poi rimettevo tutto a
posto, ragazza e broccoletti.
107
Per quasi quattro mesi, come vi dicevo, me ne andai a
lavoro con un sacchettino di plastica ed un pezzo di
Francesca nella borsa dei documenti della compagnia. Mi
fermavo sopra il ponte e con noncuranza, senza neanche
preoccuparmi che qualcuno potesse trovare curioso quel
mio comportamento, svuotavo il sacchetto nel canale di
scolo. Ogni volta che eseguivo questo rituale mattutino,
apparentemente efferato e folle, sentivo una strana quiete
depositarsi sul mio cuore, come una cicatrice che si
rimargina pian piano. Immaginavo che stessi lentamente
chiudendo la porta segreta che avevo spalancato dentro di
me, quella sera funesta in cui mi avventai su Francesca.
Volevo chiudere a mandata quella stanza e gettare via la
chiave, segregando la mia nera anima una volta per tutte.
E così riuscii a fare. Insieme all’ultimo pezzo di lei, il suo
piedino sinistro, in una bella mattinata di marzo tornai ad
essere quello che ero prima dell’omicidio, tuttavia
cosciente delle mie crudeli potenzialità.
Questa è la verità. Adesso la conoscete, e per quanto
terribile dovrete anche voi fare i conti con lei, come li feci
io sopra il canale di scolo. Non ho rimorsi. Non ho
rimpianti, e credo che se esiste davvero un dio, dimostrerà
la sua comprensione nei miei confronti. Se davvero è stato
lui a soffiare l’alito di vita nella mia anima, deve averci
avuto i suoi motivi.
Ed io non mancherò di chiedergli spiegazioni, molto
presto, appena ne avrò l’occasione.
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IL FIUME
di Giulia Riccò
109
affamati che subito le inghiottirono. Guardò i palmi delle
mani. Erano ancora sporchi di sangue, del suo sangue. Poi,
prese un capo del fagotto e lasciò che il suo contenuto si
riversasse nel fiume. Fantasmi bianchi macchiati di sangue
scuro si riversarono nella notte abbracciati tra loro
nell’acqua tumultuosa. Asia rimase a guardare quei
silenziosi testimoni della violenza subita con freddo
distacco. Chiuse gli occhi, e si alzò in piedi sul parapetto.
Allargò le braccia buttando la testa indietro come a voler
prendere il volo sollevata da un filo invisibile. Che senso
aveva ormai stare lì in quel buio freddo, senza nessuna
speranza, l’animo a pezzi, il corpo ferito. Che senso aveva
ormai? Il freddo l’avvolgeva, l’essenza stessa della vita non
era altro che una visione lontana. Esisteva ormai solo il
buio. Buio e freddo.
Aprì gli occhi e mentre stava per lasciarsi andare nella
morsa gelida dell’acqua, all’orizzonte, si intravide una luce
leggera e delicata, ma abbastanza forte da penetrare la fitta
nebbia della notte. Una luce abbastanza calda da far
rialzare lo sguardo ormai cieco di uno spirito straziato.
Un uccellino cantò dando vita al nuovo giorno, mentre
una figura stretta in un cappotto, camminava scalza lungo il
ponte ancora deserto.
110
L'UOMO CON TUTTE LE RISPOSTE
di GM Willo (101 Parole)
Al suo risveglio scoprì di non avere più alcun dubbio, e
ciò lo rese inquieto. Camminò quel pezzo di strada che
percorreva ogni giorno per recarsi a lavoro, conscio di
avere una risposta per ogni quesito, e si sentì soffocare.
Sedette alla sua scrivania davanti allo schermo acceso,
convinto di potersene restare lì tutto il giorno, immobile e
sereno, perchè niente poteva ormai sorprenderlo.
Per questo motivo, nonostante il vento, la pioggia e i
quindici piani sotto di lui, non esitò a spalancare la finestra
dell'ufficio. E il telefonò squillò.
"Rispondo, poi si vedrà..." pensò.
Ma mise un piede in fallo.
111
SIMILE SONO IO, CHE PARLO DA SOLA
di Miriam Carnimeo
Tra le lamiere di questa luminosa città, i topi se la ridono
nascosti sotto le macchine. All’angolo di una strada, una
banda di volti segnati dal freddo fa partire una bella
canzonetta, una marcia gioiosa, sui suoni di trombe e
tromboni, fa ricordare a chi siede con le spalle ricurve su
solitarie panchine, le belle serate del dopo guerra trascorse
ubriache a ballare sui tavoli, le piccole lucine e le
penombre di teste che oscillano, le voci delle donne tra
cristalli e brindisi. Un assolo di tromba spacca la memoria,
all’improvviso, inghiottendo i passanti, gli amici, gli amori.
In un deserto di slanci, tra il rumore delle macchine veloci
e il suono costante della corrente elettrica tra i muri e i
lampioni, nascono pensieri tra i denti, immagini fisse di
sagome in lontananza, che si ingrandiscono lunghe, senza
mai toccarsi, così stanche, deboli e lente, si schiudono
come bolle di sapone nella testa. Guardi il mondo, lo guardi
molto ma sogni altro. Lo scandire di un "si" riempirebbe la
bocca, fermerebbe il tempo senza lasciare niente al cosa
resta. Adesso, svolazzano le tende adagiate sui vetri delle
finestre, amanti di questo stesso silenzio costruiscono
fotografie che, in questa città, sembreranno domani un
ricordo ragionevole. Ci vorrebbe una bella passeggiata
lontana dal posto in cui mi trovo, lontano dal rumore, dalla
forma dell’acciaio che lampeggia come sedotto dalle luci.
Alzando la testa guarderei alcune nuvole come sfumate
macchie bianche correre veloci nel cielo senza aspettare i
miei passi lenti e incerti, disegnerebbero nuovi percorsi da
seguire solo con gli occhi, senza più lacrime da dedicare al
tempo ladro. Ma per fortuna c´è il mare, lo guardo
consolare ogni dentro perso, ogni desiderio di sconfinare.
Mi aiuta a godermi un sogno, dell’intensità di un grande
amore, un abisso scuro forse, ma materno e senza porte
112
chiuse in cui sentirsi vigliaccamente al sicuro. L´aquilone
di un bambino guarda con interesse il mio filo legato a lui,
intravisto, sottile, coreografico ponte tra le voci dei passanti
ed i loro lamenti. È notte, il cielo è carico a scoppio, le
stelle sono ovunque, giù e su si confondono, simile a me,
che parlo da sola. Calmo le urla mentre il cuore batte,
attendendo il momento in cui scorgere il volto di un uomo
che torna, ha con se solo l’entusiasmo di un presente, e la
raffinata arte della dimenticanza. Il passato non più punto
fermo di un vissuto senza trasparenze né gioie con l’eco,
senza più gabbie che tra i fumi emergono immense.
Nell’adesso salvo, mai più perduto. Io, assettata di sincerità
morderei il suo cuore per ricordare del mio, il senso.
113
MADONNA DI STRADA
di Dario De Giacomo
114
faccio un rosario. In fretta esco alla luce del giorno, che
esplode nel buio oltre il confine della fede.
Mi lascio alle spalle la tua gloria, Madonna! urlo.
I lastroni di pietra nel cortile della Chiesa del Carmine
scivolano verso Piazza Mercato, stridente di urla
forsennate, che strozzano i sensi. Precipito tra la folla,
urtando corpi di carne scintillanti di sudore. Svolto in
direzione della stazione degli autobus, palpando
avidamente lo squallore del luogo. In un attimo mi assale lo
sgomento del contrasto di colori, ma incontro occhi umani
in quell’attimo di vertigine. Sono gli occhi della Madonna
di strada, selvaggia nell’umanità nera dei suoi capelli
scomposti, che non pretende preghiere. Lei mi parla col
torbido linguaggio di movimenti languidi; già troppe volte
ha abbandonato la verginità, sbattuta contro i muri della
città, nel clamore dei vicoli. Spogliata delle virtù
sovrumane, la Madonna di strada vive soltanto di virtù
piccole, stringe i denti cattiva quando la adorano, sorride se
la amano. L’ho vista fumare cento sigarette al bar della
stazione, respirando fiati alcoolici al braccio di un barbone
e l’ho riconosciuta così. Quando barcollo, avvicinandomi,
mi si fa incontro e mi stende la mano. È calda ed ha il
sapore di pelle viva, senza il profumo di santità scostante.
Sono belli i suoi colori, gialli grassi e azzurri intensi,
scrostata rozzamente sul selciato dalle mani spaccate dei
madonnari anonimi. I madonnari sanno inginocchiarsi
senza arroganza, senza adorazione, per disegnarla in fretta
con quattro rapidi colpi di gessetto.
E non c’è gloria, non c’è osanna nel suo colore, nessuna
indifferenza nel suo dolore per noi. Mi fa cenno di seguirla.
Mostra i denti tra la folla che la insegue. Quando restiamo
soli mi parla.
Non mi piego sulle ginocchia, non lo faccio mai.
Perché?
Perché mi inginocchierei solo per dio umile, che non
pretenda interessi usurari sulla sofferenza.
Poi si siede sui talloni, sento di amarla, così vicina.
115
Vieni – mi dice. Guarda! mi inginocchio davanti a te.
Ma ricorda! Sarò sempre solo una Madonna di strada.
116
CLARISSA
di Jonathan Macini
117
già assunto proporzioni ben più realistiche di un semplice
gioco.
Il pensiero più affascinante fu la scelta dell’arma. Come
avrei rubato la vita della piccola Clarissa, gracile come un
fuscello, una bambola di pelle candida profumata di fiori di
pesco? Il coltello lo trovai subito troppo scontato, l’arma da
fuoco troppo volgare e il veleno assolutamente borghese.
Mi ci volle un mese per prendere una decisione, ma posso
dire adesso di aver fatto bene i miei calcoli. Quando chiudo
gli occhi posso ancora avvertire sui palmi delle mie mani il
viscido calore dei suoi liquami, rievocare il profumo dei
suoi organi, rimirare il cremisi delle sue interiora,
un’esperienza davvero straordinaria.
L’altro dettaglio che mi premeva era il momento, perché
richiamare la morte è una specie di atto liturgico. Il
movente in realtà è assolutamente irrilevante, ma il modo e
il tempo, così come il luogo, sono elementi essenziali per
portare a termine il rituale in modo soddisfacente. Il luogo
era quasi scontato; il letto in cui ci eravamo amati per più
di un anno. Mancava solo il tempo… Fu lei a porgermi la
data su un piatto d’argento.
“Amore, cosa facciamo venerdì?”
“Venerdì? Cosa succede venerdì?”
“Ma come che succede? È il tuo compleanno!”
“Ah, già… lo dimentico sempre…”
Ma quella volta non me lo dimenticai…
Cena a base di pesce, antipasto freddo servito su un letto
di ghiaccio tritato, risotto all’astice e lime, spiedi di
calamari e gamberoni alla brace con radicchi ed erbe
aromatiche. Un pinot grigio per annaffiare ed una bottiglia
di Berlucchi per festeggiare. Lei vestita di classe, col nero
che le dona sempre, io in jeans e camicia, nonostante il
ristorante di livello. Non ho mai sopportato i completi e le
cravatte…
Usciamo sazi e lievemente ubriachi. Fumo la mia cicca
prima di entrare in auto, lei manda due messaggi col
118
cellulare, poi mi chiede se voglio che guidi lei. Le rispondo
di no e le apro la portiera, come un vero gentleman. È
davvero bella…
Le chiedo del mio regalo e lei mi guarda con un sorriso
malizioso negli occhi. Mi dice che ce l’ha indosso e che me
lo mostrerà tra poco. Al provocante invito rispondo con
fare lento, lasciandomi scorrere addosso il momento. Non
ho fretta di arrivare a casa. Ho tutta la notte a mia
disposizione e non voglio commettere errori. Ai semafori
gialli rallento e mi fermo, evitando scrupolosamente di
superare i limiti di velocità. Lei intanto gioca di nuovo con
il telefonino.
«A chi scrivi?» le chiedo.
«A Linda. Domani andiamo a fare shopping…»
«In centro?»
«Si…» No, Clarissa, domani sarai alla corte della nera
signora, penso io, stringendo più forte il volante in
similpelle della C3.
Saliamo nel suo appartamento, che è stato anche il mio
per quasi quattro mesi. Convivere è meraviglioso. Solo
vivendo sotto lo stesso tetto riesci veramente a conoscere
qualcuno, o comunque una parte sostanziale di questo
qualcuno. Vedere Clarissa lavarsi i denti, sentirla imprecare
per una macchia sul pavimento, annusare i suoi vestiti
sporchi, trovare i suoi capelli dalla vasca da bagno, sono
state emozioni molto più intense delle scopate che
facevamo nei primi tempi, quelle di puro abbandono. Il
sesso non mi è mai veramente interessato, anche se non
gliel’ho mai dato a vedere.
Lei s’infila in bagno mentre io mi verso un goccio di
J&B. Mi trovo in uno stato quieto, fluido. Sento che i
movimenti usciranno fuori da soli, basterà lasciar fare al
demone che ho coltivato negli ultimi mesi, come una bestia
affamata prigioniera dentro la mia anima. Credo che alla
fine ce l’abbiamo tutti. La differenza tra me e te, carissima
lettrice, è che io non ho più paura di aprire la sua gabbia.
119
Metto su un po’ di lounge e mi distendo sul letto, vestito
e con il bicchiere in mano. Per adesso faccio fare a lei.
Devo conservare le energie per ripulire la stanza, quando
tutto sarà finito. Lei esce dal bagno con indosso un
completino blu che riesce appena a mostrare le sue forme,
tanto è minuta. Si avvicina, mi leva il bicchiere di mano e
incomincia a baciarmi. Le sue mani armeggiano abilmente
i bottoni della camicia, ma quando si spingono più giù le
blocco. Continuiamo per un po’ così, poi le sussurro: “ti vá
di fare un giochino?” Mi guarda sorpresa, è una cosa nuova
per noi, ma oggi è il mio compleanno e pare si senta quasi
in obbligo di dirmi di si. Scendo dal letto e frugo
nell’armadio sotto i miei vestiti. So bene cosa cerco; due
paia di manette. Ce le ho messe la sera prima, insieme a
qualcos’altro…
Torno da lei e le leggo un velo di paura negli occhi, ma io
la tranquillizzo con un bacio e la promessa di un piacere
nuovo. Con movimenti dolci e lenti l’aiuto a posizionarsi
nel mezzo al letto, le passo attorno ai polsi il freddo metallo
dei ceppi ed infine la fermo alla testiera di ferro battuto.
Inizio a baciarla, scendo giù con esperienza, sosto per un
po’ attorno all’ombelico, poi le sfilo delicatamente le
mutandine. Dopo averla provocata abbastanza, le affondo
la bocca nella vagina, iniziando a muovere dolcemente la
lingua. La sento gemere, dimenarsi, salire fino alle alte
vette dell’orgasmo. Il suo urlo di piacere precede di un
attimo le contrazioni muscolari del corpo e delle sue
gambe, strette attorno alla mia testa. Adesso tocca a me,
penso.
«Lo voglio in bocca…» mi dice.
«No aspetta, ho un’altra idea…» le rispondo. Poi vado a
prendere la corda, il nastro adesivo e le cesoie…
120
perché nel mio guardaroba conservo ancora la sua pelle,
liscia, candida, profumata di fiori di pesco.
Su tesoro, smettila di tremare. È arrivata l’ora del
rituale…
121
IL PENSIONATO
di Massimo Mangani
Seduto su una vecchia poltrona, sto leggendo un Elizabeth
George d’annata circondato dal silenzio della mia casa
solitaria. Sono ormai arrivato alla rispettabile età di 75
anni, da circa dieci sono stato collocato a riposo dopo 35
anni di insegnamento, mai un giorno di assenza, sempre
ligio al mio dovere di servitore dello Stato. Purtroppo mia
moglie mi ha lasciato cinque anni fa, dopo una brutta
malattia ed io sono rimasto solo, o meglio con due figli, un
maschio ed una femmina che ormai non abitano più con me
da tempo, viste le brillanti carriere che hanno fatto:
Lorenzo è diventato uno stimato cardiochirurgo ed opera a
Firenze, Londra e New York mentre Gemma ha da poco
vinto il concorso come prima ballerina all’Operà di Parigi.
Come padre dunque, non posso che essere orgoglioso,
anche perché almeno una volta la settimana ricevo una
telefonata da ciascuno e, pensate, la visita di entrambi ogni
Natale.
Con la mia povera pensione tiro avanti dignitosamente,
pago regolarmente le bollette e riesco a cucinare tutti i
giorni qualche prelibatezza. Per fortuna l’appartamento in
cui abito è di proprietà e in più, tutti i mesi, ricevo metà
dell’affitto dagli inquilini della casa che i miei poveri
genitori hanno lasciato a me ed a mio fratello. Non avendo
dunque da rendere conto a nessuno, passo le giornate
immerso nella lettura.
Mi è sempre piaciuto leggere di tutto anche se la mia vera
passione sono i gialli: ho iniziato a 12 anni con le
“Inchieste del commissario Maigret” di Simenon, e da
allora ho cercato ossessivamente libri che riproducessero
quelle ambientazioni, dove la ricerca di un colpevole fosse
il fulcro della storia. In pochi anni ho divorato tutti i libri di
122
Agatha Christie, di Conan Doyle e sono perfino riuscito a
procurarmi alcuni introvabili romanzi di S.S. Van Dyne.
“Dieci Piccoli Indiani” è stato per molto tempo il mio libro
della buonanotte sostituito qualche volta dal “Mastino dei
Baskerville”. Città fredde e nebbiose, villaggi sperduti,
località balneari calde e spensierate sono stati i miei
paesaggi interiori, accomunati da quella cosa molto
inquietante ma anche molto umana che si chiama “delitto”.
Questa mia passione mi ha portato a seguire sempre anche
i delitti reali, quelli di cui si sente parlare al Telegiornale e
che tengono con il fiato sospeso milioni di persone. Così
fin dalla gioventù non mi sono perso un approfondimento
su Cogne, uno speciale Garlasco, un Talk Show su Perugia.
Sarà perché sono nato e cresciuto in una città che ha
vissuto uno dei più inquietanti romanzi gialli della storia
italiana e dove tutt’oggi la vera identità del “mostro”,
l’assassino, è avvolta in una coltre di mistero.
Il Ticchettio dell’orologio continua imperterrito a pulsare
nel mio cervello in questa fredda serata autunnale, la trama
di “Scuola Omicidi” della cara Elizabeth si fa più intricata
e credo a questo punto di aver bisogno di una pausa caffè,
ben zuccherato e con panna. Mi avvio verso la cucina, apro
la caffettiera (una vecchia moka Bialetti) metto l’acqua fino
alla valvola e riempio il filtro di fragrante polvere marrone.
Mentre aspetto di sentire l’inconfondibile gorgoglio,
constato che la panna sta per finire. Domani dovrò uscire
ed andare a fare un po’ di spesa. Dovrò stare molto attento
a non far tardi perché altrimenti rischio di perdermi la
nuova puntata dell’ “Ispettore Barnaby”. Dopo aver bevuto
il caffè torno a sprofondarmi in poltrona, apro il libro al
segno e ricomincio a leggere. Improvvisamente un pensiero
mi balena nella testa… cerco di scacciarlo ma si fa sempre
più insistente… oggi quando la polizia è venuta a farmi
visita…
La signora del piano di sotto ha purtroppo avuto un brutto
infarto, è stata trovata morta dalla donna delle pulizie e
tutto sarebbe sembrato regolare, se non fosse stato per il
123
fatto che anche i suoi cinque gatti sono stati trovati
cadaveri, forse morti di fame. Effettivamente potrebbe
essere una trama perfetta per un giallo, un cadavere in un
appartamento, cinque gatti morti stecchiti ed un assassino
che si cela nel condominio… mi sarebbe sempre piaciuto
scriverne uno.
Poso nuovamente il libro e mi metto a pensare… continue
liti condominiali, i gatti danno fastidio, puzzano, miagolano
di notte, i vicini sono esasperati finché qualcuno decide di
farla finita, con il metodo più elegante che esista… una
buona dose di veleno! La vecchia Agatha ci insegna che il
Curaro provoca l’arresto cardiaco ed è pressoché
impossibile da individuare… anche oggi, con i moderni
sistemi autoptici è molto difficile rilevarne le tracce in un
organismo. Sarebbe bastato poco, un tè come segno di pace
e poi, nella più classica delle maniere un pizzico di polvere
nella tazza della vittima che, ignara di tutto, muore
rapidamente. Poi viene il turno dei gatti e per quello è
molto facile, basta mettere il veleno nella ciotola del latte.
Fatto tutto questo, l’assassino se ne torna nel suo
appartamento con la boccetta di Curaro in mano, meglio
non lasciarla in giro, se ne libererà in un secondo momento.
Proprio sul più bello il campanello suona, mi alzo dalla
poltrona e vado a chiedere chi è: «Commissario Bianchi»
apro e mi trovo davanti il poliziotto che con un sorriso mi
dice che il corpo della vicina è stato rimosso e di non
preoccuparmi, di dormire tranquillo, si è trattato di una
morte naturale. Gli sorrido, tendo la mano e lui me la
stringe, mi chiede se prima di andarsene può fare qualcosa
per me.
«Potrebbe buttare la nettezza nel cassonetto, così mi evita
di uscire a quest’ora, con questa umidità». Gli porgo il
sacchetto che contiene quasi interamente vetro, bottiglie,
boccette… Il Commissario riprende la sua aria da duro, mi
saluta quasi militarmente e se ne va.
Dalla finestra sento il cassonetto aprirsi, rumore di vetri,
come se qualcuno stesse frugando fra le bottiglie poi, dopo
124
un interminabile istante in cui il tempo pare essersi fermato
sento il tonfo ed il rumore del cassonetto che si richiude.
Tiro un sospiro di sollievo? No, caro lettore perché quel
sacchetto non contiene la bottiglietta di veleno. È troppo
difficile procurarsi del Curaro, quello che mi è avanzato lo
conservo… non si sa mai!
Serenamente mi rimetto in poltrona, posso tirar nottata,
tanto i gatti non miagolano più.
125
L'EROE
di Aeribella Lastelle (101 Parole)
L’eroe sa che non farà ritorno, ma ha bisogno di legare ad
un filo la speranza. Ci sono la pioggia, il vento e le
montagne, e poi chissà quante strane creature si
frapporranno tra lui e la sua meta; lupi, orsi e ragni
giganteschi.
La foresta nasconde antichi segreti. Sulle alture abitano i
giganti delle rocce. Piccolo eroe, fin dove credi di poter
arrivare?
Ma è solo nell’intento che si nasconde tutto l’ardire
dell’avventuriero. “Andiamo…” sussurri. La tua piccola
casa sembra un palazzo. Vorresti rimandare la partenza, ma
sai bene che non puoi. È il vento che ti supplica di partire.
126
L'UOMO A FUMETTI
di Bruno Magnolfi
127
ragazze che hanno quindici, sedici anni, ma con qualcosa
dentro al suo casco che non è proprio da tutti: la voglia
improvvisa di sentirsi diversa, migliore, non incastrata
dentro ad un ruolo egoistico, non un pensiero solo per sé,
ma per tutti, come compiere un gesto che lascia gli altri di
stucco, che li fa ragionare, li porti a pensare che non c’è
storia per chi pensa soltanto a se stesso. Le strade, le
piazze, continuano a correre inseguendo il suo motorino,
quello della ragazza, e il disegnatore di fumetti cerca
disperato di dar vita al suo bisogno di esistere, di essere al
di fuori di sé, di un disegno finito, completato, esauriente,
ma che manca ancora di spirito. Poi, l’idea finale per il suo
fumetto si fa strada poco alla volta, dentro a un pensiero
che diverge dal resto: la ragazza corre da lui, dal
disegnatore strampalato di quei fumetti, a portargli lei
stessa il finale di tutta la striscia, e lui è ancora giovane,
dentro al disegno, ha la sua stessa età, può aspettarla uscire
da dentro la carta, da quelle strade grigie che adesso sanno
di lei, della sua libertà, e vogliono assomigliare a quel suo
meraviglioso entusiasmo. Perché è di questo che la città
adesso ha bisogno, della voglia di amore e di gioia che
superi il grigio della gente sui marciapiedi, e dei negozi che
continuano imperterriti ad ammaliarla, con le loro vetrine
scintillanti e monotone che non hanno niente di nuovo, e in
questo slancio oltre le cose, tutti possono di nuovo ritrovare
le idee, i sentimenti più forti, l’energia, quella creatività che
era venuta a mancare da tempo.
128
MASTRO LINDO
di Gano
«Che c’è Ciccio?»
Al bar Mastro Lindo chiamava tutti “Ciccio”, perché i
nomi non erano il suo forte. L’interesse disinvolto che
dimostrava per le persone aveva un che di genuino. Lungo
e magro come un giunco, si chinava con la testa pelata per
guardarti in faccia e stabilire un contatto. Aveva gli occhi
lucidi, inumiditi dai troppi camparini, ma azzurri e sinceri
come quelli di un cucciolo. Riusciva a vederti dentro, non
so se mi spiego. Ci sono persone che nonostante abbiano
imboccato strade avverse e con gli anni siano diventate le
ombre di una città malata, rimangono in qualche modo pure
dentro, e quella purezza affiora nei momenti più impensati,
magari verso l’ora dell’aperitivo quando la giornata ce l’hai
tutta sul groppone, e ti aggrappi al negroni come un
naufrago, perdendo lo sguardo oltre le porte a vetri del bar,
dove la pioggia batte e l’asfalto graffia.
«Che c’è Ciccio?»
Me lo chiese a me quella volta, perché era un giorno di
quelli. Ne ho pochi, per fortuna, ma ogni tanto arrivano.
Sono i giorni in cui detesti ogni fibra del tuo corpo, ogni
particella del tuo vivere, ogni frammento di secondo del tuo
incessante scorrere, un inutile e claudicante trascinamento
di membra già in putrefazione. In quei momenti sei
consapevole solo dell’esistenza delle tue appendici; la
lingua, il cazzo e il buco dell’ano. Sono gli unici
interruttori capaci di farti sentire un po’ vivo. Ma poi ti
ritrovi a pensare a tutte quelle dannate budella che si
trovano nel mezzo, quelle lasciate ai gatti di strada e
all’ennesima ribevuta…
«Niente Mastro, sto bene. Non preoccuparti…»
«No Ciccio, non stai bene… dai mettiti a sedere, ti offro
qualcosa…»
129
Esistono le forze della natura e le forze da bar. Mastro
Lindo era una forza da bar, uno tzunami di buoni propositi
e sorrisi gentili. Ti prendeva il braccio e a volte ti stringeva
un po’ forte, ma anche quando ti faceva male era un
piacere, perché ti sentivi al sicuro vicino a lui. Era più alto
di quanto sembrasse, perché se ne stava un po’ gobbo. Di
sicuro toccava il metro e novantacinque. Teneva la zucca
pelata in bella mostra e i neon del bar vi si riflettevano
sopra come sulle palle da biliardo. Sulla pelle tirata
spiccavano un paio di fitte, reminescenze di alcune ferite da
curva. Il calcio era una delle sue fisse.
«Insomma Ciccio, che cosa c’hai? Non ti ho mai visto
così…»
Perché non mi faccio mai vedere così, pensai io. Gano al
bar ci va quando è di buon umore. Le “giornate no” le
passo sotto le coperte ad osservare il soffitto e a stringermi
le trippe. Ma oggi è successo tutto così d’improvviso, tutto
così dannatamente di botto…
«Che ti devo dire Mastro, è la vita. A volte fa proprio
schifo…»
«Ma no dai! Là fuori forse, ma qui dentro si sta d’incanto.
Guarda che vestitino si è messa la Giorgia oggi…»
Si, la Giorgia stava divinamente con quel vestitino a fiori
e i capelli tirati su. E fuori effettivamente era tutto una
merda, e starsene ai tavolini di plastica, cullato dal brusio
del bar e dall’ennesimo aperitivo, era come sedere alla
corte di Giove circondato dalle ninfette. Però…
«Si, c’hai ragione, ma oggi è una di quelle giornate,
sai…»
«Dai Ciccio, che te ne frega! Pensi davvero che potrebbe
andare meglio di così? Pensi che una moglie, dei figli, una
casa col giardino possano farti sentire meglio di come ti
senti adesso, su queste seggiole da quattro soldi? Pensi che
il grano ti possa risolvere tutto? O le Mauritius? O che ne
so… No, Ciccio, non farti fregare. Se le cose andassero
meglio non te accorgeresti neanche, ma lo avvertiresti
130
subito se andassero peggio. Perché le cose possono sempre
andare peggio, non pensi?»
Aveva centrato il punto, e lo sapevo bene perché erano
esattamente le frasi che io ero solito dispensare alla gente
del bar. Grande Mastro Lindo, ce l’hai fatta, pensai. Hai
detto proprio quello che volevo sentire. Beviamoci su…
E così rimanemmo a bere fino all’ora del TG.
È passato mezz’anno da quando la cirrosi si è portata via
il vecchio Mastro. A volte gli occhi mi diventano umidi
senza che me ne accorga. Ripenso alla sua testa pelata, al
suo sorriso e a quegli occhi celesti e giusti. Alla sua anima,
che adesso vaga solitaria nell’etere del bar, sopra le fettine
di limone adagiate dentro i bicchieri del campari soda. Al
suo “Ciccio”, che metteva allegria. Alla sua postura,
piegata dall’altezza ma non dalla vita…
Penso a tutto ciò ed è come se fosse ancora qui…
…e forse è qui per davvero.
131
NEVE AL SOLE
di Silvia Petrianni
La porta si chiudeva, lasciando sempre tra quelle quattro
mura tutta l’amarezza, le paranoie, l’inquietudine che
ancora, dopo tre anni, non lo mollavano. Tirava su col naso,
usciva di casa e non potevi fare altro che camminargli
affianco. Lui aveva il suo passo, il suo ritmo,
accompagnato solo dalla sua musica.
Da dietro era uno schianto. Quei lunghi capelli
oscillavano sotto i glutei verso destra e sinistra, come un
pendolo, seguendo la cadenza dei suoi passi. Le spalle
larghe e dotate rimanevano immobili. Un cazzotto sferrato
bene sarebbe potuto arrivare all’improvviso, che lui
avrebbe proseguito a camminare, perché il dolore non
esiste, il dolore è solo una percezione e le parole che ci
mettiamo su sono una perdita di tempo, domani moriremo
e il dolore non può fermarci oggi. Gli occhi freddi perché
feriti ma allo stesso modo intensi, perché vivevano ancora,
erano visibili solo nel buio senza fenditure. Come piccoli
riverberi bianchi, rivelavano che i cazzotti fanno male. Per
questo, in quel letto riscaldato, tornava con le spalle girate
e il vuoto davanti.
E lei gli arrivò proprio da dietro. Lei che gli tirò i capelli.
Morbida e pura come la neve che non si fa toccare, come la
neve fredda e dissetante ma come la neve così delicata, con
un po’ di calore si scioglie e con il fuoco di una stella
scompare. Morbida e pura come la neve, che è morbida
solo se la guardi, che è pura solo se la guardi. Che se la
tocchi contamini, che se la tocchi ti ghiaccia i polpastrelli,
che se te ne innamori ti ferma il cuore e se non ne hai
riguardo ti travolge, che se l’accarezzi si scioglie e che al
fuoco di una stella scompare.
Gli tirò i capelli e le spalle rimasero immobili, ma il buio
è dietro l’angolo a brillare. Finito di bere, il dolore fu
132
percezione e domani moriremo ma oggi siamo vivi e oggi
continuiamo a farci ferire, ancora più se fingiamo che la
sedia sia a terra e che il vuoto stia sotto. Lei si sciolse e,
come la neve a un sole feroce, senza travolgerlo,
scomparve. Lui chiuse la porta dietro di sé e da dietro era
uno schianto, con le spalle larghe e dotate che rimanevano
immobili e i lunghi capelli che, fino a sotto i glutei,
oscillavano verso destra e sinistra, seguendo la cadenza dei
suoi passi.
133
UN ATTIMO DI VITA
di Daniela Silvestro
134
L'AMORE INGOMBRANTE
di GM Willo (101 Parole)
La storia d’amore, con i suoi slanci e i bruschi arresti, le
passioni iniziali e le domande del poi, delle serate pigre,
davanti ad un bicchiere o ad un piatto di pasta insipida. Gli
occhi di lei che non ti guardano, la forchetta che batte sul
bordo del piatto, la sua pelle che non profuma più come il
primo giorno. Il cellulare vibra e diventa il pretesto per
lasciare la tavola. Qualcosa di unico è rimasto sommerso da
uno strato di noia.
O forse l’amore è diventato così ingombrante da non
riuscire più a mostrarsi?
«Io esco?»
«Quando torni?»
«Non so…»
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GLI AMANTI DELLA FINE DEL GIORNO
di Bruno Magnolfi
136
Giorno. Il Presidente dell’Associazione, solo con i gesti
delle sue mani, aveva richiamato l’attenzione di tutti su di
un gruppo, affascinante per forme e colori, di nuvole
ammantate di arancio, su un lato della porzione di cielo che
era stata assunto a spettacolo per quella serata, e quando il
disco solare era entrato in contatto con la collina di fronte,
traspirando la luce tra i rami degli alberi che sembravano
mani ammalate a reclamare una goccia di linfa vitale, una
soffusa vocale di infantile stupore era sfuggita alla maggior
parte dei membri presenti. La porzione di tempo che
intercorreva tra quel circoscritto momento e l’istante in cui
anche l’ultimo barbaglio di Sole spariva, era ben definito,
e alcuni riuscivano a provare un’estasi vera solo in quel
determinato lasso di tempo, come se tutto il resto
dell’intera giornata concentrasse la forza, la
determinazione, la sua vera sostanza, solo in quei pochi
minuti. Poi il Sole, ormai rosso, si avviò a compiere
l’ultimo balzo, lasciando la porzione di cielo interamente
avviluppata dalla sua ingombrante presenza e sparendo
infine alla vista, e in quell’attimo stesso qualcuno lanciò
delle grida soffuse assolutamente involontarie, proprio nel
momento in cui il cielo rimaneva privo del suo potente
inquilino, lasciando il suo spazio sterminato preda del
nulla.
137
LA NATURA PERDUTA
proseguo de "Gli amanti della fine del giorno"
di Bruno Magnolfi
Dalla cima deldo spegneva la sua motosega, il vento in
mezzo alle foglie, l’aria fresca che accarezzava il fianco
della collina, la contemplazione di quella natura speciale.
Per questo quel giorno, quando vide quel gruppo di uomini
e donne nella radura giù in basso, fermo, in un orario un
po’ insolito, a fine giornata, rimase per lunghi momenti
incuriosito e perplesso. Aveva fatto un po’ tardi per via
della luce brillante di quella giornata serena, e il sole a
quell’ora, fiammeggiando da sopra una lontana montagna,
arrossava gli alberi e il cielo di sfumature e di tinte più
chiare e più scure, tutte imparentate tra loro, come uscite da
una medesima tonalità di colore. Scendendo lungo il
sentiero era arrivato alle spalle del gruppo, e aveva chiesto
ad uno degli ultimi che cosa stessero a fare sopra quel prato
a quell’ora. Non ci fu una vera e propria risposta, ma solo
l’indicazione del cielo al tramonto, senza alcuna parola,
con un gesto esaustivo che contemporaneamente lasciava
qualcosa nel vago. Il taglialegna si fermò assieme agli altri,
forse aspettando qualcosa di strano di cui lui non era a
conoscenza: un’eclissi, il passaggio di un meteorite nel
cielo, una stella cometa, ma quando vide che quelle
persone si ubriacavano del semplice tramonto del sole,
comprese che forse lui, nonostante le difficoltà che doveva
affrontare ogni giorno, era più fortunato di loro. Se ne
andò, allora, riprendendo con calma il sentiero che
conosceva perfettamente anche a quell’ora serale, e quando
arrivò all’osteria del paese si fece versare un bicchiere di
vino, un vino speciale, il migliore che avessero in quella
bottega, e senza spiegare niente a nessuno degli amici
presenti, brindò prima di tutto a se stesso e alla sua vita, e
138
poi a tutti coloro nel mondo che non potevano neanche
capire cosa avessero perso.la collina non si vedeva un gran
panorama, giusto il paese lungo la strada che si snodava su
un fianco, con i suoi tetti rossicci, e alcune altre colline
grigie e sfumate proprio davanti. Però il senso di libertà che
si respirava là sopra, lui non avrebbe proprio saputo dove
altro trovarlo, e questo concetto era quello che nella sua
mente aveva da sempre giustificato la sua scelta di fondo.
Certo, c’erano stati momenti di crisi in tutti quegli anni,
durante i quali aveva pensato perfino di smettere, di
cercarsi un mestiere diverso, dipendente presso una ditta,
per esempio, come altri in paese facevano, invece di
continuare a tagliare alberi e boschi in solitudine per farne
legna da ardere. Ma era il suo mondo, gli era stato
tramandato così da suo padre, non aveva neanche avuto
bisogno di scegliere, e lui si sentiva parte attiva di quel
divenire, anche mentre gestiva la sua attività in accordo con
le stagioni e con la natura, e doveva resistere a quell’odore
forte di legno tagliato nelle narici, e a quelle sue mani
callose perennemente macchiate di tannino e di resina.
Ormai sapeva tutto sugli alberi, sui boschi, sulle ceduazioni
da fare e su quelle che avrebbe fatto l’anno seguente,
conosceva perfettamente colline e sentieri di tutti i dintorni
del suo paese, per chilometri e chilometri, senza fermarsi,
in un’area così vasta ma anche così familiare da sentirsela
un po’ casa sua. Ogni sera rientrando al paese passava
dall’osteria a bere un bicchiere di rosso, e tutti gli
chiedevano sempre qualcosa sul lavoro e sul bosco, con suo
grande piacere. L’abitudine a starsene ogni giorno da solo
a lavorare in mezzo a quegli alberi, era un altro aspetto del
quale si sentiva particolarmente orgoglioso: era bello il
silenzio quando spegneva la sua motosega, il vento in
mezzo alle foglie, l’aria fresca che accarezzava il fianco
della collina, la contemplazione di quella natura speciale.
Per questo quel giorno, quando vide quel gruppo di uomini
e donne nella radura giù in basso, fermo, in un orario un
po’ insolito, a fine giornata, rimase per lunghi momenti
139
incuriosito e perplesso. Aveva fatto un po’ tardi per via
della luce brillante di quella giornata serena, e il sole a
quell’ora, fiammeggiando da sopra una lontana montagna,
arrossava gli alberi e il cielo di sfumature e di tinte più
chiare e più scure, tutte imparentate tra loro, come uscite da
una medesima tonalità di colore. Scendendo lungo il
sentiero era arrivato alle spalle del gruppo, e aveva chiesto
ad uno degli ultimi che cosa stessero a fare sopra quel prato
a quell’ora. Non ci fu una vera e propria risposta, ma solo
l’indicazione del cielo al tramonto, senza alcuna parola,
con un gesto esaustivo che contemporaneamente lasciava
qualcosa nel vago. Il taglialegna si fermò assieme agli altri,
forse aspettando qualcosa di strano di cui lui non era a
conoscenza: un’eclissi, il passaggio di un meteorite nel
cielo, una stella cometa, ma quando vide che quelle
persone si ubriacavano del semplice tramonto del sole,
comprese che forse lui, nonostante le difficoltà che doveva
affrontare ogni giorno, era più fortunato di loro. Se ne
andò, allora, riprendendo con calma il sentiero che
conosceva perfettamente anche a quell’ora serale, e quando
arrivò all’osteria del paese si fece versare un bicchiere di
vino, un vino speciale, il migliore che avessero in quella
bottega, e senza spiegare niente a nessuno degli amici
presenti, brindò prima di tutto a se stesso e alla sua vita, e
poi a tutti coloro nel mondo che non potevano neanche
capire cosa avessero perso.
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L’ATTILLATO
proseguo de "Gli amanti della fine del giorno"
di Bruno Magnolfi
L’angoscia si era diffusa dentro di me giorno dopo giorno.
Senza neanche sapere perché, mi ritrovavo a tremare, a
stringere le ginocchia tra le braccia, a mettermi le mani
dentro ai capelli, certe volte anche a piangere. Spesso
desideravo con tutto me stesso che arrivasse qualcuno o
qualcosa ad interrompere una situazione così negativa,
anche se sentivo nel profondo che era impossibile. A volte
facevo un giro a caso con la mia macchina e mi sembrava
incredibile che ancora si costruissero case, strade, palazzi,
sterminate periferie incolori dove la gente perdeva qualsiasi
identità. I vestiti attillati mi erano sempre piaciuti, le pieghe
e le grinze mi pareva deturpassero il corpo, dovevano
essere addosso nel numero minore possibile, e piccole. La
stoffa di troppo attorno alla pelle era qualcosa che rovinava
l’estetica della persona, ne cambiava qualsiasi connotato,
andava evitata. Qualcuno mi disse che dovevo conoscere
gente, scambiare le idee, confrontare i pensieri con quelli di
altri, così entrai dentro ai bar della zona cercando di essere
un po’ spiritoso per attaccare bottone con qualche soggetto
che si giocava la briscola o segnava i punti al biliardo, ma
non legai con nessuno, e un paio di persone mi dissero di
levarmi dai piedi. Non ci credevo, non credevo più a nulla,
mi pareva tutta una fregatura continua, mi rendevo conto
che nessuno aveva bisogno di me. Giravo per strada e
vedevo persone che erano più corazzate di me, e quindi
stavano bene. Spesso, con il mio abbigliamento attillato, io
mi sentivo più nudo degli altri. Non avrei potuto cambiare
i calzoni con un paio meno stretti, non era per me, non sarei
stato lo stesso: alla mia identità ci tenevo. Quando mi misi
con quel gruppo di persone completamente fuori di testa, lo
feci perché mi sembrarono subito pieni di tanto entusiasmo,
141
ma soprattutto perché non mi chiesero niente. Mi
chiamavano, a volte, ci si ritrovava in luoghi improbabili,
spesso c’era anche gente che non conoscevo, che non c’era
la volta passata, e mi offrivano qualcosa da bere, dei panini
imbottiti, erano tutti cortesi e parlavano, qualche volta
parlavano anche con me. Ci si sistemava sull’erba, a volte
seduti sopra le pietre, e poi si guardava il tramonto. Infine
si tornava alle macchine e via, ognuno per sé. Una volta
dissi a qualcuno che avevo iniziato a guardarlo anche da
solo il tramonto, ma quello si arrabbiò, fece un mezzo
casino, alla fine andò a dirlo anche al capo, un tipo che
faceva il discorso per tutti, e quello venne da me, scuro in
faccia come la notte, e mi disse che non dovevo tornare.
Non capii dove avevo sbagliato, però fui contento lo stesso:
avevo detto la mia, non ero stato del tutto a quello stupido
gioco; e poi quella gente portava mantelli, giacconi,
tuniche, tutti vestiti larghi e pieni di grinze e di pieghe, non
avrei potuto andarci d’accordo parecchio, anzi forse era
troppo anche quel poco di tempo che era appena trascorso.
Me ne andai, e questo fu tutto.
142
GLI AMANTI DI FACEBOOK
proseguo de "Gli amanti della fine del giorno"
di Bruno Magnolfi
Il silenzio era forte. Dava quasi fastidio, tanto costringeva
ad ascoltarne il respiro. Come fragili animali impauriti, tutti
si erano assiepati tra loro, accucciandosi e abbassando le
teste. Il mare, sotto al costone di terra, appariva grigio
come il ferro ed immobile, e la cala, come un anfiteatro,
zeppa di vegetazione spontanea, sembrava cedere il suo
naturale color verde, variegato sotto al sole in ogni
sfumatura possibile, a quel crepuscolo che non concedeva
più alcuna tonalità, con il cielo, così come era, coperto di
nubi, e l’orizzonte poco lontano, confuso con l’acqua e con
l’aria. Qualcuno aveva cercato tra i propri pensieri una
parola che riuscisse a descrivere l’immagine che avevano
tutti di fronte, ma nessuno aveva osato parlare. Poi, uno per
tutti, si era sollevato dalla posizione che gli altri avevano
assunto, e con voce vibrante aveva scandito il nome latino
del sole, come a invocarne la forza, pur nascosto com’era.
Ma niente era cambiato, neppure il silenzio che in fretta
aveva recuperato il suo spazio. Avevano tutti camminato
per diversi chilometri prima di arrivare fin lì, le nubi li
avevano colti mentre erano a metà del tragitto, ma tutti
imperterriti avevano finto indifferenza completa,
spingendosi avanti. Il loro rituale non era assolutamente
mai stato in discussione: il sole coperto di nubi non
cambiava la sostanza alle cose. La fine comunque era
prossima, lo si intuiva da diversi fattori, ed anche se non
sarebbe stato possibile individuare l’esatto momento in cui
il giorno cedeva il suo potere alla notte, il meccanismo
degli astri non avrebbe registrato variazioni di sorta.
Improvviso un uccello rapace attraversò l’aria ferma,
spandendo il suo grido sopra di loro, per sparire in un
attimo oltre le cime degli alberi. Forse fu reputato quello il
143
momento finale, e tutti alzarono gli occhi come per un
ultimo saluto ad un periodo e ad un giorno che non sarebbe
mai più ritornato. Forse fu quello il momento per una
riflessione più forte: niente era assurdo come fingere
persino a se stessi che il mondo si dominava solo
raggruppandosi assieme. Non era così, la paura naturale
instillata dentro di loro fin da quando il sole aveva
cominciato a girare, non sarebbe stata sconfitta associando
il terrore di ognuno in una matematica somma, bensì da
ciascuno di loro, nella solitudine silenziosa per lui più
congeniale, combattendo dentro di sé la propria battaglia,
per poi confrontarne i risultati con gli altri. La luce si
spense, il silenzio dominò la radura: ognuno, dentro se
stesso, si riappropriò poco per volta della propria dignità di
individuo. Poi, scese la notte.
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L'ALLUCE
di GM Willo
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euro. Io queste cose non le ho mai fatte. A diciotto anni mi
sono infilato il primo ago e due mesi dopo ho lasciato casa.
Poveri vecchi, per quale ragione avrei dovuto dar loro la
pena di convivere insieme a un tossico? Loro non mi hanno
mai fatto niente di male, anzi, sono stati due genitori
esemplari. Chissà cosa penserete adesso, ma è vero. Mi
hanno insegnato tutto quello che c’era da insegnare per
vivere una vita degna, per trovarmi una ragazza, un lavoro,
una casa e così via, e forse avrei potuto farle tutte queste
cose, se una sera di dicembre non fossi andato insieme a
Elvis a farmi un bagno nella vasca di Bacco, riempita fino
all’orlo degli umori sessuali di Afrodite. Elvis mi
sussurrava Tread Me Nice con le sue labbra sensuali. Gli
chiesi un pompino e lui si avventò sull’uccello e per poco
non mi succhiò anche l’anima.
L’alluce rimane immobile. C’è qualcosa che non va,
adesso ne sono tremendamente sicuro. Vorrei chiamare
Friz, anche se probabilmente sarebbe inutile perché da
quanto riesco a vedere mi sembra più andato di me.
Comunque le mie corde vocali sono morte. Amplificatore
spento, ragazzi…
Forse dovrei metterci dello smalto, mi vien da pensare.
Forse sono finocchio. Smalto alle unghie dei piedi e
pompini di Elvis. I segnali ci sono tutti. Non che me ne
freghi poi molto. Nella mia vita avrò scopato per piacere
non più di una decina di volte, più qualche centinaio di
sveltine per portarmi a casa la pagnotta.
Cazzo, non ci avevo pensato. E se fossi… ma no, dai!
Eppure fuori è già buio. Saranno le otto ormai e questo
vuol dire che sono tre ore che ci siamo fatti e Friz non
accenna a muoversi, mentre io sono ancora rapito dal
grande mistero dell’alluce. Che cazzo ci sarà mai di così
interessante in un dito di un piede?
Ma no dai, non può essere…
…siamo morti!
Cazzo che figata!
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AMPLESSO FURTIVO
di Fida (101 Parole)
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LA PRIMA VOLTA
di Massimo Mangani
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avventura. Fisso le sue splendide gambe e per un istante
penso come sarebbe bello poterle toccare, sentire sotto le
dita il nylon liscio e delicato, ma subito un’ombra oscura
questo pensiero: la consapevolezza che ogni giorno decine
di occhi ammirano quelle bellezze e probabilmente
desiderano deliziarsi con esse. D’altronde è il suo lavoro,
intrattenere persone che la tormentano con le richieste più
starne, esaudire le voglie dei clienti, anche quelli più
bizzarri. Probabilmente è felice di potersi prendere cura
ogni tanto di un ragazzino della mia età, di poterlo
coccolare, vezzeggiare liberando una punta di istinto
materno, consapevole di doverlo accompagnare
delicatamente per tutta l’esperienza evitando il più
possibile traumi che potrebbero rivelarsi molto duri.
Con mano tremante bevo l’acqua, sento crescere la
potenza, percepisco vibrazioni fortissime che francamente
mi mettono a disagio, afferro l’involucro di alluminio ed
inizio a scartarlo. Contiene una specie di palloncino
trasparente, un pò viscido, non riesco a capire bene cosa
sia.
Finalmente la ragazza mi si siede accanto, mi guarda un
pò divertita e mi domanda se so come usarlo. Annuisco
imbarazzato, mi porge il palmo aperto della mano, le rendo
l’oggetto misteroso e lei mi da una dimostrazione pratica,
con le dita e la bocca! Rimango estasiato, improvvisamente
sento la sua mano che cerca la mia, gliela stringo, una
mano dalla pelle morbida e delicata… finalmente ci siamo,
non resisto davvero più!
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QUANDO HANNO ABBATTUTO IL PONTE…
di Dario De Giacomo
Dietro di sé il narratore ha uno specchio,
che lo riflette nell’atto di scrivere.
(Jack il ventriloquo)
Quando hanno abbattuto il ponte io non c’ero. Al ritorno
da un viaggio al suo posto ho trovato un buco riempito
d’aria. Ma questo lo so perché l’ho sentito in treno,
dicevano che avevano demolito il ponte della ferrovia,
quello che divide via Oberdan in due. Mi chiedo dove passa
il treno ora: mi faccio sempre un mucchio di domande così.
Non trovo più il ponte dentro la mia testa, né la
prospettiva di case in fuga dietro l’arco. Il fatto è che io
proprio non ricordo mai nulla e le immagini sono
ammucchiate alla rinfusa. Ma se la mia memoria è vuota,
penso, non sono mai vissuto? Questo pensiero mi spaventa,
perché anche della mia infanzia conservo solo ricordi
lontanissimi. Sono convinto che tutti ricordino tutto e che
soltanto io sono escluso da questa festa di memorie, se non
per brevi, dolorosissimi lampi. Mio padre è un rigido abito
marrone in un letto contro il muro, senza sorriso. Gli
occhiali da sole nel taschino della giacca. Le persiane sono
abbassate per proteggere i singhiozzi. Al buio si muore
meglio, perché si dimentica più in fretta la luce.
Alla mia fermata scendo dal treno, subito in cerca del
ponte per orientarmi, ma ovviamente non c’è. Allora
avverto una fitta tra lo stomaco e lo sterno che mi dà la
nausea, non so perché. Senza il ponte, qui nella mia città,
mi sento in un altro luogo. Sono altrove da sempre. Ignoro
tutti i nomi delle strade e quando mi chiedono indicazioni
fingo di essere straniero, dissimulando l’imbarazzo, e non
sono nemmeno capace di tirare una linea dritta tra gli
angoli, i vicoli, le curve che girano intorno agli edifici.
Ora il calore alle tempie cresce. Sono di nuovo altrove:
mentre festeggiano il mio compleanno. Tutti si affollano tra
150
le mie cose, ma io mi sento spaesato perché questa non è
casa mia. “Voglio tornare a casa mia” urlo, mentre lo
stupore corre divertito da un volto all’altro di tutti gli
stranieri che affollano le stanze. Perché gli altri riescono a
ricordare gli eventi, i volti, i luoghi con una precisione
nitida e nella trama della mia vita, invece, ci sono dei buchi
enormi?
Mi ricordo di un attimo: stringo il pigiama di mio padre
tra le mani, ne accarezzo la stoffa ruvida, la annuso.
Nell’angusto vano del bagno di servizio sento il suo odore.
Ora non so che svanirà. Ancora ignoro che le immagini di
ieri spariranno. Mio padre è morto in una sera di giugno:
svanito, come il suo odore. Semplicemente ha smesso di
muoversi, poi si è decomposta la sua immagine, poi la sua
memoria. Ora hanno abbattuto anche il ponte, che
sosteneva tutta la fragile impalcatura dei miei passi dentro
la città. Le cose sono messe lì apposta per indicarci dove
andare e come arrivarci. Altrimenti è il caos, una mappa
disegnata senza punti di riferimento.
Deve esserci qualcuno che costruisce i ponti, le strade, i
vicoli che tagliano in due le arterie principali per
abbreviarci il cammino quando siamo diventati abbastanza
abili da camminare speditamente. Noi poi, dentro la testa,
rinominiamo quegli oggetti per ritrovarli facilmente. Ma io
alcuni li ho dimenticati subito e gli altri vanno e vengono
come sabbia nella clessidra. Però se il panorama cambia
troppo rapidamente mi sento smarrito e anche se mi sforzo
di esumare i luoghi, com’erano prima, è tutto inutile.
Perché le immagini sono come un ponte. Dopo la
demolizione, nello spazio vuoto, restano solo i moncherini
aggrovigliati di fili metallici: il treno passerà da un’altra
parte, ma non so dove, e io non riuscirò a trovare la strada.
La folla, in piazza Matteotti (ho dovuto leggere la targa di
pietra in cima al muro di fronte), davanti alla stazione,
sciama scompostamente in tutte le direzioni. Ognuno però
con un orientamento netto, preciso. Cioè sanno dove
andare, mentre io rimango immobile dentro lo spazio vuoto
151
che prima era un ponte. Mi abbandono a quel vuoto senza
nemmeno la speranza di un appiglio, è come morire. Il
mistero delle superfici vuote che diventano talmente piene
da poterne seguire il perimetro con le dita, e si disfano,
prima o poi, senza nemmeno il ricordo nell’aria.
Ogni volta che tento un passo mi assale l’incertezza. È
vero, so che è tardi, devo andare. Ma per andare da qualche
parte devo decidere la direzione, ed è come riempire i miei
buchi con qualcosa molto più duro di uno sforzo di volontà.
Se decido, poi non ho problemi con la volontà, magari mi
lascio andare ma cammino comunque. Ma senza il ponte la
fatica è tremenda.
A poco a poco, continuando ad entrare ed uscire dalla mia
consapevolezza del luogo, noto che la folla traccia delle
forme precise nel suo fluire e rifluire al centro della piazza.
Prima non ci avevo fatto caso. Ognuno segue la sua
direzione, ma tutti insieme, impercettibilmente, creano
delle tracce. Se avessi una matita rossoblu con me potrei
sottolinearle, per tenerle meglio a mente.
In un punto la massa si coagula densa, come un trombo
duro nelle arterie principali di questa città. Fluisce
lentamente, addensandosi. Inizio a camminare seguendo la
traccia corposa di gente che cammina, spintonandosi,
urtandosi. Una fiumana di carne che si precipita in quella
direzione, come una guaina attorno alla mia trama sfibrata.
Ho sentito dire a qualcuno che vanno verso il ponte. “Dove
prima c’era il ponte della ferrovia?” chiedo ansiosamente.
Nessuno lo sa. Ma andiamo insieme.
152
SUL TETTO DEL MONDO
di Marco Muzzi
Le avevano detto che il suo nome traeva origine dalla
Luna, e con essa poteva crescere e ciclicamente rinnovarsi,
le avevano detto di chiamarsi Thana, e che i raggi della
luna l’avrebbero protetta, come la giovinetta che nel
pericolo di essere violata venne soccorsa da essi, uccidendo
il persecutore. Le avevano anche detto che la Luna che si
arrampicava sulla sommità della volta oscura era
intoccabile, ma i raggi l’avrebbero attinta egualmente, non
vi era necessità dunque di arrampicarsi per esserle più
prossima, tanto meno per raggiungerla. Thana era papacs
del patriarca Vel, che amava sopra ogni cosa, perfino dei
genitori, tanto che qualsiasi segno negativo del cielo, dei
boschi o degli animali era oggetto di consulenza benevola
dell’avo.
“Papa, che vuol dire quando il passero cambia direzione
con una capriola?”
“Papa, ho sognato la capra destinata al sacrificio che mi
parlava, che significa?”
Papa (l’avo), che degli aruspici aveva appreso la nobile
arte, trovava sempre una risposta pronta, leggeva le
interiora e dispensava consigli e saggezza, sebbene Thana
richiedesse più del dovuto e si tentava di carpire responsi
oltre il necessario, carezzando il capo all’avo, come ogni
nipote sa fare per intenerire e ottenere il regalo sperato. Ma
Thana andava oltre e il fascino della Luna non
l’abbandonava; aveva sentito dire che la sommità del
monte era raggiungibile da un sentiero più visibile al
crepuscolo che durante il giorno, per cui ogni sera di
plenilunio (o anche qualche giorno prima o dopo) si
inerpicava dopo essersi tolta gli stivaletti a punta e essersi
calzata i sandali, per il suo particolare rito si cingeva la
vita con i rami di un’erba profumata e si metteva il tutulus
153
per poi scoprire il capo all’ultimo, liberare i capelli quando
giungesse alla sommità del monte, lasciando scintillare la
chioma ai riflessi lunari. Più saliva, più sentiva una
leggerezza nell’animo, le disgrazie che avevano costretto la
famiglia ad abbandonare i lussi antichi e la scomparsa della
madre diventavano più sopportabili, sentiva una forza
sovrannaturale che la portava quasi a correre, salendo, per
raggiungere il prima possibile la punta del monte. La
montagna, era appuntita alla sommità da una cresta
rocciosa non facile da arrampicare, ma le membra giovani
e la leggerezza del corpo di Thana non offrivano resistenza
e la ragazza raggiungeva con rapidità fulminea la punta.
Sulla vetta osservava i campi, la vallata delle abitazioni,
che insieme alla sua, costituivano uno dei centri più
importanti, l’orizzonte era sfumato dal chiarore bianco latte
e quando alzava gli occhi, il satellite appariva con un
pallore accecante, un lume freddo che per un istante le
infastidiva l’iride.
Sulla vetta Thana si sentiva l’essere vivente più in alto di
tutti, le piaceva pensare di essere privilegiata e di avere
libero accesso ai segreti della notte, libera com’era di
staccarsi dal suolo, a due bracciate dal cielo.
154
EUPHORIA
di Marco Filipazzi
La luce è soffusa. La grande sala è appannata di fumo. La
musica rimbomba. La massa brulica, si muove come un
cumulo di formiche intrappolate che stanno per impazzire,
ma anche in mezzo a loro la scorgo. La sua massa di capelli
arancioni si agita forsennata. Cattura subito la mia
attenzione.
Finisco la birra d’un fiato e le vado incontro. Getto il
bicchiere di plastica a terra, un secondo dopo viene
calpestato sotto una miriade di suole sporche. Mi faccio
largo tra la folla. Quando la raggiungo lei non mi nota
subito. Continua a dimenarsi al suono di quel punk
frastornante. Ac/Dc. Ramones. Germs. Emana un odore di
fumo e sudore. Ha una minigonna rosa shocking con
motivo scozzese. Le calze a rete bucate. Una maglietta
scolorita dei Punkreas annodata a scoprirle la pancia. Un
borsello borchiato, tempestato di spille tonde, portato a
tracolla. Le sobbalza su un fianco. Finalmente si gira. Si
accorge di me. Mi fulmina con lo sguardo. Mi cattura.
La canzone cambia. Balliamo insieme quella canzone
stonata. Al secondo ritornello lei si getta verso di me, le
braccia attorno al mio collo, e mi ficca la lingua in bocca
con tanta violenza che quasi mi fa male. È una forza della
natura. Non so come si chiama, ma per me è la Regina del
Punk. Si struscia un po’, poi avvicina la bocca al mio
orecchio e sussurra. “Vieni con me.” Mastica una gomma.
Prendendomi per mano mi trascina tra la folla. Mi porta in
bagno. Mi spinge dentro uno dei cessi e chiude la porta. La
serratura scatta. Clack! Il fetore di piscio e fumo e vomito
è insopportabile. Lo sguardo di lei è lucido di libido.
Suppongo debba esserlo anche il mio. Con foga mi slaccia
i pantaloni e a quel punto sono disposto a farmi fare di
tutto. Di tutto.
155
“Sei carino” dice lei. Si toglie la gomma dalla bocca e
l’incolla alla parete. Rovista nel borsello con una mano,
con l’altra si infila nei miei boxer.
“Anche tu non sei male” dico. Le parole mi escono come
un mugugno. Lei sorride maliziosa. Mi poggia una mano
sullo sterno e mi costringe a sedermi sul water.
“Hai qualcosa per mandarci in orbita?” si mette a
cavalcioni su di me.
Sorrido. Un sorriso da ebete. Mi metto una mano in tasca
e le agito davanti al naso un sacchetto. Dentro ci sono delle
pastiglie rosse. Pastiglie di Euphoria. Quanto di più potente
esista sul mercato per mandarti in orbita e fare punk tutta la
notte. Fresche fresche dalla Colombia. Il suo viso si contrae
in una smorfia di sadico piacere. Mi toglie il sacchetto dalle
mani. Si toglie da sopra di me. Pantaloni e boxer ricadono
a terra, sul pavimento sudicio. Si acciambellano intorno
alle mie caviglie.
“Rilassati” mi dice. Mi ordina. Getto la testa all’indietro,
l’appoggio contro il muro. Chiudo gli occhi. Mi concentro
sul piacere. Poi tutto accade in meno di un secondo.
Mi sento accarezzare la gola dalle sue dita fredde. Un
brivido mi percorre la schiena. Mi scende giù nello
stomaco. Riapro gli occhi e provo a dire qualcosa. L’unico
suono che mi esce dalla gola è un rantolo strozzato.
Attorno a me le pareti del bagno sono affrescate con glifi
rossi. Rosso sangue. Mio sangue. Alzo gli occhi su di lei. Si
è appiattita contro la porta del bagno. Alcuni schizzi di
sangue le hanno rigato la maglietta. La pancia. Mi porto le
mani alla gola come per cercare conferma. Si, sono io che
sanguino. Noto un taglierino nella sua mano. Gocciola
gocce vermiglie. Lei sorride malefica. Attende la mia
morte.
Mentre le forze mi abbandonano la vedo sfilarsi la
parrucca arancione. Una cascata di capelli neri, lisci come
spaghetti, le ricadono sulle spalle. Solo allora la riconosco.
Una delle puttane di Don Fernando. La più pericolosa. Il
156
suo nome d’arte è Black Julie, mi pare. Ed io mi sono fatto
inculare una partita di Euphoria per un pompino.
In fondo, forse, meglio morire così che affrontare il mio
boss.
157
NOTTURNO D'AMORE
di Giulia Riccò (101 Parole)
Seduta in giardino, guardavo le stelle.
Improvvisamente le sue mani si posarono sulle mie spalle,
e mi baciò sul collo.
«Vieni dentro?» mi chiese dolcemente.
«No, fa caldo, e voglio le stelle come spettatrici» gli dissi
alzandomi e attirandolo a me. Lo baciai. Cominciammo a
spogliarci l’un l’altra. Piano mi allargò le gambe e
cominciò a farmi godere con le sue mani forti e delicate. Lo
fermai e lo sdraiai sull’erba mettendomi sopra di lui.
«Oggi comando io» gli sussurrai. Lo possedei con dolce
passione fino a che le nostre urla di piacere non fecero
arrossire le stelle che osservano invidiose.
158
IL TEMPIO
di GM Willo
Dio mi ha parlato attraverso un canale criptato. Era lui,
adesso lo so.
Al Tempio le anime venivano e andavano, più per
curiosare che per altro. Il server poteva ospitare fino ad un
miliardo di visitatori, ma a volte era costretto a rallentare.
Le anime non si lamentavano. Pensavano che facesse parte
della visione, e poi il servizio era pagato dalla pubblicità
all’entrata, o almeno così tutti credevano; Midas, la bibita
del profeta. Chi non era soddisfatto del servizio o se ne
andava o se ne stava zitto.
Facevamo un mucchio di soldi io e il prete. Il prete
l’avevo conosciuto dentro una blindorgy, quell’esperienze
di sesso random che andavano di moda lo scorso anno. Non
erano male, ma poi quando hanno cominciato a usare le
ragazze spot mi sono scocciato. Mi ero beccato molte più
spinte pubblicitarie di quanto potessi soffrire. Me ne
accorsi quando mi risvegliai d’improvviso davanti a uno
scaffale di sapone per l’igiene intima. Dissi basta, e tornai
alle normali pinkchat. Però rimasi in contatto con questo
Thomas Serpe, come si faceva chiamare. Ci eravamo
incontrati in una di quelle situazioni estreme di gioco; isola
di sabbia bianca, palme color verde smeraldo e un centinaio
di ragazze in bikini a nostra completa disposizione.
Questi fanno un mucchio di soldoni con gli innesti
pubblicitari – dissi io, mentre afferravo per la vita un paio
di bionde.
Appena esco mi faccio un bel lavaggio. Se vuoi ti passo
il programma? offrì lui.
Volentieri. Maledetti spot! Però adesso funziona tutto
così.
Beh, non ci sono solo gli spot?
Che vorresti dire?
159
Ho un progetto in mente ma mi manca liquidità. Se vuoi
te ne parlo, "fuori" però… E così ci demmo appuntamento
in un locale del centro, uno dei pochi rimasti ancora attivi
"fuori". Metà dei clienti era comunque attaccata al deck del
tavolino, con le bevande lasciate a mezzo e ormai
trasformate in brodaglie imbevibili.
Thomas era vestito come un vero uomo d’affari, con un
completo beige di marca e una valigetta di pelle nera. Forse
voleva fare impressione, oppure gli piaceva vestirsi bene.
Non mi sentivo a disagio con i miei jeans, specialmente in
quel locale defilato.
Cosa posso offrirti?
Una birra va benissimo.
Quella sera fondammo il Tempio, qualcosa di veramente
sensazionale.
Qual’è il migliore settore per fare affari dopo il porno? La
droga, è ovvio. E dopo quella? La religione… miliardi di
consumatori sparsi in tutto il mondo. Adesso immaginate
un mercato che fa convergere questi ultimi due. Ecco che
cos’era il Tempio. La promessa di vedere dio, di poterci
parlare, di poterlo addirittura toccare, questo era ciò che
vendevamo io e il prete. Ovviamente nessuno sospettava
che elevassimo le anime con le ultime sintodroghe digitali
in circolazione. I fedeli entravano in chiesa, vedevano la
pubblicità della bibita e si sedevano tranquilli davanti alle
effigi sacre. Poi arrivava il prete per il sermone, e nel
frattempo un programma ghost alterava le derivazioni dei
clienti con un boost di roba ben tagliata. La visione era
assicurata e gratuita, almeno la prima volta. Se poi
l’esperienza divina ti prendeva bene potevi sempre
abbonarti; dodicimila crediti l’anno. Dopo il primo mese di
attività avevamo già quattrocentomila registrazioni in PRO,
e un traffico di due milioni di visite al giorno. Il mio conto
in banca nel frattempo era decuplicato.
Gli sbirri avevano annusato la roba, ma noi saltavamo da
un server all’altro con la rapidità di una cavalletta. Era
160
praticamente impossibile risalire ai nostri indirizzi e conti
correnti. Qualcuno dette l’allarme, ma la gente preferisce
credere al divino che alla cruda realtà, e come biasimarla. Il
Tempio era il luogo della rivelazione, la cosa più sacra mai
accaduta dall’invenzione della fibra ottica. Alcuni
interruppero l’abbonamento quando la voce sulla droga
venne fuori, ma fu una goccia nell’oceano. L’afflusso di
visite ci costrinse ad investire e ad esporci di più. Per
mantenere la reputazione non potevamo più nasconderci.
Contattai un vecchio amico che ci sapeva fare e, sotto lauto
compenso, gli chiesi di insabbiare il programma ghost che
innestava la roba. Se ne uscì fuori con un piccolo
capolavoro. Gli sbirri potevano piombare sul server in
qualunque momento e non avrebbero trovato niente di
strano. Eravamo pronti ad uscire dalla tana e a fare un
mucchio di soldi.
Alla fine dell’anno il Tempio era la sensazione. Quindici
milioni di iscritti e cento milioni di visitatori. Io e il prete
avremmo potuto ritirarci davvero su un’isola deserta
insieme a un centinaio di ragazze in carne e ossa, invece
rimanevamo attaccati al deck, fino a venti ore il giorno.
Perché il denaro è una fottutissima droga, la peggiore di
tutti. Credetemi!
Sapevamo che sarebbe venuto il giorno in cui la bomba
sarebbe esplosa. Avevamo trasformato milioni di fedeli in
tossicodipendenti. Bussavano alle porte del Tempio ad ogni
ora e non se ne volevano più andare. Si erano avute diverse
overdosi e alcuni casi fatali di disidratazione al deck.
Cercammo di sedare le voci, mettemmo la questione in
mano ad un buon avvocato e inserimmo nuove regole per
gli utenti. Prendemmo tempo, ma sapevamo entrambi che
non poteva durare. Il prete venne da me un giorno e mi
disse in tutta sincerità che dovevamo staccare tutto, finché
ci era concesso. Io, accecato dalla bramosia, provai a
prendere ancora un po’ di tempo. Litigammo e lui se ne
andò sbatacchiando la porta. Non lo rividi mai più.
161
Tirai avanti da solo per un mese, poi le cose si fecero
ancora più complicate. Chi ci vendeva la roba pretendeva
di entrare in società, una questione che era sempre stata
fuori discussione, ma il prete se n’era andato e da solo non
riuscivo a stare dietro a tutto. I casini si moltiplicarono
velocemente una volta che gli spacciatori presero sotto il
loro controllo il programma di innestamento. La roba perse
di qualità, le overdosi aumentarono, la polizia ci fu
nuovamente col fiato sul collo.
Mentre guardavo rifluire le anime nel Tempio, molte delle
quali si trascinavano come amebe, cercai di dare un senso
alla follia di cui ero stato, insieme a Thomas, l’artefice. Fu
in quell’istante che si aprì una finestra bianca ed accecante,
una luce rotta da un cursore nero come lo spazio infinito,
un occhio abissale che lampeggiava in alto a sinistra. Le
parole presero forma lentamente, lettera dopo lettera.
“Fermati adesso! Te lo ordino.”
Chi sei? – domandai, senza accorgermi di tremare.
“Fermati, figlio. Hai venduto abbastanza bugie e falsi
miracoli da far rimpiangere il mio nome per almeno un
altro secolo. Basta!”
Vuoi dire che tu…
Ma la finestra di luce era già stata inghiottita dalla
matrice.
Dio mi ha parlato attraverso un canale criptato. Non posso
provarlo, ma questa è la ragione per la quale ho distrutto il
suo falso Tempio e ho accettato di farmi questi venti anni
dentro la cella di un penitenziario: solo così, forse, riuscirò
a riedificarne uno vero, dentro di me.
162
IL SENSO AUTOCRITICO
di Bruno Magnolfi
I ragazzi adesso apparivano tutti abbastanza tranquilli. Si
erano agitati nel pomeriggio, tutto per causa di due o tre
incomprensioni, ed erano subito volate parole offensive,
frasi di scherno, segnali che dimostravano la scarsa volontà
di capire ognuno le ragioni dell’altro. L’argomento era
sempre il medesimo: scegliere le strategie più adeguate per
reclutare sempre nuovi sostenitori della causa a
fondamento della vita civile. Qualcuno provocatoriamente
aveva spiegato che era giunto il momento di dare una
spallata ai modi garbati usati da sempre in quel gruppo; i
volantini e gli appelli non servivano a niente, aveva
spiegato, si doveva provare a percorrere strade diverse,
sistemi per scrollare in maniera più forte le persone
assopite davanti ai televisori e ai computer. Qualcun altro
aveva risposto che era giusto lasciare la libertà di spendere
il tempo ognuno come voleva, ed altri avevano incalzato
che unicamente lo stimolo per cambiare le cose era il solo
possibile elemento da introdurre nella vita ordinaria di
persone qualsiasi, alle quali tutto andava bene così. Uno
poi si era alzato e aveva parlato senza mezze parole di
superficialità e di “opinioni dettate dalla cultura assorbita”,
che quindi non erano proprie, bensì indotte da un sistema
che portava ciascuno a credere di avere pareri individuali,
ma che alla fine dei giochi erano quelli di tutti, foggiati
sopra un modello di disinteresse diffuso verso qualsiasi
diverso argomento. Metà dei ragazzi, a queste parole, si era
scagliata contro l’altra metà: sembrava impossibile che
ogni persona non avesse, in base a quanto spiegato, la
libertà vera di stabilire che cosa era bello e che cosa era
brutto, o meglio, che cosa a loro piaceva e che cosa
risultava sgradevole, mentre gli altri, incalzando con
termini accesi, continuavano a dire che il senso autocritico
163
di porre le cose era ormai inesistente, e che tutto era
plasmato dai mezzi di massa, i quali con facilità
plasmavano anche i pensieri e i cervelli. Fu trovato
l’accordo soltanto più tardi, quando ciascuno di loro tornò
sui suoi passi, e moderando i termini e i modi, fu deciso
che si sarebbe messo in campo di nuovo la strategia già
adoprata, scegliendo così di non scegliere niente,
conservando in questa maniera almeno ciò che era stato
fino ad allora raggiunto.
164
FRENESIA
di Massimo Mangani
Nel traffico congestionato di Firenze, con il mio vecchio
motorino, mi trovo spesso a riflettere sullo scorrere della
vita quotidiana. La routine è sempre la stessa: sveglia alle
6.00, abbondante colazione leggendo la rassegna stampa su
internet, alle 7.00 sveglia di moglie e figli e fin qui la
dimensione quotidiana appare ancora sostanzialmente
umana. Dopo aver salutato la consorte ed accompagnato i
pargoli a scuola, salgo in sella al mio vecchio catorcio e,
proprio in quel momento, inizia la Frenesia!
Con un occhio all’orologio sul cruscotto e l’altro alla
strada, mi infilo nella bolgia fra fumo azzurrognolo, colpi
di clacson e berci di automobilisti esasperati. Ogni
sorpasso, ogni incrocio costituiscono un rischio, i pali della
luce sono tappezzati di fiori e foto di morti… più che i
viali… il Vietnam! Una piccola emozione, tutte le mattine,
all’apparire dello skyline del centro città, la Cupola, il
Campanile, Palazzo Vecchio, poi nuovamente nella ressa
per accaparrarmi la poleposition ai semafori rossi. Verso
Piazza Pitti c’è un attimo di tregua, il traffico è ridotto ai
minimi termini grazie anche alla ZTL, così posso
percorrere via Sant’Agostino senza il terrore di essere
schiacciato da un momento all’altro da un camion della
nettezza. Passato S. Spirito ecco che faccio l’incontro.
Proprio all’incrocio con via de’ Serragli, fuori da una
piccola bottega, come poche sono rimaste in città, un
anziano se ne sta seduto su una seggiolina di vimini.
Ufficialmente è un venditore di libri usati, basta sbirciare
nel suo negozio per rendersene conto… in realtà osserva…
Richiama alla memoria quei filosofi greci, studiati sui libri,
che praticavano l’Agorazein, l’osservazione del genere
umano in piazza! Ebbene sì, con un’aria serafica che mi fa
un’invidia pazzesca, il vecchietto osserva lo scorrere della
165
quotidianità e quando qualcuno gli passa davanti a passo
svelto, lui sorride e saluta… la cosa straordinaria è che
tutti, di fronte a quel disarmante atto umano, rallentano il
passo e ricambiano il saluto.
Sorride, saluta, osserva… sorride, saluta, osserva…
Dall’interno della mia boccia di vetro sposto lo sguardo
sull’anziano signore, pronto a distoglierlo immediatamente
qualora venisse ricambiato. Tutte le mattine mi chiedo
come abbia fatto il venditore di libri usati a non lasciarsi
coinvolgere dalla frenesia del mondo contemporaneo;
confesso che la prima volta che, passando di lì l’ho visto,
ho provato un po’ di pena… quella botteguccia malandata
coi vecchi libri accatastati in terra, senza nessun’insegna,
nessun espediente che possa attirare l’attenzione dei
passanti occasionali, che so, l’immagine di una donna
nuda…
Riflettendo ho capito che forse non avevo capita nulla!
Quello sguardo sereno, quel sorriso vero e… (beh, ci ho
messo un po’ a realizzarlo) beffardo sono la
rappresentazione di come dovrebbe essere l’umanità per
poter vivere degnamente. Da un lato il traffico, i fumi che
bruciano i polmoni, i vaffanculo pronunciati per qualche
metro in più, dall’altro una botteguccia piena di libri usati,
dal cui interno si percepiscono appena, in maniera ovattata,
i rumori del mondo contemporaneo. Da un lato facce
incazzate, congestionate, dall’altro lo sguardo serafico, il
sorriso solare!
Una mattina, dopo l’ennesimo litigio ad un semaforo con
conseguente svuotamento di bile, sono arrivato davanti alla
bottega e come al solito ho dato una sbirciatina… questa
volta l’anziano libraio mi ha anticipato, i suoi occhi gia
puntati verso di me. Non fosse stato per il rombo del mio
catorcio avrei creduto di sognare quando, con il solito
sorriso sulle labbra, il libraio mi ha fatto cenno di entrare
nella sua bottega. D’istinto ho sgassato e mi sono involato
verso Piazza del Carmine.
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Lì per lì mi è mancato il coraggio ma, dato che suppongo
l’invito sia sempre valido, una mattina ho deciso che mi
fermerò… entrerò nella bottega dei libri usati e forse…
…non ne uscirò più…
167
TERRORISTA PER FORZA
di Bruno Magnolfi (101 Parole)
168
LO SPETTACOLO DI SPYRA PER IL CAOS
di Jonathan Macini
Un demone l’aveva ribattezzata Spyra, e quello era adesso
il suo nome. La via oscura parrebbe la più facile, ma sono
molti i sacrifici che attendono colui che desidera entrare
nella cerchia dei prescelti, e guardare oltre il velo
dell’oblio, là dove la morte muore e qualcosa di orribile ed
eterno incomincia.
La donna attraversava i corridoi del tempio con una torcia
in mano. Portava i capelli sciolti, neri e lunghi fino alla
vita, e aveva indosso soltanto una veste leggera, blu scura,
che le ricadeva sulle forme prosperose, grossi seni dai
turgidi capezzoli e fianchi sensuali. Conosceva tutti gli
aspetti di quel rituale. Le prime volte che se n’era servita
era stata male, ma il ricordo dell’umiliazione e del dolore
era ormai stato riposto in quei cassetti della mente che un
mago deve sapere tenere ben chiusi. Spyra avanzava con
passo deciso, i nudi piedi sulla fredda roccia del pavimento,
il profumo di muschio e acqua stagnante nelle narici, il
rumore smorzato delle cascate sopra il tempio. Lei era la
sacerdotessa suprema, divinatrice e negromante,
conoscitrice dei subdoli giochi dei signori della morte.
Aveva bisogno del loro aiuto, aveva bisogno di altre
risposte, e sapeva bene qual’era il prezzo che doveva
pagare…
A volte, anche nella quotidanietá degli eventi più terribili,
ai quali ci si abitua perché la mente di un uomo non ha
confini, affiorano dei ricordi inaspettati, non voluti. Spyra
ricordò la canzone che cantava insieme a suo fratello, nel
cortile della fattoria in cui era cresciuta, in tempi
antecedenti la grande guerra. Afferrò una serie di cinque
note, che ripeté nella sua testa per cercare di ricordare il
resto del ritornello, ma per quanto si sforzasse non ci
riusciva. Si sentì sciocca a pensare a Demion, ucciso
169
durante una delle tante scorribande degli orchi. Neanche un
graffio sulla corteccia del suo cuore. Neanche l’accenno di
una lacrima. Era solo la canzone che la turbava, perché non
riusciva a venirne a capo.
Era quasi giunta in fondo al corridoio. Oltre una porta
scura di legno e ferro vi era la sala delle invocazioni.
Laggiù non ci sarebbe stato posto per degli insulsi giochi di
musica. Cancellò dalla mente il ritornello e appoggiò la
mano sulla maniglia, avvertendo il freddo contatto col ferro
umido. Spalancò la porta ed entrò in una sala circolare,
rischiarata lievemente da due bracieri posti ai lati di un
altare di pietra. La temperatura della stanza era più
temperata, grazie ai due fuochi, e l’aria leggermente
fumosa. Spyra inalò le essenze sparse sopra il fuoco dai
suoi assistenti, che avevano preparato la sala, assaporando
i primi effetti stordenti che aiutavano il rituale evocativo.
Sul pavimento sette cerchi tracciati con della polvere
d’argento si intersecavano nel punto in cui si trovava
l’altare. Spyra prese posto davanti al tavolo di roccia,
calcato da strani disegni. Gettò la torcia in un angolo della
stanza e appoggiò le mani sulla fredda pietra che le stava
davanti. Controllò il respiro, chiuse gli occhi, alzò la testa
e poi incominciò a toccarsi…
L’incantesimo le salì alla bocca come un‘entità distinta
dal suo volere. Con gli occhi chiusi salmodiò la litania
scandendo perfettamente ogni sillaba, attenta ad ogni
cambio di tonalità. Un errore poteva costarle molto più
della vita. E mentre le parole, graffianti e indecifrabili,
gremivano le ombre della stanza, la mano dell’evocatrice
scendeva verso il basso, sotto la veste turchina, tra le
insenature del piacere. Adeguò il movimento al ritmo del
salmodiare, lasciandosi trasportare dalle onde calde che dal
basso ventre le salivano fino alle guance. Il canto salì di
tonalità e di volume, la bocca carnosa della negromante
intrecciava articolati vocaboli di un linguaggio sicuramente
non umano, la luce dei bracieri divenne più intensa,
tremolò e si offuscò alla cadenza del movimento del suo
170
bacino. Spyra, ormai preda e predatrice del suo organo del
piacere, appoggiò un piede sull’altare, divaricando al
massimo le cosce. Accostò la sua vulva, piena e rossa, al
bordo della pietra rituale, continuando a sfregarla
avidamente con le sue dita. L’evocazione era giunta al
culmine. Dai bracieri una luce gialla ed abbagliante si
riversò nella stanza. La temperatura era diventata quasi
insopportabile. Rivoli di sudore le scendevano copiosi dal
volto, deturpato dagli spasimi di piacere, ma lei non
accennava a fermare la sua ascesa. Si adagiò con la schiena
sulla fredda pietra dell’altare e continuò a urlare
l’incantesimo, cavalcando onde di piacere inarrestabili.
La porta era stata aperta e qualcuno la stava guardando.
Demoni e anime corrotte, nefandezze dell’oscurità, esseri
dimoranti nel caos, frattaglie di esistenze un tempo
appartenute all’umanità. Lo spettacolo era per loro, per
invitarle al suo cospetto, e in tal modo poterle corrompere
per un ennesimo bagliore di conoscenza. Il finale le montò
in gola, insieme all’orgasmo. L’ultima parola della canzone
si perse in un urlo di piacere, infrangendosi sui bracieri e
spegnendoli definitivamente. L’oscurità l’avvolse, ma non
aveva bisogno di vedere chi era entrato nella stanza. Spyra
rimase dov’era, distesa sull’altare a riprendere fiato,
conscia del drappo scostato.
«Ti è piaciuto lo spettacolo, demone?»
«Come sempre, Spyra» rispose una voce grave come la
notte delle notti.
«Allora adesso mi dirai ciò che ho desiderio di
conoscere…»
«Certo, tesoro» disse il demone. «Poi ci divertiremo un
po’…»
171
CERCHI DI FUMO
di Miriam Carnimeo
L’ennesima partenza nel viaggio di una vita..
Ancora abbracciata alla notte, guardo i primi occhi di luce
venir fuori dal morbido grigiore. I sassi della strada sono
ancora illuminati dalle stelle basse ed i neon riflessi sui
piccoli tavolini, lasciano spiare scarpe rosse di donne dietro
muretti e finestre crepitanti di fuochi e coperte avvolgenti.
La pioggia lucida di specchi, ondeggia su figure di ombrelli
dietro porte che chiudendosi fanno vibrare l’acqua rimasta
a guardare. C’è una donna affacciata ad un balcone, si
muove vibrante al ritmo del vento, con capelli, erba e fiori,
che si muovono nello stesso movimento. Fa muovere il suo
piede attraverso una ringhiera per stendere bene una
gamba, dopo tanto cammino il vento le arrossa la faccia
con un sorriso senza fretta, sagome e contorni, persi, tra
l’ombra scura dietro di se di un abbraccio ed un tuffo dritto
nella carne. Non trattengo la sua immagine, ma vivo
l’atmosfera con il suo stesso sapore, con quello stesso
freddo che indaga nelle ossa, seccando la pelle nel vuoto
gridare di uno scroscio. I passi rintronano ormai nella notte,
un pensiero di pietra nei muri ascolta, la storia del silenzio,
tra la calma dei tiepidi movimenti dei fianchi e la tempesta
dei rumori fuori.
Spunti per inventarsi la notte, tenda, coperta, cielo rosso,
si riflettono sulla spalla. I pensieri più agili si snodano tra i
fumi dell’aria a riscaldarne l’invisibile pelle, le luci
colorate della strada ed i suoi slanciati lamenti. Anche la
luna buca la notte come nero inchiostro sulla carta. Mi
raccolgo in un letto con un idea sull’amore, ha le braccia
stese per tener lontano il freddo, i brividi sui vetri, lo strillo
che viene su con la notte.
Cerchi di fumo fatti volare via da un sospiro, la bella
immagine di una bocca che si stringe in un bacio come
172
fosse una risposta. Si raggiungono quei cerchi dentro un
eco. Niente più parole tra cieli fatti di strade e la carezza
calda della sorte. Le mani fredde si chiudono tra le gambe,
i pensieri finalmente respirano e bagnati aspettano.
Sia benvenuta la pioggia, i piedi fradici ed i capelli a
coprire gli occhi.
173
L'UNICORNO
di Aeribella Lastelle (101 Parole)
174
LA MEMORIA DEL SASSO
di Dario De Giacomo
175
neri desideri e si struscia pesante, lasciando le sue tracce
addosso a me. La sua ingenuità diventa minuscola, vittima
di quella stanza enorme che la contiene.
Io non ho fatto niente – ripete.
Ma il colpevole non è l’assassino, è la vittima. Milena ha
imparato a resistere senza muoversi. La lapido con i miei
sassi e lei si copre il volto con le mani, perché ha paura che
possa scoprire qualcosa dentro il suo sguardo. Anni oscuri,
molti anni di dolorose memorie si sfaldano in quel gesto,
sgretolandosi un secondo dopo l´altro. Il nostro passato
marcisce nero, come un dente marcio che ci ha storditi per
mesi ed ora ci solletica, di tanto in tanto, con una fitta
estranea. C´è un lungo istante in cui le parole divampano
come la brace, ma salgono verso l´alto in spirali di fumo e
scompaiono, portandosi dietro il loro significato.
Sono stata iniziata al sesso con la violenza.
Dentro ogni gesto che fai – le dico – sento che usi la tua
vita per disarmare la mia.
Ma era ineluttabile che la sopraffacessero, necessario. Lei
usa il suo sesso con gli uomini come si usa un bisturi,
affondandolo dove sono più sensibili, incidendo i loro nervi
scoperti e provocando dolore. Sì, molto dolore. Il perverso
gioco di Milena, la sopraffazione, una slot machine per
guadagnare la loro fiducia: ottengono quello che vogliono,
quando lo vogliono. Si avvolge rampicante dentro il loro
orgoglio, fino allo spasimo dell’umiliazione. Allora affonda
il bisturi ben affilato. Dolore. Poi li umilia con le loro
stesse parole, tra le sue mani quelle parole diventano cera
liquida che si scioglie sui corpi. Bastarda, la eccita
umiliarli. Ma non umiliarli davanti agli altri, no, deve
umiliarli davanti a loro stessi. Ride quando si torturano le
loro virilità inermi per lei.
Ora i sassi mi pesano nello stomaco, mi fanno male. La
notte sa bene come cucire insieme le immagini dentro la
mia testa. Una depressione fredda nelle viscere, lei che
sculetta su tacchi altissimi e tutti la guardano. Milena
guarda gli uomini negli occhi, non li spia, li guarda
176
affamata. Sto gelando. Sussurra frasi ambigue gli altri, a
me invece sorride, con quel sorriso che mi inchioda ad una
colpa. Una colpa mia, mia, mia!
Prima Milena ha telefonato a qualcuno, la sentivo ridere
forte, sguaiata. Fa caldo ora. Ascolto la sua voce e sto
meglio, ma poi odierò il suo tono mellifluo. Lo so. Sempre
uguale. Carta batte pugno, la nostra morra d’amore. La
colpa di Milena è vivere. Vivere ingenuamente in un corpo
insinuante. Un’anima sottile dentro una carne enorme e
nera. Il suo movente, forse, l’ingenuità.
Ho voglia di farla finita, con questa notte e con tutte le
altre. Le mie mani stringono la sua gola, è calda, pulsa
ancora sensualmente. Si contorce come se danzasse e
ancora non riesco ad uccidere la sua ingenuità. Gli occhi
neri sbiancano appena, liquidi di una voglia nuova.
Non ho fatto niente, io – lo dice di nuovo.
Lo so. Ora lo so davvero. Buonanotte amore mio.
177
LE REGOLI SOCIALI
di Bruno Magnolfi
178
rifiutasse l’accesso a regole sociali da tutti accettate e
confermate. Infine si era stufata, forse anche troppo in
fretta, di tutte le raccomandazioni che sembravano
continuare a farle le due o tre persone che si erano occupate
di lei, e togliendo d’improvviso interesse e importanza a
ciò che aveva chiesto fino allora si era seduta casualmente
accanto ad Andrea, dopo essersi fatta consegnare un
talloncino numerato da qualcuno dei presenti più gentile e
paziente degli altri. Aveva subito sistemato bene quei fogli
all’interno della sua cartella, tolto il soprabito, ravviato i
capelli lunghi e sciolti, sistemato con attenzione e in modo
adeguato il proprio corpo sopra la sua sedia, accavallando
le gambe in due o tre maniere differenti, invadendo di
profumo l’aria intorno e guardando dappertutto come per
carpire qualcosa che ancora non le era perfettamente
chiaro. Poi, come se non avesse ascoltato niente fino allora,
aveva chiesto ad Andrea con fare distaccato, ma con voce
calma e pacata, se era giusto l’ufficio al quale era stata
consigliata di rivolgersi, e se andava bene fare tutta quella
attesa per quei suoi piccoli problemi. Andrea, nella risposta
aveva usato il minimo di parole disponibili, cercando di
sviare l’interesse verso di lui, ma lei aveva insistito subito
pungolandolo con due o tre domande abbastanza dirette
alle quali era impossibile non dare seguito. Era venuta in
soccorso la persona accanto, che aveva detto il suo parere
in modo simpatico e puntuale, ma a lei evidentemente non
interessava affatto far parlare qualcuno che non fosse chi
aveva deciso, così aveva chiesto ad Andrea se le teneva il
posto mentre lei cercava il bagno. Tornò in un attimo,
ringraziando con larghi sorrisi e con apprezzamenti
impersonali per quegli uffici, cosa alla quale Andrea si
mostrò subito solidale. Infine, sempre parlando, si alzò
immediatamente quando si aprì la prima porta grigia lungo
il corridoio, sparendo dentro a quell’ufficio e lasciando tutti
come scemi.
179
NATALE AL BAR
di Gano
È una di quelle giornate fredde di dicembre in cui hai
bisogno sicuramente del doppio calzino, specialmente se i
calzini ce l’hai tutti bucati. È un vecchio trucco quello di
metterne due paia per tappare i buchi, ed io li conosco tutti
i vecchi trucchi. A dicembre, se il sole basso abbaglia, vuol
dire che fa un freddo della madonna. Te ne accorgi anche
dai vetri delle finestre appena metti il naso fuori dalle
coperte, però non ce la fai a rimanere a letto perché quel
sole è proprio una meraviglia, pare quasi dipinto e forse lo
è per davvero, ti chiedi perplesso picchiettando con l’indice
la colonnina di mercurio in terrazza, che durante la notte è
scesa abbondantemente sotto lo zero. Ti avvii in cucina per
preparare il caffè e ti accorgi che ti hanno appena tagliato il
gas. Ti spieghi il freddo padrone della stanza, ti spieghi le
bollette abbandonate ancora chiuse sullo scaffale, ti spieghi
anche perché il mondo faccia così schifo; tagliare il gas ad
un povero cristo proprio la vigilia di Natale. Quasi quasi ti
vien da ridere, se solo il freddo non ti avesse paralizzato i
muscoli della faccia. Unica soluzione; il bar.
Spingi la porta a vetri e subito ti rendi conto che non sei il
solo ad averla pensata alla stessa maniera. Certo non è
proprio Natale, è solo la vigilia, ma tutti sanno che il 25 il
bar resta chiuso e quindi è meglio approfittarne. I tavoli
sono già occupati dai soliti avventori. Avranno tagliato il
gas pure a loro, ti chiedi. E mentre te lo continui a chiedere
ordini quel maledetto caffè che non sei riuscito a farti a
casa. La Giorgia ha un cappellino rosso che è una
meraviglia. Ti sorride e si adopera a farti una crema che
sveglierebbe anche Morfeo.
«Mettici un po’ di mommo, tanto son gia le nove…» le
dico, e lei sa già dove andare a pescarlo, il mommo. Bevo il
corretto e incomincio il giro. Fantomas col cappuccino e la
180
Gazzetta, il Lalli spaparanzato con la Repubblica,
Giulianino appoggiato al frigo dei gelati con gli occhi persi
su una foto della Ventura in mezzo al Venerdì (sempre
quello della Repubblica, il giornale dei finti comunisti), e
poi c’è il Mignozzi col telefonino in mano a messaggiare
alla ganza, tutti in posizione come se fosse un giorno
normale, ignari delle palline colorate e delle lucine
disseminate per il bar.
«Buon Natale , ragazzi…» saluto io. Nessuno si muove.
Tutti fanno finta di nulla, ma è ordinaria amministrazione.
Bisogna aspettare perché la gente del bar c’ha i suoi tempi.
In ritardo, ma una reazione arriva sempre.
«Oh Gano, anche oggi qui a rompere i coglioni?»
domanda il Lalli da dietro il giornale. Avrete già capito che
personaggio è questo Lalli. Parlarne in maniera più
dettagliata sarebbe come sparare alla croce rossa. Il Lalli è
semplicemente il Lalli, una grande faccia di culo….
«Che fanno i tuoi amici DS quest’anno? Tortellini in
brodo e lenticchie a fine anno?» rispondo io, graffiando il
suo cuoricino rosso bandiera.
«L’ho sempre saputo io che il Gano è un fascistone» dice
lui di rimando. Ma in verità a me la politica non ha mai
detto niente. Destra e sinistra, alla fine mi sembrano tutti
uguali, specialmente in quest’ultimi tempi. A me
interessano concetti più semplici, diciamo pure basilari, che
alla fine son solo due; il bel mangiare e lo stare in
compagnia, cose che tra l’altro si fanno bene insieme, ed è
proprio per questo motivo che propongo un bel pranzo dal
Freddy…
«Quando, domani?» chiede Fantomas, ripiegando la
Gazzetta.
«Si fa il pranzo di Natale; bollito misto, tortelli e
vinello… Che ne dite?» rilancio io.
Il Mignozzi se n’esce fuori con una “’sta stronza!”, e
rimette in tasca il cellulare. «Io ci sono!» aggiunge, poi
guadagna l’uscita per accendersi una sigaretta.
181
«Vai, ci sono anch’io» conferma Giuliano, sfogliando le
cosce della Simona.
«E tu Lalli, cosa ne dici?» lo provoco, perché so che
vorrebbe dirmi di no per farmi uno spregio, ma questo
significherebbe passare il Natale da solo.
«Ma, ora ci penso…» risponde lui, ed io so già che dovrò
chiamare il Freddy e prenotare per cinque.
«Bene, a posto allora» dico io, poi me ne vado a farmi il
primo cicchetto.
È incominciata la vigilia. I santi zampettano un chacha
cha nei cieli, il vecchio Santa ritira l’assegno dalla
Cocacola, gli elfetti se lo menano tra di loro, Gesù fa finta
di rinascere anche se non è il suo giorno, i bimbi aprono
milioni di regali inutili e l’economia continua a macinare
carne umana.
Però le palline colorate e le lucine mettono tanta gioia,
non trovate anche voi?
«Giorgia, fammene uno…»
«Arrivo Gano!»
182
AMBARABACCICCICOCCÒ
di Fida (101 Parole)
183
NOTTE SILENTE
di Marco Filipazzi
Un elicottero tagliò il cielo notturno come una lama di
rasoio, gettando luci rosse e blu tutt'intorno. Rallentò in
prossimità di un'imponente edificio scuro. Dalla finestra il
Commissario lo vide scomparire dalla propria visuale,
immaginandoselo mentre si poggiava delicato sul tetto e un
drappello di poliziotti saltava giù, portandosi dietro il loro
uomo.
Tra le mani il Commissario si passò una pallina anti
stress. Aveva la fronte umida di sudore ed una morsa allo
stomaco di strana tensione, ancestrale paura. La porta
dell'ufficio si spalancò alle sue spalle.
“Portatemelo qui e lasciateci soli” disse senza nemmeno
voltarsi, senza nemmeno ascoltare veramente. Quando
l'agente uscì, il commissario attese qualche attimo prima di
andare alla sua scrivania e far sparire la pallina anti stress
dentro uno dei cassetti, quindi tornò davanti alla finestra.
Quella pallina gli sarebbe mancata.
Il tempo di socchiudere gli occhi, poggiare la testa contro
il vetro freddo, ed un rumore alle sue spalle lo strappò di
nuovo alla realtà. Il Commissario si voltò a guardare di
sottecchi, ed eccolo lì. Il loro uomo se ne stava seduto
all'altro capo della scrivania, le mani legate dietro la
schiena, le caviglie ammanettate alla sedia, la testa china ed
una massa di capelli unti che gli ricadevano sul viso. La
porta si richiuse e tutto ripiombò nella penombra. Il
commissario si poggiò con la schiena alla finestra e tacque
per un lungo attimo. I rumori della città notturna arrivavano
da fuori.
“Sai, vedo persone come te un giorno si e l'altro pure,
quindi non pensare di impressionarmi con il tuo fare da
duro, ok?” il Commissario si staccò dalla finestra e andò
184
verso un mobiletto scuro, relegato in un angolo. “Per farti
capire, negli ultimi tre giorni ho avuto a che fare con la
reincarnazione di Elvis ed un sodomita di cani, tira tu le
conclusioni” prese una bottiglia ed un bicchiere dal
mobiletto. “Questo solo nell'ultima settimana eh, immagina
che ho visto in vent'anni di servizio. Cose da non credere. Il
lato peggiore della specie umana. E adesso arrivi tu. Per
quanto mi riguarda non mi fai né caldo né freddo.
Whisky?” Il tizio tacque. Il Commissario rimise a posto la
bottiglia ed ingollò un sorso di liquore.
“Ammetto che la trovata dei canini è stata ingegnosa e la
stampa ci è andata a nozze. Hai regalato un po' di brivido a
questa città morta, il che non è da tutti, ma lascia che ti
spieghi una cosa: Bela Lugosi è morto da un pezzo e come
forse avrai già capito da te, a me non vanno proprio a genio
certe buffonate.”
Il tizio cacciò un rantolo soffocato ed un filo di bava
mista a sangue gli colò dal mento. Il Commissario si
sedette alla scrivania; sospirò, guardò l'ora.
“Le tre. La mezzanotte del Diavolo. Un orario perfetto per
la resa dei conti, no?” bevve un sorso di whisky. “Ora,
voglio che tu sappia che sei fottuto comunque, ma la spada
di Damocle qui la faccio io. Hai sette cadaveri nella tua
cantina, tutti completamente dissanguati, una prova più che
sufficiente per sbatterti in un manicomio criminale questa
notte stessa, buttare la chiave nel cesso e tirare lo
sciacquone, solo che abbiamo un problema, non
grandissimo ma c'è. La scientifica ha trovato tracce di un
ottava vittima. Macchie di sangue incrostato in un
barattolo. Sangue non appartenente a nessuna delle vittime.
Come ho detto, sei fottuto comunque, ma se ci dici dove sta
la numero otto allora forse potrei presentare alla corte una
perizia clinica con su scritto che soffri di ematodipsia o
qualche altra cazzata del genere e magari ottieni pure uno
sconto della pena” bevve un'altra lunga sorsata. “Ora la
palla torna a te, campione.”
185
Nell'oscurità e nel silenzio, fu allora che il tizio parlò per
la prima volta in un sussurro morente.
“A cena...” disse.
Il Commissario aggrottò la fronte. “Come, prego?”
“Non dove mangia, ma dov'è mangiato. Un concilio di
politici vermi cena con lui.”
“Bravo Amleto, hai studiato Shakespeare, vuoi un dieci in
pagella? No, perché questo non ti aiuterà a salvare il tuo
culo secco” finì il whisky nel bicchiere, quindi si sporse
sulla scrivania, verso il tizio. Emanava un odore rancido di
cane bagnato. “Dimmi dove hai messo il corpo.”
“In cielo. Mandatelo a cercare lassù. Se poi non lo
trovate, andatevelo a cercare, voi di persona, a quell'altro
recapito. Se non lo trovate neanche lì, entro il corrente
mese vi salterà lui stesso al naso su per la scala del faro.”
Il Commissario agguantò il telefono e compose il numero
di un interno. “Al faro! Mandate subito una pattuglia. E
venite a riprendervi questo stronzo tra dieci minuti. Prima
me lo torchio ancora un po'...” dopodiché riappese. Senza
esitazioni fece il giro della scrivania ed andò alla porta. Il
tizio seguiva i suoi movimenti con lo sguardo basso, celato
dietro il muro di capelli. Il Commissario fece scattare la
serratura e si allentò il nodo della cravatta, quindi si
avvicinò alle spalle del tizio. Si chinò su di lui e gli fece
scivolar via le manette dai polsi e dalle caviglie.
“Senti, te lo dirò una sola volta e te lo dirò chiaro. Ho
preso in mano quest'indagine dal quarto omicidio in poi e
ho fatto di tutto per evitare questo momento, ma tu quando
ti muovi sembri un elefante che si lascia dietro un
olocausto di prove, quindi mi è stato inevitabile catturarti.
Solo che non voglio. Hai reso un grande servizio a questa
città uccidendo i capisaldi di alcuni tra i più pericolosi clan
della città. C'è gente scontenta di ciò, molto scontenta, ma
non io. Ho combattuto nella merda per una vita e poi mi
sono reso conto che la merda infestava anche questa
centrale.”
Il tizio si alzò, voltandosi a fissare il Commissario.
186
“Per quel che mi riguarda posso solo dirti grazie. Hai
avuto le palle di fare quello che io ho solo e sempre
sognato. Far cagare addosso Don Fernando, Kiriyama e
tutto il resto della feccia.”
Il tizio non disse nulla, solo un flebile spicchio d'avorio
fece capolino attraverso la giungla di capelli corvini. Un
secondo dopo il Commissario venne tramortito da un
gancio che pareva un tir e finì lungo e disteso a terra.
Quando rinvenne il tizio era sparito, di lui restava solo
l'odore rancido dei suoi vestiti.
187
LA SPIAGGIA
di GM Willo
La linea che divide l’acqua dalla sabbia segna il passaggio
tra due mondi. Camminare seguendo quella linea è come
galleggiare in un limbo a metà strada tra due verità. La
spiaggia è il luogo in cui convergono le domande. Le
uniche risposte che sarai pronto a dare saranno tracciate
sulla sabbia dai tuoi piedi. Cento, mille, diecimila impronte
lavate via dal vento e dalla risacca. E animali antichi ti
guarderanno da dentro i loro rifugi, piccole conchiglie
disseminate lungo il percorso. Le loro risa stridenti
rimbomberanno tra le galassie più remote del cosmo.
Avanzare col sole in faccia è conveniente. Con la scusa di
esserne accecato puoi far finta di non vedere quelle
domande, ed ignorare gli scherni degli dei. Il sole ci sa fare,
anche in ottobre avanzato. Il sole è il tuo unico amico.
L’unico problema è che devi tornare indietro, e allora avrai
il sole alle spalle, e si alzerà un vento bastardo che ti
sputerà ingiurie in faccia, perché il vento arriva sempre,
prima o poi…
Segui la linea. Non pensare al ritorno. Può succedere a
volte che la linea curvi, che una striscia di sabbia si
protragga verso l’acqua, formando un piccolo appendice di
spiaggia. Quello potrebbe diventare il tuo nuovo obbiettivo.
Adesso il sole ti scalda da un lato del volto e dall’altro c’è
il vento che te la canta. Davanti a te la distesa d’acqua è tua
completa disposizione. Potresti anche approfittarne per
affogare una ad una quelle domande…
Succede a volte che una barca appaia dal nulla. Se
dovesse accadere proprio adesso, sarai pronto a saltarci su,
e a lasciarti alle spalle la spiaggia e tutto il resto?
188
ASSEMBLEA
di Bruno Magnolfi
I primi dissensi sugli argomenti di fondo si manifestarono
quando qualcuno disse tra i denti che così non si sarebbe
andati lontano. Le ultime riunioni erano scivolate via in
modo tranquillo ma probabilmente era stata soltanto calma
apparente. La sostanza cambiò durante l’ultima assemblea
generale. “In questa associazione trovo che ormai
l’interesse individuale abbia soppiantato quello pubblico”,
disse uno appena avuta la parola; “perciò dichiaro che da
questo momento tramonta la mia esperienza con voi”.
Ecco, fu come aver rotto la diga, tutti da quel momento si
dichiararono solidali con quella presa di coscienza iniziale,
e i più lo fecero in maniera verbalmente violenta,
autoritaria, quasi come se fino ad allora non si fossero
accorti di niente, o non volessero rimanere tra quelli più
silenziosi che pensavano a come salvare il salvabile. Alcuni
dissero che se l’erano immaginati fin dall’inizio che tutto
prima o poi sarebbe andato per quel verso, però ci furono
altri che fecero notare quanto interesse individuale ci fosse
nelle parole di chi si indignava per l’interesse individuale
degli altri, e così tutto quanto divenne un inestricabile
continuo distinguere e distinguersi gi uni dagli altri, fino a
trovare posizioni leggermente diverse e isolate per ciascuno
di coloro che prendeva la parola e spandeva sugli altri la
propria dichiarazione. A fine assemblea a terra rimasero
una moltitudine incredibile di stampe, di fogli, fogliacci di
carta, appunti strappati e tessere usate, mozziconi di sigaro
e sigarette di ogni tipo e misura, gomme già masticate,
penne, lapis, e altre cianfrusaglie rotte e inservibili. Il
personale incaricato di svolgere le pulizie non capì cosa
fosse accaduto là dentro, però tutti loro compresero subito
che l’impegno richiesto per far ritornare tutto pulito era
tanto, e forse persino superiore alle loro piccole forze.
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OGGETTI SENZA SOGGETTI
di Dario De Giacomo
190
SHARONA
di GM Willo
Tra meno di un’ora sarà qui. Lei, con quel portamento
elegante da fotomodella, sofisticata come una straniera,
lunghe ciglia di velluto che ombreggiano uno sguardo
austero in cui adoro perdermi. Lei, Sharona come la
canzone, che stringe il mio corpo con le sue lunghe gambe
quando mi vuole dentro, che urla disinibita con le finestre
aperte, mentre l’orgasmo le esplode nella gola. Al solo
pensiero tremo, e mi sento già in tiro…
Il sugo bolle da un’ora. Ho preso la macinata magra
perché so che le piace. Le pennette sono quelle piccole per
la sua bocca minuta, coperta appena da una patina di
rossetto. Poi la carne. Bistecca al sangue per lei che la
vuole sugosa, perché la fa sentire vampira al punto giusto.
Il vino è un Sassicaia, dato che per lei non bado a spese. E
poi l’insalatina di radicchi, la frutta, il gelato, il caffè… A
stomaco pieno il sesso ludico è giustificato.
Sharona conosce tutto di me eppure io non conosco nulla
di lei. Sharona è stata dai miei genitori ed ha fatto una
buonissima impressione a mio padre. Mia madre d’altronde
non mi parla più. Mia sorella la odia. Per due ore ha tenuto
testa a tutti, davanti alla tavola imbandita a festa con
l’agnello sacrificato e i pisellini verdi. Una pasqua con i
tuoi può essere peggio di un pasto in una cella del braccio
della morte. Mi alzai per andare in cantina a prendere il
moscato e lei mi venne dietro. Mia madre ci sorprese
mentre mi costringeva ad andarle giù, alla tenue luce della
lampadina a quaranta volt del seminterrato. Difficile
resistere alla dolcezza dei suoi succhi…
Sharona è un mistero di odioamore, di sesso frenetico, di
donna allo stato puro. È come se incarnasse il femmineo
spirito della terra nel tepore delle sue cosce, dentro gli
abissi smeraldini dei suoi occhi. Non so niente di lei. È
191
apparsa d’improvviso nella mia vita o forse vi ci sono
sbadatamente inciampato. Ricorderò sempre quel primo
caffè insieme e le sue domande a bruciapelo, accompagnate
da lunghi ed imbarazzanti sguardi. No, non è mai stata mia
una scelta…
Tra mezz’ora sarà qui. Lei spacca sempre il minuto. La
magnolia intensa del Dior precede il suo ingresso sul
palcoscenico della mia vita. Io sono un mero spettatore
delle sue imprese. Dannazione, devo girare il sugo
altrimenti rischio di bruciare tutto, e se dovesse accadere
per me sarebbe la fine…
Sharona mi sta divorando un pezzettino alla volta ed io
non riesco a fermarla. Non voglio fermarla. Adoro questa
pratica cannibalesca che lei sapientemente porta avanti già
da un anno. Non è rimasto molto della mia anima. Lei
succhia, succhia, succhia ed io la lascio fare. Ed è
bellissimo così. Le servirò l’aperitivo dentro i bicchieri di
mia madre, quelli antichi. È una sorta di rituale contro il
bigottismo della mia vecchia. Sharona sa che mia madre è
un punto dolente. Quando mi lega al letto e si siede su di
me, contorcendo la sua schiena come una lamia, mi guarda
dritta negli occhi e mi dice che mia madre ci sta guardando
dal buco della serratura, e mentre ci guarda scopare lei si
tocca, non ne può fare a meno. È così che mi fa venire,
sempre…
Ormai manca poco. Metterò sul fornello l’acqua per la
pasta e inizierò a preparare l’insalata. Voglio che sia tutto
pronto per quando arriva. Ho staccato il telefono e presto
spengerò anche il computer. Lascerò accese solo le luci
della cucina e le candele sparse per la casa. A lei piace
giocare con la cera…
Ecco, questa è la sua auto. Ne riconoscerei il suono anche
nel traffico cittadino all’ora di punta. O forse avverto
semplicemente la sua presenza, l’energia che sprigiona,
qualcosa che ha che fare con le frequenze che legano noi
umani agli spiriti della natura. L’essenza femminea della
192
terra. Sharona, il sugo, le bistecche, mia madre… driiin,
driin…
Sto arrivando…
Sono tuo!
193
IL PICCOLO TOBIAS
di Jonathan Macini (101 Parole)
La mamma del piccolo Tobias era diversa quella sera. Se
n’era rimasta tutto il pomeriggio a fissare la TV
sintonizzata su un canale morto, due vacui occhi ancorati al
tremolante nevischio grigio. Tobias giocava tranquillo con
i treni sul tappeto rosso del soggiorno. Quando sua madre
gli disse di mettersi il pigiama gli sembrò la cosa più
naturale del mondo. Lei gli avrebbe rimboccato le coperte
e, prima di spengere la luce, dato un bacio sulla fronte.
La sua testolina non ebbe il tempo di spiegarsi perché
quella sera sua madre, invece di augurargli la buonanotte,
gli infilò le forbici negl’occhi.
194
L'UOMO DI CASA
di Bruno Magnolfi
Era da quando aveva compiuto otto anni che la nonna
aveva iniziato a rivolgersi a lui dicendo: “ecco il mio
ometto…”; oppure: “eccolo qua il nostro uomo di casa…”;
e Robertino quelle volte si era sentito ancora più timido di
come era davvero, non all’altezza, tanto da arrossire e
abbassare i suoi occhi, nonostante gli piacesse da matti
sentirsi grande, importante, o forse anche proprio per
questo. La mamma lavorava tutto il giorno e rientrava
sempre tardi a fine giornata, sempre di corsa com’era, con
quelle buste di spesa del supermercato per preparare in
fretta la cena e poi dopo poco metterlo a letto. Al
pomeriggio Roberto stava con lei, con la nonna, e si sentiva
bene quando incontrava il suo sguardo pacato uscendo da
scuola assieme ai compagni, ci trovava un senso di
rassicurante in quei suoi vestiti, in quell’espressione dolce
e simpatica che aveva tutta per lui. La mamma non era
così, la mamma era sempre nervosa, certe volte non
lasciava neanche il tempo di dire le cose. Del periodo
quando il papà abitava ancora con loro, Robertino non
ricordava quasi più niente, giusto qualche giorno speciale
in cui era successo qualcosa di bello, una gita, un regalo,
ma pochissime cose; soprattutto, se proprio doveva
pensarci, ricordava le discussioni di sera con quelle stridule
voci mezze gridate, e la difficoltà, nonostante il cuscino
sopra la testa, nel riuscire a prendere sonno, con quelle
porte sbattute che certo non erano mai un bel segnale. Poi
era andato via, suo papà, quasi senza avvertirlo, ma lui era
ancora piccolo, e non aveva mai detto alla mamma che
quell’assenza gli sembrava terribile. La nonna gli aveva
spiegato qualcosa, ma Robertino non voleva sapere, non gli
interessavano gli affari dei suoi genitori, così aveva sempre
cambiato discorso, non voleva saperne di niente. La nonna
195
gli aveva anche promesso che il papà sarebbe andato spesso
a trovarlo, magari all’uscita da scuola, ma era successo solo
tre o quattro volte, e quelle volte suo padre era andato lì, lo
aveva tenuto per mano per dieci minuti, gli aveva chiesto
come gli andava, poi basta. Ma quel giorno di maggio
sembrava fosse cambiato qualcosa: la mamma aveva detto
che il papà avrebbe fatto un giro con lui, quel pomeriggio,
lo avrebbe portato con sé, a fargli trascorrere un’ora
diversa, e Robertino era rimasto in silenzio, non aveva
detto niente, ma solo per paura di sbagliare parole, perché
dentro di sé si era sentito contento, contento come mai
prima. Era venuto a prenderlo con la sua moto nuova, il
papà, la nonna gli aveva fatto un sacco di raccomandazioni,
aveva coperto Roberto fino all’inverosimile, poi finalmente
loro due erano partiti. Sotto di loro la moto rombava, era la
prima volta che Roberto ci saliva, il vento arrivava da tutte
le parti e lui si stringeva forte al papà, proprio come lui gli
aveva spiegato di fare mentre lo sistemava sopra la sella.
Era bello vedere le case che scappavano via, dietro le
spalle, e Roberto guardava le macchine, gli alberi lungo i
viali, le persone sui marciapiedi. Era bella quella strada che
facevano assieme, a Roberto piaceva tantissimo, e con la
mente cercava di rallentare ogni fase, come a gustarsi più a
fondo ogni particolare. Poi si erano fermati ai giardini, ad
un tavolo di un chiosco all’aperto, giusto il tempo per
mangiare un gelato. Non aveva parlato molto Roberto, e
neanche suo padre, però si erano guardati, e forse andava
bene così. Poi erano saliti di nuovo sopra la moto, e via,
verso casa. Adesso Robertino si sentiva più triste, chissà
quando avrebbe rivisto il papà: giurava a se stesso che nei
giorni seguenti avrebbe scrutato tutte le moto lungo la
strada, quando usciva da scuola, nella speranza di vederlo
arrivare. Ma adesso assaporava ancora quegli ultimi attimi
prima di arrivare ai saluti, e si stringeva ancora più forte
sopra la moto, e pensava tra sé che non gli sarebbe
importato un bel niente se la nonna non lo avesse più
chiamato “l’ometto di casa”: suo papà adesso era lì, proprio
196
con lui, stretto tra le sue braccia, e lui non lo avrebbe più
voluto lasciare; ma Roberto si sentiva ancora troppo
bambino, e sapeva benissimo che quelle sue braccia non
erano davvero quelle di un uomo, come diceva la nonna, e
per quanto avesse potuto sforzarsi, erano deboli, non
sarebbero mai riuscite a tenere suo padre con sé.
197
LO STRANO CASO DELLA SIGNORINA PARISI
di Aeribella Lastelle
La Terra scrive sul mio corpo. La gente ammira i miei
tatuaggi, segni tribali e simboli simmetrici, poi mi chiede
chi me li abbia fatti ed io rimango interdetta. Mi piacerebbe
dire loro la verità ma non posso perché mi prenderebbero
per matta. Allora m’invento qualcosa per non destare
sospetti. L’ultimo di questi, una serie di cerchi concentrici
all’interno di un triangolo (anche se secondo me si tratta di
una freccia), me lo sono fatto in Portogallo la scorsa estate.
È questo quello che ho raccontato in giro e i miei amici
l’hanno bevuta. Se invece sapessero la verità,
probabilmente smetterebbero di chiamarmi e mi
consiglierebbero un buon dottore. Ma io non ho bisogno di
dottori, sto benissimo. Anzi, non mi sono mai sentita
meglio.
Ammetto che all’inizio la faccenda mi disturbava
alquanto. Svegliarmi sudata nel mio letto dopo strani incubi
che non riuscivo mai a ricordare, e poi guardarmi il corpo
allo specchio per scoprire se il sogno aveva lasciato il
segno, come succedeva quasi sempre. Sono due anni che va
avanti questa storia, esattamente dal giorno in cui mi persi
nel bosco. Proprio come Pollicino, dannazione… Che
scema! Gettai nel cestino dei ricordi tre anni di relazione,
sbattendo la porta in faccia a Nicco dagli occhi verdi, gran
bell’affare! Ubriaco alla festa di ognissanti si era buttato
sulla sua ex e poi era venuto con la coda tra le gambe a
chiedermi scusa. Il minimo che si meritava era che lo
mandassi al diavolo, ed è quello che feci. Schiumante di
rabbia incominciai a girare a vuoto col motorino per le
strade di una periferia che non conoscevo. Poi mi lasciai
alle spalle anche le case e mi ritrovai sulle colline. Sentii la
marmitta scoppiettare e solo in quel momento mi resi conto
che ero rimasta senza benzina. Che stupida… Lasciai il
198
motorino sul bordo della statale e provai a tornare indietro
a piedi, ma la strada saliva ripidamente e le luci della città
erano sulla mia destra, oltre gli alberi. Così lasciai la strada
con l’intenzione di tagliare per il bosco. E feci la fine di
Pollicino… Il buio mi sorprese che ero ancora tra la
vegetazione. Non vedevo più niente, né strade né luci, solo
alberi, rami ed arbusti. Nonostante tutto provai una strana
sensazione di quiete. Mi sedetti su un letto di foglie secche
per riprendere fiato ed invece mi addormentai. Fu la prima
volta che sognai quelle cose che non riesco mai a ricordare.
Quando mi svegliai era giorno e mi rimisi subito in
cammino. Non potevo credere di aver passato la notte nel
bosco, da sola. Era tutto molto strano. Era come se mi fossi
appena appisolata, anche se mi sentivo fresca e riposata, e
non come se avessi appena passato la notte sulla terra
umida di un bosco alla fine di ottobre.
Quando tornai a casa mi buttai sotto la doccia e lo vidi,
poco sopra la caviglia destra. Era il primo messaggio della
Madre sul mio corpo, una farfalla stilizzata, poco più
grande di un’unghia. Da quel giorno è successo altre
ventitre volte. Il mio corpo è il foglio bianco della mia
signora, che piange per le pene inflittele dai suoi figli. Ella
ci parla in molti modi, ma noi continuiamo ad ignorarla.
Per due anni mi sono chiesta perché io. Perché la Madre ha
scelto di parlare specificatamente a me. Ancora non
conosco la risposta, ma so che il giorno in cui riuscirò ad
afferrare il senso dei miei sogni, sarò in grado finalmente di
leggere i simboli di cui il mio corpo è ormai disseminato.
E fino a quel giorno sarà un onore per me essere la carta
da lettere della mia signora.
199
imprenditore anche lui vittima dell’esplosione di venerdì
scorso. Gli inquirenti presumono che la ragazza abbia
agito da sola e che il suo gesto sia stato il risultato di una
lunga e convulsa escalation di stati mentali deviati.
Qualcuno invece sospetta che la storia dei tatuaggi possa
aver a che fare con altri strani fenomeni che si stanno
ripetendo negli ultimi tempi, come i sempre più numerosi
casi inspiegabili di cerchi di grano nel nord Europa.
Purtroppo l’esplosivo indossato dalla Parisi ha
completamente divelto il suo corpo e non è stato possibile
accertare la presenza di questi peculiari tatuaggi, anche se
i conoscenti della ragazza dichiarano di averli visti in più
occasioni.
Ci si chiede a questo punto, nel caso la favola della
Parisi contenesse un minimo di verità, a quante altre
persone la Terra stia parlando in questo momento, e quante
altre bombe ad orologeria stiano per essere innescate.
200
UNA CAREZZA ANCORA, PASSERA'
di Claudia Cafarelli (101 Parole)
201
IL VERME ZANNATO
di GM Willo
202
dio dell’oscurità che viene a pranzare insieme a me, con
me, di me. C’è un buco oltre il tredicesimo quadro, nei
fondali sconfinati della matrice. Laggiù ognuno deve fare
con quello che ha. Galleggiano meduse letali e fameliche
murene, ma di pesciolini curiosi ve ne sono sempre
tantissimi. La libertà, quella totale e imbarazzante, ha il
prezzo più alto. Il tredicesimo quadro è un luogo buio.
Laggiù i codici ritornano indietro a sbalzi e spesso si
alterano, mandando in corto il sistema. Più volte mi sono
risvegliato di botto senza capire dove mi trovavo o da dove
ero riemerso. Laggiù il filamento può perdersi in un
labirinto di specchi, e farti assaggiare un brivido di eternità.
Roba da farti perdere la testa! Ma c’è un buco. Forse è
proprio uno di quegli specchi che, mutandosi, ha creato una
voragine, un accesso verso qualcosa di se possibile ancora
più obliante. E laggiù ho risvegliato Lui, il verme, colui che
striscia attraverso chilometri di cunicoli sotterranei
anelando la mia anima. Ancora dieci minuti e sarà qui.
Ne esistono molti altri come lui. Ve ne sono migliaia e
dimorano nelle profondità della terra. Come faccio a
saperlo? Me lo ha detto lui, prima che iniziasse la sua
rapida ascesa. Nella grotta la sua testa dentata si è sporta
fin sopra il filamento che mi rappresentava. La sua forma
anelloide si è avvinghiata al mio noncorpo, sussurrandomi
parole feroci. Mi ha anche detto il suo nome, ma l’ho
dimenticato, oppure semplicemente non sono in grado di
decodificarlo in questa sembianza. Adesso lo chiamo il
Verme Zannato, e mi sembra un nome bellissimo.
Il rumore è diventato insopportabile. Le pareti della
stanza hanno incominciato a tremare, i vetri delle finestre
che danno sui marciapiedi della città tra poco
esploderanno, perché il dio della terra farà il suo ingresso
per il banchetto. Addio, corpo, ti lascio per sempre. Sarai la
colazione del mio sublime signore, Verme Zannato, essere
dormiente e padrone di una razza defunta. Vieni… sono il
tuo pranzo...
203
E voi, prestate molta attenzione. Non anelate troppo
l’oblio, perché lui adora soddisfare le vostre richieste…
204
LA SAGGEZZA DEL VECCHIO
di Bruno Magnolfi
Tutto è già stato spiegato; la comprensione delle cose non
ha più scopo: tutto è ormai chiaro, evidente, palese. La
libertà che offre il nuovo stato di cose è enorme, e chiunque
gioisce in cuor suo dello scopo raggiunto. Solo qualcuno,
isolato dagli altri per le più differenti ragioni, non è conscio
dei cambiamenti avvenuti. Tra loro un vecchio che vive da
solo, in una casa lontana. Lui ogni giorno, quando il sole è
su in alto, si siede sopra una pietra, e riflette su quel mondo
imperfetto da cui fortunatamente vive distante. Poi, un
pomeriggio, qualcuno lo vede, si avvicina cautamente, lo
saluta con un gesto forse un po’ esagerato, come per
accennare alla nuova stagione, regalando alla sua direzione
un sorriso che è persino troppo sfarzoso, tanto da apparire
un po’ falso, inadeguato. Il vecchio ricambia con un
semplice cenno, poi, lentamente, come fa sempre, si alza da
sopra la pietra, e senza guardarsi più attorno rientra nella
sua casa, scomparendo alla vista.
205
F I N E S T R E I N S O N N I
di Miriam Carnimeo
Una donna guarda fuori dalla finestra, un uomo le cinge le
spalle e le bacia il collo, lei continua a guardare fuori quasi
impassibile, sembra che in quel buco di vetro trovi riposo,
un passaggio segreto da un dentro apparentemente ordinato
ad un fuori caotico ma interessante. Anche in inverno,
molte finestre rimangono aperte, molti i volti scrutare dalle
trasparenze, gli sguardi rivolti verso l’alto come cercando
di se il più intimo pensiero .
Così anche quando si cammina, quando distrattamente la
testa spinta dal basso cerca un buco nell’aria, quel pezzo di
cielo sembra farti ricordare la tua umanità. I tuoi passi sono
tra migliaia di scarpe, automobili, buste di plastica, edifici
compatti, così simili e a volte anche tristi, se non fosse per
quelle finestre e per alcuni balconi, piccoli giardini sospesi,
talmente fitti da riuscire a malapena ad affacciarsi, ma
spezzano il grigio e lo fermano il passo. Attraverso le
finestre le giornate si lasciano guardare già dal primo sole
del mattino, il suo spegnersi lento, lo sviluppo di una
fotografia a colori che d’improvviso muta in
impressionante bianco e nero. Solo a tratti si illumina di
piccole macchie gialle sfumate dai silenzi chiusi dei
lampioni, falene che ci girano intorno ed i soliti gatti già
nascosti nei buchi del cemento.
La luce di ogni finestra accendendosi, racconta storie,
umori, sogni sudati, canzoni che spesso echeggiano
nell’aria, lasciando sperare nella carezza finale di una vita
che corre. In estate con il caldo le vedi aprirsi al volo libero
delle rondini, facendo gustare agli occhi e alle labbra il
sapore dolce del mare fattosi vicino alle risate frettolose dei
passanti. Nel freddo, i suoi vetri diventano fogli su cui
alitare il caldo fiato dei propri pensieri, in attesa che il buio
li inghiotta.
206
Qualche volta accade, certe espressioni dell’anima
divampano nello sguardo attento, richiamato da una donna
dai capelli rossi che attraversando una strada, regala sorrisi
senza conoscere nessuno, lei sembra avere solo quello, un
bel sorriso che emerge tra maschere e passanti. Guardi tutte
quelle facce nascoste tra le mani, i passi stanchi di chi non
ha ancora dormito, un padre che saluta la figlia dalla sua
finestra gridando il suo nome, un uomo seduto su un
muretto che si lascia accarezzare dal vuoto, una ragazza
grassa guardarsi preoccupata in uno specchio. Con le
gambe a ciondoloni delle ringhiere i bambini ci guardano,
e nei loro occhi il ricordo di come eravamo, loro, ancora
seduti su una soglia, verso mattini che conservano odori e
piccole mani di un mondo che non riesce a pensarli.
A loro rimane almeno il tempo di sorridere, a volte anche
un semplice osservare. Un pensare lento nello scorrere
veloce che riconosce solo il presente, senza nessuna paura
di vivere né di morire. Così, illuminati dalla luce filtrata dai
vetri, la loro vista accompagna il tatto emozionante del dito
contro l’aria, cancellando ogni tempo. Questa è l’immagine
che viene fuori dal caos con tenerezza infinita, si scrive da
sola su un muro, suggerendo l’interruzione del giorno in un
miracoloso, simbolico fermarsi.
“Basterebbe guardarci negli occhi per osservare di
ognuno la propria storia e la verità canterebbe con la stessa
voce.”
In certe notti, la parola si presenta come semplice,
coreografico fantasma di se stessa, ha l’odore della polvere,
crepita dal di dentro come legna sul fuoco, tutta sotto i
vestiti, resa ormai gracile da un’autentica fame di ritornare
ad essere. In quest’ora tutto non si muove. La nostalgia
indaga sulla notte aperta. Percepisco l’aria e i dintorni con
la pelle che d’improvviso si fa dura e tesa, anche il vento
ha cominciato a soffiare, ma solo per un istante, su ciocche
di capelli e profili, di un caldo fiato tra naso e bocca.
Chiudo gli occhi, le ombre brillano su ponti di polvere
207
vivendo immagini di lenti passi e parole in lontananza. Nel
regno sensibile , il visibile imprime e si svela, il buio in
piedi mentre la mente si risveglia. Quanto cammino per
arrivare in questo luogo così lontano dalle luci della città ed
il respiro malato delle strade.
Dalla finestra, ora, il corpo abbondante di una montagna
ancora vestita di abiti estivi, di un verde fitto e spesso,
come coperta da una vernice indelebile, si ha la sensazione
che rimarrà sempre così, poi gli odori aprono un taglio, si
svuotano leggeri dentro quella piccola fessura, e la
memoria ne viene fuori con occhi di un diverso colore, lei,
amichevolmente che accoglie e ricorda, finalmente
dimenticando un presente schiacciato dal continuo
borbottare del suo stesso stomaco.
In questa stanza la scopro tacere e spingersi oltre il
mistero della logica, ogni perché si scandisce nel ritmico e
cadenzato ticchettare delle mie unghia sul vetro. La luce si
spegne mentre la mano sorregge ancora i sogni di un
leggero vibrare di cuore tra il cuscino e la memoria della
luce che domani, spaccherà immensa la finestra. Mi scopro
tradita dal mio stesso pensare, così tutto ridiventa e
nell’attimo dopo si ricrea.
Poi qualcuno apre la bocca, tira fuori una rabbia con la
faccia da mostro, e seminando fiamme allontana emozioni
che debolmente divengono banali e troppo delicate per i
suoi bruschi gesti. Quella voce si alza, scuote i muscoli ad
ogni variare di frequenza, soffoca il silenzio come mano
ingorda, padrona del giorno si aspetta solo un’ambigua
stanchezza a risucchiare ogni nera energia. Facile davvero,
penso.
Poi trovi puttane di sentimenti vendersi al miglior
offerente, e gli animali nei piatti d’argento, con odori forti,
aromatizzati per palati esigenti, flusso di macchine colorate
soffiare fumo già ai primi attimi di respiro. Al primo urlare
è già pronta una bestemmia covata nell’insonnia e dalle
mancanze che hanno scavato buchi profondi nell’anima,
marci e della stessa puzza dei rifiuti per strada.
208
In questi luoghi dove nascerebbe la poesia? Una voce
fuori campo suggerisce, nella prima luce che si specchia sul
viso, ma dovresti svegliarti di soprassalto per inseguirla,
magari obbligandola a rimanere nuda per imparare a
goderla in silenzio.
Arriva l’odore del caffé, ha già una forma, lasci che si
estenda nella tua camera di pensieri scheletrici, le dai una
voce corposa che ravvivi la gola di un suono che diventa
canzone, magari, la poesia sta nel cantarla solo al vento
freddo dell’inverno che ghiaccia il cuore in un solitario
toccarsi. La luce dura poco, il buio si protrae. L’ispirazione
è una sposa dal velo lungo che strisciando ti lascia
inciampare. La scrittura di un inchiostro nero che sporca il
claustrofobico bianco di emozione incredula, ad ogni tratto
ti convince a lasciarla da sola ed in luoghi più aperti.
Poi se la ride in un portacenere, dove una sigaretta non
aspirata si brucia autonoma. Attimi dopo qualcosa accade,
un altro qualcuno che conosci, apre la porta, si siede con
fare nervoso e ti guarda simpaticamente rilassato. Ha fatto
una passeggiata ieri sera, camminato nell’unico giardino di
fronte ad una fontana, le tasche piene di mollica di pane per
sfamare uccelli e pesci di un appetito, senza rimedio.
Continuava a fare domande a passanti solo con gli sguardi,
loro con la testa bassa e le mani trattenute da guanti di lana
a mezze dita. Lui ha sempre cercato la poesia, senza
conoscere sfumature, né aria fresca nel naso, per
assaporarne le intuizioni. In quel suo giorno il cielo ha
cominciato a lamentarsi, la pioggia ha inondato ogni
possibile memoria, solo il presente a strizzargli gli occhi di
lacrime poggiate sulle labbra cadenti.
Poi le mani, tempo visibile tra le macchie scure
tinteggiargli la pelle, non più chiuse nel pugno di un
esistenza trascorsa a difenderla nel contenuto. Il suo sangue
scorrendo firma la propria presenza in uno spazio così
piccolo da non riuscire ad accettare la ragione del proprio
smarrimento. La memoria ancora emerge, come sacco
pesante, che continua a ricordargli il valore intoccabile di
209
una semplice carezza accolta ad occhi chiusi e sole in
faccia. Tutti i suoi resti sono nel palmo segnato, che si
stende come una benedizione sulla testa. Raccolto nel
cappotto scriveva racconti senza penna, poi di corsa a
raggiungere il calore di una luce così accogliente da far
rabbrividire anche i vetri. Sotto una finestra ad
immaginarne il calore, poi con le orecchie sul palo della
luce per catturare l’unica voce di una notte di strada. Lui
una memoria c’è l’aveva, gli bastava aprire di più gli occhi
per ricostruire paesaggi, volti, luoghi, e raccontare il tutto
come guardandolo galleggiare in uno specchio.
“Quanto hai scritto tanto?” e poi rideva di me.
“Io scrivo di cuore” mi diceva “e non ho bisogno di
scrivere, ci sono altri che scrivono di culo non avendo
niente da dire, io non li ho mai visti sia ben inteso, ma
quelli che scrivono di testa e di cuore si!”
La testa te la possono rubare, facile preda con i suoi
preziosi pensieri e nomi, ma il cuore, quello no, quello
viene con te ovunque e parla anche quando fuori ma molto
freddo, le sigarette sono finite, e poco lontano bruciano un
vecchio sulla panchina addormentatosi magari nel tuo
stesso sogno. Nell’odore di quell’aria, le parole diventano
così piccole da perdere ogni valore, ed è solo il cuore a
ricordare e a saperne scrivere.
Questo tipo di poesia non si inventa, non chiede nulla ma
felicemente esiste. Adesso leggi pure, mi disse, siamo
quello che scriviamo, con delle ali nello stomaco,
nidificando in ogni sguardo il senso di ogni memoria e
della sua consolante nudità.
210
CYBERBLUES
di GM Willo
Una bottiglia di bourbon e il cielo grigio della città. Non
ho bisogno di altro per stasera. Il malto attanaglia le
budella come solo lui sa fare, e la testa galleggia tra le note
di un vecchio disco, lontana dai baci e dalle carezze di lei,
che non è più con me…
Si chiamava Alice, ma per gli amici era solo uno dei tanti
modelli Kaifer5600, ed io per lei me li sono giocati tutti…
gli amici. No, non era un semplice oggetto da vetrina. Io
l’amavo, com’è vero questo cielo grigio ed il bicchiere
vuoto che ho in mano. Non me n’è mai fregato niente di
quello che pensava la gente. Come se non lo sapessi di che
pasta erano fatti quegl’ipocriti dei miei colleghi…
Io sono un tipo all’antica. Da quando hanno legalizzato i
programmi Truesex, le bimbe di lattice sono diventate roba
per i nostalgici. Le ho provate quelle dannate Orgychats,
ma non sono mai riuscito a partire completamente. Le
simulazioni sono così esatte che non puoi fare a meno
d’intuire l’inganno. Alla fine il sesso è solo nella tua testa,
e il risveglio è assolutamente deprimente. I vecchi modelli
Kaifer invece sono una sicurezza…
Alice mi guardava attraverso due smeraldi sintetici e
lunghe sopracciglia in similcorno. I suoi occhi dicevano
sempre la verità. Il nostro amore è cresciuto nel tempo, tre
anni e undici mesi dissipati di momenti meravigliosi; le
serate al teatro olografico, il ristorante tailandese al
cinquantatreesimo piano del boulevard, le corse in auto
sulla sopraelevata, ma soprattutto le notti d’amore tra le
sete porpora del nostro letto. Dio come l’amavo…
Ricordo la sera che mandai a quel paese il mio capo.
Eravamo a una cena di lavoro e lei era bellissima. Accanto
alle mogli dei miei colleghi, Alice sembrava una regina in
mezzo a un manipolo di mummie. Sorrideva, parlava
211
disinvolta senza mai sembrare invadente, sensuale e
intelligente al tempo stesso. Tutti sapevano quanto era
importante per me che la trattassero con il dovuto rispetto,
ma la gelosia è una brutta bestia. Al mio capo uscirono
dalla bocca un paio di battute fuori luogo e io non ci pensai
su due volte; mi alzai dal tavolo e mandai al diavolo tutti i
presenti, poi me ne uscii fiero con lei accanto, splendida nel
suo completo in vinile rosso. Quella notte si dette a me
completamente, attingendo ai programmi più seducenti,
improvvisando sulle informazioni che aveva registrato fino
ad allora, mostrandomi senza mai rivelarmi l’inganno. Ma
potevo davvero parlare d’inganno con lei? No, e adesso lo
so. Ho amato un modello Kaifer, e allora? Non sono il
primo uomo che ha perso la testa per una macchina, e non
sarò neanche l’ultimo.
Il disco è finito e la bottiglia pure. Lei giace riversa sulla
poltrona, con gli smeraldi chiusi e il led spento. Una
manciata di cavi le ricadono sul collo. Ho provato a
recuperare qualche dato, ma il disco è completamente
partito; niente back up! Quasi quattro anni di relazione
cancellati per colpa di un dannato corto circuito. Dio,
perché mi hai fatto questo…
Ma dio non c’entra niente. Anche lui è roba da nostalgici,
perché una donna perfetta come Alice dio non sarebbe mai
riuscito a concepirla.
Addio amore. Non ti dimenticherò…
212
LIBERO
di Bruno Magnolfi
213
ventilatore: è sufficiente, è tutto quello che mi attira. Lì
dentro c’è tutto quello di cui abbiamo bisogno, lo dovrò
dire in giro un giorno o l’altro. E’ la contemplazione l’unica
soluzione a tutti i problemi. Il mio inquilino lo sa, forse lo
ha capito anche prima di me, e lascia che io faccia le mie
osservazioni anche per lui. Però non provate ad
interrompermi. Il mio inquilino mi picchia da dentro, si
arrabbia e mi percuote la testa, lo stomaco, tutto. Mi fa
provare dei dolori assurdi quando viene interrotta la
contemplazione, e per ora se la rifà solo con me, ma io so
che non durerà per molto. Questi infermieri non hanno
ancora capito niente. Vengono qui e mi legano, come se
fosse una soluzione. Non hanno ancora capito che il mio
inquilino può sciogliere tutte le loro cinghie, può farmi
alzare da questo letto, farmi andar via, ma io non voglio.
Non voglio ritrovarmi per la strada dove c’è tutta quella
gente che si muove in fretta e cambia continuamente
immagine davanti ai miei occhi. No, questo non va bene,
perciò l’ho detto al mio inquilino, bisogna stare qui e
sopportare le idiozie degli infermieri. Bisogna stare al loro
gioco, finché è possibile, fino al punto in cui io e lui non
perderemo del tutto la pazienza. La contemplazione è il
motore del mondo: lo lessi sopra a un libro quando ero
ragazzo, e dopo che l’ebbi letto seppi che era vero, che era
così, come diceva il libro. Fu allora che qualcosa iniziò a
muoversi dentro di me, a dirmi che non c’ero solo io, a
farmi capire che ero posseduto. Lo farò capire a tutti, un
giorno di questi, e quando finalmente lo capiranno, sarò
libero.
214
PREFERENZE
di Federica De Angelis (101 Parole)
215
GENERAZIONE DISTACCATA
di GM Willo
Perché fai quella faccia?
Niente…
Dai, su col morale! È Natale!
Appunto. Il minimo sarebbe passarlo insieme a mà e pà,
invece guardali… chissà dove sono adesso…
Jeremy e Gaia facevano colazione sul tavolino della
cucina, fiocchi d’avena e latte biologico. La luce era forte
e veniva dalla finestra, perché nonostante fosse il 25
dicembre la giornata era spettacolare e l’inverno sembrava
lontano molte settimane. Babbo Natale era stato generoso
quest’anno; upgrade originali per il sistema operativo di
Jeremy e un nuovo interfaccia per la sorellina. Il
divertimento era assicurato per entrambi, eppure…
Da quanto tempo sono dentro?
Da ieri sera. Quando sono rientrato dalla festa del liceo
erano già lì.
A proposito, come è andata? C’era anche Linda?
No… ci siamo lasciati.
Cavolo fratellino, com’è possibile che non riesci a
durare neanche un mese con le ragazze?
Jeremy contemplava la montagna di schiuma sopra i piatti
sporchi, quelli del giorno prima, e i riflessi multicolori su
ogni singola bollicina. La schiuma l’aveva fatta lui prima di
sedersi a mangiare, cospargendo le stoviglie di abbondante
sapone e aprendo il getto a doccia del rubinetto. La cucina
aveva bisogna di una risistemata, ma ci avrebbe pensato la
donna delle pulizie dopo le vacanze. Fino ad allora sua
madre avrebbe continuato ad ammucchiare piatti nel
lavandino, incurante del casino. Tanto valeva darsi da fare,
pensava lui. Se sua sorella gli dava una mano sarebbe stata
questione di una mezz’ora al massimo.
Dai, puliamo questa roba.
216
E loro?
Li lasciamo attaccati. Lo sai che non vogliono essere
disturbati.
E il pranzo di Natale?
Ti va il cinese?
Papà e mamma erano immersi nel programma natalizio,
con tanto di renne, elfetti e col vecchio Santa adagiato sulla
slitta, più grasso che mai. L’esperienza era offerta dalla
medesima bibita che aveva inventato l’omone rosso che
porta i regali. La promessa nello slogan di presentazione
aveva richiamato oltre 300 milioni di accessi nei giorni che
precedevano la festa sacra: “In Christmasworld 2032
tornerai a credere a Babbo Natale!” Più tardi un ragazzo di
nome Lee suonò il campanello e porse a Jeremy un
sacchetto di carta con dentro due porzioni di gamberi
agrodolci e quattro involtini fritti.
Ci sediamo in salotto?
No, ti prego. Non ne posso più di sentire il frinio del
processore. Andiamo in terrazza, che si sta bene…
Fratello e sorella consumarono il pranzo di Natale in
silenzio, nell’arietta gentile di quello strano dicembre.
Diciassette anni lui, dodici lei. Alcuni già la chiamavano la
“Unplugged Generation”.
217
LE POLITICHE
di Gano (101 Parole)
218
ELISA A NATALE
di Bruno Magnolfi
Molte volte si era ripetuta tra sé nei momenti in cui lo
sconforto era stato maggiore, che lo svolgere quel lavoro di
positivo aveva diversi elementi: le permetteva di conoscere
molte persone, per esempio, di interagire con loro, di
imparare cosa dire, come sorridere, come parlare, in poche
parole ad essere più socievole di come non fosse mai stata
in precedenza. Ma non era facile, neppure così, neanche
con l’entusiasmo che continuamente cercava di avere,
affrontare i problemi che ogni giorno le si presentavano.
Erano trascorsi solo due mesi da quando era stata assunta
come commessa in quel negozio di abiti confezionati per
uomo e per donna, e certi giorni per lei erano stati davvero
duri, pesanti, infiniti, quasi insopportabili. Le era stato
detto già al primo giorno che non c’era una scuola, doveva
essere sveglia, imparare da sé, fare quello che facevano le
altre, le sue colleghe, non c’era il tempo per darle consigli.
E lei aveva fatto così, pur avendo tantissimi dubbi. Poi,
dopo la prima settimana si era sentita più forte. Però non
riusciva a capire perché quei clienti certe volte fossero così
scortesi, aggressivi, mai soddisfatti. Se assumeva
l’espressione della servizievole, della vittima a
disposizione di chi voleva provare le giacche, le camicie, le
gonne, i calzoni e tutto quello che era esposto dentro al
negozio, allora era peggio. L’unica possibilità per resistere
era quella di dare poca importanza a ciò che veniva
richiesto, ascoltare una persona alla volta e incoraggiarla il
più presto possibile a comprare ciò per cui era entrata
dentro al negozio, magari usando soltanto un semplice
gesto, un’espressione del viso, o una brevissima frase, o
uno stupido giudizio affettato. Il cliente alcune volte non
chiedeva nient’altro se non quel minimo apprezzamento,
quel surrogato sociale di incoraggiamento alla vita, quella
219
semplice spinta a stare con gli altri, a sentirsi bene con gli
altri, ed era sufficiente quella sua convinzione, non
occorreva nient’altro. Lei certe volte si vergognava di quei
modi che imparava ad usare, si sentiva finta, ridicola,
insulsa, ma vedeva le altre colleghe più esperte di lei e
capiva che era quello il modello a cui stare dietro. Però con
tutte quelle ore in piedi ogni giorno a fare la sorridente con
tutti per quei pochi soldi, e con un contratto che scadeva
dopo sei mesi, le pareva che il mondo reale fosse più triste
di quello che si era aspettata. Elisa aveva quasi vent’anni, si
era presa quel diploma irreale ed inutile con sacrificio,
perché studiare e andarsene a scuola non le piaceva, e
quindi aveva cercato un lavoro appena le era stato
possibile, con gioia, con un senso di liberazione, e aveva
girato e bussato alle porte di tutti, solo per rendersi conto in
un anno di tempo che era ben più difficile di quello che
aveva pensato. Poi era capitata quella occasione, tramite
qualche amicizia dei suoi genitori, e si era ritrovata lì, ad
occuparsi di taglie, colori e camerini di prova, ma lei si
sentiva una tosta, non avrebbe mollato, voleva un lavoro e
quello era tale. Poi era arrivato il periodo di Natale, e tutto
si era complicato in un modo incredibile: non vedeva
neanche più le persone dentro al negozio, correva avanti e
indietro cercando di dire a tutti le medesime cose,
sorridendo quando era il momento, ripiegando
continuamente camicie provate che non andavano bene e
spiegandone altre, per cercare lo stile, il colore, la maniera
di far contento il cliente. Poi, nella confusione di un
pomeriggio identico a tutti, era arrivato quel ragazzo
carino, un po’ timido, che era entrato dentro al negozio con
le idee poco chiare; sottovoce le aveva chiesto qualcosa,
una camicia e una giacca, e lei si era subito immedesimata
nei pensieri di lui, quasi come se i loro desideri fossero
identici. Elisa gli aveva consigliato i capi di abbigliamento
migliori, o quelli che a lei piacevano di più, ma soprattutto
aveva visto le cose tramite lui, attraverso i suoi occhi, i suoi
modi, i suoi gusti, i suoi giudizi garbati, senza spiegarsi il
220
perché. Lui si era lasciato convincere, la giacca che Elisa
aveva consigliato andava benissimo, anche la camicia, le
aveva spiegato che era per andare a una festa, a una cena
importante, e lei lo aveva visto già lì, in mezzo alla gente,
con la sua giacca, con quella camicia e quei suoi modi
cortesi. Poi lui era andato alla cassa, aveva pagato, si era
fatto piegare la camicia e la giacca dentro a una busta e si
era incamminato verso la porta, già proiettato al di fuori da
lì, come tutti i clienti quando ormai avevano scelto, quando
soddisfatti lasciavano tutto alle spalle, ma prima di uscire
era tornato un momento da Elisa: “Grazie”, le aveva detto
con semplicità, “Vorrei tanto tu fossi con me a quella
festa…”.
221
CINDERELLA
di GM Willo
222
assicurate. La prima volta fu un banale incontro random.
L'avatar dell'uomo le si avvicinò con un sorriso stretto, il
membro maldestramente allungato da alcuni programmi di
dubbia fama, il corpo statuario poco credibile. Lei era
rimasta lei, perchè all'inizio non era capace di alterare la
sua immagine. Incominciò a giocare attingendo alla sua
immaginazione. Non aveva neanche mai visto un uomo
nudo, né nella realtà né tanto meno laggiù. Lui non era un
esperto ma le regalò un piacere che non avrebbe mai
creduto potesse esistere. Al risveglio avvertì un grande
calore tra le cosce e una senzazione umida e piacevole.
Mentre cercava di ricomporsi per l'esperienza appena
vissuta, avvertì la mancanza, come un colpo al basso ventre
che ti toglie il fiato. Il bisogno di quella sensazione le si
insinuò violentemente nella testa, e non potè fare altro che
riconnettere in cavi al plug sotto pelle.
Nel giro di due mesi Cinderella è diventata una habituè
della Loggia, il portale di giochi erotici più in voga del
momento. Gli esaltatori sensoriali di nuova generazione
permettono rapporti multiplici in tempi ristretti. In questo
modo la piccola Chiara riesce a soddisfare fino a trecento
proiezioni in appena due ore. Le proiezioni non sono solo
uomini e donne ma spesso anche creature bizzarre, oppure
animali. Le era capitato di farsi penetrare dalla verga
d'acciaio di un uomo di metallo, di ingoiare litri di seme
rosso fuoriusciti dal membro di una creatura antropomorfa,
di ritrovarsi in una stanza imbottita insieme a trentacinque
incontri random in una volta sola. Chi si trovava dietro
queste rappresentazioni virtuali? Durante l'atto sessuale
spesso lei riusciva a riconoscere l'identità del proiettore. La
maggior parte delle volte si trattava di sconosciuti, persone
che probabilmente abitavano dall'altra parte del mondo, ma
in un paio di occasioni intuì chi si nascondeva dietro quelle
perverse proiezioni. Il professore di matematica amava
assumere la forma di un uomo grosso provvisto di seni e
vagina, e con un membro grande quanto un braccio. E poi
c'era il prete ovviamente, quello che le aveva fatto la
223
comunione. Non sembrava molto preoccupato di poter
essere riconosciuto dentro quella Babilonia di impulsi. Il
suo avatar era ottimo, assolutamente reale, e poi ci sapeva
fare davvero. Più di una volta Chiara aveva pensato di fare
un salto alla chiesetta in fondo alla strada e constatare di
persona le qualità di Don Gilberto, ma sapeva bene che era
sempre meglio non mischiare la realtà con il sogno. Ogni
mondo ha le sue regole...
Anche oggi Chiara è tornata a casa con due ottimi voti.
Dà un bacio alla madre che prepara il sugo in cucina e poi
sale in camera per accontentare un irrefrenabile impluso
che regolarmente le sale ogni pomeriggio dal basso ventre.
Lei non sa che l'impulso si chiama Aphrodite, e che si tratta
dell'ultimo virus elaborato dalla Hamato Videogames, la
società produttrice di videogiochi per adulti più famosa
della rete.
224
POI TI HA BACIATA
di Mastro Tensione (101 Parole)
225
IL RAGAZZO E LA STRADA
di Bruno Magnolfi
226
i corridoi che formavano i baracconi del tiro al bersaglio, e
mi disse soltanto: “devo smettere, vado a raggiungere un
amico”, non ricordo più in quale città. Non era vero niente,
naturalmente, ed io pur lisciandomi i baffi quanto potevo,
non riuscivo per nulla a capire perché andava via proprio
adesso, ora che aveva imparato quel che c’era da sapere,
che si era guadagnato il rispetto di tutti, che qualcuno,
quasi senza saperlo, aveva iniziato a volergli anche bene.
Probabilmente la sua strada era quella, lui lo sapeva, aveva
qualcosa di dentro che lo trascinava da qualche parte,
qualcosa che non avrebbe mai rivelato a nessuno. Gli detti
i suoi soldi, anche qualcosa di più, lo abbracciai, come si fa
sempre tra noi, e non gli chiesi più niente, era inutile; e
invece lui disse che mi avrebbe spedito una lettera. Non ci
credetti, naturalmente, ma dopo un po’ iniziai a chiedere, a
volte, se era arrivata posta per me, come se ci sperassi
davvero. Non mi passava di mente, speravo che dopo un
periodo di tempo ritornasse da noi, che riprendesse a
lavorare alle giostre. Dopo un anno invece arrivò la sua
lettera. Poche righe, un solo foglio piegato, lo lessi d’un
fiato e non capii niente, così lo rilessi da capo. Non diceva
un bel niente, non chiedeva un bel niente, però tra le righe
si capiva che era lui che scriveva, che mi voleva dare
qualcosa di sé. Rilessi di nuovo tutto da capo, e infine
capii. Parlava di un sogno che aveva sempre avuto, ma
neanche lui sapeva cos’era. Diceva di un percorso che
aveva iniziato, tutto dentro ai suoi sentimenti, alla sua testa.
“Forse sono un po’ matto”, spiegava; “però devo seguire la
strada che sento, non sarei una persona se non facessi così”.
Poi passava ai saluti, e mi diceva che era contento di
avermi conosciuto, perché gli avevo dato molto di più di
quello che io avevo creduto di dargli; e poi concludeva:
“non preoccuparti per me, le risposte ad ogni domanda che
adesso ti poni è lì, sopra ai tuoi baffi…”.
227
CUCCIOLO
di GM Willo
Al piccolo Giacomo piaceva la sua scimmietta di peluche,
quella con le calamite sui palmi e gli occhi leggermente
storti. Gliel'avevano regalata a maggio durante la gita al
parco degli animali, un'occasione speciale per festeggiare il
suo quarto compleanno, trascorso meravigliosamente
insieme ai suoi genitori, che purtoppo vedeva solo nel
weekend, o a sera tardi prima di andare a letto. Loro erano
molto indaffarati; lavoro, appuntamenti, amici, palestra,
tutti i giorni c'era qualcosa, e anche il sabato poteva vederli
solo di sfuggita, perchè c'era la spesa da fare e poi tutte
quelle cose che non avevano il tempo di sbrigare durante la
settimana. Insiema a Giacomo ci stava la tata, Carmela, una
donna un po' strana con la pelle scura ma sempre gentile.
La domenica invece c'era la partita; papà se ne stava in
salotto davanti alla TV, a volte c'erano anche degli amici,
mentre la mamma si metteva a leggere, oppure andava a
fare shopping quando i negozi restavano aperti. Lui il
pomeriggio rimaneva nella sua cameretta a giocare a duplo
oppure con i treni, e ogni tanto si affacciava in soggiorno
per chiedere un bicchiere di latte o un biscotto, con la
scimmietta sempre avvolticciolata al braccio. Non la
lasciava mai.
Proprio perchè poteva vederli solo di rado le giornate
insieme ai suoi erano sempre delle occasioni di festa. In
estate succedeva anche due volte al mese, perchè la
domenica non non c'era il campionato e le giornate erano
belle e fuori si stava d'incanto. Allora lo portavano ai
giardini oppure al mare, e poi al ristorante dove poteva
ordinare un piatto di patatine fritte tutto per lui, e al ritorno
si addormentava in macchina ed era bellissimo lasciarsi
cullare dalle vibrazioni dell'auto. Quelli erano i momenti in
cui sentiva tanto caldo al cuore, una sensazione
228
meravigliosa che lo lasciava tramortito. Era l'amore che
provava per suo padre e sua madre. Li osservava seduto
nell'oscurità della monovolume, con le luci dell'autostrada
che rimbalzavano sui finestrini. Si perdeva nel profilo
aguzzo di lui, concentrato alla guida, gli occhiali con la
montatura fine, il ciuffo appena striato di grigio che gli
ricadeva sulla tempia destra. E poi accanto c'era lei,
bellissima con la sua chioma dorata dalla quale spuntava un
orecchio perfetto, soffice come un marshmallow. Oh, come
amava i suoi genitori. Avrebbe voluto stare sempre insieme
a loro, sera e mattina. Ma c'era l'asilo e poi tra poco sarebbe
iniziata la scuola. Il padre aveva appena ricevuto una
promozione e quindi il lavoro sarebbe aumentato, e la
madre aveva intenzione di scrivere un libro e quindi
avrebbe avuto ancora meno tempo da dedicare a lui. Di
sicuro però ci sarebbero state altre giornate come quella al
parco degli animali, per il suo compleanno e poi per le feste
di natale, oppure in agosto quando tutti vanno in ferie.
Il pensiero di quelle prossime avventure lo cullò insieme
alla musica di sottofondo dell'autoradio. Il piccolo
Giacomo, col calore confortante all'altezza del petto, si
lasciò andare al sonno di un amore limpido ed
incondizionato.
Ore dopo, davanti ai volti stravolti dei suoi genitori, il
medico disse che il suo cuoricino aveva semplicemente
cessato di battere.
229
PAMELA
di Jonathan Macini (101 Parole)
Dovevo assolutamente trovare l'assassino di Pamela, non
per vendicarla ma per riuscire finalmente a dormire la
notte. Appena chiudevo gli occhi lei arrivava, con quel
vestitino bianco a fiori tanto grazioso, lo stesso che
indossava quando la trovammo riversa nel vicolo dietro il
Saturnia, il locale dove lavorava.
Dopo aver interrogato ogni inserviente di quel postaccio,
mi convinsi che l'assassino non poteva nascondersi lì. Nel
frattempo riuscivo a tollerare i mal di testa causati
dall'insonnia solo grazie alle pillole che mi allungava un
informatore.
Alla fine gli indizi mi condussero ad un seminterrato a tre
isolati dal bar. Era il mio.
230
INDICE DELLE OPERE
SOLO UNA ROSA di Bruno Magnolfi 9
QUEL GIORNO A ZACATECAS di Massimo Mangani 11
PASSAMI LA CICCA di Marco Muzzi 13
IL TEMPO PER AMARE di GM Willo 15
LA STORIA DI JACK IL VENTRILOQUO
di Dario De Giacomo 18
IL GESÙ DELLE PERIFERIE di Marco Filipazzi 21
INCOMPRENSIONI RAVVICINATE DI UNO STRANO
TIPO di Aeribella Lastelle (101 Parole) 23
L’ULTIMA MISSIONE DI COCISSE (DETTO DIO) E
LA NASCITA DELLA LUNA di GM Willo 24
IL PICCOLO PIERROT di Fida (101 Parole) 28
NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE di Miriam Carnimeo 29
L'AUTOSTRADA DEL SOLE di Bruno Magnolfi 32
EREDITÀ SEGRETA di Aeribella Lastelle 34
RACCONTAMI UNA STORIA di GM Willo (101 Parole) 40
L’UTILITÁ E IL DANNO DEL BIDET PER LA VITA
di Dario De Giacomo 41
L’ULTIMO LAMPIONE di Massimo Mangani 43
RADIO BLUES di GM Willo 46
DOTTOR JACOB di Jonathan Macini (101 Parole) 49
DIO TAGLIA 60 di Mastro Tensione 50
ROSI E NIENT’ALTRO di Bruno Magnolfi 55
STRIPPER di Fida (101 Parole) 62
NOTTE A SHANGHAI di Hermes 63
LA LEGGENDA DEL BRISCOLONE di Gano 68
IL CORVO E LA COLOMBA di GM Willo (101 Parole) 75
IL MALE di Bruno Magnolfi 76
IL RE DEL PORNO OVVERO “DAL COMPLESSO
AL SUCCESSO” di Massimo Mangani 79
LE TRE CARAFFE di GM Willo 88
IL PORTICO di Marco Muzzi 89
IL NASTRO ROSSO di Fida 91
AMORE RITROVATO di Marco Filipazzi (101 Parole) 94
LA CALZA DELL’ACROBATA di Federica De Angelis 95
COME UN FIUME di Bruno Magnolfi 101
IL COLORE DELL'ANIMA di GM Willo 103
IL FIUME di Giulia Riccò 109
L'UOMO CON TUTTE LE RISPOSTE
di GM Willo (101 Parole) 111
231
SIMILE SONO IO, CHE PARLO DA SOLA
di Miriam Carnimeo 112
MADONNA DI STRADA di Dario De Giacomo 114
CLARISSA di Jonathan Macini 117
IL PENSIONATO di Massimo Mangani 122
L'EROE di Aeribella Lastelle (101 Parole) 126
L'UOMO A FUMETTI di Bruno Magnolfi 127
MASTRO LINDO di Gano 129
NEVE AL SOLE di Silvia Petrianni 132
UN ATTIMO DI VITA di Daniela Silvestro 134
L'AMORE INGOMBRANTE di GM Willo (101 Parole) 135
GLI AMANTI DELLA FINE DEL GIORNO PT.1234
di Bruno Magnolfi 136
L'ALLUCE di GM Willo 145
AMPLESSO FURTIVO di Fida (101 Parole) 147
LA PRIMA VOLTA di Massimo Mangani 148
QUANDO HANNO ABBATTUTO IL PONTE…
di Dario De Giacomo 150
SUL TETTO DEL MONDO di Marco Muzzi 153
EUPHORIA di Marco Filipazzi 155
NOTTURNO D'AMORE di Giulia Riccò (101 Parole) 158
IL TEMPIO di GM Willo 159
IL SENSO AUTOCRITICO di Bruno Magnolfi 163
FRENESIA di Massimo Mangani 165
TERRORISTA PER FORZA di Bruno Magnolfi (101 Parole) 168
LO SPETTACOLO DI SPYRA PER IL CAOS
di Jonathan Macini 169
CERCHI DI FUMO di Miriam Carnimeo 172
L'UNICORNO di Aeribella Lastelle (101 Parole) 174
LA MEMORIA DEL SASSO di Dario De Giacomo 175
LE REGOLI SOCIALI di Bruno Magnolfi 178
NATALE AL BAR di Gano 180
AMBARABACCICCICOCCÒ di Fida (101 Parole) 183
NOTTE SILENTE di Marco Filipazzi 184
LA SPIAGGIA di GM Willo 188
ASSEMBLEA di Bruno Magnolfi 189
OGGETTI SENZA SOGGETTI di Dario De Giacomo 190
SHARONA di GM Willo 191
IL PICCOLO TOBIAS di Jonathan Macini (101 Parole) 194
L'UOMO DI CASA di Bruno Magnolfi 195
LO STRANO CASO DELLA SIGNORINA PARISI
di Aeribella Lastelle 198
UNA CAREZZA ANCORA, PASSERA'
di Claudia Cafarelli (101 Parole) 201
IL VERME ZANNATO di GM Willo 202
232
LA SAGGEZZA DEL VECCHIO di Bruno Magnolfi 205
F I N E S T R E I N S O N N I di Miriam Carnimeo 206
CYBERBLUES di GM Willo 211
LIBERO di Bruno Magnolfi 213
PREFERENZE di Federica De Angelis (101 Parole) 215
GENERAZIONE DISTACCATA di GM Willo 216
LE POLITICHE di Gano (101 Parole) 218
ELISA A NATALE di Bruno Magnolfi 219
CINDERELLA di GM Willo 222
POI TI HA BACIATA di Mastro Tensione (101 Parole) 225
IL RAGAZZO E LA STRADA di Bruno Magnolfi 226
CUCCIOLO di GM Willo 228
PAMELA di Jonathan Macini (101 Parole) 230
233
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FINITO DI PUBBLICARE NEL GENNAIO 2010
Ogni opera presente in questo libro è protetta dalla
licenza Creative Commons. È possibile divulgare
liberamente i suoi contenuti citando sempre la fonte e gli
autori e comunque mai a scopo di lucro.
www.willoworld.net
http//:rivoluzionecreativa.ning.com
235
RINGRAZIAMENTI
Ringrazio tutti i membri di Rivoluzione Creativa che
hanno reso possibile la realizzazione di questo libro. Spero
di poter dare molti seguiti a questa prima raccolta della
community, sempre nel segno della positività e della
condivisione.
GM Willo, Gennaio 2010
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