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L'ALBERO DELLE PAROLE

www.willoworld.net

Edizioni Willoworld

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2.5 Italy License.

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Altre Edizioni Willoworld

Racconti del Nuovo Millennio - di GM Willo - 2007

Racconti del Millennio Passato - di GM Willo – 2007

Il Libro di Floria - di GM Willo – 2008

I Musikanti di Amberyn - di GM Willo – 2008

Complici di un Gioco di Dadi - a cura di GM Willo – 2008

Alla Ricerca del Dio Senza Croce - di V. Vannozzi – 2008

Versetti Poetronici - a cura di GM Willo e di Demiurgus – 2008

Le Rivelazioni di Giovanni Meraviglio - di J. Macini – 2008

Willoclick – The Talking Eye - di GM Willo – 2008

Sebastian Claw e altri racconti - di Jonathan Macini - 2008

Storie di Nuvole – di Aeribella Lastelle – 2008

All work and no play makes Jack a dull boy – di Jack Torrance – 2008

Raptus Interruptus e altri schizzi di quotidianità – di J. Lombroso ‘08

Elaborazioni - di Valentino Vannozzi – 2008

La Giostra di Dante – Edizioni Willoworld - 2008

Storie dall’eremo del nord – di GM Willo - 2008

Un Mondo a Gambe Aperte - di Gano - 2009

L'Urlo - Edizioni Willoworld – 2009

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L'ALBERO DELLE PAROLE

a cura di GM Willo

Prima Edizione - Maggio 2009

Copertina di Kartworks

www.kartworks.net

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DUE ANNI DI WILLOWORLD

Sono passati due anni dall’apertura di Willoworld, il mio mondo


virtuale, una piccola oasi fatta di byte, nella quale posso liberare la mia
voglia di creare, comunicare, mettermi in gioco e rappresentarmi.
Esattamente così, il gioco della rappresentazione, quello che continua
fuori dal tavolo su cui ruzzolano i dadi. Questo libro dà un seguito al
precedente “Complici di un gioco di dadi”, anche se a dire il vero i
giocatori se ne sono andati da tempo. Rimangono invece le intuizioni e
la voglia di raccontare.
Ma il gioco ha sempre una parte importantissima in tutto quel che
faccio. Se scrivo per gioco non significa che non lo faccia con passione o
convinzione. Il significato della parola “gioco” può distorcersi, se visto
da altri punti di vista. Giocare non è solo divertirsi, ma anche
sperimentare, testare i nostri limiti, capire il mistero, rischiare,
imparare, misurarci con gli altri. Insomma, il gioco va avanti, insieme a
vecchi e nuovi giocatori.
Il pantheon di autori che quest’anno hanno partecipato ai vari progetti
di scrittura creativa del sito willoworld.net si è ampliato. L’idea di
Willoworld è sempre stata quella di contenere la scelta dei componenti
alle persone di mia conoscenza, ma con l’avvento dei social network,
Facebook in primis, è diventato praticamente impossibile ignorare le
possibilità di partecipazione da parte di esterni. Un legame esiste
sempre, e questo è importante per il manifesto di Willoworld e di tutte le
pagine ad esso associate.
Nel corso di questo secondo anno di attività in rete sono avvenuti
diversi cambiamenti e sono nate tantissime iniziative. La prima e più
importante, anche se purtroppo non ha riscosso il successo che mi
aspettavo, è stata La Giostra di Dante, il gioco di ruolo dei poeti e degli
scrittori. L’idea era quella di creare una piattaforma su cui pubblicare i
lavori con differenti pseudonimi, insieme alle biografie degli autori
fittizi. Ho aperto poi un forum attraverso il quale i giocatori avrebbero
potuto fare interagire i loro personaggi-scrittori tra di loro, in un
classico scenario di GdR on-line. Purtroppo il gioco non è mai davvero
partito, anche se sono nati alcuni personaggi davvero interessanti, con i
quali ancora mi balocco. Molte delle opere presentate su questo libro

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sono firmate da questi autori immaginari, i quali sono anche comparsi
in precedenti pubblicazioni.
L’altro grande progetto iniziato nell’estate 2008 è il blog 101 Parole,
nel quale sono presentati racconti brevissimi di esattamente 101 parole.
Ad oggi hanno partecipato al progetto una decina di autori (alcuni
anche provenienti dalla Giostra di Dante) e sono state raccolte quasi
duecento storie. A fine anno verrà pubblicato un libro che raccoglierà
tutti gli interventi.
In questo libro compaiono anche dei lavori che sono il risultato di
alcuni esperimenti narrativi, come ad esempio “Raccontami sulle note
di…”, un giochino di scrittura creativa da fare ascoltando la musica.
L’idea è quella di raccontare una storia, o anche una breve immagine,
nel tempo di una canzone, lasciandosi trasportare dalla melodia. Ho
raccolto una decina di questi interventi che appaiono anche sul mio
ultimo libro. In questa raccolta ve ne sono alcuni completamente inediti.
Quest’inverno ho iniziato alcune iniziative di scrittura cooperativa
per e-mail per un progetto che ho chiamato “Passami la Storia”. Anche
questo non ha avuto la partecipazione che speravo, ma qualcosa
comunque ne è uscito fuori. In questo libro vi sono alcune storie che
sono partite proprio da questa intuizione.
Più passa il tempo e più mi riconosco nel ruolo di paladino delle storie,
qualsiasi esse siano. Non vorrei peccare di arroganza con questo titolo,
anzi, il mio approccio è sempre molto modesto, o al limite
rappresentativo, cioè giocoso. Da qui è nato l’appello dell’”Orfanotrofio
delle Storie”, un semplice pretesto per riproporre in una nuova versione
le storie rimaste anonime, o quelle incompiute. Cercando nei meandri
della rete ne ho trovate alcune davvero carine, perlopiù in inglese, così le
ho tradotte ed arrangiate, conferendo loro un po’ di dignità.
La pagina Willoworld Creativity, che raccoglieva i racconti, le poesie e
le immagini degli autori di Willoworld, si è trasformata in Rivoluzione
Creativa, prendendo spunto dal gruppo di Facebook fondato un paio di
mesi fa. L’obbiettivo è quello di allargare il circuito e “infettare” il
maggior numero di persone con questo splendido virus creativo.
Rivoluzione Creativa infatti ha un suo manifesto ideologico, basato sul
fenomeno del copyleft e del file sharing, temi che sento molto vicini.
Credo infatti che nessun comunicatore, sia questo uno scrittore, un
poeta, un giornalista, un musicista o un artista, possa permettersi di

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continuare ad ignorare il fenomeno della condivisione del materiale
informatico da parte di milioni di utenti. Chi è ancora legato alle
ideologie del copyright, è automaticamente escluso da questa rivoluzione
creativa in corso. Cambiare atteggiamento nei confronti dell’opera
compiuta è in sintesi il messaggio di questa nuova corrente. L’opera non
è un prodotto commerciabile, e non lo era neanche prima dell'avvento di
bit-torrent. È il supporto che la rende “oggetto”, ma tolto questo, sia di
carta o di plastica, ciò che rimane è l’informazione, che deve librarsi
nell’aria e raggiungere più persone possibile. Perché l’informazione
appartiene a tutti e non è di nessuno.
Rivoluzione Creativa significa proprio questo. È il miraggio di un
nuovo corso, basato sulla condivisione dell’esperienza artistica ma non
solo. L’altra grande ideologia che si nasconde dietro RC è la
riappropriazione dell’autostima, perduta in cento anni di “industria
degli idoli”. Per quasi un secolo la TV ci ha fatto sentire inferiori ai
personaggi dello schermo. Ci ha subdolamente tolto la nostra dignità, ha
giocato con le menti dei bambini, ha imprigionato alla poltrona
l’immaginazione degli adulti. Internet ha spento la TV e ha creato il
flusso. É finito il tempo degli idoli e dei semidei di cellulosa. Noi saremo
i fan di noi stessi.
Di strada però ce n’è molta da fare. Rivoluzione Creativa si unisce alla
corrente di cambiamento che scorre sulla fibra ottica e nell’etere, conscia
del fatto che la rete è solo un mezzo, e saranno gli utenti a decidere come
vorranno continuare ad usarla.
Mi auguro che questo libro abbia un seguito. Willoworld entra nel
terzo anno di attività e sarà quello cruciale. La sua sopravvivenza
dipenderà dalla partecipazione ai vari progetti nei mesi a venire.
L’Albero delle Parole è un segnale positivo. In principio il
titolo di questo libro doveva essere “La Stagione delle Parole”, nel segno
della raccolta dopo il primo anno di semina. La partecipazione
quest’anno è stata assolutamente più consistente, e questa fa sperare
bene per i progetti futuri. La raccolta ha dato i suoi frutti, gli alberi sono
fioriti e le parole sono volate via nel vento, depositandosi su queste
pagine, scostando il drappo, rivelando il mistero.
Benvenuti alla festa della creatività. E buona lettura a tutti!

GM Willo – Maggio 2009

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NOTE SULLE OPERE PRESENTATE

Il libro si apre con un racconto lungo a “otto mani” iniziato


nell’estate del 2008 e terminato solamente lo scorso inverno. Il
Caso Khorner è stato un esperimento di narrazione cooperativa
davvero molto interessante. La storia si è diramata e intricata
capitolo per capitolo, e una volta che il racconto si è arenato, l’ho
ripreso in mano personalmente a distanza di molti mesi,
dandogli un degno finale.
Il Ciclo del Pathos raccoglie una serie di interventi di prosa di
Demiurgus scritti tra il 1999 e il 2001 per l’associazione di
letteratura interattiva Pathos. Demiurgus ha voluto riproporre
questi scritti su Willoworld.
Il Ciclo di Udrien invece è una piccola raccolta di quattro
racconti fantasy scritti quest’anno per omaggiare Robert E.
Haward, il creatore di Conan il Barbaro.
L'Urna del Sacro Té é un esperimento narrativo a capitoli brevi
del 1996, riproposto da Aeribella Lastelle sulle pagine di
Willoworld.
Alcune delle opere presenti in questo libro compaiono anche in
precedenti pubblicazioni della Edizioni Willoworld.

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L’ALBERO DELLE PAROLE

LE STORIE

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IL CASO KHORNER
di GM Willo, Charles Huxley, Demiurgus e Cainos

- Capitolo 1-
Il pacco

Charles indossa il giubbotto, un vecchio pezzo di pelle marrone


malconcio, allaccia stretti gli anfibi ed esce sotto la pioggia della
sera. Sono le 23:30; a mezzanotte ha l’appuntamento col Rosso, il
pusher che gli rifornisce la roba. Sale in macchina, aziona i
tergicristalli e alza il volume dello stereo, tutto questo prima di
ingranare la marcia e partire lentamente. La città sembra già
dormire. Prende la via più lunga, per controllare se ci sono
pattuglie in giro, ma le strade sembrano deserte. Arrivato al
molo, parcheggia la macchina lontano dai lampioni, spegne il
motore e si infila la 9 millimetri nella cintura. Il Rosso sembra
essere in ritardo, come sempre, cosa che a Charles fa incazzare
terribilmente, soprattutto quando si tratta di affari. Ci vogliono
due sigarette prima che i fari illuminino la banchina. Lo stronzo
è arrivato fin qua in macchina. Il Rosso scende con in mano una
24 ore nera e ha accanto un tipo alto almeno uno e novanta.
«Sei in ritardo» Charles schiaccia in terra la terza sigaretta.
«Tranquillo amico, ero ad una festa» risponde il Rosso.
«Ti avevo detto di parcheggiare lontano, lo sai che non
sopporto queste cazzate.»
«Tu ti agiti sempre troppo, amico. Sta piovendo, che dovevo
fare bagnarmi tutto come hai fatto te? Che problema c’è? Tu ti
agiti sempre troppo… Prendi sempre le cose troppo sul serio.»
Per il Rosso è sempre tutto un gioco, sembra non rendersi conto
che sta muovendo 3 chili di bianca purissima.
«Va bene, fammi vedere la roba.» Charles sta perdendo la
pazienza, vuole andare via di là più velocemente possibile, c’è
qualcosa che lo rende nervoso.
«Ok, ok, amico, ecco qua…» Le serrature della 24 ore scattano,
le buste sigillate aspettano in fila di essere smistate. Charles infila
la punta di un coltello a scatto in quella centrale e mette sulla

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lingua un po’ di polvere. Aspra e acida, per niente amara, sembra
quasi frizzare. Non fa in tempo ad aprire bocca e il freddo del
ferro gli schiarisce le idee. Sembra che il Rosso l’abbia fregato.
Sorride davanti a lui, mentre il gorilla gli preme più forte la
pistola alla tempia.
«Bene, bene, amico… La tua roba ce l’hai. Ora dammi i soldi.» Il
Rosso l’ha fregato. Chissà quale merda ha imbustato prima di
partire. Charles sa che se non riporta la merce o i soldi a Cainos è
spacciato. L’ultimo che ha provato a fregarlo é finito sventrato
dalle palle alla gola, come un coniglio. Non ha scelta, allunga la
busta nera piena di soldi e il gorilla l’afferra strappandogliela di
mano. Il Rosso adesso sta ridendo. Charles cerca di prendere
tempo, ma nessuna idea gli viene in aiuto; la situazione è davvero
critica e lui lo sa. Tutto ad un tratto una voce. C’è qualcuno che
sta cantando. Il Rosso si volta di scatto imitato dal suo gorilla. Se
c’è un dio, allora questa volta è dalla sua parte.
Tutto accade velocemente. Charles estrae la pistola e pianta tre
pallottole nel torace del gorilla, che cade all’indietro giù dalla
banchina, finendo nell’acqua nera. Il Rosso si volta puntandogli
addosso un cannone da un chilo. Preme il grilletto. Niente, lo
stronzo ha scordato di togliere la sicura. Nei suoi occhi un lampo
di terrore, mentre Charles gli spara dritto in testa, a distanza
talmente ravvicinata da fargli schizzare via la faccia. Sangue,
cervello e pezzetti di cranio schizzano in aria, mentre il Rosso va
giù con un tonfo. Charles si gira in cerca della busta nera. Niente.
Il gorilla se l’è portata con se.

- Capitolo 2 -
Il videogioco

«È sicura questa cazzo di chat?»


«È criptata maestro, vai tranquillo…»
«Ti è arrivato l’aggeggio?»
«Si… L’ho appena provato. Roba assurda…»
«Non m’interessa la tua opinione. Quando me lo puoi fare
avere?»

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«In casi normali te lo caricherei su una piattaforma schermata,
in modo che solo tu ci possa accedere. Ma questo non è un caso
normale…»
«Certo cretino che non lo è! Portamelo stasera.»
«Con questa pioggia?»
«Fai come ti dico. Ti ho appena sparato sul conto un bonus di
2000 crediti. Ti aspetto.»
La finestra oleografica tremola solo un istante, prima di tornare
da dove è venuta. Will gli ha attaccato una cimice di sua
invenzione. Ne avrebbe seguito la scia, rivelandogli l’indirizzo.
“Ha avuto il coraggio di chiamarla chat cripitata!” pensa,
mentre il cursore forma velocemente i caratteri sullo schermo:
Simon Felipe Garcia Kornher, 205 E. 45th St. 212-867-5100.
«Dammi l’impulso dell’HGPS dell’auto» comanda la voce piatta
del Traveller, un uomo sulla trentina con i capelli arruffati e
occhiaie profonde. La sua voce è cambiata negli ultima anni. La
usa quasi esclusivamente per parlare alle macchine, scandendo
con precisione la fonetica delle sillabe.
«Caricami i dati sul deck della Ford.» Il computer annuisce con
un leggera alterazione del brusio della ventola di
raffreddamento. Will afferra la giacca in similpelle e guadagna
velocemente l’uscita. Un minuto dopo è alla guida della sua auto.
Il videogioco poteva valere una fortuna. Avrebbe potuto
guadagnarci almeno 30000 crediti, più che sufficienti a saldare il
debito con Cainos. Gli erano rimasti due giorni di tempo per
farlo, e non poteva certo permettersi di lasciarsi sfuggire
quell’occasione.
Il mondo era pieno di menti depravate, gente disposta a
sborsare qualsiasi cifra per provare le ebbrezze proibite dei
Giochi-Tabù. Un mercato sotterraneo che stava fiorendo, e che
avrebbe presto superato anche il giro degli stupefacenti.
A Will questo non gli importava un accidente. A lui serviva la
roba, e quando non aveva liquidi, Cainos gli faceva credito. E
avrebbe continuato a farglielo, se non faceva il furbo e gli
restituiva quello che gli aveva prestato.
Il deck di bordo detta indicazioni con una voce femminea di
bassa qualità. “Lo devo aggiornare questo dannato aggeggio”

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pensa, mentre imbocca una via laterale che lo avrebbe fatto
piombare addosso all’auto di Kornher. Imposta la velocità di
crociera in modo da favorire la collisione. Il puntino
lampeggiante sul deck, che indica l’auto del suo bersaglio, si
muove rapidamente lungo la strada principale. Non riuscirà ad
evitare l’impatto con la sua Ford, in corsa lungo il vicolo
adiacente.
Lo stridio dei pneumatici sull’asfalto bagnato spaventa un gatto
tigrato che passa di lì. É l’unico essere vivente in circolazione. Il
paraurti rinforzato in cemento e acciaio della Ford va a colpire
esattamente lo sportello del conducente dell’altra auto, una
vecchia Cadillac verde scura. L’idea è quella di ammazzarlo sul
colpo, il topastro di merda. A Will non piace mettere mano sulle
armi da fuoco.
L’impatto scaraventa la Cadillac sul marciapiede opposto. La
Ford invece rimane dov’è, in mezzo alla strada deserta. Will non
si preoccupa neanche di spostarla. Scende velocemente e si
avvicina alla sua vittima. Riesce a vederla attraverso il finestrino
frantumato. Ha la testa poggiata sul volante e non si muove.
Il videogioco giace sul sedile posteriore. Deve essere rimbalzato
nell’abitacolo prima di depositarsi lì. Will apre lo sportello
posteriore e allunga la mano verso una custodia scura. Kornher è
ancora vivo. Lo può sentire respirare, un rantolo che non gli
lascia molte speranze.
«Mi dispiace amico. Dovevi stare più attento con quella chat!»
Will rimonta sulla Ford e accende il deck portatile. Deve
assicurarsi che il materiale sia quello giusto.
Cerca con le dita il plug sottopelle e ci spinge dentro lo spinotto.
Estrae il disco dalla custodia e lo infila nella fessura laterale del
deck. Questa se lo divora in un sol boccone.
La spinta è impietosa. Trovarsi in quella situazione non è affatto
piacevole. Bambini, urla, violenze, sesso sfrenato. Un’orgia di
sangue e sperma in cui decine di infanti vengono seviziati ed
uccisi brutalmente. A chi potrebbe mai piacere quella roba?
Quale mente disastrata poteva reggere quegli impulsi? Ma
soprattutto, chi erano stati gli artefici di un videogioco così
orripilante ed efferato?

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Will si disconnette per vomitare il suo sandwich fuori dal
finestrino. “Quella roba valeva almeno 100 testoni”, è il suo
ultimo pensiero, prima di accendere il motore e imboccare la
strada di casa.

- Capitolo 3 -
L’orco

Nella stanza 116 della clinica privata Trauma Squad, la luce


artificiale avvolge l’ambiente, conferendogli un aspetto freddo e
asettico. Kornher è tenuto in un coma farmacologico da massicce
dosi di antidolorifici e antibiotici. Il suo corpo è letteralmente
traforato di agocanule, assediato da deflussori per le flebo, il suo
volto semicoperto da una maschera ad ossigeno. Seduto al suo
fianco, incurante del categorico divieto di fumare, Popoff aspira
profondamente il suo sigaro di tabacco ogm, saturando l’aria di
fragranze tossiche.
«Svegliati! Non puoi morire… devo essere io a divorarti
l’anima, bastardo…» sibila con una voce graffiata dal troppo
fumo e traboccante d’odio.
Si alza con calma, spegnendo il sigaro sulla fronte di Kornher: il
suo battito cardiaco aumenta, la linea verde dell’ECG sembra
eccitarsi e danzare nella sua corsa folle. Vladimir Popoff soffia in
faccia a Kornher l’ultima boccata di fumo rimastagli nei polmoni
lordi di catrame, osserva soddisfatto l’ustione circolare sulla sua
fronte: gli ricorda il mirino laser della sua Sternmayer
intelligente.
La porta della stanza si apre, l’infermiera cinese spinge un
carrello bianco, dal ventre d’acciaio saturo di fiale e soluzioni
saline. «Ora uscire, prego. Medicazione…» balbetta mrs. Wong.
«Io esco quando decido di uscire, muso giallo, io entro quando
decido di entrare. E se ti azzardi a dire a chiunque che mi hai
visto qui, fosse anche quella mezzasega che ti scopa, ti caccio in
culo quella siringa che stringi nelle mani.»
Mrs. Wong indietreggia, finendo per sbattere la schiena contro
la porta. Popoff le si avvicina, guardandola come una vipera
scruta un topo prima di inghiottirlo. «Ci siamo capiti?»

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Le sfiora un seno, annusando il suo profumo al muschio bianco.
«E cambia profumo: questa merda zen appesta.» Poi la scosta con
forza dalla porta. Nel volto di mrs. Wong la paura è mista al
disprezzo, ma un occidentale non avrebbe mai fatto caso alla
differenza delle sue espressioni. Per Popoff sono tutte uguali,
bambole cinesi usa e getta, buone solo per uno cazzo di snuff.
Appena Vladimir lascia la stanza l’Orco gli appare davanti. Un
terrore riverenziale lo invade, la vipera non si era accorta
dell’aquila che volteggiava sopra la sua testa. L’Orco si avvicina
al suo sgherro con un sorriso diabolico, la sua voce taglia il
silenzio del corridoio, illuminato da gelidi neon.
«Hai notizie della merce?» chiede, senza smettere di sorridere.
La cravatta spunta dalla giacca come una lingua cadaverica, le
mani, invece, sono nascoste nelle grandi tasche del cappotto,
30.000 €$ di artigianato nanotecnologico.
Popoff non riesce a parlare: l’Orco non tollera fallimenti. Non è
colpa sua se Kornher non si è ancora svegliato. Era già un fottuto
miracolo che non fosse morto. Ma all’Orco non importa, l’unica
cosa che ha importanza è la merce.
«Non ancora capo, quello stronzo è imbottito di farmaci e non si
è ancora svegliato…» L’Orco piega il collo, poi la sua mano
destra scatta come una frusta, avvinghiando la trachea del russo
come un cappio d’acciaio.
«E allora sveglialo…» ruggisce.
«È impossibile, la cinese lo sta medicando, proprio ora…» tenta
di replicare Vladimir, ma la stretta gli stronca la voce e la
carotide. Il russo cade al suolo, emettendo orribili gemiti,
soffocati dall’orrenda mutilazione. Poi l’Orco estrae dalla tasca
anche l’altra mano, rivelando un cannone d’acciaio lucido e
polimeri plastici: Popoff tenta di urlare, ma nessun suono esce
dalla sua gola spaccata, mentre un proiettile grande come una
biglia gli spappola il petto. «Risposta sbagliata!» sospira l’Orco,
senza alcuna emozione. Poi la signorina Wong spalanca la porta,
ma non riesce a realizzare l’accaduto: un secondo proiettile solca
l’aria, centrandola in piena fronte. «Azione sbagliata!» conclude
l’Orco, prima di uscire indisturbato dalla clinica, mentre le
telecamere tentano inutilmente di registrare la sua immagine,

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schermata dal cappotto olografico griffato Mitzuni. Entra poi
nella sua limousine, salutando con un sorriso Mara, la sua baby-
puttana.
«Hai trovato cosa cercavi, paparino?» chiede la bambina con
aria ingenua. L’Orco le accarezza il mento: «Adesso si, piccola
mia… al resto ci penserà il Segugio.»
L’autista mette in moto il mostro di metallo e, mentre il cerca-
persone del Segugio inizia a suonare, Mara apre la zip del suo
paparino.

- Capitolo 4 -
Il Boss

I soldi cominciavano a girare, gli affari cominciavano a girare, e


come di consueto, in perfetta simmetria, anche le palle
cominciavano a girare per i problemi.
Era passato un bel po’ di tempo da quando il suo ruolo era
quello di factotum del signor Zusetstu Takanawa, influente boss
della malavita cinese di Sun-City. Ne era passato di tempo da
quando da sotto gli occhiali scuri spiava i movimenti della
bellissima figlia, Trisha Takanawa… e poi quel titolo sul giornale.
“Trisha Takanawa è morta!!!”
«È morta signore… signore mi sta ascoltando?»
Distratto dai suoi pensieri, i suoi occhi dietro gli occhiali scuri
vedono nuovamente l’ufficio ancora in allestimento, la sua mano
percepisce di nuovo il freddo legno in mogano della sua
scrivania. Lo splendido volto di Trisha Takanawa viene sostituito
da quello del fedele sgherro.
«Chi è morta?» chiede Cainos con voce pacata.
«La nostra agente, quella che avevamo infiltrato nella clinica, la
Trauma Squad, con il compito di monitorare e prelevare le
dovute informazioni da Kornher, una volta ripresosi.»
Lo stupore è d’obbligo. Kornher gli doveva dei soldi. Mezza
Sun-City doveva soldi a Cainos, e l’altra metà era quella che
dormiva tranquilla.

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«E in che modo siete riusciti a dispensarla da quella tremenda
dipendenza da ossigeno che la tormentava, in una missione di
copertura talmente semplice?»
«Signore, sembra che ci siano stati dei problemi inaspettati…»
la voce dello sgherro comincia a tremolare. Non era mai buon
segno quando diveniva sarcastico, il boss.
Cainos torna a riflettere, a parlare fra se ad alta voce “…ci sono
stati dei movimenti a nostra insaputa, movimenti importanti da
attirare così tanta attenzione per una semplice consegna…” e
continuando a parlare alza la mano destra, che fino a quel
momento era rimasta adagiata sulla scrivania. Nel movimento un
luccichio colpisce l’occhio dello sgherro, che intravede in quella
mano un lucente rasoio dal manico d’argento e la lama in freddo
acciaio.
«Non dobbiamo disperare, signore» deglutisce, suda, balbetta.
Nel frattempo il suo probabile carnefice ammira la lucentezza del
suo gioiello.
«Ritengo che nessuno abbia sospettato che fosse una dei nostri,
e che nessuno possa risalire a noi…»
Lo sgherro tenta in tutti i modi di assumere un’espressione
rilassata, e ridacchiando abbozza una battuta.
«Ritengo che si sia trovata nel posto sbagliato nel momento
sbagliatissimo, e che quindi ne abbia subito le conseguenze.»
«Ritieni?»
Il tono non presagisce niente di buono. Nervosamente si
appresta ad aggiungere: «Si signore, inoltre Kornher è ancora
vivo, possiamo sempre riprendere i suoi soldi, cioè i tuoi soldi.
Anzi, adesso sappiamo che c’è qualcosa di più dietro e potremmo
usare le dovute precauzioni…» questa volta il tono è più
risoluto.
«Si, potremmo!»
«Forse è la strada giusta. La perdita è stata minima, la ragazza
uccisa era della vecchia guardia dei Takanawa, una cinese alle
prime armi…» Un flash irrompe nella mente di Cainos. Quel
nome rievoca l’angelico volto di Trisha, la sua pelle di porcellana.

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«…se riflette Signore si è dimostrata una pedina sacrificabile,
che ha compiuto un ottimo lavoro. Con la sua morte ha rivelato
un complotto inaspettato.»
«Basta così, hai ragione, mi hai convinto, rimaniamo con il
piano prestabilito. Metti un’altra infermiera a sorvegliare
Kornher e piazza un uomo a sorvegliare lei. E ricordati che
questa volta sei ufficialmente responsabile.»
«Certo signore. Potrei consigliarle di utilizzare…»
«No, non consigliare, non voglio uno dei nostri. Voglio uno al
di fuori, uno che non possa essere ricondotto direttamente a noi.
Puoi utilizzare Charles. Al momento sta gia portando avanti un
affaruccio per nostro conto.»
«Certamente signore» sono le sue ultime parole, prima di
scomparire per sempre dalla vista del boss.
“Tuuuuuuuu… Tuuuuuuuuuu… Tuuuuuuu…” il telefono da
libero.
«Pronto Charles, ho un altro lavoro per te, non appena avrai
finito con quella consegna. Uno dei miei sta venendo da te a darti
i dettagli, senti cosa ha da dirti. Se sei ancora interessato a
lavorare per me a tempo pieno, e ti consiglio di esserlo, si
potrebbe liberare un posto… Il suo.» Click.

-Capitolo 5-
Lavoro sporco

«Maledetto figlio di puttana.» Charles sputa sul corpo senza


testa del Rosso, il cellulare stretto nella mano sinistra mentre
nella destra ancora fuma la 9 millimetri. I biglietti verdi
galleggiano nell’acqua nera, ormai zuppi. Si allontana
velocemente da quel delirio di carne e sangue, monta in auto e
parte sgommando.
«Cosa cazzo racconto a Cainos adesso? Quel cinico psicopatico
mi sventra se non gli riporto indietro qualcosa.»
Charles poggia l’indice sulla serratura scanner e rientra in casa.
Getta il giubbotto a terra e si siede sul divano nero. Si rialza
veloce, nervoso, come un topo in gabbia, afferra di nuovo il
cellulare. Se non si calma lo spezzerà. Compone il numero di

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Shag, mentre ringhia allo specchio. «Pronto?» Qualcuno dovrà
prendersi il pacco stasera, e non sarà certo Charles.
«Shag, sono io. Hai 9000 crediti da investire?» Solo lui potrebbe
trovarli così in fretta, in una serata soltanto. Solo quella piccola
sanguisuga può toglierlo dai casini.
«9000 K? Una bella cifra amico… Cosa hai da propormi?»
«Vieni qua. Subito.» Charles sa che entro tre ore Shag e almeno
un paio dei suoi saranno lì, invaderanno casa sua con le loro
catene d’oro e le puttane strafatte di cui il bastardo si circonda
sempre. Si avvicina all’armadietto, sceglie la più forte delle tre
fiale e si prepara. La siringa attende pronta sul bracciolo del
divano, Charles stringe forte il laccio, facendo risaltare le sue
vene martoriate. Infila l’ago, mentre la vena pulsa ad ogni goccia
di Black Lace che inietta. La roba entra veloce in circolo mentre la
mascella di Charles si serra. Schiuma verdastra gli cola dai lati
della bocca, la pupilla, sempre più piccola, diventa la punta di
uno spillo, mentre la musica del riproduttore sembra voler
sfondare le casse.
Il campanello squilla, Charles inspira profondamente ed apre la
porta. Shag insieme a due coglioni ricoperti d’oro entrano nella
stanza seguiti da una troia dai tacchi vertiginosi. «Allora Charlie,
cosa mi vuoi proporre?»
«Odio quando qualcuno mi chiama Charlie… Lo sai?» Due
buchi nel petto al primo stronzo. Black Lace danza nel sangue
contraendo i muscoli in spasmi dolorosi. Charles è veloce,
velocissimo, prima che il secondo negro capisca cosa succede ha
già la lama dentro la carotide. Black Lace aiuta… Black Lace
danza veloce. Charles neanche si accorge che alla mano con cui
teneva il coltello mancano una paio di dita, spappolate da un
proiettile appena sparato. Charles tira il grilletto… Può poco con
la pistola scarica, in tutto il casino non si è ricordato di ricaricarla.
Mentre la troia urla, Shag gli spara ancora una volta. Lo manca.
In un secondo salta addosso al negro, mentre la mano sinistra
zampilla sangue Charles addenta forte il collo del ricettatore. La
mascella si serra stretta, i muscoli tesi dalla droga sintetica come
cavi d’acciaio. Un gorgoglio accompagna la morte di Shag, non
prima del terzo sparo che gli centra la coscia. Niente, nessun

19
dolore. Black Lace fa il suo dovere. Charles si volta verso la
ragazza. «E ora troia, è il tuo turno.»

-Capitolo 6-
Cannibal Party

Il videogioco si chiama Cannibal Party. A Will gli tremano le


mani quando risale in superficie, dopo aver esplorato le ultime
videoteche dello sprawl. Un prodotto Shikoku, ideato e redatto
dall’illustre mago dei Giochi-Tabù, Hideyoshi Kimura.
Nel sottosuolo c’è molto fermento a riguardo. Alcuni dicono
che si tratti un autentico snuff, altri che sia totalmente
digitalizzato, e che Kimura non esista nemmeno. La solita
manovra economica della Shikoku per far salire il prezzo del
prodotto. Ogni tanto rispolverano un vecchio nome, e Kimura è
sempre stato il loro cavallo da battaglia.
La leggenda vuole che il sadico programmatore giapponese usi
mettere in scena il girato, che poi trasforma in videogioco, in un
ingegnoso lavoro di post produzione. Il risultato è ovviamente
dei più realistici.
Cannibal Party incomincia con una classica scena di violenza
hard-core perpetuata ripetutamente su dei bambini. Il set è una
casa ottocentesca; tende di velluto color porpora e lenzuoli
bianchi dappertutto, per far risaltare il sangue sprizzato dai
corpicini dilaniati. L’escalation è ovviamente verso il basso. Si
parla di iniziazione alla demonizzazione, attraverso ripetuti
rapporti carnali con infanti e susseguenti smembramenti.
L’ultima scena è un banchetto sontuoso in cui i bambini uccisi
vengono divorati in più portate.
La recensione turba così profondamente il Traveller che un
minuto dopo il distacco è già sul divano ad iniettarsi un po’ di
tranquillità. Si chiama Blue Marine, leggera come le onde del
bagnasciuga e profonda come gli abissi. Will ascolta il suo corpo
galleggiare verso il largo, in un torpore cosmico che gli restituisce
un minimo di divinità. Al risveglio è intontito e già in piena
astinenza. La Blue Marine è quasi finita, e Cainos non lo rifornirà
mai se prima non gli riporta i suoi soldi.

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Le serrande sono abbassate, ma una luce intensa penetra
violentemente dai lati. È tornato il sole, pensa Will, mentre si
prepara il caffè. La custodia del videogioco giace distrattamente
sul tavolo della cucina. Il disco è ancora dentro al processore.
Will afferra la custodia ed è preso da un irresistibile tentazione;
gettare via tutto, far sparire quella follia, prodotto di menti
depravate. Ma Cainos non gliela avrebbe fatta passar liscia. Non
gli avrebbe concesso altro tempo. E poi lui di tempo, senza la sua
cara amica blu, non gliene rimaneva molto.
Il gorgoglio del caffè lo riporta sulla terra. C’è qualcosa di
strano nella custodia. È priva di copertina, ma è rivestita di
plastica trasparente per inserircene una. Sotto il cartoncino scuro
spunta l’angolino di un post-it giallo. Will lo estrae con cautela.
Un nome, un indirizzo, un numero di telefono.
Vladimir Popoff.

- Capitolo 7 -
Tanto va la gatta al largo…

La signorina Wong giace a terra, riversa nel suo stesso sangue.


Il camice da infermiera orribilmente imbrattato, lo sguardo perso
nel vuoto, incredulo, come stupito. Anche Vladimir è a terra. Solo
il neon del corridoio conferisce movimento alla scena, quando
decide di sfarfallare un po’, prima di esaurirsi completamente.
«Ci mancava anche questa…» mugugna il detective, gettando a
terra la sua sigaretta senza nicotina. La sua squadra è al lavoro da
almeno due ore: il fotografo avrebbe potuto realizzare un
calendario macabro con tutti gli scatti che aveva prodotto. In rete
avrebbe sicuramente venduto più di una edizione a basso costo
dell’enciclopedia duecani.
Le due giovani reclute della polizia di Sun-City stanno ancora
tentando di inserire i due corpi nelle body-bag, lottando con i
loro conati. È la prima volta che recuperano due corpi per il
dipartimento scientifico. Il primario del Trauma-Squad osserva in
silenzio la scena del crimine, accanto al detective, con le braccia
conserte ed un espressione preoccupata.

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«Non va bene…» borbotta. «Se la stampa venisse a saperlo
perderemo credibilità, detective… è necessaria la massima
discrezione…»
Il detective Anderson si volta verso il primario, legge il suo
nome sul tesserino, osserva il suo taschino ricolmo di strumenti
medici e tre penne da 2000€$ l’una.
«Dottor Kaboto, una sua collega è morta… e lei si preoccupa del
suo reparto?» Il primario non si scompone. «Tutti moriamo.
Questa è una clinica privata, la morte fa parte del nostro lavoro.»
«Potrebbe essere lei il prossimo, dottore… neanche questo la
preoccupa?» Questa volta il dott. Kaboto deglutisce, sbattendo
ripetutamente le palpebre, un vecchio tic adolescenziale.
«E perché dovrei?» balbetta. «Non ho nemici…»
Il detective allora lo incalza. «A quanto sembra, la sua
infermiera ne aveva eccome… o forse è solo capitata nel posto
sbagliato al momento sbagliato, ma io non né credo al caso né alle
coincidenze…»
Il dott. Kaboto ascolta in silenzio, nervoso…
«Ho bisogno di sapere tutto sul paziente della stanza 116 e sulla
signorina Wong, oltre alle registrazioni delle telecamere di
sicurezza, ovviamente…»
Il dottore conduce il detective Anderson nella sala di
sorveglianza, un loculo dalle pareti ricoperte di schermi, una
piccola scrivania, ed un agente privato che sonnecchia annoiato
su una sedia di alluminio. Al loro ingresso la guardia assume
l’espressione più intelligente che riescea simulare, si alza in piedi,
aspettando sull’attenti le richieste del dottor Kaboto.
«Consegni al detective Anderson le memorie del reparto 7, ala
C, stanza 116, tutte le registrazioni, comprese quelle in archivio.»
«Ricevuto dottore, ma devo avvertirla che non troverà molto,
detective. Qualcuno ha disturbato la ricezione con qualche
tecnologia cinese. Roba cazzuta, per almeno cinque minuti ho
pensato ad un guasto al sistema di video-sorveglianza.»
«La procedura standard obbliga a suonare l’allarme dopo trenta
secondi di guasto al sistema, agente. Anche questo finirà sul
rapporto, dottor Kaboto, dovrebbe scegliere meglio i suoi
collaboratori…»

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Il dottore fulmina con lo sguardo la guardia privata, ma non
aggiunge altro. Intuisce che è solo un ricatto per estorcere
informazioni normalmente riservate o coperte dal segreto
professionale. «Cosa vuole sapere, detective?» conclude con voce
rassegnata il dottore.
«Voglio ogni fascicolo, ogni cartella, ogni appunto, della
signorina Wong e del paziente della 116. Non abbiamo molto
tempo, dottore, quelli della scientifica stanno aspettando i
cadaveri per l’autopsia e per i rilevamenti.»
Il dottore si direge verso la porta, la apre facendo un cenno al
detective. Poi, senza neanche voltarsi verso la guardia, pronuncia
le parole «Lei è licenziato.» E chiude dietro di se la porta.
Dopo qualche ora i due corpi giacciono in altrettanti lettini di
metallo, con un cartellino agli alluci dei piedi ed un lenzuolo
bianco come sudario. Le scansioni hanno rilevato le impronte
digitali dell’uomo sul camice della donna, all’altezza del seno, le
stesse ritrovate sul sigaro che aveva bruciato la fronte del
paziente della 116. Evidenti segni di strangolamento sono stati
osservati sul collo dell’uomo, tale Vladimir Popoff, pregiudicato,
con una lista di reati da far accapponare Jack lo squartatore.
Incrociando i dati rilevati sulla scena del crimine, le tracce
lasciate dall’infermiera e da Popoff, l’agente Anderson
ricostruisce tassello per tassello la scena, fermandosi di tanto in
tanto a riflettere, aspirando la sua ennesima sigaretta salutista.
Le dita scorrono veloci sui due terminali del suo studio. Volti,
facce, rapporti, si intrecciano come i pezzi di un puzzle
misterioso: era quello che gli piaceva del suo lavoro, quell’opera
di scoperta, l’ordine che emergeva dal caos. Non gli importava
della pena che eventualmente avrebbe inflitto al colpevole: era
solo una sfida, una lotta contro il caso, una missione personale.
«Rapporto: la signorina Wong non risulta residente in nessun
paese della confederazione, né iscritta a nessun database digitale
o ad alcuna scuola per infermieri, dottorati di ricerca, associazioni
del cyberspazio o nella banca dati della polizia di Sun-City.»
Spenge la sigaretta nel posacenere di metallo.
«Vladimir Popoff…» aggiunge, espirando l’ultima boccata di
fumo «risulta invece collegato ad una fitta rete criminale, che

23
opera in vari settori della malavita organizzata. Dalle indagini
degli agenti Fargo e Roswell, entrambi deceduti due mesi fa in
servizio, la rete è governata da un individuo senza scrupoli che si
fa chiamare l’Orco… voci di corridoio legano questa cellula alla
produzione di videogiochi illegali e ad una lista impressionante
di reati.»
L’agente Anderson cerca un’altra sigaretta, ma il suo pacchetto
è ormai vuoto. Sbuffa… «Qualcosa non torna… C’è puzza di
affare andato a monte… E solo il paziente della 116, Kornher,
anche lui pluri-pregiudicato, potrà fare luce su questa vicenda.»
Spenge il registratore, alza la cornetta del videotelefono interno.
«Capo… si, ci sono novità. Ho bisogno di una squadra… si…
no… perfetto, loro andranno benissimo… dobbiamo piantonare
la stanza 116: Kornher è l’unico che può darci informazioni…
perfetto… le farò sapere… grazie per la fiducia…»
Il sole cala su Sun-City, nascondendosi dietro i grattacieli,
formicai di metallo, freddi come il cuore dei suoi abitanti.
“Questa volta ci lascio le penne…” sospira Anderson.
Poi scopre un mozzicone di sigaretta abbandonata nel
posacenere: due, tre boccate al massimo… “Abbastanza” pensa,
ed il sapore di sinte-tabacco rende meno amaro il suo nefasto
presentimento.

- Capitolo 8 -
Una spiacevole sorpresa

La stanza è completamente ricoperta di sangue. La puttana di


Shag anche, con la gola squarciata e la lingua sporca di sperma
che penzola dal taglio. Cravatta colombiana. Charles prepara
nuovamente una siringa, questa volta carica di nanochirurghi.
L’effetto della Black Lace sta finendo e il dolore comincia a farsi
sentire. Su di un panno sporco di sangue c’è la pallottola e
l’accendino con cui ha sterilizzato alla meglio il coltello. Sul
megaschermo l’orgia continua, mentre una donna asiatica viene
sodomizzata con un bastone elettrico, le urla si confondono con la
musica che non ha smesso per un attimo di riversarsi dalle casse
dello stereo. Appartamento insonorizzato, i soldi spesi meglio in

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assoluto. Charles si rilassa sul divano accanto al corpo di Shag. I
nanochirughi cominciano il lavoro, la mano smette di sanguinare
e lentamente Charles riprende il controllo di se. Passano i minuti.
Va già meglio…
Afferra il telecomando e richiama l’hi-fi al silenzio. Respira…

“Mi è andata proprio bene questa volta” pensa lo scagnozzo


una volta uscito dall’ufficio di Cainos. “È chiaro che il capo
comincia a tenermi in considerazione, o semplicemente si è
accorto che non è colpa mia, in effetti cosa avrei potuto fare?
Meglio non pensarci, anzi posso scaricare la patata bollente a
quel fallito drogato di Charles, che se la veda lui.”
Così continuano i suoi pensieri e le sue illusioni, mentre
attraversa la parte ricca della città per avvicinarsi alla terrificante
periferia di Sun-City, che di sole ha ben poco. Passa un paio di
quartieri senza notare niente di strano. È una di quelle serate
tranquille, si trova ancora ai margini della reale periferia. Charles
si è sistemato in una zona con case autonome, segno evidente che
non se la passa poi così male.
Ecco la porta, parcheggia la macchina e si avvicina
tranquillamente, suona il campanello ma nessuno risponde.
Suona e chiama ma la risposta è sempre la stessa. Origlia alla
porta ma non sente nessun rumore, gira il pomello e la porta si
apre, chiede permesso ed entra.
“C’è Charles in piedi che ansima, ecco perché il silenzio.”
“C’è Morte sul tutto il pavimento, ecco da dove viene il sangue
che ha addosso.”
“C’e’ Black Lace nel suo corpo, ecco perché tutto questo
casino.”
“C’è uno sconosciuto davanti a lui, ecco perché sono morto.”

Il fischio dei polmoni sottosforzo lentamente si assottiglia,


sebbene lo stordimento sia sempre forte, e la ragione torna a
prendere la sua posizione nella rispettiva zona del cervello.
Charles si guarda attorno e non può che provare disgusto per
quello che ha fatto, non può che provare disgusto per il sapore di

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sangue e i lembi di carne strappata che ha in bocca, non può che
trovare conforto per il denaro che ha recuperato.
Adesso deve stare tranquillo, deve fare rilassare il corpo,
metabolizzare la droga, sorbirsi i laceranti crampi allo stomaco
per le restanti due ore; la Black Lace da anche questo. Decide di
sdraiarsi comodamente sulla poltrona, penserà dopo a sistemare
tutto quel casino, adesso solo relax, deve stare quieto, e fare
pensieri quieti. Basta anche con Cainos. Si basta! Paga bene ma è
troppo rischioso. Ha troppi nemici e ci sono altri farabutti a Sun-
City a cui offrire servizi, e i loro nemici non sono mai così audaci.
“Si, è la cosa più giusta da fare, la più quieta… respira, inspira,
respira, inspira, rilassati, apri gli occhi, la luce intermittente della
segreteria telefonica, qualcuno deve avermi chiamato quando ero
fuori.”
Click - Pronto Charles, ho un altro lavoro per te, non appena
avrai finito con quella consegna. Uno dei miei sta venendo da te a
darti i dettagli, senti cosa ha da dirti. Se sei ancora interessato a
lavorare per me a tempo pieno, e ti consiglio di esserlo, si
potrebbe liberare un posto… Il suo. – Click
Una fiammata al volto, di scatto lo sguardo al pavimento; Shag,
due negri e la troia… No, non solo, c’e’ anche un uomo in giacca
e cravatta giusto all’entrata, sdraiato prono sul pavimento ma col
volto che guarda innaturalmente il soffitto; ha un’aria sorpresa,
comicamente sorpresa.
Un lacerante dolore allo stomaco… No, non e’ la Black Lace. È
ancora troppo presto. Questa è un’altra cosa; si chiama Angoscia!

- Capitolo 9 -
La trappola dell’Orco

La cimice si era fatta strada attraverso chilometri di fibra ottica,


per penetrare nel processore di Kornher e rivelarne la locazione.
Ne poteva usare solamente una, per questo non aveva potuto
rintracciare il compratore. Ma quel foglietto giallo apriva mille
nuove possibilità.

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Will si accomoda sulla sua sedia di vimini reclinata, il volto a
pochi centimetri dallo schermo olografico. In mano tiene il post-it
con l’indirizzo.
«Cercami Vladimir Popoff, 5 W. 15th St. 212-347-8281.»
Il disco inizia a grattare, come infastidito dal comando. La voce
del deck annuisce con un suono sintetico, proveniente da un
unico speaker montato sulla parete.
«Localizzato.»
Ci sono cose che la voce non può ordinare ad una macchina.
Will estrae da sotto la sedia la sua tastiera wireless e incomincia a
far danzare le sue dita sopra le cinque file di tasti neri. Il deck del
suo obbiettivo è spento, segno che il depravato è fuori, ma gli
bastano un paio di comandi per rimetterlo in funzione. Dopo di
che tutta la storia del signor Popoff è a sua completa
disposizione.
Venti minuti più tardi Will si è già reso conto che quel contatto
non è altro che un mediatore, un pesciolino insignificante
nell’oceano della malavita di Sun-City. Se voleva piazzare il
videogioco doveva contattare direttamente il compratore.
Doveva cercare più a fondo…
«Esplorami l’Orco.»
Quel nome rimbalzava in molti files che Vladimir aveva cercato
maldestramente di criptare. Di sicuro doveva trattarsi di un
personaggio importante, con tutta probabilità colui che voleva il
videogioco e che aveva ingaggiato Popoff per trovarglielo.
Rimette a posto la tastiera ed allunga le sue ossa annichilite,
cercando un po’ di sollievo. Aspetta la risposta dallo speaker. Un
nome vero, una strada, un numero. Qualsiasi cosa può andar
bene, ma l’altoparlante rimane muto. Will chiude gli occhi. È alla
ricerca di un luogo tranquillo nella sua testa, per combattere il
desiderio impellente della sua amica blu.
Quando li riapre si accorge che ha appena commesso un grave
errore. Dati perlopiù indecifrabili scorrono veloci attraverso lo
schermo olografico. Le finestre sono andate, il cursore pure.
Dannazione, pensa Will mentre riafferra la tastiera. Gocce di
sudore gli imperlano la fronte. I comandi non rispondono, la

27
cascata ininterrotta di numeri e simboli diventa sempre più
incomprensibile.
«Rimuovi, rimuovi!» La voce non è più quella quasi sintetica
che ha l’abitudine di utilizzare con la macchina. È fin troppo
chiara la nota di terrore con cui pronuncia quelle due parole.
Will si alza velocemente dalla sedia, catapultandosi verso
l’interruttore generale. STACK! La stanza sprofonda nel buio
rotto solamente dalla luce esterna, che continua a penetrare le
serrande abbassate. La ventola del processore decelera fino a
fermarsi. I led diventono gli occhi morenti di creature aliene.
Will voleva trovare l’Orco, ma come succede nelle favole, era
stato l’Orco a trovare lui.

- Capitolo 10 -
Convergenze

Mara rimette a posto gli oggetti di paparino, quelli che


stimolano e a volte lasciano segni, lividi, graffi e tracce indelebili
nell’intimo. Nella megasuite dell’Hilton Hotel le tende color
porpora giocano con i riverberi delle candele, sparse per tutta la
stanza. Incenso e musica zen, come piace a lui. Mara è dolce e ci
sa fare; gli ricorda la cinesina, l’unica donna che è riuscita a
scalfire il cuore dell’Orco. Trisha Takanawa.
Ma gli orchi non si possono permettere gli affari di cuore.
Strapparle la vita fu il dolore più grande, il piacere più sottile.
Dolcissima Trisha, pensa, mentre la sua nuova baby si avvicina al
plasma. Ci danza un po’ in controluce, mentre scorrono le
immagini di “Jungle”, produzione sudamericana, piccolo budget
uguale grande film. Sullo schermo una ragazza indigena viene
seviziata ripetutamente da un branco di archeologi bianchi. Mara
è sensuale con le sue non-forme. Ha il corpo di una dodicenne e
la mente di una di cinquanta. L’Orco ha un’altra erezione. Ha un
membro che fa paura, risultato di molteplici operazioni di
extension, ma la sua bambina sa come accoglierlo. Anche lei è
stata sottoposta a numerosi interventi di “incavamento”. Sono
fatti l’uno per l’altra.

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Il telefono squilla. Non si può disturbare l’Orco in momenti
come quello. Afferra il cellulare per scaraventarlo dall’altra parte
della stanza, ma il nome che vi lampeggia sopra lo fa bloccare. È
il Segugio.
«Prega di avere buone notizie, perché non amo essere
disturbato quando Mara balla per me.»
«Sono stato da Kornher, e poi a casa sua. Maldestro, il ragazzo.
Qualcuno deve averlo fregato mentre portava la merce al tuo
sgherro. Qualcuno che ci sa fare con i computer, ma non tanto
quanto me.»
«Hai un nome?»
«Di più. Ho un indirizzo: Will Coston, 16 O. 22th St. 212-332-
5459.»
«Ottimo lavoro!»
L’erezione è andata a farsi fottere, ma presto ne avrebbe avuta
una ancora più grande.
«Aspettami qui piccola. Tornerò con un gioco nuovo…»

L’agente Anderson ritorna sulla scena del delitto, e questa volta


è un massacro. Tre corpi dentro la stanza di Kornher, due alla
porta e uno nel corridoio. Lo riconosce subito, è quello del dottor
Kaboto. Il killer è entrato dalla finestra, ha fatto saltare le cervella
ai due agenti che tenevano d’occhio Kornher, uno di quelli nel
corridoio ha provato ad entrare ma è stato freddato subito, poi
deve esserci stata una breve sparatoria. L’uomo usava proiettili
Killer-Pool, quelli che rimbalzano sulle pareti. Non gli è stato
difficile eliminare gli altri due agenti. Una pallottola deve essere
rimbalzata un po’ nel corridoio, fino a esplodere nella testa del
primario.
Kornher giace privo di vita nel suo letto. Ha una siringa
piantata nel braccio e non appartiene alla clinica. Il killer lo ha
fatto parlare con una dose fatale di Boost, roba da servizi segreti.
Anderson in pochi secondi ricostruisce la scena nella sua testa.
Maledice se stesso e tutta Sun-City. Poi si scaraventa nel corridoio
verso la sala di sorveglianza e s’imbatte in un settimo cadavere; è
quello della guardia.

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Entra nella stanza delle registrazioni, non aspettandosi di
trovare nulla. Ma forse il killer non ha perso tempo. Chiede al
terminale i footage dell’ultima mezz’ora e… bingo! La faccia
dell’uomo non dice nulla, ma un fotogramma della telecamera
del parcheggio può bastare. Anderson esce dalla clinica con
l’unico indizio che lo mantiene in gioco; un numero di targa.

Will sa che se vuole salvarsi non può nascondersi, non con


personaggi come Cainos o l’Orco. Se vuole avere una minima
possibilità deve rischiare. Riaccende il deck e inizia a scavare.
Incrocia nomi, dati, facce, indirizzi. Ha bisogno di qualcosa.
L’informazione è potere… Trisha Takanawa, è lei la chiave.
Il vero nome dell’Orco è Theoderich Forsbach, di origine
tedesche. Dieci anni prima lavorava a fianco di Juri Gazdik per il
noto boss nippo-cinese Zusetsu Takanawa. Gazdik è il vero nome
di Cainos. Insieme hanno arrecato terrore nelle strade di Sun-
City, fino al giorno in cui Juri scoprì che il suo amico se la faceva
con la sua donna; Trisha… L’odio di Gazdik divenne follia
quando la figlia del boss venne trovata decapitata nel letto di
Forsbach.
Passarono gli anni e i nome cambiarono, le facce vennero
alterate dagli interventi chirurgici, ma nel sottosuolo della
matrice si possono rinvenire le storie che ancora non hanno una
fine. Questa è una di quelle.
«Pronto Cainos?»
«Will, che piacere risentirti. Hai i miei soldi?»
«Si, e forse qualcosa di meglio….»
«Attento pesciolino, non giocare con gli squali…»
«Theodorich Forsbach.»
«Cosa?»
«Ti aspetto. Click.»

Charles è sotto la doccia quando sente squillare il telefono. È


tentato di non rispondere. Vuole andarsene, scappare più lontano
possibile dal macello che ha appena compiuto. Ma i dolori
ritornano insieme al desiderio di lei. Black Lace, dove sei?

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La segreteria scatta. Charles spegne il getto d’acqua per
ascoltare. È la voce di Cainos.
«Charles, lascia perdere tutto e precipitati sulla ventiduesima;
Will Coston. Ti aspetto sotto casa sua. Ah, dimenticavo, portami i
soldi. Ho una sorpresina per te, roba di prima qualità. A dopo.»
Charles esce dal bagno. Il salotto assomiglia a una macelleria
poco pulita. Apre l’armadio; pantaloni, maglietta, giacca, scarpe,
tutto rigorosamente nero. Il cannone è carico. Si riparte.

- Capitolo 11 -
Sensazioni…

Will continua a rigirarsi tra le mani il dischetto. Sulla liscia


superficie argentata non c’è neanche un segno, una parola che
possa minimamente ricondurre a ciò che contiene. È una copia
pirata, ovviamente. Presto saranno qui. Non sa in che ordine, ma
saranno qui, tutti quanti. Tanto vale finirsi la scorta, pensa. Un
tuffo nel mare blu, sempre più giù, sempre più giù…
Driin! Driin!
È Cainos, insieme a quel pazzo di Charles. Si accomodano in
salotto. Hanno due cannoni lucidi e pronti a scattare. Cainos non
tollera stronzate. Charles ha negl’occhi la follia dell’astinenza.
«Parla, pidocchio!»
Will deglutisce, ma l’amica blu gli da una mano. Afferra la
custodia del videogioco e la mostra ai due.
«Prima di tutto vorrei saldare i conti. Questo videogioco vale
almeno centomila crediti…»
«E che cazzo ci faccio io con un videogioco?» ride Cainos.
Charles gli va dietro.
«Va bene, se mi dai un po’ di tempo te lo piazzo io…» continua
il Traveller.
«Dove lo hai preso?»
«Oh, un lavorino di hacking. Ce l’aveva un fesso di nome
Kornher…»
Cainos scatta come la corda di una arco, punta il pistolone alla
tempia di Will, freme, quasi non riesce a controllarsi.
«Allora sei stato tu a ridurre Korher così!»

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«Che cazzo succede?»
«Kornher mi deve dei soldi, e tu mi vorresti piazzare la roba che
gli hai rubato?»
Will ha fatto male i suoi calcoli, ma ha ancora da giocare
un’ultima carta.
«Ok, ok… Parliamo di Theodorich Forsbach.»
«Si, parliamone…» la voce di Cainos è il bisbiglio di un
demone.
«È l’Orco.»
«Cosa?»
«Quel depravato che si fa chiamare l’Orco. È lui!»
«Se mi stai dicendo una stronzata ti giuro che il mio amico
Charles qui ci metterà intere settimane ad ammazzarti…»
«Sta venendo qui…»
«Cosa?!!»
«Non sa che siete qui. Pensa che io sa da solo. Potete fotterlo…»
Il dito di Cainos s’irrigidisce sul grilletto. Una linea indefinibile
separa Will dal sonno più lungo.
Driin… Driiin… Driiiiiiiiiiiin!
«È lui!»
Poi incomincia l’olocausto.
L’Orco irrompe nell’appartamento preceduto dal Segugio e un
secondo sgherro. Charles si muove veloce, nonostante la ferita
alla gamba. Fa secco lo sgherro e poi si mette al riparo dietro il
sofà. La pistola di Cainos è in traiettoria verso la porta. Non
spreca il vantaggio, anche se il colpo deve passare attraverso il
cranio del povero Will. Ferisce il Segugio e poi trattiene il corpo
del Traveller per usarlo come scudo.
Intanto due proiettili Killer-Pool sparati dal Segugio rimbalzano
freneticamente nella stanza. Uno colpisce di striscio Charles, che
impreca e manda tutti a farsi fottere. Rinuncia al riparo e scarica
il cannone addosso ai bastardi. È una mossa azzardata. La testa
del Segugio esplode, ma l’Orco ha tutto il tempo di mirare al suo
bersaglio. Charles fa due passi indietro cercando di rimettersi gli
intestini dentro lo squarcio che gli si è appena aperto nel basso
ventre. Ci rinuncia e crolla dietro il sofà.

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Juri e Theodirich si ritrovano uno davanti all’altro, le pistole
puntate alle rispettive facce. Facce cambiate durante gli anni, ma i
loro occhi sono quelli di sempre.
«Perché l’hai uccisa?»
«Perché ti amava, e non potevo sopportarlo.»

Anderson spalanca la porta dell’appartamento di Will Coston.


Di scene come quella che gli si presenta davanti ne ha viste anche
troppe, ormai. La sparatoria non ha lasciato supertesti. Ci sono
sei uomini riversi al suolo, e solo due hanno la faccia ancora
intera. Il detective sa che non dovrebbe toccare niente, ma il buio
e la puzza sono intollerabili. Si avvicina a una finestra e la
spalanca. Si chiede da quanti mesi non sia stata aperta.
La luce irrompe sulla scena come il risveglio alla nuda realtà
dopo un sogno bellissimo. Anderson è stanco. Si chiede che senso
abbia raccattare i tasselli di assurdi puzzle come quello che ha
davanti. Poi il suo sguardo va a un oggetto riverso sul
pavimento; la custodia di un dischetto. La prende. Anche questo
non dovrebbe fare. Se la rigira tra le mani. Sulla nera superficie
risaltano cinque macchie di sangue. Apre la custodia, estrae il
dischetto, e qualcosa gli dice che tutto è partito da quell’oggetto.
Ma non sa se fidarsi delle sue sensazioni, ormai. L’ultima che ha
avuto era una delle più nefaste, e invece sembrava che se la fosse
cavata anche questa volta.
Poi un led rosso incomincia a pulsare sulla superficie del
dischetto.
«Che diavolo è?»

ESTRATTO DAL SUN-CITY JOURNAL

Per combattere la pirateria informatica la Shikoku, nota produttrice di


videogiochi per adulti, ha messo sul mercato una nuova tecnologia, il
Pirate-Mine-System. Si tratta di un metodo non molto ortodosso per
fronteggiare il dilagante problema. In pratica il software trasforma il
supporto su cui è stato copiato in un trasmettitore. Al satellite della
Shikoku basteranno un paio di giorni per rintracciare la copia e
intervenire seguendo le normali misure riserbate ai pirati informatici.

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L’intervento del laser satellitare è veloce e non lascia traccia. Il pirata
viene fulminato all’istante e la copia ovviamente distrutta.
La multinazionale ha sperimentato il prodotto in segreto e sembra aver
dato i risultati sperati. Ci sono stati alcuni incidenti, come nel caso del
detective Anderson della squadra omicidi (ne abbiamo parlato in un
articolo precedente), ma le autorità non sembrano voler intervenire
legalmente contro la Shikoku. In fondo si tratta di una piccola perdita,
in una lotta che va avanti da anni contro l’inarrestabile contro-cultura
del file-sharing.

Charles Huxley
GM Willo
Demiurgus
Cainos

2008-2009

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AL DI LÁ DEL CAMPO
di Davide Bandinelli

Ci ripariamo dentro il capannone semi dismesso del comune.


Con l’oscurità di questa tarda sera di novembre è arrivata anche
la pioggia, rumorosa e gelida.
Siamo accanto ad una moltitudine di oggetti e macchinari per la
manutenzione stradale, ci sono cartelli, attrezzi, sacchi di sale, e
persino un’enorme scavatrice che mi fa un po’ paura.
Penso che se torno a casa bagnato mia mamma mi sgriderà di
sicuro.
Cesare e Tiberio non sembrano così preoccupati, forse i loro
genitori non sono tanto apprensivi.
Li guardo invidioso mentre liberano da un vecchio zaino una
specie di piatto di metallo e una torcia militare. Io tutte le sere
verso le otto dovrei tornare a casa per la cena, è una regola che
cerco di rispettare per non ricevere rimproveri, loro due invece
mi pare non abbiano un orario stabilito.
Le gocce di pioggia che precipitano sul tetto del capannone, dal
suono che sprigionano, sembra che abbiano una consistenza
inspiegabile.
Cesare prende lo Walkie Talkie che tiene fissato alla sua cintura
e comincia ad avvitarci sopra una antenna più lunga e potente di
quanto non fosse quella originale e, con un tono di voce appena
percettibile da farmi intendere che non devo sentire, dice a
Tiberio qualcosa:
- Vediamo se è ancora qui. -
Capisco bene invece quello che ha detto. Ho un brivido di
spavento e d’istinto guardo il muro che si erge pochi metri più
avanti dal capannone e ciò che delimita: sagome di alberi scuri
avvolti dal vento, e il suono di migliaia di rami e foglie che si
stormiscono tra loro. Tutto ciò mi rende inquieto, alimentando la
mia paura e una forte curiosità.
Appoggio la mano destra sul mio coltellino custodito in una
fodera di pelle legata alla vita.

35
In realtà si tratta di uno sbucciapatate con il manico in sughero.
Me l’ha regalato Cesare dopo averne corretta l’impugnatura ed
averlo affilato, ma sembra un coltello a tutti gli effetti e mi dà
comunque un grande coraggio e un senso di autorevolezza.
Lui ne ha uno più grande del mio, con una lama ricurva da una
parte e una seghettata dall’altra. Il suo manico nasconde un kit
medico e all’estremità di esso vi è avvitato un tappo con
incastonata una piccola bussola. Anche questo mi tranquillizza.
- Cosa volete dirmi? - Dico alzando il tono della voce più del
dovuto, ormai stufo di una situazione che dura da ore.
Tiberio mi punta la torcia in faccia e mentre distolgo lo sguardo
abbagliato, ammonisce:
- Giura che non lo dirai a nessuno. -
Guardo Cesare che ricambia severo. Tiene in mano lo Walkie
Talkie e questo strano disco di metallo collegato con una
cordicella ad un’asta lunga una ventina di centimetri dello stesso
materiale.
Era tutto il pomeriggio che ci lavoravano sopra. Quando ero
entrato nel nostro rifugio, sotto casa di Cesare, avevo sorpreso
Tiberio con una maschera grigia da saldatore, e Cesare con un
trapano che reggeva con tutte e due le mani.
Avevo chiesto cosa stessero facendo ma nessuno mi rispose,
sembrava che li avessi disturbati.
Poi Cesare completato il lavoro con un soffio energico diretto
sui due fori situati all’ estremità del cerchio di metallo, mi aveva
detto che più tardi mi avrebbe mostrato qualcosa, ma solo se gli
dimostravo di essere pronto. Ricordo di aver pensato subito a
come dimostrarglielo.
Li avevo trovati straniti come non mai quel pomeriggio, ed era
chiaro che qualunque cosa stessi per apprendere sarebbe stata
per loro libera ed esclusiva volontà. Tutte le domande che avevo
posto, anche con grande insistenza, non avevano avuto risposta.
- Adriano, devi promettere su noi Goblins, che questa cosa
rimane qui. - Mi dice Cesare.
Ci penso un attimo e mi vengono in mente alcuni che sarebbero
stati interessati a esserne informati: il mio amico d’infanzia
Maurizio, le mie sorelle più piccole, ma sovrastato da un

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immediato senso di colpa, giuro sui Goblins che custodirò il
segreto.
- L’ altro giorno io e Tiberio mentre eravamo nel bosco abbiamo
trovato Elliot. - Mi dice Cesare senza tanti giri di parole.
- Chi è Elliot? - Domando spostando lo sguardo su Tiberio che
sembra intento a studiare la mia reazione.
- Allora l’ hai giurato, non devi dirlo a nessuno. - Ripete Cesare.
Penso adesso a tutte le cose malvagie che potrebbero capitare a
tre ragazzini di dodici anni in una buia notte d’inverno ai limiti
della periferia cittadina, a questa fantomatica persona che
probabilmente vive sola nel bosco cibandosi forse di carne di
bambino.
Mi viene quasi da piangere.
- E’ un extraterrestre. - Dice Cesare fissandomi intensamente.
- Lo abbiamo chiamato Elliot. - Continua.
Totalmente incredulo, mi rilasso un attimo. Per quanto ne so io
non esistono gli extraterrestri, e comincio a ritenere che si stia
trattando di uno scherzo.
- Ma dai, non scherzate. -
Mi pare però che i loro volti siano seri. Cerco di analizzare il
loro atteggiamento in cerca di un gesto che possa svelarmi il
complotto. Sono però impassibili, e torno ad agitarmi.
- Se vuoi puoi vederlo, noi dobbiamo portargli da mangiare e
questa specie di Gong. - Dichiara Tiberio, e aggiunge:
- Non fa paura, è piccolino e parla un po’ la nostra lingua…Se
non te la senti di venire, aspettaci qua. Noi gli abbiamo promesso
che saremmo tornati. -
A questo punto cominciano a tremarmi le gambe, rimango in
silenzio pensando a qualcosa da dire. Tiberio, nel frattempo, tira
fuori da una delle sue numerose tasche un pacchetto di
noccioline ricoperte di cioccolata.
- Ma piove! - Ribatto con la prima cosa che mi viene in mente
cercando una scusa.
Si guardano a vicenda e la torcia torna a illuminare il mio viso.
Sono combattuto, non riesco a prendere una decisione. Andare
adesso nel bosco sotto questa pioggia vuol dire fare i conti con la

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mamma e con un extraterrestre, ma rimanere da solo ad aspettare
non sarebbe peggio?
Prendo fiato e dico che sono con loro.
Voglio sapere se si tratta di uno scherzo, se davvero è atterrato
un UFO proprio qui, in questa città dove non succede mai niente,
e voglio conoscere tutto quello che sanno loro, i mie amici: Cesare
e Tiberio.
- Bene, tieni questa. - Dice Tiberio consegnandomi la torcia.
L’ abbiamo gia saltato quel muro infinite volte e dove ci
troviamo è il punto migliore per farlo. Dinanzi al capannone del
comune ci sono degli oggetti che ci aiutano nell’impresa.
Trasciniamo una grata fatta con delle barre cilindriche a ridosso
del muro del bosco, una identica l’avevamo già scaraventata
dall’altra parte ormai da quasi un anno ed è ancora lì nella stessa
posizione, la alziamo con poca forza e la usiamo come scala.
Scavalcano il muro in un balletto, io li seguo per ultimo.
Dall’altro lato c’è una radura e un vecchio pozzo chiuso da una
botola arrugginita.
La torcia militare non ci aiuta molto, ma il luogo lo conosciamo
bene. Per adesso siamo solo noi, la pioggia e il rumore del vento
tra le foglie.
- Andiamo. - Incita Cesare cominciando a correre sul sentiero
che si inoltra nel bosco.
In cima a questo sterrato, dopo diversi tornanti, si trova una
villa antica che probabilmente appartiene o era appartenuta ad
una nobile famiglia ormai decaduta. Sappiamo per certo che non
ci abita più nessuno, ma l’accesso all’interno è impossibile, dato
che tutte le porte sono ben chiuse. Ogni tanto arriva un signore
anziano con il suo cane, pensiamo che sia il guardiano. Una volta
ci ha scoperti e il suo cane ci ha rincorso abbaiando fin quasi giù
alla radura. Mi ricordo però che raggiunta la scala, mentre la
scavalcavamo, ci mettemmo a ridere come matti.
Adesso invece si aggiunge a tutti i miei timori anche quello del
cane, non ci avevo pensato prima. Speriamo che con questo
tempo almeno il guardiano se ne stia a casa.
- In che posto dobbiamo andare? - Chiedo a Tiberio che è al
mio fianco mentre corro.

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- Dovrebbe essersi riparato dentro il casottino di pietra, accanto
al tronco spezzato. -
Appena giunti ad un altro sentiero, che da quello principale si
inoltra impervio verso il cuore del bosco, ci fermiamo un attimo.
La volta di rami e foglie che ci sovrasta riesce a ripararci non
poco dalla pioggia che sentiamo continua a cadere.
- Ma com’è fatto? - Domando prendendo fiato.
- E’ come tutti gli UFO, ha le antenne, tre dita per mano, ma
deve essere un bambino che probabilmente si è perso. - Risponde
Tiberio.
- Con questo marchingegno… - Aggiunge Cesare sollevando
quella specie di Gong. - …dovrebbe mettersi in contatto con i
suoi. Dobbiamo aiutarlo capisci? - Poi guarda verso l’alto in
direzione del tronco spezzato e prosegue: - Senza che nessuno lo
scopra ovviamente. -
Se si tratta di uno scherzo l’hanno studiato proprio bene, non
riesco a stare calmo, la paura di conoscere ciò che nessuno al
mondo ha mai visto prevale su tutte le mie curiosità di bambino.
Alzo la torcia sul tratto di strada che ci separa ancora da Elliot e
riprendiamo a muoverci.
Appena giunti al casottino di pietra, notiamo subito che la porta
è aperta. Ci disponiamo con cautela intorno all’entrata e, dopo
aver cercato approssimativamente una via di fuga illumino il suo
interno.
Pare che il piccolo locale sia vuoto. Dentro ci sono solamente
alcuni tubi attaccati al muro e un paio di confezioni vuote di
noccioline ricoperte di cioccolato.
- Se n’è andato. - Dice Cesare.
- Forse sono già venuti a prenderlo. - Aggiunge Tiberio.
Li guardo mentre controllano in giro. Cesare mi prende la torcia
e comincia a chiamarlo dirigendosi dietro la piccola struttura di
pietra.
- Mi avete preso in giro. - Dico rivolto a Tiberio con una calma
improvvisa.
- No, te lo giuro, è stato qui per diversi giorni. Ci abbiamo
parlato, gli abbiamo dato da mangiare. Forse si è nascosto da
qualche altra parte. -

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- Io se non lo vedo non ci credo. -
Cesare torna facendosi largo tra le felci e tiene ancora in mano
lo strano disco scuro e la torcia.
- Lasciamo questo strumento nel casottino, nel caso dovesse
essere ancora da queste parti. - Dice.
- Forse si è nascosto perché ha percepito la presenza di Adriano,
ha avuto paura. - Esclama Tiberio.
Queste parole mi tranquillizzano ancora di più, ma sono quasi
completamente bagnato e sento l’acqua sui capelli e nelle scarpe,
adesso il timore numero uno diventa mia Mamma che gia sarà in
ansia.
- Proviamo ad arrivare fino alla villa, forse si è rifugiato là
dentro. - Dice Cesare.
- No, io me ne vado, non mi avete dimostrato nulla, non penso
che esista davvero un extraterrestre -
Si guardano di nuovo anche loro completamente bagnati, poi
Cesare entra piegandosi nel casottino e posa a terra il suo Gong,
prende di nuovo lo Walkie Talkie e chiama Eliot un paio di volte
ancora. La radiolina emette un fruscio senza risposta.
- Bene, torneremo domani. - Dice.
Quando torno a casa mia mamma mi obbliga sgridandomi a
farmi la doccia, mentre io cerco di immaginarmi come sia fatto
Elliot. Penso ai poteri che può sprigionare dalle sue tre dita, o
forse dalle antenne, mi chiedo se diverrà anche mio amico.
Piano piano mi convinco che esiste.
Per tutta la cena, di fronte ai miei genitori e alle mie due sorelle
più piccole, cerco di trattenermi nel rivelare l’incredibile notizia,
ma voglio più prove, voglio esserne certo, dopotutto potrebbe
sempre trattarsi di uno scherzo, domani, decido, andrò di nuovo
nel bosco. Più tardi nella mia cameretta immagino una situazione
come la cena di stasera in cui pronuncio: Mamma e Babbo, care
sorelle, da oggi la mia vita prenderà una strada nuova. Mi
dispiace tanto lasciarvi, ma io e il mio amico Elliot abbiamo una
missione da compiere: salvare il mondo.
Rannicchiato nel mio letto mi addormento in un sonno
profondo.

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In cima alla rampa che dal mio garage arriva alla strada,
trainando la mia bici a braccia per raggiungere poi la scuola,
vedo in lontananza Cesare e Tiberio. Li vedo molto piccoli al di là
del campo, ma noto bene i loro movimenti mentre lasciano le loro
biciclette al bordo del capannone. Vanno certo da Elliot.
Senza neanche pensare a ciò che è giusto o sbagliato, salgo in
sella e cerco di raggiungerli. Attraverso il campo che separa le
nostre abitazioni dal bosco alla massima velocità. Non piove ma
l’ aria è gelida, si sente solamente il suono delle ruote sull‘erba e
del mio zaino carico di libri che sbatte e che fa eco ad ogni buca
che prendo. Lascio la bici dove l’hanno lasciata loro e a corsa
raggiro il capannone fino a raggiungere la grata che hanno già
sollevato e superato. Ci salgo sopra e li chiamo.
Dopo un attimo mi rispondono.
- Adriano siamo qua, vieni. -
La loro voce è lontana, deduco che siano arrivati al casottino di
pietra.
Salto dall’altra parte e continuo fin dentro il bosco.
Li vedo finalmente accanto alla porta di metallo aperta, sono
immobili e guardano l’ interno.
Mi avvicino diminuendo il passo, e prima di riuscire a vedere
cosa si nasconda davanti a loro, sento un suono che non ho mai
sentito prima: acuto, ondulato e incantevole.
Perdo i sensi.
Quando apro di nuovo gli occhi dopo non so quanto tempo,
sono nudo e sospeso in un luogo dalle pareti trasparenti, non
vedo bene cosa ci sia oltre, capisco solamente di riuscire a
respirare in questa specie di acqua che mi sommerge, e che forse
sono prigioniero.
Di fronte a me ci sono due marziani che mi fissano e muovono
le loro antenne velocemente. Hanno in mano qualcosa da qui
emerge un raggio blu che direzionano sul mio corpo, con
leggerezza e movimenti armonici.
Ora non ho paura, mi sento bene. Sono convinto di potermi
muovere come voglio, non sono legato a niente, solo che non ne
ho voglia. Sono anche convinto che in questa specie di grande
acquario si trovino sia Cesare che Tiberio, li sento al mio fianco, e

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come me ondeggiano in questa linfa trasparente illuminati da
macchie blu.
D’ improvviso un altro suono. Meno dolce di quello sentito nel
bosco ma sempre acuto e con la stessa dirompenza.
E’ mia Mamma che mi sveglia.
Ho subito una sensazione di disagio appena sveglio, come tutte
le mattine del resto, ma poi sono contento che sia stato solo un
sogno e il pensiero di raccontarlo ai miei amici mi risveglia
completamente. Ritengo che anche se Elliot sia piccolo e buono
non è detto che lo siano i suoi genitori.
In cima alla rampa che dal mio garage arriva alla strada,
trainando la mia bici a braccia per raggiungere poi la scuola,
vedo in lontananza Cesare e Tiberio.

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VICOLO CIECO
Raccontami sulle note di...

É una dannata giornata di febbraio, di quelle che ti penetrano le


ossa, e non ti fanno stare fermo. Hai bisogno di muoverti, di
camminare, di afferrare una bottiglia e andare…
Ma che succede quando imbocchi la strada senza uscita? No,
non puoi permetterti di tornare indietro. Non c’è più niente alle
tue spalle, solo il fetore della solitudine, il rancido retrogusto di
un’amicizia perduta.
Già vedi la fine della strada, un muro compatto che ti sovrasta,
ma ancora speri in una via d’uscita, in una porta su un altro
mondo. Ancora qualche passo… Calpesti tombini mentre i
giornali svolazzano. È un vicolo cieco, un maledetto vicolo cielo.
E allora ti siedi con la schiena appoggiata al muro, e ti stringi le
ginocchia. Guardi la strada che hai appena attraversato, conti i
lampioni, le auto in sosta, le porte delle case chiuse, come chiusa
è ogni tua possibile uscita.
Piangere potrebbe essere la giusta alternativa. Ma non ricordi
più come si fa.
E allora tiri giù una altro sorso e pensi: “Si vedrà!”

GM Willo sulle note di “One Way Street” di Mark Lanegan

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UNA PARTITA A BILIARDO
di GM Willo

Chiusi gli occhi e le luci si accesero.


Mi trovavo in una sala da biliardo, dieci, dodici tavoli disposti
in fila, pareti ricoperte di stecche, gessetti blu, lampade verdi
sopra i teli, mattonelle marroni, sedie di formica, finestre su una
strada buia. Era quella la sala d’attesa?
La stanza era pressoché deserta. C’era solo un giocatore,
defilato al tavolo più distante; il numero dodici. Mi avvicinai col
pensiero e un attimo dopo ero seduto di fronte a lui. Mirava la
numero otto in una buca d’angolo. Attesi il colpo. Il silenzio era
assordante. Toc! Con precisione la palla nera percorse tutto il
tavolo depositandosi con dolcezza nella buca.
«Bel colpo!» mi venne di dire.
L’uomo, un tipo anonimo di mezz’età, vestito con un paio di
jeans e una giacca scura, mi rivolse un sorriso.
«Te l’aspettavi, vero?» Aveva una voce roca, graffiata dal
tabacco e dall’alcol.
«Cosa?»
«Che andasse a finire così. Buca d’angolo…»
«Che vuoi dire?» Ero confuso e non lo nascondevo.
«La tua vita. La numero otto, in buca d’angolo.»
«Vuoi dire che era lei?»
«Beh, hai rimbalzato un bel po’ prima di finire in buca. Alla fine
ci finiscono tutte…»
«Ehi, ferma un attimo. Mi vuoi dire che siamo di là? Che alla
fine il cancro l’ha avuta vinta?»
«Beh, questo lo dici tu. Forse può bastarti…» Si era messo a
lavorare la stecca con il gessetto, ma continuava a guardarmi, da
oltre la frangia che gli ricadeva sugli occhi.
«Ed io che credevo che avrei trovato delle risposte…»
«Ehi uomo, non ti preoccupare. Non sei il primo che pensa di
trovare delle risposte da questa parte. Qui si gioca solo a biliardo.
Ti va di fare una partita?»

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Che altro potevo fare. Avevo l’eternità davanti. Mi alzai e
afferrai una stecca.
«A cosa giochiamo?»
«A Destino. Lo conosci?»
«No.»
«La vedi la numero quindici, laggiù?»
«Si…»
«Tua figlia Giulia. Se la butti in buca è salva, altrimenti… dopo
tocca a me.»
Mi regalò un sorriso di cui avrei fatto volentieri a meno.
E così mi ero ritrovato a giocare al Destino insieme al braccio
destro del Caso. Non potevo farcela, era una partita impari, uno
scherzo di cattivo gusto. Se solo…
E appena lo pensai, apparve. Un bicchiere di scotch sul bordo
del tavolo da gioco. Ecco quello che mi ci voleva… Lo buttai giù
d’un fiato e preparai il colpo.
«Ordina pure quello che vuoi. Va tutto sul mio conto…» disse il
tipo col ciuffo, continuando a sorridere.
Non lo guardai. Non guardai nemmeno la palla, o la stecca, o la
buca. Chiamai il colpo pensando alla piccola Giulia, quando
aveva solo tre anni, e si buttava dallo scivolo a testa in giù, e le
dicevo di stare attenta, ma poi lei mi sorrideva e non potevo
resisterle. La biglia battente descrisse una retta attraverso il
tavolo verde, sfiorò appena la numero quindici vicina alla buca
laterale, la palla bianca e bordeaux ruzzolò con sicurezza dentro
la cavità. La piccola Giulia era salva, almeno per il momento…
«Bel colpo» ammise il mio compagno di gioco.
«Cosa mi aspetta, adesso?»
«Ancora domande? Te l’ho già detto, qui non troverai risposte.
In verità ti dico che di risposte non ci sono, da nessuna parte. Né
nella sala dei biliardi, né giù al bar, né tanto meno in strada…»
In quel momento sentii transitare un’auto, vidi le luci degli
abbaglianti scorrere sul palazzo di fronte, mi avvicinai alla
finestra e guardai giù. Ma l’auto era già passata. Fuori pioveva, e
i lampioni illuminavano le pozze. Il silenzio era straziante.
«Beh, dici che non esistono risposte, ma tu sei già una risposta.
Giochi a biliardo con le vite degli uomini, è un fatto no?»

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«Scusami se mi ripeto, ma questo lo dici sempre tu. Ci credi
solo perché te l’ho detto? La numero sei, quella verde. Lo sai chi
è?»
Poteva essere un sogno? Non avevo mai sentito che il cancro ti
prendesse così, di punto in bianco, sul divano mentre guardi la
TV spenta e cerchi di farti una ragione di quello che ti sta per
succedere. La morte, l’amore, il tempo, il senso di tutto… Mi
aggrappai all’idea del sogno e continuai a giocare.
«Che diavolo vuoi da me?» urlai. Ma in quell’intercapedine
onirica, l’urlo diventò un sussurro.
«La sei è tuo padre. Proprio lui, il vecchio ubriacone, quello che
non è neanche venuto a vedere la sua nipotina, quello che non si
è fatto sentire per più di dieci anni, quello che metteva mano alla
cintura volentieri, quando ne combinavi una grossa… La numero
sei, dai su… Non è difficile… Un colpo secco ed è salvo. Ah,
dimenticavo, puoi sempre decidere di passare il turno…»
Il suo sorriso era diventato un ghigno. Sul bordo del tavolo
apparve un secondo bicchiere. Lo afferrai con decisione, lo alzai e
proposi un brindisi. “A te, padre… ti ho già perdonato così tante
volte che non me ne frega più niente, ormai…”
Già, proprio un colpo secco ci voleva, e la sei fu fuori dal gioco.
Ne rimanevano troppe, però…
«Quanto deve andare avanti questa storia?»
«Non ti stai divertendo?»
«No!»
«Io invece si. Quella gialla, la uno. Quella è tua moglie.
Vogliamo provare a buttarla dentro?»
Per me poteva bastare. Cercai l’interruttore dei sogni, avete
presente? È un po’ come allungare una mano nel buio della
cantina, e mentre senti il tocco delle ragnatele ti auguri che il
ragno non s’incazzi e ti venga a fare un salutino. Ma niente
interruttore, questa volta. Cavoli, forse ero morto per davvero.
Maledetto…
Il colpo era difficile stavolta. La uno era coperta da altre due
palle. Avrei potuto mirare alla sette, per farla carambolare sulla
gialla. Un colpo estremamente complesso, ed io non sono mai
stato un granché come giocatore. L’alternativa era mettere fuori

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gioco il mio avversario, nascondendogli la biglia dietro altre
palle. Ma potevo fidarmi di lui? Chissà di cosa era capace…
«Puoi passare, se vuoi…» incalzò il braccio destro del Caso.
Non gli badai e preparai il colpo.
Pensai al giorno in cui la conobbi, alle cretinate che feci per
farmi notare, a come mi guardava storta, ridendo al tempo stesso,
alla vacanza in Grecia e all’amore sugli scogli, ai litigi e alle
passioni, all’ultimo sforzo, dopo ore di travaglio, che segnò la
nascita di nostra figlia, e a tutte le volte che avevo bisogno di una
carezza e c’era lei. Pensai a tutto questo chiudendo gli occhi, poi
li riaprii e colpii, sicuro, con forza, dritto verso la biglia bordeaux.
Stoc… toc… toc… la uno in buca d’angolo… salva… e la bianca
in buca laterale…»
«Peccato…» sospirò il mio avversario.
Riaprii gli occhi e le luci si spensero. La TV era morta ma il led
in alto mi diceva che erano quasi le due. Al piano di sopra il miei
due gioielli respiravano piano, e sognavano di volare. O almeno
me lo auguravo…
Una fitta allo stomaco. La solita fitta, quella che mi tormenta
ormai da settimane. Domani iniziamo la chemio, poi si vedrà.
Volete sapere cosa penso?
Non penso niente. Le Grandi Risposte non m’interessano.
Continuerò a pormi domande fino alla fine, e cercherò di
rispondermi in sincerità, anche se dovrò contraddirmi. Lo
facciamo tutti, no? È cosi che passiamo ogni singolo istante delle
nostre esistenze.
Ma ho smesso di credere al bianco e al nero, a dio e al diavolo,
al male e al bene. In questo momento, solo di una cosa sono certo:
se vuoi morire tranquillo, impara a tirare di stecca!

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L'IMPERATORE DEL MONDO
di Hermes

I colorati vessilli dell’esercito brillarono illuminati dalle prime


luci dell’alba, l’esercito era gia sveglio ed operoso, molte
armature scintillarono illuminate dai raggi puri dell’astro
nascente. Il suono cristallino di una tromba salutò il nuovo
giorno e richiamò gli uomini nei ranghi, nel centro
dell’accampamento da una tenda sfarzosa comparve l’Imperatore
di tutti i Popoli, splendido nella sua armatura d’oro, imponente
brandiva una spada dall’elsa gemmata e dalla lama scalfita da
mille battaglie. Lo sguardo severo del sovrano passò in rassegna i
suoi Cavalieri, disciplinati e fedeli sino alla morte, montavano su
cavalli da guerra pronti al comando loro Signore, ma
l’Imperatore ordinò ai suoi generali che quest’oggi avrebbe
cavalcato da solo. Gli fu portato il suo cavallo e galoppò verso il
sole nascente. Il vento soffiava da oriente portando con se uno
strano odore salato, l’imperatore spronò il suo destriero
attraversando la prateria verde quindi si arrestò dove la terra
finiva bruscamente. Un’alta scogliera era l’ultimo confine della
terra, poi davanti agli occhi del sovrano c’era solo acqua, una
distesa infinita. Questo doveva essere il mare senza fine di cui
aveva sentito parlare, solo acqua sino all’orizzonte dove mare e
cielo si baciavano, questi erano gli ultimi confini del mondo.
Il conquistatore scese da cavallo e si guardò intorno con un
misto di rabbia e sconcerto, si rese conto che le terre erano
davvero finite e aveva conquistato l’intero mondo conosciuto.
Eppure nell’uomo c’era una sorta di rammarico, era ancora
insoddisfatto, gli mancava qualcosa a cui non sapeva dare un
nome. Né il giacere con una donna né l’affondare la spada nel
cuore di un nemico avrebbe placato questa inquietudine, eppure
nessun uomo prima di lui aveva mai raggiunto un’impresa cosi
grande. Lui era il signore del mondo venerato come un Dio, uno
dopo l’altro popoli lontani si erano piegati alla sua spada,
possedeva ogni ricchezza immaginabile e la sua parola era legge,
eppure sentiva un senso di vuoto opprimente. Quell’immensa

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superficie liquida lo metteva a disagio, non poteva né
conquistarla né poteva porvi dei confini.
Un gabbiano volteggiò sopra il sovrano, lanciò il suo grido nel
vento, sembrò all’imperatore una risata beffarda, poi l’uccello si
tuffò nel blu sottostante. L’uomo guardò l’uccello volare, in quel
momento, in quel silenzio, finalmente solo, comprese la natura
del suo sconforto, chinò la testa e pianse comprendendo la
sconfitta e l’inutilità della sua vita. L’Imperatore del Mondo
intese che la sua intera esistenza era senza significato. L’uomo
cercò indietro nella memoria meravigliandosi di aver perso il
conto delle battaglie vinte, possedeva così tante terre da non
ricordane i nomi, come non ricordava più i nomi dei tanti che nel
suo nome si erano sacrificati e per un suo ordine avevano ucciso.
Quell’uomo aveva dedicato la sua intera esistenza a combattere e
conquistare, poi osservando l’erba, il mare, le nuvole comprese
che nulla di questo poteva essere rivendicato da qualcuno. Valutò
quanto fosse stato sciocco fare la guerra e uccidere per
conquistare qualcosa che non si può possedere. L’imperatore
osservò il gabbiano uscire dall’acqua con un pesce nel becco e poi
spiccare il volo, capì che mai sarebbe stato libero e felice come
quell’animale. Avrebbe dato tutte le sue armi e ogni suoi
ricchezza per barattare la sua vita con la semplice esistenza di
quell’uccello.

49
DESIDERIO DI PROLE
di Fida

CAPITOLO I

“Siete disposti ad accogliere con amore e responsabilmente i


figli che Dio vorrà donarvi?”.
Ricordo, come se fosse ieri, quelle parole a cui non avevo mai
dato tanto peso perché credevo fosse naturale che, dopo qualche
anno dal fatidico sì, si cominciasse a pensare alla maternità. Oggi,
però, la sento come una cosa sempre più lontana perché come
ogni martedì, da quasi otto mesi, mi ritrovo seduta nell’angusta
sala d’attesa del reparto di sterilità dell’ospedale. Appoggiata con
la testa al muro e le gambe accavallate, aspetto di sentire
pronunciare il mio nome dall’infermiera di turno e intanto mi
riecheggiano i rimproveri di mia suocera che mi ripete
continuamente di non essere capace di fare un figlio.
“Perché proprio io?”, mi chiedo ormai laconicamente, eppure in
famiglia non ci sono casi di infertilità; quarta di cinque figli,
credevo che non sarebbe stato poi così difficile imitare mia
madre. Invece da circa otto anni il mio tenero batuffolo non vuole
arrivare. Lo sogno ogni notte con il suo pagliaccetto blu e le
minuscole scarpe da ginnastica, occhi cerulei come sua nonna e
capelli fulvi (purtroppo!) come mio padre. Anche adesso se solo
ci penso mi sembra di vederlo nella sua culletta, circondato dalle
nonne che gli ripetono incessantemente “dai bello, dì no-nna, no-
nna”.
Lo so, la speranza è l’ultima a morire, ma quando la fortuna ti
schiva di continuo, cominci a credere che forse il diavolo il suo
zampino ce lo abbia messo sul serio. Comunque, siamo qui io e
mio marito Riccardo, che attendiamo il risultato del test di
gravidanza delle beta fatto stamattina presto, sperando in un
esito positivo. Nel frattempo il mio sguardo vaga per la sala;
intorno le verdi mura piastrellate dell’ospedale sono tappezzate
da locandine che pubblicizzano una sana sessualità e il consulto
di medici specializzati in casi di sterilità, cercando in questo

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modo di risollevare l’animo di tutte quelle donne che si ritrovano
nella mia stessa situazione. Con lo sguardo assente vengo attratta
dall’immagine di una coppia che si bacia appassionatamente,
come Rossella O’Hara e Rhett Butler in Via col Vento, e questo
non per la scena in sé o per quello che questa può evocare, ma
perché proprio sul naso di lui un minuscolo ragno cerca di
risalire fino alla sua ragnatela, costruita sul soffitto con
meticolosità certosina. Questo mi fa pensare a quanto sia diverso
il mondo animale dal nostro: noi dotati di razionalità e loro di
pura bestialità. Eppure in una cosa siamo uguali: entrambi ci
prendiamo cura dei nostri “cuccioli” come se nulla al mondo
abbia maggior valore.
“Sandra, puoi entrare per favore!” queste le parole
dell’infermiera che mi chiama. Leggermente spaventata ma
fiduciosa mi alzo di fretta, mi avvicino alla porta in metallo verde
e la caposala comincia a parlare di impegnative e di ticket che
devo pagare perché non risultano sul suo computer e intanto il
cuore, che batte a mille all’ora comincia a rallentare. Senza troppa
attenzione prendo quei soliti fogli che mi vengono dati e,
preceduta da Riccardo, mi dirigo verso il lungo corridoio che
porta al centro prenotazione e pagamento ticket. Mentre
camminiamo mano nella mano, mi ritorna in mente la prima
volta che ho percorso quel lungo tunnel bianco. Proprio a metà
vidi una ragazza incinta, di non più di 25 anni, che avanzava
lentamente barcollando a destra e a sinistra, come una papera,
mentre un anziano signore, di sicuro suo padre, la seguiva
portando un borsone da viaggio così grande e stracolmo che
sembrava quasi sul punto di scoppiare. Ero rimasta come
imbambolata di fronte a quella scena e il mio cuore esultava di
una gioia inspiegabile: non capivo perché ma quelle persone
avevano instillato in me una felicità enorme. E poi come
brillavano gli occhi azzurri di quella ragazza: pensai che forse, un
giorno, anche i miei avrebbero luccicato in quel modo.
Le casse sono vicine. Un tintinnio elettronico ma leggero ci
avverte che siamo arrivati e la scena che si presenta non è poi
delle più incoraggianti: un orda di persone, per lo più anziane,
che si ammassa di fronte a quattro sportelli, come alle poste nei

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primi giorni del mese quando si deve ritirare la pensione. C’è chi
strilla da una parte perché afferma di essere stata scavalcata nella
fila, chi invece sonnecchia seduto su di una sedia azzurro cielo e
chi cerca di tenere a freno l’impazienza di qualche bambino
esausto di aspettare.
Preso il numero ci sediamo e restiamo lì per una mezz’ora in
attesa del nostro turno: una mezz’ora che sembra quasi
un’eternità.

CAPITOLO II

Nell’attesa che arrivi il mio turno mi guardo intorno sbirciando


qua e là nei giornali sportivi che i vari “avventori” dell’ospedale
si sono portati furbescamente dietro. Al gran vociare, che viene
fuori dal lungo serpentone di fronte alle casse, si sommano le
strilla dei giovani impiegati, più o meno esperti, che cercano di
smaltire la fila il più presto possibile. Diversi nomi si sentono
distintamente: c’è chi chiama un certo Gianmarco, chi invece
aspetta una risposta da una tale Marialuisa. Intanto aspetto con
mia moglie Sandra e ripenso a quanto tempo abbiamo passato
tra queste quattro mura pur di avere quella che, a detta di molti,
sembra essere la gioia più grande: un figlio. “…O almeno fin
quando sono piccoli” così come dicono amici e parenti alle prese
con ragazzi ormai adolescenti e sempre più incontrollabili.
Comunque io un bambino lo desidero e questo mi basta perché
ciò che più sogno è sentirmi chiamare papà o babbo, se penso alle
mie origini toscane.
Finalmente un dlin-dlon mi avverte del mio turno, pago e
invece di tornare di fronte al reparto, riesco a convincere mia
moglie ad andare a prendere un caffè e a fare una passeggiata.
Così agitata e tesa non l’avevo mai vista nemmeno il giorno del
matrimonio, quando riuscì a litigare con i suoi genitori. Di certo
anche io non posso dire di essere la quintessenza della calma
visto che, in cuor mio, spero molto in questa risposta. Per
allentare la tensione ci mettiamo a chiacchierare di tutto e di
niente fino a ricordare i diversi tentativi di inseminazioni che

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abbiamo fatto e che ci hanno un po’ imbarazzato; chi per un
motivo e chi per un altro. Non potrò mai dimenticare le
innumerevoli volte che mi sono dovuto chiudere dentro quel
bagnetto di 3 metri per 3 per raccogliere lo sperma; e quante volte
è poi accaduto di non esserci riuscito, cosi da mandare a monte
l’inseminazione. Questa cosa è certamente strana visto che di
questi problemi non ne ho mai avuti, ma l’imbarazzo di fronte a
tutta questa faccenda è stato grande.
Proprio io che, alle scuole superiori prima e all’Università poi,
sono sempre stato considerato un perfetto amatore, secondo il
parere delle mie tante ragazze. Eppure anche con mia moglie di
problemi non ne ho mai avuti, forse qualche defaliance ma niente
che non si potesse risolvere; in quei momenti invece, sarà la
strana situazione o il fatto che le pareti così sottili, come carta
velina, del bagno, non riuscivo a rilassarmi come avrei dovuto.
Ma allora non è poi così vero quello che le donne dicono della
bestialità dell’uomo che può farlo a comando quando vuole: io
non ci sono riuscito e per diverse volte, purtroppo.
Intanto, un altro po’ di tempo è passato e cominciamo ad
avvicinarci al reparto che è sempre più affollato di giovani
signore, alcune accompagnate dalle mamme, altre da amiche o
sorelle. Quante donne nella nostra stessa situazione ogni giorno
abbiamo visto avvicendarsi e tutte con la stessa espressione
stanca o delusa, ma questo è il rovescio della medaglia. Tutto può
andare estremamente bene o estremamente male e questo,
purtroppo, il dottore lo ha sempre messo in chiaro, fin da subito,
con tutti i suoi pazienti.

CAPITOLO III

Siamo ancora in attesa e niente ancora è cambiato; l’ansia sale


così come il via vai delle signore. Mi guardo intorno e leggo per
l’ennesima volta quei messaggi di buon augurio che, parenti e
amici di ogni nuova mamma hanno lasciato sulle pareti del
reparto di neonatologia vicino a quello della riproduzione.

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“Oggi è nato Alberto!”, “Auguri a Marta e Piero per il
terzogenito dalla cricca del bar!”, “Stefano sei il nipote più bello
che abbia mai potuto sperare!”. Tante parole dolcissime che
colpiscono il cuore ma che lette in quella situazione lo portano a
sprofondare in un abisso inesorabile, lasciando anche uscire una
piccola lacrima, di felicità e di tristezza insieme.
“Proprio ora? non si può rimandare di qualche ora o nel
pomeriggio? Vi avevo detto che sarei stato impegnato per l’intera
mattinata!…E’ poi così urgente? Non potete fare proprio a meno
di me?… Ok, arrivo, datemi solo dieci minuti!”, con queste parole
mio marito Riccardo, avvocato di fama già da alcuni anni per un
terribile caso di omicidio di un bimbo di 5 anni, mi dice di dover
fare un salto nel suo studio e poi in tribunale. Così imprecando
mi lascia ma solo dopo avermi dato un bacio leggero sulla bocca
e chiedendomi scusa. L’ho lasciato andare senza troppi problemi
anche perché l’attesa sarebbe stata troppo stressante soprattutto
per lui che già da qualche tempo soffre di pressione bassa.
Distraendosi un po’, almeno, non avrebbe rischiato di svenire
come già era successo altre volte, anche in presenza del dottore,
durante i controlli di routine.
Giocherellando con il tetris, che ho sul mio telefonino di ultima
generazione regalatomi dai suoceri per il mio compleanno, vedo
un’ombra avvicinarsi e distrattamente volgo lo sguardo in quella
direzione: un uomo di 30 forse 40 anni mi si avvicina e mi parla,
lì per lì non l’ho riconosciuto a causa del sole contro, finché
allungando la mano verso di me mi rivolge un saluto.
Era lo psicologo. Un uomo di bell’aspetto, piacevole se non
fosse per quel suo piccolo tic di toccarsi i capelli continuamente.
Una persona gentilissima e dalla voce dolce e rilassante.
“Buongiorno Sandra, anche oggi qui, vedo!”
“Aspetto la risposta del test di gravidanza, speriamo bene!”
“Vedrà andrà tutto bene, ne sono certo. In bocca al lupo!”.
Con queste parole si allontana da me perché è stato chiamato
dall’infermiera per una consulenza urgente, e strizzandomi
l’occhio valica la porta così da non vederlo più, anche se ancora
riuscivo a sentire la sua voce che rivolgeva un saluto al primario.

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“Che tipo questo psicologo!”: fu questo il commento di una
donna, leggermente in soprappeso, che nel frattempo aveva
occupato il posto vicino a me. Una ragazza più meno della mia
età, che avevo visto già altre volte ma con la quale non avevo mai
scambiato molte parole tranne i soliti saluti.
“Lei crede?”, rispondo con poche parole perché non so cosa
dire. In fondo non mi è mai piaciuto dare giudizi su persone che
non conosco in profondità. Lo considero un bravo dottore perché
fin dall’inizio ha saputo mettermi a mio agio; proprio io che non
avrei mai pensato di frequentare uno strizzacervelli perché non
credo molto a questa scienza. La sola idea di farmi
psicoanalizzare mi infastidiva e invece lui ci è riuscito e forse con
buoni risultati. Sapeva sempre dire la parola giusta al momento
giusto, soprattutto quando ci capitò di parlare delle tante mamme
che, negli ultimi tempi, erano diventate oggetto della cronaca
nera per aver ucciso con un perfetto aplomb i loro piccoli figli. Mi
spiegò che si trattava di casi estremi e che non sarebbe mai
potuto essere il mio caso, perché il problema alla base di quelle
donne era una forma degenerata, per malattie pregresse, di
depressione post-partum, che le donne stesse non hanno
riconosciuto e di conseguenza non si è intervenuti
adeguatamente con l’aiuto dei familiari e dei medici.
Ricorderò sempre quella signora, come dire, molto appariscente
per i modi di fare e di vestire, che un giorno, accompagnando la
nuora per un controllo ecografico, usò un’espressione poco felice
verso queste “mamme assassine”, così come le chiamavano su
tutti i giornali, definendole “indegne e spregevoli”. Una
reazione forte ma allo stesso tempo comprensibile se si pensa che
la nuora era una paziente del centro di sterilità da più di dieci
anni e che grande era il suo desiderio di diventare nonna.

EPILOGO

Un venticello caldo ma refrigerante mi distoglie da questi


pensieri; do un’occhiata veloce all’orologio per vedere che ora è
quando mi sento chiamare dalla caposala che mi dice di entrare

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perché la risposta è arrivata. Con il cuore in gola la raggiungo e,
superata la porta del reparto, un forte calore mi investe. Notai il
caldo quasi soffocante nonostante i condizionatori accesi, ma lo
considerai normale visto la presenza di feritoie al posto di vere e
proprie finestre. Una volta dentro mi fanno accomodare mentre
l’infermiera rovista all’interno dello schedario per prendere la
mia cartella clinica. Per la privacy la inserisce in una busta bianca
e me la porge. Le mani tremano, la testa gira e comincio a pensare
a cosa fare e dire in caso di un esito positivo: come comunicarlo
ad Riccardo e a mia madre, ma soprattutto come prendermi una
sana rivincita con mia suocera.
Invece di aprirla come avrebbe fatto qualsiasi altra donna nella
mia stessa situazione, mi incammino verso la mia auto e
stranamente mi accorgo di avere un’andatura abbastanza
sostenuta tanto da correre più che camminare. Non capisco come
mai: forse per la paura che quella semplice busta mi venga tolta
di mano; una busta che, se poteva essere di poca importanza per
molti, per me rappresentava il tesoro dei pirati.
Giunta davanti alla macchina ci metto parecchio tempo prima
di trovare la chiave e, una volta aperta la portiera, mi siedo, mi
allaccio la cintura e stretta nel mio pugno chiuso, come saldato, la
risposta è ormai del tutto raggrinzita. Rimango per buoni dieci
minuti immobile seduta in macchina senza pensare a nulla.
Paura, agitazione, emozione o curiosità: cosa mi agita a tal punto
non lo so con esattezza. Certo è che mi ritrovo a fissare la mia
mano appoggiata al clacson dell’auto come una ebete. Mi faccio
forza e, prima di arrivare a casa, decido di aprirla. Nonostante
l’inchiostro fosse parecchio sbiadito riesco comunque a decifrare
le scritte e il valore dell’analisi: 5335. Dopo averlo confrontato con
i valori standard di riferimento ammutolisco e non riesco quasi a
crederci. Le altre tre volte era sempre 0 ed ora è cresciuto così
tanto. Un brivido attraversa il mio corpo e tutte le mie percezioni
sembrano aumentare a dismisura. Dunque qualcosa è cambiato
finalmente. Ripenso sempre a quelle quattro cifre: 5..3..3..5. Una
perfetta simmetria per un risultato che non avrei mai sperato.
Con un sorriso e una lacrima che mi riga la guancia ripenso al
piccolo che forse presto crescerà dentro me e che altrettanto

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presto allieterà la mia famiglia scombussolando, in meglio, la
routine della mia… della nostra vita.
Sono ormai arrivata vicino casa: in fondo alla strada, sopra un
negozio di abbigliamento per bambini, si concluderà questa
avventura solitaria. Prima di salire però decido di telefonare a
Riccardo e comunicargli la notizia: compongo il numero e 5335
mi ritorna in mente: cerco di non confondermi e premo OK. Il
telefono squilla per una, due, tre volte ed ecco che con la sua voce
dolce e leggera, senza neanche chiedere chi è o chiamarmi per
nome mi dice: “Allora come è andata? Non tenermi sulle
spine…”
Quella agitazione, motivata, che tutto ad un tratto traspare dal
timbro della sua voce, mi fa un po’ sorridere e mi intenerisce.
Senza null’altro aggiungere gli comunico il numero. 5..3..3..5 e
contemporaneamente con la mia mano mi sfioro il ventre
immaginandomi la faccia che Riccardo può avere in quello stesso
momento dall’altra parte della città. Rimaniamo per quasi un
minuto in silenzio ognuno ad ascoltare il respiro dell’altro e alla
fine, dopo avermi detto “ti amo”, riattacca il telefono. Ed io
crogiolandomi al sole di quella bella giornata, con il vento fresco
tra i capelli, quando ormai non poteva più sentirmi, sussurro,
flebile, “anch’io”.

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LA SOLUZIONE DI JESSIE
Progetto "Passami la Storia"

Ci sono cose nella vita che cambiano; altre invece non


cambieranno mai.
Nonostante i miei cinquant’anni di servizio non riesco ancora
ad abituarmi a scene come queste, povera Jessie. E pensare che
l’ho vista crescere: mi sembra ieri che correva felice nel giardino
davanti casa e mia moglie…ah! come si arrabbiava quando le
calpestava con i suoi piedini minuti le orchidee!
Ma stranamente quel 15 di giugno non la vidi per tutto il
giorno: una giornata plumbea nonostante l’avvicinarsi della
stagione calda.
Poi verso le 16 però mi arrivò una telefonata che mi mise una
grande inquietudine addosso.
«È a terra» farneticava l’altro capo del telefono, «riesco ancora a
sentire il battito regolare del suo fragile cuore, ma il suo sguardo,
fisso verso il muro davanti a se, sembra accompagnare
serenamente quello stato di quiete a cui ora appartiene, quasi
voglia fingere di non accorgersi della ferita che le bagna la
fronte…»
La voce, spezzata dal pianto e dal riso, forse alla mercé di quello
stramaledetto crystal mat, la riconobbi subito; era quella di mia
figlia Denise, sua amica d’infanzia, compagna di scuola, di
università, e complice di mille altre incomprensibili storie di una
generazione allo sbando.
«Denise, smettila. Che cosa succede? Ti sei drogata? Dove
sei?…» ma lei continuava a delirare.
«…oh papà, vedessi com’è bella, mi sta sorridendo… non ti
preoccupare, siamo da Sin, ti ricordi, te l’ho presentato… stiamo
girando un film… ma Jessie ormai ha finito…»
«Non ti muovere di lí, vengo subito» le urlai nella cornetta.
Provai a riordinare i pensieri, a rimanere legato alla routine, ma
quella era mia figlia e non potevo aspettare l’ok della centrale.
Infilai in auto e schiacciai con forza il pedale dell’acceleratore.

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Sin, certo che lo ricordavo, che il diavolo se lo porti… Era il loro
spacciatore, sicuro. Si faceva passare per un artista moderno,
com’è che li chiamano, concettuali… stonzate! Piccola Denise, in
quale guaio ti sei cacciata, pensavo, mentre la sirena dalla mia
auto sgombrava il traffico dei rientri pomeridiani.
Entrai nell’appartamento e il tanfo mi fece riassaporare il
sandwich del mio pranzo. L’odore era quello di birra rancida e
cibo avariato. Li trovai in camera da letto. Lui mezzo nudo con la
cinepresa in mano, mia figlia in un angolo con un ago nel braccio
e la povera Jessie seduta sul pavimento accanto alla porta, il
revolver vicino alla mano. Povera piccola Jessie.
Denise era in piena O.D. ma se la sarebbe cavata. Sin me lo levò
dalle mani l’agente Reeves, che per fortuna mi aveva seguito
dalla centrale, altrimenti ne sarebbe rimasto ben poco di quel
pezzo di merda. Poi arrivò la scientifica.
Ci sono cose nella vita che cambiano; altre invece non
cambieranno mai.
Le persone cambiano. Le generazioni cambiano. Le mode, i
costumi, le canzoni, i vestiti, i locali, le automobili… tutte queste
cose inutili non fanno altro che cambiare, ma la morte rimane
sempre la stessa.

AUTORI: GM Willo, Giulia, Daniele, Fida, Andrea C.,


Jonathan Macini

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IL CUORE DELLA LUCERTOLA
di GM Willo

«Ciao, come stai?»


E come cazzo dovrei stare, mi andrebbe di dirle. Invece
rispondo “bene”, e sorrido pure. Non mi va di darle vantaggi. Ai
suoi occhi voglio apparire forte, anche se dentro sono a pezzi,
come se il cuore me l’avessero gettato nel tritacarne. Stronza! Sei
anni insieme, e una mattina si sveglia e mi dice “non ti amo più!”
Ma che cazzo vuol dire?!
«Ci sei domani? Se non disturbo verrei a prendere le ultime
cose…»
Certo che disturbi. Disturbi ogni singolo minuto della mia
giornata, perché non riesco a non pensare a te. Non dormo, non
mangio, non posso neanche ad andare a lavoro senza che
l’immagine del tuo volto venga ad ossessionarmi. Sei un virus,
ecco cosa sei!
«No, ci mancherebbe. Vieni pure.»
Magari parliamo un po’, mi verrebbe da aggiungere. Ma
abbiamo anche parlato troppo. E quando si parla troppo, non c’è
più niente da dire. Ci sono i ricordi, che a me sembrano bellissimi
e a lei non fanno il minimo effetto. Ci sono i rancori, e quelli lei li
ricorda benissimo, mentre io me li sono già dimenticati. E poi ci
sono i momenti d’indifferenza, e quelli sono la vera ragione per la
quale lei verrà a prendersi le sue dannate ultime cose.
«Come va a lavoro?»
Ma che cazzo te ne frega! Non ti è mai interessato quello che
faccio. Eh certo, perché prima t’interessavo io, adesso invece
t’interessa solo rimanere amica, riprenderti le tue cose e non fare
più scenate. Vuoi la dissolvenza, la chiusura col sorriso, il finale
di Hollywood, i titoli di coda con i ringraziamenti, così poi ti
potrai buttare a capofitto nel tuo prossimo film, senza sensi di
colpa…
«Bene. Marzo è stato un buon mese…»
«Sono contenta. E poi distrarsi fa bene, non trovi?»

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Questa te la potevi risparmiare, stronza! Chi vedi adesso? Ci
dev’essere qualcuno, lo so. C’è sempre qualcuno, quando si
cambia in questa maniera. Un po’ stronza lo sei sempre stata, ma
mai così. Chi è? Un collega? Uno che hai incontrato in palestra?
Uno che t’inforca dopo lo spinning?
«Si. Cerco di non pensarci, sai com’é…»
Patetico. No, non fare il patetico adesso. Ce l’hai quasi fatta. Tra
poco arriva il bus, la saluti e te ne vai. Non tornare
sull’argomento, altrimenti sei fregato…
«Vedi qualcuno?»
Ma perché non te ne stai un po’ zitta, troia! Si, vedo te, tutti i
giorni, nella mia testa, ti guardo chiudendo gli occhi, vedo i tuoi
capelli sparsi sul cuscino, le tue labbra che mi accarezzano, la tua
lingua che gioca. Vedo sempre e solo te, capito… stronza!
«No, solo i miei amici, ogni tanto. Domenica andiamo a
pescare.»
«Dove?»
«In montagna…»
«Bello…»
Ma che fine hai fatto autobus di merda! Sei in ritardo di sette
minuti. Vuoi vedere che la corsa è saltata. Se è così mi tocca a
farmi torturare per un altro quarto d’ora.
«Sai, io vedo qualcuno… Volevo dirtelo, perché mi piace essere
sincera.»
Che sorpresa! Ma davvero?
«Sai che ci tengo alla nostra amicizia…»
«E se ti spingessi sotto l’autobus, che ne diresti?»
Troppo tardi. La frase mi esce senza pensarci. Perché sapete, a
volte la linea che divide l’immaginazione con la realtà è talmente
sottile…
Lei strabuzza gli occhi, rimane in silenzio, forse ha anche un po’
di paura. In quell’istante la vedo sotto una nuova luce,
vulnerabile e stronza. Qualcosa ricomincia a battere dentro il
petto. Il cuore è un muscolo strano. È come la coda delle
lucertole. Lo puoi buttare nel tritacarne, ma quello ricresce, e
torna a pulsare, più forte di prima.

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«Guarda, quello è il tuo autobus. Ti aspetto domani per la roba.
Ciao…»
Lei risponde con un timido ciao, sale sull’autobus e si dilegua.
La verità, specialmente la più crudele, può fare miracoli!

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OSSESSIONE
di Giulia Riccó

Ossessioni. Bisogna stare attenti alle ossessioni.


E bisogna stare attenti ad ignorare le persone. Non le sopporto
proprio le persone che ti ignorano volutamente dopo che le hai
cercate, mi mandano nei pazzi. Vorrei vedere lei se venisse
ignorata. Mi manda in bestia. Bisogna stare attenti alle ossessioni,
ad ignorare e ai pazzi. Io non sono pazza. Mi ci fanno diventare
ignorandomi. Eccola è arrivata al lavoro. Fammi riprovare… ecco
messaggio inviato. Niente. Eppure l’ha letto, l’ho vista che lo
leggeva. Maledetta, ignori anche ora eh? Le persone non
spariscono solo perchè lo vuoi. Non importa, dovrai ascoltarmi
tra poco.

Fa un freddo cane stamani, meno male che ho messo i guanti.


Uh però che bell’ambientino di lavoro si è messa su la simpatica.
Vediamo che faccia farà quando mi vede.

Sei sbalordita eh?… Ma che fai non mi parli? Mi eviti??? Ignori


anche ora, ma sei proprio pazza! Vuoi provocarmi??? Che
nervoso, ecco mi sta salendo il nervoso. Non mi dire di non
urlare, urlo quanto mi pare e piace sai!? Adesso mi ascolti…
ossessione… te ne vai? Mi volti la schiena?. Non farlo mai più.
Non ignorarmi… ascoltami! Guarda che ti ammazzo… Dio che
voglia di spaccarti la testa! Fai la strafottente… eccoti servita…
con la tua bella statuina regalata da papà per la laurea. Eccotela
in testa maledetta ossessione. Ora non puoi più ignorarmi… ora
ascolterai fino in fondo. Hai paura ora? Non mi ignori… si ti ho
ammazzato ossessione… perché mi ignoravi. Non mi ascoltavi e
io odio le persone che non ascoltano e ignorano volontariamente.
Ero qui davanti potevi ascoltarmi, rispondermi e invece mi hai
ignorato. Mai ignorare un’ossessione.
Ora non sei più così altezzosa. Ora sei sono un corpo flaccido
riverso a terra… quanto sangue… ma cos’è quell’espressione?
Ignori anche adesso che ti ho uccisa ossessione? La mia

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ossessione… mi ignora anche ora! Ti ucciderò mille e mille volte
ancora finché finalmente non mi ascolterai maledetta
ossessione… Non ignorarmi mai più.

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LA PIETRA E LA FANCIULLA
di Cainos

C’era una volta una giovane bellissima di un piccolo villaggio.


C’era una volta un palazzo signorile su di un piccolo villaggio.
C’era una volta un fiume che attraversava quel piccolo villaggio
e che ne garantiva l’abbeveraggio.
C’era un signorotto ricco e potente che abitava quel castello e di
tanto in tanto scendeva giù al villaggio per fare compere nel
fiorente mercato.
Un giorno il signorotto intravide una bellissima giovane e la
volle in sposa. E così le ordinò.
La giovane, felice di divenire una nobile signora, andò
danzando lungo il fiume e si sedette su di un masso della sua
riva.
Su quel solido masso si ammirò nello specchio d’acqua del
fiume, su quel solido masso cantò la sua gioia, su quel solido
masso pensò quanto sarebbe stata felice la sua vita.
Il masso ascoltò.
Nei giorni seguenti il masso non vide tornare nessuno. Sentì
solo in lontananza canti e musiche di festa, e poi per giorni nulla
più.
L’uccellino cercava di rallegrarlo con il suo canto, ma non era
come quello della fanciulla. Il gufo tentò di raccontargli storie per
rallegrarlo, ma non vi riuscì. L’acqua continuò a passargli accanto
accarezzandolo con i suoi flutti ancora più forte, ma questo non
bastò.
Tutti gli animali accorsero per dirgli qualcosa e rallegrarlo.
Il Masso non ascoltò.
Passò del tempo, e il tempo premiò il masso che vide tornare la
giovane fanciulla, anche questa volta era felice. Cantava e quel
canto scioglieva il metallo dentro di lui, si sedeva e quel calore lo
riscaldava più del sole.
La giovane era felice perché di lì a poco avrebbe avuto un figlio,
e godeva delle passeggiate che fra qualche tempo non avrebbe
più potuto fare per la gravidanza.

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Quando andò via per la seconda volta il masso capì che non
sarebbe riuscito a resistere senza rivederla, senza sentire la sua
voce felice, perciò chiamo Madre Natura pregandola di
trasformarlo in un uomo.
Ma Madre Natura non era in grado di esaudire il suo desiderio
e per questo il masso la maledì e soffrì.
Allora andò dal Diavolo, che gli chiese cosa volesse da lui.
”La possibilità di avere con se la sua amata per sempre come
quel giorno. Sentire il suo calore, vedere la sua figura e udire la
sua voce.”
Il Diavolo ascoltò.
”Non posso fare tutto questo per te. Cosa hai da offrirmi, hai
forse un anima?”
Il masso l’anima non l’aveva ma gli offrì la sua esistenza!
Il Diavolo accettò. “Vedrai la sua figura e udrai la sua voce.”
Pochi giorni dopo vennero degli uomini al ruscello e uno di
loro indicò il masso. Gli altri lo portarono via.
Il masso non poteva fare nulla. Avrebbe voluto urlare “Fermi!
Fermi! Lucifero mi ha promesso che avrebbe portato qui la mia
amata!” Ma gli uomini non riuscivano a sentirlo.
In un freddo studio il masso venne scolpito, scalpellato e poi
chiuso dentro un sacco.
Quando il sacco fu tolto si ritrovò davanti ad un uomo, un ricco
signore, e accanto a lui vi era la sua amata! Sembrava stanca, era
pallida e il suo volto non era più così felice.
Il signore diede l’ordine di rimetterlo nel sacco. Il masso urlò
che non voleva essere portato via perché desiderava restare con
la sua amata. Ma nessuno riuscì a sentirlo.
Quando i primi raggi del sole lo colpirono, vide sotto di se un
grande spiazzo con in lontananza una pietra, uguale a lui. Forse
veniva dalle sponde dello stesso fiume.
Era una pietra ovale, con una grossa croce. Poi finalmente
rivide la sua amata, e la vide camminare in lacrime verso quella
pietra, e posarsi su quella pietra come avrebbe voluto che facesse
con lui, e piangere su quella pietra come non avrebbe mai voluto
vedere.

66
Fu lì che con furore chiamo il Diavolo e gli chiese il perché di
tutto ciò.
”Ti ho dato ciò che ti era dovuto. Adesso da quassù potrai
vederla e sentirla ogni giorno, fino a che avrà vita, anche se non
so se ti piacerà quello che vedrai. Quello che sei e quello che
rimarrai è il prezzo della tua esistenza che mi hai donato!”
”Ma perché quella pietra gioisce del suo contatto, perché non ci
sono io al suo posto?” domandò disperato il masso. “Perché
soffre così?”
”Perché quella pietra ha aspettato che la natura facesse il suo
corso, senza forzare gli eventi, e così si trova ad ospitare il figlio
morto della tua amata. Tu mi hai dato la tua esistenza e la tua
esistenza sarà questa per sempre. Godi della sua vista fino a che
non finirà, vicino a suo figlio, perché poi come suo figlio giacerà
in una pietra. Chissà, se avessi aspettato forse saresti stato
proprio tu ad ospitarla!”
Il masso rimase annichilito dal suo destino, e così rimase nei
secoli dei secoli, prima fissando la sua amata sofferente, poi il suo
freddo eterno giaciglio.

67
IL CICLO DEL PATHOS

I. NARCISO
di Demiurgus

Via Calzaioli sembrava una vasca di piranha frenetici…


Il Mare con leggere onde scuoteva il branco che si perdeva nei
suoi flutti. Capelli soffocati dal gel, irti come spine dorsali di uno
Scorfano. Stupide aguglie di mare, sottili come alghe che si
agitavano nella corrente. Pesci-palla, obesi e lenti che si
gonfiavano per incutere paura, Neri-pulitori dalla bocca a
ventosa che all’arrivo dei pesci-carabineri, ripulivano il fondo dai
loro rifiuti… Questa splendida vasca d’idioti che si sfregavano in
preda alla noia, sfiorandosi e strusciandosi in un balletto
primordiale di vita nell’acqua. Prede e predatori.
Lo squalo si mosse quasi contro voglia, vicino a lui una razza si
scostò con il suo trench nero. Quante altre volte avrebbe dovuto
mangiare senza saziarsi? Mosse le pinne in quel mare di
ignoranza aprendo le fauci in uno splendido sorriso.
I vetri dell’acquario erano particolarmente lucidi quel giorno, i
mammiferi le avevano lustrate a specchio, eliminando il muschio
e la borracina. Le vetrine mostravano pelli morte di pesci
tropicali dai mille colori,
pantaloni di cozze e collane di perle coltivate. E fu lì che lo
squalo si fermò ad ammirarsi nei suoi occhi neri senza riflesso.
Tutto sembrò incendiarsi in mille fiamme di arcobaleno. Il
rumore della gente era lo sfrigolio di una brace ardente ravvivata
dalla rabbia. Un calore primordiale di odio febbricitante lo
pervase… Avvampò nel vedere le sue occhiaie, violacee come
fiaccole infernali. Il lavoro, la zona blu, gli orari, era un uomo
importante, certo… ma stava perdendo la sua giovinezza…
Si voltò a vedere quella bolgia infernale di anime in pena,
straziate dal caldo e dall’afa, quell’ammasso di pelle bruciata e
seviziata dalle faville del suo odio. Piccoli gruppi di anime perse
guardavano immobili il fiume di sangue e carne, altri si
dimenavano inutilmente per sfuggire al fuoco della noia e

68
dell’ignoranza. Il rumore assordante del loro lamento di morte
viva, dello strazio di vivere in mezzo ai tormenti di una vita
vuota e sterile.
Chiuse gli occhi, per non vedere e non vedersi. Stese le ali
piumate per accarezzare il vento della giovinezza che fuggiva
via. Ricordò il candore delle sue penne, l’agilità dei suoi voli, le
leggere planate sulla massa di piccioni tubanti e di passerotti
stanchi. E poi giù in picchiata con la velocità di un candido falco,
l’aria fresca e pulita sopra lo smog della città sporca, verso nuvole
di fantasia.
Paesaggi da sogno, pianure incantate, voli pindarici e sfreccianti
virate… Si fissò con odio nel riflesso dei suoi occhi; aveva
scordato tutto. Tutto.
Le sue ali rotte e stroncate dalla “Maturità”. Il volo impedito da
un ciclone di stress ed impegni, di orari precisi, di lavoro in
borsa, di amanti gelose e di nauseante sesso. Ancorato alla ruvida
terra, come una pianta ammirava il cielo che gli apparteneva.
Affondò le sue radici nel fango della palude di Via Calzaioli,
ancorato alla melma ed a terra bruciata. La teca della serra era
riflettente e pulita, il giardiniere l’aveva ripulita dal fango e dalla
polvere. La pianta muta, in silenzio, voltò i suoi petali per
guardarsi di nuovo. Che splendido fiore…
Un candido Narciso si riflesse nei suoi occhi di clorofilla, dolce
nettare estrasse dalla palude di emozioni sporche. Splendido,
commovente, ondeggiante vegetale di inumana bellezza,
accarezzato dal vento affondava le sue radici nella morbida terra,
il dolce liquido della sua linfa si incendiò col calore della vita che
aveva scordato.
Il rumore delle ragazze e dello stereo dei negozi e vetrine era
assordante. Scalpiccio di scarpe di gomma e tacchi come
trampoli, illuminati da neon violacei e giallastri lampioni
ragazzini fumavano e parlavano di calcio. Un tappeto di cicche e
lattine e giornali strappati, il frenetico movimento di umani al
pascolo in una sporca città. La commessa uscì dal negozio con
preoccupazione e paura…
- Si sente…bene? -

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Gli occhi sgranati, persi in un paesaggio fantastico di elementi
armoniosi… Mi voltai lentamente, senza mai staccare il riflesso
del mio volto dai miei occhi. Splendido.
Cosa voleva questa mezza tacchetta bionda platinata
incellofanata come un cadavere?
Voglio vedermi. Ed ammirarmi.
- Signore… sono sei ore che fissa la vetrina.. …noi dobbiamo
chiudere… -
Splendidi denti come zanne affilate e perfette… Morbido corpo
di eterno bambino, criniera splendente di mossi capelli… Labbra
carnose, suadenti e provocanti.
[No... Non ora... Adesso che ho trovato il mio amore, il mio
amante...]
Corsi come un folle verso un’altra vetrina… il sole stava
scendendo, il riflesso era meno forte..
[No... ti prego... ancora un attimo...]
Nel fioco riflesso quel taglio degli occhi, conturbante donna e
maschio tenebroso. Mi avvicinai alla sua bocca… E lo baciai con il
calore del rosso Sole calante che lo portava via. Chiusi gli occhi
per assaporare quel tenero momento di eccitazione ed
appagamento.
Un colpo forte, dietro il collo, una mano gigante chiusa in una
stretta possente. Un suono sordo e lo schianto sul vetro. Il mio
splendido volto urtò con violenza la vetrina del negozio di vestiti.
Caddi a terra come polline pesante nel fragore dei vetri rotti…
- BRUTTO DEGENERATO DEL CAZZO! TI INSEGNO IO,
PERVERTITO, A MOLESTARE MIA FIGLIA!!! -
Sangue… linfa vitale di una pianta strappata… Dolore, del mio
amante perduto, del mio compagno rubato dall’ombra nel
riflesso… Bianco Narciso lordato dal rosso liquame.
Punito fui dagli Dei per la mia insolenza, come allora il dolore
mi scosse mentre statua divenni, sulle rive di un fiume Eco
piangeva, sentivo ancora il suo pianto nel rumore assordante
della folla impaziente.
- IO TI SPACCO LA FACCIA, PORCO BASTARDO!!! -
Il pugno ricadde con violenza inaudita, la rabbia di un padre
che difende una figlia…

70
[Forse aveva scambiato il mio bacio per una dichiarazione
scurrile, non importa, adesso avrà altro a cui pensare...]
Un suono di ossa rotte come legnetti incurvati e spezzati, carne
esplosa lacerata da dentro, ossa che schizzano in piccole schegge.
La mano era un brandello di carne e di sangue, le dita distorte
orribilmente deviate. Cominciò a tremare col dolore nel volto,
mentre il suo sangue bagnava il mio viso. Splendide dita, come
lame affilate, stesero il sangue come rossetto infernale.
Il mio volto… come doveva essere in quel momento? Macabro e
stupendo, perverso e maligno, profondamente ebbro della sua
bellezza.. Una statua di carne immota e perfetta, scolpita da Dei
con mani ispirate. L’uomo svenne dopo un rantolo sommesso di
dolore, mentre sua figlia, un orribile ammasso di carne
straripante dai fianchi, agitò i suoi capelli di stoppa nerastra e con
voce di cornacchia mi offendeva e urlava “Polizia!”…
Nel silenzio. Mi mossi calmo, cercando il mio riflesso nello
specchio del negozio… Entrai soddisfatto, inebriato dalla mia
stessa presenza, che stupendo essere… Come sacchetti della
nettezza gettai nel cassonetto del passato giacca, cravatta,
pantaloni e tutto quello schifo firmato Versace che portavo
addosso. Presi una camicia di ciniglia rossa orientale, collo alto
dai ricami stupendi, cento piccoli bottoni dorati accarezzavano
birichini il mio petto nudo. Un boa di piume di corvo nero
abbracciava il mio collo,
s’intrecciava bramoso con le mie ciocche di capelli lucidi e
puliti. La gonna viola dai riflessi notturni con un sole morente, mi
ricordava il mio amore, copriva i neri anfibi dalla punta
squadrata.
Uscii soddisfatto, sentii gli sguardi su di me. Tutti per me.
TUTTI.
Camminavo tra la folla immobile che stupita ammirava il mio
splendore, mentre cercavo la mia immagine nei loro occhi
sgranati. Ed un profumo di sesso, inebriante aroma, pervase la
strada nell’eco dei miei passi. Un profumo di nettare, di polline
raro, la bellezza sgargiante del mio corpo perfetto. Petali bianchi
di Narcisi in fiore secernevano brividi di piacere perverso. Una

71
statua perfetta, un fiore prezioso… Un NARCISO splendente che
sognava se stesso desiderando il suo corpo.
Lasciai il lavoro, lo stress, le mie amanti, abbandonai tutto
meno me stesso. Adesso ho il mio amore, in ogni specchio e
riflesso, mi guarda bramoso, eccitato, perverso….
Narciso è il mio nome, guardatemi adesso!

72
II. LA METAMORFOSI DI NARCISO
di Demiurgus

Bagliori bluastri di pigre sirene, un cielo piombato di pioggia


che non vuol piangere su di me. Mani guantate mi frugano
addosso, mi scuotono, mentre sudato li lascio fare, non
m’importa…
Ho gli occhi secchi e la faccia di un morto, livido, freddo…
“…Capo, dia un’occhiata…”
Il poliziotto estrae il foglio giallastro umido di morte, l’ultimo
mio scritto.
Lo estrae dal cappotto che ho indosso, madido di fango
grigiastro… il suo cappotto dalle piume nere…
“…Forse è un permesso di soggiorn…o una lettera per un
parente…”
Non ho parenti, idiota, non più… ho rifiutato il mondo del
Maestro del Segreto, dell’Eletto dei Nove, del Cavaliere d’Oriente
o del Principe Cavaliere Rosa-Croce, li ho rifiutati tutti…
compreso mio padre, li ho ripudiati per essere libero di morire…
Lasciami in pace…
“Cosa ti sei fatto? Mi senti?” - Si volta verso il suo superiore-
“Questo è in un altro mondo, Capo…”
Io ti ammazzo ignaro del cazzo… ti ammazzo… io ero una
NOTA! Uno dei 49!
“Mi ascolti? Hei! Mi ascol…”
Uno scoppio, un altro. Immobile miro alla testa, si sfalda come
la mela rosa dai vermi, sangue grigio mi investe, il superiore mi
guarda per un attimo, un attimo solo, premo il grilletto, adieu…
Un altro scoppio: muori ignaro del cazzo, muori, tu che non
comprendi…
Non ho nemmeno la forza di farlo.
Lo immagino e basta, m’immagino i due pulotti che scoppiano
come palloncini pieni di sangue, si spappolano su per i muri,
ricordo il suo Potere Perduto che veniva in mio aiuto, ma non
accade niente.

73
Nulla: la Realtà mi resiste, non sono più in grado di piegarla
con un respiro, non più…
ECO… piccola sofferente, dolcezza divina… come ti comprendo
adesso… Mi ha lasciato sai? Ed io ho acconsentito, anche io ho
voluto il rituale.
Dovevi vederlo, era bellissimo; l’ultima metamorfosi, è tornato
ad essere un fiore che dorme sul ruscello.
“Mi devi dare i documenti…”
Quanto può andare veloce il pensiero, assente ingiustificato nei
momenti più belli, quando si perde nella gioia utopica della
felicità… ma dove è adesso il mio… lento e devastato dalla tua
assenza?
“Ora mi stai facendo incazzare, Barbone, li hai i documenti o
no?”
Il capo mi fa pena… vita di merda la sua, un compagno
imbecille sul lavoro, una moglie odiosa a casa…
Invidia il mio dolore? Gli avranno strappato via anche quello
con la routine, la Presenza è ovunque…
“Lo portiamo in centrale, capo?”
Che cazzo vuole da me? Vai via, ignaro, lasciami solo… Ho
perso il mio amore, cosa vuoi ancora da me?
“Ci imbratta la macchina questo rifiuto, guardalo… mi fai
schifo!”
Vero, devo essere orribile: sento i capelli come stoppa setolosa e
quasi mi soffoco respirandoli, col fiato corto nauseato dal mio
stesso odore di sudore e di alcool vomitato in chiazze acide.
Accanto a me una bottiglia di Whiskey spaccabudella, un Oban
invecchiato,
mi ricorda che l’ho comprato e aperto, assaggiato e scolato
“Ieri”, anche se non voglio ricordare - Ieri -
“Non ti vogliamo da queste parti, hai capito?”
Ieri, cazzo che dolore, era il 28 ieri!
Mi sputa con odio, il vecchio frustrato dalla vita. Cazzo che
male, era il 28… è passato solo un giorno.
Il giovane ci prende gusto e mi stampa la marca del manganello
sul labbro.

74
Il mio foglio, la poesia che ho scritto per lui… ridammela
bastardo… ridammela!
Non la rompere ti prego… non la rompere… pesta me, ma non
la rompere…
“Poesie…Capo, il Barbone scrive Poesie!”
Non la rompere.
Non la buttare via, ti prego…
Per gli Eterni, per quello che ero, per quello che ho perso
lottando contro gli Assoluti, non la rompere…
Mi guarda come fossi un pedofilo dopo una rapida lettura: era
l’ultima cosa che abbiamo scritto insieme.
L’ultima poesia che avevamo steso accarezzandoci la mano…
Non la buttare via…ti prego….
“Riprenditi questa merda…”
Se ne vanno.
Finalmente… andate via…
…adesso devo dormire…
Mi risveglio pietrificato dalla postuma, vincolato dallo strazio
della Garrota alcolica.
Un rapido gesto ed il laccio nero, annodandosi come il serpente
Kundalini, morde i miei capelli; gli occhiali sono ancora lì, con le
lenti violacee che sembrano piangere due gocce di vetro lucidato;
li indosso, mi chiudo il cappotto carezzando una piuma sporca
caduta a terra, vicino alla borsa…
È passato solo un giorno.
La zip metallica della borsa si lacera come un ventre di donna al
tocco del bisturi nel taglio Cesareo, rivelandomi narcotizzata il
suo tesoro celato, un piccolo feto al silicio: il portatile su cui le
mie dita hanno lasciato il suo odore, chissà se la batteria è ancora
carica.
Vuoi che ti carezzi i tasti, bambino informatico? Allora
accenditi, aiutami a ricordare, riporta la mia mente a ieri sera!
Accenditi!
[Avvio del Sistema in corso…attendere prego]
Prego… tu non puoi pregare. IO ho pregato perché accadesse…
ma che ne sai tu, stupida macchina.

75
Scrivo seduto tra bidoni d’immondizia, odori acidi e zecche
nascoste,
fra parassiti invisibili che succhiano quel poco di sangue
alcolico che è rimasto in circolo…
Voglia di scrivere, d’estraniarsi, non diversa dalla voglia di un
tossico di iniettarsi eroina fusa nel cervello.
Scorticarsi la carne e divenire pensiero, tranciarsi le inutili
gambe piegate sul cemento, chiudere gli occhi e continuare a
scrivere, piangere a dirotto, con la gola rotta ad ogni parola
sonora e continuare a scrivere.
Nessuno lo vedrà, potrà solo leggere un assurdo scritto.
Il rumore quasi ciclico del Kikkle-tikkla dei tasti mi
accompagna in questo Lutto terribile; mi prende per mano,
passandomi attraverso un leggero tocco di polpastrello le infinite
parole.
A chi farò leggere questo delirio sperando che mi comprenda,
dannato me, questo è quello che vorrei!
Essere compreso dall’estraneo… Quando l’estraneo sono io.
E soffro, come se ogni dito schiacciasse una piaga ancora aperta,
il dolore si trasforma in caratteri neri su carta bianca: questa è la
magia della scrittura: soffrire nel silenzio e poter vedere il dolore
sullo schermo.
Addio.
Mi hai lasciato, per sempre, Narciso.
Mi hai lasciato l’Eredità di esistere, nel tuo testamento il dolore
segreto di essere Uomo.
Arriverò al termine di una retta che per definizione non ha fine.
La certezza: Morirò.
Il mio viaggio sarà il racconto migliore, pieno d’errori, ma a
correggerlo ci penserà un altro… finalmente.

Mi sveglio da un sonno orribile, ho sognato di scrivere in mezzo


ai bidoni… Nausea e vomito.
si può sognare di scrivere? Forse… perché adesso non ne ho la
forza.
Mi hai lasciato, Narciso, che cos’è questo vuoto che sento…

76
La sera del rituale, adesso ricordo, la litania dell’assurdo
cancello, l’Assenza, eravamo così lontani!
“Prendimi la mano”- mi dicesti- “Accompagnami a casa…”
Varcammo i cancelli di Arda e le terre inviolate di Avalon,
superammo le nebbie eterne dei campi elisi e del reame del
grande Lupo in attesa del Ragnarok, cavalcammo i Sogni
dell’Uomo fatti materia eterea, dritti fino all’antico ruscello che ci
attendeva scrosciando tranquillo.
L’enorme statua era curva ed immersa nell’acqua di cristallo,
lastra funerea e monumento splendente.
Per il cielo un velo dorato, come i petali del Fiore che ti fu tanto
caro.
Respirammo quell’aria di Sogno, percepimmo insieme il
risveglio dell’Eterno dalle gote gonfie di muse.
“Io devo restare nei Sogni dell’Uomo, tesoro mio… La guerra è
iniziata, laggiù, la ragnatela del tempo sta per essere congelata
dal ragno Bianco e Nero. Mi aiuterai, Amore?”
Quanto mi donavi, tesoro mio, quanta passione nelle tue mani
che finalmente avrei potuto toccare; parlavi con la mia voce,
come avevi sempre fatto, ma stavi formandoti nelle trame dei
Sogni…
Per la prima volta ti avevo davanti, vedevo ME come un clone
platonico di amore, eri il doppio simmetrico delle mie
passioni…la perfezione speculare resa materia: avevi rotto lo
specchio.
Mi avvicinai a te con il ruscello che cantava un requiem di
amore eterno, tutto divenne luminoso nelle Terre dei Sogni. Ero
dentro di te, sentivo la tua essenza prendere forma con gli
Uomini che sognano.
Ci specchiammo negli occhi, Uomo e Dio, e nei riflessi dell’altro
ognuno desiderava se stesso…
Il tempo si fermò, sfruttammo l’eternità ricordi? Ci
riprendemmo tutto il tempo che il mondo ci aveva negato
sfiorandoci la mano senza toccarla, per l’eternità dell’assenza del
moto.

77
Poi il soffio di morte tinse l’acque di nero, l’incubo che avevo
nascosto esigeva il tributo d’amore.
Gocce di Pathos, il potere perduto cadeva dal tuo volto come
vapore pesante… io ero immobile.
Ero un uomo che sperava di fermare gli Dei, un Uomo
incastrato nell’eternità, un prigioniero che vedeva morire il suo
unico amore dalle grate del tempo, ti avevo davanti e non potevo
neanche salutarti, baciarti!
Che dolore, che male al petto, Narciso!
Il rituale, la statua del tuo delitto d’orgoglio sfidò l’immobilità
lasciando polvere nera dietro di sé… la roccia si tinse d’alabastro
e ti abbracciò soffocandoti.
Mi parve di vedere un sorriso sul tuo volto, ma troppe lacrime
miracolose vincevano la stasi dei miei occhi sbarrati, ti vedevo
come attraverso il delittuoso ruscello, morivi liquido, tra i flutti
dei Sogni.
Stavi morendo, Amore, ti stavo perdendo.
Il Pathos ci stava lasciando trasformandoti nel quadro di Dalì,
ricordi, ci scherzavamo insieme…
“Io sono molto più bello di quella mano di gesso ingannevole!”
Forse tu stesso hai deciso di trasformarti in quel quadro, per
me.
Ed a volte ti Sogno, curvo e marmoreo ventre di vita per un
Narciso splendente, uovo primordiale del nostro assurdo Amore
per l’Uomo, fuso in quel rosso della tela di un folle, che nascondi
la testa per non versare davanti a me una lacrima di dolore,
immerso in un lago di specchio.
Che dolore, Narciso… che strazio. La poesia… te la leggo, vuoi?
Leggere… per Sognare di nuovo…

Il Canto di Ulisse

Ed è senza alcun suono che ti ricordo


nel bianco del cielo velato e svanito;
solo il silenzio tendeva un accordo
per il lamento di un uomo finito.

78
Nascosi il pianto stringendoti forte
schiantandomi il petto di lacrime amare,
ma più forte di me ti strinse la morte
forzando l’abbraccio senza esitare.
Mi hai tradito, ingannato, ricordi?
Moristi là, lontano; senza me accanto.
Dentro la stanza i passi miei sordi
rompevano secchi il muto tuo pianto.
Rimasi seduto con la morte davanti,
come un Ulisse legato alla nave.
Nel silenzio udivo i suoi canti
che ti presero lento con voce soave.

79
III. LACRIME DI SILENZIO
di Demiurgus

É giorno, di nuovo…
Come falene impazzite gli uomini cavalcano i loro obblighi per
soddisfare i loro deviati desideri. Sogni sepolti dall’abitudine e
della noia, uomini che scansano il loro riflesso per la propria
insicurezza.
Mi alzo stanco… Il letto matrimoniale abbracciato da lenzuoli
blu notte di raso, il mio corpo nudo si struscia ancora su quella
pelle artificiale e liscia prima di alzarsi ed ammirarsi nella sala
satura di specchi rotti… Mi osservo nel mio riflesso; perso in quel
limbo di immacolata bellezza scopro più volte la mia stupenda
Natura… Nascosti dietro capelli neri e lisci i miei occhi sono
ambra misteriosa. Io, Uomo, porto dentro l’essenza delle passioni
del mio Sogno, come un essere magnifico incastonato nella resina
antica.
Mi crogiolo dentro il mio risveglio. La vista è rincuorante in
questi giorni di passione e dolore…
Per un attimo la mente è distolta dalla mia presenza, scossa dal
suono fragoroso di un nome, mia sorella…
“Maya” Perché non riesco a vederla, non sento i suoi sogni?
Perché sembra aver dimenticato la sua bellezza?
Mi rimetto a dormire… Lo specchio sopra il letto è incrostato ed
antico, la mia immagine è sporca d’ossidazioni e di crepe… Il mio
incubo. Quanto poco basta all’occhio di un uomo per essere
ingannato…
“Maya”… Di nuovo avverto il suo nome, portato dai sogni di
chi non può sognare… un grido, un lamento sommesso di voci
senza suono di chi non vuole sognare.
“Maya, lei non sta sognando, impazzirà!”
Mi alzo di scatto, il mio corpo è un lampo di adrenalina e
sudore… Stavo ancora dormendo? Stavo ancora sognando?
…”MAYA”…..
Ed il dolore s’impadronisce del mio cuore…
“…Non….sta …Sognando….”

80
La mia bocca è pesante, non riesco a parlare, visioni terribili, un
Uomo senza Sogno, un Mondo senza Sogni.
“Ecco…. perché non sente la nostra voce…ecco perché non ti
ode, Sogno….”
Tremo. Nei nodi dei sogni scelgo i più terribili, viaggio come un
treno su rotaie d’etere… La cerco… senza vederla, Urlo il suo
nome, ma solo l’Eco della mia voce mi risponde piangendo.
“Devo andare da lei… devo impedirlo! Non può finire così!
Non può morire per questo!”
Non posso uscire nudo, anche se mi piacerebbe, devo vestirmi,
devo andare da lei, povera Maya, donna senza Sogni.
La camicia di ciniglia rossa mi stringe dolce e morbida,
accarezzando il mio petto, due gocce di profumo, “Eternity” di
Calvin Kleine, piangono per me le lacrime che non voglio
mostrare. Nere piume di Corvo baciano il mio collo, mentre
fascio le gambe con strisce di seta di tenebra. L’Ombretto inarca i
miei occhi, incorniciati da eye-liner e da ciglia affilate. Ho rifinito
i pennelli, uso le dita per stendere il viola rossetto…
Un timido bacio, a quel Dio nello specchio, poi le stringhe
strozzano gli anfibi borchiati.
….”Maya”….
La città è uno schifo oggi, sudicia e sporca come una pattumiera
di metallo. Il cemento stride sotto i miei passi veloci, corro in una
città di esseri stanchi. Corro veloce in un mondo al rilento, fatto
di piccoli passi, di lentezza e degrado. La stazione è immobile,
come gli altri del resto. Un’occhiata al tabellone, il treno è in
partenza, più veloce di me, stride chiudendo le bocche di acciaio.
“Lo perderò….non riuscirò a raggiungerla! NOOO!”
Ma io sono l’Eco della mia immagine… urlo il suo nome, vedo
il suono partire, corro slittando tra le sue onde concentriche, tra
mille riverberi e scansando i ritorni. Narcisi viola s’inseguono
uguali, una linea retta del mio nome scagliato. Protetto dal velo
del Sogno, inseguo il mio suono che sbatte sul treno,
come tasselli di un domino le mie immagini svaniscono in un
lampo, lasciandone una seduta nel treno che corre impazzito. Eco
piange, per il suo amore negato…….
“Maya”….

81
“Sto arrivando”…

.
.
..

..
.
.
Finalmente mattina, una brutta mattina. Un sapore amaro in
bocca e la schiena a pezzi, unica nota buona, non ho fatto sogni, i
sonniferi hanno dato l’effetto voluto. Un senso di disagio e
realizzo: “Ci mancava anche il ciclo, dovrò passare in farmacia.”
Strano, in anticipo. Una stonatura, una vibrazione della pelle
all’altezza della nuca. Qualcuno mi pensa. Mi viene da sorridere
d’istinto, penso a Merlino che appena sveglio chiede a mia madre
di me. Il sorriso mi muore sulle labbra, un sognante, più
probabile. Maglia nera e gonna nera, sono già in lutto
evidentemente. Il portiere dell’albergo in cui mi sono trasferita
saluta
“Buon giorno signora Crocetti, esce?”.
Esco? Perché, dove devo andare? Mi sono vestita e preparata ad
uscire automaticamente, dove devo andare? Mi faccio chiamare
un taxi, in ogni caso.
“Alla stazione”
Perché? Ma che mi succede stamattina, dove vado?
.
.
..
.
.

Sono in un ventre di un bruco di metallo… Come Crisantemi


vedo dondolare in un prato di morte ogni uomo dentro questo
treno. Nessuno di loro ha più Sogni, aspirazioni, rispetto di se.
Sono piante mangiate dai piccoli vermi colorati del divertimento,
del lavoro, della noia… Sono foglie appassite dal grasso in

82
eccesso, da pelle rugosa, da unghie smaltate… Radici bruciate da
troppa invidia e repressione, una religione opprimente, desideri
soppressi. Ed in mezzo a loro luminoso come un alba, un Narciso
li osserva schifato… Vedo i loro occhi invidiosi ammirare ed
odiare la mia camicia da feste trans, le mie nudità fasciate e
coperte da strisce di seta. Non m’importa cosa stanno pensando,
sono schiavi e non se ne sono accorti. Mi volto e l’ipnotizzante
scorrere del treno che saltella sulle rotaie mi rapisce; il finestrino
mi mostra un paesaggio che corre impazzito, mentre io sono
fermo dentro i miei occhi. Tutto là fuori corre veloce, schizza
frenetico e si nasconde al mio sguardo.
“Devi vedere così Maya… senza pace, senza tranquillità. Un
mondo impazzito che ti sta inglobando” Sento il treno mordere il
ferro con le sue zanne da bruco, ci stiamo fermando. Sono
arrivato. Subito gli ignari si apprestano a correre, stanchi e
depressi, in quel mondo che ho visto dal finestrino… Ed è un
balletto di valige, cappelli, giubbotti, sudore con una musica
senza canto e melodia di rumori.
“Dove sei Maya?”
Non la vedo, non riesco a vederla in questa serra di piante
secche. Dovrei riconoscerla, dovrei sentire il suo suono di rabbia,
ma non riesco a vederla…Mi siedo stremato su di una panchina,
sono accanto ad un barbone che non mi chiede neanche
l’elemosina. Dietro la folta barba la sua bocca rumina un panino
indecente, un cappello ammaccato, degli stracci per coperta… La
decadenza. Diventerà anche il Pathos come lui, diventeremo
anche noi così? Costretti a cibarsi di emozioni sempre più unte e
artificiali…
Noi, Note cadremo in rovina come questo relitto?!
Piango, non posso impedirlo; il trucco si scioglie deturpandomi
il volto in uno sguardo depresso… Stiamo sprecando il nostro
nutrimento. Stiamo gettando al vento la nostra vera ed unica
ricchezza.
…Ed io ne sarò testimone impotente…
.
.
..

83
.
.
Urla di rabbia che m’investono come tornadi sabbiosi, una
tormenta di odio e di paura finissima e tagliente. Maya sta
sfogando la sua ira contro un barbone. La percepisco fortissima,
la sua rabbia non è per me, ma è come solida, pesante, le sue
parole sono usate come un arma… Potenti ed unite in un
intreccio spaventoso, Furia e Paura frustano con le loro mille
lingue di fuoco il povero uomo. Mi stupisco che non siano
percepite dagli altri ignari in questa bolgia di banalità. Tutta la
sua rabbia, tutto il suo furore esploso nella mente di un derelitto,
di un ignaro, mi sconvolge come egli rimanga fermo, non
impazzisca di dolore… Mi alzo di scatto, un ultima occhiata
all’uomo che siede accanto a me, ha finito il misero panino, si
volta e mi chiede subito di dargli qualcosa… Negli occhi l’eterna
fame, l’eterna sconfitta. [Esistono coppe che non hanno
fondo…Esistono coppe che non si colmano mai] Discordia di
Destino, anche la fame è una di queste? Sono così simili Fame e
Rabbia?
Mi scuoto, non devo perderla, mi muovo veloce scansando
valige, gomiti, carrelli cigolanti e comitive di giapponesi… La
vedo inveire isterica, convulsioni folli di raro furore. Lontana…
piccola e unica. Allungo il passo, la stazione è un fiume di carne,
non riesco a risalirlo. Il mio respiro è sempre più affannato, un
altro treno si è appena fermato e una nuova inondazione di acqua
sporca m’investe, la sto perdendo, non riesco a raggiungerla! La
vedo voltarsi, di scatto mentre tenta di allontanarsi, ma barcolla e
si poggia ad un muro, stremata, stordita indebolita… Pochi
istanti, mi sto avvicinando, le gambe non la tengono, ma si
raddrizza di nuovo. Rinvigorita da nuova Rabbia, la sento
esplodere velenosa, ma non ha nessuno contro cui sfogarla.Sono
vicino, la sto per raggiungere, lei si piega e raccoglie qualcosa da
terra, troppo caos, non riesco a vedere cosa, ma subito lo
schiaccia con violenza sotto il tacco.
Un altro sfogo, rabbia pura. Sembra sentirsi di nuovo male,
porta la mano alla fronte poi la ritira allarmata e sconvolta, negli
occhi la paura intrisa delle domande non risolte, un fazzoletto

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che si colora di un rosso inconfondibile, sta sudando sangue. La
vedo. È davanti a me, pochi passi, il mio volto deturpato dalla
sofferenza. Respiro affannato, un soffio di dolore dietro il collo,
potente, sensazioni discordanti, come nugoli di freddo sfuggente
e valanghe di bollente magma.
[DEIFOBE]
No.
.
.
Non è possibile.
.
.
No.
[DEIFOBE]
Il duello è stato violato. Il Limite è stato infranto. Padrino di un
Ordalia che mai sarà consacrata. Mille schegge di vetro mi
feriscono il costato, il velo squarciato dalla morte. Vacillo sotto il
peso del dolore, adesso siamo noi due barboni ubriachi. Premo
sulle orbite con le dita per non vedere, per non vedere quel
sangue che le deturpa il volto… Le unghie smaltate blu notte
lacerano insensibili le mie palpebre, piccoli rivoli di porpora
disegnano una coda di serpente sotto i miei occhi. E nel buio il
passato ritorna prepotente:
[Non serve più adesso... Non serve... Andranno avanti... in ogni
modo... Ed i miei occhi piangeranno sangue mentre dovrò non
vedere il loro...]
[Di sangue ne vedrai ben poco... le signore dell'Enigma e della
Discordia si affronteranno in un modo più sottile e sicuramente
più tremendo...]
Paolo Lucchesi.
Io avevo visto. Avevo già visto questo sangue… Perché nessuno
lo ha impedito! Ho pregato che questo non accadesse, ma
NESSUNO ha compreso le mie parole. PERCHÈ!
Guardo Maya negli occhi deturpati, il suo volto è una maschera
rossa, suda piccole gemme di sangue pesante.

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“PERCHÈ?” L’unica parola che da tempo urlavo. L’unica
domanda che la mia voce bagnata dalle lacrime riesce a
pronunciare…
Cado in ginocchio, stremato, Deifobe è morta. Il duello è
terminato con una doppia sconfitta. Piango ed aspetto… In
ginocchio maledico questa morte, mentre Maya stremata mi
osserva, la rabbia è ancora forte dentro di lei.
Piango ed aspetto… Donna senza Sogni, un altro incubo è stato
partorito nel Mondo. Lacrime di dolore e rabbia, di sangue e
sudore. Narciso mi guarda, piange, in questo momento lo odio,
odio tutto il Pathos, Deifobe è morta, me l’hanno sottratta. Non
potrò far esplodere la rabbia e l’amarezza e l’odio e il furore. Non
sopporterò la pressione che fanno nella mia testa, le mani a
trattenerla, come se questa dovesse scoppiare. Guardo Narciso
ormai inutile, padrino defraudato. Deifobe è morta, mia sorella è
morta, sono monca, sono incompleta, ho perso l’integrità. Bianca,
ho perso ogni colore, bianca, ho perso ogni pensiero. Guardo
Narciso, mi pulisco il viso dal sangue e lo lascio là, a guardarmi.
Mi allontano tra la folla che si scansa, sorpresa. Solo…
In mezzo ad un nugolo di figure fumose come sbuffi di un
treno, eterei esseri stuprati della loro bellezza, mille sagome di
vapore sbiadite… Stremato, il naso si stringe tra le lacrime
soppresse, un peso nella gola, zampilli salati che distruggono i
miei occhi di perla. Non riesco a parlare mentre la vedo
allontanarsi, non si è sfogata con me, non mi ha attaccato con la
sua rabbia di fuoco… Ho apprezzato il suo gesto in questi istanti
dolorosi.Vorrei dire una frase per consolarla, ma so che non ce ne
sono.

Esiste solo il silenzio. La gabbia di Eco, la sua maledizione, la


mia punizione. Strazianti lacrime di silenzio…

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IV. UNO STRANO INCONTRO
di Demiurgus

É stato come se in un attimo mi avessero strappato il


cuore…per fortuna la sensazione di dolore passò subito; tempo di
piegare la schiena e portarsi le mani al petto che tutto era già
passato. Subentrò subito però un’altra sensazione più allucinante:
tutti i colori erano sfasati… ero circondato da una marea di
persone bionde con i capelli blu e con gli occhi viola…
evidentemente dalla mia espressione si doveva capire, perché un
ragazzo dall’aria gentile mi chiese in un inglese un po’ distorto ”
right? Are you all”. Ma come parlava questo? Continuò a
parlarmi anteponendo sempre l’ultima lettera della frase che
stava per dire… E mi resi conto che ad un tratto parlavano tutti a
quel modo… la cosa più grave era che mi sembrava tutto
normale… L’impressione era come se un prisma avesse
scomposto la realtà come fa di solito con la luce, sostituendo al
primo colore l’ultimo e traslando il resto… Tutto era sfasato, tutto
non era al suo posto e in un certo senso si… stavo quasi per
dimenticare com’era la VERA realtà… Calmai il ragazzo
dicendogli che mi era andata di traverso la birra… con un po’ di
sforzo sorrisi e distolsi così tutti gli sguardi da me…
E in un attimo ero spaccato in due…
“Che sta succedendo?”
“E TUTTO NORMALE…”
“La realtà è distorta”
“E TUTTO COME AL SOLITO… PRENDI UNA PENNA…
CHIEDI UN FOGLIO… SCRIVI! SCRIVI!”
Chiesi al barista un foglio e una penna e mi misi a scrivere…
anzi la sensazione era come se la penna scrivesse da sola…
“SPESSO CERCATE DI SEMBRARE CIO’ CHE NON SARETE
MAI”
“LA RISPOSTA E’ CIO’ CHE PARE… ANCHE SE
SBAGLIATA”
“LA PERSONA PIU’ INTERESSANTE E’ QUELLA CHE
SCARTI PER CASO E PER CASO REINCONTRI”

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Scrissi per mezz’ora e più, felice contento.
“IL SAPERE E’ CIO’ CHE VUOI… SAI CIO’ CHE VUOI
SAPERE”
“LA VITA TI CAMBIA…”
Scrissi a caratteri cubitali… quando fui colto dalla sensazione
che il “prisma” fosse vicino… sempre più vicino… fuori FUORI!!
Presi i foglietti le sigarette e corsi fuori… e c’era lui…
zoppicante e fiero… che stava girando l’angolo. Prima che
sparisse iniziai a ricorrerlo… lo presi per una spalla “Dottore??
Dottor Kaneirzen?”
Compresi tutto… lo sfasamento, gli scleri, la follia, era stato lui
era lui l’elemento “sfasante”…
“Cosa sono questi?” Fu questa la mia prima domanda
mostrandogli fogliettini, parto della mia mente divenuta folle,
che avevo tirato fuori senza rendermene conto… “Cosa sono
queste cose che sono nella mia testa??”…
Lui mi guardò, mi riconobbe, mi sorrise… ero io l’autore dell’e-
mail che aveva ricevuto il giorno prima, nella quale, la domanda
dei documenti della sua macchina per l’immortalità, celava una
richiesta curiosa e vogliosa…
“Sei te… è la tua mente che tira fuori quello che ha dentro e che
vorrebbe esprimere… mente che è stata chiusa e ingabbiata dalla
tua nota… Merlino.”
“Ma è merito suo questo? La trasformazione che ho subito
questa sera, la voce dentro di me… è tutto merito suo?”
“Certo! Io non ho fatto altro che aprirti la mente, renderla folle,
al mio livello, in modo che possa chiarirti quello che tu mi hai
chiesto. Volevi risposte? Ti do risposte. Stasera risponderò alle
tue domande. Ti ho allargato il punto di vista. In modo che ti
possa spiegare fino in fondo non solo come funziona la macchina,
ma anche il mio sogno… Come speravo che tu lo capissi se non
eri al mio livello? Se non eri un folle, come lo sono io. Come gli
altri insistono a definirmi?”
Il dottore barcollò in avanti accennando dei passi, per dirigersi
verso il muro a cui appoggiarsi, il suo potere lo sosteneva ma non
lo avrebbe fatto per molto altro tempo. Si appoggiò al muro
dell’edificio del Pub e continuò…

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“Bella la tua mail… piena di curiosità, piena di voglia di sapere
e provare sulla tua pelle. Belle parole hanno usato… di nascosto;
segretezza quindi. Da Chi? Dal movimento? Da Destino? Che
tutto sa in quanto parte integrante di lui stesso? O più
semplicemente da Merlino? Destino di Enigma, nemico giurato di
me e Mostro? Vuoi sapere o no?”
“CERTO CHE VOGLIO SAPERE” gli dissi con un’ostentata
tranquillità suggeritami dall’altro mio io. Stavo iniziando a
parlare come lui con naturalezza…
“E allora stai pronto alla verità come mai l’hai sentita, da un
punto di vista completamente folle… fuori degli schemi…
Allora… da dove partire… Sai te cosa è successo nei primi tre
secondi dell’universo?”
“No! Non so cosa è successo 100 anni fa figurati nei primi tre
secondi dell’universo…”
“L’universo ha cominciato a invecchiare!… Devi sapere che
tutto è costituito da atomi. E gli atomi sono costituiti, a loro volta,
da corde finissime più fini di un punto che esiste solo nella nostra
immaginazione. Si chiamano Supercorde e queste, sfregando,
costituiscono quel fenomeno che noi definiamo invecchiamento:
‘La degenerazione, la caducità cellulare’. Niente è per sempre…
Questo fenomeno è il famoso fattore Q. Questa forza che avanza
e disgrega ogni cosa… Se noi eliminiamo questa forza,
semplicemente la materia non invecchia. Vedi io ho inventato
questa macchina, quella che chiamano IMMOMACHINE, che fa
appunto questo, elimina il fattore Q. Applicando questo
all’organismo umano, l’uomo diventa immortale… i tessuti non
degenerano e l’uomo può vivere per sempre.
Sai cosa vuol dire questo? Che non avrai più preoccupazioni,
che la tua vita, così come la concepisci finirà, e inizierà una vita
senza tempo apparente: potrai dedicarti a qualsiasi cosa tu vorrai,
senza preoccuparti di poter morire e dover invecchiare.”
“E se stai facendo tutto questo bene all’umanità perché il
PATHOS ti dovrebbe fermare?”
“PATHOS PATHOS” gridava la mia seconda voce…
“Il Pathos…” rispose lui “lo sai cosa è il Pathos? Lo sai cosa
sono veramente le Note? Sono strette di mani fra eterni, sono

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intersezioni sinusoidali fra le energie degli eterni… niente più… e
cosa pensi che possa capire questo essere, immortale, limitato, di
un sogno di un uomo? IO toglierei il peccato originale all’uomo,
gli renderei ciò che Adamo ed Eva hanno perso… Distruggerei
Assenza e Presenza in un colpo solo… E loro mi vogliono
fermare… loro… ” e con questo il dott. K. prese un respiro e si
fermò per un attimo. Il suo potere cedette, si dovette sedere per
terra.
E poi iniziò a raccontarmi il suo sogno, la sua rabbia contro le
note e la gerarchia del Pathos. La gabbia dalle sette sbarre dorate
e i due cani fuori ad aspettarci…
“Cosa pensi che succeda quando il Pathos partirà? Quando le
sette sbarre dorate spariranno, e i due cani liberi di sbranarti?
Invece così sarai inattaccabile… cosa faresti se i cani fossero
addormentati e il lucchetto della gabbia fosse aperto?”
“L’occasione fa l’uomo ladro.”
“E tu cosa sei? Non sei un uomo? Cosa faresti?”
Dopo tutti i suoi discorsi annuivo soltanto. Vedevo con
chiarezza il suo sogno e lo condividevo; la follia aveva preso il
sopravvento: il suo punto di vista era chiaro… e aveva ragione!
Non c’era ma che non avesse risposta, non c’era se che teneva…
tutto quadrava… tutto tornava… le equazioni avevano i suoi
risultati e tutto era perfetto.Ma come potevo abbandonare
Merlino? Come avrei potuto tradirlo? Merlino non aveva senso
per lui, così restrittivo… un carceriere…
“Il mio discorso è finito ora sta a te… cosa fai? Ricordati che IO
una scelta te la do… io ti ho ‘risvegliato’ stasera, ho fatto in modo
che tu capissi… Beh ora sta tutto a te… il mio non è un
ultimatum… hai ancora il libero arbitrio… a te l’ultimo passo, a
te la scelta finale.
“Gli davo le spalle in quel momento, mi sarei voluto girare, ma
il mondo mi crollò addosso. Quella che era stata la sensazione di
dolore di partenza impallidì a confronto. Tutto roteava. Un
conato di vomito. L’oblio.
Riaprii gli occhi e mi trovai appoggiato alla colonna esterna del
Pub. Il rivestimento in legno era stato graffiato dalle mie stesse
unghie. Guardai i solchi. I miei occhi vedevano… IO VEDEVO:

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l’immagine s’ingrandiva; ero capace di vedere in profondità,
sempre più dentro alla materia… la visione si fermò quando
riuscii ad intravedere delle corde, la base della materia, che
vibravano, che si consumavano fino a che non rimaneva che una
sola corda. Realizzai che ero arrivato alla fine dei tempi, l’attimo
si era dilatato fino a riempire 100.000 anni. Tutto ciò che era non
c’era più. Di nuovo l’oblio.
Riaprii lentamente gli occhi e niente era mutato da quando ero
arrivato la sera stessa… Anche i colori erano tornati al loro
posto… la gente era bionda gli occhi erano blu.
“Il Dottore!!!!” Mi girai… nessuno… si era volatilizzato…
Non era un’allucinazione. NO NON ERA DECISAMENTE
UN’ALLUCINAZIONE…L’unica cosa che mi riecheggiava in
testa era l’ultima parola del dottore…”SCEGLI… SCEGLI”
“HO GIA’ SCELTO!”

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V. L'ABISSO
di Thomas Kaneirzein & Lord Raphael Von Matsch

Non posso dirvi come iniziò questa storia, il luogo od il


quando. Forse perché dove avvenne quell’incontro non esisteva
nessuno dei due… La loro curiosità nacque in un istante dal
bagliore di un ombra, attorno ad un tavolo dove Psiche,
inconsapevole, stava per partorire il seme della sua follia più
profonda. Aveva sparso il suo polline duplice nell’aria di Galileo,
ma Thomas allora stava germogliando su Psiche di Sogno, il
domatore delle ombre. Sopra la roccia fluida del detentore del
Libro di Thoth.
Intravide i neri artigli del Mostro ticchettare spettrali sul tavolo
di legno bruciato, e capì un frammento della sua nera anima… I
suoi occhi divennero ombra oscurando il bianco dei suoi globi
immobili e fissi.
Intravide l’essenza di quel Nero vietato agli uomini, e comprese
che i sette colori dell’arcobaleno del Pathos non avrebbero mai
portato la conoscenza annidata in quel vuoto di tutto… Qualcosa
che contempla solo se stesso… Un Guardiano che contempla la
propria essenza.
Le candele danzavano il loro tetro spettacolo, fatto di luci e di
ombre. Il Mostro annientava la luce con il solo respiro. Ogni
parola oscurava un riflesso e presto fu notte sulle due figure.
“Un guardiano che decide di fuggire via. Di essere altro… Anzi,
di ESSERE. Finalmente… di essere!”
Le parole del Mostro erano lame nella notte. Pesanti come
mannaie di un boia incappucciato e tetro mutilavano l’anima di
Thomas. Senza cattiveria, senza sadismo. Con la pura verità.
“Vide i colori… oltre che il nero? Diventò un colore? Assunse
una sfumatura di due colori diversi, di Psiche e di Sogno?”
Il volto di Thomas era un vortice di follia. Le domande uscivano
da sole come espulse dalla sua razionalità.
“No… Incontrò un frammento di BIANCO altrettanto
insoddisfatto. E insieme decisero di accostarsi l’uno all’altro, per
contenere tutta la gamma dei colori.”

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Il Dottore, lentamente, prese il cucchiaio da tè appoggiato sul
tavolo. Un gesto meccanico, senza distogliere l’attenzione dalle
perle nere nel viso del Mostro. La fiamma giallastra della candela
cominciò ad accarezzare il fondo del cucchiaino, con carezze
suadenti e sensuali. Sembrava un amplesso mentre il limone e
l’ero tagliata come neve cominciarono a bollire sul rovente letto
di metallo. Quante volte avevano raggiunto l’orgasmo, insieme?
“DA DOVE VIENE QUESTA MAGIA? Da dove prende potere
o chi l’ha inventata?”
La voce del Doc uscì come un respiro dal profondo di un abisso.
L’ago della monodose venne investito da un bagliore di luce
dello stoppino incendiato, prigioniero della cera intrisa di Loto
Nero. Come un animale di acciaio lucido si accoppiò lentamente
con il liquido bollente. E quel blasfemo miracolo avvenne di
nuovo. Un’unica cosa, un maschio intriso di donna, metallo fuso
alla plastica pregno di eroina. L’Androgino, l’ermafrodito della
Morte celata nel piacere, era risorto di nuovo. Ed il laccio di
gomma morse il suo braccio facendo urlare la gonfia vena
violacea.
Un sorriso beffardo: “Dal Mostro? Dalla Volontà del Mago?
OGGETTIVAMENTE FUNZIONA? E che ne so? Funziona!”
(Niente più che un sorriso beffardo… Ed ecco spiegata la
Macchina dell’Immortalità, che funziona, nonostante i modelli
teorici non la sostengano adeguatamente…)
Il dottore alienato dalle parole del Mostro contemplava il suo
velenoso amante. Le parole non venivano più decifrate dal suo
cervello, troppo impegnato a pregustare il nuovo amplesso.
Perché si drogava? Non se lo chiese due volte. L’eroina
attendeva. Con lei non esistevano domande o problemi. I
problemi sorgevano quando non circolava nel sangue
accarezzando le sue vene. Il suo amore si avvicinò con la lentezza
di chi può aspettare.
“Maestro…”
Con lentezza ipnotica lasciò colare una goccia sul ferro freddo e
lucente. Thomas stava facendo l’amore con la propria Morte.
L’ago lo penetrò, lacerando la pelle con un rumore orribile ed

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impercettibile. Come era difficile, le prime volte, concepire quel
dolore. Adesso era nettare degli Dei.
“Ho sempre pensato che funzionasse! Infatti ha sempre
funzionato! Ad Atlantide ci abbiamo fatto funzionare un
continente. Nessuno ha mai avuto dubbi che funzionasse, infatti
ha sempre funzionato.”
Il Mostro continuava a parlare, mentre gli occhi del dottore si
spensero chiudendosi. Nessuna parola. Nessun rumore, nessun
luogo. In ogni istante il calore dell’amplesso con la sua dama
bianca ogni volta vestita e celata in manti diversi. Frigida e gelida
per farsi desiderare ancora di più, o sadica e potente come il
respiro di un Dio. Il corpo si incendiò in ogni suo labirinto
remoto. Sembrava carne liquida mentre si contorceva, nessuna
articolazione, movimenti istintivi. Poggiò con mano pesante il
corpo morto della sua amante sul tavolo, svuotato della sua
mortale anima. Gettò il capo all’indietro estendendo il collo in un
respiro che dilatò tutto il costato. Adesso erano una cosa sola.
In un lampo di Follia drogata riaprì gli occhi, orribili e pregni di
un Male ancestrale dell’uomo. L’onnipotenza dentro le sue
pupille. La voce di un Demone fatto uomo, profonda e calda
come un getto di magma: “Lord… noi con la macchina
utilizziamo… DIO.”
Venosta vide quegli occhi ed il silenzio calò come un manto di
pesante tenebra. Il suo volto venne squarciato da quello sguardo.
La voce del Mostro aveva tremato per un attimo, prima di
rompere quella gabbia di non rumore? La voce del Mostro uscì
dalle sue labbra con la calma dell’acqua. Come quasi sempre.
“Cosa stai cercando di dirmi, Thomas?”
Un rivolo di sangue stava colando piano dal suo naso. Lasciò
che quel liquido disegnasse una serpe sul suo labbro… E lo leccò
con un piacere perverso.
“Padre… Ho visto cosa richiameremo sulla Terra… Ho visto un
Incubo che non ricordi.”
“Parlamene.”
“Un tuo sogno… Noi prendiamo qualcosa fuori dal nostro
universo…. Che non è materia… Che non è energia….”

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Un capillare esplose, senza rumore, inondandogli di rabbia
l’occhio sinistro. Non aveva più nessun aspetto di un uomo se
non per il suo corpo. Un Morto che si muoveva guidato dai fili
della droga.
“Questa però è la tua interpretazione, Thomas, tienilo
presente…”
Un orribile sorriso disegnò il volto del male sulla faccia rigata
dal sangue.
“L’onda K…. Il nuovo fattore che abbiamo inserito
nell’universo… Insomma… Padre… E’ il modello descrittivo di
DIO!”
“E’ una interessante interpretazione. Quindi la nostra Macchina
è il nuovo Dio?”
“No… Non sto scherzando…”
“Neanche io.”
La voce del Mostro strisciò nel silenzio, scansando l’eco e
penetrando nella testa sconvolta dalla droga e dalla terribile
rivelazione.
“Abbiamo costruito lo Spirito Santo, padre…!”
“Infatti. Lo abbiamo costruito noi.”
Thomas divenne una statua di carne rigida. Le parola erano
fiumi di follia sfuggiti al lago piatto della razionalità. L’essenza di
Psiche.
“Scese il Figlio per redimere l’Uomo… Ma non bastò… Ed
alcuni uomini insoddisfatti chiamarono la seconda parte del loro
triplice essere… SULLA TERRA.”
“Oh no, Thomas. Noi non lo abbiamo CHIAMATO. Stiamo
COSTRUENDO un Dio, lo stiamo FABBRICANDO noi. Esisterà
PER noi. Nostro.”
“E noi esisteremmo per lui… Per il suo volere… ed il suo volere
è il nostro. A noi incomprensibile.”
“Non è vero. Il suo volere è l’obiettivo per cui è progettato. Esso
è un Dio meccanico. Ed una Macchina molto semplice. Esso è
PROGRAMMATO.”
Un accenno di risata. Un motivetto improvvisato, sottovoce:
“We are building God… God out of wires… Assembler coded
God… Switch controlled redemption…”

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Attimi immobili di domande che si sgretolano mutandosi in
risposte.
“É raccapricciante ed affascinante…” (C’era una parte
dell’antico progetto Atlantideo che non avevano ancora
decifrato…La ragione per cui di tanti dubbi sul principio di
funzionamento della macchina, e soprattutto sulla fonte di
energia… Un componente del motore per il momento era ancora
una grande X sul progetto: un generatore di cui erano note
dimensioni, potenza in uscita e richiesta di energia per il suo
startup, ma di cui non era stato ancora riscoperto il
meccanismo…E il Mostro non riusciva ancora a ricordare. O, se
ricordava, taceva. I reattori a fusione… Collegati al componente X
stesso, teoricamente in grado di generare un campo magnetico
superiore ai 2,5 tesla… I reattori a fusione dovevano solo
collaborare allo STARTUP del generatore principale! Poi si
sarebbero limitati a produrre l’energia nutrizionale…Il
Generatore X, la parte della macchina che trae da altrove la non-
Energia/non-Materia che diventa l’Onda K. “Trae da altrove”,
diceva Thomas. Venosta diceva: “produce”. Quel componente
che trasforma energia dissipata in energia utilizzabile… Un
assurdo termodinamico… Qualunque cosa sia in realtà, è in esso
l’assurdo termodinamico. Nessun altro ne era a conoscenza, ma
per il Dottor Kaneirzein quel componente era ancora una ‘X’.)
Thomas capì con cosa veramente aveva a che fare… Qualcosa
di così infinitamente potente da poter generare un altro
universo… E quello che lo sconvolgeva era la calma e mancanza
di stupore con cui Venosta ne parlava.
Si sentì bruciare gli occhi dalle fiamme dell’eroina. Spingeva i
suoi occhi nel nero dell’incoscienza. Tutto era deformato e
piegato, più difficile da comprendere. Le parole erano rimbombi
di esplosioni di suoni. Si grattò il collo con le unghie mangiate
dalla sua follia.
“La quantità di informazioni che ho spedito è servita a molti
per conoscere il silenzio… Forse la paura di non capire gli scritti
non li ha fatti ancora decifrare il tomo… ‘Il fattore Q’ ha
momentaneamente placato gli animi…”

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“E’ solo questione di tempo perché giungiamo a comprendere il
funzionamento del Componente ‘X’, Thomas.”
Aprì gli occhi rigati dal sangue e incorniciati da impressionanti
occhiaie… Respirò con fatica parlando mentre il fiato usciva
controvoglia.
“…lo spero, Lord.… o ci sbraneranno di insulti… Quanta
ipocrisia troverebbe il suo sfogo in rabbia…”
“Oh, devo solo riuscire a ricordarmi la password con cui è stata
criptata quella parte dei dati. Vedrai, non ci vorrà molto. La mia
memoria si fa sempre più definita ogni giorno che passa.”
Lo sguardo del dottore era ormai irrimediabilmente spento. Il
grigio delle sue pupille non lasciava riflettere nessuna delle
anime delle nere candele.
“Ti posso aiutare, padre?”
“Non credo. Non vedo come potresti… Mi dispiace, Thomas,
ma devo cavarmela da me.”
Parlava chiudendo gli occhi e sforzandosi di riaprirli di
nuovo… immobile… Dove era in quel momento? In quanti posti
la sua mente poteva correre con la velocità di una sinapsi?
“Sibilandoti parole rivelatrici… Aprendo porte ormai chiuse
dalla memoria… In una trance, nel nero della perdita di
coscienza… In un coma programmato costruito dalla mia
voce…”
“Vorresti ipnotizzarmi, Thomas? Non credo che
funzionerebbe…”
“Temo di no. Io voglio riportarti sull’orlo del baratro della non-
coscienza… Farti rivedere quello che eri, sei e potresti
diventare… E farti ritornare indietro…”
Un accenno di sorriso: “Ehi, non è così indietro, Thomas… É
solo una password con cui ho criptato i dati dieci millenni fa…”
(Ma in realtà Mostro non riusciva a smettere di scrutare quel
corpo di carne e sangue immobile sulla sedia. No, non poteva.
Una statua di blasfema natura, un’Eresia di arte macabra. Oscura
bellezza intrisa di fascino… Stava contemplando la Morte che
esitava con la sua falce!)
“Quante volte sei morto dopo averlo fatto… Quante vite hai
scordato dopo?”

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“Ormai le ricordo tutte, Thomas. E i dettagli vanno ogni giorno
definendosi più chiaramente.”
Thomas inclinò la testa come un drago addormentato, gli occhi
si chiusero. Adesso era una scultura immersa in un silenzio di
roccia. Le parole uscirono dalle ombre della stanza.
“Ti sei completamente risvegliato, MOSTRO?”
“Si è completamente risvegliato l’insieme degli uomini che sono
stato in oltre diecimila anni.”
Una lacrima di sangue finì di martoriare quel volto sconvolto.
Come una cicatrice rossa che si riapriva, la guancia veniva
tagliata dal sangue nero e pesante. Immoto. Thomas mosse
impercettibilmente le labbra. La voce non proveniva più dalla sua
gola.
“IO sono sul baratro, padre… Ma ho paura di vedere… la
visione mi soffoca il respiro… E’ troppo doloroso per resistere…
Per questo assaporo la Morte Bianca…”
Venosta sentì un animale gelato correre sulla sua spina dorsale,
zampettando ad una folle velocità. Il presentimento che si
trasforma in verità. Comprese da quella frase il rischio enorme
che si nascondeva in quella mente perversa. Venosta parlò come
se avesse davanti un suicida in bilico su di un abisso:
“Torna indietro Thomas… Non sacrificarti… Non è giusto che
tu ti sacrifichi. Potresti diventare felice, quando la Macchina sarà
conclusa. Sì, ti renderò felice, nel nostro nuovo mondo! Non c’è
ragione di indugiare sull’orlo del baratro…”
Pausa.
“Infinito tempo fa… io…. io ero sull’orlo… di un baratro… E
l’ho abbandonato. Me ne sono liberato. E non me ne sono mai
pentito. Quella è stata LA decisione!”
Con voce di bambino corrotto dal dolore, Thomas sentì il naso
stretto tra il morso delle lacrime. La voce bagnata… tremante…
(Aveva in mano la sua vita, era onnipotente sul Mostro!)
“COSA c’è… in fondo al baratro… in quel nero?”
Venosta era impietrito. Due statue in un equilibrio troppo
precario. Un errore… Un errore soltanto e Thomas sarebbe
saltato.

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“Il NIENTE Thomas. Il NIENTE, la FINE. Il Non-Essere che la
nostra Ragione non può contenere.
La Morte senza ritorno di tutte le facoltà.”
Thomas aprì gli occhi ormai esplosi nel sangue. La voce
divenne il triste canto dei bambini non nati:
“LA FINE DELLA STORIA!”
“La fine della storia, sì. Era il mio… il suo… il suo compito
assicurarsi che la storia finisse.”
Il silenzio era la lama di una spada perversa e posseduta,
magistralmente affilata dal tempo. Ogni parola lacerava i piedi
nudi dei due uomini in equilibrio sopra a quel filo. Il dolore in
ogni frase, in ogni ricordo…
“…Azael?”"A Z A E L”
“Era il guardiano…”
Raphael cambiò tono…uscì un filo di voce infantile, morbida,
quasi femminile dalla sua bocca.
“Azael era bellissima… Bellissima nonostante fosse un
Guardiano. E le sue ali nere portavano segni di Memoria. Il
sangue delle Storie spezzate aveva lasciato macchie sulle sue ali.
Bellissima… Ella avvertiva come Distruzione le proprie azioni,
ella si dibatteva contro il Destino, Desiderava Mutamento…
Iniziò a Pensare, a Sognare…”Come se avesse sempre conosciuto
i misteri del non esistere, la voce di Thomas cominciò ad scorrere
come un torrente di vento bollente. Le due voci si inseguivano, si
rincorrevano, e si fondevano assieme, alternandosi per
completare quella storia… Una oscura sintonia.
“…Muovendosi terminava il suo cammino. Guardando
cancellava quello che aveva visto. Ma si ricordava…”
“Ma disertò. Ella disertò dai compiti dei guardiani… E la
incontrai…”
“Perché non ti cancellò? Perché non portò la parola fine sulla
tua pergamena di pelle e sangue?”
“Sangue… Io non avevo sangue… Non avevo carne… Spirito e
penne bianche! Ingrigivano, sai? Avevano preso memoria.
Vedevo depositarsi sulle mie ali la polvere. Io dubitavo… Io
avevo VOLONTÁ! Mi costrinsi ad andarmene… E la incontrai.”
“Da chi? Da chi ti liberasti? Dalla tua natura?”

99
“Dal mio compito.”
“E le ali divennero grigie per entrambi… Ali nere che
incontrarono le ali bianche… Memoria era su entrambe… E
cominciasti a sognare con lei… É la tua storia, Mostro? Siete in
due, adesso?”
“Sì, siamo due. Siamo due colori. Due mezzi esseri insieme
fanno uno.”
“Ma da soli non esistono…”
La voce cambiò di nuovo. Venosta riprese a parlare.
“In qualche modo, sono esistiti. In qualche modo che non posso
più comprendere.”
“Il Risveglio, dunque è il ricordo delle azioni compiute? Altre
Note si sono Risvegliate?”
“Credo che nessuna delle Note si sia ancora Risvegliata del
tutto. Credo che nessuna delle Note riesca a ricordare ciascuna
delle proprie vite umane. Altrimenti agirebbero diversamente.
Anche tu Thomas, la tua esperienza della tua stessa vita umana è
breve e parziale. Ma io ne ho vissute migliaia e migliaia… Io ho
assaporato tutta la gamma delle emozioni che gli uomini
possono provare, e ne ho il ricordo, ora. Non è vero, non è vero
che le Note emettono calore restando fredde. Non è vero che le
Note sono alieni, le Note sono umane perché lo sono state! Lo
sono state così tante volte… Ed ora la loro reazione è stata di
credersi Dei alieni. Anche la mia lo è stata… Ma ricordando…
Ricordando tutto è diverso. E cos’altro potrei desiderare se non
essere umano?”
“FALSI ricordi hanno nella loro essenza… perché troppo
dolorosa è la strada che hanno percorso…?!”
Thomas ebbe la stessa sensazione di gelo che aveva scosso il
Mostro attimi prima. Il presentimento che si sbriciolava in
rivelazione. Quel dolore sottile. E vomitò parole della paura di un
uomo. Prima si sentiva onnipotente. Adesso era disarmato,
prigioniero di un suo stesso incubo.
“Il trauma della morte ha fatto dimenticare alle note il loro vero
essere… E’ orribile!”
“Io non credo nel ‘vero essere’, Thomas, lo sai. Mi hanno detto
che le Note vengono da un irraggiungibile Altrove. Forse è vero.

100
Io, da parte mia, a quanto pare ti ho appena rivelato da dove
vengo. Sono una giovane Nota, in fondo. Ma cosa importa da
dove vengono? Per tutto questo tempo sono state esseri umani.
Come permettersi di dimenticarlo?”
Sperduto. Solo. Un limbo di domande dalle risposte orribili. I
suoi orecchi volevano sentire quello che la mente temeva di aver
capito.
“Maestro, è possibile che gli Eterni provengano dall’Altrove…
E le Note si siano formate con la risonanza Eterni-Uomini?
“Credo di no. Ci sono stati anche per… me? … per LORO degli
Altrove. TANTI Altrove. Tante guerre combattute, bianchi contro
neri e con le Note nel mezzo. Infinite volte. Ma questo mondo ha
qualcosa di speciale… O sono solo io che lo sento così?”
Il passato tornò con la forza di uno tsunami di ricordi. Thomas
vacillò su quella corda affilata e tesa tra la Vita e la Morte…
“NO! Anche io appena ho sentito il Pathos… Capii… Ma
nessuno sembrava ascoltarmi… Flavius mi ascoltò, ma ho
troncato i rapporti con lui… Il disturbo…Era sempre successo che
il PATHOS infondesse le emozioni… si cibasse di… Ma qui non
succede! Padre… è quì il mio baratro… E’ questo il mio
baratro…”
Il Mostro aveva davanti il terrore di Thomas. Lo percepiva in
ogni sua vibrazione. Immenso. Soffocante. Doveva espellerlo, o
avrebbe saltato per fuggire a quel dolore…
“Spiegami Thomas… Cosa non succede? Vuoi dire che su
questa Terra…?”
Il Mostro non riuscì a finire la sua frase. Thomas lo interruppe
con la rabbia di mille vittime di una guerra non voluta.
“Sì… IL PATHOS È CAMBIATO! IRRIMEDIABILMENTE
CAMBIATO!”
“Su questa terra, e in quella guerra, nei giorni della mia
nascita…”
“L’uomo lo sta cambiando… il disturbo… ma non so se è
l’uomo… NON SO COSA È!!”
Lo sentiva… Stava per saltare… Doveva fare qualcosa. Ma era
impotente.

101
“Per la prima volta vorrei RICORDARE ancora più indietro,
ricordare meglio quello che accadde prima che io nascessi… E
cosa li CAMBIÓ permettendo la mia nascita? …non me lo ero
mai chiesto… Perché accadde che io iniziassi ad ESSERE?”
L’epitaffio di Thomas. Il terrore che si fece udire in quelle
parole.
“ECCO IL MIO BARATRO, MOSTRO…”
La voce del Dottore era un rantolo di odio per la propria natura
inconsapevole… Come se il limite di “essere uomo” lo
continuasse a vincolare a quel dolore profondo.Era davanti
all’infinito… E non riusciva a vederlo perché esisteva. Sottili
lacrime tagliarono il suo volto, deformato da un’espressione
aliena di orrore incomprensibile…
“Davanti ad uno specchio vedo i miei occhi riflessi… E nel
riflesso vedo i miei occhi… Ed ancora il mio riflesso… Ma
esisto… SONO UOMO… E pur essendo davanti all’infinito…
Dentro i miei occhi… Io vedo il nero…”
Il Mostro percepì il desiderio del Dottore di saltare in quel
limbo di orrore… Nella Fine delle Storie.
E ancora cercava disperatamente di prendere tempo, sorpreso
dalla propria impotenza, dalla propria incapacità di fermare
quell’anima che scivolava via dalle trame del Destino…
“So come ti senti… Vorresti essere uno specchio per poter
vedere il riflesso puro di uno specchio dentro uno specchio…”
“Ma sono uomo…………”
Si accasciò stremato… Le forze lo abbandonarono… Un timido
singhiozzo… nascosto… velato… dal dolore più enorme che un
uomo possa contenere…
“THOMAS!!”
Raccolse la testa di Thomas nelle mani, per non lasciarlo cadere
nel vuoto. Gli asciugò le lacrime.
“PERCHÉ??????”
Il grido proveniente dall’interno più profondo echeggiò nel
ronzio di fondo del silenzio. Le pareti ascoltarono e tremarono a
quella domanda. E rimasero immobili, senza risposta. Per
tremare ancora in quel dolore incontenibile che sfuggiva dalla
carne del Dottore…

102
“IO NON SONO UN UOMO!”
Come si può stringere un morto, e sentire le sue parole? Come
poteva Raffaele consolare un morto che non voleva vivere?
Perdita del controllo. Singhiozzi. Il flusso delle acque calme si era
spezzato.
“THOMAS! Thomas… Thomas è così bello essere UOMO… Io
non vorrei mai più essere altro…”
Immerso in quel vuoto vomitava con lacrime di sangue parole
nel mondo di carne… La mancanza di speranze, la voce di un
prigioniero in una gabbia da cui non fuggirà mai.
“Perché ho questo fardello?! PERCHE’ DESTINO MI HA
INCASTRATO IN UN CORPO DI UN UOMO?! perché…
perché……………perché………per…ché….Padre…….?”
La droga strinse Thomas nel suo ultimo sadico abbraccio. La
voce del Mostro era fluida e pesante.
“Thomas
Thomas
Thomas
T h o m a s………..

!

Venosta corse in cerca di soccorso medico…


….

103

..
.
..

….
Buio nella stanza. O era lui che non vedeva quelle luci
accecanti? Quel triplice disco di luce sulla sua testa… Dove lo
aveva già visto? Sembrava un ufo… un disco volante… Non
riusciva a pensare, era troppo fatto, conosceva quei momenti,
“meglio aspettare che passi”…
….

..
.
..

….
(Cazzo che male… Non respiro… e non riesco a vedere dove
sono… Sarò morto? Lo spero… o forse no? Vuoi vedere che mi
sono sparato dell’ero di merda nelle vene…)
AHI CAZZO! voci lontane, piene di un riverbero assordante…
Spazio di gomma, il tempo surgelato in un limbo di buio
malleabile. (Ed ora che devo fare….? Mi verrà a prendere
qualcuno o dovrò andare io? Ma che cazz…) …AHIIIII!
Rumore di ferri sottili che ticchettano, nessuna percezione del
corpo, meno che per un dolore intangibile e profondo. Odore di
etere… (Etere? che cazzo c’è l’etere in questo cazzo di posto?!….
sono finito in un posto che puzza di etere…) di nuovo il rumore
dello strofinio del ferro sul ferro… (Ma dove sono? Cosa sono?
Aspet…Già… Mi sono fatto, parlavo con il MOSTRO e poi quel
dolore al petto…. Ma sono ancora fatto o sono morto?)
Un’esplosione nella carne, tra la quarta e la quinta costola. Con
tutta la prepotenza cieca della sofferenza, il corpo di Thomas fu
squarciato da un orribile tubo di gomma. Il corpo ritornò a farsi
sentire, inondato dai messaggeri del dolore… (Che dolore,

104
merda… che dolore… Ma allora vuol dire che sono vivo… SONO
VIVO!)
La voce uscì deformata dalla droga… Sembrava un barbone
troppo ubriaco per aprire gli occhi…
“So..sONo VIvo?!”
“Si rilassi, Kaneirzein: la stiamo operando. Stiamo inserendo il
tubo flessibile del 24 per il drenaggio di una falda toracica.
‘Pneuma toracico’, non è niente di grave, ma è un po’
doloroso…”
“Si rilassi, Kaneirzein: la stiamo operando. Stiamo inserendo il
tubo flessibile del 24 per il drenaggio di una falda toracica.
‘Pneuma toracico’, non è niente di grave, ma è un pò doloroso…”
(Puttana del cazzo! “niente di grave”… Mi state martoriando,
stronzi… Un tubo del 24… mettitelo dove da anni non entra più
niente il tubo del 24 stronza…) Un attimo… e la sua amante di
bianca essenza riprese a scuotere forte il suo sangue…
(…Eccoti…meno male che non mi hai abbandonato…. almeno
tu….almeno tu…….)
.
..

….

..
.
Un lampo, quella visione… Un traslucido essere alieno,
trasparente solo in parte… La sua struttura non permetteva di
distinguere con chiarezza i suoi contorni… Se avesse avuto
un’immagine definita sarebbe apparso un serpente dalla testa
enorme, come uno spermatozoo, munito di fauci e privo di occhi,
coperto di bava viscida ed appiccicosa. Bianco come il lattice o la
neve dell’Everest. Ma era trasparente e faceva ancora più schifo.
Strisciava con folle velocità inseguendo il Thomas in un labirinto
di mura bianche… Odore stordente di Etere… il respiro
ansimante, disperato, unico angosciante suono. Gli balzò addosso
con rabbia e con un orribile verso stridente, forandogli il costato.
Thomas sentì quella viscida testa penetrare nel suo fianco,

105
insinuarsi spaccando la carne tra due costole, arrivare al polmone
e cominciare a succhiare… Si gettò in terra, urlando in preda ad
un ancestrale terrore misto al lancinante dolore. Cercava di
estrarre l’orribile animale tirandolo per la coda, unica parte
sporgente dalle sue membra, ma era come se fosse attaccato con
filamenti appiccicosi come pseudopodi all’interno del corpo.
L’essere alieno si cibava della sacca d’aria e dei suoi liquidi
interni, succhiandolo da dentro. Le mani sguisciavano dalla coda
contorta e frenetica unta di un liquido, di un siero velenoso…
Non riusciva a capire come liberarsene, il dolore lo stava
annientando… La disperazione lo prese tra le sue braccia, mentre
immobile sentiva il ventre dell’animale gonfiarsi per il fiero pasto
che stava consumando. Era impotente… sperava solo che la
Morte arrivasse tempestiva a salvarlo. Ma con un grido
sottilissimo e stridente, l’animale sguisciò zuppo di sangue e
grumi fuori dal costato, col guizzo di un’anguilla di mare, forse
sazio del nutrimento che aveva succhiato. Si lasciò dietro la
figura sudata ed ansimante del dottore ed una vomitevole scia di
bava…. E sembrò voltarsi… Come per far capire che non sarebbe
stata l’ultima volta che si sarebbe cibato…..

..
.
..

….
Il tempo di un respiro….
“ARRRGGGGGGHHHHH!!!! TIRATEMELO VIA! TIRATELO
FUORI DA ME!!!!”
“Si calmi, Dottore, è tutto passato!”
“PASSATO UN CAZZO!!!!
E’ DENTRO DI ME!!! LEVAMELO!!!
LEVAMEEEEELOOOO!!!!!”
“XXXXXX-XXX, 2cc, endovenoso, presto!”
“NOOOO!!!! SI STA CIBANDO DI ME!!!! …SI STa cibando
di……si sta… ci…

106
…..

..
.
.
.
.
La mano sottile e bianca di Raffaele accarezzò teneramente il
suo volto sudato.

107
VI. EURIDICE ELETTRICA
di Thomas Kaneirzein & Lord Raphael Von Matsch

23 Novembre 1999
Barcelona, Hospital de Sant Pau

Il rumore dei macchinari dell’ospedale, sottile e fastidioso: un


insieme di piccoli ronzii di fondo uniti a odiosi bip e respiri
artificiali. La maestosa architettura neogotica dei corridoi, le
luminose vetrate… non possono nascondere l’odore di medicine
e di etere nell’aria.
Il rintocco perfetto dei passi nel corridoio. Cammino in silenzio,
io, Raffaele Venosta, il Mostro. Scosso. Ma il copione mi impone
di darlo a vedere il meno possibile. Che io sia un potente
immortale o semplicemente un potente uomo d’affari, il cliché è
insindacabile: occhiali scuri calati sul nulla.
Ma sono scosso, davvero. In apprensione, come è frequente
ormai. Perché vado a trovare Thomas. Per la decima volta in una
settimana.
Ricoverato d’urgenza… una forte crisi respiratoria dovuta ad
uno “pneuma toracico”… così aveva detto il Medico. Come se
alla sua salute occorresse un nuovo malanno. Cazzo.
I miei passi regolari tra i pilastri e le arcate. Falsa cattedrale dai
muri color sangue. Ancora una settimana in un dannato
ospedale. Ho scelto per lui il più bello del mondo, ma pur sempre
un ospedale. Ma sono anche felice, felice sì, perché lui ha ripreso
conoscenza. Sono felice, perché ora sta meglio. Anche se sarà
come sempre di cattivo umore. Thomas… Sono venuto per
riportarti a casa, vuoi?
Camera 2, Letto 26. Luce al neon. Fredda e cupa. Lui siede sulla
poltrona di pelle nera imbottita, addormentato davanti allo
sfarfallio del vecchio schermo poggiato sull’antica scrivania di
mogano.
Ovunque libri ed appunti, fogliacci accartocciati e post-it.
Formule, equazioni, grafici e disegni ovunque… “La sua eredità”,
la chiama lui… Un quadro allucinante in una stanza fatta di

108
Caos. Metallo freddo e umido sulla superficie del mio cervello.
Striscia, stridente. Non mi piace. C’è qualcosa di anomalo…
Silenzio… Troppo silenzio, nessun movimento…
Il respiro mi muore in gola, la mia voce è un sibilo freddo:
“Thomas?”
Inspiro. Un odore allarmante. Adrenalina in circolo. Il senso del
combattimento che si attiva. Domatore di Ombre. Pochi passi.
Con circospezione. Come muovendomi su un campo di battaglia.
Come camminando sulla coda di un drago addormentato. Mi
guardo attorno, cerco le ombre negli angoli della stanza. Con uno
sguardo, comando di coprirmi le spalle… Poi quel movimento…
Una caduta a rallentatore drammatica e rivelatrice. La sagoma
di Thomas rigida come un manichino che crolla esanime dalla
sedia. Mi muovo veloce, scatto verso di lui… ma i miei
movimenti sono pesanti e rallentati. Attraverso uno schermo di
adrenalina i secondi scorrono lenti come ore.
Ho tutto il tempo di fare i miei calcoli, tutto il tempo di sapere
precisamente che non ce la farò… Ma il mio movimento non
cambia.
Invano, disperato, mi getto ad afferrarlo… Impotente, lo vedo
precipitare dall’orlo di una voragine… La Voragine che ha
intravisto, cercato, inseguito…Un tonfo sordo. Immagini
innaturalmente prive di velocità.
I lunghi capelli gli coprono il volto sudato e pallido, le labbra
violacee serrano il suo mento in un ghigno di dolore… Occhi
aperti su un vuoto immobile…Sono chino su di lui. Solo il
movimento incessante dei miei occhi rompe il peso del silenzio.
Angoscia. Le mani mi tremano. Cerco affannosamente,
disperatamente un segno di vita… Il minimo segno di vita…
Tocco il suo collo… è freddo, rigido, pietra… Il suo polso…
nessun battito…
La mia voce emerge con le lacrime, e non la sento…

…T…

…h…

109
…o…

…m…

…a…

…s….

!

Lascio il braccio… il suo braccio… rigido… senza vita… cade…


cade sul pavimento mentre resto in attesa del suono… del suono
della pietra che si spezza…”. . . N O O O O O !”
Mi azzanno la lingua, soffocando l’urlo nel caldo sapore ferroso
del sangue. Un barlume di vita. Ma è la mia. Adrenalina…
E Thomas immobile sul pavimento.”Come cazzo fa una persona
a morire così, in un ospedale, sotto osservazione?! Non è
possibile, non ci credo… Thomas! Non tu…”
Incredulo… Scuoto il capo, osservo il tuo volto cadaverico. Non
ci credo, non riesco a crederci. Gli occhi privi di quella luce e quei
riflessi della vita, grigi, spenti. E immagino ancora che tu mi stia
guardando… ma tu sei…
Il tuo corpo giace rigido e cianotico sul pavimento freddo
dell’ospedale.
“Gli infermieri… La rianimazione… LA RIANIMAZIONE!!”
Pensieri, movimenti, incerti, scoordinati, un piede verso la porta
e gli occhi verso di te. E non riesco a crederci.
“E’ morto, Raphael. E’ una cosa normale, in fondo”
“No, Azael, noooo! Come posso permetterlo?”
“Puoi impedirlo?”
“Sì, devo, voglio impedirlo!”
Esito sulla soglia della porta, e non riesco a non continuare a
guardarlo. In quello stato di bellezza orrenda. E vedo, vedo
quella mano serrata in un ultimo insensato gesto… Il laccio di
gomma come una serpe d’acqua che stritola la carne irrigidita,
viola… Quelle vene gonfie…

110
“No, cazzo, no, cazzo, no…” Sto piangendo.
“INFERMIERAAAAAAA!”
Crude immagini della realtà nuda, vecchia e sudicia
mendicante che si spoglia in pubblico per attrarre una briciola
d’attenzione… Quel rivolo di sangue seccato come una lacrima
del suo corpo da tossico… OVERDOSE. La realtà.
“Infermiera! Qualcuno! Sta MORENDO!!
RIANIMAZIONEEEEE!!”
Un silenzio innaturale… Le proporzioni sfalsate… Immobile
immagino me stesso gettarmi per terra con la testa tra le mani,
piangendo, il volto deformato in una smorfia di angoscia…
Solo…
“Non ti sei ancora abituato, Raphael?”
“No, Azael, no… non così!!”
I passi nel corridoio sembravano provenire da un tunnel
profondo… Echeggiavano come zoccoli su un duro selciato. Cosa
fare? Sono inutile. Inadeguato. Impotente.
Entrano le infermiere, poi il dottore, in una corsa disperata. Un
defibrillatore… un ambu… Rapidi gesti e voci agitate dalla
morte. Sono una linea di niente in un angolo, e taccio. Voci come
colpi di pistola che mi sbattono da un lato all’altro della stanza…
Il volto immobile imperlato di sudore… Mentre metà di me ride
della metà che piange. Le due piastre aderiscono al petto,
denudato del rosso pigiama di raso…
“FZZZZZZZZZZZZZ!!!!!…RESPIRA….1,2,3……FZZZZZZZZZ
ZZZZ!!!!!… RESPIRA… 1, 2, 3… …FZZZZZZZZZZZZZ!!!!!…
RESPIRA…”
Tempo… Fuggi… Sabbia… Polvere… Ti odio… Polvere…
Speranza uccisa… Morte… Ti odio… Morte… Non portarlo
lontano da me…Il suo corpo sembra un manichino guidato da
quelle terribili scosse. Si piega, si contorce, rigido, obbligato da
quella vita elettrica ed artificiale che torce i suoi muscoli, ma poi
fugge, fugge via, come un alito di vento… Neve sul terreno
bagnato, prima di tingerlo di bianco si è sciolta in fango.
Il suo volto completamente privo di ogni espressione, di ogni
emozione, mentre viene percorso, stuprato dalla corrente…
Un’immagine di una bellezza orribile…Spezzo questo pensiero,

111
odiandomi. Immagino la mia voce farsi folgore. E la folgore
danzare attraverso il metallo dei cavi, serpeggiare attraverso la
pelle per prendere a schiaffi il suo cuore e svegliarlo….
“…1, 2, 3… FZZZZZZZZZ!!!!!… Respira… Lo stiamo
perdendo!”
No… no… no… no… no… no…”Adrenalina… 1, 2, 3
FZZZZZZZZZZZ!!!!!… Respira….. 1, 2, 3 FZZZZZZZZ….
Respira…”
“E’ morto da troppo tempo…. non ce la faremo mai!”
Il dottore è una maschera di rassegnazione e sudore… Quello
sguardo perso dietro gli occhiali appannati, il camice bianco
come la neve che non riesce a far posare su Thomas. Gli sguardi
delle infermiere si incrociano in una triste complicità. Respiri
affannati contemplano la Morte. (Il dottore si asciuga il sudore
dagli occhi premendo con le dita protette da guanti di lattice le
palpebre stanche e pregne di lacrime non piante. Un attimo di
magnifico buio… In tutti quegli anni di lavoro non si era mai
abituato a quella blasfema bellezza. Non si era mai potuto
permettere una lacrima… un pianto… una debolezza. Prepotente
la Nera Signora riprese il suo posto da primadonna nella sua
mente. Ed una nuova forza lo investì, scuotendolo del desiderio
di vita, reagì, non si sarebbe piegato alla Morte…)
“Continuiamo, per Dio! Finché non avrò scaricato questo
fottuto attrezzo!”
“….1, 2, 3…FZZZZZZZZZZZ!!!!!!!!….respira….”
Osservo la squadra agire in silenzio. La loro disperazione.
Scivolo in ginocchio accanto al “fottuto attrezzo”. …Sottovoce
…Il Nome del Potere. Un Comando della Volontà. Cento Penne
Bianche di Ali. Cento Penne Nere intinte nel Sangue. La mia voce
è folgore. Duecento sillabe di nomi morti…
“FZZZZZZZZZZZZ!!!!!! respira…1, 2, 3…FZZZZZZZZZZ!!!!!!
respira…..”
Sfioro con le dita il defibrillatore, immaginando di trasformarmi
in corrente elettrica…
“THOMAS!! THOMAS!! IO LO SO CHE MI SENTI
THOMAS!!”

112
L’odore della pelle bruciata è insopportabile… Il corpo annerito
dal bacio delle scariche… I peli ormai bruciati e arricciati in un
orribile abbraccio di morte… E quell’assordante riga verde
continua dall’orribile
suono…”biiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii”
Zampette d’insetto dal palmo della mia mano affondano non
viste nella scatola di metallo… la corrente delle mie sinapsi
affluisce nella macchina…
“Mi senti, Thomas? Sto venendo a cercarti…”
*******
Sono elettricità. Foro la pelle di Thomas e viaggio lungo i suoi
nervi. Sono un drago con ruote di gomma e una coda di scintille.
Sfreccio in una tenebra tempestata di puntini di luce…Vengo a
prenderti, Thomas. Una fitta autostrada intrecciata di tessuto
neurale. Una ragnatela perfetta e complessa di contatti e di
svincoli. Sfreccio cambiando direzione: ho sempre conosciuto la
via. Scintille dietro di me. Il vuoto davanti.
Io lo so che sei ancora qui… Ancora qui…Uno schermo nero…
liscio… vuoto… nel vuoto della morte. Un canale che ha perso il
segnale, e dentro quell’immagine… Il deserto che si sbriciola
piano piano in miliardi di piccoli ‘0'…Presto prima che tutto sia
svanito…Mi tuffo nello schermo nero… Schegge di vetro
ovunque…
Con il fragore di una tormenta di sabbia le infinite sequenze di
piccoli ‘0' mi danzano davanti…
Un piccolo ‘1' cerca di fuggire dietro di me… ma viene afferrato
ed inglobato nell’assurda ragnatela…”Nooooo!”
Una sequenza indecifrabile che descrive la morte…”01010101?
grido “11111111 11111111? Dalla mia voce scaturiscono uniti una
serie di minuscoli ‘1' annodati e contorti… Sfaldano il muro di
neon intrecciato e ricreano la memoria del corpo di Thomas… Ma
Thomas cade… Cade a terra e io non posso afferrarlo… La
memoria del suo corpo cade a terra, disgregandosi in ogni sua
unità…”Thomas!”
Ed eccole di nuovo fagocitate dal mare della Morte… Davanti
allo schermo una figura si lascia intravedere, prende forma,
vestendosi di ‘0'. Un manto stracciato che ondeggia scosso

113
dall’assenza di vento. Il volto un cranio deformato dallo sfarfallio
dei numeri. Solo due mani senza carne né nervi stringono nelle
inconsistenti ossa l’icona di una falce.
Levita immensa davanti a Raphael separandolo dallo schermo
vuoto…
*******
Azael porse la mano a Raphael, per aiutarlo a rialzarsi. Raphael,
piccolo come un bambino, si issò sulle spalle di Azael, il
gigante… I suoi occhi di ghiaccio ardente fissi sulla tetra
apparizione…
“Chi sei?”
Un sibilo disumano echeggiava in quella totale mancanza di
suoni: il lamento congiunto di milioni di vittime. Per un attimo
Raphael e Azael udirono quella di Thomas… Thomas… forse era
dentro di lei… imprigionato e nascosto nella matrice dei suoi
‘0'…
“Restituiscimelo”.
“Restituiscicelo.”
Un suono distorto… Orribile… Il teschio si mosse sfarfallando,
fissando nella retina di Raphael un’orribile sequenza di
istantanee. La Morte che ride… La figura aprì il suo manto di ‘0' e
stese le braccia in gesto di sfida. Chinò l’orribile volto di assenza-
di-vita e si mosse levitando in direzione di Raphael…
“Mi riconosci?”, disse Azael carezzando i capelli lucenti di
Raphael.
“Io sono sfuggito ad un baratro più profondo. Credi che io
possa temerti?”
La figura si arrestò nel suo silenzio.
“Noi siamo 01010101… Siamo PIU’ COMPLETI…SUPERIORI!”
Due piccoli ‘0' arrestano il loro cammino dove orbite scure e
profonde deformandosi davano una sorta di espressione a quella
forma di non-vita… Cominciarono a roteare in ogni direzione
delle tre dimensioni… Presero il colore del sangue… del sangue
di Thomas…
“Noi abbiamo una opzione sulla sua anima. E’ nostra. Noi la
pretendiamo indietro.”

114
Quel sangue che aveva contaminato con quella merda di
eroina…
“THOMAS!” gridò Raphael, agitandosi tra le braccia di Azael…
“THOMAS!”
Due sfere rosse come le labbra di un’odalisca cominciarono a
secernere strisce di ‘1' dal colore del sangue… Caddero sulla
sabbia lordandola del suo colore… Le mani di Raphael, piccole
mani di bambino fatte di 11111111, si frapposero tra il sangue e la
sabbia a raccogliere quelle gocce nel loro palmo.
“Thomas è NOSTRO!”
Ricordi nella mente del ragazzo… Quelle lacrime di sangue che
aveva pianto quando lo aveva sorretto… Che aveva asciugato
con amore infinito… Perché gliele stava rendendo? Stavano
superando la morte… Stavano fuggendo alla morte… Dense
d’amore… per quella donna… e per Raphael… Due bocche
all’unisono in una sola voce:
“Sono qui per te, Euridice. Sono disceso alla porta degli Inferi.
Torna da me, mi appartieni! IO NON TI PERMETTO DI
LASCIARMI!”
La figura ammantata venne scossa e sfasata… lo spazio intorno
a lei ne risentì piegandosi… Raphael e Azael fronteggiavano
quell’essere rinchiuso in una sfera di assenza di spazio. Quel
volto di zeri intrecciati aprì la bocca denudata dalla pelle. Una
serie di orribili denti delinearono una spettrale smorfia di dolore.
I due globi carmini ebbero un riflesso violaceo. Un sussulto fece
tremare la fragile consistenza del manto lacerato…. La bocca si
stava aprendo e chiudendo ancora… Come se stesse simulando il
pronunciare di un nome:
“M….O…..S…..T…..R…..O……”
La figura si ritrasse di colpo.
“Torna da me…”
Sferzò la falce in una rabbia inaudita, il grido sottilissimo, di
rabbia e odio profondo per quella inutile piccola cosa che voleva
sfuggire dalla sua essenza… Azael levò un grande braccio per
coprire Raphael, intrappolando con la sua carne e ossa di
00000000 la lama della Morte! E sorrise.

115
Raphael si gettò in avanti, le mani piene del sangue di Thomas,
per afferrare l’ombra di colore in quegli occhi…
“Io, che fui il Messaggero della Guarigione, a costo di invocare
il mio Potere Rinnegato mi opporrò alla tua perdita… non ti
lascerò andare via da me… THOMAS!”
E le sue labbra sfidarono le zanne di ‘0' del teschio, cercando di
raccogliere il respiro di Thomas da quel cimitero… La Morte si
ritrasse in un ultimo disperato gesto. Di nuovo quel disturbo che
deformò lo spazio, echeggiò nella sfera di nulla come il battito di
un cuore… La lama della falce era incastrata nella trama degli ‘0'.
E quella forza dell’esistenza la sferzava con i suoi ‘1'. Poteva la
morte morire esistendo?
“RESTITUISCI CIÓ CHE É NOSTRO, e vattene…”
Forzato da qualcosa al suo interno, il volto scheletrico si mosse
di nuovo:
“…..P..E…R..D…O..N..A…M…I…………A….I…U…T…A….M
…..I……”
E tutto divenne una danza frenetica di stracci e di ossa, di fili di
‘0' che rilucevano in un macabro ballo… Un canto sembrò
echeggiare in lontananza…
“Sì sono io la morte e porto corona… e sono di tutti voi…
signora e padrona…”
Azael, perdendo sangue da un braccio dilaniato, si avvolse
attorno a Raphael per proteggerlo… Ma Raphael piangeva, e
cercava con le labbra il respiro sperduto di Thomas…
“Antichi noi siamo quanto te, Morte…” — disse il gigante nero
— “Guardiano e Messaggero degli Assoluti rinati a nuova forza.
Più e più volte all’argilla o al metallo abbiamo impartito la vita…
Noi non riconosciamo il tuo dominio! Noi siamo oltre la tua
giurisdizione.”
Lo interruppe Raphael, la voce di un bimbo in lacrime: “BASTA
CON TUTTO QUESTO! Ridacci soltanto THOMAS!”
Come partorito dalla matrice di ‘0', un uovo di ‘1' intrecciati
venne vomitato dalle fauci della morte. Si udì un suono enorme,
smisurato… come un lampo… un tuono dal boato stordente
…FZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ…..

116
La morte si ritrasse, occhi in fiamme… Indicò con un dito
ossuto e contorto verso quell’uovo di roteanti ‘1'… [ Thomas
Thomas Thomas Thomas Thomas Thomas] Si divise a metà… ed
a metà ancora… Raphael e Azael si avvolsero attorno all’uovo a
ricoprirlo… E si ritrovarono separati dalla sua scomposizione…
Pian piano lo spazio si contorse su se stesso. Per un undici volte.
Un boato echeggiò ed sarebbe echeggiato in eterno. Un nuovo
terribile, affascinante Big-Bang. Un’esplosione che solo la vita
può causare. E la sabbia cominciò a formare le dune…Sorrise
Raphael, vedendo 0 intrecciarsi a 1, 0 intrecciarsi a 1… 01010101,
frammenti di una realtà vivente.
Sorrise Azael cingendo con un braccio il suo piccolo amante…
L’altro braccio ciondolava distrutto, ma lui ignorava il dolore.
Spalancarono le braccia e le dita, gli occhi e le labbra, per
abbracciare il calore della coscienza di Thomas che ritornava
potente. Un respiro lontano mosse l’aria trasformandola in vento.
Ancora un rumore immenso lacerò il silenzio: era la vita che
tornava nel deserto della mente di Thomas. Sabbia calda nasceva
dal manto di ‘0'…
“Non lasciarmi mai più…”
*******
Il vento riprese a soffiare con rinnovato vigore. Spalancai le ali e
mi lasciai portare dal vento del tuo respiro. La sabbia si aprì
rivelando il suo tesoro. Un corpo nudo, immobile e vivo…
Respirava a fatica in una placenta di sabbia bagnata. Un corpo di
adulto scolpito nella sabbia.
“Sei debole amico mio, e ancora freddo… Sei ritornato da un
lungo viaggio e da un profondo abisso… Ma non ti lascerò mai
più andare via!”
Rannicchiato in posizione fetale, attendevi di rivedere la luce.
Mi sdraiai sul tuo nudo corpo di sabbia, avvolgendolo con il mio,
baciandoti dolcemente sulle palpebre chiuse, per incoraggiarti a
risvegliarti.
Un possente tremito smosse le dune e disegnò mille onde… Dal
profondo, un boato preannunciò la nascita.
Sette steli di roccia si alzarono di nuovo dalle sabbie, prepotenti
ed incuranti di cosa smuovevano: la vita non aspetta quando

117
deve fiorire. Tutto tremava, e finalmente anche i tuoi occhi
ebbero un fremito.
Il vento soffiava con forza incontrollabile, la sabbia pungeva
come spilli affilati, la sabbia si intrecciò in trame e matrici di fili.
Si annodarono ancora.
“Sono con te, amico mio.”
E i tuoi occhi si aprirono in quella nuova trama.
“Questo è solo l’ennesimo parto. Non temere il dolore.”
I tuoi occhi si aprirono accogliendo la luce… La retina iniziò a
stimolare il cervello con la mia immagine… La bocca si aprì per
lasciar uscire un filo di voce: “…..P…..A….D….R…..E……….”
“Hai visto? Sei riuscito a tornare da me… Lo sapevo.”
E riflesso nei tuoi occhi vidi il mio sorriso luminoso. Come
quello di un bambino. O di una madre.
*******
“1,2,3……..RESPIRA………FZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ!

“PIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII…PIPIPPI………PI…….PI………PI…
…”
[..zerounozerounozerounozerounozer...]
“É tornato! Dottore presenza di battito cardiaco!”
“cough… cough…”
Mi rialzo a fatica dal pavimento della stanza d’ospedale.
“Smettere con il defibrillatore! Ossigeno, presto!”
“Battito?”
“Regolare, dottore! E’ un MIRACOLO!”
La frenetica attività dei medici e degli infermieri non mi
spaventa più… Ora io ho una certezza… Ora io so…
“Attività cerebrale?”
“E’ un vulcano dottore! È un miracolo!”
…che non mi lascerai mai più.
*******
Thomas mosse impercettibilmente un dito.

118
VII. SIAMO NATI OGGI... SIAMO!
di Thomas Kaneirzein e Monica Rewinsky
(Terzo in comodo Lord Raphael)

(Barcellona, 27 Novembre 1999)

Migliaia di anni. Secoli. Un istante. Paesaggio surreale. Un


posto lontano da tutto. Un luogo dove è facile perdersi d’incanto
come in una fiaba. Splendida cena. I palati ne sono ancora
estasiati. I profumi dei vini e delle pietanze volano ancora
nell’aria. Monica e Raffaele parlano ancora. Di nuovo sulla
terrazza. La luce che investe l’ambiente è minima. Un magnifico
cielo stellato li copre dall’alto. Un posto lontano da tutto. Un
luogo dove è facile perdersi d’incanto, come in una fiaba.
“Bene, arriva il caro Thomas” sussurra Raffaele, mentre porta
alle labbra l’ultima goccia dello squisito nettare rosso che stava
gustando in compagnia di Monica.
Thomas. Monica sobbalza. Ma non lo lascia vedere. Tenta di
mantenere legate tutte le emozioni che la investono. Il profumo
del vino l’aiuta a distrarsi per un istante.
“Thomas, bentornato. Come ti senti ora?” Sussurra Monica
sorridendo. Si avvicina a lui delicatamente e gli accarezza i
capelli con dolcezza. Ora sta meglio. Anche lei. Forse anche
grazie al discorso fatto con Raffaele. Già, le parole di Raffaele.
Un posto lontano da tutto. Un luogo dove è facile perdersi
d’incanto, come in una fiaba.
“Molto meglio, Monica, Molto meglio. Sai? Ho avuto la
conferma che le orecchie volevano sentire.” La calda voce di
Thomas si mischia al profumo del vino e alla flebile luce delle
stelle.
“Ne sono felice, qualsiasi cosa ti abbia fatto ancora sorridere
come ora, sia la benvenuta Thomas. Questo luogo è un incanto. Il
caldo odore di salsedine mi fa dimenticare tutto… Qual è la
vostra magia?” Monica sorride anche a Raffaele.

119
“Il mio cuore sapeva cosa erano diventate le Note…”. Thomas
perde lo sguardo lontano oltre l’orizzonte del mare. Di nuovo
una smorfia di sottile dolore sul suo volto.
Raph si schiarisce la voce, interrompendo la breve pausa di
silenzio che si era creata tra loro. “Thomas, caro… Credo che
Monica volesse intendere altro… se per una volta riesci a lasciare
da parte le Note…”
“Sì Raffaele, sarebbe bello dimenticare questi discorsi per una
volta. Ma se Thomas ha piacere di parlarne, io lo ascolterò
volentieri.” Monica si adagia comoda tenendo il bicchiere di vino
stretto tra le mani su una colorata poltrona.
“Le mie orecchie volevano sentire quei cori sgraziati…”
aggiunge ancora Thomas.
“Thomas… Mi dispiace per tutte queste incomprensioni con Le
Note. Devi ammettere però che molte delle tue parole sono state
davvero forti, tesoro. Mi auguro che ciò non porti nessuna
conseguenza, me lo auguro di cuore!”
“Dovete dare tempo anche alle Note di crescere…” Interviene
Raffaele. Mentre parla si allontana con calma verso l’entrata di
casa per lasciare il terrazzo.
“Sì, sono d’accordo… anche molte di loro devono crescere,
anche molti di noi…” aggiunge Monica.
“Già, e bisogna che cresca anche il piccolo Thomas
Kaneirzein…”
Raffaele si ferma e lo osserva con amore di padre. In silenzio il
suo sguardo si posa sugli occhi di Thomas.
“Da adesso… finché vivrò… darò loro il tempo… io… che ne
dispongo per una vita soltanto.” Thomas pronuncia queste parole
senza mai allontanarsi dagli occhi di Raffaele. Monica sente un
leggero imbarazzo ad essere lì con loro. Sono molto legati. Lo
sente. Eppure i loro sguardi nascondono anche un senso di sfida
sommesso, appena percettibile.
“Aspetta… solo una domanda… Raffaele, aspetta…” Monica
spezza il silenzio ancora.
“Dimmi, Monica…” Raffaele si volta verso di lei.
Un leggero imbarazzo nella voce tradisce Monica. “Sì… Ecco…
Nei tuoi occhi, Raffaele, a volte vedo una luce particolare che non

120
so definire. Ti dico cosa sento, così come lo sento. Da quando
sono risvegliata in Pathos ti osservo e seguo i tuoi passi e le tue
parole, vedo una Nota, un uomo, e ancora una Nota divisa a
metà… ma ieri ho capito perché, ti ringrazio per avermi regalato
una parte di te. Solo, a volte non sono sicura che tu non possa
esplodere nella tua parte peggiore. Anche contro di noi. Noi che
dici di amare. E contro Thomas. Thomas che dici di amare. C’è
una luce in te, a volte mi rapisce. A volte mi confonde.”
“Monica! Posso essere stato crudele. Posso esserlo ancora.
Uccido, a volte. Ma mai coloro che amo… Mai!” Pronunciando
quest’ultima frase, lascia la terrazza.
Monica guarda Venosta allontanarsi. Segue i suoi passi leggeri
in silenzio con lo sguardo. Monica e Thomas restano soli. Un
posto lontano da tutto. Un luogo dove è facile perdersi d’incanto,
come in una fiaba.
“Siamo soli ora, Thomas. Sono in imbarazzo. Non credevo
potesse succedermi.”
“Hai fatto arrabbiare Venosta e sei in imbarazzo perché sei sola
con me? A volte non ti capisco… amore…”
Thomas ha la voce calda e sensuale. Quella voce rimbomba
come un’eco nel cuore di Monica. Il vino, gustosissimo e
profumato, le bagna ancora le labbra.
“L’ho fatto arrabbiare, Thomas? Dici? Non credo, lui è andato
via per noi. Lo so… me lo ha detto prima che tu arrivassi. Cosa
ho detto che non va?”
“Perché, Monica…” Thomas ha lo sguardo triste mentre la
guarda.
“Mi spiace, pensi che lo abbia offeso? Spiegami, Thomas, non
capisco!”
“Il Mostro non si offende davanti a me… davanti a te… ti ha
gettato la risposta nel silenzio. È solo, Monica. Viene etichettato e
temuto perché è diverso. È come un nero in una tribù di 48
bianchi. Ed io non capisco il perché di tutto ciò e soffro per lui.”
Thomas prende il suo vino. Lo sorseggia con calma. Chiude gli
occhi. Come se stesse gustando il nettare più dolce della terra. Un
posto lontano da tutto. Un luogo dove è facile perdersi d’incanto,
come in una fiaba.

121
“È solo, Thomas? Non lo siamo tutti? Ha il tuo amore, la mia
ammirazione. Certo, anche se non condivido le sue idee. Non
solo la nostra, tu hai fratelli, sai? E molti restano affascinati da lui.
Molti.”
Siamo soli. Tutti siamo soli. Per un istante Monica si perde nei
suoi pensieri.
Una voce lontana. Un’immagine lontana…
“Siamo soli, tutti, Thomas.” aggiunge ancora. Poi si volta e lo
guarda.”Ascolta, Thomas. Sarò sincera. Non sono del tutto
convinta che lui non ti farà mai del male, o che non ti userà mai.
Come non sono convinta che non lo farà con me e con tutta
l’umanità che tanto cerca. Forse ci userà anche inconsciamente.
Ma potrebbe farlo. Anche con te. E sarebbe la tua fine. A me a
volte il suo amore fa paura. È soffocante. Ti soffoca… La sua luce
è particolare. Ma sono qui ora, nella sua casa. Con lui non ho mai
avuto problemi. È stato sempre gentile con me. Anche se non ho
mai taciuto le mie riserve nei suoi confronti. Lui lo sa bene.”
“Mi sta già usando, Monica. Udii quelle parole: io non ti
permetterò di morire! Gli servo, Monica. Gli servo… come lui
serve a me. Siamo uno squalo ed il suo pesce pulitore. Questa è la
nostra natura, ormai. Questa e mille altri ancora sono gli amori
che ci legano.”
Thomas allontana lo sguardo da Monica. Si perde ancora
nell’orizzonte che si apre dalla grande vetrata di fronte a loro.
Sulla terrazza. Con il profumo di salsedine che inebria le narici.
Con il rumore delle onde che sembrano sempre più vicine ad
infrangersi su di loro.
Un posto lontano da tutto. Un luogo dove è facile perdersi
d’incanto, come in una fiaba.
“Usarsi in questo modo forse vi tiene uniti e vi fa sentire meno
soli. Forse vi fa rispettare l’un l’altro. Ma in quali altri modi vi
amate? I vostri sguardi sono così intensi. E ieri, dopo che Raffaele
mi ha mostrato quella parte di sé… I Vostri sguardi erano molto
intensi. Più del legame di cui mi stai parlando ora… Vuoi
spiegarmi?”
“Amori. Amori insediati nella natura dell’uomo, Monica.
Amore nel trovare un compagno nella solitudine, nel farlo sentire

122
importante ed unico, nel farmi sentire vivo e fondamentale, nelle
opportunità che mi dona. Nella fatica che butto nelle cose che mi
chiede gentilmente di fare. Ancora in mille altri modi ancora…”
“Vi amate Thomas? Vi amate come un padre e un figlio, come
due amici, profondamente, o anche… anche come amanti? Anche
come amanti, Thomas?” Monica è imbarazzata. Ma questo non la
ferma dal continuare il discorso. Ormai sente che deve arrivare in
fondo.
Il vino intanto continua a deliziarle il palato. Le voci sono come
echi lontani e vicini. Il ricordo ancora di una voce. Ora lontana.
Lontana. Troppo, forse.
“Monica… Credo che una parte di lui mi desideri come l’aria
che respira.”
Thomas abbassa la testa leggermente. Sempre tenendo nelle
mani il suo calice tinto di rosso.
“E tu, Thomas?” chiede Monica con voce quasi tremante.
“Io, Monica? Io sono l’amore e l’odio, Monica…”
“Lo desideri, Thomas? Desideri anche tu quella parte di lui?”
Un posto lontano da tutto. Un luogo dove è facile perdersi
d’incanto, come in una fiaba.
“Io? Non posso desiderarla, Monica. Non riesco. Non posso…
Io desidero soltanto una cosa…” Thomas posa con lentezza il suo
calice. Si alza dalla sedia. Lo sguardo fisso negli occhi di Monica.
Si avvicina a lei con passo molto lento. Per occhi, il riflesso di un
deserto remoto. Una mano delicata si avvicina al volto di Monica.
Il Pathos stride ancora il suo magnifico accordo e le gambe del
dottore lo sorreggono di nuovo. Ancora. Monica resta immobile
senza emettere un suono. Ancora una volta un’immagine diversa
di Thomas davanti a lei. Un’immagine dalla quale resta ancora
una volta completamente rapita. Il nettare rosso e Thomas… Non
c’è altro ora davanti a lei e dentro lei. Non c’è altro ora in lei.
L’aria nella terrazza è densa di amore fuso a Pathos. L’odore
della spuma del mare è inebriante come un profumo afrodisiaco.
La mano di Thomas così calda. Il suo passo e il suo vigore
dimenticato. Lei chiude gli occhi e si perde in quella calda
carezza. Il calore penetra ancora dentro di lei. Come in quel

123
sogno perduto tra la sabbia. Come in quel sogno. Un sogno ora
provoca emozioni reali. Tangibili. Vere.
Due labbra carnose e pesanti, roventi e dolci come un siero
divino, si strofinano sulle sue. Un posto lontano da tutto. Un
luogo dove è facile perdersi d’incanto, come in una fiaba.
L’odore del mare permea l’aria completamente. La spuma che
fa sentire il suo delicato sciogliersi e ricrearsi. Tutto si fa reale.
Sensazioni vive, e odori, e suoni, che penetrano nelle narici, nelle
orecchie, e si insinuano lentamente fino all’anima. Una fitta
nebbia di emozioni li chiude in un cerchio mobile.
Flussi di emozioni dolci e delicate e forti e penetranti
circondano l’atmosfera. In contemporanea colpiscono le loro
menti, i loro corpi, i loro respiri.
In che tempo, in che luogo, in che dimensione i sentimenti si
sono fermati? Forse, solo dentro di loro. Puri. Come acqua
limpidissima.
“Le tue labbra, Thomas…” Il sussurro di Monica, persa nel
vortice delle emozioni che la rapiscono. Come acqua
limpidissima, lontana dal petrolio e dagli squali nascosti.
“Io… mi ricordo del tuo bacio… Monica…” La voce di Thomas
si infrange sulle labbra in leggero movimento. Il rumore delle
onde che si infrangono educate sulla vetrata accompagna i gesti,
come una dolce melodia i suoi ballerini. In quella coreografia
surreale e reale al contempo.
“Il tuo bacio, Monica. Lo ricordo nella mia mente. Adesso. Mille
volte più forte mi esplode nell’anima. Sei carne Monica. Sei
passione. Passione intrisa nelle mie membra.”
“Anche io, Thomas. Il tuo bacio caldo. Non l’ho mai perduto
nella mia mente.”
“Come potevamo scordare quel momento, quando NOI
eravamo DEI? …Monica.”
…Mentre ancora i gesti lenti si muovono in accordo con i suoni
circostanti, e mani che si toccano, e pelle e emozioni che si
infrangono…
“Il tuo bacio, Thomas, è mille volte più forte. Sì. Forte come una
nuova linfa, mi attraversa. Come il mio corpo lo sente ora. Come
mai la sola mente poteva sentire.”

124
“Come Adamo baciò Eva. Due anime in un mondo tutto loro.
Solo loro, Monica.”
Un mondo da plasmare nelle loro menti. Un mondo ancora da
definire. Un mondo loro da vivere a modo loro. Il loro sogno. Il
sogno lontano da ogni comprensione possibile tranne la loro. Il
sogno che nessuno ancora mai ha scoperto in loro. Un sogno nato
nel flusso del loro risveglio alla nuova vita. Da quanto tempo li
aveva rapiti? Il tempo. Non possono saperlo più nemmeno loro,
ormai.
Un sogno impossibile da imprigionare. Un sogno che
sopravvive anche a loro stessi. Un sogno libero, con voce propria,
che vaga nelle loro anime, con luce propria, senza legami. Un
sogno che si ribella ad ogni tentativo di essere soffocato.
Impossibile imprigionarlo, anche solo per un istante.
“Ho conservato dentro di me ogni tuo ricordo, AMORE…”
Thomas e l’AMORE. Monica e l’AMORE. Le parole echeggiano
libere nello spazio fra le loro labbra e il loro respiro.
“Amore… Ogni tuo sguardo rubato da lontano… Ogni istante
di silenzio confuso nell’eco delle mille voci che ci avvolgevano…
Le sensazioni della memoria sul mio corpo non sono
minimamente paragonabili a ciò che sento ora.”
“Questo è il nostro sogno. Quello che avevamo percepito era un
timido allarme, un avvertimento. Per prendere fiato in questa
apnea fantastica.”
Le parole echeggiano libere nello spazio fra le loro labbra e il
loro respiro.
“È dunque questo, l’AMORE? Allora non ho mai amato
davvero, prima di te? O forse esistono mille volti che l’AMORE
possiede… Un sentimento che esplode senza freni! Io vibro come
corde di violino.”
Thomas e l’AMORE. Monica e l’AMORE. Le parole echeggiano
libere nello spazio fra le loro labbra e il loro respiro.
“Siamo un solo strumento, Monica. Siamo un solo strumento
Thomas. L’AMORE è la nostra melodia. L’AMORE è la danza che
i nostri desideri stanno ballando, nella coreografia di questo
Sogno, che è nato a prescindere da noi.”

125
Monica accarezza con dolcezza la nuca di Thomas. Le sue mani
entrano in profondità e si muovono leggere, stringendo e
carezzando i suoi capelli. I capelli di Thomas. I suoi capelli girano
gioiosi tra le sue dita. Si attorcigliano come piante rampicanti,
desiderose di andare lontano.
“Monica…” Thomas assapora quei brividi prodotti dalle sottili
unghie della donna. Perso nel suo sguardo. In quella passione che
stava crescendo.
“Monica… Io ti desidero… Semplicemente… Semplicemente…
Ti desidero…”
“Thomas…” Le labbra di Monica sussurrano nelle sue orecchie,
mentre respira l’odore che come musica la sua pelle emana verso
di lei.
“…AMORE MIO…” Thomas muove la testa tra le sue mani.
Come un gatto desideroso delle carezze del suo temporaneo
padrone, amico, amante.
“Sì, Thomas… AMORE MIO…”.
“Con te ho imparato che il tempo non ha confini. Non ho più
paura del tempo. Dove sei, con chi sei… Non ha importanza. Sei
dentro di me. Ti sento ora come un pugno nello stomaco. Un
dolore sottile e robusto e meravigliosamente piacevole mi
accarezza.” Le parole echeggiano libere nello spazio fra le loro
labbra e il loro respiro.
Un posto lontano da tutto. Un luogo dove è facile perdersi
d’incanto, come in una fiaba.
Le mani e le braccia seguono i movimenti del desiderio. Le
braccia di lei lo avvolgono completamente.
Thomas chiude gli occhi, stringendola con un innaturale vigore.
Monica poggia la testa sulle sue spalle, come nel loro sogno,
mentre con le mani libere ancora si fa spazio con le dita sulla sua
pelle nuda e calda.
Con una nuova dolcissima forza che lo rende VIVO…
finalmente… Thomas avvicina ancora le sue labbra a quelle di
lei… Assaporando senza fretta quell’antico sapore del migliore
dei vini.

126
Monica apre e chiude le labbra, per sentire ogni piccolo istante
di quel momento eterno. Lui le morde teneramente quei
dolcissimi lembi di carne caldissima.
“Nulla, nulla è stato mai più gustoso alla mia mente, alla mia
bocca, che il tuo sapore.” Le parole echeggiano libere nello spazio
fra le loro labbra, il loro respiro e la loro pelle. Thomas piega
lentamente il collo. Dolcemente, come un canto di voci bianche.
La sua bocca bacia il collo di lei, strisciando leggera verso
l’orecchio. Monica chiude ancora gli occhi. Thomas apre la bocca
in un sussurro leggero. Ogni singola parte dei loro corpi è
sospesa nel vortice che li avvolge delicato. Librati in aria. La
sensazione di nuotare.
Quel respiro potente e dolcissimo urta leggero, con tutta la sua
passione, l’orecchio di Monica. La passione che entra da quella
soglia per spargersi delicata dentro di lei. Difficile far uscire
ancora suoni dalla bocca. Tutto si perde in una danza sinuosa al
tocco degli amanti. Tutto si perde nei loro respiri leggeri.
“Thomas… La macchina delle emozioni, Amore, ricordi? Ora
potremmo registrare come un film tutto questo. Riviverlo ancora,
ogni istante desiderato.”
“Ora potremo vivere le nostre emozioni, Monica…”Le parole,
sempre più a fatica, echeggiano libere nello spazio fra le loro
labbra, il loro respiro e la loro pelle. Un respiro profondo di
Thomas. Un timido morso al lobo destro, morbido.
“Viverne sempre di nuove…” Le parole, sempre più a
fatica…Un altro respiro. Più profondo del primo. Stupendo, più
del primo. Più sensuale del primo.
“Sempre più forti. Sempre più vere…” Le parole…Il respiro era
fuso con il suo. L’istinto più profondo e più naturale scuoteva
Thomas da dentro…
Il respiro di lui entrava dentro di lei. Difficile, impossibile ormai
controllare ogni singolo movimento del corpo e dei sensi, mentre
le sue dita, come fiori mossi al vento, accarezzano la schiena di
lui. Impossibile ritrarsi dalla tempesta che la colpisce, dal vortice
che la avvolge.
Accarezza la pelle di Thomas, così morbida, così calda. Ogni
carezza uno scossone di emozioni che la colpisca in tutta se

127
stessa. La bocca di Thomas esita ancora un attimo sul lembo
caldo del lobo. Torna seducente verso la linea del mento, liscia
come seta. Sale verso il bordo superiore del labbro, succhiandolo,
ed incatenando la sua bocca in una tenera e rovente prigionia. Le
mani di Monica salgono piano, non tralasciando nulla al loro
tocco durante il percorso stabilito, senza un obiettivo preciso.
Carezze accurate. Carezze dettagliate. Mani tremanti che tornano
ai capelli. I capelli di Thomas…Le braccia di Thomas la cingono
da dietro. Forti. Con ampi gesti circolari fa scorrere le dita
morbide sulla camicia, formando onde e pieghe suadenti. La
camicia sembra sgusciare di propria volontà da una spalla di
Monica. Mentre la bocca ansimante la bacia su quel nuovo punto
di passione.
Quella spalla scoperta, rotonda e liscia. La lingua passa
timidamente ad accarezzare la fossa del collo, tra la scapola e la
nuca… Per scendere a bagnare la spalla. Le labbra di Monica si
tuffano con decisione, perdendosi ancora tra i capelli di lui. Le
dita danzano ritmate dai loro respiri. Unico suono che si perde
nella terrazza.
L’unico suono che sente o percepisce. Ogni movimento tra i
suoi capelli le provoca un sussulto Un timido morso di Thomas,
ancora, sulla pelle morbida e vellutata. La camicia scivola via,
addormentandosi come un drago di seta sulla terrazza. Un
piccolo gemito esce timido dalle labbra di Monica. Un piccolo
gemito che immediatamente lascia il posto alla passione sfrenata
che le cresce dentro. Le mani si aprono dietro di lei. Grandi. Forti.
Prepotenti e gentili. Le stringono i fianchi, per poi salire
incrociate verso la schiena. Gemiti, ancora. Più forti.
Le mani di Thomas, agitate da nuova musica, cominciano a
stringere a sé il suo corpo fremente. Ad accarezzare, ancora e
ancora. Un suono improvviso, come di un filo tranciato. Gli occhi
di Monica, mai aperti, per sentire con l’anima ogni piccola
emozione esplodere dentro. L’eco di un’onda alle loro spalle, ed
una strisciata di palline candide e lucenti cominciano a ballare
cadendo sul pavimento. Un altro, ancora ed ancora… un altro.
Il rumore delle piccole sfere striscianti sul filo grigio è un
gemito di passione. Le piccole perle bianche saltellano sul

128
pavimento, salutando la nudità di Monica. La bocca di Thomas
non smette di baciare nessuna parte di quella donna, la passione
fatta carne. La bocca, le mani, tutto il corpo di Monica vibra
incontrollato al contatto della pelle di Lui. Adesso le sue labbra
assaporano il seno di Monica, inclinando il capo con lentezza
estenuante. Le mani tra i capelli di lui. Ancora. Mentre il suo
calore si muove lento su di lei, che ancora posa le labbra sulle sue
spalle, per fermarsi su quell’odore di corpi nudi.
“Io… IO TI AMO.”
I seni di Monica, al contatto delle labbra di Thomas, pulsano
come entità indipendenti. Un corpo mosso in ciascuna sua parte
dalla totalità di una vita. Con la lingua Thomas disegna piccoli
cerchi intorno ai seni lisci di Monica. Morbidi e sodi. La schiena
di Thomas. Le sue mani non perdono mai la rotta stabilita dai
sensi. Le unghie delicate accompagnano i suoi movimenti in
armonia. Per passare ad accarezzare le sue guance di seta.
Ancora le mani di lei si lasciano rapire dalle spalle di lui. Un
istante di esitazione ancora. Si posano e si addormentano ancora
un istante sulle sue spalle. Lentamente riprendono la marcia,
come fili d’erba mossi dal vento leggero. Sollevano delicatamente
i lembi della vestaglia che accarezza il corpo di Thomas, e con la
stessa calma accompagnano la discesa di quel tessuto morbido,
che abbandona il suo corpo lasciandolo nudo.
Thomas esita un istante, poi con un unica linea la lingua
disegna una retta che parte dal seno arrivando alle labbra.
Sembra ritrarsi al contatto della bocca. Lei afferra le sue labbra,
un morso leggero. Bagnarle piano con i movimenti della lingua,
che disegnano piccoli cerchi e curve disarmoniche, senza fissa
meta, seguendo solo il desiderio dettato dalla spasmodica ricerca
di quel sapore, ancora.
“TI AMO, Monica….” sussurra in attimo di immobilità estrema,
con gli occhi di nuovo persi nell’infinito dei suoi. Sapori, odori.
Così nuovi, così antichi nei loro ricordi. Due corpi nudi. Pelle
nuda. Calore. Sensi. Passione. Amore. Il calore dell’altro. L’odore
dell’altro. Il desiderio dell’altro. Il desiderio per l’altro.
“Sì… AMORE… e ancora… ancora…”

129
Un’unica parola che si perde nell’emozione dello sguardo di lui
negli occhi di lei. Come una valanga di emozioni, brividi dagli
artigli di cristallo graffiano le loro schiene, quando il contatto
delle loro nudità li scuote con il calore del fuoco. Il respiro ormai
è come il battito impazzito del cuore. I suoni si fondono tra loro, e
così gli odori.
“Nulla, nulla è stato mai più gustoso alla mia mente, alla mia
bocca, che il tuo sapore.”
Non è più possibile controllare. Fermare. Sottrarsi. Non è più
possibile, ormai. Il rumore del mare. Il suo profumo di salsedine.
I loro corpi. Il calore del contatto. L’odore. Il respiro. Ancora il
suono dei movimenti. Un tutt’uno. Il desiderio è come un fuoco
che arde incontrollato. Il battito cardiaco accelerato rimbomba
nell’eco del respiro. Primordiali istinti si impossessano dei due,
mentre si avvicinano stretti, senza mai staccarsi da
quell’abbraccio di fuoco, verso il bordo della finestra.
Con un gesto rapido e deciso, Thomas solleva Monica
stringendola per i fianchi. Quel giovanile vigore inaspettato la
stordisce. Immersa in quei baci profondi. Persa in quei baci
profondi. Il vento prende ad accarezzare la schiena di Monica,
dalla finestra aperta dietro di lei, per lasciare entrare i suoni del
mare sotto di loro. Tutto si impregna dei loro profumi, mentre
liscia i capelli di Thomas mossi dal vento, scoprendogli il volto.
Thomas, la sua forza. Un nuovo uomo ora, davanti a lei. Un
uomo desiderato da sempre. Un desiderio tenuto legato in eterno
che comincia a liberarsi. Il suo volto.
“Ti desidero, AMORE… Non posso più stare fuori da te.”
Le loro nudità si incontrano. Monica guarda Thomas
intensamente. Solo un istante, e in quello sguardo lui capisce che
in lei arde lo stesso desiderio. La sua carne bacia sfregandosi con
le sue carni. Piano… Lentamente… Ancora il respiro sale, piccole
perle di sudore cominciano a fondersi sui due corpi. Corpi uniti.
Corpi serrati. Corpi compenetrati. Mani agganciate alle spalle di
lui. Il vento ancora le solletica la schiena. I capelli di lui, mossi dal
vento, che le accarezzano confusamente la pelle. Una carezza di
carne, una stretta rovente. Un dolore. Il piacere di quel contatto

130
mai provato con la donna che desiderava da troppo tempo.
Lentamente, cercando di controllare ogni movimento.
“Thomas…!” Il suo nome quasi urlato e soffocato insieme. Un
contatto che spezza respiri.
“Mo…nica…” i muscoli si contraggono. Il contatto interno
diventa piacere folle. Caldissimo. Quasi impercettibile il divario
dei corpi differenti. Thomas getta il suo volto tra il collo e la
spalla di lei, mentre estende il collo per godere di ogni attimo, di
ogni vibrazione.
Monica chiude ancora gli occhi per perdersi, per non pensare.
Thomas, parte di lei. Ogni piccolo movimento la fa impazzire. Il
desiderio di lui è sempre più forte, e sempre più deve controllare
la sua forza istintiva di possedere tutto il suo essere.
“Lasciati andare, Monica… Lasciati anda…re…”
Volti uniti, si sfregano come tutto il loro corpo. In un
movimento antico, l’essenza della passione. Thomas entra dentro
di lei con la passione di un’onda.
“Impazzisco, Thom..as.. per t..e…”
Il respiro gli muore in gola, mentre il calore lo brucia come carta
sul fuoco.
“Non usci..rei….MAI….dal …tuo..C..orpo…MAI….”
Il calore. Il fuoco. Il calore ancora. Esplodeva. Libero. Lei si
stacca dall’abbraccio e posa le mani sulle sue spalle per
accompagnare i movimenti di lui.
“Non usc..ire..ma..i am..ore Ti..preg..o”
Come un leone, rabbioso in natura e schiavo del suo istinto,
corteggia pieno di gentilezza la leonessa, Thomas cade in preda
all’antica fiamma della passione. Piccoli morsi e profondi graffi.
Lei, serrando le spalle e non controllando più il desiderio di lui,
lentamente lascia penetrare le unghie nella sua pelle. Movimenti
leggeri, come cullati. Cullati dai sensi e dalla passione, unici
complici di quegli istanti.
Movimenti più sfrenati per sentire ogni volta il fuoco che li
possiede ad ogni movimento. Si stanno amando come mai
avrebbero immaginato. Un sogno reale. Un sogno irreale. Un
sogno…La parte animale, nascosta nell’uomo, prende la sua

131
rivincita sulla razionalità che la lega in cravatte ed in cappotti
pesanti.
Movimenti forti e prepotenti sono l’essenza della passione e
della dolcezza… ogni volta che le loro carni si sfregano, un pezzo
di uomo muore per far nascere piacere. Nessun luogo. Nessun
concetto di tempo. Gambe serrate abbracciano i fianchi di lui,
mentre ondeggia seguendo il ritmo del mare. Solo il rumore del
respiro, e del corpo che si muove ritmicamente in un ballo
primordiale. Cambiando di ritmo, di tonalità, di velocità. Ora una
carezza gentile. Ora una corsa sfrenata… Per restare. Per
fermarsi. Per sentire tutto il loro Amore, prepotente e dolce,
fermarsi.
Quanto tempo è passato, dove sono adesso? Lo spazio sono i
loro corpi fusi… il tempo il piacere che smembrava l’anima… Il
tempo. Cos’è il tempo?
Solo come un lembo leggero tutte le emozioni scaturiscono dai
loro corpi e si alzano intrecciandosi. Il tempo. lo spazio. Le
dimensioni. Si perdono, e restano incantati ad osservare l’amore.
Il loro amore sembra non avere mai fine… movimenti decisi…
desideri remoti che tornano con passione crescente… gemiti
decisi… escono dalle labbra… mentre gli occhi si contorcono
perdendosi senza sosta…
“Nulla, nulla è stato mai più gustoso alla mia mente, alla mia
bocca, che il tuo sapore.”
I capelli si muovono uniti nel loro primordiale ballo. Un piccolo
canto dalla bocca di Monica.. una melodia che lei aveva
dimenticato. Di nuovo le sue braccia strette a lui. Quasi a volersi
fondere con lui. Il respiro sempre più profondo, pura passione
spinta nell’aria…
“Mon..ica….”
“Tho…m..a..s”
Ogni sillaba scandita da una spinta di lui mentre lei gli va
incontro, in una complice danza di passione.
Non c’è più respiro. Respiro che esce e si ferma anch’esso a
guardare la loro lotta amorosa. Una lotta e una danza al tempo
stesso.

132
Dall’alto i loro corpi appaiono come uno. Uno solo. Due e uno.
Cosa sono in questo momento? Un Uomo ed una Donna. Lei che
accoglie lui, tutto, nelle proprie carni roventi. Un unico essere
ansimante di passione.
Si accolgono ancora. La Natura ha elargito uno dei doni più
belli a due creature che per lungo tempo si sono dimenticate di
esistere. I muscoli cominciano a fremere e ad irrigidirsi, scossi
dalla passione ormai incontenibile. Ogni volta che Thomas si
avvicina con decisione a lei, le due anime si fondono in una,
perdendosi. Ad entrambi sembra di udire ogni suono l’una
dell’altro. Di percepire ogni emozione l’uno dell’altra. Ogni
ricordo. Ogni dolore. Ogni piacere.
Unghie serrate e pregne della loro pelle. Spasimi… Spasimi che
donano nuova passione e forza. Movimenti sempre più decisi e
precisi. Come richiamo di antiche memorie. Gesti perfetti che li
portano verso il piacere immenso. Il cielo si sta schiarendo.
“Sei in m..e.. Th..omas…”
“…..Son..o…..T..E……..MOn…i…ca….”
“..si..i..i..IO…SoNo..te..si..i”
Il flebile calore del sole si affaccia timidamente sui due corpi
uniti. Dietro l’orizzonte del mare coperto dalla notte, già un
timido raggio fa capolino…
“…sI….Am.OR…E…….”
Calore. Sole. Vibrazioni. Luce. Corpi compenetrati fino allo
spasimo.
“…StIa…mo……SorGe..Ndo…Anche NoI….AM..O..rE……..”
Le parole ricominciavano lentamente ad affacciarsi con
loro…Movimenti frenetici. Rapidi. Forza animale. Passione
incontenibile.
“Re..sta…dent..ro..di m..e…”
Calore. Fuoco. Calore come magma. Corpi intrisi. Carni
frementi e bagnate. Carni ansimanti. Esplosioni roventi.
…E la quiete…Lusinghe del corpo, in strette roventi.
Aggrappati uno all’altra. Con movimenti leggeri che ancora li
permeano. Getto di passione che ancora li unisce, azzerando il
limite dei corpi divisi. Thomas. Respiro corto. Respiro spezzato.
Respiro che muore e nasce sul collo di Monica. Labbra. Le labbra

133
di lui. Ancora le sue labbra, accarezzano pelle ora morbida.
Muscoli rilasciati. Lentamente in riposo. Una stretta potente con
le braccia la cinge di nuovo. Le sue braccia lo avvolgono ancora.
“AMORE mio…”
Un colpo leggero. Nuovo ancora quel calore. Un sussurro
leggero e voce limpida e calda. E il sole decide di alzarsi con
quelle parole. Un lampo di fioca luce, sembra la luce di una stella
nei fianchi di Thomas. Lei si volta a guardare il sole. Poi ancora
negli occhi di lui. Sorridendo.
“Ti…A.mO……RaG..Gio…..Di ..SOLE…….”
Le sue mani accolgono il suo viso. Un bacio ancora. Leggero.
Sulle labbra poi sulla fronte. Ancora i suoi occhi. Gli occhi di
Thomas. Lui si abbandona tra le sue braccia, inclinando
lentamente il volto. Si struscia senza tempo sul suo collo di seta,
sente il suo sangue pulsare forte sulle sue guance. Lei si lascia
cadere dalle sue braccia e si volta a guardare il sole. Thomas
scivola alle sue spalle, cingendola da dietro. Le mani di Monica
prendono le sue e si fanno avvolgere completamente. Il petto di
lui contro la schiena di lei.
Il sole sta nascendo, con la velocità ipnotizzante dell’alba. Le
dita di Thomas strofinano quel ventre liscissimo e piatto. Le mani
di lei stringono quelle di Thomas. Entrambe poggiate sul suo
ventre.
“Un nuovo giorno… Mi sembra di nascere oggi… Thomas…”.
“Siamo nati oggi… Monica… SIAMO…”
Le mani sottolineano quella strana parola: SIAMO…

134
VIII. L'ULTIMO RESPIRO DI THOMAS
di Thomas Kaneirzein e Monica Rewinsky
(Terzo in comodo Lord Raphael)

Il respiro diventa sempre più debole. Un flusso di ricordi.


“Sto morendo… e non capisco perché… sento solo freddo ed il
respiro che si affievolisce…”
[È il dolore più acuto e meraviglioso che io abbia mai provato.
Non ho paura di nulla, e nell'attimo della disperazione di
perderti cresce la fierezza per il sentimento che proviamo. IO TI
AMO. TU MI AMI, THOMAS. Nella morte, l'attimo più sublime
dell'amore. Siamo stati scelti da mani superiori per questo…]
[Ma vorresti sempre tornare indietro… di un secondo
soltanto… Per un ultimo bacio ancora. Monica… E se mi stessi
spegnendo perché lo voglio? Padrone della mia morte e della mia
vita… Se avessi deciso di morire… senza suicidarmi? Spinto solo
da quella forza…]
È solo, tra le mura rosse e i pilastri della falsa cattedrale dai
vetri colorati. Solo, in una stanza d’ospedale.
Il respiro è sempre più lento. Non ha droga nelle vene… il
sudore lo bagna. E sa, sente che oggi morirà.
Non fugge, non scappa a quel freddo… La aspetta con l’amore
nel cuore… E lei arriva.”Io sono accanto a te… lì con te… La tua
Monica è accanto a te.”
Gli tiene forte la mano. Asciuga il suo sudore e canta una
canzone dolcissima, solo per lui, perché la paura si allontani.
Thomas chiude gli occhi. Le mani tremano. La droga lo reclama.
Ma lui è forte nella sua stretta… E resiste all’astinenza… Nel
silenzio di quel freddo. Monica lo bacia delicatamente in volto.
Sente il richiamo della droga che fa fremere il suo corpo. Lo
stringe. Non sarà l’eroina la sua ultima compagna. Thomas lo
sa…
E la mano debole stringe con tutta la sua disperazione le dita
morbide di Monica… Nel letto dell’ospedale, è coperto da un
lenzuolo di lino bianco fino alle spalle… Un pigiama semplice e
regale, del nero più profondo, di raso a strisce verticali, fascia il

135
suo corpo… I capelli, adagiati sul cuscino, cingono il suo volto
sudato come una corona… Il suo corpo ha vissuto 29 anni… A
volte il suo sguardo nascosto nel dolore dimostra secoli… Ma
anche l’espressione di un bambino appena nato…
I capelli di Thomas. Monica li prende tra le mani e si accarezza
il volto con essi. Ancora il frastuono lento e gentile dell’amore
dentro di lei. Mentre sente la vita che le nasce in grembo. Mentre
sente che la sua vita si perderà quando lui, il suo amore, non le
donerà più un respiro… nessuno più.
Le labbra secche e screpolate dalla febbre. Un bacio ruvido e
morbido sul dorso della mano. Ruvido…
[Mai le tue labbra, anche se sanguinanti o spaccate, saranno
ruvide al mio tocco. Porto nel cuore il tuo odore. Le tue labbra
sono la mia panna... in qualunque modo esse siano ridotte.]
Occhiaie rivelatrici cominciano a mostrarsi sul suo volto…
Leggeri fremiti… Gli occhi chiusi… Cosa vedeva, in quel
momento? …Quanto Amore aveva quell’uomo che aveva sfidato
la Morte, il Mondo, la schiavitù della droga per Monica? Quanto
Amore può provare un uomo?
“No! Thomas!”
Le lacrime di Monica solcano profondamente la sua pelle, e
cadono a rallentatore sulla fronte di Thomas. Una stretta
fortissima. Come se servisse ancora a riportare in vita la sua
stessa vita…
“No… Non lasciarmi Thomas… no…” E poi un sorriso.
Di ammirazione per la sua forza. Poi ancora una lacrima e
dolore. Quanto, quanto può amare una donna…? Quanto…
“…No..n……Ti…..LAscErò….MAI………” E la mano sempre
più debole cerca di stringere il suo palmo… Gli occhi si aprono e
le lacrime scesero come rugiada…
“…MAI……”
Le lacrime. Quelle stesse lacrime con le quali Monica si era
dissetata ancora altre volte. Quello sguardo. Quegli occhi.
Quando ancora il Pathos non conosceva il loro amore. Il loro
amore che germogliava dentro di loro a loro insaputa, esploso
come una quercia nel delirio della fine… Dell’ultima grande
prova…

136
“Ti amo, Thomas. Sarò bandita da tutti… Mi scacceranno. Ma io
TI AMO e non ho paura… Resta sempre dentro di me, amore
mio, sempre…”
“VIVI…lOn.TAno….Da…Tut.ti…” Deglutì con fatica… Le ossa
erano grattate dagli artigli dell’eroina…Ma non smise di
parlare…
“…SarAi……BeLl..issim..a……….”
“Thomas, non parlare… ti prego riposa. Non parlare. Saprò
cosa fare. Voglio solo stare qui, accanto a te. Ad adorare la tua
presenza. Io non posso vivere senza te. Voglio stare accanto a te.
Accanto a te, Thomas… vorrei dimorare sui tuoi passi. Vorrei
camminare, guardare con i tuoi stessi occhi. Non m’importa se il
mondo ti vede folle. Tu sei la mia STORIA, la più eccelsa. Sei la
mia grande poesia, celata nella mia anima. Dall’orrido è nato il
succo più dolce che palato mai abbia gustato. La vita si beffa di
noi… Io sono qui a disperare per la tua morte. Io sono qui a
decantare la tua vita. Io sono qui a commuovermi per l’amore che
mi hai dato. Quello che terrò sempre dentro di me.”
Un timido sorriso squarcia la sua maschera di sudore e di
male… Quel sorriso forte, guidato da quella donna… Che, nel
dolore e nella gioia… Ama. Il respiro si fa ancora più flebile…
Chiude gli occhi… E si addormenta con la mano stretta nella
sua…
“Nooooooooooooooooooooooo!!!! THOMAS!!!!!
NOOOOOOOOOOO!!!”
Il corpo ancora caldo. L’ultimo respiro che Monica ha inalato
dentro di se. Le sue mani lo scuotono. Poi si fermano. Si
accovaccia sulle sue spalle. Accarezza il volto e i capelli. Ancora
mille baci, come mille petali che volano al vento. Ancora un po’
del suo calore… Quell’ultima stretta…
[RENDIMI ETERNO…]
Le parole di Thomas sono nella sua mente come macigni…
Monica ancora stringe tra le braccia il corpo senza vita di
Thomas. Il rumore delle lacrime è assordante e riempie la vuota
stanza… Le lacrime che toccano il volto di Thomas. Quel volto
che finalmente è rilassato. Stende con le mani le sue lacrime sulla
sua pelle.

137
“Ti renderò Eterno, AMORE.”
Il dolore che le squarcia il petto ora non è nulla in confronto…
alla desolazione della mancanza del sentire ancora il suo
respiro… Un ultimo ancora…

*******

Il dottor Thomas Kaneirzein si spegne a Barcellona,


all’Ospedale di San Paolo, il giorno 8 Dicembre 1999, nel più
completo anonimato e in segretezza. Nonostante le sue cattive
condizioni di salute, l’effettiva causa della sua morte è ignota. Il
suo rapitore-mecenate Raffaele Venosta, impegnato sul lavoro,
sarà raggiunto dalla notizia oltre 30 minuti dopo il decesso.

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IX. ULTIMA LACRIMA
di Monica Rewinsky

Il SUO AMORE per ME… IL MIO AMORE PER LUI…


Il vento accarezzava i miei capelli.
Non un abito nero.
Il nero dell’angoscia.
Il nero della rabbia.
Il nero dell’ODIO.
L’odio che avevamo SCONFITTO INSIEME.
Il NERO. Il nero che ha torturato IL MIO RESPIRO, LUI, per
tutta la sua esistenza.
Il Nero che lo ha legato, torturato…
Indossavo il colore Rosso, rosso come la NOSTRA passione.
La passione per la vita, per ME.
Fu così che scelsi un abito rosso.
Roma.
Il “parco” del Verano era bellissimo quella mattina.
La follia permeava la mia mente.
Ero in un cimitero.
Ma sentivo il cuore leggero.
Mi inginocchiai nella terra umida lentamente, un raggio di sole
mi colpì le labbra.
Socchiusi gli occhi. Thomas: amore mio…
Gli occhi socchiusi, le piccole lacrime che scivolavano fino al
collo per poi cadere e penetrare nel terreno umido.
Le ginocchia immerse nella terra. Le mani. Le mie mani
sondavano la terra. Potevo guardare quella fossa sotto i miei
piedi.
Il sole come la carezza di Thomas continuava e solleticarmi con
dolcezza.
“Raggio di sole”. Sentivo ancora l’eco delle sue parole nelle mie
orecchie.
Nella mia anima.
Il suo profumo tra i miei capelli.
Il suo profumo…

139
“Siii.. ohhh si.. Raggio di sole…”. Un sorriso. Poi una risata.
Il passato mi scivolava davanti come un ruscello.
Lento e zampillante pieno di vivacità e suoni guizzanti.
Così era stato Thomas nella mia vita.
Potente come un tuono e leggero e trasparente come l’acqua.
Difficile a dirsi?
Lui che era “il male incarnato” per tutti quelli che non
vedevano oltre.
Difficile a dirsi per occhi fragili.
Difficile a dirsi per mani vuote.
Difficile a dirsi per chi sonda solo in superficie e non si inoltra
mai.
L’immagine della sua vestaglia rossa che non voleva saperne di
scivolare via dalla sua pelle per lasciarmi il campo libero.
Scoppiò nella mia testa.
Come un fotogramma impazzito tra i ricordi confusi.
Scoppiai in una risata senza freni.
Mentre le piccole e leggere lacrime scendevano.
Vidi il suo volto sorridere davanti a me…il suo volto.
“Non…Ti…LAscerò….”
“MAI….”
Le sue parole.
La sua voce ancora dentro di me.
Gli occhi si posarono ancora nella fossa.
Raffaele era fermo sul lato opposto al mio.
Immobile. Come pietra.
Il suo sguardo allucinato e pregno di dolore.
Non vedeva altro che dolore.
Il più piccolo sforzo di vedere un po’ di speranza era morto in
lui.
Thomas era morto in lui.
Thomas era morto per lui.
Thomas era morto per me.
Raffaele aveva perso ogni speranza.
LUI, lui che voleva essere come un uomo, aveva perso l’unica
ragione di vita di un uomo. La Speranza.
Scoppiai ancora a ridere.

140
Una risata isterica.
La sua immagine patetica.
Mi sembrava un bambinone a cui avevano rotto il giocattolo
preferito.
Tutto era follia nella mia mente.
Il vento scivolava ancora tra i miei capelli.
Tra i miei seni. Tra le mie gambe.
Lo sentivo come il ricordo caldo delle sue carezze.
Ancora Thomas in me…
“Non…Ti…LAscerò…”
“MAI….”
Le sue parole.
La sua voce ancora una volta dentro di me.
Con le mani intrise di quella terra umida, la stessa terra che
avrebbe coperto per sempre il suo ricordo mortale.
Cominciai a toccarmi le gambe con quelle stesse mani.
La terra imbrattava le calze velate che rivestivano le mie gambe
irrigidite dal freddo.
Il sole e le mie risate isteriche. Le mani e la terra sul mio viso.
Si muovevano piano. Raffaele mi guardava sbigottito.
Avrà pensato che forse Thomas mi aveva lasciato la sua follia.
Lo guardavo e sorridevo.
Tutto era in me. Mi riempivo di sole, di terra.
Raffaele guardava in silenzio.
Lui che voleva essere come un uomo. Come un uomo!
Ancora una volta scoppiai a ridere istericamente.
Il frassino. Quella bara di frassino chiaro.
Immobile sotto i miei occhi.
Per un istante m’invase l’assurda follia di aprirla. Guardare
ancora Thomas.
Quel corpo senza respiro. Il respiro… Il respiro di Thomas…
Il vento mi accarezzava i capelli volavano in una danza
armoniosa.
A destra a sinistra. Il respiro di Thomas…
Una rosa bianca mi attraversò gli occhi.
Una mano delicata sulla mia spalla.
Abel Caine. Mi voltai.

141
Mi sorrise.
Posò la bianca rosa accanto al feretro. Mi donò un petalo di
quella rosa.
Poi se ne andò sorridendo a Raffaele in silenzio, come era
venuto.
Palpai piano quel petalo. Sentivo il calore della pelle di Thomas
che entrava dentro di me. I ricordi erano vivi. Forti. Un sussulto
dal mio ventre.
La mia mano si posò su lui.
La mano di Thomas sul mio ventre. Un ricordo vivo.
Thomas alle mie spalle. Thomas e il suo respiro.
“Non…Ti…LAscerò….”
“MAI….”
Ancora le sue parole in me.
Angelo De Sarzana era immobile al fianco di Raffaele.
Anche lui mi guardava in silenzio. Sentivo che capiva ciò che
provavo.
Mi sdraiai completamente sulla terra. Accarezzata dal sole e dal
vento.
Non sentivo più freddo.
Facevo l’amore con gli elementi della natura.
In loro cercavo ancora Thomas.
Nella mia follia Thomas era in tutto ciò che mi circondava.
Quell’amore non era svanito nel nulla. Ne ero invasa. Dentro e
fuori.
Il sole e il vento mi baciavano piano…ancora.
Le labbra di Thomas nei miei ricordi.
Le sue labbra fisse e nelle mie.
Thomas, dentro e fuori di me…
Noi ora eravamo uno. UNO solo…
Il suo respiro era il mio… il suo respiro viveva in me, con
me…per me.
AMORE, Amore… l’ultima parola sussurrata e poi la terra celò
tutto.
La odiai. Lui ora era suo.
Una parte di lui gli apparteneva.
Mi alzai. Lanciai in aria tutti i fiori che Raffaele aveva comprato.

142
Una serra. Le rose, le margherite, i tulipani i mille colori che
ricoprivano quel luogo. L’allegria del suono dell’AMORE che mi
circondava ancora legata al dolore della sua scomparsa.
Assurdo. Vero. Surreale. Vero.
Un DOLORE immenso, una GIOIA immensa.
Come potevo piangere ancora sentendo tutte quelle emozioni
che mi aveva incarnato IL SUO AMORE così in profondità.
Come i miei occhi non capivano.
Come si ostinavano ancora a piangere.
Lui non era morto.
Lui era morto.
Ballare. Cantare.
Sognare ancora, forse…
Sognare Ancora.

143
LA FATA DEI DENTINI
di Marco Filipazzi

Il sottile rumore di drappi sgualciti si mischiava al minuscolo


tintinnio d’avorio.
Un suono quasi impercettibile ma sufficiente per scuotere il
sonno precario e pieno di eccitazione di Davide. Quel pomeriggio
era stato dal dentista. Un uomo alto e allampanato, bianco come
un cero, con i capelli sale e pepe, i denti ingialliti da troppe
sigarette e l’alito in un misto di tabacco e menta.
Sulla punta del naso rapace poggiavano sottili occhiali
attraverso i quali scrutava nella bocca aperta del ragazzo.
Quando l’uomo aveva afferrato un paio di pinze uguali a quelle
che il papà usava per aggiustare la bici, Davide era scoppiato a
piangere.
D’altra parte era il primo dentino che toglieva.
Il dottore e la mamma lo avevano rassicurato, dicendogli che se
avesse fatto il bravo la Fata dei dentini gli avrebbe portato un
regalo. Però doveva comportarsi da ometto.
Certo, a Davide l’idea del regalo lo allettava parecchio, perciò si
fece coraggio e respinse la paura.
L’operazione fu istantanea ed indolore. Il dottore mostrò il
dente a Davide, il quale non seppe se provare gioia o orrore.
Sua madre lo prese con cura avvolgendolo in un fazzolettino di
carta e infilandoselo in tasca.
Quando Davide aprì gli occhi nel cuore della notte, destato da
quel leggerissimo rumore, il dentino era lì sul suo comodino,
dove lo aveva messo prima di addormentarsi.
E poi c’era lei. In piedi, davanti al letto.
Si muoveva come portata dal vento, con i piedi nudi che
sfioravano appena il pavimento.
La Fata dei dentini.
Non era per nulla come Davide se l’era immaginata.
Era magra in modo innaturale; uno scheletro coperto di pelle
bianca come la luna, come se quella pelle fosse stata custodita in
cantina e non avesse mai visto la luce del sole.

144
Indossava un abito argentato, antico come la notte, logoro di
innumerevoli secoli di girovagare; i cui drappi sgualciti si
muovevano come bandiere al vento. Solo che nella stanza l’aria
era immobile.
Intorno al collo e alle braccia, lunghe e sottili come rami secchi,
portava collane fatte con i denti di innumerevoli generazioni di
bambini. Si attorcigliavano intorno alla gola, lungo le braccia,
ricadendole sul petto. Anche gli orecchini erano di denti, così
come la corona poggiata sul cranio calvo.
I suoi occhi erano di un bianco glaciale, in cui spiccava il nero
antico delle pupille.
Davide la fissò, sentendo il sangue ghiacciarsi nelle vene, e lei
ricambiò lo sguardo sorridendo, distendendo le labbra violacee,
dure, la cui pelle si ruppe come ghiaccio.
La sua bocca era un ammasso di gengive purulente, sdentate,
accarezzate da una lingua gonfia e viola.
La Fata dei dentini si mosse verso Davide sinuosa come una
serpe, protendendo le dita nodose e inanellate di denti antichi
quanto il mondo.
Le unghie erano frammenti di vetro nero che emergevano dalla
carne delle dita.
Davide si tirò la trapunta sopra la testa, rannicchiandosi sotto le
coperte.
Aveva il cuore in gola. Lo sentiva pulsare.
Chiuse forte gli occhi e pianse sommessamente, a lungo,
inumidendo le federa e il lenzuolo. Quando finalmente si calmò e
si fece coraggio, lento come una tartaruga sporse la testa oltre
l’orlo della trapunta, tenendosela premuta sulla bocca. Si guardò
attorno.
Solo giocattoli e peluche che lo scrutavano dubbiosi con i loro
occhi di plastica, illuminati debolmente dal fioco chiarore della
luna. Guardò il comodino. Il dentino era sparito.

145
IL REGNO DELLE OMBRE
di Aeribella Lastelle

Piangevo.
Piangevo per nessuna ragione in particolare.
Piangevo perché mi sentivo triste, perché qualcosa
d’importante era finito, perché il giorno si stava per chiudere, e le
ombre della sera venivano a reclamare il loro regno.
Piangevo per mille motivi, o forse solamente perché volevo
essere consolata.
Piangevo seduta sui gradini di casa, la porta aperta alle mie
spalle, così potevo sentire suonare lo stereo dal piano di sopra, il
vecchio Tim Buckley.
Il bambino si avvicinò silenzioso e si sedette accanto a me. Lo
conoscevo bene. Abitava dall’altro lato della strada e tutti i giorni
lo vedevo uscire di casa con una grossa cartella rossa. Il suo nome
era Leonardo, ma i suoi amici lo chiamavano Nio.
«Signorina Lastelle, perché piange?»
La voce dei bambini ha proprietà magiche. Penetra gli scudi
degli adulti come una lama rovente nel burro, e va subito a
toccare l’intimo.
«Ciao Nio. Oh niente, sono solo un po’ triste…» mentii. Provai
vergogna. Io, l’adulta, la ragazza mancata, la signora mai stata, lo
scherzo chiamato donna del ventunesimo secolo. Mentire a un
ragazzino…
«Ha paura delle ombre?» mi chiese.
Le ombre sono delle bastarde, lo sapete vero? Specialmente in
quelle giornate di maggio, piene di colori caldi, e fuori si sta in
maglietta, ed è una meraviglia. Ma poi le ombre incominciano ad
allungarsi, il sole penzola all’orizzonte e allora la maglietta non ti
basta più. Arrivano i brividi agli avambracci, quelli che ti
dovrebbero far sentire viva, ma che invece ti ricordano la tua
caducità.
«Un po’…» confessai.
«Si, anch’io ho paura delle ombre, ma conosco un segreto per
scacciarle.»

146
«Davvero?»
«Si. Vuole conoscerlo anche lei?»
Gli occhi di Nio brillavano d’aspettativa. I miei, grazie a lui,
avevano smesso di inondarmi il volto.
«Nei sarei felice» ammisi.
«Ecco qui.»
Dalla tasca dei pantaloni tirò fuori una piccola torcia elettrica, di
quelle da attaccare al portachiavi.
«Quando le ombre si fanno davvero insidiose, li sparo addosso
la mia lucina. Così mi accorgo di quanto sono innocue. Basta una
lampadina per farle scappare…»
«È un’ottima idea, Nio.»
«Lei ce l’ha una lampadina?»
«Sfortunatamente no.»
«Allora prenda questa. Io ne ho altre due a casa.»
«Ma non posso accettare…»
Ma per fortuna i bambini non capiscono il significato delle
buone maniere. Mi mise in mano la torcia e mi salutò.
Di sopra Tim Buckley aveva finito di lamentarsi. “Maledette
ombre, stasera ve lo faccio vedere io!” pensai, rientrando in casa.
Avevo voglia di sentire quella babuska di Kate, e di aprirmi una
bottiglia di buon vino.
Dopo quel giorno non ho mai smesso di portarmi dietro una
lampadina. Pensatela come vi pare, ma mi fa sentire piú
tranquilla…

147
CHELATNA LAKE
di Davide Bandinelli

Ormai sfinito dal lungo viaggio, lascio cadere le borsa


impermeabile nera sul pianerottolo di Freedom House in modo
scomposto. Mi tolgo lo zaino con fatica e cerco nella tasca della
giacca militare le chiavi del mio piccolo Chalet. Nonostante sia
iniziata l’estate la temperatura non è certo la stessa di quella che
ho lasciato in Italia, e lo capisco più dal respiro affannato che si
trasforma in leggere nuvole di vapore, che dalla percezione del
corpo, ancora caldo dopo il lungo cammino intrapreso. Mi
sembra che il viaggio sia durato un mese, sono stanco.
Durante il volo transoceanico non ho chiuso occhio, una
moltitudine di pensieri mi assediava la mente, e volti e parole
assalivano senza tregua le mura della mia anima. Il libro che poco
prima dell’imbarco avevo tolto dalla valigia in tutta fretta, era
rimasto nella tasca posteriore del sedile davanti a me, spiccava
solamente il segnalibro: la vecchia foto di una fiaschetteria
fiorentina stampata su carta rigida.
Anche il successivo tragitto in autobus è stato travagliato, il
flusso di pensieri era diminuito però, poiché la tristezza si
alternava all’attrazione per il paesaggio che stavo attraversando.
Sceso a destinazione infatti mi sentivo meglio, e il fatto di
addentrarmi a piedi in quei boschi, poneva una sostanziale sosta
all’interminabile valanga di ricordi.
Ancora con in mano le chiavi dello Chalet mi volto a osservare
il panorama che per poco il sole mi lascerà vedere. La luce del
tramonto rende il paesaggio incantato, i colori dell’acqua delle
rocce e degli alberi si mescolano alla lucentezza dell’oro del sole,
e la bellezza dello scenario che ho davanti da incantevole diventa
divino. Il viottolo che arriva alla casa e che divide il prato, si
piega fino a celare il suo inizio verso la riva del lago. Sulla parte
sinistra dove sembra debba buttarsi nell’acqua, una fila di abeti
nasconde a malapena il promontorio di legno, e seguendo una
posizione rigorosamente lineare, si congiunge al fitto bosco che
attanaglia tutto il lago in una morsa possente.

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Sulla parte destra del viottolo invece, il giardino non recintato
dopo alcuni metri si trasforma in una vasta tundra, dove
spuntano arbusti di Cipero ed Erica, e si perde nelle montagne
innevate che fanno da cornice a tutto quanto.
Entrato in casa la prima cosa che avverto, è un forte odore di
legno ammuffito.
Poi la vista è il secondo senso che viene stimolato, perché la luce
che passa dalla porta irrompe nella stanza principale del mio
rifugio rilevando i due divani, il camino e il tappeto persiano, nel
loro quieto silenzio.
Trascino lo zaino e la borsa dentro casa e lasciando aperta la
porta vado ad aprire la finestra. Devo arieggiare l’ambiente visto
che sono quasi due anni che il legno che vi si trova respira
malamente.
Maria ed io avevamo comprato lo Chalet con i soldi della
liquidazione alcuni anni fa. Era stato il nostro sogno nel cassetto
fin da quando eravamo giovani. Non ce lo saremmo potuto
permettere prima della pensione, ma parlandone, avevamo
concordato che sarebbe stato bello passarci la vecchiaia, o se non
altro, soggiornarci più tempo quando saremmo stati liberi dagli
impegni di lavoro.
L’Alaska era per noi il paradiso in terra, uno dei pochi luoghi
dove la natura è intatta. Quando lo comprammo fu solo dopo
una lunga ricerca, avevamo girato numerose agenzie immobiliari
specializzate e sfogliato pile di riviste. Spesso tornavamo a casa la
sera con del materiale, e prima ancora di soddisfare bisogni
primari come la fame o la sete, confrontavamo le nostre singole
scoperte.
Avevamo vagliato soluzioni in altri stati del mondo prima di
scegliere l‘Alaska, poi un giorno ci arrivarono tramite internet le
foto di questo piccolo Chalet situato sulla riva del Chelatna Lake,
e rimanemmo talmente ben impressionati che la scelta fu subito
comune e immutabile.
Mi dirigo al piano di sopra dove si trovano il bagno e la camera
da letto. In cima alle scale non vedo quasi niente, seguo il
corridoio che ricordo privo di ostacoli e cerco a tentoni la porta
sulla sinistra.

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Con la finestra del bagno aperta riesco a vedere e a muovermi
sicuro. C’è tutto: carta igienica, asciugamano, dentifricio, e due
spazzolini che sembrano abbracciarsi per proteggersi dal freddo.
Giungo infine in camera e, ricordando bene la disposizione del
letto e dell’armadio, riesco a trovare anche qui la finestra per
arieggiare ed illuminare questa stanza.
La coperta di lana a scacchi adagiata sul letto mi infligge un
leggero magone, è tutto come lo avevamo lasciato. Sul comodino
vicino al letto vi è ancora una guida del luogo in inglese, poi sono
i vestiti nell’armadio a trasformare l’afflizione in tormento, che
dopo pochi secondi sfocia in un pianto.
Con Maria ricordo che fantasticammo su come poter vivere in
modo autosufficiente, installando alcuni pannelli solari e
comprando una mucca e delle galline. Quando concludemmo
l’affare, eravamo così euforici che vivemmo esaltati per quasi due
giorni interi.
La crisi economica mondiale stava arrecando seri danni a quasi
tutto e a quasi tutti. Il mio innato senso critico e il mio genetico
pessimismo ci aveva indotto a cercare una soluzione prima
ancora che i problemi cominciassero a diventare evidenti. Questo
fu un bene, perché con i nostri risparmi oculatamente nascosti,
per una mia particolare fobia nei confronti delle banche, poi
rivelatasi concreta, quando tutti cominciarono a vendere noi
comprammo.
La prima volta che eravamo venuti allo Chalet che poi
chiamammo Freedom house, fu quando ne avevamo preso
possesso. Ci passammo le vacanze estive. Io imparai a pescare e
cacciare, alcuni operai del posto montarono due pannelli
fotovoltaici sul tetto e fecero alcuni lavori in muratura, Maria
invece progettò un piccolo ricovero per animali da costruire sul
retro che avremmo fatto poi, e riprese a studiare l’inglese.
In principio la scelta di comprare questa piccola casetta in legno
fu stimolata dalla sola voglia di cercare un angolo di pace dove
riposarsi solamente in periodi limitati, poi tornati in Italia,
avvertimmo prima di molti altri che le cose cominciavano ad
andare di male in peggio, e il pensiero di trasferirsi in pianta
stabile divenne frequente.

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Ci fu un lasso di tempo in cui tutto ciò che di spiacevole ci
arrivava dai notiziari e dal mondo reale ci rimbalzava addosso.
Stava per scatenarsi l’inferno e noi pensavamo di aver trovato la
soluzione.
Torno al piano di sotto e cerco nel mazzo di chiavi quella che
apre la porta di fianco al camino che porta giù in cantina. Il sole
comincia a sparire dietro le montagne e non rimane molto tempo
per portare la legna in casa con la luce del giorno.
In cantina fa più caldo che in casa. Con la torcia elettrica cerco il
trasformatore che immette l’energia solare dei pannelli
fotovoltaici negli accumulatori, e constato con piacere che c’è
energia a sufficienza. Alzo una levetta e si accende una
lampadina che debolmente illumina il piccolo locale e,
simultaneamente sento il lieve ronzio di un motorino elettrico che
comincia a pompare acqua dalla cisterna alle tubature. Sugli
scaffali che si estendono su due lati ci sono provviste sufficienti
per circa un mese: scatolette, pasta, latte in polvere e sacchi di
farina. Accanto al trasformatore c’è un piccolo armadio di metallo
dove tengo chiuso a chiave un fucile da caccia con due scatole di
cartucce, e un paio di canne da pesca. Non c’è bisogno di
controllare il contenuto, le ante sono intatte e non ci sono segni di
forzatura.
Sollevato dal funzionalità dell’impianto elettrico che temevo
avesse qualche problema, torno di sopra ed esco a prendere la
legna.
Quando Maria si convinse di lasciare tutto, come da tempo
avevamo deciso, si commosse. Pensò ai suoi familiari, a come
avrebbero potuto cavarsela, alla sua città, a tutto ciò che era parte
di lei. Non riusciva ancora a capire come mai il mondo andasse a
rotoli e così velocemente. Cercai di consolarla garantendole che
nel giro di qualche anno tutto si sarebbe sistemato, ne avevo la
certezza, la storia lo diceva, dovevamo cercare di cavarcela solo
per un po’ di tempo.
Sapevo bene che questa scelta sarebbe per lei stata più difficile.
Io non avevo legami forti che si sarebbero spezzati in modo così
brusco ed egoistico, ma non vi erano altre soluzioni per due

151
persone della nostra età costretti ad aiutarsi solamente l’uno con
l’altro.
Il cinguettio di un uccello selvatico sovrasta tutti gli altri suoni
del bosco. Proviene probabilmente dalla cima di alcuni abeti rossi
che riesco ancora a identificare mentre cala la notte. Questo canto
acuto seguito da un battito d’ali, mi porta all’ascolto del rigoglio
dell’acqua del lago che a frequenze alterne sembra duettare con il
fruscio del vento che soffia dolcemente tra i cespugli.
Mentre ascolto incantato il concerto del tramonto, i sentimenti
che ne scaturiscono, e i sensi che percepiscono questa meraviglia
mi fanno riflettere. Ora più che mai mi rendo conto di far parte
dell’orchestra. Maria ed io una sera, proprio seduti in questo
giardino ne ragionavamo: siamo nati con le piante, l’acqua e le
montagne, e dovremmo vivere in armonia con la natura in
quanto suoi figli. La gioia di quello che mi circonda mi frastorna,
e un brivido di eccitazione comincia a scorrermi lungo la schiena.
Apro le braccia rivolgendomi al cielo, come per accoglierlo, poi
chiudendo gli occhi per un istante respiro aria fredda
assaporandone il profumo.
Com’è stato possibile che l’uomo invece abbia ignorato tutto
questo sostituendolo con l’avidità, e la brama di potere? Come è
stato possibile che il progresso e la ricerca, abbiano portato
l’essere umano alla distruzione e all’oblio, invece che all’amore e
all’illuminazione?
La legna che avevo raccolto due anni prima si trova sotto la
barca capovolta, insieme al carrello che mi serve per trasportarla.
Ne avevo raccolta in abbondanza, e con i rami piccoli avevo
creato delle fascine, utili per attizzare il fuoco. Faccio un paio di
viaggi depositandola accanto al camino.
Non è molto umida, il telo di nylon con cui l’avevo ricoperta è
stato utile, quindi accendo il fuoco facilmente e liberandomi della
giacca mi chiudo in casa pensando a disfare i bagagli e a cosa
mangiare.
All’interno del camino passano alcune tubature dell’acqua che
provengono dalla cisterna in cantina. L’acqua riscaldata dalla
fiamma viene poi spinta dalla pompa elettrica nei caloriferi del

152
piano di sopra garantendo una temperatura più adeguata anche
nei periodi più freddi dell’inverno.
Penso che sarà dura abituarmi ad un tenore di vita così
avvilente e così distante da quello che ho condotto fino ad ora,
ma sono certo che mi servirà a superare questo triste momento.
In montagna c’è sempre qualcosa da fare per poter vivere.
Fu circa un anno prima, mentre stavo ascoltando l’ennesimo
notiziario che riportava di disordini avvenuti in Italia durante la
giornata tra un gruppo di disoccupati e le forze dell’ordine, che
Maria cominciò a tossire in modo rauco. Non ne fui molto
impressionato in principio. Poi, giorni dopo, quando
quell’episodio sembrava svanito, trascorse una notte turbolenta
svegliandosi ripetutamente e avvertendo con gli spasmi un
dolore al torace. Il giorno successivo andammo dal medico per
una diagnosi.
Quel pomeriggio percepii il dolore in tutta la sua atrocità e
forza devastante; le parole del medico che mi aveva chiamato in
disparte dopo la visita, mi penetrarono nei timpani, e da lì, come
un fiume in piena che oltrepassa gli argini con una violenza
inaudita, inondarono ogni cellula e molecola del mio essere.
Oltre al senso di nausea che mi provocarono quelle parole,
provai anche un forte senso di smarrimento. Compresi subito che
l’eroico paladino, quale ero sempre stato agli occhi di Maria, era
in realtà un impotente. Non sapevo più cosa fare.
Dovevo tornare da lei e parlarle, non avrei potuto nasconderle a
lungo, il mio stato d’animo, lo avrebbe percepito subito
presentandomi nei panni di un cavaliere così fragile e inerme.
Purtroppo era già tardi, i fumi delle ciminiere, i gas di scarico
delle macchine, e quant’altro di diabolico aleggia in qualsiasi città
moderna, era finito nei suoi polmoni sviluppando una malattia
inestirpabile.
Tutti i nostri progetti di salvezza se ne erano andati in fumo in
un istante.
Durante la malattia di Maria, avevo perso la voglia di vivere,
non era forse un bene per lei che cercava conforto, ma ero
esausto, io volevo solo che non soffrisse neanche un secondo.

153
Questi ricordi mi rimbalzano in mente senza sosta da un lungo
tempo, sono qua per metterci una pietra sopra e cercare di dare
un senso a tutto ciò, oggi mi sento meglio, sono riposato, è una
bella giornata, e un buon odore di caffè che proviene dalla moka
si espande nella stanza.
Anche Maria è qui con me.
Prendo l’urna di cristallo che tenevo nella borsa impermeabile e
l’appoggio sul davanzale del camino appena acceso. Ho voluto
che anche lei mi seguisse in questo paradiso e voglio che anche
lei ne faccia parte, il mondo artefatto e ipocrita che ci ha allevato
fino a ieri, solo esclusivamente per alimentare gli illogici affari di
gente senza scrupoli con il risultato di una imminente guerra
mondiale, non merita la nostra anima.
Sorseggio il caffè guardando fuori dalla finestra. Tutto è calmo
l’acqua del lago accoglie i raggi del sole riflettendoli nella mia
direzione, rimango alcuni minuti intento a cercare il punto
migliore dove arrivare con la barca, poi poso la tazza e indosso la
giacca per uscire.
Lo sciabordio dell’acqua sullo scafo è l’unico rumore che sento
appena giungo a circa un centinaio di metri dalla riva. Guardo il
fumo bianco che si alza dal tetto, non ci sono altri rifugi o
abitazioni da questa parte di sponda, il mio chalet è l’unica
struttura nel raggio di chilometri, poi prendo l’urna con
delicatezza e sollevo il coperchio.
La guerra e le malattie come quella di Maria, sono la
conseguenza dell’umano continuo trasgredire le leggi della
natura, l’andare contro porta solo distruzione e caos. Spero che
tutto quello che sta capitando lontano da qui porti almeno ad una
nuova coscienza.
Appoggio l’urna scoperchiata sul filo dell’acqua, penso che
sono stato comunque molto fortunato perché ho avuto la
possibilità di conoscere Maria, e lascio dolcemente la presa.

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CONDIVIDERE É REATO
di GM Willo

Ci sono sogni che vanno raccontati, perché altrimenti poi ci si


dimenticano ed è proprio un peccato, non so se mi spiego. Cioè,
questa cosa me l’ha detta un mio amico, il Cantini, un soggetto
che vi raccomando. Ma a parte questo, forse c’aveva proprio
ragione. I sogni fanno in fretta a scomparire dalla capoccia. A
volte manco mi ricordo quello che ho mangiato a colazione.
Invece questo m’è rimasto proprio impresso, tanto che gli dissi
al Cantini che poteva andare tranquillo perché me ne sarei
sicuramente ricordato. Ma lui mi guardò con quei suoi due occhi
da merluzzo, e fiatandomi una boccata di Tavernello in faccia mi
disse: «Non ti fidare… scrivili sempre i sogni importanti. Non lo
sai che siamo tutti un po’ profeti?»
E allora eccomi qui davanti a questo dannato foglio. Era dai
tempi del liceo che non mettevo dieci righe una sotto l’altra, cioè
righe nel senso scritte… vabbè, non ci confondiamo adesso.
Insomma, inizia il sogno che sono dietro allo scooter del Testa,
un vecchio amico. Testa perché ovviamente c’ha una testa che se
te la ritrovi davanti al cinema fai prima a andare a casa vederti i
pacchi.
«Oh Testa, vai piano!» gli urlo da dietro. Lui fa finta di nulla e
sorpassa il quattordici, quello doppio, che passa proprio a pelo
sulla corsia. Dalla parte opposta arriva un furgoncino bianco
Iveco. BANG! Le luci si spengono.
Mi risveglio (ma sto sempre sognando) in un letto d’ospedale.
Tubi, tubicini, macchine, flebo, un monte di stronzate, e accanto a
me c’è il Testa, sempre lui. Eppure è diverso, me ne accorgo
subito. Sembra più vecchio.
«Oh Testa! Che cavolo è successo!»
Lui si scuote perché non si era accorto che mi ero svegliato, poi
mi guarda come se fossi un fantasma.
«Sei sveglio!» borbotta.
«Certo, e allora. Perché fai quella faccia?» domando io, e intanto
mi accorgo che sembra davvero molto più vecchio.

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«Perché sono vent’anni che dormi! Eri in coma. Ti ricordi
l’incidente?»
Ecco spiegato tutto, mi dico. Insomma, mi ero giocato vent’anni
di vita. Che sfiga, chissà quante scopate mi ero perso, per non
parlare delle partite della Viola.
Comunque il sogno si velocizza. Dico al Testa di portarmi i
vestiti che voglio fare un giro. Lui mi da una mano a prepararmi,
e dieci minuti più tardi siamo già in strada.
«Dammi una sigaretta, vai!» gli chiedo.
«Non posso» risponde lui.
«Che hai smesso?»
«No, è che le cose sono un po’ cambiate… dopo ti spiego.»
Io rimango basito ma continuiamo a camminare. Arriviamo alla
stazione dei taxi.
«Facciamo un salto da te?» gli chiedo.
«Va bene.» Poi mi apre lo sportello e paga la corsa al tassista.
«Io ti seguo col motorino» mi dice.
«Allora non c’è bisogno del taxi, ti salto dietro.»
«No, non si può.»
«Certo che non si può, ma lo fanno tutti.»
«Ma no, è che le cose sono un po’ cambiate nel frattempo…
dopo ti spiego.»
Così il taxi mi trascina nell’ingorgo della città. Quello non è
cambiato, o forse si. È diventato ancora peggio.
Arrivo a casa del Testa e lui è già lì con un sacchettino della
Coop. Tira fuori un pacchetto intero di sigarette e me lo passa.
«Oh grazie, me ne bastava una.»
Poi saliamo su.
L’appartamento è sempre il solito, arredato alla stessa maniera,
insomma sembra non sia passato neanche un giorno e invece
sono venti anni che non ci metto piede. I sogni son roba strana!
Dalla busta della spesa il Testa tira fuori una Moretti da 66, un
panino con la mortadella e una barretta di cioccolato bianco, di
quello che piace a me. Il Testa m’ha sempre voluto bene…
«Ma che fai, dai! Non importava… Cos’eri senza scorte?» nel
dir questo gli apro il frigo e ci trovo ogni ben di dio. Salame,

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acciughe, vinello, un barattolo d’olive verdi piccanti che ci vado
matto.
«Ma che mi prendi per il culo» lo infamo. «Guarda quanta roba
che c’hai, e mi sei andato a prendere la moretti e il panino alla
coop…»
«Ma non ti offendere, scusa…» balbetta lui. «È che, come ti ho
già detto, le cose sono un po’ cambiate in questi anni.»
«Vabbé, ora mi vado a rinfrescare un po’ in bagno e poi torno di
qua e mi spieghi tutto.»
«Ma no guarda, non è proprio possibile. Non posso neanche
farti usare il bagno.»
«Che cazzo dici?»
Così il Testa si mette a sedere e incomincia a raccontarmi tutto.
«Ti ricordi ai vecchi tempi che ci si scambiava la roba col
computer, si scaricava la musica, i film, i libri, ma c’era anche un
monte di gente che non gli andava per nulla bene tutta questa
festa. Insomma, col passare del tempo questa storia dello scambio
è diventata qualcosa di veramente brutto. Non solo t’arrestavano
se si beccavano a scambiarti la roba col computer, ma
incominciarono anche a proibire gli scambi degli oggetti,
insomma delle cose che si usa tutti i giorni. Per questo motivo
non ti posso offrire una delle mie sigarette, non posso darti un
passaggio sul mio motorino, non posso offrirti qualcosa da
mangiare e neanche farti usare l’acqua e la saponetta del bagno.
Oggi c’hanno questi satelliti che ti controllano anche in casa, 24
ore su 24. Insomma, se vuoi qualcosa, devi comprartela!»
Io rimango a bocca aperta. Meglio il coma, penso.
«Vuoi dire che non si può più condividere nulla?»
«Proprio così. A proposito, questi sono gli scontrini della spesa
e del taxi. Non che rivoglia i soldi, ci mancherebbe, ma
potrebbero controllarti…»
«Ma non ci credo!»
E mentre urlo questa frase mi sveglio.
Boia che sogno, mi dissi. Nella stanza sentivo frinire la ventola
del PC. Mi avvicinai allo schermo e vidi la finestrella rassicurante
degli ultimi download. Anche per quella sera lo spettacolo era
assicurato. Presi la cornetta e feci il numero.

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«Pronto Testa? Vieni da me a vedere un film?»

158
THE END
di Giulia Riccó

Kiyoko guardava l’orizzonte seduta sul grande cratere che si


era formato dopo l’esplosione della bomba.
A Tokyo si festeggiava lo Shunbun no hi ma lì, ai bordi della
Città Vecchia, le luci della festa venivano come inghiottite dal
nulla. Solo il buio e poco altro regnavano lì dato che alle persone
era interdetta.
Presto sarebbe arrivato Soichiro e finalmente tutto avrebbe
avuto inizio… o meglio, sarebbe terminato.
Improvvisamente i fari di una moto illuminarono le sue spalle e
l’assordante rombo del motore l’avvertì dell’arrivo di Soichiro.
Kiyoko guardò Soichiro e fece un cenno con la testa indicando
la sacca contenente l’esplosivo.
“Cambierà qualcosa Siochiro?”
“Tranquilla Ki-chan il Satellite di Controllo non terrorizzerà più
nessuno una volta saltato in aria. Neppure il Generale oserà più
fare qualcosa senza il satellite. Fidati,finalmente saremo liberi!”
Kiyoko si guardò indietro, poi salì sulla moto e si tenne stretta
facendo molta attenzione alla sacca. Soichiro partì e assieme
sfrecciarono verso l’ascensore orbitale che portava alle colonie e
al satellite. Insieme andarono incontro ad un nuovo futuro.

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IL CICLO DI UDRIEN
di GM Willo

I. IL MIO NOME É UDRIEN

La sua spada si chiama Gilda, e può considerarsi un’estensione


del suo corpo. Questo è il fine ultimo del guerriero; diventare
tutt’uno con la propria arma.
Udrien osserva il nemico avvicinarsi, ne studia i movimenti,
respira cercando il ritmo. Il ritmo è tutto nella battaglia. Saper
seguire il ritmo significa portare la danza della morte, saper
anticipare o ritardare il battito significa prendersi un bel
vantaggio.
Chi è questa volta? Cosa è che si avvicina? A Udrien non
interessa. Sa soltanto che quella creatura è sulla sua strada, e
niente e nessuno può premettersi di frapporsi tra lui e il suo
obbiettivo. Nessun rancore. Nessuna emozione. Solo il freddo e
letale acciaio della sua Gilda.
L’essere è contorto, bavoso, viscido. Una nefandezza del
deserto incontaminato; le terre del disordine. Le sue zampe
affondano pesantemente nella sabbia, la sua lingua penzola
secernendo un liquido oleoso, probabilmente mortale. Ha una
coda lunga e dentata, come quella di un rettile, ma la sua
corteccia ricorda quella ispida dei rinoceronti. Eppure è un essere
massiccio ma guizzante, il folle incrocio tra un coccodrillo, un
verro e una nutria. Le sue proporzioni però sono quelle di un
elefante. Rotea gli occhi davanti alla sua perda, un massiccio
uomo delle montagne. Udrien è il suo nome, ma questo l’essere
non lo saprà mai.
L’aria è quella torrida e secca tipica del deserto. La polvere si
mischia al sudore. Il sole impietoso continua il suo percorso verso
le montagne ad occidente. Udrien è stanco, ma non vuole sentire
la stanchezza. Non ascolta il suo corpo. Adesso incomincia il
ritmo…
La creatura guizza spalancando le sue fauci di ratto. Usa la coda
per darsi lo slancio. Le sue zampe sono corte ma ben artigliate.

160
Un uomo comune non sarebbe sopravvissuto a quell’attacco
improvviso, ma Udrien sta già danzando, anche se è rimasto
immobile fino a quel momento. Il guerriero segue la scia della
belva, ruota il corpo, scarta di lato e riprende posizione. Può
tentare un colpo al fianco, ma preferisce non rischiare per adesso.
La canzone è solo all’inizio.
Di nuovo faccia a faccia. Guardare il muso di quella belva è
quasi una sofferenza, ma negli occhi risiede l’intento. Anche le
creature più stupide nascondono qualcosa nello sguardo. Udrien
appoggia il peso del suo corpo su una gamba. È pronto ad
attaccare per primo. La bestia fa un passo indietro. Forse è
infastidita. Forse per la prima volta conosce qualcosa che si
chiama paura.
La paura è sorella e puttana. Questo usa dire Udrien ai suoi
commilitoni, nelle serate balorde alla taverna del drago. Non ci si
può fidare della paura, ma a volte è proprio lei che ti salva la
pelle. E come una sorella ti rimane accanto anche se non la vuoi.
E come una puttana, ti chiede il prezzo quando meno te lo
aspetti.
Il colpo è una finta, un battito sincopato nel ritmo. La bestia ci
crede, scarta e rilancia dall’altro lato. Mossa azzardata. Udrien
l’aspetta al varco, ruota la lama, sente la dura pellaccia resistere al
filo, imprime più forza e finalmente un fiotto di sangue scuro
sprizza nell’aria polverosa. Nel silenzio asfissiante del deserto,
rotto solo dai movimenti dei due contendenti, un urlo straziante
si alza nel cielo. La bestia è ferita, e adesso è cento volte più
pericolosa.
Udrien questo lo sa bene, ma non può evitarlo. La creatura è
troppo grossa per poter essere uccisa con un solo colpo. Quello è
il momento della svolta, la melodia che si velocizza, il ritmo che
tormenta. Ma se fosse riuscito ad infierire un altro colpo, la
creatura avrebbe smesso di crederci. Avrebbe sentito il morso
della paura, quello vero, quello che non ti lascia scampo.
Il guerriero deve continuare a danzare leggiadro. Anche se ha il
vantaggio non deve infierire. La fretta è la più grande nemica.
Indietreggia con agili passi mentre la belva si muove nervosa
verso di lui. Un affondo, un altro affondo, zampe, artigli, fauci

161
bavose. “La senti la canzone?” domanda Udrien al suo
antagonista. Ma lui non può capire, è ferito, è arrabbiato, e poi
deve fare i conti con quella strana sensazione…
La stanchezza affiora. Un’intera giornata di marcia attraverso il
deserto è tutta nelle sue gambe, e sono loro la chiave di un buon
combattimento. Sente che la danza non può proseguire per molto
a quel ritmo. Sente che la fretta, come la paura, può essere
puttana e sorella. Sente che ha un solo colpo a disposizione, e
deve essere quello giusto.
La belva ha riacquistato fiducia. Non pensa alla ferita, non
pensa alla morte, pensa solo allo stomaco che le impone di
andare avanti, un pasto dopo l’altro. Nessun ideale, nessun
motivo onorevole, o forse si. Cibo, ecco quello che siamo.
Guerrieri e bestie.
Il sole si tinge di arancione. I picchi delle montagne gli sono
poco più sotto e il disco si prepara ad affogare dietro quella
dentatura. Presto sul deserto cadrà l’oscurità, e forse creature
ancora più pericolose lasceranno le loro tane. Un altro buon
motivo per non denigrare la fretta.
Le zanne si fanno più vicine, il miasma dalla sua bocca diventa
insopportabile, le gambe incominciano a tremare. Per quanto
tempo Udrien riuscirà ancora a sopportare un simile sforzo?
Continua a retrocedere, un passo dopo l’altro, ma sta perdendo
centimetri. La creatura è su di lui. La canzone è un rullio di
tamburi e un apoteosi di corni. Ma nel momento chiave, una
singola nota può decidere la grandezza della sinfonia.
Udrien affonda. Non porta il suo attacco come un selvaggio
barbaro del nord, ma come il direttore di una grande orchestra. Il
bersaglio è ovviamente il cuore. La punta di Gilda penetra con
facilità, strappando la carne, spaccando la costola, immergendosi
senza pietà dentro al muscolo pulsante.
La creatura si accascia nella polvere del deserto, geme, rantola,
si dimena. È il triste finale della canzone.
Allora Udrien le si avvicina, poggia il piede sul suo grugno
mostruoso e alza la spada in segno di vittoria. Poi le sussurra:
“Povera bestia, non sapevi chi ti stava davanti. Il mio nome è
Udrien!”

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II. LAMIA

Udrien mosse un passo dentro il sepolcro e capì in quell’istante


che aveva appena commesso un errore. Ma l’orgoglio parlò e fece
tacere il buon senso. O forse era la curiosità, quella spinta che
ispira ogni vero uomo. La scoperta, il mistero, il segreto; queste
sono le ragioni di una vita randagia, senza un domani, senza una
casa che possa dirsi tale. Solo la strada davanti ai tuoi piedi, ed il
vento, a volte impietoso e gelido, portatore di pioggia, altre volte
così caldo da toglierti il respiro. Perché Udrien era figlio di
Guman, il dio del vento appunto, e la sua prima legge era quella
di non tornare mai indietro.
L’oscurità divenne qualcosa di denso e appiccicoso. Udrien non
osò dipanarla, per paura che gli abitatori dell’antro si
accorgessero della sua intrusione. Procedette adagio, attingendo
informazioni dai sensi che molti uomini avevano perduto. Ma
Udrien non era un uomo come gli altri.
Nel sepolcro era nascosto lo Scettro di Fride, un amuleto capace
di piegare le leggi dell’universo. Ma Udrien non cercava
conquiste più grandi della sua mente. Era lì per una scommessa
di taverna, fatta in una serata goliardica insieme ai soliti
avventori. Avrebbe recuperato lo scettro per dimostrare a quei
balordi chi era Udrien, poi l’avrebbe distrutto, perché a lui non
piacevano gli affari dei maghi, e gli oggetti troppo potenti
diventavano automaticamente pericolosi.
La cripta si ergeva su una collina, a due ore di cammino dal
villaggio più vicino. Da tempi immemori gli abitanti di quei
luoghi raccontavano di una creatura malefica che si aggirava
nell’ombra. I paesi contavano troppi vecchi e troppi pochi
bambini. Vi erano bestie selvagge nella foresta, ma non facevano
distinzione tra adulti ed infanti. La ragione delle molte sparizioni
si nascondeva in quel sepolcro.
Udrien contava i passi, ricreava le distanze nella sua testa,
annusava l’aria e ascoltava i rumori delle ombre. Gilda, la sua
fedele spada, fremeva nella mano. Mentre il corridoio in cui era
penetrato discendeva lentamente nelle viscere della collina, il

163
fetore aumentava, un miasma di putrescenza antica, pregno di
una contaminazione di magia nera. Qualcosa di morto ed eterno
abitava quell’antro, un’entità che un semplice colpo di spada non
sarebbe riuscito ad uccidere.
Percepì, oltre l’oscurità soffocante, l’allargamento della cavità. Il
corridoio terminava in un’ampia stanza e l’odore di morte era
diventato ancora più penetrante. Adesso aveva bisogno di
chiedere aiuto ai suoi occhi, non poteva permettersi di attendere
un secondo di più. La rapidità, in situazioni simili, era cruciale.
Ma un attimo prima di richiamare l’incantesimo di luce legato
alla sua spada, un globo dorato si accese nel mezzo della stanza.
Incastonata al centro di una grande pietra piana, che non poteva
essere altro che una tomba, la sfera di luce rivelò alcuni misteri
del sepolcro. Un’ampia stanza circolare a forma di cupola,
completamente spoglia se non per il feretro adagiato nel mezzo e
alcune pregiate suppellettili posate sul pavimento. E poi c’era lei,
una bellezza aliena, sensuale come le principesse delle isole
equatoriali, prosperosa come le comari che portano l’acqua ai
villaggi, intensa come le amazzoni del nord e pericolosa come i
draghi del grande deserto. Seduta sulla fredda pietra, vestita solo
di monili che riuscivano a coprire a malapena le parti intime,
guardava il guerriero curioso, il topolino con cui il gatto ama
divertirsi prima del pasto.
Nonostante ogni centimetro del suo corpo lo avvertisse del
pericolo che si celava dietro gli occhi di ghiaccio di quella
creatura, Udrien si mosse verso di lei non come un guerriero ma
come una preda desiderosa di venire divorata. Abbassò la lama,
alzò il volto, sporse il petto in avanti. Lei rimase immobile,
sorridente, pronta ad accoglierlo.
«Un guerriero senza paura che finalmente viene a soddisfare le
mie voglie…» sussurrò la donna, allargando sensualmente le
gambe. Il globo di luce nascondeva la promessa del piacere più
grande.
Udrien, a un passo da lei, si arrese all’invito. Poggiò la lama
sulla pietra del feretro e si chinò per baciare quella bocca carnosa.
Sentì la fredda pelle di quella creatura che non poteva dirsi
umana, ma non ci badò, rapito com’era dall’incantesimo del

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desiderio. La massa di muscoli ramati dell’uomo si adagiò sulle
rotondità candide della donna, toccando, esplorando, cercando
ed avvicinandosi alla congiunzione. Lei lo cinse con le gambe
mentre lui entrava, inarcò la schiena mostrando i canini allungati,
ma lui aveva gli occhi chiusi e non se ne avvide. Sentì invece il
calore pervadergli il sesso, nonostante il gelido invito. Cercarono
insieme il movimento, alternando i gemiti, dondolandosi insieme
sull’altalena del piacere. Sempre più veloce, sempre più in alto,
sempre più in profondità. La donna urlò artigliando la schiena
del guerriero. Lui ignorò il dolore e continuò la sua scalata, ormai
in prossimità della vetta. La creatura lo lasciò andare avanti,
grata del dono ricevuto. Era pronta a concedere anche a lui il
piacere supremo, prima di togliergli la vita.
Udrien sprofondò in un bagno di tenebra dolce. Aprì gli occhi e
vide qualcosa muoversi nelle ombre che il globo di luce non
riusciva a dipanare, i margini della stanza a forma di cupola.
Bambini, alcuni appena neonati, dalle vesti lacere e dagli occhi
infuocati, strisciavano verso di lui mostrando file di denti
innaturalmente allungati.
«Venite miei piccoli. Venite a mangiare!» disse la donna,
cercando poi la gola del guerriero. Udrien scattò in piedi come un
felino. Cercò la spada, ma lei gliela scalciò via, e poi gli fu
addosso.
Il guerriero non attinge forza solo dai suoi muscoli. Riuscire a
richiamare e controllare il flusso adrenalinico può permettere ad
un uomo di moltiplicare la sua potenza. La creatura era un
vampiro, ormai il mistero era svelato, e Udrien non poteva
permettersi di affrontare un essere del genere a mani nude.
Sapeva di avere solo una possibilità. Afferrò la donna e la
scaraventò dalla parte opposta della cupola. Poi, un attimo prima
che la sua progenie dannata si avventasse su di lui, riuscì a
recuperare Gilda, e a recidere la testa di un neonato dalle zanne
di lupo.
La vampira, conscia di avere sprecato il vantaggio, divenne
rabbiosa. Si lanciò addosso alla sua preda, certa che fosse ancora
disarmata. Udrien alzò la punta della sua spada in traiettoria del
cuore. Un secondo urlo, questa volta di dolore, si alzò dalla

165
collina maledetta. La donna bellissima, che aveva cercato ed
elargito piacere con l’arte di un’esperta meretrice, si dimenava
adesso con una spada infilzata nel petto. Udrien sapeva che non
sarebbe bastato ad ucciderla. Sfilò con maestria la lama dal corpo
della donna, e con un colpo preciso le recise la testa, che rotolò
sul pavimento con un rumore sordo. Allora il corpo del mostro
cambiò improvvisamente colore. Da candido divenne scuro, la
pelle raggrinzì rapidamente e un attimo dopo della donna non
rimase che una manciata di cenere. La stessa fine toccò alla
progenie di piccoli mostri, i bimbi rapiti ai villaggi vicini.
Dentro la tomba Udrien recuperò lo scettro, e la sera dopo,
mostrandolo agli amici di taverna, si compiacque di aver vinto la
scommessa. Bevve a spese dei suoi compagni, e a fine serata
crollò sotto il tavolo completamente ubriaco.
Nella taverna c’era un mago di nome Vasilios che non perse
mai d’occhio l’oggetto, e appena ne ebbe l’occasione lo afferrò
dileguandosi poi nella notte. Ma di come Udrien riuscì a
recuperarlo, in questa storia non viene detto.

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III. EVOCAZIONI PERVERSE

Gridia era una di quelle città tagliate fuori dalle grandi strade
mercantili dell’Impero, sorta secoli fa in un territorio aspro,
appollaiata alle rocce come un falco di montagna. Era il luogo
ideale per portare avanti subdoli giochi di potere, lontano dagli
occhi indiscreti della Guardia Reale.
Sulle case e i palazzi decadenti dominava la cupola della chiesa,
l’occhio vigile che tutto vede e tutto giudica. Il vescovo Callalni e
suoi due vicari erano diventati col tempo gli uomini più
importanti della città, e la delegazione dell’esercito dell’Impero
sul posto rispondeva ai loro ordini.
Udrien, appena mosse un passo oltre le mura di città, avvertì
subito nell’aria quell’oppressione tipica di quei luoghi in cui la
chiesa ostenta il suo dominio. Storse la bocca quando, entrando
nella piazza principale, che si apriva proprio davanti alla
cattedrale, rinvenì le tracce di un rogo recente. Bruciare le
streghe era una delle pratiche preferite dei preti.
Entrò in una locanda e ordinò dello stufato e della birra. Gli
avventori erano pochi e se ne stavano in disparte, ma si sentì i
loro sguardi addosso. Non poteva certo pretendere di passare
inosservato, con la montagna di muscoli che si portava dietro e
che non si vergognava ad esibire, e la sua vistosa spada che lui
chiamava Gilda. Ci era abituato e li ignorò, prendendo posto
vicino a una finestra e osservando le incombenti vetrate della
chiesa, che nelle ombre del vespro baluginavano dei riflessi delle
candele. Qualcosa nel profondo gli sussurrava che un male
ancora più grande del dogma religioso aveva messo radici nella
città di Gridia.
Mangiò e bevve, ma non osò andare oltre i limiti. Aveva
intenzione di lasciare quel posto all’indomani, e mettere più
strada possibile tra lui e i misfatti che vi consumavano. Chiese
una stanza e si ritirò, ma il fato volle che la finestra della sua
camera desse proprio sulla facciata della chiesa. Rimase ad
osservarla tra le ombre della notte. Quando la città, già di per se
silenziosa, sprofondò nella quiete notturna, Udrien avvertì la

167
cantilena. Ne conosceva il timbro, anche se ignorava il significato
delle parole. Quello non era un canto religioso, ma il rituale di
un’evocazione blasfema. Non riusciva a prendere sonno. La nenia
era appena percettibile, ma s’insinuava nell’anima, evocando
strani incubi. A Udrien non piaceva essere disturbato. Afferrò
Gilda e uscì fuori dalla taverna, puntando direttamente verso
l’ingresso della cattedrale. Spinse con forza e quando la massiccia
porta si mosse sui cardini rimase sorpreso. Probabilmente i
cittadini temevano a tal punto quel luogo, che i preti non si
preoccupavano di chiuderlo a chiave neanche la notte.
La navata centrale era disseminata di ombre, ma i sensi di
Udrien lo avvertirono che nessuno lo stava spiando. Attraversò
ad ampie falcate il locale fino alle porte che si aprivano sul retro.
La litania continuava e sembrava provenire dalle catacombe.
Scostò l’uscio di una porticina che si apriva su un balcone di
pietra e delle scale a chiocciola che sprofondavano nell’oscurità.
C’era profumo d’incenso nell’aria, ma non quello che usavano i
preti durante i sermoni. Aveva un odore stucchevole,
stranamente esotico. Udrien arricciò il naso e proseguì,
permettendo all’oscurità di ingoiarlo. Il guerriero poteva
muoversi al buio come un gatto, attingendo ai sensi dimenticati,
quelli sotto pelle, quelli che un vero uomo d’arme ha bisogno di
conoscere se vuole rimanere vivo.
La scala contava ventitre gradini. Toccato il fondo Udrien scorse
i contorni di una porta, oltre la quale bruciava una luce calda,
forse una torcia. Il canto adesso era distinguibile in tutto il suo
orrore: era il richiamo di un demone. Il guerriero ne aveva uditi
di simili, nei suoi pellegrinaggi attraverso le terre di confine,
luoghi impervi in cui abitavano culture molte più antiche di
quelle dell’impero.
Nel momento in cui appoggiò la mano sulla maniglia, il canto si
interruppe e il pavimento tremò. Udrien capì allora che
l’invocazione era stata portata a termine, e qualcuno o qualcosa
aveva attraversato il drappo tra i mondi, per giungere al cospetto
dell’evocatore. Aprì piano la porta e si catapultò con la
leggiadrezza di un felino dentro un corridoio appena illuminato.
La luce proveniva dalla stanza che si apriva dopo pochi passi.

168
Udrien vi sbirciò all’interno, appiattendosi al muro del corridoio,
e quello che vide lo tormentò per molte notti.
Tre uomini seduti su alti scranni, nudi e glabri, osservavano la
scena che si teneva sulla fredda pietra del pavimento, dentro
cerchi e simboli di gesso dai misteriosi significati. Nei loro occhi
si rifletteva la luce rossa di due enormi bracieri che bruciavano ai
lati della stanza. Era da lì che s’innalzava il profumo d’incenso.
Tutti e tre gli uomini erano intenti a darsi piacere solleticando i
loro i membri, ispirati dalla visione che avevano appena evocato.
Una fanciulla di rara bellezza giaceva riversa sul pavimento, e
un essere contorto e peloso, dalla forma vagamente umanoide ma
con la testa sproporzionata e una gobba gigantesca sulla schiena,
le stava sopra. Udrien poté vederne il pene, enorme e rosso, che
si apprestava a dilaniare la povera vittima. La ragazza era viva e
cosciente, ma incapace di emettere grida, forse incantata da strani
sortilegi, oppure troppo terrorizzata per ricordarsi di possedere
una voce.
Era questa la follia che si nascondeva dietro le mura di Gridia.
Preti perversi che avevano stipulato patti coi demoni, rituali
erotici sotto la cattedrale, e sacrifici pubblici per terrorizzare i
cittadini. Quante città erano vittime delle superstizioni e della
bramosia di potere dei religiosi? Quante persone pagavano il
prezzo della loro ignoranza? Udrien sentì la furia crescere come
un fiume in piena, la lasciò defluire nei sui muscoli e poi
abbandonò il suo nascondiglio, scagliandosi con la spada alzata
incontro a quello scenario di follia.
Prima che i preti realizzassero quello stava succedendo, il
guerriero riuscì ad afferrare il braccio della fanciulla e a
trascinarla fuori dal cerchio di protezione. Il demone era
prigioniero dei simboli di gesso, e non gli era permesso di
attraversarli.
Poi si mosse verso gli scranni. Recise la testa di un prete mentre
questi provava ad alzarsi, trafisse il secondo alla schiena, mentre
cercava di scappare, e il terzo, immobile e stupefatto, era invece
rimasto seduto, col pene gonfio e gli occhi sbarrati. Udrien lo
sollevò con una sola mano e lo scagliò dentro il cerchio del
demone. Fu allora che incominciarono le urla, ma prima che le

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guardie trovassero il coraggio di investigare, Udrien era già
lontano.
La ragazza aveva insistito per andare via con lui, e così erano
scappati nella notte, mentre le urla del prete sfumavano tra le
ombre, e le luci di Gridia si perdevano nella distanza.
Camminarono fino al mattino e da un’altura videro l’alba, fulgida
e bellissima. Lui guardò lei e si perse per un attimo nei suoi occhi.
«Dove vuoi andare?» le chiese.
«Lontano…» sussurrò lei. E da quel giorno non si fermarono
più.

170
IV. LE SETTE REGINE

«Guerriero, perché ti interessano le terre del sud?»


«Non ho alcun interesse per quelle terre. Ho solo bisogno di
rimanermene lontano dall’impero per un po’…»
E così il capitano del Migrante, una nave mercantile che
trasportava metalli e altre materie prime, invitò a bordo lo
straniero e la sua spada. Si chiamava Udrien, e il suo nome
precedeva già la leggenda. Un guerriero rispettato, un guerriero
temuto, e forse, per qualcuno, un guerriero scomodo. Ma le
dodici corone d’oro pagate in anticipo avrebbero convinto
qualsiasi marinaio. Udrien era ricercato dalla guardia reale
perché accusato di omicidio. La vittima era il figlio di un barone,
un personaggio meschino di cui non si sarebbe certo sentita la
mancanza. Ma sebbene la vittima avesse infangato il nome della
sua casata con le sue malefatte, e la sua prematura dipartita
avesse risolto molti inconvenienti, il delitto rimaneva e Udrien,
quale principale indiziato, doveva essere portato a giudizio.
Il Migrante modificò lievemente la sua rotta, per evitare
spiacevoli incontri con la flotta dell’impero. Dopo una settimana
di viaggio furono avvistate le coste del continente meridionale, di
cui si conosceva poco o nulla. L’impero aveva i suoi avamposti
lungo la costa, ma nessuna guarnigione si era spinta verso
l’entroterra. Erano territori selvaggi, abitati da popoli ostili e
superstiziosi, e poi si aggiravano delle strane bestie, felini giganti
e serpenti letali.
Udrien salutò con un cenno il capitano e il resto dell’equipaggio
e lasciò il porto. I cavalli erano rari in quelle zone, la gente
preferiva muoversi con i cammelli, ma Udrien non volle
rinunciare a una buona cavalcatura, e pagò altre dieci corone per
un cavallo che nella sua terra non sarebbe costato più di due
pezzi d’oro. Prima che la voce del suo arrivo potesse arrivare alle
orecchie delle guardie dell’avamposto, Udrien era già lontano.
Oltrepassò montagne di roccia rossa e sabbia, costeggiò per due
giorni quello che secondo le leggende doveva essere il Grande
Deserto Equatoriale, e infine spinse al galoppo il suo cavallo

171
attraverso la sterminata savana, sulla quale poté avvistare i
grandi felini muoversi a piccoli branchi; leoni e giaguari. Oltre la
piana si apriva la giungla, una foresta incontaminata in cui si
diceva vivesse il popolo più antico del mondo, i Léonidi, i figli
del leone. La fuga si era trasformata in esplorazione. Udrien
adesso non cercava solamente un luogo in cui il braccio
dell’impero non lo avrebbe raggiunto. Voleva soddisfare la
curiosità di ogni uomo del nord, accertare l’esistenza della città
d’oro e delle sette regine immortali.
La storia veniva raccontata da secoli, forse addirittura da
millenni, e più antica è la leggenda più incredibile diventa,
perché nel tramandarla i menestrelli la colorano sempre di nuovi
particolari. Le regine erano donne troppo belle per poterle
contemplare senza impazzire, e per questo motivo indossavano
sempre delle maschere. Mangiavano gli uomini e dimoravano in
un palazzo d’oro e madreperla, che si ergeva in tutto il suo
splendore sopra la città. Il cannibalismo era una delle pratiche
che permetteva loro di vivere in eterno, insieme ad altre assurde
stregonerie. Il loro popolo le temeva e venerava, e gli uomini
facevano a gara per diventare il loro pasto. Perché si diceva che
prima di mangiarlo, l’uomo veniva introdotto nella stanza del
piacere, e le sette regine si toglievano le maschere e facevano
all’amore con lui, tutte insieme. Al mattino l’uomo veniva trovato
privo di vita ma con un’espressione beata sul volto. Poi veniva
cucinato e mangiato.
Udrien non sapeva se credere oppure no a questa leggenda.
Sicuramente un filo di verità doveva esserci, come con tutte le
storie. La città d’oro e le sette regine… Fantasticava la mente del
guerriero, mentre procedeva lentamente attraverso la
vegetazione. Presto si rese conto che non sarebbe stato più
possibile continuare a cavallo. La giungla diventava pian piano
più intricata e non vi erano sentieri da seguire. Dette una pacca
sul collo dell’animale e lo lasciò libero di tornare indietro. Forse
sarebbe diventato il pasto di una famiglia di felini, ma quella era
la vita. Un giorno si mangia, il giorno dopo si è mangiati…
Continuò da solo, aprendosi la strada a colpi di spada. Dovette
accamparsi per la notte, ma preferì dormire su uno dei rari alberi

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ad alto fusto che riuscì a incontrare, relativamente distante dai
predatori notturni ed dagli insetti velenosi. Al mattino seguì una
dieta di bacche e liquore di radici, un estratto che si era portato
dietro dal suo paese. Due sorsi di quell’essenza valevano un
pasto completo. Riprese il cammino annusando l’aria e
prevedendo la tempesta. La pioggia infatti non tardò ad arrivare,
una doccia calda ed insistente tipica delle zone equatoriali. La
vista di Udrien non riusciva a protrarsi più di una decina di
passi, ma il suo senso dell’orientamento altamente sviluppato lo
tenne sulla giusta strada. La direzione era sempre quella:
l’estremo sud.
La pioggia continuò per tutto il giorno e il guerriero temette di
essersi imbattuto in una di quelle perturbazioni tipiche di quei
luoghi, eventi climatici che potevano durare per mesi. Invece un
vento nuovo spazzò via le nubi quando il sole stava quasi per
spegnersi all’orizzonte. Udrien si arrampicò su un albero per
vedere finalmente dove si trovava e la visione che gli si presentò
davanti agli occhi lo lasciò esterrefatto. Nel riverbero rossiccio del
tramonto, vide ergersi in mezzo a quello sconfinato mare di
vegetazione la città d’oro, una cupola di edifici a vetri e a specchi,
ampie terrazze fiorite e strade illuminate da globi di luce, cento,
mille, diecimila costruzioni di pietra finemente lavorata e
ricoperta di uno strato di vernice dorata. La stessa procedura era
stata riserbata alle tegole dei tetti, cosicché pareva che l’intera
città rilucesse del metallo più prezioso. Nel mezzo, su un
promontorio verde circondato da alberi dalla folta chioma, si
ergeva un palazzo con sette torri, anche questo completamente
ricoperto d’oro, ma adornato da elaborate venature di
madreperla, una visione che lasciò il guerriero senza fiato.
Poco più tardi Udrien uscì dalla foresta e incontrò una delle
strade che portavano alle porte della città. Il sole era già
tramontato e non incontrò nessuno lungo il percorso. Solo le
enormi statue di due leoni sorvegliavano l’ingresso alla città
dorata, effigi inanimate ma assolutamente inquietanti. Lo stesso
Udrien dovette fermarsi e prendere coraggio per passarvi nel
mezzo. Anche questi erano ricoperti d’oro e avevano due rubini
per occhi.

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Entrò nella prima taverna che incontrò, e appena mise piede
oltre la soglia si sentì gli occhi di tutti gli avventori addosso. Il
motivo era facile da indovinare; aveva la pelle chiara, mentre i
Leonídi erano scuri come l’ebano, e alti in media un palmo più di
lui. Udrien non si lasciò intimorire e sedette su uno sgabello
davanti al bancone. La locanda sarebbe stata considerata un
luogo lussuoso nelle sue terre, ma qualcosa gli diceva che nella
città dorata era solo una taverna come le altre. Non conoscendo la
lingua fece un gesto all’oste che capì al volo e gli servì un boccale
di birra scura, calda e dolciastra. Udrien la trovò insolita ma
buona. Ne bevve tre e finalmente avvertì il tiepido conforto della
mente sul corpo. Incominciò a sentirsi a suo agio ma non aveva
voglia di ubriacarsi. Posò sul bancone una sacchetto di monete
che l’oste, nonostante non riconoscesse il conio, fece scomparire
velocemente in un cassetto. Poi gli consegno la chiave di una
stanza. Il guerriero si concesse un’ultima bevuta e infine si ritirò.
La mattina dopo Udrien girò per le strade della Città Dorata,
che i Leonídi chiamavano Camarvilia, e non passò certo
inosservato. Raggiunse la grande piazza del mercato e vide un
corteo di gente che si muoveva verso il palazzo centrale. Si unì
alla folla e ben presto scoprì che era in corso un torneo. La gente
si riversava sulle gradinate di un anfiteatro e sotto di questa, su
un ovale di terra rossa, dieci guerrieri erano pronti a combattersi
fino alla morte. Il premio più ambito era l’accesso alla stanza del
piacere.
E allora Udrien le vide e capì che la leggenda delle regine
nascondeva più di un pizzico di verità. Sedute su dei troni
sporgenti dalla gradinata opposta, sette donne vestite di veli e
piume attendevano l’uomo che sarebbe diventato per una notte il
loro amante, e per molti giorni la loro principale portata.
Indossavano delle maschere che conferivano loro dei musi felini;
una tigre, un giaguaro, una leonessa, una pantera, un ghepardo,
una lince e un puma. L’anfiteatro era ghermito, la gente brulicava
dappertutto, ma un corno si levò forte nel cielo, e allora tutti si
quietarono e rivolsero lo sguardo alle sette regine. Insieme
diecimila persone salutarono le donne immortali. Il modo in cui
questo rituale avvenne lasciò Udrein sbalordito. Il guerriero

174
sedeva davanti ai troni, dalla parte opposta dell’anfiteatro.
Nell’arena incominciarono i combattimenti, ma lui non perse mai
d’occhio le regine, che rimanevano immobili ed imperscrutabili
dietro le loro maschere.
Uno ad uno i guerrieri caddero, mischiando il loro sangue alla
terra rossa. Un uomo alto con un elmo di bronzo ed una ascia
bipenne uscì vincitore. Muscoli lucidi risaltavano sotto
l’armatura, nell’accecante bagliore del pomeriggio equatoriale.
Mosse ampi passi verso il centro dell’arena e, inginocchiandosi
davanti ai troni, reclamò il suo premio.
Ma in quell’istante Udrien si alzò, e nessuno dei diecimila poté
fare a meno di notarlo. Nell’anfiteatro era sceso il silenzio. Con
un balzo scavalcò la fila di spettatori che gli sedevano di fronte e
atterrò agilmente sulla terra rossa dell’arena. Sfoderando la spada
che lui chiamava Gilda, andò incontro al vincitore del torneo, che
lo superava di almeno due palmi in altezza. L’iniziativa del
guerriero dalla pelle bianca non era prevista dal regolamento del
torneo, ma l’occasione era troppo unica per interrompere il corso
degli eventi. Le regine parlarono insieme. Udrien non poteva
capirne la lingua, ma intuì il significato delle loro parole, perché
il guerriero dall’elmo di bronzo si voltò verso di lui e alzò l’ascia,
pronto a combattere.
Le incitazioni del pubblico s’innalzarono dagli spalti, mentre i
due combattenti si avvicinavano al centro dell’arena. Saper
leggere lo sguardo dell’avversario significava conoscere in
anticipo le sue intenzioni. I Leonídi erano una cultura antica e
molto diversa da quella dalla quale proveniva Udrien, ma
esistevano anche i linguaggi universali, quelli del corpo e degli
occhi. Il guerriero dalla pelle bianca attese impassibile, la spada
salda tra le mani, la testa alta, le gambe in posizione di slancio. Fu
il campione a muoversi per primo, descrivendo un semicerchio
mortale con la sua lama bipenne. Udrien aspettò fino all’ultimo
prima di scattare, ma non ripiegò indietro. Portò un affondo
improvviso, agile , rapido e letale.
Il pubblico ammutolì. Il volto del guerriero dalla pelle d’ebano
divenne una maschera di terrore. Gilda era penetrata in tutta la
sua estensione attraverso l’addome del campione, che si sentì

175
velocemente svuotare delle forze. Lasciò andare l’ascia, cadde in
ginocchio e infine sprofondò nella terra rossa, emettendo l’ultimo
respiro.
Nell’asfissiante calura del meriggio, uno straniero dalla pelle
bianca andò a reclamare il suo tributo. Il pubblico tacque fino al
momento in cui le guardie delle regine entrarono nell’arena per
scortare il nuovo vincitore al palazzo dorato. In quel silenzio
imbarazzante, Udrien non abbassò mai la guardia, consapevole
di avere leso l’orgoglio di un intero popolo.
Ma per quanto lo potessero odiare, la sua vita apparteneva
adesso alle sette regine. Venne condotto attraverso un corridoio
sotterraneo che dall’anfiteatro arrivava direttamente al palazzo
reale. Sette ancelle lo lavarono, lo spalmarono di creme
profumate e lo vestirono con una tunica bianca e dei sandali. Fu
costretto a lasciare la sua spada alle guardie che non lo persero di
vista un istante, e questo lo turbò molto. Ma presto la sua
curiosità sarebbe stata colmata. Avrebbe visto in faccia le signore
della città dorata, avrebbe fatto parte della leggenda. Uno
straniero nella stanza del piacere. Udrien viveva per le emozioni
forti, sempre sull’orlo del baratro, perché solo se il rischio era alto
valeva la pena di stare al gioco. La prospettiva d’impazzire
davanti alla visione delle principesse non lo preoccupava
minimamente. Se quella doveva essere la sua fine, allora ne
sarebbe valsa sicuramente la pena.
Le ancelle insieme a due guardie lo accompagnarono davanti a
una porta di legno massiccio, finemente lavorato. Rimasero tutti
quanti a debita distanza dalla maniglia. Uno dei due uomini fece
cenno al guerriero di proseguire da solo. Udrien non ebbe
bisogno di essere pregato ulteriormente. Afferrò la maniglia e
sparì all’interno della stanza.
La luce era quasi accecante. Una grande vetrata si apriva per
almeno venti metri su un intero lato della stanza, e oltre questa vi
era una terrazza semicircolare che dava sulla città, e vi erano
piante e fiori e una fontana che zampillava allegra. La stanza
invece era occupata per la maggior parte da una vasca d’acqua
cristallina, alimentata da dei rubinetti dorati che gorgogliavano
nel silenzio del caldo pomeriggio. Davanti alla vasca vi era un

176
letto a baldacchino, il più grande che Udrien avesse mai visto,
costruito in ferro battuto e placcato d’oro. Misurava almeno
cinque metri in larghezza, ed era rivestito di sete dai colori
sgargianti, e disseminato da decine di morbidi cuscini. Arazzi
raffiguranti scene di caccia sfuggenti si muovevano appena
accarezzati dalle brezze leggere. Il guerriero non si lasciò
intimidire dallo scenario. Sapeva perfettamente quale sarebbe
stato il suo compito, e il suo destino. Rimosse la tunica e la gettò
in un angolo. Il suo corpo nudo, i suo muscoli scintillanti di
creme, la sua lunga chioma corvina, si immersero delicatamente
nella vasca. L’acqua era tiepida e profumata. Rimase in attesa,
contemplando i riverberi dorati delle suppellettili e dei mobili
che adornavano la stanza.
Entrarono insieme, tutte e sette, ancora adorne di veli e con le
maschere ai volti. Si disposero davanti a lui lungo il bordo della
vasca. Udrien le aspettava nell’acqua. Con un gesto abile e
delicato rimossero le vesti, che si afflosciarono ai loro piedi. Sette
corpi femminei turgidi ed abbronzati, dalle linee perfette. Seni
ritti e pieni come pomi, ampi e sensuali fianchi nel mezzo ai quali
spuntavano piccoli ciuffi scuri, invitanti, dolci e precisi. Con gesti
congiunti si mossero verso di lui, scendendo gli scalini della
vasca. Quei corpi meravigliosi ed immortali si immersero
lentamente nell’acqua, e in quel momento Udrien afferrò il senso
della leggenda. La visione di quella bellezza era talmente
sconvolgente che una volta raggiunta, nessun uomo sarebbe mai
riuscito a farne a meno.
Gli si fecero incontro, lo accerchiarono, allungarono una mano
verso di lui, mentre l’altra la portarono dietro la testa, afferrarono
il laccio che teneva legata la maschera e lo sfilarono lentamente,
rivelando i loro visi. Udrien trattenne un grido. Il cuore gli balzò
nel petto e accelerò in una corsa sfrenata. Era sicuro che gli si
sarebbe spaccato in due. Lui che aveva affrontato demoni, draghi
e creature né vive né morte senza mai abbandonarsi alle
debolezze della mente, rimase vittima del tumulto emotivo. Restò
immobile al centro della vasca, gli occhi sgranati incapaci di
lasciare la presa, catturati da quei volti perfetti ma in maniera

177
aliena. Afferrò un respiro e vi si aggrappò. Poi incominciarono le
carezze, i baci e tutto il resto.
“Udrien, sappi che incontrerai nemici che eluderanno la tua
spada e i tuoi muscoli. Stregoni, fattucchiere e creature dannate,
ma non solo. Esistono divinità che camminano sulla terra, e
alcune di queste sono maliziose e adorano baloccarsi con gli
umani. Se avrai la sfortuna, o la fortuna, d’imbatterti in alcune di
loro, avrai solo una possibilità per salvarti. Per questo motivo hai
bisogno di conoscere le arti della mente. La mente è come un
palazzo pieno di stanze. Quando queste creature vorranno
giocare con te, devi fare in modo di chiudere a chiave la maggior
parte di queste stanze, e farle entrare solamente in una di queste.
Poi la chiuderai a chiave per sempre, e te ne terrai alla larga, se
non vuoi che il veleno in essa confinato si riversi dappertutto…”
Udrien ricordò le parole di Walkor, padre e maestro. Ogni arte
di sopravvivenza che conosceva la doveva a lui.
Non bastò una sola stanza per confinare il fascino incantatore
delle regine della città d’oro. Ce ne vollero sette, una per ogni
volto, e dopo quell’esperienza rimase ben poco del vecchio
Udrien.
Le amò con il corpo più volte, ma le confinò lontano nella
mente, e quando tutte furono sazie, lui le lasciò dormienti nel
grande letto. Uscì dalla stanza e ritrovò la sua Gilda, forse l’unica
compagna che gli sarebbe per sempre rimasta al fianco. Uccise tre
guardie prima di riuscire a conquistare l’uscita del palazzo, e
meno di un’ora più tardi era già lontano, ingoiato dal groviglio
della giungla.
Sarebbe andato ancora verso sud.
Avrebbe svelato nuovi miti.
Perché il suo nome era Udrien, e nella sua lingua significava
“forgiatore di leggende”.

178
SPENGI LA LUCE
di Jonathan Macini

«Spengi la luce.»
«Ma dici sempre che ti piace guardarmi…»
«Si, ma stanotte c’è la luna, vedi?»
Il disco argentato si affaccia dalla finestra in tutto il suo
splendore, grande e luminoso, a guardarlo ci si può perdere nel
mare della tranquillità… La luce è presa in prestito dal sole, è il
riflesso di un bacio, si deposita sui due corpi nudi, abbracciati,
ricoprendoli di una patina di candore.
L’overture dell’amore sono i baci e le carezze. Le labbra dei due
amanti si adagiano sulle rispettive pelli, fremano le epidermidi,
richiamano i sughi del piacere. E allora sono le lingue che
introducono il tema principale, leggere, appena umide, scivolano
sugli avambracci e dietro al collo. Si soffermano sui lobi, ci
giocano un po’ e poi s’incontrano, toccandosi e ritraendosi.
Intanto le mani cercano, perché loro cercano sempre, non
stanno mai ferme. Gli incavi, le curve, i muscoli, le parti nascoste,
fino alle pelurie che nascondono gli interruttori del piacere. La
luce della luna gioca con le ombre e regala il mistero.
La musica si arricchisce dei primi ansimi, i movimenti si fanno
più veloci e cadenzati, gli arti degli amanti si attorcigliano come
se volessero fondersi. Lui la sente strusciarsi, lei avverte
l’estensione di lui. È arrivato il tempo dell’esplorazione.
La canzone si avvicina al ritornello. Lui scende giù, lei sente i
brividi, chiude gli occhi, inarca la schiena, poi li riapre e guarda
la luna, sorride, geme, avverte il bisogno di far fluire il calore che
le alberga dentro. Spinge delicatamente la testa di lui e gli va
sopra, accogliendo il suo dono. Conscia delle carezze d’argento
sui suoi seni, inizia a muoversi al ritmo della canzone. Lui è sotto,
la guarda, ed è come se guardasse dio, o l’infinito, il significato
del tutto, l’amore e il piacere.
La melodia diventa un bolero che si ripete per molte battute, e
sale, sale, sale, ma non fino all’apice. C’è ancora molta strada da
fare, prima di abbandonarsi alla pace dei sensi.

179
La canzone cambia il tempo, è una suite, una lunga sinfonia
divisa in movimenti. Lui si alza, la bacia, la guarda negli occhi,
sono sempre uno dentro l’altra, una cosa sola, insieme alla luce
della luna. Poi è lei che inizia a giocare con l’interruttore di lui. Il
fuoco divampa all’altezza dell’inguine, sente il bisogno di
refluirlo, si adagia accanto a lei e sprofonda la lingua nella dolce
peluria, cercando e trovando con esperienza. La degustazione va
avanti, tra spasimi e contrazioni, un’altalena di sensazioni al
limite della sopportazione.
Tamburi e corni entrano prepotentemente nella melodia. I due
corpi adesso cercano i limiti del piacere, avvalendosi di qualsiasi
espediente. Lei ha la faccia sprofondata nel cuscino e da le spalle
a lui, che le è sopra. Alterna il gioco dei suoi pistilli d’amore,
approfittando del duplice invito. Le afferra i capelli, lei geme, lui
muove un riff prepotente ma in qualche modo dolce. La vetta è
vicina, ormai mancano pochi passi…
Lei asseconda il ritmo, si muove insieme, lo trascina, lo prega di
continuare, di non smettere mai! Allora lui sa che il momento è
quello giusto, perché capisce che non può più tornare indietro.
Così aumenta il tempo, sempre più veloce, sempre di più…
Il finale è il trionfo e il trapasso, il gemito e il flusso, la nascita e
l’abbandono.
La luce lunare bagna adesso i loro corpi sazi. I respiri si
acquietano, le mani si cercano ancora, si trovano, si stringono. La
notte e l’oscurità sua complice sono state celebrate nel modo
migliore.
I due amanti si guardano. Sorridono…
«Accendi adesso?»
«No… aspettiamo ancora un po’.»

180
L'ULTIMA CICCA
Progetto "Passami la Storia"

«Che diavolo sei venuto a fare qui se non abbiamo più niente da
dirci?»
«Lo sai che non sono venuto qui per parlare.»
Lo vidi frugare nervosamente nelle troppe tasche del giaccone
imbottito, fino a quando un accenno di sorriso sancì il successo
della sua ricerca.
Un rapido movimento ed il bagliore della fiamma illuminò
quello che in passato era stato il nostro unico rifugio. Anche qui il
tempo aveva lasciato segni incancellabili come quelli sui nostri
volti.
Poco prima, nella penombra, si era annidato il sospetto che quei
lunghi anni non fossero mai passati; la polvere e un colpo di tosse
proveniente dall’altra stanza ci richiamarono bruscamente al
presente.
«Passami la cicca» gli chiesi. E lui me la offrì, come aveva fatto
mille volte prima, in un tempo magico ma ormai perduto. Sulle
labbra sentii il suo sapore, mischiato a quello del filtro e della
nicotina. Bastardo, pensai. Potevamo realizzare in nostri sogni,
fare quello che abbiamo sempre sognato, ed invece…
«Come sta?» mi domandò. E che cazzo gliene fregava a lui!
Vedova a trentacinque anni, con due bambini piccoli. Ecco che
cosa rimaneva di me.
«Non lo senti? Sta morendo…» gli dissi. E aspirai forte quella
dannata cicca, cercando di farmi venire un tumore fulminante.
Quanto lo odiavo. Quanto lo desideravo!
«Senti, volevo dirti soltanto che mi dispiace…»
«Si, lo so…» e intanto pensavo “che stronzo! Scordati la cicca,
perché non te la rendo!”.
«Comunque, grazie di essere passato. Adesso devo tornare da
lui…»
«Certo. Se hai bisogno di qualcosa, non esitare…»

181
Esistono forze nascoste che ti permettono di fare cose
impensabili. Attinsi a quelle per evitare di piangere, per non
dargli anche quella soddisfazione.
«Va bene…»
«Ciao…»
«Ciao!»
Lo osservai salire in auto e tornare verso la città. La sigaretta era
arrivata alla fine. Aspirai forte i suoi ultimi millimetri di tabacco e
poi la gettai il più lontano possibile.
Fu la mia ultima cicca.

AUTORI: GM Willo, Gherardo, Ciccius, Lacate, Marcochao

182
SWEET LITTLE PAIN
di Giulia Riccó

Mi sdraiai tra i fiori continuando ad assaporare i momenti


passati con lui come a volermi fare del male. Mi torturavo
dolcemente al pensiero delle notti passate assieme. Lui il mio
dolce piccolo dolore. Guardai il sole sopra di me.
Era accecante.
Chiusi gli occhi e vidi il suo volto. Mi sorrideva dolce e gentile.
Ora era da lei, il suo antico amore. Lui che non sapeva decidersi
era andato da lei ancora una volta, chissà di cosa parlavano, se la
stava accarezzando, se le ha mai parlato di me. Chissà se mi
avrebbe pensando mentre guardava il suo viso.
Continuai a farmi del male pensando a tutte queste cose. Sentii
come un dolore sordo che ti si incolla al cuore e te lo strappa
piano, ti allaga le vene, ti artiglia lo stomaco come un drago
affamato.
Riaprii gli occhi e, in un istante, il blu del cielo si mescolò al
verde dell’erba e al viola dei fiori e una luce accecante mi ferì gli
occhi. Li tenni fissi sul sole fino a farli lacrimare, poi li richiusi e
sentii il mio stomaco in subbuglio e la mia testa galleggiare
leggera. Mi tornò alla mente il nostro primo bacio, la nostra
prima notte d’amore.
Di nascosto da tutti, all’insaputa di tutti avevamo coltivato il
nostro affetto e il nostro amore così come si coltiva un piccolo
giardino. Neppure noi ci eravamo accorti di quanto fosse
profondo ormai l’affetto che ci legava. Fino al giorno in cui non ci
incontrammo di nuovo. Tra amici, come amici, poi dopo, nella
clandestinità della notte, come amanti. Mi risuonavano
all’orecchio le sue parole d’amore e potevo ancora sentire il suo
profumo invadere le mie narici. La pelle bruciante nel calore dei
suoi abbracci. Quanto mi mancava tutto ciò.
Ripensare a quei momenti era dolce e straziante. Separarmi da
lui e vederlo tornare alla sua vita senza di me fu ancora più
doloroso.

183
Quante lacrime versai quando mi disse “Non so decidermi, sei
la cosa più speciale che mi sia capitata e ho paura di perderti, ma
non riesco a decidermi. Siete entrambe importanti”.
Fu come se qualcuno mi strappasse il cuore e lo gettasse tra le
fiamme.
L’unica cosa che riuscii a dirgli fu di prendersi tutto il tempo
che voleva, di pensarci bene perchè, tutti quegli anni passati con
lei non potevano cancellarsi in un momento e che magari c’era
ancora speranza di tornare indietro e aggiustare i pezzi rotti.
Aggiunsi di non preoccuparsi per me che sarei stata bene
comunque, che ero forte.
Che patetica bugiarda sono stata. Non stavo per niente bene.
Avrei voluto averlo accanto, desideravo che si decidesse in
fretta per non restare in questo maledetto limbo ad aspettare. Era
straziante straziante.
Stupida, stupida, stupida.
Arrivò un messaggio sul cellulare. Non lo guardai pensando
che fosse lui che mi diceva che rimaneva da lei quella sera.
Stupida e illusa.
Ebbi un brivido di freddo. Il vento che si alzò mi asciugò le
lacrime.
Lacrime? Non mi ero nemmeno accorta di essermi rimessa a
piangere. Sono proprio patetica.
Eppure non potevo fare a meno di pensare a lui.
E così continuai la mia silente tortura.
“Sapevo che ti avrei trovata qui. Per fortuna che avevi detto che
saresti stata bene. Sei la solita sciocchina.”
Aprii gli occhi. Il sole era tramontato e stavano comparendo le
prime stelle. Lui si sdraiò al mio fianco.
Sentii un tuffo al cuore e un calore immenso quando mi prese la
mano.
“Guarda quante stelle ci sono sta sera! Scegline una…”
Guardai il cielo, poi guardai lui. “ Io l’ho già la mia stella.”
sussurrai senza fretta.
Restammo lì abbracciati senza dire altro con un piccolo dolce
dolore a tenerci compagnia.

184
LA LAMA NELLA TELA
Raccontami sulle note di...

In bocca ho ancora il sapore dell’altra. Dolce come il miele nel


momento, amaro come il fiele mentre penso a lei, il mio unico
amore.
Potrei mentirle, mentire a me stesso mentire al mondo intero,
ma non sarebbe mai più lo stesso. Non è un bivio, non esiste una
scelta vera e propria. Esiste solo quello che è successo, in una
notte alcolica d’inverno, tra le lenzuola di raso di una ragazzina
incontrata per caso. E lei che mi cerca al cellulare, che impreca
con le amiche perché non le rispondo ai messaggi, perché non
sono dove dovrei essere.
Niente potrà mai cambiare quello che è successo. Niente e
nessuno potrà cancellare questa storia, la storia di una scopata
veloce, di una lussuriosa notte senza stelle.
Ho infilzato la lama nella tela del nostro quadro, ho aperto uno
squarcio che non potremo mai richiudere. L’unica alternativa è
rincominciare a dipingere. Un’altra tela, nuovi pennelli, un altro
soggetto.
È l’inizio di un nuovo corso?
Questo dipende da lei.
Io sarò le sue tempere, se lei lo vorrà. Ancora, ancora ed ancora.
Se lei lo vorrà…

GM Willo ascoltando “A Natural Disaster” degli Anathema.

185
L'URNA DEL SACRO TÉ
di Aeribella Lastelle

Capitolo 1

Nella città di Clarabia, presso il palazzo reale della principessa


Gigliola, si trova l’Urna del Sacro Tè, il cui prezioso contenuto
altro non è che la cosa più desiderata dell’intero continente
emerso (infatti gli abitanti dei Mari non usano prendere il tè!). Il
pregiato contenuto dell’Urna è un estratto di foglie incantate di
una pianta sconosciuta, proveniente da una remota dimensione
dello spazio. Tali foglie possono essere utilizzate infinite volte e
l’infuso che ne deriva possiede poteri illimitati. Per questo
motivo viene chiamato il Tè dei Desideri.

Capitolo 2

Si conosce dunque la leggenda di questa magica Urna e del Tè


dei Desideri, ma rimane ancora Mistero Velato ciò che presto
accadrà. É un giorno sereno che preannuncia una visita
inaspettata, ed ecco che il principe Vertusio, signore di una terra
nordica estremamente fredda, giunge alle porte del palazzo di
Clarabia circondato da accompagnatori, per omaggiare la bella
Gigliola di splendidi doni. Ma nessuno è a conoscenza della
malvagia congettura del principe, che in verità vuole solo
impossessarsi della preziosa Urna. Ed è proprio per questo
motivo che accetta l’invito della principessa a rimanere un po' di
tempo a palazzo.

Capitolo 3

Avviene così che e furbo Vertusio, ormai in confidenza con


Gigliola, si faccia rivelare il luogo segreto in cui l’Urna è deposta.
Non passa molto tempo che una notte il perfido, aiutato dal suo
consigliere e stregone di talento Demetrio, discenda nelle
profondità del palazzo verso il nascosto loco, ed eludendo il
volere delle guardie, recuperi il prezioso tesoro per poi fuggire a

186
cavallo nella notte. Ma ritrovandosi senza la sua cospicua scorta,
probabilmente ancora immersa nel sonno nelle stanze del palazzo
della principessa, si rende subito conto che il viaggio verso il suo
paese si rivelerà alquanto lungo ed insidioso.

Capitolo 4

Al risveglio la principessa, appena accortasi del terribile


inganno del principe, rimane estremamente sconcertata e subito
raduna i suoi uomini migliori, ovvero i tre specialisti chiamati
“Gli Artigli di Clarabia”. Questi valorosi sono niente poco di
meno che: Cleodoteo il Magnifico, prode guerreggiante senza
timore alcuno, il dottor Savino, illustre studioso e scienziato di
successo, e Mr. Tebaldo, pensatore, inventore e validissimo
factotum.
Tosto i tre salgono a cavallo e partono all’inseguimento dei due
ladri.

Capitolo 5

Intanto i due fuggiaschi, approfittando di una breve sosta, si


adoperano per soddisfare immediatamente il loro più grande
desiderio, ovvero assaggiare il leggendario Tè. All’interno
dell’Urna, peraltro di squisita fattura, trovano un piccolo uovo
dorato agganciato ad una sottile catenella., da utilizzare come
filtro per le pregiate foglie. E così in breve tempo i due preparano
due tazze di fumante infuso che non tarda molto ad essere
bevuto. Con estremo stupore dei due ladri nulla accade, eppure il
Tè è veramente buono.

Capitolo 6

A corte la disperata principessa Gigliola, rimasta priva del suo


prelibato Tè, cerca di consolarsi con una cioccolata calda. Il
risultato, pessimo per la delicata pelle della bella principessa, la
fa disperare ancor di più.

187
Capitolo 7

L’Artiglio di Clarabia cavalca attraverso le lande selvagge del


paese, seguendo le tracce dei fuggiaschi. I tre giungono presso la
foresta dei Tiziani, un popolo modesto e amico del bosco. E lì
rimangono ospiti per la notte, scoprendo che nessuno è passato
da quel territorio negli ultimi due giorni. Ormai convinti di essere
stati ingannati da delle false tracce (era stata infatti una magia
dello stregone Demetrio a piazzarle), la mattina dopo i tre
valorosi ritornano sui loro passi, cavalcando veloci per
recuperare il tempo perduto.

Capitolo 8

Nel paese dei Corridoni (alquanto ad est) il Governatore On-


Tai-Ogoko viene a conoscenza del furto presso la corte della
principessa Gigliola. Ben desideroso anch’egli di mettere le mani
sulla leggendaria Urna, convoca immediatamente il suo gruppo
scelto denominato Il Pugno di Ogoko. Questo è composto da otto
guerrieri-canidì, specialisti in ogni tecnica di combattimento ed
esperti in ogni arte di sopravvivenza. Anche per loro l’ordine è
quello di recuperare il prezioso tesoro, così partono veloci verso
ovest.

Capitolo 9

Il consigliere mago Demetrio, stupito forse più del suo principe


dell’apparente inefficienza del magico infuso, promette a
Vertusio di analizzare le foglie del composto, appena giunto
presso il suo laboratorio. Ma la strada da percorrere è ancora
lunga ed insidiosa.

Capitolo 10

Intanto la principessa Gigliola si dà per malata. Lei infatti si è


convinta che senza la sua tazza di prelibato Tè dei Desideri
quotidiana, la sua vita è condannata ad una lunga agonia che

188
presto la porterà sul letto di morte. I dottori si adoperano per
trovare un rimedio.

Capitolo 11

Tornati sui loro passi i magnifici dell’Artiglio di Clarabia


ritrovano finalmente le tracce dei due ladri, i quali sembrano aver
tagliato la foresta passando per i Colli del Silenzio. Ancora irritati
a causa dell’inganno delle false tracce, i tre spronano le loro
cavalcature fino al tramonto, scoprendo però di avere sempre
all’incirca due giorni di svantaggio sul principe ed il suo
servitore.

Capitolo 12

Circondati dai silenziosi colli, il principe Vertusio e Demetrio lo


stregone avvistano una casa solitaria nella valle. Desiderosi di un
posto caldo per passare la notte, si affrettano a raggiungerla. Il
padrone di casa, un Nano Nero di nome Silvestro con la barba ed
i capelli bianchi come la neve, li invita con un sorriso ad
accomodarsi presso il fuoco, ma il mago, malgrado l’apparente
gentilezza della Stranfigura, ne diffida fin dall’inizio. Ed infatti
durante la notte i due vengono attaccati improvvisamente da
un’orribile Verme Gigante (non tutti sanno che i Nani Neri di
notte si trasformano). Prontamente Demetrio lo stregone evoca
uno Spirito Criptico per impegnare il mostruoso essere, e così i
due hanno il tempo di scappare. Mentre fuggono nella notte,
Vertusio maledice l'inutile Urna, e se stesso per averla così tanto
desiderata, ma il suo fedele compagno gli assicura che in qualche
modo il Tè dei Desideri mostrerà prima o poi i suoi poteri.

Capitolo 13

Nel paese dei Meridìani, situato a nord dei Colli del Silenzio, il
principe dei nomadi Tiberio attende il risultato delle divinazioni
della Zingara Veggente. È così che viene a conoscenza

189
dell’imminente arrivo del principe Vertusio e del suo consigliere
in possesso dell’Urna del Sacro Tè.
I nomadi si preparano ad accogliere i fuggiaschi.

Capitolo 14

I tre uomini della principessa Gigliola giungono presso la casa


del Nano Nero e qui hanno un interessante conversazione con lo
strano personaggio. Scoprono infatti di essere finalmente sulla
giusta strada, giacché due notti prima i due ladri si erano fermati
nel medesimo posto. Estremamente ospitale e gentile, Silvestro
invita infine il gruppo a rimanere per la notte, ma il saggio dottor
Savino, che la sa lunga e grassa (nonché 5 o 6 più del Diavolo), si
scusa da parte di tutti dicendo: “Mi dispiace ma andiamo di
fretta!” Col tramonto in faccia i tre tornano all’inseguimento.

Capitolo 15

Intanto il Pugno di Ogoko, dopo aver raggiunto il lato orientale


dei Colli del Silenzio, si divide in quattro coppie per esplorare
meglio la zona.

Capitolo 16

Viaggiavano al riparo di una scarsa vegetazione, intenti a


passare inosservati per l’insidioso paese dei Meridiani, quando il
principe Vertusio insieme al suo compagno stregone cadono
nell’imboscata che li attendeva. Circondati da un gruppo di
esperti guerrieri nomadi, i due vengono fatti prigionieri e l’Urna
viene consegnata al principe Tiberio. Impaziente come un
bambino, quest'ultimo fa preparare immediatamente una tazza
del prezioso infuso dalle magiche proprietà, ma quando lo beve
ne rimane alquanto deluso (non certo per il gusto, decisamente
squisito).

190
Capitolo 17

Giunti nel paese dei Meridiani, i componenti dell’Artiglio di


Clarabia vengono a sapere della cattura dei due fuggiaschi con
l’Urna. Consci dell’inutilità di chiedere al principe dei nomadi il
tesoro recuperato in nome della principessa Gigliola, unica e sola
proprietaria, congetturano un qualche espediente per
riappropriarsi segretamente del prezioso.

Capitolo 18

Due guerrieri canidi del paese dei Corridoni giungono presso la


casa del Nano Nero e scoprono importanti informazioni riguardo
l’Urna, ma sfortunatamente per loro decidono di trascorrere la
notte presso l’ospitale focolare. Solo uno di foro riesce a mettersi
in salvo dall’improvviso attacco del verme gigante, e spronando
veloce la sua cavalcatura si dirige verso nord.

Capitolo 19

Il principe Tiberio, scontento del trofeo appena conquistato,


decide di usufruirlo per uno scopo a lui molto caro. Subito ordina
una scorta di dieci Gendarmi delle Pianure e si prepara con il suo
carro a lasciare la reale tenda, per raggiungere ad ovest la terra
dei laghi. Laggiù, nel paese dei Fullomini, abita la bellissima
principessa Camilla, di cui Tiberio è immensamente innamorato.
Quale altro dono più prezíoso avrebbe potuto regalarle se non la
magnifica Urna del Sacro Tè?

Capitolo 20

La principessa Gigliola, intanto, sempre più malata e depressa,


riceve a corte un illustre filosofo dell’isola di Tembara, nel mare
del sud. Questo, vivissimamente interessato all'Urna, assicura di
poter recuperare il tesoro perduto se solo gli viene concesso di
approfittare della biblioteca dedicata alla leggenda del sacro tè
(una serie di scritture in lingua arcaica dove si narra del più e del

191
meno riguardo alle arti del Tè ed affini). Si patteggia che, nel caso
l’Urna venisse recuperata, il brillante filosofo verrà ricompensato
con una presa del Sacro Tè.

Capitolo 21

Dall’alto dei colli i tre della principessa Gigliola vedono


prepararsi a partire la carovana del principe nomade e subito Mr.
Tebaldo scende a valle per cercare importanti informazioni.
Tiberio è ormai pronto a partire quando il Pensatore Inventore è
di ritorno e rivela ai suoi compagni il progetto del nomade. I tre
si preparano così a seguire la carovana.

Capitolo 22

Il guerriero canide sfuggito all’orribile verme gigante raggiunge


la parte settentrionale dei Colli del Silenzio, dove incontra due
suoi compagni ai quali rivela l’accaduto. Presto così i tre
esplorano la valle dei nomadi e scoprono che il principe Tiberio è
adesso possessore dell’Urna e che è appena partito alla volta del
paese dei Fullomini. Due di foro decidono di inseguire il carro,
mentre l'altro riceve il compito di avvertire il resto della banda. Il
gruppo così si scioglie.

Capitolo 23

All’interno della sua grotta d’argilla, l’Animale Antico osserva


la valle, individuando una preda perfetta; una carovana di
nomadi, un pranzo speciale. Con passo leggiadro la Creatura
Primordiale discende silenziosamente il pendio.

Capitolo 24

Dopo ore di ingegnoso lavoro, Demetrio lo stregone si libera


dalle catene che lo tenevano prigioniero, e veloce si guarda
attorno sapendo di non avere tempo da perdere. Con un gesto
della mano addormenta le due guardie ed un momento dopo

192
libera il suo signore, il principe Vertusio, il quale adesso è molto
più interessato di vedere Tiberio il nomade soffrire mille pene,
che non di mettere di nuovo le mani sull’Urna. In meno di un’ora
i due sono di nuovo a cavallo all’inseguimento della carovana del
principe.

Capitolo 25

Il sole è alto nel cielo quando Tiberio da ordine di fermarsi per


una piccola sosta. In quel mentre la Bestia fuoriesce dalla
vegetazione cogliendo di sorpresa i Gendarmi delle Pianure. Due
di essi si ritrovano immediatamente a terra, mentre gli altri si
dispongono a semicerchio davanti al carro del principe. Per
alcuni furiosi scorci di battaglia i guerrieri vendono cara la pelle,
ma presto si accorgono che la loro audacia non basterà.
L'Animale Antico stermina ogni suo avversario, ma quando
penetra all'interno del carro per piombare sull’ultima indifesa
preda, si accorge che questa è fuggita (insieme all’Urna
ovviamente, ma questo alla Bestia poco importa). E non le
importa neanche del fuggiasco, dal momento che la sua cena è
già sostanziosa.

Capitolo 26

Sinedio, questo è il nome del filosofo, annuncia alla principessa


Gigliola di aver anticipato il destino e di conoscere l’esatto loco
dove l’Urna si sarebbe trovata da lì ad una settimana (quella di
farsi beffe del fato era la meta più ambita dei filosofi e Sinedrio
era convinto di esserci riuscito). Si prepara così una scorta di
dodici guerrieri scelti per accompagnare il filosofo verso questo
misterioso luogo: lo Strapiombo sulla Foresta Senza Nome.

Capitolo 27

Cleodoteo il guerriero è il primo ad avvistare la carovana nella


valle. I tre discendono cauti e si avvicinano al luogo dello scontro,
ove il sangue colorava il prato e l’odore di morte impregnava

193
l’aria. Il dottor Savino riconosce, dalle tracce lasciate dalla
battaglia, che una feroce bestia deve essere stata l’artefice di
quella carneficina. Il gruppo si convince così che se l’Urna non si
trova più nel carro, qualcuno deve essersi allontanato con essa
(giacché le bestie, soprattutto quelle feroci, non prendono il tè).
Nel giro di un'ora i tre trovano le tracce lasciate da Tiberio e si
prestano a seguirle.

Capitolo 28

Una spia del governatore On-Tai-Ogoko, alla corte della


principessa Gigliola, scopre gli intenti della segreta spedizione di
Sinedio e subito avverte i cinque restanti guerrieri canidi che si
erano ritrovati presso la città di Clarabia in attesa di disposizioni.
Facendo molta attenzione a non farsi scoprire, i cinque del
Pugno di Ogoko si adoperano per seguire il gruppo guidato dal
filosofo dell’Isola di Tembara.

Capitolo 29

Tiberio intanto segue il fiume verso nord ovest, diretto


inesorabilmente verso le montagne, un percorso al quale è
costretto se vuole evitare le insidie del bosco. Riflettendo su ciò
che gli è capitato, il principe nomade maledice la sacra Urna
contenente quell’inutile tè, convinto oramai di essere stato
ingannato dalla leggenda stessa. É quasi tentato di gettare il
tesoro nel fiume quando ci ripensa senza apparente motivo e si
rimette in cammino verso le montagne, nella speranza
d’incontrare, ai confini del bosco, una carovana appartenente al
suo popolo.

Capitolo 30

Il principe Vertusio e il suo compagno stregone giungono


presso la valle dove la carovana dei nomadi era stata attaccata
dall’Animale Antico. Qui il mago Demetrio recupera un
indumento del principe Tiberio e per mezzo di questo elabora un

194
complesso incantesimo che gli rivela l’esatta locazione del
nomade fuggito insieme all’Urna. Tosto i due si rimettano in
viaggio attraverso il bosco, nell’intenzione di anticipare la loro
preda.

Capitolo 31

É oramai in vista del confine del bosco quando il principe


Tiberio avverte alle sue spalle il sopraggiungere di uomini a
cavallo. Subito cerca di nascondersi nella vegetazione, ma appena
mette piede nella foresta due figure di sua conoscenza gli si
parano davanti con intenzioni tutt’altro che amichevoli.
Velocemente il nomade indietreggia, tornando verso la sponda
del fiume dove i tre uomini della principessa Gigliola sono
intanto sopraggiunti. Demetrio lo stregone è lesto ad evocare un
Demone del Bosco ed a scaraventarlo sulla sua preda che, colpita
duramente, lascia cadere la preziosa Urna. Si accende così una
caotica lotta che si conclude a sorpresa con il sopraggiungimento
della coppia dei guerrieri canidi che afferrano il tesoro e veloci
spronano i loro destrieri verso le montagne. Il principe Tiberio,
spinto nel fiume dall’entità evocata, viene dato per disperso,
mentre gli altri, Cleodoteo il guerriero, il dottor Savino, Mr.
Tebaldo, il principe Vertusio e Demetrio il mago, inseguono
dappresso i due uomini del governatore On-Tai-Ogoko.

Capitolo 32

I dodici guerrieri della principessa insieme a Sinedio il filosofo


attendono presso lo Strapiombo sulla Foresta Senza Nome,
assolutamente allo scuro riguardo alla presenza dei cinque
membri del Pugno di Ogoko nascosti poco distanti e pronti a
tutto. Ed ecco arrivare al galoppo un gruppo di prede e predatori,
la giusta scorta per la pregiata Urna del Sacro Tè. Un momento
dopo si accende una vera e propria battaglia sulla sporgenza
dello strapiombo. Il Pugno di Ogoko si riunisce e guerreggia con
foga per difendere il prezioso tesoro dagli Uomini della
principessa Gigliola, mentre Demetrio lo Stregone evoca contro le

195
due parti un paio di oscuri demoni. La battaglia sembra priva di
un esito fino a quando il guerriero canide con in mano l’Urna
viene colpito da un incantesimo del mago e perde la presa. Il
prezioso oggetto inevitabilmente rotola verso il bordo dello
strapiombo e precipita nella Foresta Senza Nome. Sinedio,
davanti a tale evento, si getta nel vuoto seguendo il tesoro sì
tanto rincorso, cosciente dell’errata formulazione di ogni sua
teoria. Non è possibile in ogni caso precedere il proprio fato.

EPILOGO

E qui si conclude la storia dell’Urna del Sacro Tè. Tutti i


personaggi ritornarono ai propri paesi e rifletterono molto sugli
eventi trascorsi. Purtroppo, come spesso accade, non impararono
niente dai loro sbagli. Perché gli uomini sono così. Corrono,
corrono e corrono dietro le loro chimere, senza capire il senso di
tutto quel correre. E una volta che hanno raggiunto i loro scopi,
non sono mai soddisfatti.
L’anno dopo fu la volta dell’Anfora del Sole, che si diceva
contenesse il vino degli dei. Ma questa è un’altra vecchia storia…

Aeribella Lastelle 1996

196
GIOVANNA
di Giulia Riccó

Andai da Giovanna il 27 maggio. Era in cella. Piangeva. Mi


malediceva e mi pregava allo stesso tempo.
“Dove sei? Vieni fuori. Perchè non ti fai più vedere?”
“Non sono io che non mi faccio più vedere, sei tu che non vuoi
più vedermi.”
“Non è vero. “
“Oh si, mia cara. Volevi andare oltre e non hai più sentito cosa
ti stavamo dicendo. Non hai più voluto vedermi e io non sono
più apparso.”
“Mi hai abbandonato qui a marcire. Qui in una prigione inglese.
Perchè?”
“Vedi piccola. Stai sbagliando anche ora. Non ti ho
abbandonato io ma il tuo Re.”
“No, non mi abbandonerà, gli ho dato un trono. Ho combattuto
per lui. Per lui e per il mio Dio. Tu me l’hai comandato e io l’ho
fatto.”
“ L’hai fatto perché eri destinata a questo e perchè l’hai voluto.
Il tuo Re non te l’ha domandato.”
“ Mi hai lasciato sola, e guarda cosa mi hanno fatto… ti prego
proteggimi, parlargli digli che è vero, non mi abbandonare.”
“Non posso parlare con chi non vuol sentire. Fidati di me
Giovanna. Non temere, sarò al tuo fianco…”
“No, aspetta… non te ne andare.. non lasciarmi qui ancora…
per favore portami via… nooo…”
Il suono delle grida disperate della ragazza svegliarono i
carcerieri che accorsero alla cella e la trovarono vestita con abiti
di foggia maschile.
La portarono davanti agli inquisitori e lì ritrattò l’abiura che
aveva firmato, si difese ma era confusa, terrorizzata. Dall’ombra
osservavo il processo. Nessuno mi vide, nemmeno Giovanna.
Ascoltavo e guardavo il lento evolversi degli eventi e quanto gli
uomini possano essere crudeli quando una cosa diventa inutile.

197
Arrivò il 30 maggio al mercato di Rouen. Una grande pira era
stata allestita nel centro della piazza.
Giovanna fu condotta in catene. Pregava e piangeva. Piangeva e
pregava.
“Dove sei?”
“Accanto a te.”
“Perchè lo fanno? Tu sei qui, parlagli, diglielo. Obbligali a
lasciarmi. Ho fatto ciò che hai chiesto. Perchè?”
“E’ il libero arbitrio Giovanna. Ognuno decide di rispondere o
meno alle convocazioni di Dio. Tu l’hai fatto. Io non posso fare
altro.”
Continuò a pregare anche mentre leggevano la sentenza e le
accuse.
Per un attimo avrei voluto prenderle la mano e farle sentire che
non aveva sbagliato. Che doveva fidarsi. Ma la fede non lo
permette. Doveva trovare la forza da sola. Doveva fidarsi di Dio
anche allora che stava per essere condotta sul rogo. Doveva
credere soprattutto allora… o sarebbe stato tutto inutile.
“Cosa devo fare? Cosa devo fare dimmelo! Parlami ti prego”
“Fidati Giovanna. Sarò qui.”
Non potevo fare altro per lei. Piangeva, era terrorizzata.
Cominciò a invocare il nome di Gesù quando accesero la pira.
Povera bambina aveva gli occhi gonfi e spiritati. Continuava a
domandarmi il perché. Perché Dio lo vuole, perché gli uomini
hanno deciso così. Cosa potevo dirle? Alle volte io stesso dubito
del nostro operato. Attesi finché la coscienza di Giovanna non fu
altro che cenere.
Mi chiedo se alle volte il mio Signore non sia un po sadico. In
fondo poteva dargli una fine più indolore.
Tornai al mio posto tra gli angeli, un giorno avrei forse trovato
Giovanna al mio fianco. Allora avremmo chiacchierato a lungo di
quel giorno e di tanti altri.

198
SERATA FM
Progetto "Passami la Storia"

La radio quella sera sputava pezzi jazz, roba acid tipo Jimmy
Smith, oppure il vecchio Coltrane.
Vecchia buona radio, ricordo ancora quando la comprai, ormai
saranno passati quasi dieci anni. Era un po’ nascosta dietro agli
imponenti stereo di nuova generazione, ma mi chiamò, come
fanno le cose quando scelgono un padrone. E lo stesso fu quella
sera, la sera di cui vi sto parlando. Lei mi chiamò…
…ed io, sventurato, risposi, e per la prima volta dopo tanto
tempo, ma senza pensarci due volte, salii in soffitta e la tirai fuori
dalla sua polverosa custodia di plastica nera.
Le radio antiche hanno il loro perché; si sentono oggetti
importanti, raccontano storie con stile, e la musica che
trasmettono é sempre quella giusta.
Ma quella sera accadde qualcosa di strano…
Seduto sul divano a fumarmi l’ennesima camel light,
galleggiavo quieto sopra un assolo di hammond, quando
all’improvviso una scarica elettrica interruppe il vecchio Jimmy.
Cavolo, pensai. Feci per andare a sistemare l’antenna, quando la
voce di una donna mi bloccò.
«Fumi ancora, ricciolo? Quelle schifezze ti uccideranno…»
La voce la conoscevo, ma che diavolo ci faceva dentro la mia
vecchia radio?
«Samantha, sei tu?»
Non pensate male di me adesso. Va bene, lo ammetto, stavo
parlando ad un pezzo di legno e ad un ammasso di transistor. Ma
sono più che certo che vi sareste comportati esattamente come
me. Dannata radio…
«Certo che sono io, ricciolo. E chi altro dovrebbe essere…»
Aveva la cattiva abitudine di chiamarmi “ricciolo”, e un tempo
poteva anche andarmi bene, ma adesso, con la piazza che avevo
sulla testa, quel nomignolo aveva il sapore di uno sbeffeggio.
«Che cavolo sta succedendo!» imprecai a quel punto. E mi alzai
dal divano, determinato a chiudere quell’assurda conversazione.

199
Allungai la mano verso la manopola, ma la voce di Samanta mi
bloccò di nuovo.»
«Stavo pensando alla veranda di Toby, alle nottate di
quell’estate così calda, che anno era? 1997? 87? 77? 67? 57?…»
Già, le chiacchierate insieme ai soliti balordi, la musica in
sottofondo, una cassa di birra fredda sugli scalini del porticato.
Chi arrivava se ne agguantava una e poi salutava il resto della
truppa. Le zanzare all’inizio erano perfide, ma poi si ubriacavano
insieme a noi, o forse era la musica che le frastornava per bene.
Verso le tre del mattino avevano smesso di tormentarci, e la notte
entrava nel suo momento clou. Poi arrivava sempre il Freddy con
una tipa nuova. Faceva le sue battute sconce e poi se ne andava.
Samantha ballava in veranda, Miki mischiava tabacco e gangia, io
andavo a cambiare disco; a quell’ora ci voleva del sano blues, non
so se mi spiego. E poi via così, fino alle prime luci dell’alba.
Chissà che anno era…
«Samantha, che diavolo ci fai nella mia vecchia radio?»
«E tu, che diavolo ti è preso stasera, che te stai da solo a parlare
con una vecchia radio?»
Poi udì un’altra scarica elettrica, e finalmente Jimmy Smith poté
finire il suo assolo.

AUTORI: GM Willo, Donatello, Ciccio, Aeribella Lastelle

200
L'UOMO DEI PUZZLE
di GM Willo

C’era una volta un giocattolaio di nome Omorzo. Era un tipo


così pignolo che ogni volta che gli arrivava un nuovo puzzle
sentiva l’impellente necessità di controllare che avesse tutti i
pezzi. Di giorno infatti lavorava al negozio mentre la notte faceva
i suoi puzzle. Non dormiva mai, per questo motivo era infelice e
aveva due enormi occhiaie.
Un giorno entrò un cliente per compare uno dei suoi puzzle,
che avevano il bollino di controllo: “1000 pezzi sicuri!”
«Mi scusi, ma che significa questo bollino?» domandò.
«Che i miei sono puzzle certificati. Li ho controllati uno ad uno
prima di metterli in vendita» rispose Omorzo.
«Mi vuol dire che ogni puzzle che ha in vendita è già stato
fatto? Che a nessuno di questi manca un pezzo?»
«Esattamente!» concluse soddisfatto il giocattolaio.
«Allora mi spiace, ma non m’interessa…» rispose il cliente,
incamminandosi verso l’uscita.
Omorzo naturalmente ci rimase male.
«Si fermi! È perché sono già stati usati? Mi spiace, ma è una
cosa più forte di me. Non riesco a resistere. Non riesco a dormire.
Appena mi arrivano in negozio devo mettermi subito a
controllarli. Gli altri clienti sono sempre soddisfatti, perché
almeno sono sicuri di avere tutti i pezzi…» Omorzo era molto
dispiaciuto.
Il cliente, che era già alla porta, tornò sui suoi passi. Guardò il
giocattolaio e sorrise.
«No, non è perché sono usati che non mi interessano.»
«E allora che cos’è?»
«È perché li ha privati del mistero, e il mistero è tutto nella
vita.»
«Quale mistero?»
«Che a qualcuno potesse mancare un pezzo. Non è forse questa
la principale ragione per la quale si fanno i puzzle?» Poi il cliente
salutò e non si vide più.

201
Da quel giorno Omorzo ha smesso di controllare i puzzle.
Adesso conta i pezzi delle scatole del lego.

Dedicata a Giaime Pieroni

202
IPOCONDRIA
di Jonathan Macini

Qualcuno mi crederà pazzo, e forse lo sono per davvero. Ma


non lo siete forse anche voi?
In questa mia virginale attesa di oltrepassare quel confine da
me segnato, io mi rivolgo agli ascoltatori che vedranno di me
solamente una carcassa, un guscio vuoto, ovvero ciò che rimarrà
di me tra brevi istanti. Dopo avervi rivelato quello che ho da
dirvi, la penna mi cadrà da questa mano, la mano di un uomo sul
bordo dell’abisso più bello.
È difficile incominciare, quando ti senti come se una pressa
stesse sul punto di schiacciarti, e man mano che si abbassa ti
toglie l’aria. Qualcosa d’irreale ma tangibile, una forza interna
che vuole annientarti, prima che tu possa proferire le tue ultime
verità. Ma quale verità avrà mai da rivelare un condannato a
morte come me?
Una in particolare, che mi ha accompagnato per tutta la vita, ed
è qui anche in questo istante, sempre insieme a me. Se adesso si
realizzasse io mi salverei. Ma già lo so che non si avvererà,
perché per quanto la possa rincorrere, riuscirà sempre ad
eludermi, ingannandomi o più semplicemente respingendomi.
E questa folle rincorsa mi ha infine condotto quaggiù, in questa
squallida camera d’albergo, dove il sole mai nasce e mai muore.
Ma sarà poi così importante?
No, non me ne frega niente del sole, ma della luna si, che si
nasconde alla mia vista, perché l’unica finestra che si apre su
questa stanza mi concede solo uno scampolo di cielo. L’astro
notturno se ne vede ben dal mostrarsi in quel fazzoletto di
firmamento…
La verità, l’unica possibile verità, ha fatto breccia nelle mie
paure. Non è possibile continuare a vivere così! Per quale motivo
dovrei allungare questa condanna a morte, quando ho l’occasione
di farla finita subito?
Ho letto da qualche parte che bastano pochi istanti…
…e il sangue sgorga già come una fontana dai polsi appena rasi.

203
IL DIO DEI DINOSAURI
di GM Willo

Attorno al bar Cosmo i mondi ruotano su orbite ben delineate,


per dirigersi inevitabilmente verso destini già scritti. Nel locale
l’atmosfera è satura di luci soffuse, vortici di fumo dagli aromi
pungenti e melanconici assoli blues. Ogni sera è così…
Dietro al bancone Toth il barista asciuga bicchieri e tazzine con
gesti automatici, riponendo poi le stoviglie nei loro rispettivi
scompartimenti. Alcune divinità si riuniscono attorno al biliardo,
mirando le stecche su pianeti deserti, presi in prestito dai loro
universi. Gli sferici oggetti, liberi dalle loro orbite-prigioni, girano
sul tappeto verde partecipando al gioco. Presto o tardi verranno
ingoiati dai buchi neri del biliardo.
Al bar Cosmo gli Dei cercano di distrarsi dai loro affari, ma a
fine serata è normale che si ritrovino a parlare di lavoro.
Quella sera, a un’ora un po’ tarda, entrò un Dio piccolo piccolo.
Al bar lo conoscevano tutti. Era un tipo un po’ bislacco, con delle
idee buffe, e molti lo prendevano anche in giro. Afferrò un
bicchiere e un cucchiaio e richiamò l’attenzione dei presenti.
Annunciò la sua ultima creazione, una nuova specie vivente per
il suo piccolo mondo. Una specie molto, molto più intelligente di
tutte le altre, fatta a sua immagine e somiglianza, e capace di
comprendere i più grandi segreti del cosmo. Una specie che col
tempo avrebbe dominato su tutti gli altri esseri viventi.
I giocatori di biliardo si guardarono in silenzio e a qualcuno
scappò una risatina. Poi tornarono a giocare, come se non fosse
successo niente.
«Secondo me questa tua nuova invenzione fa la fine di
quell’altra. Com’è che li chiamasti quei mostri? Dinosauri?»
affermò un Dio, spedendo il pianeta numero otto in un buco nero
laterale.
«Già, ricordo che dicesti che quei lucertoloni avrebbero
dominato gli altri esseri con la loro forza. Ma ti dimenticasti di
qualcosa, se non sbaglio…» ribatté un altro, ammiccando
sardonicamente ai compagni di gioco.

204
«È vero, feci un piccolo errore di calcolo. Ma questa volta non si
ripeterà. Ho progettato questi esseri fin nei minimi dettagli. Sarà
la mia più grande creazione, vedrete!» E detto ciò l’ambizioso Dio
lasciò il bar Cosmo.
Gli altri invece continuarono a giocare a biliardo.
«Scommetto dieci galassie che questa nuova specie non dura
più di tre rotazioni» commentò un giocatore, lavorando la punta
della sua stecca col gessetto.
Al bar Cosmo Toth il barista continuava ad asciugare i bicchieri.

GM Willo 12-04-1997

205
LA RICERCA
di Jonathan Macini

Dentro me, alla ricerca di qualcosa che ho perduto molto tempo


fa, un’immagine, una verità, oppure solamente una parola. Nelle
prigioni del denaro e della voluttà, fino a ieri ero incapace di
vedere le cose che succedevano al di là delle sbarre, forse gli
schermi di tanti televisori, dispensatori di realtà a basso costo.
Ogni sbarra un canale diverso, un programma diverso, una
nuova bugia. Ma adesso, dentro queste dannate prigioni, mi
tornano alla mente sequenze di vite passate, esistenze diverse di
mondi lontani.
Al cospetto di pietre gigantesche, custodi di strani segreti, io
udii, io vidi, io sentii. I totem s’innalzavano sulle verdi colline, in
luoghi abitati solo dal vento e dalle stelle, nelle lunghe notti.
Erano le pietre di un mondo senza più tempo, senza più
memorie, oggi rilegato alle favole, all’impossibile. Le pietre
insegnavano agli eremiti, ed io fui anche uno di loro. Vagai per
anni alla ricerca della conoscenza, spinto da qualcosa di innato,
una comica verità alla quale ero legato.
Descrissi cammini già tracciati, presi decisioni già scritte, per
giungere infine alla presenza di quei giganti di pietra, sulle
colline sempre verdi… E fu così che conobbi la verità, ma alla fine
di quell’esistenza mi sfuggì, e la ruota descrisse il suo giro.
Vissi anche nel tempo dei sacri alberi, in un mondo dal cielo
purpureo. Possedevo il dono del volo, planavo leggero sulle
grigie lande di quel mondo fatto di ferro, alla disperata ricerca
dell’unica isola verde del pianeta. Nel mezzo di un oceano di
petrolio, scorsi un lago azzurro ed un’isola al centro di esso. Era
l’unica bellezza di quel mondo. Era lì che si trovavano i sacri
alberi, anch’essi custodi dell’unica verità. La verità alla quale ero
stato legato per tutte le mie esistenze, passate, presenti e future.
I sacri alberi mi parlarono colmandomi di conoscenza,
saturando il mio essere di vibrazioni cosmiche. Ed infine io seppi,
e piansi, e volai via…

206
Mi tornò il ricordo di un universo d’acqua. Nuotavo da un
pianeta all’altro, ignaro delle ragioni che mi spingevano ad
andare avanti senza mai fermarmi. Continuai così, per
innumerevoli segmenti di quel tempo così diverso da questo,
finché non giunsi al pianeta più lontano, una sfera cava che
conteneva un altro universo. Furono le stelle di quel nuovo
universo a parlarmi della verità che andavo cercando. La loro
musica mi rivelò ciò che già avevo saputo e dimenticato più
volte. Diventai una stella in mezzo a loro e continuai ad emanare
luce e suoni per tutta l’esistenza di quel cosmo. Ma finì anche
quel tempo.
Molte altre vite ricordai, e molte altre morti. Fu questa la mia
nuova ricerca, in questo assurdo mondo pieno di prigioni dalle
sbarre televisive.
Quando riuscirò a ritrovare la mia verità, le porte di queste
prigioni si dischiuderanno, permettendomi di oltrepassare la
soglia della conoscenza. Mi basterà un solo passo per arrivare
laggiù, dove non è importate sapere, possedere, dire o fare, ma
quel che conta è essere.
Presto arriverà una nuova fine. Presto incomincerà qualcosa di
nuovo. Perché? Beh, è così che cospiriamo insieme all’infinito, sin
dall’inizio del tutto.
E la ruota continua a girare…

Jonathan Macini 1997

207
L'UOMO VESTITO DI MARRONE
di GM Willo

L’uomo vestito di marrone camminava nel giardino delle


decisioni, in una spira del tempo, dentro il ritaglio di un sogno.
Vi crescevano degli alberi dai rossi pomi; erano i frutti delle
scelte, tutti perfettamente rotondi eppure ognuno dal sapore
diverso. Ne prese uno e lo assaggiò. Se fosse stato acerbo non
riuscì a capirlo. Però a lui piacque.
Ne afferrò un altro ed era dolce, quasi stucchevole. Si sporcò la
bocca del suo fluente succo e si allontanò con le mani appiccicose.
Ma si fermò di nuovo davanti un albero, un nuovo frutto.
Decisioni…
Il pomo aveva lo stesso aspetto degli altri, ma questa volta il
sapore era amaro. Lo gettò via, incurante dei semi che conteneva.
Avrebbero potuto mettere radici e germogliare. Sarebbero nati
altri alberi di frutti amari…
L’uomo vestito di marrone continuò a camminare attraverso il
giardino e ad assaggiare i frutti delle sue decisioni. Tutti diversi
eppure tutti uguali. Poi si sedette sotto un albero e dolorante si
portò le mani al ventre.
Aveva fatto indigestione.

GMW 29-07-1997

208
GIOCO DI BIMBA
di Giulia Riccó

Piano Maria aprì la porta della grande casa fuori città.


Fuori non c’erano luci ad illuminare il giardino, solo la grande
luna piena mostrava e nascondeva le cose.
Dal Bosco di querce proveniva una musica allegra e dolcissima.
Maria la seguì con gli occhi ancor chiusi. I piedi scalzi che
sfioravano l’erba bagnata dalla nebbia e la lunga vestaglia che le
ricadeva addosso come un mantello la facevano sembrare quasi
uno spirito. Un bianco spirito inquieto.
Fu in mezzo al bosco che trovò l’altalena di quando era
bambina. Vi salì sopra e cominciò a dondolare come sospinta da
mani invisibili. Oh quanto tempo era che il suo animo non era
così sereno. Di nuovo felice come quando era una bimba piena di
sogni, non più la donna in carriera che aveva perduto la speranza
di vivere. E fu così che nel gioco di bimba si perse donna Maria.
La grande Luna osservava immota da lassù il suo gioco da
bambina e illuminava pallidamente il suo volto e i folti capelli
biondi. Dalle profondità del bosco i folletti che da bambina tante
volte avevano danzato con lei la osservavano dondolare e
continuavano il loro melodioso canto.
E lei continuava a dondolare.
Maria era felice, avrebbe voluto restare lì per sempre,
accoccolata nel suo angolino di sogno, senza dover respirare più
il dolore dei nostri giorni. Ma come sempre accade nelle favole
più tristi, qualcosa tramava nel buio. Un’ombra si stacco dal
muro mentre l’alba stava quasi per sopraggiungere.
Maria.
Una voce la chiamò. Il canto smise e Maria volò lontano. I
Folletti scapparono piangendo. Una mano corse a sorreggere il
volto di latte di Maria. Un uomo con voce smarrita ripeteva
all’infinito: “ Io… io non volevo svegliarla così…”

Dedicata al mio babbo che da sempre mi ha cantato questa canzone (e


tante altre) come ninnananna.

209
L'ALTRO
di Matteo Cerboneschi

L’ orologio batteva inesorabile una cantilena oramai stonata di


una musica ripetuta e prevedibile che oramai da troppi anni
sembrava aver perso la sua dignità. Molte le cose da ordinare, ma
ancora troppe per poter pensare di trovar posto ad ogni ricordo.
Il silenzio assordante che si respirava in quel loculo privo di
finestre non era niente al confronto del vuoto che traspariva dagli
scaffali impolverati e traballanti che un tempo ospitavano fiori di
campo e lettere di pergamena.

( … troppo poco tempo … )

Lui non sapeva il motivo di questa visita inaspettata, non era


preparato per ricevere, in quella che un tempo era stata una casa,
un ospite tanto sconosciuto quanto terribilmente familiare. Non
era sicuro di ricordarsi dove aveva visto quel volto, un viso non
comune, con un naso pronunciato e nodoso, una pelle lucida e
tirata dalle troppe stagioni; eppure i loro occhi si erano già
incontrati, ed il ricordo di quella faccia continuava a tormentarlo.

( … tic … toc … tic … toc … )

Per ogni battito di quel vecchio perditempo, con le lancette


appuntite d’ottone ed il quadrante in metallo ingiallito, un nuovo
pensiero affiorava alla sua mente trovando spazio fra le memorie
appena assettate; per ogni testo che riusciva a sistemare sulla
vecchia libreria, un nuovo documento spuntava dagli scatoloni di
fianco al suo letto. Erano tutti lì, ammassati come animali sopra
un carro, oramai consapevoli, rattristati, che solo a pochi di essi
sarebbero state risparmiate le lingue della cenere; solo pochi di
loro, come vegliardi mai stanchi, sarebbero sopravvissuti a quel
terribile scempio.

( … ogni cosa al suo posto … )

210
Lui si era svegliato molto presto quella mattina, una notte
travagliata aveva rovinato i suoi propositi. Un sussulto, un balzo
che aveva fatto uscire il cuore dal petto, la testa che gira, la vista
che ritrova adagio
forme conosciute. Un tempo avrebbe ricordato i suoi sogni, li
avrebbe visti allo specchio, lametta nella destra, la sinistra che
passa dolcemente sotto il mento, gesti in cui si riconosceva.
Conosceva bene
quella faccia. Adesso era tutto troppo complicato, quello che un
tempo non aveva valore, che scompariva negli occhi di Lei, che si
perdeva in un fiume di emozioni orfane di razionalità, quelle
cose, quelle piccole
cose insignificanti che oggi lo rendevano schiavo delle sue
solitudini.

( … eppure aveva già visto quel volto … )

Un’umida camicia infeltrita dal colletto rigido, bottoni allentati,


e maniche troppo corte, brache che un tempo erano state di un
nero fiero e luminoso, sostenute da un paio di bretelle dai colori
tenui e sbiaditi. Il
cappotto piegato sulla sedia, un tavolo scarno, duro, appena
visibile nella luce fioca della lampada ad olio.
Lui aveva preparato un pasto in cui non sarebbero riusciti a
mangiare entrambi, non c’era abbastanza
cibo per sfamare due persone, nonostante tutti i suoi sforzi e gli
spiccioli racimolati nei vecchi pantaloni, non era riuscito a
preparare niente di umanamente accettabile per il suo ospite.

( … avrei bisogno di più tempo … )

Non si chiedeva di cosa avrebbero parlato, non sapeva se


sarebbe riuscito a rispondere a tutte le sue domande, forse non
avrebbe neppure trovato il coraggio di parlare di sé. Quanti
rimpianti, quanti sogni inevitabilmente naufragati in un mare di
aride necessità, di sensi di colpa, di parole mai dette.

211
( … rumore di passi dietro la porta … )

Fece appena in tempo a rendersi conto della sua presenza


quando un colpo secco e deciso annunciò il suo
arrivo. Un odore pungente pervase tutto l’appartamento,
L’altro entrò silenzioso ed apparentemente stupito del patetico
tentativo che era stato fatto per cercare di dare un senso a tutta
quella polvere… poiché l’unica cosa che sembrava in ordine in
quel buco tetro era solo la polvere. Non si levò la giacca, non lo
salutò, non fece cenno alcuno che potesse far capire di gradire
quella situazione. Non si mosse, rimase di fronte a Lui per dei
minuti che sembrarono interminabili; la porta aperta, rumori di
bambini che giocano per strada.

( … ancora buio … )

“Ci siamo già visti… il suo volto non mi è nuovo” disse


Lui con ancora in mano il cucchiaio con cui aveva violentato il
loro triste pasto di verdure.
“Tu mi conosci, non è la prima volta che ci vediamo, ti sono
stato molto vicino dopo la morte di Lei” confermò L’altro in tono
quasi irriverente.
“Forse mi scambia per qualcun altro…” disse Lui alzando le
sopracciglia, e raddrizzando una schiena
da troppo tempo piegata.
Alcun rumore, solo silenzio.

( … gli occhi di chi ricorda … )

Un brivido rapido e inaspettato che partì dal fondo del suo


ventre e risalì tutta la schiena, un bagliore che si accese nei suoi
occhi, occhi grandi e tristi che si aprirono di inaspettata
incredulità, gli occhi di un uomo spaventato. Silenzio.
“Dove andiamo?” disse Lui.
“Lo sai…”
“Come devo chiamarti?” sibilò il vecchio padrone di casa.
“Chiamami Morte”

212
LA FORESTA VAMPIRA
di GM Willo

Platani e querce secolari torreggiavano sopra la minuta figura


di Mishan, cacciatore delle marche di ponente, ricordandogli le
antiche leggende. La foresta era sempre stata lì, prima che l’uomo
mettesse piede sul continente, prima che le navi lasciassero le
sponde dell’Impero Caduto, e molto prima che le antiche guerre
scoppiassero e gli uomini dimenticassero di essere stati tutti
fratelli.
Se il tempo era nemico di ogni cosa viva, animali, piante e
uomini, la foresta, che il suo popolo aveva sempre chiamato
Uaki, il Grande Respiro, non sembrava venire scalfita dal
deteriorante rintocco dei secoli. Eppure c’era qualcosa di strano
in quel verde così rigoglioso e in quell’abbondanza di foglie, fiori
e frutti. Mishan non aveva mai visitato i lidi di Uaki prima di
allora, ma subito capì che l’ultima guerra, quella devastante
venuta dal nord, era riuscita a trasformare anche quel luogo.
Infatti, anche se le piante sembravano esplodere di vitalità, come
fossero soggette ad una perenne primavera, nell’aria alitava un
odore malsano. A Mishan fece pensare al fetore della
decomposizione, il tipico tanfo dei sepolcri e dei luoghi dei morti.
Quelle due così distanti sensazioni, vista e olfatto, percepite
insieme, mettevano i brividi.
Mishan ricordò perché era giunto fino alla foresta. La mente
andava distratta quando le paure più inspiegabili affioravano in
superficie. Per due interi mesi aveva viaggiato attraverso le
montagne del remoto occidente, terre di lupi e di orsi. Era il
rituale ultimo che il suo popolo chiedeva a coloro i quali
desideravano diventare Grandi Cacciatori. Mishan aveva affinato
le sue tecniche di caccia e di sopravvivenza ed era finalmente
pronto a ricevere l’investitura.
Ma la guerra era arrivata d’improvviso, una moltitudine di
guerrieri corazzati e assetati di sangue proveniente dal grande
nord. Nessuno si era capacitato del perché quei popoli
solitamente pacifici, si erano uniti e avevano mosso guerra alle

213
terre del sud. Qualcuno aveva già intessuto una leggenda al
riguardo. Sembrava che una creatura millenaria, imprigionata nei
remoti ghiacciai settentrionali, a causa delle alte temperature
della passate estate, era stata liberata. In pochi giorni,
richiamando un potere oscuro, la creatura aveva soggiogato le
menti dei biondi e valorosi uomini del nord, per guidarli in una
folle campagna di morte. Per questo motivo era stata chiamata la
Guerra della Follia.
Tutto questo Mishan lo aveva saputo al suo ritorno,
interrogando i pochi sopravvissuti che aveva incontrato lungo la
strada. Il suo popolo era stato costretto ad abbandonare le sue
terre e a salpare verso l’arcipelago di Matiki, nei mari del sud.
Sconvolto da quelle notizie, Mishan aveva deciso di partire per le
marche d’oriente, dove si diceva che la guerra avesse sterminato
intere popolazioni.
Giunto ai confini della foresta, si era augurato di incontrare gli
elfi, il popolo magico che da sempre abitava quei lidi. Non poteva
credere che anche loro fossero stati spazzati via dalla furia dei
popoli del nord. Ma inoltrandosi dentro Uaki, avvertì una
spaventosa solitudine. Non solo non vi erano tracce degli elfi, ma
anche gli animali della foresta parevano scomparsi. E proprio
l’inusuale silenzio, rotto solo dal muoversi delle frasche al vento,
era la terza strana sensazione che non poteva ignorare. Tutto ciò
lo rendeva molto inquieto.
“Ma che fine avranno fatto i folli guerrieri del nord?” si chiese
per l’ennesima volta. Nessuno lo sapeva. Sembrava che l’entità
che si era liberata dal ghiaccio perenne, non avesse uno scopo di
conquista. L’unico suo interesse era quello di distruggere. Mishan
si era imbattuto in almeno due grandi campi di battaglia,
disseminati da corpi putrefatti e armi incrostate di sangue, e non
aveva visto neanche un vessillo. Era come se le armate del nord
non fossero state mosse da alcun desiderio di occupazione.
Il sole si stava abbassando. Era una di quei tiepidi pomeriggi di
fine estate, e le giornate di stavano rapidamente accorciando.
Malgrado tutti i pensieri che gli vorticavano nella testa, Mishan
non poté fare a meno di storcere il naso per via di quell’odore. E

214
più s’inoltrava all’interno della foresta, più diventava
insopportabile.
L’iniziazione lo aveva formato definitivamente. Un uomo né
alto né robusto, ma in completo controllo di ogni centimetro del
suo corpo. Vestiva le pelli dei lupi e degli orsi, ma erano solo
ornamenti per i suoi muscoli, che affioravano nudi e lucidi in
tutta la loro avvenenza. Portava un arco lungo legato dietro la
schiena e un’accetta da battaglia, piccola e fatale, arma rituale del
suo popolo. Gli occhi erano allenati a captare i movimenti più
sottili e a prevedere gli inganni dei paesaggi uniformi. Sulla neve
tutto può succedere…
Mishan si arrestò nel mezzo al sentiero. Nessun rumore, nessun
movimento, solo una strana, stranissima sensazione. Qualcuno o
qualcosa lo stava osservando. Aguzzò la vista, cercando tra i
riverberi della rugiadosa vegetazione. Le piante non avevano
occhi, ma potevano nascondere il tuo peggior nemico…
Non era uno solo. Sentiva che erano tanti, che erano troppi.
Rimase immobile ascoltando il suo respiro, controllando la paura.
Le nocche gli si sbiancarono mentre stringeva il manico
dell’accetta. Ma non poteva sperare di farcela da solo. Aveva
bisogno di pensare, di capire, di vedere…
Una creatura bianca e glabra dalla forma vagamente umana
fuoriuscì dalla foresta e lentamente, con un movimento eretto ma
in qualche modo strisciante, si avvicinò a lui. Mishan intuì che ve
n’erano decine di simili creature dietro gli alberi dai quali era
comparsa quella. Restò fermo ma il braccio era pronto a scattare.
L’essere aveva la corporatura di un bambino con gli arti
leggermente più lunghi e sottili, mani anch’esse lunghe e
affusolate, ed era completamente nudo, ma privo di un
riferimento sessuale. Il volto era senza bocca e aveva due orifizi
per naso. Gli occhi si distinguevano appena in quella maschera
lattiginosa, mentre gli orecchi erano piccoli e a punta, proprio
come si diceva fossero quelli degli elfi.
Silenziosa e cauta, la figura opalescente si mise ad osservare il
cacciatore, girandogli intorno, avvicinando la faccia alle sue
membra come se volesse annusarlo. Il rituale andò avanti per

215
qualche minuto, mentre Mishan rimaneva immobile come un
cobra davanti alla preda.
Poi l’essere indietreggiò, sempre col suo fare strisciante, tornò
da dove era venuto ma non dette mai le spalle al cacciatore.
Continuò a fissarlo camminando all’indietro come un gambero,
per poi dileguarsi tra la vegetazione. Mishan lasciò passare
qualche minuto e poi il suo sesto senso lo avvertì che le creature
se n’erano andate, e non vi era più pericolo. Così riprese il
cammino.
Il bizzarro incontro lo convinse che non sarebbe stata una
buona idea rimanere nella foresta per la notte. Ma ormai le ombre
della sera si stavano preparando a fare il loro ingresso sul mondo,
e neanche correndo indietro con tutte le sue forze sarebbe mai
riuscito ad uscire prima del tramonto. Ricordava però di un
fiume, segnato sulle vecchie mappe del capo villaggio. Quando
era bambino adorava perdersi tra le righe sottili di quei quadri
ingialliti, che indicavano terre misteriose e lontane. Asekor era
chiamato nella sua lingua, il grande fiume meridionale, che
nascendo dai ghiacci perenni viaggiava per centinaia di miglia
verso sud, tagliando in due la foresta, e riversandosi infine nel
grande mare. Se fosse riuscito a raggiungere le sue sponde,
avrebbe avuto una via di fuga, nel caso le creature fossero
ricomparse. Mishan era un abile nuotatore, e aveva la sensazione
che quegl’esseri bianchicci non amassero l’acqua.
Allungò il passo, mentre la luce da bianca diventava gialla e poi
arancione. Il fetore continuava a tormentarlo, ma ad un certo
punto diventò più sopportabile, gli alberi persero quel rigoglio
così innaturale e con suo grande sollievo udì il cinguettare di
alcuni uccelli. La foresta sembrava nuovamente viva, ma Mishan
non riusciva a capire perché. Quando finalmente percepì
l’inconfondibile odore del fiume, comprese la ragione di quella
trasformazione. Vicino ad Asekor, la foresta era ancora quella di
sempre.
Il sole si spense nel remoto occidente, ma nel riverbero
vespertino Mishan alzò un riparo per la notte. Si piazzò sulla riva
del grande fiume, che a quell’altezza raggiungeva un larghezza
di almeno duecento metri. L’immensa massa d’acqua, alimentata

216
dai recenti temporali estivi, procedeva lentamente trasportando
rami e detriti. Il cacciatore consumò una cena fredda e cercò un
sonno leggero, quello tipico dei lupi solitari, che non possono
permettersi compagni di viaggio che montino la guardia. Al
minimo rumore sarebbe scattato in piedi, pronto a colpire.
Ma c’era una cosa che Mishan ignorava. Il fiume era ancora più
antico della foresta, e conservava un segreto che trascendeva il
tempo stesso, o almeno il tempo nel modo in cui gli uomini lo
percepiscono. Il sonno lo rapì come un bambino, e viaggiò nei
mondi di lato, osservando il vero ed il falso, la realtà e il sogno. Si
svegliò ma stava ancora dormendo, e credendosi desto incontrò il
Re del Fiume.
La foresta era giovane e il fiume scorreva lento. Un mattino di
sole abbagliante, la rugiada fresca e gli uccelli nel cielo. Mishan
guardò la figura avvicinarsi, un vecchio dal volto gentile con
lunghi capelli lisci e scuri. Si accomodò di fronte a lui e
incominciò a narrare una storia, ma come succede spesso nei
sogni, pur volendo domandare o ribattere Mishan non riuscì a
farlo. Rimase immobile davanti al vecchio ad ascoltare.
“Hai fatto la cosa giusta a venire da me. Io stanotte potrò
proteggerti, ma domani riparti subito e lasciati alle spalle la
foresta, perché anche se può sembrarti splendida e rigogliosa,
sappi che in realtà è già morta. Esistono cose che si credono vive
in eterno, ma che in realtà altro non sono che accanimenti alla
vita. Gli elfi hanno abitato questi lidi per millenni e hanno
creduto che ci sarebbero rimasti per sempre. È pur vero che la
percezione del tempo per il popolo della foresta è oltremodo
dilatata, ma anche per loro esiste un inizio e una fine. Kratoa,
l’essere che ha mosso guerra a tutte le terre del sud, è stato
l’avvento della loro fine. Non esistono spiegazioni che un uomo
possa facilmente accettare. La vita è ciclica. Esistono stagioni di
nascita, come la primavera, e stagioni di morte, come l’inverno.
Gli elfi credevano in un estate imperitura, e si sbagliavano. Ma
hanno rifiutato di scegliere di lasciare queste terre per un nuovo
mondo, e come conseguenza sono rimasti prigionieri di questo.
Né vivi, né morti, in una foresta che si crede viva ma puzza di
morte. Fuggi uomo, e racconta questa storia, perché la gente

217
sappia che la foresta è diventata malvagia, e solo il grande fiume
ne ricorda ancora lo splendore. Addio!”
Mishan si svegliò e finalmente comprese che stava sognando,
eppure quel sogno era in qualche modo più vero degli altri.
Raccolse le sue cose e seguì il consiglio del Re del Fiume. Tornò
velocemente sui suoi passi e prima che il sole fosse alto già era in
vista delle praterie oltre la cintura di alberi secolari che
delimitavano Uaki.
Volse lo sguardo verso la foresta prima di riprendere il
cammino e lasciarsela definitivamente alle spalle. Gli sembrò di
vedere una figura lattiginosa attraversare il sentiero che aveva
appena percorso. Un brivido gli corse lungo la schiena. “La
foresta vampira” pensò.
E da allora la gente la chiamò così.

218
VELDULE MISTE E LISO
di Jonathan Macini

La città é una maschera grigia di nebbia. Copre ogni cosa col


suo silenzio. Sembra dormire la città, sotto una soffice coltre. Ma
la città non dorme mai, nemmeno alle quattro del mattino, in
quelle nottate invernali lunghe e gelide. Neanche i gatti per i
vicoli, i semafori lampeggiano d’arancio, un neon rotto e una
sirena il lontananza. La città è immobile, ma respira ancora, come
un vecchio randagio che chiede l’elemosina alla stazione, una
serpe in agguato, un felino pronto a scattare. La città diventa
pericolosa quando dorme. La abitano strane creature, animali
della notte, girano nascosti nelle ombre, vergognandosi delle
proprie deturpazioni, quelle dell’anima s’intende.
Poi ci sono quelli come me, che osservano, che aspettano, che
fumano. Un’altra sigaretta, mentre l’orologio segna le quattro e
diciannove. Il posacenere dell’auto ne è ricolmo. Guardo oltre la
carreggiata, il vicolo buio, quello sul retro del ristorante cinese.
Distinguo appena le sagome di Chon e del suo scagnozzo…
grembiuli e cappelli da cuochi. Aspettano le provviste.
Il ragazzo è appena stato assunto alla pasticceria all’angolo
della strada. Ha solamente diciassette anni e dovrebbe andare a
scuola, ma sono tempi difficili, e poi il padre è disoccupato da
quasi due anni. Passeggia ad ampie falcate sul marciapiede
opposto. Lo vedo approssimarsi al vicolo, quello di Chon. Che sia
lui il piatto giorno? Meglio non farsi sorprendere…
Scendo dall’auto e divento un’ombra sgusciante che attraversa
la strada, raggiungo il lato opposto e mi fermo dietro una vettura
parcheggiata a ridosso del vicolo. Nessuno mi nota, e ringrazio la
nebbia, sempre lei, sorella e puttana di questa assurda città. La
città dormiente. La città sognate. La città in balia del suo
prossimo incubo.
Il ragazzo è risucchiato dentro al vicolo con una rapidità
impressionante. Faccio fatica a distinguere i movimenti, ma
risaltano all’occhio le lame dei coltelli da cucina. Un urlo
strozzato e tutto è finito. A questo punto entro in gioco io.

219
«Quanti involtini pensi di farci, Chon?»
L’automatica è ben in vista e punta direttamente alla faccia
gialla del cuoco.
Il chinaman sbraita nella sua lingua, lo scagnozzo mi guarda
con il terrore negli occhi, poi afferra la vittima e la trascina dentro
le oscurità del vicolo.
«Quanto vuoi, sbillo meldoso?»
«Beh, per te farò un buon prezzo. Tre testoni e tengo la bocca
chiusa.»
«Bastaldo!» impreca il cuoco. Poi estrae dalla tasca un mazzetto
di banconote e me ne allunga sei di quelle grandi.
«É un piacere fare affari con te, chinaman!»
«Non posso dile attlettanto…» sbuffa lui.
Sto quasi per andarmene quando mi viene in mente di
chiedergli una cosa.
«Com’è che lo cucini?»
«Con veldule miste e liso…»
«Buono… lasciamene da parte un piatto, mi raccomando!»
Ve lo dicevo che erano tempi difficili.

220
SPARITO
di Giulia Riccó

Sparito.
Una mattina mi sono svegliato ed ero sparito. Non nel senso
che ero morto, ero proprio sparito. Come se non fossi mai esistito,
mai nato. Non esisteva traccia della mia presenza, del mio
passaggio. Così semplicemente sparito.
La sera prima ero andato a letto dopo la meravigliosa cena fatta
da mia moglie, prima ho dato la buona notte ai miei figli, ho
salutato mia moglie e mi sono sdraiato nel letto e sono rimasto lì
con gli occhi aperti nel buio. Ho sentito il respiro di mia moglie
farsi regolare e l’ho sentita scivolare nel sonno profondo. Ho
ascoltato i rumori della casa, quelli della strada ovattati dalle
imposte chiuse e ho pensato.
Sono davvero felice?
Domani potrebbe succedere qualcosa e io non so se sono
davvero felice!
E se domani sparissi qualcuno serberebbe il mio ricordo oppure
sparirei e basta?
E più pensavo più mi accorgevo che desideravo sparire.
La mattina mi sono svegliato ed ero sparito. O meglio non mi
sono svegliato. Il letto accanto a mia moglie era freddo e non era
stato disfatto come se nessuno fosse mai andato a letto.
Le mie cose nell’armadio non c’erano. Le mie foto non c’erano.
Ero sparito da ogni cosa.
Scomparso, cancellato.
E ora? Ho pensato.
Ma se penso vuol dire che esito.
Come dicevano gli antichi? Cogito ergo sum.
Allora sono andato da mia moglie e le ho parlato.
Guardami esisto sai? Sto pensando.. devo esistere per pensare.
Niente, non mi vedeva, mi ha attraversato come se non
esistessi. D’altra parte ero sparito.
I miei figli… loro mi vedranno. Corsi da loro.
Ragazzi! Fermatevi vi accompagna papà a scuola.

221
Niente, come se avessi parlato al vento. Sparito… d’altra parte
non esito.
Oh! il mio cane, dicono che gli animali siano più sensibili a certe
cose.
Sono andato a piazzarmi davanti al muso del mio cane, un
bellissimo pastore tedesco di 4 anni.
Mi ringhiò, per un attimo ebbi un sussulto. Mi ringhiava, allora
mi percepiva se non proprio mi vedeva… ma fu solo un attimo di
illusione. Mi accorsi presto che in realtà era al gatto dei vicini che
ringhiava.

E ora?
Pensai di nuovo ma il pensiero era sempre più debole. Il postino mi
tirò il giornale che mi attraversò. Anche per quel pezzo di carta non
esistevo.
Allora non esisto proprio.
Vagai un po’ poi….

E ora? Il pensiero era un sussurro ormai…


vabbè allora io sparisco eh?tanto per tutti sono già sparito…io
sparisco….sparisco….sparisco……..sparisco………

222
MIO PADRE E LA LUNA
di Aeribella Lastelle

Era la notte del solstizio d’estate, e faceva un caldo bestiale. Lo


sapete che quelle notti sono un po’ magiche, o almeno così diceva
mia nonna. Mi affacciai alla finestra e vidi i pipistrelli girare come
matti. Erano quasi le dieci ma c’era ancora un po’ di luce nel
cielo. Per un bambino non era certo presto, ma io di sonno non ne
avevo, così rimasi a guardare la luna, piena e gialla come un
lampione. Anche lei aveva qualcosa di magico…
D’improvviso la vidi venir giù. No, non stava cadendo,
sembrava invece che qualcuno la stesse tirando con una corda.
Doveva averci un bel po’ di forza, pensai.
«Babbo! Babbo!» gridai io. Mio padre entrò di volata nella mia
stanza.
«Che c’è , Amore?»
Io lo guardai al chiarore dell’astro, ed è così che me lo ricordo
ancora. Sono passati tanti anni, e lui se n’è andato da un bel po’,
ma quando chiudo gli occhi lo rivedo proprio come quel giorno. I
capelli arruffati, gli occhiali con la montatura sottile, la camicia a
quadretti rigirata alle maniche e due occhi ricolmi d’amore.
«Babbo, stanno rubando la luna!«
«Cosa?» E guardò fuori dalla finestra. Anche lui la vide che
scendeva, sempre più in basso. Adesso era proprio sopra le cime
degli alberi del bosco, quello vicino al villaggio.
«Presto, dobbiamo muoverci!» mi disse, ed io lo seguii, anche se
ero in pigiama. Ma la notte era calda, e non c’era bisogno della
giacca e delle scarpe.
«Dove andate?» domandò la mamma, vendendoci sfrecciare
attraverso il soggiorno.
«Un missione importantissima…» iniziò mio padre.
«…dobbiamo salvare la luna!» conclusi io. Ed imboccammo la
porta di casa.
Salimmo in auto e prendemmo la strada verso il bosco. Le luci e
i suoni delle televisioni che fuoriuscivano dalle finestre dei vicini
mandavano segnali rassicuranti, ma una volta che ci lasciammo il

223
villaggio alle spalle la notte divenne meno gradevole. E poi il
cielo adesso era completamente buio, perché la luna se l´erano
portata via.
Mio padre parchéggiò al limitare del bosco, afferrò la torcia
elettrica da sotto il sedile e uscì dall’auto. Io lo seguii. Avevo il
cuore in gola, ma ero felice.
Percorremmo il sentiero guidati dal fascio di luce. Il bosco era
fitto e tenebroso, e c’erano rumori strani, e i pipistrelli
continuavano a volare bassi. Mi venne in mente la storia di un
ragazzino del villaggio, che era stato attaccato da un pipistrello.
Gli si era aggrappato ai capelli e non voleva mollare la presa.
Glieli dovettero tagliare con le forbici, poverino.
Più avanti vedemmo una luce distante, tra le ombre degli alberi
e dei cespugli.
«Ecco, sono là! Andiamo!»
Era la luna. Erano riusciti a tirarla giù, e adesso rischiarava
quella parte del bosco. Corremmo in quella direzione, guidati
dalla luce dell’astro. “Che avrebbe fatto mio padre?”, mi
chiedevo. Ovvio, avrebbe preso a pugni il ladro e poi liberato in
cielo la luna, come ogni eroe. Perché ovviamente lui era il babbo
più coraggioso del mondo.
Mi facevo mille film in testa mentre correvo e sentivo il sangue
correre nelle vene, sentivo il pericolo, la gioia, l’amore, e quando
diventai grande e ripensai a questa storia capii che tutte quelle
sensazioni insieme significavano che mi sentivo vivo!
Ero pronto a tutto, ma ancora una volta rimasi sorpreso, perché
le notti magiche sono imprevedibili. Quando raggiungemmo la
radura in cui l’astro era stato adagiato, venimmo abbagliati dalla
sua luce e solo in un secondo momento riuscimmo a distinguere
cosa stava succedendo. La luna era fissata a terra con corde ed
arpioni. C’erano due uomini, all’apparenza normalissimi, con
tute di jeans e casacche fosforescenti. Su retro di queste vi era
stampata la scritta “Prontoluna”.
«Che succede?» domandò mio padre.
«Buonasera, niente di cui preoccuparsi» rispose uno dei due
uomini. «Solo un controllo di routine. Cambio delle lampadine,
verifica dei fusibili, normale amministrazione.»

224
Mio padre sembrò sollevato. Mi rivolse uno sguardo
rassicurante e disse: «Hai visto Amore… nessun problema. I
signori sono del Servizio Luna.»
«Prontoluna» precisò l’uomo, e consegnò a mio padre il suo
biglietto da visita.
«Se ci sono dei problemi, non avete che da chiamarci.» concluse.
Poi si rivolse al compagno.
«Tobia, sei pronto per lasciarla salire?»
«Si, possiamo liberarla.»
E così assistetti al più straordinario spettacolo della mia vita. I
due uomini recisero le corde che tenevano la luna ferma a terra,
queste schizzarono nell’aria per la tensione e in un baleno
l’enorme palla gialla incominciò a sollevarsi, sempre più in alto,
immensa e fulgida, ma leggera come una farfalla. Riprese
posizione nel cielo insieme alle stelle, più splendente che mai.
Mio padre ed io ce ne tornammo a casa, frastornati e felici. Lui
mi accompagnò a letto, mi rimboccò le coperte perché nel
frattempo la temperatura era calata, e fece per chiudere la
persiana.
«Babbo, lasciala aperta stasera. Voglio vedere ancora la luna.»
«Va bene Amore. Però poi dormi, va bene?» e mi baciò.
Non posso affermare con sicurezza se questa storia sia
realmente accaduta. Forse era solo una delle tante favole che il
mio vecchio mi raccontava prima di addormentarmi, quelle in cui
amavo perdermi.
In ogni caso, a me piace crederci, perché ogni volta che guardo
la luna ripenso a lui.

225
NETTURBINI
di GM Willo

Mi chiamo Alvin, quarantetreanni, faccio il netturbino, e che


cazzo, penserai adesso, ma aspetta che ti racconti di quella sera in
cui trovai la ragazza, una morona da urlo, calze bianche e culo
all’aria. Eh già, mica sto scherzando. Io le stronzate non le dico.
Non sono come quel deficiente di Fester, il mio collega. Quello è
capace di convincerti di aver visto tua madre vestita da suora
darci dentro nell’ascensore dell’Hilton. Una volta mi disse che si
era portato in camera quattro gemelle, appena sedici anni, 64 in
totale, e che se le era scopate mentre guardavano insieme un dvd
di Harry Potter. Che stronzo!
Erano le cinque meno dieci e il turno era praticamente finito,
cioè potevamo anche fottercene di quel vicolo, ma nessuno dei
due aveva impegni per quel pomeriggio e allora, che cazzo, gli
dissi a Fester, facciamo anche quest’ultimo sforzo.
Entrammo come al solito a marcia indietro, perché quella
stradina era il buco del culo della città e finiva proprio a ridosso
dei cassonetti. Il puzzo era peggio del solito, ma né io né Fester ci
facciamo più caso. Al puzzo ti ci abitui, e dopo una settimana di
lavoro già non lo senti più. Perché lo sapete vero che nella vita ci
si abitua a fare tutto, anche a spalare la merda!?
Comunque, io scendo e aiuto Fester a fare manovra. Il vicolo è
davvero stretto e i cassonetti sono proprio in fondo, addosso al
muro morto. Siamo sul retro di un ristorante cinese, e la puzza
della spazzatura si mischia a quella del fritto. Roba da farti
rimettere il sandwich di pollo, ma io strizzo con forza il filtro
della mia sigaretta e non ci bado. “Vieni, ancora tre metri e ci
siamo” urlo al mio collega, facendogli segno di muoversi.
Spegne il motore scaricandomi addosso una zaffata di gasolio,
ed è quasi un piacere. “Forza, muoviamoci”, mastica lui con lo
stecchino in bocca. Quanto lo odio quel lurido pezzetto di legno
bavoso tra le sue labbra. Ce l’ha sempre. Lo conosco da dieci anni
e non l’ho mai visto una volta senza. Beh, avrete capito che Fester

226
mi sta proprio sui coglioni, ma è anche il mio collega e in qualche
modo ci sono affezionato. Comunque, dicevamo…
I cassonetti vanno trascinati su quelle rotelle del cazzo fino al
braccio meccanico del mezzo, poi premi il pulsante e fa tutto lui.
Il problema è che spesso quei cuscinetti sono rotti o incrostati di
rifiuti, e si muovono appena. A volte è un proprio una faticaccia,
e in quel caso fu anche peggio. Non si volevano muovere quei
maledetti. “Dai, forza, dammi una mano…” impreco. Fester è
appostato vicino al pulsante del braccio meccanico. Facevamo i
turni; la mattina io guidavo e lui muoveva i cassonetti mentre il
pomeriggio cambiavamo.
“Che palle…” risponde lui, traslando lo stuzzicadenti da una
parte all’altra della sua lurida boccaccia. Mi si avvicina e insieme
spostiamo quella ferraglia maledetta. Ma in quell’istante la
zampa di metallo che regge un cuscinetto si spezza. Il cassonetto,
pieno fino all’orlo di pattume, s’inarca pericolosamente verso di
noi, Fester ed io proviamo a reggerlo ma quel bastardo peserà si e
no mezza tonnellata. PATAPUMF! L’immondizia si rovescia sulla
strada a due metri dal camion. Entrambi siamo sul punto di
imprecare contro gli dei del cielo e della terra, quando la sorpresa
ci toglie il fiato. Tra i neri sacchi della nettezza rovesciati
spuntano le cosce tornite della morona.
Io di pezzi di fica nella vita ne ho visti, specialmente sui vialoni
della periferia, ma come quella… peccato fosse morta! “Che
diavolo!” impreca Fester. Ma negli occhi gli leggo un luccichio
porcino.
Completino intimo bianco con tanto di giarrettiere e sandalini
neri. Qualche macchietta di sangue qua e là, ma poca roba. Merce
di prima qualità… nel cassonetto dei desideri.
“Pensi a quello che penso io?” mi fa Fester. Vecchio porco, certo
che penso alla stessa cosa. Il camion ci nasconde la visuale
dell’arteria principale e in quel vicolo non ci passa neanche un
cane. Al massimo potrebbe affacciarsi un cinese dalla porta
posteriore del ristorante, ma i musi gialli si fanno sempre i cazzi
loro, son gente tranquilla, non so se mi spiego.
“Chi incomincia?” domando.

227
Beh, non vi racconto altro, perché la gente potrebbe pensare
male. Sappiate soltanto che quel pomeriggio fu uno spasso.
Finimmo il turno un po’ più tardi del solito, ma alle sei meno
dieci eravamo già da Todd a farci una budweiser ghiacciata,
pronti a guardarci la partita. Fester sorrideva come un scemo e
forse anch’io avevo la stessa espressione, chissà.
“Ordiniamo un altro giro, collega?”
“Perché no…”
Sono quelli i momenti in cui ti convinci che, malgrado tutto, la
vita non è sempre un’inculata.

228
INCONTRO CON UN GABINETTO GIAPPONESE
di Giulia Riccó

Eccomi. Finalmente sono approdata alla camera del mio


albergo.
E’ un albergo in stile occidentale ma nonostante questo ha
qualcosa che ti fa capire che non sei in occidente. Sarà il rigore
dell’albergo, sarà la semplice perfezione dell’arredamento, non
saprei ma ha il sapore dell’oriente.
Improvvisamente mi accorgo di avere un impellente bisogno di
andare al bagno. Liquido con un frettoloso “Arigato gozaimasu”
il fattorino che mi ha portato le valige e, dopo aver chiuso la
porta, guardo la stanza con fare animalesco alla ricerca della
porta del bagno. Una volta avvistata mi ci dirigo a piccoli ma
veloci passi (farli più lunghi vorrebbe dire lasciare un’indecorosa
pozza sulla splendida moquette della stanza).
Una volta aperta vengo inondata dall’abbacinante biancore del
bagno che sembra splendere di luce propria tanto è lucido. Mi
spiace quasi doverlo sporcare ma la mia minuscola vescica mi
ricorda a gran voce che la sua autonomia è davvero arrivata alla
fine. Alzo con meraviglia la tavoletta e lì inizia il mio viaggio
verso un mondo inesplorato.
Innanzi tutto mentre mi libero dei liquidi in eccesso mi accorgo
che non mi sono seduta su uno scomodo water ma su un
prodigio di natura aliena. La tavoletta su cui mi poggio è
riscaldata e non fredda. Mi vengono in mente le mattine
d’inverno in cui non ti vorresti mai alzare da sotto il meraviglioso
piumone, che ormai ti si è talmente tanto avvolto attorno da farti
sembrare quasi un baco da seta nel bozzolo, più che una persona
umana. Eppure le tue impellenze fisiologiche ti costringono a
strisciare fuori dal bozzolo.
Arrivi in bagno, che è una ghiacciaia, e mentre ti chini per
sederti già tremi al pensiero dell’incontro con quel gelido pezzo
di ceramica che ti trasmetterà freddo fin dentro le ossa. Ma qui
invece è puro godimento. Tutto caldo al punto giusto. Ti concilia
e ti rilassa diventando quasi più comodo di una poltrona.

229
Accanto a me poi ci sono dei pulsanti e, curiosa come un gatto,
comincio a spingerli. Si sente un “bsssssz” e sobbalzo al sentire
sotto di me un piccolo getto di acqua fredda che mi sciacqua le
parti intime e subito dopo, con un altro emblematico “bssssz”
ecco arrivare un getto d’aria calda per asciugare dopo il lavaggio.
Rimango sbigottita, e io che da povera blasfema ero rimasta a
bidet e asciugamano.
Penso sia finita lì ma vengo smentita da un terzo “bsssssz” e
dentro di me mi domando “ e ora?” un altro suono eloquente mi
dice che il portento della tecnica aliena sta spruzzando qualcosa
e, quello che giunge alle mie narici, altro non è che un delizioso
profumo di bouquet di fiori primaverili. Ora mi immagino con la
faccia da ebete seduta sul gabinetto di un albergo giapponese
mentre le mie intime parti vengono spruzzate di profumo e mi
domando “ ma perché?”. Mi ricordo che mia nonna mi diceva
sempre da piccola di cambiarmi tutti i giorni mutande e calzini
perché non si sa mai cosa possa succedere e se finisci in ospedale
è bene andarci puliti (come se in ospedale non avessero niente di
meglio da fare se stare a decifrare se ti sei cambiato o meno le
mutande) ma qui si va oltre e mi chiedo se per caso i giapponesi
non abbiano strane usanze di presentazione simil cani di cui non
sono a conoscenza. Mi alzo ancora interdetta e vado a premere il
pulsante dello sciacquone. Ed ecco che avviene il fatto più
sconcertante. Vengo travolta dalle note dell’inno alla gioia di
Beethoven. Non un normale rumore di acqua che scende giù per
lo scarico ma le note di un’opera classica a coprire il rumore
volgare dello sciacquone. Vengo quasi presa da infarto tanto è
improvvisa e inaspettata la cosa e un’immagine si forma nella
mia mente. Un obeso guerriero gallico di nome Obelix che,
mentre si picchietta la testa con un ditone, dice al suo fido Idefix
“SPQR” … “SPQG”…
“Sono Pazzi Questi Giapponesi”.

230
LO STREGONE RIPUDIATO
di GM Willo

«Volete sapere perché ho abbracciato l’Ombra? Ebbene, voglio


raccontarvi una storia…
…la storia di un ragazzo diverso eppure uguale, con un talento
particolare per la magia. Mentre i compagni di scuola la
imparavano a memoria, quel ragazzo la stravolgeva, e presto capì
che era questo il vero senso della via dello Stregone. Distruggere
e ricostruire. Stravolgere e trasformare. I maestri non lo capirono,
pensarono che non fosse adatto a controllare il potere e a
conoscere i segreti. Aveva appena dodici anni quando gli
sbatterono in faccia la porta del Grande Istituto della
Divinazione. Suo padre era un mago apprezzato negli ambienti
aristocratici, e l’onta subita per la cacciata del figlio lo mandò su
tutte le furie. “Non puoi rimanere in città, figlio, e ringrazia il
cielo che ti chiamo ancora così. Devi partire per l’Isola dei
Cristalli.” Questo gli disse, strappandogli di mano il bastone da
apprendista stregone.
Quel ragazzo pianse, ma non lo dette a vedere. Viaggiò verso
nord insieme a una carovana di mercanti. Era poco più di un
bambino, ma già la sua conoscenza magica poteva proteggerlo
dai briganti e dalle altre insidie della vita errante. Giunse presso i
lidi dei popoli pagani, ai confini dell’Impero. Una barca lo portò
sull’Isola dei Cristalli, in cui dimoravano preti e filosofi. Gli
aspettava una vita in ritiro, all’ombra di un severo monastero.
Ma laggiù conobbe un uomo di passaggio, una figura
imponente e sottile, guizzante e indelebile. Il suo nome era
Trakulda. I monaci del monastero non gli rifiutarono la sacra
accoglienza, ma molti di loro non nascosero la loro inquietudine
durante tutto il tempo in cui quell’uomo rimase ospite. C´era
qualcosa nel misterioso Trakulda che affascinava il giovane. Una
notte gli si avvicinò mentre leggeva un libro nei pressi del fuoco.
Come rapito da un incantesimo, il ragazzo rimase ad ascoltare
quell’uomo per tutta la notte, ma ricordò poco o nulla la mattina

231
dopo. Sapeva solo che, una volta che si fosse rimesso in viaggio,
lui lo avrebbe seguito.
E infatti lo seguì per molti anni. Anni di studio, di sacrificio e di
evoluzione. Conobbe il Drago e i sette demoni principi, le
meraviglie della terra e le insidie degli elfi, la testardaggine dei
popoli guerrieri, la codardia dei pirati e la stoltezza dei nani. Vide
il mondo cambiare e volgere verso un pensiero unico. Vide
trasformare il Grande Istituto della Divinazione in un mero
ingranaggio di un meccanismo inutile e corrotto, in cui il profitto
di pochi contava più della conoscenza di molti. Dalla scuola
uscivano schiere di maghi identici che andavano ad arricchire le
file dell’esercito dell’Impero, che intanto allargava i suoi confini,
creando nuove colonie e portando nuovi popoli sotto il suo
vessillo.
Quel ragazzo nel frattempo crebbe e divenne uno Stregone, ma
nessuno nell’Impero lo avrebbe mai chiamato così. Era un
respinto, un reietto, un mago di strada, o più volgarmente un
Fattucchiere. Doveva nascondersi perché, come sapete bene, chi
usa la magia senza un diploma di mago è considerato un
criminale. Se ne stava lontano dalle grandi città, insieme a
Trakulda che intanto era diventato vecchio. Ma la vecchiaia non
lo aveva afflitto, né nella mente né nel corpo. Il maestro stava
semplicemente svanendo, e a volte il giovane lo guardava in
contro luce, mentre il sole tramontava fulgido sulle praterie del
Levante Antico, e poteva vederci attraverso.
“Dove stai andando”, gli chiese un giorno.
“Non preoccuparti. Un giorno mi seguirai” rispose lui.
Quando la Guerra dei Sigilli scoppiò il ragazzo era un uomo
fatto, e il suo maestro si era ormai dileguato quasi completamente
tra i misteri dell’aria. L’Impero cercava gli accessi agli altri
mondi. Mandò i suoi cento migliori maghi fino ai confini delle
terre conosciute, dove popoli misteriosi conservano i segreti dei
molti mondi. Ne tornarono solamente tre, ed ognuno aveva un
sigillo.
Ma il ragazzo diventato uomo aveva appena ricevuto una visita
in sogno. Era Trixividian, il demone dei ghiacci. Gli disse che se
l’Impero avesse avuto accesso agli altri mondi, il grande

232
equilibrio poteva volgere irreparabilmente verso la Quiete. Ogni
mago dovrebbe conoscere l’equazione tra Quiete e Tumulto. È il
significato stesso dell’Universo, la sua legge principale. Ma la
conoscenza di quell’equazione è stata rimossa dai testi di magia
dell’Istituto.
Al suo risveglio lo Stregone seppe cosa fare. Cavalcò per due
giorni e due notti incontro a quei tre maghi che stavano facendo
ritorno con il loro bottino alla capitale. Al loro passaggio
venivano salutati da una folla di uomini e donne in delirio. Erano
gli eroi, i salvatori, vanto e abbaglio di ogni cittadino dell’impero.
Mentre cavalcava lo Stregone richiamò gli altri demoni, perché
lui era la porta. Gafiquel degli abissi marini, Adkavri delle
caverne, Uxod dei cieli, Trixividian dei ghiacci, Matu del fuoco
liquido, Irkk dei fulmini, Odasset dei cristalli. I Demoni vennero
e spazzarono via il popolo, i soldati e a nulla servirono gli
incantesimi dei tre eroi. I Sigilli vennero recuperati e consegnati
allo Stregone che aveva evocato i demoni.
Da allora quello Stregone è conosciuto col nome di Jakúda, il
servo dell’Ombra. Da allora Jakuda è il peggior nemico
dell’Impero.
E adesso che conoscete la storia, ditemi: che motivo avrei di
consegnarvi i sigilli?»

Il fuoco esplose, l’ombra calò, le urla si alzarono e si spensero


nel tempo di un battito di ciglia. Si erano sentiti eroi, si erano
creduti dalla parte della ragione, pensavano che il cielo li avrebbe
protetti, invece…
Dall’alto della sua torre Jakúda attende i suoi prossimi nemici.
Nessun rancore, solo una missione: tenere al sicuro i Sigilli, anche
al costo di rimanere per sempre un reietto.
Forse un giorno il mondo sarebbe cambiato. È successo altre
volte in passato, e quando questo accade, il ruolo dei giusti si
ribalta e la percezione del popolo si dilata.
Ma il prezzo del cambiamento è sempre molto alto.
“Avrei potuto desiderare di più dalla vita?” pensa il solitario
Stregone, perdendosi negli ocra di un tramonto infuocato.

233
“La solitudine è il prezzo della verità” gli sussurra il maestro,
prima di scomparire del tutto in una linea di fumo.

234
STELLE MARINE
Progetto "L'Orfanotrofio delle Storie"

C’era una volta un vecchio uomo che amava scrivere, e per


trovare la giusta ispirazione si recava vicino al mare. Prima
d’iniziare a comporre usava fare delle lunghe passeggiate sulla
spiaggia. Un giorno, mentre camminava da solo lungo il
bagnasciuga, vide una figura che nella distanza sembrava stesse
danzando. “Un uomo che balla da solo” pensò, e accelerò il passo
per vedere più da vicino.
Mentre si avvicinava il vecchio si rese conto che l’uomo non
stava affatto danzando. Invece era intento a raccogliere qualcosa
nella sabbia, per poi gettarla con gentilezza nel mare. Appena fu
abbastanza vicino disse: «Buongiorno! Che sta facendo?»
L’uomo si fermò, guardò verso il vecchio e rispose: «Sto
ributtando le stelle marine nell’acqua.»
«Mi scusi, forse avrei dovuto chiederle perché sta ributtando le
stelle marine nell’acqua?»
«Il sole è già alto e la marea si sta ritirando. Se non ritornano
nell’acqua moriranno tutte!»
«Ma giovane, non si rende conto che ci sono chilometri e
chilometri di spiaggia piena di stelle marine. Che differenza potrà
mai fare!»
L’uomo ascoltò educatamente, poi si piegò, raccolse un’altra
stella marina e la ributtò nel mare. «Ha fatto la differenza per
quella lì» disse.
E tu, quante stelle marine hai salvato oggi?

Storia Anonima tradotta e interpretata da GM Willo

235
IL PITTORE
di Giulia Riccó

C’era una volta un pittore.


Era giovane e pieno di idee ma difettava in un punto. Era
troppo impostato.
Le regole per lui erano tutto!
I suoi quadri erano perfetti, senza il minimo errore. Precisi e
ben calcolati, studiati sin nel minimo dettaglio, ma privi di
anima.
Ogni quadro che trasgrediva le regole veniva abolito, cancellato
e rifatto da capo. Mai nessun sentimento di rabbia, odio,
delusione avrebbe dovuto trapelare da essi.
Non che queste cose non ci fossero nei suoi quadri, ma erano
tutte filtrate dalla grande regola della perfezione che il pittore si
era imposto.
Il nostro pittore era così ossessionato dal non mostrare il suo
vero spirito che lo nascondeva e lo reprimeva persino nella vita
di tutti i giorni, tanto che alla fine si convinse che quello fosse il
suo vero essere.
Come tutti gli esseri umani però, anche il nostro pittore doveva
sfogare questi sentimenti e per questo aveva un confidente. Il
confidente del pittore era un grillo, un piccolo grillo che ogni
notte ascoltava le sue confessioni e le sue frustrazioni per poi
(come fanno tutti i grilli) rispondergli e consigliarlo per il meglio.
Ovviamente, come tutti i grilli parlanti, anche questo piccolo
grillo non fece una bella fine. Un giorno venne spiaccicato dalla
scarpa del pittore ormai troppo convinto che le regole fossero la
sua vera essenza.
Fu così che continuò nel suo lavoro di pittore, apprezzato e ben
stimato ( si sa nel mondo le regole ben seguite sono sempre ben
accettate e piacciono ai più).
Non infranse mai le regole e non deluse mai le aspettative dei
suoi cari e del suo pubblico.

236
Quando non riuscì più a dipingere con precisione e accuratezza
decise di ritirarsi vivendo di rendita e di qualche apparizione qua
e là per il mondo.
Quando fu ormai vecchio e canuto, il pittore ritrovò i suoi
pennelli, i suoi colori e una vecchia tela bianca nel fondo buio
della sua cantina.
Portò il tutto nella sua camera e cominciò a guardare la tela con
i suoi occhi lattiginosi. Fu un attimo poi prese il pennello e lo
inzuppò di colore cominciando a dipingere con forza. Dipinse
così senza nemmeno disegnare prima la tela, lasciandosi
trasportare dagli anni e dal sentimento.
Il risultato fu uno spettacolo commovente.
Sulla tela aveva preso forma una figura grottesca e allo stesso
tempo bellissima. Era triste e felice, dolce e malvagia.
Racchiudeva in se l’essenza stessa della vita.
Il pittore la guardava come rapito, poi si prese il capo stanco tra
le mani sporche di colore e pianse, come piangono i bambini che
hanno perso la cosa più cara per loro.
Dopo pochi minuti il pittore si ricompose, poggiò la tela da una
parte e si preparò per la notte.
Quella notte successe qualcosa di insolito. La tela su cui era
dipinta la strana creatura cominciò a pulsare. Avete presente un
cuore quando comincia a battere, quando finalmente prende vita
qualcosa? ecco la tela pulsava come un cuore appena nato, e più
pulsava e maggiore era la vita che appariva nel volto della
creatura finché essa non uscì dal quadro.
La creatura si mosse con grazia infinita e si avvicinò al letto del
pittore.
Lo accarezzò sulla fronte come una madre fa con il suo
bambino, poi cominciò a parlare sommessamente. Aveva in se
tutte le voci del mondo e tutti i suoni della terra.
“Padre mio, mio caro padre. Finalmente ti sei liberato di quel
giogo che ti ha oppresso per tanti anni. Finalmente mi hai creato.
Povero padre mio quante vite non hai incontrato per questa tua
paura. Quante occasioni perdute. Ma inutile piangere ormai, ora
sei libero e questo è l’importante. Potrai stare sereno e tornare ad
abbracciare i tuoi cari. Ora io vivrò per te. In me hai finalmente

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infuso la tua anima e tutto il tuo essere, io sono il tuo testamento
padre mio. Io ora vivrò in eterno e chiunque mi vedrà non potrà
non commuoversi davanti a me. Alcuni si sentiranno pervadere
dalla gioia infinita, altri soffriranno, altri ancora avranno paura
ma nessuno potrà mai rimanere impassibile.” Baciò dolcemente
la fronte del pittore e come un lampo tornò nella tela.
Il mattino chi andò a trovare il pittore trovò un’espressione di
pace sul suo volto e accanto al letto un quadro al quale, ancor
oggi, nessuno può rimanere indifferente.

238
UNA SOTTILE LINEA DI FUMO
di GM Willo e Stefano Cisternino

Ci sono momenti in cui la memoria è un luogo da cui


bisognerebbe solo scappare, invece io ero lì, piantato come un
chiodo arrugginito su uno sgabello appiccicoso di chissà quali
umori. Pensavo davvero di aver ripagato il mio debito, di aver
cancellato anche tutti quelli che ne erano a conoscenza, e invece
mi ritrovai Lui a cinque centimetri dal viso. Sembrava quasi che
Dio si fosse dimenticato di finirlo da quanto era spigoloso, e con
una voce che ricordava il rumore di un tritarifiuti mi disse ciò che
temevo di più: «pensavi proprio che ti avrei permesso di non
danzare tra le ombre per me?»
Melvin Kondaurov, era quello il suo nome, un nome cattivo
come la sua faccia, precipitato dalla remota Siberia in questa
maledetta città, come un seme malato che germoglia nonostante
la stagione sia sbagliata, e si sviluppa in escrescenze gibbose,
dando alla luce frutti velenosi…
«Cosa bevi?» gli chiesi con le mani in bella mostra. La fondina
che nascondeva il ferro era lontana chilometri, nonostante sentissi
la fredda canna sulle costole, appena sotto la giacca. Un
movimento sbagliato e poteva essere la fine.
«Varechina…» gracchiò lui. Ma non sorrise, perché era più che
probabile che non stesse scherzando. Ordinai due scotch doppi
ma non staccai lo sguardo dal suo volto. Quasi gli occhi mi
facevano male…
«Una brutta storia quella del giapponese, ma credimi, io non
c’entro nulla…» la mia voce esitava troppo, la temperatura del
locale si era maledettamente alzata, le luci dei neon mi
svalvolavano in testa, il brusio in sottofondo sembrava la
zampettio di milioni di insetti pronti a divorarmi. In situazioni
del genere non riesci a pensare, anzi, pensare diventa una cosa
molto pericolosa.
«Stronzate!» sbraitò Melvin. Poi afferrò il suo scotch e lo tirò giù
in un unico sorso. Poteva essere la mia occasione per agguantare
la pistola, ma me la lasciai sfuggire. Ero paralizzato come una

239
colonna di granito, molle come il budino al cioccolato che faceva
mia zia, in trance come una lepre folgorata dai fari di un auto.
«Adesso vieni con me…» disse, portandosi alla bocca la sua
sigaretta. Cercai di aggrapparmi alla sottile linea di fumo che
sprigionava, immaginandomi piccolo piccolo, un esserino fatto di
ombre e fumo di sigaretta. La mia unica via d’uscita…
«Melvin, ti giuro che non è stata colpa mia…»
«Su, non facciamo storie. Vedrai che tra poco sarà tutto finito»
mi assicurò Lui, alzandosi dallo sgabello.
Non dissi altro. Bevvi il mio scotch e lo seguì fuori dal bar. Che
altro avrei potuto fare? Piangere? Urlare? Melvin Kondaurov era
un tipo quieto, ma non ci avrebbe pensato su due volte a estrarre
il cannone davanti alla barista e a ridipingerle le pareti del bar col
mio sangue.
«Adiamo sul retro, dove ci sono i cassonetti» ordinò, una volta
raggiunto il marciapiede. Il buttafuori nero alla porta del locale ci
guardò di sbieco, ma non disse niente. Meglio per lui.
Quella era la fine di una vita troppo breve e troppo
schifosamente sbagliata. Mentre muovevo piccoli passi dentro
quel lurido vicolo, provai a pensare alle poche cose buone che mi
erano capitate, ma l’odore dell’orina mischiato a quello del
sudiciume che fuoriusciva dai cassonetti era insopportabile. Mi
tornò a mente solo la faccia di mio padre, e quella cicatrice che gli
rattoppava la guancia. Figlio di puttana…
Fu la buccia di banana. Si, proprio lei, quella dei cartoni
animati, quella delle comiche, la fottuta e meravigliosa buccia di
banana.
Melvin aveva estratto il ferro, una S&W calibro 40, e lo
spingeva con impazienza tra le mie costole. Ancora qualche
passo e avrei sentito il bang, oppure non l’avrei sentito affatto.
Ma lo show se lo rubò la buccia di banana.
Melvin Kondaurov, 123 chilogrammi di carne russa compressa,
appoggiò tutto il suo peso sulla gamba destra, in un lezzo vicolo
della periferia cittadina. La buccia lo fece scartare
prepotentemente di lato, ma provò lo stesso a riacquistare
l’equilibrio. Fu un gesto istintivo, ma sbagliato. Cadde

240
pesantemente a faccia in giù, la S&W gli rimase sotto, partì un
colpo e insieme al piscio il vicolo si macchiò del suo sangue.
Sangue Made in Russia.

241
LA RAGAZZA CIECA
Progetto "L'Orfanotrofio delle Storie"

C’era una volta una ragazza di rara bellezza che aveva tutto
quello che si potesse desiderare; una famiglia che l’amava, una
grande casa sul mare, amici affettuosi e un ragazzo dal cuore
d’oro che le voleva molto bene e le stava sempre vicino.
Purtroppo però la ragazza era cieca, e malgrado tutto il bene che
le veniva dato, era molto infelice perché odiava se stessa e la sua
cecità.
Un giorno disse al suo ragazzo: “Sei la persona più bella che
conosca, e se non fosse per la mia cecità ti sposerei subito. Ma mi
odio troppo per concedermi a te. Se un giorno potessi vedere il
mondo, sarei orgogliosa di essere la tua sposa.”
Il giorno dopo il dottore di famiglia disse alla ragazza che
qualcuno le aveva donato un paio di occhi. Si preparò tutto il
necessario per il trapianto e poche ore più tardi era tutto finito, e
l’operazione perfettamente riuscita. La ragazza però avrebbe
dovuto attendere qualche giorno prima di togliersi le bende.
In trepida attesa, vagava per le ampie stanze della sua casa in
compagnia del ragazzo, che le stava sempre vicino. Sentiva il
profumo del mare e non vedeva l’ora di poter mirare i suoi mille
riflessi azzurri. Insieme al suo amore, iniziò a fare progetti per il
matrimonio. Intanto, attraverso le bende, incominciava a
percepire le ombre e le luci.
Una splendida mattina di sole il dottore le tolse le bende e per
la prima volta la ragazza vide il mondo attorno a se, ed era
bellissimo.
Vicino a lei c’era sempre il ragazzo, che le stringeva la mano.
“Adesso puoi vedere, mio amore, e insieme vivremo per
sempre felici e contenti” disse lui. Allora la ragazza lo guardò per
la prima volta e vide che due lunghe cicatrici gli deturpavano il
volto, ed era privo di occhi. Rimase così sconvolta che gli disse di
allontanarsi immediatamente e che le nozze erano annullate.

242
Il ragazzo andò via in lacrime, ma prima di lasciare per sempre
la casa della sua amata, riuscì a scrivere un biglietto e a lasciarlo
sul tavolo del soggiorno.
Quando la ragazza vide il messaggio e lo lesse, tutta la felicità
di cui era ricolma si prosciugò in un solo attimo. Nel biglietto vi
era scritto: “Prenditi cura di te e dei tuoi occhi, mio amore, che
prima che ti appartenessero erano i miei.”

Adattamento e traduzione dall’inglese di un storia anonima –


GM Willo

243
CAMPO DI GRANO, VITA E MORTE
di Giulia Riccó

Il Campo di grano era piuttosto vasto. Al margine due figure


incappucciate discutevano animosamente.
“Non ci posso credere! L'hai rifatto!!! Sei semplicemente
terribile, lo sai bene che ad usare i semi modificati geneticamente
il grano poi cresce a dismisura e infesta tutto il campo. Ah ma
alla signora non importa, tanto poi chi deve falciare anime sono
io!” Sbraitava la prima brandendo una falce con la mano
scheletrica.
“Ma dai, ti ho detto che non l'ho fatto apposta, e poi se tu non
avessi allagato il campo l'altro giorno io non avrei dovuto fare
una nuova semina. Insomma non è del tutto colpa mia.” Rispose
la seconda figura agitando un dito davanti al teschio
incappucciato del suo interlocutore.
“Mi stai forse accusando di essere distratto? Ti ricordo che sei
tu che lascia fare tutto il lavoro a me” boffonchiò il primo mentre
entrava nel campo di grano con la sua falce.
“Sei tu la signora Vita che tutti adorano no? Dovresti prenderti
cura tu del tuo grano, e invece ti limiti a piantarlo qua e là nel
campo e poi lasci le incombenze a me.”poi si mise ad imitare la
voce di Vita “Morteee me lo potresti innaffiare ceh ho da fare in
cucina? Caro non è che potresti concimarlo che devo farmi la
manicure?” Morte scimmiottò Vita mentre dava qualche sfalciata
nel campo, poi si voltò verso di lei e con le mani sui fianchi
continuò a brontolare “ Ti ricordo che io ne ho già abbastanza
della falciatura, o credi sia un lavoro facile? Richiede molta
attenzione sai? Solo le spine mature possono essere falciate, devo
porci la massima attenzione altrimenti potrei fare un danno
irreparabile”. Morte continuò il suo soliloquio, mentre con la
falce ripuliva il campo dal grano mutante che produceva anime
coriacee ed egoiste, che arraffavano tutto il nutrimento dalla terra
senza dividerlo con altri.
Vita sembrò sul punto di ribattere, ma fece un profondo respiro
e avanzò piano nel campo verso il cupo mietitore suo marito. Gli

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abbasso il cappuccio e lo baciò sul teschio bianco. Morte ebbe un
sussulto e diede una falciata distratta, si fermò e si girò a
guardare la sua bellissima moglie.
“Povero il mio bello scheletrino.” disse lei con voce dolce e
sensuale. “ Perchè non lasci un attimo la tua falce e vieni a farti
consolare dalla tua mogliettina? Su dai facciamo pace che non mi
piace se mi tieni il broncio...”.
Morte guardò Vita trasognante ma disse “ C'è ancora molto da
mietere qui...”
“Dai finisci dopo caro, non ti preoccupare ti aiuto io, magari
diamo un po di diserbante...” lo interruppe Vita accarezzandogli
l'osso occipitale. Gli prese poi la mano e lo condusse in casa.
Morte la seguì lasciando cadere nel campo la falce che tagliò via
qualche spiga non ancora perfettamente matura.
Quando molte ore dopo Morte tornò al suo lavoro, si era
completamente dimenticato del grano infestante, che nel
frattempo si era camuffato tra l'altro raccolto, quindi lo lasciò lì a
maturare e imperare sul resto delle spighe. E noi, che quel grano
siamo, stiamo ancora aspettando che il caro Morte se lo porti via
con una bella falciata, e preghiamo vivamente che la bella Vita
non si sbagli più a piantare semi infestanti.

245
LA SINDROME DEL SENSO DI COLPA
di GM Willo

Carey Wolf apre gli occhi alle sette e trentacinque in punto.


L’impulso viene da una zona circoscritta del cervelletto, quella
destinata alle connessioni. La sveglia interna lo informa dell’ora,
del giorno, dell’anno e degli appuntamenti in agenda. In meno di
tre secondi Wolf è a conoscenza della temperatura esterna, di
quella interna, della probabilità percentualistica di precipitazione
e delle ultime news, settate secondo priorità: cronaca, politica,
sport, annunci-incontri.
Carey Wolf vive in un penthouse che si affaccia su Londra.
L’intero edificio è di sua proprietà, così come l’elicottero
posteggiato sulla pista d’atterraggio, che è anche la terrazza del
suo appartamento. Alle nove e quindici ha un appuntamento
dall’altra parte della città; appena venti minuti di volo.
Sotto la doccia visiona il notiziario, mentre si veste conclude un
paio di operazioni bancarie, davanti ad un caffè fumante contatta
la sua segretaria, le da disposizioni, chiama Tokio, Parigi e
Washington, il tutto senza toccare un solo dispositivo. Interfaccia
cerebrale Mitros; trattarsi bene è un dovere.
La giornata sfila via senza intoppi. Appuntamenti di lavoro,
lunch insieme agli amici, un salto in ufficio nel pomeriggio, il
tennis club fino alle cinque, l’aperitivo con Tania, contattata
attraverso l’open-chat Aphrodite, sushi accompagnato da un
Krug Vintage, sesso in ascensore, giochi erotici e coca nella suite
dell’Hotel Palace, ovviamente di sua proprietà. Il sonno lo rapisce
felice.

Roman Baker si sveglia tra le lenzuola di seta dell’Hotel Palace.


Accanto a lui c’è sua moglie Penelope, capelli neri, occhi profondi
come il mare e un culo da urlo. Sono sposati da sole ventiquattro
ore ma qualcosa in Roman gli dice che non sarebbero durati fino
a fine anno. Sul momento gli sembrava una buona idea; il
matrimonio, la luna di miele a Londra, ma soprattutto il sedere di

246
lei. Si conoscevano da poco più di un mese e non l’aveva mai
vista andare fuori di testa come la sera prima.
Sul tavolino da tè della suite rimanevano un paio di strisce di
coca, quelle che lui aveva rifiutato. Il naso di Penelope sembrava
un aspirapolvere. Si era avventata su di lui strappandosi la
camicetta, cercando disperatamente la lampo dei suoi calzoni,
quando improvvisamente la scena dall’erotico si era trasformata
in grottesco. Un fiotto di sushi e champagne era sgorgato dalla
sua bocca, battezzando le lenzuola della loro prima notte
d’amore.
Roman si alza e si accende una sigaretta. L’interfaccia lo ha
appena informato dell’ora e delle condizioni meteorologiche,
oltre a ricordargli per filo e per segno gli eventi appena trascorsi.
Le due del pomeriggio. Con lei fuori gioco c’era d’aspettarsi di
passare tutta la giornata tra le mura di quella dannata suite.
Tanto valeva riordinare un po’ la stanza.
Più tardi Penelope apre gli occhi, sente il suono del televisore,
fa per alzarsi ma un terribile mal di testa la convince a rigirarsi di
nuovo tra le lenzuola e a riaddormentarsi.
Alle otto e quindici Ramon ordina la cena; bistecca, insalata ed
un bicchiere di vino per lui e un tè per lei. È ancora a letto. È
dispiaciuta. Vorrebbe farsi perdonare ma la testa le scoppia.
Alle dieci e cinquantacinque dormono nuovamente entrambi
come due angioletti.

Emmilian Lalonde non ama gli hotel, ma oggi è a Londra per


lavoro e il Palace è uno dei migliori. L’interfaccia gli dice che
sono le sei e cinquantacinque e che tra poco più di mezz’ora lo
verranno a prendere. Sua moglie Linda, che dorme
profondamente accanto a lui, ha regolato la sveglia alle otto. Non
la disturba, ma non può fare a meno di accarezzarle i capelli,
velluto nero sulla seta delle lenzuola. Sarà comunque di ritorno
all’hotel per pranzo, dopo il sopralluogo al Grand Terminal.
Emmilian Lalonde, ingegnere informatico, trentadue anni,
sposato da quattro, impiegato del governo, residente a
Northampton, apre i files nella sua testa, come farebbe davanti a
uno schermo. Invece è sotto la doccia, usa uno shampoo

247
antiforfora e si chiede se non rimarrà calvo prima dei quaranta.
Abito grigio, senza cravatta perché la odia, sfiora la testa della
moglie con le labbra prima d’imboccare la porta ed uscire nel
corridoio dell’albergo. Gli rimangono poco più di dieci minuti
per la colazione. Nel frattempo si ripassa il programma;
aggiornamenti al software Wakeup, controllo ricezioni satellitari,
installazione nuovo sistema operativo. Una mezza giornata di
lavoro buona. Il caffè è eccellente.
L’auto è una di quelle del governo, nera coi finestrini opachi. Si
ferma davanti all’entrata della lobby anche se non potrebbe. Il
portiere fa finta di niente. Ne esce un tipo alto, stempiato, abito
nero, occhiali rigorosamente scuri, portamento distaccato,
movimenti chirurgici. Lalonde, comodamente seduto sul divano
davanti alla reception, lo osserva venirgli incontro con passo
sicuro.
«Mister Lalonde?» La sua voce è asettica.
«Si, sono io.»
«Andiamo…»
L’abitacolo è diviso da un vetro. L’uomo siede accanto
all’autista, mentre Lalonde è da solo sul sedile posteriore. Le
corsie preferenziali di Londra sono semideserte, pochissima la
gente sui marciapiedi. Molti negozi sono ancora chiusi; non sono
ancora le otto.
Lalonde si rilassa con un po’ di musica. Seleziona la playlist
lounge, chiude gli occhi e si lascia trasportare. Pensa ai baci di
Linda, al suo profumo, al modo in cui hanno fatto l’amore, tra le
lenzuola di seta dell’Hotel Palace. Dio come l’amava!
Lalonde riapre gli occhi su un assolo di sax. C’è qualcosa che
non và. La strada non è quella giusta. Bussa al vetro, chiede
spiegazioni all’autista e al suo amico ma nessuno gli risponde. Gli
sportelli sono ovviamente bloccati. I finestrini anche. Mentre
immagini di una periferia sconosciuta scorrono attraverso i vetri,
Lalonde si chiede in quale guaio sia finito. Le connessioni nella
sua testa sono partite. Non gli è più possibile comunicare con
l’esterno.

248
«Dove mi state portando? Cosa è successo al mio interfaccia?»
urla attraverso il vetro, ma i suoi rapitori non si voltano neanche
a guardarlo.
Pensa veloce, prova a riaccedere al server madre, ma niente da
fare, è tagliato fuori. Usa un programma interno rivelatore di
impulsi. C’è qualcosa nella parte posteriore dell’abitacolo che
altera la ricezione, se solo riuscisse ad aggirare il problema
potrebbe avvertire il Grand Terminal, ma deve fare in fretta.
Gocce di sudore gli imperlano la fronte, mentre smuove i pezzi di
uno strano puzzle nella sua testa. Ecco, ci siamo quasi…
…ma l’impulso cambia improvvisamente di frequenza, e questa
volta è doloroso. Lalonde si accascia sui sedili posteriori dell’auto
nera, sprofondando in un oblio digitale.

Quando riapre gli occhi la luce di un neon lo abbaglia. È disteso


su un lettino reclinabile di pelle nera, dentro una stanzetta vuota.
C’è una porta alla sua destra e un ampio specchio alla sua
sinistra. Qualcuno lo sta osservando al di là di quel vetro, ma non
è il suo interfaccia a suggerirglielo. Quello è ancora inaccessibile.
Dolorante si mette a sedere. Hanno giocato un po’ con il suo
sistema neurale, usando frequenze proibite. Il risultato è come un
giro nel portabagagli di un auto senza sospensioni.
La porta si apre. Entra un uomo sulla cinquantina, calvo, con gli
occhiali, il camice bianco, una cartelletta in mano. Qualcuno
richiude la porta da fuori; è il tipo con gli occhiali scuri.
«Buongiorno signor Lalonde, il mio nome è Valentin Sayer,
oppure dottor Sayer se le và…»
«Dove diavolo sono? Chi siete voi?» Lalonde cerca la voce
arrabbiata, ma riesce appena a sollevare la testa. Tossisce, si
stringe le tempie, ritorna distendersi sul lettino.
«Non si affatichi. Vedrà, le passerà presto.»
Questa volta non risponde. Sa già che non ne vale la pena.
«Mi spiace per ciò che sta passando, ma presto si renderà conto
che quello che vi abbiamo fatto era necessario…»
«Stronzate…» sussurra Lalonde con le mani sul volto. Se solo
potesse riaccedere al suo interfaccia, pensa.

249
Il dottor Sayer riprende a parlare «…non mi sembra il caso di
andare avanti, adesso. Le darò qualcosa per far calmare i dolori.
Riprenderemo più tardi.»
Nei minuti susseguenti un’infermiera gli somministra degli
antidolorifici per endovena. Mezz’ora dopo i dolori sono
scomparsi, ma l’accesso al deck interno è sempre sbarrato.
«Fatemi uscire!» urla, sbattendo i pugni sul vetro. Valentin
Sayer rientra nella stanza. Ha una sedia pieghevole. La apre e si
accomoda davanti al lettino del prigioniero.
«Adesso mi ascolti bene signor Lalonde, e cerchi di prestarmi
attenzione. Tra meno di un’ora sarà di nuovo sull’auto e questa
volta in direzione del Grand Terminal.»
«Che cosa vuol dire tutto questo?»
«Glielo sto cercando di spiegare, signor Lalonde. Si sieda ed
ascolti.»
Riacquistata un minimo di tranquillità, Lalonde prende
posizione sul lettino di pelle. È aggrappato alla promessa del
dottore; tra meno di un’ora tornerà tutto normale.
«Quello che sto per rivelarle le sembrerà assurdo, ma non ho
nessun altro modo per convincerla se non quello di raccontarle
come stanno le cose. Starà a lei crederci oppure no.»
Sayer usa una pausa per assicurarsi che il suo interlocutore lo
stia seguendo. Lalonde mette su uno sguardo scettico ma pare
concentrato. La storia incomincia.
«Come lei sa il Grand Terminal di Londra gestisce tutti gli
impulsi dei maggiori network. Li seleziona, li smista, li traduce e
li converge ai ripetitori ai quattro angoli del pianeta. Il 98% della
popolazione mondiale utilizza degli implant-deck che
quotidianamente vengono aggiornati con nuovi flussi di
informazioni; previsioni metereologiche, notizie, annunci e
aggiornamenti per la navigazione in rete. Il suo lavoro è proprio
quello di monitorare il sistema utilizzato dal Grand Terminal. Le
spiace se fumo?»
Valentie Sayer estrae un pacchetto di sigarette al mentolo.
«No, si figuri» risponde Lalonde, ma l’odore del tabacco
aromatizzato gli mette subito la nausea.
Sayer riprende a parlare.

250
«Quello che non sa è che in realtà il Grand Terminal è il più
grande esperimento di acquietamento mai realizzato. Ciò che
trasmette regolarmente ogni giorno a milioni di persone, pochi
istanti prima del loro risveglio, non è solamente una manciata di
informazioni di comune utilizzo; orario, temperatura, messaggi
di segreteria ecc. Come lei certamente saprà gli interfaccia
interagiscono direttamente con la zona del cervello riserbata alla
memoria, moltiplicando la sue capacità di storage a seconda della
potenza del dispositivo in dotazione. L’impulso lanciato dal
Grand Terminal ogni giorno al 98% della popolazione mondiale
cancella sistematicamente la cartella “memoria” e la riempie con
nuove informazioni. Come conseguenza succede che ogni
individuo ha una percezione diversa della propria vita ogni
singolo giorno.»
Le parole del dottor Sayer rimangono prigioniere della piccola
stanza. Lalonde prova ad afferrale, a farle sue, ma queste gli
scivolano via.
«Lei è pazzo!» borbotta.
«Mi faccia spiegare. Ancora qualche minuto e poi sarà libero di
andarsene.» Spenge la sigaretta schiacciandola sul linoleum e
apre la cartellina che ha in mano.
«Lei oggi è il signor Emmilian Lalonde, felicemente sposato con
la signora Linda Lalonde, che al momento si trova sotto la doccia
nella vostra suite dell’Hotel Palace. Lei crede di essere arrivato
ieri sera a Londra con il treno delle diciotto, di aver fatto il check-
in, di aver cenato al ristorante dell’albergo, di essere salito in
camera e di aver fatto l’amore con sua moglie. In realtà ieri lei era
il signor Roman Baker, che a sua volta credeva di essere in
viaggio di nozze con sua moglie Penelope. Il giorno prima invece
era il signor Carey Wolf, proprietario dell’Hotel Palace, arrivato
nella medesima stanza nella quale vi siete svegliato stamattina
insieme a Tania, una ragazza di facili costumi. Ovviamente avrà
già capito che Tania, Penelope e Linda sono la stessa persona.
L’impulso non riesce a cancellare completamente tutti i ricordi.
Se lei prova a concentrarsi su questi nomi, Roman Baker e Carey
Wolf, forse riuscirà a rammentare qualcosa…»

251
Lalonde chiude gli occhi, vorrebbe ridere a squarciagola e
uscire da quella situazione insensata, ma qualcosa lo trattiene. Si
concentra sui due nomi. È tutto così assurdo… Frammenti di una
vecchia pellicola gli scorrono davanti agli occhi; un volo in
elicottero, una partita a tennis, un pompino in ascensore, due
strisce di coca sul tavolino dell’hotel, una bistecca con insalata…
«Che diavolo significa?» urla.
«Adesso si calmi, ho quasi finito» lo rassicura il dottor Sayer.
Poi riprende a parlare.
«Stiamo monitorando l’esperimento da circa due anni e
crediamo che sia venuto il momento di interromperlo. Per questo
motivo lei è qua. Le daremo istruzioni per innescare il
programma di disinstallazione, una volta che raggiungerà il
Grand Terminal. Ma prima vorrei spiegarle i motivi di quello che
stiamo facendo.»
Sayer cerca una posizione più comoda sulla sua sedia e si
accende un’altra sigaretta al mentolo.
«L’inaudita escalation di violenze, guerre e calamità accadute
nella prima metà di questo secolo hanno convinto alcune persone
nelle stanze dei bottoni ad iniziare un piano di selezione
demografica estremamente rigido. Le sue percezioni del mondo
le fanno credere che siamo più o meno sette miliardi, ma non è
così. La popolazione mondiale conta poco più di cinquecento
milioni di persone. La selezione ovviamente ha preferito le civiltà
più avanzate, e il risultato è stato ottenuto attraverso una
sistematica pulizia etnica ai danni delle popolazioni più
retrograde. Una volta conclusasi questa prima fase, si è operata
un’equa spartizione delle risorse energetiche e delle terre. Per
qualche anno il nuovo ridimensionamento geopolitico ha giovato
grandemente all’umanità. Sono terminati i conflitti e si sono
risolti i problemi relativi alla scarsità delle risorse primarie; gas,
petrolio e acqua. Purtroppo dopo un paio di anni si sono avvertiti
i primi sintomi di quella che tra noi addetti ai lavori chiamiamo
semplicemente la “sindrome del senso di colpa”. La maggior
parte della popolazione, malgrado il bel vivere, non riusciva a
sopportare l’idea di aver partecipato, attivamente o
passivamente, allo sterminio di più di sei miliardi di persone. Le

252
prime conseguenze furono degli stati depressivi di massa che
portarono al suicidio un numero impressionante di persone. Si
iniziò subito un primo programma di acquietamento, cercando di
rimuovere i ricordi della pulizia etnica ma purtroppo, come ha
appena constatato lei di persona, non è facile cancellare
completamente il supporto mnemonico del cervello. Fu così che
avviammo il secondo programma di acquietamento, cioè quello
in corso. I supporti di memoria della popolazione mondiale sono
stati cancellati e riprogrammati più di seicento volte ormai, e
crediamo che si sia finalmente persa ogni traccia di quelle terribili
testimonianze. Per questo è giunto il momento che ognuno si
riappropri della sua identità.»
Lalonde ascolta il suo corpo e cerca di convincersi che tutto
quello che gli è appena stato detto è un’enorme frottola. Ma
qualcosa dentro di lui gli sussurra che non è così.
«Prenda questo supporto e lo inserisca nel deck del Grand
Terminal. Penserà a tutto lui.»
Sayer consegna nella mani tremanti di Lalonde un microchip.
Poi l’uomo con gli occhiali scuri entra nella stanza, lo prende
gentilmente per un braccio e lo accompagna fuori, attraverso uno
stretto corridoio, e poi oltre una porta grigia di metallo. L’aria
gelida del mattino spazza via la nausea delle sigarette al mentolo.
C’è l’auto nera ferma in un enorme parcheggio vuoto. Lalonde
viene condotto nell’abitacolo, il motore si accende e meno di
cinque minuti più tardi la zona periferica industriale è già alle
sue spalle.
L’incubo è finito, pensa. Questa gente è pazza!
Poi incominciano i ricordi. I grandi forni crematori, la puzza
nauseabonda dei corpi bruciati, le immagini di devastazione
riprese dalle televisioni, la fredda determinazione degli eserciti
della coalizione, la propaganda di morte dei governi. Tutto risale
in superficie, come un veleno aggrappato alle cellule del corpo,
incapace di essere rimosso neanche attraverso le generazioni. La
nuova maledizione dell’uomo.
«Fermate la macchina! Vi prego, fermatela, devo vomitare!»
ordina Lalonde, battendo sul vetro che lo separa dai due uomini.

253
Un marciapiede di periferia si macchia dei resti della colazione
del Palace.

«Come ha reagito il soggetto numero 543?»


«Negativo.»
«Tempo di affioramento dei ricordi?»
«Diciassette minuti e quarantacinque secondi.»
«Meglio di ieri. Molte grazie, dottor Sayer.»
«Riproviamo domani?»
«Certo.»
«Nome del soggetto?»
«Wildon Harvie.»

254
ELIZAVETA
di GM Willo

Le russe sono tipe strane, hanno il sangue delle lucertole, hanno


il ghiaccio nelle vene, e magari ci scopi e non esiste niente di più
focoso, passionale, bizzarro, ma poi le guardi negli occhi e
capisci: sei fregato!
Elizaveta era esattamente così.
La conobbi in albergo, quello in cui lavoravo. Chissà come
poteva permettersi una suite di lusso, forse era nei servizi segreti.
Beh, a me piace pensarla così…
L’ascensore era il nostro luogo. Lei m’invitava con lo sguardo,
io la seguivo nel loculo, partivamo e dopo un po’ premeva l’alt.
Poi mi si avvicinava come una pantera, sfiorava con le sue labbra
carnose il mio orecchio sussurrandomi: zaychik moy… mio
coniglietto.
Volete che vi descrivi il resto? Meglio di no. La vostra
immaginazione può bastare…
Boris non era suo fratello. Era solo un puttaniere, e ci beccò nel
posto sbagliato al momento sbagliato; l’ascensore appunto!
Il resto sono solo storie di pallottole e vodka.
Eppure io l’ho amata. Per quel poco che è durata…
«Avanti il prossimo!»
«Eccomi, sono io. Giovane lo so, arma da fuoco, regolamento di
conti, storie di donne… C’è posto lassù?»
« Vedo, vedo…. Una sola domanda: ma lei la amava quella lì?»
«Con tutto il mio cuore!»
«Allora vada. L’ascensore è sulla destra.»
Ancora l’ascensore, pensai. Si aprirono le porte e c’era lei.
«Dove eravamo rimasti?» chiese.
Il paradiso piu dolce…

255
MARIONETTE
di Giulia Riccó

E tu giovane Pinocchio del XXI secolo che fai?


Ancora credi di essere senza fili?
Non ti accorgi che i grandi Mangiafuoco ti sorreggono con fili
invisibili?
Che fai tenti di tagliarli ma non ti accorgi che fai il loro gioco?
Più ti dimeni per liberarti da quell’invisibile e appiccicoso
filamento, più ne rimani invischiato. Più cerchi di non essere una
loro marionetta più fai il loro sporco gioco. Hanno bisogno di
Giovani Pinocchio per i loro scopi. Per soggiogare ancora di più
Arlecchino, Pulcinella e tutti gli altri hanno bisogno dei giovani
Pinocchio che facciano la parte dei ribelli a cui dare la colpa. Non
temere però una soluzione c’è: taglia i fili. Si tagliali con questo
coltello. Farà un po’ male ma non preoccuparti è passeggero.
Affida a me i tuoi scellini d’oro te li tengo al sicuro nel campo dei
miracoli. Non ti fidi della tua vecchia Volpe!? Guarda che io non
sono la vera cattiva. Sono solo una povera bestiola costretta a
campare di favole. Ma tu, oh si tu giovane Pinocchio puoi librarti
libero nel mondo. Taglia i fili e via lontano nel paese della
cuccagna senza burattinai a imprigionarti. Ecco vedi è un attimo
prima i polsi, poi le caviglie e ora la testa… Libero… senti
freddo? È normale liberarsi dai fili è un po’ come liberarsi della
coperta di Linus. Come chi è? Te lo spiegherò poi un’altra volta.
Ora siediti qui. Sangue? Oh no non preoccuparti è normale, i fili
sono come piccole vene. Stai sereno ancora poco e sarai libero.
Chiudi gli occhi giovane Pinocchio. Chiudi gli occhi e pensa che
sarai l’unico libero. Quei bastardi hanno intrappolato anche la
cara Fatina. No no tranquillo io veglierò su di te finché non sarai
del tutto libero. Ecco Chiudi gli occhi giovane Pinocchio. Si
scivola nel sogno… così bravo. Sogna sogna la tua libertà, perché
vedi, in questo mondo l’unico modo per essere liberi è sognare di
esserlo.

256
LA NEBULOSA DEL CANCRO
di GM Willo

Che cosa nasconde quel messaggio, quell’assurda accozzaglia


di simboli, quel suono ipnotico sparato da una distanza di milioni
di anni luce?
Ve lo dico io cosa nasconde… è la voce di Dio, quella. E sapete
cosa ci sta dicendo? Che siamo proprio dei coglioni!!
Lasciatemi parlare! Siete voi i pazzi, e ve ne accorgerete presto!
Nessun decodificatore è stato in grado di darci delle risposte
sensate. Nessun algoritmo è capace di spezzare l’enigma. Ma
provate ad ascoltare e riascoltare quel suono, nell’oscurità della
vostra camera da letto, da soli, immergendovi totalmente nel
vibrato. Io l’ho fatto, ed è stata una rivelazione.
Quella è la voce di Dio e ci sta dicendo che stiamo sbagliando
tutto! Ci sta parlando dalle sue magioni, oltre lo spazio compreso,
oltre le luci ed i suoni, oltre i fulcri incandescenti delle galassie,
oltre lo zero assoluto nei remoti angoli del cosmo. I nostri
maledetti marchingegni non sono in grado di carpire il significato
della sua grandezza, il sottile insinuarsi delle note alte, appena
percepibili, il lento e cadenzante ritmo delle tonalità grevi.
So già che volete farmi fuori, che probabilmente questo sarà
l’ultimo discorso pubblico che sarò in grado di fare, per questo
sento il bisogno di appellarmi a quel briciolo di umanità che ci è
rimasta; la vostra, la mia, e quella di tutti gli altri, facce spiritate
che ci guardano da oltre il vetro magico. Stiamo sbagliando,
gente. Dobbiamo tornare indietro. Dobbiamo ritrovare quello che
abbiamo perduto.
Ascoltatemi! Domani io sarò solo un altro pazzo confinato alle
periferie della civiltà. Avrò un altro nome, un nuovo lavoro,
nuovi vicini. Non potrò rivelare la mia posizione né la mia vera
identità. Non m’importa. Ma sappiate che tutti voi siete in grado
di sentire quel messaggio.
Stanotte spengete le luci della vostra stanza e aprite la finestra.
Guardate in alto, verso la Nebulosa del Cancro. Chiudete gli
occhi ed ascoltate.

257
Dio vi parlerà, e vi sentirete come quando vostro padre vi
beccava ad averne appena combinata una grossa. Ma, credetemi,
questa volta non ve la caverete con una semplice sculacciata…

258
LA GRANDE OCCASIONE
di GM Willo

Il morto è venuto da me l’altra notte per parlarmi del trapasso.


Già dal primo sguardo mi è sembrato sbronzo, ma in quel
momento non aveva importanza. Si è seduto accanto a me, su
mio letto di morte, e mi ha sorriso. Non sapevo perché, ma ero
sicuro che fosse uno spettro. E lo era per davvero, lo giuro!
Il morto aveva gli occhi limpidi di un bambino, o di un ubriaco,
oppure di entrambi. Mi si è fatto vicino e mi ha parlato…
«Ehi amico, non aver paura. Vedrai sarà come scendere in
cantina. Sarà come farsi un cicchetto o due. Non temere! Lei non
viene da te con una falce, ma con una bottiglia di buon vino.
Fidati. Chiudi gli occhi adesso. Dormi…»
E così, con un sereno sorriso sulle mie violacee labbra, mi sono
addormentato. La morte mi ha concesso un altro giorno, ma ora
non ho più paura. Sono pronto ad affrontarla.
È arrivato il tramonto. Intuisco i suoi colori, al di là delle
pesanti tende di velluto scuro. Sento che il momento sta per
arrivare. Ed io mi tengo stretto nella mano il bicchiere delle
grandi occasioni.

GMW 29 Marzo 1997

259
IL RUMORE DEL TEMPO
di GM Willo

Lui mi disse che era in grado di sentire il rumore del tempo che
scorreva. A volte era il sordo frusciare della sabbia che scivola
nella clessidra, un suono costante e corrosivo, come quello delle
onde che bagnano le rive delle nostre vite. A volte erano i
rintocchi di un impietoso pendolo, il cadenzato battere
dell’eternità, che congiura insieme alla follia ai danni delle nostre
povere menti. A volte era l’indescrivibile musica che accompagna
la danza dei pianeti attorno al sole. Più spesso erano i secchi colpi
della falce che miete il grano maturo, in una giornata di un’estate
crudele…
…e si odono strani canti nei campi.

GMW. 21-3-1997

260
IL PRETE
di Gano

La gente va a confessarsi dal prete, mentre il prete viene a


confessarsi da me. Funziona così nelle periferie della città, nei
borghi lungo le statali e nei paesini. Il bar è il luogo ideale per
lasciarsi andare, ma c’è sempre una reputazione da proteggere, e
allora bisogna scegliere la persona giusta. E chi meglio del Gano,
dico io…
Eh già, di segreti ne conosco anche troppi, ma va bene cosí. No,
non fraintendetemi, non sono un curioso, e quello che mi dite
potete stare tranquilli, rimane al sicuro. Ma so che è importante
per certa gente trovare una persona che sappia ascoltare. E poi ci
sono quelli che non sanno proprio a chi rivolgersi, come il prete,
appunto.
E che avrà fatto di male questo prete!? Già m’immagino cosa
state pensando. Ma no, niente schifezze, altrimenti gli avrei
ammollato un calcio nella palle e gli avrei fatto passare la voglia.
No, il povero cristo si era lasciato solo un po’ andare. Adesso ne
posso parlare, perché lui non c’è più, pace all’anima sua. E poi
tanto il nome mica ve lo dico…
Comunque, il prete, un omino piccino coi capelli bianchi e con
la classica nappa da prete amante del buon vino, m’aveva visto
nascere, praticamente. Io la chiesa la sgamavo, catechismo,
comunioni… no, quella roba in casa nostra non c’entrava neanche
per sbaglio. Mio padre era un comunistaccio convinto e ai preti li
avrebbe dato fuoco. Io non mi spiegavo da dove venisse tutto
quest’odio. Non mi spiegavo tante cose del vecchio, riposi in pace
tra le fiamme dell’inferno!
Eppure, vi dicevo, che anche se in chiesa non ci mettevo piede,
c’avevo un sacco di amici che ci andavano a giocare a pallone, e
capitava spesso che il prete ci venisse a dire qualcosa se facevamo
troppo rumore. La periferia della città è come un paese. Ci si
conosce tutti, e tutti sanno tutto di tutti, ma fanno tutti finta di
non sapere una cavolo! Ciononostante i segreti esistono, perché

261
vedete ci sono due tipi di segreti, quelli che tutti sanno e quelli
che nessuno conosce.
Il prete veniva al bar, di solito la domenica dopo la messa.
Chissà se il vinello gli serviva per la gola secca del dopo sermone,
o per convincersi di non aver appena proferito un sacco di
stupidaggini. A me piace pensare che il vino abbia molti perché, e
non è necessario che il bevitore li conosca tutti quanti!
Quel giorno era agitato e l’ora stava diventando tarda. C’era
stato un funerale al mattino, la povera signora Clara, una bella
donna sulla cinquantina con due figli grandi e un marito
impiegato alle poste. Se l’era portata via quello stramaledetto
cancro…
«Padre, tutto a posto?» gli chiesi avvicinandomi al banco.
Ordinai un corretto a stravecchio.
«Si, grazie…» ma i suoi occhi erano lucidi, le mani gli
tremavano e dalla bocca fuoriuscivano zaffate di vino.
«Perché non viene al tavolo, facciamo due chiacchiere?» Lui
non provò neanche a rifiutare per cortesia. Si aggrappò alla mia
offerta come un naufrago al salvagente.
«Che le succede Padre? Qualcosa che non va?» Ai tavolini di
plastica del bar eravamo solo noi due. Un confessionale non
poteva essere più riservato.
«Gano, quant’è che ci conosciamo?»
«Non saprei… mi ha visto nascere, Padre.»
«Perché non sei mai venuto in chiesa?»
«Cos’è, una paternale?»
«No, ma che dici… sono solo curioso….»
«Beh Padre, Gesù ha il suo stile, non ne dubito, ma il resto sono
solo… come dire…»
«Stronzate?»
Fa uno strano effetto vedere quella parola in bocca ad un prete!
Ma io annuii, perché aveva centrato il punto.
«Non ti stupire Gano, povero diavolo… Anch’io troppo spesso
dubito di quello di cui non dovrei mai dubitare…»
«Crisi di fede?»
«Sempre Gano! Sempre. È ciò che mi fa andare avanti. Il
dubbio… ma non è questo il motivo dei miei cinque cicchetti…»

262
« E allora?»
«Clara….»
«No!»
«Eh già…»
«Non vorrà dirmi…?»
«Io non ho detto niente, figliolo…»
Ecco, questi sono i segreti-segreti, quelli che non si possono
neanche raccontare. Bisogna intuirli, bisogna fare finta di averli
capiti, per poi riuscire con naturalezza ad ammettere di averli
fraintesi. Sono i segreti non detti, mai svelati, verità fantasma che
aleggiano sopra i bar di periferia.
«Ne prende un altro, Padre?»
«Solo se mi fai compagnia, Gano…»

263
L’EREMITA
di GM Willo

All’emporio di paese i bambini giocavano a dadi su un tavolino


della sala comune. Fuori era una giornata di quelle da rimanere
davanti alla stufa, a raccontarsi storie di fantasmi. In montagna,
d’inverno, ve n’erano diverse di giornate così. Freddo, ma non
abbastanza per nevicare, nebbia fitta da tagliare col temperino e
una pioggerella insistente che penetrava le ossa. Meglio starsene
insieme all’emporio di Aldo, che tanto la scuola era chiusa.
Mancavano due giorni a capodanno.
Al tavolo dirimpetto ai ragazzi sedeva Luigi il macellaio.
Chiacchierava con un signore che non si era mai visto prima.
Forse era uno venuto dalla città con il bus del mattino. Al paese
arrivava solo un autobus, due volte al giorno, alle sette e alle
quattro di pomeriggio. Neanche la nebbia lo fermava quello!
I due parlavano del mondo e bevevano china calda. Nella sala
dell’emporio, che faceva da bar, edicola, tabacchi, ricevitoria e
ufficio postale, la TV era accesa, ma il volume era smorzato.
Davanti vi sedeva Pierino, novantottotenne cuor di leone. A lui il
volume non serviva. Era sordo come le campane.
I bambini giocavano con tre coppie di dadi, una bianca, una
nera e una rossa. Il gioco era semplice, come tutti i giochi di dadi.
Si tiravano quelli bianchi e bisognava superare il risultato con i
rossi, mentre con quelli neri occorreva fare un totale inferiore. I
giochi di dadi, proprio per la loro semplicità, alimentavano
interessanti chiacchierate.
«Chissà cosa farà l’eremita?» si chiese un bambino.
«Ha acceso la stufa. Ho visto il fumo mentre uscivo di casa»
rispose un altro.
«A pensarci mi vengano i brividi…» confessò un terzo.
L’eremita viveva sulla montagna, in una casettina di pietra,
accanto a un vecchio monastero abbandonato. Dal paese un
sentiero si arrampicava per un chilometro attraverso un bosco di
abeti, fino alla sua dimora. Ma nessuno lo aveva mai visto. Alcuni
bambini pensavano che fosse solo una leggenda, altri dicevano

264
che aveva fatto un voto a dio, perciò non poteva uscire di casa. La
moglie di Aldo gli portava ogni tanto un sacchetto di provviste.
Ma c’erano anche altre storie…
«Mio padre mi ha detto che è un uomo molto pericoloso…»
esordì un quarto bambino.
«Anche il mio lo dice» confermò un altro.
«Non è pericoloso… è pazzo!» Queste ultime parole furono
pronunciate dal bambino più grande del gruppo. Aveva dieci
anni e già pensava di essere un’autorità. Perciò si arrogò il diritto
di spiegare agli altri la verità sull’eremita.
«Hai capelli grigi, lunghi ed ispidi, perché non si lava mai, e
una barba lanuginosa piena di pidocchi. Si ciba degli animali del
bosco e li mangia crudi. Uccelli, scoiattoli, persino i ratti. Se ti
avvicini alla sua casa lo puoi sentire parlare da solo. Dice cose
incomprensibili, all’apparenza senza senso, ma mio padre mi ha
detto che sono preghiere per il diavolo.»
Quando il bambino terminò la sua descrizione, il silenzio era
calato sul gruppo, e i dadi avevano smesso di ruzzolare. In quel
momento fuori il vento sembrò cantare un nuovo motivo, una
canzone che metteva i brividi. L’amico del macellaio non poté
fare a meno di sorridere. Aveva sentito tutto, e non perse
l’occasione per intervenire, spezzando quel silenzio
imbarazzante.
«L’eremita è un buon uomo…»
Tutti i bambini si voltarono verso il tavolo accanto. Era un
signore distinto di una certa età, con un maglione rosso e una
zazzera striata di grigio. Portava un paio di occhiali dalla
montatura delicata, come quella che hanno sempre i grandi
professori. Luigi sedeva accanto a lui, sorseggiando la sua china.
Sotto i baffi nascondeva un sogghigno.
«Tanto saggio non deve essere se se ne sta tutto solo» dichiarò il
ragazzino, cercando l’approvazione dei suoi compagni.
«Ah, ma non è da solo…» rivelò lo straniero. Chi era costui?
Come mai sapeva tutte queste cose sull’eremita? I bambini
adesso morivano dalla curiosità, così l’uomo riprese a parlare.
«In verità non esiste compagnia migliore della sua, ed è proprio
per questa compagnia che se ne sta sulla montagna.»

265
«Mia nonna mi raccontava di un’arpia che gli faceva da moglie,
e di un figlio nano» esordì uno del gruppo. Gli altri si girarono a
guardare il compagno, pronti a sostenerlo. Perché i ragazzi,
quando fanno gruppo, si azzuffano come dei gatti, ma davanti ad
un adulto rimangono più uniti dei denti di una cerniera.
«È vero, lo diceva anche mia zia…» ribadì un altro.
L’uomo col maglione rosso fece una risata così grossa che si
girò perfino Aldo, che se ne stava a leggere il giornale dietro al
bancone. I bambini rimasero in silenzio, intimoriti più di prima.
«Non ci sono né arpie né nani lassù. C’è solo un uomo insieme a
se stesso, e come vi ho già detto, non esiste compagnia migliore.»
Adesso i ragazzi si sentivano davvero confusi. Che cosa voleva
dire quello straniero? Che l’eremita era solo con se stesso? Se era
solo, era solo, punto e basta. Lo sconosciuto con gli occhiali da
professore li stava prendendo in giro, ma nessuno aveva il
coraggio di controbattere. Allora lui riprese a parlare.
«L’eremita ha avuto una lunga vita e gli sono capitate cose belle
e cose meno belle. Ha avuto una moglie, che non era un’arpia ma
una donna bellissima, e tre figli, che non erano nani ma dei
ragazzi sani e intelligenti. Ha viaggiato molto, ha avuto tantissimi
amici, è stato amato e rispettato. Col passare del tempo ha avuto
anche degli insuccessi, ha perso degli amici importanti, è stato
costretto a lasciare la sua città natale e a vivere di espedienti. I
figli nel frattempo sono cresciuti e la moglie si è ammalata e lo ha
lasciato. A quel punto lui si era accorto di essersi perduto, e
l’unico modo per ritrovarsi era starsene da solo. Per questo è
venuto su questa montagna. Ha comprato la casa più in disparte,
quella vicina al vecchio monastero, e ha vissuto in solitudine per
molti anni. Ma non è vero che non esce mai di là. Spesso scende
giù all’emporio, ed è un signore distinto, al quale piace fare due
chiacchiere con Aldo oppure con Luigi. Si beve la sua china calda,
prende la borsa con la spesa e risale su. Se non l’avete mai visto, è
solo perché pensavate che fosse un vecchio con i capelli arruffati
e la barba piena di pidocchi…»
I bambini erano rimasti a bocca aperta. Le loro piccole testoline
stavano ricomponendo il puzzle, ma ci sarebbe voluto ancora
qualche minuto. Nel frattempo lo straniero si alzò dal tavolo,

266
salutò prima il macellaio e poi i ragazzi. Da dietro al bancone
Aldo gli passò una borsa piena di provviste. Lui pagò e se ne
andò.
A Luigi scappò una risata così forte che anche Pierino, assorto
davanti al televisore, riuscì a sentirla. Si girò e disse: «Ma
statevene un po’ zitti laggiù!»
E così i bambini si rimisero a giocare a dadi.

Tratto dal libro: Storie dall’eremo del nord

267
LA LIBERTÁ DELL'UOMO
Progetto "L'Orfanotrofio delle Storie"

Il monaco, immobile sul grande macigno, osservava le ombre


allungarsi, e pensava che niente e nessuno le avrebbe mai potute
fermare. Allora sentì l’impulso di chiedere consiglio al suo
Maestro. Entrò nel tempio e lo vide in un angolo a pregare. Non
dovette disturbarlo, perché sapeva già che sarebbe venuto.
L’adepto si accomodò accanto a lui e chiese: «Maestro, quanto è
libero un uomo? Lo è totalmente oppure esistono delle
limitazioni? È possibile che qualcosa come il destino limiti la
nostra libertà?»
Il Maestro rispose alla sua maniera, non con la logica di
pensiero ma con un esempio esistenziale. Disse: «Alzati, figliolo.»
Per un momento l’adepto pensò che quella non fosse
assolutamente la risposta che cercava, ma frenò l’impulso di
credere che il Maestro si stesse prendendo gioco di lui. Così si
alzò in piedi ed attese.
Il Maestro disse: «Adesso solleva una gamba.»
“Che diamine significa?” pensò l’adepto. “Ha forse perso la
ragione o non sono stato abbastanza chiaro?” ma tutte queste
cose il giovane monaco non le condivise col suo Maestro, e per
non mancargli di rispetto alzò una gamba e rimase in equilibrio
sull’altra.
«Benissimo» dichiarò il Maestro. «Un’ultima cosa adesso.
Solleva anche l’altra gamba.»
«Ma è impossibile!» protestò subito l’adepto. «Ciò che mi stai
chiedendo è assolutamente irrealizzabile! Ho già la mia gamba
destra alzata, e non mi è possibile sollevare anche quella
sinistra.»
Allora il Maestro rispose: «Eppure eri libero. Avresti potuto
sollevare la gamba sinistra per prima, e nessuno ti avrebbe detto
nulla. Eri completamente libero di scegliere la gamba che
preferivi. Non ho detto niente a riguardo, e tu hai preso una
decisione: hai alzato quella destra, ma facendo questa scelta, ti sei
precluso la possibilità di sollevare quella sinistra.»

268
Il Maestro guardò il giovane con una luce d’amore negli occhi.
«Non preoccuparti del destino, figliolo. Pensa sempre con
semplicità.»
Fuori dal tempio le ombre erano già padrone.

GM Willo – Adattando una storia anonima.

269
L'ANELLO
di GM Willo

«Amore, hai visto per caso il mio anello?»


«Ce l’hai al dito…»
«Ma no, non la fede. L’anello che avevo al mignolo, quello fine
d’argento…»
«Avevi un anello al mignolo?»
«Ma certo… che fai, mi prendi in giro?»
«Ti giuro che non te l’ho mai visto… ma sei sicuro?»
«Certo che sono sicuro…»
Quinto Bertocchi se ne esce di casa alle otto meno un quarto, in
leggero ritardo e con un evidente malumore. Si guarda il dito
mignolo mentre poggia le mani sul volante, e prova a ricordare
dove potrebbe essere andato a finire il suo anello. Nonostante il
traffico, la radio, il mal tempo e gli appuntamenti di lavoro, non
riesce a pensare ad altro. Appena entra in ufficio convoca la sua
segretaria.
«Teresa, hai per caso visto il mio anello?»
«La fede nuziale?»
«No, quella ce l’ho. Sto parlando del piccolo cerchio d’argento
che avevo al mignolo, si ricorda?»
La segretaria prende tempo per far finta di ricordare e poi
scuote la testa.
«No, sinceramente…»
«Ma come no…» la interrompe l’ingegner Bertocchi,
leggermente infastidito.
«…aspetti, ora che ci penso, mi sembra di ricordare qualcosa.
Però non l’ho visto» mente lei.
«Ecco, lo sapevo! Mia moglie voleva farmi passare per scemo.»
«Mi scusi?»
«No, niente… »
«Ha provato a vedere nel bagno? Magari se lo è tolto ieri per
lavarsi le mani e poi lo ha dimenticato sul lavandino.»
«Si, ottima idea. Andrò subito a vedere.»

270
Teresa se ne torna alla sua scrivania, felice di lasciare il capo alle
sue beghe. Lui perlustra da cima a fondo ufficio e bagno ma non
trova nulla. Si prova a mettere a lavorare, ma non riesce a
concentrarsi. Attende rovellandosi l’ora di pranzo.
«Giorgio, ti ricordi dell’anello che avevo al dito?»
Al tavolino del bar sotto gli uffici siedono Matteo Franceschini,
Giorgio Pirani e il nostro Quinto Bertocchi. Insalatina, capaccio di
bresaola, prosciutto e melone e tre bicchieri di vino bianco,
leggero perché dopo si torna a lavorare.
«Un anello?»
«Esattamente! Qui al mignolo, avevo un anello d’argento, come
una piccola fede.»
«Ma sai, io sono un po’ distratto con queste cose. Ricordo a
malapena quello che ho mangiato a colazione.»
«E tu, Franceschini?»
«Cosa?»
«Mi hai mai visto un anello a questo dito?»
Lui alza la testa dal carpaccio, ci pensa un po’, o come la Teresa
fa finta di pensarci, e poi risponde di no.
«Questa storia è davvero strana, sapete? È come se questo
anello me lo fossi inventato. Nessuno lo ricorda, ma sono
sicurissimo di averlo avuto al dito, almeno fino a ieri sera.»
«Beh, se sei sicuro allora ce lo avevi.» risponde l’ingegner
Pirani.
«La gente è distratta, sai com’é…» aggiunge l’avvocato
Franceschini.
«Si, ma neanche mia moglie se lo ricorda…»
«Sabato scorso sono passato dall’edicola e ho comprato una
rivista di fotografia» racconta Giorgio, «e mia moglie è rimasta
sorpresa. Si era completamente dimenticata che è dai tempi del
liceo che sono un fotoamatore. È un mondo troppo veloce,
nessuno riesce più a stare dietro a tutto… Non preoccuparti
Quinto…»
Ma le parole di conforto dell’ingegner Pirani non riescono a
tranquillizzarlo. Alle tre e mezzo decide di tornarsene a casa, che
tanto di lavorare non se ne parla nemmeno.

271
L’ingegner Bertocchi è un tipo preciso. Non perde mai nulla
perché ogni cosa ha un suo posto, sia nel mondo materiale che
nella sua testa. Per questo motivo la faccenda dell’anello lo turba.
È tentato di mettere a soqquadro la casa, ma invece si limita a
cercare senza smuovere gli oggetti. Si sforza di ricordare,
un’immagine, un’occasione, un rituale della sua vita super
programmata. Niente.
Sua moglie torna alle sei e quaranta. Lui ha preparato un risotto
che mangiano insieme guardando il telegiornale. Vorrebbe
chiederle nuovamente dell’anello ma teme un’altra smentita.
Siedono in silenzio, si fumano un paio di sigarette, poi lei lascia il
tavolo con la scusa di dover finire del lavoro per il giorno dopo.
Sparisce nello studio mentre alla TV passano lo sport.
Quinto si alza, spenge l’apparecchio e si mette il cappotto.
«Esco a comprare le sigarette. Ti serve niente?» domanda alla
moglie attraverso la porta chiusa dello studio. Lei risponde di no
e un secondo più tardi lui è già fuori.
Gira a vuoto per le strade del centro, nel silenzio ristoratore
dell’abitacolo della sua auto. Si chiede se non stia per impazzire.
Succede a volte, come a quel vecchio collega che si era imbottito
di pasticche. Quand’è che era successo? Un mese prima? Lo
ricorda bene quel collega, Marzio Frignani, quarantotto anni, due
figli. Quella mattina presero il caffè insieme, lo ricorda benissimo,
e mentre alzava la tazzina c’era il suo anello, certo, come poteva
dimenticarlo. No, non era pazzo…
Accosta l’auto, slaccia la cintura e incomincia a perquisirla da
cima a fondo. Dietro i sedili, sotto i tappetini, dentro gli
scomparti laterali. Si aiuta con una torcia elettrica che estrae da
dentro al cruscotto. Passano i minuti, fuori piove ma deve tenere
gli sportelli aperti se vuole fare un buon lavoro. Quando
finalmente si convince che dell’anello non vi è traccia, ha i
pantaloni completamente bagnati. Sprofonda sul sedile, tira un
sospiro, si accende una sigaretta e guarda fuori attraverso lo
sportello spalancato. Un uomo lo osserva dall’altra parte della
strada.
«Che c’è?» gli urla. È infastidito, quasi rabbioso, ammazzerebbe
una persona solo per darsi un contegno.

272
L’uomo ha un ombrello e un soprabito grigio. Fuori è troppo
buio per distinguere i suoi lineamenti.
«Ha bisogno di una mano?» domanda gentilmente.
«Ho perso il mio anello…»
«Mi dispiace.»
Quella risposta lo scuote. Per la prima volta in tutta la giornata
qualcuno lo aveva fatto sentire meglio.
«Gentile da parte sua. Ma vede, il problema è che non sono più
sicuro che ce lo avessi…»
«Non ricorda di avere avuto quell’anello?»
«No, io lo ricordo benissimo. Sono gli altri che non se lo
ricordano. Persino mia moglie, si figuri…»
«Così lei pensa di essere sul punto d’impazzire…»
«Si…»
La città è deserta, i lampioni si riflettono sull’asfalto bagnato, la
pioggia continua a battere.
«Lei non sta cercando l’anello. Lei sta solo cercando di
convincersi che non è mai esistito, ma per quanto si sforzi non
riesce a dimenticarlo.»
«E se non fosse davvero mai esistito?»
«Beh, adesso esiste, non le pare? E per quanto lo voglia
cancellare dalla sua testa, quell’anello esisterà sempre. Quindi, le
do un consiglio; accetti semplicemente il fatto che lo ha perso, e
non ci pensi più. Domani passi in gioielleria e ne compri uno
nuovo, uguale a quello che crede di aver perduto. Poi lo mostri a
sua moglie e suoi conoscenti e dica loro che lo ha ritrovato. Vedrà
che non faranno una piega, e penseranno semplicemente di non
averlo mai notato.»
Quinto Bertocchi alza la testa verso l’uomo con l’ombrello,
immobile sull’altro lato della strada.
«Che significa tutto ciò?»
«Che nella vita a volte si rincorre e altre volte si è rincorsi, e non
possiamo permetterci di rimanere ad aspettare chi è rimasto
indietro» risponde misteriosamente lo sconosciuto, prima di
rimettersi in cammino sulla strada buia.
Il giorno dopo l’ingegner Bertocchi seguì il consiglio dell’uomo
con l’ombrello ed accadde esattamente quello che aveva previsto.

273
Tutti quanti si convinsero di non aver mai notato l’anello ma
nessuno se ne preoccupò.
Per Quinto Bertocchi quello fu anche il primo giorno della sua
nuova vita. Nei mesi successivi lasciò il lavoro, la moglie e la
città, e prese un treno che andava verso nord. Dal finestrino gettò
via l’anello, e si augurò che qualcuno lo trovasse, e potesse
iniziare a vedere le cose come adesso le vedeva lui.
Perché tutto esiste nel momento in cui lo si pensa.

274
LA TENZONE
Raccontami sulle note di...

I suoi occhi sono la paura. Ma la paura si può domare,


infrangere, distruggere, o a limite esorcizzare.
Ruota lo spadone davanti al mio volto, bisbiglia parole proibite,
invitando al nostro cospetto i signori dei demoni. Io rimango in
attesa, impietrito davanti al manifestarsi del potere. Non sono
impegnato a decifrare le mie possibilità di successo. Che io
rimanga vivo oppure è assolutamente irrilevante. Invece cerco la
connessione con l’intimo, stringo con più forza Devonia, la mia
spada, cercando di diventarne parte. Faccio uno strano patto con
gli atomi.
Mi abbandono al desiderio di diventare tutt’uno…
La creatura multiforme che mi sta davanti continua a sorridere,
la sua bocca è un mero strappo sulla faccia, la sua spada rotea in
cerchi concentrici, io arretro ma è come se avessi un paio d’occhi
sulla nuca. Lentamente percepisco gli atomi che mi circondano,
quelli sulla mia epidermide, e quelli che confinano con essa. Non
spreco movimenti. Attendo indietreggiando…
Ecco che arriva il primo affondo. Probabile, intuisco e schivo,
lui scatta verso l’alto, una mossa astuta, ma riesco ad eluderla,
rimango in piedi, l’equilibrio è tutto. Poi ruoto il corpo, provo un
a timida stoccata, ma lui è abile, dannatamente abile…
Il gioco diventa una danza nel vento, una reverenza
all’universo del piccolo, gli atomi saltellano impazziti, noi ci
muoviamo attraverso, e a tratti mi sento la marionetta di un dio
perverso, ma va bene anche così.
Reclamo l’errore, perché alla fine è sempre lui che decide.
Attendo il piede in fallo. Attendo la mossa azzardata. Attendo il
bagliore accecante.
Potremo continuare a danzare all’infinito. Ed è proprio quando
il tempo sembra perdere significato che l’errore arriva. Ruoto e
colpisco. Decapito il mio nemico con un solo colpo. Gli atomi
continuano il loro lavoro. L’universo appare compiaciuto.

275
Ma è solo l’ennesima conseguenza del fattore tempo. L’inizio e
la fine.

GM Willo ascoltando “Rosetta Stoned” dei Tool

276
BOSCO INGANNATORE
Raccontami sulle note di...

La rugiada sotto i miei piedi.


È il nostro bosco, non ci sono dubbi. Le pietre annerite dal
fuoco, un tronco ricoperto di muschio… è qui che è successo, la
prima volta.
Nei suoi occhi il riflesso delle fiamme. Le scosto una ciocca dal
volto… è come se non se ne fosse mai andata. Come se i suoi
occhi non si fossero mai chiusi.
Ma il modo in cui le cime degli alberi vengono scosse dal vento
mi riporta alla realtà. Il fruscio delle foglie ha un qualcosa di
macabro. Il vento è quello gelido dei primi di novembre.
Devo smetterla d’ingannarmi.
Lei non c’è più.

GM Willo sulle note di Burdens degli Opeth

277
IL DIAMANTE DI PARDISIA
di GM Willo

Per alcuni il corpo è un’estensione; per altri una zavorra. Di


sicuro andava nutrito, ma a quello ci pensava il Sanoxan, due
barrette di cioccolato sintetico ultravitaminico prima di attaccarsi
al processore.
Poi c’era la mente; anche lei andava nutrita se si voleva
viaggiare veloci e stare dentro a lungo. Vi erano molti modi per
farlo. Kelos (questo era ormai il suo nome, sia dentro che fuori)
mischiava 400mg di Targan insieme a due cucchiai di sciroppo
Dhuran a base di oppiacei. Poi viaggiava fluido per due giorni
interi, cavalcando attraverso le foreste di Freesia, penetrando in
Pardisia senza farsi fermare dai suoi temibili guardiani.
La guerra andava avanti. La multinazionale proprietaria del
server che ospitava Pardisia affermava di essere stata vittima
dell’attacco dei ribelli del mondo libero, gli “Illegali”, come li
definivano le alte cariche del “mondo ufficiale”. In realtà le cose
stavano diversamente.
Già dall’inizio della sua prima apparizione in rete, quando
contava solo poche centinaia di Travellers e una decina di
piattaforme di memoria, Freesia rimase vittima dell’attacco
mediatico della Pardisia Inc. che la definiva una brutta copia
illegittima del loro mondo virtuale, rifugio di menti distorte
dall’abuso di droga. La campagna pubblicitaria aveva lo scopo di
intimorire gli utenti che volevano avvicinarsi al mondo libero
(decisamente più entusiasmante ed accessibile gratuitamente),
mettendo in circolazione storie terrificanti di esseri subdoli e
creature demoniache.
Se queste apparizioni esistevano era solo grazie al lavoro di
hacking subito fin dall’inizio da parte dei programmatori della
Pardisia Inc., che innestarono nel sistema queste creature per
scoraggiare gli utenti e riportarli nel loro mondo.

278
Ma furono gli stessi utenti ad unirsi ai programmatori per
combattere queste infiltrazioni. Da allora la guerra va avanti, ma
l’Alleanza di Freesia è stanca di difendersi soltanto e da tempo
prepara il colpo del riscatto.
Kelos era una Cometa Rossa, Traveller del quarto livello.
Conosceva Pardisia dall’inizio della sua apparizione, ed aveva
partecipato alla liberazione dell’Ombra, il Nonluogo in cui venne
fondata la comunità libera di Freesia. Sosteneva l’Alleanza ma
non ne faceva parte. Preferiva muoversi da solo, tra le spire del
mondo binario, montando improbabili cavalcature, incrociando
la spada con chi gli ostacolava il cammino e sostenendo la sua
idea di creatura libera.
Fece abbassare di quota il gibboso corpo del demone alato. Era
un Jungit, un elaborazione grafica del classico drago di Pardisia,
con l’aggiunta di alcune micidiali caratteristiche ed un look
decisamente più aggressivo. Si trovava proprio sopra la Foresta
di Frontiera, il confine che divideva i due mondi. L’acuta vista
del guerriero poteva solo intuire il riverbero dorato di quel
mondo fittizio che si apriva oltre l’intricata vegetazione.
Scorgeva però i Signori dei Draghi pattugliare il cielo sopra la
foresta. Nessuno sarebbe penetrato senza un Pass, e il Pass
veniva 10 eurembi l’ora.
Kelos non sarebbe passato di lassù. Vi erano altri modi più
sicuri per penetrare in Pardisia senza pagare l’entrata.
Atterrò in un’ampia radura e dopo essersi guardato attorno
congedò con un gesto la sua cavalcatura. Si diresse a grandi passi
verso il sentiero che si apriva alla sua destra, facendo sferragliare
la sua massiccia armatura di piastre sotto il mantello cremisi che
ne identificava l’appartenenza. Essere Cometa Rossa, in Freesia
come in Pardisia, significava conoscere non solo l’arte della spada
ma anche i segreti degli elementi e il modo in cui manipolarli.
La Foresta di Frontiera era insidiosa. Era stata eretta per
delimitare le Terre dell’Ombra, prima della sua bonificazione e
dell’avvento del mondo libero.
Vi vivevano creature primordie, evoluzioni incontrollate di
programmi obsoleti oramai incontrollabili. Vi erano i Lupi

279
Urlanti, neri come la notte e veloci come fulmini; il loro ululato
era un urlo straziante che portava alla pazzia.
Kelos schermò i suoni con un semplice incantesimo e procedette
rapido verso Spyra, il grande fiume che divedeva in due la
foresta. Era effettivamente il confine ultimo tra i due mondi.
Ad un tratto si fermò, come se avesse notato qualcosa. In realtà
niente era cambiato; la vegetazione lo circondava completamente.
Si allontanò di qualche passò dal sentiero in direzione di due
alberi alti e flessuosi; avevano foglie accese di verde e di oro. Vi
passò nel mezzo e come per incanto il paesaggio cambiò; Kelos si
trovò davanti ad un’ampia radura assolata. Vi scorreva un rapido
ruscello presso il quale si ergeva una casa con un mulino. Due
lupi grigi sedevano sonnecchiando davanti a una porta di legno
che era l’entrata della costruzione. Questi alzarono lo sguardo su
di lui, due paia di occhi feroci che si non si abbassarono neanche
quando riconobbero l’intruso.
«Richiama le tue bestie, Argon!» esclamò il guerriero mentre si
avvicinava lentamente alla casa.
Un volto barbuto spuntò fuori da dietro l’edificio. Indossava
una lunga veste color cobalto legata in vita da una corda bianca;
era l’insegna più alta dei Druidi.
«Felice di vederti Kelos! Qual buon vento?»
Il Druido si avvicinò ai due lupi per tranquillizzarli, poi andò
incontro al guerriero vestito di rosso.
«Speravo di trovarti…»
«Ormai non vengo più molto spesso quaggiù. Ma l’alleanza ha
bisogno del mio avamposto, e dei miei occhi vigili.» dichiarò
Argon invitando l’amico ad entrare in casa.
Kelos fece strada fino a un ampio salotto in cui scoppiettava un
fuoco.
«I lupi possono dare l’allarme.»
«Si, ed io devo dar da mangiare ai lupi… Quindi bisogna che
entri dentro almeno una volta al giorno, altrimenti quei due se ne
vanno a giro per la foresta e magari diventano il pranzo di un
drago dei guardiani…»

280
«Già…» Kelos lasciò alcune parole in sospeso. Sembrava volerle
soppesare prima di pronunciarle, e si aiutava tamburellando le
dita sul tavolo di quercia.
Argon gli aveva servito una tazza di vino caldo ed era come
incantato dalla sua superficie fumante.
«Mi devi far passare Argon!» esordì infine il guerriero.
«Ci risiamo!»
«Ho altri modi, lo sai. Ma questo è il più veloce, e non ti chiedo
un favore da più di un mese.»
«E come me lo restituisci?»
«Quaggiù non saprei, ma se vuoi ti invito a cena.»
«Lascia perdere! Dimmi un po’; sempre il solito motivo?» il
druido ammiccò un sorriso.
«Si» ammise Kelos evitando lo sguardo dell’amico.
«Un giorno finirai male guerriero. Non ci si può fidare di una
come quella lì!»
«Attento a come parli druido!»
«Lo sai che ho ragione. Non puoi immischiarti con gente
appartenente a quella famiglia. Farebbero di tutto per Pardisia. Se
ti scoprono ti romperanno, ed entreranno in possesso dei codici
per penetrarci. Sarebbe la fine del mondo libero!»
«Sabina non mi tradirebbe mai.»
«Non dubito di Sabina, ma non mi fido della gente che le sta
attorno. Metti che qualcuno ti chieda il Pass mentre esci dal
palazzo…» la voce del druido era seriamente preoccupata.
«Nessuno mi controlla, ormai mi conoscono. E poi sono suoi
servitori e fanno quello che li dice lei.»
Kelos finì con un lungo sorso il suo vino, poi si alzò in piedi.
«Allora druido, vuoi aiutarmi o no?»
Gli occhi dell’uomo si assottigliarono per alcuni istanti, come
volessero scrutare il destino del guerriero. Poi si colorarono di un
sorriso.
«Certo! Ma scelgo io il ristorante.»
«Ok! Sono giorni che non faccio un pasto normale.»
«Guarda che il Sanoxan uccide…»
«Bevo molta acqua…» si giustificò il guerriero.

281
I due uscirono all’aperto e si addentrarono nella foresta; Argon
faceva strada.
Dopo un centinaio di passi si ritrovarono davanti al tronco di
un enorme quercia rossa. Era un albero imponente, dalle alte
fronde ricoperte di scure foglie.
Argon vi si fermò davanti.
«Sei pronto a fare un giro sulla giostra di Pardisia?» domandò il
druido con un sorriso nascosto dalla barba.
«Non perdiamo altro tempo» rispose il guerriero impaziente .
«Ok, va bene. Buon viaggio allora…»
E detto ciò Argon posò i palmi delle mani sulla rossa corteccia
dell’albero ed incominciò a sussurrare un complicato
incantesimo.
Kelos conosceva bene quella magia; l’aveva sentita proferire più
di una volta.
Vide il tronco perdere solidità e diventare liquido, aprirsi come
una tenda di velluto strappata, una nera apertura che nascondeva
la sua destinazione.
Kelos fece un passò avanti verso l’apertura, e chiuse gli occhi.
Quando li riaprì il druido era scomparso, il paesaggio era
cambiato e la foresta era alle sue spalle.
Dall’alto di una verde collina Kelos mirava le torri d’avorio di
Mirandha, la grande capitale di Pardisia. Una valle che si
perdeva all’occhio, un complesso indescrivibile di palazzi, guglie,
giardini ed edifici di ogni genere. E tra le vie, un inarrestabile
fiumana di gente.
La Cometa Rossa discese lentamente verso la valle, verso la città
della magia (come la definivano alcuni annunci pubblicitari). In
verità aveva una sola destinazione; il suo nome era Sabina, e la
sua bellezza le aveva fatto conquistare l’appellativo di Diamante
di Pardisia.

II

Mirandha era un trip di incantesimi e creature di ogni sorta. Le


vie strette, minuziosamente piastrellate, si diramavano attraverso
gli alti edifici della città, irrompendo bruscamente in larghe

282
piazze affollate in cui i mercanti cercavano i loro affari. Difficile
riconoscere il vero dal falso, un Traveller da un Software, un
edificio reale da un semplice Programma Struttura. Tutto era un
melting pot di virtualismo dai chiari intenti commerciali, il
fantasy che la gente si aspettava e che credeva di volere.
Locande strutturate in serie, con menestrelli che intonavano le
canzoni più in voga, il classico vecchio accanto al fuoco che
racconta una storia, l’oste grasso e la cameriera prosperosa. Se
entravi in una locanda di Pardisia, o ne uscivi in una rissa o con il
pretesto di un avventura.
Ciononostante qualsiasi Traveller che metteva piede per la
prima volta nelle terre libere di Freesia, si rendeva
immediatamente conto dell’artificiosità e della meccanica
commerciale del servizio a pagamento. E di conseguenza lo
abbandonava.
Kelos era rallentato dalla frenesia della città, ma non si lasciava
certo distrarre dalle sue attrazioni. Camminava sicuro verso la
parte centrale, un complesso di grandi edifici e giardini che
ospitavano i personaggi più importanti del paese. Tra questi vi
erano i due figli del proprietario della multinazionale Pardisia
Inc; Etos, Cometa Azzurra del quinto livello e Sabina, Evocatrice
del terzo regno.
Kelos e Sabina si erano conosciuti un anno prima durante un
avventura sulle Montagne di Cobalto, rinomato scenario di
Pardisia per aitanti guerrieri in cerca di gloria. Era stato reclutato
nella compagnia dell’evocatrice per la sua fama di abile mago e
possente uomo di spada. All’epoca era una buona occasione per
insinuarsi nell’alta società di Mirandha a vantaggio dell’alleanza.
Con sua enorme sorpresa scoprì che la proiezione digitale della
ricca ragazzina era completamente diversa da come se
l’aspettava. Ne era nata una storia impossibile, fatta di incontri
fugaci dentro stanze schermate o su spiagge di terre sperdute, in
livelli di memoria tralasciati dai Programmi Equilibrio, la polizia
ufficiale di Pardisia.
Più volte Kelos le aveva chiesto di seguirlo fino a Freesia, ma lei
aveva ogni volta rifiutato. La notizia della sua presenza nelle
terre libere avrebbe distrutto la reputazione della sua famiglia e

283
probabilmente anche quella della Pardisia Inc. E questo, per
quanto dissentisse dalle ragioni di suo fratello e di suo padre, non
poteva farglielo.
La Cometa Rossa poteva avvertire la presenza di occhi
indiscreti. Era come un leggero solletico interno, una lieve
vibrazione di una lontana diramazione neurale. Nelle vie di
Mirandha vi era sempre più polizia, e questo la diceva lunga
sulla salute degli affari della Pardisia Inc. Per quanto infatti
sembrasse affollata, era probabile che la metà delle persone che
camminavano avanti e indietro fossero semplici comparse, un
banale espediente per nascondere il reale calo di entrate della
corporazione. La polizia controllava i Pass, e lui non ne aveva
disponibili, neanche uno fasullo per prendere un po’ di tempo.
Girò un angolo di un vicolo stretto e tagliò per alcune vie poco
frequentate. In breve si trovò nel grande parco centrale, una
splendida composizione botanica in cui erano state sperimentate
elaborazioni grafiche di nuove piante. Poteva già intravedere
nella distanza il palazzo di Sabina, un alta costruzione senza
finestre con un ampia terrazza alla sommità. Sulla terrazza
cresceva un enorme quercia scura.
Giunto in prossimità del portone d’entrata, una guardia gli si
fece incontro con la picca alzata e fare minaccioso. Poi sembrò
riconoscerlo e lo fece passare.
Le guardie del Palazzo erano state riprogrammate dalla stessa
Sabina in un lavoro di hacking esterno. La ragazza era
ovviamente anche un abile programmatrice.
Salì la tortuosa scala che lo avrebbe portato agli appartamenti
dell’evocatrice, proprio sotto la terrazza della quercia. Procedeva
con estrema attenzione, scrutando ogni angolo per rilevare la
presenza di qualcuno che non lo avrebbe fatto passare con la
stessa facilità della guardia all’entrata.
La via era libera, ed in breve si trovò davanti alla porta
d’accesso alle stanze di Sabina. Bussò piano; una serie precisa di
colpi che lo avrebbe fatto riconoscere.
Una giovane donna minuta spalancò la porta. Aveva gli occhi
neri come la notte e una bellezza antica.

284
Kelos conosceva il suo aspetto reale; aveva visto delle foto. Le
due donne che in realtà erano una, si somigliavano in maniera
sottile. Non nei colori, né nella corporatura (le foto mostravano
una donna alta dai lunghi capelli ramati). Erano la loro
importanza e la loro determinazione. La proiezione digitale
dell’erede della Pardisia Inc. ostentava la stessa regalità.
Appena lo vide i suoi neri occhi si sciolsero in un sorriso; lei le
si gettò tra le braccia.
«Hai schermato la stanza?» le domandò lui entrando dentro.
«Si…» le sussurrò lei in un orecchio, mentre sentiva la passione
crescere.
Il sesso virtuale poteva davvero essere più appagante di quello
reale, specie se avevi il Dhuran in circolo…
Esistevano luoghi di luce e luoghi d’ombra, nelle remote regioni
della mente. Appigli che potevano innalzarti oltre nuove
frontiere, e farti scivolare fino nel profondo di oscuri abissi di
appagamento. Si parlava di bagni di luce, di immersioni nel
fuoco, di squassamento interiore. Vi erano orgasmi che facevano
vedere Dio, altri che te lo lasciavano toccare. Piaceri che
regalavano visioni di isole coperte di neve tiepida, cadute leggere
per altezze impossibili, momenti che parevano secoli.
Ma il Dhuran poteva fregarti se non lo sapevi assimilare, e
magari ti ritrovavi prigioniero dell’isola, o in caduta libera per il
resto dei tuoi giorni.
Sabina alzò la testa da oltre le lenzuola azzurre che la coprivano
solo in parte. Kelos la stava guardando, seduto con la schiena
poggiata su una montagna di cuscini di seta.
«Ciao…» salutò lei.
«Ciao…»
«Ti è stato difficile entrare?»
«Lo diventa un po’ più ogni volta…»
Un ombra le passò sul bel viso, ma fu solo un attimo.
«Vieni con me!» le disse lui per la millesima volta.
Sabina non rispose; non serviva. Kelos conosceva già la sua
risposta, conosceva le sue ragioni ed il prezzo che non era
disposta a pagare. Poteva biasimarla, ma non l’avrebbe fatto. Non

285
c’era posto per giochini di orgoglio e di onore in una trama
virtuale come quella che stavano vivendo.
Per alcuni era semplicemente un gioco; per altri era la vita. Per
loro il gioco era la vita e la vita era un gioco. Vi erano regole ma
era possibile barare, per quanto lo si fosse disposti.
«Smettila Kelos, e portami di nuovo sull’isola…» rispose lei
movendosi nuovamente verso il suo corpo.
In quell’istante una deflagrazione squassò le pareti della stanza.
I vetri delle finestre vennero polverizzati e disseminati ovunque.
Una luce accecante rimbalzò sulle tende di lino bianche, e una
figura intermittente apparve ai piedi del letto, un gioco di luci
azzurre e di ombre che ne distorcevano i lineamenti.
Il tuono riverberava ancora nelle suppellettili d’argento e nella
mobilia. Kelos e Sabina cercavano di coprirsi con le sete e
schermarsi il volto. La figura era sopra di loro, e parlava:
«Questa è l’ultima volta che tocchi mia sorella!»
Era la voce di Etos, la Cometa Azzurra, l’uomo più potente di
tutta Pardisia.

III

Kelos aveva una sola opportunità, e non poteva sprecarla.


Evocò una fiamma magica sulla punta delle sue dita e la puntò
a pochi centimetri dal volto di Sabina; poi afferrò la ragazza e la
trascinò fuori dal letto. La sentì irrigidirsi e percepì la sua paura.
Si augurò che capisse il bluff, ed incominciò a muoversi verso la
finestra divelta.
«Non ti muovere o questa sarà l’ultima volta che vedi tua
sorella viva» disse rivolto alla figura che ormai aveva smesso di
tremolare.
Etos non nascose un sorriso.
«Il suo corpo è stabilizzato dall’esterno. Non può succederle
niente.»
Kelos apparve sconcertato, sul punto di arrendersi, o almeno fu
quello che la Cometa Azzurra percepì dalla sua espressione. E
mentre si compiaceva del risultato, un boato assordante, fatto di
fiamme e fumo, gli esplose vicino al volto. I suoi incantesimi lo

286
proteggevano da quel tipo di attacchi, ma per un attimo perse il
controllo dei suoi movimenti e la sua attenzione verso il nemico.
Quando rialzò lo sguardo i due amanti erano scomparsi.
Etos urlò, e immediatamente la stanza fu invasa da un
manipolo di guardie. Si avvicinò alla finestra e vide le due figure
che correvano verso la fitta vegetazione del parco.
«Prendeteli!» ordinò. Poi scomparve, come risucchiato dalla
matrice.
Era pronto a rivoltare Pardisia pur di mettere le mani addosso a
quel ribelle.
Si fermarono solo per indossare le vesti che avevano
velocemente afferrato prima di gettarsi oltre la finestra della
stanza. Sabina aveva evocato un vento magico per attutire la
caduta, poi erano corsi via verso il parco in direzione della città.
«Ce li avremo presto addosso» disse lei mentre si allacciava il
mantello.
«Lo so. Torna indietro. Io me la caverò…» le rispose il
guerriero.
L’evocatrice rimase immobile per alcuni istanti, viaggiando con
la mente in luoghi che Kelos non avrebbe mai conosciuto. Poi lo
guardò profondamente negli occhi, accennando un sorriso.
«Vengo con te. Mostrami il libero mondo. Portami via da
Pardisia!»
Lui le restituì un sguardo carico di passione. Poi le afferrò la
mano ed incominciarono a correre verso le strade di Mirandha.
Se Etos avesse scatenato su di loro tutto il suo potere, sia dentro
che fuori dal sistema, non avrebbero avuto molte possibilità di
raggiungere le terre di Freesia. Kelos lo sapeva, ma sapeva anche
che la Cometa Azzurra non avrebbe comunque messo in pericolo
la vita di Sabina. Dopotutto era sempre sua sorella.
Poteva scollegarsi, ma avrebbe perduto tutto ciò che era riuscito
a costruire durante gli anni di permanenza nei mondi virtuali,
ormai l’unica sua vita degna di essere vissuta. E poi avrebbe
perduto Sabina, definitivamente.
In fin de conti morire attaccati al processore poteva non essere
la peggiore delle morti.

287
Mentre questi pensieri gli vorticavano in testa, i due
raggiunsero le vie gremite della città. Confondersi tra la folla
poteva essere una buona idea, se non ci fosse stata così tanta
polizia. No, vi era una sola speranza, e si chiamava Luther.
In Mirandha era conosciuto come il Menestrello Fatimer, ma in
realtà era una Cometa Gialla, stregone e prestigiatore al servizio
dell’alleanza. Se aveva fortuna, lo avrebbe trovato alla solita
locanda: il Serpente Dorato.
In mezzo alla gente che sembrava procedere senza meta, i due
tennero gli sguardi bassi e avanzarono al lento e costante
scalpiccio della folla. Non era facile resistere alla tentazione di
correre, ma se lo avessero fatto avrebbero subito dato nell’occhio.
La locanda si trovava dietro la piazza principale di Mirandha, e
riuscirono a raggiungerla in pochi minuti. Vi erano ancora pochi
avventori, ma a sera si sarebbe sicuramente riempita.
Kelos si avvicinò all’oste, un grasso uomo con lunghi baffi ed
un naso rubicondo. Lo conosceva; il suo nome era Uber, e come la
maggior parte dei personaggi che fornivano servizi in Pardisia, si
trattava di un comune software di prima generazione.
«Felice di rivederti guerriero. Cosa posso servirti?»
«Cerco Fatimer. È qui?»
L’oste, strofinando il bancone con uno straccio non troppo
pulito, indicò la porta sul retro.
«Sta mangiando… Nelle cucine…»
Seguito dall’esile figura di Sabina, la Cometa Rossa entrò nel
retro della locanda, e subito i due vennero invasi da voci, fumi e
odori. Vi erano almeno cinque inservienti occupati a preparare le
vivande per la cena. In un angolo dell’ampia cucina sedeva un
uomo smilzo con un cappello verde a tesa larga. Stava
inzuppando un grosso pezzo di focaccia in una ciotola di sugo.
Kelos gli andò incontro e quando l’uomo alzò lo sguardo dal
piatto accorgendosi del guerriero, per poco non affogò nel suo
boccone.
«Pazzo! Che ci fai qui… se ci vedono insieme…» poi si accorse
di Sabina, ei suoi occhi strabuzzarono.
«E lei?»

288
«Non ho tempo per spiegarti Luther. Tu sei la nostra unica
possibilità. Dobbiamo tornare a Freesia.»
«E cosa c’entro io?»
Il menestrello ruotava lo sguardo di continuo per assicurarsi
che nessuno li osservasse.
«Richiama Felipe e andiamocene.»
«Cosa? Sei completamente folle!»
«Ormai la tua copertura è saltata. Ci stanno osservando
dall’esterno… Sanno che siamo qui, ed abbiamo poco tempo…»
Non riuscì a finire la frase che alcuni rumori provenienti dalla
sala comune lo fecero voltare. Erano le guardie mandate da Etos.
«Sono qua!»
Luther imprecò alzandosi in piedi. Sembrava ancor più
scocciato dal fatto che la sua cena era stata interrotta.
«Andiamo… poi mi spiegherai…» mugugnò, facendo strada
attraverso le cucine.
La Cometa Gialla li guidò per delle strette scale a chiocciola che
portavano alla cantina della locanda, oltre un umido corridoio
fiocamente illuminato e fino ad una porta chiusa da un grosso
lucchetto. Dietro già si sentivano le urla delle guardie che erano
penetrate nelle cucine.
Luther aprì il lucchetto e i tre scomparvero oltre la porta, dentro
una tenebra quasi solida. Procedettero per alcuni metri senza
l’aiuto di alcuna luce, poi apparve un globo iridescente nelle
mani del menestrello. Erano in uno stretto corridoio scavato nella
pietra che procedeva ripidamente verso il basso.
«Dove stiamo andando?» sussurrò Sabina.
«Al fiume sotterraneo. Lo costruì l’alleanza all’insaputa dei
programmatori della Pardisia Inc.. Sfocia direttamente nello
Spyra, il grande fiume di confine» rispose Kelos sottovoce.
«E’ così che andate e venite dal mondo libero?»
«Beh, è uno dei tanti mezzi. Purtroppo lo stiamo perdendo. Tra
breve lo individueranno dall’esterno. Speriamo soltanto di
riuscire ad utilizzarlo un’ultima volta…»
Il corridoio si aprì in quella che probabilmente era una grande
cavità nella roccia. Un ampio corso d’acqua scura, immobile
come olio, occupava gran parte della grotta.

289
«Come facciamo ad andarcene?» domandò Sabina afferrando la
mano del guerriero.
«Luther richiamerà Felipe, la Silfide al suo servizio. È lei che ci
trasporterà.»
La Cometa Gialla salmodiava un incantesimo a due passi dal
fiume sotterraneo, mentre l’intensità del globo di luce aumentava
nella sua mano. La piatta superficie dell’acqua si infranse, un
ribollire sotterraneo che gorgogliava e sbuffava. Poi il liquido
assunse una forma solida, dei gradini fatti d’acqua che
scendevano dentro il fiume, in un luogo di luce azzurra di cui
non era possibile vedere il fondo.
I tre si avvicinarono alla scala e con passi lenti entrarono nella
luce. Luther continuava l’incantesimo, il volto rilassato e gli occhi
chiusi.
Erano dentro un tunnel fatto d’acqua, e procedevano in fila
lungo le tremolanti pareti liquide che riflettevano il bagliore
azzurro. Dietro di loro il tunnel si chiudeva mano a mano che
avanzavano.
Sabina rimase affascinata da quel fenomeno, un piccolo
assaggio di quello che i maghi di Freesia erano capaci di fare.
Procedettero in linea retta per circa un’ora, con passo costante e
lo sguardo puntato verso la luce azzurra che proveniva dal fondo
del tunnel. Era l’anima della Silfide, l’essenza del suo potere che
era in grado di manipolare l’acqua e alterarne il significato.
Sabina aveva mille domande ma preferì tacere e godere dello
spettacolo.
Ad un tratto la luce cambiò e di striò di verde. Erano dentro il
fiume Spyra, e lo stavano attraversando da sotto. L’incantesimo
cambiò di tonalità e in fondo al tunnel apparvero dei gradini che
salivano verso la superficie.
Luther fece strada verso l’esterno. La luce del giorno che ormai
stava finendo li investì, e si ritrovarono sulla riva dell’ampio
fiume che divideva i due mondi. Erano giunti in Freesia, ma
ancora non erano al sicuro.
Kelos scrutò in cielo alla ricerca dei Signori dei Draghi. In quel
preciso istante una scura lucertola alata emise un urlo lacerante e

290
si gettò in picchiata verso i tre, le fauci aperte in un ghigno di
orrore.
Il guerriero aveva una sola opportunità, e non poteva contare
sugli altri due. Afferrò la spada con entrambe le mani e se la
portò dietro la testa, assumendo col corpo una posizione pronta
allo slancio. Il tempismo era la chiave.
Fece scattare le gambe nel momento in cui il drago
incominciava la sua frenata a pochi metri dalla sua preda, e
proiettò la forza di ogni suo muscolo dentro la lama della sua
fedele arma.
La spada squassò le dure scaglie e penetrò dentro le carni. La
testa del drago, larga almeno tre braccia, cadde al suolo con un
tonfo sordo, mentre il corpo dell’enorme rettile, morto ma ancora
in preda agli spasimi, sprofondò nel fiume a pochi passi da Kelos.
La scena era durata meno di mezzo minuto. Nell’aria
scompariva il grido della bestia uccisa e il rumore dell’acqua
smossa.
«Benvenuta in Freesia!» sogghignò Luther rivolto alla ragazza.
Sabina era ancora pietrificata da quello che aveva assistito.
«Andiamocene!» ordinò Kelos facendo strada verso l’interno
della Foresta di Frontiera.
Camminarono spediti per due ore, nell’intenzione di uscire
dalla fitta vegetazione prima che il buio fosse totalmente calato
su di loro. I Lupi Urlanti uscivano a cacciare dopo il tramonto, e
quindi conveniva trovarsi fuori dalla loro portata.
Il guerriero li guidò lungo un sentiero che si inerpicava su una
collina. Qui la vegetazione era diversa, più bassa e meno
intricata. Quando raggiunsero la sommità si accorsero che erano
finalmente usciti dalla foresta.
Le ultime pennellate di indaco coloravo ancora l’orizzonte,
tracce di un tramonto mozzafiato sopra le terre incontaminate del
mondo libero. Kelos abbracciò la donna e le indicò un punto
lontano all’orizzonte.
«Laggiù è bellissimo!» le sussurrò.
Lei si strinse più vicina a lui.
Forse la guerra sarebbe insorta ancora più violentemente, gli
accessi segreti che univano i mondi sarebbero diminuiti e

291
l’alleanza avrebbe sofferto le conseguenze delle azioni che la
Cometa Rossa aveva rischiato quel giorno. Ma Kelos era pronto a
combattere, adesso più di prima; per se stesso, per Freesia e per il
suo amato Diamante di Pardisia.
Adesso che lei era al suo fianco tutto appariva diverso; stava
incominciando qualcosa di nuovo.

Questo racconto compare anche nella raccolta “Racconti del nuovo


millennio” di GM Willo

292
IL PIANETA ABBANDONATO
Raccontami sulle note di...

Il pianeta é deserto. Non c’è più nessuno.


Corro, grido, inciampo nei maledetti sassi di questa
desolazione. Le lune nel cielo ridono di me. Le stelle sono troppo
lontane. Cerco di afferrarle, il sangue scorre da una sbucciatura al
ginocchio, impreco e mi rialzo. Continuo a correre.
Il pianeta morto è ricoperto di sassi e di povere. Dove sono
andati tutti quanti?
«Hei ragazzi! Dove siete?» urlo.
Ma solo il vento mi risponde, sputandomi in faccia la polvere.
«Perché ve ne siete andati?»
Mi fermo. Correre non serve più a niente. Non c’è più nessuno.
Sono andati tutti via.
Non mi rimane altro che dormire…
…sognare.

GM Willo sulle note di “Love Hurts” degli Incubus

293
SEBASTIAN CLAW
di Jonathan Macini

“Lo ribadisco: non ho ucciso Edward Derby. L’ho vendicato, invece,


liberando al contempo la terra da qualcosa che avrebbe potuto scatenare
l’orrore fra gli uomini.”

H.P.L.
La cosa sulla soglia (1933)

I. LA NASCITA

Gli Antichi furono, gli Antichi sono, e gli Antichi saranno. Dalle
stelle Oscure Essi vennero prima che l'Uomo nascesse, invisibili e
tremendi. Essi discesero sulla Terra primordiale. Sotto gli oceani Essi
attesero per lunghe epoche, fino a che i mari eruttarono la terraferma, ed
Essi brulicarono in moltitudini e la tenebra regnò sulla Terra. Ai Poli
gelidi Essi eressero possenti città, e in luoghi elevati i templi di Coloro
che la natura non conosce e che gli Dei hanno maledetto. E la stirpe
degli Antichi ricoprì la Terra, e i Loro figli perdurarono nei secoli. Gli
Shantak di Leng sono l'opera delle Loro mani, i Ghast che dimorano
nelle cripte primordiali di Zin li riconoscono come loro Signori. Essi
generarono i Na-hag e i Magri che cavalcano la Notte; il Grande
Cthulhu è Loro fratello, gli Shoggoth Loro schiavi. I Dhole rendono Loro
omaggio nella valle tenebrosa di Pnoth e i Gug cantano le Loro lodi sotto
le vette dell'antica Throk. Essi hanno camminato tra le stelle ed Essi
hanno camminato sulla Terra. La Città di Irem nel grande deserto Li ha
conosciuti; Leng nel Deserto Gelato ha visto il Loro passaggio, la
cittadella eterna sulle cime velate da nubi di Kadath la sconosciuta porta
il Loro segno.
Pervicacemente gli Antichi seguirono le vie della tenebra e le Loro
bestemmie erano grandi sulla Terra; tutto il creato s'inchinava sotto la
Loro potenza e Li riconosceva per la Loro malvagità. E i Sovrani
Primigeni aprirono gli occhi e videro le abominazioni di Coloro che
devastavano la Terra. Nella Loro ira Essi levarono la mano contro gli

294
Antichi, arrestandoLi nella Loro iniquità e scacciandoLi dalla Terra nel
Vuoto oltre i piani dove regna il caos e non dimora la forma. E i Sovrani
Primigeni posero il Loro sigillo sulla Porta e il potere degli Antichi non
prevalse contro la sua potenza. L'orrendo Cthulhu si levò allora dal
profondo e si scagliò con immensa furia contro i Guardiani della Terra.
Ed Essi legarono i suoi artigli velenosi con potenti incantesimi e lo
rinchiusero nella Città di R'lyeh dove, sotto le onde, egli dormirà il
sonno della morte sino alla fine dell'Eone. Oltre la Porta dimorano ora
gli Antichi; non negli spazi noti agli uomini, bensì negli angoli tra essi.
Al di fuori del piano della Terra Essi indugiano e sempre attendono il
tempo del Loro ritorno; perché la Terra Li ha conosciuti e Li conoscerà
nel tempo a venire. E gli Antichi tengono l'immondo e informe
Azathoth in conto di Loro Maestro e dimorano con Lui nella caverna al
centro di tutto l'infinito, dove egli morde famelico il caos supremo tra il
folle rullo di tamburi nascosti, il pigolio stonato di orrendi flauti e il
grido incessante di dèi ciechi e idioti che eternamente vagano e
gesticolano. L'anima di Azathoth dimora in Yog-Sothoth ed egli
chiamerà gli Antichi quando le stelle segneranno il tempo della Loro
venuta; perché Yog-Sothoth è la Porta attraverso la quale Quelli del
Vuoto rientreranno. Yog-Sothoth conosce i labirinti del tempo, perché
tutto il tempo è per Lui una sola cosa. Egli sa da dove vennero gli
Antichi nel tempo passato e da dove verranno ancora quando il cielo
sarà completo. Dopo il giorno viene la notte; il giorno dell'uomo passerà,
ed Essi regneranno dove regnavano un tempo. Come un'abominazione
voi Li conoscerete, e la Loro malvagità contaminerà la Terra.

Pioggia, sempre pioggia. Questo maledetto cielo di febbraio non


sa dirmi altro. Il drappo su un orrenda verità è stato calato, e le
pesanti nuvole che ricoprono questa assurda città ce lo ricordano.
New York non funziona.
La grande mela è come sorda agli stridenti richiami dell’ombra;
troppo impegnata ad ingrandirsi e a divorarsi, troppo corrotta ed
incurante di tutto ciò che non è fine a se stessa. Ho affittato
questo monolocale a Providence, nella speranza di ritrovare il
mio vecchio compagno di collage, il prof. Richardson. Le ultime
notizie riguardo a lui risalgono a una settimana fa, il giorno in cui
mi è stata recapitata la lettera che conteneva il manoscritto qui

295
sopra riportato. Il professore era impegnato in studi bizzarri di
cui mi aveva accennato alcuni dettagli. Poi è arrivata la lettera, e
quell’articolo in terza pagina del Washington Post. Il prof.
Richardson era scomparso!!!
Non so se questa sia verità o follia, ma da ieri notte non riesco
più a credere a niente. Sono andato a casa del professore, una
villetta isolata poco fuori Providence, e dopo aver fermato l’auto
nel piazzale davanti all’entrata e aver spento i fari, ho visto quella
luce. Non era un riflesso, e nessuna sorgente luminosa conosciuta
poteva riprodurre quel colore, tra il verde, l’azzurro ed il nero.
Usciva dalle imposte sbarrate della villetta, un ritmo pulsante che
nella mia mente sembrava accompagnato da tamburi e da flauti.
Ho atteso minuti che sembravano ore, ma non sono riuscito ad
uscire dall’auto, bloccato al sedile da un terrore alieno. Adesso
sono qua, seduto davanti allo scrittoio del monolocale, privato di
una notte di sonno, ed osservo il drappo grigio del cielo
chiedendomi se la follia non sia davvero il migliore dei rimedi.
Guardo mestamente indietro, eppure non mi vergogno dei miei
rimpianti. Sarebbe stato bello conoscere una brava donna, magari
avere dei figli. Ho scelto la via più facile, rapito dal miraggio di
una brillante carriera lavorativa. Niente di meglio che di fare
l’avvocato nella città che ricopre d’oro gli avvocati. Adesso tutto
ha molto meno senso. Adesso tutto sfuma tra le ombre tentacolari
di una notte imperitura. Niente è più come prima, e non lo sarò
neanche io.
Randy Coleman non è più il mio nome, così come New York
non è più la mia città. Forse il mio destino è già segnato, ma
cercherò con tutte le mie forze di rimandarlo al domani più
lontano, insieme all’avvento di questo perverso disegno. Il mio
nome è Sebastian Claw. Ho solo un fucile a canne mozze per
amico, e per adesso mi basta. Providence è la mia nuova città,
l’inizio di una nuova vita. Una vita che ha già un finale, ed
appartiene ad abissi aberranti, tane di assurde creature. Ma prima
della fine qualcuna di queste assaggerà il mio piombo. Lo devo al
professore e lo devo a me stesso.

296
II. MELVIN

Melvin era una zecca, come si dice in gergo. Tu lo pagavi e lui ti


dava le informazioni, succhiate direttamente dalle profondità più
recondite ed aberranti della razza umana. Niente di strano, se si
stesse parlando di informazioni normali. Ma Melvin non era
normale… Chiunque avesse assistito a metà della roba che è
passata davanti ai suoi occhi, si sarebbe fatto un tuffo di diversi
metri, tanto per non pensarci più. Capite quello che vi voglio
dire…
Sono due mesi che viaggio tra Providence ed Arkham. L’aria di
Boston mi ha già cambiato. Le cose sono e le cose restano. Chi
non ha più il velo davanti agli occhi è bene si cerchi un nuovo
pretesto per andare avanti. Io ce l’ho… un bel po’ di piombo da
commissionare. Il lavoro è solo all’inizio.
Melvin, vi dicevo. Un vecchio pazzo con la gobba, la bava alla
bocca e la cute piena di chiazze glabre. Si aggirava nel parco di
Arkham, proprio dietro la Miskatonic, insieme a un vecchio
cagnolino cieco, un incrocio poco piacevole che non la smetteva
mai di abbaiare. Lui diceva che gli teneva lontane le creature…
Idiota!
L’ho conosciuto quasi per caso circa un mese fa. Uscivo dalla
biblioteca dell’università e me lo sono ritrovato tra i piedi. Aveva
adocchiato i libri che tenevo sottobraccio. “Se hai bisogno di
qualche informazione, chiedi pure… Faccio dei buoni prezzi…”
mi disse. Poi il cagnolino incominciò ad abbaiare, e lui se ne tornò
verso il parco, con uno strano ghigno sul volto. Quella notte
tornai a Providence, e continuai a pensare al vecchio. Mi ci volle
mezza boccia di bourbon per riuscire a prendere sonno, e non fu
facile trovarla. Il giorno dopo, con la testa appesantita dall’alcol
ed in bocca un sapore non piacevole, iniziai a consultare i due
testi per i quali avevo viaggiato più di cento miglia: la
pubblicazione Bridewell di Culti Innominabili e un libro di poesie
di Justin Geoffrey intitolato Il Popolo del Monolito. Il professor
Richardson ne accennava nei suoi appunti. No, non quelli di casa
sua. Non ci sono più ritornato dopo quella notte, ma ho fatto un
salto nel suo ufficio, in città. A parte un paio di note sul retro

297
dell’agenda, non ho trovato nulla che riguardasse il mistero della
sua scomparsa. Mi faccio ridere, ancora non riesco a chiamare
tutta questa follia per il suo nome… eppure che nome potrei mai
dargli? Occultismo? Mitologia? Potrei parlare semplicemente di
deliri, ecco cosa… No, non sono curioso. Voglio solo riuscire a
dormire la notte, senza l’aiuto del vecchio whisky.
Ho letto i due libri ma non ho approfondito. La maggior parte
di quella roba non riesco neanche a capirla. Il resto invece mi
attanaglia le budella, e mi fa venire sete. Ma stavo cercando una
traccia, un segno. Non l’ho trovato, così li ho riportati ad
Arkham. È stato allora che ho rivisto Melvin, ma questa volta
sono stato io ad avvicinarmi a lui. Appena uscito dalla
Miskatonic ho sentito l’inconfondibile verso di quel brutto
meticcio. Mi sono avvicinato agli alti platani che delimitavano
l’inizio del parco. L’ho intravisto su una panchina, curvo ed
immobile. Sembrava stesse dormendo, così mi sono avvicinato
lentamente, e lui si è rivolto a me senza neanche voltarsi. La sua
voce era vecchia e gracchiante. “Melvin fa degli ottimi prezzi… se
si vogliono conoscere gli abomini della città…”
“Di che diavolo stai parlando?”
È iniziato così, ed è andato avanti per più di un mese. La strage
alla baia di Arkham, il mattatoio alla fattoria Renfield, l’omicidio
Portman. Prelibati sonniferi per il sottoscritto. Non sto a
raccontarvi le nefandezze perpetuate da queste creature (non
posso certo chiamarli uomini!). Ne hanno parlato i giornali e
hanno parlato anche di me. Ovviamente non sanno chi io sia, né
che relazione ci sia tra le tre carneficine e l’efferata morte di un
barbone di Arkham, trovato ieri notte appeso ad un cancello del
parco. Le sue viscere, unite alle cervella del suo cagnolino,
formavano un complicato disegno ai suoi piedi. Nessuno conosce
il senso di tutte queste morti. O almeno me lo auguro.
Non ho paura della polizia. Se mi dovessero beccare mi
metterei lo shotgun in bocca senza esitare un attimo. Vi posso
assicurare che tutta quella gente si meritava molto di più di una
morte veloce come quella che ho riserbato loro. No, ho paura di
altro, degl’incubi tentacolari che stritolano, privandoti anche del

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tempo per toglierti la vita. Una follia eterna, accompagnata da un
imponderabile suono di flauti…
Per fortuna Providence sembra ancora abbastanza tranquilla…
se ci si tiene lontani dalla casa del professore.
Povero Melvin. I suoi prezzi erano davvero buoni. Ho messo da
parte del buon piombo per vendicarlo. Ma ho bisogno di una
nuova zecca adesso. Domani parto per Boston. Ho un contatto.
Ve ne parlerò…
Addio Melvin. Addio cagnolino. Quasi quasi vi invidio…

III. NESSUNA SPERANZA

Ieri notte sono tornato a casa del professore. Ero ubriaco, e


ricordo appena quello che è accaduto. Cercherò di raccontarvelo,
prima che l’oblio cali inevitabilmente sui mie ricordi (ancora
molto confusi), ed il sogno si mischi con la realtà. Ormai non
credo più a nulla, ed anche le vittime di questo shotgun sono
diventate una magra consolazione. Ho ucciso di nuovo, ho ucciso
qualcosa che solo con molta fantasia potreste considerare vivo,
eppure gli incubi sono venuti lo stesso, più orribili che mai.
Ho fermato la macchina nel solito piazzale. Mancava poco al
tramonto. Il cielo era grigio e il mondo incolore. La villetta era
immersa nel silenzio e nell’ombra. Ricordavo bene quella luce
che avevo visto mesi prima, quel suono orripilante di flauti e
tamburi. Niente di ciò disturbava adesso quel pacifico panorama
rurale. Mi sono acceso una sigaretta. Sapevo che era una scusa
per guadagnare tempo. Guardavo la finestra del piano di sopra,
le persiane spalancate, le tende tirate. Un occhio su un pianeta
alieno. La sigaretta era arrivata alla fine. Che fare? Riaccendere il
motore, girare l’auto e tornare a casa. Si, era quello che
desideravo più di ogni altra cosa. Eppure sapevo in cuor mio che
se non avessi fatto quello che mi ero premesso di fare, non sarei
riuscito a dormire un’altra notte.
Sono sceso, ho gettato il mozzicone nella ghiaia del piazzale,
due corvi spaventati sono volati via, oltre il tetto della villetta. Ho
caricato il fucile e ho coperto lentamente la distanza che mi

299
separava dall’ingresso, una ventina di passi, non di più. Superato
il cartello di vendita affisso dall’agenzia immobiliare mi è
sfuggito un sorriso. Chi poteva essere così pazzo da andare ad
abitare in un posto del genere? Ma forse erano le mie fantasie, o
la mia consapevolezza, a trasfigurare quella graziosa villetta di
provincia, che aveva saturato le mie notti, preso possesso dei miei
sogni, trasformato la mia vita. Per questo ne provavo orrore.
Forse a una persona normale sarebbe piaciuta… Eppure erano
passati tre mesi, e quel cartello stava ancora lì.
La porta era chiusa a mandata. Le persiane del piano terra
erano tutte sbarrate. Rimaneva solo l’altro ingresso. Con lo
shotgun ben puntato davanti a me, mi sono portato sul retro
dell’edificio. Il portico posteriore di affacciava su uno sconfinato
campo d’erba alta che si perdeva in un declivio verso la città. Le
luci di Providence incominciavano ad accendersi. Anche la porta
sul retro era chiusa a chiave, ma un proiettile a bruciapelo
avrebbe fatto saltare in aria il chiavistello. Esplodere un colpo in
collina avrebbe insospettito qualcuno, anche se la casa più vicina
era a un quarto di miglio, così ho avvolto la canna del fucile nel
cuscino di una sedia a dondolo dimenticata nell’angolo della
veranda. Ho fatto fuoco, spargendo piume e schegge di legno un
po’ dappertutto. Un attimo dopo ero dentro la cucina, un luogo
ordinato ma ricoperto da un denso strato di polvere. Un odore da
voltastomaco mi ha investito. Difficile descriverlo. Dolce e
avariato, marcio e pungente. Nel silenzio assordante della
villetta, una sensazione assurda ma inequivocabile si è
impossessata delle mie membra, paralizzandomi dalla testa ai
piedi. Nella casa viveva qualcosa.
Dietro infiniti veli di grigio il sole stava per tuffarsi oltre
l’orizzonte. Non potevo farmi sorprendere dalle tenebre, non con
quella cosa che si aggirava là dentro. Per fortuna mi ero portato
dietro la medicina. Ho appoggiato il fucile sul tavolo della cucina
ed afferrato la fiaschetta dalla tasca interna della giacca. Il whisky
di contrabbando non è un granché ma fa il suo dovere. Un lungo
sorso e le membra si sono sciolte, un altro sorso ed ero pronto a
salire di sopra.

300
Non ce n’è stato bisogno. Riafferrato lo shotgun, ho attraversato
la porta che dava sul corridoio. A destra si apriva il salotto, a
sinistra la libreria, più avanti l’atrio e la rampa di scale. La poca
luce esterna filtrava dalle persiane, ma era impotente di fronte
all’oscurità che albergava da mesi dentro la casa. I miei occhi
facevano fatica ad abituarsi. L’impianto elettrico era staccato.
L’unico riverbero che mi aiutava a procedere senza andare a
sbattere addosso a qualcosa era quello che proveniva dietro di
me dalla cucina. Il bisogno di un altro goccetto mi ha fatto
fermare. In quel momento ho avvertito lo strascichio. Veniva da
sopra, lento, appiccicoso, grondante, umido. Un rumore di
vischiosità viva. In quel momento qualcosa è scattato dentro me.
Ricordo solo brandelli dei minuti successivi. I passi lenti ed
esitanti verso la rampa di scale, il rumore viscido che avanzava, i
contorni vaghi di una creatura deforme che scendeva i gradini, e
poi il terrore. Dopo il colpo sparato nel porticato mi ero
completamente dimenticato di ricaricare lo shotgun.
Freneticamente ho afferrato due proiettili dalla tasca, ma riuscire
ad inserirli nel caricatore con le mani che mi tremavano non è
stato facile. La creatura stava avanzando verso di me molto più
velocemente di quanto pensassi. Non avevo coraggio di
guardare. Ho chiuso il caricatore e ho mirato alla cieca, seguendo
un istinto tutto mio. Un boato inatteso è esploso nell’ampio
ingresso della villetta. Non era finita, non per me. Altri due colpi.
Bang! Bang! Ma ho continuato a guardarmi le scarpe mentre
sparavo, incapace di soffermarmi su quell’essere che non sarebbe
dovuto esistere.
I colpi erano finiti. I bozzoli giacevano sul pavimento. Dieci,
dodici. Non so. Il rumore vischioso continuava, ma era diverso.
La creatura non si muoveva. Come prova poteva bastarmi. Non
volevo assicurarmi di niente. Non volevo guardare. Sono corso
fuori, ed è tutto quello che ricordo. Non so come sono riuscito ad
arrivare all’auto, ad accendere il motore e fare manovra.
Percorrere le strade ormai buie di Providence sembrava un sogno
nel sogno. Per un attimo la sensazione di normalità mi ha
sedotto. Avrei voluto abbandonarmici, ma come potevo
continuare ad ingannarmi.

301
Nessuna speranza per chi conosce la verità. Nessuna speranza.

IV. DISCESA VERSO L’OBLIO

Dall’unica finestra di questo dannato monolocale, entra la


promessa di un’altra notte bastarda. Il cielo rimane grigio,
incolore, ma la dilatazione del giorno è fin troppo percepibile.
Siamo alle ore che precedono le ombre, ma non accenderò la
lampada della scrivania. Rimarrò sul mio letto, immobile, ad
osservare il piombo nel cielo scurirsi, diventare antracite, finché
le tenebre non m’inghiottiranno. È tutto quello che desidero per
stasera…
La bottiglia è già arrivata a metà. Il corpo sprofonda dolcemente
nel materasso troppo soffice, ma è una bella sensazione. Mi fa
sentire coccolato, protetto, come un arnese nella sua confezione.
Lo shotgun giace al mio fianco. È carico. Ormai non riesco
neanche ad andare in bagno senza di lui. Ne accarezzo il grilletto.
Un colpo e via, tutto finito. Il sipario si chiude. Che se la vedi il
mondo contro quelle schifezze. Io ho già dato tutto quello che
avevo…
Un lungo sorso con la testa piegata all’indietro, chiudendo gli
occhi, il liquido che mi scorre attraverso i denti, lo sento
corrodermi, nel fisico e nella mente. Scardina gli incubi che
infettano la ragione, addobbandoli di assurdi festoni. Un rituale
scaramantico che mi trascina verso il basso. Riapro gli occhi. La
stanza è sempre più buia. I rumori che vengono da fuori sono
l’inutile canzone di una civiltà senza speranza, il canto funebre
dei parassiti di un pianeta sul quale i Grandi Antichi torneranno
presto a regnare. Le auto in corsa, il suono dei clacson, il
trambusto nei cantieri di periferia, la stazione ferroviaria. Sintomi
di vite prive di qualsiasi rilevanza, che arrancano sopra luride
fognature nelle quali scorre già il seme della follia.
Afferro la bottiglia con più forza. Il sacchetto di carta che la
riveste emette un suono rassicurante tra le mie dita. Mentre bevo
guardo il corpo di un uomo che si avvelena lentamente. Fin dove
riusciranno a trascinarmi queste povere membra? Sono loro che

302
fanno il lavoro sporco. È vero, c’è ancora quel fuoco che arde, il
motore di questa macchina di morte, il pretesto per non
abbandonarsi completamente al delirio. Ecco cosa ne è stato di
Randy Coleman. La trasformazione è ormai completa. Una
creatura di carne con un fucile a canne mozze come appendice,
estensione del suo corpo, organo vitale fatto di ferro e fuoco. Un
intento irrazionale, forse più folle delle follie che camminano
nell’oscurità, lo muove come un angelo vendicatore. Vorrebbe
farla finita ma non può. Qualcosa lo trattiene. C’è ancora molto
lavoro da fare…
La bottiglia è quasi a fine. L’oscurità è ormai padrona. No, non
accenderò la luce sulla scrivania. Lascerò spengere gli ultimi
suoni del giorno, immaginandomi la gente che torna alle proprie
case, moglie, figli, progetti, fede… Nessuna differenza tra loro ed
i piccoli insetti che infestano le cantine e le soffitte. Ragni, termiti,
blatte…
Vieni oscurità. Vienimi a prendere. Fammi dormire, ti prego.
Almeno stanotte, fammi dormire…

V. L’EVOCAZIONE

“Iah! SHUB-NIGGURATH!”
“Grande Capro Nero dei Boschi, io Ti chiamo!”
L’uomo con la veste gialla s’inginocchio davanti alle alte pietre.
Le braci rosse gli illuminavano il volto.
“Rispondi al grido del tuo servo che conosce le parole del
Potere!”
Con la mano compose un gesto.
“Sorgi, io Ti dico, dal Tuo sonno e vieni con altri mille!”
Un gesto ancora.
“Io faccio i Segni, io pronuncio le Parole che aprono la Porta!”
“Vieni, io Ti dico, io giro la Chiave, Ora! Cammina ancora una
volta sulla Terra!”
Si avvicinò alle braci…
BANG!
Ma fu lo shotgun di Claw a chiudere l’evocazione.

303
VI. LA SACERDOTESSA

Maria Luise Demond, conosciuta anche con il nome di Snake


Charmer, alta sacerdotessa del tempio. Non che incantasse per
davvero i serpenti, anche se forse per un po’ è riuscita ad
incantare me. Solo per un po’…
L’ho conosciuta un mese fa alla casa di riposo Greendale
House, nella periferia di Boston. Ricoveri e orfanotrofi sono i
posti ideali per rifornirsi di carne sacrificabile a costi limitati. Gli
inservienti si lasciano corrompere facilmente, e poi se scompare
un vecchio oppure un orfano ormai non importa più a nessuno.
Neanche i giornali ci stanno più dietro, con il crimine organizzato
che dilaga in tutto il paese. Certo, per i bambini si fanno prezzi
diversi, ma i sacrifici di carne immacolata sono rari, rituali
riservati alle alte cariche. Per santificare le loro vomitevoli messe
basta una vecchia carcassa.
Io ero lì e sapevo bene come andavano quelle cose. Per tre
giorni ho bazzicato quell’edificio, un posticino delizioso immerso
nel verde, una struttura moderna e ben accessoriata, che
prometteva ai suoi inquilini una fine facile e decorosa. Vi
abitavano una sessantina di anziani, la maggior parte dei quali
ricordava poco o nulla della vita lasciata fuori da quelle mura.
Ma c’era anche chi non la smetteva mai di parlare della propria
infanzia, come se fosse appena trascorsa. La mente di un uomo è
come una macchina difettosa! Se esistesse un dio, dovremo farci
risarcire.
Greendale House è un mondo fuori dal mondo, una realtà fatta
di brusii insensati, medicine e odori pungenti. Un pascolo di
carne umana a basso costo. Mi sono finto il legale della signora
Thomson, una simpatica vecchietta che ricordava a malapena il
suo nome, Elvira. In realtà non dovevo fingere un bel niente. In
un’altra vita e in un altro tempo sono stato uno dei tanti avvocati
della Città degli Avvocati; Randy Coleman era il mio nome. Di
sicuro non un esempio eccelso, ma durante i dieci anni e passa di
attività sono riuscito a togliermi qualche bella soddisfazione. Il
caso Newman, ad esempio. Quel bastardo se l’era vista davvero
brutta. La sedia elettrica non gliela avrebbe tolta nessuno, se non

304
avessi portato all’ultimo appello quel testimone chiave. Com’è
che si chiamava? John qualcosa. Il figlio di puttana la sapeva
lunga, e alla fine ha parlato. Sicuro che ha parlato…
Comunque, ormai è acqua passata. Come ho detto più di una
volta, quella era una altra vita. Adesso esiste solo il signor Claw e
il suo fedele fucile a canne mozze.
Maria Luise faceva finta come me. L’ho inquadrata subito. Il
suo fare gentile, la spigliatezza un po’ troppo ostentata con i
medici, lo zelante interesse per miss Rogue, la donnina sulla
sedia a rotelle della quale si fingeva la nipote. Niente di tutto ciò
mi è sfuggito. Era bella, ma di una bellezza blasfema. Non so in
che altro modo descriverla. Occhi profondi, due pozzi che
sembravano risucchiare la luce. Capelli neri, pettinati alla moda,
e una bocca rossa come i gerani che adornavano le terrazze del
ricovero.
Il terzo giorno la invitai a bere un tè in città. Lei accettò, ed
incominciò così. Avrei potuto ucciderla quella notte stessa. Non
avevo bisogno di prove per sapere chi era e cosa faceva. Mi era
bastato uno sguardo per capirla. Nei suoi occhi dimorava
l’assurdità del dio idiota. Azathot viene chiamano, il dimoratore
del nulla. Per poco non mi ero perduto in quel suo subdolo gioco,
fatto di parole dolci, di baci carnosi, un desiderio incontenibile
che inghiotte il libero arbitrio.
Ma prendere solo la sua vita sarebbe stata una magra
consolazione. Volevo accedere al tempio, eliminare i suoi
discepoli, dare alle fiamme i luoghi appestati dalla sua insulsa
religione. Così giocai il suo gioco, ma mi tenni da parte l’asso
vincente.
Facevamo l’amore in un motel del centro. Ormai Boston era
diventata la mia nuova casa. Il caos della grande città aiutava a
distrarmi. Per un po’ mi è piaciuta, non lo nego, ma a cosa fatta
non vedevo l’ora di tornarmene a Providence.
Il sesso con lei confermò i miei sospetti. Il modo in cui cercava il
piacere, il muoversi silenzioso sopra di me, gli occhi spalancati
nel momento catartico, colmi di una alienità disarmante, ed un
sorriso famelico che metteva i brividi. Il ricordo del suo corpo
perfetto nella penombra di quella camera d’albergo, la finestra

305
aperta ed i suoni della città sotto di noi, lei che camminava
sinuosa verso la toilette… immagini che continuano
piacevolmente a tormentarmi. Afferrai la borsetta e… bingo!
Conteneva una copia del Necronomicon, versione inglese di John
Dee, rilegata pregevolmente a mano. La prova che confermava
tutte le mie intuizioni. Tra le pagine pergamenate piene di
simboli arcani e parole all’apparenza insensate, estrassi un
biglietto. Indicava la data ed il luogo dove si sarebbe tenuta la
prossima messa. Era l’invito che cercavo.
Le fiamme divorarono completamente quel magazzino del
porto. Per la polizia è risultato impossibile identificare le decine
di corpi carbonizzati recuperati al suo interno. I giornali hanno
parlato di clandestini cinesi, di un paio di casse di tabacco secco
andate a fuoco, di un tragico incidente. Gli agenti non hanno mai
rivelato alla stampa la storia di Maria Luise, trovata riversa in
una pozza di sangue a un centinaio di metri dal magazzino,
perforata da due proiettili di shotgun esplosi a distanza
ravvicinata.
Mentre la guardavo correre verso di me, allontanandosi dal
fuoco che s’innalzava in alte fiamme alle sue spalle, accendendo
la notte del porto, sono riuscito a scorgere per un istante il suo
vero volto. Nei suoi occhi ho letto disperazione, incredulità,
paura. È stato un attimo, ma non mi sono lasciato ingannare. La
pietà è un sentimento che non mi appartiene più.
Addio Maria Luise. Aspettami all’inferno. Vedrai, non tarderò!

VII. BOB

Le fronde degli alberi, i rumori della città, una quarantaquattro


magnum sulla scrivania accanto a un letto d’ospedale, un vecchio
che farnetica sotto le coperte, il fetore della follia che aleggia nella
stanza. Immagini di una scenografia ammorbata, l’overture che
annuncia l’entrata in scena di creature idiote, dimoranti negli
abissi del cosmo.
«Bob, ti ho portato quello che mi hai chiesto…»

306
Per un istante lo sguardo del vecchio divenne lucido. Guardò
prima me, poi la cosa sulla scrivania, un oggetto di freddo
metallo che risucchiava la luce.
«Grazie Sebastian. Grazie!»
Uscito dalla clinica accesi una sigaretta…
… e udii lo sparo.

VIII. LA FINE

Il caffè è più forte del solito. La notte è stata lunga, ma ha dato i


suoi frutti. Tornerò alla baia nel pomeriggio, per finire il lavoro.
La Spirale era chiamata. Il più influente ed aberrante
agglomerato di individui che abbia mai messo piede a
Providence, o per quello che ne so, in tutto lo stato. Provo ancora
ribrezzo nel ricordare le cose che si muovevano sopra la spiaggia,
mentre quel gruppo di scellerati si riuniva dentro le grotte, a
salmodiare le parabole di un libro perverso. Ne succedono di
cose strane a soli venti chilometri dalla città.
La notte nascondeva l’orrore. Le creature coprivano le stelle coi
loro corpi gibbosi, assurda progenie di insetti e corvi, ed io non
potevo continuare ad ingannare la mia sanità mentale. Ho alzato
gli occhi quel tanto per non dormire più una sola notte.
Dopo aver rovesciato sulla sabbia i resti di una misera cena a
base di tonno in scatola e bourbon, mi sono mosso velocemente
oltre gli scogli. Dalla caverna fuoriusciva una luce malata, la
stessa che vidi quella notte a casa del professore. Mi sembrano
passati secoli.
Sapevo cosa stava succedendo là dentro. Sapevo del tentativo di
traduzione di quel testo cinese. La Spirale era piena di musi gialli,
ma non erano loro a comandare. C’era Sunshade, l’uomo con la
frusta. Lo intravidi alla prima delle adunanze che si tenevano in
città. Quasi certamente era lui la mente dietro tutta la
combriccola. Poi c’era Amelia, sacerdotessa del senza nome. Si,
proprio lui. Cosa credete che ci facessero più di cento illustri
personaggi del New England in una grotta a venti chilometri da

307
Providence, insieme a una mandria di cinesi e a dei corvinsetti
giganti? Chiamavano lui, che non si potrebbe nominare. Hastur…
Il fascio di dinamite era avvolto nei giornali. Avevo paura che
l’aria salmastra potesse compromettere l’effetto dell’esplosivo.
L’entrata della grotta non era molto ampia. Il piano era quello di
bloccarli là dentro; sepolti vivi. Neanche i loro amici corvi
sarebbero riusciti a tirarli fuori, e senza di loro l’evocazione non
sarebbe stata mai completa.
Ho piazzato il pacchetto un paio di metri oltre la soglia. Poi mi
sono allontano quel tanto da rimanere incolume. Un colpo, un
solo dannatissimo colpo. La mano era ferma, nonostante il
whisky che mi girava nelle vene. Il dito sul grilletto. Un bacio di
buon augurio alla canna del mio fedele shotgun., e poi… bang!
Devo tornare a finire il lavoro. Ve l’ho già detto. Devo
accertarmi che non siano riusciti a scappare. Questo è il mio
ultimo lavoro, e voglio che sia fatto bene.
Si, avete capito bene. Queste sono le ultime righe di Randy
Coleman, ovvero Sebastian Claw. Non tornerò in questo
maledetto monolocale, a passare le notti con gli occhi sbarrati, la
boccia di whisky in una mano ed il fucile a canne mozze
nell’altra. Basta.
È l’ora di farla finita.
Vi lascio alle follie di questo mondo. Ho cercato di ostacolarle,
per quanto potevo. Ho venduto cara la pelle. Ho fatto assaggiare
un po’ di sano piombo.
Adesso però voglio dormire.
Un ultima cosa…
…poi la spiaggia, il mare, l’abisso.
Addio.

OUTRO

È stato rinvenuto un corpo nella baia. Era il mio…


…o almeno così hanno creduto.
Che lo credano pure. La polizia, i miei vicini, le creature assurde che
vagano libere per il New England, anche i lettori di questo folle diario. A

308
me sta bene così. Io non mi lamento. Galleggio nell’acqua sporca nel mio
impermeabile grigio, ma tengo lo sguardo puntato verso il fondo…
casomai qualcuno o qualcosa decidesse di salire in superficie.
Ho sempre il mio fucile a canne mozze. Lo tengo stretto nella mano
destra. Il rigor mortis può fare anche questo. Non ci credete? Allora vi
svelerò un piccolo segreto: non è morto ciò che in eterno può attendere, e
col passare di strani eoni, anche la morte muore. E questo vale per tutti,
anche per i cacciatori di incubi come me.
Il mio nome è Sebastian Claw. Sono un cadavere che galleggia nella
baia di Providance, e ho ancora del piombo da commissionare. Lo devo al
professore, al povero Melvin, al vecchio Bob, e soprattutto a Randy
Coleman.

Tratto dal libro: Sebastian Claw e altri racconti

309
310
L’ALBERO DELLE PAROLE

LE POESIE

311
OCCHI
di Charles Huxley

Che guardano l’alba, feriti dal sole,


chiusi dentro una buia caverna,
bagnati da acide lacrime,
gonfie di rabbia.

Occhi,
feriti da Dio,
dalla fede ,
gonfia di divina slealtà.

Traditi,
occhi increduli,
ignoranti,
bagnati da dolcissimi lacrime,
gonfie di emozioni.

Occhi,
che hanno visto demoni,
occhi in lutto,
coperta da una benda nera.

Occhi stanchi,
occhi violentati,
vecchi,
stupidi,
occhi di bambino mai sazio.

Occhi.
Indegni,
occhi stanchi.

I miei occhi.

312
FIAMMA DI CANDELA
di Charles Huxley

Cerco quel barlume di oscenità


che mi strappi
da questo buonismo interessante,
stressante.

Ricerco un suono,
una nota
che mi riporti alla realtà parallela
meno finta,
meno costruita.

Bramo quell’alito di vento


che mi spinge ancora avanti,
senza rimorsi e senza rimpianti,
per quelli che inevitabilmente
restano indietro.

313
CARTA E PENNA
di Charles Huxley

(dedicata a mia nonna)

Ti scrivo una lettera da lontano,


sperando che nessuna lacrima
abbia legato il tuo spirito quaggiù.

Ti scrivo per ricordarmi che sono vivo,


per ricordarmi cavalli che non esistono
e monete fatte d’aria.

Ti scrivo a ritmo di una vecchia canzone


che parla di giostre,
antichi ricordi e
mondi che non ho mai visto.

Ti scrivo piangendo,
con una pallottola che pende dal collo,
ma,
come se fosse infilata nella carne,
ferisce.

Ti scrivo con parole non mia,


perchè
“solo nel dolore l’uomo si accorge di essere vivo”.

Ti scrivo con una rosa accanto,


che piano piano si secca
e perde l’odore.

Ti scrivo da sopra tre metri di terra


e
da sotto chilometri di cielo.

Ho rotto le tue catene,

314
almeno spero,
e scrivo per dirtelo.

Spedirò questa lettera a tutti i mari del mondo


affinché ti cerchino, ovunque tu sia,
per dirti che io sono ancora qua,
e non ti ho dimenticata.

315
ADAM KADMON
di Demiurgus

Son cambiati gli strumenti


le vostre facce, i sentimenti,
però identici gli inganni,
perpetrati lungo gli anni.

Prima c’erano i cavalli


ora il rombo di un motore,
ma sopravvivono i cavilli
per giustificare ogni dolore.

Son cambiati anche i lavori,


si disintegrano i valori,
ciò che resta è sempre quello:
siamo schiavi di un cervello!

I pensieri che produce


li hanno indotti con la forza:
verso il nulla ci conduce,
senza rompere la scorza.

Vi trascianate come morti


a coltivare i vostri orti,
aderendo a dei valori
vissuti ormai come esteriori.

Quello fugge dentro casa,


questo fonda una famiglia,
altro che tabula rasa,
il cervello è una canaglia!

Non ascolta alcun consiglio,


non accetta dissonanze,
ha paura, è un bel coniglio,
e continua le sue danze.

316
Per difendere i suoi errori
aggredisce anche gli amici,
falcidiando i loro cuori,
additandoli a nemici.

Triste è il fato che vi aspetta


brutta feccia maledetta:
io vi osservo e non ci credo
che siete ancora alla nigredo!

Se potesser le parole
scuoter gli animi e i pensieri
griderei alla vostra prole:
“siete figli di corvi neri!”

Non seguite i lor consigli,


non amate come loro:
siate del mondo raggiante i figli,
mutate il piombo in fulgido oro!

Ma a loro è impedito:
se gli indichi il sole
ti guardano il dito…

Estratto dal progetto "L'Urlo"

317
IL TEMPO DELLA RACCOLTA
di Aeribella Lastelle

Ho smesso di rispondere alle solite domande


Eppure continuo a pormele
Chi ha bisogno di risposte?
Io non la sento più
La deturpante necessità
Di dare un senso
A ciò senso non ha.
Ma non ho chiuso la scatola
Non ho finito di giocare
Scelgo sempre seguendo il cuore
E attendo
Che la campana incominci a suonare
E giunga il tempo della raccolta
Prima del grande sonno invernale.

318
VECCHIO GIOCATORE
di GM Willo

Complice di un gioco
Io vivo il sogno
La scoperta e quel poco
Di magia che mi resta
Cercando il segno
La frase che desta
L’entrata nel regno
Del reale infranto
La storia ed il canto
L’evento e il portento
Meraviglia ed incanto.

Poi il gioco si chiude


La notte già muore
Cammino vie nude
Né gioia o dolore
Sulla via del ritorno
La città dormiente
Barlumi del giorno
Lontana è la mente
Leggero è il cuore
Del vecchio giocatore.

319
PARTO ANARCHICO
di GM Willo

Stato
Io non t’appartengo
Io non ti conosco
A te mi oppongo
Anzi, t’ignoro
Le tue catene
Di ferro ed oro
Non posso levar
Le mie caviglie
Sanno graffiar
E soffro le pene
Patisco le doglie
Di un parto anarchico
Illuso e patetico
Ingenuo guerriero
Io, tuo prigioniero.

320
IL RE DELLA VAGHEZZA
di GM Willo

Sono il Re della Vaghezza


Prendo il mondo in leggerezza
Mi spaventan solamente
Le certezze della gente

Fischio acuto da fringuello


Io mi sento un menestrello
Vola via il mio pensiero
Che sia falso oppure vero

Salta sopra questa giostra


Quel che hai mettilo in mostra
Sia reale oppure gioco
A me certo importa poco

Io non ho punti di vista


Scrivo solo quel che ho in testa
Se mi capita una svista
Sono matto, punto e basta

Non mi prender seriamente


Che confusa é la mia mente
Sulla lingua ho una battuta
Se non esce é dispiaciuta

La parola é una fetente


Dice tutto e dice niente
Se ti fermi ad ascoltare
Non ti devi far fregare

Che l’inganno dell’orecchio


É un malanno assai vecchio
La spia d’ogni tenzone
É una grande incomprensione

321
Dal verbo si passa ai fatti
Per me son tutti matti!
Non c’é comparazione
Tra la parola e l’azione

L’offesa resta offesa


Per chi l’ha data e chi l’ha presa
Ma l’affondo di un pugnale
Ti spedisce all’ospedale

Dai retta a me, sorridi


Con le parole non uccidi
Metti da parte la fierezza
Saluta il Re della Vaghezza.

322
LA FINE DEL GIOCO
di GM Willo

La fine del gioco


Il gesto di un bimbo
Riusciró a ricordare
La giostra ed il cigno
I draghi di nuvole
Il caldo giaciglio
La pioggia ed il sole
L’odore del fuoco.

323
EQUAZIONI MALDESTRE
di Tapigora

Equazioni maldestre
Serrano finestre
Nel gioco di specchi
Che chiamiamo rete
L’antico tra i vecchi
Ascolta e ripete
L’umano vagito
La storia ed il mito
La ragione di tutto
Il bello ed il brutto.

La radice di nove
È tre, son sicuro
Ne ho in tasca le prove
Controlla, lo giuro!
Mi chiedi di dio
Ti guardo e sto zitto
L’ignoro, l’ammetto
Non son certo io.

Alcune domande
Rimangon sospese
Noi anime appese
All’enigma più grande
Su, lasciamo perdere
Dai, lasciamo stare
Torniamo a sorridere
Pensiamo ad amare.

324
TRISTEZZA
di Gano

Mi prende così
Non so neanch’io
Tristezza, mio dio…
La sento qui.

Vicino al cuore
È come un sasso
Respirar non posso
Non sento calore.

Tutto si offusca
Diventa bigio
Io, Gano mogio
Attendo burrasca.

La calma precede
La stronza tempesta
I tuoni e la frusta
La vita che chiede.

Si paga il prezzo
Ti avvii alla cassa
Lo sai che poi passa
Ma fa male, che cazzo!

Rimorsi e rimpianti
Ti sputi allo specchio
Ti senti più vecchio
Hai gli anni pesanti.

La fine poi è quella


Ti scoli un goccetto
Continui e sei fatto
Maremma budella!

325
PIACERE, SON GANO
di Gano

Torno ad ascoltare
Le parole del cuore
Il gusto e l’odore
Dell’arte d’amare

Mi perdo nel sole


Abbraccio l’abbaglio
Di certo non sbaglio
Tentare non duole

Il vento carezza
Sbatte un cancello
Cinguetta l’uccello
L’orecchio mio apprezza

Bicchiere di vino
Lontano il casino
Mi metto supino
Son come un bambino

Poi lei s’avvicina


La gonna cortina
È proprio carina
Si chiama Sabrina

Allungo la mano
Si gira e sorride
Mi guarda e mi uccide
“Piacere, son Gano”.

326
PALCOSCENICO VUOTO
di Jonathan Macini

È un silenzio straziante
Che deturpa la mente
Il mio grido d’amore
Solitario e cocciuto
È il lamento di un folle
Un messaggio d’aiuto
Lanciato nel niente.

Dove il sogno si perde


Generando altre storie
La nostalgia morde
Disseminando scorie
Di un lontano passato
Disilluso e immolato
Il palcoscenico è pronto
Mancan solo gli attori
I clown e i giocatori
La musica e il canto.

Il sipario si alza
E si accendon le luci
Forse ho ancora la forza
Di chiamarvi Amici
Ma non credo più al fato
Non mi faccio illusioni
Il palco resta vuoto
Son finite le canzoni.

327
VADO PER LA MIA STRADA
di Grazia Longo

Vado per la mia strada...


Non è la più facile.
E’ tutta in salita.
Erta e scoscesa.
A volte da tracciare.
Tra dirupi e sterpi e spine.
Andrò sotto il sole cocente.
Proseguirò sotto le intemperie.
Affronterò uragani di violenza.
Sopporterò la grandine dell’invidia.
Patirò il gelo della derisione.
Continuerò a salire senza tregua.
Mi riposerò all'ombra della solitudine.
Mi disseterò alla fonte della verità.
L'amore che ho dentro mi riscalderà.
Andrò sempre avanti.
Fiera, instancabile.
In cima al monte.
Niente mi fermerà.
Questa è la mia strada.
Questa è quella che scelgo.
Non mi importa del dolore.
Non mi importa della solitudine.
Non mi importa se non capirete.
Vado per la mia strada.
Strada non tracciata.
Strada da scoprire.
Passo dopo passo.
Guaderò fiumi di dolore.
Mi arrampicherò sulle rocce dell’indifferenza.
Abbatterò i muri della menzogna.
Cancellerò i sentieri dell’inganno.
Cadrò e mi rialzerò.
Soffrirò e mi farò male.

328
Vado per la mia strada.
Senza paura, senza esitazioni .
Vado per la mia strada.
E arriverò alla vetta.
Prima o poi.
Più vicina al cielo.
Toccherò le nuvole.
Vedrò volare l’aquila.
Vado per la mia strada.
Solitaria e scoscesa.
Tra mille pericoli.
Anche da sola.

329
VORREI ESSERE L'ESSENZA OLTRE L'APPARENZA...
di Grazia Longo

Vorrei essere lanterna


nelle tue notti buie.
Vorrei essere faro
nella tempesta.
Vorrei essere
pioggia di emozioni
nel deserto della tua anima.
Vorrei essere pausa di silenzio
nel rumore assordante
e dolce musica
nella tua vita.
Rifugio sicuro
per la tua anima.
Unica certezza
tra tutti i tuoi dubbi.
Splendido sogno
nella cruda realtà.
Seme che germoglia
tra le tue zolle.
Acqua di fonte
che ti disseti.
Fiore selvaggio
che cresce tra le crepe
del tuo muro di indifferenza...
Vorrei essere
il tuo orizzonte...
Vorrei essere...
quel che sono
oltre le tue paure...

330
GLI AUTORI

GM Willo

Nato a Firenze nel 1973, si dedica da vent’anni alla


composizione narrativa, una passione che ha portato avanti in
maniera del tutto autodidatta. Amante della fantasy e del gioco
di ruolo, le sue opere sentono ovviamente il richiamo a quel
genere. Si occupa anche di fotografia, creativitá on-line e altre
tematiche. Da qualche anno gestisce svariati giornali on-line,
occupandosi di musica, politica ed internet. La sua pagina
www.willoworld.net é un portale per accedere a moltissimi
progetti di scrittura creativa ed altre intuizioni.

Demiurgus

In passato ha effettivamente collaborato in forma anonima alla


individuazione ed all’arresto di utenti indesiderati della rete…
Ha messo in circolo patch per sistemi operativi, ha collaborato
con il progetto FREENET (follow the white rabbit) ed altri
progetti di scambio P2P e comunicazione istantanea tra utenti…
nessun lavoro grafico, nessun avatar, nessuna traccia, per sua
fortuna… Tra le sue prede: frodi informatiche, spam server, x-
bot, pedofili, falsechatter, doppleanger, sistemi informatici
specchio, honeypot illegali… Si era ritirato dalla rete alcuni anni
fa… alcuni lo avevano dato per spacciato… altri che fosse
semplicemente in letargo… altri ancora che era morto… L’ultimo
messaggio che lasciò nel canale IRC di FREEGENERATION fu
“La grande onda non potrà essere infranta…la rinascita è
iniziata…”. Da qualche tempo sembra che sia tornato ad aggirarsi
nei meandri della rete… Ma forse é solo un fantasma.

Giulia Riccó

Nasce a Modena nel 1981 in una giornata dei primi d’ottobre.


L’autunno e il vivere in mezzo alla nebbia della “sua pianura” la

331
influenzeranno molto nel suo modo di creare “arte”. Cresce in
mezzo ai libri, al teatro e alla fotografia. Sono soprattutto i primi
ad attrarla molto,diventeranno per lei compagni inseparabili.
“Un libro”dice “prima ti deve chiamare, lo devi annusare per
gustarne a fondo l’anima, lo devi poter toccare per sentire il suo
corpo e infine ti puoi immergere nella lettura”. Da più grande si
cimenterà in qualche illustrazione. Le fotografie sono sperimenti
di vario tipo(essendo stata traviata dal padre fotografo in tenera
età).Scrive racconti spaziando dal fantasy alla vita di tutti i giorni
alle favole per bambini. Dice sempre:” L’arte in generale,che sia
essa pittura, fotografia o scrittura serve a creare mondi. Per lo più
la uso per espellere quello che di osceno c’è in me. i mostri del
nostro animo si riversano su pagine bianche, pellicole vergini o
tele immacolate creando mondi che alle volte sono truci, altre
volte sono dolci, altre volte sono più reali della realtà stessa.”

Charles Huxley

Per Charles Huxley il significato di una poesia non è


paragonabile a quello di un brano di prosa; esso è solo una parte
della comunicazione che avviene quando si legge o si ascolta un
suo lavoro: l’altra parte non è verbale, ma emotiva, irrazionale…
L’Amore che nutre per l’armonia è pari solo al caos che scaturisce
dai suoi lati oscuri, nella sua scrittura graffiante e spietata, spesso
cinica e fredda, un tuffo nell’inconscio collettivo della sua cultura,
un viaggio senza ritorno verso nuovi modi di comunicare.

Fida

Fida, al secolo Franco Giovannelli, non è uno scrittore ma si


diverte, da qualche anno a questa parte, a mettere nero su bianco
le emozioni proprie e altrui. Segue la regola, che spera ogni
giorno di aver fatto sua, per cui “lo scrittore è un guardone, un
rapinatore di vite” ma anche “uno scopritore di tesori nascosti o
dimenticati”. Ha iniziato, quasi per gioco, scrivendo “Desiderio”
per poi dedicarsi a racconti brevi da 101 parole.

332
Marco Filipazzi

Classe ’85. Un’insana passione per film, libri e fumetti purché


siano horror, fantasy o splatter. Scrittore di racconti brevi (per
ora) e magari più avanti chissà. Regista di cortometraggi a tempo
perso.

…E GLI AUTORI DELLA GIOSTRA DI DANTE

Gano

Gano è creatura da bar, poeta e fannullone, puttaniere e guru


metropolitano. I suoi versi hanno un unico scopo ed è quello di
afferrare il vero, oltre le regole di metrica e di rima. I racconti,
come dice lui stesso, gli vengono dal pancreas.
Gano è un personaggio di GM Willo per La Giostra di Dante, il
gioco di ruolo dei poeti e degli scrittori. Per le Edizioni
Willoworld ha pubblicato il libro "Un Mondo a Gambe Aperte".

Aeribella Lastelle

Aeribella Lastelle, giovane ragazza amante della fantasy e della


musica rock, é un personaggio di GM Willo per La Giostra di
Dante. Per la stessa collana ha pubblicato il libro "Storie di
Nuvole".

Jonathan Macini

Personaggio della Giostra e alter ego di GM Willo. Amante


dell'horror e dei miti di Cthulhu, ha pubblicato i libri: "Le
Rivelazioni di Giovanni Meraviglio" e "Sebastian Claw e altri
racconti".

333
Tapigora

Poeta, novelliere e matematico greco vissuto più di 2300 anni fa.


Sbriciolò la sua essenza dentro un espressione algebrica,
sigillandola in una pergamena indirizzata ai posteri.
Recentemente iniettato per sbaglio dentro la matrice, il quesito
matematico ha innescato una sequela di processi di
deframmentazione, riportando alla vita (ovviamente digitale) il
geniale matematico.
Ancora in fase di adattamento, egli appare frequentemente in
veste di pop-up, sponsorizzando per errore casinò e altri giochi
legati ai numeri.
Lentamente sta prendendo familiarità con l’ambiente. La
Giostra di Dante lo aiuterà a rimanere legato alla sua primordiale
essenza (almeno fino al giorno in cui verrà risucchiato dal Grande
Emulatore del Caso).
Tapigora è un personaggio di GM Willo per La Giostra di Dante.

334
INDICE DELLE OPERE

LE STORIE

1. IL CASO KHORNER di Cainos, Huxley, Willo, Demiurgus


2. AL DI LÁ DEL CAMPO di Davide Bandinelli
3. VICOLO CIECO Raccontami sulle note di...
4. UNA PARTITA A BILIARDO di GM Willo
5. L'IMPERATORE DEL MONDO di Hermes
6. DESIDERIO DI PROLE di Fida
7. LA SOLUZIONE DI JESSIE "Passami la Storia"
8. IL CUORE DELLA LUCERTOLA di GM Willo
9. OSSESSIONE di Giulia Riccò
10. LA PIETRA E LA FANCIULLA di Cainos
11. IL CICLO DEL PATHOS di Thomas Kaneirzein – Demiurgus
12. LA FATA DEI DENTINI di Marco Filipazzi
13. IL REGNO DELLE OMBRE di Aeribella Lastelle
14. CHELATNA LAKE di Davide Bandinelli
15. CONDIVIDERE É REATO di GM Willo
16. THE END di Giulia Riccò
17. IL CICLO DI UDRIEN di GM Willo
18. SPENGI LA LUCE di Jonathan Macini
19. L'ULTIMA CICCA Progetto "Passami la Storia"
20. SWEET LITTLE PAIN di Giulia Riccò
21. LA LAMA NELLA TELA Raccontami sulle note di...
22. L'URNA DEL SACRO TÈ di Aeribella Lastelle
23. GIOVANNA di Giulia Riccò
24. SERATA FM Progetto "Passami la Storia"
25. L'UOMO DEI PUZZLE di GM Willo
26. IPOCONDRIA di Jonathan Macini
27. IL DIO DEI DINOSAURI di GM Willo
28. LA RICERCA di Jonathan Macini
29. L'UOMO VESTITO DI MARRONE di GM Willo
30. GIOCO DI BIMBA di Giulia Riccò.
31. L'ALTRO di Matteo Cerboneschi
32. LA FORESTA VAMPIRA di GM Willo

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33. VELDULE MISTE E LISO di Jonathan Macini
34. SPARITO di Giulia Riccò
35. MIO PADRE E LA LUNA di Aeribella Lastelle
36. NETTURBINI di GM Willo
37. INCONTRO CON UN GABINETTO GIAPPONESE G. Riccò
38. LO STREGONE RIPUDIATO di GM Willo
39. STELLE MARINE Progetto "L'Orfanotrofio delle Storie"
40. IL PITTORE di Giulia Riccò
41. UNA SOTTILE LINEA DI FUMO GM Willo e S. Cisternino
42. LA RAGAZZA CIECA Progetto "L'Orfanotrofio delle Storie"
43. CAMPO DI GRANO, VITA E MORTE di Giulia Riccò
44. LA SINDROME DEL SENSO DI COLPA di GM Willo
45. ELIZAVETA di GM Willo
46. MARIONETTE di Giulia Riccò
47. LA NEBULOSA DEL CANCRO di GM Willo
48. LA GRANDE OCCASIONE di GM Willo
49. IL RUMORE DEL TEMPO di GM Willo
50. IL PRETE di Gano
51. L’EREMITA di GM Willo
52. LA LIBERTÁ DELL'UOMO "L'Orfanotrofio delle Storie"
53. L'ANELLO di GM Willo
54. LA TENZONE Raccontami sulle note di...
55. BOSCO INGANNATORE Raccontami sulle note di...
56. IL DIAMANTE DI PARDISIA di GM Willo
57. IL PIANETA ABBANDONATO Raccontami sulle note di...
58. SEBASTIAN CLAW di Jonathan Macini

LE POESIE

59. OCCHI di Charles Huxley


60. FIAMMA DI CANDELA di Charles Huxley
61. CARTA E PENNA di Charles Huxley
62. ADAM KADMON di Demiurgus
63. IL TEMPO DELLA RACCOLTA di Aeribella Lastelle
64. VECCHIO GIOCATORE di GM Willo
65. PARTO ANARCHICO di GM Willo
66. LA FINE DEL GIOCO di GM Willo

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67. IL RE DELLA VAGHEZZA di GM Willo
68. EQUAZIONI MALDESTRE di Tapigora
69. TRISTEZZA di Gano
70. PIACERE, SON GANO di Gano
71. PALCOSCENICO VUOTO di Jonathan Macini
72. VADO PER LA MIA STRADA di Grazia Longo
73. VORREI ESSERE L'ESSENZA OLTRE L'APPARENZA di
Grazia Longo

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RINGRAZIAMENTI

Ringrazio tutti i partecipanti ai progetti di Willoworld, ma


soprattutto ringrazio la mia famiglia che, nei ritagli della mia
meravigliosa professione di mammo, continua a darmi
l’opportunità di sognare.

Questo libro é stato finito di pubblicare nel maggio 2009

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