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La filologia omerica antica e la storia del testo omerico

FRANCO MONTANARI

È ben noto che la nascita dei famosi Prolegomena di F. A. Wolf fu strettamente


legata alla scoperta e pubblicazione degli Scholia A e Β all'Iliade da parte di
Villoison, con tutte le informazioni che essi fornirono a proposito della storia del
testo omerico e dell'attività dei filologi alessandrini.1 Dunque sono state intima-
mente e profondamente connessi la nascita della questione omerica in senso mo-
derno (il problema della genesi e della formazione dei poemi secondo le pro-
spettive impostate da Wolf) e lo svilupparsi delle ricerche riguardanti la filologia
alessandrina come capitolo importante sia della storia del testo omerico che in
generale della storia del pensiero antico.
Forse il solo altro momento dell'omeristica moderna in cui si può percepire
uìia interconnessione altrettanto sorprendente e una relazione così stretta fra
questi due aspetti è proprio il periodo attuale, con l'intrecciarsi della discussione
a proposito sia dei metodi e dei principi operativi della filologia antica sia del
processo genetico che ha portato alla forma conservata dell'epica greca arcaica.
In uno studio recente Martin Schmidt osserva:2 "In the second half of the
20th century research in the field of ancient criticism of Homer has advanced in
a way that could not have been foreseen", riconducendo giustamente la nuova
stagione e i mutamenti di prospettiva all'opera di H. Erbse e di M. van der Valk,
che "in different ways [corsivo mio], made a totally new situation [...] So many
aspects of ancient Homeric philology are far better known today than some
decades ago". Schmidt sottolinea tre principali settori della ricerca in corso: "1)
The always on-going debate on the value and the basis of the textual criticism of
the Alexandrian grammarians. 2) Works on the development of ancient grammar
in the context of Homeric philology [...] 3) [...] works on literary criticism and
the ancient theories about it, with inclusion of Homer and ancient explanation of

1
Villoison (1788), Wolf (1795); cfr. Canfora (1999), Nagy (1999), Rossi (1999).
2
Schmidt (2002: 159-161).
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him. So the literary and rhetorical theories of the scholia [...] have been collected
and classified".
I progressi della seconda metà del XX secolo proseguono in modo assai
rilevante in questa parte iniziale del XXI secolo. Il primo punto isolato da
Schmidt è quello che ci riguarda in questo momento. Negli ultimi anni, la dis-
cussione intorno al metodo adottato dagli Alessandrini nello studiare il testo e
fare una 'edizione' di Omero è stata particolarmente vivace a proposito della
vera natura delle lezioni attribuite dalla documentazione erudita a grammatici di
primo piano come Zenodoto, Aristofane di Bisanzio e Aristarco: congetture ope
ingenii e basate solo su criteri soggettivi, varianti derivate dalla collazione di
copie e dunque risultato di una scelta, oppure una mistione e compresenza di
entrambe le procedure? Questo punto rimane controverso e in verità si tratta del
nodo centrale e assolutamente cruciale per tutte le questioni connesse.
Mi sono occupato di questa problematica in alcune occasioni, ricordando e
sottolineando in primo luogo il fatto che si tratta di un problema di metodo e di
princìpi, non di quantità né di qualità dei risultati. Io credo che gli Alessandrini
conseguirono la consapevolezza del fatto che un testo letterario è caratterizzato
da una storia della trasmissione, durante la quale può avere subito alterazioni di
vario genere e in vari punti, per cui il testo corretto deve essere recuperato e
restaurato o per congettura oppure scegliendo la lezione migliore fra quelle
offerte da una tradizione testuale non univoca. L'idea del riconoscimento di un
danno prodottosi nel corso del tempo, ponendo il problema del testo autentico e
della necessità di allestire metodi e strumenti intellettuali e culturali per riparar-
lo, rivela che si è stabilita l'unità organica fra interpretazione dei testi e critica
testuale e che una conquista del pensiero è stata acquisita (indipendentemente
dal tipo di risultati raggiunti).3
Negli ultimi anni il dibattito si è ulteriormente arricchito anche in seguito alle
reazioni, in senso positivo o negativo, suscitate dalle opinioni sostenute da M. L.
West,4 che segue (anche se per lo più tacitamente) una linea di svalutazione
della filologia alessandrina risalente a M. van der Valk e ripresa più recente-

3
Montanari (1998α) e (2000α), Rengakos (2002α) e (2002¿>), Montanari (2002α) e (2002Ö).
4
M. L. West (1998-2000), (2001α) e (2001&) (e West 2002); alla sua edizione dell'///ade sono
state dedicate ampie recensioni critiche da Nagy (2000) e Nardelli (200lfc), ai quali risponde M.
L. West (2001¿>); cfr. anche Janko (2000).
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mente da H. van Thiel, ma criticata decisamente da M. Schmidt, R. Führer, J.-F.


Nardelli, A. Rengakos e G. Nagy (oltre che dal sottoscritto).5
A proposito della pratica di collazionare manoscritti, A. Rengakos ha offerto
un quadro sintetico che vale la pena riprendere.6 L'evidenza è molto più cospi-
cua di quanto si tenda a presentarla. Essa comprende una serie di fattori, che si
sostengono a vicenda e che non è facile eliminare in blocco: a) il confronto di
manoscritti è una pratica della produzione libraria, è ben conosciuta e non ha
nulla di eccezionale;7 b) collazione di copie e introduzione di varianti sono testi-
moniate in papiri tolemaici fin dal III sec. a. C.;8 c) nei poeti ellenistici si
riscontrano prassi compositive che rinviano a variae lectiones più antiche dei
maggiori filologi alessandrini e da questi ultimi citate, evidentemente trovandole
nelle copie di Omero che consultavano;9 d) alcune testimonianze scoliastiche ap-
paiono inequivocabili nel mostrare il confronto di più copie almeno da parte di
Aristarco e non è una buona pratica trascurarle o non interpretarle;10 e) i filologi
alessandrini fecero uso anche della tradizione indiretta, citando poeti postome-
rici come argomento per una lezione omerica: è pensabile che trascurassero la
tradizione diretta?
Su questa linea ha continuato la sua ormai tradizionale argomentazione G.
Nagy. Nel più recente intervento, alle sue già diffuse argomentazioni egli
aggiunge un particolare impegno nell'analizzare le testimonianze fornite dalla
scoliografia omerica, con un esame del loro exact wording in serrato con-
traddittorio con le opinioni espresse (per vero dire, talvolta in modo piuttosto
sbrigativo) da M. L. West.11 Il risultato è ancora un sostegno molto forte, con
numerosi passi quali elementi di prova, all'idea che i maggiori filologi alessan-
drini effettivamente collazionassero copie di Omero, che Aristarco abbia usato

5
Si vedano le opere citate nella bibliografia; sugli interventi di van Thiel (1992) e (1997) cfr.
Montanari (1998a), Schmidt (1997) e (2002), Führer-Schmidt (2001); del lungo lavoro di Nar-
delli (2001α) vedi soprattutto pp. 57-70.
6
Rengakos (2002b), con tutti i riferimenti. Rengakos presenta anche valide osservazioni sulle
caratteristiche del testo usato come base da Zenodoto per il suo lavoro di diorthosis, in par-
ticolare sul fatto che si trattasse di un testo rapsodico ionico, sulla sua 'eccentricità' e sulla sua
'brevità': osservazioni che mi inducono a ripensare le posizioni che esprimevo in Montanari
(2002α: 123, 133-134).
7
Cfr. Montanari (1998α) e (2002α: 121-123).
' Cfr. Haslam (1997: 63-69), S. West (1967).
9
Cfr. Rengakos (1993), Rengakos (2002α), con il giusto riconoscimento al valore dell'opera di
Nickau (1977).
10
Cfr. Rengakos (2002è), Nagy (2003), infra.
" Nagy (2003).
130 Franco Montanari

abbondantemente questo metodo per il suo lavoro sul testo omerico e non sia
stato Didimo a introdurlo.
Mi pare difficile rinunciare all'idea di fondo che ne consegue, quella che è di
fatto l'idea tradizionale da Wolf in poi:12 la filologia degli Alessandrini, almeno
nel caso di Omero, comprendeva insieme sia l'intervento congetturale sia la
selezione fra varianti provenienti da collazione di manoscritti, che era praticata
già da Zenodoto e certo in misura considerevole da Aristofane e Aristarco. Il
fatto che spesso non si possa dire se una lezione è una congettura o una variante
(cioè che non sappiamo quale sia il procedimento adottato in ogni singolo caso e
per quali ragioni) è un difetto della nostra informazione, che non mette in dis-
cussione la sostanza del metodo e le sue implicazioni intellettuali e culturali.
Non è stato Didimo il primo a confrontare fra loro manoscritti e precedenti edi-
zioni di Omero, a raccogliere ed accostare varianti testuali, come sostiene West:
Didimo è stato un grande erudito, che ha portato alla sua massima espansione un
metodo già consolidato, ma egli dipende essenzialmente da Aristarco per le
posizioni che esprime e per molti dei materiali che adduce (ai quali aggiunge,
con il proprio gusto di raccoglitore, la considerazione dei lavori dei numerosi
grammatici postaristarchei, che arricchiscono il quadro e il dibattito della
filologia dell'ultima età alessandrina fino alla sua epoca).
A me sembra che questo dibattito abbia un aspetto di artificialità, che
bisogna focalizzare e superare. Una osservazione attenta rivela che nessuno
degli studiosi recentemente coinvolti nel dibattito nega totalmente che i filologi
alessandrini utilizzassero la collazione di esemplari (copie anonime oppure
edizioni con una indicazione di provenienza o di paternità13), nessuno si pone in
una posizione così radicale. R. Janko non esclude affatto che gli Alessandrini
procedessero talvolta sulla base di 'manuscript evidence' da loro consultata.14

12
Cfr. M. L. West (2001α: 36): "It is time to challenge this assumption, inherited from Wolf, that
collation of different copies was a normal and essential part of what Aristarchus and his
predecessors did". La reazione è stata ispirata soprattutto dalle idee di M. van der Valk, a partire
dalla seconda metà degli anni Sessanta (van der Valk 1963-64).
13
Mi riferisco alle edizioni delle città o a quelle riferibili a una precisa persona (Antimaco, Riano,
Zenodoto, Aristofane di Bisanzio, eccetera).
14
Cfr. per esempio Janko (1992: 22-23): "It was the task of Zenodotus of Ephesus to extract order
from the chaos of MSS collected in the Museum. He evidently concluded that the then very
numerous longer MSS were inferior: S. West, in her study of the extant Ptolemaic papyri, rightly
agrees [...] His caution was salutary, given the abundance of interpolated texts; he certainly had
MS authority for some omissions"; per Aristarco, Janko (1992: 27) e (2002: 659): "This [scil. the
seemingly unequivocal statement in schol. A to II. 9.222] certainly implies that Aristarchus did
check manuscripts for variant readings". Mi sembra interessante che Janko (1998α: 206) (in
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Anche quello che è attualmente il più radicale esponente di questa posizione, M.


L. West, malgrado la sua idea che Didimo sia stato il primo a collazionare
diverse copie per raccogliere e valutare varianti testuali,15 a proposito dello sch.
II. 9.222, deve fare una concessione che suona decisiva: "Didymus knew that
Aristarchus consulted more than one text, because he cited different scholars'
readings on different occasions, but it is just his own assumption that Arist-
archus systematically checked 'many' copies before discussing any reading".16
Un sottile equivoco deve essere eliminato.17 Quando si parla di confrontare
'altre' o 'varie' copie di Omero a disposizione e utilizzabili, non bisogna aver
l'aria di suggerire che si pensi a centinaia e centinaia di esemplari, attribuendo
all'idea del confronto una esagerazione che diventa subito inverosimile e
implausibile. Questa ambiguità viene fuori, forse in modo indesiderato, in scritti
di autori che appartengono a entrambi gli orientamenti: diverse copie vuol dire
alcune copie, non vuol dire centinaia. Si può parlare di confronto fra copie solo
quando si superano certi numeri oppure basta confrontarne 'alcune'? Si ritiene
di poter affermare che gli Alessandrini facessero collazioni solo se si pensa a
decine e decine di copie confrontate con implacabile sistematicità, oppure basta
la consultazione abbastanza frequente di alcuni esemplari, soprattutto in passi
problematici? Chi ritiene che gli Alessandrini non facessero collazioni, pensa a
paradossali grammatici (in verità piuttosto strani) che tenacemente rifiutassero
di guardare altre copie di Omero casualmente incontrate sul loro cammino, onde
non vedere assolutamente possibili differenze testuali, oppure intende che lo
facessero molto sporadicamente, solo qualche volta, solo per pochissime copie?

fondo alla seconda colonna), ricordando van der Valk come efficace sostenitore del fatto che gli
Alessandrini introducevano congetture nelle loro 'edizioni', sente il bisogno di precisare: "He
[sc/Z. van der Valk] did not of course believe that all Alexandrian readings are conjectures".
Questo significa ritenere che anche van der Valk non fosse così radicale da negare del tutto
l'esistenza di lezioni provenienti da "manuscript evidence".
13
Questo è l'assunto di base nella sua visione della storia del testo in età alessandrina, ma in M. L.
West (2001α: 36) si legge una sfumatura non marginale: "In fact the first scholars known to have
cited manuscript authority for various readings are Aristarchus' contemporaries Callistratus and
Crates. Didymus is the first known to have compiled anything in the nature of a 'critical appara-
tus'". Dunque due contemporanei di Aristarco: il suo rivale in serrati dibattiti (Cratete di Mallo)
e un allievo di Aristofane di Bisanzio (Callistrato); cfr. M. L. West (2001α: 37) e Montanari
(2001α: 134).
16
West (2001α: 37 η. 19); la testimonianza di questo scolio è da ritenersi inequivocabile e irrefuta-
bile (cfr. Janko 2002: 659, Rengakos 2002¿>, Nagy 2003: 489-491), ma anche altri sono stati
addotti ed analizzati ed è inutile ripetere qui cose già dette e facilmente reperibili nella biblio-
grafia citata. A quanto pare. West non riesce a mantenere saldamente la sua posizione radicale.
17
Cfr. Montanari (2002α: 134).
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Se il problema viene affrontato in modo rigido e come una opposizione


radicale, si rischia di scivolare nel ridicolo: non è una buona strada. E mi pare
che, affinando l'analisi di quanto scrivono gli studiosi, alla fine non se ne trovi
neppure uno che si senta di spingere il suo scetticismo fino all'estrema conse-
guenza, cioè negare totalmente che gli Alessandrini confrontassero copie e rile-
vassero varianti. Non era certo ignoto il fatto che i testi di Omero non fossero
tutti identici, che c'erano differenze fra i diversi esemplari. Fino a un certo punto
(e certo anche in seguito, per chi non apparteneva alla élite colta) probabilmente
questo non era considerato né eccessivamente fastidioso né particolarmente
importante o comunque non tale da richiedere un intervento forte e organizzato:
poi qualcuno prese coscienza del fatto che si trattava di un problema molto serio
e che bisognava cominciare ad attrezzarsi per affrontarlo in modo efficace.18
Vediamo ora di rivolgere l'attenzione al problema delle congetture, che sono
ope ingenii, arbitrarie, basate su principi soggettivi, talora ridicole, comunque
sbagliate e quindi da escludere dal testo omerico originale, corretto, genuino:
con questi toni e colori piuttosto 'caricati' si presenta talvolta un procedimento
che non dovrebbe creare un enorme scandalo nella sensibilità del filologo. Credo
sia stato sufficientemente provato che i filologi alessandrini non esitavano molto
a introdurre nel testo omerico lezioni costituite da loro congetture: anche su
questo punto risulterebbe assai difficile sostenere una posizione che negasse del
tutto la presenza di lezioni introdotte ope ingenii e senza alcuna evidenza docu-
mentaria. Se consideriamo esclusa questa possibilità radicale, l'analisi ci offre
una serie di connotati interessanti.
Janko sostiene che gli Alessandrini introdussero congetture proprie oppure di
loro predecessori e già penetrate in precedenza nel testo omerico. "The problem,
in my view, is that the Alexandrian (or Didymus, on West's theory) tended to
misjudge which type of manuscripts was actually better - those in which rhaps-
odes and scholars had emended away the 'problems' which the logic of carping
critics like Zoilus and Megaclides of Athens had detected in Homer's text, or
those in which these problematic readings remained unaltered. As A. Rengakos
observed,19 variants known in Hellenistic times 'may well have been the result
of earlier conjectures (from the 5th or 4th century B.C.) simply adopted by the
Alexandrians'. The poet Aratus is said to have asked Timon of Phlius how he
could obtain a reliable copy of Homer; Timon replied 'if you come across old

18
In termini di giusto e sbagliato, di testo originale/autentico e testo corrotto/falso: esattamente
come vogliono gli intendimenti di Janko e West nei confronti del testo omerico.
19
Rengakos (2002α: 155 η. 22, ma cfr. anche la successiva n. 23).
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copies, and not those which have now been corrected'. We could hardly hope
for better evidence that emendation had become endemic by Zenodotus' time".20
"We can hardly know whether such conjectures are his own [scil. di Zenodoto],
or derive from the fourth-century lytikoi who proposed solutions to problems
raised by Zoilus and other 'floggers of Homer'; what count is that they are
conjectures, and nearly all bad".21
Se gli Alessandrini, oltre alle proprie, accoglievano anche congetture di loro
predecessori (la pratica di emendare era ormai 'endemica'), da dove potevano
conoscerle se non collazionando copie di Omero a loro disposizione? Questa
teoria, dunque, presuppone la pratica del confronto fra esemplari (che Janko
infatti ammette, come abbiamo visto). Ma allora non si può sfuggire a un passo
ulteriore: quando e come gli Alessandrini potevano sapere che una lezione che
trovavano in un esemplare omerico era una vecchia congettura? Dal punto di
vista di chi collaziona un manoscritto e trova una lezione, questa lezione egli
tratta di fatto come una variante rispetto a un'altra, a meno che non sappia che si
tratta di una emendatio attribuibile a qualcuno di precedente. Anche ammettendo
che tutte o quasi tutte le lezioni scelte dai filologi alessandrini fossero davvero
emendamenti, potevano essi riconoscere vecchie congetture altrui oppure dob-
biamo accettare che le trattassero alla stregua di variae lectiones di una tradi-
zione non univoca22 e che imponeva una scelta?
Siamo portati a riconoscere come del tutto plausibile e probabile, anzi dif-
ficilmente negabile, che il metodo filologico degli Alessandrini comportasse sia
il ricorso all'emendamento congetturale ope ingenti che la scelta fra varianti do-
cumentate grazie al confronto di copie (nelle quali si potevano trovare anche
vecchie congetture). Ripetiamo di nuovo: un problema di metodo, di princìpi e
di atteggiamento intellettuale, non di quantità delle applicazioni o di qualità dei
risultati.
Vorrei ritenere sgombrato il campo dalla questione di quante copie bisogna
utilizzare e quante volte bisogna consultarle perché si possa parlare di pratica
della collazione di esemplari nel lavoro filologico. Certo il problema della
qualità dei risultati appare un poco più pesante e forse fastidioso. Janko dice che
le lezioni di Zenodoto sono "nearly all bad";23 West trova che la lezione di
Aristarco "modo melior videtur, plerumque peior": in nota cita quattro casi di

20
Janko (2002: 659).
21
Janko (1992: 24).
22
E non è questa una difficoltà talvolta anche per gli agguerritissimi filologi moderni?
23
Janko (1992: 24).
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lezione migliore (una gratificata di un certissime) e commenta "de bona tradi-


tione agitur, non de coniecturis".24 Se Zenodoto non è proprio sempre bad e può
contare su un nearly. Aristarco qualche volta ce l'ha proprio fatta a scegliere la
lezione giusta: dobbiamo intendere che ha capito quale era il testo omerico
autentico fra quelli consultati.25
Mi sento scivolare di nuovo verso un problema quantitativo che non trovo
molto attraente. Da Richard Bentley in poi, quante devono essere le congetture e
le scelte giuste fra varianti per avere la patente di filologo o addirittura di buon
filologo? E quante le interpretazioni accolte come indiscutibili dalla comunità
scientifica? Ma cercare di recuperare e stabilire il testo corretto per via di con-
gettura e scelta fra lezioni diverse non è esattamente il lavoro e il compito del
filologo?
Janko indica con estrema chiarezza una distinzione che dobbiamo seguire
attentamente nello studiare la filologia alessandrina. Da una parte, egli dice, sta
il problema dell'origine delle lezioni che essi propongono e quindi dei loro
procedimenti di lavoro, del metodo e dei principi; dall'altra parte "my own con-
cern, as a Homerist, has always been whether such readings are authentic";26 una
dichiarazione che penso rappresenti esattamente anche West.27
I filologi moderni possono essere severi quanto vogliono nel valutare le
scelte testuali e le opinioni esegetiche degli antichi, considerandole accettabili o
inaccettabili dal loro punto di vista filologico, linguistico ed esegetico: ma non
possono né sopprimere né trascurare il fatto che gli Alessandrini emendavano e
collazionavano copie di Omero allo scopo di ottenere il testo autentico, un meto-

24
M. L. West (1998-2000: vol. I, Praefatio VII).
23
Sull'operato dei filologi alessandrini e sulla qualità dei loro risultati esistono beninteso valuta-
zioni di altro genere.
26
Janko (2002: 661): "As a scholar of Hellenistic poetry, Rengakos' proper concern has been
whether-such readings were pre-Hellenistic, and his work has shown decisively that they
sometimes were. My own concern, as a Homerist, has always been whether such readings are
authentic, as when I wrote 'We can hardly know whether such conjectures are his own [scil. di
Zenodoto], or derive from the fourth-century lytikoi who proposed solutions to problems raised
by Zoilus and other 'floggers of Homer1; what counts is that they are conjectures, and nearly all
bad' [cfr. supra e η. 21], I was then too pessimistic about the limits to our knowledge of pre-
Hellenistic scholarship; but the evidence, whether it derives from the analysis of Homeric dic-
tion, historical linguistics, oral composition, archaeological discovery. Linear B, or the principles
of textual criticism, still demonstrates that most such readings derive from manuscripts [corsivo
mio] which have been 'improved' by scholarly and rhapsodic interpreters, like those against
which Timon is said to have warned Aratus"; cfr. Montanari (1998f>).
27
Cfr. West (20016).
La filologia omerica antica e la storia del testo omerico 135

do che combina l'interpretazione supportata dalle competenze possibili, la con-


sapevolezza della storia della trasmissione e la critica testuale.
Questa distinzione è essenziale e deve essere tenuta ben salda, cosa che
purtroppo non sempre succede. Il valore e il significato storico-culturale della
filologia alessandrina non devono dipendere dalle opinioni dell'omerista moder-
no a proposito della genesi dei poemi omerici e della costituzione del testo. E
così torniamo alla stretta relazione che si percepisce fra queste due problema-
tiche nell'omeristica attuale.
Da una parte, abbiamo l'idea (Janko, West) che il testo omerico sia stato
fissato molto presto, all'atto stesso della sua composizione (scritto direttamente
o dettato), e abbia subito in seguito alterazioni di vario genere, dapprima
soprattutto da parte di rapsodi che lo memorizzavano imperfettamente oppure
che si sentivano relativamente liberi di cambiare singoli punti, o da altri per altre
ragioni. Con tale modello, la filologia omerica può contare su un punto di riferi-
mento teorico ben preciso: il suo scopo è quello di ricostruire e recuperare quel
testo, le alterazioni successive furono comunque congetturali e arbitrarie, si dif-
fusero nelle varie copie e determinarono le divergenze nella tradizione mano-
scritta. Questa situazione si presentò agli Alessandrini, che però difficilmente
riuscivano a recuperare il testo giusto, quello originale della prima fissazione: le
lezioni da loro scelte sono in genere da respingere perché adottano alterazioni
(congetture) operate da loro stessi oppure da altri in precedenza.28
A questa si contrappone l'idea (rappresentata soprattutto da Nagy) che
sostiene per la genesi dei poemi un modello evolutivo, secondo il quale il testo
omerico si sarebbe fissato molto più tardi e non c'erano testi scritti dei poemi
almeno fino al VI secolo. Sintomo e riflesso di questa prolungata fase di tras-
missione orale sarebbero proprio l'incertezza del testo e le sue fluttuazioni, testi-
moniate dal gran numero di varianti conservatesi nelle varie copie fino alla
stabilizzazione avvenuta con Aristarco. Gli Alessandrini si trovarono di fronte
questa varietà, l'hanno conservata e ne hanno discusso: facevano scelte in base
alle loro idee, ma in realtà le varianti a loro disposizione riflettevano l'instabilità
della fase orale di un testo, per il quale è teoricamente e praticamente impossi-
bile scegliere l'unica lezione corretta (Nagy parla di "multitext": ogni variante è
'potenzialmente autentica' una volta entrata nel sistema di una poesia intesa
come performance).

28
Diversa la prassi editoriale di van Thiel, che sceglie il testo della vulgata dei codici, mostrando
una decisa sfiducia sulla possibilità di risalire in modo plausibile a un testo 'originale'.
136 Franco Montanari

Secondo il modello di Janko e West, le varianti rapsodiche appartengono alla


storia della 'ricezione* e della lettura di Omero nel corso dei secoli che segui-
rono alla sua nascita, sono differenze prodottesi successivamente alla forma-
zione di quello che è l'unico testo autentico, che per definizione coincide con
quello fissato alla sua origine. Secondo il modello di Nagy, le varianti rapso-
diche appartengono alla storia della 'formazione' dei poemi, per una parte la
storia formativa del testo e la storia della sua ricezione coincidono e non si
possono separare: per qualche secolo non esisteva un testo, bensì un multitesto
con variabili equipollenti, tutte sullo stesso piano di valore e autenticità. La
particolarità del problema omerico e della sua genesi orale sono così spinte
all'estrema conseguenza, che contempla un'opera esistente in una forma priva di
un testo autentico bensì variabile nella performance, collocandosi sul lato op-
posto rispetto al razionalismo di West e Janko, secondo cui l'unica distinzione
che ha senso è quella fra testo autentico (nato in un momento preciso e unico) e
scostamenti da esso (errori), e ci sono conoscenze e competenze sufficienti per
impegnarsi a recuperarlo.
Nella loro differente visione della genesi dei poemi, queste due correnti di
pensiero concepiscono il testo omerico (e quindi anche il modo di interpretarne
molti aspetti) in modo nettamente diverso e si contrappongono per quanto
riguarda il modo in cui le varianti omeriche si sarebbero prodotte storicamente.
Questo porta (a mio avviso impropriamente, quanto meno senza necessità) a una
diversa valutazione della filologia alessandrina: positiva nella prospettiva di
Nagy, negativa in quella di West e Janko. Per semplificare: nel primo caso, le le-
zioni alessandrine sono utili e importanti perché documentano l'instabilità di un
testo che ha nella lunga fluidità il suo principio d'identificazione; nel secondo
caso, sono solo alterazioni e allontanamenti dal testo originario che i filologi
alessandrini, pur mirando proprio a questo, non sono stati capaci di riconoscere e
di scartare. Per West e Janko i filologi alessandrini volevano (come loro) ricosti-
tuire il testo omerico genuino ma non sono stati capaci di farlo e hanno per lo
più sbagliato metodi, scelte e prospettive; per Nagy essi non hanno ottenuto il
risultato perseguito (il testo di Omero) non per loro debolezza, ma perché questo
è in essenza impossibile, e tuttavia, grazie al loro metodo e al loro lavoro, hanno
conservato testimonianza preziosa di questa caratteristica peculiare.
Un'opinione sulla filologia alessandrina dipendente dalle idee sulla genesi
dei poemi non mi sembra necessaria e nemmeno particolarmente utile. Credo
invece che sia meglio scorrelare i due aspetti, distinguendo il metodo e l'og-
getto. I filologi alessandrini hanno imparato e insegnato che: un testo letterario è
La filologia omerica antica e la storia del testo omerico 137

caratterizzato da una storia della trasmissione che ha prodotto varie alterazioni;


il testo corretto deve essere recuperato e restaurato o per congettura oppure
scegliendo fra le varianti di una tradizione testuale non univoca; bisogna dotarsi
di metodi, strumenti intellettuali e conoscenze culturali per operare in questo
senso. Quale che sia il valore e l'origine delle lezioni prese in considerazione, la
filologia alessandrina resta una tappa importante nella storia del pensiero.
La connessione fra le notizie sulla filologia alessandrina e il problema della
genesi dei poemi omerici risale a F. A. Wolf, come abbiamo ricordato all'inizio.
Su questo vale la pena riprendere alcune parole di R. Pfeiffer: "F. A. Wolf
acknowledged the 'insigne meritum Villoisoni' when he made the first attempt
at a history of the Homeric text [...] One should always keep in mind his
starting-point from the wealth of the new material in the Venetian codex and the
new spirit of bold historical inquiry, even if one sees him taking the wrong way
in individual arguments and conclusions [corsivo mio] [...] F. A. Wolf, starting
from the newly discovered Venetian Scholia, tried to give proofs for the new
historical research step by step, in contrast to the vague generalities of the
Homeric enthusiasts; he at least paved the way for the analytical efforts of the
following generations of scholars who were eager to unveil the mysteries of epic
stratification".29
Sulla scia di Wolf, l'interesse e la fiducia nelle informazioni fornite dai resti
della filologia alessandrina giocarono un ruolo nell'atmosfera intellettuale del
pluralismo analitico ottocentesco, a caccia delle stratificazioni dell'epica greca
arcaica. Il neounitarismo (più o meno fondamentalista), che si affermò nel No-
vecento, prestò spesso una scarsa attenzione alla filologia antica su Omero, poco
utile e significativa per i suoi intendimenti, e gli studi in questo campo non fiori-
rono molto in quel periodo. Nella seconda metà del XX secolo (a partire
dall'opera di Erbse e van der Valk) la ricerca cominciò a riprendere in conside-
razione questo settore su basi e con orientamenti molto diversi, e da allora i pro-
gressi continuano sempre più copiosi. Abbiamo visto come gli atteggiamenti nei
confronti della filologia alessandrina si siano intrecciati in forme diverse con le
teorie più recenti sulla genesi dei poemi: potremmo dire che attualmente essa
trova favore da parte di teorie oraliste cui offre indizi di fluidità del testo
conservando testimonianza della diacronia della sua formazione, mentre trova
sfavore presso quel tipo di neounitarismo (oralista o anti-oralista) che punta la

M
Pfeiffer (1968: 214, 231).
138 Franco Montanari

sua attenzione sulla formazione e fissazione precoce di un testo unico dei poemi,
svalutandone le successive modifiche rapsodiche.
Forse il quadro è eccessivamente semplificato e certamente non rende giusti-
zia alle diverse posizioni e alle singole idee degli omeristi, che potranno preci-
sare moltissimi punti e criticare le inopportune imprecisioni. Serve solo per con-
cludere quella che ritengo sia stata la linea essenziale dei ragionamenti svolti fin
qui. Dobbiamo fare ogni sforzo per tenere distinta la valutazione del significato
e dell'importanza storico-culturale della filologia alessandrina nella storia del
pensiero dal ruolo che intendiamo assegnare ai filologi alessandrini nelle nostre
idee sul problema della genesi dei poemi omerici.

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