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Nell’auspicio di sviluppare e consolidare le direttrici di ricerca concer-

A. RUIU
ISTITUZIONE DEI CAVALIERI DI S. STEFANO
nenti la storia dei ceti dirigenti e delle istituzioni politiche e parlamentari
d’origine medievale, è stato esaminato il quadro evolutivo della nobiltà ci-
vica senese, dall’epoca della Repubblica comunale all’avvento dell’Impe-
ro napoleonico, attraverso l’approfondita analisi degli assetti socio-eco-
nomici e politico-istituzionali urbano-statuali e l’attenta considerazione
dei processi storici di transizione verso l’Età moderna e contemporanea.
Si è tentato di carpire ed enucleare i segreti del costante adattamento
ANTONIO RUIU

L’ARISTOCRAZIA SENESE: CLASSE DI REGGIMENTO DEL SISTEMA CITTADINO


e consolidamento della classe di reggimento, nell’ambito dell’evoluzione
istituzionale che portò all’affermazione, anche nella Toscana d’impianto
municipalistico, della monarchia assoluta, nelle sue varianti postmedieva-
le, medicea, e prerivoluzionaria, lorenese.
Attraverso l’esame del caso senese, è stata evidenziata la singolarità L’ARISTOCRAZIA SENESE:
del peculiare sistema cittadino, nel quale, sin dall’epoca comunale, fu CLASSE DI REGGIMENTO DEL SISTEMA CITTADINO

DAL MEDIOEVO ALL’ETÀ MODERNA (SECOLI XII-XIX)


protagonista un’oligarchia politicamente consistente e giuridicamente au-
tonoma che seppe consolidarsi in età medicea e assumere una posizione DAL MEDIOEVO ALL’ETÀ MODERNA
di primissimo rilievo e un assodato valore paradigmatico, anche fuori dei
confini del Granducato, perpetuando le proprie note distintive fino all’e-
(SECOLI XII-XIX)
pilogo napoleonico. Contributo metodologico e prospettive di ricerca per la storia comparata
Lo studio presuppone uno schema disciplinare-metodologico che sotto-
pone la ricostruzione della storia istituzionale all’ausilio della storiografia dei ceti dirigenti e delle istituzioni politiche e parlamentari
familiare, supportata dalle tecniche archivistiche, e propone l’approccio
comparativo, sincronico e diacronico, verso i ceti dirigenti e gli assetti so-
cio-istituzionali peninsulari ed europei, tra i secoli XII e XIX.

Antonio Ruiu ha conseguito la laurea in Scienze Politiche e il dottora-


to di ricerca in Storia e Sociologia della Modernità nell’Università di Pi-
sa. Svolge l’attività scientifica presso il Dipartimento di Scienze Politiche
e Sociali, l’Istituzione dei Cavalieri di S. Stefano e l’ICHRPI, partecipan-
do ai lavori di Congressi nazionali e internazionali. È autore di uno stu-
dio monografico: Il Monte senese dei Gentiluomini nel Principato medi-
ceo (Pisa, PLUS, 2008). Ha pubblicato numerosi saggi, tra cui: Tuscan ci-
vic nobility and urban parliamentary institutions. The family historio-
graphy and the archival sources: methodology and resources for the study of
parliamentary history (2010); La famiglia Sproni fra Comunità di Livorno,
Ordine di S. Stefano e nobiltà toscana: l’ascesa di una nuova aristocrazia
(2009); L’État de Sienne de la République communale à la Monarchie abso-
lue “postmédievale”. Les institutions parlementaires citadines à l’époque du
Principat des Médicis (2009); Ceti dirigenti e archivio stefaniano (2009).

EDIZIONI ETS
In copertina:
Stemma della famiglia Ugurgieri
(ASPi, S. Stefano, 535, ins. 4, cc. n. n.)
EDIZIONI ETS
Pisa 2010
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ISTITUZIONE DEI CAVALIERI DI S. STEFANO

ANTONIO RUIU

L’ARISTOCRAZIA SENESE:
CLASSE DI REGGIMENTO
DEL SISTEMA CITTADINO
DAL MEDIOEVO ALL’ETÀ MODERNA
(SECOLI XII-XIX)
CONTRIBUTO METODOLOGICO
E PROSPETTIVE DI RICERCA PER LA STORIA
COMPARATA DEI CETI DIRIGENTI
E DELLE ISTITUZIONI POLITICHE
E PARLAMENTARI

EDIZIONI ETS
Pisa 2010
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PREMESSA

Nell’ambito delle direttrici di ricerca dottorale, incentrate sulle ti-


pologie concernenti la stratificazione sociale e il loro concreto at-
tuarsi nella società moderna e contemporanea dell’Italia e dei paesi
europei, con speciale riguardo, da un lato, allo studio dei ceti diri-
genti, sia sotto il profilo economico-sociale, sia politico-istituziona-
le, e, dall’altro, all’attenta considerazione dei processi storici di tran-
sizione verso l’età contemporanea, si è ritenuto auspicabile definire
compiutamente il quadro evolutivo della nobiltà civica senese, per
l’arco temporale che si estende dal Medioevo all’Età moderna (seco-
li XII-XIX), vale a dire – sotto l’aspetto strettamente istituzionale –
dall’epoca della Repubblica comunale all’avvento dell’Impero napo-
leonico.
Si è dedicata particolare attenzione alla fondazione Principato co-
simiano, allo scopo di inserire nella cornice storica statuale, entro i
termini dell’evoluzione socio-istituzionale, in costante parallelo
compartivo con il contesto fiorentino, il quadro peculiare della
realtà senese, nel quale fu protagonista un’oligarchia politicamente
consistente e giuridicamente autonoma che seppe consolidarsi in
età medicea e assumere una posizione di primissimo rilievo e un as-
sodato valore paradigmatico, anche fuori dei confini del Granduca-
to, perpetuando le proprie note distintive fino all’età napoleonica.
Si è tentato di carpire ed evidenziare i segreti del costante adatta-
mento e consolidamento del ceto dirigente cittadino nell’ambito
dell’evoluzione istituzionale continentale e peninsulare (che portò
all’affermazione, anche nella Toscana d’impianto municipalistico,
della monarchia assoluta, nelle sue varianti postmedievale, medicea,
e prerivoluzionaria, lorenese) e di porre in evidenza la singolarità del
caso senese, attraverso un esame che tenesse in speciale riguardo le
dinamiche socio-politiche dominanti nel mutevole e multiforme
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ceto dirigente, peculiarmente caratterizzato da un sistema partitico


su base consortile familiare.
Si è delineato un profilo arricchito di particolari critici, dal quale,
attraverso l’osservazione delle sfumature concernenti il Mons Nobi-
lium, potesse risultare più efficace l’indagine storico-istituzionale
sotto luci diverse, quali l’inquadramento storico e storiografico, la
descrizione dell’apparato giurisdizionale-amministrativo (impianta-
to con l’insediamento di Cosimo I e supportato da nuove norme co-
stituzionali), la definitiva affermazione della nobiltà civica (con il su-
peramento del ruolo consolidato in prudentia reipublicæ gerendæ,
per doctrina ad usum adiungere) e il tangibile contrasto concettuale
con la nascente monarchia assoluta.
In merito all’inquadramento disciplinare e all’approccio metodo-
logico, si è proposto uno schema che contemplasse lo studio della
storia istituzionale attraverso l’ausilio della storiografia familiare,
supportata dalle tecniche della ricerca archivistica, al fine di dimo-
strare, con un paradigma concernente una prosapia senese ascritta
al Monte dei Gentiluomini, l’efficienza e l’efficacia dell’impianto
metodologico in parola.
Infine, si è prospettata l’estensibilità potenziale della metodica,
ipotizzando un successivo ampliamento delle possibilità di ricerca
tramite l’aggiunta dell’elemento comparativo, illustrando una proie-
zione evolutiva, sulla strada intrapresa con lo studio dell’aristocrazia
senese, comprovata da alcuni cenni dimostrativi.
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INTRODUZIONE

1. PROFILI GENERALI: NOBILTÀ CIVICA, PATRIZIATO


E ORDINE DI SANTO STEFANO

In Toscana, l’eredità maggiore dell’età medievale fu la creazione


di un’aristocrazia urbana che legittimava la propria superiorità ge-
rarchica attraverso l’esercizio delle massime cariche pubbliche. Ten-
tare, però, di ricostruire il concetto di nobiltà nel Granducato di
Toscana, per l’arco temporale evolutivo che si estende dalla Repub-
blica alla fine dell’età medicea, significherebbe disperdersi in una
serie di differenze e particolarità locali – dovute alle diverse moda-
lità di organizzazione del potere –, senza riuscire nella formulazione
di una definizione sufficientemente precisa.
D’altro canto, appurato come tutte le famiglie che detenessero il
monopolio delle magistrature comunali, o almeno di quelle maggio-
ri, in forza di un privilegio ereditario o di un atto di aggregazione al
regimen storicamente costituito, si collocassero nella nobiltà civica,
si deve tenere a mente come nella definizione giuridica si inserissero
elementi d’indole più strettamente sociale. Il vivere more nobilium
implicava, innanzi tutto, l’astensione dall’esercizio di arti vili e mec-
caniche, ma non da quelle considerate compatibili con la nobiltà.
Era giudicata tale, ad esempio, la mercatura magna et copiosa, pur-
ché il titolare dell’azienda si limitasse a svolgere il suo ruolo di im-
prenditore senza impegnarsi in attività di carattere esecutivo o di
servizio diretto alla clientela.
Di conseguenza, la natura inconsueta della nobiltà toscana con-
sentì una mobilità sociale piuttosto elevata, favorita dalla mancanza
dei rigidi principi del sangue, della nascita, del monopolio delle ar-
mi, poiché ci si basava su altri elementi, che rendevano piuttosto
sfumati i parametri della condizione nobiliare. Così, se il possesso di
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un patrimonio capace di garantire uno stile di vita more nobilium


permetteva, quasi sempre, l’inserimento nelle borse per l’estrazione
ai maggiori uffici cittadini, allo stesso tempo, con l’ausilio di lungi-
miranti strategie matrimoniali e con la conservazione per due o tre
generazioni del diritto all’imborsazione, ci si poteva considerare, a
pieno titolo, membri del ceto nobile. Pertanto, il fenomeno in que-
stione può essere incardinato nella teoria della stratificazione sociale
elaborata da Roland Mousnier1, giacché, inequivocabilmente, si
rientra nella fattispecie della società stratificata per ordini, ove la
mobilità sociale si pone nella posizione intermedia rispetto ai due
estremi rappresentati, in difetto, dalla distribuzione per caste – in
cui essa è nulla – e, in eccesso, dalla distinzione in classi – luogo del-
la massima mobilità potenziale –, dacché la possibilità di sposta-
mento era limitata e sottoposta al controllo del pubblico potere,
nonché vincolata all’accertamento dei requisiti ritenuti indispensa-
bili per l’acquisizione dello status nobiliare.
L’istituto della nobiltà civica, che trovava il suo fondamento nelle
costruzioni giurisprudenziali invalse nei secoli XVI-XVIII, fu più
tardi recepito nella Legge per regolamento della Nobiltà e Cittadi-
nanza, promulgata a Vienna, dal Granduca e Imperatore Francesco
Stefano di Lorena, il 31 luglio 1750 e pubblicata a Firenze il succes-
sivo 1° ottobre2, che disciplinava, per la prima volta, i titoli e le pro-
cedure per l’accesso al ceto dirigente, attraverso il riconoscimento
delle qualità nobiliari, andando a sostituirsi alla normativa propria
del diritto comune, applicata per secoli in detta controversa
materia3. Si giungeva, così, al termine di un’intensa stagione di

1 R. MOUSNIER, Les hiérarchies sociales de 1450 à nos jours, Paris, Presses Universitaires

de France, 1969, passim. L’opera è disponibile nella traduzione italiana: Le gerarchie sociali,
a cura di E. ROTELLI, Milano, Editrice Vita e Pensiero, 1971.
2 Testo in Bandi e ordini da osservarsi nel Granducato di Toscana, III, n. 17 (questa rac-

colta normativa fu pubblicata a Firenze, presso la stamperia granducale, a partire dal 1747),
e in Legislazione Toscana, a cura di L. CANTINI, Firenze, nella stamperia Albizziniana da S.
Maria in Campo per P. Fantosini e figlio, 1800-1808 (1806), XXVI, pp. 231-241. Conte-
stualmente alla Legge per regolamento della nobiltà e cittadinanza venne emanata la relativa
Istruzione alli deputati sopra la descrizione della nobiltà del Granducato di Toscana, che con-
teneva le norme attuative del nuovo corpo normativo (di qui in poi: Legge e Istruzione).
3 In merito al diritto nobiliare toscano e alla sua formazione, si vedano: D. MARRARA, Ri-

seduti e nobiltà. Profilo storico-istituzionale di un’oligarchia toscana nei secoli XVI-XVIII, Pisa,
Pacini, 1976, pp. 5-60; F. DIAZ, I Lorena in Toscana. La Reggenza, Torino, UTET, s. d. (1987),
pp. 156-170 (ora in F. D IAZ - L. M ASCILLI M IGLIORINI - C. M ANGIO , Il Granducato
di Toscana. I Lorena dalla Reggenza agli anni rivoluzionari, in Storia d’Italia, diretta da
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discussioni dottrinali e di studi preparatori4, in cui aveva fatto spic-


co il celebre Discorso di Pompeo Neri sopra lo stato antico e moder-
no della Nobiltà di Toscana scritto l’anno 17485.
Fino allora, infatti, la Toscana era rimasta sprovvista di un pro-
prio diritto nobiliare statuale e si avvaleva delle norme del diritto
comune dirette a disciplinare l’ordo decurionum nei municipi del
Basso Impero Romano, anche se poteva disporre del corpus norma-
tivo, di grande importanza e prestigio, rappresentato dagli Statuti
dell’Ordine di Santo Stefano, ormai giunti alla stesura definitiva, del
1746, corredata dalle Addizioni.
Il provvedimento legislativo6 – che rappresentava il frutto eviden-

G. GALASSO, XIII-2, Torino, UTET, 1997, pp. 1-245: 158-172); C. DONATI L’idea di nobiltà in
Italia. Secoli XIV-XVIII, Bari, Laterza, 1988, pp. 315-338; M. VERGA, Da «cittadini» a «nobili».
Lotta politica e riforma delle istituzioni nella Toscana di Francesco Stefano, Milano, Giuffrè,
1990, pp. 241-272; C. PAZZAGLI, Nobiltà civile e sangue blu. Il patriziato volterrano alla fine
dell’età moderna, Firenze, Olschki, 1996, pp. 1-10 e 58-71; M. AGLIETTI, Le tre nobiltà. La legi-
slazione nobiliare del Granducato di Toscana (1750) tra Magistrature Civiche, Ordine di Santo
Stefano e Diplomi del Principe, Pisa, Edizioni ETS, 2000, passim; D. MARRARA, I ceti municipali
nella Toscana del settecento, in AA.VV., Ceti dirigenti municipali in Italia e in Europa in età mo-
derna e contemporanea, Pisa, Edizioni ETS, 2003, pp. 9-17; C. MANGIO, Fra Giulio Rucellai e
la Granduchessa Elisa: sconfitta e persistenza delle nobiltà cittadine, ivi, pp. 177-186.
4 Per un esempio della vitalità intellettuale che precedette l’emanazione della nuova

normativa e delle dispute giuridiche tra i maggiori funzionari granducali, si veda M. ASCHE-
RI, Un momento del dibattito sulla normativa per la nobiltà nel Granducato di Toscana, in
«Initium. Revista Catalana d’Història del Dret» (Associació Catalana d’Història del Dret
“Jaume de Montjuïc”), 1 (1996), Homenatge al prof. J. M. Gay i Escoda, pp. 225-238. Par
d’uopo azzardare la constatazione di una funzione di trait d’union del documento riportato-
vi in appendice, datato 27 marzo 1749, tra il fallimento dell’opera politica di Pompeo Neri
del 1745-48 (che vide messi da parte sia i progetti di riorganizzazione delle magistrature e
del diritto patrio, sia le considerazioni per la riforma in tema di nobiltà, ai quali aveva dedi-
cato la sua più appassionata dedizione) e la promulgazione della Legge del 1750, orchestrata
dal Richecourt.
5 P. NERI, Discorso sopra lo stato antico e moderno della nobiltà di Toscana scritto l’anno

1748, in M. VERGA, Da «cittadini» a «nobili», cit., pp. 403-567. Per un approfondimento sul
pensiero del Neri, si veda D. MARRARA, L’Ordine di Santo Stefano nell’età della Reggenza. Le
riflessioni critiche di Pompeo Neri e la legge sulla nobiltà, in Atti del Convegno «L’Ordine di
S. Stefano nella Toscana dei Lorena» (Pisa, 19-20 maggio 1989), Roma, Ministero per i beni
culturali e ambientali – Ufficio centrale per i beni archivistici, 1992, pp. 48-60. Inoltre, per
un esame del poliedrico profilo biografico-politico di Pompeo Neri, si rimanda a D. MARRA-
RA, Pompeo Neri e la cattedra pisana di «diritto pubblico» nel XVIII secolo, in «Rivista di Sto-
ria del Diritto Italiano», LIX (1986), pp. 173-202, nonché al volume collettaneo: AA.VV.,
Pompeo Neri. Atti del colloquio di studi di Castelfiorentino (6-7 maggio 1988), a cura di A.
FRATOIANNI e M. VERGA, Castelfiorentino, Società Storica della Valdelsa (Tip. Baccini &
Baldi, Firenze), 1992, passim.
6 Giudicato come «una sorta di riuscito compromesso tra la visione gerarchico-feudale

del Richecourt e le aspirazioni oligarchiche delle famiglie senatorie fiorentine». Cfr. C. DO-
NATI, L’idea di nobiltà in Italia, cit., p. 326.
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te del compromesso fra la tradizione municipale toscana e gli Statuti


della Religione stefaniana7 –, nel primo titolo (Della nobiltà e sua di-
stinzione), individuava quattro fonti della nobiltà: la titolarità di
«Feudi nobili» (ossia l’investitura feudale, che consisteva nell’attri-
buzione di un titolo nobiliare e, soprattutto, delle giurisdizioni feu-
dali)8, l’ammissione agli «Ordini nobili» (indubitabilmente, di Mal-
ta e di Santo Stefano); l’ottenimento della «Nobiltà per Diplomi»
del principe; il godimento del «primo, e più distinto Onore, delle
Città Nobili»9.
L’elemento innovativo era rappresentato, in primo luogo, dalla
distinzione tra le due classi dei nobili (semplici) e dei patrizi10 e, in
secondo luogo, dalla loro iscrizione in appositi registri, i Libri
d’Oro11, in funzione dell’approvazione degli attestati necessari per
la «nuova descrizione»12 da parte della Deputazione sopra la no-
biltà e cittadinanza, appositamente costituita13.
La prova della «continovazione della propria nobiltà per lo spa-

7 Sulla relazione intercorrente fra la legislazione del 1750 e gli statuti dell’Ordine di

Santo Stefano, si veda D. MARRARA, La nobiltà e l’Ordine di Santo Stefano nella Toscana del
settecento, in «Rivista di Storia del Diritto Italiano», LXIII, 1990, pp. 119-142; IDEM, No-
biltà civica, patriziato e Ordine di Santo Stefano nella Toscana settecentesca, in «Quaderni
Stefaniani», XXII (2003), supplemento, pp. 47-56.
8 A riguardo della conservazione e persistenza delle istituzioni feudali in età medicea,

si vedano: E. FASANO GUARINI, Lo stato mediceo di Cosimo I, Firenze, Sansoni, 1973, pp. 63-
72; G. PANSINI, Per una storia del feudalesimo nel Granducato di Toscana durante il periodo
mediceo, in «Quaderni Storici», 19 (gennaio-aprile 1972), pp. 131-186.
9 Legge, art. I, comma 1°.
10 Per la distinzione concettuale tra nobiltà semplice e patriziato, si veda D. MARRARA,

Nobiltà civica e patriziato. Una distinzione terminologica nel pensiero di alcuni autori italiani
dell’età moderna, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», Classe di Lettere e Fi-
losofia, serie III, X (1980), pp. 219-232; IDEM, Nobiltà civica e patriziato nella Toscana Lore-
nese del Settecento, in I Lorena in Toscana. Convegno internazionale di studi (Firenze, 20-21
novembre 1987), Firenze, Olschki, 1989, pp. 45-54.
11 Legge, art. XI; Istruzione, art. XVII. Si prevedeva la compilazione di due serie di regi-

stri: gli originali, da tenersi a Firenze, nell’«Archivio di Palazzo», e le copie, redatte e sotto-
scritte dal Segretario di Stato, munite del sigillo imperiale, da conservarsi presso gli archivi
pubblici delle rispettive città nobili.
12 Legge, tit. II (Del modo di far la nuova Descrizione), artt. IX e ss.
13 Ivi, art. IX. La legge si preoccupò di costituire una apposita commissione che si oc-

cupasse di eseguire «la pubblica descrizione delle dette due Classi de’ Patrizi, e de’ Nobili
colli dovuti esami, e riscontri delle domande, e recapiti ammissibili secondo la Nostra
Istruzione, […] pubblicata unitamente colli presenti nostri Ordini». Furono deputati af-
finché si facesse «avanti a loro, e colla loro assistenza in Firenze», nell’«Archivio di Palaz-
zo, detto già delle Riformagioni, e riunito in oggi alla Segreteria di Stato», Giovanni Anto-
nio Tornaquinci, Gaetano Antinori, Giulio Rucellai, Filippo Guadagni e Giovanni Fran-
cesco Ricasoli.
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zio almeno di anni dugento compiti»14 era necessaria per l’aggrega-


zione come patrizi nelle sette città nobili antiche15, tra cui Siena16,

14 Ivi, art. V. Gli ordini cavallereschi di Malta e di Santo Stefano, con i rispettivi statuti,

fornirono al legislatore continui spunti per la stesura della legge: se da un lato il termine fu
tratto dagli ordinamenti della Religione gerosolimitana, dall’altro tutte le famiglie di cui fos-
sero state ricevute le provanze per giustizia dall’Ordine stefaniano sarebbero state dispensa-
te dalla regola in questione (l’alternatività non operava nel caso di ammissione per commen-
da, ove lo strumento di fondazione valeva solamente come titolo per il computo del tempo
necessario alla registrazione). Per l’aggregazione come patrizi in forza dell’ammissione per
giustizia nella Religione stefaniana, si veda il caso della famiglia d’Angelo di Livorno: R.
VANNUCCI, I d’Angelo di Livorno. Una famiglia di mercanti, militari, cavalieri e uomini politi-
ci nella Toscana dei secoli XVII-XIX, in «Quaderni Stefaniani», XXII (2003), supplemento,
pp. 57-105: 72-77. In merito al passaggio dalla nobiltà al patriziato si veda l’esempio della
famiglia Catanti di Pisa: E. ROVINI, La famiglia Catanti (secoli XV-XX), in «Quaderni Stefa-
niani», XXIII (2004), supplemento, pp. 53-108: 81-84 e 101-106.
15 Legge, artt. I, II, III e VI, comma 2°. L’iscrizione in due «classi» distinte doveva effet-

tuarsi solamente nelle sette città nobili «antiche» di Firenze, Siena, Pisa, Pistoia, Arezzo,
Volterra, e Cortona. Nelle altre sette «meno antiche» di San Sepolcro, Montepulciano, Col-
le, San Miniato, Prato, Livorno e Pescia sarebbero stati collocati «indistintamente sotto l’u-
nica Classe della Nobiltà» anche coloro che potessero vantare un titolo risalente di almeno
due secoli; tuttavia, il legislatore si riservava di «graziare a suo tempo benignamente esse an-
cora della distinzione del Patriziato». Sul concetto di città nobile, derivante da diversi ele-
menti, quali, da un lato, l’antichità, celebrità e ricchezza del centro urbano e, dall’altro, la
«perfetta segregazione delle borse» resa possibile dall’abbondanza della popolazione, indi-
spensabile a mantenere la stratificazione sociale, si vedano: P. NERI, Discorso, cit., in M.
VERGA, Da «cittadini» a «nobili», cit., pp. 403-567: 547; D. MARRARA, Riseduti e nobiltà, cit.,
pp. 43-45; IDEM, Livorno città «nobile», in AA.VV., Atti del Convegno «Livorno e il Mediter-
raneo in età medicea» (Livorno, 23-25 settembre 1977), Livorno, Bastogi, 1978, pp. 77-81;
IDEM, La città di Colle Val d’Elsa nel quadro delle «patrie nobili» toscane, in AA.VV., Atti del
Convegno «Architettura e politica in Valdelsa al tempo dei Medici» (Poggibonsi, 3 gennaio
1981), in «Miscellanea storica della Valdelsa», LXXXVIII (1982), pp. 165-175; F. ANGIOLI-
NI, L’Ordine di S. Stefano negli anni della Reggenza (1737-1765): urti e contrasti per l’afferma-
zione del potere lorenese in Toscana, in AA.VV., Atti del Convegno «L’Ordine di S. Stefano
nella Toscana dei Lorena» (Pisa, 19-20 maggio 1989), Roma, Ministero per i beni culturali e
ambientali – Ufficio centrale per i beni archivistici, 1992, pp. 1-47: 22-25; IDEM, I Cavalieri e
il Principe. L’Ordine di S. Stefano e la società toscana in età moderna, Firenze, EDIFIR, 1996,
pp. 178-181; S. SIMONINI, Pescia città nobile. Il motuproprio del 25 luglio 1732 e i suoi riflessi
sull’Ordine di Santo Stefano, in «Quaderni Stefaniani», XVII (1998), supplemento, pp. 89-
103; M. AGLIETTI, Le tre nobiltà, cit., pp. 157-177; A. ZAPPELLI, L’Ordine di Santo Stefano e
le città nobili della Toscana, in «Quaderni Stefaniani», XX (2001), supplemento, pp. 85-101;
EADEM, Le città nobili della Toscana, in AA.VV., Ceti dirigenti municipali, cit., pp. 225-235.
16 Sulla nobiltà civica senese in particolare, si fa riferimento ai seguenti scritti: P. NERI,

Discorso, cit., in M. VERGA, Da «cittadini» a «nobili», cit., pp. 403-567: 543-548; G. R. F.


BAKER, Nobiltà in declino: il caso di Siena sotto i Medici e gli Asburgo-Lorena, in «Rivista Sto-
rica Italiana», LXXXIV (1972), pp. 584-616; D. MARRARA, Riseduti e nobiltà, cit., pp. 87-97;
IDEM, La nobiltà senese e l’Ordine di Santo Stefano. Alcune considerazioni introduttive, in Atti
del Convegno «L’Ordine di Stefano e la nobiltà senese», (Pisa, 8 maggio 1998), pp. 9-21;
AA.VV., I Libri dei Leoni. La nobiltà di Siena in età medicea (1557-1737), a cura di M. Ascheri,
Siena, Monte dei Paschi di Siena, 1996 (soprattutto i saggi: di M. ASCHERI, Siena Senza indi-
pendenza: Repubblica continua, pp. 9-69; di O. DI SIMPLICIO, Nobili e sudditi, pp. 71-129; di
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ove «tal descrizione di nobili si faccia distinta in due Classi, alla pri-
ma delle quali diamo il nome di Nobili Patrizj, all’altra quello solo di
Nobili»17. Come appare ben chiaro, le norme in questione si riferi-
vano alle famiglie della nobiltà civica18, che traevano il fondamento
del loro status dal godimento delle supreme magistrature municipa-
li, in forza del diritto ereditario di elettorato passivo alle «maggiori
dignità, e gradi che solo i più nobili Gentiluomini sogliono havere, e
godere»19. In particolare, a Siena, il patriziato, al quale furono
ascritte le famiglie appartenenti al Monte dei Gentiluomini, ebbe
una decisa predominanza numerica, assumendo i connotati di una
vera e propria «tecnocrazia»20.
La Legge, dunque, nel quinto articolo, permetteva esplicitamente
l’accesso in via diretta alla classe patrizia attraverso la dimostrazione
dell’ammissione per giustizia all’Ordine stefaniano, dando per as-
sunto che la dimostrazione dei quattro quarti di nobiltà secondo le
disposizioni degli Statuti potesse sostituire agevolmente, in termini
di tempo, il requisito previsto per l’iscrizione ai cataloghi del patri-
ziato21. Si trattava, senza dubbio, di un riconoscimento formale in
merito al ruolo imprescindibile che le norme e prassi della Religione
in parola avevano consolidato in materia di ricognizione dello status
nobiliare, nonostante le casate dell’antica aristocrazia non avessero
mai attribuito alla croce stefaniana un valore determinativo del loro
prestigio, assegnandole, piuttosto, una funzione confermativa, sep-
pur tutt’altro che irrilevante.

L. BONELLI CONENNA, Un contado per una nobiltà, pp. 171-199); C. ROSSI, La nobiltà e le ma-
gistrature di Siena in un’indagine della Reggenza lorenese, Pisa, Edizioni ETS, 2007.
17 Legge, art. II.
18 Per il concetto di nobiltà civica, si veda D. MARRARA, Le giustificazioni della nobiltà

civica in alcuni autori italiani dei secoli XIV-XVIII, in «Rivista di Storia del Diritto Italiano»,
LXII (1989), pp. 15-38.
19 Statuti dell’Ordine de’ Cavalieri di Santo Stefano ristampati con l’addizioni in tempo

de’ Serenissimi Cosimo II e Ferdinando II e della Sacra Cesarea Maestà dell’Imperatore Fran-
cesco I Granduchi di Toscana e Gran Maestri, Pisa, nella stamperia di Cristofano Bindi, 1746,
tit. II (Del modo di ricevere i Cavalieri), cap. III (Delle probazioni, che si debbano fare innan-
zi, che alcuno si accetti), p. 95. È palese il legame di interconnessione tra questo complesso
di norme e la Legge per regolamento della nobiltà e cittadinanza (di qui in poi: Statuti).
20 Cfr. M. AGLIETTI, Le tre nobiltà, cit., p. 73.
21 Legge, art. V: «Tralle famiglie Nobili delle respettive antiche Città ordiniamo, che nel-

la classe de’ Patrizj si descrivano tutte le Famiglie Nobili, di cui sono state ricevute le pro-
vanze per giustizia al Nostro Ordine di S. Stefano, e tutte le altre Famiglie Nobili, che in
virtù di qualunque altro requisito enunciato nel §. I. proveranno la continovazione della
propria Nobiltà per lo spazio almeno di anni dugento compiti».
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Nondimeno, si deve riconoscere all’istituzione nobiliar-cavallere-


sca cosimiana un ruolo centrale per la totalità dei ceti dirigenti to-
scani, che, tuttavia, fu realmente costitutivo soltanto per la parte più
recente del gruppo, affermatasi in piena età medicea22. Difatti, risul-
ta esser evidente quel tratto di peculiare originalità che differenziò
sensibilmente la Religione di Santo Stefano dagli altri ordini cavalle-
reschi operanti all’epoca della sua fondazione – dai quali, peraltro,
avevano tratto ispirazione i suoi ideatori – ma, soprattutto, da quel-
lo di Malta, con l’apertura «ai cavalieri militi [di] una seconda stra-
da per esservi ricevuti, colla fondazione cioè d’una commenda, me-
diante la quale ciascheduno può esser[vi] ascritto [...] senz’obbligo
di fare le [...] provanze di nobiltà e per conseguenza senza esser no-
bile di nobiltà gentilizia»23, come, seppur sommessamente, denun-
ciò il Neri.
Il che, come, da un lato, dimostrava la riduzione della dignità ca-
valleresca – rispetto alle qualità su cui si fondava la nozione di no-
biltà più ampiamente diffusa e condivisa24 – alla funzione, allo stes-
so tempo, di mezzo d’innalzamento d’una condizione sociale in iti-
nere verso l’affermazione oggettiva dello status nobiliare in fieri e di
ratifica dell’emersione dalla cerchia, spazialmente e socialmente ri-
stretta, in cui erano collocate le famiglie dei commendatori che –
muovendo, soprattutto, dai piccoli e medi borghi25 – avevano osato
il gran passo dell’ingresso nella principale istituzione nobiliare del
Granducato, così, dall’altro, attribuiva all’Ordine il merito di conso-

22 Per un approfondimento sul fenomeno in parola, si vedano: M. FANTONI, La corte del

Granduca. Forme e simboli del potere mediceo fra Cinque e Seicento, Roma, Bulzoni, 1994,
passim; F. ANGIOLINI, I Cavalieri e il Principe. L’Ordine di S. Stefano e la società toscana in
età moderna, cit., passim. Inoltre, per un approccio d’ordine generale, si considerino: F.
CARDINI, L’acciar de’ cavalieri. Studi sulla cavalleria nel mondo toscano e italico (secc. XII-
XV), Firenze, Le Lettere, 1997, passim; J. C. MAIRE VIGUEUR, Cavalieri e cittadini. Guerra,
conflitti e società nell’Italia comunale, Bologna, Il Mulino, 2004, passim.
23 P. NERI, Discorso, cit., in M. VERGA, Da «cittadini» a «nobili», cit., p. 519.
24 Oltre gli Autori che si sono occupati delle questioni concettuali concernenti la pecu-

liare nobiltà di Toscana, già citati, si vedano: J.-P. LABATUT, Le nobiltà europee, Bologna, Il
Mulino, 1982, pp. 161 ss.; C. DONATI, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, cit.,
pp. 151 ss.; J. DEWALD, La nobiltà europea in età moderna, Torino, Einaudi, 2001, passim.
25 A tal proposito, si veda A. RUIU, I cavalieri di Pescia membri dell’Ordine di S. Stefano,

in «Quaderni Stefaniani», XXIX (2010), supplemento, pp. 103-132; (paragrafi: La città no-
bile di Pescia: relazioni funzionali fra stratificazione sociale e ammissibilità all’Ordine di
S. Stefano; Mobilità sociale e cavalierato stefaniano; La distribuzione dei cavalieri di Pescia:
conclusioni).
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lidare il ruolo di istituzione nobilitante, registrando, nell’arco di tre


secoli, i processi di mobilità sociale che attraversarono la società to-
scana. Per di più, al contempo, ne denotava l’inconsapevole virtù di
ghermire – e riferire ai posteri – le più rilevanti tra le mutazioni de-
gli assetti socio-economici che portarono la Toscana, l’Italia e l’Eu-
ropa ad evolvere verso nuovi sistemi politico-istituzionali, con il su-
peramento delle «numerose e gravi sopravvivenze delle istituzioni –
e, più che altro, delle concezioni politiche – medievali»26, nel vorti-
ce dei processi storici di transizione verso l’età contemporanea: vale
a dire, dunque, l’inestimabile dote di annotare, tra le righe delle
scienze storiche e sociali, le metamorfosi occorse nell’alveo dei ceti
dirigenti.
Pertanto, il manto rossocrociato costituì, molto di sovente, per la
nuova nobiltà, il motivo stesso dell’avanzamento sociale; mentre il
numero relativamente esiguo dei patrizi che contarono sul titolo ca-
valleresco come fondamento del proprio status fu un segno ulteriore
di come l’Ordine avesse svolto una funzione alternativa di promo-
zione sociale, senza sostituirsi né opporsi ai meccanismi tradizionali
della mobilità ascendente, che, anzi, vi si erano affiancati. Peraltro,
furono davvero poche le famiglie dell’alta aristocrazia che non pote-
rono vantare almeno un cavaliere stefaniano – quando la presenza
nell’Ordine non fu, addirittura, una sorta di tradizione tramandata
di padre in figlio alla stregua di un’eredità patrimoniale (e di fatto
assai poco diversa da questa ogniqualvolta si fosse beneficiari di una
commenda di padronato27) –, ma furono piuttosto rari i casati

26 A. MARONGIU, Storia del diritto italiano. Ordinamenti e istituti di governo, Milano,

Cisalpino-Goliardica, 1985, pp. 239-240.


27 Le norme statutarie recitavano: «I Cavalieri Militi sono di due ragioni; alcuni havran-

no la commenda in atto, ed effettualmente l’amministreranno; (e questi si chiamino Com-


mendatori ovvero Precettori) ed alcuni l’hauranno solamente in potenza, cioè che havendo
l’Anzianità, ovvero aspettativa, devono haverla al tempo, come a suo luogo si dichiarerà; e
questi si chiamano Cavalieri Conventuali». Cfr. Statuti, cit., tit. II (Del modo di ricevere i Ca-
valieri), cap. I (Della divisione de’ Gradi de’ Cavalieri), p. 90. In generale, la commenda può
essere definita come una massa patrimoniale sulla quale la Religione manteneva la nuda pro-
prietà, mentre il commendatore godeva dell’usufrutto. Si operava una classificazione in tre
tipi distinti: di anzianità, di padronato familiare e di grazia. La dotazione della prima specie,
concessa ad un soggetto che aveva già ottenuto l’abito equestre, derivava da un meccanismo
automatico, che permetteva, innanzitutto, il «passaggio» al «ceto di Anzianità» in funzione
del mero compimento del «servizio carovanistico» e, in secondo luogo, il successivo avanza-
mento annuale «dalle minori alle maggiori commende», con l’unico limite del divieto di cu-
mulo delle medesime. Il fenomeno inverso caratterizzava le commende di padronato fami-
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ascritti al patriziato soltanto in virtù di quell’ammissione.


In buona sostanza,
«Studiare il patriziato, così come venne definendosi con le riforme settecen-
tesche, dopo essere stato decimato e trasformato dal calo demografico, significa
leggere la storia di quel gruppo dirigente che aveva saputo mantenere il mono-
polio dell’esercizio politico nonostante l’affermazione del potere mediceo»28.

Si può pacificamente concludere affermando che l’eredità mag-


giore dell’età comunale sia stata, quindi, la creazione di una aristo-

liare, per mezzo delle quali si poteva entrare nell’Ordine senza giustificare la nobiltà genero-
sa dei quarti paterni, che nascevano per volontà individuale di soggetti privati attraverso un
vero e proprio «strumento di fondazione», ove si predefinivano le linee di discendenza prin-
cipale e accessorie (solitamente in via di primogenitura maschile) per la trasmissione dell’u-
sufrutto sui beni incommendati, al fine di scongiurare il consolidamento della proprietà in
capo all’Ordine con la conseguente estinzione e l’immediata ricaduta «o al libero magistrale
arbitrio o al così detto ceto di anzianità». L’eventualità per il medesimo soggetto di essere
nominato in diversi contratti di fondazione non trovava alcun ostacolo normativo che vietas-
se la titolarità di più di una commenda di padronato. La residua categoria delle commende
di grazia può essere accomunata alla precedente in quanto chiave d’accesso all’ordine caval-
leresco e a quella d’anzianità in ragione della derivazione da fondi dotali consolidatisi con la
massa patrimoniale stefaniana; (ma l’aspetto più significativo della tipologia in parola con-
cerne il ruolo che venne ad assumere nell’ultima fase di vita dell’Ordine, come si avrà modo
di mostrare più oltre). Per una visione quanto più esaustiva possibile in materia di commen-
de stefaniane, si vedano: D. BARSANTI, Le commende dell’Ordine di S. Stefano attraverso la
cartografia antica, Pisa, ETS Editrice, 1991, passim; IDEM, Introduzione storica sulle commen-
de dell’Ordine di S. Stefano, in «Quaderni Stefaniani», XVI (1997), supplemento, pp. 117-
129; AA.VV., Atti del Convegno «Le commende dell’Ordine di Santo Stefano» (Pisa, 10-11
maggio 1991), Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1997, passim; AA.VV., Atti
del Convegno «La commenda di grazia dell’Ordine di Santo Stefano nell’Ottocento» (Pisa, 9-
10 maggio 2003), Edizioni ETS, 2003, passim. Per l’aspetto prettamente normativo, cfr. Sta-
tuti, cit., tit. XIII (Delle Commende ed amministrazioni), pp. 271-298. Dal punto di vista so-
stanziale, se da un lato la fondazione di commende aveva rappresentato uno strumento di
ascesa sociale (giacché permise alle più cospicue famiglie plebee di diventare nobili senza
passare attraverso i meccanismi delle cooptazioni alla nobiltà civica), dall’altro la concessio-
ne ad personam della grazia magistrale della vestizione aveva posto in luce l’assoluta arbitra-
rietà del Granduca nella attribuzione dello status nobiliare ad un plebeo; si veda, in merito
alle questioni or ora menzionate, F. ANGIOLINI, La nobiltà «imperfetta»: cavalieri e commen-
de di S. Stefano nella Toscana moderna, in AA.VV., Signori, patrizi, cavalieri nell’età moderna,
a cura di M. A. VISCEGLIA, Bari, Laterza, 1992, pp. 146-167.
28 Cfr. M. AGLIETTI, Le tre nobiltà, cit., p. 15, la quale argutamente annota: «La storia

delle classi dirigenti coincide, per almeno quattro secoli (dal XIV secolo alla seconda metà
del Settecento), con quella della nobiltà. Tutti coloro che aspiravano alla gestione del pote-
re, pur provenendo da classi immediatamente inferiori, non misero mai in discussione i
principi distintivi della nobiltà o le loro pretese di esclusività e superiorità, ma piuttosto li
fecero propri secondo quella che Huppert, riferendosi alla situazione francese, ha definito
una vera “abdicazione di classe”». L’ultimo riferimento dell’Autrice è tratto da G. HUPPERT,
Il borghese gentiluomo. Saggio sulla definizione di élite nella Francia del Rinascimento, Bolo-
gna, Il Mulino, 1978, in particolare, pp. 23-31 e 69-86.
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crazia cittadina che legittimava la propria superiorità gerarchica gra-


zie all’esclusivo esercizio delle massime cariche pubbliche. E se ne
può trovare piena conferma nei fascicoli presentati dalle famiglie
magnatizie al fine di essere ascritte alla classe superiore della nobiltà
toscana, che permettono di ricostruirne a ritroso le vicende almeno
per due secoli precedenti e consentono l’individuazione delle co-
stanti che caratterizzarono quella classe a prescindere dal momento
storico contingente, come si avrà modo di dimostrare nella sezione
metodologica.

2. L’ORDINAMENTO SENESE: I MONTI E L’ORIGINE MEDIEVALE


DEL CETO DIRIGENTE CITTADINO

L’ordinamento senese affondava le sue radici nel Comune medie-


vale29, che diede i natali al singolare istituto dei Monti, raggruppa-
menti politico-familiari che si alternarono nel reggimento della città
e dei suoi domini, andando a costituire una oligarchia multiforme,
derivata, in età repubblicana, dalla somma dei cinque «Ordini» det-
ti dei Gentiluomini, dei Nove, dei Dodici, dei Riformatori e del Po-
polo, ridottisi a quattro durante il Principato, con l’aggregazione
delle famiglie dodicine ai Monti superstiti (incluse dapprima tra i
Riformatori, poi fra i Gentiluomini, poi ancora tra i Popolari ed in-
fine nuovamente fra i Gentiluomini, ove trovarono la stabilità)30:
«in termini generali [...] un monte nasce come l’insieme di tutti i cittadini am-
messi al governo in un certo periodo e delle loro famiglie. Prende il nome del

29 Per un approfondimento sulle origini storiche di Siena, si veda V. PASSERI, Genesi e

primo sviluppo del Comune di Siena, in «Bullettino Senese di Storia Patria», LI-LIV (Terza
Serie – Anni III-VI) (1944-47), pp. 31-96.
30 Per comprendere il quadro d’insieme che portò i magnati, ascritti al Monte dei Gen-

tiluomini, a perdere le posizioni di privilegio nel magistrato supremo, fino a subire lo smac-
co della mera equiparazione giuridica ai popolari con gli statuti del 1545 (cfr. L’ultimo statu-
to della Repubblica di Siena, a cura di M. ASCHERI, Siena, Accademia Senese degli Intronati,
1993), si vedano: L. DOUGLAS, Storia della Repubblica di Siena, (ristampa anastatica), Roma,
Multigrafica Editrice, 1969, pp. 105-162; A. K. ISAACS, Popolo e Monti nella Siena del Primo
Cinquecento, in «Rivista Storica Italiana», LXXXII (1970), pp. 32-80; D. MARRARA, Studi
giuridici sulla Toscana medicea. Contributo alla storia degli Stati assoluti in Italia, Milano,
Giuffrè, 1965 e 1981, pp. 89-175: 104-105; IDEM, Riseduti e nobiltà, cit., pp. 61-85; infine, di
particolare interesse per i documenti pubblicati (allegati I e II) e per la copiosa bibliografia,
il volume di M. ASCHERI, Siena nel Rinascimento. Istituzioni e sistema politico, Siena, Edizio-
ni Il Leccio, 1985, in particolare, pp. 9-108.
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governo cui risale, e raccoglie poi tutti i discendenti, per linea diretta, dei
membri originali, venendo così a comporsi degli eredi di quella che era la clas-
se di governo in una certa fase della storia della città»31.

A Siena, le vetuste prosapie32, considerate magnatizie per via dei


requisiti definiti in base ai criteri decantati dai più autorevoli storici
ed eruditi senesi con riferimento all’epoca medievale, rientravano
nei canoni dell’antichità per pubblica fama e della potenza, cui an-
dava ad aggiungersi l’estrazione feudale (con particolare riferimento
ai rami cadetti delle famiglie feudali, che si inurbarono), della de-
tenzione di proprietà urbane prestigiose (quali logge, torri e case a
torre)33, dell’appartenenza ad una «schiatta», se non delle cinque
maggiori (Piccolomini, Tolomei, Salimbeni, Malavolti, Saracini), co-
munque caratterizzata da vincoli tra le famiglie che derivavano da
un ceppo comune e, infine, della disponibilità di una enorme ric-
chezza, alimentata dalle rendite tralatizie ricavate dai beni fondiari,
ma anche dall’esercizio della mercatura e del cambio34, documenta-
ta e resa evidente dalle ingenti imposizioni tributarie35.

31 Cfr. A. K. ISAACS, Popolo e Monti nella Siena del Primo Cinquecento, cit., p. 54. Sul

«regime dei monti» a Siena, cfr. D. MARRARA, Studi giuridici sulla Toscana medicea, cit.,
pp. 104-106; R. CANTAGALLI, La guerra di Siena (1552-1559), Siena, Accademia Senese degli
Intronati, 1962, pp. LIX-LXIV; nonché, il classico lavoro di C. PAOLI, I “Monti” o fazioni
nella Repubblica di Siena, in «Nuova Antologia», XXXIV (1891), pp. 401-422.
32 Per un inquadramento delle famiglie magnatizie e delle vicende concernenti il rap-

porto con il governo cittadino, si veda D. MARRARA, I magnati e il governo del Comune di
Siena dallo statuto del 1274 alla fine del XIV secolo, in AA.VV., Studi per Enrico Fiumi, Pisa,
Pacini, 1979, pp. 239-276.
33 Alessandro Lisini, in una lettera pubblicata da C. LUPI, La casa pisana e i suoi annessi

nel medioevo, in «Archivio Storico Italiano», s. V, XXVIII (1901), disp. 3°, pp. 65-96: 80,
nota 3, (continuazione da IDEM, La casa pisana e i suoi annessi nel medioevo, in «Archivio
Storico Italiano», s. V, XXVII (1901), disp. 1°, pp. 264-314), prese a parlare di Siena nel
Duecento: «Questa città (mi scrive il Lisini colla sua solita e solida erudizione) alla fine del
secolo XIII era un insieme di borgate e di castellari, quasi fortezze con torri altissime, mura
merlate e porte proprie. In ciascuno di questi castellari o castellacci, come chiamavansi allo-
ra, predominava qualche famiglia potente, la quale non permetteva d’abitarvi se non a per-
sone che le fossero legate o per parentela o per interesse commerciale. Là dentro, scuderie
per servire le carovane, e là tenevano i propri fondachi pieni di svariate merci come i bazar
orientali, con piazze e logge per i mercati. I poveri, i villani, i fuggiti dalla campagna abitava-
no grotte nei punti scoscesi delle vallate. E che realmente fosse così ne fanno fede gli antichi
statuti, i quali in seguito obbligarono a fare a quei tuguri almeno la facciata di materiale».
34 In merito alle attività bancarie e commerciali dell’antica aristocrazia senese, si veda il

classico lavoro di N. MENGOZZI, Il Monte dei Paschi di Siena e le aziende in esso riunite, Sie-
na, Lazzeri, 1891, 2 voll., passim.
35 Per gli aspetti concernenti la conservazione delle prerogative sociali, economiche e
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Le casate magnatizie furono protagoniste indiscusse del governo


cittadino fino al secolo decimoterzo, allorquando la loro supremazia
venne intaccata dalla costante ascesa della fazione popolare. Il ven-
tennio che precedette il 1277, anno della esclusione dei Grandi dal-
l’esercizio delle supreme magistrature, fu caratterizzato da una serie
di provvedimenti normativi emanati a tutto beneficio del ceto emer-
gente. I primi, adottati tra il 1257 e il 1262, andarono a modificare
gli statuti cittadini, introducendo l’obbligatorietà della presenza del
Popolo («almeno nella misura della metà») negli organi di vertice
del pubblico potere, tra i quali il Consiglio Generale della Campa-
na, la Biccherna e il Collegio degli Emendatori del Costituto.
L’imminenza della definitiva estromissione delle stirpi nobili dal
potere politico fu annunciata da alcuni atti del 1267 e 1271, fino ad
arrivare allo statuto del 1274, che decretò l’inammissibilità dei ghi-
bellini, dei membri delle consorterie e dei cavalieri al supremo col-
legio dei Trentasei: i discendenti delle antiche famiglie magnatizie
non potevano certo ritenersi indenni da alcuna delle tre etichette.
Il 28 maggio 1277, il Consiglio Generale elaborò il catalogo delle
prosapie di casato escluse dai pubblici onori, fugando, così, ogni
dubbio interpretativo sulle norme statutarie, provvedendo ad enu-
merare 53 gruppi di famiglie, suddivise per terzieri (Città, Camollìa
e San Martino o Valle)36.
I principi che sancivano la decisiva esclusione dei Gentiluomini
dalle supreme dignità pubbliche cittadine, recepiti, insieme ai cata-
loghi, dagli ordinamenti statutari del 1309 e del 1337-1339 (il quale
ultimo restò in vigore fino al 1544, sin quasi al termine, quindi, del-
l’età repubblicana, nel 1555), destarono l’attenzione di Giovanni
Antonio Pecci che, nel 1764, ne riprodusse integralmente i testi, ac-
compagnati da note interpretative, nella sua Lettera sull’antica e mo-
derna derivazione delle famiglie nobili di Siena37.

finanziarie da parte dell’antica aristocrazia cittadina, si vedano: A. K. ISAACS, Popolo e Mon-


ti, cit., passim; EADEM, Magnati, Comune e Stato a Siena nel Trecento e all’inizio del Quattro-
cento, in I ceti dirigenti nella Toscana tardo comunale (Comitato di studi sulla storia dei ceti
dirigenti in Toscana. Atti del III convegno: Firenze, 5-7 dicembre 1980), Monte Oriolo,
Francesco Papafava Editore, 1983, pp. 81-96; W. M. BOWSKY, Le finanze del Comune di Sie-
na 1287-1355, Firenze, La Nuova Italia, 1976, passim; IDEM, Un comune italiano nel Medioe-
vo. Siena sotto il regime dei Nove, 1287-1355, Bologna, Il Mulino, 1986, passim.
36 Cfr. D. MARRARA, I magnati e il governo del Comune di Siena, cit., p. 245.
37 G. A. PECCI, Lettera sull’antica e moderna derivazione delle famiglie nobili di Siena,
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L’estromissione dei magnati dal consesso che deteneva la supre-


ma autorità di governo divenne, in tal modo, un cardine del diritto
pubblico senese. Lungi dal dare l’avvio ad un rinnovamento in sen-
so democratico della vita pubblica, ciò promosse (come per lo più
accadeva nelle vicende dei Comuni medievali) il formarsi di una
nuova oligarchia. Monte dei Gentiluomini sarebbe stato chiamato,
più tardi, l’insieme delle famiglie colpite dai provvedimenti antima-
gnatizi, e Monte dei Nove l’insieme di quelle che ressero il massimo
magistrato della Repubblica dal 1287 al 1355.
La linea di confine tra i due gruppi, abbastanza precisa dal punto
di vista giuridico, restava, però, sfumata ed incerta sotto il profilo
sociale. Gli statuti prescrivevano, è vero, che i Nove dovessero esse-
re tratti dal ceto dei «mercatanti», o dalla «mezza gente», ma questa
norma non valse certo ad impedire che fossero associate al nuovo
regimen anche famiglie di nobili origini.
Assurto al potere il Monte dei Nove, come racconta il Gigli, i
Grandi «che con la loro potenza unita all’autorità del comando
traevano a’ loro voleri la plebe, furono esclusi a perpetuità dal Su-
premo Magistrato, potendo però godere degli altri Magistrati, ed
impieghi pubblici»38. In quest’affermazione si trova un punto noda-
le della situazione reale al tempo dei noveschi: i Gentiluomini, dal
punto di vista pratico, non subirono un tangibile declassamento po-
litico-sociale né economico-finanziario, in ragione della modesta le-
gislazione antimagnatizia, poiché, accanto ad essa, perdurava la vi-
genza di norme che garantivano la tutela dei diritti quesiti e la per-
manenza nel tessuto delle maggiori magistrature cittadine. Di fatto,
essi non si allontanarono molto dalle leve del potere, giacché, oltre a
partecipare alle sedute del Consiglio della Campana, furono più che
mai presenti nelle strutture istituzionali dell’amministrazione econo-
mico-finanziaria, nelle vesti di Provveditori della Biccherna e di
Esecutori della Gabella. Ma il paradosso si palesava nella possibilità

scritta e composta da Lucenzio Contraposto da Radicondoli e inviata a Malpiglio da Todi, di lui


svisceratissimo amico, in Galipoli [Lucca] s. i. t. [presso Francesco Zane], 1764, in C. ROSSI,
Giovanni Antonio Pecci (1693-1768). Le vicende familiari, la presenza nell’Ordine di Santo
Stefano e il pensiero sulla nobiltà di un intellettuale senese, Pisa, Edizioni ETS, 2003,
pp. 151-196.
38 G. GIGLI, Diario Sanese, (Lucca, 1723), II edizione, Siena, tipografia dell’Ancora di

G. Landi e N. Alessandri, 1854, vol. II, par. II, Discorso sopra la città di Siena e delle varie
guise del suo governo, pp. 669-724: 679.
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di nomina all’ufficio dei quattro Consoli dell’Arte della Mercanzia, i


quali, insieme ai Nove governatori in carica, concorrevano alla desi-
gnazione, per cooptazione, dei successivi reggenti.
L’inclusione nei cataloghi dimostrava la potenza, facoltà, inquie-
tudine e facinorosità delle consorterie, giudicate, per ciò stesso, pe-
ricolose ed atte ad esser «monite», giacché «recavano ombra per su-
scitar sedizioni, e tramare contro coloro che governavano». Questa
era la valutazione degli antichi storici ed eruditi, che si occuparono
in modo approfondito di tali problemi, rappresentando con assolu-
ta fermezza il giudizio di mera convenienza politica che stava alla
base della descrizione dei Grandi negli elenchi ufficiali, sottoposta a
criteri di scelta discrezionali e contingenti. Prova ne fu la frequente
cancellazione di una schiatta ormai «impoverita», «scaduta», «me-
nomata dal tempo», dalle pagine insonni dei cataloghi, turbati da
continue variazioni ed integrazioni.
Per converso, le più potenti famiglie magnatizie fiorentine, sotto-
poste agli ordinamenti eversivi di Giano Della Bella, del 1293, furo-
no concretamente scacciate dalla città, con risolutezza, dal governo
del popolo, che, una volta al potere, distrusse tutti i documenti del
Comune. Molto più tardi, giunti all’inquadramento legale della no-
biltà, nel 1750, la dimostrazione del godimento delle magistrature
sarebbe stata possibile solo per l’epoca più recente, a partire dalla
riammissione del 1620-22 (molto tarda rispetto a Siena, ove ebbe
luogo già in epoca repubblicana: prima per il breve periodo 1460-
64, poi, definitivamente, nel 1480-87, grazie, per l’appunto, al diver-
so rapporto tra popolo e magnati), il che avrebbe penalizzato le ca-
sate iscritte negli elenchi tardo-duecenteschi, le quali avrebbero fini-
to per essere accomunate a quelle di nobiltà recente; ma, nell’Istru-
zione attuativa, si riuscì ad ovviare all’inconveniente in parola39.

39 Istruzione, artt. IV-X. Gli articoli IV, VI e IX prescrivevano le prove documentali or-

dinarie da accludersi all’istanza, laddove gli articoli V, VII, VIII e X indicavano quelle alter-
native ed aggiuntive volte a comprovare lo status nobiliare. In particolare, gli articoli IX e X
si occupavano di risolvere il problema della distinzione tra le famiglie fiorentine antiche e
recenti. Con l’articolo X si creò una vera e propria presunzione di legge: le famiglie magna-
tizie, che non potevano esibire le fedi dei godimenti delle magistrature più antiche a causa
della distruzione degli archivi comunali da parte del popolo, avrebbero potuto portare «in
quella vece l’attestazione di trovarsi i loro antenati descritti tra i Grandi a i Libri delli Statu-
ti, degli ordinamenti di giustizia ec. ed altri Libri publici esistenti originalmente nell’Archi-
vio di Palazzo»; l’iscrizione nei cataloghi redatti ai sensi della legislazione antimagnatizia re-
stituiva così la prova della vetustà del proprio status ai nobili di antica stirpe. Lorenzo Can-
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Al regime novesco seguirono quelli dei Dodici (1355-1368), dei


Riformatori (1368-1385) ed infine quello del Popolo.
In particolare, il periodo che va dal 1355 fino alla Signoria di
Pandolfo Petrucci (1502-1512) richiama alla mente due problemi,
che sintetizzano sia l’assetto politico-istituzionale, sia il contesto so-
cio-economico: da un lato, la formazione della classe dirigente sene-
se attraverso le «associations of families» chiamate «Monti» e, dal-
l’altro, il mutamento progressivo dell’economia cittadina, dovuto al
fatto che «the now firmly-established middle classes [...] were tran-
sformed into a class of rentiers. It becomes more and more difficult
to draw social distinctions except in terms of capital investments»40.
La classe media – il ceto dei «mercatanti», o della «mezza gente» –
ormai ben stabilizzata al potere, si trasformò, dunque, in una nuova
«rural-urban aristocracy, one possessing a curious resemblance to
the petty feudal aristocracy [that] the middle classes had displaced
two and a half centurize before»41.
L’anno 1480 segnò la definitiva riammissione del Monte dei Gen-
tiluomini alla Signoria concistoriale. Ma, si deve immediatamente ri-
levare, l’antica aristocrazia non riprese automaticamente posto sugli

tini (1765-1839), autorevole editore ed interprete della legislazione granducale emanata nel-
l’età medicea e nei primi decenni del governo lorenese, nel 1806 pubblicò un commento alla
Legge del 31 luglio 1750 in cui sosteneva che definire il patriziato come la nobiltà antica di
duecento anni significava ben poco, giacché il 1550 era una data priva di rilevanza storica. Il
noto giurista e storiografo propose al legislatore di retrodatare l’epoca di chiusura del patri-
ziato alla riforma del 27 aprile 1532, istitutiva del Principato di Alessandro dei Medici, al fi-
ne di identificare detta classe con le famiglie già presenti nel governo del Comune all’epoca
della pienezza della sua giurisdizione, escludendo quelle che fossero state abilitate ai pubbli-
ci uffici a partire dall’avvento del regime principesco, da ritenersi semplicemente nobili a
causa della riduzione ad un ruolo di secondo piano nell’ambito della nuova diarchia. L’in-
troduzione di una datazione fissa avrebbe stabilito un criterio discriminante oggettivo, fina-
lizzato ad impedire che il passaggio dalla nobiltà al patriziato avvenisse in ragione del mero
spostamento del termine mobile in funzione dello scorrere del tempo. La teoria del Cantini
non venne presa in considerazione da alcun sovrano né legislatore, ma fornì uno strumento
utile per focalizzare il succedersi dei periodi storici e per chiarire come parlare di nobiltà ci-
vica con riferimento al Medioevo significasse, in realtà, proiettare nel passato concezioni,
idee ed istituzioni nate successivamente. Cfr. L. CANTINI, Legislazione Toscana, cit., XXVI,
p. 268; D. MARRARA, I magnati e il governo del Comune di Siena, cit., pp. 239-276: 276;
IDEM, Nobiltà civica e patriziato. Una distinzione terminologica nel pensiero di alcuni autori
italiani dell’età moderna, cit., pp. 229-230.
40 D. L. HICKS, The Sienese State in the Renaissance, in From the Renaissance to the

Counter-reformation. Essays in honour of Garret Mattingly, a cura di C. H. CARTER, (New


York, Random House, 1965) Londra, Jonathan Cape, 1966, p. 78.
41 IDEM, Sienese society in the Renaissance, in «Comparative Studies in Society and Hi-

story», volume II (1960), number 4, pp. 412-420: 412.


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scranni dai quali era stata spodestata – o almeno non poté, di qui in
poi, più ostentare, al vertice dell’apparato pubblico cittadino, la su-
premazia per secoli goduta in funzione della mera origine nobiliare
antica delle dinastie –, giacché furono adottate molteplici riforme
volte alla parificazione tra i Monti, ai fini dell’esercizio equilibrato
dei poteri istituzionali. Nell’arco di un cinquantennio, le casate ma-
gnatizie si ritrovarono accomunate alle famiglie popolari, finché,
passando per l’ultimo statuto dell’età repubblicana (1544)42, si ar-
rivò alla legge medicea del 1° febbraio 1561, in forza della quale le
magistrature urbane dovevano essere composte in misura paritetica
dai cittadini distribuiti nei quattro Monti superstiti.
Sullo scorcio del XVI secolo, l’estrazione aristocratica o popolare
dei soggetti abili alla copertura dei maestrati senesi sarebbe divenu-
ta definitivamente indistinta sotto il medesimo status di nobiltà civi-
ca43; così come i principi basilari concernenti la distribuzione omo-
genea dei seggi nelle magistrature collegiali fra i quattro Monti ri-
masti in auge e la rotazione tra i medesimi nei pubblici uffici indivi-
duali (primo fra tutti, il Capitano del Popolo) sarebbero rimasti a
fondamento del diritto pubblico cittadino per tutta l’età medicea e
per buona parte del XVIII secolo: fino, cioè, alle grandi innovazioni
politiche e istituzionali introdotte con le riforme leopoldine.
L’oligarchia senese, pertanto, riuscì a sopravvivere – sia nella sua
tradizionale disciplina giuridica, sia nella concreta continuità storica
delle famiglie di cui era costituita nell’età repubblicana – al muta-
mento del regime politico prodotto dalla conquista medicea (Cosi-
mo I ricevé la resa della città il 17 aprile 1555).
D’altro canto, l’aristocrazia – consolidando, anche in questo caso,
posizioni già acquisite sotto il governo repubblicano – primeggiò al-
tresì nell’esercizio delle arti; vale a dire, in particolare, nella condu-
zione delle manifatture della lana e della seta, di gran lunga le più
considerevoli. Nel periodo del Principato, infatti, ad un’accentuata
decadenza, sotto il profilo strettamente economico, delle attività di
tali corporazioni, ebbe a contrapporsi una singolare sopravvivenza,
ed anzi un decisivo incremento, del loro tradizionale prestigio socia-
le, cui corrispose, inevitabilmente, un accentramento sempre più

42 Si veda il saggio introduttivo a L’ultimo statuto della Repubblica di Siena (1545), a cu-

ra di M. ASCHERI, cit., pp. V-XXXVI.


43 Cfr. D. MARRARA, I magnati, cit., pp. 275-276.
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rigoroso delle loro organizzazioni nelle mani della nobiltà. Oltre ad


assumere il monopolio delle due arti più prestigiose, oltre a gestire
quanto restava delle attività bancarie, l’oligarchia cittadina control-
lava poi, in modo decisivo e capillare, tutte le altre corporazioni, at-
traverso il collegio degli Ufficiali di Mercanzia, costituito da quattro
riseduti «per distributione di Monti».
Altro settore di primaria importanza in cui ebbe ad esplicarsi il
primato della nobiltà era quello che raggruppava l’insegnamento
universitario, le professioni liberali e le attività culturali in genere.
In particolare, tutto l’ateneo era nelle mani dell’aristocrazia: erano
nobili sia i magistrati incaricati del governo dello Studio, sia i pro-
fessori, sia i dirigenti dell’Università studentesca.
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I
I PRODROMI DELLA CONQUISTA DI SIENA

1. Dal 1495, Pandolfo Petrucci, membro di un a grande casata


del Monte dei Nove, profittando della irrequietezza prodotta dal
successivo prevalere e dalle alterne unioni dei Monti, giovandosi di
un comando militare affidatogli durante gli sconvolgimenti provo-
cati in Italia dalla discesa di Carlo VIII, si era progressivamente in-
nalzato a posizione preminente, acquistando, in pochi anni, un po-
tere personale simile a quello dei Medici a Firenze.
Tuttavia, la Signoria dei Petrucci a Siena ebbe breve durata.
Morto Pandolfo, nel 1512, dopo il governo esercitato fino al 1522
dal nipote, il cardinale Raffaele Petrucci, successe nella Signoria Fa-
bio, il figlio più giovane, che agì con destrezza, appoggiandosi ad
una fazione del Monte dei Nove, contro Francesco di Camillo Pe-
trucci, cugino di Pandolfo, sostenuto da una diversa corrente dello
stesso gruppo di consorti.
Ma la politica di alleanza con i Medici e di adesione alla linea fi-
lofrancese seguita da Firenze nella guerra franco-asburgica fra il
1523 e il 1524 alienarono a Fabio Petrucci la maggioranza dei mem-
bri dei Monti.
Il 18 settembre 1524, questi fu sconfitto in uno scontro armato e
cacciato da Siena, dove, a seguito della sua deposizione, sul nascere
dell’anno seguente, venne creata una Balìa di sedici cittadini
(17 febbraio), furono ripristinate le istituzioni repubblicane e, natu-
ralmente, ripresero a governare le fazioni tradizionali, che nel terzo
decennio del Cinquecento partecipavano tutte e cinque al potere,
pur se ormai i due Monti più deboli, Riformatori e Dodici, erano
stati assorbiti dai Gentiluomini e dal Popolo.
Nel 1526, Clemente VII, che aveva subito accolto gli esuli della
fazione fedele al Petrucci e aiutato in Siena i Noveschi – poiché
rappresentavano l’unica, determinante eccezione guelfa in una città
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di fortissima tradizione ghibellina ed antifiorentina: Clemente VII


era Giulio de’ Medici, un pontefice fiorentino che operava alacre-
mente per consolidare le sorti della dinastia familiare –, compì un
tentativo di assoggettare la città, ma le sue truppe furono sconfitte
a Porta Camollia il 25 luglio, così che, di conseguenza, i repubbli-
cani si rafforzarono al governo e i noveschi vennero estromessi dal-
le cariche (26 luglio 1527), cui furono riammessi nel gennaio del
15311.
Questa nuova situazione d’instabilità non poteva non alimentare
le ambizioni dei più potenti vicini di Siena: del papato, fin dal 1535,
con le mene nepotistiche di Paolo III, poi, nell’ambito stesso del
suo attrito con Papa Farnese, anche di Cosimo I.
Ma, ovviamente, per la posizione sulla strada che dal nord porta-
va a Roma, Siena interessava, in primo luogo, alle due grandi poten-
ze in lotta per il dominio d’Italia: l’Impero e la Francia. In particola-
re, dati per assunti il passato prevalentemente ghibellino della Re-
pubblica e la pretesa imperiale di un dominio eminente sugli Stati
italiani, sarebbe stato soprattutto Carlo V, nella posizione di forza in
cui si trovava dopo i trattati di Cambrai e Barcellona ed il convegno
di Bologna, ad agire per assicurarsi il predominio in seno al governo
dell’antica città.
Di qui le vicende d’instabilità e d’incertezza che questa attraver-
serà negli anni ’30: missione dell’inviato imperiale don Lopez de So-
ria, intervento del comandante dell’esercito di Carlo V in Italia, Fer-
rante Gonzaga, ed oscillazioni del duca d’Amalfi, Alfonso Piccolo-
mini, discendente di Pio II – prima si mostrò amico dei popolari, e
per questo fu esiliato dalla città, fra il 1530 e il 1531, per ordine del-
l’Asburgo, poi, dopo il suo ritorno al comando delle truppe cittadi-
ne, si legò alla famiglia dei fratelli Salvi, i quali, di origine popolare,
spinti dall’ambizione del maggiore (Giulio), provocarono la spacca-
tura in due della fazione (ebbero contro i Bandini, anch’essi popola-
ri, e le altre famiglie del Popolo e dei Gentiluomini) e non disdegna-
rono l’accordo con i noveschi per realizzare le loro mire di conqui-
sta del potere –.

1 Sulla spedizione di Clemente VII, si veda A. D’ADDARIO, Il problema senese nella sto-

ria italiana della prima metà del Cinquecento (La guerra di Siena), Firenze, Le Monnier,
1958, pp. 2-4.
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2. L’acuto conflitto scoppiato fra Clemente VII e Carlo V nel


1527 provocò a Firenze una seconda cacciata dei Medici ed un se-
condo ritorno al regime repubblicano, così come, nel 1529, dopo la
riconciliazione fra il vicario di Cristo e l’Imperatore, furono i loro
accordi a causare la definitiva caduta della Repubblica. Nell’aprile
del 1530, le truppe imperiali e pontificie mossero congiuntamente
contro la città: Firenze oppose alle schiere nemiche una memorabile
resistenza, ma il 12 agosto 1530, dopo undici mesi di assedio, non le
restò che la resa2.
Tra la caduta della Repubblica di Firenze, stremata dalla prolun-
gata, inesorabile stretta delle truppe imperiali, e il compimento del-
la riforma costituzionale che instaurò definitivamente il Principato3,
intercorsero quasi due anni di dense tensioni4; ma gli eventi del
1530 consolidarono inequivocabilmente il potere imperiale sulla pe-
nisola, chiudendo un periodo di intensa instabilità politica e avvian-
do profonde trasformazioni istituzionali, che rispecchiarono le ten-
denze diffuse in Europa.
Ad ogni buon conto, dalla disfatta e capitolazione della Repub-
blica, non era scaturita la formazione del Principato: mancava an-
cora una base stabile su cui posare, in ragione di validi titoli giuri-
dici e solide strutture costituzionali, il nuovo assetto politico-isti-
tuzionale.
Come, da un lato, gli atti di resa, imposti il 12 agosto 1530 da
Ferrante di Gonzaga, comandante delle truppe imperiali, e da Bar-
tolomeo Valori, commissario generale del pontefice, avevano statui-
to che «la forma del governo [... avesse ad] ordinarsi e stabilirsi dal-
la Maestà Cesarea»5, ma con l’accenno alla conservazione delle tra-

2 E. FASANO GUARINI, Lo Stato regionale, in E. FASANO GUARINI - G. PETRALIA - P.

PEZZINO, Storia della Toscana, Bari, Laterza, 2001, vol. 3 (Dal 1350 al 1700), pp. 1-27.
3 EADEM, La fondazione del Principato: da Cosimo I a Ferdinando I (1530-1609), in

AA.VV., Storia della civiltà toscana, a cura della medesima E. FASANO GUARINI, Firenze, Le
Monnier, 2003, vol. III (Il Principato mediceo), pp. 3-40.
4 Il racconto, con animo diverso, ma sempre appassionato, è stato fatto da chi ne fu te-

stimone diretto, come Benedetto Varchi (1503-1565, Storia Fiorentina), Jacopo Nardi (1476-
1563, Le Historie della Città di Fiorenza), Filippo de’ Nerli (1485-1556, Commentarj de’ fatti
civili occorsi dentro la città di Firenze dal’ anno 1215 al 1537) e Bernardo Segni (1504-1558,
Storie fiorentine dall’anno 1527 all’anno 1555), che ancora meritano di essere ascoltati.
5 Cfr. Ordinazioni fatte dalla Repubblica Fiorentina insieme con l’Excellentia del Duca

Alexandro de’ Medici dichiarato Capo della Medesima, sotto il dì 27 Aprile 1532 ab Incarna-
tione, in L. CANTINI, Legislazione Toscana, cit., vol. I, pp. 5-38: 32.
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dizionali libertà comunali («intendendosi sempre, che sia conserva-


ta la libertà»6), e il diploma del 28 ottobre del medesimo anno aveva
concesso un ordinamento «quoniam autem ad perpetuam hujus
Reipublicæ Florentinæ libertatem, pacem, quietem, et tranquillita-
tem»7, così, dall’altro, si considerava assodata la fedeltà imprescritti-
bilmente dovuta al Sacro Romano Impero («ut in nostra et Romani
Imperij fide ac devotione perpetuo maneat»8).
L’atteggiamento conciliatorio, manifestato blandamente nel di-
ploma, non privilegiava certo, nella sostanza, la persistenza delle
mentovate libertà comunali, espresse dalle magistrature repubblica-
ne tralatizie, andando a spostare il baricentro del potere verso un
governo «in quo sit unus cui eius præcipua cura incumbat»9: nella
specie «Alexander de Medicis Dux Civitatis Pennæ», che diveniva
«Reipublicæ Florentinæ Gubernij, Status et Regiminis Caput»10, ol-
tre ad essere già promesso sposo di Margherita d’Austria, figlia na-
turale del concedente («cui nuper illustrem Margaritam filiam no-
stram naturalem spopondimus»11).
Ma ancora non si trattava della costituzione del Principato, giac-
ché Alessandro non riceveva il titolo di Duca di Firenze: otteneva
per sé e per la sua discendenza in via di filiazione legittima patrili-
neare la mera qualifica di Capo del governo, che implicava il pote-
re di presiedere le magistrature tradizionali fiorentine, pretestuosa-
mente ammaestrate in ragione della disfatta documentata negli atti
di resa, atteso che «da tante luttuose vicende conoscendo i dodici
Cittadini componenti la Balia, creata contemporaneamente alla
conclusione della pace, esser necessario, per il pubblico bene, di
tenere a freno i magistrati, sotto dì 17 febbraio di quel medesimo
anno 1530 [1531] fecero una Provvisione, colla quale autorizzaro-
no il Duca Alessandro del Duca Lorenzo de’ Medici a poter risedere
in qualunque magistrato in ogni tempo, ed esserne a suo piacimen-
to Proposto»12.
Veniva così a costituirsi una Signoria cittadina, «o, meglio, veniva

6 Ibidem.
7 Ivi, p. 36.
8 Ibidem.
9 Ibidem.
10 Ibidem
11 Ibidem.
12 Ivi, p. 34.
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a favore della Casa dei Medici, trasformata in Signoria ereditaria di


diritto l’antica Signoria di fatto – non dotata, cioè, di alcun titolo
giuridico – di Cosimo il Vecchio e dei suoi epigoni»13.
Si dovrà attendere fino al 27 aprile 1532 per vedere la nascita del-
lo Stato fiorentino: allorquando la nuova costituzione andrà a scar-
dinare l’assetto municipalistico, lasciato formalmente sopravvivere
fino all’introduzione esplicita del Principato.
Basti a tal proposito ricordare e sottolineare come l’insufficienza
dei titoli giuridici posti a fondamento della nuova compagine sta-
tuale, che diede adito, sullo scorcio del 1535, ad una sorta di «pro-
cesso di legittimità delle strutture costituzionali fiorentine»14, avreb-
be visto concludersi la complessa questione con la conferma dell’au-
torità cesarea in materia di ingerenza nelle questioni della città e del
suo Stato e di riforma del governo, andando a rinnovare il combina-
to disposto degli atti di resa e del diploma che avevano già fondato i
principi d’intervento imperiale un lustro or sono: «cumque, post
longam obsidionem, se nobis ea conditione dederet, ut nos ejus re-
gimen, gubernium, et statum, arbitrio nostro disponeremus atque
ordinaremus»15.
L’assassinio di Alessandro da parte di suo cugino Lorenzino, il 6
gennaio 1537, rimise in agitazione le acque in cui vacillava il Princi-
pato, tra le velleità imperiali, gli scampoli di repubblicanesimo savo-
naroliano e la vecchia classe dirigente cittadina, che, andando a
frapporsi agli altri due contendenti, avrebbe finito per illudersi di
poter invertire il corso del processo storico ormai in atto, approfit-
tando della ghiotta occasione della crisi dinastica per ricalcare – do-
po la delusione provocata dal delirio d’onnipotenza di Clemente
VII, estroso orditore delle trame che, prendendo le mosse dal parla-
mento generale del 20 agosto 1530, uniformarono lo Stato fiorenti-
no ai modelli di governo ormai imperanti in Italia e in Europa, con
la nuova livrea costituzionale primaverile del ’32 – le orme del pas-
sato, andando a restaurare uno Stato oligarchico.
Il Consiglio dei Quarantotto, sotto le mentite spoglie di mero

13 Cfr. D. MARRARA, Studi giuridici sulla Toscana medicea, cit., p. 6.


14 Ivi, pp. 12 ss. Inoltre, si veda infra, cap. IV (Profili costituzionali e presupposti giuridi-
ci e politici per l’affermazione del Principato).
15 Cfr. Ordinazioni fatte dalla Repubblica Fiorentina insieme con l’Excellentia del Duca

Alexandro de’ Medici, cit., in L. CANTINI, Legislazione Toscana, cit., vol. I, p. 35.
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esecutore del dettato normativo imperiale, sancente l’alternativa alla


mancanza di successori legittimi nel «proxime ex Masculis ex ipsa
Medicorum Familia»16, ben – si fa per dire – pensava di poter tro-
vare finalmente soddisfazione alle malcelate, ambiziose brame di ri-
nascita politica attraverso l’elezione del figlio di Giovanni dalle Ban-
de Nere, considerato – ad incommensurabil torto – poco più di un
buttero del Mugello e, per ciò stesso, potenziale, docile marionetta
nelle mani degli Ottimati.
Ma le provvisioni del 9 e 10 gennaio 1537 segnarono l’ultimo atto
delle velleità di rivincita e rinascita di un regime oligarchico, mani-
festate dalla vetusta aristocrazia, la quale, nella smania di riconqui-
stare le antiche prerogative, si era dimostrata infida esecutrice testa-
mentaria dell’eredità istituzionale medicea, bieca e deferente inter-
prete della volontà imperiale, ormai impotente al cospetto dell’im-
berbe, ignaro fondatore del Granducato di Toscana.
Da ultimo, il diploma del 30 settembre 1537, oltre a riaffermare i
diritti del Sacro Romano Impero su Firenze ed il suo territorio,
chiarì, in modo definitivo, il ruolo istituzionale di Cosimo I, che su-
bentrava integralmente nella posizione giuridica del defunto Ales-
sandro17; anche se costui, di lì a qualche anno, dopo il bluff non
adeguatamente dissimulato nell’editto datato 16 ottobre 1537 –
«L’Illustrissimo Signor Cosimo [...] fa [...] sapere che per Indulto, e
privilegio della Cesarea Majestà [...] è stato confermato [...] in Capo
e Primario del Governo della Città di Firenze»18 – avrebbe aperto le
danze con il valzer dei titoli sovrani, sulle note stridenti scandite da
papato ed Impero.

3. L’ingenito senso del concreto fece intuire a Cosimo che, più di


ogni titolo, avrebbe recato beneficio alla sicurezza del suo potere e
alle mire della sua ambizione un effettivo rafforzamento del suo

16 Ibidem.
17 Il Cantini annotò in calce all’editto del 16 ottobre 1537: «Come debbino spiegarsi
questi Atti, e quali diritti dai medesimi desuma l’Impero Germanico, lo lascio alla conclu-
sione dei Lettori. Cominciò da questo tempo [30 settembre 1537] Cosimo ad usare, e rice-
vere il Titolo di Duca e d’Eccellenza, come appunto usava, e riceveva Alessandro de’ Medi-
ci». Cfr. Editto del dì 16 Ottobre 1537 ab Incarnatione col quale si notifica al Pubblico il Di-
ploma di Carlo V a favore del Duca Cosimo, in L. CANTINI, Legislazione Toscana, cit., vol. I,
pp. 145-148: 148.
18 Ivi, p. 145.
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31

Stato, mediante l’annessione di altri territori toscani, che avrebbero


recato vantaggi economici e militari, prestigio e autorità in Italia e
in Europa.
Di qui la sua irrequietezza – inizialmente ammansita dal recupero
delle fortezze di Firenze e Livorno, nel 1543 –, innanzi tutto, verso
Piombino e verso Lucca.
In direzione di Piombino le sue pressioni e le sue richieste si va-
nificarono nel 1545, quando, morto Iacopo V d’Appiano, il figlio,
Iacopo VI, minore, fu riconosciuto nuovo signore, sotto la tutela di
un consiglio di reggenza, per volontà dell’Imperatore, che inviò don
Giovanni de Luna a regolare la successione e a prender possesso
delle fortezze piombinesi, con truppe spagnole. Cosimo I, per obbe-
dienza alla volontà imperiale di assicurarsi concretamente il control-
lo anche di questa base tirrenica, contigua allo Stato dei Presidi, do-
vette rinunziare alle sue aspirazioni19.
Quanto a Lucca poi, la politica del duca consisté, in fondo, nel
far gravare una continua minaccia sulla Repubblica senza impadro-
nirsene, come rilevò, nel 1561, l’ambasciatore veneto Vincenzo Fe-
deli, il quale, a proposito dei lucchesi, osservò:
«stanno come la quaglia sotto ’l sparviero, e stanno sempre con questa ansietà
d’animo di non andar nelle mani del duca, che li è vicino attorno attorno. Ma
il duca, che non vede come averli per esserne patron assoluto della città, degli
uomini e delli cavedali [capitali], li quali sono per la maggior parte in mercan-
zie e in danari contati [contanti] sopra cambi, e che conosce che ogni minimo
moto saria un disertar quella [città], perché i cittadini se ne anderiano, abban-
donando con le facultà loro la patria, come fecero pisani; ed il duca, che vede
esser difficile non ad impatronirsi di quella città, che con un soffio se la faria
sua, ma d’impatronirsi degli uomini, che sono quelli che fanno li Stati, li lassa
nelli suoi termini viver quieti, se ben sempre in timore, perché, eziandio di
questo modo, lasciandoli nella sua libertà, gli sono, si può dir, soggetti, perché
da’ lucchesi ha sempre assai»20.

Assai diversamente, com’è noto, procedettero le cose nei con-

19 Cfr. R. GALLUZZI, Istoria del granducato di Toscana sotto il governo della casa Medici,

2a ed., 8 voll., Livorno, Glauco e Tommaso Masi, 1781, vol. I, p. 177.


20 Cfr. Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di A. SEGARIZZI, (ristampa

anastatica dell’edizione datata 1916), Bari, Gius. Laterza & Figli, 1968, vol. III, parte I, cap.
III (Relazione di messer Vincenzo Fedeli segretario dell’illustrissima Signoria di Venezia torna-
to dal duca di Fiorenza nel 1561), pp. 123-174: 161-162.
001_capitolo primo ok_000_pagine editoriali 18/10/10 11.02 Pagina 32

32

fronti di Siena21. Questa antica Repubblica, quasi sempre nemica di


Firenze, si governava ormai, da circa tre secoli, in forme assai parti-
colari.

21 Per tutta la guerra di Siena, sono sempre indispensabili: A. D’ADDARIO, Il problema

senese nella storia italiana della prima metà del Cinquecento (La guerra di Siena), cit.; R.
CANTAGALLI, La guerra di Siena (1552-1559), cit.
II
TRA STORIA E STORIOGRAFIA:
L’AVVENTO DEL PRINCIPATO MEDICEO
E LE CORRELAZIONI
FRA POLITICA, ISTITUZIONI E STATUS NOBILIARE

1. «SIENA E I GIGANTI»1

1. Come le corti di Cosimo I e dei suoi figli non sono paragona-


bili a quelle del Magnifico e di Leone X, per l’importanza politica e
culturale incomparabilmente superiore che ebbero, così la pesante
cappa di piombo della pace spagnola d’Italia, che dal 1530 in poi
gravò anche sullo Stato mediceo, non consentì più quella libertà e
mobilità di gioco politico, che esso aveva avuto in momenti più fe-
lici. Tuttavia, il fatto che, nel centro della penisola, sia pure dentro
l’orbita della Spagna, uno Stato italiano abbia potuto conservare
una relativa indipendenza, salvandola dagli attacchi francesi, come
dalla strapotenza spagnola, trasformando, al tempo stesso, il pro-
prio territorio da dominio di una sola città sopra un conglomerato
di altri Stati-città, sottomessi con la forza e tenuti insieme con la
nota formula «Pistoia con la parte; Pisa in povertà, con tenerla bas-
sa ed impotente; Volterra per forza, con tenervi gente, conciosiaché
volterrani siano sempre stati nemici de’ fiorentini; Arezio con il
contado, qual è sempre contrario a quella città; e Cortona con gra-
zia, concedendole quanto dimandano»2, a «Stato regionale unita-

1 Lo spunto per il titolo del paragrafo è stato suggerito da M. GATTONI, Siena e i gigan-

ti. Lo scontro franco-spagnolo in Lombardia nelle lettere di Aldello Placidi, oratore senese in
Roma, e la posizione di Siena tra Francia, Spagna e Stato Pontificio, in «Bullettino Senese di
Storia Patria», CIV (1997), pp. 377-402. L’A., in merito all’articolo in questione, scrisse: «Lo
studioso che, volendo porre all’attenzione del dibattito storiografico la Repubblica di Siena
e la sua politica estera all’interno del duello franco-spagnolo culminato nella battaglia di
Marignano, non può sottrarsi dal riassumere, sebbene schematicamente, la situazione politi-
ca italiana nel secondo decennio del XVI secolo», ivi, p. 377. Si rimanda, dunque, allo scrit-
to in parola, accompagnato da una folta appendice documentaria, nonché da un ricco appa-
rato di note critiche e biografiche, per le vicende che coinvolsero Siena ed i suoi domini nel
vortice creato dai conflitti egemonici tra Francia e Venezia da un lato e Spagna e Stato Pon-
tificio dall’altro, poco prima del 1530.
2 Cfr. Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di A. SEGARIZZI, cit., vol. III,
34

rio»3, salvando o sviluppando quanto degli elementi della propria


potenza militare, marinara ed economica era possibile salvare nelle
tristi condizioni dell’epoca, apparve ed appare tuttora un fenome-
no di portata storica italiana davvero rilevante, anche se non può
certamente stringersi insieme nell’idea di unione regionale la me-
tropoli che diverrà, distintamente, la seconda capitale del Grandu-
cato: «Siena[, ...] quella che ha il nome, il Stato e che è la città
principal, dalla qual dipende il governo e li regimenti con li soliti
loro ordini, magistrati e consigli, con la dignità del palazzo, dove
ressede sempre la signoria»4.

2. Scomparsi appena dalla scena politica europea, in quel rinno-


varsi della storiografia italica che accompagnò e seguì la gigantesca
opera muratoriana, i Medici granduchi ebbero la ventura di un
grande studioso, Riguccio Galluzzi, la cui Storia del Granducato di
Toscana5, dalla fine del XVIII secolo, in cui vide la luce, doveva ri-
manere, per un secolo e mezzo, insuperato fondamento di ogni stu-
dio di storia del Principato mediceo, nonostante una certa illumini-
stica animosità anticlericale e talora antimedicea, nonché una asso-
data disorganicità di alcuni capitoli, dove i fatti paiono accavallarsi
uno sull’altro, per seguire la successione più rigidamente cronologi-
ca, invece di distendersi ordinatamente secondo i vari settori dell’at-
tività politica del governo mediceo.
La storiografia romantica, prima, e risorgimentale, poi, videro il
Principato mediceo quale età di corruzione, o di assopimento, di
ogni energia nel paese, specialmente se confrontata con la grandez-
za della Firenze comunale, arrivando a prospettare anacronistica-
mente – sulla costante spinta di una preconcetta antipatia – la mo-

parte I, cap. I (Relazion fatta per Marco Foscari nell’eccellentissimo Conseglio di Pregadi della
legazion del Fiorenza, con qualche cosa adiuncta da lui nel scrivere essa legazione, 1527),
pp. 3-98: 80.
3 Cfr. G. SPINI, Questioni e problemi di metodo per la storia del principato mediceo e de-

gli Stati toscani del Cinquecento, in «Rivista Storica Italiana», LVIII (1941), fasc. I, pp. 66-
93: 80.
4 Cfr. Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di A. SEGARIZZI, cit., vol. III,

parte I, cap. I (Relazione di messer Vincenzo Fedeli segretario dell’illustrissima Signoria di Ve-
nezia tornato dal duca di Fiorenza nel 1561), pp. 123-174: 130.
5 R. GALLUZZI, Storia del Granducato di Toscana sotto il governo della casa dei Medici,

Firenze, Cambiagi, 1781.


35

narchia assoluta medicea come una prefigurazione di quei dispoti-


smi contro i quali la generazione del Risorgimento aveva lottato.
Si dovette aspettare il ventesimo secolo perché vedessero la luce
due saggi, fondamentali per la storia del diritto pubblico, più che
per quella più propriamente politica, che si occuparono della tra-
sformazione dello Stato fiorentino da Repubblica a Principato6 ed
una trattazione intorno agli ultimi anni di Cosimo I dei Medici7. Il
periodo 1537-1543 contraddistinse gli inizi del Principato ed il pri-
mo affermarsi del suo assolutismo all’interno e della sua indipen-
denza all’esterno, mentre gli anni fino al 1559 ed oltre segnarono il
momento più vivace dell’attività espansionistica di Cosimo I, culmi-
nato nella lunga e rischiosa guerra di Siena e nella attiva ingerenza
medicea nei conclavi e nella politica pontificia; ma soltanto Ferdi-
nando I – indubitabilmente il migliore e più degno successore di
Cosimo I – osò spingere lo sguardo al di là delle Alpi, tentando in
qualche modo di inserire la politica della sua casa nel vortice delle
grandi competizioni europee, attraverso una vivace attività diploma-
tica.
Fu l’autore di un’illuminante rassegna degli studi medicei nel cin-
quantennio che precedette il 1940 a lamentare «quella specie di in-
cantesimo, nel quale la storiografia medicea è rimasta presa, non
osando avventurarsi oltre il periodo che potremmo chiamare
aureo»8, fino a trascurare, pressoché interamente, le vicende dello
Stato mediceo dal fatale 1530 in poi. Ed un anno dopo, dalle pagine
della Rivista storica italiana, provenne l’auspicio affinché

«studi e ricerche si volgano adesso a illustrare, mettendola nel suo giusto valo-
re, la storia del principato mediceo [...], che fu prima di tutto principato del
Cinquecento, e perciò ed avanti a tutto “stato della casa dei Medici” [...]. Il
regime mediceo in Firenze non fu che il frutto della volontà tenace e spesso
intelligente di papi e di principi della casa di “costituire uno stato” a se stessi
ed ai propri discendenti con ben scarsa coscienza di interpretare le esigenze di

6 A. ANZILOTTI, La costituzione interna dello stato fiorentino sotto Cosimo I, Firenze,

Lumachi, 1910; IDEM, La crisi costituzionale della repubblica fiorentina, Firenze, Seeber,
1912.
7 L. CARCERERI, Cosimo I granduca, Verona, Bettinelli, 1926.
8 Cfr. A. PANELLA, Gli studi medicei in Italia e all’estero, in «Atti del secondo convegno

nazionale di studi sul Rinascimento», Firenze, Centro Nazionale di Studi sul Rinascimento,
1939, pp. 96-110: 96.
36

un popolo o di una comunità nazionale. Anche se la politica medicea sboccò


effettivamente nella costituzione dello stato regionale unitario ed assoluto e
nella progressiva unificazione giuridica della popolazione dell’intero territorio
toscano [...]. Diremmo piuttosto che una delle caratteristiche della politica
medicea [... fu] appunto questo suo indirizzo di “politica della casa” [...] per
tutto il Cinquecento (così, ad esempio, la politica di Cosimo I dei Medici ver-
so i minori stati toscani, quali Lucca, Siena e Piombino non farà che ricalcare
le linee della politica dei due pontefici medicei), ed insieme una innegabile li-
mitatezza di orizzonti, una scarsa sensibilità verso problemi ed interessi più
vasti e meno immediati»9.

E si enunciò chiaramente l’esortazione a

«valutare se ed in quanta parte il principato mediceo abbia avuto influen-


za positiva nei riguardi dell’Italia, mantenendo lo stato fiorentino nella
sua relativa indipendenza ed ingrandendone i confini, e quanto invece
questo ingrandimento e potenziamento dello stato mediceo sia andato a
scapito di un possibile equilibrio politico italiano, permettendo a Carlo V
ed a Filippo II di fare leva appunto sulle ambizioni dei Medici per scardi-
nare ogni tentativo di una politica meno che supina da parte degli altri
stati italiani»10.

Pertanto, pare evidente come ogni studio accurato della politica


del Principato mediceo nel XVI secolo presupponga ed insieme
completi quello della storia dei minori Stati toscani, le cui vicende
sono indissolubilmente intrecciate con quelle dello Stato fiorentino.
Ed a questo proposito, come, da un canto, deve essere rilevata
l’importanza dei lavori di studiosi locali, le cui ricerche, ricche, non
di rado, di materiali che potrebbero essere preziosi anche per co-
struzioni critiche di più ampio respiro, trovano scarsa considerazio-
ne su scala nazionale, così, dall’altro, appare pacifico che le opere
degli eruditi, accurate nell’utilizzare le fonti archivistiche del luogo,
si mostrino talora superate sia dal punto di vista politico, sia da
quello della cronistoria degli avvenimenti militari, e, soprattutto, as-
solutamente cittadine nel loro modo di considerare il succedersi dei
fatti, senza vederne altro che troppo scarsamente la connessione coi
fattori generali della politica italiana ed europea del momento. Ma,

9 Cfr. G. SPINI, Questioni e problemi di metodo per la storia del principato mediceo e de-

gli stati toscani del Cinquecento, cit., pp. 79-80.


10 Ibidem.
37

a parte tutto, non può recarsene in dubbio l’insostituibilità stru-


mentale e funzionale, quale innervatura indispensabile per mante-
nere un contatto visivo e olfattivo con la variopinta ed inebriante ro-
sa delle vicende storiche, economiche, politiche e sociali della Siena
medievale e moderna11.

3. Nel XVI secolo, dopo Firenze, Lucca fu lo Stato toscano di


maggiore importanza ed indipendenza politica. Ma incomparabil-
mente più nervosa ed agitata si presentava la vita politica del secon-
do degli Stati toscani dell’epoca: la Repubblica di Siena.
Lacerata dalle lotte intestine tra i vari gruppi politico-gentilizi, ai
primi del Cinquecento, la città della Lupa era sotto la Signoria dei
Petrucci, capi parte dei Nove, che dominavano la città con l’appog-
gio dei Medici. Ciò nondimeno, come premesso, essi furono sopraf-
fatti da un’insurrezione del Monte del Popolo, in forza della quale
vennero cacciati da Siena, e l’esercito mandato da Clemente VII
(Giulio dei Medici) per riporli al potere subì una sonora sconfitta a
porta Camollìa. Sopravvenne intanto il fatale 1530 ed anche Siena
fu costretta ad aprire le porte ad una guarnigione spagnola e a rice-
vere un governatore imperiale, col pretesto del mantenimento del-
l’ordine pubblico, che, in realtà, andò, di anno in anno, sempre più
perdendosi, in mezzo alle lotte feroci tra noveschi e popolari, che
continuavano ad insanguinare la città; difatti, finanche i governatori
che man mano si succedettero dovettero barcamenarsi tra le due
parti, aumentando la confusione e consolidando, loro malgrado, gli
obiettivi dell’astuta politica imperiale, rinvigorendo costantemente e
rendendo sempre più stabile il controllo sulla disgraziata Repubbli-

11 Un esempio su tutti: G. A. PECCI, Memorie storico-critiche della città di Siena, che ser-

vono alla vita civile di Pandolfo Petrucci, dal MCCCCLXXX al MDXII, Siena, pubblicate da
V. Pazzini Carli nella stamperia di A. Bindi, 1755; Continuazione delle memorie storico-criti-
che della città di Siena, per le quali vengono descritti quattro altri soggetti della famiglia Pe-
trucci, Alessandro Bichi e tutta la fazzione novesca fino agli anni MDXXVII, Siena, pubblicate
da V. Pazzini Carli nella stamperia di A. Bindi, 1755; Continuazione delle memorie storico-
critiche della città di Siena fino agli anni MDLII, Siena, pubblicate da V. Pazzini Carli nella
stamperia di A. Bindi, 1758; Continuazione delle memorie storico-critiche della città di Siena
fino agli anni MDLIX, Siena, pubblicate da V. Pazzini Carli nella stamperia di A. Bindi,
1760. Attualmente, può reperirsi anche una ristampa anastatica dell’opera in questione, a
cura di M. PAVOLINI ed E. INNOCENTI, con la presentazione di M. ASCHERI, Siena, Cantagal-
li, 1988.
38

ca. In mezzo a questo caos, incominciarono a profilarsi le ambizioni


contrastanti dei Medici e dei Farnese, interessati, ciascheduno, a
cercare di guadagnarsi i senesi, per prepararsi la strada all’annessio-
ne. Un’ultima rivoluzione, però, cacciò da Siena gli spagnoli ed il
governatore imperiale; i cittadini si posero sotto la protezione di
Enrico II di Francia ed ebbe inizio, così, la memoranda guerra di
Siena, che durò, tra varie alternative, dal 1553 al 1559, terminando
di ridurre alla desolazione il territorio e la città12.
Intrapresa, dapprima, per mano di Carlo V, sospesa per soprag-
giunte difficoltà, la campagna venne assunta, nel 1554, sopra di sé
da Cosimo I, che, con inflessibile energia, la condusse per cinque
anni, sino alla vittoria definitiva.
Esauritasi l’attività militare, subentrò un intenso periodo di atti-
vità diplomatica – susseguente alle già copiose trattative politiche
che si intrecciarono per il venticinquennio 1535-1559 tra le corti di
Madrid, Parigi, Roma e Firenze, che videro contrapporsi gli assi
franco-senese e spagnolo-mediceo – tra Filippo II, che avrebbe vo-
luto per sé il frutto della vittoria, e Cosimo I, che, profittando della
difficile situazione finanziaria dell’altro, riuscì ad ottenere l’investi-
tura feudale di Siena – dietro rinuncia a qualsiasi credito acquisito
«ratione senensis belli»13–, senza, però, poter impedire la formazio-

12 Per una ricostruzione accorata delle vicende legate alla caduta della Repubblica «che

Cosimo dei Medici [...] con l’aiuto di Carlo V percosse a morte[,] [... uccidendo] anche le
libertà municipali d’Italia», si veda E. SANTINI, Il significato nazionale delle celebrazioni della
caduta della Repubblica di Siena ritiratasi a Montalcino, in «Bullettino Senese di Storia Pa-
tria», LXVI (1959), pp. 36-48. Inoltre, per un giudizio storico-critico sulla figura di Mario
Bandini, ispiratore e capo della secessione di Montalcino, si legga il ricco saggio – imprezio-
sito da un’appendice documentaria con le trascrizioni di alcune missive degli anni 1527,
1528, 1545 e 1546, che vedono il Bandini nella veste di autore o protagonista indiretto – di
R. CANTAGALLI, Mario Bandini, un uomo della oligarchia senese negli ultimi tempi della Re-
pubblica, in «Bullettino Senese di Storia Patria», LXXI (1964), pp. 51-81, il quale scrisse:
«Alla notorietà, alla fama presso i posteri di Mario Bandini, maggiore a quella di tutti gli al-
tri uomini dell’ultima Repubblica Senese, ha giovato senza dubbio una serie di coincidenze
non tutte da ascriversi al suo merito personale: l’essere stato l’ultimo Capitano del Popolo
della Repubblica di Siena prima della dominazione medicea; l’essersi ritirato a Montalcino
con coloro che decisero di continuare colà la resistenza contro l’invasore recando seco i si-
gilli originali e le insegne dell’antico Stato Senese quasi elevati a simbolo dei penati della pa-
tria; l’aver per questo atto subìto da parte medicea confisca dei beni e bando; l’essere, infi-
ne, morto lontano dalla sua città, in esilio. Tutto questo, collocato nella disinvolta e pittore-
sca – che è quanto dire acritica – prospettiva degli agiografi dilettanti di patrie memorie, si
presta ad essere epigrafato con un motto celebrativo di maniera, come sarebbe: “Dilexi ju-
stitiam, odivi iniquitatem propterea morior in exilio!”».
13 Nell’Illustrazione al Bando dell’Arme da non portarsi in Siena del dì 29 luglio 1557 ab
39

ne di un nuovo dominio spagnolo, proprio nel cuore della penisola:


lo Stato dei Presidi, permanente testa di ponte dell’invadenza spa-
gnola nell’Italia centrale ed insieme continua minaccia a ridosso del-
le compagini statuali cosimiana e pontificia14.
Pertanto, la ricostruzione del passato di Siena nel Cinquecento de-
ve porre l’accento soprattutto sulla storia della «questione senese»15:
un problema d’indubitabile importanza per l’affermazione imperiali-
stica della Spagna sulla penisola16, nel suo aperto contrasto con la
Francia e nel latente, segreto attrito con le corti pontificia e medicea.
Sena, per tutto il XVI secolo, non costituì, quasi per niente, un
nucleo di indipendente attività politica, per la sua debolezza e per la
sua mancanza di uno stabile dominio autonomo – come quello di
Lucca o di Firenze –, ma rimase sempre una sorta di perpetuo ago-
nizzante, di crisi senza interruzione, la cui risoluzione dipese in mini-
ma parte dalla volontà del governo o del popolo, tanto da giungere
alla frantumazione politica, sociale ed economica della Repubblica.

2. DALLA LIBERTÀ ALLA SERVITÙ: IL PRIMO, FATALE PASSO FALSO


POLITICO VERSO IL PRINCIPATO

Si è visto come gli ultimi, drammatici decenni dell’autonomia sia-


no stati punteggiati da aspre discordie civili, che indebolirono sem-

Incarnatione, il Cantini narrò: «Cosimo I [...] per causa della guerra aveva contratti de’ Cre-
diti di molta rilevanza con Carlo V [e] non li fu difficile di ottenere in pagamento de’ mede-
simi dal Re Filippo di lui Successore in Feudo di quella Città col suo Stato, e sotto il dì 3 di
Luglio dell’Anno 1557 ne fu stipulato l’Atto di concessione per mezzo di Don Giovanni di
Figueroa Ministro Spagnolo», riportando il testo integrale della infeudazione dello Stato di
Siena a Cosimo I, che sarà confermata dall’Imperatore Ferdinando I il 9 settembre 1560 e
dal suo successore, Massimiliano II, il 6 luglio 1565. Cfr. L. CANTINI, Legislazione toscana,
cit., vol. III, pp. 192-203: 194 e 198.
14 Per un’analisi, quanto più esaustiva possibile, dell’aspetto giuridico-istituzionale rela-

tivo alle vicende storiche che videro nella veste di protagonisti lo Stato di Siena, il Duca di
Firenze e gli Asburgo, nell’arco cronologico compreso tra la costituzione del Vicariato im-
periale (1554) e la conferma del medesimo (1560), si rimanda a D. MARRARA - C. ROSSI, Lo
Stato di Siena tra Impero, Spagna e Principato mediceo (1554-1560). Questioni giuridiche e
istituzionali, in AA.VV., Toscana e Spagna nell’Età moderna e contemporanea, Pisa, Edizioni
ETS, 1998, pp. 5-53.
15 Cfr. A. D’ADDARIO, Il problema senese nella storia italiana della prima metà del Cin-

quecento, cit., passim; IDEM, L’indipendenza senese problema politico italiano ed europeo, in
«Bullettino Senese di Storia Patria», LXVI (1959), pp. 49-78: 77, passim.
16 Per un approccio storiografico in lingua spagnola, si veda V. DE CADENAS Y VICENT,

La Republica de Siena y su anexion a la corona de España, Madrid, Hidalguia, 1985, passim.


40

pre più l’efficacia dell’opposizione cittadina contro la materiale in-


gerenza straniera negli affari interni della Repubblica. La storia di
Siena tra il 1530 ed il 1552 può, quindi, essere considerata come
storia della resistenza sempre più ferma e unanime opposta dai cit-
tadini – divisi, ma concordemente gelosi dell’indipendenza – ai ten-
tativi che, con sempre maggiore decisione e spregiudicatezza, i rap-
presentanti di Carlo V vennero facendo per mutare in sudditanza
quei rapporti che i senesi si illudevano di poter contenere nei limiti
di una cordiale e deferente alleanza.
Detto ciò, si ritiene di fondamentale importanza, per l’analisi po-
litico-istituzionale degli eventi storici in parola, tentare di chiarire
puntualmente l’innesco della reazione convulsa che si pose alla base
dell’insieme, in continuo divenire, dei presupposti, delle giustifica-
zioni e delle responsabilità politiche di una crisi così lunga ed irre-
versibile.
L’idea di una nemesi storica che giustificasse il contrasto fra lo
splendore di un’antichissima storia di libertà e le condizioni di so-
stanziale sudditanza attraverso il ricorso al pretesto – seppur par-
zialmente veridico – delle lotte secolari tra le fazioni cittadine, cui
diede l’incipit la diplomazia veneziana nel 156117, fornendo un alibi
strumentale ai contemporanei antiquari e cronisti – non soltanto, si
noti, quelli cortigiani fiorentini –, che celebrarono, senz’alcun pudo-
re critico, l’addomesticamento cosimiano, esaltando la figura del
principe pacificatore che aveva eroicamente imbrigliato lo Stato di
Siena, restaurando l’ordine politico e il benessere turbato dalle lotte
civili, seme della sanguinosa, memoranda guerra, dev’essere ridi-
mensionata.
Pare, infatti, evidente come la crisi meramente interna al sistema-

17 «[I] sanesi con la forma delli soliti offici loro, non li parendo di aver mutato gover-

no, se bene la condizione è mutata del tutto, stanno quieti, poiché dal terror del prencipe si
veggono cessar dal sangue ed esser sicuri delle tirannie de’ loro potenti cittadini [, i quali
...] avidi ed ambiziosi sovra modo delli onori, per farsi padroni dell’entrate pubbliche e per
usurparle a modo loro, sempre contendevano insieme fino al sangue, ammazzandosi e ta-
gliandosi a pezzi [...]. Ma finalmente le loro pazzie [...] li hanno condotti in servitù. Ma
però dicono publicamente che [...] saranno quelli medesimi che sono stati sempre, deside-
rosi di cose nuove. Il che conoscendo il prencipe, li va ponendo il freno, per levargli ogni
ardire e per abbassarli quanto più può». Cfr. Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a
cura di A. SEGARIZZI, cit., vol. III, parte I, cap. III (Relazione di messer Vincenzo Fedeli se-
gretario dell’illustrissima Signoria di Venezia tornato dal duca di Fiorenza nel 1561), pp. 123-
174: 131-132.
41

città senese, elemento peculiare, latente e patologico – come si è am-


piamente premesso – fin dal XIII secolo, si fosse manifestata in ma-
niera consueta, ma in un momento storico in cui risultò fatale per
l’indipendenza, giacché offrì alla Francia e agli Asburgo, in lotta per
il predominio sulla penisola, ed agli Stati italiani viciniori, loro allea-
ti, l’occasione propizia per ghermire, in un sol colpo, da un lato, lo
strumento politico e la base militare utile ai fini strategici per una ri-
presa del conflitto e, dall’altro, l’oggetto delle mire espansionistiche,
attuando, con inesorabile destrezza, il principio del carpe diem.
D’altro canto, non si può certamente negare come la crisi della li-
bertà senese, cui aveva dato il la il capitombolo della Signoria dei
Petrucci, ridestando le mal sopite, primigenie contese, debba impu-
tarsi ai gruppi politico-gentilizi tralatizi, che offrirono il fianco dello
Stato alla necrosi della soggezione, andando ad accodarsi alle poten-
ze in corsa per il predominio peninsulare e continentale. Di fatto,
già il 18 settembre del 1524, i Libertini (esponenti di Popolo, Rifor-
matori e, in misura minore, Gentiluomini), devoti all’Impero, nel
comun desiderio di ristabilire i principi repubblicani, al fine di ri-
portare in auge una larga partecipazione alle cariche, insieme a quei
noveschi delusi dal loro più illustre consociato, ordirono una con-
giura contro Fabio Petrucci, appoggiato dalla parte rimanente dei
Nove, che aveva messo in atto un’alleanza dinastica con Clemente
VII (prendendo in sposa Caterina di Galeotto de’ Medici), ponendo
così in luce, nel contempo, oltre le simpatie verso la casata medicea,
le tendenze filofrancesi, sue e dei suoi sodali.
L’«Expulsio Tiranni», protocollata dal notaio Sigismondo Tre-
cerchi, alla quale concorse «in favorem libertatis, universa quasi ci-
vitas cuiuscumque ordinis»18, non portò quale immediata e natura-
le conseguenza la pace civile ed una politica indipendente da inter-
venti esterni. Il dado era stato tratto, e l’ausilio di elementi estrinse-
ci – del tutto estranei ai riequilibri che sempre e comunque la lotta
tra fazioni aveva generato – per il recupero della libertà in senso
comunale, avrebbe compromesso per sempre l’indipendenza politi-
ca dello Stato.
Difatti, il ripristino mediato dei principi repubblicani e la riaffer-
mazione del coerente sistema di reggimento cittadino, garantito at-

18 Le citazioni sono tratte da A. K. ISAACS, Popolo e Monti, cit., p. 34.


42

traverso la compartecipazione ai consigli e uffici tradizionali di una


vasta classe politica, aveva, all’interno, ristabilito il libero gioco delle
fazioni, vero baluardo delle libertà municipali, ma, verso l’esterno,
lasciato spazio all’aggravamento della cancrena incubata nel ‘24,
che, nel giro di sei, brevissimi, anni, avrebbe generato i presupposti
della servitù nei confronti dell’Impero, con la definitiva amputazio-
ne dell’ulteriore species della libertà, che universalmente prende il
nome di sovranità. Ed a spalancare il portale all’espansionismo
asburgico, nel 1530, si sarebbero prodigati, sulle due ante, noveschi
e popolari insieme, ma in posizioni che, in poco tempo, avrebbero
avuto a rovesciarsi ineluttabilmente: i primi anelando e – ben pre-
sto, nel 1531 – ottenendo la riammissione, per mezzo dell’interces-
sione papalina, al godimento dei privilegi politici perduti, i secondi,
dapprima alleati fedeli, dappoi, istintivamente subodorando fosse in
procinto di smarrirsi, insieme con quella di Firenze, l’indipendenza
dell’amata patria, gli oppositori più risoluti.

3. LA SOPRAVVIVENZA DEL SISTEMA MUNICIPALE


E LA RINASCITA DEGLI ISTITUTI FEUDALI

1. Malgrado la tanto decantata irrequietezza delle fazioni, messa


ancor più in evidenza dal rapido mutare del contesto storico, che ne
faceva spiccare la natura politica di amanti della lotta, le strutture
istituzionali che traghettarono verso lo «Stato nuovo» – come verrà
appellato, molto più tardi, il territorio della sconfitta Repubblica se-
nese, annesso al sacro Romano Impero nel 1555 ed infeudato a Cosi-
mo I nel 1557 – permasero protette, giacché lo Stato senese conservò
«per lungo tempo un ordinamento caratterizzato dalla sopravvivenza
di buona parte del suo patrimonio politico-giuridico medievale»19.
Le antiche magistrature cittadine riuscirono, infatti, anche duran-
te il periodo mediceo, ad avere una loro vitalità ed un loro potere,
nonché ad opporsi alla prepotenza di certi governatori o d’altri fun-
zionari granducali. Si viveva, a quell’epoca, un «clima di reciproca
diffidenza»20, di «forzata, non sincera, collaborazione tra il rappre-

19 Cfr. D. MARRARA, Studi giuridici sulla Toscana medicea, cit., p. 90.


20 Ivi, p. 153.
43

sentante del sovrano e l’organo rappresentativo della Comunità se-


nese»21: il collegio della Balìa, la cui trasformazione in organo per-
manente nel decennio 1450-60 segnò il punto cruciale del passaggio
dal particolarismo corporativo del Comune medievale allo Stato
moderno:

«The Balia, for example, although theoretically an all-powerful but only an


occasionally appointed magistrature, by 1500 was permanent and had effecti-
vely taken over legislative and executive authority from the older magistratu-
res and councils. Composed of the coalition’s elder statesmen, and endowed
in extraordinary powers in both domestic and foreign affairs, this magistrature
represented a kind of compromise between medieval corporatism and modern
monarchy, and with it the Sienese escaped both anarchy and tiranny»22.

Oltretutto, il ruolo della magistratura in questione era ormai sen-


tito come necessario, essendo essa compenetrata nella prassi costitu-
zionale senese, proprio dalla suprema magistratura, tanto che, ancor
prima della metà del secolo XV, già

«il 17 giugno 1431, essendo prossima a scadere la balìa in carica, il Concistoro


deliberò di chiedere al Consiglio Generale che ne venisse eletta immediata-
mente un’altra, in quanto lo stesso Concistoro non si riteneva in grado di go-
vernare la repubblica, senza essere affiancato da tale magistratura straordina-
ria, che di straordinario aveva ormai solo la forma della elezione, della delega
del potere e della deroga alle disposizioni statutarie»23.

Per di più, lo sforzo di superare la natura cittadina del nuovo Sta-


to, messo in atto da Cosimo I, trovò un insuperabile ostacolo nella
disfunzione della pubblica amministrazione, un fattore che si legava
strettamente a quello della «rifeudalizzazione»24, vale a dire delle
nuove infeudazioni di terre e comunità con cui, soprattutto nel XVI e
XVII secolo, i granduchi delegarono all’aristocrazia tutti i poteri che,
specie nello «Stato nuovo», il governo non riusciva ad esercitare.

21 Ibidem.
22 Cfr. D. L. HICKS, Sienese society in the Renaissance, cit., pp. 414-415.
23 Cfr. G. PRUNAI - S. DE’ COLLI, La Balìa dagli inizi del XIII secolo fino alla invasione

francese (1789), in «Bullettino Senese di Storia Patria», LXV (1958), pp. 33-96: 48-49.
24 Il termine deve essere inteso nella sua accezione più comune, concernente la tenden-

za dell’aristocrazia ad approfittare della debolezza statale per ricostituire, nelle campagne,


«una situazione di dominio che aveva molti dei caratteri del feudalesimo». Cfr. G. LUZZATO,
Per una storia economica d’Italia, Bari, Laterza, 1968, p. 80.
44

Dopo l’ascesa al potere dei Medici – e precisamente con Cosimo


I –, si assistette – come in altri Stati italiani in cui il feudalesimo era
rimasto sempre in vigore, ma con caratteristiche ben differenti dalle
antiche – al risorgere del feudo, per cui, accanto alla feudalità origi-
naria, che ripeteva le proprie origini o dall’Imperatore o dal Papa, si
formò un nuovo ceto di feudatari che, per la maggior parte, traeva
origine dalla grande «borghesia» fiorentina e senese. In ogni modo,
non venne a configurarsi una classe feudale distinta come ordine
privilegiato dello Stato, ma una nuova aristocrazia gravitava attorno
alla corte medicea.

2. Lo Stato toscano, così come si era venuto formando dai tempi


della Repubblica, fino all’ascesa dei Medici ed alla conquista di Sie-
na, non aveva una organizzazione centralizzata nel senso moderno,
sia per quanto riguardava l’amministrazione finanziaria, sia per
quella giudiziaria. La graduale annessione dei vari Comuni, avvenu-
ta nel corso di più secoli, non aveva provocato una riorganizzazione
unitaria dei territori che man mano si erano aggiunti a quelli del-
l’antica Repubblica; questa aveva preferito lasciare intatta l’organiz-
zazione delle varie comunità e mantenere in vigore, almeno formal-
mente, gli statuti che regolavano l’amministrazione finanziaria e
quella della giustizia, sia pure modificandoli in qualche parte25.
Le investiture feudali comportavano due specie di vantaggi e, di
conseguenza, altrettante categorie d’entrate: le une erano legate al-
l’esercizio della giurisdizione, per cui il sovrano affidava al feudata-
rio, nella quasi totalità dei casi, la giurisdizione civile, criminale e
mista, fino alle pene corporali; le altre derivavano dalla gestione del-
le imposte cui lo Stato rinunziava a favore dei feudatari, dai vari di-
ritti che spettavano al fisco (caccia, pesca, legnatico e così via) e an-
che dalle gabelle che si riscuotevano da quest’ultimo.
Furono, però, creati organi centrali per il controllo delle finanze
locali, nonché una organizzazione centralizzata per la riscossione
delle gabelle e dei tributi che le varie comunità dovevano versare al-
lo Stato per le spese generali. Soprattutto, si provvide ad inviare in
periferia cittadini fiorentini per amministrare la giustizia civile e pe-

25 Cfr. E. FASANO GUARINI, Lo stato mediceo di Cosimo I, cit., passim.


45

nale ed anche al fine di controllare in loco l’amministrazione econo-


mica delle collettività, dividendo tutto il territorio in capitanati, vi-
cariati, potesterie, ove gli inviati della dominante, insieme ai loro uf-
ficiali, avevano praticamente in mano tutta la vita locale26.
In particolare, il funzionamento dell’amministrazione della giusti-
zia, che già era estremamente complicato dalle contese per l’appli-
cazione dei diritti derivanti dalle norme degli statuti locali, del dirit-
to comune e degli statuti di Firenze – senza dimenticare, per deter-
minate materie, la giurisdizione esclusiva di alcuni tribunali sia nel-
l’ambito della potestà giudiziale civile, sia penale –, subiva l’ingeren-
za della legislazione granducale, che finiva per prendere il soprav-
vento, attraverso bandi, ordini e provvisioni, andando a consolidare
la supremazia del principe, soprattutto per il diritto penale, meno
spesso per quello civile e frequentemente in materia di riscossione
delle imposte, dando luogo ad abusi di ogni genere.

3. A tutto ciò – come preannunziato – andò a sommarsi il feno-


meno della «rifeudalizzazione», nei secoli XVI, XVII e nel primo
decennio del XVIII, il quale – più per lo Stato senese che per l’inte-
ra Toscana – può essere considerato d’indubbia rilevanza, al fine di
cogliere, da un lato, i motivi della progressiva trasformazione del ce-
to nobiliare e, dall’altro, il riaffiorare ed il rafforzarsi, sul piano eco-
nomico, di consuetudini e rapporti caratteristici di un passato feu-
dale, solo superficialmente scalfito dalla dominazione comunale27.
Nel territorio dell’ex Repubblica senese, infatti, la ripresa di pre-
cedenti rapporti «feudali» e le numerose, nuove infeudazioni di ter-
re e comunità, promosse dai Granduchi nel ’500 e nel ’600, possono

26 Per un inquadramento esaustivo del sistema giurisdizionale-amministrativo, cfr., oltre

E. FASANO GUARINI, Lo stato mediceo di Cosimo I, cit., passim, D. MARRARA, Storia istituzio-
nale della Maremma senese, Siena, Editoriale d’Arte Meini, 1961, pp. 137-201, nonché D.
BARSANTI, La Toscana dai Medici ai Lorena. Vicende politiche e rinnovamento dello Stato, in
«Bollettino della Società Storica Maremmana», vol. 47-48, anno XXV (dicembre 1984),
pp. 11-83.
27 Per un quadro d’insieme del fenomeno in Toscana, si rimanda a G. PANSINI, Per una

storia del feudalesimo nel Granducato di Toscana durante il periodo mediceo, cit. In merito al
territorio senese in particolare, si vedano: I. POLVERINI FOSI, Feudi e nobiltà: i possessi feuda-
li dei Salviati nel senese (secoli XVII-XVIII), in «Bullettino Senese di Storia Patria»,
LXXXII-LXXXIII (1975-1976), pp. 239-273; L. BONELLI CONENNA, Proprietà fondiaria e
rifeudalizzazione nello Stato senese tra il XVI e il XVII secolo, ivi, pp. 405-412.
46

senz’altro essere individuate quali principali fattori che ostacolaro-


no lo sviluppo economico e sociale, specie delle parti del contado
più lontane dai centri urbani e già coinvolte in una irrimediabile cri-
si, dopo la perdita della libertà repubblicana.
In particolare, le costanti e caratteristiche dei nuovi feudi voluti
da Cosimo I erano rappresentate dalla concessione delle terre e co-
munità a titolo gratuito ed onorifico – spesso per compensare per-
sone a lui particolarmente fedeli – e dal palese tentativo di restrin-
gere, già nella stesura dei diplomi d’investitura, le prerogative riser-
vate ai signori.
I nomi degli acquirenti di terre a titolo feudale, nel senese, erano
quelli degli esponenti del patriziato e della grossa «borghesia» mer-
cantile e finanziaria fiorentina, da un lato, e dei riseduti senesi, dal-
l’altro. Fra questi ultimi, comparivano i nomi delle famiglie di blaso-
ne che per secoli avevano monopolizzato il potere cittadino, quali i
Piccolomini, i d’Elci, i Tolomei: tutte consorterie ascritte al Monte
dei Gentiluomini28.
Una precisa volontà di legare alla corte, attraverso le concessioni
feudali, le principali casate fiorentine e la nobiltà senese sconfitta è
chiaramente alla base di un documento che sembra opportunamen-
te chiarire le premesse teoriche del fenomeno di progressiva aristo-
cratizzazione della società toscana durante il Principato. Si tratta di
una «memoria» indirizzata al sovrano e significativamente intitolata
Discorso et forma di fare Feudatari nello Stato di Siena29, risalente,
con buona probabilità, all’epoca di Ferdinando I (1587-1609), dalla
quale è stato possibile desumere come, per i primi successori di Co-
simo I, il far feudatari avesse già assunto un significato politico ed
economico ben chiaro:

«Benché da molti de’ nostri Cittadini prudentemente et con vive ragioni Le

28 Si vedano i seguenti studi sulle famiglie in parola: M. AGLIETTI, La famiglia Piccolo-

mini nell’Ordine di S. Stefano, in Atti del Convegno «L’Ordine di Stefano e la nobiltà senese»,
(Pisa, 8 maggio 1998), pp. 65-133; E. PANICUCCI, La famiglia Tolomei nell’Ordine di S. Stefa-
no, ivi, pp. 135-171; E. BALDASSERONI, I Pannocchieschi d’Elci. La commenda “Elci prima” e
le presenze del ramo di Carlo di Achille nell’Ordine di Santo Stefano, in «Quaderni Stefania-
ni», XXIV (2005), supplemento, pp. 127-221.
29 Discorso et forma di fare Feudatari nello Stato di Siena, cfr. I. POLVERINI FOSI, Un pro-

gramma di politica economica: Le infeudazioni nel Senese durante il Principato mediceo, in


«Critica Storica», anno XIII, num. 4 (1° dicembre 1976), pp. 76-88 (660-672): Appendice,
pp. 85-88 (669-672).
47

sia stato discorso sopra ’l modo di poter honestamente accrescere le rendite


pubbliche in questo Suo Nuovo Stato [...], nondimeno io desideroso di servir-
La, alcune cose sopra ciò Le propongo. Dico dunque esser tre le principali ca-
gioni, che fanno l’humane potenze ringrandire et quelle perpetuare, la prima il
poter comandar’ a molti, la siconda l’haver grand’abbondanza di viveri, oltre
il bisogno de’ suoi popoli, l’ultima l’haver sempre l’erario pieno d’ordinarie
rendite, senza gravar li sudditi. Risguardando per ciò questo Suo Stato Senese
[...], il nostro ordine, se almeno non darà utilità grande (com’io spero), non
scemerà le rendite ordenarie in parte alcuna et necessariamente si farà aug-
mento di Vassalli et Signori obbligatissimi. Faremo adunque a guisa di buon
agricoltore che, havendo un bellissimo arbore, ma non tutto fruttifero per non
poter l’aria entrare per tutto, lo pota, acciò possa costodir quelle parti che ri-
mangono et, per non lassar ancor’inutili quelle che si separano, le traspone et
fa arbori nuovi per aumentar il frutto e ornar la posissione».

Durante il governo del cardinale Medici, infatti, occorrevano co-


spicue somme per la retribuzione dei segretari, degli auditori, dei
vari funzionari preposti ai nuovi organi con doveri di controllo e
coordinamento fra la capitale ed il territorio, dove ancora forti per-
manevano le tendenze particolaristiche. Si doveva cercare, dunque,
di far fruttare, nel modo meno dispendioso possibile, anche le parti
più povere dello Stato e, nell’attesa, ricavare da esse ugualmente
qualche provento sicuro. Negli ultimi decenni del Cinquecento, pa-
reva prospettabile al principe una soluzione da accogliere con gran-
de fiducia:

«potando [...] dodici [numero che, in realtà, fu largamente superato] tenute


nel Suo Stato Senese di luoghi dishabitati et inutili, quali servano solo per pa-
scolo, ne faremo Signorie libbere col far dar loro fitto perpetuo alla Granca-
mera Ducale di tutto quello che hoggi se ne cava ogn’anno. Et avverrà in un
medesimo tempo che si priverà di cose inutili et che, trasponendo questi rami
ne’ suoi sudditi, farà sì che loro, per queste franchigie et honori, volteranno
non solo le lor’industrie et diligenze in questo negozio, ma ancor ogni loro fa-
coltà et ricchezze. Et per questo [...] utilità grandissime ne nasceranno [...]
perché crescerà di Vassalli ricchi et nobili che illustreranno la Sua Corte».

Se, da una parte, la rinunzia di poteri a favore di privati – equiva-


lente, peraltro, ad un riconoscimento dei limiti degli organi statali
sul piano operativo – profilava un rimedio alle disagiate condizioni
economiche e demografiche, dall’altra non metteva in discussione
né il rispetto scrupoloso dei capitoli e statuti vigenti, né, tanto me-
48

no, l’assoluto difetto di autorità sopra i riseduti senesi. Ed è questo


l’elemento più rilevante sotto l’aspetto politico-istituzionale, da con-
siderare, però, difficilmente separabile da quello socio-economico,
giacché «studiando i problemi della evoluzione economica, dobbia-
mo sempre seguire il legame esistente con tutto il complesso di ar-
gomenti che trattano la storia della società e la sua vita culturale e
intellettuale. La questione economica in un tale complesso deve oc-
cupare un posto onorevole e ben spesso preponderante, ma non
esclusivo»30.
I signori, quindi, avrebbero dovuto assumere le vesti sia di fun-
zionari coscienti e fedeli al servizio dello Stato, sia di imprenditori
economici. Non si esigeva, tuttavia, una trasformazione dell’aristo-
crazia in senso esclusivamente cortigiano e parassitario; ma, piutto-
sto, nell’indirizzare i suoi interessi e finanze verso un piano di colla-
borazione con lo Stato, si vedeva un sistema sicuro per il sovrano:

«[...] in questo modo Ella conoscerà quanta rendita augmenteranno questi


luoghi inculti et salvatichi, essendo sicura prima quello che hoggi fruttano Le
sarà fermo et sicurissimo et di poi illustrarà il Suo stato di nobili sudditi et in-
viandosi i più ricchi et honorati in questi negozij, s’alieneranno dalle male co-
gitazioni et per questi donativi se gli farà grandemente obbligati et con le ric-
chezze, fatiche et diligenze d’altri facilmente et in poco tempo agumenteranno
habitatori et si cultiveranno i luoghi già nobili et hoggi disabitati».

Appare chiara l’allusione alle grandi famiglie che avevano rico-


perto ab antiquo i principali uffici delle Repubbliche fiorentina e se-
nese. L’aristocrazia, infatti, aveva visto mutare il proprio ruolo fin
dall’inizio del Principato, quando Cosimo I aveva cominciato a cir-
condarsi della nuova «nobiltà burocratica»31 di sua fiducia e dal
passato sicuro, caposaldo della struttura amministrativa da poco
creata:

«tutta una serie di nuovi uffici, alle dirette dipendenze del Duca (solo dal

30 Cfr. V. RUTENBURG, Storia del Medio Evo italiano nelle opere degli scrittori russi e so-

vietici, in «Archivio Storico Italiano», CXX (1962), pp. 347-378: 347.


31 Cfr. R. VON ALBERTINI, Firenze dalla Repubblica al Principato, Torino, Einaudi, 1970,

p. 285. «Per la prima volta, la celebre vicenda del crollo della repubblica e del trionfo del
governo assoluto mediceo è trattata dall’Albertini con moderna metodologia storica e ricca
documentazione», cfr. F. DIAZ, Il Granducato di Toscana – I Medici, Torino, Utet, 1987,
p. 549.
49

1569 Granduca), vennero da allora in poi sovrapposti ai precedenti, senza


cancellarli, ma ovviamente diminuendone funzioni ed importanza fino a tra-
sformarli in meri collegi di notabili. In tal modo nasceva quel complicato ap-
parato amministrativo e giudiziario che i Lorenesi non riuscivano proprio a
capire per il suo groviglio di giurisdizioni e competenze, e che appariva loro
del tutto superato e profondamente “anarchico”. A conferma che Cosimo, di-
viso fra il desiderio di divenire signore assoluto e la necessità di mantenere le
apparenze del vecchio regime repubblicano, non ebbe un piano assolutistico
precostituito, ma il suo fu un dominio autoritario in formazione, “sul filo del-
l’opportunità”, dice bene Diaz, sta il fatto che solo gradualmente fondò nuovi
uffici, nei quali avevano sopravvento figure individuali, sue creature fidate e
scelte non più in base a criteri di nascita (nobili o aristocratici) e spesso nep-
pure cittadini fiorentini, ma per capacità professionali (rappresentanti del ceto
burocratico o notarile, non di rado di umili origini)»32.

Fu, quindi,

«l’illusione di vivere nel prestigio del passato che, re[se] possibile a Cosimo di
tenere legata a sé e sottoposta in pratica l’aristocrazia»33.

Ancora alla fine degli anni ’80, quando il Principato venne assu-
mendo sempre più chiaramente i caratteri di Stato assoluto ed il
coevo pensiero politico ne elaborò la giustificazione teorica34, si po-
teva temere un riaccendersi delle «male cogitazioni»35 nella mente
di coloro che, per secoli, avevano dominato nella vita politica citta-
dina. Ma i giudizi degli osservatori esteri delle questioni di Toscana,
se da una parte alludevano alla creazione di un sistema di spionag-
gio e di sorveglianza, dall’altra mostravano una buona dose di scetti-
cismo dinanzi all’eventualità di rievocazioni nostalgiche da parte
della nobiltà, volte alla riconquista di antichi diritti politici e privile-
gi sociali dell’età repubblicana:

«Li pensieri che debbono avere tutti li principi, che dominano questo Sta-
to, si riducono a due capi: l’uno, di fermar bene le cose sue quanto alli pericoli
interni; l’altro di assicurarle quanto alli pericoli esterni. Internamente può es-

32 Cfr. D. BARSANTI, La Toscana dai Medici ai Lorena, cit., p. 13.


33 Ibidem.
34 Cfr. S. BERNER, Florentine political thought in the late Cinquecento, in «Il Pensiero

politico», III, 1970, pp. 177-199.


35 Cfr. Discorso et forma di fare Feudatari nello Stato di Siena, cit., in I. POLVERINI FOSI,

Un programma di politica economica, cit., Appendice, pp. 85-88 (669-672): 88 (672).


50

sere perturbato macchinandosi o contra il governo e contra il principato, o


contra la persona del principe. Le macchinazioni contro il governo sono le se-
dizioni e li movimenti popolari, quelle contro la vita sono le congiure. A tutti
e due questi contrari, con prudenza e con industria, hanno procurato di ovvia-
re e di troncare la strada questi principi, e pare che si siano così assicurati, che
poco timore debba aver luogo negli animi loro. Perché, considerando li moti
sediziosi, [...] essendo li cittadini nobili e potenti parte estinti, parte allontana-
ti e dispersi in vari luoghi, e, essendo quei che avevano gustato la libertà già
morti ed i suoi discendenti avendo in sé medesimi abolito questa memoria,
non si vede che possa nascere alcun pericolo da questo canto. Gli altri che vi-
vono nella città essendo per la maggior parte deboli di fortuna e forse d’ani-
mo, sono più tosto atti a tollerare la servitù che a vendicare la libertà»36.

Come aveva già ben chiaro l’ambasciatore Fedeli, nel 1561, in


merito ai

«sanesi [i quali,] con la forma dei soliti offici loro, non li parendo di aver mu-
tato governo, se bene la condizione è mutata del tutto, stanno quieti, poiché
dal terror del prencipe si veggono cessar dal sangue ed esser sicuri dalle tiran-
nie dei loro potenti cittadini»37.

Il preciso disegno politico di servirsi del sistema di «fare feudata-


ri», per togliere al governo il peso dell’improduttività e dello stato
di depressione demografica di gran parte delle comunità senesi38,
fu, dunque, applicato largamente, ma, in buona sostanza, sortì scar-
si risultati. Il senese, nei secoli XVI e XVII, subì il fenomeno in pa-
rola come generale deterioramento delle già precarie condizioni
economiche ed amministrative delle comunità infeudate, a causa,
per l’appunto, della ripresa di vigore di consuetudini anacronisti-
che, nel progressivo sfaldamento dello Stato granducale, che trova-
va causa ed effetto nella sempre maggiore possibilità del signore

36 Cfr. Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di A. SEGARIZZI, cit., vol. III,

parte II, cap. VIII (Relazione delle cose di Toscana di Tomaso Contarini ambasciatore del Car-
dinale Granduca, 1588), pp. 37-104: 76-77.
37 Ivi, vol. III, parte I, cap. III (Relazione di messer Vincenzo Fedeli segretario dell’illu-

strissima Signoria di Venezia tornato dal duca di Fiorenza nel 1561), pp. 123-174: 130.
38 Sull’argomento, si veda il ricco saggio, accompagnato da una copiosa bibliografia, di

L. BONELLI CONENNA, Crisi economica e demografica dello Stato senese agli inizi del XVII se-
colo, in AA.VV., Contadini e proprietari nella Toscana moderna (Atti del Convegno di studi in
onore di Giorgio Giorgetti), vol. 1, Dal Medioevo all’Età moderna, Firenze, Leo S. Olschki
Editore, 1979, pp. 495-521.
51

feudale di far prevalere i suoi interessi a scapito di quelli del sovra-


no e dei vassalli. In Toscana, quindi, non si creò una classe feudale
che fosse costituita come ordine o stato privilegiato in quanto tale,
come era avvenuto nel regno di Napoli ed in altre parti d’Italia e
d’Europa. I nuovi feudatari appartenevano per lo più all’aristocra-
zia che gravitava intorno alla corte medicea: essi avevano ricevuto i
feudi come graziosa elargizione per meriti particolari, o li avevano
acquistati dal principe, il quale li assegnava o vendeva anche ad
esponenti della nobiltà non toscana, per i più diversi motivi perso-
nali, o, più sagacemente, per mera opportunità politica.
***
Porre l’accento sulla rinascita di strutture desuete, ma inserite nel
più ampio quadro delle strutture statali, è parso d’uopo, giacché
studiando i rapporti concreti tra principe, feudatari e vassalli si può
approfondire la conoscenza dei problemi politici, economici e so-
ciali collegati alla realtà granducale in piena età medicea.

4. CRISI DELLA NOBILTÀ E DIRITTI POLITICI

1. È stato sostenuto un certo scetticismo rispetto alla crisi della


nobiltà europea fra Cinque e Seicento. Il giudizio secondo il quale
«la noblesse ne decline pas; elle se transforme en des aristocra-
ties»39, però, trova, apparentemente, il suo contraltare in relazione
alla realtà senese:

«È ormai un luogo comune che molte delle vecchie nobiltà d’Europa subi-
rono una severa crisi demografica nel sedicesimo, diciassettesimo e diciottesi-
mo secolo [... e] sembrerebbe che alcuni avvenimenti di questi anni siano stati
particolarmente gravi per le vecchie nobiltà della penisola italiana. Non si vuol
dire che queste, come classe, siano state soppiantate nei loro privilegi, di ric-
chezza o di rango, da gente nuova in ascesa da una posizione inferiore alla lo-
ro nella scala sociale o da stranieri entrati nella penisola al seguito di gover-
nanti stranieri. Il fatto è che molte delle vecchie nobiltà italiane decaddero
dall’interno. Questo fu certamente il caso [...] della nobiltà di Siena sotto i

39 Cfr. F. BILLACOIS, La crise de la noblesse européenne (1550-1650). Une mise au point,

in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», XIII (1976), pp. 258-277: 277.


52

Medici e gli Asburgo-Lorena negli anni che vanno dal 1560 al 1779[, ... nel
corso dei quali vi fu il] declino nel numero e nella qualità di quelli che ne face-
vano parte»40.

Ma se da un lato si sono forniti dati certi per sostenere che il ceto


dei riseduti senesi – e, in particolar modo, il nostro sguardo si volge
ai consorti d’antica stirpe, annoverati tra i Gentiluomini – subì una
contrazione quantitativa, passando da 260 famiglie nel 1560, a 110
nel 1760 (declino ancor più rilevante qualora si considerassero tutti
i rami delle schiatte)41, oppure, ancora, per rilevare il decremento
dei nobili politicamente attivi, dall’altro pare essere fuor di dubbio
che

«a estinguersi furono anzitutto le famiglie meno rilevanti e politicamente me-


no attive. Quasi che il declino delle famiglie nobili abbia riguardato in misura
assai più rilevante gli strati più bassi della nobiltà senese, le famiglie meno im-
portanti nella scala economica e sociale e meno presenti sulla scena politica
cittadina»42.

E il processo or ora posto in evidenza diverrebbe ancor più mar-


cato qualora il campo d’osservazione fosse ristretto alle prime venti
famiglie più importanti, tra quelle che occuparono le cariche politi-
che di maggior rilievo nelle magistrature cittadine43, al vertice del si-
stema istituzionale:

«Non solo il Consiglio Generale sceglieva la Signoria e copriva i vari uffici ri-
servati ai nobili senesi, ma i suoi membri monopolizzavano i più importanti uffi-

40 Cfr. G. R. F. BAKER, Nobiltà in declino, cit., pp. 584-616: 584-585.


41 Ivi, p. 591.
42 Cfr. M. VERGA, Riseduti e popolo, in Storia di Siena. II. Dal Granducato all’Unità, a

cura di R. BARZANTI - G. CATONI - M. DE GREGORIO, Siena, Alsaba, 1997, pp. 9-24: 18.
43 Nell’arco temporale 1560-1779, tra le famiglie nobili senesi politicamente più attive,

le quali potevano vantare oltre 50 Capitani del Popolo o membri della Balìa, il gruppo ri-
stretto rappresentato dalla ventina ostentante i cognomi più antichi e prestigiosi concentrò
nelle proprie mani, continuativamente, il dominio oligarchico sulla città. In particolare, ben
sette di esse erano ascritte al Monte dei Gentiluomini: Piccolomini, Pannocchieschi d’Elci,
Spannocchi, Tolomei, Venturi, Bandinelli, Ugurgieri. Cfr. G. R. F. BAKER, Nobiltà in declino,
cit., tabella IV, p. 596. Inoltre, si vedano i seguenti studi sulle famiglie in parola: M. AGLIET-
TI, La famiglia Piccolomini nell’Ordine di S. Stefano, cit.; E. PANICUCCI, La famiglia Tolomei
nell’Ordine di S. Stefano, cit.; E. BALDASSERONI, I Pannocchieschi d’Elci, cit.; A. RUIU, La fa-
miglia Ugurgieri nel patriziato senese e nell’Ordine di S. Stefano, in «Quaderni Stefaniani»,
XXVI (2007), supplemento, pp. 117-208.
53

ci dello stato di Siena sotto i Medici e dopo, il Capitano del Popolo e la Balia»44.

Ecco, allora, che, nel più ampio spettro delle tanto decantate –
ma non meglio identificate – crisi che caratterizzarono le differenti
realtà nobiliari europee su vasta scala in età moderna,

«sarebbe importante possedere valide ricostruzioni complessive; ma il secolo


che va dal 1550 al 1650 non solo sfugge a una definizione globale, bensì anco-
ra lascia ampiamente insoddisfatti nelle sintesi particolari»45.

Il rilievo sul contesto generale pone ancor più in risalto la pecu-


liarità della situazione senese, ove si ritenga opportuno sottolineare,
anziché un processo diffuso di decadimento e crisi nobiliare – che
deve, piuttosto, imputarsi a cause strettamente economiche e sociali
di più ampio raggio, giacché le

«basi economiche, sociali e politiche della società europea subirono dei cam-
biamenti radicali che si ripercossero sui criteri e sentimenti degli uomini del
tempo. Nel settore della economia le forme tradizionali della produzione agri-
cola, del commercio e dell’industria continuarono a esistere accanto a nuovi
emergenti modi di produzione. [...] I nuovi fenomeni, in contrasto con le vec-
chie strutture, scardinarono una società di “ordini” in cui la presenza delle di-
verse classi sociali non era tuttavia accompagnata da una chiara “coscienza di
classe”»46 –,

la rigenerazione interna all’élite dirigeante,

«che non sarebbe sbagliato indicare come un processo di selezione di un ceto


dirigente, numericamente più ristretto, ma politicamente e socialmente più si-
gnificativo[, ...] tanto più accentuato quanto più si procede lungo il Seicento»47.

Ed ancora, è stato sostenuto, a ragione, in merito ai due concetti

44 Cfr. G. R. F. BAKER, Nobiltà in declino, cit., p. 590.


45 Cfr. O. DI SIMPLICIO, La crisi della nobiltà, in «Studi Storici», anno 18 (1977),
pp. 201-216: 201.
46 Ivi, pp. 201-202. Per un approccio storiografico concernente la stratificazione socia-

le, si veda lo studio consolidato ed esaustivo di R. MOUSNIER, Les hiérarchies sociales de


1450 à nos jours, cit., disponibile nella traduzione italiana: Le gerarchie sociali, a cura di E.
ROTELLI, cit., passim.
47 Cfr. M. VERGA, Riseduti e popolo, cit., in Storia di Siena. II. Dal Granducato all’Unità,

cit., p. 18.
54

di «aristocratizzazione» e «rifeudalizzazione», come, spesso,

«nel constatare la chiusura di classe dei gruppi dirigenti, e il monopolio eredi-


tario del potere che essi si vengono assicurando nelle città e nei contadi, si
provi un senso di astrattezza. Sulle famiglie nobili, sulle loro tradizioni, la loro
cultura, il loro patrimonio, e infine sulla natura stessa del loro peso nella vita
pubblica, sappiamo ancora poco; non di più, in complesso, di quanto i genea-
logisti e gli eruditi sei e settecenteschi ci avevano già detto. Intendere chi sono
e donde provengono questi vecchi e nuovi nobili che ora per due, ora per tre
secoli saranno in quasi tutto il quadro italiano i protagonisti principali ed ege-
moni, rappresenta uno dei necessari punti di sbocco cui conduce lo studio del
problema»48.

Appare quindi lecito ritenere come, almeno per il nocciolo duro


delle antiche schiatte senesi, l’innesto della Repubblica nel Principa-
to mediceo abbia evidenziato

«la continuità del potere sulle istituzioni cittadine, nei limiti[, ...] nell’ambito e
nelle condizioni dettat[i] dalla realtà delle istituzioni e degli equilibri politici
dello Stato mediceo: in confronto continuo, quindi, con gli indirizzi politici
che volta a volta si affermavano a Firenze. Ed è con questa realtà che il ceto
dirigente senese dovette misurarsi e confrontarsi, cercando altre strade e altri
obiettivi di affermazione politica e sociale»49.

Si può, pertanto, in conclusione, porre a chiosa del ragionamento


sul rapporto tra la crisi della nobiltà europea e la peculiare realtà se-
nese, la medesima affermazione, di lavoisieriana memoria50, dalla
quale si son prese le mosse:

«la noblesse ne decline pas; elle se transforme en des aristocraties»!

48 Cfr. M. BERENGO, Patriziato e nobiltà: il caso veronese, in «Rivista Storica Italiana»,


LXXXVII (1975), fasc. III, pp. 493-517: 493.
49 Cfr. M. VERGA, Riseduti e popolo, cit., p.19.
50 La prima legge che governa le reazioni chimiche fu enunciata da Antoine Laurent

Lavoisier (1743-1794), padre della chimica moderna, nell’anno della rivoluzione francese
(A. L. LAVOISIER, Traité élémentaire de chimie, Paris, Cuchet, 1789), per la quale perse la te-
sta, sotto la ghigliottina, ed è nota come «principio di conservazione della massa»: «niente si
crea nelle operazioni dell’arte ne’ in quelle della natura e si può porre come principio che in
ogni operazione vi è una quantità uguale di materia prima e dopo l’operazione, che la qua-
lità e la quantità dei principi [elementi] è la stessa e che si verificano solo cambiamenti e
modificazioni».
55

2. A questo punto, per chiarire le più rilevanti questioni pertinen-


ti il concetto di nobiltà, in relazione ai diritti politici, non si può
prescindere dal ricordare – quanto meno – il Discorso sopra lo stato
antico e moderno della nobiltà di Toscana51 – vero e proprio proget-
to preparatorio di una legge –, che, come, da un lato, occorre al
chiarimento di natura ed estensione dello status nobiliare, così, dal-
l’altro, soccorre lo scopo di fissare le prerogative che i nobili pote-
vano avere nell’esercizio dei diritti politici.
Il Neri affrontò con chiarezza le questioni concernenti la nozione
di nobiltà, quale si configurava agli albori della Reggenza lorenese,
illuminata e riformatrice, che, tuttavia, non seppe – né volle – trarre
insegnamento e profitto dalle lucide proposizioni del colto giurista,
disancorando il concetto in parola dalla titolarità dei diritti politici,
andando così a discriminare una parte rilevante dell’aristocrazia ci-
vica, con il noto atto normativo del 1750.
Ed è proprio alla luce della problematica in parola che è parsa più
congeniale, quale oggetto della ricostruzione storica sotto il profilo
politico-istituzionale, la scelta, fra le oligarchie cittadine toscane di

«quella senese [che] – sia per essere propria di una città capitale [dello Stato
“nuovo”] sia per essere politicamente più consistente e giuridicamente più au-
tonoma rispetto a quella dell’altra “metropoli” – assumeva una posizione di
primissimo rilievo ed un valore paradigmatico, anche fuori dei confini del
Granducato: era, in una parola, quella che maggiormente si avvicinava al mo-
dello delle più antiche e prestigiose nobiltà cittadine italiane»52.

In particolare, l’analisi della nobiltà civica senese durante il Prin-


cipato, sotto il punto di vista strettamente normativo, deve prendere
le mosse dagli statuti del 1544-45, che rimasero in vigore, con alcu-
ne modifiche, per circa due secoli53. È d’uopo, se non altro, tener
presente come essi contemplassero tre categorie nell’ambito del si-
stema oligarchico municipale: i cives, i cives de regimine (titolari del-
l’elettorato passivo per la suprema magistratura) e i riseduti (in ge-
nerale, tutti coloro che avessero già occupato un seggio nel Conci-
storo), che andavano a comporre la categoria di gran lunga più im-

51 P. NERI, Discorso, cit., in M. VERGA, Da cittadini a nobili, cit., pp. 403-567.


52 Cfr. D. MARRARA, Riseduti e nobiltà, cit., 60.
53 Si veda il saggio introduttivo a L’ultimo statuto della Repubblica di Siena (1545), a cu-

ra di M. ASCHERI, cit., pp. V-XXXVI.


56

portante a livello istituzionale, giacché costituita da tutti i soggetti


che godevano, de iure, della pienezza dei diritti politici – la cui tito-
larità era accordata, de facto, anche a soggetti equiparati ai discen-
denti dei riseduti –.
Dopo l’avvento del Principato mediceo, tutti i riseduti senesi co-
minciarono a chiamarsi nobili, anche se

«la nobiltà più antica (quella ascesa al potere già in età repubblicana) aveva, e
conservò sempre, una posizione di preminenza rispetto alla nobiltà di recente
creazione, in ciò favorita non soltanto dalle disposizioni legislative, dalla quo-
tidiana prassi di governo, dalle dottrine elaborate dai giuristi e dagli scrittori
politici, ma anche da circostanze obiettive. Essa comprendeva, infatti, alcune
grandi famiglie, politicamente molto influenti per la loro presenza plurisecola-
re nella guida della comunità cittadina, ragguardevoli per il numero cospicuo
dei loro componenti, solide per l’entità delle loro rendite patrimoniali»54.

Gli homines novi, dunque, pur nominalmente inseriti, a pieno ti-


tolo, nel ceto dirigente municipale, dovettero subire lo svilimento
del loro status, a causa

«della formazione di una ristretta oligarchia di fatto nel seno della più ampia
oligarchia di diritto»55.

Difatti, proprio nell’arco temporale bicentenario di vigenza degli


statuti cinquecenteschi, il peso dei nobili nel governo cittadino an-
drà man mano scemando, finché la riforma municipale del 29 ago-
sto 1786 sancirà definitivamente la fine del monopolio nobiliare,
pur lasciando sopravvivere la Signoria concistoriale, ultimo baluar-
do della continuità storica dell’aristocrazia, andando a segnare la
maturazione dell’irreversibile declino che aveva travolto le antiche
roccaforti oligarchiche, cadute nel vuoto del baratro – profetizzato
e tanto temuto dal Lucarini, come si vedrà tra poco – lasciato dallo
spirare della dinastia medicea.

3. L’appena riferita crisi settecentesca della nobiltà senese trovò


un primo analista critico – dall’interno – in Alcibiade Bellanti Luca-
54 Cfr. D. MARRARA, Riseduti e nobiltà, cit., p. 161.
55 Ivi, p.103.
57

rini56, anch’egli membro indiscusso del ceto privilegiato senese, in


ragione di nascita, il quale, sospinto dalla sua anima di giurista, sug-
gerì al governo – ed in particolare al «Provveditore della Grascia e
Sale» –, tra le altre indicazioni di carattere economico-finanziario,
di obbligare i nobili a non restare oziosi, per impegnarsi in qualche
attività produttiva, a pena della perdita dei diritti quesiti:

«L’Arti della lana, seta e lino invigorirle, con quei modi che fussero propo-
sti dalli professori di quell’Arti, e con obbligare i riseduti ad impiegarsi in al-
cune di queste Arti, o colla persona, o con li denari, o col lavoro di Maremma,
soccite di bestiami e razze di cavalli; altrimenti non fossero capaci de’ magi-
strati e governi della città»57.

Non pago, l’autore del Parere per la Città e Stato di Siena rincarò
la dose, consigliando, inoltre, di redistribuire il potere su basi più
ampie, mettendo in discussione il monopolio dell’aristocrazia urba-
na sulla magistratura di maggior rilievo e prestigio – come dimostra-
to più sopra – fin dalla prima metà del secolo decimoquinto, rinver-
dendo l’assetto dei parlamenti d’ancien régime58:

«Se si desse il caso che s’avesse a mutare reggimento [in vista della proba-
bile estinzione della dinastia dei Medici], sarebbe forse bene il ridurre il nu-
mero di Balia a quaranta, cioè dieci ecclesiastici, la metà di preti secolari e l’al-
tra metà di monaci regolari, dieci de’ nobili della Città e dieci de’ principali
del contado, da cavarsi uno per Città e Capitanati dello Stato in elezzione de’
popoli loro, et altri dieci da cavarsi dall’università e corpi dell’artisti civili delle
dieci Arti più numerose e più discrete»59.

Ma se il primo consiglio citato può essere considerato un mero

56 A. BELLANTI LUCARINI, Parere per la Città e Stato di Siena fatto l’anno 1715, in BCSi,

Manoscritti, A IV 18, cc. 2r-17v. Lo scritto del Lucarini, di grande interesse sotto il profilo
storico-istituzionale, può essere reperito, in una recente edizione critica, nel volume di A.
ZAPPELLI, Alcibiade Bellanti Lucarini (1645-1724). Le vicende familiari, la presenza nell’Ordi-
ne di Santo Stefano e il pensiero politico di un nobile senese, Pisa, Edizioni ETS, 2002,
pp. 146-158.
57 Ivi, cc. 14r-14v, p. 155.
58 Per uno studio autorevole ed esaustivo sulla storia delle istituzioni parlamentari, si

veda A. MARONGIU, Il parlamento in Italia nel Medioevo e nell’Età moderna. Contributo alla
storia delle istituzioni parlamentari dell’Europa occidentale, Milano, Giuffrè, 1962.
59 Cfr. A. BELLANTI LUCARINI, Parere, cit., cc. 16v-17r, in A. ZAPPELLI, Alcibiade Bellan-

ti Lucarini, cit., p. 157.


58

monito, in linea con le affermazioni d’apertura del Parere, che ri-


chiamavano i rimedi di carattere morale, da estendersi all’ambito
economico-finanziario, il secondo assume un rilievo maggiormente
pregno di significato, in ragione delle implicazioni più strettamente
connesse con la realtà politico-istituzionale vigente, ritenuta in peri-
colo per l’imminente estinzione della stirpe medicea. Dunque, il fi-
ne ultimo del suggerimento in questione deve essere ricercato nel-
l’esortazione alla difesa dell’antica autonomia di Siena e della sua
potestà sul dominio, giacché l’avvento di una nuova casa regnante
avrebbe certamente spezzato gli antichi equilibri tra potere centrale
e poteri periferici instaurati da una dinastia di origine cittadina, in-
cline, fin dal principio, all’ossequio e, finanche, alla salvaguardia
delle prerogative di originaria matrice municipale.
Le proposte rivoluzionarie del Lucarini, cinquant’anni più tardi,
furono oggetto dell’attenzione di Giovanni Antonio Pecci60, uno dei
maggiori protagonisti della vita culturale senese – nonché discen-
dente da illustri famiglie, incardinate ab antiquo nella nobiltà civica
–, il quale, se, da un canto, sminuiva, respingendolo, il progetto di
trasformare la Balìa in un’assemblea di «stati», dall’altro, invece, fa-
ceva propria l’idea dell’esclusione dei riseduti oziosi dalle magistra-
ture, anzi estendendo il medesimo punto di vista nei confronti del
clero e richiamandone a sostegno quello che riteneva essere un pre-
cedente di rilievo storico-normativo, di contenuto analogo e, per ciò
stesso, – ai suoi occhi – considerevole, racchiuso in un provvedi-
mento richiamato nelle Memorie storico critiche della città di Siena61:

«Che i nobili s’impiegassero ne’ lavori della seta e della lana o ne i lavori
della Maremma, e in altre occupazioni che non pregiudicano alla nobiltà, sa-

60 G. A. PECCI, Annotazioni e aggiunte al Discorso del Lucarini, (1766), in BCSi, Mano-

scritti, C VIII 1, cc. 32r-46v. Lo scritto del Pecci, anch’esso di grande interesse sotto il profi-
lo storico-istituzionale, può essere reperito, in una recente edizione critica, nel volume di C.
ROSSI, Giovanni Antonio Pecci, cit., pp. 263-276.
61 IDEM, Memorie storico-critiche della città di Siena, che servono alla vita civile di Pan-

dolfo Petrucci, dal MCCCCLXXX al MDXII, cit.; Continuazione delle memorie storico-criti-
che della città di Siena, per le quali vengono descritti quattro altri soggetti della famiglia Pe-
trucci, Alessandro Bichi e tutta la fazzione novesca fino agli anni MDXXVII, cit.; Continuazio-
ne delle memorie storico-critiche della città di Siena fino agli anni MDLII, cit.; Continuazione
delle memorie storico-critiche della città di Siena fino agli anni MDLIX, cit. Attualmente, può
reperirsi anche una ristampa anastatica dell’opera in questione, a cura di M. PAVOLINI ed E.
INNOCENTI, con la presentazione di M. ASCHERI, cit.
59

rebbe d’utilità all’universale, e se seguitassero a mantenersi oziosi, non partici-


passero de’ maestrati e de’ governi, è sentimento giustissimo, conforme i no-
stri antenati pensarono e io medesimo nelle Memorie Storiche Sanesi stampa-
te ne ho parlato»62.

Il riferimento concerneva una disposizione della Balìa, emanata


in epoca molto risalente, il 7 luglio 1482, con la quale si intimava ai
riseduti che non fossero dottori, notai o scolari, né ancora sessage-
nari, di impegnarsi nelle manifatture o nel commercio, qualora aspi-
rassero ai pubblici uffici «fuora e dentro la Città». Ma l’epoca del
Pecci era troppo tarda perché si potessero avvalorare le sue tesi e
quelle del Lucarini per mezzo di un antefatto, seppur giuridicamen-
te rilevante, ormai anacronistico, giacché

«la legge quattrocentesca era stata posta in essere in un mondo [...] ancorato
alle tradizioni comunali, dove il ceto dirigente non aveva assunto nome e ca-
rattere di nobiltà, e [...] ripristinarne l’osservanza nel XVIII secolo sarebbe
parsa una novità eversiva dei nuovi assetti sociali e politici»63.

Ed inoltre, all’epoca delle Annotazioni e Aggiunte, il substrato,


più teorico che normativo, su cui si erano basate fino alla metà del
secolo decimottavo le giustificazioni della nobiltà civica, aveva – fi-
nalmente? – trovato – come ben noto – un recepimento normativo
nella Legge del 1750, la cui natura, efficacia e portata non erano cer-
tamente disgiungibili, oltretutto, dagli Statuti della Religione di San-
to Stefano, che avevano assunto la propria veste definitiva solo
quattro anni prima e continuavano a dettare le regole di vita della
nobiltà toscana:

«Il corpo dei riseduti s’identificava ormai con un’aristocrazia che viveva, ed
era tenuta a vivere, more nobilium; e gli statuti dell’Ordine di Santo Stefano
esigevano che i pretendenti l’abito per giustizia non avessero esercitato, né
esercitassero, “arte alcuna”»64.

Le affermazioni dei due eruditi senesi perdono, quindi, il loro ca-

62 Cfr. G. A. PECCI, Annotazioni e aggiunte, cit., cc. 40r-40v, in C. ROSSI, Giovanni An-

tonio Pecci, cit., p. 271.


63 Cfr. C. ROSSI, Giovanni Antonio Pecci, cit., pp. 121-133: 129.
64 Ibidem.
60

rattere rivoluzionario, allorquando si consideri, nonostante l’esorta-


zione ad impiegarsi utilmente per il bene universale, la sempre chia-
ra circoscrizione alla «mercatura magna et copiosa». Le norme sta-
tutarie stefaniane, infatti, nell’ambito «Delle probazioni, che si deb-
bano fare innanzi, che alcuno si accetti», richiedevano, addirittura,
che il pretendente l’abito scudocrociato, «Padre, Madre, Avi, ed
Avole dal lato Paterno, e Materno, […] non [... avessero] esercitato
arte alcuna». Anche se, nella prassi, al fine di impedire il contrasto
con le tradizioni municipali italiane e, quindi, di conciliare gli ideali
cavallereschi e le istituzioni nobiliari con la storia del Comune itali-
co, costituito essenzialmente da mercanti, si adottò una interpreta-
zione elastica della disposizione – tradizionalmente vigente anche
nel diritto comune e identicamente temperata –, poiché l’applica-
zione letterale avrebbe comportato l’esclusione di molte famiglie
nobili che provenivano dai ranghi del popolo medievale e continua-
vano ad esercitare la mercatura e ad essere impegnate nelle arti65.
Il Pecci diede un notevole contributo teorico al problema della
posizione da attribuire alla nobiltà sulla scala sociale e nel godimen-
to dei diritti politici, contestando la sclerotica stratificazione della
realtà socio-istituzionale cittadina e suggerendo la creazione di una
classe mediana tra nobiltà e popolo; il che, in prima battuta, poteva
sembrare un intento di redistribuzione delle prerogative politiche e
di nobilitazione intermedia di una parte dei

«cittadini, tra’ quali si considerano egualmente tanto i più civili che i più infi-
mi abietti manifattori, lo che mai può tornar bene, attesoché i più civili, [...]
dal gregge più vile si vogliono separare»66.

65 Cfr. Statuti, cit., tit. II (Del modo di ricevere i Cavalieri), cap. III (Delle probazioni, che

si debbano fare innanzi, che alcuno si accetti), p. 95. Cfr., inoltre, ivi, tit. XVII (Delle proibi-
zioni e pene), cap. I (Che i Cavalieri non esercitino arti proibite, e vili, nè servano, salvo a
Principi, e gran Personaggi), p. 309. Questo capitolo, che si occupava dell’esercizio di «arti
proibite, e vili», prescriveva che «Nessuna cosa è, né più biasimevole a un Cavaliere, né più
vergognosa, che esercitare alcuna arte proibita dalle leggi, o vile per sé stessa. […] E se alcu-
no sarà d’animo così plebeo, che eserciti personalmente arti vili, ovvero faccia esercizj mec-
canici (di quelli massimamente, che secondo gli Statuti gli averebbono potuto impedire la
grazia dell’Abito, quando si fusse saputo, che esercitati gli avesse prima che fusse fatto Ca-
valiere) incorra ipso facto, in pena della privazione dell’Abito». Ed ancora, sulla definizione
di arti vili e meccaniche e sulla decadenza dallo status nobiliare, correlata al loro esercizio, si
veda D. MARRARA, Riseduti e nobiltà, cit., pp. 53-58.
66 Cfr. G. A. PECCI, Annotazioni e aggiunte, cit., c. 46r, in C. ROSSI, Giovanni Antonio

Pecci, cit., p. 276.


61

In realtà, non solo si sottolineava che i popolani «più civili»

«si sforzano co’ nobili gareggiare del pari e in nulla a loro cedere nel contegno
e nella disuguaglianza, lo che produce continue amarezze, dissenzioni e emu-
lazioni, da non potersi da’ nobili soffrire, perché superiori nella nascita, nel-
l’antichità delle famiglie loro e resi già distinti per le dignità e gl’onori ottenuti
da loro e dagl’antenati»67;

ma si evidenziava che costoro

«a nulla vogliono cedere, onde più ostinate che mai si mantengono le dissen-
zioni e i dissapori, con pregiudizio al quieto vivere e a quella pace che in una
Città suddita si potrebbe indifferentemente godere»68.

Appare lecito, dunque, affermare come l’illusione di un presunto


intento filantropico dell’erudito sia immediatamente confutata e fu-
gata dalle sue stesse parole, e lasci il posto a considerazioni di carat-
tere meramente politico: forse si temeva che la nobiltà civica potesse
subire, per mano delle facoltose famiglie emergenti, la medesima
sorte che il popolo medievale aveva riservato ai Gentiluomini cin-
que secoli prima; soprattutto, se si tiene conto del fatto che alle fa-
miglie ascritte al fantomatico «grado di mezzo» – le quali, oltretut-
to, avrebbero dovuto dimostrare di non aver esercitato «sordide
professioni» – sarebbero stati riservati gli uffici meramente esecuti-
vi, conservando ai nobili il monopolio delle magistrature cittadine:

«Per riparare dunque a tali importantissimi difetti, e restituire la quiete a


tutte le classi egualmente, sarebbe duopo [sic] che dal collegio della Balia si
supplicasse il sovrano a concedere un grado di mezzo e, ottenuto un tale in-
dulto, separare dalla plebe le famiglie più civili e facoltose, e che non hanno
né eglino né i padri loro esercitato sordide professioni, e ad esse sole concede-
re le cancellarie, i cassierati e le computistarie, a’ nobili riservare i maestrati, i
rettorati, le proveditaterie, i camarlengati e altre distinzioni e dignità»69.

E la tesi di un po’ di fumo negli occhi da propinare ad un nuovo,


potenziale antagonista dell’oligarchia plurisecolare, trova conforto

67 Ibidem.
68 Ibidem.
69 Ibidem.
62

nella legislazione vigente, già da tre lustri, in tema di nobiltà, la qua-


le, non solo aveva ratificato la distinzione tra nobiltà e cittadinanza
– che il Neri aveva respinto –, ma, con l’ausilio del criterio di resi-
dualità, riconosceva per «Cittadini, quelli che hanno, o sono atti ad
avere tutti gli Onori delle Città, fuori che il primo»70.
Nonostante il rango della cittadinanza non fosse mai esistito in
Siena e risultasse, perciò, avulso dal suo peculiare contesto politico-
istituzionale, aveva, però, evidentemente, una portata giuridica ben
chiara, che amplifica ancor più l’insussistenza, su un piano oggetti-
vo, delle proposizioni del Pecci: vuote di un reale significato giuridi-
co e sociale, giacché dettate da un giudizio di mera convenienza po-
litica, nonché guidate da una prospettiva di conservazione dello sta-
tus quo, che vedeva la nobiltà civica senese padrona indiscussa di
tutti i magistrati cittadini.
Ma lo Stato nuovo, già ridotto nei suoi confini, sarebbe stato pre-
sto scosso da una nuova ondata di riforme epocali per gli assetti isti-
tuzionali tralatizi:

«In effetti, quando scriveva il Pecci, agli inizi dell’età leopoldina, un gra-
ve colpo era già stato inferto all’integrità dello Stato senese, ormai smembra-
to in due province, delle quali una soltanto, denominata “superiore”, con-
servava l’antica capitale e l’antico ordinamento [...]. Di lì a qualche anno,
poi, il superamento del monopolio politico dell’aristocrazia, nell’ambito dei
governi cittadini, sarebbe stato realizzato non attraverso lo schema medieva-
le di una rappresentanza di “stati”, ma grazie al principio, ispiratore delle
riforme municipali toscane, del collegamento dei diritti politici con la pro-
prietà fondiaria»71.

In ogni modo, le riforme eversive dei privilegi dell’aristocrazia


non riuscirono, in seguito, a spogliare gli ordini nobiliari toscani
della loro rilevanza giuridica, né a dissolverli «nella più ampia cer-
chia dei proprietari fondiari», giacché

«Gli aristocratici [...] avevano “sempre il maggior credito nei magistrati co-
munitativi”, e, alleati coi più “grossi proprietari”, abusavano della “loro in-
fluenza” per difendere i propri interessi e per ostacolare una corretta e spedita

70Legge, art. I.
71Cfr. D. MARRARA, Una singolare proposta di rappresentanza di «stati» formulata nel
Settecento toscano, in «Il Pensiero Politico», anno IX (1976), n. 1, pp. 57-69: 69.
63

attuazione delle riforme: chi scriveva, con amarezza, queste parole era lo stes-
so Pietro Leopoldo»72.

Quello che è stato definito come il «compromesso leopoldino sui


rapporti tra la nobiltà e le nuove forze sociali»73, verrà meno soltan-
to dopo l’annessione della Toscana all’Impero dei Francesi, allor-
quando l’elettorato passivo troverà il suo fondamento sul censo,
«distaccandosi totalmente dal godimento dei titoli nobiliari»74.

72
Cfr. IDEM, Riseduti e nobiltà, cit., p. 208. L’A. fa riferimento a P. LEOPOLDO D’ASBUR-
GO LORENA, Relazioni sul governo della Toscana, a cura di A. SALVESTRINI, Firenze, Leo S.
Olschki Editore, 1973, vol. III (Stato Senese e Livorno), p. 415.
73 Ivi, p. 210.
74 Ivi, p. 211.
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III
PARTIZIONI DELLA CITTÀ:
LA GEOGRAFIA SOCIALE SENESE
TRA ARTI, GOVERNO E PROFESSIONI

Per approntare un sommario esame dei gruppi sociali che compone-


vano la realtà cittadina, del carattere, delle origini e dei rapporti che li
stringevano insieme, seguendo il medesimo schema metodologico
adottato per tratteggiare la fase prodromica degli eventi storici concer-
nenti l’instaurazione del Principato, si prendono le mosse dal primo
trentennio del Cinquecento. A tal fine, mezzo sufficientemente effi-
ciente ed efficace è parso poter essere quello rappresentato dai Libri
della lira, che costituirono fin dal XVI secolo un prezioso strumento
per rilevare l’entità numerica e la posizione economica dei raggruppa-
menti interni alla società comunale1.

1 La Lira di Siena corrispondeva all’Estimo fiorentino: la stima delle sostanze degli abi-

tanti della città, che forniva la base per la ripartizione delle imposte. In senso stretto, era la
cifra in lire che determinava le responsabilità fiscali dell’individuo nei confronti del Comu-
ne; in senso lato, era l’insieme delle singole lire che venivano riunite in appositi registri o li-
bri. Ad intervalli variabili i Consigli eleggevano appositi ufficiali – gli «allibratori» –, per
raccogliere le denunzie, o polizze, d’estimo da tutti i capi famiglia della città, per procedere
all’alliramento. Nella denunzia, l’allirando doveva fare un elenco preciso di tutti i suoi beni
mobili ed immobili: «case, possessioni, denari, creditori e debitori, pigioni, fitti, perpetue,
incette, traffichi, bestiame, grano, biade, vini, olii, e qualunque altra cosa la quale in qualun-
que modo havesse o trafficasse o incettasse [...] in qualunque luogo si fusse». Così specifica-
va il bando della Lira del 1548, pubblicato da L. BANCHI, Gli ordinamenti economici dei co-
muni toscani nel Medioevo e segnatamente del comune di Siena, in «Atti della Regia Accade-
mia dei Fisiocratici di Siena», serie III, vol. I, 1864, pp. 37-38; cfr. A. K. ISAACS, Popolo e
Monti, cit., p. 35. Le norme che governavano la compilazione della Lira sono quelle enun-
ciate nel duecentesco Breve dei cittadini che dovevano essere allirati, (1226), (pubblicato nel
Breve degli Officiali del Comune di Siena, compilato nell’anno MCCL al tempo del Podestà
Ubertino di Lando da Piacenza ora primamente edito da L. Banchi, a cura di L. BANCHI, in
«Archivio Storico Italiano», serie III, tomo IV, parte II, anno 1866, pp. 3-57: 45-47: 46; ma
si veda anche l’Avvertimento dell’A., in «Archivio Storico Italiano», serie III, tomo III, parte
II, anno 1866, pp. 3-104: 3-6): l’allirato giurava di denunziare tutti i suoi beni, tra cui anche
i crediti che giudicava inesigibili, «omni cavillatione et fraude remota». Gli unici beni esi-
stenti sono le masserizie, il vino e il grano sufficienti alla famiglia per un anno; ma l’allirato
non dimenticava mai di far notare la difficoltà di recuperare i crediti, i debiti esistenti e pre-
visti, le figlie da maritare e, quindi, le conseguenti doti da costituire, il numero e l’età delle
persone a carico: tutti elementi con cui si poteva sperare di mitigare la durezza degli allibra-
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1. La Lira forniva ai contemporanei, e fornisce tuttora, un più che


solido indizio dell’ubicazione di ciascuna famiglia nell’ambito del siste-
ma produttivo senese; in particolare, attraverso i libri redatti nel 1509 e
nel 1531, che accoglievano i nomi dei capi famiglia della città e dei bor-
ghi, divisi secondo le compagnie in cui abitavano, con la specificazione
della condizione finanziaria e del mestiere, può desumersi una visione
assai generale e schematica della popolazione di Siena nei primi decen-
ni del secolo.
Tra gli abitanti, infatti, non esistevano classi di privilegiati esenti.
Anzi, fin dai primi tempi del Comune, essere iscritto alla Lira era stata
la condizione necessaria per ottenere e conservare il diritto di cittadi-
nanza2; però, anche gli abitatori della città che non godevano dei diritti
politici dovevano farsi allibrare: gli unici soggetti esenti erano le comu-
nità religiose, i conventi, i monasteri, l’ospedale e i suoi «figli». Per di
più, le possibilità di frode e collusione con gli ufficiali del Comune, che
erano indubitabilmente maggiori per i ricchi – colleghi e, spesso, pa-
renti degli allibratori –, venivano limitate dalla pratica di eleggere i fun-
zionari traendoli in numero uguale dai vari Monti, adottando la con-
correnza tra le fazioni come sistema di controllo.
Presi in considerazione univocamente, o, ancor meglio, con l’ausilio
di altre fonti, i dati in questione consentono di definire i caratteri gene-
rali dei tre Terzi e delle diverse Compagnie in cui risultava essere divisa
la città, di esaminare la distribuzione della ricchezza e, soprattutto, di
constatare le differenze di struttura economica esistenti tra i vari grup-
pi ereditari di potere, in cui erano suddivisi i cittadini titolari dei pieni
diritti politici3; perciò, conseguentemente, permettono di determinare

tori. Cfr. ASSi, Lira, 234-240, Denunzie, passim. Il Celli avverte che l’edizione del Banchi
contiene difetti e inesattezze, rilevati da L. ZDEKAUER, Per una edizione critica del Beve degli
Officiali, in «Bullettino Senese di Storia Patria», X (1903), e ricorda che un’esposizione ed
un commento della compilazione si trovano in L. SBARAGLI, Il Breve degli Ufficiali del Co-
mune di Siena, in «Bullettino Senese di Storia Patria», nuova serie, IV (1935): cfr. R. CELLI,
Studi sui sistemi normativi delle democrazie comunali. Secoli XII~XV. I – Pisa, Siena, Firenze,
G. C. Sansoni Editore, 1976, p. 232, nota 6.
2 Si veda in proposito, per esempio, D. BIZZARRI, Ricerche sul diritto di cittadinanza

nella costituzione comunale, in «Studi Senesi», vol. XXXII, 1916, pp. 19-136; rist. in D. BIZ-
ZARRI, Studi di Storia del Diritto Italiano, Torino, Lattes, 1937, pp. 65-158.
3 Lo studio più autorevole, dal quale si trae spunto, è stato basato soprattutto sulla Li-

ra del 1509, adoperata fino al 1531, maggiormente rappresentativa al fine di cogliere i rap-
porti di forza esistenti tra i vari gruppi di cittadini prima dell’avvento del Principato. Esiste,
inoltre, per la Lira del 1509 una parte delle denunzie utilizzate per la sua compilazione.
Questo corredo di denunzie, che si trova in ASSi Lira, 234-240, Denunzie, sebbene danneg-
giato, è quasi completo per il Terzo di Città, ma molto frammentario per gli altri due. Le de-
nunzie, quasi sempre di mano dell’allirato, non sono numerate, ma raccolte in grossi tomi e
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l’assetto e la composizione dei raggruppamenti che si contrapposero a


sostegno del governo largo, o popolare, da un lato, e di quello stretto,
od oligarchico, dall’altro.
Nel Cinquecento erano presenti sia ricchi, sia poveri in tutti i Monti,
anche se, in linea di massima, si deve considerare che i più facoltosi
erano i noveschi – mercanti guelfi, al governo dal 1287 al 1355 –, segui-
ti dai gentiluomini – l’antica nobiltà magnatizia –; mentre i popolari e i
riformatori erano meno ricchi e i dodicini agiati, ma poco numerosi –
tutti e tre, gruppi pervenuti al priorato successivamente –.
I documenti conservati nel fondo della Lira dell’Archivio di Stato di
Siena, specialmente quelli concernenti le denunce dei beni che i cittadi-
ni presentarono al Comune nel 1509 insieme con le cifre del loro impo-
nibile, offrono, pertanto, una concreta immagine della distribuzione
della ricchezza nei terzieri e nei differenti rioni in essi inscritti, consen-
tendo un’agevole individuazione delle grandi consorterie. La fonte in
questione, infatti, ha evidenziato che la distinzione antitetica tra ricchez-
za e povertà poteva trovare una gradazione intermedia, giacché «i ricchi
e i ricchissimi esistevano [...], [...] sebbene in numero diverso, in tutti i
Monti»4, andando a fornire un dato ulteriore, al fine di comprendere
più a fondo le ragioni che da tempo dividevano la classe dominante.
L’appendice che si vuole trarre da questa – seppur brevissima ed es-
senziale – analisi introduttiva, si fonda sulla constatazione della sussi-
stenza di «forti divisioni verticali che in parte coinci[sero] con stratifica-
zioni orizzontali»5, di cui fu conseguenza rilevante la coalizione fra i
«grandi» di tutti i Monti, in talune circostanze, o la divisione tra i Monti
nella loro interezza, in altre6; come, in parte, si è già avuto modo di rile-

suddivise per compagnia. Nella denunzia, si dà l’ammontare del capitale impegnato in


un’attività commerciale e il valore degli immobili, anche se non si tratta di regole ferree: da
questi dati, o dalle loro stime, si calcolava, seguendo procedimenti diversi, la probabile ren-
dita, che, una volta capitalizzata, veniva moltiplicata per un coefficiente predeterminato, al
fine di ottenere la Lira. Si noti come detti complicati calcoli servissero in primo luogo per al-
lirare i ricchi, giacché i poveri e i non possidenti venivano censiti a discrezione dei compila-
tori. Gli ufficiali tenevano conto di tutti i fatti che contribuivano a dare il quadro della situa-
zione economica del contribuente, poiché si volevano rappresentare le disponibilità com-
plessive dei cittadini allirati, in costante relazione con quelle altrui. Difatti, la denunzia veni-
va consegnata in tre copie: una per Monte, di modo che tre distinti funzionari allibrassero,
indipendentemente, ciascun cittadino. Cfr. A. K. ISAACS, Popolo e Monti, cit., p. 37.
4 Ivi, p. 62.
5 Cfr. A. K. ISAACS, Impero, Francia, Medici: orientamenti politici e gruppi sociali a Siena

nel primo Cinquecento, in AA.VV., Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del ’500, vol. I
(Strumenti e veicoli della cultura. Relazioni politiche ed economiche), Firenze, Leo S. Olschki
Editore, 1983, pp. 249-270: 251.
6 Ivi, p. 257, nota 16. Si è argutamente sottolineato – traendo spunto da D. L. HICKS,
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vare, ma si provvederà a dimostrare, con maggior ampiezza, più oltre.

2. La città di Siena, seguendo la forma delle colline sulle quali giace-


va, assunse una forma quasi ad ipsilon, col suo centro vicino a piazza
del Campo e tre bracci principali che corrispondevano, in linea di mas-
sima, ai tre Terzi di Città, a sudovest, San Martino – o Valle –, a sudest
– lungo la strada per Roma –, Camollìa, a nord.
I terzieri, oltre a rappresentare la tradizionale suddivisione topogra-
fica necessaria per l’organizzazione della difesa, apparivano nella vita
pubblica anche in un’altra veste, dacché nell’ordinamento dell’ammini-
strazione repubblicana i cittadini ammessi al governo venivano avvi-
cendati negli uffici non soltanto secondo il Monte a cui appartenevano,
ma anche in base al Terzo di residenza. I tre Gonfalonieri ne erano i
rappresentanti, con mandato semestrale, nel più alto consesso cittadi-
no, nonché statale. Ma anche tutti gli altri ufficiali che niente avevano a
che fare con le funzioni di difesa venivano regolarmente tratti in misu-
ra omogenea da ciascun Terzo.
Questa prassi, che resisterà per tutta l’età medicea, aveva la caratteri-
stica, tipicamente comunale, di assicurare un’ampia ed equa comparte-
cipazione al governo.
La nota distintiva, però, non stava tanto nella regola che ai Terzi do-
vesse essere riservata un’equa rappresentanza, quanto, piuttosto, nel fat-
to che, nella sostanza, essi non fossero uguali. Difatti, esisteva una sorta
di graduatoria dettata dalla combinazione degli elementi della numero-
sità della popolazione, della vetustà e della ricchezza: nelle carte pubbli-
che, quando gli eletti od estratti per un ufficio venivano elencati per ter-
zieri, precedevano sempre i nominati per il Terzo di Città, seguiti dai
sorteggiati di San Martino e, infine, dai rappresentanti di Camollìa.
In più, per azzardare un parallelo trasversale, si può affermare come,
in linea di massima, la medesima graduazione, con i medesimi criteri –

The Sienese State in the Renaissance, cit., in From the Renaissance to the Counter-reforma-
tion. Essays in honour of Garret Mattingly, cit. – come il carattere di coalizione tra Monti
che ebbe il regime di Pandolfo Petrucci – in epoca, si noti, di definitiva riammissione dei
Gentiluomini al pieno godimento dei diritti politici, cioè a dire, alla residenza nella suprema
magistratura e al correlato reinserimento nella Balìa –, fosse caratterizzato dal sodalizio tra i
«grandi» – vale a dire, i più facoltosi –, che escludeva i meno ricchi anche del Monte dei
Nove, dal quale proveniva il medesimo Signore di Siena. Si è fatto, però, anche notare come
i noveschi godessero a quel tempo di un terzo delle cariche: ben più della quarta parte che
sarebbe stata definitivamente stabilita dal provvedimento costituzionale mediceo del 1° feb-
braio 1561.
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cioè a dire, numero delle cariche pubbliche occupate, antichità della


prima residenza nelle magistrature comunitative, abbondanza delle ri-
sorse economiche – ma riferita al reggimento cittadino, per la fase pre-
cedente la perdita dell’indipendenza, fosse possibile per i Monti: Gen-
tiluomini, Nove, e – indistintamente terzi, in un medesimo corpo
amorfo dalla personalità anodina – gli altri tre (Dodici, Riformatori e
Popolo)7.
Il Terzo di Città, che era quello più antico, poiché v’era sorto il pri-
mo centro d’abitazione, oltre a conservare il ricordo della sua origina-
ria preminenza nel nome, ospitava la maggioranza delle grandi e vetu-
ste casate cittadine ed era il più ricco ancora agli inizi del Cinquecento,
andando così a distinguersi, senza soluzione di continuità e con niti-
dezza, dagli altri due8.
Alla suddivisione della città in terzieri, si aggiungeva quella interna
ai medesimi, in Compagnie, o rioni, sorte con il progressivo espandersi
della città medievale, che andarono ad assorbire inevitabilmente i bor-
ghi disseminati lungo la cinta muraria, spesso già strutturati in parroc-
chie, dalle quali – come anche da una porta d’accesso alla metropoli od
altro elemento caratteristico del piccolo compartimento – prendevano
tralatiziamente il nome9. D’altro canto, non può sfuggire come il termi-
ne stesso ricordi inconfutabilmente il gergo militare, dacché anche
queste partizioni non facevano certo astrazione da un’origine di tal fat-
ta: esse anticamente andavano ad accorparsi sotto gli ordini del Gonfa-
loniere, per dar vita alla milizia cittadina10.
***
7 S’intende riferirsi, in particolare, al gruppo delle venti famiglie più considerevoli –

come già si è avuto modo di evidenziare nel quarto paragrafo del secondo capitolo (Crisi
della nobiltà e diritti politici) –, le quali conservarono intatte le loro caratteristiche, anche
dopo la privazione delle libertà repubblicane. Si confrontino, specialmente: A. K. ISAACS,
Popolo e Monti nella Siena del Primo Cinquecento, cit., passim; G. R. F. BAKER, Nobiltà in de-
clino: il caso di Siena sotto i Medici e gli Asburgo-Lorena, cit., passim; M. VERGA, Riseduti e
popolo, cit., in Storia di Siena. II. Dal Granducato all’Unità, cit., passim.
8 Cfr. A. K. ISAACS, Popolo e Monti nella Siena del primo Cinquecento, cit., pp. 43-44:

«Con un numero di allirati [...] superiore a quello degli altri due terzi, il Terzo di Città ha
quasi il doppio di allirati che possiamo definire ricchissimi».
9 Sessanta nel primo Trecento, furono ridotte a quarantadue in seguito alla peste nera,

cfr. G. A. PECCI, Memorie storico-critiche della città di Siena, che servono alla vita civile di
Pandolfo Petrucci, dal MCCCCLXXX al MDXII, cit., vol. I, p. 141. Per la ricostruzione delle
antiche compagnie, risulta essere di grande utilità, seppur datato, ma, proprio per questo,
certamente rigoroso, il ricco saggio di V. LUSINI, Note storiche sulla topografia di Siena nel
secolo XIII, in «Bullettino senese di storia patria», XXVIII (1921), pp. 239-341.
10 Le contrade odierne sono una differente accezione, vista da un altro angolo visuale,

dei raggruppamenti nelle Compagnie nate in epoca repubblicana, come sostenne il Cecchi-
ni, specificando il concetto di Compagnia: mera divisione riferita alla milizia che si racco-
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Per completezza espositiva, pur brevemente, si è approntata una de-


scrizione dell’ambito urbano nelle segmentazioni economiche e geogra-
fiche più elementari, allo scopo di introdurre la divisione, in maggior
misura significativa, profonda e – quasi – invalicabile, che perdurò per
almeno cinque secoli tra i cittadini di reggimento ed il popolo delle ar-
ti, con l’avvertenza che, nonostante, di fatto, sia fuor d’ogni dubbio co-
me, in genere, i ricchi fossero anche titolari dei diritti politici, non pos-
sono ridursi ad identità i due parametri – politico ed economico – in
parola.

3. Nel Cinquecento, i cives de regimine avevano consolidato, inequi-


vocabilmente – anche in ragione della strenua, tenace difesa che sem-
pre ne fecero –, il diritto di partecipazione alle cariche pubbliche emi-
nenti, connaturato agli ascendenti e tramandato loro in linea retta al-
l’infinito. Come, da un canto, detta classe ereditaria si suddivideva in
cinque gruppi ben distinti – già alla fine del Trecento –, così, dall’altro,
il godimento degli uffici spettava al singolo non come individuo, bensì
quale membro di una famiglia accorpata, insieme con altre, ad una del-
le compagini politico-familiari. L’esclusione di un raggruppamento dal
reggimento ne chiudeva fuori ciascun cittadino pervenuto al suo inter-
no, essendo le cariche assegnate per compartimento di Monti, prescin-
dendo da qualsiasi riferimento soggettivo, se non per specificarsi, nelle
formule notarili, come un determinato cittadino fosse stato eletto
«per» il suo Monte – esprimendosi in tal modo, con una semplice pre-
posizione (o, se si preferisce, viceversa, con una mera preposizione
semplice), i due concetti, strettamente correlati, sì dell’appartenenza
come, soprattutto, della rappresentanza –.
Una prima considerazione deve essere svolta in menzione dell’esi-
stenza di nettissime divisioni in seno alla classe dominante, che, come
assodato, causarono continui rivolgimenti nella storia politica e sociale,
le quali, pur nell’infrangibile orgoglio della lotta politica, concepita dai
cittadini senesi esclusivamente in termini di Monti, portarono a giudizi
di opportunità – ovviamente rimasti tali – in merito all’abolizione delle
fazioni tralatizie, soprattutto da parte di non senesi – fossero essi rap-
presentanti imperiali o meri osservatori esteri – che sbandieravano l’o-
norevole causa della pace cittadina.
Un’ulteriore valutazione deve far da corollario alla precedente, ove si

glieva dalla contrada quale area più strettamente geografica. Cfr. G. CECCHINI - D. NERI, Il
Palio di Siena, Milano, Electa, 1958, pp. 10-13.
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tenga conto del fatto che, anche quando si sia esperimentata – per inter-
valli più o meno lunghi – un’abolizione, seppur parziale, dei Monti, par-
ticolare attenzione sia stata riservata alla salvaguardia della fiera dignità
dei cittadini di reggimento, i quali continuarono pur sempre ad essere
eletti od estratti in base al Monte di appartenenza, grazie ad accorpa-
menti fittizi o coalizioni temporanee che andavano, sempre e comun-
que, a svuotare di significato ogni riforma, sia che si guardi lontano, alla
legislazione antimagnatizia dugentesca, sia che si accorci lo sguardo al
Cinquecento dominato da Clemente VII, o all’esclusione dei Nove nel
luglio del 1527.
E la sintesi trova fondamento in almeno due elementi davvero signi-
ficativi per decifrare l’origine dell’anima politica, ancora inguaribil-
mente repubblicana, della Siena postmedievale11.
Se si utilizza il paradigma del 1527, ci si rende immediatamente con-
to di come il numero tre, peculiare della suddivisione geografica urba-
na, dominasse anche nella pratica politica, giacché nel terzo decennio
del Cinquecento, fino all’anno in questione, i cinque Monti partecipa-
vano tutti, nominalmente e legittimamente, alla spartizione dei gradi,
anche se i Riformatori e, ancor più, i Dodicini – indubitabilmente i più
deboli – avevano dovuto necessariamente amalgamarsi con i Gentiluo-
mini, talora, ed i Popolari, talaltra, riducendosi a tre – ancora una volta
–, nella sostanza, le compagini politiche in gioco per la gestione del po-
tere (Popolo, Gentiluomini e Riformatori: i medesimi sodali Libertini
prima d’ora strettisi in fazione, per opporsi a Fabio di Pandolfo Pe-
trucci, nel comun desiderio di ripristinare i principi repubblicani, al fi-
ne di riportare in auge una larga partecipazione alle cariche, ordendo
la congiura del settembre 1524). Tuttavia, tale stato di cose cessò con il
ritorno dei Nove, nel gennaio del 1531, allorquando essi andarono a ri-
prendere il loro posto accanto ai due raggruppamenti antitetici per ve-
tustà, pur lasciando immutato il funzionamento dei congegni di gestio-
ne dell’egemonia su base ternaria.
Il secondo ed ultimo appunto deve mettere in risalto come già la
riforma attuata nel 1525, dietro le pressioni di Clemente VII, catalizza-
te dal fiato dell’esercito francese, oltre a non sortire che risultati nomi-
nali, avesse evidenziato, per causa propria, l’approfondirsi delle divi-
sioni tra i gruppi ereditari, in ragione dell’accentuato clima di sospetto
che n’era scaturito.
Appare quindi chiaro come non avrebbero, certo, potuto giovare al

11 Si adotta la terminologia accolta da A. MARONGIU, Storia del diritto italiano. Ordina-

menti e istituti di governo, cit., pp. 225-365: 282-288 e 356-358.


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governo, alla stabilità, al recupero e conservazione della tanto prete-


stuosamente decantata pace urbana i tentativi di scardinamento di quel
sistema cittadino che aveva radici troppo profonde, sia in termini di
antichità, sia di vera e propria identità politica e istituzionale; era un
fusto che svettava ormai troppo alto perchè potessero tarparsi i germo-
gli che rifiorivano instancabili, cullando la speranza, se non di abbat-
terlo, quanto meno, d’indebolirlo inesorabilmente. Cosimo I si guar-
derà bene dal rimuovere la vera base strutturale su cui innervare l’ede-
ra della nascente monarchia assoluta postmedievale12.

4. Si è già ampiamente illustrato come un Monte nascesse dalla som-


ma di tutti i cittadini ammessi al potere in un certo periodo e, conse-
guentemente, delle loro famiglie, prendendo il nome del governo cui
risaliva, raccogliendo, poi, tutti i discendenti, per linea retta, dei mem-
bri originali, venendo così ad assemblarsi gli elementi di quella che era
stata, per l’appunto, la classe di reggimento in una determinata fase
della storia comunale13.
Primo in ordine di formazione fu il Monte dei Gentiluomini, o, co-
me veniva appellato nelle pubbliche scritture, con maggiore accuratez-
za, il «Mons Nobilium». I Gentiluomini, o Nobili in senso stretto, era-
no i membri delle grandi famiglie di origine feudale – i cosiddetti «ca-
sati» –, che ressero il Comune nel periodo consolare14 e che vennero in
seguito escluse dalle magistrature – in tempi e modi che si son già chia-
riti –, pur restando per lungo tempo le più ricche e potenti della città.
In particolare, anche il Monte dei Nove, secondo per nascita, com-
posto in prevalenza da mercanti agiati, ma non ricchissimi, di simpatie
guelfe, era contaminato, anche se in parte molto minoritaria, dalla pre-
senza di elementi dell’antica classe feudale, economicamente e social-

12 Cfr. D. MARRARA, L’autonomia dello Stato di Siena nell’età del Principato mediceo, in

«Rassegna di politica e di storia», n. 123 (gennaio 1965), pp. 3-11: 5.


13 Sull’origine dei Monti, in aggiunta alle indicazioni bibliografiche già fornite più so-

pra, si ricordino, oltre il classico lavoro di C. PAOLI, I “Monti” o fazioni nella Repubblica di
Siena, cit., anche i saggi di D. L. HICKS, Sienese society in the Renaissance, cit., e A. K.
ISAACS, Popolo e Monti nella Siena del Primo Cinquecento, cit. Sul «regime dei monti», si ve-
dano: D. MARRARA, Studi giuridici sulla Toscana medicea, cit., pp. 104-106; R. CANTAGALLI,
La guerra di Siena (1552-1559), cit., pp. LIX-LXIV.
14 Ostili al Comune e fuori di esso furono le casate degli Aldobrandeschi e dei Pannoc-

chieschi, che nel Cinquecento erano comunque regolarmente ascritte al Monte dei Genti-
luomini. Cfr. G. CECCHINI, Ghino di Tacco, in «Archivio Storico Italiano», CXV (1957), pp.
263-298: 263. Inoltre, per uno studio esaustivo sulla famiglia Pannocchieschi, una delle più
vetuste e rilevanti consorterie senesi, si veda E. BALDASSERONI, I Pannocchieschi d’Elci, cit.
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mente per niente distinguibili dai Grandi tout court, se non per il dato
oggettivo – ben documentato – che non furono esclusi dalle cariche15.
Una volta formatisi i Monti, le famiglie che li componevano, fossero
esse state escluse dalle magistrature cittadine, colpite da bandi e confi-
sche, o rimaste nei gangli del potere, conservando l’originaria posizione
sociale e forza economica, secondo il continuo gioco delle alleanze,
avevano subito un unico destino politico, nonché, spesso, anche econo-
mico, oltre a consolidare, nel frattempo, un comune patrimonio di tra-
dizioni nella pratica del governo e di sodalizi più o meno larvati, per la
più parte catalizzati dall’odio condiviso verso altre fazioni.
L’appartenenza ad un Monte non dipendeva da una libera scelta di
parte, da un atto volontario, secondo principi od interessi, né da un
elemento casuale, come abitare in un terziere piuttosto che in un altro
e partecipare alle cariche secondo le circoscrizioni cittadine. Era, vice-
versa, un fatto che si acquisiva fin dalla nascita, che condizionava la vi-
ta politica, che non si poteva cambiare – se non in casi del tutto ecce-
zionali, come un’adozione, con assunzione, oltre al cognome, anche del
Monte dell’adottante16 –. Ma, nonostante il mentovato dato di fatto,
del tutto insopprimibile, le famiglie di ciascun raggruppamento mante-
nevano compattezza interna, unità d’interessi economici e direttrici po-
litiche condivise e coerenti con le matrici originarie, da cui traevano
l’appartenenza comune, che permasero fulgide sino al primo Cinque-
cento ed oltre, riproducendosi con un patrimonio genetico immutato.
Tradizionalmente, finanche i cittadini di origine feudale, oltre ad es-
sere proprietari fondiari, furono, altresì, mercanti e banchieri – anche
se l’importanza dei senesi nel commercio internazionale si ridusse for-
temente nel Cinquecento, specialmente rispetto ai secoli XIII e XIV –.
Ne derivò che le partecipazioni nelle attività bancarie, detenute dai più
facoltosi17, andassero a sommarsi ai grandi possedimenti agricoli ed

15 Si vedano, per il periodo novesco, due opere ancora insuperate: W. M. BOWSKY, Le

finanze del Comune di Siena. 1287-1355, cit., passim; IDEM, Un comune italiano nel Medioe-
vo. Siena sotto il regime dei Nove, 1287-1355, cit., passim.
16 Cfr. A. RUIU, La famiglia Ugurgieri nel patriziato senese e nell’Ordine di Santo Stefano,

cit., pp. 128-129.


17 I più rinomati erano certamente i Chigi (si veda G. CUGNONI, Agostino Chigi il Ma-

gnifico, Roma, Società Romana di Storia Patria, 1878, passim), ma si trova notizia anche di
altri «banchi», come quelli degli Ugurgieri, degli Spannocchi, dei Venturi, tutte consorterie
annoverate tra i Gentiluomini. Le ultime due, originarie del Monte dei Dodici, vi furono ag-
gregate in età repubblicana; cfr. D. MARRARA, Riseduti e nobiltà, cit., appendice seconda (I
«Monti» di Siena alla vigilia delle riforme leopoldine secondo una testimonianza coeva), pp.
221-223: 222. In merito alle attività bancarie esercitate da senesi, si veda N. MENGOZZI, Il
Monte dei Paschi di Siena e le aziende in esso riunite, cit., passim.
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agli investimenti nelle arti tessili tradizionali – della lana e della seta –,
in quell’intreccio d’interessi che arrivava fino all’appalto delle entrate
pubbliche.
Pare essere, però, fuori discussione che non solo i membri del Mon-
te più antico, ma neanche i cittadini di reggimento di più recente origi-
ne esercitassero mestieri strettamente artigianali, se non i più tapini,
che vendevano pressoché al minuto nelle loro botteghe di speziale o di
merciaio e trovavano ulteriore sostentamento – talvolta di vitale impor-
tanza – grazie all’esercizio dei pubblici uffici, fonte dei proventi di un
decoroso guadagno.
È chiaro, dunque, come l’elemento caratteristico e più importante
dell’ordinamento comunale senese fosse l’esistenza dei Monti, per cui
l’appartenenza ad una delle stirpi ascrittevi dava, in maniera esclusiva,
la possibilità d’aver parte attiva nella vita politica cittadina. Senza l’e-
ventualità di tal genere, la casata che pur rappresentasse, per altri versi,
un’entità storica d’indubbia rilevanza, quale trait d’union tra passato e
presente, sarebbe stata del tutto invisibile.
Insieme agli altri requisiti distintivi delle dinastie ammesse alla ge-
stione della cosa pubblica, uno dei segni caratteristici che contrasse-
gnavano le stirpi di reggimento, agevolmente desumibile dalle fonti in
analisi, può senza dubbio identificarsi con il cognome18, che restava in-
variato per diverse generazioni, andando a designare ed unire anche i
rami più lontani di un medesimo casato, contrariamente ai nuclei fami-

18 Molti Gentiluomini di Siena erano ossessionati dall’esigenza di dimostrare origini

tanto antiche, quanto fantasiose (i Piccolomini, ad esempio, sostenevano essere discendenti


di Porsenna, re etrusco di Chiusi nel VI secolo, mentre i Tolomei pretendevano di derivare
dalla omonima dinastia di origine macedone che regnò sull’Egitto dalla morte di Alessandro
Magno, nel 323). Il Pecci, riferendosi «all’antichità [...] delle primarie e più cospicue [... e]
noverose illustri famiglie», ebbe a dire come fosse quanto meno inverosimile che esse potes-
sero avere origini tanto remote «da poterle desumere o dagli antichi Egiziani, o da’ Greci, o
da’ Re Toscani, oppure dalle famiglie patrizie romane», poiché «niuni ovvero pochissimi
avanti al secolo XI, e forse XII, col mezzo delle scritture e di non fittizii documenti, con cer-
tezza giungere potranno a produrre soggetti per illustrare e autenticare le proprie descen-
denze», e le difficoltà sarebbero divenute insuperabili allorquando si fosse tenuto conto del
fatto che non «era introdotto l’uso dei cognomi» e non prima del secolo decimoterzo le «fa-
miglie più qualificate principiarono a praticarli». Cfr. G. A. PECCI, Lettera, cit., pp. 3-7, in
C. ROSSI, Giovanni Antonio Pecci, cit., pp. 151-153. Inoltre, si veda lo studio erudito di G.
CIPRIANI, Il mito etrusco nel rinascimento fiorentino, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1980,
passim, per una scrupolosa indagine sulla «stretta connessione di fatto esistente fra l’esalta-
zione dell’antica monarchia etrusca ed il nuovo principato» cinque-seicentesco (in «Cosimo
de’ Medici e nei suoi figli Francesco e Ferdinando, Magni Duces Aetruriæ, tale atteggiamen-
to era evidente»), condotta analizzando «la politica culturale dei primi granduchi medicei»,
«ricca di riferimenti all’Etruria di un tempo[,] ed in tal senso [...] ripercorrendo le tappe del
consolidamento dell’assolutismo mediceo», (cfr. ivi, p. VII).
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gliari interdetti, d’infima estrazione, i cui membri accompagnavano il


proprio nome di battesimo con quello del padre, o, molto spesso, con
il mestiere che si tramandavano in vece del nome di famiglia.
Infine, se non v’è dubbio che nelle zone generalmente popolari della
città avessero abitazione gli artigiani e i piccoli bottegai, per converso,
essi non praticarono mai l’abitudine di raggrupparsi secondo la loro ar-
te in strade o rioni particolari, come accadeva comunemente altrove.
Giovanni Antonio Pecci tessé le lodi di Pandolfo Petrucci per aver ten-
tato di raggruppare in zone omogenee almeno i macellai e i linaioli19,
ma i provvedimenti del Magnifico non ebbero, a quanto pare, alcuna
efficacia.

5. Il richiamo alla dispersione geografica delle botteghe e degli arti-


giani – che non giovava certo alla disciplina interna (neanche l’arte del-
la lana, la più ricca, antica e potente, esigeva che i suoi iscritti esercitas-
sero in un ambito urbano prestabilito e ben circoscritto), all’assoluta
penuria di elementi distintivi unificanti e all’esclusione dalla vita politi-
ca – pone in risalto i sintomi di un’evidente debolezza della parte più
cospicua delle arti, che venne ad emergere nella Siena cinquecentesca,
fugando ogni perplessità valutativa sulla crescente distanza tra i due si-
stemi vitali delle città di foggia medievale, espressione delle due endia-
di economia-società e politica-istituzioni.
Il rapporto tra mondo corporativo e vita politica, tra il governo cit-
tadino e le arti, era nient’affatto istituzionalizzato: non esisteva una for-
male rappresentanza delle arti nel reggimento municipale, anche se,
contrariamente a quanto sostenuto da più parti, non si trattava sola-
mente di un «apparente distacco»20, da leggersi – in un’accezione non
certamente positiva – sotto la luce delle relazioni istituzionali proto de-
mocratiche, che una Repubblica avrebbe comunque – forse, fin dalle
prime avvisaglie – dovuto tutelare; risaltava, invece, la sua distanza dal
rispecchiare, nel sistema di governo, quell’evoluzione economica e so-
ciale che aveva preso prepotentemente l’avvìo nel XIII secolo, non sen-
za ripercussioni, seppur, nella sostanza, molto blande, di carattere poli-
tico – prima fra tutte, la graduale conquista del potere formale da parte
del popolo, principiata normativamente nel 1257, che sfociò nella ste-
sura definitiva, datata 28 maggio 1277, dei cataloghi comprendenti le

19 Cfr. G. A. PECCI, Memorie storico-critiche della città di Siena, cit., vol. I, p. 297.
20 Cfr., per esempio, A. K. CHIANCONE ISAACS, Popolo e Monti nella Siena del primo
Cinquecento, cit., p. 72.
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consorterie escluse dalla suprema magistratura e si consolidò, dopo un


trentennio di fermenti, per mano dei Nove, nel 1287 –. Si trattava,
piuttosto, di una relazione funzionale che non partiva nelle mani di un
popolano per ritrovarsi in quelle di un – magicamente trasmutato – cit-
tadino di reggimento: era quest’ultimo, infatti, ad immergere le proprie
nel catino delle arti per rinsanguarsi, guardandosi bene, oltretutto, da
esercitare mestieri di tipo strettamente artigianale o di piccolissimo
commercio, universalmente inclusi nella nozione di mercatura tenuis.
A Firenze, diversamente, l’avvento del Comune del popolo, segnato
definitivamente dalla stesura degli Ordinamenti di giustizia del 1293,
aveva scardinato irreparabilmente gli assetti tralatizi di gestione dei
pubblici poteri21.
Ma si deve fare un passo indietro, per ricordare quali fossero le radi-
ci medievali che portarono al consolidamento di un nuovo sistema so-
cio-economico e, di conseguenza, politico-istituzionale urbano.
In generale, com’è noto, le prerogative dapprima riservate, nell’ordi-
ne, al feudale laico ed episcopale, passarono nelle mani degli antichi af-
filiati all’associazione volontaria (societas) che, nel secolo XII, aveva
preso vita dalla crisi degli ordinamenti feudali, andando a sviluppare
un’organizzazione prevalentemente cittadina nel vuoto di autorità la-
sciato dalla politica dei vescovi-conti, fino a ricevere il riconoscimento
formale di una nuova entità istituzionale – seppur mancante della so-
vranità, inderogabilmente riservata all’Imperatore – con il privilegio
imperiale (pace di Costanza, 1183) di elezione dei propri magistrati (i
Consoli) e mantenimento dell’autonomia statutaria. Pertanto, i magna-
tes fiorentini, come i gentilhuomini senesi, rappresentano il gruppo so-
ciale che diede origine al Comune cittadino senza alcun evento rivolu-
zionario: non vi fu alcuna contrapposizione, né riguardo all’autorità
centrale, né rispetto alle istituzioni feudali. Si trattava degli apparte-
nenti ai rami cadetti delle famiglie nobili per investitura imperiale, di-
retta o derivata, inurbatisi; vale a dire, un ceto di possidenti fondiari
che traevano la propria ricchezza dalle proprietà di campagna, nel con-
tado, ma anche dal possesso di case e torri in città, ed, in funzione di

21 Per una visione critica, quanto più esaustiva possibile, del contesto socio-economico

e politico-istituzionale fiorentino, si vedano integralmente i due studi tradizionali più auto-


revoli, benché datati, di G. SALVEMINI, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Tori-
no, Giulio Einaudi editore, 1960, (edizione originale, arricchita da una copiosa Appendice
documentaria: Firenze, Tipografia G. Carnesecchi e Figli, 1899. Pubblicazioni del R. Istitu-
to di Studi superiori pratici e di perfezionamento in Firenze. Sezione di Filosofia e Filolo-
gia) e N. OTTOKAR, Il Comune di Firenze alla fine del Dugento, Torino, Giulio Einaudi edi-
tore, 1962, (edizione originale: Firenze, Vallecchi, 1926).
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tutela dei propri interessi economici e prerogative sociali, avevano


mosso i primi passi verso il governo della dominante attraverso l’impe-
gno nella cura delle necessità primordiali, quali, innanzi tutto, le fortifi-
cazioni cittadine e la costituzione delle milizie, per riguardo delle quali
si rendevano indispensabili ingenti capitali, che essi certamente detene-
vano. La maturazione del processo storico che aveva preso le mosse
con la battaglia di Legnano (1176) sfociò nella nascita del Comune co-
me ente pubblico, il quale assunse la foggia di unità vassallatica, alla
stregua di una vera e propria persona giuridica, andando ad inserirsi
nelle strutture feudali, ricevendo il riconoscimento imperiale attraverso
la concessione in feudo della città con il suo territorio. Di conseguenza,
dal punto di vista socio-economico, il più antico Comune costituiva
una prosecuzione del sistema feudale, ma trasformatosi e rafforzatosi a
tal punto da intimorire persino il Barbarossa, che dovette soccombere
ed accontentarsi di mantenere la sovranità meramente formale: i ma-
gnati erano un ceto di proprietari fondiari, vantavano un titolo di no-
biltà derivante dalle investiture feudali e governavano la città attraverso
i Consoli (ovvero, un numero variabile di capi o magistrati, solitamente
coadiuvati da un Consiglio ), gravati, a loro volta, dal dovere di giurare
fedeltà nei confronti di Cesare, prima d’insediarsi nell’ufficio di reggi-
mento municipale22.

22 Per un approccio di carattere generale, sulla variegata congerie istituzionale medieva-

le, caratterizzata da un complicato sistema di pesi e contrappesi, si veda M. ASCHERI, Me-


dioevo del potere. Le istituzioni laiche ed ecclesiastiche, Bologna, Il Mulino, 2009, (1a ed.
2005). Inoltre, per un approfondimento mirato allo studio dell’aspetto strettamente norma-
tivo degli ordinamenti concernenti i maggiori comuni toscani, si suggerisce il pregevole la-
voro di R. CELLI, Studi sui sistemi normativi delle democrazie comunali. Secoli XII~XV. I –
Pisa, Siena, cit., passim. In particolare, si legga l’introduzione, pp. XIII-XXX, ove l’A. pre-
mette come sia «emersa [...] l’esigenza sotto un duplice profilo cronologico e sistematico di
trattare per primi e di accordare un interesse particolare a due ordinamenti: Pisa e Siena.
Città che rappresentano, insieme a Firenze e Lucca, i maggiori comuni toscani; ma queste
ultime hanno lo svantaggio di non possedere redazioni statutarie superstiti che risalgano ol-
tre gli inizi del XIV sec. D’altra parte, Pisa e Siena conobbero su un piano generale un pro-
cesso evolutivo più precoce e rapido rispetto a Firenze che solo agli inizi del XIV sec. rag-
giunge un piena maturità e afferma il suo primato nell’ambito dell’Italia centrale. Alla metà
del XII sec. Pisa, già grande potenza marittima, autonoma dai poteri feudali, completò il
proprio ordinamento giuridico con una imponente, organica creazione legislativa, i Consti-
tuti della legge e dell’uso, espressione di un elevato grado di sviluppo oltre che economico,
civile, culturale, giuridico; sviluppo legato ai traffici intensi, ai rapporti con l’oltre-mare ed
in particolare con il mondo greco. Questi monumenti legislativi ci sono pervenuti insieme
ad altro materiale del XII sec. cospicuo per qualità e quantità. Resultava così possibile
esplorare il processo formativo dell’ordinamento pisano e del relativo sistema normativo ri-
salendo per certi fenomeni fino all’XI sec. Analoga la posizione di Siena, anche se meno
brillante, per lo stato delle fonti e per lo sviluppo politico e giuridico, in ritardo rispetto a
Pisa, ma anteriore di fronte agli altri comuni dell’entroterra toscano. Due città che esercita-
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Si può ritornare così, rapidamente, all’epoca delle profonde trasfor-


mazioni sociali, paragonabili per portata alla rivoluzione industriale, di
cinque secoli più tarda, che alterarono gli equilibri istituzionali tralati-
zi, anche se non in tutta la Toscana.
Nel XIII secolo, il sistema produttivo cittadino e la struttura sociale
mutarono radicalmente, la vetusta economia fondiaria decadde ineso-
rabilmente e la città diventò il centro delle attività manifatturiere, delle
banche, dei traffici. I protagonisti del nuovo assetto urbano andarono a
costituire un ceto variegato del tutto nuovo, con una rapidità assoluta-
mente inaspettata. E proprio nelle Repubbliche comunali toscane, so-
prattutto a Firenze e Siena, venne a concentrarsi un’enorme ricchezza,
talmente imponente da superare, senza proporzione, la disponibilità
monetaria di papi, principi ed imperatori, nei confronti dei quali, di lì
in poi, i banchieri toscani furono in grado di erogare mutui ed assume-
re la titolarità degli appalti per la gestione delle imposte.
A rigor di logica, il portato di un rinnovamento socio-economico co-
sì radicale avrebbe dovuto manifestarsi con una ripercussione significa-
tiva, dai tempi di gestazione più o meno rapidi, sul sistema istituziona-
le, a causa della divaricazione, assai evidente fin dai primi decenni del
Duecento, tra potere politico magnatizio in declino e potere economi-
co popolare in ascesa. Ma ciò è vero soltanto in parte. Se dalla supre-
mazia economica di derivazione fondiaria i magnati avevano tratto la
forza necessaria al fine di mutare funzionalmente la natura legale del ti-
tolare del potere feudale – con il passaggio dalla persona fisica alla per-
sona giuridica, quale destinataria dell’infeudazione –, per trasporre la
forza cetuale su un piano cittadino di relativa autonomia costituziona-
le, allo stesso modo, avrebbe dovuto trovare un’evoluzione naturale la
progressione ulteriore, consistente nel passaggio del testimone politico
nelle mani del nuovo ceto in ascesa, che ormai deteneva, alla stregua
dei nobili nel secolo precedente, il monopolio della ricchezza.
L’affermazione conclusiva or ora enunciata si ferma un attimo appe-
na sulla biforcazione istituzionale ubicata tra Siena e Firenze, per tro-
vare compimento in merito alla seconda, giacché soltanto quest’ultima
vide la maturazione del processo storico in atto sullo scorcio del secolo

rono il loro dominio o la loro influenza su circa metà dell’attuale regione fino al XIV sec.,
che offrivano la possibilità di risalire alle origini così antiche del sistema normativo, di stu-
diare cioè il XII sec., obbiettivi rari quanto importanti, [per il raggiungimento dei quali]
queste città richiedevano un impegno adeguato», (cfr. ivi, pp. XXVII-XXVIII); ma anche la
parte seconda (Siena), pp. 229-363. Inoltre, si vedano le Principali fonti edite citate, p. 365
ss., e, specialmente, le Fonti concernenti direttamente la storia senese, tutte di natura norma-
tiva, pp. 370-371.
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decimoterzo. Non è questa la sede per delineare il corso degli eventi


che incentrarono formalmente il sistema politico-istituzionale fiorenti-
no su quello delle arti. Ma basti, a tal proposito, tenere a mente come,
in sintesi, successivamente all’emanazione della legislazione antimagna-
tizia – con la cacciata effettiva dei magnati più potenti e la distruzione
o confisca delle loro proprietà –, lo schema di partecipazione al gover-
no della futura capitale granducale non prevedesse una demarcazione
poi così netta, come potrebbe sembrare a prima vista23. Difatti, le pro-
sapie magnatizie minori si allearono col popolo, finanche sostenendolo
per la conquista del potere, e vennero addirittura immesse nel governo,
superando gli ostacoli di carattere formale – grazie a una delle tante fic-
tio iuris adottate, anche nelle epoche successive, al fine di ammettere
all’elettorato passivo sia membri di famiglie escluse dal reggimento, sia
soggetti del tutto nuovi, che andavano insieme a ricadere nella più am-
pia categoria dei discendenti dei veduti o seduti – attraverso le iscrizio-
ni fittizie nella matricola di un’arte, sebbene non esercitassero affatto
l’attività economica dichiarata, per cui la medesima corporazione era
stata costituita ed operava; si trattava, dunque, di una immatricolazione
a meri fini politici. Non deve dimenticarsi, però, come il funzionamen-

23 Sul ceto magnatizio fiorentino, in merito alla legislazione eversiva ed alla sua effica-

cia, è stato autorevolmente sostenuto come all’inizio del secolo XIV invano «si cercò di por-
re fine alle guerre civili, anche con l’invio di paceri da parte del Papa. [...] Gli artefici mag-
giori [...] ritenevano di poter migliorare la propria posizione, giocando sul contrasto fra
Grandi, e di ottenere una maggiore autonomia per i magistrati popolari, fino ad allora stru-
menti della volontà dei Magnati»; ma si trattava, «ancora e sempre, di conflitti fra potenti
che si contendono la città, di lotte di fazione manovrate, in ugual misura, da Grandi e po-
tenti Popolani. In conclusione, la composizione delle fazioni dimostra, da un lato che i Ma-
gnati non furono esclusi dal potere, ma dall’altro che mai il ceto magnatizio, come tale, pre-
se il sopravvento; erano i singoli Grandi [...] che manovravano a loro piacimento i magistra-
ti, d’accoro con i Popolani più potenti della loro rispettiva fazione. Mai i Magnati, infatti,
divisi in correnti e fazioni, riuscirono a svolgere un’azione unitaria e coordinata contro i Po-
polani grassi. Il monolitismo dei vecchi partiti era venuto meno da tempo, perché Grandi e
Popolani stavano lentamente fondendosi, uniti dalla appartenenza, o dalla opposizione alla
fazione dominante e da comuni interessi economici». Dunque, «dopo gli Ordinamenti di
Giustizia, sembra ovvio non potersi parlare di attuazione della legislazione antimagnatizia,
che si dimostrò incapace d’impedire che pochi Grandi e Popolani si impadronissero del po-
tere», così come, più che «di uno stato fiorentino, si può parlare propriamente di uno stato,
prima dei Bianchi e poi dei Neri, e quindi sempre dei Magnati e dei Popolani loro alleati,
ora dell’una, ora dell’altra fazione», giacché le statuizioni antimagnatizie non costituirono
assolutamente «un valido impedimento per la realizzazione di una egemonìa sulla città da
parte delle compagnie magnatizie, bancarie, industriali, e commerciali, legate da interessi
comuni alle società popolari»; cfr. D. CAVALCA, Il ceto magnatizio a Firenze dopo gli Ordina-
menti di Giustizia, in «Rivista di Storia del Diritto italiano», XL-XLI (1967-1968), pp. 85-
132: 113-115. Per un recente studio sui temi in parola, si veda C. KLAPISH ZUBER, Ritorno
alla politica. I magnati fiorentini 1340-1440, Roma, Viella, 2009, (ed. orig. Rétour à la cité.
Les magnats de Florence, 1340-1440, Paris, Éditions de l’EHESS, 2006).
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to del congegno dell’eleggibilità presupponesse (oltre l’iscrizione al


Gonfalone, la cittadinanza fiorentina e l’immatricolazione corporativa)
l’innesco della trasmissibilità nella progenie attraverso la prima elezio-
ne, per il conseguimento tangibile della qualifica di veduto o seduto.
Tuttavia, il rilievo più importante deve riguardare la constatazione
del consolidamento di un meccanismo ereditario per la partecipazione
al governo, già in epoca medievale: allorquando i veri nobili vengono
cacciati dalle città, a governare sono i soli popolari e, soprattutto, non
esiste ancora l’istituto della nobiltà civica. In altre parole, non v’era
coincidenza tra potere politico e status nobiliare, anzi era il momento
di più netta contrapposizione, giacché, per l’appunto, non si era ancora
formato il concetto secondo il quale fossero proprio le magistrature co-
munitative a nobilitare: l’unica fonte di nobiltà riconosciuta era l’inve-
stitura feudale. I magnati, dunque, appartenenti – come già chiarito – a
rami cadetti di famiglie feudali inurbatisi, che venivano considerati no-
bili, per poter esser ammessi alle cariche municipali dovevano rinnega-
re il loro status ed aggregarsi al popolo, con lo strumento delle sum-
menzionate iscrizioni fittizie nella matricola delle arti24.
Pertanto, in linea di massima, lo sviluppo municipale di quelle che
sarebbero divenute le due capitali granducali seguì un percorso comu-
ne fino alla presa del potere da parte della borghesia in nuce, rappre-
sentata dal Popolo, allorquando dall’evoluzione socio-economica, che
aveva proseguito, in termini generali, parallelamente fino al tramonto

24 La grande riforma comunale del 1343, comprendente anche un’ampia riorganizzazio-

ne del sistema corporativo, aveva già evidenziato una disparità di trattamento tra arti mag-
giori e minori (alle prime sarebbero stati riservati 3/4 dei seggi totali nelle magistrature, pur
rappresentando la minoranza: erano sette su quattordici e ricomprendevano un numero no-
tevolmente inferiore di soci, poiché, naturalmente, i piccoli artigiani erano molto più nume-
rosi dei grandi imprenditori) e, per di più, proprio ad esse sarebbero stati accorpati i ma-
gnati che avessero inteso disconoscere le loro origini, pur di partecipare al governo. Quindi,
nella pratica, per l’aggregazione di una nuova famiglia al regimen cittadino occorreva il con-
corso sia della suprema magistratura, per la formale ammissione all’elettorato passivo, sia
del Consiglio del Popolo, per l’elezione effettiva ed il relativo conseguimento dell’idoneità
alla copertura dei seggi. L’ultimo rilievo concerne la trasposizione del complicato ingranag-
gio in oggetto nell’età del Principato. Se, in epoca repubblicana, infatti, la distinzione tra il
momento della concessione dell’elettorato passivo e la concretizzazione del diritto con la
prima elezione rivestiva un’indiscutibile rilevanza giuridica, nel passaggio istituzionale suc-
cessivo essa acquisterà un’importanza di gran lunga più significativa, dal punto di vista emi-
nentemente politico, giacché la suprema autorità sarà personificata dal Principe e, dunque,
a lui verrà riservata la facoltà di conferire il privilegio in parola. Ma al principio di nomina
dall’alto doveva corrispondere, anche in questo caso, un processo di cooptazione dal basso:
cotesto è il segreto dell’autonomia della nobiltà civica, la quale perdurerà nonostante l’av-
vento della monarchia, e ne renderà arduo il consolidamento, confinandone le velleità al-
l’ambito dell’assolutismo postmedievale.
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del secolo XIII, derivarono due distinti sistemi istituzionali, che trova-
rono la giustificazione della partecipazione al governo in due diversi
apparati sociali preponderanti: le Arti, a Firenze, ed i Monti, a Siena,
evolvendo, di lì in poi, in maniera del tutto differente, ma con il mede-
simo risultato: il consolidamento di un ceto dirigente di natura pretta-
mente cittadina.
Ad ogni buon conto, dopo due secoli, Siena conservava ancora il
suo aureo torpore, un po’ per lo strapotere a tutto tondo della classe
dirigente tralatizia25, un po’ per l’incapacità delle classi emergenti d’im-
brigliare in una sola stretta l’ascesa sociale e l’esercizio dei diritti politi-
ci26, tenute sotto scacco, sì, dalla nobiltà civica, sempre più ricca, ma
ancor più da una sorta di accondiscendenza, di timore reverenziale e,
insieme, di riconoscimento del ruolo e della capacità di governo in ca-
po a quei magnates che altro non avean fatto fin dalla copertura dell’uf-
ficio di Console: stare sulla cima della piramide. E l’esempio lampante
è dato innanzitutto dai consorti del Monte dei Gentiluomini, che – si
rimarca, finanche in piena vigenza della legislazione antimagnatizia –
non smisero mai di tirare le fila del potere reale27.

25 Per le famiglie più ragguardevoli del ceto dirigente cittadino, si vedano: G. A. PECCI,

Lettera, cit., in C. ROSSI, Giovanni Antonio Pecci, cit., pp. 151-196; V. PETRONI, Le antiche
famiglie che ressero la Repubblica e lo «Stato sanese», Siena, Cantagalli, 1949, passim.
26 In merito al valore paradigmatico dei mercanti nell’evoluzione istituzionale senese, si

veda M. ASCHERI, Istituzioni politiche, mercanti e mercanzie: qualche considerazione dal caso
di Siena (secoli XIV-XV), in AA.VV., Economia e corporazioni. Il governo degli interessi nella
storia d’Italia dal Medioevo all’Età contemporanea, a cura di C. MOZZARELLI, Milano, Giuf-
frè, 1988, pp. 41-56.
27 L’esame dell’esclusione dei magnati dalle cariche e dagli uffici deve svolgersi in ma-

niera particolareggiata, andando a studiare la costituzione delle città che si ressero con un
regime di popolo e lo portarono alle estreme conseguenze. «Uno studio simile dovrebbe es-
sere condotto sui documenti d’archivio controllando le disposizioni degli statuti e le affer-
mazioni dei cronisti: e solo per pochissime città è stato fatto; possiamo però dire che nelle
molte città di cui abbiamo considerato gli statuti, solo poche tolgono ai magnati tutti i diritti
politici. L’esclusione che pare assoluta in alcuni centri minori è voluta forse più che dal po-
polo, dal signore che non vuole aver vicino a sé pericolosi aspiranti [Faenza, Orvieto] e ri-
mane in vigore quando il signore è spodestato, perché il popolo si guarda bene dal revocare
una simile disposizione [Ascoli]. Nei centri maggiori, la totale esclusione è eccezionale [Ge-
nova, Parma, Padova, Siena (1277 e 1309-10), Udine, Savona, Viterbo, Spoleto] e ben pre-
sto si ritorna sulla deliberazione presa, concedendo ai magnati una partecipazione propor-
zionata». Se, dunque, «l’esclusione dagli uffici colpiva [...] indistintamente tutti coloro che
per nascita appartenevano ad una classe oggetto dell’odio popolare», per converso, come
assodato nei confronti di Siena, la pratica era «meno rigida di quanto si potrebbe credere: i
magnati conservarono sempre un’autorità, un prestigio notevole; incarichi delicati, spedizio-
ni militari, ambascerie, capitanati e podestarie in città vicine ed amiche o nelle città soggette
– salvo eccezioni – vengono loro affidati». Alla prova dei fatti, non può certamente negarsi
come il ruolo eminente nelle questioni di governo che i Gentiluomini conservarono non fos-
se più dovuto meramente «alle particolari condizioni di privilegio della loro classe, ma alle
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Le considerazioni da farsi sono di diverso ordine.


Se è vero che «la mancanza di rappresentanti delle arti nel governo
cittadino non è indice di una netta separazione fra le arti e la vita politi-
ca», è evidente, però, che centro motore d’imputazione della forza vita-
le della città permanesse, anche riguardo alle attività economiche in
senso lato, il nucleo più risalente dei cittadini di reggimento, ossia le
dinastie di maggior spicco, cioè a dire, ancora una volta, i Monti, e tra
essi, in particolare, i Gentiluomini.
Si deve, pertanto, rovesciare l’angolo visuale: il punto focale non ri-
siede nel fatto che «i membri delle arti – o almeno di certe arti – non
erano esclusi dalla vita politica»; infatti, pare assodato che, nonostante
«non esiste[sse ...] una rappresentanza delle corporazioni sul piano isti-
tuzionale» e «importanti cittadini di reggimento non disdegna[ssero]
di partecipare alle arti della mercanzia, della lana e della seta», «mem-
bri e discendenti di membri di altre arti entravano nelle magistrature
cittadine».
Ma, dal combinato disposto delle pur inconfutabili affermazioni sur-
riferite, traspare – anzi, si palesa – come non fossero i rappresentanti
delle arti, in quanto tali, ad indossare la becca – che distingueva il Prio-
re nel bimestre del suo mandato –, se non eccezionalmente ed in misu-
ra ininfluente dal punto di vista squisitamente politico, quanto i soliti
cittadini di reggimento esercenti, oltre la potestà statale, anche la mer-
catura magna et copiosa, e, per di più, non certo quelli meno facoltosi,
provenienti dalle fila dei tre Monti tradizionalmente più derelitti.
Ecco, dunque, che alla «quasi assoluta mancanza di menzione delle
arti nelle deliberazioni dei Consigli, del Concistoro, e delle Balie[, non-
ché ...] di petizioni [...] indirizzate ai massimi organi di governo che
proven[isser]o dalle arti» ed alle «rarissime deliberazioni che le tute-
la[va]no», faceva da contraltare l’assoluta posizione di forza dell’oligar-
chia cittadina, la quale prescindeva completamente dal sistema delle
arti e lo utilizzava a proprio beneficio per colmare i disavanzi – valutari
e finanche dovuti alla desuetudine – delle rendite tralatizie, investendo
in attività più moderne, al passo coi tempi, andando ad aggravare e

loro qualità personali, alle loro possibilità economiche, all’importanza delle tradizioni sociali
e politiche della famiglia» dalla quale traevano le proprie origini e della quale rappresenta-
vano la solidità nell’esercizio dell’autorità carismatica a tutto tondo. Proprio per questa serie
di motivazioni reali, nel «complesso dell’atteggiamento del popolo verso i magnati si può os-
servare un misto di odio e di ammirazione, atteggiamento assai spesso proprio di chi ricono-
sce malvolentieri altri superiore a sé». Cfr. G. FASOLI, Ricerche sulla legislazione antimagnati-
zia nei comuni dell’alta e media Italia, in «Rivista di Storia del Diritto italiano», XVII (1939),
pp. 86-133 e 240-309: 246-247.
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mettere ancor più in rilievo «la sostanziale debolezza, prima e partico-


larmente delle arti di carattere artigianale che non contavano cittadini
di reggimento nei loro ranghi»28.
L’interessamento dei Consigli per l’universo delle arti si limitava al-
l’elezione, con cadenza semestrale, di quattro dei loro membri più sti-
mati per indossare le vesti di Officiales Mercantie, demandando in que-
sto modo la risoluzione dei problemi ad una magistratura minore e de-
filata, ma solo apparentemente lontana dai centri tradizionali del pote-
re cittadino. Si ricordi inoltre, per riprova, come il pianeta serico, so-
spinto da una maggioranza numerica di setaiuoli maestri dell’arte mi-
nore o dettaglianti, fosse tenuto in vita dai suoi più ricchi esponenti, tra
cui spiccavano i cittadini di reggimento delle consorterie più eminenti,
i quali, proprio insieme a questi ultimi, andavano a formare l’arte mag-
giore dei grossisti, che agevolmente controllava la tessitura cittadina29.
Per di più, se si guarda agli statuti del 1513, lo stupore deve lasciar spa-
zio alla realtà cristallina che vide tre cittadini di reggimento – un nove-
sco e due gentiluomini – nella veste di estensori delle norme corporati-
ve, e due di essi ricoprire per primi l’ufficio consolare dell’arte in paro-
la30. Anche se il paradosso – come rilevato più sopra – si era già palesa-
to ai tempi della legislazione antimagnatizia, con la possibilità di elezio-
ne nell’ufficio dei quattro Consoli dell’Arte della Mercanzia di membri
provenienti dai ranghi dei Grandi, che, quindi, non solo erano cives de
regimine, per di più esclusi dalle magistrature, ma gli esponenti della
più antica aristocrazia: vale a dire quanto di più distante potesse met-
tersi di fronte – e, molto più inopportunamente, accanto – agli artigia-
ni. E tutto ciò fugherà ogni sbigottimento, qualora si richiami alla me-
moria come i Gentiluomini, insieme ai magistrati uscenti, sotto le men-
tite spoglie di Officiales Mercantie concorressero alla scelta dei medesi-
mi Nove già in epoca di piena vigenza della normazione eversiva della
più antica compagine di governo.
Da ultimo, la distanza tra i cittadini di reggimento e il popolo delle
arti può esser colta ancor meglio tagliando trasversalmente l’area inter-
media della società senese, lasciando per un attimo da parte la relazio-

28 Per gli aspetti concernenti la conservazione delle prerogative sociali, economiche e fi-

nanziarie da parte dell’antica aristocrazia cittadina, si vedano: A. K. ISAACS, Popolo e Monti,


cit., passim; EADEM, Magnati, Comune e Stato a Siena nel Trecento e all’inizio del Quattrocen-
to, cit., passim, in I ceti dirigenti nella Toscana tardo comunale, cit.; W. M. BOWSKY, Le finan-
ze del Comune di Siena, cit., passim; IDEM, Un comune italiano nel Medioevo, cit., passim.
29 A. K. ISAACS, Popolo e Monti, cit., p. 75.
30 Per un approfondimento sull’arte in menzione, si veda L. BANCHI, L’arte della seta in

Siena nei secoli 15 e 16: statuti e documenti, Siena, Tipografia L. Lazzeri, 1881, passim.
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ne tra arti e governo, all’uopo soccorrendo le figure dimostrative del


dottore e del notaio, più strettamente legate all’ambito che, con lin-
guaggio moderno, comunemente si riferisce alle professioni.
Il primo, solitamente rampollo di dinastie di reggimento, non lascia-
va la città natale per intraprendere le carriere forensi altrove, bensì
proseguiva sulla strada degli antenati, che l’avevano spianata per lui,
esercitando gli uffici cittadini di maggior prestigio, come pure la do-
cenza in jure canonico e in jure civili, dacché poteva beneficiare del
processo di senesizzazione del corpo accademico che aveva avuto luo-
go durante il corso del Quattrocento ed era divenuto ancor più marca-
to nei primi decenni del secolo successivo, allorquando i Gentiluomini,
insieme ai noveschi, predominavano tra i dotti in scienza giuridica31. In
particolare, diversamente da quanto accadeva nella vicina Lucca32, i
membri dei consessi municipali accordavano completa fiducia ai colle-
ghi che fossero anche giurisperiti, confidando non solo in una maggio-
re garanzia di legalità e rispetto degli statuti cittadini, ma anche nel più
spiccato buon senso derivante da cotanta dottrina.
Il secondo, invece, restava una rarità tra i cives de regimine, poiché la
sua attività rientrava nel novero delle «arti vili e meccaniche»33 e l’asse-
gnazione dell’ufficio prescindeva dall’appartenenza ai Monti – deno-
tando, anzi, il galleggiamento in una sorta di limbo nel quale orbitava-
no i membri delle famiglie che non fossero mai riuscite a catapultarsi
neanche all’incipit del cursus honorum –. Se in alcuni momenti storici
più antichi e tormentati il notariato aveva rappresentato, spesso, una
via d’accesso alla cerchia dei cittadini di reggimento, in età moderna,
per converso, l’esercizio della professione in parola dava l’idea che un
membro del ceto privilegiato di governo rinnegasse l’origine di compo-
nente della classe dominante, tanto che divenne sempre più comune il
caso del notaio proveniente dal contado.

31 Cfr. L. ZDEKAUER, Lo Studio di Siena nel Rinascimento. Con un’Appendice di docu-

menti, Milano, Ulrico Hoepli Editore, 1894, (rist. an., Bologna, A. Forni, 1977), pp. 58 e
127.
32 Cfr. M. BERENGO, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino, Einaudi,

1965, pp. 281-282.


33 Sulla definizione di arti vili e meccaniche e sulla decadenza dallo status nobiliare, cor-

relata al loro esercizio, si veda D. MARRARA, Riseduti e nobiltà, cit., pp. 53-58.
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IV
PROFILI COSTITUZIONALI
E PRESUPPOSTI GIURIDICI E POLITICI
PER L’AFFERMAZIONE DEL PRINCIPATO

1. IL DIRITTO PUBBLICO, LA GIUSTIZIA E LA MATERIA FINANZIARIA:


STRUTTURE E POTERE DELLA PRATICA AMMINISTRATIVA

Per un chiaro inquadramento del contesto politico-istituzionale


senese, non si può prescindere da una, seppur sommaria, analisi
dell’amministrazione dello Stato mediceo nell’età di Cosimo I e del
modo in cui il pubblico potere si è organizzato ai suoi diversi livelli
giurisdizionali e ha concretamente e variamente agito nei singoli
luoghi, allargando il discorso storico dall’analisi delle strutture pri-
marie dello Stato e degli strumenti del potere centrale ai rapporti
tra città dominante e città soggette, tra città e campagne, ai regimi
di queste ultime, e quindi anche alle forze sociali che, qui e là, nei
diversi centri di potere, si contrapposero, superando le note prope-
deutiche fin qui considerate.

1. Le generali e rapide considerazioni del Vicens Vives sull’op-


portunità di concepire i problemi relativi alle strutture statali in ter-
mini di potere, negli Stati assoluti del Cinquecento, a diversi livelli
(principesco al vertice, oligarchico e corporativo nelle città, feudale
nelle campagne)1, devono riportarsi indietro di mezzo secolo, per
iniziare proprio là dove l’Anzilotti – che si è occupato dell’articola-
zione interna e del funzionamento degli organi centrali dello Stato,
delle vecchie e nuove magistrature fiorentine, cui ha consacrato il
proprio lavoro fondamentale2 – finiva: al centro dell’attenzione non

1 J. VICENS VIVES, Estructura administrativa estatal en los siglos XVI y XVII, in Comité

International des Sciences Historiques, XIe Congrés International de Sciences Historiques,


Rapports, IV, Göteborg, Almqvist & Wiksell, 1960, pp. 5-14.
2 A. ANZILOTTI, La Costituzione dello Stato fiorentino, cit.
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devono porsi le forme del potere personale di Cosimo I, il gioco po-


litico che si crea tra le magistrature codificate dalla riforma del duca
Alessandro nel 1532 (il Consiglio dei Duecento, il Senato dei Qua-
rantotto, ed il Magistrato Supremo) ed i nuovi collaboratori perso-
nali del principe (gli Auditori e la Pratica Segreta), la riforma delle
magistrature fiorentine preposte all’amministrazione della giustizia,
come la Ruota e gli Otto di Balìa, e al controllo del dominio fioren-
tino, quanto, piuttosto, l’attività pratica – di politica amministrati-
va – nella misura in cui essa si ripercosse sulle strutture burocrati-
che e giustiziali del Granducato.
La figura di Cosimo I e il carattere personale della sua politica già
spiccavano nelle vicende dei loro tempi scritte dai testimoni diretti
del trapasso dalla Repubblica al Principato, come il Segni3, il Nerli4,
il Nardi5 ed il Varchi6, e pure dominavano quelle di poco più tarde
– ma indubitabilmente cortigiane – dell’Adriani7 e poi dell’Ammira-

3 B. SEGNI, (1504-1558), Storie fiorentine di messer Bernardo Segni, gentiluomo fiorenti-

no, dall’anno 1527 all’anno 1555. Colla vita di Niccolò Capponi, Gonfaloniere della Repubbli-
ca di Firenze, descritta dal medesimo Segni suo nipote, in Augusta, appresso David Raimondo
Mertz e Gio. Jacopo Majer, 1723.
4 F. DE’ NERLI, (1485-1556), Commentarj de’ fatti civili occorsi dentro la città di Firenze

dal’anno 1215 al 1537 scritti dal Senatore Filippo de’ Nerli gentiluomo fiorentino, in Augusta,
appresso David Raimondo Mertz e Gio. Jacopo Majer, 1728.
5 J. NARDI, (1476-1563), Le Historie della Città di Fiorenza di messer Jacopo Nardi Cit-

tadino Fiorentino. Le quali con tutta quella particolarità che bisogna, contengono quanto dal’
anno 1494 fino al tempo del’ anno 1531 è successo. Con un catalogo de Gonfalonieri di Giusti-
zia, che hanno seduto nel supremo magistrato della Città di Fiorenza. Et nella fine vn discorso
sopra lo stato della magnifica Città di Lione. Nuovamente poste in luce, in Lione, appresso
Theobaldo Ancelin, 1582. IDEM, Le storie della Città di Firenze di messer Jacopo Nardi citta-
din fiorentino. Doue con tutte le particolarità, che si possono disiderare si contiene cio che dal-
l’anno 1494 fino all’anno 1531 è successo. Con la Tavola delle cose Notabili, e co’ Sommari à
ciascun libro. Aggiuntoui vn’istruzione per leggere le Storie ordinatamente, in Firenze, nella
Stamperia di Bartolommeo Sermartelli, 1584.
6 B. VARCHI, (1503-1565), Storia fiorentina di messer Benedetto Varchi. Nella quale prin-

cipalmente si contengono l’ultime Revoluzioni della Republica Fiorentina, e lo stabilimento


del Principato nella Casa de’ Medici. Colla Tavola in fine delle Cose più notabili, in Colonia,
appresso Pietro Martello, 1721.
7 G. B. ADRIANI, (1511-1579), Istoria de’ suoi tempi di Giovambatista Adriani gentiluo-

mo fiorentino. Divisa in libri ventidue. Di nuovo mandata in luce. Con li sommarii, e tavola
delle cose più notabili, in Firenze, nella Stamperia de i Giunti, del mese di Settembre 1583.
IDEM, Istoria de’ suoi tempi di Giovambatista Adriani gentilhuomo fiorentino. Divisa in Libri
Ventidue. Di nuovo mandata in luce. Con li sommarii, e tavola, e le postille in margine delle
cose più notabili, che in esse Istorie si contengono, in Venetia, ad instantia de’ Giunti di Fi-
renze, 1587. L’Adriani è però assai più interessato dei suoi predecessori ai problemi inerenti
il funzionamento degli organi dello Stato, non solo nella città, ma anche nel dominio. Sugli
storici dei primi anni del Principato, cfr. M. LUPO GENTILE, Studi sulla storiografia della
Corte di Cosimo I de’ Medici, (Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, vol. 19), Pisa,
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to8; però, questi osservatori non colsero l’importanza della vita dif-
ferenziata e complessa del dominio, e, nella misura in cui trattarono
degli eventi più ampiamente toscani, essi li racchiusero in un oriz-
zonte che, a seconda del diverso tono che prevalse, si può definire
ancora cittadino o già – per l’appunto – cortigiano, ma, pur sempre,
essenzialmente fiorentino. Il dominio occupò uno spazio assai mag-
giore nella storia settecentesca del Galluzzi9, frutto ed espressione
della nuova «coscienza politica» del periodo lorenese: ma neppure
qui veniva studiato in sé, nelle strutture politico-amministrative, e,
tanto meno, nella sua realtà economico-sociale, bensì come oggetto
di una politica ducale che, differentemente dall’atteggiamento dian-
zi evidenziato, veniva però analizzata e giudicata criticamente.
Le opere più tarde, come quella ottocentesca del Reumont10 o le
meno lontane sintesi del Caggese11 e del Panella12, furono, più stret-
tamente, condotte sul filo degli eventi politici, per arrivare fino

Nistri, 1905; e, soprattutto, R. VON ALBERTINI, Das florentinische Staatsbewusstein im Über-


gang von der Republik zum Prinzipat, Bern, Franke, 1955, (trad. it. Firenze dalla repubblica
al principato. Storia e coscienza politica, Torino, Einaudi, 1970).
8 S. AMMIRATO (1531-1601), Dell’istorie fiorentine di Scipione Ammirato libri venti. Dal

principio della città insino all’anno 1434 nel quale Cosimo de Medici il Vecchio fu restituito al-
la patria. Con vna tauola copiosissima delle cose più notabili [dalle origini al 1574], [ed. in-
completa], in Firenze, nella stamperia di Filippo Giunti, 1600; IDEM, Istorie fiorentine di Sci-
pione Ammirato parte seconda. Con una tauola in fine delle cose più notabili, a cura di Scipio-
ne Ammirato il Giovane (1582-1646), in Firenze nella stamperia nuova d’Amador Massi e
Lorenzo Landi, 1641; IDEM, Istorie fiorentine di Scipione Ammirato Parte Prima Tomo Pri-
mo[-Tomo Secondo] con l’aggiunte di Scipione Ammirato il Giovane [1582-1646], [ed. com-
pleta], in Firenze, per Amador Massi Forlivese, 1647. Sull’Ammirato e la storiografia fioren-
tina della seconda metà del Cinquecento, cfr. E. W. COCHRANE, The end of the Renaissance
in Florence, in «Bibliotèque d’Humanisme et Renaissance», Travaux et Documents, Tome
XXVII, Genève, Librairie Droz S. A., 1965, pp. 7-29; IDEM, A case in point: in the end of
Renaissance in Florence, in The late Italian Renaissance, 1525-1620, a cura dello stesso E. W.
COCHRANE, London, Macmillan, 1970; IDEM, Florence in the forgotten centuries 1527-1800:
a history of Florence and the florentines in the age of the Grand Dukes, Chicago-London, The
University of Chicago Press, 1973; IDEM, Historians and historiography in the Italian Renais-
sance, Chicago-London, The University of Chicago Press, 1981; inoltre, benché non parli
specificamente dell’Ammirato, G. SPINI, I trattatisti dell’arte storica nella Controriforma ita-
liana, in AA. VV., Contributi alla storia del Concilio di Trento e della Controriforma, Firenze,
Vallecchi Editore, 1948, pp. 109-136, (trad. e riedito in The late Italian Renaissance, cit., pp.
91-133).
9 R. GALLUZZI, Istoria del Granducato di Toscana sotto il governo della Casa Medici, cit.
10 A. VON REUMONT, Geschichte Toscana’s seit dem Ende des florentinischen Freistaates,

Gotha, Perthes, 1876-1877.


11 R. CAGGESE, Firenze dalla decadenza di Roma al Risorgimento d’Italia, vol. III (Il

Principato), Firenze, Bemporad, 1921.


12 A. PANELLA, Storia di Firenze, Firenze, Sansoni, 1949.
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al Diaz13, che dopo quasi due secoli sostituì adeguatamente l’opera


del Galluzzi, valicando l’orizzonte strettamente fiorentino e cosi-
miano.
Tra gli scritti divenuti tralatizi, oltre quelli degli eruditi senesi14,
ai quali, in parte, si è già avuto modo di fare riferimento e dare rilie-
vo, nonché le opere di Douglas15, Bowsky16 e, soprattutto, Asche-
ri17, gli Studi giuridici consacrati dal Marrara alla Toscana medicea18
e ancor più la sua precedente Storia istituzionale della Maremma se-
nese19, hanno fornito ricchi spunti e dati provati. Sia i primi, nei
quali spicca ancor sempre la volontà e l’iniziativa del principe nel
campo specifico dell’attività legislativa, sia la seconda, la quale so-
pravanza gli orizzonti meramente maremmani e si estende ad un’a-
nalisi delle istituzioni dello Stato di Siena nel suo complesso, offri-
rono una fondamentale visione d’insieme, dalla quale risulta a
tutt’oggi difficile prescindere, ancor più se considerati insieme allo
studio precipuo sull’oligarchia nobiliare senese, Riseduti e nobiltà20,
che superò l’ambito esclusivo della storia del diritto e delle istituzio-
ni, per andare a strutturare un’analisi della società e dei rapporti di
classe.
I problemi relativi alla vitalità sociale ed economica del Grandu-
cato, alla qualità ed alle funzioni dei rappresentanti del potere cen-
trale, ai rapporti che essi avevano con gli organismi comunitativi, al
senso ed ai limiti del perdurare di forme di autonomia giurisdizio-
nale nel tempo del Principato mediceo, al primo sorgere di nuove

13 F. DIAZ, Il Granducato di Toscana: i Medici, cit.


14 Tra i maggiori storici ed eruditi senesi, insieme con le loro opere principali in ordine
cronologico, si ricordano: O. MALAVOLTI, Dell’historia di Siena, in Venetia, per Salvestro
Marchetti libraro in Siena all’insegna della lupa, 1599; G. TOMMASI, Dell’historie di Siena, in
Venetia, presso Giovanni Battista Pulciani sanese, 1625-26; I. UGURGIERI AZZOLINI, Le pom-
pe sanesi, o vero relazione delli huomini e donne illustri di Siena e suo Stato, in Pistoia, nella
stamperia di Pier’Antonio Fortunati, 1649; G. GIGLI, Diario sanese, in Siena, nella stampe-
ria dell’A. R. della Serenissima gran principessa Gov., presso Francesco Quinza, 1722.
15 L. DOUGLAS, Storia della Repubblica di Siena, cit.
16 W. M. BOWSKY, Le finanze del Comune di Siena cit.; IDEM Un comune italiano nel

Medioevo. Siena sotto il regime dei Nove, 1287-1355, cit.


17 In particolare, oltre i copiosi studi del medesimo A., che l’hanno preceduta (tra i

quali si ricorda L’Ultimo statuto della Repubblica di Siena «1545», a cura di M. ASCHERI,
cit.), l’opera generale M. ASCHERI, Siena nella storia, Cinisello Balsamo (Milano), Arti Grafi-
che Amilcare Pizzi S. p. A., 2000.
18 D. MARRARA, Studi giuridici sulla Toscana medicea, cit.
19 IDEM, Storia istituzionale della Maremma senese, cit.
20 IDEM, Riseduti e nobiltà, cit.
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giurisdizioni feudali, sono stati aggiunti al già lungo elenco di que-


stioni aperte per la storia dei tempi di Cosimo I elaborato alcuni de-
cenni or sono21 ed in buona parte ancora attuali22.
Restano sempre da tenere in considerazione, naturalmente, le
vecchie e le nuove storie locali, i contributi antichi e recenti dei pa-
zienti ricercatori degli archivi comunali, per reperire suggerimenti
utili ed elementi di sintesi e chiarificazione. Tuttavia, non ci si può
aspettare da questo tipo di sussidi quella visione d’insieme della or-
ganizzazione del Granducato, né un’interpretazione critica e appas-
sionata, volta alla chiara distinzione dei due Stati, fiorentino e sene-
se, che soltanto un’ampia consultazione diretta degli archivi centrali
può fornire.
Si cercherà, dunque, di tracciare una schematica panoramica del-
le strutture statali del ducato mediceo sotto Cosimo I, con particola-
re attenzione allo Stato nuovo, nell’auspicio che possano emergere
alcuni dei problemi storici che caratterizzarono il primo consolida-
mento del Principato, in relazione all’opera riformatrice differenzia-
ta per le due capitali toscane e i rispettivi domini.

2. In merito alla situazione giurisdizionale dello Stato senese do-


po il suo passaggio sotto il dominio di Cosimo I, è ben vero che i
granduchi furono vincolati al rispetto delle clausole con le quali i
reggitori repubblicani avevano ottenuto da Carlo V, nell’atto di ca-
pitolazione sottoscritto il 17 aprile 1555, l’impegno a salvaguardare
le più rilevanti istituzioni municipali e la partecipazione della classe
dirigente senese al potere nelle forme tradizionali23. Né si può nega-

21 G. SPINI, Questioni e problemi di metodo per la storia del Principato mediceo e degli

Stati toscani del Cinquecento, cit., pp. 76-93. Ma si veda anche il saggio storiografico più re-
cente (IDEM, Bilancio di un trend storiografico, in Potere centrale e strutture periferiche nella
Toscana del ‘500, a cura del medesimo G. SPINI, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1980, pp.
5-25), annotato con una copiosa bibliografia, in cui l’A. descrive il «trend storiografico, che
aveva già cominciato a manifestarsi da alcuni anni e che avrebbe continuato a svilupparsi
anche posteriormente alla ricca vendemmia del 1976», per poi concludere affermando:
«Non c’è mai stato un periodo del passato in cui il principato mediceo dei secc. XVI-XVII
abbia attirato tanto l’interesse degli storici come in quest’ultimo decennio», cfr. ivi, p. 7.
22 Per una recente ricostruzione dei percorsi storiografici concernenti la storia della To-

scana, si rimanda al volume AA.VV., Atti del Convegno «La Toscana in Età moderna. (Secoli
XVI-XVIII). Politica, istituzioni, società: studi recenti e prospettive d ricerca» (Arezzo, 12-13
ottobre 2000), a cura di M. ASCHERI e A. CONTINI, Firenze, Leo Olschki Editore, 2005.
23 Cfr. D. MARRARA, Studi giuridici sulla Toscana medicea, cit., p. 89.
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re che «a Siena il processo di creazione dello Stato moderno, ossia


dello Stato assoluto, si esplica e si realizza tra difficoltà e contrasti
non indifferenti, che consigliano, o impongono, ai Granduchi e ai
loro collaboratori una certa cautela e moderazione nell’opera di
riorganizzazione dei pubblici poteri e nella quotidiana prassi di go-
verno: per cui, addivenendosi a una, più o meno forzata, tolleranza
di istituzioni e situazioni tipiche del passato, lo Stato senese conser-
va per lungo tempo un ordinamento caratterizzato dalla sopravvi-
venza di buona parte del suo patrimonio politico-giuridico medie-
vale»24. Nondimeno, l’intervento nelle cose senesi di Cosimo I, in-
vestito, con le predette limitazioni, del potere, già acquisito da Sua
Maestà Cesarea e poi trasmesso a Filippo II, di «introdurre in detta
Città e Repubblica quel modo e forma di governo che a quella parrà
conveniente», fu assai ampio, ed in alcuni settori molto deciso: la
Reformazione del governo della Città e Stato di Siena del 1° febbraio
156125 non si può certo considerare un mero piano di modifiche più
o meno marginali escogitate per adattare il vecchio ordinamento re-
pubblicano alla nuova logica di potere del Principato; ma, piutto-
sto, rappresentò la nuova costituzione, articolatamente disegnata,
imposta dal nuovo principe al suo Stato «nuovo».
La Reformazione si colloca nella storia dell’amministrazione dello
Stato e del dominio quale elemento nodale, per il carattere delle
strutture che essa fissava, per la concezione del potere e della prati-
ca amministrativa, che attraverso essa si manifestarono.
Par esser fuor di dubbio la completezza del nuovo impianto co-
stituzionale, quale base funzionale per la rappresentazione della mo-
dificazione del sistema giurisdizionale-amministrativo della Città e
Stato di Siena, al fine di rilevare come, per ciò stesso, si renda super-
fluo un assiduo confronto tra passato ed avvenire, inteso a puntua-
lizzare la situazione esistente al tempo di Cosimo I. È però utile ac-
costare ad essa i provvedimenti normativi ulteriori con cui, durante
il ducato di Cosimo I, ne furono chiariti, precisati o modificati alcu-

24 Ivi, pp. 89-90.


25 Reformazione del Governo della Città e Stato di Siena fermata per Sua Eccellenza Illu-
strissima del dì 1 febbraio 1560 ab Incarnatione, in L. CANTINI, Legislazione toscana, cit., vol.
IV, pp. 116-132. Cfr. anche U. MORANDI, I giusdicenti dell’antico Stato senese, in «Quaderni
della rassegna degli Archivi di Stato», n. 17, Roma, Ministero degli Interni (stampato per i
tipi della Tipografia “La Galluzza”, Siena), 1962, passim.
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ni aspetti, rimasti allo stato di abbozzo; in particolare, le Provvisioni


et ordini particolari delli Capitani e Podestà dello Stato della Città di
Siena del 1° giugno 157126, consacrate proprio all’amministrazione
della giustizia nello Stato e alla suddivisione delle nuove circoscri-
zioni.

3. Dal 1561, insieme alle norme che regolavano i poteri del Luo-
gotenente o Governatore e degli antichi collegi cittadini (il Conci-
storo, il Consiglio Grande, la Balìa)27 – sopravvissuti, ma ridotti e
trasformati da organi politici in organismi essenzialmente ammini-
strativi –, accanto alle disposizioni che modificavano o confermava-
no la «autorità e giurisdizione» delle antiche magistrature finanzia-
rie centrali dello stato (i Quattro di Biccherna, gli Esecutori di Ga-
bella, i Quattro Maestri del Monte, gli Uffiziali di Mercanzia, ed i
Regolatori) e ne rinnovavano i tradizionali poteri giudiziari entro i
settori di loro competenza, godeva di un ampio spazio la determina-
zione del complesso di organismi specificamente giudiziari ed am-

26 Provvisioni et Ordini particolari delli Capitani, e Podestà dello Stato della Città di Sie-

na con li loro compartimenti così nella cognizione delle Cause Criminali, come civili con la de-
scrizione de’ Salari e Bullettini del 1 Giugno 1571 ab Incarnatione, in L. CANTINI, Legislazio-
ne toscana, cit., vol. VII, pp. 314-362.
27 Il Concistoro, primo magistrato della città (supremus magistratus), che anche nell’età

del Principato conservava l’antica qualifica di suprema magistratura, era composto di sedici
membri: il Capitano del Popolo (Capitaneus Populi), che ne era il capo; gli otto Signori, o
Priori, o Governatori (Domini, o Piores gubernatores difensori civitati Senarum); i tre Gonfa-
lonieri, o Vessilliferi (Vexilliferi magistri), dei terzieri di Città, San Martino e Camollìa; i
quattro Consiglieri del Capitano (Consiliarii Capitanei Populi). I Signori e i Consiglieri, con
mandato bimestrale, continuavano ad essere elettivi; il Capitano del Popolo, con mandato
parimenti bimestrale, e i Gonfalonieri, con mandato semestrale, erano invece di nomina so-
vrana. Venivano definiti «cittadini di reggimento» (cives de regimine, o regentes) i soggetti
investiti del diritto ereditario di elettorato passivo per gli otto seggi della Signoria concisto-
riale; mentre ottenevano la qualifica di «riseduti» coloro che, avendo esercitato tale ufficio
anche una sola volta, divenivano eleggibili per ciascun’altra magistratura. Rientravano nel
novero dei cittadini di reggimento, oltre i riseduti e tutti i loro figli e discendenti per via di
filiazione legittima patrilineare (anche se l’antenato da cui avevano ereditato tale attribuzio-
ne fosse morto da secoli), i cittadini dichiarati «abili a risedere» – in forza di una fictio iuris
che li equiparava alla progenie dei riseduti – con uno speciale provvedimento, emesso dal-
l’autorità di governo. La magistratura politicamente più autorevole era però divenuta la
Balìa, costituita da venti riseduti (nominati dal principe, con carica annuale) e dal Capitano
del Popolo pro tempore, che primeggiava per l’ampiezza delle sue attribuzioni e per l’incisi-
vità delle sue iniziative. Si vedano: G. GIGLI, Diario Sanese, II edizione, cit., II, pp. 669-724
(in particolare, Discorso sopra la città di Siena e delle varie guise del suo antico governo, pp.
699-703); D. MARRARA, Studi giuridici sulla Toscana medicea, cit., pp. 89-175; IDEM, Riseduti
e nobiltà, cit., pp. 87-139; G. R. F. BAKER, Nobiltà in declino, cit., pp. 588-591.
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ministrativi della metropoli e del dominio.


Per l’articolazione periferica della giustizia, già allora si prevede-
va, secondo il modello fiorentino, ed in modo ancor più netto, l’isti-
tuzione delle due reti differenziate di circoscrizioni civili (le pode-
sterie o vicariati) e penali (i capitanati), che spesso abbracciavano
più podesterie, senza mai coincidere28.
Laddove podestà e vicari – in esplicita deroga ad una cospicua
serie di privilegi ed autonomie giurisdizionali fino allora vigenti –
dovevano essere tutti eletti dal Consiglio Grande della città tra i cit-
tadini di «reggimento» che – quando i capitoli locali così richiede-
vano – fossero anche notai, i capitani dello Stato, precipuamente re-
sponsabili della salvaguardia dell’ordine, erano designati – anch’essi
tra i cives de regimine – dal duca medesimo.
Ma gli intenti centralizzatori di Cosimo I – guidati dalla bramosia
di controllo pressoché esclusivo dei complessi ingranaggi statali –
andavano a gravare con ancor più vigore nel settore della giustizia
penale. Il Capitano di Giustizia (supremo giudice criminale per la
città e per le masse) disponeva del mezzo tradizionale della «pre-
venzione» e gli era consentito «non ostante qualunche preventione
avvocare qualunche causa criminale in qualunche stato la si ritro-
vi»29, purché il Governatore, longa manus del duca, desse il suo
consenso – addirittura obbligatorio in tutte le cause che comportas-
sero pene detentive, corporali, capitali –, potendosi emettere sen-
tenze definitive soltanto in funzione del suo rescritto30.
Appare immediatamente chiaro, dunque, come i tribunali centra-
li – nelle persone degli adepti del duca – sovrintendessero rigorosa-
mente ad un sistema rigido, sovrastato dall’imperio della somma au-
torità politica del Governatore, o dello stesso principe.
Analogamente, i privilegi e le autonomie giurisdizionali godevano
ormai di uno spazio angusto, giacché, non solo – si ripete – la costitu-
zione del 1561 escludeva esplicitamente l’eventualità che i giusdicenti
potessero essere nominati dalle stesse comunità, ma neppure ammet-

28 Cfr. Reformazione del Governo della Città e Stato di Siena, cit., in L. CANTINI, Legisla-

zione toscana, cit., vol. IV, capp. XV (Dei Capitani dello Stato), pp. 125-128, e XVI (Delli Po-
testà et Vicarii dello Stato), pp.128-129.
29 Ivi, cap. V (Del Capitano di Giustizia), p. 120.
30 Cfr. Provvisioni et Ordini particolari delli Capitani, e Podestà dello Stato della Città di

Siena, cit., in L. CANTINI, Legislazione toscana, cit., vol. VII, pp. 314-362: 319.
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teva che le città, terre e castelli dello stato, «ancor che capitolate, et
in qual si voglia modo privilegiate»31, avessero ad «intromettersi nella
cognitione, o giurisditione delle cause criminali, ne fra qual si voglia
relasso gratia, o assolutione a delinquenti delle pene delle quali saran-
no condennati dai loro Capitani quali elle si sieno»32.
Quindi, si serbavano ad organi comunitativi solo alcune giurisdi-
zioni civili d’appello, rientranti nella generica categoria delle «altre
forme d’appellatione»33, che la nuova legge equiordinava al ricorso
ai capitani dello stato. Ma il sommario e indefinito genus in oggetto
rappresentava una figura gregaria sia nella Reformazione del 1561,
sia nelle Provvisioni di dieci anni più tardi34, del quale entrambe
meramente informavano, limitandosi a rinviare agli antichi capitoli
che ne costituivano il fondamento. Ed a questi, appunto, o agli sta-
tuti locali che ne rispecchiano le clausole giurisdizionali – sottinten-
dendo la vigenza del diritto comune per colmare le eventuali lacu-
ne, finanche della legislazione granducale – bisogna ricorrere, come
per lo Stato vecchio, per colmare detta paradigmatica lacuna35.

31 Cfr. Reformazione del Governo della Città e Stato di Siena, cit., in L. CANTINI, Legisla-

zione toscana, cit., vol. IV, cap. XV (Dei Capitani dello Stato), p. 126.
32 Ibidem.
33 Ivi, p. 127: «Sieno nondimeno Giudici di appellatione et di nullità da tutte le senten-

tie le quali si daranno dai Potestà, et vicari, di quei luoghi i quali saranno sotto i loro capita-
nati dove però non sia provisto per forma de capitoli di Terre capitulate, d’altra forma di ap-
pellatione».
34 Cfr. Provvisioni et Ordini particolari delli Capitani, e Podestà dello Stato della Città di

Siena, cit., in L. CANTINI, Legislazione toscana, cit., vol. VII, pp. 314-362: 321.
35 Nel fondo ASSi, Statuti delle città, terre e castelli dello stato senese, possono reperirsi

ben 156 pezzi. Gli statuti dei Comuni minori e dei Comuni rurali assomigliano a quelli sene-
si, salvo per quel che riguarda la loro mole, che generalmente è assai minore. Tuttavia, quelli
di alcuni Comuni più importanti non sono molto più piccoli, poiché nel periodo della loro
indipendenza debbono essere stati dello stesso volume di quelli senesi. Peraltro, non sono
molti quelli per il periodo anteriore alla sottomissione al Comune di Siena, in conseguenza
della quale essi dovettero subire modificazioni più o meno profonde, ma sostanziali, nella
parte che riguardava il diritto pubblico, la giustizia e la materia finanziaria. Sicuramente, in
origine, negli statuti di Comuni e Comunelli minori, vi deve essere stata una maggiore origi-
nalità, di cui sarebbe sussistita ancora qualche traccia in quelli d’epoca più tarda, per le ma-
terie che rappresentavano una caratteristica locale, o riguardavano particolari attività degli
abitanti. Ma Siena, dopo la sottomissione, procurò di omogeneizzare queste forme di legi-
slazione locale, in modo da armonizzarle con quella della metropoli, e questo processo di li-
vellamento andò progredendo lentamente sino alla fine della Repubblica, favorito dall’ob-
bligo di presentare periodicamente gli statuti stessi ai Regolatori statutari senesi, per l’ap-
provazione e gli eventuali emendamenti. Fra quelli che costituiscono la serie in esame, il più
notevole è, forse, quello della Rocca di Tintinnano, del 1227, che è costituito da un insieme
di norme concordate fra gli uomini di quel castello e il loro signore feudale. Esso rappresen-
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In particolare, per lo Stato nuovo, le vaste compilazioni settecen-


tesche di Galgano de’ Bichi36 e Giovanni Antonio Pecci37, cui man-
cano certo l’abito e la precisione scientifica del Dizionario ottocen-
tesco del Repetti38, abbondano d’erudizione storica, fondata su uno
spoglio accurato ed esauriente delle fonti, mantenendo un ruolo
fondamentale, anche se sotto l’aspetto prevalentemente strumentale
e funzionale, per tracciare, valicando i confini di una ricostruzione
storica meramente événementielle, la linea rossa che ripercorra l’e-
voluzione politico-istituzionale, al fine di evidenziare le relazioni tra
le vecchie e nuove istituzioni centrali, attraverso cui si manifestava il
perdurante predominio cittadino, piegato e strumentalizzato dal du-
ca ai fini dell’accentramento personale del potere.

ta uno stadio interessante della storia dei territori rurali, segnando il momento in cui le po-
polazioni dei piccoli castelli del territorio riuscirono ad ottenere il riconoscimento ufficiale
di libertà autonomistiche la cui origine risale, probabilmente, ad un’epoca molto più antica.
Ma l’unico caso, finora noto, in cui sia rimasta la documentazione scritta e completa dei pat-
ti che venivano concordati, e della loro codificazione, concerne l’Abbadia a Isola. È interes-
sante anche lo statuto di Montagutolo, del 1280, redatto interamente in volgare, con
trent’anni d’anticipo rispetto alla prima redazione degli statuti senesi in tal forma. Dunque,
la serie in oggetto consta degli statuti che venivano depositati, prevalentemente, nell’archi-
vio senese dei Regolatori, per il controllo delle copie conservate nei rispettivi archivi comu-
nali, ma include altri statuti locali, pervenutivi per donazioni o acquisti successivi. L’Archi-
vio di Stato, inoltre, ne custodisce alcuni assai importanti, come, per esempio, quelli di Col-
le Valdelsa, che, facendo parte di archivi completi o di fondi di cui costituiscono parte inte-
grante, sono stati mantenuti nella loro sede originaria. Si vedano, inoltre: il saggio introdut-
tivo a L’ultimo statuto della Repubblica di Siena (1545), a cura di M. ASCHERI, cit., pp. V-
XXXVI; G. CHITTOLINI, Statuti e autonomie urbane. Introduzione, in AA. VV., Statuti città
territori in Italia e Germania tra Medioevo ed Età moderna, a cura di G. CHITTOLINI e D.
WILLOWEIT, Bologna, Società editrice il Mulino, 1991, pp. 7-45; E. FASANO GUARINI, Gli
statuti delle città soggette a Firenze tra ’400 e ’500: riforme locali e interventi centrali, ivi, pp.
69-124; M. ASCHERI, Statuti, legislazione e sovranità: il caso di Siena, ivi, pp. 145-194.
36 G. DE’ BICHI, Notizie Istoriche de’ Capitanati della Città e Stato di Siena tratte da’

Pubblici Documenti e da’ più antichi e rinomati Autori, Siena, primi anni del sec. XVIII, in
ASSi, Manoscritti, D 73-79. Più utile per le questioni in esame, una raccolta preparatoria al
lavoro del Bichi: T. MOCENNI, Privilegi, Concessioni immunità Accordi Patti e Capitolazioni
che le città Terre e Castella et altri luoghi sottoposti alla Città di Siena mostran di havere con
di più l’Esenzioni e Franchigie et altre simil cose [...] copiate da T. Mocenni nel mese di agosto
1723 da un libro assai male scritto conceduto dalla Sig.ra Caterina Gaetana Griffoli Piccolomi-
ni vedova del già Signor Francesco Piccolomini all’Ill.mo Sig.r Galgano de’ Bichi, Siena, 1723,
in ASSi, Manoscritti, D 80.
37 G. A. PECCI, Lo Stato di Siena antico e moderno descritto ove sono disposte alfabetica-

mente le città, terre e castella dello Stato Senese e vi si riportano la storia civile, la statistica e le
divise e armi di ciascheduna, Siena, 1758, in ASSi, Manoscritti, D 68-72 (copia in BCSi, B IV 8).
38 E. REPETTI, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, Firenze, presso l’autore

e editore coi tipi di Tofani Allegrini e Mazzoni, 1833-1843.


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4. Si è visto, dunque, come a Siena continuassero ad esistere le


vecchie magistrature cittadine degli Officiali della Mercanzia, dei Sa-
vi dei Pupilli, dei Quattro di Biccherna, degli Esecutori di Gabella,
dei Regolatori e dei Quattro Maestri del Monte; ma la riforma cosi-
miana istituì anche il nuovo organo dei Quattro Conservatori dello
Stato, titolare di vasti compiti di controllo amministrativo e poteri
giurisdizionali specifici. In più, la metropoli era sede della Ruota (il
tribunale civile d’appello, i cui poteri si protendevano su quasi tutto
lo Stato), come pure del Capitano di Giustizia, la cui competenza si
estendeva ad ogni procedimento penale nel territorio statale, e del-
l’onnipotente ed onnipresente Governatore, rappresentante della su-
prema autorità ducale e, in quanto tale, arbitro di ogni deroga dalla
normale procedura, nonché tramite della grazia sovrana39.
Questo, a grandi linee, il sistema giurisdizionale e amministrativo,
«o meglio, [... il] sistema giurisdizionale-amministrativo» senese, nel
più ampio raggio della nuova entità statale bicefala, giacché «il se-
condo [apparato], in effetti, coincide[va] in larga misura con il pri-
mo», poiché «è ben noto che i Rettori fiorentini nello Stato vecchio
(ed analogamente quelli senesi nello Stato nuovo) non erano dei
semplici giusdicenti, ma i rappresentanti nel senso più lato prima
della città e poi [...] dell’autorità ducale»40.

5. Ciò nondimeno, al sistema ibrido appena rammentato – come


anticipato – si sommavano altre istituzioni, prettamente amministra-
tive, che andavano a completare il quadro or ora riassunto.
In particolare, riveste un’indubbia rappresentatività paradigmati-

39 Un caso esemplare è rappresentato dalla provvisione del 1° aprile 1564, con la quale

«Sua Eccellenza Illustrissima il Duca di Firenze e Siena» concedeva la grazia a tutti coloro
che avessero riportato condanne nel suo Stato, qualora avessero accettato di andare a rema-
re nelle galere toscane. Se essa può essere considerata certamente interessante dal punto di
vista dei risvolti storici, per l’inquadramento della situazione toscana, europea e mediterra-
nea nella seconda metà del secolo XVI, sotto il profilo più strettamente giuridico rappresen-
ta un provvedimento certamente grave, giacché potevano beneficiarne anche i colpevoli dei
peggiori delitti; il che ne evidenzia il contenuto meramente politico, dominato dalla preva-
lenza della “ragion di Stato” sopra ogni altra considerazione. L’eventualità di qualsiasi dub-
bio sullo scopo politico della grazia è fugata, inoltre, dalla previsione della possibilità di ser-
vire sulle galere per interposta persona. Cfr. la Provvisione e Gratia alli Banditi, Confinati, et
Condennati dello Stato di Sua Eccellenza Illustrissima che la serviranno nelle sue Galere di dì
1 A prile 1564 ab Incarnatione, in L. CANTINI, Legislazione toscana, cit., vol. V, pp. 104-106.
40 Cfr. E. FASANO GUARINI, Lo stato mediceo di Cosimo I, cit., p. 49.
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ca la magistratura dei Quattro Conservatori.


Nello Stato senese, difatti, dalla caduta della Repubblica vigeva-
no ancora ordinamenti amministrativi largamente federativi, per cui
la cura della amministrazione dei comuni, comunelli e luoghi pii,
che, per l’appunto, si reggevano con particolari statuti, capitoli e
brevi, spesso tra loro diversissimi – che fino allora erano stati ogget-
to della sorveglianza della Balìa, per gli aspetti meramente giuridici,
come del magistrato dei Regolatori, per la materia più strettamente
finanziaria –, fu affidata alla magistratura in parola, creata ex novo
con l’ordinamento del 1561, che ne stabiliva prerogative, competen-
ze e doveri, sulla falsariga dei Nove Conservatori dello Stato fioren-
tino.
Con il nuovo magistrato, Cosimo I tolse a podestà e vicari tutto
quanto poteva riguardare la questione economica e sociale. Così, se
per non alienarsi l’animo dei nuovi sudditi – che certo non lo vede-
vano di buon occhio – aveva conservato loro la maggior parte dei
tralatizi uffici repubblicani, al tempo stesso, per mantenere e garan-
tire la propria autorità, aveva imposto la residenza in Siena di un
suo delegato speciale – il Governatore, appunto – e demandato la
vigilanza della parte economica al neonato ufficio. Retto da quattro
ufficiali, scelti dal principe – rigorosamente, uno per Monte –, desi-
gnati al fine di «attendere con ogni diligentia, et studio al servitio
comodo, et utile di tutte le Communità dello Stato procurare per i
beni delle Communità si preservino siano bene, et diligentemente e
fedelmente amministrati, che l’entrate loro si convertischino in be-
neficio di esse Communità et non dei particolari»41, controllati dal
provveditore, scelto anch’esso direttamente dal sovrano in precipua
funzione di vigilanza, il nuovo organo amministrativo andava a
completare gli strumenti di politica interna, ponendo rimedio all’as-
sidua preoccupazione ducale di instaurare un controllo sulla vita
economica delle comunità, onde proteggere una delle fonti essen-
ziali della ricchezza dello Stato.
In costante parallelo comparativo, deve essere ricordata, nondi-
meno, l’insistenza con cui il duca si preoccupò di rendere efficienti
le magistrature che già da lungo tempo avevano funzioni analoghe

41 Cfr. Reformazione del Governo della Città e Stato di Siena, cit., in L. CANTINI, Legisla-

zione toscana, cit., vol. IV, cap. XI (Dei quattro Conservadori dello Stato), p. 123.
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nello Stato di Firenze42, allo scopo di costituire, così, una nuova re-
te, di carattere meramente amministrativo, chiara espressione della
tendenza alla limitazione delle autonomie locali ed alla subordina-
zione della vita delle comunità «ai bisogni e agli scopi del governo
centrale»43, che caratterizzò il nuovo assolutismo mediceo; peraltro,
non senza consonanza con processi che si svolgevano (o che si sa-
rebbero svolti con ritmi diversi) anche in altri stati europei44. E l’e-
lemento fondamentale che pone in assoluto risalto il differente te-
nore dell’atteggiamento riformatore e accentratore rispetto allo Sta-
to senese, riposa sul fatto che il nuovo personale che la costituiva e
ne garantiva l’efficienza non aveva più alcun rapporto con la classe
dirigente tradizionale fiorentina45, come si è avuto modo di rappre-
sentare in via introduttiva46.
Si è già notato, a proposito dello Stato di Siena, che, con la Refor-
mazione del 1561, i capitani e i podestà dovevano essere obbligato-
riamente reclutati tra i cittadini senesi abili agli uffici maggiori, che i
primi erano nominati direttamente dal duca mentre i secondi erano
eletti dal Consiglio Grande di Siena e il principio della distribuzio-
ne per Monti vigeva per tutte le magistrature cittadine. Per conver-
so, la classe dirigente fiorentina subì una radicale trasformazione

42 Riforma et ordinatione del Magistrato dei Cinque Conservatori il 12 febbraio 1549;

nuova riforma dello stesso il 26 maggio 1551; altra riforma nel novembre dello stesso anno;
fusione, infine, il 26 febbraio 1560 delle due magistrature dei Cinque Conservatori e degli
Otto di Pratica nell’unico magistrato dei Nove Conservatori della Giurisdizione e del Domi-
nio fiorentino; cfr. E. FASANO GUARINI, Lo stato mediceo di Cosimo I, cit., pp. 50-51.
43 Cfr. A. ANZILOTTI, La costituzione interna dello stato fiorentino sotto Cosimo I, cit.,

p. 69.
44 F. A. HARTUNG - R. MOUSNIER, Quelques problèmes concernant la Monarchie absolue,

in «Relazioni al X Congresso di Scienze Storiche: Storia moderna, IV», COMITATO INTERNA-


ZIONALE DI SCIENZE STORICHE, Atti del X Congresso Internazionale (Firenze, 4-11 settembre
1955), a cura della Giunta Centrale per gli Studi Storici, Roma, 1957, pp. 3-55; (traduzione
italiana da COMITATO INTERNAZIONALE DI SCIENZE STORICHE, X Congresso Internazionale,
Firenze, Sansoni, 1955, pp. 36-49, in La formazione dello Stato Moderno, a cura di A. CA-
RACCIOLO, cit., pp. 65-74).
45 Cfr. E. FASANO GUARINI, Lo stato mediceo di Cosimo I, cit., p. 52: «i cancellieri dei

Nove provenivano da quello stesso ceto notarile del contado e del distretto da cui si traeva
pure il personale subalterno dell’apparato giurisdizionale: e, tra i notai, essi costituivano, co-
me dimostra il costante ripetersi degli stessi nomi nei decreti di nomina registrati dai Nove,
un gruppo ristretto e specializzato, reclutato in pratica secondo un rapporto di stabile di-
pendenza burocratica, anche se il vecchio principio repubblicano della temporaneità delle
cariche traspariva ancora nella norma per cui di anno in anno ogni cancelliere veniva trasfe-
rito ad una diversa cancelleria».
46 Cfr. D. BARSANTI, La Toscana dai Medici ai Lorena, cit., p. 13.
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sotto il Principato, mediante il conferimento della cittadinanza e la


concessione dell’abilitazione alla copertura di tutti gli uffici – per
grazia granducale – nei confronti di persone che nulla avevano a che
fare con il vecchio nucleo dirigente repubblicano:

«Una volta instaurato il nuovo stato principesco i cittadini si rimettevano


nell’arbitrio del Duca, et a lui chiedevano gli onori et magistrati et egli secon-
do la nobiltà di ciascheduno et la qualità e merito loro andava distribuendo i
Magistrati et i commodi et gli onori nella città e fuori, tenendone una parte
contenta, et l’altra con buona speranza; et questo con tanta accortezza quanto
si possa stimare la maggiore; che essendo tolta via la continua noia che davano
allo Stato i ribelli maggiori et cessando la sospensione degli animi di cittadini,
né vedendo via migliore d’onorarsi et mantenersi il grado loro nella città et
sperandone utile, al Duca correvano tutti coloro che d’onore erano vaghi et
avevano voglia o bisogno di guadagnare»47.

Tuttavia, se tale trasformazione fu davvero tanto ingente da alte-


rare, come scrisse nel 1748 il Neri, il volto stesso delle magistrature
cittadine, «onde tutti promiscuamente, e antichi e moderni e poveri
e ricchi, possono essere deputati all’istessa magistratura e possono
sedere negli stessi seggi senza alcun ordine di precedenza fra loro
che dell’età; onde avviene che il più vecchio artista possa e debba
precedere a qualunque nobilissimo uomo che sia più giovane di
lui»48, essa fu indubitabilmente il frutto di due secoli di lente tra-
sformazioni economico-sociali e, in funzione diretta – come dettato
dal fulgido magistero del Marongiu e del Marrara –, politico-istitu-
zionali, e non certo il risultato di un clamoroso rivolgimento al tem-
po di Cosimo I.

6. Le basi del nuovo governo senese, tracciate il 28 ottobre 1559


con la collaborazione del Niccolini, in occasione della seconda visita
a Siena, e specificate nell’atto del primo giorno di febbraio dell’an-
no 1561, avevano il preciso intendimento, nelle dichiarazioni proe-
miali del duca, di togliere «via le discordie, e seditioni passate, e ri-
storati per quanto a la giornata ci era possibile e danni sopportati, si

47 Cfr. G. B. ADRIANI, Istoria dei suoi tempi, (ed. Venetia, 1587), cit., p. 95.
48 Cfr. P. NERI, Discorso, in M. VERGA, Da «cittadini» a «nobili», cit., pp. 403-567: 499.
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rendessino alla nostra dilettissima Città e Stato predetti, la sua anti-


ca felicità e splendore» ed a tal fine «introdurre e stabilire una for-
ma di governo, che fosse con maggiore sodisfazione e contento uni-
versale che si potesse, e con il mezzo della quale, si distribuisseno le
dignità honori, et utili dela Città, alli più meritevoli, et a ciaschedu-
no indifferentemente venisse amministrata buona, et ugual giustitia,
pensando che da questi capi e ordini principali, havesse a nascere la
securezza tranquillità, et contento publico»49.
La Reformatione comprendeva, dunque, sedici capitoli50, nei
quali erano riassunti il nuovo ordinamento delle vecchie magistratu-
re e la creazione di quelle nuove, tra le quali erano ripartite tutte le
funzioni di governo del territorio senese, ormai considerato come
un feudo del ducato fiorentino.
In ogni modo, il duca, consapevole dell’indole irrequieta e so-
spettosa dei nuovi sudditi, con prudente accorgimento, conservò,
esteriormente, tutti i gradi, le qualifiche e i privilegi delle antiche
magistrature, mantenendone, in apparenza, tutti i poteri e le prero-
gative, che, in realtà, erano limitati, frenati e spesso coartati dalla vi-
gilanza dell’unica, nuova autorità costituita:

«[il] governator generale, che immediate rapresenta il prencipe con suprema


auttorità, il quale ha l’occhio a tutte le cose e senza sua saputa e volontà non si
fa cosa alcuna; anzi cosa alcuna non si fa d’importanzia senza participazione
del prencipe»51.

49 Cfr. Reformazione del Governo della Città e Stato di Siena, cit., in L. CANTINI, Legisla-

zione toscana, cit., vol. IV, proemio, p. 116.


50 La ripartizione in questione comprendeva: proemio, p. 116; cap. I, Del Luogotenente,

et Governatore, p. 116; cap. II, Del Capitano del Popolo, Signori Gonfalonieri, et Consiglieri,
p. 117; cap. III, Del Consiglio Grande, p. 117; cap. IV, Degl’Ufficiali di Balia, p. 119; cap. V,
Del Capitano di Giustizia, p. 120; cap. VI, Del Giudice ordinario delle cause civili, dei danni
dati, e dei Pupilli, et Vedove, p. 120; cap. VII, Dei Savi dei Pupilli, p. 121; cap. VIII, Degli
Auditori di Ruota, p. 121; cap. IX, Dei Quattro di Biccherna, esecutori di Gabella, Regolatori,
Quattro Maestri del Monte, e Savij dei Pupilli, p. 122; cap. X, Del Procuratore Fiscale, p. 122;
cap. XI, Dei Quattro Conservadori dello Stato, p. 122; cap. XII, Delle Repudiationi di Here-
dità, p. 123; cap. XIII, Degli Officiali della Mercantia, p. 124; cap. XIV, Del Camarlingo della
Mercantia, p. 125; cap. XV, Dei Capitani dello Stato, p. 125; cap. XVI, Delli Potestà et Vicarii
dello Stato, p. 128. Cfr. Reformazione del Governo della Città e Stato di Siena, cit., in L. CAN-
TINI, Legislazione toscana, cit., vol. IV, pp. 116-132.
51 Cfr. Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di A. SEGARIZZI, cit., vol. III,

parte I, cap. III (Relazione di messer Vincenzo Fedeli segretario dell’illustrissima Signoria di
Venezia tornato dal duca di Fiorenza nel 1561), pp. 123-174: 130-131.
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Il nuovo assetto istituzionale durò, salvo cambiamenti di lieve en-


tità52, fino all’estinzione della dinastia medicea, e durante tutto que-
sto tempo i senesi, che avevano sempre sotto gli occhi le antiche e
gloriose istituzioni di origine repubblicana, poterono «forse cullarsi
nella vana illusione che ben poco fosse mutato nella forma di gover-
no»53, tanto più se si considera il fatto che i due Stati, il senese e il
fiorentino, furono sempre, politicamente, separati, in quanto il do-
minio senese, vale a dire l’antico Stato senese, era vincolato dalla in-
vestitura feudale della corona di Spagna a Cosimo dei Medici, effet-
tuata il 3 luglio 1557 da Giovanni de Figueroa, mediante la quale il
duca di Firenze entrava in possesso dello Stato di Siena e del posse-
dimento allodiale della Marsiliana, con l’obbligo di restituzione alla
Spagna in caso di estinzione della linea maschile di Cosimo54, men-
tre Firenze, con il suo Stato, era feudo imperiale55.

2. L’INESAURIBILE PRETESTO DELLA GUERRA DI SIENA:


LE ULTIME NOTE DEL CONFLITTO, TRA IL VALZER
DEI TITOLI SOVRANI ED IL REQUIEM DEL FUORIUSCITISMO

1. Nell’Illustrazione al Bando dell’Arme da non portarsi in Siena


del dì 29 luglio 1557 ab Incarnatione, il Cantini commentò: «Questa
è la prima Legge, che fosse pubblicata in Siena da Cosimo I come
Sovrano di quella Città. Fino dall’anno 1555 aveva acquistata sopra
la medesima non poca influenza per la Capitolazione che con Esso
furono forzati di fare i Sanesi dopo più mesi d’assedio, il dì 17 Apri-
le di quell’anno, ma non aveva mai potuto spiegare un carattere di
Padrone, perché il Successore di Carlo V a di cui nome erasi fatta la

52 L’atto di rilievo costituzionale promulgato da Ferdinando I in data 6 dicembre 1588

(Riforme delli Magistrati, della Città di Siena fatte dalli Magnifici, et Eccellentissimi Signori Vi-
sitatori deputati del Serenissimo Don FERDINANDO Medici Gran-Duca di Toscana Nostro Signo-
re e da Sua Altezza approvate del dì 6 Dicembre 1588 ab Incarnatione) ebbe una portata analo-
ga, ma più limitata e meno significativa. Per un raffronto con la Reformazione del 1561, se ne
può reperire il testo in L. CANTINI, Legislazione toscana, cit., vol. XII, pp. 124-259.
53 Cfr. N. MENGOZZI, Il Monte dei Paschi di Siena e le Aziende in esso riunite, cit., tomo

II, p. 19.
54 Cfr. Illustrazione al Bando dell’Arme da non portarsi in Siena del dì 29 luglio 1557 ab

Incarnatione, in L. CANTINI, Legislazione toscana, cit., vol. III, pp. 192-203: 197.
55 Cfr. A. ZOBI, Storia civile della Toscana dal 1737 al 1848, Firenze, L. Molini, 1850-

1853, 5 voll., tomo I (1850), pp. 96 ss.


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guerra, per vincere quella Città, ne riteneva la Suprema Superiorità,


e la guardava con le sue milizie Cosimo I che per causa della guerra
aveva contratti de’ Crediti di molta rilevanza con Carlo V [e] non li
fu difficile di ottenere in pagamento de’ medesimi dal Re Filippo di
lui Successore in Feudo di quella Città col suo Stato, e sotto il dì 3
di Luglio dell’Anno 1557 ne fu stipulato l’Atto di concessione per
mezzo di Don Giovanni di Figueroa Ministro Spagnolo»56, facendo-
si carico di riportare il testo integrale della infeudazione dello Stato
di Siena a Cosimo I, la quale fu dipoi confermata dall’Imperatore
Ferdinando I, il 9 settembre 1560, e dal suo successore, Massimilia-
no II, il 6 luglio 1565.
L’autorevole editore ed interprete della legislazione granducale
emanata nell’età medicea e nei primi decenni del governo lorenese
fece, dunque, il punto della situazione dello Stato senese all’anno
1557, sentenziando, senza mezzi termini, l’interversio possessionis
che prese forma con l’atto d’investitura: Cosimo I vedeva mutare il
proprio atteggiamento psicologico – e non solo – nei confronti di
Siena da animus detinendi (17 aprile 1555), in animus rem sibi ha-
bendi (3 luglio 1557), con l’opposizione dei propri crediti di guerra e
la modificazione del titolo che legava il principe all’Imperatore.
***
Ma si deve far qualche passo indietro, per ripercorrere – seppur
rapidamente – le tappe più significative che portarono all’acquisto
del titolo granducale, al fine di rimarcare che i due Stati toscani al-
tro non furono se non i binari su cui prese velocità l’espresso della
monarchia assoluta postmedievale, per poi decelerare e fermarsi ine-
sorabilmente al capolinea dei Lorena, lasciando il passo alla nascita
ed allo sviluppo della monarchia assoluta prerivoluzionaria57.
***
La strepitante nascita politica di Cosimo, sulle ceneri di Alessan-
dro de’ Medici (assassinato il 6 gennaio 1537), datata 9 gennaio
1537, lo costrinse immediatamente a doversi disfare degli avversari
(Montemurlo, 2 agosto 1537) e, di lì a poco, lo spinse ad attribuirsi

56 Cfr. L. CANTINI, Legislazione toscana, cit., vol. III, pp. 192-203: 194 e 198.
57 Si adotta la terminologia accolta da A. MARONGIU, Storia del diritto italiano. Ordina-
menti e istituti di governo, cit.; in particolare, pp. 225-365: 282-288 e 356-358.
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autonomamente, negli atti ufficiali, il titolo di Duca di Firenze, ab-


bandonando quello di Capo e Primario del Governo della Città,
nonché ignorando il fatto che per l’Impero egli permanesse Duca
della Repubblica fiorentina, sostenendo con forza, in ogni occasione
utile, la tesi della assoluta indipendenza dello Stato di Fiorenza da
ogni potere estraneo, anche se – come si è spiegato più sopra – non
v’era alcun atto imperiale che gli avesse attribuito la dignità in paro-
la. E il medesimo atteggiamento egli ebbe all’indomani della conces-
sione vassallatica – una vera e propria subinfeudazione – di Siena:
nonostante la curia imperiale sostenesse assiduamente e con energia
la posizione di dipendenza giuridica dello Stato, quale parte inte-
grante del Sacro Romano Impero, egli si dichiarava, ostentatamente,
Duca di Firenze e di Siena58.
Ecco allora come, passando per la vittoria sui senesi nella batta-
glia campale di Scannagallo (2 agosto 1554), si ritorna agli atti di re-
sa del 1555, e, attraverso l’episodio della Repubblica senese ritirata
a Montalcino (6 aprile 1555-31 luglio 1559)59, al momento in cui
Cosimo principiò effettivamente a rendersi padrone dello Stato nuo-
vo, perseguendo un programma di pacificazione, permettendo ai se-
cessionisti di ritornare in città, riprendere possesso dei loro beni e,
addirittura, rientrare nelle magistrature.
Ancora una volta la fortuna aveva premiato l’audacia del figliolo
di Giovanni dalle Bande Nere, il quale come aveva potuto benefi-
ciare di una serie di contingenze storiche, a principiare dalla morte
di Alessandro senza eredi capaci di succedere, così aveva saputo
ben tramare per perpetuare quella che per i suoi illustri antenati era
stata una mera Signoria di fatto, tanto da giungere ad ottenere sod-
disfazione alla richiesta esplicita della cessione dell’antica Repubbli-
ca attraverso l’atipica rinnovazione del vicariato imperiale perpetuo
in capo a Filippo II (1556), con la clausola della trasmissione creata
ad hoc, ed usufruita, per l’appunto, il 3 luglio 1557 (Cosimo prese

58 In merito alla storia politica di Cosimo I, si veda il classico lavoro di V. MAFFEI, Dal

titolo di Duca di Firenze e Siena a Granduca di Toscana, Firenze, Bernardo Seeber libraio-
editore, 1905, passim.
59 Esiste una nutrita serie di interpretazioni storiografiche dell’episodio in questione,

sostenute da diversi studiosi, reperibili in alcuni brevi saggi, tra i quali si ricordano: M.
BRACCI, Il popolo senese dall’assedio alla ritirata di Montalcino, in «Bullettino Senese di Sto-
ria Patria», LXVI (1959), pp. 9-28; E. SANTINI, Il significato nazionale delle celebrazioni del-
la caduta della Repubblica di Siena ritiratasi a Montalcino (1555-1559), ivi, pp. 36-48.
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possesso del feudo il giorno 19 susseguente). Nondimeno, il territo-


rio, ancora occupato dai francesi, sarebbe stato consegnato soltanto
nel 1559, allorquando, con la pace di Cateau Cambrésis, Enrico II
avrebbe riconosciuto il predominio spagnolo sull’Italia, ritirando i
presidi che ancora vi deteneva60.

2. Il diploma emanato in data 30 settembre 1537, previa presta-


zione – si noti – del giuramento di fedeltà, era privo della espressa
attribuzione al figliolo del Gran Diavolo del titolo ducale. Dunque,
non veniva costituita a suo favore una nuova dignità, idonea a ren-
derlo principe pleno iure.
Da parte sua, Cosimo – Capo e Primario del Governo della città
di Firenze, nonché Duca della Repubblica fiorentina – considerava i
privilegi concessi a beneficio sia del predecessore, sia proprio un
mero riconoscimento dell’ultrasecolare governo esercitato su Firen-
ze dai consorti della sua casata, ritenendosi, in ragione di ciò, un li-
bero servitore di Cesare e nient’affatto un suo vassallo.
Allo stesso modo, poco meno di un ventennio più tardi, il recalci-
trante suddito imperiale, facendo totalmente astrazione dalla natura
giuridica dell’atto che legittimava l’acquisto del nuovo Stato – senza
indugio alcuno sul giuramento di fedeltà che, insieme al diritto di
devoluzione, ne costituiva il presupposto indispensabile –, manife-
stò inconfutabilmente, senza alcun pudore, la volontà di dar vita ad
un nuovo Principato, immantinente insignendosi finanche del titolo
di Duca di Siena.
Su questi presupposti oggettivi si basarono le pretese vanaglorio-
se di Cosimo, in merito al nomen più confacente al fine di far risal-
tare il suo preteso status giuridico di monarca assoluto sui due Stati
e magnificare, nel contempo, la sua persona.
A partire dal 1559, costui – con indomita cavillatione et fraude –
andando a ridestare le dispute di competenza per l’attribuzione dei

60 «Neppure a Filippo II interessava ormai il dominio effettivo di tutto il territorio se-

nese, devastato dalla guerra, spopolato, privo dei mezzi adatti ad una sana economia agrico-
la per le distruzioni avvenute nel bestiame e nelle coltivazioni; gli bastò conservare, con i
porti dello Stato dei Presidi, le basi marittime necessarie agli sviluppi della sua incipiente
politica mediterranea». Cfr. A. D’ADDARIO, L’indipendenza senese problema politico italiano
ed europeo, in «Bullettino Senese di Storia Patria», LXVI (1959), pp. 49-78: 77.
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titoli regali, che vedevano nelle vesti di protagonisti, ab immemora-


bilis, gli epigoni di Pietro e Cesare, giunse molto vicino all’assegna-
zione papale del titolo di Re di Toscana, vanificata dall’intervento
imperiale, nel 1560; di seguito, sfumò l’occasione di divenire Re di
Corsica, nel 1564, ed appena un anno dopo, mutato il titolare del
trono imperiale da Ferdinando I in Massimiliano II, ambì alla me-
desima dignità che stava in capo agli Asburgo, gli unici a poter van-
tare d’essere Arciduchi, ma, ovviamente, senza successo. Dopo la
morte di Pio IV, l’elezione al soglio pontificio di Pio V fu, inaspetta-
tamente per Cosimo – che già disperava per la perdita del suo nume
tutelare –, l’ennesima fatalità propizia. Difatti, Michele Ghislieri,
frate domenicano, per lungo tempo Inquisitore Generale, era un fe-
roce assertore delle dottrine teocratiche, in ragione delle quali soste-
neva tenacemente il principio della superiorità del Papa sull’Impe-
ratore e su tutti i sovrani, in forza della derivazione del suo potere
direttamente da Dio. Fu così, dunque, che il nuovo pontefice, solle-
ticato dal principe fiorentino, diversamente dal suo timoroso prede-
cessore, che non avrebbe mai ingaggiato una lotta a viso aperto con-
tro l’Impero, gli conferì un titolo di gran lunga ridimensionato ri-
spetto alle velleitarie pretese iniziali: «Magnus Dux Etruriæ».
La bolla apostolica del 27 agosto 156961 elargiva a Cosimo un ti-
tolo ereditario che non aveva precedenti in Italia e sovrastava la me-
ra dignità ducale. Dopo un settennio, la sorniona opposizione di
Massimiliano II si trasformerà in una conferma, nella veste di con-
cessione ex novo, dell’attribuzione papale, per mezzo del diploma
datato 26 gennaio 157662. Francesco de’ Medici, «Reipublicæ Flo-
rentinæ duce tertio», accettando il privilegio cesareo il 13 febbraio
susseguente63, diveniva legittimamente Granduca di Toscana, ma
senza rinunciare alle più ampie prerogative già conseguite per mano
del pontefice.
***
Or dunque, come si è anticipato, il 1537 diede inizio sia alle que-

61 Cfr. Illustrazione al Bando del Granduca di Toscana del dì 9 Dicembre 1569 ab Incarna-

tione. Estratto dal Registro delle Deliberazioni pubbliche che si conserva nell’Archivio del Ma-
gistrato Supremo, in L. CANTINI, Legislazione toscana, cit., vol. VII, pp. 125-147:129-142.
62 Ivi, pp. 142-145.
63 Ivi, pp. 145-146.
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stioni concernenti i titoli sovrani, sia al pervicace conflitto con i fuo-


riusciti fiorentini. La guerra di Siena rappresentò un punto di svolta
e consolidamento anche sotto quest’aspetto, giacché Cosimo, ancor
prima di conseguire nuove dignità, spense definitivamente gli ormai
fiochi focolai della resistenza antimedicea. Il conflitto senese deve
essere visto, pertanto, oltre che come momento della più vasta con-
tesa per il predominio, come fase finale della lunga lotta civile tra i
Medici ed i loro indefessi avversari. La rotta di Marciano, dell’ago-
sto 1554, stremò, definitivamente, le forze di Piero Strozzi64, così
come la sconfitta di Montemurlo, del 1537, aveva spento le speran-
ze di suo padre, Giovanni Battista, suicidatosi dopo esser stato im-
prigionato.

3. Nel gennaio del 1554, momento della palese assunzione da


parte di Cosimo delle sorti della guerra, Siena si trasformò, ineso-
rabilmente, da oggetto animato della contesa per l’egemonia sulla
penisola in mero strumento politico e militare, dacché la consocia-
zione con la Francia fu puramente formale: la più parte delle trup-
pe combattenti, dei comandanti superiori e subalterni erano fran-
cesi, così come i finanziamenti provenivano dalle casse di Enrico
II. Questi, oltretutto, ispirato dai fuoriusciti antimedicei – soste-
nuti dalla regina, Caterina de’ Medici, principale amica dello
Strozzi, assetata di vendetta verso Lorenzino, per il costoso tiran-
nicidio messo in atto a suo tempo –, pose la città al servizio del-
l’ultimo, disperato sforzo di restaurazione della libertà fiorentina,
inalveando le ambizioni espansionistiche della Francia e i sogni di
rivalsa degli esuli.
Ma, invece che la rivincita della nobiltà antiducale fiorentina,
anelante il sostegno dell’aristocrazia repubblicana tutta, il precipita-
to politico interno della guerra fu il rafforzamento del regime duca-
le anche nei confronti di Firenze, con il definitivo assopimento delle
velleità irredentiste di ceto. Si era trattato di un progetto certamente

64 In merito alla vita dello Strozzi «nel piccolo periodo, che corre dal 1553 al 1555, il

quale però è il più glorioso», poiché «allora egli sperò di vendicare l’onta arrecata alla sua
famiglia da Alessandro de’ Medici, la soggezione della città nativa, combattendo per la li-
bertà dell’invitta Repubblica di Siena», si veda A. COPPINI, Piero Strozzi nell’assedio di Sie-
na, Firenze, Tipografia di M. Ricci & C., 1902, passim.
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partigiano, nell’accezione propria dell’egoismo di classe, per ciò


stesso concettualmente immiscibile con l’intendimento ideale – con-
vogliante l’interesse comune dei nobili toscani alla conservazione
delle antiche istituzioni comunali – che il movimento di unificazione
federalista della Toscana – personificato da Francesco Burlamac-
chi65, suo agnello sacrificale –, supportato dall’elevata cultura uma-
nistica e rinascimentale della classe dirigente proto-cinquecentesca,
avrebbe voluto trasferire in azione, riducendo ad unità le Repubbli-
che comunali, pur nel massimo rispetto delle peculiarità legate alla
tradizione di ciascheduna.
Il risultato lampante fu, piuttosto, l’affermazione dell’unificazio-
ne regionale – nominale ed ancora del tutto evanescente, s’intenda –
predicata dal partito principesco ed assolutista, sostenuto dall’Im-
pero:

«Prima che nell’agosto del 1559 si spegnessero sulle città di Montalcino,


Massa marittima e Grosseto gli ultimi bagliori di quella fiamma di libertà to-
scana che si era il 17 aprile 1555 spenta in Siena, anche Lucca, per sopravvive-
re annientava con la legge martiniana del 1556 ogni sua residua struttura di
Repubblica Comunale. Invero la libertà di Lucca, di fronte alla straziante fine
della Libertà senese si suicidava»66.

65 «Sentiva egli con pena la servitù di Firenze, lo strazio di Siena, l’abiezione di Pisa!

Compiangeva Perugia percossa, Bologna in catene, in una parola immaginava che dovesse
tornare libera Italia tutta, non che la Toscana». Cfr. E. REPETTI, Dizionario geografico fisico
storico della Toscana, cit., vol. II (1835), Lucca, pp. 819-908: 864.
66 Cfr. V. PETRONI, Monte Carlo nella guerra di Siena (1522-1559), in «Bullettino Senese

di Storia Patria», LXXII (1965), (Miscellanea di studi in onore di Giovanni Cecchini, vol.
III), pp. 205-262: 227; ma, per completezza, si veda tutto il saggio in oggetto. Ed ancora,
raccontano le parole del Repetti: «Nel 1556 il Gonfaloniere Martino Bernardini fu per i no-
bili lucchesi quale era stato nel 1297 il doge Pietro Gardenigo per i veneziani. Egli propose
al Senato di convertire in legge la seguente riforma statutaria: “Ammettere alle cariche del
Governo solamente quelle famiglie che allora godevano di tali onori, col diritto di trasferirli al-
la loro discendenza; escluso però da questo diritto chiunque fosse nato in Lucca da padre fore-
stiero, e tutti i figli di persone del contado, salvi quelli tra loro, i quali all’epoca della proposta
riforma partecipavano agli impieghi governativi”. Il progetto piacque agli anziani talmente,
che lo convertirono in quella legge organica della repubblica, la quale, ad esempio del Sena-
to di Roma, chiamossi col nome dell’autore, Legge Martiniana. Cotesta Legge, pubblicata
nel dicembre del 1556, fece schiamazzo tra il popolo, ma furono voci senza effetto. La me-
moria fresca dei mali sofferti per la ribellione degli Straccioni, i pericoli cui erano scampati
per le posteriori congiure, la caduta non antica della repubblica di Firenze, e quella recen-
tissima di Siena, servirono di esempio al popolo lucchese per adattarsi alle circostanze»; cfr.
E. REPETTI, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, cit., vol. II (1835), Lucca,
pp. 819-908: 864.
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Il tramonto della secolare Repubblica della Lupa, perita tragica-


mente per effetto di una guerra le cui premesse politiche nulla ave-
vano a che fare con gli interessi reali di una gloriosa città come Sie-
na, fu – si è visto – la conseguenza di un errore di calcolo risalente
all’ultimo lustro del primo trentennio del secolo XVI, allorquando
le fazioni cittadine, accecate dalla lotta, si erano illuse di poter usa-
re, come strumento per trionfare, le potenze straniere, innescando
una reazione che avrebbe compromesso per sempre l’indipendenza
dello Stato.
Ma neppure si deve dimenticare come nella Siena cinquecentesca
la libertà fosse esclusivo privilegio della nobiltà civica, ben lungi
dall’essere patrimonio comune dell’intera cittadinanza. E l’oligar-
chia senese, collaborazionista con i francesi, dopo Cateau Cambré-
sis, recependo senza indugi lo spirito di comoda pacificazione del
regime mediceo e, più di tutto, la disponibilità incondizionata – o
quasi – alla piena reintegrazione politica, sociale ed economica nelle
posizioni privilegiate tralatizie, passò, compresi i capi della resisten-
za organizzata a Montalcino, al servizio di Cosimo, pensando sol-
tanto agli interessi di consorteria, di fazione, di classe dirigente, ben
guardandosi da far propri i versi danteschi, vessillo degli esuli fio-
rentini:
Libertà vo cercando ch’è si cara
come sa chi per lei vita ricusa.

Appare chiaro, dunque, come il fuoriuscitismo fiorentino, con la


sua energia vitale, grazie alla quale colonizzò la penisola e la Fran-
cia, non sia stato in alcun modo emulato con la nascita – ma nean-
che con l’aborto – di un fuoriuscitismo senese che si battesse contro
l’asservimento della città e dello Stato all’opportunismo del principe
di Firenze:

«L’oligarchia senese non aveva da accampare di fronte al duca Cosimo nep-


pure un’ombra di superiori ragioni ideali, né da opporgli (com’era il caso dei
fuoriusciti fiorentini) una propria potenza economica e finanziaria; nulla, altro
che il timore di perder dei privilegi a tutto vantaggio di altre fazioni concor-
renti e rivali. Popolari e Riformatori, Noveschi e Gentiluomini, avversissimi gli
uni agli altri, in due cose sole eran sempre d’accordo: nell’odiarsi reciproca-
mente e nell’identificare la patria con la fazione, ossia con gli interessi indivi-
duali della propria consorteria. Non amavano “la libertà”, che non sapevano
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cosa fosse, ma “le libertà” proprie, negandole ferocemente agli avversari non
appena riuscivano a sopraffarli»67.

3. UN GRANDUCA PER DUE PRINCIPATI: L’IMPOSSIBILITÀ


DI UNO STATO REGIONALE UNITARIO

1. L’atteggiamento utilitaristico ed egoistico del ceto dirigente se-


nese, se non generò spinte idealistiche – che avrebbero certamente
trovato il plauso apologetico, senza riserve, del patriottismo acritico
ed anacronistico del Risorgimento –, giovò, d’altro canto, alla con-
servazione dell’anima repubblicana dello Stato, arginando la piena
assolutistica che tentava di tracimare per mano del primo, illegitti-
mo Granduca, il quale, pur «sul filo dell’opportunità», istintivamen-
te, seppe attuare con sagacia, prudenza ed equilibrio l’opera di rias-
setto istituzionale, senza stravolgere le pratiche politiche tralatizie,
mantenendosi entro i termini – perlomeno, nei confronti di Siena –
dell’assolutismo postmedievale.
A tal proposito, nel corso della trattazione, seppur succintamen-
te, si sono fornite le chiavi di lettura dei peculiari sistemi di pesi e
contrappesi escogitati ed accordati per la strumentale procrastina-
zione delle antiche libertà comunali senesi, le quali ultime assumono
un pregio ancor più ragguardevole se confrontate con i vetusti ordi-
namenti municipali della primaria capitale granducale, ove l’avven-
to del Principato di Alessandro de’ Medici ne cagionò, viceversa, il
ferimento a morte, inflitto irreparabilmente con la nota riforma del
27 aprile 1532, la quale statuì la soppressione del supremo consesso
repubblicano, incarnato dalla Signoria. Fu, pertanto, l’imposizione
della monarchia assoluta senza alcun temperamento a generare il
graminaceo seme della discordia tra l’aristocrazia ed il primo, non
più larvato, tiranno mediceo – dai detrattori considerato tale ex de-
fectu tituli, nonché ex defectu exercitii –68, radicatosi saldamente e
diramatosi in ogni dove, ma estirpato, in due tempi, dal vigoroso
successore del Duca di Penne.

67 Cfr. R. CANTAGALLI, Mario Bandini, un uomo della oligarchia senese negli ultimi tempi

della Repubblica, cit., pp. 51-81: 55.


68 Cfr D. MARRARA, Studi giuridici sulla Toscana medicea, cit., pp. 12-17.
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2. Or dunque, il delicato problema da risolvere risiede nella qua-


lificazione giuridica della nuova entità statale che, si volesse o meno,
stava venendo ad esistenza, ritenendosi fondate le perplessità sulla
troppo precipitosa attribuzione della generica unitarietà regionale
toscana e sulla concretizzazione, senza riserve, dell’osmosi istituzio-
nale tra gli Stati di Siena e Firenze, entrambe tesi sostenute da più
parti – precedentemente rivisitate e ripercorse criticamente –.
La natura giuridica che la Repubblica municipale senese venne ad
assumere in ragione dell’atto costituzionale del 1° febbraio 1561 –
data per assodata l’ininfluenza della fase signoriale ai fini della matu-
razione istituzionale cittadina, diversamente da quanto accadde a Fi-
renze – non può, infatti, dissolversi e svanire nella speculazione della
pura e semplice annessione, attraverso l’ampliamento dei confini del-
lo Stato fiorentino, espressa con la formula dello «Stato regionale
unitario», giacché si trattò, piuttosto, della nascita, «sulle ceneri di
uno dei più longevi Comuni italiani», di «un nuovo principato»69.
Essendo, di fatto, fuori discussione l’inesistenza della regione nella
tradizione istituzionale italiana fino ad epoca recente, cosa potrà mai
significare, sotto l’aspetto politico e storico-istituzionale, l’espressio-
ne in oggetto, nel territorio toscano in età moderna, caratterizzato da
strutture istituzionali su base comunale, per di più se riferita alla
realtà senese? Di fatto, si ricorre all’ausilio di un concetto incom-
mensurabilmente lontano dai propositi di Cosimo I, anche se volesse
intendersi un mero ampliamento territoriale, giacché la regionalizza-
zione implica, più facilmente, una parcellizzazione conveniente per il
decentramento dei poteri statali, laddove il principe mediceo deside-
rava attuare – ed attuò – l’accentramento amministrativo70; e tutto
ciò non può assolutamente esser vero per Siena. Si tratta, dunque, di
una sbrigativa forzatura definitoria, che prescinde, in generale, dalla
realtà toscana, caratterizzata da una complessa congerie di Comuni,
in cui le istituzioni parlamentari cittadine – dalle quali derivava, ad-
dirittura, il peculiare status nobiliare per i discendenti dei loro mem-
bri – mantenevano la propria autonomia, nonché, in particolare e so-
prattutto, dalla ben distinta individualità giuridica senese.

69 Cfr. IDEM, L’autonomia dello Stato di Siena nell’età del Principato mediceo, cit., p. 4.
70 Si veda in proposito il volume di L. MANNORI, Il sovrano tutore. Pluralismo istituzio-
nale e accentramento amministrativo nel Principato dei Medici (Secc. XVI-XVIII), Milano, A.
Giuffrè Editore, 1994, passim.
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110

In ogni modo, par esser fuor di dubbio che non si possa accettare
ad alcun titolo l’inclusione della città di Siena e del suo Stato nel più
ampio spettro di una entità statuale regionale unitaria, per una nu-
trita serie di motivazioni, tra le quali spiccano quelle più strettamen-
te connesse con lo studio storico-istituzionale in corso, in buona
parte già esplicate.

3. Invero, diffusamente, non a caso, si son descritti, nelle pagine


precedenti, l’evoluzione e l’assetto degli apparati pubblici fiorentino
e senese, sul filo della comparazione, calati nei peculiari contesti so-
cio-economici, sull’onda degli eventi storici, al fine di evidenziare
l’esistenza di due unità statuali dotate reciprocamente di un’incon-
futabile, sostanziale autonomia.
Le giustificazioni della distinguibilità in parola che ancora devo-
no essere messe in luce riguardano, perciò, aspetti, non certamente
marginali, legati alla manifestazione dell’autonomia verso l’esterno,
giacché è stato ampiamente chiarito come all’interno del Granduca-
to ci si trovasse di fronte ad un «assolutismo dichiarato e ricono-
sciuto, ma non ancora del tutto padrone di sé in quanto condiziona-
to e limitato dalle numerose e gravi sopravvivenze delle istituzioni –
e, più che altro, delle concezioni politiche – medievali»71.
Di fatto, alla conservazione, da parte dello Stato senese, di una
personalità distinta da quella dello Stato di Firenze nel campo dei
rapporti con l’Impero, andava a sommarsi l’inestensibilità dei tratta-
ti di pertinenza fiorentina, nonché l’inapplicabilità delle norme in-
terne con identica attinenza, che avessero un contenuto analogo o –
come accadeva spesso – indistinguibile, senza un apposito processo
di produzione, coronato dal recepimento espresso, attuato per mez-
zo di una specifica, imprescindibile deliberazione della Balìa, «an-
che se tale introduzione era già espressamente prevista nel testo ori-
ginario, ed anche se il testo medesimo veniva […] trasmesso al Col-
legio […] già stampato»72.

71 Cfr. A. MARONGIU, Storia del diritto italiano. Ordinamenti e istituti di governo, cit.,

pp. 239-240.
72 Cfr. D. MARRARA, L’autonomia dello Stato di Siena nell’età del Principato mediceo, cit.,

p. 6. Nel saggio in parola, l’A. richiama, in funzione d’esempio, due atti normativi: Provvi-
sione delli molto Magnifici Sigg. Luogotenente e Consiglieri di S. E. I. che li Banditi Conden-
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111

Fu, dunque, proprio l’antico magistrato in parola a difendere te-


nacemente ed energicamente l’autonomia dello Stato senese, non
soltanto nel settore legislativo, ma anche attraverso l’adozione di un
atteggiamento tutorio – ed al tempo stesso innovatore – nei con-
fronti dello Studio, protezionistico verso la monetazione e i com-
merci, sempre e comunque determinante nei più vari settori della
vita associata. Ma l’azione del collegio non fu, quasi mai, esperita at-
traverso l’abuso dei compiti detenuti nella veste di organo di con-
trollo e collaborazione del Governatore, quanto, più sagacemente,
operando per mantenere ben strette le funzioni formalmente rico-
nosciutegli, talvolta rinunciando, «con fine senso politico», alle pro-
prie prerogative, «per non rimanere, in epoca di sempre più soffo-
cante assolutismo, isolati […] dal quadro delle forze concretamente
operanti nell’ordinamento costituzionale dello Stato»73.
Il Governatore e la Balìa interpretavano, nei fatti, due spinte poli-
tiche divergenti: l’uno rivolto con lo sguardo al futuro, per il conso-
lidamento dell’assolutismo mediceo, da attuarsi senza cura del pas-
sato; l’altra voltata indietro, verso le origini, in contrappeso, ora sta-
tico, ora dinamico, per la salvaguardia della tradizione di libertà cit-
tadina e di autonomia statale, eredità inalienabile del glorioso passa-
to di matrice medievale. Per di più, il diverso atteggiamento psico-
logico dei due organi di vertice dello Stato nuovo traspariva finan-
che dalle espressioni verbali utilizzate nei documenti ufficiali, lad-
dove alla tendenza del Governatore di riferirsi al territorio su cui
esercitava il governo con il termine «Stato», faceva da contraltare
l’austerità espressiva della Balìa, che continuava imperturbabilmen-
te a parlare di «Città». E la significatività della distinzione letterale
risiede nella medesima interpretazione univoca sostanziale: il fatto
che, «in seno al Granducato, lo Stato di Siena sia autonomo e di-
stinto da quello di Firenze, è cosa pacificamente riconosciuta, né
mai posta in discussione, in tutta l’età del principato mediceo»74; in
effetti, «anche sotto gli ultimi Granduchi della Casa dei Medici, Co-

nati in pena afflittiva, o confinati, così del Dominio di Fiorenza, come di Siena siano descritti a
un libro particolare, sotto certo modo et forma del dì 14 Ottobre 1569 ab Inc., in L. CANTINI,
Legislazione toscana, cit., vol. VII, pp. 109-111; Provvisione sopra de’ Banditi, e Relegati del
dì 21. Ottobre 1569 ab Inc., ivi, pp. 112-114. Si veda, inoltre, IDEM, Studi giuridici sulla To-
scana medicea, cit., pp. 169-172.
73 Cfr. D. MARRARA, Studi giuridici sulla Toscana medicea, cit., p. 144.
74 Ivi, p. 163.
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simo III (1670-1723) e Gian Gastone (1723-1737), lo Stato senese


conserva la sua unità politico-territoriale e la sua individualità istitu-
zionale e normativa, di cui restano ampie ed esaurienti testimonian-
ze»75. Sarà il motuproprio del 10 novembre 1765 a porre fine all’u-
nitarietà dello Stato di Siena, per volontà di Pietro Leopoldo,
smembrandolo in due province, le quali, nonostante tutto, conser-
veranno ordinamenti parzialmente differenziati pur nell’ambito
Granducato76.
Non vi sono, dunque, più dubbi sulla qualificazione giuridica da
attribuire all’entità statuale bicefala costituita dai due Stati, fiorenti-
no e senese – rispettivamente vecchio e nuovo, in base all’anteceden-
za sul primo della dominazione medicea –: si trattava di una unione
personale di Stati, per cui, come aveva sempre sostenuto la Balìa, l’u-
nico vincolo tra i due doveva identificarsi con la persona del sovra-
no, giacché ciascuno di essi fu sempre mantenuto nei limiti dei pre-
cedenti confini e non vi fu mai l’unificazione giuridica dei territori
né – tanto meno – delle rispettive popolazioni.

75 Ivi, p. 167.
76 In merito alle riforme comunitative leopoldine nei confronti dello Stato senese, si ve-
da l’esaustivo saggio di D. MARRARA, La provincia inferiore senese e la sua riforma comunita-
tiva (1765-1787). Profilo storico-istituzionale, in «Rassegna Storica Toscana», XLVIII (luglio-
dicembre 2002), pp. 411-422, passim.
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V
DALLA FINE DELL’ETÀ MEDICEA
ALL’EPILOGO NAPOLEONICO

Il periodo successivo all’età medicea può essere considerato più


rapidamente, grazie ad una migliore leggibilità derivante dalla vici-
nanza all’epoca attuale e ad una maggiore familiarità e ricchezza
delle fonti, ma anche in virtù dell’accessibilità e completezza delle
ricostruzioni storiche e narrative da esse derivate1.

1. Con l’avvento della dinastia lorenese, il quadro complessivo


dei ceti dirigenti toscani stava per mutare radicalmente, in un conte-
sto socio-politico, rimasto sostanzialmente in armonia con le tradi-
zioni mercantili e di patriziato cittadino, in cui le ambizioni nobilia-
ri non si erano affatto assopite, anzi avrebbero dato prova della loro
vitalità, mostrandosi ancor più agguerrite nel desiderio di perpetua-
re le posizioni di privilegio acquisite fin dall’epoca medievale e con-
solidate nell’ambito politico-istituzionale in età medicea.
La morte dell’ultimo principe fiorentino senza discendenti mise il
Granducato sul banco della trattativa internazionale e le sue sorti
furono decise nelle potenti corti dell’epoca, fugando le speranze di
restaurazione delle istituzioni repubblicane, ingenuamente nutrite
da Firenze e, soprattutto, Siena. Ne conseguì un trentennio segnato

1 Oltre i riferimenti bibliografici particolari sugli eruditi e storici senesi, forniti nelle

annotazioni alla trattazione in corso, devono sempre tenersi in considerazione, per l’epoca
successiva all’età medicea, le seguenti opere generali: Storia di Siena. II. Dal Granducato al-
l’Unità, a cura di R. BARZANTI - G. CATONI - M. DE GREGORIO, cit.; M. ASCHERI, Siena nella
storia, Cinisello Balsamo (Milano), Arti Grafiche Amilcare Pizzi S.p.A., 2000: in particolare,
il capitolo 2 (L’età dei governi preunitari), pp. 218-233, della parte seconda (Dopo la Repub-
blica: salvaguardia, memoria e innovazione nella civiltà senese), pp. 181-269. Ma si ricorda,
più in generale, la ricchissima sezione riservata alle fonti inedite ed alla bibliografia ragiona-
ta (pp. 277-283), alla quale vivamente si rimanda per il reperimento degli strumenti basilari
per gli studi storici su Siena.
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dai rimpianti per la dipartita dell’antica dinastia toscana e scosso


dalle spinte riformatrici del Consiglio di Reggenza, cui si contrap-
posero le virulente resistenze dell’aristocrazia senese, tutelata stre-
nuamente per vece della Balìa, ogniqualvolta fossero messe in di-
scussione le prerogative politiche e sociali tralatizie e le peculiarità
istituzionali della Città (definitivamente consolidatesi nell’età del
Principato mediceo: le prime con il ricorrente beneplacito dei so-
vrani, le seconde a partire dalla Costituzione del 1° febbraio 1561),
nel più ampio spettro dei progetti d’innovazione statuale.
I ministri del nuovo principe avrebbero voluto eliminare i caotici
residui delle istituzioni repubblicane, presenti dovunque in Tosca-
na, e sviluppare la stagnante economia, sottoposta ad una regola-
mentazione fortemente vincolistica. Ma si scontrarono con i privile-
gi acquisiti dalle corporazioni2 e con le abitudini di una nobiltà or-
mai divenuta prevalentemente percettrice di rendite fondiarie, con
la quale impararono subito a trovare dei compromessi.
Tuttavia, la nobiltà della seconda capitale granducale, già indebo-
lita, sotto l’aspetto quantitativo, dalla scarsa natalità indotta dall’en-
dogamia di ceto, subì immediatamente dei contraccolpi sul piano
economico, sia a causa dei vincoli imposti ai fedecommessi, sia dalle
dispersioni patrimoniali dovute ai lasciti che erano andati ad accre-
scere a dismisura le proprietà degli enti ecclesiastici in senso lato
(ospedali e confraternite compresi). Di fatto, poterono sottrarsi al
declino incombente soltanto le poche famiglie che seppero diramar-
si e radicarsi anche lontano dal senese, diversamente dalle casate
che rimediarono alla definitiva scomparsa con il passaggio del pa-
tronimico – insieme al patrimonio, s’intende – dall’ultimo erede
senza discendenza ad un casato affine e solidale, dando luogo sia al-
l’inusitata propagazione di cognomi multipli nelle blasonate stirpi
senesi, sia alla radicale trasformazione di quelli originari, quando gli
eventi o il buon senso lo rendessero più opportuno o necessario.
Ad approfittare della debolezza interna alla nobiltà e dei primi

2 Quando si tratti di corporazioni, è d’uopo tenere a mente come l’Arte della lana co-

stituisse una tradizionale roccaforte dell’aristocrazia. Dunque, tra i numerosi provvedimenti


che incisero negativamente sulle condizioni della nobiltà, si deve ricordare la legge del 30
agosto 1777, in forza della quale furono «sciolte, soppresse ed abolite tutte le [...] rappre-
sentanze e corpi delle Arti in Siena e Provincia superiore [...,] anche l’Arte della lana». Cfr.
N. MENGOZZI, Il Monte dei Paschi di Siena e le aziende in esso riunite, cit., VI, pp. 526 ss.
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assalti dei reggenti alle prassi istituzionali, furono i gruppi emergen-


ti «borghesi», che inoltrarono numerose petizioni alla corte lorenese
al fine del riconoscimento di un ceto dei cittadini, mai esistito in Sie-
na3, che si affiancasse, nel governo della cosa pubblica, ai nobili tra-
dizionali. Questi ultimi, però, già arroccati su posizioni di difesa,
riuscirono a contenere quelle richieste con un’azione accanita gui-
data dalla Balìa4, l’organo di governo ordinario della città, che ebbe
persino la forza di neutralizzare la legge del 1750. Quindi, nono-
stante tutto, il ceto dirigente continuò a riprodursi secondo la tradi-
zione, controllando l’accesso al Concistoro e, di conseguenza, alle
numerose cariche pubbliche, mentre i lorenesi, seppur con pruden-
za, studiavano e cominciavano a sperimentare soluzioni per la crea-
zione di una nobiltà toscana selezionata in modo uniforme, al fine
di superare il sistema municipale di ammissione al governo e di mo-
nopolio delle risorse finanziarie.
Com’è noto, infatti, i problemi relativi alla posizione sociale, alla
condizione economica e, soprattutto, all’inquadramento giuridico
della nobiltà rivestivano un’importanza primaria in tutti gli Stati eu-
ropei nella fase di transizione verso le riforme della seconda metà
del secolo decimottavo. Ma il governo lorenese dedicò cure del tut-
to particolari all’elaborazione di interventi legislativi miranti alla ri-
soluzione radicale delle questioni in parola, principiando dai ristret-
ti territori feudali, inconsapevolmente preannunciando il presuppo-
sto metodologico formulato due secoli più tardi dalla storiografia,
che volgerà alla campagna, in primo luogo, lo sguardo, per com-
prendere come la famiglia nobiliare fosse vissuta e avesse così salda-
mente saputo sostenere le proprie sorti5.

3 Si è già visto come un’idea di tal fatta fosse emersa nelle elucubrazioni del Pecci, con

la menzione di un fantomatico «grado di mezzo», in piena contrapposizione con la stratifica-


zione sociale urbana che s’era rigidamente consolidata sui due ordini della nobiltà, unica tito-
lare dei diritti politici municipali, e la plebe, totalmente esclusa dalla partecipazione istituzio-
nale. Per di più, se è fuori discussione che la Legge del 1750 avesse previsto il grado della
«cittadinanza», intesa come strato sociale intermedio, è altrettanto vero che si riferisse alle
città che già conoscessero tale partizione sociale e politica: «Riconoschiamo [... per] Cittadini
quelli, che hanno, o sono atti ad avere tutti gli Onori delle Città, fuori che il primo» (Legge,
tit. I Della Nobiltà, e sua distinzione, art, I), «per restituire, e mantenere nel primiero decoro
il rango ancora della Cittadinanza in quelle Città del Nostro Gran-Ducato, in cui, stante la di-
stinzione degli onori, si trova già stabilito» (ivi, tit. V, Della Cittadinanza, art. XXXIII).
4 Cfr. G. PRUNAI - S. DE’ COLLI, La Balìa dagli inizi del XIII secolo fino alla invasione

francese (1789), cit., pp. 94-96.


5 Cfr. AA.VV., Signori, patrizi, cavalieri nell’età moderna, a cura di M. A. VISCEGLIA,
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La Legge sopra i Feudi ed i Feudatarj pubblicata in Firenze il dì 21


Aprile 1749 ab Incarnatione fu il primo intervento normativo di vero
rilievo politico6, ma furono la versione definitiva degli Statuti del-
l’Ordine di Santo Stefano, del 1746, e la Legge sulla nobiltà e citta-
dinanza, promulgata nel 1750, a confermare e consolidare – di fatto
–, da un lato, le prassi di cooptazione alla nobiltà civica e, dall’altro,
un sistema di pesi e contrappesi, già vigente nella peculiare realtà
istituzionale toscana, che i nuovi governanti avrebbero voluto im-
brigliare tra le maglie di un atto legislativo che desse potestà al so-
vrano di infondere lo status nobiliare.
Proprio i due corpi normativi in parola devono essere considerati
le chiavi di volta che permisero alle più antiche dinastie di confer-
mare le prerogative tralatizie e ad una nuova aristocrazia di entrare
a pieno titolo nel plurisecolare ceto dirigente: vale a dire, con l’am-
missione nella Religione stefaniana e l’iscrizione nei libri d’Oro del-
la nobiltà di Toscana, come si avrà modo di dimostrare nella sezione
metodologica.

2. Francesco Stefano fu investito del Granducato il 24 gennaio


1737 e ne prese possesso, tramite il principe Marc de Beauvau-
Craon, solo dopo la morte di Gian Gastone de’ Medici, il 7 luglio
del 1737. Poco più di un anno dopo, il 24 aprile 1738, il Lorena vestì
a Vienna, nella cappella dedicata a S. Ignazio, all’interno della Chiesa
dei Gesuiti, l’abito di Gran Maestro dell’Ordine di S. Stefano.
A quell’epoca, dopo quasi due secoli di vita, la Religione stefania-
na, fondata nel 15627 con lo scopo dichiarato di difendere sul mare

Bari, Laterza, 1992, pp. XXI-XXXIII; F. DIAZ, I Lorena in Toscana. La Reggenza, Torino,
UTET, 1988, passim. Una riconsiderazione storiografica di ampio respiro, accompagnata da
una ricca nota bibliografica, è stata approntata da M. MIRRI, Dalla storia dei «lumi» e delle
«riforme» alla storia degli «antichi Stati italiani», in AA.VV., Pompeo Neri. Atti del colloquio
di studi di Castelfiorentino (6-7 maggio 1988), a cura di A. FRATOIANNI e M. VERGA, Castel-
fiorentino, Società Storica dela Valdelsa (Tip. Baccini & Baldi, Firenze), 1992, pp. 401-540.
Si noti come il Mirri abbia sottolineato la necessità di esaminare le riforme alla luce delle
«ragioni della “lotta politica” in seno alla classe politica».
6 Testo in L. CANTINI, Legislazione Toscana, cit., vol. XXVI, pp. 141-147.
7 L’Ordine dei cavalieri di Santo Stefano, voluto da Cosimo I, fu autorizzato da Pio IV

con un breve del 1° ottobre 1561. Tale atto pontificio fu inserito nella prima edizione degli
Statuti (Statuti Capitoli et Constitutioni del Ordine de Cavalieri di santo Stephano fondato et
dotato dal illust. et eccell. signor Cosimo Medici duca di Fiorenza et di Siena, in Fiorenza, ap-
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la fede cristiana, aveva smarrito ormai ogni funzione militare. Di fat-


to, nel corso del tempo, si era accresciuto il ruolo sociale detenuto
dall’Ordine nella funzione di istituto nobiliare, al quale ambivano
gli esponenti delle nobiltà cittadine toscane, ma anche numerosi
membri dei ceti aristocratici provenienti da altri Stati peninsulari e
d’oltralpe8.
D’altro canto, l’Ordine ereditato da Francesco Stefano nella pri-
mavera del 1738 aveva un peso economico e finanziario di tutto ri-
lievo, in ragione dell’imponente mole delle commende, di un ingen-
te e composito patrimonio (fattorie, terre sparse, case e titoli del de-
bito pubblico) che, tuttavia, produceva un reddito annuo insuffi-
ciente ad impinguarne le casse affinché si potessero agevolmente af-
frontare le numerose spese, relative al mantenimento di dignitari e
impiegati, al pagamento di pensioni e commende d’anzianità e gra-
zia, alle uscite correnti per il funzionamento dell’istituzione e per la
gestione del patrimonio medesimo. Ma aveva – si ripete – un ruolo
sociale e politico ancor più rilevante, sia perché nei suoi ranghi con-
fluiva gran parte dell’aristocrazia toscana, sia perché l’istituzione in
parola aveva la capacità di miscelare forze e interessi che trascende-
vano quelli strettamente concernenti il ceto dominante. Proprio ne-
gli anni della Reggenza, tali peculiarità diverranno il pretesto per
un’aspra e serrata lotta politica attorno alla Religione, punto focale
nel più ampio raggio dell’ardua contesa tra i funzionari venuti d’ol-
tralpe e gli schieramenti interni al gruppo dirigente toscano tralati-
zio, derivati dal passaggio dinastico9.

presso L. Torrentino impressor ducale, 1562), come in quelle successive; ma si può reperire
anche in L. CANTINI, Legislazione Toscana, cit., vol. IV, (Bando per la notitia dell’Ordine de’
Cavalieri di S. Stephano eretto et dotato dall’Illustriss. et Eccell. Signore il Sig. Duca di Fioren-
za, e di Siena, con molti privilegj del dì 18. Marzo 1561 ab Inc., pp. 303-327), pp. 304-305.
D’altro canto, l’atto di nascita della Religione in parola può farsi risalire al 15 marzo del
1562, giorno in cui Cosimo I vestì l’abito di Gran Maestro, in Pisa, con un solenne cerimo-
niale (ASFi, Mediceo, 1836, cc. n. n.); mentre i sudditi appresero ufficialmente la notizia tre
giorni più tardi, tramite il Bando per la notitia dell’Ordine de’ Cavalieri di S. Stephano (ASFi,
Mediceo, 491, c. 645; ma si può reperire anche nella raccolta del Cantini, come indicato
dianzi: vol. IV, pp. 303-327).
8 Dal 1562 al 1737, fecero parte dell’Ordine 4438 cavalieri, di cui i sudditi granducali

(3041) costituirono il 68,5%, quelli originari di altri Stati della penisola (1248) il 28% e, in-
fine, quelli di altri paesi europei (149) il 3,5%. Cfr. F. ANGIOLINI, L’Ordine di S. Stefano ne-
gli anni della Reggenza, cit., pp. 1-47: 2, nota 5.
9 F. DIAZ, Agl’inizi della dinastia lorenese in Toscana. I problemi della Reggenza, in

AA.VV., Studi di storia medievale e moderna per Ernesto Sestan, II, Firenze, Olschki, 1980,
pp. 669-701.
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3. Il primo sguardo della classe dirigente lorenese, appena giunta


in Toscana, assunse una sembianza piuttosto sconcertata dinanzi al-
le istituzioni del Principato mediceo; ma bastarono appena due me-
si al conte di Richecourt per dimostrare come il contraltare dello
stupito disappunto fosse sostenuto da un incontenibile istinto di
riforma. Il Plan de changemens à faire en Toscane10, ch’egli pronta-
mente trasmise a Francesco Stefano già il 29 ottobre 1737, dava im-
mediatamente un senso propositivo a tale risolutezza nelle intenzio-
ni di riorganizzazione socio-politica. Erano passati due secoli dal
vento di passioni innovatrici che avevano attraversato i lidi istituzio-
nali toscani in forza dell’impeto cosimiano, volto al consolidamento
della monarchia assoluta, seppure, poi, necessariamente confinata
nella sua variante postmedievale. Con la nuova dinastia era giunto il
momento della transizione alla monarchia assoluta prerivoluzionaria:
almeno nelle intenzioni della Reggenza, prima, e di Pietro Leopol-
do, poi ed ancor più consapevolmente11.
Il Nay aveva immediatamente predisposto gli strumenti per la
stabilizzazione, più rapida possibile, del potere reggente, princi-
piando dagli interventi indispensabili all’imprescindibile controllo
militare dei territori, al ripristino dei poteri giurisdizionali statali e
alla supervisione della gestione finanziaria. Sono ben noti i tentativi
di codificazione, come di riforma giudiziaria organica, che caratte-
rizzarono, quasi per intero, il primo cinquantennio del secolo: ma,
allorquando si tratti di evidenziare i passaggi normativi strutturali
congegnati precipuamente con l’intendimento di rimodellare il pro-
filo socio-economico e rimodulare il ruolo politico-istituzionale dei
ceti dirigenti residenti, allo scopo di trasformarne l’essenza e inte-
grarne le fila per mano della monarchia, non si può prescindere da-
gli interventi sistematici che tentarono di scardinare gli equilibri –
ora ritenuti squilibri – tralatizi fra potere economico e istituzioni po-
litiche, fra stratificazione sociale e rappresentanza, fra potestà di go-
verno e diritti di cittadinanza. La chiave di volta per decifrare i se-

10 ASFi, Reggenza, 12, dispaccio del Richecourt al Granduca, 29 ottobre 1737: Plan de

changemens à faire en Toscane, cc. 135r-137r. Per un’ampia disamina del Plan, si veda N.
RODOLICO, Saggi di storia medievale e moderna, Firenze, Le Monnier, 1963, pp. 362-368
(Emanuele de Richecourt, iniziatore delle riforme lorenesi in Toscana).
11 Si adotta la terminologia accolta da A. MARONGIU, Storia del diritto italiano. Ordina-

menti e istituti di governo, cit.; in particolare, pp. 225-365: 282-288 e 356-358.


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greti dell’architettura sociale e dell’ingegneria istituzionale consoli-


datesi nell’arco di sei secoli, la nobiltà civica, fu sottoposta alla cura
lorenese a principiare da tre interventi che novellavano le normazio-
ni concernenti i fedecommessi e i feudi – vale a dire, la perpetuazio-
ne di risorse economiche e poteri giurisdizionali tradizionalmente
appannaggio dell’aristocrazia, supportati dagli analoghi meccanismi
d’immobilizzazione patrimoniale e giurisdizionale garantiti dal siste-
ma commendale stefaniano12 – e, più di ogni altra cosa, provvedeva-
no all’inquadramento legale statuale della nobiltà. Si tentò di defi-
nirne schematicamente la natura originaria, le ragioni e modalità del
conferimento ex novo, ma, soprattutto – secondo gli auspici del
riottoso Richecourt –, il riconoscimento giuridico: sottoposto, per la
prima volta, al filtro statale13.

12 Si ricordi come le commende di padronato fossero istituite, oltre che, spesso, in favore

del medesimo fondatore, a beneficio di altri soggetti che venissero nominati nello strumento
di fondazione, il quale prevedeva – tranne rarissimi casi – la precisa indicazione di una o più
linee successorie, principalmente in favore dei primogeniti maschi, con la garanzia che i beni
costituenti la dote della commenda continuassero ad essere amministrati e gestiti dai titolari e
fossero sottratti sia al normale circuito economico, sia, soprattutto, a qualunque rischio di
alienazione e rivendicazione da parte di creditori. Appare evidente come si trattasse di una
specie peculiare di fedecommessi: la proprietà restava all’Ordine, ma il cedente manteneva
l’usufrutto in veste di commendatore, tramandando i suoi diritti di godimento in capo ai
successori immessi previsionalmente nel contratto di cessione, fino all’esaurimento delle li-
nee predeterminate nel medesimo atto pubblico. Tuttavia, si trattava di un’eventualità mera-
mente teorica, giacché si prevedevano sempre delle linee subordinate ed era, in ogni mo-
mento, possibile cambiare il contenuto contrattuale tramite la supplica degli aventi diritto e
la benevola grazia granducale. Inoltre, non a caso, si è fatto riferimento ad un aspetto giuri-
sdizionale, poiché i commendatori di padronato sottostavano ad una peculiare gerarchia,
culminante nei Balì e Priori, i quali, per aver fondato commende padronali dotate con enor-
mi patrimoni, beneficiavano di una vera e propria giurisdizione sulle commende di grado in-
feriore – rispetto al rango ch’essi detenevano in veste di dignitari locali della Religione – nel-
le circoscrizioni di loro competenza (Baliati e Priorati). Per di più, tali maggiorenti stefaniani
detenevano la potestà privilegiata di conferire una tantum, a titolo vitalizio, le commende di
padronato ricomprese nel distretto di loro pertinenza, qualora ricadessero al «ruolo o ceto
d’anzianità», in maniera del tutto svincolata da criteri legali prestabiliti o prassi consolidate:
se non quella di beneficiare la propria cerchia familiare. Cfr. D. BARSANTI, Introduzione stori-
ca sulle commende dell’Ordine di S. Stefano, in AA.VV., Le commende dell’Ordine di S. Stefano
(Atti del convegno di studi, Pisa 10-11 maggio 1991), Roma, Ministero per i beni culturali e
ambientali – Ufficio centrale per i beni archivistici, 1997, pp. 25-36, passim.
13 Si tratta di tre leggi che comprendevano settori normativi estremamente rilevanti,

non soltanto in tema di nobiltà, quanto, piuttosto, nella più ampia prospettiva di consolida-
mento, attraverso il censimento e il controllo delle tendenze all’accaparramento, alla gelosa
conservazione e, d’altro canto, alla dispersione dei beni prediali, della proprietà fondiaria in
generale, in capo ad un nuovo ceto dei possidenti, che – soprattutto nella susseguente visio-
ne di Pietro Leopoldo – avrebbe dovuto, nel medio periodo, assumere il ruolo che fino allo-
ra pertineva i titolari di uno status politico privilegiato d’origine medievale: 22 giugno 1747,
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La Legge del 1750 fece da spartiacque alle invenzioni giuridiche


del secolo XVIII e funse da pietra miliare nello scontro tra la nuova
classe dirigente lorenese e le roccaforti nobiliari toscane, divise, an-
cor prima che dalla diametrale opposizione degli obiettivi, dalla to-
tale antitesi nella natura del legame impulsivo con lo Stato dei Medi-
ci, che già si rimpiangeva tra le fila degli intellettuali granducali –
soprattutto, patrizi fiorentini e senesi e giurisperiti di Scuola pisana
–, i quali, percependo l’incipiente rischio d’impotenza politica delle
oligarchie tralatizie, ne furono i desolati cantori, fin dalle solenni
esequie di Gian Gastone, sulle note avanguardiste del giusnaturali-
smo toscano, lodantine l’ossequio per l’origine contrattualistica del-
la sovranità, alla quale avrebbero avuto a contrapporsi teoria e pras-
si del potere assolutistico in divenire14.
Nel quadro operativo generale, la Reggenza dimostrò la propria
coerenza traducendo in azione il desiderio di svolta rispetto al pas-
sato, con l’assunzione di un atteggiamento risoluto nella rivendica-
zione dei poteri giurisdizionali statali quale prerogativa privilegiata
che non dovesse più esser messa in discussione dall’operato di auto-
rità interferenti. Difatti, la basilare esigenza d’autonomia dello Stato
assoluto moderno, con esemplare riferimento allo strapotere eccle-
siastico in materia civile e giudiziaria, avrebbe assunto la veste di
scopo primario dell’azione riformatrice. I provvedimenti sul divieto
di porto d’armi per concessione dell’Inquisizione (1738) e la riserva
alle autorità statuali del controllo preventivo (censura) sulle opere
da pubblicare (1743), causarono un vigoroso attrito con la Curia,
che avrebbe avuto a stemperarsi soltanto nel 1754, con l’accordo, si-
glato da Benedetto XIV, sulla composizione mista dei tribunali del
Santo Uffizio. Seguì, nel ’49, la riduzione delle feste religiose, che
condizionavano il regolare svolgimento delle cause nei tribunali, ma
finanche la stipulazione dei contratti e la stesura degli atti notarili.
Inoltre, in stretta relazione con le questioni temporali, si pose la so-
luzione definitiva per la problematica gestione delle datazioni se-
condo i diversi calendari toscani, che creavano non pochi problemi

Legge sopra i fidecommessi e primogeniture; 21 aprile 1749, Legge sopra i feudi ed i feudatari;
1° ottobre 1750, Legge per regolamento della nobiltà e cittadinanza. Per i testi, nell’ordine, si
consulti L. CANTINI, Legislazione Toscana, cit., vol. XXV, pp. 362-368; vol. XXVI, pp. 141-
147; ivi, pp. 231-241.
14 Si veda, tra gli altri, M. VERGA, Da «cittadini» a «nobili», pp. 45-64 e 75-89.
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ai burocrati lorenesi, soprattutto nell’emanazione, consultazione ed


effettività di bandi, decreti e documenti ufficiali: dal 1° gennaio
1750 l’anno assumeva i limiti dello stile comune, tuttora universal-
mente operanti15.
D’altro canto, si deve ricordare come, da principio, gli uomini
della Reggenza, oltre ad una scarsa competenza econometrica, aves-
sero dimostrato, specie nei provvedimenti concernenti il reperimen-
to di risorse finanziarie, un modo arcaico di concepire l’intervento
statale. Prova ne sia l’esordio con la richiesta di un «donativo gra-
tuito» – già una contraddizione in termini –, al quale seguì, oltretut-
to, una soluzione altrettanto démodée come l’appalto delle entrate
pubbliche, tipico di tutti gli Stati d’Ancien Régime, contraddicendo
del tutto i propositi del Richecourt, che, nel suo Plan, auspicava
un’amministrazione delle finanze a conto diretto («l’on purrait
changer touttes les magistratures et les rendre au nombre nécessaire
en supprimant leur caisses et les réunissant à la caisse générale»).
Nel frattempo, lo stesso Francesco Stefano, mentre, da un lato, per-
cepiva direttamente un appannaggio personale dalle entrate pubbli-
che, dall’altro, speculava in veste di socio di una Compagnia deten-
trice dell’appalto generale per la riscossione, conducendo autono-
mamente le trattative segrete con i più noti e discussi uomini d’affa-
ri toscani. Dunque, le perplessità del conte erano più che giustifica-
te, giacché, oltre le disfunzioni patologiche, la delega finanziaria
non permetteva fisiologicamente la libertà di promuovere politiche
di riforma fiscale, né di attuare modifiche o concedere sgravi.
Anche la politica frumentaria non risultò affatto innovatrice, dac-
ché ricalcò gli schemi protezionistici medicei, rendendo vani i tenta-
tivi di liberalizzazione e incremento dei commerci, soprattutto verso
l’interno.
Insomma, a sentir l’eco delle parole di G. Rinaldo Carli16, illumi-
nista lombardo e funzionario teresiano, l’eccessivo e complicato si-
stema tariffario, residuo del municipalismo toscano, caratterizzato

15 Per uno sguardo d’insieme del quadro storico nel passaggio dai Medici ai nuovi dina-

sti e una visione schematica, ma esaustiva, dei provvedimenti più rilevanti adottati in epoca
lorenese, comprendente i risvolti – oltre che politici e istituzionali – socio-economici, si ri-
manda a D. BARSANTI, La Toscana dai Medici ai Lorena. Vicende politiche e rinnovamento
dello Stato, cit., passim.
16 G. R. CARLI, Saggio politico ed economico sopra la Toscana nel 1757, in Opere, t. I, Mi-

lano, tip. S. Ambrogio, 1784, pp. 321 ss.


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da diverse e contrapposte legislazioni, con una miriade di pedaggi,


dazi e gabelle, compromise in partenza i tentativi di unificazione
economica delle antiche Repubbliche toscane, pur sotto l’egida
riformatrice dei nuovi dinasti.
Nel contempo, però, si batté un altro – sempre florido – versante,
giacché al recupero delle prerogative giuridiche che il potere eccle-
siastico aveva saputo avocarsi nei secoli precedenti, seguì, dopo i
fallimenti dei predetti piani d’impinguamento delle casse statali,
un’operazione più radicale che, per la prima volta nella penisola,
colpiva la proprietà perpetua e privilegiata – vale a dire: inalienabi-
le, inconvertibile ed esente da imposte successorie – che il clero se-
guitava ad incamerare per lasciti privati ed acquisti a titolo gratuito
di dubbia legittimità. Con la legge del febbraio 175117, si poneva un
freno all’incremento incontrollato della manomorta: il chiericato,
ovvero il tre per cento della popolazione, possedeva un terzo dei be-
ni fondiari e, perciò, delle rendite dell’intero Granducato.
D’altra parte, tornando ai provvedimenti che toccarono più da vi-
cino – seppur non troppo in profondità – l’aristocrazia toscana, si
deve principiare, ancora una volta, dalle esigenze di ristabilimento di
un senso della misura nell’accumulazione delle ricchezze private e,
conseguentemente, di una reale capacità di reperimento, controllo e
gestione delle risorse pubbliche. Se da un lato il calmiere sull’acqui-
sizione di patrimoni e redditi correlati garantiva nuova linfa sotto l’a-
spetto strettamente finanziario, dall’altro i provvedimenti che inte-
ressarono il blasonato ceto dirigente non si limitarono a prospettare
il controllo sulle indiscriminate immobilizzazioni dei beni atavici,
con la legge sui fedecommessi e le primogeniture (1747), né a defini-
re legalmente le limitazioni ai poteri giurisdizionali dei feudatari e la
validità ed efficacia della normazione primaria statuale anche all’in-
terno dei feudi granducali (trentasette all’epoca), ma trasposero gli
auspici di rinnovamento dal piano economico a quello politico, ten-
tando di inquadrare normativamente lo status nobiliare di natura
prevalentemente politica, che determinava gli assetti della stratifica-
zione sociale e dell’intelaiatura istituzionale, quanto meno nelle anti-
che Repubbliche comunali e nel più ampio spettro delle città nobili.

17 Legge che proibisce il passaggio de’ Beni nelle Mani Morte del dì 11 Febbraio 1751, in

L. CANTINI, Legislazione Toscana, cit., vol. XXVI, pp. 314-318.


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Pertanto, la Legge sulla nobiltà e cittadinanza chiudeva il cerchio


dell’area strategica d’intervento del Richecourt (padrone del gover-
no toscano dalla metà degli anni ’40 e capo formale della Reggenza
dal ’49 al ’57: vale a dire, nell’arco temporale di emanazione delle
normative-chiave cui si è fatto riferimento dianzi), il cui programma
di governo non avrebbe assunto un senso compiuto se non si fosse-
ro concretizzati gli interventi di riorganizzazione normativa, giuri-
sdizionale e finanziaria, nonché di consolidamento del tesoro stata-
le, per mezzo di una coerente, indispensabile riforma politico-istitu-
zionale. Di conseguenza, in linea con le prospettive programmatiche
di changement, per la costruzione del nuovo assolutismo settecente-
sco, allo smantellamento dei residui «établissements républicains»,
doveva necessariamente seguire, negli intendimenti del loro artefice,
l’acquisto della piena capacità potestativa di governo, latu sensu (so-
ciale, economico, politico e istituzionale), in capo al sovrano. A tal
fine, si doveva, quanto prima, porre rimedio alle gravi conseguenze
che la sovrapposizione dell’apparato burocratico mediceo accentra-
to ai residui dei vetusti regimi municipali rendeva macroscopica-
mente evidenti agli occhi dei nuovi funzionari.
Per tali ragioni, una particolare e immediata attenzione fu riposta
nella previsione di un rapido risanamento dello sclerotico disordine
cagionato, innanzi tutto, da un’eredità costituzionale, consuetudina-
ria e normativa, caratterizzata da prassi consolidate e leggi «qui sont
en si grand nombre qu’elles sont pour la plus part hors d’usage ou
se contradisent et enfin sont contraires au bien public actuel, estant
faites dans des temps et des circonstances tout à fait defférentes,
surtout dans le temps où la Toscanne comprenait pluseiurs petit
états separez»18, dalla quale derivava il marasma in cui s’eran persi
di vista sia i punti di riferimento dell’amministrazione civile e giudi-
ziaria, sia i centri d’imputazione delle potestà statuali. La causa
principale di tale caotico groviglio di norme e competenze, di orga-
ni amministrativi centrali e istituzioni politiche periferiche, venne
individuata nell’intromissione nelle questioni di governo (ora giudi-
cata inammissibile dai riformatori, ma fino allora inevitabile e ratifi-
cata da prassi, talvolta prive di regolamentazione legale o frutto di
forzature delle disposizioni propriamente costituzionali cinquecen-

18 ASFi, Reggenza, 12, Sessione del Consiglio di Reggenza del 2 novembre 1737.
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tesche, condiscendentemente tollerate dai Medici) da parte di grup-


pi di potere privilegiati. Questi, inconfutabilmente e costantemente,
si erano avvantaggiati dei tenaci particolarismi istituzionali, limitan-
do, di fatto, pur senza mai impedirla, la capacità di governo medi-
cea19, persistendo latenti sul fragile confine che, viceversa, secondo i
sopraggiunti ideali settecenteschi, avrebbe dovuto frapporsi, saldo e
incrollabile, tra cura dell’interesse pubblico, vale a dire del bien pu-
blic, e tutela dell’interesse privato, che, pur camuffato abilmente nel
mélange d’aristocratie, de démocratie et de monarchie, mal celava la
procrastinazione dello strapotere oligarchico a tutto tondo. L’ordine
cui s’intende fare preciso riferimento è – evidentemente, nella trat-
tazione in corso – quello dei riseduti senesi, i quali ricoprivano a ca-
scata tutte le magistrature cittadine, dal vertice concistoriale – sovra-
stato politicamente (ma legittimamente, secondo prassi consolidate
sin dalla prima metà del secolo XV, come si è avuto modo di illu-
strare nei capitoli precedenti) soltanto dalla Balìa: la più longeva e
agguerrita roccaforte aristocratica tra le istituzioni senesi («dagli ini-
zi del XIII secolo fino alla invasione francese»20) – all’ultimo degli
uffici preposti alla gestione economico-finanziaria, fin dal secolo de-
cimoterzo (senza aver mai subito alcun pregiudizio sostanziale, nep-
pure nei due secoli di vigenza della Legislazione antimagnatizia, co-
me si è ampiamente dimostrato più sopra). Costoro altro non erano
se non i rappresentanti e i referenti del ceto dirigente di origine mu-
nicipale il cui status nobiliare aveva una natura prevalentemente po-

19 Si ricordi, per esempio, che la legge costituzionale del 1561 attribuiva chiaramente

agli Ufficiali di Balìa (scelti dal sovrano tra i «riseduti» membri del Consiglio Grande, «per
compartimento e distributione de Monti») la qualifica di «Consiglieri del Luogotenente e
Governator nostro» e conferiva loro sia il compito di coadiuvare quest’ultimo nell’esercizio
di ogni suo potere (difatti, essi potevano «deliberare, et eseguire tutto quello che alla giorna-
ta giudicaranno dover esser di nostro servitio, e a benefitio e quiete di questa Città, e stato
nostro, con consenso sempre e participatione del Governatore»), sia l’«autorità che ogn’ho-
ra che se ne porga loro l’occasione per beneficio della Città eleggere e mandare Ambasciato-
ri per conferirsi al cospetto nostro», e anche la facoltà di «deputar Commissarii per lo Sta-
to». Detti Ufficiali avevano piena cognizione di causa in merito alla rilevanza politica delle
prerogative istituzionali che vennero loro riconosciute al massimo grado della legislazione
statuale con l’avvento della monarchia; erano tanto fieri delle proprie funzioni da esaltare
anche verbalmente il loro magistrato, paragonandolo metaforicamente ad una nave che, «se-
dente al timone il prencipe, o chi di tempo in tempo qua lo rappresenta, indirizza et incami-
na il legno del governo di questa Città» (ASFi, Mediceo, 1909, Fortunio Martini, 16 marzo
1597). Cfr. D. MARRARA, Studi giuridici sulla Toscana medicea, cit., p. 132.
20 Così recita il titolo d’un noto saggio degli anni Cinquanta: G. PRUNAI - S. DE’ COLLI,

La Balìa dagli inizi del XIII secolo fino alla invasione francese (1789), cit.
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litica, perpetuata secondo i canoni medievali della legalità: vale a di-


re, con abili artifici normativi, sofisticate finzioni giuridiche e prete-
stuosi criteri consuetudinari. Evidentemente, nella nuova ottica
eversiva settecentesca, le prerogative del ceto dirigente aristocratico
(un tutt’uno d’anima e corpo politico della Città e Stato di Siena)
avrebbero dovuto sottoporsi a nuove norme e, in ragione di queste,
diluirsi, controllarsi, limitarsi in modo definitivo e attribuirsi ad or-
gani titolari di funzioni, da un canto meramente consultive, dall’al-
tro più propriamente rappresentative, tipizzate nelle istituzioni par-
lamentari tardo-settecentesche, che di lì a poco avrebbero assunto
un’essenza borghese (in nuce nei programmi di riforma municipale
e nel progetto di costituzione d’ideazione leopoldina), per la tutela
– a tali condizioni, certamente legittima – di interessi cetuali, ma es-
senzialmente proprietari-censitari, del cittadino possessore, da realiz-
zarsi per mezzo di un nuovo Magistrato ristretto, espressione del-
l’autonomia amministrativa derivante dagli incipienti criteri rappre-
sentativi borghesi21. Sarebbe stato il regolamento per la riforma pi-
lota dell’aretino ad enunciare la necessità di un concreto legame tra
riforma comunitativa e proprietà fondiaria ripartita, quale nesso in-
dispensabile per la formazione di una borghesia campagnola che in-
terpretasse, tutelando come propri anche gli interessi delle comu-
nità, l’autoamministrazione come un diritto e, al contempo, un dove-
re dei sudditi, in piena armonia con gli intendimenti del Granduca,
poiché «niuno deve avere maggiore zelo, o premura per la buona
condotta, e direzione degli affari comunitativi quanto quelli che vi
hanno tutto l’interesse»22. Peraltro, sarebbe stata ancor più chiara la
volontà di Pietro Leopoldo, com’egli stesso ebbe a scrivere, di «re-
stituire alle comunità la libera amministrazione e direzione degl’in-
teressi ed affari loro»23, finalmente persuaso, a detta dell’Anzilotti,

21 Non è questa la sede per sviscerare le problematiche di cui si fa menzione; pertanto,

allo scopo di approfondirne l’esame, si vedano: G. M. MANETTI, Dalla riforma comunitativa


al progetto di costituzione sotto Pietro Leopoldo, Granduca di Toscana (1765-1790), in «Rasse-
gna Storica Toscana», XXVIII-2 (Luglio-Dicembre 1982), pp. 185-217; B. SORDI, L’ammini-
strazione illuminata. Riforma delle comunità e progetti di costituzione nella Toscana leopoldi-
na, Milano, Giuffrè, 1991.
22 Regolamento per la Comunità di Arezzo del dì 7 Dicembre 1772, in L. CANTINI, Legi-

slazione toscana, cit., vol. XXXI, pp. 16-44: 16.


23 P. LEOPOLDO D’ASBURGO LORENA, Relazioni sul governo della Toscana, cit., vol. I,

p. 274.
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che «il potere centrale non può conoscere i bisogni dei sudditi, le
esigenze della vita comunitativa e quindi non può sostituire i corpi
delle amministrazioni provinciali nel maneggio di un grande com-
plesso di affari»24.
Tuttavia, né la Reggenza, né Pietro Leopoldo, con l’introduzione
di nuovi apparati pubblici di gestione e controllo del territorio e cri-
teri di rappresentanza al passo con i tempi, furono in grado di spo-
gliare gli ordini nobiliari toscani della loro rilevanza giuridica o dis-
solverli nella più ampia cerchia dei proprietari fondiari, né, tanto
meno, di sradicarne i privilegi. E identico tenore ebbero le argute
osservazioni del sovrano in merito all’aristocrazia senese, da troppo
tempo padrona di quel maneggio d’affari menzionato dianzi perché
potesse risultarne sminuito il credito che ogni altro ceto contribuiva
a perpetuare, in un misto di ammirazione del prestigio sociale e di
timore reverenziale connesso al riconoscimento della capacità di go-
verno in capo a quei consorti che monopolizzavano, nell’equilibrio
dei Monti, le leve del potere reale fin dal XII secolo25. Dunque, con-
trariamente agli auspici eversivi della prima età lorenese, le preroga-
tive socio-politiche aristocratiche conservarono il loro rango ancora
in età leopoldina, altresì ritrovando vigore nella periferia, con il ridi-
mensionamento dei progetti centralistici di rimozione delle sedi-
mentate articolazioni territoriali, in forza delle strenue resistenze lo-
calistiche. Ne derivò, al momento della riforma municipale, la ri-
nuncia preliminare all’adozione di una normativa unica e generale,
per demandare agli editti, secondo le circostanze, la regolamenta-
zione legale individualizzata, comunità per comunità. Di conseguen-
za, le continue contrazioni delle primigenie previsioni programmati-
che, che subirono i contraccolpi del diuturno scontro fra teoria e
prassi, fra modelli teorici e pratica quotidiana, risultarono decisive
per il fallimento della centralizzazione more Richecourt: i ceti diri-
genti oligarchici imperversarono indisturbati, ancora nel XVIII se-

24 A. ANZILOTTI, Decentramento amministrativo e riforma municipale in Toscana sotto

Pietro Leopoldo, Firenze, Lumachi, 1910, p. 73.


25 Pietro Leopoldo evidenziò con disappunto come i riseduti senesi avessero «sempre il

maggior credito nei magistrati comunitativi» di nuova foggia, facendo leva sul prestigio poli-
tico e la lunga esperienza amministrativa, nonché sul sostegno dei «grossi proprietari», in di-
fesa dei propri interessi, a discapito del processo di riforma. Cfr. P. LEOPOLDO D’ASBURGO
LORENA, Relazioni sul governo della Toscana, cit., vol. III, p. 415.
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colo, crogiuolandosi nell’immutabile alveo delle prerogative sociali


e politiche perpetuate fin dall’epoca delle Repubbliche comunali.
Così, se da un lato, sotto l’aspetto prettamente socio-economico,
v’era una potenziale mobilità sociale piuttosto ampia, favorita, tra
l’altro, dall’imprescindibile ruolo svolto in tal senso dall’Ordine di
Santo Stefano, dall’altro, sul piano politico-istituzionale, seppur in-
dubitabilmente condizionato dalla dinamica fluttuazione della stra-
tificazione sociale, continuavano a calmierarsi le prerogative politi-
che dei ceti emergenti attraverso le cooptazioni alla nobiltà civica,
magistralmente orchestrate dall’aristocrazia, con l’ausilio delle nor-
mative e prassi stefaniane che erano state innalzate di rango attra-
verso l’evidente commistione legale contenuta nella legge del 1750.
Pertanto, allo scopo di assicurare, a servizio del sovrano e del
bien public – ch’egli rappresentava in prima persona e prometteva
di garantire per vece dei suoi funzionari riformatori –, l’efficienza
dell’organismo statuale e l’efficacia delle azioni autoritative centrali,
che erano ostacolate da privilegi di enti privati – laici ed ecclesiastici
– e ceti privilegiati, si principiò la strada che avrebbe dovuto porta-
re verso la parificazione giuridica di tutti i sudditi, finalmente sotto-
posti alle medesime leggi e autorità dello Stato, seppur con le inge-
nuità tipiche di un governo di transizione che sia costretto, non sol-
tanto a risolvere i problemi d’un’altra Casa, demolendo le strutture
sociali desuete e ammodernando gl’impianti istituzionali obsoleti,
ma, finanche, a far fronte alla ricostruzione, dalle fondamenta, su di
un suolo storicamente impervio e ostile.
A conferma di ciò, si deve rilevare come, tra i provvedimenti rite-
nuti essenziali per la nuova fabbrica, non possa certo ritenersi che la
legge del 31 luglio del ’50 fosse intercambiabile con i numerosi re-
golamenti emanati negli Stati europei contemporanei per la revisio-
ne dei criteri d’accesso al ceto nobiliare, al fine di controllarne e
contingentarne le nuove immissioni. Difatti, nel Granducato, si
cercò, senz’alcun timore reverenziale, lo scontro frontale, in aperta
rottura con le tradizioni nobiliari e istituzionali che andavano di pa-
ri passo con la più intima storia politica toscana fin dal XII secolo e,
paradossalmente, si erano ancor più radicate e consolidate in età
medicea, nell’equilibrio costituzionale tra principe e ceti dirigenti
aristocratici di matrice feudal-municipale.
Dunque, nell’ottica modernizzatrice della Reggenza, la fine del
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Principato mediceo avrebbe dovuto segnare la netta cesura col pas-


sato della graduale modulazione degli interessi pubblici e privati,
della gestione bilanciata del potere – nella pratica di governo – tra
centro e periferia, della conservazione alle magistrature d’origine
municipale dei poteri sostanziali, cui la longa manus del sovrano
meramente s’affiancava.
In particolare, tali condizioni patologiche erano ancor più radica-
te ed evidenti nello Stato senese, poiché con la concessione della
Costituzione cinquecentesca (emanata il 1° febbraio 1561: i cui pre-
supposti erano già custoditi negli statuti del 1544-45 e nei patti di
resa stipulati dalla Repubblica con Cosimo I il 17 aprile 1555; alla
quale fece seguito la legge, di medesimo grado gerarchico, del 6 di-
cembre 1588, che ne completava l’opera di Reformazione) era stato
confermato e recepito ufficialmente, da una fonte normativa – si ri-
pete – di rilevanza costituzionale, il circuito d’accesso alle magistra-
ture comunitative (cittadini di reggimento – Signoria – riseduti), rati-
ficando, formalmente, il metodo distributivo (Monti) e riconoscen-
do, implicitamente, il sistema di nobilitazione per cooptazione, di
natura prevalentemente politico-istituzionale (nobiltà civica). Per di
più, in tal modo, era stata accertata, convalidata e rinsaldata, per
mano del principe (legibus solutus), la perpetuazione della formula
di governo (oligarchia municipale) e del ceto dirigente tralatizio (ri-
seduti – nobiltà civica – aristocrazia). Il duca, nell’ambito delle magi-
strature civiche e dell’apparato giurisdizionale-amministrativo, ave-
va avocato a sé – con riserva subordinata a favore del Luogotenente
– la mera facoltà d’esercizio della potestà sanzionatoria sovrana
(consenso – nomina). E tali fattori ed elementi della costituzione ma-
teriale, allo stesso tempo basilari e distintivi della realtà socio-istitu-
zionale senese, rimasti a fondamento del diritto pubblico cittadino
per tutta l’età medicea, ancora vigevano.
Perciò, evidentemente, alla luce di residui anacronistici così solidi
e ingombranti, le ragioni eversive dei reggenti e il loro desiderio di
rottura con il passato erano ben giustificati: nel pieno travaglio
riformatore e rivoluzionario del XVIII secolo, la Città si reggeva an-
cora con le sue istituzioni politiche e parlamentari peculiari, detenu-
te dall’oligarchia che continuava a preservare le prerogative del ceto
di governo e a perpetuare un ruolo paradigmatico nell’ambito dei
patriziati cittadini italiani ed europei più eminenti.
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In generale, però, sopra ogni cosa, si voleva rendere stabile, una


volta per tutte, l’equilibrio giuridico-istituzionale – affinché il Gran-
ducato potesse assumere realmente una veste statuale in senso mo-
derno – ponendo fine al caos che scompensava, indebolendolo, tale
delicato bilanciamento, pregiudicato tra XVI e XVIII secolo con
l’unione personale di Stati e di status perpetuatasi in capo al Medici
di turno. Questi, infatti, aveva rappresentato il prototipo del con-
sorte toscano d’originaria matrice «borghese», nobilitatosi ab anti-
quo con mezzi politici, che, con cognizione di causa, aveva saputo
contemperare tutti gli interessi in gioco, consolidando scaltramente
il governo della Casa, memore delle impareggiabili lezioni sia del
Vecchio, sia del Primo Cosimo. Ma, finanche, era stato in grado di
assurgere al ruolo di monarca assoluto di uno Stato bicipite, che do-
minava le due metropoli capitali, e di creare, col pretesto della dife-
sa militare dal saraceno, un Ordine nobiliar-cavalleresco i cui statuti
e prassi avevano fornito gli strumenti per l’avanzamento sociale e
per la conferma dello status nobiliare municipale, ma, soprattutto,
per il censimento e il controllo, con l’attribuzione della dignità ste-
faniana, della vecchia e nuova élite dirigeante, la quale, viceversa,
aveva ricevuto un nuovo e potente strumento per rafforzarsi e con-
solidarsi ancor più, nell’arco di circa tre secoli. Appare chiaro come
tale aspetto fosse strettamente legato al ripristino del dominio socio-
politico (non disgiunto dalla gestione degli assetti istituzionali con-
nessi con l’entità statale che procedeva in maniera binaria dal 1555-
57, già ampiamente analizzati, dianzi, funzionalmente, per lo Stato
nuovo) che interessò una delle tre direttrici principali dell’azione del
governo lorenese riservate alla Religione stefaniana: la ridefinizione
del ruolo di istituzione nobiliare e, soprattutto, nobilitante, sulla ba-
se di concezioni nobiliari e monarchiche coerenti con il nuovo baga-
glio giuridico e ideologico. Gli ulteriori versanti d’innovazione si ri-
volsero al ridimensionamento della funzione militare (sia per ridur-
re i costi di galere ed equipaggi, sia per adeguare l’attività mediter-
ranea alla più attuale linea politico-diplomatica, volta a stabilire re-
lazioni pacifiche e rapporti commerciali con l’Impero ottomano e
gli Stati barbareschi) e alla riconsiderazione della gestione patrimo-
niale (sia per precisare le funzioni e i poteri dell’autorità statale e
degli organi interni, sia per l’inquadramento dei valori contabili tra
le voci di bilancio dello Stato, mirante alla definizione del peso
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finanziario nel più ampio raggio delle politiche di risanamento dei


conti pubblici)26.
In ogni modo, mentre la doppia veste di Gran Duca e Gran Mae-
stro dell’Ordine di Santo Stefano fu conservata dai dinasti stranieri,
una sorte diversa fu riservata alle due entità statali, vecchia e nuova,
che per quasi due secoli avevano condiviso le sorti macropolitiche
sotto lo stesso tetto, seppur l’una contro l’altra armate, dietro i ri-
spettivi gonfaloni oligarchici. Difatti, la veste dell’unione personale
di Stati, giuridicamente pertinente al Principato mediceo – nata po-
liticamente nel 1555-57 (ratifiche imperiali: 1560 e 1565) e rafforza-
ta costituzionalmente con la Reformazione del 1561 –, lasciava il po-
sto, nel 1737, al Granducato toscano, sottoposto all’unificazione giu-
ridica lorenese.
Dunque, il disegno complessivo di riforma del Granducato, col
nocciolo duro nelle tre leggi su feudi, fedecommessi e nobiltà, in-
tendeva segnare la rottura radicale con il passato e il superamento
definitivo dei fondamenti giuridico-istituzionali – vale a dire, costi-
tuzionali – consolidatisi definitivamente nello Stato mediceo bicefa-
lo; ma, soprattutto, intendeva fare luce definitiva sulla relazione tra
il potere sovrano e coloro i quali, nel peculiare sistema socio-istitu-
zionale toscano, non erano sudditi, quanto, piuttosto, concitoyens
del Principe, in capo al quale, invece, doveva esser riposta la source
véritable della nobiltà. Di conseguenza, più di tutte, la legge del
1750 rappresentò il manifesto che definiva la forma e i contenuti di
un nuovo Granducato monarchico, progettato dal conte lorenese e
dai suoi sodali con caratteri e significati palesemente rivoluzionari,
per lo scardinamento del reale assetto costituzionale vigente. Il signi-
ficato di tale espressione27, riferita alle antiche libertà repubblicane,
alle magistrature comunitative e alla nobiltà cittadina che n’era stata
la paladina, fu esplicitata dal Tanucci nelle sue righe di denuncia del
sovvertimento annunciato dalla prammatica in oggetto28; ma ne ave-

26 Per un approfondimento sugli interventi lorenesi in merito alla Religione stefaniana, si

veda F. ANGIOLINI, L’Ordine di S. Stefano negli anni della Reggenza, cit., passim; IDEM, I Cava-
lieri e il Principe. L’Ordine di S. Stefano e la società toscana in età moderna, cit., pp. 161-198.
27 B. TANUCCI, Epistolario, I (1723-1746), a cura di R. P. COPPINI, L. DEL BIANCO e

R. NIERI, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1980, pp. 137-139 (lettera del giorno 11 ot-
tobre 1746).
28 In una lettera del 20 ottobre 1750, si legge: «Nuova bottega, nuova oppressione, [...]

abolito ogni vestigio dell’antica libertà. Despotismo e schiavitù stabilita. Diviso il popolo,
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va già strenuamente difeso le sorti avverse nei suoi scritti, a princi-


piare dall’aspra critica al varo della legge sui fedecommessi, del
’4729. In quell’occasione, colse la pretestuosa evenienza per dare il
proprio apporto all’analisi storica dei fenomeni sociali e politici che
influivano sulle istituzioni granducali, senza tralasciare l’aspetto
comparativo, verso gli antichi Stati italiani. Non si trattava di argo-
mentare sulla tutela dei fedecommessi, quanto, principalmente, sul-
la garanzia di sopravvivenza del predetto ordine, che poteva esser
pregiudicato dal provvedimento in parola, con il conseguente stra-
volgimento degli equilibri socio-politici e, di conseguenza, istituzio-
nali: vale a dire, dell’assetto costituzionale del Principato toscano.
«Quella nobiltà ha fatto prima o poi punto nei principati sopravve-
nuti e senza repubblica si é mantenuta sui vestigi della medesima
per quanto le han permesso le forze maggiori»30, dimostrandosi il
ceto garante dell’assetto tralatizio, contro le insistenti mire assoluti-
stiche, e artefice d’un naturale equilibrio politico e istituzionale, che
si era consolidato definitivamente nei due secoli del Principato me-
diceo e, in particolare, era sopravvissuto pervicacemente, con im-
mutabile vigore, in Siena. Nelle sue parole, l’illustre statista casenti-
nese chiariva magistralmente il valore del regolamento sulla nobiltà:
esso travalicava i confini d’inquadramento sistematico per tentare di
scardinare il ruolo sociale, le funzioni e i poteri connaturati al ceto
che costituiva la più solida garanzia politica contro ogni pretesa mo-
narchica e, per ciò stesso, il primo ostacolo da abbattere per spiana-
re il cammino dell’assolutismo31.
Insomma, era giunto, implacabile, il momento di un nuovo corso,
che, inevitabilmente, avrebbe avuto bisogno di un rodaggio, così
com’era accaduto nei primi decenni del Principato di Cosimo I: il
ceto dirigente toscano, protagonista indiscusso delle vicende di go-

scissa la nobiltà [...]. Abuso dei magistrati, spoglio dei già acquistati diritti, legge che contro
la ragione dispone in danno altrui anche il passato. In somma, non pubblica necessità, non
pubblica utilità, non decoro, non piacere del popolo, ma libito, ma superfluo, ma capriccio-
so, ma denaro a cui aneli il governo. Queste sono le bellezze della nuova costituzione». Cfr.
B. TANUCCI, Epistolario, II (1746-1752), a cura di R. P. COPPINI e R. NIERI, Roma, Edizioni
di Storia e Letteratura, 1983, pp. 593-594.
29 B. TANUCCI, Epistolario, I, cit., pp. 131-133 (lettera del 27 settembre 1746).
30 Ibidem.
31 Per una visione d’insieme sull’attività di ricerca concernente lo statista casentinese,

da cui risulti un chiaro profilo della sua personalità, si veda il volume AA.VV., Bernardo Ta-
nucci nel terzo centenario della nascita, Pisa, Edizioni ETS, 1999, passim.
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verno fin dall’età comunale, permase, nel bene e nel male, il fulcro
delle riforme politiche e istituzionali. Ne derivava che la legittimazio-
ne giuridica sarebbe dovuta discendere dall’alto, ma il corpo sociale,
solidamente stratificato, seppur con le sue fluttuazioni cicliche, e pa-
drone della propria anima politica, non avrebbe reso facile la pla-
smazione legislativa della costituzione materiale, né la violazione della
città reale. Malgrado ciò, l’assestamento in questione avrebbe trovato
realizzazione – seppur parziale e ridimensionata nei risultati – in due
momenti decisivi per l’adeguamento ai tempi degli assetti istituziona-
li, almeno sotto l’aspetto formale, con le riforme leopoldine e la pa-
rentesi napoleonica. Nei fatti, gli spazi di gestione delle prerogative
sociali e politiche derivanti dal tradizionale status nobiliare munici-
pale erano stati, sino a quel momento, occupati legittimamente, dife-
si a spada tratta e rivendicati ad ogni piè sospinto di un nuovo sedi-
cente sovrano, dalle oligarchie dei due Stati del Principato.
Dal canto suo, Siena, ex capitale, fulcro di una nobiltà refrattaria
alle innovazioni, gelosa delle tradizioni cittadine a tutto tondo, fun-
zionali alla perpetuazione delle sue prerogative costituzionali, non
era pronta per una metamorfosi che ne compromettesse gli equilibri
dei diritti quesiti, sia connaturatile, sia verso la prima capitale dello
Stato bicefalo, faticosamente e pervicacemente preservati – pur sul
fertile terreno degli scontri istituzionali generazionali – e transitati
indenni attraverso le epoche degli stravolgimenti italo-europei nei
due secoli precedenti, senza scalfitture, nella sostanza, degli assetti
tralatizi. Fino a quel momento, non era mutata l’essenza dell’anima
politica senese: né riguardo ai soggetti, né, tanto meno, in merito al-
l’origine dello status politico privilegiato detenuto dalla nobiltà di
derivazione municipale repubblicana. Vigeva ancora, mutatis mu-
tandis, l’aureo torpore di una radicata consuetudine sociale e istitu-
zionale, derivante dal congenito immobilismo innovativo nei con-
fronti delle matrici economiche e politiche del secondo Stato tosca-
no, dal quale i detentori del potere reale non avevano alcun’inten-
zione di destarsi, né, tanto meno, nel frattempo, d’attardarsi a so-
gnare d’insinuare pruriginose velleità di governo negli acquiescenti
strati della cittadinanza che stavan lieti in un’aura letargica, supina-
mente sospesi tra mito cittadino (repubblicano e oligarchico) e
realtà storica (monarchica e assolutistica). Pertanto, se in merito allo
stato generale degli apparati socio-politici toscani fu chiaro il lapi-
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dario giudizio del Richecourt, a cinque mesi dall’emanazione della


prammatica sulla nobiltà: «ce qui est excellent dans une république
est nuisible dans une monarchie»32, ancor più lampante doveva
essersi presentato ai suoi occhi il contrasto con la nobiltà civica sene-
se, documentato, qualche anno prima, dai solerti funzionari a lui sot-
toposti. Infatti, dall’«État général des maisons des nobles [...] dans la
ville et état de Sienne», stilato per ordine dei reggenti nel 1743, risul-
tava come su 220 capifamiglia titolati, ben 121 potessero considerar-
si di sentimenti repubblicani, vale a dire il 79% dei 153 che ancora si
sentivano liberi di professare apertamente le idee politiche33, in quel
«mélange d’aristocratie, de démocratie et de monarchie»34, che ave-
va costituito il fulcro costituzionale del Principato mediceo e soprav-
viveva immutato nei serrati ranghi dei nobili senesi.
In definitiva, in merito ai rimedi generali approntati dalla Reg-
genza al fine di ovviare alla discrasia dell’apparato statale centrale,
che perdeva potestà nei rivoli delle differenziate realtà istituzionali
toscane, che faticava ad approntare delle riforme socio-economiche
volte all’efficace risanamento del Granducato e alla reale parifica-
zione dei sudditi, non si può omettere di ricordare come la storio-
grafia, omologandosi pervicacemente alla pregiudiziale propensione
magnificativa dell’età leopoldina, non abbia dato sempre garanzia di
un’equa valutazione delle politiche riformistiche attuate nel primo
trentennio lorenese. Difatti, i limiti concettuali entro i quali si è usa-
to confinarne le peculiarità sono stati piuttosto angusti, definendo il
periodo in oggetto come epoca di sperimentazione, transizione, as-
sestamento, caratterizzata dalla smania di smantellare il Principato
mediceo senza concomitanti capacità ricostruttive che fossero com-
misurate ai propositi di una riforma rivelatasi, perciò stesso, incerta,
contraddittoria, più avvezza a perdersi in macchinose elucubrazioni
giuridiche che a risolvere immantinente i problemi economici e so-
ciali. Se, da un canto, non si possono addurre giustificazioni che sia-
no sufficientemente ampie ed esaustive – in questa sede – per con-
futare e ribaltare incontrovertibilmente i giudizi eccessivamente cri-

32 ASFi, Reggenza, 58, dispaccio del 22 febbraio 1749.


33 C. ROSSI, La nobiltà e le magistrature di Siena in un’indagine della Reggenza lorenese,
Pisa, Edizioni ETS, 2007, p. 23.
34 ASFi, Reggenza, 12, dispaccio del Richecourt a Francesco Stefano, da Firenze, del 10

settembre 1737.
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tici sintetizzati rapidamente dianzi, dall’altro, tuttavia, si deve met-


tere in evidenza il significato schiettamente politico di una conti-
nuità necessaria tra i due termini della questione, poiché senza i pre-
supposti della Reggenza non avrebbero potuto sussistere i meriti di
Pietro Leopoldo, così come non avrebbero potuto compiersi le in-
novazioni della sua azione di governo senza il supporto fondamen-
tale di quegli uomini, apparati e risorse indispensabili per sostenere
le nuove idee e suggerire i correttivi coerenti con le condizioni reali
del Granducato, riplasmato – seppur parzialmente o, per certi versi,
superficialmente – proprio da quei medesimi funzionari e dai loro
predecessori, sulle figurazioni progettuali tratteggiate dagli antesi-
gnani del nuovo sovrano, o dai loro gregari. Dunque, non si posso-
no sottovalutare le condizioni oggettive del contesto statuale nel
1765, profondamente cambiate rispetto al ’37, sia dal punto di vista
delle risorse materiali, logistiche e umane, sia, soprattutto, per un
elemento imprescindibile: la nascita di un nuovo stile di governo,
basato su un approccio pressoché scientifico per lo studio delle pro-
blematiche che man mano si presentavano all’orizzonte dei riforma-
tori e per la definizione in itinere delle strategie da adottare nella ri-
soluzione tangibile delle medesime. Prova ne sia, ad esempio, la
promozione di inchieste per acquisire le informazioni d’insieme e
raccogliere i dati statistici indispensabili per definire oculatamente
gli interventi più opportuni. Si trattava di un modus operandi del
tutto sconosciuto all’approssimazione compromissoria medicea, a
causa della quale non furono quasi mai adottati criteri sistematici
per la gestione metodica della cosa pubblica, né, tanto meno, ap-
prontati significativi studi tecnici o teorici preliminari, da condursi
con l’ausilio propedeutico e la perizia operativa della proto-ammini-
strazione pubblica, al precipuo scopo di attuare con piena cognizio-
ne di causa le politiche dello Stato. Ma, d’altronde, la corte medicea
non era paragonabile a quella imperiale, in cui l’apertura culturale e
l’esperienza internazionale avevano favorito l’avvio e il consolida-
mento di una mentalità nuova, del tutto avulsa dal provincialismo
socio-istituzionale toscano. Forse, uno spiraglio di commensurabi-
lità si potrebbe tentare in una ridottissima sintesi comparativa – l’u-
nica praticabile in questa sede – tra Cosimo I e Pietro Leopoldo, ac-
comunati dall’assunzione di responsabilità istituzionali che, proba-
bilmente, non avevano mai contemplato nei loro progetti adolescen-
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ziali, dacché entrambi furono chiamati al trono appena diciottenni.


I due giovanissimi sovrani furono artefici di svolte epocali per la To-
scana, l’Impero e la storia sociale, politica e giuridico-istituzionale,
con un’eco che sormontò i confini ducali, granducali e imperiali.
Entrambi, pur avendo costruito la propria personalità in contesti
generali (familiari, territoriali, socio-economici, politico-istituziona-
li, culturali) e su basi educazionali individuali e formative della co-
scienza politica sovrana del tutto diversi, mostrarono immediata-
mente uno spirito di rinnovamento innato, la forza caratteriale e la
fermezza per governare con polso deciso e tentare di mutare il de-
stino di quel fiume sovraccarico di detriti istituzionali, rilasciati, a
monte, dal florido medioevo del diritto, distribuiti generosamente
lungo il corso della storia toscana, con conseguenze che i ceti diri-
genti aristocratici seppero funzionalizzare alle proprie esigenze di
perpetuazione delle prerogative sociali e politiche, almeno sino al
tramonto dell’età moderna.

4. Si giunge, così, al Granducato di Pietro Leopoldo (1765-1790),


il quale assunse direttamente la responsabilità sovrana, risiedendo
– per primo – a Firenze e prendendo in mano le redini del governo
toscano, mostrando immediatamente piena cognizione delle carat-
teristiche socio-economiche, politiche e territoriali del suo nuovo
dominio, finanche supportato intellettualmente dalla cultura illu-
ministica, che rientrava nei canoni della sua formazione regale.
Questi, senza curarsi delle lusinghe degli ecclesiastici e delle adula-
zioni tipicamente italiane, operò con prudenza ed energia, guidato
dai continui moniti degli augusti genitori, anche se ciò non condi-
zionò l’autonomia e l’indipendenza da Vienna: due parole che fi-
nalmente riassumevano, in linea di massima, la pienezza del signifi-
cato. Dunque, la circostanza fortuita della morte di Francesco Ste-
fano, nell’estate del ’65, portava a Firenze un sovrano residente che
credeva di far della Toscana la creatura sperimentale delle nuove
tendenze costituzionali e istituzionali – tra storia e filosofia – nel
vortice delle dottrine contrattualistiche e illuminate che, di lì a po-
co, divenute rivoluzionarie, avrebbero stravolto i percorsi costitu-
zionali europei, del tutto ignaro del più arduo compito che avrebbe
dovuto assumere su di sé dopo cinque lustri.
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Il primo provvedimento di gran rilievo, preannunciato con il mo-


tuproprio del 10 novembre 1765, fu adottato il 18 marzo 1766, pro-
prio agli inizi dell’attività del principe illuminato. Lo Stato nuovo fu
smembrato nella provincia superiore, con capitale Siena, e in quella
inferiore, con capitale Grosseto, la quale fu sottoposta direttamente
all’autorità sovrana, al fine di rendere più spedito ed incisivo l’inter-
vento pubblico volto a risanare la Maremma35. La riforma ebbe un
significato di straordinaria importanza per la storia della Toscana e,
in particolare, della Maremma. Dal punto di vista politico, si pro-
spettava la soppressione dello Stato di Siena, che aveva mantenuto
la propria libertà anche nell’ambito del Granducato andando a co-
stituire una vera e propria entità autonoma caratterizzata da una le-
gislazione peculiare, da un apparato istituzionale differenziato e da
un ceto dirigente legato alle proprie prerogative tralatizie. Si tratta-
va di una serie di elementi tipici della organizzazione politica me-
dievale, lesiva dei poteri regi e dell’autorità dello Stato, che Pietro
Leopoldo intendeva scardinare ed abbattere, ispirato dagli ideali
monarchici settecenteschi che fondavano i canoni dell’assolutismo
sulla centralizzazione del potere, attraverso l’uniformazione dei sud-
diti su un piano equanime e la parificazione dinanzi al sovrano e alle
leggi del neonato Stato moderno. Sotto il profilo più strettamente
amministrativo, oltre l’evidente e pressante esigenza di ammoderna-
mento delle strutture periferiche, si rendeva necessaria una differen-
ziazione tra due aree geografiche tra loro disomogenee. L’area set-
tentrionale, altamente popolata, florida e ricca grazie al proficuo
sfruttamento delle risorse agricole, necessitava di ben poche atten-
zioni. La Maremma, invece, era, ormai da troppo tempo, una «zona
depressa». Lo spopolamento causato dalla malaria aveva reso anco-

35 Gli atti normativi del 18 marzo (Legge con la quale si sottopone la Maremma Sanese

immediatamente al Sovrano del dì 18 Marzo 1766, in L. CANTINI, Legislazione toscana, cit.,


vol. XXVIII, pp. 213-216) e del 10 dicembre 1766 (Motuproprio per il nuovo compartimento
dei Tribunali di Giustizia per la Provincia Inferiore dello Stato di Siena del dì 10 Dicembre
1766, ivi, pp. 280-290), diedero un senso compiuto alla riforma, dichiarata, qualche mese
prima, nel motuproprio di Pietro Leopoldo del 10 novembre 1765 (Motuproprio per la sepa-
razione de’ Fondi della Comunità della Provincia Inferiore dalla superiore del dì 10 Novembre
1765, ivi, pp. 200-202). In merito all’aspetto strettamente storico-istituzionale, si veda D.
MARRARA, Storia istituzionale della Maremma senese, cit., pp. 202-222. Per una visione rias-
suntiva d’insieme, comprendente i risvolti – oltre che politici – socio-economici, delle rifor-
me leopoldine, si rimanda a D. BARSANTI, La Toscana dai Medici ai Lorena. Vicende politiche
e rinnovamento dello Stato, cit., pp. 51-82.
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ra più lontane quelle paludi che abbisognavano di ingenti ed urgen-


ti cure. Il risanamento e la bonifica della più vasta parte dell’antico
Stato avrebbero trovato mezzi adeguati soltanto in funzione della
individualizzazione in una provincia ben distinta dalle altre terre se-
nesi, attraverso una peculiare organizzazione giuridica posta a ga-
ranzia della efficiente ed efficace realizzazione delle direttive gran-
ducali, legittimate dalle nuove disposizioni normative. Il fraziona-
mento fece perdere alle magistrature patrie – e, quindi, al gruppo
dei riseduti – ogni controllo sull’amministrazione delle Comunità
del grossetano, ormai soggette ad un ufficio «dei fossi e delle colti-
vazioni», i cui membri venivano nominati a discrezione del Grandu-
ca. In tal modo, la nobiltà fu quasi del tutto estromessa dal governo
dell’antico dominio. Siena cessava, in pratica, di essere una capitale,
e i riseduti non potevano non seguirne le sorti. Entro le mura citta-
dine, però, essi mantenevano ancora intatto il monopolio delle ma-
gistrature: sostanzialmente, la città non conobbe radicali riforme
istituzionali fino al 1786.
Nell’ambito dell’esperienza venticinquennale leopoldina, l’inter-
vento riformatore comunitativo, dipanatosi su un arco temporale di
quattordici anni (1772-1786), si propose, nell’incessante susseguirsi
di progetti, iniziative e provvedimenti normativi, due fini generali
preponderanti: la costruzione di un apparato amministrativo che
fosse in grado di funzionare autonomamente e la realizzazione di un
sistema municipale omogeneo, basato sul principio di rappresentan-
za. Le due direttrici del programma innovatore divennero, dunque,
l’autonomia e la rappresentanza, ma fu quest’ultima ad assumere il
ruolo centrale nella riforma, giacché il Granduca riteneva che il
meccanismo rappresentativo fosse congeniale al migliore funziona-
mento dello Stato e, finanche, ad un principio d’equità politica che
restituisse ai sudditi le facoltà acquisite con la nascita, delle quali fu-
rono «investiti dalla natura» e dalle quali, per ciò stesso, non avreb-
bero potuto mai esser privati né privarsi36. Ancora una volta, risalta
la formazione giuridico-culturale di Pietro Leopoldo, giacché le sue
frequentazioni, dall’istitutore Carlo Antonio Martini, all’aristocrazia

36 Cfr. G. M. MANETTI, Rappresentanza effettiva e rappresentanza formale nei regolamenti

comunitativi di Pietro Leopoldo, in «Rassegna Storica Toscana», XXXIII-1 (gennaio-giugno


1987), pp. 105-110: 105, nota 1 (Editto per la formazione degli Stati di Toscana, Proemio).
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carinziana, la quale ben conosceva le istituzioni rappresentative, da


lungo tempo sviluppatesi e consolidatesi in quei lidi imperiali37, lo
guidarono verso la realizzazione degli ideali contrattualistici.
Non è questa la sede per una definizione articolata e analitica del-
le minuzie giuridiche concernenti i processi d’innovazione legale in
parola, però val la pena di ricordare come, sulla base dei regolamen-
ti, diversificati da una comunità all’altra, il numero dei componenti i
corpi rappresentativi variasse nei diversi contesti istituzionali, ma
sempre sulla base del criterio di proprietà, che andava a sostituire
definitivamente il diritto d’accesso per nascita. La Magistratura,
composta da Gonfaloniere e Priori, e il Corpo dei consiglieri conflui-
vano nel Consiglio Generale, al quale competeva l’esame del bilan-
cio preventivo della comunità, preparato dalla prima, e la definizio-
ne dei titoli e limiti di spesa, anche se tale precisione prescrittiva po-
teva ritrovarsi soltanto nel Regolamento senese, ultimo in ordine
cronologico e, per ciò stesso, il più maturo. Tuttavia, il vincolo pos-
sessorio, ben definito nella sua entità minima necessaria per l’acces-
so al gonfalonierato e priorato, sfumava per l’ammissibilità al più
largo consesso dei consiglieri, in piena coerenza con il più ampio re-
spiro del progetto riformatore leopoldino, in ragione del quale l’au-
toamministrazione non doveva meramente rappresentare il ricono-
scimento di un diritto, quanto, piuttosto, l’esortazione all’esplicazio-
ne di un dovere che era riposto in capo ai sudditi, per la cura dei
propri interessi, in veste di primi e migliori interpreti delle priorità
connesse agli affari locali. Si tratta, evidentemente, del tentativo di
trasmutazione dei sudditi in cittadini, come traspariva già nel primo
Regolamento comunitativo adottato per la verifica dell’applicabilità
dei nuovi crismi riformistici – quello, pilota, aretino: editto del 7 di-
cembre 1772 –. Ovviamente, al possesso dei beni stabili era connes-
sa la contribuzione alle spese locali e generali, che completava il
quadro degli oneri indispensabili per partecipare alla gestione degli
affari e risiedere nelle nuove magistrature comunitative. Il legame
tra gli obblighi contributivi e la facoltà decisionale in merito ai
provvedimenti previsionali tracciava un profilo tipico del principio
di rappresentanza, reperibile in molteplici enunciazioni regolamen-

37 A. WANDRUSZKA, Pietro Leopoldo. Un grande riformatore, Firenze, Vallecchi, 1968,


p. 54.
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tari, richiamanti proprio la libertà valutativa sulle spese, le tasse e le


gravezze in genere. Nell’enunciazione di tali prerogative, il corpo
dei cittadini avrebbe dovuto rappresentare i propri interessi, parte-
cipare alla gestione della cosa pubblica e, soprattutto, garantire il
miglior funzionamento dello Stato: non si trattava di privilegi, ma di
diritti naturali, dunque innati, e, più di ogni altra cosa, imprescindi-
bili, sia da parte dei titolari dei medesimi, sia nel più ampio spettro
della gestione condivisa del destino economico, politico e istituzio-
nale delle comunità e dello Stato.
Chiusa la divagazione esplicativa, si ritorna ai due corpi comuni-
tativi per precisare come la formazione dei consessi avvenisse per
estrazione dalle borse che contenevano tante cedole, o polizze,
quanti fossero i nomi dei soggetti che possedessero i requisiti indi-
spensabili per essere imborsati e concorrervi, a tenore delle norme
regolamentari. Il numero dei bossoli poteva variare, in linea di mas-
sima, tra due e quattro, giacché, nonostante la nuova tendenza leo-
poldina alla costituzione di una nuova classe, su presupposti di na-
tura prevalentemente economica, non si poté certo prescindere dal-
la stratificazione sociale tralatizia, soprattutto nelle città nobili, che
rese indispensabile la creazione di una prima borsa – per ordine di
sorteggio – nella quale fossero inseriti i nomi di tutti i soggetti de-
scritti al grado di nobiltà, possessori o meno. Però, coloro i quali
fossero tratti dalla prima sacca e non rispondessero adeguatamente
al requisito del possesso d’una massa d’estimo sufficiente, non
avrebbero goduto d’alcuna deroga normativa o pratica: sarebbero
stati inabili a risiedere nella Magistratura. La nobiltà di cui si tratta
è, principalmente, quella civica degli uffici, riconosciuta nell’articola-
to della Legge del 1750 per quattordici Comuni (ai quali, in piena
età leopoldina, venne ad aggiungersi Pontremoli: 1° agosto 1778),
tra cui, com’è noto, Siena. La rilevanza peculiare di tal gruppo di
città, sotto l’aspetto istituzionale, era giustificata, sì dall’antichità,
celebrità e ricchezza del centro urbano, ma innanzitutto dalla pre-
senza di una copiosa popolazione che potesse dar luogo, agevol-
mente, ad una perfetta segregazione delle borse, indispensabile alla
divisione nei ranghi della nobiltà, titolare dei supremi onori munici-
pali, e della cittadinanza, alla quale, ove già esistesse come gruppo
titolare di diritti politici all’entrata in vigore della legge in parola,
avrebbero dovuto attribuirsi le magistrature minori, o subalterne, al-
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trimenti appannaggio anch’esse dell’aristocrazia. Dunque, nelle pa-


trie nobili, tutti coloro i quali fossero avulsi dalle due categorie sum-
menzionate ricadevano indistinguibilmente nel più ampio ed anoni-
mo crogiuolo della plebe, senza distinzione alcuna sulla base delle
condizioni economiche e, soprattutto, senza alcun ruolo attivo nella
gestione della cosa pubblica.

5. Ad un esame sommario della storiografia più antica, parrebbe


delinearsi il tramonto della preminenza oligarchica al cospetto delle
riforme municipali di Pietro Leopoldo38. Ma si è più propensi alla
revisione di siffatta linea interpretativa, in favore del concetto che
spiega in maniera maggiormente plausibile gli assetti socio-politici
granducali e si può definire come compromesso leopoldino39. Secon-
do tale punto di vista, non si ebbe un vero e proprio sradicamento
delle antiche istituzioni comunitative – politiche e parlamentari –,
quanto, piuttosto, un tentativo d’integrazione illuministica nel più
ampio raggio d’intervento sovrano nella vita associata. Difatti, il
processo innovativo – che prese le mosse dalle comunità relativa-
mente più in ombra e remissive sotto l’aspetto prettamente socio-
politico (Arezzo e Volterra, 1772) – dovette adattarsi alla situazione
reale e trovare degli espedienti che fossero in grado di conciliare l’u-
niformità della disciplina giuridica in via d’adozione con i privilegi e
i particolarismi consolidatisi nel corso dei secoli. Dunque, l’esten-
sione degli interventi riformatori verso comunità più popolose, per-
ciò dotate di complesse strutture socio-economiche, e maggiormen-
te eminenti, poiché caratterizzate da un impianto politico-istituzio-
nale peculiare (derivante dalla chiara stratificazione sociale, requisi-
to essenziale delle città nobili, funzionale ad una netta individuabi-
lità dei ceti e alla conseguente perfezione nella «segregazione delle
borse»), dovette assestarsi su una linea compromissoria. S’è visto,
infatti, come i supremi uffici dei singoli enti fossero stati sostituiti

38 A. ZOBI, Storia civile della Toscana dal 1737 al 1848, cit., II, p. 171; A. ANZILOTTI,

Movimenti e contrasti per l’unità italiana, a cura di A. CARACCIOLO, Milano, Giuffrè, 1964,
p. 23; F. VALSECCHI, L’Italia nel Settecento: dal 1714 al 1788, in Storia d’Italia, Milano, Mon-
dadori, 1971, vol. VI, p. 568; A. WANDRUSZKA, Pietro Leopoldo. Un grande riformatore, cit.,
pp. 292-293.
39 D. MARRARA, Riseduti e nobiltà, cit., p. 210.
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141

da un nuovo vertice amministrativo incardinato sul Magistrato co-


munitativo e sul Consiglio Generale, i quali erano sottoposti, in cia-
scun contesto municipale, alla disciplina generale in materia di re-
quisiti strutturali e funzionali (tra gl’altri: età dei componenti, dura-
ta del mandato, unicità del voto per ciascun membro, pena per il ri-
fiuto della carica, responsabilità per la mancata partecipazione alle
sedute, quorum costitutivo e deliberativo). Pertanto, a proposito di
tali direttrici unificate per la costruzione dei nuovi assetti locali, non
è necessario elencare tutti gli interventi regolamentari atti a comple-
tare l’iter in oggetto, ma è certamente opportuno ricordare come le
riforme comunitative leopoldine avessero preso corpo a principiare
da un imponente complesso normativo, comprendente quattro leg-
gi-quadro che spiegarono la loro efficacia sulle aree vaste di contado
e distretto fiorentini (1774) e province superiore e inferiore senesi
(1777 e 1783). D’altro canto, il punto focale della riforma, vale a di-
re il nesso di causalità tra proprietà fondiaria ed esercizio dei diritti
politici, non poté essere attuato senza le necessarie modulazioni nel-
l’effettiva distribuzione del potere, sulla base delle esigenze di ade-
guamento alle preesistenti peculiarità locali. In ogni modo, in linea
di massima, mentre per il Magistrato era indispensabile la titolarità
di un patrimonio di valore predeterminato, per il Consiglio era suffi-
ciente il possesso d’una qualsiasi proprietà immobiliare o, in alter-
nativa, la qualifica di capofamiglia residente: ai regolamenti locali si
demandava la precisazione quantitativa per i membri dei consessi,
sulla base della consistenza demografica degli enti.
Tuttavia, come premesso, la potenziale operatività connessa all’u-
niformità normativa, da cui si deduceva l’ampiezza teorica dei tito-
lari dei diritti politici, poté trovare piena attuazione soltanto nelle
piccole comunità, giacché nei centri urbani più cospicui fu necessa-
rio un intervento regolamentare ad hoc, che si curasse, in modo par-
ticolare, della definizione dei titoli necessari per l’ammissibilità tra i
sorteggiabili. Ne derivò una distinzione applicativa, attuata local-
mente, che può essere sintetizzata, prendendo in considerazione il
numero delle borse, in quattro casi di massima, distinti per gruppi
di Comuni, dalla quale rimangono escluse, per ora, le considerazio-
ni in merito alle città nobili.
Si può principiare dall’eventualità più complessa, vale a dire la
presenza simultanea di tre borse, delle quali due per il Magistrato
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(la prima per il gonfalonierato, la seconda per il priorato) ed una per


il Consiglio. Potevano aspirare alla carica primaria soltanto coloro i
quali appartenessero già all’oligarchia cittadina tradizionale, a nor-
ma degli antichi Statuti, nonostante fossero sprovvisti dello status
nobiliare, giacché esso era congeniale alle sole patrie nobili. Nono-
stante siffatto presupposto, era necessario il possesso di tali e tante
proprietà quante fossero quelle occorrenti per l’esercizio dell’ufficio
di Priore. Il valore dei beni immobili indispensabile per accedere a
detta carica era variabile da un luogo all’altro e valevole per l’am-
missibilità ai due uffici maggiori, ma prestabilito, mentre per i Con-
siglieri non ne veniva precisata l’entità, poiché era sufficiente esser
meri proprietari. In secondo luogo, l’impiego di due sole borse
avrebbe garantito l’onore di divenire Gonfaloniere al primo sogget-
to trattone, al quale avrebbero fatto seguito i Priori, in via subordi-
nata; mentre i requisiti possessori erano identici ai precedenti. Nella
terza ipotesi, sarebbero state utilizzate ancora due borse, ma, laddo-
ve per la prima valevano le regole appena menzionate, per il Consi-
glio si permetteva l’imborsazione dei proprietari di beni immobili
per qualunque valore, insieme con i capifamiglia abitanti (elemento
nuovo rispetto ai gruppi di enti summenzionati, giacché in quei casi
non si prendeva in considerazione la residenza, per privilegiare in
maniera assoluta il requisito possessorio). Appare chiaro, dunque,
come il nuovo privilegio del principio rappresentativo consentisse
di connettere i diritti politici non soltanto al legame prediale con le
neonate circoscrizioni amministrative, ma, finanche, al più intimo
interesse alla gestione diretta del luogo di residenza familiare (capi-
famiglia residenti). Infine, il sistema più blando prevedeva l’istitu-
zione di una sola borsa e l’insaculazione indistinta di tutti i proprie-
tari, con la distribuzione delle cariche secondo l’ordine d’estrazione,
principiando dal Gonfaloniere e seguitando con i Priori, per finire
con i Consiglieri.
A questo punto, si può tornare, brevemente, alla questione delle
città nobili, le quali, Siena in testa, non potevano esser sottoposte a
delle norme regolamentari che generalizzassero i principi di parteci-
pazione politica prescindendo dalla natura dei diritti quesiti, dete-
nuti dalle compagini oligarchiche d’origine municipale in forza di
una complessa congerie di tradizioni plurisecolari che caratterizza-
vano l’inscindibile legame tra gli assetti socio-economici e politico-
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istituzionali. Proprio in tali contesti urbani s’invertirono le parti: le


strutture istituzionali gemmate sul substrato sociale e politico d’ori-
gine medievale, consolidatosi in età medicea, imposero soluzioni
compromissorie tra istanze riformatrici e controspinte conservatrici.
Prova ne sia la ricerca di formule particolari per la formazione del
Magistrato, vale a dire del cuore decisionale dei nuovi apparati leo-
poldini, poiché non poteva estromettersene la nobiltà, né, ove esi-
stesse come centro d’imputazione di prerogative politiche formaliz-
zato in epoca pre-riformistica, la cittadinanza, a prescindere dalla
proprietà di cespiti immobiliari. Ovviamente, l’idoneità dei soggetti
sotto il profilo censitario, nonostante fosse irrilevante per l’imborsa-
zione, rimaneva un requisito imprescindibile per l’immissione nel-
l’ufficio. Tuttavia, l’esigenza di non pregiudicare il ruolo sociale del-
l’aristocrazia e la funzione politica determinante che essa deteneva
ab immemorabilis, prevalsero sull’instradamento della rappresentan-
za politica verso la borghesizzazione, che presto avrebbe preso il so-
pravvento con l’età rivoluzionaria.
Difatti, si deve rammentare come per il senese, negli anni 1776-
77, fossero state compilate, per ordine del principe, alcune relazioni
sullo stato attuale dei pubblici poteri e fossero state prospettate le
innovazioni ritenute più urgenti. Ma i provvedimenti che ne scaturi-
rono, il 28 ottobre del ’77, si limitarono a modificare talune norme
concernenti l’amministrazione della giustizia e la precisazione delle
incombenze di alcuni uffici, al fine precipuo di prevenire e scongiu-
rare, per quanto possibile, i conflitti di attribuzione40. I suggerimen-
ti più arditi, contenuti negli atti preparatori, restarono sulla carta:
questi, ad esempio, proponevano di trasferire nel sovrano, o nel suo
luogotenente, le facoltà proprie del Concistoro. Viceversa, non solo
le prerogative tradizionali del vetusto e massimo organo di rappre-

40 Si deve riportare alla memoria, fra le novità degne di maggior considerazione, l’istitu-

zione del Deputato civico, che aveva il compito di «far presente direttamente al trono della
R. A. S. l’interesse e vantaggi dell’universale e le ragioni dei suoi concittadini», vigilando, in
particolare, sull’osservanza di «leggi e regolamenti veglianti». Ciò che risalta è l’attribuzione
dell’ufficio, per elezione della Balìa, sempre ad un riseduto, che rilevava alcuni compiti già
appartenuti al collegio cooptante e – cosa ancor più innovativa – veniva posto alle dipen-
denze del sovrano, distaccandosi nettamente dal tessuto delle magistrature cittadine, assu-
mendo le vestigia di un organo burocratico dell’amministrazione granducale. Cfr. Motupro-
prio relativo alla Creazione del Deputato Civico della Città, e Provincia Superiore di Siena del
dì 20 Settembre 1772, in L. CANTINI, Legislazione Toscana, cit., vol. XXX, pp. 293-296.
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sentanza, tutela e perpetuazione della nobiltà furono confermate41,


ma gli fu attribuito un ruolo del tutto nuovo e insperato. Esso acqui-
sì la giurisdizione esclusiva (privativa, come si diceva a quel tempo),
tra l’altro, sulle cause dei minori, dei cavalieri di Santo Stefano, del-
l’Ospedale di Santa Maria della Scala, su fedecommessi e successioni
in genere, sull’esecuzione delle leggi, sulla manomorta, su beni eccle-
siastici e monasteri di monache. Quest’organo – ora chiamato Magi-
strato Supremo del Concistoro – ebbe addirittura le competenze fino
allora spettanti al giudice ordinario, ossia ampia giurisdizione nella
giustizia civile – campo delicatissimo in quel momento, per effetto
delle devoluzioni e allivellazioni dei patrimoni degli enti –. Il conses-
so si riuniva, di regola, tutte le settimane, con una notevole parteci-
pazione dei suoi membri, e, avendo ereditato le competenze della
Balìa, si trovò, in buona sostanza, al timone della residua autonomia
municipale, esercitata soprattutto attraverso un’attività di coordina-
mento e di controllo, giacché gli affari correnti finivano per essere
normalmente compito degli eletti alle cariche principali: il camerlen-
go, l’assessore, il provveditore del Comune erano gli ufficiali operati-
vi, accanto al cancelliere, che sapeva condizionare, con discrezione,
l’attività del Magistrato, in virtù della sua preparazione tecnica e del-
l’esperienza maturata col prolungarsi del tempo nell’ufficio.
A mero rigor di cronaca, si deve ricordare anche il Consiglio Ge-
nerale della città, che vedeva la propria maggioranza eletta col cen-
so più basso, ma da un insieme eterogeneo di circa 1.400 individui,
comprensivo di persone dalla modesta condizione, per cui era pos-
sibile che venissero estratti diciotto nominativi di soggetti solidali
nel contestare i dodici possidenti del Magistrato: possibile, ma im-
probabile. Il rischio che il ceto dirigente correva era molto limitato,
poiché il Consiglio aveva competenze importanti ma ben circoscrit-
te e si riuniva solo quattro volte l’anno, soprattutto per discutere i
bilanci del Comune.

41 Il Concistoro, cui spettava il primato storico-ideale tra le magistrature cittadine (giac-

ché, fin dalla metà del XV secolo – come si è avuto modo di dimostrare – il ruolo politico di
primo piano apparteneva alla Balìa) era «il depositario, l’espressione istituzionale, il simbolo
vivente [...] dell’unità e della libertà della patria, del suo passato glorioso, delle sue antiche
tradizioni, che sopravvivono, gelosamente custodite, ad onta dei tempi nuovi e della mal tol-
lerata dominazione fiorentina»: in buona sostanza, la sua importanza socio-politica trascen-
deva la somma dei poteri accordatigli dall’ordinamento giuridico. Cfr. D. MARRARA, Studi
giuridici sulla Toscana medicea, cit., pp. 122-123.
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La fine del monopolio politico della nobiltà senese fu sancita


– come più volte ricordato – dalla riforma municipale del 29 agosto
1786. Gli aristocratici perdevano, certo, l’esclusiva del potere nel-
l’ordinamento comunale, ma mantenevano pur sempre il diritto alla
metà dei seggi nel più importante collegio civico, compreso l’ufficio
più prestigioso, quello di Gonfaloniere. Restò soppressa la Balìa,
espressione tradizionale della loro volontà e dei loro interessi, che,
fino a quel momento, si erano identificati, ope legis, con la volontà e
con gli interessi dell’intera comunità cittadina. Venne lasciato so-
pravvivere, in buona sostanza, il magistrato che assicurava istituzio-
nalmente la continuità storica del loro ordine – la Signoria concisto-
riale –, il quale doveva, anche nell’avvenire, «servire di norma,
egualmente che per il passato, per desumerne la nobiltà di Siena, e
le prove da farsene nelle diverse occorrenze». Il lungo travaglio del-
le riforme, attuate o soltanto ideate, del Settecento, si concludeva,
perciò, con una chiara soluzione di compromesso.
La Comunità civica istituita da Pietro Leopoldo, ultima in Tosca-
na – a dimostrazione degli ostacoli che la città seppe frapporgli –,
non significò soltanto l’abolizione delle istituzioni più risalenti, re-
taggio della gloriosa Repubblica, ma, in particolare, l’isolamento
dalla sua campagna, ove le comunità istituite con i medesimi criteri
– in base al riordino generale che ne aveva, oltretutto, drasticamente
ridotto il numero – già operavano dal 1777. Siena fu collocata su un
piano di parità con i Comuni circostanti, concepiti come aziende af-
fidate alle cure di chi vi avesse proprietà, anziché altisonanti titoli
storici. Come ai professori e ai giudici era la preparazione tecnica, e
non la nobiltà, che doveva conferire i titoli per l’esercizio della fun-
zione, così, ora, alle cariche pubbliche avrebbe portato non l’appar-
tenenza ai tradizionali Monti ma il merito economico e l’interesse
personale.
La riforma fu, quindi, molto incisiva, e Siena – fino allora un
tutt’uno con il suo Stato – diveniva, nell’ottica di Pietro Leopoldo,
un ente locale come tutti gli altri, per di più controllato da vicino da
un Luogotenente: i nobili non avrebbero più potuto vivere di rendi-
ta sulle Masse e sullo Stato tralatizio.

6. I rilievi conclusivi, data per assodata la capacità dell’aristocra-


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zia di dar fondo al proprio istinto di sopravvivenza, facendo di ne-


cessità virtù, puntando sull’esperienza plurisecolare nella vita politi-
ca e amministrativa per dimostrare ad ogni occasione propizia un
potere nettamente superiore a quello che, sulla carta, avrebbe dovu-
to dedursi dal numero di voti di cui poteva disporre, devono pren-
dere le mosse dai provvedimenti che, da un lato, vietarono l’istitu-
zione di nuove primogeniture e fedecommessi (1789) e, dall’altro,
consentirono l’ingresso nell’alveo delle professioni di cancelliere e
notaio (1790)42, dimostrando la prosecuzione sulla strada delle
riforme eversive dei privilegi nobiliari. Tuttavia, nel corso del decen-
nio successivo, gli eventi rivoluzionari condizionarono l’atteggia-
mento riformatore, tanto da ingenerare una reviviscenza della spe-
ciale considerazione da riservarsi ai patriziati cittadini, con la rivalu-
tazione delle certificazioni dello status socio-politico privilegiato ri-
conosciute nei Libri d’oro, dei quali si ordinò la rivisitazione e ma-
nutenzione (1792). Per di più, l’anno successivo (1793), furono pre-
si ulteriori provvedimenti conservativi in merito alla tenuta ed ag-
giornamento dei registri in parola, al fine della corretta perpetuazio-
ne dei titoli e stemmi nobiliari, in vista del rilascio delle attestazioni
a tale riguardo e, man mano, furono rimossi anche i premenzionati
veti sull’impiego di maggiorascati e disposizioni fidecommissorie
(1791-1797). Un ulteriore riferimento paradigmatico, esemplificati-
vo delle ambigue tendenze post-rivoluzionarie negli atteggiamenti
del vertice di governo, è dato dall’istituzione, nelle quindici città no-
bili, del Presidente delle vettovaglie, da nominarsi per volontà sovra-
na tra i soggetti di nobili natali: all’aristocrazia si affidava l’immane
responsabilità, «tanto importante (soprattutto in quel momento!), di
conservare l’ordine sociale, assicurando a tutti i concittadini un’im-
parzial giustizia»43.
L’antico Stato senese, dunque, che aveva già subito la divisione
per province (1765-66) e la riforma municipale (1777: provincia supe-
riore e 1786: Siena) leopoldine, persa definitivamente ogni traccia
dell’antica individualità istituzionale, dopo la parentesi del Regno

42 Per un’approfondita disamina delle problematiche concettuali e giuridiche concer-

nenti le due professioni menzionate, supportata da una folta appendice documentaria, si ve-
da E. PANICUCCI, Alcune osservazioni sul notariato nel Settecento toscano, in «Ricerche Stori-
che», XXVIII-1 (gennaio-aprile 1998), pp. 23-62.
43 Cfr. D. MARRARA, Riseduti e nobiltà, cit., p. 209.
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d’Etruria (1801-1807), nell’arco di poco più d’un ventennio dalle


predette innovazioni attuate da Pietro Leopoldo, giunse al fraziona-
mento dipartimentale napoleonico (1808: Dipartimento dell’Ombro-
ne, con capoluogo Siena) e identico stravolgimento subirono le isti-
tuzioni tralatizie44.
La nuova riforma comunale, approvata sullo scorcio del 1808, se-
gnò la fine del processo di superamento del compromesso leopoldi-
no, che aveva caratterizzato l’ultima fase dei difficili rapporti tra la
nobiltà e le nuove forze sociali, principiato nella primavera del me-
desimo anno con l’insediamento della Giunta straordinaria per am-
ministrare e governare lo Stato della Toscana e l’emanazione di mol-
teplici provvedimenti di portata costituzionale, intrisi dei principi
ispiratori della legislazione allora vigente in Francia in tema di eser-
cizio delle prerogative politiche45.
Il censo assurse a criterio discriminante per l’elettorato passivo,
segnando la definitiva cesura con qualunque privilegio nobiliare in
tema di diritti politici, ma l’impianto strutturale delle istituzioni de-
tentrici delle potestà d’esercizio delle prerogative proprie del pub-
blico potere, edificato sulle basi della vigorosa centralizzazione na-

44 Si noti come la legge istitutiva della Comunità di Siena (29 agosto 1786) avesse con-

fermato la «storica effettività di un sistema patrizio di dominio, e di rappresentanza, che so-


lo in parte la riforma era riuscita a scalfire» (cfr. B. SORDI, L’amministrazione illuminata.
Riforma delle comunità e progetti di costituzione nella Toscana leopoldina, cit., p. 311), dando
motivo di ritenere, a posteriori, che non fosse stata affatto casuale l’evenienza d’esser stata
l’ultima realtà socio-istituzionale sottoposta all’opera riformatrice principiata nel 1772, poi-
ché, evidentemente, non si trattava soltanto di una roccaforte nobiliare, ma, finanche, del
fulcro di un territorio che conobbe l’unificazione amministrativa – forzata – soltanto sotto la
dominazione francese. In merito alle questioni in oggetto, ampiamente analizzate in una
prospettiva comparata, si veda A. SAVELLI, Un confronto politico tra Firenze e Siena: la rifor-
ma delle magistrature senesi in età leopoldina, in «Ricerche Storiche», XXV-1 (gennaio-apri-
le 1995), pp. 61-109. L’Autrice, in evidente accordo con le linee interpretative sostenute nel-
la trattazione in corso, ricorda come ancora «nella seconda metà del XVIII secolo lo Stato
di Siena (o Stato Nuovo) conserva[sse] i tratti fondamentali costitutivi dell’autonomia sanci-
ta dalla Reformatione cosimiana: un ordinamento normativo a sé; la presenza di organi di
governo, istanze giudiziarie e amministrative diverse da quelle del territorio fiorentino» (ivi,
p. 61), ritenendo determinanti i fattori, «oltre che giuridici, di natura politico-sociale» (ivi,
p. 63), che «configura[ro]no lo Stato di Siena quale realtà capace di resistere al completo as-
sorbimento nella compagine del Granducato» (ibidem) e affermando la necessità di «tener
conto di questi diversi fattori [...] nel prendere in esame il dibattito sulle riforme istituziona-
li dello Stato Nuovo» (ibidem).
45 Sull’operato della Giunta, istituita in data 12 maggio 1808, si veda G. PANSINI, I mu-

tamenti nell’amministrazione della Toscana durante la dominazione napoleonica, in AA. VV.,


La Toscana in età rivoluzionaria e napoleonica, a cura di I. TOGNARINI, Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane, 1985, pp. 553-579.
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poleonica, «non appariva certo diretto a dar vita ad una genuina


esperienza di autogoverno, neppure nell’ambito delle amministra-
zioni civiche»46.
Neanche Napoleone Bonaparte fu capace di scomporre definiti-
vamente gli assetti socio-istituzionali tralatizi, rimanendo impotente
dinanzi alle dinamiche di mobilità della stratificazione sociale pluri-
secolare47, che avrebbe goduto ancora di qualche decennio d’auto-
nomia sostanziale, prima di subire gli scossoni significativi da cui sa-
rebbe derivato il riposizionamento politico dell’antica aristocrazia
senese.

46 Cfr. D. MARRARA, Riseduti e nobiltà, cit., p. 211.


47 In merito al regime imperiale e alla verifica dell’entità delle trasformazioni nell’appa-
rato istituzionale-amministrativo e, soprattutto, nella struttura sociale del ceto dirigente cit-
tadino, per mezzo di una disamina approfondita dei fenomeni che determinarono gli assetti
socio-economici e politico-istituzionali all’epoca di una mutazione di rotta che fu decisiva
per la storia senese, si raccomanda il volume: L. VIGNI, Patrizi e bottegai a Siena sotto Napo-
leone. Il notabilato urbano di primo Ottocento nell’economia, nella politica e nell’amministra-
zione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1997, passim.
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VI
METODOLOGIA E TECNICHE DELLA RICERCA:
RISORSE, PARADIGMI E PROSPETTIVE

1. PREMESSE: METODOLOGIA E AMBITO DISCIPLINARE

Negli ultimi decenni, gli studi di storia familiare hanno destato


l’interesse dei ricercatori in misura sempre crescente1. Ma non è il
dato puramente statistico ad attrarre l’attenzione2, poiché all’origine
dell’incremento vorticoso degli studi in parola si pone certamente –
oltre il superamento dell’intento meramente encomiastico e laudati-
vo – il raggiungimento della piena consapevolezza scientifica in me-
rito al valore dell’indagine di tal fatta, per scrutare l’universo delle
dinamiche sociali di lungo periodo, da svilupparsi entro un campo
d’esplorazione certo e determinato, attraverso la specola insostitui-
bile rappresentata dalle entità familiari.

«A ben vedere, infatti, il circuito degli interessi, degli affetti, delle attività
economiche e delle relazioni sociali intraprese all’interno di una struttura pa-
rentale come la famiglia monogamica occidentale, individua un sistema di os-
servazione omogeneo nello spazio e sufficientemente dilatato nel tempo, le cui
vicende riassumono in un ambito compatto e privo di discontinuità diacronica
sia la funzione culturale dell’elaborazione e della trasmissione dei valori domi-
nanti in seno ad una società data, sia anche i modi di legittimazione che ne

1 Cfr. M. A. VisCegliA, Introduzione, in AA.VV., Signori, patrizi, cavalieri nell’età mo-

derna, cit., pp. V-XXXiii: XXi-XXVi (3. Famiglie e identità aristocratiche).


2 si veda la voce famiglia, storia della, a cura di N. gAllerANo, in AA.VV., Dizionario

di storiografia, Milano, Mondadori, 1996, pp. 372-374. in particolare, l’A. sottolinea sia «gli
enormi passi avanti che gli studi sulla famiglia presi nel loro complesso hanno fatto compiere
alla conoscenza dei meccanismi sociali in età moderna e contemporanea», sia la permanenza
di «molti nodi irrisolti, legati all’ambiguità della nozione stessa di famiglia», giacché, con due
prospettive contrapposte, gli «storici la considerano […] dall’esterno, come una delle istitu-
zioni della vita sociale, in una prospettiva di storia della società; o dall’interno, come un mi-
crocosmo dove l’accento dell’analisi cade sul ruolo delle sue singole componenti e sui loro
rapporti reciproci».
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fondano ed impongono poi la validità e l’efficacia. In campo teoretico, l’intui-


zione è peraltro antica, se fin da Jean Bodin non se’è mancato di ribadire la
convinzione che esista una continuità organica tra la cellula familiare (che è
“vraye image de la République”) e la struttura statale: che, insomma, l’ottica
ricostruttiva dell’esperienza familiare ripercorra necessariamente anche situa-
zioni strutturali, quadri di valore, modi di elaborazione culturale, i quali, a lo-
ro volta, consentono di cogliere – nell’àmbito in apparenza soltanto angusto
del microcosmo domestico – anche il pulsare di tensioni provenienti dal
profondo del tessuto sociale e politico. Coltivando analoga via di riflessione,
l’avrebbe poi detto anche Giambattista Vico che le famiglie sono “il semina-
rio” delle repubbliche, e che nella loro analisi si colgono “l’origini degl’imperi
pubblici che nacquero dall’unione degl’imperi paterni-sovrani nello stato delle
famiglie”. E sarebbe stata simile anche la via battuta da Montesquieu,
quand’egli poi, di lì a poco, avrebbe indicato, prima nelle Lettres persanes, poi
nell’Esprit des lois, che il bene privato delle singole unità domestiche diviene,
entro il sistema delle leggi, il bene pubblico delle nazioni. Sicché si sarebbe
ben presto ricostruita, nella convinzione dei Savants, l’opinione consolidata
che un’intima solidarietà lega costantemente la vicenda familiare al quadro
complessivo delle relazioni sociali ed istituzionali»3.

Appaiono a tutt’oggi pienamente validi i richiami di Bodin4, di


Vico5, di Montesquieu6, nonostante siano ben più elementari ed

3 Cfr. M. MoNtorzi, Introduzione, in D. BArsANti, I Cosi del Voglia. Ascesa e decaden-

za di una famiglia nobile pisana attraverso l’Ordine di S. Stefano, Pisa, edizioni ets, 2001,
pp. 7-13: 7-8; iDeM, Crepuscoli granducali. Incontri di esperienza e di cultura giuridica in
Toscana sulle soglie dell’età contemporanea, Pisa, edizioni ets, 2006, pp. 41-42.
4 J. BoDiN, Les six livres de la République, à Paris, Chez iacques du Puis, libraire iuré, à

la samaritaine, 1583, (ristampa anastatica, Aalen, scientia Verlag, 1961): «la famille bien con-
duite, est la vraye image de la republique, & la puissance domestique semble à la puissance
souveraine: aussi est le droit gouvernement de la maison, le vray modelle du gouvernement de
la republique. et tout ainsi que les membres chacun en particulier faisant leur dvoir, tout le
corps se porte bien: aussi les familles estans bien gouvernees, la republique ira bien»; cfr. ivi,
i, cap. ii, p. 11.
5 g. B. ViCo, Principj di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, in

questa terza impressione dal medesimo autore in un gran numero di luoghi corretta, schiarita,
e notabilmente accresciuta, (1725-1744), in iDeM, Opere, a cura di F. NiColiNi, Milano-Napo-
li, riccardo ricciardi editore, 1953, pp. 365-905: «i matrimoni, […] come tutt’i politici vi
convengono, sono il seminario delle famiglie, come le famiglie lo sono delle repubbliche»
(ivi, p. 374, cpv. 11); «sgorgano, come da un gran fonte più fiumi, l’origine delle città, che
sursero sopra le famiglie non solo de’ figliuoli ma anco de’ famoli (onde si truovarono natural-
mente fondate sopra due comuni: uno di nobili che vi comandassero, altro di plebei ch’ubbi-
dissero; delle quali due parti si compone tutta la polizia, o sia la ragione de’ civili governi); le
quali prime città, sopra le famiglie sol di figliuoli, si dimostra che non potevano, né tali né di
niuna sorta, affatto nascer nel mondo; l’origine degl’imperi pubblici che nacquero dall’unione
degl’imperi privati paterni-sovrani nello stato delle famiglie» (ivi, p. 383, cpv. 25).
6 C. l. De seCoNDAt De MoNtesquieu, Lettres persanes, (1721), 12 (Usbek au même
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agevolmente tangibili le parabole che ridiscendono verso l’adegua-


tezza di un insegnamento così risalente e pur tanto attuale nella sua
vitalità, per scrivere la storia della nobiltà civica. Difatti, l’evoluzione
istituzionale e statale nella Toscana moderna, soprattutto riguardo
allo Stato nuovo, come si è cercato di raccontare, appariva indubita-
bilmente frenata se posta in relazione con i sistemi politici peninsu-
lari e, finanche, continentali, e se si considera che l’impatto del ten-
tativo assolutistico mediceo e riformatore lorenese «fu tanto più for-
te e dirompente, quanto più quegli interventi si trovarono ad incide-
re su una realtà cittadina, ove gli intrecci gentilizi, corporativi e fa-
miliari avevano sovente fornito un sostegno ed una supplenza con-
sortile al rallentato decollo nel Granducato di un processo di mo-
dernizzazione statale»7.
D’altro canto, allorquando si auspichi lo studio dei ceti dirigenti
toscani, non si può certo prescindere dall’Ordine dei Cavalieri di
Santo Stefano, poiché non v’è alcun dubbio che la Religione in paro-
la trovò le sue ragioni di nascita e sopravvivenza in quelle che, più
generalmente, contraddistinsero gli Ordini militari e cavallereschi
durante l’età moderna: vale a dire, l’impiego della dignità equestre
da parte dei sovrani per legare a sé l’aristocrazia, al fine di fugare le
minacce gravanti sul consolidamento del potere monarchico – il che,
pare ovvio, aveva un plusvalore non indifferente in terra toscana –,
nonché, per converso, l’utilizzazione degli Ordini nobili da parte
delle élites dirigeantes per difendere le prerogative sociali tralatizie e
perpetuare il predominio politico sia rispetto agli altri gruppi sociali,

[Mirza] à Ispahan [alors capitale de la Perse]. D’Erzeron, le 6 de la lune de Gemmadi 2


[Août], 1711): «De tant de familles, il n’en resta que deux qu’échappèrent aux malheurs de la
Nation. il y avait dans ce pays deux hommes bien singuliers: ils avaient de l’humanité; ils
connaissaient la justice; ils aimaient la vertu. […] ils travaillaient avec une sollicitude com-
mune pour l’intérêt commun; ils n’avaient de differends que ceux qu’un douce et tendre ami-
tié faisait naître […]. tout leur attention était d’élever leurs enfants à la vertu […]; ils leur fai-
saient sourtout sentir que l’intérêt des particuliers se trouve toujors dans l’intérêt commun;
que vouloir s’en séparer, c’est vouloir se perdre; que la vertu n’est point une chose qui doive
nous côuter; qu’il ne faut point la regarder comme un exercice pénible; et que la justice pour
autrui est une charité pour nous. ils eurent bientôt la consolation des pères vertueux, qui est
d’avoir des enfants qui leur ressemblent. le jeune peuple qui s’éleva sous leurs yeux s’accrut
par d’hereux mariages: le nombre augmenta; l’union fut toujours la même, et la vertu, bien
loin de s’affaiblir dans la multitude, fut fortifieé, au contraire, par un plus grand nombre
d’exemples», cfr. iDeM, Œuvres complètes, a cura di D. oster, Paris, aux editions du seuil,
1964, p. 69; si veda anche, per completezza: Esprit des lois, (1748), ivi, pp. 585 ss.
7 Cfr. M. MoNtorzi, Introduzione, cit., in D. BArsANti, I Cosi del Voglia, cit., p. 10;

iDeM, Crepuscoli granducali, cit., p. 43.


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sia, soprattutto, dinanzi alla crescente autorità della monarchia.


Ma, una volta appurate le ragioni più comuni della vestizione del-
l’abito equestre, occorre ricordare come, di fatto, tra il settimo de-
cennio del secolo XVI e la metà del secolo XIX, la croce di cavalie-
re stefaniano fosse divenuta il segno più ambito per dimostrare lo
status nobiliare peculiarmente connesso con la preponderanza so-
cio-economica ed il monopolio delle prerogative politico-istituzio-
nali: e, per l’appunto, i cavalieri provenienti dalle casate più facolto-
se e di reggimento si distribuirono su un arco temporale di quasi tre
secoli, attraversando tutta l’epoca del Principato e il passaggio di di-
nastia, dai Medici ai Lorena, per arrivare fino alle soglie dell’Unità
d’Italia8. La costante gratificazione della vestizione fu ottenuta in
forza delle norme statutarie di agnizione della nobiltà – poi consoli-
date dalla nobilitazione legale derivativa, a partire dal 17509 –, pur

8 Non deve certo stupire un arco temporale così ampio, né, tanto meno un’epoca così tar-

da di sopravvivenza della vestizione cavalleresca. Nell’ultima fase di vita dell’ordine (ricosti-


tuito da Ferdinando iii nel 1817 e definitivamente soppresso dal governo provvisorio di Betti-
no ricasoli nel 1859), per esempio, la funzione della commenda di grazia mutò sostanzial-
mente, allorché, in ragione dell’esponenziale espansione della burocrazia granducale sotto
leopoldo ii (25 agosto 1824 – 27 aprile 1859), si trasformò in una vera e propria retribuzione
integrativa per i funzionari più meritevoli e diligenti inseriti nel ristretto entourage dell’alta
amministrazione. i funzionari-cavalieri ottenevano, oltre l’indubbio vantaggio economico, un
prestigioso riconoscimento giuridico e sociale, in un’epoca in cui gli eventi rivoluzionari e le
riforme napoleoniche avevano attenuato l’antica abitudine delle famiglie aristocratiche di con-
solidare il proprio status attraverso matrimoni nobili, impedendo la conservazione dei quattro
quarti di nobiltà, necessari alla vestizione per giustizia. in definitiva, la commenda di grazia
divenne, nell’epoca più tarda della storia dell’ordine, il mezzo più semplice per ricevere l’o-
nore dell’abito stefaniano, nonché la tipologia più importante, andando a rilevare il posto della
commenda di padronato, ormai ritenuta uno strumento troppo costoso e anacronistico di avan-
zamento sociale. Per una visione quanto più esaustiva possibile in materia di commende stefa-
niane, si vedano: D. BArsANti, Le commende dell’Ordine di S. Stefano attraverso la cartogra-
fia antica, cit., passim; iDeM, Introduzione storica sulle commende dell’Ordine di S. Stefano,
cit.; AA.VV., Atti del Convegno «Le commende dell’Ordine di Santo Stefano», cit., passim;
AA.VV., Atti del Convegno «La commenda di grazia dell’Ordine di Santo Stefano nell’Otto-
cento», cit., passim. Per l’aspetto prettamente normativo, cfr. Statuti, cit., tit. Xiii (Delle Com-
mende ed amministrazioni), pp. 271-298.
9 si è già avuto modo di chiarire, in via preliminare, come la Legge del 1750, nel quinto

articolo, permettesse l’ascrizione immediata al patriziato toscano con la mera dimostrazione


dell’ammissione per giustizia all’ordine stefaniano. Cfr. Legge, art. V: «tralle famiglie Nobili
delle respettive antiche Città ordiniamo, che nella classe de’ Patrizj si descrivano tutte le Fa-
miglie Nobili, di cui sono state ricevute le provanze per giustizia al Nostro ordine di s. stefa-
no, e tutte le altre Famiglie Nobili, che in virtù di qualunque altro requisito enunciato nel §. i.
proveranno la continovazione della propria Nobiltà per lo spazio almeno di anni dugento com-
piti». in tal modo, in piena epoca riformistica lorenese, si riconosceva ex lege il ruolo impre-
scindibile che le norme e prassi della religione in parola avevano consolidato in materia di ri-
cognizione dello status nobiliare. se, da un lato, le casate dell’antica aristocrazia non avevano
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essendo esse divenute sempre più rigide in ragione delle Addizioni


apportate negli anni 1617, da Cosimo II, 1665, all’epoca di Ferdi-
nando II e 1746, in età lorenese, dall’ Imperatore Francesco I,
Granduchi di Toscana e Gran Maestri dell’Ordine di Santo Stefano.
Senza dubbio, alla severità normativa corrispondeva un criterio ri-
gorosamente selettivo, cui faceva da contraltare l’indiscutibilità del-
la continovazione dinastica – aristocratica ed oligarchica –, secondo
peculiarità indefettibili, sia nell’architettura sociale, sia nell’ingegne-
ria istituzionale.
Il fenomeno non può certo passare inosservato, laddove si consi-
deri come la mole e la natura delle fonti prodotte dall’istituzione in
oggetto assuma un valore inestimabile per lo studio dei ceti dirigenti
che intenda avvalersi della famiglia quale asse portante della ricerca.
«La mentalità, l’ideologia, la cultura medesima dei protagonisti della vicenda
plurisecolare degli Ordini, sono tutte permeate, trasudano di elementi che han-
no nella famiglia – inteso come insieme ininterrotto di ascendenti e di discen-
denti – il loro punto di riferimento unico e centrale. Tra Cinque e Settecento,
quando si chiedevano abiti di cavaliere o si fondavano commende, si ragionava
non come individui, ma come elementi, frammenti quasi, di quel continuum che
era la famiglia, con il suo patrimonio di beni materiali, ma anche immateriali,
quali la fama, il prestigio, l’onore, la tradizione, la memoria. […] Del resto […]
tanta della documentazione accumulata negli archivi degli Ordini, non per caso
attiene alle famiglie e a individui che vengono colti come elementi di esse, come
punti di quella lunga serie che è la “casata”. E di fatto gli archivi degli Ordini
militar-cavallereschi finirono molto in fretta per diventare anche importanti e
vasti depositi documentari, talora ufficialmente riconosciuti come tali da auto-
rità statali e consulte araldiche, dei ricordi e delle testimonianze, specie quelle
genealogiche, delle famiglie che in essi avevano inviato i loro membri»10.

Or dunque, si può pacificamente sostenere come, data per assun-


ta l’adozione della nobiltà civica senese quale oggetto di studio, da

mai assegnato alla croce stefaniana un valore determinativo del loro prestigio, attribuendogli,
piuttosto, una funzione confermativa, seppur tutt’altro che irrilevante, dall’altro, per la parte
più recente del ceto dirigente toscano, affermatasi nel corso dell’età medicea, l’istituzione no-
biliar-cavalleresca venne ad assumere un ruolo costitutivo fondamentale. Per uno studio ap-
profondito sul fenomeno in parola, si veda F. ANgioliNi, I Cavalieri e il Principe. L’Ordine di
S. Stefano e la società toscana in età moderna, cit., passim.
10 Cfr. F. ANgioliNi I Cavalieri e il Principe. L’Ordine di S. Stefano e la società toscana

in età moderna, cit., pp. 145-146; si veda inoltre, più approfonditamente, tutto il cap. Vii
(Strategie familiari e Ordine di S. Stefano), pp. 143-160, corredato, in nota, da una copiosa bi-
bliografia tematica.
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inserirsi nell’ambito disciplinare storico-istituzionale, lo strumento


metodologico indubitabilmente più adeguato al fine di ricostruire le
vicende evolutive e la storia del ceto dirigente che per almeno cin-
que secoli resse le sorti politiche della «Città e Stato di Siena», sia
rappresentato dalla storiografia familiare.

2. IL PARADIGMA DEGLI UGURGIERI NEL SISTEMA DELLE FONTI

In tutta la congerie di eventi storici, di statuizioni normative, di


risvolti politici, di mutamenti sociali, economici e, di conseguenza,
istituzionali, il ceto dirigente senese permase scoglio immobile nella
tempesta; e se bastione ne fu il quadrilatero dei Monti, faro innalza-
to su di esso si mostrò essere il Mons Nobilium, nel quale si annove-
ravano le famiglie della più antica aristocrazia, tra le quali spiccava
la prosapia degli Ugurgieri.
L’indagine concernente il Monte dei Gentiluomini e, quindi, le
vetuste schiatte del ceto dirigente senese che affondavano le radici
nell’epoca più risalente delle istituzioni cittadine, insignite della no-
biltà civica in ragione della copertura dei supremi onori municipali e
ammesse, quasi tutte, nell’Ordine dei cavalieri di Santo Stefano,
nonché alla classe del patriziato toscano, in ambedue i casi in virtù
del detto status, prescritto quale elemento fondamentale sia dagli
statuti della Religione in questione, sia dalla Legge sulla nobiltà e cit-
tadinanza del 1750, deve concentrarsi su una documentazione, per
la maggior parte, di natura archivistica e inedita.
Innanzi tutto, le notizie generali, dalle origini all’eventuale inur-
bamento (con particolare riferimento ai rami cadetti delle famiglie
feudali: i cosiddetti «nobili veniticci»), all’inserimento nel governo
cittadino attraverso la residenza nelle supreme magistrature munici-
pali (prima del 1277, nella breve parentesi 1460-1464 e all’epoca
della definitiva riammissione, a partire dal 1480), nonché la perma-
nenza nel ceto dirigente per mezzo degli altri magistrati ed impieghi
pubblici (tra il 1277 e il 1480), trovano riscontro nei manoscritti e
nei fondi dedicati alle istituzioni comunitative, custoditi presso l’Ar-
chivio di Stato di Siena11.

11 i fondi archivistici indispensabili per la ricostruzione delle origini concernenti le con-


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Si noti come le informazioni della medesima specie sarebbero più


facilmente accessibili se reperite essenzialmente attraverso i mano-
scritti, nell’ordine, del Mocenni, del Manenti e del Falorsi; ma le
raccolte in questione rappresentano delle mere compilazioni priva-
te, costruite attraverso la consultazione delle fonti ufficiali. Quindi,
allorquando da un’attenta analisi si riscontrassero delle imprecisio-
ni, delle discordanze tra le epoche o i dati anagrafici e, di conse-
guenza, si nutrissero dubbi sull’attendibilità dei riferimenti riportati
nei codici, sarebbe comunque d’uopo attingere dalle fonti docu-
mentarie ufficiali, custodite nei fondi nominatamente specificati ne-
gli appositi inventari.
In secondo luogo, i fascicoli istruiti dalla Deputazione sulla no-
biltà e cittadinanza, conservati nell’Archivio di Stato di Firenze,
possono agevolmente fornire un’esaustiva base documentale per la
verifica delle aggregazioni alla classe superiore della nobiltà toscana.
Dalle informazioni presentate alla deputazione lorenese è possibile
riscontrare quanto fu facile per gli aristocratici della Repubblica
adattarsi al regime del Principato, instaurando una peculiare forma
di compromesso che permise loro di confermare il proprio ruolo
egemone nell’ambito dei nuovi uffici del Granducato. Le testimo-
nianze documentarie addotte, con particolare riguardo a quelle che
esulavano dalle prove esplicitamente previste (fossero esse informa-

sorterie più eminenti, raggruppate nel Mons Nobilium, sono principalmente: Assi, Concisto-
ro, Attestati di nobiltà e carte annesse; Notizie e documenti provanti la nobiltà. Assi, Partico-
lari famiglie senesi, Documenti. Assi, Manoscritti, A. sestigiANi, Compendio istorico di sa-
nesi nobili per nascita, illustri per attioni, riguardevoli per dignità, raccolto come si dimostra
da diversi autori, che hanno stampato da manuscritti antichi, e moderni, da archivi, da con-
tratti pubblici e da scritture esistenti appresso persone particolari, ii, siena, 1696, A 30/iii;
iDeM Ordini, armi, residenze e memorie di famiglie nobili di Siena, ii, siena, prima metà del
sec. XViii, A 14; C. CittADiNi, Notizie di tutte le fameglie nobili sanesi che sono esistenti nel
presente anno 1713 e precisamente qui raccolte riguardo alla prima memoria che si trova
delle persone di ciascuna d’esse ne’ libri, ne’ contratti, e scritture de’ pubblici archivij d’haver
conseguito l’onori pubblici d’offizij, e cariche nobili della città di Siena, siena, 1713, A 8; A.
FAlorsi, Riseduti nel Concistoro ascritti al Monte dei Gentiluomini, relativi alle famiglie feu-
dali del contado senese esistenti nel 1714, i, siena, 1714, A 64; iDeM, Riseduti in magistrature
della Repubblica di Siena appartenenti alle famiglie originarie ed aggregate al Monte dei
Gentiluomini, estinte ed esistenti nel 1717, siena, 1717, A 61; g. BiChi, Cenni genealogici di
famiglie nobili senesi che hanno assunto altro cognome, siena, 1722, A 60; A. Aurieri, Rac-
colta di notizie delle famiglie nobili di Siena, tratte da cronache di vari autori, siena, prima
metà del sec. XiX, A 20. inoltre, si deve tenere ben presente che, solitamente, le fedi di batte-
simo venivano tratte dall’Archivio della Biccherna (libri dei Battezzati), le fedi di matrimonio
dall’Archivio della gabella dei contratti (libri Ducali), le fedi dei godimenti dall’Archivio del-
le riformagioni (libri dei Leoni).
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zioni ritenute semplicemente superflue o, piuttosto, insinuanti dub-


bi e perplessità nel giudizio dei deputati), assumono un interesse
ancor maggiore12.
Infine, l’Archivio di Stato di Pisa rappresenta la fonte indispensa-
bile per l’acquisizione di tutte le carte concernenti le relazioni delle
famiglie con l’ordine equestre, fornendo da un lato, in via diretta,
tutti i punti di riferimento per segnare le tappe dell’iter di ammis-
sione alla vestizione dell’abito scudocrociato e dall’altro, trasversal-
mente, una serie di spunti e informazioni preziosi per delineare il
profilo delle più importanti consorterie senesi e toscane13.
***
A dimostrazione dell’attendibilità e dell’efficienza del metodo
storiografico familiare, sostenuto dall’inconfutabilità delle prove de-
sunte dalle fonti archivistiche, si tracciano sinteticamente, seguendo
le tecniche di ricerca or ora delineate, le vicende concernenti la pro-
sapia degli Ugurgieri, ascritta, per l’appunto, al Monte senese dei
Gentiluomini, detentrice dello status nobiliare ed ammessa nell’Or-
dine dei cavalieri di Santo Stefano, nonché alla classe del patriziato
toscano.

3. PROBATIO DIABOLICA

1. Gli Ugurgieri, i quali «della loro sì illustre discendenza conser-


vano autentici documenti, in gran numero di contratti, per cui fan-
no pruova di circa 900 anni di chiara Nobiltà, pregio certamente
singolare, e che a poche Famiglie è stato in sorte di avere», furono
annoverati tra i «Grandi» della città di Siena14.

12 in specie: AsFi, Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza, giustificazioni.


13 innanzi tutto: AsPi, Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano, Provanze; Apprensioni d’a-
bito; suppliche e informazioni; libri di esequie; strumenti di fondazione di commende di pa-
dronato; strumenti della religione. si veda, in funzione paradigmatica, la tavola iii, dalla quale
in un sol colpo, possono reperirsi schematicamente una serie diversificata di notizie, tratte dalle
fonti documentarie archivistiche (nascite, battesimi, matrimoni, estrazioni dalle borse pistoiesi
di gonfaloniere, e, per il Concistoro senese, le residenze nelle cariche tralatizie).
14 girolamo gigli, richiamandosi ai due più illustri antiquari che lo avevano preceduto, il

Malavolti e il tommasi, con un pretesto legato alla chiesa «che fu di ragione dei sigg. ugur-
gieri i quali [...] la fabbricarono», prese a parlare della prosapia che traeva origine dagli anti-
chissimi «Conti Belardeschi, [...] venuti in queste parti di Francia, insino dal secolo ottavo»,
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Certamente, le affermazioni del Gigli erano supportate da una so-


lida base d’erudizione, della quale si possono facilmente comprende-
re i criteri ed intuire i limiti, atteso che risalire alle origini più antiche
di una stirpe gentilizia, per il tempo anteriore al XIII secolo, implica
una ricerca dei documenti scritti da sviluppare su tre aree cronologi-
che consecutive, poiché la conoscenza dei gruppi familiari dimoranti
tra Siena e il suo territorio prima del XIII secolo deve sempre passa-
re per gli archivi ecclesiastici e, subito dopo, attraverso gli atti della
prima espansione dei Comuni15. Difatti, soltanto nei secoli XIII e
XIV, in piena età comunale, la nobiltà cambierà natura, inserendosi
in un nuovo ambiente culturale che la porterà verso un’attenzione si-
stematica alla propria documentazione patrimoniale e alla conse-
guente organizzazione e custodia di un archivio familiare16.

come affermava potersi provare «coll’autorità di antichi, ed autentici strumenti, [...] distesi a
favore d’un antichissima Badia [...] che [...] chiamasi san salvatore della Belardenga»; cfr. g.
gigli, Diario Sanese, ii edizione, cit., vol. i, pp. 366-372: 368.
15 innanzi tutto, l’arco temporale che si estende dall’età longobarda fino alla metà circa

del X secolo conosce soltanto due canali di testimonianze attendibili per continuità ed organi-
cità: le fonti di provenienza aretina, relative ai conflitti di giurisdizione ecclesiastica tra le dio-
cesi di Arezzo e siena, e le carte dell’abbazia di san salvatore del Monte Amiata. in secondo
luogo, gli anni centrali del X secolo trovano accenni sporadici solamente grazie all’arricchi-
mento documentario del secolo Xi, avvenuto per il tramite del capitolo della cattedrale senese
di santa Maria, di due fondazioni suburbane (san Basilio di Camollia e l’ospedale di Pietro
Fastello in Peragna) e tre fondazioni monastiche del medesimo secolo Xi: san salvatore di
Fontebona o della Berardenga, in territorio senese e diocesi aretina, l’abbazia valdelsana di
san salvatore dell’isola e il monastero femminile di sant’Ambrogio e santissima trinità di
Montecellesi (Montecelso). infine, nel terzo e nel quarto decennio del secolo Xii, con l’affer-
mazione dell’organismo comunale cittadino, emerse per la prima volta a siena – come nella
gran parte dell’italia settentrionale e centrale – una documentazione di natura e origine mera-
mente laica, rappresentata da atti di sottomissione ed altre stipulazioni intercorse tra il comune
senese e i signori del territorio, da scritture concernenti il demanio cittadino e la sua ammini-
strazione, da accordi formali di alleanza e di pace, che andava ad integrare ed arricchire l’ap-
parato documentale delle epoche antecedenti, di origine e tradizione prettamente ecclesiastica,
costituito da atti di natura privata, quali compravendite, donazioni e livelli, a cui si aggiunge-
vano i privilegi papali e imperiali, nonché qualche raro atto di giurisdizione. Ma già tra la fine
del secolo Xii e le prime decadi del Duecento, si realizzò un notevole incremento delle fonti e
una grande dilatazione del paesaggio documentario, con il moltiplicarsi delle carte diplomati-
che, non più di natura unicamente ecclesiastica, con la nascita dei registri notarili nel 1221 e,
soprattutto, con l’ampia articolazione di atti comunali di amministrazione e giurisdizione, che
trasformò radicalmente la fisionomia del materiale archivistico senese, conferendole un carat-
tere di eccezionalità rispetto alle coeve città italiane. l’espansione comunale è testimoniata
dalle pergamene conservate presso l’Archivio di stato di siena nei fondi Diplomatico e Rifor-
magioni, nonché nei cartulari del Comune, a principiare da quello promosso nel 1204 dal Po-
destà Bartolomeo renaldini. Cfr. P. CAMMArosANo, La nobiltà del senese dal secolo VIII agli
inizi del secolo XII, in «Bullettino senese di storia patria», lXXXVi (1979), pp. 7-48: 7-10.
16 Ciò non significa che non fossero esistiti anche nei secoli precedenti degli embrionali
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Simili condizioni si sono realizzate per i Berardenghi, rifondatori


nel 1003 dell’abbazia di Fontebona e suoi patroni, epigoni degli an-
tichissimi «Conti Belardeschi, [...] Signori di Monte Aperto, di Pan-
cole, e di altri luoghi di Val d’Arbia verso Siena, [...] venuti in que-
ste parti di Francia, insino dal secolo ottavo», come potevasi prova-
re «coll’autorità di antichi, ed autentici strumenti, che [non] posso-
no recarsi in dubbio senza porre in suspicione di falso le più autore-
voli scritture lasciateci in eredità da’ tempi caduti, e quasi che tutti
sono distesi a favore d’un antichissima Badia [...] che presentemen-
te chiamasi San Salvatore della Belardenga»17.
Le osservazioni ed elaborazioni intorno al cartulario della Berar-
denga, creato intorno al 123018 dai monaci di San Salvatore attra-
verso la trascrizione delle oltre seicento pergamene dell’antico ar-
chivio (che andarono tutte perdute)19, soprattutto da parte di erudi-
ti e storici locali, hanno principalmente esplicato una funzione di
celebrazione genealogica, giacché i Berardingi erano stati, da un la-
to, i discendenti del conte di Siena Winigis, vissuto all’epoca di Lu-
dovico II e, dall’altro, i capostipiti della discendenza da cui deriva-
rono gli Ugurgieri, una delle più nobili, ricche ed influenti famiglie
del Comune senese.
Le compilazioni ottocentesche, da quella anonima stesa per ap-
poggiare le rivendicazioni patrimoniali avanzate – senza successo –
da alcuni membri della casata Ugurgieri20, alle brevi ed inesatte pa-

archivi familiari, ma non vi era alcuna custodia continuativa, tale da far pervenire documenti
direttamente dalle raccolte laiche fino ai tempi attuali. i consorti ugurgieri, nel 1212, fondaro-
no nelle adiacenze di san Vigilio – dipendente dall’abbazia della Berardenga – un complesso
edilizio, noto ancora oggi come «Castellare degli ugurgieri», che comprendeva, tra l’altro, una
torre destinata, poco più tardi, a carcere. Ma, cosa più interessante, proprio dal 1212 si venne
anche a formare un archivio privato della famiglia, rimasto integro sino a tutto il secolo XViii
e poi andato disperso. Cfr. P. CAMMArosANo, I Berardenghi nell’età comunale (inizi del secolo
XII ~ metà del secolo XIII), in «studi Medievali», serie iii, Xii (1971), pp. 177-251: 244-245.
17 Cfr. g. gigli, Diario Sanese, ii edizione, cit., vol. i, pp. 366-372: 368.
18 l più tardo dei documenti trascritti è del 10 febbraio 1229.
19 il cartulario è conservato presso la Biblioteca Comunale degli intronati, dove se ne può

reperire anche una copia integrale compilata tra la fine del seicento e gli inizi del settecento.
il codice fu pubblicato tra il 1914 e il 1922 sul Bullettino Senese di Storia Patria (annate
1914-1920 e 1922) con il titolo di «Cartulario della Berardenga»; venne poi ristampato in vo-
lume unico nel 1927. il cartulario comprende seicentodiciassette documenti: due risalenti al
iX secolo, gli altri rogati tra il 1003 e il 1229. Cfr. P. CAMMArosANo, Il territorio della Berar-
denga nei secoli XI-XIII, in A Giuseppe Ermini, spoleto, Centro italiano di studi sull’Alto
Medioevo, 1970, pp. 251-300: 251-252.
20 Assi, Particolari famiglie senesi, 190, bb. n. n. gli atti della controversia, risalenti agli
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gine del Repetti21, per arrivare al volume di Lorenzo Grottanelli,


pubblicato nel 188122, rappresentano i vani tentativi compiuti allo
scopo di stabilire una lineare catena di discendenza che, partendo
da Winigis, conte di Siena e fondatore nell’867 del monastero fem-
minile di Fontebona23, si ricongiungesse a quei fratelli Ranieri e Be-
rardo II, figli di Berardo I, i quali rifondarono il convento nel 1003,
istituendovi una comunità monastica maschile, soggetta al patrona-
to familiare24.
Non vi è, alla prova dei fatti, alcun dubbio che i figli di Berardo I

anni 1803-1806, contengono un manoscritto anonimo che sosteneva essere appartenuti alla fa-
miglia dei Berardenghi (e, di conseguenza, essere antenati degli ugurgieri in linea retta) i pa-
triarchi d’Antiochia Bernardo ed Alberico (c. 33) e il Papa Alessandro iii (cc. 39v, 41). i Be-
rardenghi sarebbero stati «Conti e Feudatari della Città e stato di siena» (c. 27) ininterrotta-
mente dall’età carolingia sino al Barbarossa che li avrebbe privati del «Feudo di siena» a cau-
sa del suo odio per Papa Alessandro iii. A quanto pare, gli ugurgieri, come molti «grandi» di
siena, erano ossessionati dall’esigenza di dimostrare derivazioni tanto antiche, quanto fanta-
siose. in merito alle origini delle prosapie senesi e all’uso distintivo dei cognomi, cfr. g. A.
PeCCi, Lettera, cit., pp. 3-7, in C. rossi, Giovanni Antonio Pecci, cit., pp. 151-153.
21 il repetti si occupa dei Berardenghi, e delle famiglie presumibilmente discese da essi,

in cinque articoli: Abazia della Berardenga, Abbadia o Badia S. Salvatore, Berardenga, Siena
e nel capitolo Xiii dell’Appendice. in particolare, nell’articolo sui conti della Berardenga, pur
ammettendo, in riferimento all’abbazia della Berardenga, che «dall’anno 882 [881: rogito di
conferma della dotazione e delle norme istituzionali], fino al 1003, epoca della sua riduzione
in Badia, vi resti uno spazio di 121 [122] anni che le scritture, o le memorie del tempo non
hanno ancora riempito», tenta di «riannodare cotesta genealogia» attraverso l’«esposizione di
alcuni strumenti inediti», facendo confluire in un unico ceppo familiare Berardenghi, scialen-
ghi, Cacciaconti, Cacciaguerra, Manenti, spadalunga, spadacorta, «ecc.», qualificando indi-
stintamente con il titolo di conti molti di essi, quando, in realtà, il titolo comitale era decaduto
con la morte del conte Winigis, primo fondatore, nell’anno 867, della badia di san salvatore.
Cfr. e. rePetti, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, cit., vol. i, Abazia della
Berardenga, Abbadia o Badia S. Salvatore, Berardenga, pp. 6, 31-34 e 297-298; vol. V, Siena,
pp. 294-355: 300-301; Appendice, cap. Xiii (De’ Conti della Berardenga, Scialenga ecc. di
Legge Salica dall’anno 865 fino verso la metà del secolo XIII), pp. 64-67.
22 l. grottANelli, Genealogia e storia degli Ugurgieri Conti della Berardenga, siena,

ignazio gati editore-libraio, 1881. il volume del 1881, specificamente dedicato alla ricostru-
zione delle vicende concernenti la famiglia ugurgieri dall’età carolingia al secolo XiX, è sud-
diviso in sedici parti, ognuna costituita da una tavola genealogica e, quasi per ciascuno dei
soggetti in esse ricompresi, da brevi biografie senza alcun collegamento reciproco. la ricchez-
za delle notizie è resa infruttuosa dalla pressoché completa mancanza di riferimenti alle fonti e
dall’imprecisione nello stabilire le relazioni di parentela, causata dalle forzature adottate al fi-
ne di delineare poco chiari e stranamente ininterrotti legami di discendenza, soprattutto nel-
l’intervallo tra la prima e la seconda fondazione del monastero (881÷1003).
23 l’atto di fondazione del monastero di Fontebona, risalente al febbraio dell’anno 867, è

riprodotto nel cartulario della Berardenga alla carta 53; cfr. P. CAMMArosANo, La famiglia dei
Berardenghi sino agli inizi del secolo XII, in «studi Medievali», serie iii, Xi (1970), pp. 103-
176: 106.
24 Cartulario della Berardenga, c. 2; cfr. P. CAMMArosANo, La famiglia dei Berardenghi,

cit., p. 112.
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discendessero dal conte Winigis, in forza di una loro esplicita asser-


zione («monasterio puellarum, qui parentibus nostris edificaverunt
eum»)25, dell’identità di diversi possedimenti ceduti al monastero di
Fontebona nella prima e nella seconda dotazione26, della coinciden-
za della professione di legge (nella maggior parte degli atti giuridici
i membri della famiglia si dichiaravano «saligi» «ex genere Franco-
rum»)27 e, infine, della persistenza dei nomi tipici del lignaggio nei
due gruppi parentali dei secoli IX ed XI28. Permane, tuttavia, l’im-
possibilità di identificare precisamente le persone e i rapporti di fi-
liazione che legarono i figli del conte Winigis ai Berardenghi del-
l’anno 100329.
Grazie al cartulario, è stato possibile ritrovare il bandolo della
matassa in Berardo I, genitore degli autori della reconciliatio dell’ab-
bazia di Fontebona, dal quale prendere le mosse per discendere le
linee agnatizie dal ramo di Ranieri, con lo scopo di arrivare, senza
dubbi di sorta, sino alla famiglia Ugurgieri, trovando conforto nelle
fonti archivistiche derivate dal nuovo impianto di documentazione
approntato, come osservato, a partire dal XIII-XIV secolo e tuttora
conservato presso gli Archivi di Stato30.
Sono due i documenti che tracciano, senza soluzione di conti-
nuità, la discendenza patrilineare da Reghineri fino ad Ugo di Rug-

25 Ibidem: «volumus recordare et ordinare in ordine monacorum ecclesia nostra cui voca-

bulo est s. salvatori et s. Alexandri, qui ubi id fuit monasterio puellarum qui parentibus nostris
edificaverunt eum, qui est posito in loco et vocabulo Canpi ubi dicit Fontebona super fluvio
Coia, infra comitato senense».
26 Ibidem.
27 Cfr. P. CAMMArosANo, La famiglia dei Berardenghi, cit., p. 126.
28 Ivi, p. 106
29 Ibidem. il conte Winigis ebbe un figlio di nome Berardo, morto al più tardi nel 903

(Assi, Diplomatico, S. Salvatore del Monte Amiata, 903 ago.). uberto Benvoglienti, in una
lettera del luglio 1711, indirizzata all’erudito gregorio Farulli, con le notizie sulla duplice fon-
dazione del monastero della Berardenga, identificava, senza dubbi, Berardo di Winigis con
Berardo i, padre dei fratelli ranieri e Berardo ii che rifondarono nel 1003 il convento. Ma il
lasso di tempo che intercorre tra Berardo di Winigis e Berardo i è evidentemente troppo am-
pio affinché i due possano identificarsi. Altrettanto insoddisfacenti sono i tentativi compiuti
dal repetti e dal grottanelli, nelle opere precitate, per colmare, inserendo una o più persone
tra Berardo di Winigis e Berardo i, quel vuoto di cento anni (903-1003).
30 Assi, Concistoro, 2655, ins. 86, cc. n. n., albero della famiglia ugurgieri nelle carte

delle provanze di nobiltà di giovanni Maria giusti di Colle, 1698. Berardo (i) appare essere
unito in matrimonio con ermingarda di ranieri, nonché nominato nel libro dei contratti del-
l’abbadia san salvatore nel 929. Ma il passo più interessante recita: «da questo [Berardo(i)]
ne nasce ranieri sottoscritto autor de’ signori ugurgieri, e Berardo [ii] dal quale hanno origi-
ne i signori Conti Berardeschi».
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gieri ed oltre31: l’albero genealogico della famiglia Ugurgieri prodot-


to da Giovanni Maria del cavaliere Alberto Giusti di Colle per giusti-
ficare il quarto della madre, Eufrasia d’Angelo Ugurgieri32, ai fini
dell’ingresso per giustizia nell’Ordine dei cavalieri di Santo Stefano e
quello della medesima agnazione riportato nel manoscritto dell’abate
Galgano Bichi, concernente i «cognomi di famiglie nobili sanesi, che
si mantengono in essere, sì per adozzione, e per arrogazione, come
per obbligo di fidecommissi, o primogeniture», che si dichiara essere
stato tratto da Celso Cittadini «appresso il signor Paris del signor
Lattanzio Bulgarini»33, custodito nell’Archivio di Stato di Siena.
Nel primo attestato, Giuseppe Maria Porrini, notaio pubblico e
cittadino senese, iuris utriusque doctor, cancelliere del Senato e delle
Riformagioni, coadiutore del Segretario delle leggi, certificò le ricer-
che e le affermazioni di Lattanzio Bulgarini, «antiquario della città»,
il quale conservava nel proprio studio i libri e volumi sulle memorie
antiche di Siena e «particolarmente di famiglie nobili». Le notizie
sugli antenati della madre del pretendente furono ricavate dai vetu-

31 un terzo documento, serbato tra le provanze del giusti custodite presso l’Archivio di

stato senese, è stato utilizzato a completamento degli altri scritti o ad integrazione delle noti-
zie generali tratte dalle fonti edite. si tratta del pezzo «Assi, Concistoro, 2655, ins 86, cc. n.
n.», già citato, che contiene l’albero genealogico della famiglia materna, ugurgieri, datato
1698. si è ritenuta più opportuna una utilizzazione ausiliaria poiché, in primo luogo, i riferi-
menti temporali ed alle fonti sono identici a quelli contrassegnati nel medesimo documento di
cui al pezzo «AsPi, S. Stefano, 207, ins. 5, cc. n. n.» e, in secondo luogo, la linea di discen-
denza risulta essere mancante di due componenti l’agnazione: Ciampolo di ugo di ruggiero e
ruggiero di Ciampolo di ugo; infine, l’unico elemento di differenziazione e, allo stesso tem-
po, di interesse, risulta essere l’annotazione delle mogli, per quasi tutti i componenti, anche se
manca ogni traccia della fonte da cui è stata tratta notizia.
32 AsPi, S. Stefano, 207, ins. 5, cc. n. n., «fedi di nobiltà del signor giovanni Maria Nic-

colò del signor Cavalier Alberto giusti di Colle, pretendente alla sagra, et illustrissima reli-
gione di santo stefano Papa e Martire», 23 settembre 1698.
33 g. BiChi, Cenni genealogici di famiglie nobili senesi che hanno assunto altro cogno-

me, siena, 1722, in Assi, Manoscritti, A 60, c. Viiir: «Cognomi di famiglie nobili sanesi, che
si mantengono in essere, sì per adozzione, per arrogazione, come per obbligo di fidecommissi,
ò primogeniture, ò altri simili modi, nelle persone d’altre nobili descendenze di diverso co-
gnome. Con il rapporto di tutte le notizie bisognevoli per far ben intendere tali fatti, tanto nel-
la loro origine, a riguardo delle persone che ne furono autrici: che nell’ esecuzione, rispetto al-
le persone che assunsero i cognomi, e se ne ponerono in possesso le prime. Con l’indicazione
inoltre,delle condizioni, forme, et obblighi più essenziali, e d’ogn’altra circostanza attenente, e
comprobante ciascun fatto. Con l’aggiunzione di più, delle descendenze di quelle
fameglie,che si cambiarono i cognomi, e si confusero in uno, rappresentate di padre in figlio-
lo, in forma d’albero. il tutto ricavato da Archivi Pubblici, e privati. Con pensiero, diligenza,
studio, fadiga, e spesa dell’illustrissimo signor abbate galgano Bichi figliolo del Cavaliere, e
Conte rutilio de’ Bichi Patrizio sanese». Ivi, c. 149r, albero genealogico della famiglia ugur-
gieri.
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sti tomi, «et in specie fino ad Agnolo d’Azzolino», insignito della di-
gnità concistoriale di Priore nel 1481, «havendoli da questo fino alla
signora Eufrasia del signor Angiolo Ugurgieri [...] confrontati con il
registro fatto nelli [...] publici libri esistenti nell’Archivio delle so-
pradette Riformagioni».
L’ordine di discendenza, con l’indicazione, per ciascun soggetto
elencato, dell’anno riferito al primo strumento trascritto nel libro
dei contratti «dell’Abbadia San Salvatore» che documentasse l’esi-
stenza dei membri della stirpe, enumerava: conte Reghinari – conte
Winigi (872) – Berardo (929) – Ranieri (1003)34 – Guinigi (1055 e
1073) – Bernardo (1091) – Ruggiero (1109) – Ugo (1142). Seguiva-
no, ascritti tra i Consoli della città, ancora Ugo di Ruggiero (1183)35
e Ciampolo (1209)36. Bindo di Ruggiero, detto Capoleone, veniva

34 ranieri, uno dei due fratelli che operarono la reconciliatio del 1003, rappresenta lo sti-

pite dal quale principiò il ramo che arriva fino agli ugurgieri.
35 in realtà, vi sono maggiori certezze sulla prima copertura dell’ufficio di Console nel-

l’anno 1188, come sostengono l’Aurieri, il Cittadini e il Falorsi – in riferimento alle cronache
di Agnolo di Mino di tura del grasso –, il sestigiani – che fa affidamento sulle Croniche Ma-
noscritte di gallari di Pietro –, ed il Bichi. Cfr. A. Aurieri, Raccolta di notizie delle famiglie
nobili di Siena, tratte da cronache di vari autori, siena, prima metà del sec. XiX, in Assi,
Manoscritti, A 20, c. 67r; C. CittADiNi, Notizie di tutte le famiglie nobili esistenti nel presente
anno 1713, e precisamente qui raccolte riguardo alla prima memoria che si trova delle perso-
ne di ciascuna d’esse ne’ libri, ne’ contratti, e scritture de’ pubblici archivij d’haver consegui-
to l’onori pubblici d’offizij, e cariche nobili della città di Siena, siena, 1713, in Assi, Mano-
scritti, A 8, c. 45r; A. FAlorsi, Riseduti nel Concistoro ascritti al Monte dei Gentiluomini, re-
lativi alle famiglie feudali del contado senese esistenti nel 1714, i, siena, 1714, in Assi, Ma-
noscritti, A 64, c. Viiir; A. sestigiANi, Ordini, armi, residenze e memorie di famiglie nobili di
Siena, ii, siena, prima metà del secolo XViii, in Assi, Manoscritti, A 14, c. 788r; g. BiChi,
Ms. cit, c. 149r. ugo di ruggiero ebbe per moglie Bella Cara d’uggeri Cadula. Cfr. Assi,
Concistoro, 2655, ins. 86, cc. n. n., albero della famiglia ugurgieri nelle carte delle provanze
di nobiltà di giovanni Maria giusti di Colle. si può ancora aggiungere che l’inurbamento di
detto ugo avvenne ancor prima dell’inserimento nel ceto dominante, alla fine del 1163. Cfr. P.
CAMMArosANo, I Berardenghi nell’età comunale, cit., p. 232.
36 A. FAlorsi, Ms. cit., c. Viiir, dichiara la copertura dell’ufficio tratta da un rogito del

1° gennaio 1208 (1209). identico riferimento temporale indica C. CittADiNi, Ms cit., c. 45r,
ma aggiunge il mandato dell’anno 1199, desunto dalle Istorie Latine di sigismondo tizio.
Concorda con il consolato per il 1199, ricavato dalla medesima fonte, anche g. BiChi, Ms.
cit., c. 149r. A. Aurieri, Ms. cit., c. 67r, si discosta di un anno, al 1210. e, in particolare, A.
sestigiANi, nel Compendio istorico di sanesi nobili per nascita, illustri per attioni, riguar-
devoli per dignità, raccolto come si dimostra da diversi autori, che hanno stampato da ma-
nuscritti antichi, e moderni, da archivi, da contratti pubblici e da scritture esistenti appres-
so persone particolari, ii, siena, 1696, in Assi, Manoscritti, A 30/iii, c. 868r, riporta, ba-
sandosi sul «titio, tomo primo», che «Ciampolo d’ugo di ruggiero fu uno dei Consoli
l’anno 1199 quale aveva grande autorità, poiché s’importavano le monete col nome, e arme
del detto Ciampolo e dell’altri due Consoli suoi compagni». il Cammarosano afferma che
Ciampolo fu tra i consoli senesi del periodo novembre 1209-novembre 1210, vale a dire
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nominato, insieme al padre, nel testamento di Orlando, suo fratello


e vescovo di Massa, datato 12 maggio 1305. Agnolo di Bindo, iscrit-
to nei libri della Biccherna del 1315, fu uno dei quattro Esecutori di
Gabella nel 1334. Azzolino di Agnolo fu uno dei quattro Provvedi-
tori della Biccherna per il semestre di luglio del 1380 ed appariva
nei libri delle gabelle nel 1392 e 1393. Angiolo di Azzolino fu Prov-
veditore nel 1397 ed era menzionato nei libri delle gabelle del 1415.
Azzolino di Angiolo fu della Biccherna nel semestre di luglio 1422
ed era annotato nei libri delle gabelle per gli anni 1447, 1458 e
1465. Il notaio Porrini, a questo punto, specificò nuovamente: «E
tutto per l’asserzione antedetta, fatta in voce a me notaro sopra, et
infrascritto, e gli altri seguenti soggetti appariscono registrati nelli
detti da pié notati publici libri esistenti nel detto Archivio delle
Riformagioni sotto la mia custodia».
Azzolino di Angiolo generò un altro Agnolo, atavo di Eufrasia,
Priore nel bimestre di maggio e giugno del 1481, che ebbe per fra-
telli Antonio ed Ugo, capostipiti dei due rami dai quali derivarono
tutti i cavalieri di Santo Stefano per la famiglia Ugurgieri, nonché i
soggetti che chiesero l’ammissione al patriziato senese ai sensi della
legge del 31 luglio 175037.
L’ulteriore albero, tratto dal manoscritto dell’abate Bichi, che si
occupava, in generale, delle mutazioni dei cognomi, derivate dall’i-
stituzione di fedecommessi e primogeniture, realizzate – come in
questo tutt’altro che infrequente caso – per mezzo di una adozio-
ne38, ricalcava fino al predetto Azzolino di Angiolo la fede del can-
celliere delle Riformagioni. La delineazione genealogica in questio-
ne esplica la sua utilità nella prosecuzione delle linee discendenti
dallo stipite di Ugo d’Azzolino, riseduto nel luglio-agosto 1484, per
arrivare, attraverso le residenze di Agnolo (novembre-dicembre

nell’ultimo periodo di esistenza di tale magistratura; cfr. P. CAMMArosANo, I Berardenghi


nell’età comunale, cit., p. 248.
37 si confronti l’albero genealogico della famiglia ugurgieri: tavola i. Per la descrizione

analitica delle linee principiate dai detti Antonio ed ugo, si vedano i capitoli dedicati all’am-
missione di tutti i membri della prosapia al patriziato di siena e quelli concernenti i preten-
denti l’abito della sacra religione di santo stefano, corredati dagli alberi genealogici, conte-
nuti nello studio di A. ruiu, La famiglia Ugurgieri nel patriziato senese e nell’Ordine di S.
Stefano, cit., pp. 151-208.
38 il numero crescente delle adozioni metteva sempre più in luce la grave ed irreversibile

crisi demografica del ceto aristocratico senese. Cfr. g. r. F. BAker, Nobiltà in declino, cit.,
passim; ma, in particolare: pp. 610-613.
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1518), Lelio (novembre-dicembre 1564), Muzio (settembre-ottobre


1594) e Lelio (maggio-giugno 1626), fino ad Azzolino (novembre-
dicembre 1657) – padre di quel Muzio che sposò Maria di Angelo
Malavolti –, al fine di mettere in luce l’adozione di Salustio da parte
dell’avo materno39.
Il medesimo ramo di Ugo fu interessato da un’altra importante
adozione. Con il testamento del 7 marzo 1763, rogato da ser Camil-
lo Salvucci, Angelo di Adriano Fondi, patrizio senese40 e cavaliere
di Santo Stefano41, istituì come erede universale Curzio, figlio se-
condogenito di Tommaso Ugurgieri, con l’obbligo di assumere no-
me, arme e Monte della famiglia Fondi42. L’erede osservò scrupolo-
samente gli obblighi impostigli dal testatore, al punto che, oltre ad
assumere il nuovo cognome, mutò anche il prenome da Curzio in
Angelo. Nel 1776, il successore, per assolvere diligentemente le ulti-
me volontà del Fondi, fece istanza alla Balìa al fine di essere iscritto
al Monte dei Riformatori per poter risedere sotto questo rango43. La
richiesta venne sottoposta ai due deputati incaricati di verificarne la
fondatezza. Il cavaliere Antonio Bargagli e Niccolò Forteguerri,
consultate le carte notarili contenenti l’accertamento della morte del
de cuius e verificata l’attendibilità delle disposizioni testamentarie44,
dichiararono di avere analizzato attentamente il testamento e di aver
trovato numerosi casi analoghi, per cui non v’era alcun impedimen-
to all’accoglimento della petizione. La Balìa, alla quale, evidente-
mente, era affidata anche la regìa in materia di controllo della consi-
stenza dei Monti e degli spostamenti, sia orizzontali, sia verticali, al-

39 g. BiChi, Ms. cit., cc. 137, 139-146, 148 e 149r. Angelo d’emilio Malavolti istituì pri-

mogenitura mascolina sulla progenie delle proprie figlie, con testamento del 29 settembre
1701, rogato da ser Alessandro salvucci, con l’obbligo di assumere armi e cognome, senza
mistura, della famiglia Malavolti. l’eredità passò a salustio di Muzio ugurgieri, primo figlio
maschio di Maria Malavolti. Cfr. Assi, Manoscritti, A 60, c. 149r; AsFi, Deputazione sopra
la nobiltà e cittadinanza, 24, ins. 57, cc. n. n., particolare del testamento di Angelo di emilio
Malavolti, rogato da Alessandro salvucci il 29 settembre 1701, s. d.
40 si noti come le famiglie coinvolte nelle adozioni in questione appartenessero tutte e tre

al patriziato senese. Cfr. M. Aglietti, Le tre nobiltà, cit., appendice, n. 69, p. 269; n. 92,
p. 271; nn. 183-187, p. 276.
41 Angelo di Adriano Fondi e di teresa di Angelo Malavolti vestì l’abito di cavaliere milite

per giustizia il 3 agosto 1718. Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese membri del Sacro Mi-
litare Ordine di S. Stefano Papa e Martire, Pisa, edizioni ets, 1993, n. 392, pp. 388-389.
42 Assi, Concistoro, 2665, c. 475r.
43 Ivi, c. 477r.
44 Ivi, cc. 479r e ss.
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l’interno della nobiltà civica senese, il 20 marzo 1776, preso atto del
nulla osta dei deputati, ammise Angelo Fondi, già Curzio Ugurgieri,
ad esercitare la facoltà richiesta45.

2. Gli Ugurgieri, come ricordato dal Gigli, erano annoverati tra le


casate ascritte al Monte dei Gentiluomini, anticamente chiamate
«de’ Grandi», che esibivano la loro grandezza e magnificenza attra-
verso l’edificazione di logge, torri e castellari. Le casate di loggia co-
struivano nei loro palazzi sontuosi portici ed ampi cortili, in testi-
monianza della loro importanza. Quelle di torre, per prerogativa
speciale, innalzavano costruzioni di tal fatta per ostentare la maggio-
re potenza e stima. Nel terzo di San Martino, gli Ugurgieri possede-
vano una torre presso San Pietro Buio, un’altra all’entrata del castel-
lare (abbassata di trenta braccia nel 1280) e la Torre di Serravalle,
detenuta in comune con le famiglie Cinughi e Maconi e con i cava-
lieri templari, poi divenuta loro proprietà esclusiva. Ma soltanto la
prosapia degli Ugurgieri fu appellata di castellare46, come appariva
dal contratto in cartapecora tra Ruggierotto, Aldobrandino, Ciam-
polo, Ranieri e Ruggiero d’Ugo di Ruggieri, rogato da ser Matteo
d’Errigo, notaio dell’Imperatore, il 16 giugno 1212. Partendo dal
castellare, le proprietà della consorteria si distendevano per la via
delle Donzelle, attraverso il chiasso dei Pollaioli (ove appariva l’ar-
me della famiglia), fino alla Piazza, dove avevano le vigne, e al Mer-
cato Vecchio, poi ceduto alla Repubblica, per arrivare alla valle del
Montone con i suoi boschi, ideali per la caccia. Spettò loro anche la
chiesa di San Vigilio, dopo le cure dei monaci camaldolesi, dei cava-
lieri templari e dei padri gesuiti47.
Tra le altre dimostrazioni concrete dell’altolocato rango, dunque,
l’ostentazione dei casamenti denotava l’appartenenza alla parte ari-
stocratica della compagine cittadina, costituita dai «magnati», o
«grandi», o «nobili», che esercitarono il potere nelle fasi più antiche

45 Ivi, cc. 475r-475v e 476r.


46 Cfr. W. M. BoWsky, Un comune italiano nel Medioevo. Siena sotto il regime dei Nove,
1287-1355, cit., p. 50: il terzo di san Martino vantava «il castellare degli ugurgieri, potenti
ghibellini, da cui era partito l’esercito senese per la battaglia di Montaperti nel 1260».
47 Cfr. i. ugurgieri AzzoliNi, Le pompe sanesi, cit., ii, XXXii (Sanesi chiari per magni-

ficenza e generosità), pp. 307-310.


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del governo di Siena48. Non a caso, per esempio, nelle provanze per
l’ammissione all’Ordine di Santo Stefano, negli articoli dedicati alla
dimostrazione delle sostanze indispensabili al fine di prendere e
conservare dignitosamente il grado di cavaliere, come pure condur-
re una vita di buoni costumi irreprensibile, si specificava quale fosse
la distanza dalla città dei beni immobili: la prossimità al centro ur-
bano rendeva più facili ed efficaci quelle pratiche della vita di rela-
zione comunemente ritenute indispensabili per una condotta more
nobilium. Ne derivava che i due elementi del valore e della rendita
fondiaria, indispensabili per dimostrare facoltà tali da non dover
esercitare arti proibite, contrarie allo status nobiliare, rivestissero
un’importanza prettamente economica, ben distinta dal prestigio
sociale derivante da una proprietà adagiata all’ombra delle mura cit-
tadine49.
Come risulta evidente, i discendenti d’Ugo di Ruggieri facevano
indubitabilmente parte delle prosapie considerate magnatizie, per
via dei requisiti definiti in base ai criteri decantati dai più autorevoli
storici ed eruditi senesi con riferimento all’epoca medievale, eviden-
ziati fin dalle premesse da cui si son prese le mosse e nel corso della
trattazione.
Anche Giovanni Antonio Pecci, nella sua Lettera sull’antica e mo-
derna derivazione delle famiglie nobili di Siena, tra le consorterie
enumerate per il Terzo di San Martino nel primo catalogo, del 1277
(poi riconfermato nel 1337), che le escludeva nominatamente dalla
suprema magistratura concistoriale, ricordò il «casamentum filio-
rum Ugonis Rugerii», per il quale l’intellettuale senese si curò di ag-
giungere in nota, tra le altre notizie, come la famiglia conservasse
ancora il castellare consortile ed avesse «la bella sorte di pruovare la
descendenza retta e sicura fin dal secolo IX per essersi a caso con-
servati i documenti della fondazione e padronato della chiesa e mo-
nastero di San Salvatore della Berardenga che fondò e dotò»50.
***

48 Per un inquadramento delle famiglie magnatizie e delle vicende concernenti il rapporto

con il governo cittadino, si veda D. MArrArA, I magnati e il governo del Comune di Siena
dallo statuto del 1274 alla fine del XIV secolo, cit., pp. 239-276.
49 Cfr. D. MArrArA, Riseduti e nobiltà, cit., pp. 113-114.
50 Cfr. g. A. PeCCi, Lettera, cit., p. 9, in C. rossi, Giovanni Antonio Pecci, cit., p. 162.
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Tutte le notizie sulla prosapia seguono, pertanto, le tappe deli-


neate per le consorterie di origine magnatizia. In particolare, l’albe-
ro genealogico ricostruito dal notaio Porrini esemplificava chiara-
mente la provenienza dall’antica nobiltà senese, l’inserimento nel
governo consolare con Ugo di Ruggiero nel 1188, per poi fissare le
ininterrotte elezioni alle magistrature della Biccherna e delle Gabel-
le a cominciare da Agnolo di Bindo, Esecutore nel 1334 – in piena
vigenza della legislazione antimagnatizia –, fino ad arrivare alla
riammissione definitiva nella suprema dignità concistoriale con
Agnolo di Azzolino, nel 1481.
La conferma dei riferimenti cronologici delle residenze si ritrova
nei manoscritti del Falorsi51. Il primo membro della famigli ad esse-
re inserito nel governo cittadino fu, per l’appunto, Ugo di Ruggiero,
Console nel 1188. La serie dei nominati per le magistrature minori
principiava con Ildobrando d’Ugo di Roggieri nel 1233 e prosegui-
va ininterrottamente per tutto il periodo dell’estromissione dei ma-
gnati dal Concistoro ed oltre52. Destano, inoltre, particolare interes-
se, ai fini della trattazione in corso, le residenze per l’epoca della
prima riammissione dei Gentiluomini al supremo collegio concisto-
riale53: Niccolò di Zano di Giovanni risedé nei bimestri di gennaio-
febbraio 1459 (1460) e settembre-ottobre 1464; Magio di Matteo ri-
sedé nel maggio-giugno 1464 e fu Capitano del Popolo nel bimestre
di settembre e ottobre del 150254. Ma la ricostruzione in atto ritor-
na, anche attraverso il manoscritto in questione, alle residenze di
Ugo, Priore nel luglio-agosto 1484, e di Antonio, parimenti Priore
nel medesimo bimestre del 1499, capostipiti delle linee ascendenti

51 Cfr. A. FAlorsi, Riseduti nel Concistoro ascritti al Monte dei Gentiluomini, cit., cc.

Viii-iX, 233r, 234r, 235-244, 307v.


52 Cfr. A. FAlorsi, Riseduti in magistrature della Repubblica di Siena appartenenti alle

famiglie originarie ed aggregate al Monte dei Gentiluomini, estinte ed esistenti nel 1717, sie-
na, 1717, in Assi, Manoscritti, A 61, cc. 145-152.
53 l’impulso alla riammissione dei gentiluomini nella suprema magistratura fu dato dal

Papa senese Pio ii, enea silvio Piccolomini, il quale riuscì a far riabilitare la sua casata al go-
dimento degli antichi privilegi; essa seppe mantenerlo, dopo la sua morte (Ancona, 15 agosto
1564), attraverso il passaggio nelle fila dei popolari; cfr. D. MArrArA, Riseduti e nobiltà, cit.,
p. 74, il quale rimanda, per un approfondimento del cinquantennio 1480-1530, alle storie ge-
nerali di siena scritte dal Malavolti e dal Pecci.
54 Cfr. A. FAlorsi, Riseduti in magistrature della Repubblica di Siena appartenenti alle

famiglie originarie ed aggregate al Monte dei Gentiluomini, estinte ed esistenti nel 1717, cit.,
c. 235r.
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di tutti i cavalieri stefaniani e dei membri dell’agnazione che chiese-


ro l’ammissione al patriziato senese.
***
Giova altresì ricordare che gli esponenti della stirpe conservaro-
no lo splendore degli antenati55, con gesta gloriose o con il sangue
versato in battaglia56, ma anche, e soprattutto, attraverso una pre-
senza ragguardevole nelle cariche ecclesiastiche57, nelle professioni

55 Per uno schema riassuntivo esaustivo dei personaggi illustri della consorteria, si veda-

no: A. sestigiANi, Ordini, armi residenze e memorie, Ms. cit., cc. 788 ss.; g. gigli, op. cit., i,
pp. 366-372. e, più in generale, si trovano notizie sulla storia della famiglia in o. MAlAVolti,
Dell’historia di Siena, cit., passim; g. toMMAsi, Dell’historie di Siena, cit., passim; i. ugur-
gieri AzzoliNi, Le pompe sanesi, o vero relazione delli huomini e donne illustri di Siena e suo
Stato, cit., passim. tra i letterati e gli eruditi, oltre il prementovato fra’ isidoro ugurgieri Az-
zolini, domenicano, che compilò i due tomi delle Pompe Sanesi, devono essere ricordati Cec-
co di Meo Mellone, autore di molte rime toscane per le quali fu lodato dal Cittadini, stefano,
frate agostiniano, che pubblicò un volume di Orazioni Latine e, infine, ugo, comico eccellen-
te nell’età adolescenziale, il quale studiò filosofia e leggi nelle università di siena, Pisa e Bo-
logna; cfr. i. ugurgieri AzzoliNi, op. cit., i, tit. XViii (Sanesi oratori, poeti, comici, ed acca-
demici), pp. 548, 594, 613. Ma anche nelle vene di orlando Malavolti, autore Dell’Historia di
Siena, scorreva sangue ugurgieri per il quarto della madre Francesca; cfr. ivi, i, tit. XiX (Sa-
nesi historici ed antiquarij), p. 633.
56 Nel 1186, giovanni ugurgieri fu a capo di cinquecento valorosi giovani che si unirono

ai francesi, ai cavalieri templari e di san giovanni nell’assedio di Acri; cfr. g. gigli, op. cit.,
i, p. 371 e i. ugurgieri AzzoliNi, op. cit., ii, tit. XXiX (Sanesi valorosi guerrieri), p. 133. il
nipote giovanni, nel 1260, fu ucciso nella battaglia di Montaperti da Aldobrandino Aldobran-
deschi di Pitigliano e venne seppellito nel Duomo con grandi onori, testimoniati dalla sua sta-
tua a cavallo che, fino al 1554, si ergeva sul suo sepolcro, ove poi rimase soltanto l’iscrizione:
«Joannes ugurgerius decreto publico hic situs est Decepsit Montis Aperti Clade Anno Domini
MCClX»; cfr. g. gigli, op. cit., i, p. 371 e i. ugurgieri AzzoliNi, op. cit., ii, tit. XXiX (Sa-
nesi valorosi guerrieri), p. 136.
57 indossarono la mitra di vescovo: ruggiero di ranieri per la città di Massa nel 1258,

ugo di Aldobrandino a grosseto nel 1260 e orlando di ruggiero di Ciampolo, parimenti epì-
scopo di Massa nel 1291; cfr. A. sestigiANi, Ordini, armi residenze e memorie, cit., cc. 788 ss.
e g. gigli, op. cit., i, p. 370. e ancora, ranieri di Cione, frate agostiniano, fu lettore di teolo-
gia negli anni 1296 e 1305, per poi divenire provinciale del distretto di Pisa e finalmente as-
surgere alla cattedra teologale dell’appena riaperto studio generale di siena; cfr. i. ugurgieri
AzzoliNi, op. cit., i, tit. XiV (Sanesi teologi insigni), p. 364. Francesco d’Altimanno, dell’or-
dine di san Francesco, nel 1343 fu dichiarato inquisitore generale di tutta la toscana da Papa
Clemente Vi; cfr. ivi, i, tit. Xiii (Sanesi inquisitori della santa fede), p. 328. Fra Antimo di ia-
como, nel 1357, ottenne il nuovo privilegio dello studio pubblico da Carlo iV e nel medesimo
atto conseguì, per la stirpe, l’onore di poter inserire l’aquila imperiale nello stemma gentilizio;
cfr. ivi, i, tit. XiV (Sanesi teologi insigni), p. 359. ugo, monaco cistercense, ottenne molti gra-
di e dignità nella sua congregazione, ma, soprattutto, fu tenuto in grandissima considerazione
dalla repubblica di siena, che a quei tempi si serviva dei religiosi per le questioni pubbliche:
nel 1261 fu fatto «tesoriero dell’erario publico», ovvero Camerlengo di Biccherna; cfr. ivi, ii,
tit. XXV (Sanesi che hanno ottenuto il Primato nella Patria), p. 58. inoltre, Mino, frate con-
ventuale, nel 1313, e Agostino, dell’ordine dei servi di Maria, nel 1332, furono proclamati
beati; cfr. A. sestigiANi, Ordini, armi residenze e memorie, cit., cc. 788 ss.
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legali58, negli affari politici e militari59, mantenendo sempre alto il


nome della casata, potendo vantare innumerevoli personaggi illustri
tra gli alti ranghi dei corpi militari e degli ordini cavallereschi60, co-
me nelle rappresentanze diplomatiche61. Si trattava certamente della
caratteristica comune alle famiglie d’antico lignaggio, della più rile-
vante, sia nel periodo di vigenza della legislazione antimagnatizia,
sia in seguito, fino all’Unità ed oltre: si trattava delle prerogative che
li avevano resi insostituibili ai vertici degli apparati pubblici, fin dal-
le origini del Comune cittadino62.

58 tra i legisti vennero annoverati Niccolò di Cecco, canonico della Metropolitana – amba-

sciatore al Concilio di Costanza – e Niccolò di ruggierotto, giureconsulto, il quale insegnò dirit-


to canonico nell’università di siena (anch’egli fu canonico del Duomo e poi acclamato decano
di questa chiesa), morì nel 1512 e fu seppellito nella cattedrale. Marc’Antonio di Francesco, let-
tore nella sapienza, luogo in cui si conservava una lapide con l’arme gentilizia in sua memoria,
fu vicario generale dell’arcivescovo di siena. Angelo fu uno di quei dottissimi uomini di leggi
che nel 1566 riscrissero le costituzioni del Collegio legale senese. e poi ancora, nell’identica
categoria potevano essere computati Matteo di Magio, Vittorio di Matteo, emilio d’orazio, An-
gelo di giovanni, Aliprando d’Antonio, Fulvio e salustio di lelio e iacomo di Bandino. Cfr. i.
ugurgieri AzzoliNi, op. cit., i, tit. XVi (Sanesi famosi legisti), pp. 436, 446 e 447.
59 ugo, Camarlingo di Biccherna, nel 1266 fu eletto Podestà da sessanta cittadini scelti

dal senato per riportare la pace, turbata dai tumulti causati dalle fazioni senesi emule del con-
comitante scontro tra guelfi e ghibellini fiorentini; cfr. g. toMMAsi, op. cit., ii, Vi, pp. 40-41.
il cavaliere ruggiero sposò Fazzina di Provenzano salvani, capitano generale dei ghibellini di
siena, dal quale matrimonio nacquero orlando, vescovo di Massa, il cavaliere Bindo detto
Capoleone, e Pietro detto Buffa che capeggiarono i ghibellini senesi; cfr. i. ugurgieri Azzo-
liNi, op. cit., ii, tit. XXXi, (Sanesi cavalieri illustri,), pp. 285, 294, 305. ugo d’Azzolino «bi-
savolo paterno dell’Autore», fu tra i cittadini che sottoscrissero le capitolazioni di Pandolfo
Petrucci e poi confermò quelle del figlio Borghese; cfr. ivi, ii, tit. XXV (Sanesi che hanno ot-
tenuto il Primato nella Patria), p. 58.
60 Presero l’abito equestre per ordini diversi dalla religione di santo stefano (in riferi-

mento alla quale si veda più oltre, nella trattazione sintetica delle ammissioni alla medesima):
ruggiero di ruggierotto, cavaliere templare, precettore della Magione di siena nel 1240;
Francesco di Camillo (1591), Alfonso di Bandino (1614) e Angelo di Filippo (1615), cavalieri
di Malta; cfr. i. ugurgieri AzzoliNi, op. cit., ii, tit. XXiX (Sanesi valorosi guerrieri), p. 137.
61 tra gli ambasciatori fu annoverato ugo di ruggiero, che nel 1227 pacificò i volterrani;

poi, nel 1352, ricciardo di Pepo fu inviato a ludovico di taranto, marito di giovanna, regina
di Napoli, e Niccolò di Cecco fu delegato al Concilio di Costanza l’anno 1415; cfr. g. gigli,
op. cit., i, p. 371.
62 tra le altre, v’è un’ulteriore notizia degna di nota, concernente un possibile ramo sici-

liano della prosapia senese, principiante dal cavaliere ruggiero, il quale, nel 1350 circa,
«schivando le sedizioni della Patria», partì da siena e si portò nel regno di sicilia ove, con
Bona di Mino Montanaini, sua moglie, si fermò in Bivona, nobile terra di quell’isola, e vi
elesse domicilio per edificare a proprie spese un convento ai padri di san Francesco. A tal pro-
posito, l’autore delle Pompe Sanesi riporta un passo attribuito al Wadingo: «Domus Bivonæ in
sicilia suscepit initium construente ruggerio equite senensi, et Bivonensi incola, et sacellum
s. Michaelis iuris Patronatus suæ familiæ construxit. Possessionem accepit F. laurentius Vas-
sallus sub præsidio D. Bonæ senensis illustris fæminæ»; cfr. i. ugurgieri AzzoliNi, op. cit.,
ii, tit. XXXii (Sanesi chiari per magnificenza e generosità), p. 318.
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TAVOLA I
Albero genealogico della famiglia Ugurgieri

WINIGISIO (788: legato regio presso il duca di Benevento)


RAGHINERIO
Conte WINIGIS (867: fondazione del monastero)
BERARDO
[…]
BERARDO I
RANIERI (1003: rifondazione del monastero)
GUINIGI
BERNARDO
RUGGIERI
UGO (1188: Console)
CIAMPOLO (1209: Console) ILDOBRANDO (1233: Provveditore di Biccherna)
RUGGIERO
CIAMPOLETTO BINDO
MEO MELLONE AGNOLO (1334: Esecutore di Gabella) CIONE
CECCO AZZOLINO (1380: Provveditore di Biccherna) BINDO
GIOVANNI ANGIOLO (1397: Provveditore di Biccherna) PIETRO
ZANO AZZOLINO (1422: Provveditore di Biccherna) MATTEO
NICCOLÒ (R. 1460 e 64) MAGIO (R. 1464; C. P. 1502)

ANTONIO (P. 1499) UGO (P. 1484) AGNOLO (P. 1481)


CAMILLO AGNOLO
ANTONIO NICCOLÒ
ALIBRANDO OTTAVIANO (1569) FAUSTO GIORGIO AUGUSTO EUSTACHIO
BANDINO GIROLAMO
FRANCESCO (1638) CAMILLO FAUSTO GIROLAMO (1639)
ALIBRANDO
FILIPPO TULLIO (Reprobato 1652)
GAETANO* Can. CAMILLO* BENEDETTO* FAUSTO
LORENZO CRISTOFANO TOMMASO*
FABIO LUIGI (1774) CURZIO (Adottato Fondi)

LELIO PASQUALE
MUZIO
LELIO
AZZOLINO

MUZIO CRISTOFANO LELIO (1669)

AZZOLINO* SALUSTIO* (Adottato Malavolti)


MUZIO (1781) ANGELO FRANCESCO M. U.
SALUSTIO (1795) VINCESLAO M. U. (1777)
LUIGI M. U. (1840)

I cavalieri stefaniani sono indicati con la data di apprensione dell'abito.


L’asterisco indica i soggetti che chiesero l’ammissione al patriziato senese ai sensi della legge del 31 luglio 1750.
(R. = riseduto; P. = Priore; C. P. = Capitano del Popolo)
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3. Le istanze inoltrate da membri della famiglia Ugurgieri all’Au-


ditore Generale di Siena, per un primo esame di procedibilità for-
male e sostanziale dell’accertamento legale riservato alla Deputazio-
ne sopra la nobiltà e cittadinanza, furono ben cinque63, tutte volte
all’inserimento negli elenchi del patriziato senese.
Pochi mesi dopo la promulgazione della nuova legge sulla nobiltà
e cittadinanza, il primo a presentare la domanda64, al fine d’essere
incluso nei registri insieme con il figlio Fausto e la sorella Cateri-
na65, fu Tommaso di Fausto Ugurgieri. La richiesta portava la data
del 14 aprile 1751 e conteneva l’elenco dei documenti allegati a nor-
ma dell’istruzione di attuazione della legge66: l’attestato dei primi
onori goduti dagli antenati, le fedi di battesimo dei discendenti, la
fede dei matrimoni con nobili donne e lo stemma gentilizio67.
L’incartamento si completava con la fede dell’Auditore Generale

63 AsFi, Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza, 24, inss. 54-58. Cfr. M. Aglietti,

Le tre nobiltà, cit., appendice, nn. 183-187, p. 276. si veda l’albero genealogico della famiglia
ugurgieri con le ammissioni al patriziato senese, risalente allo stipite comune: tavola ii.
64 AsFi, Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza, 24, ins. 54, cc. n. n., richiesta di

ammissione al patriziato di siena, presentata da tommaso ugurgieri, 14 aprile 1751.


65 Mentre a Firenze i capi famiglia presentavano le istanze di ammissione direttamente al-

la Deputazione, a siena esse dovevano essere esibite innanzi all’Auditore generale della città,
così come nelle altre città nobili «avanti li rispettivi loro iusdicenti» che, dopo un primo esa-
me dei documenti – da riscontrarsi direttamente sulle fonti pubbliche locali –, avrebbero do-
vuto rimettere «tutto immediatamente alli Deputatati» fiorentini. Cfr. Legge, art. X; Istruzione,
art. Xiii.
66 gli articoli iV, Vi e iX prescrivevano le prove documentali ordinarie da accludersi al-

l’istanza, laddove gli articoli V, Vii, Viii e X indicavano quelle alternative ed aggiuntive volte
a comprovare lo status nobiliare. in particolare, gli articoli iX e X si occupavano di risolvere
il problema della distinzione tra le famiglie fiorentine antiche e recenti. Con l’articolo X si
creò una vera e propria presunzione di legge: le famiglie magnatizie, che non potevano esibire
le fedi dei godimenti delle magistrature più antiche a causa della distruzione degli archivi co-
munali da parte del popolo, avrebbero potuto portare «in quella vece l’attestazione di trovarsi
i loro antenati descritti tra i grandi a i libri delli statuti, degli ordinamenti di giustizia ec. ed
altri libri publici esistenti originalmente nell’Archivio di Palazzo»; l’iscrizione nei cataloghi
redatti ai sensi della legislazione antimagnatizia restituiva, così, la prova della vetustà del pro-
prio status ai nobili di antica stirpe.
67 AsFi, Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza, 24, ins. 54, cc. n. n., fede attestante

l’autenticità dello stemma gentilizio e la nobiltà delle consorti per il ramo di tommaso ugur-
gieri, contenente una rettifica alla fede di nobiltà, rilasciata da Pietro Bambagini, cancelliere
dell’archivio delle riformagioni di siena, 2 aprile 1751. Fu il cancelliere Bambagini, in data 2
aprile 1751, l’estensore della scrittura attestante l’autenticità dello stemma gentilizio, nonché
la nobiltà delle consorti per il ramo di tommaso ugurgieri, «tutte nobili e discese da nobili fa-
miglie risedute della città di siena», in calce alla quale il funzionario si preoccupò di rettifica-
re l’albero genealogico in cui aveva erroneamente inserito, come primo ascendente, giovanni
anziché ugo e, come primo riseduto della lista, Angelo di giovanni al posto di Angelo di ugo,
membro del magistrato supremo nel 1518.
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di Siena, Giulio Franchini Taviani, del 13 luglio 1752, nella quale si


certificava che il postulante era «nobile e comunemente reputato ta-
le», usava «le armi ed insegne descritte nelle […] provanze», viveva
«delle proprie entrate, senza mistura di arti vili o meccaniche», e,
infine, che, oltre a non essere incorso «in alcun pregiudizio di ban-
do o altro», non esercitava «alcuna professione o impiego fisso»68 e
soltanto quando veniva estratto godeva delle magistrature della
città69.
L’attestazione più importante era, senza dubbio, la fede dei godi-
menti dei pubblici onori70, giacché rappresentava il titolo indispen-
sabile per la prova della nobiltà civica, la quale – si ripete ancora
una volta – traeva il fondamento dal godimento delle supreme ma-
gistrature municipali, in forza del diritto ereditario di elettorato pas-
sivo ai supremi maestrati comunitativi. Il certificato, rilasciato dal
cancelliere dell’archivio delle Riformagioni, Pietro Bambagini, il 26
marzo 1751, elencava, per gli ascendenti, l’anno della residenza, con
l’indicazione del bimestre del mandato, nonché, eventualmente, la
specificazione delle cariche ricoperte. La fonte delle notizie, fin dal
1371, era rappresentata dai Libri dei Leoni, di cui venivano indicati
numero e carta. Dal medesimo attestato, per di più, era facilmente
desumibile l’albero genealogico per la linea maschile, al quale, attra-
verso le fedi di battesimi e matrimoni, risultava piuttosto semplice
sommare, a completamento, le mogli ed i nuovi nati man mano che
si affacciassero alla vita, giacché le prescrizioni del nuovo corpo
normativo prevedevano, oltretutto, che la nascita di «alcun Figliolo,
o Figliola legittimo naturale», comprovata per mezzo della «Fede
autentica del Battesimo»71, dovesse essere prontamente trascritta sia

68 l’Auditore generale si curò di specificare e certificare come il postulante non eserci-

tasse attività manuali e non fosse gravato da carichi penali, ambedue cause ostative all’aggre-
gazione in questione che, se fossero sopravvenute alla stessa, avrebbero addirittura causato la
perdita della nobiltà e la conseguente cancellazione dai Libri d’Oro. Cfr. Legge, tit. iV (Della
perdita della nobiltà), artt. XXV-XXXii; Istruzione, art. ii; M. Aglietti, Le tre nobiltà, cit.,
pp. 74-81.
69 AsFi, Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza, 24, ins. 54, cc. n. n., fede attestante

la vita more nobilium di tommaso ugurgieri e l’autenticità dei documenti, rilasciata da giulio
Franchini taviani, Auditore generale di siena, 13 luglio 1752.
70 Ivi, cc. n. n., fede attestante la nobiltà della famiglia ugurgieri e certificante il godi-

mento dei pubblici onori per il ramo di tommaso, rilasciata da Pietro Bambagini, cancelliere
dell’ archivio delle riformagioni di siena, 26 marzo 1751.
71 Legge, art. Xii. i certificati di nascita verranno introdotti soltanto in età napoleonica.
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nelle copie, tenute in ciascuna città nobile, sia negli originali dei Li-
bri d’Oro, custoditi a Firenze72: ad assolvere l’obbligo di legge fu
Curzio73, figlio secondogenito di Tommaso. La procedura di ammis-
sione, come prevedeva la presentazione delle domande direttamente
alla commissione ad hoc, corredate da documenti «autentici e in
buona forma»74, così implicava, per il buon esito dell’istruttoria, il
parere favorevole del medesimo organo; ma il giudizio positivo, sep-
pur autorevole, non era sufficiente per l’immediata annotazione nei
cataloghi, poiché l’iter poteva perfezionarsi solo subordinatamente
all’autorizzazione emanata con decreto del principe. Il deliberato
granducale del 16 aprile 1753 pose fine al procedimento probatorio
e rese esecutiva l’iscrizione al patriziato senese della famiglia Ugur-
gieri per il ramo di Tommaso di Fausto.
Gli ulteriori quattro inserti, conservati nella filza della famiglia
Ugurgieri, contenevano una documentazione analoga a quella alle-
gata da Tommaso in conformità alla Legge del 1750.
Azzolino di Muzio produsse il fascicolo delle prove con la richie-
sta di iscrizione negli indici del patriziato cittadino – avanzata il 30
settembre 1751 ed accolta con il decreto del 28 maggio 1753 – per
sé e per i propri figli, ben sei, cui andarono ad aggiungersi Salustio e
Giulia, discendenti del primogenito Muzio, aggregati il 21 agosto
178975.

72 Ivi, art. Xiii. l’Auditore generale di siena, come gli altri iusdicenti delle città nobili,

avrebbero dovuto «rimettere in Firenze alla fine d’ogni anno la nota de’ nati fatti [...] scrivere
ne’ registri, colle filze delle fedi del battesimo», per l’aggiornamento periodico degli originali.
73 Nel 1776, Angelo di Adriano Fondi, con testamento del 7 marzo 1763, rogato da ser

Camillo salvucci, istituì suo erede universale Curzio di tommaso ugurgieri, con l’obbligo di
assumere nome, arme e Monte della famiglia Fondi. Cfr. Assi, Concistoro, 2665, c. 475r. Nei
documenti addotti da Curzio ugurgieri per l’iscrizione della sua progenie nei registri del patri-
ziato, appariva la specificazione del radicale cambiamento del suo nome, da Curzio ugurgieri
ad Angelo Fondi.
74 Legge, art. X.
75 AsFi, Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza, 24, ins. 55, cc. n. n. il fascicolo

conteneva nove documenti, qui di seguito ordinati per data: 22 settembre 1751, fede dei godi-
menti dei pubblici onori, rilasciata da Pietro Bambagini, cancelliere delle riformagioni; 24
settembre 1751, fede dei matrimoni nobili con donne delle famiglie Bandinelli, Malavolti,
sozzifanti, orlandini, rilasciata da Bernardino Castellucci, cancelliere dell’ufficio della gabel-
la dei contratti; 25 settembre 1751, fede di battesimo dei figli di Azzolino: Muzio (20 giugno
1730), lelio (29 aprile 1751), giulia (2 maggio 1743), girolama (13 marzo 1746), olimpia
(9 febbraio 1747), Maria Caterina (27 febbraio 1748), rilasciata da lattanzio Balestri, cancel-
liere della Biccherna; 25 settembre 1751, fede contenente l’attestazione dell’autenticità dello
stemma e della nobiltà delle consorti, nonché l’albero genealogico per il ramo in questione, ri-
lasciata da Pietro Bambagini, cancelliere delle riformagioni; 30 settembre 1751, richiesta di
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Il 30 dicembre 1751, Salustio Ugurgieri, fratello utrinque con-


giunto di Azzolino, ma divenuto membro della consorteria Malavol-
ti76 in forza dell’adozione da parte di Angelo di Emilio, suo avo ma-
terno, disposta con il testamento del 29 settembre 170177, sottopose
all’Auditore Generale di Siena le scritture necessarie alla inclusione,
insieme con il figlio Angelo, nel novero dei patrizi senesi. La fede
dei godimenti, così come l’albero genealogico (sovrastato dallo
stemma della casata adottiva) e le denunzie dei matrimoni, si riferi-
va agli Ugurgieri per il ramo di Muzio, suo padre carnale78.

ammissione al patriziato senese; 18 luglio 1752, fede attestante la vita more nobilium e l’au-
tenticità dei documenti, rilasciata da giulio Franchini taviani, Auditore generale; 21 agosto
1789, tre fedi presentate da Muzio di Azzolino: due di battesimo, dei figli salustio (25 marzo
1775) e giulia (22 marzo 1779), rilasciate il 10 agosto 1789 da giuseppe Bandiera, cancellie-
re aggiunto della Comunità di siena; la terza del matrimonio di Muzio con gertrude di Nic-
colò Bichi Borghesi, rilasciata l’11 agosto 1789 da giuseppe Ciolfi, parroco di san Pietro in
Banchi, e autenticata il 14 agosto 1789 da Pio innocenzo Palagi, attuario arcivescovile.
76 Per i Malavolti, si veda lo studio di M. MelFA, La famiglia Malavolti di Siena nell’Or-

dine di Santo Stefano, in «quaderni stefaniani», XViii (1999), supplemento, pp. 137-184. in
particolare, vengono analizzate le presenze nella religione di santo stefano di Vinceslao di
Angelo e luigi di Vinceslao Malavolti ugurgieri, discendenti di salustio di Muzio ugurgieri,
membri a pieno titolo della consorteria Malavolti e perciò esclusi dalla presente ricostruzione
delle vicende concernenti la famiglia ugurgieri.
77 Adottato Malavolti nel 1701. Cfr. g. BiChi, Ms. cit., cc. 137, 139-146, 148 e 149r. An-

gelo d’emilio Malavolti istituì primogenitura mascolina sulla progenie delle proprie figlie,
con testamento del 29 settembre 1701, rogato da ser Alessandro salvucci, con l’obbligo di as-
sumere armi e cognome, senza mistura, della famiglia Malavolti. l’eredità passò a salustio di
Muzio ugurgieri, primo figlio maschio di Maria Malavolti. Cfr. ivi, c. 149r. AsFi, Deputazio-
ne sopra la nobiltà e cittadinanza, 24, ins. 57, cc. n. n., particolare del testamento di Angelo di
emilio Malavolti, rogato da Alessandro salvucci il 29 settembre 1701, s. d. si noti come l’in-
serto riguardante l’istanza di salustio Malavolti ugurgieri sia stato incluso nell’analisi giacché
il postulante utilizzò come prova della vetustà del proprio status nobiliare le residenze nei su-
premi maestrati dei propri antenati di casa ugurgieri; mentre non si è tenuto conto delle fedi
di aggregazione dei suoi discendenti.
78 AsFi, Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza, 24, ins.57, cc. n. n. Ai fini della ri-

costruzione delle vicende della consorteria ugurgieri, devono tenersi in considerazione, tra i
documenti contenuti nell’inserto in parola, i seguenti: la richiesta di ammissione al patriziato
di siena, presentata da salustio Malavolti ugurgieri il 30 dicembre 1751; la fede attestante la
nobiltà della famiglia ugurgieri e certificante il godimento dei pubblici onori per il ramo di
Muzio, rilasciata da Pietro Bambagini, cancelliere dell’archivio delle riformagioni, il 15 apri-
le 1751; la fede attestante i matrimoni con donne nobili per il ramo di salustio Malavolti
ugurgieri, estratta dai libri Ducali, rilasciata da Bernardino Castellucci, cancelliere dell’uffi-
cio della gabella dei contratti, il 30 settembre 1751; l’albero genealogico della famiglia ugur-
gieri per il ramo di salustio; il particolare del testamento di Angelo di emilio Malavolti, roga-
to dal notaio Alessandro salvucci il 29 settembre 1701; la fede attestante la vita more nobi-
lium di salustio ugurgieri e l’autenticità dei documenti, rilasciata da giulio Franchini taviani,
Auditore generale, il 18 luglio 1752. A differenza degli altri incartamenti, nell’istanza si indi-
cava, in più, che «lo stato suo presente di detto signor comparente ascenderà a scudi mille, e
più di rendita annuale».
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Seguì l’istanza congiunta dei due fratelli Gaetano e Camillo, data-


ta 31 dicembre 1751, accompagnata da tre carte soltanto, poiché,
«avendo i medesimi in vista l’estinzione prossima della loro famiglia
essendo il primo di essi celibe sassogenario e di facoltà tenuissime
ed il secondo ecclesiastico» (canonico dell’Opera Metropolitana),
«a fine di risparmiar spese a sé medesimi e tedio a chi leggerà la pre-
sente scrittura, si sono ristretti a produrre quel tanto che precisa-
mente comanda la legge, omettendo volontariamente quel di più
che potesse da essi prodursi per decorazione della loro famiglia e ri-
serbatasi la facoltà di poter esibire più abbondanti se mai gli fussero
necessari»79.
Il decreto granducale del 16 luglio 1753 rese esecutivo il parere
favorevole espresso dall’Auditore Generale di Siena in merito all’in-
serimento nei Libri d’Oro sia di Salustio, sia di Gaetano e Camillo
Ugurgieri.
L’ultimo, in ordine cronologico, ad aspirare al riconoscimento
formale del proprio status fu Benedetto di Filippo Ugurgieri che, il
15 aprile 1752, addusse una documentazione completa e più che
sufficiente a comprovare l’antica nobiltà della propria stirpe. Il po-
stulante ricevette la gratificazione dell’iscrizione nei cataloghi della
classe del patriziato senese il 31 ottobre 1753, della quale poterono
compiacersi e fregiarsi soltanto i suoi discendenti, essendo egli spi-
rato nel gennaio di quello stesso anno80.

79 AsFi, Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza, 24, ins. 56, cc. n. n. lo stato civile

dei postulanti, entrambi celibi, restrinse l’incartamento alla produzione dei documenti stretta-
mente necessari secondo le prescrizioni dell’Istruzione (artt. iV-X): la richiesta, datata 31 di-
cembre 1751; l’albero genealogico e lo stemma, entrambi privi di data, ma presumibilmente
scritti dalla stessa mano che aveva redatto la domanda; la fede dei godimenti dei pubblici ono-
ri, rilasciata e sottoscritta da Pietro Bambagini, cancelliere delle riformagioni, il 9 dicembre
1751; l’attestato dell’Auditore generale giulio Franchini taviani, del 12 agosto 1752.
80 AsFi, Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza, 24, ins. 58, cc. n. n. il contenuto

del fascicolo ricalcava lo schema tralatizio: richiesta di ammissione al patriziato di siena, pre-
sentata da Benedetto ugurgieri, 15 aprile 1752; fede attestante la nobiltà della famiglia ugur-
gieri e certificante il godimento dei pubblici onori per il ramo di Benedetto, rilasciata da Pie-
tro Bambagini, cancelliere dell’ archivio delle riformagioni di siena, 22 settembre 1751; fede
attestante l’autenticità dell’albero genealogico e dello stemma gentilizio della famiglia ugur-
gieri, rilasciata da Pietro Bambagini, cancelliere dell’ archivio delle riformagioni di siena, 11
dicembre 1751; fede di battesimo di Anna di lorenzo di Benedetto ugurgieri, rilasciata da
lattanzio Balestri, cancelliere dell’ufficio della Biccherna di siena, 17 aprile 1752; fede atte-
stante la vita more nobilium di Benedetto ugurgieri e l’autenticità dei documenti, rilasciata da
giulio Franchini taviani, Auditore generale di siena, 20 marzo 1753; fede attestante il matri-
monio di Benedetto di Filippo ugurgieri con isabella di Alfonso Venturi, rilasciata da seba-
stiano Palagi, cancelliere arcivescovile di siena, 3 gennaio 1774.
176

TAVOLA II
Albero genealogico della famiglia Ugurgieri con le ammissioni al patriziato senese, risalente allo stipite comune

WINIGISIO
[…]
RUGGIERI
UGO
[…]
AZZOLINO

ANTONIO UGO
CAMILLO AGNOLO
ANTONIO
ALIBRANDO
CAMILLO LELIO FAUSTO
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ALIBRANDO MUZIO BANDINO


LELIO FAUSTO
AZZOLINO
GAETANO* Can. CAMILLO* MUZIO
FILIPPO TULLIO (Reprobato)
BENEDETTO* FAUSTO
AZZOLINO* SALUSTIO* (Ad. Malavolti) LORENZO TOMMASO*
MUZIO (1781) ANGELO FRANCESCO FABIO (1774) CURZIO (Ad. Fondi)
SALUSTIO (1795) VINCESLAO M. U. (1777)
LUIGI M. U. (1840)

I cavalieri stefaniani sono indicati con la data di apprensione d’abito.


L’asterisco indica i soggetti che ottennero l’ammissione al patriziato senese ai sensi della legge del 31 luglio 1750.
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4. I cavalieri stefaniani si distribuirono su un arco temporale di


oltre due secoli (1569-1795), attraversando tutta l’epoca del Princi-
pato, per arrivare fino al passaggio di dinastia, dai Medici ai Lorena,
con la costante gratificazione della grazia magistrale della vestizione,
la quale assunse un valore confermativo della perpetuazione dinasti-
ca – aristocratica ed oligarchica –, secondo tratti caratteristici ine-
stinguibili, sia nella struttura sociale, sia nell’apparato istituzionale,
come si è ampiamente premesso.
***
Il primo a vestire l’abito di cavaliere milite per giustizia81, il 15 ago-
sto 156982, fu Ottavio83, nato da Agnolo, figlio di Ugo di Azzolino di
Agnolo e di Agnese di Niccolò di Trinoccio Ugolini, e da Felice, figlia
di Aldello di Placido Placidi e di Cassandra di Giacomo Pecci84.
A seguito della supplica e del benigno rescritto granducale85, in
conformità alle norme dettate nella deliberazione del Capitolo
Generale86 del 14 maggio 156587, si tennero prima le provanze se-

81 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 19, pp. 33-34.
82 AsPi, S. Stefano, 575, cc. 32s-32d, 99s, apprensione dell’abito di cavaliere milite per
giustizia, 15 agosto 1569.
83 si tratta del padre di isidoro ugurgieri Azzolini, autore delle Pompe Sanesi, come da

egli stesso affermato nella seconda parte della sua opera sulla storia di siena. Cfr. i. ugurgie-
ri AzzoliNi, op. cit., ii, XXXi (Sanesi cavalieri illustri), p. 305: «Cavalieri di santo stefano.
lXXXi. ugurgieri. ottavio d’Angelo Padre dell’Autore il 15 d’Agosto 1469 [1569]».
84 AsPi, S. Stefano, 21, ins. 4, provanze di ottavio ugurgieri.
85 AsPi, S. Stefano, 1086, ins. 347, c. 902, supplica di ottavio ugurgieri e rescritto: «il

Consiglio informi sua eccellenza illustrissima». sia la supplica che il rescritto mancavano
della data.
86 il Capitolo generale rappresentava la base dell’organizzazione dell’ordine, così come

il gran Maestro il vertice indiscusso. riunito ogni tre anni a Pisa, composto obbligatoriamen-
te da tutti i cavalieri toscani, esplicava principalmente funzioni normative (di riforma degli
statuti), ed elettorali (di nomina, in particolare, delle «dignità capitolari maggiori» o «gran
croci»). All’interno del consesso venivano eletti i sedici «capitolanti» con «piena e libera au-
torità di potere esaminare e deliberare tutte le cose»; ma, affinché le deliberazioni divenissero
esecutive, era necessaria la sanzione del gran Maestro. Appare chiaro come l’assemblea gene-
rale venisse convocata ad pompam, per la solenne cerimonia d’insediamento e per la riunione
conclusiva, sede della pubblicazione delle decisioni assunte dal ristretto organo eletto in seno
ad essa. Per uno studio completo degli ordinamenti e degli organi di governo dell’ordine di
santo stefano, dal 1562 al 1859, e per rintracciare tutti i dignitari, impiegati e funzionari alla
guida dell’ordine nelle varie epoche, grazie alle copiose appendici, è imprescindibile stru-
mento il lavoro di D. BArsANti, Organi di governo, dignitari e impiegati dell’Ordine di S.
Stefano dal 1562 al 1859, Pisa, edizioni ets, 1997; in particolare, cap. i, pp. 1-27. inoltre,
per l’aspetto strettamente normativo connesso al Capitolo generale, cfr. Statuti, cit., tit.Vi
(Del Capitolo Generale), pp. 190-206.
87 AsPi, S. Stefano, 641, ins. 3, cc. 193r-193v, deliberazione del Capitolo generale, 14
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grete88, dinanzi all’assemblea dei cavalieri senesi, presieduta dal balì


Ippolito di Marcello Agostini, e successivamente le provanze pub-
bliche, dinanzi a monsignor Bernardino Maccabruni, vicario dell’ar-
civescovo Francesco Bandini Piccolomini.
Il primo capitolo delle provanze89, conteneva la dimostrazione
del requisito più importante da appurare, che verteva, ancora una
volta, sulla nobiltà generosa dei quarti90, nonché delle altre famiglie

maggio 1565. si ricordi che, in tale secondo Capitolo generale, la deliberazione in questione,
sanzionata da Cosimo i, stabilì che in tutte le località diverse da Pisa e Firenze, sedi rispettiva-
mente del Consiglio dei Dodici e dell’Auditore, il giudice competente per le provanze pubbli-
che sarebbe stato il tribunale Diocesano, nella persona del vicario arcivescovile o vescovile.
la portata di tale norma superava i confini del granducato, colmando l’incertezza che aveva
caratterizzato i primissimi anni di vita dell’ordine, in cui non vigevano regole fisse a riguar-
do; la prassi era quella di rivolgersi al giudice più autorevole della città (a siena, per esempio,
la competenza era posta nelle mani del Capitano di giustizia, che era il supremo giudice pena-
le). Però i problemi non venivano risolti del tutto, poiché , mentre a Pisa e Firenze i processi si
svolgevano dinanzi a due organi interni all’ordine, che avevano piena cognizione degli statu-
ti, della giurisprudenza e della prassi, nelle città fuori dal granducato o addirittura dalla stessa
penisola italiana (in questo primo periodo vi sono molti cavalieri spagnoli), i tribunali aditi
non erano – o potevano non essere – a conoscenza delle norme da applicare. Per questo moti-
vo, la medesima deliberazione del 1565 sancì che in tali località, sprovviste di organi stefania-
ni, dovesse partecipare al processo anche un cavaliere assistente, per affiancare il giudice e
informarlo sulle norme e prassi da applicare, agendo, quindi, come un vero e proprio consi-
gliere. tale figura innovativa, la cui presenza era necessaria a pena di nullità dell’intero pro-
cesso, sarebbe intervenuta, naturalmente, a spese del pretendente, il quale avrebbe dovuto sce-
glierlo nella stessa città, oppure in quella più vicina, ove non esistesse affatto. i requisiti del-
l’ammissione e le relative procedure furono poi compiutamente disciplinati dal testo statutario
e dalle successive addizioni: Statuti, cit., tit. ii (Del modo di ricevere i Cavalieri), cap. iii
(Delle probazioni, che si debbano fare innanzi, che alcuno si accetti), pp. 94-104.
88 Ibidem, si deve precisare che la duplicità del processo sarebbe venuta a mancare nelle

località in cui non fossero presenti almeno «sei cavalieri o maggior numero» che potessero
formare l’assemblea dei cavalieri, solitamente i più anziani ed autorevoli. inoltre, si deve tener
presente che la «Consulta» si pronunciava sull’ammissibilità dei quarti basandosi sulla mera
«pubblica voce e fama» della nobiltà della famiglia in generale, a prescindere dal ramo preso
in considerazione (che, per esempio, poteva aver perso la nobiltà per l’esercizio di arti vili e
meccaniche), senza bisogno di alcuna prova concreta relativa ai componenti dell’agnazione,
necessaria a partire dal 1617, in forza delle addizioni prime agli statuti. A siena, la votazione
avveniva a scrutinio segreto, quarto per quarto, attraverso l’ausilio dei lupini bianchi e neri,
espressione, rispettivamente, del voto positivo o negativo.
89 AsPi, S. Stefano, 21, ins. 4, cc. n. n., provanze segrete di ottavio ugurgieri. i capitoli

delle provanze segrete sono composti da tredici articoli enumeranti le domande attraverso le
quali interrogare i testimoni. si tratta dell’indagine sulla nobiltà delle famiglie dei quattro
quarti (ma anche di quelle ad esse legate da vincoli di affinità), sulla legittimità dei matrimoni,
su legittimità di nascita e qualità personali del pretendente, sulla vita more nobilium e sull’or-
todossia religiosa degli uomini e delle donne vissuti e viventi. ovviamente, i testimoni dove-
vano dichiarare che ogni notizia fosse vera «per comune opinione, pubblica voce e fama».
90 Statuti, cit., tit. ii (Del modo di ricevere i Cavalieri), cap. iii (Delle probazioni, che si

debbano fare innanzi, che alcuno si accetti), pp. 94-95. si trattava di dimostrare la nobiltà del
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presenti nell’albero genealogico del candidato per legame di affi-


nità, annoverate, «antichamente et per tanto tempo in qua che la
memoria dell’homini non, è, in contrario», fra le «fameglie e casate
nobili et honorate della città di Siena», poiché «li homini descen-
denti da esse sempre sono stati e sono honorati, hanno reseduto et
quotidianamente resegghano nelli magistrati suppremi della città»,

genus: non bastava che il pretendente fosse nobile, ma era necessario che lo fossero anche i
suoi ascendenti. Fino al Capitolo generale del 1728 era sufficiente risalire fino alla quarta ge-
nerazione, vale a dire fino agli abavi; dopodichè sarà indispensabile arrivare fino ai quattro
atavi: AsPi, S. Stefano, 647, ins. 17, partito n. 40. Detta deliberazione capitolare venne trasfu-
sa negli statuti della religione con le addizioni del 1746: Statuti, cit., tit. ii, cap. iii, addizioni
terze, n. 1, p. 102. l’antichità delle famiglie era la caratteristica principale della nobiltà caval-
leresca, ma quale fosse la prova di tale requisito non veniva precisato dagli statuti dell’ordi-
ne, i quali si limitavano a sancire che «Chiunque desidera d’esser ricevuto in Cavaliere […]
bisogna prima, che per privilegi, o per fede autentica di testimonj, o della Comunità di quei
luoghi donde sarà disceso, provi, e verifichi ciascuna dell’infrascritte cose, cioè. Ch’egli stes-
so, Padre, Madre, Avi, ed Avole dal lato Paterno e Materno, sieno discesi da casate nobili, che
habbiano avuto, o veramente sieno stati atti a potere avere, e godere nella Patria loro quelle
maggiori dignità, e gradi che solo i più nobili gentiluomini sogliono avere, e godere; dichia-
rando nominatamente quali gradi e dignità». le norme statutarie, tenendo conto della diversa
provenienza dei pretendenti, facevano un generico riferimento agli usi locali. Da parte dei
candidati toscani, il requisito in questione veniva dimostrato attraverso il godimento delle ma-
gistrature cittadine, ovvero per mezzo della nobiltà civica. Non si esigeva che tutti fossero sta-
ti effettivamente riseduti, era sufficiente che gli antenati «veramente sieno stati atti a potere
avere, e godere […] quelle maggiori dignità». la mancanza del godimento, innanzitutto, do-
veva essere imputabile a fatti non ostativi, vale a dire che non producessero la decadenza dallo
status nobiliare, e, in secondo luogo, se si protraeva per più generazioni, poteva addirittura di-
venire una vera e propria presunzione di decadenza da detta condizione. si deve aggiungere
che se da un lato, in molte località (così come per i magnates nella toscana comunale), il più
antico modo di acquisizione della nobiltà veniva identificato con l’investitura feudale (vanto
di alcune famiglie del granducato, ma soprattutto del regno di Napoli, del regno di sicilia e
del Piemonte), dall’altro si assisteva a processi a dir poco singolari, primi fra tutti quelli degli
aspiranti spagnoli (campione di grande rilevanza) che, in patria, erano considerati nobili gra-
zie alla mera esenzione fiscale. Per quest’ultimo aspetto, si rimanda a M. Aglietti, Le tre no-
biltà, cit., p. 120. tuttavia, fornire le prove della nobiltà degli antenati non era sempre neces-
sario. Nel caso, ad esempio, del fratello di un cavaliere, non si doveva provare alcunché a ri-
guardo (sempre che si trattasse, ovviamente, di fratelli utrinque congiunti), poiché le prove
della nobiltà di tutti e quattro i quarti erano già state acquisite agli atti e sarebbe stato super-
fluo, oltre che dispendioso, sostenere un nuovo processo. Naturalmente, identico ragionamen-
to valeva per il figlio di un cavaliere che doveva preoccuparsi di dimostrare il solito requisito,
ma solo per i quarti materni, e così via per tutti gli altri casi; mentre rimanevano indispensabili
le provanze de vita, et moribus. tutto ciò appariva chiaramente nelle modifiche apportate, sot-
to il gran magistero di Ferdinando ii (granduca dal 1621 al 1670), dalle addizioni seconde,
del 1665: Statuti, cit., tit. ii (Del modo di ricevere i Cavalieri), cap. iii (Delle probazioni, che
si debbano fare innanzi, che alcuno si accetti), addizioni seconde, n. 3, p. 101. si deve però
rammentare che, in tutto ciò che riguardava l’ordine di santo stefano, l’ultima parola spetta-
va sempre al gran Maestro al quale era riservata la facoltà di derogare agli statuti: era libero
di accettare un aspirante il cui processo avesse avuto esito negativo, così come, viceversa, di
respingerlo nonostante tutte le carte fossero in regola.
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così come, più in generale, erano ammessi al godimento di tutte le


dignità pubbliche, solitamente riservate ai gentiluomini.
Il fascicolo processuale conteneva la fede dei godimenti dei pub-
blici onori91, datata 27 luglio 1569, redatta, in forma generica92, dal
Segretario delle leggi Antonio Maria Petrucci, per mandato del Ca-
pitano del Popolo e dei Priori93, i quali si limitarono ad attestare
che le quattro stirpi erano comprese fra le primarie della città e che
ad esse si solevano attribuire, di pieno diritto, tutti i magistrati riser-
vati soltanto ai nobili94. L’attestato del supremo magistrato cittadino
rappresentava l’unico caso in cui gli statuti pretendessero un atto
scritto in aggiunta alle prove testimoniali.
Erano altresì accluse le riproduzioni degli stemmi gentilizi, fra i
quali quello del padre, costituito da uno scudo d’oro con tre leoni
azzurri sostenenti una ruota rossa ad otto raggi – che è stata sempre

91 AsPi, S. Stefano, 21, ins. 4, cc. n. n., attestato del Capitano del Popolo e dei Priori del

Comune di siena, sottoscritta dal segretario delle leggi Anton Maria Petrucci, 27 luglio 1569.
«inter ceteras huius civitatis familias, quæ antiquitate ac nobilitate fulgent, quæque omnibus
magistratibus et patriis honoribus, supremisque dignitatibus, et elapsis temporibus illustrate
fuerunt, et ad præsens illustrantur, infrascriptæ quattuor sunt, quæ de ugorogeriis, de Placitis,
de Peccis, et de ugolinis nuncupantur. harum nobilitatem nobis maxime consciam, cum (ad
præces octavii de ugorogeriis concivis nostri) aliis quoque privatis et publicis personis, ac
Principibus omnibus propalare velimus, Nos Capitaneus Populi Prioresque gubernatores qui
pro sua excellentia illustrissima in hac senensi Civitate supremum gerimus magistratum,
præsentium litterarum, serie, universis ac singulis fidem facimus, dictas cognationes ugoroge-
riorum nempe, Placitorum, Pecciorum et ugolinorum, inter primarias huius civitatis haberi,
cunctosque magistratus (qui ceteris nobilioribus impartiri solent) ipsis iure merito ad præsens
deberi, sicuti longissimis elapsis temporibus quam sepe, magna cum laude gesserunt. in quo-
rum omnium perenne testimonium præsentes litteras scribi, pariterque subscriptione, as sigil-
lorum impressione muniri, mandavimus. ex Palatio Publico senensi sexto calendæ augusti
1569. Antonius Maria Petruccius, secretarius».
92 successivamente, nell’epoca di Cosimo ii (gran Maestro dal 15 febbraio 1609 al 28

febbraio 1621), le addizioni prime agli statuti, del 1617, sarebbero andate ad innovare il con-
tenuto delle fedi dei godimenti, da redarsi non più in forma generica, ma analitica: «Non basta
a sua Altezza, che nelle fedi delle Comunità si attesti la nobiltà delle famiglie, […] con dire
generalmente, che hanno goduto dei primi gradi; ma vuole, che vi si specifichi quali sieno i
supremi gradi di quel luogo, e quali, e quanti, e quando le persone di quelle famiglie habbiano
goduto, e da che autorità di scritture, o libri lo cavino». Cfr. Statuti, cit., tit. ii (Del modo di ri-
cevere i Cavalieri), cap. iii (Delle probazioni, che si debbano fare innanzi, che alcuno si ac-
cetti), addizioni prime, n. 3, p. 100.
93 la fede è rilasciata dal Concistoro, primo magistrato della città, che anche nell’età del

Principato conservava l’antica qualifica di suprema magistratura.


94 sulla nobiltà civica senese in generale, si fa riferimento ai seguenti studi: D. MArrArA,

Riseduti e nobiltà, cit., passim; AA.VV., I Libri dei Leoni. La nobiltà di Siena in età medicea
(1557-1737), cit., passim; AA.VV., Atti del Convegno: «L’Ordine di Stefano e la nobiltà sene-
se» (Pisa, 8 maggio 1998), cit., passim.
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l’arme degli Ugurgieri di qualunque ramo – sormontati da un’aquila


nera, concessione dell’Imperatore Carlo IV del 135795, onorificenza
alla quale tennero costantemente tutti i discendenti di questa fami-
glia96.
I capitoli dal secondo all’ottavo riguardavano la legittimità dei
matrimoni e delle nascite degli ascendenti del comparente. Si tratta-
va, nella totalità, di unioni coniugali legittime, da cui, conseguente-
mente, derivavano altrettante filiazioni legittime.
Nel nono capitolo si dichiarava la legittimità della nascita dello
stesso candidato97.
Il decimo e l’undicesimo, relativi agli uomini e alle donne nomi-
nati negli articoli, concernevano la bontà dei costumi, con implicito
riferimento all’ortodossia religiosa, e la condotta di vita more nobi-
lium, la quale implicava che fossero «persone ricche e solite vivere
[…] delle entrate e facoltà loro», senza esercitare arti vili o meccani-
che, ritenute causa di decadenza dalla nobiltà98.

95 Cfr. i. ugurgieri AzzoliNi, op. cit., i, XiV (Sanesi teologi insigni), p. 359: «XXXXV.

Fra Antimo di iacomo ugurgieri insigne Maestro della sagra teologia lesse publicamente nel-
l’università di Padova circa gli anni 1350 e 1360 come scrivono il Malavolti, ed il tommasi,
e salì in credito così grande appresso la republica di siena, che nell’anno 1357 il mandò Am-
basciatore a Carlo iiii per ottenere nuovo privilegio dello studio publico; il quale, se ben fu
fondato secoli avanti col tempo, nondimeno o per occasione della peste, o delle guerre era sta-
to serrato. ottenne da sua Maestà il privilegio desederato per l’università, come si legge ne’
suddetti Autori, e nel medesimo privilegio è l’Aquila imperiale per la nostra famiglia degli
ugurgieri».
96 Cfr. l. grottANelli, Genealogia e storia degli Ugurgieri, cit., p. 9. l’Autore, nel de-

scrivere le insegne della famiglia ugurgieri, si soffermò ad evidenziare che «la repubblica se-
nese, meno gelosa delle altre, tollerava si usassero negli stemmi le concessioni onorifiche o
degli imperatori o dei re di Francia o dei papi».
97 Statuti, cit., tit. ii (Del modo di ricevere i Cavalieri), cap. ii (Della qualità di coloro,

che devono essere accettati nell’Ordine), pp. 91 e 93. le norme statutarie recitavano: «Non
vogliamo, che nessuno, il quale non sia legittimamente nato possa essere ammesso alla pro-
fessione dell’ordine della nostra religione» e si faceva eccezione soltanto «se già non fusse
figliuolo d’alcun signore di titolo, come sono Duchi, Principi, Marchesi, o Conti di grande
stato; ed i figliuoli illegittimi d’altri signori, ancor che abbiano giurisdizione, e vassalli, deb-
bano mettersi a partito, e passare per il Consiglio della religione». le addizioni seconde, del
1665, precisarono che l’eccezione sarebbe valsa soltanto per i figli illegittimi dei «Principi su-
premi, o del loro sangue».
98 Ivi, p. 95. in realtà, gli statuti della religione, nell’ambito «Delle probazioni, che si deb-

bano fare innanzi, che alcuno si accetti», richiedevano addirittura «Ch’egli stesso, Padre, Ma-
dre, Avi, ed Avole dal lato Paterno, e Materno, […] non habbiano esercitato arte alcuna». Nella
prassi, invece, al fine di impedire il contrasto con le tradizioni municipali italiane e, quindi, di
conciliare gli ideali cavallereschi e le istituzioni nobiliari con la storia del comune italiano, fat-
to essenzialmente da mercanti, si adottò una interpretazione elastica della disposizione, poiché
l’applicazione letterale avrebbe comportato l’esclusione di molte famiglie nobili che proveni-
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Il dodicesimo capitolo conteneva le provanze de vita et moribus


del pretendente, «d’età di anni vinti e più […] di buoni costumi, di
buona vita, reputatione expettatione et fama»99.
Il tredicesimo ed ultimo ribadiva che di tutte le dichiarazioni
enunciate negli articoli «fu et è publica voce e fama».

vano dai ranghi del popolo medievale e continuavano ad esercitare la mercatura e ad essere im-
pegnate nelle arti. Ivi, tit. XVii (Delle proibizioni e pene), cap. i (Che i Cavalieri non esercitino
arti proibite, e vili, nè servano, salvo a Principi, e gran personaggi), p. 309. questo capitolo,
che si occupava dell’esercizio di «arti proibite, e vili», prescriveva che «Nessuna cosa è, né più
biasimevole a un Cavaliere, né più vergognosa, che esercitare alcuna arte proibita dalle leggi, o
vile per sé stessa. […] e se alcuno sarà d’animo così plebeo, che eserciti personalmente arti vi-
li, ovvero faccia esercizj meccanici (di quelli massimamente, che secondo gli statuti gli avereb-
bono potuto impedire la grazia dell’Abito, quando si fusse saputo, che esercitati gli avesse pri-
ma che fusse fatto Cavaliere) incorra ipso facto, in pena della privazione dell’Abito». inoltre,
sulla definizione di arti vili e meccaniche e sulla decadenza dallo status nobiliare, correlata al
loro esercizio, si veda D. MArrArA, Riseduti e nobiltà, cit., pp. 53-58.
99 Statuti, cit., tit. ii (Del modo di ricevere i Cavalieri), cap. ii (Della qualità di coloro,

che devono essere accettati nell’Ordine), pp. 91-94. le qualità personali del pretendente ver-
tevano sulla vita e sui costumi. in particolare, per quanto concerneva l’età, il limite minimo
ordinario di diciotto anni venne subito interpretato come mero compimento del diciassettesi-
mo. le norme statutarie, inoltre, consentivano «che il gran Maestro possa per i suoi domestici
e familiari servigi eleggersi sei giovanetti, i quali più gli parranno, o per Cavalieri Militi, pur-
ché sieno nobili, o per Cavalieri serventi, ai quali non possa porsi obbietto, […] di minore età,
[…] e possa parimente […] dispensare circa l’età per ispeciale privilegio, col far dar l’Abito a
chi non havesse anni diciassette forniti». Ne derivava che, nell’ambito dei candidati ancora in
minore età, si distinguessero, da un lato, i paggi magistrali e, dall’altro, tutti coloro che non
avessero ancora diciassette anni compiuti. le addizioni prime, del 1617, precisarono che il ca-
valiere milite «ascritto al numero de’ sei Paggi» avrebbe goduto di tale privilegio fino al com-
pimento del diciassettesimo anno, momento in cui, immediatamente, gli sarebbe succeduto
uno degli aspiranti nominati in eccedenza (e per ciò stesso dispensati dall’età). le addizioni
seconde, del 1665, specificarono che «i minori di anni sette compliti non possano essere vesti-
titi dell’Abito di Cavaliere Milite», che si trattasse o meno di paggi magistrali, i quali, a nor-
ma delle addizioni terze, «son tenuti a pigliar l’Abito dentro gli anni sette, e mezzo». infine,
tali ultime addizioni, del 1746 (nell’età della reggenza), oltre a limitare il numero di preten-
denti l’abito ancora in minore età (con le stesse modalità prescritte per i paggi magistrali), in-
trodussero, per l’ingresso nell’ordine, accanto alla dispensa del gran Maestro, una condizione
imprescindibile: «detti pretendenti devino, nell’atto di essere accettati, sborsare nella Cassa
del tesoro la somma di scudi cinquecento a titolo di passaggio maggiore»; il che significava
essere ammessi al «Privilegio di godere l’anzianità, per l’aspettativa delle Commende di giu-
stizia, ed altre prerogative della religione, dal giorno del rescritto di loro accettazione». Da
tutto ciò derivava che, in forza dei meccanismi statutari, alcuni cavalieri, «prima dell’anni di-
ciassette», avessero già ottenuto l’abito, dopo «l’opportune provanze di nobiltà», e potessero
essere inclusi nel «ruolo o ceto d’anzianità» una volta fatto «il triennio di loro carovane»,
comprensivo dei sei mesi di «professione»; il tutto «complito prima di terminare gli anni venti
di loro età». in tema di commende sono fondamentali gli studi di D. BArsANti, Le commende
dell’Ordine di S. Stefano attraverso la cartografia antica, cit., in particolare, Introduzione, pp.
7-50; iDeM, Introduzione storica sulle commende dell’Ordine di S. Stefano, cit.; AA.VV., Atti
del Convegno «Le commende dell’Ordine di Santo Stefano», cit. sulla Carovana, istituto tipi-
co dell’ordine di santo stefano: AA.VV., Atti del Convegno «L’istituto della Carovana nel-
l’Ordine di Santo Stefano» (Pisa, 10 maggio 1996), Pisa, edizioni ets, 1996.
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Il documento si concludeva con l’indicazione dei nobiluomini se-


nesi da citare per provare il contenuto degli articoli, scelti tra
gli esponenti di alcune tra le casate più ragguardevoli della città di
Siena100.
Il Consiglio101, il 4 agosto 1569, inviò a Firenze l’informazione,
ove sinteticamente, ma con precisione e fedelmente rispetto agli ori-
ginali, veniva riassunto tutto il contenuto delle provanze, che, inve-
ce, restavano a Pisa.
Il verbale, che racchiudeva il parere definitivo dei Dodici, venne
preso in esame dal Gran Maestro, il quale, con la consueta assisten-
za dell’Auditore, formulò, in calce allo stesso, il benigno rescritto
definitivo: «Id est Cosmus diaseli habito»102.
Ottavio vestì l’abito103 di cavaliere milite a Pisa, nella chiesa
conventuale, per mano del gran contestabile Piero dal Monte, il 15
agosto 1569. Pagò «il passaggio104 et finì la sua anzianità a dì 29 di

100 in merito alle famiglie più ragguardevoli del ceto dirigente cittadino, si veda: g. A.

PeCCi, Lettera, cit., in C. rossi, Giovanni Antonio Pecci, cit., pp. 151-196.
101 il Consiglio dei Dodici, rinnovato ad ogni Capitolo generale, era l’organo interno che

fungeva da vero centro motore della vita dell’ordine, grazie alla natura permanente e alle fun-
zioni insieme amministrative e giudiziarie. Da un lato si occupava del governo economico e
dell’espletamento delle pratiche per l’ammissione di nuovi cavalieri, dall’altro si preoccupava
del rispetto delle norme statutarie e delle cause in cui assumeva la veste di tribunale supremo
della religione. in proposito, si vedano: D. BArsANti, Organi di governo, cit., cap. i, pp. 1-
27; Statuti, cit., tit. Viii (Del Consiglio, e de’Giudizi), pp. 208-235.
102 AsPi, S. Stefano, 1086, ins. 347, c. 901. informazione del Consiglio e rescritto, 4 ago-

sto 1569.
103 Statuti, cit., tit. ii (Del modo di ricevere i Cavalieri), cap. Vi (In che modo i Cavalieri

dell’Ordine di Santo Stefano debbano essere ricevuti alla prima professione dell’Abito di es-
sa), pp. 106 ss. l’apprensione dell’abito era una cerimonia solenne che, normalmente, doveva
tenersi a Pisa, nella chiesa conventuale; ma, con l’autorizzazione del gran Maestro (acquisita
attraverso l’introduzione di una nuova supplica e l’ottenimento di un ulteriore rescritto), era
possibile spostare la celebrazione in patria. Nel corso della funzione religiosa avveniva la ve-
stizione del pretendente per mano di quattro cavalieri, dai quali riceveva, distintamente, l’abi-
to, la spada, lo sprone destro ed il sinistro. l’importanza e prestigio dei quattro personaggi,
derivante dalla celebrità personale e dalla rilevanza della carica ricoperta all’interno dell’ordi-
ne, dava la misura della stima accordata al nuovo cavaliere. Costui, infine, riceveva da tutti i
cavalieri presenti il bacio della pace, simbolico segno di definitivo accoglimento nella reli-
gione stefaniana.
104 Statuti, cit., tit. V (Del Tesoro Comune), cap. iii (Dell’entratura, o ricognizione da do-

versi fare da’ Cavalieri), pp. 167-168. il «passaggio» era una vera e propria tassa di ingresso
nell’ordine. si è già visto il passaggio, cosiddetto, «maggiore», a proposito dei pretendenti in
età minore, a cui si affiancava il passaggio «ordinario»: «Chiunque vorrà l’Abito, ed essere
ammesso nell’ordine nostro, sia tenuto a pagare, se vuole essere Cavaliere Milite, etiam i
Paggi del gran Maestro, ed etiam i Cavalieri Militi sacerdoti, o Benefiziati Nobili, per l’en-
tratura scudi cento venti d’oro, in oro larghi [pari a scudi fiorentini 128.4]; se Cavaliere ser-
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settembre 1574 et navigato»105.


***
La ricostruzione delle vicende connesse all’ingresso nella Religio-
ne di Santo Stefano da parte del secondo cavaliere di casa Ugurgie-
ri, Francesco di Aliprando106, è stata compromessa dalla completa
mancanza delle carte relative al processo107. Rimane soltanto il suc-
cinto riassunto dei capitoli delle provanze, riportato nell’informa-
zione del 30 marzo 1638108.
L’unico attestato rinvenuto nel fascicolo delle provanze risulta es-
sere – guarda caso – la fede dei godimenti dei pubblici onori, rila-
sciata da Alessandro Rocchegiani, cancelliere del Senato e notaio
delle Riformagioni, il 26 marzo 1638 e autenticata il giorno seguente
dal cancelliere arcivescovile Francesco Barci109.
Nella missiva dei Dodici, presa visione delle risultanze processua-
li, seguite all’esame dei documenti e all’escussione di due dei testi-
moni indotti dal candidato – gravami procedurali diligentemente
adempiuti dall’assemblea senese –, si confermavano i nobili natali
del postulante, disceso dagli Ugurgieri, per padre, dai Tolomei, per i
quarti dell’ava paterna e della madre, e dai Placidi, per la linea dell’a-

vente, scudi settanta cinque [pari a scudi fiorentini 80.2.10], se Cavaliere Cappellano, o sacer-
dote d’obbedienza, non vogliamo, che paghi cosa alcuna, e nessuno de’ Cavalieri Militi, e ser-
venti debda essere vestito dell’Abito, se prima non harà pagato quanto di sopra […]». Addirit-
tura, sorgeva un’obbligazione in solido «con il principale ricevente» per chiunque «in virtù di
commessione del Consiglio, o del gran Maestro darà l’Abito, a chi non habbia pagato quanto
sopra». il pagamento di detta tassa era indispensabile sia per cominciare a maturare l’anzianità
che, di conseguenza, per concorrere all’assegnazione delle relative commende. Cfr. D. BAr-
sANti, Organi di governo, cit., cap. i, pp. 1-2.
105 AsPi, S. Stefano, 575, cc. 32s-32d, 99s. Apprensione dell’abito, 15 agosto 1569; priva-

zione, 5 agosto 1575; restituzione, 9 giugno 1590. l’elencazione delle tre fasi di apprensione,
privazione e restituzione, deriva da un episodio risalente al 1573, allorquando ottavio fu
«condannato per rissa fatta sulla piazza di siena con Pierantonio da urbino già famiglio del
Bargello di detta città et altro dove concorse moltitudine di popolo et fu bisogno vi corressi il
Priore governatore in persona» e incorse nella pena del «confino di carcere a bene placito se-
renissimo gran Maestro»: AsPi, S. Stefano, 3141, c. 19r, condanna di ottavio ugurgieri per
rissa, 1573. Fuggito di prigione, fu privato dell’abito il 5 agosto 1575, ma «poi in grazia della
città di siena gli fu restituito dal serenissimo gran Duca Ferdinando, lì 9 giugno 1590».
106 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 177, pp. 165-166.
107 AsPi, S. Stefano, 113, ins. 21, provanze di Francesco ugurgieri.
108 AsPi, S. Stefano, 1133, ins. 665, cc. n. n., informazione del Consiglio, s. d., e rescritto,

30 marzo 1638.
109 AsPi, S. Stefano, 113, ins. 21, cc. n. n., fede dei godimenti dei pubblici onori rilasciata

da Alessandro rocchegiani, cancelliere del senato e notaio delle riformagioni, 26 marzo


1638, autenticata dal cancelliere arcivescovile, Francesco Barci, 27 marzo 1638.
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va materna, tutte famiglie dell’antica aristocrazia senese, degne delle


maggiori magistrature cittadine, da cui erano discese persone cattoli-
che e di buoni costumi, che mai avevano esercitato arti proibite.
Il benigno rescritto del Gran Maestro Ferdinando II, datato 30
marzo 1638, vidimato dal segretario Cioli, apriva le porte dell’Ordi-
ne a Francesco Ugurgieri, che vestì l’abito equestre il giorno se-
guente, nella chiesa conventuale di Pisa, per mano del gran conte-
stabile Girolamo dei signori di Strasoldo di Udine, alla presenza dei
cavalieri serventi Antonio Piombi e Francesco Bergardi e del notaio
Tommaso Ricci110.
La celebrazione delle esequie della bonæ memoriæ del cavaliere
Francesco Ugurgieri, scomparso alla giovane età di ventitrè anni,
ebbe luogo il 26 aprile del 1641, soltanto tre anni dopo l’apprensio-
ne dell’anelata uniforme111.
***
Poco più di un anno dopo Francesco di Alibrando, il 30 marzo
1639, un altro esponente della consorteria Ugurgieri, «Girolamo del
già nobile altro signor Girolamo»112, si presentò al cospetto del vi-
cario arcivescovile di Siena, monsignor Fabio Sergardi, al fine di esi-
bire i capitoli e provare la nobiltà dei quattro quarti113.
Come consuetudine, il secondo e il terzo articolo, oltre ad afferma-
re la legittimità dei matrimoni e delle nascite, ripercorrevano le di-
scendenze per le quattro casate – due col medesimo cognome Ugur-
gieri, i Gallerani e i Marescotti –, annoverate da tempo immemorabile
tra le più antiche ed onorate della città di Siena, i cui discendenti ri-
coprirono e ricoprivano la suprema magistratura concistoriale, i seggi
della Balìa e tutte le cariche riservate ai soli gentiluomini, come com-
provato dalla fede dei godimenti dei pubblici onori, stilata da Ales-
sandro Rocchegiani, notaio delle Riformagioni, tratta dai libri pubbli-
ci conservati presso il medesimo archivio il 28 marzo 1639114.

110 AsPi, S. Stefano, 582, c. 36v, apprensione dell’abito di cavaliere milite, 31 marzo
1638.
111 AsPi, S. Stefano, 3678, c. 66t, esequie del cavaliere Francesco ugurgieri.
112 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 190, pp. 177-178.
113 AsPi, S. Stefano, 116, ins. 12, provanze di girolamo ugurgieri.
114 Ivi, cc. n. n., fede dei godimenti dei pubblici onori rilasciata da Alessandro rocchegia-

ni, cancelliere del senato e notaio delle riformagioni, 28 marzo 1639.


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Sulla base del parere favorevole all’accoglimento dell’istanza


espresso dai delegati, supportato da un ampio riassunto dei capitoli,
costruito sugli elementi essenziali della vita more nobilium, delle
qualità dei membri delle quattro prosapie e del pretendente, insie-
me all’ammontare delle sue sostanze e alle prime residenze degli an-
tenati, venne formulata l’informazione del Consiglio in data 4 mag-
gio 1639115.
Il rescritto magistrale del 19 maggio 1639, vidimato da Andrea
Cioli, recitava: «Diasigli l’habito di Cavaliere Milite con obligo di
navigare»116.
Il 28 giugno 1639, Girolamo vestì l’abito di cavaliere milite per
giustizia nella chiesa conventuale di Pisa per mano del gran priore
Pietro Ricciardi di Pistoia, alla presenza dei cavalieri serventi Anto-
nio Piombi e Francesco Bergardi e del notaio rogante Tommaso
Ricci117.
Il 23 marzo 1679 (1680) furono celebrate le esequie118.
***
Tra i meri pretendenti della famiglia Ugurgieri candidati alla ve-
stizione dell’abito equestre per giustizia, deve essere annoverato
Tullio, figlio di Fausto di Bandino e di Mustiola di Fausto della
Ciaia, battezzato il 4 maggio 1636119, che non venne ricevuto nel-
l’Ordine di Santo Stefano per insufficienza di requisiti120.
Il fascicolo delle infruttuose provanze contiene una esigua quantità
di carte, ma sufficiente a comprendere la motivazione principale della
mancata concessione della grazia magistrale della vestizione121: punto
nodale e vera causa ostativa ai fini dell’ammissione nel sacro militare
Ordine fu il difetto di legittimazione del quarto dell’ava materna Si-
moni. Se ne trova conferma sia nel tentativo del candidato di superare
tale impedimento sostanziale attraverso la produzione di un’atipica

115 Ivi, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Dodici, 4 maggio 1639.
116 Ivi, cc. n. n., rescritto, 19 maggio 1639.
117 AsPi, S. Stefano, 582, c. 39v, apprensione dell’abito di cavaliere milite per giustizia,

28 giugno 1639.
118 AsPi, S. Stefano, 3678, c. 133r, esequie del cavaliere girolamo ugurgieri.
119 AsPi, S. Stefano, 535, ins. 4, cc. n. n., fede di battesimo di tullio ugurgieri, rilasciata

da Niccolò Parigini, bilanciere della Biccherna, 27 aprile 1651.


120 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 771, p. 624.
121 AsPi, S. Stefano, 535, ins. 4, provanze di tullio ugurgieri.
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attestazione supplementare, sia nelle stesse parole dell’Andreucci,


cancelliere redigente l’iter processuale: «Il signor Tullio Ugurgieri
supplicante l’abito di Cavaliere milite subodorando non sia a satisfa-
tione stato esplicato il quarto dell’ava materna Simoni ha procurato
l’acchiusa fede fatta da gentil huomini di età grave, di molto credito,
sperando questa sia per supplire alle notitie, che si desiderano, giac-
ché non si revoca in dubbio, che questa famiglia sia nobile, e schietta,
e che per esser estinta, se ne siano smarrite anco le memorie»122.
Il documento riportava le deposizioni giurate di due testimoni:
«li molto illustri signori Flaminio Nelli d’anni 79, e signor Cristofa-
no Cinughi d’anni 64 nobili senesi». Tuttavia, i due anziani genti-
luomini non apportarono alcuna notizia aggiuntiva e pregnante ri-
spetto ai capitoli compilati dal pretendente, ma soltanto informazio-
ni prive di riferimenti documentali, essendosi limitati ad affermare
che «la detta fameglia de’ Simoni, dalla quale descende la detta si-
gnora Tullia è stata tenuta, e reputata, e si tiene, e reputa nobile, et
honoratissima, e della quale sono stati Cavalieri di Santo Stefano, e
di Malta, e che per essere presentemente estinta, non sono così fre-
sche, et a tutti palesi le notitie»123. In buona sostanza, le nuove pro-
ve, fornite a giustificazione del quarto dell’ava paterna, non fecero
altro che confermare la debolezza già riscontrata a riguardo, nella
fase commissariale. A questo punto, dunque, trovarono un senso
compiuto le ultime due frasi annotate in calce alla nomina dei com-
missari, a memoria delle quali: «Spedito e fattone negozio a Sua Al-
tezza Serenissima a dì 22 ottobre 1652», «Non è ritornato spedito».
Furono allegate agli articoli la consueta fede dei godimenti dei
pubblici onori, stilata dal cancelliere delle Riformagioni, Francesco
Corazzi, il 30 marzo 1651124, e quella del battesimo del postulante,
rilasciata il 27 aprile 1651 da Niccolò Parigini, bilanciere della Bic-
cherna125.

122 Ivi, cc. n. n., dispaccio del cancelliere Francesco Andreucci ai cavalieri commissari, 22

settembre 1652.
123 Ivi, cc. n. n., fede giurata di due gentiluomini senesi di età grave, addotta per giustifica-

zione della famiglia simoni, redatta dal notaio Vincentio Bartalucci, coadiutore della cancelle-
ria stefaniana senese, 21 settembre 1652.
124 Ivi, cc. n. n., fede dei godimenti dei pubblici onori, rilasciata da Francesco Corazzi,

cancelliere dell’archivio delle riformagioni, 30 marzo 1651.


125 Ivi, cc. n. n., fede di battesimo di tullio ugurgieri, rilasciata da Niccolò Parigini, bilan-

ciere della Biccherna, 27 aprile 1651.


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188

Tullio di Fausto Ugurgieri fu, pertanto, reprobato, sullo scorcio


dell’anno 1652, per insufficienza di requisiti.
***
Lelio di Azzolino Ugurgieri126, battezzato il 20 ottobre 1660127,
all’età di otto anni compiuti, supplicò il Granduca Ferdinando II128
di essere accettato come paggio magistrale, per poter vestire l’abito
di cavaliere milite per giustizia. Con il rescritto apposto alla suppli-
ca, datato 14 dicembre 1668129, controfirmato dal segretario della
Religione Francesco Panciatichi, si concesse al richiedente la grazia
invocata e la facoltà di esperire le consuete provanze di nobiltà130.
Rimessa la decisione finale nelle mani del Gran Maestro, il proce-
dimento si concluse con il rescritto del 15 agosto 1669: «Diaseli l’A-
bito di Cavaliere milite con obligo di navigare, non entrando nel
luogo di Paggio», che, implicitamente, dispensava il pretendente dal
requisito dell’età131.
La cerimonia della vestizione, in deroga alle disposizioni statuta-
rie ed in forza di un secondo rescritto del 19 agosto, poté svolgersi
in patria, nella chiesa delle monache di Tutti i Santi, alla presenza
del cavaliere balì Achille Sergardi, dalle cui mani Lelio Ugurgieri ri-
cevé l’abito della sacra Religione di Santo Stefano il 5 settembre
1669.
Il 1° luglio 1722 fu officiata la cerimonia delle esequie132.
***

126 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 254, pp. 240-241.
127 AsPi, S. Stefano, 153, ins. 28, cc. n. n., fede di battesimo di lelio ugurgieri, rilasciata
da Niccolò Parigini, bilanciere della Biccherna, 8 gennaio 1668 (1669).
128 Ferdinando ii de’ Medici fu gran Maestro dal 25 marzo 1621 al 23 maggio 1670.
129 AsPi, S. Stefano, 1156, ins. 93, cc. n. n., supplica di lelio ugurgieri, s. d., e rescritto,

14 dicembre 1668.
130 AsPi, S. Stefano, 153, ins. 28, provanze di lelio ugurgieri.
131 AsPi, S. Stefano, 1156, ins. 169, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Dodici, 21

maggio 1669, e rescritto, 15 agosto 1669. la seconda parte del rescritto escludeva l’operati-
vità della prescrizione statutaria, introdotta nel 1617, secondo la quale «il Cavaliere Milite,
che sarà una volta ascritto al numero de’ sei Paggi del serenissimo gran Maestro, goda quel
grado sino a tutto l’Anno diciasettesimo dell’età sua, e non faccia luogo al suo successore fin-
ché non gli abbia compliti»; con l’immediata concessione della grazia di vestire l’abito, si li-
berava istantaneamente un posto di paggio. Cfr. Statuti, cit., tit. ii (Del modo di ricevere i Ca-
valieri), cap. ii (Della qualità di coloro, che devono essere accettati nell’Ordine), addizioni
prime, n. 1, p. 92.
132 AsPi, S. Stefano, 3679, c. 76r, esequie del cavaliere lelio ugurgieri.
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Con Fabio Ugurgieri133, si passa al XVIII secolo, che vedrà altri


due esponenti della casata entrare nell’Ordine di Santo Stefano:
Muzio di Azzolino, come collatario della commenda di grazia Cioli,
e suo figlio Salustio, cavaliere per giustizia, ultimo della serie.
Fabio134, nato dal matrimonio di Lorenzo Ugurgieri con Petra di
Giovanni Battista Piccolomini 135 e battezzato il 22 dicembre
1756136, supplicò il Granduca di essere insignito dell’abito di cava-
liere milite per giustizia, per aver l’onore di servire sua altezza reale
nella sacra Religione di Santo Stefano137.
In particolare, le provanze di nobiltà dei quarti materni, Piccolo-
mini e Caterini, vennero suffragate da quelle già sostenute dallo zio
materno Piccolomo Piccolomini.
A tal fine, il postulante produsse tre attestazioni.
Innanzitutto, la fede di battesimo di Petra Violante Maria, madre
dell’instante, nata «il 28 del mese di febbraro alle ore quattordici in
circa della Cura di Santa Lucia» e battezzata il susseguente 3 marzo
1725 (1726) dal parroco Alessandro Cenni, stilata da Antonio Mi-
netti, cancelliere della curia episcopale di Pienza, il 14 maggio
1773138.
In secondo luogo, l’estratto del battesimo di Piccolomo Giovac-
chino Baldassarre Maria, il quale nacque e fu battezzato il 1° feb-
braio 1719 (1720) dallo stesso arciprete Cenni, come certificato in
data 7 agosto 1773 dal medesimo cancelliere Minetti139.
Entrambi nacquero dal legittimo matrimonio di Giovanni Batti-
sta di Piccolomo Piccolomini con Maria Mustiola di Pomponio Ca-
terini.

133 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 472, pp. 462-463.
134 AsPi, S. Stefano, 378, ins. 25, provanze di Fabio ugurgieri.
135 Ivi, cc. n. n., fede di matrimonio di lorenzo ugurgieri e Petra Piccolomini, genitori del

pretendente, rilasciata da girolamo suardi, parroco della chiesa di san Martino di siena, 3
giugno 1773.
136 Ivi, cc. n. n., fede di battesimo di Fabio ugurgieri, rilasciata da lattanzio Balestri, can-

celliere della Biccherna di siena, 3 giugno 1773.


137 Ivi, cc. n. n., supplica di Fabio ugurgieri, s. d., e rescritto, 9 maggio 1773.
138 Ivi, cc. n. n., fede di battesimo di Petra Piccolomini, madre del supplicante, rilasciata

dal cancelliere Antonio Minetti, 14 maggio 1773.


139 Ivi, cc. n. n., fede di battesimo di Piccolomo giovacchino Baldassarre Maria Piccolo-

mini, fratello della madre del pretendente, rilasciata dal cancelliere Antonio Minetti, 7 agosto
1773. il Piccolomini nacque alle otto di quello stesso giorno – 1° febbraio 1719 (1720) –, co-
me appariva nei libri della curia episcopale pientina.
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190

Infine, la fede di apprensione dell’abito di cavaliere milite per


giustizia, redatta il 7 giugno 1773 dal primo ministro della cancelle-
ria del sacro militare Ordine Giacinto Viviani del Vescovo, provante
la vestizione, in patria, di Piccolomo Piccolomini, per mano del ca-
valiere balì Giovanni Carlo Piccolomini, in data 6 settembre 1731,
all’età di dodici anni140.
Il fascicolo, che accoglieva gli articoli con i documenti allegati ed
i nomi dei testimoni, conte Alfonso d’Elci e Giulio Ciani, da esami-
narsi sopra i medesimi incartamenti141, si completava con gli attesta-
ti di iscrizione al registro del patriziato della città di Siena per le fa-
miglie Ugurgieri e Venturi.
In particolare, si documentava l’annotazione di Lorenzo Ugurgie-
ri, figlio di Benedetto di Filippo di Fausto e d’Isabella d’Alfonso
Venturi, padre dell’aspirante, certificata il 18 gennaio 1774 con la
fede firmata dal consigliere di Stato e segretario dell’archivio di pa-
lazzo della città di Firenze, Pompeo Neri, munita del sigillo reale e
sottoscritta dal ministro del medesimo archivio, Simone Fabbrini142.
Dopo di che, nella stessa data, per mano dei medesimi pubblici uffi-
ciali granducali, si attestava l’aggregazione alla classe superiore della
nobiltà senese del cavaliere Camillo Venturi, nato dal matrimonio
del cavaliere Cosimo del cavaliere Annibale con Francesca di Fran-
cesco Buoninsegni143.
Ottenuta la grazia dell’abito stefaniano, in forza del rescritto del 1°
marzo 1774, controfirmato dall’Auditore Antonio Mormorai, fu con-
cesso a Fabio Ugurgieri di ricevere l’onore della vestizione in patria144.

140 Ivi, cc. n. n., fede di apprensione dell’abito di cavaliere milite per giustizia del fratello

di Petra Piccolomini, madre del pretendente: «A dì 7 giugno 1773. Fede per me infrascritto
Primo Ministro della cancelleria del sacro Militare ordine di santo stefano Papa, e, Martire,
come al giornale d’apprension d’abito [...] esiste la seguente partita, cioè. A dì 6 settembre
1731. il signor Piccolomo giovacchino del signor giovanni Battista Piccolomini di siena fu
vestito dell’abito di Cavaliere milite per giustizia in patria nella chiesa di san Michele Arcan-
gelo abbadia de’ Padri Carmelitani scalzi per mano del molt’illustre signor Cavaliere Balì
Carlo Piccolomini di siena. in quorum. giacinto Viviani del Vescovo, Primo Ministro di Can-
celleria». Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 419, pp. 416-417.
141 Ivi, cc. n. n., provanze di Fabio ugurgieri dinanzi all’assemblea dei cavalieri senesi, ca-

pitoli, 24 settembre 1773.


142 Ivi, cc. n. n., fede di ammissione al patriziato senese della famiglia ugurgieri, 18 gen-

naio 1774.
143 Ivi, cc. n. n., fede di iscrizione nei Libri d’Oro per la famiglia Venturi, 18 gennaio 1774.
144 AsPi, S. Stefano, 1239, ins. 198, cc. n. n., supplica di Fabio ugurgieri, s. d., e rescritto,

1° marzo 1774.
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Il 10 marzo 1774, nella chiesa di San Michele dei padri carmelita-


ni scalzi, si celebrò la cerimonia dell’apprensione, alla presenza del
cavaliere priore Antonio Pannilini, patrizio senese, che consegnò le
vesti al novello cavaliere145.
Le esequie del quondam Fabio Ugurgieri furono celebrate il 13
dicembre 1781146.
***
Muzio Ugurgieri147, battezzato il 30 giugno 1732, ottenne dal
Gran Maestro la grazia di essere ammesso alle prove di legittimità,
vita, costumi e sostanze, all’effetto di vestire l’abito di cavaliere mili-
te per commenda.
Il 16 febbraio 1781, i Dodici inviarono la lettera commissionale
con la quale si comunicava al priore Antonio Pannilini il conferi-
mento della commenda di grazia Cioli e la necessità di costituire
l’assemblea dei cavalieri più anziani e titolati della città, al fine di ri-
cevere le provanze ed esaminare i testimoni, per verificare l’attendi-
bilità delle dichiarazioni del supplicante. Quest’ultimo, il 17 marzo
1781, provvide a formulare l’istanza di fissazione della data del pro-
cesso innanzi all’organo stefaniano, delegato dal Consiglio a quello
scopo, producendo i capitoli e le prove documentali volte a confer-
marne il contenuto148.
L’incartamento conteneva cinque prove scritte: la fede di battesi-
mo del postulante, la copia della fede di matrimonio dei genitori,
l’attestazione dei buoni costumi e la fede del bilanciere Giovanni
Mariani, prodotta unitamente alla scrittura della medesima natura
rilasciata da Angiolo Fattrini, cancelliere della Comunità d’Asciano.
Quest’ultima riportava, in uno schema analitico, molto dettagliato,
i beni stabili suddivisi tra i vari Comuni, con l’indicazione del foglio,

145 AsPi, S. Stefano, 578, c. 149t, apprensione dell’abito di cavaliere milite per giustizia,

10 marzo 1774.
146 AsPi, S. Stefano, 3680, c. 14t, esequie del cavaliere Fabio ugurgieri.
147 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 486, p. 473. Presumibilmente, Mu-

zio ugurgieri fu beneficiato della commenda di grazia in ragione della nomina a «provvedito-
re delle strade della città e stato di Siena», ottenuta nel 1770. Anche se non deve essere tra-
scurato che «il 25 di agosto del 1750, nell’università di siena, Muzio sostenne diverse tesi di
scienze naturali nel palazzo di s. Vigilio, allora convento dei gesuiti, ed ottenne la laurea dot-
torale». Cfr. l. grottANelli, Genealogia e storia degli Ugurgieri, cit., p. 237.
148 AsPi, S. Stefano, 396, ins. 16, cc. n. n., provanze di Muzio ugurgieri dinanzi al balì

emilio Piccolomini e ai cavalieri anziani dell’assemblea di siena, 17 marzo 1781.


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192

delle unità e della tassa prediale, tratti dai pubblici registri dell’erario.
Il 9 aprile dello stesso anno, Muzio di Azzolino Ugurgieri vestì
l’abito di cavaliere milite come collatario di commenda, nella chiesa
delle monache di Santa Margherita di Castelvecchio di Siena, per
mano del cavaliere priore e balì Emilio Piccolomini149.
Il cavaliere Muzio morì un anno e mezzo più tardi, il 21 novem-
bre 1782, e ne furono celebrate le esequie il successivo 3 dicem-
bre150.
***
L’ultimo esponente della nobile famiglia Ugurgieri a vestire l’abi-
to scudocrociato fu Salustio151, battezzato il 25 marzo 1775152, nato
dal matrimonio del cavaliere Muzio con Maria Geltrude del rettore
Niccolò Bichi Borghesi.
Il dossier documentale conteneva una copiosa mole di allegati,
numerati fino al numero trenta, indispensabili a rendere esaustivo il
quadro delineante le complicate provanze dell’istante, per le quali,
come nei casi precedenti, si pone cura nel ricordarne solo alcune
sfumature significative.
Come si evince dalle carte, infatti, l’ammissione dei quattro quarti
venne giustificata attraverso l’ausilio di altrettante ammissioni per
giustizia di pretendenti in qualche modo imparentati con il suppli-
cante in questione ed integrata dalle consuete fedi dei godimenti,
dei matrimoni, dei battesimi e di ammissione al patriziato.
Il giorno di San Valentino del 1795, furono rimesse al Consiglio
della Religione le prove del pretendente e – si noti – quelle «del-
l’ammissione nel sacro insigne Ordine di Santo Stefano di due dei
quarti di questo signore Salustio», vale a dire Sozzifanti e Wyer153.

149 AsPi, S. Stefano, 578, c. 165t, apprensione dell’abito di cavaliere milite per commen-

da, 9 aprile 1781.


150 AsPi, S. Stefano, 3680, c. 19t, esequie del cavaliere Muzio ugurgieri.
151 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 518, p. 492.
152 AsPi, S. Stefano, 426, ins. 3, cc. n. n., provanze di salustio ugurgieri, allegato n. 1: fe-

de di battesimo di salustio giuseppe Pietro Maria ugurgieri, tratta dal registro dei battezzati
nella Pieve di san giovanni Battista, rilasciata dal cancelliere comunitativo Pietro Nenci, 26
novembre 1794; «fu compare il signor giuseppe del già Vincenzo Pazzini Carli».
153 Ivi, cc. n. n., dispaccio del balì Carlo Piccolomini Clementini ai Dodici cavalieri del

Consiglio, 14 febbraio 1795: «rimetto alle signorie loro illustrissime le prove [...] dell’am-
missione nel sacro insigne ordine di santo stefano di due dei quarti di detto signore salustio
[...] a tenore della pregiatissima lettera delle signorie loro illustrissime del dì 1° ottobre dello
scorso anno 1794».
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193

Se ne può pacificamente dedurre che la lettera commissionale del


1° ottobre 1794 – non reperita nel fascicolo delle provanze ma men-
zionata nei documenti introduttivi e conclusivi del processo – aves-
se ordinato specificamente la verificazione della nobiltà generosa
per le linee ascendenti femminili, concernenti le due famiglie che
non erano annoverate tra le prosapie senesi154. In particolare, già il
medesimo postulante, nell’introduzione degli articoli, ebbe cura di
specificare come le prove fossero volte a dimostrare, oltre la propria
legittimità, in specie, la nobiltà delle ave Sozzifanti e Wyer.
Gli allegati dall’ottavo al diciassettesimo contenevano gli attestati
per la famiglia Sozzifanti di Pistoia155. Caterina, madre del suppli-
cante, era figlia di Aurelio di Giovanni Filippo156: entrambi risulta-
vano essere cavalieri militi come successori in commenda di padro-
nato e pertanto – poiché, come ben noto, l’ammissione di detta spe-
cie rendeva immuni dal processo per provanze per il quarto dell’a-
gnazione157 – si rese necessario giustificare il quarto dell’ava paterna

154 la famiglia Wyer era originaria dell’irlanda. i sozzifanti rappresentavano una delle più

antiche casate di Pistoia e potevano vantare una miriade di cavalieri stefaniani, a principiare
da lorenzo di girolamo, priore di Arezzo, che prese l’abito di cavaliere milite il giorno 8 lu-
glio 1593, in Firenze, per mano di Camillo dal Monte, commendatore maggiore. Cfr. B. CAsi-
Ni, I cavalieri di Pistoia, Prato e Pescia membri del Sacro Militare Ordine di S. Stefano Papa
e Martire, Pisa, edizioni ets, 1997, n. 48, pp. 59-60.
155 si ricordi che a Pistoia, fino al 1749, vigeva lo stile della Natività: il 25 dicembre, festa

di Natale, rappresentava il primo giorno dell’anno, anticipando di 7 giorni sullo stile moderno,
che entrò in vigore dal 1° gennaio 1750. Ne derivava che tutti i documenti segnassero, in
quella settimana, una unità in più nella cifra dell’anno.
156 giovanni Filippo, abavo del pretendente, nato il 26 maggio 1630, vestì l’abito di cava-

liere milite come successore in commenda di suo padronato il 3 maggio 1659, per mano del
balì Camillo rospigliosi. Aurelio, proavo del medesimo supplicante, il 6 aprile 1683, prese
l’abito di cavaliere milite, come successore nella commenda di padronato rinunziatagli da suo
padre, dalle mani del balì lanfredino Cellesi. Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri di Pistoia, Prato e Pe-
scia, cit., n. 212, pp. 180-181, e n. 261, p. 219.
157 le norme statutarie disponevano, quanto al «modo di ricevere i cavalieri», che «i suc-

cessori in commende di lor padronato, rispetto ai quarti materni solamente, siano tenuti [...] a
provare i godimenti dei primi onori delle patrie loro [...]» ed inoltre, in materia di succesione
nelle commende di padronato familiare, come «Non possano i figliuoli, e discendenti di quel-
li, che avranno fondato, o acquistato Commenda con qualsivoglia sorte di riservazione di pa-
dronato, essere vestiti dell’abito, o investiti della Commenda, se non saranno nati per madre,
che sia nobile, secondo che per gli statuti dell’ordine si ricerca, volendo noi, che tali habbia-
no occasione di conservare sempre la nobiltà, che al grado de’ nostri Cavalieri s’aspetta». Cfr.
Statuti, cit., tit. ii (Del modo di ricevere i Cavalieri), cap. iii (Delle probazioni, che si debba-
no fare innanzi, che alcuno si accetti), addizioni terze, n. 1, p. 102, e tit. Xiii (Delle Commen-
de, ed Amministrazioni di esse), cap. Xiii (Che i discendenti di fondatori di commende devino
essere nati di madre nobile), addizioni terze, n. 8, pp. 296-297.
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194

percorrendo un’altra strada. Tale ordine di considerazioni spiega


l’inclusione della fede d’apprensione d’abito per giustizia di France-
sco Maria158, fratello germano del senatore Aurelio, genitore dell’a-
va paterna del candidato, accompagnata dalle attestazioni del batte-
simo del cavaliere159 e del legittimo matrimonio di Giovanni Filippo
e Laura Fabbroni, da cui entrambi nacquero160. In particolare, se-
gnata con il numero diciassette, appariva la copia del decreto, data-
to 5 maggio 1755, che ordinava l’ammissione al patriziato pistoiese
di tre famiglie della consorteria Sozzifanti, in forza – si noti bene,
dacché non sono poi tanti i casi di ammissioni al patriziato toscano
in ragione della dignità cavalleresca (fosse essa gerosolimitana o ste-
faniana) – dell’ingresso nell’insigne Ordine dei cavalieri di Santo
Stefano dei nobili signori: Baldassarre di Francesco Maria (9 marzo
1642)161, Francesco Maria di Mario (13 luglio 1670)162 e Francesco
Maria di Giovanni Filippo (10 gennaio 1689)163, nonno dell’ava pa-

158 AsPi, S. Stefano, 426, ins. 3, cc. n. n., allegato n. 14, fede di apprensione dell’abito da

parte di Francesco Maria sozzifanti il 10 gennaio 1688 (1689), estratta dall’archivista della
cancelleria della religione, tommaso del Buono, 26 [gennaio] 1795: «A dì 10 gennaio 1688
ab incarnatione. [...] fu vestito dell’abito di cavaliere milite per giustizia il dì suddetto in pa-
tria nella chiesa di santa Maria degli Angeli per le mani del signore balì lanfredino Cellesi
[...] et era di anni 19 finiti».
159 Ivi, cc. n. n., allegato n. 13, fede di battesimo di Francesco Maria sozzifanti, rilascia-

ta dall’archivista della curia ecclesiastica di Pistoia, Francesco Maria ricci, il 21 gennaio


1795, tratta dal libro dei battezzati nella cattedrale di san zeneone: «lunedì a dì 2 settem-
bre 1669. Francesco Maria e romulo figlio del signor cavaliere giovan Filippo di Aurelio
sozzifanti, e della signora laura del signor Cavaliere Capitano Niccolò Fabbroni sua mo-
glie, Cappella di san Biagio; fu comare la serenissima Altezza Vittoria della rovere gran-
duchessa di toscana, e per sua altezza tenne la signora Caterina gerardini, moglie del si-
gnor giovanni Cellesi».
160 Ivi, cc. n. n., allegato n. 11, fede di matrimonio di giovanni Filippo sozzifanti e laura

Fabbroni, rilasciata dall’archivista della curia ecclesiastica di Pistoia, Francesco Maria ricci,
23 dicembre 1794; in particolare si legge: «dell’impedimento del terzo grado di consanguinità
havendone hauto dispensa da sua santità siccome dal reverendissimo monsignore vicario ge-
nerale riconosciuta, e fattone ordine di poter celebrare tale matrimonio»; il sacramento fu offi-
ciato il 3 febbraio 1660.
161 il 9 marzo 1641 (1642), Baldassarre sozzifanti del priore Francesco Maria, figlio del

priore lorenzo di girolamo, prese l’abito di cavaliere milite, come successore nel priorato di
Arezzo, per mano del balì Paolo Cellesi. un’annotazione recitava: «fece le provanze dopo
aver vestito l’abito e fu dichiarato per giustizia». Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri di Pistoia, Prato e
Pescia, cit., n. 164, pp. 143-144.
162 Francesco Maria del cavaliere Mario, figlio del cavaliere giovanni Battista di Vincen-

zio di Mario, vestì l’abito di cavaliere milite per giustizia, per mano del cavaliere Bartolomeo
gherardi, il 13 luglio 1670. Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri di Pistoia, Prato e Pescia, cit., n. 235,
pp. 197-198.
163 il 10 gennaio 1688 (1689), Francesco Maria del cavaliere giovanni Filippo, figlio del
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195

terna di Salustio Ugurgieri164.


Per legittimare il quarto dell’ava materna, invece, si rimandava al-
le provanze di ammissione per giustizia del cavaliere Odoardo di
Quintilio Berlinghieri165, figlio di Violante Wyer, sorella utrinque
congiunta di Giulia Matilde, ava materna dell’astante, il quale, ri-
spetto alle provanze di nobiltà dei due quarti materni, Wyer e Nan-
gle, aveva ottenuto il seguente benigno rescritto: «Sua Maestà Illu-
strissima accorda ad Odoardo Berlinghieri, che le prove di nobiltà
fatte dai Cavalieri Wyer, e Nangle siano ammesse senz’altro esame
nel processo, che deve fare l’istesso Berlinghieri per vestire l’abito
per giustizia dell’Ordine di Santo Stefano. Dato in Reggenza lì 28
settembre 1758». A fugare ogni dubbio sull’accettazione della fami-
glia irlandese tra i quarti di nobiltà, sopraggiunse, per Odoardo, il
rescritto di ammissione all’Ordine di Santo Stefano, datato 1° feb-
braio 1759166.
Chiudevano la serie le due fedi del 20 dicembre 1794, attestanti
che nel registro dei patrizi della città di Siena, conservato in esem-
plare originale presso l’archivio di palazzo a Firenze, appariva de-
scritta «la famiglia Ugurgieri ed in essa il signore Muzio nato dal si-
gnore Azzolino e dalla signora Maria Caterina del Senatore Aurelio
Sozzifanti», nonché la casata Borghesi nella persona di Niccolò, ge-
nerato dal matrimonio di Giovanni Battista con Aurelia di Scipione
Bargagli167.
Salustio fu cinto dell’abito di cavaliere milite per giustizia dal ca-

cavaliere Aurelio di ottaviano, indossò l’abito di cavaliere milite per giustizia per mano del
balì lanfredino Cellesi. Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri di Pistoia, Prato e Pescia, cit., n. 272, pp.
225-226.
164 AsPi, S. Stefano, 426, ins. 3, cc. n. n., provanze di salustio ugurgieri, allegato n. 17:

copia del decreto di ammissione della famiglia sozzifanti al patriziato di Pistoia, estratta «dal
giornaletto degli ordini, e decreti dei signori Deputati sopra la Deputazione della nobiltà» per
mano del segretario della medesima commissione, luigi gaulardi, il 4 dicembre 1794.
165 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 455, p. 450-451.
166 AsPi, S. Stefano, 426, ins. 3, cc. n. n., provanze di salustio ugurgieri, allegato n. 24,

provanze di odoardo Berlinghieri: informazione, 16 gennaio 1759, e rescritto, 1° febbraio


1759. «estratta la presente copia dal suo originale [...] esistente nella filza di suppliche, e
informazioni [...] nell’archivio della cancelleria del sacro militare ordine [...] 24 novembre
1794. in quorum. tommaso Maria Colombini primo ministro di cancelleria».
167 Ivi, cc. n. n., allegati nn. 29 e 30, attestazioni di iscrizione al patriziato senese delle fa-

miglie ugurgieri e Borghesi, sottoscritte da Angiolo Pasquali, presidente della Deputazione


sopra la nobiltà e cittadinanza, e da luigi gaulardi, segretario della medesima commissione,
rilasciate in data 20 dicembre 1794.
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valiere priore balì Carlo Piccolomini Clementini, nella chiesa delle


reverende monache di Santa Maria degli angeli, volgarmente detta
del Santuccio, il 10 marzo del 1795168.
***
Infine, si riporta un episodio legato all’aspetto più strettamente
umano dei consorti e cavalieri provenienti dalla compagine aristo-
cratica toscana, rientrante nella congerie delle notizie accessorie re-
peribili nelle carte concernenti l’iter d’ammissione alla Religione
stefaniana – così come si è sottolineato accadere per gli incartamenti
relativi alle iscrizioni nei registri del patriziato o della nobiltà –, risa-
lente all’anno 1798, allorquando, a sette mesi dalla fine della carova-
na, Geltrude Ugurgieri, madre e tutrice di Salustio, supplicò il Gran
Maestro affinché le concedesse la grazia di far terminare il servizio
in patria al suo unico figlio, senza pregiudizio dell’anzianità, al fine
di rimetterlo in salute.
I commissari Inghirami, gran priore, e Cosi del Voglia, gran con-
servatore, il 17 aprile 1798, formularono l’informazione per il Gran-
duca, confermarono il lasso di tempo necessario al compimento del-
le carovane, «incominciate il 15 marzo 1795», ed esposero molto
chiaramente: «egli è stato sempre, come lo è attualmente di alterata
salute, e derivando ciò da alterazione nervosa, lo rende torpido, e
stupido senza mai potersi parola con alcuno; onde crediamo con-
cessibile la domandata grazia, a condizione che non venga dichiara-
to anziano fino a tanto che non sia scorso il tempo» necessario alla
maturazione del diritto alle lettere declaratorie.
Il 4 maggio dello stesso anno, un rescritto granducale, assecon-
dando le preci di Geltrude Ugurgieri, confortate dal giudizio dei
delegati, concesse il trasferimento a Siena del giovane cavaliere169.

168 AsPi, S. Stefano, 579, ins. 28, c. 10r, apprensione dell’abito di cavaliere milite per giu-

stizia da parte di salustio ugurgieri, 10 marzo 1795.


169 AsPi, S. Stefano, 1064, cc. 200v e 201r, supplica di geltrude ugurgieri, madre e tutrice

di salustio ugurgieri, 17 aprile 1798, e rescritto, 4 maggio 1798.


TAVOLA III
Quarti di Salustio Ugurgieri e residenze degli ascendenti

UGURGIERI SOZZIFANTI BORGHESI WYER


Bernardo
Bartolomeo Niccolò
(P. 1542)
Muzio Ottavio Selvaggia ... Tiberio Maddalena ... ---
(b. 4/5/1559) (P. 1590)
(t. 28/6/1606)
Lelio Portia Cerretani Cav. Aurelio Gio. Battista Girolama Bandinelli ---
(P. 1634) (b. 21/11/1585) (b. 10/4/1610)
(t. 29/10/1631) (R. 1641; P. 1647)
Azzolino Agnese Ghini Bandinelli Cav. Gio. Filippo Laura Fabbroni Niccolò Honorata Bichi ---
(b. 10/9/1633) (t. 25/4/1676) (m. 2/2/1660) (b. 20/8/1638)
(R. 1657) (R. 1662)

Muzio Maria Malavolti Cav. Sen. Aurelio Cav. F. Maria M. Francesca Mancini Gio. Battista Aurelia Bargagli Gen. Gio. Daniel
006_capitolo sesto ok_000_pagine editoriali 20/10/10 17.08 Pagina 197

(b. 16/1/1657) (b. 8/5/1662) (b. 2/9/1669) (b. 17/4/1676)


(R. 1681) (t. 26/10/1711) (C. P. 1718)

Vincenzio M. Angelo Berlinghieri


(n. 29/3/1730) (n. 26/7/1731)
Azzolino Caterina Cav. Niccolò Giulia Matilde Violante Quintilio
(b. 3/4/1702) (b. 18/9/1715)
(R. 1726) (R. 1740)

Muzio M. Geltrude Cav. Odoardo


(b. 30/6/1732) (b. 23/3/1751) (b. 26/9/1741)
(R. 1772)

(m. 19/10/1772)
Salustio
(b. 25/3/1775)

(Abbreviazioni: n. = nascita; b. = battesimo; m. = matrimonio; t. = estrazione dalle borse di Gonfaloniere; R. = riseduto nel Concistoro; P. = Priore; C. P. = Capitano del Popolo)
197
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198

4. CONSIDERAZIONI RIEPILOGATIVE E PROSPETTIVE DI RICERCA

Si è visto, dunque, come in tutta la congerie di eventi storici, di


statuizioni normative, di risvolti politici, di mutamenti sociali, eco-
nomici e, di conseguenza, istituzionali, che squassarono la Toscana,
l’Italia e l’Europa tra il XII e il principio XIX secolo, il ceto dirigen-
te senese, costituito – si ripete – dalle famiglie più antiche della no-
biltà civica, che monopolizzarono le istituzioni pubbliche urbane fin
dalle origini del Comune, seppe conservare e perpetuare le proprie
prerogative cetuali, finanche nel passaggio epocale dalla monarchia
assoluta postmedievale alla monarchia assoluta prerivoluzionaria, in
piena età moderna. Inoltre, è stata confermata sperimentalmente,
nella ricostruzione delle vicende concernenti la casata degli Ugur-
gieri, la funzionalità della metodologia impiegata ai fini dello studio
mirato all’approfondimento della storia dei ceti dirigenti, sostenuto
dall’inconfutabilità delle prove desunte dalle fonti archivistiche.
D’altro canto, si deve rammentare finanche una serie di ricerche
che – seppur, si noti, non intenzionalmente – hanno rafforzato le te-
si metodologiche sostenute più sopra.
S’intende fare riferimento, fra tutti, al brillante esempio di vitalità
degli studi di cui si tratta sostenuti dal periodico storiografico Qua-
derni Stefaniani e dai suoi Supplementi, promossi dall’Istituzione dei
Cavalieri di Santo Stefano – in forza dell’evoluzione degli originari
principi che presiedevano ai compiti istituzionali («incrementare le
tradizioni marinare ed il sempre maggiore afflusso alla marineria
della popolazione») – dichiarati nella redazione statutaria del 1961,
propugnante «un’azione più incisiva nei campi scientifici e morali
riservati all’ente». Difatti, il superamento della mera discussione
araldica e la promozione di conferenze e dibattiti, studi e ricerche,
testimoniato dalla «complessa ed articolata produzione storiografi-
ca», vantante – ad oggi – ventinove anni di pubblicazioni, come, da
un lato, ha indubiltabilmente favorito la divulgazione dei temi in
parola, «all’interno ed al di fuori del mondo accademico», segnalan-
do «con efficace chiarezza editoriale le molteplici iniziative scientifi-
che ed informative», così, dall’altro, «non ha limitato il proprio
campo d’azione all’approfondimento delle conoscenze relative […]
all’Ordine ed ai suoi stretti rapporti con la città di Pisa», «ma ha fa-
vorito una vasta serie di saggi opportunamente destinati a spaziare
006_capitolo sesto ok_000_pagine editoriali 20/10/10 17.08 Pagina 199

199

ben oltre le mura dell’antica Repubblica marinara».


Alla prova dei fatti, il rilievo più importante deve sottolineare co-
me lo studio delle vicende evolutive dei ceti dirigenti e della correla-
ta stratificazione sociale, come quelle delle istituzioni politiche e
parlamentari cittadine, sia potuto partire dal modello maggiormente
rappresentativo e congeniale – come dimostrato dal fulgido magi-
stero di Danilo Marrara – fra le oligarchie cittadine toscane, vale a
dire di

«quella senese [che] – sia per essere propria di una città capitale [dello Stato
“nuovo”] sia per essere politicamente più consistente e giuridicamente più au-
tonoma rispetto a quella dell’altra “metropoli” – assumeva una posizione di
primissimo rilievo ed un valore paradigmatico, anche fuori dei confini del
Granducato: era, in una parola, quella che maggiormente si avvicinava al mo-
dello delle più antiche e prestigiose nobiltà cittadine italiane»170.

Difatti, la storia dello Stato Nuovo di Siena, «si è avvalsa più volte
[…] degli studi promossi dall’Istituzione», «specialmente in un set-
tore poco illuminato da contributi di ricerca moderni per imposta-
zione e datazione, come quello delle famiglie “di reggimento”, che
dopo aver assunto responsabilità di governo al tempo della Repub-
blica, avevano continuato a far parte della locale classe dirigente an-
che in epoca granducale». I numeri del periodico in oggetto «hanno
infatti proposto resoconti e ricerche genealogiche relativi a famiglie
appartenenti all’aristocrazia [...], saggi sulla legislazione granducale
in materia sociale, biografie di nobili cittadini noti e meno noti, de-
stinati nel loro complesso a costituire un corpus di studi capace di
spandere nuova luce su uno spaccato assolutamente non marginale»
degli assetti socio-economici e politico-istituzionali ed a fornire un
contributo sicuramente utile all’approfondimento di almeno tre se-
coli di storia» degli apparati di gestione del potere e dei ceti dirigen-
ti che ne detennero il monopolio almeno fino alle soglie dell’U-
nità171.

170 Cfr. D. MArrArA, Riseduti e nobiltà, cit., p. 60.


171 Cfr. e. PellegriNi, L’Ordine stefaniano e la nobiltà senese, in «Bullettino senese di
storia Patria», CViii (2001), pp. 445-470: 447-448. Al fine di reperire tutti i lavori pubblicati
sulla rivista Quaderni Stefaniani, nonché gli atti dei convegni e delle giornate di studio in ita-
lia e all’estero, le opere monografiche e miscellanee, le tesi di laurea e di dottorato, stampati
direttamente o con il patrocinio dell’istituzione stefaniana, in collaborazione scientifica con il
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200

Pertanto, appare chiaro come le considerazioni sulla struttura so-


cio-istituzionale senese abbiano svolto la funzione di base empirica,
non soltanto soggettiva, in merito alla quale si sono già ampiamente
tradotti in risultati certi ed apprezzabili i contenuti di una proposta
di ricerca da realizzare, per mezzo della metodologia storiografica
familiare, anche su un ambito spaziale di più ampio respiro.

5. CONTRIBUTO METODOLOGICO PER LA STORIA COMPARATA


DEI CETI DIRIGENTI E DELLE ISTITUZIONI POLITICHE
E PARLAMENTARI

1. Il fine di ampliare lo spettro d’indagine, attraverso un approc-


cio che privilegi la famiglia come asse portante delle ricerche, con il
supporto di studi dedicati funzionalmente all’Ordine militar-caval-
leresco-nobiliare stefaniano, in ragione della natura delle fonti pro-
dotte da tale istituzione ibrida – tra Stato e nobiltà –, rappresenta il
primo passo per il consolidamento di un nuovo filone di ricerche
sui ceti dirigenti172, vale a dire sulle istituzioni politiche e parlamen-

Dipartimento di scienze della Politica dell’università di Pisa, si veda D. BArsANti, Produzio-


ne storiografica e attività culturale dell’Istituzione dei Cavalieri di Santo Stefano (1982-
2006), Pisa, edizioni ets, 2006. Alla copiosa mole di scritti e volumi ordinati nella raccolta
anzidetta, devono essere addizionati, oltre i numeri XXVi (2007), XXVii (2008), XXViii
(2009) e XXiX (2010) del periodico «quaderni stefaniani» (supplemento), i volumi: C. ros-
si, La nobiltà e le magistrature di Siena in un’indagine della Reggenza lorenese, cit.; AA.VV.,
Atti del Convegno Internazionale di Studi «Istituzioni potere e società. Le relazioni tra Spa-
gna e Toscana per una storia mediterranea dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano» (Pisa,
18 maggio 2007), a cura di M. Aglietti, Pisa, edizioni ets, 2007; AA.VV., Atti del Convegno
«Colle Val d’Elsa e l’Ordine di Santo Stefano. Istituzioni, economia e società» (Pisa, 23 mag-
gio 2008), a cura di D. MArrArA, Pisa, edizioni ets, 2008; AA.VV., Atti del Convegno Inter-
nazionale di Studi «Nobildonne, monache e cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano. Modelli e
strategie femminili nella vita pubblica della Toscana granducale» (Pisa, 22-23 maggio 2009),
a cura di M. Aglietti, Pisa, edizioni ets, 2009.
172 si vedano gli atti di tre convegni, tra loro intimamente collegati, tenuti negli ultimi me-

si dell’anno 2002, i quali si inseriscono nel solco di ricerche e di riflessioni storiografiche che
sono venute maturando, nel corso di lunghi anni, nel Dipartimento di scienze della Politica
dell’università di Pisa: ricerche e riflessioni di cui sono stati partecipi, non meno dei docenti,
gli allievi del dottorato di ricerca in storia moderna e contemporanea, prima, e di quello in
storia e sociologia della Modernità, successivamente. Nella premessa – identica per i tre vo-
lumi in parola – Danilo Marrara, professore ordinario di storia delle istituzioni Politiche e de-
cano nazionale della medesima disciplina accademica, sostenne come i saggi pubblicati offris-
sero «un significativo contributo alla conoscenza della genesi e dei caratteri della nobiltà civi-
ca, ossia della peculiare configurazione che i ceti dirigenti municipali assunsero assai spesso
nei secoli dell’età moderna: di una nobiltà, come ormai è ben noto, che traeva la propria
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201

tari – non soltanto cittadine –, nati in epoca medievale, scontratisi in


età moderna con l’affermazione della monarchia, ma sopravvissuti
all’inarrestabile vortice dell’evoluzione istituzionale continentale e
peninsulare, che portò all’affermazione dell’assolutismo illuminato e
alla complessa transizione verso l’età contemporanea.
I passi per analizzare le istituzioni in parola, attraverso la costante
e attenta valutazione delle imprescindibili relazioni con la stratifica-
zione sociale, possono seguire le orme dei cavalieri stefaniani fino
alla definitiva soppressione dell’Ordine, nel 1859, tenendo in parti-
colare considerazione i processi storici di passaggio tra le ere socio-
politiche, affinché il campo d’osservazione sia esteso dalla multifor-
me realtà istituzionale toscana a quelle degli antichi Stati italiani tra
il XII e il XIX secolo, per poi volgere l’attenzione al più ampio con-
testo europeo. In tal modo, si auspica di realizzare l’effetto di un
sasso – rappresentato dalla nobiltà civica toscana – gettato su uno
specchio d’acqua, ovvero di allargare l’orizzonte speculativo dai ceti
dirigenti granducali a quelli peninsulari e continentali, nell’arco
temporale evolutivo – computato in riferimento all’Italia – compre-
so tra l’epoca delle Repubbliche comunali e la formazione dello Sta-
to nazionale, in modo da percepire l’importanza e la specificità del
cerchio più piccolo – soprattutto in riferimento alla singolare longe-
vità della nobiltà civica –, amplificate dalla relativizzazione con mo-
delli socio-economici e politico-istituzionali ben più estesi e variega-
ti. Punto fermo dev’essere considerato proprio l’istituto in parola, il
quale portava sotto lo stesso tetto finanche i membri delle aristocra-
zie di matrice extratoscana – italiana ed europea – nel momento
stesso in cui s’andavano ad accertare i requisiti – della medesima na-
tura sostanziale, come si è già chiarito – per l’ammissibilità nell’Or-
dine di Santo Stefano, in forza degli Statuti della Religione, e, a par-
tire dal 1750, per l’inclusione nelle classi della nobiltà e del patrizia-

ragion d’essere non da diplomi sovrani né da titoli di stampo feudale, ma dal diritto ereditario
di accesso alle magistrature cittadine», contribuendo «altresì a lumeggiare le vicende che le au-
tonomie locali e i relativi ceti dirigenti vissero in età contemporanea». Cfr. AA.VV., Ceti diri-
genti municipali in Italia e in Europa in età moderna e contemporanea, studi del Dipartimento
di scienze della Politica dell’università di Pisa – 13, Pisa, edizioni ets, 2003; AA.VV., Ceti
dirigenti e poteri locali nell’Italia meridionale (secoli XVI-XX), studi del Dipartimento di
scienze della Politica dell’università di Pisa – 14, Pisa, edizioni ets, 2003; AA.VV., Èlites
municipales et sentiment national dans l’aire de la Méditeranée nord-occidentale, studi del Di-
partimento di scienze della Politica dell’università di Pisa – 15, Pisa, edizioni ets, 2003.
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202

to di Toscana, a norma della Legge per regolamento della nobiltà e


cittadinanza, nel palese legame di interconnessione tra i due appara-
ti normativi.
Dunque, la pietra angolare della ricerca comparata è rappresenta-
ta dalle famiglie aristocratiche italiane ed europee i cui componenti
siano stati cavalieri stefaniani e gli antenati membri delle più rile-
vanti strutture istituzionali nei luoghi di provenienza, così come i di-
scendenti dei rami più dinamici protagonisti nei luoghi di approdo.
Degli uni – i cavalieri – e delle altre – le istituzioni – sono docu-
mentati i caratteri essenziali e i riferimenti indiziari per cogliere, in
maniera speculativa, peculiarità proprie e assonanze con le tipologie
delle istituzioni politiche e parlamentari che nel medesimo tempo
fiorivano, vivevano o sopravvivevano in altri luoghi d’Italia e d’Eu-
ropa, in un arco temporale di notevole ampiezza (1561-1859) e si-
gnificatività storica (per la nascita dello Stato moderno), rette da ceti
dirigenti di natura analoga alla nobiltà civica toscana, costituiti da
famiglie, o gruppi di esse, che attraverso l’endogamia ed altri varie-
gati criteri conservativi delle prerogative socio-politiche privilegiate,
impiegavano instancabilmente ogni risorsa per la conservazione del
grado consolidato ab antiquo sulla scala sociale e nel monopolio oli-
garchico dei pubblici poteri.
Indubitabilmente, i fascicoli istruiti dalla Deputazione sulla no-
biltà e cittadinanza, conservati presso l’Archivio di Stato di Firenze,
possono agevolmente fornire un’esaustiva base documentale per la
verifica delle aggregazioni alla classe superiore della nobiltà toscana
tra il 1751 e il 1860173, ove si prendano in considerazione consorti e
prosapie legati residenzialmente al Granducato. Ma l’Archivio del
Sacro Militare Ordine di S. Stefano Papa e Martire, custodito pres-
so l’Archivio di Stato di Pisa, rappresenta la fonte indispensabile
per l’acquisizione di tutte le carte concernenti le famiglie che ambi-
vano a veder riconosciuto il loro primato socio-politico nelle patrie
d’origine e, contemporaneamente, desideravano essere insignite di
un titolo che, da un lato, le accomunasse alle casate più prestigiose
del ceto dominante toscano, assumendo le insegne dell’ordine eque-
stre omologo della Religione gerosolimitana174, e, dall’altro, le esal-

173 in specie: AsFi, Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza, giustificazioni.


174 innanzi tutto: AsPi, Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano, Provanze; Apprensioni
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203

tasse con il conseguimento della nobiltà cavalleresca.


Ai precedenti, si devono associare gli Archivi di Stato o pubblici
(ma anche familiari, qualora esistessero) del luogo d’origine delle
casate prese in considerazione, al fine di verificare, nelle sezioni ar-
chivistiche riservate alle istituzioni politiche e parlamentari (come
ad altre istituzioni-chiave della società civile), la presenza degli ante-
nati nel ceto dirigente e nelle posizioni di maggior rilievo socio-poli-
tico.

2. A supporto di tali proposte, devono brevemente precisarsi gli


elementi necessari per la delineazione dello schema metodologico,
indispensabili per definirne l’oggetto e l’ambito disciplinare ed avere
una visione complessiva d’insieme.
Il punto di partenza della ricerca, che è stato identificato con la
nobiltà civica toscana, è già stato ampiamente messo in evidenza in
ragione della sua composizione per famiglie di reggimento, i cui
membri ricoprivano le magistrature municipali toscane, ottenevano
l’abito dell’Ordine dei Cavalieri di S. Stefano e l’iscrizione nei Libri
d’oro, andando a costituire il ceto dirigente che spiccava nell’ambito
di una stratificazione sociale per ordini.
D’altro canto, sotto l’aspetto meramente disciplinare, si deve ri-
cordare come le ricerche sulle istituzioni comunitative debbano es-
sere inquadrate nell’alveo della storia delle istituzioni parlamentari
cittadine175, che, a sua volta, ricade nel più ampio raggio studiato
dalla storia delle istituzioni politiche.
In merito a quest’ultima disciplina, è stato autorevolmente illu-
strato come essa prenda in esame in funzione di oggetto di studio sia
l’attività umana rivolta a costituire, riformare o rovesciare le istitu-
zioni politiche fondamentali della società, sia il risultato che ne con-
segua176.

d’abito; suppliche e informazioni; libri di esequie; strumenti di fondazione di commende di


padronato; strumenti della religione. in un sol colpo, possono reperirsi schematicamente una
serie diversificata di notizie, tratte dalle fonti documentarie archivistiche (per esempio: nasci-
te, battesimi, matrimoni, morti, origini delle famiglie, titoli nobiliari, residenze nelle cariche
pubbliche, consistenze patrimoniali, redditi e imposte).
175 Cfr. D. MArrArA, Studi giuridici sulla Toscana medicea, cit., p. 125.
176 Cfr. A. MAroNgiu, Lezioni di storia delle istituzioni politiche. Lo Stato moderno (secc.

XVI-XVII-XVIII), roma, edizioni ricerche, 1967, cap. i (Essenza e valore della storia delle
istituzioni politiche), pp. 3-29.
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204

TAVOLA IV
Schema disciplinare-metodologico
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205

6. STORIOGRAFIA FAMILIARE E ARCHIVIO STEFANIANO:


ULTERIORI CENNI ESEMPLIFICATIVI

A conferma delle asserzioni in merito all’asse di ricerca di cui si


sta trattando, recentemente, è stato autorevolmente sostenuto come,
proprio con riguardo alla nobiltà cavalleresca, sia possibile analizzare
molti elementi capaci di spiegare le dinamiche prevalenti nei mecca-
nismi di costruzione dei gruppi dominanti, poiché «la formazione
dell’identità sociale propria del cavaliere di Santo Stefano diviene
l’occasione per sviluppare uno studio più articolato e dedicato ai
comportamenti economici e familiari, agli stili di vita e alle reti rela-
zionali che caratterizzarono i gruppi dirigenti toscani». Ma l’auspicio
esplicitamente dichiarato è rivolto a «comprendere come le istituzio-
ni politiche, attraverso i canali degli Ordini cavallereschi, dei Princi-
pi o delle loro leggi, abbiano portato all’affermazione di un principio
comune di nobiltà», facendosi particolare riferimento alla compara-
zione con la componente spagnola della nobiltà cavalleresca toscana,
la quale «sia quantitativamente che qualitativamente, svolse un ruolo
di grande rilevanza». A tal fine, per mezzo di differenti approcci sto-
riografici, è stato illustrato «come le istituzioni cavalleresche, sia in
Toscana che in Spagna, abbiano concorso alla diffusione di nuove di-
namiche di partecipazione socio-politica ed alla trasmissione di mo-
delli e di status che contribuirono a determinare l’identità dei gruppi
dirigenti» e come ciò sia stato dimostrato dai reviviscenti «dibattiti
sulla nobiltà e sui criteri di ammissibilità agli ordini cavallereschi»,
dalle «eccezioni alla regola promosse dagli stessi sovrani» e dalle
«evoluzioni che ne conseguirono nei rapporti di forza tra sovrano ed
élites». Inoltre, un esplicito riferimento all’analisi delle «strategie di
promozione sociale» e all’esame «critico e metodologico» delle «fon-
ti d’archivio spagnole e toscane» per svelare «i segreti del necessario
supporto documentale sotteso agli studi condotti (ma soprattutto a
quanti sono ancora da condurre) per la ricostruzione dei rapporti tra
i due Stati, oltre che», in particolare, «alle indagini circa i ceti diri-
genti europei», è condivisibilmente ritenuto «indispensabile per su-
perare i limiti di una storiografia che è stata troppo spesso orientata»
secondo immobili punti d’osservazione177.

177 le citazioni sono tratte dal recente volume collettaneo AA.VV., Atti del Convegno
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Pertanto, il filo rosso delle linee di ricerca sostenute nella tratta-


zione in corso si ritrova nella serie di considerazioni e nelle afferma-
zioni dianzi enunciate, le quali, se, da un lato, non possono determi-
narne il tasso d’attendibilità, che deve consolidarsi autonomamente,
dall’altro non possono certamente sconfessarlo. Tuttavia, è da rite-
nersi significativa e stimolante la conferma sintomatica di una comu-
ne prospettiva delle direttrici di ricerca, verso la ricomposizione ed
integrazione, per mezzo di «elementi finora inediti», di «una più ap-
profondita conoscenza della realtà sociale, economica e politica», an-
cor più esaltata dalle «potenzialità offerte dal confronto tra i risultati
specifici della microstoria ed alcuni elementi peculiari della macro-
storia», in funzione diretta con una chiave di lettura comparativa178.
Or dunque, annotato il giudizio unanime sulla funzione impre-
scindibile dell’Archivio stefaniano, alla quale si è fatto finora univo-
co ed assiduo riferimento nei termini, ampiamente premessi, dell’in-
dagine socio-politica correlata con la ricerca storico-istituzionale, si
devono enumerare, seppur sinteticamente, le partizioni delle risorse
archivistiche potenzialmente utilizzabili al fine di proseguire gli stu-
di in parola e, finanche, approntarne di nuovi, riservando l’attenzio-
ne della chiosa esemplificativa alle filze delle Provanze di nobiltà179.
Inoltre, in funzione dimostrativa, dopo tali indicazioni sintetiche, in
aggiunta al modello degli Ugurgieri, strettamente correlato alla disa-
mina del caso senese, si riportano, nelle linee essenziali, tre riferi-
menti paradigmatici, strettamente connessi con le risorse di cui si
tratta (ma, finanche, in due casi, con le fonti documentarie fiorenti-
ne, in ragione della conferma della nobilitazione derivativa concessa
in forza della Legge del 1750).
***
In primo luogo, si deve premettere come non essendovi serie ar-
chivistiche precipuamente deputabili alla verifica delle presenze ex-
tratoscane nell’Ordine granducale (giacché, diversamente, per
esempio, dalla Religione di Malta, non v’era una suddivisione per
nazioni), le uniche indicazioni di tal sorta possano reperirsi nei regi-

internazionale «Istituzioni potere e società. Le relazioni tra Spagna e Toscana per una storia
mediterranea dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano», a cura di M. Aglietti, cit., pp. 8-9.
178 Ibidem.
179 AsPi, S. Stefano, 6-497, Provanze di nobiltà (1562-1859).
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207

stri delle Patrie180, ove i cavalieri sono enumerati in ragione del luo-
go d’origine.
D’altro canto, giacché gli strumenti indispensabili per affrontare
lo studio del campione in parola sono correlati principalmente al-
l’ammissione dei pretendenti l’abito stefaniano, seguendo la pro-
gressione delle tappe formali ineludibili a tal fine, si può agevolmen-
te procedere all’elencazione delle sezioni documentarie interessate.
I registri di Suppliche e Informazioni181 conservano l’incipit della
procedura, ma si devono consultare le mere Informazioni182 per ac-
cedere ad un complesso carteggio concernente le nomine dei com-
missari (scelti fra i cavalieri anziani delle patrie d’origine dei quarti
da cui discendeva il postulante), le istruzioni per l’esame degli in-
cartamenti probanti la nobiltà generosa delle quattro linee ascen-
denti, lo scambio di notificazioni e ragguagli tra gli attori ufficiali
della vicenda, le relazioni al governo centrale. Qualora se ne ritenes-
se opportuna la consultazione, per particolari riscontri richiesti dal-
la migliore decifrabilità delle notizie indicate dianzi, o dalla carenza,
imprecisione e difficile intelligibilità delle medesime, rivestono un
ruolo fondamentale per colmare dette lacune i Copialettere183 e i
Partiti e Deliberazioni del Consiglio184. Non sempre i processi d’im-
missione nei ranghi stefaniani andavano a buon fine, ma finanche di
tali procedimenti sono rimaste le tracce documentali, tra le filze di
Processi di nobiltà reprobate185 e Processi di nobiltà non approvate186.
Per converso, le coordinate essenziali riferite alla vestizione, con
l’indicazione, quanto meno, oltre al nome del novello cavaliere, di
luogo e data della cerimonia pubblica, sono facilmente rintracciabili
nei Giornali d’apprensioni d’abito187. La fondazione di commende,
al fine di conseguire il manto rossocrociato con la procedura subor-
dinata per importanza e pregio all’ammissione per giustizia, consi-
steva nella stesura di un vero e proprio contratto, da cui deriva il

180 AsPi, S. Stefano, 610-618, Patrie (sec. XVii-1837).


181 AsPi, S. Stefano, 1082-1394, Suppliche e Informazioni (1561-1859).
182 AsPi, S. Stefano, 1006-1081, Informazioni (1563-1859).
183 AsPi, S. Stefano, 840-901, Copialettere del Consiglio, poi della Cancelleria (1563-
1858).
184 AsPi, S. Stefano, 740-834, Partiti e Deliberazioni del Consiglio (1562-1859).
185 AsPi, S. Stefano, 501-545, Processi di nobiltà reprobate (1562-1732).
186 AsPi, S. Stefano, 546-548, Processi di nobiltà non approvate (1724-1846).
187 AsPi, S. Stefano, 575-580, Giornali d’apprensioni d’abito (1561-1859).
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208

nome della partizione ad esse dedicata, vale a dire Instrumenti di


Fondazione di Commende188.
Le serie or ora enumerate compongono il nucleo essenziale da
cui principiare le ricerche delle quali si è discorso a lungo e se ne
potrebbero aggiungere numerose altre, ma non è questa la sede per
eventuali disquisizioni in materia strettamente archivistica, seppur
correlata ai ceti dirigenti189, se non per rammentare come rimanga-
no del tutto inesplorati gli orizzonti di ricerca offerti dalla mole do-
cumentaria dell’Archivio stefaniano e, presumibilmente, di altre isti-
tuzioni nobiliar-cavalleresche, per i quali si attendono valorosi e, so-
prattutto, volenterosi paladini che provino una passione inconteni-
bile per una dama dal fascino irresistibile: la ricerca storica.
Infine, come premesso, per illustrare, su tutti, un prototipo chia-
rificatore esemplare rispetto alle fonti stefaniane, si devono prende-
re in considerazione le filze delle Provanze di nobiltà, nelle quali si
conservano, fra gli altri incartamenti, i cosiddetti «capitoli delle pro-
vanze», composti solitamente da circa una dozzina articoli enume-
ranti le domande attraverso le quali interrogare i testimoni. Si tratta
dell’indagine sulla nobiltà delle famiglie dei quattro quarti (ma, pos-
sibilmente, anche di quelle ad esse legate da vincoli di affinità), sulla
liceità dei matrimoni, su legittimità di nascita e qualità personali del
pretendente, sulla vita more nobilium e sull’ortodossia religiosa de-
gli uomini e delle donne vissuti e viventi. Ovviamente, i testimoni
dovevano dichiarare che ogni notizia fosse vera «per comune opi-
nione, pubblica voce e fama». Il postulante, da parte sua, doveva al-
legare le prove documentali e gli atti notarili concernenti sé stesso e
gli ascendenti dei quattro quarti, tra cui gli stemmi gentilizi, le atte-
stazioni dell’entità dei beni e delle rendite posseduti, le certificazio-
ni dell’ufficio dell’estimo, le fedi autentiche di battesimo e matrimo-
nio; vale a dire, in buona sostanza, ogni attestazione che potesse ser-
vire a dimostrare il lustro dell’aspirante e dei suoi antenati: copie di

188 AsPi, S. Stefano, 3424-3491, Instrumenti di Fondazione di Commende, (1565-1858).


189 Per una disamina allo stesso tempo schematica ed esaustiva, nonché per un’analisi
chiarificatrice delle potenzialità di ricerca racchiuse nelle filze stefaniane, si veda C. PeNNi-
soN, L’archivio di Santo Stefano per la storia dei ceti dirigenti tra Toscana e Spagna, in
AA.VV., Atti del Convegno internazionale «Istituzioni potere e società. Le relazioni tra Spa-
gna e Toscana per una storia mediterranea dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano», a cu-
ra di M. Aglietti, cit., pp. 487-506.
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investiture, conferme feudali, privilegi di vario tipo, fedi pubbliche


riguardanti particolari cariche ricoperte, testimonianze scritte da
personalità eminenti, compresi190.
Si trattava di dimostrare la nobiltà del genus: non bastava che il
pretendente fosse nobile, ma era necessario che lo fossero anche i
suoi ascendenti. Fino al Capitolo Generale del 1728 era sufficiente
risalire fino alla quarta generazione, vale a dire fino agli abavi; do-
podichè sarà indispensabile arrivare fino alla quinta, in altre parole
sino ai quattro atavi191.
Pertanto, l’antichità delle famiglie era la caratteristica principale
della nobiltà cavalleresca, ma quale fosse la prova di tale requisito
non veniva precisato dagli Statuti dell’Ordine, i quali si limitavano a
sancire che «Chiunque desidera d’esser ricevuto in Cavaliere […]
bisogna prima, che per privilegi, o per fede autentica di testimonj, o
della Comunità di quei luoghi donde sarà disceso, provi, e verifichi
ciascuna dell’infrascritte cose, cioè. Ch’egli stesso, Padre, Madre,
Avi, ed Avole dal lato Paterno e Materno, sieno discesi da casate no-
bili, che habbiano avuto, o veramente sieno stati atti a potere avere,
e godere nella Patria loro quelle maggiori dignità, e gradi che solo i
più nobili Gentiluomini sogliono avere, e godere; dichiarando no-
minatamente quali gradi e dignità»192. Le norme statutarie, tenendo
conto della diversa provenienza dei pretendenti, facevano un gene-
rico riferimento agli usi locali. Da parte dei candidati toscani, il re-
quisito in questione veniva dimostrato attraverso il godimento delle
magistrature cittadine, ovvero per mezzo della nobiltà civica. Non si
esigeva che tutti fossero stati effettivamente riseduti, era sufficiente

190 Di fatto, gli esponenti delle stirpi di reggimento conservarono in ogni modo lo splendo-

re degli antenati, con gesta gloriose o con il sangue versato in battaglia, ma anche, e soprattut-
to, attraverso una presenza ragguardevole nelle cariche ecclesiastiche, nelle professioni legali,
negli affari politici e bellici, mantenendo sempre alto il nome della casata, potendo vantare in-
numerevoli personaggi illustri tra gli alti ranghi dei corpi militari e degli ordini cavallereschi,
come nelle rappresentanze diplomatiche. si tratta certamente della caratteristica comune alle
famiglie d’antico lignaggio, della più rilevante, sia nel periodo di vigenza delle legislazioni
antimagnatizie, sia in seguito, fino all’unità ed oltre: si trattava delle prerogative che li aveva-
no resi insostituibili ai vertici degli apparati pubblici, fin dalle origini del Comune cittadino.
191 AsPi, S. Stefano, 647, ins. 17, partito n. 40. Detta deliberazione capitolare venne tra-

sfusa negli statuti della religione con le addizioni del 1746: Statuti, cit., tit. ii, cap. iii, addi-
zioni terze, n. 1, p. 102.
192 Statuti, cit., tit. ii (Del modo di ricevere i Cavalieri), cap. iii (Delle probazioni, che si

debbano fare innanzi, che alcuno si accetti), pp. 94-95.


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che gli antenati «veramente sieno stati atti a potere avere, e godere
[…] quelle maggiori dignità» – come si è ampiamente riferito, in
merito all’esercizio delle prerogative politiche, per Firenze e Siena
–. Tuttavia, la mancanza del godimento, innanzitutto, doveva essere
imputabile a fatti non ostativi, vale a dire che non producessero la
decadenza dallo status nobiliare, e, in secondo luogo, se si protraeva
per più generazioni, poteva addirittura divenire una vera e propria
presunzione di decadenza da detta condizione. Si deve aggiungere
che se da un lato, in molte località (così come per i magnates nella
Toscana comunale), il più antico modo di acquisizione della nobiltà
veniva identificato con l’investitura feudale (vanto di alcune fami-
glie del Granducato, ma soprattutto del Regno di Napoli, del Regno
di Sicilia e del Piemonte), dall’altro si assisteva a processi a dir poco
singolari, primi fra tutti quelli degli aspiranti spagnoli (campione di
grande rilevanza) che, in patria, erano considerati nobili grazie alla
mera esenzione fiscale193. Si deve però rammentare come, in tutto
ciò che riguardasse l’Ordine di Santo Stefano, l’ultima parola spet-
tasse sempre al Gran Maestro, al quale veniva riservata la facoltà di
derogare agli Statuti: era libero di accettare un aspirante il cui pro-
cesso avesse avuto esito negativo, così come, viceversa, di respinger-
lo nonostante tutte le carte fossero in regola.
Il carattere «nazionale» dell’Ordine di Santo Stefano veniva dun-
que superato in ragione dell’ammissione di pretendenti non toscani,
come risulta efficacemente dalla solida mole di informazioni raccol-
te, per esempio, seppur schematicamente, da Bruno Casini194, per
mezzo delle quali è possibile accedere ad un primo censimento delle
schiatte che poterono fregiarsi nelle loro insegne nobiliari della cro-
ce rossa in campo bianco e, soprattutto, all’indicazione delle coordi-

193 Per quest’ultimo aspetto, si rimanda a M. Aglietti, Le tre nobiltà, cit., pp. 115-121.
194 in particolare, si vedano i due volumi dedicati agli aspiranti cavalieri provenienti da al-
tri stati italiani: B. CAsiNi, I cavalieri degli Stati italiani membri del Sacro Militare Ordine di
S. Stefano Papa e Martire. Volume I, Pisa, edizioni ets, 1998; iDeM, I cavalieri degli Stati
italiani membri del Sacro Militare Ordine di S. Stefano Papa e Martire. Volume II, Pisa, edi-
zioni ets, 2001. Ma anche: iDeM, I cavalieri portoghesi membri del Sacro Militare Ordine di
S. Stefano Papa e Martire, in AA.VV., Toscana e Portogallo, Pisa, edizioni ets, 1994, pp.
133-190; iDeM, I cavalieri spagnoli membri del Sacro Militare Ordine di Santo Stefano nel se-
colo XVI, in AA.VV., Toscana e Spagna nel secolo XVI, Pisa, edizioni ets, 1996, pp. 123-
187; iDeM, I cavalieri spagnoli membri del Sacro Militare Ordine di Santo Stefano nei secoli
XVII-XIX, in AA.VV., Toscana e Spagna nell’età moderna e contemporanea, Pisa, edizioni
ets, 1998, pp. 147-190.
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nate documentarie dalle quali attingere una serie di cognizioni, della


più varia sorta, sull’origine, la natura e l’evoluzione dei ceti dirigenti
che potevano essere omologati alla nobiltà civica toscana, attraverso
l’ausilio indispensabile di una fonte di solida matrice storica, non
soltanto araldica e genealogica.
***
Come ampiamente anticipato, le considerazioni sulla struttura so-
cio-istituzionale senese hanno svolto la funzione di base empirica in
merito alla quale si sono già ampiamente tradotti in risultati certi ed
apprezzabili i contenuti di una proposta di ricerca da realizzare, per
mezzo della metodologia storiografica familiare, anche su un ambito
spaziale di più ampio respiro. Sotto l’aspetto comparativo, sono sta-
te soprattutto le attività congressuali a fornire l’occasione per ap-
profondire sia aspetti sostanziali, concernenti i sistemi urbani di reg-
gimento cittadino195, sia tematiche più strettamente concettuali196,
sia problematiche metodologiche197, sia, infine, i legami tra la To-
scana e i ceti dirigenti di origine peninsulare ed europea, con parti-
colare riferimento alle famiglie parlamentarie198. In particolare, si ri-

195 A. ruiu, La famiglia Giusti nell’Ordine di S. Stefano, in AA.VV., Atti del Convegno

«Colle Val d’Elsa e l’Ordine di Santo Stefano. Istituzioni, economia, società», a cura di D. MAr-
rArA, cit., pp. 131-164; iDeM, I cavalieri di Pescia membri dell’Ordine di S. Stefano, in «qua-
derni stefaniani», XXiX (2010), supplemento, pp. 103-132; (paragrafi: La città nobile di Pe-
scia: relazioni funzionali fra stratificazione sociale e ammissibilità all’Ordine di S. Stefano; Mo-
bilità sociale e cavalierato stefaniano; La distribuzione dei cavalieri di Pescia: conclusioni).
196 A. ruiu, L’État de Sienne de la République communale à la Monarchie absolue «po-

stmédievale». Les institutions parlementaires citadines à l’époque du Principat des Médicis, in


AA.VV., Parliement in small states – Parliament and Monarchy (Studies presented to the Inter-
national Commission for the History of Representative and Parliamentary Institutions LXXXV,
«Czasopismo Prawno-historyczne», lXi-2, 2009), Poznań (Posen), 2009, pp. 79-89; iDeM,
The Municipal Republic of Siena and the advent of post-medieval absolute monarchy. The sur-
vival of medieval political institutions at the time of the Principality of the Medici, in AA.VV.,
Conference Minutes - 60th international Commission for the history of representative and Par-
liamentary institutions, a cura dell’iChrPi in collaborazione con l’Assemblea della repubbli-
ca del Portogallo e l’università di Coimbra, pp. 229-235, in corso di stampa (ottobre 2010).
197 A. ruiu, Ceti dirigenti e archivio stefaniano, in Omaggio a Rodolfo Bernardini, a cura

di D. BArsANti, Pisa, edizioni ets, 2009, pp. 305-328; iDeM, Tuscan civic nobility and re-
search perspectives. Family historiography and archive sources: methodology and resources
for the comparative history of political and parliamentary institutions, in AA.VV., Conference
Minutes - 59th international Commission for the history of representative and Parliamentary
institutions, a cura dell’iChrPi in collaborazione con il Dipartimento di storia dell’università
di sassari, pp. 45-57, in corso di stampa (ottobre 2010).
198 A. ruiu, I Colloredo nelle carte dell’Ordine di Santo Stefano, in I Colloredo e l’Ordine

di Santo Stefano, Pisa, edizioni ets, 2009, pp. 17-36; iDeM, La famiglia Sproni fra Comunità
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percorrono rapidamente (lasciando da parte le appendici dei docu-


menti, pur senza omettere la miriade di spunti indiziari che si pos-
sono desumere dalle fonti documentarie originali) le vicende delle
tre casate dei Giusti, dei Colloredo e degli Sproni, i cui componenti
sono stati cavalieri stefaniani e gli antenati membri delle più rilevan-
ti strutture istituzionali dei luoghi di provenienza (Umbria, Friuli e
Olanda), così come i discendenti dei rami più dinamici sono stati
protagonisti nei luoghi di approdo (Toscana e Marche).

6.1. La Famiglia Giusti nell’Ordine di S. Stefano


I. L’origine della casata199
La famiglia Giusti poteva vantare tante e diverse dignità ed ono-
rificenze, riconosciute in numerose città, nonché matrimoni nobili
con altrettante famiglie d’alto rango. L’albero genealogico della pro-
sapia, difatti, principiava con Bartolomeo di Francesco, cittadino
volterrano, da cui discese Giusto, cancelliere del Comune di Colle
nel 1470, che, nell’anno detto, sposò Bartolomea di Lorenzo Marzi
da Colle, dai quali nacque Pier Francesco, che prese in moglie Ma-
ria Fiammetta di Tommaso Rinieri colligiano, l’anno 1503, i quali
generarono Alberto, accasatosi con Ginevra Viviani da Firenze, ge-
nitori di Giovanni Battista, primo membro della famiglia a vestire
l’abito stefaniano, il 19 settembre 1571, ed a godere i frutti della
commenda di padronato fondata da suo padre, in veste di primo
beneficiario, il quale si congiunse in matrimonio con Poliziana Ac-
ciaiuoli, fiorentina, nel 1579.
La stirpe era comunemente considerata originaria di Orvieto, co-
me risultava dal diploma stilato dai Conservatori della medesima
città d’Orvieto, l’anno 1542, di riconoscimento della nobiltà patrizia
a favore di Alberto, Pier Francesco, Giovanni Battista e loro figli e
discendenti.
Dopo qualche anno, nel 1546, con un altro diploma, il titolo di

di Livorno, Ordine di S. Stefano e nobiltà toscana: l’ascesa di una nuova aristocrazia, in


«Nuovi studi livornesi», XVi (2009), pp. 97-119.
199 AsFi, Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza, 42, ins. 15. Cfr. M. Aglietti, Le tre

nobiltà, appendice, n. 14, p. 314. tutte le notizie necessarie per lo svolgimento del sottopara-
grafo sono state tratte dalle carte conservate presso l’Archivio di stato di Firenze, nell’inserto
cucito nella filza indicata, del tutto mancante di una numerazione per carte o pagine.
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Conte del Sacro Palazzo e cavaliere dello Speron d’Oro fu concesso


ad Alberto e Pierfrancesco Giusti e loro discendenti.
Inoltre, «il Serenissimo Cosimo I, l’anno 1555, dichiarò con di-
ploma d’essere Alberto di Pierfrancesco ammesso a tutti gli onori
ed uffizi della città di Firenze per essere stato prescelto a tale onore
dal pubblico e Generale Consiglio di Colle». Anche se già esisteva
un attestato del Cancelliere della città di Colle, in merito alle conve-
zioni seguite il dì 24 agosto 1481 fra la Repubblica fiorentina e quel-
la di Colle, dalle quali constava come Giusto di Bartolomeo – avo
paterno del detto Alberto – e i suoi discendenti per linea maschile
fossero stati dichiarati «veri, e legittimi Cittadini fiorentini».
Infine, deve ricordarsi il diploma concesso l’anno 1588 a Pierfa-
rancesco e suo figlio Alberto dal Senato Romano per l’ammissione
della loro famiglia e discendenza alla cittadinanza e patriziato roma-
no, che suggellava il pregio nobiliare della casata.
Nel diciottesimo secolo, fu superato il valore simbolico della no-
biltà cavalleresca in forza della Legge per regolamento della nobiltà e
cittadinanza, emanata in data 31 luglio 1750, la quale si occupava, per
la prima volta, di disciplinare, in modo chiaro ed organico, l’assetto
della nobiltà toscana. Al fine di veder riconosciuto lo status nobiliare
della propria casata, davanti al Commissario della città di Volterra
comparve il cavaliere Alessandro del cavaliere Alberto, del già cavalie-
re Giovanni Giusti, in veste di capo della famiglia, per essere ascritto,
insieme con il fratello Antonio, le sorelle Maria Caterina e Anna Tere-
sa ed il cavaliere Alberto Filippo, suo figlio, nella classe dei patrizi.
Alle preci furono allegati quindici documenti:
I l’albero genealogico e l’arme della famiglia;
II l’attestato estratto dall’archivio di palazzo della città di Firen-
ze, da cui appariva che messer Pier Francesco di Giusto di
Bartolommeo fu descritto nella borsa dei Priori della città di
Volterra, per l’anno 1507;
III l’attestato della cancelleria della Religione di S. Stefano, dal
quale risultava che Giovanni Battista di messer Alberto Giusti,
nell’anno 1571, ottenne l’ammissione per giustizia, già trovan-
dosi al servizio di Cosimo I «in qualità di Paggio, essendo stato
de’ primi cavalieri ammessi al sacro militare Ordine»;
IV l’attestato della cancelleria della Religione in merito alla vesti-
zione del comparente, Alessandro;
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V l’attestato del cancelliere della città di Colle delle convezioni


seguite il dì 24 agosto 1481 fra la Repubblica fiorentina e quel-
la di Colle, dalle quali constava che «Giusto di Bartolommeo
[...] e i suoi figliuoli, e descendenti furono dichiarati veri, e le-
gittimi Cittadini fiorentini»;
VI l’attestato da cui appariva che «il comparente assieme col cava-
liere Antonio suo fratello, il cavaliere Alberto Filippo suo fi-
glio, e i di loro ascendenti sono stati ammessi al godimento dei
primi onori della città di Colle», e per mezzo del quale si giu-
stificava, insieme al successivo, segnato col numero 7, la prova
della discendenza;
VII la fede di battesimo di Giovanni Battista di messer Alberto;
VIII la fede di battesimo di Maria Caterina e di Anna Teresa del ca-
valiere Alberto, sorelle del comparente;
IX l’attestato del Provveditore della maggior Gabella della città di
Colle, dal quale si ricava che Giusto di Bartolommeo da Vol-
terra fu Cancelliere del Comune di Colle nel 1470, così come il
medesimo Giusto, nell’anno detto, aveva per moglie Bartolom-
mea di Lorenzo Marzi da Colle e «si prova inoltre il matrimo-
nio di messer Pier Francesco di Giusto con Maria Fiammetta
figlia di messer Tommaso d’Antonio di Piero di casa Rinieri se-
guito l’anno 1503. Il matrimonio d’Alberto di messer Pier
Francesco con Ginevra Viviani seguito l’anno 1548. Il matri-
monio del cavaliere Giovanni Battista d’Alberto con Maria Po-
liziana Acciajoli seguito l’anno 1579»;
X l’attestato «dell’ufizio delle Gabelle de’ contratti di Firenze, da
cui resulta il matrimonio contratto dal cavaliere Giovanni del
cavaliere Giovanni Battista con Maddalena Gucci seguito l’an-
no 1632»;
XI dal suddetto attestato del Provveditore della maggior Gabella
della città di Colle appare il matrimonio contratto dal cavaliere
Alberto del cavaliere Giovanni con Eufrasia Ugurgieri l’anno
1675. E finalmente il matrimonio del cavaliere Alessandro,
comparente, seguito l’anno 1716 con Lisabetta del cavaliere
Bernardino Renieri;
XII copia autentica del «diploma fatto dai Conservatori della città
d’Orvieto l’anno 1542 della nobiltà patrizia à favore di Bernar-
do Alberto, Pier Francesco, Giovanni Battista, e loro figli, e di-
scendenti»;
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XIII copia autentica del «diploma di Conte del Sacro Palazzo, e ca-
valiere dello Speron d’Oro conceduto l’anno 1546 ad Alberto,
e Pier Francesco Giusti, e loro descendenti»;
XIV copia autentica «d’altro diploma del Serenissimo Cosimo I del-
l’anno 1555 d’essere gli autori del comparente ammessi a tutti
gli onori, ed ufizi della città di Firenze per essere stati prescelti
à tale onore dal pubblico, e Generale Consiglio di Colle»;
XV copia autentica «d’altro diploma fatto l’anno 1588 agli autori
del comparente dal Senato Romano dell’ammissione della loro
famiglia, e descendenza alla cittadinanza, e patriziato romano».
Il decreto del 25 luglio 1757 rese esecutivo il parere favorevole
espresso dal Commissario della città di Volterra in merito all’inseri-
mento nei libri d’oro della Famiglia Giusti.
I Giusti furono il casato colligiano che poté vantare il maggior nu-
mero di cavalieri di S. Stefano, ben nove, dei quali si fornirà un pro-
filo schematico, al fine di ripercorrere le vicende della famiglia nel-
l’ambito della Religione stefaniana, con particolare attenzione alla
fondazione della commenda ed alle dinamiche ad essa concernenti.

II. Giovanni Battista di Alberto


Il primo a vestire l’abito equestre fu Giovanni Battista200, già al
servizio del Granduca come paggio, figlio di Alberto Giusti, cittadi-
no fiorentino, di Colle, e di Ginevra di Francesco Viviani, di Firenze.
Il padre discendeva da Pier Francesco di Giusto e da Fiammetta di
Tommaso Rinieri, la madre da Francesco di Jacopo Viviani, nobile
fiorentino, e Domitilla d’Antonio Tieri, parimenti nobile fiorentino.
L’iter prese l’avvio allorquando, il 30 giugno 1571, Traiano Bob-
ba, di Casal Monferrato, Segretario della Religione, scrisse al balì di
Firenze, Domenico Bonsi, affinché ricevesse le provanze di Giovan-
ni Battista Giusti, a quel tempo paggio del Granduca, in forza del
rescritto granducale: «Messer Domenico [Bonsi, balì di Firenze,
Auditore e Luogotenente] intenda, et referisca a Sua Altezza», in

200 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 610, pp. 522-523. AsPi, S. Stefa-

no, 25, ins. 24, provanze di giovan Battista d’Alberto giusti. Dal fascicolo delle provanze, le
cui carte sono prive di numerazione, sono tratte tutte le notizie concernenti il cavaliere in pa-
rola; le informazioni rinvenute per mezzo di altre fonti documentali saranno specificamente
annotate con la relativa segnatura archivistica; il medesimo criterio è stato adottato per la ste-
sura di tutti i capitoli concernenti le presenze nella religione stefaniana.
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ragione dell’eventuale fondazione di una commenda di padronato


familiare per iniziativa del padre del medesimo aspirante201.
Difatti, Alberto di messer Pier Francesco Giusti «cittadino fio-
rentino» aveva supplicato il Granduca, affinché assecondasse il de-
siderio di fondare «una commenda d’entrata di scudi cento d’oro di
moneta in tanti beni fruttiferi posti nel contado di Colle lontano
dalla terra un miglio e mezzo in luogo detto Montechio, liberi et
esenti da ogni fideicommisso e peso con conditione che la detta
commenda appartenessi alli figliuoli e descendenti maschi legitimi e
naturali per linea masculina del detto supplicante in perpetuo, la
qual’ commenda per la prima volta fusse conferita in Giovambatista
suo figliuolo per gratia di Vostra Altezza paggio di quella; però la
supplica si degni concederli tal gratia che tutto metterà con l’altre
ricevute da lei, tenendognene perpetuo obligho, e pregherà nostro
signore Dio per ogni sua maggior felicità, et esaltazione»202.
Fu così che, il 27 agosto 1571, si tenne in Firenze, in casa del balì
Raffaello Medici il voto per l’ammissibilità dei quarti. All’adunanza
presero parte i cavalieri Michelangelo Orlandi, Zanobi Acciaiuoli,
Leonardo Salviati, Numa Pompilio Portasavella, che dichiararono i
quarti inammissibili e nominarono per commissari il Portasavella e
l’Orlandi203. I delegati, il 30 agosto seguente, informatisi su qualità,
vita e costumi del postulante, riferirono esser «approvati e buoni»;
inoltre, documentatisi sull’autenticità degli stemmi ed avendo «visto
per privilegi autentichi le prerogative et honori della Casa et fami-
glia de’ Giusti», nonché degli altri quarti, fugarono del tutto i dubbi
dell’assemblea204. Il 31 d’agosto, il profitente comparve al cospetto
del Bonsi, per dare avvìo alla procedura consueta, la quale prevede-
va l’esposizione dei capitoli, accompagnata dalla lista dei testimoni
indotti e degli attestati prodotti a corredo e supporto delle tesi so-
stenute negli articoli. Il Luogotenente granducale «commesse à
Giovanni di Romolo suo tavolaccino» di citare tutti i testimoni
menzionati dall’astante, per il giorno successivo. Il balì, il medesimo

201 AsPi, S. Stefano, 1088, ins. 286, c. 839, supplica di Alberto giusti, s. d., e 1° rescritto,

30 giugno 1571.
202 Ibidem.
203 AsPi, S. Stefano, 25, ins. 24, cc. n. n., verbale dell’assemblea fiorentina, con il giudizio

negativo sull’ammissibilità dei quarti e la nomina dei commissari, 27 agosto 1571.


204 Ivi, cc. n. n., dispaccio dei commissari, 30 agosto 1571.
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primo settembre, provvide immediatamente ad inviare un dispaccio


con la notizia del buon esito in merito all’esame supplementare dei
quarti, svolto dai commissari, accompagnato dagli atti della consul-
ta205; Cosimo I rescrisse prontamente: «Faccia la commenda et le
provanze et li sia dato l’habito»206.
Conseguentemente, il 1° settembre, si svolse il processo dinanzi a
Domenico Bonsi, nobile e avvocato fiorentino, Auditore e Luogote-
nente del Granduca, alla presenza dei notai Frosino Ruffoli e Fran-
cesco Rossini. Furono chiamati a deporre, in giorni diversi: Giovan-
ni di Camillo Lippi (78 anni), «Dottore di legge», Giovanni Beltra-
mi (45 anni), Evandro di Giuliano della Rena, chierico in Volterra,
Francesco di Piero Usimbardi (31 anni), tutti di Colle, il 1° settem-
bre; Francesco di Piero Usimbardi (56 anni), colligiano, e i due gen-
tiluomini Dionigi di Francesco da Diacceto (76 anni), nobile fioren-
tino, e Girolamo di Francesco di Filippo Buonsignori (77 anni), cit-
tadino fiorentino, dichiaratosi «un poco parente dell’Inducente […]
da lato di donna», due giorni più tardi; infine, il 10 settembre furo-
no escussi Flaminio di Giovanni Battista Tolosani (78 anni), altro
dottore di legge, e, nuovamente, ma soltanto sul quindicesimo ed
ultimo articolo, concernente gli stemmi, il detto Lippi. Nessun testi-
mone manifestò delle perplessità in merito al contenuto dei capitoli
testimoniali.
Negli articoli, si affermavano: la legittimità della nascita del pre-
tendente, l’età di 19 anni «in circa», la prestanza fisica, la buona di-
sposizione di vita e costumi; per poi passare alla legittimità delle na-
scite e dei matrimoni in relazione agli ascendenti, alla capacità, al
godimento dei pubblici onori per tutti e quattro i quarti, ai requisiti
concernenti lo stile di vita more nobilium, con particolare riferimen-
to all’esercizio di arti vili o meccaniche, sottolineando come gli avi
materni non avessero praticato «arte che à nobile fiorentino non si
convenga», e chiudere dichiarando l’origine da veri cristiani, senza
«macchia ò infamia alcuna», e l’autenticità degli stemmi.
Accluse al fascicolo, si trovavano due fedi. La prima, non datata,
rilasciata da Girolamo Onesti, cancelliere del Palazzo Ducale di

205 Ivi, cc. n. n., missiva del balì al Consiglio dei Dodici, 1° settembre 1571.
206 AsPi, S. Stefano, 1088, ins. 286, c. 839, supplica di Alberto giusti, s. d., e 2° rescritto,
s. d.
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218

Firenze, attestava che i Viviani avevano cominciato a godere gli ono-


ri della Repubblica con Donato di Lapo, dei Signori per i mandati:
… 1306, 1° dicembre 1308, 1° dicembre 1310, 1° aprile 1313; per
seguitare con Giovanni di Donato di Lapo: parimenti dei Signori
(1° agosto 1323, 1° aprile 1328, … 1331), Gonfaloniere di Giustizia
(… 1325) e dei Buonuomini (… 1341). Ed ancora, Donato Viviani
«sedé de’ Signori» nel 1347, Lapo di Donato fu eletto Gonfaloniere
di Giustizia il 1° settembre 1377, Tommaso di Bernardo coprì la
medesima carica per il mandato del 1° novembre 1393 e, infine,
Giovanni di Luigi fu anch’egli dei Signori per i turni del 1° novem-
bre 1399 e 1° luglio 1416. La famiglia Tieri vantava tre esponenti in
veste di «veduto di Collegio», nelle persone di Leonardo di Tero di
Lorenzo di Niccolò (12 settembre 1434), Vincenzo di Francesco di
Niccolò (… 1543) e Niccolò di Vincenzo di Francesco (14 dicembre
1568)207. La seconda fede, invece, stilata il 21 agosto 1571 dal can-
celliere della Comunità, era stata rilasciata dai «Priori, e Gonfalo-
nieri di Iustitia della Terra di Colle», i quali attestarono come Alber-
to di Pierfrancesco di Giusto, padre del postulante, fosse sempre
stato un «honoratissimo Cittadino» di quella località ed insieme al-
l’avo, compresi gli altri ascendenti, fin dall’arrivo a Colle, prove-
nienti dalla «nobile Città d’Orvieto», avesse «sempre goduto […]
tutti quelli honori, gradi, offitij, e, prerogative, che son soliti godere
gl’altri più nobili, e Primati della Terra nostra». I magistrati colligia-
ni seguitarono a tessere le lodi dei Giusti, che mai esercitarono arti
proibite ai nobili, giacché, per converso, tutti i consorti, «e massime
li Ascendenti d’Albero», vissero sempre da gentiluomini, «honora-
tissimamente», tanto che, «per li meriti di questa nobile, et honora-
ta famiglia […], e per li nobili, e virtuosi portamenti e qualità hono-
ratissime d’Alberto […] la Nostra Communità, mediante l’autorità
datale da Sua Altezza Serenissima circa 15 anni [or] sono [1555]
elesse, e, creò il sopradetto Alberto Cittadino Fiorentino con tutti li
honori, e, prerogative espresse nel privilegio amplissimo concesso
dalla predetta Sua Altezza giudicandolo degno fra’ tutti nostri pri-
mati di quel grado, per la quale Civiltà Alberto detto hà esercitato,
et exercita offitij, e Magistrati de’ principali, come gl’altri Cittadini

207 AsPi, S. Stefano, 25, ins. 24, cc. n. n., fede dei godimenti dei pubblici onori della città

di Firenze, s. d.
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219

Fiorentini. E per le virtù, et ottime qualità sue messer Giusto Avolo


paterno del detto Alberto fin l’anno 1481 sotto dì 24 d’agosto fu
creato dall’Eccelsa Repubblica fiorentina (quando era Gonfaloniere
di Iustitia Cosimo di Matteo di Marco Bartoli) Cittadino fiorentino
con tutti li suoi descendenti per linea masculina, come si vede al no-
stro libro de’ capitoli a 47». Nel medesimo attestato si certificava co-
me «l’Eccellente Dottore messer Tommaso d’Antonio Renieri» non
avesse mai praticato esercizio vile alcuno, «né suoi ascendenti eserci-
torno mai se nò arti civili, et honorate»; ne derivava che anche il casa-
to in parola fosse annoverabile tra i «primi, e più nobili» di Colle208.
Concluso il processo, l’incartamento fu inviato al Consiglio dei
Dodici, il quale esaminò le risultanze processuali e sintetizzò le noti-
zie essenziali per l’informazione da inviare al Gran Maestro, ove, in
particolare, si specificava come la vestizione per giustizia sarebbe
stata accompagnata dalla creazione di una commenda; sua altezza
serenissima dispose con rescritto: «Diaseli habito»209.
Giovanni Battista vestì l’abito di cavaliere milite per giustizia in Fi-
renze, per mano del balì Raffaello Medici, il 19 settembre 1571210. La
commenda, «di entrata di scudi cento», invece, venne fondata, con lo
strumento rogato il 20 settembre 1571, sopra «una casa per l’hoste et
una per il lavoratore con colombaia et altre sua appartenenti poste
nel contado di Colle luogo detto Montechio» ed un serie di appezza-
menti terrieri ulivati, fruttati e «lavorati a grano», tutti situati nel me-
desimo territorio211, del valore di almeno duemila scudi212.
Le esequie della bonæ memoriæ del cavaliere Giovanni Battista
Giusti da Colle furono celebrate il dì 8 agosto 1631213.

208 Ivi, cc. n. n., fede dei godimenti dei pubblici onori della terra di Colle, 21 agosto 1571.
209 AsPi, S. Stefano, 1088, ins. 286, c. 838, informazione del Consiglio, 20 settembre
1571, e rescritto, s. d.
210 AsPi, S. Stefano, 575, n. 378, c. 39s, apprensione dell’abito di cavaliere milite per giu-

stizia, 19 settembre 1571.


211 AsPi, S. Stefano, 3426, ins. 68, strumento di fondazione della commenda giusti, 20

settembre 1571.
212 AsPi, S. Stefano, 3542, ins. 46, stato della commenda di padronato, 20 settembre 1571.
213 AsPi, S. Stefano, 3678, c. 43r, esequie del cavaliere giovanni Battista giusti, 8 agosto

1631.
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220

III. Alberto di Giovanni Battista


Il cavaliere Giovanni Battista214 – presumibilmente nel gennaio o
febbraio del 1617 – si rivolse al Gran Maestro e, dopo aver premes-
so come, a suo tempo, avesse ottenuto non solo l’abito equestre per
giustizia, ma anche la commenda fondata da Alberto, suo padre,
poiché avrebbe desiderato «di resignarla nella persona d’Alberto
suo figliuolo», il quale aveva diritto a succedere ordinariamente nel-
la commenda, lo supplicò che «gliene fac[esse] grazia con poterli
dare l’habito di Santo Stefano, e conforme a gl’ordini di detta Reli-
gione» ammetterlo a «far le provanze ordinarie»215.
Il Granduca incaricò, dunque, l’Auditore Niccolò dell’Antella, af-
finché formulasse il proprio parere in merito al memoriale del Giu-
sti. La « relatione, et informatione » del funzionario giunse il dì 11
marzo 1617. Dopo qualche settimana, il quinto giorno d’aprile, Cosi-
mo II emanò, in calce alla predetta «relatione, «un benigno, et gra-
tioso rescritto», controfirmato da Camillo Guidi, Segretario della Re-
ligione, «del tenore che appresso segue cioè [...] Pagando il passag-
gio, et essendoci il consenso degl’altri figliuoli del cavaliere Giovanni
Batista ammettasi la renunzia, et l’Auditore intervenga al contratto,
et facciane passare le scritture in buona forma et diaseli l’habito»216.
Il 10 giugno 1617, Alberto «Juniore», «del cavaliere Giovanni
Battista del signor Alberto della Rena nobile orvietano», comparve
dinanzi a Niccolò dell’Antella, per sostenere le provanze di nobiltà
relative ai quarti materni, al fine di vestire l’abito di cavaliere milite
come successore nella commenda di padronato, «havendo ottenuto
grazia da Sua Altezza Serenissima che [...] suo padre [... gliela] pos-
sa renunziare, et risegnare [...] come per benigno rescritto [...] del
dì 5 di aprile passato 1617». Il comparente presentò i capitoli, i con-
sueti attestati dei pubblici onori, l’albero con gli stemmi a colori, ed
i nomi dei testimoni: Francesco di Giovanni Acciaiuoli, Senatore
fiorentino; Alessandro di Simone Guiducci e Cosimo di Andrea Pa-
squali, nobili fiorentini217.

214 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 616, pp. 527-528. AsPi, S. Stefa-

no, 87, ins. 37, provanze d’Alberto di giovan Battista giusti.


215 AsPi, S. Stefano, 1117, ins. 190, cc. n. n., supplica di giovanni Battista giusti al gran

Maestro, s. d.
216 Ibidem, rescritto, 5 aprile 1617.
217 AsPi, S. Stefano, 87, ins. 37, provanze di nobiltà di Alberto di giovanni Battista giusti.
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221

Dai capitoli risultava come il padre dell’inducente contrasse ma-


trimonio con Poliziana di Acciaiuolo di Zanobi Acciaiuoli, il quale
ultimo aveva sposato Falchetta di Giovanni Rinuccini, ambedue fa-
miglie nobili fiorentine218.
Il processo si svolse alla presenza di Andrea Andreini e Filippo
Valentini, incaricati dall’Auditore, nei giorni 20 giugno, 3 e 4 luglio.
Per primo fu escusso Francesco di Giovanni Acciaiuoli (62 anni),
senatore fiorentino; il secondo giorno testimoniò Alessandro di Si-
mone Guiducci (59 anni), nobile fiorentino; infine, rese le proprie
dichiarazioni Cosimo di Andrea Pasquali (69 anni), parimenti nobi-
le fiorentino. Nessuno dei prenominati manifestò dubbi circa le af-
fermazioni sostenute dal postulante219. Le risultanze processuali fu-
rono sottoscritte da Niccolò dell’Antella ed Agostino Cerretani,
nonché autenticate dal notaio Andrea Andreini, in data 8 luglio
1617 ed immediatamente spedite al Consiglio dei Dodici, accompa-
gnate dal dispaccio del Cancelliere Filippo Valentini220.
Dieci giorni più tardi, i cavalieri commissari Ventura Buontem-
pi, tesoriere generale, e Lelio Riviera, fecero constare dall’informa-
zione, come «per la fede cavata dalle Riformagioni appare, che
quelli della nobile famiglia delli Acciaioli dall’anno 1282 fino al
1531 sian riseduti nel magistrato de’ signori Priori 73 volte come
Gonfalonieri di Giustizia. E quelli della famiglia Rinuccini habbi-
no goduto i medesimi gradi, et honori dal 1347 fino al 1510 et che
di presente il signor Alessandro Rinuccini sia stato eletto Senatore
nel Senato de’ Quarantotto», come risultava dalla fede dei godi-
menti tratta dall’archivio pubblico Ducale delle Riformagioni di
Firenze, in data 19 aprile 1617221. Essi, inoltre, rilevarono come i
testimoni avessero confermato le tesi del postulante, che aveva, a
quel tempo, 29 anni, in merito alle qualità personali sia proprie,
sia degli ascendenti222.

218 Ivi, cc. n. n., incipit del processo per provanze, 10 giugno 1617.
219 Ivi, cc. n. n., prove testimoniali, 20 giugno, 3 e 4 luglio.
220 Ivi, cc. n. n., dispaccio del cancelliere Filippo Valentini al Consiglio dei Dodici, 8 lu-

glio 1617.
221 Ivi, cc. n. n., fede dei godimenti dei pubblici onori per le famiglie Acciaiuoli e rinucci-

ni, 19 aprile 1617.


222 Ivi, cc. n. n., informazione dei commissari Buontempi e riviera al Consiglio dei Dodi-

ci, 18 luglio 1617.


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222

Il 27 settembre 1617, in calce ad un’ulteriore relazione dello stes-


so tenore di quella datata 11 marzo 1617, il Gran Maestro rescrisse
identicamente: «seguendo la renuntia con il consenso degl’altri fra-
telli et pagando il passaggio diaseli l’habito di Cavaliere milite, et
l’auditore Antella intervengha à contratti, et ne faccia passare le
scritture in buona forma». Il giorno dopo fu pagato il passaggio,
conformemente alle predette disposizioni magistrali223.
Il 2 ottobre 1617, dopo detto secondo rescritto, Giovanni Batti-
sta Giusti comparve personalmente innanzi all’Auditore dell’Antel-
la, Senatore fiorentino, per assolvere le formalità notarili prescritte
dal Granduca, insieme con i suoi figli Giovanni («clerici fiorentini
eius nomine proprio, et ut procuratoris dominorum Petri Franci-
sci») e Agostino («aliorum filiorum»), per la manifestazione espres-
sa del consenso alla renunzia, rogata, dunque, a Firenze, in casa del-
l’Auditore, alla presenza dei testimoni Matteo del quondam Nicola
Martelli e Pietro Antonio Bizzarri, per mano di Filippo del fu Fran-
cesco Valentini, notaio pubblico e cittadino fiorentino224.
Finalmente, Alberto Giusti prese l’abito di cavaliere milite a Fi-
renze, il dì 5 d’ottobre 1617, per mano di Cosimo dell’Antella, Gran
Cancelliere, «e con tutto che detto suo padre gli renuntiasse la com-
menda di suo padronato. Pagò il passaggio per ordine di Sua Altez-
za»225. «Passò a miglior vita in Alemagna sotto dì ... di settembre
1622. Et si celebraro[no] le sue essequie nella Conventuale à dì 16
di novembre di dett’anno»226.

IV. Giovanni di Giovanni Battista


Nell’agosto del 1631, Giovanni Giusti227 scrisse al Granduca «co-
me per la morte del cavaliere Giovanni Battista suo padre se li
aspetta[va] la commenda fondata nell’illustrissima Religione di S.
Stefano», supplicandolo affinché gli fosse concesso d’essere «inve-
stito di detta commenda et dell’habito di cavaliere milite secondo

223 AsPi, S. Stefano, 3502, c. 147v, strumento della renunzia fatta dal cavaliere giovanni

Battista giusti al figlio Alberto, 2 ottobre 1617.


224 Ivi, c. 148.
225 AsPi, S. Stefano, 575, c. 182s, apprensione dell’abito, 5 d’ottobre 1617.
226 Ibidem. la conferma si trova in AsPi, S. Stefano, 3678, c. 17r, esequie del cavaliere

Alberto giusti, 16 novembre 1622.


227 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 619, pp. 529-530. AsPi, S. Stefa-

no, 106, ins. 20, provanze di giovanni di giovan Battista giusti.


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223

gl’ordini»228. Il Gran Maestro, il 17 agosto 1631, rescrisse: «L’Audi-


tore [Raffaello] Staccoli informi»229.
Il fascicolo delle provanze risulta scarno al fine di ricostruire le
vicende della vestizione del Giusti, però ne emerge come lo Staccoli
avesse adempiuto alla richiesta magistrale il 28 agosto230. In più, in-
vece, attraverso i registri delle suppliche e informazioni, si ricava co-
me, dopo il menzionato rescritto, i fratelli germani del postulante,
Pier Francesco e Agostino, formularono la rinunzia ad «ogni raggio-
ne, et interesse […] nella commenda»; in particolare il secondo spe-
cificò di «esser privo della vista corporale»231.
Nel medesimo documento si vede come in calce all’informazione
stilata in ragione del primiero rescritto, ve ne apparisse un altro del
17 settembre 1631, sottoscritto anch’esso da Andrea Cioli, Segreta-
rio della Religione: «il Consiglio vegga le sue provanze, et infor-
mi»232.
Fu così che il 22 settembre 1631 Giovanni comparve al cospetto
di Raffaello Staccoli, nobile urbinate, Auditore di Sua Altezza Sere-
nissima, per esporre le medesime motivazioni già formulate nella
supplica al Granduca e produrre i capitoli delle provanze. Questi,
oltre ad aver ottenuto la predetta rinuncia ai diritti di successione
nella commenda da parte dei suoi fratelli germani, poteva beneficia-
re dell’ammissione alla Religione concessa all’altro fratello, utrinque
congiunto, Alberto, il quale, dunque, aveva già sostenuto le provan-
ze di nobiltà per i suoi due quarti materni: ma Giovanni non poteva
comunque esimersi dalle prove de vita et moribus233.
L’esame dei testimoni (Francesco di Giulio Del Bene, nobile pa-
trizio fiorentino, di anni 52; Francesco di Grazia, di anni 50; Carlo
Tappia, d’origine spagnola, d’oltre 70 anni) si svolse il 25 e 26 set-
tembre innanzi ai signori Agostino Cerretesi e Giovanni Battista

228 AsPi, S. Stefano, 1128, ins. 345, cc. n. n., supplica di giovanni di giovan Battista giu-

sti al granduca, s. d.
229 Ivi, cc. n. n., rescritto, 17 agosto 1631.
230 AsPi, S. Stefano, 106, ins. 20, cc. n. n., incipit del processo per provanze di giovanni

di giovan Battista giusti, 22 settembre 1631.


231 AsPi, S. Stefano, 1128, ins. 345, cc. n. n., supplica di giovanni di giovan Battista giu-

sti al granduca, s. d..


232 Ivi, cc. n. n., rescritto, 17 settembre 1631.
233 AsPi, S. Stefano, 106, ins. 20, cc. n. n., incipit del processo per provanze di giovanni

di giovan Battista giusti, 22 settembre 1631.


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224

Fabbri, cancellieri dell’Auditore, i quali, insieme a quest’ultimo, sot-


toscrissero il verbale testimoniale in data 27 settembre234.
Il primo giorno d’ottobre furono nominati i commissari per ana-
lizzare le carte processuali e riferire ai cavalieri del Consiglio235.
Questi ultimi, il 14 ottobre 1631, nell’informazione al Granduca
evidenziarono come il supplicante fosse «giovane di buonissimi, et
lodevoli costumi, di vita, et qualità honoratissimi, et riguardevole, di
corpo ben disposto, sano di vita, attissimo all’exercitij militari, et al
servizio della Religione, et di età di anni 35»236. Appena tre giorni
più tardi, il Gran Maestro formulò il rescritto che rispondeva piena-
mente alle preci del supplicante: «Diasigli l’habito di cavaliere mili-
te, et sia investito della commenda»237.
Il dì 23 di ottobre 1631 Giovanni di Giovanni Battista Giusti di
Colle fu vestito dell’abito di cavaliere milite, in Firenze, nella chiesa
del monastero e monache di San Martino, per mano del signor ca-
valiere Giovanni Battista Ricasoli, Priore di Firenze, «avendo esso
pagato le solite spese come successore in commenda»238.
Le esequie del fu cavaliere Giovanni Giusti di Colle furono cele-
brate in data 5 di settembre 1659239.

V. Alberto di Giovanni
Il quarto postulante fu Alberto240, nato il 18 aprile 1633 da Gio-
vanni e da Maddalena, figlia di Giorgio Gucci e di Isabella di Gio-
van Battista Miniati, entrambe famiglie nobili antiche di Firenze241.
Questi e il suo zio paterno, Agostino, esposero al Granduca come
la commenda di padronato, vacata per la morte del cavaliere Gio-

234 Ivi, cc. n. n., escussione dei testimoni, 25 e 26 settembre 1631, e autenticazione delle

prove, 27 settembre 1631.


235 Ivi, cc. n. n., deliberazione del Consiglio dei Xii per la nomina dei commissari, 1° otto-

bre 1631.
236 AsPi, S. Stefano, 1128, ins. 345, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Xii al gran-

duca, 14 ottobre 1631.


237 Ivi, cc. n. n., rescritto, 17 ottobre 1631.
238 AsPi, S. Stefano, 576, c. 40r, apprensione dell’abito, 23 ottobre 1631.
239 AsPi, S. Stefano, 3678, c. 100v, esequie del cavaliere giovanni giusti, 5 settembre

1659.
240 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 622, pp. 532-533. AsPi, S. Stefa-

no, 144, ins. 54, provanze d’Alberto di giovanni di giovan Battista giusti.
241 AsPi, S. Stefano, 144, ins. 54, cc. n. n., fede di battesimo d’Alberto di giovanni di

giovanni Battista giusti, nato il 18 aprile 1633, rilasciata dal cancelliere dell’arte dei merca-
tanti, Marco Ducci, 26 novembre 1659.
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225

vanni, «si aspetterebbe al detto Agostino»; ma, «dichiarandosi egli


inhabile per la sua cecità, à, servire alla Religione», supplicarono
concordemente la grazia di concedere al detto Alberto l’abito di ca-
valiere milite, e l’investitura di detta commenda242. Il Granduca ri-
spose con il rescritto, sottoscritto da Alessandro de’ Cerchi, di Firen-
ze, datato 2 gennaio 1659 (1660): «Il Consiglio della Religione vegga
le sue provanze et informi»; ed il medesimo Agostino, per mezzo
della scrittura rogata dal notaio della Religione, il 9 gennaio, innanzi
a due testimoni, dichiarò con giuramento di compiacersi che il detto
Alberto, suo nipote, fosse investito della detta commenda243.
Il 6 aprile 1660 fece «le provanze della nobiltà de’ suoi quarti ma-
terni, et de vita, et moribus», innanzi all’Auditore Alessandro Vetto-
ri244, e dimostrò, per mezzo della fede rilasciata il 18 agosto 1652 da
Benedetto Franceschi, cancelliere delle Riformagioni di Firenze, co-
me i Gucci avessero riseduto dal 1355 al 1529 conseguendo la cari-
ca Priore ed una volta sola quella di Gonfaloniere di Giustizia; men-
tre i Miniati avevano «goduto la detta suprema dignità di Priore per
la maggiore per [il] quartiere Santa Croce sei volte, dall’anno 1494
sino al 1531, et 34 volte per la minore, dal 1357 et che hà[vevano]
havuto in oltre un Gonfaloniere di Giustizia»245.
In data 17 aprile, furono escussi i due testimoni, Francesco del fu
Giovanni Battista del senatore Alessandro Bartolini Salimbeni (60
anni) e Diego del quondam Francesco Ambrogi (63 anni), nobili fio-
rentini, i quali confermarono la «pubblica voce e fama» di tutte le
cose articolate e l’autenticità degli stemmi246.
Tre giorni più tardi, il 20 aprile, il Consiglio di Pisa provvide alla
nomina dei commissari, nelle persone dei cavalieri Francesco Maria
Ceffini, fiorentino, e Alfonso Lante, pisano247.

242 AsPi, S. Stefano, 1150, ins. 138, cc. n. n., supplica d’Alberto di giovanni di giovanni

Battista giusti e del suo zio paterno Agostino al granduca, s. d.


243 AsPi, S. Stefano, 144, ins. 54, cc. n. n., il documento, redatto presso la cancelleria della

religione, alla presenza dei testimoni «Pietro … pisano» e «Domenico lazzesi servente d’offi-
tio della detta religione», portava la data del 9 gennaio 1659 (1660).
244 Ivi, cc. n. n., incipit del processo per provanze d’Alberto di giovanni giusti, 6 aprile 1660.
245 Ivi, cc. n. n., fede dei godimenti dei pubblici onori per le famiglie fiorentine gucci e

Miniati, rilasciata da Benedetto Franceschi, cancelliere delle riformagioni di Firenze, 18 ago-


sto 1652.
246 Ivi, cc. n. n., escussione dei testimoni, 17 aprile 1660.
247 Ivi, cc. n. n., delibera del Consiglio dei Xii per la nomina dei commissari, 20 aprile

1660.
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226

Nell’informazione per il Gran Maestro, stilata il 15 giugno, i


XII dichiararono: «pare, à, noi, che concordino nel supplicante, i,
requisiti ricercati dalli statuti, et, che sia meritevole di conseguire
la gratia dell’abito di cavaliere milite, e dell’investitura della detta
commenda»248.
Il 17 luglio 1660, in calce all’informazione fu rescritto: «Diasegli
l’abito di cavaliere milite al detto Alberto, e s’investa della commen-
da di suo padronato secondo gli ordini»249.
Tre giorni dopo, Alberto fu vestito dell’abito di cavaliere milite
come successore in commenda di suo padronato in Firenze, nella
chiesa delle reverende monache di S. Anna sul Prato, per mano del-
l’illustrissimo Gran Contestabile, signor cavaliere Tommaso Rinuc-
cini: «havendo pagato le spese ordinarie, et era d’età d’anni 27»250.
Le esequie del cavaliere Alberto Giusti furono celebrate il 10
maggio 1698251.

VI. Giovanni, Alessandro e Agostino di Alberto


Le cinque apprensioni d’abito settecentesche principiarono con
quelle dei fratelli utrinque congiunti Giovanni Maria Niccolò252, na-
to e battezzato il 21 agosto 1679, Alessandro, battezzato il 7 aprile
1683, ed Agostino Antonio, il quale nacque e ricevette il primo sa-
cramento il 5 giugno 1684, generati da Alberto Giusti ed Eufrasia
Ugurgieri, di Siena.
Il padre era figlio del cavaliere Giovanni Battista di Alberto di
Pier Francesco di ser Giusto di Bartolomeo di Francesco Giusti, e
di Maddalena di Giorgio di Calvano di Giorgio Calvano di Attavia-
no di Guccio di Dino di Guccio Gucci, di Firenze.
La madre era nata da Agnolo di Fabio Ugurgieri, senese, e Cate-
rina di Luc’Antonio di Giovanni Maria di Francesco di Francesco
di Marco di Francesco di Agostino di Bartolomeo di Agostino di
Umberto di Paganello dei Guidotti di Colle.

248 AsPi, S. Stefano, 1150, ins. 138, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Xii al gran

Maestro, 15 giugno 1660.


249 Ivi, cc. n. n., rescritto, 17 luglio 1660.
250 AsPi, S. Stefano, 577, c.45r, apprensione dell’abito, 20 luglio 1660.
251 AsPi, S. Stefano, 3679, c. 29r, esequie del cavaliere Alberto giusti, 10 maggio 1698.
252 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 627, pp. 537-538. AsPi, S. Stefa-

no, 207, ins. 5, provanze di giovanni d’Alberto di giovanni di giovan Battista giusti.
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Dopo aver ottenuto il benigno rescritto di accettazione della re-


nunzia a suo favore della commenda di padronato familiare, da par-
te di suo padre Alberto – le cui esequie furono celebrate il dì 10
maggio 1698 –, in forza di un rescritto magistrale di contenuto nor-
mativo, datato 16 ottobre 1695, con il quale il Gran Duca e Gran
Maestro si era «compiaciuto di dichiarare, che le famiglie della Città
di Colle, che mostreranno d’havere i requisiti necessarij per conse-
guire l’habito di cavaliere milite per giustizia […], possino essere
ammesse à farne le provanze per giustizia», però «nella stessa for-
ma, che furono abilitate le città di Borgo S. Sepolcro, e di S. Minia-
to; cioè, che non dovesse universalmente dichiararsi abile, ma sola-
mente ammettersi quelle famiglie, che dimostreranno avere i requi-
siti necessari per conseguire l’abito di cavaliere milite secondo le
qualità de’ pretendenti, e provanze de’ loro quarti», Giovanni d’Al-
berto Giusti supplicò «d’essere ammesso à fare dette provanze»253.
A seguito dell’esame esperito in esecuzione del benigno rescritto
de 28 maggio 1697, con il quale si ordinava di «riconoscere, e di-
chiarare, se il quarto paterno, e quello dell’ava materna di Giovanni
del cavaliere Alberto Giusti di Colle» fossero «ammissibili alle pro-
vanze di nobiltà per l’abito di cavaliere milite della Sacra Religione
di S. Stefano per giustizia», venne stilata l’informazione datata 11
marzo 1697 (1698), nella quale si dichiarava: «i requisiti necessari
per conseguire l’abito di cavaliere milite sono i godimenti de’ mag-
giori onori di quel luogo, tanto ne’tempi antichi che moderni, attese
massime le altre qualità sopra enunciate di detta famiglie, troviamo
essere abbondantemente sì nel quarto paterno del pretendente, che
potrebbe anco dirsi nobil volterrano, come nel quarto dell’ava ma-
terna di casa Guidotti in oggi estinta»254.
Dunque si dichiaravano ammissibili i quarti colligiani, Giusti e
Guidotti, giacché «la famiglia Giusti hà goduto sempre negli ascen-
denti del pretendente tutti li primarij onori, e gradi soliti concedersi
dalla Terra, e di poi Città di Colle cominciando da un ser Giusto di
Bartolomeo di Francesco cittadino volterrano, che andò a Colle per
Cancelliere di detta Comunità, e da essa mandato Ambasciatore alla

253AsPi, S. Stefano, 207, ins. 5, cc. n. n., supplica di giovanni d’Alberto giusti, s. d.
254AsPi, S. Stefano, 1176, ins. 212, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Xii al gran
Maestro, 11 marzo 1697 (1698).
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Repubblica fiorentina, da cui fu ascritto anco alla civiltà di Firenze


l’anno 1481; e messer Pier Francesco suo figliolo nel 1507 apparisce
descritto nelle borse de’ Priori di Volterra, dalla quale descendeva; e
dipoi continuando questa famiglia il domicilio in Colle vi godé tutti
i primi onori, e s’imparentò con famiglie nobili di questa medesima
città di Firenze, e di Siena; e fino dal 1571 Giovanni Battista di mes-
ser Alberto fù decorato dell’abito di cavaliere milite di detta sacra
Religione come primo investito della commenda di suo padronato
posseduta in oggi dal cavaliere Alberto padre del pretendente. An-
che della famiglia Guidotti quarto dell’ava materna di esso preten-
dente possiamo referire à Vostra Altezza Serenissima, che da più di
tre secoli in quà apparisce aver goduto i primi onori, e gradi di quel
Pubblico principiando da messer Bartolomeo di Agostino, che fù de’
Priori nel 1375 e 1384, e susseguentemente sino à Luc’antonio, che
fù de’ Priori l’anno 1621, da cui nacque Caterina ava materna del
pretendente maritata nella nobil famiglia Ugurieri di Siena. Si mostra
ancora che detto Agostino fusse figliolo di un tale Umberto, ò Um-
baldo, che nelle scritture pubbliche, ed antiche veniva nominato col
titolo di Nobilis Miles, sicome un simil titolo fusse dato à Sgrana al-
tro figlio del medesimo Umberto in compagnia de’ signori da Pic-
chena, vedendosi pure, che in casa di questi Guidotti si adunava il
Consiglio per gli affari più rilevanti di quel Pubblico, con essersi
sempre imparentati con le principali famiglie del luogo, e di altre
città ancora, e con posseder facultà riguardevoli»255.
I cavalieri del Consiglio, Marco Covonj (Gran Contestabile),
Giovanni Francesco Ridolfi (Gran Cancelliere), Leonardo Bruni,
Pier Francesco Borgherini ed il balì Orazio Gianfigliazzi, concluse-
ro affermando di non avere «cosa in contrario circa le qualità perso-
nali»256.
All’informazione fu apposto il rescritto: «Cosimo. Approvasi non
ostante, et il Consiglio della Religione vegga le Provanze di Giovan-
ni Giusti, et informi»; sottoscritto da Giovanni Panciatichi, datato
26 marzo 1698257.
Dai documenti processuali, si deduce come i XII cavalieri del

255 Ibidem.
256 Ibidem.
257 Ibidem, rescritto, 26 marzo 1698.
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Consiglio, in data 22 agosto 1698, avessero scritto ai referenti del-


l’Ordine presso le tre città interessate alla verifica della nobiltà dei
quarti, ovvero: al vescovo di Colle, affinché incaricasse il vicario ge-
nerale di ricevere le provanze di nobiltà per le famiglie Giusti e
Guidotti, originarie della detta città, facendosi assistere da un cava-
liere stefaniano, nella persona di Giovanni Alessandro Sabolini; al-
l’arcivescovo di Siena, per il medesimo scopo, ma in merito alla fa-
miglia Ugurgieri, con l’assistenza del cavaliere Antonio Maria Pieri;
e, infine, al monsignore cavaliere Francesco Maria Sergrifi, in Firen-
ze, Auditore Presidente, per la verifica del quarto Gucci.
Il processo di Firenze ebbe inizio il 9 settembre, allorquando, si
commissionò al cancelliere e notaio Michelangelo Ceccherelli, l’esa-
me dei due testimoni nobili fiorentini258. Il giorno 11, fu ascoltato il
cavaliere priore Niccolò Jacinto Gaetano del quondam Francesco
Viviani (30 anni), ed il mattino seguente fu il turno di Antonio del
fu Niccolò Larioni (39 anni), i quali, interrogati sui quattro capitoli
concernenti la legittimità del matrimonio degli avi e della nascita del
padre Alberto, la nobiltà della famiglia Gucci, l’autenticità dello
stemma gentilizio e la pubblica voce e fama di tutte le cose suddet-
te, confermarono ogni articolo259. Il verbale fu sottoscritto dal Cec-
cherelli, in data 12 settembre, nonché dal Sergrifi, il dì seguente260.
Il 29 ottobre, innanzi ad Orazio Piccolomini Aragona, vicario ge-
nerale dell’arcivescovo di Siena, comparve l’inducente, il quale, allo
scopo di confermare i consueti elementi indispensabili al riconosci-
mento della nobiltà del quarto Ugurgieri, elencati negli usuali capi-
toli, chiese di convocare i marchesi Buonaventura Chigi e Galgano
Bichi, i conti Annibale Bichi e Uggieri d’Elci, i signori Lattanzio
Bulgarini, Mario Bargagli, Patrizio Bandini e Francesco
Piccolomini261. Furono escussi soltanto gli ultimi due gentiluomini
della lista, il giorno 30 ottobre. Sia il Bandini (56 anni), che posse-
deva beni stabili per 10.000 scudi e più, sia il Piccolomini (48 anni),
il quale deteneva proprietà immobiliari per più di 50.000 scudi,

258 AsPi, S. Stefano, 207, ins. 5, cc. n. n., incipit del processo per provanze, Firenze, 9 set-

tembre 1698.
259 Ivi, cc. n. n., escussione dei testimoni, 11 e 12 settembre 1698.
260 Ivi, cc. n. n., autenticazione delle prove testimoniali, 12 settembre 1698.
261 Ivi, cc. n. n., incipit del processo per provanze, siena, 29 ottobre 1698.
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confermarono pienamente le affermazioni del postulante262. Le ri-


sultanze processuali, sottoscritte dal cancelliere della corte arcive-
scovile, Simone Sciarelli, e controfirmate dal cavaliere assistente,
Antonio Maria Pieri263, furono immediatamente spedite, a cura del
medesimo Pieri, al consesso pisano264.
Le formalità processuali necessarie al fine di giudicare i due quar-
ti colligiani, Giusti e Guidotti, furono esperite a partire dal 27 no-
vembre 1698, allorquando, innanzi a Lapo Alessandro Pieri, vicario
generale del vescovo di Colle, comparve il supplicante, per dimo-
strare la nobiltà dei quarti paterno e dell’ava materna, presentando i
capitoli concernenti la legittimità dei matrimoni e delle nascite degli
ascendenti, l’antichità e nobiltà delle famiglie e il godimento dei su-
premi onori per i loro membri, l’autenticità dei due stemmi gentili-
zi, le ottime qualità del pretendente (nato il 21 agosto 1679), il quale
era entrato già in possesso della commenda detenuta dal padre, in
causa di morte (le esequie furono celebrate il 10 maggio 1698) e
possedeva, insieme con i suoi fratelli Alessandro e Antonio, diversi
beni stabili nel distretto di Colle, per il valore di 10.000 scudi e l’an-
nua rendita di trecento scudi, certamente sufficiente a mantenere il
grado di cavaliere; il tutto risultante pubblicamente265. Nella stessa
giornata, con l’assistenza del precitato cavaliere Sabolini, furono
escussi i testimoni indotti dall’instante, Pompeo del quondam Al-
berto Albertani (65 anni) e Filippo del fu Giovanni Francesco
Ughetti (59 anni), nobili colligiani. Entrambi affermarono: «delle
cose […] deposte, e cischeduna di esse ne fù, et è publica voce, e fa-
ma, publico, e notorio in Colle, et altrove»266. Il 30 novembre, il Sa-
bolini allegò ad un dispaccio scritto di suo pugno il fascicolo pro-
cessuale, da recapitarsi ai XII cavalieri del Consiglio267.
Dopo circa due settimane dall’ultimo dei processi necessari per
certificare la nobiltà delle ascendenze, provenienti da tre distinte

262 Ivi, cc. n. n., escussione dei testimoni, 30 ottobre 1698.


263 Ivi, cc. n. n., autenticazione delle prove testimoniali, 30 ottobre 1698.
264 Ivi, cc. n. n., dispaccio del cavaliere assistente, che accompagna il plico processuale, 30

ottobre 1698.
265 Ivi, cc. n. n., incipit del processo per provanze, Colle, 27 novembre 1698.
266 Ivi, cc. n. n., escussione dei testimoni, 27 novembre 1698.
267 Ivi, cc. n. n., dispaccio del cavaliere assistente, che accompagna il plico processuale, 30

novembre 1698.
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realtà politico-istituzionali cittadine, in data 16 dicembre 1698, fu-


rono eletti, in seno al Consiglio, i commissari Francesco Pinocci, di
Siena, e Marzio Venturini, di Pontremoli, per «referire […] quello
che si dovrà rappresentare» al Granduca, come risulta dal verbale
stilato dal vice cancelliere Cesare Parasacchi268.
Il 4 maggio 1699, il medesimo Parasacchi produsse l’informazio-
ne per il Gran Maestro, dalla quale, in via riassuntiva, risultava co-
me Giovanni del già cavaliere Alberto Giusti di Colle avesse «pro-
vato in processo per deposto di testimoni maggiori d’ogni eccezio-
ne, e per altri autenticj documenti di descendere per padre da’ Giu-
sti, e per ava materna da’ Guidotti di Colle, per madre da gli Ugur-
gieri di Siena, e per ava paterna da Gucci di Firenze, le quali fami-
glie in dette loro respettive patrie sono antiche, e nobili e gli uomini
di esse sono stati, e sono veri nobili, e gentiluomini, che hanno sem-
pre goduto, e sono stati abili, e capaci à godere i primi onori, gradi,
e dignità soliti darsi solamente à i più nobili in dette loro patrie re-
spettivamente. E che sono vissuti di proprie entrate senza fare arti,ò
esercizi vili, né aver ricevuto macchia, ò infamia alcuna, né avuto
origine da infedeli. E che l’armi, et insegne gentilizie prodotte in
processo sono state respettivamente riconosciute per le vere, et soli-
te usarsi dalle predette respettive famiglie»269.
Seguivano poi le notizie più rilevanti concernenti singolarmente
ciascuna famiglia: «quelli della famiglia Giusti di Colle 4to del suppli-
cante per più di due secoli cioè dal 1476 al 1675 hanno goduto, e so-
no stati abili a godere tutti i primi onorj che sopra principiando da
un ser Giusto di Bartolommeo di Francesco cittadino Volterrano,
che andò a Colle per Cancelliere di quella Comunità, dalla quale fu
mandato per Ambasciatore alla Repubblica fiorentina, da cui fu anco
ascritto a quella civiltà l’anno 1481 che del tritavo del supplicante,
messer Pier Francesco suo figlio nel 1507 apparisce descritto nelle
borse de i Priori di Volterra, i di cuj descendenti di poi avendo conti-
nuato il domicilio in Colle Alberto di detto Pier Francesco nel 1549
fu Gonfaloniere di detta città, e successivamente senza interrompi-

268 Ivi, cc. n. n., deliberazione del Consiglio dei Xii per l’elezione dei commissari, 16 di-

cembre 1698.
269 AsPi, S. Stefano, 1176, ins. 212, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Xii al gran

Maestro, 4 maggio 1699.


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mento fino al cavaliere Alberto nel 1675 che fu padre del pretenden-
te, il di cuj proavo Giovanni Battista fin l’anno 1571 fu insignito di
quest’abito come primo investito della commenda di suo padronato.
Si raccoglie anco la nobiltà di questa famiglia dai parentadi cospicuj
fatti in Firenze, e Siena, dall’aver avuto un paggio d’onore del Sere-
nissimo Gran Duca Ferdinando II di gloriosa memoria zio magno
del supplicante, e da Monsignor Alessandro Giusti zio massimo del
medesimo, che fu Auditore della Rota Romana in particolare stima à
i sommi Pontifici, et à Serenissimi Papi di quel tempo, et finalmente,
che questa famiglia si puol’ considerare anco nobil Volterrana. Quel-
li della famiglia Gucci di Firenze, 4to dell’ava paterna risederono nel
Supremo Magistrato degli eccelsi Priori di Libertà nella Repubblica
fiorentina n° dodici volte, e sempre per la maggiore, et una volta ot-
tennero il sommo grado, e dignità di Gonfaloniere di Giustizia per
due mesi per volta ... [secondo] il solito; il qual Gonfaloniere fu
Guccio nel 1368 novembre e dicembre tritavo dell’ava materna del
supplicante. La qual famiglia gode ancora la prerogativa di portare
nello stemmate gentilizio il titolo della libertà, e questa famiglia è
passata altra volta per giustizia nel 1660 in persona del cavaliere Al-
berto padre del supplicante. Della famiglia Ugurgieri di Siena dalla
quale trae origine la madre del medesimo supplicante, tralasciando
come sin dall’anno 872 si trova fatta menzione di questa famiglia in
più atti più atti pubblici principiando in persona di un tal Uvinigi
Conte di Conte Reghinari, e poi successivamente d’altri e nel 1183
Ugo di Ruggiero fu uno dei tre annui Consoli, che allora si facevano
nella città, dell’anno 1481 fu Governatore della medesima Agnolo
d’Azzolino Ugurgieri atavo della madre del supplicante, e doppo
successivamente senza alcuno interrompimento fino ad Angelo di
Fabio fratello cugino di Alessandro 7mo, che godé nel 1637, che fu
padre di Eufrasia madre del medesimo supplicante. Della famiglia
Guidotti di Colle dalla quale trae origine il pretendente per il 4to del-
l’ava materna, appare, che gli uomini di essa da più di tre secoli in
qua hanno goduto i primi gradi, et onorj della lor patria, principian-
do da messer Bartolomeo d’Agostino, che fu de’ Priorj nel 1375, e
poi successivamente altri senza interrompimento di tempo fino in
Luc’Antonio, che risedé de i Priorj l’anno 1621 padre dell’ava mater-
na del supplicante ricavandosi ancora da più fedi estratte da i libri
publici di detta città di Colle, che il sopranominato Agostino fosse fi-
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gliolo d’un tal Umberto ò Umbaldo nominato col titolo di nobilis


miles, si come simil titolo fosse dato à Sgrana figlio del medesimo
Umberto in compagnia de’ signori da Picchena, e che in casa di que-
sti Guidotti si adunava il Consiglio per gli affari più rilevanti di quel
Publico, et in oggi questa famiglia è spenta»270.
Il documento, infine, si chiudeva con un profilo del pretendente,
che valutava le qualità personali, le facoltà e la predisposizione agli
esercizi cavallereschi: «il supplicante oltre la commenda di suo pa-
dronato pervenutali per morte del cavaliere Alberto suo padre [ese-
quie, 10 maggio 1698] possiede in comune con Alessandro, e Anto-
nio suoi fratelli beni stabili propri nel Distretto di Colle di valore di
scudi 10 mila, e d’annua rendita di scudi 300, e per scudi 14 mila in
tanti luoghi di monte in Roma con le quali entrate potrà con decoro
mantenere il grado di cavaliere. E che è d’età d’anni 19 essendo na-
to il dì 21 agosto 1679 come per fede di suo battesimo, di costumi, e
qualità nobili corrispondenti à suoi nobili natali, attende alli studi di
bella, e grata presenza, sano di suo corpo, e ben disposto al mestie-
ro dell’armi, et esercizi militari»271.
Il rescritto granducale in calce all’informazione in parola, datato e
sottoscritto da Giovanni Panciatichi in data 3 giugno 1699, ordinava:
« Diasegli l’abito di cavaliere milite con obbligo di navigare»272.
Ma Giovanni, dopo aver sostenuto tutto l’iter procedurale indi-
spensabile ai fini dell’ingresso per giustizia, «essendo mancato all’o-
ratore il padre, e perciò trovandosi in grado di non potere, senza di-
sastro degli interessi di sua casa, adempire all’obbligo della naviga-
zione», inoltrò l’ennesima supplica all’indirizzo del Gran Maestro,
al fine di poter «pigliare l’abito di cavaliere come successore in
commenda di suo padronato, ad effetto di godere i privilegi di cava-
liere commendatore»273. La risposta giunse il 7 ottobre 1699: «Con-
cedesi come si domanda, e s’investa della commmenda di suo pa-
dronato secondo gli ordini, non ostante»274.
Giovanni del cavaliere Alberto Giusti, dunque – come si legge in

270 Ibidem.
271 Ibidem.
272 Ibidem, rescritto, 3 giugno 1699.
273 AsPi, S. Stefano, 1176, ins. 223, cc. n. n., supplica di giovanni d’Alberto giusti, s. d.
274 Ibidem, rescritto, 7 ottobre 1699.
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234

copertina al fascicolo delle provanze: «N. B. Provò per giustizia, ma


l’abito lo vestì come successore in commenda»275 –, il 13 aprile 1700,
fu vestito dell’abito di cavaliere milite, come successore in commenda
di suo padronato, nella venerabile chiesa del monastero di S. Cateri-
na, per mano del signor cavaliere Giovanni Alessandro Sabolini276.
Le esequie vennero officiate il 4 dicembre 1709277.
***
Nel frattempo, Alessandro278, anch’egli figlio del quondam cava-
liere Alberto, nato e battezzato l’11 aprile 1683279, aveva ottenuto,
in data 2 ottobre 1699 il rescritto che lo abilitava a sostenere le pro-
vanze per giustizia, «non essendo tenuto à far altre provanze, che de
vita, et moribus, e facultà» per «essere fratello utrinque congiunto
di Giovanni Giusti, che» aveva ottenuto la grazia «di vestire detto
abito per giustizia fin sotto dì 3 giugno passato»280.
La procedura prese le mosse dalla comparizione del 19 dicembre
innanzi a Niccolò Antinori, nobile patrizio fiorentino, Auditore di
Sua Altezza Serenissima, allorquando il postulante produsse i capi-
toli con i documenti allegati (in particolare: l’informazione del Con-
siglio, datata 4 maggio 1699, concernente il processo sostenuto da
Giovanni Giusti, corredata dal rescritto che, il 3 giugno del detto
anno, concedeva la grazia dell’abito; le fedi di battesimo del medesi-
mo Giovanni e di Alessandro) e designò i testimoni281.
Zaccaria del fu dottor Leonardo Buonaccorsi (26 anni), il 19 gen-
naio 1699 (1700), ed Alessandro del cavaliere Giovanni Alessandro
Sabolini (24 anni), il 6 febbraio, gentiluomini colligiani, conferma-

275 AsPi, S. Stefano, 207, ins. 5, cc. n. n., copertina dell’inserto concernente le provanze di

nobiltà di giovanni del cavaliere Alberto giusti.


276 AsPi, S. Stefano, 578, c. 12r, apprensione dell’abito, 13 aprile 1700.
277 AsPi, S. Stefano, 3679, c. 47r, esequie del cavaliere giovanni d’Alberto giusti, 4 di-

cembre 1709.
278 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 626, pp. 537-537. AsPi, S. Stefa-

no, 208, ins. 36, provanze di Alessandro d’Alberto di giovanni di giovan Battista giusti.
279 AsPi, S. Stefano, 208, ins. 36, cc. n. n., fede di battesimo di Alessandro d’Alberto giu-

sti, rilasciata il 9 novembre 1699; la firma e la qualifica dell’ufficiale redigente non sono leg-
gibili.
280 Ivi, cc. n. n., supplica di Alessandro d’Alberto giusti, s. d., e rescritto, 2 ottobre 1699:

«il Consiglio della religione vegga le sue Provanze, et informi. giovanni Panciatichi 2 otto-
bre 1699».
281 Ivi, cc. n. n., incipit del processo per provanze, 19 dicembre 1699.
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rono integralmente le asserzioni dell’aspirante282, come constava


dall’attestazione del notaio Ceccherelli, controfirmata dall’Auditore,
l’ultimo giorno del processo283.
Prontamente, il 9 febbraio, furono nominati i commissari, nelle
persone dei cavalieri Simone Francesco Seghieri Bizzarri, di Pisa e
Cosimo Ventura de’ Pazzi, di Firenze, per il consueto esame del
quadro probatorio284.
Una settimana più tardi, il dì 16, i Cavalieri del Consiglio produs-
sero l’informazione per il Granduca, ove, succintamente, si traccia-
va il resoconto in ragione del quale dichiarare ammissibili le giustifi-
cazioni addotte dal profitente: «giustifica in processo per deposto di
testimoni maggiori d’ogni eccezione, e per fedi autentiche come fu
al mondo il cavaliere Alberto del cavaliere Giovanni Giusti di Colle,
il quale contrasse legittimo matrimonio con Eufrasia d’Angelo
Ugurgieri di Siena, e di loro, e loro legittimo matrimonio ne nacque
il suddetto Giovanni Giusti che ottenne la grazia che sopra, et il
suddetto Alessandro supplicante loro figlioli legittimi, e naturali, e
così fra di loro fratelli utrinque congiunti. Il quale Alessandro è gen-
tiluomo di vita, costumi, e qualità nobili corrispondenti a’ suoi no-
bili natalj, pratica nobilmente, di bella, e grata presenza, sano di suo
corpo, e ben disposto al mestiere dell’armi, et esercizi militarj, vive
da buon christiano, non avendo avuto origine da infedeli, ma da ve-
ri cattolicj, et è d’età d’anni 16, per li 17 sendo stato lavato al sacro
fonte il dì 11 aprile 1683 come costa per fede di suo battesimo. Pos-
siede il supplicante con il suddetto Giovanni et Antonio suoi fratelli
oltre un podere grande nel Comune di Picchena più, e diversi beni
stabili nel Contado, e Iurisdizione di Colle di rendita di scudi 600, e
per scudi 14000 in tanti luoghi de’ Monti di Roma, con le quali en-
trate potrà mantenere con decoro l’abito di cavaliere»285.
Il 23 febbraio, il Granduca rescrisse: «Diasegli l’abito di cavaliere
milite con obbligo di navigare dispensandolo Sua Altezza dalla mi-

282 Ivi, cc. n. n., escussione dei testimoni, 19 gennaio e 6 febbraio 1699 (1700).
283 Ivi, cc. n. n., autenticazione delle prove testimoniali, 6 febbraio 1699 (1700).
284 Ivi, cc. n. n., deliberazione del Consiglio dei Xii per la nomina dei commissari, 9 feb-

braio 1699 (1700).


285 AsPi, S. Stefano, 1177, ins. 318, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Xii al gran

Maestro, 16 febbraio 1699 (1700).


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nor’ età»286; ed appena un giorno più tardi, concesse, in calce alla


relativa supplica, la grazia della vestizione in patria287.
Fu così che, come suo fratello Giovanni, Alessandro del quondam
cavaliere Alberto Giusti fu cinto dell’abito di cavaliere milite per
giustizia in patria, nella venerabile chiesa del monastero di S. Cateri-
na, per mano del cavaliere Giovanni Alessandro Sabolini, il medesi-
mo 17 aprile 1700288.
Il cavaliere Alessandro morì il 27 dicembre 1753 e fu onorato
delle esequie il 17 gennaio 1754289.
***
Di far indossare l’abito stefaniano al minore dei tre fratelli germa-
ni in questione, Agostino Antonio290, nato e battezzato il 4 giugno
1684291, si preoccupò il secondogenito Alessandro. Questi supplicò
il Granduca affinché avesse la compiacenza di «permettere benigna-
mente, che esso oratore possa col riservo à sé stesso de’ frutti per
sua vita durante, e senz’alcun pregiudizio dei propri figli, e descen-
denti maschi renunziare la commenda Giusti di suo padronato al
predetto Antonio suo fratello, affinché questo in virtù di simil re-
nunzia possa restare insignito dell’abito sopradetto come successore
nella riferita commenda, e conseguirne l’investitura»292.
Il 9 gennaio 1731 (1732), giunse l’invocata licenza, per mezzo
della quale, da un lato, si consentiva la cessione, intimando al «Se-
natore Cavaliere Presidente de’ Ricci» (Auditore dal 1722 al 1751)
di provvedere «all’instrumento della Renunzia, ed à quanto altro»

286 Ibidem, cc. n. n., rescritto, 23 febbraio 1699 (1700).


287 AsPi, S. Stefano, 1177, ins. 318, cc. n. n., supplica di Alessandro d’Alberto giusti, s.
d.: «Alessandro del già cavaliere Alberto giusti di Colle umilissimo servo, e suddito di Vostra
Altezza serenissima rendendole infinite grazie per quella, che l’Altezza Vostra serenissima si
è degnata compartirgli dell’abito di cavaliere milite per giustizia della sua sacra religione di
s. stefano reverentemente ora la supplica à concedergli che possa prender detto abito in pa-
tria»; e rescritto, 24 febbraio 1699: «Cosimo. Concedesi non ostante. giovanni Panciatichj 24
febbraio 1699 ab incarnatione».
288 AsPi, S. Stefano, 578, c. 12r, apprensione dell’abito, 13 aprile 1700.
289 AsPi, S. Stefano, 3679, c. 156r, esequie del cavaliere Alessandro d’Alberto giusti, 17

gennaio 1754.
290 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 633, p. 543. AsPi, S. Stefano, 286,

ins. 23, provanze di Agostino Antonio d’Alberto di giovanni di giovan Battista giusti.
291 AsPi, S. Stefano, 286, ins. 23, cc. n. n., fede di battesimo di Agostino Antonio d’Alber-

to, rilasciata da Paolo Bettini, attuario della curia episcopale di Colle, 2 dicembre 1731.
292 AsPi, S. Stefano, 1198, ins. 129, cc. n. n., supplica di Alessandro d’Alberto giusti, s. d.
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occorresse al fine di conferire alle scritture «buona, e valida forma»,


e, dall’altro, si demandava al Consiglio l’esperimento della consueta
procedura d’ammissione293. Ma in capo ad Agostino Antonio resta-
vano soltanto da sostenere le provanze de vita et moribus e facoltà
«per essere fratello utrinque congiunto del signore cavaliere Gio-
vanni Maria Giusti che vestì l’abito di detta Sacra Religione per giu-
stizia in virtù del benigno rescritto della Reale Altezza Serenissima,
del dì 3 giugno 1699»294; a giustificazione, fu addotto, dunque, l’e-
stratto dell’informazione dei XII cavalieri del Consiglio, datata 4
maggio 1699, in calce alla quale fu apposta la detta concessione del-
la grazia d’esser cinto dell’abito scudocrociato295.
Appena tre giorni dopo la concessione magistrale, il 12 gennaio,
Agostino comparve innanzi al predetto Auditore presidente de’ Ric-
ci per dare inizio al procedimento, con l’introduzione delle prove
usuali, vale a dire i capitoli, le fedi di matrimonio dei genitori, di na-
scita – per sé e per il fratello Giovanni –, della tassa sul grano – da
cui risultavano i beni stabili –, nonché la copia per estratto dai cam-
pioni delle commende di padronato della fondazione risalente al 20
settembre 1571296.
I nobili signori colligiani Piero del quondam Francesco Buoninse-
gni (49 anni) e Domenico di Giuseppe Bolognini (28 anni), testimo-
niarono, rispettivamente nei giorni 16 gennaio e primo febbraio, per
propria cognizione e per esser di pubblico dominio, la legittimità
dei natali e del legame di sangue con Giovanni Maria, lo stile di vita
degno dello status nobiliare, come pure la detenzione di proprietà
tali da mantenere, con indubitabile decoro, sia la posizione sociale,
sia il grado di cavaliere297. Le attestazioni furono sottoscritte dal no-
taio Gamucci (1° febbraio), primo cancelliere, ufficiale redigente, e
dal de’ Ricci (2 febbraio)298.

293 Ibidem, rescritto, 9 gennaio 1731 (1732).


294 AsPi, S. Stefano, 286, ins. 23, cc. n. n., incipit del processo per provanze, 12 gennaio
1731 (1732).
295 Ivi, cc. n. n., copia per estratto dell’informazione dei Xii cavalieri del Consiglio, datata

4 maggio 1699, in calce alla quale fu apposto il rescritto: «Diasegli l’abito di Cavaliere milite
con obbligo di navigare. giovanni Panciatichi 3 giugno 1699», stilata dal cancelliere Jacopo
Francesco raimondo Mugnai, s. d.
296 Ivi, cc. n. n., incipit del processo per provanze, 12 gennaio 1731 (1732).
297 Ivi, cc. n. n., escussione dei testimoni, 16 gennaio e 1° febbraio 1731 (1732).
298 Ivi, cc. n. n., autenticazione delle prove testimoniali, 1° e 2 febbraio 1731 (1732).
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Dal registro delle informazioni, risulta che, nel frattempo, in cal-


ce alla supplica avanzata da Alessandro d’Alberto, di cui sopra, in
data 25 gennaio, si annotò come, «per rogito di ser Jacopo France-
sco Raimondo Mugnai», fosse stato finanche «stipulato l’instrumen-
to della detta renunzia»299.
Il 12 febbraio il Consiglio nominò, in veste di commissari, il Te-
soriere Generale, Cosimo Andrea Sanminiatelli, di Pisa, e Bernardi-
no Azzolino della Ciaia, di Siena, per il consueto esame del plico ri-
guardante il processo300. Dai documenti concernenti le provanze di
vita, costumi e facoltà, si desunse, in primo luogo, come il cavaliere
Alberto, capostipite, contrasse legittimo matrimonio con Eufrosina
d’Angelo Ugurgieri nobile senese, e dal loro legittimo matrimonio
fossero nati il cavaliere Alessandro ed il supplicante, fra loro fratelli
utrinque congiunti; inoltre, in secondo luogo, come Agostino Anto-
nio «d’anni 47 compiti secondo la fede di suo battesimo», conser-
vasse vita e costumi corrispondenti ai suoi nobili natali, fosse sano
di corpo – perciò disposto alle pratiche militari – e non fosse «oscu-
rato d’infamia, o eresia né originato da infedeli». Da ultimo, in me-
rito alle «facultà», risultava come, «oltre una nobil casa decente-
mente ornata in Colle», possedesse «più, e diversi beni stabili con
una partita di luoghi di Monte di Roma il tutto ascende al valore di
scudi 27 mila in circa, e d’annua rendita circa scudi 900»301. Al re-
soconto in parola, i cavalieri del Consiglio aggiunsero: «onde paren-
doci, che habbia adempiuto lo rappresentiamo umilmente a Vostra
Altezza Reale per capace della domandata grazia, e con profondo
ossequio in ... [attesa] de’ suoi sovrani comandamenti le baciamo le
regie vesti»302.
Agostino Antonio del quondam cavaliere Alberto fu vestito dell’a-
bito di cavaliere milite come successore in commenda di padronato,
«renunziatali dal signor cavaliere Alessandro suo fratello», in patria,

299 AsPi, S. Stefano, 1198, ins. 129, cc. n. n., supplica di Alessandro d’Alberto giusti, s.

d.; annotazione successiva: «a [dì] 25 detto [gennaio]. Fu stipulato l’instrumento della detta
renunzia, per rogito di ser Jacopo Francesco raimondo Mugnai».
300 AsPi, S. Stefano, 286, ins. 23, cc. n. n., deliberazione del Consiglio dei Xii per l’ele-

zione dei commissari, 12 febbraio 1731 (1732).


301 AsPi, S. Stefano, 1042, c. 100r-v, informazione del Consiglio dei Xii al gran Maestro,

12 febbraio 1731 (1732).


302 Ivi, c. 100v.
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239

nella chiesa delle reverende monache di S. Caterina «sotto la regola


di S. Francesco», per mano del cavaliere Emilio Luci, di Colle, il 15
maggio 1732303.
La morte colse Agostino Antonio Giusti il 29 marzo 1757 ed il
giorno seguente ne furono celebrate le esequie304.

VII. Alberto di Alessandro


Sullo scorcio del 1731, il cavaliere Alessandro del già cavaliere
Alberto305, «desiderando vedere insignito dell’abito di cavaliere mi-
lite per giustizia […] la persona d’Alberto Filippo Maria suo figlio
primogenito», supplicò il Granduca affinché gliene concedesse gra-
zia, permettendogli «di potersi valere per le prove di nobiltà de’
suoi quarti materni, delle già fatte dal cavaliere Antonio Rinieri zio
materno di detto suo figlio; offerendosi pronto l’oratore à far per il
medesimo le dovute provanze de vita, et moribus, e facoltà; già che
per quelle de’ quarti paterni gli suffragano le già fatte dall’esponen-
te»306. In data 7 dicembre, il rescritto magistrale concesse la facoltà
di sostenere il processo, usufruendo sia delle provanze paterne, sia
«delle già fatte dal cavaliere Antonio Rinieri», ma « in forza di sola
provazione, e non di cosa giudicata». Ovviamente, non potevano es-
sere in alcun modo surrogate le provanze «di sua vita, e costumi, e
facoltà»307.
Fu così che, il 12 gennaio 1731 (1732), si aprì il procedimento,
innanzi all’Auditore presidente Francesco de’ Ricci, in Firenze, al
cospetto del quale, in veste di «padre, e legittimo amministratore»,
si presentò Alessandro del già cavaliere Alberto, il quale esibì i capi-
toli, con gli allegati, e designò i testimoni, nelle persone di Piero del

303 AsPi, S. Stefano, 578, c. 94r, apprensione dell’abito, 15 maggio 1732.


304 AsPi, S. Stefano, 3679, c. 163r, esequie del cavaliere Agostino Antonio d’Alberto giu-
sti, 30 marzo 1757.
305 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 634, pp. 543-544. AsPi, S. Stefa-

no, 286, ins. 24, provanze d’Alberto Filippo Maria Bernardino Baldassarre d’Alessandro
d’Alberto di giovanni di giovan Battista giusti.
306 AsPi, S. Stefano, 1198, ins. 114, cc. n. n., supplica di Alessandro d’Alberto giusti, s. d.
307 Ibidem, rescritto, 7 dicembre 1731: «si contenta sua Altezza reale che detto Alberto

figlio del supplicante possa valersi per le prove di nobiltà de’ suoi quarti materni delle già fat-
te dal cavaliere Antonio rinieri di lui zio materno in forza di sola provazione, e non di cosa
giudicata, con che la riproduca avanti il tribunale del Consiglio dell’ordine, acciò sieno vedu-
te coll’altre, che dovrà fare di sua vita, e costumi, e facoltà, e di poi il detto Consiglio informi.
il gran Duca di toscana. giovanni Panciatichi 7 dicembre 1731».
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240

fu Francesco Andrea Buoninsegni (49 anni) e Domenico di Giusep-


pe Bolognini (28 anni), nobili colligiani308.
Come appare evidente, il processo in parola vide quali protagoni-
sti, se si esclude il postulante, i medesimi soggetti chiamati in causa
per la vestizione di Agostino Antonio d’Alberto; per di più con l’e-
sperimento delle procedure processuali nelle medesime giornate: 12
gennaio, incipit del processo; 16 gennaio e 1° febbraio, escussione
dei due testimoni addotti.
Dai capitoli risultava, in primo luogo, come Alessandro del quon-
dam cavaliere Alberto avesse contratto legittimo matrimonio con
Elisabetta del cavaliere Bernardino Rinieri nobile di Colle, e che da
essi, e loro legittimo matrimonio fosse nato il pretendente, e come il
detto cavaliere Bernardino Rinieri avesse sposato Maria Maddalena
di Francesco Accarigi, nobile di Siena, e da loro fossero discesi il
detto cavaliere Antonio Rinieri, e la predetta Elisabetta, l’uno zio
materno e l’altra madre del pretendente. In secondo luogo, in meri-
to alle qualità personali del profitente, che aveva appena compiuto
dieci anni, essendo nato l’11 gennaio del 1721 (1722) – come risul-
tava dalla fede di battesimo309 –, si affermava essere «giovinetto di
vita, costumi e qualità nobili corrispondenti ai suoi nobili natali, di
bella, e grata presenza, sano di suo corpo, e ben disposto per riusci-
re a suo tempo atto al mestiere dell’armi, ed esercizi militari, non
macchiato d’infamia o eresia, né originario da infedeli». Infine,
quanto alle sostanze, si rendeva conto di come il cavaliere Alessan-
dro, padre dell’aspirante, assieme con suo fratello Antonio, oltre
una casa arredata nobilmente in Colle, possedesse diversi beni stabi-
li, la propria commenda padronato e una partita di luoghi di monte
in Roma, per un valore complessivo di circa 30 mila scudi ed una
rendita annua di mille scudi, «colle quali entrate può far mantenere
con decoro al supplicante il grado di cavaliere»310.
Nei giorni detti, i testimoni ripercorsero, senza manifestare alcu-

308 AsPi, S. Stefano, 286, ins. 24, cc. n. n., incipit del processo per provanze, 12 gennaio

1731 (1732).
309 AsPi, S. Stefano, 286, ins. 24, cc. n. n., fede di battesimo di Alberto Filippo Maria Ber-

nardino Baldassarre del cavaliere Alessandro del fu Alberto giusti, rilasciata da Paolo Bettini,
attuario della curia episcopale di Colle, 27 giugno 1731.
310 Ivi, cc. n. n., capitoli delle provanze, 12 gennaio 1731 (1732).
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241

na perplessità, le dichiarazioni articolate dall’instante e confermaro-


no il pubblico dominio a riguardo d’ogni cosa contenuta nei capito-
li311. Il tutto fu sottoscritto dal notaio Gamucci (1° febbraio) e con-
trofirmato dal de’ Ricci (2 febbraio)312.
Quanto all’incartamento concernente il processo per provanze
sostenuto da Antonio Francesco del cavaliere Bernardino Rinieri
di Colle313, si dava conto della presenza nelle magistrature cittadi-
ne per gli esponenti delle famiglie Rinieri e Buonaccorsi, colligia-
ne, e Accarigi e Carli Piccolomini, senesi, confermate dalle risul-
tanze dei due distinti sottoprocessi tenutisi rispettivamente a Colle
e Siena. Evidentemente, ai fini dell’ammissione per giustizia del
piccolo Alberto Filippo, l’interesse ricadeva sui due quarti mater-
ni, Rinieri ed Accarigi. Le due famiglie in parola erano annoverate
tra le più illustri ed antiche nelle loro rispettive patrie, giacché i di-
scendenti da esse non avevano mai esercitato arti vili e meccani-
che, ed erano sempre vissuti da veri nobili. In particolare, pel
quarto dell’ava materna, si enunciava come Francesco di Onofrio
Accarigi fosse stato uno degl’eccelsi Priori della città di Siena l’an-
no 1541, così come lo furono Camillo di Francesco nel 1565, il
dottore Francesco di Camillo nel 1579, il dottore Giovanni del
dottore Francesco nel 1631; e, infine, come nel 1679, Francesco
del Dottore Giovanni, padre di Maddalena, ava del pretendente,
fosse stato Capitano del Popolo314.
Per la famiglia Rinieri – quarto della madre-, Lapo di Ranieri fu
uno dei XII Governatori di Libertà nel 1317 e fu Ambasciatore alla
Repubblica fiorentina per la sua patria; Lippo di Lapo nel 1343 ri-
sedé «trà quelli di Balìa che successero in luogo dei XII Governato-
ri», così come Alberto di Lippo, e Lapo d’Alberto, nel 1390 e 1425;
Filippo d’Alberto fu invece Gonfaloniere nel 1459, e Bernardino
d’Alberto ricoprì il medesimo grado l’anno 1497; «ed altri successi-

311 Ivi, cc. n. n., escussione dei testimoni, 16 gennaio e 1° febbraio 1731 (1732).
312 Ivi, cc. n. n., autenticazione delle prove testimoniali, 1° e 2 febbraio 1731 (1732).
313 Ivi, cc. n. n., copia per estratto dell’informazione dei Xii cavalieri del Consiglio, datata

10 marzo 1710 (1711), in calce alla quale fu apposto il rescritto: «Diasegli l’abito di Cavaliere
milite con obbligo di navigare, dispensandolo sua Altezza reale dalla minore età. giovanni
Panciatichi 10 aprile 1711», stilata dal cancelliere Jacopo Francesco raimondo Mugnai, s. d.
314 AsPi, S. Stefano, 1198, ins. 142, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Xii al gran

Maestro, 19 febbraio 1731 (1732).


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242

vamente furono Gonfalonieri e dei Priori fino al cavaliere Bernardi-


no avo materno del pretendente»315.
L’elezione dei commissari Francesco Maria Sozzifanti, di Pistoia,
e Giovanni Saladino dal Borgo, di Pisa, portava la data del 6 feb-
braio316. Dopo circa due settimane, il giorno 19, il medesimo Consi-
glio, formulò l’informazione per il Granduca, che dichiarava l’aspi-
rante «capace della richiesta grazia»317. E finalmente, il dì 24 se-
guente, giunse il benigno rescritto granducale, sottoscritto da Gio-
vanni Panciatichi: «Diasegli l’abito di cavaliere milite, coll’obbligo
di navigare, dispensandolo Sua Altezza Reale dalla minore età, non
ostante»318.
La cerimonia di vestizione d’Alberto Filippo, così come il proces-
so, si svolse congiuntamente a quella dello zio paterno, Agostino
Antonio; quindi, si tenne il 15 maggio 1732, nel medesimo luogo
– la chiesa delle monache di S. Caterina –, per mano dello stesso ca-
valiere Luci319. Mentre non v’è registrazione d’alcuna cerimonia
d’esequie.

VIII. Alberto d’Agostino Antonio


Con Alberto Giovanni d’Agostino Antonio, ultimo cavaliere della
famiglia Giusti320, si passa alla seconda metà del XVIII secolo.
Alberto321, nato dal matrimonio di Agostino Antonio con Orsola
Maria di Giuseppe di Pier Francesco Sabolini322, nato e battezzato
il 5 giugno 1756323, supplicò il Granduca di essere insignito dell’abi-
to di cavaliere milite per giustizia e dell’investitura della commenda

315 Ibidem.
316 AsPi, S. Stefano, 286, ins. 24, cc. n. n., deliberazione del Consiglio dei Xii per l’ele-
zione dei commissari, 6 febbraio 1731 (1732).
317 AsPi, S. Stefano, 1198, ins. 142, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Xii al gran

Maestro, 19 febbraio 1731 (1732).


318 Ibidem, rescritto, 24 febbraio 1731 (1732).
319 AsPi, S. Stefano, 578, c. 94r, apprensione dell’abito, 15 maggio 1732.
320 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 639, pp. 548-549.
321 AsPi, S. Stefano, 378, ins. 10, provanze d’Alberto giovanni d’Agostino Antonio d’Al-

berto di giovanni di giovan Battista giusti.


322 Ivi, cc. n. n., fede di matrimonio di Antonio giusti e orsola Maria sabolini, genitori del

pretendente, rilasciata da Francesco luca Brogiotti, cancelliere della curia vescovile di Colle,
27 settembre 1773.
323 Ivi, cc. n. n., fede di battesimo di Alberto giovanni giusti, rilasciata da Francesco luca

Brogiotti, cancelliere della curia vescovile di Colle, 27 settembre 1773.


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di suo padronato, senza dover provare i due quarti paterni, Giusti


ed Ugurgieri, «per essere state tali famiglie già ammesse per giusti-
zia nell’Ordine […] nell’anno 1699, nelle prove fatte dai cavalieri
Giovanni, e Alessandro Giusti fratelli utrinque congiunti del preno-
minato cavaliere Antonio padre del pretendente»324.
Il benigno rescritto portava la data del 7 gennaio 1774 e deman-
dava il compito di formulare il parere in merito ai requisiti del pre-
tendente al Consiglio dei Dodici325.
Il postulante comparve al cospetto del vicario vescovile, Nicola
Apolloni, il 17 marzo dello stesso anno, per formulare la propria
istanza di sottoposizione alle prove di legittimità, vita, costumi, so-
stanze e nobiltà dei suoi quattro quarti, e di ammissione dei docu-
menti allegati ai capitoli, in vista del procedimento consueto innanzi
al detto tribunale diocesano326.
Per provare la legittimità della nascita produsse la fede di matri-
monio (27 maggio 1754) di Antonio Giusti con Orsola Sabolini e la
propria fede di nascita (5 giugno 1756), rilasciate il 27 settembre
1773 da Francesco Luca Brogiotti, cancelliere vescovile.
Al fine di dimostrare la nobiltà dei quarti Giusti ed Ugurgieri,
presentò il «negozio d’abito del signor cavaliere Alessandro Giusti»
copiato dall’originale per mano di Giacinto Viviani del Vescovo il
22 dicembre 1773327.
A riprova della discendenza dai genitori, produsse le rispettive fe-
di di nascita, rilasciate nel medesimo giorno di settembre del 1773
dal Brogiotti328.
Dipoi, al fine dell’accertamento della nobiltà dei Sabolini, mostrò
quattro attestati da cui risultava che «Pier Francesco atavo fu tratto

324 Ivi, cc. n. n., supplica di Alberto giovanni giusti, s. d.


325 Ibidem, rescritto, 7 gennaio 1774.
326 AsPi, S. Stefano, 378, ins. 10, cc. n. n., incipit del processo per provanze, 17 marzo
1774.
327 Ivi, cc. n. n., copia per estratto dell’informazione dei Xii cavalieri del Consiglio, datata

16 febbraio 1699 (1700), in calce alla quale fu apposto il rescritto: «Diasegli l’abito di Cava-
liere milite con obbligo di navigare, dispensandolo sua Altezza dalla minor età. giovanni
Panciatichi 23 febbraio 1699 [1700]», stilata da giacinto Viviani del Vescovo, primo ministro
di cancelleria, il 22 dicembre 1773.
328 Ivi, cc. n. n., fedi di nascita e battesimo del padre Agostino Antonio (4 giugno 1684), e

della madre orsola Maria sabolini (6 aprile 1734), rilasciate da Francesco luca Brogiotti,
cancelliere della curia vescovile di Colle, 27 settembre 1773.
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Gonfaloniere di Giustizia sotto dì 21 giugno 1667; Giuseppe abavo


fu tratto de’ Priori ne’ 19 febbraio 1681 (1682); Pier Francesco
proavo fu estratto Gonfaloniere ne’ 12 novembre 1720; e finalmente
Giuseppe avo sotto dì 21 aprile 1746, dal quale ne nacque Orsola
Sabolini madre del pretendente»329.
Allo stesso modo, per certificare la nobiltà della famiglia Bardi
esibì quattro attestazioni, nelle quali si enunciava che «furon tratti
Gonfalonieri Giovanni Bardi sotto dì 21 giugno 1599 e Lattanzio ne
22 agosto 1617; Alessandro atavo fu Gonfaloniere ne 21 febbraio
1633 (1634)»; «Michel Maria di detto Alessandro abavo essendosi
domiciliato in questa città di Pisa quivi pure godé del primo Onore
del Priorato ne 15 luglio 1671; Alessandro di detto Michele Maria
proavo conseguì l’istessa onorificenza in Pisa ne 29 novembre 1705,
dal quale Alessandro ne nacquero Maria Anna ava materna del pre-
tendente, e Ranieri, che fu parimente de’ Priori ne’ 13 gennaio 1728
(1729) per la morte del quale rimase estinta la suddetta famiglia»330.
Dopodiché, per i medesimi due quarti, furono esibiti, oltre gli
stemmi a colori, gli attestati d’iscrizione al registro della nobiltà di
Colle, a norma della nuova legge sulla nobiltà. In particolare, si do-
cumentava l’annotazione di Giovanni Sabolini, figlio di Giuseppe di
Pier Francesco e di Anna d’Alessandro Bardi Ciampoli, certificata il
27 maggio 1774 con la fede firmata dal consigliere di Stato e segre-
tario dell’archivio di palazzo della città di Firenze Pompeo Neri,
munita del sigillo reale e sottoscritta dal ministro del medesimo ar-
chivio Simone Fabbrini. Infine, nella stessa data, per mano dei me-
desimi pubblici ufficiali granducali, si attestava l’aggregazione alla
medesima classe della nobiltà colligiana di Ranieri Francesco Bardi
Ciampoli, nato dal matrimonio di Alessandro di Michele d’Alessan-
dro con Rosa Vittoria Pellegrini331.
Il requisito delle sostanze fu dimostrato per mezzo della fede d’e-

329 Ivi, cc. n. n., quattro fedi dei godimenti dei pubblici onori per la famiglia sabolini, rila-

sciate da Pietro Mortani, cancelliere della Comunità di Colle, 25 settembre 1773.


330 Ivi, cc. n. n., tre fedi dei godimenti dei pubblici onori per la famiglia Bardi, rilasciate

da Pietro Mortani, cancelliere della Comunità di Colle, 25 settembre 1773; fede dei godimenti
per la famiglia Bardi copiata per estratto da simone Fabbrini, ministro nell’archivio di Palaz-
zo della città di Pisa, 21 giugno 1774.
331 Ivi, cc. n. n., attestati d’iscrizione al registro della nobiltà di Colle per le famiglie sabo-

lini e Bardi Ciampoli, 27 maggio 1774.


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stimo del 24 gennaio 1774, rilasciata dal cancelliere della Comunità,


Pietro Mortani332.
Infine, i requisiti di legittimità, nobiltà e sostanze, si provarono,
per mezzo dei capitoli da sottoporre ai testimoni.
L’Apolloni, che aveva accolto gli articoli con i documenti allegati
il 17 marzo333, il giorno 29 esaminò i testimoni Giuseppe del quon-
dam Francesco Tommasi (64 anni) e Francesco del fu Giovanni To-
losani (58 anni) sopra i medesimi incartamenti334, alla presenza del
cavaliere assistente, Decio Portigiani, e del notaio redigente Bro-
giotti, cancelliere ed attuario vescovile, i quali segnarono la fine del
processo con l’apposizione delle firme335.
Il cavaliere Portigiani, con il dispaccio del 4 aprile 1774, comu-
nicò ai XII l’adempimento della lettera commissionale del 28 feb-
braio, «ricevuta il 12 marzo», e, dunque, l’avvenuto esperimento
della fase processuale, ordinata dal vescovo di Colle, Renieri Manci-
ni, al proprio vicario, anticipando loro l’imminente ricevimento del-
le risultanze «del processo medesimo, che […] trasmetteranno i mi-
nistri di detta curia vescovile»336. Il che, difatti, avvenne per iniziati-
va dell’Apolloni, il quale, in data 12 aprile, inviò, all’indirizzo del vi-
cecancelliere Pio dal Borgo, il dispaccio che accompagnava il plico
con le carte autentiche del procedimento337.
In particolare, tra i documenti conservati nell’inserto delle provan-
ze, si poteva reperire il campione della commenda fondata il 20 set-
tembre 1571 da Alberto di Pier Francesco Giusti «sopra un podere
con casa per padrone e lavoratore nel Contado di Colle, luogo detto
Montecchio, e più altri pezzi di terra in detto Contado […] di annua
rendita di scudi cento», che accompagnava la perizia richiesta dall’in-
stante, al fine di dimostrare l’avvenuto accrescimento della rendita338.

332 Ivi, cc. n. n., fede d’estimo, rilasciata dal cancelliere della Comunità, Pietro Mortani,

24 gennaio 1774.
333 Ivi, cc. n. n., incipit del processo per provanze, 17 marzo 1774.
334 Ivi, cc. n. n., escussione dei testimoni, 29 marzo 1774.
335 Ivi, cc. n. n., autenticazione delle prove testimoniali, 29 marzo 1774.
336 Ivi, cc. n. n., dispaccio del cavaliere assistente, Decio Portigiani, al Consiglio dei Xii, 4

aprile 1774.
337 Ivi, cc. n. n., dispaccio del vicario vescovile, Nicola Apolloni, che accompagna il plico

processuale, 12 aprile 1774.


338 Ivi, cc. n. n., copia per estratto dal campionario delle commende di padronato, stilata da

giacinto Viviani del Vescovo, primo ministro di cancelleria, 20 maggio 1774.


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Nel dispaccio del 10 maggio, stilato dal vicario vescovile Apolloni, in-
dirizzato ai cavalieri del Consiglio, per l’appunto, si legge: «essendo io
stato commissionato dal signore Alberto Giusti […] di far procedere
ad una formale visita, e perizia dell’annuo frutto del podere di Mon-
tecchio, sottoposto alla commmenda Giusti per mezzo degl’istessi te-
stimoni esaminati sopra il capitolato delle provanze, ed essendosi da
questi stata fatta, e commessa a due periti fattori intendenti, e pratichi
di campagna, la medesima nelle forme solite recognita acclusa tra-
smetto […], acciò sia inserita nel suo processetto»339. Difatti, il 2
maggio, i periti incaricati dai testimoni, su impulso del detto delegato
episcopale, a sua volta – si ripete – sollecitato dal Giusti, recatisi «per-
sonalmente alla villa di Montecchio, per […] visitare il podere, e sue
terre adiacenti» ed «avendo adunque quelle vedute, osservate, esami-
nate, e ben considerate tutte quante», affermarono: «a tenore della
nostra perizia, giudichiamo un anno per l’altro siano d’una rendita as-
sai maggiore di scudi cento». La fede da cui risultava lo stato della
commenda, stilata il giorno 5 seguente, fu giurata e sottoscritta dai
periti, Domenico Pacini (58 anni, «agente del monastero di S. Pietro
di Colle») e Michele Maccantelli (64 anni, «agente del monastero di
S. Caterina parimente di Colle»), nonché ratificata dai testimoni già
intervenuti nella fase processuale vera e propria, Francesco Tolosani e
Giuseppe Tommasi. Quattro giorni più tardi, il 9 maggio, i medesimi
signori comparvero tutti innanzi al cancelliere Brogiotti il quale, dopo
aver interrogato personalmente i due tecnici, autenticò la fede pre-
mentovata340.
Il 28 giugno 1774 i cavalieri del Consiglio formularono l’informa-
zione per il Gran Maestro, dalla quale appariva, in sintesi, tutta la
procedura delle provanze sostenute dal candidato, accompagnata
dalla descrizione degli elementi salienti desunti dai documenti più
rappresentativi. In particolare, si evidenziava, riguardo al requisito
delle sostanze, come il pretendente, «oltre diversi altri assegnamen-
ti», possedesse «più beni stabili descritti all’estimo per la massa di

339 Ivi, cc. n. n., dispaccio del cancelliere vescovile di Colle, Francesco luca Brogiotti, al

Consiglio dei Xii, 10 maggio 1774.


340 Ivi, cc. n. n., documento scritto in due giorni differenti: 5 maggio 1774, fede stilata e

sottoscritta dai periti e ratificata dai testimoni della fase processuale; 9 maggio 1774, autenti-
cazione della fede predetta, per ufficio del cancelliere vescovile, il notaio Francesco luca
Brogiotti.
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lire 128.1.11 di entrata de’ quali oltrepassando di gran lunga li scudi


trecento prescritti dagli ordini veglianti, potrà sostenere con decoro
il grado di cavaliere». La missiva contenente il parere positivo dei
Dodici fu sottoscritta dal gran priore Francesco Roncioni, dal Cava-
liere Ranieri Poggi Lanfranchi e da Pio dal Borgo, vice cancelliere
dell’Ordine341.
Ottenuta la grazia dell’abito di cavaliere milite per giustizia, con
l’obbligo di navigare, e l’investitura della commenda Giusti di suo
padronato, in forza del rescritto del 16 luglio 1774342, Alberto del
già cavaliere Agostino Antonio Giusti fu cinto manto stefaniano per
mano cavaliere Niccolò Ricciardi, patrizio fiorentino e Gran Conte-
stabile, «nella venerabile chiesa delle reverende monache di S. Ma-
ria delle Murate di Firenze», il 20 agosto dell’anno detto343.
Il cavaliere Alberto Giovanni Giusti morì il 16 novembre 1807 ed
una settimana più tardi, il 23 novembre, ne furono celebrate le ese-
quie344.

6.2. I Colloredo nelle carte dell’Ordine di Santo Stefano


I. Premesse
Il 4 dicembre 1302, il Patriarca di Aquileia Ottobono dei Razzi
concesse al visconte Guglielmo del quondam Glizoio di Mels, feu-
datario di antichissima stirpe sveva345, facoltà di costruire un nuovo
castello su di un colle di proprietà della famiglia, presso il villaggio
di Colloredo, nella giurisdizione feudale di Mels346, permettendogli
di divenire il capostipite del casato chiamato Colloredo Mels.
Ad oggi, sono trascorsi settecento anni nel continuo consolida-
mento di un’antica tradizione familiare, propria di una stirpe cele-
berrima che ha dato alla Piccola Patria e all’Impero una serie inin-

341 AsPi, S. Stefano, 1239, ins. 284, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Xii al gran

Maestro, 28 giugno 1774.


342 Ibidem, rescritto, 16 luglio 1774.
343 AsPi, S. Stefano, 578, c. 151r, apprensione dell’abito, 20 agosto 1774.
344 AsPi, S. Stefano, 3680, c. 119v, esequie del cavaliere Alberto giovanni giusti, 23 no-

vembre 1807.
345 un ramo dei Waldsee di svevia si era trapiantato in italia nell’anno 1025 dando origine

alla linea detta dei visconti di Mels.


346 Cfr. g. C. CustozA, Colloredo. Una famiglia e un castello nella storia europea, udine,

Paolo gaspari editore, 2003, p. 19, nota 2.


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terrotta di uomini illustri, e che ha fornito all’Ordine dei Cavalieri


di Santo Stefano Papa e Martire la rappresentanza più rilevante per
la città di Udine, secondo gli inventari del Casini concernenti i cava-
lieri non toscani. In particolare, nei due volumi in parola, si riporta-
no le segnature archivistiche relative ai pretendenti cavalieri delle
famiglie Colloredo, Valvasoni, Strasoldo, De Pace e Montemagna.
Si noti, però, come per censire precisamente quanti e quali membri
di prosapie originarie della città di Udine abbiano supplicato il
Gran Maestro al fine di vestire l’abito scudocrociato si debba proce-
dere nella ricerca per cognome, anziché per patria di provenienza,
giacché le casate, spesso e volentieri, si diramavano su tutto il terri-
torio peninsulare – e non solo –; esempio ne sia il caso di Girolamo
di Fabio Colloredo, il quale è stato censito tra i pretendenti al man-
to stefaniano provenienti dalla città di Recanati347.
Non è stata strutturata un’analisi dell’agnazione, data la sua indu-
bitabile rilevanza e la conseguente necessità di uno studio ben più
vasto ed approfondito348, ma si è concentrata l’attenzione sui pro-
cessi per la vestizione dell’abito scudocrociato, vale a dire sui fasci-
coli concernenti le provanze di nobiltà che si trovano nell’Archivio
del Sacro Militare Ordine di Santo Stefano Papa e Martire, conser-
vato presso l’Archivio di Stato di Pisa.
L’analisi dei legami tra i Colloredo e la Religione Stefaniana se-
guirà un percorso prevalentemente cronologico, prendendo in con-
siderazione sia le vestizioni per giustizia, sia le vicende relative all’e-
largizione del Priorato di Lunigiana e all’attivazione del meccani-
smo successorio correlato alla commenda in parola.

II. Fabrizio di Fabio, cavaliere milite per giustizia, 26 marzo 1595


Il giorno 18 febbraio 1594 (1595), dinanzi a Francesco Barbaro,
Patriarca di Aquileia, comparve Nicolò di Fabio Colloredo, fratel-
lo utrinque congiunto di Fabrizio349, in nome del quale intervenne

347 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri degli Stati italiani, cit., volume i, nn. 145-147, pp. 127-

128; iDeM, I cavalieri degli Stati italiani, cit., volume ii, nn. 922-928, pp. 89-93 e n. 1499,
pp. 492-493.
348 in merito alla prosapia e al suo maniero è stato già pubblicato un pregevole volume: g.

C. CustozA, Colloredo. Una famiglia e un castello nella storia europea, cit.


349 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri degli Stati italiani, cit., volume i, n. 146, pp. 127-128. AsPi,

S. Stefano, 61, ins. 29, provanze di Fabrizio di Fabio Colloredo.


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al fine di dar luogo all’esecuzione della lettera commissionale del


Consiglio dei Dodici cavalieri dell’Ordine di Santo Stefano, datata
20 dicembre 1594350. La missiva in parola, stilata da Stefano Berti,
vicecancelliere della Religione, invitava alla convocazione della
corte diocesana, in funzione di tribunale giudicante le provanze di
nobiltà del detto Fabrizio, e decretava la nomina di Orazio Monti-
ni di Brescia 351, nella precipua veste di cavaliere assistente, in
conformità alle norme dettate nella deliberazione del Capitolo Ge-
nerale del 14 maggio 1565352. Si dava dunque inizio al processo
super nobilitas nei confronti del «signor Fabricio Colloretto [già]
pagio del Serenissimo Gran Duca di Toscana [...] e Gran Mae-
stro», il quale, «per poter ottenere l’abito di cavagliere milite», «è
necessitato à far le prove della nobiltà sua, per li quattro quarti, e
conforme a’ nostri ordini viene obligato farle dinanzi l’Ordinario
ecclesiastico di sua origine con l’assistenza d’uno de’ nostri cava-
glieri. Però si viene à pregare Vostra Signoria [...] ordinare al suo
signore vicario il ricevimento di dette prove, e fattone il processo
in buona forma, ce ne mandi copia autentica, e sigillata, tutto à
spese di detto signor Fabritio [...]»353.
Fu così che il medesimo 18 febbraio, presso Udine, nella sede del
luogotenente patriarcale, Joanne Baptista Scarsabursa, furono escussi
quattro testimoni, le cui deposizioni, sommate alle dichiarazioni sul-
l’autenticità degli stemmi, rilasciate differitamente il dì 27 susse-
guente354, al cospetto di Martio Andreuccio, decano della collegiata
di Santa Marta e vicario patriarcale, furono poi riassunte nell’infor-
mazione dei Dodici indirizzata al Gran Maestro, del seguente teno-
re: «Il Consiglio ha visto et considerato quanto da lui è stato pro-
dotto et ha provato da provanze fatte dinanzi l’ordinario ecclesiasti-

350 AsPi, S. Stefano, 61, ins. 29, cc. n. n., provanze di Fabrizio di Fabio Colloredo: lettera

commissionale del Consiglio dei Dodici al vescovo di udine, 20 dicembre 1594.


351 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri degli Stati italiani, cit., volume i, n. 123, pp. 111-112.
352 AsPi, S. Stefano, 641, ins. 3, cc. 193r-193v, deliberazione del Capitolo generale, 14

maggio 1565. Cfr. Statuti, cit., tit. ii (Del modo di ricevere i Cavalieri), cap. iii (Delle proba-
zioni, che si debbano fare innanzi, che alcuno si accetti), pp. 94-104.
353 AsPi, S. Stefano, 61, ins. 29, cc. n. n., provanze di Fabrizio di Fabio Colloredo: lettera

commissionale del Consiglio dei Dodici, 20 dicembre 1594, stilata dal vicecancelliere della
religione stefano Berti, riportata nell’incipit del processo di nobiltà.
354 Ivi, cc. n. n., provanze di Fabrizio di Fabio Colloredo: deposizioni testimoniali sull’au-

tenticità degli stemmi, 27 febbraio 1594 (1595).


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co d’Aquileia con assistenza di cavaliere giustificarsi il supplicante


essere nato per padre et per ava paterna da detti signori di Collore-
do per madre da’ signori di Melso et per ava materna da’ signori di
Fratina tutte tre casate titolari et che hanno iurisditione di mero et
mixto imperio, che suo padre è stato huomo di guerra e Generale
nell’anno 1571 della cavalleria delli signori feudatari del Frioli a ser-
vizio della Signorìa di Venetia, et per prima havea militato con cari-
ca honorata a servitio del serenissimo Granduca Cosimo in la guerra
di Siena, che è congiunto in secondo grado di consanguinità a fra’
Camillo Coloredo cavaliere di Malta et al già signor Marzio Gover-
natore di Siena, che i signori Melso onde descende per madre sebe-
ne hanno de nome differenza da’ signori di Coloredo sono però una
istessa famiglia et la denominazione differente si causa dall’essere la
iurisdictione di Melso per metà di detti Coloredi et per metà di det-
ti Melsi et per questa cagione non sono prodotte in processo arme
eccetto che di due casate una de’ Coloredi et l’altra de’ signori di
Fratina et non si produce quella de’ signori di Melso per attestarsi
come è detto nella istessa famiglia Colareda, et provasi di più che
queste tre famiglie sono principali et non macchiate di alcun sospet-
to nelle cose della fede; non è prodotta fede publica della città di
Udine et dette prove mancano di qualche essenzialità però sendo
secondo si dice le casate di nobiltà notoria non è parso lassare di
farne informatione che è quanto se ne può dire à Vostra Altezza Se-
renissima quale Nostro Signore Iddìo prosperi. Di Pisa il dì 21 di
marzo 1594 [ab Incarnatione, vale a dire 1595]»355.
Cinque giorni più tardi, Fabrizio di Fabio Colloredo «prese l’ha-
bito in Pisa per mano del Balì Adriano Urbani, «Gran Priore del
Convento», il «dì 26 di marzo 1595», all’età «d’anni 18»356.
Mentre le esequie della bonæ memoriæ del «cavaliere Marchese
Fabritio Coloreto Prior di Lunigiana» furono officiate il 6 marzo
1644 (1645), quasi cinquant’anni dopo la vestizione dell’abito eque-
stre357.

355 AsPi, S. Stefano, 1013, c. 140r, informazione del Consiglio dei Dodici al gran Mae-

stro, 21 marzo 1594 (1595).


356 AsPi, S. Stefano, 575, c. 124s, apprensione dell’abito di cavaliere milite per giustizia,

26 marzo 1595.
357 AsPi, S. Stefano, 3678, c. 74v, esequie del cavaliere Fabrizio Colloredo, 6 marzo 1644

(1645).
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III. Le vicende del Priorato di Lunigiana, 16 ottobre 1604


Da un documento datato 5 gennaio 1773, tratto dall’archivio del
marchese Girolamo, cavaliere di Santo Stefano, fratello di France-
sco, cavaliere gerosolimitano, e figlio del conte Fabio di Colloredo,
stilato dal notaio Antonio Serafini di Udine, conservato presso l’Isti-
tuzione dei Cavalieri di Santo Stefano insieme ad altre carte sciolte
concernenti la prosapia friulana in esame358, si evincono le vicende
concernenti il Priorato di Lunigiana, elargito alla stirpe dei Collore-
do nell’anno 1604.
Innanzitutto, si certificò l’attribuzione, in data 16 ottobre 1604,
del Priorato, con il motu proprio del seguente tenore: «Il Serenissi-
mo Gran duca di Toscana [Ferdinando I de’ Medici] Gran Maestro
della Sacra Religione di Santo Stefano mosso dal desiderio di onora-
re, et beneficare sempre tutti li suoi servitori, che si rendono degni
di ricevere grazie, et favori dalla clemenza di Sua Altezza, in vigor
del presente ordine, di proprio moto, e di certa scienza, ed in ogni
miglior modo, dà, concede, et conferisce la Comenda di Gran Cro-
ce, et Priorato di Lunigiana vacato per la morte del Priore Biagio
Pignatta al cavaliere Fabrizio Colloredo della suddetta Religione,
con tutti gl’onori, et preminenze à detto Priorato spettanti senz’al-
cun carico di pagamento di mortuario, ed annata, o altro peso come
che sia commenda di grazia di Sua Altezza, et da conferirsi come à
quella più piace, et con tutti li frutti dal dì infrascritto di questa pre-
sente grazia».
In secondo luogo, si attestò l’aumento del Priorato per volontà
granducale, avvenuto il giorno 11 agosto 1615, con il motu proprio
in cui si enunciava: «Sua Altezza Serenissima [Cosimo II de’ Medi-
ci] comanda, che il Priorato di Lunigiana della sua Sacra Religione
di Santo Stefano quale in presente è in petto, et gode il cavaliere, et
Priore Fabrizio Colloredo suo Maestro di Camera, si accreschino
scudi quattrocento l’anno d’entrata de’ danari della religione esi-
stenti nel Monte della Pietà di Firenze, facendo estrarre dal conto
corrente di detta Religione scudi ottomilla di lire sette per scudo di
quelli destinati à fare commende, et si depositino nel medesimo
Monte ne’ libri de’ condizionati in un conto à parte in credito di

358 si noti come dal plico di documenti in parola siano state ricavate le notizie salienti e i

passi riportati nel sottoparagrafo iii.


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detto Priorato con i soliti emolumenti di cinque per cento, et stijno


per dote, et parte di dote, et per augmento di detto Priorato, et che
di presente appartenghino detti utili, et frutti di scudi quatrocento à
detto Priore Colloredo, et di poi a’ futuri Priori per i tempi esisten-
ti, et non si possino levare di detto Monte, se non per rinvestire con
il beneplacito dell’Altezza Sua, et l’Auditore della Religione in no-
me di Sua Altezza ne dia gli ordini opportuni al Monte, alla Religio-
ne, et dove occorra, per la essecuzione di quanto sopra in ogni mi-
glior modo».
Si deve frattanto ricordare che il 23 settembre del medesimo an-
no 1615 Fabrizio di Colloredo fu investito, dal Granduca Cosimo II
de’ Medici, finanche del marchesato toscano di Santa Sofia.
In terzo luogo, si documentò come il marchese Fabrizio di Col-
loredo, all’inizio del 1625, avesse supplicato il Granduca Ferdinan-
do II de’ Medici, manifestando il desiderio «che li suoi nipoti fi-
gliuoli di Nicolò Colloredo suo fratello per tutta la loro discenden-
za continuino maggiormente la servitù con la Sua Serenissima Ca-
sa, dalla quale il supplicante, e tutti i suoi passati hanno ricevuto
tanti onori, grazie, et favori, che ne vivano obbligatissimi», menzio-
nando nelle preci il contenuto delle due predette elargizioni magi-
strali degli anni 1604 e 1615, quale presupposto per «concederli
una nuova grazia, et favore, che detto Priorato dopo la morte del
supplicante trapassi in detti figliuoli maschi di detto Nicolò fratello
del comparente, et ne’ loro descendenti maschi legittimi, et naturali
per retta linea mascolina in infinito per ordine di perpetua primo-
genitura, offerendo di aggiungere al detto Priorato altri dugento
scudi d’entrata con depositare nel Monte di Pietà di Firenze scudi
quatro milla, o quel più, che parrà a Vostra Altezza, et mancato che
sarà detta linea masculina, il Priorato con detto augumento ritorni
alla Religione à collazione del Serenissimo Gran Maestro restando
obbligatissimo di tal grazia, pregando il Signore per la prosperità
di Vostra Altezza».
Dopodiché, in data 19 febbraio 1624 (1625), in calce alla sup-
plica in parola, venne apposto il benigno rescritto del Granduca,
che acconsentiva alle richieste, ma stabiliva un maggior gravame
finanziario: «Augumentando il Priorato scudi trecento d’entrata
con scudi seimila di fondo da depositarsi nel Monte di Pietà di Fi-
renze con i soliti emolumenti di cinque per cento, loro Altezze
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concedono il Padronato di detto Priorato al supplicante per du-


rante sua vita, et dopo di lui trapassi nei figliuoli di Nicolò Collo-
redo fratello del supplicante, che sono quattro, et nei loro figliuli,
et descendenti maschi legittimi, et naturali à principio di loro nati-
vità per retta linea masculina in infinito per succedere in esso per
ordine di perpetua primogenitura. Et mancate tutte le linee ma-
sculine de’ predetti, il Priorato torni alla Religione à collazione del
Gran Maestro».
Seguì, dunque, la trascrizione della fede datata 1° marzo 1624
(1625), la quale, per mano del funzionario Raffaello Capponi, se-
condo le formalità del tempo, attestava l’assolvimento dei precetti
procedurali dettati nel precitato responso magistrale: «fassi fede
per me infrascritto scrivano al libro de’ depositi condizionati del
Monte di Pietà della città di Firenze come alla medesima entrata
[...] di detto libro [...] apparisce [...] in tutto [...] il numero di scu-
di seimilla in credito della commenda, et Priorato de Lunigiana
pagati per l’Illustrissimo Signor Marchese Fabrizio Colloredo Go-
vernatore di Siena in conformità del rescritto di Sua Altezza Sere-
nissima».
Infine, in data 8 marzo 1624 (1625), con la stesura dello strumen-
to ad hoc, fu data esecuzione all’ultima parte del medesimo rescritto
di concessione della supplicata grazia del passaggio della commenda
nella linea di discendenza patrilineare di Nicolò, fratello germano di
Fabrizio, che aveva intimato: «l’Auditore Antella intervenga al con-
tratto in nome di Loro Altezze, et se ne faccia accomodare le scrit-
ture in buona forma». Pertanto, venne rogato lo strumento in vigore
del quale, come narra una carta anonima conservata tra i documenti
relativi ai passaggi della commenda, «essendo [il marchese Fabri-
zio] senza figliuoli, la medesima [...,] dopo la morte del suddetto
marchese [...,] potesse passare ne’ figluoli maschi del Conte Niccolò
suo fratello, che furono quattro, cioè Fabbio, Pompeo, Girolamo, e
Niccolò, e ne’ loro figliuoli e discendenti maschi legittimi, e naturali
in infinito, servato però sempre l’ordine della primogenitura nella
successione».

IV. Fabio di Nicolò, primo successore nel priorato di Lunigiana,


12 aprile 1645
La morte del marchese Fabrizio, la prima settima di marzo del-
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l’anno 1645359, mise in moto il meccanismo successorio della com-


menda di famiglia.
Fabio Colloredo360, figlio di Nicolò, al fine d’essere immesso nel
godimento dei privilegi commendali inviò la propria supplica al
Granduca Ferdinando II, trasposta nel registro ad hoc conservato
nell’archivio dell’Ordine, ove si legge: «Fabio di Niccolò Colloredo
nipote di fratello della beata memoria del marchese Fabbrizio, hu-
milissimo servo di Vostra Altezza Serenissima reverentemente le
narra come per la morte di detto marchese suo zio resta vacante il
Priorato di Lunigiana, il quale per grazia di Vostra Altezza sotto dì
19 di febbraio 1624 [1625] essendo stato augumentato dal prefato
marchese con scudi seimila di fondo depositati nel Monte di Pietà
di Fiorenza, fu conceduto il padronato di detto Priorato a esso, et a’
figlioli di Niccolò suo fratello, che in quel tempo erono Fabio, Pom-
peo, Girolamo, e Niccolò. Sì che presentemente appartiene la suc-
cessione all’oratore come maggior nato di due altri suoi fratelli hog-
gi viventi; e però supplica Vostra Altezza Serenissima, a, voler restar
servita farli gratia dell’investitura di detto Priorato, con ordinare
che sia vestito dell’habito e della Gran Croce, che di tal gratia re-
sterà più che mai obbligatissimo all’Altezza Vostra»361.
Il rescritto granducale del 20 marzo 1644 (1645) intimò al Consi-
glio dei Dodici cavalieri di verificare i requisiti del pretendente362 e,
nello stesso giorno, l’Auditore Raffaello Staccoli scrisse al vicecan-
celliere Francesco Ansaldi: «Il signore Fabio del signore Niccolò
Colloredo è quello che deve succedere nel Priorato di Lunigiana. Et
incluso mando à Vostra Signoria il suo memoriale per informazione
acciò sia dato l’ordine per le sue provanze, et quando non sia tenuto
fare se non quelle de vita et moribus potrà Vostra Signoria far ordi-
nare che possa farle in Fiorenza nella mia cancelleria»363.
Fu così che, appena due giorni dopo, ebbe inizio il procedimen-

359 AsPi, S. Stefano, 3678, c. 74v, esequie del cavaliere Fabrizio Colloredo, 6 marzo 1644

(1645).
360 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri degli Stati italiani, cit., volume ii, n. 922, p. 89. AsPi, S. Ste-

fano, 124, ins. 41, provanze di Fabio di Nicolò Colloredo.


361 AsPi, S. Stefano, 1140, ins. 306, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Dodici, s. d.,

e rescritto, 20 marzo 1644 (1645).


362 Ibidem.
363 AsPi, S. Stefano, 124, ins. 41, cc. n. n., provanze di Fabio di Nicolò Colloredo: missiva

dell’Auditore raffaello staccoli al vicecancelliere Francesco Ansaldi, 20 marzo 1644 (1645).


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to innanzi all’Auditore, con la presentazione dei capitoli insieme ai


nomi dei testimoni. L’instante dichiarò di discendere per padre da
Nicolò di Fabio Colloredo, per ava paterna da Giovanna di Mels,
per madre da Laura di Paolo Pola, nobile trevigiana, e per ava ma-
terna da Antiope di Spilimbergo, di essere «signore di vita, costu-
mi, e qualità nobili, et honorate conforme a’ suoi natali» che «hà
tenuto, e tiene vita christiana, et vissuto nobilmente, et da signore
suo pari, et è sano di suo corpo, di bella, e nobile presenza, atta al
mestiero dell’armi, et esercizij militari con moglie, e figli, et d’età
di anni 43»364.
Le deposizioni testimoniali rilasciate, il 27 e 28 marzo, dai genti-
luomini Ercole di Lorenzo dalle Pozze (il quale aveva alloggiato due
volte a Colloredo, per quattro mesi ciascuna), cittadino fiorentino,
Giovanni Battista di Orazio Rossi, nobile della città di Cividale del
Friuli e Ottavio dell’illustrissimo barone Ferdinando de Tassis, en-
trambi dimoranti in Firenze, confermarono le asserzioni sostenute
dal capitolante per propria cognizione e pratica, nonché per pubbli-
ca voce e fama365.
Il 4 aprile, i cavalieri commissari Francesco Maria Ciampoli e
Biagio Curini, eletti dal Consiglio dei Dodici, convalidarono le risul-
tanze processuali e tre giorni dopo, con un rescritto, fu disposto
«Diaseli l’habito di cavaliere milite con facultà di portare la Gran
Croce e sia investito del Priorato di Lunigiana»366.
E finalmente, il 12 aprile 1645, Fabio di Nicolò Colloredo «prese
l’habito in Fiorenza nella chiesa delle monache di San Giovanni
Hierosolimitano per mano dell’illustrissimo signore cavaliere mar-
chese Gran Contestabile Francesco Coppoli di Perugia»367.

V. Ferdinando di Fabio, cavaliere milite per giustizia, 29 marzo 1659


In merito a Ferdinando Colloredo368, non sono state rinvenute le

364 Ivi, cc. n. n., provanze di Fabio di Nicolò Colloredo: capitoli testimoniali, 22 marzo

1644 (1645).
365 Ivi, cc. n. n., provanze di Fabio di Nicolò Colloredo: deposizioni testimoniali, 27 e 28

marzo 1645.
366 AsPi, S. Stefano, 1140, ins. 306, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Dodici, 4

aprile 1645, e rescritto, 7 aprile 1645.


367 AsPi, S. Stefano, 576, c. 92r, apprensione dell’abito di cavaliere milite per commenda,

12 aprile 1645.
368 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri degli Stati italiani, cit., volume ii, n. 923, pp. 89-90.
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carte del processo per provanze, ma è rimasta integra l’informazio-


ne del Consiglio al Gran maestro, datata 18 marzo 1658 (1659), dal-
la quale possono agevolmente ricavarsi le notizie salienti che porta-
rono alla concessione dell’abito equestre.
Il pretendente in parola presentò un memoriale accompagnato dai
nomi dei testimoni da interrogarsi per verificare la pubblica voce e
fama delle affermazioni sostenute nei capitoli delle provanze di no-
biltà, come appariva chiaramente dal riassunto informativo per il
Gran Maestro: «Per scrittura publica, e per attestatione di più testi-
moni nobili hà fatto constare, la nobiltà de’ suoi quarti, che sono di
casa Coloredo per padre, e madre. Per ava materna di casa Portia
della città d’Udine, e per ava paterna di casa Pola de’ Signori di Spi-
lembergo della città di Treviso. Per fede publica de’ Deputati del
Friuli prova come le sopradette famiglie di Coloredo, e di Portia so-
no di presente, e sono state sempre per tempo immemorabile fra le
prime dell’ordine de’ feudatarij della provincia del Friuli godendo
feudi di mero, e misto imperio con authorità di sangue, et ultimo
supplicio, e sono state sempre capaci di tutte le cariche solite confe-
rirsi a i nobili, e l’hanno in diversi tempi exercitate, come deputati
della patria, ambasciatori al Principe, capitani della cavalleria, et al-
tre dall’anno 1420, nel qual tempo andò la detta provincia sotto il
dominio della Repubblica Venetiana, e che prima ancora godevano i
gradi pricipali, e comandi, che a’ nobili solamente si solevano distri-
buire dal Parlamento, e che tanto il marchese Fabio padre del pre-
tendente, che la marchesa Claudia del conte Oratio Coloredo sua
madre, e la contessa Livia figliola del conte Ermes di Portia ava sua
materna vengano per legittima descendenza dalle predette casate per
linea retta. E con il deposto delli sopradetti testimoni authentica pa-
rimente lo splendore de’ suoi natali, et aggiungono li medesimi che
gl’antenati tutti del pretendente sono vissuti christianamente, e non
sono stati macchiati di heresia, ò d’infamia, oltre alla confermatione
in specie di haver ottenuto le cariche gravi, e dignità secondo l’atte-
stationi della sopradetta fede. Per altra fede de’ Priori del Collegio
de’ nobili della città di Treviso s’attesta come la nobilissima, et anti-
chissima famiglia di Castel Pola fin dell’anno 1404 fu ammessa in
detto Collegio, Ordine, e Capitolo, e che da Servio fino à Pavolo pa-
dre dell’ava paterna per linea retta tutti vi sono stati descritti, et han-
no goduto tutti i gradi, e dignità solite darsi a i più nobili, e più co-
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spicui personaggi. E quanto sopra è stato confermato con depositio-


ne di testimoni maggiori d’ogni eccettione examinati avanti all’Ordi-
nario ecclesiastico della detta città di Treviso, et hanno inoltre prova-
to che gli antenati della detta ava paterna non hanno denigrato la
chiarezza de’ loro natali con attioni pocho honorate, ò con allonta-
narsi dal grembo di Santa Chiesa, ma che sempre son vissuti nobil-
mente, et alla grande, e che per legittima descendenza son venuti per
retta linea dall’autore. E da tutti li sopradetti testimoni, come da altri
sono state riconosciute l’armi colorite, come proprie delle sopradette
famiglie. Quanto alle facultà depongano i testimoni examinati avanti
al Vicario Generale di Monsignor Patriarcha d’Aquileia, che il mar-
chese Fabio padre del supplicante vive magnificamente, alloggia fo-
restieri, tien servitori, cavalli, e grandezza da par suo e che le sue en-
trate consistenti in vino, grano, biade, et altri proventi ascendono a 8
in 10 mila scudi, e mantien fuori un fratello commendatore di Malta,
e due figlioli uno per cavaliere di Malta, e l’altro in Roma, oltre al
pretendente al servitio di Vostra Altezza Serenissima. Circa le qua-
lità, apparisce per fede autentica del battesimo come il supplicante
nacque nel dì 3 di ottobre 1635 e ritrovandosi in evidente pericolo di
morte fu nel medesimo giorno battezzato in casa della ricoglitrice, e
nel dì 13 di novembre seguente con le solenni ceremonie nella chiesa
cathechizzato, e li testimoni dicono solo che quando partì giovinetto
di casa appariva sano, e robusto, e poteva sperarsi che fosse per riu-
scir atto al mestiero dell’armi et exercitij cavalareschi, si come è no-
torio, che presentemente anchora ha la predetta attitudine, et habi-
lità. Onde concorrendo nel supplicante tutti gli altri requisiti ricerca-
ti da i nostri statuti lo rappresentiamo reverentemente all’Altezza Vo-
stra Serenissima per meritevole della supplicata gratia dell’habito di
cavaliere milite per giustizia»369.
Dai registri delle apprensioni d’abito si ricava che Ferdinando di
Fabio fu insignito dell’abito equestre per giustizia in Firenze, nella
chiesa della Santissima Annunziata, per mano del Gran Contestabi-
le Giulio del Bene, il 29 marzo 1659370.

369 AsPi, S. Stefano, 1029, cc. 187rv-188r, informazione del Consiglio dei Dodici al gran

Maestro, 18 marzo 1658 (1659).


370 AsPi, S. Stefano, 577, c. 40r, apprensione dell’abito di cavaliere milite per giustizia, 29

marzo 1659.
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Dopo di che, il 16 aprile del medesimo anno, il Granduca Ferdi-


nando II de’ Medici scelse Ferdinando Colloredo per «portare lo sten-
dardo nella funzione capitolare della sua Religione di S. Stefano»371.

VI. Girolamo di Fabio, cavaliere milite per giustizia,


21 febbraio 1745 (1746)
Nella primavera del 1745, Fabio di Rodolfo Colloredo supplicò il
Gran Maestro Francesco Stefano di Lorena affinché fossero ultima-
te le fasi del procedimento finalizzato alla vestizione del suo figliolo
Girolamo372, battezzato il 20 ottobre 1737, già accettato nel numero
dei sei paggi magistrali, con il rescritto del 23 marzo 1738 (1739), e
vicino al compimento del settimo anno e mezzo d’età373. Si trattava
del termine massimo ai fini della vestizione per giustizia dei sei pri-
vilegiati giovinetti ammessi al personale servizio del Gran Maestro
ancora in fasce, come prescritto dalle Addizioni terze agli statuti del-
la Religione, del 1746, ma, a quanto pare, già in vigore nella prassi.
I timori del premuroso genitore vennero fugati da due successive
proroghe dei termini statutari, concesse, di tre mesi in tre mesi, con
i rescritti del 27 marzo e 20 giugno 1745374. Ma, non pago, avuta
notizia della chiusura del procedimento e della comunicazione alla
Reggenza in data 1° settembre, scrisse nuovamente al Gran Mae-
stro, come risulta dal registro delle suppliche e informazioni: «es-
sendo stato finalmente risoluto favorevolmente dal riferito Consi-
glio dell’Ordine il mentovato processo, e trasmessane la relazione
[... alla] Reggenza per inoltrarsi alla Cesarea Maestà Vostra, non po-
tendo con tutto ciò il predetto suo figlio rimanere insignito dell’abi-
to sopradetto fino a che non giunga la sovrana clementissima appro-
vazione di Vostra Maestà Cesarea [...,] all’effetto che detto suo figlio
non soffra verun pregiudizio per la tardanza di simile approvazione
[...,] ricorre [...] all’insigne beneficenza della Cesarea Maestà Vostra

371 AsPi, S. Stefano, 1150, ins. 4, cc. n. n., supplica dell’Auditore, Alessandro Vettori, al

gran Maestro, Ferdinando ii de’ Medici, 14 aprile 1659, e rescritto, 15 aprile 1659.
372 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri degli Stati italiani, cit., volume ii, n. 1499, pp. 492-493.

AsPi, S. Stefano, 316, ins. 7, provanze di girolamo di Fabio Colloredo.


373 AsPi, S. Stefano, 1207, ins. 199, cc. n. n., supplica di Fabio di rodolfo Colloredo tra-

smessa per informazione, sottoscritta dall’Auditore, Pier Francesco de’ ricci, e dal segretario
dell’ordine, Vincenzo Antinori, al gran Maestro Francesco stefano di lorena, s. d., e rescrit-
to, 20 giugno 1745.
374 Ibidem.
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260

umilmente supplicandola a voler prorogare allo stesso suo figlio il


termine sopradetto fino a che Vostra Cesarea Maestà si degni di
concederli dell’abito suddetto, e per quel discreto tempo di più che
si richiede a far tal funzione»375.
L’invocata, ulteriore proroga fu accordata in data 20 settembre
1745: «Concedesi come si domanda, non ostante»376. Ma il rescritto
che avrebbe autorizzato la vestizione in minore età sarebbe giunto
molto più tardi, il 27 gennaio 1745 (1746)377.
Le risultanze processuali fornirono una imponente mole d’infor-
mazioni, sia concernenti i Colloredo, sia i prestigiosi legami matri-
moniali che i medesimi consorti avevano intessuto nelle Marche,
che si articolarono sullo schema tradizionale delle provanze di no-
biltà.
Dunque, fu sostenuto «il consueto processo di nobiltà de’ suoi
quarti paterni, e materni, che sono = Colloredo per padre famiglia
nobile feudataria del Friuli, e patrizia d’Udine = Silvestri di Cingoli
per ava paterna = Flamini per madre, e Antici per ava materna am-
bidue di Recanati», nonché le altre prove «della legittimità, vita, e
costumi del supplicante, e delle sostanze per mantenersi il grado di
cavaliere»; egli «hà fatto conoscere di discendere legittimamente da
dette casate, e che le medesime sono antiche, e nobili delle mento-
vate città, dove gl’uomini d’esse han’ goduto, e sono stati atti, e ca-
paci di godere i primi onori, soliti conferirsi a’ soli nobili, con essere
altresì vissuti sempre nobilmente di proprie entrate senza esercizio
d’arti meccaniche, e senza macchia d’infamia, ò eresia, né originario
da infedeli»378.
La descrizione delle prosapie dei quattro quarti fu riportata det-
tagliatamente nell’informazione indirizzata al Gran Maestro dai ca-
valieri del Consiglio, i quali descrissero distintamente le origini e pe-
culiarità dei Colloredo, da un lato, e quelle delle tre famiglie Silve-

375 AsPi, S. Stefano, 1207, ins. 229, cc. n. n., supplica di Fabio di rodolfo Colloredo tra-

smessa per informazione, sottoscritta dall’Auditore, Pier Francesco de’ ricci, e dal segretario
dell’ordine, Vincenzo Antinori, al gran Maestro, Francesco stefano di lorena, s. d., e rescrit-
to, 20 settembre 1745.
376 Ibidem.
377 AsPi, S. Stefano, 1207, ins. 263, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Dodici al

gran Maestro, 1° settembre 1745, e rescritto, 27 gennaio 1745 (1746).


378 Ibidem.
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261

stri, Flamini e Antici, dall’altro, curandosi di far riferimento alla co-


piosa mole di allegati documentali prodotti dal candidato, partico-
larmente curati per la fase marchigiana del processo.
Quanto alla famiglia Colloredo, i relatori dichiararono: «é questa
antichissima, e nobilissima della patria del Friuli, dove hà goduto, e
gode da tempo immemorabile li castelli di Colloredo, e Mels con
giurisditione di mero, e misto imperio sino all’ultimo supplizio, ed
hà avuto da tempo antichissimo, ed hà di presente voto nel magnifi-
co General Parlamento di quella provincia tra li nobili castellani, ve-
dendosi, che gl’uomini d’essa fin dal 1328 principiorno a godere il
primo onore di nobili castellani, qual suprema dignità si gode anche
di presente [...], come si legge nel publico attestato del cancelliere
della detta patria del Friuli, dove sono annoverati distintamente i
molti soggetti, che han’ goduto detto principal grado di onorificen-
za, e se bene tra questi non si vedino descritti li cinque ascendenti
del supplicante, attesta però detto cancelliere, che tanto esso pre-
tendente, che il riferito conte Fabio suo padre sono della stessa fa-
miglia, e che sono capaci di godere di detti primi onori. E in verità
non può dubitarsi della generosa nobiltà di questa prosapia, mentre
da altri recapiti prodotti in processo resulta, che Niccolò atavo del
pretendente ne’ 28 aprile dell’anno 1600 fù investito assieme con al-
tri suoi fratelli di detti feudi retti, e legali, che si possedevano da Fa-
bio suo padre per ragione di successione de’ suoi autori, qual inve-
stitura fù poi rinnovata ne’ 26 agosto 1724 nel marchese Ridolfo avo
del supplicante per essere passati tali feudi in esso marchese Ridolfo
per la morte del cavaliere Pompeo, e Fabrizio suoi zii paterni, ed
inoltre fù questi dichiarato Conte del Sacro Romano Impero dalla
gloriosissima memoria dell’Imperatore Carlo sesto con tutti li suoi
discendenti, facendo la Maestà Sua un amplissimo elogio a questa
famiglia per la sua antica origine, e nobiltà, come si legge nella copia
di tal diploma»379. «Finalmente apparisce de’ parentadi nobilissimi
contratti dagli ascendenti del pretendente, e che la stessa sua casa è
condecorata con la porpora cardinalizia, e mitra archiepiscopale
nelle persone di Leandro, e di Fabio Colloredo, quello cardinale di
S. Chiesa, e questi arcivescovo di Lucca, il primo zio, ed il secondo

379 Ibidem.
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262

fratello del suddetto avo del pretendente. Ed hà avuto ancora que-


sta famiglia altri prelati, e personaggi Insigni, conforme hà di pre-
sente il conte Ridolfo, cavaliere del Toson d’Oro intimo consigliere
di Stato, e ministro di Sua Maestà la regina d’Ungheria, ed il conte
Antonio di lui fratello generale con reggimento della stessa nostra
real sovrana»380.
Per le famiglie non friulane, si presero le mosse dal quarto dell’a-
va paterna, in relazione al quale si specificò: «la famiglia Silvestri [è
originaria] di Cingoli anticamente città nobile, e ne’ tempi addietro
ridotta a terra, ma in oggi con nuova amplissima Costituzione di Pa-
pa Benedetto XIII del 1725 restituita all’antico suo lustro, e splen-
dore di città episcopale, egualmente, che Osimo, come risulta dalla
Bolla di Sua Santità, prodotta in processo, dalla quale famiglia trae
la sua origine la contessa Delia del conte Carlo Felice Silvestri ava
paterna del supplicante per il publico diploma del Gonfaloniere, e
Priori di detta città vien fatta nota l’antica nobiltà di questa casata,
come una delle più nobili, e principali di quella patria, riconoscen-
dosi altresì, che Rutilio d’Ascanio fù Gonfaloniere nel 1637, che è
uno dei primi, e principali onori, soliti conferirsi a’ soli nobili, Asca-
nio suo figlio fu ammesso a detto posto in luogo del padre l’anno
1639, e godé l’istesso nobile impiego nel 1650-52, e 63, e finalmente
il suddetto conte Carlo Felice di detto Ascanio padre della riferita
ava paterna dell’oratore fù approvato per Gonfaloniere in luogo del
padre nel 1688 con esser poi stato assunto al medesimo grado nel
1692, e 97, essendo ancora stata ammessa questa famiglia per la
chiarezza della sua nobiltà a fare le provanze per giustizia nella per-
sona del cavaliere Carlo Filippo Rasponi di Ravenna, graziato dell’a-
bito nostro in virtù di benigno rescritto de’ 24 novembre 1720, tut-
to che di quel tempo Cingoli fosse reputata terra, ma che era già sta-
ta città nobile, e però molto più crediamo, che in oggi debba am-
mettersi per essere stata reintegrata all’antica sua onorificenza di
città, come s’è detto»381.
In secondo luogo, in merito alla casata dei Flamini di Recanati,
da cui naque la nobile signora Maria Teresa, madre dell’oratore, si
illustrò che «Antonio fù uno de’ Consoli della Fiera l’anno 1565, e

380 Ibidem.
381 Ibidem.
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263

precedentemente aveva goduto altre preminenze destinate a’ soli


nobili = Sebastiano d’Antonio ottenne detto posto nel 1567, e godé
altri simili gradi nobili in diversi altri tempi = Francesco di Sebastia-
no fù Paciere nel 1640, e nel 1641 fù Capo Priore, ed ebbe successi-
vamente altri nobili impieghi, a’ quali però non fù mai assunto Lu-
candio suo figlio, perché egli non volle mai esercitare alcuna magi-
stratura, finalmente Francesco di detto Lucandio padre [...] [di]
Maria Teresa madre del pretendente fù [...] uno de’ Consoli della
Fiera nel 1744 doppo aver goduto altre nobili onorificenze: ed è sta-
ta pure questa medesima famiglia ammessa per giustizia nell’Ordine
nostro nel cavalier Flaminio Flamini figlio del soprariferito Sebastia-
no, e nel cavaliere Giovanni Condulmari nipote del medesimo Se-
bastiano»382.
Infine, per la stirpe degli Antici della città di Recanati, che rap-
presentava il quarto dell’ava materna, si espose che «Giulio di Cam-
millo già cavaliere del nostro Ordine fù uno de’ Consoli della Fiera
nel 1609, e Capo Priore nel 1653[,] Antonio di Giulio estratto di
magistrato nel 1661 fù Paciere nel 1663 [...] e [...] Clemente di det-
to Antonio padre di Rosalia ava materna del supplicante fù Console
della Fiera nel 1697 [...]»383.
Facevano da corollario, da un lato, la dichiarazione di autenticità
delle insegne gentilizie e, dall’altro, la conferma della capacità eco-
nomica del pretendente, in relazione alla quale si illustrò come il pa-
dre dell’oratore possedesse «in molti luoghi del Friuli più, e diversi
beni stabili della sua propria casa, e nelle pertinenze di Cingoli, e
suo contado, e nella Comunità di Filottrano, nella Comunità d’Iesi,
e in quella di Osimo molti, e molti altri beni dotali, ed ereditari del-
la casa Silvestri, e finalmente in Recanati, e suo territorio, altre co-
piose sostanze dotali della riferita sua moglie, e madre del preten-
dente, quali tutti beni fruttano [esuberantemente ...], come rilevano
i testimonij nobili esaminati in processo; potendo [perciò ...] lo stes-
so conte Fabio far mantenere con ogni maggior decoro al preten-
dente suo figlio il grado di cavaliere, [nonostante ...] abbia altri due
figli maschi, e quattro femmine»384.

382 Ibidem.
383 Ibidem.
384 Ibidem.
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264

Da ultimo, si dichiarò esser l’aspirante «giovinetto di buona indo-


le, bene educato, e sano di corpo da sperarlo a suo tempo atto al
mestiere dell’armi, essendo presentemente d’età d’anni otto non
compiti per essere stato battezzato il dì 20 ottobre 1737 come appa-
risce dalla fede di suo battesimo»385.
Nonostante tutto l’impegno profuso da Fabio Colloredo, affinché
suo figlio fosse cinto del manto stefaniano entro i sette anni e mezzo,
questi dovette pazientare fino al 21 febbraio 1745 (1746), allorquan-
do Girolamo indossò l’agognato «abito di cavaliere milite per giusti-
zia come accettato paggio magistrale in Recanati nella chiesa di S.
Domenico de’ Reverendi Padri dell’Ordine de’ Predicatori per mano
del molto illustre signor cavaliere Costanzo Centofiorini386 di detta
città»387, che era stato altresì il cavaliere assistente nella fase proces-
suale marchigiana388, all’età di otto anni, quattro mesi e un giorno.

VII. Rodolfo di Girolamo, cavaliere milite per giustizia,


21 settembre 1786
Dopo quarant’anni circa, fu proprio Girolamo di Fabio ad inol-
trare la supplica per la concessione della dispensa per la minore età
a beneficio di suo figlio Rodolfo389, ottenendone la concessione il 12
febbraio 1784390, accompagnata, dopo più di un anno, dal rescritto
di ammissione alle provanze di nobiltà, datato 22 aprile 1786391, es-
sendosi dichiarato «pronto di presentare avanti l’assemblea della
città di Firenze le prove della di lui legittimità, vita, costumi, e so-
stanze, come pure quelle della nobiltà dei di lui quarti paterni, e
materni, che sono Colloredo di Udine per padre = Flamini di Reca-

385 Ibidem.
386 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri degli Stati italiani, cit., volume ii, n. 1492, pp. 486-487.
387 AsPi, S. Stefano, 578, c. 116v, apprensione dell’abito di cavaliere milite per giustizia,

21 febbraio 1745 (1746).


388 AsPi, S. Stefano, 316, ins. 7, cc. n. n., dispaccio di Costanzo Centofiorini, cavaliere as-

sistente, che accompagnava gli incartamenti della fase processuale marchigiana, per la dimo-
strazione della nobiltà generosa delle famiglie silvestri (di Cingoli), Flamini e Antici (ambe-
due di recanati), tenutasi presso recanati, 25 maggio 1745.
389 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri degli Stati italiani, cit., volume ii, n. 927, pp. 91-92. AsPi,

S. Stefano, 410, ins. 31, provanze di rodolfo di girolamo Colloredo.


390 AsPi, S. Stefano, 1265, ins. 125, cc. n. n., supplica di girolamo Colloredo al gran

Maestro, s. d., e rescritto: «il Consiglio dell’ordine informi e dica il suo parere», 22 aprile
1786.
391 Ibidem.
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265

nati per ava paterna già ammessi in detto insigne Ordine per giusti-
zia = Colloredo di Udine per madre, e da Rabatta di Gorizia per ava
materna. E siccome queste due famiglie sono state ammesse per giu-
stizia nell’Ordine di Malta nelle prove fatte nel 1771 dal conte Carlo
Lodovico di Colloredo fratello utrinque congiunto della madre del
prefato conte Ridolfo di Colloredo supplica parimente l’Altezza Vo-
stra Reale a concederli ancora la grazia di poter riprodurre le dette
prove fatte a Malta, siccome di uniformarsi a quanto altro viene ri-
chiesto dai veglianti statuti di detto insigne Ordine»392.
Il 16 maggio393, i cavalieri del Consiglio approvarono la relazione
dei commissari, il Gran Cancelliere Giovan Battista Lanfranchi
Lanfreducci e il Gran Contestabile Onofrio del Mosca, ambedue di
Pisa394, i quali avevano confermato l’ammissione in minore età395,
ed inviarono immediatamente l’informazione per il Granduca, in
cui soggiunsero: «siccome al presente, per aver compiti gli anni 7 di
sua età, è in grado di poter essere insignito dell’abito equestre per
giustizia, [...] crediamo, che possa permeterseli di esibire le consue-
te provanze avanti l’assemblea di Firenze con riprodurre ancora per
i quarti materni in forma autentica quelle della nobiltà fatte a Malta
dal zio materno del pretendente, non in forza di cosa provata, ma di
semplice prova da doversi esaminare dal nostro tribunale, e render-
ne successivamente conto alla Reale Altezza Vostra nella partecipa-
zione da farsene per la grazia dell’abito»396.

392 Ibidem.
393 AsPi, S. Stefano, 1265, ins. 125, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Dodici al
gran Maestro, 16 maggio 1786, e rescritto, 10 giugno 1786.
394 AsPi, S. Stefano, 811, c. 125v, partito del Consiglio concernente l’elezione dei commis-

sari, 25 aprile 1786: «Che per vedere, e referire al Consiglio quello che si dovrà rappresentare a
sua Altezza reale circa il memoriale del signor cavaliere marchese girolamo conte di Colloredo
d’udine supplicante la reale altezza serenissima a graziare il signore ridolfo Colloredo di lui
figlio dell’abito di cavaliere milite dell’ordine per giustizia in minor età e di valersi delle prove
fatte a Malta. s’intendano eletti in commissari li signori cavalieri gran Cancelliere [giovan Bat-
tista lanfranchi] lanfreducci [di Pisa], e gran Contestabile [onofrio] del Mosca [di Pisa]».
395 Ivi, c. 135v, partito del Consiglio concernente l’approvazione della relazione dei com-

missari, 16 maggio 1786: «Che s’intenda approvata la relazione dei signori cavalieri comissari
gran Cancelliere [giovan Battista lanfranchi] lanfreducci [di Pisa], e gran Contestabile
[onofrio] del Mosca [di Pisa] circa il memoriale del signor cavaliere marchese girolamo con-
te di Colloredo d’udine supplicante sua Altezza reale a graziare il signore ridolfo suo figlio
dell’abito equestre per giustizia in minor età, e in conformità della medesima se ne faccia ne-
gozio a sua Altezza reale».
396 AsPi, S. Stefano, 1265, ins. 125, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Dodici al

gran Maestro, 16 maggio 1786, e rescritto, 10 giugno 1786.


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Il 10 giugno giunse il rescritto che consentiva lo svolgimento del


processo innanzi all’assemblea dei cavalieri fiorentini397, in seguito
al quale fu facile per Rodolfo ottenere un giudizio positivo al mo-
mento della verifica commissariale delle risultanze dibattimentali da
parte dei nuovi funzionari incaricati398, giacché per i quarti paterni
fecero fede le provanze e l’ammissione di Girolamo di Fabio nella
religione di Santo Stefano, mentre per i rimanenti quarti materni fu-
rono presentate, «in forma autentica»399, «le prove della nobiltà fat-
te a Malta dal cavaliere Carlo Lodovico Colloredo fratello utrinque
congiunto della surriferita contessa Maria Antonia Madre del sup-
plicante»400.
In merito al quarto dell’ava materna in particolare, evidentemen-
te meno noto rispetto a quelli dei Colloredo e dei Flamini di Reca-
nati, nell’informazione del 25 luglio 1786, si specificò: «Rispetto poi
alla nobiltà della famiglia Rabatta, si riconosce, che essa pure già da
gran tempo possiede alcuni feudi nella contea di Gorizia, quali nel-
l’anno 1501 dall’Imperatore Massimiliano vennero confermati nella
persona del conte Bernardo di Giovanni Alessio, da cui ne discese il
conte Giuseppe, e di poi altro Giuseppe, e da questi il conte Anto-
nio atavo, che nel 1612 dall’arciduca d’Austria conte del Tirolo e
Gorizia fu nuovamente investito dei feudi medesimi per sé, e suoi
eredi, dal quale ne discesero il conte Giovanni abavo = il conte Fi-
lippo proavo, e padre della contessa Maria Giuseppa Silvia ava ma-
terna del suddetto pretendente»401.

397 Ibidem.
398 AsPi, S. Stefano, 811, c. 146rv, partito del Consiglio concernente l’elezione dei nuovi
commissari, 27 giugno 1786: «Che avendo il signore ridolfo del signor cavaliere marchese
girolamo conte di Colloredo per ... rescritto di sua Altezza reale del dì 10 giugno corrente ot-
tenuta grazia di poter esibire avanti l’Assemblea di Firenze le consuete prove all’effetto di ve-
stir l’abito equestre per giustizia in minor età, e di valersi per la prova dei quarti materni di
quelle fatte a Malta dal di lui zio materno, non già in forza di cosa provata ma di semplice
prova da doversi esaminare dal tribunal nostro s’intenda commesso alla Cancelleria di scrive-
re per il ricevimento di dette prove. e per vedere di poi, e referire al Consiglio quello che si
dovrà rappresentare a sua Altezza reale circa le prove suddette s’intendano eletti in commis-
sari li signori cavalieri gran Conservatore [giovan gastone] inghirami [di Pisa], e gran Con-
testabile [onofrio] del Mosca [di Pisa]».
399 AsPi, S. Stefano, 1265, ins. 125, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Dodici al

gran Maestro, 16 maggio 1786, e rescritto, 10 giugno 1786.


400 AsPi, S. Stefano, 1266, ins. 178, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Dodici al

gran Maestro, 25 luglio 1786, e rescritto, 24 agosto 1786.


401 Ibidem.
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267

Il 24 luglio 1786, fu approvata la relazione dei commissari, Gran


Conservatore Giovan Gastone Inghirami e Gran Contestabile Onofrio
del Mosca402, e fu trasfusa nell’informazione del 25 luglio susseguen-
te403, in calce alla quale, un mese più tardi, il 24 d’agosto, fu rescritto:
«Diaseli l’abito di Santo Stefano per giustizia in minore età [...]»404.
E passò quasi un altro mese, prima che Rodolfo di Girolamo Col-
loredo fosse onorato dell’abito di cavaliere milite per giustizia «nella
veneranda chiesa di San Michele dei Reverendi Padri Carmelitani
Scalzi della Città di Siena per mano dell’illustrissimo signor cavalie-
re Antonio Pannilini Patrizio, e Priore della medesima Città», il dì
21 settembre 1786405.

VIII. Camillo di Filippo, cavaliere milite per giustizia, 1° marzo 1795


Con Camillo di Filippo406, ultimo cavaliere della serie, la ricostru-
zione si sposta dal terzo ramo dei Colloredo, il cui capostipite fu Vi-
cardo di Guglielmo, dal quale sono discesi tutti i cavalieri fin qui
presi in considerazione, alla linea collaterale del secondo ramo, al
cui vertice si pose Bernardo di Guglielmo, la quale principiò con
Tommaso di Giovanni407.
Nel 1794, Camillo di Filippo, attraverso le consuete preci, mani-
festò al Granduca di nutrire da lungo tempo il desiderio «di essere
insignito della divisa del suo Reale Ordine» e di esser «pronto di fa-
re avanti la cancelleria dell’Ordine in Pisa le prove di nobiltà, e tutte
quelle altre volute dalli statuti, con pagare le convenienti tasse non
meno che di renunziare a qualunque diritto alle commende di an-

402 AsPi, S. Stefano, 811, c. 151v, partito del Consiglio concernente l’approvazione della re-

lazione dei commissari inghirami e del Mosca, 24 luglio 1786: «Che s’intenda approvata la rela-
zione dei signori cavalieri commissari gran Conservatore [giovan gastone] inghirami [di Pisa],
e gran Contestabile [onofrio] del Mosca [di Pisa] circa il processo di provanze di nobiltà del si-
gnore ridolfo di Colloredo supplicante l’abito di cavaliere milite dell’ordine nostro per giustizia
in minor età, e in conformità della medesima se ne faccia negozio a sua Altezza reale».
403 AsPi, S. Stefano, 1266, ins. 178, informazione del Consiglio al gran Maestro, 25 lu-

glio 1786, e rescritto, 24 agosto 1786.


404 Ibidem.
405 AsPi, S. Stefano, 578, c. 176r, apprensione dell’abito di cavaliere milite per giustizia,

21 settembre 1786.
406 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri degli Stati italiani, cit., volume ii, n. 928, pp. 92-93. AsPi,

S. Stefano, 426, ins. 4, provanze di Camillo di Filippo Colloredo.


407 si veda l’albero genealogico della famiglia Colloredo, con l’indicazione dei soggetti

che vestirono l’abito di cavaliere stefaniano: tavola Vi.


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zianità»408. Il rescritto datato 4 luglio ammise il Colloredo alle pro-


vanze409, le quali si tennero il 28 febbraio 1795410.
Il pretendente, con l’apporto delle fedi autentiche, dimostrò d’es-
ser figlio legittimo e naturale di Filippo di Colloredo e Silvia di Ra-
batta411, che l’ava paterna, Elena, e quella materna, Teresa, erano di-
scese entrambe dagli Strasoldo412, che era stato battezzato il 6 ago-
sto 1758; provata, dunque, la legittimità delle nascite413 e del matri-
monio dei genitori414, dimostrò come la famiglia paterna fosse una
delle antichissime famiglie parlamentarie castellane e Filippo, suo
padre, avesse ricoperto la carica di Deputato della Patria del Friu-
li415. Dopo di che, per dimostrare di soddisfare pienamente il requi-

408 AsPi, S. Stefano, 1284, ins. 68, cc. n. n., supplica di Camillo Colloredo al gran Mae-

stro, s. d., e rescritto, 4 luglio 1794.


409 Ibidem.
410 AsPi, S. Stefano, 426, ins. 4, provanze di Camillo di Filippo Colloredo.
411 Ivi, cc. n. n., documento segnato A, fede di battesimo di Camillo osvaldo Colloredo:

«6 Agosto 1758. il nobile signor conte Camillo osvaldo figlio legittimo e naturale del nobile
signor conte Filippo di Colloredo e della nobile signora contessa silvia di rabatta di lui con-
sorte, nato ieri [5 agosto 1758] alle ore 9 circa, fù tenuto al sacro fonte dalli nobili signori Vin-
cenzo di Pers e Varmo, e contessa lucrezia di Brazzaco, nata di zoppola, e battezzato da me
Domenico ongaro, parroco del castello di Colloredo».
412 Ivi, cc. n. n., documenti segnati B (fede del battesimo di Filippo Colloredo, padre del

pretendente: «figlio legittimo di giulio Cesare conte di Colloredo e di elena di Nicola conte
del sacro romano impero a strasoldo fu battezzato il 9 settembre 1708») e C (fede di matri-
monio dei genitori del pretendente: «Filippo di giulio Cesare di Colloredo contrasse legittimo
matrimonio con la contessa silvia, figlia del conte Filippo di rabatta e della contessa teresa
di strasoldo il 25 novembre 1734»).
413 AsPi, S. Stefano, 426, ins. 4, cc. n. n., provanze di Camillo di Filippo Colloredo, docu-

menti segnati B (fede del battesimo di Filippo Colloredo, padre del pretendente: fu battezzato
il 9 settembre 1708) e g (fede di battesimo di silvia di rabatta, madre del supplicante: rice-
vette il primo sacramento in data 23 agosto 1717).
414 Ivi, cc. n. n., documento segnato C (fede di matrimonio dei genitori del pretendente: si

coniugarono il 25 novembre 1734).


415 AsPi, S. Stefano, 426, ins. 4, cc. n. n., provanze di Camillo di Filippo Colloredo, docu-

mento segnato D, fede rilasciata dalla cancelleria del generale Parlamento della Patria del
Friuli, 17 settembre 1794: «Per l’uffizio del magnifico general Parlamento della Patria del
Friuli si attesta, e si fa ampla ed indubitata fede, che la nobilissima famiglia delli signori Conti
di Colloredo, e Melso è una delle una delle antichissime primarie parlamentarie famiglie ca-
stellane di questa Patria, che da molti secoli gode, ed hà goduto li principali posti di onore che
suole conferire e dispensare il magnifico generale Parlamento, ed ultimamente nell’anno
1745 il quondam nobile signor Conte Filippo [del] quondam signor Conte giulio Cesare di
Colloredo padre del nobile signor Conte Cammillo petente hà sostenuto la prima, e più cospi-
cua carica di Deputato della Patria del Friuli, il che in appresso hà fatto il nobile signor Conte
giulio Cesare fratello maggiore dello stesso nobile signor Conte Cammillo l’anno 1774 con-
stando tutto ciò dalli pubblici documenti sì antichi, che moderni esistenti nell’Archivio di que-
sta magnifica Patria, in fede».
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TAVOLA VI
Albero genealogico e cavalieri della famiglia Colloredo.

A LBANO DI WALDSEE
LIABORDO I
Visconte di Mels
A NTONINO
DURINGO I
LIABORDO III
ETTORE
DURINGO II
GLIZOIO
GUGLIELMO
Capostipite dei Colloredo

BERNARDO ASQUINO VICARDO I


Capostipite del II ramo Capostipite del I ramo Capostipite del III ramo
FRANCESCO I SIMONE I
GIOVANNI I VICARDO II
MATIUSSO ODORICO I
GIOVANNI II A LBERTINO I
TOMMASO I GIROLAMO I
Capostirpe della linea collaterale FA BIO I
GIOVANNI I
A SCANIO I
GIULIO CESARE I NICOLÒ II Cav. FABRIZIO II (1595)
A SCANIO II Marchese di Santa Sofia
GIULIO CESARE II Priore della Lunigiana
FILIPPO
Cav. CAMILLO OSVALDO (1795) POMPEO II Cav. FABIO II (1645) NICOLÒ III GIROLA MO III
Cav. FERDINANDO I (1659)

FABIO III RODOLFO I GIROLA MO IV


FABIO IV Capostipite dei Colloredo-Mansfeld
Cav. GIROLA MO V (1746) RODOLFO GIUSEPPE
Cav. RODOLFO III (1786) GUNTACARO

sito concernente le sostanze, che dovevano esser tali da poter man-


tenere dignitosamente il grado di cavaliere, fornì un’attestazione ri-
lasciata dalla cancelleria del Generale Parlamento, testimoniante co-
me il pretendente, «anche disgiunto dagli altri sei fratelli»416, godes-
se di una rendita addirittura superiore a quella ammontante a 300

416 Ivi, cc. n. n., capitoli delle provanze: «Ch’egli anche disgiunto dagli altri sei suoi fratel-

li goda di un patrimonio di rendita anche superiore alla ricercata dagli statuti dell’ordine, lo
assicura la fede rilasciata dalla Cancelleria della Patria sotto la lett. F».
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scudi, ricercata dagli statuti dell’Ordine417. Infine, produsse finan-


che un «certificato soscritto da due nobili, non parenti, di quell’i-
stessa città col quale si attesti della vita, e costumi del signor peten-
te»418, per mezzo del quale i cavalieri Vincenzo di Pers e Varmo e
Tebaldo Beltrame affermarono: «Attestiamo, e facciamo indubitata
fede noi sottoscritti, qualmente il nobile signor conte Camillo [...]
persona a noi bene nota, di essersi sino dalla prima sua addolescen-
za sempre diportato sempre con irreprensibil condotta di cristiano,
cattolico, ed onorato cavaliere in modo del tutto corrispondente al-
l’illustre sua nascita, e con li più comendabili costumi, ne’ mai in al-
cun tempo, o incontro aver dato motivo di venirli diminuito quel
pieno credito, e giusta estimazione, che gode appresso l’universale
di questa Città, e Provincia»419.
Ma un’analisi più approfondita diviene superflua, allorquando si
consideri come Camillo fosse fratello germano di Carlo, cavaliere di
Malta, per la qual cosa, nell’incartamento del processo, in merito al-
la dimostrazione della nobiltà generosa dei quattro quarti, si ri-
mandò esplicitamente al fascicolo documentale presentato per l’am-
missione all’Ordine gerosolimitano, che fu allegato in originale, co-
me appendice ai documenti prodotti da Camillo, strettamente legati
alla sua persona soltanto420.

417 Ivi, cc. n. n., documento segnato F, fede rilasciata dalla cancelleria del generale Parla-

mento della Patria del Friuli, 17 settembre 1794: «Per l’uffizio del magnifico generale Parla-
mento della Patria del Friuli a chiunque le presenti perveniranno si fa ampla ed indubitata fe-
de, qualmente il nobile signore conte Cammillo quondam nobile signore conte Filippo di Col-
loredo possiede in questa Patria del Friuli in sua spezialità un patrimoniale di annua rendita
assai maggiore delli scudi 300 prescritti dalli capitoli dell’insigne ordine equestre di s. stefa-
no esclusi li stipendij personali, come consta da’ publici registri, e documenti, che esistono in
questo uffizio della magnifica Patria, in fede. udine. Dall’uffizio della Patria lì 17 settembre
1794. giacomo Belgrado Cancelliere della Patria».
418 Ivi, cc. n. n., documento segnato e, fede autenticata in forma provante che esso conte

Camillo, come è nato, così vivesse da cattolico romano, come testificato dai due cavalieri Vin-
cenzo di Pers e Varmo e tebaldo Beltrame, in data 22 settembre 1794.
419 Ibidem.
420 AsPi, S. Stefano, 426, ins. 4, cc. n. n., provanze di Camillo di Filippo Colloredo, capi-

toli: «questo stesso ci vien solennemente confermato, rispetto al padre, dalla investitura, che
alla morte del medesimo il nostro petente con cinque fratelli capaci, ebbe a prendere dal sere-
nissimo Principe de’ castelli, e feudi nobili paterni, ed aviti l’anno 1768. la qual investitura
con tutte le precedenti che vengon giustificando non solamente la connessione di tutte quelle
persone, le quali debbono entrare nella provanza; ma sì ancora la continuata lor prerogativa
per punto essentiale della Nobiltà generosa, trovandosi esaminate, e in estratto successiva-
mente registrate nel processo, che per la croce di Malta fù compilato in testa del conte Carlo
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Il 1° marzo 1795 Camillo del quondam conte Filippo di Collore-


do fu vestito dell’abito di cavaliere milite per giustizia nella chiesa
parrocchiale di S. Andrea del castello di Colloredo, per mano del si-
gnor cavaliere Girolamo di Colloredo421.

6.3. La famiglia Sproni fra Comunità di Livorno, Ordine di Santo


Stefano e nobiltà toscana: l’ascesa di una nuova aristocrazia
I. Premesse: l’avvento della dinastia lorenese e i suoi riflessi
sull’Ordine di Santo Stefano e sul ceto dirigente aristocratico
Nel XVIII secolo, con l’avvento della dinastia lorenese, il quadro
globale dei ceti dirigenti toscani stava per mutare radicalmente, in
un contesto socio-economico, rimasto sostanzialmente in armonia
con le tradizioni mercantili e di patriziato cittadino, in cui le ambi-
zioni nobiliari non si erano affatto assopite, anzi avrebbero dato
prova della loro vitalità, mostrandosi ancor più agguerrite nel desi-
derio di perpetuare le posizioni di privilegio acquisite fin dall’epoca
medievale e consolidate nell’ambito politico-istituzionale in età me-
dicea. Di fatto, il problema dell’assetto sociale e della posizione che
in esso aveva la nobiltà era fondamentale in tutti gli Stati europei
nella fase di avvio e di transizione verso le riforme della seconda
metà del secolo decimottavo. Ma il governo lorenese dedicò cure
del tutto particolari all’elaborazione di interventi legislativi mirati al
problema generale della nobiltà422. La versione definitiva degli Sta-
tuti dell’Ordine di Santo Stefano, del 1746423, e la Legge sulla no-
biltà e cittadinanza, promulgata nel 1750424, consolidarono, da un
lato, le prassi di cooptazione alla nobiltà civica e, dall’altro, un siste-

fratello germano del petente; si crede opportuno il presentarlo in originale onde più spedita-
mente si possa distender quello che in Pisa si avrà a fabbricare pel conte Camillo. e a vieme-
glio ancora agevolarnelo [...] in questa provanza citando i fogli del medesimo processo, dove
son registrati gli allegati documenti. intanto l’accennata investitura s’incontra al foglio 139t».
421 AsPi, S. Stefano, 579, c. 10r, apprensione dell’abito di cavaliere milite per giustizia, 1°

marzo 1795.
422 Cfr. AA.VV., Signori, patrizi, cavalieri nell’età moderna, a cura di M. A. VisCegliA,

cit., pp. XXi-XXXiii; F. DiAz, I Lorena in Toscana. La Reggenza, cit., passim.


423 Statuti dell’Ordine de’ Cavalieri di Santo Stefano ristampati con l’addizioni in tempo

de’ Serenissimi Cosimo II e Ferdinando II e della Sacra Cesarea Maestà dell’Imperatore


Francesco I Granduchi di Toscana e Gran Maestri, cit.
424 testo in l. CANtiNi, Legislazione Toscana, cit., vol. XXVi, pp. 231-241.
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ma di pesi e contrappesi, già vigente nella peculiare realtà istituzio-


nale toscana, che i nuovi governanti avrebbero voluto imbrigliare
tre le maglie di un atto legislativo che desse potestà al sovrano di
infondere lo status nobiliare.
Proprio i due corpi normativi in parola devono essere considerati
le chiavi di volta che permisero agli Sproni di entrare a pieno titolo
nel ceto dirigente toscano; vale a dire: con l’ammissione per commen-
da, prima, e per giustizia, poi, nell’Ordine rossocrociato e l’iscrizione
nei libri d’Oro, in qualità patrizi pisani e di nobili livornesi.
***
Dopo quasi due secoli di vita, la Religione stefaniana, fondata nel
1561-62 con lo scopo dichiarato di difendere sul mare la fede cri-
stiana, aveva smarrito ormai ogni funzione militare. Infatti, nel cor-
so del tempo, si era accresciuto il ruolo sociale detenuto dall’Ordine
nella funzione di istituto nobiliare, al quale ambivano gli esponenti
delle nobiltà cittadine toscane, ma anche numerosi membri dei ceti
aristocratici provenienti da altri Stati peninsulari e d’oltralpe425, sia
perché nei suoi ranghi confluiva gran parte dell’aristocrazia toscana,
sia perché l’istituzione in parola aveva la capacità di miscelare forze
e interessi che trascendevano quelli strettamente concernenti il ceto
dominante.
In particolare, a Livorno, l’evoluzione istituzionale della Comunità
preleopoldina si intrecciò con l’emersione e l’affermazione dei ceti
privilegiati locali, legittimati in tal senso dalla capacità, sia de facto, sia
de iure, alla copertura delle cariche municipali. Se il punto di svolta
dell’evoluzione in parola fu segnato dall’emanazione della Legge per
regolamento della Nobiltà e Cittadinanza, un rilievo ancor maggiore
deve attribuirsi al motuproprio leopoldino del 20 agosto 1767426, che
riconobbe efficacia retroattiva alla qualifica di città nobile, andando a
connettersi strettamente con il predetto provvedimento normativo.

425 Dal 1562 al 1737, fecero parte dell’ordine 4438 cavalieri, di cui i sudditi granducali

(3041) costituirono il 68,5%, quelli originari di altri stati della penisola (1248) il 28% e, infi-
ne, quelli di altri paesi europei (149) il 3,5%. Cfr. F. ANgioliNi, L’Ordine di S. Stefano negli
anni della Reggenza, cit., pp. 1-47: 2, nota 5.
426 il motuproprio in parola può reperirsi in Asli, Comunità, 166, cc. 157-158; ma il testo

è stato pubblicato da F. BerNArDoNi, I contrastati albori della nobiltà livornese, in «la Cana-
viglia», Vi/4 (ott.-dic. 1981), pp. 111-118: 114.
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Non si può, tuttavia, dimenticare, in merito alla nobiltà toscana tutta,


come, mentre ne sono note le caratteristiche istituzionali, ugualmente
non possa dirsi per le inevitabili differenziazioni interne e, soprattut-
to, per le peculiarità economiche e, finanche, culturali, che caratteriz-
zarono in special modo la città portuale labronica427.

II. Le origini della famiglia Sproni e l’arrivo a Livorno «città»


Il paradigma della famiglia Sproni evidenzia i caratteri di una tra
le prosapie di maggior rilievo che ressero le sorti del governo citta-
dino nel XVII secolo e assunsero una posizione consolidata nel ceto
dirigente livornese proprio nella prima età lorenese. La casata, difat-
ti, pur provenendo da una nazione estera ed esercitando attività
commerciali, riuscì ad entrare nel novero della nobiltà toscana, otte-
nendo l’ingresso nell’Ordine di Santo Stefano, sia per commenda,
sia per giustizia, nonché l’ascrizione al patriziato di Pisa ed alla no-
biltà di Livorno, come si evince dalle carte dell’Archivio stefaniano
e della Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza, nonostante fos-
se pervenuta in città soltanto nella prima decade del Seicento, in
piena età moderna, ponendo in rilievo l’ascesa delle famiglie livor-
nesi nel più ampio raggio del Granducato, che maturò sotto la nuo-
va dinastia.
La prosapia era originaria del Tirolo, dove i Liberi Signori o Con-
ti di Spaur o Sporn, che significava sprone, erano considerati nobili
fin dal secolo XIII. Giovanni Sporn, nobile domestico di Massimi-
liano I, Arciduca d’Austria, trasferì la residenza della famiglia ad
Anversa, dopo un viaggio nelle Fiandre al seguito del futuro Impe-
ratore del Sacro Romano Impero. Beniamino, nato intorno al 1584,
è colui che lascerà le Fiandre per Livorno e sarà avo dell’omonimo
fondatore della commenda nell’Ordine di S. Stefano428.
Ad Anversa, gli Sproni svolgevano l’attività di mercanti, profes-
sione che li spinse a trasferirsi nella città labronica agli inizi del Sei-
cento, secolo in cui il porto vide aumentare considerevolmente il

427 in merito all’oligarchia livornese e ai suoi privilegi nell’accesso alle cariche locali, si

veda: C. MANgio, La riforma municipale a Livorno, in AA.VV., Atti del Convegno «L’Ordine
di Santo Stefano e la nobiltà toscana nelle riforme municipali settecentesche» (Pisa, 12-13
maggio 1995), Pisa, eDizioNi ets, 1995, pp. 85-120, passim.
428 AsPi, S. Stefano, 361, ins. 7, fascicolo delle provanze di Francesco di Ferdinando

sproni.
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volume dei suoi traffici e furono concesse rilevanti agevolazioni ai


nuovi immigranti429. Nonostante la data dell’arrivo a Livorno non
possa essere individuata puntualmente, si può dare per certa la pre-
senza nel centro mercantile negli anni 1611-12430, giacché persino il
Vivoli, nei suoi Annali di Livorno, parla degli Sproni, quali compa-
renti in una fede datata 11 luglio 1612431. Durante la loro perma-
nenza ad Anversa, essi, a quel tempo chiamati Spooren, furono an-
noverati fra i Senatori ed i Borgomastri432; ma già nel 1626 Beniami-
no risultava essere tra gli imborsati per il Consiglio maggiore433, ov-
vero abile alla carica di Gonfaloniere434, anche se non la ricoprì
mai435.
Ma quest’ultimo è senza dubbio un fatto d’estrema rilevanza,
giacché l’ufficio di Gonfaloniere costituiva la carica più elevata e
prestigiosa tra quelle comunitative, che presupponeva una procedu-
ra formalizzata per l’iscrizione nell’ordine in parola: vale a dire la
designazione da parte del Consiglio Generale, nella sua fondamen-
tale funzione di deliberazione sull’ammissione a tutti i gradi della
cittadinanza, a principiare dal primo436. Nel secolo XVII il collegio
sceglieva il più qualificato dei soggetti abilitati, prendendo in consi-
derazione gli individui più ragguardevoli per entità delle sostanze e,
per ciò stesso, in forza di una pacifica presunzione, dotati dei requi-
siti indispensabili a ben amministrare gli affari pubblici437. Convin-

429 un caso esemplare è offerto dai rapporti tra la città di livorno e la Francia, in merito ai

quali, si veda J. P. FiliPPiNi, La nation française de Livourne (fin du XVII- fin du XVIII siecle),
in AA.VV., Dossiers sur le commerce français en Méditerranée orientale au XVIII siècle, Pa-
ris, P. u. F., 1976, pp. 237-247 e iDeM, Il porto di Livorno e il regno di Francia dall’editto del
porto franco alla fine della dominazione medicea, in AA.VV., Atti del convegno «Livorno e il
Mediterraneo nell’età medicea», livorno, Bastogi, 1978, pp. 179-201.
430 Per l’arrivo a livorno di Beniamino sproni, capostipite della casata che pose le sue ra-

dici nella penisola, si veda Asli, Governatore e Auditore, 86, c. 444r.


431 Cfr. g. ViVoli, Annali di Livorno. Dalla sua origine all’anno di Gesù Cristo 1840 col-

le notizie riguardanti i luoghi più notevoli antichi e moderni e dei suoi contorni, livorno, sar-
di, 1842-46, t. iV (1846), p. 167.
432 AsFi, Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza, 28, ins. 8, cc. n. n.; AsFi, Deputa-

zione sopra la nobiltà e cittadinanza, 57, ins. 6, cc. n. n.


433 Asli, Governatore e Auditore, 2602, c. 422t.
434 Asli, Comunità, 164, cc. 71t e 72r.
435 Ivi, cc. 136r-151t, serie cronologica di tutti i gonfalonieri di livorno. Cfr. F. BerNAr-

DoNi, I contrastati albori della nobiltà livornese, cit., pp. 115-118.


436 Cfr. C. MANgio, La riforma municipale, cit., p. 86.
437 Ivi, p. 86, nota 4.
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zioni che saranno ancora ben vive nella seconda metà del secolo
successivo, al momento del confronto più significativo e gravido di
conseguenze tra passato e presente istituzionale, rispetto ai proposi-
ti della nuova dinastia, nell’ambito della dialettica sui progetti di
riforma dei privilegi politici dell’oligarchia livornese. E proprio uno
Sproni, Ferdinando di Iacopo Luzio, insieme con Antonio Michon,
Giovanni Nicola Martellini e Pompeo Baldasseroni – unitamente al
quale si trasferì a Firenze, per seguire ancor più da vicino le vicende
evolutive del nuovo regolamento –, contribuì alla stesura di nume-
rosi memoriali volti alla difesa e alla conservazione, in particolare,
dell’ordine dei Gonfalonieri438.
Di fatto, l’assetto politico-istituzionale di Livorno aveva assunto i
connotati propri di una città nel 1604, allorquando fu istituito un
corpo di cento cittadini – limite abolito nel 1681 –, unici titolari dei
diritti politici, suddivisi in Gonfalonieri – dapprima in numero di
dodici e successivamente elevati a ventisei –, anziani e semplici cit-
tadini439. Ma ancor prima dell’integrazione nel tessuto dei pubblici
uffici, Beniamino aveva saputo rapidamente affermarsi nella profes-
sione di mercante e banchiere, divenendo sensale e mediatore auto-
rizzato fin dal 1621440, per poi comparire, appena un anno dopo, tra
gli otto fautori della nascita ufficiale della nazione olandese-aleman-
na441. Con l’ultima iscrizione alla detta nazione, nella persona di Ia-
copo di Beniamino, nel 1657442, e la definitiva italianizzazione del
cognome Sproni, si consolidò l’inserimento della famiglia nella so-
cietà livornese.

III. L’ammissione nell’Ordine di Santo Stefano e l’iscrizione


nei Libri d’Oro
Dal capostipite Beniamino, dunque, discesero, in linea retta, Ia-
copo (divenuto cittadino l’8 agosto 1651 e Gonfaloniere il 3 settem-

438 Ivi, pp. 98 e ss.; in particolare, si leggano le parole dei deputati, alla nota 55.
439 Cfr. V. MArtiNi, La nobiltà livornese nei secoli XVII e XVIII. Profilo storico-istituzio-
nale, in «studi livornesi», Vii (1992), pp. 23-40, passim.
440 Cfr. M. C. eNgels, La comunità «fiamminga» di Livorno all’inizio del Seicento, in

«Nuovi studi livornesi», i (1993), pp. 25-41: 34.


441 Cfr. P. CAstigNoli, Il libro rosso della Comunità Olandese-Alemanna a Livorno (1622-

1911), in «la Canaviglia», iV/4 (ott.-dic. 1979), pp. 170-175: 174: «Benjamin speron, 1 mag-
gio 1622».
442 Ibidem: «giacomo sporon, 3 dicembre 1657».
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bre 1660)443 e Beniamino (eletto Gonfaloniere per la prima volta il


19 maggio 1681, poi ancora tra il 1720 ed il 1722)444, fondatore del-
la commenda stefaniana.
Com’è ben noto, specialmente per chi frequenta le questioni della
Toscana in età moderna, l’istituzione di una commenda di padronato
familiare nell’Ordine di Santo Stefano consisteva nel vincolare una
quantità variabile di capitale, tanto in beni immobili, quanto in beni
mobili – secondo le preferenze del fondatore –, destinato a mantene-
re il cavaliere indicato dal padrone della commenda. In questo modo
l’Ordine accoglieva nei suoi ranghi il cavaliere commendatore, il
quale, senza sottoporsi a tutte le prove di norma previste dagli Statu-
ti, diventava il capostipite di una genealogia accreditata dall’istituzio-
ne equestre, dacché nell’atto di fondazione erano già indicate le linee
successorie. Un’oculata politica matrimoniale, attenta alle alleanze
parentali e alle strategie sociali, accompagnata da un’avveduta gestio-
ne del patrimonio e dell’influenza politica, avrebbe consentito alla
famiglia del cavaliere commendatore, nel tempo di una o due gene-
razioni, di acquisire una nobiltà titolata, accettata pienamente dalla
Religione stefaniana e, pertanto, parificabile a quella detenuta dalle
più antiche ed illustri prosapie del Granducato.
Le commende di padronato rappresentavano, quindi, lo strumen-
to più efficace per consacrare l’ascesa sociale attraverso il consegui-
mento della nobiltà cavalleresca e per mezzo del quale l’Ordine di
S. Stefano accoglieva tra i suoi membri i nuovi protagonisti della vi-
ta politica economica e sociale che potessero essere assimilati al ceto
dirigente toscano, proprio come avvenne nel caso in esame.
Sul totale di 7 cavalieri445, una volta superate le generazioni nobi-
litate con la dignità cavalleresca conseguita e tramandata per com-
menda, gli Sproni giunsero a coronare il cursus honorum con due
ammissioni per giustizia, diversamente dalle famiglie che, ottenuto il
primo abito, riuscivano a mantenere la presenza nella Religione at-

443 Asli, Comunità, 164, c. 145t. Ma già dal 1645 appariva nel registro delle decime per

la somma di ducati 13.1.19.2; cfr. ivi, c. 170t.


444 Ivi, c. 147t.
445 Cfr. B. CAsiNi, I cavalieri delle città e dei paesi della Toscana occidentale e settentrio-

nale membri del Sacro Militare Ordine di S. Stefano Papa e Martire, Pisa, edizioni ets,
1994: 1) n. 7, p. 23; 2) n. 16, p. 28; 3) n. 26, pp. 34-36; 4) n. 29, pp. 37-39; 5) n. 32, pp. 40-
41; 6) n. 47, p. 48; 7) n. 52, pp. 50-51.
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traverso il costante aumento del fondo dotale, ma potevano vantare


una mera «nobiltà imperfetta», ad esempio, non riuscendo mai a
colmare la lacuna matrimoniale, che abbisognava dell’endogamia di
ceto al fine di perfezionare la nobiltà acquistata venalmente446.
***
Nell’autunno del 1690, Beniamino, figlio di Iacopo Sproni e di
Orietta Mattei, supplicò il Granduca al fine di ottenere il beneplaci-
to alla fondazione di una commenda di padronato familiare, «con
dote di scudi diecimila di lire sette per scudo, e d’annua rendita di
scudi quattrocento», con la riserva di una linea accessoria «a’ figli di
Francesco Sproni zio di detto fondatore» e la facoltà di «poter nel
termine di X anni [...] nominar per instrumento publico, e con per-
missione di Sua Altezza Serenissima due persone viventi di due fa-
miglie nobili, o di commendatori della Sacra Religione, quali devino
succedere secondo l’ordine, che sarà loro prescritto in estintione e
mancanza della descendenza masculina del supplicante e di quella
di Francesco», nonché l’apposizione della tradizionale clausola di
ricaduta al ceto di anzianità, ma dimezzandone la rendita per due
più piccole, qualora non fossero realizzabili le ipotesi antecedenti.
Non mancava, però, la riserva di «renuntiare una parte di essa [...]
per quanto importi la somma di scudi centoventi l’anno, ad uno da
nominarsi alla successione in detta commenda à fine che, in virtù di
tal renuntia, conseguisca l’abito di cavaliere milite [...] e l’investitura
della medesima» fino alla sua morte, ritornando «la detta rata [...] à
favore della detta commenda, e di chi sarà principalmente investito
della medesima, come se già mai fusse stata fatta la detta renuntia».
Di conseguenza, il meccanismo in parola, teoricamente, avrebbe po-
tuto andare avanti all’infinito, giacché il padrone a pieno titolo, in
qualunque momento, avrebbe potuto «nelle forme e modi suddetti,
renuntiare la detta rata ad altro soggetto de’ chiamati», in modo tale
che potessero «sempre» essere insignite della dignità stefaniana due
persone contemporaneamente447. L’informazione dell’Auditore Ser-

446 Cfr. F. ANgioliNi, La nobiltà «imperfetta»: cavalieri e commende di S. Stefano nella

Toscana moderna cit., in AA.VV., Signori, patrizi, cavalieri nell’età moderna, cit., pp. 146-
167, passim.
447 AsPi, S. Stefano, 1171, ins. 349, cc. n. n.: 1) supplica di Beniamino sproni al gran

Maestro, s. d., e rescritto, s. d.: «l’Auditore della religione informi».


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grifi al Gran Maestro, Cosimo III de’ Medici, riassunse, oltre le pre-
descritte richieste dello Sproni, i tratti fondamentali della casata,
dalla sua origine alle condizioni economiche e sociali, compresi i le-
gami matrimoniali intessuti con i Del Vigna, nobili fiorentini, i De’
Mattei, presenti nel gonfalonierato labronico, i Forti di Pescia e i
Franceschi di Livorno, vantanti la dignità cavalleresca anelata dal
medesimo Beniamino, il quale, a sua volta, prese in sposa Elisabetta
di Pandolfo Tidi, Provveditore della città di San Sepolcro448. In cal-
ce al consueto documento informativo, tipico degli organi subordi-
nati, venne apposto il benevolo rescritto magistrale449. Fu così che,
poco più di un mese più tardi, assolte le formalità del caso, concer-
nenti, in particolare, le stime degli immobili e la verifica della libertà
da gravami di qualunque sorta, lo strumento di fondazione prese
forma definitiva, il 22 dicembre 1690, vincolando i beni incommen-
dati, da quella data non più alienabili, ne’ ipotecabili450.
Non ha rilevanza in questa sede la specificazione dei termini delle
questioni ad essa concernenti, se non per ricordare l’erezione su be-
ni immobili siti nell’ambito urbano, com’era tipico in un contesto
socio-economico in cui la prevalenza dell’esercizio delle attività le-
gate ai commerci e la vita di città caratterizzavano anche la varietà
dei cespiti patrimoniali nel vincolo dei beni in favore della Religione
stefaniana, specialmente nel caso in oggetto, giacché gli Sproni ap-
partenevano indubitabilmente, dopo circa ottanta anni di domicilio
livornese, al ceto dei mercanti-banchieri451. Ciò che rileva, invece,
come ampiamente premesso, è l’incipit del cursus honorum che por-
terà al riconoscimento della qualifica di nobili toscani a tutti gli ef-
fetti: Beniamino fu cinto del manto rossocrociato «di cavaliere mili-
te come investito nella commenda di suo padronato in patria [...]
per le mani dell’illustre signor Balì Franchi preposto di Livorno nel-

448 Ivi, cc. n. n.: 2) informazione dell’Auditore Francesco Maria sergrifi al gran Maestro,

10 novembre 1690.
449 Ibidem, rescritto, s. d.: «sua Altezza riceva la commenda con dote di scudi diecimila di

lire sette per scudo, e di annua rendita di scudi quattrocento».


450 AsPi, S. Stefano, 3525, cc. 154t-155r.
451 le complesse vicende della commenda sproni fino al secolo XiX, vale a dire sino a

quando fu attuata la trasformazione in Baliato di Montalcino, nel 1806, e passò nelle mani
degli ultimi titolari, sono state sviscerate nell’ottimo studio di F. Bulleri, Le vicende della
commenda Sproni di Livorno (secoli XVII-XIX), in «quaderni stefaniani», XVii (1998),
pp. 23-62.
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la chiesa Collegiata», in una data che profeticamente sottolineava


un nuovo inizio: il 1° gennaio 1691452.
***
L’artificio della rinunzia parziale alla rendita commendale, allo
scopo di mantenere in vita il padronato familiare e di sfruttarne la
dote ai fini dell’annoverazione di nuovi discendenti nell’Ordine
equestre cosimiano, fu ben presto utilizzato dal medesimo Beniami-
no di Iacopo per garantire la vestizione di suo figlio, Iacopo Luzio,
senza alcun problema di sorta. Difatti, la supplica paterna – come di
consueto, priva di data, per non screditare i postulanti qualora la ri-
sposta si facesse attendere troppo – trovò il favore del Granduca,
Cosimo III, che rescrisse: «Approvasi, et il Senatore Auditore Presi-
dente Antinori intervenga all’Instrumento di detta renunzia, a ciò se
ne passino le scritture in buona forma»; correva il giorno 2 settem-
bre 1708453. A tale data, il premuroso genitore si era già occupato di
istruire la pratica per le provanze de vita et moribus, le uniche da so-
stenersi, giacché era fuor di dubbio la legittimità del matrimonio da
cui era nato il candidato, contratto prima della fondazione: il che si-
gnificava potersi avvantaggiare finanche dell’esenzione dalla verifica
di nobiltà per i quarti materni, a norma dei precetti stefaniani454.
Francamente, non si può certo pensare che Beniamino Sproni non

452 AsPi, S. Stefano, 577, 161r.


453 AsPi, S. Stefano, 1183, ins. 283, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Xii al gran
Maestro, in merito alla supplica di Beniamino sproni, s. d.; il rescritto in calce alla medesima
porta la data del 2 settembre 1708, riferimento temporale che si è ritenuto più opportuno uti-
lizzare, giacché tratto dal registro di suppliche e informazioni, perciò annotato contestualmen-
te alla ricezione della supplica, nonostante, nel fascicolo delle provanze, le copie del docu-
mento in parola attribuiscano al rescritto l’apposizione in data 4 novembre 1708: si tratta, pre-
sumibilmente, di un errore materiale.
454 Nell’incipit del processo, sostenuto da Beniamino sproni in favore del figlio, fu espo-

sto chiaramente come iacopo luzio dovesse sostenere le provanze «de vita, et moribus sola-
mente per essere egli nato di legittimo matrimonio contratto dal signor comparente avanti la
fondazione della detta commenda, e così in ragione dello statuto di detta religione capitolo
13 al titolo 13 resta esentato dal far le provanze della nobiltà dei suoi quarti materni»; cfr.
AsPi, S. Stefano, 234, ins. 20, cc. n. n., provanze di nobiltà di iacopo luzio di Beniamino
sproni: incipit del processo sostenuto dinanzi all’Auditore dell’ordine, Niccolò Antinori, 22
novembre 1709. Cfr. Statuti, cit., tit. ii (Del modo di ricevere i Cavalieri), cap. iii (Delle pro-
bazioni, che si debbano fare innanzi, che alcuno si accetti), addizioni terze, n. 1, p. 102, e tit.
Xiii (Delle Commende, ed Amministrazioni di esse), cap. Xiii (Che i discendenti di fondatori
di commende devino essere nati di madre nobile), pp. 296-297.
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avesse piena cognizione dei sistemi di avanzamento sociale e nobili-


tazione nella Toscana granducale, a principiare dai meccanismi con-
templati dall’unico apparato di norme che rese vigenti i criteri di as-
similazione ed accesso al ceto dirigente tralatizio fino alla metà del
secolo XVIII.
Poco più di un anno dopo, in data 22 novembre 1709, vale a dire
il giorno susseguente la redazione del contratto di parziale abdica-
zione ai diritti commendali455, si tenne il consueto processo per pro-
vanze, con l’escussione dei testimoni per la conferma del pubblico
dominio in merito alle asserzioni capitolate dall’instante, supportate
dalle prove scritte. Pare evidente, a tenore di quanto premesso dian-
zi, come l’adempimento dei dettami statutari costituisse una pura
formalità procedimentale. I commissari, da par loro, non opposero
alcun inadempimento, né carenze probatorie, talché, appena sei
giorni dopo l’invio dell’informazione, arrivò puntualmente il beni-
gno rescritto granducale, datato 9 dicembre 1709: «Diasegli l’Abito
di Cavaliere Milite, e s’investa della parte di Commenda di suo Pa-
dronato secondo gli ordini»456. Il nuovo anno si aprì con la vestizio-
ne del figliolo di Beniamino Sproni, il 9 gennaio457.
***
Ma questi non lasciò fuori dai giochi di consolidamento e avanza-
mento sociale neanche la discendenza femminile, utilizzando come
chiave di volta ancora la poliedrica commenda del 1690. Dopo due
rinnovazioni parziali dell’originario diritto decennale alla definizio-
ne delle due linee collaterali458, finalmente giunse il momento del-
l’indicazione del primo successore, nella persona di Ascanio Teri,
fiorentino, Camarlingo presso la Dogana di Pisa e, soprattutto, ma-

455 AsPi, S. Stefano, 234, ins. 20, provanze di nobiltà di iacopo luzio di Beniamino spro-

ni, cc. n. n., ancora nell’incipit del processo, svoltosi il 22 novembre 1709, si legge: «[...] es-
sendo già stato stipulato l’instrumento di detta renunzia per rogito di messer Michele Cecche-
relli Notaro pubblico fiorentino del dì 21 del corrente [...]».
456 AsPi, S. Stefano, 1183, ins. 264, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Xii al gran

Maestro, in merito all’esito positivo delle provanze de vita et moribus, 3 dicembre 1709, e re-
scritto, 9 dicembre 1709.
457 AsPi, S. Stefano, 578, c. 36t.
458 AsPi, S. Stefano, 1177, ins. 371, cc. n. n., supplica, s. d., e rescritto, 6 luglio 1700;

AsPi, S. Stefano, 1180, ins. 158, cc. n. n., supplica, s. d., e rescritto, 1° aprile 1706. in entram-
bi i casi, la proroga fu accordata per ulteriori cinque anni dalla data della concessione.
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rito di Giulia Sproni459. I loro figli legittimi entravano ufficialmente


nei progetti dinastici del lungimirante avo, il quale, malgrado le ul-
teriori due – seppur brevi – proroghe all’esercizio della facoltà di
nomina di una seconda discendenza accessoria460, fu cinto dal man-
tello trapunto di stelle della figlia dell’Erebo e della Notte, sorella
del Sonno, al principio dell’autunno 1723, senza aver esercitato le
prerogative in parola461. Di conseguenza, venne ad operare la linea
di successione principale e Iacopo Luzio di Beniamino, già cavaliere
dal 9 gennaio del 1710, fu automaticamente investito del padronato
familiare.
***
Passarono poco più di quindici anni e la morte colse anche il pre-
mentovato subentrante462, il quale, nella primavera del 1721, aveva
sposato Vittoria Maria Pecci, figlia di Girolamo e di Lucrezia di
Giovanni Mignanelli, nobile senese463, generando Ferdinando, nato
l’anno seguente464. Questi, dopo la dipartita del genitore, provvide
immediatamente a supplicare l’immissione nei diritti derivanti dal
contratto di fondazione, proponendo di dimostrare la nobiltà dei
quarti materni per mezzo delle provanze già sostenute da suo zio,
Francesco di Girolamo Pecci, in occasione della procedura di am-
missione per giustizia, compiutasi nel 1723465, senza omettere di so-

459 AsPi, S. Stefano, 3525, cc. 154t-155r, campioni delle commende di padronato: «[...]

nominata alla successione della detta commenda la linea d’Ascanio teri[:] in filza d’instru-
menti della religione dell’anno 1712 in cui fu rogato l’instrumento sotto 24 maggio per mano
di ser Antonio Meazzoli a 673».
460 AsPi, S. Stefano, 1192, ins. 41, cc. n. n., Beniamino ottenne altre due proroghe seme-

strali, datate 13 dicembre 1721 e 15 maggio 1722.


461 AsPi, S. Stefano, 3679, c. 80r, esequie del cavaliere Beniamino sproni, 8 ottobre 1723.
462 Ivi, c. 121t, esequie del cavaliere iacopo luzio sproni: «A dì 7 marzo 1738 ab incarna-

tione [1739]. esequie per l’anima del fu signor cavaliere iacopo luzio sproni di livorno,
defonto il dì 4 detto [4 marzo 1739]».
463 AsPi, S. Stefano, 304, ins. 4, cc. n. n., provanze di Ferdinando di iacopo luzio sproni:

fede del legittimo matrimonio dei genitori, celebrato il 29 aprile 1721, rilasciata il 30 aprile
1739.
464 Ivi, cc. n. n., fede del battesimo di Ferdinando Pietro Antonio Maria Melchior di iaco-

po luzio sproni e Vittoria di girolamo di Muzio Pecci, nato il 29 giugno e battezzato il 1° lu-
glio 1722, rilasciata in data 29 aprile 1739.
465 AsPi, S. Stefano, 261, ins. 13, provanze di nobiltà di Francesco di girolamo Pecci;

AsPi, S. Stefano, 578, c. 72t, apprensione dell’abito di cavaliere milite per giustizia, 1° marzo
1723. Per un succinto resoconto concernente le vicende di ammissione nell’ordine, si veda B.
CAsiNi, I cavalieri dello Stato senese, cit., n. 401, pp. 398-399.
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stenere quelle strettamente connesse con le qualità personali, vale a


dire «di sua legittimità, vita e costumi, e quel più [cui] è tenuto se-
condo li stabilimenti dell’Ordine»466.
Nell’aprile del 1739 furono accolte le richieste del postulante467,
il quale poté sostenere il processo già il 29 maggio468. All’usuale re-
lazione riepilogativa, stilata il 16 giugno, redatta per impulso dei
Dodici cavalieri del Consiglio di Pisa – che dichiararono il postulan-
te meritevole della grazia magistrale della vestizione, purché otte-
nesse la dispensa dalla minore età, non avendo compiuto il dicias-
settesimo anno469 – fu apposto in calce il rescritto, che recitava:
«Diasegli l’Abito di Cavalier milite, e s’investa della commenda di
suo cognome, e padronato, secondo gl’ordini, dispensandolo Sua
Altezza Reale dalla minore età, non ostante. Dato in Consiglio di
Reggenza questo dì 6 marzo 1740/41»470. Le autorevoli firme del
principe di Craon e di Pompeo Neri convalidarono l’informazio-
ne471, perfezionando il procedimento, e abilitarono l’incipiente alla
vestizione, la cui cerimonia fu prontamente officiata il 18 aprile sus-
seguente472. Molti anni più tardi, nel 1782, l’Ordine avrebbe tribu-
tato a Ferdinando Sproni l’onore delle esequie473.
***
Come Beniamino, previdentemente, aveva adottato la commenda

466 AsPi, S. Stefano, 1203, ins. 279, cc. n. n., supplica di Ferdinando di iacopo luzio

sproni al gran Maestro, s. d.


467 Ivi, cc. n. n., rescritto del 21 aprile 1739: «si contenta sua Altezza reale, che il suppli-

cante possa per le provanze della nobiltà de’ suoi quarti materni, valersi in forza di sola prova-
zione, e non di cosa giudicata, di quelle fatte dal cavaliere Francesco Pecci suo zio materno,
con obbligarsi di doverle riprodurre nel tribunale del Consiglio dell’ordine perché le veda
coll’altre della legittimità, vita, e costumi del medesimo supplicante, et informi, e tutto non
ostante [...]».
468 AsPi, S. Stefano, 304, ins. 4, cc. n. n.
469 Statuti, cit., tit. ii (Del modo di ricevere i Cavalieri), cap. ii (Della qualità di coloro,

che devono essere accettati nell’Ordine), pp. 91-94: 92. le qualità personali del pretendente
vertevano sulla vita e sui costumi. in particolare, per quanto concerneva l’età, il limite mini-
mo ordinario di diciotto anni venne subito interpretato come mero compimento del dicias-
settesimo.
470 AsPi, S. Stefano, 1203, ins. 286 secondo, cc. n. n., informazione del Consiglio dei Do-

dici al gran Maestro, Francesco stefano di lorena, 16 giugno 1739, e rescritto, 6 marzo 1741.
471 Ibidem.
472 AsPi, S. Stefano, 578, 110t.
473 AsPi, S. Stefano, 3680, c. 16r, esequie del cavaliere Ferdinando sproni, 31 gennaio

1782 (morì il 29 gennaio).


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stefaniana quale strumento per principiare e condurre l’opera di alle-


stimento volta all’affermazione sociale, al fine di compensare l’agio
meramente economico con la definizione di un preciso status nobi-
liare che potesse annoverare la sua casata tra le più blasonate della
Toscana, così Ferdinando, superata la fatidica metà del secolo deci-
mottavo, non impiegò che un settennio per ottenere l’ascrizione nei
Libri d’Oro del patriziato di Pisa, con decreto del 17 gennaio
1757474. L’iscrizione, per sé e per i discendenti, nella classe superiore
della nobiltà toscana, «nonostante il suo domicilio nella Città di Li-
vorno», fu accordata in quanto «nobile da più di duecento anni nella
città di Anversa», a norma dell’articolo XXI della Legge; ma, in pri-
ma istanza, la richiesta di riconoscimento del massimo grado nobilia-
re aveva subito una battuta d’arresto, trovando un solido ostacolo,
proprio in ragione della residenza labronica. Difatti, la legislazione
granducale, in base alle norme del diritto comune, sanciva che un
nobile necessitasse di una legittima conferma del proprio status se-
condo le modalità dello Stato ospitante, al fine di poterne rivendica-
re le prerogative in forza di una convalida ufficiale. Per di più, men-
tre la prova dell’effettivo possesso doveva trovare giustificazione ne-
gli apparati normativi del Paese d’origine, il riconoscimento e l’inclu-
sione nel nuovo alveo dell’aristocrazia toscana avrebbe sottoposto i
nobiluomini alla lex loci, senza eccezioni. Ma accogliere e recepire
troppe novità, sia dal punto di vista degli individui, sia delle norme e
prassi che li accreditavano tra i privilegiati nel contesto socio-econo-
mico di provenienza, pose in luce, molto di sovente, difficoltà inter-
pretative e di compatibilità, sotto entrambe le specule. Il caso degli
Sproni ne rappresenta un esempio, giacché i più recenti tratti pecu-
liari della famiglia, attinenti le sostanze e la copertura del summus lo-
cus civitatis, consolidati a Livorno, come pure l’ascrizione alla cittadi-
nanza pisana – vale a dire il diritto all’imborsazione per le maggiori
dignità municipali, in veste di «veri, nativi ed originari pisani», risa-
lente al maggio del 1704 –, in un primo momento, inficiarono il valo-
re della vetusta origine nobiliare della casata, proprio in ragione del-

474 AsFi, Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza, 28, ins. 8, cc. n. n., «sproni Cava-

lier Ferdinando. Decreto de’ 17 gennaio 1757». Cfr. B. CAsiNi, Il «Priorista» e i «Libri d’O-
ro» del Comune di Pisa, Firenze, leo s. olschki editore, 1986, n. 87, p. 184; M. Aglietti, Le
tre nobiltà, cit., n. 69, p. 287.
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la dimora nel centro labronico, privo del titolo di città nobile antica
e, di conseguenza, inabilitante al patriziato, ma anche della mancata
residenza in alcun ufficio pubblico di Pisa475. Se in merito a quest’ul-
tima obiezione si replicò, semplicemente, come il godimento delle
magistrature e degli onori civili costituisse un mero «argomento af-
fermativo» di nobiltà, mai negativo, così, in relazione alla precisa in-
dividuazione ed al valore da attribuirsi ai titoli nobiliari originari ri-
vendicati dallo Sproni, si propese per la qualificazione di «nobili di
nobiltà forestiera[,...] non transeunti[,...] domiciliati», per aver di-
mostrato lo stabile trasferimento in Livorno agli albori del secolo
XVII. Dunque, malgrado insanabili perplessità, la reiterazione delle
preci, insieme con «altri documenti [...] uniti a detta scrittura», per
ottenere la grazia, in quanto «nobile da più di 200 anni della Città di
Anversa venuto ad abitare in Livorno, di venire descritto nella classe
del Patriziato della Città di Pisa», sortì l’agognato esito, in forza del
«Dispaccio di Sua Maestà Cesarea dato in Vienna il 2 dicembre 1756
che canonizza[va] la nobiltà della famiglia Sproni per l’effetto d’es-
ser’ ammessa nella classe de’ Patrizi»476.
***
Si è accennato a rilevanti perplessità che avevano animato la di-
scussione in sede di valutazione tanto dei titoli, quanto degli ostaco-
li per la descrizione nei registri nobiliari. A tal proposito, merita una
breve parentesi il problema concernente la relazione tra la detenzio-
ne della dignità stefaniana, distinta nelle due modalità d’ingresso –
per giustizia e commenda –, e la provenienza da una città che fosse
nobile di primo o secondo rango, rispetto ai dubbi sull’interpreta-
zione delle disposizioni vigenti e sull’esame dei requisiti a norma
della Legge del 1750.
Di fatto, la cittadinanza pisana era stata concessa agli Sproni in
ragione dell’ammissione nella Religione stefaniana per mezzo del-
la fondazione di una commenda di padronato familiare: elemento

475 si deve precisare come l’affermazione fosse vera a quell’epoca, ma proprio Ferdinando

di iacopo luzio principiò a risedere nel 1760; cfr. B. CAsiNi, Il «Priorista» e i «Libri d’Oro»,
cit., p. 152.
476 Per gli aspetti presi in esame, cfr. AsFi, Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza,

28, ins. 8. in merito alle vicende della nobiltà non toscana, si veda M. Aglietti, Le tre no-
biltà, cit., pp. 113-129 (capitolo quinto, La nobiltà «forestiera»).
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che aveva ingenerato la naturale congettura in merito alla manca-


ta riconoscibilità della nobiltà generosa. Ma i dubbi in parola
vennero fugati, con argomentazioni piuttosto pretestuose, soste-
nendo la precisa volontà di «tenere la strada dispendiosa e più
breve, che [...] disobligava dalla navigazione e che [...] procurava
gli stessi vantaggi, godendo anzi maggior facilità e privilegi i suc-
cessori in commenda degli stessi per giustizia» 477. In buona so-
stanza, appare chiaro come nel primo decennio d’applicazione
della normativa voluta dalla Reggenza, i meccanismi di ricogni-
zione della nobiltà necessitassero d’esser sottoposti ancora ad un
lungo rodaggio, che portasse al superamento della partigiana ca-
sualità interpretativa.
Tuttavia, anche la vestizione per giustizia – che avrebbe evitato le
prementovate elucubrazioni dei deputati in merito al conseguimen-
to dei diritti politici nella città della Religione –, se messa in relazio-
ne con la residenza a Livorno, sarebbe stata comunque un proble-
ma per l’iscrizione al patriziato, giacché la medesima Legge aveva in-
trodotto la nuova distinzione tra sette città nobili definite antiche
(Firenze, Pisa, Siena, Pistoia, Arezzo, Volterra, Cortona) ed altret-
tante recenti (Borgo San Sepolcro, Montepulciano, Colle Valdelsa,
San Miniato, Prato, Livorno e Pescia)478. Soltanto nelle prime
avrebbero avuto accesso al maggior grado le casate che potessero
vantare un titolo bicentenario del loro status, o d’esser state ricevute
per giustizia nell’Ordine rossocrociato. La consonanza della conces-
sione si fondava sulla presunzione della corrispondenza tra il termi-
ne temporale dei duecento anni e la certificazione dei godimenti
municipali fino alla quinta generazione sopra il pretendente, quella
degli atavi, come sancito dal Capitolo Generale del 1728479, col be-
neplacito di Gian Gastone, al fine di congegnare criteri sempre più
selettivi, nel persistente desiderio di «emulare la nobiltà dei cavalieri

477 AsFi, Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza, 28, ins. 8, cc. n. n.


478 Legge, artt. i, ii, iii e Vi, comma 2°.
479 si trattava di dimostrare la nobiltà del genus: non bastava che il pretendente fosse nobi-

le, ma era necessario che lo fossero anche i suoi ascendenti. Fino al Capitolo generale del
1728 era sufficiente risalire fino alla quarta generazione, vale a dire fino agli abavi; dopodichè
sarà indispensabile arrivare fino ai quattro atavi; cfr. AsPi, S. Stefano, 647, ins. 17, partito n.
40. Detta deliberazione capitolare venne trasfusa negli statuti della religione con le addizioni
del 1746: Statuti, cit., tit. ii, cap. iii, addizioni terze, n. 1, p. 102.
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gerosolimitani»480. La riforma fu inserita nelle terze – ed ultime –


addizioni agli Statuti, del 1746, e spiega l’esistenza e il significato
della norma in oggetto, derivante dallo strettissimo, palese legame
di interconnesione tra i due apparati normativi settecenteschi.
In altre parole, il patriziato postulava una vetusta nobiltà sia della
casata, sia della sua patria. E già sullo scorcio del primo lustro di vi-
genza del nuovo regolamento nobiliare, le autorità di governo si era-
no interrogate sull’ascrivibilità al primo rango dei cavalieri per giu-
stizia provenienti dai sette centri urbani di nobiltà recente, provve-
dendo ad interpellare su tal quesito Pio dal Borgo481. Costui, cava-
liere per giustizia, membro del Consiglio e Vicecancelliere della Re-
ligione cosimiana, nonché dottore in utroque iure, noto per la sua
padronanza dell’immensa congerie di atti normativi, amministrativi
e giudiziari accumulatasi fino allora negli archivi stefaniani, rispose
con una breve memoria composta da dodici carte, il 28 ottobre
1754482.
Ai suoi occhi, apparivano rimarchevoli alcuni dati di fatto, dei
quali prese a parlare ricordando, innanzitutto, come all’epoca di
Cosimo I e Francesco I de’ Medici avessero conseguito l’abito eque-
stre per giustizia finanche postulanti giunti da «semplici terre o ca-
stelli», evidenziando, in secondo luogo, come l’origine da una città
fosse divenuta una regola solamente nel Capitolo Generale del 1587
e rilevando, infine, come la qualifica di città nobile avesse ottenuto
compiutamente una definizione già nel corso del secolo diciassette-
simo, allorquando le comunità «poco rinomate» e, più di ogni altra
cosa, «molto scarse di popolazione», furono giudicate inadeguate a
ricevere i natali dei potenziali cavalieri per giustizia483.

480 Cfr. C. rossi, Cavalieri per giustizia e cavalieri per commenda dell’Ordine di Santo

Stefano nei manoscritti del patrizio pisano Pio dal Borgo (1754-1755), in AA.VV., Atti del
Convegno internazionale «Istituzioni potere e società, a cura di M. Aglietti, cit., pp. 215-
262: 222. l’Autrice cita letteralmente dalle Memorie Istoriche dell’ordine di s. stefano, rac-
colte da Pio dal Borgo, del 1755, conservate presso l’Archivio di stato di Pisa; cfr. AsPi, S.
Stefano, 2876, p. 18.
481 Cfr. C. rossi, Cavalieri per giustizia e cavalieri per commenda dell’Ordine di Santo

Stefano nei manoscritti del patrizio pisano Pio dal Borgo, cit., p. 224.
482 AsFi, Consiglio di Reggenza, 29, ins. 13.
483 Ivi, c. 3r-v: «il poco numero degli abitanti rendeva in certo modo necessario l’ammette-

re al godimento delle prime onorificenze non solo le famiglie già nobili, ma ancora quelle
semplicemente benestanti e talvolta ancora le plebee; in questo caso simili città furono onni-
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D’altro canto, le addizioni terze agli statuti stefaniani, sulla base


delle capitolazioni del 1743, equiparavano ormai le città nobili, sen-
za distinzioni di sorta, e, oltretutto, si potevano contare numerosi
cavalieri per giustizia originari di patrie della specie meno risalente.
Per di più, considerato che la recente Legge del 1750 aveva novella-
to teoria, prassi e norme in materia di nobiltà, non se ne poteva cer-
to prescindere, atteso che i cavalieri della specie in oggetto avevano
un diritto assoluto all’ascrizione nella classe superiore dell’aristocra-
zia toscana, della quale erano del tutto privi i sette centri urbani ca-
detti484.
Ma l’illustre giurista stefaniano, dopo aver sollevato dubbi e per-
plessità circa l’ammissione per giustizia di soggetti gravati dall’han-
dicap di cui si tratta ed essersi interrogato sulla possibilità di conci-
liare il fatto «che una città non goda del patriziato e che nel tempo
istesso produca cavalieri patrizi», procedette in maniera identica-
mente inquisitoria – «Non sarebbe questo un voler da quella esigere
una cosa ch’essa è affatto incapace di produrre?» –, dando l’impres-
sione di aver tracciato un percorso argomentativo tale da portare i
pretendenti di seconda scelta dinanzi ad un vicolo cieco485. Tutta-
via, concluse in maniera piuttosto diplomatica e ponderata, da un
lato ribadendo che le «sette meno antiche città, le quali non godono
della classe del patriziato, neppur debbano in avvenire godere della
prerogativa di produrre cavalieri per giustizia», dall’altro ammetten-
do uno stato dell’opera del tutto incompibile rispetto allo status quo
ante, giacché essendo «al presente viventi diversi cavalieri per giusti-
zia i quali sono originari dalle medesime città, [...] ad effetto di non
inferire a questi una specie di vergogna e di non denigrarne nel con-
cetto universale la stima, ed anco per non dar motivo a lamenti e ri-
corsi, reputerei opportuno di non fare veruna espressa dichiarazio-
ne o deliberazione, con cui fosse assolutamente tolta alle dette città

namente rigettate o furono ammesse volta per volta con grazia precedente a riguardo dei re-
quisiti e delle prerogative d’alcune nobili famiglie che da tali città traevano l’origine».
484 Cfr. C. rossi, Cavalieri per giustizia e cavalieri per commenda dell’Ordine di Santo

Stefano nei manoscritti del patrizio pisano Pio dal Borgo, cit., p. 225.
485 AsFi, Consiglio di Reggenza, 29, ins. 13, c. 7v: «così sembra mal conciliabile e repu-

gnante che quelle città, le quali sono escluse dal primo rango della nobiltà, o sia dal patriziato,
possano esser capaci di cavalieri per giustizia. infatti, come può stare insieme che una città
non goda del patriziato e che nel tempo istesso produca cavalieri patrizi? Non sarebbe questo
un voler da quella esigere una cosa ch’essa è affatto incapace di produrre?».
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la facoltà di far le prove per giustizia», concludendo con un intendi-


mento programmatico, di vago tono compromissorio: «solo all’oc-
casioni che si presentassero pretendenti oriundi dall’istesse città,
crederei che dovesse a questi negarsi la grazia di far tali prove»486.
Ancora una volta, la strategia degli Sproni risultò vincente, aven-
do essi beneficiato – nei modi ampiamente descritti più sopra – di
un’ascrizione al patriziato, senza peccare d’ingenuità, nell’epoca in
cui, per il momento, non era stata fatta piena luce sui dubbi inter-
pretativi di uno strumento normativo che nel primo decennio di vi-
genza e applicazione denotava l’assoluta permeabilità delle sue ma-
glie, soprattutto per mano di coloro i quali, a quanto pare, avevano
ben chiari i meccanismi di inserimento al vertice dell’elite toscana.
***
Ferdinando non si accontentò certo di avere conseguito il patri-
ziato di Pisa, sua pretestuosa patria d’adozione, meramente funzio-
nale alle proprie ambizioni, tanto da supplicare l’ammissione anche
alla nobiltà labronica, senza rinunziare al detto primo rango, il 16
maggio 1765. Ovviamente, tra i numerosi documenti allegati alle
preci per essere iscritto alla classe dei nobili «e come cavaliere del
Sacro Militare Ordine di S. Stefano, e come quelli, che insieme co’
suoi antecessori hà goduto, ed è capace presentemente di godere
del Primo Onore della città» – tra cui lo stemma, l’albero genealogi-
co, le fedi di battesimo, matrimonio e morte, gli attestati dei godi-
menti pubblici (in primis il Gonfalonierato), l’estratto della vestizio-
ne per commenda –, risalta la copia autentica del prementovato
«Dispaccio di Sua Maestà Cesarea dato in Vienna il 2 dicembre
1756 che canonizza[va] la nobiltà della famiglia Sproni per l’effetto
d’esser’ ammessa nella classe de’ Patrizi». Dunque, il postulante,
che «non hà inteso, né intende di recedere, né di derogare della de-
scrizione già fatta della sua persona insieme con i suoi ascendenti, e
descendenti nella classe de’ Patrizi pisani in esecuzione dell’articolo
XXI» della Legge «e per Decreto della clarissima Deputazione [...]
del dì 17 Gennaio 1757[, ...] dopo avere [...] pienamente giustifica-
ta la nobiltà della Città di Anversa», dichiarò «di volere godere in-
sieme in dette due Città di Pisa, e di Livorno, e del Patriziato, e del-

486 Ivi, cc. 11v-12r.


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la Nobiltà respettivamente, e non altrimenti». In più, «inerendo a


detta domanda, et in aumento delle giustificazioni fatte con la me-
desima, atteso l’accasamento seguito del signor comparente dopo la
produzione di detta domanda con la nobile signora Elena Maria del
fu signor Pietro Zorzi, ed Elisabetta Barbaro ambi famiglie Patrizie
della Repubblica di Venezia», fornì le relative fedi matrimoniale e
battesimali per la consorte e i discendenti. Ne risultò, pertanto, un
corposo fascicolo nel quale vennero a sommarsi finanche «le giusti-
ficazioni fatte in occasione del processo compilato in occasione del-
la domanda del Patriziato» pisano. Il riconoscimento dell’apparte-
nenza al novero dell’aristocrazia livornese divenne di pubblico do-
minio con il decreto datato 23 marzo 1768487.
***
L’anno seguente, le prove di nobiltà presentate dal primo dei due
cavalieri per giustizia, Francesco di Ferdinando, furono condiziona-
te, nella forma, dalle precedenti richieste di ammissione al patriziato
pisano (17 gennaio 1757) ed alla nobiltà livornese (23 marzo 1768),
come appare palese dal modo in cui sono state composte ed esibite:
vale a dire con una cura e meticolosità raramente riscontrabili nei
fascicoli dell’archivio stefaniano488. Difatti, in aggiunta ai consueti

487 tutti i riferimenti si trovano nel fascicolo conservato in AsFi, Deputazione sopra la

nobiltà e cittadinanza, 57, ins. 6. Cfr. M. Aglietti, Le tre nobiltà, cit., n. 43, p. 341.
488 AsPi, S. Stefano, 361, ins. 7, provanze di Francesco di Ferdinando sproni. l’indice dei

documenti presentati alla Cancelleria dell’ordine è davvero considerevole: «Albero genealogi-


co della famiglia sproni autenticato in Anversa dal re d’Armi nel 1729 = nel suo originale =.
Attestato del re d’Armi Primario residente in Bruxelles, verificante l’autorità, e fede, che me-
ritano le attestazioni del re d’Armi nelle cause di Nobiltà. Dispaccio di sua Maestà Cesarea
dato in Vienna il 2 dicembre 1756 che canonizza la nobiltà della famiglia sproni per l’effetto
d’esser’ ammessa nella classe de’ Patrizi. Fede di morte di Beniamino di Beniamino [sic] di
giovanni sproni del 1641. Firme di Beniamino, e giacomo suo figlio estratta dal libro delle
Costituzioni della nazione Fiamminga, in prova dell’identità del cognome sporon. Fede di bat-
tesimo di iacopo di Beniamino sproni del 1626. Fede de’ godimenti del Pubblico di livorno,
cioè iacopo di Beniamino sproni gonfaloniere 1660[;] Cavaliere Beniamino di iacopo gonfa-
loniere 1681[;] Cavaliere iacopo luzio del Cavaliere Beniamino gonfaloniere 1724. Fede di
battesimo di Beniamino di iacopo sproni del 1661. Fede che il suddetto vestì l’abito di Cava-
liere di s. stefano [nel] 1690 [1691]. Fede di battesimo di iacopo luzio di Beniamino sproni
del 1690. Fede, che il suddetto vestì l’abito di Cavaliere di s. stefano nel 1709 [1710]. Fede di
suo matrimonio con Maria Vittoria di girolamo Pecci di siena del 1721 = Ava Paterna =. Fede
di battesimo di Ferdinando figlio del Cavaliere iacopo luzio sproni, e di Maria Vittoria Pecci
del 1722. Fede del Pubblico di livorno che il suddetto Ferdinando fu vinto gonfaloniere nel
1739. Fede che il suddetto vestì l’abito di Cavaliere di s. stefano nel 1741. Fede di suo matri-
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incartamenti, possono rinvenirsi, in particolare, oltre l’albero genea-


logico degli Sproni, autenticato dal Re d’armi Carlo Van den Hecke
e dai Consoli Senatori della città d’Anversa, le ascendenze per le fa-
miglie dei quarti materni, anch’esse certificate da altrettanti alberi
genealogici muniti di autenticazione. Francesco, dunque, poté age-
volmente dimostrare di discendere per ava paterna dai Pecci e dai
Mignanelli di Siena, per madre dagli Zorzi di Venezia e per ava ma-
terna dai Barbaro, parimenti di Venezia, tutte prosapie che avevano
più volte ricoperto i primi onori nelle patrie d’origine, le quali anda-
vano a rafforzare le credenziali nobiliari degli Sproni, senza più ti-
more di contestazioni.
Proprio questo dev’essere considerato il momento della svolta
per l’acquisto a pieno titolo della nobiltà cavalleresca: il 5 marzo
1768, i cavalieri del Consiglio, in ottemperanza alle disposizioni sta-
tutarie, in forza delle quali dovevano provarsi «i godimenti dei pri-
mi onori delle Patrie loro, o capacità per cinque generazioni alme-
no» sopra il pretendente, sottoposero ai voti i quarti e ne sanziona-
rono l’ammissibilità. Il processo si concluse con la vestizione, in da-
ta 17 settembre 1769489.
***
L’anno 1781 segnò l’ingresso nella Religione di Beniamino Spro-
ni, fratello utrinque congiunto di Francesco, il quale fece una bril-
lante carriera nei suoi ranghi, grazie al conseguimento dell’abito per
giustizia il 19 marzo 1781490. Difatti, si deve rammentare come le

monio con elena Maria figlia di Pietro zorzi e di Maria elisabetta Barbaro di Venezia del 1754
= Madre =. Fede di battesimo di Francesco sproni figlio del Cavaliere Ferdinando e di elena
zorzi del 1760 = Pretendente =. Fede di battesimo di elena Maria di Pietro zorzi quondam gi-
rolamo e di Maria elisabetta di Angiolo Maria Barbaro di Venezia nata in ... 1732. Fede di bat-
tesimo dell’Ava Paterna Maria Vittoria di girolamo del quondam Muzio Pecci di siena del
1703. Fede, che il Cavaliere Francesco Pecci di siena, figlio di girolamo quondam Muzio, e
fratello carnale di detta Maria Vittoria vestì l’abito di Cavaliere milite per giustizia avendo pro-
vata la nobiltà de’ suoi quarti = questa deve cavarsi dalla Cancelleria dell’ordine =. Fede di
battesimo dell’Ava Materna Maria elisabetta di Angiolo Maria Barbaro e di Cornelia Malipiero
nata nella Città di Crema il dì 2 luglio 170... libretto colle Partite estratto in autentica forma
dall’offizio dell’Avogadria della Città di Venezia in prova della discendenza, e nobiltà delle fa-
miglie zorzi, e Barbaro per i quarti della Madre zorzi = e Barbaro per l’Ava Materna =. Colla
fede del matrimonio contratto da Piero zorzi quondam girolamo con Maria elisabetta Barbaro
quondam Angiolo Maria, da’ quali poi nacque elena zorzi Madre del Pretendente».
489 AsPi, S. Stefano, 578, c. 141r.
490 AsPi, S. Stefano, 578, c. 165t.
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due specie della dignità cavalleresca stefaniana non fossero perfetta-


mente equipollenti. Ancora una volta, sono le autorevoli parole di
Pio dal Borgo a chiarire come in forza di una «consuetudine già da
molto tempo introdotta nell’Ordine» si desse licenza al sorteggio
per la copertura delle dignità capitolari maggiori o Gran Croci (nel
tempo ridimensionate, ma sopravvissute come segue: Gran Conte-
stabile, Gran Priore, Gran Cancelliere, Gran Tesoriere, Gran Con-
servatore) esclusivamente ai cavalieri per giustizia491. Siffatta prati-
ca, contestata nel Capitolo Generale del 1713492, fu per converso
confermata da Francesco Stefano, che ne sancì l’ottemperanza con
un dispaccio del 3 agosto 1748493 e, qualche anno più tardi, con il
motuproprio del 18 maggio 1752494, dispose come le cariche ad ho-
norem dovessero essere conferite per mezzo di formule differenzia-
te, in base alla categoria dei cavalieri.
Le nobili origini e il dinamismo che gli derivava dalla stoffa dei
suoi antenati, grandi mercanti fiamminghi che sagacemente e, allo
stesso tempo, prudentemente, nel 1690, avevano fondato la com-
menda di padronato per mettere al sicuro da eventuali evizioni e ri-
vendicazioni di creditori alcuni beni fondiari e sottrarli in tal modo
ai rischi della mercatura e della speculazione finanziaria, lo condus-
sero verso la realizzazione di una delle più gratificanti carriere stefa-
niane mai messe in pratica, apprestata con cura fin dalla primavera
della vita. Infatti, quando ebbe terminata la Carovana, si recò a fare
tirocinio militare in Spagna e, appena rientrato in patria, divenne
aiuto del Gran Priore – ruolo che diede il la alla sua scalata – dal
1759 al 1802, Gran Tesoriere dal 1802 al 1803, Gran Cancelliere dal
1803 al 1807, Gran Priore dal 1807 al 1809 e dal 1818 al 1838 (inte-
rino l’ultimo anno) e Gran Contestabile dal 1828 al 1838 (sempre
interino e titolare l’ultimo anno). Il suo pedigree lo rese finanche
l’interprete ideale delle ragioni di sopravvivenza dell’Ordine al co-

491 Cfr. C. rossi, Cavalieri per giustizia e cavalieri per commenda dell’Ordine di Santo

Stefano nei manoscritti del patrizio pisano Pio dal Borgo, cit., p. 230.
492 AsPi, S. Stefano, 647, ins. 12, nn. 62-63, c. 45r.
493 AsPi, S. Stefano, 1621, n. 47, c. 183r. in questa occasione il gran Maestro escluse dal-

l’elettorato passivo per le dignità capitolari il pisano ranieri gaetano leoli, la cui apprensione
d’abito era avvenuta, il 18 febbraio 1720, per successione in commenda di padronato (AsPi,
S. Stefano, 578, c. 60v).
494 AsPi, S. Stefano, 1621, n. 93, c. 293r.
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292

spetto dei governanti francesi che, nonostante ogni sforzo, al mede-


simo tempo difensivo e conservativo, riuscirono a tradurre in realtà
l’intenzione di sopprimere la Religione, nel 1809. Il nuovo stato di
fatto non diminuì il valore della sua capacità di destreggiarsi in qua-
lunque frangente, dacché ebbe la prontezza di accaparrarsi diversi
edifici stefaniani pisani confiscati dai francesi, nonché di farsi eleg-
gere al corpo legislativo come deputato del Dipartimento del Medi-
terraneo, fino a divenire rettore delle neonata Accademia pisana, se-
zione dell’università imperiale, nel 1810. In totale armonia con il
senso di continuità che aveva saputo imprimere alla sua esistenza ed
alla propria carriera, al momento del rientro di Ferdinando III, nel
1814, riuscì a conservare l’ufficio di Provveditore dello Studio, saga-
cemente mediando tra l’attuazione di scelte politiche, di matrice re-
stauratrice, eccessivamente eversive e la conservazione delle innova-
zioni napoleoniche di maggior pregio e rilevanza. Ma anche la car-
riera stefaniana ritrovò vigore, allorquando, nel 1818, riprese le vesti
di Gran Priore, forzatamente dismesse all’epoca del primo sciogli-
mento della Religione495. La morte lo colse nella dimora di Piazza
dei Cavalieri, il 13 dicembre 1838, fra le braccia di Maria Bicchierai,
sua amorevole consorte; dopodiché, quattro giorni più tardi, l’Ordi-
ne tributò l’onore delle esequie al cavaliere che fece in prima perso-
na le scelte più importanti della Religione, oltre che difendere i pro-
pri interessi496.
***
Non si deve trascurare di volgere lo sguardo agli eventi che pro-
cedettero parallelamente ai prenarrati, nell’arco temporale compre-
so tra il 1782 ed il 1803, allorché Francesco di Ferdinando, divenu-
to titolare dei diritti successori, mise in atto una serie di riqualifica-
zioni del fondo dotale, ponendo le basi per ridefinire il grado della
commenda familiare ed attivare un complicato congegno di svinco-
lazioni e surrogazioni, volto sì alla promozione in Baliato di Livor-
no, ma, soprattutto, alla messa in opera di un riequilibrio nei rap-
porti finanziari con il mercato immobiliare, finalizzato al cambio di

495 Cfr. D. BArsANti, Organi di governo, dignitari e impiegati dell’Ordine di S. Stefano,

cit., pp. 111-113; AsPi, S. Stefano, 396, ins. 14, provanze di nobiltà di Beniamino sproni.
496 AsPi, S. Stefano, 3681, p. 13.
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destinazione tra beni da proteggere o conservare e cespiti più facil-


mente disinvestibili e, per ciò stesso, di maggior pregio speculati-
vo497. Appare chiaro come non sia questa la sede per ripercorrere
puntualmente le vicende in parola, anche se deve darsi un senso
compiuto alla relazione con la famiglia, rammentando come la sup-
plica più rilevante, datata 9 giugno 1804, fosse – ancora una volta –
il pretesto per ottenere più di un beneficio dall’anelata grazia498. Di
fatto, come contropartita per la concentrazione dell’intero fondo
commendale in un solo immobile di maggior valore, si richiese il
consenso alla vestizione del manto rossocrociato per il primogenito
Ferdinando. Ma la complessità delle operazioni di stima e accerta-
mento della libertà rispetto ad eventuali vincoli legali sul bene stabi-
le in oggetto – pur beneficiate dal consenso allo svincolo, del 12 lu-
glio 1804 – causò una battuta d’arresto fino alla primavera del
1806499.
Nel maggio dell’anno detto, Francesco definì – finalmente – le
sue richieste, esprimendo il proposito di elevare l’ammontare del
patrimonio vincolato fino alla somma di trentamila scudi, per una
rendita annua di milleduecento, senza omettere di riservare al figlio
maggiore la dignità cavalleresca, supportata dalla rendita di trecento
scudi, e di subordinare l’operazione finanziaria alla trasformazione
della commenda semplice in Baliato di Livorno. L’intercessione del-
l’autorevole fratello Beniamino, nel giugno seguente, depose a suo
favore, sia in merito all’assunzione del titolo senza giurisdizione, fin
quando fosse perito l’attuale titolare, il cavaliere Benedetto Lisci, sia
in relazione alla vestizione del primogenito Ferdinando in qualità di
confondatore del Baliato, così da ottenere il consenso della Regina
Reggente, Maria Luisa di Borbone, con il rescritto del 28 giugno500.
Una volta assolte le consuete formalità legali sull’oggetto del fondo
dotale e vagliati i documenti esibiti per il processetto di Ferdinan-
do, fu rogato il contratto di fondazione, in data 6 settembre501.
Ancora una volta, le strategie socio-economiche finalizzate all’ac-

497 AsPi, S. Stefano, 3525, cc. 154t-155r.


498 AsPi, S. Stefano, 1309, ins. 122.
499 AsPi, S. Stefano, 1314, ins. 51.
500 AsPi, S. Stefano, 1315, ins. 118.
501 AsPi, S. Stefano, 3463, ins. 9.
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quisizione e cura di uno status privilegiato, adottate a tutela e con-


servazione della casata, sortirono i risultati prefissati: Francesco di
Ferdinando assunse il titolo di Balì di Montalcino, con la condizio-
ne di successione nel Baliato di Livorno, suo fratello Beniamino si
fece garante dell’ossequio di tutte le clausole stilate nel contratto di
fondazione più risalente – relativo alla commenda familiare del 22
dicembre 1690 – e suo figlio Ferdinando ottenne l’abito di cavaliere
milite come associato nel Baliato di Montalcino dalle mani del pre-
mentovato zio – a quell’epoca Gran Cancelliere dell’Ordine –, «in
patria nella chiesa dell’arciconfraternita della Misericordia»502, una
dozzina di giorni dopo la riferita «erezione di detta commenda in
Baliato, col titolo per ora di Baliato di Montalcino, e con la soprav-
vivenza poi al titolo di Baliato di Livorno mancato che sia l’attual
Balì di detta città»503.
Tuttavia, un’operazione così complessa non poteva fruttare una
divisa da cavaliere soltanto. Francesco, infatti, emulando le mosse
che contraddistinsero i suoi più scaltri e illustri antenati, a comincia-
re dal capostipite Beniamino – che per primo aveva inserito nello
strumento d’istituzione commendale le clausole-chiave per la tra-
smissione della dignità equestre alla stessa stregua di un’eredità pa-
trimoniale –, «in virtù dell’Istrumento di fondazione de’ 22 dicem-
bre 1690», a tenore del quale si riconosceva in capo ai successori «la
facoltà di rinunziare una rata per la rendita annua di scudi 120 a fa-
vore di uno dei chiamati alla commenda medesima», ottenne «la
grazia di esercitare un tal diritto a favore del suo figlio secondogeni-
to Giuseppe», con il rescritto del 30 luglio 1807504. Si trattava della
replica di ciò che era accaduto tre generazioni prima: vale a dire che
dopo quasi un secolo da Beniamino di Iacopo – il quale aveva potu-
to garantire la vestizione del proprio figliuolo, Iacopo Luzio, nel
1710 –, un altro membro della prosapia si adoperò per garantire la
prosecuzione delle tradizioni familiari in capo ai propri discendenti,
per mezzo degli strumenti forniti, su un vassoio d’argento, dalla
normativa stefaniana, che gli Sproni, indubitabilmente, avevan sa-
puto far propri.

502 AsPi, S. Stefano, 579, c. 26t.


503 AsPi, S. Stefano, 3525, c. 155r.
504 AsPi, S. Stefano, 1318, ins. 133.
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Settimo ed ultimo ad esser cinto del manto rossocrociato – come


rinunziatario di una porzione del Baliato di Montalcino –, una volta
osservate tutte le formalità procedurali, fu, pertanto, Giuseppe di
Francesco Sproni, in data 21 dicembre 1807505.

IV. Conclusioni
Dal breve studio delle vicende della famiglia Sproni e dell’ammis-
sione nell’Ordine di Santo Stefano, emergono i tratti caratteristici di
una nobiltà di recente formazione ed in rapida ascesa, per la quale il
conseguimento del prezioso titolo cavalleresco significò l’equipara-
zione alle maggiori casate dell’aristocrazia e l’acquisizione della
chiave d’accesso al ceto dirigente toscano.
Di fatto, una vera e propria oligarchia livornese prenderà forma
solo a partire dal XVIII secolo, allorquando un ben definito insieme
di famiglie riuscirà ad assicurarsi il privilegio dell’ingresso nella su-
prema magistratura cittadina del Gonfalonierato. Il riconoscimento
dello status nobiliare dell’oligarchia labronica arrivò con il motu-
proprio granducale di Cosimo III, del 4 ottobre 1720, che attribuiva
al supremo ufficio municipale la dignità di magistratura nobilitante
ai fini delle aggregazioni all’Ordine stefaniano, con efficacia retroat-
tiva: vale a dire a partire dal 1604.
Il provvedimento assunse nel tempo un’importanza che travalicò
l’ambito della Religione fondata da Cosimo I, andando ad incidere
sulla normativa e le strutture dello Stato. Nell’età della Reggenza lo-
renese, per l’appunto, fu promulgata la nota Legge per regolamento
della Nobiltà e Cittadinanza, la quale si occupava, per la prima volta,
di disciplinare, in modo chiaro ed organico, l’assetto della nobiltà,
che veniva ufficialmente riconosciuta anche per la città di Livorno.
Fino allora, infatti, la Toscana era rimasta sprovvista di un proprio
diritto nobiliare statuale e si avvaleva delle norme del diritto comu-
ne dirette a disciplinare l’ordo decurionum nei municipi del Basso
Impero Romano, anche se poteva disporre – come più volte rilevato
– del corpus normativo, di grande importanza e prestigio, rappre-
sentato dagli Statuti dell’Ordine di Santo Stefano, ormai giunti alla
stesura definitiva, del 1746, corredata dalle Addizioni.

505 AsPi, S. Stefano, 579, c. 28t.


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Ai passaggi sistematici in parola, deve essere annesso il motupro-


prio leopoldino del 20 agosto 1767, che riconosceva per nobile la
città labronica, specificando il ricongiungimento dell’arco tempora-
le precedente l’inquadramento legale della nobiltà con efficacia re-
troattiva, dal 1606 al 31 luglio 1750, andando a connettersi stretta-
mente con la Legge di diciassette anni prima, ma finanche rafforzan-
do l’efficienza e l’efficacia dell’atto di pari grado del 1720, che – si
rimarca – aveva esteso la sua capacità operativa dalle prassi stefania-
ne alla legge dello Stato.
Si dimostrava, così, come non soltanto vi fosse tradizionalmente
un’unione personale di status in capo al principe – Granduca e
Gran Maestro – ma anche una relazione osmotica tra i precetti ste-
faniani e la normazione primaria, allorquando si trattasse il tema
della nobiltà civica toscana506.
Nel 1769, dunque, la conferma per giustizia della nobiltà cavalle-
resca in capo alla famiglia Sproni, che andava a sommarsi all’iscri-
zione nei Libri d’Oro, assumeva un valore dichiarativo, non solo in
merito al possesso di titoli di nobiltà accreditati dall’Ordine di San-
to Stefano, del tutto equiparati a quelli delle più illustri stirpi del
Granducato e di altri Stati italiani ed europei, ma anche, e soprat-
tutto, alla detenzione di una netta preminenza sociale, sostenuta da
una posizione giuridica differenziata, che si rifletteva nell’esercizio
dei diritti politici, rasentando l’esclusività. Si trattava del definitivo
accoglimento della casata nel ceto dominante toscano tralatizio, co-
stituito dalle più antiche dinastie aristocratiche, che avevano impie-
gato, a quel momento, quasi sei secoli per consolidare una posizione
oligarchica, costruita ed ottenuta dagli Sproni in poco più di un se-
colo e mezzo. Ma, in questo singolare caso, l’apprensione per giusti-
zia – di cui tanto, dianzi, si è sottolineato il pregio – assumeva un
plusvalore inaspettato e davvero significativo: la vestizione di Fran-
cesco di Ferdinando Sproni rappresentava l’acquisto della nobiltà
stefaniana a pieno titolo anche per la Città di Livorno, poiché fino
allora non v’eran stati che cavalieri commendatori.

506 si veda, su tutti, D. MArrArA, Riseduti e nobiltà, cit., passim.


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INDICE DEI NOMI

Accarigi (famiglia), 241 Andreuccio Martio, 250


Accarigi Camillo di Francesco, 241 AnGiOlini Franco, 11n, 13n, 15n, 117n,
Accarigi Francesco di Camillo, 241 130n, 153n, 272n, 277n
Accarigi Francesco di Giovanni, 241 Ansaldi Francesco, 255, 255n
Accarigi Francesco di Onofrio, 241 Antici (famiglia), 260, 261, 263, 264n
Accarigi Giovanni di Francesco, 241 Antici Antonio di Giulio, 263
Accarigi Maria Maddalena di Francesco, Antici Clemente di Antonio, 263
240, 241 Antici Giulio di Camillo, 263
Acciaiuoli (famiglia), 221n Antici rosalia di Clemente, 263
Acciaiuoli Francesco di Giovanni, 220, 221 Antinori Gaetano, 10n
Acciaiuoli Maria Poliziana di Acciaiuolo Antinori niccolò, 234, 279, 279n
di Zanobi, 212, 214, 221 Antinori vincenzo, 259n, 260n
Acciaiuoli Zanobi, 216, 220 A nZilOtti Antonio, 35n, 85, 85n, 97n,
AdriAni Giovanni Battista, 86, 86n, 98n 125, 126n, 140n
A Glietti Marcella, 9n, 11n, 12n, 15n, Apolloni nicola, 243, 245, 245n, 246
46n, 52n, 164n, 171n, 172n, 179n, Asburgo (famiglia), 11n, 39n, 41, 52, 69n,
200n, 206n, 208n, 210n, 212n, 282n, 104
283n, 284n, 286n, 289n ASCheri Mario, 9n, 11n, 16n, 22n, 37n, 55n,
Agnolo di Mino di tura del Grasso, 162n 58n, 77n, 81n, 88, 88n, 89n, 94n, 113n
Agostini ippolito di Marcello, 178 Aurieri Antonio, 155n, 162n
Alberico (patriarca d’Antiochia), 159n
Albertani Pompeo di Alberto, 230 BAker George r. F., 11n, 52n, 53n, 69n,
AlBertini (vOn) rudolf, 48n, 87n 91n, 163n
Aldobrandeschi (famiglia), 72n BAldASSerOni eleonora, 46n, 52n, 72n
Aldobrandeschi Aldobrandino, 168n Baldasseroni Pompeo, 275
Alessandro de’ Medici, 21n, 27n, 28, 29, Balestri lattanzio, 173n, 175n, 189n
29n, 30, 30n, 86, 101, 102, 105n, 108 Bambagini Pietro, 171n, 172, 172n, 173n,
Alessandro iii (rolando Bandinelli), 159n 174n, 175n
Alessandro vii (Fabio Chigi), 232 BAnChi luciano, 65n, 66n, 83n
Alessandro Magno, 74n Bandiera Giuseppe, 174n
Ambrogi diego di Francesco, 225 Bandinelli (famiglia), 52n, 173n
AMMirAtO Scipione, 86, 87n Bandini (famiglia), 26
AMMirAtO Scipione (il Giovane), 87n Bandini Mario, 38n, 108n
Andreini Andrea, 221 Bandini Patrizio, 229
Andreucci Francesco, 187, 187n Bandini Piccolomini Francesco, 178
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Barbaro Francesco (patriarca di Aquileia), Berardingi (famiglia), 158


249 BerenGO Marino, 54n, 84n
Barbaro (famiglia), 290, 290n Bergardi Francesco, 185, 186
Barbaro Maria elisabetta di Angiolo Maria, Berlinghieri Odoardo di Quintilio, 195,
289, 290n 195n
Barci Francesco, 184, 184n Bernardini Martino, 106n
Bardi (famiglia), 244, 244n Bernardini rodolfo, 211n
Bardi Alessandro, 244 Bernardo (patriarca d’Antiochia), 159n
Bardi Alessandro di Michele Maria, 244 BernArdOni Francesco, 272n, 274n
Bardi Giovanni, 244 Berner Samuel, 49n
Bardi lattanzio, 244 Berti Stefano, 250, 250n
Bardi Maria Anna di Alessandro di Bettini Paolo, 236n, 240n
Michele Maria, 244 Bicchierai Maria, 292
Bardi Michele Maria di Alessandro, 244 Bichi Alessandro, 37n, 58n
Bardi ranieri di Alessandro di Michele Bichi Annibale, 229
Maria, 244 BiChi (de’) Galgano di rutilio, 94, 94n,
Bardi Ciampoli (famiglia), 244n 155n, 161, 161n, 162n, 163, 164n,
Bardi Ciampoli Alessandro di Michele di 174n, 229
Alessandro, 244 Bichi Borghesi Maria Geltrude, 174n
Bardi Ciampoli Anna di Alessandro, 244 Bichi Borghesi niccolò, 174n, 192
Bardi Ciampoli ranieri Francesco di BillACOiS François, 51n
Alessandro, 244 BiZZArri dina, 66n
Bargagli Antonio, 164 Bizzarri Pietro Antonio, 222
Bargagli Aurelia di Scipione, 195 Bobba traiano, 215
Bargagli Mario, 229 BOdin Jean, 150, 150n
BArSAnti danilo, 15n, 45n, 49n, 97n, 119n, Bolognini domenico di Giuseppe, 237,
121n, 136n, 150n, 151n, 152n, 177n, 240
182n, 183n, 184n, 200n, 211n, 292n BOnelli COnennA lucia, 12n, 45n, 50n
Bartalucci vincentio, 187n Bonsi domenico, 215, 216, 217
Bartoli Cosimo di Matteo di Marco, 219 Borgherini Pier Francesco, 228
Bartolini Salimbeni Francesco di Giovan- Borghesi (famiglia), 195, 195n
ni Battista di Alessandro, 225 Borghesi niccolò di Giovanni Battista,
BArZAnti roberto, 52n, 113n 195
Belardeschi (famiglia), 156n, 158 BOwSky william M., 18n, 73n, 83n, 88,
Belgrado Giacomo, 270n 88n, 165n
Bella Cara d’uggieri Cadula, 162n BrACCi Mario, 102n
BellAnti luCArini Alcibiade, 56, 57n, Brazzaco (di) lucrezia di Zoppola, 268n
58, 58n, 59 Brogiotti Francesco luca, 242n, 243,
Beltrame tebaldo, 270, 270n 243n, 245, 246, 246n
Beltrami Giovanni, 217 Bruni leonardo, 228
Benedetto Xiii (vincenzo Orsini), 262 Bulgarini lattanzio, 161, 229
Benedetto Xiv (Prospero lorenzo lam- Bulgarini Paris di lattanzio, 161
bertini), 120 Bulleri Fabrizio, 278n
Benvoglienti uberto, 160n Buonaccorsi (famiglia), 241
Berardenghi (famiglia), 158, 158n, 159n, Buonaccorsi Zaccaria di leonardo, 234
160, 160n, 162n, 163n Buoninsegni Francesca di Francesco, 190
Berardeschi (famiglia), 160n Buoninsegni Piero di Francesco, 237, 239
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Buonsignori Girolamo di Francesco di Cellesi Giovanni, 194n


Filippo, 217 Cellesi lanfredino, 193n, 194n, 195n
Buontempi ventura, 221, 221n Cellesi Paolo, 194n
Burlamacchi Francesco, 106 Celli roberto, 66n, 77n
Cenni Alessandro, 189
Cacciaconti (famiglia), 159n Centofiorini Costanzo, 264, 264n
Cacciaguerra (famiglia), 159n Cerretani Agostino, 221
CAGGeSe romolo, 87, 87n, Cerretesi Agostino, 223
CAMMArOSAnO Paolo, 157n, 158n, 159n, Chigi (famiglia), 73n
160n, 162n, 163n Chigi Agostino, 73n
CAntAGAlli roberto, 17n, 32n, 38n, 72n, Chigi Buonaventura, 229
108n ChittOlini Giorgio, 94n
CAntini lorenzo, 8n, 21n, 27n, 29n, 30n, Ciampoli Francesco Maria, 256
39n, 90n, 91n, 92n, 93n, 95n, 96n, Ciani Giulio, 190
99n, 100, 100n, 101n, 104n, 111n, Cinughi (famiglia), 165
116n, 117n, 120n, 122n, 125n, 136n, Cinughi Cristofano, 187
143n, 271n Ciolfi Giuseppe, 174n
Capponi niccolò, 86n Cioli (famiglia), 189, 191
Capponi raffaello, 254 Cioli Andrea, 185, 186, 223
CArACCiOlO Alberto, 97n, 140n CittAdini Celso, 155n, 162n, 168n
CArCereri luigi, 35n Clemente vi (Pietro roger de Beaufort),
CArdini Franco, 13n 168
CArli Giovanni rinaldo, 121, 121n Clemente vii (Giulio de’ Medici), 25, 26,
Carli Piccolomini (famiglia), 241 26n, 27, 29, 37, 41, 71
Carlo iv di lussemburgo (imperatore), COChrAne eric william, 87n
168n, 181, 181n Colloredo (famiglia), 211n, 212, 248,
Carlo v d’Asburgo (imperatore), 26, 27, 248n, 249, 249n, 251, 252, 257, 260,
30n, 36, 38, 38n, 39n, 40, 89, 100, 101 261, 264, 265, 266, 267n, 268n, 269
Carlo vi d’Asburgo (imperatore), 261 Colloredo Antonio di Girolamo di Ferdi-
Carlo viii di valois, 25 nando, 262
CArter Charles h., 21n Colloredo Bernardo di Guglielmo, 267
CASini Bruno, 164n, 177n, 184n, 185n, Colloredo Camillo, 251
186n, 188n, 189n, 190n, 191n, 192n, Colloredo Camillo Osvaldo di Filippo,
193n, 194n, 195n, 210, 210n, 215n, 267, 267n, 268, 268n, 270, 270n, 271,
220n, 222n, 224n, 226n, 234n, 236n, 271n
239n, 242n, 249, 249n, 250n, 255n, Colloredo Carlo di Filippo, 265, 266, 270,
256n, 259n, 264n, 267n, 276n, 281n, 270n
283n, 284n Colloredo Claudia di Orazio, 257
Castellucci Bernardino, 173n, 174n Colloredo Fabio di Ferdinando di Fabio, 261
CAStiGnOli Paolo, 275n Colloredo Fabio di Girolamo, 261
Caterini (famiglia), 189 Colloredo Fabio di nicolò, 254, 255,
Caterini Maria Mustiola di Pomponio, 189 255n, 256, 256n, 257, 258
CAtOni Giuliano, 52n, 113n Colloredo Fabio di rodolfo, 252, 259,
CAvAlCA desiderio, 79n 259n, 260n, 261, 263, 264
Ceccherelli Michelangelo, 229, 235, 280n Colloredo Fabrizio di Fabio di Girolamo,
CeCChini Giovanni, 69n, 70n, 72n, 106n 249, 249n, 250, 250n, 251, 251n, 252,
Ceffini Francesco Maria, 225 253, 254, 255, 255n
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300

Colloredo Fabrizio di Fabio di nicolò, 103, 104, 105, 107, 109, 116n, 117n,
261 128, 129, 131, 134, 178n, 213, 215,
Colloredo Ferdinando di Fabio, 256, 258, 217, 251, 286, 295
259 Cosimo ii de’ Medici, 12n, 153, 180n,
Colloredo Filippo di Giulio Cesare, 268, 220, 252, 253, 271n
268n, 270n, 271 Cosimo iii de’ Medici, 228, 236n, 278,
Colloredo Francesco di Fabio, 252 279, 295
Colloredo Girolamo di Fabio, 249, 252, Covonj Marco, 228
259, 259n, 264, 264n, 265n, 266, 271 Craon (de Beauvau) Marc, 116, 282
Colloredo Girolamo di nicolò, 254, 255 Curini Biagio, 256
Colloredo Giulio Cesare di Ascanio, 268n CuGnOni Giuseppe, 73n
Colloredo Giulio Cesare di Filippo, 268n CuStOZA Gian Camillo, 248n, 249n
Colloredo leandro di Fabio, 261
Colloredo Maria Antonia di Filippo, 266 d’AddAriO Arnaldo, 26n, 32n, 39n, 103n
Colloredo Marzio, 251 da diacceto dionigi di Francesco, 217
Colloredo nicolò di Fabio, 249, 253, 254, da Picchena (famiglia), 228, 232
255, 256, 261 dal Borgo Giovanni Saladino, 242
Colloredo nicolò di nicolò, 254, 255 dal Borgo Pio, 245, 248, 286, 286n, 287n,
Colloredo Pompeo di Fabio di nicolò, 291, 291n
261 dal Monte Camillo, 193n
Colloredo Pompeo di nicolò, 254, 255 dal Monte Piero, 183
Colloredo rodolfo di Ferdinando, 261 dalle Pozze ercole di lorenzo, 256
Colloredo rodolfo di Girolamo di Fabio, de CAdenAS y viCent vicente, 39n
264, 264n, 265, 265n, 266, 266n, 267, de’ Cerchi Alessandro, 225
267n de’ COlli Sandro, 43n, 115n, 124n
Colloredo rodolfo di Girolamo di Ferdi- de Figueroa Giovanni, 39n, 100, 101
nando, 262 de GreGOriO Mario, 52n, 113n
Colloredo tommaso di Giovanni, 267 de luna Giovanni, 31
Colloredo vicardo di Guglielmo, 267 de’ Mattei (famiglia), 278
Colloredo Mels (famiglia), 248 de’ nerli Filippo, 27n, 86, 86n
Colombini tommaso Maria, 195 de Pace (famiglia), 249
Condulmari Giovanni, 263 de tassis Ottavio di Ferdinando, 256
COntArini tommaso, 50n del BiAnCO lamberto, 130n
COntini Alessandra, 89n del Bene Francesco di Giulio, 223
COPPini Annita, 105n del Bene Giulio, 258
COPPini romano Paolo, 130n, 131n del Buono tommaso, 194n
Coppoli Francesco, 256 del Mosca Onofrio, 265, 265n, 266n, 267,
Corazzi Francesco, 187,187n 267n
Cosi del voglia (famiglia), 150n, 151n del vigna (famiglia), 278
Cosi del voglia vincenzo, 196 dell’Antella Cosimo, 222
Cosimo de’ Medici (il Vecchio), 29, 87n, dell’Antella niccolò, 220, 221, 222, 254
129 della Ciaia Bernardino Azzolino, 238
Cosimo i de’ Medici, 6, 10n, 22, 26, 27n, della Ciaia Mustiola di Fausto, 186
30, 30n, 31, 33, 35, 35n, 36, 38, 38n, della rena (v. Giusti) Alberto di Giovanni
39n, 42, 43, 44, 44n, 45n, 46, 48, 49, Battista, 220
72, 74n, 85, 85n, 86, 86n, 89, 90, 92, della rena evandro di Giuliano, 217
95n, 96, 97n, 98, 100, 101, 102, 102n, dewAld Jonthan, 13n
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di Grazia Francesco, 223 Flamini Flaminio di Sebastiano, 263


di SiMPliCiO Oscar, 11n, 53n Flamini Francesco di lucandio, 263
diAZ Furio, 8n, 48n, 49, 88, 88n, 116n, Flamini Francesco di Sebastiano, 263
117n, 271n Flamini lucandio di Francesco, 263
dOnAti Claudio, 9n, 13n Flamini Maria teresa di Francesco, 262
dOuGlAS langton, 16n, 88, 88n Flamini Sebastiano di Antonio, 263
ducci Marco, 224n Fondi (famiglia), 164, 173
Fondi Angelo (Curzio ugurgieri), 164,
elci (d’) (famiglia), 46, 46n, 52n, 72n 165, 173n
elci (d’) Alfonso, 190 Fondi Angelo di Adriano, 164, 164n, 173n
elci (d’) uggieri, 229 Forteguerri niccolò, 164
enGelS M. Christine, 275n Forti (famiglia), 278
enrico ii di valois, 38, 103, 105 Foscari Marco, 34n
ermingarda di ranieri, 160n Franceschi (famiglia), 278
ermini Giuseppe, 158n Franceschi Benedetto, 225, 225n
Francesco i de’ Medici, 12n, 286
Fabbri Giovanni Battista, 223 Francesco Stefano di lorena (imperatore),
Fabbrini Simone, 190, 244, 244n 8, 9, 12n, 116, 117, 118, 121, 133, 135,
Fabbroni laura, 194, 194n 153, 259, 259n, 260n, 271n, 282n, 291
Fabbroni niccolò, 194n Franchini taviani Giulio, 172, 172n,
FAlOrSi Andrea, 155, 155n, 162n, 167, 174n, 175n
167n Fratina (famiglia), 251
FAntOni Marcello, 13n FrAtOiAnni Aldo, 9n, 116n
Farulli Gregorio, 160n
FASAnO G uArini elena, 10n, 27n, 44n, GAlASSO Giuseppe, 9n
45n, 94n, 95n, 97n Gallari di Pietro, 162n
FASOli Gina, 82n Gallerani (famiglia), 185
Fattrini Angiolo, 191 Gallerano nicola, 149n
Fedeli vincenzo, 31, 31n, 34n, 40n, 50, GAlluZZi riguccio, 31n, 34, 34n, 87, 87n, 88
50n, 99n Gardenigo Pietro, 106n
Federico i Barbarossa (imperatore), 77, GAttOni Maurizio, 33n
159n Gaulardi luigi, 195n
Ferdinando i d’Asburgo (imperatore), GAy i eSCOdA Josep M., 9n
39n, 101, 104 Gerardini Caterina, 194n
Ferdinando i de’ Medici, 27n, 35, 46, 74n, Gherardi Bartolomeo, 194n
100n, 184n, 252 Ghino di tacco, 72n
Ferdinando ii de’ Medici, 12n, 153, 179n, Gianfigliazzi Orazio, 228
185, 188, 188n, 232, 253, 255, 259, Gian Gastone de’ Medici, 112, 116, 120,
259n, 271n 285
Ferdinando iii d’Asburgo-lorena, 152n, Giano della Bella, 20
292 GiGli Girolamo, 19, 19n, 88n, 91n, 156n,
FiliPPini Jean Pierre, 274n 157, 157n, 158n, 165, 168n, 169n
Filippo ii d’Asburgo, 36, 38, 90, 102, 103n GiOrGetti Giorgio, 50n
Fiumi enrico, 17n Giovanna i d’Angiò (regina di Napoli),
Flamini (famiglia), 260, 261, 262, 264, 169n
264n, 266 Giovanni dalle Bande nere, 30, 102
Flamini Antonio, 262 Giovanni di romolo, 216
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302

Giusti (famiglia), 211n, 212, 215, 216, Gonzaga Ferrante, 26, 27


218, 227, 228, 230, 231, 242, 247 Griffoli Piccolomini Caterina Gaetana,
Giusti Agostino Antonio di Alberto, 213, 94n
214, 226, 230, 233, 235, 236, 236n, GrOttAnelli lorenzo, 159, 159n, 160n,
237, 238, 239, 239n, 240, 242, 242n, 181n, 191n
243, 243n, 248 GuAdAGni Filippo, 10n
Giusti Agostino di Giovanni Battista, 222, Gucci (famiglia), 225, 225n, 229, 231, 232
223, 224, 224n, 225, 225n Gucci Guccio di dino di Guccio, 226, 232
Giusti Alberto di Giovanni Battista, 219n, Gucci Maddalena di Giorgio, 214, 224, 226
220, 220n, 222, 222n, 223 Guidi Camillo, 220
Giusti Alberto di Giovanni di Giovanni Guidotti (famiglia), 226, 227, 228, 230,
Battista, 161n, 214, 224, 224n, 225, 231, 233
225n, 226n, 227, 228, 232, 233, 234, Guidotti Agostino di umberto (o umbal-
235, 236, 238, 240n do), 226, 228
Giusti (v. della rena) Alberto di Pier Guidotti Bartolomeo di Agostino, 228, 232
Francesco, 212, 213, 214, 215, 216, Guidotti Caterina di lucantonio, 226, 228
216n, 217n, 218, 219, 220, 231, 245 Guidotti lucantonio, 226, 228, 232
Giusti Alberto Filippo di Alessandro, 213, Guidotti Sgrana di umberto, 228, 232
214, 239, 239n, 240n, 241, 242 Guiducci Alessandro di Simone, 220, 221
Giusti Alberto Giovanni di Agostino An-
tonio, 242, 242n, 243n, 246, 248, 248n hArtunG Fritz A., 97n
Giusti Alessandro di Alberto di Giovanni, hecke (van den) Carlo, 290
213, 214, 226, 230, 233, 234, 234n, hiCkS david l., 21n, 43n, 67n, 72n
235, 235n, 236, 236n, 238, 238n, 239, huPPert George, 15n
239n, 240, 242, 243
Giusti Alessandro, 232 iacopo v d’Appiano, 31
Giusti Anna teresa di Alberto di Giovan- iacopo vi d’Appiano, 31
ni, 213, 214 inghirami Giovan Gastone, 196, 266n,
Giusti Bartolomeo di Francesco, 212 267, 267n
Giusti Giovanni Battista di Alberto, 212, innOCenti elena, 37n, 58n
213, 214, 215, 215n, 216, 219n, 220, iSAACS (ChiAnCOne) Ann katherine, 16n,
220n, 222, 222n, 226, 228, 232 17n, 18n, 41n, 65n, 67n, 69n, 72n, 75n,
Giusti Giovanni di Alberto, 226, 226n, 83n
227, 227n, 228, 231, 233, 233n, 234,
234n, 235, 236, 237, 242, 243 klAPiSh ZuBer Christiane, 79n
Giusti Giovanni di Giovanni Battista, 214,
222, 222n, 223, 223n, 224, 224n lABAtut Jean-Pierre, 13n
Giusti Giovanni Maria di Alberto, 160n, lanfranchi lanfreducci Giovan Battista,
161, 161n, 162 265, 265n
Giusti Giusto di Bartolomeo, 212, 213, lante Alfonso, 225
214, 219, 227, 231 larioni Antonio di niccolò, 229
Giusti Maria Caterina di Alberto di Gio- lAvOiSier Antoine laurent, 54n
vanni, 213, 214 lazzesi domenico, 225n
Giusti Pier Francesco di Giovanni Bat- leoli ranieri Gaetano, 291n
tista, 222, 223 leone X (Giovanni de’ Medici), 33
Giusti Pier Francesco di Giusto, 212, 213, leopoldo ii d’Asburgo-lorena (impera-
214, 215, 228, 231 tore), 152n
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lippi Giovanni di Camillo, 217 45n, 55n, 56n, 60n, 62n, 72n, 73n, 84n,
lisci Benedetto, 293 88, 88n, 89n, 91n, 98, 108n, 110n,
liSini Alessandro, 17n 111n, 112n, 124n, 136n, 140n, 144n,
lorena (famiglia), 8n, 9n, 10n, 11n, 45n, 146n, 148n, 166n, 167n, 180n, 182n,
49n, 52, 69n, 97n, 101, 116n, 121n, 199, 199n, 200n, 203n, 211n, 295n
136n, 152, 177, 270n Martelli Matteo di nicola, 222
luci emilio, 238, 242 Martellini Giovanni nicola, 275
ludovico di taranto, 169 Martini Carlo Antonio, 137
ludovico ii (imperatore), 158 Martini Fortunio, 124n
luPi Clemente, 17n MArtini vincenzo, 275n
luPO Gentile Michele, 86n Marzi Bartolomea di lorenzo, 212, 214
luSini vittorio, 69n MASCilli MiGliOrini luigi, 8n
luZZAtO Gino, 43n Massimiliano i d’Asburgo (imperatore),
266, 273
Maccabruni Bernardino, 178 Massimiliano ii d’Asburgo (imperatore),
Maccantelli Michele, 246 39n, 101, 104
MAFFei venocchio, 102n Mattei (de’) (famiglia), 277
MAire viGueur Jean Claude, 13n Mattei Orietta, 277
Malavolti (famiglia), 17, 164n, 173n, 174, Mattingly Garret, 21n, 68n
174n Meazzoli Antonio, 281n
Malavolti Angelo di emilio, 164n, 174, Medici (de’) (famiglia), 11n, 25, 27, 29,
174n 31n, 34, 34n, 35, 36, 37, 38, 44, 45n,
Malavolti Maria di Angelo, 164, 164n, 48n, 49n, 52, 53, 57, 67n, 69n, 86n,
174n 87n, 88n, 97n, 105, 109n, 111, 120,
M AlAvOlti Orlando, 88n, 156n, 167n, 121n, 124, 129, 136n, 152, 177, 211n
168n, 181n Medici (de’) Caterina, 41, 105
Malavolti teresa di Angelo, 164n Medici (de’) Galeotto, 41
Malavolti ugurgieri luigi di vinceslao, Medici (de’) lorenzino, 29, 105
174n Medici (de’) lorenzo ii (duca d’urbino), 28
Malavolti ugurgieri Salustio, 174, 174n Medici raffaello, 216, 219
Malavolti ugurgieri vinceslao di Angelo, MelFA Monica, 174n
174n Mels (famiglia), 248, 248n, 251, 261, 268n
Malipiero Cornelia, 290n Mels (di) Giovanna, 256
Mancini renieri 245 Mels (di) Guglielmo di Glizoio, 248
Manenti (famiglia), 159n MenGOZZi narciso, 17n, 73n, 100n, 114n
MAnenti Girolamo, 155 Michon Antonio, 275
MAnetti Giulio M., 125n, 137n Mignanelli (famiglia), 290
MAnGiO Carlo, 8n, 9n, 272n, 274n Mignanelli lucrezia di Giovanni, 281
MAnnOri luca, 109n Minetti Antonio, 189, 189n
Marescotti (famiglia), 185 Miniati (famiglia), 225, 225n
Margherita d’Austria, 28 Miniati isabella di Giovan Battista, 224
Maria luisa di Borbone, 293 Mirri Mario, 116n
Mariani Giovanni, 191 MOCenni tommaso, 94n, 155
MArOnGiu Antonio, 14n, 57n, 71n, 98, Montanaini Bona di Mino, 169n
101n, 110n, 118n, 203n Montemagna (famiglia), 249
MArrArA danilo, 8n, 9n, 10n, 11n, 12n, MOnteSQuieu (de SeCOndAt de) Charles
16n, 17n, 18n, 21n, 22n, 29n, 39n, 42n, louis, 150, 150n
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Montini Orazio, 250 Parasacchi Cesare, 231


Montjuïc (de) Jaume, 9n Parigini niccolò, 186n, 187, 187n, 188n
MOntOrZi Mario, 150n, 151n Pasquali Angiolo, 195n
MOrAndi ubaldo, 90n Pasquali Cosimo di Andrea, 220, 221
Mormorai Antonio, 190 PASSeri vincenzo, 16n
Mortani Pietro, 244n, 245, 245n PAvOlini Mario, 37n, 58n
MOuSnier roland, 8, 8n, 53n, 97n PAZZAGli Carlo, 9n
MOZZArelli Cesare, 81n Pazzi (de’) Cosimo ventura, 235
Mugnai Jacopo Francesco raimondo, Pazzini Carli Giuseppe di vincenzo, 192n
237n, 238, 238n, 241n Pazzini Carli vincenzo, 37n
Pecci (famiglia), 290
nangle (famiglia), 195 Pecci Cassandra di Giacomo, 177
napoleone Bonaparte, 158, 158n Pecci Francesco di Girolamo di Muzio,
nArdi Jacopo, 27n, 86, 86n 281, 281n, 282n, 290n
nay - richecourt (de) dìodat emmanuel, P eCCi Giovanni Antonio, 18, 18n, 19n,
9n, 118, 118n, 119, 121, 123, 126, 133, 37n, 58n, 59, 59n, 60, 60n, 62, 69n,
133n 74n, 75, 75n, 81n, 94n, 115n, 159n,
nelli Flaminio, 187 166, 166n, 167n, 183n
neri dario, 70n Pecci Maria vittoria di Girolamo di
n eri Pompeo, 9, 9n, 11n, 13, 13n, 55, Muzio, 281, 281n, 289n, 290n
55n, 61, 98, 98n, 116n, 190, 244, 282 PelleGrini ettore, 199n
niCOlini Fausto, 150n Pellegrini rosa vittoria, 244
nieri rolando, 130n, 131n PenniSOn Christine, 208n
Pers (di) (e varmo) vincenzo, 268n, 270,
Onesti Girolamo, 217 270n
Ongaro domenico, 268n PetrAliA Giuseppe, 27n
Orlandi Michelangelo, 216 PetrOni vittorio, 81n, 106n
Orlandini (famiglia), 173n Petrucci (famiglia), 25, 37, 37n, 41, 58n
Ottobono dei razzi (patriarca di Aquileia), Petrucci Antonio Maria, 180, 180n
248 Petrucci Borghese, 169n
OttOkAr nicola, 76n Petrucci Fabio, 25, 41, 71
Petrucci Francesco di Camillo, 25
Pacini domenico, 246 Petrucci Pandolfo, 21, 25, 37n, 58n, 68n,
Palagi Pio innocenzo, 174n 69n, 75, 169n
Palagi Sebastiano, 175n Petrucci raffaele, 25
Panciatichi Francesco, 188 PeZZinO Paolo, 27n
Panciatichi Giovanni, 228, 233, 234n, Piccolomini (famiglia), 17, 46, 46n, 52n,
236n, 237n, 239n, 241n, 242, 243n 74n, 189
PAnellA Antonio, 35n, 87, 87n Piccolomini Alfonso (duca d’Amalfi), 26
PAniCuCCi elisa, 46n, 52n, 146n Piccolomini emilio, 191n, 192
Pannilini Antonio, 191, 267 Piccolomini Francesco, 94n, 229
Pannocchieschi d’elci (famiglia), 46n, Piccolomini Giovanni Battista di Piccolo-
52n, 72n mo, 189
Pannocchieschi d’elci Carlo di Achille, 46n Piccolomini Petra di Giovanni Battista,
PAnSini Giuseppe, 10n, 45n, 147n 189n, 190n
PAOli Cesare, 17n, 72n Piccolomini Piccolomo di Giovanni Bat-
Paolo iii (Alessandro Farnese), 26 tista, 189, 189n, 190, 190n
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Piccolomini Aragona Orazio, 229 reuMOnt (vOn) Alfred, 87, 87n


Piccolomini Clementini Giovanni Carlo, ricasoli Bettino, 152n
190, 190n, 192n, 196 ricasoli Giovanni Battista, 224
Pierantonio da urbino, 184n ricasoli Giovanni Francesco, 10n
Pieri Antonio Maria, 229, 230 ricci Francesco Maria, 194n
Pieri lapo Alessandro, 230 ricci (de’) Pier Francesco, 236, 237, 239,
P ietrO l eOPOldO d ’A SBurGO -l OrenA , 241, 259n, 260n
63, 112, 118, 119n, 125, 125n, 126, ricci tommaso, 185, 186
126n, 134, 135, 136, 136n, 137, 137n, ricciardi niccolò, 248
138n, 140, 140n, 145, 147 ricciardi Pietro, 186
Pignatta Biagio, 252 ridolfi Giovanni Francesco, 228
Pinocci Francesco, 231 rinieri (famiglia), 214, 240, 241
Pio ii (enea Silvio Piccolomini), 26, 167n rinieri Alberto di lippo, 241
Pio iv (Giovan Angelo de’ Medici), 104, rinieri Antonio Francesco di Bernardino,
116n 239, 239n, 240, 241
Pio v (Antonio Michele Ghislieri), 104 rinieri Bernardino, 242
Piombi Antonio, 185, 186 rinieri Bernardino di Alberto, 214, 240,
Placidi (famiglia), 184 241
Placidi Aldello di Placido, 33, 177 rinieri elisabetta di Bernardino, 214, 239,
Placidi Felice di Aldello di Placido, 177 240
Poggi lanfranchi ranieri, 248 rinieri Filippo di Alberto, 241
Pola (famiglia), 257 rinieri lapo di Alberto, 241
Pola laura di Paolo, 256 rinieri lapo di ranieri, 241
Pola Paolo, 257 rinieri lippo di lapo, 241
Pola Servio, 257 rinieri Maria Fiammetta di tommaso,
POlverini FOSi irene, 45n, 46n, 49n, 212, 214, 215
Porrini Giuseppe Maria, 161, 163, 167 rinieri tommaso di Antonio di Piero,
Portasavella numa Pompilio, 216 212, 214, 215, 219
Portigiani decio, 245, 245n rinuccini (famiglia), 221, 221n
Portia (famiglia), 257 rinuccini Alessandro, 221
Portia livia di ermes, 257 rinuccini Falchetta di Giovanni, 221
PrunAi Giulio, 43n, 115n, 124n rinuccini tommaso, 226
riviera lelio, 221, 221n
rabatta (famiglia), 265, 266 rocchegiani Alessandro, 184, 184n, 185,
rabatta Antonio di Giuseppe, 266 185n
rabatta Bernardo di Giovanni Alessio, rOdOliCO niccolò, 118n
266 roncioni Francesco, 248
rabatta Filippo di Giovanni, 266 rospigliosi Camillo, 193n
rabatta Giovanni di Antonio, 266 rOSSi Cinzia, 12n, 19n, 39n, 58n, 59n,
rabatta Giuseppe di Bernardo, 266 60n, 74n, 81n, 133n, 159n, 166n,
rabatta Giuseppe di Giuseppe, 266 183n, 200n, 284n, 286n, 287n, 291n
rabatta Maria Giuseppa Silvia di Filippo, rossi Giovanni Battista di Orazio, 256
266, 268, 268n rossini Francesco, 217
rasponi Carlo Filippo, 262 rOtelli ettore, 8n, 53n
renaldini Bartolomeo, 157n rOvini emiliano, 11n
rePetti emanuele, 94, 94n, 106n, 159, rucellai Giulio, 9n, 10n
159n, 160n ruffoli Frosino, 217
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ruiu Antonio, 13n, 52n, 73n, 163n, 211n Silvestri Ascanio di rutilio, 262
rutenBurG victor, 48n Silvestri rutilio di Ascanio, 262
Simoni (famiglia), 186, 187, 187n
Sabolini (famiglia), 243, 244n Simoni tullia, 187
Sabolini Alessandro di Giovanni Alessan- SiMOnini Serena, 11n
dro, 234 SOrdi Bernardo, 125n, 147n
Sabolini Giovanni di Giuseppe di Pier Sozzifanti (famiglia), 173n, 192, 193, 194
Francesco, 244 Sozzifanti Aurelio di Ottaviano, 194
Sabolini Giovanni Alessandro, 229, 230, Sozzifanti Baldassarre di Francesco
234, 236 Maria, 194, 194n
Sabolini Giuseppe di Pier Francesco, 244 Sozzifanti Francesco Maria di Giovanni
Sabolini Giuseppe di Pier Francesco di Filippo, 194, 194n, 242
Giuseppe, 244 Sozzifanti Francesco Maria di Mario, 194,
Sabolini Orsola Maria di Giuseppe di Pier 194n
Francesco di Giuseppe, 242, 242n, Sozzifanti Giovanni Battista di vincenzio
243, 243n, 244 di Mario, 194n
Sabolini Pier Francesco, 243 Sozzifanti Giovanni Filippo, 194n
Sabolini Pier Francesco di Giuseppe di Sozzifanti lorenzo di Girolamo, 194n
Pier Francesco, 244 Sozzifanti Maria Caterina di Aurelio di
Salvani Fazzina di Provenzano, 169n Giovanni Filippo, 193
SAlveMini Gaetano, 76n Spadacorta (famiglia), 159n
SAlveStrini Arnaldo, 63n Spadalunga (famiglia), 159n
Salvi (famiglia), 26 Spannocchi (famiglia), 52n, 73n
Salvi Giulio, 26 Speron Benjamin, 274
Salviati (famiglia), 45n Spilimbergo (di) Antiope, 256
Salviati leonardo, 216 SPini Giorgio, 34n, 36n, 87n, 89n,
Salvucci Alessandro, 164n, 174n Sproni (Spaur, Speron, Spooren, Sporn,
Salvucci Camillo, 164, 173n Sporon) (famiglia), 211n, 212, 271,
Sanminiatelli Cosimo Andrea, 238 272, 273, 274, 275, 276, 278, 278n,
SAntini emilio, 38n, 102n 283, 284, 288, 289n, 290, 294, 295,
SAvelli Aurora, 147n 296
SBArAGli luigi, 66n Sproni Beniamino di Beniamino, 274,
Scarsabursa Joanne Baptista, 250 274n, 275, 275n, 289n
Scialenghi (famiglia), 159n Sproni Beniamino di Ferdinando, 290,
Sciarelli Simone, 230 292n, 293, 294
SeGAriZZi Arnaldo, 31n, 33n, 34n, 40n, Sproni Beniamino di Giovanni, 273
50n, 99n Sproni Beniamino di iacopo, 276, 277,
Seghieri Bizzarri Simone Francesco, 235 278, 279, 279n, 280, 281n, 282, 289n,
SeGni Bernardo, 27n, 86, 86n 294
Serafini Antonio, 252 Sproni Ferdinando di Francesco, 293, 294
Sergardi Achille, 188 Sproni Ferdinando di iacopo luzio, 275,
Sergardi Fabio, 185 281, 281n, 282, 283, 283n, 284, 284n,
Sergrifi Francesco Maria, 229, 278n 288, 289n
SeStiGiAni Antonio, 155n, 162n, 168n Sproni Francesco di Beniamino, 277
Silvestri (famiglia), 260, 262, 263, 264n Sproni Francesco di Ferdinando, 273n,
Silvestri Carlo Felice di Ascanio, 262 289, 289n, 290, 290n, 292, 293, 294,
Silvestri delia di Carlo Felice, 262 296
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Sproni Giovanni, 273 161n, 162n, 163, 163n, 165, 165n,


Sproni Giulia di Beniamino, 281 168n, 170, 171, 171n, 172n, 173, 174,
Sproni Giuseppe di Francesco, 294, 295 174n, 175n, 176, 181, 181n, 184, 185,
Sproni iacopo/Giacomo di Beniamino, 186, 190, 190n, 191n, 192, 195, 198,
275, 275n, 289n 206, 229, 231, 232, 235, 242
Sproni iacopo luzio di Beniamino, 279, ugurgieri Agnolo di Azzolino, 162, 163,
279n, 280n, 281, 281n, 289n, 294 232, 242, 243
Staccoli raffaello, 223, 255, 255n ugurgieri Agnolo di Bindo, 163, 167
Strasoldo (di) (famiglia), 249, 268 ugurgieri Agnolo di ugo, 163, 171n, 177
Strasoldo (di) elena di nicola, 268, 268n ugurgieri Agostino, 168n,
Strasoldo (di) Girolamo, 185 ugurgieri Aldobrandino, 165
Strasoldo (di) teresa, 268, 268n ugurgieri Alfonso di Bandino, 169n
Strozzi Giovanni Battista, 105 ugurgieri Aliprando di Antonio, 169n
Strozzi Piero, 105, 105n ugurgieri Angelo di Filippo, 169n
Suardi Girolamo, 189n ugurgieri Angelo di Giovanni, 169n, 171n
ugurgieri Angelo, 169n
tAnuCCi Bernardo, 130, 130n, 131n ugurgieri Angiolo di Fabio, 162, 232
tappia Carlo, 223 ugurgieri Anna di lorenzo di Benedetto,
teri Ascanio, 280, 281n 175n
tidi elisabetta di Pandolfo, 278 ugurgieri Antimo di iacomo, 168n, 181n
tieri (famiglia), 218 ugurgieri Antonio di niccolò, 163
tieri domitilla di Antonio, 215 ugurgieri Azzolino di Agnolo, 163, 167,
tieri leonardo di tero di lorenzo di nic- 177
colò, 218 ugurgieri Azzolino di lelio, 164
tieri niccolò di vincenzo di Francesco, 218 ugurgieri Azzolino di Muzio, 173
tieri vincenzo di Francesco di niccolò, 218 ugurgieri Benedetto di Filippo, 175,
tiZiO Sigismondo, 163n 175n, 190
tOGnArini ivan, 147n ugurgieri Berardo di winigi/s, 160n, 162
tolomei (famiglia), 17, 46, 46n, 52, 52n, ugurgieri Berardo i, 159, 160, 160n
74n, 184 ugurgieri Berardo ii, 159, 160n
tolosani Flaminio di Giovanni Battista, ugurgieri Bernardo di Guinigi, 162
217 ugurgieri Bindo di ruggiero detto
tolosani Francesco di Giovanni, 245, 246 Capoleone, 162, 169n
t OMMASi Giugurta, 88n, 156n, 168n, ugurgieri Camillo di Aliprando, 175
169n, 181n, ugurgieri Caterina di Fausto, 171
tommasi Giuseppe di Francesco, 245, 246 ugurgieri Cecco di Meo Mellone, 168n
tornaquinci Giovanni Antonio, 10n ugurgieri Ciampolo di ugo di ruggiero,
trecerchi Sigismondo, 41 161n, 162, 162n, 165, 168n
ugurgieri Curzio di tommaso, 164, 165,
ubertino di lando da Piacenza, 65n 173n
ughetti Filippo di Giovanni Francesco, ugurgieri emilio di Orazio, 169n
230 ugurgieri eufrasia (eufrosina) di Agnolo
ugolini (famiglia), 180n di Fabio, 161, 162, 163, 214, 226, 232,
ugolini Agnese di niccolò di trinoccio, 235, 238
177 ugurgieri Fabio di lorenzo, 189, 189n,
ugurgieri (famiglia), 52n, 73n, 154, 156, 190, 190n, 191n
156n, 158, 158n, 159n, 160, 161, ugurgieri Fausto di Bandino, 186
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ugurgieri Fausto di tommaso, 171 ugurgieri Ottavio di Agnolo, 177, 177n,


ugurgieri Francesca, 168n 178n, 184n
ugurgieri Francesco di Alibrando, 184, ugurgieri Pietro di ruggiero detto Buffa,
184n, 185, 185n 169n
ugurgieri Francesco di Altimanno, 168n ugurgieri ranieri, 159, 160, 160n, 162,
ugurgieri Francesco di Camillo, 169n 162n, 165, 168
ugurgieri Fulvio di lelio, 169n ugurgieri ranieri di Cione, 168n
ugurgieri Gaetano di Aliprando, 175 ugurgieri reghineri/reghinari, 160, 162,
ugurgieri Geltrude, 196, 196n 232
ugurgieri Giovanni, 168n ugurgieri ricciardo di Pepo, 169n
ugurgieri Girolama di Azzolino di Muzio ugurgieri ruggiero di Bernardo, 162
Cristofano, 173n ugurgieri ruggiero di Ciampolo di ugo,
ugurgieri Girolamo di Girolamo, 185, 161n
186, 186n ugurgieri ruggiero di ranieri, 168n
ugurgieri Giulia di Azzolino di Muzio ugurgieri ruggiero di ugo, 165
Cristofano, 173n ugurgieri ruggiero ruggierotto, 169n
ugurgieri Guinigi di ranieri, 162 ugurgieri ruggierotto, 165
ugurgieri iacomo di Bandino, 169n ugurgieri Salustio di lelio, 169n
ugurgieri ildobrando di ugo, 167 ugurgieri Salustio di Muzio Cristofano,
ugurgieri lelio di Agnolo, 164 164, 164n, 174
ugurgieri lelio di Azzolino di Muzio ugurgieri Salustio di Muzio di Azzolino,
Cristofano, 173n 173, 173n, 174n 192, 192n, 195, 195n,
ugurgieri lelio di Azzolino, 188, 188n 196, 196n
ugurgieri lelio di Bandino, 169n ugurgieri Stefano, 168n
ugurgieri lelio di Muzio, 164 ugurgieri tommaso di Fausto, 171, 171n,
ugurgieri lorenzo di Benedetto, 189, 172n, 173, 173n
189n, 190 ugurgieri tullio di Fausto, 186, 186n,
ugurgieri Magio di Matteo, 167 187, 187n, 188
ugurgieri Marc’Antonio di Francesco, ugurgieri ugo di Aldobrandino, 168n
169n ugurgieri ugo di Azzolino, 163, 163n,
ugurgieri Maria Caterina di Azzolino di 164, 167, 177
Muzio Cristofano, 173n ugurgieri ugo di ruggieri/o, 160, 161n,
ugurgieri Matteo di Magio, 169n 162, 162n, 167, 169n, 171n, 232
ugurgieri Mino, 168n ugurgieri ugo, 168n, 169n
ugurgieri Muzio Cristofano di Azzolino, ugurgieri vittorio di Matteo, 169n
164 ugurgieri winigi/s (conte di Siena), 158,
ugurgieri Muzio di Azzolino di Muzio 159, 159n, 160, 160n, 162, 232
Cristofano, 173n, 191, 191n, 192, ugurgieri Zano di Giovanni, 167
192n, 195 uGurGieri AZZOlini isidoro, 88n, 165n,
ugurgieri Muzio di lelio, 164 168n, 169n, 177n, 181n
ugurgieri niccolò di Cecco, 169n urbani Adriano, 251
ugurgieri niccolò di ruggierotto, 169n usimbardi Francesco di Piero, 217
ugurgieri niccolò di Zano, 167
ugurgieri Olimpia di Azzolino di Muzio valentini Filippo di Francesco, 221, 221n,
Cristofano, 173n 222
ugurgieri Orlando di ruggiero, 163, valori Bartolomeo, 27
168n, 169n vAlSeCChi Franco, 140n
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valvasoni (famiglia), 249 viviani Giovanni di luigi, 218


vAnnuCCi raffaella, 11n viviani lapo di donato, 218
vArChi Benedetto, 27n, 86n viviani niccolò Jacinto Gaetano di
venturi (famiglia), 52n, 73n, 190, 190n Francesco, 229
venturi Camillo di Cosimo di Annibale, viviani tommaso di Bernardo, 218
190 viviani del vescovo Giacinto, 190, 190n,
venturi isabella di Alfonso, 175n, 190 243, 243n, 245n
venturini Marzio, 231 vivOli Giovanni, 274, 274n
verGA Marcello, 9n, 11n, 13n, 52n, 53n,
54n, 55n, 69n, 98n, 116n, 120n waldsee (famiglia), 248n
vettori Alessandro, 225, 259n wAndruSZkA Adam, 138n, 140n
viCenS viveS Jaime, 85, 85n willOweit dietmar, 94n
viCO Giovan Battista, 150, 150n wyer (famiglia), 193, 193n, 195
viGni laura, 148n wyer Giulia Matilde, 195
viSCeGliA Maria Antonietta, 15n, 115n, wyer violante, 195
149n, 271n
vittoria della rovere (granduchessa), ZAPPelli Alessia, 11n, 57n
194n ZdekAuer ludovico, 66n, 84n
viviani (famiglia), 218 ZOBi Antonio, 100n, 140n
viviani donato di lapo, 218 Zorzi (famiglia), 290, 290n
viviani Francesco di Jacopo, 215 Zorzi elena Maria di Pietro di Girolamo,
viviani Ginevra di Francesco, 212, 214, 289, 290n
215 Zorzi Piero di Girolamo, 290n
viviani Giovanni di donato di lapo, 218
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INDICE

Premessa 5

Introduzione 7
1. Profili generali: nobiltà civica, patriziato e Ordine di Santo Stefano 7
2. L’ordinamento senese: i Monti e l’origine medievale
del ceto dirigente cittadino 16

I I prodromi della conquista di Siena 25

II Tra storia e storiografia: l’avvento del Principato mediceo


e le correlazioni fra politica, istituzioni e status nobiliare 33
1. «Siena e i giganti» 33
2. Dalla libertà alla servitù: il primo, fatale passo falso politico
verso il Principato 39
3. La sopravvivenza del sistema municipale e la rinascita
degli istituti feudali 42
4. Crisi della nobiltà e diritti politici 51

III Partizioni della città: la geografia sociale senese tra arti,


governo e professioni 65

IV Profili costituzionali e presupposti giuridici e politici


per l’affermazione del Principato 85
1. Il diritto pubblico, la giustizia e la materia finanziaria:
strutture e potere della pratica amministrativa 85
2. L’inesauribile pretesto della guerra di Siena: le ultime note
del conflitto, tra il valzer dei titoli sovrani e il requiem
del fuoriuscitismo 100
3. Un Granduca per due principati: l’impossibilità
di uno Stato regionale unitario 108
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V Dalla fine dell’età medicea all’epilogo napoleonico 113

VI Metodologia e tecniche della ricerca: risorse, paradigmi e prospettive 149


1. Premesse: metodologia e ambito disciplinare 149
2. Il paradigma degli Ugurgieri nel sistema delle fonti 154
3. Probatio diabolica 156
4. Considerazioni riepilogative e prospettive di ricerca 198
5. Contributo metodologico per la storia comparata dei ceti dirigenti
e delle istituzioni politiche e parlamentari 200
6. Storiografia familiare e archivio stefaniano: ulteriori cenni
esemplificativi 205
6.1. La Famiglia Giusti nell’Ordine di S. Stefano 212
6.2. I Colloredo nelle carte dell’Ordine di S. Stefano 248
6.3. La famiglia Sproni fra Comunità di Livorno, Ordine di
S. Stefano e nobiltà toscana: l’ascesa di una nuova aristocrazia 271

Tavole
I Albero genealogico della famiglia Ugurgieri 170
II Albero genealogico della famiglia Ugurgieri con le ammissioni
al patriziato senese, risalente allo stipite comune 176
III Quarti di Salustio Ugurgieri e residenze degli ascendenti 197
IV Schema disciplinare-metodologico 204
V Albero genealogico e cavalieri della famiglia Giusti 247
VI Albero genealogico e cavalieri della famiglia Colloredo 269

Indice dei nomi 297


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Edizioni ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
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Finito di stampare nel mese di ottobre 2010
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