Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Arte e daimon
A cura di Daniela Angelucci
© Quodlibet
Via Padre Matteo Ricci, - Macerata
www.quodlibet.it
ISBN ---
Introduzione
DANIELA ANGELUCCI
Introduzione
3 Cfr. Plotino, Enneadi III, 4 (“Peri tou eilechotos hemas daimonos”). Vale la pena
(§174): “e queste potenze, mentre nel dio Apollo esistono in modo unitario e trascen-
dente, nei generi a noi superiori che si accompagnano al dio esistono per partecipazio-
ne e in modo diviso, così ad esempio esistono molte popolazioni di angeli e demoni ed
eroi tutti di ordine medico, che dipendono direttamente da Apollo, e molte altre di ordi-
ne mantico e musico […] che si spartiscono in maniera differenziata e divisa le potenze uni-
tarie del dio” (angeli, demoni ed eroi valgono qui come specie del genere daimon nella sua
accezione più ampia).
FLAVIO CUNIBERTO
8 Ibid., p. 20 (§52).
9 Ibid., p. 72 (§122).
10 Ibid., p. 30 (§71).
11 Ibid., p. 32 (§71).
12 Ibid., p. 36 (§75).
13 Ibid., p. 25 (§57).
ETIMOLOGIA E MITOLOGIA DEL “DAIMON”
16 Nel passo del Cratilo dedicato all’etimo di daimon, Platone si richiama ad Esiodo,
ma non si vede perché non dovrebbe pensare anche a Omero: “li chiamarono daimonas
perché erano phronimoi kai daemones” (398b). Il daimon ha dunque una relazione stret-
ta con la phronesis e più in generale con la phren, la ‘mente’; non ci sarebbe da stupirsi se
Platone utilizzasse qui una sorta di sciarada per suggerire il termine omerico dai-phron.
ETIMOLOGIA E MITOLOGIA DEL “DAIMON”
17 È difficile non attribuire al prefisso dai questa valenza ammirativa che oscilla tra
il prodigio reale e il prodigio fittizio (la particella dai esprime ammirazione, stupore,
anche nel linguaggio corrente, e daimonios significa tra l’altro ‘meraviglioso, sorpren-
dente’, con sfumatura anche ironica al vocativo; cfr. E. Brunius-Nilsson, Daimonie, an
inquiry into a mode of apostrophe, Almqvist & Wiksells, Uppsala 1955).
FLAVIO CUNIBERTO
pio in Empedocle, le anime demoniche sono tracce del divino sparse nei vari
regni viventi, e Pitagora ne è appunto il prototipo18. Vi è insomma, nella
demonicità, un aspetto residuale, come di traccia luminosa, in cui convergono
fino a coincidere le due semantiche di cui si è parlato finora: quella del dissemi-
nare e quella della luce o della fiamma. E torna prezioso a questo punto
l’excursus ‘demonico’ del Cratilo, dove i daimones vengono presentati
da Platone come ciò che resta della stirpe aurea. Quando l’età dell’oro
tramonta, e l’umanità aurea sparisce dalla faccia della terra, le tracce
che ne restano sono appunto i daimones, come il luccichio che ancora
si intravede al suo tramonto19. Se c’è qualcosa di chiaro nel passo del
Cratilo è che Platone mette in relazione i daimones con la polarità del-
l’oro e dell’argento, dei metalli preziosi, il cui connotato più evidente
è una qualità visiva, il luccicare.
18 Cfr. K. Kereny, Pythagoras und Orpheus. Präludien zu einer künftigen Geschichte der
Orphik und des Pythagoreismus, Rhein-Verlag, Zürich 1950, pp. 18, 22-23. Cfr. anche M.
Détienne, La notion de daimon dans le Pythagorisme ancien, Les Belles Lettres, Paris 1963.
19 Cfr. Platone, Cratilo 397c-399c.
20 W. Benjamin, Gesammelte Schriften II 2, 625.
21 Ibid.
ETIMOLOGIA E MITOLOGIA DEL “DAIMON”
6. Che questa idea del chiazzato, del maculato, della superficie ‘a scac-
chi’, sia connessa proprio alla radice da- e alle sue varianti, risulta in
modo sorprendente da un’altra famiglia semantica, quella che ritrovia-
23 Nella Haggadah ebraica Dedalo sembra avere un parente stretto – quasi un equi-
valente funzionale – nella figura di Enos, il figlio di Set che è anche il primo fabbrica-
tore di statue. Come Dedalo, anche Enos costruisce delle statue con una parvenza di
vita: “ma quando prese a soffiare entro l’immagine appena modellata, Satana vi entrò,
la figura si mise a camminare”. Affascinati, gli spettatori del prodigio “si traviarono die-
tro di essa”. Con Enos ha dunque inizio l’idolatria. Una delle sue conseguenze fu che
“nelle generazioni successive i volti degli uomini non furono più a immagine e somi-
glianza di Dio, come Adamo, Set e Enos, ma divennero simili a centauri e scimmioni, e
i demoni non ebbero più timore dell’uomo […]. Allora la Shekinah decise di abbando-
nare la terra e di salire al cielo, tra gli squilli e i clangori di tromba di innumerevoli schie-
re celesti” (L. Ginzberg, Le leggende degli ebrei, tr. it. Adelphi, Milano 1995, vol. 1, pp. 123-
125). Enos, come Dedalo, è il creatore del primo golem. Cfr. anche M. Delcourt,
Ephaistos ou la lègende du magicien, Les Belles Lettres, Paris 1957.
24 Cfr. Pauly-Wissowa, Realencyklopädie der Altertumswissenschaften, vol. 4, col. 1998, s.v.
ETIMOLOGIA E MITOLOGIA DEL “DAIMON”
25 Cfr. A. Prati, Vocabolario etimologico italiano, Multigrafica editrice, Roma 1969, p. 352.
26 Il sostantivo ‘damier’ – e l’equivalente italiano ‘damiere’ – significa scacchiera, ma
è anche il nome comune della ‘procellaria capensis’ (l’‘uccello delle tempeste’), così chia-
mato per le sue ali ‘a scacchi’ (cfr. A. Prati, Vocabolario, cit., p. 353).
27 Dante, Divina Commedia, a cura di Giuseppe Vandelli, Hoepli, Milano 1983, p. 5,
nota 32.
FLAVIO CUNIBERTO
28 Cfr. per tutta la questione O. Driesen, Der Ursprung des Harlekin. Ein kulturgeschi-
© Quodlibet
Via Padre Matteo Ricci, - Macerata
www.quodlibet.it
ISBN ---
Introduzione
DANIELA ANGELUCCI
1. Il sonetto Amore e monna Lagia e Guido ed io1, dubbio per il fatto che
due codici lo attribuiscono a Cavalcanti e soltanto uno a Dante2, può
rivelarsi importante quando lo si consideri opera di quest’ultimo; e
importante proprio per il discorso che s’intende fare qui. Pochi dubbi
sulla paternità dantesca, del resto, hanno i più autorevoli editori e com-
1 La Vita nuova e le rime dantesche saranno sempre citate qui dal volume: Dante
Alighieri, Opere minori, Tomo I, Parte I, a cura di D. De Robertis (per la Vita nuova) e G.
Contini (per le rime, il Fiore, il Detto d’amore), Ricciardi, Milano-Napoli 1984. Il testo della
Vita nuova commentato da De Robertis, e qui senz’altro seguito, è quello stabilito da M.
Barbi, La Vita nuova di Dante Alighieri, ed. critica per cura di M. Barbi, Bemporad, Firenze
1932. Si è anche tenuto presente Dante Alighieri, Vita nova, a cura di L.C. Rossi,
Introduzione di G. Gorni, Mondadori, Milano 1999, che riproduce il testo della ed. critica
a cura di G. Gorni: Dante Alighieri, Vita nova, Einaudi, Torino 1996 (edizione che presen-
ta notevoli novità, nella paragrafatura, nella grafia e in numerose lezioni, rispetto a quella
di Barbi). Si farà qui riferimento ai commenti di De Robertis, Contini e Rossi nei volumi
sopra indicati senza altra indicazione che il nome dell’autore e la pagina del luogo ram-
mentato. Delle Rime sarà dato il numero secondo l’ed. Barbi (Ora: Opere di Dante. Rime della
“Vita nuova” e della giovinezza, a cura di M. Barbi e F. Maggini, Le Monnier, Firenze 1956;
Opere di Dante. Rime della maturità e dell’esilio, a cura di M. Barbi e V. Pernicone, Le Monnier,
Firenze 1969) e secondo l’ed. Contini citata sopra (per la prima numero romano, per la
seconda arabo). Per i poeti del Dolce Stil Novo si è usato qui Poeti del Duecento, a cura di
G. Contini, Ricciardi, Milano-Napoli 1960, nel parziale reprint Poeti del Dolce Stil Novo,
Mondadori, Milano 1991. Il commento di Contini a questi testi sarà citato con l’abbrevia-
zione: Contini, Poeti. Il sonetto Amore e Monna Lagia e Guido ed io compare come quinta
delle Rime dubbie (I D.; 59) nell’ed. cit. delle Opere minori, p. 501.
2 A Dante lo attribuisce il cod. Marciano it. IX, 191; lo assegnano invece a Cavalcanti
i codd. Chigiano L.VIII. 305 e Magliabechiano VII. 1060. Si deve dire subito che non è
qui presa in considerazione l’ipotesi, che giudico indifendibile, di G. Gorni, “Guido, i’ vor-
rei che tu e Lippo ed io”, in “Studi di filologia italiana”, XXXVI, 1978, pp. 21-37 (poi, come
Lippo contro Lapo. Sul canone del Dolce Stil Novo, in G. Gorni, Il nodo della lingua e il Verbo
d’Amore, Olschki, Firenze 1981, pp. 99-124), cui si è associato D. De Robertis, Amore e
Guido ed io…, in “Studi di filologia italiana”, XXXVI, 1978, pp. 39-65, poi nella sua edi-
zione delle Rime cavalcantiane (Einaudi, Torino 1986). Su questa ipotesi, che vorrebbe
sostituire a Lapo Gianni, nei luoghi nei quali Dante lo rammenta o vi allude, Lippo Pasci
de’ Bardi, mi riservo di tornare in altra sede.
ALBERTO GESSANI
Dante: “E chi volesse sottilmente considerare, quella Beatrice chiamerebbe Amore per
molta simiglianza che ha meco” (XXIV, 5): ove “sottilmente” indica un livello di riflessione
più profondo sulla figura di Beatrice, qui paragonata alla donna di Cavalcanti, Giovanna.
Cfr. anche gli ultimi due versi del sonetto corrispondente: “Amor mi disse: ‘Quell’è
Primavera’,/ e quell’ha nome Amor, sì mi somiglia” (XXIV, 9). De Robertis, p. 169, riman-
da anche a Deh, Violetta, che in ombra d’Amore (Rime, LVIII; 12), v. 1, ove è probabile il rife-
rimento a Beatrice come Amore. Cfr. anche, sulla questione, Contini, p. 500. Nella sua
ed.cit. delle Rime cavalcantiane, a.l., De Robertis nega che “Amore” sia senhal di Beatrice, ma
per motivi assai deboli ed oscuri.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
Gianni, come è manifesto anche dal v. 11: a chi altri se non a Lapo, infat-
ti, monna Lagia avrebbe potuto “ritogliere” il cuore? Si ricompone, dun-
que, considerando l’io che parla come l’io di Dante, la compagnia di
Guido, i’ vorrei, con l’unica mancanza, in effetti vistosa, di monna Vanna,
la donna di Guido. Ma la mancanza è pienamente giustificata dal fatto
che Guido sembra già “del tutto fore” da quell’amore che, come si vedrà,
è l’oggetto del discorso. Già rispondendo a Guido, i’ vorrei, del resto,
Cavalcanti si era, per così dire, chiamato fuori:
8 La canzone (XIV) consta di cinque strofe ed una di congedo, tutte comincianti con
la parola “Amore”, e vuole essere una sorta di requisitoria contro Amore, al quale il poeta
imputa in ogni strofa una qualche colpa, cercando di argomentare l’imputazione (sempre
con “provo ciò”, “provol”, “provo ben ciò”). Il tono del sonetto dantesco potrebbe essere
sorridente anche per la minuzia argomentativa di Lapo; e si potrebbe cogliere un contra-
sto ironico fra il “ser costui” – già contrastante tra il rispettoso “ser” dei notai e dei preti e
il vago e scherzoso “costui”: un “signor tale”, “signor Tizio” – con cui si indica Lapo, e che
non si direbbe certamente di persona importante, e la forza con cui il “ser costui”, appun-
to, ha distolto tutti dall’amore.
9 Donna me prega costituisce una dura e forse nel finale ironica presa di posizione con-
tro ogni giudizio positivo intorno all’amore ed agli effetti dell’amore: una presa di posi-
zione che non perde affatto forza, come sembra ritenere Contini (che per questo vedreb-
be il componimento “sottratto a una sincera istanza di pensiero”, Poeti, p. 86), se vediamo
nella canzone la risposta ad un sonetto interrogativo di Guido Orlandi: Onde si move e
donde nasce amore?. Il fatto che qui Dante dichiari Cavalcanti già “del tutto fore” dal culto
di Amore può far pensare che Donna me prega preceda la canzone di Lapo; ed in questo
caso non sarebbe fuori luogo l’ipotesi che Dante si rivolga contro Lapo per colpire, in
effetti, Cavalcanti, e per inviare a quest’ultimo, più che a Lapo, il messaggio che i propri
versi contengono. Ciò rientrerebbe nell’atmosfera – se così vogliamo chiamarla – dei rap-
porti tra Dante e Guido: un’atmosfera che sembra sempre costituirsi su una qualche reti-
cenza di Dante dal dichiarare esplicitamente, al di là degli attestati di stima e di affetto, il
proprio dissenso dalle idee di Guido, ma anche su un forte desiderio, sempre da parte di
Dante, di affermare la superiore validità della propria concezione dell’amore. Su questa
concezione, a mio parere, più che sull’ambizione di Dante “di diventare il poeta più gran-
de di tutti” (Rossi, Postfazione, p. 253), si fonda il difficile distacco da Guido; e giustamen-
te B. Nardi faceva notare (in Sviluppo del pensiero e dell’arte di Dante [da una conferenza del
1965], in Dante, Tutte le opere, a cura di L. Blasucci, Sansoni, Firenze 1993, p. XV) che il
“primo accenno” ai dissapori tra i due poeti si può già cogliere nella risposta di Guido a
Guido, i’vorrei (v. qui nel testo): nelle posizioni cavalcantiane, cioè, sull’amore, che già in
quel sonetto cominciano a distaccarsi da quelle di Dante. Sulla complessità di questo rap-
porto nella Vita nuova cfr. comunque lo stesso Rossi, Postfazione, pp. 247 sgg.; e soprattut-
to E. Malato, Dante e Guido Cavalcanti: il dissidio per la “Vita nuova” e il “disdegno” di Guido,
Salerno, Roma 1997 (che ritiene posteriore Donna me prega alla Vita nuova, e vede nella can-
zone di Cavalcanti una risposta al libello dantesco: ipotesi interessante e ben argomenta-
ta che non mi convince però del tutto, per motivi che non possono essere discussi in que-
sta sede); N. Pasero, Dante in Cavalcanti. Ancora sui rapporti fra “Vita nuova” e “Donna me
prega”, in “Medioevo romanzo”, 22 (1998), pp. 388-414.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
fosse baldanza d’Amore a segnoreggiare me, tuttavia era di sì nobilissima vertù, che nulla
volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele consiglio de la ragione in quelle cose
là ove cotale consiglio fosse utile a udire” (II, 9).
13 Il motivo dello iato presente tra ragione e amore è centrale in Donna me prega ed anche
nella canzone di Lapo, ma sembra trovare un fondamento filosofico soprattutto in Guido, che
fa risiedere l’amore nell’anima sensitiva e nega che possa darsi una qualsiasi relazione tra intel-
letto – o ragione – e anima sensitiva. Che questa idea derivi dall’averroismo, poi, è stato pen-
sato da molti, ed è luogo che non si può discutere qui; ma si può osservare che il distacco tra
intelletto e anima sensitiva sembra darsi, per Aristotele come per Averroè, dopo la morte del-
l’individuo, mentre l’intelletto rimane attingibile durante la vita dell’individuo stesso, anche
se non comprensibile in quanto tale (e per questo v. anche, già nella Vita nuova, XLI, 6, quan-
to ne dice Dante, che rimanda ad Aristotele, Met. II, 1, conosciuto probabilmente attraverso
S. Tommaso, Summa contra gentiles, III, 45: cfr. G. Salvadori, Sulla vita giovanile di Dante, Roma,
S. ed. Dante Alighieri, 1906, pp. 113-114; e De Robertis, p. 243, che ricorda che S. Tommaso
stesso teneva comunque presente il commento di Averroè alla Metafisica). La canzone caval-
cantiana potrebbe anche essere letta come espressione di un platonismo radicalizzato o di un
neoplatonismo, o come influenzata profondamente dalle concezioni mediche sulla malattia
d’amore (cfr. a questo proposito l’importante studio di N. Tonelli, ‘De Guidone de Cavalcantibus
physico’ (con una noterella su Giacomo da Lentini ottico, in I. Becherucci, S. Giusti, N. Tonelli (a
cura di), Per Domenico De Robertis. Studi offerti dagli allievi fiorentini, Le Lettere, Firenze 2000, pp.
459-508); ma in ogni caso sembrano destinati in partenza all’insuccesso i tentativi di inscrive-
re il pensiero di Cavalcanti e di Dante stesso in una precisa e determinata corrente di pensie-
ro. Cfr. comunque, sulle concezioni dell’amore in Dante e negli altri poeti del suo tempo, il
sempre classico B. Nardi, Dante e la cultura medievale. Nuovi saggi di filosofia dantesca, Laterza,
Bari 1942; e G. Favati, Inchiesta sul Dolce Stil Nuovo, Le Monnier, Firenze 1975, oltre ai più
recenti lavori di Malato e Pasero citati sopra (v. qui nota 9).
ALBERTO GESSANI
14 Scrivendo che attribuire ad un bambino il consiglio della ragione “pare ad alcuno par-
lare fabuloso” e dunque abbandonando l’argomento (II, 10), Dante ricorda probabilmente
che Andrea Cappellano, a lui ben presente nella Vita nuova, nega, nel De Amore (I, V), che
un maschio possa, prima dei diciotto anni, amare “firma stabilitate” (cfr. a questo proposito
R. Crespo, “Color di perle ha quasi” e “Alcuno parlare fabuloso”, in “Studi danteschi”, XLVIII,
1971, pp. 117 sgg.): ha dunque piena consapevolezza di avere detto una cosa non facil-
mente accettabile, e questo rende più significativo il fatto che comunque l’abbia voluta dire.
15 Le difficoltà si concentrano soprattutto negli ultimi due versi, e Contini, p. 501, rife-
risce di alcuni tentativi di correggerli, concludendo che “forse converrà ammettere l’ana-
coluto: ed io, ancor che’n sua vertute caggia, / se poi mi piacque, nol si crede forse”; ed appare la
soluzione più ragionevole, anche perché l’anacoluto potrebbe essere voluto da Dante
come una sorta di ironica espressione d’ignoranza di fronte alla dotta ed elaborata canzo-
ne di Lapo. L’apparente contraddizione dei contenuti si accompagnerebbe, così, ad un dire
incolto, quasi campagnolo (di cui potrebbe far parte anche il ser costui del v. 2), a fronte
della finezza degli interlocutori; e potrebbe essere significativo che la forma caggia (rara in
Dante) si trovi nel sonetto Se non ti caggia la tua santalena (Poeti, XLV), nel quale Cavalcanti
si fa gioco, usando anche parole popolari e contadine (per es. boce, v. 10, per voce, tramaz-
zare, v. 11, per frastuono), di un amico andato ad abitare in campagna.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
16 Non vedo la necessità di individuare il soggetto di nol si crede, v. 14, nell’elli (Amore)
del v. 8, come invece sembra certo a Contini, p. 501. L’espressione può ben essere imper-
sonale ed indicare il gruppo degli amici o addirittura la gente in genere: “non lo si crede
forse”: non si crede cioè che io, dopo dimostrazioni così forti della viltà e crudeltà dell’a-
more, sia ancora sotto il suo potere. Altrimenti si può intendere, seguendo Contini:
“Amore stesso non può credere che io sia ancora un suo fedele, dopo tante cose che sono
state dette contro di lui”. L’accento batte, comunque, sulla stranezza della posizione di
Dante all’interno del gruppo degli amici.
17 Considerazioni generali sul testo delle Rime si trovano in Contini, pp. 268-287, ove
sono anche indicati altri importanti contributi sull’argomento; particolari su questo sonet-
to sempre in Contini, pp. 500-501 (note).
18 Cfr. Donna me prega, v. 35: “Di sua potenza segue spesso morte”, che si può inten-
dere in senso letterale o in senso traslato (e in senso traslato preferiscono in genere inten-
derlo gli interpreti; ma non è cosa tanto ovvia, specie dopo il già citato studio di N.
Tonelli, De Guidone de Cavalcantibus physico), ma che comunque si lega, in entrambi i sensi,
a tutto il pensiero di Cavalcanti, per il quale appunto l’amore porta alla morte tanto mate-
rialmente quanto spiritualmente, e che risponde alla domanda di Guido Orlandi: “è vita,
questo amore, od è morte?”. Il legame amore-morte è del resto abbastanza tradizionale: cfr.
per es. Guittone, Amor dogliosa morte si pò dire. E v. anche Lapo in Amor, nova ed antica vani-
tate: “tutti tuo’ colpi son mortali”(v. 55).
ALBERTO GESSANI
19 Vita nuova, IV, 3: “E quando mi domandavano: ‘Per cui t’ha così distrutto questo
sonetto racconta del sogno che seguì all’incontro di cui si è detto e che è
raccontato anche nella prosa che lo precede; ma ci sono importanti dif-
ferenze tra le due narrazioni, differenze non dovute, probabilmente, sol-
tanto al diverso modo di scrivere che impongono il “dire” ed il “dettare”;
e converrà, per il momento, lasciare da parte la prosa e leggere il sonetto:
per la prima volta all’età di nove anni, e ricompare allo scadere del nono anno dopo la
prima apparizione. Su questa simbologia ci soffermeremo più avanti.
21 De Robertis, p. 40, vede in questo invio a “famosi trovatori” (III, 9) proprio la
richiesta di una sorta di “patente poetica”. Ma Dante stesso precisa che già conosceva “l’ar-
te del dire parole per rima” per averla già praticata da solo (III, 9), e che si rivolse ai “fede-
li d’amore” perché “giudicassero la mia visione”, con ciò intendendo non che chiedeva un
giudizio sul valore delle proprie rime, ma che chiedeva un’interpretazione del sogno (v. poi
III, 15, ove giudicio vale appunto interpretazione). È una pratica abbastanza usuale nell’am-
biente di Dante, del resto, questa dello scambio di rime su un certo argomento, e presup-
pone una comunanza di sentimenti e valori e cultura, mentre mai sembra costituire una
richiesta d’ammissione nel novero dei poeti.
ALBERTO GESSANI
chiave per l’accesso alla comprensione del sonetto22. Tanto più essa stu-
pisce, infatti, quanto più riflettiamo sull’importanza dell’azione descritta:
Amore “battezza”23 Beatrice alla nuova vita che l’amore stesso dischiude,
mentre vincola per sempre Dante all’amore stesso, nutrendo lei del suo
cuore; è il momento decisivo di un’intera esistenza, anche se avrà biso-
gno poi di un lungo cammino di maturazione attraverso dubbi, errori e
pene. La prosa, infatti, si sofferma ampiamente ed analiticamente sulla
visione; qui, invece, la visione appare quasi subordinata alla dedica ai
“fedeli d’amore” ed all’indicazione del momento in cui si dà, e il dire
dantesco è, nel racconto, volutamente rapido e scarno, dotato di una sin-
teticità che è frutto, sicuramente, di un’attenta elaborazione formale.
L’azione è scandita da quattro gerundi con valore di participio pre-
sente (“tenendo”, “dormendo”, “ardendo”, “piangendo”) che si sorreggo-
no su cinque indicativi imperfetti (“mi sembrava”, “avea”, “svegliava”,
“pascea”, “vedea”) legandosi ad un participio passato (“involta”) e ad un
infinito (“gir”). I gerundi, nel descrivere l’azione, offrono al contempo
immagini decisive per la “visione” – se così vogliamo dire – della scena,
e permettono a Dante di costruire le due terzine quasi interamente sui
verbi, sui sostantivi e sui pronomi, con due soli aggettivi (“allegro”,
“paventosa”) ed un solo avverbio (“umilmente”): è un dramma breve e
folgorante, quello che ci troviamo di fronte, un dramma muto e privo
di colore, che suscita domande cui non è facile rispondere e che sembra
presentare la forma stringata e contraddittoria tipica dell’enigma24. Non
è possibile non chiedersi, infatti, perché Amore passi dall’allegria al pian-
to, e perché Beatrice sia “paventosa”, e perché venga svegliata; e non è
possibile non notare che l’unico avverbio presente, “umilmente”, si pre-
senta come ambiguo, potendo indicare tanto un atteggiamento servile
22 Per gli interpreti l’enigma principale del sonetto è costituito invece dal contrasto tra
l’allegria iniziale ed il successivo pianto di Amore: cfr. per es. K. Foster-P. Boyde, Dante’s
Lyric Poetry, II, Oxford Un. Press, Oxford 1967, pp. 24-25. E questo sembra anche il punto
che più colpisce i “risponditori” Guido Cavalcanti e Terino da Castelfiorentino (o Cino da
Pistoia).
23 Il battesimo di Beatrice rientra a pieno titolo nel carattere di “vangelo piuttosto che
di romanzo o leggenda” che, come ha visto bene De Robertis (p. 17, Introduzione; e cfr.
anche, del medesimo, Il libro della “Vita nuova”, Sansoni, Firenze 1970 [II ed.]), è proprio
della Vita nuova. È anche da tenere presente, però, che “il motivo del cuore mangiato, dif-
fuso nella cultura romanza, significa il trasferimento delle virtù che nell’organo avevano
sede e rielabora laicamente l’eucarestia cristiana” (Rossi, pp. 16-17); ed è da ricordare
Cavalcanti, Perché non fuoro a me gli occhi dispenti, vv. 12-14 (ricordato infatti da De Robertis
e da Rossi). Sul pasto del cuore v. qui nota 30.
24 Cfr. De Robertis, p. 42.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
25 De Robertis, p. 42, pensa che umilmente indichi che Amore è, in questa fase dell’a-
pietosa, v. 24); ma anche: “Voi che portate la sembianza umile,/ con li occhi bassi, mostran-
do dolore” (XXII, 9, vv. 1-2), etc., con una gamma di significati la cui complessità si può
far risalire alla Vulgata, ove humilis può indicare bassezza di condizione, dolore, modestia,
benevolenza (cfr. per es. Lev. XIII, 3; Deut. I, 7; 2Sam. VI, 22; Iob. V, 11; etc.). È da ricor-
dare che nel Vangelo di Matteo Cristo dice di sé: “mitis sum, et humilis corde” (XI, 29). Per
quanto riguarda gli stilnovisti, cfr. Cavalcanti, Chi è questa che vèn, v. 7: “cotanto d’umiltà
donna me pare” (ove umiltà=benevolenza); Deh, spiriti miei, v. 6: “di sguardo e di piacere e
d’umiltate” (nello stesso significato) etc.; Guinizzelli, Madonna, il fino amor ched eo vo porto,
v. 65; Lapo Gianni, Amore, i’non son degno ricordare, v. 24 (ove umiliare ha significato di far
benigno [Contini, p. 138]), etc.
27 Diverso è il caso della risposta di Dante da Maiano, Di ciò che stato sei dimandatore, che
sonetto, lo quale comincia: Vedeste, al mio parere, onne valore. E questo fue
quasi lo principio de l’amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quel-
li che li avea ciò mandato. Lo verace giudicio del detto sogno non fue vedu-
to allora per alcuno, ma ora è manifestissimo a li più semplici. (III, 14-15)
haec non cognoverunt discipuli eius primum; sed quando glorificatus est
Iesus, tunc recordati sunt quia haec erant scripta de eo.
Le cose che i discepoli non riconobbero sono quelle che erano state
profetizzate nell’Antico Testamento, nel libro di Zaccaria (IX, 9):
30 È un’ovvietà, questa, alla quale nessuno sembra sottrarsi: cfr. per es. De Robertis, p.
44; Rossi, p. 24. Ma C.S. Rossi, Il cuore, mistico pasto d’amore: dal “ Lai Guirun ” al Decameron.
Studi provenzali e francesi, Japadre, L’Aquila 1983, pp. 28 sgg., ha mostrato come il pasto del
cuore costituisca una sorta di “santificazione” dell’amore tra Dante e Beatrice, e come l’a-
scesa di Beatrice al cielo vada vista come rinuncia ad una gratificazione terrena di quest’a-
more e come apertura, per Dante, della dimensione della verità. La poesia sarà lo stru-
mento con il quale questa verità potrà dischiudersi in se stessa, al di là dello speculum: il
sacrificio simbolico – il pasto del cuore, la rinuncia alla dimensione terrena dell’amore –
consente l’iniziazione poetica nel senso altissimo di una poesia che non è più semplice-
mente scaturigine di un cuore gentile, ma visione del divino.
31 Cfr. Ch. S. Singleton, An essay on the “Vita nuova”, Harvard University Press,
Cambridge (Mass.) 1948 (tr. it. Il Mulino, Bologna 1968, pp. 20 [n. 4], 36 [n. 17]).
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
Ipotesi e postille sull’estetica medioevale con alcuni rilievi su Dante teorizzatore di poesia, Marzorati,
Milano 1975, specie pp. 71 sgg. (il libro è, anche se il titolo non lo evidenzia pienamente,
in gran parte dedicato all’estetica dantesca, alla conoscenza della quale costituisce un
importante contributo).
33 V. Guittone, Se voi, donna gente: “de voi […] / m’ha preso amor” (vv. 1-2);
Guinizzelli, Donna, l’amor mi sforza: “sì pres’è ’l meo core” (v. 8); Cavalcanti, Dante, un
sospiro: “la donna è prisa” (v. 12). Cfr. Vita nuova, XXIV, 2, ove Amore dice a Dante: “Pensa
di benedicere lo dì che io ti presi, però che tu lo dei fare”, etc., fino a Purg., XVIII, 31.
34 La formula appartiene allo stile epistolare, ed è Brunetto Latini a proporre l’analo-
gia tra ars dictandi propria della lettera e dire in rima (Rettorica, 76, 15-16). Cfr. anche
Guittone, XXV; Gianni Alfani, Guido, quel Gianni, vv. 1-2; e Dante stesso nell’esordio
dell’Epistola III.
ALBERTO GESSANI
Cristo38. Si tratta del tremore che ci proviene da ciò che è sacro, da ciò
che è del tutto altro da noi e dalla nostra esperienza usuale, e che tra-
scende qualsiasi ragione e sentimento; e si noti come il poeta dica di pro-
varlo anche nel ricordo: non soltanto al cospetto di Amore, cioè, ma per-
fino dopo, nel “membrar”. Madonna stessa, del resto, è “paventosa” di
fronte all’azione che deve compiere; e nell’umiltà di Amore potrebbero
fondersi la sua benevolenza nei confronti delle creature e la sua servitù
non nei confronti di Beatrice, ma nei confronti di un potere più alto.
Comprendiamo ora che il vero enigma del sonetto non risiede nel-
l’atteggiamento di Beatrice o in quello di Amore, ma proprio nel rap-
porto di queste due quartine introduttive con il resto: nel significato di
quella visione al quale le quartine accennano senza dirlo in modo espli-
cito. E questo significato distacca il sonetto dalle tematiche dei compo-
nimenti del Dolce Stile mentre sembra inscriversi pienamente in esse fin
dall’esordio del “dire”, così come Dante sembra, in Amore e monna Lagia,
d’accordo con Lapo mentre se ne distacca nettamente: quello che anco-
ra lo unisce ai “fedeli d’Amore” è un certo stile e l’equazione amore-cuor
gentile, che infatti sarà ribadita anche nella Vita nuova39; quello che lo
distacca da loro è una concezione dell’amore che pare incentrarsi sul rap-
porto uomo-donna e invece trascende questo rapporto verso una dire-
zione decisamente religiosa. Il sonetto non descrive l’esperienza di un
Cristo a Maria Maddalena: “Noli me tangere” (XX, 17), che indica l’intangibilità di ciò che
è sacro e quindi il timore che il sacro deve suscitare negli uomini. V. anche, qui, nota n.40.
39 Cfr. il sonetto Amore e ‘l cor gentil sono una cosa (XX, 3-5), che sembra riprendere nel
modo più pieno la lezione di Guinizzelli in Al cor gentil rempaira sempre Amore. Ma è anche
da tenere presente come nel capitolo successivo a quello in cui si trova Amore e ‘l cor gentil
Dante, commentando Ne li occhi porta la mia donna Amore (XXI, 2-4), introduce un ele-
mento “miracoloso” che travalica l’ambito guinizzelliano e stilnovistico: “Poscia che trat-
tai d’Amore ne la soprascritta rima, vennemi volontade di volere dire anche in loda di que-
sta gentilissima parole, per le quali io mostrasse come per lei si sveglia questo Amore, e
come non solamente si sveglia là ove dorme, ma là ove non è in potenzia, ella, mirabil-
mente operando, lo fa venire […]Ne la prima parte dico sì come virtuosamente fae genti-
le tutto ciò che vede, e questo è tanto a dire quanto inducere Amore in potenzia là ove
non è […]” (XXI, 1; 6). Anche se il sonetto parla di “novo miracolo e gentile” nell’ultimo
verso, esso non sembra veramente racchiudere l’idea che poi Dante vi pone: l’idea, cioè,
che Beatrice crei Amore anche dove Amore potenzialmente non è. In esso, nella parte indi-
cata da Dante, si dice che “si fa gentil ciò ch’essa mira” (v. 2): il che è piuttosto generico a
fronte del “miracolo” di un atto senza potenza che il poeta invita a vedervi indicato. La
forzatura mostra, comunque, come ormai vada stretto a Dante, al tempo della Vita nuova,
l’impianto concettuale del Dolce stile (ma forse gli andava stretto già prima, come mostra
A ciascun’alma presa).
ALBERTO GESSANI
amore che comincia, o non soltanto questo; il suo vero centro, quello
che nessuno seppe vedere, è nel carattere sacro dell’amore che si dischiu-
de quando Dante comincia ad amare Beatrice. Ma allora la figura di
Amore acquista un senso particolare: è una figura della nostra anima in
quanto esprime i sentimenti che proviamo, effettivamente, per un’altra
persona; ma è anche figura di una dimensione diversa, sublime, della
quale ci fa avere un presagio e verso la quale ci conduce. Di qui la sua
benevolenza, la sua partecipazione alle nostre sorti, il suo riso ed il suo
pianto; di qui, d’altro lato, il suo essere horribilis e la sua autorità nel far
compiere a Beatrice quanto deve essere compiuto. L’immagine del bat-
tesimo che il sonetto sembra evocare deve essere vista in tutta la sua por-
tata: chi è battezzato non è consapevole di esserlo, per lo più, essendo
un bambino; occorre un’altra mente, un altro, che sappia qual è il bene
del battezzato. Al tempo stesso, questo altro non è semplicemente Dio,
ma un ministro di Dio: Amore porta a noi il divino ma non è Dio.
Ricordiamo, a questo proposito, Giovanni:
Fuit homo
missus a Deo,
cui nomen erat Ioannes.
Hic venit in testimonium
ut testimonium perhiberet de lumine,
ut omnes crederent per illum.
Non erat ille lux,
sed ut testimonium perhiberet de lumine.
(Ioann., 1, 6-8)
3. Se andiamo ora alla prosa che precede, nella Vita nuova, A ciascun’al-
ma presa, possiamo facilmente renderci conto che essa presenta marcate
differenze dal sonetto. L’azione è sempre quella, salvo che qui Dante
specifica, come si è detto, che Amore porta con sé, andandosene,
Beatrice; ma si modifica profondamente nel ritmo e per un insieme di
cose che i versi non dicevano.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
40 De Robertis, p. 36, rimanda, per questa nuvola, a Matth. XVII, 5: “ecce nubes luci-
da obumbravit eos”, ed a Marc. IX, 6: “et facta est nubes obumbrans eos”, rilevando come
l’inizio di questi capitoli in entrambi gli evangelisti sia stato probabilmente ricordato da
Dante per l’inizio di questo capitolo della Vita nuova: “Poi che fuoro passati tanti die […]”
(III, 1); Matth., XVII, 1: “Et post dies sex […]”, identico a Marc., IX, 1. Gli evangelisti rac-
contano, in questi luoghi, della trasfigurazione di Cristo dinanzi a Pietro, Giacomo e
Giovanni, e di come la sua veste si faccia, appunto nella trasfigurazione, bianca come la
neve (Matth.. XVII, 2; Marc., IX, 2): così come Beatrice appare a Dante “vestita di colore
bianchissimo” (III, 1). Quello che anche e soprattutto andrebbe notato – e che è assai
importante per quanto si dirà in seguito – è che la nuvola, in entrambi gli evangelisti,
nasconde il Padre: “Et ecce vox de nube, dicens: Hic est Filius meus dilectus” (Matth., XVII,
5; cfr. Marc., IX, 6: “Hic est Filius meus charissimus: audite illum”), e che gli apostoli, sono
“timore exterriti” (Marc., IX, 5; cfr. Matth.. XVII, 6) per il manifestarsi della divinità: così
come “orrore” (nel sonetto) prova Dante di fronte ad Amore, “segnore di pauroso aspetto”
(nella prosa, III, 3). Marigo (Mistica e scienza nella “Vita nuova”, Drucker, Padova 1914, p. 46)
lega l’immagine della nuvola ad Apoc., X, 1, in cui si legge di “angelum […] amictum nube”
(e per questo v. anche Vita nuova, XXIII, 7 e, nella canzone corrispondente, Donna pietosa,
v.25). Ma sembrano più convincenti i legami di questo testo con i Vangeli di Matteo e
Marco: ricordiamo anche che Amore dice a Dante: “Ego dominus tuus” (III, 3).
41 “[…]me parea vedere […]” (III, 3); “[…] pareami con tanta letizia […]” (ibid.); “Ne
le sue braccia me parea vedere […]” (III, 4); “involta me parea […]” (ibid.); “E ne l’una
delle mani mi parea […]” (III, 5); etc.
ALBERTO GESSANI
42 Osserva De Robertis, p. 38, che salute vale tanto come saluto quanto come salvezza,
e che Dante “giuoca appunto sull’equivoco” , rimandando a XI, 1, 3, XII, 6 etc. Marigo,
op. cit., p. 43, vede nell’espressione “donna de la salute” un ricordo di Ps. XXXVII, 23 (e
anche LXXXVII, 2): “Domine Deus salutis meae” (cui si collegherà, allora, anche: “Ego
dominus tuus” di Amore in III, 3: ed è notevole questa scomposizione della formula dei
salmi tra Amore e Beatrice).
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
43 De Robertis, p. 38.
ALBERTO GESSANI
44 È quanto mostra il già ricordato C.S. Rossi, Il cuore, mistico pasto (v. qui nota 30).
Sarebbe tutto da vedere il rapporto tra questa concezione e la visione agostiniana della cha-
ritas, amore sempre buono in sé, ma sempre anche al bivio tra cupido, desiderio terreno, e
sublimazione nell’amore divino. Sul rapporto fra amore come passione e carità cfr. V.
Branca, Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica nella “Vita Nuova”, in AA.VV., Studi
in onore di Italo Siciliano, Sansoni, Firenze 1967, specie pp. 129 sgg. Cfr., a proposito del
pensiero di S. Agostino al riguardo, A. Nygren, Eros e Agape, tr. it., Il Mulino, Bologna
1971, II, Cap. II, II-III, specie pp. 482-527. Nygren dedica a Dante alcune pagine (pp. 630-
635), vedendo nella Commedia l’opera che meglio rappresenta il Medioevo e la concezio-
ne del Cristianesimo come religione della charitas (p. 633). Nel pensiero di Dante sono pre-
senti, secondo Nygren, motivi tratti da Proclo, dallo Pseudo-Dionigi e da S. Agostino: di
qui la sua vicinanza alla concezione greca dell’eros, anche se nella visione dantesca “è pre-
sente anche un tratto importante dell’agape, in quanto l’amore è considerato come un
dono della grazia divina” (p. 634). Nygren radicalizza il contrasto tra eros e agape, e dun-
que è portato ad interpretare qualsiasi tentativo di ascensione al divino come espressione
di infedeltà rispetto alla concezione del Nuovo Testamento: infatti è per lui “quasi inutile
rilevare che questa caritas [dantesca] non può essere identificata con l’agape del Nuovo
Testamento” (ivi). Al di là di questi giudizi, senz’altro discutibili, si deve riconoscere che
Nygren ha colto in modo assai acuto quello che costituisce un motivo fondamentale del
pensiero dantesco, un motivo forse profondamente problematico per lo stesso Dante.
Tutto da riesaminare, in questo senso, e tenendo presente anche il periodo della “crisi” di
Dante dopo la morte di Beatrice, sarebbe l’esame di S. Giovanni a Dante sulla carità in
Paradiso, XXVI, vv. 1-69: esame, appunto, al quale Nygren rimanda come all’espressione
più esplicita della filosofia dantesca dell’amore.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
45 Sul numero nove cfr. quanto Dante stesso vorrà dire in XXIX, 2-4, con un richia-
mo alla Trinità divina che è assai importante, come vedremo, per quanto andiamo dicen-
do qui: “Dunque se lo tre è fattore per sé medesimo del nove, e lo fattore per sé medesi-
mo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa
donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch’ella era uno
nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile
Trinitade” (XXIX, 3). Ed è assai significativo che Dante chiuda il discorso affermando che
“forse per più sottile persona si vederebbe in ciò più sottile ragione; ma questa è quella
ch’io ne veggio, e che più mi piace” (XXIX, 4): l’apparente autolimitazione è in effetti un
preciso avvertimento al lettore sul significato che al numero nove dà il poeta. L’importanza
di questo significato porta Dante a preoccuparsi su possibili interpretazioni dei suoi testi
estranee al suo pensiero, quindi a premunirsi con questa pagina. Di parere opposto, su
questo punto, G. Gorni, La Beatrice di Dante, dal tempo all’eterno (rielaborazione di Beatrice
agli inferi, in Omaggio a Beatrice, a cura di R. Abardo, Le Lettere, Firenze 1997), in Dante,
Vita nova, a cura di L.C. Rossi, cit., p. XIII, secondo il quale “si ha qui una superfetazio-
ne esoterica del discorso, le cui valenze, offerte a una glossa perenne, l’autore non può o
non vuole esaurire con una chiosa”. Se questa fosse l’intenzione di Dante, egli potrebbe
dire che altrove o in un altro contesto direbbe altra più sottile ragione; qui egli marca con
decisione la sua ragione contro quella di altri, dunque sembra non lasciare aperto il discor-
so, ma chiuderlo, almeno per quello che lo riguarda.
ALBERTO GESSANI
parlandogli “nel cuore” (XXIV, 4), richiama nel nome “quello Giovanni
lo quale precedette la verace luce, dicendo: Ego vox clamantis in deserto:
parate viam Domini” (XXIV, 4); quanto a Beatrice, continua Amore, “chi
volesse sottilmente considerare quella Beatrice chiamerebbe Amore per
molta somiglianza che ha meco” (XXIV, 5). Il rapporto Giovanna-
Beatrice, dietro al quale si nasconde e si definisce, come è stato sottoli-
neato46, il rapporto Dante-Guido, si configura così come cifra del rap-
porto Giovanni-Cristo; ed a sua volta il rapporto Cristo-Beatrice-Amore
si configurerà sotto il segno “della grande equazione giovannea (I Ioann.,
IV, 8): ‘Deus charitas est’”47. Dante ricorda che amore è charitas e che Dio
è charitas nella persona di Cristo, e questo marca la sua visione dell’a-
more: Beatrice ispira amore mondano, certamente, per le sue doti, ma
l’amore mondano non è che un riflesso, quando è vero e profondo, della
charitas divina. Va d’altra parte tenuto presente, contro facili identifica-
zioni di Beatrice e Cristo, che l’equazione istituita da Dante nel passo
citato sopra non si delinea sotto il segno dell’identità, ma sotto quello
della “molta somiglianza” con Amore: Amore che, come vedremo, è
centro del tutto, ma non è, a sua volta, il tutto. Beatrice è pur sempre
una creatura, così come Giovanna: il suo “soprasenso”, se così vogliamo
dire, la riguarda nel contesto di una “sentenzia” (I, 1) delle cose umane
che soltanto il “fedele d’Amore”, il vero fedele, è in grado di vedere guar-
dando all’amore-charitas che ella ispira. In modo diverso, sicuramente,
ma con risultato affine, Amore non è Dio nella sua totalità e nella sua
pienezza, ma una persona divina; e così amare significa inseguire la
“somiglianza” delle persone e degli eventi con il divino, in una dinami-
ca che sempre deve rinnovarsi o, se si vuole, in un viaggio che sempre
deve ripartire, mentre viviamo, dalla dura, opaca eppur fragile sostanza
delle cose terrene.
46 Cfr. Rossi, pp. 250-251; e E. Sanguineti, Per una lettura della “Vita nuova” in Dante,
Elli mi parea disbigottito, e guardava la terra, salvo che talora li suoi occhi
mi parea che si volgessero ad uno fiume bello e corrente e chiarissimo, lo
quale sen gia lungo questo cammino là ov’io era. (IX, 4)
re “sbigottito” di Dante per la partenza della “bella difesa”, ed è da notare che lo sbigotti-
mento di Amore è attenuato dal guardare il “fiume bello e corrente e chiarissimo”. È chia-
ra, per quanto riguarda la parola ed il concetto di sbigottimento, l’influenza di Cavalcanti:
cfr. per es., di quest’ultimo, Deh, spiriti miei (VI), v. 4; L’anima mia vilment’è sbigottita (VII),
v. 1; Noi siàn le triste penne isbigotite (XVIII), v. 1; O donna mia (XXI), v. 11. Ma lo stupore,
il dolore e la paura che si racchiudono nello sbigottimento sembrano in Cavalcanti legati
necessariamente all’amore ed alle sue fasi; in Dante, come mostra appunto lo sbigotti-
mento di Amore nel passo citato, un’altra dimensione si dischiude all’amante sbigottito, e
forse lo sbigottimento è soltanto una tappa del cammino dell’amore verso mete assoluta-
mente positive.
ALBERTO GESSANI
mente debole, di fronte alla verità dei rapporti del poeta con la “bella
difesa”, quasi ch’egli volesse dire al suo lettore che nell’amare convivo-
no aspetti sublimi ed aspetti umani, e che il libro della vita nuova è
scritto per trattare dei primi, ma non può tacere del tutto dei secondi.
E lo vedremo meglio più avanti.
L’aspetto fisico e psicologico di Amore, dunque, si giustifica se con-
sideriamo, oltre alle vesti povere con le quali effettivamente i pellegrini
viaggiavano, il momento particolare dei sentimenti di Dante49. Ma
anche qui, come in tutta la Vita nuova, i dati puramente mondani sono
trascesi da un messaggio che li assorbe, se così possiamo dire, in una
dimensione più vasta e complessa. Che Dante senta il bisogno, nel pre-
sentare Amore come pellegrino, di offrire al lettore anche l’immagine di
“uno fiume bello e corrente e chiarissimo”, verso il quale Amore volge
talora gli occhi – quando non guarda la terra –, è cosa che non può esse-
re sottovalutata né interpretata semplicemente come una sorta di tribu-
to dantesco ai tanti paesaggi provenzali popolati di pastorelle e di carat-
tere generalmente erotico50: tanto più che l’immagine ritorna, poco
dopo, ad introdurre uno dei punti più importanti della Vita nuova, cioè
Barbi-Maggini, op.cit., pp. 45 sgg. Sul vestito dimesso dei pellegrini cfr. Foster-Boyde,
op.cit., p. 62. De Robertis, p. 63, ricorda Un dì si venne a me Malinconia (LXXII; 25), ove
Amore compare “vestito di novo d’un drappo nero,/e nel suo capo portava un cappello;/e
certo lacrimava pur di vero” (vv. 9-11); ma la somiglianza è, mi sembra, più apparente che
reale, perché nel sonetto ora citato le vesti di Amore sono vesti di lutto (cfr. Contini, p.
366), come poi si esplicita nelle parole finali di Amore: “Eo ho guai e pensero,/ché nostra
donna mor, dolce fratello” (vv. 13-14), e come si annuncia già con la venuta di Malinconia
in compagnia di Dolore ed Ira (v. 4. Ira sta per cordoglio, secondo “diffuso provenzalismo”
[Contini, p. 366]), mentre la veste e l’atteggiamento di Amore nei luoghi della Vita nuova
che stiamo ora percorrendo non hanno niente a che fare con il lutto.
50 V. per es. Rossi, pp. 40 e 42, che vede nel “trovai” del v. 3 di Cavalcando l’altr’ier per
rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontade di dire, che io cominciai a pensare lo modo
ch’io tenesse”. De Robertis, p. 114, nota come l’inizio usa “una giuntura tipica di molti
inizi di capitolo dei Vangeli di Matteo e di Luca, ‘Factum est ut…’ […] Un modo som-
messo di solennizzare l’arrivo dell’ispirazione” (la “volontade di dire”); ma anche, si
potrebbe aggiungere, un modo di indicare il carattere non puramente mondano dell’ispi-
razione stessa (ed in questo senso è importante l’immagine del fiume, senz’altro legata a
quella di IX, 4).
52 Cfr. De Robertis, p. 63.
53 Tale, in effetti, appare per esempio a N. Sapegno nel suo commento alla Vita nuova,
Vallecchi, Firenze 1931, a.l., che comunque attribuisce la pedanteria, con una sorta di affet-
tuosa condiscendenza, a tutta la cultura del tempo di Dante; ed a F. Chiappelli, Opere di
Dante, Mursia, Milano 1965, a.l., che sottoscrive in pieno il giudizio di Sapegno. Rossi, pp.
207-208, pensa che Dante possa rammentare Santiago de Compostela alludendo polemi-
camente al viaggio “epicureo” che Guido Cavalcanti avrebbe fatto verso quella località
(Una giovane donna di Tolosa e Era in pensier d’amor farebbero appunto riferimento ad una
tappa di questo viaggio: cfr. Contini, Poeti, p. 95). Ma sembra un’ipotesi troppo debole,
per quanto suggestiva; come debole anche l’ipotesi, sempre di Rossi, p. 208, che nella trat-
ALBERTO GESSANI
tazione sul pellegrino possa ravvisarsi “un’occulta ritrattazione del finale del Fiore, nel
quale la deflorazione della donna amata è descritta in termini di pellegrinaggio verso le
reliquie”.
54 Cfr. Purg., VIII: “Era già l’ora che volge al disio/ ai navicanti e ‘ntenerisce il core/
lo dì c’han detto ai dolci amici addio;/ e che lo novo peregrin d’amore/ punge, s’ode squil-
la di lontano/ che paia il giorno pianger che si more” (vv. 1-6).
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
Io vegno da quella donna la quale è stata tua lunga difesa, e so che lo suo
rivenire non sarà a gran tempi; e però quello cuore che io ti facea avere a lei,
io l’ho meco, e portolo a donna la quale sarà tua difensione, come questa
era. (IX, 5)
Dante dovrà, dunque, volgersi ad una nuova donna, che sarà sua dife-
sa come l’altra era stata. Ma questo nuovo rapporto si pone sotto un segno
diverso, probabilmente molto più sensuale, del primo, se il poeta, come è
facile pensare, racconta poi del giudizio della gente per dirci velatamente
l’effettiva caratteristica dell’amore per la seconda donna-schermo:
[…] dico che in poco tempo la feci mia difesa tanto, che troppa gente ne
ragionava oltre li termini de la cortesia; onde molte fiate mi pensava dura-
mente. (X, 1)55
Più avanti Amore dirà a Dante che Beatrice “udio da certe persone di
te ragionando, che la donna la quale io ti nominai nel cammino de li
sospiri, ricevea da te alcuna noia” (XII, 6): ove con “ricevere noia” s’in-
tende probabilmente – secondo un uso ancora presente in Toscana –
“subire parole e atti di carattere sessuale”, così come con “oltre li termini
de la cortesia” s’intende che la gente vedeva nel suo rapporto con la
donna un commercio carnale o comunque non “gentile”. Se la prima
donna-schermo appariva come una sorta di Beatrice “normalizzata”,
essendo “gentile” quando la prima è sempre meritevole di superlativi
assoluti e mostrandosi a Dante per la prima volta (per la prima volta, s’in-
tende, in modo significativo) in chiesa e sulla stessa linea percorsa dallo
sguardo di lui volto a Beatrice, quest’altra donna sembra essere stata
oggetto di desideri ben più materiali e passionali; e per questo Beatrice gli
55 Sul senso di “mi pensava duramente” (“mi pensava” è lectio difficilior preferita da
Barbi rispetto alla tradizionale “mi pesava”, confortata anche da E’ m’incresce di me, v. 46:
“e non le pesa del mal ch’ella vede”) come “mi affliggevo” cfr. De Robertis, p. 67, che
rimanda a G. Folena, “Pensamento” guittoniano, in “Lingua nostra”, XVI, 1955, p. 103.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
56 Cfr. soprattutto XXXVIII, 1-3, in rapporto alla “donna pietosa”: “pensava di lei così:
‘Questa è una donna gentile, bella, giovane e savia, apparita forse per volontade d’Amore,
acciò che la mia vita si riposi’. E molte volte pensava più amorosamente, tanto che lo cuore
consentiva in lui, cioè nel suo ragionare […]. Poi si rilevava un altro pensero, e diceame:
‘Or tu se’ stato in tanta tribolazione, perché non vuoli tu ritrarre da te tanta amaritudine?
Tu vedi che questo è uno spiramento d’Amore, che ne reca li disiri d’amore dinanzi, ed è
mosso da così gentil parte com’è quella de li occhi della donna che tanto pietosa ci s’hae
mostrata’”. Cfr., su questa argomentazione, Sapegno, op. cit., a.l. Senza voler entrare nelle
questioni aperte dai passi del Convivio nei quali la “donna pietosa” è interpretata come
figura della filosofia, si può osservare che, in fondo, questa famosa autointerpretazione di
Dante non è poi così arbitraria come sembra a prima vista: la strada della donna pietosa è
quella della ragionevolezza, che si contrappone a quella sorta di follia divina che è, inve-
ce, l’amore per Beatrice.
ALBERTO GESSANI
precede infatti di poco Donne ch’ avete intelletto d’amore. Ad una donna che
gli chiede quale sia il fine del suo amore, visto che egli non può nemme-
no sostenere la presenza di Beatrice, Dante dà questa risposta:
Madonne, lo fine del mio amore fue già lo saluto di questa donna, forse di
cui voi intendete, e in quello dimorava la beatitudine, ché era fine di tutti li
miei desiderii. Ma poi che le piacque di negarlo a me, lo mio segnore Amore,
la sua merzede, ha posto tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote
venire meno […] in quelle parole che lodano la donna mia. (XVIII, 4-6)
Martha, Martha, sollicita es, et turbaris erga plurima. Porro unum est neces-
sarium. Maria optimam partem elegit, quae non auferetur ab ea. (X, 42)
57 La lezione “ché era fine” è stata giustamente preferita da Barbi all’altra “ch’è fine”,
molto meno significativa. Ma il passo che, secondo De Robertis (p. 111), conferma la lezio-
ne scelta da Barbi: “lo saluto di questa donna […] fue fine de li miei desideri mentre ch’io
lo potei ricevere” (XIX, 20), non è, al riguardo, probante: il che di “ch’è fine”, infatti, non
si riferirebbe al saluto di Beatrice, ma alla beatitudine, e Dante specificherebbe che la bea-
titudine è il fine di tutti i suoi desideri, ci sia o no il saluto di Beatrice.
58 Cfr. Singleton, op.cit., p. 127, nota n.6; e anche De Robertis, Il libro della Vita nuova,
beatitudine della vita contemplativa: “fine della Filosofia è quella eccellentissima diletta-
zione che non pate alcuna intermissione o vero difetto, cioè vera felicitade che per con-
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
proprio per indicare la sua nuova scoperta, la scoperta decisiva della sua
vita e della sua poesia: nessuno potrà togliere ciò che da nessuno deriva
e che non si lega alle faticose vicende della vita; nessuno potrà scalfire le
conquiste della contemplazione pura. Ed infatti precisa che ora la sua
beatitudine è posta “nelle parole che lodano la donna mia”, cioè non in
un saluto o qualcosa d’altro che da altri dipenda, ma nella sua capacità
di dire quanto c’è di sublime e di divino – di necessario – in quella
donna che prima era cercata per se stessa. Non si tratta qui, come tal-
volta è sembrato agli interpreti, di autosufficienza della poesia, perché
comunque rimane il riferimento ad altro, alla donna; si tratta del fatto
che la bellezza umana, qualsiasi bellezza, è soltanto figura della più alta
bellezza cui la poesia può attingere e cui la poesia deve tendere: la figu-
ra è il ponte verso questa più alta bellezza, e la beatitudine non dipen-
derà più dalla creatura che quella figura incarna, bensì dalla bellezza alla
quale la creatura, in quanto figura, rimanda. Non è l’affaccendarsi intor-
no al bene terreno quello che ci salva; è la contemplazione di ciò che di
assoluto si vela nel contingente; di ciò che di assoluto si vela, in questo
caso, in Beatrice. Forse per questo Dante ha voluto conservare, nella
Vita nuova, qualcosa della ragazza Beatrice che si gabbava di lui, qual-
cosa della ragazza Beatrice che gli aveva ispirato E’ m’incresce di me e Lo
doloroso amor che mi conduce: proprio per indicare che è altra la Beatrice
di cui sta veramente trattando, una Beatrice che da quella è assai distan-
te pur nascendo da quella. E per questo, in luoghi che richiederebbero
una lunga trattazione qui impossibile, si introduce l’idea di una sorta di
doppio sguardo, l’uno del senso della vista e volto alla Beatrice donna,
l’altro di Amore e volto ad una realtà ben diversa da quella della
donna60. Certo è che, se la Vita nuova è soprattutto la storia della poeti-
templazione della veritade s’acquista” (III, XI, 8). Ma il concetto di beatitudine, nel
Convivio stesso e nella cultura del tempo di Dante, è tutt’altro che pacifico, e sarebbe da stu-
diare a fondo – come non è possibile fare qui – confrontando le posizioni dantesche, a par-
tire appunto dalla Vita nuova, con il dibattito che nel Medioevo si svolge al riguardo, sul
fondamento del pensiero agostiniano e di quello tomista. Cfr. comunque, per una visione
d’insieme del problema, H. De Lubac, Agostinismo e teologia moderna, tr. it., Il Mulino,
Bologna 1968, Cap. VII (dedicato appunto al problema della beatitudine), pp. 235-270.
60 “E quando ella fosse alquanto propinqua al salutare, uno spirito d’amore, distrug-
gendo tutti li altri spiriti sensitivi, pingea fuori li deboletti spiriti del viso, e dicea loro:
‘Andate a onorare la donna vostra’; ed elli si rimanea nel luogo loro. E chi avesse voluto
conoscere Amore, fare lo potea mirando lo tremare de li occhi miei” (XI, 2). Chiare sono,
in questo passo, le reminiscenze cavalcantiane (Voi che per li occhi), e guinizzelliane (Lo vostro
bel saluto); ma la differenza da Cavalcanti non sta soltanto nel fatto che qui rimane Amore
e in Cavalcanti dolore nel luogo de “li deboletti spiriti del viso” (cfr. De Robertis, p. 70).
ALBERTO GESSANI
Poi che è tanta beatitudine in quelle parole che lodano la mia donna, perché
altro parlare è stato lo mio? (XVIII, 8)
Dante parla, in effetti, di una doppia vista: quella sensibile, che rimane ad onorare la donna
per il suo corpo e per il suo viso, e quella d’Amore, volta ad una Beatrice che gli occhi sen-
sibili non possono cogliere. Più avanti, invece, Amore annullerà gli spiriti della vista, pur
non distruggendoli: “Allora fuoro sì distrutti li miei spiriti per la forza che Amore prese veg-
gendosi in tanta propinquitade a la gentilissima donna, che non ne rimasero in vita più che
li spiriti del viso; e ancora questi rimasero fuori de li loro istrumenti, però che Amore volea
stare nel loro nobilissimo luogo per vedere la mirabile donna […] questi spiritelli […] si
lamentavano forte e diceano: ‘Se questi non ci infolgorasse così fuori del nostro luogo, noi
potremmo stare a vedere la maraviglia di questa donna così come stanno gli altri nostri
pari’” (XIV, 5-6).
61 Ha particolarmente sottolineato questo aspetto della Vita nuova E. Sanguineti, Per
ca, Laterza, Roma-Bari 1999, specie Cap. I (ma v. anche Cap. II, p. 59, per una chiara sin-
tesi dell’argomento), contrappone alla concezione tragica ed all’ “estetica formalistica del
naturalismo e della sofistica”.
63 “Se tu ne dicessi vero, quelle parole che tu n’hai dette in notificando la sua condi-
zione, avrestù operate con altro intendimento” (XVIII, 7). Intendimento non deve intendersi
qui come intenzione, ma come “sentenza, concetto, significato, come in VII, 7, e più chia-
ramente in XIX, 22 e XXV, 10” (De Robertis, p. 113). Contini (Letteratura italiana delle
Origini, Sansoni, Firenze 1970, a.l.) spiega: “ad altro fine, di lode, non di narrazione auto-
biografica”, vedendo in questo luogo una precisa indicazione riguardo alla nascita della
nuova poetica dantesca: nascita che sarebbe prima teorica che pratica, nel senso che Dante
acquisirebbe prima coscienza della necessità di un nuovo modo di fare poesia, poi capa-
cità di operare in questa direzione. Si ha qui, in effetti, una chiara espressione del caratte-
re sempre anche razionale (ricordiamo il “fedele consiglio de la ragione” in II, 9) delle scel-
te poetiche dantesche.
64 Cfr. De Robertis, p. 113.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
Avvenne quasi nel mezzo del mio dormire che me parve vedere ne la mia came-
ra lungo me sedere uno giovane vestito di bianchissime vestimenta, e pensan-
do molto quanto a la vista sua, mi riguardava là ov’io giacea […]. (XII, 3)
66 “Tum illa propius accedens in extrema lectuli mei parte consedit meumque intuens
uultum luctu grauem […]” (De Consolatione Philosophiae, I, 1, 14). Ma è da notare che nulla,
nell’aspetto del giovane che appare a Dante, ricorda la Filosofia di Boezio, e che Filosofia,
nel De Consolatione, scaccia le Muse poetiche trattandole da dispensatrici di veleni (I, 1, 7-
11), mentre il giovane consiglierà infine a Dante proprio di fare poesia. Il legame con la
situazione descritta da Boezio (cui dà molta importanza per es. De Robertis, Il libro della
Vita Nuova cit., pp. 67-68) non mi sembra dunque molto forte.
67 Con l’espressione “lungo me” Dante sembra voler indicare che il giovane non sem-
plicemente gli sta vicino (De Robertis intende: “presso di me”), ma sta al suo fianco, in
una posizione molto famigliare ed intima. Nei due passi della Vita nuova nei quali l’e-
spressione ricorre (XXIII, 11 e XXXIV, 1) il significato appare lo stesso: nel primo si tratta
di una donna “giovane e gentile” che sta prendendosi cura della malattia e del delirio di
Dante, e che dunque starà probabilmente a fianco del suo letto; nel secondo si tratta di
uomini che guardano le tavolette sulle quali Dante disegna, e che quindi si saranno posti
al suo fianco. Cfr. anche Inferno, X, 53; XXI, 98; e Purgatorio, XXXII, 130.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
68 Cfr, per esempio, Sapegno, op.cit., a.l. Giustamente De Robertis, p. 72, rimprovera
piuttosto vago.
ALBERTO GESSANI
Dante cita questo passo nel Convivio (IV, XXII, 14-15), vedendo nel
giovane l’angelo di Dio che viene ad annunciare la superiorità della vita
contemplativa su quella attiva, quest’ultima legandosi a “corruttibili
cose” (quale era, appunto, il corpo nel sepolcro). Ma vediamo che cosa
scrive poi Dante nel Convivio:
Questo angelo è questa nostra nobilitade che da Dio viene […] e dice a
[…] qualunque va cercando beatitudine ne la vita attiva, che non è qui
[…] Bianchezza è uno colore pieno di luce corporale più che nullo altro;
e così la contemplazione è più piena di luce spirituale che ogni altra cosa
che qua giù sia. (IV, XXII, 16-17)
70 Con finzioni, invece, traducono in genere i commentatori simulacra: cfr. per es. De
Robertis, p. 73; e Rossi, pp. 49-50, che rimanda alle finzioni “cortesi” delle donne-scher-
mo, pur ammettendo la possibilità che si alluda ai “travestimenti” di Amore stesso.
Chiappelli, op. cit., a.l., vede in questi simulacra una “forma inferiore di conoscenza”, che
ora Dante dovrebbe abbandonare per sostituirla con una verità puramente concettuale; ma
tutta la poesia passata e futura di Dante stesso, in questo modo, andrebbe perduta, ed
andrebbe perduto il fulcro della sua poetica, incentrata proprio sulla figura. Le immagini,
in effetti, non saranno abbandonate come pure e semplici finzioni, ma comprese nel loro
valore di immagini e denudate (come vedremo tra poco).
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
ne ora la luce della veste di Amore, la verità pura e nuda che illuminerà
le stesse immagini. Anche sul fatto che le immagini sono dette nostre
dobbiamo fare attenzione, perché potrebbe tanto indicare una sorta di
complicità tra Amore e Dante quanto anche essere un plurale majestatis
(così come, successivamente, quando anche Beatrice è detta nostra: cfr.
per es. XII, 6): nel primo caso simulacra potrebbe riferirsi anche alle
donne-schermo, e già sarebbe difficile pensare che le donne-schermo
siano state soltanto finzioni; nel secondo caso, che è forse il più proba-
bile se consideriamo il contesto e ciò che verrà detto successivamente,
Amore vorrebbe dire che è tempo che il poeta lo colga per quello che è
entro le sue figure, nella sua verità; che il suo apparire non deve più
nascondere la sua essenza. In ogni caso, il punto è decisivo, perché indi-
ca il passaggio ad una fase nuova dell’esistenza e della poesia di Dante:
una fase nella quale non tanto verranno abbandonate le immagini e le
figure, essenziali sempre per chi voglia dire, quanto sarà superata ogni
confusione tra figure e verità “denudata” e sarà visto il vero – la bianca
luce che attende chi si distacca dalla vita attiva – che si cela sotto il velo
dell’immagine. E qui risiede il “velen dell’argomento” di Amore: nella
denuncia del carattere in fondo infantile di ogni esistenza che si attacchi
eccessivamente alle immagini, da quelle dipendendo come da un qual-
cosa di assoluto e necessario; nell’indicazione di una via più matura per
il pensiero e per il sentimento, che consiste nella riflessione sulle imma-
gini – di qualsiasi genere – che ci attorniano.
La frase di Amore che segue è introdotta – e non andrebbe dimenti-
cato – da una domanda di Dante: “e perché piangi tu?” (XII, 4), solleci-
tata dal piangere di Amore e dal fatto che Amore stesso “parea che atten-
desse da me alcuna parola” (ivi); e va notato che la domanda, se si rife-
risce ovviamente a quanto sta accadendo ora, si riferisce anche alle altre
apparizioni di Amore, triste sempre e piangente salvo che nel suo pri-
missimo mostrarsi. È, in fondo, l’enigma di tutta questa prima parte
della Vita nuova: perché un qualcosa di così bello e nobile come Amore
deve presentarsi piangente? O, fuori di metafora: perché il dolore nel-
l’amore? E, più largamente: perché il male ed il dolore in una vita riscat-
tata dall’amore di Cristo? Amore sollecita ora la domanda come un mae-
stro, una guida che conosce i dubbi del suo discepolo; allo stesso modo,
nella Commedia, si comportano spesso Virgilio e poi Beatrice. Ma è da
notare – e cercheremo di interpretarlo in seguito – che non così si era
comportato in precedenza Amore: o aveva fatto affermazioni perentorie
parlando, tra l’altro, in una lingua in gran parte sconosciuta al poeta, o
aveva dato ordini – o consigli – riguardo ad azioni da fare. La domanda
ALBERTO GESSANI
Appare abbastanza fuori luogo vedere nel finale: “tu autem non sic”,
un rimprovero volto a Dante71 e ad una qualche sua illusione di centra-
lità ed onnipotenza nella pratica delle donne-schermo: il rimprovero
sarebbe ingiusto, in primo luogo perché quella pratica non implica illu-
sioni di centralità, in secondo luogo – e soprattutto – perché essa è stata
voluta proprio da Amore, e in terzo luogo perché abbasserebbe alquan-
to il tono della frase, con un riferimento individuale contrastante con il
carattere universale e solenne della definizione. Amore marca semplice-
mente, in effetti, la differenza tra l’amore e l’individuo, o tra l’amore e
l’uomo, e così chiarisce perché piange: perché, proprio in quanto è
Amore, e dunque in quanto Amore ha a cuore la sorte degli uomini,
71 Una rassegna delle molte interpretazioni che vedono nella frase di Amore un rim-
provero si trova in Chiappelli, op. cit., a.l. È singolare il fatto che i commentatori si siano
concentrati più sull’ultima parte della frase (tu autem non sic) che sulla definizione vera e pro-
pria, per di più intendendo il tu come rivolto a Dante individuo, alla sua vicenda persona-
le. Ciò consegue, forse, dal riferire l’immagine del centro del cerchio all’amore di Dante per
Beatrice, “unico (come il centro di un cerchio) e rispetto al quale ogni altra cosa terrena è
ugualmente e indifferentemente distante” (Berardinelli, comm. cit., a.l.). Ma ciò significa
chiudere Amore proprio in quella vicenda personale che la definizione geometrica sembra
voler superare; ed il rimprovero avrebbe ben poco senso, dal momento che Amore stesso
porrebbe l’amore per una donna – ché donna, in ultima analisi, Beatrice rimane – come
centro del tutto. Il carattere universale e fondamentale delle parole di Amore, in effetti, è
mostrato chiaramente dal fatto che la definizione è quella euclidea del circolo, con l’uso
infatti di una locuzione tecnica, se habere ad (che ritornerà, tradotta, in XLI, 6): tu autem non
sic, in questo contesto, non può essere che una conseguenza della definizione. E il fatto che
questa conseguenza si presenti in una forma che ripete Luc., XXII, 26 (“Vos autem non sic”,
dice Cristo agli apostoli in riferimento ai re ed ai potenti che governano genti: “non così
voi”; “et qui maior est in vobis, fiat sicut minor”) dovrebbe sconsigliare i commentatori dal-
l’intendere il tu come l’individuo Dante. Amore dice tu perché in questo momento sta par-
lando al poeta, ma il suo discorso non può che riguardare tutti gli esseri umani.
Correttamente intende il passo, a mio parere, De Robertis, pp. 73-74.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
non può non soffrire per i dolori che si legano negli uomini alla ricerca
della beatitudine. Questi dolori sono inevitabili – dunque inevitabile è
anche il suo pianto – proprio perché, trovandosi l’uomo in un punto
qualsiasi della circonferenza, dovrà penare molto prima di comprende-
re che non a ciò che è vicino deve volgersi, ma a ciò da cui si forma la
circonferenza stessa: a quel centro dal quale dipendono tutti i punti. Le
cose corruttibili sono qui, alla mano, vivono e muoiono vicino a noi, ci
toccano continuamente con la loro bellezza o bruttezza; facile dunque
pensare che in esse e per esse dobbiamo vivere, e credere di poter trova-
re in esse quei valori ai quali aspiriamo o quel negativo dal quale rifug-
giamo, con ciò donandoci soltanto alla dispersione, all’angoscia del
nulla, al dolore per tutto quello che da noi non dipende ma incide sulla
nostra vita. Ad un impulso che dovrebbe condurci all’assoluto corri-
sponde insomma, almeno fino a che non si sia superata una serie di dif-
ficili prove, una nostra attenzione esclusiva volta alle cose del mondo, al
corruttibile: è quanto accade a Dante, ora, nel dolore per il saluto nega-
to di Beatrice, ed è quanto accade a coloro (come Guido Cavalcanti o
Lapo Gianni) che rimangono delusi dell’amore, e lo offendono, e cerca-
no di distaccarsene, senza comprendere che non l’amore li ha delusi, ma
gli esseri umani sui quali hanno fondato la loro capacità di amare. Sarà
questo uno dei sensi del rimprovero di Beatrice a Dante nel Purgatorio:
se Beatrice era per lui la migliore delle donne, e se egli l’ha poi vista,
come l’ha vista, ridotta a povere spoglie, come ha potuto poi ancora
attaccarsi alle cose del mondo? Come ha potuto credere che la bellezza
ed il bene possano darsi in qualcosa di terreno, se il meglio che nel
mondo è stato si è presto ridotto in cenere? (XXXI, vv. 49-57)
Ciò non significa, per Dante, che dobbiamo abbandonare tutti gli
affetti terreni. Gli esseri umani non sono il centro, ma sono pur sempre
figure che dal centro dipendono ed al centro possono avvicinarci; ciò
che è corruttibile è legato al male ed alla morte, ma è anche legato all’a-
more ed è sul nostro cammino proprio per svelarci la verità dell’amore.
Se abbandoniamo la tensione ingenua verso i simulacri, non coltivando
l’indifferenza nei loro confronti ma amandoli per quelli che sono, cioè
in rapporto a se stessi e ad altro che li trascende, il dolore non verrà
meno, perché sempre l’uomo è un punto della circonferenza, ma si
legherà alla luce del vero e di ciò che veramente vale: l’amore divino che
sta al centro della totalità. La definizione stessa offerta da Amore, in
fondo, indica nella sua forma il rapporto che si deve instaurare tra l’uo-
mo e il divino: l’immagine del cerchio è pur sempre un’immagine, dun-
que un simulacro (anche se non del tutto, in un universo pensato in
ALBERTO GESSANI
Sicut enim in uno corpore multa membra habemus, omnia autem mem-
bra non eundem actum habent; ita multi unum corpus in Christo. (Rom.,
XII, 4-5)
72 Cfr. per es. II, 8, 21 (VIII): “hanc rerum seriem ligat/ terras ac pelagus regens/ et
coelo imperitans amor” (vv. 13-15). Questa concezione dell’amore, in cui forse Boezio
tenta una sintesi tra pensiero platonico e pensiero aristotelico, ma che appare influenzata
soprattutto dal neoplatonismo, si trova in tutto il De Consolatione. Il concetto di amore nel
pensiero di Boezio è stato studiato soprattutto da C.J. De Vogel, Amor quo coelum regitur,
in “Vivarium”, 1, 1963; Greek Cosmic Love and the Christian Love of God. Boethius, Dionysius
the Areopagite and the Author of the Fourth Gospel, in “Vigiliae Christianae”, 35, 1981. Sul rap-
porto tra Dante e la filosofia di Boezio cfr. F. von Falkenhausen, Dante und Boethius, in
“Dante-Jahrbuch”, 22, 1940; e L. Alfonsi, Dante e la “Consolatio Philosophiae” di Boezio, in
“Studi di lingua e di letteratura italiana”, 4, Marzorati, Como 1944. Per la fortuna dell’o-
pera di Boezio nel Medioevo cfr. la bibliografia in Boezio, Consolazione della filosofia, a cura
di L. Obertello, Rusconi, Milano 1996.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
senza nulla specificare riguardo ai contenuti della visione stessa. In XXXIX, 1 abbiamo
“una forte imaginazione”, ma riguarda Beatrice nelle vesti sanguigne del primo incontro,
non Amore.
ALBERTO GESSANI
74 Cfr. per es. per immensus et omniscius Iob., XXIII, 7-11; XVIII, 23-24; XXXIV, 21-22;
Ps., X, 5-8; XXXII, 13; CI, 20-21; per fortis et omnipotens Gen., XVIII, 14 ; Ex., XV, 11 ; Iob.,
XII, 7-XIII, 1 ; XXVI, 1-14 ; per sanctus et terribilis Lev., X, 17 ; XI, 44 ; XX, 26 ; Sam., II,
2 ; VI, 20 ; Ps., CII, 1 ; CIV, 3 etc.. Basta vedere l’elenco completo dei passi nei quali si
parla di questi attributi di Dio nell’Index biblicus doctrinalis della Vulgata (v. Deus), per ren-
dersi conto che sono tutti (con l’unica eccezione di Apoc., III, 7; IV, 8) passi dell’Antico
Testamento, e che riguardano dunque la figura del Dio Padre.
75 Per la parola meschino cfr. De Robertis, p. 65: “Col significato originario (dall’arabo
meskin “povero”, “misero”) concomita nelle lingue neolatine quello secondario di “servo”
(cfr. Inf., IX, 43; XXVII, 115)”. Non escluderei, allora, il ricordo del Vangelo di Luca: “qui
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
maior est in vobis, fiat sicut minor; et qui praecessor est, sicut ministrator. Nam quis maior
est, qui recumbit, an qui ministrat? Nonne qui recumbit ? Ego autem in medio vestrum
sum, sicut qui ministrat” (XXII, 26-27). Cfr. comunque, per meschino nel senso di “misero”,
anche Inf., IX, 43; XXVII, 115.
76 Cfr. Matth., XI, 29: “[…] discite a me, quia mitis sum, et humilis corde”.
ALBERTO GESSANI
del divino che si era aperto poco dopo l’inizio dell’opera. Al Dio terribi-
lis ed al Cristo viator si unisce ora il soffio ineffabile dello spirito divino
che alita in noi per insegnarci la verità: nell’unità dell’amore troviamo il
padre, il compagno di strada, il maestro affettuoso e sollecito che enun-
cia il concetto più difficile e più importante; sempre c’è l’idea della
guida, ma in tutto e per tutto si dice che questa guida è demonica in
quanto guida, divina per la sua natura intima.
Se questa interpretazione delle tre figure di Amore ha una qualche
plausibilità, possiamo anche dire che Dante opera, nella Vita nuova, una
riflessione sul cristianesimo che avrà largo sviluppo nella sua opera suc-
cessiva e che già lo conduce su versanti decisamente inusitati, di cui egli
sembra essere consapevole nel sonetto Amore e monna Lagia, dal quale
non per caso è partito il nostro discorso. Amore può presentarsi in simu-
lacra diversi e rimanere sempre uno, infatti, perché Dio è uno e trino; ma
la Trinità divina è una – questo il punto fondamentale – perché unifica-
ta dall’elemento comune alle tre persone divine, cioè dall’Amore. L’atto
creativo e la giustizia del Dio Padre non potrebbero darsi senza amore,
perché sono, prima di tutto, atti d’amore per l’essere e per il suo ordine
cosmico ed umano; Cristo viene al mondo e muore in quanto uomo
soltanto per amore; lo Spirito Santo ci guida e ci ammaestra per amore.
Se la charitas è il centro e l’essenza della figura di Cristo, Cristo a sua
volta è della divinità il centro e l’essenza, che il diversificarsi dell’azione
divina rivela nella sua grandiosità e nella sua bellezza: il Dominus è,
prima di tutto, l’amico ed il fratello delle creature di cui è padre, e per-
ciò, mentre definisce il proprio centro – l’amore – piange per noi e per
la nostra sorte. L’unità del Dio trino nell’amore costituisce l’armonia del
mondo e l’armonia della stessa azione umana, che sembra disperdersi in
molti rivoli e seguire molti scopi, ma sempre guarda – anche quando
non lo sa – all’amore divino come scaturigine di ogni amore e come
guida, dunque, per il trascendersi degli amori terreni in visione del cen-
tro, in amore per ciò che è prima di tutto amore77.
77 Non sarà inutile, in questa prospettiva, rimandare ancora a XXIX, 3, qui già citato
(v. nota 45) a proposito del numero nove. L’esplicita dichiarazione di Dante: “ella
[Beatrice] era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente
la mirabile Trinitade”, non ha ricevuto forse dai commentatori, pur sempre pronti a sotto-
lineare l’importanza del numero nove nella Vita nuova, la dovuta attenzione: eppure
Dante la marca con molta precisione (come si è accennato appunto nella nota 45), evi-
dentemente proprio perché ritiene fondamentale che la sua insistenza sul numero nove sia
fatta risalire alla Trinità.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
7. Dopo aver presentato la ballata che segue alla narrazione del colloquio
con Amore vestito di bianco, Dante pone un problema di notevole rile-
vanza:
Potrebbe già l’uomo opporre contra me e dicere che non sapesse a cui fosse
lo mio parlare in seconda persona, però che la ballata non è altro che que-
ste parole ched io parlo. (XII, 17)
[…] è una figura questa, quando a le cose inanimate si parla, che si chia-
ma da li rettorici prosopopeia; e usanla molto spesso i poeti. (III, IX, 2)
78 “Dico che lo vidi venire [Amore]; onde, con ciò sia cosa che venire dica moto loca-
le, e localmente mobile per sé, secondo lo Filosofo, sia solamente corpo, appare che io
ponga amore essere corpo” (XXV, 2). Il testo cui Dante si riferisce è probabilmente il De
caelo nel commento di Averroè, I, 99 (cfr. De Robertis, p. 172), rammentato più volte anche
nel Convivio. Il tono filosofico di questo luogo è visibile anche da quello che nota De
Robertis, pp. 172-173: la conclusione della frase: “appare che” (come “è manifesto” di
XXII, 2), “è la solita formula conclusiva del sillogismo”.
79 “E lo primo che cominciò a dire sì come poeta volgare, si mosse però che volle fare
intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d’intendere li versi latini” (XXV,
6). Questa tesi appare a Contini assai seria ed interessante (cfr. Letteratura delle origini, cit., p.
324), specie se la integriamo con De Vulgari eloquentia, I, I, 3, e soprattutto con Convivio, I,
IX, 4-5: “dico che manifestamente si può vedere come lo latino avrebbe a pochi dato lo suo
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
E questo è contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa, con
ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire
d’amore. (ivi)
beneficio, ma lo volgare servirà veramente a molti […] e sono principalmente baroni, cava-
lieri, e molt’altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte
in questa lingua, volgari e non litterati”. Il riferimento alle donne nella Vita nuova indica per
De Robertis, pp. 174-175, che le donne “sono l’avanguardia, ormai simbolica, di questo
nuovo schieramento, e Amore […] è il centro di riferimento della nuova società”. Ma tutto
questo vale, si deve aggiungere, se il concetto di amore è nuovo e diverso da quello classico.
80 Il tentativo guittoniano di una poesia volgare con contenuti morali e filosofici è
attaccato duramente anche da Cavalcanti, Da più a uno face un sollegismo (XLVII), che però
non sembra tanto sollevare una questione di principio sull’argomento del poetare quanto
esprimere sfiducia nelle capacità logiche e retoriche di Guittone. È da ricordare, d’altra
parte, che Guinizzelli si rivolge a Guittone come ad un maestro e ad un padre (A Frate
Guittone, XXa), chiamandolo appunto “caro padre meo” (v. 1): se Guinizzelli non è in esso
ironico (come pensa L. Rossi nella sua recente edizione delle Rime di Guinizzelli, Einaudi,
Torino 2002, pp. 68-69), il sonetto a Guittone è testimonianza di come il “nuovo stile”
nasca non in opposizione alla poesia guittoniana, ma in un profondo rispetto di quella e
del suo insegnamento. La puntata polemica della Vita nuova potrebbe comunque essere
esplicitata con Purg., XXIV, vv. 55-60 sgg., ove il limite di Guittone, di Iacopo da Lentini
e di Bonagiunta, il “nodo” che li fece rimanere indietro rispetto ai nuovi rimatori, è indi-
cato proprio in un mancato ascolto del “dittator” Amore. Cfr. anche Purg., XXVI, vv. 124-
126, e De Vulgari Eloquentia, II, VI, 8.
81 Uscirebbero per esempio dal proposito dantesco Morte villana, di pietà nemica (VIII,
8-11), e la visione “apocalittica” di XXIII e della canzone ivi contenuta, Donna pietosa e di
novella etate.
ALBERTO GESSANI
[dico che] quelli che rimano [non] deono parlare così non avendo alcuno
ragionamento in loro di quello che dicono; però che grande vergogna
sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico,
e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta,
in guisa che avessero verace intendimento. (XXV, 10)
Nescitis quia templum Dei estis, et Spiritus Dei habitat in vobis? Si quis
autem templum Dei violaverit, disperdet illum Deus. Templum enim Dei
sanctum est, quod estis vos.[...] An nescitis quoniam membra vestra, tem-
plum sunt Spiritus Sancti, qui in vobis est, quem habetis a Deo, et non
estis vestri? (I Cor., III, 16-17 ; VI, 19)
82 Cfr. S. Paul. Rom., VIII, 9; I Cor., II, 10; Gal., IV, 6; Ioann., XIV, 16; XVII; XVIII, 26 etc.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA”
non può condividerle, invece, per quanto riguarda quella che egli ora
pensa essere la vera essenza dell’amore. Il sorriso che intravediamo in
Amore e monna Lagia è, in fondo, il sorriso di un poeta che ha trovato o
va trovando la sua vera strada, convinto che quanto ha finora condiviso
con altri sia stato importante per la propria formazione e possa essere, in
una qualche parte, conservato – e parte ne conserverà nella Vita nuova –,
ma sicuro del segreto che conserva nel proprio sentire e nel proprio pen-
sare, e che lo condurrà a ben altre mete da quelle finora raggiunte. Mentre
Cavalcanti lo rimprovera per il suo “pensar troppo vilmente”84, in un
sonetto che è stato troppe volte banalizzato dagli interpreti (ma qui
potrebbe aprirsi un altro discorso, e lungo), Dante è convinto, al contra-
rio, d’aver lasciato ogni pensiero vile e di muoversi entro un ambito che
non permetterà più pensieri vili d’alcun genere; è convinto d’aver trova-
to una poesia che possa veramente guardare in faccia l’eterno. Forse si rin-
nova, nel rapporto tra Dante e Guido, un contrasto che già in tempi anti-
chissimi aveva diviso la poesia, quando si erano fronteggiate una conce-
zione che vedeva nel “dire” – per rimanere nel linguaggio dantesco – la
denuncia del dolore e dell’angoscia della vita, ed una concezione che affi-
dava al dire, invece, la “lode” di quanto c’è nel nostro spirito e nel nostro
essere di bello e di divino. Alla visione tragica di Cavalcanti Dante oppo-
ne ora la visione di una poesia demonica, attraverso l’amore, tra terra e
cielo, con lo sguardo fermamente volto all’eterno nel quale il nostro
tempo s’inscrive. Così, attraverso vie difficili da rintracciare o attraverso
una corrispondenza inconsapevole ma profonda, Dante illustra al meglio
quella esortazione alla poesia d’encomio che Platone aveva fatto in luo-
ghi purtroppo assai fraintesi dagli interpreti. L’encomio platonico e la
lode dantesca non sono esaltazioni di virtù o di valori utili e piacevoli e
edificanti, ma la ricerca, nella povera sostanza umana che noi siamo, della
cifra bruciante e salvifica della divinità. E la poesia, per Platone come per
Dante, è reperimento di questa cifra, svelamento, viaggio verso l’ineffa-
bile che l’ha creata.
84 Mi riferisco a I’ vegno ‘l giorno a te ‘nfinite volte (XLI [XLII]), nel quale il richiamo insi-
stito al disprezzo che Dante nutriva per “l’annoiosa gente”, per le molte persone dappoco,
dovrebbe almeno suscitare qualche sospetto sul significato di “vile” e “vilmente”: dovreb-
be cioè far prendere in considerazione anche la possibilità che Guido rimproveri Dante
non per la crisi del suo pensiero dopo la morte di Beatrice o in un altro momento, ma per
un qualche suo avvicinamento al pensiero dell’“annoiosa gente”. In questo modo sarebbe
anche congruente il ricordo di Guido a Dante del loro antico sodalizio, della comunanza
d’intenti che c’era o sembrava esserci nel loro poetare, contro lo “spirito noioso” (v. 13)
che lo ha allontanato.
Teodoro Katinis
W. Shakespeare, Hamlet, I, V.
1 Cfr. P. Burke, The Renaissance, Macmillan, London 1987, 1989, tr. it. Il Rinascimento,
Il Mulino, Bologna 1990, pp. 7-13, nel quale l’autore fa notare che l’idea di improvvisa
rinascita dell’Europa ad una nuova civiltà, dopo un ‘oscuro Medioevo’, nasce nel XIX
secolo ad opera di studiosi tra i quali J. Burckhardt e avrà ancora dei sostenitori nel XX
secolo; tale modello dimostra di essere ancora ben radicato nell’immaginario collettivo,
tanto da costituire, al di fuori dell’ambito scientifico, un ottimo strumento pubblicita-
rio, ad esempio, per il mercato turistico.
TEODORO KATINIS
e il ritorno di Platone. Manoscritti, stampe e documenti, Catalogo della mostra alla Biblioteca
Medicea Laurenziana, Firenze 17 maggio-16 giugno 1984, Le Lettere, Firenze 1984, sche-
da 22: pp. 28-31. Per Ficino interprete di Platone, cfr. J. Hankins, Plato in the Italian
Renaissance, Brill, Leiden-New York-København-Köln 1990, voll. 2, I, pp. 265-366. Per
una bibliografia su Marsilio Ficino e il suo ambiente, cfr. P. O. Kristeller, Marsilio Ficino
and His Work after Five Hundred Years, Olschki, Firenze 1987; inoltre, per un aggiorna-
mento, cfr. T. Katinis, Bibliografia ficiniana. Studi ed edizioni delle opere di Marsilio Ficino dal
1986, in “Accademia. Revue de la Société Marsile Ficin”, 2, 2000, pp. 101-136; e T.
Katinis-S. Toussaint, Bibliographie ficinienne. Mise à jour Ie, in “Accademia. Revue de la
Société Marsile Ficin”, 3, 2001, pp. 9-21. Per l’influenza del Platone ficiniano, cfr. J.
Hankins, Some Remarks on the History and Character of Ficino’s Translation of Plato, in G. C.
Garfagnini, a cura di, Marsilio Ficino e il ritorno di Platone. Studi e documenti, Olschki,
Firenze 1986, voll. 2, I, pp. 287-304.
4 Cfr. D.P. Walker, Spiritual and Demonic Magic from Ficino to Campanella,
S’è detto fin dall’inizio, ricorderai, che la tecnica di produzione, nel suo
complesso, è una potenza capace di portare ad essere cose che prima non
erano. […] Gli animali che sulla terra vivono e muoiono, e le piante che
nascono da semi e da radici, […] tutte queste cose prima non erano e sono
venute ad essere7.
E continua:
le cose che si dicono essere per natura, sono prodotto di una tecnica divi-
na; le cose che gli uomini costruiscono, usando questi materiali naturali,
sono prodotti di tecnica umana. Con ciò sono anche posti i due generi
della produzione: uno umano, l’altro divino. […] Ora vedi di tagliare in
due ciascuna di queste due tecniche. […] Ti risulteranno in tutto quattro
parti, due di nostra competenza, che diciamo ‘umane’, e due proprie degli
California Press, Berkeley-Los Angeles 1989 (Commentaria in Platonis Sophistam: pp. 218-278).
7 Platone, Il Sofista (265b-c), testo greco a fronte, a cura di M. Vitali, Bompiani,
Postquam dixit corpora eorumque imagines simul et umbras esse opera divi-
na, id est, non per artem humanam dumtaxat effecta, iterum repetens ima-
gines atque umbras appellat opera daemonica, quia, cum daemones pedis-
sequi sint deorum, merito similitudines rerum, quae pedissequae sunt pri-
morum operum divinorum, quasi daemonica machinamenta videntur.
Praeterea, sicut natura daemonum inter superos atque inferos media est, ita
lumen inter incorporea et corporea medium. Et in lumine potestas quaedam
est daemonica, effectrix videlicet imaginum et umbrarum, quemadmodum
et daemones solent mira quaedam visa non solum dormientibus et abstrac-
tis sed etiam vigilantibus ostentare. Imaginamenta quoque nostra quodam-
modo etiam daemonica virtute fiunt, non solum quia daemones efficacibus
imaginationibus artificiisque suis nobis imaginationes suscitant, verum
etiam quoniam quod in nobis imaginatur est quodammodo daemon14.
their images together with their shadows are divine works – that is, they have not been
made merely through human art – he again takes up the topic and calls images and sha-
dows demonic works. This is because, since the demons are followers of the gods, the
likenesses of things, which are the followers of the prime divine works, must needs
appear to be demonic contrivances as it were. Moreover, just as the nature of the
demons is midway between higher and lower beings, so is light the medium between
“DAEMONICA MACHINAMENTA” TRA PLATONE E L’UMANESIMO
Questo lungo passo, che vale la pena non smembrare data la stret-
ta connessione semantica tra le proposizioni di cui è composto, non è
l’unico che tratta dell’attività demonica, ma è uno dei più interessanti,
per le ragioni che ora vedremo. Innanzitutto va notato un particolare
che ci dà una prima indicazione sull’interesse di Ficino. Egli dedica
alcune pagine di commento – l’intero capitolo XLVI – al breve passo
del Sofista relativo all’ ‘artificio divino’ e ai suoi prodotti, piuttosto che
ad altre questioni maggiormente trattate nel dialogo. In effetti, rileg-
gendolo per intero, vi notiamo la presenza di altri temi importanti ai
quali Platone sembra dare più spazio, almeno a giudicare dall’esten-
sione della trattazione. Lo stesso problema del rapporto tra l’essere e il
non-essere, con tutto ciò che comporta nei termini di una revisione del
pensiero parmenideo, per quanto riguardi tutto il dialogo, appare, tut-
tavia, più esplicito in altri luoghi del testo. Dunque Ficino sembra
spendere il capitolo più lungo della sua opera per commentare ciò che
Platone non sembra voler porre in primo piano.
Questa strana ‘ipertrofia’ di quel capitolo, rispetto al resto del testo,
è in parte spiegata dal fatto che Ficino ha già trattato della fondamen-
tale tematica del rapporto tra l’essere e il non-essere nel suo commen-
to al Parmenide15, al quale rimanda il lettore, poiché probabilmente
crede essere quella la sede più adatta per trattare tale tematica. Questo
carattere ipertestuale dell’opera sul Sofista spiega forse la brevità degli
altri capitoli, alcuni dei quali di poche righe, ma non l’estensione del
XLVI, tutto incentrato sul breve accenno nel testo platonico al daimo-
nia mekane. Evidentemente per Ficino il breve passo platonico è l’oc-
casione per trattare una tematica a lui cara, come lo sarà anche per altri
negli anni successivi – anche grazie alla riscoperta ficiniana.
Con evidente riferimento all’espressione platonica, Ficino non
esita a parlare di opera daemonica e daemonica machinamenta, intenden-
incorporeals and corporeals. In light there is a certain demonic power. In other words,
light is the maker of images and of the shadows, just as the demons too are accustomed
to reveal certain wondrous sights to men not only when they are asleep or bemused but
also when they are fully awake. Our imaginations also are possessed in a way of a demo-
nic power. This is both because the demons excite the imaginations in ourselves by way
of their own creative imaginations and tricks, and also because what imagines in us is in
some respects a demon”.
15 Cfr. M. Ficino, Opera, réimpression en fac-similé de l’édition de Bâle 1576, sous
les auspices de la Société M. Ficin, Préface de S. Toussaint, Phénix Editions, Paris 2000,
voll. 2, II, pp. 1136-1206, tale commento attende ancora un’edizione critica e una tra-
duzione in una lingua moderna, come buona parte delle opere di questo autore.
TEODORO KATINIS
16 Cfr. M. Ficin, Commentaire sur le “Banquet” de Platon, texte critique établi et traduit
par R. Marcel, Le Belles Lettres, Paris 1956; il volgarizzamento del commento ad opera
dello stesso autore è disponibile nell’edizione critica: M. Ficino, El libro dell’amore, a cura
di S. Niccoli, Olschki, Firenze 1987.
“DAEMONICA MACHINAMENTA” TRA PLATONE E L’UMANESIMO
tra gli enti superiori e gli inferiori, come la luce lo è tra gli enti incor-
porei e quelli corporei17, ed è per questo che la luce ha in sé, in un
certo senso, una potenza demonica, dalla quale dipende l’esistenza di
immagini e ombre, quelle stesse che appaiono agli uomini sia durante
il sonno18 che durante la veglia. Si passa ad affermare che la nostra
immaginazione agisce grazie ad un potere demonico, tramite il quale
crea immagini. Essa è altrove descritta come una facoltà dell’anima che
organizza i dati sensoriali, producendo simulacra di tenue materia ‘spi-
rituale’, secondo una precisa teoria gnoseologica che la pone tra la per-
cezione e la ragione19; ma in questo caso Ficino si sofferma esclusiva-
mente sulla forza trasformativa che in essa risiede, presentando due tesi
entrambe valide. Da un lato la nostra immaginazione può essere sti-
molata dagli artifici prodotti dai demoni, i quali interagiscono con essa
– e non è qui in causa la valenza positiva o negativa di tali interventi
–, dall’altro essa, proprio in virtù di questo potere di produzione insi-
to in lei, può essere in un certo senso definita un demone (“quod in
nobis imaginatur est quodammodo daemon”).
M. J. B. Allen ha sottolineato l’eccezionalità del capitolo XLVI ed
in particolare del passo di cui ci stiamo occupando, interpretando il
testo ficiniano nel senso di una teorizzazione dell’individuo stesso
come demone nella misura in cui, attraverso la propria immaginazio-
ne, crea mondi immaginari – anche se a volte capita che sia semplice
spettatore, atterrito o entusiasta, delle immagini prodotte da un demo-
troppe per essere affrontate anche solo sinteticamente in questa sede, tra i recenti studi a
riguardo: C. Vasoli, Su alcuni temi della “filosofia della luce” nel Rinascimento: Ficino (“De Sole”
e “De lumine”) e Patrizi (libro primo della “Panaugia”), in Studi in onore di Giovanni Solinas,
“Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Cagliari”, n. s., 9, 1991, pp. 63-
89; A. Rabassini, La concezione del Sole secondo Marsilio Ficino. Note sul “Liber de Sole”, in
“Momus”, 7-8, 1997, pp. 115-133; W. Scheuermann-Peilicke, Licht und Liebe. Lichtmetapher
und Metaphysik bei Marsilio Ficino, Olms, Hildesheim-Zürich-New York 2000.
18 Sui sogni nell’opera ficiniana e sulle fonti di essa si vedano gli interventi presentati
al Convegno internazionale Ficino und die Hypnotheorie der Renaissance (Vienna 26-27 maggio
1998) e raccolti nel periodico “Accademia. Revue de la Société Marsile Ficin”, 1, 1999.
19 Il tema dell’immaginazione è trattato da Ficino in diversi modi e in varie sue
opere; una descrizione molto chiara della funzione gnoseologica della imaginatio e del
rapporto con le altre facoltà dell’anima è in M. Ficin, Théologie platonicienne de l’immor-
talité des âmes, texte critique établi et traduit par R. Marcel, Le Belles Lettres, Paris 1964-
1970, voll. 3, I, l. VIII, cap. I, pp. 285-286, dove la si distingue dalla phantasia. Per gli
studi su tale argomento si rimanda alle bibliografie citate in n. 3. Sul concetto di spiritus
come medio tra corpo ed anima e sulle sue funzioni, è ancora valida la trattazione fat-
tane da D. P. Walker, Spiritual and Demonic Magic, cit.
TEODORO KATINIS
esprimerebbe comunque l’ipotesi che sia una forza fuori dal nostro
controllo ad agire tramite il nostro organo immaginativo, o, in altre
parole, che sia esso stesso ad avere una propria vita svincolata dalla
nostra volontà. Anche nel caso che il “daemon” di cui si parla sia una
figura retorica, ciò a cui si riferisce dovrebbe possedere le caratteristi-
che essenziali di quello, e il demone si presenta come un essere ani-
mato da una propria volontà. Insomma, l’intenzione di Ficino non
sembra andare in modo troppo deciso – poiché non ci sembra che ci
siano segni chiari in questo senso – verso la teorizzazione di un uomo
che per lo più dirige liberamente la propria forza immaginativa.
Rimane la possibilità di intendere che nella nostra immaginazione
risieda, o che sia essa stessa, una forza demonica, o un demone, che
crea immagini di fronte alle quali l’anima umana è spettatrice; in que-
sto senso la nostra immaginazione sarebbe dotata di un potere pro-
duttivo autonomo dalla nostra volontà, quasi fosse un’entità persona-
le, un demone, per l’appunto.
Al passo sopra citato ne segue un altro che ci spiega in cosa consi-
sta la ‘materia’ sulla quale si esercitano in generale tali trasformazioni
demoniche. Si tratta dello spiritus – e dei suoi sinonimi –, termine con
il quale si designa una ‘materia sottile’ che a diversi livelli, dal più vici-
no all’incorporeo al più corporeo, costituisce il ‘corpo’ o il ‘velo’ che
riveste la nostra anima e sul quale si esercita la nostra stessa immagi-
nazione. Tale ‘corpo’ hanno anche i demoni – per loro l’unico possi-
bile –, di qualità diverse secondo la loro posizione gerarchica nella
scala dell’essere24. Dopo tale chiarimento, Ficino propone la seguente
conclusione: “Postremo concludes imagines vobis intimas, dum a spi-
ritali hoc daemonicoque animali fiunt, machinatione quadam daemo-
nica proficisci”25. Finalmente Ficino parla del demone produttore di
immagini come di un ‘animale spirituale’, cioè, letteralmente, di un
essere dotato di vita propria, che produce immagini in noi; egli agisce
su di un ‘corpo spirituale’, che può essere il suo, ma anche il nostro.
Insomma, si tratta di una sintesi che sembra riferirsi ad una generica
definizione di demonicità: il demone, che sia un’entità a noi esterna o
del tutto studiata, per una trattazione e ulteriori indicazioni bibliografiche si rimanda
ancora a M.J.B. Allen, Icastes, cit., pp. 177 e ss.
25 M.J.B. Allen, Icastes, cit., pp. 272-273, tr. ingl.: “Finally, you will conclude that the
images that are innermost in you, since they are made by this spiritual and demonic
animal, proceed from a certain demonic contrivance”.
“DAEMONICA MACHINAMENTA” TRA PLATONE E L’UMANESIMO
7. Tale alternativa ermeneutica non esclude che in altre sedi Ficino pro-
ponga anche altre versioni dell’attività immaginativa, più congrue ai
diversi contesti nelle quali sono esposte e in vario modo articolabili
con quella ora presentata. Tuttavia, colpisce che un testo tardo, redat-
to dopo una profonda investigazione di tutte, o quasi, le fonti plato-
niche e neoplatoniche allora conosciute – si ricordi che siamo negli
anni ’90, quando Ficino ha ormai alle spalle decine di opere tradotte
–, presenti una tale esposizione della teoria immaginativa. Si ricordi,
inoltre, che il commentatore non si doveva sentire in nessun modo
costretto a declinare il discorso in quel senso per seguire il testo di
Platone da commentare, dato che – come si è visto – nel Sofista c’è ben
poco di ciò di cui Ficino intende parlare.
L’alternativa proposta dà una lettura del testo ficiniano che non
coincide esattamente con una teoria dell’uomo come artefice del pro-
pria natura e del proprio destino, poiché la sua pretesa autonomia è
minata da una forza a lui interna che può sfuggire al suo controllo.
L’idea dell’uomo artifex è certamente al centro di molte opere umani-
stiche, e dello stesso Ficino, ma colpisce che non sia in primo piano in
quel capitolo del commento al Sofista in cui si tratta di artifici demo-
nici ed immaginazione, una tematica chiave nel discorso sulla dignità
dell’uomo26. Sullo sfondo rimane il problema dell’evoluzione dell’at-
teggiamento di Ficino rispetto ad alcuni temi importanti, la quale
potrebbe spiegare in parte le varianti che si riscontrano nella sua opera.
Dunque, il presente contributo vuole essere più una proposta di
lavoro che una risposta definitiva; né potrebbe essere tale, sia per la sua
brevità, sia per l’oggettiva difficoltà che incontra chiunque intenda stu-
diare Ficino e la sua epoca, data dal fatto che buona parte delle opere
di questo filosofo sono ancora poco frequentate. La causa di ciò risie-
26 Sulla dignità dell’uomo come ideale umanistico si è soffermato, tra gli altri, C.
Trinkaus, Marsilio Ficino and the Ideal of Human Autonomy, in G.C. Garfagnini, a cura di,
Marsilio Ficino e il ritorno di Platone. Studi e documenti, Olschki, Firenze 1986, voll. 2, I, pp.
197-210, a partire soprattutto dalla Theologia platonica, un’opera elaborata negli anni ’70
e che sarebbe da confrontare con la cospicua produzione ficiniana successiva.
TEODORO KATINIS
Introduzione
Demonologia e medicina
Nel 1618 veniva pubblicato a Perugia, per i tipi del Naccarino, il tratta-
to Baculus Daemonum di Carlo Olivieri vicentino, Canonico
Lateranense, promotore del culto di S. Ubaldo1. Il testo è un importan-
segno del Santo Protettore: Ubaldo vescovo, taumaturgo, santo, Atti del Convegno internazio-
nale di Studi (Gubbio, 15-19 dicembre 1986), a cura di S. Brufani e E. Menestò, Perugia,
Regione dell’Umbria, La Nuova Italia, Firenze 1990. Per indicazioni biografiche vedi C.
PATRIZIA CASTELLI
efficaciae, cuius cognitio proprie spectat ad Sacerdotem. Partim deductae de vita S. Ubaldi Episc. &
Conf. Can. Reg.. Lat. & partim ab Auctore in Eccl. dicti Sancti expertae. Accessit doctrina singu-
laris de expellendis malignis spiritibus. Auctore R.P.D. Carolo Oliviero Vicentino, Concionatore &
Cive Eugubbino, Can. Reg. Salvato Lateranense, Ord. S. Augustini, atq, Exorcisticae artis profes-
sore. Adsunt etiam diversae Benedictionaes, Cum Indice omnium notabilium huius libri, Perusiae,
Apud Mar. Naccarinum, 1618. Esorcismi: della grandine e dell’acqua (p. 461); del sale
(pp. 514-517), dell’acqua (pp. 518-539), delle verghe per flagellare i demoni (pp. 540-544).
Benedizioni: dell’olio, della carne, del lardo, del burro, del formaggio (pp. 462-464), del
pane, del frumento, della farina, dei legumi (pp. 464-467), del vino e dell’aceto (pp. 467-
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA
470), del pranzo e della cena (pp. 470-472), dell’incenso e degli aromi (pp. 472-477), della
medicina, dell’unzione, del brodo e dei bagni (pp. 477-479), dei tori (pp- 479-481), delle
vesti e degli indumenti da notte (pp. 482-483), delle erbe, delle rose e della ruta (pp. 484-
486), del fuoco (pp. 486-488), della casa o del luogo (pp. 488-493), della croce (p. 494),
delle candele (pp. 494-495), dell’anello (pp. 496-497), della corona (pp. 497-498), degli
alberi, delle vigne, della terra e dei semi (pp. 498-500), della peste animale (pp. 500-501),
degli uccelli e dei vermi (pp. 501-503), di tutto ciò che è commestibile e non commesti-
bile (pp. 503-504), delle creature ossesse (pp. 504-506), del cilicio (pp. 506-507), della frut-
ta (p. 508), della carne, delle uova e dei commestibili (pp. 509-511), dei pellegrini e del
bastone (p. 513), della carta e del calamaio (pp. 544-549).
3 Sull’argomento vedi L. Thorndike, A History of Magic and Experimental Science,
del Menghi e altre due opere, una di Zaccaria Visconti, un esorcista di Milano, l’altra di
Pietro Antonio Stampeo, un prete di Cleves.
7 C. Rosinus, Lyceum Lateranense, cit., p. 176.
8 Sulla questione vedi l’interessante tesi di V. Lovenia, Inquisizione, medicina legale, esor-
cismo. Ricerche sulla discriminalizzazione della stregoneria in Italia nella prima metà del Seicento,
Facoltà di Lettere e Filosofia (Corso di Laurea in storia), Università di Pisa, a.a. 1993-94.
Per diverse indicazioni vedi W. D. Müller-Jahncke, Zum Magie-Begriff in der Renaissance-
Medizin und -Pharmazie, in Humanismus und Medizin, “Mitteilung XI der Kommission für
Humanismusforschung”, Acta humaniora, Weinheim 1984, pp. 99-116; A. Biondi, Tra
corpo ed anima: medicina ed esorcistica nel Seicento, l’Alexicaeon di Candido Brugnoli, in
Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna,
“Annali dell’Istituto storico italo-germanico”, Quaderno 40, a cura di P. Prodi, Il Mulino,
Bologna 1995, pp. 397-416.
PATRIZIA CASTELLI
ni, in Storia d’Italia. Annali 3. Scienza e tecnica nella cultura e nella società dal Rinascimento a
oggi, a cura di G. Micheli, Einaudi, Torino 1980, p. 178. Nel Medioevo e nel Rinascimento
le guarigioni erano palesemente legate al potere delle reliquie, ma anche all’imposizione
ed all’ingurgitazione di oggetti come candele o stoppini carbonizzati, che bruciavano
davanti alle tombe dei santi, o da acque e vini miracolosi, anche se sappiamo che nei luo-
ghi di pellegrinaggio era diffusa anche la pratica medica, come testimoniano le grandi
biblioteche di Cluny e di S. Marziale di Limoges, cfr. J. Sumption, Monaci, santuari, pelle-
grini. La religione nel Medioevo, tr. it., Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 103 sgg. Formule
magiche e incantesimi legati al nome dei santi, della Vergine e di Cristo contribuiscono
poi alle guarigioni, al pari dell’uso dei brevicini. La terapia magica è infatti parte integrante
della “credenza nei poteri curativi della Chiesa medievale”, cfr. K. Thomas, La religione e il
declino della magia, tr. it., Mondadori, Milano 1985, p. 203.
10 A. Lodo, Medicina, streghe, miracoli nel territorio di Adria fra ’500 e ’600, in Eresie, magia,
società nel Polesine tra ’500 e ’600, Atti del XIII Convegno di Studi Storici (Rovigo, 21-22
novembre 1987), a cura di A. Olivieri, Minelliana, Rovigo 1989, pp. 263-281: 265, nota 16.
11 N. Zucchelli, Cronotassi dei vescovi e arcivescovi di Pisa, Tip. Arciv. Orsolini Prosperi,
dell’Accademia Petrarca di Lettere Arti e Scienze”, n.s., XLII, 1981, pp. 235-249; F.
Garbari-L. Tongiorgi Tomasi-A. Tosi, Giardino dei Semplici. L’Orto botanico di Pisa dal XVI al
XX secolo, Pisa 1991.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA
Fiorenza, appresso Bartolomeo Sermartelli, 1576; cfr. P. Zambelli, Scienza, filosofia e religio-
ne nella Toscana di Cosimo I, in Florence and Venice: Comparisons and Relations, Acts of two
Conferences at Villa I Tatti in 1976-1977. Organized by S. Bertelli, N. Rubinstein, and C.
Hugh Smith, II, Cinquecento, La Nuova Italia, Firenze 1980, pp. 3-52: 10 sgg., 33, nota 39.
17 Andrea Caesalpino, Daemonum investigatio peripatetica. In qua explicatur locus
Hippocratis in Progn. Si quid diuinum in morbis habetur, Florentiae, apud Iuntas, 1580; Andreae
Caesalpini Aretini Quaestionum peripateticarum lib. V. Daemonum inuestigatio peripatetica...
secunda editio. Quaestionum medicarum libri II. De medicament. facultatibus lib. II., Venetiis, apud
Iuntas, 1593. Sull’argomento vedi L. Thorndike, A History of Magic, cit., VI, pp. 335-338.
18 A. Caesalpino, Daemonum investigatio, cit., p. 24r-v.
19 Cfr. P. Castelli, “Donnaiole, amiche de li sogni” ovvero i sogni delle streghe, in Bibliotheca Lamiarum.
Documenti e immagini della stregoneria dal Medioevo all’Età Moderna, a cura di P. Castelli, Pacini,
Pisa 1994, pp. 35-85: 78, nota 136 e inoltre la scheda di G. Bosco, ibid., pp. 148-149; S. Anglo,
Melancholia and Witchcraft: the Debate between Weir, Bodin and Scot, in Folie et déraison à la
Renaissance (1973), Éd. de l’Université de Bruxelles-Vrin, Bruxelles-Paris 1976, pp. 209-222.
PATRIZIA CASTELLI
20 D.P. Walker, Possessione ed esorcismo, cit., pp. 44-45; R. Mandrou, Magistrati e streghe
nella Francia del Seicento. Un’analisi di psicologia storica, tr. it., Laterza, Bari 1971, pp. 194-202.
21 D.P. Walker, Possessione ed esorcismo, cit., p. 47.
22 L. Thorndike, A History of Magic, cit., V, pp. 557-560.
23 Sul Menghi vedi ibid., VI, pp. 549-563; G. Bonomo, Caccia alle streghe. La credenza
nelle streghe dal secolo XIII al XIX, Palumbo, Palermo 1955, pp. 331-343; O. Franceschini,
Un ‘mediatore’ ecclesiastico: Girolamo Menghi (1529-1609), in G. Menghi, Compendio dell’arte
essorcistica, et possibilita delle mirabili & stupende operationi delli Demoni, & de’ Malefici; Con li
rimedij opportuni alle infirmità maleficiali, [ristampa dell’Edizione Bologna, G. Rossi, 1576],
bibliografia e indici a cura di A. Aliani, Nuova Stile Regina Editrice, Genova 1987, pp. III-
XIX e id., L’esorcista, in Cultura popolare nell’Emilia Romagna. Medicina, erbe e magia, Silvana
Editoriale, Milano 1981, pp. 99-115.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA
Untersuchungen zur Geschichte des Hexenwahns und der Hexenverfolgung im Mittelalter [1901],
Georg Olms Verlagsbuchhandlung, Hildesheim 1963, pp. 311, 313, 317 sgg., 326 sgg., 334
sgg., 339 sgg., 348, 395, 406, 476, 510 sgg., 559; G. Bonomo, Caccia alle streghe, cit., pp.
336-339; Silvestro Prierias (1456/60-1523) e le note bio-bibliografiche a cura di S. Abbiati,
in La stregoneria. Diavoli, streghe, inquisitori dal Trecento al Settecento, a cura di S. Abbiati, A.
Agnoletto, M. R. Lazzati, Mondadori, Milano 1984, rispettivamente pp. 218-229, 362-364
e, inoltre, la scheda di G. Bosco in Bibliotheca Lamiarum, cit., pp. 122-123.
26 Non mi è stato possibile trovare riscontro alcuno all’indicazione di una perduta
edizione del 1572 cui accenna senza altre spiegazioni G. Romeo, Inquisitori, esorcisti e stre-
ghe, cit., p. 120.
27 Per le varie edizioni vedi Opere di argomento esorcistico di Girolamo Menghi, a cura di
28Ibid., p. IX.
29Sul Codronchi vedi L. Thorndike, A History, cit., V, p. 483; ibid., VI, pp. 529, 544-
547, 559. Ma vedi anche N. Galassi, Figure e vicende di una città, Coop. Marabini, Imola
1984-86, II, pp. 127-161; G. Mazzini, Di Battista Codronchi medico e filosofo imolese (1547-
1628), Alterocca, Terni 1924; ad vocem in Biograpisches Lexikon der hervorragenden Ärtze aller
Zeiten und Völker, Verlag von Urban & Schwarzenberg, München-Berlin 1962, II, pp. 62-
63; la voce di C. Colombero, in Dizionario biografico degli italiani, XXVI, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1982, pp. 604-605; G. Zanelli, Streghe e società nell’Emilia
Romagna del Cinque-Seicento, Longo, Ravenna 1992, pp. 47-52, 56-62.
30 Paolo V (1605-1621) istituì una commissione finale per la definizione del Rituale
Romano. La commissione era formata dai cardinali della S. Congregazione dei Riti che si
basò sul lavoro istruito dal cardinale Santoro: cfr. G. Mercati, Ancora sul R. del Cardinale
Santori, “Rassegna Gregoriana”, V, 1906, pp. 443-446.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA
Carlo Olivieri
38
C. Rosinus, Lyceum Lateranense, cit., I, p. 174.
39
Cfr. Ibid., II, pp. 320-323; L. Loschiavo, Tomaso Garzoni C.R.L. e la sua Congregazione
(1549-1589), in Tomaso Garzoni: uno zingaro in convento, Longo, Ravenna 1990, pp. 27-34.
40 T. Garzoni, La piaza universale di tutte le professioni del mondo, a cura di P. Cherchi e
Castelli, Retorica e devozione: dal testo all’immagine. Per una memoria del culto di S. Ubaldo,
Grafiche Bovini, Perugia 1986, pp. 15-16; M. R. Valazzi, Un episodio di architettura devoziona-
le: la chiesa di S. Ubaldo a Pesaro, in Nel segno del Santo Protettore, cit., pp. 401-413: 401, nota 1.
45 C. Oliverius, Baculus daemonum, cit., p. 395.
46 Ibid., p. 150: “Adiuro vos per S. Ubaldum, qui humilitatis causa indignum se iudi-
cabat Sacerdotio, nam inuitus ordinatus fuit à S. Ioanne Laudense. Fugo vos per nimiam
charitatem S. Ubaldi, qui, mortua Matre, omnia sua bona pauperibus, & Ecclesiis distri-
buit. Fugite maledicti ab hac creatura Dei N. per Ubaldum Sanctum, & non relinquatis in
hac creatura aliquod signum Diaboli, vel maleficij, vel facturae, vel cuiusuis vexationis
Diabolicae [...]”.
PATRIZIA CASTELLI
47 Ibid., p. 154. Naturalmente l’abito era quello degli agostiniani, trasformato per que-
bricitanti.
54 Mc. 5, 19-15; Lc. 10, 17-19; ma vedi anche Mt. 4, 24-34: 32. Cfr. F. M. Catherinet,
Gli indemoniati nel Vangelo, in Satana, tr. it., Vita e Pensiero, Milano 1953, pp. 185-189; K.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA
212.
57 C. Oliverius, Baculus daemonum, cit., pp. 39-41.
58 Ibid., p. 41: “Tandem dico, quod Sacerdotes, vel Exorcistae non possunt dare medi-
cinas obsessis, nec consulere, quia in novo Rituali iussu Pauli V. edito prohibentur
Exorcistae, & Sacerdotes eas dare vexatis: etiam si Viadana dicat, quod sunt multi, qui
volunt medicinas dari obsessis, & propter hoc videatur eas concedere, tamen quando ipse,
& alij hoc dixerunt, nondum prodierat in lucem novus hic Ritualis.”.
PATRIZIA CASTELLI
59 Ibid., p. 42.
60 G. Menghi, Compendio, cit., p. 273.
61 Ibid., p. 276.
62 Ibid., p. 267.
63 Ibid., p. 268.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA
come ricorda Aristotele nell’VIII libro della Politica e Boezio nel De musi-
ca. Questa idea aveva trovato nel tempo larga diffusione ed era stata
appoggiata da Nicolò da Lira, commentatore dei Vangeli, che spiega la
guarigione di Saul, vessato da uno spirito immondo, attraverso l’uso
della cetra64. Le erbe poi, per il Menghi, hanno solamente virtù positive
e quindi non possono disporre alla possessione. Il Menghi osteggia infat-
ti coloro che ritengono le erbe dotate di occulti poteri, dati dai demoni
o dai corpi celesti65. Alla musica riserva una particolare proprietà tauma-
turgica, secondo quanto ricordano Guido d’Arezzo e Giuseppe Ebreo
nell’VIII libro dell’Antichità dei Giudei, ma è soprattutto alla quinta
essenza di Lullo che affida la guarigione66. Difatti la rimozione della
causa produce l’effetto salutare. È soprattutto la disposizione melancoli-
ca a favorire la congiunzione dei demoni con i corpi67. I demoni infatti
abitano nei luoghi oscuri, solitari e privi di luce e possono solamente
essere cacciati dalla quinta essenza. Tra le cure per la melancolia consi-
glia l’hipericon, soprannominato Fuga daemonum. Difatti il fumo prodot-
to dalla combustione dei semi scaccia i demoni non solo dai corpi, ma
anche dalle case68. La discussione del Menghi verte dunque sulla melan-
colia e sulla teoria degli umori, tanto discussa da filosofi, medici e teolo-
causare alcuna dispositione, per la quale l’huomo per niuno modo non possi esser vessa-
to dal Demonio, quando la vessatione sarà così grande; posciache l’herbe, & armonie
(come habbiamo detto) con la loro natural virtù non possono causare questa tal disposi-
tione. Questo dico contra à quelli che si sforzano di difendere, che alcuni possino pro-
durre certi effetti maleficiali col mezo dell’herbe, & delle loro cause occulte, senza l’aiuto
diabolico, con l’influenza de i corpi celesti; le quali più possono oprare in queste cose cor-
porali à gli effetti corporali, che non possono gli Demoni per produrre questi tali effetti
maleficiali”.
66 Ibid., p. 274.
67 La discussione verte sulla teoria degli umori. È da vedere, in proposito, l’ormai clas-
sico R. Klibansky-E. Panofsky-F. Saxl, Saturno e la Melanconia, tr. it., Einaudi, Torino 1983;
ma vedi anche M. Fattori, Sogni e temperamenti, in I sogni nel Medioevo, Seminario interna-
zionale (Roma, 2-4 ottobre 1983), a cura di T. Gregory, Edizioni dell’Ateneo, Roma pp.
87-110; le note di G. Maraglia a M. Ficino, Consilio contro la pestilenza, a cura di E.
Musacchio, Cappelli, Bologna 1983, pp. 14-19; ma per altre indicazioni su melancolia e
stregoneria vedi P. Castelli, “Donnaiole amiche de li sogni”, cit., pp. 35-84: 37-40, 42-44.
68 G. Menghi, Compendio, cit., p. 275. Dell’iperico dà ampia testimonianza anche in
altri testi. L’iperico, o ‘cacciadiavoli’, o ‘pilatro’, è anche conosciuto col nome di ‘erba di S.
Giovanni’ con effetti lassativi e buona per la cura dell’artrite: vedi F. Cazzuola, Dizionario
di Botanica, Tipografia T. Nistri, Pisa 1876, p. 317. Ma vedi anche, a tal proposito, le qua-
PATRIZIA CASTELLI
gi. Il testo risente in modo particolare del filone scettico a partire dal
Pomponazzi che, nel suo De naturalium effectuum admirandorum causis seu
de incantationibus liber, nega il probabile intervento dei demoni nel
mondo naturale. Un gruppo di scienziati come Cardano, Giovan
Battista Della Porta, Johannes Wyer, Paracelso, Jacob di Lichtemberg,
basandosi sulle posizioni del Pomponazzi, afferma, ad esempio, che i
voli delle streghe non sono altro che vana deliramenta generati dall’uso
delle droghe e da un’alimentazione inadeguata e dalla melancolia69. Il
testo del Pomponazzi ebbe sicuramente un’ampia circolazione nell’am-
bito degli esorcisti. Un esempio da segnalare a tal proposito è sicura-
mente l’esemplare della Biblioteca Universitaria di Pisa appartenuto
all’inquisitore pisano Hieronimus Santuccius che, nel marzo 1572, ne
autorizza la lettura e lo studio70. Lo scritto era particolarmente interes-
sante perché attribuiva numerose guarigioni agli effetti di pietre e mine-
rali, nonché al potere dell’immaginazione71. Certe idee furono anche
riprese dal naturalista Ulisse Aldrovandi nel suo noto e avversato
Antidotarius sive de usitate ratione componendum miscendorumque medicamen-
torum epitome pubblicato a Bologna nel 1574, dove cerca di dare una
nuova dignità all’arte medica e farmaceutica avversando gli esorcismi che
indica come pratiche magiche. La sovrapposizione tra forme magiche ed
esorcismi offre infatti il fianco a polemiche e ad interventi da parte degli
stessi tribunali dell’inquisizione.
lità descritte nel Dioscoride volgarizzato, che ebbe ampia diffusione tra ’500 e ’600, e
l’Hortus sanitatis. De herbis et plantis. De animalibus et reptilibus. De auibus et volatilibus. De
piscibus et natatilibus. De lapidibus et in terre venis nascentibus. De vrinis et earum speciebus.
Tabula medicinalis cum directorio generali per omnes tractatus, Reinhard Beck, Strassburg 1517.
Per alcune considerazioni sull’iperico vedi G. L. Beccaria, I nomi del mondo. Santi, demoni,
folletti e le parole perdute, Einaudi, Torino 1995, pp. 212-214. Per una bibliografia sulle pian-
te magiche vedi H. Marzell, Zauberpflanten Hexentränke. Brauchtum und Aberglaube,
Franckh’sche Verlagshandlung, W. Keller & Co., Stuttgart 1963; P. Castelli, “Donnaiole
amiche de li sogni”, cit., p. 75, nota 96; A. Pagni, L’‘erba di S. Giovanni’ in una ricetta lucchese
del XVI secolo, “Rivista di archeologia, storia, economia, costume”, VI, 1987, pp. 47-50 e P.
E. Tomei, L’uso delle specie vegetali nelle arti magiche, in Stregoneria e streghe nell’Europa moder-
na, Atti del Convegno internazionale di Studi (Pisa, 24-26 marzo 1994), a cura di G.
Bosco e P. Castelli, Pacini, Pisa 1996, pp. 207-210.
69 P. Castelli, “Donnaiole amiche de li sogni”, cit., pp. 46-49.
70 Vedi la scheda n. 31 di G. Bosco, in Bibliotheca Lamiarum, cit., pp. 124-125.
71 E. Garin, Phantasia e imaginatio fra Marsilio Ficino e Pietro Pomponazzi, in
medico che deve conoscere perfettamente la sua materia. Questi devono soprattutto cono-
scere i principi della medicina: “Utinam isti aliquando resiscipiscerent, & per rectas semi-
tas incedendo, Sapientis consilium amplecterentur, qui scriptum reliquit, Ingrediatur ad doc-
trinam cor tuum, & aures tuae ad verba scientiae, sed illum etiam, quod idem Ecclesiastes
monet adiungi potest his, quae supra recensuimus, non cesse audire doctrinam, nec ignores ser-
mones scientiae. Si medicos se profitentur, legant medicinae duces, & principes,
PATRIZIA CASTELLI
è sicuramente il primo lavoro del medico, come si evince dalla sua pre-
fazione dove ricorda che il fratello Tiberio aveva poi tradotto in volga-
re una sua opera che si deve probabilmente identificare nell’appendice
posta in calce ad una rara cinquecentina, opera del fratello, pubblicata
a Venezia nel 158977. A questi lavori fece seguito, nel 1595, il De morbis
veneficis ac veneficiis78 dove parlava della realtà della possessione diaboli-
Hippocratem, & Galenum, qui, quot, & quae ad medicum futurum necessaria sint gravi-
ter, atque preclarae docuerunt: Hipp. enim Medicum multarum rerum habere peritiam,
opus esse constanter asseuerat, & eum qui se medici nomine dignum existimat, oportere
non Natura moso, sed Doctrina, Institutione, & Tempore, ceù ducibus quibusdam artis sibi
notionem parare, industriam omnino adhibendam esse ad multum temporis, quò discipli-
na ipsa insita foeliciter magno progressu suos producat fructus, & Gal. septem esse neces-
saria illi, qui veram medicinam curat affequendam, Naturam scilicet perspicacem;
Educationem optimam; Praeceptores eruditissimos; Laborem improbum; Veritatis erden-
tissimum amorem; optimam methodum; Exercitationem denique assiduam, in praeceptis
habuit; si enim his conditionibus fuerint praediti Medici, vel ad Medicinam per has semi-
tas pervenerint, de illis veriate comprobari poterit, quod ab Eccles. scribitur, disciplina
Medici exaltabit caput illius et in conspectu magnatum, collaudabitur” (ibid., pp. 1-2).
77 Vedi infra, nota 82.
78 Baptistae Codronchii De morbis Veneficiis ac Veneficiis. Libri quattuor, apud
Franciscum de Franciscis, Venetiis 1595, lib. I, cap. VIII (Veneficorum operationes ac scele-
ra satis ex Historijs patefieri), pp. 33-37: 35v-37r: “[...] Ut interim sileam mille historias,
quae leguntur apud Ioannem Nider in suo pareceptorio & formicario, apud Henricum
Institorem, Sylvestrum Prierum in libris de strigimagarum, daemonumque mirandis,
Iacobum Sprenger in suo Malleo maleficarum, Alphonsum de Castro in eo quod scri-
psit de punitione hereticorum, Paulum Ghirlandam in tractatu de sortilegiis, Ioannem
Budinum in Daemonomania, & multos alios. Et illud tantum memoriae prodam quod
mihi sat erir, annis enim superioribus Francisca filia mea decem menses nata, apud
nutricem insigni macie est affecta, saepè, ac saepius magna suspiria edebat. Et quando
disfasciabatur semper plorabat aegreque ferebat se desfasciari pareter puerorum morem,
qui quamvis sint male affecti, vel dolore ali, quo detenti, cum fasciae soluuntur quie-
scere, ac delectationem capere tum solent, nulla inventa causa praeternaturali affectus,
nutrice que mutata, cum indeterius laberetur, subiit suspitio uxrori meae, ut cum esset
puella admodum venusta invidentiae causa, vel odii cuiusdam vetulae veneficio esse
affectam. Qua propter culcitram inquirens nonnulla signa veneficii reperit, ciceres
nempe, grana coriandrorum, frustum carbonis, & ossis defuncti, rem quandam com-
pactam mihi incognitam, quam fieri ab his improbis forminis ex quibusdam cum san-
guine menstruo mixtis, retulit quidam penitus exorcista. Praeterea quasdam plumas ita
quibusdam filis artificiosae infertas, ut pileo, ut moris est, aplicari facile possent, qui-
bus omnibus igne benedicto combustis, & adhibitis per triduum exorcismis, & aliis
remediis sacris, coepit melius se habere, & carnem assumere, ita ut curatam fore existi-
maremus. Nihilominus transactis nonnullis diebus, cum esset valde morosa, & multum
ploraret, eodem lectulo denuo explorato, inventa sunt nonnulla alia insrumenta, qui-
bus crematis, sanitati restitui vita est. Attamen in plenilunio mensis cum plorabunda
noctem totam insomnem duxisset mane colore cinericio fuit affecta, & ita mutata facie
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA
ab ea quae vesperi erat ut esset res lachrymis, magis quam admirationedigna; Explorato
denuo lectulo inventa sunt frustula duo nucis siccae, & ossis albi, novem vel decem
ossa piscium, quae erant fabricata instar pectinum, quibus capita pectuntur cum qui-
busdam corollis mira arte ex variis rebus paratis; Quibus igni traditis, mutata dono, &
omnibus aliis, & validiotibus per exorcistam peritum adhibitis auxiliis, Dei beneficio
absque ullo remedio naturali convaluit; Quod quidem veneficium fortasse Deus per-
misit, ut in mea puella experirer, quod in aliis parum credebam veritatis habere; Pro
quorum morborum cognitione, & curatione coepiquerere libros huius professionis,
legere, & illis fidem adhibere. Ex quibus peritoq; exorcista cum multa didicerim, & in
multis aegrotantibus observaverim, libenter hunc laborem suscepi alios iuvandi studio,
inter alios autem authores, quos mihi legere contigit, fuit Claudius Gulliaudus interpres
sacrarum literarum eruditissimus, qui interpretando Epistolam 13. Pauli. quam ad
Galatas misit, agens de fascino ad amussim morbum filiae meae scribit, quem Gallicae
a quibusdam dici le mal de Vauldouizerie ait, & ex quo infantes tabescunt, macrescunt,
ac miserae torquentur, & aliquando incessanter clamant, & flent; Quae omnia sympto-
mata, & signa in filia mea observavi; Ex quo unicuique patere potest, quam vera sint
haec, cum idem morbus cum eisdem signis authore daemone nunc, & multis ab hinc
annis Flaminiae, & Galliae inferatur à veneficis”.
79 C. Corraini, P. Zampini, Documenti etnografici e folkloristici nei sinodi diocesani
dell’Emilia Romagna, “Palestra del Clero”, XLIII, 1964, pp. 115-174; A. Prosperi, Tribunali
della coscienza, cit., pp. 470-471.
80 Baptistae Codronchii De Morbis Veneficis ac Veneficijs. Libri Quattuor, cit., lib. I, cap.
I, p. 3r-v: “[...] libellumque; vobis libenti animo dicavi, ut paratis alveis, muris, ac tegu-
mentis, aquas ellas medicos more potari posse, curarent: quod tamen opus quamvis salu-
bre, ac praeclarum ob communem morbum, qui statim non solum vestram civitatem, ac
Italiam, verum et universam Europam diu vexavit, et ob alias subsequentes calamitates,
inchoare non potuistis: Postea ut saluti meae spiritualis prospicerem cum multa ad munus
medicum rectae, iusteque; obeundum attinentia collegißem, suasione nonnullorum ami-
corum, nova quadam inventa scribendi ratione libros duos de tuta, ac Christiana meden-
di ratione inscriptos, confeci, ac typis mandavi; Nondum vero illos expleveram, cum non
solum Imolae sed et alijs quamplurimis Civitatibus multi reperirentur varijs veneficijs
affecti, inter quos etiam fuit vana ex filiabus meis, ut horum morborum cognitionem ali-
quam adipiscerer et qua nam ratione curandi essent, discerem, diu laboravi, et quamplu-
res evolui libros [...]”.
81 Ibid.
PATRIZIA CASTELLI
Tiberio82 per porla vicino all’altare della Madonna del Soccorso del
Duomo di Imola per grazia ricevuta83. Il culto della Madonna del
Soccorso è anche questo connesso all’esorcismo ed alla potestà della
Vergine sul diavolo. Questa infatti salva dal demonio un fanciullo male-
detto dalla madre che poi, pentita, la invoca.
Tiberio Codronchi, Viaggi spirituali, dell’huomo cristiano, al cielo, opera. co’l diuino aiuto, com-
posta et raccolta da graui, pij, et catholici autori. Con l’aggiunta de i casi pertinenti a i medici,
appresso Gio. Battista Somasco, in Venetia 1589. Nel testo, da p. 395, è anche pubblicata
un’opera del fratello Giovanni Battista: Casi di coscienza, pertinenti a medici principalmente, et
anco a infermi, infermieri, e sani; cfr. Le edizioni italiane del XVI secolo. Censimento nazionale,
IV, Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni
bibliografiche, Roma 1966, p. 70.
83 Vedi la scheda di G. Agostini in La Pinacoteca di Imola, a cura di C. Pedrini, Analisi,
Cassa di Risparmio di Imola, Imola, s.d., pp. 198-199. Il quadro è attribuito al pittore
olandese E. von Schayen (1564-1616). Sul presunto autore vedi C. Astolfi, Arte ed artisti
passati. Nuove notizie su i pittori. Cesare Conti d’Ancona e il fiammingo Ernesto de Schaynchis,
“Rivista marchigiana illustrata”, V, 1908, pp. 157-158; P. Paciaroni, Pittori fiamminghi nel
’600 e ’700 a Sanseverino, “Notizie da Palazzo Albani”, VII, pp. 75-83.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA
84 E. Levi, I miracoli della Vergine nell’arte del Medioevo, “Bollettino d’arte”, XII, 1918,
pp. 8-31.
85 B. Codronchii De morbis, cit., pp. 45 sgg.
86 Ibid., lib. IIII, cap. II, pp. 172-173; cap. VIII, p. 192: “Nostri etiam Exorcistae ut
daemones prodantur, & etiam expellantur, passim ruta utuntur. Domesticam rutam tertio
excessu excalefacere scribit Galenus, ex quo vim habet incidendi, digerendi, provocandi
ac flatus potenter expellendi, & teste Dioscoride adversus venena valet”. Della ruta tratta
anche nelle altre opere, soprattutto nel Flagellum daemonum, cit., p. 11: “Et predicer
Auctores in eodem loco, loquentes de quodam herba, que vacatur Hypericon, et ab ipsis
Fuga daemonum, maximum virtutem contra daemones habere asserunt. Hoc etiam et cla-
rum de Ruta, quae applicata Energumenis, sustineri non potest ab ipsis spiritibus immun-
dis obsidentibus, hoc quotidie experimus”. Sull’uso delle erbe vedi A. Biondi, La Signora
delle erbe e la magia della vegetazione, in Cultura popolare nell’Emilia Romagna, cit., pp. 186-
203: 196-199; G. Hummel, Exorcisme in the Renaissance, in Divinationes. Spring 66, “Journal
of Archetype Culture”, 1999, pp. 161-176.
87 B. Codronchii De morbis, cit., lib. IIII, cap. VIII, pp. 192v: “Inter Hypericum, perfo-
ratam vulgo dictam; ac daemones; tanta videtur antypatia, ut eius suffitu frequenter rece-
dant, quare nostri fugam daemonum appellant, cuius facultas manifesta est, calefacere et
siccare [...]”.
88 Il passo è citato da A. Biondi, La signora delle erbe, cit., p. 201.
PATRIZIA CASTELLI
Elvetica, 1837, IV, pp. 204 sgg in nota; ma vedi R. Canosa-I. Colonnello, Gli ultimi roghi.
La fine della caccia alle streghe in Italia, Sapere 2000, Roma 1983, pp. 34-36.
92 G. Menghi, Compendio, cit., pp. 253-256.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA
93 Ibid., p. 138.
94 G. Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe, cit., p. 135.
95 Lo spostamento degli energumeni in una sede abilitata per l’esorcismo è fenome-
no che risale al X secolo, tuttavia è proprio Paolo V che, sottolineando la necessità di esor-
cizzare nella chiesa, avalla questo viaggio verso i santuari.
96 O. Franceschini, L’esorcista, in La cultura popolare nell’Emilia Romagna, cit., p. 107.
di una nuova religiosità, tr. it., Einaudi, Torino 1983, p. 149; dello stesso vedi The Rise and
Function of the Holy Man in the Late Antiquity, “Journal of the Roman Studies”, LXI, 1971,
pp. 80-101: 88-91.
99 Greg. Tur., VJ, 30, 127, cit. in P. Brown, Il culto dei santi, cit., p. 151.
100 P. Brown, Il culto dei santi, cit., p. 152.
101 L’esorcismo tacitava ogni passione e riportava l’individuo ad uno stato di tranquil-
lità. Hincmarus nel Corrector (PL CXL, col. 975) torna fermamente sull’argomento: cfr. V.
J. Flint, The rise of Magic in Early Medieval Europe, Clarendon Press, Oxford 1991, p. 155.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA
102 P. Brown, Magia, demoni e ascesa del cristianesimo dalla tarda antichità al medioevo, in
pp. 190-191. Sull’argomento vedi C. Pietri, Saints et Démons: l’héritage de l’hagiographie anti-
que, in Santi e demoni nell’Alto Medioevo occidentale (secoli V-XI), Settimane di Studio del
Centro Italiano sull’Alto Medioevo (Spoleto, 7-13 aprile), 2 voll., Centro Italiano di Studi
sull’Alto Medioevo, Spoleto, I, pp. 17-90: 65-70, per quanto riguarda l’anniversario del
culto dei martiri, vedi E. Gandolfo, Luoghi dei santi e luoghi dei demoni. Il riuso dei templi nel
Medio Evo, ivi, II, pp. 883-916. Sul culto delle reliquie e l’esorcismo nell’Età moderna, vedi,
di chi scrive, Valentino ‘il taumaturgo’: reliquie, devozione e religiosità nella campagna pisana, in
Bientina nel Medioevo, a cura M. L. Ceccarelli e G. Garzella, Pacini, Pisa 2002, pp. 85-104.
104 G. Sala, Il culto di S. Zeno fino al secolo VIII, “Annuario storico zenoniano”, 1989;
ma vedi anche G. Ederle, S. Zeno, la vita e le opere, Vita Veronese, Verona 1954.
105 Antiche vite di S. Geminiano, vescovo e protettore di Modena, a cura di P. Bortolotti, 2
voll., G.T. Vincenzi e Nipoti, Modena 1866-91; C. Cavedoni, Cenni storici intorno alla vita
ed al culto del glorioso S. Geminiano, C. Vincenzi, Modena 1856; A. Dondi, Notizie storiche ed
artistiche del Duomo di Modena, Immacolata Concezione, Modena 1896, pp. 108-112; A.
Golinelli, Culto e religiosità a Modena e Nonantola nell’alto e primo Medioevo, in Lanfranco e
Wiligelmo. Il duomo di Modena, Electa, Milano (s.d.), pp. 122 sgg.
106 Antiche vite di S. Geminiano Vescovo, cit.
107 Ibid.
PATRIZIA CASTELLI
Incursio diaboli
108 Beda, Historia ecclesiastica, III, II, p. 248. Cfr. J. Sumption, Monaci, santuari, pelle-
grini, cit., pp. 98-110: 98. Sulle malattie e il demonio vedi G. Tavard, Satana, tr. it.,
Edizioni Paoline, Milano, pp. 149-150. Sui medici vedi M. Oldoni, Il mondo senza santi: la
letteratura scientifica e la soglia del magico, in Santi e demoni nell’Alto Medioevo occidentale, cit.,
I, pp. 499-530.
109 Ibid., p. 105.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA
Dialogos, Daimon’, Atti del Convegno (Torino, 17-21 ottobre 1988), a cura di E. Corsini ed
E. Costa, 2 voll., Bompiani, Milano 1990, I, pp. 143-154: 144-146; M. J. Edwards, Three
Exorcism and New Testament World, “Eranos”, LXXXVII, 1989, pp. 117-126; B. Newman,
Possessed by the Spirit: Devout Women Demoniacs and the Apostolic Life in Thirteenth Century,
“Speculum”, LXXIII, 1998, pp. 733 sgg. Per alcune forme di esorcismo anomale vedi T. K.
Oesterreich, Possession. Demoniacal & Other Among Primitive Races, in Antiquity, the Middle
Ages, and Modern Times, tr. ingl., University Book, New Hide Park 1966.
112 G. Sfameni Gasparro, Il culto di Cibele ed Attis in Sarsina, “Studi etruschi”, XIV, 1940, pp.
147-153.
113 G. Penco Mancini, S. Benedicti Regula, La Nuova Italia, Firenze 1962. Su S.
114 C. Frugoni, Francesco e l’invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino
a Bonaventura e Giotto, Einaudi, Torino 1993, p. 321. L’episodio di S. Francesco che esor-
cizza gli ossessi è descritto da Tommaso da Celano, Vita prima di S. Francesco d’Assisi, cap.
III, in Fonti francescane, Edizioni Messaggero, Movimento francescano, Padova, Assisi, pp.
523-524.
115 C. Olivieri, Vita et Fatti e Miracoli del Glorioso Padre S. Ubaldo da Gubbio, Canonico
Lateranense, Vescovo et Protettore di detta Città, appresso Marc. Ant. Triangoli, in Perugia et
in Gubbio 1623, p. 73: “Si vede anco nel Portico di detta Chiesa una catena di ferro che
è quella, con la quale fu tirato il suddetto Carro lo quale si rende formidabile a Diavoli”.
116 I luoghi, in parte, esulano dalla carta della diocesi di Gubbio ed indicano la vastità
l’arte magica, che non possono procedere da altro, che da causa intellettiva, come sareb-
be far parlare statue, vedere uscir fuoco di bocca alle spiritate, come io ho veduto scon-
giurando una notte di Natale nella chiesa di S. Ubaldo: far caminar, anzi correre una sedia,
essendoli a sedere sopra una spiritata, senza che niuno la movesse, la qual cosa ho io vedu-
to in S. Ubaldo; anco mi è occorso essendo nella Chiesa del detto santo, scongiurando
sentir percuotermisopra le gambe, come se fossemi data una bastonata, senza vedere chi
la dia con gran mio dolore. Più volte stando a scongiurare mi era levato la sedia di sotto
il sedere, senza veder chi la toccasse, & altre cose si vedono fatte da Demonij, che al suo
PATRIZIA CASTELLI
loco raccontarò: talche chiaramente si vede, che li Demonij fanno cose molto maravi-
gliose”.
122 Ibid., p. 7.
123 Ibid., pp. 129-131.
124 Ibid., pp. 141 sgg. Sull’uso di amuleti con funzioni esorcistiche, vedi H. Gitler, Four
Magical and Christian Amulets, “Liber Annuus”, XL, 1990, pp. 365-374; R. Kotansky, Greek
Exorcistic Amulets, in Ancient Magic and Ritual Power, eds. M. Meyer, P. Mirecki, E. J. Brill,
Leiden-New York-Köln 1995, pp. 243-277.
125 C. Olivieri, Vita et Fatti, cit., pp. 74-75.
126 Ibid., pp. 75-76.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA
cura di S. Prosperi Valenti Rodinò, Electa, Editori Umbri Associati, Perugia 1993, pp. 31-32.
129 AVG, Synodalia Decreta ab anno 1549 ad annum 1763, b: 2/1.
130 Palma Cayet, Chronologie septenaire de l’histoire de la paix entre les Roys de France et
d’Espagne, Paris 1605, f. 194, cit. in D.P. Walker, Possessione ed esorcismo, cit., p. 48.
PATRIZIA CASTELLI
131 Montaigne, Journal de Voyage en Italie par la Suisse et l’Allemande en 1580 et 1581, texte
établi avec introduction, notes et variantes par C. Dédéyan, Les Belles Lettres, Paris 1946,
pp. 219-221: “Le 16 Fevrier, revenant de la station, je rancontray, en une petite Chapele,
un Pretre revetu, ambesouigne à guerir un spiritato: c’étoit un home melancholique et
come transi. On le tenoit à genous devant l’Autel, aïant au col je ne sçai quel drap par où
on le tenoit ataché. Le Pretre lisoit en sa presence force oresons et exorcismes, comandant
au Diable de laisser ce cors, et les lisoit dans son breviaire. Apres cela il detournoit son pro-
pos au patiant, tantos parlant à lui, tantost parlant au Diable en sa personne, et lors l’inju-
riant, le battant à grans coups de pouin, lui crachant au visage. Le patiant repondoit à ses
demandes quelques responses ineptes: tantost pour soi, disant come il santoit les mouve-
mans de son mal: tantost pour le Diable, combien il creignoit Dieu, et combien ces exor-
cismes agissoint contre lui. Apres cela qui dura longtams, le Pretre, pour son dernier effort,
se retira à l’Autel et printe la Custode de la mein gauche, où etoit le Corpus Domini; en l’au-
tre mein tenant une bougie alumée, la teste ranversée contre bas, si qu’il la faisoit fondre
et consomer, prononçant cependant des oresons, et au bout des paroles de menasse et de
rigur contre le Diable, d’une vois la plus haute et magistrale qu’il pouvoit, Come la pre-
miere chandele vint à defaillir pres de ses doits, il en print un’autre, et puis une seconde,
et pus la tierce. Cela faict, il remit sa Custode, c’est à dire, le vesseau transparant où etoit
le Corpus Domini, et vint retrouver le patiant, parlant lors à lui come à un home, le fit déta-
cher et le randit aus siens pour le ramener au logis. Il nous dict que ce Diable là etoit de
la pire forme, opiniatre et qui couteroit bien à chasser; et à dix ou douze Jantil’homes qui
etions là, fit plusieurs contes de cete sciance, et des experiances ordineres qu’il en avoit, et
notammant que le jour avant il avoit deschargé une fame d’un gros Diable, qui, en sortant,
poussa hors cete fame par la bouche, des clous, des epingles et une touffe de son poil. Et
parce qu’on lui respondit, qu’elle n’estoit pas encores du tout rassise, il dit que c’etoit une
autre sorte d’esperit plus legier et moins malfaisant, qui s’y etoit remis ce matin-là; mais
que ce jantre (car il en sçait les noms, les divisions, et plus particulieres distinctions) etoit
aisé à esconjurer. Je n’en vis que cela. Mon home ne faisoit autre mine que de grinser les
dans et tordre la bouche, quand on lui presantoit le Corpus Domini, et remachoit par fois
ce mot, Si fata volent car il etoit Notere, et sçavoit un peu de latin”.
La curiosità di Montaigne verso gli spiriti ritorna negli Essais (III, 11) dove in modo
scettico tratta della stregoneria: cfr. A. M. Boase, Montaigne et la sorcellerie, “Humanisme et
Renaissance”, 1935, pp. 402-421.
132 J. du Bellay, Les regrets, éds. J. Joliffe, M. A. Screech, Droz, Genève 1966, p. 170,
stione della possessione era talmente nota che veniva fatta oggetto di sati-
ra persino nelle commedie. Il Lasca, infatti, scrisse la commedia La spiri-
tata che fu poi rappresentata a Bologna nel 1560.
L’eco degli esorcismi romani non poteva non essere giunto ai canoni-
ci della Congregazione che avevano un’importante sede nella città. Così
l’Olivieri, che viveva a Gubbio in un momento assai difficile per le soprav-
venute carestie e pestilenze, si trovava di fronte a nuovi modelli compor-
tamentali che prevedevano, per la conversione delle folle, l’esorcismo pub-
blico133 che il Canonico non avrebbe esitato a riproporre nella città del
ducato roveresco. Egli stesso, nel Baculus, parla di un’alta affluenza gior-
naliera di indemoniati nella chiesa di S. Ubaldo, numero che variava da
venticinque ad otto134. L’Eugeni ricorda che alla vigilia della festa di S.
Ubaldo, nel 1596, si presentarono per essere esorcizzati numerosi perso-
naggi, tra cui la signora Lucrezia Bufalini, moglie di Giovanni dei marchesi
del Monte, che a sua volta supplicò il Santo affinché liberasse alcune sue
damigelle giacenti nello stesso stato di vessazione135.
Le dediche delle Grazie fatte da S. Ubaldo del 1617 e del Baculus del
1618 alla Brancaleoni136 chiariscono il significato particolare nella ela-
conversioni degli ugonotti: cfr. D.P. Walker, Possessione ed esorcismo, cit., pp. 28-63. Un
posto a parte spetta poi ai noti fatti delle Orsoline di Loudun (avvenuti intorno al 1634).
Al di là delle citazioni estratte dai processi offre numerose indicazioni sull’aspetto pub-
blico dei voti la biografia di una delle protagoniste dei fatti, Jeanne des Anges, Storia della
mia possessione, tr. it., a cura di A. Morino, Sellerio, Palermo 1986. Sull’affare di Loudun
ha scritto in forma romanzata A. Huxley, I diavoli di Loudun, tr. it., Mondadori, Milano
1960. Ma vedi anche R. Briggs, Witches & Neighbors. The Social and Cultural Context of
European Witchcraft, Viking Penguin, New York 1996.
134 C. Oliverius, Baculus daemonum, cit., p. 84; cfr. L. Giampaoli, S. Ubaldo Canonico
Regolare Lateranense Vescovo, Patrono, cittadino di Gubbio. Memoria storica con documenti inedi-
ti, a cura di L. Cappelli, Stabilimento Tipografico Cappelli, Rocca S. Casciano 1886, II,
pp. 181-196: 190-193.
135 M. Eugenio da Gubbio, Vita di S. Ubaldo Baldassini da Gubbio, Canonico Regolare
Lateranense Vescovo, e Protettore della medesima città, appresso Paulo Massotto, in Roma 1628,
pp. 107-108.
136 Su Isabella Brancaleoni Ansidei vedi i seguenti manoscritti conservati nella
Biblioteca Augusta di Perugia: S. Tassi, De claritate Perusinorum, ms. 1430, c. 6r.; ms. 1449,
c. 97r.; Famiglie perugine, V, IA, ms. 1548, c. 182r. Inoltre P. Ansidei, Degli antichi signori e
conti di Catrano nobili perugini, Rocca San Casciano, 1884 (estratto dal “Giornale araldico”,
X-XI, 1883) e, dello stesso, Ansidei di Catrano, Pisa 1876 (estratto dal “Giornale Araldico
Genealogico”, IV, 4-5). Vedi inoltre P. Castelli, Retorica e devozione, cit., p. 14; F. Cece-E.
Sannippoli, La “Pala Ansidei”. Quando e perché fu fatto il quadro dell’altare di S. Agostino,
“Santuario di S. Ubaldo”, XIII, 5-6, 1994, pp. 13-14.
PATRIZIA CASTELLI
Anche nella dedica indirizzata ai lettori avverte come il testo sia una
guida utile per insegnare a scacciare in modo efficace i demoni dai
corpi140. Le lettere di approvazione al volume stese, rispettivamente, da
Petrus Franciscus, abate generale della Congregazione dei Canonici late-
ranensi, e da Teodosio Zazzari, preposto della chiesa di Gubbio, appro-
vano il testo per l’utilità che ne può giovare ai fedeli. Quest’ultimo, anzi,
esplicitamente ammette che l’opera “typys excudatur digum, valdeque;
137 Acta Sanctorum Maii, III, Die Decima sexta Maii, apud Michaelem Cnobarum,
Anterpiae 1680, pp. 628-653: 644-645: “[...] ut et per annos plures ad sacram aedem dede-
rit peregrinam et sequestrem in pias exercitationes ac meditationes, et templum erecto alta-
ri dignis ornamentus, sacrarumque pretiosa suppellectile ditarit [sic] domumque amplam
hospitam, Perusii Patribus apertam jusserit. Huijus auditrice manu animatus Carolus, sanc-
tissimi Ubaldi vitam ac miracula, et Baculus daemonum, composita evulgavit”.
138 C. Oliverius, Baculus daemonum, cit., p. 2.
139 Ibid., pp. 5-6.
140 Ibid., p. 8.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA
Il testo è illustrato anche con altre incisioni143, delle quali due diretta-
mente collegate alle pratiche esorcistiche: S. Ubaldo in abiti vescovili che
è collocata nel paragrafo dedicato alle litanie della Beata Vergine e dei Santi che devono
essere recitate dall’esorcista prima di eseguire lo scongiuro: (Coniurationes malignorum spiri-
tum) “Annunciazione”, p. 109; (Coniuratio II) “Incontro di S. Anna con la Vergine”, p. 130;
(Coniuratio III) “Natività”, p. 134; (Coniuratio IV) “Adorazione dei Magi”, p. 142;
(Coniuratio V) “Circoncisione”, p. 148; (Coniuratio VI) “Gesù fra i Dottori”, p. 157;
(Coniuratio VII) “Gesù nel Getzemani”, p. 165; (Coniuratio VIII) “Flagellazione”, p.171;
(Coniuratio IX) “Irrisione di Cristo”, p. 189; (Coniuratio X) “Via Crucis”, p. 197; (Coniuratio
XI) “Crocifissione), p. 207; (Coniuratio XII) “Resurrezione”, p. 218; (Coniuratio XIII)
“Pentecoste”, p. 229; (Coniuratio XIV) “S. Pietro”, p. 238; (Coniuratio XIX) (erroneamente
numerata nel testo) “Resurrezione”, p. 255; (Coniuratio XVI) “Incoronazione della
Vergine”, p. 269; (Coniuratio XVII) “Madonna con Bambino” (di mano diversa), p. 279;
PATRIZIA CASTELLI
(Coniuratio XVIII) “Carlo Borromeo”, p. 289; (Coniuratio XIX) “S. Pietro” (?), p. 298;
(Coniuratio XX) “S. Ubaldo in abiti vescovili con il pastorale schiaccia il drago col piede”,
p. 308; (Coniuratio XXI) “S. Paolo”, p. 327; (Coniuratio XXII) “S. Ubaldo in abiti pontifi-
cali con il pastorale e il Vangelo aperto nella destra”, p. 361; (Coniuratio XXIII) “Canonico
con pisside”, p. 372; (Coniuratio XXIV) “S. Paolo”, p. 392; (Passio Domini Nostri Iesu Christi
Secundum Matthaem) “Crocifissione” (piena pagina), p. 412; (Coniuratio XXV) “S. Lucia”, p.
436. La qualità delle incisioni è diversa e, probabilmente, sono stati utilizzati modelli che
l’editore Triangoli aveva a sua disposizione.
144 La liberazione degli ossessi da parte della Vergine è attestata in numerose aree
Fig. 2. S. Ubaldo in abiti pontificali, con il pastorale e il Vangelo aperto nella destra. Anonimo.
valore delle immagini che, anzi, in questo contesto, hanno un ruolo pri-
mario nella lotta ai demoni. Anche il Flagellum daemonum del Menghi,
stampato a Macerata nel 1580 da Sebastiano Martellini145, è illustrato con
alcune incisioni. La pubblicazione risente anche dei patronati locali, in
quanto nel frontespizio presenta l’immagine della Madonna di Loreto146,
mentre in una piccola vignetta è raffigurato un religioso inginocchiato
che, forse, rappresenta il Menghi. Nella carta conclusiva, due grandi
avversari del Demonio: S. Michele arcangelo nell’atto di schiacciare il dia-
volo e S. Francesco mentre riceve le stimmate. La prima rubrica del testo,
dedicata al comportamento dell’esorcista, è illustrata da una incisione
dans ce pays, Olschki, Florence 1905, p. 196; V. F. Ascarelli-M. Menato, La tipografia del
’500 in Italia, Olschki, Firenze 1989; E. Cinti Federici, La stampa a Macerata fino all’anno
1700 seguendo specialmente i documenti dell’Archivio Priorale, in Studi sulla Biblioteca Comunale
e sui tipografi di Macerata, a cura di A. Adversi, Cassa di Risparmio della provincia di
Macerata, Macerata 1967. Cfr. Les Sorcières, a cura di M. Préaud, Bibliothèque Nationale,
Paris 1973, p. 98, n. 167.
146 L’immagine era già stata utilizzata dal Martellini per illustrare il frontespizio de
L’historia di santa Maria di Loreto..., stampata a Macerata nel 1578 e, successivamente, nel
1580: cfr. F. Grimaldi, Il Libro Lauretano, Libreria Quondam, Macerata 1978, n. 68, p. 123;
n. 73, p. 127.
PATRIZIA CASTELLI
alcune osservazioni sulla tipologia degli indemoniati tra ’500 e ’600, tesi di laurea in Materie
Letterarie, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Ferrara, a.a. 1994-95, rela-
tore prof.ssa P. Castelli.
148 C. Oliverius, Baculus daemonum, cit., pp. 165-166: “Hic Exorcista habeat tres figu-
ras Daemonum cum uniuscuiusque nomine, & tres candelas nigras, & tres lapides, &
quando dicuntur illa verba X Maledico, Anathematizo, cum furore proijciatur in terram
una figura Daemonis cun una ex tribus candelis, & uno lapide, & statim illa figura, quae
est in terra acu perforetur, pedibusque; leceretur, & cum dicitur X Pereant, statim combu-
ratur, & ter dicitur haec sententia”.
149 Sulle origini delle defictiones vedi A. A. Barb, La sopravvivenza delle arti magiche, in
Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, a cura di A. Momigliano, tr. it.,
Einaudi, Torino, 1975, pp. 111-137: 132-133.
150 F. Zacharia Vicecomite, Ordinis SS. Barnabae, & Ambrosij ad Nemus
L’uso della figura del demonio è attestato, nel campo della stregoneria, in
un processo del S. Uffizio del 1590 contro Menega, moglie di Marco
Manin. Qui l’accusa, sostenuta dal marito e dai testimoni, si vale di una
“[...] carta, nella quale era dissegnato un diavolo et un cor, che era passa-
to con una frezza[...]”152. Il disegno era “[...] fatto a pena con diavoli
sopra, con cuori, con frezze.”153. Il 7 agosto il Manin consegna al tribu-
nale un “[...] quarto di foglio di carta, nel qual da un canto sono fatte con
penna in mal modo due figure del Demonio et tre cori et altri segni
[...]”154. Insieme a questa il Manin presenta anche una piccola figura di
Eros “de pasta artificiata, et una colombina picciolina intorniata d’oro”
insieme ad altri oggetti di natura sospetta155. Durante il processo si parla
di una “carta del diavolo” che ha fatto pensare anche all’uso delle carte dei
tarocchi dove questo vi era rappresentato. Secondo la Milani la carta era
utilizzata per magie amatorie. Veniva posta in una scansia con un lumino
di olio di chiesa e con lo stoppino ricavato dalla corda della campanella
usata per l’ingresso del celebrante e doveva rimanere sempre acceso per
tre giorni. L’innamorata pregava per tre sere con i capelli sciolti e le mani
dietro la schiena recitando il Pater Noster per le anime dei giustiziati, al fine
di guadagnarsi i buoni uffici del diavolo. Dalle carte del processo emerge
comunque che le immagini a penna non erano di buona fattura e quindi
presumibilmente realizzate dalle stesse persone che organizzavano il
maleficio senza ricorrere a ‘personale’ specializzato. L’immagine del
Demonio trova una larga diffusione nella carta dei tarocchi che più volte
151 Sull’argomento vedi almeno A. Prosperi, Teologi e pittura: la questione delle immagini
nel Cinquecento italiano, in La pittura in Italia nel Cinquecento, Electa, Milano 1995.
152 Contra Menegam uxorem Marci Manini [ASV, S. Uffizio, b. 66, n. 39, cc. 42 (18 bb)
n.n.]; cfr. Streghe e diavoli nei processi del S. Uffizio (Venezia, 1554-1592), a cura di M. Milani,
Centro Stampa Palazzo Maldura, Padova 1989, pp. 227-245: 228.
153 Ibid.
154 Ibid., p. 234.
155 Ibid.
PATRIZIA CASTELLI
156 Contra Angelam Venetiam uxorem quondam Andreae sutoris [ASV, S. Uffizio, b. 65, n.
86, cc. 8 (4 bb.) n.n.]; cfr. Streghe e diavoli, cit., pp. 205-207: 205.
157 Contra Gabrielem de Venetiis revedinum pannorum [ASV, S. Uffizio, b. 65, n° 96, cc. 6
62, n. 52, cc. 48 (20 bb) num.]; cfr. Streghe e diavoli, cit., pp. 169-189: 172.
159 M. Dummet, Il mondo e l’angelo. I tarocchi e la loro storia, tr. it., Bibliopolis, Napoli
1993, pp. 186-187. Per alcune indicazioni bibliografiche è da vedere Le carte di corte. I taroc-
chi. Gioco e magia alla corte degli estensi, a cura di G. Berti e A. Vitali, Nuova Alfa Editoriale,
Bologna 1987, pp. 86-94.
160 M. Milani, Piccole storie di stregoneria nella Venezia del ’500, Essedue, Verona 1989, p. 61.
161 F. Pratesi, Italian Cards: New Discoveries, “Journal of the International Playing Cards
Gio. Battista Somasco, in Venetia 1589 [ed. anast., Edizioni Essegi, Ravenna 1989], p. 564.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA
nel Dialogo. Qui infatti, a proposito dell’abuso delle immagini, tratta del-
l’uso negativo delle carte da gioco e, in special modo, dei tarocchi, facen-
do oggetto della sua discussione proprio la figura del diavolo come tra-
mite dell’evocazione demoniaca:
‘Vi par egli ben fatto, soggionse M. Vincenso, che uno custode degli uomi-
ni venerato da la Chiesa, una creatura celeste et angelica, un nunzio divino
di tanta importanza sia stato introdotto nel giuoco de le carte, fra le bestem-
mie, fra gli spergiuri, fra le mariolerie e manigolderie del giuoco? E non è
chi lo consideri, e, se si considera, non è chi lo dica, e, se si dice, non è chi
lo proibisca né chi l’osservi. Venga Demostene a difender questo, che resterà
un Gn. Scicinio’. ‘Ben discorrete, disse M. Francesco; et acciò gli uomini
abbino più agevolezza a rompersi il collo del corpo e de l’anima, v’è stato
aggiunto anco il Diavolo, acciò, avendolo uno desperato spesso fra le mani,
gli si possa dare o vero chiamarlo in suo aiuto’163.
163 G.A. Gilio, Dialogo nel quale si ragiona degli errori e degli abusi de’ pittori circa l’istorie,
in Trattati d’arte del Cinquecento fra Manierismo e Controriforma, a cura di P. Barocchi, 3 voll.,
Laterza, Bari 1961, II, pp. 87-88. Il Gilio tratta in modo negativo del valore morale del
giuoco delle carte nel dialogo De le parti morali e civili appertenenti a’ letterati cortigiani, f. 58v:
cfr. P. Castelli, Das Bild Satans in der Traktatliteratur der Gegenreformation, “Zeitsprünge.
Forschungen zur Frühen Neuzeit”, I, 3-4, 1997, Aspekte der Gegenreformation, hrsg. V. von
Flemming, pp. 895-937.
164 M. Barasch, Icon. Studies in the History of an Idea, New York University Press, New
York-London 1992.
165 Ann., IX, 235 CD, cit. in M. G. Ronca, La devozione e le arti, in Baronio e l’arte, Atti
del Convegno internazionale di Studi (Sora, 10-13 ottobre 1984), a cura di R. De Maio,
A. Borromeo, L. Giulia, G. Lutz, A. Mazzacane, Centro di Studi Soriani “V. Patriarca”,
Sora 1985, pp. 425-442: 437-438; ma vedi anche D. Campanelli, Le arti negli Annales, ivi,
pp. 385-407: 400-401.
166 Cfr. M.G. Ronca, La devozione e le arti, cit., p. 437, nota 54.
PATRIZIA CASTELLI
Le immagini e il testo
167Ibid.
168G. Menghi, Compendio, cit., pp. 40-43: 40.
169 Ibid., p. 40: “Questo anco si prova con ragione naturale, perché tutto ciò che col
moto di questi corpi inferiori può esser fatto dalla natura, il Diavolo lo può fare, & per
che il suo apparere in diverse forme, & similitudini non è altro che fingere un corpo
acciò che paia humano, ò leonino, overo d’altro animale, la qual fittione consiste nella
figura, & colori, & tutto questo si fa con il moto locale; & che questo sia vero, ce lo inse-
gna l’esperienza dell’arte del pignere, poi che col moto locale, li pittori la fanno, aggion-
gendo, levando, mutando, & disponendo con tal modo detti colori con li loro istru-
menti”.
170 Ibid., p. 42.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA
171 B. Baroffio, L’esorcismo nella liturgia latina: alcuni sondaggi nell’eucologia, in L’autunno
del diavolo, cit., I, pp. 307-315: 307-308. Per alcune indicazioni sul rituale esorcistico nel
Medioevo vedi J. C. Schmitt, Il gesto nel Medioevo, tr. it., Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 110-
113.
172 C. Oliverius, Baculus daemonum, cit., p. 66.
173 Ibid., p. 107.
PATRIZIA CASTELLI
Regulare Lateranense, Vescovo e Protettore di detta Città, nella Stampa Augustea, Perugia 1616;
cfr. F. Bettelli, Corpus iconografico, in Retorica e devozione, cit., pp. 39-131: 48-49.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA
chi’. Tale tipologia si protrarrà fino all’ 800 inoltrato, come testimonia-
no diverse stampe del culto ubaldino177. Numerosi esempi di questo
tipo sono reperibili nella pittura devozionale tra fine ’500 e primo ’600.
Di un certo interesse è la storia raffigurata da un anonimo nella Vita e
miracoli di S. Rita da Cascia, dipinta nello scorcio del XVI secolo
(Monastero di S. Rita, Cascia)178. Il corpo riverso dei vessati è raffigura-
to nella vignetta del frontespizio dell’edizione volgare della Vita di S.
Ubaldo curata da Carlo Olivieri179, nella stampa eseguita da Francesco
Curti per il testo del Certani pubblicato nel 1666180, in quella del
Mitelli per l’edizione dello stesso testo stampato a Bologna da Giacomo
Monti nel 1675181 e nell’anonima incisione del 1714 del Responsorio ad
honore, e lode di Sant’Ubaldo...182. La tipologia del vessato inginocchiato
con la mano che allontana il santo prosegue fino all’800 inoltrato183. In
ogni caso sono presenti i cosiddetti ‘diavolicchi’, piccoli demoni neri
che si allontanano dall’indemoniato a dimostrazione dell’esorcismo
avvenuto. La forma del ‘diavolicchio’ o eidolon, in genere rappresentato
anche nella tradizione popolare piccolo, nudo, nero e deforme, prende
piede dal VI secolo184. I corpi dei posseduti a volte sono rappresentati
con gli occhi spalancati simili a quelli del giovinetto esorcizzato da S.
Nilo, raffigurato dal Domenichino nella cappella dei S. Fondatori
nell’Abbazia di Grottaferrata tra il 1608-10. Questo affresco è di note-
vole importanza nell’ambito dell’iconografia dell’esorcismo, in quanto
la storia narrata racconta la guarigione del figlio di Polieuto secondo la
Vita di S. Nilo scritta da S. Bartolomeo. Il giovinetto, afflitto da convul-
177 F. Bettelli, Corpus iconografico, cit., pp. 96-102. Di un certo interesse, a tal proposi-
to, sono le stampe segnalate nel catalogo Les Sorcières, cit., pp. 89-98 dove sono indicate
scene di possessione diabolica singole o collettive.
178 F. Giacalone, Immagini sacre in Umbria tra culto ufficiale e religiosità popolare.
L’iconografia di S. Rita, in Arte sacra in Umbria e dipinti restaurati nei sec. XIII-XX, Ediart,
Todi, pp. 123-151: 131, fig. 64.
179 F. Bettelli, Corpus iconografico, cit., pp. 54-55.
180 F. M. Certani, Idea del ben vivere, Attioni più considerabili del Padre S. Ubaldo, Can.
Regol. Lat. e Vescovo di Gubbio, nella Stampa Archiepiscopale, in Milano 1666; cfr. F.
Bettelli, Corpus iconografico, cit., pp. 60-61.
181 F. Bettelli, Corpus iconografico, cit., pp. 62-63.
182 Ibid., pp. 76-77.
183 Ibid., pp. 106-107. Per alcune considerazioni vedi L. Borello, Indemoniati, diavoli ed
ex voto, in L’autunno del diavolo, cit., II, a cura di F. Barbano e D. Rei, pp. 219-229: 219-220.
184 Cfr. B. Brenk, Teufel, in Lexicon der christlichen Ikonographie, IV, 1972, coll. 295-300;
a tal proposito vedi anche J. B. Russel, Il diavolo nel Medioevo, tr. it., Laterza, Roma-Bari
1987, pp. 96-97.
PATRIZIA CASTELLI
sioni, a detta del Santo dovute ad una vessazione diabolica, viene cura-
to con l’olio. Nell’affresco il pittore mette in evidenza questa peculia-
rità, tanto che il monaco immerge le dita all’interno della lampada con-
tenente l’olio santo per portarlo poi alla bocca del ragazzo che tiene
aperta con l’indice sinistro. La gestualità qui riproposta fa parte dei ritua-
li descritti all’interno dei trattati esorcistici e mette in evidenza l’uso
benefico dell’olio, spesso utilizzato sia per le unzioni, sia come vomiti-
vo. Sull’altare è presente un tondo con l’immagine della Vergine, secon-
do la consueta iconografia185.
Durante la Riforma cattolica i corpi delle vessate subiscono poi una
definitiva moralizzazione, in quanto queste non sono più discinte come
nel caso della guarigione dell’ossessa da parte di S. Francesco eseguita da
Bonaventura Berlinghieri (Pescia, Chiesa di S. Francesco) nel 1235186, in
quello della stessa scena dipinta da un anonimo tra il 1250-60 (Assisi,
Museo del Tesoro del Sacro Convento) o persino nelle più tarde scultu-
re di Agostino di Duccio del Duomo di Modena rappresentanti le sto-
rie di S. Gimignano. All’immagine del diavolo non spetta sempre, nel
contesto dell’esorcismo, un ruolo primario, anche se la sua presenza è
incombente. Come si è detto, è rappresentato più spesso quale ‘diavo-
licchio’ che si allontana dal vessato mentre trova una conformazione
più precisa nella lotta con il santo esorcista, assumendo tuttavia, tra
metà ’500 e primo ’600, un aspetto sempre più umanizzato.
Il Baculus daemonum dell’Olivieri si inserisce a buon diritto, dunque,
nell’ampia discussione sulla demonologia che, in quegli anni, si svilup-
pava in Europa ed in Italia. L’opera, anzi, raccoglie le ultime posizioni
dei teologi ed osteggia tutto ciò che poteva essere relegato nell’ambito
della superstizione e si apre alle nuove prospettive della Chiesa rifor-
mata. I piccoli accorgimenti editoriali, come le incisioni, si inseriscono
anche nella questione della didattica evangelica tanto caldeggiata dopo
la Riforma tridentina187. Non si può infatti dimenticare che il Baculus è
rivolto, oltre che ai religiosi ed agli esorcisti, anche ad un pubblico di
fedeli, come la Brancaleoni, che attendevano particolari normative per
raggiungere la via della salvezza. Anche le immaginette pubblicate nel
185 R. E. Spear, Domenichino, Yale University Press, New Haven-London 1987, IV, pp.
188 U.F. Braccini, La mano di S. Ubaldo. Alla ricerca della verità sui legami tra Thann e
1. Daimon e Genius
denze del secolo alla ricerca della “autonomia” ma anche di un sostegno metafisico della
Persönlichkeit, tendenze che verrebbero a coincidere nella genialità di Socrate.
LORENZO LATTANZI
Bologna 1977, vol. II, p. 33. Cfr. Johann Georg Hamanns Sämtliche Werke, Historisch-
Kritische Ausgabe, a cura di J. Nadler, Wien [1949-1957, 6 voll.] 1950, vol. II, pp. 57-82,
qui p. 75. Cito l’edizione critica del Nadler con la sigla W, seguita dal numero del volu-
me e dalle pagine. Quando cito dalla traduzione italiana, i rimandi in parentesi quadre
al testo tedesco sono miei.
4 Sulla questione si vedano il classico studio di P. Grappin, La théorie du génie dans le
préclassicisme allemand, P.U.F., Paris 1952 e il più recente H. Sommer, Génie: zur
Bedeutungsgeschichte des Wortes von der Renaissance zur Aufklärung, Lang, Frankfurt/M. 1998.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA
2. Genio poetico
8 Cfr. R. Unger, Hamann und die Aufklärung. Studien zur Vorgeschichte des romantischen
Geistes im 18. Jahrhundert, Niemeyer, Halle/Saale 1925 [I ed. 1911], vol. I, p. 284. Unger
sottolinea il ruolo decisivo della “conversione” londinese per la scoperta di questa genia-
lità religiosa, ispirazione soggettiva che corrisponde (e risponde) nell’uomo alla rivela-
zione divina.
9 Cfr. op. cit., I, p. 287.
10 Cfr. op. cit., I, p. 10.
11 Cfr. Dichtung und Wahrheit. Dritter Teil, in Goethes Sämtliche Werke. Jubiläums-
Ausgabe, vol. 24, a cura di R.M. Meyer, Cotta, Stuttgart-Berlin 1902, p. 79; tr. it. di E.
Sola, Poesia e verità, in J.W. Goethe, Opere, Sansoni, Firenze 1963, vol. I, p. 1074.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA
pochi mesi prima della stesura delle Sokratische Denkwürdigkeiten nell’agosto di quell’an-
no. R. Unger, Hamann und die Aufklärung, cit., I, pp. 288-289 non esclude che Hamann
le avesse lette subito, dal momento che conosceva e apprezzava l’opera poetica di Young
già prima del suo soggiorno in Inghilterra, ma non ritiene strettamente necessario pre-
supporre questa lettura per spiegare il passo sul genio. Conclude, anzi, che nei suoi pre-
supposti religiosi e etici la teoria di Hamann non dipende comunque dalle idee di
Young.
13 Cfr. G.E. Lessing, Gesammelte Werke in zehn Bänden, a cura di P. Rilla, Aufbau,
mato in quanto genio pari a Omero dalla sua stessa deviazione dalle
norme aristoteliche14.
L’interpretazione di Unger enfatizza questo motivo polemico, che
sarà dominante solo negli scritti successivi, ma la sua conclusione
generale è corretta: per Hamann esiste una relazione necessaria tra
ignoranza e genio (semmai, Unger non articola con sufficiente chia-
rezza la distinzione di Genie e Genius). Inoltre, la sua analisi registra cor-
rettamente l’assenza nel passo di Hamann di quel momento distintivo
e caratterizzante del concetto di genius in Young che è la sua origina-
lità15. Il Genie di cui Hamann scrive nelle Sokratische Denkwürdigkeiten
ha bisogno di ignoranza, ma può fare a meno dell’originalità, e più in
generale, come è stato osservato, non mostra la vocazione “prometei-
ca” che caratterizza il “genialismo” dello Sturm und Drang: nei pochi
accenni di Hamann non c’è traccia di una lotta titanica dell’individuo
geniale, e neppure del suo tormento spirituale16. Su tutto domina la
conquistata serenità interiore del cristiano, la sua visione pacificata
della vita. Socrate attacca le convenzioni e i pregiudizi, non rifugge lo
scandalo della ragione, ma non cerca lo scontro violento, la forza del
suo pensiero sta nella semplicità con cui riconosce la propria ignoran-
za. Resta da spiegare la libera creatività, che appartiene per definizione
al genio: una libertà creativa di cui sappiamo che è frutto di ignoran-
za o di trasgressione delle regole, ignoranza o trasgressione, più in
generale, di una Weisheit mondana e razionale. È proprio questa forza
creativa, questo Genie del filosofo antico che vorrei individuare nelle
Sokratische Denkwürdigkeiten.
nalism, a cura di H. Hardy, Fontana Press, London 1994, pp. 93-94. Sulla nozione di
genio nello Sturm und Drang si veda A. Zeithammer, Genie in stürmischen Zeiten. Ursprung,
Bedeutung und Konsequenz der Weltbilder von J.M.R. Lenz und J.W. Goethe, Röhring, St.
Ingbert 2000.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA
Gütersloh 1959, p. 153 (Johann Georg Hamanns Hauptschriften, erklärt, II). Cito questo uti-
lissimo commento con la sigla Blanke, seguita dalle pagine.
18 J.G. Hamann, Memorabili Socratici, cit., p. 33. Cfr. W II, 75. Come osserva J.
Carneal O’Flaherty, Johann Georg Hamann, Twayne Publishers, Boston 1979, pp. 60-61,
il richiamo a esempi poetici, o generalmente estetici, è per Hamann una forma di acco-
modamento ai prejudices of a secular age, che non modifica lo scopo essenzialmente reli-
gioso dello scritto.
LORENZO LATTANZI
Wiesbaden 1955-1979, 7 voll., qui vol. I, p. 371; tr. it. di I. Brandmair Dellera, Lettere I
1751-1759, a cura di A. Pupi, Vita e Pensiero, Milano 1989, p. 341. Cito l’epistolario con
la sigla BW, seguita dal numero del volume e dalle pagine.
20 L’ipotesi che la missione di Hamann a Londra fosse di natura politica oltre che
economica, spesso ricordata dagli interpreti, risale a J. Nadler, Johann Georg Hamann
1730-1788. Der Zeuge des Corpum mysticum, Otto Müller, Salzburg 1949, pp. 72-74. Per la
ricostruzione complessiva del rapporto con Berens dopo il ritorno da Londra rimando
a A. Pupi, Johann Georg Hamann, I experimentum mundi 1730-1759, Vita e Pensiero,
Milano 1988, pp. 116 e sgg.
21 Cfr. N. Accolti Gil Vitale, La giovinezza di Hamann, Magenta, Varese 1957, p. 126.
La cena viene rievocata nella lettera al fratello del 12 luglio 1759, poco più di un mese
prima che Hamann cominciasse a lavorare alle Socratische Denkwürdigkeiten: cfr. BW I,
362; tr. it. cit., p. 332.
22 Cfr. BW I, 398-399; tr. it. cit., p. 366.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA
nebst Xenophons Beschreibung der Denkwürdigkeiten Socratis, Halle, 1693, II ed. 1720. In una
tarda lettera a Johann Georg Scheffner (11 febbraio 1785), Hamann ricorderà di aver
LORENZO LATTANZI
una certa diffidenza nei confronti dei dialoghi platonici, superata solo
due anni più tardi, quando li lesse sistematicamente: Hamann contrap-
pone al giovane aristocratico Platone il conciatore di pelli Simone, che
per primo avrebbe avuto l’idea di mettere per iscritto le dottrine di
Socrate, forse in maniera più fedele allo spirito del maestro, il quale, leg-
gendo le opere di Platone, si sarebbe domandato con un certo stupore:
“Che cosa ha in mente di fare di me questo giovanotto?”28.
4. La maniera socratica
Laerzio nelle Vitae philosophorum, libro II, cap. 14) nella Leben Socratis di Charpentier-
Thomasius (31), ma trasforma il calzolaio (o tagliapelli: skytotomos) di cui parlano le sue
fonti in un conciatore di pelli (Gerber) per mettere il passo in analogia con quello sul
conciatore Simone, ospite di Pietro a Ioppe, negli Atti degli Apostoli (X, 5-6), come spie-
gherà in un passo di Wolken: cfr. W II, 95.
29 Cfr. W II, 61; tr. it. cit., p. 19.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA
Scrivo in modo epico, perché non siete ancora in grado di leggere il lin-
guaggio lirico. Un autore epico è uno storiografo di storie di creature
straordinarie e della loro ancor più straordinaria vita; l’autore lirico è lo
storiografo del cuore umano32.
33 Il für va inteso in senso oppositivo, e non finale: Hamann scrive contro la noia,
del Nordischer Aufseher (1758), e parla del pubblico come un Proteo che assume mille
forme per farsi adorare; quindi riassume l’introduzione dei Literaturbriefe, avanzando
riserve sull’utilità di una critica che presume di essere imparziale, e alla fine non serve a
nessuno: cfr. BW I, 368; tr. it. cit., p. 338.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA
37 Si veda la lettera a J.G. Lindner del 21 marzo 1759 in BW I, 307-309; tr. it. cit.,
pp. 282-284. Seguo qui l’interpretazione di Blanke, pp. 55-58, che mette a confronto let-
tere del periodo in cui Hamann era precettore a Grünhof e lettere successive al soggior-
no londinese.
38 Cfr. W II, 71; tr. it. cit., p. 29.
39 Cfr. Blanke, pp. 14-16.
LORENZO LATTANZI
5. Genio plastico
40 Cfr. B. Böhm, Sokrates im achtzehnten Jahrhundert, cit., pp. 270-277. Il Genie non è
più una disposizione psicologica, come negli autori inglesi e francesi, ma ispirazione
diretta di Dio: la coscienza della illimitata libertà del genio viene ricondotta a un fon-
damento religioso. Questa conclusione si inserisce nella ricostruzione d’insieme di
Böhm, che vede nella genialità religiosa (Religion als “Genie”) di Hamann il culmine nello
sviluppo del sentimento religioso dal misticismo medievale al pietismo tedesco.
41 J.G. Hamann, Memorabili Socratici, cit., p. 37. Cfr. W II, 80. Hamann anticipa qui
una distinzione che sarà poi centrale nel dibattito estetico tedesco: mentre di un carat-
tere “pittorico” dell’arte si discuteva almeno dagli anni Venti con i Diskurse der Malern e
le poetiche di Bodmer e Breitinger, la proposta di una definizione autonoma della scul-
tura, proprio nei termini di una oscura componente “plastica” irriducibile alla pittura,
arte della luce, giunse all’attenzione del pubblico solo a conclusione della complessa
evoluzione degli interessi di Herder sull’argomento, culminati nella Plastik (1770-1778).
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA
und die Sokrates-Bilder des 18. Jahrhunderts, in Das Lächeln des Sokrates, a cura di H. Kessler,
Graue Ed., Heitersheim 1999, pp. 155-216.
45 Cfr. W II, 79; tr. it. cit., p. 36. La biografia di Charpentier-Thomasius (130) narra
di un sogno che Socrate avrebbe fatto tre giorni prima di morire, in cui una donna gli
annunciava la morte ormai prossima, ma non lo mette in relazione con l’idea di scrive-
re versi, e soprattutto non parla della scoperta di una aridità inventiva, dice soltanto che
in carcere il filosofo mise in versi una favola esopica e compose un canto in onore di
Apollo e Diana, notizia che Hamann ricorda alla fine del passo, senza commentarla.
LORENZO LATTANZI
Pictura Poesis Controversy in Eighteenth-Century England and Germany, Herbert Lang &
Frankfurt/M, Peter Lang, Bern 1972, pp. 55 e sgg. e sui presupposti teorici della pole-
mica D. Wellbery, Lessing’s “Laokoon”. Semiotics and aesthetics in the age of reason,
Cambridge U. P., Cambridge-London-New York 1984, in part. pp. 99 e sgg.
47 Cfr. W II, 80; tr. it. cit., p. 37. La traduzione di Pupi rende hergeholt con “prolis-
so”, ma l’espressione weit hergeholt vale qualcosa del tipo “tirato per i capelli”, dunque,
come suggerisce anche il commento di Blanke, p. 178 è piuttosto sinonimo di gesucht,
erkünstelt.
48 Cfr. Blanke, p. 179.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA
poneva di tre volumi pubblicati a Londra tra 1655 e 1660, ai quali vennero aggiunti due
trattati negli anni seguenti. Della Historia critica Philosophiae di Johann Jakob Brucker erano
stati pubblicati cinque volumi tra 1742 e 1744, un sesto sarebbe uscito nel 1767.
51 Batteux cita Zeusi nel terzo capitolo della prima parte del saggio, capitolo impor-
tante in cui argomenta che il genio non deve imitare servilmente la natura, ma ricreare
una natura ideale, rendendola bella e perfezionandola: cfr. Ch. Batteux, Le Belle Arti
ricondotte ad unico principio, tr. it. di E. Migliorini, Aesthetica, Palermo 1990 [1983], pp.
41-43.
52 Cfr. W II, 62-63; tr. it. cit., p. 21.
53 Hamann disapprova la nozione di génie nella teoria di Batteux, un genio ridotto all’av-
vilente compito di scegliere nella natura i particolari degni di essere imitati, e guidato in que-
sta scelta da un gusto freddo e parziale. R. Unger, Hamann und die Aufklärung, cit., I, pp. 254-
255 considerò questo passo il primo atto di una polemica proseguita nelle opere successive.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA
6. Lo scultore in Socrate
la a G.I. Lindner di fine ottobre o inizio novembre 1758 in BW I, 277; tr. it. cit., p. 255.
58 Hamann trova la notizia nel Leben Socratis di Charpentier-Thomasius (2-3) e nella
Life of Socrates di Cooper (14). Aggiunge che, deviando dalla moda del tempo per richia-
LORENZO LATTANZI
marsi all’uso più antico, Socrate rappresentò le Grazie vestite, e osserva che, per qualun-
que motivo lo avesse fatto, ispirato dal suo genio o mosso solo da vanità, è certo che venne
criticato per questa innovazione. In Wolken Hamann rimanda a questo aneddoto per giu-
stificare la “musa velata” (verhüllte Muse) delle Sokratische Denkwürdigkeiten, l’oscurità come
un velo posto sul messaggio cristiano che intendeva annunciare: cfr. W II, 92.
59 J.G. Hamann, Memorabili Socratici, cit., p. 25. Cfr. W II, 67.
60 “Il sale è una buona cosa, ma non deve essere scipito altrimenti è sale e non lo è.
62 Sulla scia dei tanti periodici che in quegli anni nascevano con l’intento di supe-
rare le pubblicazioni erudite del Gottsched, Daphne si ispirava allo stile brillante e alla
cultura “galante” degli scrittori francesi alla moda, evocando le atmosfere della lettera-
tura anacreontica. I 60 numeri del settimanale vennero raccolti in volume nel 1750 in
due parti presso l’editore Dorn di Königsberg (rist. anast. Lang, Frankfurt/M. 1991).
Sulla rivista si veda A. Pupi, Johann Georg Hamann, I experimentum mundi 1730-1759, cit.,
pp. 15-22. Le traduzioni di A letter concerning Enthusiasm (1708) e di Sensus communis: An
Essay on the Freedom of Wit and Humour (1709) di Shaftesbury risalgono probabilmente al
1755, e non è escluso che fossero destinate alla pubblicazione, poiché si tratta di versio-
ni complete: cfr. op. cit., pp. 56 e 173.
63 Si veda la lettera al fratello del 9 gennaio 1760, in cui Hamann osserva che tutte
cia degli antichi nelle comete, negli oracoli e nei sogni, di cui portano
tracce le opere dei greci e dei romani come la Bibbia, il libro traman-
dato dal “popolo più pazzo” (das thörichste Volk) nella storia dell’uma-
nità. Lo scettico moderno disprezza quei presunti segni come favole
infantili, ma è costretto a riconoscere gli straordinari effetti che ebbe-
ro sulla storia di interi popoli. Il cristiano, invece, semplicemente ci
crede, come ci credevano i pagani: anche la storia della salvezza inizia
con una cometa, quella che i Magi d’Oriente seguirono per giungere a
Betlemme64.
64 Cfr. W II, 68-69; tr. it. cit., pp. 26-27. Hamann scrisse poi un saggetto Die Magi
aus Morgenlande, pubblicato nel dicembre 1760 nelle Wochentliche Königsbergische Frag-
und Anzeigungsnachrichten (raccolto nei Kreuzzüge eines Philologen, 1762) per ribadire il
mistero della storia, nel quale solo alcuni riconoscono la voce di Dio: il viaggio dei Magi
poteva apparire assurdo, ebbe persino conseguenze drammatiche, come la strage degli
innocenti, ma essi si affidarono a Dio riconoscendone il disegno provvidenziale. Fu in
seguito a questo saggio che Friedrich Karl von Moser chiamò Hamann Magus im Norden.
Si veda A. Pupi, Johann Georg Hamann, II In domo patris 1760-1763, Vita e Pensiero,
Milano 1991, pp. 64-66.
65 Nel culto apollineo Hamann riconosce, citando il discorso di Paolo e Barnaba ai
Licaonici negli Atti degli apostoli (XIV, 16-17), una testimonianza di Dio presso i paga-
ni: l’oracolo, infatti, richiama l’uomo a guardare dentro di sé, e abitua la mente al para-
dosso. Cfr. W II, 71; tr. it. cit., p. 29.
LORENZO LATTANZI
66 “Man wird daher die Theorie der Centripetal- und -fugalkräfte zu Hülfe nehmen,
und die Parabeln des Sokrates aus der zusammengesetzten Richtung seiner Unwissenheit
und seines Genies herleiten müssen”: W II, 98. Qui Hamann parla di un genio socrati-
co senza riproporre l’analogia con il genio dei poeti, e lo definisce come impulso crea-
tivo “umano”, che insieme al dono “divino” dell’ignoranza spiega il mistero della “con-
traddizione”: “In diesem göttlichen der Unwissenheit, in diesem menschlichen des
Genies scheinet vermuthlich die Weisheit des Widerspruchs verborgen zu seyn…”: ibid.
67 Cfr. W II, 70; tr. it. cit., p. 28.
68 Cfr. W II, 96-97. Mendelssohn aveva osservato che, nel riconoscersi ignorante,
Socrate non si mostrava modesto (bescheiden), come Hamann sostiene nelle Sokratische
Denkwürdigkeiten, bensì coerente (aufrichtig) con il suo orientamento teorico
(Lehrmeinung): cfr. M. Mendelssohn, Rezensionsartikel in “Briefe, die neueste Literatur betref-
fend” (1759-1765), in Gesammelte Schriften. Jubiläumsausgabe, vol. V.1, a cura di Eva J.
Engel, F. Fromann, Stuttgart-Bad Canstatt 1991, p. 203. Hamann ribatte che fare della
modestia di un ignorante (Bescheidenheit eines Unwissenden) una virtù sarebbe come loda-
re la castità di un eunuco (die Keuschheit eines Verschnitteten).
69 W II, 73. Pupi rende: “L’ignoranza di Socrate fu il sentire”: J.G. Hamann,
Memorabili Socratici, cit., p. 31. Preferisco qui la traduzione di Sergio Lupi: “L’ignoranza
di Socrate era sentimento”: I memorabili di Socrate, in J. G. Hamann, Scritti e frammenti di
estetica, Istituto Italiano di Studi Germanici, Firenze 1938, p. 231.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA
essere dimostrata, ma va creduta. In una tarda lettera a Fr. H. Jacobi (27 aprile 1787) cita
come riferimento di questo passo la sezione 12 della Enquiry concerning human understanding
(1748) di Hume: “It seems evident, that men are carried by a natural instinct or preposses-
sion, to repose faith in their senses; and that without any reasoning, or even almost before
the use of reason, we always suppose an external universe, which depends not on our per-
LORENZO LATTANZI
ception, but would exist, though we and every sensible creature were absent or annihilated”:
D. Hume, Enquiry concerning Human Understanding, a cura di T.L. Beauchamp, Oxford U.P.,
Oxford 1999, pp. 200-201. Sull’interesse di Hamann per il pensiero di Hume in questi anni
si veda A. Pupi, Johann Georg Hamann, I experimentum mundi, cit., pp. 132-133.
72 Il sentimento della fede, comunque, non è identico all’esperienza dei sensi: non
si tratta di Erfahrung, ma piuttosto di un Erlebnis, uno stato emotivo che coinvolge tutta
la persona, la sua intera vita, come osserva N. Accolti Gil Vitale, La giovinezza di
Hamann, cit., p. 141.
73 J.G. Hamann, Memorabili Socratici, cit., p. 32. Cfr. W II, 74.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA
micamente gli sforzi di quei teorici e critici che proponevano una rigo-
rosa distinzione tra riflessione filosofico-scientifica e creazione poeti-
ca, come Lessing e Mendelssohn nell’anonimo saggio Pope, ein
Metaphysiker! del 1755, che Hamann aveva letto nell’estate dell’anno
seguente, quando si muoveva ancora incerto e insoddisfatto tra le file
dei giovani Auklärer74. Posandosi sulla provocatoria analogia tra filo-
sofo e poeta, l’ironia consente il passaggio alla dimensione religiosa,
perché agli occhi del cristiano, nella prospettiva unificante e trascen-
dente della fede, ragione e immaginazione conducono a una analoga
disfatta: il filosofo e il poeta si affidano a un criterio di verità, dimo-
strazione logica o ispirazione poetica poco importa, che non regge al
confronto con la vita. Hamann lo illustra con gli esempi di Voltaire e
di Klopstock: quando la vita li pose in circostanze nelle quali riusciro-
no a “sentire se stessi” (sich selbst fühlen), nello smarrimento o nella sof-
ferenza, Voltaire, che aveva preteso di dimostrare il sistema del miglio-
re dei mondi possibili, rinunciò al suo filosofico ottimismo, e sciocca-
to dal terremoto di Lisbona (1755) scrisse Candide, e il grande poeta
Klopstock fu derubato della sua “musa” perdendo l’amata consorte
Meta, morta di parto nel 1758. Non solo la presunzione del filosofo,
dunque, anche il cuore ispirato del poeta (persino di un poeta religio-
so come il creatore della Messiade), si inganna quando esalta il potere
della fantasia al di sopra della fede. La conclusione è esplicita: la fede,
come non è opera della ragione, non è creata dall’immaginazione, (Die
Einbildungskraft…kann also keine Schöpferinn des Glaubens seyn)75. Lo
“scultore” Socrate grazie all’opera del suo genio porrebbe di fronte a se
stesso tanto il filosofo con le sue arroganti certezze, quanto il poeta
74 Cfr. la lettera a J.G. Lindner del 18 agosto 1756 in BW I, 227-228; tr. it. cit., pp.
209-210. Hamann conosce le circostanze esteriori del saggio, nato in risposta a una
Preifrage bandita dall’Accademia delle Scienze di Berlino, e ne fa un dettagliato riassun-
to, soffermandosi anche sulla prefazione, in cui viene tracciata una netta distinzione tra
il metodo e lo stile del filosofo e quello del poeta. Si veda sul saggio P. Michelsen, Ist
alles gut? Pope, Mendelssohn und Lessing (Zur Schrift “Pope ein Metaphysiker!”), in
“Mendelssohn Studien” IV, 1979, pp. 81-109. Hamann attribuisce lo scritto a Lessing sol-
tanto, ma nella stessa lettera si sofferma sui Briefe über die Empfindungen di Mendelssohn,
interessandosi proprio alla identità dell’anonimo autore, che le riviste presentavano
come un giovane ebreo di professione non intellettuale.
75 W II, 74. In una lettera a J.G. Lindner (8 agosto 1759), Hamann elogia le odi com-
poste da Klopstock per la morte della moglie Margarethe in quanto non sembrano scrit-
te per il pubblico, ma frutto di una sofferta esperienza interiore: cfr. BW I, 390; tr. it.
cit., p. 359.
LORENZO LATTANZI
8. Genius e Genie
cit., p. 270 sottolinea l’importanza di questo passaggio per la costituzione di una geniale
Schöpferkraft che trascende l’intellettualismo, ma anche l’esaltazione estetica. Non solo
esiste una peculiare creatività religiosa, ma su questo fondamento Hamann offre un
sostegno metafisico alla ästhetische Genialität. A prescindere da alcune discutibili conse-
guenze che Böhm pretende di ricavarne (in particolare, la concezione dell’arte come
Gottesdienst, riduttiva rispetto alla teoria estetica di Hamann), questa conclusione è con-
divisibile.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA
77 Cfr. W II, 214; tr. it. in J.G. Hamann, Scritti e frammenti di estetica, cit., p. 151. Nella
integrata da alcune ironiche note a piè di pagina: cfr. W II, 85-90; tr. it. in A. Pupi, Johann
Georg Hamann, II In domo patris, cit., pp. 74-76.
79 Sulla presenza di Shakespeare, e in particolare sulla figura di Amleto in Wolken,
richiama l’attenzione R. Unger, Hamann und die Aufklärung, cit., I, pp. 315-316
80 Cito il passo per intero con la traduzione italiana: “I’ll have grounds/More relative
than this. The play’s the thing/ Wherein I’ll catch the conscience of the king”: “Mi occor-
re un fondamento concreto, uno spettacolo; e al sovrano ghermirò a volo la coscienza”:
Teatro completo di William Shakespeare, a cura di G. Melchiori, vol. III, Mondadori, Milano
1997, pp. 152-153.
81 W II, 99.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA
82 Cfr. W II, 106. La citazione è dall’atto II, scena II di Hamlet: “Though this be
madness, yet there is method in’t... – a happiness that often/ madness hits on, which rea-
son and sanity could not so prosperously be delivered of”: “Pazzia, non c’è che dire, ma
non senza un metodo… È una felice vena dei pazzi, che la ragione e la salute non pos-
seggono in eguale misura”: Teatro completo di William Shakespeare, cit. III, pp. 126-127.
83 “Das gröste Schisma hierin ist unter den Juden gewesen über den Vortrag eines
Propheten aus ihren Brüdern. Einige sagten: DAIMONION ekei kai MAINETAI und
sahen die Manie gleichfalls für die Würkung eines Genies an, ja wunderten sich gar, daß
es Menschen von gesunden Bauerverstande möglich wäre ihm zuzuhören”: W II, 104.
Enrico Guidoni
Francesco Gramacci, Vetralla 1999; Id., M come Michelangelo, Bo come Buonarroti, in Id.,
Ricerche su Giorgione e sulla pittura del rinascimento, II, Roma 2000, pp. 125-160; Il
Ganimede di Michelangelo : esaltazione e confessione di una colpa, ivi, pp. 161-164; Id., Il
“Redentore Benedicente” di Orte: una tavola firmata e datata (1491) da Michelangelo, “Lazio
ieri e oggi” XXXVI, 12, 2000; Id., Fanciullezza di Michelangelo, Roma 2000; Id.,
Michelangelo: La Vita Contemplativa (Vittoria Colonna) e la Vita Attiva (Faustina Mancini)
nel monumento a Giulio II in S. Pietro in Vincoli, in “Strenna dei Romanisti”, LXIII, 2002,
pp. 321-337.
ENRICO GUIDONI
2 L’individuazione delle sigle è iniziata con Giorgione, le cui iniziali Ci, si riferisco-
no al cognome Cigna cui si risale proprio attraverso questo nuovo strumento di indagi-
ne (per una visione complessiva vedi E. Guidoni, Giorgione, Opere e significati, Roma
1999). Tralasciando i molti artisti che hanno a loro volta segnalato la propria opera con
le iniziali di oggetti rappresentati, è evidente l’importanza fondamentale di Leonardo da
Vinci, esperto in rebus, maestro anche in questo di chi è venuto dopo di lui. Lo studio
sulle sigle di Leonardo è in corso di elaborazione, ma per alcuni risultati illuminanti,
utili anche per l’individuazione di nuove opere da lui ideate, vedi E. Guidoni, Leonardo
da Vinci e le prospettive di città. Le vedute di Roma, Firenze, Napoli, Genova, Milano e Venezia,
Roma 2002.
3 Per Raffaello vedi M come Michelangelo..., cit., e, sempre di chi scrive, L’angioletto di
Cagli: Raffaello collaboratore di Giovanni Santi, in “Studi Giorgioneschi”, V, 2001 (in corso
di pubblicazione).
4 E. Guidoni, M come Michelangelo..., cit., Sigle michelangiolesche nella pittura fiorentina:
6 Tra le opere giovanili del maestro spiccano le immagini del Santo: vedi in particola-
re la statua in S. Giovanni dei Fiorentini a Roma, il ciclo delle storie del Battista nella
Cappella Tornabuoni in S. Maria Novella a Firenze (dove è determinante la sua collabo-
razione con il Ghirlandaio; e le Storie di S. Giovanni Battista (disperse in diversi musei)
per la cui attribuzione vedi Guidoni, M come Michelangelo, Bo come Buonarroti, cit.
7 Vedi la scena rappresentata negli affreschi di S. Trinita, dove numerose sono le trac-
Formes, Fignes, Paris 1978 ( tr. it. Favole, Forme Figure, Torino 1988: L’ardita capra, pp. 185-
90). Il tema della capra in rapporto con il Buonarroti è stato da noi trattato in una confe-
renza nella chiesa di S. Francesco a Capranica (Vt.) nel 2001, anche in relazione con il rilie-
vo di età romana (ma restaurato in età successiva, forse dallo stesso artista) esistente nel
cortile di Casa Buonarroti. Famosa è la poesia michelangiolesca “Nuovo piacere e di
magiore stima” che tratta della vita bucolica, e sulla quale non possiamo qui soffermarci.
10 È interessante la dialettica tra la capra e il lupo (i due centri si trovano sulle due
opposte rive del fiume), cioè tra il bene e il male (con possibili riferimenti al Lupo con-
vertito da S. Francesco).
11 Questo interesse è documentato fin dal 1495, quando l’artista a Bologna intrat-
il maestro ha lasciato diverse opere e che è stata scelta anche per i ricor-
di dell’aretino Petrarca12, la vicina Caprarola dove l’impianto urbani-
stico e l’architettura del palazzo Farnese risentono della sua ravvicina-
ta influenza creativa13, e infine Capranica Prenestina dove la chiesa è
frutto di uno sviluppo architettonico di matrice bramantesca ma che
trova più naturale collocazione nella sperimentazione michelangiole-
sca del secondo decennio del ’50014.
Tra gli strumenti di lavoro, basta citarne due: la capra, semplice
macchina sollevatrice ampiamente usata in architettura, che delinea un
solido geometrico, il tetraedro, di evidente significato allegorico lega-
to alla divina triangolarità e all’ascendenza15; la capretta, scalpello
sagomato a V usato nell’intaglio del legno, la cui traccia raddoppiata
non è altro che la M, la più diffusa tra le sigle michelangiolesche16.
Nell’arte di Michelangelo i riferimenti caprini sono frequentemente
ricorrenti sia tramite satiri e fauni, sia come protomi di capri, teschi sacri-
ficali ampiamente presenti nelle decorazioni pittoriche17 e scultoree18.
12 È questo uno dei motivi della scelta di Capranica, lungo la via Francigena, come
surrogato alla nativa Caprese: il Petrarca descrive il Castello in due lettere indirizzate al
Cardinale Giovanni Colonna, lontano antenato di Vittoria Colonna. Un altro impor-
tante riferimento è il Monte Caprino (il Campidoglio) completamente trasformato dal
progetto michelangiolesco.
13 Delle influenze michelangiolesche sull’architettura del Palazzo Farnese, eseguito
dal Vignola, ha parlato Guglielmo Villa nel convegno, tenuto nel 2001 a Capranica,
dedicato a “Michelangelo e l’arte nella Tuscia”.
14 Sulla chiesa, e ancor più sul ninfeo, esiste una ricca letteratura che tuttavia non
ha colto, fino ad oggi, i nessi con Michelangelo. Evidenti anche i rapporti con il S. Paolo
e il Ninfeo della vicina Genazzano.
15 Si chiamano “capra” anche un tipo semplice di cavaletti con traversa, mentre
le figure di S. Giovanni Battista coperto di pelle di capra dove sono ben evidenti, gli zoc-
coli (statue marmoree in S. Giovanni dei Fiorentini a Roma, nel museo dell’Escorial, e
nel Museo del Bargello).
IL DIO CAPRINO
Dopo i luoghi delle capre, sono le città il cui nome inizia per Bo e Mi
le più indiziate tra queste Bologna e Bolsena, ma anche Mirandola e
Milano19. Tra gli animali e le cose che iniziano per Bo oppure Bu pos-
siamo citare la botte, la borraccia, il bottone, la borchia, la borsa, la
borra, la bugna, la bozza, il bosco e ancora il bue (o “Bo”, identificati-
vo usato molto spesso), il buco, il burchio (barchetta)20. Vanno bene
tutte le parole che iniziano con Bon- o Buon-; a questo proposito va
notato il gioco di parole e di immagini tra Buona-rota (come da molte
fonti cinquecentesche è citato il cognome di Michelangelo) e Buona-
rotta (riferita alla navicella a vela giustamente diretta)21.
Ma è nel campo delle persone amiche o con le quali è entrato uffi-
cialmente in contatto, siano essi committenti, artisti, allievi o semplici
conoscenti, che la percentuali di nomi che iniziano con Bo e Bu sale
in modo realmente significativo, nell’arco dell’intera esistenza del
maestro. Qui Michelangelo ha sicuramente forzato il caso, cercando
un accostamento con nomi che potessero ricordarlo anche e soprat-
tutto nell’eventualità, molto frequente, di una sua partecipazione non
palese ad opere commissionate ad altri artisti. Questa forte personaliz-
zazione nominalistica che coinvolge il cognome ha disseminato la bio-
grafia michelangiolesca di personaggi a volte inspiegabilmente dimessi
o insignificanti e di aiuti non all’altezza, ma anche di grandi persona-
lità che lo hanno aiutato senza avere con l’artista apparenti legami.
C’è da chiedersi se questa assonanza tra cognomi stesse a cuore sol-
tanto a Michelangelo, oppure se si trattasse di una pure generica attra-
zione reciproca, dovuta almeno in parte ad un orientamento epocale
propenso a dar credito e fondamento reale (oggi si direbbe: scientifico)
ai nominalismi. Una componente di questo tipo certamente dovette esi-
stere, in quanto l’artista, uomo della sua età e attentissimo ai problemi
architetto (1490-1500), Vetralla 2001; riproposto in “Civiltà del Rinascimento”, 19, 2002,
pp. 62-68. A queste città si può aggiungere, per lo scambio fonetico tra b e v, anche
Volterra (dove numerose sono le tracce del maestro, a partire dalla splendida pala com-
missionata a Domenico Ghirlandaio e conservata presso il Museo Civico (Guidoni,
Sigle ..., cit.).
20 Vedi i riferimenti sparsi nei lavori gia citati E. Guidoni, Michelangelo. Nel segno
faceva chiamare, ha un particolare significato anche sul piano della ripresa sulla scia
dell’Alberti degli studi metrologici e proporzionali dell’antichità.
23 Non è qui possibile ovviamente elencare per ogni artista citato i motivi di contatto con
Michelangelo; del resto l’elenco è enormemente più esteso (basta pensare al Buontalenti, a
Paris Bordon ecc.) e l’argomento è meritevole di un sistematico approfondimento.
24 Si tratta come è noto della Pietà e della Flagellazione conservate nel Museo Civico
di Viterbo.
25 Il frutto della collaborazione tra i due artisti sono gli affreschi in S. Pietro in Montorio.
IL DIO CAPRINO
Borromeo si può ricordare il vano tentativo di evitare la condanna delle nudità nel
Giudizio michelangiolesco durante le ultime fasi del Concilio di Trento.
28 Non è solo la città che interessa Michelangelo ma anche coloro che dalla città (o
te notevole la quantità di riprese sia sul piano formale che su quello dei temi ricorrenti.
30 È probabile che proprio a Vasari deve riconoscersi il ruolo di organizzatore in que-
sto gruppo, e anche, come vedremo, dei riferimenti geografici che alludono all’area aretina.
31 La collaborazione con Michelangelo, all’epoca del movimento milanese al
Medeghino, sfocia come è noto alla medaglia a lui dedicata, prova realmente unica di
intima amicizia e di incondizionata reciproca fiducia.
32 L’amicizia tra i due, terminata con le divergenze relative al Giudizio, è comunque
tuale del movimento e del gesto; qui in una sorta di coincidentia oppo-
sitorum, la donna vivente e la donna allegorica partecipano misteriosa-
mente della stessa realtà resa visibile dall’arte. Non è altrettanto sem-
plice la ricostruzione del percorso che ha condotto alla scelta di un
modello vivente – questa volta materiale e mondano – anche per la
Vita Attiva. Gli attributi della statua (face, corona di alloro) suggeri-
scono che si tratti, in realtà, della Fama, che di una vita positivamente
attiva può essere la conseguenza attesa e sperata tra i mortali.
Scomponendo la parola in sigle iniziali (Fa-Ma) si perviene a identifi-
care una donna assolutamente imprevedibile, ma assai famosa all’epo-
ca della creazione della statua e alla quale Michelangelo ha dedicato
due brevi componimenti poetici: Fa-ustina Ma-ncini .
La non perfetta simmetria tra le due soluzioni nominalistiche esco-
gitate dall’artista fa intravedere la faticosa e perfezionistica tensione
verso una soluzione coerente che, per non essere ulteriormente suscet-
tibile di lavorazione concettuale, si presenta come definitiva. Questo
apparentemente tortuoso avvicinarsi alla verità (che in questo caso
appare accuratamente nascosta) si presenta tuttavia come una scelta
assoluta e oggettiva, che può aver addirittura influenzato la determi-
nazione improvvisa, tutta michelangiolesca, di illustrare le virtù di
Giulio II con le due statue femminili. E infatti, a sostegno ulteriore
delle identità di Faustina Mancini come Vita Attiva (cioè come Fa-Ma)
si aggiungono altre circostanze, tra le quali ci interessa segnalare quel-
la, prioritaria, del cognome del marito condottiero appartenente alla
famiglia, per definizione destinata all’attivismo, degli Att-av-anti.
Quest’ultimo elemento, considerata l’antica conoscenza tra
Michelangelo e Attavante degli Attavanti, famoso miniatore che aveva
fatto parte della commissione per la sistemazione del David nel 1503-
04, può essere ragionevolmente determinante come prima motivazio-
ne della scelta definitiva del tema e del personaggio34. È comunque da
sottolineare, come nelle due statue che affiancano simmetricamente il
Mosè, interpretandone in qualche modo la duplice natura, si realizzi
compiutamente quella identificazione nominalistica con personaggi
della vita reale che l’artista ritiene indispensabili sia per conferire una
più intensa significazione all’opera d’arte sia per riproporre sempre e
comunque se stesso, come creatore, al centro di ogni scelta e di ogni
attenzione. Ciò avvalora notevolmente, tra l’altro, la natura di autori-
34 Ibid., p. 332.
ENRICO GUIDONI
35
E. Guidoni, Il Mosè di Michelangelo (1970), 2a ed. Roma-Bari 1982.
36
Anche per il termine divino applicato a Michelangelo si rinvia alle numerose
osservazioni contenute nelle opere citate. Da notare che prima di lui erano stati in diver-
se occasioni “artisti divini” Leonardo, Perugino e Filippino Lippi.
37 In Palazzo Te a Mantova, vedi le figure di divinità acquatiche sulla sinistra della
sentazione dell’Atalanta di Pietro Aretino inventato dal Vasari nel (1542). (Lettera a
Ottaviano de’ Medici, in G. Vasari, Le Vite..., a cura di G. Milanesi, Firenze 1906, vol.
VIII, pp. 283-287).
39 I due Colossi, provenienti probabilmente dal Quirinale, sono posti davanti all’in-
gresso del palazzo dei Conservatori nel 1517; sono ritenuti personificazioni di Nilo e
Tigri (precedentemente sono citati come “Nettuni” oppure “Bacco e Saturno”), fino a
che nel 1527 Andrea Fulvio li identifica nel Tigri e nel Tevere.
ENRICO GUIDONI
40 Vedi ad esempio la rappresentazione dell’Arno che dona fiori e frutti al Tevere nel-
l’apparato per i funerali di Michelangelo (14 luglio 1564); mentre già nell’apparato per
le nozze di Francesco de’ Medici e Giovanna d’Austria l’Arno abbraccia la Sieve e si esal-
tano solo gli “Etruschi” (Vasari, Le Vite..., cit., vol. VIII, p. 532). Ma già nell’affresco vasa-
riano in Palazzo Vecchio rappresentante l’ingresso trionfale di Leone X a Firenze i due
giganti non sono Arno e Tevere, ma Arno e Appennino (che, peraltro, è padre anche del
Tevere), a sottolineare il primato solo fiorentino (ivi, p. 145).
La codificazione michelangiolesca di Arno e Tevere come simboli di Firenze e Roma
e soprattutto del primato dell’Arte potrebbe datarsi ai Fiumi della Sacrestia Nuova di S.
Lorenzo che, secondo Gandolfo Porrino (testimonianza di Benedetto Varchi, 1549)
avrebbero dovuto essere solo due, Arno e Tevere: S. Androsov, U. Baldini (a cura di),
L’adolescente dell’Ermitage e la Sacrestia Nuova di Michelangelo, Firenze 2000, p. 85 (Scheda
di M. Marongiu sul Dio fluviale di Casa Buonarroti).
Stephen Halliwell
* Significa molto per me dedicare questo saggio alla memoria dell’amico Gianni Carchia.
1 F. Nietzsche, Aurora, a cura di G. Colli, F. Masini, Adelphi, Milano 2001, pp. 125-
2 Che Nietzsche possa considerare la pietà come non virile è indicato per esempio dal
(KSA 2: 173-4) per l’ammirazione nietzschiana alla critica platonica della tragedia. Più
subliminalmente Nietzsche potrebbe riferirsi alla critica verso il pubblico del teatro tra-
gico in Isocrate 4.168 e Andocide 4.23 (vedi il mio The Aesthetics of Mimesis, pp. 213-4),
dove la sensibilità alla pietà tragica è accoppiata con la crudeltà fuori dal teatro, sebbene
con riferimento al quarto secolo, non all’Atene eschilea.
STEPHEN HALLIWELL
Euripide in La nascita della tragedia 11: per l’influenza delle Rane in quest’area vedi M. S.
Silk, J.P. Stern, Nietzsche on Tragedy, Cambridge 1981, pp. 36-37, 207.
LA “FORZA DEMONICA” DELLA TRAGEDIA
5 Vedi il mio Aesthetics of Mimesis, pp. 216-18, con le note 29 e 32, come il mio libro
Aristotle’s Poetics, London 1998 (II ed.), pp. 168-201, per un resoconto più completo.
STEPHEN HALLIWELL
tesi nel descrivere il potere della poesia, una delle forme del logos
supremamente potenti nella cultura greca:
6 Gorgia, fr. 11.9, in H. Diels, W. Kranz, (a cura di), Die Fragmente der Vorsokratiker,
Dublin 1951 (VI ed.); I presocratici, a cura di G. Giannantoni, tr. it. di M. Timpanaro
Cardini, Laterza, Roma-Bari 1975, II, p. 930.
7 Gorgia, Encomio, frs. 11.8 e 11.10.
LA “FORZA DEMONICA” DELLA TRAGEDIA
pici): vedi 34, 244, 886, 912, 1378. Altrove c’è un riferimento più vago, compatibile con
agenti meno facilmente identificati: vedi specialmente 828, 1193, 1258, 1479. Quando
il coro alla fine pone la domanda su quale daimon ha portato Edipo ad accecarsi, egli
risponde immediatamente “Apollo” (1328-9).
9 KSA 1: 141. Differente ma forse connessa è la ripetuta affermazione nietzschiana
10 KSA 1: 132.
11 KSA 1: 141.
12 KSA 1: 136-7. Si noti anche qui, comunque, la possibile ambiguità nella posizio-
ne di Nietzsche: dire che l’apollineo “lega” la nostra pietà agli individui del mito non
significa asserire che sono (soltanto) le forme apollinee a causare quella pietà in primo
luogo. Infatti NT 21 è compatibile con l’ipotesi che il dionisiaco, rivelando una rapida
visione della “sofferenza originaria”, aiuta a suscitare una pietà che poi diviene unita alle
immagini apollinee del dramma.
STEPHEN HALLIWELL
3: 436), e la nota inedita del 1888 in KSA 13: 409-11. Passi che danno per scontate la
pietà e la paura come emozioni tragiche includono Umano, troppo umano I.212 (KSA 2:
173), a dispetto della critica alla catarsi aristotelica (cfr. n. 16 del mio testo), e NT 17 e
21 (vedi il mio testo più avanti). Altre variazioni nella posizione nietzschiana sulla pietà
includono la sua concezione di Euripide, che viene criticato per un pathos che mira a
risvegliare una trepida pietà e paura (NT 12, KSA 1: 86), ma i cui discorsi dialettici sono
ugualmente biasimati per il fatto che mettono a repentaglio la nostra pietà tragica (NT
14, KSA 1: 94).
14 M. S. Silk, J.P. Stern in op. cit., pp. 270-71, commentano l’oscillazione del tratta-
mento nietzschiano della pietà in NT, ma la loro conclusione che la pietà è esclusiva-
mente apollinea è troppo semplice; cfr. n. 12 e n. 27.
15 KSA 5: 161. Soltanto alcune sezioni dopo, in 229 (KSA 5: 166) Nietzsche riferi-
sce alla cosiddetta sofferenza tragica (“im sogennanten tragischen Mitleid”) un’ulteriore
indicazione del tentativo di distanziarsi dalle versioni convenzionali del concetto.
LA “FORZA DEMONICA” DELLA TRAGEDIA
lica di pietà e paura Nietzsche fluttua nella sua descrizione di quest’ultima tra “Furcht” e
“Schrecken”.) Parte della posizione nietzschiana è qui in fondamentale disaccordo sulla
dinamica psicologica elementare: come Umano, troppo umano I.212 (KSA 2: 173) mostra,
Nietzsche è d’accordo con Platone sul fatto che provare un impulso (emozionale o di altro
tipo) più probabilmente intensifica, e non diminuisce, la sensibilità verso di esso.
STEPHEN HALLIWELL
17 KSA 13: 410. Nietzsche qui esprime soltanto un elemento superficiale di incer-
tezza sul fatto che il concetto aristotelico di catarsi possa essere concepito come una que-
stione di “purgazione” o meno; dà questo per scontato alla fine della stessa nota, come
spesso altrove, sebbene qualche volta parli anche di catarsi come “purificazione” (il
verbo “reinigen”: vedi il passo citato successivamente nel mio testo) e in NT 22 (KSA 1:
142) ammette la discussione se il concetto Aristotelico fosse medico o morale. Non ho
spazio qui per seguire tutte le ramificazioni della visione nietzschiana della catarsi.
18 KSA 6: 160.
19 Aurora 134 (KSA 3: 127-8) ascrive la stessa visione del bisogno di purgazione dalla
473). Questi ed altri passaggi sono regolarmente trascurati nei resoconti sull’atteggia-
mento nietzschiano nei confronti della catarsi, per esempio da W. J. Dannhauser,
Nietzsche’s View of Socrates, Ithaca 1974, p. 116.
21Vedi per esempio NT 10 (KSA 1: 72-3), 16 (KSA 1: 103), 17 (KSA 1: 111), e 21
dionisiaco in NT 4 (KSA 1: 41), 10 (KSA 1: 72) e 21 (vedi il mio testo), come nei tac-
cuini (KSA 1: 565, 594, 620, e 7: 177). L’attitudine nietzschiana nei confronti di que-
st’idea richiede un trattamento separato; parlando in generale, il demonico nietzschiano
rappresenta potenti forze sotterranee della natura (per esempio, la visione del mondo
STEPHEN HALLIWELL
eraclitea in KSA 1: 822), che possono manifestarsi in essere umani eccezionali, incluse
figure differenti come Socrate (NT 12-14, KSA 1: 83, 90, 94) e Wagner (Unzeitgemäße
Betrachtungen IV.7, 9, 10, KSA 1: 466, 485, 498, e KSA 8: 227). Il “demonico” goethiano
(riconosciuto precedentemente nel pensiero nietzschiano in KSA 7.74), esso stesso una
forza vitale amorale, si trova in Dichtung und Wahrheit IV.20. Tra le fonti antiche, è abba-
stanza plausibile, data la sua generale familiarità con l’autore, che Nietzsche conoscesse
De esu carn. 996c, di Plutarco, dove i “Titani” (cfr. specialmente NT 4, KSA 1: 40) sono
intesi allegoricamente come equivalenti dell’irrazionale daimonikon all’interno dell’esse-
re umano.
23 Politica 8.7, 1342a4-11. Non ne consegue che la catarsi aristotelica debba essere
necessariamente intesa o come religiosa o come medica: vedi il mio libro Aristotle’s
Poetics, London 1986 (II ed. 1998), pp. 184-201.
LA “FORZA DEMONICA” DELLA TRAGEDIA
razione (“Entladung”) si noti NT 8 (KSA 1: 62): il coro della tragedia “sich […] in einer
apollinischen Bilderwelt entladet” (si libera in un mondo apollineo delle immagini).
25 Per i due passi vedi KSA 1: 142, 134.
26 Le connessioni che vado facendo sono rafforzate dal fatto che nel frammento del
1888 Nietzsche parla di Socrate come l’antagonista della tragedia e come colui che dis-
solve “jener dämonisch-prophylaktischen Instinkte der Kunst” (questi istinti demonico-
profilattici dell’arte), KSA 13: 228.
27 Sofferenza come parte dell’unità originaria: vedi specialmente NT 4 (KSA 1: 38-
40), 6 (KSA 1: 51). Il coro è “der mitleidende” con Dioniso (NT 8, KSA 1: 63); H.
Staten, Nietzsche’s Voice, Ithaca 1990, p. 15, è con ciò sbagliato dire che Nietzsche riser-
va il termine “Mitleid” per sentimenti apollinei. Anche il pubblico della tragedia può
divenire tutt’uno con le sofferenze dionisiache: NT 8 (KSA 1: 64).
STEPHEN HALLIWELL
dolore (“das ewige Leiden”) come suo proprio28. Così c’è sicuramente
una pietà dionisiaca, sebbene per definizione questa debba essere espe-
rita sotto la coscienza di una pietà “morale” e cognitiva (come si lega alle
forme apollinee dell’eroe e del mito), deve avere con ciò come suo
oggetto la sofferenza che in qualche modo inerisce alla realtà primor-
diale stessa, più che le sofferenze specifiche degli individui tragici, e deve
appartenere a una dimensione dove l’estasi tragica renda necessaria la
fusione tra uomo e uomo e tra uomo e natura29. Il problema che resta a
Nietzsche è di fornire una teorizzazione della pietà dionisiaca evitando
che questa sia assorbita nella pietà (e paura)30 tradizionale della defini-
zione aristotelica della tragedia. Il risultato è una incertezza non risolta
riguardo al punto in cui la pietà apollinea finisce e quella dionisiaca ini-
zia. Quando all’inizio di NT 17 si dice che l’arte dionisiaca convince il
suo pubblico all’eterna gioia dell’esistenza, forzandolo “a guardare nel
terrore dell’esistenza individuale” ma trasformando questa esperienza in
un entusiasmante, in realtà “estatico”, senso di unità con l’ente primo,
Nietzsche scrive che “nonostante paura e pietà (trotz Furcht und Mitleid)
noi siamo coloro-che-vivono-felici, non come individui, ma come una
cosa vivente, con la cui gioia creativa siamo fusi”31. La frase concessiva
“nonostante paura e pietà” ammette ciò che Nietzsche altrove in qual-
che caso nega, la legittimità dell’unione ortodossa di queste due emo-
zioni all’interno dell’esperienza della tragedia, ma lascia anche incertez-
za circa la domanda se la pietà implicata è separata dalla risposta dioni-
siaca alla tragedia oppure ne è un aspetto trasfigurato32. Data l’ampiezza
di queste oscillazioni rispetto allo statuto delle due emozioni e della loro
catarsi, è impossibile ascrivere a Nietzsche una posizione trasparente o
netta sulla pietà, ed è necessario accettare il fatto che parte del “legame
di fratellanza” tragico che egli pone tra Apollo e Dioniso sia precisa-
mente una questione di risveglio emozionale (“Erregung”)33. Ma ho
28 KSA 1: 118.
29 NT 7 (KSA 1: 56).
30 Le mie argomentazioni sulla pietà dionisiaca potrebbero essere applicate alla
paura: per una paura distintamente dionisiaca vedi per esempio NT 2 (KSA 1: 32).
31 KSA 1: 109.
32 Il confronto con il passo dal paragrafo 5 del capitolo “Quel che debbo agli anti-
chi” di Il crepuscolo degli idoli, che ho citato prima, dove Nietzsche colloca l’essenza del
tragico al di là del terrore e della pietà (“über Schrecken und Mitleid hinaus”) nella rea-
lizzazione in sé stessi dell’eterna gioia del divenire (KSA 6: 160), è suggestivo qui, ma
non sostituisce necessariamente una definitiva direzione interpretativa.
33 NT 22 (KSA 1: 141).
LA “FORZA DEMONICA” DELLA TRAGEDIA
VI, t. III, p. 385 (d’ora in poi: Opere cui si fa seguire, in numeri romani, l’indicazione del
volume e del tomo e in cifre arabe quella delle pagine e quindi, eventualmente, del fram-
mento).
2 F. Nietzsche, Scritti autobiografici 1856-1869, tr. it. di M. Carpitella, Adelphi, Milano
1977, p. 133.
3 È quanto Nietzsche riconosce, per esempio, in questo frammento di Umano troppo
umano: “Anche noi, uomini della conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici, conti-
nuiamo a prendere il nostro fuoco dall’incendio che una fede millenaria ha acceso, quel-
la fede cristiana che era anche la fede di Platone, per cui Dio è la verità e la verità è divi-
na” (Opere, V, II, 129).
DIONISO CONTRO IL CROCEFISSO
de più nel tutto. La parola diventa sovrana e spicca un salto fuori della frase,
la frase usurpa e offusca il senso della pagina, la pagina prende vita a spese
del tutto, – il tutto non è più tutto. Ma questa è l’allegoria di ogni stile della
décadence: sempre anarchia atomistica, disgregazione del volere, “libertà del-
l’individuo”, o per dirla con linguaggio della morale esteso a teoria politica,
“diritti uguali per tutti”. […] Il tutto non vive generalmente più: è giustap-
posto, calcolato, posticcio, un prodotto artificiale4.
2. Attualità di un “inattuale”
Tübingen 1978, pp. 2 sgg.; più in generale sulla questione cfr. il repertorio di testimo-
nianze di R.F. Krummel, Nietzsche und der deutsche Geist, vol. I, Ausbreitung und Wirkung des
nietzscheschen Werkes im deutschen Sprachraum bis zum Todesjahr des Philosophen, De Gruyter,
Berlin-New York 1974.
DIONISO CONTRO IL CROCEFISSO
Tra i giovani poeti regnava uno spirito spavaldo. La loro esaltata arroganza
[…] li faceva sentire dei superuomini e dei semidei […]. Perché porre il
superuomo in un lontano futuro come Nietzsche aveva fatto? […]
Nietzsche stesso divenne un mito, un eroe, un creatore di mondi. Ci si
stringeva intorno a lui, lo si idolatrava, si facevano giungere sino a lui inni
di consacrazione. Ma egli conduceva già un’esistenza ottusa e priva di gioia
avvolto nella notte della follia7.
7 H.F. Landsberg, Friedrich Nietzsche und die deutsche Literatur, Leipzig 1902, pp. 89-90,
cit. da B. Hillebrand.
8 Cfr. Opere, VI, III, 307.
FEDERICO VERCELLONE
9 Cfr. H. Röttges, Nietzsche und die Dialektik der Aufklärung, De Gruyter, Berlin-New
di cui cfr. in particolare il capitolo quarto, La ripresa anticristiana dell’antichità all’apice della
modernità, pp. 111-126.
11 Barth, Leipzig 1926.
DIONISO CONTRO IL CROCEFISSO
13 Cfr. C. Andler, Nietzsche, sa vie et sa pensée, vol. II, Gallimard, Paris 19586, p. 118:
Il coro dei Satiri è prima di ogni altra cosa una visione della massa dioni-
siaca, come a sua volta il mondo della scena è una visione di questo coro
di Satiri19.
l’eccitante incertezza circa quello che sarebbe avvenuto poi, ma piuttosto su quelle gran-
di scene di pathos, ampiamente costruite, in cui il fondamentale carattere musicale del
ditirambo dionisiaco di nuovo risonava possentemente” ( KA, III, II, 32-33).
19 Opere, III, I, 58.
FEDERICO VERCELLONE
Atto primo: Empedocle rovescia la statua di Pan che gli rifiuta la risposta:
egli si sente proscritto20.
e il 1871. Sono contenuti in F. Nietzsche, Werke, III, III, Berlin-New York 1978, pp. 129-
130 e 243-247; qui p. 129.
DIONISO CONTRO IL CROCEFISSO
E sapete che cos’è per me “il mondo”? Ve lo devo mostrare nel mio spec-
chio? Questo mondo: un mostro di forza, senza principio e senza fine, una
salda, bronzea massa di forza, che non diviene né più grande né più picco-
la, che non si consuma ma soltanto si trasforma, in complesso di grandez-
za immutabile, un’amministrazione senza spese né perdite, ma del pari
senza accrescimento, senza entrate, un mondo attorniato dal “nulla” come
dal suo confine, nulla che svanisca, si sprechi, nulla di infinitamente esteso,
ma come una forza determinata è collocato in uno spazio determinato, e
non in uno spazio che sia in qualche parte “vuoto”; piuttosto come forza
dappertutto, come giuoco di forze e onde di forza esso è in pari tempo uno
e “plurimo”, che qui si gonfia e lì si schiaccia, un mare di forze tumultuan-
ti e infurianti in se stesse, in perpetuo mutamento, in perpetuo riflusso, con
anni sterminati del ritorno, con un flusso e riflusso delle sue figure, pas-
sando dalle più semplici alle più complicate, da ciò che è più tranquillo,
rigido e freddo a ciò che è più ardente, selvaggio e contraddittorio, e ritor-
nando poi dal molteplice al semplice, dal giuoco delle contraddizioni fino
al piacere dell’armonia, affermando se stesso anche in questa uguaglianza
delle sue vie e dei suoi anni, benedicendo se stesso come ciò che ritorna in
eterno, come un divenire che non conosce sazietà, disgusto, stanchezza:
questo mio mondo dionisiaco del perpetuo creare se stesso, del perpetuo
distruggere se stesso, questo mondo di mistero dalle doppie voluttà, questo
mio al di là del bene e del male, senza scopo, se non c’è scopo nella felicità
del circolo, senza volontà, se un anello non ha buona volontà verso se stes-
so – volete un nome per questo mondo? Una soluzione per tutti i suoi enig-
mi? Una luce anche per voi i più celati tra gli uomini, i più forti, i più impa-
vidi, i più notturni? – Questo mondo è la volontà di potenza – e nient’altro! E
anche voi siete questa volontà di potenza e nient’altro!22
Negli abissi del regno degli spiriti ci conduce Mozart. Paura ci circonda:
ma senza tormento, essa è più presentimento dell’infinito. Amore e malin-
conia risuonano con voci graziose, la notte del mondo degli spiriti si dis-
solve nel chiaro bagliore purpureo, e con inesprimibile desiderio seguiamo
le figure che seducenti ci invitano a seguirle, volando in eterna danza cir-
colare attraverso le nuvole. (p. es. la sinfonia in Mi bemolle maggiore di
Mozart, conosciuta con il nome di “Canto dei cigni”)5.
3 J.W. Ritter, I frammenti di un giovane fisico. Un libro tascabile per gli amici della natura,
6 Ibid.
ELIO MATASSI
7 Ibid., p. 37.
DEMONICITÀ E ADEMONICITÀ DELLA MUSICA
Sono suoni dai quali il petto, stretto tra terrore e sensazioni dell’immenso,
si libera con violenza; e simile ad una apparizione amorevole, che risplen-
dente illumina la notte trapassando le nuvole, subentra adesso un tema che
nella 59.a battuta della prima parte veniva soltanto sfiorato dal corno in
Mi bemolle maggiore. Prima in Sol maggiore, poi in Do maggiore i violi-
ni declamano alla 8va questo tema, mentre i bassi eseguono una figura
calante, che in un certo senso ricorda l’assieme della 44.a battuta della
prima parte8.
Allo stesso titolo, come un incantevole voce dello spirito, che riem-
pie il petto di consolazione e speranza, risuona il dolce e sempre con-
sistente tema dell’Andante in La bemolle maggiore in 3/8 interpretato
da viola e violoncello. Avviene spesso qui, come nelle sinfonie di
Haydn, che il tema principale venga differenziato in maniera molte-
plice dopo l’inizio delle frasi intermedie.
al tutto. Quei battiti sordi delle loro dissonanze, che sembrano una voce
sconosciuta e tremenda, suscitano i brividi del sovrumano – la paura degli
spiriti9.
Gli accordi finali sono regolati in maniera speciale; poiché dopo l’accordo
che l’ascoltatore pensa sia l’ultimo, si susseguono un tempo di pausa, lo
stesso accordo, un tempo di pausa, ancora l’accordo, un tempo di pausa,
poi per tre battute in ognuno in quarti di note una sola volta l’accordo, un
tempo di pausa, l’accordo, un tempo di pausa, Do unisono attaccato dal-
l’orchestra intera. Il completo acquietamento dell’animo provocato da più
figure finali allineate, viene annientato da quegli accordi singolarmente
9 Ibid., p. 47.
10 M. Giani, Lo sguardo di Euridice. La V di Beethoven, in AA.VV., Van Beethoven. Le sinfo-
nie e i concerti per pianoforte e orchestra, a cura di A.L. Bini, Skira, Milano 2000.
DEMONICITÀ E ADEMONICITÀ DELLA MUSICA
intonati nelle pause, che ricordano gli attacchi singoli nell’Allegro della
sinfonia, di nuovo soppressi tal che l’ascoltatore è per via di questi ultimi
accordi di nuovo preso dall’ansia. Questi agiscono come un fuoco che si
pensava estinto e che nuovamente divampa alto e fiammeggiante11.
Per custodire dunque i sentimenti sono state fatte diverse e belle inven-
zioni, così sono nate tutte le arti. Ma io ritengo la musica come la più
meravigliosa di queste scoperte, poiché essa rappresenta i sentimenti umani in
una maniera soprannaturale, ci mostra incorporeamente, al di sopra del
nostro capo, rivestiti in nuvole d’oro di leggiadre armonie, tutti i movi-
menti del nostro animo; poiché la musica parla una lingua che noi non
conosciamo nella vita ordinaria, l’abbiamo imparata non sappiamo dove e
come, e soltanto e si potrebbe credere che essa sia la lingua degli angeli14.
Egli non poteva far nulla a causa di questo frastuono, niente poteva intra-
prendere; la violenta angoscia, che lo affaticava in un lavoro senza riposo,
gli impediva di vedere o di udire qualunque cosa, come se la terribile ruota
girasse e rigirasse nell’aria con un gran fragore, con un potente rombo di
vento in tempesta, fino ad arrivare alle stelle e più su16.
13Ibid., p. 124.
14W.H. Wackenroder, I miracoli della musica, in Id., Scritti di poesia e di estetica, cit., p.
113. I corsivi sono miei.
15 W.H. Wackenroder, La meravigliosa favola orientale di un santo ignudo, in Id., Scritti di
Dalla barca una musica eterea saliva ondeggiando nell’ampiezza del cielo:
dolci corni o non so quali altri incantevoli strumenti suscitava un mondo
nuotante di suoni, e nelle note, che ora salivano ora scendevano a ondate,
si poteva distinguere il seguente canto:
17 Ibid., p. 108.
ELIO MATASSI
tico della musica assoluta: J.W. Ritter, in Aa.Vv., Arte, Natura, Storicità, Luciano editore,
Napoli 2000, pp. 147-152.
DEMONICITÀ E ADEMONICITÀ DELLA MUSICA
... un tale attraversa la strada e dalle nuvole gli appare, inclinata verso di
lui, una carrozza con quattro cavalli. In un’altra occasione ode invece
risuonare dalle nuvole una voce che gli dice: ‘Hai dimenticato a casa il tuo
portasigarette’. Se nell’analisi di entrambi i casi non è presa in considera-
20G. Carchia, Nome e immagine. Saggio su W. Benjamin, Bulzoni, Roma 2000, p. 127.
21S. Mosés, L’ange de l’histoire. Rosenzweig, Benjamin, Scholem, Seuil, Parigi 1992, p. 135.
22 W. Benjamin, Sull’apparenza, in Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, tr. it. di A.
23 Ibid., p. 261.
24 La Disposizione. Per ‘le Affinità elettive’ si trova in Il concetto di critica..., cit., pp. 268-271.
25 W. Benjamin, Le Affinità elettive di Goethe, cit., p. 238.
DEMONICITÀ E ADEMONICITÀ DELLA MUSICA
Ogni idea è un sole, e il suo rapporto con le altre idee è come un rapporto
fra altrettanti soli. Il risonante (tönende) rapporto fra queste sfere è la verità27.
26Ibid., p. 253.
27W. Benjamin, Premessa gnoseologica al Dramma barocco tedesco, tr. it. di F. Cuniberto,
Einaudi, Torino 1999, pp. 12-13 (trad. it. modificata).
ELIO MATASSI
* In una conversazione avuta con Gianni Carchia nel marzo del 1995 si parlò di paesaggio e
fiorì il tema del mutamento e del suo demone. In queste pagine ho voluto sviluppare delle rifles-
sioni ispirate a quella conversazione.
RAFFAELE MILANI
1 Su questi temi si veda: D.L. Carmichael, Sacred Sites, Sacred Places, Routledge,
1993.
5 K. Kerényi, Dionysos. Urbild des unzerstorbaren Lebens (1976), tr. it. Dioniso. Archetipo
riflessioni sui confronti prospettati: R. Caillois, Les démons de midi (1937), tr. it. I dèmoni
meridiani, Introduzione di C. Ossola, Bollati Boringhieri, Torino 1988; J. Campbell, The
Masks of God. Creative Mythology (1968), Mondadori, Milano 1992; I.P. Couliano,
Expériences de l’extase (1984), tr. it. Esperienze dell’estasi, Laterza, Roma-Bari 1986; I.P.
Couliano, Out of the World (1991), tr. it. I viaggi dell’anima, Mondadori, Milano 1991; R.
Calasso, La letteratura e gli dei, Adelphi, Milano 2001; G. de Santillana, H. von Dechend,
Hamlet’s Mill. An Essay on Myth and the Frame of Time (1969), ed. it. a cura di A. Passi, Il
Mulino di Amleto. Saggio sul mito e la struttura del tempo, Adelphi, Milano 1983; J. Ferguson,
Among the Gods (1989), tr. it. Fra gli dei dell’Olimpo. Un’indagine archeologica sulla religione della
Grecia antica, Laterza, Bari 1991; R. Graves, Greek Myths, tr. it. I miti greci (1955), Longanesi,
Milano 1963; K. Kerényi, Die Mythologie der Griechen (1958), tr. it. Gli dei e gli eroi della Grecia,
Garzanti, Milano 1984; S. Larsen, The Mythic Imagination (1990), tr. it. L’immaginazione miti-
ca, Pratiche, Parma 2001; G. Pugliese Carratelli (a cura di) Le lamine d’oro orfiche. Istruzioni
per il viaggio oltremondano degli iniziati greci, Adelphi, Milano 2001; J. Seznec, La survivance
des dieux antiques (1980), tr. it. La sopravvivenza degli antichi dei. Saggio sul ruolo della tradizio-
ne mitologica nella cultura e nell’arte rinascimentali, Bollati Boringhieri, Torino 1981; J.P.
Vernant, Les origines de la pensée grecque (1962), tr. it. Le origini del pensiero greco, Editori
Riuniti, Roma 1976. Tra gli studi di antropologia sociale segnalo il prezioso Indigenous
Traditions and Ecology. The Interbeing of Cosmology and Community, a cura di J.A. Grim,
Cambridge (Massachusetts) 2001, distribuito da Harvard University Press per il Center for
the Study of World Religions Harvard Divinity School.
RAFFAELE MILANI
2002, p. 135. Sul tema della ninfa ringrazio, per i suoi preziosi suggerimenti, Paola Goretti
di cui segnalo, in corso di stampa per “Schede umanistiche” il saggio Il problema dell’antico
nelle mode del Quattrocento: le vesti “alla ninfale” .
10 G. Charbonnier, Entretiens avec C. Lévi-Strauss in A. Roger, a cura di, Nus et Paysages,
diversa dalla sua natura d’albero e così via. La realtà del sacro è per
Eliade la realtà invisibile del numinoso e per ciò stesso costituisce qual-
cosa d’ineffabile11. A riprova di ciò ricordiamo che, nel cosiddetto “giar-
dino di Afrodite”, Saffo mostra l’epifania della dea con la malìa del-
l’ambiente naturale e allo stesso tempo presenta una vertigine sinesteti-
ca. In un incantato sacrario di alberi e profumi scopriamo l’aura del
naturale e del numinoso, dell’esperienza sensibile e della sacralità.
Altrove, nell’Edipo a Colono, primo stasimo, vv. 668-719, assistiamo a
un’estesa epifania della natura: l’ambiente spontaneo, sede degli dei,
convive con quello produttivo dell’uomo. È una celebrazione dell’Attica
e ovunque la divinità è presente.
In tempi recenti si legge il demone del mutamento in rapporto all’e-
spressione di una forza interiore. Wordsworth, nella testimonianza
moderna di una trascendenza della natura, dichiarava di aver dato una
vita interiore a ogni forma della natura: roccia, frutto, fiore, pietra. Egli
vedeva tutto ciò immerso in un’anima palpitante, contemplando così la
vita di ogni cosa, attento alla trasformazione della natura come “lo sono
le acque al mutare del cielo”. In tal modo si comprende quel “contatto
eterno” per il quale ci si accorge del mondo attorno a noi che è nostro
e che noi stessi abbiamo fatto, perché esiste soltanto per noi e per il “Dio
che ci guarda”12. Non lontano da questo spirito, R.M. Rilke in una sua
lettera del 16 luglio 1903, invitava a riflettere sulla “voluttà della carne”
come cosa della vita dei sensi allo stesso modo che lo sguardo puro:
un’esperienza senza limiti, una conoscenza piena e splendida di tutto
l’universo, esperienza della carne e dello spirito dietro cui si apre il sen-
timento della poesia generatore delle forme. Il nostro sguardo, teso al di
là dei limiti della conoscenza, mostra “albe nuove, nelle quali l’ignoto ci
visita: L’anima, spaurita e pavida, tace; tutto s’allontana si fa una gran
calma e l’inconoscibile si erge, silenzioso”13.
11 M. Eliade, Traité d’histoire et des religions (1970/5), tr. it. Trattato di storia delle religioni,
d’Ombra, Conegliano 1999. Nella direzione di un’analisi della bellezza naturale dobbia-
mo segnalare anche altri importanti studi di Carchia: Retorica del sublime, Laterza, Roma-
Bari 1990; L’estetica antica, Laterza, Roma-Bari 1999.
15 Sulla natura come geroglifico si veda F. Schlegel, Dritter Nachtrag alter Gemahlde, in
Gemahlde alter Meister, hrsg. von H. Eichner und N. Lelles, Darmstadt 1984, p. 165.
16 G. Carchia, Per una filosofia del paesaggio, in Estetiche della natura, “Quaderni di
420-422.
DEMONI DEL MUTAMENTO
agiscono, ma egli riconduce la sua poesia alle Muse che sono presenti
dappertutto e hanno visto tutto e quindi sanno tutto. Questo sapere
non è l’autocontemplazione degli Indiani, ma si riposa su un vedere che
rivolge coraggiosamente gli occhi all’esterno. La lucidità di questo sguar-
do diretto sul mondo esterno è, continua Snell, una caratteristica gene-
rale dell’antica Grecia: così anche gli dèi, ogni cosa bella e grande è, per
gli uomini di Omero, una “meraviglia a guardarsi”.
Tuttavia questo confronto, pur così preciso e utilissimo, pare un po’
schematico. Se ci caliamo infatti nella dinamiche comparate della crea-
zione mitologica, possiamo notare consonanze con il nostro discorso
sulla lingua universale della natura Nella dottrina induista, per esempio,
la danza di Siva esprime il demone della creazione come mutazione per-
manente. Siva è il Danzatore cosmico e, nella sua manifestazione dan-
zante, incarna e esprime l’Energia Eterna. Le forze che si concentrano e
si proiettano nel suo incessante movimento frenetico sono i poteri del-
l’evoluzione, del mantenimento e della dissoluzione del mondo. Come
ha dichiarato H. Zimmer18, essa (danza) è la tensione esistente tra
Eternità e Tempo, paradosso dell’Assoluto e del Fenomenico, del Sé
immortale e della Psiche peritura, del brahman-atman e della maya. Qui
l’invisibile e il visibile sono in quintessenza la stessa cosa, senza dualità
e senza fine. Anche nel taoismo abbiamo conferma dell’incessante atti-
vità della creazione e del mutamento che ci rende consapevoli del fatto
non siamo mai vivi e non siamo mai morti19. Per cogliere possibili ricor-
renze, comparazioni e analogie, sempre nell’idea panteista di un demo-
ne della trasformazione, esiste un testo dal quale partire, il Corpus
Hermeticum (Trattato XIII, 20) nel quale ci si rivolge alle potenze che
sono nell’uomo per cantare l’uno e il tutto attraverso il fuoco, l’aria, la
terra, l’acqua, il soffio, attraverso tutto ciò che è creato. L’ermetista salva
se stesso attraverso quella rinascita interiore che gli è garantita dall’illu-
minazione celebrando al contempo unità e molteplicità20.
Lungo i secoli maturano una sensibilità e una concezione del
mondo nelle quali troviamo un chiaro proiettarsi dell’io nel mito,
lungo una catena indissolubile di cambiamenti: La natura in quanto
natura si fonde con la natura in quanto lingua, sede di trasformazione
18 H. Zimmer, Myths and Symbols in Indian Art and Civilisation (1946); tr. it. Miti e sim-
21 M. Eliade, Le sacré et le prophane (1965); tr. it. Sacro e profano, Boringhieri, Torino 1973.
DEMONI DEL MUTAMENTO
22 K. Kerényi, Die Gottin Natur (1945); tr. it. Miti e misteri, Bollati Boringhieri, Torino
mezzo agli alberi, una caverna dove nulla è creazione d’arte, ma dove il
genio della natura l’ha imitata. Ecco il nodo da dibattere: l’uomo rico-
nosce alla natura lo statuto dell’arte, la quale appare frutto dell’ingegno,
della sua interna “abilità” a creare cose che destano stupore, meraviglia.
Ma proprio continuando quel racconto, dallo scenario del paesaggio s’a-
pre una scena terribile che ci riporta ai temi della personificazione e non
personificazione, al tema del demone del mutamento: la trasformazio-
ne di Atteone in cervo per l’ira di Diana. Ci troviamo in questo caso
dinanzi a una forza che parte dalla volontà o dai sentimenti degli dei (in
risposta all’invocazione, all’insulto degli uomini, all’amore del dio come
nel caso di Apollo per Giacinto tramutato in fiore). Il demone, per la sua
posizione intermedia, designa qui l’azione stessa della divinità, porta a
effetto l’ordine del dio. Nella metamorfosi di Atteone, l’acqua lanciata-
gli contro da Artemide perché l’ha vista nuda, è uno strumento del cam-
biamento per contatto. Anche Demetra usa uno strumento simile per far
compiere la mutazione: offesa da un fanciullo villano che la deride, gli
lancia contro il suo modesto pranzo, un liquido dolce misto a polenta;
il fanciullo, al contatto, si trasforma in geco. In tanti altri casi, il coman-
do è diretto, senza strumenti. Si pensi a Cadmo e ad Armonia trasfor-
mati in serpenti, a Niobe in roccia, Filomela in usignolo, Procne in ron-
dine, Tereo in upupa, Polidette e Eineo in pietra, Antigone in cicogna,
le Pieridi in gazze, Enoe, regina dei pigmei, in gru, Eco dissolta in suono.
In questo caso l’amore è lo strumento della metamorfosi. “Colpita dal
disprezzo di Narciso, (Eco) si nascose nel bosco e si nascose vergogno-
sa… l’affanno non le permetteva di dormire, dimagriva… l’amore le
restò confitto nel cuore e alimentava di delusione l’essere stata respin-
ta… L’umore del corpo si disperdeva nell’aria, le ossa…”. Poi Asclepio
nella costellazione del Serpentario, Smirna in un albero di mirra da cui
uscirà Adone ecc. Anche la trasformazione di Narciso, colpito dalla ven-
detta divina di Nemesi, è il risultato di un sentimento. L’amore dunque
è lo strumento del Daimon del cambiamento: “Senza saperlo si inna-
mora di sé e si applaude: è contemporaneamente soggetto e oggetto del
desiderio, accende il fuoco e ne è arso. Quanti baci dà alla fonte! Quante
volte immerge nell’acqua le braccia per cingere quel collo ma non riesce
ad allacciarlo… come la bionda cera si scoglie a una leggera fiamma o
come svanisce al sole la brina mattutina, così il giovanetto, macerato dal-
l’amore si dissolve bruciando lentamente nel fuoco nascosto” (Ovidio,
III, versi 430 e sgg.).
Prodigi delle metamorfosi per effetti della potenza del demone.
Interessante notare poi, tra il mito e la conformazione del paesaggio, un
RAFFAELE MILANI
25 J-P. Vernant, L’Univers, les Dieux, les Hommes. Récits grecs des origines (1999), tr. it.
L’universo, gli dèi, gli uomini. Il racconto del mito, Einaudi, Torino 1999.
Notizie sugli autori
Monica Ferrando, pittrice e studiosa di estetica, era sposata con Gianni Carchia
dal 1987.
La regressione dell’ascolto
Forma e materia sonora nell’estetica musicale contemporanea
a cura di Silvia Vizzardelli
Arte e daimon
a cura di Daniela Angelucci
Silvia Vizzardelli
Battere il Tempo
Estetica e metafisica in Vladimir Jankélévitch
Finito di stampare nel dicembre
dalla Grafica Editrice Romana srl, Roma