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Estetica e critica

Arte e daimon
A cura di Daniela Angelucci

Estetica e critica | Quodlibet


Collana fondata da Gianni Carchia e Vittorio Stella
Comitato scientifico: Daniela Angelucci, Paolo D’Angelo, Alberto Gessani,
Miriam Iacomini, Paolo Marolda, Elio Matassi, Vittorio Stella, Silvia Vizzardelli

©  Quodlibet
Via Padre Matteo Ricci,  -  Macerata
www.quodlibet.it

ISBN ---

Volume pubblicato con un contributo dai fondi di ricerca interuniversitaria %,


⁄. Cofinanziamento MIUR – Dipartimento di filosofia, Università di Roma Tre.
Indice

 Introduzione
DANIELA ANGELUCCI

 Il discorso senza voce


MONICA F ERRANDO

 Etimologia e mitologia del “daimon”


F LAVIO CUNIBERTO

 Amore demonico e amore divino nella “Vita nuova”


ALBERTO GESSANI

 “Daemonica machinamenta” tra Platone e l’Umanesimo:


a partire da un passo del commento di Ficino al “Sofista”
TEODORO KATINIS

 Posseduti e ossessi durante la Riforma cattolica: il


“Baculus Daemonum” di Carlo Olivieri
PATRIZIA CASTELLI

 Il dio caprino. Luoghi, persone e concetti nel nominalismo


individuale di Michelangelo
ENRICO GUIDONI

 Socrate, Shakespeare e la Vergine maria. Genialità e cri-


stianità del daimon nell’interpretazione di Johann Georg
Hamann
LORENZO LATTANZI
 La “forza demonica” della tragedia e le sue tracce antiche
nel pensiero di Nietzsche
STEPHEN HALLIWELL

 Dioniso contro il Crocefisso. Considerazioni su di


un’antitesi ironica
F EDERICO VERCELLONE

 Demonicità e ademonicità della musica. La filosofia


della musica dei romantici (E.T.A. Hoffmann, W.H.
Wackenroder, J.W. Ritter) e W. Benjamin
ELIO MATASSI

 Demoni del mutamento


RAFFAELE M ILANI

 Notizie sugli autori


Daniela Angelucci

Introduzione

Nella storia del pensiero, ed in particolare nella riflessione estetica, il


tema del daimon si inserisce a partire da prospettive filosofiche, epoche
ed autori tra loro profondamente differenti, rivelandosi multiforme ed
al contempo conservando alcuni elementi costanti, connessi alla sua
origine antica. Nell’antichità il daimon è movimento intermedio, nesso
che unisce l’umano e il divino, così come emerge nelle figure del mito
e nei dialoghi platonici: l’Eros del Simposio, creatura di mezzo tra gli dei
e i mortali, è ignorante e sapiente, povero e ricco al tempo stesso; la sua
natura demonica non è nell’attitudine alla fusione tra i due mondi, ma
nel movimento e nello scambio tra di essi. Ancora, il daimon è agente
dell’irrazionale, operatore che turba la psiche, stato d’animo e passione
in sé, ed anche destino, sorte dell’uomo in quanto rivelazione del suo
carattere più intimo, secondo la celebre sentenza eraclitea “ethos anthro-
po daimon”. Già nel pensiero antico risulta evidente il profondo legame
del daimon con l’arte e con il mistero della creazione poetica: nel Fedro
platonico la poesia è mania, possessione che, dall’esterno, invade l’ani-
mo umano, delirio ispirato dalle Muse; nello Ione l’immagine della cate-
na di magneti, rappresentando la forza dell’ispirazione che emana dalle
Muse agli entusiasti, qualifica la mimesi poetica come accadimento
oltreumano, che non cade sotto il dominio del poeta, ora fuori di sé,
presso il dio.
Se con l’affermazione del cristianesimo la sfera del demonico si indi-
vidua soprattutto come antagonista del divino, portatore del male e del
peccato, nella modernità alcuni elementi della sua declinazione classica
vengono recuperati e insieme trasformati, per lo più convertendo quel-
lo slancio verso l’ulteriore, già presente e operante nel significato anti-
co, in una nozione quasi psicologica, la cui radice è insita nell’interio-
rità dell’anima. In questo senso, il tema del daimon, in accordo con la
sua connotazione destinale, si connette con quello della malinconia,
 DANIELA ANGELUCCI

della follia, e si fonde inevitabilmente, nella riflessione romantica, con


la questione del genio, dell’artista come creatore assoluto. Ad accomu-
nare questi concetti è il loro carattere liminare, ambiguo, di ‘soglia’, la
dialettica tra dipendenza e slancio assoluto, la tensione tra la consape-
volezza dell’invalicabilità del limite e l’insoddisfazione per il finito che
immancabilmente muove a superarlo.
Lungo questa linea, e le molte altre direzioni che da questa si dispie-
gano – a partire da una prospettiva filologica, o filosofica, come anche
da una considerazione descrittiva, storico-artistica –, prendono le mosse
i saggi qui raccolti. Non potendo, né volendo esaurire la ricchezza e la
complessità di un concetto che possiede etimologicamente la capacità
di frammentarsi, di irradiarsi, si tratta piuttosto di coglierne tratti signi-
ficativi, sfumature poco indagate, suggestioni e reciproche influenze tra
autori ed ambiti differenti, di misurarsi infine con un tema che rivela la
sua incidenza e vitalità in modo particolare nell’incontro con la sfera
dell’arte.
Ad aprire il volume è una ricognizione delle diverse modalità di
significato del termine daimon, ricognizione che trova il suo avvio dal-
l’indagine del nucleo etimologico: dal verbo daio, ‘dividere’, ‘distribui-
re’, ma anche ‘bruciare’, ‘divampare’, deriva così l’idea della dissemina-
zione, della frammentazione del divino nelle molteplici potenze inter-
medie, ma anche quella di un prodigioso balenare, un lampeggiare che
meraviglia e suscita stupore, preludendo così ai caratteri propri del genio
moderno (Cuniberto). L’idea antica del daimon come medium tra l’u-
mano e l’ulteriore è a fondamento dell’interpretazione della figura di
Amore, come guida e messaggero divino, offerta nel saggio sulla Vita
Nuova di Dante: il demone Amore, nella sua diversificazione dialettica
delle tre visioni descritte nel testo, è maestro non perché trasmette una
dottrina, ma in quanto, alla maniera platonica, guida verso il bene, il
bello, l’eterno. Concludendo con il riconoscimento della demonicità
della poesia stessa di Dante, poesia che guarda al reale cercandovi un
significato più alto, viene inoltre colto qui uno dei nessi che più inti-
mamente legano i due elementi della nostra riflessione (Gessani). Un
altro aspetto di questo rapporto si rivela nelle pagine dedicate al com-
mento ficiniano di un passo del Sofista platonico: se il dio produce la
realtà, il demone produce immagini. La tematica, cara all’Umanesimo,
della imaginatio viene connessa qui al demonico in maniera non univo-
ca: l’immaginazione può essere stimolata dagli artifici dei demoni, e
insieme manifestarsi essa stessa come demone che opera dall’esterno
INTRODUZIONE 

sull’interiorità dell’uomo. L’individuo stesso, che agisce, in una sorta di


emulazione del dio, nel mondo intermedio delle immagini, possiede
dunque una natura demonica, ma al contempo è soggetto ad una forza
che sfugge al suo controllo (Katinis). Al tema della possessione demo-
niaca nel trattato seicentesco del canonico lateranense Carlo Olivieri, ed
alla osservazione delle immagini in esso riprodotte, è dedicato l’unico
contributo che indaga la questione della demonicità come aspetto inter-
no al cristianesimo (Castelli); un’ulteriore considerazione storico-artisti-
ca dell’argomento è offerta invece a partire dalle opere di Michelangelo,
e in particolare dall’analisi delle persone e i luoghi della sua vita
(Guidoni). L’accezione ‘moderna’ del demonico, sebbene esplicitamen-
te connessa alla sua radice antica, compare nel saggio dedicato alle
Socratische Denkwürdigkeiten di Johann Georg Hamann: il daimon di
Socrate – concetto religioso nel suo trascendimento dell’elemento razio-
nale – viene identificato con il genio, il potere creativo, inscindibil-
mente unito al sentimento e alla consapevolezza della umana
Unwissenheit (Lattanzi). Ben due contributi si occupano poi del concet-
to di dionisiaco proprio del pensiero di Nietzsche: nel primo, che pren-
de le mosse dall’aforisma 172 di Aurora, viene condotta un’analisi della
pietà tragica che, individuandone le fonti antiche, rivela, accanto al
carattere apollineo, attinente all’aspetto cognitivo, anche un elemento
estatico, caratterizzato dalla perdita del controllo di sé (Halliwell); nel
secondo, il motivo della opposizione, elaborata nel corso del pensiero
nietzschiano, tra Dioniso e il cristianesimo viene riconosciuto nella per-
dita, subita da quest’ultimo, delle sue qualità creative, mitopoietiche,
che erano proprie invece della religiosità antica (Vercellone). Di tutt’al-
tro ambito, quello della musica come dimensione in cui il rapporto
demonicità-ademonicità, inteso come corrispondenza tra elemento irra-
zionale e ponderatezza sonora, si occupa invece il contributo incentra-
to sugli scritti musicali dei romantici e di Walter Benjamin (Matassi). A
chiudere il volume è, infine, un’interpretazione del daimon come forza
che domina la visione del paesaggio e la percezione umana della bel-
lezza naturale (Milani).

Alcuni dei saggi qui raccolti sono interventi scritti in occasione di


una giornata di studi tenutasi a Vetralla nell’Ottobre del 2001 in memo-
ria di Gianni Carchia, insieme al quale, programmando la collana
“Estetica e critica”, avevamo scelto il titolo ‘Arte e daimon’. Alla centra-
lità della nozione di demonico nel suo pensiero sono dedicate alcune
pagine di Monica Ferrando.
Monica Ferrando

Il discorso senza voce

Ora, se un pensiero non espresso con suoni, ma pensato,


muove senza fatica un corpo, non dovrebbe essere difficile per-
suadersi che una mente possa essere mossa da una mente supe-
riore e [un’anima] da un’anima più divina con lo stesso contat-
to che il pensiero ha per natura con il pensiero, paragonabile a
quello della luce con la luce riflessa.
Nella realtà infatti acquistiamo conoscenza gli uni dei pensieri
degli altri attraverso la voce, come se brancolassimo nelle tene-
bre. Ma i pensieri che ricevono luce dai demoni rilucono agli
uomini demonici, senza bisogno né dei verbi né dei nomi, che
tra di loro usano gli uomini come simboli per vedere immagini
e raffigurazioni astratte delle cose pensate. Queste invero essi
non le possono conoscere in sé, a eccezione di quegli uomini –
come si è detto – cui appartiene qualcosa di particolare e di
demonico.
… i pensieri dei demoni raggiungono tutti, ma sono percepibi-
li solo alle orecchie di chi è dotato di un carattere sereno e di
un’anima immune da tempeste: uomini che noi definiamo sacri
e demonici.

La parte immersa e portata nel corpo è detta anima; mentre


quella immune da corruzione la maggior parte della gente la
chiama intelletto, ritenendo che sia dentro di loro, al modo che
ritengono essere negli specchi le cose che vi appaiono per rifles-
sione; ma chi ragiona correttamente chiama questa parte demo-
ne, poiché è esterna a loro.

(Plutarco, Il demone di Socrate; questi sono i passi che Gianni


Carchia ha sottolineato nell’opera.)

Per quanto appropriato possa apparire parlare di daimon per ricordare un


filosofo, qualcuno, cioè, che resta spiritualmente presente e vivo anche
quando non appare più fisicamente, quando è ‘scomparso’, non è sol-
tanto da questo pensiero che ci si è lasciati guidare nella scelta del tema,
 MONICA FERRANDO

quanto piuttosto dal fatto che la nozione di daimon sembrava natural-


mente intrinseca ed intima alla filosofia di Gianni Carchia. A questo
tema, tra l’altro, aveva pensato di dedicare un numero monografico della
rivista ‘Quaderni di Estetica e Critica’ da lui fondata insieme a Vittorio
Stella. Nelle ultime parole da lui faticosamente tracciate a prefazione de
L’amore del pensiero, nel presentare la seconda parte del libro, dedicata alla
vita dello spirito, si dice “anche qui ho privilegiato, nei confronti dello
spirito come demonicità – seguendo la traccia di Schelling – il concetto
di anima come Primum passivum”. Nel terzultimo saggio, infatti, che reca
il titolo Indifferenza, eros, amore: la critica dell’essere spirituale nella ‘filosofia
della libertà’ di Schelling, l’idea di daimon compare a definire, nella forma
di commento alla III sezione delle Lezioni di Stoccarda di Schelling, dedi-
cata alla vita dello spirito come psicologia umana, la sfera attiva del
Gemüt, dell’animo, dopo che questo si era già rivelato nella sua condi-
zione passiva e autodistruttiva di Schwermut, di malinconia. Ciò che
caratterizza questo momento della vita dello spirito come seconda
potenza dell’animo, che si contrappone decisamente alla fuga depressi-
va verso il basso della prima potenza dell’animo, è un elemento di irri-
tabilità, di impurità, un carattere affermativo a cui viene, però, a manca-
re ogni innocenza.

Questa determinazione erotico-demonica dell’essere spirituale – scrive


Carchia – lo allontana da qualunque idealizzazione, fino alla fredda consta-
tazione secondo cui ‘chi voglia afferrare il concetto di spirito nella sua più
profonda radice’ ‘dovrà procurarsi una conoscenza speciale dell’essenza del-
l’appetito’ (p. 111).

Su questo punto del commento a Schelling la nozione di daimon


sembra non possa valere altrimenti che per esprimere quell’elemento di
brama, iperattivismo e desiderio di consumare proprio dell’uomo in
quanto spirito che, pur intriso, grazie appunto al daimon, di una conno-
tazione fortemente erotica e dunque animata da un anelito di autotra-
scendimento e di ricerca incessante e perennemente inappagata, lo tiene
strettamente avvinto alla sfera limitativa della personalità.
Le cose cambiano completamente quando tale sfera, di per sé insta-
bile, arbitraria e irrazionale cede il posto a qualcosa di passivo, di
necessario, di ragionevole nel senso alto del termine, a cui poi anco-
rarsi. Si tratta di quella nozione di ‘anima’ – Seele – che Schelling
riprende dalla tradizione mistica per designare il punto più alto delle
facoltà dell’uomo.
IL DISCORSO SENZA VOCE 

Al di là – leggiamo a p. 114 – dell’opposizione dei principi (Grund ed


Existenz), al di là della tensione fra reale ed ideale, al di là, dunque, della dif-
ferenza tra Gemüt e Geist, animo e spirito – ecco la riaffermazione del punto
supremo delle Ricerche – ciò che vi è di assoluto nell’uomo è il suo elemento
impersonale, non condizionato, non relativo, non egoistico. Può sembrare
qui sorprendente che, proprio nel cuore di una teoria deliberatamente antro-
pomorfica di Dio, che ha posto come fondamentale l’esigenza di un diveni-
re e di una storia di Dio affinché esso si caratterizzi come persona, affiori in
ultimo l’istanza sovrapersonale. Il fatto è che se lo spirito in senso stretto è l’e-
lemento propriamente condizionato dell’uomo e il surrogato della sua difet-
tività, l’anima è l’incondizionato nell’uomo, la dimensione normativa del suo
essere personale, che significa soggetto all’errore e al male. Che ‘anche l’uo-
mo più dotato di spirito possa essere senz’anima’ (S.W., VII, 414-415) indica
la dimensione di fatticità, l’elemento affermativo proprio dello spirituale, di
contro alla caratterizzazione dell’anima come valore, e cioè istanza anti-sog-
gettiva e anti-individualistica. Schelling riprende in questo contesto le affer-
mazioni sulla ragione (Vernunft) come Primum passivum in Dio, quali si tro-
vano nel finale delle Ricerche riferendole ora, invece, all’anima.

Questa visione dell’anima come passività, che richiama la passività


dell’Ungrund, del non-fondamento come indifferenza, che descriveva l’a-
simmetrico articolarsi dell’essenza, Wesen, come relazione disgiuntiva di
ideale e reale, Grund ed Existenz, è ripresa da Schelling da una concezio-
ne sofianica della ragione, che si ispira alla ‘Sapienza’ di Salomone e alla
dottrina mistica della Schekhina.

L’anima – scrive Schelling – è ciò che di propriamente divino vi è nell’uomo


e quindi ciò che vi è di impersonale, l’essente vero e proprio, cui l’elemento
personale deve essere sottomesso come non-essente (S.W., VII, 468).
L’anima – commenta Carchia – è l’amore rispetto all’industriosa, febbrile atti-
vità dello spirito, spinta dall’Eros del Gemüt. Il rapporto fra eros e amore è lo
stesso di quello che intercorre fra ricerca e possesso (p. 115).
L’anima – scrive Schelling – è dunque ciò che vi è di impersonale. Lo spiri-
to sa, l’anima invece non sa, perché è essa stessa la scienza. Poiché ha in sé
la possibilità del male lo spirito può essere soltanto buono, cioè esser parte-
cipe della bontà, l’anima invece non è buona, bensì è la bontà stessa (S.W.,
VII, 469).
Il passaggio – commenta Carchia – alla sfera dell’anima rappresenta, dun-
que, il superamento di ogni condizionamento individualistico e personale
caratteristico della vita dello spirito e la ricongiunzione dell’uomo con
l’Assoluto (p. 115).
 MONICA FERRANDO

Appare evidente, da questi brevi stralci, che l’incontro con questi


temi della filosofia schellinghiana consente a Carchia di affermare, anco-
ra una volta, quella ‘filosofia dell’amore’ in cui il Verbo si dona rivelan-
dosi nell’articolazione di un legame libero e universale, “ritmo latente
delle cose del mondo”.
Così come Socrate riusciva a percepire, grazie alla sua ‘semplicità e
schiettezza’, la presenza divina del daimon, che Plutarco definisce pro-
prio “il discorso senza voce”, così, per riuscire a percepire l’articolarsi del
Verbo, dell’amore, occorre accedere – o tornare – a quello stato superio-
re di passività come abbandono, diventare anima: per l’arte, si chiama
ispirazione; per la morale è la non-azione, l’azione distaccata dal suo
frutto, per la filosofia è ragione, ovvero “grazia del pensiero”.
Flavio Cuniberto

Etimologia e mitologia del “daimon”

1. Nel suo saggio su Goethe, Beethoven e il demonico, Luigi Magnani esor-


diva con un’osservazione su cui sembra difficile non consentire. L’idea
di ‘demonico’ che troviamo nell’età di Goethe è tanto estranea al
‘demoniaco’ cristiano – scrive Magnani – quanto è affine invece al
concetto classico di daimon: “una entità misteriosa ed oscura, che ora
s’impone all’uomo dall’esterno, quale misterioso volere divino (moira)
[...] ora assume un più spirituale significato per investire la più intima
natura dell’uomo” e porsi come la più pura essenza dell’anima, il suo
carattere1. È però evidente che questo elemento demonico ha a che
fare in primo luogo col mistero della creazione artistica: è quella
urgenza formale prodigiosa, quella multiformità creativa che l’età
romantica compendia nella figura del genio assumendola quasi come
oggetto specifico di culto. Ora, è improbabile che il daimon classico
rivesta innanzitutto questo significato. Per misurare lo spazio interme-
dio sarebbe necessaria una lunga e paziente ricognizione: qui vorrei
limitarmi a uno sguardo d’insieme sulla semantica di daimon a partire
dal suo nucleo più sfuggente e prezioso, la sua etimologia.

2. Nell’uso omerico il daimon è quello che i latini chiamerebbero il


numen: il divino nella sua accezione impersonale, come pura potenza
a cui la stirpe degli umani è soggetta. Questa potenza che assegna le
sorti individuali si trova raffigurata, nella pittura vascolare, come un
fanciullo alato nell’atto di consegnare al mortale la sua ker in forma di
ghirlanda (dunque non proprio un dio ma qualcosa di intermedio, un
messaggero, un agente del divino)2. E può risultare infine che il daimon
è il destino stesso, la sorte che ci tocca in sorte, quella che ci appartie-

1 Cfr. L. Magnani, Goethe, Beethoven e il demonico, Einaudi, Torino 1976, p. IX.


2 Cfr. ad es. R.B. Onians, Le origini del pensiero europeo, tr. it. Adelphi, Milano 1998, p. 483.
 FLAVIO CUNIBERTO

ne e che ci distingue in virtù di un divino decreto. Quando Plotino


dedica un trattato delle Enneadi al demone “che ci ha avuti in sorte” (o
che abbiamo avuto in sorte), si riferisce appunto a questa accezione
individuale, alla singola ‘sorte’ che è uscita dalla ‘lotteria’ del Destino
(ma che poi non ha nulla di accidentale perché, secondo il racconto
platonico a cui Plotino si richiama, questa sorte o daimon viene “scel-
ta” dall’anima al momento del giudizio ultraterreno)3. La celebre sen-
tenza eraclitea sul daimon come ‘carattere’ – “ethos anthropo daimon”,
“il d. è per ciascuno il suo carattere” – si trova sulla stessa linea: il dai-
mon è ‘per ciascuno’ il suo ethos, potremmo dire il suo stile, la forma
individuale che lo connota. Dobbiamo allora registrare una prima circo-
stanza curiosa che era già implicita nel passo di Magnani citato all’inizio: il
‘daimon’ è una potenza difficile da localizzare perché la troviamo al tempo stes-
so ‘a monte’ e ‘a valle’. Da un lato è il ‘numen’ che assegna, che distribuisce le
parti (le ‘moiras’), dall’altro è la parte o la porzione che ci viene assegnata.
Lungi dal contraddirsi, le due accezioni descrivono uno spazio unita-
rio che è appunto quello del distribuire o del ripartire. Potremmo pen-
sare al gesto di una mano che si apre, per esempio al gesto della semi-
na. (Se pensiamo alla pagina del Simposio sulla natura del demonico,
questa valenza distributiva corrisponde per così dire all’aspetto discen-
dente della sfera demonica, il cui duplice potere è di “trasmettere agli
dèi le cose che giungono dagli uomini, e agli uomini quelle che giun-
gono dagli dèi” [202e]: la realtà demonica è qui una sorta di pulsazio-
ne, un va-e-vieni; quanto poi al ‘seminare’, il destino del seme è quel-
lo di crescere e di percorrere così verso l’alto quello spazio che l’atto
della semina ha percorso verso il basso; in un passo celebre del Fedro
la spinta ascensiva di Eros è compendiata nell’immagine dell’‘ala’, la
cui crescita la assimila però a un organismo vegetale, ed è quindi un
crescere che presuppone una semina, un seminare).
I dizionari etimologici suffragano ampiamente questa accezione
distributiva e disseminativa del daimon. Il termine deriverebbe infatti
da daiomai, che significa ‘distribuire, dividere’4. Nel linguaggio corren-

3 Cfr. Plotino, Enneadi III, 4 (“Peri tou eilechotos hemas daimonos”). Vale la pena

di notare che il paradosso platonico di un destino o di un carattere che saremmo noi a


scegliere si ritrova, tale e quale, nella Critica della ragion pratica, dove il carattere – a dif-
ferenza del temperamento che è qualcosa di empirico – è in qualche modo l’oggetto di
una scelta etica: si direbbe che Kant trascriva in termini di filosofia critica la scena famo-
sa della Repubblica in cui le anime scelgono il proprio daimon.
4 Cfr. ad es. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, Klincksieck,

Paris 1978, t. 1, p. 246.


ETIMOLOGIA E MITOLOGIA DEL “DAIMON” 

te lo si trova riferito ai pasti o ai banchetti: dais è il “pasto in cui cia-


scuno riceve la sua parte”, e di qui tutta una serie di termini derivati,
come daitron, ‘porzione’, daitros, che è la scure, il coltello, daiterion, che
è il luogo della distribuzione, ecc. (Sullo sfondo si profila una radice
indoeuropea che ritroviamo nel sanscrito dayati, ‘dividere’ ma anche
‘distruggere’, così come ‘lacerare, strappare o straziare’ è il significato
dell’intensivo daizo).
Vi è però un testo classico che anticipa e rinforza, si direbbe, la tesi
dell’etimologia ‘scientifica’ o moderna. Questo testo non è, come si
potrebbe forse pensare, il Cratilo di Platone – che pure dedica al tema del
daimon un passaggio molto denso – bensì le lezioni di Proclo sullo stes-
so Cratilo. Siamo dunque in epoca molto tarda. I daimones sono per
Proclo l’insieme delle potenze intermedie, quelle che “legano insieme la
parte centrale dell’universo e ‘spartiscono’ la potenza divina e la porta-
no avanti fino alle ultime cose. Daisai [da cui daimones] significa infatti
‘distribuire’”5. E ancora: il genere dei daimones è “polydynamon […] kai
polymeres” (ha una moleplicità di risorse e di parti), e la sua capacità di
frammentarsi si spinge fino a quel che vi è di più materiale e di ‘locale’
(merikotaton)6. Quello che vediamo profilarsi è un paesaggio di presenze
numinose, da intendere come ‘frammenti’ o ‘porzioni’ del divino disse-
minate nell’universo7. Se si considera, del resto, che Proclo evoca di con-
tinuo la teologia orfica, è facile vedere in questa frammentazione demonica del
divino un’eco precisa dello ‘sparagmos’: la lacerazione originaria che frammenta
il corpo del dio, e dello stesso Orfeo, spargendone le membra nell’universo (i
“disiecta membra poetae” della tradizione). Si diceva inoltre che daizo, l’in-
tensivo di daio, daiomai, significa appunto ‘lacerare, spezzare’. Abbiamo
dunque, da un lato, una conferma della tesi etimologica moderna, e dal-
l’altro un incremento semantico notevole, connesso alla violenza origi-
naria di quel distribuire e di quel ripartire.

5 Proclo, Lezioni sul ‘Cratilo’ di Platone, a cura di F. Romano, L’Erma di Bretschneider,

Roma 1989, p. 75 (§128).


6 Ibid.
7 Sulla funzione distributiva dei daimones in rapporto al divino cfr. anche ibid., p. 98

(§174): “e queste potenze, mentre nel dio Apollo esistono in modo unitario e trascen-
dente, nei generi a noi superiori che si accompagnano al dio esistono per partecipazio-
ne e in modo diviso, così ad esempio esistono molte popolazioni di angeli e demoni ed
eroi tutti di ordine medico, che dipendono direttamente da Apollo, e molte altre di ordi-
ne mantico e musico […] che si spartiscono in maniera differenziata e divisa le potenze uni-
tarie del dio” (angeli, demoni ed eroi valgono qui come specie del genere daimon nella sua
accezione più ampia).
 FLAVIO CUNIBERTO

Certo è che, nell’orizzonte di Proclo, questa frammentazione del divi-


no passa in primo luogo attraverso il linguaggio, la parola, o meglio ancora il
nome e i nomi (e si torna così all’orfismo). “Il nome venerando si slancia
nei mondi – dicono gli Oracoli caldaici – in un turbinio incessante”8,
come un movimento elicoidale lungo il quale il nome si moltiplica
generando altri nomi. I daimones hanno la funzione di rivelarli, e coin-
cidono anzi in qualche modo con i nomi stessi e il loro rivelarsi: essi
appaiono “ai più fortunati” svelando loro “i nomi connaturati alle
cose” e “rendono più manifesta la verità delle cose”9. L’epifania del dai-
mon è l’epifania di un nome in cui si manifesta l’essenza della cosa.
Un’essenza nominale che è a sua volta un ‘simbolo’ ovvero un ‘seme’
dell’intelletto divino gettato nel mondo. “I padri dell’universo, nel
dare esistenza al tutto, seminano in ogni cosa segni e tracce della pro-
pria sussistenza, poiché la natura immette nei corpi una scintilla del
proprio carattere”10. Quando si parla dei nomi e della valenza demo-
nica dei nomi bisogna pensare però alle lingue storiche concrete. I
nomi divini “si estendono a tutte le lingue e procedono fino a noi [...]
portando a conoscenza degli uomini quanto in essi vi è di luminoso
[phanon] [...] e di questi nomi chi partecipa in un modo e chi in un
altro”, ossia le varie lingue sono luoghi diversi della stessa epifania11.
La varietà delle lingue opera una sorta di diffrazione luminosa, i nomi si fran-
gono in una varietà che è al tempo stesso di lingue e di luoghi: “i daimones che
hanno ricevuto in sorte gli uomini abbracciano nella loro semplicità
pasan ten poikilian ton ethon [= l’intera varietà dei caratteri], e nella loro
identità il mutamento delle forme”12. Gli dèi climatarchi – ma forse si
potrebbe dire i ‘demoni’ climatarchi, ossia le potenze che presiedono
ai vari ‘climi’, ai vari luoghi – amano essere chiamati “nei dialetti delle
proprie regioni”, ecc.13
La traccia etimologica sta aprendo uno scenario complesso. Il fran-
gersi dei nomi divini nella varietà delle lingue corrisponde al frangersi
del divino nella varietà ‘demonica’ (poikilia) dei luoghi e delle forme
locali, o delle atmosfere. Partendo dall’idea di ‘spartizione’ (dai-omai)
si è pensato per esempio a un nesso etimologico tra daimon e demos
(Pauly-Wissowa), che significa ‘popolo’, certo, ma che designa in origi-

8 Ibid., p. 20 (§52).
9 Ibid., p. 72 (§122).
10 Ibid., p. 30 (§71).
11 Ibid., p. 32 (§71).
12 Ibid., p. 36 (§75).
13 Ibid., p. 25 (§57).
ETIMOLOGIA E MITOLOGIA DEL “DAIMON” 

ne le ‘porzioni’ territoriali dell’Attica. Il demos diventa così il nume


tutelare di una collettività radicata in un paesaggio e in una lingua,
ossia lo ‘spirito del popolo’ (per usare con forte anacronismo un’e-
spressione moderna), e il genius loci ne sarà per così dire una sottospe-
cie. In questo rapporto con le lingue e con i luoghi (dove la lingua e il
luogo sono in profondità la stessa cosa), spetta un ruolo importante
all’elemento aereo: l’aria sembra essere l’elemento col quale i daimones
hanno maggiore dimestichezza. Gli dèi, dice ancora Proclo, “comuni-
cano agli uomini il significato delle cose [...] configurando l’aria secon-
do il proprio volere”, e questo perché l’aria è “più plasmabile della
cera” e più adatta a ricevere le impronte divine sotto forma di rumori
e di voci14. Se l’aria è il mezzo elastico più adatto al propagarsi del
suono e quindi della voce, essa è però anche, nello stesso tempo, l’e-
lemento fisico in cui si imprime più sottilmente la qualità di un luogo
(quella che noi chiameremmo la sua ‘aria’ o la sua ‘atmosfera’). Ne tro-
viamo ad esempio una conferma in epoca cristiana nella teoria agosti-
niana dell’eroe come demone del luogo, che ‘impregna’ della sua presenza l’aria
in cui si respira e si vive (va da sé che nella prospettiva di Agostino questa pre-
gnanza demonica dei luoghi è la quintessenza del paganesimo: e infatti all’eroe
pagano come ‘genius loci’ si contrappone il martire cristiano come eroe univer-
sale senza legami di luogo)15.

3. La riflessione sulla valenza demonica dei luoghi e del luogo (ossia


del paesaggio) potrebbe portare molto lontano. Vi è però un secondo
aspetto che per le sue implicazioni etimologiche ci interessa in questo
14 Ibid., p. 36 (§77).
15 Cfr. Agostino, De civ. Dei X, 21; cfr. anche J. Ratzinger, L’unità delle nazioni,
Morcelliana, Brescia 1973, p. 99. L’associazione anche etimologica tra demos e daimon
apre la strada a quella che sarà la dottrina cristiana degli arconti come ‘angeli dei popo-
li’ (per esempio in Origene). Qui il problema sarà: se sia legittimo pensare che il divino, Dio,
si distribuisce in una varietà di forme locali, o se questo distribuirsi non sia puramente e semplice-
mente un retaggio pagano. Secondo Origene la funzione degli arconti è perlopiù negativa,
puro frutto della caduta: “La missione di Israele, che si compie nella Chiesa, è pertanto
quella di condurre l’umanità al rimpatrio, dall’ordinamento degli arconti – cioè dall’or-
dinamento nazionale – nell’ordinamento dell’unico Dio, che abbraccia tutti i popoli e
le lingue” (ibid., p. 50). È vero peraltro che il culto cristiano dei santi ripropone aspetti
decisivi del culto reso a demoni ed eroi: il santo ha una funzione mediatrice ed è lega-
to a un luogo, le sue reliquie proteggono la comunità, tutto ciò che lo riguarda possie-
de un ‘carisma’, una potenza attiva, che l’iconografia riassume nella formula del nimbo,
l’aureola luminosa.
 FLAVIO CUNIBERTO

momento anche di più. Si è visto come in Proclo la funzione diffe-


renziante del demonico rivesta una spiccata qualità luminosa: si parla
di poikilia, di una multiformità variopinta, si parla delle ‘scintille’
impresse nell’universo come semi nominali, e dei ‘bagliori’ o delle
‘irradiazioni’ di cui i demoni sono i supporti. In altre parole, l’idea del
‘distribuire’, del ‘frazionare’ e ‘frammentare’ non esaurisce affatto la
semantica del daimon, e non la esaurisce nemmeno all’interno di un
testo come quello di Proclo che sembra orientato coerentemente sul-
l’etimologia del distribuire. A leggere con attenzione il passo decisivo
si scopre del resto che la voce verbale citata da Proclo è la forma atti-
va di daiomai (daio, daisai), il cui significato è a rigore così diverso da
configurare un ambito semantico a sé.
Il campo semantico di ‘daio’ converge intorno al tema del fuoco o della
fiamma: dais,-idos significa ‘torcia’, ‘fiaccola’, dadis è una festa notturna
illuminata dalle fiaccole, una ‘fiaccolata’, mentre il senso abituale di
daio è ‘accendere’, ‘bruciare’ o anche ‘divampare’. Tutto fa pensare che
la semantica di daimon assorba, per una sorta di osmosi, i valori con-
nessi a questo ambito che è non solo l’ambito della luce, ma di una
luminosità dai tratti peculiari. Molto istruttivo in questo senso è l’ag-
gettivo daiphron, che ricorre con frequenza nei poemi omerici come
epiteto eroico. La sua vicinanza alla forma avverbiale dai (che significa
‘in battaglia’) suggerisce agli etimologisti di attribuirgli un significato
‘guerresco’. Ma il problema andrebbe in realtà rovesciato, ossia: perché
l’espressione dai significa ‘in battaglia’ o ‘nella mischia’? Quando
Ulisse viene definito daiphron (Il, 11, 482) il contesto non è per nulla
guerresco, e l’aggettivo è rafforzato e chiarito dall’epiteto ulissico poiki-
lometen: ‘dall’ingegno variopinto’ ossia ‘versatile’, come il polytropos
dell’Odissea. Come se si alludesse alla capacità della phren, della
mente, di piegarsi in molti sensi, a un suo intrinseco polimorfismo, a
una agilità che non sarebbe improprio definire ‘mercuriale’16.
Ritroviamo insomma nel prefisso dai quell’idea di poikilia, di
varietà multiforme, a cui accenna Proclo quando attribuisce ai daimo-
nes la poikilia ton ethon, la ‘varietà dei caratteri’. E la versatilità che è nel-
l’uso omerico del termine va intesa certo in senso intellettuale (come

16 Nel passo del Cratilo dedicato all’etimo di daimon, Platone si richiama ad Esiodo,

ma non si vede perché non dovrebbe pensare anche a Omero: “li chiamarono daimonas
perché erano phronimoi kai daemones” (398b). Il daimon ha dunque una relazione stret-
ta con la phronesis e più in generale con la phren, la ‘mente’; non ci sarebbe da stupirsi se
Platone utilizzasse qui una sorta di sciarada per suggerire il termine omerico dai-phron.
ETIMOLOGIA E MITOLOGIA DEL “DAIMON” 

nel caso di Ulisse), ma anche in un senso più primitivo e originario:


anche Achille è daiphron, e lo è in quanto è il ‘piè veloce’, la sua agilità
è così sovrumana da risultare quasi ubiquo (come se attraversasse il campo di
battaglia ‘alla velocità della luce’, ‘in un baleno’). È l’agilità della fiamma
(dais, -idos è la fiaccola, la torcia), che ‘guizza’ assumendo le sembian-
ze più varie (è probabile del resto che la valenza guerresca del tema dai
sia connessa al ‘balenare’, al ‘lampeggiare’ metallico delle armi nella
confusione vorticante del campo di battaglia). Troviamo così all’interse-
zione dei due campi l’idea di una varietà luccicante, balenante, guizzante, l’i-
dea di una ‘poikilia’ prodigiosa che cattura lo sguardo e suscita stupore, ammi-
razione (uno stupore a cui non è estraneo il fascino misterioso della fiamma).
Per usare una formula sintetica potremmo dire che il demonico distribuisce, o si
distribuisce balenando17.
Questi connotati luminosi del daimon – una luminosità che ricor-
da il bagliore della fiamma – si ritrovano del resto nella semantica
parallela di genius. È noto che daimon e genius si corrispondono pres-
soché esattamente in tutta la varietà dei loro significati: come il dai-
mon, anche il genius è il nume tutelare, il custode (come nel caso di
Socrate) ma può essere una potenza legata ai luoghi (il genius loci), o
designare infine una qualità propriamente intellettuale, la ‘genialità’ in
senso moderno. Ora, il lessico di genius presenta un rapporto costante
con la fiamma e la luce, a cominciare dal nimbo, l’aureola luminosa o
fiammeggiante che avvolge la testa dei predestinati, gli uomini geniali
o demonici. Non è il caso di portare esempi che potrebbero moltipli-
carsi all’infinito, se non forse per ricordare l’episodio di Servio Tullio,
il cui genio retorico è annunciato dalla comparsa notturna di una fiam-
ma intorno alla testa del bambino: Cicerone, ricordando l’episodio nel
De republica (II 21, 37), parla della “scintilla ingenii” (la scintilla del-
l’ingegno o del genio) che “già splendeva” nel futuro re di Roma. Noi
parleremmo anche del ‘fuoco sacro’, o più semplicemente (ma nello
stesso senso) di una ‘testa lucida’ come connotato della genialità.
L’uomo daimonios è in questo senso l’uomo ‘geniale’, portatore di
una luce o di un ‘lampo’ che lo distingue dall’umanità ordinaria:
secondo la concezione pitagorica arcaica, come la troviamo per esem-

17 È difficile non attribuire al prefisso dai questa valenza ammirativa che oscilla tra

il prodigio reale e il prodigio fittizio (la particella dai esprime ammirazione, stupore,
anche nel linguaggio corrente, e daimonios significa tra l’altro ‘meraviglioso, sorpren-
dente’, con sfumatura anche ironica al vocativo; cfr. E. Brunius-Nilsson, Daimonie, an
inquiry into a mode of apostrophe, Almqvist & Wiksells, Uppsala 1955).
 FLAVIO CUNIBERTO

pio in Empedocle, le anime demoniche sono tracce del divino sparse nei vari
regni viventi, e Pitagora ne è appunto il prototipo18. Vi è insomma, nella
demonicità, un aspetto residuale, come di traccia luminosa, in cui convergono
fino a coincidere le due semantiche di cui si è parlato finora: quella del dissemi-
nare e quella della luce o della fiamma. E torna prezioso a questo punto
l’excursus ‘demonico’ del Cratilo, dove i daimones vengono presentati
da Platone come ciò che resta della stirpe aurea. Quando l’età dell’oro
tramonta, e l’umanità aurea sparisce dalla faccia della terra, le tracce
che ne restano sono appunto i daimones, come il luccichio che ancora
si intravede al suo tramonto19. Se c’è qualcosa di chiaro nel passo del
Cratilo è che Platone mette in relazione i daimones con la polarità del-
l’oro e dell’argento, dei metalli preziosi, il cui connotato più evidente
è una qualità visiva, il luccicare.

4. Questo carattere residuale del daimon porterebbe molto lontano:


perché la cosiddetta ‘demonizzazione’ del pantheon greco-romano
operata dal cristianesimo ha a che fare precisamente col sopravvivere
delle potenze olimpiche in forma però di residui, di tracce indebolite
e in questo senso ‘demoniche’. Pochi hanno visto questo tratto del
demonico con la chiarezza e forse la chiaroveggenza di Walter
Benjamin: gli dèi del mondo classico, ridimensionati a parvenze balu-
ginanti, possono uscire da un profumo o dalla piega di un abito: “(e si
tratta sempre della boccetta più moderna, del taglio all’ultimissima
moda; sempre il medium di questo dominio arcaico è ciò che è più ele-
gante e più effimero). E mai come in queste ore ci sembra di avere
intuito che forse una porta segreta conduce dalla cella del tempio di
Apollo a Calcide nella classe di disegno del Bauhaus” (GS II 2, 625)20.
Benjamin non esita a riconoscere che questa visione del mito classico
ha il suo precedente specifico nel Padri della Chiesa o in almeno in
alcuni di essi, quelli capaci di scorgere l’“affiorare ermetico, rapido
come l’ombra, dei modelli greci ai carrefours della storia della salvez-
za”21. E poi ancora quella che sembra una definizione imbattibile del

18 Cfr. K. Kereny, Pythagoras und Orpheus. Präludien zu einer künftigen Geschichte der

Orphik und des Pythagoreismus, Rhein-Verlag, Zürich 1950, pp. 18, 22-23. Cfr. anche M.
Détienne, La notion de daimon dans le Pythagorisme ancien, Les Belles Lettres, Paris 1963.
19 Cfr. Platone, Cratilo 397c-399c.
20 W. Benjamin, Gesammelte Schriften II 2, 625.
21 Ibid.
ETIMOLOGIA E MITOLOGIA DEL “DAIMON” 

demonico: “Sono lenti cangianti [= i daimones] attraverso le quali bale-


na il lumen supranaturale”22. I passi di Benjamin meriterebbero un com-
mento puntuale. Qui interessano soprattutto le immagini: le lenti can-
gianti, il lampeggiare chiaroscurale e imprevedibile.

5. La nostra ricognizione etimologica è venuta fissandosi, come si dice-


va, su un’idea di varietà luccicante e guizzante, una poikilia prodigiosa
che cattura lo sguardo e suscita stupore (l’elemento dello stupore appa-
re ad esempio in primo piano nell’aggettivo daimonios, dove lo stupo-
re può piegarsi a una sfumatura ironica). Il campo semantico che pare
riassumere alla perfezione questa idea di varietà e di mobilità prodi-
giosa è però quello che si riferisce alla figura mitica di Dedalo, il pro-
totipo dell’artefice, il costruttore del Labirinto. Daidalos viene dalla
voce verbale daidallein, ‘modellare con arte’, che non ha nulla da spar-
tire con l’etimo di daimon se non quel misterioso prefisso dai che ha
funzionato fin qui da filo conduttore. L’etimologia scientifica lo inten-
de come un semplice raddoppiamento del tema verbale (un tema dal,
del, dol, affine al latino dolo, ‘intagliare nel legno’, ma anche a dolum,
‘inganno’), ossia come una particella semanticamente vuota o quasi
vuota; ma la pregnanza di quel dai (in daimon, daiphron, dais ecc.) sug-
gerisce che le cose non sono così semplici: è come se anche in daidal-
lo affiorasse, per osmosi, il baluginio peculiare di una fiamma irre-
quieta (la fiamma di daio; è probabile che la valenza distributiva di
daiomai – che è quella del nostro ‘dare’ – entri come ingrediente anche
in daidalos, portandosi dietro, esattamente come nel caso di daimon, la
valenza apparentemente lontana e diversa della fiamma e della luce).
Che cos’è; in effetti, l’‘arte’ di Dedalo? È un’abilità manuale dai
connotati prodigiosi che lo apparentano ad Efesto, il fabbro mitico, e
al mondo del fuoco come elemento del fabbricare, del forgiare. Quando
Ulisse lavora al famoso letto di quercia, il verbo usato da Omero è dai-
dallein: è un intarsio di oro e d’argento (Od. XXIII, 200). L’elemento
‘dedaleo’ (daidaleos) è insomma lo scintillio dei metalli preziosi che suscita
ammirazione, la varietà preziosa o lussuosa di una superficie scintillante, un
luccicare che abbaglia: come nel caso di un ‘miraggio’, quando si scam-
bia per uno specchio d’acqua il riflesso ingannevole e cangiante di una
superficie deserta. L’elemento dedaleo contiene un’allusione all’inganno che
nella leggenda di Dedalo trova ampia conferma. Alle statue fabbricate
22 Ibid.
 FLAVIO CUNIBERTO

da Dedalo viene attribuita – come alle creazioni di Efesto – la facoltà


di muoversi e di parlare, o meglio la facoltà apparente di muoversi e di
parlare: Dedalo è un fabbricatore di automi o piuttosto di pseudo-
automi, la sua abilità di artefice sconfina nella magia illusionistica (il tema
dol che sarebbe incorporato in Daidalos è lo stesso del latino dolum: ed
è lo stesso gioco linguistico del fingere, nei due sensi del plasmare e del-
l’ingannare, un plasmare ingannando)23.
Abbiamo scoperto, fin qui, che il prefisso dai è di una straordina-
ria pregnanza (e una ricerca bene attrezzata finirebbe per individuare
una radice da- in cui tendono a convergere tutti i significati di cui stia-
mo parlando). Ora, proprio la semantica di daidalos contiene un’acce-
zione molto peculiare su cui è necessario soffermarsi. L’aggettivo dai-
daleos significa infatti “variegato” anche nel senso di una pelle animale
‘chiazzata’, ‘maculata’ (come la ‘gaetta pelle’ della lonza incontrata da
Dante nella selva oscura del canto primo dell’Inferno). O meglio anco-
ra come quella di un cervo o di un capriolo.
Un passo dell’Iliade (XVIII, 590 sgg.) accenna per esempio a un cho-
ros variopinto, costruito da Dedalo per Arianna24. Si è pensato a una
specie di pista da ballo, o a una specie di labirinto ‘circolare’. Ma in che
senso ‘variopinto’? Forse variopinto vuol dire in questo caso variegato
o chiazzato: qualcosa come il gioco dell’oca, o come una scacchiera:
uno spazio suddiviso in caselle e destinato a un gioco rituale.

6. Che questa idea del chiazzato, del maculato, della superficie ‘a scac-
chi’, sia connessa proprio alla radice da- e alle sue varianti, risulta in
modo sorprendente da un’altra famiglia semantica, quella che ritrovia-

23 Nella Haggadah ebraica Dedalo sembra avere un parente stretto – quasi un equi-

valente funzionale – nella figura di Enos, il figlio di Set che è anche il primo fabbrica-
tore di statue. Come Dedalo, anche Enos costruisce delle statue con una parvenza di
vita: “ma quando prese a soffiare entro l’immagine appena modellata, Satana vi entrò,
la figura si mise a camminare”. Affascinati, gli spettatori del prodigio “si traviarono die-
tro di essa”. Con Enos ha dunque inizio l’idolatria. Una delle sue conseguenze fu che
“nelle generazioni successive i volti degli uomini non furono più a immagine e somi-
glianza di Dio, come Adamo, Set e Enos, ma divennero simili a centauri e scimmioni, e
i demoni non ebbero più timore dell’uomo […]. Allora la Shekinah decise di abbando-
nare la terra e di salire al cielo, tra gli squilli e i clangori di tromba di innumerevoli schie-
re celesti” (L. Ginzberg, Le leggende degli ebrei, tr. it. Adelphi, Milano 1995, vol. 1, pp. 123-
125). Enos, come Dedalo, è il creatore del primo golem. Cfr. anche M. Delcourt,
Ephaistos ou la lègende du magicien, Les Belles Lettres, Paris 1957.
24 Cfr. Pauly-Wissowa, Realencyklopädie der Altertumswissenschaften, vol. 4, col. 1998, s.v.
ETIMOLOGIA E MITOLOGIA DEL “DAIMON” 

mo ad esempio nella parola ‘daino’. Non solo il daino è, come il cervo,


il capriolo, il cerbiatto, un animale dal manto chiazzato, ma la sua eti-
mologia risale al latino classico dama o damma (‘gazzella’), passando
attraverso il francese ‘daim’ (il nome scientifico del daino è cervus
dama)25. Abbiamo insomma un etimo dam che indicherebbe le pelle di
un animale grazioso e chiazzato. Come la mettiamo allora con quel
gioco notissimo che è il ‘gioco della dama’? Sappiamo che si gioca su
una scacchiera, una superficie ‘chiazzata’ (come è chiazzato il manto
del daino, che deriverebbe da ‘dama’), ma perché si chiama così?
Perché la pedina diventa una ‘dama’ (come la donna nel gioco degli
scacchi) o perché l’idea stessa della superficie chiazzata, della scacchiera, è in
qualche modo già inclusa nella semantica della ‘dama’, della ‘dame’? 26 Il ter-
mine ‘dama’ fonde i connotati del fiabesco e della bellezza femminile
nel suo aspetto più seducente e al tempo stesso frivolo: un’idea di
‘vanità’ connessa in primo luogo al vestire, agli abiti preziosi e multi-
colori, al luccicare dei gioielli. L’idea insomma della ‘coquetterie’ come
agilità luccicante e un po’ vuota. (Nel commentare il versetto dantesco
sulla lonza dalla pelle maculata, Jacopo della Lana osserva: “Questo
animale è molto leggiero e di pelo maculato a modo di leopardo. Or
mette ello questa leggerezza a somiglianza che la vanagloria legger-
mente sale in lo cuore umano, e per la varietade mette come per varie
ragioni similmente s’accende in lo cuore”)27.

7. Per vie sotterranee, non facili da ricostruire, questa idea di varietà


cromatica baluginante, artificiosa, e della pelle chiazzata come suo
equivalente animale, si condenserà molti secoli dopo il tramonto del-
l’età classica nella figura comica di Arlecchino e del suo ‘mantello’.
Ora, nella storia del teatro popolare la figura di Arlecchino è quella di un
‘demone burlesco’, o meglio: è la figura che, nel folklore del medioevo cristiano,
compendia l’intero universo demonico come residuo vagante del paganesimo.
Questo universo è la cosiddetta ‘gente di Arlecchino’, il corteo che lo
segue nelle sue scorribande assumendo fisionomie svariate ma sempre

25 Cfr. A. Prati, Vocabolario etimologico italiano, Multigrafica editrice, Roma 1969, p. 352.
26 Il sostantivo ‘damier’ – e l’equivalente italiano ‘damiere’ – significa scacchiera, ma
è anche il nome comune della ‘procellaria capensis’ (l’‘uccello delle tempeste’), così chia-
mato per le sue ali ‘a scacchi’ (cfr. A. Prati, Vocabolario, cit., p. 353).
27 Dante, Divina Commedia, a cura di Giuseppe Vandelli, Hoepli, Milano 1983, p. 5,

nota 32.
 FLAVIO CUNIBERTO

connesse a un’idea di irrequietezza, di mobilità cangiante e caotica,


spesso di frastuono28. La ‘masnada’ di Arlecchino viene associata ai
fuochi fatui29, o alle anime del purgatorio come un corteo di spiriti
burloni trasportati dal vento. Arlecchino è il loro capo, l’eroe eponimo
della masnada. È un demone dell’aria e un diavolo comico30, i suoi
tratti distintivi sono “i movimenti continui, rapidi e svariati del corpo
non avvezzo alla terra”, e insieme la maschera o la smorfia subumana.
E sarebbe interessante ripercorrere la storia del costume e della
maschera, che nasce come un‘accozzaglia di pelli animali multicolori
per poi diventare, nella Commedia dell’Arte, un abito ricoperto di
toppe colorate informi – come stracci – e infine cucito con “pezzi di
stoffa multicolori, rossi e azzurri, gialli e verdi, tagliati in forma trian-
golare”31. Ad ogni modo, non è certo un caso che questa fantasmago-
ria burlesca (e demonica) si trovi associata – come in un testo mora-
leggiante di Huon de Mery – alla vanità femminile nelle sembianze di
Dame Coquetterie (la Dama Frivolezza)32, mentre Chrétien de Troyes,
descrivendo l’abilità di Filomele, le attribuisce la facoltà di riprodurre
sulla stoffa “i disegni colorati dei fiori e gli arabeschi della seta [...] le
pieghe scintillanti della seta e perfino la gente di Arlecchino”33. E ancora
in Adam de la Hale (1262) troviamo Arlecchino come “il gran princi-
pe del regno delle fate”, o delle “dame”, un guizzare di figure cangian-
ti e irrequiete.
La figura variopinta del demone burlesco si pone dunque alla con-
fluenza esatta dei due campi semantici di cui si è fin qui parlato: a)
quello di daimon, inteso nelle due accezioni dello spartire o del fram-
mentare e del balenio luminoso; b) quella di daidalos e del ‘dedaleo’,
inteso a sua volte nelle due accezioni apparentemente lontane del
‘chiazzato’, del ‘maculato’, e dell’artificio illusionistico, della magia
illusionistica. La figura di Arlecchino è come un misterioso luogo geo-
metrico che sintetizza tutti questi significati tramandandoli sulle scene
del teatro popolare. Se volessimo stringere ancora meglio questo
‘luogo’ potremmo parlare di una bravura senza costrutto, di una fan-

28 Cfr. per tutta la questione O. Driesen, Der Ursprung des Harlekin. Ein kulturgeschi-

chtliches Problem, A. Duncker, Berlin 1904.


29 Cfr. ibid., p. 33. Troviamo ad esempio la “maisnie” di Arlecchino nel Renard le nou-

vel del 1288.


30 Cfr. ibid., p. 57.
31 Ibid., pp. 184-185.
32 Cfr. ibid., p. 36.
33 Ibid., p. 32.
ETIMOLOGIA E MITOLOGIA DEL “DAIMON” 

tasmagoria che abbaglia e poi si spegne (il folklore conosce un’altra


figura eminente di questa Stimmung: è il ‘fuoco d’artificio’, il razzo che
si frastaglia in un fascio di tracce multicolori per poi ricadere come il
fantasma di un albero variopinto).
Come sempre, al folklore sono affidati misteri profondi, e in que-
sto caso il mistero stesso della creazione, scissa in due direttrici antite-
tiche: l’organismo arborescente in cui si articola l’unità della sostanza
(come un raggio di luce bianca che si scinde, attraverso un prisma, nei
colori dell’iride) e la vuota fantasmagoria delle immagini senza sostan-
za, che tanto più sono condannate a vorticare o a ‘piroettare’ quanto
più sono lontane dalla sostanza. Fra l’una e l’altra c’è lo stesso rappor-
to che intercorre, secondo Platone, tra la vitalità esuberante dell’idea e
l’ambigua creatività del Demiurgo: usando abilmente la virtù del
fuoco, il Demiurgo proietta vani fantasmi sulla superficie di una caver-
na buia. È come un fuoco d’artificio, che assomiglia a un albero para-
disiaco e non lo è. Ma il demiurgo non è un dio, e non è nemmeno
un daimon come Eros, che ‘fa crescere’ anche lui l’albero della vita:
assomiglia piuttosto a un daimon decaduto, a quello pseudo-demone
(alato anch’esso), che è la parodia infera di Eros e che riassume nella
Repubblica tutte le potenze dell’illusione34. La sua funzione è di far vor-
ticare il più rapidamente possibile le immagini di ciò che non è, come
uno specchio rotante in cui si riflette la variopinta seduzione dei colo-
ri e delle forme. Anche il daimon, come Arlecchino, è un ‘servitore di
due padroni’.

34 Platone, Resp. 572e-573a.


Estetica e critica
Arte e daimon
A cura di Daniela Angelucci

Estetica e critica | Quodlibet


Collana fondata da Gianni Carchia e Vittorio Stella
Comitato scientifico: Daniela Angelucci, Paolo D’Angelo, Alberto Gessani,
Miriam Iacomini, Paolo Marolda, Elio Matassi, Vittorio Stella, Silvia Vizzardelli

©  Quodlibet
Via Padre Matteo Ricci,  -  Macerata
www.quodlibet.it

ISBN ---

Volume pubblicato con un contributo dai fondi di ricerca interuniversitaria %,


⁄. Cofinanziamento MIUR – Dipartimento di filosofia, Università di Roma Tre.
Indice

 Introduzione
DANIELA ANGELUCCI

 Il discorso senza voce


MONICA F ERRANDO

 Etimologia e mitologia del “daimon”


F LAVIO CUNIBERTO

 Amore demonico e amore divino nella “Vita nuova”


ALBERTO GESSANI

 “Daemonica machinamenta” tra Platone e l’Umanesimo:


a partire da un passo del commento di Ficino al “Sofista”
TEODORO KATINIS

 Posseduti e ossessi durante la Riforma cattolica: il


“Baculus Daemonum” di Carlo Olivieri
PATRIZIA CASTELLI

 Il dio caprino. Luoghi, persone e concetti nel nominalismo


individuale di Michelangelo
ENRICO GUIDONI

 Socrate, Shakespeare e la Vergine maria. Genialità e cri-


stianità del daimon nell’interpretazione di Johann Georg
Hamann
LORENZO LATTANZI
 La “forza demonica” della tragedia e le sue tracce antiche
nel pensiero di Nietzsche
STEPHEN HALLIWELL

 Dioniso contro il Crocefisso. Considerazioni su di


un’antitesi ironica
F EDERICO VERCELLONE

 Demonicità e ademonicità della musica. La filosofia


della musica dei romantici (E.T.A. Hoffmann, W.H.
Wackenroder, J.W. Ritter) e W. Benjamin
ELIO MATASSI

 Demoni del mutamento


RAFFAELE M ILANI

 Notizie sugli autori


Alberto Gessani

Amore demonico e amore divino nella “Vita nuova”

1. Il sonetto Amore e monna Lagia e Guido ed io1, dubbio per il fatto che
due codici lo attribuiscono a Cavalcanti e soltanto uno a Dante2, può
rivelarsi importante quando lo si consideri opera di quest’ultimo; e
importante proprio per il discorso che s’intende fare qui. Pochi dubbi
sulla paternità dantesca, del resto, hanno i più autorevoli editori e com-

1 La Vita nuova e le rime dantesche saranno sempre citate qui dal volume: Dante

Alighieri, Opere minori, Tomo I, Parte I, a cura di D. De Robertis (per la Vita nuova) e G.
Contini (per le rime, il Fiore, il Detto d’amore), Ricciardi, Milano-Napoli 1984. Il testo della
Vita nuova commentato da De Robertis, e qui senz’altro seguito, è quello stabilito da M.
Barbi, La Vita nuova di Dante Alighieri, ed. critica per cura di M. Barbi, Bemporad, Firenze
1932. Si è anche tenuto presente Dante Alighieri, Vita nova, a cura di L.C. Rossi,
Introduzione di G. Gorni, Mondadori, Milano 1999, che riproduce il testo della ed. critica
a cura di G. Gorni: Dante Alighieri, Vita nova, Einaudi, Torino 1996 (edizione che presen-
ta notevoli novità, nella paragrafatura, nella grafia e in numerose lezioni, rispetto a quella
di Barbi). Si farà qui riferimento ai commenti di De Robertis, Contini e Rossi nei volumi
sopra indicati senza altra indicazione che il nome dell’autore e la pagina del luogo ram-
mentato. Delle Rime sarà dato il numero secondo l’ed. Barbi (Ora: Opere di Dante. Rime della
“Vita nuova” e della giovinezza, a cura di M. Barbi e F. Maggini, Le Monnier, Firenze 1956;
Opere di Dante. Rime della maturità e dell’esilio, a cura di M. Barbi e V. Pernicone, Le Monnier,
Firenze 1969) e secondo l’ed. Contini citata sopra (per la prima numero romano, per la
seconda arabo). Per i poeti del Dolce Stil Novo si è usato qui Poeti del Duecento, a cura di
G. Contini, Ricciardi, Milano-Napoli 1960, nel parziale reprint Poeti del Dolce Stil Novo,
Mondadori, Milano 1991. Il commento di Contini a questi testi sarà citato con l’abbrevia-
zione: Contini, Poeti. Il sonetto Amore e Monna Lagia e Guido ed io compare come quinta
delle Rime dubbie (I D.; 59) nell’ed. cit. delle Opere minori, p. 501.
2 A Dante lo attribuisce il cod. Marciano it. IX, 191; lo assegnano invece a Cavalcanti

i codd. Chigiano L.VIII. 305 e Magliabechiano VII. 1060. Si deve dire subito che non è
qui presa in considerazione l’ipotesi, che giudico indifendibile, di G. Gorni, “Guido, i’ vor-
rei che tu e Lippo ed io”, in “Studi di filologia italiana”, XXXVI, 1978, pp. 21-37 (poi, come
Lippo contro Lapo. Sul canone del Dolce Stil Novo, in G. Gorni, Il nodo della lingua e il Verbo
d’Amore, Olschki, Firenze 1981, pp. 99-124), cui si è associato D. De Robertis, Amore e
Guido ed io…, in “Studi di filologia italiana”, XXXVI, 1978, pp. 39-65, poi nella sua edi-
zione delle Rime cavalcantiane (Einaudi, Torino 1986). Su questa ipotesi, che vorrebbe
sostituire a Lapo Gianni, nei luoghi nei quali Dante lo rammenta o vi allude, Lippo Pasci
de’ Bardi, mi riservo di tornare in altra sede.
 ALBERTO GESSANI

mentatori3, dal momento che l’attribuzione a Cavalcanti porterebbe ad


una serie di problemi quasi insolubili – a cominciare dall’individuazio-
ne del Guido che il sonetto rammenta nei vv. 1 e 124 –, mentre la pater-
nità dantesca ne rende pienamente plausibili, come vedremo, molti
motivi. Ma conviene leggerlo subito:
Amore e monna Lagia e Guido ed io
possiamo ringraziare un ser costui
che ‘nd’ha partiti, sapete da cui?
nol vo’ contar per averlo in oblio:
poi questi tre più non v’hanno disio,
ch’eran serventi di tal guisa in lui
che veramente più di lor non fui
imaginando ch’elli fosse iddio.
Sia ringraziato Amor, che se n’accorse
primeramente; poi la donna saggia,
che ’n quello punto li ritolse il core;
e Guido ancor, che n’è del tutto fore;
ed io ancor che ‘n sua vertute caggia:
se poi mi piacque, nol si crede forse.

Sarà utile, prima di tutto, individuare le persone che popolano il


sonetto. Se Guido non è l’autore, il Guido cui ci si riferisce fin dal primo
verso non potrà essere che Guido Cavalcanti, mentre monna Lagia è
sicuramente la donna di Lapo Gianni ed “Amore” sarà probabilmente
senhal di Beatrice5; ed il “ser costui” che viene ringraziato sarà Lapo

3 Cfr. Contini, p. 500.


4 Difficile pensare che possa essere Guido Orlandi; perciò G. Salvadori (Nuove rime di
Dante, in Liriche e saggi, Milano 1933, II, pp. 203-208), volendo attribuire il sonetto a
Cavalcanti, è costretto a vedere operante nel sonetto stesso una sorta di sdoppiamento di
Cavalcanti tra “io” (l’intelletto) e “Guido” (l’anima): il che è quasi necessario, seppure piut-
tosto assurdo anche per le conseguenze nell’interpretazione, una volta che non si voglia
riconoscere la paternità dantesca di questi versi.
5 Nella Vita nuova, in un luogo sul quale ci soffermeremo più avanti, Amore dice a

Dante: “E chi volesse sottilmente considerare, quella Beatrice chiamerebbe Amore per
molta simiglianza che ha meco” (XXIV, 5): ove “sottilmente” indica un livello di riflessione
più profondo sulla figura di Beatrice, qui paragonata alla donna di Cavalcanti, Giovanna.
Cfr. anche gli ultimi due versi del sonetto corrispondente: “Amor mi disse: ‘Quell’è
Primavera’,/ e quell’ha nome Amor, sì mi somiglia” (XXIV, 9). De Robertis, p. 169, riman-
da anche a Deh, Violetta, che in ombra d’Amore (Rime, LVIII; 12), v. 1, ove è probabile il rife-
rimento a Beatrice come Amore. Cfr. anche, sulla questione, Contini, p. 500. Nella sua
ed.cit. delle Rime cavalcantiane, a.l., De Robertis nega che “Amore” sia senhal di Beatrice, ma
per motivi assai deboli ed oscuri.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

Gianni, come è manifesto anche dal v. 11: a chi altri se non a Lapo, infat-
ti, monna Lagia avrebbe potuto “ritogliere” il cuore? Si ricompone, dun-
que, considerando l’io che parla come l’io di Dante, la compagnia di
Guido, i’ vorrei, con l’unica mancanza, in effetti vistosa, di monna Vanna,
la donna di Guido. Ma la mancanza è pienamente giustificata dal fatto
che Guido sembra già “del tutto fore” da quell’amore che, come si vedrà,
è l’oggetto del discorso. Già rispondendo a Guido, i’ vorrei, del resto,
Cavalcanti si era, per così dire, chiamato fuori:

S’io fossi quelli che d’amor fu degno,


del qual non trovo sol che rimembranza,
e la donna tenesse altra sembianza,
assai mi piaceria siffatto legno.
(XXXVIII [XXXIX], vv. 1-4)

Guido non può partecipare alla navigazione immaginata da Dante


perché ormai non fa più parte del gruppo che si riuniva in pensieri d’a-
more: non si ritiene degno perché la sua donna lo rifiuta; è del tutto
fuori dai pensieri e dai sentimenti che l’univano agli altri. Tutte queste
persone, dunque, già unite da un vincolo di gentilezza ed amore, ora rin-
graziano Lapo perché quest’ultimo ha fatto qualcosa che li ha allonta-
nati da ciò in cui prima credevano: il ringraziamento suona come ironi-
co, il sonetto ha un tono sorridente – come dice Contini6 –, ma l’argo-
mento è sicuramente serio.
Ora, se qualcuno ha potuto vedere qui una risposta di Dante al caval-
cantiano Se vedi Amore, assai ti priego, Dante – risposta che non sarebbe
però a tono, dato che Cavalcanti chiede in quel sonetto a Dante un giu-
dizio sulla qualità dell’amore di Lapo7 –, è ben più probabile che Dante
abbia in mente la canzone di Lapo Gianni Amor, nova ed antica vanitate:
canzone che cerca di mostrare, con un procedimento analitico ed un’ar-
gomentazione fatta di affermazioni e “prove”, che l’amore è insensato,

6 “Oscuro”, dice Contini del sonetto, “ma sorridente” (p. 500).


7 “Se vedi Amore, assai ti priego, Dante, /in parte là ‘ve Lapo sia presente, /che non
ti gravi di por sì la mente/ che mi riscrivi s’elli ’l chiama amante” (XXXIX, vv. 1-4). Cfr.
anche, sempre di Cavalcanti, Dante, un sospiro messagger del core (XL). Il rimando è perti-
nente soprattutto per il tono famigliare e quasi scherzoso che questi sonetti hanno: tono
che presuppone, come Amore e monna Lagia, rapporti amichevoli costanti, dei quali lo
scambio di rime costituisce un proseguimento letterario raffinato. Qui, comunque, Dante
non risponderebbe alla questione di Cavalcanti, che chiede se Lapo è un vero amante, un
amante gentile, se non in modo indiretto.
 ALBERTO GESSANI

crudele, lontano dalla conoscenza, capriccioso, vuoto8. Così come


Cavalcanti in Donna me prega9, dunque, anche se con profondità molto
minore, Lapo sembra abbandonare, con questa canzone, proprio quel
culto di amore che aveva cementato il suo sodalizio con Dante e con gli
altri; e tale abbandono non può non coinvolgere il “Dolce stile” che
costituiva il corrispettivo poetico di quel culto. È da notare come Dante,
ricordando che tutti erano “serventi” di amore non meno di lui e che egli
aveva immaginato “ch’elli [Amore] fosse iddio”, faccia riferimento, pro-

8 La canzone (XIV) consta di cinque strofe ed una di congedo, tutte comincianti con

la parola “Amore”, e vuole essere una sorta di requisitoria contro Amore, al quale il poeta
imputa in ogni strofa una qualche colpa, cercando di argomentare l’imputazione (sempre
con “provo ciò”, “provol”, “provo ben ciò”). Il tono del sonetto dantesco potrebbe essere
sorridente anche per la minuzia argomentativa di Lapo; e si potrebbe cogliere un contra-
sto ironico fra il “ser costui” – già contrastante tra il rispettoso “ser” dei notai e dei preti e
il vago e scherzoso “costui”: un “signor tale”, “signor Tizio” – con cui si indica Lapo, e che
non si direbbe certamente di persona importante, e la forza con cui il “ser costui”, appun-
to, ha distolto tutti dall’amore.
9 Donna me prega costituisce una dura e forse nel finale ironica presa di posizione con-

tro ogni giudizio positivo intorno all’amore ed agli effetti dell’amore: una presa di posi-
zione che non perde affatto forza, come sembra ritenere Contini (che per questo vedreb-
be il componimento “sottratto a una sincera istanza di pensiero”, Poeti, p. 86), se vediamo
nella canzone la risposta ad un sonetto interrogativo di Guido Orlandi: Onde si move e
donde nasce amore?. Il fatto che qui Dante dichiari Cavalcanti già “del tutto fore” dal culto
di Amore può far pensare che Donna me prega preceda la canzone di Lapo; ed in questo
caso non sarebbe fuori luogo l’ipotesi che Dante si rivolga contro Lapo per colpire, in
effetti, Cavalcanti, e per inviare a quest’ultimo, più che a Lapo, il messaggio che i propri
versi contengono. Ciò rientrerebbe nell’atmosfera – se così vogliamo chiamarla – dei rap-
porti tra Dante e Guido: un’atmosfera che sembra sempre costituirsi su una qualche reti-
cenza di Dante dal dichiarare esplicitamente, al di là degli attestati di stima e di affetto, il
proprio dissenso dalle idee di Guido, ma anche su un forte desiderio, sempre da parte di
Dante, di affermare la superiore validità della propria concezione dell’amore. Su questa
concezione, a mio parere, più che sull’ambizione di Dante “di diventare il poeta più gran-
de di tutti” (Rossi, Postfazione, p. 253), si fonda il difficile distacco da Guido; e giustamen-
te B. Nardi faceva notare (in Sviluppo del pensiero e dell’arte di Dante [da una conferenza del
1965], in Dante, Tutte le opere, a cura di L. Blasucci, Sansoni, Firenze 1993, p. XV) che il
“primo accenno” ai dissapori tra i due poeti si può già cogliere nella risposta di Guido a
Guido, i’vorrei (v. qui nel testo): nelle posizioni cavalcantiane, cioè, sull’amore, che già in
quel sonetto cominciano a distaccarsi da quelle di Dante. Sulla complessità di questo rap-
porto nella Vita nuova cfr. comunque lo stesso Rossi, Postfazione, pp. 247 sgg.; e soprattut-
to E. Malato, Dante e Guido Cavalcanti: il dissidio per la “Vita nuova” e il “disdegno” di Guido,
Salerno, Roma 1997 (che ritiene posteriore Donna me prega alla Vita nuova, e vede nella can-
zone di Cavalcanti una risposta al libello dantesco: ipotesi interessante e ben argomenta-
ta che non mi convince però del tutto, per motivi che non possono essere discussi in que-
sta sede); N. Pasero, Dante in Cavalcanti. Ancora sui rapporti fra “Vita nuova” e “Donna me
prega”, in “Medioevo romanzo”, 22 (1998), pp. 388-414.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

babilmente, al Fiore, unico suo testo – se giusto è, come credo, attribuirlo


a lui10 – nel quale chiama dio Amore11: il riferimento sottolinea, in effet-
ti, la gravità del distacco di tutti da quella fiducia e quella devozione che
tutti avevano portato all’amore. E sicuramente Donna me prega e la can-
zone di Lapo toccarono corde molto sensibili e profonde del pensiero
dantesco, se proprio all’inizio della Vita nuova, raccontando del suo
primo incontro con Beatrice, egli vuole sottolineare come l’amore non
avesse intaccato, pur sconvolgendo l’anima di lui bambino, la “fedele
guida” della ragione12: è una secca smentita delle affermazioni di Guido
e di Lapo, che negavano appunto la razionalità dell’amore13, ed è raffor-
zata proprio dall’indicazione dell’età dell’amante – nove anni –: nem-
10 Cfr. a questo proposito la discussione di Contini, pp. 555-563.
11 Cfr. Fiore, I,1; II, 4; X, 2; XIII, 2 etc. È stato G. Gorni ad istituire un collegamento
tra il v. 8 di Amore e monna Lagia e la deificazione dell’amore nel Fiore, vedendo in quel
verso, appunto, un riferimento di Dante a questa sua opera (Lippo amico, in “Studi di filo-
logia italiana”, XXXIV, 1976, pp. 27-44; poi in G. Gorni, Il nodo della lingua e il verbo d’amo-
re, cit.: v. in part. p. 122).
12 “E avvegna che la sua [di Beatrice] imagine, la quale continuatamente meco stava,

fosse baldanza d’Amore a segnoreggiare me, tuttavia era di sì nobilissima vertù, che nulla
volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele consiglio de la ragione in quelle cose
là ove cotale consiglio fosse utile a udire” (II, 9).
13 Il motivo dello iato presente tra ragione e amore è centrale in Donna me prega ed anche

nella canzone di Lapo, ma sembra trovare un fondamento filosofico soprattutto in Guido, che
fa risiedere l’amore nell’anima sensitiva e nega che possa darsi una qualsiasi relazione tra intel-
letto – o ragione – e anima sensitiva. Che questa idea derivi dall’averroismo, poi, è stato pen-
sato da molti, ed è luogo che non si può discutere qui; ma si può osservare che il distacco tra
intelletto e anima sensitiva sembra darsi, per Aristotele come per Averroè, dopo la morte del-
l’individuo, mentre l’intelletto rimane attingibile durante la vita dell’individuo stesso, anche
se non comprensibile in quanto tale (e per questo v. anche, già nella Vita nuova, XLI, 6, quan-
to ne dice Dante, che rimanda ad Aristotele, Met. II, 1, conosciuto probabilmente attraverso
S. Tommaso, Summa contra gentiles, III, 45: cfr. G. Salvadori, Sulla vita giovanile di Dante, Roma,
S. ed. Dante Alighieri, 1906, pp. 113-114; e De Robertis, p. 243, che ricorda che S. Tommaso
stesso teneva comunque presente il commento di Averroè alla Metafisica). La canzone caval-
cantiana potrebbe anche essere letta come espressione di un platonismo radicalizzato o di un
neoplatonismo, o come influenzata profondamente dalle concezioni mediche sulla malattia
d’amore (cfr. a questo proposito l’importante studio di N. Tonelli, ‘De Guidone de Cavalcantibus
physico’ (con una noterella su Giacomo da Lentini ottico, in I. Becherucci, S. Giusti, N. Tonelli (a
cura di), Per Domenico De Robertis. Studi offerti dagli allievi fiorentini, Le Lettere, Firenze 2000, pp.
459-508); ma in ogni caso sembrano destinati in partenza all’insuccesso i tentativi di inscrive-
re il pensiero di Cavalcanti e di Dante stesso in una precisa e determinata corrente di pensie-
ro. Cfr. comunque, sulle concezioni dell’amore in Dante e negli altri poeti del suo tempo, il
sempre classico B. Nardi, Dante e la cultura medievale. Nuovi saggi di filosofia dantesca, Laterza,
Bari 1942; e G. Favati, Inchiesta sul Dolce Stil Nuovo, Le Monnier, Firenze 1975, oltre ai più
recenti lavori di Malato e Pasero citati sopra (v. qui nota 9).
 ALBERTO GESSANI

meno in un bambino, o almeno in me bambino e se nobile è l’oggetto


dell’amore, sembra esclamare Dante, l’amore è privo di ragione. E sa di
dire una cosa molto audace, come mostra subito dopo abbandonando
l’argomento14; ma vuole dirla come per mettere un primo importante
segnale di quello che sarà il pensiero che percorre la Vita nuova.
La canzone di Lapo, certamente, è più leggera, come si è detto, di
quella di Guido; e più leggero è il tono di questo sonetto. Ma essa dà
occasione a Dante di una messa a punto del proprio pensiero che, sia
pure in modo piuttosto enigmatico – se l’enigma non deriva da un qual-
che guasto del testo15 –, costituisce al tempo stesso la liquidazione deci-
sa di un momento importante della sua vita e l’apertura di una nuova
stagione. È da sottolineare, infatti, che Dante ringrazia Lapo come gli
altri: che dunque anch’egli si è distaccato da quell’amore che adesso,
dopo la canzone di Lapo stesso – e quella di Cavalcanti, ovviamente –,
tutta la compagnia abbandona. Ciò significa anche, sicuramente, che la
compagnia si scioglie: rimarrà l’amicizia, certo, ma le ragioni di fondo
che avevano cementato quel sodalizio – effettivo tra gli uomini, imma-
ginato per quanto riguarda le donne – non ci sono più, poiché non c’è
più la fiducia in quell’amore ed in quel connubio amore-cuore gentile
in cui tutti avevano creduto. Ma qui abbiamo la sorpresa, che Dante
introduce negli ultimi due versi del sonetto: egli ringrazia, certo, ma è
ancora sotto il potere di amore; e che questo gli abbia fatto piacere non
sarà creduto da Amore stesso o dagli altri16. Tale sembra, in effetti, il

14 Scrivendo che attribuire ad un bambino il consiglio della ragione “pare ad alcuno par-

lare fabuloso” e dunque abbandonando l’argomento (II, 10), Dante ricorda probabilmente
che Andrea Cappellano, a lui ben presente nella Vita nuova, nega, nel De Amore (I, V), che
un maschio possa, prima dei diciotto anni, amare “firma stabilitate” (cfr. a questo proposito
R. Crespo, “Color di perle ha quasi” e “Alcuno parlare fabuloso”, in “Studi danteschi”, XLVIII,
1971, pp. 117 sgg.): ha dunque piena consapevolezza di avere detto una cosa non facil-
mente accettabile, e questo rende più significativo il fatto che comunque l’abbia voluta dire.
15 Le difficoltà si concentrano soprattutto negli ultimi due versi, e Contini, p. 501, rife-

risce di alcuni tentativi di correggerli, concludendo che “forse converrà ammettere l’ana-
coluto: ed io, ancor che’n sua vertute caggia, / se poi mi piacque, nol si crede forse”; ed appare la
soluzione più ragionevole, anche perché l’anacoluto potrebbe essere voluto da Dante
come una sorta di ironica espressione d’ignoranza di fronte alla dotta ed elaborata canzo-
ne di Lapo. L’apparente contraddizione dei contenuti si accompagnerebbe, così, ad un dire
incolto, quasi campagnolo (di cui potrebbe far parte anche il ser costui del v. 2), a fronte
della finezza degli interlocutori; e potrebbe essere significativo che la forma caggia (rara in
Dante) si trovi nel sonetto Se non ti caggia la tua santalena (Poeti, XLV), nel quale Cavalcanti
si fa gioco, usando anche parole popolari e contadine (per es. boce, v. 10, per voce, tramaz-
zare, v. 11, per frastuono), di un amico andato ad abitare in campagna.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

senso di questi difficili versi, al di là delle intricate interpretazioni che ne


sono state date e del testo forse corrotto17: anch’io ringrazio, dice Dante,
per quanto sia ancora sotto la vertute, il potere di Amore; e ciò mi ha
dato, anche se è forse incredibile, piacere. Sarà incredibile, questo, in
primo luogo perché sono state offerti dagli altri – da Guido e da Lapo –
argomenti assai forti contro Amore e contro il piacere di Amore, acco-
stato da costoro a dolore e morte18; e in secondo luogo perché ciò sem-
bra contraddittorio con il ringraziamento dei versi precedenti: come si
può condividere quanto ha scritto Lapo e dichiararsi distaccato da
Amore mentre si ribadisce che si è ancora, e con piacere, sotto il potere
di Amore? Dante sembra in qualche modo divertirsi della contraddizio-
ne, e forse la forma enigmatica del finale è una ulteriore sfida ai suoi let-
tori, cioè a Guido ed a Lapo: essi dovranno prima decifrare il senso di
questi due versi, poi dovranno comprendere, una volta decifrato tale
senso, come possa risolversi la contraddizione che esso manifesta. E
sembra anche di avvertire una certa incredulità di Dante nella loro capa-
cità di raggiungere una soluzione: incredulità, certo, non sulla loro intel-
ligenza e sulla loro capacità di interpreti e pensatori, ma sul possesso
loro degli strumenti concettuali necessari per sciogliere l’enigma. È da
notare, infatti, che la compagnia dei “fedeli” viene infine, dopo che essa
stessa ha ringraziato Lapo, ringraziata per come si è allontanata dall’a-
more: avendo imparato da Lapo, essa ha poi operato in piena armonia

16 Non vedo la necessità di individuare il soggetto di nol si crede, v. 14, nell’elli (Amore)

del v. 8, come invece sembra certo a Contini, p. 501. L’espressione può ben essere imper-
sonale ed indicare il gruppo degli amici o addirittura la gente in genere: “non lo si crede
forse”: non si crede cioè che io, dopo dimostrazioni così forti della viltà e crudeltà dell’a-
more, sia ancora sotto il suo potere. Altrimenti si può intendere, seguendo Contini:
“Amore stesso non può credere che io sia ancora un suo fedele, dopo tante cose che sono
state dette contro di lui”. L’accento batte, comunque, sulla stranezza della posizione di
Dante all’interno del gruppo degli amici.
17 Considerazioni generali sul testo delle Rime si trovano in Contini, pp. 268-287, ove

sono anche indicati altri importanti contributi sull’argomento; particolari su questo sonet-
to sempre in Contini, pp. 500-501 (note).
18 Cfr. Donna me prega, v. 35: “Di sua potenza segue spesso morte”, che si può inten-

dere in senso letterale o in senso traslato (e in senso traslato preferiscono in genere inten-
derlo gli interpreti; ma non è cosa tanto ovvia, specie dopo il già citato studio di N.
Tonelli, De Guidone de Cavalcantibus physico), ma che comunque si lega, in entrambi i sensi,
a tutto il pensiero di Cavalcanti, per il quale appunto l’amore porta alla morte tanto mate-
rialmente quanto spiritualmente, e che risponde alla domanda di Guido Orlandi: “è vita,
questo amore, od è morte?”. Il legame amore-morte è del resto abbastanza tradizionale: cfr.
per es. Guittone, Amor dogliosa morte si pò dire. E v. anche Lapo in Amor, nova ed antica vani-
tate: “tutti tuo’ colpi son mortali”(v. 55).
 ALBERTO GESSANI

con l’insegnamento ricevuto ed ha portato a compimento l’azione già


intrapresa. Lo ed io del v. 13 sembra collegato al sia ringraziato del v. 9 e
rientrare, quindi, nel novero di quei soggetti che devono essere ringra-
ziati per quanto hanno fatto dopo la canzone di Lapo; ma quello che è
detto dopo mostra l’autonomia di Dante, e dunque io può considerarsi
soggetto (non concordato) di se poi mi piacque, con ed che acquista un
senso avversativo. Così, mentre sembra partecipare al destino di tutti gli
altri, Dante se ne distacca con un’espressione ambigua che si può pen-
sare detta con un sorriso. È un sorriso che pesa più di una polemica aper-
ta: forse quello stesso sorriso che si oppone, nella Vita nuova, a coloro
che vorrebbero conoscere il suo amore, e che è introdotto, ancora una
volta, da ed con funzione lievemente avversativa19. Ed in ogni caso è una
risposta precisa, anche se non può adesso chiarire le proprie ragioni di
fondo: anch’io, sembra voler dire Dante, mi congedo da quella conce-
zione dell’amore dalla quale voi vi congedate; ma io lo faccio per aprir-
mi ad una nuova stagione, ad una concezione dell’amore che a voi non
è nota e che forse voi non condividerete, quando la renderò nota: per-
ciò ringrazio e mi allontano.

2. La nuova visione dell’amore che Dante sembra nascondere nell’enig-


ma di Amore e monna Lagia si dispiega in modo disteso ed articolato nella
Vita nuova. Ma il primo sonetto di quest’opera, A ciascun’alma presa e gen-
til core, sicuramente ad essa anteriore di molto – e addirittura, se voglia-
mo credere a Dante, scritto subito dopo il suo secondo incontro con
Beatrice, cioè a diciotto anni20 –, già mostra, a ben guardare, una conce-
zione che non è del tutto assimilabile a quella degli amici stilnovisti. Il

19 Vita nuova, IV, 3: “E quando mi domandavano: ‘Per cui t’ha così distrutto questo

Amore?’, ed io sorridendo li guardava, e nulla dicea loro”. Il vocabolo distrutto “ha in


Cavalcanti, e quindi nel Dante di diversi episodi della Vita Nuova, un senso di battaglia e
di sconfitta, che è il più vicino all’altro di morte” (De Robertis, p. 45). Se teniamo presen-
te quanto si è detto in precedenza e quanto vedremo più avanti, possiamo vedere in que-
sto sorriso, dunque, non soltanto la reticenza del giovane Dante, ma la consapevolezza del
fatto che le “insegne” d’Amore sul suo viso – e la “fraile e debole condizione” (IV, 2; 1) in
cui lo ha posto Amore – non sono insegne di morte, ma di una tensione che, non capita
dagli altri, porta, al contrario, alla vera vita.
20 “Poi che fuoro passati tanti die, che appunto erano compiuti li nove anni appres-

so l’apparimento soprascritto di questa gentilissima, ne l’ultimo di questi die avvenne che


questa mirabile donna apparve a me […]” (III, 1). Inutile sottolineare la presenza, qui
come ovunque nel “libello”, della simbologia del numero nove: Beatrice appare a Dante
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

sonetto racconta del sogno che seguì all’incontro di cui si è detto e che è
raccontato anche nella prosa che lo precede; ma ci sono importanti dif-
ferenze tra le due narrazioni, differenze non dovute, probabilmente, sol-
tanto al diverso modo di scrivere che impongono il “dire” ed il “dettare”;
e converrà, per il momento, lasciare da parte la prosa e leggere il sonetto:

A ciascun’alma presa e gentil core


nel cui cospetto ven lo dir presente,
in ciò che mi rescrivan suo parvente,
salute in lor segnor, cioè Amore.
Già eran quasi che atterzate l’ore
del tempo che onne stella n’è lucente,
quando m’apparve Amor subitamente,
cui essenza membrar mi dà orrore.
Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le braccia avea
madonna involta in un drappo dormendo.
Poi la svegliava, e d’esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea:
appresso gir lo ne vedea piangendo.

È da notare, prima di tutto, una evidente sproporzione tra la quantità


dei versi dedicati alla prolessi – una doppia prolessi – e quella dei versi
che raccontano l’azione vera e propria: ben due quartine introduttive
contro due terzine narrative, poiché i vv. 7-8 enunciano l’azione sinteti-
camente, ma ancora non la narrano. Il sonetto mostra già una piena
padronanza tecnica ed una grande precisione, e dunque difficilmente si
potrebbe attribuire questa asimmetria ad una qualche inesperienza o
all’impaccio di un giovane poeta che richiede ad altri una “patente” nel-
l’arte del dire21: l’asimmetria sembra voluta, e costituisce forse la vera

per la prima volta all’età di nove anni, e ricompare allo scadere del nono anno dopo la
prima apparizione. Su questa simbologia ci soffermeremo più avanti.
21 De Robertis, p. 40, vede in questo invio a “famosi trovatori” (III, 9) proprio la

richiesta di una sorta di “patente poetica”. Ma Dante stesso precisa che già conosceva “l’ar-
te del dire parole per rima” per averla già praticata da solo (III, 9), e che si rivolse ai “fede-
li d’amore” perché “giudicassero la mia visione”, con ciò intendendo non che chiedeva un
giudizio sul valore delle proprie rime, ma che chiedeva un’interpretazione del sogno (v. poi
III, 15, ove giudicio vale appunto interpretazione). È una pratica abbastanza usuale nell’am-
biente di Dante, del resto, questa dello scambio di rime su un certo argomento, e presup-
pone una comunanza di sentimenti e valori e cultura, mentre mai sembra costituire una
richiesta d’ammissione nel novero dei poeti.
 ALBERTO GESSANI

chiave per l’accesso alla comprensione del sonetto22. Tanto più essa stu-
pisce, infatti, quanto più riflettiamo sull’importanza dell’azione descritta:
Amore “battezza”23 Beatrice alla nuova vita che l’amore stesso dischiude,
mentre vincola per sempre Dante all’amore stesso, nutrendo lei del suo
cuore; è il momento decisivo di un’intera esistenza, anche se avrà biso-
gno poi di un lungo cammino di maturazione attraverso dubbi, errori e
pene. La prosa, infatti, si sofferma ampiamente ed analiticamente sulla
visione; qui, invece, la visione appare quasi subordinata alla dedica ai
“fedeli d’amore” ed all’indicazione del momento in cui si dà, e il dire
dantesco è, nel racconto, volutamente rapido e scarno, dotato di una sin-
teticità che è frutto, sicuramente, di un’attenta elaborazione formale.
L’azione è scandita da quattro gerundi con valore di participio pre-
sente (“tenendo”, “dormendo”, “ardendo”, “piangendo”) che si sorreggo-
no su cinque indicativi imperfetti (“mi sembrava”, “avea”, “svegliava”,
“pascea”, “vedea”) legandosi ad un participio passato (“involta”) e ad un
infinito (“gir”). I gerundi, nel descrivere l’azione, offrono al contempo
immagini decisive per la “visione” – se così vogliamo dire – della scena,
e permettono a Dante di costruire le due terzine quasi interamente sui
verbi, sui sostantivi e sui pronomi, con due soli aggettivi (“allegro”,
“paventosa”) ed un solo avverbio (“umilmente”): è un dramma breve e
folgorante, quello che ci troviamo di fronte, un dramma muto e privo
di colore, che suscita domande cui non è facile rispondere e che sembra
presentare la forma stringata e contraddittoria tipica dell’enigma24. Non
è possibile non chiedersi, infatti, perché Amore passi dall’allegria al pian-
to, e perché Beatrice sia “paventosa”, e perché venga svegliata; e non è
possibile non notare che l’unico avverbio presente, “umilmente”, si pre-
senta come ambiguo, potendo indicare tanto un atteggiamento servile

22 Per gli interpreti l’enigma principale del sonetto è costituito invece dal contrasto tra

l’allegria iniziale ed il successivo pianto di Amore: cfr. per es. K. Foster-P. Boyde, Dante’s
Lyric Poetry, II, Oxford Un. Press, Oxford 1967, pp. 24-25. E questo sembra anche il punto
che più colpisce i “risponditori” Guido Cavalcanti e Terino da Castelfiorentino (o Cino da
Pistoia).
23 Il battesimo di Beatrice rientra a pieno titolo nel carattere di “vangelo piuttosto che

di romanzo o leggenda” che, come ha visto bene De Robertis (p. 17, Introduzione; e cfr.
anche, del medesimo, Il libro della “Vita nuova”, Sansoni, Firenze 1970 [II ed.]), è proprio
della Vita nuova. È anche da tenere presente, però, che “il motivo del cuore mangiato, dif-
fuso nella cultura romanza, significa il trasferimento delle virtù che nell’organo avevano
sede e rielabora laicamente l’eucarestia cristiana” (Rossi, pp. 16-17); ed è da ricordare
Cavalcanti, Perché non fuoro a me gli occhi dispenti, vv. 12-14 (ricordato infatti da De Robertis
e da Rossi). Sul pasto del cuore v. qui nota 30.
24 Cfr. De Robertis, p. 42.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

da parte di Amore nei confronti di Beatrice – in linea con il significato


primario e classico di humilis25 – quanto un atteggiamento di benevo-
lenza – in linea con il significato che umile assume spesso in Cavalcanti,
Guinizzelli, Lapo Gianni e Dante stesso26. E su questi interrogativi,
infatti, si concentrarono le risposte che Dante ebbe da Cavalcanti e da
Terino da Castelfiorentino (o Cino da Pistoia)27. Il primo (Vedeste, al mio
parere, onne valore) si sofferma specialmente sul risveglio di Beatrice come
risveglio all’amore e sul fatto che il sogno indica l’appartenenza di Dante
alla schiera degli amanti gentili, interpretando elegantemente – ma
improbabilmente – il pianto di Amore come l’espressione dello svanire
del sogno, del trapasso dal sonno alla veglia28; il secondo (Naturalmente
chere ogni amadore), con finezza psicologica, vede nell’alternanza di riso e
lacrime in Amore il manifestarsi della doppiezza del sentimento amoro-
so: capace di dare gioia ma anche dolore, e quindi, nella persona di
Amore, allegro ma anche consapevole, nella sua benevolenza, del fatto
che il risveglio di una fanciulla all’amore è anche scoperta del soffrire29.
Sono risposte senza dubbio pertinenti ed anche acute, che sciolgono
quelli che sono gli enigmi più evidenti; ma non soddisfano Dante.
Leggiamo, infatti, come le commenta:
A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie; tra li quali fue
risponditore quelli cui io chiamo primo de li miei amici, e disse allora uno

25 De Robertis, p. 42, pensa che umilmente indichi che Amore è, in questa fase dell’a-

zione, “servo della donna”.


26 V. per es., nella Vita nuova: “pregava l’una l’altra umilemente” (XXIII, 20: Donna

pietosa, v. 24); ma anche: “Voi che portate la sembianza umile,/ con li occhi bassi, mostran-
do dolore” (XXII, 9, vv. 1-2), etc., con una gamma di significati la cui complessità si può
far risalire alla Vulgata, ove humilis può indicare bassezza di condizione, dolore, modestia,
benevolenza (cfr. per es. Lev. XIII, 3; Deut. I, 7; 2Sam. VI, 22; Iob. V, 11; etc.). È da ricor-
dare che nel Vangelo di Matteo Cristo dice di sé: “mitis sum, et humilis corde” (XI, 29). Per
quanto riguarda gli stilnovisti, cfr. Cavalcanti, Chi è questa che vèn, v. 7: “cotanto d’umiltà
donna me pare” (ove umiltà=benevolenza); Deh, spiriti miei, v. 6: “di sguardo e di piacere e
d’umiltate” (nello stesso significato) etc.; Guinizzelli, Madonna, il fino amor ched eo vo porto,
v. 65; Lapo Gianni, Amore, i’non son degno ricordare, v. 24 (ove umiliare ha significato di far
benigno [Contini, p. 138]), etc.
27 Diverso è il caso della risposta di Dante da Maiano, Di ciò che stato sei dimandatore, che

scherzosamente denuncia l’esaltazione di Dante attribuendola ad insoddisfazione di caratte-


re sessuale. La risposta non è comunque impertinente, dato che interpreta a suo modo –
come aveva chiesto Dante – il sonetto; e non risulta infatti che Dante se ne sia risentito.
28 Quando v’apparve che ne gia dogliendo/ fu dolce sonno ch’allor si compiea, /che’l

su’ contraro lo venia vincendo” (vv. 12-14).


29 “e l’amorosa pena conoscendo/ che ne la donna conceputo avea, / per pietà di lei

pianse partendo” (vv. 12-14).


 ALBERTO GESSANI

sonetto, lo quale comincia: Vedeste, al mio parere, onne valore. E questo fue
quasi lo principio de l’amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quel-
li che li avea ciò mandato. Lo verace giudicio del detto sogno non fue vedu-
to allora per alcuno, ma ora è manifestissimo a li più semplici. (III, 14-15)

È singolare, in queste frasi, come la dichiarazione di amicizia con


Guido si leghi ad una denuncia d’incomprensione del “verace giudicio”
del sogno: Dante separa, evidentemente, la stima e l’affetto per Guido dal
giudizio che dà riguardo alla sua risposta. Questo non ha destato parti-
colari preoccupazioni ai commentatori, convinti che Dante ora – al
tempo della Vita nuova – reinterpreti il pianto di Amore come un presa-
gio della morte di Beatrice30: egli direbbe soltanto, qui, che nessuno vide
il vero significato del sogno, che adesso, morta Beatrice, è ben evidente
anche ai più semplici (non agli ignoranti, ma ai “fedeli” meno profondi
ed accorti). Ma un rilievo di questo genere da parte di Dante sarebbe
abbastanza ozioso, dato che vedere quel presagio era impossibile, al
tempo del sonetto, da parte di tutti: tanto più che nei versi non si dice
quanto si dice nella prosa, cioè che Amore se ne va in cielo portando con
sé Beatrice (III, 7). E del resto non si afferma nemmeno nella prosa che
quello era il “verace giudicio”: che il sogno, cioè, annunciasse la morte di
Beatrice. Un punto, invece, dovrebbe mettere in guardia i commentatori
contro ovvietà come questa: il fatto che Dante ha qui in mente, come è
stato notato31, un passo del Vangelo di Giovanni (XII, 16):

haec non cognoverunt discipuli eius primum; sed quando glorificatus est
Iesus, tunc recordati sunt quia haec erant scripta de eo.

Le cose che i discepoli non riconobbero sono quelle che erano state
profetizzate nell’Antico Testamento, nel libro di Zaccaria (IX, 9):

30 È un’ovvietà, questa, alla quale nessuno sembra sottrarsi: cfr. per es. De Robertis, p.

44; Rossi, p. 24. Ma C.S. Rossi, Il cuore, mistico pasto d’amore: dal “ Lai Guirun ” al Decameron.
Studi provenzali e francesi, Japadre, L’Aquila 1983, pp. 28 sgg., ha mostrato come il pasto del
cuore costituisca una sorta di “santificazione” dell’amore tra Dante e Beatrice, e come l’a-
scesa di Beatrice al cielo vada vista come rinuncia ad una gratificazione terrena di quest’a-
more e come apertura, per Dante, della dimensione della verità. La poesia sarà lo stru-
mento con il quale questa verità potrà dischiudersi in se stessa, al di là dello speculum: il
sacrificio simbolico – il pasto del cuore, la rinuncia alla dimensione terrena dell’amore –
consente l’iniziazione poetica nel senso altissimo di una poesia che non è più semplice-
mente scaturigine di un cuore gentile, ma visione del divino.
31 Cfr. Ch. S. Singleton, An essay on the “Vita nuova”, Harvard University Press,

Cambridge (Mass.) 1948 (tr. it. Il Mulino, Bologna 1968, pp. 20 [n. 4], 36 [n. 17]).
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

Exulta satis, filia Sion,


Iubila, filia Ierusalem:
Ecce Rex tuus veniet tibi iustus, et salvator:
Ipse pauper, et ascendens super asinam
et super pullum filium asinae.

Cristo viene, infatti, come aveva profetizzato Zaccaria, sopra un asi-


nello (Giov., XII, 14-15), ma soltanto dopo, quando glorificatus est Iesus,
ci si ricordò della corrispondenza della sua azione con la profezia: del
fatto, cioè, che egli era il Figlio atteso, che veniva tra noi secondo la pro-
fezia. Se Dante ha in mente questo passo, dunque, non vuole dire che i
suoi risponditori non seppero vedere nel sonetto il presagio della morte
di Beatrice; vuole dire che essi non seppero interpretare quanto in quel-
la visione era di sacro e che ora, dopo la morte di Beatrice, si chiarisce,
tramite Dante stesso, anche a li più semplici. Gli interpreti videro il senso
letterale di quei versi, e quello cercarono di chiarire riferendosi a cose
mondane; non videro che quell’amore non era semplicemente amore
mondano, amore di un uomo per una donna, ma racchiudeva qualcosa
di più profondo ed alto: un soprasenso che comunque, agli occhi di
Dante, era già visibile32. Come i discepoli videro l’asinello e non rico-
nobbero la corrispondenza di quello con la profezia, così i risponditori
videro l’amore e non riconobbero il suo più vero e profondo carattere:
il verace giudicio del sogno.
Possiamo ora ritornare al sonetto e alla doppia prolessi che occupa
le due quartine. È da notare, in primo luogo, la particolare solennità
con la quale Dante si rivolge ai “fedeli d’Amore” (III, 9): se il primo
verso riecheggia parole e concetti di Guinizzelli, Cavalcanti e anche
Guittone33, il saluto, con il latinismo tecnico di “rescrivan” e con la for-
mula latina della salutatio (con l’ellissi di “dico” nel v. 4, con “salute”)34,
32 Sull’anagogia come carattere fondamentale della poesia di Dante cfr. R. Assunto,

Ipotesi e postille sull’estetica medioevale con alcuni rilievi su Dante teorizzatore di poesia, Marzorati,
Milano 1975, specie pp. 71 sgg. (il libro è, anche se il titolo non lo evidenzia pienamente,
in gran parte dedicato all’estetica dantesca, alla conoscenza della quale costituisce un
importante contributo).
33 V. Guittone, Se voi, donna gente: “de voi […] / m’ha preso amor” (vv. 1-2);

Guinizzelli, Donna, l’amor mi sforza: “sì pres’è ’l meo core” (v. 8); Cavalcanti, Dante, un
sospiro: “la donna è prisa” (v. 12). Cfr. Vita nuova, XXIV, 2, ove Amore dice a Dante: “Pensa
di benedicere lo dì che io ti presi, però che tu lo dei fare”, etc., fino a Purg., XVIII, 31.
34 La formula appartiene allo stile epistolare, ed è Brunetto Latini a proporre l’analo-

gia tra ars dictandi propria della lettera e dire in rima (Rettorica, 76, 15-16). Cfr. anche
Guittone, XXV; Gianni Alfani, Guido, quel Gianni, vv. 1-2; e Dante stesso nell’esordio
dell’Epistola III.
 ALBERTO GESSANI

vuole rendere il senso dell’importanza di ciò che sarà detto. Ma “salu-


te in lor segnor” fonde abilmente, come è stato notato35, la formula
classica della salutatio epistolare e la formula del saluto cristiano (“in
Cristo nostro Signore”): se Amore è il signore di questo saluto, come
Dante specifica subito, l’atmosfera nella quale il racconto si pone è
quella religiosa: non semplicemente quella degli affetti mondani, ma
quella di una dimensione più alta, ribadita del resto nella prosa con la
formula, sì feudale ma anche religiosa, “fedeli d’Amore”. E questo costi-
tuisce una novità nell’ambito della compagnia cui Dante si rivolge, per-
ché nulla di simile troviamo nei sonetti d’altri indirizzati a qualcuno
per avere una risposta36. Un segnale del carattere “alto” dell’esperienza
che narrerà, dunque, Dante lo invia fin dai primi versi, che si riallaccia-
no ad un uso ma sembrano voler trascendere quest’uso stesso in una
direzione che non è più, certamente, quella delle domande e delle
risposte su temi di carattere amoroso.
Ma la seconda quartina è ancora più chiara in questo senso.
L’indicazione dell’ora conferisce all’evento un significato “miracoloso” o
comunque particolare: tanto più che Dante conia un verbo nuovo, atter-
zare, si serve del procedimento del cum inversus ed elabora una perifrasi
piuttosto ampia (“del tempo che onne stella n’è lucente”). La sostenu-
tezza stilistica accompagna fedelmente contenuti che la giustificano: l’e-
vento è avvenuto quando le stelle brillavano pienamente, cioè al cospet-
to, si potrebbe dire, dell’universo intero; ed è avvenuto “subitamente”,
come appunto ogni evento miracoloso. Ma il segnale più evidente del-
l’altezza di questa esperienza è l’uso della parola “orrore” per indicare lo
stato d’animo di Dante di fronte all’aspetto o alla natura (“essenza”: dif-
ficile interpretare questa parola in modo banale e non tecnico, quando
a scriverla è un lettore di S. Tommaso) di Amore: parola sicuramente da
intendere nel primo senso latino di horror, cioè tremore, paura, e da col-
legare al pavor et tremor che le donne andate al sepolcro di Cristo, in un
passo del Vangelo di Marco37 ben presente, come vedremo, a Dante,
provano di fronte all’angelo che annunzia loro la resurrezione di

35 Cfr. De Robertis, p. 41.


36 Forse anche per questo Dante da Maiano risponde facendosi gioco dell’esaltazione
dantesca: per la particolare solennità con la quale il sonetto presenta la visione su cui chie-
de il “parvente” dei suoi interlocutori. Ed in questo senso egli è interprete assai acuto dei
versi danteschi, più acuto certo di coloro che, pur cogliendo questa solennità, non ne
vedono le forti ed importanti implicazioni.
37 “At illae [le donne che avevano visto l’angelo nel sepolcro di Cristo] exeuntes, fuge-

runt de monumento; invaserat enim eas tremor et pavor” (XVI, 8).


AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

Cristo38. Si tratta del tremore che ci proviene da ciò che è sacro, da ciò
che è del tutto altro da noi e dalla nostra esperienza usuale, e che tra-
scende qualsiasi ragione e sentimento; e si noti come il poeta dica di pro-
varlo anche nel ricordo: non soltanto al cospetto di Amore, cioè, ma per-
fino dopo, nel “membrar”. Madonna stessa, del resto, è “paventosa” di
fronte all’azione che deve compiere; e nell’umiltà di Amore potrebbero
fondersi la sua benevolenza nei confronti delle creature e la sua servitù
non nei confronti di Beatrice, ma nei confronti di un potere più alto.
Comprendiamo ora che il vero enigma del sonetto non risiede nel-
l’atteggiamento di Beatrice o in quello di Amore, ma proprio nel rap-
porto di queste due quartine introduttive con il resto: nel significato di
quella visione al quale le quartine accennano senza dirlo in modo espli-
cito. E questo significato distacca il sonetto dalle tematiche dei compo-
nimenti del Dolce Stile mentre sembra inscriversi pienamente in esse fin
dall’esordio del “dire”, così come Dante sembra, in Amore e monna Lagia,
d’accordo con Lapo mentre se ne distacca nettamente: quello che anco-
ra lo unisce ai “fedeli d’Amore” è un certo stile e l’equazione amore-cuor
gentile, che infatti sarà ribadita anche nella Vita nuova39; quello che lo
distacca da loro è una concezione dell’amore che pare incentrarsi sul rap-
porto uomo-donna e invece trascende questo rapporto verso una dire-
zione decisamente religiosa. Il sonetto non descrive l’esperienza di un

38 Cfr. anche Matth., XXVIII, 4-5, 8. Ma particolare importanza riveste la frase di

Cristo a Maria Maddalena: “Noli me tangere” (XX, 17), che indica l’intangibilità di ciò che
è sacro e quindi il timore che il sacro deve suscitare negli uomini. V. anche, qui, nota n.40.
39 Cfr. il sonetto Amore e ‘l cor gentil sono una cosa (XX, 3-5), che sembra riprendere nel

modo più pieno la lezione di Guinizzelli in Al cor gentil rempaira sempre Amore. Ma è anche
da tenere presente come nel capitolo successivo a quello in cui si trova Amore e ‘l cor gentil
Dante, commentando Ne li occhi porta la mia donna Amore (XXI, 2-4), introduce un ele-
mento “miracoloso” che travalica l’ambito guinizzelliano e stilnovistico: “Poscia che trat-
tai d’Amore ne la soprascritta rima, vennemi volontade di volere dire anche in loda di que-
sta gentilissima parole, per le quali io mostrasse come per lei si sveglia questo Amore, e
come non solamente si sveglia là ove dorme, ma là ove non è in potenzia, ella, mirabil-
mente operando, lo fa venire […]Ne la prima parte dico sì come virtuosamente fae genti-
le tutto ciò che vede, e questo è tanto a dire quanto inducere Amore in potenzia là ove
non è […]” (XXI, 1; 6). Anche se il sonetto parla di “novo miracolo e gentile” nell’ultimo
verso, esso non sembra veramente racchiudere l’idea che poi Dante vi pone: l’idea, cioè,
che Beatrice crei Amore anche dove Amore potenzialmente non è. In esso, nella parte indi-
cata da Dante, si dice che “si fa gentil ciò ch’essa mira” (v. 2): il che è piuttosto generico a
fronte del “miracolo” di un atto senza potenza che il poeta invita a vedervi indicato. La
forzatura mostra, comunque, come ormai vada stretto a Dante, al tempo della Vita nuova,
l’impianto concettuale del Dolce stile (ma forse gli andava stretto già prima, come mostra
A ciascun’alma presa).
 ALBERTO GESSANI

amore che comincia, o non soltanto questo; il suo vero centro, quello
che nessuno seppe vedere, è nel carattere sacro dell’amore che si dischiu-
de quando Dante comincia ad amare Beatrice. Ma allora la figura di
Amore acquista un senso particolare: è una figura della nostra anima in
quanto esprime i sentimenti che proviamo, effettivamente, per un’altra
persona; ma è anche figura di una dimensione diversa, sublime, della
quale ci fa avere un presagio e verso la quale ci conduce. Di qui la sua
benevolenza, la sua partecipazione alle nostre sorti, il suo riso ed il suo
pianto; di qui, d’altro lato, il suo essere horribilis e la sua autorità nel far
compiere a Beatrice quanto deve essere compiuto. L’immagine del bat-
tesimo che il sonetto sembra evocare deve essere vista in tutta la sua por-
tata: chi è battezzato non è consapevole di esserlo, per lo più, essendo
un bambino; occorre un’altra mente, un altro, che sappia qual è il bene
del battezzato. Al tempo stesso, questo altro non è semplicemente Dio,
ma un ministro di Dio: Amore porta a noi il divino ma non è Dio.
Ricordiamo, a questo proposito, Giovanni:
Fuit homo
missus a Deo,
cui nomen erat Ioannes.
Hic venit in testimonium
ut testimonium perhiberet de lumine,
ut omnes crederent per illum.
Non erat ille lux,
sed ut testimonium perhiberet de lumine.
(Ioann., 1, 6-8)

Ma al tempo stesso in Amore vive, come vedremo più avanti, la divi-


nità. In questo senso, Amore comincia ad avere già al tempo di A cia-
scun’alma presa i caratteri del demone, anche se mai Dante lo presenta
esplicitamente come tale: è demone-anima, demone messaggero e
demone guida: il vero centro della Vita nuova e della concezione con la
quale Dante si distacca dai “fedeli d’Amore”.

3. Se andiamo ora alla prosa che precede, nella Vita nuova, A ciascun’al-
ma presa, possiamo facilmente renderci conto che essa presenta marcate
differenze dal sonetto. L’azione è sempre quella, salvo che qui Dante
specifica, come si è detto, che Amore porta con sé, andandosene,
Beatrice; ma si modifica profondamente nel ritmo e per un insieme di
cose che i versi non dicevano.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

È da notare, prima di tutto, come all’andamento rapido e sintetico


delle rime si sostituisca, qui, un procedere analitico, volutamente lento e
faticoso: la visione si precisa a poco a poco, all’inizio essendo confusa e
vaga. C’è una “nebula di colore di fuoco” (III, 3)40, infatti, e Dante non
riconosce che a poco a poco Amore, Beatrice, il proprio cuore nella
mano di Amore: la ripetizione quasi ossessiva del verbo parere41, appari-
re, rende in pieno il travaglio della mente che vede e cerca, che si trova di
fronte a qualcosa che si svela piano piano e che richiede grande attenzio-
ne e sforzo. Rimane l’orrore per la figura che si para innanzi al poeta,
“una figura d’uno segnore di pauroso aspetto” (III, 3), ma il significato di
tale orrore si delinea soltanto con il procedere della visione: tutto, all’ini-
zio, è appunto nebbioso e quasi caotico. Ed anche l’atto centrale, il cibar-
si di Beatrice del cuore di Dante, appare qui pieno di fatica: se nel sonet-
to Amore “lei paventosa umilmente pascea” (v. 13), qui “tanto si sforza-
va per suo ingegno, che le facea mangiare questa cosa che in mano li
ardea, la quale essa mangiava dubitosamente” (III, 6): Amore deve ado-
prarsi ed ingegnarsi, sembra dall’espressione dantesca, lungamente; e la
sequenza dei fatti è scomposta (“le facea mangiare”, “la quale essa man-
giava”) a significare proprio la lentezza, l’impaccio dell’azione.
All’ambiguità di “umilmente” si sostituisce, qui, una difficoltà nel fare di

40 De Robertis, p. 36, rimanda, per questa nuvola, a Matth. XVII, 5: “ecce nubes luci-

da obumbravit eos”, ed a Marc. IX, 6: “et facta est nubes obumbrans eos”, rilevando come
l’inizio di questi capitoli in entrambi gli evangelisti sia stato probabilmente ricordato da
Dante per l’inizio di questo capitolo della Vita nuova: “Poi che fuoro passati tanti die […]”
(III, 1); Matth., XVII, 1: “Et post dies sex […]”, identico a Marc., IX, 1. Gli evangelisti rac-
contano, in questi luoghi, della trasfigurazione di Cristo dinanzi a Pietro, Giacomo e
Giovanni, e di come la sua veste si faccia, appunto nella trasfigurazione, bianca come la
neve (Matth.. XVII, 2; Marc., IX, 2): così come Beatrice appare a Dante “vestita di colore
bianchissimo” (III, 1). Quello che anche e soprattutto andrebbe notato – e che è assai
importante per quanto si dirà in seguito – è che la nuvola, in entrambi gli evangelisti,
nasconde il Padre: “Et ecce vox de nube, dicens: Hic est Filius meus dilectus” (Matth., XVII,
5; cfr. Marc., IX, 6: “Hic est Filius meus charissimus: audite illum”), e che gli apostoli, sono
“timore exterriti” (Marc., IX, 5; cfr. Matth.. XVII, 6) per il manifestarsi della divinità: così
come “orrore” (nel sonetto) prova Dante di fronte ad Amore, “segnore di pauroso aspetto”
(nella prosa, III, 3). Marigo (Mistica e scienza nella “Vita nuova”, Drucker, Padova 1914, p. 46)
lega l’immagine della nuvola ad Apoc., X, 1, in cui si legge di “angelum […] amictum nube”
(e per questo v. anche Vita nuova, XXIII, 7 e, nella canzone corrispondente, Donna pietosa,
v.25). Ma sembrano più convincenti i legami di questo testo con i Vangeli di Matteo e
Marco: ricordiamo anche che Amore dice a Dante: “Ego dominus tuus” (III, 3).
41 “[…]me parea vedere […]” (III, 3); “[…] pareami con tanta letizia […]” (ibid.); “Ne

le sue braccia me parea vedere […]” (III, 4); “involta me parea […]” (ibid.); “E ne l’una
delle mani mi parea […]” (III, 5); etc.
 ALBERTO GESSANI

Amore e del succedersi delle cose: Beatrice assume l’amore di Dante


come un qualcosa di necessario, quasi spinta a forza, e vi si avvicina
“dubitosamente”, con timore ed incertezza. Alla paura dichiarata nel
sonetto si aggiunge qui un fattore, si direbbe, intellettuale: non soltanto
Beatrice sente paura nei confronti di Amore – nel senso che si è cercato
di chiarire in precedenza –, ma si trova anche in una dolorosa dubbiosità
quanto al significato di ciò che sta avvenendo. Ed è atteggiamento pie-
namente coerente con quello di Dante stesso in tutta la scena: ove, come
si è accennato, l’analicità della narrazione, giustificata dalla “nebula”,
indica appunto sforzo, difficoltà, incertezza. Si può notare anche come la
nudità della donna, “leggeramente” coperta soltanto da “uno drappo san-
guigno” (III, 4), non sembri qui indicare semplicemente una condizione
di assoluta innocenza di fronte ad un evento decisivo, l’essere cioè l’ani-
ma spogliata di ogni cosa di fronte alla verità, ma appaia piuttosto un
altro elemento della difficoltà che Dante vuole esprimere: se importanti
erano state le vesti di Beatrice nel primo e nel secondo incontro con lui
– tanto che soltanto di esse, e della cintura in vita della Beatrice bambi-
na, egli aveva dato un qualche particolare –, ora questa nudità quasi la
nasconde, perché certamente non nuda, nel momento in cui prende
sonno, egli la ricorda e la immagina; ed infatti soltanto per un riguarda-
re “intentivamente” egli riconosce in lei “la donna della salute” (III,4)42.
In questo insieme, ciò che più fortemente modifica l’atmosfera della
visione rispetto a quanto se ne diceva in A ciascun’alma presa è la pre-
senza di parole, molte parole, che Amore dice. Era facile immaginare la
scena del sonetto come una scena muta, anche se Dante non lo diceva
esplicitamente: tanto era veloce e lineare l’azione che ben difficilmente
un lettore avrebbe pensato ad un qualche elemento sonoro in essa. Qui,
invece, Amore “ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non inten-
dea se non poche; tra le quali intendea queste: Ego dominus tuus” (III, 3;
e poi: “pareami che mi dicesse queste parole: Vide cor tuum”, III, 5). La
difficoltà del vedere si accoppia, dunque, con la difficoltà dell’intende-
re le parole di Amore: la scena è nebbiosa e popolata di parole che
Dante non riesce, per lo più, a decifrare nel loro significato. E può darsi

42 Osserva De Robertis, p. 38, che salute vale tanto come saluto quanto come salvezza,

e che Dante “giuoca appunto sull’equivoco” , rimandando a XI, 1, 3, XII, 6 etc. Marigo,
op. cit., p. 43, vede nell’espressione “donna de la salute” un ricordo di Ps. XXXVII, 23 (e
anche LXXXVII, 2): “Domine Deus salutis meae” (cui si collegherà, allora, anche: “Ego
dominus tuus” di Amore in III, 3: ed è notevole questa scomposizione della formula dei
salmi tra Amore e Beatrice).
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

che il poeta cerchi, con ciò, di “rendere il processo irrazionale del


sogno”43, ma si deve dire che non sembra questo, in generale, il suo
scopo, cioè la resa sulla pagina di stati psicologici: tanto più che egli
opera una distinzione che dovrebbe rendere avvertito il lettore riguardo
al senso del suo discorso. Ci viene detto, infatti, che “poche” sono le
parole che riesce ad intendere; ma di queste poche meno ancora ne rife-
risce, limitandosi alle due frasi qui citate e lasciando per il resto il suo
lettore nell’ignoranza. E questo mostra come non il procedere del
sogno in quanto tale egli voglia esprimere, ma piuttosto la difficoltà di
un linguaggio che egli comincia ad intendere, ma soltanto a tratti, e che
non può comunque ancora comunicare per intero a chi lo legge, per-
ché chi lo legge non potrebbe intenderlo a questo punto: a questo sta-
dio, cioè, dell’opera che va scrivendo. Amore parla un’altra lingua
rispetto a quella quotidiana del poeta e dei suoi lettori: è straniero
rispetto a tutti, e solamente con fatica si imparerà a comprendere quel-
lo che veramente dice; in latino sono le frasi che Dante ci riferisce, ma
non in latino è il resto, bensì in una lingua che Dante conosce poco e
che gli altri, forse, non conoscono affatto. Non si vede, infatti, perché
egli non dovrebbe capire bene Amore se quest’ultimo parlasse sempli-
cemente in latino: lingua che egli conosce e che molti altri della sua cer-
chia conoscono. In latino sono le frasi che egli riferisce, e sono frasi faci-
li da capire; ma in altra lingua saranno le altre frasi, perché altrimenti,
non trattandosi qui di difficoltà di comprensione di concetti ma pro-
prio di difficoltà di comprensione di una lingua, Dante le capirebbe e
le potrebbe scrivere ai suoi lettori. Si ricordi, a questo proposito, il fina-
le di Amore e monna Lagia, comunque volto ad indicare una servitù di
Dante ad Amore che gli altri non possono intendere: è un altro Amore,
quello suo, rispetto a quello dei suoi amici e sodali; ed altro è il lin-
guaggio di Amore. In un’opera che, come la Vita nuova, si apre con
l’immagine del libro della memoria (I, 1), il riferimento alla lingua ed
all’estraneità di una lingua non può che essere importante, anzi decisi-
vo: nel libro della memoria sono scritte cose che la nostra lingua può
esprimere, ma anche cose che trascendono la nostra lingua; compito del
libro che le riferisce – la Vita nuova, appunto – è di portarle lentamen-
te in luce mostrando il viaggio di Dante stesso in una terra originaria-
mente straniera. Qui, all’inizio del viaggio, tutto è sfocato ed incerto: le
immagini come i suoni.

43 De Robertis, p. 38.
 ALBERTO GESSANI

Il punto decisivo di questo luogo, dunque, sembra proprio l’estra-


neità di Amore, il suo essere straniero rispetto alla nostra vita ed al
nostro linguaggio usuale; ed è importante che infine Amore stesso se ne
vada, con Beatrice, “verso lo cielo” (III, 7). Quanto era indicato enig-
maticamente nel sonetto, il carattere sacro dell’amore che si rivela, qui
è detto esplicitamente: Amore è altro da noi perché la sua dimensione
più vera e profonda non è di questa terra; perché esso ci visita, viene a
noi, ma non si identifica con la nostra vita terrena e non vuole che
rimaniamo nella nostra vita terrena. Il nucleo della conclusione del
sogno non risiede, dunque, nemmeno nella prosa, nella rivelazione
della futura morte di Beatrice, bensì nel fatto che Beatrice ed Amore
vanno “verso lo cielo”: indicano al poeta che l’essenza più nobile ed
alta dell’amore, cioè, non risiede nella gentilezza mondana, ma nella
tensione al divino ed all’eterno44. E la “grande angoscia” che prende il
poeta e che rompe, infine, il suo sonno (III, 7), non sarà l’angoscia per
quella morte, ma l’improvvisa consapevolezza della difficoltà della sali-
ta cui Amore chiama il suo fedele, del lungo travaglio che attende colui
che vuole veramente seguire Amore: travaglio che sarà poi pienamente

44 È quanto mostra il già ricordato C.S. Rossi, Il cuore, mistico pasto (v. qui nota 30).

Sarebbe tutto da vedere il rapporto tra questa concezione e la visione agostiniana della cha-
ritas, amore sempre buono in sé, ma sempre anche al bivio tra cupido, desiderio terreno, e
sublimazione nell’amore divino. Sul rapporto fra amore come passione e carità cfr. V.
Branca, Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica nella “Vita Nuova”, in AA.VV., Studi
in onore di Italo Siciliano, Sansoni, Firenze 1967, specie pp. 129 sgg. Cfr., a proposito del
pensiero di S. Agostino al riguardo, A. Nygren, Eros e Agape, tr. it., Il Mulino, Bologna
1971, II, Cap. II, II-III, specie pp. 482-527. Nygren dedica a Dante alcune pagine (pp. 630-
635), vedendo nella Commedia l’opera che meglio rappresenta il Medioevo e la concezio-
ne del Cristianesimo come religione della charitas (p. 633). Nel pensiero di Dante sono pre-
senti, secondo Nygren, motivi tratti da Proclo, dallo Pseudo-Dionigi e da S. Agostino: di
qui la sua vicinanza alla concezione greca dell’eros, anche se nella visione dantesca “è pre-
sente anche un tratto importante dell’agape, in quanto l’amore è considerato come un
dono della grazia divina” (p. 634). Nygren radicalizza il contrasto tra eros e agape, e dun-
que è portato ad interpretare qualsiasi tentativo di ascensione al divino come espressione
di infedeltà rispetto alla concezione del Nuovo Testamento: infatti è per lui “quasi inutile
rilevare che questa caritas [dantesca] non può essere identificata con l’agape del Nuovo
Testamento” (ivi). Al di là di questi giudizi, senz’altro discutibili, si deve riconoscere che
Nygren ha colto in modo assai acuto quello che costituisce un motivo fondamentale del
pensiero dantesco, un motivo forse profondamente problematico per lo stesso Dante.
Tutto da riesaminare, in questo senso, e tenendo presente anche il periodo della “crisi” di
Dante dopo la morte di Beatrice, sarebbe l’esame di S. Giovanni a Dante sulla carità in
Paradiso, XXVI, vv. 1-69: esame, appunto, al quale Nygren rimanda come all’espressione
più esplicita della filosofia dantesca dell’amore.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

indicato e narrato nella Commedia. Il suggello della sacralità della visio-


ne, infatti, è dato dal richiamo del numero nove, decisivo sempre in
questo senso, come è risaputo, nella Vita nuova:

E mantenente cominciai a pensare, e trovai che l’ora ne la quale m’era que-


sta visione apparita, era la quarta de la notte stata; sì che appare manifesta-
mente ch’ella fue la prima ora de le nove ultime ore della notte. (III, 8)45

Si comprende ora chiaramente come la concezione dell’amore che


Dante sviluppa già nei suoi anni giovanili abbia ben poco a che fare con
quella che Cavalcanti in Donna me prega e Lapo Gianni in Amor, nova ed
antica vanitate avevano presentato alla cerchia dei “fedeli”. L’amore vano,
crudele ed incapace di farsi guidare dalla ragione è, in effetti, l’amore
puramente mondano, ancorché gentile; e Dante può anche concordare
con i suoi amici sulle loro considerazioni. Ma l’essenza più profonda
dell’amore non risiede nella mondanità, bensì in una dimensione che
qui, nella nostra vita terrena, possiamo soltanto presagire e toccare, tal-
volta, attraverso visioni ed estasi, senza che la parola possa esprimerla in
termini concettuali. Non sarà forse inutile ricordare ancora, a questo
proposito, che il senhal “Amore” per Beatrice è giustificato da Amore
stesso, nella Vita nuova, in un contesto percorso da una tensione forte-
mente religiosa: la Giovanna di Guido Cavalcanti, dice Amore a Dante

45 Sul numero nove cfr. quanto Dante stesso vorrà dire in XXIX, 2-4, con un richia-

mo alla Trinità divina che è assai importante, come vedremo, per quanto andiamo dicen-
do qui: “Dunque se lo tre è fattore per sé medesimo del nove, e lo fattore per sé medesi-
mo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa
donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch’ella era uno
nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile
Trinitade” (XXIX, 3). Ed è assai significativo che Dante chiuda il discorso affermando che
“forse per più sottile persona si vederebbe in ciò più sottile ragione; ma questa è quella
ch’io ne veggio, e che più mi piace” (XXIX, 4): l’apparente autolimitazione è in effetti un
preciso avvertimento al lettore sul significato che al numero nove dà il poeta. L’importanza
di questo significato porta Dante a preoccuparsi su possibili interpretazioni dei suoi testi
estranee al suo pensiero, quindi a premunirsi con questa pagina. Di parere opposto, su
questo punto, G. Gorni, La Beatrice di Dante, dal tempo all’eterno (rielaborazione di Beatrice
agli inferi, in Omaggio a Beatrice, a cura di R. Abardo, Le Lettere, Firenze 1997), in Dante,
Vita nova, a cura di L.C. Rossi, cit., p. XIII, secondo il quale “si ha qui una superfetazio-
ne esoterica del discorso, le cui valenze, offerte a una glossa perenne, l’autore non può o
non vuole esaurire con una chiosa”. Se questa fosse l’intenzione di Dante, egli potrebbe
dire che altrove o in un altro contesto direbbe altra più sottile ragione; qui egli marca con
decisione la sua ragione contro quella di altri, dunque sembra non lasciare aperto il discor-
so, ma chiuderlo, almeno per quello che lo riguarda.
 ALBERTO GESSANI

parlandogli “nel cuore” (XXIV, 4), richiama nel nome “quello Giovanni
lo quale precedette la verace luce, dicendo: Ego vox clamantis in deserto:
parate viam Domini” (XXIV, 4); quanto a Beatrice, continua Amore, “chi
volesse sottilmente considerare quella Beatrice chiamerebbe Amore per
molta somiglianza che ha meco” (XXIV, 5). Il rapporto Giovanna-
Beatrice, dietro al quale si nasconde e si definisce, come è stato sottoli-
neato46, il rapporto Dante-Guido, si configura così come cifra del rap-
porto Giovanni-Cristo; ed a sua volta il rapporto Cristo-Beatrice-Amore
si configurerà sotto il segno “della grande equazione giovannea (I Ioann.,
IV, 8): ‘Deus charitas est’”47. Dante ricorda che amore è charitas e che Dio
è charitas nella persona di Cristo, e questo marca la sua visione dell’a-
more: Beatrice ispira amore mondano, certamente, per le sue doti, ma
l’amore mondano non è che un riflesso, quando è vero e profondo, della
charitas divina. Va d’altra parte tenuto presente, contro facili identifica-
zioni di Beatrice e Cristo, che l’equazione istituita da Dante nel passo
citato sopra non si delinea sotto il segno dell’identità, ma sotto quello
della “molta somiglianza” con Amore: Amore che, come vedremo, è
centro del tutto, ma non è, a sua volta, il tutto. Beatrice è pur sempre
una creatura, così come Giovanna: il suo “soprasenso”, se così vogliamo
dire, la riguarda nel contesto di una “sentenzia” (I, 1) delle cose umane
che soltanto il “fedele d’Amore”, il vero fedele, è in grado di vedere guar-
dando all’amore-charitas che ella ispira. In modo diverso, sicuramente,
ma con risultato affine, Amore non è Dio nella sua totalità e nella sua
pienezza, ma una persona divina; e così amare significa inseguire la
“somiglianza” delle persone e degli eventi con il divino, in una dinami-
ca che sempre deve rinnovarsi o, se si vuole, in un viaggio che sempre
deve ripartire, mentre viviamo, dalla dura, opaca eppur fragile sostanza
delle cose terrene.

4. Se l’estraneità appare la caratteristica più evidente e forte di Amore


nella prima visione che Dante ha di lui nella Vita nuova, la seconda visio-
ne accentua ed esplicita proprio questa caratteristica. Si tratta dell’appa-
rizione di Amore al poeta dopo la partenza della prima donna-schermo,
quando, durante un viaggio, quasi sopraffatto dall’angoscia per la lonta-

46 Cfr. Rossi, pp. 250-251; e E. Sanguineti, Per una lettura della “Vita nuova” in Dante,

Vita Nuova, a cura di A. Berardinelli, Garzanti, Milano 1977.


47 Cfr. De Robertis, p. 169.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

nanza da Beatrice, Dante lo vede, non però in sogno, come in prece-


denza, ma ne “la mia imaginazione” (IX, 3), come “peregrino leggera-
mente vestito e di vili drappi” (ivi). Adesso il “dolcissimo segnore” non
ispira paura, ma appare dimesso e mesto tanto nel sonetto che ne tratta
(Cavalcando l’altr’ier per un cammino, IX, 9-12) quanto nella prosa che pre-
cede il sonetto:

Ne la sembianza mi parea meschino,


come avesse perduto segnoria;
e sospirando pensoso venia,
per non veder la gente, a capo chino. (vv. 5-8)

Elli mi parea disbigottito, e guardava la terra, salvo che talora li suoi occhi
mi parea che si volgessero ad uno fiume bello e corrente e chiarissimo, lo
quale sen gia lungo questo cammino là ov’io era. (IX, 4)

Del fiume non si parla nel sonetto, ma l’atteggiamento di Amore è


uguale nei due testi, salvo che nel sonetto se ne esplicita il motivo: in
questo momento, partita la prima donna-schermo, Dante vaga in una
sorta di incertezza, e Amore sembra non essere più in grado di guidar-
lo. Il motivo appare abbastanza strano, se pensiamo che l’amore per
Beatrice non è cambiato; meno strano quando si ricordi che Dante stes-
so afferma che, partita la donna-schermo, “io, quasi sbigottito de la
bella difesa che m’era venuta meno, assai me ne disconfortai, più che
io medesimo non avrei creduto dinanzi” (VII, 1)48. Il rapporto con que-
sta “bella difesa” aveva dunque una qualche consistenza, e forse l’an-
goscia di cui si parla in IX, 2 non è soltanto per la lontananza da
Beatrice, come Dante dice, ma anche per la mancanza della donna, che
si trova poco distante dal luogo per il quale egli sta viaggiando: c’è, in
questi capitoli, una reticenza che si direbbe debole, ma forse voluta-

48 È da notare come l’essere “disbigottito” di Amore in IX, 4 corrisponda a questo esse-

re “sbigottito” di Dante per la partenza della “bella difesa”, ed è da notare che lo sbigotti-
mento di Amore è attenuato dal guardare il “fiume bello e corrente e chiarissimo”. È chia-
ra, per quanto riguarda la parola ed il concetto di sbigottimento, l’influenza di Cavalcanti:
cfr. per es., di quest’ultimo, Deh, spiriti miei (VI), v. 4; L’anima mia vilment’è sbigottita (VII),
v. 1; Noi siàn le triste penne isbigotite (XVIII), v. 1; O donna mia (XXI), v. 11. Ma lo stupore,
il dolore e la paura che si racchiudono nello sbigottimento sembrano in Cavalcanti legati
necessariamente all’amore ed alle sue fasi; in Dante, come mostra appunto lo sbigotti-
mento di Amore nel passo citato, un’altra dimensione si dischiude all’amante sbigottito, e
forse lo sbigottimento è soltanto una tappa del cammino dell’amore verso mete assoluta-
mente positive.
 ALBERTO GESSANI

mente debole, di fronte alla verità dei rapporti del poeta con la “bella
difesa”, quasi ch’egli volesse dire al suo lettore che nell’amare convivo-
no aspetti sublimi ed aspetti umani, e che il libro della vita nuova è
scritto per trattare dei primi, ma non può tacere del tutto dei secondi.
E lo vedremo meglio più avanti.
L’aspetto fisico e psicologico di Amore, dunque, si giustifica se con-
sideriamo, oltre alle vesti povere con le quali effettivamente i pellegrini
viaggiavano, il momento particolare dei sentimenti di Dante49. Ma
anche qui, come in tutta la Vita nuova, i dati puramente mondani sono
trascesi da un messaggio che li assorbe, se così possiamo dire, in una
dimensione più vasta e complessa. Che Dante senta il bisogno, nel pre-
sentare Amore come pellegrino, di offrire al lettore anche l’immagine di
“uno fiume bello e corrente e chiarissimo”, verso il quale Amore volge
talora gli occhi – quando non guarda la terra –, è cosa che non può esse-
re sottovalutata né interpretata semplicemente come una sorta di tribu-
to dantesco ai tanti paesaggi provenzali popolati di pastorelle e di carat-
tere generalmente erotico50: tanto più che l’immagine ritorna, poco
dopo, ad introdurre uno dei punti più importanti della Vita nuova, cioè

49 Cfr., per la descrizione di Amore in IX, 3 e nel v. 4 del sonetto corrispondente,

Barbi-Maggini, op.cit., pp. 45 sgg. Sul vestito dimesso dei pellegrini cfr. Foster-Boyde,
op.cit., p. 62. De Robertis, p. 63, ricorda Un dì si venne a me Malinconia (LXXII; 25), ove
Amore compare “vestito di novo d’un drappo nero,/e nel suo capo portava un cappello;/e
certo lacrimava pur di vero” (vv. 9-11); ma la somiglianza è, mi sembra, più apparente che
reale, perché nel sonetto ora citato le vesti di Amore sono vesti di lutto (cfr. Contini, p.
366), come poi si esplicita nelle parole finali di Amore: “Eo ho guai e pensero,/ché nostra
donna mor, dolce fratello” (vv. 13-14), e come si annuncia già con la venuta di Malinconia
in compagnia di Dolore ed Ira (v. 4. Ira sta per cordoglio, secondo “diffuso provenzalismo”
[Contini, p. 366]), mentre la veste e l’atteggiamento di Amore nei luoghi della Vita nuova
che stiamo ora percorrendo non hanno niente a che fare con il lutto.
50 V. per es. Rossi, pp. 40 e 42, che vede nel “trovai” del v. 3 di Cavalcando l’altr’ier per

un cammino un “verbo caratteristico del genere” e rimanda a Cavalcanti, In un boschetto


trova’ pastorella (XLVI [XLIV]), che però nulla ha a che fare, a parte il “trovai”, con il sonet-
to dantesco. De Robertis, a sua volta, ricorda Ciacco dell’Anguillara (?), Vat. lat. 3793,
CCLXVI, 1-2: “Part’io mi cavalcava, /audivi una donzella”. S. Pellegrini, Appunti sulla “Vita
nuova”, in “Atti del Convegno di studi su aspetti e problemi della critica dantesca”, De
Luca, Roma 1967, pp. 70 e sgg., crede di poter mostrare la genesi letteraria, e precisamen-
te dal genere pastorale e bucolico (su cui v. anche De Robertis, Il libro della Vita nuova, cit.,
pp. 249-250), del sonetto. Ma troppe cose mancano, nei versi danteschi e nella prosa cor-
rispondente, di quel genere (a cominciare dalla donzella, con tutte le implicazioni eroti-
che del caso), e quello che c’è è troppo generico (a cominciare dall’immagine del fiume,
che, come vedremo nel testo, può derivare da tutt’altri legami), e troppe cose troviamo (a
cominciare dal pellegrino: o si pensa che la figura del pellegrino possa sostituire tranquil-
lamente quella della donzella?) che sono del tutto estranee al genere stesso.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

la grande canzone Donne che avete intelletto d’amore51. Il luogo, in effetti,


ricorda, come è stato notato52, un passo dell’Apocalisse, e quel passo
dovremo aver presente:

Et ostendit mihi fluvium aquae vitae, splendidum tanquam crystallum, pro-


cedentem de sede Dei et Agni. (Apoc., XXII, 1)

Il fiume dell’Apocalisse è quello della nuova Gerusalemme, della


Gerusalemme celeste, nella quale Dio, “alpha et omega: initium et finis”
(XXI, 6), dà per sua grazia l’acqua della vita (ivi) e tutto fa vivere in una
grande, eterna luce (XXII, 23). Il desiderio della luce perpetua, che sarà
il motivo portante del “viaggio” dantesco nella Commedia, si lega qui,
dunque, al motivo dell’acqua salvifica, dell’acqua che dona vita a chi se
ne disseta; Amore, mentre soffre per la propria debolezza, è comunque
volto altrove, ad una meta altissima che non può ancora esprimersi se
non per immagini ed allusioni.
Ma ancora più evidente è il carattere sacro di questa immagine
d’Amore se pensiamo alla figura del pellegrino nella definizione che
Dante ne offre molti capitoli dopo, quasi alla fine della Vita nuova.
Prendendo occasione, apparentemente, dal passaggio per Firenze di
“molta gente” che andava “per vedere quella imagine benedetta la quale
Iesu Cristo lasciò a noi per essemplo de la sua bellissima figura” (XL, 1),
Dante si dilunga in una trattazione intorno al significato della parola
peregrino che potrebbe apparire pedante53, ma che certamente si collega
51 XIX, 1: “Avvenne poi che passando per uno cammino lungo lo quale sen gia uno

rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontade di dire, che io cominciai a pensare lo modo
ch’io tenesse”. De Robertis, p. 114, nota come l’inizio usa “una giuntura tipica di molti
inizi di capitolo dei Vangeli di Matteo e di Luca, ‘Factum est ut…’ […] Un modo som-
messo di solennizzare l’arrivo dell’ispirazione” (la “volontade di dire”); ma anche, si
potrebbe aggiungere, un modo di indicare il carattere non puramente mondano dell’ispi-
razione stessa (ed in questo senso è importante l’immagine del fiume, senz’altro legata a
quella di IX, 4).
52 Cfr. De Robertis, p. 63.
53 Tale, in effetti, appare per esempio a N. Sapegno nel suo commento alla Vita nuova,

Vallecchi, Firenze 1931, a.l., che comunque attribuisce la pedanteria, con una sorta di affet-
tuosa condiscendenza, a tutta la cultura del tempo di Dante; ed a F. Chiappelli, Opere di
Dante, Mursia, Milano 1965, a.l., che sottoscrive in pieno il giudizio di Sapegno. Rossi, pp.
207-208, pensa che Dante possa rammentare Santiago de Compostela alludendo polemi-
camente al viaggio “epicureo” che Guido Cavalcanti avrebbe fatto verso quella località
(Una giovane donna di Tolosa e Era in pensier d’amor farebbero appunto riferimento ad una
tappa di questo viaggio: cfr. Contini, Poeti, p. 95). Ma sembra un’ipotesi troppo debole,
per quanto suggestiva; come debole anche l’ipotesi, sempre di Rossi, p. 208, che nella trat-
 ALBERTO GESSANI

all’immagine di Amore peregrino per illuminarla. Il collegamento può


essere colto anche nel fatto che questi peregrini, come Amore in prece-
denza, procedono pensosi, “ché forse pensano de li loro amici lontani,
li quali noi non conoscemo”54; e la spiegazione della pensosità può vale-
re, forse, anche per Amore, straniero in mezzo a noi e lontano dalla sua
vera patria. Se in precedenza, come si è visto, il poeta vedeva nell’aspet-
to dimesso di Amore la tristezza per una signoria perduta sul poeta, ades-
so il motivo – paradossalmente, perché qui si tratta di uomini e là di un
qualcosa di divino – si fa più profondo ed autentico: Amore sarà triste
per le nostri sorti di creature deboli ed inermi, ma, per quanto lo riguarda,
sarà triste per la sua lontananza dai suoi amici lontani, “li quali noi non
conoscemo”. Adesso l’immagine del fiume acquista tutta la sua pre-
gnanza: Amore guarda a terra, passando per una terra straniera e, talora
guarda l’acqua limpida del fiume, che gli ricorda la città celeste, la nuova
santa Gerusalemme dalla quale è ora lontano.
La trattazione successiva intorno alla parola peregrino chiarisce ulte-
riormente questo carattere fondamentale di Amore. Dante afferma,
infatti, che usa la parola “secondo la larga significazione del vocabolo”,
che significa: “chiunque è fuori de la sua patria” (XL, 6); ma aggiunge
che c’è anche un “modo stretto” d’intendere peregrino:

E però è da sapere che in tre modi si chiamano propriamente le genti che


vanno al servigio de l’Altissimo: chiamansi palmieri in quanto vanno oltre-
mare, là onde molte volte recano la palma; chiamansi peregrini in quanto
vanno a la casa di Galizia, però che la sepoltura di sa’ Iacopo fue più lonta-
na de la sua patria che d’alcuno altro apostolo; chiamansi romei in quanto
vanno a Roma, là ove questi cu’ io chiamo peregrini andavano. (XL, 7)

La definizione, come si è detto, può apparire pedante; e pedante


sarebbe, in effetti, se fosse fine a se stessa. Ma non si può assolutamente
ritenere casuale, in un’opera altamente elaborata e ricca di simmetrie
come la Vita nuova, il rapporto di questo testo con quello che racconta
di Amore-peregrino. Tanto la “larga significazione” quanto quella stretta,
in effetti, dicono cose essenziali proprio riguardo alla figura che era com-

tazione sul pellegrino possa ravvisarsi “un’occulta ritrattazione del finale del Fiore, nel
quale la deflorazione della donna amata è descritta in termini di pellegrinaggio verso le
reliquie”.
54 Cfr. Purg., VIII: “Era già l’ora che volge al disio/ ai navicanti e ‘ntenerisce il core/

lo dì c’han detto ai dolci amici addio;/ e che lo novo peregrin d’amore/ punge, s’ode squil-
la di lontano/ che paia il giorno pianger che si more” (vv. 1-6).
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

parsa per la via; ed è da sottolineare che Dante insiste sulla parola


“patria”, prima nella definizione larga e poi parlando della sepoltura di
San Iacopo. Il pellegrino è un uomo che va lontano dalla sua patria, così
come San Iacopo ha la sua sepoltura lontano dalla sua patria: se Amore è
pellegrino, dunque, non è semplicemente straniero, ma è lontano dal suo
luogo d’origine, dal luogo nel quale è nato. L’amore che noi proviamo,
per quanto appaia legato ad un essere umano, non è in noi che come un
visitatore che si è allontanato dalla sua patria: è umano, sì, ma lo è in
quanto è temporaneamente con noi ed in noi, incarnato nelle nostre pas-
sioni e nei nostri desideri, mentre in se stesso è altro da noi e ricorda i
suoi “amici lontani, che noi non conoscemo”. L’equazione giovannea tra
Cristo e charitas conduce qui ad un risultato fondamentale: se Cristo è
amore, l’amore, di qualsiasi genere sia, è Cristo; è persona, cioè, della
divinità, che, come Cristo venne temporaneamente nel mondo per sal-
varci, continua a visitarci, ancora per la nostra salvezza. Ecco dunque l’o-
rigine della estraneità e insieme della famigliarità che Amore ispira in chi
lo vede e lo sente: è straniero in quanto è divino, e come tale suscita tre-
more e paura, ma è nostro famigliare in quanto è, appunto, amore: in
quanto viene a noi per il nostro bene e la nostra vera beatitudine.
Tutto questo si fa ancora più chiaro nel significato stretto di pellegri-
no. Precisando che il pellegrino è comunque una persona che viaggia
verso un luogo sacro, Dante indica la meta sacra del viaggio di Amore:
sacra era la sua patria celeste, sacro è il termine del viaggio. Mostrandosi
come pellegrino, dunque, Amore offre a Dante una figurazione molto
più ampia e profonda della propria essenza di quanto non avesse fatto
nella sua prima apparizione: là si era mostrato come un signore possen-
te e di “pauroso aspetto”, straniero nella sua lingua e nel suo fare; qui
mostra il suo aspetto cristiano negli abiti dimessi e nei due termini, alpha
et omega, initium et finis, del suo viaggiare tra di noi ed in noi. Già nella
sua prima apparizione, è vero, accudiva “umilmente” a Beatrice e
mostrava benevolenza; ma qui l’immagine si diversifica e, al tempo stes-
so, si precisa in una figurazione nella quale si uniscono l’amore, l’umiltà
e la nascosta divinità di Cristo-charitas. Ed in questo senso comincia a
chiarirsi, per Dante, la verità del suo amare e della sua angoscia: che è
essa stessa angoscia per una lontananza, ma non per la lontananza da
Beatrice o dalla donna-schermo, come appare dal senso più esplicito del
testo, bensì per il sentore e per la nostalgia del divino che si racchiudo-
no in ogni sentimento amoroso.
Potrà apparire strano, a questo punto, che Amore dia al poeta, quan-
do appare come pellegrino, un ordine che sembrerebbe sbagliato, dato
 ALBERTO GESSANI

che la sua effettuazione porterà Beatrice ad allontanarsi da Dante.


Leggiamo, dunque, le parole di Amore:

Io vegno da quella donna la quale è stata tua lunga difesa, e so che lo suo
rivenire non sarà a gran tempi; e però quello cuore che io ti facea avere a lei,
io l’ho meco, e portolo a donna la quale sarà tua difensione, come questa
era. (IX, 5)

E nel sonetto corrispondente (IX, 9-12):

[…]Io vegno di lontana parte,


ov’era lo tuo cor per mio volere;
e recolo a servir novo piacere. (vv. 10-12)

Dante dovrà, dunque, volgersi ad una nuova donna, che sarà sua dife-
sa come l’altra era stata. Ma questo nuovo rapporto si pone sotto un segno
diverso, probabilmente molto più sensuale, del primo, se il poeta, come è
facile pensare, racconta poi del giudizio della gente per dirci velatamente
l’effettiva caratteristica dell’amore per la seconda donna-schermo:

[…] dico che in poco tempo la feci mia difesa tanto, che troppa gente ne
ragionava oltre li termini de la cortesia; onde molte fiate mi pensava dura-
mente. (X, 1)55

Più avanti Amore dirà a Dante che Beatrice “udio da certe persone di
te ragionando, che la donna la quale io ti nominai nel cammino de li
sospiri, ricevea da te alcuna noia” (XII, 6): ove con “ricevere noia” s’in-
tende probabilmente – secondo un uso ancora presente in Toscana –
“subire parole e atti di carattere sessuale”, così come con “oltre li termini
de la cortesia” s’intende che la gente vedeva nel suo rapporto con la
donna un commercio carnale o comunque non “gentile”. Se la prima
donna-schermo appariva come una sorta di Beatrice “normalizzata”,
essendo “gentile” quando la prima è sempre meritevole di superlativi
assoluti e mostrandosi a Dante per la prima volta (per la prima volta, s’in-
tende, in modo significativo) in chiesa e sulla stessa linea percorsa dallo
sguardo di lui volto a Beatrice, quest’altra donna sembra essere stata
oggetto di desideri ben più materiali e passionali; e per questo Beatrice gli
55 Sul senso di “mi pensava duramente” (“mi pensava” è lectio difficilior preferita da

Barbi rispetto alla tradizionale “mi pesava”, confortata anche da E’ m’incresce di me, v. 46:
“e non le pesa del mal ch’ella vede”) come “mi affliggevo” cfr. De Robertis, p. 67, che
rimanda a G. Folena, “Pensamento” guittoniano, in “Lingua nostra”, XVI, 1955, p. 103.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

toglie il saluto. Dunque la conseguenza dell’ordine di Amore sembra


addirittura catastrofica per Dante, dal momento che lo priva proprio di
quel rapporto che era stato essenziale per la venuta di Amore e che era
una sorta di ponte verso l’assoluto: se Amore è la stessa charitas divina,
come può distruggere proprio ciò che ha innalzato ed innalza il poeta
verso il divino?
Si può dire, in primo luogo ed in termini generali, che evidentemen-
te la strada che Dante deve percorrere deve essere una strada ricca di
“prove” e tentazioni, come l’intera Vita nuova mostra con chiarezza: è un
viaggio, quello dell’uomo verso la verità, che deve passare per il richiamo
perentorio degli istinti e dei desideri, per l’orrore della morte – una delle
grandi protagoniste di quest’opera, ed ispiratrice di luoghi poeticamente
assai alti –, per la stessa tentazione del “riposo della vita”56, cioè di un’e-
sistenza tranquilla e non più consumata nell’ansia e nel rovello della
ricerca. Amore deve quindi non soltanto guidare Dante, ma anche, si
direbbe, creare esso stesso gli ostacoli necessari per il raggiungimento di
mete più alte; e già si può intravedere nella Vita nuova, in questo senso,
il grande disegno della Commedia, anch’essa ricerca di una vita nuova
attraverso l’inferno ed il purgatorio dell’anima. Anche nel “libello” (I, 1),
alla fine, l’amore porterà Dante ad una luce più alta e più pura d’ogni luce
terrena, e dunque i suoi ordini sono soltanto in apparenza sbagliati o
malevoli; buono è il fine cui tende, e buona, in ogni caso, anche quando
comporta dolore, è la strada che fa percorrere al suo “fedele”.
Ma c’è un motivo più sottile, del resto connesso a quello più genera-
le, in ciò che Amore ordina a Dante; ed è un motivo decisivo per la sua
poesia e per la sua maturazione di uomo. Lo possiamo cogliere più avan-
ti, in un capitolo che segna una vera e propria svolta nella vicenda e che

56 Cfr. soprattutto XXXVIII, 1-3, in rapporto alla “donna pietosa”: “pensava di lei così:

‘Questa è una donna gentile, bella, giovane e savia, apparita forse per volontade d’Amore,
acciò che la mia vita si riposi’. E molte volte pensava più amorosamente, tanto che lo cuore
consentiva in lui, cioè nel suo ragionare […]. Poi si rilevava un altro pensero, e diceame:
‘Or tu se’ stato in tanta tribolazione, perché non vuoli tu ritrarre da te tanta amaritudine?
Tu vedi che questo è uno spiramento d’Amore, che ne reca li disiri d’amore dinanzi, ed è
mosso da così gentil parte com’è quella de li occhi della donna che tanto pietosa ci s’hae
mostrata’”. Cfr., su questa argomentazione, Sapegno, op. cit., a.l. Senza voler entrare nelle
questioni aperte dai passi del Convivio nei quali la “donna pietosa” è interpretata come
figura della filosofia, si può osservare che, in fondo, questa famosa autointerpretazione di
Dante non è poi così arbitraria come sembra a prima vista: la strada della donna pietosa è
quella della ragionevolezza, che si contrappone a quella sorta di follia divina che è, inve-
ce, l’amore per Beatrice.
 ALBERTO GESSANI

precede infatti di poco Donne ch’ avete intelletto d’amore. Ad una donna che
gli chiede quale sia il fine del suo amore, visto che egli non può nemme-
no sostenere la presenza di Beatrice, Dante dà questa risposta:

Madonne, lo fine del mio amore fue già lo saluto di questa donna, forse di
cui voi intendete, e in quello dimorava la beatitudine, ché era fine di tutti li
miei desiderii. Ma poi che le piacque di negarlo a me, lo mio segnore Amore,
la sua merzede, ha posto tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote
venire meno […] in quelle parole che lodano la donna mia. (XVIII, 4-6)

La beatitudine, dunque, risiedeva nel saluto di Beatrice, come sarà


ribadito poco dopo (XIX, 20); ma è fondamentale il fatto che Dante usi
il tempo imperfetto57, come userà nell’altro passo il passato remoto, fue.
È un periodo ormai superato, quello del saluto, e Dante contrappone ad
esso, infatti, il presente: “non mi puote venire meno”; ma occorreva, per
il superamento, che Beatrice stessa togliesse il saluto al poeta e che
Amore, per sua grazia (“la sua merzede” è frase assoluta), lo portasse a
ciò che nessuno potrà togliergli più. È stato opportunamente ricordato,
a proposito di questo passo58, un luogo importante del Vangelo di Luca
(X, 38-42), in cui si narra delle due sorelle Marta e Maria, la prima delle
quali si affaccenda intorno a Gesù e la seconda se ne sta ferma ad ascol-
tare le parole di lui. Quando la prima si lamenta del fatto che la sorella
non l’aiuti, Gesù risponde:

Martha, Martha, sollicita es, et turbaris erga plurima. Porro unum est neces-
sarium. Maria optimam partem elegit, quae non auferetur ab ea. (X, 42)

Maria rappresenta la vita contemplativa e Marta la vita attiva: le cose


che Maria ha scelto di seguire sono quelle necessarie, e non le saranno
tolte59. Dante riprende quasi alla lettera la fine della risposta di Gesù

57 La lezione “ché era fine” è stata giustamente preferita da Barbi all’altra “ch’è fine”,

molto meno significativa. Ma il passo che, secondo De Robertis (p. 111), conferma la lezio-
ne scelta da Barbi: “lo saluto di questa donna […] fue fine de li miei desideri mentre ch’io
lo potei ricevere” (XIX, 20), non è, al riguardo, probante: il che di “ch’è fine”, infatti, non
si riferirebbe al saluto di Beatrice, ma alla beatitudine, e Dante specificherebbe che la bea-
titudine è il fine di tutti i suoi desideri, ci sia o no il saluto di Beatrice.
58 Cfr. Singleton, op.cit., p. 127, nota n.6; e anche De Robertis, Il libro della Vita nuova,

cit., pp. 101-102; Rossi, p. 84.


59 Cfr. anche Matth., VI, 33-34. Alla filosofia, nel Convivio, Dante sembra attribuire la

beatitudine della vita contemplativa: “fine della Filosofia è quella eccellentissima diletta-
zione che non pate alcuna intermissione o vero difetto, cioè vera felicitade che per con-
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

proprio per indicare la sua nuova scoperta, la scoperta decisiva della sua
vita e della sua poesia: nessuno potrà togliere ciò che da nessuno deriva
e che non si lega alle faticose vicende della vita; nessuno potrà scalfire le
conquiste della contemplazione pura. Ed infatti precisa che ora la sua
beatitudine è posta “nelle parole che lodano la donna mia”, cioè non in
un saluto o qualcosa d’altro che da altri dipenda, ma nella sua capacità
di dire quanto c’è di sublime e di divino – di necessario – in quella
donna che prima era cercata per se stessa. Non si tratta qui, come tal-
volta è sembrato agli interpreti, di autosufficienza della poesia, perché
comunque rimane il riferimento ad altro, alla donna; si tratta del fatto
che la bellezza umana, qualsiasi bellezza, è soltanto figura della più alta
bellezza cui la poesia può attingere e cui la poesia deve tendere: la figu-
ra è il ponte verso questa più alta bellezza, e la beatitudine non dipen-
derà più dalla creatura che quella figura incarna, bensì dalla bellezza alla
quale la creatura, in quanto figura, rimanda. Non è l’affaccendarsi intor-
no al bene terreno quello che ci salva; è la contemplazione di ciò che di
assoluto si vela nel contingente; di ciò che di assoluto si vela, in questo
caso, in Beatrice. Forse per questo Dante ha voluto conservare, nella
Vita nuova, qualcosa della ragazza Beatrice che si gabbava di lui, qual-
cosa della ragazza Beatrice che gli aveva ispirato E’ m’incresce di me e Lo
doloroso amor che mi conduce: proprio per indicare che è altra la Beatrice
di cui sta veramente trattando, una Beatrice che da quella è assai distan-
te pur nascendo da quella. E per questo, in luoghi che richiederebbero
una lunga trattazione qui impossibile, si introduce l’idea di una sorta di
doppio sguardo, l’uno del senso della vista e volto alla Beatrice donna,
l’altro di Amore e volto ad una realtà ben diversa da quella della
donna60. Certo è che, se la Vita nuova è soprattutto la storia della poeti-

templazione della veritade s’acquista” (III, XI, 8). Ma il concetto di beatitudine, nel
Convivio stesso e nella cultura del tempo di Dante, è tutt’altro che pacifico, e sarebbe da stu-
diare a fondo – come non è possibile fare qui – confrontando le posizioni dantesche, a par-
tire appunto dalla Vita nuova, con il dibattito che nel Medioevo si svolge al riguardo, sul
fondamento del pensiero agostiniano e di quello tomista. Cfr. comunque, per una visione
d’insieme del problema, H. De Lubac, Agostinismo e teologia moderna, tr. it., Il Mulino,
Bologna 1968, Cap. VII (dedicato appunto al problema della beatitudine), pp. 235-270.
60 “E quando ella fosse alquanto propinqua al salutare, uno spirito d’amore, distrug-

gendo tutti li altri spiriti sensitivi, pingea fuori li deboletti spiriti del viso, e dicea loro:
‘Andate a onorare la donna vostra’; ed elli si rimanea nel luogo loro. E chi avesse voluto
conoscere Amore, fare lo potea mirando lo tremare de li occhi miei” (XI, 2). Chiare sono,
in questo passo, le reminiscenze cavalcantiane (Voi che per li occhi), e guinizzelliane (Lo vostro
bel saluto); ma la differenza da Cavalcanti non sta soltanto nel fatto che qui rimane Amore
e in Cavalcanti dolore nel luogo de “li deboletti spiriti del viso” (cfr. De Robertis, p. 70).
 ALBERTO GESSANI

ca di Dante, del sorgere di una nuova poesia in lui attraverso un lungo


e difficile dibattito interiore61, il punto che abbiamo qui esaminato
costituisce la vera chiave di volta per la scoperta di questa nuova poesia,
che potremmo definire olimpica62 e che fa tutt’uno con un nuovo modo
di vedere e sentire le cose, con una vita nuova, appunto. Dante, infatti,
fa seguire alla sua affermazione intorno alla vera beatitudine una frase
della donna con la quale sta parlando che, per quanto di difficile inter-
pretazione63, ha comunque il sapore di un rimprovero riguardante il suo
modo di far poesia, finora autobiografico piuttosto che laudativo64; e si
pone, “quasi vergognoso” partendosi da lei e dalle altre donne, una
domanda :

Poi che è tanta beatitudine in quelle parole che lodano la mia donna, perché
altro parlare è stato lo mio? (XVIII, 8)

Dante parla, in effetti, di una doppia vista: quella sensibile, che rimane ad onorare la donna
per il suo corpo e per il suo viso, e quella d’Amore, volta ad una Beatrice che gli occhi sen-
sibili non possono cogliere. Più avanti, invece, Amore annullerà gli spiriti della vista, pur
non distruggendoli: “Allora fuoro sì distrutti li miei spiriti per la forza che Amore prese veg-
gendosi in tanta propinquitade a la gentilissima donna, che non ne rimasero in vita più che
li spiriti del viso; e ancora questi rimasero fuori de li loro istrumenti, però che Amore volea
stare nel loro nobilissimo luogo per vedere la mirabile donna […] questi spiritelli […] si
lamentavano forte e diceano: ‘Se questi non ci infolgorasse così fuori del nostro luogo, noi
potremmo stare a vedere la maraviglia di questa donna così come stanno gli altri nostri
pari’” (XIV, 5-6).
61 Ha particolarmente sottolineato questo aspetto della Vita nuova E. Sanguineti, Per

una lettura della “Vita nuova”, cit., specie pp. XV-XVIII.


62 Mi riferisco a quella concezione apollinea dell’arte che G. Carchia, in L’estetica anti-

ca, Laterza, Roma-Bari 1999, specie Cap. I (ma v. anche Cap. II, p. 59, per una chiara sin-
tesi dell’argomento), contrappone alla concezione tragica ed all’ “estetica formalistica del
naturalismo e della sofistica”.
63 “Se tu ne dicessi vero, quelle parole che tu n’hai dette in notificando la sua condi-

zione, avrestù operate con altro intendimento” (XVIII, 7). Intendimento non deve intendersi
qui come intenzione, ma come “sentenza, concetto, significato, come in VII, 7, e più chia-
ramente in XIX, 22 e XXV, 10” (De Robertis, p. 113). Contini (Letteratura italiana delle
Origini, Sansoni, Firenze 1970, a.l.) spiega: “ad altro fine, di lode, non di narrazione auto-
biografica”, vedendo in questo luogo una precisa indicazione riguardo alla nascita della
nuova poetica dantesca: nascita che sarebbe prima teorica che pratica, nel senso che Dante
acquisirebbe prima coscienza della necessità di un nuovo modo di fare poesia, poi capa-
cità di operare in questa direzione. Si ha qui, in effetti, una chiara espressione del caratte-
re sempre anche razionale (ricordiamo il “fedele consiglio de la ragione” in II, 9) delle scel-
te poetiche dantesche.
64 Cfr. De Robertis, p. 113.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

Il proponimento per il futuro che consegue da questa domanda, e


che spaventa Dante per l’“alta matera” del suo dire, “sì che non ardia di
cominciare”, è proprio quello di una poesia di lode (XVIII, 9): di un’al-
tra poesia, insomma, rispetto a quella precedente. Il dolore e la frustra-
zione per la mancanza del saluto porta infine Dante a cogliere ciò che
veramente gli è necessario e che non potrà essergli tolto da accidente o
volontà umana: un poetare che dall’umano si volga al divino, un guar-
dare le cose e le persone non per se stesse, ma come figure di un eterno
che, in quanto tale, non può darsi alla mente umana. Siamo davvero
all’esordio, qui, della più grande poesia dantesca, intrisa sempre di uma-
nità ma volta sempre ad una dimensione altra che sia tale da riscattare e
sublimare la nostra povera sostanza terrena.
Se ritorniamo ora al punto dal quale siamo partiti, cioè dall’ordine
di Amore-pellegrino a Dante, non è difficile rendersi conto che tale ordi-
ne ha, per i suoi effetti ultimi, un valore altamente positivo, perché porta
a quella crisi – alla negazione del saluto da parte di Beatrice e al dolore
che tale negazione suscita in lui – dalla quale scaturirà la consapevolez-
za di Dante della vera beatitudine poetica ed esistenziale. Amore è una
guida che vede al di là dello stesso poeta e che fa compiere percorsi che
soltanto alla fine, soltanto quando tutto si sarà compiuto, riveleranno il
loro senso più profondo e la loro bontà per il destino ultimo di chi li
seguiti: nel loro farsi comportano dolore ed angoscia, certamente, ma
soltanto attraverso il dolore e l’angoscia l’uomo può veramente avvici-
narsi a quanto c’è di sublime in lui e fuori di lui.

5. La terza apparizione di Amore di cui Dante racconta avviene nello


stato di profonda prostrazione che segue alla negazione del saluto da
parte di Beatrice. Così come dopo il primo incontro da adulto con la
“donna della salute”, il poeta si rifugia nella sua camera, questa volta
però dopo avere pianto molto (XII, 1) ed in uno stato d’incertezza e con-
fusione. Tale confusione è ben evidente dal fatto che egli prima “chiama
misericordia” a Beatrice65, poi prega affinché Amore lo aiuti, infine si
addormenta “come un pargoletto battuto lagrimando” (XII, 2): immagi-
ne, quest’ultima, di grande intensità (anche grazie al gerundio finale), ma

65 È ben evidente in questo “chiamare misericordia” il ricordo biblico del clamare ad

Dominum, opportunamente rammentato da De Robertis, p. 72.


 ALBERTO GESSANI

che comunque è volta proprio ad evidenziare uno stato di estrema debo-


lezza. Il bambino è vulnerabile perché dipende dagli adulti che ne
hanno cura, e che possono dargli gioia con il loro affetto, lacrime con la
loro durezza: non diversamente Dante, fino a che sente la propria bea-
titudine nel saluto, da questo dunque dipendendo, non può vedere nella
mancanza del saluto stesso che la catastrofe della propria poesia e della
propria vita. L’aspetto patetico di questa condizione infantile non deve
far dimenticare al lettore il giudizio negativo che Dante comunque ne
dà; e non sarà forse inutile ricordare che nel Purgatorio (XXXI, vv. 67-69)
Beatrice esige dal poeta, di fronte ai suoi rimproveri, un atteggiamento
virile, e gli ricorda la sua “barba”, cioè il suo essere adulto, come Dante
ben comprende: “e quando per la barba il viso chiese,/ ben conobbi il
velen dell’argomento” (vv. 74-75). Qui, in questo sonno agitato da bam-
bino piangente, appare Amore, ed anche qui, seppure in modo meno
esplicito e con maggiore dolcezza, il poeta è chiamato (come vedremo
più avanti) ad un pensiero da adulto:

Avvenne quasi nel mezzo del mio dormire che me parve vedere ne la mia came-
ra lungo me sedere uno giovane vestito di bianchissime vestimenta, e pensan-
do molto quanto a la vista sua, mi riguardava là ov’io giacea […]. (XII, 3)

L’apparizione ricorda ovviamente quella di Filosofia ai piedi del letto


di Boezio66, ma Dante modifica la posizione di Amore: che sta qui non
ai piedi del letto, ma “lungo me”, cioè vicino a lui, al suo fianco67. È un
cambiamento significativo, perché introduce all’atmosfera di famigliarità
propria dell’intero episodio: Amore sta seduto vicino a Dante come

66 “Tum illa propius accedens in extrema lectuli mei parte consedit meumque intuens

uultum luctu grauem […]” (De Consolatione Philosophiae, I, 1, 14). Ma è da notare che nulla,
nell’aspetto del giovane che appare a Dante, ricorda la Filosofia di Boezio, e che Filosofia,
nel De Consolatione, scaccia le Muse poetiche trattandole da dispensatrici di veleni (I, 1, 7-
11), mentre il giovane consiglierà infine a Dante proprio di fare poesia. Il legame con la
situazione descritta da Boezio (cui dà molta importanza per es. De Robertis, Il libro della
Vita Nuova cit., pp. 67-68) non mi sembra dunque molto forte.
67 Con l’espressione “lungo me” Dante sembra voler indicare che il giovane non sem-

plicemente gli sta vicino (De Robertis intende: “presso di me”), ma sta al suo fianco, in
una posizione molto famigliare ed intima. Nei due passi della Vita nuova nei quali l’e-
spressione ricorre (XXIII, 11 e XXXIV, 1) il significato appare lo stesso: nel primo si tratta
di una donna “giovane e gentile” che sta prendendosi cura della malattia e del delirio di
Dante, e che dunque starà probabilmente a fianco del suo letto; nel secondo si tratta di
uomini che guardano le tavolette sulle quali Dante disegna, e che quindi si saranno posti
al suo fianco. Cfr. anche Inferno, X, 53; XXI, 98; e Purgatorio, XXXII, 130.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

appunto una persona di famiglia durante una sua infermità; è quasi


tutt’uno con lui e partecipa della sua malattia, con lui dialogando.
Questa famigliarità contrasta in modo singolare con l’estraneità che si
era evidenziata nella prima visione, ma non necessariamente dipende
soltanto – come è sembrato agli interpreti – dal fatto che Dante ed
Amore si frequentano – per così dire – ormai da molto tempo e si cono-
scono meglio l’un l’altro: anche da questo, certamente, e fuor di figura
allora dovremo segnare qui una maggiore dimestichezza del poeta con i
propri sentimenti. Ma forse siamo di fronte anche ad un diversificarsi
delle persone di Amore che potremmo definire dialettico o, più coeren-
temente con lo spirito del testo, cristiano. In ogni caso, Amore se ne sta
pensoso, chiama “sospirando” il poeta, “così come assai fiate ne li miei
sonni m’avea già chiamato”, e piange “pietosamente” (XII, 3-4): all’alle-
gria ed al pianto della prima visione si è sostituito, ora, un pianto più
partecipe, più intimo, più personale; il pianto della prima visione sem-
brava riguardare Dante e Beatrice in quanto esseri umani, mentre que-
sto è proprio per Dante, per il suo proprio dolore attuale.
Ma il punto che più ha fatto e deve far riflettere, insieme alle parole
di Amore delle quali parleremo tra poco, è costituito dalle “bianchissi-
me vestimenta” di Amore stesso. Questo candore della veste è sembrato
a molti simbolo di purezza e di innocenza, così come quello della veste
di Beatrice diciottenne68; e non è dubbio che esista una lunga e consu-
mata tradizione, nella civiltà occidentale, di questo simbolo. Ma si trat-
ta, appunto, di una tradizione, non di riscontri interni all’opera dante-
sca, che sono quelli che veramente contano; e non si vede quale senso
potrebbe avere, in questo contesto, un’equazione Amore-innocenza o
Amore-purezza, che sarebbe tra l’altro presente soltanto qui. Occorrerà
dunque ricordare, piuttosto, di nuovo Boezio69, ma soprattutto l’angelo
che, seduto dentro il sepolcro di Cristo, annuncia la sua resurrezione nel
Vangelo di Marco (e anche in Act. Ap., X, 30):

Et introeuntes [Maria Magdalene, et Maria Iacobi, et Salome] in monumen-


tum viderunt iuvenem sedentem in dextris, coopertum stola candida, et
obstupuerunt. Qui dicit illis: Nolite expavescere: Iesum quaeritis Nazarenum,
crucifixum: surrexit, non est hic, ecce locus ubi posuerunt eum. (XVI, 5-6).

68 Cfr, per esempio, Sapegno, op.cit., a.l. Giustamente De Robertis, p. 72, rimprovera

il carattere “esterno” e tutto sommato generico di queste interpretazioni.


69 Anche qui, però, il legame del testo dantesco con De Cons. Phil., I, 1, 3-4, appare

piuttosto vago.
 ALBERTO GESSANI

Dante cita questo passo nel Convivio (IV, XXII, 14-15), vedendo nel
giovane l’angelo di Dio che viene ad annunciare la superiorità della vita
contemplativa su quella attiva, quest’ultima legandosi a “corruttibili
cose” (quale era, appunto, il corpo nel sepolcro). Ma vediamo che cosa
scrive poi Dante nel Convivio:

Questo angelo è questa nostra nobilitade che da Dio viene […] e dice a
[…] qualunque va cercando beatitudine ne la vita attiva, che non è qui
[…] Bianchezza è uno colore pieno di luce corporale più che nullo altro;
e così la contemplazione è più piena di luce spirituale che ogni altra cosa
che qua giù sia. (IV, XXII, 16-17)

La bianchissima veste di Amore nella Vita nuova, dunque, in senso


generale indica la sua natura angelica, e in senso particolare rimanda,
con la pienezza di “luce corporale” che la caratterizza, ad una vita volta
non alle cose corruttibili, ma a quanto c’è di più alto e puro entro que-
ste cose e al di sopra di esse. Non semplicemente alla purezza, dunque,
allude l’immagine, ma alla grande luce del divino, che adesso si svela,
prima ancora che nelle parole di Amore, in queste “bianchissime vesti-
menta”; e più che altrove Amore è qui maestro che indica la vera via,
quella via che Dante potrà cominciare a percorrere in pieno soltanto più
tardi, non per caso richiamandosi ancora, come si è visto, alla superio-
rità della vita contemplativa sui legami con ciò che è corruttibile.
E non per caso, allora, le prime parole pronunciate da Amore sono:
“Fili mi, tempus est ut pretermictantur simulacra nostra” (XII, 3), ove l’e-
spressione “Fili mi” introduce all’atmosfera colloquiale ed affabile di cui
si diceva e simulacra è parola densa di significato, che soltanto in un
senso banale potrebbe essere messa in rapporto alle donne-schermo e
intesa come finzioni70. Il significato primario di simulacrum, intanto, non
è finzione, bensì immagine; e proprio alle immagini, che hanno una somi-
glianza con il vero e lo esprimono, ma in modo parziale, si contrappo-

70 Con finzioni, invece, traducono in genere i commentatori simulacra: cfr. per es. De

Robertis, p. 73; e Rossi, pp. 49-50, che rimanda alle finzioni “cortesi” delle donne-scher-
mo, pur ammettendo la possibilità che si alluda ai “travestimenti” di Amore stesso.
Chiappelli, op. cit., a.l., vede in questi simulacra una “forma inferiore di conoscenza”, che
ora Dante dovrebbe abbandonare per sostituirla con una verità puramente concettuale; ma
tutta la poesia passata e futura di Dante stesso, in questo modo, andrebbe perduta, ed
andrebbe perduto il fulcro della sua poetica, incentrata proprio sulla figura. Le immagini,
in effetti, non saranno abbandonate come pure e semplici finzioni, ma comprese nel loro
valore di immagini e denudate (come vedremo tra poco).
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

ne ora la luce della veste di Amore, la verità pura e nuda che illuminerà
le stesse immagini. Anche sul fatto che le immagini sono dette nostre
dobbiamo fare attenzione, perché potrebbe tanto indicare una sorta di
complicità tra Amore e Dante quanto anche essere un plurale majestatis
(così come, successivamente, quando anche Beatrice è detta nostra: cfr.
per es. XII, 6): nel primo caso simulacra potrebbe riferirsi anche alle
donne-schermo, e già sarebbe difficile pensare che le donne-schermo
siano state soltanto finzioni; nel secondo caso, che è forse il più proba-
bile se consideriamo il contesto e ciò che verrà detto successivamente,
Amore vorrebbe dire che è tempo che il poeta lo colga per quello che è
entro le sue figure, nella sua verità; che il suo apparire non deve più
nascondere la sua essenza. In ogni caso, il punto è decisivo, perché indi-
ca il passaggio ad una fase nuova dell’esistenza e della poesia di Dante:
una fase nella quale non tanto verranno abbandonate le immagini e le
figure, essenziali sempre per chi voglia dire, quanto sarà superata ogni
confusione tra figure e verità “denudata” e sarà visto il vero – la bianca
luce che attende chi si distacca dalla vita attiva – che si cela sotto il velo
dell’immagine. E qui risiede il “velen dell’argomento” di Amore: nella
denuncia del carattere in fondo infantile di ogni esistenza che si attacchi
eccessivamente alle immagini, da quelle dipendendo come da un qual-
cosa di assoluto e necessario; nell’indicazione di una via più matura per
il pensiero e per il sentimento, che consiste nella riflessione sulle imma-
gini – di qualsiasi genere – che ci attorniano.
La frase di Amore che segue è introdotta – e non andrebbe dimenti-
cato – da una domanda di Dante: “e perché piangi tu?” (XII, 4), solleci-
tata dal piangere di Amore e dal fatto che Amore stesso “parea che atten-
desse da me alcuna parola” (ivi); e va notato che la domanda, se si rife-
risce ovviamente a quanto sta accadendo ora, si riferisce anche alle altre
apparizioni di Amore, triste sempre e piangente salvo che nel suo pri-
missimo mostrarsi. È, in fondo, l’enigma di tutta questa prima parte
della Vita nuova: perché un qualcosa di così bello e nobile come Amore
deve presentarsi piangente? O, fuori di metafora: perché il dolore nel-
l’amore? E, più largamente: perché il male ed il dolore in una vita riscat-
tata dall’amore di Cristo? Amore sollecita ora la domanda come un mae-
stro, una guida che conosce i dubbi del suo discepolo; allo stesso modo,
nella Commedia, si comportano spesso Virgilio e poi Beatrice. Ma è da
notare – e cercheremo di interpretarlo in seguito – che non così si era
comportato in precedenza Amore: o aveva fatto affermazioni perentorie
parlando, tra l’altro, in una lingua in gran parte sconosciuta al poeta, o
aveva dato ordini – o consigli – riguardo ad azioni da fare. La domanda
 ALBERTO GESSANI

di Dante scaturisce dall’atteggiamento cortesemente educativo che per la


prima volta Amore mostra; e del resto è la prima volta che quest’ultimo
appare dopo un’invocazione d’aiuto da parte del poeta.
La risposta è una vera e propria definizione more geometrico, quanto
mai precisa, nella quale il quesito posto viene risolto implicitamente,
cioè sulla base delle conseguenze della definizione stessa. Conviene leg-
gerla con attenzione:

Ego tanquam centrum circoli, cui simili modo se habent circumferentie


partes; tu autem non sic. (XII, 4)

Appare abbastanza fuori luogo vedere nel finale: “tu autem non sic”,
un rimprovero volto a Dante71 e ad una qualche sua illusione di centra-
lità ed onnipotenza nella pratica delle donne-schermo: il rimprovero
sarebbe ingiusto, in primo luogo perché quella pratica non implica illu-
sioni di centralità, in secondo luogo – e soprattutto – perché essa è stata
voluta proprio da Amore, e in terzo luogo perché abbasserebbe alquan-
to il tono della frase, con un riferimento individuale contrastante con il
carattere universale e solenne della definizione. Amore marca semplice-
mente, in effetti, la differenza tra l’amore e l’individuo, o tra l’amore e
l’uomo, e così chiarisce perché piange: perché, proprio in quanto è
Amore, e dunque in quanto Amore ha a cuore la sorte degli uomini,

71 Una rassegna delle molte interpretazioni che vedono nella frase di Amore un rim-

provero si trova in Chiappelli, op. cit., a.l. È singolare il fatto che i commentatori si siano
concentrati più sull’ultima parte della frase (tu autem non sic) che sulla definizione vera e pro-
pria, per di più intendendo il tu come rivolto a Dante individuo, alla sua vicenda persona-
le. Ciò consegue, forse, dal riferire l’immagine del centro del cerchio all’amore di Dante per
Beatrice, “unico (come il centro di un cerchio) e rispetto al quale ogni altra cosa terrena è
ugualmente e indifferentemente distante” (Berardinelli, comm. cit., a.l.). Ma ciò significa
chiudere Amore proprio in quella vicenda personale che la definizione geometrica sembra
voler superare; ed il rimprovero avrebbe ben poco senso, dal momento che Amore stesso
porrebbe l’amore per una donna – ché donna, in ultima analisi, Beatrice rimane – come
centro del tutto. Il carattere universale e fondamentale delle parole di Amore, in effetti, è
mostrato chiaramente dal fatto che la definizione è quella euclidea del circolo, con l’uso
infatti di una locuzione tecnica, se habere ad (che ritornerà, tradotta, in XLI, 6): tu autem non
sic, in questo contesto, non può essere che una conseguenza della definizione. E il fatto che
questa conseguenza si presenti in una forma che ripete Luc., XXII, 26 (“Vos autem non sic”,
dice Cristo agli apostoli in riferimento ai re ed ai potenti che governano genti: “non così
voi”; “et qui maior est in vobis, fiat sicut minor”) dovrebbe sconsigliare i commentatori dal-
l’intendere il tu come l’individuo Dante. Amore dice tu perché in questo momento sta par-
lando al poeta, ma il suo discorso non può che riguardare tutti gli esseri umani.
Correttamente intende il passo, a mio parere, De Robertis, pp. 73-74.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

non può non soffrire per i dolori che si legano negli uomini alla ricerca
della beatitudine. Questi dolori sono inevitabili – dunque inevitabile è
anche il suo pianto – proprio perché, trovandosi l’uomo in un punto
qualsiasi della circonferenza, dovrà penare molto prima di comprende-
re che non a ciò che è vicino deve volgersi, ma a ciò da cui si forma la
circonferenza stessa: a quel centro dal quale dipendono tutti i punti. Le
cose corruttibili sono qui, alla mano, vivono e muoiono vicino a noi, ci
toccano continuamente con la loro bellezza o bruttezza; facile dunque
pensare che in esse e per esse dobbiamo vivere, e credere di poter trova-
re in esse quei valori ai quali aspiriamo o quel negativo dal quale rifug-
giamo, con ciò donandoci soltanto alla dispersione, all’angoscia del
nulla, al dolore per tutto quello che da noi non dipende ma incide sulla
nostra vita. Ad un impulso che dovrebbe condurci all’assoluto corri-
sponde insomma, almeno fino a che non si sia superata una serie di dif-
ficili prove, una nostra attenzione esclusiva volta alle cose del mondo, al
corruttibile: è quanto accade a Dante, ora, nel dolore per il saluto nega-
to di Beatrice, ed è quanto accade a coloro (come Guido Cavalcanti o
Lapo Gianni) che rimangono delusi dell’amore, e lo offendono, e cerca-
no di distaccarsene, senza comprendere che non l’amore li ha delusi, ma
gli esseri umani sui quali hanno fondato la loro capacità di amare. Sarà
questo uno dei sensi del rimprovero di Beatrice a Dante nel Purgatorio:
se Beatrice era per lui la migliore delle donne, e se egli l’ha poi vista,
come l’ha vista, ridotta a povere spoglie, come ha potuto poi ancora
attaccarsi alle cose del mondo? Come ha potuto credere che la bellezza
ed il bene possano darsi in qualcosa di terreno, se il meglio che nel
mondo è stato si è presto ridotto in cenere? (XXXI, vv. 49-57)
Ciò non significa, per Dante, che dobbiamo abbandonare tutti gli
affetti terreni. Gli esseri umani non sono il centro, ma sono pur sempre
figure che dal centro dipendono ed al centro possono avvicinarci; ciò
che è corruttibile è legato al male ed alla morte, ma è anche legato all’a-
more ed è sul nostro cammino proprio per svelarci la verità dell’amore.
Se abbandoniamo la tensione ingenua verso i simulacri, non coltivando
l’indifferenza nei loro confronti ma amandoli per quelli che sono, cioè
in rapporto a se stessi e ad altro che li trascende, il dolore non verrà
meno, perché sempre l’uomo è un punto della circonferenza, ma si
legherà alla luce del vero e di ciò che veramente vale: l’amore divino che
sta al centro della totalità. La definizione stessa offerta da Amore, in
fondo, indica nella sua forma il rapporto che si deve instaurare tra l’uo-
mo e il divino: l’immagine del cerchio è pur sempre un’immagine, dun-
que un simulacro (anche se non del tutto, in un universo pensato in
 ALBERTO GESSANI

modo tolemaico ed aristotelico), ma è immagine pura, geometrica, che


nulla conserva di carnale e di caduco: al di là di essa c’è soltanto l’inef-
fabile e l’indicibile, ma essa dice nel modo più alto ciò che può essere
detto.
Ora, è importante notare due cose. In primo luogo, la definizione
citata sopra dice che l’amore in quanto amore divino non è il cerchio,
ma il centro intorno al quale il cerchio si dispone. Il cerchio è la totalità
dell’essere universale e dei poteri divini, che non sono tutt’uno con l’a-
more: la “divina protestate” e la “somma sapienza” (Inf., III, vv. 5-6), per
esempio, non si identificano senz’altro con l’amore. Ma è decisivo, per
la concezione dantesca del mondo e della divinità, che l’amore costitui-
sca il centro degli stessi altri poteri: che quindi la forza ordinatrice supre-
ma delle cose, quella forza che fa muovere lo stesso intelletto e la stessa
onnipotenza di Dio, sia proprio l’amore. Può esserci, qui, un ricordo del
De Consolatione Philosophiae72; ma Dante non può non avere presente
un’immagine di S. Paolo che viene ricordata anche nel Convivio:

Sicut enim in uno corpore multa membra habemus, omnia autem mem-
bra non eundem actum habent; ita multi unum corpus in Christo. (Rom.,
XII, 4-5)

Nel Convivio, appunto, viene tradotto un passo vicinissimo a questo


ora citato (XII, 3) e che anche qui è ricordato: “Non dimandare più che
utile non ti sia” (XII, 5; cfr. Conv., IV, XIII, 9); ma importante è l’idea
che la molteplicità, pur nelle differenti azioni che compie, è una in
Cristo, cioè nell’amore. Dante riprende l’immagine paolina per astrarla
e raffinarla, ma anche per estenderla dal mondo delle creature all’essere
nella sua totalità, che include Dio stesso. Dio e le creature sono uno in

72 Cfr. per es. II, 8, 21 (VIII): “hanc rerum seriem ligat/ terras ac pelagus regens/ et

coelo imperitans amor” (vv. 13-15). Questa concezione dell’amore, in cui forse Boezio
tenta una sintesi tra pensiero platonico e pensiero aristotelico, ma che appare influenzata
soprattutto dal neoplatonismo, si trova in tutto il De Consolatione. Il concetto di amore nel
pensiero di Boezio è stato studiato soprattutto da C.J. De Vogel, Amor quo coelum regitur,
in “Vivarium”, 1, 1963; Greek Cosmic Love and the Christian Love of God. Boethius, Dionysius
the Areopagite and the Author of the Fourth Gospel, in “Vigiliae Christianae”, 35, 1981. Sul rap-
porto tra Dante e la filosofia di Boezio cfr. F. von Falkenhausen, Dante und Boethius, in
“Dante-Jahrbuch”, 22, 1940; e L. Alfonsi, Dante e la “Consolatio Philosophiae” di Boezio, in
“Studi di lingua e di letteratura italiana”, 4, Marzorati, Como 1944. Per la fortuna dell’o-
pera di Boezio nel Medioevo cfr. la bibliografia in Boezio, Consolazione della filosofia, a cura
di L. Obertello, Rusconi, Milano 1996.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

quanto il loro centro è l’amore, e si differenziano in questo: nel fatto che


Dio abbraccia per intero la totalità dell’essere, la vede e la comprende,
mentre la creatura è soltanto un piccolo punto della circonferenza, un
punto che soltanto con fatica e con la grazia divina può volgersi dal fini-
to al centro del cerchio ed al cerchio stesso. Ed è qui che scopriamo l’im-
portanza fondamentale dell’amore non soltanto per la natura divina, ma
anche per il nostro destino: perché l’amore non è semplicemente un
centro statico e fermo, ma visita la nostra vita, percorre le nostre vicen-
de, partecipa dei nostri mali e ci soccorre, guidandoci attraverso il tempo
verso l’eterno. L’equazione Cristo-charitas della quale dicevamo sopra è
la vera chiave della salvezza: Cristo è venuto nel mondo come amore e
come amore continua ad essere presente; la rivelazione che dette con il
suo sacrificio è una rivelazione perenne che continua a darsi, se soltan-
to siamo in grado di interrogarci sulla vera natura del sentimento che ci
porta verso altre persone e dell’impulso che ci porta a fare poesia, a cer-
care il bello celato nella temporalità e nell’imperfezione.
La seconda cosa da notare nella definizione di Amore è che que-
st’ultimo afferma l’equidistanza di tutti i punti della circonferenza dal
centro. Non esiste, dunque, dal punto di vista del centro, il vicino ed il
lontano, l’alto ed il basso, il migliore ed il peggiore, perché ogni creatu-
ra si unifica a tutte le altre nell’amore di Cristo. Ciò non significa, e ben
possiamo dirlo tenendo presente la Commedia, che per Dante tutte le
scelte si equivalgano e che gli uomini, qualunque vita facciano, siano
tutti uguali; significa che l’amore s’irradia in tutti, e che la creatura che
ama in tutti può trovare l’amore che cerca, più o meno a seconda che le
creature siano state più o meno disposte ad accogliere l’amore stesso. E
dunque i sentimenti per le donne-schermo fanno capo al centro nello
stesso identico modo di quelli per Beatrice: differenze ci saranno per
l’uomo che è nella circonferenza, ma nessun essere umano sarà di per sé
fonte di bellezza o perdizione, perché tutti i sentimenti vivranno come
figure dell’amore divino, che li trascende e li unifica nel tutto. Non è
Beatrice, allora, il vero nucleo della vita nuova faticosamente cercata da
Dante: il nucleo è il percorso della sua anima, dell’anima di Dante stes-
so, dalle immagini della verità alla verità stessa, dalle copie più o meno
sbiadite dell’amore all’amore in quanto tale.
Ma il percorso sarà lungo e difficile, perché non basta sapere per
intendere: si può conoscere la verità e non essere ancora pronti ad ade-
guarci ad essa, a farla carne e sangue in noi. Non altro sembra il senso
dell’incomprensione di Dante di fronte alla frase di Amore: “Che è ciò,
segnore, che mi parli con tanta oscuritade?” (XII, 5), ove l’oscurità non
 ALBERTO GESSANI

è dovuta, questa volta, ad una lingua straniera e sconosciuta, ma ad un


concetto faticoso da assimilare, non ancora essendo raggiunta l’armonia,
l’accordo intimo delle diverse componenti dell’anima. Non altrimenti –
e medesimo, infatti, è il discorso – suona la domanda, sulla quale già ci
siamo soffermati, che Dante si rivolge dopo il colloquio con le donne
sulla propria beatitudine: “Poi che è tanta beatitudine in quelle parole
che lodano la mia donna, perché altro parlare è stato lo mio?” (XVIII,
8). L’esistenza e la poesia non si adeguano immediatamente a quanto
l’intelletto scopre; difficile è per la vita come per il dire distaccarsi da
quei legami – il saluto, la vista, il desiderio – che pure portano dolore
alla vita, dipendenza e debolezza alla poesia. Pur scoprendo il circolo
vizioso dello stilnovismo – cuor gentile, donna, amore, dolore –, pur
avendo già fatto esperienza dell’angoscia sterile dell’attesa del saluto,
Dante non si risolve ancora a schiarire la “oscuritade”; e questo è, forse,
il nucleo più profondamente esistenziale, che sembra bruciare anche ora,
nel ricordo, quando sia portato in luce dal libro della memoria, della
Vita nuova. Ma possiamo ricordare che anche questo motivo trova la sua
giustificazione nei Vangeli, se è vero che perfino Cristo, giunto all’ora
della passione e della morte, non può non sentire, dall’alto della sua
verità divina, non soltanto il dolore del corpo nel martirio, ma anche
l’angoscia dell’abbandono, la debolezza propria di ogni essere umano.
Ora, è da notare come Amore, di fronte a questa confusione del suo
fedele, abbia di nuovo un atteggiamento affettuoso ed al contempo
demonico. Anziché cercare una spiegazione più semplice e chiara – che
sarebbe inutile, dato che non l’intelligenza della definizione manca a
Dante –, egli abbassa il tono del discorso, prendendo a parlare in volga-
re, ed invita il poeta a volgersi all’“utile”: a ciò che immediatamente gli
conviene, cioè, e che soltanto in modo mediato ha rapporto con la verità
ultima che è stata enunciata. Non è un ripiegamento, perché quanto è
stato detto rimane decisivo; è il riconoscimento della miseria umana e
della lunghezza di ogni cammino esistenziale, intellettuale e poetico.
Ma si deve sottolineare come l’“utile” al quale Amore indirizza ora
Dante non sarà affatto utile per quanto egli spera di ottenere, cioè per la
riconciliazione – se così possiamo dire – con Beatrice: i suoi tentativi,
infatti, rimarranno senza esito. Utile sarà davvero, questa nuova fase
della sua esperienza, in un senso intimo e profondo, dato che da essa
scaturirà la consapevolezza della vera vocazione della poesia e della vita
stessa: Amore pensa a questa utilità, evidentemente, ma inganna con
dolcezza il suo fedele per portarlo insensibilmente, facendolo muovere
entro l’ambito che più gli è famigliare, verso la verità: così come già
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

aveva fatto – e lo si è visto – presentandosi nelle vesti del pellegrino ed


indirizzando il poeta verso la seconda donna-schermo. Ancora una
volta, dunque, Amore è maestro non in quanto trasmette una dottrina,
anche se qui dà una definizione di sé che rimane fondamentale, ma in
quanto indirizza ad un’azione che sarà fonte, immediatamente, di dolo-
re, ma formerà l’anima, in tempi più lunghi, per l’accoglimento e la frui-
zione del bene.

6. Dopo questa apparizione di Amore, altre ne seguiranno73, nella Vita


nuova, ma Dante non offrirà più descrizione alcuna della sua figura. Se
riflettiamo, in effetti, su quanto abbiamo visto, non è difficile rendersi
conto che nelle tre immagini di Amore che Dante presenta già si con-
densa per intero la sua concezione, per quanto essa sia complessa ed arti-
colata. Da un lato, infatti, si è accentuata la signoria e la centralità di
Amore, con una chiara ispirazione all’insegnamento evangelico e con un
ripensamento, operato all’interno di questa prospettiva, dell’amore
mondano: ripensamento che ha condotto Dante ad inscrivere ogni
amore mondano nel cerchio della divinità che lo produce, lo giustifica e
lo trascende. D’altro lato, Amore è apparso come guida e maestro del
cammino esistenziale e poetico di Dante stesso, con una funzione
demonica che risale anch’essa alla figura di Cristo e che è essenziale per
l’essenza di Amore stesso e per l’esistenza di ognuno: perché Amore non
sarebbe tale se non avesse sollecitudine ed affetto partecipe nei confronti
delle creature e se non ci guidasse entro le miserie della vita, e noi non
potremmo sollevarci da tali miserie senza l’intervento attivo dell’amore.
Qui si saldano, in effetti, le nozioni di Amore-Dio e di Amore-demone:
nella nozione di un Dio partecipe e maestro del nostro percorso, di un
Dio-charitas.
Ma forse Dante ha voluto dettagliare ancora meglio e più precisa-
mente il proprio discorso, come possiamo ipotizzare ripensando all’in-
sieme delle figure di Amore. Se le mettiamo a confronto, infatti, è diffi-
cile sottrarsi all’impressione che Dante le abbia volute così differenti
l’una dall’altra per indicare qualcosa che non poteva essere indicato in
73 Cfr. XXIV, 2 sgg.; e, forse, XLII, 1, in cui però si parla di “una mirabile visione”

senza nulla specificare riguardo ai contenuti della visione stessa. In XXXIX, 1 abbiamo
“una forte imaginazione”, ma riguarda Beatrice nelle vesti sanguigne del primo incontro,
non Amore.
 ALBERTO GESSANI

modo concettuale ma che ha grande importanza per il discorso che egli


sta conducendo. Nella prima visione, come si è visto, Amore ha un
aspetto solenne e pauroso, e non è difficile, anche se nulla il poeta dice
in proposito, immaginarlo grande e possente, dato che tiene e porta su
un braccio Beatrice; parla una lingua sconosciuta a Dante e probabil-
mente a tutti gli uomini; è avvolto in una nube che nasconde, almeno
sulle prime, parte della scena. I suoi caratteri sono quelli del divino nel
suo aspetto tremendo e lontano: di qui, appunto, l’accentuazione dello
horror che ispira la sua immagine. Ma questi sono i caratteri del Dio
immensus et omniscius, fortis et omnipotens, sanctus et terribilis74, che l’Antico
Testamento descrive in abbondanza: del Dio che crea, vede, giudica, pre-
mia e punisce rimanendo chiuso nella sua sacralità ed ineffabilità. Non
sarà dunque azzardato pensare che Dante presenti Amore, in questa
prima visione, proprio come Dio Padre, in piena coerenza con il fatto che
qui la vicenda ha inizio, che qui si crea quanto avrà, in seguito, svilup-
po: siamo agli albori di un tempo nuovo, di una vita nuova appunto, ed
il Dominus non può che comparire nelle sue vesti di Dio creatore. Al
tempo stesso, però, questo Dio è paterno, e in modo paterno si prende
cura di Beatrice e, indirettamente, di Dante; in modo paterno piange per
i dolori che toccheranno ai suoi figli. Se l’aspetto ed alcuni caratteri di
Amore rimandano all’antico Dio terribilis della fede ebraica, tutto sem-
bra d’altra parte addolcirsi nella visione cristiana del Dio-Padre, che con-
serva i caratteri del Dio antico ma li lega e li armonizza nella fede per
l’amore del Dio-Padre stesso nei confronti delle proprie creature: è quan-
to, in fondo, rimarrà nella Commedia, ove la durezza delle pene per i pec-
catori e la giustizia divina non oscurano mai il “primo amore” che costi-
tuisce l’essenza più intima di Dio.
La seconda apparizione di Amore sembra contraddire la prima, perché
in essa scompaiono del tutto la possanza, la grandezza e l’orrore. Il pelle-
grino vestito di vesti dimesse e leggere, meschino75 nell’aspetto e quasi

74 Cfr. per es. per immensus et omniscius Iob., XXIII, 7-11; XVIII, 23-24; XXXIV, 21-22;

Ps., X, 5-8; XXXII, 13; CI, 20-21; per fortis et omnipotens Gen., XVIII, 14 ; Ex., XV, 11 ; Iob.,
XII, 7-XIII, 1 ; XXVI, 1-14 ; per sanctus et terribilis Lev., X, 17 ; XI, 44 ; XX, 26 ; Sam., II,
2 ; VI, 20 ; Ps., CII, 1 ; CIV, 3 etc.. Basta vedere l’elenco completo dei passi nei quali si
parla di questi attributi di Dio nell’Index biblicus doctrinalis della Vulgata (v. Deus), per ren-
dersi conto che sono tutti (con l’unica eccezione di Apoc., III, 7; IV, 8) passi dell’Antico
Testamento, e che riguardano dunque la figura del Dio Padre.
75 Per la parola meschino cfr. De Robertis, p. 65: “Col significato originario (dall’arabo

meskin “povero”, “misero”) concomita nelle lingue neolatine quello secondario di “servo”
(cfr. Inf., IX, 43; XXVII, 115)”. Non escluderei, allora, il ricordo del Vangelo di Luca: “qui
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

derelitto, è Amore che ha perduto temporaneamente la sua signoria, come


si è visto – e si è visto anche che questa indicazione dantesca non convince
affatto –, ma nulla sembra comunque mantenere della sua dignità origi-
naria. Tutto si spiega, però, e questa umiltà non appare più strana e con-
traddittoria, se vediamo nel pellegrino una figura del Dio-figlio, di Cristo,
che appunto humilis76 ed in vesti dimesse viene tra noi, uomo tra gli uomi-
ni, ad insegnare la verità dell’amore divino. Questo Dio è ora un Dio che,
pur fuori della sua patria e pur volto con la mente ad essa, indica la stra-
da della salvezza: l’ha indicata a tutti venendo tra noi, la indica a Dante
per quanto riguarda la sua particolare vicenda, può indicarla a chiunque
sia disposto ad accoglierlo dentro di sé. Se la prima scena era un battesi-
mo ma anche una creazione, con gli elementi della natura e della parola
emergenti dal caos in un turbine di venti e di suoni, la seconda è un dia-
logo tra esseri in via dall’amore e verso l’amore: esseri che cercano, in un
mondo che si è fatto freddo e cieco, il calore che il Padre ha dato e che
l’uomo ha dimenticato. Amore-Figlio guarda alla Gerusalemme celeste
come alla meta cui egli arriverà, cui gli uomini buoni arriveranno, e che va
preparata ora, nel cammino della vita terrena, attraverso gli eventi e le
azioni che subiremo e faremo: dà infatti a Dante una sorta di ordine che
vale per l’immediato e che avrà conseguenze fondamentali in tempi più
lunghi, ed intanto è volto – e fa volgere il poeta – al fiume limpido e puro
della vera salvezza, della vera città beata.
Ora, la terza apparizione di Amore completa e unifica quanto era
stato già visto. Amore compare come luce incorruttibile, cioè come
verità eterna che si annuncia agli uomini nelle vesti dell’angelo del
sepolcro: insegna all’anima, all’anima che cerca la beatitudine o la con-
solazione in ciò che è corruttibile – come le donne cercavano il cadave-
re di Cristo per curarlo, piangervi sopra, consolarsi in qualche modo con
gli atti dovuti ai defunti –, che non è qui la salvezza e la beatitudine, ma
in un altrove che qui possiamo soltanto presagire. In questa disposizio-
ne pedagogica ed affabile, che si manifesta nell’aspetto e poi si esprime
in modo chiaro nella precisa e densa definizione dell’amore come cen-
tro del cerchio, Amore sembra presentarsi come la terza persona della
Trinità, cioè come Spirito Santo, così chiudendo il circolo dell’epifania

maior est in vobis, fiat sicut minor; et qui praecessor est, sicut ministrator. Nam quis maior
est, qui recumbit, an qui ministrat? Nonne qui recumbit ? Ego autem in medio vestrum
sum, sicut qui ministrat” (XXII, 26-27). Cfr. comunque, per meschino nel senso di “misero”,
anche Inf., IX, 43; XXVII, 115.
76 Cfr. Matth., XI, 29: “[…] discite a me, quia mitis sum, et humilis corde”.
 ALBERTO GESSANI

del divino che si era aperto poco dopo l’inizio dell’opera. Al Dio terribi-
lis ed al Cristo viator si unisce ora il soffio ineffabile dello spirito divino
che alita in noi per insegnarci la verità: nell’unità dell’amore troviamo il
padre, il compagno di strada, il maestro affettuoso e sollecito che enun-
cia il concetto più difficile e più importante; sempre c’è l’idea della
guida, ma in tutto e per tutto si dice che questa guida è demonica in
quanto guida, divina per la sua natura intima.
Se questa interpretazione delle tre figure di Amore ha una qualche
plausibilità, possiamo anche dire che Dante opera, nella Vita nuova, una
riflessione sul cristianesimo che avrà largo sviluppo nella sua opera suc-
cessiva e che già lo conduce su versanti decisamente inusitati, di cui egli
sembra essere consapevole nel sonetto Amore e monna Lagia, dal quale
non per caso è partito il nostro discorso. Amore può presentarsi in simu-
lacra diversi e rimanere sempre uno, infatti, perché Dio è uno e trino; ma
la Trinità divina è una – questo il punto fondamentale – perché unifica-
ta dall’elemento comune alle tre persone divine, cioè dall’Amore. L’atto
creativo e la giustizia del Dio Padre non potrebbero darsi senza amore,
perché sono, prima di tutto, atti d’amore per l’essere e per il suo ordine
cosmico ed umano; Cristo viene al mondo e muore in quanto uomo
soltanto per amore; lo Spirito Santo ci guida e ci ammaestra per amore.
Se la charitas è il centro e l’essenza della figura di Cristo, Cristo a sua
volta è della divinità il centro e l’essenza, che il diversificarsi dell’azione
divina rivela nella sua grandiosità e nella sua bellezza: il Dominus è,
prima di tutto, l’amico ed il fratello delle creature di cui è padre, e per-
ciò, mentre definisce il proprio centro – l’amore – piange per noi e per
la nostra sorte. L’unità del Dio trino nell’amore costituisce l’armonia del
mondo e l’armonia della stessa azione umana, che sembra disperdersi in
molti rivoli e seguire molti scopi, ma sempre guarda – anche quando
non lo sa – all’amore divino come scaturigine di ogni amore e come
guida, dunque, per il trascendersi degli amori terreni in visione del cen-
tro, in amore per ciò che è prima di tutto amore77.

77 Non sarà inutile, in questa prospettiva, rimandare ancora a XXIX, 3, qui già citato

(v. nota 45) a proposito del numero nove. L’esplicita dichiarazione di Dante: “ella
[Beatrice] era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente
la mirabile Trinitade”, non ha ricevuto forse dai commentatori, pur sempre pronti a sotto-
lineare l’importanza del numero nove nella Vita nuova, la dovuta attenzione: eppure
Dante la marca con molta precisione (come si è accennato appunto nella nota 45), evi-
dentemente proprio perché ritiene fondamentale che la sua insistenza sul numero nove sia
fatta risalire alla Trinità.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

7. Dopo aver presentato la ballata che segue alla narrazione del colloquio
con Amore vestito di bianco, Dante pone un problema di notevole rile-
vanza:
Potrebbe già l’uomo opporre contra me e dicere che non sapesse a cui fosse
lo mio parlare in seconda persona, però che la ballata non è altro che que-
ste parole ched io parlo. (XII, 17)

In altre parole: quando il poeta si rivolge alla propria ballata come


ad una persona, come egli ha fatto e come è abbastanza usuale fare, che
senso ha questo parlare in seconda persona, se la ballata stessa è opera
della stessa persona che le si rivolge? Sembra strano e perfino assurdo
che ci si rivolga ad un nostro scritto come se esso avesse una sua vita
indipendente dalla nostra.
Il problema non è risolto immediatamente, perché la sua trattazione
è rimandata ad altra parte del “libello”, ad una parte “più dubbiosa” (ivi),
tale cioè da comprendere in un insieme più vasto di questioni anche
questo dubbio. E già questo rimando dovrebbe rendere avvertito l’in-
terprete sul fatto che la domanda posta da Dante, in apparenza centrata
su problemi tecnici del dire, ha in effetti un fondamento più largo e
profondo, che investe lo statuto stesso della poesia. Al dubbio nel senso
più stretto risponderà il Convivio, giustificando l’uso della “prosopopeia”
come figura retorica adatta al dire poetico:

[…] è una figura questa, quando a le cose inanimate si parla, che si chia-
ma da li rettorici prosopopeia; e usanla molto spesso i poeti. (III, IX, 2)

Ma è chiaro che, nel contesto della Vita nuova, questa giustificazio-


ne, che si appoggia semplicemente sulla presenza della figura nell’arte
retorica e sull’uso dei poeti, non può bastare. Essa ritorna, infatti, nella
parte “più dubbiosa”, ma trova in tale parte fondamenti ben diversi, che
riguardano da un lato lo sviluppo della poesia volgare ed i fruitori di tale
poesia, dall’altro i contenuti stessi del dire nella nuova epoca che si è
aperta. Ma è prima di tutto da sottolineare come la trattazione non
riprenda il tema dell’autore che si rivolge alla sua ballata come ad una
persona, ma affronti il dubbio partendo dalla personificazione dell’a-
more da Dante operata nel sonetto che ha appena finito di commenta-
re (XXIV, 7-11) e in molti altri luoghi della Vita nuova:

Potrebbe qui dubitare persona degna di dichiararle onne dubitazione, e


dubitare potrebbe di ciò, che io dico d’Amore come se fosse una cosa per
 ALBERTO GESSANI

sé, e non solamente sustanzia intelligente, ma sì come fosse sustanzia cor-


porale: la quale cosa, secondo la veritate, è falsa; ché Amore non è per sé
sì come sustanzia, ma è uno accidente in sustanzia. (XXV, 1)

È da notare, intanto, che l’esordio, con la dichiarazione di rispetto


nei confronti della persona che qui avanzasse dubbi, intende subito dare
un notevole peso al dubbio stesso: si tratta di cosa importante, che va
affrontata con molta attenzione. E lo mostra il linguaggio filosofico che
Dante qui adotta, come anche il rimando successivo a “lo Filosofo”
riguardo al moto locale come moto proprio di sostanze corporali78. Non
sarà casuale, allora, che proprio di Amore, e non più semplicemente
della ballata, qui si tratti, dal momento che la negazione della sostan-
zialità di Amore porta ad una riflessione sul senso non soltanto del dire
poetico, ma di tutte le personificazioni dell’Amore che Dante ha com-
piuto nell’opera e che sono, come si è visto, assai importanti per tutto il
suo discorso. Ci si può chiedere ora, insomma, che cosa intendeva il
poeta quando mostrava ai suoi lettori Amore che regge Beatrice e le dà
da mangiare il cuore, Amore pellegrino, Amore che è allegro, piange, si
muove da e verso qualcosa; e che cosa intendeva quando lo mostrava
come uno straniero lontano dalla sua patria, uno straniero che parla
un’altra lingua, o nell’atto di dare ordini o consigli, se l’amore è soltan-
to un accidente nella sostanza che noi siamo.
Ora, il lungo discorso che cerca di rispondere al dubbio, e che non è
possibile seguire qui in tutte le sue articolazioni, si fonda sul fatto che si
è cominciata ad affermare e poi affermata, da circa centocinquanta anni,
“in lingua d’oco e in quella di sì” (XXV, 4), una poesia in lingua volgare
che, avendo come lettori altre persone rispetto a quelli che fruivano della
poesia latina (della poesia latina, s’intende, non di epoca classica), per-
sone79 alle quali “era malagevole intendere li versi latini” (XXV, 6) e che

78 “Dico che lo vidi venire [Amore]; onde, con ciò sia cosa che venire dica moto loca-

le, e localmente mobile per sé, secondo lo Filosofo, sia solamente corpo, appare che io
ponga amore essere corpo” (XXV, 2). Il testo cui Dante si riferisce è probabilmente il De
caelo nel commento di Averroè, I, 99 (cfr. De Robertis, p. 172), rammentato più volte anche
nel Convivio. Il tono filosofico di questo luogo è visibile anche da quello che nota De
Robertis, pp. 172-173: la conclusione della frase: “appare che” (come “è manifesto” di
XXII, 2), “è la solita formula conclusiva del sillogismo”.
79 “E lo primo che cominciò a dire sì come poeta volgare, si mosse però che volle fare

intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d’intendere li versi latini” (XXV,
6). Questa tesi appare a Contini assai seria ed interessante (cfr. Letteratura delle origini, cit., p.
324), specie se la integriamo con De Vulgari eloquentia, I, I, 3, e soprattutto con Convivio, I,
IX, 4-5: “dico che manifestamente si può vedere come lo latino avrebbe a pochi dato lo suo
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

meglio intendevano un dire figurato che un dire concettuale ed astratto,


usa appunto la “prosopopeia” per farsi intendere. Quello che qui impor-
ta è il fatto che Dante ponga l’amore come contenuto della nuova poe-
sia e lo ribadisca con forza e polemicamente:

E questo è contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa, con
ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire
d’amore. (ivi)

La polemica può essere volta contro Guittone d’Arezzo80, o essere


letta come un avvertimento di carattere generale ai nuovi poeti (il che
non esclude, ovviamente, l’allusione al poeta aretino). Ma si deve osser-
vare che il richiamo al “principio”, se il principio fosse semplicemente l’i-
nizio del dire in rima, sarebbe alquanto debole, poiché nulla vieta che
una poesia cominci in un modo e si sviluppi in un altro; e Dante stes-
so, non soltanto nella sua opera successiva ma anche nella Vita nuova,
contraddirebbe il proprio assunto, dato che la sua non è soltanto e sem-
plicemente poesia d’amore81. Ma è anche da osservare come egli si
preoccupi di dire che il poeta deve saper spiegare in termini concettuali

beneficio, ma lo volgare servirà veramente a molti […] e sono principalmente baroni, cava-
lieri, e molt’altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte
in questa lingua, volgari e non litterati”. Il riferimento alle donne nella Vita nuova indica per
De Robertis, pp. 174-175, che le donne “sono l’avanguardia, ormai simbolica, di questo
nuovo schieramento, e Amore […] è il centro di riferimento della nuova società”. Ma tutto
questo vale, si deve aggiungere, se il concetto di amore è nuovo e diverso da quello classico.
80 Il tentativo guittoniano di una poesia volgare con contenuti morali e filosofici è

attaccato duramente anche da Cavalcanti, Da più a uno face un sollegismo (XLVII), che però
non sembra tanto sollevare una questione di principio sull’argomento del poetare quanto
esprimere sfiducia nelle capacità logiche e retoriche di Guittone. È da ricordare, d’altra
parte, che Guinizzelli si rivolge a Guittone come ad un maestro e ad un padre (A Frate
Guittone, XXa), chiamandolo appunto “caro padre meo” (v. 1): se Guinizzelli non è in esso
ironico (come pensa L. Rossi nella sua recente edizione delle Rime di Guinizzelli, Einaudi,
Torino 2002, pp. 68-69), il sonetto a Guittone è testimonianza di come il “nuovo stile”
nasca non in opposizione alla poesia guittoniana, ma in un profondo rispetto di quella e
del suo insegnamento. La puntata polemica della Vita nuova potrebbe comunque essere
esplicitata con Purg., XXIV, vv. 55-60 sgg., ove il limite di Guittone, di Iacopo da Lentini
e di Bonagiunta, il “nodo” che li fece rimanere indietro rispetto ai nuovi rimatori, è indi-
cato proprio in un mancato ascolto del “dittator” Amore. Cfr. anche Purg., XXVI, vv. 124-
126, e De Vulgari Eloquentia, II, VI, 8.
81 Uscirebbero per esempio dal proposito dantesco Morte villana, di pietà nemica (VIII,

8-11), e la visione “apocalittica” di XXIII e della canzone ivi contenuta, Donna pietosa e di
novella etate.
 ALBERTO GESSANI

le proprie figure, elaborate “non sanza ragione alcuna, ma con ragione


la quale poi sia possibile d’aprire per prosa” (XXV, 8):

[dico che] quelli che rimano [non] deono parlare così non avendo alcuno
ragionamento in loro di quello che dicono; però che grande vergogna
sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico,
e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta,
in guisa che avessero verace intendimento. (XXV, 10)

Non sarebbe poi molto difficile “denudare” le figure se queste fosse-


ro costruite semplicemente sull’amore nel senso banale del termine, per-
ché ben poco avrebbero, in fondo, di “ragionamento”. In effetti, tutto
porta a leggere questi passi non come una difesa della poesia d’amore in
senso generico, ma come un riferimento preciso, anche se non esplicito,
ad una concezione dell’amore che, affermatasi nell’era volgare, Dante ha
assunto come propria con piena consapevolezza. Ed in questo senso le
indicazioni del testo assumono la loro vera pregnanza, ponendo al cen-
tro della poesia “in rima” l’amore cristiano che determina lo spirito del
tempo nuovo che si è aperto dopo la venuta di Cristo: è questo l’amo-
re che si deve presentare in figura anche alla gente più semplice, anche
ai non sapienti, e che fa della nostra epoca un’epoca nuova rispetto a
quella classica, poiché possiede un fondamento nuovo e diverso. Ecco
dunque il “principio”: non soltanto il principio del poetare volgare – che
nasce comunque dalla consapevolezza di una nuova mentalità e di una
nuova cultura –, ma il Cristo-charitas che ha portato agli uomini la con-
cezione dell’amore che non avevano e che ancora oggi stentano a rico-
noscere. La poesia in lingua volgare deve essere poesia cristiana, ed in
questo assume una dignità ed una forza che la possono mettere a con-
fronto con la poesia classica, dalla quale infatti Dante cita diversi autori
ed esempi, in quanto entrambe si rifanno a principi ispiratori propri;
mentre la poesia latina non classica, cioè dell’era volgare, è un dire che
non ha trovato ancora il proprio nucleo essenziale e la propria autono-
mia. Non per caso, allora, i famosi versi del Purgatorio nei quali Dante
definisce la propria attività di poeta sono introdotti dal ricordo di Donne
ch’avete intelletto d’amore, ad indicare la prima acquisizione della sua
nuova poesia nella Vita nuova, e si centrano sull’amore:

Ma di’ s’i’veggio qui colui che fore


Trasse le nove rime, cominciando
Donne ch’avete intelletto d’amore.
E io a lui: “I’mi son un, che quando
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

Amor mi spira, noto, e a quel modo


Ch’e’ditta dentro vo significando”.
(Purg., XXIV, vv. 49-54)

Non sfuggirà la consonanza di questo “dittare dentro” di Amore con


il “parlare nel cuore” di Amore nella Vita nuova (XXIV, 3; 4): Dante con-
ferma, nella sua piena maturità, la scoperta di Amore come fulcro della
poesia fatta proprio nel “libello” giovanile. E si può comprendere ora
pienamente che cosa significa la “lode” della quale egli parla nella Vita
nuova: l’individuazione e l’espressione di ciò che nel mondo esprime
amore nel senso più alto, nel senso che ci ricongiunge all’amore di
Cristo. La Vita nuova costituisce, in questo senso, il resoconto del per-
corso, difficile certamente ed accidentato, verso questa concezione altis-
sima dell’amore; e la sua conclusione lega infatti, coerentemente, il pro-
posito di “dicer di lei [Beatrice] quello che mai non fue detto d’alcuna”
e l’evocazione di colui, nella cui faccia “gloriosamente” mira Beatrice,
“qui est per omnia secula benedictus” (XLII, 3). Non si tratta qui, com’è
evidente, del progetto di una poesia religiosa nel senso diretto e banale
del termine, quale sarebbe una poesia che si ponesse semplicemente al
servizio di una dottrina o di eventi riguardanti la venuta di Cristo in
terra: Dante sa che una tale poesia avrebbe ben poco respiro, stretta
come si troverebbe tra teologia e racconto – un racconto, tra l’altro già
raccontato –, e tradirebbe il proprio impulso originario, che la pone, se
così possiamo dire, tra mondo e cielo, tra creature e creatore. La poesia
che egli ha in mente è proprio una poesia demonica, nel senso che già si
realizza nella Vita nuova e che attende ora prove ancora più complesse e
difficili: una poesia che guardi alle cose ed agli esseri umani nella loro
realtà, cercando in essa il significato più alto che la involge, la bellezza
sublime che ne giustifica la presenza nel cosmo. Beatrice costituisce, in
questa prospettiva, una sorta di ponte, poiché è un punto tra gli altri
della circonferenza, certamente, ma un punto che più di altri ispira lo
sguardo del poeta verso un oltre che è, in definitiva, il centro del cerchio:
con Beatrice l’amore mondano si realizza nella propria essenza più alta,
perché con Beatrice possiamo intravedere quello che la poesia ci farà
vedere e cogliere nel modo più pieno: l’amore divino.
Ritornando ora alla domanda posta in precedenza, cioè alla doman-
da sul senso delle varie figure dell’amore che Dante ha proposto nella
Vita nuova, non è difficile vedere che la concezione dell’amore stesso che
il poeta ha sviluppato è quanto mai complessa, tale da richiedere una ric-
chezza di prospettive concettuali e poetiche inusitata. Se è giusto, come
 ALBERTO GESSANI

si è cercato di mostrare, vedere in quelle diverse figure simulacra della


Trinità divina, che si unifica nell’amore, non va dimenticato che l’amore
stesso si diffonde nella Trinità e negli uomini attraverso lo Spirito Santo,
che è Spiritus Dei, Spiritus Filii, Spiritus Christi82: attraverso lo Spirito Santo
l’amore divino è presenza viva nel Padre, nel Figlio e nelle creature; se
Cristo ha rivelato l’amore di Dio con la sua opera e con la sua parola, lo
Spirito Santo lo conserva perennemente dentro di noi come qualcosa che
è attivo anche quando non lo sappiamo riconoscere e che ci porta ad
amare altri esseri umani, cose, opere, per quella bellezza che vi traluce
dalla divinità. Si può ricordare, a questo proposito, la parola di S. Paolo:

Nescitis quia templum Dei estis, et Spiritus Dei habitat in vobis? Si quis
autem templum Dei violaverit, disperdet illum Deus. Templum enim Dei
sanctum est, quod estis vos.[...] An nescitis quoniam membra vestra, tem-
plum sunt Spiritus Sancti, qui in vobis est, quem habetis a Deo, et non
estis vestri? (I Cor., III, 16-17 ; VI, 19)

Noi stessi, dunque, siamo il tempio dell’amore-charitas che costitui-


sce il nucleo intimo dello Spirito Santo. In questo senso Dante può
affermare che l’amore è un accidente nella sostanza che ognuno di noi,
in quanto uomo, è: perché l’amore fa parte di noi, è in noi, e perciò sol-
tanto per una licenza poetica possiamo raffigurarlo come altro da noi.
D’altra parte, l’amore è anche, in quanto amore divino, altro da noi, e
soltanto in quanto ospite si trova nella nostra persona. Perciò lo avver-
tiamo, al contempo, come famigliare e come straniero, e perciò parla tal-
volta una lingua che conosciamo e talvolta una lingua sconosciuta: l’a-
more è, in effetti, il segno di ciò che è altro da noi e che si trova ad una
altezza per noi irraggiungibile, mentre è anche l’impulso della nostra
anima a percorrere un cammino che è il nostro, anche se possiamo non
saperlo. L’amore è la spinta demonica che ci spinge oltre il mondano
quotidiano, che ci promette una bellezza assoluta, che ci guida con auto-
rità e dolcezza, perché prima di tutto è il divino che ha costituito il suo
tempio nella nostra anima e nelle membra del nostro stesso corpo.
Come l’angelo nel sepolcro, l’amore è la voce che ci dice che non è qui
quanto cerchiamo, anche se di qui dobbiamo passare: anche se la luce
stessa di Cristo è passata attraverso la passione e la morte. In questo
senso non ha poi molta importanza chiedersi se nell’amore si possa
vedere prima di tutto il Cristo, come sembrerebbe dalla Vita nuova, o lo

82 Cfr. S. Paul. Rom., VIII, 9; I Cor., II, 10; Gal., IV, 6; Ioann., XIV, 16; XVII; XVIII, 26 etc.
AMORE DEMONICO E AMORE DIVINO NELLA “VITA NUOVA” 

Spirito Santo, come invece sembrerebbe dal Convivio83; perché, come


Dante spiega nel Convivio stesso, le tre persone della Trinità possono
essere considerate separatamente in più modi e secondo diversi ordini di
considerazioni, ma sempre rimangono una. E ciò che le unifica è l’a-
more, che si manifesta nella creazione del Padre, nel sacrificio del Figlio,
nella “somma e ferventissima caritade de lo Spirito Santo”: perciò, pro-
prio mentre si richiama alla Trinità di fronte alla porta dell’Inferno,
Dante chiama “primo” l’amore divino:
Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina potestate,
la somma sapienza e’l primo amore.
(Inf., III, vv. 4-6)

Tutto questo ha un valore fondamentale per la concezione dantesca


della poesia. Se è vero, infatti, che l’amore è il centro della poesia, la poe-
sia stessa si trova in una posizione che potremmo definire demonica: ha
in sé il divino, ma lo ha in quanto altro; ha in sé l’umano, perché è detta
da uomini, ma lo ha, anch’esso, in quanto altro. La poesia è il ponte tra
il tempo e l’eterno, tra questo mondo ed un altro mondo, e si nutre di
entrambi: del tempo e dell’eterno, del terreno e del divino, morendo se
uno dei termini viene meno. Espressione di un peregrinaggio che non
può, in questa vita, avere mai fine, la poesia è, al tempo stesso, l’unica
espressione possibile del soprasenso del mondo e della beatitudine divi-
na: in questo senso, proprio per la sua atopicità, essa ha una funzione
altissima in quanto celebrazione del tempio dello spirito e voce di ciò che
il tempio rappresenta. La Vita nuova è la scoperta di questa funzione e
della possibilità, per l’uomo, di riscatto dal male, dalla dispersione, dalla
morte: perciò si conclude con una sorta di estasi d’eternità e con una
dichiarazione d’intenti che sarebbe, per la sua altezza, del tutto sproposi-
tata se non nascesse da una raggiunta consapevolezza della forza della
poesia e dell’amore.
Si può ora comprendere come Dante, di fronte alle condanne dell’a-
more operate da Lapo Gianni e da Guido Cavalcanti possa, nel sonetto
dal quale siamo partiti, in qualche modo condividere le loro conclusioni
e, al contempo, non condividerle affatto: le può condividere per quanto
riguarda l’amore che il gruppo dei “fedeli” aveva cantato e celebrato, l’a-
more puramente cortese, del tutto inscritto nell’ambito umano e terreno;

83 Cfr. II, V, 8-11.


 ALBERTO GESSANI

non può condividerle, invece, per quanto riguarda quella che egli ora
pensa essere la vera essenza dell’amore. Il sorriso che intravediamo in
Amore e monna Lagia è, in fondo, il sorriso di un poeta che ha trovato o
va trovando la sua vera strada, convinto che quanto ha finora condiviso
con altri sia stato importante per la propria formazione e possa essere, in
una qualche parte, conservato – e parte ne conserverà nella Vita nuova –,
ma sicuro del segreto che conserva nel proprio sentire e nel proprio pen-
sare, e che lo condurrà a ben altre mete da quelle finora raggiunte. Mentre
Cavalcanti lo rimprovera per il suo “pensar troppo vilmente”84, in un
sonetto che è stato troppe volte banalizzato dagli interpreti (ma qui
potrebbe aprirsi un altro discorso, e lungo), Dante è convinto, al contra-
rio, d’aver lasciato ogni pensiero vile e di muoversi entro un ambito che
non permetterà più pensieri vili d’alcun genere; è convinto d’aver trova-
to una poesia che possa veramente guardare in faccia l’eterno. Forse si rin-
nova, nel rapporto tra Dante e Guido, un contrasto che già in tempi anti-
chissimi aveva diviso la poesia, quando si erano fronteggiate una conce-
zione che vedeva nel “dire” – per rimanere nel linguaggio dantesco – la
denuncia del dolore e dell’angoscia della vita, ed una concezione che affi-
dava al dire, invece, la “lode” di quanto c’è nel nostro spirito e nel nostro
essere di bello e di divino. Alla visione tragica di Cavalcanti Dante oppo-
ne ora la visione di una poesia demonica, attraverso l’amore, tra terra e
cielo, con lo sguardo fermamente volto all’eterno nel quale il nostro
tempo s’inscrive. Così, attraverso vie difficili da rintracciare o attraverso
una corrispondenza inconsapevole ma profonda, Dante illustra al meglio
quella esortazione alla poesia d’encomio che Platone aveva fatto in luo-
ghi purtroppo assai fraintesi dagli interpreti. L’encomio platonico e la
lode dantesca non sono esaltazioni di virtù o di valori utili e piacevoli e
edificanti, ma la ricerca, nella povera sostanza umana che noi siamo, della
cifra bruciante e salvifica della divinità. E la poesia, per Platone come per
Dante, è reperimento di questa cifra, svelamento, viaggio verso l’ineffa-
bile che l’ha creata.

84 Mi riferisco a I’ vegno ‘l giorno a te ‘nfinite volte (XLI [XLII]), nel quale il richiamo insi-

stito al disprezzo che Dante nutriva per “l’annoiosa gente”, per le molte persone dappoco,
dovrebbe almeno suscitare qualche sospetto sul significato di “vile” e “vilmente”: dovreb-
be cioè far prendere in considerazione anche la possibilità che Guido rimproveri Dante
non per la crisi del suo pensiero dopo la morte di Beatrice o in un altro momento, ma per
un qualche suo avvicinamento al pensiero dell’“annoiosa gente”. In questo modo sarebbe
anche congruente il ricordo di Guido a Dante del loro antico sodalizio, della comunanza
d’intenti che c’era o sembrava esserci nel loro poetare, contro lo “spirito noioso” (v. 13)
che lo ha allontanato.
Teodoro Katinis

“Daemonica machinamenta” tra Platone e l’Umanesimo:


a partire da un passo del commento di Ficino al “Sofista”

HORATIO O day and night, but this is wondrous strange!


HAMLET And therefore as a stranger give it welcome.
There are more things in heaven and earth, Horatio, than are
dreamt of in your philosophy.

W. Shakespeare, Hamlet, I, V.

1. La demonologia umanistica e rinascimentale si è sviluppata lungo


percorsi complessi, a volte divergenti, comunque non facili da com-
prendere in tutte le loro articolazioni storico-filosofiche. È certo che
tale presenza di demoni tra il ’400 e il ’600 nelle pagine di autorevoli
filosofi, da Marsilio Ficino a Tommaso Campanella, dimostra che il
l’Umanesimo e il Rinascimento, italiano ed europeo, non corrispon-
dono esattamente ad alcuni modelli proposti da una certa storiografia,
che, soprattutto nel XIX secolo, guardava a quell’epoca con determi-
nate aspettative, creando ‘miti’ di lunga durata1. Tra di essi vi è stato
anche quello di un’epoca ormai lontana da questioni quali la magia, la
demonologia ed altre affini: esse non dovevano oscurare oltre l’alba
della modernità. Ne conseguiva un certo disinteresse, quasi un rifiuto,
per quella parte della produzione umanistica e rinascimentale che
riguardava tali argomenti, poiché costituiva un residuo medievale da
liquidare in fretta. Come è noto, l’idea di ‘rinascita’ sulla quale si pun-
tava l’attenzione ha un riscontro in una reale situazione storico-cultu-

1 Cfr. P. Burke, The Renaissance, Macmillan, London 1987, 1989, tr. it. Il Rinascimento,

Il Mulino, Bologna 1990, pp. 7-13, nel quale l’autore fa notare che l’idea di improvvisa
rinascita dell’Europa ad una nuova civiltà, dopo un ‘oscuro Medioevo’, nasce nel XIX
secolo ad opera di studiosi tra i quali J. Burckhardt e avrà ancora dei sostenitori nel XX
secolo; tale modello dimostra di essere ancora ben radicato nell’immaginario collettivo,
tanto da costituire, al di fuori dell’ambito scientifico, un ottimo strumento pubblicita-
rio, ad esempio, per il mercato turistico.
 TEODORO KATINIS

rale: in epoca umanistica si credeva di vivere la nascita di un età nuova,


ricca di scoperte e di promesse per il futuro, ma non esattamente nel
senso inteso da quella storiografia.
Esistono almeno due elementi che hanno portano a rivedere tale
prospettiva storiografica, soprattutto a partire dalla metà del XX seco-
lo in poi, di cui il secondo ci interessa in modo particolare.
Innanzitutto il fatto che il Rinascimento è molto più legato al
Medioevo di quanto si potesse credere: le diverse branche del sapere
sviluppatesi tra il ’400 e il ’600 sono fortemente debitrici di varie ‘rina-
scite’ medievali, di cui beneficiarono anche i ‘nuovi uomini’. In secon-
do luogo è ormai chiaro che la riscoperta dei classici greci e latini,
soprattutto nel XV secolo, attraverso un immenso lavoro di traduzio-
ne e commento dei testi, ha costituito una rinascita anche degli aspet-
ti che sono sembrati così lontani dalla nuova epoca: la magia, la demo-
nologia, l’astrologia e in genere quelle arti e discipline che René
Descartes, all’inizio del ’600, quando quell’epoca era ormai al suo ter-
mine, definiva sciences curieuses2.

2. Quando nel ’400 si riportarono in Italia i codici di Platone e dei neo-


platonici, venne introdotta nel cuore dell’Umanesimo anche la com-
plessa demonologia che tali testi descrivevano e commentavano.
Opere quasi del tutto sconosciute in epoca medievale erano di nuovo
a disposizione, ma in una lingua, il greco, che ne impediva una circo-
lazione estesa. L’esigenza di rendere accessibili i nuovi testi anche a chi
non conoscesse il greco rendeva necessaria un vasta opera di traduzio-
ne in latino, lingua sicuramente più frequentata. Agli inizi degli anni
’60 Cosimo de’ Medici (il Vecchio), signore di Firenze, regala al giova-
ne Marsilio Ficino il codice dei dialoghi platonici per condurne una
traduzione completa. L’attività di Ficino, come traduttore, commenta-
tore e autore di opere originali, proseguirà fino agli anni ’90, attraver-
so i testi di Plotino, Porfiro, Proclo e di altri grandi rappresentanti del
pensiero antico. Questo imponente lavoro sarà consegnato alla
modernità come una delle maggiori operazioni ermeneutiche nella sto-
ria del pensiero occidentale – e di fatto lo è stata –, riscuotendo un suc-
cesso europeo di cui la reale portata non è stata ancora del tutto misu-
rata dagli studiosi: in Europa per secoli – almeno fino a Kant – si leg-
geranno Platone e i neoplatonici nelle traduzioni ficiniane, la maggior

2 Cfr. R. Descartes, Discours de la méthode, I (in qualsiasi edizione).


“DAEMONICA MACHINAMENTA” TRA PLATONE E L’UMANESIMO 

parte delle quali introdotte da argumenta o commentaria dello stesso


Ficino. Data l’enorme quantità e varietà di fonti dalle quali poter attin-
gere, la demonologia ficiniana si presenta, nel quadro delle demono-
logie rinascimentali, tra le più complesse e certamente fondamentale
per comprendere le successive3.
Nel 1958 usciva il libro di P.D. Walker, Spiritual and Demonic Magic
from Ficino to Campanella, ormai un classico della storiografia rinasci-
mentale, nel quale l’autore ricostruiva l’origine e la fortuna dell’arte
magica descritta nei testi ficiniani – soprattutto il III dei libri De vita
pubblicati nel 1489 –, analizzandone il possibile carattere demonico4.
Da allora ad oggi altri studi hanno fatto emergere la complessità del-
l’argomento e allo stesso tempo le edizioni critiche di alcuni commenti
di Ficino a Platone hanno messo in luce altri versanti della demono-
logia ficiniana.
In questo contributo ci si vuole occupare in particolare del Sofista.
Tale dialogo apparve nell’Opera omnia di Platone tradotta da Ficino e
pubblicata per la prima volta a Firenze nel 1484; mentre il suo com-
mento vide la luce per la prima volta nei Commentaria in Platonem di
Ficino, di cui la prima edizione è del 14965. L’edizione critica del com-
mento al Sofista condotta da M. J. B. Allen, con traduzione inglese a
3 Per il codice platonico, cfr. S. Gentile, S. Niccoli, P. Viti, a cura di, Marsilio Ficino

e il ritorno di Platone. Manoscritti, stampe e documenti, Catalogo della mostra alla Biblioteca
Medicea Laurenziana, Firenze 17 maggio-16 giugno 1984, Le Lettere, Firenze 1984, sche-
da 22: pp. 28-31. Per Ficino interprete di Platone, cfr. J. Hankins, Plato in the Italian
Renaissance, Brill, Leiden-New York-København-Köln 1990, voll. 2, I, pp. 265-366. Per
una bibliografia su Marsilio Ficino e il suo ambiente, cfr. P. O. Kristeller, Marsilio Ficino
and His Work after Five Hundred Years, Olschki, Firenze 1987; inoltre, per un aggiorna-
mento, cfr. T. Katinis, Bibliografia ficiniana. Studi ed edizioni delle opere di Marsilio Ficino dal
1986, in “Accademia. Revue de la Société Marsile Ficin”, 2, 2000, pp. 101-136; e T.
Katinis-S. Toussaint, Bibliographie ficinienne. Mise à jour Ie, in “Accademia. Revue de la
Société Marsile Ficin”, 3, 2001, pp. 9-21. Per l’influenza del Platone ficiniano, cfr. J.
Hankins, Some Remarks on the History and Character of Ficino’s Translation of Plato, in G. C.
Garfagnini, a cura di, Marsilio Ficino e il ritorno di Platone. Studi e documenti, Olschki,
Firenze 1986, voll. 2, I, pp. 287-304.
4 Cfr. D.P. Walker, Spiritual and Demonic Magic from Ficino to Campanella,

Introduction by B.P. Copenhaver, The Pennsylvania State University Press, University


Park (PA) 20002 (The Warburg Institute, London 1958), in particolare pp. 45-53. Il De
vita libri tres è disponibile nell’edizione critica: M. Ficino, Three Books of Life, Critical
Edition and Translation with Introduction and Notes by C. V. Kaske, J.R. Clark,
Renaissance Society of America, Binghamton (N.Y.) 1989; e nella traduzione italiana:
M. Ficino, Sulla vita, a cura di A. Tarabochia Canavero, Rusconi, Milano 1995.
5 Cfr. S. Gentile, S. Niccoli, P. Viti, a cura di, Marsilio Ficino, cit., scheda 91: pp. 117-

119; scheda 120: pp. 155-156.


 TEODORO KATINIS

fronte e preceduta da alcuni studi attinenti6, permette ora di analizza-


re con più attenzione un testo che non è tra i più noti del corpus fici-
niano e che riserva alcune interessanti sorprese per capire il punto di
vista di Ficino, perlomeno nell’ultima fase della sua produzione, sul
rapporto tra arte del fare immagini e realtà demonica. Dunque, ciò che
si propone di seguito è un confronto tra un passo del testo platonico
ed il relativo commento del suo traduttore umanista.

3. Come è noto il Sofista platonico non tratta in particolare di demo-


ni; sono piuttosto altri gli argomenti centrali del dialogo. Lo Straniero
di Elea e Teeteto, i due protagonisti, si prefiggono lo scopo di definire
la natura del sofista, o meglio della sua attività o arte. Attraverso un
percorso argomentativo che procede per successive suddivisioni, i due
interlocutori concludono il dialogo trovando una definizione oppor-
tuna. Ma il percorso è ricco di sorprese, poiché lo Straniero e Teeteto
si trovano a discutere, per arrivare ad una soluzione, di questioni onto-
logiche di enorme portata, arrivando così ad un confronto diretto con
il pensiero di Parmenide – non a caso lo Straniero proviene da Elea.
Tra le questioni affrontate, verso la fine del dialogo si parla anche della
produzione divina ed umana. Ora dovremo prestare attenzione a que-
sta parte del testo, lasciando il resto sullo sfondo; dice lo Straniero:

S’è detto fin dall’inizio, ricorderai, che la tecnica di produzione, nel suo
complesso, è una potenza capace di portare ad essere cose che prima non
erano. […] Gli animali che sulla terra vivono e muoiono, e le piante che
nascono da semi e da radici, […] tutte queste cose prima non erano e sono
venute ad essere7.

E continua:

le cose che si dicono essere per natura, sono prodotto di una tecnica divi-
na; le cose che gli uomini costruiscono, usando questi materiali naturali,
sono prodotti di tecnica umana. Con ciò sono anche posti i due generi
della produzione: uno umano, l’altro divino. […] Ora vedi di tagliare in
due ciascuna di queste due tecniche. […] Ti risulteranno in tutto quattro
parti, due di nostra competenza, che diciamo ‘umane’, e due proprie degli

6 M.J.B. Allen, Icastes: Marsilio Ficino’s Interpretation of Plato’s “Sophist”, University of

California Press, Berkeley-Los Angeles 1989 (Commentaria in Platonis Sophistam: pp. 218-278).
7 Platone, Il Sofista (265b-c), testo greco a fronte, a cura di M. Vitali, Bompiani,

Milano 1992, p. 153.


“DAEMONICA MACHINAMENTA” TRA PLATONE E L’UMANESIMO 

dèi, ‘divine’. […] Nell’ambito di questa seconda divisione troviamo una


parte, risultante da ciascuna delle sezioni precedenti, che diremo ‘tecnica
produttiva di cose reali’ (autopoietikon), ed una parte rimanente, sempre in
relazione alle due sezioni precedenti, in cui si configurano quelle che
potremmo chiamare ‘tecniche produttive di immagini’ (eidolopoiikon). E in
questo modo la produzione risulta ulteriormente divisa8.

Ora lo straniero chiarirà meglio il suo pensiero, dichiarando cosa


possa essere considerato prodotto dell’arte divina:
noi stessi, e tutti gli altri animali, e i materiali stessi di cui son fatti in natu-
ra il fuoco, l’acqua, e quanto è loro congenere, queste cose, dunque, sono
generate tutte e prodotte individualmente per opera divina. […] A queste
singole cose si affiancano immagini, somiglianti, sì, ma che non sono le
cose stesse, e che sorgono esse pure per artificio divino9.

Ma Teeteto chiede in cosa consistono queste immagini prodotte da


tale artificio e porta lo straniero a chiarirne la natura: esse sono “le
immagini che vediamo nei sogni, e le apparenze che si ritiene sorgano
spontaneamente durante il giorno, come ad esempio l’ombra che si
proietta quando alla luce si oppone un corpo opaco”10. Dunque, tra-
mite un percorso dal generale al particolare, a partire dall’arte del fare
in genere fino alle sue specifiche suddivisioni, lo Straniero è giunto ad
identificare una particolare arte divina, quella della produzioni di
immagini varie. Esse dunque sono create per mezzo di un “artificio
divino”, espressione che traduce il greco daimonia mekane, particolar-
mente interessante perché, come già notava Gianni Carchia in uno dei
suoi ultimi lavori, tale definizione, e la complessa questione alla quale
rinvia, avrà larga fortuna nel Rinascimento11. In effetti, all’ambiente
umanistico fiorentino non sfuggirà questo breve accenno ad una certa
attività demonica. Platone si sofferma brevemente su tale argomento,
mentre Marsilio Ficino, traduttore ed interprete di una tradizione neo-
platonica dove la demonologia è spesso in primo piano, vi leggeva la
problematica questione del rapporto tra i demoni e l’uomo. Non è un
caso che il commento ficiniano al Sofista dedichi il capitolo più lungo
proprio a quei passi del dialogo platonico sopra citati.

8Platone, Il Sofista (265e-266a), cit., p. 155.


9Platone, Il Sofista (266b), cit., pp. 155 e 157.
10 Ibid., p. 157.
11 G. Carchia, La favola dell’essere. Commento al “Sofista” di Platone, Quodlibet,

Macerata 1997, p. 115.


 TEODORO KATINIS

4. La redazione definitiva del commento ficiniano sarebbe vicina al


1496, data di edizione dei Commentaria in Platonem12, comunque suc-
cessiva a quel periodo estremamente produttivo – tra gli anni ’80 e ’90
– durante il quale Ficino si dedicherà alla traduzione e al commento
delle opere dei maggiori autori neoplatonici dell’antichità. Alcuni di essi
sono esplicitamenti citati nel commento al Sofista, e come tali essi costi-
tuiscono importanti punti di riferimento per comprendere l’intero com-
mento e in particolare quel capitolo XLVI di cui ora si tratta. Tuttavia in
questa sede non ci soffermeremo sulla fitta rete di rimandi alla tradizio-
ne neoplatonica, problema sul quale, d’altronde, ha scritto, tra gli altri,
la stesso M. J. M. Allen in alcune dense pagine del suo studio introdut-
tivo all’edizione del testo13; piuttosto ci interessa sottolineare alcune
implicazioni dell’argomentazione presentata da Ficino.
Dopo avere ricordato la divisione fatta da Platone tra arte divina ed
umana, e quella successiva tra arte di fare cose e quella di fare immagi-
ni, Ficino si concentra sulla questione dell’‘artificio divino’, commen-
tando le parole di Melisso, con il quale identificava lo Straniero di Elea:

Postquam dixit corpora eorumque imagines simul et umbras esse opera divi-
na, id est, non per artem humanam dumtaxat effecta, iterum repetens ima-
gines atque umbras appellat opera daemonica, quia, cum daemones pedis-
sequi sint deorum, merito similitudines rerum, quae pedissequae sunt pri-
morum operum divinorum, quasi daemonica machinamenta videntur.
Praeterea, sicut natura daemonum inter superos atque inferos media est, ita
lumen inter incorporea et corporea medium. Et in lumine potestas quaedam
est daemonica, effectrix videlicet imaginum et umbrarum, quemadmodum
et daemones solent mira quaedam visa non solum dormientibus et abstrac-
tis sed etiam vigilantibus ostentare. Imaginamenta quoque nostra quodam-
modo etiam daemonica virtute fiunt, non solum quia daemones efficacibus
imaginationibus artificiisque suis nobis imaginationes suscitant, verum
etiam quoniam quod in nobis imaginatur est quodammodo daemon14.

12 Cfr. J. Hankins, Plato, cit., II, pp. 483-485.


13 Cfr. M.J.B. Allen, Icastes, cit., pp. 115-210.
14 M. J. B. Allen, Icastes, p. 270-271, tr. ingl.: “After Melissus had said that bodies and

their images together with their shadows are divine works – that is, they have not been
made merely through human art – he again takes up the topic and calls images and sha-
dows demonic works. This is because, since the demons are followers of the gods, the
likenesses of things, which are the followers of the prime divine works, must needs
appear to be demonic contrivances as it were. Moreover, just as the nature of the
demons is midway between higher and lower beings, so is light the medium between
“DAEMONICA MACHINAMENTA” TRA PLATONE E L’UMANESIMO 

Questo lungo passo, che vale la pena non smembrare data la stret-
ta connessione semantica tra le proposizioni di cui è composto, non è
l’unico che tratta dell’attività demonica, ma è uno dei più interessanti,
per le ragioni che ora vedremo. Innanzitutto va notato un particolare
che ci dà una prima indicazione sull’interesse di Ficino. Egli dedica
alcune pagine di commento – l’intero capitolo XLVI – al breve passo
del Sofista relativo all’ ‘artificio divino’ e ai suoi prodotti, piuttosto che
ad altre questioni maggiormente trattate nel dialogo. In effetti, rileg-
gendolo per intero, vi notiamo la presenza di altri temi importanti ai
quali Platone sembra dare più spazio, almeno a giudicare dall’esten-
sione della trattazione. Lo stesso problema del rapporto tra l’essere e il
non-essere, con tutto ciò che comporta nei termini di una revisione del
pensiero parmenideo, per quanto riguardi tutto il dialogo, appare, tut-
tavia, più esplicito in altri luoghi del testo. Dunque Ficino sembra
spendere il capitolo più lungo della sua opera per commentare ciò che
Platone non sembra voler porre in primo piano.
Questa strana ‘ipertrofia’ di quel capitolo, rispetto al resto del testo,
è in parte spiegata dal fatto che Ficino ha già trattato della fondamen-
tale tematica del rapporto tra l’essere e il non-essere nel suo commen-
to al Parmenide15, al quale rimanda il lettore, poiché probabilmente
crede essere quella la sede più adatta per trattare tale tematica. Questo
carattere ipertestuale dell’opera sul Sofista spiega forse la brevità degli
altri capitoli, alcuni dei quali di poche righe, ma non l’estensione del
XLVI, tutto incentrato sul breve accenno nel testo platonico al daimo-
nia mekane. Evidentemente per Ficino il breve passo platonico è l’oc-
casione per trattare una tematica a lui cara, come lo sarà anche per altri
negli anni successivi – anche grazie alla riscoperta ficiniana.
Con evidente riferimento all’espressione platonica, Ficino non
esita a parlare di opera daemonica e daemonica machinamenta, intenden-

incorporeals and corporeals. In light there is a certain demonic power. In other words,
light is the maker of images and of the shadows, just as the demons too are accustomed
to reveal certain wondrous sights to men not only when they are asleep or bemused but
also when they are fully awake. Our imaginations also are possessed in a way of a demo-
nic power. This is both because the demons excite the imaginations in ourselves by way
of their own creative imaginations and tricks, and also because what imagines in us is in
some respects a demon”.
15 Cfr. M. Ficino, Opera, réimpression en fac-similé de l’édition de Bâle 1576, sous

les auspices de la Société M. Ficin, Préface de S. Toussaint, Phénix Editions, Paris 2000,
voll. 2, II, pp. 1136-1206, tale commento attende ancora un’edizione critica e una tra-
duzione in una lingua moderna, come buona parte delle opere di questo autore.
 TEODORO KATINIS

do i prodotti di un demone concepito come entità mediatrice tra il


mondo superiore ed inferiore, operante tra il divino e l’umano. In tal
modo, egli riprende ed elabora una concezione del demonico che
Platone aveva già espresso nel Simposio e che lo stesso Ficino aveva trat-
tato nel suo celebre e fortunato commento a questo dialogo, costruen-
do così un edificio teorico-linguistico di lunga durata; e anche in quel
caso, forse più del solito, era più una trattazione originale che un
commento fedele al testo platonico16.
Se si mette a confronto il passo ficiniano con quelli precedentemen-
te tratti dal Sofista, risulta abbastanza evidente che il dialogo platonico è
inteso più come un punto di partenza per ulteriori speculazioni che un
testo di riferimento al quale attenersi. Ficino prende le mosse dall’affer-
mazione dello Straniero/Melisso sulle imagines e le umbrae come opera
daemonica, iniziando una trattazione sulla natura di queste produzioni e
sull’identità del soggetto operante. Su questa via, il testo ficiniano si
discosta da quello platonico nella misura in cui quest’ultimo non va
oltre la semplice affermazione che alle cose stesse “si affiancano imma-
gini, somiglianti, sì, ma che non sono le cose stesse, e che sorgono esse
pure, per artificio divino”, vale a dire “le immagini che vediamo nei
sogni, e le apparenze che si ritiene sorgano spontaneamente durante il
giorno”. Nel Sofista non si insiste oltre su tale argomento e si passa velo-
cemente a trattare della tecnica di produzione umana, mentre Ficino
intende approfondire la questione, tornando a seguire l’argomentazione
platonica solo dopo aver esposto le proprie tesi.
Il commentatore umanista spiega, dunque, che i demoni imitano
l’azione divina producendo immagini delle cose create dagli déi – si
tratterebbe, secondo una complessa scala ontologica di derivazione
neoplatonica, di entità demiurgiche superiori ai demoni e vicari del-
l’unico Dio –; in altre parole, la produzione divina sta a quella demo-
nica come le cose stanno alle loro immagini, e il primo rapporto fonda
la legittimità del secondo, o meglio lo permette in quanto tale. Perciò
le imagines e le umbrae sono quasi daemonica machinamenta, cioè ‘stru-
menti’ e ‘artifici’ demonici operanti in una dimensione a metà tra il
cielo e la terra, tra il divino e l’umano. La frase che segue esplicita il
presupposto delle precedenti affermazioni: la natura demonica è media

16 Cfr. M. Ficin, Commentaire sur le “Banquet” de Platon, texte critique établi et traduit

par R. Marcel, Le Belles Lettres, Paris 1956; il volgarizzamento del commento ad opera
dello stesso autore è disponibile nell’edizione critica: M. Ficino, El libro dell’amore, a cura
di S. Niccoli, Olschki, Firenze 1987.
“DAEMONICA MACHINAMENTA” TRA PLATONE E L’UMANESIMO 

tra gli enti superiori e gli inferiori, come la luce lo è tra gli enti incor-
porei e quelli corporei17, ed è per questo che la luce ha in sé, in un
certo senso, una potenza demonica, dalla quale dipende l’esistenza di
immagini e ombre, quelle stesse che appaiono agli uomini sia durante
il sonno18 che durante la veglia. Si passa ad affermare che la nostra
immaginazione agisce grazie ad un potere demonico, tramite il quale
crea immagini. Essa è altrove descritta come una facoltà dell’anima che
organizza i dati sensoriali, producendo simulacra di tenue materia ‘spi-
rituale’, secondo una precisa teoria gnoseologica che la pone tra la per-
cezione e la ragione19; ma in questo caso Ficino si sofferma esclusiva-
mente sulla forza trasformativa che in essa risiede, presentando due tesi
entrambe valide. Da un lato la nostra immaginazione può essere sti-
molata dagli artifici prodotti dai demoni, i quali interagiscono con essa
– e non è qui in causa la valenza positiva o negativa di tali interventi
–, dall’altro essa, proprio in virtù di questo potere di produzione insi-
to in lei, può essere in un certo senso definita un demone (“quod in
nobis imaginatur est quodammodo daemon”).
M. J. B. Allen ha sottolineato l’eccezionalità del capitolo XLVI ed
in particolare del passo di cui ci stiamo occupando, interpretando il
testo ficiniano nel senso di una teorizzazione dell’individuo stesso
come demone nella misura in cui, attraverso la propria immaginazio-
ne, crea mondi immaginari – anche se a volte capita che sia semplice
spettatore, atterrito o entusiasta, delle immagini prodotte da un demo-

17 La luce è un tema caro a Ficino, tanto da essere oggetto di molteplici trattazioni,

troppe per essere affrontate anche solo sinteticamente in questa sede, tra i recenti studi a
riguardo: C. Vasoli, Su alcuni temi della “filosofia della luce” nel Rinascimento: Ficino (“De Sole”
e “De lumine”) e Patrizi (libro primo della “Panaugia”), in Studi in onore di Giovanni Solinas,
“Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Cagliari”, n. s., 9, 1991, pp. 63-
89; A. Rabassini, La concezione del Sole secondo Marsilio Ficino. Note sul “Liber de Sole”, in
“Momus”, 7-8, 1997, pp. 115-133; W. Scheuermann-Peilicke, Licht und Liebe. Lichtmetapher
und Metaphysik bei Marsilio Ficino, Olms, Hildesheim-Zürich-New York 2000.
18 Sui sogni nell’opera ficiniana e sulle fonti di essa si vedano gli interventi presentati

al Convegno internazionale Ficino und die Hypnotheorie der Renaissance (Vienna 26-27 maggio
1998) e raccolti nel periodico “Accademia. Revue de la Société Marsile Ficin”, 1, 1999.
19 Il tema dell’immaginazione è trattato da Ficino in diversi modi e in varie sue

opere; una descrizione molto chiara della funzione gnoseologica della imaginatio e del
rapporto con le altre facoltà dell’anima è in M. Ficin, Théologie platonicienne de l’immor-
talité des âmes, texte critique établi et traduit par R. Marcel, Le Belles Lettres, Paris 1964-
1970, voll. 3, I, l. VIII, cap. I, pp. 285-286, dove la si distingue dalla phantasia. Per gli
studi su tale argomento si rimanda alle bibliografie citate in n. 3. Sul concetto di spiritus
come medio tra corpo ed anima e sulle sue funzioni, è ancora valida la trattazione fat-
tane da D. P. Walker, Spiritual and Demonic Magic, cit.
 TEODORO KATINIS

ne che in qualche modo lo occupa. In tal modo l’uomo eserciterebbe


un potere creatore che emula quello divino, fino al punto da apparire
poco netta, anche se mai del tutto annullata, la distinzione tra i due20.
Tale interpretazione sembra concordare con una indicazione che E.
Garin dava poco tempo prima nella sua relazione introduttiva al
Convegno su imaginatio-phantasia del Lessico Intellettuale Europeo.
Garin osservava che Ficino, in un suo commento a Prisciano di Lidia –
autore peraltro citato nel capitolo XLVI del commento al Sofista –, redat-
to alla fine degli anni ’80, affermava che l’immaginazione è come Proteo
o come il camaleonte, con evidente riferimento alla sua capacità trasfor-
mativa, notando che si trattava di un esplicito rinvio all’idea di uomo
espressa da Giovanni Pico della Mirandola nella sua nota Oratio de homi-
nis dignitate, redatta nel 148621. Dunque, Ficino avanzava la tesi che l’ec-
cezionale condizione umana si dovesse rivelare soprattutto attraverso la
potenza creatrice dell’immaginazione, influenzato da Pico, il quale aveva
adottato Proteo, divinità mitica che poteva trasformarsi a proprio piaci-
mento in qualsiasi essere ed elemento22, e il camaleonte come immagi-
ni per descrivere lo statuto ontologico dell’uomo: un essere dotato della
libertà di divenire ciò che vuole, a differenza degli altri esseri incatenati
alla loro predeterminata natura23.

5. Ora, rivisitando la sequenza proposta sulla scorta delle interpreta-


zioni storiografiche esposte, sembra presentarsi il seguente panorama.

20 Cfr. M. J. B. Allen, Icastes, cit., pp. 176-177.


21 Cfr. E. Garin, Phantasia e imaginatio fra Marsilio Ficino e Pietro Pomponazzi, in M.
Fattori, M. Bianchi, a cura di, Phantasia-imaginatio, Atti del V Colloquio Internazionale
del Lessico Intellettuale Europeo, Roma 9-11 gennaio 1986, Edizioni dell’Ateneo, Roma
1988, pp. 6-7; seguito da S. Benassi, Marsilio Ficino e il potere dell’immaginazione, in “I
castelli di Yale”, 2, 1997, pp. 1-18. il breve passo di commento a Prisciano di cui si trat-
ta è in M. Ficino, Opera, cit., II, p. 1825. Su Pico bisogna almeno ricordare: L’opera e il
pensiero di Giovanni Pico della Mirandola nella storia dell’Umanesimo, Atti del Convegno
Internazionale, Mirandola, 15-18 settembre 1963, Istituto Nazionale di Studi sul
Rinascimento, Firenze 1965; G.C. Garfagnini, a cura di, Giovanni Pico della Mirandola.
Convegno internazionale di studi nel cinquecentesimo anniversario della morte (1494-1994),
Mirandola 4-8 ottobre 1994, Olschki, Firenze 1997; ai quali si rimanda per ulteriori indi-
cazioni bibliografiche.
22 L’incontro tra Menelao e Proteo e le trasformazioni di quest’ultimo sono descrit-

te in Omero, Odissea, IV, 450-459 (in qualsiasi edizione).


23 Cfr. G. Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate, testo latino a fronte, a

cura di E. Garin, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1994, pp. 4-9.


“DAEMONICA MACHINAMENTA” TRA PLATONE E L’UMANESIMO 

Ficino redige le sue annotazioni su Prisciano di Lidia dopo la stesura


dell’Oratio di Pico e, seguendo le indicazione del mirandolano, usa
Proteo e il camaleonte come figure per descrivere non più l’uomo in
modo generico, ma piuttosto la sua facoltà immaginativa, che diviene,
quasi per proprietà transitiva, ciò che fa dell’uomo un essere eccezio-
nale. In altre parole, Ficino vede agire l’immaginazione come tali figu-
re e il fatto che Pico le usi per descrivere l’uomo, gli suggerisce che la
straordinaria natura umana si debba fondare sul potere dell’immagina-
zione. Alcuni anni dopo, Ficino stende la versione definitiva del com-
mento al Sofista, o almeno del capitolo XLVI, nel quale argomenta il
potere dell’immaginazione, interpretandola come una facoltà che con-
ferisce all’uomo un potere creativo demonico, in virtù del quale può
agire nel mondo delle immagini e delle ombre, situato tra l’essere e il
non-essere, in modo analogo – e sorprendentemente vicino – a quan-
to fa la divinità. Forse ancora una volta sulla scorta dell’idea pichiana
di un volontario e controllato esercizio trasformatorio – tranne nel
caso in cui non si verifichi l’intervento di un demone che ostacoli la
libertà umana nel gestire la propria forza demonica. Si rivelerebbe,
così, un certa influenza di Pico anche sul tardo commento al Sofista.
Infine, la tematica dell’ambiguo statuto dell’immaginario, tra l’essere e
il non-essere, già presente nel testo di Platone, troverebbe un certo
riscontro nell’ambiguo, o non determinato, statuto ontologico del-
l’uomo, analogo, in questo senso, a quello delle immagini.

6. Tuttavia si può ipotizzare una diversa interpretazione del passo


sopra citato del commento al Sofista, la quale ci allontana dalla pro-
spettiva ermeneutica appena esposta. Innanzitutto va notato che l’es-
sere umano non appare mai come soggetto dell’azione, quest’ultimo è
sempre un demone – o più demoni – o una forza demonica dotata di
una propria volontà. Fino all’ultima problematica frase della citazione
(“verum etiam quoniam quod in nobis imaginatur est quodammodo
daemon”), non è chiaro se e in quale misura la vis imaginativa rispon-
da alla volontà dell’individuo; questo a prescindere dal fatto che l’av-
verbio “quodammodo” possa dare un senso più figurato che letterale
alla frase. La tecnica argomentativa di Ficino e la sua padronanza dello
strumento linguistico sono tali da escludere l’inserimento casuale di
un termine, ma la possibilità che la figura del demone abbia in questo
caso più il valore di una similitudine che di una realtà di fatto non ci
libera dal dubbio sul senso da dare al testo. L’ultima frase, infatti,
 TEODORO KATINIS

esprimerebbe comunque l’ipotesi che sia una forza fuori dal nostro
controllo ad agire tramite il nostro organo immaginativo, o, in altre
parole, che sia esso stesso ad avere una propria vita svincolata dalla
nostra volontà. Anche nel caso che il “daemon” di cui si parla sia una
figura retorica, ciò a cui si riferisce dovrebbe possedere le caratteristi-
che essenziali di quello, e il demone si presenta come un essere ani-
mato da una propria volontà. Insomma, l’intenzione di Ficino non
sembra andare in modo troppo deciso – poiché non ci sembra che ci
siano segni chiari in questo senso – verso la teorizzazione di un uomo
che per lo più dirige liberamente la propria forza immaginativa.
Rimane la possibilità di intendere che nella nostra immaginazione
risieda, o che sia essa stessa, una forza demonica, o un demone, che
crea immagini di fronte alle quali l’anima umana è spettatrice; in que-
sto senso la nostra immaginazione sarebbe dotata di un potere pro-
duttivo autonomo dalla nostra volontà, quasi fosse un’entità persona-
le, un demone, per l’appunto.
Al passo sopra citato ne segue un altro che ci spiega in cosa consi-
sta la ‘materia’ sulla quale si esercitano in generale tali trasformazioni
demoniche. Si tratta dello spiritus – e dei suoi sinonimi –, termine con
il quale si designa una ‘materia sottile’ che a diversi livelli, dal più vici-
no all’incorporeo al più corporeo, costituisce il ‘corpo’ o il ‘velo’ che
riveste la nostra anima e sul quale si esercita la nostra stessa immagi-
nazione. Tale ‘corpo’ hanno anche i demoni – per loro l’unico possi-
bile –, di qualità diverse secondo la loro posizione gerarchica nella
scala dell’essere24. Dopo tale chiarimento, Ficino propone la seguente
conclusione: “Postremo concludes imagines vobis intimas, dum a spi-
ritali hoc daemonicoque animali fiunt, machinatione quadam daemo-
nica proficisci”25. Finalmente Ficino parla del demone produttore di
immagini come di un ‘animale spirituale’, cioè, letteralmente, di un
essere dotato di vita propria, che produce immagini in noi; egli agisce
su di un ‘corpo spirituale’, che può essere il suo, ma anche il nostro.
Insomma, si tratta di una sintesi che sembra riferirsi ad una generica
definizione di demonicità: il demone, che sia un’entità a noi esterna o

24 La pneumatologia neoplatonica, e poi ficiniana, è assai complessa e non ancora

del tutto studiata, per una trattazione e ulteriori indicazioni bibliografiche si rimanda
ancora a M.J.B. Allen, Icastes, cit., pp. 177 e ss.
25 M.J.B. Allen, Icastes, cit., pp. 272-273, tr. ingl.: “Finally, you will conclude that the

images that are innermost in you, since they are made by this spiritual and demonic
animal, proceed from a certain demonic contrivance”.
“DAEMONICA MACHINAMENTA” TRA PLATONE E L’UMANESIMO 

che sia la nostra stessa immaginazione, seppure si vorrà intendere l’e-


quivalenza immaginazione/demone in senso metaforico, agisce secon-
do una propria volontà non necessariamente né pacificamente identi-
ficabile con quella umana.

7. Tale alternativa ermeneutica non esclude che in altre sedi Ficino pro-
ponga anche altre versioni dell’attività immaginativa, più congrue ai
diversi contesti nelle quali sono esposte e in vario modo articolabili
con quella ora presentata. Tuttavia, colpisce che un testo tardo, redat-
to dopo una profonda investigazione di tutte, o quasi, le fonti plato-
niche e neoplatoniche allora conosciute – si ricordi che siamo negli
anni ’90, quando Ficino ha ormai alle spalle decine di opere tradotte
–, presenti una tale esposizione della teoria immaginativa. Si ricordi,
inoltre, che il commentatore non si doveva sentire in nessun modo
costretto a declinare il discorso in quel senso per seguire il testo di
Platone da commentare, dato che – come si è visto – nel Sofista c’è ben
poco di ciò di cui Ficino intende parlare.
L’alternativa proposta dà una lettura del testo ficiniano che non
coincide esattamente con una teoria dell’uomo come artefice del pro-
pria natura e del proprio destino, poiché la sua pretesa autonomia è
minata da una forza a lui interna che può sfuggire al suo controllo.
L’idea dell’uomo artifex è certamente al centro di molte opere umani-
stiche, e dello stesso Ficino, ma colpisce che non sia in primo piano in
quel capitolo del commento al Sofista in cui si tratta di artifici demo-
nici ed immaginazione, una tematica chiave nel discorso sulla dignità
dell’uomo26. Sullo sfondo rimane il problema dell’evoluzione dell’at-
teggiamento di Ficino rispetto ad alcuni temi importanti, la quale
potrebbe spiegare in parte le varianti che si riscontrano nella sua opera.
Dunque, il presente contributo vuole essere più una proposta di
lavoro che una risposta definitiva; né potrebbe essere tale, sia per la sua
brevità, sia per l’oggettiva difficoltà che incontra chiunque intenda stu-
diare Ficino e la sua epoca, data dal fatto che buona parte delle opere
di questo filosofo sono ancora poco frequentate. La causa di ciò risie-

26 Sulla dignità dell’uomo come ideale umanistico si è soffermato, tra gli altri, C.

Trinkaus, Marsilio Ficino and the Ideal of Human Autonomy, in G.C. Garfagnini, a cura di,
Marsilio Ficino e il ritorno di Platone. Studi e documenti, Olschki, Firenze 1986, voll. 2, I, pp.
197-210, a partire soprattutto dalla Theologia platonica, un’opera elaborata negli anni ’70
e che sarebbe da confrontare con la cospicua produzione ficiniana successiva.
 TEODORO KATINIS

de anche nella mancanza di testi adeguatamente curati, lo dimostra il


fatto che queste pagine sono state scritte a partire dalla lettura di un
opera recentemente riportata alla luce attraverso un lavoro di edizione.
Patrizia Castelli

Posseduti e ossessi durante la Riforma cattolica:


il “Baculus Daemonum” di Carlo Olivieri

Introduzione

Questo scritto è dedicato all’analisi del trattato esorcistico Baculus


Daemonum di Carlo Olivieri, un canonico lateranense che, prevalente-
mente, visse ed operò a Gubbio tra fine Cinquecento e primo Seicento.
Il Baculus risente della contemporanea discussione sulla possessione e
sulla medicina su cui si pronunciarono teologi e scienziati. Un largo
spazio è stato riservato allo studio delle immagini che illustrano l’opera
e ad alcuni soggetti relativi alla possessione, come l’ex voto fatto realiz-
zare da Giovan Battista Codronchi e da suo fratello Tiberio in ringra-
ziamento per la guarigione del figlio. Un posto particolare è stato riser-
vato all’immagine di Satana raffigurata sui tarocchi, in quanto questa è
esplicitamente fatta oggetto di una coniuratio in alcuni manuali esorci-
stici. Le fonti consultate sono prevalentemente manuali esorcistici che
discutono dell’argomento; sono volutamente lasciate in secondo piano
le testimonianze archivistiche e documentarie in quanto questo saggio
intende definire non tanto l’applicazione e l’interpretazione degli aspet-
ti etici e teologici, quanto la discussione teorica da cui dipende, quasi
sempre, nel bene e nel male, l’operato degli uomini.

Demonologia e medicina

Nel 1618 veniva pubblicato a Perugia, per i tipi del Naccarino, il tratta-
to Baculus Daemonum di Carlo Olivieri vicentino, Canonico
Lateranense, promotore del culto di S. Ubaldo1. Il testo è un importan-

1 P. Castelli, “Daemones in corpore”: ossessione e demonologia nel culto di S. Ubaldo, in Nel

segno del Santo Protettore: Ubaldo vescovo, taumaturgo, santo, Atti del Convegno internazio-
nale di Studi (Gubbio, 15-19 dicembre 1986), a cura di S. Brufani e E. Menestò, Perugia,
Regione dell’Umbria, La Nuova Italia, Firenze 1990. Per indicazioni biografiche vedi C.
 PATRIZIA CASTELLI

te documento per la storia della possessione diabolica nel XVII secolo.


L’opera è divisa in due parti: la prima costituisce un’introduzione strut-
turata in dodici capitoli riguardanti la realtà della possessione ed i segni
che la caratterizzano; nella seconda sono riunite XXV coniurationes. Nel
III capitolo tratta dell’inutilità della medicina nei casi di possessione.
Nel capitolo seguente discute dei modi più o meno corretti e peccami-
nosi di entrare in contatto con i demoni. Nel V del modo in cui il dia-
volo si introduce nel corpo umano; nel VI dei malefici; nel VII dei segni
che compaiono nel momento dell’esorcismo del sacerdote; nell’VIII
della condotta di vita da tenersi da parte dell’esorcista; nel IX del modo
con cui il diavolo esce dal corpo; nel X delle malizie del diavolo per
ingannare l’esorcista; nell’XI del comportamento che deve osservare il
sacerdote quando scongiura una persona e nel XII dei rimedi da appli-
care contro i demoni incubi e succubi. Seguono poi le XXV coniuratio-
nes contro i demoni precedute dalle litanie della Beata Vergine e dalle
orazioni per Cristo, la Vergine ed i Santi. L’ultima è dedicata ai precetti
da seguire per combattere i demoni che impediscono il matrimonio e
che realizzano qualsiasi altro ostacolo attraverso le fatture. Seguono poi
gli esorcismi contro gli elementi e le benedizioni dei cibi e degli animali
più comuni, nonché degli accessori utili all’esorcismo, come il flagello2.

Rosinus Caesenatensis, Lyceum Lateranense Illustrium Scriptorum Sacri Apostolici Ordinis


Clericorum Canonicorum Regolarium Salvatoris Lateranensis Elogia, I, Caesenae, Ex
Typographia Nerii, 1649, pp. 174-178 e G. Pennottus generalis totius sacri ordinis clerico-
rum canonicorum, Historia tripartita..., Romae, ex Typographia Camerae Apostolicae,
1624, lib. III, cap. LXXVIII, p. 725. Sull’esorcismo vedi le considerazioni di D. P. Walker,
Demonic Possession Used as Propaganga in the 16th Century, in Scienze, credenze occulte, livelli di
cultura, Convegno Internazionale di Studi (Firenze, 26-30 giugno 1980), a cura di G.
Garfagnini, Olschki, Firenze 1982, pp. 237-248 e Id., Possessione ed esorcismo. Francia e
Inghilterra fra Cinque e Seicento, tr. it., Einaudi, Torino 1984; J. Beude, De la Sorcellerie a la
Possession. Changements dans la scénographie diabolique, in Renaissance Européenne et
Phénoménes Religieux 1450-1650, Festival d’Histoire de Montbrison (Montbrison, 3-7
novembre 1990), Les Presses de l’imprimerie Cerisier, Montbrison 1991, pp. 119-139.
2 Baculus daemonum coniurationes malignorum spiritum, Optime, & probatae mirabilisque;

efficaciae, cuius cognitio proprie spectat ad Sacerdotem. Partim deductae de vita S. Ubaldi Episc. &
Conf. Can. Reg.. Lat. & partim ab Auctore in Eccl. dicti Sancti expertae. Accessit doctrina singu-
laris de expellendis malignis spiritibus. Auctore R.P.D. Carolo Oliviero Vicentino, Concionatore &
Cive Eugubbino, Can. Reg. Salvato Lateranense, Ord. S. Augustini, atq, Exorcisticae artis profes-
sore. Adsunt etiam diversae Benedictionaes, Cum Indice omnium notabilium huius libri, Perusiae,
Apud Mar. Naccarinum, 1618. Esorcismi: della grandine e dell’acqua (p. 461); del sale
(pp. 514-517), dell’acqua (pp. 518-539), delle verghe per flagellare i demoni (pp. 540-544).
Benedizioni: dell’olio, della carne, del lardo, del burro, del formaggio (pp. 462-464), del
pane, del frumento, della farina, dei legumi (pp. 464-467), del vino e dell’aceto (pp. 467-
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

Il testo del 1618, nella sua composizione, si ispira chiaramente ad


altre opere contemporanee come la Pratica exorcistarum... del conven-
tuale francescano Valerio Polidoro da Padova del 15873, l’Antidotarium
contra daemones del Porri4, le Conjurationes potentissimae et efficaces ad expel-
lendas et fugandas aereas tempestates daemonibus excitates del 1606 di Pietro
Locatelli5 e il Thesaurus exorcismorum del 16086.
Del resto, il biografo dell’Olivieri, il Canonico Lateranense Celso
Rosini, menzionava più precisamente gli esorcisti a cui l’Olivieri si
sarebbe ispirato: Valerio Polidori, Gerolamo Menghi e Zaccaria
Visconti, tutti rinomati nel campo demonologico7. Questi autori
hanno in comune la discussione sui rimedi per espellere i demoni in
relazione alla pratica medica8. Nel 1567 Pio V, con un Breve, aveva sta-
bilito il divieto per i medici di curare gli ammalati se questi non si fos-
sero confessati. Tale prescrizione determinava in modo inequivocabile
il ruolo sociale del medico, stabilendo definitivamente anche i limiti

470), del pranzo e della cena (pp. 470-472), dell’incenso e degli aromi (pp. 472-477), della
medicina, dell’unzione, del brodo e dei bagni (pp. 477-479), dei tori (pp- 479-481), delle
vesti e degli indumenti da notte (pp. 482-483), delle erbe, delle rose e della ruta (pp. 484-
486), del fuoco (pp. 486-488), della casa o del luogo (pp. 488-493), della croce (p. 494),
delle candele (pp. 494-495), dell’anello (pp. 496-497), della corona (pp. 497-498), degli
alberi, delle vigne, della terra e dei semi (pp. 498-500), della peste animale (pp. 500-501),
degli uccelli e dei vermi (pp. 501-503), di tutto ciò che è commestibile e non commesti-
bile (pp. 503-504), delle creature ossesse (pp. 504-506), del cilicio (pp. 506-507), della frut-
ta (p. 508), della carne, delle uova e dei commestibili (pp. 509-511), dei pellegrini e del
bastone (p. 513), della carta e del calamaio (pp. 544-549).
3 Sull’argomento vedi L. Thorndike, A History of Magic and Experimental Science,

Columbia University Press, New York-London 1966, VI, p. 556.


4 Ibid., pp. 557-558.
5 Ibid.
6 Il testo, stampato a Colonia, includeva due lavori di Polidoro, il Flagellum e il Fustis

del Menghi e altre due opere, una di Zaccaria Visconti, un esorcista di Milano, l’altra di
Pietro Antonio Stampeo, un prete di Cleves.
7 C. Rosinus, Lyceum Lateranense, cit., p. 176.
8 Sulla questione vedi l’interessante tesi di V. Lovenia, Inquisizione, medicina legale, esor-

cismo. Ricerche sulla discriminalizzazione della stregoneria in Italia nella prima metà del Seicento,
Facoltà di Lettere e Filosofia (Corso di Laurea in storia), Università di Pisa, a.a. 1993-94.
Per diverse indicazioni vedi W. D. Müller-Jahncke, Zum Magie-Begriff in der Renaissance-
Medizin und -Pharmazie, in Humanismus und Medizin, “Mitteilung XI der Kommission für
Humanismusforschung”, Acta humaniora, Weinheim 1984, pp. 99-116; A. Biondi, Tra
corpo ed anima: medicina ed esorcistica nel Seicento, l’Alexicaeon di Candido Brugnoli, in
Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna,
“Annali dell’Istituto storico italo-germanico”, Quaderno 40, a cura di P. Prodi, Il Mulino,
Bologna 1995, pp. 397-416.
 PATRIZIA CASTELLI

del suo esercizio professionale9. Il Breve fu recepito in numerose zone,


soprattutto nell’area veneto-romagnola, come testimoniano i Sinodi
diocesani di Adria promossi dal vescovo Laureti nel 1592 e 159410. La
questione, come è noto, era stata affrontata in un dibattito accademico
scaturito da una vicenda legata alla possessione di alcune monache nel
convento pisano di S. Anna. Tra il 1574-75 l’arcivescovo di Pisa, Pier
Giacomo Borbon del Monte, aveva convocato, al tal proposito, la
facoltà di medicina di Pisa. Il prelato era stato nominato a tale carica il
19 maggio 1574 con la Bolla di Gregorio VIII. Dopo il suo arrivo in que-
sta città, il 9 novembre dello stesso anno, si era impegnato in una cam-
pagna contro i violatori della disciplina ecclesiastica e, il 27 maggio 1575,
anno in cui ricorreva il Giubileo11, aveva promosso, secondo le recen-
tissime norme del Concilio tridentino, il Sinodo diocesano. È evidente,
dunque, che del Monte cercava di svolgere un’intensa azione apostolica
nella città toscana attenendosi ai modelli dettati dalla Riforma cattolica.
I personaggi maggiormente coinvolti nella questione sono tra i più emi-
nenti della fine del ’500: Francesco de’ Vieri, detto il Verino secondo
(1524-91)12, professore presso lo Studio pisano dove insegnò logica e,
dal 1554, filosofia, e Andrea Cesalpino (1524/25-1603)13 che vi fu pre-
9 G. Panseri, La nascita della polizia medica: l’organizzazione sanitaria nei vari Stati italia-

ni, in Storia d’Italia. Annali 3. Scienza e tecnica nella cultura e nella società dal Rinascimento a
oggi, a cura di G. Micheli, Einaudi, Torino 1980, p. 178. Nel Medioevo e nel Rinascimento
le guarigioni erano palesemente legate al potere delle reliquie, ma anche all’imposizione
ed all’ingurgitazione di oggetti come candele o stoppini carbonizzati, che bruciavano
davanti alle tombe dei santi, o da acque e vini miracolosi, anche se sappiamo che nei luo-
ghi di pellegrinaggio era diffusa anche la pratica medica, come testimoniano le grandi
biblioteche di Cluny e di S. Marziale di Limoges, cfr. J. Sumption, Monaci, santuari, pelle-
grini. La religione nel Medioevo, tr. it., Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 103 sgg. Formule
magiche e incantesimi legati al nome dei santi, della Vergine e di Cristo contribuiscono
poi alle guarigioni, al pari dell’uso dei brevicini. La terapia magica è infatti parte integrante
della “credenza nei poteri curativi della Chiesa medievale”, cfr. K. Thomas, La religione e il
declino della magia, tr. it., Mondadori, Milano 1985, p. 203.
10 A. Lodo, Medicina, streghe, miracoli nel territorio di Adria fra ’500 e ’600, in Eresie, magia,

società nel Polesine tra ’500 e ’600, Atti del XIII Convegno di Studi Storici (Rovigo, 21-22
novembre 1987), a cura di A. Olivieri, Minelliana, Rovigo 1989, pp. 263-281: 265, nota 16.
11 N. Zucchelli, Cronotassi dei vescovi e arcivescovi di Pisa, Tip. Arciv. Orsolini Prosperi,

Pisa 1907, pp. 193-196.


12 Sul Vieri vedi A. Fabroni, Historiae Academiae pisanae vol. I [-II], excudebat G.

Magnainius, Pisae 1791-95.


13 Sul Cesalpino vedi G. Moggi, Andrea Cesalpino botanico, “Atti e Memorie

dell’Accademia Petrarca di Lettere Arti e Scienze”, n.s., XLII, 1981, pp. 235-249; F.
Garbari-L. Tongiorgi Tomasi-A. Tosi, Giardino dei Semplici. L’Orto botanico di Pisa dal XVI al
XX secolo, Pisa 1991.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

fetto dell’orto botanico, professore di botanica, di medicina dal 1569 al


1592, e, successivamente, lettore di medicina alla Sapienza, dopo che il
granduca Cosimo aveva chiamato, per la cattedra di medicina a Pisa,
Gerolamo Mercuriale14. Il De Demonibus15 del Verino, steso in latino e
dedicato al citato arcivescovo di Pisa, fu poi volgarizzato e pubblicato
nel 157616. In questo testo, basandosi sugli scritti agostiniani e su quelli
di altri teologi, dimostrava la realtà dei demoni. Il Cesalpino, nel
Daemonum investigatio peripatetica, pubblicato prima nel 1580, poi nel
159317, rispettivamente dedicati a Giovanni Tesi, provveditore dello
Studio pisano, e all’arcivescovo Pietro Giacomo Borbone, che in quella
data era già morto, sostiene una interpretazione soprannaturale della
malattia, ammettendo l’esistenza dei demoni e negando che la natura,
l’immaginazione o la determinazione celeste abbiano una influenza
sugli uomini. Pertanto le loro malattie sarebbero causate dai demoni.
Nell’ultima parte del testo, infatti, parla dei medicamenti naturali, di cui
possedeva una conoscenza di prima mano in quanto aveva insegnato
botanica, e suggerisce fragranze ed odori come l’alchermes, l’ambra, il
muschio, il cinammomo, il nardo, il legno di aloè, fermandosi anche su
l’uso dell’iperico, detto anche ‘fuga demoni’, e della ruta che difende i
fanciulli dal fascino18. La discussione sui casi di possessione era stata ali-
mentata dagli scritti del medico Johann Wyer che, nel De praestigiis dae-
monum, pubblicato per la prima volta nel 156319, aveva spiegato natu-
raliter gli invasamenti, opinione questa che, come è noto, fu avversata

14 Vedi infra, nota 74.


15 Bibl. Riccardiana, 1223 D.VI.
16 Francesco De’ Vieri, Discorso... intorno a’ dimonii, volgarmente chiamati spiriti..., in

Fiorenza, appresso Bartolomeo Sermartelli, 1576; cfr. P. Zambelli, Scienza, filosofia e religio-
ne nella Toscana di Cosimo I, in Florence and Venice: Comparisons and Relations, Acts of two
Conferences at Villa I Tatti in 1976-1977. Organized by S. Bertelli, N. Rubinstein, and C.
Hugh Smith, II, Cinquecento, La Nuova Italia, Firenze 1980, pp. 3-52: 10 sgg., 33, nota 39.
17 Andrea Caesalpino, Daemonum investigatio peripatetica. In qua explicatur locus

Hippocratis in Progn. Si quid diuinum in morbis habetur, Florentiae, apud Iuntas, 1580; Andreae
Caesalpini Aretini Quaestionum peripateticarum lib. V. Daemonum inuestigatio peripatetica...
secunda editio. Quaestionum medicarum libri II. De medicament. facultatibus lib. II., Venetiis, apud
Iuntas, 1593. Sull’argomento vedi L. Thorndike, A History of Magic, cit., VI, pp. 335-338.
18 A. Caesalpino, Daemonum investigatio, cit., p. 24r-v.
19 Cfr. P. Castelli, “Donnaiole, amiche de li sogni” ovvero i sogni delle streghe, in Bibliotheca Lamiarum.

Documenti e immagini della stregoneria dal Medioevo all’Età Moderna, a cura di P. Castelli, Pacini,
Pisa 1994, pp. 35-85: 78, nota 136 e inoltre la scheda di G. Bosco, ibid., pp. 148-149; S. Anglo,
Melancholia and Witchcraft: the Debate between Weir, Bodin and Scot, in Folie et déraison à la
Renaissance (1973), Éd. de l’Université de Bruxelles-Vrin, Bruxelles-Paris 1976, pp. 209-222.
 PATRIZIA CASTELLI

da Jean Bodin il quale, nel 1580, nella Demonomanie, confutò violen-


temente il medico. È appena superfluo sottolineare come in questo
periodo nascano le diatribe tra medici e inquisitori in ogni parte
d’Europa. Anche in Francia, per casi di possessione furono consultati
dei medici, come il francese Michel Marescot che, coinvolto nel caso
dell’indemoniamento di Marthe Brossier, scrisse e pubblicò per ordine
del re il Discours veritable sur le faict de Marthe Brossier de Romorantin pre-
tendue demoniaque20 dove fa un resoconto della possessione della ragaz-
za, dimostrando che era una simulatrice. Il parere del medico fu con-
futato da un altro gruppo di colleghi e di teologi, convocati dai cap-
puccini, i quali, invece, la dichiararono veramente posseduta21. Deve
essere anche ricordato il medico Jean Fernel22 che trattò ampiamente
di casi di epilessia. Nel De abditis rerum causis, pubblicato nel 1548,
trattò dei fatti occorsi ad un giovane nobile sofferente di attacchi con-
vulsivi ritenuti di tipo epilettico. Costui, curato per questa malattia
senza successo, fu poi riconosciuto come un invasato ed esorcizzato.
La questione fu in seguito citata come un errore del medico riguardo
il riconoscimento delle malattie da cause di vessazione diabolica, costi-
tuendosi come un classico esempio di tali errori.

Girolamo Menghi (1529-1609)

La discussione sulla liceità della medicina nei casi di possessione fu a


lungo trattata dagli esorcisti, soprattutto dal Menghi, un francescano
osservante il cui grande successo è collegato in un primo momento alle
capacità di guarire le malattie causate da malefici e da fattori naturali23.
L’opera del Menghi, benché in seguito fosse messa sotto accusa, non

20 D.P. Walker, Possessione ed esorcismo, cit., pp. 44-45; R. Mandrou, Magistrati e streghe

nella Francia del Seicento. Un’analisi di psicologia storica, tr. it., Laterza, Bari 1971, pp. 194-202.
21 D.P. Walker, Possessione ed esorcismo, cit., p. 47.
22 L. Thorndike, A History of Magic, cit., V, pp. 557-560.
23 Sul Menghi vedi ibid., VI, pp. 549-563; G. Bonomo, Caccia alle streghe. La credenza

nelle streghe dal secolo XIII al XIX, Palumbo, Palermo 1955, pp. 331-343; O. Franceschini,
Un ‘mediatore’ ecclesiastico: Girolamo Menghi (1529-1609), in G. Menghi, Compendio dell’arte
essorcistica, et possibilita delle mirabili & stupende operationi delli Demoni, & de’ Malefici; Con li
rimedij opportuni alle infirmità maleficiali, [ristampa dell’Edizione Bologna, G. Rossi, 1576],
bibliografia e indici a cura di A. Aliani, Nuova Stile Regina Editrice, Genova 1987, pp. III-
XIX e id., L’esorcista, in Cultura popolare nell’Emilia Romagna. Medicina, erbe e magia, Silvana
Editoriale, Milano 1981, pp. 99-115.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

screditò la sua teoria favorevole ad interventi di tipo medico24. Questi


aveva ampiamente attinto all’Aureus tractatus exorcismisque pulcherrimi,
pubblicato dall’inquisitore domenicano Silvestro Prierio, ripubblica-
to a Bologna nel 157325. Nel 1576 aveva stampato a Bologna, presso
Giovanni Rossi, il Compendio dell’arte essorcistica et possibilità delle mira-
bili et stupende operazioni delli Demoni et de’ Malefici..., dedicato al car-
dinale Giulio Feltro della Rovere, protettore dei Francescani26, e nel
1577 il Flagellum daemonum, seu exorcismi terribiles, potentissimi, efficaces.
Remedia probatissima in malignos spiritus expellendos fatturasque et malefi-
cia effuganda de obsessis corporibus. Cum suis benedictionibus et omnibus
requisitis ed eorum expulsionem, dedicato al cardinale Gabriele Paleotti,
vescovo di Bologna, opera, questa, dove veniva proposta una raccol-
ta di efficaci esorcismi e modelli per effettuare il rito, con indicazio-
ni per parole, gesti, ma anche per gli oggetti e tutte le pratiche per
espellere i diavoli. Nel 1584 pubblicava poi, sempre a Bologna, nella
stamperia di Rossi, il Fustis daemonum... indirizzato a Francesco
Gonzaga, ministro generale (1579-87) dell’ordine francescano. Nel
1588 usciva, sempre da G. Rossi, una sua ulteriore raccolta di esorci-
smi: l’Eversio daemonum et corporibus oppressis..., dedicata “Candidis
exorcistis”. Nel 1596 veniva poi edita a Venezia, dagli eredi di
Giovanni Varisco, la Fuga daemonum..., indirizzata sempre a
Francesco Gonzaga, vescovo di Mantova27. I tre testi, che possono
essere consultati separatamente, in realtà, dipendono uno dall’altro.
Il Compendio si presenta come uno scritto teorico dove l’autore trat-
ta, nel primo libro, della natura dei demoni; nel secondo, di quella
della strega e, nel terzo, dei rimedi contro i malefici e delle medicine

24 G. Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma, Sansoni, Firenze


1990.
25 Sul Prierio (Silvestro Mazzolini 1460ca.-1523) vedi J. Hansen, Quellen und

Untersuchungen zur Geschichte des Hexenwahns und der Hexenverfolgung im Mittelalter [1901],
Georg Olms Verlagsbuchhandlung, Hildesheim 1963, pp. 311, 313, 317 sgg., 326 sgg., 334
sgg., 339 sgg., 348, 395, 406, 476, 510 sgg., 559; G. Bonomo, Caccia alle streghe, cit., pp.
336-339; Silvestro Prierias (1456/60-1523) e le note bio-bibliografiche a cura di S. Abbiati,
in La stregoneria. Diavoli, streghe, inquisitori dal Trecento al Settecento, a cura di S. Abbiati, A.
Agnoletto, M. R. Lazzati, Mondadori, Milano 1984, rispettivamente pp. 218-229, 362-364
e, inoltre, la scheda di G. Bosco in Bibliotheca Lamiarum, cit., pp. 122-123.
26 Non mi è stato possibile trovare riscontro alcuno all’indicazione di una perduta

edizione del 1572 cui accenna senza altre spiegazioni G. Romeo, Inquisitori, esorcisti e stre-
ghe, cit., p. 120.
27 Per le varie edizioni vedi Opere di argomento esorcistico di Girolamo Menghi, a cura di

A. Aliani, in G. Menghi, Compendio, cit., pp. XXI-XXV: XXI-XXII.


 PATRIZIA CASTELLI

che possono giovare agli spiritati, coinvolgendo nella discussione il


mandato del medico. Nel Flagellum invece, più che altro, enumera gli
esorcismi e i rimedi per espellere i demoni dal corpo degli ossessi, tra-
lasciando la parte teorica e facendo spesso riferimento all’opera pre-
cedente. Nel Fustis poi prosegue su questa linea che verrà ampliata
nelle edizioni seicentesche. Nella Fuga daemonum sembra riunire
tutte le notizie fornite nelle precedenti opere. Così, l’ampia produ-
zione del francescano deve essere letta alla luce di un progressivo
interesse nei confronti della discussione sulle questioni mediche. Nel
1598 il Menghi fu nominato da papa Clemente VIII ministro della
Provincia francescana di Bologna. Le sue opere, fortemente polemi-
che, tendevano a colpire coloro che pensavano la possessione diabo-
lica “provocata e indotta dal meleficio di streghe, ‘fittioni, e inven-
tiôni humane’”28 con l’intento di avversare il ruolo dei medici e di
esaltare invece quello degli esorcisti, indicando la posizione dei
medici come subordinata alle pratiche religiose.
Giovanni Battista Codronchi, come vedremo, nel De morbis ac vene-
ficis, pubblicato a Venezia nel 159529, sostiene le idee del Menghi, in un
momento in cui le prediche dell’esorcista sembrano essere ascoltate con
minore attenzione, e va sempre più sviluppandosi l’idea che più che la
possessione prevalgano le malattie. L’intricata questione è combattuta
da Paolo V che nel Rituale Romano del 1614 mette sotto accusa gli abusi
nell’ambito degli esorcismi30. I testi del Menghi offrono all’Olivieri un
preciso modello editoriale. Le dediche che l’esorcista viadano indirizza
ai citati eminenti personaggi dell’ordine francescano sembrano voler
accattivarsi la benevolenza e la protezione di importanti membri del-
l’ordine. Le opere del Menghi in realtà erano rivoluzionarie in confron-

28Ibid., p. IX.
29Sul Codronchi vedi L. Thorndike, A History, cit., V, p. 483; ibid., VI, pp. 529, 544-
547, 559. Ma vedi anche N. Galassi, Figure e vicende di una città, Coop. Marabini, Imola
1984-86, II, pp. 127-161; G. Mazzini, Di Battista Codronchi medico e filosofo imolese (1547-
1628), Alterocca, Terni 1924; ad vocem in Biograpisches Lexikon der hervorragenden Ärtze aller
Zeiten und Völker, Verlag von Urban & Schwarzenberg, München-Berlin 1962, II, pp. 62-
63; la voce di C. Colombero, in Dizionario biografico degli italiani, XXVI, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1982, pp. 604-605; G. Zanelli, Streghe e società nell’Emilia
Romagna del Cinque-Seicento, Longo, Ravenna 1992, pp. 47-52, 56-62.
30 Paolo V (1605-1621) istituì una commissione finale per la definizione del Rituale

Romano. La commissione era formata dai cardinali della S. Congregazione dei Riti che si
basò sul lavoro istruito dal cardinale Santoro: cfr. G. Mercati, Ancora sul R. del Cardinale
Santori, “Rassegna Gregoriana”, V, 1906, pp. 443-446.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

to al comune Sacerdotale31. Difatti questi proponeva, da parte degli esor-


cisti, un controllo non solo degli indemoniati, ma anche delle vittime dei
malefici32. Inaugurava, insomma, una vera e propria “tecnica della guari-
gione che va dalla diagnosi alla terapia e sana attraverso l’uso dei rime-
di”33. Recentemente Giovanni Romeo ha ben delineato la grande fortu-
na delle opere del Menghi, spesso citato in contesti processuali34, dimo-
strando come spesso casi di presunte malie, ben diversi da veri fenomeni
di possessione, fossero curati da benedizioni, indicando così una distin-
zione “tra un’attività esorcistica ‘bassa’, autorizzata e tollerata, per la cura
domiciliare di disturbi leggeri di presunta natura diabolica, e una ‘alta’,
quella tradizionalmente preposta alla liberazione degli ossessi pubblica,
legata a possibili risvolti propagandistici”, e come quest’ultima “andasse
sempre più prendendo piede in Italia tra ’500 e ’600”35. In effetti, diver-
samente da quanto si legge nel Sacerdotale36, la pratica dell’esorcismo,
come afferma anche il Menghi, doveva aver luogo in chiesa, e non nella
casa dell’energumene, e in forma pubblica37. Così l’istituzione di pubbli-
ci esorcisti, come il Porri a Venezia, lo Zani a Modena per S. Gemignano,
l’Olivieri a Gubbio per S. Ubaldo, sembrerebbe avvalorare l’idea di una
presa di posizione nei confronti della ‘bassa attività’ esorcistica.

Carlo Olivieri

In realtà la figura di Carlo Olivieri ha un ruolo emergente nella promo-


zione del culto di S. Ubaldo, che presenta come un membro della
Congregazione dei Canonici Lateranensi. L’Olivieri è dunque ufficial-
31 Sacerdotale iuxta S. Romane ecclesie et aliarum ecclesiarum... nuper diligentia castigatus ac

summorum pontificum auctoritate multoties approbatum..., Venetiis, apud Heredes Petri


Rabani, et socios, 1554. Il Sacerdotale romano ha avuto fino al 1597 almeno sedici edizio-
ni. Il testo elencava in modo minuzioso i sintomi della possessione diabolica. Come è
stato notato, l’opera era ancora ricca di elementi superstiziosi. Lo scritto raccoglieva anche
testi liturgici ufficiali per la celebrazione dei sacramenti e dei sacramentali, per le proces-
sioni, le consacrazioni e quindi per gli esorcismi: cfr. H. Haag, La credenza nel diavolo. Idea
e realtà del mondo demoniaco, tr. it., a cura di A. Gecchelin, Mondadori, Milano 1976, pp.
192-193.
32 G. Menghi, Compendio, cit., pp. 293-301.
33 G. Romeo, Inquisitori, esorcisti, streghe, cit., p. 148.
34 Ibid., p. 146, nota 2.
35 Ibid., p. 151.
36 Sacerdotale iuxta S. Romane ecclesie et aliarum ecclesiarum..., cit., p. 323.
37 G. Menghi, Flagellum Daemonum exorcismos terribiles Potentissimos et efficaces, apud

Petrum Milocum, Venetiis 1620, cap. XV.


 PATRIZIA CASTELLI

mente definito come tale dal Rosini biografo dell’Ordine. Il Canonico,


nella vita del celebre esorcista, sottolinea come questi, giunto a Gubbio,
“[...] concipit in ipsos primos dies devotionem, venerationemque; illam
erga Divum Praesulem, qua postmodum tantopere floruit, quaue tuta-
tus, quae adiutusque; est ad tot egregia omnino praestanda, & absol-
venda”38. In realtà gli esorcismi erano già praticati in questa città sin
dalle origini del culto ubaldino ed erano assai diffusi nel tardo
Cinquecento, come testimonia una nota autobiografica del Canonico
Lateranense Tomaso Garzoni da Bagnocavallo39. Questi, nel Discorso
XXXIV (De’ scongiuratori) de La piazza universale, ricorda la sua attività di
demonologo, poco considerata dagli studiosi, nella chiesa dedicata a S.
Ubaldo, dove si scontra con un “superstizioso” praticone di Monte
Falcone dedito alla liberazione degli ossessi attraverso mezzi non leciti
e condannati dalla Chiesa, come l’erba “sferra cavallo”:

A questo proposito ho conosciuto io un certo superstizioso da Monte


Falcone, di nome grandissimo in cacciare i demoni, il quale, vedendo me
scongiurare a Santo Ubaldo d’Ugubbio, mi tirò in disparte e disse volermi
insegnare un secreto (chiedendomi per ricompensa una grazia molto illecita
e ingiusta) da cacciar presto i demoni; ove mi mostrò l’erba sferra cavallo, con
la quale diceva far gran parte de’ miracoli suoi da me non visti, ma ben per
fama da molti intesi; e fra l’altre cose mi disse un secreto d’una nocella con
argento vivo e un segno di carbone, della qual cosa come di ridicola e super-
stiziosa affatto mi risi seco. Non bastò però l’animo a lui di cacciar quel
demonio ch’io scongiurava con gli essorcismi di Santa Chiesa allora40.

I Bollandisti, negli Acta Sanctorum, riconoscono a Carlo Olivieri il


merito “Sancti Ubaldi cultu promovendo felix industria”41. La decisio-
ne da parte dell’ordine di fare di Ubaldo un santo di importanza nazio-
nale, al di fuori dei confini del ducato di Gubbio, è ben documentata
sempre dal Rosini che indica come nel momento in cui erano stati fatti
conoscere i suoi poteri esorcistici, avesse fatto giungere nella città di
Gubbio gente

38
C. Rosinus, Lyceum Lateranense, cit., I, p. 174.
39
Cfr. Ibid., II, pp. 320-323; L. Loschiavo, Tomaso Garzoni C.R.L. e la sua Congregazione
(1549-1589), in Tomaso Garzoni: uno zingaro in convento, Longo, Ravenna 1990, pp. 27-34.
40 T. Garzoni, La piaza universale di tutte le professioni del mondo, a cura di P. Cherchi e

B. Collina, 2 voll., Einaudi, Torino 1996, I, pp. 493-498: 496-497.


41 Acta Sanctorum, III, Antuerpiae, 1680, pp. 664-665.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

Ex universo prope dixerim orbe christiano, certe ex omni undique; Italia


confluunt ad pium montem utriusque sexus exagitati, possesisque, à
Demone, ab sacra excitati intercessione Ubaldi, cuius praecibus Deus libe-
rationem concedere maxime fuevit: et perpauci, ac forte nulle sunt, qui non
aut incolumes ex integro, aut melius valde habentes non retrocedant42.

La riconosciuta universalità dell’intercessione ubaldina nelle prati-


che esorcistiche, unitamente al riconoscimento di intercessore per la
nascita dell’atteso erede di Francesco Maria II, Federico Ubaldo, ne face-
vano potenzialmente un santo di primo piano che poteva aspirare ad
uscire dai confini territoriali e adatto a pubblicizzare la Congregazione
dei Canonici43. L’Olivieri, come ricorda sempre il Rosini, testimone
della nascita del Della Rovere, nato per le preghiere del popolo e con
l’intercessione di Ubaldo, assiste anche alla sua morte ancora nel fiore
dell’età, dopo le nozze, e, quindi, alla devoluzione del ducato alla Santa
Sede dopo la morte di Francesco Maria44. Il Canonico, dunque, può
essere considerato l’ultimo religioso di grande importanza presso la città
eugubina con un preciso programma devozionale collegato alla casa dei
Della Rovere, che avevano promosso da tempo il culto ubaldino, pro-
seguendo, in questa direzione, la devozione feltresca.
La centralità della figura di Ubaldo emerge chiaramente nel Baculus
daemonum45 che diviene anche un mezzo di divulgazione della Vita
Ubaldi e di esaltazione della Congregazione Lateranense, nominata spo-
radicamente nei citati XXV scongiuri dove il Santo compare ripetuta-
mente, soprattutto per le sue virtù. Nella Coniuratio V (Et secundum
Peremptorium), ove scongiura i demoni per l’umiltà di Ubaldo che si con-
siderava indegno del sacerdozio e per la sua carità dimostrata nel
momento della morte della madre quando donò tutto ai poveri46, per

42 C. Rosinus, Lyceum Lateranense, cit., I, p. 175.


43 Ibid., p. 176.
44 Ibid. Per alcune indicazioni sulla nascita di Federico Ubaldo della Rovere vedi P.

Castelli, Retorica e devozione: dal testo all’immagine. Per una memoria del culto di S. Ubaldo,
Grafiche Bovini, Perugia 1986, pp. 15-16; M. R. Valazzi, Un episodio di architettura devoziona-
le: la chiesa di S. Ubaldo a Pesaro, in Nel segno del Santo Protettore, cit., pp. 401-413: 401, nota 1.
45 C. Oliverius, Baculus daemonum, cit., p. 395.
46 Ibid., p. 150: “Adiuro vos per S. Ubaldum, qui humilitatis causa indignum se iudi-

cabat Sacerdotio, nam inuitus ordinatus fuit à S. Ioanne Laudense. Fugo vos per nimiam
charitatem S. Ubaldi, qui, mortua Matre, omnia sua bona pauperibus, & Ecclesiis distri-
buit. Fugite maledicti ab hac creatura Dei N. per Ubaldum Sanctum, & non relinquatis in
hac creatura aliquod signum Diaboli, vel maleficij, vel facturae, vel cuiusuis vexationis
Diabolicae [...]”.
 PATRIZIA CASTELLI

la sua pazienza, allorquando fu bruciata la sua chiesa e la riedificò nuo-


vamente, e, da ultimo, per la decisione di Ubaldo di partire dal
Cenobio ravennate ed aver preso l’abito dei Canonici Lateranensi47.
L’Olivieri, dunque, definisce nel Baculus lo stretto legame tra Ubaldo
e l’ordine, indicando anche la chiesa di Santa Maria in Porto, dove il
Santo aveva cercato la riforma come un edificio dei Canonici Regolari
Lateranensi, tesi che riporterà nell’edizione volgarizzata della vita di
Teobaldo del 162348.
Lo specifico interesse per le nuove normative in merito all’esorcismo
viene esplicitamente dichiarato dall’Olivieri nelle Gratie fatte da S. Ubaldo,
stampate a Fabriano nel 161749, e dedicate alla sua benefattrice, la con-
tessa Isabella Brancaleoni in Ansidei di Perugia, alla quale indirizza
anche il Baculus daemonum, di un anno più tardo50. Il testo, al di fuori del
primo episodio collegato alla famosa storia della liberazione della città di
Civitella del Tronto in Abruzzo, assediata dai francesi, per intercessione
di S. Ubaldo, raccoglie prevalentemente miracoli compiuti ad imposses-
sati, energumeni o a persone cadute ammalate per opera di malefici o
molestate da streghe51, tutti guariti per grazia del Santo, con l’uso del
Breve ad honorem Sancti Ubaldi52 o con l’olio della lampada che arde
davanti al corpo del Santo53. L’ultimo evento narrato, riguardante il risa-
namento di un orecchio di una donna attraverso una corona che aveva
toccato il corpo del Santo, è assai importante in relazione alla già accen-
nata questione del rapporto tra esorcismo e medicina. Il Canonico late-
ranense, infatti, sottolinea che gli uomini sono stati guariti non “per
mezzo delle medicine (come alcuni scioccamente si credono) ma da Dio
mediante la virtù del Glorioso S. Ubaldo”. Gesù, infatti, non avrebbe
guarito gli indemoniati con l’esorcismo, come testimoniano S. Marco e
S. Luca54, se ci fosse stato un mezzo naturale. Il pericolo della sommini-

47 Ibid., p. 154. Naturalmente l’abito era quello degli agostiniani, trasformato per que-

stioni ideologiche in quello lateranense.


48 In realtà l’edificio apparteneva ai Canonici Agostiniani.
49 C. Olivieri, Grazie fatte da S. Ubaldo Canonico Regolare Lateranense et Vescovo di Gubbio

ai suoi devoti, Fabriano 1617.


50 P. Castelli, “Daemones in corpore”, cit., pp. 334-335.
51 C. Olivieri, Grazie, cit.
52 Sull’uso del Breve vedi P. Castelli, “Daemones in corpore”, cit., p. 336.
53 Ibid. L’olio della lampada guarisce, oltre che gli indemoniati, gli scrofolosi e i feb-

bricitanti.
54 Mc. 5, 19-15; Lc. 10, 17-19; ma vedi anche Mt. 4, 24-34: 32. Cfr. F. M. Catherinet,

Gli indemoniati nel Vangelo, in Satana, tr. it., Vita e Pensiero, Milano 1953, pp. 185-189; K.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

strazione delle medicine agli indemoniati è reale poiché queste possono


risultare letali, come è testimoniato da molti di coloro che hanno assisti-
to alla somministrazione dei rimedi. Il richiamo da parte dell’Olivieri al
Rituale di Paolo V vuole mettere in evidenza la proibizione del pontefi-
ce per quanto riguarda la prescrizione agli indemoniati di medicinali da
parte di sacerdoti, poiché il demonio può far credere ad una falsa guari-
gione, dannosa come l’uso di scongiuri o simili. Unico rimedio per l’e-
sorcista è quello di affidarsi all’intercessione di S. Ubaldo55. Lo scritto
dell’Olivieri faceva palesemente riferimento al Rituale Romano di Paolo V
che era uscito solamente il 17 giugno 1614 con l’approvazione della sacra
congregazione dei riti, che lo dichiarò obbligatorio per le funzioni par-
rocchiali. Nel capitolo De exorcizandis obsessis a daemonio, infatti, il sacer-
dote è avvertito in modo specifico: “Caveat proinde Exorcista ne ullam
medicinam infermo, vel obsesso praebeat, aut suadent; sed hanc curam
medicis relinquat”56. Il citato testo dell’Olivieri espressamente pone in
primo piano la pericolosità delle medicine e la pratica dei medici, già
messa sotto accusa nel Baculus. Riprende poi l’argomento nel capitolo III
asserendo che non tratterà delle pratiche mediche reputandole non
necessarie alla liberazione degli ossessi e degli energumeni secondo il
citato esempio del Vangelo57. L’Olivieri contrasta apertamente l’opinione
di quelli che appoggiano l’intervento dei medici. Difatti per far espellere
agli indemoniati peli, chiavi, ossa, aghi, pietre e cose simili, le medicine
non sono necessarie, ma è sufficiente l’esorcismo. L’esorcista in realtà
può valersi di un mezzo tradizionale: il dito in gola per produrre il vomi-
to. In effetti poi l’Olivieri prescrive un altro tipo di medicina, come si
legge nei diversi miracula: l’olio della lampada accesa davanti a S. Ubaldo
che fa espellere liquidi nerastri ed oggetti. Anche nel Baculus il richiamo
al nuovo Rituale di Paolo V è evidente e lo oppone all’opinione del
Viadana che afferma invece come molti desiderino dare le medicine agli
ossessi58. Il Canonico spiega poi che l’uso delle medicine prima del
Howard Clark, Medicine, Miracle and Magic in New Testament Times, Cambridge University
Press, Cambridge 1986.
55 C. Olivieri, Grazie, cit.; ma vedi anche C. Oliverius, Baculus Daemonum, cit., pp. 39-41.
56Rituale Romanum Pauli V. Pont. Max, Sumptibus Pauli Balleonii, Venetiis 1694, p.

212.
57 C. Oliverius, Baculus daemonum, cit., pp. 39-41.
58 Ibid., p. 41: “Tandem dico, quod Sacerdotes, vel Exorcistae non possunt dare medi-

cinas obsessis, nec consulere, quia in novo Rituali iussu Pauli V. edito prohibentur
Exorcistae, & Sacerdotes eas dare vexatis: etiam si Viadana dicat, quod sunt multi, qui
volunt medicinas dari obsessis, & propter hoc videatur eas concedere, tamen quando ipse,
& alij hoc dixerunt, nondum prodierat in lucem novus hic Ritualis.”.
 PATRIZIA CASTELLI

Rituale di Paolo V era considerata una pratica consueta: alcuni esorcisti


infatti le somministravano dopo aver consultato un medico che consi-
gliava il rimedio da usare dopo aver studiato la complessione dell’inde-
moniato. Così molti sacerdoti ed esorcisti erano incorsi in irregolarità
facendo cadere gli ossessi in pericolo di vita o provocandone addirittura
la morte. Agli esorcisti, secondo l’Olivieri, non rimane dunque che imi-
tare Cristo e lasciare “medicinas medicis quia naturalia, et corporea agere
non possunt in spiritum, nisi forte per significatum, ut sint defunctis per
incensum benedictionum, quia significant orationem [...]”59. Il
Canonico lateranense sembra colpire così il Menghi che, nel libro III del
Compendio, ammette, sotto la scorta dell’autorità dell’alchimista
Giovanni Rupescissa, somministratore della quinta essenza, che i sacer-
doti e gli esorcisti possano applicare “alcune cose sensibili à questi ves-
sati dal Demonio per alleggerire la loro vessazione fattagli da questi spi-
riti immondi [...]”60, salvo che le medicine siano benedette. L’uso di que-
ste medicine sarebbe anzi lecito e necessario “per cavare gli maleficij
fuori de i corpi maleficiati, & fatturati, mediante li quali, il Demonio è
legato in quelli corpi, per il patto che tiene con gli Malefici”61. L’intero
libro del Menghi è anzi una fonte importantissima sulla discussione in
merito alla liceità della medicina per gli esorcizzati a metà del ’500.
L’opinione degli esperti in materia è infatti divisa tra coloro che, appog-
giandosi all’autorità di S. Agostino, negano che le cose corporali possa-
no operare sullo spirito e quelli che invece ammettono che i rimedi natu-
rali come erbe, armonie e cose naturali, benché non possano levare la
“vessatione con la quale il Demonio possede et travaglia l’huomo”62,
possono invece mitigare ed alleggerire questo stato, sulla scorta delle
testimonianze aristoteliche del secondo libro del De anima, dove è giu-
stificato l’effetto della materia più intensa sugli animi ben disposti pro-
cedendo dall’idea che l’anima sia costituita da quella sostanza che forma
il corpo. Il Menghi ricorda come il diavolo, essendo un agente di virtù
limitata, possa agire su coloro che sono più predisposti: ad esempio, gli
uomini travagliati dalla malinconia sono più versati degli altri ad essere
posseduti63. A tal proposito suggerisce come rimedi cose naturali quali le
erbe, l’armonia e tutto ciò che possa inclinare a certe passioni, proprio

59 Ibid., p. 42.
60 G. Menghi, Compendio, cit., p. 273.
61 Ibid., p. 276.
62 Ibid., p. 267.
63 Ibid., p. 268.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

come ricorda Aristotele nell’VIII libro della Politica e Boezio nel De musi-
ca. Questa idea aveva trovato nel tempo larga diffusione ed era stata
appoggiata da Nicolò da Lira, commentatore dei Vangeli, che spiega la
guarigione di Saul, vessato da uno spirito immondo, attraverso l’uso
della cetra64. Le erbe poi, per il Menghi, hanno solamente virtù positive
e quindi non possono disporre alla possessione. Il Menghi osteggia infat-
ti coloro che ritengono le erbe dotate di occulti poteri, dati dai demoni
o dai corpi celesti65. Alla musica riserva una particolare proprietà tauma-
turgica, secondo quanto ricordano Guido d’Arezzo e Giuseppe Ebreo
nell’VIII libro dell’Antichità dei Giudei, ma è soprattutto alla quinta
essenza di Lullo che affida la guarigione66. Difatti la rimozione della
causa produce l’effetto salutare. È soprattutto la disposizione melancoli-
ca a favorire la congiunzione dei demoni con i corpi67. I demoni infatti
abitano nei luoghi oscuri, solitari e privi di luce e possono solamente
essere cacciati dalla quinta essenza. Tra le cure per la melancolia consi-
glia l’hipericon, soprannominato Fuga daemonum. Difatti il fumo prodot-
to dalla combustione dei semi scaccia i demoni non solo dai corpi, ma
anche dalle case68. La discussione del Menghi verte dunque sulla melan-
colia e sulla teoria degli umori, tanto discussa da filosofi, medici e teolo-

64 Ibid., p. 269. Sulla possessione di Saul vedi La maga di Endor, a cura di M.

Simonetti, Nardini, Firenze 1989.


65 Ibid., p. 272: “Non veggio però in che modo l’herbe, & altre cose sensibili possino

causare alcuna dispositione, per la quale l’huomo per niuno modo non possi esser vessa-
to dal Demonio, quando la vessatione sarà così grande; posciache l’herbe, & armonie
(come habbiamo detto) con la loro natural virtù non possono causare questa tal disposi-
tione. Questo dico contra à quelli che si sforzano di difendere, che alcuni possino pro-
durre certi effetti maleficiali col mezo dell’herbe, & delle loro cause occulte, senza l’aiuto
diabolico, con l’influenza de i corpi celesti; le quali più possono oprare in queste cose cor-
porali à gli effetti corporali, che non possono gli Demoni per produrre questi tali effetti
maleficiali”.
66 Ibid., p. 274.
67 La discussione verte sulla teoria degli umori. È da vedere, in proposito, l’ormai clas-

sico R. Klibansky-E. Panofsky-F. Saxl, Saturno e la Melanconia, tr. it., Einaudi, Torino 1983;
ma vedi anche M. Fattori, Sogni e temperamenti, in I sogni nel Medioevo, Seminario interna-
zionale (Roma, 2-4 ottobre 1983), a cura di T. Gregory, Edizioni dell’Ateneo, Roma pp.
87-110; le note di G. Maraglia a M. Ficino, Consilio contro la pestilenza, a cura di E.
Musacchio, Cappelli, Bologna 1983, pp. 14-19; ma per altre indicazioni su melancolia e
stregoneria vedi P. Castelli, “Donnaiole amiche de li sogni”, cit., pp. 35-84: 37-40, 42-44.
68 G. Menghi, Compendio, cit., p. 275. Dell’iperico dà ampia testimonianza anche in

altri testi. L’iperico, o ‘cacciadiavoli’, o ‘pilatro’, è anche conosciuto col nome di ‘erba di S.
Giovanni’ con effetti lassativi e buona per la cura dell’artrite: vedi F. Cazzuola, Dizionario
di Botanica, Tipografia T. Nistri, Pisa 1876, p. 317. Ma vedi anche, a tal proposito, le qua-
 PATRIZIA CASTELLI

gi. Il testo risente in modo particolare del filone scettico a partire dal
Pomponazzi che, nel suo De naturalium effectuum admirandorum causis seu
de incantationibus liber, nega il probabile intervento dei demoni nel
mondo naturale. Un gruppo di scienziati come Cardano, Giovan
Battista Della Porta, Johannes Wyer, Paracelso, Jacob di Lichtemberg,
basandosi sulle posizioni del Pomponazzi, afferma, ad esempio, che i
voli delle streghe non sono altro che vana deliramenta generati dall’uso
delle droghe e da un’alimentazione inadeguata e dalla melancolia69. Il
testo del Pomponazzi ebbe sicuramente un’ampia circolazione nell’am-
bito degli esorcisti. Un esempio da segnalare a tal proposito è sicura-
mente l’esemplare della Biblioteca Universitaria di Pisa appartenuto
all’inquisitore pisano Hieronimus Santuccius che, nel marzo 1572, ne
autorizza la lettura e lo studio70. Lo scritto era particolarmente interes-
sante perché attribuiva numerose guarigioni agli effetti di pietre e mine-
rali, nonché al potere dell’immaginazione71. Certe idee furono anche
riprese dal naturalista Ulisse Aldrovandi nel suo noto e avversato
Antidotarius sive de usitate ratione componendum miscendorumque medicamen-
torum epitome pubblicato a Bologna nel 1574, dove cerca di dare una
nuova dignità all’arte medica e farmaceutica avversando gli esorcismi che
indica come pratiche magiche. La sovrapposizione tra forme magiche ed
esorcismi offre infatti il fianco a polemiche e ad interventi da parte degli
stessi tribunali dell’inquisizione.

lità descritte nel Dioscoride volgarizzato, che ebbe ampia diffusione tra ’500 e ’600, e
l’Hortus sanitatis. De herbis et plantis. De animalibus et reptilibus. De auibus et volatilibus. De
piscibus et natatilibus. De lapidibus et in terre venis nascentibus. De vrinis et earum speciebus.
Tabula medicinalis cum directorio generali per omnes tractatus, Reinhard Beck, Strassburg 1517.
Per alcune considerazioni sull’iperico vedi G. L. Beccaria, I nomi del mondo. Santi, demoni,
folletti e le parole perdute, Einaudi, Torino 1995, pp. 212-214. Per una bibliografia sulle pian-
te magiche vedi H. Marzell, Zauberpflanten Hexentränke. Brauchtum und Aberglaube,
Franckh’sche Verlagshandlung, W. Keller & Co., Stuttgart 1963; P. Castelli, “Donnaiole
amiche de li sogni”, cit., p. 75, nota 96; A. Pagni, L’‘erba di S. Giovanni’ in una ricetta lucchese
del XVI secolo, “Rivista di archeologia, storia, economia, costume”, VI, 1987, pp. 47-50 e P.
E. Tomei, L’uso delle specie vegetali nelle arti magiche, in Stregoneria e streghe nell’Europa moder-
na, Atti del Convegno internazionale di Studi (Pisa, 24-26 marzo 1994), a cura di G.
Bosco e P. Castelli, Pacini, Pisa 1996, pp. 207-210.
69 P. Castelli, “Donnaiole amiche de li sogni”, cit., pp. 46-49.
70 Vedi la scheda n. 31 di G. Bosco, in Bibliotheca Lamiarum, cit., pp. 124-125.
71 E. Garin, Phantasia e imaginatio fra Marsilio Ficino e Pietro Pomponazzi, in

Phantasia~Imaginatio, V° Colloquio Internazionale (Roma, 9-11 gennaio 1986), a cura di


M. Fattori e M. Bianchi, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1988, pp. 3-20; P. Zambelli,
L’immaginazione e il suo potere. Desiderio e fantasia psicosomatica o transitiva, in Ead., L’ambigua
natura della magia, Mondadori, Milano 1991, pp. 53-75.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

Giovanni Battista Codronchi (1564-1626) e il trionfo dell’esorcismo sulla


medicina

Naturalmente non tutti i medici erano convinti dell’inutilità degli esor-


cismi. Un caso tipico è quello del citato medico imolese Giovan Battista
Codronchi72. Questi, nel 1591, aveva pubblicato il De Christiana ac tuta
medendi ratione dove trattava dell’etica del medico. Il testo anticipava, per
certo versi, alcune questioni che avrebbe sviluppato nel testo successivo.
È nella prefazione che dichiara esplicitamente come il medico, per cura-
re le malattie, debba conoscere le affezioni dell’anima: “Medico, qui in
aliorum curandis morbis incumbit, animae vero suae affectiones igno-
rat, aut negligit illud sevatoris nostrii obicij poterat. Medice cura te
ipsum [...]”73. Lo scritto è dedicato a Pio Enea Caprilio, medico di
Alfonso II d’Este, e a Gerolamo Mercuri, autore del trattato De venenis74.
Quest’ultimo indirizza al Codronchi, in un’epistola pubblicata nell’ope-
ra, parole di apprezzamento nei confronti del legame stabilitosi tra etica
cristiana e medicina: “Uti tibi uni nostra ars hoc debere videatur, quod
insignem quandam methodum, quasique lucem docueris, qua cum
aegris christianae versari, eos prudenter, ac piae curare omnibusque ipso-
rum ministris prodesse faciliter liceat”75. Il Codronchi, dedicando all’ar-
gomento un intero capitolo, stabilisce un criterio rigoroso per quanto
riguarda la professionalità del medico che deve essere preparato a rico-
noscere le malattie, e nel caso di un suo errore commette peccato grave:
Medicum graviter peccare sine sufficienti scientia ad medendum se exponentem,
exceptis causibus non periculosis, et dummodo remedia periculosa non adhibean-
tur, vel scandalum, et occasio alijs non praestetur idem agendi76. Lo scritto non

72 G. Zanelli, Streghe e società, cit., pp. 47-68.


73 Baptistae Codronchii De christiana, ac tuta medendi ratione. Libri duo varia doctrina
referti, apud Benedictum Mammarellum, Ferrariae 1591.
74 L. Thorndike, A History of Magic, cit., V, pp. 479-480, 482-483. Il testo è concluso

da due epistole indirizzate al Codronchi rispettivamente da Petrus Salius Diversus da


Faenza (cfr. Ibid., VI, p. 211) e da Nicolo Masino.
75 B. Codronchii De christiana, ac tuta medendi ratione, cit.; cfr. A. Prosperi, Tribunali

della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1996, p. 470.


76 Ibid., lib. I, cap. I, pp. 1-4. L’autore si ferma in modo rigoroso sulla preparazione del

medico che deve conoscere perfettamente la sua materia. Questi devono soprattutto cono-
scere i principi della medicina: “Utinam isti aliquando resiscipiscerent, & per rectas semi-
tas incedendo, Sapientis consilium amplecterentur, qui scriptum reliquit, Ingrediatur ad doc-
trinam cor tuum, & aures tuae ad verba scientiae, sed illum etiam, quod idem Ecclesiastes
monet adiungi potest his, quae supra recensuimus, non cesse audire doctrinam, nec ignores ser-
mones scientiae. Si medicos se profitentur, legant medicinae duces, & principes,
 PATRIZIA CASTELLI

è sicuramente il primo lavoro del medico, come si evince dalla sua pre-
fazione dove ricorda che il fratello Tiberio aveva poi tradotto in volga-
re una sua opera che si deve probabilmente identificare nell’appendice
posta in calce ad una rara cinquecentina, opera del fratello, pubblicata
a Venezia nel 158977. A questi lavori fece seguito, nel 1595, il De morbis
veneficis ac veneficiis78 dove parlava della realtà della possessione diaboli-

Hippocratem, & Galenum, qui, quot, & quae ad medicum futurum necessaria sint gravi-
ter, atque preclarae docuerunt: Hipp. enim Medicum multarum rerum habere peritiam,
opus esse constanter asseuerat, & eum qui se medici nomine dignum existimat, oportere
non Natura moso, sed Doctrina, Institutione, & Tempore, ceù ducibus quibusdam artis sibi
notionem parare, industriam omnino adhibendam esse ad multum temporis, quò discipli-
na ipsa insita foeliciter magno progressu suos producat fructus, & Gal. septem esse neces-
saria illi, qui veram medicinam curat affequendam, Naturam scilicet perspicacem;
Educationem optimam; Praeceptores eruditissimos; Laborem improbum; Veritatis erden-
tissimum amorem; optimam methodum; Exercitationem denique assiduam, in praeceptis
habuit; si enim his conditionibus fuerint praediti Medici, vel ad Medicinam per has semi-
tas pervenerint, de illis veriate comprobari poterit, quod ab Eccles. scribitur, disciplina
Medici exaltabit caput illius et in conspectu magnatum, collaudabitur” (ibid., pp. 1-2).
77 Vedi infra, nota 82.
78 Baptistae Codronchii De morbis Veneficiis ac Veneficiis. Libri quattuor, apud

Franciscum de Franciscis, Venetiis 1595, lib. I, cap. VIII (Veneficorum operationes ac scele-
ra satis ex Historijs patefieri), pp. 33-37: 35v-37r: “[...] Ut interim sileam mille historias,
quae leguntur apud Ioannem Nider in suo pareceptorio & formicario, apud Henricum
Institorem, Sylvestrum Prierum in libris de strigimagarum, daemonumque mirandis,
Iacobum Sprenger in suo Malleo maleficarum, Alphonsum de Castro in eo quod scri-
psit de punitione hereticorum, Paulum Ghirlandam in tractatu de sortilegiis, Ioannem
Budinum in Daemonomania, & multos alios. Et illud tantum memoriae prodam quod
mihi sat erir, annis enim superioribus Francisca filia mea decem menses nata, apud
nutricem insigni macie est affecta, saepè, ac saepius magna suspiria edebat. Et quando
disfasciabatur semper plorabat aegreque ferebat se desfasciari pareter puerorum morem,
qui quamvis sint male affecti, vel dolore ali, quo detenti, cum fasciae soluuntur quie-
scere, ac delectationem capere tum solent, nulla inventa causa praeternaturali affectus,
nutrice que mutata, cum indeterius laberetur, subiit suspitio uxrori meae, ut cum esset
puella admodum venusta invidentiae causa, vel odii cuiusdam vetulae veneficio esse
affectam. Qua propter culcitram inquirens nonnulla signa veneficii reperit, ciceres
nempe, grana coriandrorum, frustum carbonis, & ossis defuncti, rem quandam com-
pactam mihi incognitam, quam fieri ab his improbis forminis ex quibusdam cum san-
guine menstruo mixtis, retulit quidam penitus exorcista. Praeterea quasdam plumas ita
quibusdam filis artificiosae infertas, ut pileo, ut moris est, aplicari facile possent, qui-
bus omnibus igne benedicto combustis, & adhibitis per triduum exorcismis, & aliis
remediis sacris, coepit melius se habere, & carnem assumere, ita ut curatam fore existi-
maremus. Nihilominus transactis nonnullis diebus, cum esset valde morosa, & multum
ploraret, eodem lectulo denuo explorato, inventa sunt nonnulla alia insrumenta, qui-
bus crematis, sanitati restitui vita est. Attamen in plenilunio mensis cum plorabunda
noctem totam insomnem duxisset mane colore cinericio fuit affecta, & ita mutata facie
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

ca in seguito ad un caso occorso alla propria figlia, collegandosi alle


discussioni sulla medicina dell’anima79. Difatti questa era guarita non
tanto per l’uso delle medicine, bensì attraverso la distruzione degli
strumenti utilizzati per il maleficio che erano stati trovati nel letto
della neonata, guarita poi attraverso gli esorcismi del clero e “senza
alcun rimedio naturale”80. La guarigione della figlia gli permette, come
osserva lui stesso, di credere “[...] ciò che in altri avrei a stento credu-
to [...]”81. L’episodio acquista un particolare significato e vivacità nella
tela commissionata come ex voto dal Codronchi e da suo fratello

ab ea quae vesperi erat ut esset res lachrymis, magis quam admirationedigna; Explorato
denuo lectulo inventa sunt frustula duo nucis siccae, & ossis albi, novem vel decem
ossa piscium, quae erant fabricata instar pectinum, quibus capita pectuntur cum qui-
busdam corollis mira arte ex variis rebus paratis; Quibus igni traditis, mutata dono, &
omnibus aliis, & validiotibus per exorcistam peritum adhibitis auxiliis, Dei beneficio
absque ullo remedio naturali convaluit; Quod quidem veneficium fortasse Deus per-
misit, ut in mea puella experirer, quod in aliis parum credebam veritatis habere; Pro
quorum morborum cognitione, & curatione coepiquerere libros huius professionis,
legere, & illis fidem adhibere. Ex quibus peritoq; exorcista cum multa didicerim, & in
multis aegrotantibus observaverim, libenter hunc laborem suscepi alios iuvandi studio,
inter alios autem authores, quos mihi legere contigit, fuit Claudius Gulliaudus interpres
sacrarum literarum eruditissimus, qui interpretando Epistolam 13. Pauli. quam ad
Galatas misit, agens de fascino ad amussim morbum filiae meae scribit, quem Gallicae
a quibusdam dici le mal de Vauldouizerie ait, & ex quo infantes tabescunt, macrescunt,
ac miserae torquentur, & aliquando incessanter clamant, & flent; Quae omnia sympto-
mata, & signa in filia mea observavi; Ex quo unicuique patere potest, quam vera sint
haec, cum idem morbus cum eisdem signis authore daemone nunc, & multis ab hinc
annis Flaminiae, & Galliae inferatur à veneficis”.
79 C. Corraini, P. Zampini, Documenti etnografici e folkloristici nei sinodi diocesani

dell’Emilia Romagna, “Palestra del Clero”, XLIII, 1964, pp. 115-174; A. Prosperi, Tribunali
della coscienza, cit., pp. 470-471.
80 Baptistae Codronchii De Morbis Veneficis ac Veneficijs. Libri Quattuor, cit., lib. I, cap.

I, p. 3r-v: “[...] libellumque; vobis libenti animo dicavi, ut paratis alveis, muris, ac tegu-
mentis, aquas ellas medicos more potari posse, curarent: quod tamen opus quamvis salu-
bre, ac praeclarum ob communem morbum, qui statim non solum vestram civitatem, ac
Italiam, verum et universam Europam diu vexavit, et ob alias subsequentes calamitates,
inchoare non potuistis: Postea ut saluti meae spiritualis prospicerem cum multa ad munus
medicum rectae, iusteque; obeundum attinentia collegißem, suasione nonnullorum ami-
corum, nova quadam inventa scribendi ratione libros duos de tuta, ac Christiana meden-
di ratione inscriptos, confeci, ac typis mandavi; Nondum vero illos expleveram, cum non
solum Imolae sed et alijs quamplurimis Civitatibus multi reperirentur varijs veneficijs
affecti, inter quos etiam fuit vana ex filiabus meis, ut horum morborum cognitionem ali-
quam adipiscerer et qua nam ratione curandi essent, discerem, diu laboravi, et quamplu-
res evolui libros [...]”.
81 Ibid.
 PATRIZIA CASTELLI

Tiberio82 per porla vicino all’altare della Madonna del Soccorso del
Duomo di Imola per grazia ricevuta83. Il culto della Madonna del
Soccorso è anche questo connesso all’esorcismo ed alla potestà della
Vergine sul diavolo. Questa infatti salva dal demonio un fanciullo male-
detto dalla madre che poi, pentita, la invoca.

La teoria, la fede e l’immagine

Nel dipinto, attualmente conservato nel Museo di Imola, la parte più


significativa e nuova all’interno dell’iconografia della possessione, anche
se riprende l’antico tema della psicomachia, è il contrasto tra il demo-
nio e l’angelo che si contendono il medico, quasi a testimoniare i dubbi
sorti nell’animo sulla verità o meno della realtà dei poteri attribuiti a
streghe e fattucchiere. In alto, sulla sinistra della tela, è raffigurata l’im-
magine della Madonna e, a destra, quella di S. Nicola da Tolentino, di
cui è riconosciuto il potere esorcistico, qui rappresentato in qualità di
intercessore. Nella scena trova una sistemazione precisa la vicenda
occorsa al Codronchi. Sotto il Santo e la Vergine sono raffigurati il letto
con baldacchino con la moglie, mentre nel lato sinistro è visibile la stes-
sa, inginocchiata davanti alla Madonna vicino alla culla con la figlia. In
primo piano, tra i familiari, sono riconoscibili lo stesso Giovan Battista
Codronchi conteso dall’angelo e dal diavolo, il fratello sacerdote
Tiberio, identificabile dal cappello sacerdotale a tricorno e dal lungo
manto, la nutrice citata dallo stesso Codronchi nell’atto di stringersi il
capezzolo secondo la tipologia della Caritas o della Vergine del latte, con
evidente allusione al suo allattamento. Sulla sinistra, invece, è presente

82 Anche il fratello Tiberio aveva steso un volume riguardante questioni spirituali:

Tiberio Codronchi, Viaggi spirituali, dell’huomo cristiano, al cielo, opera. co’l diuino aiuto, com-
posta et raccolta da graui, pij, et catholici autori. Con l’aggiunta de i casi pertinenti a i medici,
appresso Gio. Battista Somasco, in Venetia 1589. Nel testo, da p. 395, è anche pubblicata
un’opera del fratello Giovanni Battista: Casi di coscienza, pertinenti a medici principalmente, et
anco a infermi, infermieri, e sani; cfr. Le edizioni italiane del XVI secolo. Censimento nazionale,
IV, Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni
bibliografiche, Roma 1966, p. 70.
83 Vedi la scheda di G. Agostini in La Pinacoteca di Imola, a cura di C. Pedrini, Analisi,

Cassa di Risparmio di Imola, Imola, s.d., pp. 198-199. Il quadro è attribuito al pittore
olandese E. von Schayen (1564-1616). Sul presunto autore vedi C. Astolfi, Arte ed artisti
passati. Nuove notizie su i pittori. Cesare Conti d’Ancona e il fiammingo Ernesto de Schaynchis,
“Rivista marchigiana illustrata”, V, 1908, pp. 157-158; P. Paciaroni, Pittori fiamminghi nel
’600 e ’700 a Sanseverino, “Notizie da Palazzo Albani”, VII, pp. 75-83.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

un gruppo di fedeli e una vessata da cui fuoriescono i ‘diavolicchi’. Con


grande probabilità, lo sguardo di questo gruppo che esce fuori campo e
la mano dell’angelo stesso conducevano l’occhio del fedele all’immagi-
ne della Madonna del Soccorso che presiede alla salvezza dei fanciulli in
preda al demonio84. L’opera del Codronchi godette di una certa fama:
fu infatti ristampata a Milano nel 1613 e nel 1618 e si costituì come un
vero manuale che elenca tutte le fonti e le testimonianze indicanti la
realtà della stregoneria, passando dalle testimonianze teologiche fino a
quelle dei filosofi e dei poeti. Nel secondo libro colpisce definitiva-
mente le teorie di Pomponazzi e dei suoi seguaci affermando che il vene-
ficium, cioè il maleficium, non è dovuto all’immaginazione, né alle
influenze dei cieli, né all’umore melancolico, bensì ai demoni85. Nel
terzo libro invece, respingendo le pratiche magiche, consiglia una serie
di rimedi che vanno dai bagni ai suffumigi, agli unguenti, alle erbe, tra
le quali ricorda la ruta86 e l’iperico, raccomandato dal Menghi nel suo
Compendio87. L’efficacia di queste medicine aumenta se sono benedette
ed accompagnate da preghiere. Nel testo sono annotate alcune pratiche
interessanti che gli esorcisti facevano subire agli indemoniati immer-
gendoli in bagni di lisciva coperta di olive e acqua di fiume in cui ave-
vano bollito ruta e salvia, hipericon, artemisia, verbena, palma Christi e
aristolochia rotunda88. Codronchi è assai cauto circa quest’uso e avverte
di controllare la condizione del paziente e, con la medesima cautela,

84 E. Levi, I miracoli della Vergine nell’arte del Medioevo, “Bollettino d’arte”, XII, 1918,

pp. 8-31.
85 B. Codronchii De morbis, cit., pp. 45 sgg.
86 Ibid., lib. IIII, cap. II, pp. 172-173; cap. VIII, p. 192: “Nostri etiam Exorcistae ut

daemones prodantur, & etiam expellantur, passim ruta utuntur. Domesticam rutam tertio
excessu excalefacere scribit Galenus, ex quo vim habet incidendi, digerendi, provocandi
ac flatus potenter expellendi, & teste Dioscoride adversus venena valet”. Della ruta tratta
anche nelle altre opere, soprattutto nel Flagellum daemonum, cit., p. 11: “Et predicer
Auctores in eodem loco, loquentes de quodam herba, que vacatur Hypericon, et ab ipsis
Fuga daemonum, maximum virtutem contra daemones habere asserunt. Hoc etiam et cla-
rum de Ruta, quae applicata Energumenis, sustineri non potest ab ipsis spiritibus immun-
dis obsidentibus, hoc quotidie experimus”. Sull’uso delle erbe vedi A. Biondi, La Signora
delle erbe e la magia della vegetazione, in Cultura popolare nell’Emilia Romagna, cit., pp. 186-
203: 196-199; G. Hummel, Exorcisme in the Renaissance, in Divinationes. Spring 66, “Journal
of Archetype Culture”, 1999, pp. 161-176.
87 B. Codronchii De morbis, cit., lib. IIII, cap. VIII, pp. 192v: “Inter Hypericum, perfo-

ratam vulgo dictam; ac daemones; tanta videtur antypatia, ut eius suffitu frequenter rece-
dant, quare nostri fugam daemonum appellant, cuius facultas manifesta est, calefacere et
siccare [...]”.
88 Il passo è citato da A. Biondi, La signora delle erbe, cit., p. 201.
 PATRIZIA CASTELLI

quella dell’esorcista quando mette negli occhi dell’invasato spighe e


spille appuntite. Gli esempi tratti dalla Bibbia, come la storia di Tobia e
dell’uso che questi fa del cuore del pesce, lo inducono all’utilizzo di
rimedi naturali durante l’esorcismo. Tale opinione è ripresa anche dallo
studioso Richard di Middleton che, pur non ammettendo una guarigio-
ne completa attraverso le erbe, riconosce che si può anche raggiungere
un certo sollievo89. L’uso di testi come quello del Codronchi, ma soprat-
tutto quello del Menghi, come è ricordato durante alcuni processi, è
testimoniato dall’utilizzazione delle piante e degli altri rimedi naturali90.
Non sorprende di ritrovare il nome del Codronchi legato a quello di
Ludovico Settala, un altro famoso medico che esercitò in Lombardia, a
cui l’Imolese aveva dedicato l’edizione milanese del 1613 del De morbis
ac veneficis pubblicata da G. B. Bidelli. Il Settala fu coinvolto in un caso
di stregoneria a Milano legato a questioni mediche. Il 4 marzo 1617
venne bruciata nella città lombarda Catterina Medici di Pavia accusata
di pratiche stregonesche e per aver tentato di uccidere, tramite malie, il
senatore Melzi. La questione interessante è che il protofisico Settala, il
28 dicembre 1616, in qualità di teste, aveva dichiarato, durante una
seduta del processo contro la Medici, che gli impedimenti del senatore
erano dovuti, come altri casi a Milano, non a cause naturali ma a malie
e potevano essere curate solo con l’esorcismo. Il medico, in seguito,
aveva specificato come avesse ritenuto i sintomi del Melzi segni del
maleficio anziché di malattia, individuando una fattura ad mortem, anzi-
ché ad amorem, affermando che nella sua carriera aveva avuto modo di
verificare personalmente i casi di maleficio91.
La diffusione e l’uso, anche improprio, degli scritti del Menghi da
parte di aspiranti esorcisti e praticanti era noto allo stesso autore che, nel
Compendio, afferma: “Che colpa ha il libro buono se malamente viene
usato? e se gli Essorcisti solo di nome adoprano sciroppi, et medicine
contra le regule ivi da altri Autori ordinate: e che per ciò naschino alcu-
ni disordini, la colpa è di quelli e non del libro, quale espressamente le
comanda, che non diano alli fatturati cose alcune per bocca senz’ordi-
ne et giuditio delli Signori medici”92. In un altro passo colpisce poi

89Cfr. L. Thorndike, A History of Magic, cit., p. 547.


90G. Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe, cit., p. 146.
91 P. Verri, Storia di Milano con la continuazione del barone Custodi, Capolago, tip.

Elvetica, 1837, IV, pp. 204 sgg in nota; ma vedi R. Canosa-I. Colonnello, Gli ultimi roghi.
La fine della caccia alle streghe in Italia, Sapere 2000, Roma 1983, pp. 34-36.
92 G. Menghi, Compendio, cit., pp. 253-256.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

ancora più pesantemente i ciarlatani che presuntuosamente usurpano


l’“officio de Signori Medici; con le quali cose alle volte scacciano con
gli spiriti anco l’anima da i corpi”93. La posizione del Menghi testimo-
nia chiaramente come la politica degli interventi dei concili provinciali
milanesi del 1563 e 1576 contro le pratiche esorcistiche non autorizzate
avesse promosso, nell’ambito del IV Concilio, l’esigenza di selezionare
e controllare gli esorcisti con specifica licenza e di sorvegliare le sedute
per l’accertamento della realtà della possessione94. Naturalmente, le
indicazioni del citato Rituale di Paolo V dovevano porre fine agli abusi
ed offrire in merito delle normative ben precise a cui l’Olivieri, come si
è visto, aveva cercato di attenersi.

Il ‘nuovo’ modello della pratica esorcistica

L’occasione di collegare la pratica esorcistica, secondo il nuovo model-


lo, all’ampliamento del culto di un santo locale, cioè Ubaldo, che la
congregazione dei Canonici Lateranensi aspirava a far divenire nazio-
nale ed internazionale, dava anche modo di promuovere Gubbio a cen-
tro accreditato per l’esorcismo che spostava la gravitazione di masse di
indemoniati, energumeni e malati da aree vicine e lontane nella speran-
za di una guarigione95. L’insistenza sul numero delle persone che vanno
verso Gubbio e quindi verso il santuario del Monte Ingino, testimonia-
ta dallo stesso Olivieri nel Baculus e nelle diverse edizioni delle Grazie et
Miracoli, fatti poi ripresi dal Rosini, indicavano come la politica dei
canonici sulla scorta della vita di Teobaldo, pubblicata in volgare
dall’Olivieri, più ricca di quella di Giordano, sull’esercizio della pratica
esorcistica post mortem da parte del Santo, fosse volta a far conoscere i
poteri esorcistici di Ubaldo.
Fin dai primi secoli del Cristianesimo è documentata l’esistenza di
centri specializzati nelle pratiche esorcistiche96. La visita da parte degli

93 Ibid., p. 138.
94 G. Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe, cit., p. 135.
95 Lo spostamento degli energumeni in una sede abilitata per l’esorcismo è fenome-

no che risale al X secolo, tuttavia è proprio Paolo V che, sottolineando la necessità di esor-
cizzare nella chiesa, avalla questo viaggio verso i santuari.
96 O. Franceschini, L’esorcista, in La cultura popolare nell’Emilia Romagna, cit., p. 107.

Sull’esorcismo nell’antichità vedi la voce Exorzismus di K. Thraede in Reallexicon für Antike


und Christentum, VII, Hiersemann, Stuttgart 1969, pp. 44-117; F. J. Dölger, Der Exorzismus
im altchristlichen Taufritual, Ferdinand Schöningh, Paderborn 1909; A. Franz, Die kirchlichen
 PATRIZIA CASTELLI

invasati ai sepolcri dei santi e dei profeti è già ampiamente documen-


tata dal VI secolo97. Girolamo, parlando del viaggio della pellegrina
romana Paola, evoca a tal proposito lo spettacolo terribile a cui questa
assistette davanti alle tombe dei profeti in Terra Santa: “Essa tremò alla
vista di vista di tanti eventi miracolosi. Scorse infatti demoni urlanti in
preda ai più vari tormenti e, davanti alle tombe dei santi, uomini che
urlavano come lupi, latravano come cani, ruggivano come leoni, sibi-
lavano come serpenti, muggivano come tori. Vide alcuni muovere la
testa per toccare il terreno con il corpo arcuato all’indietro e donne
sospese per i piedi a testa in giù senza che le vesti ricadessero loro sul
volto”98. Gli esorcismi nei grandi santuari testimoniavano la presenza
dei santi nelle basiliche, come già ricordano i contemporanei, tra i
quali Gregorio di Tours che, a proposito delle urla degli invasati pres-
so il sacrario di S. Giuliano a Brioude, scrive: “Essi portano la presen-
za dei santi di Dio nelle menti degli uomini a tal punto che è impos-
sibile dubitare della loro presenza presso le tombe”99. Peter Brown sug-
gerisce per l’esorcismo in quel periodo un modello tratto da una forma
dialogata, coincidente con i metodi interrogatori del tempo ove “i
demoni che possedevano gli ossessi [...] confessavano la verità sotto
tortura”100. L’esibizione pubblica degli invasati, spesso assimilabili per
il loro comportamento agli animali, e, successivamente, il loro ritorno
allo stato di uomini mostrava in modo efficace la potenza dei santi e
il ritorno all’ordine divino101 proprio all’interno della chiesa o del san-
tuario, simboli stessi del sacro. Proprio in questi secoli si sviluppa in
modo definitivo l’idea ereditata dal Nuovo Testamento di fugare i
demoni, di allontanarli dall’uomo. La condizione fondamentale del-
l’adesione alla Chiesa è basata infatti sul battesimo ed il fine del vesco-

Benediktionen im Mittelalter, I, Herder, Freiburg 1909 (ed. anast., Akademische Druck-U.


Verlagsanstalt, Graz 1960).
97 Per certe indicazioni in altri luoghi vedi M. Shirokogoroff, The Psycho-Mental

Complex of the Tungus, Routledge, London 1935.


98 Girolamo, Epistulae, 103, 3, cit. in P. Brown, Il culto dei santi. L’origine e la diffusione

di una nuova religiosità, tr. it., Einaudi, Torino 1983, p. 149; dello stesso vedi The Rise and
Function of the Holy Man in the Late Antiquity, “Journal of the Roman Studies”, LXI, 1971,
pp. 80-101: 88-91.
99 Greg. Tur., VJ, 30, 127, cit. in P. Brown, Il culto dei santi, cit., p. 151.
100 P. Brown, Il culto dei santi, cit., p. 152.
101 L’esorcismo tacitava ogni passione e riportava l’individuo ad uno stato di tranquil-

lità. Hincmarus nel Corrector (PL CXL, col. 975) torna fermamente sull’argomento: cfr. V.
J. Flint, The rise of Magic in Early Medieval Europe, Clarendon Press, Oxford 1991, p. 155.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

vo era di “calpestare Satana”102. L’esorcismo pubblico aumentava non


solo la potenza dei santi davanti al popolo, ma quella della Chiesa
stessa che spesso erigeva sugli antichi luoghi di culto dei pagani san-
tuari che ne raccoglievano le reliquie103. Queste furono un elemento
importante nella storia dell’evangelizzazione e legate al potere vesco-
vile. Gli esempi clamorosi sono quelli di due vescovi del IV secolo:
Vicino e Giustiniano, i cui culti venivano diffusi, rispettivamente, a
Sarsina e a Modena. Gli scritti agiografici sono più tardi e risalgono a
quello di S. Zeno104 ed a quello anonimo di S. Geminiano105, stesi a
metà X e l’altro dell’XI e XII secolo106. I testi sono importanti per capi-
re il culto di S. Ubaldo. Nella vita di S. Geminiano si racconta della
liberazione dell’indemoniata, esorcizzata dal santo, figlia del ricco
pagano Gioviano. Questi, alla fine della storia, si rivolge al Santo con
queste parole: “medici bone, quid tibi compensare, quid retribuere, vel
quibus muneribus dignis pro sanitate unicae filiae meae offerre pote-
re, non invenio”107.

102 P. Brown, Magia, demoni e ascesa del cristianesimo dalla tarda antichità al medioevo, in

La stregoneria. Confessioni e accuse, nell’analisi di storici e antropologi, a cura di M. Douglas, tr.


it., Einaudi, Torino 1980, pp. 51-81: 70.
103 A. Dupront, Pèlerinages et lieux sacrés, in Mélanges F. Braudel, II, Privat, Tolouse 1973,

pp. 190-191. Sull’argomento vedi C. Pietri, Saints et Démons: l’héritage de l’hagiographie anti-
que, in Santi e demoni nell’Alto Medioevo occidentale (secoli V-XI), Settimane di Studio del
Centro Italiano sull’Alto Medioevo (Spoleto, 7-13 aprile), 2 voll., Centro Italiano di Studi
sull’Alto Medioevo, Spoleto, I, pp. 17-90: 65-70, per quanto riguarda l’anniversario del
culto dei martiri, vedi E. Gandolfo, Luoghi dei santi e luoghi dei demoni. Il riuso dei templi nel
Medio Evo, ivi, II, pp. 883-916. Sul culto delle reliquie e l’esorcismo nell’Età moderna, vedi,
di chi scrive, Valentino ‘il taumaturgo’: reliquie, devozione e religiosità nella campagna pisana, in
Bientina nel Medioevo, a cura M. L. Ceccarelli e G. Garzella, Pacini, Pisa 2002, pp. 85-104.
104 G. Sala, Il culto di S. Zeno fino al secolo VIII, “Annuario storico zenoniano”, 1989;

ma vedi anche G. Ederle, S. Zeno, la vita e le opere, Vita Veronese, Verona 1954.
105 Antiche vite di S. Geminiano, vescovo e protettore di Modena, a cura di P. Bortolotti, 2

voll., G.T. Vincenzi e Nipoti, Modena 1866-91; C. Cavedoni, Cenni storici intorno alla vita
ed al culto del glorioso S. Geminiano, C. Vincenzi, Modena 1856; A. Dondi, Notizie storiche ed
artistiche del Duomo di Modena, Immacolata Concezione, Modena 1896, pp. 108-112; A.
Golinelli, Culto e religiosità a Modena e Nonantola nell’alto e primo Medioevo, in Lanfranco e
Wiligelmo. Il duomo di Modena, Electa, Milano (s.d.), pp. 122 sgg.
106 Antiche vite di S. Geminiano Vescovo, cit.
107 Ibid.
 PATRIZIA CASTELLI

Incursio diaboli

Il vescovo che esorcizza, in questo caso, è equiparato ad un medico. In


quel periodo si era diffusa e consolidata l’idea che le malattie fossero
generate dal peccato originale. Se il battesimo poteva avere un certo
potere sulla salute dell’uomo, era solo alla condizione che questi man-
tenesse il suo stato di purezza. Gregorio di Tours, nel parlare della
malattia, la definiva “incursio diaboli”. Anzi spetta proprio a lui la carat-
terizzazione di vomitare il diavolo associata a quella della bile.
Soprattutto le malattie mentali, oltre quelle fisiche, furono messe in
relazione al demonio. Le cronache degli scritti ecclesiastici medievali
sono ricche di queste citazioni e testimoniano casi di possessione dia-
bolica là dove erano palesi stati di delirio e alterazioni psichiche che
venivano placati con esorcismi. Un caso interessante, a tal proposito, è
riportato da Beda che, alla fine del VII secolo, ricorda un esorcismo di
un uomo avvenuto nell’abbazia di Bardney. Questi, “posseduto dal
Diavolo”, digrignava i denti, aveva la schiuma alla bocca ed era in preda
a convulsioni che furono placate non attraverso un consueto esorcismo
del prete, bensì attraverso l’applicazione della terra della tomba di S.
Cutberto108. Ciò, naturalmente, rafforzava l’idea della capacità tauma-
turgica dei santi e contribuiva a rendere distinta l’operatività dei medi-
ci da quella degli esorcisti. È facile così leggere nelle storie dei santi del
loro potere sui demoni e quindi sulla malattie. Naturalmente, in certi
santuari, monaci e religiosi esercitavano anche pratiche mediche
confortati dalla presenza delle reliquie o dei corpi dei santi. Guglielmo
di Melmesbury racconta che Gregorio, uno dei monaci della sua abba-
zia, era un medico noto e che occasionalmente riceveva per consulta-
zioni i pellegrini alla tomba di S. Aldelmo109. Nella vita di S. Vicino si
narra che il vescovo, giunto nel centro dell’Appennino, iniziò a guarire
da malattie ed a scacciare spiriti, virtù, queste, che conserva anche dopo
la morte per coloro che si recano davanti alla sua tomba. Nella vita è
descritto un interessante episodio che dimostra come Sarsina fosse
destinata a scavalcare altri luoghi di culto meno accreditati. Un certo
Bonizzone, contadino di Arezzo, fu portato al sepolcro di S. Donato

108 Beda, Historia ecclesiastica, III, II, p. 248. Cfr. J. Sumption, Monaci, santuari, pelle-

grini, cit., pp. 98-110: 98. Sulle malattie e il demonio vedi G. Tavard, Satana, tr. it.,
Edizioni Paoline, Milano, pp. 149-150. Sui medici vedi M. Oldoni, Il mondo senza santi: la
letteratura scientifica e la soglia del magico, in Santi e demoni nell’Alto Medioevo occidentale, cit.,
I, pp. 499-530.
109 Ibid., p. 105.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

nella chiesa cittadina. Il demonio stesso, interrogato, ammise che non


sarebbe uscito dal corpo dell’uomo se questi non fosse stato condotto
alla tomba di S. Vicino, dove l’energumeno è poi accompagnato. Dopo
le solite manifestazioni, latrati di cane, grugniti di maiale, tentativi di
morsi, convulsioni, i sacerdoti riescono ad immobilizzarlo ed a cinger-
gli il collo con il famoso collare, ovvero una catena “che da tempo era
stata realizzata per fugare i demoni” e a portarlo in chiesa dove è libe-
rato110. Come si può notare, esiste uno strumento speciale che inter-
viene nell’esorcismo che esula dal rituale e non si appoggia ai Vangeli
di Luca e Matteo111.
I due culti sembrano essere specializzazioni diverse: quello di S.
Geminiano, assai diffuso alla fine del ’400 tanto da trovare anche
coevi specifici risvolti iconografici nelle formelle del Duomo di
Modena, per le ossessioni diaboliche e l’altro, quello di S. Vicino,
derivato secondo alcuni da un culto locale dedicato alla Magna Mater
Cibele e ad Attis, per la regolamentazione della vita degli uomini e
degli animali112. Naturalmente, oltre ai due grandi santuari di
Modena e Sarsina, dove vengono esorcizzati gli indemoniati, nelle
diverse città sopravvivono i singoli culti locali, come quelli ricordati
di S. Domenico ad Arezzo, di S. Onofrio, S. Zenone, S. Giustino, S.
Margherita o magari santi fondatori di ordini come Benedetto che,
come è noto, spesso combatte contro il demonio113, o S. Francesco
110 L. Testi, S. Vicino vescovo e protettore principale della chiesa e diocesi sarsinate nella storia

e tradizioni, Tip. Pontificia ed Arcivescovile dell’Immacolata Concezione, Modena 1906;


La prima vita di S. Vicino, a cura di G. Lucchesi, F.lli Lega, Faenza 1973. L’uso di oggetti
non segnalati nei manuali esorcistici è attestato fino ai nostri giorni. A tal proposito basti
ricordare la colonna di S. Antonino (Campagna, Salerno) a cui, ancora nel nostro secolo,
si legavano gli indemoniati: cfr. A. Rossi, Le feste dei poveri, Laterza, Bari 1969, pp. 33-35.
111 X. Léon-Dufour, Satana e il demoniaco nei Vangeli, in L’autunno del diavolo, ‘Diabolos,

Dialogos, Daimon’, Atti del Convegno (Torino, 17-21 ottobre 1988), a cura di E. Corsini ed
E. Costa, 2 voll., Bompiani, Milano 1990, I, pp. 143-154: 144-146; M. J. Edwards, Three
Exorcism and New Testament World, “Eranos”, LXXXVII, 1989, pp. 117-126; B. Newman,
Possessed by the Spirit: Devout Women Demoniacs and the Apostolic Life in Thirteenth Century,
“Speculum”, LXXIII, 1998, pp. 733 sgg. Per alcune forme di esorcismo anomale vedi T. K.
Oesterreich, Possession. Demoniacal & Other Among Primitive Races, in Antiquity, the Middle
Ages, and Modern Times, tr. ingl., University Book, New Hide Park 1966.
112 G. Sfameni Gasparro, Il culto di Cibele ed Attis in Sarsina, “Studi etruschi”, XIV, 1940, pp.

147-153.
113 G. Penco Mancini, S. Benedicti Regula, La Nuova Italia, Firenze 1962. Su S.

Benedetto e il demonio vedi U. Prinz, Kreuzgangsdecoration und Beneditsvita in Italien bis um


1500, Inaugural-Dissertation, Berlin 1970, pp. 59-62; ma vedi, a tal proposito, Iconografia di
San Benedetto nella pittura della Toscana, Catalogo della Mostra, a cura di P. Castelli, Centro
di Incontro della Certosa di Firenze, Firenze 1982.
 PATRIZIA CASTELLI

che esorcizza gli ossessi114. Il culto di S. Geminiano, al pari di quello


di S. Ubaldo, venne in seguito proposto proprio in riferimento ad una
specifica ripresa della specializzazione dei santuari che venivano, in
un certo modo, a trovarsi in conflitto. Un fatto abbastanza interes-
sante circa la sovrapposizione del culto di Ubaldo a quello di S.
Vicino è la peculiarità del vescovato, ma, soprattutto, il fatto che ad
esempio l’Olivieri, nella Vita et fatti e miracoli del 1623, dedicata ai
consoli di Gubbio, indicasse, sotto la scorta dell’autorità di Stefano
Serva, l’utilità, nel campo esorcistico, della catena che era servita a
tirare il carro del corpo di Sant’Ubaldo l’11 settembre, giorno della
traslazione, e del bastone con cui erano stati pungolati i buoi115.

I luoghi del culto ubaldino

Non è privo di interesse guardare la provenienza degli invasati, portati


spesso con difficoltà nel luogo dell’esorcismo. Nelle Grazie dell’Olivieri
costoro giungevano, sul modello della vita di Teobaldo, da luoghi vicini:
Città di Castello, Frontone, Foligno, Perugia, Fabriano, Torchiano,
Bosco, una imprecisata località marina, Citerna, La Quercia, La Villa,
Sutri, Matelica116. L’esercizio del Santo attraverso oggetti legati al culto,
tuttavia, era presente anche in luoghi lontani come Roma, ma anche
nella città di Civitella d’Abruzzo, dove il Santo libera i cittadini dall’as-
sedio dei francesi. Un esempio significativo in proposito è la Vita et Fatti
del ’23, stampata da Triangoli e dedicata ai consoli. Qui vengono infatti
ricordati miracoli fatti a cittadini lontani dall’area del Ducato, come pia-
centini, mantovani, persino una monaca di Venezia vessata dai diavoli,
un contadino ferrarese ed una ragazza friulana di Concordia. Anzi, all’in-
terno della narrazione, l’Olivieri riesce a stabilire la priorità dell’esercizio
esorcistico a Gubbio tramite l’apparizione, alla ragazza friulana ed alla

114 C. Frugoni, Francesco e l’invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino

a Bonaventura e Giotto, Einaudi, Torino 1993, p. 321. L’episodio di S. Francesco che esor-
cizza gli ossessi è descritto da Tommaso da Celano, Vita prima di S. Francesco d’Assisi, cap.
III, in Fonti francescane, Edizioni Messaggero, Movimento francescano, Padova, Assisi, pp.
523-524.
115 C. Olivieri, Vita et Fatti e Miracoli del Glorioso Padre S. Ubaldo da Gubbio, Canonico

Lateranense, Vescovo et Protettore di detta Città, appresso Marc. Ant. Triangoli, in Perugia et
in Gubbio 1623, p. 73: “Si vede anco nel Portico di detta Chiesa una catena di ferro che
è quella, con la quale fu tirato il suddetto Carro lo quale si rende formidabile a Diavoli”.
116 I luoghi, in parte, esulano dalla carta della diocesi di Gubbio ed indicano la vastità

del protettorato ubaldino.


POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

madre che la accompagnava, di un frate identificato poi con S. Francesco


che le ferma sulla via di Assisi dicendo che ivi non si esorcizzavano gli
spiriti, ma che se volevano la liberazione dovevano andare “a Santo
Ubaldo” dove questa si verificò puntualmente117. Altri due episodi
ammoniscono poi sulla forza del priorato di Ubaldo. Nel primo è ripor-
tato il caso di un bolognese, ospite di un eugubino, che, dopo aver defi-
nito il Santo “cuoco di S. Petronio”, fu di lì a poco preso da terribili dolo-
ri e salvato in extremis per la volontà di Ubaldo118. L’altro, invece, si con-
clude con la morte di un gualdese che lavorava il campo durante la festa
del Santo, benché ammonito da un cittadino di Gubbio al quale aveva
risposto, in modo arrogante, “che S. Ubaldo non ha che fare di qua del
fiume!”119. Stabilita così una vasta area del protettorato ubaldino, raffor-
zato dalla presenza dei conventi della Congregazione, all’Olivieri non
rimaneva che perfezionare il suo disegno espansionistico che aveva
anche rilevato negli altri scritti stesi nello stesso anno e stampati dal
Triangoli. Nella copia finita di scrivere il 25 luglio del 1623 e dedicata al
vescovo Alessandro del Monte, cui aveva indirizzato anche un breve
opuscolo, sempre dedicato alle Grazie di S. Ubaldo, licenziato il 25 giu-
gno del 1623 ed esemplato sul modello delle Grazie del Fabriano del ’17,
l’Olivieri aveva opportunamente definito questo suo programma. Nelle
Grazie del 25 luglio, l’Olivieri aveva accentuato il carattere internaziona-
le del culto aprendo il libro con la guarigione di Annibale da Siena dal
vizio delle carte120. In questa occasione mette anzi in primo piano le sue
esperienze di esorcista nella chiesa di S. Ubaldo e descrive i segni che
caratterizzano gli spiritati: il parlare delle statue, le lingue di fuoco, il
movimento di una sedia con sopra una indemoniata, il battito di basto-
ni invisibili sulle sue gambe121. Raccoglie poi testimonianze sui demoni
da Psello e, soprattutto, dai Vangeli di Luca e Marco per contrastare la
117 C. Olivieri, Vita et Fatti, cit., p. 91.
118 Ibid., p. 105.
119 Ibid.
120 Ibid., p. 7.
121 Ibid., p. 8: “Molte altre cose, & operationi si trovano, tanto ne spiritati, quanto nel-

l’arte magica, che non possono procedere da altro, che da causa intellettiva, come sareb-
be far parlare statue, vedere uscir fuoco di bocca alle spiritate, come io ho veduto scon-
giurando una notte di Natale nella chiesa di S. Ubaldo: far caminar, anzi correre una sedia,
essendoli a sedere sopra una spiritata, senza che niuno la movesse, la qual cosa ho io vedu-
to in S. Ubaldo; anco mi è occorso essendo nella Chiesa del detto santo, scongiurando
sentir percuotermisopra le gambe, come se fossemi data una bastonata, senza vedere chi
la dia con gran mio dolore. Più volte stando a scongiurare mi era levato la sedia di sotto
il sedere, senza veder chi la toccasse, & altre cose si vedono fatte da Demonij, che al suo
 PATRIZIA CASTELLI

tesi aristotelica che negava la possibilità ai demoni di entrare nei corpi


umani122. In questo testo è poi sottilmente ribadita la priorità degli esor-
cisti nei confronti dei medici, inabili a guarire una serie di malanni tra i
quali vermi, febbre, mal di testa, dolori colici, ma, soprattutto, intervie-
ne sulle capacita taumaturgiche del Santo nei confronti della vessazione
diabolica. Dà inoltre un’ampia descrizione dell’uso del Breve, riassu-
mendo la questione in sette punti per distinguerli da quelli che hanno
un valore magico e quindi negativo123. Così giustifica anche l’uso dell’o-
lio nelle pratiche esorcistiche e nelle guarigioni124. Il volume in questio-
ne dimostra in modo specifico l’orientamento politico del Canonico
lateranense che, rivolgendosi al vescovo, chiede uno specifico protetto-
rato sull’operato della Congregazione e sul suo uso in particolare. Anzi,
un lungo capitolo sulla storia della città giustifica l’importanza politica
dei consoli per la reggenza della città posta sotto il dominio dei Della
Rovere. L’espediente delle dediche plurime, anche se con un senso più
ristretto, era già stato utilizzato dal Menghi per accattivarsi la benevo-
lenza dell’ordine francescano e del vescovo della città su una materia
tanto delicata. L’Olivieri dimostra infatti di essere attento alla storia del
luogo e di conoscere personalmente, oltre gli statuti di Gubbio, anche i
panegirici sulla città, come quello che il Manuzio scrive nei suoi
Commentarij all’epistola ad Attico in cui ricorda la splendida città. Del resto
l’Olivieri, anche nelle Grazie del ’23 (finite il 1 settembre), dedicate ai
consoli, si mostra abile politico ricordando la storia dell’insediamento
dei Canonici a Gubbio per volere di Giulio II125 con l’appoggio del duca
Francesco Maria I. Anche qui riprende da un volume stampato dal
Manuzio la testimonianza di Antonio Cartareno Orvietano che fa risali-
re la fondazione di Gubbio al 2153 ad opera del figlio di Noè, Saphet
(Sem), dimostrando così l’antichità della città che viene posta immedia-
tamente dopo Bologna, Perugia, Civitavecchia, Chiusi, Orvieto etc.126,
unitamente alle tre copie indicate.

loco raccontarò: talche chiaramente si vede, che li Demonij fanno cose molto maravi-
gliose”.
122 Ibid., p. 7.
123 Ibid., pp. 129-131.
124 Ibid., pp. 141 sgg. Sull’uso di amuleti con funzioni esorcistiche, vedi H. Gitler, Four

Magical and Christian Amulets, “Liber Annuus”, XL, 1990, pp. 365-374; R. Kotansky, Greek
Exorcistic Amulets, in Ancient Magic and Ritual Power, eds. M. Meyer, P. Mirecki, E. J. Brill,
Leiden-New York-Köln 1995, pp. 243-277.
125 C. Olivieri, Vita et Fatti, cit., pp. 74-75.
126 Ibid., pp. 75-76.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

Il Concilio di Trento: Gubbio e l’esorcismo

L’interesse dell’Olivieri nei confronti dell’esorcismo è sicuramente appog-


giato dalle nuove pratiche del Concilio tridentino, il cui dettato a Gubbio
si era andato consolidando dal tempo del vescovo Mariano Savelli127. Nel
1567 questi applica a Gubbio i decreti del Concilio tridentino nel tenta-
tivo di riorganizzare la diocesi. Sulla base di queste esigenze fa redigere
una carta del territorio che lo stesso vescovo, nel 1574, dice stampata di
recente128. Durante l’episcopato del Savelli la diocesi di Gubbio, tolta alla
provincia romana, fu fatta suffraganea di Urbino con la bolla di Pio V
“Super universitas orbis Ecclesia” del 14 giugno 1563. Il Savelli ribadisce
i fini pastorali del mandato del clero e sottolinea l’importanza della pre-
dicazione secondo le norme del Concilio tridentino. Ratifica che il sino-
do, inoltre, avrebbe dovuto riunirsi ogni anno. I vescovi che succedette-
ro al Savelli, tuttavia, non decisero di pubblicare annualmente le nuove
Costituzioni. Andrea Sorbolongo, successore del Savelli (1616), editò
solamente alcuni decreti. Nel Sinodo del 1602 questi riprende dal model-
lo tridentino le norme riguardanti l’esorcismo129. L’attenzione verso i casi
di vera possessione distinta dalla malattia e la prescrizione di praticare l’e-
sorcismo pubblicamente in un luogo sacro davanti ad altri ecclesiasti
testimoniano del riguardo che il canonico Olivieri prestò alle norme del
Sorbolongo. Il Baculus, tuttavia, fu steso al tempo del vescovato di
Alessandro Del Monte, nominato da Paolo V in un momento in cui il
clero eugubino guardava alle disposizioni tridentine. Non si deve poi
dimenticare come l’esorcismo divenisse, all’inizio del ’600, uno spettaco-
lo di massa. A Roma, durante il Giubileo del 1600, i pellegrini assistono
a numerose cerimonie religiose, tra le quali pubblici esorcismi. Palma
Cayet, nella Chronologie septenaire pubblicata nel 1605, mette in rilievo gli
eventi romani: “Oltre a tutto questo vi furono gli effetti meravigliosi e
veramente divini degli ossessi e dei posseduti, che vennero liberati per
grazia di Dio, e per il ministero degli esorcisti appositamente designati.
Tra questi posseduti c’era Marthe Brossier [...]”130. Roma, tra la fine del
’500 e il primo ’600, doveva essere sicuramente sede privilegiata per gli
127 Q. Rughi, Gubbio e il Concilio di Trento, Cerboni, Gubbio 1994; P. Bottaccioli, Le

costituzioni sinodali eugubine, GESPS, Città di Castello 1994, pp. 27-33.


128 Cfr. C. Armeni, Pianta della diocesi di Gubbio, in Museo Comunale di Gubbio. Incisioni, a

cura di S. Prosperi Valenti Rodinò, Electa, Editori Umbri Associati, Perugia 1993, pp. 31-32.
129 AVG, Synodalia Decreta ab anno 1549 ad annum 1763, b: 2/1.
130 Palma Cayet, Chronologie septenaire de l’histoire de la paix entre les Roys de France et

d’Espagne, Paris 1605, f. 194, cit. in D.P. Walker, Possessione ed esorcismo, cit., p. 48.
 PATRIZIA CASTELLI

esorcismi pubblici, tanto che i viaggiatori assistono a queste esibizioni.


Montaigne, tra il 1580-81, ne fa un dettagliato resoconto nel suo Viaggio
in Italia. La descrizione del filosofo è interessante per la ricchezza di par-
ticolari con cui definisce l’evento. L’esorcizzato, indicato come un uomo
melanconico e quasi inebetito, è definito come “paziente”131, lasciando
quindi trasparire l’idea dell’accostamento della possessione diabolica alla
malattia. Naturalmente gli spettacoli esorcistici a Roma furono fatti
oggetto, data la loro platealità, persino di satire, come possiamo leggere
in un ironico sonetto di Du Bellay132. D’altra parte, a metà ’500 la que-

131 Montaigne, Journal de Voyage en Italie par la Suisse et l’Allemande en 1580 et 1581, texte

établi avec introduction, notes et variantes par C. Dédéyan, Les Belles Lettres, Paris 1946,
pp. 219-221: “Le 16 Fevrier, revenant de la station, je rancontray, en une petite Chapele,
un Pretre revetu, ambesouigne à guerir un spiritato: c’étoit un home melancholique et
come transi. On le tenoit à genous devant l’Autel, aïant au col je ne sçai quel drap par où
on le tenoit ataché. Le Pretre lisoit en sa presence force oresons et exorcismes, comandant
au Diable de laisser ce cors, et les lisoit dans son breviaire. Apres cela il detournoit son pro-
pos au patiant, tantos parlant à lui, tantost parlant au Diable en sa personne, et lors l’inju-
riant, le battant à grans coups de pouin, lui crachant au visage. Le patiant repondoit à ses
demandes quelques responses ineptes: tantost pour soi, disant come il santoit les mouve-
mans de son mal: tantost pour le Diable, combien il creignoit Dieu, et combien ces exor-
cismes agissoint contre lui. Apres cela qui dura longtams, le Pretre, pour son dernier effort,
se retira à l’Autel et printe la Custode de la mein gauche, où etoit le Corpus Domini; en l’au-
tre mein tenant une bougie alumée, la teste ranversée contre bas, si qu’il la faisoit fondre
et consomer, prononçant cependant des oresons, et au bout des paroles de menasse et de
rigur contre le Diable, d’une vois la plus haute et magistrale qu’il pouvoit, Come la pre-
miere chandele vint à defaillir pres de ses doits, il en print un’autre, et puis une seconde,
et pus la tierce. Cela faict, il remit sa Custode, c’est à dire, le vesseau transparant où etoit
le Corpus Domini, et vint retrouver le patiant, parlant lors à lui come à un home, le fit déta-
cher et le randit aus siens pour le ramener au logis. Il nous dict que ce Diable là etoit de
la pire forme, opiniatre et qui couteroit bien à chasser; et à dix ou douze Jantil’homes qui
etions là, fit plusieurs contes de cete sciance, et des experiances ordineres qu’il en avoit, et
notammant que le jour avant il avoit deschargé une fame d’un gros Diable, qui, en sortant,
poussa hors cete fame par la bouche, des clous, des epingles et une touffe de son poil. Et
parce qu’on lui respondit, qu’elle n’estoit pas encores du tout rassise, il dit que c’etoit une
autre sorte d’esperit plus legier et moins malfaisant, qui s’y etoit remis ce matin-là; mais
que ce jantre (car il en sçait les noms, les divisions, et plus particulieres distinctions) etoit
aisé à esconjurer. Je n’en vis que cela. Mon home ne faisoit autre mine que de grinser les
dans et tordre la bouche, quand on lui presantoit le Corpus Domini, et remachoit par fois
ce mot, Si fata volent car il etoit Notere, et sçavoit un peu de latin”.
La curiosità di Montaigne verso gli spiriti ritorna negli Essais (III, 11) dove in modo
scettico tratta della stregoneria: cfr. A. M. Boase, Montaigne et la sorcellerie, “Humanisme et
Renaissance”, 1935, pp. 402-421.
132 J. du Bellay, Les regrets, éds. J. Joliffe, M. A. Screech, Droz, Genève 1966, p. 170,

sonetto 170, cit. in D.P. Walker, Possessione ed esorcismo, cit., p. 6.


POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

stione della possessione era talmente nota che veniva fatta oggetto di sati-
ra persino nelle commedie. Il Lasca, infatti, scrisse la commedia La spiri-
tata che fu poi rappresentata a Bologna nel 1560.
L’eco degli esorcismi romani non poteva non essere giunto ai canoni-
ci della Congregazione che avevano un’importante sede nella città. Così
l’Olivieri, che viveva a Gubbio in un momento assai difficile per le soprav-
venute carestie e pestilenze, si trovava di fronte a nuovi modelli compor-
tamentali che prevedevano, per la conversione delle folle, l’esorcismo pub-
blico133 che il Canonico non avrebbe esitato a riproporre nella città del
ducato roveresco. Egli stesso, nel Baculus, parla di un’alta affluenza gior-
naliera di indemoniati nella chiesa di S. Ubaldo, numero che variava da
venticinque ad otto134. L’Eugeni ricorda che alla vigilia della festa di S.
Ubaldo, nel 1596, si presentarono per essere esorcizzati numerosi perso-
naggi, tra cui la signora Lucrezia Bufalini, moglie di Giovanni dei marchesi
del Monte, che a sua volta supplicò il Santo affinché liberasse alcune sue
damigelle giacenti nello stesso stato di vessazione135.
Le dediche delle Grazie fatte da S. Ubaldo del 1617 e del Baculus del
1618 alla Brancaleoni136 chiariscono il significato particolare nella ela-

133 Dell’esorcismo pubblico si valse ampiamente il clero in Francia per aumentare le

conversioni degli ugonotti: cfr. D.P. Walker, Possessione ed esorcismo, cit., pp. 28-63. Un
posto a parte spetta poi ai noti fatti delle Orsoline di Loudun (avvenuti intorno al 1634).
Al di là delle citazioni estratte dai processi offre numerose indicazioni sull’aspetto pub-
blico dei voti la biografia di una delle protagoniste dei fatti, Jeanne des Anges, Storia della
mia possessione, tr. it., a cura di A. Morino, Sellerio, Palermo 1986. Sull’affare di Loudun
ha scritto in forma romanzata A. Huxley, I diavoli di Loudun, tr. it., Mondadori, Milano
1960. Ma vedi anche R. Briggs, Witches & Neighbors. The Social and Cultural Context of
European Witchcraft, Viking Penguin, New York 1996.
134 C. Oliverius, Baculus daemonum, cit., p. 84; cfr. L. Giampaoli, S. Ubaldo Canonico

Regolare Lateranense Vescovo, Patrono, cittadino di Gubbio. Memoria storica con documenti inedi-
ti, a cura di L. Cappelli, Stabilimento Tipografico Cappelli, Rocca S. Casciano 1886, II,
pp. 181-196: 190-193.
135 M. Eugenio da Gubbio, Vita di S. Ubaldo Baldassini da Gubbio, Canonico Regolare

Lateranense Vescovo, e Protettore della medesima città, appresso Paulo Massotto, in Roma 1628,
pp. 107-108.
136 Su Isabella Brancaleoni Ansidei vedi i seguenti manoscritti conservati nella

Biblioteca Augusta di Perugia: S. Tassi, De claritate Perusinorum, ms. 1430, c. 6r.; ms. 1449,
c. 97r.; Famiglie perugine, V, IA, ms. 1548, c. 182r. Inoltre P. Ansidei, Degli antichi signori e
conti di Catrano nobili perugini, Rocca San Casciano, 1884 (estratto dal “Giornale araldico”,
X-XI, 1883) e, dello stesso, Ansidei di Catrano, Pisa 1876 (estratto dal “Giornale Araldico
Genealogico”, IV, 4-5). Vedi inoltre P. Castelli, Retorica e devozione, cit., p. 14; F. Cece-E.
Sannippoli, La “Pala Ansidei”. Quando e perché fu fatto il quadro dell’altare di S. Agostino,
“Santuario di S. Ubaldo”, XIII, 5-6, 1994, pp. 13-14.
 PATRIZIA CASTELLI

borazione della pratica ubaldina dell’esorcismo. L’occasione favorevole


era stata offerta dalla morte del figlio Annibale Brancaleoni. La malattia
del giovane, curata in un primo momento senza successo dai medici, in
seguito era stata giudicata frutto di una diabolica malia. Così l’Olivieri
ebbe modo di valersi del dolore della pia nobildonna per esemplificare
nei suoi scritti la potenza dell’esorcismo. La gentildonna perugina divie-
ne così un punto di riferimento per la costituzione ed il rafforzamento
del culto a S. Ubaldo esorcista e, al tempo stesso, una finanziatrice per
la fabbrica eugubina137. Costei, infatti, appariva un personaggio di sin-
golare importanza agli occhi del cauto Canonico lateranense in cerca di
protezione e consenso. Difatti apparteneva ad una antica famiglia già
alleata dei Montefeltro e, in seguito al matrimonio, alla nobiltà perugi-
na. Lui stesso infatti sottolinea, nella dedicatoria del ’17, come “La fami-
glia BRANCALEONI [fosse] una del Illustrissime d’Italia e con l’altre
d’indissolubile Nodo congiunta”138. Nella dedica del Baculus l’Olivieri
riconosce nei demoni l’antico nemico da combattere e illustra questo
concetto alla gentildonna:

Iam inde ab ipso mundi nascentis exordio Daemona teterrimum nostri


generis hostem, multas, easdemque varias videmus adversum nos, & flagi-
tiose, & perverse struere invidias, ut nil cogitet praeterea, quam ut in sum-
mum nos detrudat exitium, in summam trahat perniciem. Novis quidem
insidijs novae artes occurrunt, & multiplici hostium oppugnationi nova
subinde obstruuntur munimenta139.

Anche nella dedica indirizzata ai lettori avverte come il testo sia una
guida utile per insegnare a scacciare in modo efficace i demoni dai
corpi140. Le lettere di approvazione al volume stese, rispettivamente, da
Petrus Franciscus, abate generale della Congregazione dei Canonici late-
ranensi, e da Teodosio Zazzari, preposto della chiesa di Gubbio, appro-
vano il testo per l’utilità che ne può giovare ai fedeli. Quest’ultimo, anzi,
esplicitamente ammette che l’opera “typys excudatur digum, valdeque;

137 Acta Sanctorum Maii, III, Die Decima sexta Maii, apud Michaelem Cnobarum,

Anterpiae 1680, pp. 628-653: 644-645: “[...] ut et per annos plures ad sacram aedem dede-
rit peregrinam et sequestrem in pias exercitationes ac meditationes, et templum erecto alta-
ri dignis ornamentus, sacrarumque pretiosa suppellectile ditarit [sic] domumque amplam
hospitam, Perusii Patribus apertam jusserit. Huijus auditrice manu animatus Carolus, sanc-
tissimi Ubaldi vitam ac miracula, et Baculus daemonum, composita evulgavit”.
138 C. Oliverius, Baculus daemonum, cit., p. 2.
139 Ibid., pp. 5-6.
140 Ibid., p. 8.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

utile spirituum flagellatoribus laudo”141. Il testo così si costituisce come


un’utile guida nelle intricate questioni dell’esorcismo. Il Baculus, nella
anteporta, è illustrato da una incisione nella quale è rappresentato S.
Ubaldo vescovo, insignito dell’abito pontificale, nell’atto di schiacciare il
demonio e di benedire un ossesso. Immagine, questa, che era comparsa
nell’edizione perugina del 1616 della Vita et fatti e miracoli. Nello sfondo,
sulla destra, è riconoscibile la sagoma triangolare della città di Gubbio
posta alle falde del Monte Ingino. Nella parte alta è posta la scritta “S.
UBALDO VESCO: UGUBBINO .C.R.I.”. Nella fascia sottostante sono
invece le lettere “S.U.C.R.L. EP eugs”, cioè “Sanctus Ubaldus Canonicus
Regularis Lateranensis Episcopus Eugubinus”142. È evidente che la vignet-
ta vuole proporre Ubaldo non solo come vescovo di Gubbio, ma anche
come un membro effettivo della Congregazione, rinforzando così la poli-
tica dei Canonici Lateranensi che avevano ricevuto un nuovo impulso
dall’appoggio di Francesco Maria II per la citata grazia da lui ottenuta per
la nascita del figlio. Non a caso, era stato proprio Paolo V, il riformatore
del Rituale, che assecondando le preghiere del duca Francesco Maria II
Della Rovere, aveva posto, secondo le direttive della Riforma cattolica, il
nome di Ubaldo nel nuovo calendario. Il Santo, da questo momento,
diventa anzi così importante da essere posto a coronamento della faccia-
ta di S. Pietro a Roma tra gli altri santi principali.

Il Baculus daemonum e la teoria delle immagini

Il testo è illustrato anche con altre incisioni143, delle quali due diretta-
mente collegate alle pratiche esorcistiche: S. Ubaldo in abiti vescovili che

141 Ibid., p. 11.


142 P. Castelli, “Daemones in corpore”, cit., pp. 48-49.
143 Le vignette sono poste all’inizio di ogni Coniuratio, ad eccezione della prima, che

è collocata nel paragrafo dedicato alle litanie della Beata Vergine e dei Santi che devono
essere recitate dall’esorcista prima di eseguire lo scongiuro: (Coniurationes malignorum spiri-
tum) “Annunciazione”, p. 109; (Coniuratio II) “Incontro di S. Anna con la Vergine”, p. 130;
(Coniuratio III) “Natività”, p. 134; (Coniuratio IV) “Adorazione dei Magi”, p. 142;
(Coniuratio V) “Circoncisione”, p. 148; (Coniuratio VI) “Gesù fra i Dottori”, p. 157;
(Coniuratio VII) “Gesù nel Getzemani”, p. 165; (Coniuratio VIII) “Flagellazione”, p.171;
(Coniuratio IX) “Irrisione di Cristo”, p. 189; (Coniuratio X) “Via Crucis”, p. 197; (Coniuratio
XI) “Crocifissione), p. 207; (Coniuratio XII) “Resurrezione”, p. 218; (Coniuratio XIII)
“Pentecoste”, p. 229; (Coniuratio XIV) “S. Pietro”, p. 238; (Coniuratio XIX) (erroneamente
numerata nel testo) “Resurrezione”, p. 255; (Coniuratio XVI) “Incoronazione della
Vergine”, p. 269; (Coniuratio XVII) “Madonna con Bambino” (di mano diversa), p. 279;
 PATRIZIA CASTELLI

Fig. 1. S. Ubaldo in abiti pontificali schiaccia il drago col piede. Anonimo.

schiaccia l’antico drago (fig. 1) e in abiti pontificali con il Vangelo nella


destra (fig. 2). Tuttavia si può stabilire anche una relazione tra le immagi-
ni e le Coniurationes, in quanto il percorso mariano-cristologico144, unita-
mente al patronato dei santi invocati negli esorcismi, è collegato allo
scongiuro. Non è possibile stabilire se l’Olivieri abbia suggerito di porre
queste illustrazioni a corollario del testo, ma sicuramente era sensibile al

(Coniuratio XVIII) “Carlo Borromeo”, p. 289; (Coniuratio XIX) “S. Pietro” (?), p. 298;
(Coniuratio XX) “S. Ubaldo in abiti vescovili con il pastorale schiaccia il drago col piede”,
p. 308; (Coniuratio XXI) “S. Paolo”, p. 327; (Coniuratio XXII) “S. Ubaldo in abiti pontifi-
cali con il pastorale e il Vangelo aperto nella destra”, p. 361; (Coniuratio XXIII) “Canonico
con pisside”, p. 372; (Coniuratio XXIV) “S. Paolo”, p. 392; (Passio Domini Nostri Iesu Christi
Secundum Matthaem) “Crocifissione” (piena pagina), p. 412; (Coniuratio XXV) “S. Lucia”, p.
436. La qualità delle incisioni è diversa e, probabilmente, sono stati utilizzati modelli che
l’editore Triangoli aveva a sua disposizione.
144 La liberazione degli ossessi da parte della Vergine è attestata in numerose aree

devozionali. L’Annunziata di Firenze, ad esempio, è fatta sovente oggetto di ringrazia-


mento per i suoi interventi. Nei Les miracles de Notre-Dame de l’Annonciade (Firenze 1609) è
rappresentata un’immagine raffigurante una donna trattenuta a letto da diverse persone
mentre è liberata dai demoni per l’intervento della Vergine Annunziata. Il bulino di
Jacques Callot è ripreso dal dipinto di Matteo Rosselli (1578-1650). Nello stesso libro è
poi raffigurata, sempre ad opera di Callot, la scena della liberazione di quattro ossesse ad
opera della Vergine.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

Fig. 2. S. Ubaldo in abiti pontificali, con il pastorale e il Vangelo aperto nella destra. Anonimo.

valore delle immagini che, anzi, in questo contesto, hanno un ruolo pri-
mario nella lotta ai demoni. Anche il Flagellum daemonum del Menghi,
stampato a Macerata nel 1580 da Sebastiano Martellini145, è illustrato con
alcune incisioni. La pubblicazione risente anche dei patronati locali, in
quanto nel frontespizio presenta l’immagine della Madonna di Loreto146,
mentre in una piccola vignetta è raffigurato un religioso inginocchiato
che, forse, rappresenta il Menghi. Nella carta conclusiva, due grandi
avversari del Demonio: S. Michele arcangelo nell’atto di schiacciare il dia-
volo e S. Francesco mentre riceve le stimmate. La prima rubrica del testo,
dedicata al comportamento dell’esorcista, è illustrata da una incisione

145 G. Fumagalli, Dictionnaire géographique d’Italie pour servir à l’histoire de l’imprimerie

dans ce pays, Olschki, Florence 1905, p. 196; V. F. Ascarelli-M. Menato, La tipografia del
’500 in Italia, Olschki, Firenze 1989; E. Cinti Federici, La stampa a Macerata fino all’anno
1700 seguendo specialmente i documenti dell’Archivio Priorale, in Studi sulla Biblioteca Comunale
e sui tipografi di Macerata, a cura di A. Adversi, Cassa di Risparmio della provincia di
Macerata, Macerata 1967. Cfr. Les Sorcières, a cura di M. Préaud, Bibliothèque Nationale,
Paris 1973, p. 98, n. 167.
146 L’immagine era già stata utilizzata dal Martellini per illustrare il frontespizio de

L’historia di santa Maria di Loreto..., stampata a Macerata nel 1578 e, successivamente, nel
1580: cfr. F. Grimaldi, Il Libro Lauretano, Libreria Quondam, Macerata 1978, n. 68, p. 123;
n. 73, p. 127.
 PATRIZIA CASTELLI

rappresentante il vescovo in abiti pastorali coadiuvato da un assistente


mentre benedice l’ossesso inginocchiato, dalla cui bocca fuoriesce il ‘dia-
volicchio’, trattenuto da alcuni parenti. Nello sfondo è visibile l’altare su
cui è posto un crocifisso ed una candela accesa. All’esorcismo del sale,
nell’iniziale E, è posta una donna che ha appena assassinato due uomini,
mentre nel capolettera I dell’esorcismo V, dedicato allo scongiuro dei
demoni che vessano i corpi, è raffigurato un ballo tra una donna ed un
satiro con cembalo147. È appena superfluo ricordare l’uso negativo delle
figurette e dei disegni nelle pratiche di magia nera per fatture a morte il
cui uso, nel caso dell’Olivieri, è rovesciato. Nella Coniuratio VII, dove si
descrivono casi di scongiuro particolarmente difficili, il Canonico forni-
sce particolari riguardo la pratica di neutralizzazione dei demoni attra-
verso l’uso di una immagine di quelli rappresentata su una carta che,
dopo essere stata gettata a terra insieme ad una pietra e ad una candela,
viene trapassata a colpi di ago e indi strappata con i piedi148. È palese qui
il capovolgimento del significato della defictio149. Del resto, tale pratica è
già attestata in un altro manuale esorcistico steso da Visconti Zaccaria e
dedicato a D.D. Francesco Sforza150.

147 Il testo illustrato è stato segnalato da M. Zacchè, Girolamo Menghi (1529-1609):

alcune osservazioni sulla tipologia degli indemoniati tra ’500 e ’600, tesi di laurea in Materie
Letterarie, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Ferrara, a.a. 1994-95, rela-
tore prof.ssa P. Castelli.
148 C. Oliverius, Baculus daemonum, cit., pp. 165-166: “Hic Exorcista habeat tres figu-

ras Daemonum cum uniuscuiusque nomine, & tres candelas nigras, & tres lapides, &
quando dicuntur illa verba X Maledico, Anathematizo, cum furore proijciatur in terram
una figura Daemonis cun una ex tribus candelis, & uno lapide, & statim illa figura, quae
est in terra acu perforetur, pedibusque; leceretur, & cum dicitur X Pereant, statim combu-
ratur, & ter dicitur haec sententia”.
149 Sulle origini delle defictiones vedi A. A. Barb, La sopravvivenza delle arti magiche, in

Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, a cura di A. Momigliano, tr. it.,
Einaudi, Torino, 1975, pp. 111-137: 132-133.
150 F. Zacharia Vicecomite, Ordinis SS. Barnabae, & Ambrosij ad Nemus

Mediolanensis eiusdem Artis Professore, Complementum Artis Exorcisticae, Apud


Franciscum Barilettum, Anno Sanctissini Iubilaei, Venetiis 1600, pars III, pp. 549: “Hic
Exorcista faciat tertiò iurare Demonem ad recedendum iuxta formam praescriptam, assi-
gnando ei signa realia, per Daemonem danda, in signum sui exitus: ac terminet horam,
vel punctum sui recessus: Deinde, adsint hic tres diversae Daemonum imagines: Quarum
una, virgulis olivarum benedictis ab aliqua personam infirmiorum Astentium percutiatur:
Alter ab alia, item simili acu perforetur, conspuatur et calpestretur, Alijsque huiusmodi
actibus contemnatur”; ibid., p. 569: “Non exeuntibus Daemonibus figuras illorum percu-
te, & schedulae unà cum nominibus Daemonum diversis, ut infra comburantur, quae
combustio duret usque in finem Exorcismi. Exorcista verò sequatur, ut infra”.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

L’uso delle ‘figure’ con valenze magiche è attestato fin dall’antichità,


ma nella Riforma cattolica acquista un particolare significato in quanto,
palesemente, coinvolge anche la questione della disputa sulle immagini,
che avevano subito nuove regolamentazioni al fine di un’utilizzazione
nel nuovo processo di evangelizzazione151.

La carta del Demonio

L’uso della figura del demonio è attestato, nel campo della stregoneria, in
un processo del S. Uffizio del 1590 contro Menega, moglie di Marco
Manin. Qui l’accusa, sostenuta dal marito e dai testimoni, si vale di una
“[...] carta, nella quale era dissegnato un diavolo et un cor, che era passa-
to con una frezza[...]”152. Il disegno era “[...] fatto a pena con diavoli
sopra, con cuori, con frezze.”153. Il 7 agosto il Manin consegna al tribu-
nale un “[...] quarto di foglio di carta, nel qual da un canto sono fatte con
penna in mal modo due figure del Demonio et tre cori et altri segni
[...]”154. Insieme a questa il Manin presenta anche una piccola figura di
Eros “de pasta artificiata, et una colombina picciolina intorniata d’oro”
insieme ad altri oggetti di natura sospetta155. Durante il processo si parla
di una “carta del diavolo” che ha fatto pensare anche all’uso delle carte dei
tarocchi dove questo vi era rappresentato. Secondo la Milani la carta era
utilizzata per magie amatorie. Veniva posta in una scansia con un lumino
di olio di chiesa e con lo stoppino ricavato dalla corda della campanella
usata per l’ingresso del celebrante e doveva rimanere sempre acceso per
tre giorni. L’innamorata pregava per tre sere con i capelli sciolti e le mani
dietro la schiena recitando il Pater Noster per le anime dei giustiziati, al fine
di guadagnarsi i buoni uffici del diavolo. Dalle carte del processo emerge
comunque che le immagini a penna non erano di buona fattura e quindi
presumibilmente realizzate dalle stesse persone che organizzavano il
maleficio senza ricorrere a ‘personale’ specializzato. L’immagine del
Demonio trova una larga diffusione nella carta dei tarocchi che più volte

151 Sull’argomento vedi almeno A. Prosperi, Teologi e pittura: la questione delle immagini

nel Cinquecento italiano, in La pittura in Italia nel Cinquecento, Electa, Milano 1995.
152 Contra Menegam uxorem Marci Manini [ASV, S. Uffizio, b. 66, n. 39, cc. 42 (18 bb)

n.n.]; cfr. Streghe e diavoli nei processi del S. Uffizio (Venezia, 1554-1592), a cura di M. Milani,
Centro Stampa Palazzo Maldura, Padova 1989, pp. 227-245: 228.
153 Ibid.
154 Ibid., p. 234.
155 Ibid.
 PATRIZIA CASTELLI

è messa in gioco in alcuni processi veneziani per stregoneria nello scorcio


del ’500. Nel verbale del processo contro Angela da Venezia del 1589 è
ricordata “una carta di tarroccho, ove era dipinto il Demonio”156; così in
quello contro Gabriele da Venezia del 1589 è descritta la “carta del tar-
rocco ove era l’immagine del diavolo”157. Davanti a queste immagini
veniva celebrato un rituale simile a quello descritto nel processo contro
Menega. È superfluo ricordare la gran voga del giuoco dei tarocchi, assai
apprezzati all’epoca. Queste carte con il demonio, presenti nelle case dei
processati, spesso erano rubate per commissione, come si apprende nel
processo del 1588 contro la negromante Fulvia Brunaleschi che istigò un
ragazzo di dieci-undici anni “a robar il diavolo che va nelli tarochi”.
Questi, non trovando l’immagine, prese “un’altra carta che ci era [...] l’in-
ferno”158. È evidente che ci troviamo di fronte al problema della qualità
delle immagini ed al costo di questi mazzi che, ancora all’epoca, esisteva-
no dipinti oltre che a stampa. A metà del ’400 pittori specializzati lavora-
vano nella corte di Ferrara per la realizzazione dei tarocchi di grande qua-
lità e prezzo159. Sembra evidente che l’esigenza di rubare le carte, oltre che
fare parte del rituale magico160, fosse data dall’alto costo del mazzo,
soprattutto se dipinto a mano. A metà del ’500 il giuoco dei tarocchi è
infatti ancora considerato proprio dei nobili, come ricorda Vincenzo
Imperiali nella sua Risposta del 1550 all’Invettiva contro il Giuoco del Taroco
di Alberto Flavio Lollio161. Ne La Piazza Universale di Tommaso Garzoni
(1549-89), uscita nel 1585; vengono descritti i tarocchi che definisce di
“nuoua inventione” e, nell’elencare i Trionfi, ricorda il Diavolo162. L’uso
illecito di questa immagine è ben testimoniato da Giovanni Andrea Gilio

156 Contra Angelam Venetiam uxorem quondam Andreae sutoris [ASV, S. Uffizio, b. 65, n.

86, cc. 8 (4 bb.) n.n.]; cfr. Streghe e diavoli, cit., pp. 205-207: 205.
157 Contra Gabrielem de Venetiis revedinum pannorum [ASV, S. Uffizio, b. 65, n° 96, cc. 6

(3 bb.)]; cfr. Streghe e diavoli, cit., pp. 209-212: 209.


158 Contra Fulviam Brunalescam de Oppitergio dictam la Nigromanta, [ASV, S. Uffizio, b.

62, n. 52, cc. 48 (20 bb) num.]; cfr. Streghe e diavoli, cit., pp. 169-189: 172.
159 M. Dummet, Il mondo e l’angelo. I tarocchi e la loro storia, tr. it., Bibliopolis, Napoli

1993, pp. 186-187. Per alcune indicazioni bibliografiche è da vedere Le carte di corte. I taroc-
chi. Gioco e magia alla corte degli estensi, a cura di G. Berti e A. Vitali, Nuova Alfa Editoriale,
Bologna 1987, pp. 86-94.
160 M. Milani, Piccole storie di stregoneria nella Venezia del ’500, Essedue, Verona 1989, p. 61.
161 F. Pratesi, Italian Cards: New Discoveries, “Journal of the International Playing Cards

Society”, XV, 4, 1987, pp. 123-131.


162 Thomaso Garzoni, La Piazza Universale di tutte le Professioni del mondo, appresso

Gio. Battista Somasco, in Venetia 1589 [ed. anast., Edizioni Essegi, Ravenna 1989], p. 564.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

nel Dialogo. Qui infatti, a proposito dell’abuso delle immagini, tratta del-
l’uso negativo delle carte da gioco e, in special modo, dei tarocchi, facen-
do oggetto della sua discussione proprio la figura del diavolo come tra-
mite dell’evocazione demoniaca:

‘Vi par egli ben fatto, soggionse M. Vincenso, che uno custode degli uomi-
ni venerato da la Chiesa, una creatura celeste et angelica, un nunzio divino
di tanta importanza sia stato introdotto nel giuoco de le carte, fra le bestem-
mie, fra gli spergiuri, fra le mariolerie e manigolderie del giuoco? E non è
chi lo consideri, e, se si considera, non è chi lo dica, e, se si dice, non è chi
lo proibisca né chi l’osservi. Venga Demostene a difender questo, che resterà
un Gn. Scicinio’. ‘Ben discorrete, disse M. Francesco; et acciò gli uomini
abbino più agevolezza a rompersi il collo del corpo e de l’anima, v’è stato
aggiunto anco il Diavolo, acciò, avendolo uno desperato spesso fra le mani,
gli si possa dare o vero chiamarlo in suo aiuto’163.

Da queste ultime battute appare evidente l’uso negativo della carta


presso la popolazione.
La questione dell’animismo dell’immagine toccava la discussione
che, secondo i Padri della Chiesa, aveva diviso i cristiani dai pagani, in
quanto questi ultimi credevano che le immagini godessero di virtù e vita
proprie164. Baronio, negli Annales165, discute del valore miracoloso delle
immagini e afferma che queste, se sono sante, grazie al volere di Dio,
procurano il bene, al contrario di quelle profane166. Baronio, natural-
mente, aveva attentamente analizzato il Concilio di Nicea del 787 di cui
mette in luce la IV sessione dedicata alle immagini ed ai miracoli, sot-
tolineando, tuttavia, che in questo contesto si era tributato solamente

163 G.A. Gilio, Dialogo nel quale si ragiona degli errori e degli abusi de’ pittori circa l’istorie,

in Trattati d’arte del Cinquecento fra Manierismo e Controriforma, a cura di P. Barocchi, 3 voll.,
Laterza, Bari 1961, II, pp. 87-88. Il Gilio tratta in modo negativo del valore morale del
giuoco delle carte nel dialogo De le parti morali e civili appertenenti a’ letterati cortigiani, f. 58v:
cfr. P. Castelli, Das Bild Satans in der Traktatliteratur der Gegenreformation, “Zeitsprünge.
Forschungen zur Frühen Neuzeit”, I, 3-4, 1997, Aspekte der Gegenreformation, hrsg. V. von
Flemming, pp. 895-937.
164 M. Barasch, Icon. Studies in the History of an Idea, New York University Press, New

York-London 1992.
165 Ann., IX, 235 CD, cit. in M. G. Ronca, La devozione e le arti, in Baronio e l’arte, Atti

del Convegno internazionale di Studi (Sora, 10-13 ottobre 1984), a cura di R. De Maio,
A. Borromeo, L. Giulia, G. Lutz, A. Mazzacane, Centro di Studi Soriani “V. Patriarca”,
Sora 1985, pp. 425-442: 437-438; ma vedi anche D. Campanelli, Le arti negli Annales, ivi,
pp. 385-407: 400-401.
166 Cfr. M.G. Ronca, La devozione e le arti, cit., p. 437, nota 54.
 PATRIZIA CASTELLI

amore e venerazione alle immagini e difendendo poi la posizione di


Carlo Magno in relazione ai Libri Carolini167. Sicuramente, alle imma-
gini nell’ambito dell’azione esorcistica era riservato un ruolo attivo.
Persino l’azione del demonio, in termini più astratti, era stata fatta
oggetto di teorizzazione da parte del Menghi nel Compendio. Nel capi-
tolo VII, intitolato Del modo col quale gli Demoni con la naturale sua virtù
possono pigliar corpo, & apparere in diverse forme & specie168, espone attra-
verso la teoria agostiniana (Quaestiones lxxxiij) l’aspetto che i demoni
possono assumere. La discussione del Francescano su questo argomen-
to appare molto interessante, perché paragona l’abilità dei demoni a
quella dei pittori169 collegandola al concetto aristotelico di moto. Gli
esempi citati per confermare le teorie esposte sono desunti dai Vangeli,
dalla Vita Antonii, dai dialoghi di S. Gregorio. Per definire la materia del-
l’apparizione di Cristo sulla via di Emmaus, paragona questo fatto alle
apparizioni delle streghe che compaiono sotto varie forme170. Della que-
stione avevano discusso anche altri esorcisti e lo stesso Olivieri, senza
entrare tuttavia in merito all’animismo delle immagini, ma trattando del
concetto di rappresentazione secondo i dettami della Riforma.

Le immagini e il testo

La citata vignetta è fondamentale per l’iconografia proposta. Come ho


già dimostrato nello scritto dedicato a S. Ubaldo, l’esercizio dell’esorci-
smo da parte del Santo aveva luogo nel momento in cui era insignito
degli abiti pastorali. Anche questo tipo di iconografia prende piede sola-
mente nel periodo della Riforma cattolica. Difatti, in altri casi, il dia-
volo spesso è rappresentato flagellato (da cui l’indicazione del flagellum
passato nei manuali esorcistici per combattere i demoni). In altri casi è

167Ibid.
168G. Menghi, Compendio, cit., pp. 40-43: 40.
169 Ibid., p. 40: “Questo anco si prova con ragione naturale, perché tutto ciò che col

moto di questi corpi inferiori può esser fatto dalla natura, il Diavolo lo può fare, & per
che il suo apparere in diverse forme, & similitudini non è altro che fingere un corpo
acciò che paia humano, ò leonino, overo d’altro animale, la qual fittione consiste nella
figura, & colori, & tutto questo si fa con il moto locale; & che questo sia vero, ce lo inse-
gna l’esperienza dell’arte del pignere, poi che col moto locale, li pittori la fanno, aggion-
gendo, levando, mutando, & disponendo con tal modo detti colori con li loro istru-
menti”.
170 Ibid., p. 42.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

comunque rappresentato un prete in “vestitus stola et cocta” che com-


pie l’esorcismo. Bisogna però arrivare al tardo ’500 per vedere l’imma-
gine di Satana calpestato dall’esorcista con la veste indicata nei manua-
li. Lo scritto dell’Olivieri è assai utile, come altri testi dello stesso tipo,
per le indicazioni che offre non solo circa l’atteggiamento degli inde-
moniati, ma anche sui gesti degli esorcisti171. Come è noto, i demoni,
nei testi evangelici ed in quelli degli esorcisti, non vengono descritti.
Questi si riconoscono solamente dai gesti e dalle azioni che fanno com-
piere agli indemoniati o dagli animali di cui assumono i corpi: rospi,
rane, topi, mosche. L’indemoniato può parlare o tacere, percuotersi con
pugni, lacerarsi le vesti ed i capelli, essere colto dal terrore, digrignare i
denti o mostrare atteggiamenti tipici della rabbia canina. A volte può
emettere vapori ignei o glaciali o agitarsi come se sentisse sul suo corpo
formiche che camminano, rane che saltano, vipere e serpenti, pesci che
nuotano, mosche che gli volano intorno ed altri fenomeni simili. Fugge
poi davanti alle immagini dei santi e davanti agli oggetti sacri, al segno
della croce e se asperso con acqua benedetta. Molti maleficiati sono poi
sotto l’influenza dell’umore melancolico, assumendone la tipica espres-
sione caratterizzata dagli occhi stralunati. Se l’invasata è donna può poi
fingersi malata e cercare di allettare il sacerdote che deve essere “omni-
bus motibus pudicus”172. Per questo il sacerdote, a sua volta, come
ricorda il Rituale di Paolo V, deve essere un uomo di età matura, ricco
di gravità e riverenza, deve avere la licenza di esorcizzare dal suo supe-
riore e dal suo vescovo e deve fare il segno della croce al posseduto e
cospargerlo, insieme ai parenti, di acqua benedetta. Deve indossare una
stola violacea e deve avere una coscienza pura. Con la stola deve cin-
gere con tre nodi il collo dell’ossesso in onore della Santa Trinità e può
mettere un dito in gola allo spiritato per farlo vomitare173. Questo gesto
è efficacemente rappresentato alla fine del ’400 (1487) dal Maestro
dell’Altare degli Eremitani Agostiniani (Norimberga). Qui il sacerdote è
raffigurato nell’atto di esorcizzare davanti alla folla, all’interno di una
chiesa, un indemoniato. L’esorcista deve inoltre eseguire una serie pre-
cisa di gesti, a partire dall’imposizione della mano sul vessato. Gli inde-

171 B. Baroffio, L’esorcismo nella liturgia latina: alcuni sondaggi nell’eucologia, in L’autunno

del diavolo, cit., I, pp. 307-315: 307-308. Per alcune indicazioni sul rituale esorcistico nel
Medioevo vedi J. C. Schmitt, Il gesto nel Medioevo, tr. it., Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 110-
113.
172 C. Oliverius, Baculus daemonum, cit., p. 66.
173 Ibid., p. 107.
 PATRIZIA CASTELLI

moniati sono considerati liberi alla fine di particolari manifestazioni:


agitazione, vomito, apparente mancanza di sensi, stato di prostrazione,
mentre i demoni si allontanano sotto diverse forme, spesso ululando e
maledicendo a gran voce. L’iconografia dell’invasamento è assai ade-
rente alle tipologie descritte e le rappresentazioni del periodo della
Riforma cattolica si attengono in modo specifico a questa tipologia,
dove gli scongiurati con gli occhi spalancati spesso sono raffigurati trat-
tenuti da assistenti degli esorcisti mentre il sant’uomo li benedice o
impugna oggetti che hanno un valore specifico sulla possessione dia-
bolica, come la croce o persino le tenaglie, come nel caso di Sant’Alò.
Un bell’esempio del periodo della Riforma lo troviamo nel dipinto di
Giacomo Cavedoni (1577-1660) in S. Maria della Pietà a Bologna. Qui
il Santo prende per il naso con una tenaglia una bella ragazza che, in
realtà, è un demone la cui lussuria è indicata dalla scarpa con zoccolo
alto da cortigiana e la sua origine diabolica dalle corna che le spuntano
dai capelli174.
La tipologia degli indemoniati, come è noto, è stata analizzata da
Charcot e Richer in un fortunato studio pubblicato a Parigi nel 1887175.
Tuttavia sembra necessario ricondurre i gesti rappresentati, al contrario
di quanto fanno i due studiosi, ai rituali contemporanei. Esiste infatti
una notevole differenza tra le immagini realizzate nel Medioevo e quel-
le del periodo della Riforma cattolica, ove la gestualità per l’esorcista, in
genere, è relegata al segno della benedizione, mentre per il vessato, ben-
ché esista una casistica più vasta, è riducibile a due categorie: il corpo
inarcato e sostenuto da gruppi di persone, o in gesto di preghiera, men-
tre i demoni si stanno allontanando da lui.
Per rimanere all’iconografia esorcistica del culto ubaldino segnalo
l’indemoniato della stampa che accompagna l’edizione della Vita, Gesti
et Miracoli del 1616176, immagine poi ripetuta nel Baculus daemonum:
inginocchiato in atto di pregare e dalla cui bocca fuoriescono ‘diavolic-

174La pittura in Emilia Romagna. Il Seicento, Electa, Milano 1995.


175J.-M. Charcot-P. Richer, Le indemoniate nell’arte, Spirali, Milano 1980. Vedi inoltre
M. A. Trasforini, Corpo isterico e sguardo medico. Storie di vita e storie di sguardi fra medici e iste-
riche nell’800 francese, “Nuova Aut Aut”, 187-188, 1982. Per indicazioni storico-artistiche
vedi S. Schade, Charcot and the Spectacle of the Hysterical Body. The ‘Pathos Formula’ as an
Aesthetic Staging of Psychiatric Discourse - a Blind Spot in the Reception of Warburg, “Art
History”, XVIII, 4, 1995, p. 499-517.
176 C. Olivieri, Vita, Gesti, et Miracoli del Glorioso Padre S. Ubaldo de Gubbio Canonico

Regulare Lateranense, Vescovo e Protettore di detta Città, nella Stampa Augustea, Perugia 1616;
cfr. F. Bettelli, Corpus iconografico, in Retorica e devozione, cit., pp. 39-131: 48-49.
POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

chi’. Tale tipologia si protrarrà fino all’ 800 inoltrato, come testimonia-
no diverse stampe del culto ubaldino177. Numerosi esempi di questo
tipo sono reperibili nella pittura devozionale tra fine ’500 e primo ’600.
Di un certo interesse è la storia raffigurata da un anonimo nella Vita e
miracoli di S. Rita da Cascia, dipinta nello scorcio del XVI secolo
(Monastero di S. Rita, Cascia)178. Il corpo riverso dei vessati è raffigura-
to nella vignetta del frontespizio dell’edizione volgare della Vita di S.
Ubaldo curata da Carlo Olivieri179, nella stampa eseguita da Francesco
Curti per il testo del Certani pubblicato nel 1666180, in quella del
Mitelli per l’edizione dello stesso testo stampato a Bologna da Giacomo
Monti nel 1675181 e nell’anonima incisione del 1714 del Responsorio ad
honore, e lode di Sant’Ubaldo...182. La tipologia del vessato inginocchiato
con la mano che allontana il santo prosegue fino all’800 inoltrato183. In
ogni caso sono presenti i cosiddetti ‘diavolicchi’, piccoli demoni neri
che si allontanano dall’indemoniato a dimostrazione dell’esorcismo
avvenuto. La forma del ‘diavolicchio’ o eidolon, in genere rappresentato
anche nella tradizione popolare piccolo, nudo, nero e deforme, prende
piede dal VI secolo184. I corpi dei posseduti a volte sono rappresentati
con gli occhi spalancati simili a quelli del giovinetto esorcizzato da S.
Nilo, raffigurato dal Domenichino nella cappella dei S. Fondatori
nell’Abbazia di Grottaferrata tra il 1608-10. Questo affresco è di note-
vole importanza nell’ambito dell’iconografia dell’esorcismo, in quanto
la storia narrata racconta la guarigione del figlio di Polieuto secondo la
Vita di S. Nilo scritta da S. Bartolomeo. Il giovinetto, afflitto da convul-

177 F. Bettelli, Corpus iconografico, cit., pp. 96-102. Di un certo interesse, a tal proposi-

to, sono le stampe segnalate nel catalogo Les Sorcières, cit., pp. 89-98 dove sono indicate
scene di possessione diabolica singole o collettive.
178 F. Giacalone, Immagini sacre in Umbria tra culto ufficiale e religiosità popolare.

L’iconografia di S. Rita, in Arte sacra in Umbria e dipinti restaurati nei sec. XIII-XX, Ediart,
Todi, pp. 123-151: 131, fig. 64.
179 F. Bettelli, Corpus iconografico, cit., pp. 54-55.
180 F. M. Certani, Idea del ben vivere, Attioni più considerabili del Padre S. Ubaldo, Can.

Regol. Lat. e Vescovo di Gubbio, nella Stampa Archiepiscopale, in Milano 1666; cfr. F.
Bettelli, Corpus iconografico, cit., pp. 60-61.
181 F. Bettelli, Corpus iconografico, cit., pp. 62-63.
182 Ibid., pp. 76-77.
183 Ibid., pp. 106-107. Per alcune considerazioni vedi L. Borello, Indemoniati, diavoli ed

ex voto, in L’autunno del diavolo, cit., II, a cura di F. Barbano e D. Rei, pp. 219-229: 219-220.
184 Cfr. B. Brenk, Teufel, in Lexicon der christlichen Ikonographie, IV, 1972, coll. 295-300;

a tal proposito vedi anche J. B. Russel, Il diavolo nel Medioevo, tr. it., Laterza, Roma-Bari
1987, pp. 96-97.
 PATRIZIA CASTELLI

sioni, a detta del Santo dovute ad una vessazione diabolica, viene cura-
to con l’olio. Nell’affresco il pittore mette in evidenza questa peculia-
rità, tanto che il monaco immerge le dita all’interno della lampada con-
tenente l’olio santo per portarlo poi alla bocca del ragazzo che tiene
aperta con l’indice sinistro. La gestualità qui riproposta fa parte dei ritua-
li descritti all’interno dei trattati esorcistici e mette in evidenza l’uso
benefico dell’olio, spesso utilizzato sia per le unzioni, sia come vomiti-
vo. Sull’altare è presente un tondo con l’immagine della Vergine, secon-
do la consueta iconografia185.
Durante la Riforma cattolica i corpi delle vessate subiscono poi una
definitiva moralizzazione, in quanto queste non sono più discinte come
nel caso della guarigione dell’ossessa da parte di S. Francesco eseguita da
Bonaventura Berlinghieri (Pescia, Chiesa di S. Francesco) nel 1235186, in
quello della stessa scena dipinta da un anonimo tra il 1250-60 (Assisi,
Museo del Tesoro del Sacro Convento) o persino nelle più tarde scultu-
re di Agostino di Duccio del Duomo di Modena rappresentanti le sto-
rie di S. Gimignano. All’immagine del diavolo non spetta sempre, nel
contesto dell’esorcismo, un ruolo primario, anche se la sua presenza è
incombente. Come si è detto, è rappresentato più spesso quale ‘diavo-
licchio’ che si allontana dal vessato mentre trova una conformazione
più precisa nella lotta con il santo esorcista, assumendo tuttavia, tra
metà ’500 e primo ’600, un aspetto sempre più umanizzato.
Il Baculus daemonum dell’Olivieri si inserisce a buon diritto, dunque,
nell’ampia discussione sulla demonologia che, in quegli anni, si svilup-
pava in Europa ed in Italia. L’opera, anzi, raccoglie le ultime posizioni
dei teologi ed osteggia tutto ciò che poteva essere relegato nell’ambito
della superstizione e si apre alle nuove prospettive della Chiesa rifor-
mata. I piccoli accorgimenti editoriali, come le incisioni, si inseriscono
anche nella questione della didattica evangelica tanto caldeggiata dopo
la Riforma tridentina187. Non si può infatti dimenticare che il Baculus è
rivolto, oltre che ai religiosi ed agli esorcisti, anche ad un pubblico di
fedeli, come la Brancaleoni, che attendevano particolari normative per
raggiungere la via della salvezza. Anche le immaginette pubblicate nel

185 R. E. Spear, Domenichino, Yale University Press, New Haven-London 1987, IV, pp.

159-161; A. Mignosi Tantillo, Domenichino a Grottaferrata. La decorazione della cappella dei


Santi fondatori, in Domenichino (1581-1641), Catalogo della Mostra (Roma, Palazzo
Venezia, 10 ottobre 1996-14 gennaio 1997), De Luca, Roma 1996, pp. 198-223.
186 Cfr. C. Frugoni, Francesco e l’invenzione delle stimmate, cit., p. 344, figg. 157-158.
187 A. Prosperi, Intorno ad un catechismo figurato del tardo ’500, “Quaderni di Palazzo Te”,

II, 1985, pp. 44-53.


POSSEDUTI E OSSESSI DURANTE LA RIFORMA CATTOLICA 

Baculus, semplici ed elementari, rappresentavano un riferimento alla


devozione dovuta ai santi e, in particolare, a S. Ubaldo, nonché alla
intercessione della Vergine nel combattere il demonio. Il Baculus deve
essere dunque considerato un’opera moderna e qualificata nell’ambito
delle pratiche esorcistiche, finalizzato al culto ubaldino che, in quel
periodo, grazie alle attività di ‘promozione’ dei Canonici Lateranensi,
uscito dagli angusti confini territoriali, si irraggiò in Italia ed in
Europa188.

188 U.F. Braccini, La mano di S. Ubaldo. Alla ricerca della verità sui legami tra Thann e

Gubbio, Santuario di S. Ubaldo, Gubbio 1993.


Lorenzo Lattanzi

Socrate, Shakespeare e la Vergine Maria


Genialità e cristianità del daimon
nell’interpretazione di Johann Georg Hamann

1. Daimon e Genius

Spogliato della sua personalità storica, Socrate diventa nel Settecento


il modello dell’uomo nuovo, nelle accezioni e con le sfumature più
varie: si finisce per cercare Socrate nei contemporanei, domandandosi
con un misto di ingenuità e di calcolata retorica come si sarebbe com-
portato il filosofo ateniese se fosse vissuto nel XVIII secolo, e quasi
tutte le personalità più significative del tempo vengono paragonate a
Socrate per un aspetto o per un altro del loro carattere e della loro
opera. Lo studio che Benno Böhm dedicò all’argomento alla fine degli
anni Venti ha ancora oggi il merito di aver raccolto questa complessa
vicenda in un quadro d’insieme, nonostante il discutibile nesso stori-
co-psicologico che propone tra le interpretazioni della figura di Socrate
e la progressiva acquisizione del concetto di “personalità” nella cultu-
ra filosofica tedesca1.
Böhm ritiene che la novità delle Sokratische Denkwürdigkeiten, prima
opera data alle stampe dal ventinovenne Hamann nel 1759, consista
nella relazione tra la figura di Socrate e il tema del genio2. Nella secon-
da sezione del saggio, dopo aver illustrato l’ammissione di “ignoranza”
(Unwissenheit) del filosofo ateniese, Hamann identifica la voce del dai-
mon che Socrate affermava di sentire dentro di sé con una presenza
“geniale”:

Che cosa surroga in Omero l’ignoranza di quelle regole d’arte che un


Aristotele scoprì riflettendo su di lui e l’ignoranza o la violazione

1 B. Böhm, Sokrates im achtzehnten Jahrhundert. Studien zum Werdegange des modernen

Persönlichkeitsbewusstseins, Karl Wachholtz, Neumünster 1966 [Leipzig 1929].


2 Cfr. op. cit., p. 260. Böhm ritiene che Hamann armonizzi in questo senso le ten-

denze del secolo alla ricerca della “autonomia” ma anche di un sostegno metafisico della
Persönlichkeit, tendenze che verrebbero a coincidere nella genialità di Socrate.
 LORENZO LATTANZI

[Uebertretung] di quelle leggi critiche in Shakespeare? Il genio [Genie]: è la


concorde risposta. Socrate aveva un bell’essere ignorante, aveva un genio
[Genius] della cui scienza poteva fidarsi, che egli amava e temeva come suo
dio, della cui pace gli importava di più che di tutta la ragione degli Egiziani
e dei Greci, alla cui voce egli credeva e per il cui soffio [Wind] … il vuoto
intelletto [der leere Verstand] di un Socrate può diventare fecondo quanto il
grembo di una vergine intatta3.

Omero non poteva conoscere le regole aristoteliche, e Shakespeare,


se pure le conobbe, le violò: il sommo poeta dell’antichità e il più
grande poeta moderno semplicemente non ne avevano bisogno.
Questo riferimento iniziale al genio poetico di Omero e di
Shakespeare viene lasciato cadere, Hamann descrive al suo posto un
genio protettore a cui Socrate si affidava, amandolo e temendolo come
un dio: il passaggio è improvviso, ma percepibile nell’impiego di due
termini diversi, Genie e Genius, che rimandano all’evoluzione storica
del concetto di “genio”, dalla nozione antica, radicata in una religio-
sità privata e famigliare, a quella moderna, nata all’ombra della cultu-
ra umanistica e applicata ai diversi ambiti dell’attività umana, fino a
divenire uno dei capisaldi della nuova cultura estetica nel Settecento4.
All’ignoranza o alla violazione delle regole aristoteliche Hamann fa
corrispondere l’ignoranza o il disinteresse di Socrate nei confronti di
tutta la sapienza d’Egitto e di Grecia, ai due poeti l’allusione alla
Madonna: l’intelletto di Socrate, sgombro di ogni vana erudizione,
accoglie la voce del dio, come il ventre intatto della Vergine Maria
accolse il soffio dello Spirito Santo.
Di questo demone (Dämon) Hamann non dice di più, si limita ad
aggiungere una serie di ipotesi che sarebbero state proposte per spie-
garlo: il demone potrebbe essere una passione dominante (eine herr-
schende Leidenschaft) nell’animo di Socrate, o soltanto una astuta trova-
ta per ottenere credito presso i concittadini (ein Fund seiner Staatslist);
un angelo o un “coboldo”, un folletto della mitologia germanica (forse
3 J.G. Hamann, Memorabili Socratici, a cura di A. Pupi in Scritti cristiani, Zanichelli,

Bologna 1977, vol. II, p. 33. Cfr. Johann Georg Hamanns Sämtliche Werke, Historisch-
Kritische Ausgabe, a cura di J. Nadler, Wien [1949-1957, 6 voll.] 1950, vol. II, pp. 57-82,
qui p. 75. Cito l’edizione critica del Nadler con la sigla W, seguita dal numero del volu-
me e dalle pagine. Quando cito dalla traduzione italiana, i rimandi in parentesi quadre
al testo tedesco sono miei.
4 Sulla questione si vedano il classico studio di P. Grappin, La théorie du génie dans le

préclassicisme allemand, P.U.F., Paris 1952 e il più recente H. Sommer, Génie: zur
Bedeutungsgeschichte des Wortes von der Renaissance zur Aufklärung, Lang, Frankfurt/M. 1998.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA 

lo spirito di un defunto), o ancora uno straordinario parto della sua


immaginazione (eine hervorragende Idea seiner Einbildungskraft); e perché
non una nozione assunta arbitrariamente, come i concetti della mate-
matica, oppure un tubo di mercurio, simile agli strumenti di misura-
zione degli scienziati, un sentimento profetico, o piuttosto una sensa-
zione fisica, come quando vecchie ferite e acciacchi suggeriscono che
il tempo sta cambiando?5 La bizzarria o la divertente assurdità di gran
parte di queste ipotesi sono espressione dell’ironia che svolge una pre-
cisa funzione nel testo, come si vedrà. Di fatto, qui Hamann elenca ciò
che il demone socratico a suo parere non era. Ai “sofisti” che hanno
escogitato simili ipotesi, Socrate avrebbe risposto di non saperne nulla,
come rispondeva ai suoi discepoli quando gli domandavano chi o che
cosa fosse quel demone. In ogni caso, se, come Hamann suggerisce, il
daimon era una sorta di genio protettore (Genius) nel quale il cristiano
riconosce una prefigurazione dello Spirito Santo, Socrate non poteva
saperlo. Il “sigillo più degno” (ehrwürdiger Siegel) della inconsapevole
missione di Socrate appare a Hamann la “sentenza oracolare del gran-
de maestro dei pagani” (Orakelspruch des grossen Lehrers der Heyden), il
passo della prima lettera ai Corinzi (8, 2-3) che cita nella seconda sezio-
ne del saggio, nell’originale greco di Paolo e nella traduzione di
Lutero: So jemand sich dünken läßt, er wisse etwas, der weiß noch nichts, wie
er wissen soll. So aber jemand Gott liebt, der wird von ihm erkannt6. Socrate
non ha “conosciuto” il Dio dei cristiani, ma ha amato il Genius che
avvertiva in sé come suo dio (als seinen Gott), e per questo il vero e
unico Dio lo ha “riconosciuto” (erkannt, come rende Lutero). È l’ispi-
razione del daimon-Genius che fa di Socrate il profeta di un dio scono-
sciuto (ein unbekannter Gott), capace di strappare i suoi concittadini
all’erudizione dei sofisti per guidarli a una verità nascosta (Wahrheit, die
im Verborgenen liegt): seguendo ancora Paolo (lettera ai Romani, 3, 29)
alla fine della terza sezione Hamann attribuisce l’ispirazione profetica
di Socrate al Dio che è padre di tutti i profeti e di tutti i popoli7.

5 Cfr. W II, 75; tr. it. cit., p. 33.


6 Cfr. W II, 74. Nella traduzione italiana: “Chi si figura di sapere qualcosa, non sa
ancora nulla, come deve saperlo. Chi invece ama Dio, viene da lui riconosciuto”: J.G.
Hamann, Memorabili Socratici, cit., p. 32.
7 Cfr. op. cit., II, 77; tr. it. cit., p. 35.
 LORENZO LATTANZI

2. Genio poetico

Resta da interpretare il richiamo al genio di Omero e di Shakespeare.


Nella sua classica monografia su Hamann e la Aufklärung, Rudolf
Unger considera questo Genie “estetico” il motivo centrale nelle
Sokratische Denkwürdigkeiten. Pur riconoscendo la radice religiosa del
concetto di genio in Hamann, religiöse Genialität che nasce dalla sua
esperienza interiore8, Unger ritiene che, attribuendo questa genialità a
Socrate, quindi riferendola al mondo greco e alla tradizione filosofica,
Hamann avviasse un processo di “secolarizzazione” di questo concet-
to, che lo rendeva applicabile ad altri campi e a differenti periodi sto-
rici: il riferimento all’ignoranza delle regole artistiche e gli esempi di
Omero e di Shakespeare rappresentano secondo Unger una sorpren-
dente traduzione del concetto di genio in termini estetici9.
Ammirando la sicurezza con cui in questa prima opera Hamann trac-
cia i grandi temi della sua riflessione estetica, gnoseologica e storica,
Unger vi riconosce un precoce e improvviso attacco alla cultura domi-
nante della Aufklärung, paragonandolo enfaticamente a un fulmine a
ciel sereno, e proprio nell’assimilazione del demone socratico al genio
creativo celebra la potente scarica di questo testo “fulminante”10.
Questa lettura si inserisce nella prospettiva di una Vorgeschichte dello
“spirito romantico”, come precisa il sottotitolo dello studio. In un
passo di Dichtung und Wahrheit Goethe rievoca l’impressione suscitata
dalle Sokratische Denkwürdigkeiten in quei lettori che, non sentendosi a
proprio agio con il gusto e la mentalità dominanti, trovarono qualco-
sa di misterioso e di imperscrutabile (etwas Geheimes, Unerforschliches)
nel libretto di un autore ancora sconosciuto, che i campioni della cul-
tura ufficiale bollarono come un abstruser Schwärmer11. L’opera ebbe un
immediato impatto sulla sensibilità della nuova generazione, ancor
prima che la Aesthetica in nuce, di tre anni seguente (1762), divenisse il

8 Cfr. R. Unger, Hamann und die Aufklärung. Studien zur Vorgeschichte des romantischen

Geistes im 18. Jahrhundert, Niemeyer, Halle/Saale 1925 [I ed. 1911], vol. I, p. 284. Unger
sottolinea il ruolo decisivo della “conversione” londinese per la scoperta di questa genia-
lità religiosa, ispirazione soggettiva che corrisponde (e risponde) nell’uomo alla rivela-
zione divina.
9 Cfr. op. cit., I, p. 287.
10 Cfr. op. cit., I, p. 10.
11 Cfr. Dichtung und Wahrheit. Dritter Teil, in Goethes Sämtliche Werke. Jubiläums-

Ausgabe, vol. 24, a cura di R.M. Meyer, Cotta, Stuttgart-Berlin 1902, p. 79; tr. it. di E.
Sola, Poesia e verità, in J.W. Goethe, Opere, Sansoni, Firenze 1963, vol. I, p. 1074.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA 

manifesto teorico di una cultura catturata proprio dal fascino di un


genio oscuro e demonico, dal “mistero” della vita che Hamann sem-
brava incarnare in se stesso, agli occhi del giovane Goethe e dei suoi
coetanei.
Per dimostrare la precocità della nozione di Genie nell’operetta
socratica del 1759, Unger analizza l’impiego delle fonti che Hamann
poteva conoscere a questa data, e in tal modo definisce i caratteri pecu-
liari della sua idea di “genio”, sviluppati negli scritti successivi. Prende
in esame le Conjectures on original composition (1759) di Edward Young,
dove Omero e Shakespeare sono accomunati sotto il segno di una
creatività geniale riluttante alle regole12, e il Literaturbrief XVII del feb-
braio 1759, nel quale Lessing avvicina Shakespeare a Sofocle per dimo-
strare che il poeta inglese era giunto più vicino di ogni altro moderno
ai poeti drammatici dell’antichità, anche se li conosceva pochissimo,
seguendoli non nell’impianto meccanico (in der mechanischen
Einrichtung) ma nella sostanza (in dem Wesentlichen) del dramma. Perciò
Lessing contrappone il teatro di Shakespeare al classicismo di
Gottsched, ispirato al gusto dei francesi, e indica nel poeta inglese un
esempio più utile e adatto al peculiare “genio” dei tedeschi13. Secondo
Unger, rispetto a questi immediati precedenti Hamann si sottrarrebbe
già nelle Sokratische Denkwürdigkeiten all’esigenza teorica, avvertita
ancora da Young e da Lessing, di “giustificare” la trasgressione delle
regole classiche: per Young Shakespeare eguaglia gli antichi nonostan-
te i suoi errori, che vengono riscattati dal genio, e per Lessing, che deli-
nea in questo Literaturbrief l’ideale conciliazione di Shakespeare e
Aristotele sostenuta poi nella Drammaturgia di Amburgo, il poeta ingle-
se aderisce inconsapevolmente, grazie al suo genio, alle regole aristo-
teliche, autentiche leggi della poesia in quanto naturali e ragionevoli.
Per Hamann, invece, sarebbe proprio l’ignoranza o l’inosservanza delle
regole a testimoniare la genialità del poeta: Shakespeare viene legitti-

12 Le Conjectures di Young furono pubblicate a Londra nella primavera del 1759,

pochi mesi prima della stesura delle Sokratische Denkwürdigkeiten nell’agosto di quell’an-
no. R. Unger, Hamann und die Aufklärung, cit., I, pp. 288-289 non esclude che Hamann
le avesse lette subito, dal momento che conosceva e apprezzava l’opera poetica di Young
già prima del suo soggiorno in Inghilterra, ma non ritiene strettamente necessario pre-
supporre questa lettura per spiegare il passo sul genio. Conclude, anzi, che nei suoi pre-
supposti religiosi e etici la teoria di Hamann non dipende comunque dalle idee di
Young.
13 Cfr. G.E. Lessing, Gesammelte Werke in zehn Bänden, a cura di P. Rilla, Aufbau,

Berlin 1955, vol. IV, pp. 135-139.


 LORENZO LATTANZI

mato in quanto genio pari a Omero dalla sua stessa deviazione dalle
norme aristoteliche14.
L’interpretazione di Unger enfatizza questo motivo polemico, che
sarà dominante solo negli scritti successivi, ma la sua conclusione
generale è corretta: per Hamann esiste una relazione necessaria tra
ignoranza e genio (semmai, Unger non articola con sufficiente chia-
rezza la distinzione di Genie e Genius). Inoltre, la sua analisi registra cor-
rettamente l’assenza nel passo di Hamann di quel momento distintivo
e caratterizzante del concetto di genius in Young che è la sua origina-
lità15. Il Genie di cui Hamann scrive nelle Sokratische Denkwürdigkeiten
ha bisogno di ignoranza, ma può fare a meno dell’originalità, e più in
generale, come è stato osservato, non mostra la vocazione “prometei-
ca” che caratterizza il “genialismo” dello Sturm und Drang: nei pochi
accenni di Hamann non c’è traccia di una lotta titanica dell’individuo
geniale, e neppure del suo tormento spirituale16. Su tutto domina la
conquistata serenità interiore del cristiano, la sua visione pacificata
della vita. Socrate attacca le convenzioni e i pregiudizi, non rifugge lo
scandalo della ragione, ma non cerca lo scontro violento, la forza del
suo pensiero sta nella semplicità con cui riconosce la propria ignoran-
za. Resta da spiegare la libera creatività, che appartiene per definizione
al genio: una libertà creativa di cui sappiamo che è frutto di ignoran-
za o di trasgressione delle regole, ignoranza o trasgressione, più in
generale, di una Weisheit mondana e razionale. È proprio questa forza
creativa, questo Genie del filosofo antico che vorrei individuare nelle
Sokratische Denkwürdigkeiten.

14Cfr. R. Unger, Hamann und die Aufklärung, cit., I, p. 311.


15Questo confermerebbe l’autonomia di Hamann rispetto a Young, a prescindere
dal fatto che conoscesse o meno le Conjectures on original composition quando scriveva sul
genio di Socrate: cfr. op. cit., p. 289. La presenza delle idee di Young, in particolare sul-
l’originalità del genio, è evidente in scritti immediatamente successivi alle Sokratische
Denkwürdigkeiten, come il Versuch einer akademischen Frage von Arostobulos del maggio 1760
(poi raccolto nei Kreuzzüge eines Philologen dell’anno seguente). La lettura delle Conjectures
da parte di Hamann sarebbe avvenuta perciò al più tardi al principio del 1760. Si veda
la discussione di Unger in op. cit., pp. 290-291.
16 Cfr. I. Berlin, The Magus of the Nord. J.G. Hamann and the origins of modern irratio-

nalism, a cura di H. Hardy, Fontana Press, London 1994, pp. 93-94. Sulla nozione di
genio nello Sturm und Drang si veda A. Zeithammer, Genie in stürmischen Zeiten. Ursprung,
Bedeutung und Konsequenz der Weltbilder von J.M.R. Lenz und J.W. Goethe, Röhring, St.
Ingbert 2000.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA 

3. La missione del cristiano

Nonostante il legittimo richiamo di Unger al decisivo impatto storico


dell’accenno a un Genie “estetico” nelle Sokratische Denkwürdigkeiten, gli
interpreti concordano oggi sul fatto che al richiamo al genio di Omero
e di Shakespeare vada attribuita una funzione strumentale rispetto allo
scopo “religioso” del saggio. Come ha mostrato in particolare Fritz
Blanke nella sua edizione commentata dell’opera, l’accenno al genio
dei due poeti è uno strumento utile a chiarire un aspetto della perso-
nalità socratica17. Non mancano affermazioni più o meno esplicite in
questo senso da parte dell’autore. Dopo aver elencato la serie di impro-
babili e sofistiche ipotesi di spiegazione del daimon, Hamann pare ser-
virsi del Genie per chiudere il discorso:

A nessun lettore di gusto mancano ai giorni nostri amici di genio [Genie],


che possono sollevarmi dalla fatica di essere più prolisso circa il genio
[Genius] di Socrate18.

Con una formula apparentemente convenzionale, che fa appello al


buon gusto del pubblico, Hamann richiama la confidenza dei lettori
della Geniezeit con quel dono non comune dello spirito di cui tanto si
parlava e scriveva all’epoca, e ne approfitta per far passare un messag-
gio che va in tutt’altra direzione, quella religiosa, specificamente cri-
stiana, del Genius. La formula, dunque, sarebbe almeno in parte ironi-
ca e rientrerebbe in una strategia testuale inaugurata dalla doppia
destinazione del libro an Niemand und an Zween (in riferimento ai versi
della prima satira di Persio O curas hominum! Quis leget haec aut duo aut
nemo, citati nel frontespizio), con l’irrispettosa dedica all’illustre signor
Nessuno che è il pubblico e quella più intima, ma ugualmente graf-
fiante, ai due lettori privilegiati del saggio, l’amico Johann Christoph
Berens e il Magister Kant. Dopo il ritorno da Londra e il fallimento
della misteriosa missione che la potente famiglia Berens di Riga gli
17 Cfr. J.G. Hamann, Sokratische Denkwürdigkeiten, a cura di F. Blanke, G. Mohn,

Gütersloh 1959, p. 153 (Johann Georg Hamanns Hauptschriften, erklärt, II). Cito questo uti-
lissimo commento con la sigla Blanke, seguita dalle pagine.
18 J.G. Hamann, Memorabili Socratici, cit., p. 33. Cfr. W II, 75. Come osserva J.

Carneal O’Flaherty, Johann Georg Hamann, Twayne Publishers, Boston 1979, pp. 60-61,
il richiamo a esempi poetici, o generalmente estetici, è per Hamann una forma di acco-
modamento ai prejudices of a secular age, che non modifica lo scopo essenzialmente reli-
gioso dello scritto.
 LORENZO LATTANZI

aveva affidato, il rapporto con Johann Christoph era decisamente in


crisi: il Genius tutelare della loro amicizia faticava ormai a tenere a
freno il rancore e l’amarezza, come Hamann si esprime in una lettera
a J.G. Lindner del 20 luglio 175919. Berens era rimasto turbato da
quanto aveva letto nei Gedanken über meinen Lebenslauf scritti da
Hamann a Londra, e questi a sua volta era infastidito dal comporta-
mento dell’amico20. Berens gli fece visita per tentare un estremo sal-
vataggio, e scelse come alleato nel delicato compito di ricondurre
Hamann al dignitoso e solido abbraccio della ragione e dello spirito
borghese il suo concittadino Kant. La cena “alla paesana” consumata
dai tre nel luglio 1759 presso il mulino a vento fuori dalle mura di
Königsberg, cena che Accolti Gil Vitale invitava spiritosamente a con-
siderare un episodio “mitico” di storia della filosofia, per il significato
che gli avrebbe attribuito poi Hamann21, lo convinse della necessità di
porre fine una volta per sempre ai maldestri tentativi di Berens di
annullare gli effetti della sua “rinascita” cristiana. Innanzi tutto, scris-
se a Kant (27 luglio) per convincerlo a non sostenere l’indiscreto piano
di Berens: è una lettera giustamente famosa, che all’amico J.G.
Lindner (18 agosto) Hamann descrive come una fragorosa granata di
fuochi d’artificio recapitata al “piccolo Magister” dal “coboldo” di
Socrate, lo spirito del defunto22, Hamann mette in scena un platoni-
co simposio i cui protagonisti, rigorosamente in maschera, potremmo
definire il filosofo, il mercante e il cristiano: Kant diventa un Socrate
a corto di genio, Berens fa la parte di un ambizioso e spregiudicato
Alcibiade, e Hamann si traveste da Genius, il demone che viene in soc-

19 Cfr. J.G. Hamann, Briefwechsel, a cura di W. Ziesemer e A. Henkel, Insel,

Wiesbaden 1955-1979, 7 voll., qui vol. I, p. 371; tr. it. di I. Brandmair Dellera, Lettere I
1751-1759, a cura di A. Pupi, Vita e Pensiero, Milano 1989, p. 341. Cito l’epistolario con
la sigla BW, seguita dal numero del volume e dalle pagine.
20 L’ipotesi che la missione di Hamann a Londra fosse di natura politica oltre che

economica, spesso ricordata dagli interpreti, risale a J. Nadler, Johann Georg Hamann
1730-1788. Der Zeuge des Corpum mysticum, Otto Müller, Salzburg 1949, pp. 72-74. Per la
ricostruzione complessiva del rapporto con Berens dopo il ritorno da Londra rimando
a A. Pupi, Johann Georg Hamann, I experimentum mundi 1730-1759, Vita e Pensiero,
Milano 1988, pp. 116 e sgg.
21 Cfr. N. Accolti Gil Vitale, La giovinezza di Hamann, Magenta, Varese 1957, p. 126.

La cena viene rievocata nella lettera al fratello del 12 luglio 1759, poco più di un mese
prima che Hamann cominciasse a lavorare alle Socratische Denkwürdigkeiten: cfr. BW I,
362; tr. it. cit., p. 332.
22 Cfr. BW I, 398-399; tr. it. cit., p. 366.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA 

corso del filosofo bisognoso di consiglio in una materia in cui non è


molto versato23.
Il senso della doppia dedica delle Sokratische Denkwürdigkeiten è già in
questa lettera a Kant: assumendo tacitamente il ruolo di un Genius ispi-
rato dal vero e unico Dio, Hamann si prende gioco di quel falso idolo
che risponde al nome di “pubblico”, e si propone di strappare al suo
culto almeno i due, Berens e Kant, ai quali si rivolge. Tende loro un “pio
inganno” (frommer Betrug), attirandoli con un libretto dedicato a Socrate,
il patrono dei Lumi, il filosofo di cui i razionalisti tedeschi avevano fatto
un perfetto modello razionale, impersonale e astorico esempio di una
norma etica universale24. Ma è proprio dalla vanità e arroganza della cul-
tura illuministica, di cui la massa anonima del pubblico è ottusamente
impregnata, che Hamann vorrebbe liberare l’amico e il concittadino,
mostrando in Socrate non il sacerdote della dea Ragione, ma l’inconsa-
pevole profeta di Cristo, che ha compreso e accettato in se stesso la
debolezza del sapere umano25. In questo raggiro a fin di bene teso ai due
si cela un compito più generale, una vera e propria missione che
Hamann, evocando la figura di Socrate, assume sull’esempio degli apo-
stoli e di Paolo, i quali predicavano a increduli e pagani impiegando le
idee e il linguaggio più familiari ai loro interlocutori per diffondere la
verità del vangelo. Per questo Hamann non intende scrivere di Socrate
come un Historiograph, tanto meno gli interessa fare una banale apologia
del filosofo, alla maniera dell’inglese Cooper26, e si richiama piuttosto
alla letteratura socratica di tradizione senofontea, evocando impressioni
personali, aspetti della vita e dell’opera di Socrate che gli sembrano
importanti rispetto al suo scopo: il termine Denkwürdigkeiten traduce
infatti gli Apomnemoneumata, o Memorabilia, di Senofonte come nel tito-
lo della fonte principale che Hamann segue (anche se non la cita mai),
l’edizione tedesca della Vie de Socrate dello Charpentier, tradotta da
Christian Thomasius alla fine del Seicento27. È significativa, in tal senso,
23 Cfr. BW I, 373; tr. it. cit., p. 343.
24 Cfr. B. Böhm, Sokrates im achtzehnten Jahrhundert, cit., pp. 113-121.
25 Cfr. W II, 59-60; tr. it. cit., pp. 17-18.
26 Cita The Life of Socrates di John Gilbert Cooper (London 1749) come una semplice

“esercitazione scolastica” (Schulübung), una raccolta meticolosa ma mediocre delle mag-


giori fonti antiche. Sulla figura di Socrate in Cooper come “tipo” del libero pensatore, svi-
luppata dai deisti inglesi, con una marcata accentuazione della polemica contro la religio-
ne tradizionale, si veda B. Böhm, Sokrates im achtzehnten Jahrhundert, cit., pp. 72-89.
27 Cfr. Das Ebenbild eines wahren und ohnpedantischen Philosophi, oder: Das Leben Socratis

nebst Xenophons Beschreibung der Denkwürdigkeiten Socratis, Halle, 1693, II ed. 1720. In una
tarda lettera a Johann Georg Scheffner (11 febbraio 1785), Hamann ricorderà di aver
 LORENZO LATTANZI

una certa diffidenza nei confronti dei dialoghi platonici, superata solo
due anni più tardi, quando li lesse sistematicamente: Hamann contrap-
pone al giovane aristocratico Platone il conciatore di pelli Simone, che
per primo avrebbe avuto l’idea di mettere per iscritto le dottrine di
Socrate, forse in maniera più fedele allo spirito del maestro, il quale, leg-
gendo le opere di Platone, si sarebbe domandato con un certo stupore:
“Che cosa ha in mente di fare di me questo giovanotto?”28.

4. La maniera socratica

In rapporto a questa destinazione del saggio, il riferimento al genio poe-


tico di Omero e di Shakespeare nel passo sul daimon rientra in una scel-
ta metodologica e stilistica che Hamann descrive all’inizio della dedica
ai due come “maniera socratica” (sokratische Art), costituita dall’impiego
complementare di Analogie e Ironie: l’analogia è l’anima di questo
discorso, che prende corpo nell’ironia. Hamann chiarisce che descri-
vendo l’ignoranza di Socrate e la sua fiducia nel “genio” egli intende
compiere soltanto “imitazioni estetiche” (ästhetische Nachahmungen) di
una incertezza (Ungewißheit) e di una fiducia (Zuversicht) che apparten-
gono piuttosto a lui in quanto cristiano, cioè la coscienza della debo-
lezza del sapere umano e la serena certezza che può dare soltanto la
fede29. La figura di Socrate viene introdotta con paragoni e riferimenti
ai profeti dell’Antico Testamento, agli apostoli, a Paolo, e in forma allu-
siva anche a Cristo. Quanto all’ironia, si tratta naturalmente dell’ironia
socratica nel senso etimologico dell’eirein, l’interrogare del filosofo che
domandando mette in luce pregiudizi e errori degli interlocutori, ma
anche dell’ironia di cui si serve il cristiano “per castigare il diavolo”,
come scrive a J.G. Lindner (5 giugno 1759), di cui si è servito Dio stes-

scritto le Socratische Denkwürdigkeiten conoscendo soltanto la biografia di Charpentier-


Thomasius e quella di Cooper, e di aver letto Platone più tardi: cfr. BW V, 358-359.
Risalgono a questa lettura successiva i numerosi rimandi all’opera di Platone che
Hamann aggiunse a margine di numerose copie della prima edizione del saggio, integrati
in forma di note al testo nell’edizione critica di Nadler.
28 Cfr. W II, 65; tr. it. cit., p. 24. Hamann trova l’episodio (narrato da Diogene

Laerzio nelle Vitae philosophorum, libro II, cap. 14) nella Leben Socratis di Charpentier-
Thomasius (31), ma trasforma il calzolaio (o tagliapelli: skytotomos) di cui parlano le sue
fonti in un conciatore di pelli (Gerber) per mettere il passo in analogia con quello sul
conciatore Simone, ospite di Pietro a Ioppe, negli Atti degli Apostoli (X, 5-6), come spie-
gherà in un passo di Wolken: cfr. W II, 95.
29 Cfr. W II, 61; tr. it. cit., p. 19.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA 

so quando ha cacciato Adamo ed Eva dall’Eden, per beffarsi non di


loro ma del demonio tentatore30. È, infine, l’ironia di Cristo, di Paolo
e dei profeti, intesa come capacità di adeguarsi alla situazione e alla
condizione interiore di chi ascolta o legge31.
Nella lettera a Kant del 27 luglio 1759 Hamann aveva detto qual-
cosa del genere, utilizzando una terminologia applicabile alle
Socratische Denkwürdigkeiten, che avrebbe iniziato a scrivere poche setti-
mane dopo:

Scrivo in modo epico, perché non siete ancora in grado di leggere il lin-
guaggio lirico. Un autore epico è uno storiografo di storie di creature
straordinarie e della loro ancor più straordinaria vita; l’autore lirico è lo
storiografo del cuore umano32.

Il saggio dedicato a Socrate è un testo “epico”, ma animato da un


nucleo “lirico”: Hamann scrive in forma epica di Socrate perché
Berens e Kant non riuscirebbero a comprendere senza mediazioni la
sua rinascita cristiana, la storia del suo cuore. Questa forma epica
sarebbe costituita da una serie di ästhetische Nachahmungen, come
Hamann le definisce nell’introduzione: l’epica è una narrazione mime-
tica, indiretta, mentre la lirica è espressione immediata del cuore,
distinzione di estremo interesse a questa data per gli sviluppi della teo-
ria e della produzione letteraria tedesca, che iniziavano a orientarsi
verso un polemico rifiuto del modello mimetico, e una crescente pre-
dilezione del genere lirico.
La “maniera socratica”, analogico-ironica, agisce già nel titolo del sag-
gio, che annuncia: Sokratische Denkwürdigkeiten für die lange Weile des
Publicums zusammengetragen von einem Liebhaber der langen Weile. L’intento
dell’autore pare ispirato a un senso “sociale” della letteratura, inserito nel
processo di costruzione di una cultura borghese cui la critica letteraria e
la saggistica contribuivano vivacemente: come chiarisce il commento di

30 Cfr. BW I, 339; tr. it. cit., p. 312.


31 Nel riconoscere questa analogia tra l’ironia socratica e l’ironia paolina Hamann si
mostra erede del socratismo pietista del conte von Zinzendorf, il fondatore della comu-
nità di Herrnhut, che dell’ironia di Socrate, di Paolo e di Lutero si era servito nella rivi-
sta Der teutsche Socrates (1725-1726) per presentare il filosofo antico non più soltanto
quale oppositore di un sapere pedante (come già aveva fatto il Thomasius) ma come uno
scettico, un critico radicale della conoscenza umana. Cfr. B. Böhm, Sokrates im achtzehn-
ten Jahrhundert, cit., pp. 159-161 e 268-269.
32 J.G. Hamann, Lettere I 1751-1759, cit., p. 343. Cfr. BW I, 373.
 LORENZO LATTANZI

Blanke33, infatti, Hamann lascia intendere di offrire ai lettori un passa-


tempo contro la noia, il sentimento che a partire dalle Réflexions critiques
sur la poésie et sur la peinture di Jean-Baptiste Dubos (1719) rappresentava
una sorta di fondamento negativo dell’arte, finalizzata alla “distrazione”,
disposta quindi ad avventurarsi anche sui sentieri di un piacere ambiguo,
non privo di inquietudine34. Attorno alla metà del secolo la nuova gene-
razione dei critici tedeschi aveva recepito la teoria di Dubos, studiata,
integrata e diffusa in particolare dai tre animatori dell’editoria berlinese
in quegli anni, Nicolai, Lessing e Mendelssohn. Nella introduzione dei
Literaturbriefe (gennaio 1759), Lessing aveva presentato la letteratura pro-
prio come un antidoto alla noia: un ufficiale prussiano ferito in battaglia
si annoia durante la convalescenza e decide di scrivere ad alcuni amici
per informarsi delle novità letterarie e sollecitare una corrispondenza su
questo argomento35. Hamann seguì fin dall’inizio con interesse la rivista
diretta dal “triumvirato” berlinese che negli anni seguenti avrebbe forni-
to l’occasione polemica per molti dei suoi scritti di teoria estetica e let-
teraria. Richiamando nel titolo la noia, Hamann ha in mente l’introdu-
zione dei Literaturbriefe, che cita in una lettera a Lindner di poco prece-
dente (20 luglio 1759)36, e ne propone una personalissima “imitazione
estetica”: si mimetizza tra i gusti e gli ideali dei suoi avversari, li avvici-
na con gli strumenti dell’analogia per aggredirli con le armi dell’ironia.
Il pubblico viene adescato con la prospettiva di un facile divertimento,
ma subito disorientato dalla passione per la noia che l’autore si attribui-
sce, in quanto Liebhaber der langen Weile. La noia a cui promette di strap-
pare il pubblico è un sentimento che Hamann aveva vissuto prima della

33 Il für va inteso in senso oppositivo, e non finale: Hamann scrive contro la noia,

come antidoto ad essa: cfr. Blanke, p. 54.


34 Hamann chiede al fratello di inviargli le Réflexions critiques in una lettera del 16

settembre 1758: cfr. BW I, 253; tr. it. cit., p. 233.


35 Cfr. G.E. Lessing, Gesammelte Werke, cit., IV, p. 89. Sulla teoria di Dubos si veda

C. Zelle, “Angenehmes Grauen”. Literaturhistorische Beiträge zur Ästhetik des Schrecklichen im


achzehnten Jahrhundert, Meiner, Hamburg 1987, pp. 139 e sgg. e sull’interesse di Lessing,
Mendelssohn e Nicolai per il critico francese P. Michelsen, Die Erregung des Mitleids durch
die Tragödie. Zu Lessings Ansichten über das Traurspiel im Briefwechsel mit Mendelssohn und
Nicolai, in “Deutsche Vierteljahrschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte”,
40, 1966, pp. 548-565.
36 Hamann cita il saggio di Klopstock Von dem Publiko, apparso nel primo numero

del Nordischer Aufseher (1758), e parla del pubblico come un Proteo che assume mille
forme per farsi adorare; quindi riassume l’introduzione dei Literaturbriefe, avanzando
riserve sull’utilità di una critica che presume di essere imparziale, e alla fine non serve a
nessuno: cfr. BW I, 368; tr. it. cit., p. 338.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA 

rigenerante esperienza londinese come un opprimente senso di vuoto e


un continuo bisogno di fuga, e che aveva sconfitto una volta tornato alla
casa paterna di Königsberg, pur in una situazione materiale di isola-
mento e inattività. Nell’apparente vuoto di giorni tutti uguali si era dedi-
cato alla lettura e alla meditazione della parola di Dio, ma anche allo stu-
dio dei classici, dei filosofi antichi, dell’ebraico e dell’arabo: nelle lettere
che precedono le Sokratische Denkwürdigkeiten, tra la primavera e l’estate
del 1759, la lange Weile è diventata ciò che è alla lettera, un lento e paci-
fico indugiare in un tempo che si distende senza scosse in una dimen-
sione tutta interiore. Hamann ha imparato ad amare questa “noia”, che
gli permette di intrattenersi con se stesso e con Dio. All’importuna
curiosità di Berens, che si preoccupa di trovargli qualche occupazione, si
informa dai comuni amici su che cosa stia combinando, e lo considera
un povero malato di nervi (o alla peggio, un fannullone) Hamann
risponde ora tranquillamente: “luteraneggio” (ich luterisiere)37.
La “maniera socratica” nel passo sul daimon è la stessa che agisce fin
dal titolo dell’opera: sulla base di una analogia viene instaurato un rap-
porto mimetico, ma l’ironia interviene a rendere percepibile lo scarto
di significato, trascendendo la dimensione mondana e razionale per
spostarsi sul piano della fede. Se nel titolo il passaggio appare ambiguo
per la ripetizione dello stesso termine, lange Weile, in due significati
diversi (del resto, nella seconda sezione del saggio Hamann avverte che
le parole sono come i numeri, che assumono valore secondo la posi-
zione)38, nel passo sul daimon lo scarto ironico si manifesta chiara-
mente nell’impiego dei termini Genie e Genius. L’ironia scavalca l’ana-
logia appena suggerita tra il daimon socratico e il Genie di Omero e di
Shakespeare, permettendo di riconoscere piuttosto nel demone un
Genius protettore che Socrate venerava come un dio, e che il cristiano
interpreta “tipologicamente”. Lo slittamento sul piano cristiano garan-
tito dall’ironia non annulla il significato letterale, ma piuttosto gli dà
un senso, un compimento. Se Socrate è “tipo” dei profeti dell’Antico
Testamento, degli apostoli e di Paolo, se in generale è typus Christi, il
suo Genius-daimon diventa “tipo” dello Spirito Santo39.

37 Si veda la lettera a J.G. Lindner del 21 marzo 1759 in BW I, 307-309; tr. it. cit.,

pp. 282-284. Seguo qui l’interpretazione di Blanke, pp. 55-58, che mette a confronto let-
tere del periodo in cui Hamann era precettore a Grünhof e lettere successive al soggior-
no londinese.
38 Cfr. W II, 71; tr. it. cit., p. 29.
39 Cfr. Blanke, pp. 14-16.
 LORENZO LATTANZI

5. Genio plastico

Chiarita in prospettiva metodologica la funzione del richiamo al genio


di Omero e di Shakespeare, torno a porre la questione del Genie come
espressione di un aspetto peculiare della personalità e dell’opera di
Socrate. Böhm interpreta la presenza di questo elemento nelle
Sokratische Denkwürdigkeiten come un religiöses Genie e vede nel daimon
la “rappresentazione sensibile” (sinnliche Darstellung) di questa forza
creativa di cui non può darsi spiegazione concettuale. Questo “genio
religioso” è per Böhm l’immediata rivelazione (unmittelbare
Offenbarung) di un Genius40. Si può accogliere questa interpretazione
nel senso che alla divina ispirazione del Genius deve corrispondere nel-
l’uomo una risposta geniale, e questo Genie può essere definito “reli-
gioso” in quanto nasce da una illuminazione che trascende le forze
della ragione. Ma l’opera del Genie che Hamann illustra nella figura di
Socrate mi sembra articolata anche in un altro momento: geniale è la
risposta dell’uomo alla chiamata del Genius-daimon, ma anche la forza
che crea attivamente le condizioni perché la rivelazione del Genius si
manifesti. Per distinguere la peculiare “azione” di questa forza dal
Genie che Böhm caratterizza come religioso, e che rappresenta piutto-
sto una “reazione” alla voce divina, parlerei di un genio “plastico”, uti-
lizzando il termine con cui Hamann indica nella terza sezione del sag-
gio lo stile in cui Socrate avrebbe potuto scrivere:

A paragone con quello di Senofonte e di Platone lo stile di Socrate avreb-


be avuto forse l’aria di uno scalpello di scultore e la sua maniera di scrive-
re sarebbe stata più plastica che pittorica [mehr plastisch als malerisch]41.

40 Cfr. B. Böhm, Sokrates im achtzehnten Jahrhundert, cit., pp. 270-277. Il Genie non è

più una disposizione psicologica, come negli autori inglesi e francesi, ma ispirazione
diretta di Dio: la coscienza della illimitata libertà del genio viene ricondotta a un fon-
damento religioso. Questa conclusione si inserisce nella ricostruzione d’insieme di
Böhm, che vede nella genialità religiosa (Religion als “Genie”) di Hamann il culmine nello
sviluppo del sentimento religioso dal misticismo medievale al pietismo tedesco.
41 J.G. Hamann, Memorabili Socratici, cit., p. 37. Cfr. W II, 80. Hamann anticipa qui

una distinzione che sarà poi centrale nel dibattito estetico tedesco: mentre di un carat-
tere “pittorico” dell’arte si discuteva almeno dagli anni Venti con i Diskurse der Malern e
le poetiche di Bodmer e Breitinger, la proposta di una definizione autonoma della scul-
tura, proprio nei termini di una oscura componente “plastica” irriducibile alla pittura,
arte della luce, giunse all’attenzione del pubblico solo a conclusione della complessa
evoluzione degli interessi di Herder sull’argomento, culminati nella Plastik (1770-1778).
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA 

Rispetto alle sue fonti, Hamann enfatizza la natura orale dell’inse-


gnamento socratico: Socrate non divenne mai uno scrittore
(wurde…kein Autor), preferendo adattare il suo pensiero a ogni luogo e
a ogni circostanza. Non era un pedante maestro di scuola, sapeva intrat-
tenere anche le più rozze compagnie di giovani, perciò non scrisse
nulla, ma svolse il suo compito educativo nei mercati, durante i ban-
chetti, persino in prigione42. Si tratta di un motivo particolarmente caro
alla letteratura socratica in Germania: traducendo la biografia di
Charpentier, Thomasius aveva suggerito fin dal titolo l’avversione del-
l’ohnpedantisch Socrate per l’erudizione accademica, ma la distanza del
filosofo pagano dalla Pedanterie piaceva anche a un agguerrito teologo
pietista come Johann Joachim Lange, tenace oppositore di Wolff a
Halle, che in Socrate apprezzava non solo l’uomo che aveva cercato
Dio con le sue sole forze, non potendo contare sulla rivelazione, ma
anche il filosofo che aveva indirizzato la riflessione verso l’ambito pra-
tico, respingendo la speculazione astratta, il pensatore antiscolastico,
idealmente opposto ad Aristotele43. Dopo la metà del secolo, la voca-
zione “popolare” del pensiero socratico divenne un modello per i
Popularphilosophen e per Mendelssohn, che i contemporanei avrebbero
celebrato come il “Socrate tedesco” dopo la clamorosa apparizione del
suo Phädon (1767)44. Hamann, tuttavia, utilizza questo motivo fami-
gliare ai lettori tedeschi con uno scopo tutto suo: ribadendo che Socrate
non possedette mai “il talento di uno scribacchino” (das Talent eines
Scribenten) ricorda un suo fallito tentativo poetico, che gli sarebbe stato
suggerito da un sogno quando era in carcere. In questa occasione, con-
tinua Hamann, che qui integra liberamente il Leben Socratis di
Charpentier-Thomasius, Socrate scoprì in sé una “aridità inventiva”
(Trockenheit zu erfinden), e se la cavò mettendo in versi una favola esopi-
ca45. È una osservazione apparentemente banale, ma rappresenta un

42 Cfr. W II, 78; tr. it. cit., p. 36.


43 Cfr. B. Böhm, Sokrates im achtzehnten Jahrhundert, cit., pp. 67-69.
44 Sul socratismo di Mendelssohn rimando a D. Krochmalnik, Moses Mendelssohn

und die Sokrates-Bilder des 18. Jahrhunderts, in Das Lächeln des Sokrates, a cura di H. Kessler,
Graue Ed., Heitersheim 1999, pp. 155-216.
45 Cfr. W II, 79; tr. it. cit., p. 36. La biografia di Charpentier-Thomasius (130) narra

di un sogno che Socrate avrebbe fatto tre giorni prima di morire, in cui una donna gli
annunciava la morte ormai prossima, ma non lo mette in relazione con l’idea di scrive-
re versi, e soprattutto non parla della scoperta di una aridità inventiva, dice soltanto che
in carcere il filosofo mise in versi una favola esopica e compose un canto in onore di
Apollo e Diana, notizia che Hamann ricorda alla fine del passo, senza commentarla.
 LORENZO LATTANZI

preciso intervento di Hamann, che aggiunge un elemento assente nelle


sue fonti, la sterilità poetica del filosofo: se Socrate possedette un Genie,
una libera forza creativa, non fu un genio poetico. L’accenno alla versi-
ficazione della favola esopica ribadisce questa idea: per mettere in versi
una storia è sufficiente una abilità meramente tecnica, che in genere i
trattati di poetica definivano Fleiß, opponendola al genio creativo del
poeta. Dal punto di vista formale, richiamando la distinzione di plasti-
sch e malerisch nel passo che ho citato la sterilità poetica di Socrate sareb-
be una incapacità di scrivere nel linguaggio “pittorico”, secondo il
modello descrittivo della malerische Poesie (esteso anche alla scrittura in
prosa), talmente alla moda in Germania dopo la metà del secolo da
indurre Lessing alla polemica distinzione tra poesia e arti figurative trac-
ciata nel Laocoonte46. Hamann intende allora: poiché Socrate non era in
grado (o forse non aveva intenzione) di scrivere “dipingendo”, avrebbe
scritto in maniera “plastica”. Di questo stile non dice molto: spiega sol-
tanto che nei discorsi di Socrate i critici biasimavano le similitudini in
quanto troppo ricercate, artificiose (zu weit hergeholt), oppure volgari,
plebee (pöbelhaft)47. Aggiunge che Alcibiade paragonava le “parabole” di
Socrate a immagini degli dei tenute in una edicola coperta dalla figura
di un satiro: secondo Blanke, questo chiarirebbe la plasticità dello stile
socratico, uno stile che sotto la facciata rozza e quasi animalesca (sati-
resca) cela un significato divino48. A me sembra che questa spiegazione
sia parziale: chiarisce l’elemento “plebeo” del linguaggio socratico, ma
non la “distante” ricercatezza delle immagini. Il carattere peculiare della
scrittura di Socrate, ammesso che si fosse plasmata sul suo modo di par-
lare, sarebbe stata proprio una curiosa mescolanza di semplicità popo-
lare e “oscura” ricercatezza, di contro al nobile decoro e alla luminosa
chiarezza di uno stile “pittorico”. Quel che è certo è che questa mesco-
lanza non piaceva ai Kunstrichter, a quei giudici dell’arte che erano pro-
babilmente gli stessi retori e sofisti nemici del filosofo.
46 Sulla polemica di Lessing contro la malerische Poesie si veda N.R. Schweizer, The Ut

Pictura Poesis Controversy in Eighteenth-Century England and Germany, Herbert Lang &
Frankfurt/M, Peter Lang, Bern 1972, pp. 55 e sgg. e sui presupposti teorici della pole-
mica D. Wellbery, Lessing’s “Laokoon”. Semiotics and aesthetics in the age of reason,
Cambridge U. P., Cambridge-London-New York 1984, in part. pp. 99 e sgg.
47 Cfr. W II, 80; tr. it. cit., p. 37. La traduzione di Pupi rende hergeholt con “prolis-

so”, ma l’espressione weit hergeholt vale qualcosa del tipo “tirato per i capelli”, dunque,
come suggerisce anche il commento di Blanke, p. 178 è piuttosto sinonimo di gesucht,
erkünstelt.
48 Cfr. Blanke, p. 179.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA 

Questa forza “plastica” rimanda a un aspetto della personalità di


Socrate che è possibile rintracciare seguendo una “imitazione estetica”
presente in tutte le sezioni del testo: per semplicità, si può parlare di
una “metafora” prolungata, purché non si dimentichi che in questa
metafora accanto all’elemento analogico agisce sempre lo scarto ironi-
co, che deviando dall’analogia garantisce la conquista del senso cui
Hamann è interessato. Mi riferisco alla metafora dello scultore e della
sua opera. Anche nella terza sezione, quando vengono analizzati i
motivi che potevano indurre Socrate a non scrivere, Hamann cita la
notizia, che trovava nelle biografie di Charpentier e di Cooper, che il
filosofo capace di parlare ovunque e con chiunque poteva anche resta-
re immobile per giorni, in una sorta di colloquio con se stesso, simile
a una delle statue che avrebbe potuto scolpire lui stesso49. Ne conclu-
de che, se avesse scritto qualcosa, sarebbero stati probabilmente dei
soliloqui, modellati su questi lunghi colloqui interiori, a differenza dei
dialoghi di cui Platone lo fece protagonista. Questa immagine del filo-
sofo immobile come una statua, tutto preso nei suoi “monologhi pla-
stici”, è un esempio suggestivo della metafora di Socrate come “scul-
tore”, che in questo caso sconfinando in una sorta di metonimia fa di
Socrate una statua, il prodotto della sua stessa arte.
Con la metafora di una statua si apre anche l’introduzione dell’ope-
ra, dominata dalla critica al metodo delle storie della filosofia: nel diver-
so comportamento di Luigi XIV e dello “scita”, Pietro il Grande di
Russia, di fronte alla statua in marmo di Richelieu scolpita da François
Girardon Hamann illustra il differente approccio alla storia della filoso-
fia per concludere che l’intelletto umano è incapace di dare un senso alla
storia. Accenna all’idea, ripresa più avanti, di una storia “mitologica”,
evocando il mito di Pigmalione, che abbracciando la statua della giova-
ne che aveva scolpito le diede vita. Per analogia con il mitico re-sculto-
re Hamann richiama lo zar Pietro che, abbracciando la muta statua del
cardinale Richelieu, crede di scoprire il segreto per dare vita al suo popo-
lo, e diventare il “creatore di una nazione”, ma lo scarto ironico demo-
lisce questa illusione: riconoscere che la storia è composta di favole, con-
cepire l’opera dello storico come una rievocazione mitica di personaggi
e eventi, rinunciando a arbitrarie e arroganti ricostruzioni razionali,
significa accettare che soltanto Dio è creatore della natura e della storia.
Proseguendo nella metafora Hamann definisce le voluminose opere di

49 Cfr. W II, 78; tr. it. cit., p. 36.


 LORENZO LATTANZI

Stanley e di Brucker dei “colossi” (Kolossen) innalzati a onore di quel


falso idolo che è la storia della filosofia, statue immense, ma bizzarre
(sonderbar) e incompiute (unvollendet) quanto il famoso dipinto che Zeusi
realizzò mettendo insieme i particolari che lo avevano attratto nelle
donne più belle incontrate per caso, oppure cercate50. L’analogia tra
quelle colossali storie della filosofia e il dipinto di Zeusi si basa sulla par-
zialità e arbitrarietà che hanno in comune, obiettivo della ironia di
Hamann. Il riferimento al pittore antico anticipa di qualche riga la pole-
mica nei confronti di Charles Batteux, che all’inizio dei Beaux Arts
réduits à un même principe aveva richiamato l’esempio di Zeusi per illu-
strare la nozione di belle nature, o natura ideale51. Il critico francese viene
allusivamente introdotto in analogia al compatriota Deslandes: rispetto
ai colossi dell’inglese Stanley e dello svevo Brucker la sua Histoire critique
de la philosophie somiglia a un “pupazzo cinese da camino” (eine chinesi-
sche Kaminpuppe), è forse per questo meno noiosa, ma non meno fredda
e arbitraria, vittima di quel “gusto gallicano” (gallicanischer Geschmack) cui
Batteux, indicato come “creatore della natura bella” (Schöpfer der schönen
Natur) ha vincolato una intera nazione, condannando persino i miglio-
ri cervelli del suo paese a una cultura brillante ma superficiale, fatta di
sfuggenti, eterei fuochi d’artificio (ätherische Feuerwerken), come Giove
condannò i ciclopi, un tempo orgogliosi e potenti, a fabbricare i suoi ful-
mini52. Hamann rifiuta la convenzionale astrattezza della teoria di
Batteux, in particolare la sua idea di creazione artistica, come l’arbitraria
parzialità delle cosiddette storie “critiche” della filosofia. La metafora
della statua nell’introduzione del saggio conduce a una rivendicazione
dei diritti del genio, che dovrebbero essere rispettati dal poeta e dal cri-
tico d’arte come dal filosofo e dallo storico della filosofia53.
50 Cfr. W II, 62; tr. it. cit., pp. 20-21. La History of Philosophy di Thomas Stanley si com-

poneva di tre volumi pubblicati a Londra tra 1655 e 1660, ai quali vennero aggiunti due
trattati negli anni seguenti. Della Historia critica Philosophiae di Johann Jakob Brucker erano
stati pubblicati cinque volumi tra 1742 e 1744, un sesto sarebbe uscito nel 1767.
51 Batteux cita Zeusi nel terzo capitolo della prima parte del saggio, capitolo impor-

tante in cui argomenta che il genio non deve imitare servilmente la natura, ma ricreare
una natura ideale, rendendola bella e perfezionandola: cfr. Ch. Batteux, Le Belle Arti
ricondotte ad unico principio, tr. it. di E. Migliorini, Aesthetica, Palermo 1990 [1983], pp.
41-43.
52 Cfr. W II, 62-63; tr. it. cit., p. 21.
53 Hamann disapprova la nozione di génie nella teoria di Batteux, un genio ridotto all’av-

vilente compito di scegliere nella natura i particolari degni di essere imitati, e guidato in que-
sta scelta da un gusto freddo e parziale. R. Unger, Hamann und die Aufklärung, cit., I, pp. 254-
255 considerò questo passo il primo atto di una polemica proseguita nelle opere successive.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA 

6. Lo scultore in Socrate

Il genio “plastico” di Socrate riceve nella prima sezione del saggio un


fondamento storico e ideale: è noto dalle fonti antiche che il filosofo
era figlio di una levatrice, e al mestiere della madre paragonava il pro-
prio insegnamento, ma non meno essenziale è il fatto che suo padre
fosse uno scultore. Hamann invita esplicitamente, in questo caso, ad
andare oltre la dimensione “tropica” (tropisch) del discorso per ricono-
scere un aspetto essenziale della personalità del filosofo. Ricorda che
Socrate paragonava modestamente la propria Schulweisheit al compito
della levatrice, che viene in aiuto (zu Hülfe kommt) della madre e del
bambino54, ma fa notare che Socrate imitava anche l’arte di suo padre,
poiché lo scultore – e qui Hamann parafrasa Lutero - togliendo con lo
scalpello la parte di legno che non serve favorisce (fördert) la forma
della statua55. Delle due maniere definite dall’Alberti nel De statua e
accolte poi da tutto il Rinascimento, quella “per via di porre” e quella
“per via di levare”56, secondo Hamann Socrate avrebbe imitato la
seconda: il suo compito era quello di “levare” errori e pregiudizi, gene-
rati e alimentati da pigrizia e orgoglio, per tirare fuori dai suoi interlo-
cutori il vero sapere. Lo “scultore” Socrate è, dunque, il maestro della
gioventù greca, spesso citato proprio con l’appellativo di Bildhauer nel
carteggio pedagogico cominciato da Hamann dopo il ritorno da
Londra con il suo vecchio allievo, il baronetto Peter Christoph von
Witten, e il nuovo precettore di lui, Gottlob Immanuel Lindner57. Che
Socrate stesso inizialmente fosse uno scultore come suo padre, e non
mediocre nel suo lavoro, se le Grazie che aveva scolpito vennero con-
servate ad Atene per molto tempo dopo la morte58, è un fatto storico

54 W II, 66; tr. it. cit., p. 24.


55 Ibid. La definizione di Lutero è in Die sieben Bußpsalmen, il commento ai salmi
penitenziali nell’edizione del 1525: “... gleich wie ein bildmacher, eben ynn dem er weg
nimet und hawet, was am holtze zum bilde nicht soll, ynn dem furdert er auch die form
des bildes”. Cfr. Doctor Martin Luthers Werke. Kritische Ausgabe, Weimar 1883, vol. 18, p.
518. Cfr: “Come uno scultore, eliminando e tagliando quella parte di legno che non
deve essere nella statua, favorisce egualmente la forma della statua…”: Scritti religiosi di
Martin Lutero, a cura di V. Vinay, Utet, Torino 1967, p. 144.
56 Cfr. J. Schlosser Magnino, Die Kunstliteratur, Schroll, Wien 1924; tr. it. di F. Rossi,

La Nuova Italia, Firenze 1996 [1935], pp. 125-126.


57 Cfr. la lettera a Witten del 15 settembre 1758 in BW I, 249; tr. it. cit., p. 229 e quel-

la a G.I. Lindner di fine ottobre o inizio novembre 1758 in BW I, 277; tr. it. cit., p. 255.
58 Hamann trova la notizia nel Leben Socratis di Charpentier-Thomasius (2-3) e nella

Life of Socrates di Cooper (14). Aggiunge che, deviando dalla moda del tempo per richia-
 LORENZO LATTANZI

che Hamann trova nelle fonti e non dimentica di citare, ma utilizza


per fare un passo avanti nella sua ricostruzione ideale di Socrate come
educatore:

È qui il luogo per castigare la perspicacia di certi patrioti … che si rappre-


sentano in Socrate tanto grandi i meriti dello scultore [die Verdienste des
Bildhauers in Sokrates] che misconoscono intanto il saggio [den Weisen], che
idolatrano lo scultore per poter meglio farsi beffe del figlio del falegname59.

Hamann non si riferisce al mestiere di scultore che Socrate esercitò


per qualche tempo: nella letteratura socratica antica e moderna non c’è
traccia di una simile sopravvalutazione dell’artista rispetto al filosofo.
Si tratta, invece, del consueto meccanismo analogico-ironico, ma in
questo caso l’analogia è doppia: vale a un primo livello, implicito, tra
lo scultore-artista e lo scultore-maestro, e esplicitamente tra lo sculto-
re (e figlio di uno scultore) e il figlio del falegname. Hamann intende
dire che chi venera Socrate come educatore pagano spesso lo discono-
sce in quanto figura profetica di Cristo. Ma con ciò ammette che nel
filosofo antico rimane un aspetto irriducibile alla verità evangelica, un
nucleo della sua personalità che chiama lo “scultore in Socrate”
(Bildhauer in Sokrates), distinguendolo dal Weise, il saggio interpretato
come typus Christi. Il riconoscimento di questo aspetto premeva a
Hamann, come si ricava da una lettera a J.G. Lindner (12 ottobre 1759)
in cui paragona un “Socrate cristiano” a un sale insipido, e conclude
che il filosofo venne condannato dagli ateniesi come un “corruttore
della gioventù”, perché aveva voluto rimanere fedele a quella che con-
siderava la propria missione educativa60.
Hamann affronta questo aspetto irriducibile al cristianesimo quan-
do analizza la dibattuta questione della paiderastia di Socrate, la sua

marsi all’uso più antico, Socrate rappresentò le Grazie vestite, e osserva che, per qualun-
que motivo lo avesse fatto, ispirato dal suo genio o mosso solo da vanità, è certo che venne
criticato per questa innovazione. In Wolken Hamann rimanda a questo aneddoto per giu-
stificare la “musa velata” (verhüllte Muse) delle Sokratische Denkwürdigkeiten, l’oscurità come
un velo posto sul messaggio cristiano che intendeva annunciare: cfr. W II, 92.
59 J.G. Hamann, Memorabili Socratici, cit., p. 25. Cfr. W II, 67.
60 “Il sale è una buona cosa, ma non deve essere scipito altrimenti è sale e non lo è.

Un sale insipido e un Socrate cristiano appartengono alla stessa categoria… Il mio


Socrate resta grande ed esemplare proprio in quanto pagano: il Cristianesimo oscure-
rebbe lo splendore. Morì come corruttore della gioventù: … non si occupò né di Scuole
dei poveri né di prebende ma fu maestro di uomini quali Alcibiade e Platone”: J.G.
Hamann, Lettere I 1751-1759, cit., p. 393. Cfr. BW I, 428-429.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA 

passione per la bellezza dei giovani: non pretende di negarla, come si


affannavano a fare le sue fonti, ma la giustifica proprio ricorrendo allo
“scultore” in Socrate. Qui il termine va inteso sia nel senso dell’artista
esercitato alla percezione della bellezza e delle sue proporzioni
(Verhältnisse), che in quello del maestro pagano, cui non possono esse-
re estranei costumi radicati nella propria cultura. In ogni caso, è la mis-
sione dell’educatore a prevalere: lo scultore-maestro comprende in sé
anche lo scultore-artista, che diventa quasi metafora nella metafora,
simbolo di un compito specificamente “estetico” che rientra nel pro-
getto pedagogico di un autentico maestro. E in questa prospettiva
Hamann sembra debitore, con tutta la sua generazione, del
Baumgarten, che per primo aveva richiamato la cultura tedesca alle
peculiari virtù del filosofo aestheticus. Mi sembra si possa interpretare
in questo senso uno dei passi più affascinanti e complessi dell’intero
scritto:

Non si può sentire una viva amicizia senza sensibilità [Sinnlichkeit] e un


amore metafisico pecca forse peggio in fatto di nervi di quanto un amore
animale pecchi in carne e sangue … Inoltre, bellezza, forza di corpo e di
spirito nonché ricchezza di figli e di beni furono interpretate nell’età del-
l’adolescenza del mondo [in dem jugendlichen Alter der Welt] come immagi-
ni sensibili [Sinnbilder] di qualità e orme di una divina presenza. Noi ora
pensiamo di giudicare l’umana natura in base a cotali casi fortuiti in guisa
troppo astratta e virile [zu abstract und männlich]. La stessa religione ci inse-
gna un Dio che non ha alcun preconcetto di persona [kein Ansehen der
Person hat], non ostante che il fraintendimento della legge tenesse legati gli
Ebrei quanto a ciò insieme ai pagani ai medesimi pregiudizi. La sana ragio-
ne [gesunde Vernunft], che non faceva difetto ad Ebrei e Greci come non fa
difetto ai nostri Cristiani e Mussulmani rimase urtata dal fatto che il più
bello tra i figli degli uomini fosse stato loro promesso come redentore e
che l’eroe della loro attesa dovesse essere un uomo dei dolori, pieno di feri-
te e di lividure. I pagani erano abituati dalle sapienti favole [klugen Fabeln]
dei loro poeti a siffatte contraddizioni, fino al momento in cui i loro sofi-
sti, come i nostri, le condannarono…61

La rinascita cristiana di Hamann non ha nulla di ascetico, e non


soffoca la fiducia nelle potenzialità sociali e educatrici del bello, che
possono manifestarsi solo nella pienezza dei sensi e dei sentimenti,
fiducia comune alla ästhetische Generation nella quale era cresciuto, col-

61 J.G. Hamann, Memorabili Socratici, cit., p. 26. Cfr. W II, 68.


 LORENZO LATTANZI

laborando con gli amici al settimanale Daphne e traducendo opere di


Shaftesbury62. Piuttosto, l’interiorizzazione del vangelo dà un nuovo
senso a questa fiducia, radicandola nella fede: è vero che Cristo, con
la sua esistenza terrena, ha spezzato l’armonia greca di bellezza este-
riore e interiore, ma questa scissione turbò anche gli ebrei, cui il Salmo
(45, 3) annunciava il Messia come il più bello tra i figli dell’uomo, e
turba ancora oggi tutti quelli che, tra i cristiani come tra i mussulma-
ni, pretendono di comprendere il mistero della fede con la sola gesun-
de Vernunft. Sono questi i moderni che pensano in maniera troppo
astratta e troppo “adulta” rispetto agli adolescenti del mondo antico:
chi, invece, accetta il paradosso cristiano può ancora sentirsi vicino agli
antichi greci, abituati dalle favole e dai miti dei loro poeti alla realtà e
alla necessità della contraddizione, del paradosso logico (Widerspruch),
senza cui non si può accettare l’insensatezza di un dio incarnato. Alla
luce di una provvidenza che governa l’intero corso della storia come
regge la totalità della natura, il peccatore rinato in Cristo che a Londra
si era immerso nella Bibbia può conciliarsi con il lettore appassionato
che di lì a poco avrebbe ammirato Pensieri sull’imitazione delle opere gre-
che nella pittura e nella scultura del Winckelmann come uno splendido
frutto del “genio” tedesco63: la cultura pagana, e quel tanto di “neopa-
ganesimo” che ispira la moderna cultura estetica, vengono riassorbiti
nell’universalità del messaggio cristiano, a restare esclusi sono i sofisti
antichi e moderni, responsabili della spoliazione della vita dal suo
mitico incanto (tema centrale, come si è visto, nell’introduzione). La
lunga “imitazione estetica” che conclude la prima sezione del saggio
ribadisce questa affinità tra lo spirito cristiano e l’antichità pagana, iso-
lando da questa inattesa comunità spirituale lo scetticismo moderno:
alludendo alle Lettres sur les comètes del Bayle, Hamann rievoca la fidu-

62 Sulla scia dei tanti periodici che in quegli anni nascevano con l’intento di supe-

rare le pubblicazioni erudite del Gottsched, Daphne si ispirava allo stile brillante e alla
cultura “galante” degli scrittori francesi alla moda, evocando le atmosfere della lettera-
tura anacreontica. I 60 numeri del settimanale vennero raccolti in volume nel 1750 in
due parti presso l’editore Dorn di Königsberg (rist. anast. Lang, Frankfurt/M. 1991).
Sulla rivista si veda A. Pupi, Johann Georg Hamann, I experimentum mundi 1730-1759, cit.,
pp. 15-22. Le traduzioni di A letter concerning Enthusiasm (1708) e di Sensus communis: An
Essay on the Freedom of Wit and Humour (1709) di Shaftesbury risalgono probabilmente al
1755, e non è escluso che fossero destinate alla pubblicazione, poiché si tratta di versio-
ni complete: cfr. op. cit., pp. 56 e 173.
63 Si veda la lettera al fratello del 9 gennaio 1760, in cui Hamann osserva che tutte

le osservazioni di Winckelamann sulla pittura e la scultura possono applicarsi utilmente


anche alla poesia e alle altre arti: cfr. BW II, 4.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA 

cia degli antichi nelle comete, negli oracoli e nei sogni, di cui portano
tracce le opere dei greci e dei romani come la Bibbia, il libro traman-
dato dal “popolo più pazzo” (das thörichste Volk) nella storia dell’uma-
nità. Lo scettico moderno disprezza quei presunti segni come favole
infantili, ma è costretto a riconoscere gli straordinari effetti che ebbe-
ro sulla storia di interi popoli. Il cristiano, invece, semplicemente ci
crede, come ci credevano i pagani: anche la storia della salvezza inizia
con una cometa, quella che i Magi d’Oriente seguirono per giungere a
Betlemme64.

7. Genio e sentimento dell’ignoranza

È un oracolo, quello di Apollo a Delfi, a confermare che ai tempi di


Socrate i greci erano ancora disposti ad accettare un pensiero parados-
sale, il dio indicò infatti come il più sapiente tra gli uomini Socrate,
che si definiva un “ignorante”65. Nel passo sul daimon Hamann mette
in relazione l’ignoranza delle regole aristoteliche in Omero e in
Shakespeare con il loro genio, e l’ignoranza della sapienza egiziana e
greca in Socrate con l’ispirazione del suo Genius. Non va oltre la
dimensione analogica del richiamo alla creazione poetica geniale, non
si esprime sulla relazione tra l’ignoranza e il Genie socratico, come farà
in Wolken, l’epilogo (Nachspiel) delle Sokratische Denkwürdigkeiten che
scrisse due anni dopo (1761) per rispondere alle recensioni che l’opera
aveva ricevuto, dove la relazione tra Unwissenheit e Genie viene parago-
nata alla composizione delle direzioni della forza centripeta e di quel-
la centrifuga, da cui risulta un sapere superiore che si cela nella con-

64 Cfr. W II, 68-69; tr. it. cit., pp. 26-27. Hamann scrisse poi un saggetto Die Magi

aus Morgenlande, pubblicato nel dicembre 1760 nelle Wochentliche Königsbergische Frag-
und Anzeigungsnachrichten (raccolto nei Kreuzzüge eines Philologen, 1762) per ribadire il
mistero della storia, nel quale solo alcuni riconoscono la voce di Dio: il viaggio dei Magi
poteva apparire assurdo, ebbe persino conseguenze drammatiche, come la strage degli
innocenti, ma essi si affidarono a Dio riconoscendone il disegno provvidenziale. Fu in
seguito a questo saggio che Friedrich Karl von Moser chiamò Hamann Magus im Norden.
Si veda A. Pupi, Johann Georg Hamann, II In domo patris 1760-1763, Vita e Pensiero,
Milano 1991, pp. 64-66.
65 Nel culto apollineo Hamann riconosce, citando il discorso di Paolo e Barnaba ai

Licaonici negli Atti degli apostoli (XIV, 16-17), una testimonianza di Dio presso i paga-
ni: l’oracolo, infatti, richiama l’uomo a guardare dentro di sé, e abitua la mente al para-
dosso. Cfr. W II, 71; tr. it. cit., p. 29.
 LORENZO LATTANZI

traddizione, nel paradosso (Widerspruch)66. Nel saggio del 1759 si trat-


ta di determinare la relazione tra l’ignoranza e quella forza “plastica”
in cui consisterebbe il Genie dello “scultore in Socrate”.
Nonostante le spese sostenute da Critone per fare di lui un sofista,
Socrate rimane “ignorante” (unwissend) e della sua ignoranza parla di
continuo, come un ipocondriaco (Hypochondriaker) non fa che parlare
della propria malattia immaginaria: per comprendere l’ignoranza socra-
tica bisogna sentire per essa una speciale simpatia, come per capire cosa
prova un ipocondriaco bisogna aver provato di persona questo male67.
Non si tratta di un espediente didattico, come Hamann ribadirà in
Wolken, rispondendo a una osservazione fatta da Mendelssohn nella
recensione delle Sokratische Denkwürdigkeiten apparsa nei Literaturbriefe:
Socrate si riconosceva ignorante perché aveva compreso la condizione
di debolezza dell’uomo, una irrimediabile ignoranza del mondo e di
Dio. I filosofi razionalisti sono come eunuchi che temono di confessare
la loro debolezza, cioè il fatto di essere ignoranti, mentre Socrate, con-
sapevole della propria impotenza (Unvermögen), che gli impediva di esse-
re padre, poteva fare sinceramente questa confessione68.
Socrate si limita a sentire la propria ignoranza: Die Unwissenheit des
Socrates war Empfindung69. Questo “sentimento” non può essere dimo-
strato: Socrate non è ignorante come dicono di esserlo gli scettici, che

66 “Man wird daher die Theorie der Centripetal- und -fugalkräfte zu Hülfe nehmen,

und die Parabeln des Sokrates aus der zusammengesetzten Richtung seiner Unwissenheit
und seines Genies herleiten müssen”: W II, 98. Qui Hamann parla di un genio socrati-
co senza riproporre l’analogia con il genio dei poeti, e lo definisce come impulso crea-
tivo “umano”, che insieme al dono “divino” dell’ignoranza spiega il mistero della “con-
traddizione”: “In diesem göttlichen der Unwissenheit, in diesem menschlichen des
Genies scheinet vermuthlich die Weisheit des Widerspruchs verborgen zu seyn…”: ibid.
67 Cfr. W II, 70; tr. it. cit., p. 28.
68 Cfr. W II, 96-97. Mendelssohn aveva osservato che, nel riconoscersi ignorante,

Socrate non si mostrava modesto (bescheiden), come Hamann sostiene nelle Sokratische
Denkwürdigkeiten, bensì coerente (aufrichtig) con il suo orientamento teorico
(Lehrmeinung): cfr. M. Mendelssohn, Rezensionsartikel in “Briefe, die neueste Literatur betref-
fend” (1759-1765), in Gesammelte Schriften. Jubiläumsausgabe, vol. V.1, a cura di Eva J.
Engel, F. Fromann, Stuttgart-Bad Canstatt 1991, p. 203. Hamann ribatte che fare della
modestia di un ignorante (Bescheidenheit eines Unwissenden) una virtù sarebbe come loda-
re la castità di un eunuco (die Keuschheit eines Verschnitteten).
69 W II, 73. Pupi rende: “L’ignoranza di Socrate fu il sentire”: J.G. Hamann,

Memorabili Socratici, cit., p. 31. Preferisco qui la traduzione di Sergio Lupi: “L’ignoranza
di Socrate era sentimento”: I memorabili di Socrate, in J. G. Hamann, Scritti e frammenti di
estetica, Istituto Italiano di Studi Germanici, Firenze 1938, p. 231.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA 

pretendono di fornire una dimostrazione razionale di ciò che sentono,


o dicono di sentire, peccando non solo di presunzione ma di ipocri-
sia. Sentire la propria ignoranza significa semplicemente viverla: tra un
sentimento (Empfindung) e l’enunciato dottrinale (Lehrsatz) che si pre-
tende di ricavarne c’è la stessa differenza che esiste tra un animale vivo
e il suo scheletro. Hamann sfiora qui una questione al centro degli
interessi dei filosofi razionalisti tedeschi: proseguendo, pur con signi-
ficative deviazioni, la svolta inaugurata da Baumgarten, attorno alla
nozione di Empfindung si tentava in questi anni di individuare un auto-
nomo territorio “estetico”, separato dal dominio della conoscenza e
della morale70. Ma il quadro gnoseologico tracciato da Hamann non
va in questa direzione: non c’è alcun interesse a stabilire un dominio
estetico separato, e più in generale viene negato in una unità essen-
zialmente religiosa quel processo di classificazione delle attività dello
spirito che negli anni Settanta avrebbe condotto filosofi come Tetens
e Mendelssohn alla tripartizione delle facoltà fissata a fine secolo da
Kant. Hamann rivendica la distanza dell’empfinden rispetto al beweisen,
ma al tempo stesso lo associa al glauben sostenendo che: 1) ciò che si
crede non ha bisogno di essere dimostrato, e viceversa, 2) per quanto
qualcosa sia stato provato, è necessario ancora crederci, concedere la
propria approvazione (Beifall). Richiamando strategicamente il presup-
posto humiano dell’esistenza del mondo esterno (belief of external
objects)71, la sentimentale sicurezza del glauben conduce senza media-
70 In filosofi legati alla tradizione wolffiana come Sulzer (Untersuchung über den

Ursprung der angenehmen und unangenehmen Empfindungen, 1753-1754) e Mendelssohn


(Über die Empfindungen, 1755), ma anche in personalità più vicine al mondo dell’arte,
come Lessing (Abhandlungen über die Fabel, 1759) e Winckelmann (Abhandlung von der
Fähigkeit der Empfindung des Schönen in der Kunst, 1763), Empfindung traduce in questi anni
il francese sentiment e si distingue dal Gefühl inteso come percezione sensoriale, secondo
un uso che sopravvive fino ai Philosophische Versuche über die menschliche Natur und ihre
Entwickelung di Johannes Nikolaus Tetens (1777). Si veda G. Sauder, Mendelssohns Theorie
der Empfindungen im zeitgenössischen Kontext, in Humanität und Dialog. Lessing und
Mendelssohn in neuer Sicht. Beiträge zum Internationalen Lessing-Mendelssohn-Symposium
anlässlich des 250. Geburtstages von Lessing und Mendelssohn, Los Angeles 1979, a cura di E.
Bahr, E.P. Harris, L.G. Lyon, Detroit, Wayne State U. P., München, edition text + kritik
1982, pp. 237-248.
71 Hamann sostiene che l’esistenza propria e quella delle cose al di fuori di noi non può

essere dimostrata, ma va creduta. In una tarda lettera a Fr. H. Jacobi (27 aprile 1787) cita
come riferimento di questo passo la sezione 12 della Enquiry concerning human understanding
(1748) di Hume: “It seems evident, that men are carried by a natural instinct or preposses-
sion, to repose faith in their senses; and that without any reasoning, or even almost before
the use of reason, we always suppose an external universe, which depends not on our per-
 LORENZO LATTANZI

zioni al Glaube, alla fede religiosa. Con questo passaggio, il sentimen-


to che la fede presuppone trascende la Empfindung che si associa all’im-
maginazione in una autonoma facoltà “estetica”. Hamann non si limi-
ta a ribadire che la fede non è opera della ragione (Der Glaube ist kein
Werk der Vernunft), esclude anche che si tratti di un fenomeno di pura
immaginazione, avvicinandola piuttosto all’esperienza dei sensi: per
credere non abbiamo bisogno di più ragioni (Gründe) di quante ne ser-
vano per gustare e vedere (Schmecken und Sehen)72.
Ne conclude che tanto il filosofo quanto il poeta si trovano imbri-
gliati a un astratto criterio di verità:

Il filosofo è soggetto alla legge dell’imitazione quanto il poeta. Per questo


ultimo la musa e il geroglifico gioco d’ombre [hieroglyphisches Schattenspile]
è verità quanto la ragione e l’edificio dottrinale di essa per quello73.

Non si tratta di un ripensamento da parte di Hamann, che nella


introduzione respinge la teoria della imitazione polemizzando con
Batteux: il poeta non si sottomette a un criterio astratto e esteriore
come quello della belle nature, si attiene a una verità specificamente
poetica, come il filosofo a una verità logica. Ma questa verità del poeta
non è neppure la veritas aesthetica del Baumgarten, riconducibile al cri-
terio della verosimiglianza o della coerenza, drammatica o narrativa,
come la interpretavano i critici razionalisti. Hamann chiama “musa”
l’ispirazione del poeta, irriducibile al dominio baumgarteniano della
claritas (è un “geroglifico gioco d’ombre”). Dunque, si può intendere il
passo in questi termini: come il poeta con l’immaginazione riproduce
la realtà nella sua opera, il filosofo con la ragione la riproduce nel suo
sistema dottrinale. In fondo l’analogia è introdotta solo per essere
superata nell’ironia: qualunque cosa Hamann intendesse dire, il fatto
stesso di avvicinare l’opera del poeta a quella del filosofo negava pole-

ception, but would exist, though we and every sensible creature were absent or annihilated”:
D. Hume, Enquiry concerning Human Understanding, a cura di T.L. Beauchamp, Oxford U.P.,
Oxford 1999, pp. 200-201. Sull’interesse di Hamann per il pensiero di Hume in questi anni
si veda A. Pupi, Johann Georg Hamann, I experimentum mundi, cit., pp. 132-133.
72 Il sentimento della fede, comunque, non è identico all’esperienza dei sensi: non

si tratta di Erfahrung, ma piuttosto di un Erlebnis, uno stato emotivo che coinvolge tutta
la persona, la sua intera vita, come osserva N. Accolti Gil Vitale, La giovinezza di
Hamann, cit., p. 141.
73 J.G. Hamann, Memorabili Socratici, cit., p. 32. Cfr. W II, 74.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA 

micamente gli sforzi di quei teorici e critici che proponevano una rigo-
rosa distinzione tra riflessione filosofico-scientifica e creazione poeti-
ca, come Lessing e Mendelssohn nell’anonimo saggio Pope, ein
Metaphysiker! del 1755, che Hamann aveva letto nell’estate dell’anno
seguente, quando si muoveva ancora incerto e insoddisfatto tra le file
dei giovani Auklärer74. Posandosi sulla provocatoria analogia tra filo-
sofo e poeta, l’ironia consente il passaggio alla dimensione religiosa,
perché agli occhi del cristiano, nella prospettiva unificante e trascen-
dente della fede, ragione e immaginazione conducono a una analoga
disfatta: il filosofo e il poeta si affidano a un criterio di verità, dimo-
strazione logica o ispirazione poetica poco importa, che non regge al
confronto con la vita. Hamann lo illustra con gli esempi di Voltaire e
di Klopstock: quando la vita li pose in circostanze nelle quali riusciro-
no a “sentire se stessi” (sich selbst fühlen), nello smarrimento o nella sof-
ferenza, Voltaire, che aveva preteso di dimostrare il sistema del miglio-
re dei mondi possibili, rinunciò al suo filosofico ottimismo, e sciocca-
to dal terremoto di Lisbona (1755) scrisse Candide, e il grande poeta
Klopstock fu derubato della sua “musa” perdendo l’amata consorte
Meta, morta di parto nel 1758. Non solo la presunzione del filosofo,
dunque, anche il cuore ispirato del poeta (persino di un poeta religio-
so come il creatore della Messiade), si inganna quando esalta il potere
della fantasia al di sopra della fede. La conclusione è esplicita: la fede,
come non è opera della ragione, non è creata dall’immaginazione, (Die
Einbildungskraft…kann also keine Schöpferinn des Glaubens seyn)75. Lo
“scultore” Socrate grazie all’opera del suo genio porrebbe di fronte a se
stesso tanto il filosofo con le sue arroganti certezze, quanto il poeta

74 Cfr. la lettera a J.G. Lindner del 18 agosto 1756 in BW I, 227-228; tr. it. cit., pp.

209-210. Hamann conosce le circostanze esteriori del saggio, nato in risposta a una
Preifrage bandita dall’Accademia delle Scienze di Berlino, e ne fa un dettagliato riassun-
to, soffermandosi anche sulla prefazione, in cui viene tracciata una netta distinzione tra
il metodo e lo stile del filosofo e quello del poeta. Si veda sul saggio P. Michelsen, Ist
alles gut? Pope, Mendelssohn und Lessing (Zur Schrift “Pope ein Metaphysiker!”), in
“Mendelssohn Studien” IV, 1979, pp. 81-109. Hamann attribuisce lo scritto a Lessing sol-
tanto, ma nella stessa lettera si sofferma sui Briefe über die Empfindungen di Mendelssohn,
interessandosi proprio alla identità dell’anonimo autore, che le riviste presentavano
come un giovane ebreo di professione non intellettuale.
75 W II, 74. In una lettera a J.G. Lindner (8 agosto 1759), Hamann elogia le odi com-

poste da Klopstock per la morte della moglie Margarethe in quanto non sembrano scrit-
te per il pubblico, ma frutto di una sofferta esperienza interiore: cfr. BW I, 390; tr. it.
cit., p. 359.
 LORENZO LATTANZI

con i suoi facili entusiasmi, guidando entrambi a confrontarsi con la


loro umana debolezza76.

8. Genius e Genie

Il sentimento dell’ignoranza soffoca l’orgoglio della ragione, creando


un vuoto intellettuale che viene riempito dalla voce del daimon. È pos-
sibile a questo punto determinare la relazione che esiste tra il Genie del
filosofo Socrate e il Genius al quale egli si affida: se il Genius ispira
Socrate in quanto Weise, prefigurazione del figlio del falegname, il
Genie anima lo “scultore in Socrate”, il maestro pagano, che non viene
annullato dal suo essere typus Christi. È il Genie inteso come forza crea-
tiva “plastica” che consente allo scultore Socrate di togliere la parte di
legno che non serve, nell’espressione di Lutero: questa azione “negati-
va” spiegherebbe l’assenza di caratteri connessi alla creatività geniale
nell’idea che ne aveva Young, o in quella che ne avrebbero avuto i
poeti e narratori dello Sturm und Drang, la ricerca di originalità, l’im-
pulso alla affermazione individualistica, una violenta contrapposizio-
ne a tutto ciò che potrebbe limitare l’espansione della forza vitale,
compresi i propri limiti e timori. Il Genie di Socrate agisce in una con-
dizione pacificata, dove ogni residuo di lotta con se stessi e con il
mondo pare superato: grazie alla serena accettazione della propria
debolezza, favorita dalla condizione di lange Weile di cui Hamann si
professa cultore nel sottotitolo del saggio, il Genie compie la propria
azione creativa, come il luterano Bildmacher. Il suo obiettivo è dar vita
a uno spazio vuoto, “levare” fino a raggiungere una assenza di materia
(perché su quella materia crescono errore e pregiudizio). È allora che si
inserisce il Genius-daimon. La relazione tra le due forze, quella umana
(e pagana) del Genie e quella divina (cristiana, in prospettiva tipologi-
ca) del Genius, può essere riassunta in questi termini: 1) il Genie plasti-
co dello “scultore in Socrate” toglie errori e pregiudizi; 2) in questo

76 Nella prospettiva del Genie religioso, B. Böhm, Sokrates im achtzehnten Jahrhundert,

cit., p. 270 sottolinea l’importanza di questo passaggio per la costituzione di una geniale
Schöpferkraft che trascende l’intellettualismo, ma anche l’esaltazione estetica. Non solo
esiste una peculiare creatività religiosa, ma su questo fondamento Hamann offre un
sostegno metafisico alla ästhetische Genialität. A prescindere da alcune discutibili conse-
guenze che Böhm pretende di ricavarne (in particolare, la concezione dell’arte come
Gottesdienst, riduttiva rispetto alla teoria estetica di Hamann), questa conclusione è con-
divisibile.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA 

modo “favorisce” l’ammissione di ignoranza; 3) questa condizione di


vuoto intellettuale, nel momento in cui si fa Empfindung, viene senti-
ta, diventa disponibilità a credere, scelta di affidarsi; 4) questo glauben
che si eleva alla certezza del Glaube è rappresentato dalla voce del dai-
mon, del Genius che Socrate ama e rispetta come dio e che 5) il cristia-
no riconosce come typus Spiritus Sancti.
Il percorso può essere interpretato anche in forma circolare: il
genio di Socrate esercita la propria opera plastica in quanto ha accet-
tato la condizione di ignoranza e debolezza dell’uomo, e questa con-
quista interiore è frutto della rivelazione del Genius: citando Böhm, si
potrebbe sostenere che il Genie “plastico” di Socrate agisce solo in
quanto è “religioso”, religiosamente orientato. Ma, per evitare di ren-
dere Socrate “insipido”, di privarlo del suo particolare sapore (con le
parole di Hamann stesso), insisterei sul fatto che il Genie socratico pre-
cede la rivelazione del Genius, e la prepara: senza una capacità umana
di svuotarsi, disponendosi a essere riempiti da una forza più potente,
capacità che Hamann definisce in termini di genialità, la voce del dai-
mon resterebbe inascoltata, coperta dalle chiacchiere presuntuose del
sapere mondano. Socrate rappresenta il modello dell’agire umano
geniale in virtù del suo Genie: rispetto a questa forza “plastica” è attivo
(sebbene l’azione del suo genio sia sostanzialmente privativa), mentre
rispetto al Genius accetta saggiamente la condizione di passività, dispo-
ne il proprio intelletto all’accoglimento dello spirito divino.
Il Genie di Socrate non viene definito sul modello del genio dei
sommi poeti: Hamann nega una fecondità poetica nella personalità
storica del filosofo, e in prospettiva ideale lascia intendere, con l’e-
sempio di Klopstock, che l’entusiasmo del poeta può condurre, non
meno della presunzione del filosofo, a sopravvalutare una verità mon-
dana, pretendendo di colmare quel vuoto spirituale che solo la fede
può riempire. L’ispirazione meramente umana del poeta finirebbe per
ostacolare l’illuminazione divina, mentre il Genie di Socrate, una volta
realizzata la sua opera, si tira indietro per lasciare posto al Genius. Il
Genie socratico rappresenta un modello di esperienza e di vita valido
per ogni individuo geniale, compreso l’artista: l’esistenza stessa di
Socrate mostra tutto ciò che lo spirito umano può e deve compiere, e,
ancora più importante, indica il limite di questa azione. Si può con-
cordare con Unger sul fatto che la nozione di Genie sia centrale nel-
l’impianto delle Sokratische Denkwürdigkeiten, ma il valore di questo
modello non può essere ristretto all’ambito artistico. Solo negli anni
seguenti, elaborando in termini più articolati la sua teoria estetica,
 LORENZO LATTANZI

Hamann enfatizzerà la figura dell’artista come depositario di una forza


geniale che corrisponde nell’uomo alla potenza creatrice di Dio, di un
genio la cui nascita è di solito accompagnata da una “strage degli inno-
centi”, come scrive alla fine della Aesthetica in nuce, attribuendo alla
genialità dell’artista una carica aggressiva assente nell’operetta socrati-
ca del 175977.
Già in Wolken, rispondendo al duro attacco sferrato da Christian
Ziegra nelle Hamburgische Nachrichten aus dem Reiche der Gelehrsamkeit78,
il genio di Socrate mostra una più stretta parentela con quello di
Shakespeare nel costante richiamo all’estro malinconico di Amleto79.
Il “prologo” di questo saggio in forma di commedia aristofanesca si
apre con una citazione da Hamlet, i versi The Play’s the thing, / Wherein
I’ll catch the Conscience of the King, che concludono il II atto, alla fine del
monologo che Amleto pronuncia dopo aver assistito alla recita degli
attori: Hamann, come l’astuto principe Amleto, tenderà una trappola
alla malvagia stupidità dei suoi nemici, catturandoli nelle reti della sua
sferzante ironia80. Ma è soprattutto nel terzo “atto” delle Nuvole che
Amleto, con la sua verwirrte Denkungsart81, diventa una figura chiave
per comprendere la personalità paradossale di Socrate, e quella di
Hamann stesso, che contrattacca la violenza del suo accusatore: Ziegra
gli aveva dato del pazzo, auspicando che venisse rinchiuso in manico-
mio prima che potesse fare altri danni, Hamann lascia intendere che in
una maniera simile i sofisti ateniesi avevano fatto incarcerare Socrate,
e risponde provocatoriamente fornendo all’avversario nuovi motivi di
sospetto, aggravanti alle accuse che gli erano state mosse, attribuendo-

77 Cfr. W II, 214; tr. it. in J.G. Hamann, Scritti e frammenti di estetica, cit., p. 151. Nella

teoria estetica di Hamann la violenza del genio si esprime soprattutto in immagini di


aggressiva potenza sessuale, connesse all’idea della necessaria “violazione” delle regole,
di uno “stupro” creativo. Sulla questione si veda I. Berlin, The Magus of the Nord, cit., pp.
65-66.
78 Il primo “atto” delle Nuvole è costituito proprio dalla recensione di Ch. Ziegra,

integrata da alcune ironiche note a piè di pagina: cfr. W II, 85-90; tr. it. in A. Pupi, Johann
Georg Hamann, II In domo patris, cit., pp. 74-76.
79 Sulla presenza di Shakespeare, e in particolare sulla figura di Amleto in Wolken,

richiama l’attenzione R. Unger, Hamann und die Aufklärung, cit., I, pp. 315-316
80 Cito il passo per intero con la traduzione italiana: “I’ll have grounds/More relative

than this. The play’s the thing/ Wherein I’ll catch the conscience of the king”: “Mi occor-
re un fondamento concreto, uno spettacolo; e al sovrano ghermirò a volo la coscienza”:
Teatro completo di William Shakespeare, a cura di G. Melchiori, vol. III, Mondadori, Milano
1997, pp. 152-153.
81 W II, 99.
SOCRATE, SHAKESPEARE E LA VERGINE MARIA 

si una innaturale inclinazione al paradosso (unnatürliche Neigung zu


Widersprüche), e una serena fiducia nelle segrete risorse di ipocondria e
melanconia. Per decidere la questione, non resta che esaminare le con-
troversie di confine tra genio e follia (die Gränzstreitigkeiten des Genies
und der Tollheit). Hamann si associa all’osservazione di Polonio a pro-
posito del “pazzo” Amleto, suggerendo che c’è talvolta nella follia più
“metodo” che in una mente sana82, e attribuisce questo carattere amle-
tico a Socrate, e poco più sotto a Paolo, quando decide di andare a pre-
dicare il vangelo nella idolatra Atene. Sentendo se stesso (in quanto ha
sentito Dio, il suo richiamo), l’individuo geniale possiede una intima
e sicura consapevolezza delle proprie scelte, soprattutto quando
appaiono assurde o folli nella logica del mondo, in base ai criteri della
“sana ragione”. È questo Genie, e non più un Genius famigliare come
nelle Sokratische Denkwürdigkeiten, a identificarsi ora con la voce del dai-
mon, ma anche con la divina mania, il delirio di poeti, visionari e pro-
feti, come Hamann suggerisce citando un passo di Giovanni (X, 20-
21)83, e proseguendo con esempi tratti dal mito greco, dalla storia
biblica e dalla tradizione filosofica, dove l’apparente follia dell’agire
umano si rivela opera del genio.

82 Cfr. W II, 106. La citazione è dall’atto II, scena II di Hamlet: “Though this be

madness, yet there is method in’t... – a happiness that often/ madness hits on, which rea-
son and sanity could not so prosperously be delivered of”: “Pazzia, non c’è che dire, ma
non senza un metodo… È una felice vena dei pazzi, che la ragione e la salute non pos-
seggono in eguale misura”: Teatro completo di William Shakespeare, cit. III, pp. 126-127.
83 “Das gröste Schisma hierin ist unter den Juden gewesen über den Vortrag eines

Propheten aus ihren Brüdern. Einige sagten: DAIMONION ekei kai MAINETAI und
sahen die Manie gleichfalls für die Würkung eines Genies an, ja wunderten sich gar, daß
es Menschen von gesunden Bauerverstande möglich wäre ihm zuzuhören”: W II, 104.
Enrico Guidoni

Il dio caprino. Luoghi, persone e concetti nel nominalismo


individuale di Michelangelo *

L’universo nominalistico di cui si circonda il genio di Michelangelo e


che trae alimento dal suo fondamentale interesse per la lingua, la let-
teratura e la poesia, può essere oggi, sia pure provvisoriamente1,
descritto nelle sue linee principali in rapporto con le tendenze comu-
ni ad altri artisti del Rinascimento. Tenteremo quindi una prima clas-
sificazione delle parole (indicanti luoghi, cose, persone) che egli ha
potuto considerare come manifestazioni naturali (o storiche o divine)
concorrenti a definire il proprio inserimento profondo in tutti gli
aspetti e i gradi dell’esistenza, quasi il segno onnipresente del proprio
unico destino. Una prima parte del nostro contributo riguarda il mito
della propria origine; tratteremo poi delle entità storiche o allegoriche
dalle quali si è sentito di volta in volta accompagnato e protetto, per
giungere infine all’uso della propria sigla (le iniziali del nome e del
cognome) finalizzato alla migliore realizzazione del proprio predomi-
nio nel campo delle arti. Trattandosi di un argomento estremamente
ampio, non potremo che accennare alle molte diramazioni che lo
caratterizzano: come nelle allusioni a se stesso, anche in quelle ad altre
persone Michelangelo ha adottato criteri nominalistici e tutta una stru-
mentazione di sigle, non differenziandosi, se non per una maggiore

* L’autore ringrazia Monica Ferrando, il comune di Capranica (Viterbo) e la casa Buonarroti di


Firenze.
1 E. Guidoni, Sigle del giovane Michelangelo nelle opere di Domenico Ghirlandaio e

Francesco Gramacci, Vetralla 1999; Id., M come Michelangelo, Bo come Buonarroti, in Id.,
Ricerche su Giorgione e sulla pittura del rinascimento, II, Roma 2000, pp. 125-160; Il
Ganimede di Michelangelo : esaltazione e confessione di una colpa, ivi, pp. 161-164; Id., Il
“Redentore Benedicente” di Orte: una tavola firmata e datata (1491) da Michelangelo, “Lazio
ieri e oggi” XXXVI, 12, 2000; Id., Fanciullezza di Michelangelo, Roma 2000; Id.,
Michelangelo: La Vita Contemplativa (Vittoria Colonna) e la Vita Attiva (Faustina Mancini)
nel monumento a Giulio II in S. Pietro in Vincoli, in “Strenna dei Romanisti”, LXIII, 2002,
pp. 321-337.
 ENRICO GUIDONI

semplicità, rispetto ai contemporanei che più sono stati interessati a


sviluppare questa tecnica, come Leonardo e Giorgione2. A sua volta
Raffaello3 molto deve a Michelangelo anche in questo campo; mentre
il michelangiolismo si esprime e si riconosce anche per la reiterazione
degli stessi modi del maestro, gradualmente diventati quasi con un
dato di stile, una (manieristica) moda4 .
Luoghi, oggetti, persone le cui iniziali coincidono con quelle del-
l’artista – Mi e Bo – possono essere stati potenzialmente da lui prescelti
rispetto ad altri sia perché, come sigle precostituite, sono capaci di sug-
gerire l’autore delle sue opere per semplice accostamento mnemonico;
ma possono anche essere individuati come entità nominali favorevoli
al buon esito di rapporti spesso non garantiti da altri indizi od altri
auspici. In altri termini – lo vedremo meglio trattando i singoli casi –
Michelangelo sembra affidarsi preliminarmente al nome piuttosto che
ad altre apparenti qualità nelle occasioni e nelle situazioni nuove,
quasi per ridurre scaramanticamente i rischi di insuccesso oltre che per
disseminare indelebili tracce del proprio operato.

Il nome e il luogo di nascita: Caprese

I “Santi protettori” di Michelangelo sono, innanzi tutto, Michele e


ogni tipo di entità angelica5, componenti entrambe essenziali del

2 L’individuazione delle sigle è iniziata con Giorgione, le cui iniziali Ci, si riferisco-

no al cognome Cigna cui si risale proprio attraverso questo nuovo strumento di indagi-
ne (per una visione complessiva vedi E. Guidoni, Giorgione, Opere e significati, Roma
1999). Tralasciando i molti artisti che hanno a loro volta segnalato la propria opera con
le iniziali di oggetti rappresentati, è evidente l’importanza fondamentale di Leonardo da
Vinci, esperto in rebus, maestro anche in questo di chi è venuto dopo di lui. Lo studio
sulle sigle di Leonardo è in corso di elaborazione, ma per alcuni risultati illuminanti,
utili anche per l’individuazione di nuove opere da lui ideate, vedi E. Guidoni, Leonardo
da Vinci e le prospettive di città. Le vedute di Roma, Firenze, Napoli, Genova, Milano e Venezia,
Roma 2002.
3 Per Raffaello vedi M come Michelangelo..., cit., e, sempre di chi scrive, L’angioletto di

Cagli: Raffaello collaboratore di Giovanni Santi, in “Studi Giorgioneschi”, V, 2001 (in corso
di pubblicazione).
4 E. Guidoni, M come Michelangelo..., cit., Sigle michelangiolesche nella pittura fiorentina:

prime indagini, pp. 144 e sgg.


5 Oltre ai riferimenti iconografici, è da ricordare per Firenze Orsanmichele, e l’edi-

cola di S. Michele Arcangelo sul ponte a S. Trinita; a Caprese la chiesa di S. Michelo


dove Michelangelo è stato battezzato.
IL DIO CAPRINO 

nome, e in seconda istanza Giovanni Battista (patrono di Firenze) 6 e


S. Francesco, per le stimmate ricevute alla Verna (presso Caprese)7.
Soprattutto nel periodo giovanile queste figure sono ricorrenti insi-
stentemente; ma non mancano altre presenze, come S. Procolo (par-
rocchia fiorentina dove risiedono i Buonarroti)8.
Il mito della nascita nel piccolo castello di Caprese, presso La
Verna, viene alimentato fin dalla fanciullezza in tutte le sue potenzia-
lità: innanzi tutto come riferimento alla capra, intesa come animale
eponimo, come elemento originale comune ai centri dal nome simile
e infine anche come indicatrice di diversi strumenti e oggetti utili a
diverse arti. Solo ad un livello più profondo emergono l’importantis-
sima localizzazione territoriale di Caprese, tra Arno e Tevere e in terri-
torio aretino, nonché il legame storico con la divina personalità di S.
Francesco. Simbolo di luogo impervio, di vita frugale e anche di miti-
che radici pagane9, la capra interviene etimologicamente in molte loca-
lità che Michelangelo può avere prediletto per questo motivo: oltre
Caprese, va ricordata Capraia sull’Arno di fronte a Montelupo, Baccio
e Raffaello da Montelupo sono artisti legati al maestro10, l’isola di
Capraia (citata da Dante di cui Michelangelo è stato ammiratore e
commentatore)11, Capranica nell’alto Lazio sulla via Francigena, dove

6 Tra le opere giovanili del maestro spiccano le immagini del Santo: vedi in particola-

re la statua in S. Giovanni dei Fiorentini a Roma, il ciclo delle storie del Battista nella
Cappella Tornabuoni in S. Maria Novella a Firenze (dove è determinante la sua collabo-
razione con il Ghirlandaio; e le Storie di S. Giovanni Battista (disperse in diversi musei)
per la cui attribuzione vedi Guidoni, M come Michelangelo, Bo come Buonarroti, cit.
7 Vedi la scena rappresentata negli affreschi di S. Trinita, dove numerose sono le trac-

ce di una partecipazione attiva di Michelangelo fanciullo di circa 8-10 anni (Guidoni,


Fanciullezza..., cit.).
8 È opinione comune che il S. Procolo eseguito per L’Arca di S. Domenico a

Bologna (1495) sia un autoritratto ideale del giovane artista.


9 Per una visione tradizionale di questo motivo pastorale vedi A. Chastel, Fables,

Formes, Fignes, Paris 1978 ( tr. it. Favole, Forme Figure, Torino 1988: L’ardita capra, pp. 185-
90). Il tema della capra in rapporto con il Buonarroti è stato da noi trattato in una confe-
renza nella chiesa di S. Francesco a Capranica (Vt.) nel 2001, anche in relazione con il rilie-
vo di età romana (ma restaurato in età successiva, forse dallo stesso artista) esistente nel
cortile di Casa Buonarroti. Famosa è la poesia michelangiolesca “Nuovo piacere e di
magiore stima” che tratta della vita bucolica, e sulla quale non possiamo qui soffermarci.
10 È interessante la dialettica tra la capra e il lupo (i due centri si trovano sulle due

opposte rive del fiume), cioè tra il bene e il male (con possibili riferimenti al Lupo con-
vertito da S. Francesco).
11 Questo interesse è documentato fin dal 1495, quando l’artista a Bologna intrat-

tiene con letture dantesche e petrarchesche il suo mecenate Francesco Aldrovandi.


 ENRICO GUIDONI

il maestro ha lasciato diverse opere e che è stata scelta anche per i ricor-
di dell’aretino Petrarca12, la vicina Caprarola dove l’impianto urbani-
stico e l’architettura del palazzo Farnese risentono della sua ravvicina-
ta influenza creativa13, e infine Capranica Prenestina dove la chiesa è
frutto di uno sviluppo architettonico di matrice bramantesca ma che
trova più naturale collocazione nella sperimentazione michelangiole-
sca del secondo decennio del ’50014.
Tra gli strumenti di lavoro, basta citarne due: la capra, semplice
macchina sollevatrice ampiamente usata in architettura, che delinea un
solido geometrico, il tetraedro, di evidente significato allegorico lega-
to alla divina triangolarità e all’ascendenza15; la capretta, scalpello
sagomato a V usato nell’intaglio del legno, la cui traccia raddoppiata
non è altro che la M, la più diffusa tra le sigle michelangiolesche16.
Nell’arte di Michelangelo i riferimenti caprini sono frequentemente
ricorrenti sia tramite satiri e fauni, sia come protomi di capri, teschi sacri-
ficali ampiamente presenti nelle decorazioni pittoriche17 e scultoree18.

12 È questo uno dei motivi della scelta di Capranica, lungo la via Francigena, come

surrogato alla nativa Caprese: il Petrarca descrive il Castello in due lettere indirizzate al
Cardinale Giovanni Colonna, lontano antenato di Vittoria Colonna. Un altro impor-
tante riferimento è il Monte Caprino (il Campidoglio) completamente trasformato dal
progetto michelangiolesco.
13 Delle influenze michelangiolesche sull’architettura del Palazzo Farnese, eseguito

dal Vignola, ha parlato Guglielmo Villa nel convegno, tenuto nel 2001 a Capranica,
dedicato a “Michelangelo e l’arte nella Tuscia”.
14 Sulla chiesa, e ancor più sul ninfeo, esiste una ricca letteratura che tuttavia non

ha colto, fino ad oggi, i nessi con Michelangelo. Evidenti anche i rapporti con il S. Paolo
e il Ninfeo della vicina Genazzano.
15 Si chiamano “capra” anche un tipo semplice di cavaletti con traversa, mentre

come derivazioni, sempre nel campo dell’architettura, si possono citare la capriata e il


capreolo (voluta di capitello).
16 Per questo tipo di segni lasciati dall’artista sulle sculture vedi E. Guidoni, Un cro-

cefisso ligneo di Michelangelo, Roma 2000.


17 Nella volta della Sistina il teschio del capro è il motivo decorativo più ricorrente.
18 Nella scultura sono fondamentali il Bacco (1496-1497) con il faunetto copripiede,

le figure di S. Giovanni Battista coperto di pelle di capra dove sono ben evidenti, gli zoc-
coli (statue marmoree in S. Giovanni dei Fiorentini a Roma, nel museo dell’Escorial, e
nel Museo del Bargello).
IL DIO CAPRINO 

Le città e gli oggetti

Dopo i luoghi delle capre, sono le città il cui nome inizia per Bo e Mi
le più indiziate tra queste Bologna e Bolsena, ma anche Mirandola e
Milano19. Tra gli animali e le cose che iniziano per Bo oppure Bu pos-
siamo citare la botte, la borraccia, il bottone, la borchia, la borsa, la
borra, la bugna, la bozza, il bosco e ancora il bue (o “Bo”, identificati-
vo usato molto spesso), il buco, il burchio (barchetta)20. Vanno bene
tutte le parole che iniziano con Bon- o Buon-; a questo proposito va
notato il gioco di parole e di immagini tra Buona-rota (come da molte
fonti cinquecentesche è citato il cognome di Michelangelo) e Buona-
rotta (riferita alla navicella a vela giustamente diretta)21.
Ma è nel campo delle persone amiche o con le quali è entrato uffi-
cialmente in contatto, siano essi committenti, artisti, allievi o semplici
conoscenti, che la percentuali di nomi che iniziano con Bo e Bu sale
in modo realmente significativo, nell’arco dell’intera esistenza del
maestro. Qui Michelangelo ha sicuramente forzato il caso, cercando
un accostamento con nomi che potessero ricordarlo anche e soprat-
tutto nell’eventualità, molto frequente, di una sua partecipazione non
palese ad opere commissionate ad altri artisti. Questa forte personaliz-
zazione nominalistica che coinvolge il cognome ha disseminato la bio-
grafia michelangiolesca di personaggi a volte inspiegabilmente dimessi
o insignificanti e di aiuti non all’altezza, ma anche di grandi persona-
lità che lo hanno aiutato senza avere con l’artista apparenti legami.
C’è da chiedersi se questa assonanza tra cognomi stesse a cuore sol-
tanto a Michelangelo, oppure se si trattasse di una pure generica attra-
zione reciproca, dovuta almeno in parte ad un orientamento epocale
propenso a dar credito e fondamento reale (oggi si direbbe: scientifico)
ai nominalismi. Una componente di questo tipo certamente dovette esi-
stere, in quanto l’artista, uomo della sua età e attentissimo ai problemi

19 Per Bolsena e la facciata di S. Cristina vedi E. Guidoni, Gli esordi di Michelangelo

architetto (1490-1500), Vetralla 2001; riproposto in “Civiltà del Rinascimento”, 19, 2002,
pp. 62-68. A queste città si può aggiungere, per lo scambio fonetico tra b e v, anche
Volterra (dove numerose sono le tracce del maestro, a partire dalla splendida pala com-
missionata a Domenico Ghirlandaio e conservata presso il Museo Civico (Guidoni,
Sigle ..., cit.).
20 Vedi i riferimenti sparsi nei lavori gia citati E. Guidoni, Michelangelo. Nel segno

dell’Arca: le Storie della Genesi nella Cappella Sistina, Roma 2001.


21 Vedi Id., Venetie MD. L’immagine di Venezia incisa da Jacopo de’ Barbani e i suoi auto-

ri, “Studi Giorgioneschi”, IV, 2000 (2001), p. 8.


 ENRICO GUIDONI

di immagine e di prestigio, può avere esercitato un forte interesse in que-


sto senso sui contemporanei; se poi questa possibilità si fosse risaputa, è
possibile che avesse esercitato un notevole effetto su persone che ambi-
vano ad essere accomunate al massimo genio creativo vivente.
Nella casistica più comune le varianti che contano sono anche qui
le lettere iniziali Bo-, Bu- e anche Po- e Vo- (quest’ultime per assonan-
za fonetica)22. Un primo elenco di artisti può comprendere gli sculto-
ri antichi Boetus e Policleto; i fiorentini Pollaiolo, Botticelli e
Botticini, l’amico e allievo affezionato Bugiardini, i Buglioni, l’allievo
e quasi geniale alter ego Pontormo, Polidoro da Caravaggio, l’allievo
scultore Boscoli, Daniele da Volterra, Bonasone, e i pittori “nordici”
Pordenone, Boccaccino e Bonvicino (il Moretto da Brescia)23.
Tra la propensione di Michelangelo a fornire i propri disegni che
diversi artisti avrebbero potuto tradurre in opere proprie conservando
l’impronta inconfondibile del maestro, e l’opposta tendenza degli altri
a “prendere” qualcosa di sostanzialmente utile alle proprie possibilità
dall’artista dominatore del suo tempo, non è sempre possibile traccia-
re una netta linea di separazione. È ancora più intrigante il caso dei
committenti che nella maggior parte dei casi, proponendosi a
Michelangelo che non ha tempo di seguire personalmente l’opera
richiesta, si accontentano poi dell’autografia di un altro artista purché
sotto il diretto controllo e su disegno del maestro. Tra questi dirotta-
menti, resi necessari dai molteplici impegni e favoriti dall’ansia di
diffondere il proprio stile tra colleghi e allievi, se ne possono citare
alcuni veramente emblematici: il viterbese Giovanni Botonti che si
accontenta di opere di Sebastiano del Piombo disegnate da
Michelangelo24, Giovanni Borgherini che ugualmente accetta per la
propria cappella affreschi di Sebastiano del Piombo su disegno di
Michelangelo25. In questi, e in altri simili casi, è come se una compo-
nente nominalistica “dovesse” essere presente in ogni operazione arti-
stica per garantire il buon fine; non è a rigore indispensabile, ma

22 L’identificazione con Policleto, ripresa sicuramente da Andrea Bregna che così si

faceva chiamare, ha un particolare significato anche sul piano della ripresa sulla scia
dell’Alberti degli studi metrologici e proporzionali dell’antichità.
23 Non è qui possibile ovviamente elencare per ogni artista citato i motivi di contatto con

Michelangelo; del resto l’elenco è enormemente più esteso (basta pensare al Buontalenti, a
Paris Bordon ecc.) e l’argomento è meritevole di un sistematico approfondimento.
24 Si tratta come è noto della Pietà e della Flagellazione conservate nel Museo Civico

di Viterbo.
25 Il frutto della collaborazione tra i due artisti sono gli affreschi in S. Pietro in Montorio.
IL DIO CAPRINO 

comunque, “giova” (come ci suggeriscono le iniziali del più importan-


te tra i michelangiolisti, Gio-rgio Va-sari)26.
Passando ora a considerare persone e personaggi in generale, trovia-
mo tra i più interessanti i letterati Pomponio Leto, Poliziano (insieme a
Pico della Mirandola cui già si è accennato), Burcardo, Bocchi, Borghini;
e persino un Pomponio Gaurico e un Carlo Borromeo27. I legami tra l’ar-
tista e altri uomini illustri della sua epoca sono di diversa natura e spesso
soltanto ipotizzabili, ma resta il fatto che solo grazie al nesso nominali-
stico si riesce a individuare un contatto che, con ulteriori indagini, si
dimostra effettivo e significante, e che talvolta si connette ulteriormente
ai luoghi (Bologna – Bocchi; Milano – Borromeo ecc.). Per questa via gra-
dualmente emergono rapporti profondi ed esclusivi con territori, città e
persone: rapporti ricorrenti in diversi periodi della biografia michelan-
giolesca e che servono a fissare in qualche modo anche alcuni aspetti della
sua personalità. La capacità di dominio e quasi di plagio esercitata sui col-
laboratori e anche su molti committenti sembra convalidata da una rete
impalpabile di riferimenti che Michelangelo vuole a tutti costi considera-
re significativi, fonte di ulteriori certezze nel proprio successo e nella pro-
pria infallibilità. Il caso di Bologna è emblematico28; ma di grande inte-
resse è soprattutto l’ambito territoriale aretino in cui si trova Caprese,
preso da Michelangelo, molto seriamente, come serbatoio di personalità
antiche e contemporanee su cui basare la propria fiduciosa operosità.
Innanzitutto Petrarca, fonte d’ispirazione della sua poesia29; e quindi
Giorgio Vasari30 di Arezzo, Leone Leoni31 detto il Cavaliere Aretino32, e

26 Analogamente può intendersi il cognome di Paolo Giovio, connesso – come il nome

Gioviano (Pontorno) – con Giove e quindi automaticamente portatore di buona sorte.


27 Anche questa categoria, come quella degli artisti, è estremamente più estesa; del

Borromeo si può ricordare il vano tentativo di evitare la condanna delle nudità nel
Giudizio michelangiolesco durante le ultime fasi del Concilio di Trento.
28 Non è solo la città che interessa Michelangelo ma anche coloro che dalla città (o

da Boulogne, versione francese) traggono il nome: basta ricordare Giambologna (suo


allievo a Roma in gioventù) e anche Pellegrino Tibaldi (conosciuto come “il Bolognese”).
29 Il petrarchismo nella poesia permea tutta l’età di Michelangelo, ma è ugualmen-

te notevole la quantità di riprese sia sul piano formale che su quello dei temi ricorrenti.
30 È probabile che proprio a Vasari deve riconoscersi il ruolo di organizzatore in que-

sto gruppo, e anche, come vedremo, dei riferimenti geografici che alludono all’area aretina.
31 La collaborazione con Michelangelo, all’epoca del movimento milanese al

Medeghino, sfocia come è noto alla medaglia a lui dedicata, prova realmente unica di
intima amicizia e di incondizionata reciproca fiducia.
32 L’amicizia tra i due, terminata con le divergenze relative al Giudizio, è comunque

documentata da una significativa corrispondenza.


 ENRICO GUIDONI

il celeberrimo Pietro Aretino. Qui amor di patria e nominalismo sem-


brerebbero fondersi ma è ancora quest’ultima componente, al di là di
ogni altra logica, che sembra prendere il sopravvento, e Michelangelo,
pur essendo e dichiarandosi fiorentino, sceglie di fatto di appoggiarsi
piuttosto ad Arezzo dove, dando probabilmente importanza all’influen-
za esercitata dalle componenti locali sul carattere degli individui, gli sem-
brava di poter trovare personalità più congeniali. In questa geografia
michelangiolesca fortemente individualizzata rientra anche come si è
visto il tema del rapporto tra Toscana e Roma, tra Arno e Tevere; anzi è
proprio l’esser nato nella terra partecipe in eguale misura dei benefici dei
due fiumi che ha stimolato l’artista ad accettare e sviluppare una ambi-
valenza assolutamente determinante nelle sue vicende biografiche .

Vita Contemplativa, Vita Attiva (Fa-Ma)

Alcuni sondaggi di approfondimento in settori diversi e in campi nei


quali l’azione incisiva di Michelangelo è più direttamente documenta-
bile hanno portato a risultati di notevole interesse. Le ricerche com-
piute dimostrano come la personalissima applicazione michelangiole-
sca del principio nominalistico esteso ad ogni circostanza e ad in ogni
occasione creativa possa ritenersi, proprio per la sua prevedibilità, un
sicuro nuovo metodo di approccio per la ricostruzione articolata dei
suoi processi creativi. Attraverso il gioco combinatorio di nomi e sigle,
sempre riferiti a se stesso, l’artista diffonde la propria presenza nel
mondo e, in questo senso, il suo nome è come il nome di Dio; ma la
stessa valenza hanno anche circostanze e personaggi toccati solo indi-
rettamente da questo concetto, e che comunque concorrono a confer-
mare la validità dell’efficacia operativa. Due esempi, l’uno riferito ad
opere, l’altro ad identità geografiche, chiariranno in che modo l’artista
riesca a ridurre a sé e a colorare in senso schiettamente biografico ogni
aspetto della realtà dove si trova ad agire.
Lo studio delle due statue della Vita Attiva e della Vita
Contemplativa del monumento a Giulio II in S. Pietro in Vincoli ha
portato a identificare i due personaggi femminili idealmente rappre-
sentati nel marmo33. Punto di partenza per l’indagine è stato, per la
seconda, la sigla composta dalle iniziali (Vi-Co) che è la stessa di
Vittoria Colonna, che infatti vi è ritratta nella fisionomia tutta spiri-

33 E. Guidoni, Michelangelo: La Vita Contemplativa..., cit.


IL DIO CAPRINO 

tuale del movimento e del gesto; qui in una sorta di coincidentia oppo-
sitorum, la donna vivente e la donna allegorica partecipano misteriosa-
mente della stessa realtà resa visibile dall’arte. Non è altrettanto sem-
plice la ricostruzione del percorso che ha condotto alla scelta di un
modello vivente – questa volta materiale e mondano – anche per la
Vita Attiva. Gli attributi della statua (face, corona di alloro) suggeri-
scono che si tratti, in realtà, della Fama, che di una vita positivamente
attiva può essere la conseguenza attesa e sperata tra i mortali.
Scomponendo la parola in sigle iniziali (Fa-Ma) si perviene a identifi-
care una donna assolutamente imprevedibile, ma assai famosa all’epo-
ca della creazione della statua e alla quale Michelangelo ha dedicato
due brevi componimenti poetici: Fa-ustina Ma-ncini .
La non perfetta simmetria tra le due soluzioni nominalistiche esco-
gitate dall’artista fa intravedere la faticosa e perfezionistica tensione
verso una soluzione coerente che, per non essere ulteriormente suscet-
tibile di lavorazione concettuale, si presenta come definitiva. Questo
apparentemente tortuoso avvicinarsi alla verità (che in questo caso
appare accuratamente nascosta) si presenta tuttavia come una scelta
assoluta e oggettiva, che può aver addirittura influenzato la determi-
nazione improvvisa, tutta michelangiolesca, di illustrare le virtù di
Giulio II con le due statue femminili. E infatti, a sostegno ulteriore
delle identità di Faustina Mancini come Vita Attiva (cioè come Fa-Ma)
si aggiungono altre circostanze, tra le quali ci interessa segnalare quel-
la, prioritaria, del cognome del marito condottiero appartenente alla
famiglia, per definizione destinata all’attivismo, degli Att-av-anti.
Quest’ultimo elemento, considerata l’antica conoscenza tra
Michelangelo e Attavante degli Attavanti, famoso miniatore che aveva
fatto parte della commissione per la sistemazione del David nel 1503-
04, può essere ragionevolmente determinante come prima motivazio-
ne della scelta definitiva del tema e del personaggio34. È comunque da
sottolineare, come nelle due statue che affiancano simmetricamente il
Mosè, interpretandone in qualche modo la duplice natura, si realizzi
compiutamente quella identificazione nominalistica con personaggi
della vita reale che l’artista ritiene indispensabili sia per conferire una
più intensa significazione all’opera d’arte sia per riproporre sempre e
comunque se stesso, come creatore, al centro di ogni scelta e di ogni
attenzione. Ciò avvalora notevolmente, tra l’altro, la natura di autori-

34 Ibid., p. 332.
 ENRICO GUIDONI

tratto ideale del Mosè, in bilico tra riflessione spirituale e dinamismo


fisico, tra devota obbedienza, autorità divina e trasgressione improvvi-
sa: le due donne ne arricchiscono e ne chiarificano l’intima comples-
sità e la composita varietà delle vedute35.

Arno e Tevere (Ar-Te)

Per l’artista che più di ogni altro e con programmata sistematicità si è


dedicato per tutta la vita al perfezionamento dell’arte (nelle successive
tre articolazioni della scultura, della pittura dell’architettura), al suo
strumento unificante (disegno), e al suo corrispettivo letterario (poe-
sia), il proprio intimo legame con l’Arte non può che essere ricercato
– e confermato – ad accostamenti nominalistici capaci di confermare
in ogni circostanza il destino unico di un artista unico. Tralasciando in
questa sede di esaminare le iniziali delle diverse arti (basterà comun-
que ricordare come l’aggettivo “divino” di cui Michelangelo si fregia
ha le stesse iniziali della parola di-segno, che infatti assume anche la
funzione di richiamare alla mente l’artista attraverso la sua più univer-
sale abilità)36, dedichiamoci invece a ricostruire per sommi capi l’ori-
gine di una specifica tradizione iconografica che, come si potrà dimo-
strare, è lo stesso artista ad aver individuato e diffuso. Nel corso del
’500 si afferma, nella Firenze medicea e nella Roma pontificia, l’uso di
rappresentare artisticamente la propria potenza storica e culturale attra-
verso la rappresentazione all’antica dei fiumi che bagnano le due capi-
tali, l’Arno e il Tevere. Questa consuetudine, rapidamente fatta propria
da altre città e applicata anche ai mari, ai laghi, e ai corsi d’acqua
secondari, si esplicita nella raffigurazione di vecchi in atto di versare
acqua da una grande brocca, ciascuno con attributi più o meno speci-
fici e riconoscibili. Nella grande produzione di immagini di età manie-
rista sono stati formidabili divulgatori del tema pittori come Giulio
Romano37 e Giorgio Vasari; ma è indubbiamente a quest’ultimo che si
deve una vera e propria moltiplicazione esponenziale dei soggetti e dei

35
E. Guidoni, Il Mosè di Michelangelo (1970), 2a ed. Roma-Bari 1982.
36
Anche per il termine divino applicato a Michelangelo si rinvia alle numerose
osservazioni contenute nelle opere citate. Da notare che prima di lui erano stati in diver-
se occasioni “artisti divini” Leonardo, Perugino e Filippino Lippi.
37 In Palazzo Te a Mantova, vedi le figure di divinità acquatiche sulla sinistra della

scena del Convivio, nelle Favole di Psiche (1527-35).


IL DIO CAPRINO 

significati ad essi attribuiti in relazione con le circostanze cui ciascuna


invenzione doveva attenersi38. Lo stretto legame di Vasari con
Michelangelo, e la oggettiva priorità, su ogni altra diversa o più com-
plessa composizione, del simmetrico confronto tra Arno (Firenze) e il
Tevere (Roma), autorizzano a ricercare le origini del tema nella limpi-
da creatività michelangiolesca.
Può farsi risalire alla collocazione, in Campidoglio, delle statue
antiche del Tevere e del Nilo durante il pontificato di Leone X, l’origi-
ne di una moda che vede in primo luogo competere Firenze e Roma
come capitali dell’arte e che non casualmente si fissa negli anni in cui
ascendono al soglio papale due membri della famiglia Medici (1513-
1534)39. Di questa competizione, destinata in qualche modo a protrar-
si nei secoli, è personaggio centrale proprio Michelangelo che ha ope-
rato in gioventù a Firenze, poi tra Firenze e Roma e infine costante-
mente a Roma. Il sommo artista è stato colui che ha saputo conciliare
nella propria attività le contrapposte caratteristiche della modernità
(Firenze) e dell’antichità (Roma), operando una di quelle irripetibili
sintesi degli opposti che lo contraddistinguono. È solo in questa chia-
ve che ha senso il binomio Firenze-Roma, in quanto i fiumi che la rap-
presentano compongono in sigla semplicemente, e nell’ordine, la
parola Ar-Te. L’Arte come sintesi tra Arno e Tevere può costituire un
programma di vita ma anche di propaganda, e può essere fatto proprio
interamente soltanto da chi partecipa di entrambe le realtà geografiche
e culturali. Il territorio aretino comprende i corsi montani di entram-
bi i fiumi, e quindi le stesse scaturigini di quelle linfe vitali che,
bagnando le due città, possono averne determinato le vocazioni. È evi-
dente che Vasari, in quanto aretino, può aver mediato da una posizio-
ne tra “Arno e Tevere” che accomuna tanti illustri concittadini; ma fra
tutti emerge il caso di Michelangelo nato a Caprese, nei pressi della
Verna già definita da Dante, come luogo sacralizzato da San Francesco,
“infra Tevere e Arno”. Il mito michelangiolesco si alimenta anche di
questa appartenenza ad un luogo di confine che lo porterà, dopo le

38 L’episodio più importante è l’apparato per i Sempiterni, a Venezia, per la rappre-

sentazione dell’Atalanta di Pietro Aretino inventato dal Vasari nel (1542). (Lettera a
Ottaviano de’ Medici, in G. Vasari, Le Vite..., a cura di G. Milanesi, Firenze 1906, vol.
VIII, pp. 283-287).
39 I due Colossi, provenienti probabilmente dal Quirinale, sono posti davanti all’in-

gresso del palazzo dei Conservatori nel 1517; sono ritenuti personificazioni di Nilo e
Tigri (precedentemente sono citati come “Nettuni” oppure “Bacco e Saturno”), fino a
che nel 1527 Andrea Fulvio li identifica nel Tigri e nel Tevere.
 ENRICO GUIDONI

premesse manifestate negli affreschi di Santa Trinita dove il geniale


fanciullo aveva collaborato col Ghirlandaio, a sottolineare il legame tra
Arno e Tevere, quando si dimostra facilmente come, al di fuori delle
sua diretta interessata influenza, sia a Firenze che a Roma si persegui-
va sempre e soltanto l’esaltazione del proprio primato40.

40 Vedi ad esempio la rappresentazione dell’Arno che dona fiori e frutti al Tevere nel-

l’apparato per i funerali di Michelangelo (14 luglio 1564); mentre già nell’apparato per
le nozze di Francesco de’ Medici e Giovanna d’Austria l’Arno abbraccia la Sieve e si esal-
tano solo gli “Etruschi” (Vasari, Le Vite..., cit., vol. VIII, p. 532). Ma già nell’affresco vasa-
riano in Palazzo Vecchio rappresentante l’ingresso trionfale di Leone X a Firenze i due
giganti non sono Arno e Tevere, ma Arno e Appennino (che, peraltro, è padre anche del
Tevere), a sottolineare il primato solo fiorentino (ivi, p. 145).
La codificazione michelangiolesca di Arno e Tevere come simboli di Firenze e Roma
e soprattutto del primato dell’Arte potrebbe datarsi ai Fiumi della Sacrestia Nuova di S.
Lorenzo che, secondo Gandolfo Porrino (testimonianza di Benedetto Varchi, 1549)
avrebbero dovuto essere solo due, Arno e Tevere: S. Androsov, U. Baldini (a cura di),
L’adolescente dell’Ermitage e la Sacrestia Nuova di Michelangelo, Firenze 2000, p. 85 (Scheda
di M. Marongiu sul Dio fluviale di Casa Buonarroti).
Stephen Halliwell

La “forza demonica” della tragedia


e le sue tracce antiche nel pensiero di Nietzsche*

In un aforisma del libro terzo di Morgenröte, intitolato Tragödie und


Musik (Tragedia e musica), Friedrich Nietzsche ritorna ad un tema che è
stato centrale in una fase iniziale del suo pensiero. Lo affronta con le
seguenti parole:

Uomini dall’indole guerriera per costituzione fondamentale, come per


esempio i Greci al tempo di Eschilo, sono difficili da commuovere, e se una
qualche volta la pietà vince sulla loro durezza, li afferra come una vertigi-
ne, e qualcosa di simile ad una “forza demonica” – allora si sentono non
liberi e rimescolati da un brivido religioso. È dopo, che sollevano i loro
dubbi su questo stato; fintantoché sono immersi in esso, godono il rapi-
mento dell’esser fuori di sé e del meraviglioso, mescolato insieme al più
amaro assenzio del dolore: è proprio questa una bevanda da guerriero,
qualcosa di raro, di pericoloso e di dolce-amaro, che difficilmente tocca in
sorte a qualcuno. Ad anime che sentono la pietà in questo modo, si rivol-
ge la tragedia: ad anime dure e guerriere, che non si lasciano vincere facil-
mente, né dalla paura, né dalla pietà; ma a cui giova, di tempo in tempo,
essere addolcite; a che cosa, invece, serve la tragedia per coloro che si apro-
no alle “affezioni simpatetiche” come le vele ai venti? Allorché gli Ateniesi
divennero più molli e più sensibili, all’epoca di Platone – ah, come erano
ancora ben lontani dal beato intenerirsi delle nostre città grandi e piccole!
– già i filosofi si lagnavano che la tragedia fosse divenuta nociva1.

* Significa molto per me dedicare questo saggio alla memoria dell’amico Gianni Carchia.
1 F. Nietzsche, Aurora, a cura di G. Colli, F. Masini, Adelphi, Milano 2001, pp. 125-

126. Aforisma 172, in Friedrich Nietzsche: Kritische Studienausgabe, a cura di G. Colli, M.


Montinari (Monaco 1988) 3: 152-3. (Questa edizione è abbreviata con la sigla KSA. Il
corsivo corrisponde all’enfasi nell’originale; i titoli nietzschiani sono citati la prima volta
in tedesco, poi in italiano). Cfr. il breve commento su Aurora 172, in relazione alla visio-
ne nietzschiana della pietà tragica, nel mio libro The Aesthetics of Mimesis: Ancient Texts
and Modern Problems, Princeton 2002, pp. 230-33; il presente saggio tenta di sviluppare
un ragionamento più dettagliato e sostenuto.
 STEPHEN HALLIWELL

Qui e nel resto dell’aforisma (dove delinea un’analoga distinzione


tra ascolto forte e ascolto debole della musica) Nietzsche sviluppa un
caratteristico raffronto tra la cultura dell’antica Grecia e la decadenza
della propria epoca. I Greci idealizzati che egli ha in mente apparten-
gono, come spesso nel suo pensiero, a un mondo pre-socratico e,
occorre aggiungere, pre-platonico: sono i Greci del periodo tardo-arcai-
co e della prima epoca classica, “il tempo di Eschilo”, rappresentativi
di una cultura che giunse alla sua ultima fioritura, come Nietzsche ha
affermato soltanto quattro aforismi prima in Aurora, nel periodo di
Sofocle, Pericle, Ippocrate, Democrito, Tucidide, e, non ultimi, dei
Sofisti. L’interesse per questi Greci nel presente contesto è costituito
dal fatto che essi presumibilmente rappresentarono il perfetto pubbli-
co della tragedia. Ciò in virtù di un carattere che li rese, paradossal-
mente, difficilmente capaci di commuoversi in occasione del profon-
do abbandono agli intensi, “demonici” impulsi della pietà tragica.
Dissimilmente da coloro che sono facilmente commossi da sentimen-
ti simpatetici, come i più delicati e sensibili Greci del tempo di
Platone, ma molto di più gli uomini del mondo moderno, questi Greci
amanti della guerra resistevano istintivamente alle emozioni, o comun-
que all’emozione “non virile” della pietà2. Essi furono guerrieri dell’a-
nima, si può dire, sia che pensiamo a loro anche come a guerrieri reali
(come Nietzsche tende a fare, per esempio nella sua descrizione dei
Greci che combatterono le Guerre Persiane, all’inizio del capitolo 21
di Die Geburt der Tragödie), sia che non lo facciamo.
Vorrei esplorare qui alcune delle implicazioni delle osservazioni
nietzschiane di Aurora riguardo la pietà e l’esperienza greca della tra-
gedia, seguendo in questo aforisma alcune di quelle che potrei defini-
re le “tracce” antiche e leggendo Nietzsche attraverso e “in opposizio-
ne a” queste tracce. Non ha particolare importanza per la mia argo-
mentazione se, o in che misura, queste tracce abbiano costituito delle
influenze dirette o indirette. Il pensiero di Nietzsche è in generale così
profondamente radicato nelle idee antiche, ed anche così complesso
nella loro rielaborazione e nel loro adattamento, che risulta più impor-
tante per le mie proposte usare i testi greci significativi come orienta-
mento interpretativo e comparativo, piuttosto che tentare di definire il
grado preciso del debito nietzschiano, consapevole o meno, nei loro

2 Che Nietzsche possa considerare la pietà come non virile è indicato per esempio dal

suo riferimento all’indignazione (“Empörung”), precedentemente in Aurora (78), come il


fratello più virile della pietà (“diesen männlicheren Bruder des Mitleidens”), KSA 3: 77.
LA “FORZA DEMONICA” DELLA TRAGEDIA 

confronti. In altri termini, sono qui ugualmente interessato alle tracce


visibili ed a quelle sommerse. L’aforisma di Aurora in questione non
lascia dubbi sul fatto che le fonti antiche sono attive a qualche livello
nella mente di Nietzsche, in più di un punto nel suo percorso di pen-
siero. Per esempio, il riferimento alle critiche filosofiche nei confronti
della tragedia nell’età platonica segnala un’inconfondibile reminiscen-
za del passo del libro X della Repubblica di Platone, per cui Nietzsche
altrove esprime ammirazione; potrebbe anche alludere ad altri scritti
del quarto secolo, nei quali la sensibilità emotiva del pubblico teatrale
ateniese viene censurata. Inoltre, non è inconcepibile che queste stes-
se opere possano ironicamente (dato lo spostamento cronologico)
avere contribuito alla concezione nietzschiana degli uomini dall’ani-
mo duro dell’Atene di Eschilo: nel testo di Platone, in particolare,
incontriamo un parallelo significativo dello schema della normale resi-
stenza alla pietà, intenso abbandono ad essa in teatro, e conseguenti
timori, che Nietzsche attribuisce al pubblico del periodo di Eschilo3. Il
mio proposito qui, in ogni caso, non è semplicemente di identificare
le possibili fonti antiche dietro la superficie del ragionamento nietz-
schiano, ma di invocarle selettivamente per aprire una nuova prospet-
tiva riguardo all’idea suggestiva della “forza demonica” della pietà tra-
gica, tematizzata in Aurora.
Cominciamo con qualcosa di elementare ma nondimeno rivelato-
re. Il riferimento ai Greci del periodo di Eschilo è un indicatore della
convinzione nietzschiana, opinabile ma ben attestata, del contrasto tra
valori eschilei ed euripidei (e in parte socratici) presentati nella dispu-
ta dei poeti nella seconda parte delle Rane di Aristofane. È difficile
infatti non ricordare soprattutto il passo 1013-1027 delle Rane, in cui
Eschilo asserisce che le sue tragedie hanno prodotto ateniesi che hanno
respirato un forte militarismo e sono stati spinti verso valori guerrieri
da opere come Sette contro Tebe, una tragedia “piena di Ares” (1021), e I
persiani. Certamente Nietzsche non ha costruito la sua concezione dei
Greci “del tempo di Eschilo” direttamente su questo o altri passi delle
Rane, ma sappiamo da La nascita della tragedia e altri scritti che le sue
opinioni sull’evoluzione della cultura greca, e non ultima sulla trage-
3 Vedi specialmente Repubblica 10.605c-e, con Menschliches, Allzumenschliches I.212

(KSA 2: 173-4) per l’ammirazione nietzschiana alla critica platonica della tragedia. Più
subliminalmente Nietzsche potrebbe riferirsi alla critica verso il pubblico del teatro tra-
gico in Isocrate 4.168 e Andocide 4.23 (vedi il mio The Aesthetics of Mimesis, pp. 213-4),
dove la sensibilità alla pietà tragica è accoppiata con la crudeltà fuori dal teatro, sebbene
con riferimento al quarto secolo, non all’Atene eschilea.
 STEPHEN HALLIWELL

dia stessa, furono condizionate dalla grande antitesi tra personaggi


eschilei e euripidei, con tutti i loro relativi principi poetici, così come
sono presentati nella commedia di Aristofane4. È particolarmente per-
tinente che abbia potuto individuare una connessione Eschilo-Dioniso
nelle Rane, dove Eschilo in un punto (riga 1259) è chiamato “il maestro
bacchico”. Oltre a questo, sebbene la pietà come tale sia un valore dif-
ficilmente visibile nelle Rane, Nietzsche sicuramente deve qualcosa alla
grande disputa aristofanea tra l’ethos militaristicamente “duro” del
drammaturgo più antico e il coinvolgimento sentimentale, pieno di
pathos, del più giovane: l’unico e solo riferimento alla pietà nella Rane
è l’accusa eschilea contro Euripide, che ha vestito di stracci i suoi re per
attribuire loro un aspetto (superficialmente) pietoso (1063).
Mentre è incontestabile che l’Eschilo delle Rane sia alle spalle del
paradigma della tragedia eschilea in La nascita della tragedia, e allo stes-
so modo è una presenza in ombra dietro il pubblico eschileo di Aurora
172, occorre un ragionamento più complesso per giustificare le note-
voli ma misconosciute suggestioni di una “forza demonica” della pietà
che coglie uomini dall’animo duro, i quali sono normalmente immu-
ni alla pietà. Soltanto dopo il suo riferimento a questa forza, posto da
Nietzsche stesso tra virgolette (“einer ‘dämonischen Gewalt’”), si dice
che quando gli uomini eschilei soccombono per una volta alla pietà o
compassione (Mitleiden) si sentono “von einem religiösen Schauder
erregt”, scossi da un brivido religioso. Perché Nietzsche dovrebbe
descrivere la loro esperienza in termini di qualcosa di così specifico
come un brivido? Senza trascurare il fatto che altrove egli mostra una
predisposizione ad applicare il termine “rabbrividire” a esperienze
quasi religiose e metafisiche, è possibile leggere l’uso che Nietzsche ne
fa qui come un’eco, consapevole o subliminale, di una nozione trova-
ta in una quantità di testi greci a lui noti. Sostengo che il “brivido”
della pietà tragica deve essere compreso in questo passo come elemen-
to di un insieme di tracce antiche. Più di una fonte greca deve aver pro-
babilmente risuonato nella mente di Nietzsche riguardo a questo
punto. Ne menzionerò tre, partendo dalla più tarda, la Poetica di
Aristotele, che rappresenta una codificazione parziale (sebbene indi-
pendente dal punto di vista critico) della dinamica della classica “rispo-
sta di pubblico” al dramma tragico; poi risalendo a L’encomio di Elena

4 La tendenziosa fiducia nietzschiana verso le Rane è esibita nella descrizione di

Euripide in La nascita della tragedia 11: per l’influenza delle Rane in quest’area vedi M. S.
Silk, J.P. Stern, Nietzsche on Tragedy, Cambridge 1981, pp. 36-37, 207.
LA “FORZA DEMONICA” DELLA TRAGEDIA 

di Gorgia, che prefigura alcune idee codificate da Aristotele e al con-


tempo riflette motivi presenti nella tragedia stessa; e infine guardando
al passo dell’Edipo re di Sofocle, in cui troviamo non soltanto, come in
Aristotele e Gorgia, il “brivido” come risposta alla tragedia, ma anche
la connessione tra questa risposta e il concetto greco di un daimon.
Avendo gettato lo sguardo su questi tre testi, interpreteremo meglio,
sebbene sonderemo anche alcuni problemi che sorgono da ciò, la
“forza demonica” della pietà tragica.
La Poetica di Aristotele è il riferimento testuale greco più ovvio –
sebbene forse quello che per la mia proposta porta meno lontano – le
cui tracce possiamo rinvenire nelle osservazioni nietzschiane. La sua
rilevanza deriva dal fatto che è stato a lungo la fonte canonica, sebbe-
ne, come vedremo, non la prima, per l’idea di “pietà e paura” come
componenti emotive centrali di un’appropriata risposta di pubblico alla
tragedia, come indicato nella frase nietzschiana “sei es durch Furcht, sei
es durch Mitleid” (che sia attraverso paura o pietà) nello stesso Aurora
172. Ora, in un punto nel capitolo 14 della Poetica Aristotele denota l’e-
sperienza della paura tragica attraverso il verbo phrittein, “rabbrividire”
(14.1453b5). La sua congiunzione dei due verbi phrittein kai eleein, “rab-
brividire e provare pietà”, dà l’impressione immediata che phrittein qui
si riferisca principalmente alla sensazione di paura, sebbene occorre
tenere conto di un’esperienza composta in cui paura tragica (non ordi-
naria) si sovrappone e converge con la pietà5. La relazione di Nietzsche
con la Poetica è più complessa di quanto spesso notato, come alcune
delle mie osservazioni sul suo atteggiamento nei confronti della catarsi
dimostreranno. Non voglio dire nulla di speciale in questo contesto
riguardo al capitolo 14 della Poetica, ma il riferimento a un “brivido”
tragico deve contare come uno strato nella ricostruzione nietzschiana
della psicologia del pubblico antico.
Un altro strato è costituito, credo, da un’opera che anticipa la for-
mula di “pietà e paura” trovata nella Poetica. In un passo di L’encomio
di Elena del sofista Gorgia, riguardante la capacità del linguaggio o
discorso (logos) di condurre alle “cose più divine”, il logos è definito
capace di manipolare le emozioni degli ascoltatori sia positivamente
che negativamente (e allo stesso modo, tra le altre cose, di “eliminare
la paura”, ma anche di “intensificare la pietà”). Gorgia applica la sua

5 Vedi il mio Aesthetics of Mimesis, pp. 216-18, con le note 29 e 32, come il mio libro

Aristotle’s Poetics, London 1998 (II ed.), pp. 168-201, per un resoconto più completo.
 STEPHEN HALLIWELL

tesi nel descrivere il potere della poesia, una delle forme del logos
supremamente potenti nella cultura greca:

[...] chi l’ascolta [la poesia] è invaso da un brivido di spavento, da una


compassione che strappa le lacrime, da una struggente brama di dolore, e
l’anima patisce, per effetto delle parole, un suo proprio patimento, a sen-
tir fortune e sfortune di fatti e persone straniere6.

Nietzsche deve aver conosciuto bene il testo di Gorgia, soprattutto


considerato il suo precoce interesse per la retorica greca, sebbene io
non conosca nessun riferimento diretto ad esso nei suoi scritti. Gorgia
pensa qui, evidentemente, soprattutto alla tragedia, o in ogni caso alla
poesia “tragica”. Potrebbe infatti star rispecchiando una teoria più pie-
namente autonoma della tragedia, sia che la elabori da solo, sia che si
tratti di un’attitudine condivisa nel tardo quinto secolo – potrebbe aiu-
tare a dare un senso a ciò il fatto che il passo appena citato abbozza un
modello della psicologia del pubblico della tragedia, includendo la
combinazione di pietà e paura, che poi riappare nelle considerazioni
di Platone ed Aristotele. Quale che sia il grado di originalità che attri-
buiamo a Gorgia in quest’area (e le opinioni degli studiosi sul suo valo-
re sono divergenti), il suo Encomio attesta una concezione della trage-
dia che colloca un “brivido” di paura nel cuore dell’esperienza del pub-
blico. Se è giusta la mia ipotesi secondo cui le parole di Gorgia furono
presenti anche solo subliminalmente nella mente di Nietzsche quando
scrisse Aurora 172, è pertinente notare che immediatamente prima del
frammento dell’Encomio appena citato Gorgia caratterizza il logos come
un “maestro potente”, mentre subito dopo questo è riferito al “divino”,
al magico del linguaggio, un magico che ammalia, persuade, e cambia
l’anima7. L’intero passo, in altre parole, proietta un senso di esperien-
za quasi-religiosa in cui il pubblico è guidato e posseduto da forze psi-
cologicamente irresistibili. Tutto ciò rende il modello gorgiano addi-
rittura illuminante per Aurora 172.
Una connessione meno diretta, ma ugualmente ricca, può essere
posta tra il testo nietzschiano e le parole pronunciate dal coro
dell’Edipo re di Sofocle, nel momento dell’apparizione di Edipo che si

6 Gorgia, fr. 11.9, in H. Diels, W. Kranz, (a cura di), Die Fragmente der Vorsokratiker,

Dublin 1951 (VI ed.); I presocratici, a cura di G. Giannantoni, tr. it. di M. Timpanaro
Cardini, Laterza, Roma-Bari 1975, II, p. 930.
7 Gorgia, Encomio, frs. 11.8 e 11.10.
LA “FORZA DEMONICA” DELLA TRAGEDIA 

è autoaccecato: i coreuti la definiscono la cosa più terribile che abbia-


no mai visto, presuppongono l’intervento di un daimon (un’idea evo-
cata dallo stesso Edipo: 1311), e alludono a un terribile “brivido”
(phrikê), provocato loro da colui che è entrato (1297-1306). L’esperienza
del coro qui è una sorta di fusione di pietà e paura. Il messaggero che
li ha avvertiti dell’autoaccecamento di Edipo ha detto che sarebbero
stati testimoni di una visione che li avrebbe riempiti di pietà e al tempo
stesso repulsione (1295-6). Il coro usa due volte l’aggettivo deinos (1297-
8), “terribile”, che è fondamentalmente associato a paura, sebbene
qualche volta anche a pietà; e definisce Edipo “misero”, dustanos (1303,
nella sua forma dorica), una parola ripresa da Edipo stesso immediata-
mente dopo (1307). In breve, il coro dei vecchi “rabbrividisce” con un
misto di spaventoso orrore e profondo dispiacere allo spettacolo di un
uomo la cui angoscia sembra designare e manifestare il lavoro di un
agente più-che-umano – un daimon, che qui significa un dio o uno
“spirito” distruttivo, forse lo stesso Apollo8. Il loro brivido accompa-
gna una reazione fortemente mutevole, una reazione la cui acutezza è
intensificata dal simbolismo dello stesso autoaccecamento: si sentono
incapaci di guardare Edipo e al contempo desiderosi di farlo; il loro
impulso è di voltarsi, ma anche di cedere e comprendere (1303-5) – un
dilemma che, a mio avviso, deve aver ispirato la formulazione nietz-
schiana della posizione dello spettatore tragico nel capitolo 22 di La
nascita della tragedia, “er schaut mehr und tiefer als je und wünscht sich
doch erblindet” (guarda di più e più profondamente che mai, eppure
desidera di essere cieco)9. Il daimon che il coro riconosce al lavoro è
nascosto alla vista. I coreuti sono consapevoli della sua presenza sol-
tanto nella esibizione di una sofferenza umana, che invita a uno sguar-
do pietoso, ma insieme respinge.
Il motivo del “brivido di paura” ricorre in altri passi della tragedia
greca, ma in nessun luogo, credo, con l’intensità sconvolgente della
risposta del coro tebano alla vista di Edipo accecato. Nietzsche sicura-
mente conosceva bene l’Edipo re; aveva scritto un saggio al riguardo
8 Il termine daimon è usato molte volte nell’Edipo re con riferimento agli dei (olim-

pici): vedi 34, 244, 886, 912, 1378. Altrove c’è un riferimento più vago, compatibile con
agenti meno facilmente identificati: vedi specialmente 828, 1193, 1258, 1479. Quando
il coro alla fine pone la domanda su quale daimon ha portato Edipo ad accecarsi, egli
risponde immediatamente “Apollo” (1328-9).
9 KSA 1: 141. Differente ma forse connessa è la ripetuta affermazione nietzschiana

secondo cui lo spettatore tragico si sente obbligato a guardare, ma anche ad andare al di


là dello sguardo, NT 24 (KSA 1: 150, 153).
 STEPHEN HALLIWELL

ancora da studente, aveva tenuto una conferenza sull’argomento a


Basilea, e lo aveva citato soprattutto nel nono capitolo di La nascita
della tragedia. La tragedia di Sofocle può dunque essere considerata
come minimo un’eco significativa dietro i motivi del “brivido religio-
so” e della “forza demonica” di Aurora 172. Avendo tuttavia visto
come una quantità di testi antichi ha lasciato le sue tracce in questa
sezione dell’opera, è tempo ora di prestare attenzione più da vicino al
modo in cui Nietzsche le ha elaborate. Un elemento di grande impor-
tanza può essere ricavato dal confronto con il materiale sofocleo appe-
na considerato. Il coro dell’Edipo re rabbrividisce con orrore e pietà alla
vista di Edipo, e riconosce l’operato di un daimon dietro o nel suo
autoaccecamento. La risposta del coro alla tragedia di Edipo ha dun-
que una forte dimensione religiosa, ma è nondimeno una risposta pie-
namente umana, fondata sul giudizio – espresso quando il parricidio
del re e l’incesto erano stati infine scoperti – che le sofferenze di Edipo
costituiscono un “paradigma” della distruzione tragica e una causa di
pessimismo sulle possibilità della vita umana in generale (1186-95). Ma
la pietà, così come la paura, provata dagli eschilei “dall’animo duro” in
Aurora è qualcosa di più di questo. È una sorta di estasi, o frenesia
(“Taumel”), un’irresistibile “forza demonica”. Nietzsche, in altri termi-
ni, ha trasferito l’elemento “demonico” e “religioso” dal piano dell’e-
vento tragico stesso all’esperienza dell’ideale pubblico tragico. Mentre
la pietà sofoclea è la risposta ad una consapevolezza della presenza di
forze metafisiche e dei costi umani che queste esigono, la pietà nietz-
schiana, nel passo al quale siamo interessati, è essa stesso un momen-
to metafisico nell’esperienza dell’arte tragica – un momento di cui
Nietzsche accentua i toni religiosi parlandone come di una tempora-
nea possessione e perdita di individuazione, di qualcosa di affine ad
alcuni culti “misterici” estatici dell’antichità.
Se ci chiediamo il perché di tutto ciò, si rende evidente la necessità
di esaminare Aurora 172 alla luce di alcune parti di La nascita della tra-
gedia. I risultati, comunque, non sono lineari – piuttosto, direi, profon-
damente paradossali. Ad un primo livello le linee di connessione sem-
brano abbastanza chiare. Più chiaramente, ho notato precedentemen-
te che all’incirca all’inizio di NT 21 Nietzsche identifica i Greci del
periodo delle Guerre Persiane, cioè “il tempo di Eschilo” come i pos-
sessori della più appropriata disposizione per l’autentica esperienza
della tragedia; in entrambi i luoghi la tragedia è posta, nella stessa
(vaga) maniera, in relazione ad una più ampia situazione politica e
sociale. Più specificamente, ma anche più problematicamente, il suc-
LA “FORZA DEMONICA” DELLA TRAGEDIA 

cessivo capitolo di NT contiene riferimenti agli stessi due motivi del


“demonico” e del “brivido” tragico come nella nostra sezione di
Aurora. In NT 21 Nietzsche caratterizza l’impatto della tragedia, su un
periodo di molte generazioni di Greci, in termini di “den stärksten
Zuckungen des dionysischen Dämon” (le più forti convulsioni del
demone dionisiaco)10. Nel capitolo successivo si dice che lo spettatore
della tragedia rabbrividisce al cospetto delle sofferenze (“schaudert vor
den Leiden”) che stanno per affliggere l’eroe tragico, e al contempo che
queste sofferenze gli incutono il presentimento di un piacere più alto,
che lascia sopraffatti11. Se giustapponiamo NT 21-22 con Aurora 172,
possiamo individuare delle complicazioni nell’uso che Nietzsche fa
delle idee che ho messo in primo piano. La connessione “demonica”
tra i due testi punta senza dubbi nella direzione di Dioniso, ma
potrebbe condurci infine a riconsiderare la pietà stessa come una
dimensione dell’esperienza dionisiaca, mentre gli stessi capitoli di NT
apparentemente indicano che la pietà (come il “brivido” di paura nel
capitolo 22) è da interpretare in termini essenzialmente apollinei: nel
capitolo 21 Nietzsche ci dice esplicitamente che la pietà o la compas-
sione in un certo senso “salva” lo spettatore tragico dalla sofferenza
originaria del Mondo (“in einem gewissen Sinne rettet uns doch das
Mitleiden vor dem Urleiden der Welt”), e aggiunge, poco dopo, che
l’apollineo ci strappa dal dionisiaco precisamente focalizzando la
nostra attenzione rapita sui caratteri individuali e legando ad essi la
nostra pietà12. Sembra inequivocabile qui che la pietà riguardi la parte
apollinea della grande distinzione estetica nietzschiana, giacché senti-
re le sofferenze con o per qualcun altro (“mitleiden”) richiede forse un
forte senso di individuazione, una consapevolezza simultanea della
propria e della altrui identità. Sembra altrettanto chiaro che la confi-
gurazione di idee in Aurora 172 – pietà, estasi, “forza demonica”, un
brivido religioso, e il senso di essere “fuori di sé”, provato dal pubbli-
co – evochi la caratterizzazione, compiuta in NT, del regno dionisia-
co. C’è un modo per risolvere questa tensione?

10 KSA 1: 132.
11 KSA 1: 141.
12 KSA 1: 136-7. Si noti anche qui, comunque, la possibile ambiguità nella posizio-

ne di Nietzsche: dire che l’apollineo “lega” la nostra pietà agli individui del mito non
significa asserire che sono (soltanto) le forme apollinee a causare quella pietà in primo
luogo. Infatti NT 21 è compatibile con l’ipotesi che il dionisiaco, rivelando una rapida
visione della “sofferenza originaria”, aiuta a suscitare una pietà che poi diviene unita alle
immagini apollinee del dramma.
 STEPHEN HALLIWELL

I riferimenti sparsi di Nietzsche alla posizione della pietà nell’espe-


rienza della tragedia danno rilievo a una quantità di problemi, in parte
perché i suoi atteggiamenti nei confronti della pietà tout court sono così
intricati. Un segno di quanto Nietzsche sia tormentato e incerto sulla
rilevanza della pietà (e della paura) nella tragedia è il fatto che possa
pronunciarsi su questo tema in modi così disparati, andando così lon-
tano da affermare, in una sezione di Die fröhliche Wissenschaft, che gli
spettatori greci non volessero affatto pietà e paura dalla tragedia, mentre
altrove considera lo status tragico di queste emozioni scontato, o per-
fino, come abbiamo visto in Aurora, descrive l’esperienza di queste
ultime minutamente, dalla parte degli spettatori sui quali la tragedia
esercita il suo fascino nel modo migliore, in uno stato virtualmente
dionisiaco13. Anche in La nascita della tragedia il significato della pietà
in sé oscilla: nel capitolo 21, per esempio, come già osservato, alla fine
sembra essenziale alla componente apollinea del genere, altrove nei
capitoli 22 e 24 Nietzsche sembra separarla dal piacere autenticamen-
te “estetico” nella tragedia14. Il significato più ampio riguarda i pensie-
ri di Nietzsche sulla pietà, che sia connessa con la tragedia o meno,
quello più stretto permette di evitare la conclusione secondo la quale
la sua prospettiva è irreparabilmente ambigua. Tutto dipende da che
cosa si intende precisamente per pietà, “Mitleid(en)”, nei vari contesti.
Vale la pena di prendere in prestito da Al di là del bene e del male 225 una
formulazione della differenza tra forma “più alta” e “più bassa” di
pietà: pietà versus pietà, “Mitleid gegen Mitleid”15. Dopo tutto, nel-
l’aforisma di Aurora che ci interessa la pietà è espressamente concepi-
ta in due modi distinti – se non come due differenti emozioni comun-
13 Rifiuti della pietà e della paura come emozioni tragiche: La gaia scienza II.80 (KSA

3: 436), e la nota inedita del 1888 in KSA 13: 409-11. Passi che danno per scontate la
pietà e la paura come emozioni tragiche includono Umano, troppo umano I.212 (KSA 2:
173), a dispetto della critica alla catarsi aristotelica (cfr. n. 16 del mio testo), e NT 17 e
21 (vedi il mio testo più avanti). Altre variazioni nella posizione nietzschiana sulla pietà
includono la sua concezione di Euripide, che viene criticato per un pathos che mira a
risvegliare una trepida pietà e paura (NT 12, KSA 1: 86), ma i cui discorsi dialettici sono
ugualmente biasimati per il fatto che mettono a repentaglio la nostra pietà tragica (NT
14, KSA 1: 94).
14 M. S. Silk, J.P. Stern in op. cit., pp. 270-71, commentano l’oscillazione del tratta-

mento nietzschiano della pietà in NT, ma la loro conclusione che la pietà è esclusiva-
mente apollinea è troppo semplice; cfr. n. 12 e n. 27.
15 KSA 5: 161. Soltanto alcune sezioni dopo, in 229 (KSA 5: 166) Nietzsche riferi-

sce alla cosiddetta sofferenza tragica (“im sogennanten tragischen Mitleid”) un’ulteriore
indicazione del tentativo di distanziarsi dalle versioni convenzionali del concetto.
LA “FORZA DEMONICA” DELLA TRAGEDIA 

que come esperite da due differenti gruppi di persone, quelle dall’ani-


mo duro e quelle sentimentali. Le difficoltà nello spiegare le diverse
affermazioni nietzschiane sulla pietà derivano in parte dal fatto che
egli non esprime sempre pienamente le variabili con cui intende
“Mitleiden”. Ma senza ammettere, dove si ha a che fare con la trage-
dia, un’ambiguità di base in questa prospettiva, e qualche volta taciti
cambi di prospettiva, non abbiamo speranza, credo, di dare un senso
a molto di quanto Nietzsche scrive sulla pietà, includendo, come
vedremo brevemente, qualcuna delle sue assunzioni oscillanti sulla
questione chiave della catarsi tragica.
L’obiezione nietzschiana ad una interpretazione della pietà tragica,
l’interpretazione che egli associa al nome di Aristotele, è da un certo
punto di vista evidente. Egli la formula nel modo più conciso in una
nota inedita della primavera del 1888, nella quale parla del “grande
fraintendimento” di Aristotele nell’identificare l’esperienza della trage-
dia con due emozioni negative, depressive, cioè terrore (Schrecken) e
pietà (Mitleiden), quando la tragedia, come tutte le arti autentiche, è un
grande stimolo della/alla vita (“das große Stimulans des Lebens”), un
tonico rivitalizzante: se Aristotele avesse avuto ragione, afferma, la tra-
gedia sarebbe stata in realtà un rifiuto della vita e una negazione del-
l’arte stessa16. Una simile prospettiva ricorre nel paragrafo 7 di
L’anticristo, dove la psicologia della pietà è messa in rilievo come una
debolezza che mina la vita, e come un “esercizio di nichilismo”, come
anche in Il crepuscolo degli idoli, nel paragrafo 5 del capitolo Was ich den
Alten verdanke, dove c’è ancora un riferimento al “fraintendimento”,
accanto a una nuova affermazione dell’idea nietzschiana del dionisia-
co come portatore di gioia perfino nella distruzione dei “più alti
modelli” di vita. Tutto ciò sembra coerente e decisivo, anche se notia-
mo che né in questi passaggi né, credo, in altri luoghi, Nietzsche men-
ziona, e ancor meno tenta di spiegare, come Aristotele colleghi pietà e
paura a una forma peculiarmente tragica di piacere e non a una psico-
logia del pessimismo (per cui, certamente, la reale fonte e il reale ber-
saglio nietzschiano è Schopenhauer). Ma le complicazioni, ancora una
volta, cominciano ad emergere quando si osservi un po’ più da vicino.
16 KSA 13: 409-11. (Si noti che nei suoi vari riferimenti all’unione canonica/aristote-

lica di pietà e paura Nietzsche fluttua nella sua descrizione di quest’ultima tra “Furcht” e
“Schrecken”.) Parte della posizione nietzschiana è qui in fondamentale disaccordo sulla
dinamica psicologica elementare: come Umano, troppo umano I.212 (KSA 2: 173) mostra,
Nietzsche è d’accordo con Platone sul fatto che provare un impulso (emozionale o di altro
tipo) più probabilmente intensifica, e non diminuisce, la sensibilità verso di esso.
 STEPHEN HALLIWELL

La nota del 1888 sembra affermare che è totalmente errato collega-


re la tragedia a pietà e paura; certamente è pacifico che “supporre che
attraverso il risveglio di queste emozioni ognuno è ‘purificato’ da esse,
come Aristotele sembra credere, è semplicemente falso”17. Nel passo di
Il crepuscolo degli idoli, tuttavia, le parole di Nietzsche hanno un senso
ulteriore. Avendo asserito che l’esperienza essenziale, dionisiaca della
tragedia (“das tragische Gefühl”) non riguarda l’essere liberati dal terro-
re e dalla pietà, né l’“essere purificati da un’emozione pericolosa attra-
verso la sua veemente liberazione, come intende Aristotele”, Nietzsche
aggiunge che l’essenza della tragedia sta oltre la pietà e la paura (“über
Schrecken und Mitleid hinaus”) nella realizzazione in sé stessi dell’eter-
na gioia del divenire18. Contrariamente alla nota inedita, la locuzione
“über…hinaus” implica che paura e pietà sono in ogni caso parte del-
l’esperienza della tragedia, sebbene non della sua essenza o del suo
livello più profondo. In modo ancora differente, sebbene altrettanto
significativo, L’Anticristo 7 sembra in realtà arruolare Aristotele in aiuto
della critica contro la debolezza e la morbosità della pietà. “Aristotele,
come sappiamo – scrive Nietzsche –, vide nella pietà una condizione
malata e pericolosa dalla quale si fa bene a liberarsi, di tanto in tanto,
assumendo un purgante”. Anche se Nietzsche ha in mente Politica
8.1342a (dove Aristotele commenta in termini generali la possibilità di
una sensibilità morbosa nei confronti della pietà) piuttosto che tutto
ciò che Aristotele ha detto della tragedia nella Poetica stessa, l’osserva-
zione nondimeno sembra suggerire che ci potrebbe essere dopo tutto
qualche verità nell’ipotizzato effetto purgativo della catarsi tragica19.
Non è certamente inverosimile trovare qualche ambivalenza da parte di
Nietzsche nei riguardi dell’idea di catarsi. In una nota del 1871 egli cita
la descrizione aristotelica di catarsi (il riferimento è alla Politica) come
prova della serietà con cui la musica era esperita presso i greci; in un’al-
tra del 1875 lo troviamo definire la “necessità” della catarsi una legge

17 KSA 13: 410. Nietzsche qui esprime soltanto un elemento superficiale di incer-

tezza sul fatto che il concetto aristotelico di catarsi possa essere concepito come una que-
stione di “purgazione” o meno; dà questo per scontato alla fine della stessa nota, come
spesso altrove, sebbene qualche volta parli anche di catarsi come “purificazione” (il
verbo “reinigen”: vedi il passo citato successivamente nel mio testo) e in NT 22 (KSA 1:
142) ammette la discussione se il concetto Aristotelico fosse medico o morale. Non ho
spazio qui per seguire tutte le ramificazioni della visione nietzschiana della catarsi.
18 KSA 6: 160.
19 Aurora 134 (KSA 3: 127-8) ascrive la stessa visione del bisogno di purgazione dalla

pietà non ad Aristotele ma ai greci in generale.


LA “FORZA DEMONICA” DELLA TRAGEDIA 

fondamentale della natura greca (“die Nothwendigkeit der Entladung,


der katharsis, ein Grundgesetz des griechischen Wesens”) e chiedere,
enigmaticamente, se questo possa spiegare la tragedia; e in Umano, trop-
po umano generalizza l’idea di catarsi per indicare l’intera serie di feste e
culti greci nei quali le “cattive” passioni umane possono essere liberate
più che soppresse20. Ritornerò, successivamente, alle due cruciali invo-
cazioni nietzschiane della catarsi in La nascita della tragedia.
Niente nei passi nietzschiani considerati ci lascia una trattazione
linearmente positiva della pietà tragica, ma attraverso questi si rinfor-
za l’impressione che la sua posizione su questo tema è irriducibilmen-
te complessa. Anche quando si applica a collocare la pietà fuori dal suo
posto canonico nella teoria della tragedia, e offre un po’ del suo criti-
cismo più tranchant sui pericoli psicologici della pietà, lascia spazio per
ritenerla di qualche peso nella sua considerazione del genere tragico.
Se, sulla base di questo antefatto, torniamo ora a Aurora 172, può esse-
re più facile vedere che in questa sezione si tenta qualcosa di speciale,
ma comunque compatibile con il ruolo della pietà in NT. Ciò che si
tenta, con una difficile compressione, può essere descritto come un
riavvicinamento tra pietà e dionisiaco. Ho indicato precedentemente i
principali motivi per considerare qui la pietà come un elemento dio-
nisiaco, cioè il legame tra “forza demonica” della tragedia e il “dai-
mon” dionisiaco di NT 21, e l’ethos di frenesia ed estasi quasi-divine
unite all’esperienza descritta in Aurora, un ethos che riflette lo status
del dionisiaco in NT come affine al territorio della religione “misteri-
ca”21. A questi elementi bisogna aggiungere ora la considerazione di
più ampia portata che la concezione nietzschiana di “demonico”, da
lui sviluppata in parte a partire dal prototipo goethiano, in parte dalla
mitologia religiosa antica, è fortemente associata al dionisiaco stesso e
alle forze profonde, oscure della natura22. Per motivi sia specifici che
20 Vedi, rispettivamente, KSA 7: 285, 8: 79, Umano, troppo umano II.1, 220 (KSA 2:

473). Questi ed altri passaggi sono regolarmente trascurati nei resoconti sull’atteggia-
mento nietzschiano nei confronti della catarsi, per esempio da W. J. Dannhauser,
Nietzsche’s View of Socrates, Ithaca 1974, p. 116.
21Vedi per esempio NT 10 (KSA 1: 72-3), 16 (KSA 1: 103), 17 (KSA 1: 111), e 21

(KSA 1: 132), l’ultimo è un riferimento ai “Misteri tragici” poco prima di menzionare il


daimon dionisiaco.
22 Il motivo di un “Dämon” o di “das Dämonische” è specificamente collegato al

dionisiaco in NT 4 (KSA 1: 41), 10 (KSA 1: 72) e 21 (vedi il mio testo), come nei tac-
cuini (KSA 1: 565, 594, 620, e 7: 177). L’attitudine nietzschiana nei confronti di que-
st’idea richiede un trattamento separato; parlando in generale, il demonico nietzschiano
rappresenta potenti forze sotterranee della natura (per esempio, la visione del mondo
 STEPHEN HALLIWELL

generali, dunque, è impossibile e indesiderabile dissolvere il vincolo


“demonico” tra pietà e Dioniso in Aurora 172.
Anche altrove nei vari pensieri nietzschiani sulla pietà niente esclude
realmente la speciale possibilità di una versione dell’emozione che gioca
una parte integrante nell’esperienza dionisiaca subita dal pubblico idea-
le della tragedia. Ma cosa può ancora essere detto sul carattere di questa
pietà? In primo luogo, Aurora mostra che si tratta di un’emozione espe-
rita involontariamente (in ogni caso nel momento del suo accadere) e
nella forma di una “possessione” estatica, l’impeto di una forza più-che-
umana la cui presenza è marcata da un “brivido religioso” . È inoltre una
sorta di medicina, “l’assenzio più amaro” e insieme anche una specie di
piacere “miracoloso”. La combinazione di immagini religiose e mediche
è una reminiscenza della catarsi aristotelica così come è presentata nel
libro 8 di Politica, dove il sollievo degli impulsi emozionali attraverso il
loro intenso risveglio è illustrato da alcune “melodie sacre” che portano
con loro, per certi ascoltatori, “come se fosse una terapia e una catarsi”23.
La verosimiglianza, per quanto paradossale, che Nietzsche abbia in
mente il modello aristotelico in Aurora 172 è incrementata dalla sua pro-
posta secondo cui i greci amanti della guerra, che assistevano alla trage-
dia nel tempo di Eschilo, la trovavano utile per addolcirsi di tempo in
tempo (“von Zeit zu Zeit”), un dettaglio affine alla caratterizzazione, in
L’Anticristo 7, della catarsi come benefica “hier und da”. A dispetto del-
l’esistenza di molte deprecazioni nietzschiane dell’idea di catarsi, ho
mostrato sopra che il suo atteggiamento al riguardo a ciò è ambivalente.
Questa pretesa può ora essere rinforzata e approfondita con riferimento
a La nascita della tragedia stessa. Se in NT 22, in un passo dove associa le
teorie della catarsi a un approccio morale alla tragedia, Nietzsche rifiuta
di considerare la liberazione delle emozioni (“Entladung von Affecten”)
come l’autentico scopo della tragedia, altrove include nel valore essen-

eraclitea in KSA 1: 822), che possono manifestarsi in essere umani eccezionali, incluse
figure differenti come Socrate (NT 12-14, KSA 1: 83, 90, 94) e Wagner (Unzeitgemäße
Betrachtungen IV.7, 9, 10, KSA 1: 466, 485, 498, e KSA 8: 227). Il “demonico” goethiano
(riconosciuto precedentemente nel pensiero nietzschiano in KSA 7.74), esso stesso una
forza vitale amorale, si trova in Dichtung und Wahrheit IV.20. Tra le fonti antiche, è abba-
stanza plausibile, data la sua generale familiarità con l’autore, che Nietzsche conoscesse
De esu carn. 996c, di Plutarco, dove i “Titani” (cfr. specialmente NT 4, KSA 1: 40) sono
intesi allegoricamente come equivalenti dell’irrazionale daimonikon all’interno dell’esse-
re umano.
23 Politica 8.7, 1342a4-11. Non ne consegue che la catarsi aristotelica debba essere

necessariamente intesa o come religiosa o come medica: vedi il mio libro Aristotle’s
Poetics, London 1986 (II ed. 1998), pp. 184-201.
LA “FORZA DEMONICA” DELLA TRAGEDIA 

ziale del genere l’opportunità che provveda precisamente alla “liberazio-


ne” delle emozioni dionisiache dentro una cornice apollinea24. Allo stes-
so modo, in NT 21 si riferisce senza compunzione alle forze purificanti
e liberatorie della tragedia (“der […] reinigenden und entladenden
Gewalt der Tragödie”), che definisce anche “l’epitome di tutti i rimedi
preventivi”25. Due dettagli sono degni di nota rispetto a quest’ultimo
passo: primo, che la funzione quasi-catartica della tragedia opera sull’in-
tera vita di un popolo, “das ganze Volksleben”, non sull’individuo come
tale; secondo, che viene presentata come “prevenzione” piuttosto che
come cura per chi è già malato26. Questi possono essere due indizi ulte-
riori di come la pietà di Aurora 172 possa considerarsi un elemento in
un’esperienza dionisiaca-con-catarsi: non abbiamo a che fare qui con
una medicina per chi è psichicamente malato, quindi con una medicina
valutata negativamente, ma con una forza che, con tutto il suo amaro
gusto “d’assenzio”, contribuisce alla salute collettiva di una cultura.
Il gusto d’assenzio è il gusto della sofferenza (“Leiden”). A questo
livello fondamentale dovrebbe, dopo tutto, colpirci come intelligibile
che la pietà, “Mitleid(en)”, possa creare una connessione con il dioni-
siaco, quantunque una connessione che porta Nietzsche, come abbia-
mo visto, a lottare ripetutamente con la relazione tra la pietà e il tragi-
co. In una delle più necessarie (ma anche non chiarite) premesse meta-
fisiche di La nascita della tragedia, la sofferenza, “Leiden”, è enfatica-
mente definita una parte del fondamento primo, eterno della realtà,
“das Ur-Eine”: per realizzare un contatto dionisiaco con la realtà
occorre essere in grado di condividere quella sofferenza, “mitleiden”,
come infatti Nietzsche dice specificamente dell’“originale” coro tragi-
co e propone anche riguardo al pubblico della tragedia27. Come pro-
clama NT 18, la speranza di una cultura tragica è di afferrare l’eterno
24 NT 24 (KSA 1: 150). Tra gli altri adattamenti nietzschiani del linguaggio della libe-

razione (“Entladung”) si noti NT 8 (KSA 1: 62): il coro della tragedia “sich […] in einer
apollinischen Bilderwelt entladet” (si libera in un mondo apollineo delle immagini).
25 Per i due passi vedi KSA 1: 142, 134.
26 Le connessioni che vado facendo sono rafforzate dal fatto che nel frammento del

1888 Nietzsche parla di Socrate come l’antagonista della tragedia e come colui che dis-
solve “jener dämonisch-prophylaktischen Instinkte der Kunst” (questi istinti demonico-
profilattici dell’arte), KSA 13: 228.
27 Sofferenza come parte dell’unità originaria: vedi specialmente NT 4 (KSA 1: 38-

40), 6 (KSA 1: 51). Il coro è “der mitleidende” con Dioniso (NT 8, KSA 1: 63); H.
Staten, Nietzsche’s Voice, Ithaca 1990, p. 15, è con ciò sbagliato dire che Nietzsche riser-
va il termine “Mitleid” per sentimenti apollinei. Anche il pubblico della tragedia può
divenire tutt’uno con le sofferenze dionisiache: NT 8 (KSA 1: 64).
 STEPHEN HALLIWELL

dolore (“das ewige Leiden”) come suo proprio28. Così c’è sicuramente
una pietà dionisiaca, sebbene per definizione questa debba essere espe-
rita sotto la coscienza di una pietà “morale” e cognitiva (come si lega alle
forme apollinee dell’eroe e del mito), deve avere con ciò come suo
oggetto la sofferenza che in qualche modo inerisce alla realtà primor-
diale stessa, più che le sofferenze specifiche degli individui tragici, e deve
appartenere a una dimensione dove l’estasi tragica renda necessaria la
fusione tra uomo e uomo e tra uomo e natura29. Il problema che resta a
Nietzsche è di fornire una teorizzazione della pietà dionisiaca evitando
che questa sia assorbita nella pietà (e paura)30 tradizionale della defini-
zione aristotelica della tragedia. Il risultato è una incertezza non risolta
riguardo al punto in cui la pietà apollinea finisce e quella dionisiaca ini-
zia. Quando all’inizio di NT 17 si dice che l’arte dionisiaca convince il
suo pubblico all’eterna gioia dell’esistenza, forzandolo “a guardare nel
terrore dell’esistenza individuale” ma trasformando questa esperienza in
un entusiasmante, in realtà “estatico”, senso di unità con l’ente primo,
Nietzsche scrive che “nonostante paura e pietà (trotz Furcht und Mitleid)
noi siamo coloro-che-vivono-felici, non come individui, ma come una
cosa vivente, con la cui gioia creativa siamo fusi”31. La frase concessiva
“nonostante paura e pietà” ammette ciò che Nietzsche altrove in qual-
che caso nega, la legittimità dell’unione ortodossa di queste due emo-
zioni all’interno dell’esperienza della tragedia, ma lascia anche incertez-
za circa la domanda se la pietà implicata è separata dalla risposta dioni-
siaca alla tragedia oppure ne è un aspetto trasfigurato32. Data l’ampiezza
di queste oscillazioni rispetto allo statuto delle due emozioni e della loro
catarsi, è impossibile ascrivere a Nietzsche una posizione trasparente o
netta sulla pietà, ed è necessario accettare il fatto che parte del “legame
di fratellanza” tragico che egli pone tra Apollo e Dioniso sia precisa-
mente una questione di risveglio emozionale (“Erregung”)33. Ma ho

28 KSA 1: 118.
29 NT 7 (KSA 1: 56).
30 Le mie argomentazioni sulla pietà dionisiaca potrebbero essere applicate alla

paura: per una paura distintamente dionisiaca vedi per esempio NT 2 (KSA 1: 32).
31 KSA 1: 109.
32 Il confronto con il passo dal paragrafo 5 del capitolo “Quel che debbo agli anti-

chi” di Il crepuscolo degli idoli, che ho citato prima, dove Nietzsche colloca l’essenza del
tragico al di là del terrore e della pietà (“über Schrecken und Mitleid hinaus”) nella rea-
lizzazione in sé stessi dell’eterna gioia del divenire (KSA 6: 160), è suggestivo qui, ma
non sostituisce necessariamente una definitiva direzione interpretativa.
33 NT 22 (KSA 1: 141).
LA “FORZA DEMONICA” DELLA TRAGEDIA 

nondimeno tentato di mostrare che aveva senso considerare Aurora


172 come conferma importante del fatto che in una certa disposizione
d’animo Nietzsche potrebbe permettersi di concepire un tipo di pietà
come dionisiaca a buon diritto.
Ho tentato in questo saggio di seguire alcune linee guida da Aurora
172 attraverso il complesso pensiero di Nietzsche sull’emozione tragi-
ca. L’ho fatto in parte seguendo alcune di queste “tracce” antiche, que-
ste linee intrecciate delle idee greche, che così spesso si nascondono
appena dietro la superficie dei suoi scritti e che, anche quando aperta-
mente ammesse, vengono catturate in una dialettica che raramente
permette facili conclusioni riguardo influenze o affinità. Il proposito
di questo saggio non è stato quello di attenuare i tratti distintivi delle
argomentazioni nietzschiane. Al contrario, guardare Nietzsche adatta-
re e dare nuova forma a materiali antichi significa intensificare la con-
sapevolezza di quanto sono differenti i risultati dalle fonti che filtrano
attraverso i suoi scritti. In Aurora 172 Nietzsche fa uno degli sforzi più
notevoli per riconciliare l’idea canonica di pietà tragica, un’idea da cui
aveva spesso cercato di liberarsi, con la sua prospettiva dionisiaca sulla
tragedia. Lo fa trasformando la pietà, da emozione consapevolmente
morale, “sociale”, focalizzata sulle individuali figure apollinee del
dramma, in una visitazione misteriosa dello stesso “daimon” Dioniso,
una visitazione durante la quale gli animi duri, normalmente così resi-
stenti alla pietà, perdono temporaneamente il proprio controllo di sé
e sono miracolosamente esposti alla sofferenza del mondo.

(Traduzione di Daniela Angelucci)


Federico Vercellone

Dioniso contro il Crocefisso


Considerazioni su di un’antitesi ironica

1. Nietzsche nella Moderne

Parlare di Nietzsche come pensatore della Moderne può e vuole signifi-


care due cose sostanzialmente diverse. La prima addita il destino stori-
co del pensiero nietzschiano per così dire tutto connesso a quello della
Moderne, sino a incontrare il nichilismo contemporaneo. Questo è un
aspetto, certo assolutamente centrale, consegnato alla storia della filo-
sofia contemporanea. Ve ne è tuttavia un secondo, nel pensiero di
Nietzsche, che s’incrocia con i destini della Moderne, secondo un’atti-
tudine non meno remota e profonda della precedente. I due momenti
sono, per altro, intimamente connessi, tanto che anche la prima rice-
zione del pensiero nietzschiano finisce per appartenere, contro ogni
immediata evidenza, al suo destino più profondo. A ben guardare,
anche gli aspetti più déracinés della ricezione di Nietzsche fanno parte
del destino del suo pensiero. Essi non possono infatti esser separati da
una teoria che mette capo all’azione in assenza di ogni più certa evi-
denza, laddove – e questa sarebbe la nostra tesi – è proprio la scomparsa
dell’evidenza a decidere del suo destino tragico. Il venir meno del ter-
reno dell’evidenza, di un fondo propriamente intuitivo, fa infatti sì che
vengano estrapolati dal pensiero tutti quegli elementi che gli fornisco-
no un radicamento sensibile; e si apre in tal modo la strada a quella ter-
ribile astrazione che è insita nell’idea di volontà di potenza.
Per cogliere la questione, quantomeno nei suoi aspetti di maggior
rilievo per quanto concerne il destino nichilistico della Moderne – ine-
luttabilmente connesso a un’altra destinazione, quella della mitopoiesi
religiosa – è necessario rifarsi alla chiusa di Ecce Homo, una chiusa tanto
radicale quanto di notevole portata per tutto il complesso del pensiero
nietzschiano, laddove si prospetta un’esternazione di anticristianesimo
tanto violenta quanto ambigua:
 FEDERICO VERCELLONE

– Sono stato capito? – Dioniso contro il Crocifisso…1

È una dichiarazione che fa da paradossale, antitetico pendant a quan-


to Nietzsche stesso scriveva nei suoi diari giovanili nei quali sottolinea-
va di esser nato nella casa del pastore:

Come pianta io nacqui presso il Camposanto, come uomo in una canonica2.

Che cosa è accaduto nel frattempo? Perché l’ambientazione cristia-


na risalente all’infanzia è andata così drammaticamente dissolvendosi?
E perché l’appassionato lettore di Hölderlin degli anni giovanili rinne-
ga quell’intrinseco apparentamento di Dioniso con il Crocefisso che si
dava in Brot und Wein? Perché si discosta da un cammino noto e amato
per negare che Dioniso sia una prefigurazione di Cristo, e per vedere
piuttosto le due divinità in conflitto? Laddove, si tratta subito di
aggiungere, la relazione di Nietzsche con il cristianesimo non va intesa
solo o esclusivamente nell’ottica dell’appartenenza o meno di
Nietzsche a quella vicenda religiosa della quale si riconosce in ogni caso
come parte integrante3, ma anche nel quadro di una vicenda altrettan-
to intensa e inestricabilmente connessa alla precedente. Si tratta cioè del
vincolo che connette la vicenda religiosa stessa, e ogni vicenda religiosa (non solo
quella cristiana), a una destinazione per così dire artistica, mitopoietica.
Questo è il vero e proprio parametro attraverso il quale Nietzsche guar-
da alla religione e al suo significato, un parametro dunque tutt’altro che
ateisticamente improntato, e che riconduce su quel terreno dell’intui-
zione del quale prima si diceva. Ben lungi dall’orientarsi nel senso di
una professione di ateismo, la riflessione di Nietzsche utilizza piuttosto
la religione addirittura come parametro di una civiltà; e commisura
peraltro la portata e il significato di una religione proprio su questa

1 F. Nietzsche, Opere, a cura di G. Colli, M. Montanari, Adelphi , Milano 1964, vol.

VI, t. III, p. 385 (d’ora in poi: Opere cui si fa seguire, in numeri romani, l’indicazione del
volume e del tomo e in cifre arabe quella delle pagine e quindi, eventualmente, del fram-
mento).
2 F. Nietzsche, Scritti autobiografici 1856-1869, tr. it. di M. Carpitella, Adelphi, Milano

1977, p. 133.
3 È quanto Nietzsche riconosce, per esempio, in questo frammento di Umano troppo

umano: “Anche noi, uomini della conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici, conti-
nuiamo a prendere il nostro fuoco dall’incendio che una fede millenaria ha acceso, quel-
la fede cristiana che era anche la fede di Platone, per cui Dio è la verità e la verità è divi-
na” (Opere, V, II, 129).
DIONISO CONTRO IL CROCEFISSO 

base: se essa sia cioè capace di edificare un universo etico-culturale, o


se in tale intento essa fallisca. L’ipotesi sulla quale ci si vorrebbe qui sof-
fermare è che Dioniso, che pure costituisce un’anticipazione del
Crocifisso, si viene a trovare infine in una situazione conflittuale con il
cristianesimo, giacché il cristianesimo stesso ha da ultimo smarrito, in
particolare nella sua versione protestante, quelle qualità mitopoietiche,
creative di un universo culturale e di un mondo, che erano proprie del-
l’antico.
È, questo, uno dei punti sui quali Nietzsche ritorna nell’Anticristo:
si tratta in breve dell’idea che un popolo abbia bisogno di Dio per
magnificare se stesso. Da ciò dipende la sia pur lieve preferenza espres-
sa qui da Nietzsche a favore dell’ebraismo contro il cristianesimo, in
quanto quest’ultimo sarebbe pur sempre religione di un popolo; ma
soprattutto la netta propensione di Nietzsche per il Rinascimento cat-
tolico nei confronti del mondo riformato. Cesare Borgia si oppone a
Lutero in quanto l’uno esprime il trionfo della vita rigogliosa, mentre il
secondo esprime l’ideale della vita segregata e ottusa che il cristianesi-
mo, a partire dall’apostolo Paolo, ha fatto propria.
Ecco che veniamo, con ciò, al punto centrale della diagnosi di
Nietzsche circa la décadence moderna; una questione che – vale la pena di
ribadirlo – nulla ha da fare con una propensione ateistica di Nietzsche
stesso, quanto anzi con l’opposto, la denuncia dell’incapacità del moder-
no di realizzare la mitopoiesi artistico-religiosa. Insomma: la Moderne
muore non per troppa religiosità ma a causa di una religiosità fragile,
debole, che ha perduto la relazione con le radici ultime che presiedono
al suo stesso sorgere. Il cristianesimo, in particolare nella sua versione
riformata, occlude quel trascorrere della forza in forma che è alla base
della cultura nel suo più autentico fiorire, come testimonia il mondo
greco ma anche quello romano. Ciò coincide del resto, del tutto conse-
guentemente, con la diagnosi – ancora affascinata, nonostante lo sguar-
do critico – che Nietzsche fornisce di Wagner nel Caso Wagner. Qui
Wagner si dimostra un artista tipicamente moderno, non un genio monu-
mentale, come pur legittimamente si potrebbe presumere, ma un grande
artista del frammento, “il nostro più grande miniaturista musicale”. E la
frammentarietà costituisce del resto proprio la caratteristica saliente della
décadence letteraria che ripete, a ben vedere, i lineamenti generali della
décadence moderna o, se si vuole, della Moderne tout court:

Mi soffermerò, questa volta, soltanto sulla questione dello stile. – Da che


cosa è caratterizzata ogni décadence letteraria? Dal fatto che la vita non risie-
 FEDERICO VERCELLONE

de più nel tutto. La parola diventa sovrana e spicca un salto fuori della frase,
la frase usurpa e offusca il senso della pagina, la pagina prende vita a spese
del tutto, – il tutto non è più tutto. Ma questa è l’allegoria di ogni stile della
décadence: sempre anarchia atomistica, disgregazione del volere, “libertà del-
l’individuo”, o per dirla con linguaggio della morale esteso a teoria politica,
“diritti uguali per tutti”. […] Il tutto non vive generalmente più: è giustap-
posto, calcolato, posticcio, un prodotto artificiale4.

Se Nietzsche fornisce dunque un’interpretazione della Moderne in


chiave di decadenza della mitopoiesi religiosa, la ricezione del suo pen-
siero, anche laddove esso si esprima in termini radicalmente inquietan-
ti, non può esser svincolata dal suo destino. In quanto la Moderne è il
movimento che cancella l’evidenza, sottrae il sostrato sensibile alla cul-
tura, essa oscilla per forza di cose tra l’enfasi sull’azione e la sua imme-
diatezza e quella sulla rimitizzazione, secondo un’oscillazione che
rende i due versanti coerenti, sia pure nel loro contrasto, l’uno con l’al-
tro. Entrambi questi aspetti appartengono all’eredità immediata e poi a
quella più filosoficamente matura del pensiero nietzschiano.

2. Attualità di un “inattuale”

Non è certo possibile addentrarsi in questa sede, in forme anche solo


minimamente circostanziate e per brevi tratti, nella vicenda della
Nietzsche-Rezeption che è così estesa e complessa da costituire un auto-
nomo capitolo, e tutt’altro che secondario, del pensiero filosofico del
Novecento5. Va forse tuttavia ricordato, a puro titolo di esempio, che
già gli anni Novanta dell’Ottocento, successivi all’annebbiamento spi-
rituale di Nietzsche, testimoniano di un suo straordinario influsso,
paragonabile, per certi versi, all’influenza esercitata sulla sua epoca da
Rousseau 6. È ben vero che l’assenza di distanza temporale gioca spes-

4Opere, VI, III, 22-23.


5 Mi permetto di rimandare, a questo proposito, al cap. 4 della mia Introduzione al
nichilismo, Laterza, Roma-Bari 20015 anche per ciò che concerne ulteriori indicazioni
bibliografiche.
6 Cfr. Nietzsche und die deutsche Literatur, a cura di B. Hillebrand, 2 voll., Niemeyer,

Tübingen 1978, pp. 2 sgg.; più in generale sulla questione cfr. il repertorio di testimo-
nianze di R.F. Krummel, Nietzsche und der deutsche Geist, vol. I, Ausbreitung und Wirkung des
nietzscheschen Werkes im deutschen Sprachraum bis zum Todesjahr des Philosophen, De Gruyter,
Berlin-New York 1974.
DIONISO CONTRO IL CROCEFISSO 

so a discapito del carattere metaforico e profetico del pensiero del filo-


sofo tedesco. In molti casi viene addirittura in primo piano un’inter-
pretazione che potrebbe quasi definirsi letterale della sua opera; si vede
in questa l’invito ad abbattere ogni stabile ordinamento, per cui ogni
sorta di atteggiamento trasgressivo, anche il più triviale, viene giustifi-
cato richiamandosi a un’autorità che sicuramente non meritava di esser
chiamata in causa. Agli inizi del Novecento si poteva così amaramente
rilevare, gettando uno sguardo sulle vicende appena trascorse:

Tra i giovani poeti regnava uno spirito spavaldo. La loro esaltata arroganza
[…] li faceva sentire dei superuomini e dei semidei […]. Perché porre il
superuomo in un lontano futuro come Nietzsche aveva fatto? […]
Nietzsche stesso divenne un mito, un eroe, un creatore di mondi. Ci si
stringeva intorno a lui, lo si idolatrava, si facevano giungere sino a lui inni
di consacrazione. Ma egli conduceva già un’esistenza ottusa e priva di gioia
avvolto nella notte della follia7.

L’attualità del pensatore “inattuale” è dunque sin da subito avverti-


ta e proclamata con toni sin troppo enfatici. A questo proposito
Nietzsche stesso coltivava notevoli attese, come testimonia un notissi-
mo passo di Ecce homo8. Il problema allora è piuttosto come intendere
e concepire tutto questo, e si può dire allora che il pensiero nietzschia-
no appartenga a quello che, un po’ enfaticamente, si potrebbe definire
il “destino dell’attualità” secondo la duplice accezione del genitivo: sog-
gettivo e oggettivo. Appartiene cioè al destino dell’attualità o della
Moderne sia in quanto le compete e riflette su di questa; ma appartiene
al destino dell’attualità anche nel senso oggettivo del genitivo, secondo
quell’astrazione assoluta che è la volontà di potenza, tempo senza spa-
zio, e cioè agire al livello più puro. È questo l’ultimo esito di un’età
sorta dalla negazione dell’intuizione fondante, appunto della mito-
poiesi religiosa, che vuole e può ritrovarsi esclusivamente nell’agire
emancipato da ogni contenuto che gli sia estraneo, così che ci si trova
dinanzi a una sorta di “atto puro”. Quasi si avesse a che fare con un
détour paradossale, è come se il Cristo abbandonato dalla morale cri-
stiana della décadence infine tornasse, perlomeno per un lato, nelle
forme della volontà di potenza. Il Cristo che torna si ripresenta sotto le

7 H.F. Landsberg, Friedrich Nietzsche und die deutsche Literatur, Leipzig 1902, pp. 89-90,

cit. da B. Hillebrand.
8 Cfr. Opere, VI, III, 307.
 FEDERICO VERCELLONE

forme originarie ma ormai prive, tragicamente prive di ogni spessore


simbolico. Egli è puro exemplum, votato alla nuda praxis della vita, che
si traduce infine, rovesciando il significato del proprio stesso essere, nel-
l’esercizio della volontà di potenza. Ma per altro verso proprio in que-
sto senso andrebbe inteso l’esercizio della stessa volontà di potenza,
come ha indicato Heinz Röttges. Essa, proprio nel suo tradursi in asso-
luto esercizio di sé, costituisce allora un’estrema “teodicea del monda-
no” intesa quale liberante dischiudersi dell’essente a se stesso che non
necessita così della sanzione dell’eterno9. La volontà di potenza, quale
puro esercizio di sé, sembrerebbe cioè ripresentare, al culmine del pro-
prio nichilistico itinerario, quella pura esemplarità del Cristo inteso
come eroe della prassi che si delinea nell’Anticristo e nei frammenti
postumi dell’ultimo periodo.
Tutto ciò ci rimanda per un verso a una scaturigine cristiana della
Moderne, comunque tutt’altro che inedita, tanto da rimandarci quanto-
meno alle pagine dell’Estetica hegeliana. Per altro, invece, rinvia a una
questione centrale, molto e tutt’altro che univocamente discussa, del
pensiero nietzschiano: il nesso di volontà di potenza ed eterno ritorno.
A ragione Karl Löwith ha sottolineato come l’idea dell’eterno ritor-
no costituisca un estremo tentativo di reintrodurre un elemento greco
dentro un impianto di pensiero moderno, soggettivisticamente ispirato,
e dunque sostanzialmente refrattario nei suoi confronti10. Proprio que-
sta eterogeneità dell’eterno ritorno nei confronti del complesso del-
l’impianto del pensiero nietzschiano giustifica, per altro verso, le inter-
pretazioni di Nietzsche di quegli autori, da Klages a Bäumler a
Heidegger, che privilegiano la volontà di potenza sull’eterno ritorno o
che comunque riconducono quest’ultimo compiutamente nell’orbita
del primo. Già in Klages e in Bäumler infatti si configura chiaramente
qualcosa che diverrà ancor più evidente con Heidegger, e cioè la sostan-
ziale secondarietà dell’eterno ritorno nei confronti della volontà di
potenza. In particolare Klages – ed è ciò che qui particolarmente inte-
ressa – mette in luce in Die psychologischen Errungenschaften Nietzsches11
come Nietzsche costituisca il rappresentante per eccellenza di una filo-

9 Cfr. H. Röttges, Nietzsche und die Dialektik der Aufklärung, De Gruyter, Berlin-New

York 1972, pp. 226 sgg.


10 K. Löwith, Nietzsche e l’eterno ritorno, tr. it. di S. Venuti, Laterza, Roma-Bari 1982,

di cui cfr. in particolare il capitolo quarto, La ripresa anticristiana dell’antichità all’apice della
modernità, pp. 111-126.
11 Barth, Leipzig 1926.
DIONISO CONTRO IL CROCEFISSO 

sofia fondata sullo spirito, a testimonianza di una personalità intellet-


tuale, nonostante tutto, profondamente legata al mondo cristiano. Si
prefigura così, nell’interpretazione klagesiana, un elemento di primissi-
mo rilievo: il sostanziale convergere di metafisica e nichilismo attraver-
so il medium della volontà di potenza. Nietzsche è, agli occhi di Klages,
in positivo l’autore che ha scandagliato le stratificazioni che lo spirito
ha lasciato sull’anima e sulla sua dimensione prettamente contemplati-
va; e la volontà di potenza costituisce l’esempio più illuminante dello
scatenarsi della hybris dello spirito stesso. Nel suo costante procedere
verso la propria trascendenza, essa realizza un tracciato nullificante,
spianando quanto travolge nel suo cammino. Ed è da questo paesaggio
devastante che sorge la visione dell’eterno ritorno dell’eguale, in cui si
palesa la compiuta distruzione della realtà vivente. Qui si trova un
richiamo alla dimensione prettamente contemplativa dell’immagine,
alla quale fa da pendant la contemplazione dell’anima. È così che l’eter-
no ritorno dell’eguale diviene, nell’interpretazione di Klages, l’adegua-
ta immagine del dominio spiritualistico della volontà, che si sovrappo-
ne al divenire del vivente e lo svuota di ogni palpitante contenuto.
D’altro canto si profila qui un indice significativo: il dominio spiritua-
listico della volontà ha le sue radici in quella che potrebbe definirsi
l’ambientazione cristiana del pensiero di Nietzsche. Ed è soprattutto
importante rilevare quanto questa “ambientazione cristiana” sia corre-
lativa al definirsi di un netto scacco delle possibilità mitopoietiche del
religioso. Ma su questo si tornerà più avanti, in termini più circostan-
ziati – e indipendentemente da una particolare interpretazione del pen-
siero nietzschiano – in connessione con le considerazioni concernenti
il confronto tra il tragico antico e quello moderno, tema del quale ci si
occuperà nel prossimo paragrafo.
A prescindere da questo quadro più ampio, non è difficile rintrac-
ciare, a partire dall’itinerario sinora indicato, un cammino che conduce
sino a Heidegger, cioè sino a una delle formulazioni più ampie e influen-
ti del nichilismo contemporaneo. Non sono qui in questione filiazioni
storiche e la loro puntualizzazione storiografica. Quello che si affaccia è
invece, piuttosto, un itinerario nel quale la volontà di potenza, attraver-
so la quale la Moderne si fa strada nel suo tratto profondamente nichili-
stico, esclude da sé quanto di greco le si affiancava, e cioè l’idea dell’e-
terno ritorno dell’eguale. Si potrebbe meglio dire che, nell’interpretazio-
ne heideggeriana, è la volontà di potenza a sussumere sotto di sé l’eter-
no ritorno e a ricondurlo compiutamente nella propria orbita. L’essere
 FEDERICO VERCELLONE

stesso, come si ricorderà – nell’interpretazione heideggeriana di


Nietzsche –, viene a risolversi in volontà di potenza. E la volontà di
potenza non è, per altro verso, che volontà che vuole se stessa, volontà
di volontà, un reiterato tornare su di sé. La filosofia di Nietzsche costi-
tuisce così, per Heidegger, il culmine del divenire della metafisica, in
quanto ne rivela la natura più profonda. La metafisica coincide con l’o-
blio dell’essere, e dunque non solo il suo culmine ma tutta la sua storia
viene a definirsi come nichilismo. Il culmine della vicenda rende in
realtà conto di un divenire che di gran lunga la precede.
La metafisica è in quanto metafisica il nichilismo autentico. L’essenza del nichili-
smo è storicamente la metafisica; la metafisica di Platone non è meno nichi-
listica della metafisica di Nietzsche. Solo che, in quella, l’essenza del nichi-
lismo rimane occulta, in questa viene pienamente alla luce. […] Infatti la
metafisica determina la storia dell’evo [Weltalter] metafisico. L’umanità occi-
dentale, in tutti i suoi rapporti con l’ente, cioè anche con se stessa, viene
retta e guidata, sotto ogni aspetto, dalla metafisica12.

3. Dal tragico antico al tragico moderno

Siamo così giunti attraverso Nietzsche e Heidegger (attraverso l’inter-


pretazione heideggeriana di Nietzsche) alla nota considerazione della
metafisica in quanto nichilismo conseguente. Si è ora costretti però a
fare un passo indietro, per poi tornare successivamente sulla questione
nei termini precedenti. Le considerazioni di Heidegger sulla storia della
metafisica e sulla metafisica come nichilismo prescindono infatti, a ben
vedere, da quell’immenso tentativo che era stato messo in opera dal
romanticismo tedesco e da Goethe, volto a escogitare modi della signi-
ficazione capaci di congiungere l’intuizione all’articolazione discorsiva,
di dotare la significazione di un indice intemporale e per così dire
‘denso’, in grado di resistere a quella sorta di progressivo svuotamento
che culmina nella figura della ‘volontà di potenza’, dotata, nell’ottica
heideggeriana, di un carattere prettamente formale. Per avvicinarci alla
questione, seppure in termini molto generici, la concezione goethiana
del simbolo e quella romantica e protoidealistica del mito erano, per
esempio, con tutta evidenza connesse alla preoccupazione di introdur-
re elementi di stabilità nel divenire temporale, cosicché in esso potesse
rifrangersi una qualche immagine dell’eterno. Si tratta di una lunghissi-

12 M. Heidegger, Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994.


DIONISO CONTRO IL CROCEFISSO 

ma vicenda connessa alle possibilità dell’assoluto di darsi una configu-


razione intuitiva, un tentativo che perdura quantomeno fino alla pro-
duzione del tardo Fichte. Quello che viene a dipanarsi su questa via è
il progetto, che appartiene ai termini originari della Moderne, di con-
giungere grecità e cristianesimo, di accompagnare alla vena escatologi-
ca di quest’ultimo un più originario contenuto tropico-intuitivo che ne
temperi la spinta alla trascendenza temporale, nella quale si annida, a
ben vedere, il germoglio del Wille zur Macht. Viene in altri termini da
chiedersi qui se non sia proprio questo il luogo prospettico a partire dal
quale guardare al pensiero di Nietzsche, capace di farlo considerare
nella sua intrinseca unità. Proprio da questo punto di vista è, infatti, per
altro possibile cogliere il significato dell’antitesi Dioniso-Crocifisso.
Un’antitesi ironica, come sopra si diceva, ma di un’ironia potente, die-
tro la quale si cela una più profonda unità, quella per cui Dioniso pre-
figura il Crocefisso laddove la più antica divinità è l’antecedente della
simbologia eucaristica, secondo quanto Hölderlin aveva inteso in Brot
und Wein. È per l’appunto l’unità di grecità e cristianesimo, che fonda
per molti versi il progetto della Moderne, quella che viene cercata alle
origini del progetto nietzschiano e che va incontro a un tragico falli-
mento, secondo quanto testimonia la chiusa di Ecce homo, che come si
è visto contrappone l’antico e il moderno proprio nelle figure della loro
più profonda unità, Dioniso e il Crocefisso.
In quest’ottica diviene possibile gettare un ponte sul cammino che
conduce dal primo all’ultimo Nietzsche, e tenere insieme lo sviluppo del
suo pensiero come se si trattasse delle scansioni e dell’evoluzione di un
unico progetto. Si guadagna così anche l’unità profonda del pensiero del
cosiddetto primo Nietzsche, quella già a suo tempo rivendicata dal vec-
chio studio di Charles Andler, Nietzsche, sa vie et sa pensée13. Nell’ottica
che sopra si è andata delineando, si può per l’appunto intendere l’unità
del pensiero del primo Nietzsche, del Nietzsche ‘romantico’, mettendo
in rapporto la Nascita della tragedia con la seconda Considerazione inat-
tuale, Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Anche in questo caso –
come poi nella fase culminante del pensiero nietzschiano – abbiamo da
fare con la contrapposizione di antico e moderno che volge in direzio-
ne di una loro più profonda unità. Grecità e cristianesimo si contrap-

13 Cfr. C. Andler, Nietzsche, sa vie et sa pensée, vol. II, Gallimard, Paris 19586, p. 118:

“Nous affirmons la cohésion totale de la pensée de Nietzsche dan ce premier système.


Nous croyons la retrouver vivante et une, à travers les fragments lacérés de ses œuvres
posthumes jusq’aux approches de 1876”.
 FEDERICO VERCELLONE

pongono, nel primo Nietzsche, nelle figure della cultura tragica e di


quella storica; e l’una, la prima, sembra potersi addentrare nell’altra per
sanarne i guasti, cercando così di congiungersi alla seconda per ancorar-
la alla physis (analogamente a quanto avverrà più tardi con l’eterno ritor-
no e la volontà di potenza). Non è possibile, in questo quadro, non cita-
re la chiusa della seconda Inattuale, laddove Nietzsche avverte che anche
i Greci andarono incontro a rischi analoghi a quelli presentati dalla ‘cul-
tura storica’; e tuttavia essi seppero contrapporsi al disorientamento pro-
curato dall’invasione del passato e dell’estraneo concentrandosi sui loro
bisogni più autentici, dando voce alla physis invece di perdersi nei desti-
ni di una fede che punta tutto sull’ultimo giorno.

Ci furono secoli in cui i Greci si trovarono in un pericolo simile a quello in


cui ci troviamo noi, di perire cioè a causa dell’inondazione delle cose stra-
niere e passate, a causa della “storia”. Mai essi vissero in superba intangibilità:
al contrario, la loro “cultura” fu a lungo un caos di forme e di idee straniere,
semitiche, babilonesi, lidiche ed egizie, e la loro religione una vera lotta tra gli
dei dell’intero Oriente: pressappoco come oggi la “cultura tedesca” e la reli-
gione sono un caos – che nasconde una lotta – di tutti gli altri paesi, di tutti
i tempi passati. E tuttavia la cultura ellenica non divenne un aggregato grazie
a quel responso di Apollo. I Greci impararono a poco a poco a organizzare il
caos, concentrandosi, secondo l’insegnamento delfico, su se stessi, vale a dire
sui loro bisogni veri, e lasciando estinguere i bisogni apparenti. Così riprese-
ro possesso di sé; non rimasero a lungo gli eredi sovraccarichi e gli epigoni
dell’intero Oriente; dopo faticosa lotta con se stessi, divennero, con l’inter-
pretazione pratica di quel responso, coloro che ampliarono e accrebbero il
tesoro ereditato, gli anticipatori e i modelli di tutti i popoli successivi.
È questo un simbolo per ognuno di noi: ognuno deve organizzare il caos
in sé, concentrandosi sui suoi bisogni veri. […] Così gli si svelerà il concetto
greco della cultura – in contrapposizione a quello romano – il concetto
della cultura come una nuova e migliorata physis, senza interno ed esterno,
senza dissimulazione e convenzione, della cultura come un’unanimità fra
vivere, pensare, apparire e volere. Così imparerà per esperienza propria che
fu la forza superiore della natura morale, quella con cui i Greci riuscirono a
vincere su tutte le altre civiltà, e che ogni accrescimento di veracità è desti-
nato a essere anche un avanzamento che prepara la vera cultura, sebbene
questa veracità possa anche per caso nuocere seriamente proprio alla “cul-
turalità” che è in stima, e sebbene possa contribuire a far cadere persino
tutta una cultura decorativa14.

14 Opere, III, I, 354-355.


DIONISO CONTRO IL CROCEFISSO 

L’arte e la religione, in quanto potenze sovrastoriche, sarebbero in


grado di ristabilire quell’unità che è andata infranta e dinanzi alla quale
si profila l’individuo moderno, nutrito di cultura storica, destinato a
un’esistenza epigonale e ironica, trasformatosi quasi in un’ombra priva
di sostanza. Il cristianesimo, che defrauda il presente e volge ogni spe-
ranza alla fine dei tempi, è per altro responsabile di questa situazione,
della quale costituisce insieme la scaturigine e l’esito. Ora, la tragedia
sembrerebbe per l’appunto indicare un quadro nel quale la memoria
non si definisce in una chiave storica; in essa si ha piuttosto a che fare
con un’altra dimensione del rammemorare, che s’inoltra nella physis per
elevarsi poi alla sfera dell’apparenza. Com’è noto, la concezione nietz-
schiana della tragedia si fonda su di una commistione di elementi tra-
gici ed epici, cultuali ed epico-narrativi. Si tratta di una sorta di discor-
sività del tragico nella elaborazione della quale si avverte un fonda-
mentale influsso romantico riassumibile nella formula bachofeniana
secondo la quale il mito costituisce l’esegesi del simbolo. Come ha
mostrato Manfred Frank, la questione si definisce in un autore che ebbe
su Nietzsche un significativo influsso, Friedrich Creuzer15. Già Creuzer
si era infatti soffermato sulla polarità conflittuale di apollineo e dioni-
siaco e inoltre – ciò che è fondamentale dal punto di vista della presente
considerazione – aveva visto nel mito una sorta di mobilitazione dei
significati affidati alla brevità espressiva del simbolo. Il simbolo tra-
scorre, in quest’itinerario, nell’allegoria, e perde così quell’efficacia
immediata che è connessa alla comunicazione simultanea dei suoi
significati per assumere un volto più prossimo al pensiero discorsivo16.
È giustificato affermare che si tratta di un movimento che si sviluppa
grazie medium dell’interpretazione. E cioè l’opera chiarificatrice dei
sacerdoti conduce alla rivelazione del logos nascosto. Va sottolineato
che l’approccio di Nietzsche a quella che ai suoi occhi costituisce la
suprema fra le forme d’arte greche presenta notevoli affinità con l’ap-
proccio creuzeriano. Si tratta di un cammino che si potrebbe definire
come un divenire in sé dell’apparenza: si ha infatti a che fare con un
passaggio dalla sfera cultuale a quella della rappresentazione tragica che
ha come proprio medium il mito. In questo percorso la sfera della rap-
presentazione, e cioè Apollo, assume su di sé la verità dionisiaca sino a
15 Cfr. M. Frank, Der kommende Gott. Vorlesungen über die neue Mythologie, Suhrkamp,

Frankfurt a. M. 1982, pp. 93 sgg.


16 Cfr. F. Creuzer, Symbolik und Mythologie der alten Völker besonders der Griechen, Erster

Teil, Heyer und Leske, Leipzig-Darmstadt 18192, pp. 68-72.


 FEDERICO VERCELLONE

dispiegarla compiutamente, e moltiplicarla nel volto molteplice del


mito tragico.
Proviamo dunque a seguire questo cammino. Com’è noto, secondo
Nietzsche, la tragedia si origina in una sfera sacrificale che è quella dello
smembramento e del risorgere dell’unico Dioniso:

L’unico Dioniso veramente reale appare in una molteplicità di figure, nella


maschera di un eroe in lotta, ed è per così dire preso nella rete della volontà
individuale. Quanto alle parole e alle azioni del dio che appare, egli rasso-
miglia a un individuo che sbaglia, che lotta e che soffre; e che egli appaia in
genere con quest’epica determinatezza e chiarezza, è effetto dell’interprete
di sogni Apollo, che con quella simbolica apparenza chiarisce al coro il suo
stato dionisiaco. Ma in verità quell’eroe è il Dioniso sofferente dei misteri,
quel dio che sperimenta in sé i dolori dell’individuazione, e di cui mirabili
miti narrano come da fanciullo fosse stato fatto a pezzi dai Titani e come
poi in questo stato venisse venerato come Zagreus17.

È Apollo dunque a farsi interprete di Dioniso; è grazie ai tratti epici


connessi alla figura apollinea che Dioniso può rivelarsi. Il volto imme-
diato di Dioniso è, infatti, prediscorsivo; è la natura stessa, nelle feste
dionisiache, a cercare la propria espressione nel simbolo. In un secon-
do momento la verità dionisiaca s’impadronisce di tutta la sfera del
mito e ne fa un suo strumento. Ed è proprio nell’aprirsi la via verso il
mito che gli aspetti terrifici connessi al culto dionisiaco si addolcisco-
no, si piegano all’articolazione epico-narrativa. La trasfigurazione nel-
l’apparenza non costituisce tuttavia, per Nietzsche, un semplice volger
lo sguardo dal volto terribile della natura intatta; è anche, al medesimo
tempo, un’opera di rammemorazione di ciò che viene trasfigurato.
Attraverso l’opera purificatrice della trasfigurazione, la tragedia si fa
memoria, si costituisce anzi come la memoria per eccellenza di una cul-
tura che essa contribuisce a fondare e che da essa prende nome. La tra-
gedia si fa memoria di quell’unico Dioniso che, senza l’articolazione
mitica, sarebbe costretto a un tumultuoso tacere. Ciò reca con sé un
indebolimento del conflitto tragico; non solo Nietzsche è consapevole
dell’irripetibilità del tragico antico, della sua appartenenza a un ordine
nel quale il conflitto si configura nella chiave del subire e del destino e
non in quella della responsabilità18; ancor più significativo è forse rile-

17Opere, III, I, 71-72.


18In una chiave profondamente antiaristotelica, Nietzsche afferma per esempio in
Socrate e la tragedia: “L’effetto della tragedia antica non era basato mai sulla tensione, sul-
DIONISO CONTRO IL CROCEFISSO 

vare che il conflitto tragico s’istituisce già sempre nell’orizzonte della


memoria. Le vesti del mito ammantano lo smembramento dell’unico
Dioniso, il vero solo protagonista della scena tragica. Nel moltiplicarsi
dei volti eroici si tiene ferma la memoria di un unico evento fonda-
mentale, che istituisce una cultura e ne costituisce lo sfondo. Esso viene
assunto e trasfigurato nella sfera dell’apparenza apollinea; e questa si fa
così interprete della terribilità originaria della physis intatta e dell’inso-
stenibile spettacolo da questa offerto. Ed è questa interpretante trasfi-
gurazione a dar luogo alla scena tragica:

Il coro dei Satiri è prima di ogni altra cosa una visione della massa dioni-
siaca, come a sua volta il mondo della scena è una visione di questo coro
di Satiri19.

La tragedia viene così a costituirsi nell’orizzonte infinito dell’appa-


renza. È il moltiplicarsi di questa a garantire la rammemorazione e la
sua continuità; si potrebbe anzi affermare che la tragedia è il paradigma
di una cultura in quanto costituisce il tessuto rammemorante di que-
st’ultima. E la stessa continuità del tragico è infine garantita dalla natu-
ra infinita dell’apparenza; si tratta dell’interpretante procedimento
drammatico che muta in discorsività il volto terribile della natura intat-
ta. Entro questo tenue filo il tragico nietzschiano rivela la sua portata
più profonda: non abbiamo tanto a che fare con un orizzonte tenuto
saldo dall’ethos, quanto con la continuità del mythos, e cioè di quell’o-
rizzonte narrativo che istituisce l’esistenza, e del quale la modernità –
stando alle analisi della seconda Inattuale – sarebbe dimentica. La
memoria viene così in qualche modo a stabilizzarsi sul piano dell’apol-
lineo; sul piano del mito tragico si definisce quella stabilità intuitiva,
quel risplendere dell’eterno nel tempo del quale Nietzsche – ci si con-
senta l’espressione paradossale in quanto si tratta di un testo successivo
alla Nascita della tragedia – è alla ricerca nella seconda Inattuale, e che ha
le fattezze paradossali di un’intuizione discorsiva. La memoria storica si
fonde con il divenire della natura, con la vita delle forme, assume le fat-
tezze proprie di una memoria morfologica e approda, su questa via, alle
soglie di un originario che è già sempre incremento e sviluppo piutto-
sto che culmine e compimento come avviene invece – secondo la

l’eccitante incertezza circa quello che sarebbe avvenuto poi, ma piuttosto su quelle gran-
di scene di pathos, ampiamente costruite, in cui il fondamentale carattere musicale del
ditirambo dionisiaco di nuovo risonava possentemente” ( KA, III, II, 32-33).
19 Opere, III, I, 58.
 FEDERICO VERCELLONE

seconda Inattuale – nella struttura escatologicamente ispirata della filo-


sofia della storia.
Si tratta di una proposta estremamente affascinante che sottintende
l’attualità ‘inattuale’ di un equilibrio ormai venuto meno e che, tutta-
via, è sempre riproponibile sulla base dell’intemporale potenziale pla-
stico della physis.
Ma se il processo non fosse invece riattualizzabile? Se il tempo e
l’intuizione discordassero una volta e per sempre? Se, in altri termini, il
rapporto tra cultura e natura si fosse definitivamente interrotto? Se il
rapporto con il motivo greco dentro il moderno fosse venuto tragica-
mente meno?
L’ipotesi che questo equilibrio o, meglio, la possibilità che la comu-
nicazione tra i due ambiti abbia effettivamente dovuto subire un tragi-
co scacco non si affaccia soltanto nel Nietzsche maturo, ma sin da que-
sta prima fase del suo pensiero. È un’ipotesi che sembra proporsi sia nel
frammento della tragedia Empedocle, sia nella breve dissertazione
incompiuta La teleologia a partire da Kant. Nel primo di questi testi si
palesa la rottura del cosmo etico che sosteneva e faceva da fulcro al tra-
gico antico:

Atto primo: Empedocle rovescia la statua di Pan che gli rifiuta la risposta:
egli si sente proscritto20.

Se, in questo frammento, si affaccia il sospetto che il cosmo dell’ethos


antico, che era alla base della tragedia, sia definitivamente tramontato,
nel saggio sulla teleologia si propone una tesi che è in realtà – anche se
non di primo acchito – profondamente consentanea con i contenuti
dell’Empedocle. Le riflessioni sulla teleologia sembrano cioè proporre l’i-
dea che il nesso che connette arte e natura, consentendo una continuità
di linguaggi tra l’una e l’altra, si sia definitivamente interrotto. Ma perché
le due tesi sono fra loro connesse, e perché, una volta accolte, esse met-
tono in discussione l’intera struttura del pensiero del primo Nietzsche?
Ebbene ciò accade in quanto il fondamento etico del tragico non è scin-
dibile dall’epifania naturale del divino che rappresenta, in quest’ottica, il
culmine del divenire teleologicamente orientato della natura, il supremo
compiersi della forma vivente che presiede a una peculiare regione del-
20 Il progetto dell’Empedocle si suddivide in due piani elaborati tra l’inverno del 1870

e il 1871. Sono contenuti in F. Nietzsche, Werke, III, III, Berlin-New York 1978, pp. 129-
130 e 243-247; qui p. 129.
DIONISO CONTRO IL CROCEFISSO 

l’essere. Non si può in questo contesto dimenticare che il rivelarsi di un


momento teleologico nel divenire naturale, a partire quantomeno da
Kant, si definisce nel concetto di organismo, come motivo che prevede
il cooperare, entro un nesso di compiuta reciprocità, di totalità e parti.
Ora è proprio la causalità non meccanica, l’intenzionalità “divina” del-
l’organismo a esser messa in questione da Nietzsche nel saggio sulla
teleologia. Se di finalità si vuol parlare, agli occhi di Nietzsche, ebbene
con ciò non ci si può riferire all’organismo soltanto ma alla vita nel suo
insieme. Il concetto di finalità risulta così troppo generico e, al limite,
neppure riferibile solo alla natura, potendo applicarsi anche a un essere
meccanicamente strutturato. In breve l’idea di una causa finalis, di una
‘Form als Ursache’ è, agli occhi di Nietzsche, insussistente.
Ed è forse da questo punto di vista che è possibile riallacciarsi agli
inizi del nostro discorso. Nietzsche e la Moderne, o, altrimenti detto,
Dioniso contro il Crocefisso, non vorrà allora significare altro che il tra-
scendersi della natura e del divenire nella forma che era riuscita al
mondo greco oggi non è più concepibile. E in ciò consiste il lato tragi-
co della Moderne, o meglio la connotazione specifica del suo versante
tragico, che le è del resto coessenziale. Il conflitto di Dioniso con il
Crocefisso indica che quella trasmutazione in forma che un tempo fu
possibile, e che garantiva la presenza dell’eterno nel tempo, oggi non è
più realizzabile. Le due origini della Moderne non sono allora concilia-
bili ma conflittuali. La scaturigine greca e quella escatologica (ebraico-
cristiana) della Moderne si rivelano dunque, in quest’ottica, come inti-
mamente contraddittorie e conflittuali, tanto che la seconda sembra infi-
ne aver ragione della prima riuscendo compiutamente a espellerla.
Proprio questo inaggirabile Streit costituisce per altro la scaturigine ovve-
ro la radice squisitamente tragica del moderno, il suo restituirsi al tragi-
co dopo averlo espulso da sé. Ed è, in fondo, ancora il tragico conflitto,
del tutto inconciliabile, di queste due origini della Moderne, quello che
si riverbera da un capo all’altro dell’iter nietzschiano. Un conflitto che,
in tutta la sua paradossalità, affiora ancora in quel totale sfaldamento del
cosmo nella volontà di potenza che si affaccia nei frammenti postumi
dell’ultimo periodo, nei quali per l’appunto l’eterno ritorno, la ripeti-
zione, estrema propaggine dell’eterno nel tempo, si accompagna all’in-
sensatezza del divenire, che assume la facies della volontà di potenza:

Se il mondo in genere potesse irrigidirsi, inaridirsi, morire, diventare nulla,


o se potesse raggiungere uno stato di equilibrio, o se avesse uno scopo qua-
 FEDERICO VERCELLONE

lunque, che racchiudesse in sé la durata, l’immutabilità, l’“una volta per


tutte” (insomma, espresso in termini metafisici: se il divenire potesse sfocia-
re nell’essere o nel nulla), allora questo stato dovrebbe essere stato raggiun-
to. E invece non è stato raggiunto: donde segue…[…] Se il mondo può
esser pensato come una determinata quantità di forza e come un determi-
nato numero di centri di forza – e ogni altra rappresentazione rimane inde-
terminata e quindi inservibile – ne segue che esso deve percorrere un nume-
ro calcolabile di combinazioni nel gran giuoco di dadi della sua esistenza.
In un tempo infinito, ogni possibile combinazione sarebbe una volta,
quando che fosse, raggiunta; sarebbe anzi raggiunta infinite volte. E poiché
tra ogni “combinazione” e il suo prossimo “ritorno” dovrebbero essere pas-
sate tutte le altre combinazioni possibili e ciascuna di tali combinazioni
determinerebbe l’intera successione delle combinazioni nella stessa serie,
sarebbe con ciò dimostrato un circolo di serie assolutamente identiche: il
mondo come circolo che si è già innumerevoli volte ripetuto e che prose-
gue il suo giuoco all’infinito21.

Ed è dunque dallo scacco che si è venuto precedentemente descri-


vendo che scaturisce l’insensatezza del divenire. A risultarne è una
visione quasi caricaturale del dionisiaco e della sua originaria esuberan-
za creatrice. Una visione che testimonia indubbiamente del tentativo –
per tornare a Karl Löwith – di reintrodurre la visione antica, ciclica del
tempo sotto le vesti dell’eterno ritorno dell’eguale; ma si tratta tuttavia
di un innesto consapevolmente tragico, conflittuale, che contraffà il
patrimonio genetico del germoglio che viene innestato. Il disperato ten-
tativo di introdurre un’altra volta, questa volta non sotto il cielo greco
ma sotto quello moderno, solcato dai lampi dell’accelerazione tempo-
rale, elementi di quiete e di quantomeno relativa stabilità, mette capo a
una creatura mostruosa, incapace e impossibilitata a risalire verso la cri-
stallina chiarezza della forma:

E sapete che cos’è per me “il mondo”? Ve lo devo mostrare nel mio spec-
chio? Questo mondo: un mostro di forza, senza principio e senza fine, una
salda, bronzea massa di forza, che non diviene né più grande né più picco-
la, che non si consuma ma soltanto si trasforma, in complesso di grandez-
za immutabile, un’amministrazione senza spese né perdite, ma del pari
senza accrescimento, senza entrate, un mondo attorniato dal “nulla” come
dal suo confine, nulla che svanisca, si sprechi, nulla di infinitamente esteso,
ma come una forza determinata è collocato in uno spazio determinato, e

21 Opere, VIII, III, 164-165, 14 [188].


DIONISO CONTRO IL CROCEFISSO 

non in uno spazio che sia in qualche parte “vuoto”; piuttosto come forza
dappertutto, come giuoco di forze e onde di forza esso è in pari tempo uno
e “plurimo”, che qui si gonfia e lì si schiaccia, un mare di forze tumultuan-
ti e infurianti in se stesse, in perpetuo mutamento, in perpetuo riflusso, con
anni sterminati del ritorno, con un flusso e riflusso delle sue figure, pas-
sando dalle più semplici alle più complicate, da ciò che è più tranquillo,
rigido e freddo a ciò che è più ardente, selvaggio e contraddittorio, e ritor-
nando poi dal molteplice al semplice, dal giuoco delle contraddizioni fino
al piacere dell’armonia, affermando se stesso anche in questa uguaglianza
delle sue vie e dei suoi anni, benedicendo se stesso come ciò che ritorna in
eterno, come un divenire che non conosce sazietà, disgusto, stanchezza:
questo mio mondo dionisiaco del perpetuo creare se stesso, del perpetuo
distruggere se stesso, questo mondo di mistero dalle doppie voluttà, questo
mio al di là del bene e del male, senza scopo, se non c’è scopo nella felicità
del circolo, senza volontà, se un anello non ha buona volontà verso se stes-
so – volete un nome per questo mondo? Una soluzione per tutti i suoi enig-
mi? Una luce anche per voi i più celati tra gli uomini, i più forti, i più impa-
vidi, i più notturni? – Questo mondo è la volontà di potenza – e nient’altro! E
anche voi siete questa volontà di potenza e nient’altro!22

Ora la temporalità ha perduto ogni relazione con l’evidenza. Il lasci-


to escatologico-ebraico ha travolto l’eredità greca, destituendo il tempo
di ogni evidenza e intelligibilità che non sia il reiterato e nevrotico
andare da sé a sé. Dioniso, dio due volte sconfitto, si para a questo
punto dinanzi al Crocefisso, che celebra anch’egli nella propria scon-
fitta, nel proprio stesso annullamento la propria divinità. Dioniso si
profila ora come un’alternativa perduta, non con iattanza esuberante e
affermativa, ma a testimonianza di uno Scheitern tragico dal quale la
riflessione nietzschiana non avrà modo di riprendersi. Resta così solo la
Croce, a testimonianza dell’infinita debolezza, fors’anche simbolica,
dell’ultimo dio.

22 Opere, VIII, III, 292-293, 38 [12].


Elio Matassi

Demonicità e ademonicità della musica


La filosofia della musica dei romantici (E.T.A. Hoffmann,
W.H. Wackenroder, J.W. Ritter) e W. Benjamin

1. Tra i tanti problemi che hanno investito la musica agli inizi


dell’Ottocento quello che sicuramente emerge per intensità teorica e per
alcuni controversi ‘passaggi’ è il suo carattere demoniaco o, meglio, a
mio avviso, il rapporto biunivoco demonicità-ademonicità ad essa
immanente. In altri termini, fra queste due dimensioni, apparentemen-
te soltanto contrapposte, sussiste un legame che rende sempre più ‘inter-
no’ il transito dall’una all’altra. Nell’apologia che accompagna la musica
strumentale, per autori come E.T.A. Hoffmann, W.H. Wackenroder e
J.W. Ritter, si intrecciano sottilmente motivazioni ed argomentazioni
che richiamano il demoniaco e, al contempo, l’ademoniaco. Nella
maniera più pregnante si può affermare che le stesse esigenze di fondo
attraverso cui si celebra il carattere demoniaco della musica sono anche
quelle che rendono trasparente il suo contrario. Parlo di rapporto biuni-
voco perché, a mio avviso, in taluni luoghi si può desumere il passaggio
dal demoniaco all’ademoniaco (E.T.A. Hoffmann) e in altri quello inver-
so (W.H. Wackenroder). Un’ambiguità conservata in tutta la sua proble-
maticità in J.W. Ritter e radicalmente spezzata in quell’autore del
Novecento (W. Benjamin) che, pur aprendo un confronto critico con la
filosofia della musica dei romantici1, finisce per privilegiare il plesso
musica-redenzione a quello musica-demoniaco. A questo fine adotto
uno schema di riferimento così impostato: 1) a partire dalla recensione
di E.T.A. Hoffmann alla Quinta di Beethoven verifico come la rivendi-
cazione del demoniaco sia strettamente compenetrata con la struttura
autosufficiente della musica, senza comprometterne in alcun modo il
carattere ademoniaco; 2) tenendo presenti alcune definizioni wackenro-
deriane della musica, “delittuosa innocenza”, “paese della fede”2, dimo-
1W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, tr. it. di F. Cuniberto, Einaudi, Torino 1999.
2 W.H. Wackenroder, Fantasie sull’arte per gli amici dell’arte. Saggi musicali di Joseph
Berglinger, in Id., Scritti di poesia e di estetica, tr. it. di B. Tecchi, Introduzione di F. Vercellone,
Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. 103 e sgg.
 ELIO MATASSI

stro come vi sia l’esigenza inversa di scegliere l’elemento ademoniaco,


quale discrimine decisivo, per arrivare al suo contrario, all’attestazione
delle peculiarità trasgressive della musica; 3) nell’appendice all’opera
postuma di J.W. Ritter, I frammenti di un giovane fisico. Un libro tascabile per
gli amici della natura3, viene prospettata una concezione della musica
dove demoniaco e ademoniaco coesistono ambiguamente in un grande
archetipo indifferenziato; 4) nel geniale saggio Le Affinità elettive di
Goethe4 e nel libro sul Trauerspiel W. Benjamin individua il momento teo-
reticamente decisivo nella correlazione musica-redenzione coapparte-
nenti all’istanza vertical-eterologica della sua filosofia.

2. E.T.A. Hoffmann, sin dall’incipit della sua importante recensione


alla Quinta di Beethoven, chiarisce in maniera esemplare le ragioni per
le quali la musica è l’arte per eccellenza romantica, anzi, a rigore, l’u-
nica veramente romantica in quanto, recidendo ogni legame di suddi-
tanza diretto o indiretto con le altre forme d’arte, apre le porte di un
regno sconosciuto scandito dall’ineffabilità del suo linguaggio. Vi è
una progressione serrata nella classica triade Haydn-Mozart-Beethoven
per il delinearsi affermativo del romanticismo: se in Haydn la voca-
zione romantica è ancora molto embrionale, in Mozart siamo già in
un clima pienamente romantico:

Negli abissi del regno degli spiriti ci conduce Mozart. Paura ci circonda:
ma senza tormento, essa è più presentimento dell’infinito. Amore e malin-
conia risuonano con voci graziose, la notte del mondo degli spiriti si dis-
solve nel chiaro bagliore purpureo, e con inesprimibile desiderio seguiamo
le figure che seducenti ci invitano a seguirle, volando in eterna danza cir-
colare attraverso le nuvole. (p. es. la sinfonia in Mi bemolle maggiore di
Mozart, conosciuta con il nome di “Canto dei cigni”)5.

3 J.W. Ritter, I frammenti di un giovane fisico. Un libro tascabile per gli amici della natura,

tr. it. di G. Baffo, Introduzione di F. Desideri, Edizioni Theoria, Roma-Napoli 1988.


4 W. Benjamin, Le Affinità elettive di Goethe, in Il concetto di critica nel romanticismo tede-

sco, tr. it. di A. Moscati, Einaudi, Torino 1982.


5 E.T.A. Hoffmann, Recensione alla Quinta di Beethoven (aprile-maggio 1810) in Schriften

zur Musik. Nachlese, Winkler Verlag, München 1963, p. 36.


DEMONICITÀ E ADEMONICITÀ DELLA MUSICA 

Mozart rivendica, pertanto, il sovrumano, il meraviglioso che abita lo


spirito interiore, anche se solo in Beethoven si raggiunge il vertice di
questa dimensione sublime:

Ecco che anche la musica strumentale di Beethoven ci introduce nel regno


del misterioso e dello smisurato. Raggi incandescenti trafiggono la notte
profonda di questo regno così che noi percepiamo ombre giganti, che
ondeggiano su e giù, ci circondano soffocandoci sempre di più, e distrug-
gono tutto in noi eccetto il dolore dell’immensa malinconia nella quale
ogni piacere, prima cresciuto fulmineamente con suoni giubilanti, ora
sprofonda e scompare; e solamente in questo dolore, che nutrendosi di
amore, speranza e piacere – senza però distruggerli – vuol far scoppiare il
nostro petto nel pieno fragore armonico di tutte le passioni, noi conti-
nuiamo a vivere da incantati visionari… La musica di Beethoven manovra
le leve del brivido, della paura, del terrore, del dolore e sveglia quell’infi-
nito struggimento che è l’essenza del Romanticismo6.

Queste caratteristiche, che richiamano consapevolmente una filosofia


demoniaca del suono, non devono essere prese alla lettera. Non si trat-
ta di sottolineare semplicemente la proprietà irrazional-trasgressiva
della musica, perché, immediatamente dopo, E.T.A. Hoffmann preci-
sa opportunamente come questo sostrato venga trattato da Beethoven
con un’elevata capacità di Besonnenheit. Vi è una corrispondenza spe-
culare tra contenuti demoniaco-passionali e ponderatezza sonora;
Hoffmann comincia a verificarlo con una raffinatissima ermeneusi tec-
nica sin dal primo allegro: “Il primo Allegro, tempo di 2/4 in Do mino-
re, inizia con il tema principale che consiste in solo due battute e che,
concepito con molta varietà, ricompare in seguito ripetutamente.
Nella seconda battuta una Pausa; poi una ripetizione dello stesso fra-
seggio un tono più basso, e ancora una Pausa; entrambe le volte solo
strumenti a corda e clarinetti. Ancora non è stata neanche definita la
tonalità; l’ascoltatore pensa ad un Mi maggiore. Il secondo violino
riprende il tema principale; nella seconda battuta è adesso decisivo il
tono principale in Do e subito violoncelli e fagotti attaccano in tona-
lità Do minore in cui viola e primo violino entrano in imitazioni, fin-
ché finalmente alla tonalità principale si aggiungono due battute, che,
ripetute tre volte (per l’ultima volta con entrata di tutto il corpo orche-
strale) e finendo con una pausa come dominante, fanno presentire nel-

6 Ibid.
 ELIO MATASSI

l’animo dell’ascoltatore l’immensità, il mistero”7. L’inizio dell’allegro,


che ha caratteristiche di quiete, decide dell’intero pezzo; ne fornisco
qui la partitura

7 Ibid., p. 37.
DEMONICITÀ E ADEMONICITÀ DELLA MUSICA 

Hoffmann insiste coerentemente sull’intreccio fra dimensione


demoniaca e ademoniaca, tra le quali vi è una scansione determinata
in molte circostanze dalla struttura musicale stessa. Per esempio, la
seconda parte comincia nuovamente dal tema principale nella sua
prima apparizione, ma di un terzo più elevata ed interpretata da clari-
netti e corni. In Fa minore, Do minore, Sol minore seguono le frasi
musicali della prima parte, soltanto impostate e strumentate diversa-
mente, fino a che, dopo un ritmo intermedio di solo due tempi, ripren-
dono a vicenda violini e strumenti a fiato e, mentre i violoncelli ese-
guono una figura nel movimento opposto ed i bassi salgono, arrivano
dall’orchestra nel suo insieme i seguenti accordi:
 ELIO MATASSI

Il commento di Hoffmann dimostra in maniera inequivoca che


sentimenti assimilabili al dionisiaco e sensazioni di segno completa-
mente opposto nascono contestualmente dalla stessa struttura:

Sono suoni dai quali il petto, stretto tra terrore e sensazioni dell’immenso,
si libera con violenza; e simile ad una apparizione amorevole, che risplen-
dente illumina la notte trapassando le nuvole, subentra adesso un tema che
nella 59.a battuta della prima parte veniva soltanto sfiorato dal corno in
Mi bemolle maggiore. Prima in Sol maggiore, poi in Do maggiore i violi-
ni declamano alla 8va questo tema, mentre i bassi eseguono una figura
calante, che in un certo senso ricorda l’assieme della 44.a battuta della
prima parte8.

Come si può osservare facilmente, il passaggio dal terrore e dalle


sensazioni dell’immenso all’“apparizione amorevole” è consequenzia-
le. La struttura musicale, nella complessità della sua orditura, rende
possibili capovolgimenti in quanto la sua tessitura non presume una
organizzazione logico-razionale simile a quella del linguaggio. Proprio
questa peculiarità fa capire come il demoniaco possa coesistere con il
suo contrario. Il prosieguo della recensione rafforza tale convincimen-
to; dal punto di vista musicale, infatti, non esiste un pensiero più ele-
mentare di quello su cui Beethoven ha costruito tutto l’Allegro:

Proprio questo dimostra come il grande musicista sia riuscito a


costruire un ordine non frammentato sulla base di una ripetizione con-
tinua delle frasi brevi e dei singoli accordi, che suscita nell’anima quella
Sensucht in cui si esprime il modo d’essere tipicamente romantico.

8 Ibid., pp. 40-41.


DEMONICITÀ E ADEMONICITÀ DELLA MUSICA 

Allo stesso titolo, come un incantevole voce dello spirito, che riem-
pie il petto di consolazione e speranza, risuona il dolce e sempre con-
sistente tema dell’Andante in La bemolle maggiore in 3/8 interpretato
da viola e violoncello. Avviene spesso qui, come nelle sinfonie di
Haydn, che il tema principale venga differenziato in maniera molte-
plice dopo l’inizio delle frasi intermedie.

Il primo Allegro rimane ineguagliabile per originalità e concettua-


lità, anche se sembra sorprendere l’intuizione di fare intervenire una
frase pomposa in Do maggiore con timpani e trombe. Due volte avvie-
ne il mutamento in Do per mezzo di un non armonico scambio:
Lo stesso dicasi per il minuetto, che segue l’andante, dal taglio deci-
samente peculiare. Il commento di Hoffmann dimostra ancora una
volta come il senso di irrequietezza proprio del demoniaco scaturisca
direttamente dal contesto musicale stesso:

Il desiderio irrequieto che il tema portava in sé, è adesso accresciuto fino


ad alimentare una paura che comprime violentemente il petto; dal tema
fuggono soltanto singoli toni interrotti. L’accordo in Sol sembra guidare
verso la fine; il basso mantiene però adesso in pianissimo per quindici bat-
tute il tono principale in La bemolle, e i violini e le viole mantengono lo
stesso la terza di Do, mentre il timpano attacca il Do prima nel ritmo dello
stesso citato Insieme, poi per quattro battute in ogni battuta una volta, poi
per quattro battute per due volte, poi in quarti. Il primo violino riprende
finalmente il primo tema e guida la frase per 28 battute sempre alludendo
a quel tema fino alla settima nota della dominante del tono principale; il
secondo violino e la viola hanno nel contempo mantenuto il Do, il tim-
pano ha mantenuto il Do in quarti, il basso ha attaccato però ugualmente
il tono principale in Sol, dopo avere percorso la scala dal La bemolle al Fa
diesis tornando al La bemolle. Adesso subentrano prima fagotti, poi una
battuta più tardi oboi, tre tempi dopo flauti, corni e trombe, mentre il tim-
pano attacca ininterrottamente il Do in ottave, dopo di che la frase passa
immediatamente all’accordo Do maggiore, con il quale inizia l’ultimo alle-
gro. – Il perché il maestro abbia lasciato fino in fondo al timpano il Do,
dissonante verso l’accordo, si spiega con il carattere che ha tentato di dare
 ELIO MATASSI

al tutto. Quei battiti sordi delle loro dissonanze, che sembrano una voce
sconosciuta e tremenda, suscitano i brividi del sovrumano – la paura degli
spiriti9.

Hoffmann ha menzionato prima l’effetto crescente del tema che si


allarga di qualche battuta, poi per tentare di chiarire meglio quell’ef-
fetto inserisce gli allargamenti:

Durante la ripetizione della prima parte questa frase appare nel


modo seguente:

L’analisi di Hoffmann, sconvolgendo i parametri di una vulgata


consolidata secondo cui il soggetto avrebbe avuto la meglio nella sua
contesa con il destino, raggiunge il suo vertice nell’interpretazione
della parte conclusiva della Quinta di Beethoven. Sembra quasi, è stato
commentato da qualcuno10, che un brivido nichilista attraversi le note
conclusive, come Hoffmann registra puntualmente:

Gli accordi finali sono regolati in maniera speciale; poiché dopo l’accordo
che l’ascoltatore pensa sia l’ultimo, si susseguono un tempo di pausa, lo
stesso accordo, un tempo di pausa, ancora l’accordo, un tempo di pausa,
poi per tre battute in ognuno in quarti di note una sola volta l’accordo, un
tempo di pausa, l’accordo, un tempo di pausa, Do unisono attaccato dal-
l’orchestra intera. Il completo acquietamento dell’animo provocato da più
figure finali allineate, viene annientato da quegli accordi singolarmente

9 Ibid., p. 47.
10 M. Giani, Lo sguardo di Euridice. La V di Beethoven, in AA.VV., Van Beethoven. Le sinfo-
nie e i concerti per pianoforte e orchestra, a cura di A.L. Bini, Skira, Milano 2000.
DEMONICITÀ E ADEMONICITÀ DELLA MUSICA 

intonati nelle pause, che ricordano gli attacchi singoli nell’Allegro della
sinfonia, di nuovo soppressi tal che l’ascoltatore è per via di questi ultimi
accordi di nuovo preso dall’ansia. Questi agiscono come un fuoco che si
pensava estinto e che nuovamente divampa alto e fiammeggiante11.

Il problema si riapre proprio nel momento in cui sembrava risolto.


Hoffmann, pur essendo il primo recensore della Quinta, dimostra di
essere immune da qualsiasi tentazione trionfalistica: la contesa che
sembrava chiusa con il successo del soggetto torna ad essere proble-
matica. Una problematicità che, dimostrando la coesistenza di demo-
niaco e ademoniaco, di sublime e malinconico, attraversa tutta l’er-
meneusi della Quinta. Per la musica non possono valere le stesse opzio-
ni che ispirano il linguaggio; è indispensabile munirsi di una forma
mentis completamente diversa e preziosi aperçus di questa via vengono
forniti dallo stesso Hoffmann interprete di Beethoven.

3. Se Hoffmann contribuisce in maniera determinante ad approfon-


dire il primo versante del nesso demoniaco-ademoniaco, Wackenroder
illumina la direzione inversa ossia il passaggio dalla struttura ademo-
niaca della musica ai suoi effetti trasgressivi (demoniaci). Vi sono nei
suoi saggi riconoscimenti espliciti di questo particolare movimento;
per esempio, in una occasione viene precisata la differenza abissale che
separa il ‘linguaggio’ della musica da quello verbale:

… la parola enumera, nomina e descrive le trasformazioni di questa cor-


rente, servendosi di un materiale a questa estranea; la musica invece ci fa
scorrere davanti agli occhi la corrente stessa12.

Altrettanto rilevante appare la sua filosofia del suono: i suoni presu-


mono già nella propria costituzione effetti straordinari ed imprevedi-
bili (il sublime, il demoniaco). Le stesse relazioni armoniche che si
verificano tra i suoni postulano una corrispondenza con la varietà e la
molteplicità del sentire umano:

Ma l’oscuro e l’indescrivibile, che giace nascosto nell’effetto di ogni suono


e che non si può trovare in alcun’altra arte, ha raggiunto con questo siste-
ma una meravigliosa importanza. Tra le relazioni matematiche dei singoli

11 E.T.A. Hoffmann, Recensione alla Quinta di Beethoven, cit., pp. 49-50.


12 W.H. Wackenroder, La particolare profonda essenza della musica e gli insegnamenti della
musica strumentale di oggi, in Id., Scritti di poesia e di estetica, cit., p. 127.
 ELIO MATASSI

suoni e le diverse fibre del cuore umano si è manifestata un’inspiegabile


simpatia, attraverso la quale l’arte dei suoni è divenuta un meccanismo
ricco e docile per la descrizione dei sentimenti umani13.

Il passaggio dal modo-di-essere della musica al demoniaco interpreta-


to come dimensione che travalica i limiti naturali diventa paradigma-
tico in un’altra circostanza:

Per custodire dunque i sentimenti sono state fatte diverse e belle inven-
zioni, così sono nate tutte le arti. Ma io ritengo la musica come la più
meravigliosa di queste scoperte, poiché essa rappresenta i sentimenti umani in
una maniera soprannaturale, ci mostra incorporeamente, al di sopra del
nostro capo, rivestiti in nuvole d’oro di leggiadre armonie, tutti i movi-
menti del nostro animo; poiché la musica parla una lingua che noi non
conosciamo nella vita ordinaria, l’abbiamo imparata non sappiamo dove e
come, e soltanto e si potrebbe credere che essa sia la lingua degli angeli14.

La specificità irriducibile della musica viene colta da Wackenroder


nel più classico dei problemi, la correlazione musica-tempo. Si è spesso
ripetuto che la musica è un’arte intrinsecamente temporale, ma
Wackenroder ne precisa lucidamente la portata: la musica si oppone
all’irreversibilità del tempo, anche se tale conflitto rimane ancora inter-
no alla stessa sfera temporale. Questo essere contestualmente contro e nel
tempo esemplifica in maniera decisiva la compenetrazione di ademo-
niaco-demoniaco. Il luogo letterariamente suggestivo in cui viene cele-
brata tale concezione è La meravigliosa favola orientale di un santo ignudo15.
La fiaba recita di un santo ignudo che viveva in una caverna solitaria;
egli non aveva pace nella sua dimora perché veniva ossessionato dalla
ruota del tempo che girava in maniera meccanicamente irreversibile:

Egli non poteva far nulla a causa di questo frastuono, niente poteva intra-
prendere; la violenta angoscia, che lo affaticava in un lavoro senza riposo,
gli impediva di vedere o di udire qualunque cosa, come se la terribile ruota
girasse e rigirasse nell’aria con un gran fragore, con un potente rombo di
vento in tempesta, fino ad arrivare alle stelle e più su16.

13Ibid., p. 124.
14W.H. Wackenroder, I miracoli della musica, in Id., Scritti di poesia e di estetica, cit., p.
113. I corsivi sono miei.
15 W.H. Wackenroder, La meravigliosa favola orientale di un santo ignudo, in Id., Scritti di

poesia e di estetica, cit., pp. 105-109.


16 Ibid., pp. 105-106.
DEMONICITÀ E ADEMONICITÀ DELLA MUSICA 

Il santo ignudo rimane avvinto dal movimento incessante della


ruota del tempo e non riesce in alcun modo a comprendere le inter-
rogazioni e le richieste di chiarimento dei passanti. Questo stadio di
completa soggezione alla irreversibilità del tempo durò parecchi anni,
giorno e notte. Finalmente questo stato di totale prostrazione venne
meno in una notte incantevole. Due innamorati che volevano abban-
donarsi completamente alle meraviglie della solitudine notturna su
una barca leggera risalivano il fiume che scorreva accanto alla grotta
rocciosa del santo:

Dalla barca una musica eterea saliva ondeggiando nell’ampiezza del cielo:
dolci corni o non so quali altri incantevoli strumenti suscitava un mondo
nuotante di suoni, e nelle note, che ora salivano ora scendevano a ondate,
si poteva distinguere il seguente canto:

Dolci brividi accarezzano


l’acqua e i campi addormentati,
della luna i raggi formano
letto ai sensi inebriati.
Ah, come attira l’onda, e sussurra,
e il cielo specchiasi nell’acqua azzurra.

Astri su nel cielo brillano,


astri brillan giù nei flutti:
se non fosse Amore ad accenderli,
spenti resterebber tutti;
e nel respiro che il ciel disserra
ridono il cielo l’acqua e la terra.

Su ogni fior la luna stendesi,


dormon già tutte le palme;
dell’Amor suona la musica
nelle selve austere e calme:
dal tenue suono la palma e il fiore
sognando apprendono il dolce Amore17.

La musica sortisce l’effetto di fermare la devastazione del tempo; il


santo ignudo viene finalmente liberato dalla schiavitù della rombante

17 Ibid., p. 108.
 ELIO MATASSI

ruota. Pur seguendo il ritmo del tempo la musica ha la straordinaria


capacità di fornire un significato al suo cieco movimento. Il rovescia-
mento temporale è anche la miglior sottolineatura di come ademoni-
cità e demonicità possono compenetrarsi fino all’estremo.

4. Il luogo teoreticamente paradigmatico di una concezione della


musica liberata da qualsiasi soggezione rispetto alle altre dimensioni ed
in particolare alle parole si può ritrovare nell’Appendice ai Frammenti di
un giovane fisico di J.W. Ritter. La musica viene interpretata come l’uni-
co linguaggio veramente universale, il grande archetipo di ogni forma
di linguaggio a tal punto che anche gli idiomi nazionali sono da con-
siderarsi come delle individualizzazioni dimidiate se non corrotte della
musica stessa. Vi sono tre diversi profili da valutare: a) la pura condi-
zione sonora che rappresenta il punto più alto della curva del linguag-
gio; b) il canto degli uccelli, una forma ibrida tra sonorità e comuni-
cazione linguistica; c) il linguaggio propriamente umano in cui si è
definitivamente consumata la scissione tra momento sonoro e comu-
nicativo del linguaggio. Il grande archetipo iniziale, l’indifferenziato da
cui procedono per decadimento le stesse lingue nazionali, circoscrive
uno stadio incontaminato del suono, dove non è neppure possibile
formulare la distinzione ademonico-demonico. Siamo al di qua o al di
là di tale distinzione, delle ragioni stesse che presiedono a tale
Differenz; il suono nella sua essenza le contempla entrambe nella loro
indifferenza. Questa è probabilmente l’interpretazione più radicale che
sia stata mai fornita della musica e non è casuale se J.W. Ritter venga
menzionato da Charles Rosen ne La generazione romantica18. Si può
addirittura affermare che questo autore romantico sia l’antesignano
più conseguente dell’idea di ‘musica assoluta’, anche se è stato privato
del riconoscimento dovutogli dal musicologo che più di ogni altro ha
insistito sul paradigma estetico della absolute Musik, Carl Dahlhaus19.

18 C. Rosen, La generazione romantica, tr. it di G. Zaccagnini, Adelphi, Milano 1997, in

particolare pp. 83 e sgg.


19 Mi permetto di rinviare ad un mio saggio, E. Matassi, Alle origini del paradigma este-

tico della musica assoluta: J.W. Ritter, in Aa.Vv., Arte, Natura, Storicità, Luciano editore,
Napoli 2000, pp. 147-152.
DEMONICITÀ E ADEMONICITÀ DELLA MUSICA 

5. Walter Benjamin, pur attingendo ampiamente alla filosofia della


musica dei romantici, si ispira al plesso argomentativo musica-reden-
zione in antitesi a musica-demoniaco. Una prospettiva ignorata dalla
letteratura più strettamente accademica, ma ben presente in lavori di
grande respiro come quello dell’amico carissimo, troppo precocemen-
te scomparso, Gianni Carchia o di Stéphane Mosés. Basti ricordare la
conclusione del lavoro postumo di Carchia, Nome e immagine. Saggio su
W. Benjamin, dove si coglie correttamente il carattere dell’idea benja-
miniana che “non appartiene più al campo della visione, al theorein,
non è più afferramento del mondo da parte della coscienza soggettiva.
Piuttosto, idea significa qui ascolto, rifluire dei fenomeni verso il
richiamo della loro radice sensibile”20. Anche Stéphane Mosés sottoli-
nea, per Benjamin, il ruolo centrale della funzione del suono e dell’a-
scolto nella percezione della verità: “Come nella tradizione biblica, la
rivelazione della verità non è visiva, bensì uditiva”21. A conferma di
tale ispirazione di fondo basterebbe riflettere sulla fenomenologia del-
l’apparenza e sull’esperimento eidetico prospettato in un geniale fram-
mento, Über Schein, non entrato nell’edizione definitiva del grande sag-
gio sulle Affinità elettive di Goethe ma tematicamente e cronologica-
mente connessovi22. Dopo aver compiuto una disamina del concetto
di apparenza ed averne fornito una vera e propria classificazione – a)
‘apparenza’ che bisogna scandagliare (l’errore); b) ‘apparenza’ come ciò
da cui bisogna fuggire (la sirena); c) come ciò cui non bisogna presta-
re attenzione (l’argento vivo); d) come ciò dietro cui si nasconde qual-
cosa (l’apparenza seducente: la figura femminile della leggenda medie-
vale, il cui dorso è divorato dai vermi, mentre la parte anteriore con-
templa un bell’aspetto); e) da ultimo, ‘apparenza’ come ciò dietro cui
si nasconde il nulla (la fata morgana o chimera) – Benjamin, coniu-
gando strettamente lo Schein alla dimensione visiva, prosegue con un
esperimento eidetico:

... un tale attraversa la strada e dalle nuvole gli appare, inclinata verso di
lui, una carrozza con quattro cavalli. In un’altra occasione ode invece
risuonare dalle nuvole una voce che gli dice: ‘Hai dimenticato a casa il tuo
portasigarette’. Se nell’analisi di entrambi i casi non è presa in considera-

20G. Carchia, Nome e immagine. Saggio su W. Benjamin, Bulzoni, Roma 2000, p. 127.
21S. Mosés, L’ange de l’histoire. Rosenzweig, Benjamin, Scholem, Seuil, Parigi 1992, p. 135.
22 W. Benjamin, Sull’apparenza, in Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, tr. it. di A.

Moscati, Einaudi, Torino 1982, pp. 261-263.


 ELIO MATASSI

zione la possibilità dell’allucinazione – dunque di un fondamento sogget-


tivo per l’apparenza – ne risulta che nel primo caso è pensabile che dietro
il fenomeno stia il Nulla, mentre nel secondo caso ciò non è pensabile.
L’apparenza in cui si manifesta il Nulla è l’apparenza più possente, la pro-
pria. Questa è dunque pensabile soltanto nel visivo23.

La distinzione fra Sehen e Hören, prospettata in maniera pregnante-


mente ellittica, risulta decisiva. La correlazione musica-redenzione,
coappartenenti al momento vertical-eterologico della filosofia benja-
miniana, è documentabile in maniera particolare nel saggio sulle
Affinità elettive dove si può proporre una lettura ‘musicologica’ che ne
esplichi la esoterica Disposition articolata in tesi, antitesi e sintesi24.

6. Nel saggio sulle Affinità elettive goethiane Benjamin, mettendo in


discussione il rapporto tra musica e apparenza, trascende il demonia-
co per abbracciare la redenzione. Tra le forme di Schein discusse quel-
la più pregnante risulta la bellezza di Ottilia, una forma di apparenza
che sta venendo meno, profondamente diversa, per esempio, dalla bel-
lezza abbagliante di Luciana o di Lucifero. Mentre la figura dell’Elena
goethiana e quella più celebre di Monna Lisa devono il segreto della
propria magnificenza alla contesa fra queste due forme di apparenza,
l’Ottilia goethiana è, secondo Benjamin, tutta dominata dalla sola
apparenza che si sta spegnendo. Tuttavia, essa risulta importante per-
ché “solo quest’ultima permette la comprensione della bella apparen-
za in generale e solo in essa l’apparenza si dà a riconoscere come
tale”25. Il destino dello Schein sta nel suo estinguersi, nel momento
della decadenza e non in quello della affermazione; il ruolo decisivo
di questo processo è assolto dall’arte per eccellenza meno compro-
messa con l’apparenza, la musica. Se la genialità goethiana si esplica in
una dimensione fabbrile, plastica, poietica, esaltando visibilità ed eter-
na presentificazione, la musica sta a denotare tutta l’alterità potenzia-
le, indirizzandosi verso l’ascolto interiore, la chiaroveggenza, il miste-
ro della redenzione, la possibilità di dare spazio alla speranza.

23 Ibid., p. 261.
24 La Disposizione. Per ‘le Affinità elettive’ si trova in Il concetto di critica..., cit., pp. 268-271.
25 W. Benjamin, Le Affinità elettive di Goethe, cit., p. 238.
DEMONICITÀ E ADEMONICITÀ DELLA MUSICA 

Una volta riconosciuta la centralità tematica della musica, si può


tornare con accresciuta consapevolezza per disvelarne il significato,
alla esoterica Disposition. Il segreto della struttura triadica adottata sta
nel primato della musica che chiarisce in maniera irrefutabile il primo
elemento della struttura triadica, il mitico come tesi o, in altri termini, il
destino di una colpevolezza cieca. La colpa originaria, metafisica,
dinanzi alla quale non vi è responsabilità alcuna, potrà essere riscatta-
ta, redenta, solo dalla musica che copre contestualmente l’area del-
l’antitesi (la redenzione) ma anche quella della sintesi (la speranza). La
musica, quale alternativa utopica ma al contempo concreta e costrut-
tiva, ritrova il suo suggello nella conclusione del saggio sulle Affinità
elettive goethiane: “Solo per chi non ha più speranza è data la speran-
za”. La scelta di Benjamin va nella direzione opposta a quella di
Goethe che vede nella musica in maniera angusta e riduttiva la miti-
gatrice degli affanni e la conciliazione con il mondo. La redenzione è
un’alternativa ad un estetismo edulcorato, perché ci si possa liberare
per sempre dello Schein:

Così la speranza finisce per liberarsi dell’apparenza; ed è solo come una


domanda tremante che, alla fine del libro, quel come sarà bello risuona
dietro i morti, che, se mai possiamo sperare che si ridestino, non è già in
un mondo bello, ma in un mondo beato26.

Questa scelta trova un riscontro importante nel concetto di


Ausdrucksloses, del privo di espressione, quella potenza critica “che se
non può separare, nell’arte, l’apparenza dall’essenza, vieta però loro di
mescolarsi”. Il privo di espressione, rappresentando quella cesura nel-
l’opera percepibile (vernehmbar) solo come interruzione del ritmo lin-
guistico, diventa il paradigma compiuto di un’estetica e metafisica del-
l’ascolto che ritrovano un riscontro importante nella Premessa gno-
seologica al Trauerspiel; qui la verità viene concepita da Benjamin come
una struttura discontinua formata da idee, le idee sono nomi ed il loro
rapporto è di risonanza:

Ogni idea è un sole, e il suo rapporto con le altre idee è come un rapporto
fra altrettanti soli. Il risonante (tönende) rapporto fra queste sfere è la verità27.

26Ibid., p. 253.
27W. Benjamin, Premessa gnoseologica al Dramma barocco tedesco, tr. it. di F. Cuniberto,
Einaudi, Torino 1999, pp. 12-13 (trad. it. modificata).
 ELIO MATASSI

Se la scelta di Benjamin è chiaramente a favore della musica, l’uni-


ca arte che non scende a compromessi con lo Schein, questa scelta è
altrettanto valida per la redenzione. La metafisica totalizzante del
suono, il fondamento ultimo dell’ispirazione benjaminiana, approda
ad un esito diverso da quello degli autori romantici già esaminati.
Raffaele Milani

Demoni del mutamento*

L’immaginazione ci permette, a volte, d’intuire o di scoprire l’ordine


nascosto di una lingua universale che la natura stessa modella e arti-
cola attorno a noi. È una lingua soggetta al molteplice e al mutevole,
nonché intrisa di miti e simboli, tra i dati della morfologia del territo-
rio, della storia e della cultura. Nella mobilità del nostro sguardo e del
nostro sentire osserviamo le cose svolgersi attraverso sequenze di segni
e rappresentazioni che ci accompagnano e ci corrispondono. Pro-
viamo allora la sensazione di vivere un’esperienza ricca di figure,
forme, metafore. Immagini vive che ci appaiono come una fluttuazio-
ne di tipo musicale e di difficile riproduzione. Possiamo anzi dire di
essere coinvolti, piacevolmente coinvolti in questa estasi della perce-
zione. Così accade quando un angolo di paesaggio, prima non valo-
rizzato ai nostri occhi, conquista il nostro sguardo e ci porta a pensa-
re di essere, noi stessi, osservati da ciò che stavamo contemplando.
Scopriamo di partecipare a una trasformazione: gli alberi, la collina, la
valle, le montagne, i campi, tutto ciò che compone il paesaggio alla
mia vista si è fatto più vicino per una specie di fusione, di atto d’a-
more, d’incanto. Io mi vedo e sono ovunque. La lontananza è sparita
in una vicinanza. La percezione non è mutata in una descrizione, ma
in un’illuminazione.
In questo genere di esperienza il campo del visibile mostra elemen-
ti normalmente invisibili. La nostra visione della natura è come posse-
duta da un demone che trasforma i paesaggi e noi stessi. Per uno slan-
cio dell’immaginazione ci ritroviamo in una retorica dell’ineffabile.
Magiche attrazioni sospingono così gli uomini dal visibile all’invisibile,
nell’incanto della terra, nell’estasi dei luoghi, nella sacralità delle mon-

* In una conversazione avuta con Gianni Carchia nel marzo del 1995 si parlò di paesaggio e

fiorì il tema del mutamento e del suo demone. In queste pagine ho voluto sviluppare delle rifles-
sioni ispirate a quella conversazione.
 RAFFAELE MILANI

tagne, delle grotte, delle fonti1. Possiamo anche avvertire, in questa


visione mistica, come ha sostenuto J. Richer, una certa specularità tra
terra e cielo. I Greci, come gli Egizi, avevano infatti trasformato il loro
paese in un’immagine vivente del cielo, con una corrispondenza di
segni astrali. Essi avevano istituito una geografia sacra entro la quale
Delfi, Sardi e Delo apparivano come i centri di tre grandi ruote zodia-
cali e a questo sistema di “modulazione planetaria” obbediva la strut-
tura e la disposizione dei templi, la decorazione dei timpani e delle
anfore ecc.2 Accanto alla visione mistica troviamo eventualmente un’al-
tra, interessante lettura parallela, utile a comporre il campo della perce-
zione del paesaggio, legata alla fisiognomica delle forme del territorio,
dalle antiche narrazioni alle più moderne rappresentazioni di certi pit-
tori fiamminghi.
Il demone, la forza che attraversa allo stesso tempo l’uomo, con le
sue rappresentazioni, e la natura, con le sue forme, può essere in parte
individuato muovendo da un’osservazione di V. Ròzanov3 secondo il
quale certe immagini che percepiamo naturalmente sono quadri anco-
ra prima d’essere soggetti di elaborazione pittorica. È la natura, varia-
mente composta, aggregato di cellule, a creare forme diverse. Esse
sono nella nostra mente prima di divenire vere e proprie rappresenta-
zioni nell’arte figurativa. Si può così dire che la natura è oggetto di
contemplazione in base proprio a questo scambio, perché l’uomo vi
figura come posseduto dalle immagini che lui stesso naturalmente crea
in certe condizioni. D’altra parte, come sappiamo da D. Freedberg4, le
immagini non si limitano a fissare la nostra memoria, ma ci spingono
all’empatia, a uno scambio incessante. Esse sono legate al passaggio
dal visibile all’invisibile lungo un percorso “meditativo”. Nella Grecia
antica, per esempio, come ha spiegato Kerényi5, visione e mito, epifa-
nia e mitologia s’influenzavano a vicenda e spingevano a erigere
immagini cultuali. Il tema qui era in particolare l’apparizione e la tra-

1 Su questi temi si veda: D.L. Carmichael, Sacred Sites, Sacred Places, Routledge,

London-New York 1994.


2 J. Richer, Géographie sacrée du mond grec (1983), tr. it. Geografia sacra del mondo greco,

Rusconi, Milano 1989.


3 V. Ròzanov, Foglie cadute, Adelphi, Milano 1989, p. 74.
4 D. Freedberg, The Power of Images (1989), tr. it. Il potere delle immagini, Einaudi, Torino

1993.
5 K. Kerényi, Dionysos. Urbild des unzerstorbaren Lebens (1976), tr. it. Dioniso. Archetipo

della vita indistruttibile, a cura di M. Kerényi, Adelphi, Milano 1992.


DEMONI DEL MUTAMENTO 

sformazione del dio. Il vedere era considerato una tappa obbligata


verso il soprannaturale. Vi era una stretta connessione tra il luogo, la
visione e il suo dio abitatore. Insomma, per usare un’espressione di
Kerényi, ci troviamo davanti ad una “trascendenza della natura”6.
Dallo studio di alcune rappresentazioni minoiche emerge quel gesto
dell’apparire che è tipico della dea o della ninfa, quel loro ondeggiare
sospese nell’aria per terminare con la mano alzata in un moto a spira-
le. Mentre i luoghi sono scelti come sedi di magiche, straordinarie epi-
fanie. L’area del Mediterraneo d’altra parte ospita non soltanto magi-
che apparizioni e sparizioni, ma anche tante morti e resurrezioni, da
Dioniso a Cristo, attraverso varie religioni e culti7. Ciò nel segno
appunto di una “trascendenza della natura”, di una demonizzazione
del cosmo che presenta i miti della creazione secondo il percorso
umano descritto, dal visibile all’invisibile8. Non sono inoltre da esclu-
dere, nel nostro esame, tra le figure archetipiche, le ninfe; proprio per
i riferimenti ai luoghi eletti, per il dono stesso del rapimento estatico

6 Ibid., pp. 39-41.


7 La relazione tra culto dei luoghi, apparizione e sparizione degli dei viene trattata in
P. Xella (a cura di), Quando un dio muore. Morti e assenze divine nelle antiche tradizioni mediter-
ranee, Essedue, Verona 2002.
8 In questo quadro si possono segnalare vari importanti studi che contengono utili

riflessioni sui confronti prospettati: R. Caillois, Les démons de midi (1937), tr. it. I dèmoni
meridiani, Introduzione di C. Ossola, Bollati Boringhieri, Torino 1988; J. Campbell, The
Masks of God. Creative Mythology (1968), Mondadori, Milano 1992; I.P. Couliano,
Expériences de l’extase (1984), tr. it. Esperienze dell’estasi, Laterza, Roma-Bari 1986; I.P.
Couliano, Out of the World (1991), tr. it. I viaggi dell’anima, Mondadori, Milano 1991; R.
Calasso, La letteratura e gli dei, Adelphi, Milano 2001; G. de Santillana, H. von Dechend,
Hamlet’s Mill. An Essay on Myth and the Frame of Time (1969), ed. it. a cura di A. Passi, Il
Mulino di Amleto. Saggio sul mito e la struttura del tempo, Adelphi, Milano 1983; J. Ferguson,
Among the Gods (1989), tr. it. Fra gli dei dell’Olimpo. Un’indagine archeologica sulla religione della
Grecia antica, Laterza, Bari 1991; R. Graves, Greek Myths, tr. it. I miti greci (1955), Longanesi,
Milano 1963; K. Kerényi, Die Mythologie der Griechen (1958), tr. it. Gli dei e gli eroi della Grecia,
Garzanti, Milano 1984; S. Larsen, The Mythic Imagination (1990), tr. it. L’immaginazione miti-
ca, Pratiche, Parma 2001; G. Pugliese Carratelli (a cura di) Le lamine d’oro orfiche. Istruzioni
per il viaggio oltremondano degli iniziati greci, Adelphi, Milano 2001; J. Seznec, La survivance
des dieux antiques (1980), tr. it. La sopravvivenza degli antichi dei. Saggio sul ruolo della tradizio-
ne mitologica nella cultura e nell’arte rinascimentali, Bollati Boringhieri, Torino 1981; J.P.
Vernant, Les origines de la pensée grecque (1962), tr. it. Le origini del pensiero greco, Editori
Riuniti, Roma 1976. Tra gli studi di antropologia sociale segnalo il prezioso Indigenous
Traditions and Ecology. The Interbeing of Cosmology and Community, a cura di J.A. Grim,
Cambridge (Massachusetts) 2001, distribuito da Harvard University Press per il Center for
the Study of World Religions Harvard Divinity School.
 RAFFAELE MILANI

che offrono all’uomo. Si legge negli Inni Orfici, precisamente nell’in-


vocazione Profumo delle Ninfe:

Ninfe, figlie di Oceano dal grande cuore,


che avete le case sotto i recessi della terra posati sull’acqua,
correte nascoste, nutrici di Bacco, ctonie, date grande gioia,
nutrite frutti, siete nei prati, correte sinuosamente, sante,
vi rallegrate degli antri, gioite delle grotte, vaganti nell’aria,
siete nelle sorgenti, veloci, vestite di rugiada, dall’orma leggera,
visibili, invisibili, ricche di fiori, siete nelle valli,
con Pan saltate sui monti, gridate evoé,
scorrete dalle rocce, melodiose, ronzanti, errate sulle montagne,
fanciulle agresti, delle sorgenti e che vivete nei boschi,
vergini odorose, vestite di bianco, profumate alle brezze,
proteggete i caprai e i pastori, care alle belve, dagli splendidi frutti,
che vi rallegrate delle sorgenti, delicate, che molto nutrite e favorite la crescita,
fanciulle Amadriadi, amanti del gioco, dagli umili sentieri,
di Nisa, invasate, guaritrici, vi allietate della primavera9.

La mirabile relazione tra luogo e divinità è, in questo passo, chiaris-


sima e serve a spiegare maggiormente il passaggio dal materiale all’im-
materiale nell’incontro tra uomo e natura. Il gesto degli dei, nell’espe-
rienza visionaria dell’apparire, si traduce storicamente con le rappresen-
tazioni pittoriche. Infatti, è attraverso l’arte che noi ritroviamo i segni di
quel volo e di quell’empatia che abbiamo analizzato. Come notava C.
Lévi-Strauss, “le passage de la nature à la culture trouve dans l’art une
manifestation privilegée”10. Tuttavia sono i demoni del mutamento, che
possono incrociare a volte quelli meridiani, a chiarire la forza di tali figu-
razioni; essi potenze anonime, sostanzialmente invisibili, in una posi-
zione indefinita e in parte angoscianti per l’uomo.
Nella prospettiva di M. Eliade la contemplazione della natura si
fonda su di un vedere legato al sacro che si manifesta per mezzo di
oggetti e di esseri i quali divengono tutt’altro, senza tuttavia cessare di
partecipare al loro ambiente naturale. Un albero sacro resta un albero
pur significando qualcosa di diverso da un albero, qualcosa della natura
9 Inni Orfici, a cura di G. Ricciardelli, Mondadori, Fondazione Lorenzo Valla, Milano

2002, p. 135. Sul tema della ninfa ringrazio, per i suoi preziosi suggerimenti, Paola Goretti
di cui segnalo, in corso di stampa per “Schede umanistiche” il saggio Il problema dell’antico
nelle mode del Quattrocento: le vesti “alla ninfale” .
10 G. Charbonnier, Entretiens avec C. Lévi-Strauss in A. Roger, a cura di, Nus et Paysages,

Aubier, Paris 1978, p. 21.


DEMONI DEL MUTAMENTO 

diversa dalla sua natura d’albero e così via. La realtà del sacro è per
Eliade la realtà invisibile del numinoso e per ciò stesso costituisce qual-
cosa d’ineffabile11. A riprova di ciò ricordiamo che, nel cosiddetto “giar-
dino di Afrodite”, Saffo mostra l’epifania della dea con la malìa del-
l’ambiente naturale e allo stesso tempo presenta una vertigine sinesteti-
ca. In un incantato sacrario di alberi e profumi scopriamo l’aura del
naturale e del numinoso, dell’esperienza sensibile e della sacralità.
Altrove, nell’Edipo a Colono, primo stasimo, vv. 668-719, assistiamo a
un’estesa epifania della natura: l’ambiente spontaneo, sede degli dei,
convive con quello produttivo dell’uomo. È una celebrazione dell’Attica
e ovunque la divinità è presente.
In tempi recenti si legge il demone del mutamento in rapporto all’e-
spressione di una forza interiore. Wordsworth, nella testimonianza
moderna di una trascendenza della natura, dichiarava di aver dato una
vita interiore a ogni forma della natura: roccia, frutto, fiore, pietra. Egli
vedeva tutto ciò immerso in un’anima palpitante, contemplando così la
vita di ogni cosa, attento alla trasformazione della natura come “lo sono
le acque al mutare del cielo”. In tal modo si comprende quel “contatto
eterno” per il quale ci si accorge del mondo attorno a noi che è nostro
e che noi stessi abbiamo fatto, perché esiste soltanto per noi e per il “Dio
che ci guarda”12. Non lontano da questo spirito, R.M. Rilke in una sua
lettera del 16 luglio 1903, invitava a riflettere sulla “voluttà della carne”
come cosa della vita dei sensi allo stesso modo che lo sguardo puro:
un’esperienza senza limiti, una conoscenza piena e splendida di tutto
l’universo, esperienza della carne e dello spirito dietro cui si apre il sen-
timento della poesia generatore delle forme. Il nostro sguardo, teso al di
là dei limiti della conoscenza, mostra “albe nuove, nelle quali l’ignoto ci
visita: L’anima, spaurita e pavida, tace; tutto s’allontana si fa una gran
calma e l’inconoscibile si erge, silenzioso”13.

Per Gianni Carchia, interprete di Rilke e di E. Straus, il piacere che pro-


viamo alla vista della natura è racchiuso nell’aura dell’enigma. E l’enig-
ma ha relazioni con la retorica perché nasconde un’organizzazione delle

11 M. Eliade, Traité d’histoire et des religions (1970/5), tr. it. Trattato di storia delle religioni,

Bollati Boringhieri, Torino 1999.


12 W. Wordsworth, The Prelude, ed it. a cura di M. Bacigalupo, Il Preludio, Oscar

Mondadori, Milano 1990, III, v. 127-132, pp. 105-107.


13 R.M. Rilke, Lettere a un giovane poeta, tr. it., Adelphi, Milano 2000.
 RAFFAELE MILANI

forme naturali in modo oscuro e allegorico al fine di condurci al carat-


tere visionario dell’immagine del mondo. L’enigma apre a interni e
profondissimi risvegli. Il paesaggio, in sostanza, come si è detto, formu-
la, a partire dalla sua particolarità, una lingua della rivelazione, una lin-
gua demonica che si impadronisce dell’uomo. L’enigma della bellezza
naturale ci riempie di stupore, ammirazione e amore trasportandoci dal
sensibile al sovrasensibile, dal visibile all’invisibile, “nella solitudine e
nel silenzio del logos umano”14. Esso (enigma) affiora dalla scrittura cifra-
ta della natura, dal suo geroglifico per i segreti indizi lasciati dalle erbe,
dai muschi, dagli alberi, dalle pietre, dalle nuvole, dagli astri ecc.: è un
alfabeto nascosto. Ci spostiamo, per infiniti collegamenti, in una
profondità insondabile, in una mistica grammaticale, secondo la nota
lettura di Novalis e altri15. Così, meditando sulla visione offerta dai
romantici e a partire da essi, veniamo spinti a giudicare la natura stessa
come calco dell’anima. La lingua della natura si unisce alla lingua del-
l’anima. È in sostanza la lezione già ricordata di Wordsworth che giun-
ge fino all’interpretazione di Van Gogh, nella linea tutta moderna di una
devozione alla vita interiore. Ma è, tale devozione, la forma di un antico
sentire, di un antico rapimento. È lo stesso Platone (Fedro, 230 B e segg.),
sottolinea Carchia16, ad aver delineato il senso filosofico del paesaggio
come spazio estetico. È qui che si coglie la natura come una lingua della
rivelazione.
B. Snell17 pone un interessante confronto tra pensiero cinese, india-
no e greco. La filosofia indiana sarebbe caratterizzata da un “guardare
all’interno”, da un calarsi nelle misteriose profondità dell’anima, mentre
la filosofia cinese da un attivo operare nel mondo, dalla giusta forma di
convivenza umana. I Greci invece guardano all’esterno unendo prassi e
teoria, l’agire e il guardare. I precursori della filosofia greca sono i can-
tori, precisa Snell. Già in Omero l’agire e il guardare sono significativa-
mente contrapposti tra loro: gli eroi cantati dal poeta sono coloro che

14 G. Carchia, Il paesaggio e l’enigma, in G. Gordin, Da Cezanne e Mondrian, Linea

d’Ombra, Conegliano 1999. Nella direzione di un’analisi della bellezza naturale dobbia-
mo segnalare anche altri importanti studi di Carchia: Retorica del sublime, Laterza, Roma-
Bari 1990; L’estetica antica, Laterza, Roma-Bari 1999.
15 Sulla natura come geroglifico si veda F. Schlegel, Dritter Nachtrag alter Gemahlde, in

Gemahlde alter Meister, hrsg. von H. Eichner und N. Lelles, Darmstadt 1984, p. 165.
16 G. Carchia, Per una filosofia del paesaggio, in Estetiche della natura, “Quaderni di

Estetica e Critica”, 4-5, Bulzoni, Roma 1999-2000, p. 21.


17 B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino 1963, pp.

420-422.
DEMONI DEL MUTAMENTO 

agiscono, ma egli riconduce la sua poesia alle Muse che sono presenti
dappertutto e hanno visto tutto e quindi sanno tutto. Questo sapere
non è l’autocontemplazione degli Indiani, ma si riposa su un vedere che
rivolge coraggiosamente gli occhi all’esterno. La lucidità di questo sguar-
do diretto sul mondo esterno è, continua Snell, una caratteristica gene-
rale dell’antica Grecia: così anche gli dèi, ogni cosa bella e grande è, per
gli uomini di Omero, una “meraviglia a guardarsi”.
Tuttavia questo confronto, pur così preciso e utilissimo, pare un po’
schematico. Se ci caliamo infatti nella dinamiche comparate della crea-
zione mitologica, possiamo notare consonanze con il nostro discorso
sulla lingua universale della natura Nella dottrina induista, per esempio,
la danza di Siva esprime il demone della creazione come mutazione per-
manente. Siva è il Danzatore cosmico e, nella sua manifestazione dan-
zante, incarna e esprime l’Energia Eterna. Le forze che si concentrano e
si proiettano nel suo incessante movimento frenetico sono i poteri del-
l’evoluzione, del mantenimento e della dissoluzione del mondo. Come
ha dichiarato H. Zimmer18, essa (danza) è la tensione esistente tra
Eternità e Tempo, paradosso dell’Assoluto e del Fenomenico, del Sé
immortale e della Psiche peritura, del brahman-atman e della maya. Qui
l’invisibile e il visibile sono in quintessenza la stessa cosa, senza dualità
e senza fine. Anche nel taoismo abbiamo conferma dell’incessante atti-
vità della creazione e del mutamento che ci rende consapevoli del fatto
non siamo mai vivi e non siamo mai morti19. Per cogliere possibili ricor-
renze, comparazioni e analogie, sempre nell’idea panteista di un demo-
ne della trasformazione, esiste un testo dal quale partire, il Corpus
Hermeticum (Trattato XIII, 20) nel quale ci si rivolge alle potenze che
sono nell’uomo per cantare l’uno e il tutto attraverso il fuoco, l’aria, la
terra, l’acqua, il soffio, attraverso tutto ciò che è creato. L’ermetista salva
se stesso attraverso quella rinascita interiore che gli è garantita dall’illu-
minazione celebrando al contempo unità e molteplicità20.
Lungo i secoli maturano una sensibilità e una concezione del
mondo nelle quali troviamo un chiaro proiettarsi dell’io nel mito,
lungo una catena indissolubile di cambiamenti: La natura in quanto
natura si fonde con la natura in quanto lingua, sede di trasformazione

18 H. Zimmer, Myths and Symbols in Indian Art and Civilisation (1946); tr. it. Miti e sim-

boli dell’India, Adelphi, Milano 1993, p. 143.


19 Lieh-tzu, Il vero libro della sublime virtù, del cavo e del vuoto, a cura di F. Tommasini,

TEA, Torino 1988.


20 Corpus Hermeticum, tt. I-IV, a cura di A.D. Nock, tr. di A.J. Festugière, Paris 1954.
 RAFFAELE MILANI

e trasfigurazione. Andiamo dunque indietro nel tempo per afferrare la


voce e i segni di una spontaneità, di un’ingenuità perduta. Il paesaggio
reale o immaginario si mostrerà come il prodigio di una verità dello
sguardo interno o esterno, della mente, del sentimento, della sensibilità
tutta in una sequenza di immagini e categorie. È l’umanità e la storia a
produrlo, in una geografia di culti, miti, divinità. In tale contesto la
natura, selvaggia o artificiale, spontanea o artefatta, non è più nemme-
no, in una sua ricostruzione simbolica o fantastica, divisa in parti a
seconda del suo stato, del lavoro dell’uomo e del principio dell’imita-
zione: essa (natura) è fonte di molteplicità ed è allo stesso tempo unica.
Il paesaggio, sua esplicita manifestazione particolare attraverso vari ele-
menti e caratteri, attraverso anche processi di personificazione, vive e
ha vissuto negli atti di una proiezione mitologica; in tal senso esso non
appare più allora come un invenzione moderna, ma come l’espressione
di forze ritenute nell’antichità soprannaturali, come si può per esten-
sione dedurre da un eventuale studio comparato delle religioni, là dove
registriamo la tendenza universale a mitizzare. Il mare, la terra, il cielo
appaiono dominio di forze potenti e sovrannaturali; in ogni albero,
ruscello, pietra abitano spiriti: divinità e demoni esercitano il loro pote-
re su tutti i fenomeni naturali. In questo sfondo le azioni umane sono
coinvolte e mescolate alle trasformazioni del mondo circostante. In
questo percorso verso le origini, verso l’alba del mito, il mondo non
possiede soltanto una lingua segreta, ma anche tante voci, tante anime.
Per gli antichi il mondo era vivo, animato da esseri soprannaturali, non
era né soggettivo né oggettivo, né spirituale né materiale. Le potenze
erano viste popolare il cosmo ponendosi in una posizione intermedia,
tra la terra e il cielo. In una spiegazione vitalistica e animistica si spa-
lanca dinanzi a noi il regno del daimon, entro il quale vediamo il demo-
ne delle trasformazioni, delle metamorfosi.
Prendiamo in esame ora il concetto di genius loci, connesso, per deri-
vazione, alla nostra analisi della natura come lingua segreta e misterio-
sa. Genius loci dunque. Il suo significato più profondo e lontano, oltre
l’immagine del dio protettore del luogo, appare da subito investito di
un’ampia sacralità. Secondo l’opinione di Mircea Eliade21, il più pri-
mitivo dei luoghi sacri era un microcosmo, un paesaggio fatto di pietra,
alberi, acqua ecc. Tali ambienti oracolari non venivano mai scelti, ma
scoperti dall’uomo. In tale contesto dobbiamo d’altra parte riportare

21 M. Eliade, Le sacré et le prophane (1965); tr. it. Sacro e profano, Boringhieri, Torino 1973.
DEMONI DEL MUTAMENTO 

l’opinione di Kerényi22: “essere” e “divenire”, “essere nascosti” e “esse-


re coscienti”, tale ricchezza di antinomia, egli dichiarava, caratterizza il
concetto greco di natura e costituisce il contenuto della parola physis.
A partire da queste considerazioni possiamo dire che la natura è una
lingua segreta (tante immagini, tanti segni organizzati in una rappresen-
tazione ecc.); da essa spira un linguaggio iniziatico. Solitamente l’oraco-
lo parla per bocca di qualcuno, ma a Dodona il Dio manifesta invece la
sua volontà con lo stormire delle fronde degli alberi (il sussurrare della
sacra quercia), in altri casi è il mormorio di una fonte; a Delfi con un
vapore eccitante emesso da una fenditura del suolo.
Con il passare del tempo questi luoghi, attraendo le genti, hanno
disegnato linee di spostamento, itinerari ecc. nel territorio con le edi-
ficazioni di templi, città, villaggi ecc. La comunicazione era connessa
alla simbologia. I luoghi sacri, d’altra parte, furono proprio un sistema
di significativi punti geografici per l’iniziale vita umana. Questo
potrebbe riportarci per certi versi al significato più lontano di ciò che
poi, per una più ampia applicazione, viene chiamato genius loci. Per i
greci insomma, per il loro spirito, è la totalità del cosmo a venire rap-
presentato e vissuto nel disegno della natura del paesaggio, in una
gamma di sensazioni capaci di avvertire e rivelare appunto lo spirito
del luogo, come si evince da Omero, Virgilio, Ovidio in una progres-
siva nostalgia delle origini.
L’idea del genius loci muove dalla antichità e giunge sino a
Shaftesbury in Gran Bretagna, in Francia passa per Fénelon, Rollin,
Marivaux, Montesquieu, Voltaire, Diderot, per poi riproporsi in
Germania con Kant e Goethe; è questo uno spettro moderno secondo
il quale la natura infonde nell’artista il proprio ingenium; ed è anche
teoria della natura che imita l’arte con il suo proprio ingegno. Presso i
greci il rapporto era di stupore e di conoscenza. Vigeva un legame tra
la vista (thea) e la meraviglia (thauma). Gli dei erano espressione dello
spirito del luogo, gli entopíoi theoi ricordati da Socrate nel Fedro ed
erano fonti di ispirazione. Si sentiva la loro presenza, si vedevano e
destavano meraviglia. Più in generale potremmo immaginare che, sulla
scena del mondo, dei e uomini si guardassero, tra i boschi, i monti, i
ruscelli, le grotte ecc. Nella gioia di una partecipazione “estetica” che
nasceva da una concezione che potremmo appunto chiamare magica,

22 K. Kerényi, Die Gottin Natur (1945); tr. it. Miti e misteri, Bollati Boringhieri, Torino

1979, pp. 303-346.


 RAFFAELE MILANI

animistica. È lo schema del guardare e dell’essere guardati, come si è


qui sottolineato più volte analizzando una visione estatica della natu-
ra e del cosmo.
Nella storia della civiltà moderna, il mito della selvatichezza si è
posto contro il gusto artificiale, geometrico dei giardini. Gli amanti della
natura, filosofi, poeti, uomini ispirati dalle Muse la studiano e l’ammi-
rano con entusiasmo, allo scopo di estrarne il genio intimo. Essi soffro-
no di una benigna esaltazione che li porta a raggiungere bellezza e bene
insieme, si librano di un’estasi piena di ragioni. L’amore per la natura è
un entusiasmo positivo, una passione per l’arte, perché così dovremmo
dire, creata dalle foreste, dalla campagna, dalle acque, dal cielo ecc. Un
sentire vivo di commozione e partecipazione. Come precisa Shaftesbury
in un’interpretazione settecentesca dell’antico sentimento della natura,
il bello, la proporzione, la convenienza non sono mai nella materia, ma
nell’arte e nello schema, nella forma e nell’energia prefiguratrice. Nella
natura è appunto l’anima, secondo il senso qui descritto, a formare la
bellezza. Antico e moderno trovano per tali ragionamenti interne e
profonde congiunzioni.
In questa accezione, l’idea del genius loci fornisce l’incanto delle
aggregazioni plastiche e coloristiche. La materia viene formata dallo spi-
rito che percepiamo e di cui avvertiamo in anticipo, quando esso appa-
re nel suo ordine superiore, gli interni elementi: la figura, il colore, il
movimento. Entriamo nel divino immanente al paesaggio. Il demone si
può svestire della personificazione e diventare pura energia trasformatri-
ce. Allo stesso tempo la natura è bella quando ha l’apparenza dell’arte e
l’arte, a sua volta, verrà definita bella quando la osserviamo come natu-
ra. È una questione dibattuta lungo i secoli, perché pone il problema del-
l’ingenium con il rovesciamento delle posizioni dell’arte e della natura
l’una sull’altra. Si tratta di fenomeni della realtà e dell’immaginazione
che potremmo comprendere dall’antichità greca alla rappresentazione
della grazia mostruosa nel giardino di Bomarzo, fino ai giardini patibo-
lari della metà del Settecento. Siamo trascinati dall’immaginazione o da
un benigno, grandissimo inganno dell’illusione.
Comunque è già Ovidio23 a fare lumi sulla questione. Il poeta
(Metamorfosi, III, 157) descrivendo la valle Gargafia consacrata a Diana
cacciatrice, dice che proprio in fondo si apre, nascosta nel bosco, in

23 Per i vari riferimenti al tema delle metamorfosi, ho soprattutto tenuto presente il

testo di Ovidio: Le Metamorfosi, a cura di G. Bernardini Marzolla, con uno scritto di I.


Calvino, Einaudi, Torino 1979.
DEMONI DEL MUTAMENTO 

mezzo agli alberi, una caverna dove nulla è creazione d’arte, ma dove il
genio della natura l’ha imitata. Ecco il nodo da dibattere: l’uomo rico-
nosce alla natura lo statuto dell’arte, la quale appare frutto dell’ingegno,
della sua interna “abilità” a creare cose che destano stupore, meraviglia.
Ma proprio continuando quel racconto, dallo scenario del paesaggio s’a-
pre una scena terribile che ci riporta ai temi della personificazione e non
personificazione, al tema del demone del mutamento: la trasformazio-
ne di Atteone in cervo per l’ira di Diana. Ci troviamo in questo caso
dinanzi a una forza che parte dalla volontà o dai sentimenti degli dei (in
risposta all’invocazione, all’insulto degli uomini, all’amore del dio come
nel caso di Apollo per Giacinto tramutato in fiore). Il demone, per la sua
posizione intermedia, designa qui l’azione stessa della divinità, porta a
effetto l’ordine del dio. Nella metamorfosi di Atteone, l’acqua lanciata-
gli contro da Artemide perché l’ha vista nuda, è uno strumento del cam-
biamento per contatto. Anche Demetra usa uno strumento simile per far
compiere la mutazione: offesa da un fanciullo villano che la deride, gli
lancia contro il suo modesto pranzo, un liquido dolce misto a polenta;
il fanciullo, al contatto, si trasforma in geco. In tanti altri casi, il coman-
do è diretto, senza strumenti. Si pensi a Cadmo e ad Armonia trasfor-
mati in serpenti, a Niobe in roccia, Filomela in usignolo, Procne in ron-
dine, Tereo in upupa, Polidette e Eineo in pietra, Antigone in cicogna,
le Pieridi in gazze, Enoe, regina dei pigmei, in gru, Eco dissolta in suono.
In questo caso l’amore è lo strumento della metamorfosi. “Colpita dal
disprezzo di Narciso, (Eco) si nascose nel bosco e si nascose vergogno-
sa… l’affanno non le permetteva di dormire, dimagriva… l’amore le
restò confitto nel cuore e alimentava di delusione l’essere stata respin-
ta… L’umore del corpo si disperdeva nell’aria, le ossa…”. Poi Asclepio
nella costellazione del Serpentario, Smirna in un albero di mirra da cui
uscirà Adone ecc. Anche la trasformazione di Narciso, colpito dalla ven-
detta divina di Nemesi, è il risultato di un sentimento. L’amore dunque
è lo strumento del Daimon del cambiamento: “Senza saperlo si inna-
mora di sé e si applaude: è contemporaneamente soggetto e oggetto del
desiderio, accende il fuoco e ne è arso. Quanti baci dà alla fonte! Quante
volte immerge nell’acqua le braccia per cingere quel collo ma non riesce
ad allacciarlo… come la bionda cera si scoglie a una leggera fiamma o
come svanisce al sole la brina mattutina, così il giovanetto, macerato dal-
l’amore si dissolve bruciando lentamente nel fuoco nascosto” (Ovidio,
III, versi 430 e sgg.).
Prodigi delle metamorfosi per effetti della potenza del demone.
Interessante notare poi, tra il mito e la conformazione del paesaggio, un
 RAFFAELE MILANI

mirabile passo dell’Antigone di Sofocle: “sulla vetta del Sipilo come


edera tenace una siepe di roccia la rinchiuse ecc.” (versi 823-833). Per poi
metterlo a confronto con la descrizione di Pausania (I, 21, 3): “anch’io
ho visto questa Niobe. Da vicino è una rupe e un precipizio che non
presenta a chi guarda la figura di una donna, tanto meno di una che
piange; ma se ti allontani, hai l’impressione di vedere una donna che
piange con la testa reclina”. Il mito ha la sua espressione nella geografia.
Un altro esempio di grande interesse è lo spostamento dalla specie agli
elementi; è il caso dell’autodissoluzione in un elemento. La ninfa Ciane
(Ovidio, versi 425-437), angosciata per il rapimento di Proserpina e per
la violazione della sua fonte da parte di Dite (Ades), così terribilmente
ferita si consumò fondendosi in quelle acque di cui era stata prima la
divinità. “Le prime a mutarsi in liquido furono le parti più fini e legge-
re: i capelli cerulei, le dita, le mani, e i piedi… Poi le spalle, la schiena e
i fianchi, il petto persero consistenza e scivolarono via in rivoli sottili…
L’acqua prese il posto del sangue vivo… e non restò più nulla che si
potesse stringere tra le mani”.
Ecco allora un trauma di mutazione, un fluire di forme scandite dal
ritmo della vita universale, dai segni della lingua segreta della natura, dal
suo enigma, come abbiamo detto. Passaggi e trasformazioni che il mito
ci riporta alla verità della memoria. Prima ancora dell’istituzionalizza-
zione letteraria dei codici di personificazione del demone, troviamo in
Omero una chiara esposizione di Teos e Daimon. È un chiarimento per
noi decisivo e utile al nostro argomento. In Omero il dio è chiamato Teos
o Daimon senza che le due parole indichino due esseri di natura diversa:
Teos è il dio inteso come esistente da sé, nella sua tranquilla beatitudine,
felice e separato dagli uomini, mentre Daimon è in rapporto a questi, la
divinità da cui dipende il destino di ognuno perché essa manda il bene
e il male agli uomini e li atterrisce24.
Si può dire che il Daimon del mutamento appartiene strettamente al
Daimon della natura nel disegno di una ricostruzione del mito; è espres-
sione e parte della sua lingua segreta, del suo enigma appunto. Il prodi-
gio della visione cosmologica, entro la quale va interpretato il tema del
demone del mutamento, viene descritto da Schiller negli Dei della Grecia,
quando dichiara che nella Grecia antica il mito non era vuota allegoria,
ma qualcosa di vivente. Il mondo era ancora pieno di dei, ogni collina
era la sede di una Oreade, ogni albero la casa di una Driade. Il prodigio
della terra manifestava l’epifania vegetale e naturale di Demetra. Dalle

24 F. Lübker, Lessico classico, 1882, Zanichelli, Bologna 1989, pp. 342-343.


DEMONI DEL MUTAMENTO 

fauci di una voragine immensa, dall’oscurità senza limiti, dal Caos, un


vuoto denso di tenebre, appare Gaia, pavimento del mondo per una
serie infinite di trasformazioni, come afferma Jean-Pierre Vernant descri-
vendo l’origine greca dell’universo25.
Tutto ciò è dentro di noi, continua ad affascinarci e a farci paura. È
appartenuto al nostro modo di esperire, immaginare e conoscere; appar-
tiene e continua ad appartenere al nostro destino al quale soggiacciono
sia gli uomini che gli dèi.

25 J-P. Vernant, L’Univers, les Dieux, les Hommes. Récits grecs des origines (1999), tr. it.

L’universo, gli dèi, gli uomini. Il racconto del mito, Einaudi, Torino 1999.
Notizie sugli autori

Daniela Angelucci ha conseguito il dottorato di ricerca in filosofia (Estetica e


teoria delle arti) presso l’Università degli studi di Palermo; attualmente si occu-
pa della prima estetica fenomenologica. Dal 1998 è membro del comitato scien-
tifico della “Collana di Estetica e Critica”. Nel 1999 ha pubblicato il volume Il
visibile e l’irreale. L’oggetto estetico nel pensiero di Nicolai Hartmann (Palermo).

Patrizia Castelli insegna presso il Dipartimento di Medievistica dell’Università di


Ferrara. Si è occupata prevalentemente della cultura figurativa medievale e rina-
scimentale. È stata visiting professor in varie Università straniere. Tra le sue pub-
blicazioni: ‘Iside venerata’ nel labirinto del sapere tra Medioevo e Rinascimento in Iside,
a cura di A. Arslan (Milano 1997); Le qualità degli dei in Der Antike Mythos und
Europa, a cura di F. Cappelletti (Berlino 1997).

Flavio Cuniberto è ricercatore confermato presso l’Università del Piemonte


Orientale (Vercelli). Ha studiato il primo romanticismo tedesco (Friedrich Schlegel
e l’assoluto letterario, Rosenberg & Sellier 1991) e le sue origini ermetiche e teoso-
fiche (Jakob Böhme, Morcelliana 2000). Ha contribuito al Dizionario di Estetica, a
cura di G. Carchia e P. D’Angelo (Laterza 1999), e si occupa attualmente dei rap-
porti tra pensiero platonico e tradizione ebraico-cristiana. È redattore della rivi-
sta “Filosofia e teologia”.

Monica Ferrando, pittrice e studiosa di estetica, era sposata con Gianni Carchia
dal 1987.

Alberto Gessani insegna Storia dell’estetica presso l’Università di Roma Tre. Si è


occupato di filosofia antica, in particolare del pensiero platonico (pubblicando
tra l’altro i volumi La fondazione della filosofia e Eros tempo istante nel “Simposio” di
Platone), e anche dell’opera di Goethe (La stagione finita. La poesia giovanile e il
“Werther” di Goethe; e Goethe. Poesia e modernità). Sta lavorando attualmente ad un
volume sulla poetica di Dante e sui rapporti tra Dante e Guido Cavalcanti.

Enrico Guidoni (Carrara, 1939) è professore ordinario presso l’Università degli


Studi di Roma “La Sapienza” dove insegna Storia dell’urbanistica e dell’archi-
tettura moderna e Istituzioni di Storia dell’Arte (Scuola di Specializzazione in
 NOTIZIE SUGLI AUTORI

Restauro dei Monumenti). Alla storia dell’arte del rinascimento italiano ha


dedicato numerosi studi, in particolare a Giorgione (Giorgione. Opere e significa-
ti, Roma 1999: Ricerche su Giorgione e sulla pittura del rinascimento, vol. I, Roma
1998; vol. II, Roma 2000), a Michelangelo (Un crocefisso ligneo di Michelangelo,
Roma 1999; L’affresco michelangiolesco di Capranica, Roma 2000; Michelangelo. La
Pietà di San Pietro, Roma 2001; Michelangelo. Nel segno dell’Arca. Le storie della
Genesi nella Cappella Sistina, Roma 2001) e a Leonardo (Leonardo da Vinci e le
prospettive di città. Le vedute quattrocentesche di Roma, Firenze, Napoli, Genova,
Milano, Venezia, Roma 2002).

Stephen Halliwell è professore di Greco presso l’Università di St. Andrews, in


Scozia. Ha studiato a Oxford, ha insegnato a Oxford, Cambridge, Londra e
Birmingham, è stato visiting professor presso l’Università di Chicago e l’Università
di California, e ha tenuto conferenze in dodici Paesi. Tra le sue pubblicazioni:
Aristotle’s Poetics (1986/1998), Plato Republic 10 (1988), Plato Republic 5 (1993),
Aristophanes: Birds and Other Plays (1997), e The Aesthetics of Mimesis: Ancient Texts
and Modern Problems (2002).

Teodoro Katinis è dottorando di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia e


teoria delle scienze umane dell’Università degli Studi Roma Tre e sta svolgen-
do una tesi sul rapporto tra filosofia e sapere medico nell’umanesimo fiorenti-
no, con particolare attenzione all’opera di Marsilio Ficino. Dal 2000 è colla-
boratore della rivista “Bruniana & Campanelliana. Ricerche filosofiche e mate-
riali storico-testuali”. Tra le sue pubblicazioni: Bibliografia ficiniana. Studi ed edi-
zioni delle opere di Marsilio Ficino dal 1986, “Accademia.”, II (2000), pp. 101-136;
Il ruolo della imaginatio/phantasia in alcuni contesti ficiniani, in Marsile Ficin ou les
Mystères (Actes du XLII Colloque International d’Études Humanistes, Centre
d’Etudes Supérieures de la Renaissance, Tours 7-10 luglio 1999), éd. S.
Toussaint, Les Belles Lettres, Paris 2002, pp. 217-223.

Lorenzo Lattanzi si è laureato nel 1997 in Storia della Filosofia all’Università


di Pisa con il professor Remo Bodei, e nello stesso anno si è diplomato in
Discipline filosofiche alla Scuola Normale Superiore di Pisa con il professor
Claudio Cesa. Dal 1999 ha frequentato il corso di Perfezionamento della
Classe di Lettere e Filosofia della Scuola Normale Superiore, e al momento è
borsista presso la Freie Universität di Berlino. Ha studiato la semiotica e l’e-
stetica dell’Illuminismo tedesco (Baumgarten, Meier, Lessing, Mendelssohn,
Winckelmann) e si è occupato anche della questione ebraica nella Germania
di fine Settecento. È autore dei volumi L’estetica musicale dell’Illuminismo tedesco
(Palermo 2001) e Linguaggio e poesia in Moses Mendelssohn (Pisa 2002).

Elio Matassi, professore ordinario di Filosofia della Storia presso il Dipartimento


di Filosofia di Roma Tre, si è prevalentemente occupato di filosofia tedesca
NOTIZIE SUGLI AUTORI 

dell’Ottocento e del Novecento, e di filosofia della musica moderna e contem-


poranea. Tra le sue più recenti pubblicazioni di argomento musicale: Walter
Benjamin e la musica (2000); Ernst Bloch e la musica (2001).

Raffaele Milani insegna Storia dell’Estetica presso il Dipartimento di Filosofia


dell’Università di Bologna. Si è occupato di estetica comparata e dei rapporti tra
il bello naturale e il bello artistico. Collabora a: “Rivista di Estetica”, “Il Verri”,
“Studi di estetica”. Tra le sue pubblicazioni: Il Pittoresco. L’evoluzione del gusto tra
classico e romantico (Laterza, Bari 1996); Il fascino della paura. L’invenzione del gotico
dal rococò al trash (Guerini, Milano, 1998); Natura e sentimenti (Nike, Milano
2000); L’arte del paesaggio (Il Mulino, Bologna 2001, Premio Internazionale
Calabria per la Saggistica, Premio Hanbury 2002)

Federico Vercellone (Torino, 1955) è professore straordinario di Estetica presso


la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Udine. Tra le sue più recenti
pubblicazioni: Nature del tempo. Novalis e la forma poetica del romanticismo tedesco
(Guerini, Milano 1998), Estetica dell’Ottocento (Il Mulino, Bologna 1999),
Morfologie del moderno. Saggi di ermeneutica dell’immagine (Trauben, Torino 2002).
Estetica e critica

La regressione dell’ascolto
Forma e materia sonora nell’estetica musicale contemporanea
a cura di Silvia Vizzardelli

Arte e daimon
a cura di Daniela Angelucci

Silvia Vizzardelli
Battere il Tempo
Estetica e metafisica in Vladimir Jankélévitch
Finito di stampare nel dicembre 
dalla Grafica Editrice Romana srl, Roma

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