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remo bodei

L’«ethos» dell’Italia repubblicana

Sommario

1. Premesse e chiarimenti 3
2. La scelta solitaria 6
3. Ethos e sentimenti del dopoguerra 17
4. Territori dell’immaginario 24
5. Filosofare in un mondo diviso 35
6. Tra casa e società 48
7. I giovani e il principio di irrealtà 53
8. Krisis 60
9. Come si corruppe e morì il «partito etico» 67
10. Radici 77

Storia d’Italia Einaudi


2 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

Da: Storia dell’Italia repubblicana, vol. 3, L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo venten-
nio, 2. Istituzioni, politiche, culture, Giulio Einaudi Editore, Torino 1997.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 3

1. Premesse e chiarimenti.

Cerco di trovare un senso agli orientamenti ideali e alle scelte com-


piute dagli italiani in oltre mezzo secolo di storia repubblicana, met-
tendo in rapporto i valori e le attese collettive con le idee e i program-
mi della filosofia italiana di questo periodo, considerata nelle sue im-
plicazioni e ricadute in campo etico.
Per non appiattire le teorie filosofiche sullo sfondo degli accadimenti
storici da cui emergono e, nello stesso tempo, per non staccarle com-
pletamente da esso mi servo di un procedimento tratto, per analogia,
dalla tecnica dei pittori divisionisti. Nei loro quadri, macchie isolate di
colori diversi, otticamente puri, accostate sulla tela, producono infatti
(a una determinata distanza e per fusione retinica) un altro colore, la cui
intensità luminosa è decine di volte superiore a quella ottenibile attra-
verso l’impasto sulla tavolozza. Così, ad esempio, se osserviamo – in
un’opera di Segantini o di Pellizza da Volpedo – delle piccole pennella-
te di giallo accanto ad altre d’azzurro, queste, allontanandoci, forme-
ranno un verde assai più brillante di quello che risulterebbe dalla loro
mescolanza diretta1.
Tale artificio presenta alcuni vantaggi. Permette di confrontare sen-
za confondere, ma anzi separandoli e ponendoli in tensione, fenomeni
differenti ed eterogenei, non immediatamente o necessariamente cor-
relabili (che si manifestano tuttavia nella medesima epoca e nel medesi-
mo ambito geografico). La visione sinottica e a distanza dei contrasti ag-
gira così sia la trappola di certo storicismo, che considera i concetti esclu-
sivamente in funzione del loro immediato contesto storico-politico, sia
il fluttuare nel vuoto di pensieri privi di ogni legame con gli eventi. Que-
sto metodo «divisionistico» consente poi di individuare da vicino i vuo-
ti e le discontinuità che restano negli interstizi delle macchie di colore.

1 Cfr. r. bodei, Un paradigma «fin de siècle»: dividere e contrapporre, in aa. vv., L’età del divi-
sionismo, Milano 1990, pp. 137-53.

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Per evitare che il «divisionismo» si trasformi in impressionismo, rende


cioè esplicite le lacune dell’esposizione. Suggerisce pertanto l’esigenza
di ulteriori ricerche che, di volta in volta, le colmino grazie ad un tes-
suto logico a maglie più fitte o ad una mirata, insostituibile ricerca sto-
rica e filologica, indispensabile quando si opera in zone di confine, spes-
so sguarnite, tra discipline accademicamente consolidate. Essendo inol-
tre ciascuno di noi inevitabilmente soggetto a privilegiamenti prospettici
– a vivere all’interno di sistemi di idee, opinioni e atteggiamenti, della
cui specificità si accorge solo quando tramontano –, un simile accorgi-
mento pone in rilievo i necessari limiti nel trattare l’inesauribile mole
di pensieri e di esperienze riguardanti decine di milioni di persone, ognu-
na delle quali si situa legittimamente al centro del suo orizzonte spazia-
le e temporale. Tale dispositivo costituisce infine un utile antidoto alla
fastidiosa sensazione di déjà vu che deriva dall’abbondanza di scritti su
molti aspetti della storia, della società e della filosofia italiana di questo
dopoguerra. Abbinare e giustapporre fatti e idee che non siamo abitua-
ti a vedere assieme produce, da un lato, un loro «trascolorare» recipro-
co entro una fitta rete di rinvii, dall’altro, un salutare effetto di stra-
neamento. Attraverso l’ulteriore filtro dell’etica, questo consente infatti
di ripercorrere anche ciò che è noto. Nell’arco di poche pagine e in for-
ma di frammento o di flash che ne rivela ulteriori sfaccettature ci si può
così nuovamente soffermare su questioni date per scontate.
Delimito gli argomenti, e le eventuali aspettative di chi legge, par-
tendo dalla definizione preliminare dei termini utilizzati e, di conse-
guenza, degli obiettivi perseguiti. Tratto, oltre che di teorie, anche di
«ideali» e «valori». Consapevole dell’usura che tali parole hanno sof-
ferto, non attribuisco loro alcun significato sublime o apologetico, pur
non considerandoli involucri vuoti, secondo l’atteggiamento di osten-
tato disincanto o di amaro cinismo di chi presume di conoscere la pro-
sa del mondo e di sapere che (soprattutto per l’Italia) queste parole fan-
no sorridere. Se adeguatamente intesi, i «valori» offrono infatti le chia-
vi interpretative di codici di condotta e piani di vita condivisi. Indicano
le mete che guidano e plasmano – con maggiore o minore incisività e
spesso senza l’esplicito consenso degli individui – il significato da attri-
buire alle loro azioni. Essi non sono, del resto, necessariamente buoni
per tutti i componenti della stessa società. Persino l’omertà è un valo-
re, secondo la mentalità mafiosa, così come lo è la vendetta in quel che
resta del codice d’onore barbaricino in Sardegna. Coraggio, coerenza o
disinteresse personale al servizio di una causa designano tuttavia com-
portamenti di riconosciuta eccellenza, «virtù» che estorcono l’invo-
lontario rispetto anche di chi non ne accetta le motivazioni e i fini.

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L’eticità non costituisce dunque un blocco compatto e monolitico.


Ha molteplici articolazioni: lo Stato (con la magistratura, la diplomazia,
l’esercito, i carabinieri, la polizia), la Chiesa (con sue gerarchie), la so-
cietà (con i partiti, i gruppi professionali e di mestiere, le tradizioni re-
gionali), la famiglia (con i suoi ruoli), il potere criminale (con le sue re-
gole e rituali di condotta). Tutte rappresentano particolari «banche di
emissione» e «borse di quotazione» di differenti gerarchie di valori eti-
ci e di accreditamento delle classi dirigenti. Tutte aprono un immenso
campo di ricerca, solo in parte intensamente coltivato, mai però lavora-
to per esteso e in maniera metodica. Se eseguita, la stratigrafia o la map-
patura attenta di etiche parziali sovrapposte, frammentate e ibridate,
getterebbe ulteriore luce sulla fisionomia di una storia nazionale lunga
e divisa. Come effetto collaterale contribuirebbe poi a sfatare, se mai ve
ne fosse ancora bisogno, la leggenda dell’Italia quale paese della com-
media dell’arte e del melodramma (cantato ma non vissuto), dei man-
dolini e del familismo amorale, dove ogni conflitto finisce per smussar-
si e dove è persino comico parlare di etica. La storia d’Italia è anche una
sequenza di vicissitudini terribili e di periodi tristi, oscuri e senza ri-
scatto. In un secolo abbiamo conosciuto quattro guerre internazionali
(Libia, grande guerra, guerra d’Africa e seconda guerra mondiale), una
guerra civile, vent’anni di dittatura, un regime privo di alternative di
governo durato il doppio, la presenza di feroci organizzazioni illegali in
quattro regioni, le stragi di innocenti, le trame dei poteri occulti, il ter-
rorismo e la corruzione sistematicamente praticata.
Più in generale, l’itinerario intrapreso non si riduce né all’analisi di
una presunta «ideologia italiana», né a una descrizione del «carattere»
e dei «costumi» degli italiani (quest’ultima, comunque, inaggirabile, in
quanto l’etica ha per definizione a che fare con il costume e il «profu-
mo» indefinibile degli anni e si associa a miriadi di abitudini trascorse,
di umori volatili e di episodi minori). Esso non ha, di conseguenza, nien-
te a che spartire né con il ricorso a quello che è stato chiamato «mora-
lismo di massa», né, al contrario, con le ricorrenti forme di autoflagel-
lazione, che pongono l’accento sui vizi degli italiani e sulle occasioni
mancate della storia nazionale. Vi è forse tra gli italiani un deficit di eti-
ca, spesso osservato nei secoli dai viaggiatori stranieri, nel senso di un
attaccamento al «particulare», agli interessi della famiglia o della «ro-
ba», ma ciò non implica affatto che questo cliché sia generalizzabile, né
che manchino «minoranze virtuose» capaci di modificare la storia na-
zionale.
L’impostazione che suggerisco incrocia piuttosto tanto le idee che
intendono riferirsi alla realtà quanto l’immaginario, sotto specie di de-

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sideri e di passioni. Raffigura cioè una «seconda storia», parallela a quel-


la ufficiale, che intreccia le attitudini e i sentimenti dell’Italia dei mol-
ti – di coloro che ne hanno attraversato i traumi e i mutamenti mante-
nendo per lo più un basso profilo – con le idee e i progetti elaborati da
pochi. Tenta di pensare quel che tutti – secondo le diverse fasce d’età
– hanno vissuto, di mettere a confronto le memorie personali con even-
ti collettivi e concetti condivisi visti ormai a distanza. Concedendo mag-
gior spazio alle più recenti e meno discusse, le filosofie vengono perciò
vagliate nei loro sostanziali punti di tangenza e di distacco dall’ethos
comune. Si insiste cioè su quelle che – a torto o a ragione – hanno mag-
giormente inciso sul dibattito pubblico, traducendosi talvolta in indi-
retti programmi pratici (come quando, dopo il 1945, viene ossessiva-
mente riproposta la linea di demarcazione tra «ragione» e «irrazionali-
smo», quasi a sottolineare il bisogno di immunizzare gli animi contro
possibili ricadute nella mistica della violenza o nella retorica dei linguaggi
totalitari).

2. La scelta solitaria.

a) Davanti a se stessi.
Le radici immediate dell’ethos dell’Italia repubblicana possono sim-
bolicamente farsi risalire alle «cinque giornate» che, nel corso di un so-
lo lustro, hanno mutato il volto dell’Italia e segnato l’esperienza e la me-
moria storica degli italiani: 25 luglio 1943; 8 settembre 1943; 25 aprile
1945; 2 giugno 1946; 1º gennaio 1948. La data decisiva, tuttavia, è in-
dubbiamente quella dell’8 settembre del 1943, il momento in cui le isti-
tuzioni statali mostrano la loro intrinseca fragilità, frantumandosi o sem-
plicemente dissolvendosi, quasi per evaporazione. È questa l’ora in cui
si disarticola e si scinde il sistema di lealtà plurime e di «convergenze
sentimentali» che in precedenza avevano operato, per molti, in manie-
ra sufficientemente integrata: affetto per la propria famiglia e devozio-
ne per la dinastia dei Savoia, fedeltà allo Stato e adesione al Partito na-
zionale fascista. Ma è anche la pietra di paragone per l’attitudine etica
degli italiani dinanzi a improvvisi sconvolgimenti.
L’8 settembre del 1943, dopo l’«inganno reciproco» tra il governo
Badoglio e gli Alleati, vengono meno tutti i punti di riferimento uffi-
ciali. Rottosi il monopolio della forza legittima, incarnato dallo Stato,
gli italiani si trovano disperatamente soli a prendere su di sé il peso di
decisioni che non avrebbero mai creduto di dover sostenere. Vengono

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posti dinanzi a un drammatico conflitto di valori, ancora più penoso per-


ché alle scelte manca l’approvazione di qualsiasi autorità unanimemen-
te riconosciuta. Nelle situazioni di routine non si esige dai cittadini di
pronunciarsi sull’insieme delle norme che regolano la convivenza civile.
Le calamità e gli improvvisi vuoti di potere obbligano invece a prende-
re posizioni nette e globali, proprio perché «gli obblighi verso lo Stato
non costituiscono più un sicuro punto di riferimento per i comporta-
menti individuali, in quanto lo Stato non è più in grado di pretendere
quei “sacrifici per amore” sui quali spesso fa affidamento»2.
Si infrange la doppia lealtà che la maggioranza degli italiani nutriva
sino a poco tempo prima nei confronti della diarchia re/duce. Ai due po-
teri, ora disgiunti, viene revocato, in tutto o in parte, l’investimento af-
fettivo di cui erano oggetto. Privati di questo sostegno ideale, tutti so-
no indotti a fare i conti con la propria specifica condizione e a tirare ra-
pidamente le somme. In particolare i maschi adulti, ancora in grado di
combattere, ma anche le donne e i civili (che moriranno, alla fine della
guerra, in numero quasi pari a quello degli uomini sotto le armi). Gli
esempi negativi che l’8 settembre giungono dalle più alte autorità fan-
no apparire a ognuno più che legittima la salvaguardia della propria vi-
ta e dei propri interessi, ma spingono alcuni a cercare vie d’uscita dallo
stato di natura insediatosi tra le macerie dello Stato civile. Questi tro-
vano la loro coscienza, da un lato, piena di valori residui (attaccamento
al passato, senso dell’«onore» come rispetto delle precedenti alleanze,
amore per la patria ancora identificata con un fascismo che aveva cer-
cato di dare fierezza a un «volgo disperso che nome non ha», fede cie-
ca nel «Duce, Duce, che mai saprà morir»), dall’altro, conflittualmente
pervasa dalla sorda percezione di essere stati ingannati, spinti in una
guerra a cui si era assolutamente impreparati e dalla premonizione che
la tragedia del presente apra inesplorati spazi di libertà.
Moltissimi individui, privati dell’appoggio delle istituzioni e prov-
visoriamente usciti dalla catena di comando militare, riscoprono il nu-
cleo più antico e protettivo di aggregazione e ad esso, alla famiglia (do-
vunque si trovi, a causa dello sfollamento), ritornano come a un porto
sicuro. I più sono favoriti o sfavoriti dal caso – che ha assunto le vesti
della geografia e della linea del fronte –, dal fatto cioè di trovarsi lon-
tani o vicini ai tedeschi o agli Alleati, nel Regno del Sud e nella costi-

2 c. pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza italiana, Torino 1991,
p. 23. Sui presupposti dell’8 settembre cfr. e. aga-rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio ita-
liano del settembre 1943, Bologna 1993; id., L’inganno reciproco. L’armistizio tra l’Italia e gli An-
gloamericani del settembre 1943, Roma 1993.

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8 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

tuenda Repubblica sociale italiana. Nell’«Italia divisa in due», occupa-


ta di fatto da eserciti stranieri in lotta sul suo territorio (con la ripresa
di un nuovo ciclo storico di sovranità limitata) alberga anche una varie-
gata «zona grigia», popolata da individui e gruppi che fanno della cau-
tela e del desiderio di «non compromettersi» il proprio lasciapassare ver-
so la fine della guerra, ma anche dalle gerarchie ecclesiastiche (che fun-
gono da mediatrici tra le parti in lotta) o da chi comunque ritiene di non
dover ricorrere alle armi3.
Guardare alla «realtà» è doloroso per tutti: significa, fra l’altro, sco-
prire, contemporaneamente, sia la mancanza di autonomia personale che
quella di solidi valori collettivi. L’invito alla disciplina gregaria, al «cre-
dere, obbedire, combattere», ha infatti spesso minato – specie in una
situazione di emergenza – la già scarsa propensione di molti a esercita-
re la propria libertà4, mentre la tormentata storia nazionale non è riu-
scita, parallelamente, a far mettere forti radici agli ideali comunitari del-
la nazione. Scegliere non è facile, in nessun caso, perché gli italiani so-
no ora obbligati a ponderare le incognite di circostanze inedite, a
riscoprire riserve nascoste di senso morale e ad attingervi. Corrono l’alea
di sacrificare alcuni ideali a vantaggio di altri, ma provano la soddisfa-
zione di veder sorgere stati di cose che sono il risultato anche del loro
operare. Il fatto stesso che coloro che si fanno carico di decisioni nette
sono percentualmente delle minoranze aggiunge serietà morale alle scel-
te (come nel caso dei 220 000 partigiani combattenti riconosciuti, a cui
si devono aggiungere però gli oltre 600 000 prigionieri di guerra in Ger-
mania, che rifiutano di combattere per la Repubblica sociale italiana).
Nell’eroismo della sconfitta e del senso del dovere, esemplare è così l’at-
teggiamento dell’ammiraglio Bergamini, comandante della corazzata Ro-
ma, quando la sera dell’8 settembre – il giorno prima che la grande na-
ve venga affondata dai tedeschi – rivolge queste parole ai comandanti
della squadra navale comunicando l’ordine di consegnare la flotta ita-
liana agli Alleati: «Dite tutto questo ai vostri uomini. Essi sapranno tro-

3 Sull’ampiezza e la composizione di questa fascia di persone cfr., da ultimo, i risultati delle


ricerche dell’Istituto Sturzo presentati al convegno Cattolici, Chiesa, Resistenza, Roma, settembre
1995, e g.e. rusconi, Patria e repubblica, Bologna 1997, p. 70.
4 La mistica fascista aveva diffuso, a livello universitario, l’obbedienza cieca con frasi roboanti,
come quelle pronunciate nel febbraio del 1940 da uno zelante professore secondo il quale il pre-
supposto fondamentale del fascismo è «la comunione perfetta tra una Fede incandescente ma sgan-
ciata dalla realtà e una Ragione disintossicata dalla superbia egocentrica in cui si trastullarono e
vaneggiarono i banditori della civiltà intellettualistica» (cfr. f. gambetti, Gli anni che scottano,
Milano 1967, didascalia a una illustrazione, pagina non numerata successiva a p. 284).

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vare nei loro cuori generosi la forza di accettare questo immenso sacri-
ficio (…) Non era questa la via immaginata. Ma questa via dobbiamo
prendere ora senza esitare, perché ciò che conta nella storia dei popoli
non sono i sogni e le speranze e le negazioni della realtà, ma la coscien-
za del dovere compiuto fino in fondo, costi quel che costi»5. Non è quin-
di giusto parlare dell’8 settembre semplicemente come di una data in-
fausta, che segna l’ora della «morte della patria»6 (a cui il 25 aprile del
1945 non avrebbe offerto alcuna resurrezione). Questo perché, da un
lato, la «patria» di tutti era già stata identificata dal fascismo con una
parte degli italiani, dall’altro perché è stato lo stesso provvisorio vuoto
istituzionale, nello stabilire un’accentuata discontinuità con il passato,
a permettere la riorganizzazione della convivenza civile in un regime de-
mocratico. Tale riorganizzazione avviene certo in forma frastagliata e
composita, in quanto alla «guerra per bande» della Resistenza nel Nord
corrisponde la scarsa legittimità delle forze istituzionali e politiche nel
Sud (il che non favorisce la compattezza e l’omogeneità delle classi di-
rigenti del dopoguerra).

b) La dissoluzione del «Noi».


Ciò che muore non è tanto la «patria», quanto un modello ideale e
pratico di Stato, di cui l’ultima opera di Giovanni Gentile, Genesi e strut-
tura della società, costituisce solenne testimonianza.
Caduto il fascismo, il filosofo siciliano – ritiratosi a scrivere nella
campagna fiorentina – mantiene una fedeltà al regime, in piena coeren-
za con le proprie idee e il proprio passato. Proprio quando tutto va in
frantumi e rovina, allorché il rischio del completo fallimento è prossimo
ma il bisogno di ritrovare il cemento dell’unità nazionale è più urgente,
Gentile – al pari del suo conterraneo Pirandello ai tempi del delitto Mat-
teotti – si riaccosta con maggiore convinzione a Mussolini, a cui rende
visita poco dopo a Salò. Scritta in uno dei momenti più laceranti della
storia italiana, tra l’agosto e il settembre 1943, in giorni che riportano
alla mente di Gentile quelli di Caporetto, Genesi e struttura della società
rappresenta l’accorata ripresa del tema dello «Stato etico», questa vol-
ta riproposto quale antidoto estremo alla temuta dissoluzione della pa-

5 Citato in f. di lauro, Saggi di storia etico-militare, Roma 1976, pp. 43-44.


6 Cfr. r. de felice, Rosso e nero, a cura di P. Chessa, Roma 1995, e e. galli della loggia,
La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Roma-Ba-
ri 1996, che considerano questo periodo il segno della «debolezza etico-politica del paese» e della
perdita, da parte dei cittadini, del senso di appartenenza alla nazione.

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tria. Si è infatti entrati in una fase altamente pericolosa in cui è in gio-


co la sopravvivenza stessa degli italiani come popolo. Nell’arco di pochi
mesi rischiano di vanificarsi secoli di sforzi consumati per costituire la
sua identità e indipendenza; di sciogliersi legami di co-appartenenza fa-
ticosamente intessuti; di scomparire il senso del dovere e la consapevo-
lezza dei sacrifici necessari per la fuoriuscita dalla crisi.
L’apoteosi dello Stato diventa tanto più solenne quanto più chiara-
mente si rivela la sua attuale impotenza. Eppure Gentile insiste nel tri-
butargli onori quasi divini, nel legare la caducità del cittadino alla sua eter-
nità laica. Lo «Stato etico» risulta persino superiore al «Dio mortale»
dell’assolutismo di Hobbes, in quanto non si limita a far osservare le leg-
gi, a fissare i comportamenti e gli atti conformi a esse: prende dimora nel-
la coscienza individuale, assume il posto della religione e indirizza l’inte-
riorità verso valori assoluti, per quanto immanenti e terreni. Tale Stato
è, appunto, totalitario (il termine «totalitarismo» è stato coniato dallo stes-
so Gentile nel 1925) poiché non distingue tra la sfera esterna dei com-
portamenti pubblici visibili e quella interna delle convinzioni profonde,
invisibili. La politica ha così sottratto alla religione la sua arma più po-
tente, la facoltà di credere, la fede che spinge a sfidare l’impossibile. Gen-
tile concepisce il ruolo dello Stato nell’individuo nella maniera in cui Ago-
stino immagina quello di Dio nell’anima di ciascuno: in quanto interior in-
timo meo e superior summo meo, «più intimo a me stesso di quanto io lo
sia alla parte più intima di me» e «più alto delle mie facoltà più alte» (Con-
fessioni, III, 6, 11). Il linguaggio stesso di Gentile, allorché sostiene che
lo Stato non si realizza nel mero inter homines esse ma vive anche e so-
prattutto in interiore homine7, è tipicamente agostiniano.
Del resto, da tempo egli pensa che la conquista di se stessi, la libertà
non può aver luogo senza una ininterrotta battaglia contro il momento
dell’alterità, della passività e della servitù che è ineliminabilmente den-
tro ciascuno di noi (nel rapporto maestro-scolaro, genitori-figli, padro-
ne-schiavo, popoli dominanti e popoli dominati). Ne consegue, nel cam-
po politico, che, per quanto noi siamo realmente lo Stato, esso contiene
anche un elemento di alterità con cui io devo entrare in conflitto. Tale
alterità è rappresentata da un’autorità che sembra limitare la mia libertà
finché, dopo la lotta, non arrivo a capire il nascosto parallelismo per cui,
simultaneamente, «si sviluppa l’individuo, e si sviluppa lo Stato»8.
«In fondo all’Io c’è un Noi»: è questo il tema costante, che si di-

7 Cfr. anche g. gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, Firenze 1937, pp. 158-59.
8 id., Origine e dottrina del fascismo, Roma 1934, p. 47.

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spiega infine, in tutte le sue variazioni, sino a culminare in Genesi e strut-


tura della società. Da tale «Noi» sgorga l’autorità che rende libero quell’io
che gli presta ascolto. Alla base dell’io vi è infatti «una sorta di origi-
naria socialità»9, che lo ancora e lo stabilizza nella sua identità che al-
trimenti sarebbe incerta e mobile (si parla per assurdo, perché, anche
volendo, l’individuo non riuscirebbe mai a essere «questo Io», un sin-
golo atomo isolato, l’Unico nel senso di Stirner). Per Gentile, infatti,
«l’individuo è massima particolarità in quanto è massima universalità.
Più è lui, più è tutti»10. Ossia: più sprofonda in se stesso, più ritrova
l’universalità che costituisce, anch’essa, l’interior intimo meo. L’indivi-
duo è pertanto parte della societas, alla cui vita contribuisce.
Ognuno ha in sé il proprio socius e ogni pensare è un dialogare, si-
multaneamente, con sé e con l’altro da sé, il quale però non rappresen-
ta soltanto un nostro ospite passeggero e non è soltanto in noi, ma è noi.
L’individualità non costituisce un dono della natura, una dote biologi-
ca. È una conquista ininterrotta, per riferire se stessi, nella propria par-
ticolarità, all’universale, scoprendosi identici nel mutare: «Perciò l’in-
dividuo, coscienza e possesso della universalità, non esiste immediata-
mente; non è un dato. Non basta, per essere individuo, nascere; nascono
anche il coniglio e la gallina, che non saranno mai individui»11. Contro
il liberalesimo inglese di origine giusnaturalistica, che postula la pre-esi-
stenza dell’individuo allo Stato, la proprietà privata dell’Io, Gentile sot-
tolinea che «L’individuo particolare è un prodotto dell’immaginazione
(…) circoscritto dentro gli estremi limiti della nascita e della morte e nel
breve confino della sua personalità fisica»12.
Nella concreta dialettica di «particolare» e di «universale» (due astra-
zioni, se considerati isolatamente), il singolo non è pura libertà, così co-
me lo Stato non è pura costrizione:
Lo Stato vero invece non limita ma slarga, non deprime ma potenzia la perso-
nalità del cittadino: non l’opprime ma la libera. Lo Stato non è mai lo Stato per-
fetto, s’intende. Ma ogni sforzo che si fa per mutare la forma in cui lo Stato consi-
ste, obbedisce alla logica che fa cercare ad ogni uomo la sua vita nell’universale e
nella libertà. Questo sforzo non sarebbe d’altronde possibile se lo Stato non fosse,
pur nella sua imperfezione, la stessa volontà del cittadino che insoddisfatta aspira
a una forma più adeguata. Volontà particolare che ha in sé la forza di diventare uni-
versale, volontà di tutti13.

9 id., Genesi e struttura della società (1943), Firenze 1955, p. 32.


10 Ibid., p. 19.
11 Ibid., p. 22.
12 id., Che cos’è il fascismo?, Firenze 1925, p. 25.
13 id., Introduzione alla filosofia, Milano 1933, p. 187.

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Da ciò discende la coincidenza tra autorità e libertà e l’assioma per cui ob-
bedendo all’autorità si incrementa e si esalta la propria libertà: «l’auto-
rità non deve recidere la libertà, né la libertà pretendere di fare a meno
dell’autorità. Perché nessuno dei due termini può stare senza l’altro»14.
Tale proclamata identità di particolare e di universale, di libertà e di
autorità, risulta, alla fine, dubbia. La natura dello Stato etico implica,
infatti, che non venga concessa all’Io alcuna reale autonomia dallo Sta-
to. Nella terminologia di Macpherson, Gentile nega cioè alla radice l’«in-
dividualismo proprietario», l’idea di un soggetto isolato dai suoi simili
e padrone di se stesso: non esiste alcun individuo atomisticamente in-
teso, né alcuna società che formi un ambiente estraneo all’individuo.
Famiglia, scuola e Stato fungono già, in potenza, da agenti principali
della socializzazione dell’individuo, quelli che rendono effettiva o, in al-
cuni casi, fanno giungere a consapevolezza l’appartenenza dell’Io al Noi.
L’unica autonomia che spetta al singolo è quella di realizzarsi nella
comunità, fondendosi misticamente con essa, nel culmine dell’autorea-
lizzazione, mediante il sacrificio della propria vita. L’eternità promessa
al singolo dallo Stato etico non implica però la permanenza perpetua
dell’anima in un altro mondo secondo i dogmi di alcune religioni. Mo-
rire è staccarsi dalla propria immediata particolarità e, al livello più al-
to, negare se stessi a favore della totalità sociale. Per questo è necessa-
rio «immortalarsi, non restare attaccati a se stessi come l’ostrica allo sco-
glio»15. Così tuttavia l’autorità finisce per soffocare la libertà, il Noi per
stritolare l’Io. Tutto viene avocato, teoricamente, verso l’alto, verso la
maestà dello Stato e (in quanto il lato empirico della politica risulta ri-
conosciuto teoricamente) verso chi, di volta in volta, lo rappresenta. In
ciò la dottrina di Gentile coincide con l’etica diffusa dal fascismo, che
invitava ciascun cittadino all’abnegazione e al sacrificio di se stesso.

c) La coscienza inquieta.
Di fronte all’incalzare degli eventi e alla dissoluzione dello Stato eti-
co, tra il 1942 e il 1944, il bisogno di salvaguardare la coscienza indivi-

14 id., Genesi e struttura della società cit., p. 60.


15 Ibid., p. 157. Sul pensiero di Gentile, cfr. h.s. harris, La filosofia sociale di Giovanni Gen-
tile (1960), Roma 1973; s. natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Torino 1989; a. del noce,
Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna 1990; e. ga-
rin, Introduzione a g. gentile, Opere filosofiche, Milano 1991. Per le vicende politiche e persona-
li di Gentile, in particolare dell’ultima fase e della morte, si veda invece s. romano, Giovanni Gen-
tile. La filosofia al potere, Milano 1984, e l. canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni
Gentile, Palermo 1985.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 13

duale dall’oppressiva anonimità della coscienza collettiva assume chia-


re connotazioni politiche anche tra i discepoli di Gentile. Si scinde in
loro il nesso tra il cittadino e lo Stato, la libertà e l’autorità.
Il primo a schierarsi in difesa dell’individuo che agisce senza poter-
si appellare ad alcun principio superiore è Cesare Luporini. Dopo aver
seguito a Friburgo i corsi di Heidegger e aver tentato di gettare un pon-
te tra l’esistenzialismo e l’attualismo, affronta – nel gennaio del 1943,
sulla rivista «Il Primato» di Bottai – il problema della filosofia come
«coscienza di una crisi». In velata polemica con Gentile, distingue due
modi divergenti di pensarla: «per l’uno di essi la crisi si risolve, si pa-
cifica, componendosi su un piano superiore ai suoi termini, per l’al-
tro la crisi si acuisce, si esaspera, definendosi nei suoi termini anti-
nomici»16. La scelta di Luporini cade naturalmente sull’ulteriore ap-
profondimento della crisi, sulla decisione di cercare la propria autenti-
cità nell’obbedire non allo Stato etico, ma a una «chiamata», a una vo-
ce inarticolata che risuona nel silenzio e si fa sentire soltanto attraver-
so la modalità emotiva dell’inquietudine e dell’angoscia. Invitandoci, e
quasi costringendoci, a prendere possesso del nostro destino, a svinco-
larsi dalla abituale, acquiescente apatia, essa indica i cammini della li-
bertà.
Luporini rivendica l’irriducibilità dell’individuo alla comunità, la
priorità dell’«Io» sul «Noi» sia nell’abbracciare la solitudine verso cui
l’individuo è stato spinto dagli eventi, sia nell’assumere la dimensione
esistenziale della contingenza, della finitezza e della singolarità di cia-
scuno («questo, qui, ora» nella «centralità implicita» della coscienza di
ciascuno). Rifiuta pertanto implicitamente l’ideale del sacrificio supre-
mo – automatico e cieco – del singolo in favore dello Stato così com’è,
in quanto Moloch che considera le persone quantités négligéables. Ri-
chiama piuttosto il singolo tanto al suo legame con la specie umana nel
suo complesso, quanto alla sua indilazionabile responsabilità personale,
all’esigenza di assumersi da solo l’onere della libertà in «situazione», di
resistere cioè alla tentazione di lasciarsi trascinare dal flusso degli even-
ti. È proprio negli istanti di massima incertezza che ci accorgiamo del-
la differenza tra il nostro fare, che «è incondizionato», e il nostro agi-
re, che è mimeticamente condizionato dai comportamenti e dalle aspet-
tative altrui, «per lo più inquinato da una sorta di irresponsabilità» in
base alla quale «ci lasciamo decidere». In tali momenti,

16 Cfr. L’esistenzialismo in Italia, a cura di B. Maiorca, Torino 1993, p. 131.

Storia d’Italia Einaudi


14 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

una corrente ci trascina e noi le siamo abbandonati. È la corrente della comune leg-
gerezza e noi le siamo abbandonati: il nostro peso si sgrava sulla compagnia e si an-
nulla nel movimento. Ma, talvolta, un impedimento arrestandoci (morte, malattia,
fallimento) ci accorgiamo di colpo di essere isolati, di essere soli (…) Un’inquietu-
dine si scopre allora che covava sotto la scorza del nostro vivere più facile, e che, ci
accorgiamo, era sempre presente, ma di tanto avvertita quanto bastava per fuggir-
la (…) Quell’inquietudine dal profondo era un appello del nostro essere alla propria
consistenza; ora essa ci avverte che siamo soli, e che quello che non abbiamo volu-
to di volontà nostra ci viene imposto dalle circostanze17.

Chi affronta con serietà il proprio compito non può sfuggire alle cir-
costanze. Deve sforzarsi di vincere i condizionamenti e gli impedimen-
ti che incontra per via, riconoscendone sobriamente la natura e la du-
rezza, senza pensare di poterli superare con la pura forza della volontà,
la sconsiderata esaltazione o la fatua incoscienza.
Il bisogno di sottrarsi alla tutela dello Stato etico si accompagna tut-
tavia in molti a quello, complementare, di abbandonare la campana di ve-
tro della coscienza solitaria. Il rimedio è trovato nell’azione, nell’impegno
politico e sociale, che esenta finalmente il pensiero dalle contorte rumi-
nazioni e dall’inconcludente fantasticare. I filosofi scoprono ora comunità
che non coincidono né con lo Stato, né con il partito unico. Alcuni par-
tecipano, in gruppi civili o militari, clandestini o ufficiali, all’attività po-
litica e alla guerra. Combattono battaglie vere contro un nemico in carne
ed ossa, ben diverso dagli idoli polemici affrontati nei Littoriali della cul-
tura o sulle pagine delle riviste. Si trovano, per di più, a operare e a pen-
sare privi dell’illusoria protezione promessa della storia ufficiale, quella
che sino a poco tempo prima aveva garantito l’immancabile vittoria
dell’Italia imperiale. La storia appare attualmente sospinta da un irresi-
stibile vento di tempesta: «Ci sono moti turbinanti come trombe marine,
di cui non si può non interessarsi, perché a un certo momento strappano
l’individuo dal suo tavolo e lo trascinano in aria». Non vi è pertanto più
spazio per le tormente private dell’anima, in quanto, «posta di fronte a
problemi vitali, l’ultima generazione non ha tempo di costruirsi il dram-
ma interiore: ha trovato un dramma esteriore perfettamente costruito»18.
17 c. luporini, Situazione e libertà nell’esistenza umana, Firenze (dicembre) 1942, pp. 4-5. Se
si avverte distintamente l’eco delle posizioni dello Heidegger di Essere e tempo (in particolare dei
paragrafi 54 e sgg.), manca però in Luporini ogni volontà di «essere-per-la-morte» in senso sacri-
ficale, quale invece sarà riaffermata da Heidegger nel 1944 – quando il regime nazionalsocialista
volgeva alla fine e arruolava nell’esercito anche gli adolescenti – nella forma dell’offerta della pro-
pria vita per la patria. Cfr. c. luporini, Con Heidegger 1931-1993. Alcune riflessioni, oggi, tra filo-
sofia e politica, in aa.vv., Heidegger in discussione, Milano 1992, pp. 25-49, e s. poggi, La finitezza
e la filosofia dell’esistenza, in aa.vv., Il pensiero di Cesare Luporini, Milano 1996, pp. 76-91.
18 g. pintor, Doppio diario 1936-1943, Torino 1978, p. 52 (lettera del 26 gennaio 1939); id.,
Il nuovo romanticismo, in «Il Primato», II (15 agosto 1941), n. 16.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 15

Il mondo reclama quei diritti che, nella sua pretesa di assolutezza me-
tastorica, la coscienza appena sfuggita alle seduzioni dello Stato etico gli
aveva negato. È urgente riconoscerli, riabbassando l’orgoglio dell’indi-
viduo e spezzando il suo immaginario legame con l’eterno assicurato dal-
le categorie della metafisica. Occorre mostrare la verità e la priorità del
mondo storico, ossia di ciò che è mutevole e caduco, rispetto a chi pre-
sume di sottrarsi alle modificazioni del tempo rimanendo identico a se
stesso. Lo ricorda nel 1944 Arturo Massolo, scrivendo – durante i bom-
bardamenti di Livorno, sotto il duplice segno di Gentile e di Heidegger
– che «il singolo non è mai un’aurora; egli si muove in un mondo già ap-
parso il cui essere gli è nascosto». Ciò lo proietta verso l’angosciosa in-
certezza del futuro, in un mondo di apparenze che lo allontana da se
stesso: «Psicologicamente, questa è la nostra pena, il non sentirci ap-
pieno in nostro possesso. Dacché viviamo, viviamo da noi stessi lonta-
no»19. Il rimedio alla crisi del presente si può rinvenire soltanto nella
consapevolezza che la storia è un campo di incertezze dove gli ideali
avanzano rischiosamente, ma hanno più probabilità di successo se colo-
ro che li sostengono si organizzino in associazioni politiche capaci di far
raggiungere alle loro convinzioni una sufficiente massa critica.
La societas ha così definitivamente perduto il suo fulcro archimedeo
in interiore homine20.

d) I diritti della realtà.


Dell’indispensabilità di un incessante confronto con il reale è sem-
pre stato convinto Benedetto Croce, l’altro nume tutelare dell’Italia di-
visa. Coltivare vani rimpianti, accarezzare impotenti speranze, indul-
gere a desideri di evasione dal mondo significa per lui coltivare un at-
teggiamento passivo. Meglio è prendere atto dello stato delle cose,
stendere l’inventario dei danni provocati dalla guerra e dal fascismo e
riportare al più presto l’Italia in quell’Europa civile da cui si era stacca-

19 a. massolo, Storicità della metafisica, Firenze 1944, pp. 4, 6.


20 Anche se assumerà tinte meno drammatiche, e più critiche, con l’«esistenzialismo positi-
vo» e «problematico» di Nicola Abbagnano, l’esistenzialismo di questo periodo non si sottrae in
genere alla storia, blindandosi nella coscienza, come quello più tardi denunciato da Norberto Bob-
bio a proposito di Sartre: «L’esistenzialismo non eccitava alla lotta: insegnava a trarsi in disparte
con disperata e chiaroveggente dignità, a non sporcarsi, a non compromettersi, a non collaborare,
ma non combatteva il male. Lo sfuggiva e, proprio per questo, alla fine lo accettava» (n. bobbio,
Di un nuovo esistenzialismo, in «L’Acropoli», aprile 1946, n. 16, p. 174). Di Abbagnano si veda,
soprattutto, Introduzione all’esistenzialismo del 1942 e, per un inquadramento di più ampio raggio,
a. santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna 1967.

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16 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

ta alleandosi con la Germania di Hitler21. Dopo quasi mezzo secolo di


magistero intellettuale, Croce è ora in grado di esercitare nel Regno del
Sud un’autorità anche politica, di fungere da mediatore tra il governo
italiano e gli Alleati – soprattutto gli inglesi – di trattare l’assetto che il
paese dovrà assumere alla fine della guerra. Il suo provato antifascismo,
il suo liberalismo moderato (in cui l’individuo ha un valore preminente
e lo Stato, lungi dall’essere etico, è soltanto utile), il suo equilibrio lo
rendono più un elemento di continuità con l’Italia prefascista che un
tramite fra i valori etici precedenti e quelli da poco maturati nelle fasi
culminanti della guerra e della Resistenza.
Proprio la fedeltà al mondo costituisce il nucleo dell’etica crociana,
la giustificazione più profonda del suo «storicismo assoluto». Essa in-
segna a conoscere la specificità, le differenze, la complessità e le molte-
plici contraddizioni del presente, resistendo alle lusinghe, sempre in-
combenti, di nostalgici ritorni indietro verso mitiche età dell’oro o di
incontrollati slanci verso il futuro remoto delle utopie. Rispettare i di-
ritti della realtà non significa, peraltro, onorare l’esistente, ma neppure
ignorarlo. Tra due margini estremi, quello dell’attitudine di Sancho Pan-
za (che si adegua sin troppo alle regole di un mondo che non ha voglia
di trasformare), e quello dell’idealismo visionario di Don Chisciotte (che
scambia la proiezione dei suoi desideri con la realtà) vi è per Croce una
fertile regione intermedia rappresentata dall’agire effettivo, capace di
modificare le asperità di un reale che non è affatto immutabile, ma che
è esso stesso, nella sua natura, in stato di perpetua trasformazione.
Per intervenire sugli eventi, così da realizzare gli scopi che ciascuno
si prefigge, Croce pensa che lo strumento più efficace sia costituito da
una disciplina morale in grado di vincere – nell’individuo – le diverse for-
me di «paralisi della volontà», la mancanza di radicate convinzioni o la
fuga nel «trascendente», e – nella società – il trasformismo, la cronica
debolezza e l’inconcludenza etica e politica che colpisce le classi dirigen-
ti italiane, affette, sin dai tempi di Crispi, ma soprattutto in quelli di
Mussolini, da una sorta di «velleità di potenza». L’operosità, l’onestà in-
tellettuale e morale, la concretezza, la sobrietà sono i valori a cui Croce
fa ancora appello, in un contesto in cui l’Italia deve più che mai restare
lontana dalle «alcinesche seduzioni» di giustizia sociale riproposte e pro-
pagandate dai comunisti italiani e dall’Unione Sovietica22.
21 Cfr. b. croce, Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa (1944), ora anche in b. cro-
ce e th. mann, Lettere 1930-1936, Napoli 1991.
22 Intervenendo nel dibattito politico del dopoguerra, Croce riscontra una stretta affinità tra
fascismo e comunismo, cfr. a. cardini, Tempi di ferro. «Il Mondo» e l’Italia del dopoguerra, Bolo-
gna 1992, pp. 116-20.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 17

3. Ethos e sentimenti del dopoguerra.

a) Dallo Stato etico al partito etico.


La storia dello Stato etico fascista si conclude simbolicamente con la
scena shakespeariana del duce, della sua amante e della sua cerchia osce-
namente esposti a testa in giù, appesi ai ganci del distributore di benzi-
na di piazzale Loreto, in un truce e liberatorio rito di selvaggia giustizia
e di collettiva autopurificazione. Lo Stato etico lascia così il posto a un
dio minore, al «partito etico», e a uno maggiore, che a esso si affianca,
la «Chiesa etica». Quest’ultima – che Gentile e il fascismo avevano cer-
cato di ridimensionare quale «istituto di emissione» di valori – è uscita
intatta dalla guerra, e persino moralmente rafforzata, dal momento che
il più potente partito di governo si richiama al suo magistero. È ora pron-
ta a esercitare il proprio ruolo, anche politico, facendo leva sull’altra
«potenza etica» che ha svolto compiti di supplenza nel momento della
crisi dello stato: la famiglia.
In tale situazione, i rapporti di fedeltà e di dedizione assoluta a una
causa spesso non vengono più immediatamente associati alle idee di «na-
zione», di «patria» o di «cittadinanza generale», bensì, con una sorta
di sineddoche politica (di pars pro toto), a una parte sola, al partito in
quanto portatore di esigenze di carattere globale, o, con una sorta di si-
neddoche rovesciata (di totum pro parte), alla Chiesa, garante, in questa
fase storica, degli interessi ultraterreni, oltre che di quelli temporali, de-
gli individui. I partiti di massa ereditano dallo Stato etico non solo la
natura di partito-stato, di guida globale, «totalitaria», seppure in com-
petizione e non compatta al loro interno, ma anche di sostegno princi-
pale dell’identità collettiva, che la divisione delle memorie collettive e
della «patria» (nelle due entità statuali del Regno del Sud e della Re-
pubblica sociale italiana dal 1943 al 1945) ha lasciato priva di forti e uni-
tari referenti23. Milioni di uomini e donne – mentre la loro esperienza
porta ancora le cicatrici della guerra internazionale e civile, dei bom-
bardamenti, dello sfollamento, del «pane nero» e del passaggio dalla mo-
narchia alla repubblica, ma anche il ricordo della solidarietà offerta e ri-
cevuta in questi cruciali momenti – operano un reinvestimento del sen-

23 Per la sottolineatura delle «spinte centrifughe» all’interno della società italiana che metto-
no duramente alla prova la capacità dei partiti politici di controllare efficacemente i propri iscrit-
ti e ne accrescono la funzione educatrice e propagandistica, cfr. p. pezzino, Identità deboli e parti-
ti forti. Le radici storiche della crisi italiana, in «Storica», 1996, n. 6, pp. 55-95, in particolare pp.
77 sgg.

Storia d’Italia Einaudi


18 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

so di tutte le loro aspettative nella direzione dei partiti, nella forma, ap-
punto, di un trasferimento massiccio di lealtà dal tutto alla parte. La ri-
levanza etica di cui i partiti di massa si caricano e che favorisce la con-
fusione dei loro compiti con quelli dello Stato (da sottolineare è per que-
sto la loro inconsapevole mimesi del Partito nazionale fascista, l’unico
partito «moderno» direttamente conosciuto) contiene un interno peri-
colo. Pone infatti le premesse sia della successiva degenerazione «parti-
tocratica», sia, in prospettiva, della morte degli stessi «partiti etici», al-
lorché saranno privati della loro aureola e di parte delle loro funzioni.
Identificandosi con lo stato, quando sono al potere, o con l’interesse ge-
nerale tradito, quando sono all’opposizione, finiscono per indebolire
l’immagine e le prerogative delle istituzioni super partes.
Con l’inizio della guerra fredda anche i valori fondamentali vengo-
no suddivisi fra i contendenti che si arrogano la rappresentanza dell’uno
contro l’altro, dimodoché l’anticomunismo paralizza e rende sospetti i
tentativi di giustizia ed eguaglianza sociali, mentre, simmetricamente,
l’anticapitalismo e l’antiamericanismo rendono sospetti i diritti degli in-
dividui e la libertà, considerati fragili gusci di una effettiva violenza di
classe. Lo scontro ideale e ideologico ottunde talvolta il senso di parte-
cipazione a una vicenda comune e porta alla delegittimazione incrocia-
ta di ogni schieramento, anche se poi induce milioni di cittadini ad ac-
cettare la politica come confronto appassionato di opinioni contrastan-
ti. Di fronte alla lealtà nazionale e internazionale divisa fra amore per
la patria e sentimento di appartenenza a movimenti politici operanti su
scala mondiale, la politica diventa così lotta tra «agenzie etiche» con-
trapposte.
Inizia la spartizione del potere: ai democristiani viene lasciato in ere-
dità lo stato, la continuità degli apparati, nonché la difesa della famiglia
(e, dunque, le principali strutture dell’oikos e della polis). Alle sinistre
tocca il controllo del consenso culturale e una relativa egemonia all’in-
terno della società civile (un’egemonia da non sopravvalutare, come si
è fatto di recente, dimenticando l’enorme forza di penetrazione nei ce-
ti popolari e nella classe media della cultura e della sensibilità cattolica).
Mentre la prospettiva della Democrazia cristiana, in quanto partito in-
terclassista, è quella della politica come «servizio» e la sua aspirazione
pratica è di entrare in tutte le pieghe della società e di somigliarle, il Pci
vuole essere invece un «partito operaio e di combattimento (…) un par-
tito di massa con la qualità di un partito di quadri»24.

24 m. flores e n. gallerano, Sul PCI. Un’interpretazione storica, Bologna 1992, pp. 138-39.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 19

b) La guerra civile dell’anima.


Comincia così ad acclimatarsi la separazione ideologica e religiosa,
scoppia la guerra civile dell’anima. La «cortina di ferro» passa anche tra
le persone, all’interno delle famiglie e degli amici. In realtà essa presenta
diverse crepe, attraverso le quali filtrano forme di bonaria e parziale con-
nivenza, come quella raffigurata da Guareschi nelle note figure di Pep-
pone e don Camillo25, e di visibile compromesso quotidiano tra cattoli-
ci impegnati con la sinistra «atea» e i comunisti che si sposano in chie-
sa e fanno battezzare i figli. Rimane tuttavia quasi una trincea o una
linea di demarcazione tra ideali e passioni divergenti: da un lato ideali,
proiettati verso il futuro, di giustizia ed eguaglianza, di lavoro per tut-
ti e di fine dello sfruttamento; dall’altro, rivendicazione di libertà e pro-
sperità nel presente, di intraprendenza e di adesione ai modelli econo-
mici e politici della modernità capitalistica già operante.
La militanza – fatta di faziosa generosità, di proselitismo, di mobi-
litazione, di lotta, di sacrifici personali e di privilegiamento della di-
mensione pubblica a scapito della famiglia, della vita privata, degli in-
teressi immediati – diventa per molti ragione di vita. Si scopre anche
così, con le parole di Fenoglio, «com’è grande un uomo nella sua nor-
male dimensione umana»26, nella sua partecipazione, anche da compri-
mario, agli eventi collettivi. Successivamente, quando la tensione mo-
rale diminuirà e ad una prevalente etica dei doveri verrà gradualmente
sostituendosi un’etica dei diritti e delle rivendicazioni, in diversi casi la
tessera di partito servirà anche da grimaldello per scassinare e dilapida-
re pubbliche risorse.
Dell’asprezza dei vecchi conflitti ideologici di tipo nazionalistico,
che hanno caratterizzato il mondo prebellico, resta nella coscienza dei
militanti l’intensità, sublimata in lotta decisiva tra Bene e Male. Le nuo-
ve strutture identitarie, i partiti, fanno leva, di conseguenza, non tanto
su fattori di concordia civile, quanto di divisione (specchio della divi-
sione del mondo): sull’antifascismo, sull’anticapitalismo, sull’anticomu-
nismo o sull’avversione per chi, durante la guerra, ha tradito Mussolini
e il suo progetto di rendere grande l’Italia.
La storia dell’Italia repubblicana rappresenta per l’etica il luogo di

25 Questi eventi riecheggiano, peraltro, una reale guerra delle campane tra un sindaco e un
parroco a Correggio, cfr. m. boneschi, Poveri ma belli. I nostri anni cinquanta, Milano 1995, pp.
63-64.
26 b. fenoglio, Il partigiano Johnny, Torino 1968, pp. 39-40, e si veda, ad esempio, d. mon-
taldi, Militanti politici di base, Torino 1971.

Storia d’Italia Einaudi


20 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

scontro e di mediazione tra molteplici valori e piani di vita, prodotti


dalla combinazione di almeno cinque fattori caratteristici. Ossia: a) il
fascismo, che ha politicizzato larghe fasce della popolazione, stanan-
do letteralmente dal loro rifugio nel privato i soggetti per lunga tradi-
zione esclusi o tenuti ai margini dalla politica (bambini, adolescenti,
donne, contadini, impiegati). Dopo averli inquadrati in molteplici as-
sociazioni, li ha infatti spinti a partecipare a manifestazioni pubbli-
che, a uscire dal perimetro della casa o dalle preoccupazioni esclusive
del lavoro, dando coscienza nazionale soprattutto a quanti vivevano
isolati dalla comunità statale (come le masse rurali, per cui il mondo
coincideva con il villaggio e a cui l’eco dei grandi eventi collettivi giun-
geva attutito); b) la divisione dalla quale l’Italia esce dopo oltre due
decenni di regime fascista, con l’annessa virulenza di forme di ostilità
o di disprezzo reciproco tra cittadini che avevano militato su fronti
opposti; c) la permanenza nello stato italiano del centro ufficiale del-
la cattolicità, con il mantenimento del Vaticano nel cuore stesso della
sua capitale (il che permette alla Chiesa di far sentire più spesso il pro-
prio peso sulle scelte politiche); d) l’inserimento nella sfera di influenza
politica e, in parte, culturale degli Stati Uniti; e) la presenza del par-
tito comunista più forte, ma anche più «liberale» dell’intero Occi-
dente, che eredita da Gramsci la concezione del partito etico quale
«Moderno Principe», educatore, sul piano intellettuale e morale, di
masse che sono spesso indisciplinate (come quelle contadine del Me-
ridione).
La sezione o la «cellula» di partito, la «casa del popolo», le attività
ricreative degli oratori e delle parrocchie, le sedi dei sindacati, le gare
sportive e, più tardi, le feste dell’«Unità», dell’«Avanti!» o dell’«Ami-
cizia» promuovono e intensificano nel dopoguerra la vita di relazione
«popolare». L’esperienza duplice e contraddittoria delle paure (guerra,
bombardamenti, fame) e delle speranze (rinascita, benessere, mondo mi-
gliore) insegna a concepire e a praticare la politica come impegno tota-
le, gelosamente esclusivo. Si pensa che la realizzazione delle aspettati-
ve non politiche passi unicamente attraverso gli strumenti della politi-
ca. Retrospettivamente, tale iperpoliticismo può oggi meravigliare. In
tale periodo di emergenza, tuttavia, il ricorso ad «anfetamine ideologi-
che» appare a molti una inaggirabile necessità per superare il faticoso
sforzo di riadattamento ai nuovi contesti interni e internazionali. È con-
vinzione comune che la libertà si realizza nel partito, nel sindacato o nel-
la Chiesa: comunque all’interno di organizzazioni «avvolgenti» e pro-
tettive, che chiedono in cambio una disciplina e un’obbedienza analoga
a quella pretesa dallo Stato etico.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 21

c) Trovare un ponte.
Nel primo dopoguerra, la lunga assenza dall’Italia dei fuoriusciti po-
litici, se da un lato consente uno sguardo dall’esterno, sprovincializzan-
te, dall’altro nasconde molte delle trasformazioni introdotte dal tra-
scorrere del tempo e dal regime fascista. Pur con qualche sfasatura, do-
vuta allo sforzo di sovrapporre fotogrammi discontinui della società, i
maggiori politici che ritornano dall’esilio si inseriscono tuttavia abba-
stanza bene nella situazione nuova. Solo pochi si dividono tra il desi-
derio di ritornare al regime liberale prefascista e la fuga in avanti verso
modelli rivoluzionari astratti.
Con l’uscita dalla guerra e dai campi di concentramento, con il rien-
tro dei reduci dalla Germania, dagli Stati Uniti, dal Kenya o dall’Unio-
ne Sovietica e con l’arrivo dei profughi dall’Istria e dalla Dalmazia, con
la difficile integrazione di chi ha vissuto lontano da casa e la deludente
accoglienza da parte di chi non si è mosso, gli italiani cercano di trova-
re nuovi equilibri e forme di convivenza. Vengono però attratti in altri
campi di tensione interna e internazionale, per quanto meno gravi o più
remoti. Oltre alle ferite lasciate dalla guerra, vi è anche una specie di
continuazione della politica con altri mezzi: tra l’aprile e il luglio del
1945 risultano uccise – per ragioni politiche a cui si mescolano violen-
za comune e vendette private – oltre diecimila persone (su questo tema
Guareschi disegna sul «Candido» una serie di vignette intitolate Via
Emilia)27.
L’attesa di un futuro migliore e il bisogno di normalità si intreccia-
no con paure e speranze inedite e complementari. Dopo Hiroshima e
Nagasaki e, soprattutto, dopo l’acquisizione dell’arma atomica da par-
te dei russi, si sviluppa l’incubo di un olocausto provocato da una guer-
ra tra le due «superpotenze» uscite dagli accordi di Yalta e di Potsdam.
Ogni fenomeno appare inoltre bifronte: l’avvento del socialismo, au-
spicato da alcuni come fattore di giustizia, viene paventato da altri qua-
le furto della proprietà; l’arrivo di derrate alimentari e dollari america-
ni si presenta o come un processo di asservimento o come generoso aiu-
to per liberare l’Italia e l’Europa occidentale dalla miseria. Il timore del
comunismo (soprattutto tra i contadini, i piccoli proprietari e la bor-
ghesia, più diffuso nel Centro-sud che nel Nord) e quello della reazione
convivono così anche quale inquietante proiezione dell’ombra lunga dei
rispettivi stati-guardiani. Alle trepidazioni dell’aldiqua si somma, nei

27 Cfr. ora g. guareschi, Il mondo Candido 1946-1948, Milano 1991.

Storia d’Italia Einaudi


22 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

cattolici impegnati in politica, l’ulteriore minaccia dell’aldilà, soprat-


tutto quando la Chiesa procede alla scomunica dei comunisti nel luglio
1949. Qualcuno, tuttavia, si muove coraggiosamente al di fuori di que-
sti schemi, cercando di sanare le ferite della guerra e l’atmosfera di odio
e diffidenza sociale. È il caso di don Zeno Saltini, il fondatore di No-
madelfia, vicino a Grosseto, una «città dei ragazzi» che raduna i giova-
ni mutilati e orfani di guerra, gli sbandati e i più poveri, riunendoli in
«famiglie» in cui dei laici prendono, volontariamente, il posto di «pa-
dri» o «madri». Nomadelfia, comunità anomala sospettata di comuni-
smo dalle autorità ecclesiastiche, sarà costretta a chiudere, carica di de-
biti, nel 1952.
La frattura con il passato, il senso di discontinuità e di provvisorietà
si avverte con forza. I danni materiali e morali, le ferite psicologiche e
i lutti appaiono immensi (quasi ogni famiglia piange i suoi morti o i suoi
dispersi), sebbene il tributo di sangue pagato dagli italiani nella secon-
da guerra mondiale sia stato nettamente inferiore a quello della «gran-
de guerra» o, nello stesso periodo, di molti altri popoli. A causa dei bom-
bardamenti, le città hanno però subito distruzioni imparagonabili per-
sino con i periodi più oscuri delle «invasioni barbariche», mentre le
campagne recano i segni del passaggio del fronte o della mancanza di
braccia, sottratte dal servizio militare. Gli edifici e le fabbriche si pos-
sono ricostruire, le opere d’arte danneggiate o disperse restaurare o re-
cuperare, i campi coltivare e far fruttare. Le lesioni più gravi sono però
interiori, nei criteri di condotta di molti, che l’esperienza della guerra
più che sanare ha talvolta contribuito ad aggravare28. Occorre infatti
battere la tendenza alla svalutazione di tutte le leggi, il falso ribellismo
autogiustificantesi che il regime precedente (ma non solo) ha lasciato in
eredità: «Guardate, una delle più gravi malattie, una delle più gravi ere-
dità patologiche lasciate dal fascismo all’Italia è stata quella del discre-
dito delle leggi»29. Sono parole di Pietro Calamandrei che, cercando
uscite di sicurezza alle emergenze, fonda nel 1945 la rivista «Il ponte»
e così la presenta: «il nostro programma è già tutto nel titolo e nell’em-
blema della copertina: un ponte è crollato, e tra i due tronconi delle pi-
le rimaste in piedi una trave lanciata attraverso per permettere agli uo-
mini che vanno al lavoro di ricominciare a passare».
La fine della monarchia (che ha retto per appena ottantacinque an-

28 s. lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni novanta, Venezia
1992, pp. 2 sgg.
29 p. calamandrei, Chiarezza nella Costituzione (1947), in Scritti e discorsi politici, Firenze
1966, vol. II, pp. 30-31.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 23

ni lo stato unitario, ma che ha una lunga tradizione specie nel Regno


delle Due Sicilie e in quello di Sardegna) sconvolge antichi equilibri. So-
prattutto nel Centro e nel Nord del Paese, con la parziale eccezione del
Piemonte, produce la definitiva scomparsa dei valori feudali di cui essa
era portatrice: la fedeltà personale a un simbolo vivente, identificato
con la Patria – di cui i Savoia, dinastia con una storia plurisecolare, ave-
vano promosso l’unificazione –, l’ordine gerarchico santificato dal tem-
po, l’ancoraggio alla tradizione e quindi ai valori della stabilità e al pa-
ternalismo. Lo sguardo «verticale» rivolto all’autorità paterna del so-
vrano dall’inno nazionale monarchico Cunservet Deus su Rei si trasforma
nell’orizzontale ed egualitario Fratelli d’Italia repubblicano. Solo nel Sud
i valori monarchici continuano a sopravvivere, residui di un secolare at-
taccamento delle plebi urbane e contadine e della debole borghesia
all’immagine benevola di un’autorità al di sopra dei partiti e delle fa-
zioni.
Malgrado i successi nella fase di ricostruzione, le ferite si rimargina-
no lentamente, anche perché il 65 per cento del potenziale industriale è
stato distrutto dalla guerra. A molti l’Italia sorta dalle rovine non pia-
ce. A cominciare dagli sconfitti (dai fascisti ai monarchici, che hanno
assistito al crollo del regime e alla scomparsa degli ultimi due re nell’esi-
lio di Alessandria d’Egitto e di Cascais) sino ai sostenitori dell’«Uomo
qualunque» di Giannini, che vedono gli italiani ancor più minacciati dalla
corruzione, spremuti dalle tasse e schiacciati dalle oligarchie. Riprende
la sotterranea riscossa dei ceti che si sentono vittime degli eventi e della
prepotenza dei vincitori. Sono le classi medie, in particolare la picco-
la borghesia, ad avvertire e segnalare il disagio – materiale e morale – e
ad esprimere un sordo desiderio di rivalsa. La guerra ha provocato l’«ero-
sione o l’azzeramento» dei loro risparmi, intaccandone la rispettabilità
ed avvicinandole così pericolosamente, nella gerarchia sociale, agli odia-
ti operai, proprio mentre prosperano i profittatori e gli affaristi. Attra-
verso il «sudismo rivendicazionista», il qualunquismo e il legittimismo
monarchico si assiste così a un graduale «ritorno all’ordine», che cul-
minerà nelle elezioni del 18 aprile del 194830.
In seguito all’acuirsi della guerra fredda e all’espulsione dei partiti
comunista e socialista dal governo, l’Italia così com’è comincia a piace-
re sempre meno anche al «popolo della sinistra». Coloro che hanno com-
battuto nella Resistenza constatano con amarezza quanto siano state di-

30 Cfr. a.m. imbriani, Vento del Sud. Moderati, reazionari e qualunquisti (1943-1948), Bologna
1996, pp. 15 sgg.

Storia d’Italia Einaudi


24 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

sattese le loro speranze di maggiore eguaglianza, giustizia e libertà. Per


ricordare di nuovo le note espressioni di Calamandrei, nel 1948 essi si
vedono compensati per «una rivoluzione mancata» dall’accoglimento
nella Costituzione, da parte dei moderati, di «una rivoluzione promes-
sa»31. Per certi aspetti questa Italia non piace neppure ai democratici
cristiani – che occupano ad «arcipelago» pezzi dello stato32 – e alla Chie-
sa, che pure ne trae i maggiori vantaggi. Entrambe queste forze vedono
infatti avanzare, assieme all’egemonia americana, una forma di moder-
nizzazione che – mettendo in primo piano i valori individualistici e l’eco-
nomia di mercato – rischia di allentare i vincoli della famiglia e della so-
lidarietà sociale.
Parte del disagio è dovuta al fatto che l’apprendimento della demo-
crazia non risulta per nessuno né facile né indolore33. L’introduzione
del suffragio universale maschile e femminile attribuisce a tutti i citta-
dini adulti una precisa responsabilità personale nel determinare la dire-
zione politica del paese. Anche se la campagna di alfabetizzazione de-
mocratica passa spesso in secondo piano rispetto alla richiesta pressan-
te di fedeltà a questo o a quel partito e anche se molti, pur nell’altissimo
numero dei votanti, seguono nella scheda indicazioni esterne (prove-
nienti dal marito, dal prete, da chi promette benefici economici o posti
di lavoro), oltre cinquant’anni di pratica della democrazia hanno oggi
dimostrato l’esistenza di un apprendimento abbastanza «individualiz-
zato» delle «regole del gioco»34.

4. Territori dell’immaginario.

a) Il colore delle passioni.


La mobilitazione di ingenti masse umane viene ora sincronizzata con
il variare delle visioni del mondo su vasta scala e dosata secondo amo-

31 p. calamandrei, Cenni introduttivi sulla Costituente e sui suoi lavori, in Commentario siste-
matico della Costituzione italiana, a cura di P. Calamandrei e A. Levi, Firenze 1950, vol. I, p. xxxv.
32 Cfr. c. donolo, Social Change and Transformation of the State in Italy, in aa.vv., The State
in Western Europe, London 1980, p. 165.
33 «Il ritorno alla democrazia implica il recupero da parte dei cittadini di un esercizio di in-
telligenza e di moralità nella vita pubblica, presuppone riserve etiche che i regimi totalitari hanno
consumato, non accresciuto» (p. scoppola, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia
in Italia, Bologna 1991, p. 424).
34 Per questa fase cfr. f. barbagallo, La formazione dell’Italia democratica, in aa.vv., Storia
dell’Italia repubblicana, vol. I, Torino 1994, pp. 5-128.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 25

ri e odi, sentiti ancora «con animo perturbato e commosso», più che


compresi e approfonditi. Oltre che lotte di idee e di programmi vi so-
no vere e proprie collisioni esplicite o implicite di passioni pubblica-
mente manifestate e ritualizzate. Con una suddivisione «cromatica»,
che affonda le sue radici nella storia del simbolismo politico, le potremmo
classificare fondamentalmente in «rosse», «nere», «grigie» e «bian-
che»35.
Le «passioni rosse», tipiche dei movimenti socialisti e comunisti (par-
titi e sindacati), sono generalmente proiettate nell’attesa di mutamenti
profondi, scrutano il sorgere del «sole dell’avvenire» che rinnovi il mon-
do ed emancipi «l’intera umanità» secondo progetti ritenuti «scientifi-
ci» (e, di conseguenza, assecondati dalla «forza delle cose», dalla logica
della storia). Indirizzate verso un futuro di eguaglianza e di fratellanza
fra tutti gli uomini, preceduto però da dure lotte, risultano non solo im-
pazienti e coinvolgenti, ma anche flessibili e freddamente attente al mu-
tare delle circostanze e dei rapporti di forza. Morale e senso della sto-
ria collaborano in esse nel plasmare orientamenti e valori.
In fasi di acuta conflittualità, tali passioni possono diventare fanati-
che, legittimando talvolta l’«odio di classe» (questo, peraltro, è in pra-
tica avvenuto in Italia nell’immediato dopoguerra soltanto in alcune zo-
ne o negli anni 1962-85 presso talune frange dell’estremismo «operai-
stico», dei movimenti del Sessantotto o del terrorismo). Esse mettono
comunque allo scoperto una tensione irrisolta o una contraddizione in-
terna alla natura dei partiti che si dicono rivoluzionari. Infatti, dato che
la politica e l’etica devono promuovere immediatamente gli interessi e
gli ideali della «classe generale» per realizzare – in un’epoca indetermi-
nata e a conclusione di un lungo e cruento processo – un’etica univer-
salmente umana, le passioni e la morale di partito divengono quelle di
una parte che si autoproclama anticipatamente totalità in divenire.
All’interno di una «Repubblica democratica» ciò produce lacerazioni,
aggiustamenti interiori, sfasature e incongruenze ideologiche, ma lascia
anche spazio a opposte tendenze (al compromesso o alla violenza, a
un’adesione senza riserve o a un’adesione strumentale alla democrazia).
La risoluzione di tali spinte divergenti viene affidata al giudizio dei ver-
tici politici, a cui la base degli iscritti o dei «quadri intermedi» serve
spesso – malgrado la fitta partecipazione – come mera cassa di risonan-

35 Ho trattato in maniera più ampia e analitica questo problema, ma da un altro punto di vi-
sta, in Il rosso, il nero, il grigio. Il colore delle moderne passioni politiche, in Storia delle passioni, a cu-
ra di S. Vegetti Finzi, Roma-Bari 1995, pp. 315-55. Da vedere, per certi aspetti, e. di nolfo, Le
speranze e le paure degli italiani (1943-1963), Milano 1986.

Storia d’Italia Einaudi


26 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

za. Da qui quella che è apparsa come «doppiezza» psicologica di una so-
la persona: Togliatti36.
In diametrale opposizione (di nuovo, soprattutto, nel periodo dell’im-
mediato dopoguerra e con un picco negli anni sessanta-settanta) si si-
tuano le «passioni nere», quelle ereditate dal fascismo in genere e, per
l’Italia del Nord, anche dalla sua versione estrema. Esse invitano ora al-
la ribellione verso l’esistente, verso una democrazia imbelle, priva di va-
lori intrinseci, schiava degli stranieri e dei comunisti. Rispetto allo slan-
cio universalistico di quelle «rosse», le «passioni nere» possono appari-
re meno «astratte», ossia meno concettualizzabili. Si esprimono meglio
in forma di miti, di sistemi di immagini e di simboli. Nemiche dell’in-
dividualismo e sospettose nei confronti della ricerca di una felicità per-
sonale, vengono indirizzate a favore di obiettivi quali il ritorno alla com-
pattezza monolitica della patria o alla restaurazione intransigente dei
suoi interessi e dei suoi «sacri confini». Chi ne è intriso ritiene il con-
flitto condizione permanente della Natura, applicando alla competizio-
ne delle nazioni per il primato un modello di darwinismo politico com-
binato con il ricordo della potenza imperiale di Roma e della missione
civilizzatrice dell’Italia (solo più tardi alcuni gruppi di giovani si rivol-
geranno ai miti e alle simbologie nordiche, all’Europa come patria del-
lo spirito contro gli opposti materialismi dell’America e dell’Unione So-
vietica, o ai romanzi fiabeschi di Tolkien).
Sebbene i neofascisti, nella Repubblica democratica «nata dalla Re-
sistenza», vivano a lungo ai margini della legalità costituzionale e siano
politicamente tollerati come possibile serbatoio di voti, essi non vengo-
no però giudicati, neppure dai loro avversari, come degli «extra terre-
stri». Anche per esperienza personale, molti esponenti della sinistra so-
no consapevoli del fatto che «il fascismo è nato dalle viscere della no-
stra società» (lo dichiara la rivista di intellettuali comunisti «Società»
nell’articolo d’apertura del suo primo numero, nel 1945)37. Giudicando

36 Per un’altra prospettiva, cfr. p. di loreto, Togliatti e la «doppiezza». Il PCI tra democrazia
e insurrezione 1944-1949, Bologna 1991.
37 Giorgio Almirante nel corso del V congresso dell’Msi, del 1956, cerca di superare un equi-
voco: «l’equivoco, cari camerati, è uno e si chiama essere fascisti in democrazia. Noi soli siamo estra-
nei, ed è un titolo di onore ma anche una speventosa difficoltà per questa democrazia, per questa
Italia del dopoguerra. E il nostro coraggio è consistito, nel 1946, nell’inserirsi come Msi, cioè come
partito operante in questa democrazia» (citato da g.e. rusconi, Resistenza e postfascismo, Bologna
1995, p. 193, e cfr. anche, sul tema, m. tarchi, Esuli in patria. I fascisti nella Repubblica italiana, in
aa.vv., Lo straniero interno, a cura di E. Pozzi, Firenze 1993). Estranei sì, anche se – come è stato
osservato per i fascisti – prigionieri della paradossale «abilità di legare sentimenti antisociali alla di-
fesa dell’ordine sociale esistente»: cfr. a. lyttelton, Fascismo e violenza: conflitto sociale e azione
politica in Italia nel primo dopoguerra, in «Storia contemporanea», XIII (1982), p. 983.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 27

opportunista e corrotta la società sorta dalle macerie materiali e morali


della guerra, i neofascisti italiani credono fermamente che essa debba
essere non tanto rinnovata, quanto rimessa a posto secondo un «ordine
nuovo» che spesso non è altro se non un ritorno a quello vecchio. Para-
dossalmente, in base a una loro peculiare «doppiezza», pretendono di
avere il monopolio dell’idea di ordine praticando il disordine e di quel-
la di nazione dopo aver portato quest’ultima alla rovina. Le virtù a cui,
ancora una volta, si affidano sono esemplate dal coraggio nell’andare
controcorrente, dall’orgoglio della sconfitta per una nobile causa, dal
disprezzo delle regole democratiche, ma – insieme e indissolubilmente
– dalla fedeltà e dall’onore. Una residua attrazione per la morte e il sa-
crificio restano «cromosomicamente» trasmesse alle ultime generazioni
quale impronta delle esperienze della «guerra di movimento» appena
trascorsa, e della precedente guerra di trincea. Alla base delle «passio-
ni nere» si rinviene un’antropologia negativa, fondata sulla convinzio-
ne che l’uomo sia un essere sostanzialmente istintuale che può venir do-
mato e comandato, ma non migliorato e reso responsabile di se stesso.
Ci si solleva dall’animalità e si raggiunge il livello dei «superuomini»,
degli eroi, soltanto se si trovano individui eccezionali capaci di sottrar-
si alla mentalità e agli interessi meschini del «gregge» o cittadini-solda-
ti-lavoratori pronti a sacrificare alla causa se stessi e i propri familiari
(viene, a tal proposito, giudicata esemplare la condanna a morte inflit-
ta da Mussolini al genero, Galeazzo Ciano). Le teorie di Julius Evola,
soprattutto quelle elaborate nel dopoguerra, mirano appunto alla crea-
zione di un tipo umano che «pur trovandosi impegnato nel mondo d’og-
gi, perfino là dove la vita moderna è in massimo grado problematica e
parossistica, non appartiene interiormente a tal mondo né intende ce-
dere ad esso, e in essenza sente di essere di una razza diversa di quella
della grandissima parte dei nostri contemporanei». Gli uomini di que-
sto genere rifiutano i valori borghesi, che hanno una radice comune con
quelli socialisti, e si ricollegano alla Tradizione, ossia a una trascenden-
za laica che oltrepassa la dimensione semplicemente umana e individuale.
Essi sono capaci di «restare in piedi fra le rovine e la dissoluzione» di
questo mondo pensando all’altro, a cui appartengono per scelta, e sono
disposti «a battersi anche su posizioni perdute»38.
Si possono poi chiamare «passioni grigie» quelle che definiscono la
democrazia moderata, di fede repubblicana o monarchica, ma sempre

38 j. evola, Cavalcare la tigre, Milano 1981, pp. 9-10. Cfr., per posizioni analoghe, id., Rivolta
contro il mondo moderno, Roma 19693, e id., Gli uomini e le rovine, Roma 19672.

Storia d’Italia Einaudi


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moralmente intransigente. Esse sono tipiche, nel migliore dei casi, dei
liberali come Benedetto Croce, di alcuni uomini del Partito d’Azione
(quelli almeno del «partito delle tessere» e non certo quelli del «partito
dei fucili») e degli «eroi borghesi». Scarsamente diffuse in Italia, con-
nesse a valori individualistici di libertà ordinata e di senso dello stato,
fiduciose nella componibilità spontanea o negoziata dei conflitti di in-
teressi, esse respingono il fanatismo e l’estremismo, prediligendo l’effi-
cienza e la normalità. Pongono perciò in primo piano la questione dei
doveri e dei diritti, della coscienziosità, dell’onestà, della professiona-
lità, della serietà e della laboriosità. Si presentano «grigie» e impiegati-
zie, modeste e di routine soltanto a coloro che considerano la democra-
zia un regime orientato dai gusti volgari e dalle opinioni superficiali del-
le folle o retto da potenti lobbies che manipolano il consenso in misura
determinante. Si tratta in effetti di passioni civili non «militarizzate» e
scarsamente mobilitabili a livello di massa, giacché vivono e prospera-
no o nell’impegno d’élite o nella sfera privata.
Vi sono, infine, le «passioni bianche», elaborate e trasformate in
valori dalla Chiesa cattolica nell’arco dei secoli e penetrate in tutti gli
strati della società italiana, assieme a una «saggezza terrena» che si ma-
nifesta nell’accorto esercizio del potere, frutto di una esperienza affi-
nata in quasi duemila anni, capace di conoscere e di sfruttare anche i
vizi e le debolezze degli uomini. Nella Democrazia cristiana e nelle or-
ganizzazioni che l’affiancano (per cui la Chiesa costituisce una risorsa
transpolitica di immenso valore), tali passioni ruotano attorno agli idea-
li della purezza, simbolizzata dal «bianco fiore», dell’amore reciproco
e della solidarietà. La fede religiosa e la congiunta promessa di un pre-
mio celeste alla militanza terrena svolge, almeno all’inizio, un ruolo di
primo piano nel trascinamento di enormi masse verso la politica attiva
e l’impegno civile tanto nella Democrazia cristiana quanto nel collate-
ralismo cattolico (Acli, Fuci, Coltivatori diretti). Ma avvicina alla po-
litica, sia pure solo nel momento del voto, anche milioni di donne, so-
prattutto nel Sud e nel Nord-est del Paese. Oltre a forgiare tendenze
neoguelfe e ad attrarre la borghesia laica in crisi verso quel «totem di
eternità» che è la Chiesa, tale impegno rivaluta i sentimenti arcaici e
le virtù del mondo contadino, della famiglia e dell’obbedienza alle ge-
rarchie ecclesiastiche. In maniera monumentale e spettacolare, queste
passioni e virtù vengono celebrate in occasione dell’Anno Santo del
1950 o dei vari pellegrinaggi e «marce della fede». Sintomatico, in un
simile clima e in termini comparativi, è anche il successo del film ame-
ricano Bernadette, sul miracolo di Lourdes, e di quello spagnolo Mar-
cellino, pane e vino, sul ragazzo allevato dai frati. Per misurare il mu-

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 29

tamento di clima intervenuto è sufficiente considerare queste pellico-


le in rapporto a Roma città aperta di Rossellini, del 1945, in cui cam-
peggia l’umile e alta figura del sacerdote fucilato dai tedeschi per ave-
re aiutato i partigiani.
Se prevalenti appaiono dunque il richiamo all’antico e alla tradizio-
ne, talvolta al bigottismo, non manca tuttavia l’invito a cercare nuove
strade di formazione, di conquista delle coscienze e di strutturazione
della società, come nel gruppo che si crea attorno a Dossetti. «Siamo ar-
diti della fede | siamo araldi della croce», cantano frattanto i giovani
dell’Azione cattolica, mentre i democristiani si dividono, sul piano del-
la politica economica, tra un guardingo solidarismo protezionistico e un
timido liberismo. Una tensione analoga si produce tra aperture alle esi-
genze e ai bisogni dei rappresentanti del «mondo del lavoro» e i ripe-
tuti ammonimenti al rispetto delle inesorabili leggi di mercato, fre-
quentemente ricordate ai governi democristiani dagli Stati Uniti, preoc-
cupati per l’uso eccessivamente assistenzialistico degli aiuti del piano
Marshall. Con una vasta gamma di strumenti e di iniziative, la presen-
za cristiana nella società si radica comunque profondamente: gli eletto-
ri premiano la Dc con la maggioranza relativa e, nel 1954, 3 milioni di
persone sono già inserite nella rete dell’associazionismo cattolico.

b ) Le patrie sognate. L’America e l’occidentalizzazio-


ne d e l l ’ I t a l i a .
In parte scontenti del paese in cui si trovano a vivere, gli italiani im-
maginano, senza muoversi dalla loro terra, altre patrie alternative o com-
plementari: almeno due paradisi terrestri (gli Stati Uniti e l’Unione So-
vietica, ovvero l’«America» e la «Russia») e uno celeste (quello promesso
dalla Chiesa cattolica).
Si sviluppa così, con diversi moduli, una lealtà duplice39, triplice o
addirittura molteplice. Nei partiti di centro-destra, essa implica fedeltà
all’Italia e all’Occidente (minacciato in blocco dal comunismo e dalla ri-
bellione delle vecchie colonie asiatiche e africane) oppure all’Italia, agli
Stati Uniti e al Vaticano; nelle sinistre fedeltà all’Italia, all’Unione So-
vietica e a tutti i paesi del «campo socialista» e «anti-imperialista».
La fedeltà degli italiani alle patrie immaginate riporta alla mente un
atteggiamento non nuovo, segno di aperture universalistiche e di si-
multanea fragilità intrinseca del sentimento di appartenenza (ossia di

39 Cfr. per alcuni aspetti f. de felice, Doppia lealtà e doppio Stato, in «Studi storici», 1989, n. 3.

Storia d’Italia Einaudi


30 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

debole radicamento nella propria comunità statale). Già Vincenzo Cuo-


co aveva constatato, parlando dei giacobini napoletani, la distanza tra i
loro ideali, tratti dalla Rivoluzione francese, e la conoscenza effettiva
delle condizioni del popolo e dei luoghi in cui si trovavano ad agire. Era
come se avessero i piedi a Napoli e la testa a Parigi.
Da cosa dipende tale distanza? Perché si ha la «testa» altrove? Per-
ché il proprio stato e il proprio popolo non sembrano meritare sufficiente
amore e rispetto? Certo è che, per varie ragioni storiche, finito il pe-
riodo di proclamata autarchia del fascismo e ampliatosi l’orizzonte mon-
diale, l’identificazione dei cittadini con lo Stato rimane carente. Il fat-
to che l’Italia diventi «il paese occidentale maggiormente investito dal-
la spaccatura bipolare del mondo, con una Democrazia cristiana eretta
a scudo interno dell’Occidente e un Partito comunista, il più forte fra i
partiti comunisti del mondo capitalistico, erettosi a leva della trasfor-
mazione socialista», genera «un sistema politico interno legato al siste-
ma internazionale, da questo anzi non solo profondamente marcato ma
strutturalmente marcato: così da esserne reso del tutto subalterno». La
costante esclusione di una consistente parte dei cittadini sia dal potere
effettivo, sia dal riconoscimento della legittimità della loro richiesta,
contribuisce a sfibrare ulteriormente una identità nazionale già prova-
ta, creando, al massimo, forme di «solidarietà senza nazione»40. Meglio
sarebbe, in quest’epoca di gelate ideologiche, parlare per molti (specie
per gli intellettuali) di una percezione di «disidentità nazionale».
Ci si volge dunque idealmente altrove, alla ricerca di modelli di vita
migliore, provocando un’implicita ibridazione dei codici etici prece-
denti. Soprattutto verso l’America, già vissuta nell’immaginazione (pri-
ma dell’avvento della televisione commerciale) attraverso i racconti de-
gli emigrati, la letteratura e il cinema. Anche chi non l’ha mai vista dal
vero, la «conosce» infatti senza avere ancora incontrato masse di suoi
cittadini in divisa da soldato o in tenuta da turista. Lo stereotipo nega-
tivo degli americani – diffuso dal fascismo, dopo che il bersaglio prin-
cipale della propaganda si sposta dalla «perfida Albione» alla «demo-
plutocrazia» e all’impurità razziale dell’esercito statunitense – non reg-
ge a lungo. Il manifesto di Boccasile, che rappresenta un soldato negro
dal volto camuso intento a guardare con aria libidinosa un’indifesa si-
gnorina ariana, impressiona ben poco. Il primo impatto «dal vero» ro-
vescia i recenti stereotipi del regime: «Il soldato ben vestito, ben equi-

40 m.l. salvadori, Storia d’Italia e crisi di regime. Alle radici della politica italiana, Bologna
1994, in particolare, pp. 65-66, e cfr., per l’espressione «solidarietà senza nazione», lanaro, Sto-
ria dell’Italia repubblicana cit., pp. 412 sgg.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 31

paggiato, rasato, con sigarette e cioccolata, è la più incisiva forma di pro-


paganda», in quanto stabilisce un legame visibile tra prosperità e de-
mocrazia, ma anche tra possibile decollo economico italiano e fedeltà al
nuovo alleato41. Degli americani colpisce l’immensa disponibilità di ri-
sorse materiali, grazie alla quale in guerra possono concedersi il lusso di
mettere in gioco la vita dei propri uomini con relativa parsimonia.
Mentre scoprono il latte in polvere, le carote liofilizzate, le caramel-
le avvolte nel cellophane, il chewing-gum, l’aroma delle Camel e delle
Luky Strike (ben diverso da quello delle Milit o delle Nazionali), molti
cominciano a sognare un paese di Bengodi, dove si possono godere agi e
piaceri sconosciuti alla maggior parte degli italiani, che vedono raramente
la carne sulla tavola e continuano a rivoltare i cappotti. Nell’immagina-
rio postbellico relativo agli Stati Uniti, tuttavia, «i simboli centrali sono
tre: la bomba atomica, la Coca Cola, il dollaro. Minaccioso il primo, ten-
tatore il secondo, tessuto connettivo e interpretante condiviso da en-
trambi il terzo»42. Per quanto non manchino resistenze «autarchiche»
alla loro presenza (come quando i giovani neofascisti del Fuan iniziano
una campagna contro la Coca Cola e in favore dell’aranciata San Pelle-
grino)43 e per quanto (dopo il 1947-48 e durante la guerra di Corea) mu-
ti l’immagine dell’American dream, gli Stati Uniti continuano a lungo a
rappresentare la «terra promessa» e la «prosperità riproducibile». Co-
stituiscono un modello così influente da indurre all’imitazione subalter-
na dei suoi stili di vita e della sua lingua, alla «pidginizzazione»44.

41 p.p. d’attorre, Sogno americano e miti sovietici nell’Italia contemporanea, in id. (a cura di),
Nemici per la pelle, Milano 1991, p. 27, e cfr. a. lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal
1942 al 1992, Bologna 1993, p. 108. Per l’incidenza del modello americano sulla mentalità e i co-
stumi degli italiani, v. de grazia, La sfida dello «star system»: l’americanismo nella formazione del-
la cultura di massa in Europa, 1920-1965, in «Quaderni storici», n.s., XX (aprile 1985), n. 58, pp.
95-133, ma si veda a questo proposito, anche, aa.vv., America-Europa: la circolazione delle idee, a
cura di T. Bonazzi, Bologna 1976; s. gundle, L’americanizzazione del quotidiano. Televisione e con-
sumismo nell’Italia degli anni Cinquanta, in «Quaderni storici», agosto 1986, n. 62; aa.vv., Imma-
ginari a confronto. I rapporti culturali tra Italia e Stati Uniti: la percezione della realtà tra stereotipo e
mito, a cura di C. Chiarenza, Venezia 1992, e aa.vv., Hollywood in Europe. Experiences of a Cul-
tural Hegemony, a cura di D.W. Ellwood e R. Croes, Amsterdam 1994.
42 a. portelli, L’orsacchiotto e la tigre di carta. Il Rock and Roll arriva in Italia, in «Quaderni sto-
rici», n.s., XX (1985), p. 136, e cfr. anche g. fink e f. minganti, La vita privata italiana sul modello
americano, in ph. ariès e g. duby (a cura di), La vita privata. Il novecento, Milano 1994, pp. 350-89.
43 Cfr. boneschi, Poveri ma belli cit., p. 19.
44 Cfr. u. eco, Il modello americano, in u. eco, g.p. ceserani e b. placido, La riscoperta
dell’America, Roma-Bari 19942, p. 28, e cfr. p. 19: «Il pidgin è un linguaggio da area coloniale, che
fonde in modo disarticolato elementi del linguaggio egemone (nella tradizione dell’antropologia
culturale, l’inglese) coi linguaggi locali, per creare un linguaggio usabile a fini pratici, ma creativa-
mente povero, incapace di riflettere i movimenti del pensiero astratto, e quindi tutto sommato re-
pressivo. La Fiat Topolino rappresenta un modo creativo di rifarsi al modello T di Ford, mentre
l’italoamericano di Sordi non è un’imitazione creativa e autonoma del modello anglosassone».

Storia d’Italia Einaudi


32 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

c) Il «paradiso dei lavoratori».


Sebbene «i Russi, in ultima istanza, siano percepiti per tutto il se-
condo dopoguerra, come i “senza Dio” o i “barbari”»45, a essi si ricono-
sce il fondamentale merito storico di aver fermato l’avanzata hitleriana
nel mondo. Milioni di italiani venerano Stalin, eroe di questa epopea,
come un «Dio Ateo» e ne piangono sinceramente la morte46.
La «Russia» rappresenta per loro la pace, il lavoro e la salute garan-
titi, la giustizia sociale, il baluardo delle classi e dei popoli più deboli
(per altri, al contrario, è sinonimo di terrore, di stato di polizia e di «Si-
beria»). Meno nota agli italiani attraverso il cinema o la letteratura con-
temporanea, meno «visitabile» dagli stranieri (e quindi sostanzialmen-
te sconosciuta, quasi fosse un altro pianeta), l’Unione Sovietica si tra-
sforma in un luogo ancora più mitico degli Stati Uniti. Nascono leggende
infalsificabili: «La disoccupazione in Urss non esiste più. Il socialismo
è ormai una realtà. Lo sfruttamento degli uomini ad opera di altri uo-
mini è scomparso; il livello di vita dei cittadini cresce di pari passo con
l’aumento della produzione e a ciascuno è assicurata la tranquillità e il
lavoro. La cultura è libera per tutti e l’analfabetismo è completamente
scomparso»47. In questo paese, si aggiunge, vige la «libertà sostanzia-
le», la sola in grado di estirpare gli antichi mali della fame e dell’igno-
ranza, ma anche di restaurare attraverso le macchine l’amicizia tra l’uo-
mo e la natura. Attraverso la costruzione di gigantesche opere pubbli-
che (metropolitane, centrali elettriche, argini ai grandi fiumi) la scienza
e la tecnica armonizzano la società con le energie naturali. Quando, il 4
ottobre del 1957, viene lanciato nello spazio il primo satellite artificia-
le, lo Sputnik, prendono corpo le speranze di una supremazia tecnologi-
co-scientifica sovietica, che sembrano anticipare l’imminente «sorpas-
so», promesso da Chru∫™ëv, dei livelli di vita e di consumo dei cittadi-
ni americani.

45 d’attorre, Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea cit., p. 49; d. sas-
soon, Italian Images of Russia, 1945-1956, in aa.vv., Italy in the Cold War. Politics, Culture, and So-
ciety, 1948-1958, Oxford-Washington 1995, pp. 189-202, e, più in generale, m. flores, L’imma-
gine dell’Urss. L’Occidente e la Russia di Stalin (1927-1956), Milano 1990.
46 Cfr. b. croce, La città del Dio Ateo, in «Il Mondo», I (ottobre 1949), n. 34, p. 8. All’av-
vicinarsi delle elezioni del 1948 i muri si riempirono di opposte scritte, come «W Iddio» e «W Sta-
lin», cfr. a. ventrone, La cittadinanza repubblicana. Forma partito e identità nazionale alle origini
della democrazia italiana (1943-1948), Bologna 1996, p. 97.
47 Su questi discorsi di comunisti italiani in relazione al XIX congresso dell’Unione Sovieti-
ca del 1952, quali vengono riportati dalla polizia, cfr. p. di loreto, La difficile transizione. Dalla fi-
ne del centrismo al centro-sinistra.1953-1960, Bologna 1993, p. 59.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 33

d) La Chiesa militante e quella trionfante.


L’altra patria, quella «celeste», da cui Pio XII esclude i comunisti,
costituisce per i cattolici il «vero» Paradiso, rappresentato in terra dal-
la sua promessa visibile, la Chiesa. Malgrado alcune resistenze di De Ga-
speri all’eccessiva ingerenza d’Oltretevere48, essa svolge funzioni di sup-
plenza nei confronti del governo e della Democrazia cristiana. Con la
sua presenza capillare sul territorio, la sua forza di penetrazione nelle
coscienze, il suo sforzo di accostarsi sistematicamente alla società civi-
le, la gerarchia ecclesiastica è protagonista di questa stagione. Così, men-
tre in una atmosfera da crociata, Pio XII ammonisce i fedeli a ricordarsi
che in politica bisogna «stare con Cristo o contro Cristo», fa giungere
anche, in maniera più persuasiva, la voce della Chiesa tra i rappresen-
tanti delle professioni e delle scienze moderne, dalle ostetriche ai bio-
logi. È il primo papa capace di usare sistematicamente gli incontri con
le folle (mediante le nuove «adunate oceaniche» in piazza San Pietro) e
i mezzi di comunicazione di massa (nella fattispecie, la radio) come stru-
menti funzionali non solo ai misteriosi disegni della Provvidenza, ma
anche alla reintroduzione del sacro in una società che va rapidamente
secolarizzandosi49. Per questa via, il lungo «tempo della Chiesa» conti-
nua a intrecciarsi con quello, più breve, delle istituzioni politiche. Nel
mondo diviso a Yalta, l’Italia diventa il pendant della Polonia, un Paese
in cui – al di là di ogni differenza ideologica – lo stato deve riconosce-
re, in maniera «costantiniana», il potere effettivo e mondano della San-
ta Sede.
Anche se un gruppo di «cattolici di sinistra» o di «cattolici comuni-
sti» – da Dossetti a Balbo sino a Pedrazzi e ad alcuni fondatori, nel 1951,
della rivista «il Mulino» – cercano di districarsi da questa logica, il rap-
porto tra la Chiesa e i fedeli passa comunque, in termini politici, attra-
verso la Democrazia cristiana. Manca perciò in Italia «quel tratto ca-

48 Significativa è la lettera che De Gasperi riceve da Benedetto Croce in cui il vecchio filo-
sofo, prossimo alla morte, gli scrive: «Io penso spesso a te, non politicamente ma umanamente e
mi fo presente la vita che sei costretto a condurre e ti ammiro e ti compiango e ti difendo contro
la gente di poca fantasia, che non pensa alle difficoltà e alle amarezze che è necessario sopportare
per un uomo responsabile di un alto ufficio per fare un po’ di bene e per evitare un po’ di male»
(citata in s. bertoldi, Dopoguerra, Milano 1993, p. 136).
49 Per papa Pacelli cfr., da ultimo, g. miccoli, La Chiesa di Pio XII nella società italiana del do-
poguerra, in aa.vv., Storia dell’Italia repubblicana, vol. I cit., pp. 537-613. Della radio si era già ab-
bondantemente servito, soprattutto durante le elezioni del 1948, il padre gesuita Riccardo Lom-
bardi, detto «il microfono di Dio», su cui cfr. g. zizola, Il microfono di Dio. Pio XII, padre Lom-
bardi e i cattolici italiani, Milano 1990.

Storia d’Italia Einaudi


34 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

ratteristico delle società democratiche che è la mediazione fra religione


e politica sul terreno delle coscienze individuali e del costume; la me-
diazione è istituzionalizzata nel partito»50. Da qui l’espansione della ba-
se elettorale della Democrazia cristiana tramite la religione e il dosaggio
sapiente di vantaggi sociali in grado di tacitare le proteste e di accumu-
lare preferenze, come nel caso della Cassa per il Mezzogiorno, con cui,
nel 1950, «all’egemonia ideologica e culturale fornita dalla rete delle
parrocchie, la Dc aggiungeva (…) la base materiale su cui fondare il pro-
prio consenso»51.
Più cauta e attenta a non introdurre divisioni estranee alla politica
la posizione del Partito comunista nei confronti dei cattolici. Anche qui
non si tratta però di semplice compromesso religioso o di acquiescenza
passiva allo strapotere del clero. In un documento riservato del Pci, del
marzo 1953, intercettato dalla questura di Genova si legge, fra l’altro:
«Dobbiamo denunciare la funzione reazionaria del clero (…) le chiese
sono diventate sedi di un partito politico e il prete pretende d’interve-
nire sul terreno politico e sociale (…) vengono tirati in ballo il pellegri-
naggio, il miracolo, l’esorcismo e la maledizione». In termini propositi-
vi si aggiunge, tuttavia, anche: «Deve essere evitata la lotta antireligio-
sa che può dividere gli italiani. Ma deve essere sfatata la leggenda del
monopolio morale e culturale nel nostro paese da parte della Chiesa; de-
ve essere rivendicato il diritto alla libertà di pensiero e alla cultura lai-
ca e anticlericale»52.
Guardando indietro e cercando di tracciare un bilancio sommario, ci
si può domandare che ne è stato di tutte queste nazioni immaginate, di
queste appartenenze elettive? Esse appaiono oggi o integrate nel pro-
prio paese, o scomparse dall’orizzonte, o rafforzate ma in maniera di-
versa dal passato: a) l’America, dopo un periodo di eclisse e di forte av-
versione ideologica nei suoi confronti durante la guerra del Vietnam e
nel periodo del terrorismo, ha in parte finito per sovrapporsi all’Italia a
causa dell’omologazione culturale, del travaso e dell’ibridazione dei co-
dici etici (via cinema e televisione) che la sua egemonia ha prodotto; b)

50 scoppola, La repubblica dei partiti cit., pp. 113, 115. Da questa constatazione Dossetti ave-
va argomentato, durante l’Assemblea Costituente, il bisogno di regolare i rapporti fra Chiesa e Ita-
lia repubblicana nella forma poi assunta dall’articolo 7 della Costituzione.
51 p. ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Torino 19913,
p.187. Cfr. anche g. barone, Stato e Mezzogiorno (1943-60). Il «primo tempo» dell’intervento straor-
dinario, in aa.vv., Storia dell’Italia repubblicana, vol. I cit.
52 Citato in di loreto, La difficile transizione cit., pp. 91-92, e cfr., su quegli anni, a. gambi-
no, Storia del dopoguerra dalla liberazione al potere DC, Bari 1975.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 35

l’Urss (e poi, via via scalando, la Cina, il Vietnam, Cuba) hanno pro-
gressivamente perduto la loro attrazione fatale; c) soprattutto dopo il
1989, è la «Chiesa etica», nel suo ruolo surrogatorio di alcune deficienze
dello Stato, ad aver riacquistato nuovo prestigio.

5. Filosofare in un mondo diviso.

a) Una costante vocazione civile.


Con la fine della guerra – si è ripetutamente scritto – la filosofia ita-
liana si trasforma: si apre nuovamente al mondo esterno e sviluppa un
vero e proprio «istinto delle combinazioni», mescolando marxismo, neo-
positivismo, esistenzialismo e fenomenologia. Ciò è vero solo in parte,
in quanto il suo nucleo tradizionale si conserva. Sullo sfondo di tempi
lunghi e pur nell’ambito della sua irriducibile complessità, essa rimane
una filosofia a costante vocazione civile.
Sin dalle origini umanistico-rinascimentali i suoi interlocutori privi-
legiati continuano infatti a non essere gli specialisti, i chierici o gli stu-
denti che frequentano l’università, ma un pubblico più vasto che si cer-
ca di orientare e di persuadere. La prima cerchia è costituita dai conna-
zionali, eredi decaduti di un grande passato, cittadini di una comunità
dapprima soltanto linguistica, politicamente divisa in una pluralità di
stati regionali fragili e spiritualmente condizionata da una Chiesa cat-
tolica sin troppo forte. La seconda, con una accentuazione dei tratti
«universalistici», da tutti gli uomini. I filosofi italiani maggiormente
rappresentativi non si sono perciò chiusi entro ristrette cerchie locali o
dedicati a questioni di particolare sottigliezza logica, metafisica o teo-
logica come succede in altre nazioni – Inghilterra, Germania o Spagna
– in cui il peso della scolastica o della filosofia accademica si fa a lungo
maggiormente sentire. Essi hanno assunto come oggetto di indagine que-
stioni che virtualmente coinvolgono la maggior parte degli uomini (i
«non filosofi», come li chiamava Croce), ben sapendo che si tratta non
solo di animali razionali, ma anche di animali desideranti e progettanti,
i cui pensieri, atti o aspettative non possono venir colti attraverso i pre-
cedenti statuti argomentativi o grazie a metodi rigorosamente definiti.
La filosofia italiana dà pertanto il meglio di sé nei tentativi di solu-
zione di problemi in cui si scontrano esigenze differenti, universale e
particolare, logica ed empiria. Essi scaturiscono dai nodi complessi del-
la vita associata e dagli intrecci variabili, nella coscienza individuale, fra
la consapevolezza dei limiti imposti dalla realtà e le proiezioni di desi-

Storia d’Italia Einaudi


36 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

derio, fra l’opacità dell’esperienza storica e la sua trascrizione in imma-


gini e concetti, tra l’impotenza della morale e la durezza del mondo, tra
il pensato e il vissuto. Da qui i numerosi (e riusciti) tentativi di strap-
pare zone di razionalità a territori che ne apparivano privi, di dar sen-
so a saperi e a pratiche che si presentavano dominati dall’imponderabi-
lità dell’arbitrio, del caso o del gusto: alla filosofia politica, alla teoria e
alla filosofia della storia, all’estetica o alla storia della filosofia (tutti quei
campi, peraltro, in cui soggettività e individualità risultano decisive).
Rovesciando l’ottica prevalente, occorre dire che non si tratta affat-
to di un «indebolimento» delle pretese di intelligibilità del reale, ma an-
zi dello sforzo di bonificare aree troppo in fretta abbandonate da una
ragione che si era eccessivamente identificata, sino ad appiattirsi, con i
modelli allora vittoriosi delle scienze fisico-matematiche. Le filosofie
italiane sono così più filosofie della «ragione impura», che tiene conto
dei condizionamenti, delle imperfezioni e delle possibilità del mondo,
che non della ragion pura rivolta alla conoscenza dell’assoluto, dell’im-
mutabile o del rigidamente normativo.
Curiosamente, poi, malgrado il fondamentale contributo offerto
dall’Italia agli studi scientifici – da Leonardo a Galilei, da Volta a Paci-
notti, da Marconi a Fermi – negli ultimi secoli e sino a pochi decenni fa
non è mai esistita in pratica una riflessione autoctona sulla filosofia del-
la scienza o sulla logica (se si escludono lo stesso Galilei e le figure, ri-
maste a lungo solitarie, di Peano, Vailati o Enriques). E malgrado l’im-
portanza della Chiesa e l’ampia diffusione delle pratiche religiose, o for-
se proprio grazie ad esse, è poi essenzialmente mancata una filosofia
dell’interiorità, del drammatico dialogo con se stessi (del tipo che si è
avuto in Francia da Pascal a Maine de Biran). Ciò non dipende soltan-
to dalla spesso sottolineata tendenza alla teatralità del rito cattolico-ro-
mano o dai blocchi psichici provocati dalla paura dei controriformistici
«tribunali della coscienza», ma dall’istituzionalizzazione, fortemente
gerarchica, dei rapporti tra i fedeli e la divinità e dall’essere la Chiesa
di Roma depositaria di una cultura giuridica, formalizzata nei secoli, che
regola minuziosamente e sapientemente i comportamenti dei fedeli.

b) La linea Gramsci-Togliatti.
Nella seconda metà dell’Ottocento nasce uno schema storiografico,
sostenuto da Bertrando Spaventa e ripreso in seguito da Gentile. Ela-
bora la leggenda secondo cui il lascito della filosofia italiana del Rina-
scimento – a causa dell’intolleranza religiosa e della decadenza nazio-
nale – sarebbe passato a fecondare la cultura europea nel suo comples-

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 37

so (in particolare l’idealismo tedesco). Da qui, e per suo tramite, sareb-


be infine ritornata nel circolo del pensiero italiano contemporaneo, che
in tal modo non avrebbe fatto altro che ricongiungersi alle proprie ori-
gini. Pur trattandosi di un mito di rilegittimazione, è interessante il mo-
do in cui si cerca di connettere la filosofia italiana a quella europea: nel-
la forma cioè di un nostos, da cui esce, nello stesso tempo, identica a se
stessa e arricchita dal contributo altrui, insieme nazionale e internazio-
nale. Con l’unificazione politica e la separazione tra Stato e Chiesa, al
pensiero italiano viene riconosciuto per decreto il diritto di riprendere
il posto che gli spetta nel «concerto» teorico delle nazioni. Favorita dal-
la diffusione, anche a livello giornalistico, del pensiero di Croce e dalla
«riforma Gentile» dell’insegnamento superiore, circola poi la versio-
ne deteriore ed apologetica per cui l’intera filosofia europea sbocca
nell’idealismo italiano. Si accentua comunque, anche per effetto dell’au-
mentata scolarizzazione, l’incidenza della filosofia nella formazione del-
le classi dirigenti (ne è infatti subito chiara la funzione di fattore di con-
senso e di stimolo all’impegno civile).
Per questo, quando la filosofia italiana sembra, nel secondo dopo-
guerra, «riaprirsi» al pensiero straniero, tale compito formativo rimane
prioritario pur nel cambiamento degli strumenti. La filosofia italiana
non ha del resto aspettato questa congiuntura per porsi attivamente in
rapporto con le sue consorelle europee e americane. Persino durante il
fascismo permane una notevole varietà di posizioni teoriche, non ap-
piattite sul duopolio Croce-Gentile e sensibili alle tematiche di origine
francese o anglosassone. Non bisogna poi confondere una più ampia cir-
colazione di idee e di notizie con una maggiore autonomia di pensiero.
Si può essere «provinciali», come in parte è avvenuto in seguito, anche
per eccesso di importazione di idee altrui e per deficit di esportazione
delle proprie. È semmai successo che, a differenza dei primi decenni del
Novecento, nessuna dottrina filosofica ha conquistato nel «pluralisti-
co» dopoguerra una visibile e incontrastata egemonia. Anche perché,
come sostiene Luporini, «nella mia, come nelle successive generazioni,
non vi sono stati più – per fortuna forse – veri protagonisti intellettua-
li, in Italia, come ci furono nel primo trentennio del secolo»53.
Peraltro, più che di discontinuità rispetto al passato recente, si può
parlare, ancora una volta in un caso esemplare, di continuità, di un pon-
te che si stabilisce tra storicismo idealistico e «marxismo italiano». Un
fattore extra-filosofico ha reintrodotto il marxismo in Italia, dopo che

53 c. luporini, Dialettica e materialismo, Roma 1974, p. xxvi.

Storia d’Italia Einaudi


38 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

il suo insegnamento (almeno a livello ufficiale) aveva taciuto per circa


un ventennio e dopo che la teoria della lotta di classe era stata congela-
ta in favore della compattezza interclassista dello «Stato etico», sot-
traendo un’intera generazione alla sua influenza. Sul piano della politi-
ca culturale, con mosse caute, abili ed efficaci, Togliatti riesce gradual-
mente a disancorare il comunismo italiano dall’obbedienza ideologica a
Mosca e a promuovere il trasferimento massiccio (e senza eccessive scos-
se) di molti «intellettuali» nell’area della sinistra. Li trasborda dall’idea-
lismo gentiliano e crociano, generalmente professato in precedenza, a
un marxismo storicistico nazionale orientato lungo l’asse che va da De
Sanctis a Labriola e da Croce a Gramsci. Il modello circolare spaven-
tiano, senza perdere il suo impegno civile, diventa una linea interna, tut-
ta nazionale, che si affianca però, come variante significativa, alle altre
genealogie eroiche dei rappresentanti stranieri delle «vie nazionali» al
socialismo. Il graduale accreditamento di questa genealogia avviene an-
che attraverso una quantità di mosse inappariscenti, come la pubblica-
zione, nei supplementi di «Rinascita» (Guida ai classici del marxismo),
di scritti di Labriola e Gramsci accanto a quelli di Marx, Engels, Lenin
e Stalin.
Se prima la filosofia era stata frequentemente spinta verso le vette
della metafisica, dove si respirava aria rarefatta e le questioni politiche
venivano trattate in maniera allusiva o dovevano essere lette o inter-
pretate in filigrana, ora la politica e i condizionamenti storici dell’at-
tualità entrano pesantemente nel dibattito filosofico54. L’irrigidimento
del dibattito culturale si accentua in ogni campo nel clima della guerra
fredda, soprattutto dopo l’esclusione dal governo della sinistra comuni-
sta e socialista. Alle aperture del periodo postbellico (più o meno dal
1945 al 1947, nella fase del moltiplicarsi delle riviste, tra cui «Società»,
che inizia le pubblicazioni nel 1945, o «Belfagor», che comincia il suo
cammino nel 1946), al dialogo con i cattolici vicini al Partito comunista
italiano seguono, come è noto, le chiusure di Togliatti e di altri a pro-
posito del «Politecnico» e di tutti i tentativi di dare maggiore respiro a
un pensiero filosofico non strettamente legato alla politica o alla «sto-
ria». Con qualche ritardo anche il «Cln filosofico» si scioglie. Lo schiac-
ciamento delle posizioni intermedie e il calcolato rifiuto di ogni visione

54 Su Togliatti e l’ambiente politico e culturale in cui si trovò a operare cfr. g. bocca, Togliatti,
Bari 1973; g. vacca, Saggio su Togliatti e la tradizione comunista, Bari 1974; di loreto, Togliatti e
la «doppiezza» cit. Sul ricorrente tema del rapporto fra il Pci e gli intellettuali, cfr. n. ajello, In-
tellettuali e PCI. 1944-1958, Bari 1979; a. vittoria, Togliatti e gli intellettuali, Roma 1992, e flo-
res e gallerano, Sul PCI cit., pp. 195-213.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 39

critica (o gli aggiustamenti ad hoc e in codice delle teorie scomode) ven-


gono considerati un sopportabile sacrificio per poter efficacemente fi-
losofare in un mondo diviso. Remo Cantoni – che, in Crisi dell’uomo
(1948) e ne La coscienza inquieta (1949) aveva introdotto la filosofia ita-
liana al pensiero antropologico e ai tormentosi dilemmi di Dostoevskij
e Kierkegaard –, non appena si tratta di sollevare qualche dubbio sul
marxismo, intaccandone la marmorea ortodossia, trova in Banfi un in-
terlocutore fanaticamente impervio alla critica. Per quanto privata-
mente, attraverso una lettera, Cantoni reagisce: «Tu scrivi che “non es-
sere comunista è morire”». Eppure,
l’esigenza di far blocco, fronte, massa, di non prestare argomenti agli avversari, uc-
cide ogni giorno di più lo spirito critico, il senso storico. Marx, Engels, Lenin, Sta-
lin, vengono adorati come dei santi, come degli autori il cui pensiero non è mini-
mamente criticabile, essendo collocato in una sfera di verità intoccabile. Non ho
mai, dico mai, trovato uno scrittore comunista che abbia la sincerità di dire: qui mi
pare che Marx, o Lenin, o Stalin, sia incorso in un errore; – questo pensiero di Le-
nin è smentito dall’esame dei fatti, o qualcosa di simile55.

Anche Luporini, guardando indietro, ricorderà così, nel 1974, questa


esperienza: «Mi sembra che eravamo vissuti (che avevamo pensato e
operato) come in un’intercapedine, l’intercapedine tra due ortodos-
sie e, in ultima analisi, due dogmatismi, quello stalinista e quello sto-
ricista»56.

c) Lo storicismo.
Ma perché lo storicismo ha potuto mettere radici così profonde
nell’Italia del dopoguerra, contribuendo in modo talmente efficace al
successo della Sinistra in alcuni settori della cultura (surrogato di una
impossibile egemonia politica)? La ragione, sostanzialmente, è che
esso ha posto in rilievo, contro ogni «astrazione giacobina», gli sbar-
ramenti, i blocchi, la concreta specificità di ogni situazione storica, l’esi-
genza di tarare attentamente il pensiero sulla realtà. Ha guardato quin-
di con senso di sobrio realismo ai rapporti di forza interni e interna-
zionali, avviando – anche attraverso la diffusione dell’opera di Gramsci

55 r. cantoni, Lettera ad Antonio Banfi del 4 settembre 1949, in c. montaleone, Cultura a Mi-
lano nel dopoguerra. Filosofia e engagement in Remo Cantoni, Torino 1996, pp. 164-65. Su Cantoni
e la «Scuola di Milano», cfr. f. papi, Vita e filosofia. La scuola di Milano: Banfi, Cantoni, Paci, Pre-
ti, Milano 1990. Su Paci, cfr. a. vigorelli, L’esistenzialismo positivo di Enzo Paci. Una biografia in-
tellettuale (1929-1950), Milano 1987, e s. veca, Enzo Paci. Il filosofo e la città, Milano 1979.
56 luporini, Dialettica e materialismo cit., p. xxxii.

Storia d’Italia Einaudi


40 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

– una riflessione, spesso implicita ma costante, sul perché nel mondo


occidentale vi sia stata una serie di rivoluzioni mancate. Si è servi-
to della lezione del passato per evitare la frequente voglia di obliarlo,
il desiderio di sbarazzarsene senza fare i conti con esso. Lo ha de-
nunciato con accorati accenti di passione civile Edoardo Cacciatore,
allorché, nella poesia Campo dei fiori (riferendosi all’omonima piaz-
za dove la statua di Giordano Bruno ricorda, fra i clamori del merca-
to, il luogo in cui il filosofo fu bruciato), ha illustrato la quasi pro-
grammatica «risciacquatura» di quanto può ricordare gli sforzi tesi
all’emancipazione:
La libertà sempre ha un prezzo incredibile
A buon mercato è merce deperibile
Gli spazzini al solito azionano gli idranti
Il sangue si lava affermano i benpensanti.

Acuta è la coscienza della necessità di una lunga «guerra di posizio-


ne», che passi attraverso la conquista del consenso e l’accettazione dei
vincoli imposti dalla democrazia rappresentativa, per avanzare poi, even-
tualmente, verso una società nuova. Dopo un ventennio di prevalente
uso nazionalistico e retorico, si recepisce di nuovo la storia come lezio-
ne di realismo. Si tratta però di una storia anch’essa divisa, quasi a due
stadi: quello del presente, costituito da una situazione politica realisti-
camente sopportata nei suoi pesanti condizionamenti, e quello del fu-
turo, costituito da una meta indeterminata di natura essenzialmente
transpolitica, la «rivoluzione».
Il formarsi di una relativa egemonia comunista nell’alta cultura (non
in quella medio-bassa, ancora dominata dagli apparati ecclesiastici e dai
grandi giornali e riviste filogovernativi) scatena una sorta di lotta per le
investiture tra intellettuali e partito. La posta in gioco non riguarda so-
lo il chi rappresenta chi, ma anche il chi funge da tramite privilegiato
con istituzioni e culture diverse, specie quella cattolica. Solo dopo la
sconfitta elettorale del 1948 e l’acuirsi dell’intolleranza da parte di al-
cuni settori della Chiesa, Togliatti prova ad avvicinarsi maggiormente
al pensiero laico di matrice liberale, curando nel 1949 un’edizione ita-
liana del Traité sur la tolérance di Voltaire. Tale mossa contiene tra le ri-
ghe (il discorso indiretto è un tratto caratteristico dell’uomo e di questa
fase) anche l’invito a mitigare il clima da «guerra civile fredda» all’in-
terno del Pci, a smussare gli spigoli più acuminati del settarismo e, for-
se, a far riflettere sui danni di una concezione troppo rigida della lealtà
politica degli «intellettuali organici».
Il valore quasi «neorealistico» della concretezza, del legame con le

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 41

situazioni storiche ed economiche determinate, viene ora posto al cen-


tro dello storicismo italiano. Bisogna riconoscere i diritti e le durezze
del proprio tempo, evitando di rifugiarsi dentro il chiuso ammuffito del-
la coscienza o nel rassicurante ma sterile isolamento della dimensione
privata. Contro l’idealismo, lo spiritualismo e l’esistenzialismo si pro-
pone di far ridiscendere di nuovo la filosofia dal cielo delle idee pure sin
nelle case e nella vita degli uomini: «La filosofia contemporanea si ri-
conosce filia temporis (…) Si sa determinata storicamente, accetta la sua
temporaneità, la sua connessione alla problematica radicale del suo tem-
po, lo pone a se stesso come problema»57. È soprattutto Eugenio Garin
a insistere al meglio, con vigorosa tempra morale e civile, sul nesso tra
la filosofia e l’effettiva storia degli uomini, sulle «radici reali delle scel-
te ideali», giacché per lui la storia del pensiero «è ritrovare l’umanità
del pensiero, è metter a fuoco l’umanità del pensiero, la carne umana
senza cui quei pensieri non sarebbero nel mondo»58. Da qui l’insistere
sulla dipendenza di ogni filosofia dal variare degli uomini e degli stru-
menti intellettuali di comprensione della realtà. Lo storico della filoso-
fia scopre ora, «al posto della filosofia come sviluppo autonomo di un
sapere autosufficiente, una pluralità di campi di indagine, di imposta-
zioni, di visioni, ove l’unità del filosofare si configurava come un livel-
lo di consapevolezza critica; al limite, come un’esigenza di unificazione
dei campi di ricerca»59.
In questa marcia verso la concretezza, nella ricerca di una sorta di
«via italiana alla razionalità», nella volontà – espressa nell’exergo
dell’editoriale di apertura del «Politecnico» – di creare «non più una
cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultura che protegga dalle
sofferenze, che le combatta e le elimini», si cerca in effetti un intreccio
tra storia e utopia. Una storia dinamizzata, vertebrata e innervata da un
fine utopico (quello dell’emancipazione) che dovrebbe coniugarsi con

57 a. banfi, Filosofi contemporanei, Firenze 1961, p. 5. Su Banfi, si veda g.d. neri, Crisi e co-
stituzione della storia. Sviluppi del pensiero di Antonio Banfi, Napoli 1988.
58 e. garin, La filosofia come sapere storico, Bari 1959, pp. 136-37.
59 id., La filosofia dal ’45 a oggi, a cura di V. Verra, Milano 1976, p. 451. Sugli sviluppi della
filosofia italiana in questo periodo, si veda e. garin, Cronache di filosofia italiana 1900/1943. Quin-
dici anni dopo 1945/1960, Bari 1975; g. bedeschi, La parabola del marxismo in Italia. 1945-1983,
Roma-Bari 1983; aa.vv., Filosofi italiani contemporanei. Parlano i protagonisti, a cura di B. Maior-
ca, Bari 1984; aa.vv., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari 1985; aa.vv., Filosofia
italiana e filosofie straniere nel dopoguerra, a cura di P. Rossi e C.A. Viano, Bologna 1992; v.
mathieu, L’Italie, in aa.vv., La philosophie en Europe, a cura di R. Klibansky e D. Pears, Paris
1993, pp. 223-40, e f. restaino, Il dibattito filosofico in Italia (1925-1990), in [n. abbagnano], Sto-
ria della filosofia, IV. G. Fornero, F. Restaino, D. Antiseri, Torino 1994, pp. 560-758.

Storia d’Italia Einaudi


42 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

una utopia frenata, che accetta alcune lezioni dal realismo. Tracciando
una specie di mappa del tesoro storica, si tiene conto in questo modo,
simultaneamente, dei vincoli e delle possibilità, delle strettoie e delle
vie d’uscita. Ma proprio questi due elementi, la storia e l’utopia, si so-
no andati in seguito progressivamente dissociando, sino all’odierna qua-
si completa separazione. Il processo inizia però nel 1962, quando – a
partire dalle discussioni sul libro di Nicola Badaloni, Marxismo come sto-
ricismo – si mette in forse la teoria dell’«oggettività della contraddizio-
ne». È un passaggio cruciale, perché (oltre a toccare la questione teori-
ca più accademica della continuità o meno tra il pensiero di Hegel e quel-
lo di Marx) solleva pesanti dubbi sull’esistenza di una logica interna alla
storia, in gran parte indipendente dalle intenzioni e dalle volizioni dei
singoli uomini. È appunto questa che funge da presupposto indispensa-
bile dello storicismo marxista e che ha reso possibili le derive giustifi-
cazionistiche per cui tra giudizi di fatto e giudizi di valore non si dà una
netta distinzione60.

d) Antistoricisti marxisti.
Lo storicismo non gode tuttavia di una condizione di incontrastato
monopolio. Anche filosofi dichiaratamente marxisti si schierano contro
di esso: Cesare Luporini – sensibile dapprima al pensiero di Leopardi,
poi a quello dello strutturalismo francese di Althusser – e, con maggio-
re influenza sul piano immediatamente politico, Galvano Della Volpe.
Pur tendendo, come i suoi antagonisti, a maggiore concretezza e ade-
renza alla realtà, quest’ultimo cerca di deviare il corso del marxismo ita-
liano dal capiente alveo dell’idealismo storicistico. Proveniente da stu-
di su Hume e sull’empirismo inglese e dalla critica alla tradizione dell’in-
dividualismo spiritualistico (che, attraverso Agostino e Rousseau, da
Platone giungerebbe sino agli esistenzialisti), Della Volpe procede alla
riscoperta di un altro Marx, i cui tratti salienti vengono visti nella lot-
ta contro ogni forma di «alienazione».
Già nel 1946, quando esce La libertà comunista, la strada verso Marx
passa per Rousseau e taglia completamente fuori Hegel (a suo tempo de-
finito «romantico e mistico»). Sebbene sia nota la scarsa simpatia che
Marx nutriva per il filosofo ginevrino e per quanto lo stesso Della Vol-
pe faccia riferimento al suo «narcisismo spirituale», è però possibile co-

60 Se ne veda la documentazione in f. cassano, Marxismo e filosofia in Italia (1958-1971), Ba-


ri 1973, e cfr. n. badaloni, Il marxismo italiano degli anni sessanta, Roma 1971.

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R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 43

niugarlo con il giovane Marx, mostrando come la distanza tra comuni-


smo e liberalismo sia invalicabile. La libertas maior comunista (egualita-
ria e materiale, assimilabile al primato della volontà generale) è infatti
considerata incomparabilmente superiore alla libertas minor borghese,
civile e formale.
Il tema viene ripreso nel 1957, allorché Della Volpe pubblica Rous-
seau e Marx. Sono trascorsi due anni dalla polemica con Bobbio in Po-
litica e cultura (nella quale, constatata la minore libertà dei cittadini nei
paesi socialisti, Bobbio invita a «considerare la forma di regime libe-
raldemocratico per il suo valore di tecnica più raffinata e progredita»)
e un anno sia dal XX Congresso del partito comunista dell’Urss, sia da
quelli che venivano pudicamente definiti i «fatti di Ungheria». La ri-
sposta di Della Volpe consiste, da un lato, nel recuperare al marxismo
alcuni valori di origine giusnaturalistica e «borghese», come la «libertà»
(attribuendole, tuttavia, un carattere «sostanziale» o concreto, e non
soltanto giuridico-formale o moralisticamente «astratto»); dall’altro,
nel rielaborare i concetti rousseauiani di sovranità popolare e di demo-
crazia diretta. Lo scopo è quello di saggiare la possibile rivitalizzazio-
ne, tanto a Est quanto a Ovest, delle strutture politiche mediante il
rafforzamento della partecipazione dei cittadini alla gestione della co-
sa pubblica.
Tale partecipazione politica allargata contribuisce alla revoca
dell’alienazione, tema rinvenuto da Della Volpe soprattutto negli scrit-
ti del «giovane Marx», che vengono utilizzati anche in funzione anti-
dogmatica, di pensiero non ancora irreggimentato o di miniera non an-
cora sfruttata. In polemica con l’idealismo hegeliano, che scioglie la
pesantezza dell’effettualità e del «finito» nella diafana rete di rapporti
da cui la materialità si è eclissata (portando l’uomo fuori dal mondo e
recidendo il suo legame con l’«essere sociale», isolandolo, appunto,
entro una dimensione «alienata»), Marx dimostra il valore della co-
noscenza sensibile aperta alla realtà del mondo. Il padre del comuni-
smo moderno si inserisce così in una genealogia che parte dall’Aristo-
tele critico dell’idealismo platonico e vindice delle prerogative dei sen-
si e passa per il Galilei distruttore della scolastica e del suo apriorismo.
Da qui l’insistenza di Della Volpe sul «galileismo morale» di Marx,
autore di una vera e propria rivoluzione nel campo delle scienze so-
ciali, in grado di sfuggire sia all’idealismo che al positivismo, in quan-
to capace di emanciparsi tanto dall’alienante astrazione hegeliana
dell’«autocoscienza», quanto dal feticismo dei fatti non interpretati.
La logica come scienza positiva, del 1950, elabora appunto un modello
di razionalità in grado di mantenere il contatto con la positività inde-

Storia d’Italia Einaudi


44 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

ducibile del molteplice della sensibilità e – insieme – con la determi-


natezza degli eventi e dei fatti, senza per questo santificare la loro par-
ticolarità irrelata.

e) La scuola torinese.
Una diversa esigenza di concretezza anima la filosofia «laica», orien-
tata in senso antispeculativo e antimetafisico, e dunque antihegeliano e
spesso antimarxista. A tutte le «nuove terre emerse dell’esplorazione fi-
losofica tra il 1945 e il 1950»61 (esistenzialismo, marxismo e neopositi-
vismo) è, del resto, comune – oltre che il pathos per il concreto – anche
il ricorso alla testimonianza diretta dell’esperienza personale o alla ra-
gione, come famiglia di idee e di pratiche linguistiche. Si vuole porre fi-
ne, almeno nelle intenzioni, a quel periodo in cui (come aveva detto Mus-
solini a Emil Ludwig) la disposizione dell’uomo moderno a credere ave-
va dell’incredibile.
La «scuola torinese», che gravita attorno a Nicola Abbagnano, a Lu-
dovico Geymonat e a Norberto Bobbio, fa appello all’«impegno» anti-
retorico di acclimatare, anche sul terreno filosofico, i criteri scientifici
di rigore logico e di controllo empirico già adottati dai saperi a statuto
forte o da quelli che conducono ricerche «sul campo». Tenta, come è
stato detto, di «render conto della storia al cospetto della verità»62, os-
sia di non trasformare l’accaduto in metro di giudizio, senza però sva-
lutarlo. Ciò vale, in particolare, per Ludovico Geymonat, che data sim-
bolicamente «25 aprile 1945» la conclusione dei suoi Studi per un nuo-
vo razionalismo. La sua filosofia, pur facendo riferimento a una realtà
descrivibile dall’«uomo finito» e «storicamente dato», non si mostra in-
fatti disposta a riconoscere problemi che si sottraggano al dominio del-
la razionalità63. È però vero che, con il passare degli anni, tale posizio-
ne tende a privilegiare sempre più gli aspetti di storicità della ragione o,
nelle analisi di filosofia della scienza, il primato della prassi e della «sto-
ria esterna», ossia quella che tiene conto dei condizionamenti subiti dal

61 n. bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano, Torino 1986, p. 166.


62 l. bagetto, Il pensiero della possibilità. La filosofia torinese come storia della filosofia, Tori-
no 1995, p. 9; cfr. anche santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana cit., e m. pasini e d. rolan-
do (a cura di), Il neo-illuminismo italiano. Cronache di filosofia (1953-1962), Milano 1991.
63 Cfr. l. geymonat, Saggi di filosofia neorazionalista, Torino 1953, p. 25. Sulla cultura scien-
tifica e la filosofia della scienza del dopoguerra, cfr. c. pogliano, Le culture scientifiche e tecnolo-
giche, in aa.vv., Storia dell’Italia repubblicana, II/2. La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squili-
bri, Torino 1995.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 45

pensiero scientifico, come nel caso dello sviluppo dell’artiglieria per la


nascita della matematica delle curve o dell’importanza dell’Arsenale di
Venezia per l’elaborazione delle teorie di Galileo (il nume tutelare no-
strano più invocato in questa fase).
Nicola Abbagnano propone dapprima un «esistenzialismo positivo»
laico e immanentistico, legato al mondo dell’esperienza effettiva e dia-
metralmente opposto a quello «cristiano», coscienzialista e trascenden-
te. A tale scopo depura l’esistenzialismo dai suoi aspetti intimistici e,
come antidoto, rimette poi il pragmatismo nel circolo della cultura ita-
liana. Non si tratta più, tuttavia, del pragmatismo di William James –
importato all’inizio del secolo –, bensì quello di John Dewey, che si
diffonde ben presto nel settore pedagogico, contribuendo alla forma-
zione degli insegnanti di scuola elementare e media. I manifesti di tale
«esistenzialismo positivo» e del connesso «neoilluminismo» sono rap-
presentati da un saggio del 1948, Verso un nuovo illuminismo: John
Dewey, e da uno del 1952, L’appello alla ragione e le tecniche della ra-
gione. Anche per Abbagnano la scienza è l’unica portatrice di cono-
scenze, per quanto debba tenere in considerazione il punto di vista del-
la soggettività umana:
Il mondo è la totalità di cui l’uomo fa parte, l’uomo non ha altro modo di co-
noscerlo se non come parte di esso e quindi sottoposto egli stesso alle condizioni che
l’osservazione mette in luce. Ma questa situazione implica l’azione dell’uomo come
sistema osservante sul sistema osservato e quindi il principio di indeterminazione.
Tale principio mostra quindi che la scienza è venuta completamente in chiaro dell’at-
teggiamento che è alla sua radice: l’autoinserzione dell’uomo nel mondo come par-
te del mondo64.

Tale concezione è condivisa da Francesco Barone, che combatte tut-


tavia il neopositivismo a causa della sua «fede incontaminata nella ca-
pacità della scienza di assorbire in sé la totalità dei problemi significan-
ti» e perché «mutila l’organismo della cultura, inaridisce la compren-
sione di molte sue manifestazioni che non sono riducibili alla scienza, e
mentre aspira all’avvento di un’epoca luminosa da cui scompaiano i fan-
tasmi della tradizione, pare invece preludere all’avvento di un barbari-
co antiumanesimo»65. Questo illuminismo antimetafisico si apre anche
alle già disprezzate scienze sociali e porta alla fondazione – da parte di
Abbagnano e di Franco Ferrarotti – dei «Quaderni di sociologia» e

64 n. abbagnano, Sul problema filosofico della scienza, in aa.vv., Fondamenti logici della scien-
za, Torino 1947, pp. 153-54.
65 f. barone, Il Neopositivismo logico, Torino 1953, p. 400.

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all’istituzione, nel 1953, del Centro di studi metodologici di Torino, a


cui collaborano filosofi e scienziati.
Ciò che unisce la scuola torinese a un altro personaggio rimasto pur-
troppo marginale ed eccentrico nel suo successivo insegnamento alla fa-
coltà di Magistero di Firenze, Giulio Preti, è «il bisogno di trovare pia-
ni di discorso e metodi più intersoggettivi, di poter fare della filosofia
un onesto mestiere e non un modo per urlare le proprie passioni o, peg-
gio ancora, sfogare una specie di personale libido loquendi»66. In Praxis
ed empirismo, la «filosofia della prassi» viene perciò intesa come un’ul-
teriore forma di concretezza, di sobria antiretorica, un modo di inter-
vento effettivo sul mondo, «una concezione tale che l’interpretare vi sia
già concepito come un modificare, e il modificare stesso come l’unico
valido e garantito interpretare». Viene sostanzialmente detto, in rela-
zione all’undicesima delle marxiane Tesi su Feuerbach, che non ci si può
limitare a interpretare il mondo senza trasformarlo, ma anche – e con
altrettanta forza – che non si può trasformare il mondo senza inter-
pretarlo adeguatamente. Seppure non esplicito, il messaggio politico è
abbastanza intelligibile: occorre rinunciare a ideologie preconcette e a
forme di attivismo cieco e aprire gli occhi sulla complessità del reale.
Solo rettificando di volta in volta i propri errori, «provando e ripro-
vando», si può sperare, anche in campo etico e politico, di rafforzare
la mentalità democratica. Preti collegava, infatti, il suo pensiero con
«la restaurazione della democrazia, intesa come quella società in cui
l’uomo prende finalmente in mano il proprio destino e predilige la cul-
tura scientifica rispetto a quella umanistica e la cui idea etica fonda-
mentale è quella del contratto sociale, onde tutti i valori, e non solo
quelli politici, riposano su stipulazioni, e la cultura deve godere del mas-
simo di pubblicità e affidare la vittoria dei suoi valori non alla violen-
za ma alla persuasione razionale»67.

f) Gli antimodernisti.
Sebbene meno visibile agli occhi della storiografia marxista o laica,
la filosofia che assume il cattolicesimo come proprio punto di riferimento
non resta certo inerte e non si riduce in genere a mera propaganda del-

66 g. preti, Il mio punto di vista empiristico (1958), in Saggi filosofici, 2 voll., Firenze 1976, vol.
I, p. 476. Di Preti si veda soprattutto quella che è la sua opera più significativa, Praxis ed empiri-
smo, Torino 1957.
67 n. bobbio, L’impegno dell’intellettuale ieri e oggi, in «Rivista di filosofia», LXXXVII (apri-
le 1997), n. 1, p. 18.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 47

la fede. All’insegnamento dell’Università cattolica – dove regna il rigi-


do e spigoloso neotomismo di padre Gemelli68 – si affiancano ora nuo-
vi istituti di ricerca e di diffusione del pensiero cristiano, tra cui spicca
il Centro di studi filosofici cristiani di Gallarate, fondato nel 1945, do-
ve i gesuiti accolgono dibattiti e preparano la monumentale Enciclope-
dia filosofica (1957).
Nel variegato universo dei filosofi che si richiamano allo spirituali-
smo (da Michele Federico Sciacca a Carmelo Ottaviano, da Luigi Ste-
fanini ad Armando Rigobello) si segnala, per la sua radicalità e diver-
sità, la combattiva figura di Augusto Del Noce. Se il pensiero marxista
e laico è segnato dal pathos per il «progresso» o la «ragione», questo pe-
netrante protagonista della riscossa cattolica non ha remore o timidez-
ze a lottare contro questi che considera pericolosi idoli. Nel manifesta-
re la sua ostile diffidenza nei confronti della «modernità» e il suo tota-
le rifiuto dell’«immanentismo», da cui la filosofia italiana è affetta, Del
Noce difende tanto il tradizionalismo cattolico, quanto posizioni che ap-
paiono francamente oscurantiste. Cerca infatti di estirpare le più profon-
de e nascoste radici del razionalismo, che individua in Descartes, di cui
il marxismo rappresenterebbe soltanto lo sviluppo, condotto sino alle
ultime conseguenze. Attribuendo all’uomo l’autonoma capacità di gui-
dare se stesso e di creare la propria storia (negando con ciò implicita-
mente l’intervento della divina Provvidenza), il razionalismo di origine
cartesiana ha involontariamente contribuito al sorgere dell’ateismo mo-
derno. La dottrina rivoluzionaria marxista – hegelismo semplificato e
coerente che ha raggiunto le masse – esprime certo «una fede e una spe-
ranza» che in apparenza si staccano dal materialismo immanentistico,
ma ciò accade unicamente «perché essa non è una parte della filosofia
teoretica, ma coincide con la morale»69. Questa impostazione imma-
nentistica, trasformandosi in prassi priva di punti di riferimento ester-
ni agli eventi stessi, ha così finito per rovesciarsi in nichilismo70. A ta-
le linea razionalistica e nichilistica Del Noce contrappone quella costi-
tuita da Pascal e dalla Riforma cattolica, con un dichiarato ritorno ai
valori cristiani (assolutamente trascendenti, rassicuranti e positivi) del-
la verità e delle norme morali:
Bisogna riferirsi alla presenza nello spirito umano dell’idea di essere perfetto
come principio di ordine gerarchico del reale, di quella che, in un linguaggio che og-

68 Su cui cfr. a. bausola e g.c. penati, Neoscolastica, in p. rossi (a cura di), La filosofia, IV.
Stili e modelli teorici del Novecento, Torino 1995, pp. 281-311.
69 a. del noce, Il problema dell’ateismo, Bologna1964, pp. cix, cxxiii.
70 Cfr. id., Riforma cattolica e filosofia moderna, I. Cartesio, Bologna 1966.

Storia d’Italia Einaudi


48 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

gi rischia di essere totalmente incompreso, si solevano chiamare le verità eterne,


universali, necessarie, metastoriche, che permettono all’uomo di vivere l’eterno nel
tempo, e che in quanto eterne possono essere consegnate («tradizione» da tradere)
di generazione in generazione (o, meglio, quel che è consegnato è il segno sensibile
che serve a richiamarle)71.

6. Tra casa e società.

a) Dall’etica della produzione all’etica dei consumi.


All’inizio degli anni cinquanta, la società italiana non è certo ricca.
Il reddito medio delle famiglie risulta modesto: un tredicesimo, un ot-
tavo e un quinto rispetto a quello delle famiglie americane, inglesi e te-
desche. Come si addice a un paese in cui la componente contadina è for-
te, i consumi restano contenuti; la classe operaia riceve salari bassi; la
piccola borghesia deve conservare il decoro esteriore con sacrifici na-
scosti. Desiderare troppo dalla vita è ancora considerato una colpa, un
peccato o una ybris. La parsimonia, il risparmio, il rifiuto dell’ostenta-
zione della ricchezza – anche tra i possidenti – compongono un sistema
di virtù pienamente integrato nell’etica del lavoro, un sistema destina-
to ben presto a essere disarticolato e, in parte, a dissolversi.
Il lavoro stesso è un bene prezioso e raro (nel 1951, si contano 2 mi-
lioni e mezzo di disoccupati). Tutti i ceti ne condividono unanimemen-
te il valore. Lo sentono, quasi per istinto, coloro che da sempre sono abi-
tuati a «faticare» nei campi; lo avverte la Chiesa pacelliana, che aggiunge
al repertorio della Rerum novarum l’ostilità verso i primi sintomi di con-
sumismo (per ora soltanto «immaginario», veicolato dal «sogno ameri-
cano», ma condannabile sia sul piano individuale, in quanto rivela l’in-
capacità del singolo di controllare bisogni e desideri, sia sul piano so-
ciale, in quanto sperpero di risorse che potrebbero essere più utilmente
distribuite ai poveri).
È però soprattutto nella tradizione della sinistra politica e sindacale
che il lavoro celebra da tempo la sua apoteosi. Da maledizione biblica o
da segno calvinista della salvezza passa a rappresentare il vessillo del-
la dignità e dell’«autoproduzione dell’uomo», la base di legittimazione
e di orgoglio della classe operaia, ciò che la distingue dagli sfruttatori,
dai percettori di rendita e dai proprietari assenteisti. Il suo intatto va-

71 id., Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?, in u. spirito e a. del noce, Tramonto o eclis-
si dei valori tradizionali?, Milano 1971, p. 149.

Storia d’Italia Einaudi


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lore spiega il pathos per la ricostruzione e per la produttività, ideale osteg-


giato o dimenticato a partire dai primi anni sessanta, da quando l’etica
dei consumi prende il sopravvento su quella della produzione e nelle fab-
briche si diffonde l’antagonismo frontale tra operai e «padroni». Di-
venta da allora inintellegibile persino il primo articolo della Costituzio-
ne, che definisce l’Italia «una repubblica fondata sul lavoro»72.
Grazie al dilatarsi del periodo di scolarizzazione e al parallelo anti-
cipo dell’età di pensionamento, a partire dagli anni sessanta il tem-
po libero aumenta enormemente73. Pochi sono però in grado di gestir-
lo e sfruttarlo al meglio. Lo si considera, per lo più, o come alternativa
radicale al tempo di lavoro o come una entità sfuggente da «ammaz-
zare». Prevale spesso nel suo uso l’economia del «divertimento», la
decisione di lasciarsi alle spalle ogni preoccupazione, di non pensare a
nulla, la voluttà dissipativa dello spreco di sé. Diminuisce in manie-
ra impercettibile ma continua la propensione a investimenti sul futuro
che richiedano eccessive privazioni e, insieme, il piacere di elaborare
e realizzare progetti collettivi di lunga gittata. Per molti gli orizzonti
d’attesa si abbassano, la quotidianità accampa sempre nuovi diritti e
i mutamenti epocali finiscono per interessare meno. Ne soffre (an-
che da questo lato minore) il partito etico, abituato a esigere il sacrifi-
cio del presente in favore del remoto avvenire o, per i cattolici, della
vita eterna.
Con l’affermarsi del cosiddetto «miracolo economico» il cittadino
inserito nella Chiesa-partito o nel Partito-chiesa scopre così gradual-
mente un paradossale «individualismo di massa». Il lavoro, perduta la
sua nobile aureola, tende allora in genere a mostrarsi come una sgrade-
vole necessità. Tale mutamento di prospettiva avviene, in misura signi-
ficativa, allorché per la prima volta si raggiunge virtualmente la piena
occupazione con un minimo del 3 per cento dei disoccupati (il che por-
ta, contemporaneamente, a una impennata dei salari e, con apparente
paradosso, a una intensificazione delle lotte operaie).
Il lento ingresso nella civiltà dei consumi si iscrive in un processo
che, con notevoli sfasature, si sviluppa su scala mondiale e che ha rice-
vuto il nome di «età dell’oro». Si tratta di una fase in cui l’umanità, nel
raggiungere un benessere sconosciuto, seppure inegualmente distribui-

72 Si veda, per alcuni aspetti, a. accornero, Il lavoro come ideologia, Bologna 1980.
73 h. nowotny, Tempo privato. Origine e struttura del concetto di tempo, Bologna 1993, pp. 107-
8, e cfr. per la storia del tempo libero dal lavoro, in età classica riservato ai liberi e negato agli schia-
vi, w. rybczynski, Waiting for the Weekend, New York 1992.

Storia d’Italia Einaudi


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to, compie una svolta decisiva. Il periodo che va globalmente dal 1947
al 1973 (ma che in Italia si disloca più avanti) circoscrive infatti «un’epo-
ca senza precedenti e forse anomala» in ragione di un evento di tale ma-
gnitudine che rischia di passare inosservato: «il terzo quarto del secolo
ha segnato la fine di sette o otto millenni di storia umana, iniziati dall’età
della pietra con l’invenzione dell’agricoltura, se non altro perché è ve-
nuta a termine la lunga era nella quale la stragrande maggioranza del ge-
nere umano è vissuta coltivando i campi e allevando gli animali»74. In
termini comparativi, il miglioramento delle condizioni di esistenza e le
trasformazioni del lavoro umano sono stupefacenti. Le coglie un testi-
mone dalla lunga vita, abituato sin dall’infanzia alle più aspre privazio-
ni: «Ho visto crescere sotto i miei occhi ben tre generazioni: la mia,
quella dei miei figli, quella dei miei nipoti. E ora mi accingo a vede-
re quella dei miei pronipoti. Guardandoli penso: non sono stati inutili que-
sti decenni di lotta, oggi si sta tanto meglio di quanto si stesse ai tempi
miei. Sì: la vita è infinitamente meno dura, oggi. Non c’è paragone col
mondo in cui erano nati mio padre e mio nonno»75.

b) Le trasformazioni dell’universo domestico.


Con le elezioni del 1946 le donne entrano, per la prima volta nella
sfera politica ufficiale. La guerra le ha rafforzate, costringendole a usci-
re di casa, a cercare lavoro, a decidere da sole, «senza l’aiuto né la tu-
tela di padri, mariti, fidanzati». Diventano così, «nel pericolo e nella
miseria», più padrone di se stesse, si inventano nuovi «percorsi indivi-
duali», allargando l’ambito delle loro responsabilità76. Ora che molte
cominciano a lavorare fuori casa e ad avere maggiore informazione e cul-
tura (aumenta velocemente il numero delle diplomate e delle laureate),
anche i rapporti e i ruoli familiari vengono, non senza tensioni e con-
flitti, incessantemente «rinegoziati». Incrinatisi i presupposti tradizio-
nali dell’autorità del marito/padre, il regime patriarcale lascia sempre
più spazio a comportamenti consensuali. La contrattazione penetra co-

74 e.j. hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Milano 1995,
pp. 20-21.
75 Pietro Nenni in una intervista del 1971, in o. fallaci, Intervista con la storia, Milano 1975,
p. 247.
76 m. mafai, Pane nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale, Milano 1987,
p. 4. Di Miriam Mafai è da vedere anche L’apprendistato della politica. Le donne italiane nel dopo-
guerra, Roma 1979. Già alla fine degli anni cinquanta «la società civile si è emancipata in modo
definitivo dalla società ecclesiastica» (g. zizola, Il modello cattolico in Italia, in ariès e duby (a cu-
ra di), La vita privata. Il novecento cit., p. 305).

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R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 51

sì all’interno delle mura domestiche, alterando l’agenda delle prestazio-


ni e la tavola dei doveri e dei diritti di ciascuno.
Parallelamente alle persone, cambia – sia in termini materiali che af-
fettivi – la struttura dello spazio domestico, del «focolare» dell’intimità.
Si intensifica il processo di trasformazione in corso da secoli: dalla «ca-
sa nel suo complesso»77, luogo che è anche di produzione di indumen-
ti, di immagazzinamento e lavorazione di derrate alimentari, di alleva-
mento di animali da cortile, si passa alla casa concepita soprattutto co-
me ambiente di servizi e di consumi. Ma muta, in particolare, la qualità
della vita domestica. Nell’immediato dopoguerra le comodità sono po-
che: «solo il 76 % delle case è provvisto di cucina, il 52 % di acqua cor-
rente, il 27 % di gabinetto da bagno, il 7 % di apparecchio telefonico».
Malgrado il fatto che il numero complessivo di case costruite o rico-
struite non sia all’inizio molto alto, gli interni cominciano da allora a
rinnovarsi persino «nei falansteri di periferia». Dovunque «il vecchio
tinello con i mobili di legno cede posto al soggiorno-pranzo ricalcato sul
living di stile anglosassone e nobilitato da poltrone in poliuretano, la cu-
cina abitabile viene sostituita da un vano compatto e funzionale (…), il
gabinetto da bagno munito di specchio e piastrelle relega fra le antica-
glie l’incomodo cesso incastrato nel ballatoio»78. Il vantaggio di avere
in casa l’acqua calda e fredda, il gabinetto e la vasca da bagno, muta il
modo di vivere di milioni di persone, rappresenta un salto di civiltà.

c) Sessualità e matrimonio.
Mentre il tasso di apertura della casa verso l’esterno si modifica, le don-
ne percorrono a tappe forzate, nell’arco di pochi decenni, un lungo cam-
mino, sia negli stili di vita che sul piano dell’emancipazione sessuale79. Se-

77 Das ganze Haus, nel senso che all’espressione attribuisce o. brunner, Das «ganze Haus» und
die alteuropäische «Oekonomik», in Neue Wege der Verfassungs- und Sozialgeschichte, Göttingen
1968, pp. 103-27.
78 lanaro, Storia dell’Italia repubblicana cit., pp. 166, 228. Per le trasformazioni del vissuto,
cfr. c. saraceno, La famiglia: i paradossi della costruzione del privato, in ariès e duby (a cura di),
La vita privata. Il novecento cit., p. 39: «Le donne che hanno oggi più di settant’anni sono passate,
nel giro di neppure vent’anni, dal dover cercare il latte per i propri bambini alla borsa nera, al “con-
sumismo” della carne tutti i giorni, dei frigoriferi e delle automobili, delle vacanze estive».
79 Per questi temi cfr., più in generale, l. scaraffia (a cura di), La famiglia italiana dall’Ot-
tocento a oggi, Bari 1988, pp. 383-416. È peraltro vero che la propensione al consumo, mediata dai
film dei «telefoni bianchi», era già timidamente iniziata negli anni trenta, cfr. p. cavallo e p. iac-
cio, Ceti emergenti e immagini della donna nella letteratura rosa degli anni trenta, in «Storia contem-
poranea», dicembre 1984, n. 6, e g. de luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana
1922-1939, Torino 1995, pp. 236-62.

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52 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

parando il piacere dalla riproduzione e riducendo quindi la paura di gravi-


danze indesiderate, l’uso dei contraccettivi le rende infatti meno vulnera-
bili nell’elaborazione dei loro piani di vita. Ne risentono la fedeltà ai valo-
ri tradizionali e il rapporto privilegiato con la Chiesa. Il progressivo di-
stacco di milioni di donne dalla tradizione cattolica (attraverso l’accresciuta
distanza tra i comportamenti effettivi e i valori che, «a parole», si conti-
nuano a professare) segna una delle più vistose linee di frattura del mezzo
secolo di storia repubblicana. Estenuatosi l’ideale dell’amore «romantico»
e venuto meno l’impegno fascista a contribuire alla prolificità della stirpe,
la grana delle relazioni affettive più intense risulta modificata. Retrocede
l’etica che legittima la sessualità solo nell’ambito del matrimonio e fa la sua
comparsa – in alcune zone e in alcune classi sociali più «evolute» – quella
che è stata chiamata «sessualità duttile», ossia «eccentrica, libera dai vin-
coli della riproduzione», plasmabile «come un aspetto della personalità e
pertanto intrinsecamente legata all’io». Per suo tramite, si introduce
nell’ambito dell’intimità e della casa, «una democratizzazione su vasta sca-
la dei rapporti interpersonali» che assomiglia a quella che ha luogo nella
dimensione politica80, ma provoca anche contenziosi più impervi tra co-
niugi o conviventi. Tende nel frattempo a scomparire la famiglia allargata,
in cui nonni e altri parenti convivono assieme a genitori e figli, e aumen-
ta, fino al 1965, il numero dei bambini per coppia. In questo anno finisce
il baby boom, mentre, a partire dal 1987, il tasso di mortalità supera, per
la prima volta da secoli, quello di natalità. L’Italia risulta così inaspettata-
mente il paese meno prolifico del mondo, anche se la curva di natalità ten-
de a diminuire in tutta l’Europa occidentale, dove – fatto pari a 100 l’in-
dice del 1988 – si calcola che i giovani nella fascia tra i 19 e i 24 anni sa-
ranno nel 2000 a quota 67 e nel 2010 a quota 6381.
Con ritmi relativamente veloci, se paragonati a quelli del passato,
molte donne emigrano dal bigottismo e dal perbenismo degli anni qua-
ranta e cinquanta verso il permissivismo degli anni sessanta; dai refe-
rendum sul divorzio e sull’aborto degli anni settanta alla crescita – an-
che teorica – dei movimenti femministi del periodo successivo, che si

80 a. giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moder-


ne, Bologna 1995, pp. 8-9. Sulla necessità di rinegoziare i ruoli femminili (soprattutto quello di
moglie) all’interno della famiglia insiste anche m.m. johnson, Madri forti mogli deboli. La disugua-
glianza del genere, Bologna 1995.
81 Sui dati demografici, cfr. m. barbagli, Provando e riprovando, Bologna 1990, pp. 9 sgg.;
id., Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia italiana dal xv al xx secolo, Bologna 1984; m. bar-
bagli e d.i. kertzer (a cura di), Storia della famiglia italiana 1750-1950, Bologna 1992, e e. son-
nino, La popolazione italiana dall’espansione al contenimento, in aa.vv., Storia dell’Italia repubbli-
cana, II/1. La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, Torino 1995.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 53

affermano non cercando di essere differenti da ciò che è «normale»,


quanto di scoprire la normalità nella differenza82. Essi hanno un effet-
to di trascinamento nell’accreditare o nel far tollerare pratiche sessuali
in precedenza accuratamente occultate e duramente condannate come
perverse e immorali, in particolare l’omosessualità maschile e femmini-
le. Gli esiti dei due referendum sul divorzio (12 maggio 1975) e sull’abor-
to (17 maggio 1980) costituiscono una sorpresa per tutti. Il primo è vin-
to con una consistente maggioranza (59,3 per cento) di favorevoli all’in-
troduzione di tale istituto nell’ordinamento giuridico; il secondo viene
approvato con una quota di consensi addirittura più alta (67,9 per cen-
to). Nello stesso 1975, con il riassetto del diritto di famiglia, viene in-
trodotto il principio della parità dei diritti dei coniugi (con la conse-
guente soppressione della disparità di trattamento in caso di adulterio)
e vengono aboliti gli articoli riguardanti l’aborto nella forma introdot-
ta nei codici fascisti. Guardando indietro, si può agevolmente misurare
l’abissale distanza rispetto agli anni cinquanta, quando i cattolici, pre-
sagendo i pericoli dell’emancipazione, tentavano con ogni mezzo di ri-
condurre le donne alla sfera sacrale della famiglia e dei buoni costumi,
attaccando con veemenza persino i concorsi di bellezza, espressione di
un «paganesimo che ritorna al culto della carne e delle passioni», e in-
vitando le donne stesse a sublimarsi nella «purezza», poiché «la donna
si eleva imitando Maria; ridiventa Eva se da lei si allontana»83.

7. I giovani e il principio di irrealtà.

a) Il Sessantotto.
I giovani hanno da sempre rappresentato il punto di raccordo e di
turbolenza tra la casa e la società, tra la dimensione da cui escono e quel-

82 Cfr. a. rossi-doria, Conservazione e rottura nel movimento delle donne, in «Ombre rosse»,
25 (giugno 1978), pp. 12-16. Nella galassia delle posizioni del femminismo che hanno incidenza
sul piano filosofico si segnala, già nella prima metà degli anni settanta, l’opera di Carla Lonzi (con
i volumi Sputiamo su Hegel e Sputiamo su Freud). Ma è attraverso studiose come Luisa Muraro,
Adriana Cavarero (autrice di Nonostante Platone, Roma 1990, di Corpo in figure. Filosofia e politi-
ca della corporeità, Milano 1995) e Rosy Braidotti (Dissonanze, Milano 1994, Soggetto nomade. Fem-
minismo e crisi della modernità, Roma 1995) che si contribuisce alla riscoperta della dimensione del-
la corporeità e del carattere «nomade» della soggettività femminile.
83 Cfr., rispettivamente, r. manzini, Le smanie per la Miss, in «Famiglia Cristiana», 15 otto-
bre 1950, citato in m. barbanti, La «battaglia» per la moralità» tra Oriente, Occidente e italo-cen-
trismo, in d’attorre (a cura di), Nemici per la pelle cit., p. 169, e s. gundle, Cultura di massa e mo-
dernizzazione: Vie Nuove e Famiglia cristiana dalla guerra fredda alla società dei consumi, ibid., p. 248.

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54 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

la in cui entrano. La loro mobilitazione per cause più o meno nobili è


frequente: hanno manifestato durante il fascismo per l’espansione co-
loniale e la guerra e, nella prima metà degli anni cinquanta, per l’italia-
nità di Trieste; si sono battuti nel luglio del 1960 contro il governo Tam-
broni e, nelle fabbriche del Nord, per una maggiore democrazia inter-
na. La specificità dei movimenti studenteschi della seconda metà degli
anni sessanta consiste però nel trovarli al centro di processi di trasfor-
mazione che investono e scuotono simultaneamente entrambe le sfere
di appartenenza dei singoli, quella privata e quella politica.
Variante di un fenomeno geograficamente più esteso, il Sessantotto
«scoppia» in Italia cercando di imporre i valori dell’antiautoritarismo,
dell’insubordinazione a qualsiasi gerarchia interna o internazionale, del
rinnovamento dei rapporti politici e di quelli interpersonali. Un sim-
metrico rifiuto colpisce, da un lato, i partiti di governo e quelli dell’op-
posizione; dall’altro, entrambi i «gendarmi mondiali», Stati Uniti e
Unione Sovietica, i cui contrasti appaiono sullo sfondo di una sostan-
ziale connivenza. La Cina della «rivoluzione culturale», la Cuba della
Baia dei Porci e dell’embargo americano, il Vietnam dei guerriglieri scal-
zi che resistono ai micidiali bombardamenti statunitensi, divengono ico-
ne, esempi da riproporre anche in Italia, dimostrazioni lampanti del fat-
to che la rivoluzione è possibile su scala planetaria. Il vento della tra-
sformazione agita ogni cerchia limitata d’esistenza e abbatte le pareti
tra la vita quotidiana e la politica. All’implicita ripresa del progetto sar-
triano di tenere più a lungo possibile le masse «in fusione», al «calor
bianco», si aggiunge, nel «privato», la lotta contro le catene di coman-
do di ogni genere, il conformismo, la rispettabilità, la «tolleranza re-
pressiva» delle famiglie e delle istituzioni. Facendo leva sui referenti
teorici offerti dal Marcuse di Eros e civiltà e de L’uomo a una dimensio-
ne, anche la sfera sessuale diventa parte delle rivendicazioni politiche84.
Sebbene il mondo e i valori del Sessantotto siano al momento con-
divisi solo dal 3 per cento degli italiani, è anche vero che il peso speci-
fico degli studenti universitari sulla pubblica opinione (genitori com-
presi) è tanto rilevante quanto, per molti, inquietante. Il panico dinan-
zi alla minaccia degli studenti di saldare le proprie lotte con quelle degli
operai non investe solo i moderati. In realtà la ribellione studentesca,
sincera e confusa, mirante a creare una società alternativa, nasce in Ita-

84 Cfr. h. marcuse, Eros e civiltà (1970), Torino 1972; id., L’uomo a una dimensione (1964),
Torino 1967. In un solo anno quest’ultimo libro vende in Italia 150 000 copie, cfr. r. lumley, Sta-
tes of Emergency. Cultures and Revolt in Italy from 1968 to 1978, London - New York 1990, p. 122.

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R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 55

lia – oltre che dal «contagio psichico» di esperienze analoghe – dalla de-
lusione rispetto alle promesse di benessere generalizzato innescate dal
«miracolo economico», dal fallimento del Centro-sinistra nello sposta-
re i rapporti di forza sociali e dall’impreparazione del Pci a imboccare
la via delle riforme piuttosto che quella di una mitica «rivoluzione». I
partiti storici della sinistra perdono così provvisoriamente il monopolio
della mobilitazione delle masse e il controllo di ampi settori dell’agire
collettivo.
Agli studenti, però, l’intera struttura sociale «capitalistica» appare
responsabile – in solido e su scala mondiale – dell’oppressione, della vio-
lenza e dell’iniqua distribuzione di ricchezza e sapere. La prospettiva
assunta dai gruppi egemoni nel movimento studentesco diventa plane-
taria, alterando la precedente geografia mentale della politica che era
dominata, anche nel panorama italiano, dalla simmetrica contrapposi-
zione tra i due blocchi. Il Sessantotto costituisce pertanto «il primo mo-
vimento a trattare il mondo intero come un unico sistema integrato, co-
me spazio omogeneo all’interno del quale ogni luogo è interconnesso in
modo sistemico – cioè in modo interdipendente e in tempo reale – con
ogni altro». I punti di riferimento sono i campus delle università, le fab-
briche, o «i manicomi, le carceri, talvolta le caserme, le difficili istitu-
zioni totali trasformate in luogo di radicamento comunitario»85.
Uno dei valori dominanti con cui si esprime l’insubordinazione nei
confronti dell’esistente è la difesa ad oltranza dell’egualitarismo nella
forma di incondizionato rifiuto della meritocrazia. Essa appare infatti
teoricamente plausibile solo sullo sfondo di diseguaglianze sociali pre-
gresse, taciute e dimenticate, mentre funziona in pratica quale strumento
perverso di arbitraria discriminazione. La percezione dell’ingiustizia so-
ciale si polarizza così sui meccanismi sociali dell’insegnamento. Sinto-
matiche e realmente «epocali» sono, per un’intera generazione, Le let-
tere a una professoressa. Apparse nel 1967 e scritte dagli allievi della scuo-
la di Barbiana, mostrano l’incidenza sui ragazzi della pugnace figura di
don Lorenzo Milani, con la sua amara denuncia della selezione scolasti-
ca, che penalizza i diseredati sociali e culturali, provocando un intolle-
rabile spreco di intelligenza e di vita. I toni «savonaroliani» di esalta-
zione dei semplici e di idealizzazione dei poveri – con il connesso ripu-
dio degli ideali liberali moderni, in particolare del merito come conquista
individuale – rappresentano il segno di un più generale disagio.

85 m. revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in aa.vv., Storia dell’Italia repubblicana, II/2
cit., pp. 393, 398.

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Fioriscono dovunque in questo periodo le aspettative fantastiche, le


utopie astratte e le ideologie adolescenziali. Si afferma una sorta di «prin-
cipio di irrealtà», di desiderio insoddisfatto per qualsiasi meta raggiun-
ta. Una storia immaginaria, fermentante anche in senso creativo, af-
fianca e spesso sorpassa la «storia reale». Mentre Pasolini sostiene po-
lemicamente che è «meglio essere nemici del popolo che nemici della
realtà»86, tale inimicizia non turba affatto i protagonisti del «movi-
mento», che non vedono il bisogno di puntellare un mondo intriso di
ingiustizia e di falsità. Le idee più vaghe, estrapolate dai sacri testi di
pensatori rivoluzionari che agiscono in contesti spaziali e temporali com-
pletamente diversi, appaiono spesso preferibili al duro e meditato con-
fronto con situazioni che non piacciono. Il fatto è che, per molti giova-
ni, il «principio di realtà» è stato detronizzato e la linea di demarcazio-
ne con il «principio di piacere» è divenuta labile. Con una dose di
esagerazione che ingrandisce però un dato innegabile, si è visto nel Ses-
santotto il primo evento storico che, in termini positivi, non può esse-
re chiamato «reale» proprio perché ha aperto la porta alla «caduta di
qualsiasi distinzione netta tra realtà e finzione». Non sono più idee o
rappresentazioni collettive a formare la coscienza politica, ma «simula-
cri, immagini, copie senza originali»87. Le parole d’ordine prevalenti nel
Sessantotto e negli anni immediatamente successivi («immaginazione al
potere», «contestazione», «trasgressione», «desiderio dissidente», «vo-
gliamo tutto»), rivelano una spontanea linea strategica nell’evitare un
confronto sul concreto. Il mantenimento della refrattarietà a qualsiasi
compromesso «ragionevole» o a qualsiasi politica «riformistica» è in-
fatti funzionale alla volontà di non indebolire lo slancio verso il rove-
sciamento dei rapporti sociali esistenti88.
Tali attese di rivolgimento del mondo (che portano a discutere se-
riamente di problemi che si ignorano come se fossero arcinoti, ad esem-
pio se gli operai di Nanchino siano o no «controrivoluzionari» durante
la grande rivoluzione culturale) vengono attizzate e legittimate da quel-
lo che si potrebbe chiamare il «complesso di Davide»: si crede di poter
abbattere il «sistema» allo stesso modo in cui il piccolo popolo vietna-
mita sta sconfiggendo il Golia americano. Malgrado la morte del Che
Guevara in Bolivia, la speranza che il fuoco della rivoluzione divamperà

86 p.p. pasolini, Lettere luterane, Torino 1976, p. 7.


87 Cfr. m. perniola, La società dei simulacri, Bologna 1983, pp. 8, 52.
88 Su tale periodo si veda, almeno, r. rossanda, L’anno degli studenti, Bari 1968; p. ortole-
va, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America. Con una antologia di materiali e documenti,
Roma 1988.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 57

dovunque, inevitabilmente, che «we shall overcome, some day», in-


fiamma gli animi di milioni di persone.
Per essere adeguatamente comprese le ideologie circolanti in questi
anni andrebbero interpretate – oltre che in base a situazioni storiche og-
gettive ed empiricamente controllabili – anche alla stregua di una vi-
chiana «logica poetica», ossia come collegamenti di immagini, simboli
e concetti istituiti da una fantasia creatrice che segue regole diverse da
quelle della ragione. Ne sono un esempio gli appassionati e, insieme, in-
concludenti e spossanti dibattiti assembleari degli studenti. In essi è evi-
dente la ricerca di attrito con il mondo esterno e di zavorra ai discorsi
librati in aria mediante reiterati progetti di alleanza organica con una
classe operaia mitizzata quale portatrice di dirompenti valori alternati-
vi, sfortunatamente tradita dai partiti della sinistra e dai sindacati.
Persino le utopie più astratte producono però modificazioni durevoli
nella mentalità, nella sensibilità, nel costume, nell’emergere di nuove fi-
gure e nuovi leaders89. La palestra verbale a cui si sottopone chi in pre-
cedenza aveva sempre taciuto, limitandosi a ubbidire all’ordine esistente,
il comunque accresciuto spirito critico, lo schietto desiderio di combat-
tere ingiustizie e diseguaglianze, l’abitudine a immaginare il meglio e a
erogare generosamente energie per gli altri, l’incontro tra mondi diver-
si grazie alla frequentazione delle fabbriche in occasione dell’anteluca-
no «volantinaggio» o dei dibattiti al loro interno, sono tutte esperienze
positive che hanno lasciato il segno. Nella latitanza delle istituzioni e in
un momento di pericolo per la democrazia, con movimenti come «Psi-
chiatria democratica» o «Magistratura democratica», dal ceppo del Ses-
santotto spuntano anche nuovi modi di collegare la vita professionale
all’impegno civile.

b) Il terrorismo e il rapimento Moro.


Alle aspettative crescenti del Sessantotto, succedono ben presto le
«dure repliche della storia», anche nella forma di una risposta violenta
delle istituzioni e dei «poteri invisibili». Inizia così, con piazza Fonta-
na, la stagione delle stragi. La necessità di rispondere a questa «strate-
gia della tensione», le speranze perdute, le prime difficoltà per i giova-
ni di trovare un lavoro adatto alle loro aspirazioni, si trasformano negli
anni settanta in amare delusioni. In un clima avvelenato da voci su aleg-
gianti colpi di stato autoritari, la volontà di imporre, con la forza delle

89 Per il sorgere di uno di questi movimenti, cfr. l. bobbio, Lotta continua, Roma 1979.

Storia d’Italia Einaudi


58 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

armi, astrusi ideali di giustizia sociale si presenta in vesti eroiche come


ripudio della tiepidezza, estrema e coraggiosa scelta di coerenza, deci-
sione irrevocabile di non contentarsi più di semplici slogan nella ricer-
ca della via più breve per rovesciare lo stato di cose esistente. Sintoma-
ticamente il passaggio alla fase armata è legato alla caduta dell’antago-
nismo sociale: è come se si voglia dare una scossa alla calante tensione
delle lotte operaie (del tutto meno importanti, e lontani dalla mentalità
dei terroristi di destra e di sinistra, i movimenti studenteschi tanto del
1968 quanto del 1977). Nel terrorismo i richiami alla Resistenza, al
marxismo-leninismo o alla guerriglia latino-americana si intrecciano con
la ricerca di assoluto di matrice cattolica o, per quanto riguarda la De-
stra, con la difesa dei valori dell’Occidente mediante l’instaurazione di
un «ordine nuovo»90. Molte vite, spinte da questa sete di violenta tra-
sformazione del mondo, entrano nella traiettoria della clandestinità e
del terrorismo, dando e ricevendo morte.
Il traumatico «prelevamento» di Aldo Moro misura la temperatura
morale, oltre che politica, di questo periodo. Il personaggio va inqua-
drato nella sua formazione, a partire dagli inizi della carriera come do-
cente di filosofia del diritto all’Università di Bari. Moro si pone fin da
allora sulla scia del «personalismo» e dell’«umanesimo cristiano», rap-
presentati, in Italia, soprattutto da Giovanni Capograssi e, in Francia,
da Jacques Maritain ed Emanuel Mounier91. Ha cioè avvertito il cam-
biamento di clima filosofico introdotto, a partire dagli anni trenta, dal-
la cultura d’Oltralpe, che tanta influenza esercita pure sul tormentato

90 Nanni Balestrini ha mostrato nel romanzo Gli invisibili (Milano 1987) la parabola dell’esi-
stenza di uno dei terroristi, passato dagli studi universitari, dove resta sempre marginale, agli «espro-
pri proletari» e al carcere. Ancora più significativo, per comprendere dall’interno le motivazioni
del terrorismo delle Brigate Rosse, è m. moretti, Brigate rosse. Una storia italiana, intervista a cu-
ra di C. Mosca e R. Rossanda, Milano 1994. Sul terrorismo si veda g. galli, Storia del partito ar-
mato, 1968-1982, Milano 1993; g. bocca, Noi terroristi. 12 anni di lotta armata ricostruiti e discussi
con i protagonisti, Milano 1985; aa.vv., I terrorismi in Italia, a cura di D. Della Porta, Bologna 1984;
l. weinberg e l. eubank, The Rise and the Fall of Italian Terrorism, Baltimore-London 1987; g.
bocca, Gli anni del terrorismo. Storia della violenza politica in Italia dal ’70 a oggi, Roma 1988; d.
novelli e n. tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, Milano 1988; r. lumley, Sta-
tes of Emergency. Cultures of Revolt in Italy from 1968 to 1978, London - New York 1990; r. ca-
tanzaro (a cura di), La politica della violenza, Bologna 1990; d. della porta, Il terrorismo di sini-
stra, Bologna 1990; e s. zavoli, La notte della Repubblica, Milano 1992. Per i movimenti eversivi
e il terrorismo di destra, si veda f. ferraresi, Minacce alla democrazia. La Destra radicale e la stra-
tegia della tensione in Italia nel dopoguerra, Milano 1995, pp. 164 sgg.
91 Cfr. j. maritain, L’umanesimo integrale (1936), Roma 1946, e id., Il contadino della Ga-
ronna (1966), Brescia 1969; g. campanini, Cristianesimo e democrazia. Studi sul pensiero politico cat-
tolico del ’900, Brescia 1980, e id., Il pensiero politico di Mounier, Brescia 1983. Su Capograssi si
veda c. vasale, Società e Stato nel pensiero di Giuseppe Capograssi, Roma 1972.

Storia d’Italia Einaudi


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cardinale Montini (poi papa Paolo VI) e su molti intellettuali dell’Azio-


ne cattolica. Nelle Lezioni di filosofia del diritto (tenute a Bari nel 1944-
1945 e nel 1946-47, significativamente aperte da un capitolo intitolato
Il problema della vita), il mondo è governato dall’amore e dal principio
cristiano per cui tutti gli uomini sono uguali dinanzi a Dio:
Criticando liberalismo e socialismo come due metà incomplete della rivoluzio-
ne completa implicita nel cristianesimo, Moro celebrò l’insegnamento politico fon-
damentale della Chiesa. Le società liberali ponevano l’accento sulla libertà indivi-
duale, mentre le società socialiste subordinavano qualsiasi cosa alla classe. Moro ar-
gomentava invece che la libertà individuale e il benessere sociale erano del tutto
interdipendenti. Nessuna enclave di prosperità e di stabilità se, al di fuori di essa,
prevalgono condizioni di miseria e di violenza92.

Diventato poi più politico che professore, Moro acquista ben presto
il senso della fragilità degli equilibri italiani, della gracilità della demo-
crazia che si è realizzata (in questo le sue preoccupazioni sono simmetri-
camente analoghe a quelle di Berlinguer) e della necessità di procedere ai
cambiamenti con circospetta lentezza. Sin dall’inizio degli anni sessan-
ta, egli sa che il paese è a sovranità limitata, sotto tutela, e intimamente
diviso, e che per rafforzarlo occorrerebbe allargare l’area del consenso
aprendo dapprima ai socialisti e poi – in seguito alla «doppia vittoria»
del Pci e della Dc alle elezioni del 20 giugno del 1976 – ai comunisti. La
realizzazione di questo progetto incontra però, all’interno e all’esterno,
resistenze pressoché insormontabili (è nota l’ostilità degli americani, an-
che sotto Carter, all’avvicinamento o all’inclusione dei comunisti nell’area
di governo). L’esasperante gradualità delle mosse politiche di Moro, il suo
parlare involuto e allusivo, i suoi teoremi da geometria non-euclidea, so-
no però anche la spia della ricerca di labirintiche soluzioni al conflitto tra
propensione al bene comune e incrollabile fedeltà al partito. Fatte le de-
bite proporzioni, nelle fasi più acute della «guerra civile fredda», la to-
gliattiana «doppiezza» trova il suo simmetrico pendant nell’amletica vo-
lontà morotea di conciliazione degli opposti.
Ma qual è la tempra morale dell’uomo? Osserva, non senza durez-
za, Leonardo Sciascia:
Moro non era stato, fino al 16 marzo, un «grande statista». Era stato, e conti-
nuò ad esserlo anche nella «prigione del popolo», un grande politicante: vigile, ac-
corto, calcolatore; apparentemente duttile ma irremovibile; paziente ma della pa-
zienza che si accompagna alla tenacia; e con una visione delle forze, e cioè delle de-
bolezze, che muovono la vita italiana, tra le più vaste e sicure che un uomo politico
abbia mai avuto.

92 r. drake, The Aldo Moro Murder Case, Cambridge 1995, p. 9.

Storia d’Italia Einaudi


60 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

Conoscitore della «negatività» della natura umana, dotato di sen-


sibile intuito, capace di mediazioni infinite in cui il nuovo viene len-
tamente assorbito nel vecchio, desideroso di non rinunciare ai legitti-
mi affetti familiari, egli non si aspetta certo le reazioni di fermezza e
di indisponibilità degli organismi dello stato e dei partiti a trattare con
gli uomini delle Brigate Rosse: «Dell’improvviso levarsi dello Stato
“come torre ferma che non crolla” Moro è sorpreso. Come è venuto
fuori, da questa larva, questo mostro corazzato e armato?»93. Ma –
neppure dinanzi ai terroristi – sembra tradire la Democrazia cristia-
na, partito pur sempre «etico», sebbene pieno di tanti irrimediabili di-
fetti, da lui comunque tenacemente difesi in occasione dello scandalo
Lockheed.

8. Krisis.

a) Democrazia senza illusioni.


La morte di Moro, i colpi di coda del terrorismo e dello stragismo pi-
lotato dai servizi segreti, la scoperta della connivenza delle più alte cari-
che della politica e delle istituzioni con la loggia massonica P2, indicano
a molti lo scollamento morale diffuso e l’ancor debole radicamento del-
la democrazia al vertice delle istituzioni e in larghe frange della società.
Per l’esemplare chiarezza dicotomica del suo ragionare e per l’acu-
me dei suoi pertinenti interrogativi, Norberto Bobbio diventa un in-
terlocutore sempre più ascoltato nel dibattito pubblico. Da decenni co-
scienza critica per le élite dell’Italia repubblicana, già prima aveva im-
pressionato in lui la serietà non scostante, l’assenza di toni faziosi e
propagandistici, la capacità di riformulare incessantemente i problemi
della politica, soppesando argomenti e accogliendo obiezioni: «Al di là
del dovere di entrare nella lotta, c’è, per l’uomo di cultura il diritto di
non accettare i termini della lotta così come sono posti, di discuterli, di
sottoporli alla critica della ragione». Da qui, replicando a Togliatti, la
rivendicazione della libertà contro qualsiasi sclerotizzazione delle idee
in forme dogmatiche: «ciò che può dar vita al corpo sociale irrigidito è
soltanto l’alito della libertà, con la quale intendo quella irrequietezza
dello spirito, quell’insofferenza dell’ordine stabilito, quell’aborrimen-

93 l. sciascia, L’affaire Moro, Palermo 1978, pp. 33, 64. Si veda anche, con punti controversi,
s. flamigni, La tela del ragno. Il delitto Moro, Roma 1988.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 61

to di ogni conformismo che richiede spregiudicatezza mentale ed ener-


gia di carattere»94.
Nel congiungere la tradizione gobettiana e azionista dell’intransi-
genza morale con le prospettive politiche del socialismo riformista, Bob-
bio promuove l’accettazione senza riserve della democrazia, spingendo
gradualmente anche la sinistra ad abbandonare la diffidenza nei con-
fronti del suo presunto «formalismo». Della democrazia Bobbio pre-
senta una immagine sobria e realista, che include non solo nobili ideali,
ma anche la buona amministrazione e la laboriosa ingegneria degli as-
setti sociali, la prosa più che la poesia. Guardando indietro al quarto di
secolo trascorso, confessa però l’abbandono delle pretese di un tempo,
che ora gli appaiono esorbitanti:
Ci eravamo posti di fronte alla democrazia reale nell’atteggiamento dei padri
offesi, e sorpresi che la nostra creatura fosse cresciuta così male, tanto da non po-
ter durare probabilmente a lungo (…) Abbiamo imparato a porci di fronte alla so-
cietà democratica senza illusioni. Non siamo diventati più soddisfatti. Siamo di-
ventati meno esigenti. La differenza tra le ansie di allora e le preoccupazioni di og-
gi, è tutta qui. Non è migliorata nell’insieme la qualità della nostra vita in comune,
anzi sotto certi aspetti è peggiorata. Siamo cambiati noi, diventando più realisti o
meno ingenui95.

In Italia la democrazia richiede purtroppo una tenace pazienza, in


quanto perfino le più modeste proposte di effettivo cambiamento risul-
tano scarsamente praticabili: «i riformatori hanno condotto sempre una
vita stentata in un paese troppo vecchio e troppo in ritardo come il no-
stro per aver la pazienza di aspettare: col risultato che, invece di rifor-
me tempestive, abbiamo sempre trovato sulla nostra strada rivoluzioni
brevi e controriforme lunghe»96.
Bobbio focalizza i molteplici ostacoli che si frappongono al cambia-
mento: la politica verticistica delle segreterie dei partiti, l’indifferenza
morale, i «poteri occulti», l’intreccio di politica e affarismo. Di fronte
a essi si resta sgomenti e si cercano rimedi peggiori del male da com-
battere, come l’intransitabile scorciatoia della democrazia diretta, la
provvisoria lealtà verso la democrazia rappresentativa concepita quale
anticamera del socialismo o la manipolazione del consenso attraverso la

94 n. bobbio, Politica e cultura, Torino 1955, pp. 17, 280.


95 Prefazione alla seconda edizione di Italia civile. Ritratti e testimonianze, Firenze 1986, p. 6.
Da vedere, per il percorso intellettuale e morale di Bobbio e per il passaggio dalla dittatura alla de-
mocrazia in Italia, i suoi due recenti scritti, l’Autobiografia, Roma-Bari 1997, e Dal fascismo alla
democrazia. I regimi, le ideologie, le figure e le culture politiche, Milano 1997.
96 bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano cit., pp. 180-81.

Storia d’Italia Einaudi


62 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

cassa di risonanza mediatica delle opinioni dei leader politici. Si è restii


ad accettare la semplice ed amara verità: che il compito interminabile
della democrazia in quanto regime imperfetto – che è però l’unico per-
fettibile – consiste nell’espandere faticosamente la sfera dei diritti, pas-
sando da quelli politici ed economici a quelli sociali dell’ultima «gene-
razione»:
Si tratta di nuovi diritti che hanno fatto la loro apparizione nelle costituzioni
dal primo dopoguerra in poi e sono stati consacrati anche dalla Dichiarazione uni-
versale dei diritti dell’uomo e da altre carte internazionali successive. La ragion d’es-
sere dei diritti sociali come il diritto all’istruzione, il diritto al lavoro, il diritto alla
salute, è una ragione egualitaria. Tutti e tre mirano a rendere meno grande la disu-
guaglianza tra chi ha e chi non ha, o a mettere in condizione un sempre maggior nu-
mero possibile di individui di essere meno diseguali rispetto a individui più fortu-
nati per nascita e condizione sociale97.

b) Il tramonto dello storicismo.


La maggiore disponibilità dei cittadini e dei politici ad accettare le
indicazioni di Bobbio su diritti e «regole del gioco» democratiche di ti-
po prescrittivo, indeducibili cioè dal contesto fattuale, è indice, anche
sul piano teorico, dei profondi mutamenti avvenuti. Raffigura infatti
uno dei tanti segni del declino dello storicismo, specie di quello marxi-
sta, del tramonto della fede in una logica della storia, tutta interna agli
eventi, che servirebbe da faro morale. Poiché nessun metro può misu-
rare se stesso, i criteri di giudizio vanno cercati fuori dalla storia, in nor-
me di carattere universale o, comunque, pubblicamente discutibili in ba-
se al confronto tra punti di vista differenti.
Sarebbe tuttavia ingeneroso mostrare oggi soltanto i limiti e le «ru-
ghe» dello storicismo, dimenticandone i meriti: da quello di aver rita-
gliato uno spazio di autonomia al marxismo italiano rispetto al soffo-
cante stalinismo della maggior parte dei partiti comunisti dell’epoca a
quello di aver irrorato con l’acqua fredda della sobrietà (e la vigile at-
tenzione per il concreto, per i non insignificanti dettagli del tutto, per
i reali rapporti di forza) le mai sopite patrie tendenze a un sacro entu-
siasmo retorico che sovranamente si innalza sulla bassa empiria per im-
porre alla realtà i suoi astratti schemi, coprendo il mondo di impoten-
ti invettive o di moralistiche brache. Almeno nelle intenzioni dei mag-
giori «intellettuali» comunisti, lo storicismo non rappresenta affatto

97 id., Destra e sinistra. Ragioni e significato di una distinzione politica, Roma 1994, p. 79, ma
cfr., soprattutto, id., L’età dei diritti, Torino 1990.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 63

un’astuzia tattica, bensì il terreno stesso di visibilità della transizione,


il luogo deputato all’incontro, in Italia, tra teoria e prassi e tra demo-
crazia e socialismo.
Eppure, grazie al suo legame con la politica, lo storicismo marxista
ha finito per godere di una doppia rendita di posizione. La prima gli de-
riva dal non essersi teoricamente allineato alla vulgata staliniano-zda-
noviana del «materialismo storico» e del «materialismo dialettico» –
prevalente nei paesi dell’Est – e dall’essersi anzi aperto, all’inizio degli
anni sessanta, alle varianti «eretiche» che la dottrina ufficiale aveva com-
battuto: dal pensiero del «giovane Lukács» a quello della scuola di Fran-
coforte, dal marxismo di impronta psicoanalitica a quello utopico di Ernst
Bloch. La seconda è ricavata dal residuo legame politico con il Pcus, pun-
to di riferimento di una «base» che, per lungo tempo, ha continuato a
identificare l’Unione Sovietica con la patria del socialismo e l’avan-
guardia dell’umanità emancipata.
Una volta esauritasi questa doppia rendita di posizione e indeboli-
tosi il ruolo dello storicistico in generale (tanto marxista, quanto libe-
ral-crociano), gli assi di orientamento della filosofia italiana ruotano bru-
scamente. Dopo una breve ondata strutturalistica, dominata dalle figu-
re di Lévi-Strauss e di Althusser, la mossa successiva consiste nel mettere
in circolazione proprio quei filosofi in precedenza considerati politica-
mente vitandi, marchiati a fuoco come «irrazionalisti» e «reazionari»:
Nietzsche, Schmitt, Wittgenstein e, soprattutto, Heidegger. La nuova
cultura filosofica è favorita dalla pubblicazione del Nietzsche di Hei-
degger, nel 1961, dall’edizione critica delle opere di Nietzsche, curata
da Giorgio Colli e Mazzino Montinari a partire dal 1964, e dalla rina-
scita dell’interesse per Vienna e la Mitteleuropa provocata in Italia da-
gli studi di Claudio Magris98.
Si inaugura così una nuova fase di acquisizioni culturali, di modifi-
cazione del senso comune e di aggiustamento delle prospettive etiche.
Non appaiono più necessari gli artifici «combinatori» utilizzati nei pri-
mi due decenni del dopoguerra sia per «sprovincializzare» la filosofia
italiana, sia per stemperare le ortodossie marxista e cattolica. Minore è
ormai anche la preoccupazione di salvaguardarle o difendere la «linea
del Piave» che separa il razionalismo dall’irrazionalismo. Elaborando il
rimosso filosofico, si tende inconsapevolmente a far arretrare la politi-
ca dall’ambito della coscienza e della teoria, usurpato nell’epoca dei to-

98 Cfr. m. heidegger, Nietzsche, 2 voll., Pfullingen 1961 (trad. it. Milano 1995), e f. nietzsche,
Opere, Milano 1964.

Storia d’Italia Einaudi


64 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

talitarismi. Se il vincolo tra pensiero filosofico e impegno civile gene-


ralmente permane e anzi, in alcuni casi, si radicalizza sino a trasforma-
re la riflessione filosofica in mera militanza, in altri cambia aspetto o ad-
dirittura scompare. Alla precedente «faziosità duttile» e disposta all’ac-
cordo tattico, subentrano o il rigorismo rivoluzionario che rifiuta le
mediazioni e ipersemplifica la «realtà» o un eclettismo che ne moltipli-
ca le sfaccettature e ne dissolve la consistenza.
Indipendentemente dalla volontà dei due curatori – soprattutto di
Montinari – si comincia ben presto a porre sulla testa di Nietzsche «un
berretto frigio che non gli sta bene, ben diverso da quello che aveva in-
vocato le aristocrazie guerriere e inneggiato alla volontà di potenza»99.
Si scopre così con Nietzsche il fascino del «mondo dell’apparenza»,
realtà più vasta, variegata e incomponibile di quella contenuta e com-
pressa negli stretti margini di una presunta totalità unica. La moltipli-
cazione dei punti di vista favorisce collateralmente il progressivo spo-
stamento del baricentro della filosofia dalla politica ai mezzi di comu-
nicazione di massa. La fedeltà al «partito etico» diventa così meno
importante del rapporto con i «non filosofi» dell’opinione pubblica, da-
vanti alla quale le filosofie si aprono alle problematiche della coscienza
individuale o addirittura della metafisica dell’«essere». Diminuisce in
tal modo il loro tasso ideologico esplicito, ma non sempre scompaiono
le semplificazioni, a causa dello stile e dei tempi dei giornali, della ra-
dio, della televisione e dei manuali scolastici. In breve, la filosofia ita-
liana nel suo complesso considera ovvia la libertà dell’intelligenza e l’au-
tonomia della cultura, ridimensionando drasticamente, anche su questo
terreno, quell’attivismo o «prassismo» che, secondo una interpretazio-
ne insieme acuta e tendenziosa, aveva costituito la base filosofica co-
mune al fascismo e al comunismo100.
Colpisce comunque il fatto che il recupero dei pensatori «irraziona-
listi» o addirittura politicamente compromessi con il nazionalsocialismo
venga dapprima in parte promosso, in parte salutato come evento posi-
tivo, soprattutto «da sinistra»101. È infatti nell’ambito delle eresie del

99 bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano cit., p. 183.


100 Cfr. a. del noce, L’epoca della secolarizzazione, Milano 1970, pp. 111 sgg.
101 Ciò non comporta ancora il venir meno della netta contrapposizione ideologica tra «de-
stra» e «sinistra» quale sarà sostenuta negli anni ottanta e novanta e combattuta da Norberto Bob-
bio sulla base di una discriminante, l’idea di eguaglianza, per cui Nietzsche resta un pensatore di
destra: «Rousseau parte dalla considerazione che gli uomini sono nati uguali, ma la società civile,
vale a dire la società che si sovrappone lentamente allo stato di natura attraverso lo sviluppo delle
arti, li abbia resi diseguali. Nietzsche, al contrario, parte dal presupposto che gli uomini siano per
natura diseguali (ed è un bene che lo siano perché, fra l’altro, una società fondata sulla schiavitù

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 65

marxismo – nel gruppo degli «operaisti» legati ai «Quaderni rossi» di


Raniero Panzieri, a «Classe operaia» di Mario Tronti e Alberto Asor
Rosa o a «Contropiano» e «Angelus Novus» di Massimo Cacciari – che
Nietzsche, Heidegger, Wittgenstein e Schmitt trovano accoglienza (ac-
canto al Marx irto di difficoltà tecniche dei Grundrisse o del Capitale e
a tracce dell’insegnamento di Della Volpe)102. Il richiamo alla demo-
crazia diretta, contro il protagonismo dei partiti storici della sinistra, e
al «galileismo morale» di Marx vengono ora letti sia come antagonismo
di massa, rifiuto della cultura dialettica della mediazione e del compro-
messo, sia come ingiunzioni allo studio scientifico diretto dei rapporti
capitalistici interni alla fabbrica, ai luoghi di produzione da cui scaturi-
sce l’autentica democrazia103. L’avanguardia dei militanti, immersa nel-
le scissioni dei conflitti sociali, deve accettare – assieme alla «unilate-
ralità» del sapere, visto nelle sue matrici di classe e all’egualitarismo co-
me uno dei comandamenti politici ed etici più alti – la triste necessità
della violenza nella fase suprema dell’abbattimento del vecchio ordine:
«All’apice dello sviluppo, strappato il potere ai capitalisti, un duro pe-
riodo di dittatura politica degli operai su tutta la società – questo no,
non si potrà più saltare. È questo il massimo di futuro che riusciamo a
vedere, il massimo che vogliamo vedere»104. Quando più tardi si teo-
rizzerà l’«autonomia del Politico», accanto all’eroicizzazione del lavo-
ratore secondo moduli che ricombinano Lenin ed Ernst Jünger, L’im-
perialismo fase suprema del capitalismo e L’operaio, il partito «leggero»
perderà il suo peso.
Ora che il vento della storia non gonfia più le vele della politica, la «cri-
si» è assunta non solo come fattore di decadenza, ma anche di opportu-
nità. Il pathos del kairós, della decisione risolutrice e dell’organizzazione di
nuclei politici e intellettuali fortemente coesi prende il posto del lungo, ano-
nimo travaglio della storia. Se la lotta non viene infatti attivamente pre-
parata e programmata, la stagnazione e la sconfitta del movimento operaio
possono diventare irreversibili. Si disgrega così, teoricamente, lo storici-

come quella greca era, proprio in ragione dell’esistenza degli schiavi, una società evoluta) e soltanto
la società, con la sua morale del gregge, con la sua religione della compassione e della rassegnazio-
ne, li ha resi eguali. Quella stessa corruzione che, per Rousseau, ha generato la diseguaglianza, ha
generato, per Nietzsche, l’eguaglianza» (bobbio, Destra e sinistra cit., p. 76).
102 Cfr. m. alcaro, Dellavolpismo e nuova sinistra, Bari 1976.
103 Cfr. m. teodori, Storia della nuova sinistra in Europa, 1956-1976, Bologna 1976; m. mo-
niceli, L’ultrasinistra in Italia, 1968-1978, Bari 1978; m. maffi, Le origini della sinistra extraparla-
mentare, Milano 1987.
104 m. tronti, Operai e capitale, Torino 1966, p. 19, citato da lanaro, Storia dell’Italia re-
pubblicana cit., p. 278.

Storia d’Italia Einaudi


66 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

stico conglomerato di storia e utopia, mentre si riapre, politicamente, la su-


tura dialettica che Togliatti aveva pazientemente imbastito nel lacerato tes-
suto della storia italiana tra vincoli e possibilità, durezza dei rapporti di
forza e progetto di emancipazione, democrazia e socialismo.

c) Il pensiero negativo.
Servendosi di Nietzsche e dei pensatori della finis Austriae (Rilke,
Trakl, Hoffmannsthal, Roth, Schönberg, Freud, Wittgenstein), Massi-
mo Cacciari approda dall’«operaismo» al «pensiero negativo». Il tema
dell’insormontabilità delle contraddizioni e dell’implausibilità di ogni lo-
ro «superamento» prende ora la forma filosofica di un attacco sia alla dia-
lettica (a causa della sua natura continuistica e conciliatoria) che al Lukács
de La distruzione della ragione (a motivo delle accuse di «irrazionalismo»
e di decadentismo rivolte alla filosofia dopo Hegel, alla letteratura dopo
Goethe e all’economia politica dopo Ricardo). Cacciari rivendica, al con-
trario, la fecondità della «decadenza» e la grandezza di Nietzsche, del
Wittgenstein del periodo austriaco piuttosto che di quello inglese, e del-
lo Heidegger di Essere e tempo, «opera tragica fondamentale del pensie-
ro contemporaneo»105.
Alle immagini corrusche della storia e della dialettica – che si ribal-
tano però nell’armonia nel regno della libertà o della società senza clas-
si – Cacciari oppone l’idea di krisis, in quanto emergenza permanente
che non assicura alcuna salvezza, ma rinvia, filosoficamente, al pensie-
ro, corroborante e inquietante insieme, degli «uomini postumi». Con
l’ossessione per un linguaggio che giunga ai margini dell’indicibile e con
«lucidità di analisi» capace di «fermarsi dinanzi ai confini del “misti-
co”, tra l’angoscia e l’ironia, con la scoperta però dell’ormai avvenuta
impossibilità del tragico», questi maestri viennesi insegnano a rinun-
ciare al dogma dell’unicità del vero: «L’uomo postumo ha troppe ragio-
ni, per accontentarsi di una verità semplice (“ogni verità è semplice, ma
non è questa una doppia menzogna?”). L’uomo postumo trascorre per
infinite maschere senza fissarsi in nessuna»106.
In Icone della legge, Cacciari continua a interrogarsi sul tema del confi-
ne, nella forma, questa volta, della «crisi del Nomos», della liceità di ol-
trepassare limiti della legge che appaiono invalicabili. Attraverso Kafka e
Rosenzweig la figura della «porta» si presenta così quale simbolo di ambi-

105 m. cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, Venezia 1977, p. 73.


106 id., Dallo Steinhof. Prospettive viennesi del primo Novecento, Milano 1980, p. 16.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 67

gua enigmaticità: sia come barriera che forse avremmo potuto infrangere,
sia come spiraglio aperto sulla vita alla fine di ogni percorso. Come com-
portarci dinanzi a essa? Attendere inutilmente, al pari del personaggio del
racconto di Kafka Davanti alla legge, che il guardiano ci faccia passare op-
pure rompere gli indugi e attraversarla con una scelta immotivabile in ter-
mini meramente logici? L’uomo contemporaneo è incessantemente co-
stretto a prendere decisioni in nome di una legge o in vista di un fine il cui
senso si è oscurato. Ciò assimila la sua esperienza a quella dell’erranza, del
nomadismo già tipico dei figli di Israele. Oggi però tutti viviamo «l’uni-
versale assolutizzazione della mancanza di radice. Ciò che qui si invera è
l’idealistica autonomia del soggetto – ma proprio come soggetto irreversi-
bilmente sradicato»107. La legge rimane celata nell’insondabilità del pro-
prio fondamento, che non si deve affatto pretendere di esaurire. È neces-
sario invece custodire questa zona di nascondimento, mantenere una ten-
sione infinita tra la nostra rappresentazione e l’irrappresentabile, la cui
allegoria è costituita dall’Angelo. Questi «testimonia il mistero in quanto
mistero, trasmette l’invisibile in quanto invisibile, non lo “tradisce” per i
sensi», spingendoci, nelle parole di Rilke, a raccogliere «disperatamente il
miele del visibile, per custodirlo nel grande alveare d’oro dell’invisibile»108.
Mediante un confronto sempre più serrato non solo con la metafisi-
ca classica ma anche con la teologia, Cacciari – che ha imparato a di-
stinguere nettamente la filosofia dalla politica – si è reso negli ultimi an-
ni volutamente inattuale. In Dell’inizio, opera di complessa orchestra-
zione concettuale ed espositiva, cerca così nelle profondità della grande
tradizione filosofica europea (dai neoplatonici Proclo o Damascio fino
a Hegel o al tardo Schelling) le origini dei nostri problemi, obbligando
il lettore a una tenace, ma remunerativa «fatica del concetto»109.

9. Come si corruppe e morì il «partito etico».

a) Emergenze e «questione morale».


Il periodo successivo all’uccisione di Moro registra, dal punto di vi-
sta etico, l’inizio di un nuovo ciclo. Nei loro aspetti più drammatici que-

107 id., Icone della Legge, Milano 1985, p. 5. La «decisione» che fa uscire dalla passività è, ne-
gli ultimi scritti, alla radice dell’Europa e della sua coscienza ribelle, mai conclusa e irriducibil-
mente plurale: cfr. id., Geo-filosofia dell’Europa, Milano 1994, e id., L’arcipelago, Milano 1997.
108 Cfr. id., L’angelo necessario, Milano 1986.
109 Cfr. id., Dell’inizio, Milano 1990.

Storia d’Italia Einaudi


68 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

sti anni presentano infatti, da un lato, un ulteriore allentamento dei vin-


coli tra i cittadini e lo stato, dall’altro, le prime prove, immediatamen-
te cancellate, di un intreccio di largo raggio tra corruzione e politica.
Lo stato viene ormai percepito da molti come un corpo estraneo, tan-
to che, nel momento in cui il terrorismo raggiunge la maggiore virulen-
za, vi è chi proclama l’intenzione di non schierarsi «né con lo Stato, né
con le Brigate Rosse», invocando il diritto di abitare in una nicchia tra
ordine e disordine, legalità e illegalità. Una serie di fattori, accumulati-
si nel tempo, preparano gli scenari di una crisi, il cui scoppio sarà tut-
tavia ritardato di quasi quindici anni: l’impraticabilità del ricambio del-
le classi dirigenti e di governo, che genera paralisi e crampi morali110;
l’indistinzione, nel quadro dell’economia mista, di sfera pubblica e sfe-
ra privata; l’uso politico degli strumenti dello stato sociale111; l’occupa-
zione dei posti di lavoro e delle cariche pubbliche da parte di «cliente-
le fameliche»; il consociativismo, che in Italia ha un «cuore antico» ed
ha avuto nell’immediato dopoguerra il merito di evitare «la via greca al-
la guerra civile»112; la confusione tra «crisi delle ideologie» e liquidazio-
ne degli ideali; il sistematico scambio di favori, teso a finanziare i cre-
scenti «costi della politica» (dovuti alla necessità di ricorrere alla tele-
visione, a frequenti convegni e a massiccia propaganda murale),
alterando così le leggi di mercato e l’equità fiscale.
L’attacco allo Stato assume un carattere particolarmente violento
dall’inizio degli anni ottanta sino al 1993, quando l’accresciuto potere
della mafia e di altre organizzazioni criminali si manifesta chiaramente
con aspirazioni di sovranità locale. La mafia si presenta come l’anti-sta-
to, in quanto spezza il monopolio della forza legittima, stabilisce i di-
ritti di vita e di morte sui cittadini, controlla militarmente il territorio
ed esige tributi. Nel passato essa era apparsa portatrice, tra gli affiliati,
di valori quali il coraggio, la fedeltà, l’amicizia, la capacità di sacrifica-
re la propria vita e l’altrui, la prospettiva di subire il carcere e il confi-
no (la fedeltà e l’amicizia erano comunque pronte a cambiare obiettivo
e destinatario). Di questa immagine positiva la mafia era stata comun-
que sempre capace di farsi scudo, rendendo labile la differenza tra la «si-
cilianità» e il comportamento mafioso. Leonardo Sciascia era consa-

110 Oltre a scoppola, La repubblica dei partiti cit., si veda f. barbagallo, L’azione parallela.
Storia e politica nell’Italia contemporanea, Napoli 1990, e s. colarizi, Storia dei partiti nell’Italia re-
pubblicana, Roma-Bari 1994.
111 Cfr. l. cafagna, La grande slavina. L’Italia verso la crisi della democrazia, Venezia 1992,
pp. 32 sgg.
112 Cfr. a. pizzorno, Le radici della politica assoluta, Milano 1994, p. 290.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 69

pevole di questo rischio allorché scriveva: «Quando denuncio la mafia,


nello stesso tempo soffro poiché in me, come in qualsiasi siciliano, con-
tinuano a essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso. Così, lot-
tando contro la mafia, io lotto anche contro me stesso, è come una scis-
sione, una lacerazione». Anche nei capi mafiosi – come ebbe a notare
lo stesso Sciascia, tratteggiando con acume, ma sulla traccia di uno ste-
reotipo, il personaggio di don Mariano – vi era talvolta qualcosa di sel-
vaggiamente nobile nella determinazione di dare senso a un mondo do-
minato dalla violenza:
– Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…
– Anche lei – disse il capitano con una certa emozione. E nel disagio che subi-
to sentì di quel saluto delle armi scambiato con un capo mafia, a giustificazione pen-
sò di aver stretto le mani, nel clamore di una festa della nazione, e come rappre-
sentanti della nazione circonfusi di trombe e di bandiere, al ministro Mancuso e
all’onorevole Livigni: sui quali don Mariano aveva davvero il vantaggio di essere un
uomo. Al di là della morale e della legge, al di là della pietà, era una massa irreden-
ta di energia umana, una massa di solitudine, una cieca e tragica volontà; e come un
cieco ricostruisce nella mente, oscuro e informe il mondo degli oggetti, così don Ma-
riano ricostruiva il mondo dei sentimenti, delle leggi, dei rapporti umani. E quale
altra nozione poteva avere del mondo, se intorno a lui la voce del diritto era stata
sempre soffocata dalla forza e il vento degli avvenimenti aveva soltanto cangiato il
colore delle parole su una realtà immobile e putrida?113.

Certo, la nuova «mafia imprenditrice», che vende droghe, oltre che


protezione (come sempre), e che sta al centro di potenti imperi finan-
ziari, non somiglia più a quella impersonata da don Mariano. Dopo il
delitto Dalla Chiesa, ha ormai portato l’attacco contro lo Stato a un li-
vello mai visto dall’Unità d’Italia, attacco che culmina nell’uccisione dei
giudici Falcone e Borsellino e nelle bombe contro i monumenti di Ro-
ma e di Firenze114.

113 l. sciascia, La Sicilia come metafora, intervista di M. Padovani, Milano 1979, e id., Il gior-
no della civetta, Torino 1961, pp. 101-2. Sulla posizione di Sciascia e la persistenza di una raffigu-
razione «nobile» della mafia, che trova le sue radici nelle sofferenze e nel disagio con cui la mo-
dernità è avanzata attraverso la rivendicazione del monopolio della violenza legittima e il duro di-
sciplinamento della società, cfr. p. pezzino, La mafia, in m. isnenghi (a cura di), I luoghi della
memoria, Roma-Bari 1977, pp. 113-34, in particolare pp. 130-32.
114 Tra i numerosi studi sull’argomento, si vedano, sulla preistoria e la storia della mafia, p.
pezzino, Una certa reciprocità di favori. Mafia e modernizzazione violenta nella Sicilia postunitaria,
Milano 1990; id., Mafia: industria della violenza, Firenze 1995; n. tranfaglia, Mafia, politica e af-
fari nell’Italia repubblicana. 1945-1991, Roma-Bari 1992. Sugli sviluppi recenti cfr., invece, p. ar-
lacchi, Gli uomini del disonore, Milano 1992; s. lupo, Storia della mafia. Dalle origini ai giorni no-
stri, Roma 1993; d. gambetta, La mafia siciliana, Torino 1994. Per gli altri poteri criminali, cfr.
i. sales, Storia della camorra, Roma 1988; e. ciconte, ’Ndrangheta dall’Unità a oggi, Roma-Bari
1992 (che segnala, pp. 306-10, il fenomeno di un progressivo spostamento dall’«omertà dal bas-

Storia d’Italia Einaudi


70 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

Da un’altra prospettiva, il grido di allarme lanciato da Enrico Ber-


linguer alla fine degli anni settanta, perché si discutesse urgentemente
della «questione morale», non viene ascoltato. La sua scelta in favore
dell’«austerità» come rimedio contro la crisi economica indotta dal pri-
mo «shock petrolifero» e, soprattutto, contro la corruzione rampante
(le cui cause indica nell’«individualismo più sfrenato» e nel «consumi-
smo più dissennato»)115, è interpretata quale paura fuori moda di un ca-
valiere dalla triste figura, di un nobile hidalgo che combatte contro i mu-
lini a vento, senza rendersi conto che la «modernità» esige «grinta»,
uno stile di vita baldanzoso e aggressivo, in cui benessere e ricchezza
non costituiscono più aspirazioni proibite per nessuno.
Attraverso l’incremento dei consumi, la possibilità di trovare più fa-
cilmente lavoro, le assunzioni massicce nelle scuole e negli impieghi sta-
tali, la maggior libertà di movimento, si sviluppano – soprattutto tra i
«ceti medi emergenti» e, in maniera più accentuata, nel periodo dei go-
verni a guida socialista – attitudini e modi di pensare di stampo indivi-
dualistico ed «edonistico». Comincia a delinearsi una vistosa discre-
panza tra i criteri di giudizio adottati e i comportamenti effettivi116 e si
rafforza un’etica basata più su insindacabili preferenze individuali che
non su norme imposte dalla tradizione, dai precetti religiosi o dalla ri-
cerca di un «bene comune». Da tutto questo deriva però anche una mag-
giore libertà e un benessere diffuso, a cui ci si abitua.

b) Giustizia e stato sociale.


Intanto l’indebitamento pubblico cresce e il miracolo della «partita
di giro» non riesce a nascondere la voragine nei conti dello stato. Ma,
soprattutto, si cominciano a percepire ingiustizie e sperequazioni con-
crete a cui la violenza rivoluzionaria, ulteriormente screditata dal ter-
rorismo, non guardava e a cui sempre meno sembra in grado di porre ri-
paro. All’inizio degli anni novanta si constata ufficialmente in Italia quel
che pochi sapevano e che altrove era da tempo oggetto di discussione e

so» all’«omertà dall’alto», quella cioè che garantisce alle cosche la copertura da parte dei politici,
della classe dirigente o delle banche). Più in generale, si veda r. canosa, Storia della criminalità in
Italia, Torino 1991.
115 e. berlinguer, Austerità, occasione per trasformare l’Italia, Roma 1977, p. 13.
116 Sotto il profilo sociologico, poco si ricava da due indagini del Censis (Gli anni del cam-
biamento. Il rapporto sulla situazione sociale del paese dal 1967 al 1982, Milano 1982, e I valori gui-
da degli italiani. Immagini opinioni e rappresentazioni a quarant’anni dalla nascita della Repubblica,
Roma 1989) e da g. calvi, Valori e stili di vita degli italiani, Milano 1977.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 71

di scontro: l’incapacità degli stati, con la crisi fiscale e il declino del Wel-
fare – aspramente combattuto da Margaret Tathcher e da Ronald Rea-
gan un decennio prima – di ridistribuire ai cittadini quote di ricchezza
relativamente abbondanti. Emerge prepotentemente il problema di una
riformulazione del patto sociale mediante una diversa ripartizione dei
costi e dei benefici collettivi, con il rischio di togliere ai più deboli ogni
protezione e aiuto. Si tratta purtroppo, per l’Italia, di una fase di aspet-
tative decrescenti, in cui la fine del modello fordista di produzione e
consumo di massa e la ripresa su grande scala dei processi di «globaliz-
zazione» che ridisegnano i mercati producono un netto calo dell’occu-
pazione e aprono le sue frontiere – come quelle dei paesi più ricchi – agli
ingenti flussi migratori dei diseredati della Terra.
Una volta riconosciuto che lo stato sociale non può continuare a ero-
gare indiscriminatamente gli stessi benefici di prima, anche l’ethos è in-
dotto a cambiare. L’alternativa è secca: si deve privilegiare una nozione
di giustizia che salvaguardi i ceti e gli individui più deboli? O si deve in-
vece puntare sulla libera competizione tra individui e gruppi lasciando
arbitro il mercato? Ma come giudicare? Si mira ormai a un’etica per la
politica che non abbia bisogno di riferirsi all’incessante e in parte in-
compreso variare delle situazioni concrete, ma che sia però in grado di
giustificare se stessa mediante valori universali soggetti alla discussione
pubblica e, dunque, rettificabili. Da oltre vent’anni cresce, di conse-
guenza, l’interesse per filosofie normative come quella di Jürgen Haber-
mas e di John Rawls, il cui «agire comunicativo» e il cui «liberalesimo
politico» vengono in Italia chiamati a giustificare le intuizioni morali cre-
sciute sul suolo delle più antiche democrazie: autonomia e autodetermi-
nazione degli individui, formazione del consenso attraverso un confron-
to non violento e non strumentale, primato gerarchico della libertà
sull’eguaglianza, «patriottismo costituzionale» e religione civica.
Salvatore Veca è il filosofo politico che ha tradotto nel linguaggio
dell’«etica pubblica» le esigenze di giustizia sociale in precedenza avan-
zate dal marxismo e che – assieme a Bobbio – mantiene viva, in altre
forme, la tradizionale vocazione civile della filosofia italiana. Partito dal-
lo studio di Kant e della fenomenologia nella scuola di Enzo Paci, si è
progressivamente avvicinato al pensiero politico anglosassone, nella sua
versione «contrattualistica». In particolare, ha ripreso e sviluppato il
programma di ricerca di John Rawls incentrato sull’idea di giustizia, tor-
cendolo però, in modo originale, sulla questione di come si possa rag-
giungere il bene in società contrassegnate dai principî del pluralismo e
dell’individualismo (in cui cioè la «neutralità liberale» non consente l’af-
fermazione di alcuna gerarchia assoluta e indiscutibile di valori). La ri-

Storia d’Italia Einaudi


72 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

sposta rinvia all’esigenza di trovare, da un lato, un nucleo condiviso di


credenze e intuizioni morali argomentabili, dall’altro di elaborare un
modello di giudizio politico capace di stabilire le modalità del «consen-
so per intersezione» necessario alla sopravvivenza e alla crescita delle
società democratiche117.

c) Mani sporche e mani pulite.


Il tema della giustizia viene improvvisamente portato all’attenzione
del grande pubblico, per vie non certo filosofiche, allorché – a partire
dal febbraio del 1992 – si scopre a Milano l’estesa corruzione che in-
quina i rapporti tra politica, amministrazioni locali e nazionali, corpi mi-
litari dello stato e mondo produttivo. Il latente bisogno di cambiamen-
to riceve un’improvvisa accelerazione dall’ondata di sdegno popolare
che porta all’allontanamento dalle leve del potere di buona parte della
nomenclatura politica e di un piccolo, ma significativo, numero di im-
prenditori. Ciò che meraviglia l’opinione pubblica non è tanto la sco-
perta di singoli, seppur vistosi, episodi di corruzione – da sempre con-
statati o facilmente ipotizzabili –, quanto il fatto che essa sia così siste-
maticamente codificata e così capillarmente diffusa. La meraviglia
sarebbe stata maggiore se la «gente» fosse subito venuta a conoscenza
della beffa suprema: che persino i sistemi di controllo tesi a combatte-
re la corruzione ne avevano aumentato i proventi, cosa che «tra gli ad-
detti al lavoro è il segreto di pulcinella»118.
La magistratura «si sveglia», diventando protagonista della svolta
che ha terremotato e rinnovato la storia italiana più recente. Perché è
uscita così tardi dal «Porto delle nebbie», dal «Palazzo dei veleni»,
dall’inerzia e, in alcuni casi, dalla subordinazione o dalla connivenza per-
versa con il potere politico? Forse perché «spesso inconsapevolmente
ossequiente nei confronti degli altri poteri» e «isolata nella torre d’avo-
rio che si era costruita»119, ma forse anche perché mancavano – come

117 Di Salvatore Veca si veda La società giusta (Milano 1982), Una filosofia pubblica (Milano
1986), Etica e politica (Milano 1989), e Dell’incertezza. Tre meditazioni filosofiche (Milano 1997, in
particolare pp. 87-251).
118 a. licandro e a. varano, La città dolente. Confessioni di un sindaco corrotto, Torino 1993,
p. 62. Da vedere, su questi aspetti, anche s. turone, Politica ladra. Storia della corruzione in Italia.
1861-1992, Roma-Bari 1992; g. sapelli, Cleptocrazia. Il «meccanismo unico» della corruzione tra
economia e politica, Milano 1994; a. silj, Criminalità e corruzione politica nell’Italia della Prima Re-
pubblica, Roma 1994.
119 g. colombo, Il vizio della memoria, Milano 1996, p. 26.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 73

ha sostenuto Antonio Di Pietro – «le chiavi d’accesso del sistema»


della complicata macchina finanziaria della corruzione. Le cause sono,
tuttavia, remote. I giudici che avevano operato sotto il fascismo venne-
ro infatti quasi tutti confermati nel dopoguerra e furono per decenni –
con rare eccezioni – completamente integrati nel blocco di potere do-
minante.
Non che mancassero tensioni, come rivelano – oltre alla storia e al-
la cronaca – il mutamento dell’immagine del giudice nella percezione de-
gli italiani. Lo si può rilevare attraverso l’analisi di tre film fondamen-
tali, prodotti nell’arco di un decennio caratterizzato dal moltiplicarsi di
pellicole con questo tema. Il primo è In nome della legge di Pietro Ger-
mi, del 1949, in cui il «magistrato eroe», un semplice pretore, si scon-
tra con la mafia e, per sconfiggere la pax mafiosa e la diffidenza degli
abitanti, deve mostrare – in una prospettiva definita «hegeliana» – che
lo Stato è capace di risolvere i conflitti sociali, offrendo ordine e sicu-
rezza a livello più alto e dignitoso dei suoi antagonisti. Gli altri sono due
film di Luigi Zampa, rispettivamente Processo alla città, del 1952, sulla
camorra napoletana, con critiche alla polizia che provocarono polemi-
che, e Il magistrato, del 1959, in cui si passa dalla «figura del giudice ri-
solutore (…) a quella del giudice problematico, che rifiuta il suo ruolo
proprio perché è convinto della sua inettitudine funzionale»120. La cri-
si della giustizia si manifesta così nell’avvertire – anche da parte del giu-
dice – quella «sfiducia nella legge come corpo di regole comuni» che ca-
ratterizza anche i suoi compatrioti, che troverà poi espressione, in tutt’al-
tro clima politico e civile, in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni
sospetto, di Elio Petri, del 1969. Si fa strada, anche ufficialmente, l’idea
che le leggi siano davvero come le ragnatele: i forti le sfondano, i debo-
li vi restano impigliati.
A partire dal 1992, la ribollente indignazione della «gente» davanti
alle trasmissioni degli arresti dei corrotti e dei processi in diretta tele-
visiva riveste anche il significato di un rituale lavacro di autopurifica-
zione collettiva. Alle «mani sporche» dei politici e degli affaristi si so-
stituiscono simbolicamente le «mani pulite» dei magistrati del pool di
Milano121 e, nell’immaginario collettivo di alcuni, alla contrapposizio-

120 Cfr. v. tomeo, Il giudice e lo schermo. Magistratura e polizia nel cinema italiano, Bari 1973,
pp. 47-56, 64. Per l’evoluzione della magistratura in Italia, cfr. e. moriondo, L’ideologia della ma-
gistratura italiana, Bari 1967; r. canosa e p. federico, La magistratura in Italia dal 1945 a oggi, Bo-
logna 1974, e e. bruti liberati, a. giasanti e a. ceretti (a cura di), Governo dei giudici: la magi-
stratura tra diritto e politica, Milano 1966.
121 Per una discussione dei dilemmi morali impliciti nell’opposizione mani sporche / mani pu-

Storia d’Italia Einaudi


74 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

ne ideologica tra comunisti e anticomunisti quella tra onesti e disonesti


(anche se poi si è teso a demonizzare tutti i partiti e ad attribuire loro
tutto il marcio della «prima repubblica»). A questa «rivoluzione italia-
na» è tuttavia mancata una sufficiente «espiazione», nel senso che mol-
ti hanno velocemente dimenticato che i benefici, ampiamente erogati
«a pioggia» da questa classe dirigente che cercava di accontentare ogni
richiesta, erano stati per decenni bene accetti.
Eppure, il rinnovamento c’è stato e, almeno per qualche tempo, l’im-
punità dei potenti ha cessato di essere automaticamente garantita. Non
tutti i «tangentocrati» sono però uguali. Se paragoniamo la sfrontata ar-
roganza di Mario Chiesa alla condotta del parlamentare socialista Ser-
gio Moroni, del manager Gabriele Cagliari o di Raoul Gardini, si deve
riconoscere a questi ultimi una «nobiltà della sconfitta» e una grandez-
za umana dinanzi all’estremo, che ben si esprimono nelle parole scritte
da Moroni – prima di suicidarsi – a Giorgio Napolitano, allora presi-
dente della Camera dei deputati:
Un grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) ha coperto per lunghi anni i mo-
di di vita dei partiti e dei loro sistemi di finanziamento. C’è una cultura tutta ita-
liana nel definire regole e leggi che si sa non potranno essere rispettate, muovendo
dalla tacita intesa che insieme si definiranno solidarietà nel costruire le procedure
e i comportamenti che violano queste stesse regole (…) Non credo che questo no-
stro Paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima di pogrom nei con-
fronti della classe politica i cui limiti sono noti ma che pure ha fatto dell’Italia uno
dei Paesi più liberi122.

d) La politica entra in casa.


Il fenomeno «mani pulite» ha storicamente la sua premessa maggio-
re nella fine della «democrazia bloccata» e della conseguente stagna-
zione dell’ethos. L’inaspettata conclusione della guerra fredda, tra il 1989

lite, cfr., oltre al dramma di Sartre, Les maines sales, m. walzer, Political Action. The Problem of
Dirty Hands, in «Philosophy and Public Affairs», II (1973), pp. 160-80, e c. bobbit e g. calabre-
si, Tragic Choices, New Haven - London 1979.
122 Citato in e. nascimbeni e a. pamparana, Le mani pulite. L’inchiesta di Milano sulle tan-
genti, Milano 1992, pp. 139-40. Alle radici della corruzione e della concussione fu certamente la
scelta da parte di tutte le élite, indistintamente, «di sottrarsi alle sfide della concorrenza interna-
zionale rinviando la modernizzazione del sistema politico (democrazia dell’alternanza), del siste-
ma economico (superamento dell’economia mista) e del modello amministrativo (decentramento,
riforma del Welfare e della pubblica amministrazione secondo criteri di efficacia e di efficienza»)
(g. vacca, Vent’anni dopo, Torino 1997, p. 213).

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 75

e il 1991, scioglie in maniera convulsa nodi che sembravano inestrica-


bili, cancellando, sia pure con maggiore lentezza, l’equazione – tipica
della «guerra civile fredda» – tra nemico interno e nemico internazio-
nale. Il tramonto delle grandi contrapposizioni di valori contribuisce ul-
teriormente alla perdita di prestigio di tutti i partiti etici e alla scom-
parsa fisica di due di essi: il Partito socialista italiano, dopo un secolo di
vita, e la Democrazia cristiana, a cinquant’anni dalla sua ricostituzione.
Nessun partito può rivendicare – ora meno che mai – il perseguimento
di grandi obiettivi planetari in nome di qualche protagonista o «macro-
soggetto storico» (il proletariato o il «mondo libero»), come ancora ac-
cadeva nella fase iniziale dell’età del bipolarismo.
La politica tende a personalizzarsi e, nello stesso tempo, a proporre
packages di offerte variamente combinate in vista dei probabili destina-
tari non più immediatamente definibili in termini di classe (interventi
sullo stato sociale, iniziative per combattere l’inflazione e la disoccupa-
zione, strategie per «entrare in Europa»). Dall’evaporazione degli idea-
li di grande formato resta spesso solo il residuo di ormai stantii aromi
ideologici e qualcosa di simile al caput mortuum delle reazioni alchemi-
che, ossia il sedimento di un pragmatismo senza principî coerenti, la tec-
nica della «navigazione a vista». La distanza tra i «piedi» e la «testa»
che, ai tempi della guerra fredda, spingeva gli italiani a sognare patrie
diverse da quella in cui si trovavano effettivamente a vivere appare tal-
mente accorciata che i «piedi» si trovano sin troppo vicini alla «testa»,
che molti, cioè, perdono di vista il mutato contesto internazionale en-
tro cui l’Italia è inserita.
A tutto ciò i politici più avvertiti e sensibili agli umori dell’opinione
pubblica cercano di rimediare, agganciando la politica a nuovi ideali di
stabilità o legandola a passioni popolari. Di fronte al tramonto di credi-
bili riferimenti ideologici globali, alcune forze politiche contrappongo-
no alla necessaria fragilità del nuovo l’immagine di alberi robusti, dalle
profonde radici, ben piantati sul territorio («quercia» e «ulivo»). Forza
Italia, invece, associa il suo stesso nome al gergo calcistico, avvicinan-
do la politica al «tifo», ossia a una modalità per «drogare» il consenso
di massa. Prevale così, con la complicità della televisione, la ricerca di
un consenso «forzato»: non strappato cioè con la violenza, bensì otte-
nuto mediante una forzatura, una crescita accelerata in serra, come quel-
la cui vengono sottoposti i prodotti agricoli fuori stagione o che nasco-
no in altri climi.
La politica si salda sempre di più con l’immaginario veicolato dalla
televisione, di cui deve accettare gli irreversibili e contraddittori ef-
fetti. Questo mezzo, infatti, da un lato, favorisce l’aumento numerico

Storia d’Italia Einaudi


76 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

dei «segregati sociali», inducendo a sostituire relazioni interpersonali


dirette o più intense con solitari pomeriggi e serate davanti al piccolo
schermo, nella sua semi-ipnotica luce d’acquario, dall’altro spalanca fi-
nestre sulla realtà che ampliano enormemente gli orizzonti culturali di
individui e ceti prima scarsamente provvisti di informazioni politiche
e di visioni del mondo alternative. Diminuendo gradualmente la fre-
quentazione delle cellule, delle «case del popolo», delle parrocchie e
persino dei parenti e degli amici, essa mina certo la precedente vita di
relazione, ma rende, soprattutto, «porose» le pareti domestiche. Por-
ta così il mondo e la politica in casa, abolendo virtualmente la separa-
zione tra pubblico e privato, libertà positiva di partecipare e libertà ne-
gativa di non interferenza. Oltrepassa così quel limite tra sfera dome-
stica e sfera politica, rappresentato dalla soglia di casa, che neppure il
sovrano assoluto di Hobbes aveva osato varcare. Ora anche «mamme,
nonne, zie» possono partecipare al dibattito politico dal salotto o dal-
la cucina. Diversamente dai capi dei regimi totalitari, che creavano un
effetto di sudditanza e facevano sentir piccolo e dipendente l’indivi-
duo, nella solitudine delle case, il personaggio politico diventa «fami-
liare», amico o nemico, eroe o vittima, comunque conosciuto e segui-
to ogni giorno. La politica si familiarizza e si quotidianizza. Senza mol-
to sforzo, senza bisogno di impegnarsi in defatiganti riunioni e
congressi, senza ulteriori mediazioni, chiunque è vissuto ai margini del-
la vita politica potrà ora far pesare con il voto la propria opinione (or-
mai in parte divenuta sovrana ed esentata dal peso della prova, una vol-
ta che la politica diventa per lo più «a uso esterno», narrazione sugge-
stiva e non più argomentazione e confronto effettivo). La casa è
divenuta la serra in cui si «forza» la crescita di un consenso politico a
prezzi stracciati.
Tutto ciò esige dai partiti la rielaborazione del proprio modello or-
ganizzativo e l’aggiornamento continuo dei sistemi di coordinamento
tra gli iscritti e gli elettori. La partecipazione mediatica non sostituisce
quella immediata, ma assume un chiaro ruolo strategico, segna la par-
ziale rinuncia a proporre ideali che richiedono l’impegno costante e il
coinvolgimento diretto dei singoli. Sintomaticamente, queste esigenze
di carattere etico – prima investite nella politica – si spostano sul terre-
no del volontariato e sul piano religioso. La politica diventa necessaria-
mente più laica e disincantata, in linea con le esigenze di un «paese nor-
male». Solo che, imponendo sacrifici per fini che non appaiono suffi-
cientemente alti o appetibili, perde disgraziatamente importanti
ingredienti del suo fascino, ottundendo alcune delle più potenti ragioni
dell’impegno.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 77

10. Radici.

a) Il richiamo della patria.


L’autonomia strappata dall’individuo alle istituzioni politiche e reli-
giose si paga generalmente a prezzo dell’indebolimento dei legami co-
munitari e del senso di appartenenza a un’unica storia. Con varianti che
dipendono dalle situazioni locali, si cerca quindi di rafforzare l’«iden-
tità» collettiva infondendo un supplemento di amore per la «nazione»
o abituando i cittadini a una maggiore lealtà verso la «patria».
Ciò è successo anche in Italia, dove la recente ripresa di queste te-
matiche123 è però dovuta anche ad altre ragioni: alla conclusione della
guerra fredda, che permette finalmente agli eredi storici del fascismo e
del comunismo di accedere all’area di governo; al declino dell’autorità
dei partiti, parti che non sono riuscite a diventare un tutto, formando
piuttosto «poli» che stentano a concedersi un reciproco riconoscimen-
to di legittimità; alla crisi economica, che rilancia potenziali contrap-
posizioni tra regioni ricche e povere; all’ormai conclamata volontà
secessionista della Lega nord, con la strampalata invenzione della «Pa-
dania» (sintomo comunque di un disagio diffuso in alcune regioni set-
tentrionali).
Il ritrovato bisogno di compattezza e di riconciliazione nazionale mu-
ta retroattivamente l’angolazione dello sguardo volto al passato. Si cer-
ca così di attenuare o di dimenticare ogni divisione: quella dell’8 set-
tembre tra fascisti e antifascisti, che avrebbe condotto alla «morte del-
la patria»; quella del 25 aprile del 1945, che immette gli italiani nella
democrazia «sul binario di “appartenenze separate” piuttosto che su
quello di una comune appartenenza nazionale»124; quella originata dal-
la Carta repubblicana con le «discriminazioni» nei confronti dei Savoia
e di quanti non si riconoscono nell’«arco costituzionale»; quella, infine,
rivendicata da minoranze, per chiudere il contenzioso degli «anni di
piombo». A molti la Resistenza, l’antifascismo, la Costituzione o «il
fronte della fermezza» dinanzi al terrorismo, non appaiono più un ce-
mento sufficiente a tenere uniti gli italiani. Ricordano anzi vecchie fe-

123 La discussione è stata innescata da m. viroli, Per amore della patria. Patriottismo e nazio-
nalismo nella storia, Roma-Bari 1995, e da de felice, Rosso e nero cit., e galli della loggia, La
morte della patria cit. (pubblicati nello stesso anno), a cui si sono poi aggiunti s. lanaro, Patria, Ve-
nezia 1996, e rusconi, Patria e repubblica cit.
124 p. scoppola, 25 aprile. La liberazione, Torino 1995, p. 40.

Storia d’Italia Einaudi


78 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

rite da rimarginare e costituiscono fattori che minano il sentimento


dell’unità nazionale.
Diverse le strategie proposte. Da quella degli storici «revisionisti»,
che tendono sostanzialmente a limitare il peso politico e morale di que-
sti eventi fondativi della democrazia italiana, a quella di chi – preoccu-
pato del fenomeno leghista – cerca un «collante» nelle idee di «patria»
e di «repubblica». Si tratta, in questo caso, di ricostruire e intrecciare
nuovamente storie e memorie condivise, anche e soprattutto se doloro-
se, giacché sono proprio queste ad accomunare potenzialmente i vinci-
tori e i vinti dell’ultima «guerra civile» italiana. Il «patriottismo espia-
tivo» che ne scaturisce si pone pertanto come complementare al mero
«patriottismo costituzionale». Rivendica cioè l’importanza, per la te-
nuta democratica delle istituzioni, di un sentire comune che non si ma-
nifesta soltanto grazie all’adesione riflessa del singolo alle leggi, bensì
mediante il patire collettivo della gente. Tale «oscuro sentimento di com-
partecipazione ai lutti della nazione» riconcilia le «memorie inconcilia-
te» e divise di un popolo (le Fosse Ardeatine e le foibe istriane, le lotte
partigiane e la ritirata di Russia) nel pathos dell’appartenenza a un solo
destino. Si consegue così il duplice vantaggio di far amare la democra-
zia, senza ridurla a mero apprendimento di una tecnica di decisione col-
lettiva, e di utilizzare il ricordo delle sofferenze attraversate assieme
quale antidoto contro il secessionismo. Per funzionare, infatti, la de-
mocrazia «ha bisogno di lealismo politico e di solidarismo civico. Que-
ste virtù nel cuore e nella testa dei cittadini comuni (della “gente”) non
discendono astrattamente da principî universali, ma sono acquisite nel
corso di una vicenda storica e dentro una comunità cui si appartiene e
nella quale ci si riconosce»125. E se il secessionismo è per ora bloccato,
«lo si deve alla spontanea reazione della (sub)cultura popolare che ha
fatto da schermo alla inconsistenza della cultura politica dominante, in
particolare di sinistra»126.
Il punto è che il racconto fondativo delle esperienze collettive attra-
verso le quali i popoli forgiano la loro identità – ossia etimologicamente
il mythos – non è sufficiente al rafforzamento della democrazia. Nessu-
no nega che l’impegno e il rigore critico degli storici possano contribui-

125 g.e. rusconi, Scendere da Cosmopoli, in m. nussbaum, g.e. rusconi e m. viroli, Piccole
patrie, grande mondo, Milano 1995, p. 44.
126 rusconi, Patria e repubblica cit., p. 7. Sulle divergenti tendenze della tradizione civica ita-
liana e della Lega, cfr. r.d. putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano 1993; i. dia-
manti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Roma 1993.

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 79

re a far mettere radici più solide all’ideale e alla prassi della democrazia.
Per farla «amare» e, nel caso specifico, per disinnescare il potenziale
eversivo della Lega nord risultano tuttavia più efficaci gli strumenti del-
la giustizia sociale e fiscale, dell’educazione scolastica, del buon gover-
no e della buona amministrazione, nonché la consapevolezza del fatto
che le «nazioni» non sono più quelle tramontate (assieme alla loro pre-
tesa di assoluta autonomia) con la grande guerra, ma quelle che vivono
in più ampi contesti globalizzazione dell’economia e di sovranità. Non
si vede inoltre la necessità di un unanimismo della memoria, soprattut-
to nei regimi democratici: sempre che non rappresentino possibili foco-
lai di guerra civile il fatto che vi siano più memorie separate e inconci-
liate è anche una risorsa.

b) Tra essere e divenire.


Ormai è comunque difficile fabbricare miti o racconti di fondazio-
ne dotati di una qualche stabile credibilità. Venuti meno i criteri globali
di donazione di significato alla storia secondo un fine ultimo e caduto il
presupposto di una logica intrinseca a essa, gli eventi sembrano restii a
disporsi in sequenze ordinate o in vasti e coerenti affreschi. E poiché in
tal modo ogni interpretazione diventa ancora più labile e controversa,
anche le utopie e le filosofie della storia a lungo coltivate subiscono
oggi – a livello filosofico – una sorta di emorragia di senso e una secca
perdita di credibilità. Da quando infatti la storia non avanza più l’esor-
bitante pretesa di fornire spiegazioni esaurienti dell’accaduto e di di-
spensare ricette per l’avvenire, non appare più sufficientemente plausi-
bile il fine lontano per cui vale la pena sacrificare se stessi e gli altri
(l’emancipazione, il progresso, la società senza classi).
Nella filosofia italiana di quest’ultimo quarto di secolo si attenua co-
sì l’interesse per tutte le proiezioni verso un futuro da addomesticare e
sottomettere. L’idea di una necessità inesorabile che governerebbe le vi-
cende umane polarizzandole verso una meta prefissata cede il passo a
un’attenzione per i possibili che fa spesso smarrire la durezza del già te-
mibile «principio di realtà». Uno sguardo «nuovo, più disteso e meno
metafisicamente angosciato» si rivolge ora «al mondo delle apparenze,
delle procedure discorsive e delle “forme simboliche”, vedendole come
il luogo di una possibile esperienza dell’essere»127. Si nega in tal modo

127 p.a. rovatti, Premessa, in aa.vv., Il pensiero debole, Milano 1983, p. 9.

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– nietzschianamente – l’unicità compatta della ragione e del mondo e si


tende a forme di pensiero plurali e incomponibili.
Nell’insieme, la cifra caratteristica della filosofia di questo periodo
si riduce all’abbandono da parte di rilevanti settori della dimensione sto-
rico-politica in precedenza onnipervasiva. Ciò avviene secondo due
traiettorie divergenti. La prima porta a un accresciuto bisogno di meta-
fisica o di valori assoluti, cercati cioè al di fuori di qualsiasi logica in-
terna degli eventi. La sua espressione più estrema è rappresentata dal
neo-eleatismo, negazione frontale della storia e del «divenire» a bene-
ficio di un’eternità e immutabilità dell’«essere». Si tenta di arrestare
l’avanzata del «nichilismo», che sgretola tanto le idee che sostengono il
pensare quanto le norme che guidano la condotta, mediante il ristabili-
mento di categorie e valori forti (o trascendenti, nel caso della filosofia
cattolica), sottratti al mutamento.
La seconda conduce a rinunciare alle pretese di verità garantite da
un determinato telos della storia a beneficio della rivendicazione di realtà
multiple, prive di un’unica «spina dorsale» che le sostiene. Alla presunta
forza delle cose, che agirebbe attraverso la storia, si sostituisce l’ab-
bandono all’imprevedibilità e alla sorpresa dell’accadere. Si scopre il gu-
sto del casuale, dell’effimero, lasciando che i concetti solidi e univoci –
ai quali di preferenza ci si rivolgeva nel periodo precedente – vacillino
e si distribuiscano in una varietà mobile di significati. I «fondamenti»
del sapere e le «basi» della morale, dichiarati insondabili, vengono ora
considerati amuleti per esorcizzare l’incertezza, mentre i progetti di
emancipazione dell’umanità appaiono fiabe per consolare gli adulti. En-
trano nel linguaggio comune espressioni e concetti che si degradano in
facili slogan: «differenza», «postmoderno», «nichilismo», «decostru-
zionismo», «simulacri», «crisi della ragione», «pensiero debole». Si scin-
de comunque, in entrambe le prospettive, la struttura della storia, dia-
letticamente intesa quale divenire mediante contraddizioni. Da un lato
vi è chi, come Emanuele Severino, nega l’esistenza stessa del divenire,
considerando un’assurdità logica l’oscillazione tra l’essere e il nulla;
dall’altro chi, come Gianni Vattimo, ne accentua invece, al suo interno,
l’elemento di caducità che colpisce tutti gli esseri.
Nel suo peculiare isolamento spicca la filosofia contro-intuitiva di
Severino, che dal saggio Ritornare a Parmenide (1964) fino a oggi ha com-
piuto un percorso lungo e coerente incardinato sull’insistente invito a
ridestarsi alla verità dell’essere e ad abbandonare «la follia del diveni-
re» che ha colpito l’Occidente. Rinunciando all’ibernazione del pensie-
ro, ponendo fine al «lungo inverno della ragione» che domina la filoso-
fia sin dal periodo immediatamente successivo all’eleatismo, ci si potrà

Storia d’Italia Einaudi


R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 81

nuovamente rendere conto dell’incontrovertibile verità per cui «se l’es-


sere (di ogni e di tutto l’essere) non si può pensare che non sia, allora
dell’essere (di ogni, di tutto l’essere) non si può pensare che divenga,
perché, divenendo, non sarebbe – non sarebbe cioè prima del suo na-
scimento e della sua corruzione. Sì che tutto l’essere è immutabile. Non
esce dal nulla e non ritorna nel nulla. È eterno»128.
La storia dell’Occidente è allora certo, heideggerianamente, oblio
dell’Essere, ma nel senso di averne dimenticato l’indistruttibilità. Il di-
venire – di per sé essenzialmente impensabile – non esiste. Gli enti non
mutano, non nascono e non muoiono: semplicemente, pur restando sem-
pre nell’orizzonte dell’essere, escono ciclicamente dal campo di visibi-
lità dell’apparire. Prendono provvisoriamente congedo per ritornare
(l’apparire, dunque, non è nel tempo, ma il tempo è nell’apparire). Il no-
stro destino di «abitatori del tempo» ci induce tuttavia a fermare quel-
lo stesso divenire che pure abbiamo inventato, ma di cui abbiamo pau-
ra. Per questo immaginiamo degli «immutabili» (enti fabbricati dalla
scienza o dalla religione, come le leggi fisiche o il dio cristiano) quali an-
core di salvezza dinanzi alla caducità e alla morte, ricorrendo, in ma-
niera apparentemente paradossale, anche alla tecnica. Questa massima
espressione della «volontà di potenza», con la sua forza stravolgente e
le sue «innovazioni», consente infatti la padronanza dei processi, al prez-
zo però della «distruzione e negazione degli immutabili». Lo sbocco di
questi due atteggiamenti complementari di innalzamento e abbattimento
di simulacri di eternità non è altro che il nichilismo. Dal «destino» che
esso ci prepara non si esce grazie a un qualche «superamento» dialetti-
co della situazione attuale, ma solo volgendo decisamente le spalle alla
fede nel divenire. Per ritrovare l’essere in tutta la sua salda perennità,
inconsumabile pienezza e infinita potenza, dobbiamo tornare all’origi-
ne, a Parmenide, sventando retroattivamente il «parricidio» che Plato-
ne aveva perpetrato ai suoi danni.

128 e. severino, Poscritto a Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo (1972), nuova edi-
zione ampliata, Milano 1995, p. 63. L’articolo Ritornare a Parmenide venne pubblicato da Severi-
no in «Rivista di filosofia neoscolastica», LVI (1964), pp. 138-75, in serrata con il suo maestro del-
la Cattolica Gustavo Bontadini. La ricerca è poi proseguita attraverso la focalizzazione successiva
di altri aspetti del problema fondamentale con L’essenza del nichilismo (1972); Techne. Le radici del-
la violenza (1979), Il destino della necessità (1980), sino alle ultime opere Il nulla e la poesia. Alla fi-
ne dell’età della tecnica: Leopardi (1990), Oltre il linguaggio (1992), Heidegger e la metafisica (1994).
In parte come Severino, anche Giorgio Colli propone nello stesso periodo un ritorno alle radici del
pensiero occidentale, ai «sapienti greci» che precedono Socrate e Platone; cfr. La sapienza greca, 3
voll., Milano 1977-80, e La nascita della filosofia, Milano 1975, dove si presenta la forma dell’enig-
ma come sfida all’intelligenza, negazione della volontà di dare fondo all’universo, presenza di un
insondabile, inesauribile e ambiguo fondo oscuro, analogo a quello della tragedia.

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82 R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana

Rispetto allo storicismo, il cambiamento di prospettiva, ma anche


l’ansia di radicamento, non potrebbero essere maggiori.

c) Ermeneutica e caducità.
Confrontandosi con Nietzsche e Heidegger, Vattimo giunge a con-
clusioni diametralmente opposte a quelle di Severino, ma ugualmente
lontane dallo storicismo. Dal suo maestro, Luigi Pareyson (che aveva in-
segnato a gettare lo sguardo negli abissi della libertà e del male spalan-
cati dal moderno nichilismo), trae dapprima l’interesse per l’ermeneu-
tica e il linguaggio del mito inteso quale strumento di espressione
dell’ineffabile129. Ma la sua sensibilità e il suo stile sono ben presto se-
gnati da un’esperienza extra filosofica: assieme a Umberto Eco e a Fu-
rio Colombo (gli altri «ragazzi della via Po»), viene infatti a precoce, di-
retto contatto con i moderni mezzi di comunicazione di massa. Lavora
infatti per qualche tempo nella neonata televisione italiana, sensibiliz-
zandosi ai problemi dei media e, più in generale, di quella che si sareb-
be in seguito chiamata cultura del «postmoderno». Rientrato nell’am-
bito accademico, sviluppa autonomamente il suo pensiero dialogando
con alcuni filosofi stranieri di cui promuove in Italia la conoscenza. Si
tratta, in particolare, di autori (come Hans-Georg Gadamer, Jacques
Derrida e Richard Rorty) che possono considerarsi rami eterodossi spun-
tati dal ceppo di Heidegger.
Dopo aver inizialmente cercato di ottenere attraverso Nietzsche quel-
la «disalienazione» che era anche l’obiettivo del marxismo umanistico,
Vattimo riconosce infine – sempre più chiaramente, dalla fine degli an-
ni settanta – il fallimento di ogni progetto di riappropriazione della sto-
ria da parte della soggettività «autentica». I disperati sforzi di Benja-
min, Adorno e Bloch per riformare la dialettica, rendendo aleatoria la
conciliazione o mettendo addirittura in forse il superamento delle con-
traddizioni, lo confermano nella convinzione che essi «non sono pensa-
tori della dialettica, ma della sua dissoluzione»130. L’heideggeriana

129 Quali testimonianze dell’atteggiamento tragico di Luigi Pareyson, per cui la filosofia è
fichtianamente legata all’uomo che si è, si vedano tra le ultime opere il magnifico testo Lo stupore
della ragione in Schelling, in Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Milano 1979; Esi-
stenza e persona, Genova 1985; Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino 1995. Per l’ela-
borazione di questi temi di origine pareysoniana, cfr. anche s. givone, Storia del nulla, Bari-Roma
1995.
130 g. vattimo, Dialettica, differenza, pensiero debole, in aa.vv., Il pensiero debole cit., p. 17.
Sulle vicende della filosofia italiana in questo periodo, cfr. g. borradori (a cura di), Recoding Me-
taphysics. The New Italian Philosophy, Evanston (Ill.) 1988 e, in chiave polemica, c.a. viano, Va’

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Verwindung131 viene così contrapposta alla hegeliana Aufhebung, come


constatazione dell’inesistenza nel corso storico di processi sempre cu-
mulativi di avanzamento e formula di commiato dalle idee e dai valori
forti della modernità: «Il post di postmoderno indica infatti una presa
di congedo dalla modernità», in quanto volontà «di sottrarsi alle sue lo-
giche di sviluppo, e cioè anzitutto all’idea del “superamento” critico nel-
la direzione di una nuova fondazione». Se dunque anche il fondamen-
to (Grund), ossia l’«essere» in quanto fundamentum inconcussum della
metafisica, risulta implausibile, allora ogni ente sprofonda nella finale
mancanza di fondamento, nell’abisso (Abgrund) o, meglio, nello «sfon-
damento». Il guadagno consiste nel fatto che i solidi concetti e gli asso-
luti valori della metafisica, ora depotenziati e alleggeriti, smettono di
imporsi tirannicamente, lasciando peraltro sfumare la differenza tra ve-
rità e finzione.
Il «rotolare» delle categorie della metafisica verso il nichilismo pro-
duce così un aumento del potenziale emancipativo, in quanto la rinuncia
dei valori forti a valere assolutamente dischiude ampi ventagli di libertà.
Parlando alla recente storia italiana, Vattimo giunge a sostenere che non
serve a nulla opporsi al processo di irreversibile svalutazione dei valori
assoluti, andando controcorrente per paura e disperazione: «direi per-
sino che tutta l’epoca del terrorismo si può spiegare come una reazione
nevrotica di fronte agli orizzonti del nichilismo. Cioè a un certo momen-
to è parso che tutto questo fosse troppo; e allora diventa comprensibile
una specie di ritorno alle strutture forti, paternità, disciplina»132.
Nel volume collettivo Il pensiero debole, da lui curato assieme a Pier
Aldo Rovatti, viene di conseguenza combattuto l’obiettivo di salvare il
potere di sintesi e l’autorità «solare» della ragione: «la razionalità de-
ve, al proprio interno, depotenziarsi, cedere terreno, non avere timore
di indietreggiare verso la supposta zona d’ombra, non restare paraliz-
zata dalla perdita del riferimento luminoso, unico e stabile, cartesia-
no»133. La nietzschiana «morte di Dio» implica il tramonto di ogni va-

pensiero. Il carattere della filosofia italiana contemporanea, Torino 1985, e p. rossi, Paragone degli in-
gegni moderni e postmoderni, Bologna 1989; bedeschi, La parabola del marxismo in Italia cit., e c.
sini e m. mocchi, Problemi teorici della ricerca filosofica in Italia, in [l. geymonat], Storia del pen-
siero filosofico e scientifico, IV. Il Novecento, Milano 1996, 9 voll., pp. 159-213.
131 Questo termine definisce l’«accettazione rassegnata (ma anche ri-segnata, marcata di un
nuovo segno), convalescente, segnata dalla dis-torsione, dalle erranze della metafisica» (cfr. g. vat-
timo, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna, Milano 1985,
p. 186).
132 Ibid., pp. 10-11, 153.
133 p.a. rovatti, Premessa, in aa.vv., Il pensiero debole cit., p. 10.

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lore permanente e di ogni verità assoluta, di cui l’uomo si impadroni-


rebbe per mezzo di un sapere fondato. La verità diventa «capacità re-
torica di persuasione», che si richiama al rispetto e all’amore per la ca-
ducità delle tradizioni a cui tutti apparteniamo. L’«ontologia del decli-
no» impone in tal modo la rinuncia alle pretese fondative, ma anche al
ritorno all’origine o ai principî primi. Occorre guardare in avanti, sen-
za eccessive illusioni, ma anche con minori condizionamenti. Il crollo
degli «immutabili» non cancella però, secondo Vattimo, le categorie del-
la metafisica da Platone a Nietzsche, che rimangono piuttosto come trac-
ce indelebili di un cammino tuttora senza alternative. Per quanto inde-
bolite, esse sono infatti irrinunciabili. Bisogna anzi rammemorarle e di-
mostrare, nei loro confronti, una pietas analoga a quella che si manifesta
verso qualsiasi essere finito, che si consuma e muore: «Pietas è un ter-
mine che evoca anzitutto la mortalità, la finitezza e la caducità: l’esse-
re non è ma ac-cade; forse anche nel senso che cade-presso, che accom-
pagna in quanto caducità ogni nostra rappresentazione»134.
Nella riflessione di Vattimo, spesso disincantata, si affaccia una ve-
natura di sottile malinconia, di laicizzata religiosità, di «credere di cre-
dere», che ruota attorno a una pacata meditazione sulla morte, luogo
dove «sono collocati i valori: l’esperienza di vita delle generazioni pas-
sate, i grandi e belli del passato con cui vogliamo stare a dialogare, le
persone che abbiamo amato e che sono scomparse. Lo stesso linguaggio,
in quanto cristallizzazione di atti di parola, di modi di esperienza, è col-
locato nello scrigno della morte. Quello scrigno è anche, in fondo, la
fonte delle precise regole che ci possono aiutare a muoverci in modo non
caotico e disordinato nell’esistenza, pur sapendo che non siamo diretti
in nessun luogo»135.
Dato che la storia, non possiede più attendibili punti di riferimento,
l’esperienza individuale tende a de-storicizzarsi, ad appiattire ogni even-
to sul piano di una contemporaneità priva di spessore. Non ci si riap-
propria intimamente più di nulla, non si revoca più alcuna alienazione.
Semmai ci si serve del nichilismo come di una chance per compiere il
decisivo «salto nell’abisso della mortalità». Alla storia come chiave di
spiegazione si sostituisce l’ermeneutica, che rappresenta la «forma del-
la dissoluzione dell’essere nell’epoca della metafisica compiuta»136. Essa

134 vattimo, Dialettica, differenza, pensiero debole cit., p. 22.


135 id., Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica, Milano 1981, pp. 10-11, e
cfr. id., Credere di credere, Milano 1996.
136 id., Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica, pp. 18, 128-29, 164.

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R. Bodei - L’«ethos» dell’Italia repubblicana 85

mostra oggi la molteplicità irriducibile e incommensurabile delle idee,


delle opinioni e degli eventi con cui la realtà si presenta nell’epoca del-
la «fabulizzazione» del mondo operata dai media. Può darsi che questi
abbassino provvisoriamente il livello intellettuale e morale delle società
in cui penetrano. Hanno però il vantaggio di squadernare delle diffe-
renze, di rendere udibili le voci prima soffocate, di stimolare il prota-
gonismo degli esclusi di un tempo:
Caduta l’idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunica-
zione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità «locali» – mino-
ranze etniche, sessuali, religiose, culturali o estetiche – che prendono la parola, fi-
nalmente non più tacitate e represse dall’idea che ci sia una sola forma di umanità
vera da realizzare, a scapito di tutte le peculiarità, di tutte le individualità limitate,
effimere, contingenti.

I mezzi di comunicazione di massa permettono così un genere di


emancipazione costruito non «sull’autocoscienza tutta spiegata, sulla
perfetta consapevolezza di come stanno le cose», quanto piuttosto
sull’«erosione dello stesso “principio di realtà”»137.

Le filosofie, che ho trattato alla fine, non rappresentano il corona-


mento di un processo. Costituiscono però l’espressione di un mondo
in cui la perdita delle tradizioni, l’incontro appena avviato tra le gran-
di culture del pianeta in presenza di simultanei processi di globalizza-
zione e di frammentazione, l’impatto delle telecomunicazioni e dei
nuovi modi di produrre obbligano a rivedere gli scenari e gli strumen-
ti del nostro pensiero. Il filosofare in un «mondo che si restringe» en-
tro nuovi campi di tensione non è meno difficile del filosofare in un
mondo diviso138.

137 id., La società trasparente, Milano 1989, pp. 15, 17.


138 Mi riferisco al titolo del libro di g. elfstrom, Ethics for a Shrinking World, London 1990.
Per gli sviluppi più recenti della filosofia, rimando al mio La filosofia nel Novecento, Roma 1997,
pp. 170-88.
Ringrazio Marco Revelli e Paolo Pezzino per aver letto questo saggio quasi terminato e per
avermi offerto alcune preziose indicazioni.

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