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Sommario
1. Premesse e chiarimenti 3
2. La scelta solitaria 6
3. Ethos e sentimenti del dopoguerra 17
4. Territori dell’immaginario 24
5. Filosofare in un mondo diviso 35
6. Tra casa e società 48
7. I giovani e il principio di irrealtà 53
8. Krisis 60
9. Come si corruppe e morì il «partito etico» 67
10. Radici 77
Da: Storia dell’Italia repubblicana, vol. 3, L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo venten-
nio, 2. Istituzioni, politiche, culture, Giulio Einaudi Editore, Torino 1997.
1. Premesse e chiarimenti.
1 Cfr. r. bodei, Un paradigma «fin de siècle»: dividere e contrapporre, in aa. vv., L’età del divi-
sionismo, Milano 1990, pp. 137-53.
2. La scelta solitaria.
a) Davanti a se stessi.
Le radici immediate dell’ethos dell’Italia repubblicana possono sim-
bolicamente farsi risalire alle «cinque giornate» che, nel corso di un so-
lo lustro, hanno mutato il volto dell’Italia e segnato l’esperienza e la me-
moria storica degli italiani: 25 luglio 1943; 8 settembre 1943; 25 aprile
1945; 2 giugno 1946; 1º gennaio 1948. La data decisiva, tuttavia, è in-
dubbiamente quella dell’8 settembre del 1943, il momento in cui le isti-
tuzioni statali mostrano la loro intrinseca fragilità, frantumandosi o sem-
plicemente dissolvendosi, quasi per evaporazione. È questa l’ora in cui
si disarticola e si scinde il sistema di lealtà plurime e di «convergenze
sentimentali» che in precedenza avevano operato, per molti, in manie-
ra sufficientemente integrata: affetto per la propria famiglia e devozio-
ne per la dinastia dei Savoia, fedeltà allo Stato e adesione al Partito na-
zionale fascista. Ma è anche la pietra di paragone per l’attitudine etica
degli italiani dinanzi a improvvisi sconvolgimenti.
L’8 settembre del 1943, dopo l’«inganno reciproco» tra il governo
Badoglio e gli Alleati, vengono meno tutti i punti di riferimento uffi-
ciali. Rottosi il monopolio della forza legittima, incarnato dallo Stato,
gli italiani si trovano disperatamente soli a prendere su di sé il peso di
decisioni che non avrebbero mai creduto di dover sostenere. Vengono
2 c. pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza italiana, Torino 1991,
p. 23. Sui presupposti dell’8 settembre cfr. e. aga-rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio ita-
liano del settembre 1943, Bologna 1993; id., L’inganno reciproco. L’armistizio tra l’Italia e gli An-
gloamericani del settembre 1943, Roma 1993.
vare nei loro cuori generosi la forza di accettare questo immenso sacri-
ficio (…) Non era questa la via immaginata. Ma questa via dobbiamo
prendere ora senza esitare, perché ciò che conta nella storia dei popoli
non sono i sogni e le speranze e le negazioni della realtà, ma la coscien-
za del dovere compiuto fino in fondo, costi quel che costi»5. Non è quin-
di giusto parlare dell’8 settembre semplicemente come di una data in-
fausta, che segna l’ora della «morte della patria»6 (a cui il 25 aprile del
1945 non avrebbe offerto alcuna resurrezione). Questo perché, da un
lato, la «patria» di tutti era già stata identificata dal fascismo con una
parte degli italiani, dall’altro perché è stato lo stesso provvisorio vuoto
istituzionale, nello stabilire un’accentuata discontinuità con il passato,
a permettere la riorganizzazione della convivenza civile in un regime de-
mocratico. Tale riorganizzazione avviene certo in forma frastagliata e
composita, in quanto alla «guerra per bande» della Resistenza nel Nord
corrisponde la scarsa legittimità delle forze istituzionali e politiche nel
Sud (il che non favorisce la compattezza e l’omogeneità delle classi di-
rigenti del dopoguerra).
7 Cfr. anche g. gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, Firenze 1937, pp. 158-59.
8 id., Origine e dottrina del fascismo, Roma 1934, p. 47.
Da ciò discende la coincidenza tra autorità e libertà e l’assioma per cui ob-
bedendo all’autorità si incrementa e si esalta la propria libertà: «l’auto-
rità non deve recidere la libertà, né la libertà pretendere di fare a meno
dell’autorità. Perché nessuno dei due termini può stare senza l’altro»14.
Tale proclamata identità di particolare e di universale, di libertà e di
autorità, risulta, alla fine, dubbia. La natura dello Stato etico implica,
infatti, che non venga concessa all’Io alcuna reale autonomia dallo Sta-
to. Nella terminologia di Macpherson, Gentile nega cioè alla radice l’«in-
dividualismo proprietario», l’idea di un soggetto isolato dai suoi simili
e padrone di se stesso: non esiste alcun individuo atomisticamente in-
teso, né alcuna società che formi un ambiente estraneo all’individuo.
Famiglia, scuola e Stato fungono già, in potenza, da agenti principali
della socializzazione dell’individuo, quelli che rendono effettiva o, in al-
cuni casi, fanno giungere a consapevolezza l’appartenenza dell’Io al Noi.
L’unica autonomia che spetta al singolo è quella di realizzarsi nella
comunità, fondendosi misticamente con essa, nel culmine dell’autorea-
lizzazione, mediante il sacrificio della propria vita. L’eternità promessa
al singolo dallo Stato etico non implica però la permanenza perpetua
dell’anima in un altro mondo secondo i dogmi di alcune religioni. Mo-
rire è staccarsi dalla propria immediata particolarità e, al livello più al-
to, negare se stessi a favore della totalità sociale. Per questo è necessa-
rio «immortalarsi, non restare attaccati a se stessi come l’ostrica allo sco-
glio»15. Così tuttavia l’autorità finisce per soffocare la libertà, il Noi per
stritolare l’Io. Tutto viene avocato, teoricamente, verso l’alto, verso la
maestà dello Stato e (in quanto il lato empirico della politica risulta ri-
conosciuto teoricamente) verso chi, di volta in volta, lo rappresenta. In
ciò la dottrina di Gentile coincide con l’etica diffusa dal fascismo, che
invitava ciascun cittadino all’abnegazione e al sacrificio di se stesso.
c) La coscienza inquieta.
Di fronte all’incalzare degli eventi e alla dissoluzione dello Stato eti-
co, tra il 1942 e il 1944, il bisogno di salvaguardare la coscienza indivi-
una corrente ci trascina e noi le siamo abbandonati. È la corrente della comune leg-
gerezza e noi le siamo abbandonati: il nostro peso si sgrava sulla compagnia e si an-
nulla nel movimento. Ma, talvolta, un impedimento arrestandoci (morte, malattia,
fallimento) ci accorgiamo di colpo di essere isolati, di essere soli (…) Un’inquietu-
dine si scopre allora che covava sotto la scorza del nostro vivere più facile, e che, ci
accorgiamo, era sempre presente, ma di tanto avvertita quanto bastava per fuggir-
la (…) Quell’inquietudine dal profondo era un appello del nostro essere alla propria
consistenza; ora essa ci avverte che siamo soli, e che quello che non abbiamo volu-
to di volontà nostra ci viene imposto dalle circostanze17.
Chi affronta con serietà il proprio compito non può sfuggire alle cir-
costanze. Deve sforzarsi di vincere i condizionamenti e gli impedimen-
ti che incontra per via, riconoscendone sobriamente la natura e la du-
rezza, senza pensare di poterli superare con la pura forza della volontà,
la sconsiderata esaltazione o la fatua incoscienza.
Il bisogno di sottrarsi alla tutela dello Stato etico si accompagna tut-
tavia in molti a quello, complementare, di abbandonare la campana di ve-
tro della coscienza solitaria. Il rimedio è trovato nell’azione, nell’impegno
politico e sociale, che esenta finalmente il pensiero dalle contorte rumi-
nazioni e dall’inconcludente fantasticare. I filosofi scoprono ora comunità
che non coincidono né con lo Stato, né con il partito unico. Alcuni par-
tecipano, in gruppi civili o militari, clandestini o ufficiali, all’attività po-
litica e alla guerra. Combattono battaglie vere contro un nemico in carne
ed ossa, ben diverso dagli idoli polemici affrontati nei Littoriali della cul-
tura o sulle pagine delle riviste. Si trovano, per di più, a operare e a pen-
sare privi dell’illusoria protezione promessa della storia ufficiale, quella
che sino a poco tempo prima aveva garantito l’immancabile vittoria
dell’Italia imperiale. La storia appare attualmente sospinta da un irresi-
stibile vento di tempesta: «Ci sono moti turbinanti come trombe marine,
di cui non si può non interessarsi, perché a un certo momento strappano
l’individuo dal suo tavolo e lo trascinano in aria». Non vi è pertanto più
spazio per le tormente private dell’anima, in quanto, «posta di fronte a
problemi vitali, l’ultima generazione non ha tempo di costruirsi il dram-
ma interiore: ha trovato un dramma esteriore perfettamente costruito»18.
17 c. luporini, Situazione e libertà nell’esistenza umana, Firenze (dicembre) 1942, pp. 4-5. Se
si avverte distintamente l’eco delle posizioni dello Heidegger di Essere e tempo (in particolare dei
paragrafi 54 e sgg.), manca però in Luporini ogni volontà di «essere-per-la-morte» in senso sacri-
ficale, quale invece sarà riaffermata da Heidegger nel 1944 – quando il regime nazionalsocialista
volgeva alla fine e arruolava nell’esercito anche gli adolescenti – nella forma dell’offerta della pro-
pria vita per la patria. Cfr. c. luporini, Con Heidegger 1931-1993. Alcune riflessioni, oggi, tra filo-
sofia e politica, in aa.vv., Heidegger in discussione, Milano 1992, pp. 25-49, e s. poggi, La finitezza
e la filosofia dell’esistenza, in aa.vv., Il pensiero di Cesare Luporini, Milano 1996, pp. 76-91.
18 g. pintor, Doppio diario 1936-1943, Torino 1978, p. 52 (lettera del 26 gennaio 1939); id.,
Il nuovo romanticismo, in «Il Primato», II (15 agosto 1941), n. 16.
Il mondo reclama quei diritti che, nella sua pretesa di assolutezza me-
tastorica, la coscienza appena sfuggita alle seduzioni dello Stato etico gli
aveva negato. È urgente riconoscerli, riabbassando l’orgoglio dell’indi-
viduo e spezzando il suo immaginario legame con l’eterno assicurato dal-
le categorie della metafisica. Occorre mostrare la verità e la priorità del
mondo storico, ossia di ciò che è mutevole e caduco, rispetto a chi pre-
sume di sottrarsi alle modificazioni del tempo rimanendo identico a se
stesso. Lo ricorda nel 1944 Arturo Massolo, scrivendo – durante i bom-
bardamenti di Livorno, sotto il duplice segno di Gentile e di Heidegger
– che «il singolo non è mai un’aurora; egli si muove in un mondo già ap-
parso il cui essere gli è nascosto». Ciò lo proietta verso l’angosciosa in-
certezza del futuro, in un mondo di apparenze che lo allontana da se
stesso: «Psicologicamente, questa è la nostra pena, il non sentirci ap-
pieno in nostro possesso. Dacché viviamo, viviamo da noi stessi lonta-
no»19. Il rimedio alla crisi del presente si può rinvenire soltanto nella
consapevolezza che la storia è un campo di incertezze dove gli ideali
avanzano rischiosamente, ma hanno più probabilità di successo se colo-
ro che li sostengono si organizzino in associazioni politiche capaci di far
raggiungere alle loro convinzioni una sufficiente massa critica.
La societas ha così definitivamente perduto il suo fulcro archimedeo
in interiore homine20.
23 Per la sottolineatura delle «spinte centrifughe» all’interno della società italiana che metto-
no duramente alla prova la capacità dei partiti politici di controllare efficacemente i propri iscrit-
ti e ne accrescono la funzione educatrice e propagandistica, cfr. p. pezzino, Identità deboli e parti-
ti forti. Le radici storiche della crisi italiana, in «Storica», 1996, n. 6, pp. 55-95, in particolare pp.
77 sgg.
so di tutte le loro aspettative nella direzione dei partiti, nella forma, ap-
punto, di un trasferimento massiccio di lealtà dal tutto alla parte. La ri-
levanza etica di cui i partiti di massa si caricano e che favorisce la con-
fusione dei loro compiti con quelli dello Stato (da sottolineare è per que-
sto la loro inconsapevole mimesi del Partito nazionale fascista, l’unico
partito «moderno» direttamente conosciuto) contiene un interno peri-
colo. Pone infatti le premesse sia della successiva degenerazione «parti-
tocratica», sia, in prospettiva, della morte degli stessi «partiti etici», al-
lorché saranno privati della loro aureola e di parte delle loro funzioni.
Identificandosi con lo stato, quando sono al potere, o con l’interesse ge-
nerale tradito, quando sono all’opposizione, finiscono per indebolire
l’immagine e le prerogative delle istituzioni super partes.
Con l’inizio della guerra fredda anche i valori fondamentali vengo-
no suddivisi fra i contendenti che si arrogano la rappresentanza dell’uno
contro l’altro, dimodoché l’anticomunismo paralizza e rende sospetti i
tentativi di giustizia ed eguaglianza sociali, mentre, simmetricamente,
l’anticapitalismo e l’antiamericanismo rendono sospetti i diritti degli in-
dividui e la libertà, considerati fragili gusci di una effettiva violenza di
classe. Lo scontro ideale e ideologico ottunde talvolta il senso di parte-
cipazione a una vicenda comune e porta alla delegittimazione incrocia-
ta di ogni schieramento, anche se poi induce milioni di cittadini ad ac-
cettare la politica come confronto appassionato di opinioni contrastan-
ti. Di fronte alla lealtà nazionale e internazionale divisa fra amore per
la patria e sentimento di appartenenza a movimenti politici operanti su
scala mondiale, la politica diventa così lotta tra «agenzie etiche» con-
trapposte.
Inizia la spartizione del potere: ai democristiani viene lasciato in ere-
dità lo stato, la continuità degli apparati, nonché la difesa della famiglia
(e, dunque, le principali strutture dell’oikos e della polis). Alle sinistre
tocca il controllo del consenso culturale e una relativa egemonia all’in-
terno della società civile (un’egemonia da non sopravvalutare, come si
è fatto di recente, dimenticando l’enorme forza di penetrazione nei ce-
ti popolari e nella classe media della cultura e della sensibilità cattolica).
Mentre la prospettiva della Democrazia cristiana, in quanto partito in-
terclassista, è quella della politica come «servizio» e la sua aspirazione
pratica è di entrare in tutte le pieghe della società e di somigliarle, il Pci
vuole essere invece un «partito operaio e di combattimento (…) un par-
tito di massa con la qualità di un partito di quadri»24.
24 m. flores e n. gallerano, Sul PCI. Un’interpretazione storica, Bologna 1992, pp. 138-39.
25 Questi eventi riecheggiano, peraltro, una reale guerra delle campane tra un sindaco e un
parroco a Correggio, cfr. m. boneschi, Poveri ma belli. I nostri anni cinquanta, Milano 1995, pp.
63-64.
26 b. fenoglio, Il partigiano Johnny, Torino 1968, pp. 39-40, e si veda, ad esempio, d. mon-
taldi, Militanti politici di base, Torino 1971.
c) Trovare un ponte.
Nel primo dopoguerra, la lunga assenza dall’Italia dei fuoriusciti po-
litici, se da un lato consente uno sguardo dall’esterno, sprovincializzan-
te, dall’altro nasconde molte delle trasformazioni introdotte dal tra-
scorrere del tempo e dal regime fascista. Pur con qualche sfasatura, do-
vuta allo sforzo di sovrapporre fotogrammi discontinui della società, i
maggiori politici che ritornano dall’esilio si inseriscono tuttavia abba-
stanza bene nella situazione nuova. Solo pochi si dividono tra il desi-
derio di ritornare al regime liberale prefascista e la fuga in avanti verso
modelli rivoluzionari astratti.
Con l’uscita dalla guerra e dai campi di concentramento, con il rien-
tro dei reduci dalla Germania, dagli Stati Uniti, dal Kenya o dall’Unio-
ne Sovietica e con l’arrivo dei profughi dall’Istria e dalla Dalmazia, con
la difficile integrazione di chi ha vissuto lontano da casa e la deludente
accoglienza da parte di chi non si è mosso, gli italiani cercano di trova-
re nuovi equilibri e forme di convivenza. Vengono però attratti in altri
campi di tensione interna e internazionale, per quanto meno gravi o più
remoti. Oltre alle ferite lasciate dalla guerra, vi è anche una specie di
continuazione della politica con altri mezzi: tra l’aprile e il luglio del
1945 risultano uccise – per ragioni politiche a cui si mescolano violen-
za comune e vendette private – oltre diecimila persone (su questo tema
Guareschi disegna sul «Candido» una serie di vignette intitolate Via
Emilia)27.
L’attesa di un futuro migliore e il bisogno di normalità si intreccia-
no con paure e speranze inedite e complementari. Dopo Hiroshima e
Nagasaki e, soprattutto, dopo l’acquisizione dell’arma atomica da par-
te dei russi, si sviluppa l’incubo di un olocausto provocato da una guer-
ra tra le due «superpotenze» uscite dagli accordi di Yalta e di Potsdam.
Ogni fenomeno appare inoltre bifronte: l’avvento del socialismo, au-
spicato da alcuni come fattore di giustizia, viene paventato da altri qua-
le furto della proprietà; l’arrivo di derrate alimentari e dollari america-
ni si presenta o come un processo di asservimento o come generoso aiu-
to per liberare l’Italia e l’Europa occidentale dalla miseria. Il timore del
comunismo (soprattutto tra i contadini, i piccoli proprietari e la bor-
ghesia, più diffuso nel Centro-sud che nel Nord) e quello della reazione
convivono così anche quale inquietante proiezione dell’ombra lunga dei
rispettivi stati-guardiani. Alle trepidazioni dell’aldiqua si somma, nei
28 s. lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni novanta, Venezia
1992, pp. 2 sgg.
29 p. calamandrei, Chiarezza nella Costituzione (1947), in Scritti e discorsi politici, Firenze
1966, vol. II, pp. 30-31.
30 Cfr. a.m. imbriani, Vento del Sud. Moderati, reazionari e qualunquisti (1943-1948), Bologna
1996, pp. 15 sgg.
4. Territori dell’immaginario.
31 p. calamandrei, Cenni introduttivi sulla Costituente e sui suoi lavori, in Commentario siste-
matico della Costituzione italiana, a cura di P. Calamandrei e A. Levi, Firenze 1950, vol. I, p. xxxv.
32 Cfr. c. donolo, Social Change and Transformation of the State in Italy, in aa.vv., The State
in Western Europe, London 1980, p. 165.
33 «Il ritorno alla democrazia implica il recupero da parte dei cittadini di un esercizio di in-
telligenza e di moralità nella vita pubblica, presuppone riserve etiche che i regimi totalitari hanno
consumato, non accresciuto» (p. scoppola, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia
in Italia, Bologna 1991, p. 424).
34 Per questa fase cfr. f. barbagallo, La formazione dell’Italia democratica, in aa.vv., Storia
dell’Italia repubblicana, vol. I, Torino 1994, pp. 5-128.
35 Ho trattato in maniera più ampia e analitica questo problema, ma da un altro punto di vi-
sta, in Il rosso, il nero, il grigio. Il colore delle moderne passioni politiche, in Storia delle passioni, a cu-
ra di S. Vegetti Finzi, Roma-Bari 1995, pp. 315-55. Da vedere, per certi aspetti, e. di nolfo, Le
speranze e le paure degli italiani (1943-1963), Milano 1986.
za. Da qui quella che è apparsa come «doppiezza» psicologica di una so-
la persona: Togliatti36.
In diametrale opposizione (di nuovo, soprattutto, nel periodo dell’im-
mediato dopoguerra e con un picco negli anni sessanta-settanta) si si-
tuano le «passioni nere», quelle ereditate dal fascismo in genere e, per
l’Italia del Nord, anche dalla sua versione estrema. Esse invitano ora al-
la ribellione verso l’esistente, verso una democrazia imbelle, priva di va-
lori intrinseci, schiava degli stranieri e dei comunisti. Rispetto allo slan-
cio universalistico di quelle «rosse», le «passioni nere» possono appari-
re meno «astratte», ossia meno concettualizzabili. Si esprimono meglio
in forma di miti, di sistemi di immagini e di simboli. Nemiche dell’in-
dividualismo e sospettose nei confronti della ricerca di una felicità per-
sonale, vengono indirizzate a favore di obiettivi quali il ritorno alla com-
pattezza monolitica della patria o alla restaurazione intransigente dei
suoi interessi e dei suoi «sacri confini». Chi ne è intriso ritiene il con-
flitto condizione permanente della Natura, applicando alla competizio-
ne delle nazioni per il primato un modello di darwinismo politico com-
binato con il ricordo della potenza imperiale di Roma e della missione
civilizzatrice dell’Italia (solo più tardi alcuni gruppi di giovani si rivol-
geranno ai miti e alle simbologie nordiche, all’Europa come patria del-
lo spirito contro gli opposti materialismi dell’America e dell’Unione So-
vietica, o ai romanzi fiabeschi di Tolkien).
Sebbene i neofascisti, nella Repubblica democratica «nata dalla Re-
sistenza», vivano a lungo ai margini della legalità costituzionale e siano
politicamente tollerati come possibile serbatoio di voti, essi non vengo-
no però giudicati, neppure dai loro avversari, come degli «extra terre-
stri». Anche per esperienza personale, molti esponenti della sinistra so-
no consapevoli del fatto che «il fascismo è nato dalle viscere della no-
stra società» (lo dichiara la rivista di intellettuali comunisti «Società»
nell’articolo d’apertura del suo primo numero, nel 1945)37. Giudicando
36 Per un’altra prospettiva, cfr. p. di loreto, Togliatti e la «doppiezza». Il PCI tra democrazia
e insurrezione 1944-1949, Bologna 1991.
37 Giorgio Almirante nel corso del V congresso dell’Msi, del 1956, cerca di superare un equi-
voco: «l’equivoco, cari camerati, è uno e si chiama essere fascisti in democrazia. Noi soli siamo estra-
nei, ed è un titolo di onore ma anche una speventosa difficoltà per questa democrazia, per questa
Italia del dopoguerra. E il nostro coraggio è consistito, nel 1946, nell’inserirsi come Msi, cioè come
partito operante in questa democrazia» (citato da g.e. rusconi, Resistenza e postfascismo, Bologna
1995, p. 193, e cfr. anche, sul tema, m. tarchi, Esuli in patria. I fascisti nella Repubblica italiana, in
aa.vv., Lo straniero interno, a cura di E. Pozzi, Firenze 1993). Estranei sì, anche se – come è stato
osservato per i fascisti – prigionieri della paradossale «abilità di legare sentimenti antisociali alla di-
fesa dell’ordine sociale esistente»: cfr. a. lyttelton, Fascismo e violenza: conflitto sociale e azione
politica in Italia nel primo dopoguerra, in «Storia contemporanea», XIII (1982), p. 983.
38 j. evola, Cavalcare la tigre, Milano 1981, pp. 9-10. Cfr., per posizioni analoghe, id., Rivolta
contro il mondo moderno, Roma 19693, e id., Gli uomini e le rovine, Roma 19672.
moralmente intransigente. Esse sono tipiche, nel migliore dei casi, dei
liberali come Benedetto Croce, di alcuni uomini del Partito d’Azione
(quelli almeno del «partito delle tessere» e non certo quelli del «partito
dei fucili») e degli «eroi borghesi». Scarsamente diffuse in Italia, con-
nesse a valori individualistici di libertà ordinata e di senso dello stato,
fiduciose nella componibilità spontanea o negoziata dei conflitti di in-
teressi, esse respingono il fanatismo e l’estremismo, prediligendo l’effi-
cienza e la normalità. Pongono perciò in primo piano la questione dei
doveri e dei diritti, della coscienziosità, dell’onestà, della professiona-
lità, della serietà e della laboriosità. Si presentano «grigie» e impiegati-
zie, modeste e di routine soltanto a coloro che considerano la democra-
zia un regime orientato dai gusti volgari e dalle opinioni superficiali del-
le folle o retto da potenti lobbies che manipolano il consenso in misura
determinante. Si tratta in effetti di passioni civili non «militarizzate» e
scarsamente mobilitabili a livello di massa, giacché vivono e prospera-
no o nell’impegno d’élite o nella sfera privata.
Vi sono, infine, le «passioni bianche», elaborate e trasformate in
valori dalla Chiesa cattolica nell’arco dei secoli e penetrate in tutti gli
strati della società italiana, assieme a una «saggezza terrena» che si ma-
nifesta nell’accorto esercizio del potere, frutto di una esperienza affi-
nata in quasi duemila anni, capace di conoscere e di sfruttare anche i
vizi e le debolezze degli uomini. Nella Democrazia cristiana e nelle or-
ganizzazioni che l’affiancano (per cui la Chiesa costituisce una risorsa
transpolitica di immenso valore), tali passioni ruotano attorno agli idea-
li della purezza, simbolizzata dal «bianco fiore», dell’amore reciproco
e della solidarietà. La fede religiosa e la congiunta promessa di un pre-
mio celeste alla militanza terrena svolge, almeno all’inizio, un ruolo di
primo piano nel trascinamento di enormi masse verso la politica attiva
e l’impegno civile tanto nella Democrazia cristiana quanto nel collate-
ralismo cattolico (Acli, Fuci, Coltivatori diretti). Ma avvicina alla po-
litica, sia pure solo nel momento del voto, anche milioni di donne, so-
prattutto nel Sud e nel Nord-est del Paese. Oltre a forgiare tendenze
neoguelfe e ad attrarre la borghesia laica in crisi verso quel «totem di
eternità» che è la Chiesa, tale impegno rivaluta i sentimenti arcaici e
le virtù del mondo contadino, della famiglia e dell’obbedienza alle ge-
rarchie ecclesiastiche. In maniera monumentale e spettacolare, queste
passioni e virtù vengono celebrate in occasione dell’Anno Santo del
1950 o dei vari pellegrinaggi e «marce della fede». Sintomatico, in un
simile clima e in termini comparativi, è anche il successo del film ame-
ricano Bernadette, sul miracolo di Lourdes, e di quello spagnolo Mar-
cellino, pane e vino, sul ragazzo allevato dai frati. Per misurare il mu-
39 Cfr. per alcuni aspetti f. de felice, Doppia lealtà e doppio Stato, in «Studi storici», 1989, n. 3.
40 m.l. salvadori, Storia d’Italia e crisi di regime. Alle radici della politica italiana, Bologna
1994, in particolare, pp. 65-66, e cfr., per l’espressione «solidarietà senza nazione», lanaro, Sto-
ria dell’Italia repubblicana cit., pp. 412 sgg.
41 p.p. d’attorre, Sogno americano e miti sovietici nell’Italia contemporanea, in id. (a cura di),
Nemici per la pelle, Milano 1991, p. 27, e cfr. a. lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal
1942 al 1992, Bologna 1993, p. 108. Per l’incidenza del modello americano sulla mentalità e i co-
stumi degli italiani, v. de grazia, La sfida dello «star system»: l’americanismo nella formazione del-
la cultura di massa in Europa, 1920-1965, in «Quaderni storici», n.s., XX (aprile 1985), n. 58, pp.
95-133, ma si veda a questo proposito, anche, aa.vv., America-Europa: la circolazione delle idee, a
cura di T. Bonazzi, Bologna 1976; s. gundle, L’americanizzazione del quotidiano. Televisione e con-
sumismo nell’Italia degli anni Cinquanta, in «Quaderni storici», agosto 1986, n. 62; aa.vv., Imma-
ginari a confronto. I rapporti culturali tra Italia e Stati Uniti: la percezione della realtà tra stereotipo e
mito, a cura di C. Chiarenza, Venezia 1992, e aa.vv., Hollywood in Europe. Experiences of a Cul-
tural Hegemony, a cura di D.W. Ellwood e R. Croes, Amsterdam 1994.
42 a. portelli, L’orsacchiotto e la tigre di carta. Il Rock and Roll arriva in Italia, in «Quaderni sto-
rici», n.s., XX (1985), p. 136, e cfr. anche g. fink e f. minganti, La vita privata italiana sul modello
americano, in ph. ariès e g. duby (a cura di), La vita privata. Il novecento, Milano 1994, pp. 350-89.
43 Cfr. boneschi, Poveri ma belli cit., p. 19.
44 Cfr. u. eco, Il modello americano, in u. eco, g.p. ceserani e b. placido, La riscoperta
dell’America, Roma-Bari 19942, p. 28, e cfr. p. 19: «Il pidgin è un linguaggio da area coloniale, che
fonde in modo disarticolato elementi del linguaggio egemone (nella tradizione dell’antropologia
culturale, l’inglese) coi linguaggi locali, per creare un linguaggio usabile a fini pratici, ma creativa-
mente povero, incapace di riflettere i movimenti del pensiero astratto, e quindi tutto sommato re-
pressivo. La Fiat Topolino rappresenta un modo creativo di rifarsi al modello T di Ford, mentre
l’italoamericano di Sordi non è un’imitazione creativa e autonoma del modello anglosassone».
45 d’attorre, Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea cit., p. 49; d. sas-
soon, Italian Images of Russia, 1945-1956, in aa.vv., Italy in the Cold War. Politics, Culture, and So-
ciety, 1948-1958, Oxford-Washington 1995, pp. 189-202, e, più in generale, m. flores, L’imma-
gine dell’Urss. L’Occidente e la Russia di Stalin (1927-1956), Milano 1990.
46 Cfr. b. croce, La città del Dio Ateo, in «Il Mondo», I (ottobre 1949), n. 34, p. 8. All’av-
vicinarsi delle elezioni del 1948 i muri si riempirono di opposte scritte, come «W Iddio» e «W Sta-
lin», cfr. a. ventrone, La cittadinanza repubblicana. Forma partito e identità nazionale alle origini
della democrazia italiana (1943-1948), Bologna 1996, p. 97.
47 Su questi discorsi di comunisti italiani in relazione al XIX congresso dell’Unione Sovieti-
ca del 1952, quali vengono riportati dalla polizia, cfr. p. di loreto, La difficile transizione. Dalla fi-
ne del centrismo al centro-sinistra.1953-1960, Bologna 1993, p. 59.
48 Significativa è la lettera che De Gasperi riceve da Benedetto Croce in cui il vecchio filo-
sofo, prossimo alla morte, gli scrive: «Io penso spesso a te, non politicamente ma umanamente e
mi fo presente la vita che sei costretto a condurre e ti ammiro e ti compiango e ti difendo contro
la gente di poca fantasia, che non pensa alle difficoltà e alle amarezze che è necessario sopportare
per un uomo responsabile di un alto ufficio per fare un po’ di bene e per evitare un po’ di male»
(citata in s. bertoldi, Dopoguerra, Milano 1993, p. 136).
49 Per papa Pacelli cfr., da ultimo, g. miccoli, La Chiesa di Pio XII nella società italiana del do-
poguerra, in aa.vv., Storia dell’Italia repubblicana, vol. I cit., pp. 537-613. Della radio si era già ab-
bondantemente servito, soprattutto durante le elezioni del 1948, il padre gesuita Riccardo Lom-
bardi, detto «il microfono di Dio», su cui cfr. g. zizola, Il microfono di Dio. Pio XII, padre Lom-
bardi e i cattolici italiani, Milano 1990.
50 scoppola, La repubblica dei partiti cit., pp. 113, 115. Da questa constatazione Dossetti ave-
va argomentato, durante l’Assemblea Costituente, il bisogno di regolare i rapporti fra Chiesa e Ita-
lia repubblicana nella forma poi assunta dall’articolo 7 della Costituzione.
51 p. ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Torino 19913,
p.187. Cfr. anche g. barone, Stato e Mezzogiorno (1943-60). Il «primo tempo» dell’intervento straor-
dinario, in aa.vv., Storia dell’Italia repubblicana, vol. I cit.
52 Citato in di loreto, La difficile transizione cit., pp. 91-92, e cfr., su quegli anni, a. gambi-
no, Storia del dopoguerra dalla liberazione al potere DC, Bari 1975.
l’Urss (e poi, via via scalando, la Cina, il Vietnam, Cuba) hanno pro-
gressivamente perduto la loro attrazione fatale; c) soprattutto dopo il
1989, è la «Chiesa etica», nel suo ruolo surrogatorio di alcune deficienze
dello Stato, ad aver riacquistato nuovo prestigio.
b) La linea Gramsci-Togliatti.
Nella seconda metà dell’Ottocento nasce uno schema storiografico,
sostenuto da Bertrando Spaventa e ripreso in seguito da Gentile. Ela-
bora la leggenda secondo cui il lascito della filosofia italiana del Rina-
scimento – a causa dell’intolleranza religiosa e della decadenza nazio-
nale – sarebbe passato a fecondare la cultura europea nel suo comples-
54 Su Togliatti e l’ambiente politico e culturale in cui si trovò a operare cfr. g. bocca, Togliatti,
Bari 1973; g. vacca, Saggio su Togliatti e la tradizione comunista, Bari 1974; di loreto, Togliatti e
la «doppiezza» cit. Sul ricorrente tema del rapporto fra il Pci e gli intellettuali, cfr. n. ajello, In-
tellettuali e PCI. 1944-1958, Bari 1979; a. vittoria, Togliatti e gli intellettuali, Roma 1992, e flo-
res e gallerano, Sul PCI cit., pp. 195-213.
c) Lo storicismo.
Ma perché lo storicismo ha potuto mettere radici così profonde
nell’Italia del dopoguerra, contribuendo in modo talmente efficace al
successo della Sinistra in alcuni settori della cultura (surrogato di una
impossibile egemonia politica)? La ragione, sostanzialmente, è che
esso ha posto in rilievo, contro ogni «astrazione giacobina», gli sbar-
ramenti, i blocchi, la concreta specificità di ogni situazione storica, l’esi-
genza di tarare attentamente il pensiero sulla realtà. Ha guardato quin-
di con senso di sobrio realismo ai rapporti di forza interni e interna-
zionali, avviando – anche attraverso la diffusione dell’opera di Gramsci
55 r. cantoni, Lettera ad Antonio Banfi del 4 settembre 1949, in c. montaleone, Cultura a Mi-
lano nel dopoguerra. Filosofia e engagement in Remo Cantoni, Torino 1996, pp. 164-65. Su Cantoni
e la «Scuola di Milano», cfr. f. papi, Vita e filosofia. La scuola di Milano: Banfi, Cantoni, Paci, Pre-
ti, Milano 1990. Su Paci, cfr. a. vigorelli, L’esistenzialismo positivo di Enzo Paci. Una biografia in-
tellettuale (1929-1950), Milano 1987, e s. veca, Enzo Paci. Il filosofo e la città, Milano 1979.
56 luporini, Dialettica e materialismo cit., p. xxxii.
57 a. banfi, Filosofi contemporanei, Firenze 1961, p. 5. Su Banfi, si veda g.d. neri, Crisi e co-
stituzione della storia. Sviluppi del pensiero di Antonio Banfi, Napoli 1988.
58 e. garin, La filosofia come sapere storico, Bari 1959, pp. 136-37.
59 id., La filosofia dal ’45 a oggi, a cura di V. Verra, Milano 1976, p. 451. Sugli sviluppi della
filosofia italiana in questo periodo, si veda e. garin, Cronache di filosofia italiana 1900/1943. Quin-
dici anni dopo 1945/1960, Bari 1975; g. bedeschi, La parabola del marxismo in Italia. 1945-1983,
Roma-Bari 1983; aa.vv., Filosofi italiani contemporanei. Parlano i protagonisti, a cura di B. Maior-
ca, Bari 1984; aa.vv., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari 1985; aa.vv., Filosofia
italiana e filosofie straniere nel dopoguerra, a cura di P. Rossi e C.A. Viano, Bologna 1992; v.
mathieu, L’Italie, in aa.vv., La philosophie en Europe, a cura di R. Klibansky e D. Pears, Paris
1993, pp. 223-40, e f. restaino, Il dibattito filosofico in Italia (1925-1990), in [n. abbagnano], Sto-
ria della filosofia, IV. G. Fornero, F. Restaino, D. Antiseri, Torino 1994, pp. 560-758.
una utopia frenata, che accetta alcune lezioni dal realismo. Tracciando
una specie di mappa del tesoro storica, si tiene conto in questo modo,
simultaneamente, dei vincoli e delle possibilità, delle strettoie e delle
vie d’uscita. Ma proprio questi due elementi, la storia e l’utopia, si so-
no andati in seguito progressivamente dissociando, sino all’odierna qua-
si completa separazione. Il processo inizia però nel 1962, quando – a
partire dalle discussioni sul libro di Nicola Badaloni, Marxismo come sto-
ricismo – si mette in forse la teoria dell’«oggettività della contraddizio-
ne». È un passaggio cruciale, perché (oltre a toccare la questione teori-
ca più accademica della continuità o meno tra il pensiero di Hegel e quel-
lo di Marx) solleva pesanti dubbi sull’esistenza di una logica interna alla
storia, in gran parte indipendente dalle intenzioni e dalle volizioni dei
singoli uomini. È appunto questa che funge da presupposto indispensa-
bile dello storicismo marxista e che ha reso possibili le derive giustifi-
cazionistiche per cui tra giudizi di fatto e giudizi di valore non si dà una
netta distinzione60.
d) Antistoricisti marxisti.
Lo storicismo non gode tuttavia di una condizione di incontrastato
monopolio. Anche filosofi dichiaratamente marxisti si schierano contro
di esso: Cesare Luporini – sensibile dapprima al pensiero di Leopardi,
poi a quello dello strutturalismo francese di Althusser – e, con maggio-
re influenza sul piano immediatamente politico, Galvano Della Volpe.
Pur tendendo, come i suoi antagonisti, a maggiore concretezza e ade-
renza alla realtà, quest’ultimo cerca di deviare il corso del marxismo ita-
liano dal capiente alveo dell’idealismo storicistico. Proveniente da stu-
di su Hume e sull’empirismo inglese e dalla critica alla tradizione dell’in-
dividualismo spiritualistico (che, attraverso Agostino e Rousseau, da
Platone giungerebbe sino agli esistenzialisti), Della Volpe procede alla
riscoperta di un altro Marx, i cui tratti salienti vengono visti nella lot-
ta contro ogni forma di «alienazione».
Già nel 1946, quando esce La libertà comunista, la strada verso Marx
passa per Rousseau e taglia completamente fuori Hegel (a suo tempo de-
finito «romantico e mistico»). Sebbene sia nota la scarsa simpatia che
Marx nutriva per il filosofo ginevrino e per quanto lo stesso Della Vol-
pe faccia riferimento al suo «narcisismo spirituale», è però possibile co-
e) La scuola torinese.
Una diversa esigenza di concretezza anima la filosofia «laica», orien-
tata in senso antispeculativo e antimetafisico, e dunque antihegeliano e
spesso antimarxista. A tutte le «nuove terre emerse dell’esplorazione fi-
losofica tra il 1945 e il 1950»61 (esistenzialismo, marxismo e neopositi-
vismo) è, del resto, comune – oltre che il pathos per il concreto – anche
il ricorso alla testimonianza diretta dell’esperienza personale o alla ra-
gione, come famiglia di idee e di pratiche linguistiche. Si vuole porre fi-
ne, almeno nelle intenzioni, a quel periodo in cui (come aveva detto Mus-
solini a Emil Ludwig) la disposizione dell’uomo moderno a credere ave-
va dell’incredibile.
La «scuola torinese», che gravita attorno a Nicola Abbagnano, a Lu-
dovico Geymonat e a Norberto Bobbio, fa appello all’«impegno» anti-
retorico di acclimatare, anche sul terreno filosofico, i criteri scientifici
di rigore logico e di controllo empirico già adottati dai saperi a statuto
forte o da quelli che conducono ricerche «sul campo». Tenta, come è
stato detto, di «render conto della storia al cospetto della verità»62, os-
sia di non trasformare l’accaduto in metro di giudizio, senza però sva-
lutarlo. Ciò vale, in particolare, per Ludovico Geymonat, che data sim-
bolicamente «25 aprile 1945» la conclusione dei suoi Studi per un nuo-
vo razionalismo. La sua filosofia, pur facendo riferimento a una realtà
descrivibile dall’«uomo finito» e «storicamente dato», non si mostra in-
fatti disposta a riconoscere problemi che si sottraggano al dominio del-
la razionalità63. È però vero che, con il passare degli anni, tale posizio-
ne tende a privilegiare sempre più gli aspetti di storicità della ragione o,
nelle analisi di filosofia della scienza, il primato della prassi e della «sto-
ria esterna», ossia quella che tiene conto dei condizionamenti subiti dal
64 n. abbagnano, Sul problema filosofico della scienza, in aa.vv., Fondamenti logici della scien-
za, Torino 1947, pp. 153-54.
65 f. barone, Il Neopositivismo logico, Torino 1953, p. 400.
f) Gli antimodernisti.
Sebbene meno visibile agli occhi della storiografia marxista o laica,
la filosofia che assume il cattolicesimo come proprio punto di riferimento
non resta certo inerte e non si riduce in genere a mera propaganda del-
66 g. preti, Il mio punto di vista empiristico (1958), in Saggi filosofici, 2 voll., Firenze 1976, vol.
I, p. 476. Di Preti si veda soprattutto quella che è la sua opera più significativa, Praxis ed empiri-
smo, Torino 1957.
67 n. bobbio, L’impegno dell’intellettuale ieri e oggi, in «Rivista di filosofia», LXXXVII (apri-
le 1997), n. 1, p. 18.
68 Su cui cfr. a. bausola e g.c. penati, Neoscolastica, in p. rossi (a cura di), La filosofia, IV.
Stili e modelli teorici del Novecento, Torino 1995, pp. 281-311.
69 a. del noce, Il problema dell’ateismo, Bologna1964, pp. cix, cxxiii.
70 Cfr. id., Riforma cattolica e filosofia moderna, I. Cartesio, Bologna 1966.
71 id., Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?, in u. spirito e a. del noce, Tramonto o eclis-
si dei valori tradizionali?, Milano 1971, p. 149.
72 Si veda, per alcuni aspetti, a. accornero, Il lavoro come ideologia, Bologna 1980.
73 h. nowotny, Tempo privato. Origine e struttura del concetto di tempo, Bologna 1993, pp. 107-
8, e cfr. per la storia del tempo libero dal lavoro, in età classica riservato ai liberi e negato agli schia-
vi, w. rybczynski, Waiting for the Weekend, New York 1992.
to, compie una svolta decisiva. Il periodo che va globalmente dal 1947
al 1973 (ma che in Italia si disloca più avanti) circoscrive infatti «un’epo-
ca senza precedenti e forse anomala» in ragione di un evento di tale ma-
gnitudine che rischia di passare inosservato: «il terzo quarto del secolo
ha segnato la fine di sette o otto millenni di storia umana, iniziati dall’età
della pietra con l’invenzione dell’agricoltura, se non altro perché è ve-
nuta a termine la lunga era nella quale la stragrande maggioranza del ge-
nere umano è vissuta coltivando i campi e allevando gli animali»74. In
termini comparativi, il miglioramento delle condizioni di esistenza e le
trasformazioni del lavoro umano sono stupefacenti. Le coglie un testi-
mone dalla lunga vita, abituato sin dall’infanzia alle più aspre privazio-
ni: «Ho visto crescere sotto i miei occhi ben tre generazioni: la mia,
quella dei miei figli, quella dei miei nipoti. E ora mi accingo a vede-
re quella dei miei pronipoti. Guardandoli penso: non sono stati inutili que-
sti decenni di lotta, oggi si sta tanto meglio di quanto si stesse ai tempi
miei. Sì: la vita è infinitamente meno dura, oggi. Non c’è paragone col
mondo in cui erano nati mio padre e mio nonno»75.
74 e.j. hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Milano 1995,
pp. 20-21.
75 Pietro Nenni in una intervista del 1971, in o. fallaci, Intervista con la storia, Milano 1975,
p. 247.
76 m. mafai, Pane nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale, Milano 1987,
p. 4. Di Miriam Mafai è da vedere anche L’apprendistato della politica. Le donne italiane nel dopo-
guerra, Roma 1979. Già alla fine degli anni cinquanta «la società civile si è emancipata in modo
definitivo dalla società ecclesiastica» (g. zizola, Il modello cattolico in Italia, in ariès e duby (a cu-
ra di), La vita privata. Il novecento cit., p. 305).
c) Sessualità e matrimonio.
Mentre il tasso di apertura della casa verso l’esterno si modifica, le don-
ne percorrono a tappe forzate, nell’arco di pochi decenni, un lungo cam-
mino, sia negli stili di vita che sul piano dell’emancipazione sessuale79. Se-
77 Das ganze Haus, nel senso che all’espressione attribuisce o. brunner, Das «ganze Haus» und
die alteuropäische «Oekonomik», in Neue Wege der Verfassungs- und Sozialgeschichte, Göttingen
1968, pp. 103-27.
78 lanaro, Storia dell’Italia repubblicana cit., pp. 166, 228. Per le trasformazioni del vissuto,
cfr. c. saraceno, La famiglia: i paradossi della costruzione del privato, in ariès e duby (a cura di),
La vita privata. Il novecento cit., p. 39: «Le donne che hanno oggi più di settant’anni sono passate,
nel giro di neppure vent’anni, dal dover cercare il latte per i propri bambini alla borsa nera, al “con-
sumismo” della carne tutti i giorni, dei frigoriferi e delle automobili, delle vacanze estive».
79 Per questi temi cfr., più in generale, l. scaraffia (a cura di), La famiglia italiana dall’Ot-
tocento a oggi, Bari 1988, pp. 383-416. È peraltro vero che la propensione al consumo, mediata dai
film dei «telefoni bianchi», era già timidamente iniziata negli anni trenta, cfr. p. cavallo e p. iac-
cio, Ceti emergenti e immagini della donna nella letteratura rosa degli anni trenta, in «Storia contem-
poranea», dicembre 1984, n. 6, e g. de luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana
1922-1939, Torino 1995, pp. 236-62.
a) Il Sessantotto.
I giovani hanno da sempre rappresentato il punto di raccordo e di
turbolenza tra la casa e la società, tra la dimensione da cui escono e quel-
82 Cfr. a. rossi-doria, Conservazione e rottura nel movimento delle donne, in «Ombre rosse»,
25 (giugno 1978), pp. 12-16. Nella galassia delle posizioni del femminismo che hanno incidenza
sul piano filosofico si segnala, già nella prima metà degli anni settanta, l’opera di Carla Lonzi (con
i volumi Sputiamo su Hegel e Sputiamo su Freud). Ma è attraverso studiose come Luisa Muraro,
Adriana Cavarero (autrice di Nonostante Platone, Roma 1990, di Corpo in figure. Filosofia e politi-
ca della corporeità, Milano 1995) e Rosy Braidotti (Dissonanze, Milano 1994, Soggetto nomade. Fem-
minismo e crisi della modernità, Roma 1995) che si contribuisce alla riscoperta della dimensione del-
la corporeità e del carattere «nomade» della soggettività femminile.
83 Cfr., rispettivamente, r. manzini, Le smanie per la Miss, in «Famiglia Cristiana», 15 otto-
bre 1950, citato in m. barbanti, La «battaglia» per la moralità» tra Oriente, Occidente e italo-cen-
trismo, in d’attorre (a cura di), Nemici per la pelle cit., p. 169, e s. gundle, Cultura di massa e mo-
dernizzazione: Vie Nuove e Famiglia cristiana dalla guerra fredda alla società dei consumi, ibid., p. 248.
84 Cfr. h. marcuse, Eros e civiltà (1970), Torino 1972; id., L’uomo a una dimensione (1964),
Torino 1967. In un solo anno quest’ultimo libro vende in Italia 150 000 copie, cfr. r. lumley, Sta-
tes of Emergency. Cultures and Revolt in Italy from 1968 to 1978, London - New York 1990, p. 122.
lia – oltre che dal «contagio psichico» di esperienze analoghe – dalla de-
lusione rispetto alle promesse di benessere generalizzato innescate dal
«miracolo economico», dal fallimento del Centro-sinistra nello sposta-
re i rapporti di forza sociali e dall’impreparazione del Pci a imboccare
la via delle riforme piuttosto che quella di una mitica «rivoluzione». I
partiti storici della sinistra perdono così provvisoriamente il monopolio
della mobilitazione delle masse e il controllo di ampi settori dell’agire
collettivo.
Agli studenti, però, l’intera struttura sociale «capitalistica» appare
responsabile – in solido e su scala mondiale – dell’oppressione, della vio-
lenza e dell’iniqua distribuzione di ricchezza e sapere. La prospettiva
assunta dai gruppi egemoni nel movimento studentesco diventa plane-
taria, alterando la precedente geografia mentale della politica che era
dominata, anche nel panorama italiano, dalla simmetrica contrapposi-
zione tra i due blocchi. Il Sessantotto costituisce pertanto «il primo mo-
vimento a trattare il mondo intero come un unico sistema integrato, co-
me spazio omogeneo all’interno del quale ogni luogo è interconnesso in
modo sistemico – cioè in modo interdipendente e in tempo reale – con
ogni altro». I punti di riferimento sono i campus delle università, le fab-
briche, o «i manicomi, le carceri, talvolta le caserme, le difficili istitu-
zioni totali trasformate in luogo di radicamento comunitario»85.
Uno dei valori dominanti con cui si esprime l’insubordinazione nei
confronti dell’esistente è la difesa ad oltranza dell’egualitarismo nella
forma di incondizionato rifiuto della meritocrazia. Essa appare infatti
teoricamente plausibile solo sullo sfondo di diseguaglianze sociali pre-
gresse, taciute e dimenticate, mentre funziona in pratica quale strumento
perverso di arbitraria discriminazione. La percezione dell’ingiustizia so-
ciale si polarizza così sui meccanismi sociali dell’insegnamento. Sinto-
matiche e realmente «epocali» sono, per un’intera generazione, Le let-
tere a una professoressa. Apparse nel 1967 e scritte dagli allievi della scuo-
la di Barbiana, mostrano l’incidenza sui ragazzi della pugnace figura di
don Lorenzo Milani, con la sua amara denuncia della selezione scolasti-
ca, che penalizza i diseredati sociali e culturali, provocando un intolle-
rabile spreco di intelligenza e di vita. I toni «savonaroliani» di esalta-
zione dei semplici e di idealizzazione dei poveri – con il connesso ripu-
dio degli ideali liberali moderni, in particolare del merito come conquista
individuale – rappresentano il segno di un più generale disagio.
85 m. revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in aa.vv., Storia dell’Italia repubblicana, II/2
cit., pp. 393, 398.
89 Per il sorgere di uno di questi movimenti, cfr. l. bobbio, Lotta continua, Roma 1979.
90 Nanni Balestrini ha mostrato nel romanzo Gli invisibili (Milano 1987) la parabola dell’esi-
stenza di uno dei terroristi, passato dagli studi universitari, dove resta sempre marginale, agli «espro-
pri proletari» e al carcere. Ancora più significativo, per comprendere dall’interno le motivazioni
del terrorismo delle Brigate Rosse, è m. moretti, Brigate rosse. Una storia italiana, intervista a cu-
ra di C. Mosca e R. Rossanda, Milano 1994. Sul terrorismo si veda g. galli, Storia del partito ar-
mato, 1968-1982, Milano 1993; g. bocca, Noi terroristi. 12 anni di lotta armata ricostruiti e discussi
con i protagonisti, Milano 1985; aa.vv., I terrorismi in Italia, a cura di D. Della Porta, Bologna 1984;
l. weinberg e l. eubank, The Rise and the Fall of Italian Terrorism, Baltimore-London 1987; g.
bocca, Gli anni del terrorismo. Storia della violenza politica in Italia dal ’70 a oggi, Roma 1988; d.
novelli e n. tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, Milano 1988; r. lumley, Sta-
tes of Emergency. Cultures of Revolt in Italy from 1968 to 1978, London - New York 1990; r. ca-
tanzaro (a cura di), La politica della violenza, Bologna 1990; d. della porta, Il terrorismo di sini-
stra, Bologna 1990; e s. zavoli, La notte della Repubblica, Milano 1992. Per i movimenti eversivi
e il terrorismo di destra, si veda f. ferraresi, Minacce alla democrazia. La Destra radicale e la stra-
tegia della tensione in Italia nel dopoguerra, Milano 1995, pp. 164 sgg.
91 Cfr. j. maritain, L’umanesimo integrale (1936), Roma 1946, e id., Il contadino della Ga-
ronna (1966), Brescia 1969; g. campanini, Cristianesimo e democrazia. Studi sul pensiero politico cat-
tolico del ’900, Brescia 1980, e id., Il pensiero politico di Mounier, Brescia 1983. Su Capograssi si
veda c. vasale, Società e Stato nel pensiero di Giuseppe Capograssi, Roma 1972.
Diventato poi più politico che professore, Moro acquista ben presto
il senso della fragilità degli equilibri italiani, della gracilità della demo-
crazia che si è realizzata (in questo le sue preoccupazioni sono simmetri-
camente analoghe a quelle di Berlinguer) e della necessità di procedere ai
cambiamenti con circospetta lentezza. Sin dall’inizio degli anni sessan-
ta, egli sa che il paese è a sovranità limitata, sotto tutela, e intimamente
diviso, e che per rafforzarlo occorrerebbe allargare l’area del consenso
aprendo dapprima ai socialisti e poi – in seguito alla «doppia vittoria»
del Pci e della Dc alle elezioni del 20 giugno del 1976 – ai comunisti. La
realizzazione di questo progetto incontra però, all’interno e all’esterno,
resistenze pressoché insormontabili (è nota l’ostilità degli americani, an-
che sotto Carter, all’avvicinamento o all’inclusione dei comunisti nell’area
di governo). L’esasperante gradualità delle mosse politiche di Moro, il suo
parlare involuto e allusivo, i suoi teoremi da geometria non-euclidea, so-
no però anche la spia della ricerca di labirintiche soluzioni al conflitto tra
propensione al bene comune e incrollabile fedeltà al partito. Fatte le de-
bite proporzioni, nelle fasi più acute della «guerra civile fredda», la to-
gliattiana «doppiezza» trova il suo simmetrico pendant nell’amletica vo-
lontà morotea di conciliazione degli opposti.
Ma qual è la tempra morale dell’uomo? Osserva, non senza durez-
za, Leonardo Sciascia:
Moro non era stato, fino al 16 marzo, un «grande statista». Era stato, e conti-
nuò ad esserlo anche nella «prigione del popolo», un grande politicante: vigile, ac-
corto, calcolatore; apparentemente duttile ma irremovibile; paziente ma della pa-
zienza che si accompagna alla tenacia; e con una visione delle forze, e cioè delle de-
bolezze, che muovono la vita italiana, tra le più vaste e sicure che un uomo politico
abbia mai avuto.
8. Krisis.
93 l. sciascia, L’affaire Moro, Palermo 1978, pp. 33, 64. Si veda anche, con punti controversi,
s. flamigni, La tela del ragno. Il delitto Moro, Roma 1988.
97 id., Destra e sinistra. Ragioni e significato di una distinzione politica, Roma 1994, p. 79, ma
cfr., soprattutto, id., L’età dei diritti, Torino 1990.
98 Cfr. m. heidegger, Nietzsche, 2 voll., Pfullingen 1961 (trad. it. Milano 1995), e f. nietzsche,
Opere, Milano 1964.
come quella greca era, proprio in ragione dell’esistenza degli schiavi, una società evoluta) e soltanto
la società, con la sua morale del gregge, con la sua religione della compassione e della rassegnazio-
ne, li ha resi eguali. Quella stessa corruzione che, per Rousseau, ha generato la diseguaglianza, ha
generato, per Nietzsche, l’eguaglianza» (bobbio, Destra e sinistra cit., p. 76).
102 Cfr. m. alcaro, Dellavolpismo e nuova sinistra, Bari 1976.
103 Cfr. m. teodori, Storia della nuova sinistra in Europa, 1956-1976, Bologna 1976; m. mo-
niceli, L’ultrasinistra in Italia, 1968-1978, Bari 1978; m. maffi, Le origini della sinistra extraparla-
mentare, Milano 1987.
104 m. tronti, Operai e capitale, Torino 1966, p. 19, citato da lanaro, Storia dell’Italia re-
pubblicana cit., p. 278.
c) Il pensiero negativo.
Servendosi di Nietzsche e dei pensatori della finis Austriae (Rilke,
Trakl, Hoffmannsthal, Roth, Schönberg, Freud, Wittgenstein), Massi-
mo Cacciari approda dall’«operaismo» al «pensiero negativo». Il tema
dell’insormontabilità delle contraddizioni e dell’implausibilità di ogni lo-
ro «superamento» prende ora la forma filosofica di un attacco sia alla dia-
lettica (a causa della sua natura continuistica e conciliatoria) che al Lukács
de La distruzione della ragione (a motivo delle accuse di «irrazionalismo»
e di decadentismo rivolte alla filosofia dopo Hegel, alla letteratura dopo
Goethe e all’economia politica dopo Ricardo). Cacciari rivendica, al con-
trario, la fecondità della «decadenza» e la grandezza di Nietzsche, del
Wittgenstein del periodo austriaco piuttosto che di quello inglese, e del-
lo Heidegger di Essere e tempo, «opera tragica fondamentale del pensie-
ro contemporaneo»105.
Alle immagini corrusche della storia e della dialettica – che si ribal-
tano però nell’armonia nel regno della libertà o della società senza clas-
si – Cacciari oppone l’idea di krisis, in quanto emergenza permanente
che non assicura alcuna salvezza, ma rinvia, filosoficamente, al pensie-
ro, corroborante e inquietante insieme, degli «uomini postumi». Con
l’ossessione per un linguaggio che giunga ai margini dell’indicibile e con
«lucidità di analisi» capace di «fermarsi dinanzi ai confini del “misti-
co”, tra l’angoscia e l’ironia, con la scoperta però dell’ormai avvenuta
impossibilità del tragico», questi maestri viennesi insegnano a rinun-
ciare al dogma dell’unicità del vero: «L’uomo postumo ha troppe ragio-
ni, per accontentarsi di una verità semplice (“ogni verità è semplice, ma
non è questa una doppia menzogna?”). L’uomo postumo trascorre per
infinite maschere senza fissarsi in nessuna»106.
In Icone della legge, Cacciari continua a interrogarsi sul tema del confi-
ne, nella forma, questa volta, della «crisi del Nomos», della liceità di ol-
trepassare limiti della legge che appaiono invalicabili. Attraverso Kafka e
Rosenzweig la figura della «porta» si presenta così quale simbolo di ambi-
gua enigmaticità: sia come barriera che forse avremmo potuto infrangere,
sia come spiraglio aperto sulla vita alla fine di ogni percorso. Come com-
portarci dinanzi a essa? Attendere inutilmente, al pari del personaggio del
racconto di Kafka Davanti alla legge, che il guardiano ci faccia passare op-
pure rompere gli indugi e attraversarla con una scelta immotivabile in ter-
mini meramente logici? L’uomo contemporaneo è incessantemente co-
stretto a prendere decisioni in nome di una legge o in vista di un fine il cui
senso si è oscurato. Ciò assimila la sua esperienza a quella dell’erranza, del
nomadismo già tipico dei figli di Israele. Oggi però tutti viviamo «l’uni-
versale assolutizzazione della mancanza di radice. Ciò che qui si invera è
l’idealistica autonomia del soggetto – ma proprio come soggetto irreversi-
bilmente sradicato»107. La legge rimane celata nell’insondabilità del pro-
prio fondamento, che non si deve affatto pretendere di esaurire. È neces-
sario invece custodire questa zona di nascondimento, mantenere una ten-
sione infinita tra la nostra rappresentazione e l’irrappresentabile, la cui
allegoria è costituita dall’Angelo. Questi «testimonia il mistero in quanto
mistero, trasmette l’invisibile in quanto invisibile, non lo “tradisce” per i
sensi», spingendoci, nelle parole di Rilke, a raccogliere «disperatamente il
miele del visibile, per custodirlo nel grande alveare d’oro dell’invisibile»108.
Mediante un confronto sempre più serrato non solo con la metafisi-
ca classica ma anche con la teologia, Cacciari – che ha imparato a di-
stinguere nettamente la filosofia dalla politica – si è reso negli ultimi an-
ni volutamente inattuale. In Dell’inizio, opera di complessa orchestra-
zione concettuale ed espositiva, cerca così nelle profondità della grande
tradizione filosofica europea (dai neoplatonici Proclo o Damascio fino
a Hegel o al tardo Schelling) le origini dei nostri problemi, obbligando
il lettore a una tenace, ma remunerativa «fatica del concetto»109.
107 id., Icone della Legge, Milano 1985, p. 5. La «decisione» che fa uscire dalla passività è, ne-
gli ultimi scritti, alla radice dell’Europa e della sua coscienza ribelle, mai conclusa e irriducibil-
mente plurale: cfr. id., Geo-filosofia dell’Europa, Milano 1994, e id., L’arcipelago, Milano 1997.
108 Cfr. id., L’angelo necessario, Milano 1986.
109 Cfr. id., Dell’inizio, Milano 1990.
110 Oltre a scoppola, La repubblica dei partiti cit., si veda f. barbagallo, L’azione parallela.
Storia e politica nell’Italia contemporanea, Napoli 1990, e s. colarizi, Storia dei partiti nell’Italia re-
pubblicana, Roma-Bari 1994.
111 Cfr. l. cafagna, La grande slavina. L’Italia verso la crisi della democrazia, Venezia 1992,
pp. 32 sgg.
112 Cfr. a. pizzorno, Le radici della politica assoluta, Milano 1994, p. 290.
113 l. sciascia, La Sicilia come metafora, intervista di M. Padovani, Milano 1979, e id., Il gior-
no della civetta, Torino 1961, pp. 101-2. Sulla posizione di Sciascia e la persistenza di una raffigu-
razione «nobile» della mafia, che trova le sue radici nelle sofferenze e nel disagio con cui la mo-
dernità è avanzata attraverso la rivendicazione del monopolio della violenza legittima e il duro di-
sciplinamento della società, cfr. p. pezzino, La mafia, in m. isnenghi (a cura di), I luoghi della
memoria, Roma-Bari 1977, pp. 113-34, in particolare pp. 130-32.
114 Tra i numerosi studi sull’argomento, si vedano, sulla preistoria e la storia della mafia, p.
pezzino, Una certa reciprocità di favori. Mafia e modernizzazione violenta nella Sicilia postunitaria,
Milano 1990; id., Mafia: industria della violenza, Firenze 1995; n. tranfaglia, Mafia, politica e af-
fari nell’Italia repubblicana. 1945-1991, Roma-Bari 1992. Sugli sviluppi recenti cfr., invece, p. ar-
lacchi, Gli uomini del disonore, Milano 1992; s. lupo, Storia della mafia. Dalle origini ai giorni no-
stri, Roma 1993; d. gambetta, La mafia siciliana, Torino 1994. Per gli altri poteri criminali, cfr.
i. sales, Storia della camorra, Roma 1988; e. ciconte, ’Ndrangheta dall’Unità a oggi, Roma-Bari
1992 (che segnala, pp. 306-10, il fenomeno di un progressivo spostamento dall’«omertà dal bas-
so» all’«omertà dall’alto», quella cioè che garantisce alle cosche la copertura da parte dei politici,
della classe dirigente o delle banche). Più in generale, si veda r. canosa, Storia della criminalità in
Italia, Torino 1991.
115 e. berlinguer, Austerità, occasione per trasformare l’Italia, Roma 1977, p. 13.
116 Sotto il profilo sociologico, poco si ricava da due indagini del Censis (Gli anni del cam-
biamento. Il rapporto sulla situazione sociale del paese dal 1967 al 1982, Milano 1982, e I valori gui-
da degli italiani. Immagini opinioni e rappresentazioni a quarant’anni dalla nascita della Repubblica,
Roma 1989) e da g. calvi, Valori e stili di vita degli italiani, Milano 1977.
di scontro: l’incapacità degli stati, con la crisi fiscale e il declino del Wel-
fare – aspramente combattuto da Margaret Tathcher e da Ronald Rea-
gan un decennio prima – di ridistribuire ai cittadini quote di ricchezza
relativamente abbondanti. Emerge prepotentemente il problema di una
riformulazione del patto sociale mediante una diversa ripartizione dei
costi e dei benefici collettivi, con il rischio di togliere ai più deboli ogni
protezione e aiuto. Si tratta purtroppo, per l’Italia, di una fase di aspet-
tative decrescenti, in cui la fine del modello fordista di produzione e
consumo di massa e la ripresa su grande scala dei processi di «globaliz-
zazione» che ridisegnano i mercati producono un netto calo dell’occu-
pazione e aprono le sue frontiere – come quelle dei paesi più ricchi – agli
ingenti flussi migratori dei diseredati della Terra.
Una volta riconosciuto che lo stato sociale non può continuare a ero-
gare indiscriminatamente gli stessi benefici di prima, anche l’ethos è in-
dotto a cambiare. L’alternativa è secca: si deve privilegiare una nozione
di giustizia che salvaguardi i ceti e gli individui più deboli? O si deve in-
vece puntare sulla libera competizione tra individui e gruppi lasciando
arbitro il mercato? Ma come giudicare? Si mira ormai a un’etica per la
politica che non abbia bisogno di riferirsi all’incessante e in parte in-
compreso variare delle situazioni concrete, ma che sia però in grado di
giustificare se stessa mediante valori universali soggetti alla discussione
pubblica e, dunque, rettificabili. Da oltre vent’anni cresce, di conse-
guenza, l’interesse per filosofie normative come quella di Jürgen Haber-
mas e di John Rawls, il cui «agire comunicativo» e il cui «liberalesimo
politico» vengono in Italia chiamati a giustificare le intuizioni morali cre-
sciute sul suolo delle più antiche democrazie: autonomia e autodetermi-
nazione degli individui, formazione del consenso attraverso un confron-
to non violento e non strumentale, primato gerarchico della libertà
sull’eguaglianza, «patriottismo costituzionale» e religione civica.
Salvatore Veca è il filosofo politico che ha tradotto nel linguaggio
dell’«etica pubblica» le esigenze di giustizia sociale in precedenza avan-
zate dal marxismo e che – assieme a Bobbio – mantiene viva, in altre
forme, la tradizionale vocazione civile della filosofia italiana. Partito dal-
lo studio di Kant e della fenomenologia nella scuola di Enzo Paci, si è
progressivamente avvicinato al pensiero politico anglosassone, nella sua
versione «contrattualistica». In particolare, ha ripreso e sviluppato il
programma di ricerca di John Rawls incentrato sull’idea di giustizia, tor-
cendolo però, in modo originale, sulla questione di come si possa rag-
giungere il bene in società contrassegnate dai principî del pluralismo e
dell’individualismo (in cui cioè la «neutralità liberale» non consente l’af-
fermazione di alcuna gerarchia assoluta e indiscutibile di valori). La ri-
117 Di Salvatore Veca si veda La società giusta (Milano 1982), Una filosofia pubblica (Milano
1986), Etica e politica (Milano 1989), e Dell’incertezza. Tre meditazioni filosofiche (Milano 1997, in
particolare pp. 87-251).
118 a. licandro e a. varano, La città dolente. Confessioni di un sindaco corrotto, Torino 1993,
p. 62. Da vedere, su questi aspetti, anche s. turone, Politica ladra. Storia della corruzione in Italia.
1861-1992, Roma-Bari 1992; g. sapelli, Cleptocrazia. Il «meccanismo unico» della corruzione tra
economia e politica, Milano 1994; a. silj, Criminalità e corruzione politica nell’Italia della Prima Re-
pubblica, Roma 1994.
119 g. colombo, Il vizio della memoria, Milano 1996, p. 26.
120 Cfr. v. tomeo, Il giudice e lo schermo. Magistratura e polizia nel cinema italiano, Bari 1973,
pp. 47-56, 64. Per l’evoluzione della magistratura in Italia, cfr. e. moriondo, L’ideologia della ma-
gistratura italiana, Bari 1967; r. canosa e p. federico, La magistratura in Italia dal 1945 a oggi, Bo-
logna 1974, e e. bruti liberati, a. giasanti e a. ceretti (a cura di), Governo dei giudici: la magi-
stratura tra diritto e politica, Milano 1966.
121 Per una discussione dei dilemmi morali impliciti nell’opposizione mani sporche / mani pu-
lite, cfr., oltre al dramma di Sartre, Les maines sales, m. walzer, Political Action. The Problem of
Dirty Hands, in «Philosophy and Public Affairs», II (1973), pp. 160-80, e c. bobbit e g. calabre-
si, Tragic Choices, New Haven - London 1979.
122 Citato in e. nascimbeni e a. pamparana, Le mani pulite. L’inchiesta di Milano sulle tan-
genti, Milano 1992, pp. 139-40. Alle radici della corruzione e della concussione fu certamente la
scelta da parte di tutte le élite, indistintamente, «di sottrarsi alle sfide della concorrenza interna-
zionale rinviando la modernizzazione del sistema politico (democrazia dell’alternanza), del siste-
ma economico (superamento dell’economia mista) e del modello amministrativo (decentramento,
riforma del Welfare e della pubblica amministrazione secondo criteri di efficacia e di efficienza»)
(g. vacca, Vent’anni dopo, Torino 1997, p. 213).
10. Radici.
123 La discussione è stata innescata da m. viroli, Per amore della patria. Patriottismo e nazio-
nalismo nella storia, Roma-Bari 1995, e da de felice, Rosso e nero cit., e galli della loggia, La
morte della patria cit. (pubblicati nello stesso anno), a cui si sono poi aggiunti s. lanaro, Patria, Ve-
nezia 1996, e rusconi, Patria e repubblica cit.
124 p. scoppola, 25 aprile. La liberazione, Torino 1995, p. 40.
125 g.e. rusconi, Scendere da Cosmopoli, in m. nussbaum, g.e. rusconi e m. viroli, Piccole
patrie, grande mondo, Milano 1995, p. 44.
126 rusconi, Patria e repubblica cit., p. 7. Sulle divergenti tendenze della tradizione civica ita-
liana e della Lega, cfr. r.d. putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano 1993; i. dia-
manti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Roma 1993.
re a far mettere radici più solide all’ideale e alla prassi della democrazia.
Per farla «amare» e, nel caso specifico, per disinnescare il potenziale
eversivo della Lega nord risultano tuttavia più efficaci gli strumenti del-
la giustizia sociale e fiscale, dell’educazione scolastica, del buon gover-
no e della buona amministrazione, nonché la consapevolezza del fatto
che le «nazioni» non sono più quelle tramontate (assieme alla loro pre-
tesa di assoluta autonomia) con la grande guerra, ma quelle che vivono
in più ampi contesti globalizzazione dell’economia e di sovranità. Non
si vede inoltre la necessità di un unanimismo della memoria, soprattut-
to nei regimi democratici: sempre che non rappresentino possibili foco-
lai di guerra civile il fatto che vi siano più memorie separate e inconci-
liate è anche una risorsa.
128 e. severino, Poscritto a Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo (1972), nuova edi-
zione ampliata, Milano 1995, p. 63. L’articolo Ritornare a Parmenide venne pubblicato da Severi-
no in «Rivista di filosofia neoscolastica», LVI (1964), pp. 138-75, in serrata con il suo maestro del-
la Cattolica Gustavo Bontadini. La ricerca è poi proseguita attraverso la focalizzazione successiva
di altri aspetti del problema fondamentale con L’essenza del nichilismo (1972); Techne. Le radici del-
la violenza (1979), Il destino della necessità (1980), sino alle ultime opere Il nulla e la poesia. Alla fi-
ne dell’età della tecnica: Leopardi (1990), Oltre il linguaggio (1992), Heidegger e la metafisica (1994).
In parte come Severino, anche Giorgio Colli propone nello stesso periodo un ritorno alle radici del
pensiero occidentale, ai «sapienti greci» che precedono Socrate e Platone; cfr. La sapienza greca, 3
voll., Milano 1977-80, e La nascita della filosofia, Milano 1975, dove si presenta la forma dell’enig-
ma come sfida all’intelligenza, negazione della volontà di dare fondo all’universo, presenza di un
insondabile, inesauribile e ambiguo fondo oscuro, analogo a quello della tragedia.
c) Ermeneutica e caducità.
Confrontandosi con Nietzsche e Heidegger, Vattimo giunge a con-
clusioni diametralmente opposte a quelle di Severino, ma ugualmente
lontane dallo storicismo. Dal suo maestro, Luigi Pareyson (che aveva in-
segnato a gettare lo sguardo negli abissi della libertà e del male spalan-
cati dal moderno nichilismo), trae dapprima l’interesse per l’ermeneu-
tica e il linguaggio del mito inteso quale strumento di espressione
dell’ineffabile129. Ma la sua sensibilità e il suo stile sono ben presto se-
gnati da un’esperienza extra filosofica: assieme a Umberto Eco e a Fu-
rio Colombo (gli altri «ragazzi della via Po»), viene infatti a precoce, di-
retto contatto con i moderni mezzi di comunicazione di massa. Lavora
infatti per qualche tempo nella neonata televisione italiana, sensibiliz-
zandosi ai problemi dei media e, più in generale, di quella che si sareb-
be in seguito chiamata cultura del «postmoderno». Rientrato nell’am-
bito accademico, sviluppa autonomamente il suo pensiero dialogando
con alcuni filosofi stranieri di cui promuove in Italia la conoscenza. Si
tratta, in particolare, di autori (come Hans-Georg Gadamer, Jacques
Derrida e Richard Rorty) che possono considerarsi rami eterodossi spun-
tati dal ceppo di Heidegger.
Dopo aver inizialmente cercato di ottenere attraverso Nietzsche quel-
la «disalienazione» che era anche l’obiettivo del marxismo umanistico,
Vattimo riconosce infine – sempre più chiaramente, dalla fine degli an-
ni settanta – il fallimento di ogni progetto di riappropriazione della sto-
ria da parte della soggettività «autentica». I disperati sforzi di Benja-
min, Adorno e Bloch per riformare la dialettica, rendendo aleatoria la
conciliazione o mettendo addirittura in forse il superamento delle con-
traddizioni, lo confermano nella convinzione che essi «non sono pensa-
tori della dialettica, ma della sua dissoluzione»130. L’heideggeriana
129 Quali testimonianze dell’atteggiamento tragico di Luigi Pareyson, per cui la filosofia è
fichtianamente legata all’uomo che si è, si vedano tra le ultime opere il magnifico testo Lo stupore
della ragione in Schelling, in Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Milano 1979; Esi-
stenza e persona, Genova 1985; Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino 1995. Per l’ela-
borazione di questi temi di origine pareysoniana, cfr. anche s. givone, Storia del nulla, Bari-Roma
1995.
130 g. vattimo, Dialettica, differenza, pensiero debole, in aa.vv., Il pensiero debole cit., p. 17.
Sulle vicende della filosofia italiana in questo periodo, cfr. g. borradori (a cura di), Recoding Me-
taphysics. The New Italian Philosophy, Evanston (Ill.) 1988 e, in chiave polemica, c.a. viano, Va’
pensiero. Il carattere della filosofia italiana contemporanea, Torino 1985, e p. rossi, Paragone degli in-
gegni moderni e postmoderni, Bologna 1989; bedeschi, La parabola del marxismo in Italia cit., e c.
sini e m. mocchi, Problemi teorici della ricerca filosofica in Italia, in [l. geymonat], Storia del pen-
siero filosofico e scientifico, IV. Il Novecento, Milano 1996, 9 voll., pp. 159-213.
131 Questo termine definisce l’«accettazione rassegnata (ma anche ri-segnata, marcata di un
nuovo segno), convalescente, segnata dalla dis-torsione, dalle erranze della metafisica» (cfr. g. vat-
timo, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna, Milano 1985,
p. 186).
132 Ibid., pp. 10-11, 153.
133 p.a. rovatti, Premessa, in aa.vv., Il pensiero debole cit., p. 10.