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Riconobbi adunque le altrui dottrine ben lontane dalla verità, il che ritenni ed accertai
derivare dal fatto che i posteri non appresero le scienze attraverso l’esperienza dei
proprii sensi, ma già elaborate e dagli antichi tramandate secondo il giudizio loro,
cosicché erano estremamente involute, in guisa che qualche isolato a mala pena, o
pochi erano in grado di possederle appieno tutte quante. È parsa perciò gran cosa agli
uomini il poter imparare dai loro simili, e non dalla natura, il cui studio appariva tanto
procacciandosi riputazione per tale lor fatica di espositori fra gente che dell’esposizione si
accontentava senza rifarsi ai testi e senza giudicare l’esattezza dell’interpretazione, non
seguirono più la verità obbiettiva, si fecero seguaci devoti degli antichi ed abbracciarono le
sentenze altrui: senza mai volgersi a scrutare la natura delle cose, studiarono invece i detti,
e neppur quelli dei filosofi, ma degli interpreti soltanto. Tanto si aggravò questo malanno
fra gli uomini, da indurre a scusar volentieri gli errori tramandati dagli antichi, quasi si
fosse vincolati ad essi, e da rinnegare piuttosto la propria esperienza sensibile. Principal
causa di ciò furon certi libri, detti di dialettica perché in parte hanno per argomento i
vocaboli, libri che fanno gran confusione con nomi astratti e termini oscuri e che hanno
significati diversi nellevarie lingue da cui ci pervenirono e diversi anchein seno ad un
medesimo idioma. Stimando dunque certuni di farsi un nome studiando a fondo queste
cose e mettendosi in grado di disputarne con altri, ci si buttan su a corpo morto, senza
avvedersi ch’esse ripugnano al naturale buon senso, poiché le parole soltanto sono
complicate, non le cose in se stesse
Il metodo nuovo. “Praefatio” alla “Philosophia sensibus …
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latino/libro/9788865422588
mi fur rotte le vene e le arterie; e il cruciato dello aculeo mi lacerò le ossa […] e
la terra bevve dieci libbre del mio sangue […] risanato dopo sei mesi […] in
una fossa fui seppellito […] ove non è né luce né aria, ma fetore di umidità e
notte e freddo perpetuo.
Nel 1626 fu condotto a Roma per volontà di Urbano VIII e, dopo essere rimasto tre anni a
disposizione dell’Inquisizione, nel 1629 venne liberato; nel 1634 fu ancora accusato di una
congiura antispagnola e riparò in Francia dove Luigi XIII e Richelieu lo accolsero con
grandi onori e dove insegnò teologia alla Sorbona e morì nel 1639.
Nella Città del Sole (1602), tentativo di scalzare dall’interno la controriforma e i suoi
terrori, Campanella proietta l’utopia di una città ideale costruita su un colle, distinta in
sette gironi, il cui principio della vita sociale è la comunione assoluta dei beni e la cui
religione è la legge della natura. L’educazione in tutte le arti ha inizio a tre anni, quindi i
fanciulli imparano la lingua nelle mura della città e si esercitano fisicamente, «scalzi e
scapigliati», fino ai sette anni. Dopo i sette anni vanno tutti «alle lezioni delle scienze
naturali» e più tardi imparano i lavori della campagna e del pascolo degli animali.
Discipline comuni a tutti sono l’arte militare, l’agricoltura, la pastorizia, le arti più faticose
e più utili sono quelle del fabbro e del muratore. La rivalutazione delle attività manuali,
considerate dal filosofo «le più nobili» e «ignobili» dagli oziosi che nessuna arte imparano,
è una denunzia della vita negletta e oziosa della classe dirigente spagnola e indigena
meridionale, distaccata dal popolo e dalla sua miseria.
Oltre a molte opere scritte in latino ed in volgare Campanella scrisse in carcere le Poesie
filosofiche, pubblicate per la prima volta nel 1622 dal discepolo Tobia Adami in Germania.
Aspre e dense di pensiero, prive di allettamenti retorici, le poesie di Campanella sono
aderenti a quel mondo contadino, primitivo e povero nel quale egli aveva creduto di dovere
svolgere una missione di rinnovamento:
conobbi con ogn’un che parlavo — dichiarò nel processo contro il tentativo di
congiura — che tutti erano disposti a mutazione, ed per strada ogni villano
sentiva lamentarsi: per questo io più andavo credendo questo havere da
essere.
Espressione del mondo contadino subalterno, Campanella non adorna i suoi versi,
messaggio di verità, ed è contro coloro che cantano «finti eroi, infami ardor, bugie e
sciocchezze». Da tirannidi, sofismi, ipocrisie derivano carestie, guerre, peste, ingiustizia,
lussuria, il «proprio amor» nasce da ignoranza, la maggior fortuna è il possesso interiore:
1. né frate fan cocolle e capo raso.
2. Re non è dunque chi ha gran regno e parte,
3. ma chi tutto è Giesù.
Dietro i simboli spesso si nasconde l’intrigo e il poeta invoca Cristo: