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Prof.

Luigi Gedda

Getsemani Edizioni Operaie 1952


Testo offerto dalla Società Operaia http://www.societaoperaia.org
Al lettore si chiede un’Ave Maria in ringraziamento

Prefazione

Alla seconda edizione di “Getsemani” devo premettere una parola di testimonianza.


Più scorrono gli anni e più mi convinco che l'agonia di Gesù è attuale perché non viene
travolta dagli avvenimenti, ma li domina e li compone.
Il Getsemani vince il tempo.
Questo può dirsi di tutta la vita del Redentore che fu data all'uomo come luce nel
misterioso fluire degli uomini e delle cose.
Ma lasciate che io applichi questa verità generale in modo tutto particolare all'episodio
del Getsemani, sia per la riconoscenza che la mia anima sente di dover esprimere alla
fonte del suo conforto, sia perché mi sembra che l'esperienza del dolore spirituale
riassuma in sé ogni altra difficile esperienza della vita umana.
Il Getsemani ci offre la possibilità di affrontare la somma di ogni angoscia con il Cristo
e come il Cristo.
E' il più grande dono di cui l'anima abbia bisogno.
Alla Vergine che per il suo immacolato concepimento avrebbe potuto sfuggire al dolore,
ma che visse nell'agonia spirituale il Suo compito di Corredentrice, affido il lettore
perché sia Lei a parlargli con il Suo esempio e con la Sua intercessione.
L.G.
Lourdes, 30 luglio 1952
Premessa sull’attualità del Getsemani
Andiamo al Getsemani

1. Il Getsemani è attuale
La serva di Dio Suor Pierina De Micheli fu protagonista a dodici anni, e precisamente
nel venerdì santo del 1902, di un fatto che, se non straordinario, fu certamente singolare.
Nella chiesa di S. Pietro in Sala a Milano si trovava fra la gente che baciava il crocefisso
deposto a terra, accostando le labbra ai segni delle cinque piaghe. Ala bambina ebbe
allora la nettissima sensazione (e fu lei stessa a rievocare più volte quel giorno e quel
fatto) di udire una voce che diceva: “Nessuno mi dà un bacio d’amore in volto per
riparare al bacio di Giuda?”. La bimba si stupì al notare che la gente restava insensibile a
quella richiesta che lei aveva sentito distintamente. Non osò rispondere ad alta voce, ma
diede il bacio richiesto dicendo: “Te lo dò io il bacio d’amore, Gesù abbi pazienza”.
Senza voler dare a questo episodio una particolare importanza prima che la Chiesa ne
riconosca l’attendibilità, ma collocandolo in ordine di tempo rispetto all’appassionata e
ripetuta richiesta di Gesù ai tre discepoli: “Fermatevi qui e vegliate con me”
(Matt.26,38) e rispetto a quanto Gesù disse a S. Margherita Maria: “tutte le notti dal
giovedì al venerdì ti farò partecipare a questa mortale tristezza che ho voluto sentire nel
giardino degli Ulivi…” troviamo che il ricordo di Suor Pierina, la quale all’età di dodici
anni non conosceva i testi evangelici del Getsemani né gli scritti di S. Margherita Maria,
è misticamente sulla medesima direttrice dei precedenti inviti a penetrare e conoscere il
mistero del Getsemani.
D’altra parte bisogna rendersi conto di una legge di vita che riguarda anche la Chiesa la
quale impone un accrescimento progressivo e graduale di quantità e qualità. Nei duemila
anni di storia vissuta, a prescindere dai periodi critici, che però ebbero anch’essi
un’importanza a volte paradossale per lo sviluppo della verità rivelata, la Chiesa,
nell’ambito dell’ortodossia, è venuta chiarendo a se stessa principi e comportamenti
racchiusi nel messaggio evangelico, ma non ancora esplorati. Vi furono tempi in cui
l’attenzione della Chiesa venne focalizzata sul problema delle due nature di Cristo ed
altri, molto vicini a noi, nei quali lo studio dei teologi e le definizioni dell’autorità si
concentrarono sulla persona e le grazie singolari concesse alla Madre di Gesù, come nel
secolo scorso quando Pio IX definì la Madonna concepita senza il peccato originale
(ossia l’Immacolata Concezione di Maria) e nel nostro secolo quando Pio XII definì
l’Assunzione della Vergine.
Per quanto riguarda l’episodio del Getsemani, malgrado la considerazione espressa da
Pascal che l’agonia getsemanica di Cristo continua fino alla fine del mondo, la Chiesa
non ha messo un accento particolare su questo episodio. Un esperto di Cristologia come
l’abate G. Ricciotti, fornisce una spiegazione attendibile di questo scarso interesse. Egli
scrive nella “Vita di Gesù Cristo”: “In questa notizia (del sudore di sangue) che mette in
rilievo la realtà della natura umana in Gesù trovarono scandalo taluni antichi cristiani nel
leggere il vangelo del medico Luca. Essi giudicarono che, sebbene il medico aveva
narrato un fatto vero, era meglio che la narrazione non fosse ripetuta, perché sembrava
fornire una conferma alle calunnie dei nemici del cristianesimo: probabilmente gli
attacchi di Celso contro la persona di Gesù avevano suscitato tale preoccupazione.
Perciò avvenne che la narrazione del sudore di sangue, insieme col precedente accenno
all’angelo confortatore, cominciò a scomparire dai codici del III Vangelo, soppressa per
questo infondato timore. Oggi essa manca in vari codici uncinali, e questa mancanza era
già stata segnalata nel quarto secolo da Ilario e Gerolamo. Tuttavia allorché quella vana
preoccupazione si dissipò col cessare degli attacchi contro il cristianesimo, cessò anche
la soppressione dell’ombroso passo”.
Intanto chiediamoci: non è forse vero che la Chiesa parla di uno sviluppo nella
intelligenza del dogma? Non è vero che importanti espressioni della pietà cristiana si
sono innestate molto tardi sull’albero della tradizione cattolica? Presso la Chiesa delle
catacombe la raffigurazione preferita di Gesù era quella del Buon Pastore. Durante
questo periodo ed anche in seguito la Croce fu oggetto di culto, ma sulla croce non
compariva il Crocefisso, ed anche oggi le Chiese orientali che si separarono in quei
secoli dal tronco del cattolicesimo usano comunemente la croce senza il Crocefisso. Fu
soprattutto nel basso medioevo che la figura del Crocefisso inalberato sulla croce invase
la mente e conquistò il cuore del popolo cristiano. L’arte non tardò ad esprimere questo
diffuso e vibrante sentimento nelle innumerevoli raffigurazioni del Golgota che
arricchiscono le nostre chiese e pinacoteche. Per la ragione opposta, cioè per la mancata
popolarizzazione del Getsemani, l’espressione in forma d’arte di questo episodio appare
scarsa e poco convincente, poco convincente perché poco convinta.
Può darsi che la Provvidenza riservi proprio a questa nostra epoca, umana e disumana ad
un tempo, il privilegio ed il conforto di meditare sull’umanità di Cristo nella tragedia del
Getsemani.
In realtà vi è qu7alcosa di nuovo a questo riguardo, nello spazio e nell’atmosfera della
Chiesa cattolica da quando il Patriarcato di Gerusalemme e la Custodia della Terra Santa
stabilirono, nel primo quarto del nostro secolo, di erigere un Santuario moderno nel
luogo del Getsemani storico, dove viene conservata la piattaforma di pietra sulla quale,
secondo la tradizione, il Cristo agonizzò spiritualmente e sudò sangue.
Questo santuario di stile composito che copre con tre navate il luogo dell’Agonia viene
chiamato “Basilica delle Nazioni” la quale iniziata nel gennaio del 1920 su disegno
dell’architetto Antonio Barluzzi fu inaugurata il 15 giugno 1924. E’ il solo santuario
interamente cattolico di Gerusalemme ed è servito dai Frati minori francescani.
A questo avvenimento topografico e devozionale ha fatto seguito il dono di una statua
grande al naturale di Gesù che agonizza nel Getsemani regalata dalla Francia a Pio XI il
quale, nel gradirla, stabilì che fosse collocata in Roma in quel convento dei Passionisti
sul Celio, che lo stesso Pio XI volle incluso nei Trattati Lateranensi come proprietà del
Vaticano.
Questa commovente scultura è oggetto di visita e meditazione da parte di cattolici di
tutto il mondo ed è il riferimento di molte iniziative e opere getsemaniche, per esempio
dei due Santuari dedicati al Getsemani che sono sorti in Italia, l’uno a Casale Corte
Cerro (Novara) nel 1950 e l’altro a Paestum (Salerno) nel 1959. Anche in una parrocchia
di Roma sulla via del mare a Vitinia inaugurata nel 1955 viene riprodotta la statua del
Celio e il titolo della Chiesa riproduce con fedeltà l’interpretazione mistica dell’episodio
evangelico in quanto essa è dedicata al “Sacro Cuore di Gesù Agonizzante”, cioè collega
l’episodio evangelico del Getsemani alle rivelazioni del Sacro Cuore di Paray-le-Monial.
Fu l’Azione Cattolica Italiana che regalò questa chiesa alla diocesi del Papa. Numerosi
luoghi per onorare l’agonia getsemanica del Salvatore sono sorti in questi ultimi anni
come a Lecce, Siracusa, Imperia, Acireale, Cuglieri e nella Chiesa della Navicella a
Roma.
Ma vi è dell’altro, fra cui due libri di esegesi scritturale relativa al Getsemani editi negli
anni settanta, uno a cura di Mario Galizzi: “GESU’ NEL GETSEMANI” e l’altro di
André Feuillet: “L’AGONIE DE GETHSEMANI” che puntualizzano criticamente i testi
e l’avvenimento storico; senza dire del mio libro “GETSEMANI” che dal 1945 ad oggi
ebbe varie edizioni.
Dal punto di vista liturgico è importante che la devozione del Rosario, fin dalle
origini,abbia ricordato l’agonia del Getsemani come prima stazione dei misteri dolorosi
e che la forma prevista dal Concilio Vaticano II abbia preso in considerazione lo schema
della Via Crucis indicato da San Leonardo da Porto Maurizio includendo in essa il
Getsemani come seconda delle 14 stazioni.
Di grande rilievo è il fatto che Paolo VI nel pellegrinaggio “eminentemente religioso” in
Terra Santa, effettuato nel gennaio 1964 e precisamente nella notte del 4 gennaio, giorno
del suo arrivo in Gerusalemme, abbia voluto praticare l’Ora Santa nella Basilica delle
nazioni, al Getsemani storico. Durante la meditazione getsemanica vennero alternati
canti, preghiere e passi del Vangelo che narrano dell’Agonia vissuta in quel luogo dal
Salvatore, letti in latino, greco, arabo, armeno, slavo e copto.
Nell’attualità del Getsemani prende posto anche l’ipotesi affacciata in sede scientifica a
proposito della Santa Sindone, riguardante l’impronta diffusa che disegna sulle due
superfici del lenzuolo funerario l’immagine anteriore e posteriore di Cristo. Finora le
osservazioni relative alle impronte a stampo delle piaghe e delle colature ematiche
avevano prevalso nello studio della preziosa reliquia. Oggi, un più attento esame, tende a
valorizzare l’impronta diffusa che profila la sagoma del corpo dell’ Uomo della Sindone
e la spiegazione più attendibile la riconduce al sudore ematico, cioè all’ematoidrosi
sofferta da Cristo nel Getsemani la quale coprì il suo corpo di un velo di sudore e di
emoglobina che certo non fu rimosso durante le 14 ore della passione, e durante le
pratiche della sepoltura poté riprendere, in parte, fluidità e capacità di lasciare delle
impronte in seguito all’applicazione di quegli olii aromatici di cui parla il Vangelo di
Giovanni (19,40) che furono provveduti da Nicodemo per la composizione del cadavere.
Oggi dunque una voce multanime parte dalla Chiesa invocando l’esempio e
l’insegnamento di Cristo lasciato in quella notte e la grazia meritata da lui per i nostri
bisogni attuali.

2. Il Getsemani è necessario
Un aspetto particolare dell’attualità è la necessità. Gli uomini di oggi hanno estremo
bisogno della dottrina e del modello che Gesù presenta nel Getsemani.
Anzitutto hanno bisogno di abbandonare i pensieri di illusione e di comodo, di avvertire
il pericolo che sovrasta l’umanità, e di accorgersi che una notte di regressione, di
violenza e di animalità favorisce il nemico e la congiura organizzata contro la Chiesa.
L’atteggiamento dei discepoli nel Getsemani i quali non pensano alla veglia, ma a
soddisfare il sonno è quello che dobbiamo rimproverare a noi stessi. Il sonno può essere
autentico e incosciente, ma anche spirituale, cioè consiste in falso ottimismo,
disinteresse, egoismo.
L’Italia a cui Pio XI aveva augurato “Dio all’Italia e l’Italia a Dio” riassumendo in
queste parole le lacrime, il sangue e le speranze dei Santi e dei cattolici che avevano
combattuto nell’epoca del Risorgimento e nel primo periodo dell’unità, cammina ora
sopra un sentiero fra i più pericolosi della sua storia. Da un lato l’abisso del divorzio,
dall’altro quello dell’aborto e di fronte la muraglia della tirannia comunista.
Aborto e divorzio portano a offendere Dio, a distruggere la vita, la famiglia, la moralità
e l’amore… quello vero. Il muraglione comunista è quello di carcere semi-universale
(cioè che imprigiona mezza umanità), di una tirannia che distrugge la libertà, la
democrazia e vorrebbe cancellare la religione.
Il frequente uso, anche di giovani, degli stupefacenti per dare un assurdo contenuto alla
vita di cui non conoscono il significato, il ricorso frequente alla violenza e alla
menzogna per soffocare i problemi della giustizia sociale, l’esibizione degli istinti e
l’accettazione acritica dell’opinione pubblica prevalente da parte del cittadino,
denunciano il disfacimento della nostra società.
La situazione politica italiana che richiederebbe estrema vigilanza, saggezza,
disinteresse, si sviluppa in un ambiente internazionale di estrema difficoltà per
l’estensione del messaggio di salvezza che Cristo ha affidato a Pietro e Pietro a Roma.
L’aspetto anticristiano della società ha due principali componenti che si riflettono anche
nel nostro popolo e nei popoli a cui dovremmo con l’esempio e con l’opera annunziare il
Vangelo. Si tratta in primo luogo di un effetto procurato dalla tecnica che mediante le
comunicazioni sociali dei mass-media e attraverso i trasporti aerei ha impicciolito il
mondo e mette a contatto quotidiano popoli di tutte le lingue, religioni, costumi e di tutte
le empietà. Contatto significa contagio perché il male è più diffusivo del bene e chi è
buono tende a considerare buone anche le idee sbagliate, le religioni assurde, le filosofie
del male e le teorie scientificamente superate come marxismo, freudismo,
evoluzionismo. Si va stabilizzando fra gli uomini di oggi un denominatore comune di
galateo formale, un vocabolario universale di interlingua a servizio dell’edonismo, un
codice di comportamento materializzante.
Se è vero che ciascuno renderà conto a dio secondo quello che ha ricevuto e che il
cristiano deve rispettare la coscienza di chi non ha la sua fede, è altrettanto vero che
trascendenza, legge e grazia, di cui il cristiano ha conoscenza e disponibilità, lo rendono
responsabile della situazione.
La parola di Dio non può essere messa in catene ed è quella che risuona nel Getsemani:
“Vigilate”.
“Vigilare” significa affrontare le ore notturne che i latini chiamavano “vigiliae”,
resistendo al sonno e restando all’erta per scoprire le manovre del nemico e quelle dei
traditori che lo conducono nel campo del bene.
I cristiani devono valorizzare la carica di doni dello Spirito Santo che hanno ricevuto per
rovesciare il piano di satana e rendere strade aperte al messaggio evangelico la politica,
la scienza, la tecnica e il costume del nostro tempo. Gli anni che separano dal terzo
millennio sono decisivi per trasformare l’Italia e il mondo in quel popolo che Dio
descriveva a Geremia come il vaso di creta modellato dal vasaio e come una persona che
ha la sua veste raccolta ai fianchi da una cintura di lino che simboleggia la legge divina.
Questo è possibile se i cattolici italiani affrontano la notte disposti al sacrificio richiesto
dalla vigilanza di cui Cristo ha dato ordine ed esempio. Specialmente e puntualmente il
cristiano deve abituarsi a praticare il sacrificio, cioè a rendere sacro il dolore offrendolo
a Dio nella veglia getsemanica con Gesù.
Sacrificio non vuol dire dolore sofferto con spirito di ribellione interiore ma dolore,
piccolo o grande che sia, reso sacro, cioè grato a dio, perché si compia il suo disegno di
salvezza.
Ci troviamo a questo punto di fronte all’ostacolo forse più grave, perché la tecnica ha
aumentato a dismisura la produzione dei beni mediante l’automazione, e questa ha
diminuito la fatica del lavoro (cioè la scuola del sacrificio), mentre ha creato la necessità
di suscitare nuovi bisogni voluttuari e spesso inutili, per consumare i prodotti gettati sul
mercato con ritmo crescente. Così è nato il consumismo che significa bisogno di godere
per consumare di più. Così è diminuita nel cristiano la capacità di sacrificarsi per un
ideale trascendente ed è aumentata la schiavitù che lo tiene legato al carro della moda e
della sensualità. La nostra è una società cristiana di nome e neopagana di fatto, forse,
peggio ancora, postcristiana cioè la comunità di Giuda.
Il Getsemani è sulla sponda opposta, contraltare del consumismo e del materialismo,
perché nel Getsemani il comando è quello della vigilanza e della preghiera pagati da
Cristo con il sudore di sangue. L’impresa che la Chiesa si propone, cioè di risalire la
corrente del paganesimo e di partecipare la salvezza cristiana all’intera umanità, è
l’impegno di sempre e il Getsemani traccia il cammino.
La vigilanza, come Gesù la intendeva in quella notte, era una mobilitazione delle forze
fisiche e spirituali dei suoi discepoli. Anche per il presente vigilanza significa incontro,
intesa e sforzo individuale e comune per mettere fine alla situazione di pericolo,
debolezza e confusione nella quale ci troviamo.
La forza di noi che seguiamo Cristo, ma siamo uomini, non basta. Come in quella notte
bisogna imparare da lui che la preghiera è una legge che condiziona il successo.
La Chiesa, nelle più gravi ore della sua storia, si è buttata ai piedi degli altari per
strappare dal Cuore di dio la salvezza. Così oggi è necessario, urgente, primario,
inevitabile il ricorso alla forza divina la quale soltanto può concederci di superare le
difficoltà umanamente insormontabili che abbiamo di fronte, di lato e fra noi.
E’ questione di fede. Chi crede sul serio che Dio sostiene l’esistenza dell’universo e di
ogni uomo in esso, deve rivolgersi a questa suprema Origine puntando su di essa con
tutte le forze di cui può disporre. Questo era chiaro e praticato dal popolo ebreo quando
non era aberrante e sotto il castigo di Dio. Ma è più chiaro e più facile da venti secoli a
questa parte, perché l’episodio del Getsemani dimostra che Gesù vuole averci con sé nel
momento del pericolo, che vuole essere con noi, che la nostra battaglia è la sua, che lui
né il capo e noi la sua gente.
La preghiera che Gesù consiglia è preventiva “per non entrare in tentazione”, cioè diretta
a respingere le seduzioni, le illusioni, le discordie, le debolezze suscitate da satana che è
ritornato nella notte; poi la preghiera viene presentata in forma più intima dal suo
esempio e dalla sua parola. Quando rimprovera i tre che avevano ceduto al sonno usa
un’espressione complementare e incisiva: “Non avete potuto vegliare un’ora con me?”.
La preghiera si trasforma nell’invito a rimanere con lui in una veglia orante nella quale
si rivolge al Padre perché la Redenzione raggiunga il suo fine. Questo è il significato più
profondo della richiesta di preghiera che leggiamo in questo episodio del Vangelo: vita
di unione con Cristo perché l’uomo possa partecipare con Dio alla salvezza del mondo.
Il Getsemani dove Gesù chiede amore è il sentiero della nostra preghiera e della nostra
vigilanza perché il mistero dell’incarnazione produca, nel tragico momento che viviamo,
il suo frutto.

3. Il Getsemani è permanente
La Chiesa preconciliare era favorevole a considerare la Messa specialmente come il
rinnovo della morte di Cristo, cioè come il sacrificio del Calvario che si ripete nel
tempo. La Chiesa postconciliare preferisce vedere nella Messa ilo rinnovo della cena
nella quale il Cristo ha istituito l’Eucarestia e perciò l’altare è stato rivolto verso il
popolo e la disposizione del rito ricorda il quadro di Leonardo da Vinci.
Questa sovrumana sintesi e contestualità di misteri divini è autentica in virtù del mistero
fondamentale che si realizza nella Messa: la presenza di nostro Signore e Redentore,
Gesù Cristo. Il recente Concilio lo ha confermato definendo la Messa “memoriale della
morte e della resurrezione di Cristo: sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di
carità, convito pasquale, nel quale si riceve Cristo, l’anima viene ricolma di grazia e ci è
dato il segno della gloria futura”.
Per questo e di conseguenza la Messa deve anche essere considerata come un memoriale
della passione spirituale di Gesù, un’occasione per rivivere in modo reale tanto il
Cenacolo, il Calvario e la Resurrezione, quanto il Getsemani.
L’autenticità di questa interpretazione poggia sul fatto che la transustanziazione del pane
e del vino produce il mistero eucaristico. Il Cristo ormai fuori dee tempo, ritorna bel
tempo con la piena attualità di ciò che ha detto e fatto in ogni epoca della sua vita,
tantoché a Natale è proprio la Messa che trasforma l’altare in un presepio dove nasce di
nuovo Gesù.
La rievocazione del Getsemani nella Messa è suggerita da tre motivi principali dei quali
il primo è la sincronizzazione del rito con la notte nella quale ebbe luogo l’avvenimento
del Getsemani. Dopo le letture, il credo, l’offertorio e il sanctus, e cioè nel cuore della
preghiera eucaristica, le parole della transustanziazione pronunciate dal sacerdote sono
solennemente precedute da questo riferimento: “Nella notte in cui fu tradito…”.
La notte di cui il sacerdote parla è quella annunciata quando Cristo volle celebrare la
pasqua con i suoi, la quale notte finisce con il canto del gallo, quando Pietro piange per
il suo triplice rinnegamento, cioè con l’alba del giorno nel quale Gesù muore.
Dunque la notte rivissuta nella Messa è anche la notte del Getsemani perché in quella
notte gli undici andarono con Gesù oltre il Cedron nel luogo dove c’era il frantoio. Ed è
la notte del tradimento di Giuda conosciuto e annunziato da Cristo durante la cena non
solo perché lo indicò a Giovanni, ma anche perché disse a Giuda: “Ciò che vuoi fare,
fallo presto” (Gv.13,27). Il tradimento di cui parla il canone fu consumato nel Getsemani
quando Giuda lo baciò per indicarlo ai soldati e Gesù di rimando: “Amico, perché sei
qui? Tradisci con un bacio il figlio dell’uomo?” (Lc.22,48).
La seconda nota getsemanica della Messa è quella per cui sacerdote e popolo recitano il
“Padre nostro”.
Secondo il racconto di Matteo (6,9-15), all’inizio della sua vita pubblica, Gesù salito sul
monte pronuncia il discorso nel quale esalta le beatitudini e insegna la formula del
“Padre nostro”, preghiera fondamentale per il cristiano, inserita fin dall’antichità nella
Messa e, oggi, nei “Riti di Comunione”.
Il “Padre nostro” è semplice ma solenne, in quanto il fremito della preghiera individuale
è contenuto nella maestosità ieratica della preghiera collettiva. Così è la preghiera
“insegnata” da Gesù; ma nel Getsemani scopriamo che questa preghiera è “vissuta” da
Gesù, il “Padre nostro” è individualizzato, cioè applicato da Gesù a sé stesso. Nella
preghiera del Getsemani si ravvisano facilmente gli elementi fondamentali della
preghiera insegnata. Gesù incomincia a pregare, anche qui, rivolgendosi al Padre:
“Padre, se tu vuoi, allontana da me questo calice” (Lc.22,42). Anche Matteo e Marco
riferiscono questa preghiera al Padre con leggere varianti che si spiegano pensando che
Gesù nel Getsemani abbia ripetuto molte volte la preghiera, mantenendo fissi i concetti
essenziali e modificando di poco la formula. Però mentre nella preghiera insegnata, il
Padre è invocato collettivamente come “Padre nostro”, qui, nella preghiera
personalmente sofferta, l’invocazione si individualizza e diventa “Padre mio”
(Mt.26,39). Si misura in questa variante non solo la coscienza della filiazione propria di
Gesù, ma anche il senso di isolamento e di costernazione che invadeva il suo cuore, così
da fargli richiamare l’attenzione e del Padre, urgentemente, sopra di sé.
L’apertura del “Pater” nella versione getsemanica assume un tale accento di necessità e
fiducia che Gesù, come un uomo qualsiasi, si rivolge a suo Padre, chiamandolo “Papà”.
La parola “Abba” in aramaico significa questo ed è la parola che Maria, sua Madre,
aveva insegnato a Gesù fanciullo come appellativo ordinario e domestico di Giuseppe,
suo sposo e padre di Gesù di fronte all’opinione pubblica. Gesù sa che il Padre che lo ha
“non creato ma generato”, è onnipotente e dovendosi rivolgere a lui per un motivo grave
che lo angoscia, lo chiama con l’appellativo che certamente gradisce: “Abba, Papà”.
Non è solo un dettaglio linguistico, ma un taglio teologico e biografico, che si introduce
nella preghiera ufficiale e può insegnare a chi la ripete ricordando il Getsemani,
l’intimità che la nostra qualità di cristiani ci permette non solo con la Seconda Persona
della Trinità, ma anche con la Prima che ha creato l’universo e di cui siamo figli adottivi.
Altro cardine della preghiera insegnata consiste nell’accettazione della volontà del Padre
e qui il parallelo con la preghiera vissuta non potrebbe essere più toccante. Gesù insegnò
a dire: “sia fatta la tua volontà” (Mt.6,16) e nel Getsemani esclama “non la mia volontà,
ma la tua sia fatta” (Lc.22,42). Balza agli occhi non solo l’identità del concetto, ma
anche la profonda somiglianza delle parole, per cui non si può dubitare che Gesù sia
l’autore della prima e della seconda preghiera. Conseguentemente al carattere della
preghiera getsemanica che è vissuta, sofferta, personalizzata, la volontà del Padre viene
contrapposta alla sua volontà umana, contrapposizione che manca nella preghiera
insegnata.
Altri dettagli meritano di essere rilevati nella nostra meditazione comparata. Gesù aveva
insegnato “sia santificato il tuo nome” (Mt.6,9; Lc.22,2) per esprimere il desiderio che il
Padre suo e nostro venga riconosciuto e lodato. Nella preghiera del Getsemani il
desiderio viene sostituito da un’affermazione elogiativa carica di fiducia in quanto Gesù
dice: “Abba, Padre, tutto ti è possibile” (Mc. 14,36). E’ una santificazione del nome del
Padre, basata sul riconoscimento della sua onnipotenza. Gesù ha insegnato e Gesù
realizza il proprio insegnamento.
Inoltre il “Padre nostro” insegnato da Cristo e ripetuto nella liturgia della Messa, termina
con una domanda: “Non ci indurre in tentazione” (Mt. 6,13; Lc.21-1,4). Un senso di
sfiducia nell’uomo anima queste parole che esprimono un riconoscimento della sua
fragilità. Ovviamente Gesù non poteva applicarle a se stesso e perciò non si trovano
nella preghiera individualizzata del Getsemani. Però anche qui vi è traccia di questo
timore di Gesù per gli uomini di cui conosceva la grande debolezza e traspare nelle
parole rivolte ai discepoli: “Vegliate e pregate per non cadere in tentazione. Lo spirito è
pronto, ma la carne è debole” (Mc.14,38), parole che possono essere ricollegate
all’ultima domanda del “Padre nostro” anche per dimostrare l’autenticità del ricordo
getsemanico nella Messa.
Un parallelo getsemanico che dipende dal modo stesso come Cristo celebrò il sacrificio
nell’ultima cena, consiste nel fatto che il pane e il vino vengono transustanziati
separatamente per cui sull’altare si verifica una separazione del sangue dal corpo di
Cristo. E’ ben vero che la Chiesa crede che tutto Cristo è in ciascuna delle due specie
consacrate e lo significa disponendo che il sacerdote dopo la consacrazione mette nel
calice un frammento dell’ostia. Ma è altrettanto vero che anche nel Getsemani a motivo
dell’ematoidrosi, il sangue di Cristo, in parte, si separa dal corpo. In ogni caso è dato
certo che sull’altare dopo la consacrazione, la specie del corpo è separata dalla specie
del sangue e questo è rilevante perché induce il fedele a pensare al sangue di cui parla il
medico evangelista Luca: “il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a
terra” (Lc.22,44).
Infine il Getsemani dimostra in modo palese la verità di quanto la Preghiera Eucaristica
afferma nella Messa con queste parole: “Accettando liberamente la sua passione”. Che il
Cristo avesse la possibilità di fuggire, ma che abbia voluto cadere nelle mani di coloro
che volevano ucciderlo è provato dal fatto che scelse, per passarvi la notte, il Getsemani
dove Giuda lo avrebbe cercato.
Anche la presenza dell’angelo confortatore, l’effetto delle parole “Sono io” di cui parlerà
nel paragrafo seguente, la guarigione miracolosa dell’orecchio di un servo di Caifa che
Pietro aveva ferito e l’osservazione fatta al medesimo Pietro che il padre avrebbe potuto
inviare legioni di angeli per salvarlo indicano che Cristo, per i mezzi soprannaturali di
cui disponeva, avrebbe potuto sfuggire alla sua passione, ma non lo volle per rispetto
alla volontà del padre che impegnava la sua libertà.

4. “Sono Io”
Nel Getsemani, luogo della sua più grande angoscia, Gesù volle che non mancasse un
piccolo Tabor, cioè una dimostrazione della sua divinità come prova che egli accettava
“liberamente” la sua passione e perciò come esempio ai cristiani e sostegno della loro
fede.
Il piccolo Tabor s’innesta nell’avvenimento getsemanico quando arriva Giuda con i servi
e i soldati del tempio per catturare Gesù. L’evangelista Giovanni ne riferisce
puntualmente con questo dettaglio: “Allora Gesù, che sapeva tutto quello che doveva
accadere, si fece avanti e chiese loro: “Chi cercate?”. Gli rispondono: “Gesù Nazareni”.
Gesù dice loro: “Sono io”. C’era anche Giuda, il suo traditore, con loro. Ma appena
Gesù ebbe detto loro: “Sono io”, indietreggiarono e caddero per terra. (Gv.18, 4-6).
Gesù aveva usato queste parole “Sono io” nella tempesta del lago quando i suoi
credettero di vedere un fantasma (Mt.14, 26-27) e le userà per convincerli della sua
resurrezione (Lc.24,36), mentre nel Getsemani “Sono io” ha il significato di attestare la
sua divinità come Dio aveva fatto nell’Antico Testamento: “Io sono il Signore” (Isaia
43,11). A queste parole quelli indietreggiarono e caddero a terra. Anche se l’apparizione
della divinità è fugace e la cattura riprende, serve a dimostrare che il piano delle cose
umane e delle cause naturali è superficiale e dietro ad esso si sviluppa il piano divino
delle cause soprannaturali efficienti.
Andare al Getsemani significa dunque oltrepassare con il pensiero la contingenza delle
cose terrestri e vivere nella realtà divina, piano che il cristiano raggiunge con
l’osservanza dei comandamenti e approfondisce seguendo con docilità la voce dello
Spirito Santo che guida la sua coscienza, come guida chiunque perché raggiunga ed
eserciti la funzione soprannaturale che gli è stata assegnata nel piano creativo di Dio.
Il consiglio Getsemanico “vigilate” non riguarda solo il nemico che opera all’esterno,
ma ancor prima la tentazione che aggredisce l’anima per allontanarla dal progetto di Dio
e che Gesù ci ha insegnato a temere chiedendo al Padre “non ci indurre in tentazione”
ancor prima di chiedergli “liberaci dal male”.
Per la comprensione, la difesa e lo sviluppo del piano soprannaturale della nostra vita
individuale sono utili e perciò raccolti e suggeriti dalla Chiesa gli esempi dei Santi.
Nella molteplicità di espressione di questi uomini che in tempi e condizioni diversissime
hanno compiutamente realizzato il volere di Dio e la vocazione individuale, vi è la
dimostrazione lampante che ciascuno ha il suo compito da svolgere, diverso nel contesto
della società, ma egualmente essenziale di fronte a Dio. La voce della coscienza
individualizza il compito di ciascun uomo e gli ripete l’origine della sua vocazione:
“Sono io”, Gesù Cristo.
L’esistenza naturale, temporale dell’uomo è provvisoria e precaria. L’esistenza autentica
e perenne sarà quella in Dio che viene preparata dalla vita soprannaturale che l’uomo
può condurre nel tempo rispondendo positivamente alla vocazione di Dio.
Sta scritto nel Vangelo: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio
se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo
voglia rivelare” (Mt.11,27). Dunque è il Figlio che sceglie e chiama, come pure è tramite
per realizzare il disegno di Dio. “Che cosa dobbiamo fare – gli chiede la folla – per
compiere le opere di Dio?” Gesù risponde: “Questa è l’opera di Dio, credere in colui che
ha mandato” (Gv. 6,27) e San Paolo sviluppando questo principio, aggiunge: “Egli è
morto per tutti perché quelli che vivono non vivano più per sé stessi, ma per colui che è
morto e risuscitato per loro” (Cor.5,15).
Che poi Gesù, a sua volta, desideri questo lo ha dimostrato anche attraverso la materia e
la forma con la quale ha istituito l’Eucarestia. Nulla ha maggior senso di unione nella
vita dell’uomo del cibo e della bevanda per chi li assume. “Questo è il mio corpo…
questo è il mio sangue… mangiate e bevete tutti”. L’ordine che viene ripetuto nella
Messa è semplice e trasparente. Gesù desidera la vita d’unione con ciascuno di quelli
che ha prescelto per arricchirlo di grazia e renderlo capace di ritrasmettere il messaggio
e dilatare la luce, la grazia, la salvezza.
I discepoli non avevano ancora capito tutto questo ed essendosi addormentati avevano
lasciato Gesù solo nel Getsemani. Di qui il suo lamento, e la frustrazione del suo
desiderio di vivere la vita d’unione con l’uomo che non solo arricchisce divinamente
l’uomo stesso, ma conforta il suo Cuore per il tradimento di altri uomini.
Nella vita dei Santi questo ricambio d’amore fra Cristo e l’uomo è la sostanza della vita
soprannaturale condotta in grado eroico.
Meditando sul dato getsemanico di Gesù che dopo aver affermato il suo desiderio di
amore umano, prima di lasciarsi imprigionare, condannare e giustiziare ritiene
opportuno di dimostrare la sua forza divina buttando a terra la banda di Caifa, ci mette in
grado di superare il volto terrestre degli avvenimenti e vedere il dramma di Dio che si
mescola al dramma umano ricavandone una lezione di certezza e di fiducia.
La fiducia deve essere quella che traspare dal “Padre nostro” nel quale Gesù insegna a
chiedere “il pane quotidiano” cioè non più dell’aiuto per ciò che giornalmente occorre,
senza eccessivi calcoli previdenziali o di apprensione per gli avvenimenti del futuro che
sono inclusi nella volontà di Dio.
Al volere divino il cristiano non solo si attiene e si affida ma lo invoca. L’inciso “sia
fatta la tua volontà” del Pater Noster come pure quello “Non la mia volontà ma la tua sia
fatta” del Getsemani, non hanno un significato di rassegnazione per un avvenimento
inevitabile, ma di primato assoluto per ciò che Dio vuole.
In altri termini, la lezione fondamentale di Gesù nel Getsemani è quella della
“disponibilità” perché è Dio stesso, cioè la sua grazia, che costruisce la vita e la santità
del cristiano, la Chiesa, la salvezza dell’umanità e ricostruisce con vantaggio il piano
che Dio aveva stabilito nel creare l’universo ed in questo ciascun uomo.
La disponibilità rispetto a Dio scalza dalle fondamenta l’orizzontalità delle scelte umane
che le tecnocrazie dei governi politici, della vita e del comportamento umano hanno
seminato e vanno seminando nella società di oggi e fra i cristiani.
La notte che dobbiamo vivere perché Cristo ci ha invitato nel Getsemani, è una notte
illuminante e feconda che si chiuderà con il canto del gallo, canto di vittoria perché
Cristo si è incaricato di vincere, con la sua, la nostra morte.
Nella luce delle rivelazioni del Sacro Cuore a Paray-le-Monial, “Sono io” ha il
significato delle parole che sono scritte sull’altare di Santa Margherita Maria: “Ne crains
rien, je regnairais malgré mes ennemis” (“non temere nulla, regnerò malgrado i miei
nemici”).
Primo gruppo di Meditazioni
1. “SCANDALUM PATIEMINI”
“Voi tutti resterete scandalizzati”

1 - Cantato l'inno dell' hallel, Gesù e gli Apostoli uscirono dal Cenacolo, attraversarono
Gerusalemme e si avviarono verso il monte degli ulivi.
Uscendo dalla porta della città, chiamata “Porta della fonte”, entrarono nella notte della
valle di Giosafat e fu questo passaggio, forse, a cambiare il tono e la sostanza delle
parole di Gesù.
La notte gli veniva incontro ostile, a guisa di una cappa di piombo, e come desiderosa di
soffocare quell'immensa carità che era divampata poc'anzi nell'istituzione del
sacramento eucaristico.
Le tenebre potevano apparire al Redentore come un'immagine del buio spirituale verso il
quale procedeva. Il regno dell'errore e del peccato sembrava aprirsi per inghiottire la
vittima, o ergersi di fronte a somiglianza di una misteriosa e inesorabile muraglia.
Gli uomini si difendono dalla notte dormendo, ed anche a Gesù poteva sembrare un
conforto cedere di fronte alla stanchezza di quel giorno di eccezione e cercare un luogo
dove riposare. Ma il sonno è finito per Lui; il Cristo non dormirà più ed Egli lo sa... La
notte lo avvolge quasi coltre funebre e richiama al suo spirito la realtà imminente ed
atroce.
E' l'ultima notte della sua vita terrena e sarà la più tragica. Egli richiamerà fra poco
l'attenzione degli Apostoli su questa notte: “In ista nocte”; il programma di sofferenze
che essa gli serba si apre con un dolore intimo che attanaglia in questo momento il suo
cuore. Egli sente di doverlo comunicare ai suoi Apostoli, poiché di essi si tratta, e vuole
in qualche modo premunirli: “Omnes vos scandalum patiemini in me, in ista nocte”
L'espressione di Gesù lascia prevedere che gli Apostoli non solo si sarebbero
scandalizzati per le vicende della passione ma anche, scandalizzandosi, ne avrebbero
sofferto.
Gesù è profondamente turbato per questo duplice pensiero. Egli che aveva sempre
evitato gli scandali, anche quelli che potevano derivare da inosservanze tributarie come
quando volle che Pietro pescasse quel pesce che portava nella bocca una moneta “Per
non recar ad essi scandalo” (Mt. 17,26); Egli che aveva usato contro gli scandali le
parole più aspre, come quelle pronunciate a difesa dell'innocenza dei piccoli “Guai al
mondo per causa degli scandali... guai all'uomo per colpa del quale viene lo scandalo”
(Mt. 18,7), Egli sta ora per diventare motivo di scandalo, e coloro che si
scandalizzeranno non sono uomini qualsiasi, ma quelli che ha scelto e sopra ogni altro
amato, e dai quali, così come essi possono, è riamato.
Vi sono modi diversi di subire uno scandalo; vi è chi si scandalizza e ne ride; vi è chi si
scandalizza con finta ira stracciandosi le vesti, ma vi è anche chi soffre per lo scandalo
che riceve e così avverrà per gli Apostoli.
Gesù, tormentato dal pensiero di procurare scandalo e dolore, cerca un rimedio
ricorrendo alle profezie e ripete agli Apostoli, come tante volte in passato, la necessità
che Egli soffra, che il pastore sia percosso, che le pecore siano disperse.
Le sue parole giungono nella notte alle orecchie di quelli che camminano con lui e
particolarmente di Pietro, il quale, forse, Gli era a lato e lo colpiscono.
Egli ferma il suo pensiero sulle parole: “Omnes vos scandalum patiemini in me” (Tutti
voi patirete scandalo per me). Quelle successive non lo interessano.
Si direbbe che neppure gli importi che avvenga o non avvenga, in linea assoluta, lo
scandalo annunziato da Gesù.
A Pietro importa che non si creda ad una sua infedeltà ed esclama:
“Et si omnes scandalizati fuerint in te, ego numquam scandalizabor” (Mt. 26, 33 -
Quand'anche tutti patissero scandalo per te, io non mi scandalizzerò mai)
E Gesù gli risponde con tristezza, ma anche con dolcezza:
“Amen dico tibi quia in hac nocte, antequam gallus cantet, ter me negabis” (Mt, 26, 34 -
In verità ti dico: questa notte, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte)
Le negazioni di Pietro, ecco una conseguenza dello scandalo annunziato da Gesù.
“Percutiam pastorem, et dispergentur oves gregis” (Mt. 26,31 - Percuoterò il pastore, e
saranno disperse le pecorelle del gregge)
Gesù sa che le parole del profeta furono pronunciate per questi suoi Apostoli che lo
accompagnano protestando la loro fedeltà, e che nel Getsemani, fra poco, saranno
scandalizzati e dispersi.
Egli sente avvicinarsi il momento critico per il suo collegio apostolico, eppure avanza,
nella notte, verso il Getsemani.

2 - Non solo per Gesù, ma per chiunque collabori alla grande opera della Redenzione
può accadere quello che accadde in quella notte e cioè che il mondo si scandalizzi di lui.
Lo scandalo vorrà dire meraviglia per il suo operato, dolore, perdita della stima.
L'opinione pubblica è uno strano impasto di impressioni collettive, ordinariamente
sfavorevole a tutto ciò che rappresenta un fattore di novità e tanto più quando sgorga
dall'iniziativa privata.
Si discutono le intenzioni, si scoprono fini reconditi, si demolisce (è facile demolire!), si
stronca; per cui un'atmosfera di scandalo circonda alle origini le opere nuove, proprio
quando esse dovrebbero riscuotere maggior comprensione ed aiuto.
Ma non soltanto le opere destano scandalo, sincero o falso, nell'opinione pubblica, ma la
stessa vocazione operaia può essere accolta dal mondo come un motivo di smarrimento,
come se essa venisse ad infrangere le norme del buon senso, della consuetudine, dei
diritti e dei doveri!
Quando un'anima raccoglie nella sua intimità la voce di Dio e si avvede che Egli le va
dischiudendo gelosi orizzonti soprannaturali insegnandole a considerare i valori terreni
come mezzi per i quali non occorre impegnarsi come per un fine assoluto, poiché questo
risiede unicamente nella adorabile volontà di Colui che ha creato e redento il mondo;
quando quest'anima concepisce la determinazione di votare a tale scopo la vita
rinunciando a determinati diritti ed accettando nuovi doveri; quando questa liberazione
dell'anima dai lacci dell'umanità fa sbocciare sulle labbra, e prima nel cuore, una parola
rivoluzionatrice: consacrazione, allora si determina spesso un controscena doloroso,
reazione di anime e talora di ambiente, incomprensione e scandalo.
Rappresentanti del passato e del presente insorgono, in nome della famiglia,
dell'avvenire ed anche dell'apostolato.
In buona fede, di solito, e anche con zelo, molti cercano di alzare delle barricate sul
cammino che mette l'anima in relazione con Dio.
Vi è almeno un'ora nella quale le vocazioni più folgoranti e le opere più splendide
appaiono in una luce di scandalo.
E il turbamento suscitato dallo scandalo è tanto più grave e doloroso, quando delle
anime buone e care appaiono vittime della mormorazione, della calunnia, delle visioni
limitate, dell'esagerato tradizionalismo, dell'opinione pubblica, insomma.
Non essere capito dai cattivi, anzi essere combattuto dai nemici è buon segno, può
preoccupare, ma non addolora, è uno stimolo al bene, un pungolo per il nostro
apostolato spesso lento come il bue.
Ma non godere della comprensione dei buoni ed esser osteggiato, travisato, al punto da
suscitare dello scandalo, è straziante per il cuore dell'operaio.
Allora egli consideri che il Cristo, avviandosi al Getsemani, ha sofferto indicibilmente
questo dolore.

3 - Quando si affaccia la possibilità di uno scandalo, anche se lo scandalo è artificioso o


comunque ingiustificato, il primo moto di un'anima finemente educata dallo Spirito
Santo, consiste nel cercare di evitare, fin dove è possibile, lo scandalo.
Può capitare di essere causa di scandalo in modo involontario, ma non senza un motivo
oggettivo.
Pur essendo animati dalla migliore buona fede e di ottima volontà sono possibili
valutazioni sbagliate, parziali, inconsistenti.
Da un programma ottimo possono derivare conseguenze dannose.
Ma anche quando tutto procede per il meglio ed il fine conseguito appare buono, le
affilatissime lame della mormorazione e della calunnia aprono ferite alle spalle di chi
lavora, deformando l'opinione pubblica e spargendo il seme dello scandalo.
Lo scandalo è sempre dannoso. Anche quando il presunto autore dello scandalo è
estraneo al fatto, oppure il fatto non deve essere interpretato a suo favore, anzi talora a
sua lode.
Lo scandalo porta sempre a galla della melma per cui il malvagio, approfittandone, può
pescare nel torbido.
Gli onesti perdono la serenità, hanno la penosa sensazione di un crollo interiore, di aver
incontrato qualcuno che abbia abusato della loro fiducia.
“calunniate, calunniate, qualche cosa resterà”; restano infatti delle cicatrici nelle anime
che hanno sofferto uno scandalo, anche se provocato dalla calunnia, che non sempre il
tempo e le circostanze riescono a cancellare.
Perciò lo scandalo, fin dove è possibile, deve essere evitato.
Spesso bastano delle precauzioni modeste, così modeste da sembrare inutili e
trascurabili.
Ma una carità più esperta deve suggerirci che nulla è piccolo e secondario quando si può
evitare al prossimo un motivo di incertezza, o un dolore.
Talora basta comunicare ad altri le intenzioni prima di agire non solo per chiedere
consiglio, che sarebbe già molto, ma anche per studiare la reazione del prossimo al
progettato piano d'azione.
Questo sondaggio rende esperto l'operaio, gli mostra gli aspetti della sua impresa che
sono, o che possono sembrare, meno simpatici; egli scoprirà in anticipo rispondenze
inimmaginabili, potrà smussare gli angoli, prevenire gli equivoci, ed avrà in seguito, nei
suoi consiglieri, dei sostenitori convinti.
Noi, povero uomini siamo così fatti che le notizie improvvise ci muovono alla
diffidenza, alla critica e talora allo scandalo.
E basta così poco, a volte, per evitare tutto questo...
Un altro accorgimento per ovviare all'atmosfera di scandalo intorno alle nostre opere
consiste nel rivestirle, come si conviene, di umiltà.
L'esempio del Cottolengo, così antitetico a tutte le forme della moderna propaganda, il
quale chiamava “Piccola Casa” la sua opera colossale, insegni.
Tutto è piccolo al cospetto di Dio e di ciò che Dio merita! Tutto è insignificante quando
si pensi a ciò che avrebbe dovuto essere, se la nostra miseria non avesse avvelenato
l'impresa.
Non è per opportunismo che dobbiamo evitare ogni lode verso l'opera nostra, ma per
convinzione e come in omaggio alla verità.
Avviene che il fascino dell'umiltà si espande attorno al lavoro dell'operaio evitando che
se ne parli a torto, con ipercritica e con sapore di scandalo.

4 - Ma spesso la buona volontà non basta. Quando un'anima sente la chiamata di Dio e si
dispone a seguirla per consacrarsi a Lui, non manca quasi mai, come si disse, chi non
ritenga inopportuna la decisione, nociva ed anche scandalosa.
E' lo scandalo dei pusillanimi, di chi non sa misurare le cose se non con il metro umano,
di chi non ricorda le apostrofi di Gesù: “Qui amat patrem aut matrem plus quam me,
non est me dignus” (Mt. 10, 37 - Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di
me).
Di fronte a questo scandalismo che tenta di sbarrargli la strada, esauriti tutti gli
argomenti che la carità può suggerire, chi è chiamato non può indugiare: prima il volere
di Dio e poi il volere degli uomini.
In questo caso, e sempre quando lo scandalo si oppone all'adempimento di un dovere,
bisogna saper affrontare lo scandalo.
Con il pensiero rivolto a Gesù che, pur dolorando per lo scandalo imminente, procedeva
verso il Getsemani.
Con la sua ferma e serena decisione. Con la sua dolcezza, affinché le anime non siano,
per quanto possibile, turbate.
Con la sua tristezza, per sincerità interiore e perché sia chiaro che a malincuore si
affronta la condanna del prossimo.
Da questo esempio che riguarda il primo passo della vita operaia, ossia la consacrazione
individuale, il pensiero di chi medita può passare ad innumerevoli altre circostanze che il
buon operaio può incontrare sul suo cammino.
Per ogni opera, e quasi per ogni atteggiamento dell'operaio, vi è la possibilità che le sue
intenzioni vengano travisate e che il mondo sollevi il polverone dello scandalo attorno a
lui, speculando sulle manchevolezze o sulle circostanze sfavorevoli.
La prima cosa che diranno sarà che l'operaio lavora per il suo interesse, o per vanagloria,
o per tornaconto della Società a cui appartiene. Quando poi sarà chiaro lo spirito di
rinuncia con il quale le opere vengono costruite, si troveranno altri modi per intaccare
sottilmente l'impresa apostolica. E lo scandalo sarà tanto più aspro, doloroso e meritorio,
quanto più viene da coloro che dovrebbero invece comprendere, scusare, favorire,
ringraziare.
Bisogna rifarsi, allora, alla tragica notte del Getsemani e mettersi accanto a Gesù che
procede nelle tenebre con il cuore squarciato dal dolore.
Egli temeva di sollevare uno scandalo e noi diciamogli che soffriamo con Lui, del suo
stesso dolore, e che vogliamo essere partecipi, per consolarlo, del suo scandalo.
2. “POSTQUAM RESURREXERO”

1 - Camminando nella notte, fuori della porta esterna di Gerusalemme e nella direzione
del Getsemani, Gesù aveva cercato di premunire gli Apostoli contro lo scandalo che
avrebbero sofferto a cagione sua, richiamando le parole della Bibbia.
Ma questo tentativo non basta alla sua carità. Gesù ora fa ricorso ad un altro mezzo per
sostenere, nella prova, la fede degli Apostoli: egli profetizza nuovamente la sua
resurrezione.
Spesso Gesù aveva parlato della passione ed aveva anche annunciato, più o meno
apertamente, la risurrezione.
Anche i prìncipi dei sacerdoti e i farisei ne erano a conoscenza e, temendo una
risurrezione, vera o simulata, chiederanno a Pilato di mettere delle guardie al sepolcro:
“Domine, recordati sumus, quia seductor ille dixit adhuc vivens: post tres dies
resurgam” (Mt. 27,63 - Signore, ci siamo rammentati che quel seduttore disse ancor
vivo: dopo tre giorni risusciterò). Se gli Apostoli avessero meditato queste parole la loro
fede non sarebbe ora in pericolo.
Ma Gesù li conosce, sa che cercano ogni volta di confinare i suoi insegnamenti
nell'ambito più ristretto, sensibile, tradizionale.
Perciò Egli ritiene opportuno di ritornare, in questo momento decisivo, sull'argomento
della resurrezione.
Ne parla di scorcio, come di cosa ben nota che gli serve di riferimento per dare ai suoi
Apostoli un appuntamento in Galilea: “Postquam resurexero - Egli dice - praecedam vos
in Galileam” (Risuscitato ch'io sia, vi precederò in Galilea - Mt. 26, 32).
Sembra di scoprire in questa frase un finissimo accorgimento di Gesù per dare al
pensiero della sua resurrezione un tono pratico, domestico, convincente. Non è più
l'annunzio di sapore profetico con il quale Egli disse un giorno che il popolo ebreo non
avrebbe visto altro miracolo se non quello, rinnovantesi, di Giona profeta: “Generatio
mala et adultera signum quaerit, et signum non dabitur ei, nisi signum Ionae prophetae
- Sicut enim fuit Ionas in ventre ceti tribus diebus, et tribus noctibus; sic erit Filius
hominis in corde terrae tribus diebus, et tribus noctibus” (Questa generazione malvagia
e adultera va chiedendo un prodigio: e nessun prodigio le sarà concesso tranne quello del
profeta Giona - Ché, come Giona stette tre giorni e tre notti nel ventre del cetaceo, così
starà il Figlio dell'uomo tre giorni e tre notti nel seno della terra - Mt. 12, 39-40)
Egli parla ora della resurrezione quasi con noncuranza, come di un fatto di cronaca che
può essere facilmente anticipato per uno scopo preciso e pratico: quello di convocare gli
Apostoli fra poco in Galilea; come di un avvenimento assolutamente sicuro che entra
nella sfera degli impegni imminenti.
Questo tocco leggero non è indice di trascuratezza, anzi sembra pensato per incidere
nella mente e nel cuore degli Apostoli, diffidenti ed impressionabili, più di quanto non
potesse un'affermazione solenne; quasi per creare un'atmosfera di convinzione intima e
di attesa serena intorno al fatto della resurrezione.
E' una parola che Gesù adopera, non più di una; quanto è strettamente necessario per
ricordare il miracolo: “resurexero”. Eppure in questa parola vi è una sicurezza
conquistatrice, poiché il miracolo è così certo che non solo viene annunziato, ma dato
per sicuro in relazione al viaggio da compiersi in Galilea.
Questa parola, che parla del più grande miracolo di Cristo, è come un'attestazione della
sua divinità alle soglie dell'episodio che deporrà più d'ogni altro per la sua umanità.
E' come l'ultimo raggio del Tabor prima del Getsemani.

2 - Il trionfo sulla morte è la grande prova offerta al mondo per testimoniare la divinità
di Gesù. Egli è risorto e poiché non è proprio della natura umana rompere i lacci della
morte ridonando vita ad un cadavere, per questo Egli è Dio. Gesù è risorto. Gesù è Dio.
Fra queste due espressioni corre un legame logico pari ad un segno matematico di
eguaglianza. Non è dell'uomo sopraffare la morte.
Ma se Gesù Cristo è Dio, deve riscuotere, più e meglio la nostra fede e la nostra
adorazione. E' singolare che, prossimo ad entrare nel Giardino degli ulivi, Gesù abbia
voluto richiamare, accennando alla resurrezione, i fulgori della sua divinità. Come per
ammonire gli Apostoli, e noi stessi, che l'estremo abbattimento del Getsemani non dovrà
mai farci dimenticare che colui che soffre è il Figlio di Dio e perciò Dio, infinitamente
sapiente nell'ammaestrarci e infinitamente potente nell'aiutarci.
Possediamo noi, veramente, questa fede nella divinità del Cristo? Non è essa più
dottrinale che pratica, giustapposta alla nostra vita piuttosto che macinata e intimamente
commista alle nostre azioni?
La nostra è una fede gelida come quella di chi crede in un fatto storico perché ottimi
documenti lo provano, ma non è purtroppo, o non a sufficienza, la fede in una realtà
operante che l'uomo, e perciò noi stessi, abbiamo a disposizione: la divinità del Cristo.
Come agli Apostoli, così sembra che Gesù dica a noi che non è possibile accostare il
Getsemani senza prima rinvigorire in noi stessi la fede nella sua divinità. Il Magnificat
che l'operaio recita ogni mattina quando riceve il sacramento eucaristico ha il significato
di un riconoscimento di questa verità che rende il dono di Dio sopra ogni altro prezioso,
di una lode all'Altissimo per la quale non è possibile trovare parole più degne di quelle
usate da Maria, di un atto di fede che si appunta in Colui che un giorno si fece carne in
Maria e che ora si fa carne, per così dire, in ciascuno di noi. Gesù Cristo è Dio!

3 - La concretezza operaia richiede che lo spirito di fede nella divinità di Cristo non sia
contenuto nei confini della devozione, ma che da questa dirami, alimentando ogni
espressione della sua vita. Un aspetto pratico e fecondo consiste nel prestare fede
assoluta alle parole scritturali che racchiudono il segreto pensiero e la volontà del Cristo.
L'operaio deve avere dimestichezza quotidiana con il Vangelo, e tutti gli episodi che
riportano l'esempio di Gesù ed il suo insegnamento devono essere oggetto di una
meditazione che non avrà modo di esaurirsi nel corso della vita, ma ogni giorno si
rinnovellerà cogliendo nuovi particolari e nuove applicazioni.
Le parole del Vangelo sono profumate di una giovinezza inesauribile e diffusiva. Nelle
pieghe di ogni frase è racchiuso il segreto della santità, e ciascuno vi può ritrovare il suo
tipo, quello che si adatta alla sua costituzione spirituale ed al momento particolare che
egli attraversa.
L'esperienza della Chiesa insegna che molti santi trassero dal Vangelo lo stimolo e la
direttiva della loro azione.
Classico l'esempio di San Francesco che avendo udito dal Sacerdote nella Messa il
Vangelo che dice: “Nihil tuleritis in via, neque virgam, neque peram, neque panem,
neque pecuniam, neque duas tunicas habeatis” (Non prendete niente per viaggio, né
bastone, né bisaccia, né pane, né danaro, e non portate due vestiti - Lc. 9,3), concepì
l'ardito disegno di condurre a nozze Madonna Povertà.
Gesù medesimo ha chiesto che alle sue parole fosse attribuita tutta la fede.
Occorre piegarsi sul Vangelo come il navigatore sulla bussola dove l'ago magnetico
sostituisce la stella polare quando il cielo è coperto. Il Vangelo sostituisce, in parte, la
presenza sensibile, umana, del Cristo al nostro fianco.
Come l'Eucarestia è il Verbo fatto carne, così il Vangelo è il Verbo fatto parola adatta per
noi.
Egli lo ha detto. Alle parole di Gesù dobbiamo aggrapparci con le radici più profonde
del nostro essere, così che la fede in Lui non ci possa venire tolta quand'anche ci fosse
tolta la vita; fede umile, indistruttibile, generosa, fiera.
Quando le ore getsemaniche incombono e l'orizzonte umano appare gravato, la nostra
fede nell'esempio e nella parola di Cristo deve esaltarsi. La fede è virtù specialmente
quando l'atto di credere costa sacrificio e rinunzia; ora questo non tanto avviene nel
settore speculativo dove affermare il trascendente, per chi ragiona, è una necessità più
che un merito, ma piuttosto nelle vicende della vita ordinaria quando l'insegnamento del
Cristo pare contrasti con il punto di vista umano che sembrerebbe richiedere superbia
invece di umiltà, violenza invece di bontà, disperazione invece di speranza.
In tali giorni, così frequenti sul cammino dell'operaio, veniamo a constatare quanto costi
un atto di fede pratica. Allora, quand'anche la natura insorga in un conato di ribellione,
dobbiamo raccogliere tutte le forze di resistenza di cui possiamo disporre per dire a Gesù
che crediamo in Lui, vero Dio, vittorioso della morte e di ogni raggiro demoniaco, e per
ripetergli l'espressione di Pietro: “Domine verba vitae aeternae habes” (Signore, tu hai
parole di vita eterna - Mc. 16,7)

4 - L'ultimo grande colloquio con i Dodici ebbe luogo nel Cenacolo e si protrasse nella
notte attraverso le vie di Gerusalemme e fuori le mura.
Siamo ora alle ultime battute e poi verranno i persecutori a disperdere il gregge
apostolico.
Gesù prende una misura di sicurezza e dà convegno ai suoi apostoli in Galilea per
quando sarà risorto.
Questo annunzio rimarrà nei loro cuori trascurato e quasi sommerso dagli avvenimenti
della passione, ma rivivrà quando questi galilei impauriti ascolteranno dalle donne le
parole ammonitrici dell'angelo trovato a custodia del sepolcro: “dicite discipulis eius, et
Petro, quia praecedit vos in Galileam; ibi eum videbitis, sicut dixit vobis” (Andate a dire
ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea; quivi lo vedrete come vi ha
detto - Mc. 16,7).
Sorgerà allora, dalle profondità del loro essere, il richiamo dei monti, del lago, delle
case.... Muoveranno verso il Nord e la promessa ritornerà come da lontano, le parole
udite nella notte acquisteranno uno splendore come se fossero scritte col fuoco:
“Pracedam vos....” (Vi precederò - Mt. 26,31 - Mc. 14,28). Ed essi partirono fiduciosi.
Ma chiediamoci il perché di questa espressione di Gesù. Egli avrebbe potuto dire:
“Andate ed io vi raggiungerò”. Invece vuole precedere in Galilea il suo collegio
apostolico: “Praecedam vos”.
C'è lo stile di Gesù, in queste parole. Il dolcissimo Nazareno annunziatore delle
beatitudini ed operatore dei miracoli vuole essere un Capo, e il Capo precede.
Mille volte ha predicato questo stile con l'esempio ed ora lo dichiara in forma
circostanziata con le parole.
Gesù ha sempre preceduto i suoi cristiani aprendo la via della buona novella, come la
prua precede la nave. Egli ha affrontato i Farisei, i Sadducei, i lapidatori dell'adultera, i
venditori nel tempio e potrà dire fra poco, nel Getsemani, a quelli che lo odiano: “Cum
quotidie vobiscum fuerim in templo, non extendistis manus in me...” (Quando mi trovavo
con voi ogni giorno nel tempio, non stendeste mai la mano contro di me - Lc. 22, 53).
Il Cristo non conobbe viltà, fu pronto a pagare di persona, a fare e ad insegnare, a
precedere in ogni momento quelli che ebbero fede in Lui, ed ora lascia intendere che
questo sarà il suo stile anche in seguito, dopo la resurrezione.
“Praecedam vos” sono parole che devono suonare come monito e come conforto al
cuore dell'operaio. Per mancanza di idee, di volontà, di virtù, o per altre mancanze, gli
uomini sono di solito inerti, attendono che altri li trascini per le vie del bene e perciò
l'operaio deve spesso assumere il più grave peso delle opere apostoliche, l'iniziativa.
Rompere il ghiaccio dell'indifferenza e il tenace avvolgimento dell'inerzia spirituale è
per lui un compito preciso e frequente.
Egli non può trovarsi di fronte ad una situazione spiritualmente stagnante senza avvertire
l'impulso di agitare quelle acque perché si compia il miracolo dell'apostolato cristiano.
Risvegliare i dormienti, indicare la meta ai dubbiosi, sostenerli, spingerli, trascinarli, se
occorre. In una parole: precedere.
Quando l'operaio si troverà in queste contingenze, amareggiato e stanco, quando la
tentazione di fermarsi, di accontentarsi, di pensare a sé si insinuerà nella sua anima
strisciando, come un serpente, allora egli risenta la parola programmatica di Gesù
“Praecedam vos” e dica a se stesso che tale è la sua missione sulle orme dell'Operaio
divino: precedere. Lo stile di Gesù continua, nel tempo, dopo la sua resurrezione.
Chiunque ha la fortuna di collaborare con Lui alla Redenzione sa, per esperienza, che
questo è il metodo del nostro Capo, il Cristo. Per vie misteriose ed espertissime, interiori
od esterne, giunge il momento nel quale l'operaio sente di essere preceduto da una forza
invisibile che al tempo giusto abbatte le difficoltà, illumina, conforta, sprona, indica la
strada. Non è una percezione umana, ma pure così evidente, direi sensibile, che
rappresenta per chi la esperimenta, una prova intima, personale dell'esistenza di Dio.
Lungi dall'abbandonare il suo operaio, Egli lo accompagna, passo passo; il suo aiuto è
nascosto all'occhio del profano ed anche colui che lo riceve non può antivedere per dove
e come sarà preceduto da Gesù. E' u aiuto, dunque, che viene fornito all'uomo con un
meccanismo che non rende mai superflua la virtù della fede, anzi la postula: e perciò
deve applicarsi all'operaio la parola della Sapienza: “Iustus ex fide vivit” (Il giusto vive
di fede - Abac. I, 2,4).
Lavorando con retta intenzione e al cospetto di Dio, egli sa che Gesù lo precede, ed è il
suo più grande conforto vivere di questa fede.
3. “NON TE NEGABO”

1 - Il colloquio di Gesù con Pietro nel quale Egli profetizza la triplice negazione del
principale degli apostoli viene riferito da Matteo e da Marco come se fosse avvenuto
durante il percorso dal Cenacolo al Getsemani, mentre Luca, che il Vannutelli considera
come “l'ordinatore” dei testi sinottici, lo anticipa durante le cerimonie dell'ultima cena;
ed anche Giovanni lo fa precedere ai grandi discorsi che Gesù tenne agli Apostoli prima
di abbandonare il cenacolo.
Riportiamo a questo proposito, un'osservazione di Sant'Agostino: “L'ordine non importa
alla realtà delle cose, sia così fosse, sia così.
Può avvenire che un evangelista abbia narrato dopo, non quello che dopo era avvenuto,
ma ciò che prima egli aveva tralasciato, o che anticipi quel che era avvenuto più tardi,
come da Dio gli era suggerito” ("De consensu evangelistarum", II c. XXXIX, 86).
Noi che ci siamo attenuti a quanto Dio ha suggerito a Matteo ed a Marco, dobbiamo ora
meditare sulla seconda reazione di Pietro alle parole di Gesù.
All'annunzio del divino Maestro, appoggiato sul testo scritturale, che stava per aver
luogo la dispersione dei suoi apostoli, Pietro rispose prontamente che se anche tutti
avessero abbandonato Gesù, egli non si sarebbe mai staccato da Lui.
Questa frase avventata viene raccolta da Gesù, il quale ora ripete la sua accusa
specificando che Pietro lo avrebbe tradito tre volte prima del canto del gallo.
Tali parole circostanziate e inequivocabili avrebbero dovuto ammutolire Pietro. Ma egli
invece, come nota Marco, più e più parlava (“At ille amplius loquebatur”) ed uscì in
quella frase imprudente che rimane nella storia come un classico esempio della
presunzione umana: “Et si oportuerit me simul commori tibi, non te negabo” (Mc.14,31-
Quand'anche fosse necessario che io muoia insieme con te non ti rinnegherò).
Di fronte alla spavalda sicurezza di Pietro che osa opporsi due volte, e sempre più
gravemente, alla parola di Gesù ipotecando il domani, la sua fedeltà ed, anzi, il suo
eroismo, il pensiero corre al miserabile episodio che si svolge sul far dell'alba nel cortile
del Sommo Sacerdote, dove attorno ad un fuoco due serve accusano Pietro di essere un
seguace del Nazareno.
Quasi dimentico delle parole pronunciate poche ore innanzi, e dimentico, più ancora,
della divina avventura alla quale da tre anni era stato chiamato, con la foga e con la
leggerezza propria del suo carattere disse e giurò: «Non lo conosco». Queste parole “...
nescio hominem istum” (Mc 14,71 - Non conosco quest'uomo) riferite da Marco
discepolo di San Pietro e congiunte a quelle che stiamo meditando «Non te negabo”, ci
danno la sensazione di quanto sia spaventosa l'improntitudine dell'uomo riguardo a se
stesso. Il tradimento del principe degli apostoli, così sicuro di sé nella notte del
Getsemani, è tale da atterrire l'animo di ogni operaio.

2 - Quando Pietro affermava di non voler negare il Cristo anche a costo della vita,
qualora fosse stato necessario, era indubbiamente sincero.
In questo tratto del Vangelo Pietro non è un bugiardo ma un presuntuoso, non è un
traditore ma un tradito dalla stima eccessiva che ha di sé e delle proprie forze.
Egli ritiene di poter essere all'altezza dei suoi compiti, degno della fiducia che il Maestro
ripone in lui e su questa certezza ipoteca il futuro.
Nell'impetuosità di Pietro traspare un sentimento di soddisfazione per la posizione
spirituale raggiunta, la quale viene considerata come una garanzia di vittoria e quasi un
piedistallo da cui è possibile misurare i valori assoluti degli uomini e delle cose.
Questo senso di benestantismo, o di sufficienza spirituale, è un inciampo sulla via della
perfezione, la quale è sempre accompagnata da un senso di incompiutezza, e cioè da
un'ansia insaziabile di purificazione e di ascesi.
Non basta essere insoddisfatti, ma occorre positivamente diffidare di sé.
Diffidare di sé vuol dire credere sinceramente alla demolizione procurata nell'essere
umano dal peccato d'origine, così da renderlo squilibrato e pericolante nell'anima e nel
corpo, senza togliergli l'impulso alle cose altissime per cui è stato creato.
Diffidare di sé vuol dire che, data la precarietà del complesso spirituale umano, si
riconosce la necessità assoluta di poggiare la propria vita interiore sopra un fondamento
di certezza che solo Iddio creatore può fornire.
Perciò la diffidenza di sé è un tacito avviamento alla verità, una postulazione umile e
certamente gradita a Dio della sua luce rivelante e della sua grazia redentiva.
La diffidenza di sé è un appello al Cristo, una posizione spirituale che attira il suo Cuore
verso l'uomo, così come fu attirato un giorno dalle parole del centurione “Domine non
sum dignus ut intres sub tectum meum” (Signore io non son degno che entri sotto il mio
tetto - Mt. 8,8), dalle parole della cananea: “Domine, adiuva me, nam et catelli edunt de
micis quae cadunt de mensa dominorum suorum” (Aiutami, Signore....anche i cagnolini
mangiano le briciole che cadono dalla mensa dei loro padroni - Mt. 15, 25-27), e dalla
fede senza parole dell'emorroissa che cercava salute nel Cristo: “Dicebat enim intra sé:
Si tetigero tantum vestimentum eius, salva ero” (Poiché diceva dentro di sé: Sol ch'io
tocchi la sua veste sarò guarita - Mt. 9,21).
Come l'igiene del corpo è fondata sulla considerazione delle malattie nelle quali l'uomo
può incorrere e contro le quali il sapere medico prende le opportune precauzioni, così
l'igiene spirituale è fondata sul pensiero costante della fragilità e della morbilità
dell'anima umana, che si esprime in una paziente, intelligente e inobliabile diffidenza di
sé.

3 - La diffidenza deve anzitutto esercitarsi nei riguardi dell'intelligenza personale.


Ciascuno deve dubitare della propria capacità di vedere giusto in ordine ai suoi doveri,
anche se, da un punto di vista umano, può sembrare che egli sia lungimirante, accorto,
sensibile, pronto, istruito e saggio.
La sapienza dell'uomo è sempre un'entità ridicola a confronto della sapienza di Dio ed è
questa che regge il mondo.
Il meccanismo degli avvenimenti spirituali e materiali non può essere raggiunto che
faticosamente e incompiutamente dall'intelligenza umana, la quale in ogni decisione si
trova di fronte a dei fattori imponderabili.
Quanto più si allarga la conoscenza dei problemi, tanto più si avverte la responsabilità e
la difficoltà della decisione, cosicché, diminuendo l'ignoranza, aumenta
proporzionalmente il senso della limitazione dell'intelligenza umana.
Tanto è intricato il groviglio dei fenomeni che si svolgono nell'uomo e attorno all'uomo,
che meditando su di esso, non solo la presunzione di chi crede di saper tutto e di poter
giudicare di tutto appare insostenibile, ma perfino si corre pericolo di cadere
nell'estremo opposto e cioè nella viltà spirituale di chi non si sente di prendere una
decisione e di uscire dall'incertezza per agire secondo una precisa direttiva.
La diffidenza verso il proprio pensiero si traduce pertanto nel ricorso fiducioso a Colui
che è Sapienza increata, Verità redentrice, Datore di ogni lume.
Dagli abissi della nostra ignoranza sale l'invocazione del cieco di Gerico: “Domine, ut
videam” (Signore che io veda! - Lc. 18,41).
Per ogni giornata: “Domine, ut videam!”. Per ogni opera: “Domine, ut videam!”. Per
ogni problema da risolvere: “Domine, ut videam!”.
Ed anche se la strada sembra illuminata e sgombra, allora più che mai, per evitare la
presunzione, il superficialismo, la mediocrità, l'ignoranza colposa: “Domine, ut
videam!”.
Secondariamente, l'atto più importante consiste nel costringere il proprio pensiero a
ragionare a fil di logica con obiettività e completezza.
Il buon operaio è un'anima orante ed un cervello pensante.
Prima di accingersi ad un'opera qualsiasi, grande o piccola, prima di stabilire il piano
della giornata, oppure di giudicare o di consigliare qualcuno, come pure di fronte ad
ogni altra circostanza che richieda un suo consapevole impegno, l'operaio deve
raccogliersi e pensare.
Iddio non lascia mancare i lumi a chi umilmente li chiede.
E' l'uomo che troppo spesso non si trattiene a consultare se stesso e procede trascinato
dalle sue passioni, buone o cattive, ma sempre irrazionali.
L'uomo è dotato, in grado più o meno grande, di una qualità preziosa: l'intuizione; ma
ricordi l'operaio che l'intuizione deve sempre essere rigorosamente controllata perché
diversamente può guidare alla rovina.
Chiedere alla propria intelligenza il massimo sforzo, sorvegliarla perché non si lasci
intorbidire dal sentimento, impegnarla nella minuta analisi di ciò che giunge nel raggio
dell'azione personale, è un modo pratico e salutare con il quale l'operaio prende
posizione contro le costruzioni affrettate e provvisorie della sua intelligenza.
L'autocritica da esercitarsi mediante la consultazione pacata e spietata del proprio
pensiero, richiede di essere integrata dalla consultazione del prossimo ed anzitutto dei
Superiori.
La teologia insegna che i Superiori posseggono una grazia speciale per dirigere i
dipendenti, la grazia di stato, e perciò è privo di senso comune chi non ne approfitta.
L'operaio non deve guardare ai suoi Superiori con timore panico, oppure con il segreto
desiderio di evadere da quelle che possono essere le loro direttive.
Bisogna considerare i Superiori con devozione, con disciplina, come i detentori per
mandato divino di segreti importantissimi per la buona riuscita delle nostre opere, ma
anche con semplicità e con la massima confidenza, così che ogni iniziativa sia di fronte
ad essi come una casa di vetro dove il loro sguardo possa penetrare liberamente.
Superiori sono anzitutto quelli che il Redentore ha disposto al governo della sua Chiesa:
il Papa e i Vescovi.
Ma Superiori sono anche coloro da cui, per altri titoli, devono dipendere le opere alle
quali l'operaio si dedica.
Una superiorità specifica l'operaio deve poi riconoscere a tutti coloro che sono in grado
di fornirgli consigli e idee intorno al suo programma di azione, sia dal punto di vista
spirituale come dal punto di vista tecnico, a cominciare dal direttore spirituale fino
all'uomo di strada.
Consultare il pensiero degli altri deve diventare per l'operaio non un atto di umiliazione,
ma una sorgente di gioia; una ricerca del volere divino, un alleggerimento della propria
responsabilità.

4 - La diffidenza di sé si estende necessariamente dal settore dell'intelligenza al settore


della volontà.
Quando, per illuminazione interna od esterna, il giudizio dell'uomo può dirsi esatto vi è
pur sempre motivo di temere che le passioni pervertano i giudizi dell'intelligenza
trascinando la volontà verso l'errore.
La nostra volontà è ammalata, ed il cammino lungo ed aspro della perfezione non è altro
che un processo di irrobustimento della volontà affinché essa risponda fedelmente al
magistero divino.
Conoscenza del dovere da compiere e disobbedienza della volontà, è ciò che avvenne in
Pietro quando nell'atrio del sommo sacerdote gli fu chiesto se egli appartenesse ai
seguaci di Gesù. La paura irretì la sua volontà e la deviò verso lo spergiuro.
Perciò da questo tratto del Getsemani, l'operaio deve imparare a diffidare della sua
volontà ancor più che della sua intelligenza.
Non possiamo dare affidamento di noi stessi, se non condizionatamente all'aiuto che ci
verrà da Dio e cioè “per grazia di Dio” e “se Dio vorrà”.
Ogni altra posizione è irreale e dannosa perché alimenta una certezza infondata ed
impedisce il ricorso alla fonte unica della fortezza, la grazia, dalla quale non possiamo
prescindere.
La convinzione della debolezza congenita della nostra buona volontà non deve essere
una posa suggerita da una umiltà affettata, ma una robusta convinzione che non tanto si
esercita nelle dichiarazioni verbali, quanto nel giudicare severamente noi stessi e nel
prendere le misure opportune.
Il tradimento della volontà può essere evitato a condizione di mantenere in efficienza
l'esercizio del libero arbitrio che Iddio regalò all'uomo.
Che la vera libertà non consista solo nella libertà fisica ma nella libertà morale e cioè
nella libera scelta del bene, in ordine al fine, come la teologia insegna, appare evidente
quando si consideri che ogni adesione al male è ordinariamente una capitolazione
dell'uomo di fronte alle forze oscure di un istinto ammalato e irrazionale.
Dominare perfettamente nella nostra anima tutto ciò che è istintivo equivale ad
assicurarsi uno svincolamento vittorioso dagli assalti del maligno.
Il congegno del libero arbitrio deve essere conservato con la cura assidua con la quale si
conservano le macchine per le quali non vi è peggior nemico del non-uso.
Una macchina lasciata ferma viene invasa dalla ruggine e perde quella messa a punto di
ogni parte che garantisce il buon funzionamento.
Non esercitarsi a volere, equivale a soccombere.
Di qui l'importanza che l'operaio deve attribuire alle piccole mortificazioni, ai sacrifici
più grandi e liberamente ricercati, alla rinuncia di ciò che pure rappresenterebbe un suo
diritto.
Tutto questo fa parte della manutenzione della volontà la quale deve essere come un
acciaio lucente in condizioni di piena efficienza.
Le amare lacrime versate da Pietro al canto del gallo, saranno evitate all'anima accorta
che diffida di sé e confida nell'aiuto onnipotente di Dio.
4. “GETSEMANI”

1 - Uscito dalla città nel cuore della notte, Gesù scende in una triste valle cosparsa di
sepolcri che ha nome “Giosafat” e cioè “Giudizio di Dio”, oltrepassa il torrente che
scorre in essa chiamato “Cedron” e cioè “fiume nero”, ed entra in un luogo che Matteo
chiama “villa”, Marco “podere” e Giovanni “orto”.
E' il Getsemani, che si estende sulla riva sinistra del Cedron alle falde del monte degli
ulivi.
Che Gesù abbia attraversato il Cedron non risulta dal racconto dei sinottici se non per
logica necessità topografica, mentre Giovanni lo nota espressamente “trans torrentem
Cedron” (Gv. 18,1 - Al di là del torrente Cedron).
E queste parole di Giovanni ne richiamano altre dell'Antico Testamento che si
riferiscono ad un episodio svoltosi in quel medesimo luogo ed in modo
straordinariamente allusivo e profetico.
E' nel Libro dei Re dove si racconta della ribellione di Assalonne contro il padre Davide,
della congiura scoppiata in Hebron e della fuga di Davide con i suoi dalla città santa.
Così narra la Bibbia:
“Egressus est ergo rex, et universa domus eius pedibus suis... Dixit autem rex... ego
autem vadam, quo iturus sum... Omnesque flebant voce magna; et universus populus
transibat; rex quoque transgrediebatur torrentem Cedron; et cunctus populus
incedebat contra viam, quae respicit ad desertum... David ascendebat Clivum olivarum,
scandens, et flens, nudis pedibus incedens, et operto capite... dixitque David: Infatua,
quaso, Domine consilium Achitophel... Si forte respicit Dominus afflictionem meam: et
reddam mihi Dominus bonum pro maledictione hac hodierna” (2° Re, 15,
16.19.20.23.30.31; 16, 12 - “Il re uscì con tutto il popolo che lo seguiva a piedi... Ma il
re disse... io me ne andrò dove debbo andare... Tutti piangevano a gran voce e il popolo
passava. Anche il re oltrepassò il torrente Cedron e tutta la gente s'incamminava per la
via che conduce al deserto... Davide saliva il colle degli ulivi e saliva piangendo,
camminando a piedi nudi e a capo coperto... e Davide disse: O Signore, sventa, ti prego
il consiglio di Achitofel... Chi sa che il Signore guardando alla mia afflizione non mi
renda del bene per la maledizione di questo giorno”)
Un nuovo re passa ora, a piedi, con i suoi, attraverso il torrente Cedron... e piangerà
inoltrandosi fra gli ulivi, e si rivolgerà al Padre chiedendogli che sia allontanato da lui il
calice dell'amarezza... ma come Davide il quale disse che sarebbe andato dove doveva
andare, così questo nostro re soggiungerà al Padre il “fiat” della partecipazione
incondizionata al divino volere... e dalle sue membra uscirà sudore di sangue tanto è lo
spasimo della maledizione del peccato che egli sente sopra di sé...
Davide, anticipò nella sua persona, in modo misterioso, l'angoscia per il tradimento, la
fuga dalla città oltre il torrente, lo spasimo del dolore sulle pendici del monte ricoperto
di ulivi.
Gesù, obbediente fino alla morte, esegue con fedeltà il volere divino prefigurato nel
sacro testo.
2 - Siamo oltre il Cedron, sul limitare del podere che ha nome Getsemani.
Nome misterioso che dalle origini del cristianesimo ad oggi sembra comunicare alle
anime un senso di sgomento, come velario di un episodio terrificante e difficilmente
accessibile alla nostra ragione.
Come Cedron, come Giosafat, anche il nome di Getsemani ha un significato etimologico
austero e per di più funzionale.
In quel podere si raccoglievano le olive maturate sulle pendici del monte per essere
torchiate nel pressoio.
Getsemani è un nome ebraico che significa appunto torchio dell'olio.
E' naturale che le olive non fossero trasportate al torchio se non a maturazione raggiunta;
e così per le anime l'accostamento al Getsemani, richiede un grado sufficiente di
maturazione spirituale.
La grande scuola del Getsemani esige una conoscenza dottrinale della fede quanto è
possibile completa e quindi una preparazione teologica accurata dal punto di vista
dogmatico e dal punto di vista morale, preparazione sempre perfettibile in guisa che
l'operaio non dovrà mai considerarla compiuta, ma dimostrarsi desideroso di accrescerla,
e felice quando gli si presenti l'occasione di procedere nella conoscenza delle cose di
Dio.
Dalla sfera dell'intelligenza la fede deve passare a quella della volontà in quanto la
conoscenza speculativa della verità non giustifica al cospetto di Dio, anzi aumenta la
responsabilità, di tanto quanto aumenta nel singolo la consapevolezza.
Secondo la parola dell'Apostolo “Veritatem facientes in charitate” (Ef. 4,15 - Seguendo
la verità nella carità) la maturazione dell'anima richiede il passaggio dalla veritas alla
charitas e cioè che si divenga realizzatori della verità, operai nel senso positivo,
dinamico, sociale di questa bella parola.
Non è sufficiente una fede statica, calcolatrice, ingenerosa, simile ad un contratto
stipulato fra l'anima e la giustizia divina per garantire ad essa con un minimo di sforzo la
salute eterna.
Iddio, infinitamente buono, sembra talora accontentarsi anche di questo; ma non rivela il
Getsemani se non a coloro che sanno seguirlo nella notte dei sensi, oltre il torrente nero
del dolore, fra lo stormire delle tentazioni.
In realtà, il Getsemani da venti secoli è aperto, spalancato, per chiunque voglia entrarvi;
ma succede che le anime non a sufficienza maturate passeggino per l'orto senza capire il
sovrumano insegnamento dell'agonia di Cristo.
La maturazione sostanziale risiede nell'acquisto di una ferma volontà di estendere la
charitas verso Dio e verso l'uomo sino ai supremi confini indicati dalla perfezione
cristiana.
“Si vis perfectus esse” (Mt. 19,21 - Se vuoi essere perfetto) disse un giorno Gesù, e
sembrano parole dettate per chi si accosta al Getsemani.
La chiave dell'orto consiste in quel monosillabo che collega, come un ponte agilissimo,
l'anima con la perfezione: “si vis” “se vuoi”.
Le anime malate che non sanno chiamare la propria volontà a raccolta per superare le
insidie esterne ed interne, le anime succubi delle passioni riaffioranti, delle costumanze
mondane, delle comodità, le anime che facilmente si accontentano, non possono capire il
linguaggio del Getsemani, non sono mature.
Ed anche coloro che si avvicinarono un giorno al mistero di Gesù e raccolsero qualche
luce dal divino Agonizzante, temono di arrestarsi nella comprensione o di compiere il
cammino inverso, retrocedendo verso la città dove si medita l'uccisione di Dio.
Perciò si fermino a rinnovare o a compiere quella maturazione spirituale a cui si deve
tendere per tutta la vita, meditando quelle misteriose parole di Gesù che dicono: “Qui
enim voluerit animam suam salvam facere, perdet eam, qui autem perdiderit animam
suam piopter me, inveniet eam” (Mt. 16,25 - Chi vorrà salvare la vita sua la perderà, e
chi perderà la vita sua per amor mio, la troverà).

3 - Le olive mature che giungono al torchio vengono infrante e per questo il torchio delle
olive viene chiamato, comunemente , frantoio.
Anche le anime che giungono al Getsemani devono, in qualche modo, infrangersi perché
possa gemere da esse olio purissimo.
Ciascun uomo incontra nelle vicende della vita il dolore necessario per la sua
purificazione e per la sua salute eterna; ma questo non può bastare all'anima dell'operaio
poiché essa tende ad un livello spirituale più alto, alla santità.
Chi non sente l'assillo della perfezione e non è disposto a giudicare con il metro
dell'eternità la sua vita e la vita del mondo, non possiede il fondamento della costruzione
interiore la quale richiede dall'anima un'accettazione generosa, consapevole e volontaria
del Getsemani.
Questo spirito serve all'operaio per interpretare e utilizzare il dolore che andrà
incontrando per il suo cammino, ma, prima ancora, ispira la libera offerta di sé al
frantoio getsemanico e cioè la consacrazione.
Consacrare vuol dire donare, offrire a Dio in spirito di sacrificio, e quindi consacrazione
è l'offerta a Dio di un bene che si possiede ed a cui si rinunzia in vista di lui.
E' proprio il carattere sacrificatorio che giustifica il nome e rende sempre più grande e
preziosa, con il crescere del sacrificio, la consacrazione.
Gli operai sono chiamati ad una consacrazione differente nell'espressione, ma eguale
nella sostanza, che consiste nell'offrire in olocausto a Dio particolari diritti onde
corrispondere alla vocazione operaia.
La spogliazione che l'operaio accetta dopo maturo esame, con chiarezza di mente, piena
libertà, massima decisione e con letizia poiché sta scritto: “hilarem datorem diligit
Deus” (II Cor. 9,7 - Dio ama chi dona con gioia), costituisce la frantumazione spirituale
che il Getsemani richiede dalle anime che si consacrano nel suo spirito.
L'anima, questo piccolo mondo che per la sua libertà fa sì che l'uomo rassomigli a Dio,
questo tesoro vagheggiato dal suo stesso Autore, e degno del sangue di Gesù, come oliva
matura qual è un'anima cristianamente educata, ecco che volontariamente infrange il suo
corredo di libertà e si rende schiava al suo Signore.
La rinunzia a tanta parte di sé, richiede, a volte, di contrastare la natura a tal punto che il
sottosuolo istintivo della personalità sembra fendersi e distruggersi come l'oliva nel
pressoio del torchio.
In realtà si verifica la sublimazione dell'anima poiché essa col sacrificio s'innesta,
cruentemente, sull'onnipotenza di Dio.
La consacrazione, come tributo di amore a Colui che diede per ciascuno di noi tutto Sé
stesso, è una risposta degna di coloro che furono prescelti a capire e ad amare; è una
liberazione dai compromessi di una vita mediocre; è una sorgente di fecondità.
Dagli squarci che il frantoio provoca nella polpa delle olive come dalle anime che si
offrono nella consacrazione, stilla fragrante l'olio della virtù.

4 - Ogni mattina l'operaio rinnova la sua consacrazione. La ripetizione quotidiana ha un


profondo significato, perché quotidiana deve essere l'offerta che trasporta ed attua la
meditazione getsemanica nel cuore della vita.
Sarebbe erroneo pensare che la consacrazione sia la formula di un giorno oppure di un
periodo, vale a dire di quando l'anima avverte la chiamata dall'alto, concepisce e realizza
la grande offerta.
Tempo di luce, quello, e di confronti che talora smorzano l'asprezza della rinunzia e
inducono, erroneamente, a sottovalutare il significato sacrificatorio della consacrazione.
Il frantoio comprime le olive ma non le frantuma ancora.
Viene poi la vita a mettere l'operaio spietatamente di fronte a sé stesso.
Le persone, gli avvenimenti, gli studi, le letture, il volgere degli anni sono reattivi che
risvegliano aspetti nuovi della sua personalità che egli stesso ignorava e che va
scoprendo non senza stupore.
Queste nuove manifestazioni dell'io devono, quando affiorano, trovare posto, man mano,
nel quadro della consacrazione, la quale si protrae nel tempo ed ha ragione di ripetersi
ogni giorno, sempre nuova e sempre diversa, più completa e ricca, fino a quando, nel
transito, l'operaio potrà dire di avere consacrato a Dio veramente, tutta la sua vita.
Non è un “curriculum” di riposo quello dell'operaio perché la fiamma della
consacrazione chiede di bruciare ogni scoria e di essere alimentata, per non spegnersi,
con gli affetti e le azioni di ogni giorno; essa è come un fiore che, dimenticato,
avvizzisce e nessun fiore è più splendido e delicato di questo.
La consacrazione è un’offerta incessante che ha motivo di rinnovarsi ogni qualvolta la
voce della natura sorga in contrasto con la soprannatura.
5. “ET JUDAS”

1 - Dopo aver detto che Gesù entrò in un orto con i suoi discepoli, l'evangelista Giovanni
soggiunge:”Sciebat autem et Judas, qui tradebat eum, locum” (Gv. 18,2 - Conosceva poi
anche Giuda, che lo consegnava, il luogo).
Questa preoccupazione di seguire con il pensiero Giuda che andava svolgendo il piano
del suo tradimento, non è solamente una necessità per Giovanni in quanto narratore, ma
era un'esigenza della sua anima in quella notte, fin da quando ricevette da Gesù la
grande confidenza di chi fosse, nel collegio apostolico, il traditore.
Il fatto avvenne nell'ultima cena quando Gesù, turbandosi, annunziò che uno dei presenti
lo avrebbe tradito; e mentre tutti si guardavano l'un l'altro cercando di capire l'allusione
del Maestro, Pietro si rivolse a Giovanni che riposava sul petto di Gesù chiedendogli:
“Di chi parla?”
E Giovanni in quella posizione di grande confidenza che il Maestro gli concedeva, gli
chiese: “Signore, chi è?”
Gesù rispose: “Colui al quale porgerò il pane intinto”.
E intinto il pane lo diede a Giuda di Simone Iscariota: “Et cum intinxisset panem, dedit
Iudae Simonis Iscariotae” (Gv. 13,26 - E avendo intinto un pezzetto di pane lo diede a
Giuda Iscariota, figlio di Simone).
E' chiaro che Giovanni era al corrente di chi fosse il traditore. Perché non abbia tirato
delle conseguenze pratiche da questa precisa notizia, gettando l'allarme fra gli apostoli, o
pedinando Giuda, o altrimenti, non ci è dato di sapere.
Forse si deve alla sua giovane età, oppure a Gesù stesso che non gli permise di agire.
Ma indubbiamente Giovanni penetrò le successive parole del Maestro rivolte
all'Iscariota: “fa presto quello che stai facendo” e seguì con il pensiero il traditore
quando si allontanò, rapidamente, nel buio della notte.
E' significativo che Gesù abbia riservato per Giovanni “quem diligebat” (Gv. 13,23 -
Che egli amava), la rivelazione del tradimento che pendeva sul suo capo.
Ai suoi più intimi Gesù non risparmia il dolore, anzi desidera di metterli a parte di quei
medesimi dolori che tormentano il suo Cuore.
L'assenza del dolore non è segno di predilezione divina, anzi è vero il contrario, poiché è
dalla volontà umana vagliata dal dolore che sale a Dio l'omaggio più degno, mentre le
anime, attraverso gli squarci del dolore, si aprono alla comprensione delle cose di Dio.
E perciò l'operaio, nel pensiero della dolorosa fiducia meritata dall'apostolo prediletto,
vada meditando queste parole dello Spirito Santo:
“Fili, accedens ad servitutem Dei, praepara animam tuam ad tentationem” (Eccl. 2,1 -
Figlio, entrando nel servizio di Dio, prepara la tua anima alla tentazione)
“Omnes qui pie volunt vivere in Christo Jesu persecutionem patientur” (II Tim. 3,12 -
Tutti quanti vogliono piamente vivere in Cristo Gesù saranno perseguitati)

2 - “Respondit eis Iesus: Nonne ego vos duodecim elegi? et ex vobis unus diabolus est.
Dicebat autem Iudam Simonis Iscariotam” (Gv. 6, 71-72 - Rispose loro Gesù: Non sono
stato forse io a scegliere voi dodici? Eppure uno di voi è un diavolo. Voleva dire di
Giuda di Simone Iscariota)
A molta distanza di tempo dalla sua passione, Gesù caratterizza con queste parole il
triste compito dell'Iscariota.
Egli rappresenta il principio del male e può essere chiamato addirittura “diavolo”.
Nella passione di Gesù molti uomini agiscono per conto di satana, ma Giuda più di tutti.
Dire che questa è l'ora di Giuda vuol dire che è l'ora del diavolo. Osservare che Giuda
conosceva il Getsemani per esservi stato altre volte con Gesù, equivale ad osservare che
il diavolo conosceva il Getsemani e voleva portare, fin qui, la sua insidia.
Non basta al diavolo di aver inquinato il collegio apostolico, di essersi seduto, con
Giuda, al primo banchetto eucaristico, ora egli vuole essere presente in questo luogo di
solitudine e di preghiera.
Come Giuda conosceva il segreto del Getsemani, così il diavolo in certo senso conosce
il segreto di ogni anima. Non vi sono mura di conventi o di basiliche, lontananze o
profondità di luoghi, combinazioni di date o di orari, capaci di dirottare satana dalla
nostra strada.
Sempre ed ovunque, finché l'uomo ha vita, il tentatore lo segue voglioso di preda. Se
può, egli vuole impossessarsi dell'anima e servirsene come fece con Giuda.
Ma anche se l'anima riuscirà a sfuggirgli, egli si accontenta di poco, di un peccato, di
un'infedeltà veniale.... Come certi mercanti che chiedono molto, e poi si accontentano
anche di poco, il diavolo è pronto a raccogliere, fra le anime, ogni sorta di immondezza
purché abbia il significato di un oltraggio a Dio.
L'assedio del maligno non ha termine che il giorno della morte e solo per le anime che
giungono a salvezza. Esiste nel mondo un piano di Dio, del suo Regno, e della sua
volontà; ma esiste anche un piano di satana altrettanto minuto, cauto, lungimirante,
seppure non altrettanto potente, che cerca di contrastare il piano di Dio.
Ogni peccato dell'uomo è un'articolazione di questo piano che gli permettere di
espandere i suoi tentacoli nelle posizioni tenute da Dio. Perciò s'intende come il
tentativo di satana di penetrare in ogni anima sia continuo, e tanto più insistente ed abile
quanto più l'anima appare forte e difficilmente espugnabile, poiché egli non si rassegna a
considerare imprendibile un'anima finché non sia spento l'ultimo guizzo della vita
umana.
Le anime guidate dallo Spirito Santo scorgono chiaramente nel mondo, e in se stesse,
queste due posizioni contrapposto, la città di Dio e la città di satana. Esse subiscono i più
violenti attacchi, di una potenza tale che i peccatori non conoscono perché con questi
satana ha ragione facilmente usando minimi allettamenti. Ma queste anime hanno il
dono di vedere il campo di battaglia come dall'alto di un monte, si rendono conto degli
assalti impetuosi, li prevedono, li sostengono e innalzano a Dio ogni giorno il canto della
vittoria.

3 - Se dunque satana segue ogni anima, conosce e sorveglia anche chi è chiamato da Dio
alla vocazione operaia.
La bellezza di questa vocazione che le anime sentono corrispondere ai bisogni attuali, le
possibilità che essa offre a categorie diverse di persone creando fra esse il “cor unum”
apostolico come nella Chiesa delle origini, le grazie notevoli che la Provvidenza ha
elargito agli operai, non devono far pensare che una strada così bella sia anche
facilmente praticabile.
Essa è fra le più difficili, ma per fortuna lo spirito del Getsemani, adeguatamente
vissuto, previene e risolve le difficoltà.
L'operaio che non si aggrappa fortemente a questo spirito in ogni giorno della sua vita si
accinge ad un'impresa impossibile.
Dalle profondità dell'anima attraverso il rigurgito delle passioni, o dall'esterno attraverso
difficoltà di ogni genere egli sentirà continuamente il morso dell'insidia diabolica.
E' un assalto che talora non lascia respiro, oppure che sembra languire per riaccendersi
improvvisamente quando l'anima, illusa dalla bonaccia, sonnecchia.
Come utile e fondamentale è il pensiero della presenza di Dio, così è utile e
fondamentale il pensiero che satana ci sorveglia.
La scuola del Getsemani avverte che “anche Giuda” conosceva il ritiro spirituale di
Gesù e degli Apostoli, per dire che il diavolo conosce ogni movimento dell'operaio e lo
raggiunge ovunque si trovi: in viaggio, in casa, nel ritiro spirituale, nelle opere del suo
apostolato. satana conosce i recessi dell'anima, le sorgenti a cui la sua virtù si rinnovella,
i punti di minore resistenza, le cicatrici delle antiche battaglie, i temporanei abbandoni...
Egli sa e ne approfitta. L'operaio ricordi di avere il demonio alle calcagna e non si illuda
intorno alla fisionomia della sua vita spirituale che non è di pace, ma di combattimento.
Il grande cantiere invisibile al quale appartiene non lo immunizza dagli assalti del
nemico, anzi richiede questo continuo impegno come prestazione fondamentale per
dilatare l'opera di Cristo nelle anime e nella società. Il demonio conosce i punti deboli
della posizione spirituale di ciascun operaio e talora, non potendo vincere con la
persecuzione diretta, assume le vesti, come dice San Paolo, di un angelo della luce:
“Ipse satanas transfigurat se in angelum lucis” (II Cor.11,14 - Lo stesso satana si
trasfigura in angelo di luce). Ed è questa l'insidia che più si deve temere.
4 - Giuda, nel quale entrò satana, arriverà in seguito, con la squadra di uomini incaricata
di imprigionare Gesù, ma l'insidia di satana aleggia fin da principio nell'episodio del
giardino.
Le parole che Gesù andrà pronunziando svelano un'ansia continua, una preoccupazione
insopprimibile che satana possa aumentare la sua triste messe fra le anime degli
Apostoli.
Nel silenzio della notte plenilunare, fra le tenui ombre degli olivi, sembra di vedere
l'angelo delle tenebre che si aggira guardingo e che si apposta in agguato.
La presenza invisibile, ma reale, del nemico è un motivo dominante del Getsemani.
L' operaio impari a scoprire satana fra le ombre e a temerlo. Il pensiero dell'intelligenza
di satana e della sua presenza serve alla vita spirituale per impedire che le avversità e i
dolori abbattano l'animo dell'operaio e lo distolgano dal lavoro.
Le difficoltà che le opere incontrano sono un segno di questo interesse negativo di
satana che di tutto si avvale per contrastare il passo alla Redenzione. Come è necessario
che avvengano gli scandali, così è logico che il piano di Cristo urti contro il piano di
satana.
Le difficoltà si devono prevedere e portare con fierezza come una sigla delle sofferenze
di Gesù per il riscatto del mondo, le quali continuano in noi.
Nelle difficoltà che incontra, l'operaio non veda la malignità dei tempi, o delle cose, o
degli uomini, quanto l'attentato del nemico, ed allora il suo giudizio sarà più sereno e
adeguato.
Del resto, anche satana ha il suo compito nella preparazione del Regno. Lo ha precisato
Gesù quando rivolse a Pietro le seguenti parole: “Simon, Simon, ecce satanas expetivit
vos ut cribraret sicut triticum” (Lc. 22, 31 - Simone, Simone, ecco satana va in cerca di
voi per vagliarvi come il grano).
L'arsenale di cui satana dispone costituisce un vaglio severissimo per selezionare le
anime.
La vita nostra è come una corsa agli ostacoli dove i fossati, le siepi ed i muri sono
rappresentati dagli inganni, dalle tentazioni e dalle difficoltà che satana dissemina sul
cammino dell'operaio.
Superando gli ostacoli, le anime distruggono il piano di satana e costruiscono la propria
santificazione, abbandonano lungo il cammino ogni impedimento e giungono alla méta
purificate.
6. CONVENERAT ILLUC”

1 - Uno degli apostoli prescelti, Giovanni l'evangelista, ci fornisce una notizia che serve
a presentarci il Getsemani sotto un nuovo aspetto.
L'atmosfera di dolore e di tragedia che aleggia attorno a questo nome si risolve nella
contemplazione di una scena di familiare intimità fra il Maestro ed i suoi discepoli.
Giovanni dice, infatti, che in quel luogo Gesù conveniva frequentemente con i suoi
discepoli “frequenter Jesus convenerat illuc cum discipulis suis” (Gv. 18,2 - Spesso
Gesù si era ritirato là coi suoi discepoli)
Dunque, non una volta sola, ma molte, il Getsemani vide arrivare Gesù con gli Apostoli
e forse sempre intorno a quell'ora, dopo intense giornate di lavoro apostolico, per
trascorrervi la notte come usano gli orientali, i quali dormono anche all'aperto avvolti
nei loro mantelli.
Anche il testo di Luca, trattando del Getsemani, accenna a questo frequente recapito di
Gesù e dei suoi discepoli: “ibat secundum consuetudinem in montem olivarum” (Lc. 22,
39 - Uscì per andare, secondo il solito, al monte degli ulivi); considerazione questa che
deve essere messa in relazione con quanto il medesimo evangelista dice dei
pernottamenti di Gesù negli ultimi giorni della sua predicazione in Gerusalemme: “Erat
autem diebus docens in templo; noctibus vero xiens, morabatur in monte, qui vocatur
Oliveti” (Lc. 21,37 - Insegnava di giorno nel tempio, e usciva la notte per ritirarsi sul
monte degli ulivi).
Ai margini di Gerusalemme, centro dei cuori palestinesi e méta ultima della
predicazione di Gesù, occasione di conforto, ma anche sorgente di incomprensione e di
persecuzioni senza numero, vi erano delle località che servivano di base a Gesù ed ai
suoi Apostoli, cioè luoghi di rifugio, di ritiro, di distensione e di ripresa, quasi capisaldi
dell'assedio di cui era cinta la città santa da parte degli annunziatori della buona novella.
Così in Betania la casa dei tre fratelli, Lazzaro, Maria e Marta, e così nelle immediate
vicinanze di Gerusalemme il Getsemani dove si poteva giungere rapidamente, come in
quella sera che si era fatto tardi per le cerimonie della Pasqua, per l'istituzione
dell'Eucaristia, e per i discorsi tenuti da Gesù nella circostanza.
Secondo una supposizione avanzata dal Macduff, il Getsemani fu anche il luogo dove
avvenne nottetempo il colloquio di Gesù con Nicodemo.
La notizia non ha che il valore di un'ipotesi, ma si inquadra bene nella funzionalità del
Getsemani.
Mentre gli altri dormivano possiamo facilmente pensare a Gesù assorto divino colloquio
con il padre, oppure a colloquio con gli uomini che Egli aveva convocati in quel luogo
per sviluppare i motivi esposti nella predicazione pubblica diurna adattandoli, con
squisita carità, ai bisogni e alle caratteristiche di ciascuno.
Luogo di preghiera, di convegno, di apostolato personale, ecco il Getsemani prima della
grande notte.

2 - “Ubi enim sunt duo, vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum”
(Mt. 18,20 - Infatti dove sono due o tre persone riunite nel nome mio, ci sono io in
mezzo ad esse).
Queste parole di Gesù riferite dal primo evangelista, consentono ai cristiani di ripetere
all'infinito, sia pure misticamente, i convegni con Gesù che gli apostoli solevano tenere
nel Getsemani.
Gesù è presente in mezzo a coloro che si radunano nel suo nome. L'espressione “in
nomine meo” vuol dire in nome di Gesù, della sua dottrina e della sua missione
redentrice, nel suo spirito e nella sua grazia.
Non sono le adunanze purchessia che hanno questo privilegio dell'invisibile, eppure
certa, assistenza di Gesù, ma quelle che si propongono di continuare e sviluppare la
grande opera dell'Operaio divino, e cioè la Redenzione.
A queste riunioni è assicurata la presenza del Cristo che vuol dire garanzia di luce e di
fecondità.
Quando i discepoli convenivano nel Giardino degli ulivi possiamo pensare che essi
sedessero a cerchio attorno al Maestro, il quale riassumeva gli avvenimenti della
giornata e li commentava discoprendo i panorami inesausti del regno di Dio e ricavando
dai fatti, come da parabole vissute, le supreme verità della fede.
Fuori del Getsemani, il Maestro parlava per tutti, qui parlava per loro, poveri ignoranti
Galilei, ma destinati ad una grande missione che solo oscuramente intuivano.
Gli evangelisti non ci permettono di ricostruire i verbali dei convegni che si tennero nel
Giardino degli ulivi, ma si può credere che ivi le cure più assidue fossero dedicate da
Gesù a quel pugno di uomini che rappresentavano la Chiesa, sua sposa.
Quando gli operai convengono in colloqui a due o in adunanze più numerose, la
preoccupazione dev'essere di rinnovare lo spirito delle riunioni getsemaniche così da
meritare la presenza di Gesù.
Per questo gli argomenti dei loro discorsi siano pratici, circostanziati, concreti, traspaia
sempre l'anima dell'operaio proteso verso la costruzione del Regno di Dio in sé o negli
altri, costruzione a cui si può contribuire perfino con la ricreazione, quale mezzo di
ricupero delle forze fisiche e spirituali necessarie per il lavoro.
Nulla di ciò che è buono è alieno dalla conversazione degli operai, ma tutto deve
apparire come vivificato dalla grazia, così che gli argomenti anche umani si distacchino
da terra per l'intenzione che muove coloro che si trovano a trattarne.
Le chiacchiere oziose e maldicenti ripugnano all'operaio, per cui egli cerca di spegnere
questi discorsi con molta semplicità, passando ad altro argomento.
La tensione apostolica delle riunioni operaie non deve essere ricercata, ma spontanea
come risultato della formazione dei singoli i quali non respirano, e cioè non possono
sentirsi a loro agio, se non in un'atmosfera satura di spirito evangelico; perciò questa
tensione è un indice della formazione raggiunta.
Ciascuno è chiamato a collaborare perché si stabilisca fra gli operai questo modo di
essere dove appare, per così dire, la trasformazione degli uomini in figli adottivi di Dio, i
quali mettono tutto il possibile impegno ad occuparsi, come Gesù, degli interessi del
Padre che sta nei cieli.
Tali riunioni rinnovano le pause getsemaniche del collegio apostolico e sostengono
l'operaio lungo la via, facendogli gustare le dolcezze del Paradiso.
3 - Gli incontri operai possono avere anche un significato particolare più riservato, per il
quale conviene il termine di correzione fraterna.
Vi è una frase assai bella di Gesù che dice”Si autem peccaverit in te frater tuus, vade et
corripe eum inter te et ipsum solum: si te audierit, lucratus eris fratrem tuum” (Mt.
18,15 - Se poi tuo fratello ha peccato contro di te, va e correggilo fra te e lui solo. Se
t'ascolta hai guadagnato tuo fratello). Tale è la norma per la correzione fraterna fra gli
operai.
E l'occasione si presenta non solo quando un operaio si accorga, per avventura, di una
mancanza di un altro operaio nei suoi riguardi, ma anche quando la mancanza interessa
persone o situazioni estranee.
In altri termini, l'operaio non può restare indifferente dinanzi all'errore, volontario o
involontario di un altro operaio, anche se direttamente non lo riguarda, ma deve, per
quanto è possibile, arginarlo e neutralizzarlo.
Né si può pensare che questo vada oltre il comando di Gesù per il fatto che in quel brano
si parla di un'offesa recata alla persona (“Si autem peccaverit in te”); in senso più vasto,
qualsivoglia errore compiuto da un operaio offende almeno indirettamente gli altri
operai perché diminuisce l' efficienza spirituale della Società, così come si può dire che
ogni peccato è un'offesa per tutti i cristiani poiché ferisce il Corpo Mistico del Cristo.
Di molti errori i principali responsabili sono quelli che potendo influire non influiscono,
vedono l'abisso e non parlano, o per timore, o per adulazione, o per negligenza.
Chi commette un errore spesso non misura la gravità di esso e vi giunge quasi trascinato
dall'impeto delle passioni, ma chi stando al di fuori misura freddamente il pericolo e
tace, è responsabile più del primo, se ha il dovere di intervenire.
Il disinteresse verso una persona è una forma di oltraggio meno perseguibile, ma talora
più dannosa dell'ingiuria; questa ferisce, ma anche mette in guardia e può contribuire
all'emendazione, quella è una manifestazione di raffinato egoismo.
La correzione dev'essere fraterna e cioè fatta in modo da non umiliare colui al quale è
diretta; il primo requisito è indicato da Gesù: “inter te et ipsum solum”, e cioè deve farsi
a quattr'occhi.
Ma vi è pur sempre la possibilità che la correzione non sia bene accolta se Gesù adopera
la forma dubitativa dicendo “si te audierit, lucratus erit fratrem tuum”.Dobbiamo quindi
preoccuparci, in primo luogo, di essere accoglienti per la correzione operata da altri nei
nostri personali riguardi, e poi essere d'utilità al prossimo praticando quelle forme di
correzione fraterna che furono usate con successo verso di noi.
Le correzioni migliori sono quelle che non tanto sono rivolte contro il fallo quanto
contro le cause che lo hanno prodotto, correzioni motivate, delicate, amabili.

4 - I convegni di Gesù e dei suoi al Getsemani avvenivano frequentemente


(“frequenter”) ed ancora più frequenti erano gli incontri, i colloqui, le vicende collettive
nella giornata, poiché il Divino Maestro e gli Apostoli conducevano, per così dire, vita
comune durante gli anni del Vangelo.
Anche per gli operai, di solito, è frequente l'occasione di trovarsi, di adunarsi e di
correggersi fraternamente. Per ciò nell'operaio dev'esservi una disposizione d'animo alla
vita collettiva che gli permetta di ricavarne tutto quell'utile che gli Apostoli ricevevano
frequentando il Redentore.
A prescindere da ogni istruzione impartita in adunanza e da ogni correzione fraterna
propriamente detta, la vita in comune ha un altissimo valore di ammaestramento per le
anime docili allo Spirito Santo.
Negli altri possiamo meditare di noi stessi sia per quanto dovremmo avere e ci manca,
sia per quanto abbiamo di difettoso e di cui dovremmo spogliarci.
Ammirare nel prossimo operaio e, più in genere, in tutte le persone che si frequentano, le
belle doti spirituali è abbastanza facile, ma non sufficiente perché gli esempi buoni che
si ricevono possono essere imputati dalla Giustizia divina come argomento di giudizio;
bisogna preoccuparsi di imitare.
La possibilità di avvicinare persone virtuose è fra i più grandi doni di Dio, perché in esse
il cristianesimo si manifesta, come non avviene altrimenti, neppure attraverso il migliore
insegnamento dottrinale.
La pratica della virtù è più semplice e sicura quando vien dato di conoscerla attraverso
un esempio, anche perché allora non si può a meno di amarla e cioè di desiderare di
possederla.
Nelle tentazioni vale spesso assai più il ricordo di persone sante ed il pensiero di ciò che
esse farebbero in tale circostanza, che non quello degli insegnamenti teorici ricevuti.
Perciò la fraternità operaia rappresenta un mezzo principe di santificazione che ogni
operaio deve coltivare accettando di buon grado ciò che essa può importare di sacrificio.
Non sempre i caratteri che si incontrano sono capaci di fondersi, anzi possono
manifestarsi delle superfici di attrito che bloccano, se non interviene lo spirito
soprannaturale, il rendimento dell'amicizia cristiana.
Allora non è il caso di pensare alle ragioni proprie, ma alle ragioni altrui; bisogna
mettersi dal punto di vista della persona con la quale si sente di non andare d'accordo, e
rendersi conto delle proprie deficienze che destano in quella dei sentimenti sfavorevoli.
Le persone che ci criticano hanno sempre una percentuale di ragione.
Studiare severamente noi stessi nella reazione che destiamo in coloro che ci avvicinano
considerando soprattutto le ombre della nostra socialità, è un segreto della perfezione
cristiana.
Gli uomini sono così fatti e disposti dalla Provvidenza divina che mediante un'influenza
reciproca, quando la vita comune sia bene accolta e utilizzata, perdono ogni asprezza
come avviene per i ciottoli nel greto del torrente, che, urtandosi a vicenda, diventano
puliti e levigati.
La vita comune che per taluni è un tormento diventa, in questo modo, un banco di prova
di grande, insostituibile importanza.
Quando poi si svolge in seno alla Società Operaia dove questo accorgimento è reciproco,
per cui ciascuno va modellando sé stesso sulle migliori qualità dei fratelli cosicché la
fusione delle anime viene preparata e facilitata, la vita comune diventa una lieta
necessità spirituale che i veri operai ardentemente desiderano pur essendo educati dalla
scuola getsemanica a sopportare, fortemente, il tormento della solitudine.
7. “SEDETE HIC”

1 - I confini del podere, ben noto ai suoi notturni visitatori, vengono raggiunti e
oltrepassati.
Gesù con gli Undici s'inoltra fra gli ulivi, fino al luogo dove essi usavano sostare nei
consueti convegni.
Qui giunti, si può pensare che i discepoli si siano fermati in attesa di ordini. Difatti le
parole di Gesù ingiungono ai discepoli di sedere.
Tanto Matteo come Marco riportano l'ordine di Gesù: “Sedete hic” (Mt. 26,36 - Mc.
14,32 - Fermatevi qui) e quest'ordine è motivato dal fatto che i discepoli devono
trattenersi in quel luogo e attendere : “donec orem” (Mc. 14,32 - Fin che io prego)
riferisce il secondo evangelista, mentre il primo, più completo, dice: “donec vadam
illuc, et orem” (Mt. 26,36 - Fin che vado là a pregare).
Gesù lascia intendere fin da queste parole che Egli ha un piano prestabilito da svolgere,
deve pregare e cioè mettersi in relazione con il Padre.
Per fare questo vuole appartarsi come tante altre volte, secondo il racconto degli
Evangelisti.
“Ascendit in montem solus orare” - Si legge per un'altra occasione nel Vangelo di
Matteo - “Vespere autem facto solus erat ibi” (Mt. 14,23 - Salì solo sul monte a pregare.
E venuta la sera era solo in quel luogo).
“Abiit in desertum locum, - si legge nel Vangelo di Marco - ibique orabat” (Mt. 1,35 -
Uscì per andare in un luogo solitario; ed ivi pregava).
“Ipse autem secedebat in desertum, et orabat” (Lc. 5,16 - Ma egli si ritirava in luoghi
solitari e pregava) si legge nel Vangelo di Luca e poi ancora:
“Cum solus esset orans” (Lc. 9,18 - Mentre egli stava solo a pregare).
Una zona di rispetto sembra dover circondare le relazioni personali che passano fra il
Figlio di Dio e il Padre.
Quando pocanzi, dopo l'ultima cena, Gesù rivolse al Padre la sublime preghiera
dell'unità per la sua Chiesa, attorno a Lui erano i discepoli, ma la preghiera aveva allora
uno scopo collettivo.
La preghiera del Getsemani sarà invece personalissima e una divina cautela sembra
vietargli di rivolgersi al padre al cospetto di tutti i discepoli.
Per quanto, questa volta, il dolcissimo Redentore acconsenta a sollevare i veli della sua
intimità con il Padre, pure l'assistenza degli uomini sarà ridotta al minimo.
Il grosso della comitiva deve attendere in disparte.
All'ordine di Gesù i discepoli obbediscono. Il Vangelo li chiama, semplicemente,
discepoli, ma sono, fra i discepoli, quelli che la Chiesa chiamerà apostoli.
Mentre si dispongono a sedere fra le ombre lunari degli ulivi e ad attendere che si
compia la preghiera di Gesù, ricordiamo i loro nomi:
Andrea, fratello di Pietro, Filippo e Bartolomeo, Tommaso e Matteo, Giacomo d'Alfeo e
Taddeo, Simone cananeo.
Mancano in questo gruppo, Pietro di Giovanni, Giacomo e Giovanni di Zebedeo perché
dovranno seguire Gesù più oltre, nel segreto della notte.
2 - Secondo i calcoli degli Autori più accreditati, l'ingresso di Gesù con i discepoli nel
Getsemani avvenne intorno alle 11 di notte e la permanenza si protrasse fino intorno alla
mezzanotte.
Perciò la preghiera al Padre dovette occupare un'ora circa e Gesù, avendo stabilito di
non portare con sé nell'agonia il maggior numero dei discepoli, non volle che essi
rimanessero in apprensione per Lui, in un'attesa debilitante per l'anima e per il corpo.
Di qui l'ordine di sedere che è come l'annunzio di un periodo non breve, ma tranquillo,
di aspettazione.
Con questo tratto semplice, eppure prezioso ed eloquentissimo, Gesù mostra un delicato
dettaglio della sua carità verso i discepoli. Egli è veramente il Buon Pastore che ha cura
del benessere di ogni pecora che Gli fu affidata.
Egli che sa do procedere verso l'ora più atroce e disumana della sua vita terrena, è
umanissimo verso gli altri, delicato come una madre.
Il dolore imminente non altera la sua dolce fisionomia spirituale e, nonostante
l'imminenza della sua personale tragedia, egli si occupa di alleviare il dolore altrui.
Una ricca umanità è dote dell'anima consacrata e tanto più dell'operaio che vive,
mescolato fra gli uomini, la sua consacrazione.
Spirito di umanità vuol dire spirito di comprensione verso ogni essere umano, non per
debolezza o tornaconto, ma per la divina carità insegnataci dal Maestro.
L'esempio di Gesù ci invita ad estendere la comprensione ai più discosti limiti essendo
altrettanto esigenti con noi stessi, quanto favorevoli ad ogni possibile concessione verso
il prossimo.
Comprensivo ed umano è chi ascolta, con affettuosa attenzione, quello che un altro
vuole dirgli; se anche non è possibile accondiscendere alla richiesta, l'ascolto e il
consiglio sono di per sé un dono che fa del bene.
Comprensivo ed umano è colui che interpreta, e possibilmente previene, i bisogni anche
materiali di un altro uomo, aiutandolo a mettere la sua vita in carreggiata.
Così anche chi sa concedere signorilmente la sua fiducia a colui che, stanco e avvilito,
può trovare in questo stimolo la forza della ripresa e della resurrezione.
E' pure segno di comprensione concedere riconoscimento e lode a chi ha, per qualche
titolo, ben meritato. Anteporre il pensiero delle condizioni del prossimo a quello delle
condizioni personali, accettare la disumanità per sé e ricercare l'umanità per gli altri, è
un preciso insegnamento del Getsemani.

3 - L'ordine di Gesù trova i discepoli disposti ad obbedire. Non abbiamo notizia di


nessuno che abbia tentato di rompere la consegna per seguire Gesù, o per recarsi altrove.
Solamente Pietro, Giacomo e Giovanni si distaccheranno dal gruppo, ma sarà per un
ordine esplicito del Maestro. Gli altri rimangono e siedono.
I discepoli, non ancora illuminato dallo Spirito Santo, obbedirono materialmente, forse
senza rendersi conto esatto di ciò che poteva significare per essi sostare, oppure
accompagnare Gesù.
Ma guardando a Gesù non vi è dubbio che Egli intese stabilire una gerarchia nelle
attribuzioni dei suoi discepoli e che un posto di minore risalto affettivo fu attribuito a
questi otto, i quali sono chiamati da Dio a vivere da lontano, seduti, la grande ora del
Getsemani.
Per questi il comando è più leggero e più leggero sarà il rendiconto, perché Gesù non li
rimprovererà di aver ceduto al sonno come farà con Pietro, Giacomo e Giovanni.
Essi, gli otto, hanno nel Getsemani un compito diverso da assolvere, sottolineato con
cura da Gesù, il quale li colloca in un posto determinato, con un ordine particolare.
La diversità delle vocazioni che risulta in questo tratto del Getsemani è un fenomeno
spirituale di ogni giorno, che richiede di essere riconosciuto e rispettato.
Al Maestro che si occupa di ogni anima, come si occupò in quella notte di disporre i suoi
discepoli, dobbiamo lasciare la più ampia libertà di manovra, e poiché Egli, con le
differenti vocazioni di ognuno, compone come in un mosaico il quadro della vita,
dobbiamo docilmente assumere la posizione assegnata a ciascuno di noi.
Il buon operaio è contento del posto che Iddio gli ha dato nel mondo, qualunque esso sia
e non soffre di quelle agitazioni interiori per cui certe anime ripensano continuamente la
propria vocazione, e cambiano strada con facilità, in ricerca di una risoluzione più
soddisfacente.
La vera risoluzione non può essere che interiore, e consiste nel rendersi conto che non
tanto importa quale sia il posto occupato nella Chiesa di Dio, quanto il modo col quale
tale posto viene occupato.
Anche il compito più umile può illuminarsi con la luce della santità ed è questo che
conta, solamente questo.
Colui che si affanna per organizzare, dirigere oppure servire un gran numero di opere
apostoliche, per quanto con retta intenzione, corre pericolo di sbagliare.
Chi invece si accontenta della propria missione e si sforza di approfondirla, più che di
superarla per rivolgersi ad altro, così che in essa tutto sia appropriato e ben fatto, a
servizio di Dio e degli uomini, possiede una formula di felicità, di perfezione e di
successo: non multa sed multum.
Che se poi le vie misteriose della Provvidenza tolgono addirittura il lavoro dalle mani
dell'operaio, per esempio a causa di una malattia, ed egli si trova a dover sostare,
inattivo, mentre l'appello delle opere vibra nel suo cuore, allora pensi all'ordine
getsemanico “sedete hic” e sia grato a Gesù che vuole in quel momento, per ragioni
imperscrutabili, un periodo di riposo; e si abbandoni a Lui.

4 - Talvolta l'ordine che il Cristo sussurra alle orecchie dell'anima, oppure manifesta
attraverso la parola di un Superiore, non significa solo l'interrompimento del lavoro e il
riposo, ma anche l'attesa.
Similmente nella notte del Getsemani l'ordine di sostare, equivaleva all'ordine di
attendere. Non è solo l'umana preoccupazione di un accorto tempismo a consigliarci,
talora, di temporeggiare, ma è di principi nettamente soprannaturali che si alimenta
l'attesa degli operai.
Chi illumina, chi redime tanto la singola anima, quanto le moltitudini, non è l'uomo, ma
il Cristo.
Essendo sostanzialmente suo il lavoro, sua è la direzione, la responsabilità, suo il
metodo, il risultato di ogni opera apostolica.
Per tramiti invisibili, servendosi delle forze corredentrici che gli uomini mettono a sua
disposizione, il Cristo continua a lavorare nel mondo, senza soste e secondo un piano
preordinato.
Bisogna avvertire, al di là dei sensi, i colpi d'ascia e di martello che il divino Operaio
vibra, alla costruzione del capolavoro, così come un giorno gli abitanti di Nazaret
seguivano il suo lavoro nella bottega artigiana di Giuseppe.
I tempi dell'apostolato sono scanditi da Gesù. È Lui che accelera. È Lui che rallenta.
Come il falegname prepara le assi e le ripone perché serviranno un giorno per un
bisogno determinato, così nelle opere apostoliche avviene spesso che il lavoro iniziato
non giunga a compimento subito, od anche apparentemente non vi giunga mai.
La visione soprannaturale del mondo impedisce all'operaio di legare la sua soddisfazione
al successo immediato e sensibile, oppure anche ad un piano determinato di azione.
Egli è lieto di lavorare intensamente e intelligentemente, secondo le direttive che di volta
in volta riceve dai suoi Superiori, o dalla sua coscienza.
Ma è anche lieto di fermarsi e di attendere che si chiarisca il volere di Dio, che i tempi
maturino, che si compia il piano della Provvidenza nei suoi dettagli. Lieto anche se
l'attesa oltrepassa la sua vita perché la sua anima non vive nel tempo, ma aderisce ai
piani di Colui che riempie del suo Essere l'eternità.
8. “ASSUMIT... SECUM”

1 - Quando ebbe ordinato agli Apostoli di sedere e di pregare per non cadere in
tentazione, Gesù chiamò tre di essi, Pietro, Giacomo e Giovanni, e li condusse oltre, con
Sé.
Dal gruppo apostolico viene dunque estratto un piccolo nucleo di uomini, in testa ai
quali si mette Gesù.
L'invito rivolto ai tre annulla il precedente comando di sedere; essi dovranno camminare
seguendo Gesù dove Egli riterrà opportuno di andare, nel cuore nella notte misteriosa.
Pietro, Giacomo e Giovanni obbediscono, non siedono, o se già seduti si alzano, vincono
la stanchezza che impigrisce il corpo e la mente, si distaccano dai compagni e
obbediscono al Maestro mettendosi sui passi di Lui.
Pietro, Giacomo e Giovanni. Ma quale destino pesa su questi tre uomini? Che cosa vuole
da essi il Redentore? Perché questi e non altri? La risposta è racchiusa nella mente di
Dio.
Noi possiamo appena constatare i fatti e cercare di decifrarli accostandoli ad altri fatti.
Questo è certo, che nel Vangelo vi sono indubbie tracce di predilezione di Gesù verso i
tre del Getsemani; e non solo per ciascuno di essi singolarmente considerato, ma per il
gruppo qualificato che essi costituiscono in seno al collegio apostolico e che Gesù, non
senza intenzione, mise spesso in evidenza.
Così, per esempio, quando fu operato il miracolo della resurrezione della figlia di Giairo,
Gesù non volle con sé altri se non i tre prediletti; Marco riferisce la disposizione di Gesù
con le seguenti parole: ((Et non admisit quemquam se sequi, nisi Petrum, et Jacobum, et
Joannem jratem Jacobì” (Mc.5, 37 - E non ammise a seguirlo se non Pietro, Giacomo e
Giovanni, fratello di Giacomo).
Così pure, nell'occasione più solenne della salita sul Tabor per la Trasfigurazione, i
compagni prescelti furono questi tre Apostoli : “Post dies sex — narra Matteo —
assumit Jesus Petrum, et Jacobum, et Joannem jratem eius, et ducit illos in montem
excelsum seorsum” (Mt. 17, 1 - Sei giorni dopo Gesù, presi con sé Pietro e Giacomo e
Giovanni suo fratello li conduce in disparte sopra un alto monte).
Non è dunque a caso che Gesù sceglie anche nel Getsemani quei tre, distaccandoli dagli
altri Apostoli.
Negli anni della vita pubblica essi erano stati collocati chiaramente in condizioni di
precedenza ed era giusto che anche in questa circostanza fossero più degli altri vicini al
Maestro.
Marco che riflette il pensiero di Pietro e quindi, in un certo senso, le sfumature del
pensiero del Principe degli Apostoli, rende un tributo alla precedenza di Pietro, Giacomo
e Giovanni di fronte agli altri apostoli anche là dove parla dell'elezione dei dodici.
A differenza di Matteo che rispetta i legami del sangue ed incomincia ricordando prima i
due figli di Alfeo e poi i due figli di Zebedeo, Marco dà la precedenza ai tre del
Getsemani con queste parole: “Et imposuit Simoni nomen Petrus: et Jacobum Zebedaei,
et Joannem fratrem Jacobi, et imposuit eis nomina Boanérges, quod est, Filii tronitrui”
(Mc.3, 16-17 - Simone cui mise nome Pietro, Giacomo di Zebedeo e Giovanni fratello di
Giacomo ai quali mise nome Boanerges, cioè figli del tuono).
Come si vede, mentre Marco elenca rapidamente il nome degli altri Apostoli, sui tre del
Getsemani si indugia notando un particolare degno di rilievo e cioè che Gesù diede ad
essi un nome nuovo, a Simone quello di Pietro, a Giacomo ed a Giovanni quello di Figli
del tuono.
È difficile penetrare il significato profondo di questa disposizione del Maestro, ma una
cosa appare evidente che, mettendoli davanti agli altri, Egli volle da essi una
trasformazione anche più radicale, non solamente nell'anima ma anche nel nome.

2 - L'assunzione di Pietro, Giacomo e Giovanni ripete, con il linguaggio che promana da


un fatto concreto, il pensiero che Gesù aveva esposto ai commensali durante l'ultima
cena, quando disse: “Non vos me elegistis sed ego elegi vos, et posui vos ut eatis, et
fructum afferatis” (Gv. 15, 16 - Non avete voi scelto me, ma io ho scelto voi, e vi ho
designati per andare a far frutto).
Non sono gli uomini, in questo caso Pietro, Giacomo e Giovanni, che scelgono Gesù ma
è Gesù che li sceglie in ordine ad un fine positivo da raggiungere e cioè ad un frutto che
la pianta deve produrre.
L'operaio deve pensare similmente di se stesso e della propria vocazione. E non è
difficile; per poco che egli si raccolga a meditare vedrà distintamente e, più ancora,
sentirà che l'impulso gli venne dall'alto attraverso vie nascoste od inconsuete che si
pensava conducessero in ben altre direzioni.
È facile e doveroso riconoscere la nullità dei meriti e la gravita delle colpe commesse,
per cui non si può pensare che la vocazione sia giunta in qualche modo sollecitata dalla
giustizia.
A ragione di giustizia la bilancia di Dio giudice avrebbe spostato inesorabilmente
l'indice verso una vita opaca, oppure, verso una vita non inserita nel circuito della grazia.
Non si poteva meritare altro in base alle cattive prove precedenti.
Di che cosa mai può aver diritto l'uomo, ogni uomo, di fronte a Dio, dopo il tradimento
originale della sua volontà?
Eppure su questa nullità presuntuosa, su questa ingratitudine personificata, su questo
groviglio di passioni si è piegata la misericordia di Dio e la sua voce ha indicato una
strada, ed i cicli si apersero per infondere nell'operaio la grazia occorrente.
Non vi è possibilità di dubbio: l'assunzione fu decretata da Dio ed Egli ha ragione di
ripetere anche per le nostre povere anime di operai: «Non vos me elegistis; sed ego elegi
vos” (Gv. 15,16 - Non avete voi scelto me, ma io ho scelto voi).
Questa elezione divina desta nell'anima dell'operaio una sorgente di gioia e di fierezza. A
questo pensiero si dissipa il senso della solitudine; per quanto umanamente isolato e
magari in compagnia di persone ostili, l'operaio sente su di sé gli occhi del Maestro che
lo ha scelto nella massa e gli ha dato un compito.
Il mondo con le sue cattiverie e con le sue incomprensioni lo può tormentare, con
inesauribile malizia, nel cuore e nel corpo, ma, al di là degli sbarramenti di una anima
consacrata, il mondo non può passare e qui l'operaio si intrattiene dolcemente con il suo
Dio e Padre.
Chi lo ha chiamato sa la pochezza delle sue forze, la fragilità delle sue virtù e la potenza
contrapposta del male.
Non vi è capello del suo capo che cada senza che sia contemplato e permesso dai piani
della Provvidenza divina.
Egli non ha indossato la tuta dell'operaio per vanagloria, ma per lavorare a servizio di un
Capo, che lo ha chiamato, il Cristo, e che non gli lascerà mancare né il lavoro, né il
salario.
Innumerevoli altri certamente più buoni e più capaci potevano essere chiamati in sua
vece e messi al suo posto. Perché l'elezione si sia posata su di lui è un grande mistero.
Sono forse le virtù e le preghiere di una persona apparentata, nota od ignota, viva o
defunta, che hanno piegato la volontà di Dio verso la sua anima procurandole la
vocazione operaia. Forse sono le preghiere di suore di clausura, di missionari... Lo
sapremo un giorno, quando i meravigliosi congegni di giustizia e di carità della
Comunione dei Santi saranno noti.
Intanto l'operaio sente tutta la sua indegnità, ma sa anche di essere un prescelto, di avere
una missione da parte di Dio.
A contatto con la fiducia di Dio anche l'anima più raggelata deve sentirsi penetrare dal
calore vitale di un grande sole. Anche se il passato ha saputo di quest'anima tante
promesse e tanti tradimenti, tante insufficienze, tante miserie, l'avvenire con l'aiuto di
Dio sarà diverso.
Iddio ha fiducia nell'operaio e l'operaio ha fiducia in Dio.

3 - L'assunzione da parte di Dio, o vocazione, è un dono che non deve insuperbire, ma


piuttosto intimorire l'anima designata.
È il timore di Dio che passa, dello sposo che giunge nella notte ed esige che le anime in
attesa abbiano delle lampade ricolme d'olio. Bisogna temere di trafficare poco e male il
talento aureo ricevuto; né basta, per conservarlo, di seppellirlo in un terreno di vita senza
slanci. nauseante per la sua tiepidezza, spiritualmente vile e vuota.
Non è il caso di lamentarsi quando la Provvidenza usa chiedere, e specialmente alle
anime consacrate, qualcosa di superiore alle forze di cui ciascuno crede di poter
disporre.
La virtù richiede uno sforzo continuo, la tensione di tutte le energie in un tentativo di
superamento.
Bisogna rendersi conto che in questo modo si costruisce il reddito del talento ricevuto e
che la somma di tali acquisti, da parte di tutte le anime in grazia, produce
l'accrescimento complessivo del corpo mistico di Cristo nella dottrina e nella virtù, nel
tempo e nello spazio. Soffrendo per il travaglio a cui la nostra consacrazione ci
sottopone, dobbiamo sentire il travaglio di Maria nel dare alla luce Gesù.
Al timore di non corrispondere deve unirsi il timore di perdere il dono ricevuto della
vocazione. Non esiste consacrazione che non sia stata contrastata, che non abbia costato,
prima o poi, delle autentiche rinunzie, che non continui ad essere minacciata dal mondo
esteriore e dalle passioni che affiorano nel mondo inferiore.
Ogni mattina l'operaio deve partire alla conquista e alla difesa della sua vocazione, la
quale deve essere operante in lui, come il motore nella fabbrica.
L'avviamento del motore avviene allorquando vengono pronunciate le parole del
Simbolo: «Noi crediamo in Dio Padre e lo ringraziarne per la vocazione che ci diede...”.
Il sentimento di riconoscenza sale come incenso al cospetto di Dio e conduce l'anima a
rinnovare la consacrazione per il giorno che inizia.
Le opere della giornata, piccole o grandi al cospetto degli uomini, ma sempre imbevute
di sacrificio, hanno il significato di un'offerta in olocausto che continua e rinnova la
consacrazione operaia.
Mentre l'offerta si sviluppa durante le ore del giorno e della vita, l'operaio deve
continuamente controllarsi perché è troppo fragile e prezioso il tesoro che gli è stato
affidato, ripetendo alla sua anima queste belle parole di una scrittrice norvegese:
«Ogni altro amore è come il riflesso del sole in una pozzanghera della vita. Non puoi
abbandonarti ad esso senza macchiarti; solo quanto tu tenga sempre presente che non è
che la pallida immagine di una luce che viene da un mondo più alto, tua vera patria,
soltanto allora davanti ai tuoi occhi risplenderà un aureo fulgore che tu guarderai bene
dall'ottenebrare frugando nel torbido fondo”.

4 - Vi è una parola nel testo di Marco che stiamo meditando la quale ha molta
importanza per il mondo interiore dell'anima consacrata, ed è la parola “secum”, con Sé.
Il secondo evangelista non si limita a dire che Gesù assunse Pietro, Giacomo e Giovanni,
ma sottolinea ciò che Matteo sottintende, che Gesù li prese con Sé: “secum».
Molta dolcezza è racchiusa in questa parola ed è bene fermarsi a meditarla. Le anime
che seguono la chiamata e che appoggiano la loro vita, come una leva, sul fulcro della
consacrazione per sollevare il mondo, devono sapere di non essere sole. Gesù le prende
con Sé: «assumit secum”.
Questo pensiero vale quello della presenza di Dio che è veramente fondamentale per le
anime che tendono alla perfezione ma anche, per così dire, lo supera.
Non è soltanto l'occhio di Dio su di noi, ma è la compagnia di Gesù
dalla quale irradiano i prodigi della sua amicizia.
Come può essere triste un operaio quando un pellegrino misterioso lo accompagna
ricordandogli le Scritture e spiegandogli gli avvenimenti che si vanno svolgendo?
In quel modo che Gesù non manda gli Apostoli nel Getsemani, ma li porta con Sé e si
occupa continuamente di loro, così all'operaio Egli non solamente addita la strada, ma lo
conduce quasi per mano.
Se questo è il pensiero che deve ad ogni istante infondere certezza e gaudio, lo è in
special modo quando l'operaio trattiene, non solo spiritualmente, ma realisticamente il
Cristo con sé, vale a dire quando riceve la Santa Comunione.
Molti fanno ressa attorno al Sacramento, come la gente attorno a Gesù in quel giorno nel
quale Egli si recava verso la casa di Giairo. Gesù era sospinto da ogni parte così che i
discepoli si stupirono quando Egli disse: “Quis tetigit vestimenta mea?» (Mc. 5,30 - Chi
ha toccato le mie vesti?) e gli osservarono: “Vides turbam comprimentem te, et dicis:
Quis me tetigit?” (MC. 5,31 - Vedi come ti preme la folla, e domandi: Chi mi ha
toccato?).
In realtà una donna, una sola povera donna ammalata, fra quei tanti che si stringevano
attorno a Gesù, era riuscita a strappargli una forza misteriosa, operatrice del miracolo:
“Jesus in semetipso cognoscens virtutem, quae exierat de illo...” (Mc. 5, 30 - Gesù
accortosi subito dentro di sé della virtù che era emanata da lui...).
Quella donna che aveva saputo accostare Gesù come nessun altro, deve il segreto della
sua fortuna a quel pensiero che si era radicato nella sua mente e che l'Evangelista
riporta: “Quia si vel vestimentum eius tetigero, salva ero” (Mc. 5,28 - Solo ch'io tocchi
la sua veste sarò salva).
È appunto la fede che costringe Gesù al miracolo «Filia — Egli disse — fides tua te
salvanti fecit: vade in pace, et esto sana a plaga tua” (Mc. 5, 34 - Figlia, la tua fede ti ha
salvata: va in pace e sii guarita dal tuo male).
Quando Gesù prende seco l'operaio sacramentalmente, nella Santa Comunione, questi
deve realizzare un rapporto di fede sull'esempio dell'emorroissa.
Non basta accostarsi a Gesù, bisogna toccarlo con quella certezza interiore che risana.
La Comunione di ogni giorno è l'ambulatorio spirituale dell'operaio dove egli ritrova la
salvezza e pace.
9. “COEPIT CONTRISTARI”

1 - Il primo ed il secondo evangelista sono concordi nel riferire che Gesù incominciò la
sua agonia dopo aver prescelto Pietro, Giacomo e Giovanni ed averli portati con sé oltre
il luogo dove si era fermato il grosso della comitiva.
Allora Gesù «coepit contristari et maestus esse» (Mt 26,37 - Cominciò a rattristarsi e ad
affliggersi).
Questo verbo «incominciare» usato da Matteo e anche da Marco, deve essere
evidentemente riferito alle manifestazioni esterne del dolore, perché non si può pensare
che il cuore di Gesù non fosse addolorato quando poc'anzi annunziava il tradimento di
Giuda, oppure le negazioni di Pietro.
Ma Gesù fino a quel momento aveva contenuto il dolore e solo adesso volontariamente
dà libero corso a tutti gli affetti della natura inferiore come il tedio, la noia e il dolore,
per iniziare la sua passione.
I discepoli, così tardi a comprendere i pensieri di Gesù, possono ora conoscere dal suo
viso sconvolto, dal suo atteggiamento e dalle sue parole le inaudite sofferenze che Lo
trafiggono.
Gesù, vincendo quel riserbo che la carità Gli aveva imposto per impedire che la mente
dei suoi discepoli fosse alterata dalla paura in quelle ore che Egli aveva destinato alle
sublimità della prima comunione eucaristica, cede al bisogno umano di manifestare
esternamente il proprio stato d'animo.
Egli incomincia a comunicare agli uomini il suo dolore con grande umiltà e con assoluta
schiettezza.
Accostiamoci al divino sofferente con riconoscenza perché non vi è norma più preziosa
di questa che Egli viene tracciandoci con il suo esempio ed impariamo anzitutto da Lui
ad evitare la superbia del dolore nascosto.
Quando non vi sono ragioni di carità che inducano a dissimulare il dolore, vi sono
spesso ragioni di orgoglio.
Manifestare il proprio dolore vuol dire accusare un colpo, svelare una debolezza,
scoprire la propria vulnerabilità e perciò non sempre è cosa gradita.
Vi sono anime che al sopraggiungere del dolore si chiudono nel mutismo, si appartano,
non si confidano.
Anime altere che vorrebbero essere conosciute soltanto quando gli eventi sono prosperi
e non tollerano che l'occhio del prossimo si posi sulle proprie ferite foss'anche per
sanarle.
La scuola getsemanica insegna all'operaio la modulazione del dolore la quale incomincia
con una vena di grande spontaneità.
Perciò l'operaio non deve lasciarsi irretire dall'alterigia che trasforma le anime in un
blocco di amarissimo sale, come pure deve evitare che questo avvenga in altri.
Egli ha infatti una seconda missione da compiere: decongelare il dolore degli altri,
nascosto e rappreso.
Non vi sono sofferenze più atroci di quelle che provoca la superbia congiunta al dolore.
Senza dire che queste anime quanto più soffrono tanto più si rendono impermeabili ed
inguaribili.
Il dolore, questa salutare medicina dell'uomo, diventa per costoro il tossico della felicità
terrena e della salute eterna.
Abbia l'operaio una tenerezza particolare per queste anime altere e sottoponga ad esse,
ma non con le parole soltanto, l'esempio del Cristo che ci ha insegnato la fecondità
spirituale di un dolore comunicato ad altri, sofferto al cospetto del mondo.

2 - Incomincia la tristezza e la mestizia di Gesù. Il Figlio di Dio del quale i Vangeli non
dicono mai che abbia riso, fu provato molte volte dal dolore durante la vita terrena la
quale non fu sotto molti aspetti che una catena di ostacoli opposti alla sua missione
redentrice, dalla nascita nella stalla di Betlemme fino a poco prima del Getsemani,
quando Egli annunziò il tradimento di Giuda e la debolezza di Pietro.
Tali ostacoli suscitarono certamente una reazione dolorosa nel Cuore di Gesù che alcune
volte apparve esternamente, come quando pianse per la morte di Lazzaro che Egli
amava.
Ma non vi fu mai nel Cuore del Redentore una tragedia come quella del Getsemani a cui
stiamo approssimandoci.
Ed è a questo Cuore che dobbiamo rivolgere anzitutto il nostro pensiero, cioè a quella
capacità di amare e di soffrire che ogni uomo porta con sé e che trova in Gesù la sua
sublimazione.
La tristezza e la mestizia di questa notte rappresentano una crisi dolorosa, la più grave,
del Cuore di Gesù.
È del tutto logico che rivelandosi a distanza di secoli a Santa Margherita Maria, il Sacro
Cuore le abbia chiesto di praticare l'Ora Santa a ricordo ed a conforto della sua agonia
nell'orto perché là dove avvenne lo strazio ivi si rende necessaria la riparazione, cioè
presso il Cuore divino.
Resi più accorti dalle rivelazioni di Paray le Monial siamo in grado di capire meglio la
tragedia del Getsemani.
Bisogna partire dalla meditazione del Cuore che ha tanto amato gli uomini, tutti gli
uomini, di un amore purissimo e cioè senza tornaconto.
Il Cuore di Gesù chiede di dare, soltanto di poter dare e non ha bisogno, per la sua gioia,
di ricevere.
Fatte le debite proporzioni, è simile all'amore di una madre che è felice quando può darsi
al figlio anche se il figlio è piccolo e non capisce, oppure se grande, ma ingrato e
incomprensivo.
La radice profonda della tristezza e della mestizia di Gesù consiste dunque negli
sbarramenti che il suo amore sta per incontrare, più grandi che mai, fino al folle
tentativo operato da quegli stessi uomini che sono l'oggetto dell'amore, di arrestare per
sempre le pulsazioni del suo Cuore.
Gesù che ha dato luce alle intelligenze e salute ai corpi, senza nulla chiedere, anzi
rifiutando gli onori e le altre ricompense umane, ormai non potrà dare agli uomini se non
la sua passione, dono sovreminente, ma conclusivo.
Poi questo Cuore cesserà materialmente di battere, mentre contiene un infinito
potenziale di amore...
L'incomprensione e la malvagità degli uomini straziano il Cuore divino che una cosa
sola desiderava e desidera: di immettere nelle arterie di ogni anima il sangue della sua
Grazia. Egli sembra esclamare:
“O uomini, perché non vi lasciate amare da me ?”.

3 - Talora sulle anime scende la sera. Come al vespro tutte le ombre si allungano e
sembrano invadere la terra per condurla nel dominio delle tenebre, così allora per le
anime le difficoltà sembrano ingigantire, e piccoli indizi contrari si adergono come
ostacoli preoccupanti, pericoli nascosti divengono palesi, uomini fidati appaiono in una
luce di debolezza o di tradimento, la forza morale e fisica viene meno, la via che si batte
appare rivolta verso un abisso.
In questi momenti nei quali il coraggio abbandona il cuore dell'uomo, un'angoscia
invincibile ne attanaglia l'anima e ne scuote il corpo: è la paura.
Così si apre il dramma di Gesù, con la paura. Che il Signore del cielo e della terra possa
essere triste lo comprendiamo; ma più difficile è intendere come Egli abbia potuto aver
paura, se non pensando alla realtà della sua natura umana che era, come la nostra,
soggetta alla marea del sentimento che talora sale quasi a sommergere l'intelligenza e la
volontà.
Non vi è umiliazione più profonda per l'essere razionale di trovarsi in balìa di un
meccanismo oscuro che non si può dominare anche volendo.
Non poteva il Redentore abbassarsi di più di quanto fece nell'orto sottoponendosi alla
paura, tormento più grave di quanti altri ebbe a soffrire durante la passione, perché
questi verranno dall'esterno, quella invece è una sofferenza che sale dalle profondità
della sua natura umana.
Come per Gesù, così per ogni uomo, la paura si affaccia allorquando una prova reputata
difficile e necessaria si approssima.
Alle difficoltà esterne, obiettive e previste, si aggiunge lo sconvolgimento del proprio
essere che perde la serenità e la dolcezza così necessarie nel momento del pericolo.
L'uomo trova difficoltà a dominarsi, perde il controllo di sé, e sorge allora come grave
tentazione la viltà, che spinge a fuggire.
Qualora il pericolo suggerisca la fuga, l'operaio pensi a Gesù che pur gravemente tentato
dalla paura, non fuggì, ma lottò con violenza indicibile, con quell'assoluta padronanza di
sé di cui diede continuamente prova durante la passione. Questa è la prima vittoria che
ogni operaio deve realizzare nelle circostanze più difficili della sua vita: la padronanza
di sé.

4 - La carità del Padre è giunta fino al punto di sovvenire, nel Cristo, ad un'altra grave
infermità e tentazione nostra: il tedio. Come la paura così il tedio fu grande sorgente di
tristezza per il divino agonizzante e dobbiamo essere grati al secondo evangelista di
avere analizzato in modo così aderente ed efficace lo stato d'animo di Gesù: “et coepit
pavere et taedere” (Mc. 14,33 - Cominciò a sentire paura e angoscia).
Il tedio non è la noia perché questa affligge colui che sta inoperoso ed è una giusta
sanzione dell'ozio e dell'accidia; perciò la noia non è, in questo senso almeno, una
tentazione per il buon operaio, ma lo è il tedio che può giungere subitaneo nel mezzo
dell'azione a sconvolgere il cuore e la volontà.
È il panorama delle opere che cambia improvvisamente come se ad un bosco
verdeggiante fossero tolte le foglie, quasi che alla fiorente estate subentrasse di colpo
uno squallido inverno.
È il mondo interiore che si raffredda, è il prossimo che disgusta, è la vita di domani che
appare monotona come quella di oggi e di ieri. L'anima diventa simile a quelle persone a
cui una malattia toglie il gusto dei cibi; le vivande sono quelle di sempre, ma appaiono
insipide, non allietano, non soddisfano.
Questo vento che sembra venire da un deserto, prosciuga e insecchisce ogni fioritura
spirituale e lascia dietro di sé una terra bruciata. Quando le anime ne avvertono il soffio
devono riparare nel giardino del Getsemani come in un'oasi.
Gesù agonizzante ha voluto affrontare e vincere il tedio, per noi.
La sua grande opera gli appare scipita, proprio quando sta per scoccare l'ora suprema,
eroica, sublime, della riconciliazione fra l'uomo e Dio.
Se il peso di ciò che fluisce nel tempo gravò sul cuore di Gesù che pur conosceva i
segreti di Dio, è più che naturale che affligga l'uomo il quale intuisce i suoi destini
eterni, ma non li conosce.
Il tedio deve essere interpretato dall'operaio come il risultato del contrasto fra le
aspirazioni alle perfezioni divine deposte in seme nel cuore dell'uomo e lo squallore, la
limitatezza del mondo.
Il tedio dice all'operaio che egli non è fatto per quaggiù, che le sue opere anche se
riuscite e apprezzate, sono frammenti impercettibili di fronte all'eternità e alla maestà di
Dio.
Il tedio sofferto e santificato da Gesù deve essere considerato come un amico che ci
conduce sulle rive di un mare sul quale salperemo un giorno: il mare dell'infinito.
10. “USQUE AD MORTEM”

1 - Penetrati nel santuario del dolore sopportato da Gesù nel Getsemani, giunge al nostro
orecchio come un suono di organi da sovrumane distanze.
È la voce dello Spirito Santo che ha previsto e descritto mediante la parola dei Profeti lo
strazio al quale va incontro il Figlio dell'Uomo.
Ascoltiamo queste voci profetiche con lo spirito raccolto e sospeso con il quale si
accosta il miracolo, poiché è veramente miracoloso che a distanza di secoli il Messia sia
stato così fedelmente vaticinato. (1)
Deus, Deus meus, respice in me, quare me dereliquisti?
Longe a salute mea verba delictorum meorum.
Deus meus, clamabo per diem, et non exaudies, et nocte,
et non ad insipientiam mihi.
Ego autem sum vermis et non homo,
opprobrium hominum et abiectio plebis.
Omnes videntes me deriserun me,
locuti sunt labiis et moverunt caput:
Speravit in Domino, eripiat eum, salvum faciat eum,
quoniam vult eum.
Circumdederunt me vituli multi,
tauri pingues obsederunt me,
aperuerunt super me os suum
sicut leo rapiens et rugiens.
Sicut aqua effusus sum, et dispersa sunt omnia ossa mea:
factum est cor meum tamquam cera liquescens in
medio ventris mei.
Aruit tamquam testa virtus mea,
et lingua mea adhaesit faucibus meis,
et in pulverem mortis deduxisti me.
Quoniam circumdederunt me canes multi,
concilium malignantium obsedit me,
foderunt manus meas et pedes meos.
Dinumeraverunt omnia ossa mea,
ipsi vero consideraverunt et inspexerunt me.
Diviserunt sibi vestimenta mea
et super vestem meam miserunt sortem.
Tu autem Domine, ne elongaveris auxilium tuum a me;
ad defensionem meam conspice.
Erue a framea, Deus, animam meam,
et de manu canis unicam meam;
salva me ex ore leonis,
et a cornibus unicornium humilitatem meam.

(1) - Dio mio, Dio mio, volgiti a me, perché mi hai abbandonato?
te ne stai lontano dalle mie preghiere, dalle mie grida supplichevoli.
Dio mio grido il giorno, e non mi esaudisci,
la notte, e non mi dai ascolto. Ma io sono un verme e non un uomo, l'obbrobrio degli
uomini e lo spregio della plebe.
Tutti quelli che mi vedono mi deridono,
muovono le labbra, scuotono il capo: “Ha sperato nel Signore: egli lo liberi,
10 salvi se lo ama”.
Mi circondano molti giovenchi,
tori di Basan mi assediano. Aprono contro di me la loro bocca come leone rapace e
ruggente.
Mi sono effuso come un'acqua
e si sono disgiunte tutte le mie ossa.
11 mio cuore s'è fatto come cera, si scioglie nelle mie viscere.
La mia gola s'è inaridita come un coccio . e la mia lingua s'è attaccata al mio palato
e mi hai ridotto alla polvere della morte,
Infatti molti cani mi stanno attorno,
una caterva di persone inique mi circonda.
Hanno traforato le mie mani ed i miei piedi:
possono contare tutte le mie ossa. Essi mi vedono e vedendomi si rallegrano, si dividono
i miei panni e tirano la sorte sulla mia tunica.
Ma tu, o Signore non startene lontano:
aiuto mio, affrettati ad aiutarmi. Salva dalla spada la mia anima e dalle unghie del cane
la mia vita;
Salvami dalla bocca del leone
e me misero dalle corna dei bufali.
(Salmo 21, 2, 3, 7, 9, 13, 22)

2 - La tristezza denunciata da Gesù è anzitutto, per sua confessione, una sofferenza


dell'anima e cioè una manifestazione interiore: “Tristis est anima mea” (Mt 26, 38- Mc
14, 34).
Ma il dolore spirituale che può talora esistere senza riflettersi sul fisico, altre volte è di
tale violenza che si riversa sui fenomeni materiali della vita scuotendoli e perfino
sradicandoli.
Il dolore spirituale può uccidere, ed è questo il limite verso il quale Gesù sembra essere
trascinato poiché la tristezza non solo avviluppa la sua anima, ma giunge a scavare
nell'equilibrio delle sue forze corporali fino a minacciarne la distruzione: “Tristis est
anima mea usque ad mortem”. Fino a morirne.
Queste parole non si spiegano se Gesù non avesse accusato quel travaglio anche fisico e
cioè il sentimento dell'angoscia, che si riversa dall'anima sul corpo dell'uomo.
L'angoscia stronca le energie dell'uomo e lo annienta.
Non vi è argine capace di contenere questa marea crescente; non vi è considerazione
umana, né ricordo, né speranza che tenga.
I giorni dell'angoscia sono di polverizzazione, di nullificazione.
Colpito da un dolore disumano, l'uomo sente che il tempo lo divora, che la vita gli
sfugge, che la morte è prossima.
Il dolore di Gesù è dunque totale; egli si dibatte in una morsa che avviluppa tutto il suo
essere umano.

3 - Come dinanzi ad ogni problema, così di fronte al dolore, l'operaio si dispone ad


affrontare la realtà con visione chiara e radicale.
Ogni dolore provoca una ferita caratteristica e suscita una reazione, per quanto sempre
molesta, diversa di volta in volta; ma un legame sostanziale congiunge tutti i dolori ed
ha il valore di una legge che domina la vita dell'uomo.
La visione frammentaria del dolore si esaurisce nell'analisi umana delle cause e dei
rimedi di ogni sofferenza; ma si completa ed innalza nel cristiano poiché egli si rende
conto che il dolore è una sanzione ineluttabile la quale può assumere volti diversi, ma
non può essere allontanata in modo permanente dall'uomo.
Questo o quel dolore potrà essere evitato con opportuni accorgimenti, ma non può darsi
che il dolore, nella più vasta accessione del termine, venga escluso.
La legge del dolore è uscita dalla bocca di Dio Padre quando comparve ai nostri
progenitori dopo il peccato di origine. “Quia audisti vocem uxoris tuae et comedisti de
ligno — Egli disse —, ex quo praeceperam tibi ne comederes, maledicta terra in opere
tuo: in laboribus comedes ex ea cunctis diebus vitae tuae. Spinas et tribulos germinabit
ubi, et comedes herbam terrae. In sudore vultus tui vesceris pane, donec revertaris in
terram de qua sumptus es: quia pulvis es et in pulverem reverteris” (Gen. 3, 17, 19 -
Perché hai ascoltato la voce di tua moglie, ed hai mangiato dell' albero di cui ti avevo
comandato di non mangiare, la terra sarà maledetta nel tuo lavoro: con grandi fatiche ne
trarrai il nutrimento per tutti i giorni della tua vita. Essa ti produrrà spine e triboli, e tu
mangerai l'erba della terra. Mangerai il pane nel sudore della tua fronte, finché ritorni
alla terra dalla quale sei stato tratto: giacché polvere sei e in polvere ritornerai).
Di qui deriva l'universalità del dolore e la sua eccellenza perché non vi ha liberazione,
vale a dire espiazione del peccato originale e del peccato attuale, senza dolore.
Gesù, che ha voluto assumere la posizione dell'uomo decaduto onde operarne la
redenzione, ce lo insegna con la sua vita e soprattutto con la terribile agonia del
Getsemani.
L'accostamento del più grande dolore che mai uomo abbia sofferto e il pensiero che esso
fu ritenuto necessario dall'Uomo-Dio, che era personalmente innocente e che disponeva
di ogni altro mezzo per fondare la sua Chiesa, deve accrescere a dismisura nelle anime la
stima per il dolore.
L'operaio, pur soffrendone, deve apprezzare il dolore fino a condividere la grande
espressione di Santa Teresa “o soffrire o morire”, perché una vita senza dolore è sfornita
del suo valore redentivo più alto e caratteristico.
Occorre che l'operaio sappia spiritualmente superare le contingenze del suo dolore per
assaporarne il succo amarissimo che ha il valore di una medicina individuale e
universale.
Quanto più l'anima cristianamente soffre, tanto più aumenta in sé il potere assorbente
della grazia, e tanto più estende nel mondo l'opera redentiva del Cristo.
L'operaio è compreso di questa elementare verità che il dolore è cosa grande e che ci
accompagna nella vita come un fuoco sacro destinato a consumare in noi tutte le scorie.
Il dolore è comune a tutti gli esseri umani, li affratella, li unisce, li salda in una simpatia
universale!
Il dolore annulla le distanze, cancella le diversità morali e sociali e permette che due
persone piangenti, una nel freddo e nel buio di una strada deserta, l'altra in una stanza
ricchissima e deserta siano assolutamente eguali!
Un intento del Redentore nell'accettare la tortura del Getsemani fu certamente quella di
farci apprezzare, nella giusta misura, il dolore come mezzo di redenzione.

4 - Aprendo il suo cuore a Pietro, Giacomo e Giovanni, Gesù obbedisce a un disegno


divino di redenzione che tiene conto della necessità nella quale si troverà l'uomo, di
avere da Lui un esempio di sovrumana sofferenza, ma corrisponde anche al bisogno
umanissimo, di confidare ad altri le proprie pene.
Se vi è un certo numero di persone che la superbia conduce a nascondere il dolore, è pur
vero che la grande maggioranza sente l'impellente bisogno di rendere manifeste le
proprie sofferenze, di invocare l'aiuto del prossimo almeno chiedendo ciò che sempre è
possibile dare, la comprensione e l'affetto.
È questo un denominatore comune a tutti i dolori fisici e morali da chiunque sofferti ed è
pure un'ancora di salvezza, quasi una passerella che permette all'uomo di accostare e di
sovvenire un altro uomo che soffre.
Per quanto prezioso, il dolore è sempre una piaga esposta che induce l'uomo al lamento,
e cioè a quella comunicazione della propria sofferenza che è la traduzione del dolore
nella vita sociale.
Chi dissimula il dolore per ragioni superiori di vita spirituale e specialmente di carità o
di espiazione, non è che non senta il bisogno di sfogare l'amarezza che porta in sé, anzi è
la vittoria su questo istinto che gli acquista un particolare merito.
Non è l'impassibilità degli stoici che il cristiano deve prefiggersi; ma la sofferenza di
Cristo piena di sensibilità e di generosità, di riguardo per gli altri e di spontaneità.
Conservare la spontaneità al dolore così che il prossimo possa leggerlo attraverso il
volto e ascoltarlo dalle parole, è una caratteristica della vita spirituale che non è mai
ermetica e antisociale, ma sempre unitiva, nella gioia e nella sofferenza.
È buona regola quella di non soffrire da soli, ma di scegliersi con cura dei confidenti
come fece Gesù, anime superiori capaci di comprendere, di preferenza anime sacerdotali
e anime consacrate.
Pochi devono essere i confidenti, ma pure è bene che ci siano, e ricercati in modo da non
dare purchessia la fiducia, riversando in persone superficiali, frivole, indicate dal
sentimento più che dalla ragione, i propri dolori.
Il dolore non deve essere profanato dalla confidenza, ma reso più alto, più accetto, più
meritorio.
Negli ambulacri della sofferenza bisogna entrare con spirito di raccoglimento poiché il
luogo è santo.
11. “VIGILATE MECUM”

1 - Non a tutti è dato di penetrare egualmente nei dolori .del Cristo.


L'accostamento è predisposto da Dio ed è segno di predilezione come si vede dai tre che
il Maestro ha portato con sé nella notte e che erano, secondo quanto osserva San
Cipriano, i più fedeli e forti.
Vi è dunque una gerarchia fra le anime, che il mondo non apprezza perché è capovolta
rispetto ai suoi gusti ed alle sue aspirazioni, ed è la gerarchia delle anime che conoscono
il dolore.
Gesù vuole distinguere con questo sigillo doloroso i suoi tre prediletti perché si sappia
che quanto più si aspira alla vicinanza di Lui tanto più si richiede conoscenza e
comprensione dei suoi dolori.
Non è soltanto una richiesta indiretta che il Cristo rivolge a Pietro, Giacomo e Giovanni;
cioè non si limita a manifestare l'angoscia che sommerge il suo animo, ma chiede
espressamente, con una spontaneità e un'umiltà che sbalordisce, il conforto dell'uomo:
“Sustinete hic - Egli dice — et vigilate mecum” (Mt. 26,38 - Restate qui e vigilate con
me)
Egli chiede due cose, di sostare in quel luogo e di vegliare con Lui.
Non vuole che essi tornino sui loro passi mescolandosi agli otto che più addietro si sono
seduti e forse sono già immersi nel sonno.
Per quelli l'ordine era diverso; da questi invece, che stanno più innanzi nella gerarchia
dell'amore e del dolore, si richiede il coraggio di fermarsi in quel luogo e di affrontare la
notte dell'agonia.
Osserva giustamente il Garofalo che nello studio del Vangelo a noi manca, di solito, un
dato importantissimo e cioè la notizia del tono con il quale le parole furono pronunciate
dai diversi personaggi, e anzitutto da Gesù, poiché il tono determina spesso il significato
preciso delle parole che vengono pronunciate traducendo lo stato d'animo di chi le
pronuncia.
Ma qui non vi può essere dubbio, queste parole sulle quali meditiamo “Sustinete hic et
vigilate mecum” che, isolate dal contesto, potrebbero anche apparire come un ordine
secco e vibrato, seguono immediatamente alla terribile confessione del Maestro “Tristis
est anima mea usque ad mortem” e necessariamente partecipano di quel tono di estremo
abbandono e sconforto.
Parole che dobbiamo immaginare non come un ordine, ma come un'invocazione; come
una preghiera rivolta da Gesù ai suoi intimi sui quali pensava di poter contare; come un
soffio che i tre raccolsero perché il silenzio della notte era profondo.

2 - Gesù desidera che gli Apostoli prediletti si fermino sul luogo della sua agonia:
“sustinete hic” ed il suo invito, come ogni parola del Vangelo, si prolunga nel tempo e
giunge fino a noi.
Avendo Egli parlato per ogni uomo, di ogni tempo, è doveroso che l'attenzione si fermi
su questo preciso desiderio e che ciascuno si chieda perché mai il Cristo abbia voluto e
voglia questa sosta delle anime nel Getsemani.
Essendo il Maestro venuto fra noi per insegnare la via della salute, possiamo ritenere che
anche questo episodio della sua vita, e perciò questo suo desiderio, abbia come scopo
essenziale la redenzione dell'uomo.
È per noi che Egli si dispone a soffrire ed è per noi, anzitutto, che Egli ci chiede di
sostare nella notte del suo dolore.
In altri termini, noi siamo invitati a fermarci per imparare da Lui, dal suo esempio e
dalle sue parole in circostanze così straordinarie; perciò “hic”, in questo luogo santo,
dobbiamo anzitutto raccoglierci e meditare.
La meditazione, muovendo dagli elementi certissimi che ci vengono offerti dalla parola
dello Spirito Santo, divino Relatore di quanto avvenne nel Getsemani, deve analizzarne
ogni parte utilizzando il sapere raccolto dalla Chiesa nel corso dei secoli e ricavando
quegli insegnamenti che la mente umana può formulare in questa mistica sosta.
La fermata non è per immobilizzare l'uomo ma per concentrare le sue forze spirituali
sopra l'oggetto che la bontà divina ha predisposto per lui, forze spirituali che constano
nel tempo stesso di pensiero e di volontà.
Non basta contemplare, bisogna assimilare, così che l'anima trovi nel Getsemani i
gradini della sua ascensione, dolorosamente scolpiti dal Cristo, e li percorra.
Come geograficamente il Getsemani si trova alle falde del monte degli ulivi, così
misticamente si trova alla radice del monte della perfezione. Bisogna saper trovare, fra
le ombre del Getsemani, la via.

3 - Non basta a Gesù che i suoi apostoli si fermino accanto a Lui nell'ora del dolore,
come non gli basta che i cristiani si raccolgano a meditare sul Getsemani nutrendosi a
questa eccelsa scuola spirituale.
Egli vuole dagli apostoli e dai cristiani una singolare presenza che ora va elemosinando
con parole che attestano l'umiltà del suo Cuore divino.
Egli vuole la presenza affettiva delle persone amate, che esse prendano parte
intimamente ai suoi dolori.
Colui, del quale era stato scritto: “Misertus est eis, et curavit languidos eorum”» (Mt.
14,14 - Ebbe compassione di essi e guarì i loro infermi) chiede ora che l'esempio si
compia nei suoi riguardi e che si vegli con Lui: mecum.
Gesù non chiede un'assistenza fisica, né, pur sapendo che fra poco verrà il traditore per
catturarlo, intende disporre nella notte delle sentinelle a vigilare il podere; Egli invoca
che il cuore dei fedeli sia vicino al suo Cuore, e che la loro attenzione comprensiva non
sia rivolta all'esterno verso l'inevitabile, ma che si trattenga sui dolori che trafiggono e
devastano la sua anima.
“Mecum”. In questo desiderio di Gesù che i tre Apostoli veglino con Lui dobbiamo
scorgere il suo invito a circondare di una devozione amorosa il ricordo dell'agonia.
Il Getsemani non è soltanto un episodio del Vangelo, ma una realtà in atto; come il Dio
vivo pende anche oggi dalla Croce del peccato che gli uomini rinnovano, così agonizza
nella notte profonda dell'incomprensione e del tradimento.
La devozione getsemanica parte da una rievocazione storica, ma si allarga ad
abbracciare una realtà soprannaturale che accompagna in ogni tempo e luogo, come pure
in ogni anima, l'estendersi della redenzione, poiché tutti siamo coinvolti in quanto a
colpa e in quanto a merito in quest'agonia, e siamo invitati a parteciparvi.
“Mecum”. Questa parola esce come sussurro da ogni tabernacolo. È l'invito che si
rinnova da quel mistico Getsemani dove il Cristo soffre nei secoli la solitudine,
l'incomprensione e il tradimento.
La notte del tabernacolo non è meno pesante della notte nella macchia degli ulivi, non è
altra la vittima nascosta sotto le specie del pane, né diverso è il comportamento degli
uomini, di quelli che dovrebbero vegliare e pregare, e di quelli che compiono il
sacrilegio di imprigionare Gesù.
La pratica della devozione getsemanica come quella dell'ascetica getsemanica è il punto
di riferimento delle anime operaie che, per altro, devono guardarsi dall'attribuire un tono
sentimentale a questa devozione per non diminuirla e per non profanare l'austerità che
domina nella tragedia del Getsemani.
Giova modellarsi sull'esempio degli evangelisti. Di essi scrive il Lebreton: «il loro
amore per il Maestro superava di molto il nostro; i sentimenti che agitavano il loro
cuore, specie di Giovanni, il testimonio oculare del dramma, erano infinitamente più
forti e vivi di quelli che possiamo ora provare noi; eppure il loro racconto procede con
un tono commosso e modesto che ci impressiona di più di ogni lamento.
Gli evangelisti hanno compreso che il rispetto per la vittima adorata imponeva loro
questo silenzio” (P. G. LEBRETON, La vita e l'insegnamento dì Gesù Cristo Nostro
Signore, Morcelliana, 1934, p. 337).
Lo stile degli evangelisti è di esempio alla devozione getsemanica, la quale, essendo
concreta, deve condurre l'operaio frequentemente dinanzi al tabernacolo e soprattutto a
visitare i tabernacoli di quelle chiese che il pubblico diserta e dove il Cristo sembra
ripetere con particolare ragione: “Sustinete hic et vigilate mecum”.

4 - Nella festa del Sacro Cuore la Chiesa ricorda l'epistola di San Paolo agli abitanti di
Efeso dove l'apostolo, avendo detto che gli fu accordata la grazia di annunziare presso i
gentili le incommensurabili ricchezze del Cristo, soggiunge che egli ha il compito di
mettere in luce davanti a tutti l'economia del mistero nascosto, dalle origini dei secoli, in
Dio: “Illuminare omnes, quae sit dispensatio sacramenti absconditi a saeculis in Deo”
(Ef. 3,9 - Mettere a tutti in luce quale sia la traduzione in atto dell'arcano nascosto da
secoli in Dio).
Questa economia si è realizzata nella storia attraverso una distribuzione sempre più larga
dei sacri misteri, cosicché nuova capacità di comprendere fu data progressivamente
all'uomo e la Chiesa vide con sempre maggiore chiarezza ciò che fin dall'inizio fu
annunziato.
Questo accrescimento della Sposa di Cristo nella conoscenza del suo Sposo è una dolce
anticipazione della luce totale che irromperà dopo morte nella mente degli eletti.
Con la sua liturgia la Chiesa mette dunque in relazione questa progressiva distribuzione
del mistero con la conoscenza del Sacro Cuore di Gesù che, pur essendo stato
annunziato dai Padri, dai Dottori, dai Santi e dalle anime contemplative fin dai primi
secoli della Chiesa, ebbe il suo trionfo nelle rivelazioni concesse, durante la seconda
metà del '600, a Santa Margherita Maria Alacoque.
Fra le istruzioni e le richieste rivolte da Gesù alla grande figlia di San Francesco di
Sales, vi è quella di praticare l'ora santa e cioè di vegliare con lui nella notte in memoria
dell'ora di agonia che Egli trascorse nel Getsemani.
Il Sacro Cuore ripeté più volte questa richiesta come si può leggere negli scritti della
Santa.
Queste ripetute richieste di Gesù rivolte a Margherita Maria portano della luce nel
mistero del Getsemani perché ci fanno comprendere che le sofferenze alle quali il Cristo
si sottopone riguardarono soprattutto il suo Cuore, se questo Cuore benedetto chiede di
essere compreso e confortato.
Anche il “Sustinete hic et vigilate” si rivela, in questo modo, come un'espressione del
sentimento di Gesù e cioè come un bisogno del suo Cuore, come una necessità creata in
lui dall'amore.
Perciò sembra possibile di concludere che la devozione verso l'agonia del Getsemani è
l'essenza intima della devozione verso il Sacro Cuore la quale è destinata, come disse
San Giovanni Evangelista a santa Geltrude, a riscaldare l'amore verso Dio in un mondo
invecchiato e raffreddato.
“Consilium Domini in aeternum manet; cogitationes cordis ejus in generatione et
generationem... Ut eruat a morte animas eorum et alat eos in fame” (Salmo 32, 11,19 -
II disegno del Signore sussiste in eterno: e i pensieri del suo cuore per tutte le età... Per
liberare dalla morte le anime loro e nutrirli in tempo di fame).
12. “AVULSUS EST”

1 - Scaglionati i suoi discepoli in due gruppi, l'uno di otto e l'altro di tre, Gesù si
allontanò, da solo, nel cuore del Getsemani.
Di questo fatto ci informano Matteo, Marco e Luca; però quest'ultimo adopera
un'espressione che rende lo stato d'animo di Gesù ben più di quanto non facciano Matteo
e Marco.
Mentre questi si limitano a dire che Gesù “avanzò alquanto”, Luca adopera
un'espressione fortissima dicendo che Egli “si strappò da loro per un tiro di sasso”.
Questa espressione fa intendere che la separazione di Gesù dai tre prediletti avvenne nel
dolore e indica la violenza del distacco.
Da un punto di vista umano Gesù non desiderava in quel momento di essere solo; perché
dunque volle superare sé stesso e portarsi più avanti, a un tiro di pietra dai suoi discepoli
?
Possiamo dire che non fu per quel sentimento di pudore di cui a volte il dolore si cinge
poiché, seppure a distanza, i tre poterono assistere all'agonia di Gesù.
Ciò a cui essi a distanza non avrebbero potuto assolvere, anche se lo avessero voluto, era
il compito di confortare Gesù.
Ed in ciò consiste, probabilmente, lo strazio del distacco per la deliberata rinuncia di
Gesù a quelli che avrebbero potuto essere i suoi confortatori.
Le parole del salmo “ho cercato dei consolatori e non li ho trovati” si adattano
mirabilmente a questo particolare momento della passione quando Gesù, avendo
invocata nobilmente la comprensione e il conforto dei suoi, rinuncia a chiedere più oltre
ciò che essi non gli danno, e si allontana.
Forse Gesù si sentiva portato a invocare di nuovo l'assistenza di quelli che Egli amava, a
mendicare l'amore come usa l'uomo nei momenti di supremo sconforto, quando è
proteso sull'abisso e si aggrappa disperatamente anche ai più inconsistenti arbusti del
sentimento.
Così Gesù avrebbe fatto, se non fosse prevalsa in Lui, precisa e dominante, la volontà
del Padre la quale non indicava il conforto, in quel momento, ma l'accettazione totale del
sacrificio.
E Gesù ebbe la forza di strapparsi da ogni possibilità di umano compianto e mosse, quasi
impietrito dal dolore, come una pietra lanciata dalla volontà di Dio, verso la solitudine.

2 - L'anima dell'operaio non dev'essere come la vite o l'edera che richiedono per
espandersi di appoggiarsi a muri, a piante o ad altri sostegni umani, ma come la quercia
che cresce solitaria, diritta e possente verso il ciclo.
Non che l'operaio tenga in poco conto la compagnia degli uomini, non la desideri e non
sappia trarne quel profitto di carità e di umiltà che essa soprattutto procura, ma questa
compagnia non deve essere condizione indispensabile della sua vita la quale ha una sola
condizione assoluta e cioè l'amicizia di Dio, che i sacramenti e i sacramentali
alimentano.
L'operaio deve trovare in questo dolce legame interiore tutto quanto è necessario e
sufficiente per sostenerlo e sospingerlo nella sua missione fino al giorno del transito.
Gli stimoli ed i conforti che provengono dal di fuori, e cioè dalla compagnia degli
uomini, sono complementari, devono essere ricercati e apprezzati, ma si deve anche,
all'occorrenza, farne a meno.
Quindi giova all'operaio la solitudine volontariamente ricercata perché lo mette di fronte
alla realtà interiore, gli fa comprendere di quanto sia tributario ad altri il suo equilibrio
spirituale, quale e quanta sia la sua autonomia personale e cioè la sua capacità di
attingere direttamente alle fonti che il Salvatore apre a ciascuno.
Nella solitudine, l'operaio studia la sua anima come un motore al banco di prova e,
specialmente, anticipa quella prova suprema nella quale si risolve la vita dell'uomo
quando solo, e perciò carico delle responsabilità personali, e soltanto di queste, egli si
presenterà al giudizio di Dio.
Nella solitudine degli Esercizi Spirituali e delle giornate di ritiro, nella solitudine che il
monte e il mare regalano all'uomo, nella solitudine della notte vegliata, o in quella
particolare solitudine che procura un paese dove le persone e talora anche la lingua sono
sconosciute, l'operaio si mette, con grande frutto, alla presenza di Dio, valuta le sue
debolezze, le sue necessità, le sue risorse.
Quando esce dalla solitudine egli è più forte e come traboccante di vita interiore; la
riconquista dell'ordine e la chiara nozione del cammino da percorrere lo sostengono.
La solitudine è dunque feconda quando non è ricercata per un desiderio egoistico di
tranquillità, per fuggire alle preoccupazioni che il lavoro apostolico procura, o per altri
motivi di viltà spirituale, ma quando si verifica come una parentesi attiva della vita
quotidiana nella quale l'uomo viene a colloquio con se stesso, vive spiritualmente di
quanto la Grazia produce nella sua anima, e guarda con l'obiettività di un estraneo alla
sua vita d'ogni giorno, misurandola con il metro dei valori assoluti.
L'operaio ama questa solitudine anche quando è ridotta in frammenti, come nella
meditazione o nell'esame di coscienza, la gusta e la ricerca.

3 - La solitudine ricercata è un esercizio perché le anime si allenino a quella solitudine


involontaria che Iddio concede come un periodo di prova e quindi come occasione di
merito.
La morte di persone care, il rovesciamento di una situazione economica o di altri valori
umani, un lungo periodo di malattia o di prigionia e molti altri motivi possono creare
attorno alle anime la solitudine.
Può anche succedere che la fedeltà agli ordini ricevuti dai superiori, o la fedeltà alle
opere intraprese per il servizio della Chiesa determini una zona di incomprensione, di
freddezza e di solitudine attorno all'operaio.
La solitudine non ricercata, ma imposta e quindi subita, è molto amara non solo per
quello che produce, ma anche per ciò che significa: malevolenza, ingratitudine,
doppiezza, povertà di spirito cristiano.
È una prova fra le più difficili a sopportare, la prova del vuoto. Il cuore sente il bisogno
di essere compreso e incontra indifferenza, distrazione.
L'intelligenza chiede di capire e non vi è chi la illumini.
Le necessità materiali urgono e il prossimo abbandona Giobbe sulle immondezze.
L'operaio di fronte a questa ingiustizia autentica ma sottile e quasi inafferrabile, non è
mai così superficiale da profondersi in lamenti od accuse, ma circonda di dolcezza e di
tranquillità la propria condizione.
Le possibilità dolorifiche della solitudine sono innumerevoli e cangianti. La solitudine
può esistere nel cuore dell'uomo anche se egli è assediato da mane a sera da una folla di
uomini.
Tormentosa è la solitudine procurata dalla mancanza di affetti domestici, di amicizie,
oppure dalla mancanza di un ambiente professionale, culturale, ricreativo.
È la socialità dell'uomo che si desta, talora all'improvviso, e reagisce contro la
mutilazione procurata ad essa dalla solitudine, da quel tipo di solitudine, che gli procura
dolore.
Talora non è in gioco la propria sensibilità, ma quella del prossimo e non di rado passa
vicino a noi il dramma di un'anima che va singhiozzando per le strade della vita poiché è
sola.
Altre solitudini, non meno tragiche, sono contegnose e pudiche e non si svelano che
all'osservatore attento.
A volte la solitudine si ammanta di una particolare asprezza e si parla di misantropia,
strano impasto di superbia, di delusione e di anomalia psichica.
La solitudine è uno straordinario testimone che rivela l'uomo a se stesso e l'uomo
all'uomo.
Di fronte alla solitudine propria, l'atteggiamento dell'operaio è di chi conosce la
preziosità del soffrire sull'esempio di Chi, nel Getsemani, affrontò la più desolata
solitudine.
In questo modo la solitudine è apparente più che reale poiché popolata dal conforto
divino e dal pensiero delle anime che il Getsemani affratella.
Di fronte alla solitudine altrui, l'operaio ha il compito di medicare con mano soave le
ferite di chi soffre e di esporre le anime ai raggi vitali del più gran sole, la carità di
Cristo.

4 - I Vangeli parlano per ciò che dicono e per ciò che non dicono.
Essi non descrivono il distacco di Gesù dalla Madonna prima della Passione, ma è certo
che nel Getsemani il più crudele motivo d'angoscia fu per lui la lontananza della Madre,
di quella Madre.
Il suo cuore umano lo portava a sperare anche dai discepoli la comprensione e il
conforto, ma era chiaro alla sua intelligenza che quegli uomini non potevano, in quel
momento, comprendere il suo dolore.
Maria sì, l'Immacolata, la Vergine, avrebbe potuto capire il suo Figlio divino ed
assisterlo, unica fra gli uomini che avesse ricevuto, nella sua qualità di sposa, lo Spirito
Santo.
Maria, con il suo silenzio adorante e amante, con il tocco sovrasensibile e
incommensurabile della sua bontà, Maria che conosceva le Scritture e che aveva chiuso
nel suo cuore fedelissimo gli ammaestramenti del Figlio, soltanto Maria.
Eppure Gesù non volle che Maria fosse con lui in quell'ora perché se il Getsemani
avesse posseduto Maria non avrebbe potuto essere il luogo del supremo distacco, il
vertice dell'offerta e della passione.
Se Maria sì fosse trovata nel Getsemani né il dolore redentore di Gesù, né il dolore
corredentore di Maria avrebbero raggiunto la notazione più alta.
Meno doloroso sarà il Golgota perché ai piedi della croce vi saranno delle anime fedeli
e, anzitutto, Maria.
Non è un gioco di parole dire che Maria è presente al Getsemani perché assente, e cioè
partecipe, a motivo dell'assenza, di ciò che il Getsemani significa: solitudine, dolore
sovrumano, accettazione assoluta del volere del Padre, culmine della Redenzione.
Anche Maria soffrì, in quella notte, il suo Getsemani, perché i dolori del Figlio erano
conosciuti e condivisi dalla Madre e perché la lontananza centuplicava il suo dolore.
Maria è dunque la prima ad insegnarci che il Getsemani può essere vissuto ovunque,
associando le nostre anime all'agonia del Cristo, anche di lontano, nello spazio e nel
tempo.
13. “SUPER TERRAM”

1 - Gesù giunge sul luogo esatto della sua agonia.


A distanza di un tiro di sasso vi sono Pietro, Giacomo e Giovanni; più lontano, gli altri
apostoli.
Egli ora è solo e il dolore va crescendo nella sua anima; se Gesù ascoltasse il desiderio
del cuore forse tornerebbe sui suoi passi per tentare di nuovo, con parole più toccanti, di
scuotere i prediletti, di commuoverli, di farsi comprendere, di farsi amare.
Anche la nausea e la paura crescono, e gli consigliano di fuggire da quel luogo
ripugnante per salvarsi dalle acque fetide del tradimento, dell'invidia, della sensualità e
dell'ipocrisia, acque che hanno rotto gli argini e stanno per sommergerlo.
Il consiglio che sembra salire dalla sfera dell'umana sensibilità a quella della volontà del
Cristo è dunque uno solo: andarsene.
Ma il Cristo non ascolta queste voci e con uno di quei gesti che troncano ogni
discussione e che ammaestrano più che un discorso, si abbatte sulle ginocchia con la
faccia contro la terra amarissima del Getsemani.
Non è un atto di debolezza fisica come di uno a cui le forze vengano a mancare in
seguito ad una fatica o ad una malattia, perché fino a poc'anzi le forze di Gesù
apparivano integre e tali appariranno fra poco quando Egli tornerà presso il gruppo degli
Apostoli addormentati. La causa del gesto improvviso di Gesù, è una prostrazione
morale, prostrazione che Egli avrebbe in certo modo potuto evitare portandosi altrove.
Ma egli si abbatte al suolo, come per impedire che le forze istintive della sua umanità lo
muovano alla fuga da quel luogo dove un dovere lo costringe, come per anticipare con
un atto simbolico il fiat che uscirà fra poco dalle sue labbra, come per consegnarsi
effettivamente prigioniero al Padre, prima di consegnarsi prigioniero agli uomini, e
come per adorare la volontà di Colui che Lo ha mandato poiché, le ginocchia ed il viso a
terra, Egli è nella posizione di chi adora.

2 - Non vi era certamente al mondo, in quella notte, un luogo più ingrato del Getsemani
per il cuore del Cristo. Egli sapeva che in quel posto avrebbe dovuto svolgersi il
combattimento interiore più terribile per la sua anima, anzi sentiva che il combattimento
era già iniziato con un attacco serrato di dolore, di nausea e di paura. Ma pure quello era
il suo posto, e Gesù lo occupa nell'atteggiamento adorante di chi accetta il posto
assegnategli da Dio.
Per quanto possa essere nascosto, difficile o spregevole il posto dove la Provvidenza ha
collocato l'operaio, non potrà mai darsi che quello di Gesù nel Getsemani appaia meno
penoso e più tollerabile.
Agli occhi di chiunque Gesù ha toccato in quella notte, in quel posto, il massimo della
sofferenza di cui l'anima umana è capace.
Stabilito il confronto, l'operaio sarà condotto in ogni caso a concludere che il suo è pur
sempre un Getsemani minore, un pallido riflesso della riluttanza che il Cristo dovette
superare nell'occupare il suo posto nella notte dell'oliveto.
Difficilmente dunque il posto dell'operaio sarà tanto ingrato e repulsivo come il
Getsemani in quella notte, ma spesso accade che non piaccia o che venga a noia.
Gli aspetti sfavorevoli del posto che si occupa sono, come è naturale, ben più noti di
quelli dei posti tenuti da altri; di qui un cronico desiderio di evasione, di cambiamento.
Talora succede che non si possa parlare neppure di un posto qualsiasi poiché il volere
della Provvidenza sembra essere quello che l'operaio si purifichi attraverso la mancanza
di ogni condizione di sicurezza umana, vivendo, per così dire, alla giornata.
Ma anche il non-posto è un posto determinato al cospetto di Dio, anzi è quello destinato
agli apostoli quando Gesù li mandò a predicare il Vangelo spogli di ogni precauzione
umana. “Non peram in via, neque duas tunicas, neque calceamenta, neque virgam:
dignus enim est operarius cibo suo” (Mt. 10,10 - Non sacca da viaggio, né due vesti né
calzari, né bastone: poiché l'operaio è degno del suo nutrimento).
E spesso la vita dell'operaio fluisce così, come un continuo atto di abbandono a Dio, e
come una continua manifestazione della Provvidenza divina.
Comunque sia la fisionomia del posto assegnato all'operaio, questi deve pensare che
ogni posto, nonostante le diversità umane, si equivale, poiché ogni posto trova la sua
giustificazione e la sua fecondità nel volere di Dio.
Il divino mosaicista è il Cristo, ed Egli ha bisogno di tessere d'ogni colore. Questo
importa: che l'operaio trovi una collocazione nella grande macchina della redenzione e
come nelle macchine materiali, così anche in questa, gli ingranaggi più delicati sono i
più piccoli ed i più nascosti.
Che il posto sia spesso doloroso, amaro, è facilmente prevedibile perché senza la
componente del dolore quel posto non potrebbe aspirare alla corredenzione del
Getsemani e del Calvario.
L'operaio non deve preoccuparsi dell'avversione che può sentire per il suo posto, ma di
trasformarlo, di sublimarlo, di renderlo degno delle operazioni redentrici del Cristo.
Ogni posto, per minuto e duro che sia, può spiritualmente attivarsi e diventare un faro di
luce, un gioiello della grazia, una dimostrazione che Dio esiste ed è con l'uomo, un nodo
stradale per le anime.
Per produrre bisogna fermarsi, inginocchiarsi sul posto che Iddio ci ha consegnato,
baciare questa terra che attende di essere fertilizzata dal sudore e dal sangue dell'operaio,
adorando.

3 - Un modo certo per occupare con spirito di cristiana perfezione il proprio posto,
consiste nel rispettare il posto che altri occupa evitando di giudicarne il perché ed il
come.
L'operaio non deve trar motivo dai doni che Iddio gli ha dato per natura, o di cui gli ha
permesso l'acquisto, né tanto meno dal fatto della sua consacrazione per adergersi a
giudice, non richiesto, delle azioni altrui.
Anzi, deve trasparire dal suo mondo spirituale un grande rispetto per le idee e per le
azioni degli altri e tanto più, quanto più si tratta di estranei, cioè di persone intorno alle
quali non si possiedono che insufficienti motivi di giudizio.
Ma anche per i prossimi, e per qualsiasi compito che ad essi abbia affidato la
Provvidenza, l'operaio deve interpretare con estrema accondiscendenza e dolcezza ogni
atteggiamento ed ogni azione.
Così ha piena attuazione il comando di Gesù “Nolite iudicare” (Mt. 7,1 - Non giudicate)
che non solo è pieno di giustizia, ma di opportunità, perché anche da un punto di vista
umano i saccenti che tutto sanno e di tutto giudicano riescono difficilmente sopportabili.
L'operaio invece deve studiarsi, per la sua missione, di riuscire accetto a tutti e questo
successo psicologico è molto facilitato da quel riserbo per cui egli evita, ispirato
dall'umiltà e dalla carità, di pronunciare giudizi intorno al prossimo.
Egli eviterà anche di richiamare l'attenzione sopra sé stesso e sul suo posto di lavoro, ma
se è necessario parlarne lo farà con grande semplicità, con quella competenza che il
posto tenuto gli procura, accettando quelle osservazioni e quei rimproveri che gli
potessero giungere con spirito di riconoscenza, anche se non perfettamente intonati o se
ingiusti.

4 - II proprio posto deve essere tenuto dall'operaio con fedeltà e con decoro; cioè con
quel riguardo, con quella compiutezza e con quella dignità con cui si adopera un oggetto
di valore che non ci appartiene poiché il posto che si occupa, qualunque esso sia,
rappresenta una missione affidata da Dio e come tale è grandemente prezioso.
Dall'uso che l'operaio ne fa, dipende la sua salute spirituale e l'estensione del regno di
Dio.
Soprattutto il proprio posto dovrà essere tenuto con vigile senso di responsabilità.
Ogni posto riassume un complesso di doveri, più o meno facili e graditi, ai quali bisogna
far fronte con fermezza e costanza.
Il comportamento di chi si sbigottisce di fronte al dovere arduo, oppure di chi cerca di
escludere il dovere scomodo, o anche di chi cerca abilmente o affannosamente di
delegare ad altri il proprio dovere, non è conforme allo stile cristiano, né quindi allo stile
operaio.
Guardiamoci da ogni viltà spirituale e anzitutto da quella che ci consiglia di fuggire di
fronte alla responsabilità da assumere per non comprometterci e cioè per una sottile
forma di rispetto umano.
Coprire il proprio posto non vuoi dire soltanto che lo si deve occupare, ma anche che
bisogna assumere onestamente tutte le responsabilità che il posto occupato porta con sé.
È veramente uomo, cioè cristiano, cioè operaio, colui che accetta le responsabilità del
proprio agire anche quando appaiono ingrate poiché, se vi fu errore, si accoglie
serenamente l'avversità come un'espiazione, se invece non vi fu errore basta la
testimonianza della coscienza a confortare l'operaio nel ricordo delle parole di Gesù:
“Beati i perseguitati per amore della giustizia, poiché di essi è il regno dei cieli” (Mt.
5,10).
Questo atteggiamento richiede talora una presa di posizione energica, come quando si
devono riprendere dei dipendenti che non compiono il proprio dovere, compito ingrato
da cui però non è lecito esimersi pur cercando di togliere dal rimprovero, con la carità,
ogni aspetto passionale.
Vi sono delle anime per le quali questo atteggiamento franco e virile è spontaneo, ma ve
ne sono delle altre che devono vincere la timidezza naturale; allora è necessario un forte
impegno della volontà il quale crea nell'anima, per mezzo della grazia, questa particolare
virtù, la fortezza.
L'operazione si compie con tanto maggior merito e miglior risultato, quanto più la
vittoria è faticosa, perché ciò che si conquista con la grazia supera in qualità ciò che
proviene dalla natura.
Al rispetto per il posto degli altri il buon operaio unisce l'aiuto perché ciascuno possa
fare fronte alle responsabilità del proprio posto.
Senza pose, senza annoiare, senza far pesare, ma con naturalezza e discrezione il
prossimo deve essere aiutato a portare il peso del dovere quotidiano.
Un estraneo può vedere ciò che la persona direttamente interessata non vede, può
scongiurare pericoli, può avviare verso una soluzione, può fornire aiuti insperati; ed
allora l'estraneo, tanto più se operaio, non deve più sentirsi estraneo, ma chiamato in
causa dai fili invisibili del volere divino ed ha il dovere di intervenire circondando il suo
interessamento di bontà e di tatto.
È nelle piccole cose, nelle minute circostanze della vita, che il cristianesimo rifulge della
sua più commovente bellezza ed è qui che la virtù dell'operaio trova il suo vaglio, il suo
incremento, la sua principale funzione.
14. “PATER.....”

1 - La solitudine è ormai totale attorno a Gesù. La Madre è distante perché in questo


modo deve compiersi il volere di Dio.
I fedeli e i fedelissimi, se anche materialmente prossimi, sono spiritualmente assenti
perché avvinti dalla stanchezza e trascinati lontano nelle irrealtà del torpore che precede
il sonno.
Gesù aveva descritto agli apostoli, con parole aderentissime, l'abbandono nel quale lo
avrebbero lasciato, ma non era stato capito. Riascoltiamole, quelle parole, che non solo
predicono la solitudine inflitta a Gesù dagli uomini, ma anche il grande conforto che
sosterrà Gesù nell'ora dell'abbandono:
“Ecce venit hora — aveva detto Gesù durante il cammino dal Cenacolo al Getsemani —
et etiam venit, ut dispergamini unusquisque in propria, et me solum relinquatis: et non
sum solus, quia Pater mecum est “(Gv. 16, 32 - Ecco viene l'ora, anzi è già venuta, che
vi disperderete ciascuno dal canto suo, e mi lascerete solo; ma non sono solo, perché è
con me il Padre).
L'umanità del Cristo si rivela, in queste parole, con un'evidenza che sconvolge e
commuove.
La presenza del Padre è l'ancoraggio di Gesù mentre il suo Cuore sanguina per l'assenza
degli uomini, è la realtà a cui Egli si appoggia, come per rincuorarsi, onde affermare “et
non sum solus”.
Con un tono di fierezza e di sicurezza queste parole devono essere uscite dalla bocca di
Gesù dopo che la sua voce si era velata, forse, nel descrivere l'abbandono degli apostoli.
Gli uomini lo abbandonano, ma il Padre è con Lui: “Pater mecum est”.
Del Padre, Gesù aveva parlato in quella sera e in quella notte più che in ogni altro
momento.
Basta rileggere nel Vangelo di Giovanni il racconto dell'ultima cena per trovare nelle
parole di Gesù, ad ogni passo, l'accenno al Padre.
Egli aveva affermato di essere nel Padre “Ego sum in Patre meo” (Gv. 14,20 - Io sono
nel Padre...) al punto che colui che odia Lui, odia il Padre “Qui me odii, et Patrem meum
odit” (Gv. 15,28 - Chi odia me, odia anche il Padre mio).
Egli aveva dichiarato il suo amore verso il Padre “Diligo Patrem” (Gv. 14,31 - Amo il
Padre) e l'amore del Padre verso di Lui, amore che Egli assunse ad esempio per amare,
nello stesso modo, gli uomini “Sicut dilexit me Pater et ego dilexi vos “(Gv. 15,9 -
Come il Padre amò me così io ho amato voi).
Ma anche il Padre ama gli uomini e li ama in quanto essi amano Gesù “Ipse enim Pater
amat vos, quia vos me amastis” (Gv. 16,27 - Lo stesso Padre vi ama, perché avete amato
me).
Gesù aveva spiegato, per ciò che è dato agli uomini di capire, il legame intimo ed
indissolubile che lo stringe al Padre.
Ora è venuto il momento di mostrare in atto questo legame che unisce, pur
mantenendole distinte, le prime due Persone della Santissima Trinità.
Durante la cena, Filippo aveva detto a Gesù: “Domine ostende nobis Patrem” (Gv. 14,8 -
Signore, mostraci il Padre).
E Gesù aveva risposto: “Philippe, qui videt me, videt et Patrem” (Gv. 14, 9 - Filippo, chi
vede me vede il Padre) e aveva soggiunto “Pater autem in me manens, ipse facit opera”
(Gv, 14,10 - Il Padre che sta in me è egli stesso che opera).
Come il Padre sia in Gesù e come vada operando attraverso la libera accettazione del
Figlio, sta ora per essere dimostrato nel divino colloquio dell'agonia.

2 - Uscendo dal Cenacolo, Gesù aveva anche parlato del Padre suo per mezzo di quella
parabola che viene detta della vite e dei tralci : “Ego sum vitis vera — aveva detto Gesù
— et Pater meus agricola est” (Gv. 15, 1 - Io sono la vera vite, il Padre mio è il
vignaiuolo). Questo ingresso ampio e fermo della parabola ci presenta il Padre nella
veste di un operaio e precisamente di un agricoltore.
Che il Padre sia un grande operaio è chiaro quando si pensi alla creazione che è il suo
capolavoro, così come la redenzione è il capolavoro del Figlio.
Né la creazione, né la redenzione sono dei fatti che hanno avuto termine nel tempo,
poiché l'esistenza attuale del mondo può anche dirsi una creazione continuata, ossia un
prolungamento della creazione (prolixitas creationis), e nello stesso modo si può dire
che la redenzione è in atto a motivo del lavoro incessante della Grazia che fluisce dal
costato del Cristo.
Mentre il Figlio pende, tuttora, dal patibolo, il Padre ripete su di noi, anche oggi, il fiat
della creazione.
Il Padre viene dunque presentato da Gesù come un agricoltore, il quale toglie ogni
tralcio della sua vite che non dà frutto e pota quei tralci che danno frutto perché ne diano
di più: “Omnem palmitem in me non ferentem fructum, tollet eum; et omnem qui ferit
fructum, purgabit eum, ut fructum plus afferat” (Gv. 15, 2 - Ogni tralcio che in me non
porta frutto, lo taglierà via; e quello che porta frutto la poterà, perché frutti di più).
Sull'esempio e secondo l'insegnamento di Gesù, l'operaio deve sentire la presenza del
Padre non altrimenti di quanto la parabola consiglia, e cioè come una presenza direttiva
ed operante.
Il Padre è Colui che secondo un piano determinato ha piantato la vite e richiede da essa
il frutto corrispondente.
Egli segue con occhio vigile la vita della pianta così da incrementarla, toglie i rami
secchi e pota i rami fecondi.
Fuori della metafora, Egli segue le espansioni della redenzione operata dal Cristo
attraverso le diramazioni del Corpo Mistico ed ha gelosa cura di esse.
Siccome ogni tralcio è sorvegliato, l'operaio ha motivo di sentire sopra di sé l'occhio del
Padre, di temere il suo giudizio, ma anche di abbandonarsi alla sapienza di questo divino
agricoltore il quale valuta secondo una giustizia che gli uomini non conoscono, dosata
con infinita bontà.
Al Padre preme il reddito della pianta, che è quanto dire della creazione e della
redenzione, non solo in genere, ma nella fattispecie di ogni cristiano.
Il pensiero della fecondità che Iddio esige dalla sua mistica vite sprona l'operaio alle
opere per non essere considerato tralcio sterile destinato alla distruzione.
Se poi il lavoro è mescolato alle sofferenze, l'operaio pensa che le cesoie dell'agricoltore
vanno potando in lui il superfluo perché le sue forze, concentrate sull'essenziale,
conducano a frutti più pregiati.

Il piano, che vive nel cuore di ogni buon operaio, di lavorare onde produrre frutti nella
Chiesa di Dio, è ispirato al desiderio di rendere gloria al Padre perché i frutti, e cioè le
opere, onorino l'agricoltore divino. “In hoc clarificatus est Pater meus — ha osservato
Gesù a conclusione della parabola — ut fructum plurimum afferatis” (Gv.15,8 - Il Padre
mio è glorificato in questo, che portiate molto frutto).

3 - II Padre, in quest'ora, è dinanzi al Figlio come giudice. Gesù è, per il Padre,


l'ambasciatore e il procuratore dell'uomo, uno schermo immacolato che copre il
disfacimento della natura umana e i peccati innumerevoli che da quello iniziale traggono
origine.
Poiché si addossa le colpe degli uomini, Gesù è come l'accusato che in veste di reo si
presenta al giudizio del Padre.
La sentenza è nota ab aeterno, ma nel Getsemani si svolge l'ultimo appello nel quale
Gesù tenta di modificare la decisione del Padre e di mitigare i rigori della divina
giustizia ricorrendo all'onnipotenza divina, per dimostrare la realtà della sua natura
umana, in tutto simile alla nostra fuorché nel peccato.
Nel silenzio della notte che avvolge l'oliveto, si aderge un tribunale che deve
pronunziarsi in ultima istanza sulla sorte che spetta al novello Adamo.
Di fronte a questo, i tribunali di Caifa, di Pilato e di Erode non sono che secondarie
strutture a cui Gesù si sottoporrà, mansueto e silenzioso, convinto della morte che Lo
attende e che Egli accetta.
Non è la sentenza degli uomini che Lo conduce al Calvario ma la sentenza del Padre.
L'ultima udienza del processo contro il Figlio viene celebrata al cospetto di alcuni
uomini assonnati, ma talora in ascolto e che riferiranno, perché da tutti si sappia che
Gesù non cede alla forza del male ma alla forza del bene, che non è satana attraverso i
suoi sgherri a giudicare del Figlio di Dio, ma il Padre in persona; che la vittoria non è
dunque di satana, ma che spetta a Dio infinitamente giusto e potente, a cui corrisponde
l'infinita carità del Figlio nel darsi alla morte per noi.
Gesù aveva detto agli apostoli che il principe del mondo non ha su di Lui nessun potere
(“... enim princeps mundi huius et in me non habet quidquam” (Gv. 14,30 - ...il principe
di questo mondo non ha da fare nulla con me) ed ora, permettendoci di assistere al suo
Getsemani, ci dimostra che Egli è il prigioniero del Padre e che solamente perché tale, si
consegnerà prigioniero agli uomini.
Fierezza e verità del Cuore di Cristo!
Ma anche fierezza e verità dell'operaio ogniqualvolta egli giudicherà del mondo, delle
sue vicende e delle sue condanne da questo medesimo punto di vista.
Non è il giudizio dell'uomo che importa, ma il giudizio di Dio. Attraverso la miopia e la
cattiveria degli uomini passa, invisibile e misteriosa, la corrente del volere divino; a
questo si cede e non al male; con la fiducia di chi si abbandona alla sentenza di un
Padre.
4 - Grande operaio il Padre, grande operaio il Figlio, non è di meno grande operaio lo
Spirito Santo.
Come al Padre e al Figlio è attribuita la creazione e la redenzione, così alla terza persona
della SS.ma Trinità si attribuisce il capolavoro della sapienza divina e cioè
l'incarnazione, in quanto è per opera dello Spirito Santo che il Verbo prese carne e
nacque da Maria. Congiungimento del divino e dell'umano che supera ogni
immaginazione, coronamento della creazione e architrave della redenzione,
l'incarnazione continua, per così dire, oltre il concepimento di Maria e si realizza ogni
qualvolta le cose divine devono essere accolte, capite, assimilate dall'uomo.
Lo Spirito Santo costruì allora il ponte di passaggio fra la natura umana e la natura
divina ed è presente ogniqualvolta questa osmosi spirituale, fra le due nature, si realizza.
La stessa comprensione della verità e della grazia portate al mondo dal Cristo, non sarà
sufficiente se non quando scenderà il Paraclito a renderla compiutamente possibile.
Infatti Gesù disse intorno allo Spirito Santo, in quella medesima notte, queste parole:
“Spiritus Sanctus, quem mittet Pater in nomine meo, ille vos docebit omnia, et suggeret
vobis omnia, quaecumque dixero vobis” (Gv. 14, 26 - Lo Spirito Santo, che il Padre
manderà nel nome mio, egli vi insegnerà ogni cosa, e vi rammenterà tutto quanto già vi
dissi).
Lo Spirito Santo è dunque l'interprete divino di ciò che Gesù ha detto ed ha fatto, ed è lo
Spirito Santo che rende perfetta testimonianza del Cristo di fronte all'umanità secondo
quanto Gesù medesimo volle soggiungere per chiarire il suo pensiero agli apostoli:
“Cum autem venerit Paraclitus quem ego mittam vobis a Patre, Spiritum Veritatis, qui a
Patre procedit, ille testimonium perhibebit de me” (Gv.15,26 - Quando sarà venuto il
Consolatore ch'io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli
attesterà per me).
Per questo motivo la Chiesa, interprete sensibile della redenzione, ispira il suo mandato
allo Spirito Santo.
Nei confronti del Getsemani il ricorso allo Spirito Santo è dunque necessario perché
l'anima possa accostarsi al mistero per ricavarne la luce di cui abbisogna, affinché la
verità si renda accessibile, adeguata ai bisogni ed in progressivo aumento.
Ma anche sotto un altro aspetto lo Spirito Santo aleggia, per così dire, nella mistica notte
getsemanica.
È Gesù che ci suggerisce questo attraverso alcune parole rivolte agli apostoli, sempre in
quella notte, poco prima di entrare nel giardino: «Si enim non abiero — Egli disse —
Paraclitus non veniet ad vos” (Gv. 16,7 - Se non me ne andrò, non verrà a voi il
Consolatore).
La volontà del Padre che condiziona il dono dello Spirito alla morte del Figlio, è
presente alla mente ed al cuore di Gesù.
Egli sa di dover pagare questo tributo pesantissimo perché l'umanità possa ricevere il
Paraclito con i suoi doni e dissetarsi, finalmente, alle acque trasformatrici della
redenzione.
Tutto ciò che ha fatto finora non potrà essere compreso, né fruttificare, né confermarsi,
se non verrà lo Spirito, e lo Spirito non verrà se il Cristo non accetterà di uscire dal
mondo, attraverso il tormento della condanna e del patibolo.
Quando ascolteremo Gesù invocare il Padre dicendogli che, potendo fare ogni cosa,
allontani il calice amarissimo dalle sue labbra, dovremo anzitutto pensare che Gesù
voglia dire al Padre che trovi modo di mandare egualmente lo Spirito Santo agli uomini
senza chiedere a Lui, suo Figlio, un prezzo così alto e così ripugnante.
E quando ascolteremo il “fiat” di Gesù dinanzi all'immutata volontà del Padre, saremo
condotti a pensare che il motivo dominante dell'accettazione da parte del Figlio consista
nella sua volontà di non privare gli uomini dello Spirito Santo e dei suoi carismi.
L'agonia del Getsemani è il primo e più grave tributo versato da Gesù alla giustizia del
Padre per acquistare agli uomini il dono della Pentecoste.
Nella pietà del buon operaio vien fatto continuo ricorso allo Spirito Santo perché
illumini e fecondi la difficile via delle opere.
La pietà dischiude la via alla conoscenza, e la conoscenza all'azione trasformatrice del
Paraclito; onde si verifichi la parola di Gesù: “Spiritum veritatis, quem mundus non
potest accipere, quia non videi eum, vos autem cognoscetis eum, quìa apud vos manebit,
et in vobis erit” (Gv. 14-16,17 - Lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere,
perché non lo vede, né lo conosce: ma voi lo conoscerete, perché abiterà con voi, e sarà
in voi).
15. “Omnia tibi possibilia sunt”

1- Abbandonato dagli uomini che gli sono amici, prossimo a cadere nelle mani degli
uomini che gli sono nemici, il Figlio ricorre al Padre che è più grande di lui («Pater
maior me est” (Gv. 14,24 - II Padre è più grande di me) e nel quale, per il mistero della
santissima e indivisibile Trinità, egli si trova («Unigenitus Filius, qui est in sinu Patris»
- Gv. 1,18 - L'Unigenito Figlio che è nel seno del Padre).
Il rapporto del Figlio con il Padre è un colloquio del quale noi conosciamo direttamente
solo le parole pronunziate dal Cristo.
Il pensiero del Padre può essere intuito ma non si esprime con parole umane o, quanto
meno, si esprime con parole che non ci sono note. Perciò il colloquio, come viene
riferito dagli Evangeli, consiste in una preghiera che il Figlio rivolge al Padre,
ripetutamente.
Gesù aveva insegnato: «Orantes autem, nolite multum loquì... scit enim Pater vester,
quid opus sìt vobis, antequam petatis eum» (Mt. 6, 7,8 - Pregando, poi, non usate tante
parole... poiché il vostro Padre sa, prima che glielo domandiate, di quali cose avete
bisogno) ed Egli difatti adopera nella sua preghiera poche parole che rappresentano una
parafrasi della preghiera ufficiale, il “Pater noster”, insegnato ai discepoli. “Sic orabitis”
(Mt. 6, 9 - Pregate così) aveva detto un giorno il Maestro ed ora Egli stesso adopera quei
pensieri e quelle parole nel rivolgersi al Padre.
Gesù, logico ed esemplare in tutto, vuole esserlo anche in questo momento e sotto
questo particolare aspetto.
La preghiera ufficiale si apre con l'invocazione a Dio, chiamato con l'appellativo di
Padre, e così pure ha inizio la preghiera di Gesù nel Getsemani: “Pater...”.
Al nome segue, con dolcezza, un monosillabo che rivela, in qualche modo, un possesso
dell'orante e cioè un suo diritto ad essere ascoltato ed esaudito: “Pater mi”, “Padre
mio!”.
Mentre Gesù ha insegnato ai suoi discepoli: «Pater noster», ora esclama, stretto nel
torchio del dolore, “Pater mi”.
Dopo l'invocazione del Padre, la preghiera si allarga, con vastità oceanica, sopra un
orizzonte di infinita gloria e potenza.
Le tenebre del Getsemani sembrano squarciate da una grande luce, il tranello che gli
uomini tendono a Dio sembra risolversi di fronte alla Verità che rifulge nel suo eterno
splendore.
Gesù aveva insegnato nel “Pater noster” che dopo aver invocato il Padre bisogna
desiderare la gloria del suo nome: “sanctificetur nomen tuum”.
Prima di ogni altra domanda occorre che la creatura chieda a Dio che gli scopi della
creazione siano raggiunti, e la creazione fu determinata appunto per la gloria di Dio.
Dovere di ogni uomo è di contribuire a questa gloria e di pregare e di operare perché
Iddio venga glorificato e proclamato come nel trisagio angelico: santo! santo! santo!
Già altre volte Gesù aveva praticato questa regola di rendere gloria al Padre nella sua
preghiera, e così nel cenacolo si era rivolto al Padre con l'appellativo di santo: “Pater
sancte” (Gv. 17, 11 - Padre santo), e con l'appellativo di giusto: “Pater juste” (Gv. 18, 25
- Padre giusto).
Nella preghiera del Getsemani, la glorificazione del Padre avviene attraverso un sublime
riconoscimento della sua potenza.
Il nome del Padre viene santificato con queste parole che ad un tempo esaltano e
commuovono: “Omnia tibi possibilia sunt” (Mc. 14, 36 - Tutto ti è possibile).
Il Cristo esalta nel Padre l'Onnipotente. È come il frammento di un cantico d'angeli e di
santi che echeggia nel Getsemani e che porta le nostre anime alle soglie del paradiso,
una parentesi di gloria che sale al Padre riverberandosi sul Figlio.
Così, nel Getsemani di ogni uomo, vi sono luci improvvise che squarciano, a periodi, le
nubi del dolore per dare alle anime il senso dell'altezza e della purificazione a cui la
sofferenza, cristianamente accettata, le conduce.

2 - Leggi fisiche e chimiche, note ed ignote, reggono il mondo materiale a cui appartiene
il corpo dell'uomo; misteriose leggi psicologiche ne influenzano l'anima.
Una rete di forze avvolge la volontà dell'uomo, la delimita e spesso la imprigiona.
Chi non avverte, dolorando, la sproporzione che passa fra il desiderio e la realtà, fra lo
spirito e la materia? Chi non ha mai sofferto come di una asfissia spirituale, eppure ha
dovuto continuare a vivere in quell'ambiente che sembra soffocarlo perché tale è la voce
del dovere? Chi poi, lavorando per l'avvento del regno, non si è trovato di fronte a
difficoltà quasi impossibili a sciogliersi, oppure stretto come in una morsa da forze
negative prevalenti?
In queste circostanze la frase del Getsemani: “Omnia tibi possibilia sunt” suona simile
ad un inno di liberazione e di vittoria al cuore dell'operaio.
Dunque non è vero che le forze del male abbiano definitivamente arrestato il programma
del bene; non è vero che la nostra incapacità, inferiorità, limitazione sia un ostacolo
insuperabile sulla strada delle opere; non è vero che le porte di una prigione senza sbarre
si siano chiuse pesantemente alle nostre spalle soffocando ogni motivo di speranza.
Gli stessi peccati non sono una palla al piede tale da impedire il riscatto e la fioritura
apostolica di un'anima consacrata.
Basta sollevare gli occhi verso il Padre e riporre in Lui la fede: Egli può tutto.
Non vi sono posizioni incrollabili, né sconfitte senza rimedio, né difficoltà insuperabili,
né debolezze che non possano essere fortificate di fronte all'onnipotenza di Dio.
Egli è padrone del meccanismo di ogni legge poiché Egli è la legge suprema.
I determinismi delle forze materiali e morali si sciolgono dinanzi a Lui come neve al
sole, poiché la suprema determinante è il suo volere.
Gli sbarramenti giuridici, le convenzioni umane, le previsioni, le mormorazioni, le
calunnie si disperdono al suo cospetto, e nuove realtà si affermano che non erano
previste.
Quand'anche l'orizzonte fosse chiuso e le previsioni degli uomini pessimiste, l'operaio
che agisce secondo coscienza non si turba e non indietreggia, in quanto ogni cosa è
possibile a quel Padre a cui egli si affida.
Infatti Gesù disse, prima ancora di rivolgere al Padre nel Getsemani l'inno
dell'onnipotenza, queste chiarissime parole: “Quae impossibilia sunt apud homines,
possibilia sunt apud Deum” (Lc. 18, 27 - Quel che non è possibile agli uomini è
possibile a Dio).
3 - La santificazione del nome divino è particolarmente doverosa quando l'anima avverte
di essere destinataria di un dono da parte di Dio: allora l'inno di lode si trasforma in un
inno di riconoscenza.
E quando mai l'anima può pensare di sottrarsi alla pioggia di grazie di cui Iddio la
ricolma?
Non è forse ogni battito del cuore, ogni respiro, ogni pensiero, ogni attimo della vita
soprannaturale un dono immenso e gratuito da parte di Dio?
Non è forse questo il dovere di ogni istante, per cui nella santificazione del suo nome la
lode verso l'Altissimo deve mescolarsi intimamente alla riconoscenza?
Il ringraziamento è una testimonianza resa alle opere e questa è una forma molto
doverosa di lode.
L'episodio evangelico del lebbroso mondato che torna da Gesù per ringraziarlo e le
parole di Gesù dimostrano con quale desiderio Dio attenda la riconoscenza
dell'uomo”Nonne decem mundati sunt? et novem ubi sunt? Non est inventus qui rediret,
et daret gloriam Deo, nisi his alienigena?” (Lc. 17, 17,18 - Non furono guariti tutti e
dieci? E gli altri nove dove sono? Non s'è trovato chi tornasse a dare gloria a Dio, se non
questo straniero?). Perciò l'operaio deve sempre dedicare un posto adeguato nella sua
preghiera al ringraziamento per i particolari benefici ricevuti dalla misericordia divina.
Ma sarebbe poco limitare la riconoscenza a queste grazie speciali, poiché il giudizio
dell'uomo è assai limitato e la nostra riconoscenza corre pericolo di essere troppo scarsa
e superficiale.
Occorre invece che il cuore dell'operaio sia dilatato dai palpiti di una riconoscenza
totale, che abbracci ogni sua facoltà, naturale e soprannaturale, mobilitando tutto l'essere
in un'azione di grazie incessante, preludio ai cantici dell'eternità.
Questo si ottiene facilmente pensando che tutte le realtà nelle quali ci incontriamo, belle,
brutte o indifferenti, piccole o grandi, superficiali o profonde, transitorie o definitive,
naturali o soprannaturali, che partano dagli uomini o dalle cose, previste o impreviste,
ben al disopra del valore umano e sensibile che può venire ad esse attribuito,
posseggono un significato provvidenziale.
Tutto e tutti rientrano in un piano misterioso di santificazione concepito dalla
onniscienza e dalla onnipotenza di Dio per ciascun uomo, piano che noi andiamo
continuamente lacerando con i nostri peccati, ma che la divina bontà incessantemente
riprende e ricompone.
La santificazione dell'uomo è il fastigio della redenzione e cioè il trionfo della grande
opera affidata dal Padre al Figlio, e Questi la persegue nei riguardi di ciascuno con
un'azione che non finisce se non quando finisce la vita.
Lo svolgersi di questo divino assedio dell'anima è la profonda, unica verità.
Tutti i piani secondo cui i fenomeni sensibili e ultrasensibili paiono ordinarsi sono
costruzioni effimere che acquistano un significato solo per l'apporto recato al piano
divino della santificazione individuale.
Il Redentore lavora a questo piano sia con l'intervento positivo della Grazia, sia
permettendo alla forza negativa del dolore di aprire il terreno spirituale delle anime
rendendolo recettivo e fecondabile.
Non vi è circostanza della vita che non trovi la sua precisa collocazione in questo
capolavoro del Cristo che si ripete per ogni anima.
Non dobbiamo ringraziare soltanto per quei benefici singoli, più evidenti e piacevoli,
che la bontà di Dio concede, ma per tutti i fattori che incidono nella nostra vita, anche
per le circostanze che sembrano inutili, dolorose, per quelle lame fredde e taglienti che il
dolore sa insinuare nelle latebre più gelose dei nostri desideri e dei nostri affetti, con
precisione che sbalordisce.
Anche queste realtà, che ci sconvolgono e ci abbattono, sono dettagli di quel piano,
filtrazioni dell'anima, fattori di richiamo e di purificazione, dosati dal medico divino con
l'esattezza con la quale si dosa un farmaco.
L'anima cristiana, e tanto più l'anima consacrata, deve possedere spiritualmente
un'acutezza visiva così sviluppata da saper discernere i lineamenti di questa economia
che va sviluppandosi nei suoi riguardi, e se anche non sempre riesce a comprenderla
deve credere in essa con fede certa.
Soprattutto deve trasportare questa certezza sul piano dell'amore, trasformandola in un
cantico incessante di riconoscenza per la divina, implacabile, travolgente persecuzione
delle anime che si abbandonano all'azione santificatrice della grazia e del dolore.

4 - II pensiero del Padre, a cui tutto è possibile, del Figlio che lava ogni colpa
acquistando per ogni anima meriti infiniti, e dello Spirito Santo che si impegna a
perfezionare in ciascuno l'opera redentrice fino a farle conseguire la santità, infonde nel
cuore dell'operaio un sentimento di gioia schietta e permanente.
L'accostamento al Getsemani non altera questo sentimento di gioia ma lo alimenta e lo
irrobustisce, preparando l'anima a sopportare il dolore e trasformando anche questo in
una sorgente di letizia soprannaturale.
Il dolore guardato in faccia perde, poco a poco, la fisionomia nemica di un castigo che la
giustizia divina gli ha attribuito, per acquistare soprattutto la fisionomia di uno
strumento di salvezza secondo il disegno mirabile della carità divina.
Perciò nella vita dell'operaio anche le spine si trasformano in rose; non è l'allegria del
mondo che lo distingue né lo attrae, ma l'inesauribile serenità delle anime che superano
il fenomeno per fermare il pensiero, adorando, al volere di Dio.
L'operaio procede fra gli uomini umilmente come si conviene alla sua missione, ma la
sua conversazione è nei cieli; il giardino del Getsemani, per i meriti del Cristo, si
trasforma prodigiosamente nel giardino dell'Eden dove la conversazione di Adamo con
Dio era consueta.
È una letizia che richiede di essere non tanto apparente quanto sostanziale e continua,
ben difesa contro gli assalti degli uomini e delle cose; letizia da cui traspare la fede e che
alla fede richiama quanti vanno per il mondo cercando di orientarsi nella notte di un
dolore inevitabile e incomprensibile.
Chi ha bisogno di luce, di conforto, di certezza, di consiglio, di aiuto, deve trovare un po'
di tutto questo presso l'operaio attraverso quella sua gioia che sale dal profondo e che si
comunica istantaneamente alle anime, trasportandole in un clima di carità e di pace.
“Non turbetur, cor vestrum. Credite in Deum, et in me credite” (Gv. 14,1 - Non si turbi il
cuore vostro. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me). Queste parole pronunciate
da Gesù, in quella notte, nel Cenacolo, devono ispirare il cuore dell'operaio in ogni
circostanza.
Per quanto inesplicabili, avverse, strazianti possano apparire le vicende umane egli non
si turba, anzi custodisce nel cuore una visione ottimistica degli avvenimenti la quale non
deve procedere da un assurdo spirito di contraddizione al buon senso o ai sentimenti
naturali, ma come da una ricchezza sovrumana a disposizione di chi crede in Dio ed a
Lui si affida.
“Non turbetur cor vestrum — ebbe a ripetere Gesù in quella notte — neque formidet...
Si diligeretis me, gauderelis utique” (Gv. 14, 27,28 - Non s'angusti il cuore vostro, né si
sgomenti... Se mi amate, vi rallegrerete).
E le sue parole rivelano la volontà di procurare ai suoi un gaudio completo: “ut gaudium
meum in vobis sit; et gaudium vestrum impleatur” (Gv. 15, 11 - Affinché sia in voi la
mia gioia, e la gioia vostra sia piena).
16. “Transeat a me”

1- La passione era prevista da Gesù, non solo per la sua qualità di Dio onnisciente, ma
anche per la sua qualità di Uomo in quanto la Scrittura diceva chiaramente, per chi
voleva serenamente interpretarla, quale fosse il destino riserbato al Messia.
Gesù ebbe sempre presente la conclusione tragica della sua vita e realizzò un continuo
superamento dell'angoscia umana che tale visione procurava, superamento che Gli
permise di essere sempre, nonostante la certissima ingratitudine, il buon Pastore di quel
popolo che pure un giorno Lo avrebbe condotto a morte.
Questo perfetto equilibrio della volontà di Gesù di fronte al suo dovere viene ora, nel
Getsemani, duramente provato.
Da lunghi anni Egli è venuto preparandosi a vivere quest'ora di dolore e, con suprema
fortezza, ha cercato anche di preparare gli altri, e soprattutto gli apostoli, a vivere lo
strazio e lo scandalo della passione.
Ma la retta intenzione, la buona volontà e le risorse umane non bastano.
Quando, fra poco, Gesù dirà agli apostoli: “Lo spirito è pronto, ma la carne è debole” le
sue parole saranno particolarmente spontanee ed incisive perché rifletteranno la tragica
prova che si agita adesso nel suo cuore fra il volere e il dovere, fra la repulsione che la
passione imminente provoca nel suo essere umano e l'adesione incrollabile della sua
anima ai disegni del Padre.
Lo spirito di Gesù è pronto, ma la sua carne è debole, tremante, accasciata, e dalla sua
carne esce, spontanea come un gemito, la preghiera rivolta al Padre perché Lo liberi, se è
possibile, da questo supremo dolore.
Questa preghiera, nella quale vibra, autentica e inconfondibile, con la sua vibrazione più
alta, l'umanità del Redentore è però sempre composta, dignitosa, ieratica.
Dai Vangeli sappiamo che già in passato quei dolori che comporranno la passione sono
apparsi a Gesù come un calice disgustoso, assai difficile a bersi.
Quando la madre di Giacomo e di Giovanni si rivolse a Lui per chiedere che i suoi
figliuoli sedessero nel regno l'uno alla sua destra e l'altro alla sua sinistra, Egli chiese
agli interessati: “Potestis bibere calicem, quem ego bibiturus sum?” (Mt. 20, 22 - Potete
voi bere il calice che berrò io?).
La passione gli è dunque dinanzi come il calice di tutte le amarezze, come la prova
suprema; ed a questa immagine del calice, che gli è familiare, Egli ricorre nella
preghiera del Getsemani: “Transeat a me calix iste”... “Transfer calicem istum a me”
(Mt. 26, 39 - Passi da me questo calice - Lc. 22, 42 - Allontana da me questo calice).
Per quanto addolcita dal linguaggio figurato, l'espressione è fortissima. È l'umanità di
Gesù che insorge contro il dolore, e chiede salvezza.
Con devozione, l'operaio mediti sopra questo grido che Gesù benedetto ha voluto
lasciare, per conforto ed esempio, alla nostra umanità.
Nessun'altra circostanza della vita di Gesù, per umile che sia, contiene maggiore umiltà
di questa; è Gesù che ci permette di toccare con mano, per così dire, la sua natura
umana.
2 - II dolore è una pesante macina che passa e ripassa sulle anime come sui chicchi di
frumento.
Sotto il suo peso i chicchi si aprono, si dissolvono, ma da essi nasce bianca, utile,
profumata, la farina per il pane.
Dobbiamo quindi avvezzarci a considerare cristianamente il dolore, non soltanto come
una forza nemica e cieca.
Esso proviene, non vi è dubbio, dal peccato perché da Dio procedono soltanto azioni ed
opere perfette.
Ma la bontà di Dio ha voluto prendere questo sottoprodotto della colpa trasformandolo
in principio medicamentoso per cui, nell'economia della redenzione, il dolore è un
farmaco; inoltre non è cieca la applicazione del dolore all'uomo, ma permessa da Dio
secondo giustizia, e cioè secondo le forze di ciascuno ed in vista del suo cammino verso
la santificazione.
Considerando in questo modo il dolore, sul volto di chi soffre, per quanto triste, si
disegna una grande pace.
Egli sa che la sofferenza non va oltre la misura della sua spirituale sopportazione e che
per effetto del dolore tutto va componendosi secondo un ordine nuovo che sfugge al suo
personale giudizio, ma non alla bontà provvidente di Dio.
Egli fronteggia la situazione dolorosa con tutta quella intelligenza e quella volontà che il
Signore gli ha dato, ma nel tempo stesso si affida al dolore pensando che non è, come
spesso accade per le medicine terrene, una cosa inutile, ma un farmaco che non falla,
sorvegliato da un medico perfettissimo, Iddio.
Vi è un motivo per cui il dolore dovrebbe essere accolto dalle anime con grande
riconoscenza ed è che esso ci permette di saldare quei conti che i nostri peccati hanno
aperto presso la Giustizia divina.
Il dolore come espiazione.
Gesù parlò di penitenza e la penitenza non è altro che dolore accettato, meritorio.
La modesta fisionomia spirituale dell'operaio non gli consente, di solito, di cercarsi la
penitenza come fanno i religiosi degli ordini contemplativi.
Egli deve mantenersi a livello della vita comune anche nelle manifestazioni della sua
vita spirituale.
Ma non per questo la penitenza gli viene a mancare perché il dolore imbeve la vita
quotidiana di tutti e si può dire che nessuna penitenza può essere più immaginosa di
quella che il dolore spontaneamente suscita nelle nostre carni, o nella nostra anima,
durante la vita di ogni giorno.

3 - Per sopportare il dolore bisogna mettersi idealmente nelle condizioni di un ammalato


disteso sul letto operatorio; egli ha una malattia che si può giudicare fatale per la sua vita
se il chirurgo non interviene o se, intervenendo, non giunge in tempo.
Il chirurgo ha dei coltelli affilati coi quali aprirà le carni, reciderà i nervi, scoprirà i
visceri; ma è condizione di salute e l'ammalato si offre al medico per essere mondato,
rigenerato, risanato.
Il dolore è come il chirurgo.
Chi soffre pensi anche di sé come di un marmo informe che venga distaccato dalla cava
e che debba trasformarsi in una statua; il dolore è l'artista che va colpendo e scolpendo il
marmo, asportando, modellando, levigando, e con ciò creando il suo capolavoro.
Il dolore è simile al bulino temprato ed aguzzo del cesellatore che incide ricami nel
metallo con pazienza infinita e con risultati indelebili.
Le gocce del dolore sono come le gocce pazienti che cadono dalla volta delle grotte
creando stalattiti e stalagmiti, capolavori fantastici, imprevisti e inconfondibili.
Quando il dolore è alle prese con il suo corpo o con la sua anima, l'operaio pensi al
lebbroso al quale Gesù disse: “Volo, mundare” (Mt. 8,3 - Lo voglio, sii mondato), pensi
alle sensazioni di quell'uomo nel dissolverai dei granulomi lebbrosi, nel distaccarsi delle
squame, nel chiudersi dei tragitti fistolosi, nel risolversi delle anchilosi, nel mondarsi,
insomma.
Egli deve avvertire, per quanto immaterialmente, un senso equivalente di freschezza e di
rinascita.
Poco importa la direzione nella quale la perforatrice del dolore è applicata; il dolore sta
lavorando l'anima dell'operaio ed egli accetta, pregando, questa divina operazione.
Il dolore è un bagno gelato che mette i brividi della paura nel cuore dell'uomo, ma anche
un bagno caldissimo che scioglie ogni incrostazione umana dalle anime, rigenerandole.
Beati quelli che soffrono poiché vedono; in essi il dolore raffina, decanta, sublima il
pensiero.
Lasci l'operaio che il dolore vada e venga come una lima sul suo cuore e sul suo corpo;
non importa allora se gli anni passano, se l'arco della vita declina, e se i valori materiali
vanno in polvere; ogni anno segna un progresso, una trasparenza, l'acquisto di una luce,
in ogni anno si perfeziona il santo, creato in noi dal battesimo, ed è questo, soltanto
questo, che conta.

4 - La nostra stima per il dolore cresce quando si consideri che esso funziona
ordinariamente nelle mani di Dio e, se noi lo permettiamo, anche nelle nostre, come un
meccanismo rivelatore.
Pensi l'operaio all'accorgimento del vasaio che si accerta se il suo vaso è integro
percuotendolo e giudicando dal suono che esso produce; pensi al ferroviere che per
assicurarsi dell'integrità delle ruote prima della partenza del treno le percuote, una ad
una, e giudica, dal suono, delle loro condizioni.
Così Iddio va saggiando le nostre virtù, una ad una, e il grado di formazione che
abbiamo raggiunto con il dolore.
Se l'operaio tiene nel debito conto questa rivelazione realizzata dalla sofferenza, potrà
ricavarne concreti e rapidi benefici.
Come nella tecnica fotografica il bagno di sviluppo intensifica le deboli tracce lasciate
dalla luce sulla gelatina sensibile e le rivela, così il dolore mette in evidenza questi
aspetti delle anime che in tempo di tranquillità difficilmente possono essere individuati.
Sotto i colpi del dolore la superbia affiora provocando uno stato di insofferenza, la
sensualità si tradisce nel continuo ricorso dell'anima a conforti sensibili, l'ignavia si
manifesta con i segni della depressione o addirittura della viltà spirituale, ma per contro
appare in chiara luce la robustezza della fede del cristiano attraverso quella serenità del
dolore che è l'experimentum crucis della sua formazione alle verità soprannaturali.
L'operaio sorvegli se stesso durante il tempo del dolore con l'occhio obiettivo del medico
che studia il suo ammalato, ed andrà scoprendo nella propria anima delle pieghe
insospettate, dei ritorni incredibili, delle lacune, ma anche quelle forze nascoste che la
Grazia va creando nel cristiano e che corrispondono agli abiti virtuosi.
Come la fatica fisica è una prova funzionale del nostro corpo al punto che solamente gli
organismi sani possono sopportarla, così quell'autentica fatica spirituale che è il dolore è
una prova funzionale dell'anima che ne collauda il valore e le possibilità.
17. “CALIX ISTE”

1 - Gesù sapeva con esattezza che la sua morte era prossima.


Lo dice espressamente l'evangelista Giovanni con queste parole:
“Ante diem festum Paschae sciens Jesus quia venit hora eius ut transeat ex hoc mundo
ad Patrem...” (Gv. 13,1 - Prima della festa di Pasqua, sapendo Gesù che era venuta l'ora
sua di passare da questo mondo al Padre...)
Egli conosce anche le tragiche e strazianti circostanze che avrebbero preceduto ed
accompagnato la sua morte, al punto che già nei giorni precedenti, al pensiero dei
prossimi avvenimenti, il suo cuore si era profondamente rattristato ed Egli aveva chiesto
al Padre di salvarLo:
“Nunc anima mea turbata est. Et quid dicam? Pater, salvifica me ex hac hora” (Gv.
12,27 - Adesso l'anima mia è turbata. E che dirò? Padre, salvami da quest'ora).
Con queste parole, Gesù lascia intendere chiaramente che è appunto quest'ora che si
approssima, e cioè il tempo della sua passione, ad incutergli timore e dolore.
Di fronte all'espressione allegorica del calice, siamo dunque nel vero pensando che esso
contenga anzitutto i dolori morali e fisici della passione alla quale Gesù va incontro.
Per la sua divina sapienza Egli conosce e valuta fin da ora tutti i particolari della cattura,
del giudizio e del supplizio.
Egli anticipa, con il pensiero, tutta la passione e l'accetta in ogni suo dettaglio.
La veglia getsemanica è dunque simile all'ultima notte del condannato a morte che
dev'essere fucilato all'alba, con la differenza che per Gesù la morte verrà più tardi e dopo
molte, più atroci sofferenze.
Quando l'operaio percorre le stazioni della Via Crucis vada pensando che tutte quelle
stazioni sono contenute nel calice repellente che Gesù vuole allontanare dalle sue labbra:
la condanna di Pilato, l'assunzione della croce, le tre cadute, l'incontro con la Madonna,
con la Veronica e con le donne di Gerusalemme, l'intervento di Simone il Cireneo, la
spogliazione, l'inchiodamento e la morte nonché la frettolosa deposizione e la
sepoltura...
Tutto questo è nel calice e molti altri dolori, molte altre umiliazioni ed offese.
Perciò è giusto considerare il Getsemani come una sintesi di tutta la passione la quale
viene anticipatamente accettata e sofferta dal nostro buon Gesù a tal punto che non solo
la sua anima, ma anche il suo corpo ne ebbe a soffrire.
Da ciò deriva anche che la Via Crucis può essere considerata come uno sviluppo del
Getsemani e un mezzo per indagare i dolori sofferti da Gesù durante l'agonia e per
riviverli.
Come nel seme è racchiusa la pianta, così nel Getsemani è riassunta e contenuta tutta la
passione di Gesù

2 - La Passione di N. S. Gesù Cristo è la conseguenza del peccato dell'uomo, da quello


che fu commesso nel Paradiso terrestre, fino a quello che potrà dirsi, nella successione
dei tempi, l'ultimo peccato.
Dallo squarcio che il peccato d'origine aprì nella natura umana uscì, come da un argine
infranto, l'onda del peccato a sommergere il mondo, ed il Cristo è venuto per riparare
quell'argine e per cancellare il peccato.
Ogni peccato commesso dagli uomini, piccolo o grande, notorio o segreto, è assunto dal
Cristo ed espiato con la sua passione.
Se dunque il calice del Getsemani contiene misticamente tutti i dolori della passione,
esso contiene anche tutti i peccati che sono la causa di quei dolori.
Come il condannato non può separare il pensiero della sua prossima fine da quello del
delitto che lo conduce alla morte, così il Cristo non può separare il pensiero della
passione imminente da quello dei peccati degli uomini che lo condurranno sul Golgota.
Però mentre il condannato a morte sente sopra di sé la sua colpa e talora un senso di
giusta espiazione lo sorregge e quasi lo invoglia al supremo sacrificio, il Cristo
innocente avverte il terribile contrasto fra la colpa che gli viene addossata e l'infinita,
incolpevole perfezione della sua persona e delle sue nature, e per questo soffre anche più
intensamente.
Per quanto il nostro linguaggio sia inadatto ad esprimere ciò che passa in quest'ora fra il
Padre e il Figlio, ci sembra di intuire che la giustizia divina, che pur poteva essere
placata mediante un'assunzione qualsiasi, simbolica, superficiale, dei peccati degli
uomini, richiese che Gesù diventasse il mallevadore per tutte le colpe degli uomini
dando una riparazione infinita e condegna alla divina giustizia.
Noi uomini che crediamo in Dio, ma che abbiamo una sensazione assolutamente
primitiva della sua maestà, non possiamo renderci conto di quanto fosse lo strazio di
Gesù nell'apparire così lordo di peccati non suoi di fronte al Padre, allo Spirito Santo e
agli Angeli del Paradiso.
Possiamo appena supporre lo strazio da cui fu invasa la natura umana di Gesù a contatto
dei peccati degli uomini.
Il sentimento della giustizia è fra i più radicati nella coscienza dell'uomo e solamente chi
ha perso ogni traccia di moralità naturale rimane indifferente di fronte ad un oltraggio
recato ad essa.
Ma ogni ingiustizia umana è un nulla di fronte alla condanna che sta per essere
pronunciata contro Gesù e questo capovolgimento della giustizia strappa dal profondo
del suo cuore quei sentimenti che ciascun uomo prova in circostanze incomparabilmente
meno gravi, sentimenti di sdegno, di nausea e di ribellione verso il delitto e verso il
colpevole.
Questa posizione di Gesù nella veglia del Getsemani per cui appare vittima di un'infinita
ingiustizia, sconvolto e agonizzante a motivo di essa, deve ispirare all'operaio il culto
della giustizia e un'attenzione incessante perché, nelle piccole come nelle grandi cose, la
giustizia sia salva.
Chi pratica e difende la giustizia acquista l'abito morale della rettitudine, fondamentale
per l'operaio tanto più che questi, a motivo del suo lavoro, si trova continuamente alle
prese con la vita minuta delle organizzazioni, dei commerci e delle industrie umane dove
le violazioni della giustizia sono continue.
Su questo mondo di intrighi e di raggiri, la figura morale dell'operaio si deve stagliare
come quella di colui che respinge ogni stortura che possa incrinare la giustizia
quand'anche una certa larghezza di coscienza possa apparentemente giovare alle opere di
apostolato e cioè a costo di rimetterci.
L'operaio è anzitutto un uomo onesto che lavora per costruire la giustizia sociale e che
soffre allorquando l'ingiustizia prevale, ed egli si trova impotente di fronte ad essa.
Quando poi l'operaio cade personalmente vittima dell'ingiustizia umana volga il suo
pensiero al divino Agonizzante colpito dalla più grande ingiustizia ed alle parole che
Egli pronunziò sul monte: «Beati i perseguitati per amore detta giustizia, perché di
questi è il regno dei celi” (Mt. 5, 10).

3 - I peccati che gli uomini hanno commesso, o commetteranno, sono dunque presenti
alla mente di Colui che, pur essendo l'Innocente, deve espiarli.
Le ombre dell'oliveto, gli spiazzi del terreno illuminati dalla luce, il freddo ciclo
notturno si popolano dei fantasmi di questi peccati che la scienza del Gesù-Dio conosce
e che il Cuore di Gesù-Uomo, agonizzando, accusa come un insulto.
L'occhio di Dio precorre i tempi e rileva ogni delitto, ogni ingiustizia, ogni sozzura, ogni
prevaricazione, ogni viltà, ogni atto di superbia, ogni bestemmia, ogni tradimento.
Questa visione non solo è turpe, ma è contro Gesù personalmente; questi peccati sono i
suoi carnefici, sono la maschera di fango che Gli è stata gettata sul viso.
Per questi peccati gli uomini stessi nelle rare parentesi di vera giustizia di cui sono
capaci insorsero e insorgeranno mettendo i colpevoli in catene ed anche uccidendoli.
Contro questi peccati la giustizia di Dio è vigilante ed armata, la porta del purgatorio e le
bocche dell'inferno sono aperte per vendicare l'offesa recata a Dio e per ristabilire
l'ordine.
Dì questi peccati, di questo disordine Egli ora è ricoperto.
I fantasmi notturni sembrano coalizzarsi; il peccato di ogni tempo riconosce la sua unità
satanica e si confonde come in un serpaio che Lucifero alimenta e muove contro Gesù.
“Peccatum meum coram me est semper” (Sal. 50, 5 - II mio peccato mi sta sempre
dinnanzi).
Queste parole del salmo non si adattano a Gesù perché il peccato che si rizza contro di
Lui non è suo.
Ma si adattano con assoluta proprietà all'uomo e particolarmente all'operaio.
Se il peccato non suo è presente a Gesù, deve essere a maggior ragione presente a colui
che lo ha commesso e presente nel senso indicato dal salmo, come un nemico.
Non vi è altro modo per considerare il peccato, per giungere ad una sua espiazione, per
impedire che, ristagnando nel subcosciente, infracidisca l'anima.
Il peccato è il nostro vero, unico, sostanziale nemico.
È il peccato che ha macchiato la veste candida del battesimo, che ha insultato lo Spirito
Santo che abita in noi, che ha avvelenato la nostre parole, che ha permesso a satana di
agire per mezzo nostro, che ha cancellata la Grazia delle nostre anime rendendo ostile lo
sguardo di Dio verso di noi.
È il peccato che ci ha condotto a profanare l'opera di Dio Creatore, a diminuire l'opera di
Dio Redentore, a ostacolare l'opera dello Spirito Santificatore.
L'operaio vuole che il Regno di Dio si diffonda ed ogni peccato è una sconfitta per
questo Regno.
L'operaio vuole costruire delle opere ed ogni peccato è una mina contro le opere.
L'operaio vuole confortare l'Agonizzante del Getsemani ed ogni peccato accresce
l'amarezza di questa agonia che continua anche nel nostro tempo.
“Peccatum meum coram me est semper”

4 - “Et accipiens calicem gratias egit: et dedit illis, dicens: Bibite ex hoc omnes... “(Mt.
26, 27 - E, preso un calice, rese grazie e lo diede loro dicendo: Bevetene tutti...).
Il Vangelo parla di un altro calice. Quello del Getsemani è un calice che Gesù cerca di
allontanare da sé, ma che poi accetta.
Quest'altro, invece, è un calice che egli porge ai suoi fedeli invitandoli a bere.
Quello è il calice del peccato e del dolore. Questo è il calice della virtù, del perdono e
della grazia.
Se non vi fosse questo calice a portata delle nostre anime vi sarebbe motivo di cadere
nella disperazione.
Il peccato commesso che si aderge contro il peccatore come un'accusa, come un fatto
irreversibile, toglie il sonno materiale e la pace spirituale all'uomo consapevole.
Il peso della colpa stronca le energie interiori, paralizza e offusca le anime.
L'uomo giace, per il peccato, come un ammalato incapace di reggersi, di muoversi, di
alimentarsi.
Ma ecco Gesù, medico divino, che si accosta al suo capezzale e gli porge il calice della
grazia.
L'uomo crede, accosta le labbra e beve a lunghi sorsi.
Allora il calore della fiducia si riaccende, un sangue nuovo sembra circolare nelle sue
arterie, un senso di giovinezza e di rinascita lo pervade.
Che cos'è questa vita nuova, questa libertà, questa pace? È la vita di Cristo che per i
sacramenti si comunica, misteriosamente, all'uomo e lo trasporta sopra un piano
astralmente diverso da quello dell'umanità peccante.
L'uomo vive, ma non è lui che vive, vive in lui il Cristo che cancella il peccato e
rigenera l'anima.
L'opera di Gesù contro il peccato di cui l'uomo si pente è un divino capolavoro; ciò che
era motivo di disperazione diventa argomento di fiducia e di abbandono: ciò che era
fomite di corruzione diventa stimolo alla virtù ed al bene; l'esperienza peccaminosa si
trasforma in saggezza cristiana a servizio dell'anima e del prossimo; le cicatrici della
colpa sono radici di umiltà e di comprensione presso quelle anime che il Cristo redime,
una ad una, dal peccato.
Chi prova su di sé questa divina cura operata dal Cristo per mezzo della grazia sente il
Getsemani e cioè si accorge che il Cristo in quella notte ha veramente conosciuto la
terribile condanna del peccato.
Avendolo fatto suo, Egli ora ne è il medico più accorto, più deciso e più potente.
La disperazione, il rimorso, l'onta che ogni peccato dell'uomo provoca, sono stati
misteriosamente provati da Gesù in quella notte ed Egli è ben deciso a vendicare
l'insulto che satana ha scagliato a Lui prima che ad ogni altro, ed impegna la sua divina
potenza a sconfiggere il male ed ogni traccia del male.
Purché l'uomo si abbandoni a Lui, lasci al suo bisturi la libertà di operare, creda nel suo
potere taumaturgico e non chieda se non di amare.
L'unico, terribile, sostanziale dolore che può colpire l'uomo è quello provocato dal
peccato, ma anche questo è medicato e tolto dalla mano santa di Gesù.
La vita spirituale del cristiano si muove attorno ai due calici come a due poli: il calice
del peccato commesso che gli ricorda il baratro dell'eterna condanna, la sua fragilità e la
sua insufficienza; il calice della grazia che lo deterge, lo conforta e lo rende capace di
raggiungere, nonostante tutto, la fratellanza di Gesù e la divina figliolanza al cospetto
del Padre.
18. “NON MEA VOLUNTAS”

1 - La preghiera di Gesù nell'orto consta di due parti.


Nella prima, Gesù manifesta al Padre la sua volontà che è di non bere a quel calice della
colpa e del castigo, orrendamente disgustoso.
Nella seconda, Gesù dichiara di accettare la volontà del Padre.
Fra queste due parti fondamentali, come logico anello di congiunzione, Gesù inserisce la
rinuncia al suo volere perché Egli sa che non coincide i con i disegni del Padre.
Tre evangelisti, Matteo, Marco e Luca riportano questo inserto con parole
somigliantissime: “Non sicut ego volo” (Mt. 26,39 - Non come voglio io); “non quod
ego volo” (Mc 14,36 - Non quello che voglio io); “non mea voluntas” (Lc. 22,42- Non
la mia volontà).
La non totale identità delle parole riferite dagli evangelisti si spiega pensando che Gesù
ripeté molte volte, con estrema umiltà, quella preghiera così semplice, e forse con
piccole varianti formali che rimasero impresse differentemente nella memoria dei tre
apostoli sonnolenti.
Se Giovanni, unico fra gli evangelisti presente alla preghiera di Gesù, ed ultimo nel
tempo a compilare il suo Vangelo, non credette di intervenire fissando i suoi personali
ricordi intorno alle espressioni attribuite a Gesù, è certamente perché approvava quanto
stava scritto nei sinottici e lo reputava esatto, cioè fedele anche nelle varianti, alle parole
pronunziate dal Maestro.
Lo stesso Gesù, nel passato, aveva messo in evidenza come la sua volontà umana fosse
ben distinta da quella del Padre, ma che la volontà del Padre e non la sua era la norma
alla quale si atteneva durante la vita terrena.
La dottrina cattolica insegna che Dio è uno solo, cioè una sola è la natura divina alla
quale appartengono tutti gli attributi della natura intelligente.
Quindi Dio è spirito purissimo, intelligenza suprema, volontà assoluta.
Come l'intelligenza è attributo inseparabile della spiritualità di Dio, così la volontà, che
segue l'intelligenza nel possesso del bene conosciuto attraverso l'intelligenza,
necessariamente segue la stessa intelligenza.
Perciò in Dio unica è la natura, unica la volontà, unica la potenza.
Ma la fede cattolica ci insegna che in Dio vi sono tre Persone, perciò dobbiamo
concludere che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, pur essendo realmente distinti tra di
loro, sono sempre lo stesso Dio, quindi posseggono totalmente l'unica natura divina.
La conclusione è questa che unico è l'essere, unica l'intelligenza, unica la volontà, unica
la potenza delle tre divine Persone.
Riguardo a Gesù Cristo la dottrina cattolica definita dalla Chiesa nel Concilio
Constantinopolitano III dell'anno 680 contro i Monoteliti (cioè i sostenitori di un'unica
volontà in Cristo) insegna che in N. S. Gesù Cristo, essendovi realmente due nature
distinte e inconfuse, vi devono essere necessariamente due principi d'operazione e
quindi due volontà fisiche, realmente distinte tra di loro, essendo la volontà una
proprietà essenziale della natura intelligente.
Perciò: due nature, due principi intelligenti, due volontà, divina e umana.
Però queste due volontà, ambedue vere volontà, ambedue dotate di libero arbitrio, in
Cristo non possono essere discordi inquantochè la volontà umana è sempre conforme
alla volontà divina in quella che è la determinazione libera del libero arbitrio.
Nella tendenza naturale al bene in sé, qualora trovasi in opposizione col bene voluto
razionalmente, vi può essere manifestazione discorde; ma nell'oggetto definitivo questa
discordia non può esistere.
L'esempio ce lo dà proprio l'episodio del Getsemani.
La volontà divina non può volere il male, quindi nemmeno la passione di Cristo come
fine, cioè come bene.
Però la passione è un mezzo di riabilitazione per l'uomo; per suo mezzo, l'uomo,
mediante l'eroica ubbidienza di Cristo dettata dal suo amore infinito per la gloria del
Padre e per noi, può essere di nuovo accolto nel novero dei figli di Dio, eredi del
Paradiso.
Considerata quindi come mezzo ad un fine così sublime e trattandosi di male fisico e
non morale (peccato), Iddio ha stabilito la passione di Cristo come mezzo di redenzione.
La volontà umana di Cristo naturalmente rifugge dal dolore, perciò davanti alla
prospettiva della Passione imminente l'anima di Cristo è talmente presa dallo sgomento
e dalla ripugnanza che arriva a sudare sangue.
Però, considerando la medesima passione come atto di sublime carità verso il Padre e
come mezzo di redenzione per gli uomini, Nostro Signore liberamente l'accetta e
pronuncia il suo fiat.
Ecco come le due volontà in apparenza discordi, realmente convengono nel medesimo
oggetto, cioè nel non volere la I Passione come fine, ma nel volerla come mezzo per la
gloria del Padre e per la salvezza del mondo.
Anche l'ammalato assumendo una medicina non la ingerisce come se fosse una cosa
buona in sé, ma unicamente in quanto è una ragione di bene in vista della sanità che essa
può conferire.
Per esempio, Egli disse un giorno:
“Non possum ego a meipso facere quidquam. Sicut audio, indico: et iudicium meum
iustum est: quia non quaero voluntatem meam, sed voluntatem eius, qui misit me” (Gv.
5,30 - Non posso fare cosa alcuna da me. Giudico secondo quello che ascolto; e il mio
giudizio è retto, perché non cerco il volere mio, ma il volere di Colui che mi ha
mandato).
Nel Getsemani ci troviamo, per così dire, in contatto con il mistero della volontà umana
di Cristo come uomo e della volontà di Cristo come Dio, che è in tutto eguale a quella
del Padre e dello Spirito Santo, essendo unica.
Se così fu per il Cristo a maggior ragione sarà per l'uomo, e per l'operaio che la sua
volontà talvolta non si trovi a coincidere con quella di Dio, che gli avvenimenti diretti
dalla Provvidenza prendano una piega diversa da quella desiderata o prevista, che il
pensiero di chi rappresenta l'autorità divina sia differente dal pensiero dell'operaio il
quale deve necessariamente sottoporsi e obbedire.
Tutto questo non può suscitare scandalo né smarrimento, poiché fu vissuto e superato
dal Cristo nel podere del Getsemani.
L'operaio che vive di fede penserà allora di quanto l'onniscienza e l'onnipotenza divina
superi l'intelligenza e la potenza umana, sentirà sopra di sé una mano che lo salva dai
mali passi e da ciò che è mediocre per portarlo verso le sublimi vette dell'abbandono
filiale, e troverà in questa circostanza un'occasione di merito e di gioia.

2 - La rinunzia alla nostra personale volontà, qualora si manifesti diversa dalla volontà
di Dio, trova un aiuto di grande importanza, nell'esempio dateci da Gesù durante l'agonia
del Getsemani.
A questo dato fondamentale altri dati e altre considerazioni possono essere congiunti per
sorreggere l'anima nel difficile passo della rinunzia, e, fra queste, la considerazione che
la nostra volontà, sotto molti aspetti, è cieca, cioè priva di quei lumi che potrebbero
consentirle di non sbagliare.
Non è necessario discutere in astratto sulla volontà dell'uomo e sulla sua intelligenza per
giungere a questa conclusione, basta soffermarsi in concreto sulle vicende del nostro
passato, per concludere che molte decisione prese per quanto in buona fede, si
dimostrarono in prosieguo di tempo sbagliate e che altrettante volte le decisioni della
Provvidenza, intervenuta all'infuori o a dispetto della nostra personale volontà, si sono
poi dimostrate sapienti ed utili.
Perfino il dolore, che desta tanta ripugnanza nella nostra natura, si è spesso rivelato a
distanza più o meno grande di tempo, come un rimedio efficace, o come un ostacolo che
ci ha impedito di cadere nell'abisso, oppure come un segno d'allarme che ha richiamato
provvidenzialmente la nostra attenzione sopra un determinato oggetto.
L'orizzonte sul quale l'uomo posa il suo sguardo prima di decidersi, è quanto mai
limitato, una zona d'ombra impenetrabile circonda sempre il cerchio di luce della sua
conoscenza, e quindi la sua volontà si muove partendo da dati insufficienti od erronei.
A parte ogni cattiva intenzione, o debolezza di fronte alle passioni, e cioè anche quando
l'uomo e deciso ad agire perseguendo il bene, non infrequentemente sbaglia, mettendosi
per una strada che non conduce allo scopo che egli si è proposto.
Questa infermità dell'intelligenza la quale si riflette sulla volontà rendendola tanto
spesso cieca, è una triste conseguenza del peccato d'origine ed affligge ogni uomo.
Perciò non è senza sollievo che l'uomo deve considerare l'esistenza di un piano di
salvazione che lo sovrasta, stabilito dalla sapienza divina, per il quale è richiesta la sua
adesione e la sua partecipazione, sia quando la volontà infallibile di Dio appare
conforme al suo pensiero, sia quando non lo è, ma egualmente si manifesta attraverso la
Legge, attraverso i Superiori, oppure attraverso altre cause seconde.
È un'abdicazione gioiosa dell'uomo il quale cede a Dio il suo massimo tesoro, cioè il
meccanismo del libero arbitrio, ben sapendo di quanto l'intelligenza divina superi la
intelligenza umana.
Questa abdicazione è una pura manifestazione di fede e cioè di quella virtù che non è
soltanto “conoscenza”, ma superamento della propria volontà in ordine alla verità
conosciuta “Haec est victoria, quae vincit mundum, fides nostra” (I Gv. 5,4 - Questa è la
vittoria che vince il mondo: la nostra fede).
E non sarà difficile all'operaio di conseguire la vittoria della fede quando consideri, nel
momento della battaglia, che spesso la sua volontà, guidata da un'intelligenza cieca, è
essa stessa cieca.
3 - La volontà dell'uomo non solo è cieca, ma spesso è schiava.
Anche quando la verità rifulge dinanzi all'intelletto e la voce della coscienza suggerisce
di seguirla, altre voci si levano dal complesso umano, materiale o spirituale, per irretire
la volontà.
Le ferite che il peccato di Adamo ha lasciato nel nostro corpo e nella nostra anima si
riaprono e fermano l'uomo sulla strada del dovere conosciuto.
Dal corpo partono impulsi disordinati che coloriscono di seduzione il male ed
indeboliscono la volontà; quando poi i sensi non sono custoditi, l'uragano degli istinti si
scatena soffocando ogni appello della coscienza.
Dall'anima, ammalata d'orgoglio, si sprigionano sottili e inebrianti veleni che
addormentano le facoltà mentali presentando all'intelligenza, e quindi alla volontà, una
visione falsa del mondo e della missione che l'uomo è chiamato a svolgervi.
Il sentimento fondamentale della giustizia gradualmente si dissolve e non muove, al
momento opportuno e quasi automaticamente come dovrebbe, la volontà.
Anche gli altri abiti delle virtù si riducono a pochi cenci colorati, e, così spoglia, l'anima
è in balìa delle influenze esterne che la portano or qua ed or là, lontano dalla strada del
suo progressivo accrescimento in Gesù Cristo.
È veramente una prigione quella nella quale si dibatte la volontà dell'uomo, e se non vi
fosse la grazia di Dio a rompere i ceppi della schiavitù, prima o poi, l'anima si
ridurrebbe ad agire secondo il più volgare determinismo materialista.
Ma il lato tragico di questa situazione si verifica quando l'uomo non si rende conto di
ciò, e continua a credere nella sua libertà, senza custodirla di fronte agli assalti delle
passioni e soprattutto quando preferisce la sua volontà, asservita al peccato d'origine,
alla perfettissima e adorabile volontà di Dio.
Se la nostra volontà è tanto spesso cieca e altrettanto schiava, l'operaio deve sentirsi
pronto, ogniqualvolta si renda necessario, a rinunciarvi posponendola alla volontà di
Dio. Quando in coscienza si è certi che la corrente del divino volere si rivolge verso una
direzione determinata, l'operaio deve mettere la sua anima sul filo della corrente e
seguirla non passivamente, ma con quello zelo e con quella accortezza che la
collaborazione alla suprema volontà richiede.
Chi deliberatamente va contro questa corrente compie un gesto empio, inutile ed anche
privo d'intelligenza perché dettato dall'ignoranza di quanto sia fragile e fallace la sua
volontà.
Se il Cristo, la cui volontà per quanto immune dalle tare del peccato d'origine e
infinitamente più illuminata e libera della nostra, adottò la volontà del Padre, tanto più
lieta, spontanea ed agile dev'essere per l'uomo la rinunzia alla sua personale volontà.
Egli abbandona un punto di appoggio pericolante, per ancorarsi ad una certezza eterna.

4 - Pronto a sottomettere il proprio volere a quello di Dio, l'operaio deve però guardarsi
da quella deformazione del pensiero cristiano che consiste nel rifuggire da una
testimonianza aperta e ferma del proprio pensiero.
Gesù medesimo, nel Getsemani, ce ne offre un esempio assai convincente perché nella
stessa preghiera nella quale rinuncia alla propria volontà, fa presente al Padre che suo
desiderio sarebbe di evitare il calice che Gli viene offerto.
Solamente dopo aver invocato con parole toccanti e ripetute l'esaudimento del suo
personale volere, lo abbandona sottoponendosi alle decisioni del Padre.
L'operaio, in vista dalla sua vocazione e della sua missione deve essere un uomo dalla
forte e consapevole volontà.
Egli, come uomo, sa di possedere nel libero arbitrio il più alto decoro della natura
umana, il dono sovreminente ricevuto da Dio quando volle crearlo a sua immagine e
somiglianza.
I doni si rispettano, e cioè si trattano con sommo riguardo e si utilizzano, sia per il valore
intrinseco che posseggono, sia per deferenza verso la persona che li ha donati.
Il dono di una volontà libera non può essere ignorato né sottovalutato dall'uomo, anche
per rispetto ed amore verso Iddio che si è compiaciuto di arricchirlo di tanto.
L'uomo ha dunque il dovere di esercitare la volontà che Iddio gli ha donato
costringendola a servizio di ciò che a lui sembra essere, secondo scienza e coscienza, il
bene da perseguire.
Elaborare attraverso le operazioni del pensiero, sulla scorta di tutti i dati che
l'esperienza, la logica e la consultazione possono fornire, un'opinione personale, è
un'operazione doverosa a cui l'operaio non può sottrarsi con il pretesto di un
conformismo che ricopre mortiferi strati di pigrizia spirituale.
Egli è tenuto ad attivare la sua intelligenza e a sollecitare proporzionalmente la sua
volontà così da raggiungere, per ogni obiettivo, il massimo rendimento personale,
presupposto, s'intende, il concorso divino e l'aiuto soprannaturale della grazia.
Solamente quando, per via diretta o mediata, risulti che il volere divino non coincida con
la sua opinione, l'operaio con soavità e decisione abbandonerà il suo punto di vista.
Allora la sua offerta è preziosa come il sacrificio di Abele perché egli non presenterà una
volontà arrugginita, ma una volontà lucente, palpitante, esercitata, bella come una
primizia sacrificata sull'altare.
Iddio non chiede che di giungere al soccorso di una consimile volontà tesa come un
arco; e giunge difatti a rettificarne la mira, onde la freccia dell'azione non scocchi verso
un cattivo bersaglio.
Perché ci sia questa rinunzia occorre a fortiori che ci sia il volere a cui rinunciare, ed è
per questo motivo che il cristianesimo in genere e la spiritualità getsemanica in specie,
non costituisce un avvilimento della volontà e della personalità dell'uomo, ma un
trionfo.
Il superamento di questo volere, con l'accettazione del volere divino, rappresenta, poi, la
sublimazione della persona umana che giunge in questo modo ad attingere i vertici della
vita divina.
19. “TUA VOLUNTAS FIAT”

1 - Dopo aver esposto al Padre la propria volontà di non bere a quel calice, e dopo aver
dichiarato di rinunciare a questa volontà, Gesù è disposto ad accettare la volontà del
Padre e pronuncia il «fiat».
È la conclusione della preghiera di Gesù, ed è il vertice dell'insegnamento che Egli ci
dona nella notte dell'uliveto, per cui dobbiamo accostarci a questa meditazione con il
cuore aperto e trepidante, chiedendo allo Spirito Santo di poterne cogliere ed assimilare
il frutto.
Il fiat del Getsemani non può essere separato da altri fiat che accompagnano la storia dei
rapporti fra Dio e l'uomo, i quali servono a farci comprendere il profondo significato di
questa parola che esce come un sospiro dal cuore di Gesù, mentre ha inizio la sua
passione.
Il fiat del Getsemani si ricollega al fiat della Creazione di cui parla il Genesi.
Questo fiat, misteriosamente pronunciato da Dio Padre sul caos, popolò il cielo di astri,
diede esistenza e forma alla terra, suscitò la vita nelle sue innumerevoli espressioni e con
le sue meravigliose armonie, trasse dal fango il capostipite del genere umano, Adamo.
Il fiat della creazione è il fiat della maestà divina la quale dai suoi effetti traspare
ricolma di un'infinita sapienza e di un'infinita potenza.
Il fiat del Getsemani è invece il fiat della redenzione, dell'estrema umiliazione e
sofferenza, accettate da Gesù perché meglio rifulgessero l'infinita bontà e l'infinita
giustizia di Dio.
Nella pienezza dei tempi, Gabriele si presentò a Maria e le annunzio il divino
concepimento spiegando che lo Spirito Santo sarebbe disceso in Lei per accendervi la
vita di Gesù : “Spiritus Sanctus superveniet in te... Ideoque et quod nascetur ex te
sanctum, vocabitur Filius Dei”
(Lc 1, 35 - Lo Spirito Santo scenderà in te... Perciò quel santo che nascerà da te sarà
chiamato Figlio di Dio), così disse l'Angelo annunziando un futuro prossimo, ma pur
sempre un futuro perché fra l'annunzio e la realtà del concepimento si richiedeva
l'adesione di Maria.
Ed il fiat dell'accettazione corredentrice uscì dal cuore turbato, ma eroico della nostra
Madre con queste parole: “Ecce ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum” (Lc.
1,38 - Ecco l'ancella del Signore; si faccia di me secondo la tua parola ).
Questo fiat è come una porta che si apre sul mondo onde permettervi l'ingresso e l'azione
dello Spirito Santo; ma nel tempo stesso la porta si apre alla venuta di Gesù Cristo nel
mondo, e perciò questo fiat è come un'accettazione della missione redentrice del Verbo
pronunciata da Colei che, essendo fra gli uomini la più degna, aveva diritto di
interpretare, di fronte all'Altissimo, l'umanità.
Il fiat mariano è dunque il più perfetto che uomo possa pronunciare e giustamente
precede il fiat getsemanico della Redenzione perché l'azione di Dio presso l'uomo
richiede sempre l'adesione preventiva dell'uomo.
Un altro fiat è stato insegnato da Gesù nel Pater Noster.
La preghiera dell'orto non è che una divina parafrasi della preghiera dominicale ed in
questa Gesù aveva insegnato a ripetere : “fiat voluntas tua”.
Sono le medesime parole che ora ritornano nella preghiera personale del Divino Maestro
e stanno a dimostrare come sia importante il fiat nella preghiera del Pater Noster, che è
quanto dire nel pensiero e nella vita di ogni cristiano.
Al disopra di ogni desiderio e di ogni progetto, di ogni bisogno contingente e di ogni
prospettiva umana, questo importa: che il cristiano desideri il compimento, in ogni
direzione, della perfettissima volontà di Dio, che la libertà umana si pieghi dinanzi a
questa luce e che il mondo si adegui ad essa come avviene, con perfetto gaudio, in
paradiso.
L'immedesimazione della nostra volontà con la volontà di Dio è il grande oggetto della
redenzione, il segreto nascosto nell'insegnamento del Getsemani.
La Creazione non è conclusa. La Redenzione nella sua applicazione non è conclusa.
Come Iddio Padre ripete su di noi, ad ogni istante, il fiat della Creazione, così Iddio
Figlio ripete dall'Eucaristia il fiat della Redenzione.
Ma si richiede che l'uomo collabori, sull'esempio di Maria, ripetendo a Dio la preghiera
essenziale: “Fiat”!

2 - Nell'abbandonarsi alla volontà di Dio, seguendola con fedeltà e con zelo, l'operaio è
sorretto dal pensiero che la volontà di Dio promana da Colui che è infinita sapienza.
La volontà di Dio, come Dio stesso, onnisciente, si esercita per ogni dove con la
sicurezza e con la perfezione di cui soltanto essa può godere; non ha ombre dinanzi, né
segreti impenetrabili creati dalle circostanze o elaborati dall'uomo, né pensieri nascosti
che non siano palesi, né colpe che possano rimanere occulte.
L'astuzia dell'uomo, il raggiro, la calunnia, l'ambizione, la viltà, sono in piena luce
dinanzi alla volontà di Dio che di tutto tiene conto per le sue definitive e perfette
decisioni.
Tutti i motivi che rendono incerta, fallace e perciò relativa la volontà dell'uomo, non
riguardano la volontà di Dio che può e vuole esercitarsi con piena obiettività.
Ma il più grande conforto nell'accogliere il volere di Dio consiste non tanto nel sapere
che esso è illuminato su ogni problema esterno, quanto nel sapere che dinanzi al volere
di Dio è manifesto ogni problema interiore dell'anima che a questo volere si affida.
La conoscenza del nostro io che noi stessi non possediamo appieno e che ci sgomenta
per i dati negativi che mette in luce, ma più ancora per la sua frammentarietà ed
insufficienza, è invece posseduta dalla mente di Dio, che non solo discerne ogni
elemento della nostra condizione attuale, ma ne scopre le cause determinanti, fino alle
più remote, ed i possibili sviluppi, tenendo conto delle debolezze, delle riserve, delle
attitudini, dei desideri e di ogni altra facoltà positiva o negativa dell'anima umana.
Il nostro io, che giustamente e continuamente ci preoccupa come primo oggetto di
responsabilità di fronte a Dio e come strumento di ogni azione spirituale o materiale,
questo io che rivela ogni giorno tesori nascosti di resistenza, di adattamento, di speranze
di cui non ci saremmo ritenuti capaci, ma anche sbandamenti paurosi che ci riportano
tanto spesso alle posizioni spirituali del passato, questo io è come un libro aperto dinanzi
alla volontà di Dio e cedendo ad essa, sappiamo di entrare in un porto sicuro costruito
per accogliere e riparare lo scafo della nostra esistenza.
Il senso di responsabilità dell'operaio, che deve essere sviluppatissimo, trova il suo
limite là dove la volontà di Dio, manifestandosi, assume essa stessa la responsabilità
della situazione che si viene creando nell'equilibrio delle forze interiori e delle forze
esterne.
È una liberazione dalla nostra responsabilità che si realizza pronunciando il fiat
dell'accettazione, e cioè da tutte quelle preoccupazioni che la nostra limitatezza, la
nostra incapacità e la nostra paura quotidianamente ci procurano.
Le nostre necessità vengono considerate dalla Provvidenza come le malattie dall'occhio
del medico e cioè con intenzione di risolverle, non superficialmente e temporaneamente,
ma in radice e per sempre.
Attraverso l'accettazione della volontà di Dio è il piano della Redenzione che si
individualizza raggiungendo ogni uomo, mettendolo in grado di salvare e di perfezionare
la propria anima e di contribuire certamente alla realizzazione delle supreme intenzioni
di Dio.
Divine intenzioni sovrastano il mondo, ad ogni istante; non ci è dato di conoscerle se
non di riflesso, ma possiamo egualmente rintracciarle e seguirle collaborando con
fiducia al volere di Dio.
Nel suo progetto infinitamente paterno di servirsi dell'uomo per il compimento dei piani
concepiti dalla divina sapienza, Iddio non chiede se non di incontrarsi con l'uomo
disposto ad accettare il suo volere.
Quest'uomo, come dice il testo biblico ricordato da S. Paolo nella sinagoga di Antiochia,
è secondo il cuore di Dio: “Inveni David filium Jesse, virum secundum cor meum, qui
faciet omnes voluntates meas” (Atti, 13, 22 - Ho trovato David di Jesse, uomo secondo il
cuor mio, che farà tutti i miei voleri).
L'operaio dev'essere un uomo secondo il cuore di Dio.
La volontà di Dio sale sull'orizzonte come il sole vittorioso che squarcia le tenebre ed
espande per ogni dove i suoi raggi apportatori di luce, di calore, di vita.

3 - Opporsi alla volontà di Dio non solo è da stolto perché essa percorre vie
sapientissime, ma anche perché essa sempre si adempie.
Per ogni anima che tenti di evadere alla volontà di Dio si addicono le parole di Gesù a
Paolo: “Durum est tibi contra stimulum calcitrare” (Atti 9,5 - E' duro per te recalcitrare
contro il pungolo).
Come si possa conciliare la libera volontà di Dio con la libera volontà dell'uomo, non è
dato all'uomo di spiegare, ma bensì di credere che questo è possibile al Creatore il quale,
pur rispettando sempre l'arbitrio dell'uomo, preordina ogni cosa e la dispone in effetti
perché contribuisca ai suoi piani i quali, in ogni caso, hanno compimento per la
manifestazione dei suoi attributi di bontà o di giustizia.
Questo indulgere e temporeggiare di Dio di fronte alla libertà dell'uomo non contraddice
alla divina potenza, anzi la esalta poiché è un omaggio libero che Iddio si propose di
raccogliere creando l'uomo, ed è per raggiungere questo scopo che Iddio aggiunse al
capolavoro della Creazione il capolavoro della Redenzione per effetto della quale la
volontà dell'uomo può liberarsi dai lacci del peccato e donarsi in olocausto.
Quell'onnipotenza che seppe mettere un riparo alle immense rovine del peccato affinché
fosse salvo il piano della Creazione, quella medesima onnipotenza entra in giuoco ogni
qual volta la divina volontà si trovi impegnata, per attribuire ad essa, al di sopra di ogni
ostacolo contingente, la vittoria.
Non può essere che i piani divini siano neppure turbati dalla cattiva volontà dell'uomo, e
se questo può talora sembrare, non è che un'illusione prodotta dalla limitatezza del
nostro sguardo.
Al di là del campo visivo dell'uomo, la volontà di Dio scandisce inesorabilmente i suoi
tempi e con tanto maggior trionfo quanto più le forze avverse si sono coalizzate contro
di essa.
Il grido di guerra dell'Arcangelo Michele sembra aleggiare ogniqualvolta un uomo
ardisce contrapporsi al volere di Dio: “Quis ut Deus?”.
Mentre la più elementare prudenza impedisce all'uomo di ergersi a giudice della divina
strategia nel mondo, la più semplice cultura ammaestra intorno all'infallibile realizzarsi
del volere divino contro ogni difficoltà che gli uomini e le cose volontariamente o
involontariamente possono opporre.
Basta fermarsi a considerare la vita della Chiesa e specialmente del Pontificato Romano
per trovare un tema di meditazione intorno alla volontà di Dio manifestatasi un giorno
con le parole di Gesù: “Portae inferi non fraevalebunt adversus eam” (Mt. 16, 18 - Le
porte dell'inferno non prevarranno contro di lei).
Dalle porte dell'inferno uscirono in ogni tempo, ed escono tuttora, insidie di ogni genere
contro la Chiesa, grossolane e sottili, esterne ed interne, materiali e spirituali; nessun
istituto umano che non fosse sorretto dal volere di Dio avrebbe potuto affrontare e
superare tante difficoltà.
Ed ancor più sorprende nella Chiesa la sua perenne giovinezza che si esprime in quella
primavera spirituale che donano ad essa i Santi e tutti quelli che si impegnano al lavoro
apostolico, con le loro virtù ed opere, ripetendo a distanza di duemila anni, l'ardimento,
il disinteresse, la carità travolgente che alitava nella Chiesa delle origini.
In questo mondo dove ogni cosa intristisce, degenera, invecchia, o almeno viene a noia,
questa inesauribile attualità della Chiesa convince, come una dimostrazione, che una
forza misteriosa la sorregge e questa non è altro se non la volontà di Dio.
Con questo stile di fedeltà e di onnipotenza il volere di Dio andrà accompagnando il
lavoro dell'operaio, purché la sua fede sia perfetta ed il fiat pronunciato con adesione
totale, fino dalle radici più nascoste dell'anima.

4 - Un giorno Gesù parlava alle turbe.


Ed uno gli disse: «Tua madre e i tuoi fratelli son fuori e cercano di te».
Ma Egli rispose a chi gli parlava: «Chi è mia madre, e chi sono i miei fratelli ?».
E, stesa la mano verso i suoi discepoli, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli; perché
chi fa la volontà del Padre mio che è ne' cieli, colui mi è fratello e sorella e madre» (Mt.
12, 46-50).
Bastano queste fortissime parole di Gesù per significare quale importanza Iddio
attribuisca all'accettazione del suo volere e quale valore quest'accettazione abbia nella
vita dello spirito.
Perciò la vita dell'operaio deve essere come una continua resa a discrezione alla volontà
di Dio, che trova la sua formula più alta e compendiosa nel «fiat» del Getsemani.
Nell'affidarsi a Dio non passivamente, ma esercitando il proprio volere per intendere e
per servire la volontà di Dio, l'operaio, adorando le disposizioni ammirabili attraverso le
quali la Provvidenza lo conduce, pure ha il conforto sovreminente di conoscere il
significato generico delle operazioni predisposte dalla volontà di Dio nei suoi riguardi,
attraverso le chiarissime parole: “Haec est voluntas Dei: santificatione vestra” (Tess. 4,3
- Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione).
Tutto ciò che Iddio dispone o permette ha il significato di rendere santa la nostra anima,
cioè monda dal peccato e adorna di ogni virtù.
Le finalità umane, anche lecite, non hanno un valore essenziale per il volere divino che
le considera, come sono, effimere e provvisorie.
Secondo un paragone di S. Teresa, la vita terrena non è che un sogno, e cioè una
parvenza che deforma e tradisce la realtà dei valori sulla quale invece poggia
solidamente il piano divino della redenzione.
Anche i piani apostolici, che sono pur sempre di corta veduta ed imperfetti, interessano
relativamente il volere divino, e solo in quanto dimostrano la disposizione dell'anima, i
santi desideri e le virtù dell'operaio, ma non in senso assoluto, perché Iddio non ha
bisogno dei nostri progetti che la sua intelligenza compendia e supera in ogni
dimensione. L'obiettivo che Iddio si prefigge a scapito delle umane previsioni,
travolgendo le aspettative, i timori, le esitazioni, ed ogni altro ostacolo, con perfetta
tempestività e rispondenza allo scopo, è questo e non altro: la santificazione.
Da questa santificazione sgorga la sua gloria e la nostra felicità; è questo il valore
essenziale di cui Iddio si occupa, e l'uomo con Dio, qualora ripeta, anche se non capisce,
anche se gli sembra di non potere, il fiat del Getsemani.
Cedere alla volontà di Dio, significa dunque cedere al supremo tentativo di santificare la
nostra anima, che Iddio rinnova ad ogni istante, e che sarebbe già stato coronato di
successo se finora non avessimo sistematicamente opposto la nostra volontà alla sua.
Quanto più il cristiano procede sulla via della virtù, tanto più appare in chiara luce
questo assedio che Iddio pone ad ogni singola anima ed a tutto ciò che in essa non gli
appartiene, perché nulla resista alla sua grazia santificante. Non solo il peccato è colpito
dalla volontà di Dio, ma ogni imperfezione, ogni viltà, ogni accomodamento; i colli
vengono spianati e le strade rettificate; ogni piaga è aperta, detersa e guarita.
Dove trovare nell'uomo tanta penetrazione di intelligenza e tanta forza di volontà? Iddio
si incarica di questo compito superando l'incapacità e l'inerzia dell'uomo, trasportandolo
sulle ali di un vento misterioso, e con velocità crescente fino alla santità.
Condizione, perché l'incapacità umana venga colmata ed operi in sua vece la potenza
divina, è che l'anima si abbandoni al vento misterioso della volontà di Dio rinnovando,
ad ogni tappa, il fiat, con fede e con amore.
20. “FACTUS IN AGONIA”

1 - Agonia è lotta della vita contro la morte, dell'organismo contro le forze che tendono a
distruggerlo.
Di solito per agonia s'intende l'estremo dell'esistenza quando la reazione della vita alla
morte non è basata sulla volontà, che spesso è assente perché assente è la coscienza, o
impotente, ma sull'istinto di conservazione che si trasforma in un conato di tutti gli
organi che cercano, fino agli estremi limiti, di sopravvivere.
Ma è lecito dilatare il significato di questa parola conducendola a indicare non solo la
lotta dell'organismo fisico, ma anche dell'anima contro la morte.
Non è che l'anima possa perire, ma sono, per così dire, i suoi legami con il corpo che
vengono messi a durissima prova, al punto che i dolori morali paiono capaci, a volte, di
reciderli e di uccidere.
È questa un'agonia spirituale per cui si può giungere alle soglie della morte e talora
anche alla morte, non per cause che interessano il corpo, ma per cause che agiscono
sull'anima.
Tale è il combattimento di Gesù nell'orto degli ulivi contro la marea montante del dolore
spirituale che dilaga nella sua anima, annichilendo l'Uomo-Dio di fronte agli uomini e di
fronte a Dio.
Gesù è solo, ma la solitudine non è il dolore più grande; per chi possiede una vita
interiore può anche essere una beatitudine, purché nell'individuo sia la pace.
Ora in Gesù è la passione interiore: la sua immaginazione non può non rappresentargli la
passione imminente, fisica e morale, e la sua intelligenza non può distogliersi dal peso
del peccato che Egli deve portare; è una via senza scampo; una sofferenza che non si
può frenare; tutto crolla attorno a Gesù; non gli rimane che la vita, questa delicata
fiamma corporea che viene agitata, strappata, dal vento del dolore e che minaccia di
spegnersi.
La resistenza spirituale di Gesù si tende fino allo spasimo fisico e si comunica ad ogni
parte del corpo.
È l'agonia di cui parla il Vangelo: «Factus in agonia” (Lc. 22,43 - Venuto in agonia). Ma
il testo che descrive con parole così aspre e chiuse lo stato fisico e morale del divino
Maestro, subito si apre, come in un sussurro di speranza, dicendo di Lui: “prolixiits
orabat” (Lc. 22,43 - Pregava più intensamente).
Dunque, la vita non è spenta. Sotto i macigni del dolore essa scorre mormorando come
un ruscello e il suo mormorio è la preghiera.
Ridotto dal dolore sulla soglia della morte, Gesù pregava.
Le parole di Luca: “Factus in agonia” ricordano le parole di Gesù pronunciate nell'atto
di congedarsi dagli apostoli: “Tristis est anima mea usque ad mortem”, ed entrambi i
testi richiamano quelle parole profetiche dell'Antico Testamento che dicono:
“Inundaverunt aquae super caput meum: dixi: perii” (Lamento 3, 54 - Le acque
dilagarono sopra il mio capo: io dissi: Sono perduto).
Non è un dolore parziale, per quanto grave, che opprime l'anima di Gesù, ma un dolore
totale che Lo demolisce e Lo schiaccia contro terra.
La divina agonia insegna all'operaio che egli può incontrare, nella sua vita, tale dolore
per cui tutto l'uomo entra in sofferenza, mentre ogni via di salvezza appare chiusa.
Sono momenti nei quali i meriti acquisiti vengono dimenticati, le amicizie crollano, il
favore pubblico si capovolge, le opere appaiono come massi pesanti e sterili, difficoltà
finanziarie avvelenano le acque dell'apostolato, i cattivi prevalgono, i Superiori riescono
incomprensibili, le calunnie dilagano, l'intelligenza non riesce a risolvere i problemi
innumerevoli che si pongono, e manca il coraggio per affrontarli con quella decisione
che assicura la vittoria.
In questi momenti, all'operaio non rimane che la possibilità di trascinare la vita di giorno
in giorno, di ora in ora, questa povera vita fisica che vibra anch'essa sotto i colpi di
maglio del dolore, e sembra cedere di fronte alla violenza dell'angoscia.
Tempo di agonia che conduce l'uomo del mondo alla disperazione, alla bestemmia, alla
follia e talora anche al suicidio, e che l'operaio affronta come la prova suprema della sua
consacrazione.
Il dolore è presente, per così dire, allo stato puro, in quanto non dà adito a nessuna gioia,
a nessun conforto; e ciò che spesso gli dona il suggello getsemanico è che l'uomo deve
soffrire non per colpe proprie, ma per colpe commesse, in buona o cattiva fede, da altri.
L'operaio in questo modo si trova, evidentemente, accanto a Gesù nell'orto degli ulivi,
prostrato a terra, come Lui grondante lacrime e sangue, colmo di dolore, di paura e di
nausea, lontano dagli altri uomini che dormono : “factus in agonia”.
Ma un sovrumano pensiero lo alimenta: Gesù non è più solo, vi è chi veglia e soffre con
Lui; in questo momento l'operaio è sicuro di assolvere la sua missione più recondita e
preziosa.
Non dagli uomini o dalle cose umane, ma da una sorgente di pura fede giunge a lui una
certezza che lo sorregge oltre ogni ostacolo: poiché egli divide con Gesù l'agonia,
dividerà con Gesù anche la gloria.
Quando e come, in questo mondo o nell'altro, in modo cognito agli uomini o incognito,
non importa.
Gesù lo sa ed egli, disarticolato e purificato dal dolore, si affida a Lui con le parole di
consapevole abbandono dettate dall'Apostolo: “Scio cui credidi” (II Tim. 1, 12 -
Conosco di chi mi sono fidato).

2 - L'esempio di Gesù, nel supremo istante della sua agonia spirituale nel Getsemani
come anche della sua agonia corporea sul Calvario, ci insegna che il dolore deve essere
accompagnato dalla preghiera e che più il dolore è grande, tanto più la preghiera deve
essere abbondante: prolixius.
“Soffrire pregando” ecco la formula suggeritaci dal divino agonizzante la quale equivale
ad un'altra formula “soffrire amando” perché l'amore trova a questo punto, una sola
espressione di fiducioso abbandono: la preghiera.
La congiunzione fra il dolore e la preghiera, fondamentale per il cristiano, e più ancora
per l'operaio, viene giustificata anzitutto dal valore dedicatorio che la preghiera assume
nei confronti del dolore, accompagnandolo.
La sofferenza non è per l'uomo una pietra rara; volente o nolente egli la incontra ad ogni
passo sul cammino della vita.
Sia l'uomo nella grazia o all'infuori di essa, cade sotto il castigo del peccato d'origine e
perciò viene raggiunto e dilaniato dal dolore: presto o tardi.
Quando il dolore si affaccia è facile cadere in errore perdendo il dominio di sé,
considerando il fatto singolo senza incastonarlo, come è doveroso, nel diadema della
santificazione personale; facile è scendere a considerazioni strettamente umane,
imprecare, avvilirsi, ribellarsi.
L'intenzione di Dio nel permettere il dolore viene in questo modo frustrata e l'uomo
soffre inutilmente; talora la situazione addirittura si capovolge e l'uomo trova nel dolore
un incentivo alla colpa.
Se l'arte più difficile da apprendersi è quella di saper soffrire è pur vero che la preghiera
è il regolo che avvia le anime verso un'interpretazione e un'accettazione del dolore
secondo il Cuore di Cristo.
Chi, durante i giorni della sofferenza, perdura nell'orazione non può sbagliare: le parole
che egli pronuncia avvolgono il dolore in un manto di grazia e lo presentano a Dio come
un'offerta di grande valore.
La preghiera dona al dolore il suo giusto significato sia per l'uomo che soffre, sia per la
maestà di Dio che valuta il dolore sopportato dall'uomo secondo giustizia e carità.
La preghiera che umile, fiduciosa, incessante accompagna la sofferenza ricorda all'uomo
che egli non è solo a soffrire, ma che soffre con il Cristo, che ogni lacrima è una moneta
per il riscatto, che Iddio ha in mano la situazione ed interverrà per modificarla quando
sarà il tempo opportuno.
La medesima preghiera dice a Dio, al quale è rivolta, che il cristiano non trae scandalo
dal dolore, ma che si affida alla sua Provvidenza ed è lieto di completare con i suoi
dolori la passione redentrice del Cristo.
La preghiera è come una melodia che si distacca sullo sfondo delle note cupe del dolore
a guisa di un canto che esalta le perfezioni divine; come un filo d'oro che ricuce le labbra
della grande ferita aperta dal peccato d'origine, purificata dal dolore.
Coloro che cercano il godimento sulla base dell'istinto, soffrono, come gli animali,
brutalmente, come chiusi in un carcere senza luce e senza respiro.
Chi soffre e prega sente crescere in sé il regno di Dio e, se anche umanamente è
imprigionato dal dolore, sente la sua anima più ricca, più libera, più lieta che mai.

3 - II dolore è uno scoglio contro il quale urtano tutte le filosofie, vi è chi cerca di
sminuirlo considerandolo come l'effetto di una cattiva organizzazione del mondo e
perciò come un problema che può essere risolto, mentre vi è chi lo considera come il
motivo dominante della vita umana dal quale non solo non si può evadere, ma di cui
bisogna pascersi, e parlano perfino di un culto del dolore.
Sono queste delle concezioni errate che il cristiano non può alimentare.
Come non può credere ad una vita senza dolore perché il castigo del peccato d'origine
grava penosamente su ogni uomo, così non può considerare il dolore come un oggetto
desiderabile per se stesso, poiché il dolore è pur sempre un male che ripugna alla natura
dell'uomo e per il quale l'uomo non è stato creato.
Se giusto è guardare con fermezza in faccia al dolore è anche giusto considerarlo per
quello che è, come un male inevitabile trasformato dai meriti del Cristo in una preziosa
medicina.
In quel modo che gli uomini, pur apprezzando le medicine del corpo e adoperandole,
cercano di raggiungere quelle buone condizioni di salute che li rendano indipendenti
dalle medesime medicine, così è ben naturale che il cristiano desideri che si allontani da
lui il calice del dolore, come anche Gesù ha desiderato, e che alla soddisfazione della
giustizia di Dio si giunga più presto ed in altro modo.
Di qui parte una seconda considerazione relativa ai rapporti fra preghiera e dolore che
deve essere familiare all'operaio: il valore satisfattorio della preghiera.
La preghiera passando, per così dire, attraverso l'infinita bontà di Dio giunge a placare la
sua infinita giustizia; essa è capace di strappare a Dio, per i meriti e secondo le promesse
di Gesù, l'indulgenza e il perdono.
La preghiera, in questo modo, è vicaria del dolore poiché ne fa le veci, lo sostituisce, lo
previene, lo integra.
Chi soffre pregando, soffre meno, non solo per il conforto che la preghiera gli dona, ma
anche perché il dolore viene abbreviato nel tempo e diminuito d'intensità.
La preghiera che si mescola alle lacrime, raggiunge il cuore di Gesù e lo muove a
misericordia perché non può essere diverso il suo atteggiamento alla destra del Padre, da
quello che fu nella vita terrena quando le preghiere degli uomini mossero la sua
onnipotenza e valsero a confortare ogni dolore.
Nell'agonia del Getsemani il divino Maestro sembra dettarci un testamento spirituale che
consiste in due realtà, le quali si intrecciano nel suo esempio come devono intrecciarsi
nella vita dell'operaio: dolore e preghiera.
Quanto più si sviluppa il dolore, tanto più ha da crescere nell'intensità la preghiera.
21. “ANGELUS DE COELO”

1 - Che lo Spirito Santo attribuisca grande importanza, nella formazione dell'anima


cristiana, all'episodio del Getsemani si deduce dal fatto che non solo i quattro evangelisti
ne parlano, ma anche un altro grande Autore neotestamentario, San Paolo, nell'epistola
agli Ebrei.
L'Apostolo così scrive: “Qui in diebus carnis suae preces supplicationesque ad eum, qui
possit illum salvum facere a morte, cum clamore valido et lacrimis offerens exauditus
est pro sua reverentia...” (Ebrei 5, 7 - ...il quale nei giorni della sua vita mortale, avendo
con grandi grida e lacrime offerto preghiere e suppliche a colui che lo poteva salvare da
morte, fu esaudito a motivo della sua pietà...).
Queste le parole, che la Chiesa ha inserito nell'epistola della Messa dedicata al ricordo
del Getsemani, descrivono con lo stile aderente e profondo di San Paolo, la preghiera
getsemanica di Gesù, la quale a motivo di questo contributo paolino, ci appare integra da
un punto di vista descrittivo e da un punto di vista dottrinale.
Dal punto di vista descrittivo noi veniamo a confermare due particolari raccolti dalla
tradizione probabilmente orale dei contemporanei, e cioè che la preghiera getsemanica
avvenne a gran voce e che fu accompagnata da lacrime.
Gli evangelisti lasciano supporre questo perché se le parole di Gesù giunsero alle
orecchie degli Apostoli, discosti ed insonnoliti, è perché furono pronunciate ad alta voce;
così pure la descrizione del dolore di Gesù fa pensare che il suo strazio fosse
accompagnato da lacrime.
Ma il testo di San Paolo ci assicura direttamente intorno a questi particolari dimostrando
che il dolore di Gesù, lungi dall'essere un dolore raccolto e muto, fu profondamente e
compiutamente simile al più manifesto dolore dell'uomo.
Dal punto di vista, poi, dell'interpretazione della passione di Gesù nel Getsemani, Paolo
ci offre una precisazione di grande importanza scrivendo che Gesù fu esaudito da Colui
che lo poteva salvare da morte : “exauditus est pro sua reverentia”.
Può stupire questa espressione dell'Apostolo quando si pensi alla prima parte della
preghiera di Gesù nella quale egli chiede di non bere il calice della passione, poiché le
tragiche ore del Venerdì Santo dimostrano il contrario, e cioè che il Padre non esaudì
questa preghiera del Figlio.
Ma se l'attenzione si posa sulle successive parole di Gesù: “Non mea voluntas sed tua
fiat” possiamo scorgere in esse non soltanto una preghiera-accettazione ma anche una
preghiera-invocazione rivolta a chiedere tutto l'aiuto necessario per affrontare il volere
del Padre e per condurlo al termine.
Il fiat può significare nel tempo stesso consenso e supplica onde il Padre venga in aiuto,
sollevando il Figlio dal peso enorme che grava sulla sua anima e dalla fragilità del corpo
stroncato dal dolore.
In questo senso, essendo il fiat una preghiera di Gesù perché il Padre Lo renda capace di
obbedirgli, possiamo dire con San Paolo che Gesù ottenne ciò che chiedeva : “exauditus
est” e che il Padre Lo esaudì per il suo atteggiamento di totale sottomissione: “prò sua
reverentia”.
Messaggio visibile di questo aiuto concesso al Figlio, simbolo e strumento della pietà
del Padre, apparve un Angelo a confortare Gesù “Apparuit autem illi Angelus de coelo,
confortans eum” (Lc. 22,43 - Allora gli apparve un Angelo dal cielo a confortarlo).

2 - Gesù non pregò invano. Privo di ogni conforto da parte degli uomini, Egli fu
consolato da un Angelo.
Che cosa l'Angelo abbia detto al divino Maestro e come, non sappiano; ma possiamo,
forse, intuirlo, leggendo questa profonda meditazione di un sacerdote fiammingo:
“...Aveva affermato nella notte innanzi di voler bere il suo calice sino alla feccia. In
quell'istante una voce tacita, discesa dalla suprema luce della sua anima, Gli testimoniò
che ora quella feccia era bevuta, ora quella volontà era compiuta in ogni cosa (Gv. 19,
28-30), e penetrò nelle zone più umili della sua umanità, dove tuonava la bufera del suo
dolore.
Egli percepì la voce di suo Padre, da lontananze di là dalla notte e dal giorno; giungeva a
Lui di tra le nubi nere come una potenza dolce, onnipotente, e, senza parole, a Lui
parlava una lingua tutta luce e gli annunciò la pace:
“Tu hai compiuto la volontà del Padre, il Padre ha compiuto la tua volontà. Tu volesti il
cielo chiuso in tutte le ore della tua passione; a quel modo che serrò il cielo Elia per tre
anni. Volesti che nessuna luce di lassù non menomasse la forza risanatrice della tua notte
di passione. “Sia fatta la tua volontà» mi dicesti di sotto quegli ulivi; «Sia fatta la tua
volontà” ti risposi io, di qua dalle mie stelle. Abbiamo compiuto, tu ed io, l'uno la
volontà dell'altro.
“Ti ho abbandonato per lasciare te tutto a te stesso, e permettere al tuo sacrificio di
crescere a merito senza fine.
“Ti ho abbandonato, perché il redentore che tu volevi essere con tutte le tue forze, non
sperimentasse limitazione alcuna alla sua forza di redenzione.
“Ti ho abbandonato, perché se non avessi abbandonato te, avrei dovuto con un
abbandono di sempre, abbandonare alla sua condanna il peccato, che tu portavi sulle tue
spalle innanzi a me; e lo avrei così abbandonato qualora la tua totale solitudine di un
solo istante, non mi avesse invece consentito, per l'eternità, di riceverlo, in ritorno,
conciliato.
“Ti ho abbandonato, perché il peccato, abbandono di Dio, può essere espiato realmente
solo da quello smarrimento dell'abbandono totale che nasce dalla perdita di Dio. Non v'è
uomo che possa mai comprendere a pieno, e rappresentare a se stesso quale abisso egli
diviene allorché si vuota di Dio. Questa è la pena della dannazione. Tu puoi, tu solo,
comprenderla interamente: tu puoi sentirla interamente: per questo dovesti
sperimentarla, tu per tutti. Tu dovesti, tu, senza peccato, portare la pena della
dannazione, per redimere chi ha peccato.
“Ti ho abbandonato, ed ho ritirato dal sentimento della tua vita il mio amore divino,
perché il peccato scaccia Dio dal proprio sentimento della vita e può essere realmente
espiato a fondo soltanto da un Dio abbandonato da un Dio.
“Ti ho abbandonato per non essere costretto a quell'estremo, eterno abbandono della
condanna “lontano da me» . Ogni istante di Dio è una eternità, e quel solo istante di
sentimento della dannazione che il tuo amore ha permesso nella sua eroica sostituzione,
ha dato a me il diritto di lasciare ancora aperta la porta della Grazia, in luogo della porta
della dannazione.
“Io non posso abbandonarti nel tuo essere, ma ti ho abbandonato nell'accordo e nel
sentimento d'unità delle tue facoltà di Uomo-Dio, ti ho privato della tua armonia divina,
acciocché io, abbandonando l'uomo in te, Dio, in te, Dio, riacquistassi l'umanità.
“Solo respingendoti potevo guadagnarti; sol trattandoti da maledetto potevo consacrarti
redentore. Il capro espiatorio degli uomini doveva diventare il capro espiatorio di Dio, se
voleva essere il buon pastore che riconduce il suo gregge. Essere il buon pastore e
ritrovare la pecora sperduta nella notte e nel deserto, fu il tuo più bel sogno, il tuo
desiderio più eroico, il più bel canto fra le tue parabole. In quella notte ed in quel deserto
che sono al di là d'ogni notte e d'ogni deserto, nella notte di Dio e nel deserto dì Dio, è
stato concesso a te di cercarla.
“Occorrevano un dolore estremo ed un estremo coraggio: occorreva una bellezza
estrema a coronarli. Questo io ti dovevo nella solitudine dell'abbandono.
“Le mie braccia ora si aprono più vaste dei cicli a te ed al tuo gregge. Ritornate. Vi è
posto per tutti quanti vorranno fare la via del ritorno insieme con te. Il tuo smisurato
abbandono da parte di Dio, ti ha smisuratamente aperto il grembo della divinità. Il vuoto
del tuo cuore colmerà il ciclo universo.
“II tuo desiderio estremo per la tua passione è esaudito”
(Verschaeve Cyriel: “Crocifisso”. Traduzione di Romana Guarnieri, Morcelliana,
Brescia, pag. 46)

3 - Le parole di Isaia «Vere languore nostros ipse tulit et dolores nostros ipse portavit»
(Is. 54,4 - Veramente egli ha preso sopra di sé i nostri dolori) commentano assai bene la
passione di Gesù, sottolineando il fatto che Egli ebbe a soffrire i languori e i dolori di
tutti gli uomini e di ciascuno in particolare.
Fra questi languori, che abbiamo in comune con il Figlio di Dio fattosi uomo, vi è quel
profondo bisogno di conforto che si manifesta nei giorni del dolore.
Il bisogno di conforto è anzitutto un bisogno di comprensione e di aiuto, di
comprensione più ancora che di aiuto o, per meglio dire, di un aiuto che, se anche non
grande e non risolutivo, sia quasi un simbolo della comprensione del prossimo.
L'uomo immerso nel dolore ha bisogno che altri, intendendo il suo stato d'animo, si
commuova di lui, con lui e per lui, secondo il significato profondo della parola
“compassione”.
Dalla comprensione e dalla compassione nasce il conforto che solleva l'animo di chi
soffre, lo rende sereno e forte, terge le lacrime e rinfranca, nel tempo stesso, le forze
fisiche.
L'operaio è uomo e l'umiltà vuole che egli si assoggetti, come Gesù, alle esigenze
dell'anima umana la quale non attraversa impunemente il dolore, ma vibra al suo
contatto, sollecita, invoca, esige il conforto.
Il dolore muto, che allontana l'uomo dall'uomo, è spesso un dolore superbo, di chi non
vuole dimostrare le sue debolezze o le sue disavventure, dolore disumano contrario alle
leggi di natura e allo spirito soprannaturale del cristianesimo.
L'operaio riconosce con semplicità, di fronte a se stesso ed agli altri, il bisogno che sente
di essere confortato, ma nel chiedere e nel valutare il conforto, il suo pensiero vola al
Getsemani che si ripete inevitabilmente nelle vicende del suo dolore.
La frase profetica “ho aspettato dei consolatori e non li ho trovati” (Salmo 68,21) che si
attaglia così bene a Gesù agonizzante, esprime anche la condizione in cui viene a
trovarsi l'uomo che soffre.
Non sempre egli è ridotto nella tragica e totale solitudine di Gesù perché lo Spirito
Consolatore ha insegnato ed insegna a consolare gli afflitti, ma se anche il conforto da
parte dell'uomo è presente, molto spesso non è in quella misura ed in quella forma che
l'uomo investito dal dolore desidera e attende, poiché all'infuori di ogni volontaria
insufficienza vi è sempre nel consolatore l'insufficienza involontaria ed essenziale della
natura umana, che riduce in stretti limiti le possibilità e frena le nobili intenzioni.
Il parente più intimo, l'amico più caro non riescono, pur desiderandolo, a portare quel
sollievo che il caso richiede, mentre la grande maggioranza delle persone apparentate o
amiche dorme pesantemente, vinta dal sonno della propria sofferenza, delle ambizioni,
della paura, della distrazione, dell'ignoranza, dell'opportunismo.
Nel dolore dell'uomo vi sono sempre delle ore nelle quali egli si sente solo e
abbandonato.
Allora chi soffre, e particolarmente l'operaio, memore di quanto avvenne a Gesù nel
Getsemani, senza inveire contro gli uomini che non sanno e che non possono, deve
chiedere e attendere il conforto dall'alto.
Fu il Padre a condurre il Figlio in questa posizione-limite per assolvere al suo piano
redentivo e cioè per uno scopo di amore, ed è ancor Lui che conduce l'operaio nel
deserto dove il conforto umano è assente per uno scopo di amore, per legare l'anima
della creatura non ad altri che a Se stesso.
L'operaio legge, al disotto degli avvenimenti, questa intenzione del Padre, si ispira al
luminoso esempio del Figlio, e invoca il conforto dallo Spirito Consolatore.

4 - Chi medita il Getsemani non può ignorare l'esempio dell'Angelo né sottrarsi al


dovere di imitarlo.
Se, prima della morte di Gesù, della resurrezione e della pentecoste, fu possibile che il
più grande fra gli uomini, immerso nel più grande dolore, fosse privo del più tenue
conforto umano, cosicché si rese necessario l'intervento di una creatura angelica, dopo il
Getsemani l'uomo sa che il Cristo agonizzante attende il conforto e glielo deve porgere.
Il Cristo agonizza in tutti coloro che soffrono ingiustamente; l'incorporazione di Gesù
nella natura umana va oltre l'incarnazione e riguarda, in modo arcano, ogni uomo sia
perché la giustizia redentrice si preoccupa di salvare, per mezzo del Cristo, ciascun
uomo, sia perché il Cristo ha tutti rappresentato e potenzialmente giustificato, al cospetto
del Padre.
Perciò l'operaio vede il Cristo attraverso le fattezze del prossimo, il Cristo glorioso nelle
anime in grazia, il Cristo crocifisso nelle anime immerse nel dolore, e come si preoccupa
di venerare il Cristo nelle anime in grazia e di risuscitarlo nelle anime in colpa, così deve
studiarsi di confortare il Cristo nelle anime agonizzanti per il dolore.
L'operaio, per vocazione e formazione, può acquistare una sensibilità speciale per le
sofferenze dell'uomo diventando al suo fianco un angelo consolatore.
Non solamente egli non passa indifferente accanto a chi soffre, ma lo spirito del
Getsemani, coltivato nel suo cuore, gli deve suggerire quelle strade e quei mezzi che
riescono, per quanto è possibile, a confortare l'uomo.
Il primo requisito è quello di non rimanere estraneo alla sofferenza altrui e cioè di
rendersi conto delle sue cause e dei suoi effetti, cercando di investirsene come di cosa
propria secondo il detto dell'Apostolo “flere cum flentibus” (Rom. 12,15- Piangere con
chi piange).
Il secondo requisito consiste nel porgere aiuto a chi soffre intervenendo con il consiglio,
con l'appoggio, con il denaro, con le medicine e in quegli altri mille modi pratici che la
carità suggerisce nelle diverse circostanze.
Nell'un tempo e nell'altro, perché il conforto sia veramente quello che il Getsemani
suggerisce, l'operaio deve fare in modo che l'aiuto appaia come proveniente dal cielo,
sebbene per suo tramite; in quest'azione di conforto l'operaio deve angelicarsi togliendo
rigorosamente di mezzo tutto ciò che la sua umanità può suggerirgli di tornaconto, sotto
qualsiasi forma, e dimostrando il disinteresse più sostanziale.
Nel cuore dell'operaio non vi è se non il desiderio di sostituirsi all'Angelo nel confortare
Gesù che agonizza nel prossimo e di fare questo il meno indegnamente possibile, avendo
cura che anche il suo atteggiamento fisico verso chi soffre abbia tutta quella soavità a cui
ripugna ogni forma di sentimentalismo o di pesantezza umana.
Trasparente per le sue intenzioni purissime, discreto nella parola onde non profanare il
dolore, rispettoso di ogni conforto arrecato da altri, sollecito di procurare il vero bene a
chi soffre, senza mai sfruttare il dolore per scopi di altro genere anche se ottimi, ma
unicamente preoccupato di avviare l'anima sofferente a congiungere il suo tormento con
quello del Cristo, l'operaio accosta le agonie dell'uomo e le conforta: “confortans eum”.
22. “GUTTAE SANGUINIS”

1 - Una disposizione legale del Levitico (Lev. 16,27) e dell'Esodo (Es. 19,12),
prescriveva che i condannati a morte fossero giustiziati fuori delle mura di Gerusalemme
e per questo Gesù fu condotto, per la crocifissione, sul Golgota.
San Paolo, rivolgendosi agli Ebrei, volle sottolineare questo fatto che si prestava bene a
colpire la mentalità rabbinica e scrisse: “Propter quod et Jesus, ut santificaret per suum
sanguinem populum, extra portam passus est”. (Ebr. 13,12)
Per una di quelle singolari coincidenze, così frequenti nei Libri sacri i quali ci appaiono
come gravidi di innumerevoli verità, la frase di Paolo si presta tanto bene alla passione
del Golgota come a quella del Getsemani.
Anche la passione del Getsemani avvenne fuori delle mura perimetrali di Gerusalemme
e precisamente fuori della Porta della fontana, ed anche la passione del Getsemani
contribuì alla santificazione del popolo mediante un sacrificio di sangue.
L'effusione di sangue da parte di Gesù, nel giardino degli ulivi, viene descritta nel terzo
Vangelo in questo modo: «Et factus est sudor eius, sicut guttae sanguinis decurrentis in
terram» (Lc. 22,44 - E il suo sudore divenne simile a gocce di sangue che cadevano in
terra).
Sono parole di Luca, il medico, e rispecchiano la mentalità dell'autore il quale si
preoccupa di descrivere obiettivamente il singolare fenomeno verificatosi durante
l'agonia di Gesù, come fa onestamente ogni medico quando si trova di fronte ad un fatto
non esattamente comprensibile.
La descrizione di Luca non solo è fedele, ma efficace poiché ci permette di ravvisare i
caratteri di quel fenomeno che i medici conoscono con il nome di “ematidrosi” di sicura,
per quanto rarissima, evenienza.
Non si tratta di un fenomeno soprannaturale come quello dell'apparizione dell'Angelo,
ma naturale, benché insolito, e di significato patologico, cioè indice di una malattia del
corpo.
Per quanto possiamo arguire, il sudore ematico non fu per se stesso causa di dolore, ma
piuttosto sintomo di un profondo sconvolgimento di tutto l'organismo che trovò la sua
origine nella tragedia interiore di Gesù e che si ripercosse in modo particolare
sull'equilibrio del sistema circolatorio (*).
Se così straordinarie furono le conseguenze, possiamo immaginare quanto gravi fossero
le sofferenze corporali di Gesù a motivo dell'angoscia che gli soffocava l'anima: “la
pauvre nature humaine — osserva il Klein — à force d'écraser toutes les repugnances,
succombait sous son héroysme” (1).
Attraverso quei misteriosi tramiti che congiungono l'anima al corpo, la passione morale
di Gesù si trasformò in passione fisica, la quale si manifestò all'esterno con la profonda
tristezza che fu notata dagli Apostoli, l'abbandono delle forze per cui il Maestro si
abbatté sul terreno, le lacrime, le grida e, da ultimo, mediante il sudore ematico.
Questo tipo di sofferenza corporea che procede dal mondo morale è ben diversa da
quella che viene provocata dalle offese arrecate direttamente al corpo dell'uomo, ma
certo non è inferiore.
Il tormento del corpo per motivi spirituali ha in sé qualcosa di perfido, di crudele, di
immeritato e di ripugnante, per cui spesso si è portati a preferire i dolori fisici, che
riguardano direttamente il corpo, a questi che riflettono sulle funzioni del corpo le
terribili bufere dell'anima.
A cagione di tali sofferenze, ad un tempo spirituali e materiali, e così strazianti, si può
pensare che il Cristo abbia toccato nel Getsemani il vertice doloroso della sua passione e
della sua vita, ed anche il più alto vertice della sofferenza consentita alla natura di un
uomo.
(1) - «La povera natura umana a forza di superare tutte le ripugnanze soccombeva sotto il suo eroismo». F. Kiein - “La vie
humaine et divine de Jesus Crist» - Paris, Bloud et Gay - 1933, p. 396.

2 - Intorno al sudore sanguigno di Gesù così scrive il Ricciotti: “ln questa notizia, che
mette tanto in rilievo la realtà della natura umana di Gesù, trovarono scandalo alcuni
antichi cristiani al leggere il Vangelo del medico Luca. Essi giudicarono che, sebbene il
medico aveva narrato un fatto vero, era meglio che la narrazione non fosse ripetuta,
perché sembrava fornire una conferma alle calunnie dei nemici del cristianesimo:
probabilmente gli attacchi di Gelso contro la persona di Gesù avevano suscitato tale
preoccupazione (1).
Perciò avvenne che la narrazione del sudore di sangue, insieme col precedente accenno
all'Angelo confortatore, cominciò a scomparire dai codici del III Vangelo; soppressa per
questo infondato timore.
Oggi essa manca in vari codici unciali, fra cui l'autorevolissimo Vaticano, in alcuni
minuscoli e in altri documenti, e questa mancanza era già stata segnalata nel IV secolo
da Ilario e Girolamo.
Tuttavia, allorché questa vana preoccupazione si dissipò col cessare degli attacchi contro
il cristianesimo, cessò anche la soppressione dell'ombroso passo; del resto le
testimonianze in suo favore — sia di codici, sia di scrittori antichi a cominciare da
Giustino e Ireneo — sono così numerose e gravi da non lasciare alcun serio dubbio sulla
autenticità del passo” (2).
A questo proposito i P.P. Valensin e Huby così scrivono : “Sant'Ilario e San Gerolamo
conobbero dei manoscritti che non contenevano il passo, ma essi lo conservarono.
È del pari conservato, nel secondo secolo, da San Giustino e da Sant'Ireneo, e in seguito
da San Ippolito, San Dionigi d'Alessandria, Eusebio di Cesarea, Sant'Efrem, San
Gregorio di Nazianzo, Didimo d'Alessandria, Sant'Epifanie, Teodoro di Mopsuestia,
Sant'Agostino.
I testimoni in favore dell'autenticità, sia che si considerino i manoscritti, le traduzioni o i
Padri, sono i più numerosi e svariati, mentre i dissidenti più notevoli sono originar! da
una medesima regione, l'Egitto; e ancora non rappresentano una tradizione egiziana
unanime, poiché il passo è attestato dal “Sinaitico”, di origine egiziana anch'esso, senza
parlare di Dionigi d'Alessandria e di Didimo.
L'omissione si comprende più facilmente che un'interpolazione.
Secondo Sant'Epifanio (3), certi ortodossi ebbero paura di dettagli così realistici come il
sudore di sangue, e soppressero il passo.
Sembra che questi scrupoli teologici abbiano prodotto «una certa fronda, probabilmente
verso la fine del III secolo, che durò durante il IV secolo, poi la tradizione riprese il suo
imperio (Lagrange)” (4).
Di questo scandalo che l'agonia del Getsemani suscitò tra i cristiani durante i primi
secoli è traccia in Sant'Ambrogio, presso il quale si può leggere:
“Trovansi alcuni che pare si scandalizzino ad udire che il Figlio di Dio, fatto uomo per
noi, temé, pianse, si dolse, si lamentò e si sforzano di escludere da Lui simiglianti affetti;
ma non già io che, quanto più confesso, più pretendo di tenere la verità. Gran beneficio,
invero, mi avrebbe fatto Iddio liberandomi colla sua onnipotenza dalle tristezze e dal
timore della morte; ma tuttavia molto meglio mi ha dimostrato la sua pietà, la sua
misericordia, il suo amore, prendendo tali passioni sopra di sé medesimo per liberare
così me stesso” (5).
Un'allusione a questi contrasti si trova anche in Sant'Agostino il quale, commentando il
Salmo 93, così si esprime:
“Se, dicendo il Vangelo che Nostro Signore si rattristò, si avesse a ritenere che non si
rattristò veramente, bisognerebbe parimenti dire che quando sentiamo dagli evangelisti
che il Signore mangiò, non mangiò veramente, e che quando dormì, non dormì
propriamente, non fu vero sonno. E così non avremmo niente di sicuro nella Divina
Scrittura, e si potrebbe anche dire che, essendosi fatto uomo, non si fece un vero uomo, e
non vera carne. E sarebbero tutte bestemmie. Dunque tutto ciò che fu scritto di lui è
avvenuto, è vero. Dunque fu triste; ma accettò volontariamente la tristezza, come
volontariamente aveva preso la carne “(6).
Questo brano del Vangelo che fu pietra di scandalo per uomini di poca fede, e argomento
di discussioni in varie epoche della storia, viene considerato dall'operaio come una
preziosa reliquia di Gesù, dono di Dio all'umanità sofferente, focolare a cui le anime
attingono la scintilla dell'apostolato, sorgente di vita spirituale sgorgante dalla rupe del
dolore.
L'operaio non ha rispetto umano nel confessare e nel venerare il sudore ematico del suo
Gesù perché sa di essere causa, anche lui, di questa suprema agonia, e riconosce di
dovere ad essa, in larga misura, la sua redenzione e la sua vocazione.
Gesù agonizzante sembra ripetergli queste parole: “Je pensais a toi dans mon agonie, j'ai
versé telles gouttes de mon sang pour toi”

(1) «Celso, poco prima del 180, pubblicò il suo «Discorso veritiero» con cui assale in minor parte Gesù e in maggior parte i
cristiani. Egli tiene a far rilevare che in precedenza si è informato bene del suo argomento, giacché ripete fiduciosamente
rivolto ai cristiani “Io so tutto (sul conto vostro)»; ha infatti letto i Vangeli, li cita nel suo discorso attribuendoli
regolarmente ai discepoli di Gesù. Ciononostante egli accetta dai Vangeli solo i fatti che corrispondono alle sue mire
polemiche, quali le debolezze della natura umana di Gesù, il lamento della sua angoscia, la sua morte, ecc., che sarebbero a
parer suo tutte cose indecorose per un Dio: invece sostituisce gli altri dati biografici con le sconce calunnie anticristiane
messe in giro già allora dai giudei; spesso poi altera l'indole dei fatti, talvolta deforma anche le parole delle citazioni, e in
genere sparge a piene mani il ridicolo sull'odiato argomento con un metodo che anticipa sotto vari aspetti quello di Voltaire”
- RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo, Milano, Rizzoli, 1941, pag. 209.
(2) RICCIOTTI, op. cit., pag. 684.
(3) S. Epifanio - “Ancoratus” XXXI (P. G. 43, 73).
(4) P. P. Valensin et Huby, “Evangile sèlon Saint Lue”. Paris, Beauschene, 1929, pag. 395.
(5) S. Ambrogio «In Lc. 22, v. 42-43», Migne «Patrologia latina»,
vol. 15, ed. 1910.
(6) S. Agostino “Enarratio in Ps. 93, 19», Migne «Patrologia latina»,
voi. 37, ed. 1908.
(7) "Pensavo a te nella mia agonia, ho versato quelle gocce del mio sangue per te" . Pascal

3 - L'inizio della passione di Gesù è nel Getsemani.


Questo risulta non solo dalla narrazione evangelica, ma dal pensiero stesso di Gesù il
quale, disponendo per la celebrazione della Pasqua con i suoi discepoli, ebbe a dire
«Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum antequam patiar» (Lc. 22,15 -
Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi prima di patire).
Si può pensare che il patimento di Gesù incominci con il chiudersi della parentesi
pasquale del cenacolo e coll'aprirsi dell'episodio getsemanico.
La passione del Getsemani è totale, non meno della passione del Golgota, poiché
interessa ad un tempo l'anima e il corpo di Gesù con la differenza che la prima è
prevalentemente spirituale perché è dalla tragedia interiore che derivò l'agonia anche
fisica di Gesù, mentre la seconda è prevalentemente corporale in quanto il Divino
Maestro dopo la vittoria riportata nel Getsemani entrò in uno stato d'animo di eroica
serenità.
Nella notte dell'oliveto un principio di morte entrò in quelle carni che il Cristo aveva
ricevuto da Maria, poiché una cospicua quantità di sangue, rotti gli argini consueti del
letto circolatorio, si separò dal corpo suo spargendosi sulle vesti e sul terreno.
San Bonaventura commenta con queste parole l'effusione di sangue avvenuta nel
Getsemani:
“Trema e spezzati, o mio misero cuore, e piangi lacrime di sangue: ecco il mio Creatore
per me è cosparso di sanguigno sudore, e non lieve, ma scorrente in terra. Guai al
miserabile cuore che non s'intenerisce per un tale sudore!
“Ma tu considera l'intima tribolazione da cui era straziato quel mitissimo Cuore, quando
tutto il corpo emanava sudore di sangue. Non sarebbe uscito fuori tale e tanto sudore dal
corpo, se la prepotenza del dolore non avesse schiacciato di dentro, il viscere del cuore.
Fu stritolato il cuore dentro di me, disse il Profeta (Ger. 23, 9). E, spezzato internamente
il cuore, fu lacerata di fuori la pelle al vero Salomone, Gesù amorosissimo, e si diffuse
per terra il sanguigno sudore. E divenne più rossa in Gesù la rosa della carità, e della
passione. Eccolo come è tutto rosso!
«Né è poco misterioso questo spargimento generale di sangue versato dall'ottimo Gesù.
In tutto il corpo sudò, perché era venuto a togliere tutte le malattie dal nostro corpo e dal
nostro sangue. Per la convalescenza e per la sanità di tutto il corpo spirituale — la
Chiesa — ben sarà sufficiente il sudore di sangue profuso da ogni parte corporea del
nostro capo Gesù. Siamo liberati noi, dai sanguinari, una volta che Dio, nostro medico,
ha sudato sangue per noi.
“Un'altra considerazione. Quel sanguigno sudore preannunziava — questo è certo —
che in tutto il corpo mistico della Chiesa sarebbe per essere versato il sangue dei martiri,
onde la Chiesa si imporpora” (1)
Su questo motivo, l'allora Card. Pacelli, quando predicò l'ora santa nella basilica
vaticana, ebbe a dire:
“Novella Sefora, la Chiesa dirà al nuovo Mosè, liberatore del nuovo popolo di Dio:
«Sponsus sanguinum tu mihi es» (Exod. 4, 25). Tu mi sei sposo di sangue.
Ecco i miei figli nel sangue, per farli simili a te e salvarli.
Anch'io voglio essere Sposa di sangue e di dolore per ritrarre in me la tua immagine, per
soffrire, per combattere, per pregare con te, per piangere con te. Il tuo dolore è il mio
dolore, come il mio amore è il tuo amore. Il sangue che te arrossa è porpora alle mie
guance; il tuo pallore è candore alla mia fronte” (2).
Intorno alla necessità del sacrificio anche cruento da parte della Chiesa poiché Cristo,
nostro capo, lo sostenne e volle insegnarcelo con il suo esempio, l'operaio deve fermare
la sua meditazione.
La conquista facile delle posizioni tenute dal male non è nello stile del Cristo, ma invece
la conquista difficile, strappata con lotta incessante e logorante alle mani di satana, è il
modulo delle rivendicazioni cristiane.
“Carissimi... — dice San Pietro — Christus passus est pro nobis, vobis relinquens
exemplum, ut sequamini vestigia eius” (3).
Questa grande legge dell'effusione del sangue, mistica o reale, nelle opere di apostolato
è dall'operaio conosciuta, desiderata, perché se ne fosse esente potrebbe dubitare di non
trovarsi inserito nel circuito della redenzione, e amata, poiché è mediante l'accettazione
di questo tormento fisico e morale che egli può accostarsi, come l'angelo, al Cristo del
Getsemani e confortarlo.
(1) S. Bonaventura da Bagnoregio - «Opuscoli Mistici» - Milano - Vita e Pensiero, 1926 - «La vita mistica», pag. 511.
(2) Eugenio Card. Pacelli - Discorsi e Panegirici- Milano - Vita e Pensiero, 1936, pag. 163.
(3) “Carissimi... Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio perché ne seguiate le orme” Petr. 2, 21, 25.

4 - Un'altra volta, circa nove mesi prima, Gesù aveva preso con sé Pietro, Giacomo e
Giovanni ed era salito su di un monte a pregare.
Ed anche allora Pietro e i suoi compagni erano stati sorpresi dal sopore e si erano
addormentati; ma ad un tratto, svegliandosi, “videro la gloria di Lui”, poiché mentre il
Cristo pregava: «l'aspetto del suo volto divenne un altro e la sua veste divenne candida e
risplendente» (Lc. 9, 29,32).
“Et vestimento, eius facta sunt splendentia et candida nimis velut nix, qualia fullo non
potest super terram candida facere” (Mc. 9,2 - E le sue vesti divennero risplendenti e
candidissime come neve; cosicché nessun lavandaio della terra saprebbe farle tanto
candide).
Alla trasfigurazione gloriosa del Tabor si contrappone la trasfigurazione dolorosa del
Getsemani.
Anche qui Gesù, mentre è assorto in preghiera, appare trasfigurato; è una trasfigurazione
che non veste di gloria ma di dolore, che non rende risplendente il suo volto ed i suoi
abiti, ma rigato il volto ed imbevuti gli abiti di sudore e di sangue.
Anche nel Getsemani vi è un'apparizione, non di Mosè né di Elia, ma di un Angelo il
quale dice parole di conforto, poiché il Cristo appare accasciato e distrutto, più uomo di
ogni uomo, essendo colpito da un dolore che mai cuore d'uomo ha sofferto o potrà
soffrire.
Come la trasfigurazione gloriosa del Tabor dimostra che il Cristo fu veramente Dio, così
la trasfigurazione dolorosa del Getsemani dimostra che il Cristo fu veramente uomo e
che dell'uomo assume ogni miseria, fatta eccezione per il peccato.
Ma anche il peccato Egli conosce, pur essendo immune da ogni colpa, in quanto
condanna, conseguenza, espiazione: “Qui peccata nostra ipse pertulit in corpore suo”
(Pt. 1, 2,24 - I nostri peccati lui stesso espiò nel suo corpo).
Egli, che è l'Uomo per eccellenza, conosce ogni peccato per il dolore, la nausea, la paura
che il peccato produce.
E non di un solo peccato porta il carico, ma di tutti i peccati di fronte alla perfetta
giustizia di Dio.
Come Adamo ricevette nel giardino dell'Eden la condanna per tutti gli uomini, così il
Cristo nell'orto degli ulivi espia la condanna per tutti gli uomini.
Dinanzi al Cristo trasfigurato dal dolore l'anima conquista la profonda verità
dell'Incarnazione che non fu una assunzione simbolica o approssimativa di parvenze
umane, ma una realtà concreta per cui la vita di un vero uomo fu innestata nella vita del
Figlio di Dio.
L'anima sente di capire meglio il Cristo e di poterlo amare di più.
Egli è l'uomo che ogni uomo può sentire vicino a sé quando l'ira divina lo sovrasta.
Egli è l'Uomo che ha diritto di introdursi con la sua legge in ogni latebra del cuore
umano perché non abbandonò l'uomo ai pericoli della libertà, al destino della sua colpa,
all'inganno del tentatore, ma giunse ovunque con la sua presenza compartecipe e
redentrice.
Fermandosi a meditare nel Getsemani l'operaio non teme, non si turba; inginocchiato
accanto al divino agonizzante madido di sudore e di sangue, avverte il fascino del suo
infinito amore, attinge la forza di cui ha bisogno per il suo cammino, sente di poter
ripetere le parole di Pietro dinanzi alla trasfigurazione del Tabor: «Rabbi, bonum est nos
hic esse” (Mc. 9, 4 - Maestro, è bello per noi lo stare qui). Ed egli sa quello che dice.
23. “QUID DORMITIS?”

1 - Gesù ripeté più volte, come è verosimile, la sublime preghiera dell'accettazione che
gli evangelisti sinottici riportano con leggere varianti; poi interruppe il colloquio col
Padre, alzò il viso, che aveva rivolto verso terra, e sorse in piedi per raggiungere Pietro,
Giacomo e Giovanni.
Stavano, questi Apostoli, discosti da Lui un tiro di sasso e li trovò addormentati.
Poc'anzi, quando Gesù si era separato da loro raccomandando che vegliassero con Lui
pregando, i tre probabilmente si erano accinti ad ubbidire e per qualche tempo erano
rimasti desti lottando contro il sonno.
Fu così che poterono ascoltare la preghiera di Gesù e possiamo supporre che, proprio a
motivo di questa, il loro cuore fosse invaso da profonda tristezza.
È Luca che ci induce a pensare così riferendo che Pietro, Giacomo e Giovanni si erano
addormentati a cagione della tristezza.
Le fasi precedenti di quella serata e di quella notte non sono tali da giustificare una
tristezza tanto grave.
Non la cena, che anzi dovette riempire di tenerezza il cuore degli apostoli, e non i
discorsi che Gesù fece fra il Cenacolo e il Getsemani per quanto forieri di tempesta.
Essi avrebbero dovuto incutere allarme ed anche paura, più che tristezza.
Se i tre cadono in questa condizione di spirito che li paralizza e li addormenta è per il
fatto nuovo della preghiera di Gesù accompagnata dal suo profondo abbattimento che
sconvolge il cuore di quegli uomini semplici, incerti, ma affezionati.
Se essi avessero supposto l'imminenza di un pericolo materiale per loro stessi, o per il
Maestro, avrebbero certamente vegliato.
Ma essi non lo supponevano, anzi fra le ombre dell'uliveto al di là del Cedron, si
sentivano particolarmente sicuri, al riparo, per alcune ore almeno, dalle insidie dei
nemici del Cristo.
La tensione di spirito che li manteneva in allarme in città, qui si era risolta in un senso di
raccoglimento e di pace.
Sennonché lo stato d'animo di Gesù li aveva turbati.
Essi non capivano bene il perché delle sue previsioni che si andavano incupendo di
minuto in minuto e soffrivano nel vederlo così profondamente turbato.
Quando, poi, assistettero alla scena della preghiera, videro Gesù prostrato a terra e
raccolsero le sue desolate parole, non il dolore, la preoccupazione o lo spavento per la
propria condizione che non sembrava, lì per lì, pericolosa, ma una profonda tristezza li
colse per le condizioni in cui versava l'amato Maestro, il Cristo, condizioni che
superavano le loro intelligenze, ma facevano capire oscuramente essere quello il
momento del suo più grande dolore.
Come dalla tristezza quegli apostoli siano passati al sonno, si spiega pensando alla
stanchezza fisica che gravava su di loro e come il pensiero fosse per quei pescatori
galilei più pesante di una fatica materiale.
Non c'era l'istinto di conservazione a mantenerli desti in quel momento, e perciò di
fronte al dolore del Cristo si rattristarono e poi si addormentarono, come dinanzi ad una
lezione troppo difficile per essere capita.
2 - II sonno materiale degli apostoli nell'uliveto è un simbolo toccante del sonno
spirituale che spesso scende sull'intelligenza e sulla volontà dei cristiani distogliendoli
dalle buone opere e perciò la domanda di Gesù: “Quid dormìtis?” (Lc 22,46 - Perché
dormite?) si rivolge con precisione a coloro che si lasciano vincere e paralizzare dal
sonno spirituale.
Se ogni cristiano ha il dovere di reagire contro l'influenza soporifera dell'egoismo, per
motivi anche più gravi, l'operaio deve guardarsene perché il lavoro apostolico fa parte
integrante della sua vocazione e, diminuendone il ritmo e l'efficienza, si dimostra
infedele alla voce di Dio.
Da mattina a sera, in ogni giorno della sua vita, il buon operaio lavora a servizio delle
opere che la Provvidenza gli ha confidato e si mantiene desto per respingere il leone che
circuisce ruggendo le posizioni del bene, per scoprire con intelligenza apostolica le
necessità della Chiesa e per venire incontro ad esse nel modo più confacente, affinché la
verità del Cristo sia difesa, affermata e propagata.
Anche se le difficoltà si ammassano di fronte all'operaio ed i suoi sforzi appaiono troppo
deboli per rimuoverle, anche se considerazioni umane lo invitano a deporre i progetti,
anche se la pigrizia e l'accidia, talora ammantate di prudenza e di umiltà, consigliano
l'ozio, l'operaio prontamente reagisce perché nulla è più fatale per lui dell'inazione
apostolica.
Quando una strada è bloccata l'operaio si sforza di aprirne altre.
Quando il maggior bene richiede che l'orientamento del lavoro sia cambiato, l'operaio
non esita a modificare il suo programma; quando il nemico sembra sconfitto, l'operaio
pensa a confermare il trionfo del bene perché la bonaccia non può essere che apparente;
quando il dolore falcia il suo entusiasmo e lo abbatte, con cuore puro e fidente egli
ritorna, come palla che lanciata verso il suolo rimbalzi, al suo lavoro.
E così sempre, perché non si può concepire un operaio che non desideri di
continuamente donarsi al lavoro di propagazione e difesa del regno di Dio.
Se anche le pause possono giovare e devono essere accolte con docilità dalla mano di
Dio che può ripetere, come Gesù nel Getsemani, «sedete hic», pure l'operaio deve
attendere, con incessante desiderio, l'ora del ritorno all'attività apostolica affrettandola
con la preghiera.
La sua vocazione è marcata dal timbro arroventato del Getsemani che significa
attaccamento alla volontà di Dio e consapevole accettazione del dolore; il fatalismo e
l'apatia sono la negazione di questo spirito perché il divino volere richiede di essere
attuato e il dolore di essere sofferto.
Lo spirito getsemanico mette capo, naturalmente, alle opere e perciò l'operaio che non
lavora non è un buon operaio.
L'operaio è fatto dalla Provvidenza per il lavoro; la sua formazione è indirizzata a ciò e
la Società a cui appartiene non ha altro scopo che di stimolare gli operai a santificarsi
per mezzo del lavoro apostolico, umilissimo ma incessante, equilibrato esattamente con
la contemplazione.
L'operaio è fatto per quelle opere che altri non fa perché troppo difficili o rischiose; per
quelle opere dove è necessario che uno si metta innanzi nudo di ambizioni e di mire
umane, così che gli altri credano alla purezza delle sue intenzioni, e lo seguano.
L'operaio è suscitato dalla Provvidenza perché il nemico che non disarma trovi sul
confine del regno di Dio una sentinella all'erta e perché egli possa, a sua volta,
umilmente, ma con il diritto che discende dall'esempio, ripetere ai cristiani sonnolenti la
domanda di Gesù: “Quid dormitis?”.

3 - Per essere pronto al lavoro e zelante nell'assolverlo, l'operaio dovrà tenere lontana da
sé la tristezza, poiché essa produce, non meno del sonno del corpo, il sonno dell'anima.
Come la tristezza ebbe il potere di addormentare gli apostoli nel Getsemani, così la
tristezza può debilitare l'attività apostolica dell'operaio rendendolo insensibile, lento,
incapace, spegnendo il fuoco dell'entusiasmo e togliendogli il conforto ed il fascino della
letizia cristiana.
Per lottare efficacemente contro la tristezza, bisogna approfondire la meditazione intorno
al fiat del Getsemani, interpretandolo alla luce di quanto Gesù volle insegnare agli
uomini in altra occasione, e cioè con il Pater noster.
Se è vero che la preghiera di Gesù nell'orto serve a farci meglio capire il significato della
preghiera ufficiale, è anche vero, reciprocamente, che questa preghiera serve a meglio
penetrare i profondi significati del fiat getsemanico.
L'espressione adoperata da Gesù nel Getsemani “tua voluntas fiat” può essere
interpretata e spiegata con quelle altre parole del Pater: “fiat voluntas tua sicut in coelo
et in terra”; infatti, ciò che Gesù accetta non è se non questo: che la volontà di Dio
Padre si compia in terra perfettamente, da parte sua, come si compie ad ogni istante in
Paradiso.
L'espressione generica del Pater Noster si precisa, si individualizza e si concreta intorno
alla più alta realizzazione del volere divino in terra, operata dall'Uomo-Dio, con merito
di valore infinito.
Sono due orizzonti che si aprono mentre Gesù pronunzia il fiat, l'uno che abbraccia la
terra e l'altro che abbraccia il cielo, l'uno e l'altro tali da vincere ogni tristezza nel cuore
dell'operaio.
L'orizzonte terrestre è come quello che la natura ci offre dopo una tempesta, quando fra
le nubi squarciate si disegna l'arcobaleno.
L'uragano scatenato nella natura del peccato d'origine è sedato; alla ribellione di Adamo
nel giardino dell'Eden si contrappone il fiat del nuovo Adamo nel giardino del
Getsemani, l'arcobaleno della redenzione è tracciato nei cieli e si riflette per ogni dove
nelle gocce del dolore di cui è ancora madida la terra.
L'umanità sconvolta, che non sa ritrovare se stessa, né la strada, né la mèta, può
rivolgersi verso il porto della salvezza, ricuperando e accrescendo la nobiltà originaria.
Le forze del bene hanno incatenato le forze del male e il mondo può tornare nel solco
originario dell'armonia e della pace.
Iddio visita di nuovo l'uomo come nel paradiso terrestre e s'intrattiene con lui, s'impegna
con promesse ad esaudirne le preghiere, lo sublima nei Santi e lo esalta conferendogli,
nel Pontefice, il compito di rappresentarlo.
Lo spettacolo della volontà di Dio che al fiat dell'accettazione torna nel mondo, per così
dire ricreandolo ad una vita nuova, è tanto grande, tanto bello e tanto buono che
l'operaio, sentendo di collaborare a questo disegno di rigenerazione, dimentica ogni
tristezza e procede festante anche in mezzo al necessario dolore.
Egli sa di completare l'opera di Dio Padre e l'opera di Dio Figlio cooperando a
ripristinare l'obbedienza desiderata dal Creatore e a far fruttificare i meriti apportati dal
Redentore; ogni motivo di tristezza diventa un'occasione per cui è chiamato a
collaborare al piano divino e perciò si trasforma in un motivo di gioia.
Che cosa sono le piccole, malcerte soddisfazioni umane, di fronte alla felicità sovrumana
di sentirsi partecipi di una manovra divina che salva il mondo e nel mondo, in ragione
del nostro impegno, ogni uomo?
Come può contrapporsi la felicità che viene dall'uomo e dalle cose che l'uomo conosce,
alla sterminata felicità che viene da Dio e dalla sua Provvidenza?
Anche se la limitazione del pensiero e la debolezza del sentimento conduce l'uomo a
rattristarsi, il buon operaio, ansioso che si realizzi nel mondo il disegno divino, trova le
forze per reagire e procede con serena letizia.

4 - Se la contemplazione della volontà di Dio che ritorna sul mondo apportatrice di


ordine, di pace, di salvezza è tale da riempire il cuore dell'operaio di gioia e da fargli
lietamente sostenere ogni avversità come prezzo della libera partecipazione al trionfo
della divina volontà e alla reden-zione degli uomini, ancor più lieta è per l'operaio la
contemplazione della volontà di Dio in atto, quale si verifica in cielo.
La pienezza di questa realtà è tale che Gesù la prese a modello per il trionfo della
volontà di Dio in terra, insegnandoci a chiedere nel Pater Noster che la volontà divina si
compia fra noi in quella guisa che si compie in cielo : “fiat voluntas tua sicut in coelo et
in terra».
Possiamo ritenere che anche il fiat del Getsemani racchiuda, come termine di paragone,
inespresso ma sottinteso, la contemplazione della volontà di Dio attuantesi in Paradiso,
sulla quale Gesù veniva modellando la sua accettazione.
Anche per l'anima consacrata la contemplazione del Paradiso deve essere una dolce
consuetudine, motivo di gioia e di liberazione dalle tristezze che il mondo procura.
Paradiso! Quale pensiero più dolce di questo, poiché significa il raggiungimento della
méta, la soddisfazione e il superamento di ogni bisogno deposto dal Creatore nell'anima
umana!
Non è forse in Paradiso dove l'anima giungerà giustificata per i meriti del Cristo, e dove
tutte le ingiustizie, le incomprensioni, i dolori di cui ebbe a soffrire in terra verranno
riconosciuti, riscattati, colmati, soddisfatti e premiati?
Non è il Paradiso dove la felicità, oltre ad essere completa, è definitiva e quindi al riparo
da quella tristezza che la nostra incostanza ci procura e da quel timore che risorge di
fronte alle difficoltà che si rinnovellano sul nostro cammino?
Non è il Paradiso il luogo dell'imperturbata pace che Iddio renderà beata dischiudendo i
tesori generati dalla sua natura divina ai fedelissimi che corrisposero alla sua volontà
creatrice e redentrice?
Quando l'operaio percorre la sua strada seminata di ostacoli e tale, a volte, da generare il
timore, il dolore e la nausea che Gesù ebbe a soffrire nel Getsemani, il suo cuore si
rivolge spontaneamente al Paradiso che egli desidera con le parole di San Paolo:
«desiderium habens dissolvi et esse cum Christo» (Fil. 1,23 - Bramando di essere
disciolto, e di essere con Cristo).
Quando, poi, i valori terreni gli sembrano, come è naturale, volgari e caduchi e i conforti
spirituali di cui l'uomo può fruire una corresponsione limitata di fronte al suo desiderio
che non ha confini, solo il pensiero del Paradiso, dove il possesso di Dio è totale ed
eterno, può mettere in fuga le nubi di questa terribile tristezza che il nemico scatena, a
volte, contro le anime.
24. “UNA HORA”

1 - Dall'arrivo di Gesù nel Getsemani alla prima interruzione della sua preghiera,
trascorse uno spazio di tempo che le parole di Gesù nel colloquio con gli apostoli ci
permettono di valutare.
Rivolto a Pietro, Gesù disse, secondo la versione di Marco: “Simon dormis? non potuisti
una hora vigilare?” (Mc. 14,37 - Simone, dormi? Non hai potuto vegliare un'ora sola?).
Anche Matteo nota che il Maestro si rivolse a Pietro, ma il vocativo è taciuto ed il
rimprovero è rivolto in plurale, ai tre apostoli: “Sic non potuistis una hora vigilare
mecum?” (Mt 26,40 - Così non avete potuto vegliare un'ora con me?).
L'una e l'altra versione riportano con parole identiche la valutazione del tempo: “una
hora”.
Perciò possiamo pensare che un'ora, e non di più, fosse trascorsa da quando il Redentore
si appartò per entrare in colloquio col Padre.
Un'ora di preghiera da parte di Gesù, un'ora di dormiveglia e di sonno da parte di Pietro,
Giacomo e Giovanni.
Reduce dal più grande dolore che mai essere umano abbia potuto soffrire, con l'anima
tuttora avvolta nella caligine dell'angoscia e con le tracce di essa nel suo corpo, Gesù
viene amaramente colpito da questo atteggiamento estraneo di Pietro e lo rimprovera.
Il rimprovero non è fatto in modo diretto e vibrato, come altre volte Egli fece nel corso
della sua vita mortale, ma indirettamente, con una domanda, come per lasciare a Pietro
la possibilità di giustificarsi e quasi suggerendogli la risposta: che egli sì aveva voluto,
ma che non aveva potuto; come per raccogliere una testimonianza di buona volontà e di
amore per quanto sopraffatti dalla fragilità della carne.
Poiché si trattava di un'ora della notte, Gesù adopera l'espressione adeguata, vigilare,
che vuol dire, trascorrere senza dormire quelle ore notturne che venivano, per l'appunto,
chiamate vigiliae.
In altre circostanze Gesù aveva dimostrato di prediligere questa parola come nella
parabola dei servi fedeli quando disse: “Beati servi illi quos cum venerit dominus,
invenerit vigilantes... et si venerit in secunda vigilia, et si in tertia vigilia venerit, et ita
invenerit, beati sunt servi illi” (Lc. 12, 37-38 - Beati quei servi che il padrone arrivando
troverà desti... e se giungerà alla seconda o alla terza vigilia e li troverà così, beati loro).
In quella circostanza Gesù aveva anche soggiunto: “Et vos estote parati; quia qua hora
non putatis, Filius hominis veniet” (Lc. 12,40 - E voi state preparati, perché nell'ora che
non pensate, verrà il Figlio dell'uomo).
Se gli apostoli avessero rimeditato queste parole nel Getsemani, il Figlio dell'Uomo non
li avrebbe trovati immersi nel sonno.
Ma lo Spirito Santo non era ancor sceso in essi a lievitare il pane evangelico...
La voce di Gesù, probabilmente, diede un accento particolare alle parole una hora
perché questo breve spazio di tempo misurava, in qualche modo, la debolezza di cui
Gesù rimproverava, con profonda amarezza, gli apostoli. Un'ora sola.
Gesù si rende conto delle difficoltà nelle quali si dibatte l'uomo e si accontenta di poco;
ma questo lo vuole come testimonianza della fede e dell'amore.
Tanto più quando si tratta, come in questo caso, di vegliare con lui, mecum, per
consolare la sua solitudine e il suo dolore, per togliere dal suo cuore il tedio e la nausea
che il peccato gli procura.
Un'ora con Lui, è una piccola dimostrazione adeguata alla povertà delle nostre forze, è
una piccola cosa resa grande dal suo amore.

2 - La più grande irriverenza verso il Getsemani non fu quella di chi, vergognandosi


della divina agonia, tolse dalla narrazione di Luca il particolare del sudore di sangue, ma
di coloro che circondarono e circondano di indifferenza il Gesù del Getsemani,
irriverenza più grave, perché più diffusa e quasi consueta.
Perciò non stupisce che dopo secoli la parola di Gesù si sia levata ad implorare dalle
anime comprensione e conforto.
Fu nelle rivelazioni di Paray le Monial a S. Margherita Maria Alacoque.
Rimeditiamo, seguendo le parole della Santa, i sentimenti espressi dal Cuore di Gesù a
proposito dell'agonia del Getsemani e dell'ora di veglia destinata a ricordarla.
“Considerando attentamente il mio Salvatore nel Giardino degli Ulivi, in una delle mie
preghiere, immerso nella tristezza e nell'agonia di un dolore rigorosamente amoroso, e
sentendomi profondamente spinta dal desiderio di partecipare alle sue angosce dolorose,
Egli mi disse amorevolmente: «E' qui dove ho più sofferto (interiormente) che in tutto il
resto della mia Passione. Vedendomi in un abbandono generale del cielo e della terra,
caricato di tutti i peccati degli uomini. Sono comparso dinnanzi alla santità di Dio che
senza riguardo per la mia innocenza mi ha colpito nel suo furore facendomi bere il calice
che conteneva tutto il fiele e l'amarezza della sua giusta indignazione, e, come se Egli
avesse dimenticato il nome di Padre, sacrificandomi alla sua giusta collera. Non c'è
creatura che possa comprendere la grandezza dei tormenti che soffrii allora. E' lo stesso
dolore che l'anima criminale sente quando, essendosi presentata davanti al tribunale
della santità divina che s'appesantisce su di lei, la percuote e la opprime e l'inabissa nella
sua giusta collera» (1).
«Una volta che il mio santo Angelo si era ritirato da me, commisi una colpa di fragilità,
e mi furono dette interiormente queste parole : «Sono io che ho voluto così, affinché tu
facendo penitenza mi rappresenti Colui nel quale io trovo le mie compiacenze tuffato nel
dolore mortale della sua agonia nel Giardino degli ulivi, e affinché tu continuamente me
lo offra unendoti a Lui per soddisfare il mio giusto desiderio» (2).
“Io sarò la tua forza — mi disse — non temere di nulla, ma sii attenta alla mia voce e a
quanto ti domando per disporti al compimento dei miei disegni.
“In primo luogo tu mi riceverai nell'Eucaristia tutte le volte che l'obbedienza te lo
permetterà qualunque mortificazione o umiliazione te ne possa venire: queste tu le devi
ricevere come pegni del mio amore. Ti comunicherai inoltre ogni primo venerdì del
mese e tutte le notti dal giovedì al venerdì ti renderò partecipe di quella mortale tristezza
che io volli provare nel Giardino degli ulivi, e tale tristezza ti ridurrà, senza che tu lo
possa comprendere, a una specie d'agonia più difficile a sopportarsi che la morte. Per
tenermi compagnia in quest'umile preghiera che io presentai allora a mio Padre fra tutte
le mie angosce, tu ti alzerai fra le undici e mezzanotte, per prostrarti tanto per
rappacificare la collera divina, domandando misericordia per i peccatori, quanto per
addolcire in qualche modo l'amarezza che io provai per l'abbandono dei miei Apostoli
che mi obbligò a rimproverarli per non aver potuto vegliare un'ora con me, e durante
quest'ora tu farai quelli che io t'insegnerò” (3).

(1) “Vie et oeuvres de Sainte Marguerite Marie Alacoque par Mr. Gautney” Paris - Ancienne librairie Poussielgue, 1920 -
Tom. II, pag. 164.
(2) Ibid., pag. 161.
(3) Ibid., pag. 73.

3 - Nell'Enciclica Miserentissimus Redempor, nella quale Pio XI trattò sotto vari aspetti
della riparazione al Sacratissimo Cuore di Gesù, si pone la seguente domanda:
“In illo enim auspicatissimo signo atque in ea, quae exinde consequitur, pietatis forma
nonne totius religionis summa atque adeo perfectioris vitae norma continetur, quippe
quae et ad Christum Dominum penitus conoscendum mentes conducat expeditius et ad
eumdem vehementius diligendum pressiusque imitandum animos inflectat efficacius?”
(1).
Nella medesima Enciclica si accenna in modo esplicito al dovere di recare conforto a
Gesù per le sofferenze sopportate nell'agonia del Getsemani, presentando questa pratica
come una manifestazione della pietà che scaturisce dalla devozione al Cuore divino, e
che viene vivamente raccomandata :
“Quodsi propter peccata quoque nostra, quae futura quidem erant et praevisa, anima
Christi tristis facta est usque ad mortem, haud dubium quin solatii nonnihil jam tuam
ceperit etiam e nostra item praevisa reparatione, cum apparuit illi Angelus de coelo ut
cor cum taedio et angoribus appressum consolaretur. Atque ita Cor illud sanctissimum,
quod ingratorum hominum peccatis continenter sauciatur, etiam nunc mira quidem sed
vera ratione consolari possumus ac debemus, quandoquidem, ut in sacra quoque liturgia
legitur, ex ore Psaltis, Christus ipse se ab amicis suis derelictum conqueritur:
Improperium expectavit Cor meum et miseriam, et sustinui qui simul contristaretur et
non fuit, et qui consolaretur et non inveni” (2).
È il pressante invito del Getsemani rinnovato dal Cuore divino a santa Margherita Maria
che viene echeggiato nella parola del Vicario di Cristo.
Dalla meditazione del Getsemani, così autorevolmente consigliata, l'operaio ricava due
impulsi: l'uno che lo spinge ad appropriarsi gli insegnamenti che Gesù volle donarci in
quell'ora della sua vita col suo esempio e colle sue parole, l'altro che lo spinge a porgere
a Gesù quello che Egli cercò e non trovò nell'orto degli ulivi: la compassione, e il
conforto.
Questo secondo impulso che muove l'anima alla devozione getsemanica si esprime in
molte forme, come in quella che consiste nel riconoscere la realtà di un mistico
Getsemani nella vita eucaristica di Gesù sofferente nel Tabernacolo per l'abbandono in
cui viene lasciato dai fedeli soprattutto nelle ore notturne e per il tradimento di tante
anime in colpa che osano accostarlo come Giuda nell'orto.
Ma sopra ogni altra manifestazione quella che dobbiamo considerare più adatta a
confortare Gesù, poiché Egli stesso la precisò e la chiese a S. Margherita Maria, è la
pratica dell'Ora santa nella notte fra il giovedì e il venerdì di ogni settimana.
L’Ora Santa è molto adatta all'operaio, perché può essere praticata ovunque, anche
all'aperto, come avvenne da parte di Gesù nel Getsemani, ma richiede di essere vissuta
in collegamento ai dolori che il Redentore soffrì allora ed a quelli che anche oggi soffre
misticamente a cagione degli uomini.
Dopo diciannove secoli Gesù deve trovare una risposta adeguata al suo invito; lungi dal
trarne scandalo, l'operaio nell'Ora santa si mette al fianco di Gesù e partecipa alla sua
divina agonia.
Perché il conforto ricevuto dall'uomo sia proporzionale a quello che Gesù ricevette nel
Getsemani, e cioè valido, occorre che l'anima si preoccupi di angelicarsi.
Se questo è necessario perché l'uomo conforti l'uomo, è ancora più necessario quando
l'uomo pensa di confortare Iddio.
Perciò l'operaio con la mente rivolta a questo compito vada spogliandosi della sua
umanità e cioè di se stesso, affinché in purezza assoluta, con disinteresse totale e con
fiducioso abbandono venga offerto al divino Maestro quel conforto che Egli invoca e
che non trova.

(1) «In quel felicissimo segno e nella forma di devozione che ne emana, non si contiene forse tutta la sostanza della
religione, e la norma specialmente di una vita più perfetta, come quella che guida per via più facile le menti a conoscere
intimamente Gesù Cristo e induce i cuori ad amarlo più ardentemente e più generosamente imitarlo?» - Tutte le encicliche
dei Sommi Pontefici - Ediz. Corbaccio, Milano, 1940, pag. 981.
(2) «Che se a cagione anche dei nostri peccati futuri, ma previsti, l'anima di Gesù divenne triste sino alla morte, non è a
dubitare che qualche conforto non abbia fin da allora provato per la previsione della nostra riparazione quando, “a lui
apparve l'Angelo del cielo” (Lc. 22, 43) per consolare il Cuore di lui oppresso dalla tristezza e dalle angosce. E così anche
ora in modo mirabile, ma vero, noi possiamo e dobbiamo consolare quel Cuore sacratissimo che viene continuamente ferito
dai peccati degli uomini sconoscenti, giacché - come si legge nella Sacra Liturgia - Cristo stesso si duole per bocca del
Salmista di essere abbandonato dai suoi amici: “il mio cuore si aspettò obbrobri e miseria, mi aspettai chi entrasse a parte di
mia tristezza, ma non vi fu, e qualche consolatore non l'ho trovato”. (Ps. 68, 21”). Ibid. 989

4 - Per accompagnare il Cristo nell'agonia del Getsemani durante l'Ora santa e sempre,
così da trasformare in Ore sante tutte le ore della nostra vita, non vi è modo migliore di
quello che consiste nell'offrirGli i dolori attuali dichiarando di volerli soffrire in
accompagnamento e in sintonia con i suoi dolori.
Così facendo togliamo dall'isolamento del dolore Gesù e noi stessi, e questa unione
cementata dalla sofferenza, la quale può dirsi sacra perché il dolore è stato consacrato
dal Cristo a strumento di redenzione, ha un grandissimo valore espiatorio e impetratorio.
Ma ciò che dobbiamo particolarmente sottolineare è l'aspetto devozionale di queste
sofferenze dedicate al Cristo agonizzante, poiché ci preme di portare a Lui quel conforto
che Egli desidera e che non riceve.
Quando infatti sopraggiungono le ore del dolore, si aggravano, si estendono fino ad
imbevere il corpo e l'anima dell'uomo, quando sotto i colpi dell'irresistibile piccone
cadono le più care e le più fondate architetture della nostra vita; quando l'anima giace
nella notte e nell'abbandono con sentimenti di tedio, di paura, di angoscia, simili a quelli
di Gesù nel Getsemani; quando l'uomo sente il bisogno dell'assistenza come può recare,
così sconvolto, soccorso e conforto al Cristo agonizzante? La preghiera muore sul suo
labbro, la mente è incapace di fermarsi e di formulare frasi che non siano di lamento, il
sentimento appare devastato e sterile, la fantasia è occupata da fantasmi paurosi, non si
riesce ad articolare parola.
In questi momenti che, ad onta di ogni umana apparenza, sono particolarmente preziosi
e meritori, l'anima deve sapere che una preghiera insolita è pronta e facile: consiste
questa preghiera nel ricordare a Gesù ad uno ad uno, i dolori che pesano sull'orizzonte,
così come naturalmente si affacciano, dicendo a Lui, con semplicità fraterna, che
vengono sofferti in unione alle sue sofferenze.
Che questa unione, nel dolore, del Cristo con l'operaio, non sia una semplice costruzione
della fantasia, ma un contributo positivo, lo si dimostra pensando che effettivamente nel
calice ripugnante che provoca l'agonia del Cristo, insieme ad innumerevoli altri peccati,
vi sono anche i nostri e che questi per l'appunto andiamo scontando soffrendo i nostri
dolori in unione alle sofferenze del Redentore.
Si realizza in questo modo una sottrazione, per quanto piccola, ai motivi di angoscia che
opprimono il Cristo.
La mistica unione dell'anima agonizzante con il Maestro agonizzante ha dunque un
fondamento reale e questo le dona un grande valore presso il Cuore del Cristo il quale
avverte il sollievo di tale conforto dell'uomo per ragioni di giustizia e lo apprezza,
ingrandendolo a dismisura, per ragioni di carità.
Perciò l'operaio non si dolga pensando che il dolore possa spegnere la sua devozione;
procuri invece di sublimarla unendosi all'agonia del Cristo e ricordi con dolcezza le
parole rivolte da Gesù a quanti prendono parte alle sue sofferenze:
«Vos autem estis qui permansistis mecum in tentationibus meis, et ego dispono vobis,
sicut disposuit mihi Pater meus, regnum, ut edatis et bibatis super mensam meam in
regno meo, et sedeatis super tronos indicantes duodecim tribus Israel” (1).

(1) «E voi siete quelli che avete continuato a stare con me nei miei cimenti. Perciò io dispongo del regno per voi, come il
Padre ha disposto per me, affinché mangiate e beviate alla mia mensa nel regno mio, e sediate in trono a giudicare le dodici
tribù d'Israele”. Lc. 22, 28- 29.
25. “VIGILATE ET ORATE”

1 - Secondo quanto la narrazione di Luca ci permette di intendere, fin da quando Gesù si


distaccò la prima volta da Pietro, Giacomo e Giovanni, e cioè prima ancora di iniziare la
preghiera al Padre, egli raccomandò la preghiera: “Et cum pervenisset ad locum —
racconta infatti il terzo evangelista — dixit illis: orate ne intretis in tentationem” (Lc
22,40 - Giunti sul luogo disse loro: Pregate per non cadere in tentazione).
Che le persone a cui Gesù si rivolse con quelle parole fossero i tre prescelti e non tutti
gli Apostoli, si può dedurre dal fatto che agli otto lasciati più addietro — secondo il
racconto di Matteo e di Marco — Gesù aveva ingiunto di sedersi mentre la preghiera
non era praticata dagli ebrei in posizione seduta, ma soprattutto dalla frase successiva di
Luca che dice: “Et ipseavulsus est ab eis quantum iactus est lapidis” (Lc 22,41 - E si
staccò da loro quanto un tiro di sasso).
Ora noi sappiamo che coloro dai quali Gesù si accomiatò per ultimo, allontanandosi
alquanto da essi, furono soltanto i tre prediletti, e quindi non vi è dubbio che il dixit illis
si riferisca alle medesime persone indicate dall'ab eis e perciò a Pietro, Giacomo e
Giovanni.
Ma il primo invito alla preghiera o non fu chiaramente inteso (come farebbe supporre il
fatto che soltanto Luca la riporti, oppure, se inteso, non fu accolto dai tre apostoli i quali
si accomodarono alla meglio e presero sonno.
Di qui il lamento al primo ritorno di Gesù e di qui la sua esortazione che si propone,
come dianzi, di contrastare la tentazione di satana, ma che prende ora un'espressione più
dettagliata, più completa, senza dire che fu meglio apprezzata dagli apostoli, se due
evangelisti hanno cura di riportarla.
Nasce in questo modo la grande massima del Getsemani, una delle più grandi del
Vangelo: «vigilate et orate ut non intretis in tentationem»
(Mt 26,42 - Mc 14,38 - Vegliate e pregate per non cadere in tentazione).
Penetrarne l'intimo significato e viverla, è compito dell'operaio il quale, come i tre del
Getsemani, ha molte infedeltà da espiare, molto sonno, molta accidia. Quante volte i
consigli e quante volte gli ordini del Cristo non furono eseguiti?
Il riconoscimento delle proprie colpe è la posizione che bisogna assumere perché risuoni
giustamente nell'anima la parola di Colui che vuole affrancarci dalla schiavitù di satana.

2 - La vigilanza consigliata da Gesù in quella notte consisteva essenzialmente in una


lotta contro il sonno fisico che gravava su Pietro, Giacomo e Giovanni.
Ma Gesù non parlava solo per quella circostanza né solo per quegli Apostoli; ogni sua
parola manet in aeternum, assurge a significato universale e vale per ciascun uomo; sono
leggi spirituali che il Redentore manifesta durante la sua vita, misteriose e possenti come
il seme che racchiude in piccole dimensioni uno sviluppo potenziale enorme.
Su questo piano il «vigilate» del Getsemani comprende e supera il significato di una
lotta contro il sonno fisico per incitare ad una lotta contro tutte quelle influenze
soporifere che partendo, come il sonno, dall'uomo, ne intorpidiscono e paralizzano le
forze spirituali.
Più vastamente ancora la vigilanza è indicata contro tutti quei fattori, anche esterni,
capaci di irretire le anime abbassandone la tensione spirituale verso la perfezione e
togliendo ad esse quell'impeto apostolico che il Cristo ha comunicato alla sua Chiesa.
L'anima del cristiano, e tanto più l'anima dell'operaio, deve vigilare con attenzione
minuta e continua per non perdere quota né forza ascensionale, considerando che il
peccato d'origine agisce sull'uomo come una forza di gravità di cui si avvertono le
conseguenze sotto forma di una inguaribile tendenza all'inerzia e al peccato.
Il “vigilate” del Getsemani è un invito permanente a reagire contro questo vischio che
imprigiona le anime mantenendo desta l'intelligenza perché discopra in tempo ed
affronti il nemico.
Da quando il peccato ha fatto il suo ingresso nel mondo, l'uomo deve mantenersi sul
“chi va là” e non vi è luogo né tempo che dispensi da questo atteggiamento spirituale al
quale Gesù ci esorta.
La consacrazione dell'operaio moltiplica il dovere della vigilanza poiché oltre ad
aumentarne l'importanza nel primo e fondamentale combattimento della perfezione
individuale, lo estende alla concezione del regno di Dio e quindi alla vigilanza degli
interessi di questo regno.
«Non sapevate che devo occuparmi di quel che spetta al Padre mio ?» (Lc 2,49) disse
Gesù a sua Madre e sono parole programmatiche per l'operaio che volontariamente ha
consacrato la sua vita all'estensione dell'opera redentiva voluta dal Padre e realizzata dal
Figlio.
Occuparsi di ciò che interessa il Padre, la riconquista del mondo alla volontà del
Creatore, vuol dire vigilare perché all'infuori di noi stessi tutto il bene possibile avvenga
e tutto il male possibile sia evitato.
Il programma delle opere è in definitiva un programma di vigilanza essenzialmente
getsemanico che mantiene l'operaio all'erta, come una sentinella posta dalla Provvidenza
a servizio della Chiesa, sentinella che sa di vigilare non solo per difendere se stessa, ma
per custodire e proteggere la dolce sposa di Gesù agonizzante.

3 - La formula di salvezza non dipende esclusivamente dall'uomo, ma postula un aiuto


esterno proveniente da Dio.
Nessun uomo può salvarsi da solo dal naufragio del peccato d'origine, a tal punto che il
Cristo pur sollecitando ad ogni istante l'attivismo corredentore degli uomini, affermò la
fondamentale inanità di questi sforzi qualora fossero disgiunti dai suoi meriti, con le
parole chiarissime: “sine me nihil potestis facere” (Gv 15,5 - Senza di me non potete
fare nulla).
L'uomo da solo è incapace di conquistare la sua salvezza, ma la carità di Dio fu tale e
tanta che anche l'indispensabile fattore esterno e divino di salute, e cioè la grazia, viene
offerta a tutti.
Il meccanismo spirituale che in tal modo può essere azionato dall'uomo e che obbliga
Iddio a obbedirgli, è la preghiera.
Le parole di Gesù che qualificano la preghiera e la presentano come una leva infallibile
per muovere l'onnipotenza di Dio, sono chiarissime: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e
troverete, bussate e vi sarà aperto” (Lc 11,9).
“Tutto ciò che domanderete con fede nell'orazione l'otterrete” (Mt 21,22).
“Se due di voi si uniranno sulla terra a domandare qualsiasi cosa, verrà loro concessa”
(Mt 18,19).
L'invito del Getsemani “orate” è una ricapitolazione di tutto questo, un invito a credere
alle promesse, un ordine impartito all'uomo di praticare l'orazione come condizione di
vita.
L'operaio che informa la sua anima allo spirito getsemanico è dunque un uomo di
preghiera.
La preghiera è per lui come il pane che non può essere sostituito da altro nel nostro
consueto alimento; più ancora, la preghiera è come l'ossigeno dell'aria, indispensabile.
La preghiera del buon operaio è semplice come la pietà del popolo cristiano, basata,
quanto è possibile, sulle formule indicate dai sacri testi e dalla più vasta tradizione della
Chiesa; ma anche spontanea così che spesso l'anima parli direttamente al suo Signore
narrandogli le gioie, i dolori e chiedendo, chiedendo, chiedendo.
Siccome Gesù ci ha insegnato nel Pater Noster che la preghiera deve incominciare con
la lode a Dio, la richiesta di aiuto sarà sempre accompagnata da espressioni di
gratitudine per le grazie ricevute, per quelle determinate d'ogni giorno, e per quelle
supreme come la creazione, la redenzione e la vocazione.
Dal mattino che sorge al riposo notturno, la preghiera accompagna il lavoro dell'operaio
che non può come i monaci salmodiare ad ore precise.
Per lui la preghiera è come il canto della mietitura che non distoglie dalla fatica, ma la
rende più facile, e soprattutto come il ponte che collega ogni sua giornata, anche la più
monotona, alle sponde dell'onnipotenza e della magnificenza divina.

4 - Lo scopo della vigilanza e della preghiera ordinate da Gesù agli apostoli è da Lui
stesso dichiarato con queste parole: “ut non intretis in tentationem” (Mt 26,41 - Per non
entrare in tentazione).
Come è noto, vi è una toccante analogia fra il Pater noster insegnato da Gesù ai fedeli e
la preghiera che Gesù stesso rivolge al Padre nell'orto degli ulivi.
Anche in queste parole, per quanto non facenti parte dell'invocazione al Padre,
ritroviamo un elemento della preghiera dominicale la quale termina dicendo: “et ne nos
inducas in tentationem”.
È il medesimo, divino Cuore che rivela un'identica costante preoccupazione, che i suoi
discepoli non cadano nella tentazione; perciò mentre Gesù ha provveduto a trasfondere
questo suo tormento in una preghiera che i cristiani dovranno recitare ogni giorno, ecco
che ora li ammaestra direttamente intorno al modo migliore per sventare l'insidia di
satana e per non mettersi, essi stessi, in tentazione.
Nel Pater noster Gesù aveva insegnato a dire «et ne nos inducas in tentationem» perché
quella era una formula di preghiera coniata per gli uomini e non per sé come appare
dalla espressione che Egli usa «sic vos orabitis” (Mt 6,9 - Voi pregate così..).
Né si addice al Figlio di Dio la paura dell'insidia diabolica poiché Egli poteva essere
tentato dal maligno, come difatti avvenne, ma non poteva essere vinto.
Però all'uomo, che offre il fianco scoperto dal peccato d'origine, e che combatte la sua
battaglia sul terreno minato dalle passioni, si addice la paura per l'assalto del demonio.
Gesù teme per lui l'ora della tentazione.
I tronchi e i rami degli ulivi che si stagliavano contorti contro il freddo cielo lunare forse
ricordavano a Gesù un altro albero del bene e del male ai piedi del quale per la prima
volta satana aveva tentato l'uomo e lo aveva vinto.
Egli conosce la sua abilità a nascondersi, a trasformarsi e ad insinuarsi nell'animo
umano, come pure a scoprirne ogni piega e quei punti deboli sui quali punta rapidamente
per aprirsi un varco e catturare la preda.
La redenzione è il più ardente assalto dato da Dio alla roccaforte del libero arbitrio
dell'uomo, mentre la tentazione è il terribile assalto sferrato dal maligno.
La redenzione è una tentazione al bene, la grande tentazione di Dio offerta all'uomo con
tutti i mezzi per coglierne i frutti e si oppone direttamente alla tentazione di satana.
Offrendosi ai tormenti della passione morale e materiale, Gesù si preoccupa di quel
piano satanico che insidierà le sue conquiste in ogni tempo e vi si oppone mettendo
sull'avviso gli apostoli.
Il buon operaio teme, più di ogni altra cosa, ed anche più del peccato, la tentazione.
La cognizione della sua debolezza lo conduce a temere gli assalti di satana ed a
guardarsene. Mentre chiede di liberarlo dalla tentazione, procede cautamente e
umilmente per evitare di cadere nel laccio teso contro di lui.
Altri scritti di Luigi Gedda

1. Testamento Spirituale

Ringrazio Dio di avermi creato e di avermi tenuto in vita fino ad oggi 1996. Lo ringrazio
di avermi dato una madre esemplare la quale, essendo morta nel 1926, mi disse, sul letto
di morte, “ricordati di fare sempre il tuo dovere” e un padre che mi volle seguire,
abbandonando la sua casa di Torino, per essere con me a Roma, una sorella poi che non
devo esaltare dato che la Chiesa l’ha confermata “Serva di Dio” ed ora attende il
giudizio della Congregazione dei Santi.
E che dire di mia moglie, figlia del meridione, la quale ha accettato tutti i miei ideali con
grande generosità, risolvendo molti dei miei problemi e conservandomi un affetto che
non è solo di sposa, ma anche di madre?
Tutto questo io devo alla Provvidenza Divina che non ringrazierò mai abbastanza anche
per avermi concesso di servire due grandi Pontefici, Pio XI e Pio XII come ho descritto,
in parte, nel libro delle udienze che mi hanno concesso. Ringrazio la Provvidenza di non
essermi disorientato, quando decaddero i tempi delle mie cariche in Azione Cattolica e
di non essermi dedicato alla politica, ma alla Genetica Medica e alla Gemellologia.
Sono ora molto lieto di poter passare questo centro di ricerca e di cura, l’Istituto G.
Mendel, alla Fondazione Casa Sollievo della Sofferenza di Padre Pio da Pietralcina che
estenderà d’ora in poi il suo Sollievo anche a Roma.
Ma il più grande dono che Dio mi ha fatto è stato quello di conoscere e di coltivare
in me stesso e in altri la spiritualità getsemanica scoperta nel 1940 nel Convento dei
Passionisti sul Celio. Mi trovavo a Roma in licenza militare ed essendo Presidente della
Gioventù Italiana di Azione Cattolica, preoccupato per la sorte dei miei giovani sparsi
sui vari fronti di guerra ne approfittai per dedicare quei giorni alla preghiera. Fu allora
che incontrai la statua di Gesù nel Getsemani fatta collocare da Pio XI nel giardino
dei Passionisti.
La meditazione del Getsemani mi ha condotto a pensare che le nostre sofferenze sono
nel tempo stesso una espiazione dei nostri peccati ed una partecipazione ai dolori sofferti
da Gesù per cancellarli. Dolori di Gesù che ebbero il loro culmine in quella tragica notte
nella quale Egli non fu ascoltato dai discepoli, ma tradito e arrestato. Dobbiamo
ripagarlo adorando il Suo Cuore come Egli chiese a Santa Margherita Maria.
Chiudo ora questa riflessione il mio testamento spirituale, scusandomi con coloro ai
quali, senza volerlo, avessi procurato dolore e ringraziando affettuosamente quanti mi
hanno voluto bene e mi hanno aiutato. Agli uni e agli altri chiedo di pregare per me.

Roma, 23 ottobre 1996

2.
3. La SOCIETA' OPERAIA e la SPIRITUALITA' GETSEMANICA

Introduzione

Invitato a scrivere un articolo sulla Società Operaia, ho accettato volentieri, pregando


che si ricercasse nell'archivio generale dei Padri Passionisti come e perché Pio XI abbia
pensato di erigere nel giardino del loro convento sul Celio, la scenografia del Getsemani
che ebbe per me e per la Società Operaia una importanza fondamentale.
La ricerca, sollecitata da P. Paolo Maria Totaro, ebbe un esito positivo in quanto valse a
dimostrare che la statua di Gesù Agonizzante deriva dall'eremitaggio di Peyrotine, cioè
da un monastero di eremiti che esiste nel nord-ovest della Francia a circa 200 chilometri
dal Santuario di Nòtre Dame de la Salette.

Quando nel 1911 fu eretta la "Via Crucis" nell' "ermitage" si era già pensato di farla
precedere da un ricordo marmoreo dell'Agonia di Gesù nel Getsemani.
Lo scultore M. Castex, condotto un giorno all' "ermitage" da un suo amico e messo al
corrente del progetto di erigervi una statua di Gesù nel Getsemani, disse che un suo
collega, il sig. Thomasen, aveva creato poco prima una statua di Gesù nel Getsemani che
però era già comperata da un gioielliere e orefice parigino, il Sig. Giuseppe Chaumet
recentemente convertitosi, per grazia ricevuta, alla fede cristiana.
Bisognava quindi rivolgersi a lui per averne una riproduzione.
La domanda fu rivolta subito, ma la pratica fu interrotta dallo scoppio della prima guerra
mondiale.
Ritornata la pace, il sig. Chaumet, abbandonata l'idea di aggiungervi una statua dedicata
all'angelo confortatore di cui scrive l'evangelista Luca, fece dono all'eremitaggio della
statua che lo scultore Ziebig aveva scolpito su un blocco di travertino bianco nello studio
dello stesso Chaumet a Auteil (Parigi).

Egli poi decise di farne una copia da offrire a Pio XI perché fosse collocata nei giardini
del Vaticano.
Successe però che la statua, giunta nella stazione di Roma, rimase per due anni
abbandonata in un magazzino.
Fu il Cardinale Eugenio Pacelli, allora Segretario di Stato e titolare della Basilica dei
Santi Giovanni e Paolo, che informato di tale noncuranza, decise che la statua fosse
collocata nel giardino dei Passionisti dove poi Pio XI, a sue spese, fece erigere da fratel
Gabriele, ingegnere fattosi passionista, una grotta artificiale per collocarvi la statua di
Gesù Agonizzante.
Ai piedi della grotta Pio XI volle apporvi una lapide dedicatoria, evidentemente da Lui
stesso concepita, con il seguente testo:
D.N. IESU CHRISTI ORANTIS
ET IN AGONIA SANGUINE MANANTIS
MARMOREUM SIGNUM
PIUS XI PONT. MAX
SODALIBUS A PASSIONE ET ADVENIS
DIVINAE CHARITATIS MONUMENTUM
SUB CRYPTA SUIS SUMPTIBUS EXCITATA
INSIGNI MUNIFICENTI A
STATUENDUM DONAVIT
ANNO CHRISTIANO MCMXXXI
SACRI PRINCIPATUS X

Termino con il testo dell'iscrizione che Pio XI pose ai piedi della grotta sia perché
ritengo che egli, insigne latinista, l'abbia composta, sia perché la data è la stessa
dell'anno nel quale Mussolini, violando gli articoli del Concordato, cercò di sciogliere i
rami giovanili dell'Azione Cattolica per cui Pio XI, superando evidentemente un
episodio getsemanico del suo pontificato, scrisse di suo pugno, in italiano, l'enciclica
"Non abbiamo bisogno..." che obbligò Mussolini a recedere con alcune e poco
significative richieste.

Premessa

Nel 1940, circa dieci anni dopo gli avvenimenti rilevati dall'archivio dei Passionisti che
ho riferito, mi trovavo a Cagliari richiamato come medico militare a motivo dell'inizio
della seconda guerra mondiale dichiarata il 10 giugno di quell'anno.
Nella vicinanza del Natale, chiesi e ottenni il permesso di visitare la mia famiglia che
abitava a Roma ai piedi del Colle Celio, in via dell'Amba Aradam 1.
Approfittai della licenza per effettuare un ritiro spirituale presso i Padri Passionisti del
sovrastante convento con i quali mi trattenni alcuni giorni per riordinare i miei pensieri,
visto che la guerra e il richiamo militare avevano allontanato da me gran parte dei
dirigenti della Giac (la Gioventù Italiana di Azione Cattolica di cui Pio XI mi aveva
nominato Presidente Centrale nel 1932), disperdendoli sui vari fronti di guerra, per cui
non ero in grado di mantenere con essi un qualsiasi collegamento.
Fu allora che passeggiando nel giardino del Convento mi trovai di fronte alla scena del
Getsemani e mi colpirono le parole in rilievo sul ceppo dove poggia la statua di Gesù:
"Non mea voluntas sed tua fiat".
Parole che Gesù rivolge a suo Padre che Gli chiede di accettare la Passione e la morte
per salvare l'umanità, parole che divennero la chiave di volta del problema che mi
angosciava perché se Dio aveva permesso questa situazione di guerra, dovevo accettarla
come espressione della Sua volontà.
Allora io non lessi la lapide che Pio XI aveva posto a conferma della sua disposizione di
creare la scenografia del Getsemani presentandola ai Padri Passionisti e agli "advenis",
cioè ai "visitatori". Io ero uno di questi.

Ritornai a Cagliari dove il mio soggiorno fu brevissimo perché destinato all'Ospedale


Militare di Roma, ma ebbi il tempo necessario per meditare sul Getsemani e sull' utilizzo
che di questo episodio della vita di Gesù ero in dovere di fare.
Le conclusioni a cui giunsi furono le seguenti:
1) La tragica notte getsemanica vissuta da Gesù deve essere meglio conosciuta di quanto
non lo sia.
Anzitutto sulla base delle parole di Gesù stesso che vengono riferite da Matteo, Marco e
Luca "l'anima mia è triste fino alla morte"(*).
Inoltre per le parole che seguono nel racconto di Matteo 26, 38-44: "Gesù disse a Pietro,
Giacomo e Giovanni: restate qui e vegliate con me, e allontanatesi un poco si prostrò
con la faccia a terra e pregava dicendo: Padre mio, se è possibile passi da me questo
calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!".

Il racconto di Marco (14, 33-37) è simile a quello di Matteo, però con un dettaglio che
non si può ignorare. Gesù si rivolge a suo Padre chiamandolo "Abbà", o "Papa", cioè usa
l'espressione familiare "Abbà" usata dai bambini nel rivolgersi al genitore, la quale
indica l'intimità che Lo lega al Padre Creatore.

Ancor più importante è il racconto di Luca (22, 40-44): "Poi si allontanò da loro quasi
un tiro di sasso e inginocchiato pregava: Padre se vuoi allontana da me questo calice.
Tuttavia non la mia ma la tua volontà sia fatta.
Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo.
In preda all'angoscia pregava più intensamente e il suo sudore diventò come gocce di
sangue che cadono a terra".

L'apparizione dell'angelo dimostra che il Padre seguiva la tragedia di Gesù e la sua


obbedienza per la salvezza dell'umanità.
Il sudore misto a sangue è un fenomeno che la medicina di oggi considera molto raro e
chiama "ematoidrosi", dimostra che la sofferenza di Gesù non riguardava solo la sua
anima, ma anche il suo corpo.
Questo dettaglio è importante perché Luca era un medico e quindi abituato
all'obiettività.
Ed infine è necessario conoscere la lettera agli Ebrei (5, 7-8) dove le seguenti parole si
riferiscono al Getsemani: "Cristo nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e
suppliche con forti grida e lacrime a Colui che poteva liberarlo da morte... pur essendo
Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa
di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono".

2) Pietro, Giacomo e Giovanni non furono, in quella notte getsemanica all'altezza della
situazione, così come non lo fu poche ore dopo Pietro che prima che il gallo cantasse
rinnegò Gesù per tre volte.
Queste gravi trasgressioni si possono spiegare pensando che i tre discepoli non avevano
ancora ricevuto lo Spirito Santo che discese sugli Apostoli dopo l'Ascensione di Gesù.
Rimane però aperto il dovere per i cristiani di oggi di riparare a quanto i discepoli di
allora non fecero.
La Passione di Gesù continua nel tempo ed in questa specialmente l'agonia del
Getsemani.
È necessario quindi che i cristiani di oggi, che hanno ricevuto lo Spirito Santo, osservino
l'ordine che Pietro, Giacomo e Giovanni non ebbero la capacità di capire e la forza di
assolvere: "vegliate e pregate con me".

3) II Getsemani di Gesù non è solo un episodio della Sua vita terrena, ma un modello
che deve essere meditato per devozione da ogni cristiano e specialmente rivissuto, cioè
adottato nei momenti più difficili della sua vita, così da mantenerlo unito a Lui, fonte di
amore, di esempio e di salvezza.

4) La Gioventù Italiana di Azione Cattolica al termine della guerra, con il ritorno dei
militari dai fronti, tornava a vivere sia a Roma come in tutta Italia, ma per la triste
esperienza bellica e l'incertezza del futuro aveva bisogno di un forte riferimento
spirituale in forma adeguata ai tempi della Chiesa nel presente e nel futuro, come può
essere il Getsemani di Gesù nella notte in cui Egli sapeva di essere tradito, imprigionato
e crocifisso.

Ci vollero due anni perché io giungessi alla decisione di convocare un gruppo di giovani
della Giac e questo avvenne nel convento del Celio nei giorni 1, 2 e 3 maggio 1942.
Nasce la Società Operaia
II primo problema che ci siamo posti fu quello di trovare un nome che potesse
qualificare un gruppo di laici desiderosi di partecipare, umilmente ma attivamente, alla
missione salvatrice di Gesù, che raggiunge nel Getsemani quando Egli fu catturato, un
sublime esempio di obbedienza al volere divino.

Il nome prescelto per il singolo fu quello di "Operaio" e, di conseguenza, il nome del


gruppo fu quello di "Società Operaia".
Con questo nome volevamo anche ricordare che Gesù forse per oltre vent'anni aveva
frequentato il laboratorio di falegnameria di San Giuseppe e lavorato in esso.
Per i rapporti che S. Giuseppe ebbe con la vita nascosta e operativa di Gesù lo
scegliemmo come nostro Patrono!

"Operaio" fu il nome che Gesù adoperò quando "vedendo le folle che ricorrevano a Lui
ne sentì compassione perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora
disse ai suoi discepoli: "La messe è molta e gli operai sono pochi. Pregate dunque il
padrone della messe che mandi operai nella sua messe!" (Matteo 9, 36-38) ed anche
quando istruisce gli apostoli inviandoli con ampi poteri a evangelizzare le città d'Israele,
Egli soggiunge "L'operaio ha diritto al suo nutrimento" (Matteo 10, 10).
Le citazioni della parola "operaio" da parte di Gesù vengono riportate anche dal
Vangelo di Luca (Luca 10, 2-7).
Non essendo possibile né prudente abbozzare in quei giorni del nostro primo incontro
uno Statuto della Società Operaia, decidemmo di redigere quanto meno un testo che
valesse ad esprimere una volontà comune e cioè, con termine derivato dal greco, un
Simbolo.
Per stendere la minuta del Simbolo scesi dal convento del Celio a Porta Metronia, e cioè
a casa mia, anche per aggiornare mia sorella Marie (oggi Serva di Dio) e poterla
considerare come membro femminile della Società Operaia.
La prima stesura del Simbolo avvenne sull'ampio terrazzo di cui l'appartamento
disponeva.

Il testo del Simbolo sottoposto all'approvazione dei primi "Operai di Cristo" subì solo
alcuni ritocchi, ed è il seguente:
Noi crediamo in Dio Padre
e lo ringraziamo per la vocazione che ci diede.
Noi crediamo in Dio Figlio
e ci consacriamo come suoi Operai.
Noi crediamo in Dio Spirito Santo
e gli chiediamo i lumi
per bene intendere la via delle opere
alla quale vogliamo dedicarci:
con spirito di santificazione
così che ogni opera venga anzitutto costruita
con la preghiera, il sacrificio e le virtù cristiane;
con spirito di rinuncia
così che ogni opera costruita
non appartenga agli Operai come tali,
ma alla Chiesa attraverso le persone e gli enti
che naturalmente devono possederla;
con spirito di rispetto
per le altre organizzazioni, iniziative e persone.
Noi crediamo in Maria
nella sua onnipotente intercessione
e le chiediamo di poter conoscere e fare
la volontà di Dio
per confortare i dolori di Gesù nel Getsemani;
le chiediamo inoltre di servire la Chiesa e il Papa
con il cuore ardente dei primi cristiani
secondo i bisogni dell'ora che volge.
Sia aperta la nostra vita
a quanti ne comprendono la bellezza
e siamo tutti, al cospetto di Dio e del mondo,
buoni Operai
Così sia.

Stabilimmo di denominare "Reparti" i gruppi degli Operai di Cristo che potevano


sorgere nelle Diocesi con l'autorizzazione del Vescovo come era consuetudine
dell'Azione Cattolica e che i Capi-Reparto si raccogliessero ogni anno per un corso di
Esercizi Spirituali nel convento dei Santi Giovanni e Paolo affinché lo spirito
getsemanico della Società non venisse meno e potesse espandersi.
Un'altra Operaia di Cristo che desidero ricordare fu Teresa Filippi, la quale prima ancora
che sorgesse il Reparto di Torino, appartenendo alla famiglia che possedeva una cartiera
alla periferia di Torino, regalò alla S.O. il materiale che occorreva.

Intesa comune era quella di recitare il Simbolo e di pregare nella serata fra il Giovedì e il
Venerdì di ogni settimana, cioè in coincidenza approssimata del Getsemani sofferto da
Gesù.
L'inserto contenuto nel simbolo "noi crediamo in Maria - nella sua onnipotente
intercessione - e le chiediamo di poter conoscere e fare la volontà di Dio - per
confortare i dolori di Gesù nel Getsemani" - ebbe tale importanza nella vita di pietà
dell'Operaio di Cristo che da allora parecchi Operai recitano ogni giorno il “Piccolo
Ufficio della Beata Vergine».
Dato che gli Operai del Reparto di Roma lavoravano quasi tutti negli uffici dell'Azione
Cattolica di Largo Cavalleggeri 33, nelle immediate vicinanze del Vaticano, usavamo
raccoglierci nell'ultima spianata della Basilica per pregare, mentre nell'ultimo piano del
palazzo pontificio era illuminata una finestra che documentava la presenza e il lavoro di
Pio XII.

Il riconoscimento della S.O.

Nella seconda sessione del Concilio Vaticano II diverse persone laiche furono ammesse
dal Pontefice Paolo VI come "uditori" al Concilio e fra queste anch'io, chiamato a far
parte di una speciale commissione destinata a studiare i problemi dei laici nella Chiesa.
In questa commissione era presente anche l'arcivescovo di Cracovia e così ebbi modo di
anticipare la conoscenza del futuro Pontefice Giovanni Paolo II.

Questo interesse del Concilio al problema dei laici indusse la Santa Sede a creare un
apposito Pontificium Consilium pro laicis.
A questo Consiglio ci siamo rivolti per ottenere l’approvazione della Società Operaia da
parte della Santa Sede, la quale ci fu concessa dal suo Presidente il Cardinale Opilio
Rossi in data 21 ottobre 1981.
Alle soglie del 2000
II bilancio della Società Operaia alle soglie del nuovo millennio presente (fra molte) due
voci che ritengo doveroso ricordare.
Anzitutto mi riferisco alle OPERE di cui parla il Simbolo e che furono a Roma l'Istituto
Mendel di Genetica Medica e Gemellologia, la "Domus Pacis" per la Giac, il Getsemani
di Casale Corte Cerro per gli "Attivisti" del Comitato Civico, il Getsemani di Capaccio
Scalo pensato per correggere l'affermazione di Carlo Levi del titolo del libro "Cristo si è
fermato a Eboli", il Getsemani di Vitinia, che è una chiesa parrocchiale, diventato ormai
un Santuario alla periferia di Roma, il Piccolo Getsemani di Piedimonte Etneo.

La seconda voce di questo bilancio di fine secolo è quella che ci riempie di meraviglia e
di gioia: un Operaio di Cristo è stato dichiarato "Venerabile", un' Operaia di Cristo è
"Serva di Dio", presso la Pontificia Congregazione dei Santi, un Operaio di Cristo è
"Servo di Dio" presso il tribunale diocesano di Ivrea.
L'Operaio di Cristo Venerabile è l'ingegnere Alberto Marvelli che fece ingresso nella
Società Operaia il Giovedì Santo del 1945, nel Corso di Esercizi Spirituali tenutosi a
Rho nella casa degli Oblati e dal 1945 teneva sul comodino accanto al letto il libro
“Getsemani”.

Nell'udienza concessa agli Operai di Cristo in occasione del 50° di fondazione della
S.O., il Pontefice Giovanni Paolo II disse di lui:
"Carissimi, la vostra Associazione nacque nel 1942, come derivazione dell'Azione
Cattolica Italiana: erano gli anni difficili della guerra, regimi autoritari impedivano in
Europa la libera attività religiosa e sociale. In quella situazione fu per voi illuminante il
mistero della veglia di Cristo nel Getsemani: vigilare per amore, offrirsi completamente
alla volontà di salvezza del Padre. Come fu vera quella ispirazione! Com'è urgente anche
oggi tale volontaria vigilanza in intima unione col Redentore dell'uomo!
Numerosi membri della vostra Associazione - tra questi il pensiero va in special modo
all'ingegner Alberto Marvelli, apostolo esemplare nella vita spirituale e nell'impegno
civile - hanno mostrato come, nel mutare dei tempi e delle situazioni - i laici cristiani
sappiano dedicarsi senza riserve alla costruzione del regno di Dio nella famiglia, nel
lavoro, nella cultura, nella politica, portando il Vangelo nel cuore della società.
Auguro pertanto a tutti voi di perseverare nella fedeltà a Cristo, vegliando e pregando
insieme con Lui, per essere, oggi come ieri, "operai" generosamente impegnati nella
vigna del Signore".
L'Operaia di Cristo Mary Gedda morta il 29 gennaio 1985 e proposta dal Capo Reparto
di Roma al Tribunale ecclesiastico per il processo di beatificazione, fu qualificata dal
Cardinale Vicario Camillo Ruini con parole di alto elogio.
La sua causa è ora presso la Pontificia Congregazione dei Santi.

"Un testamento scritto col sangue", così viene presentata la biografia di Gino Pistoni del
Reparto di Ivrea scritta da Claudio Russo (*).
La presentazione così conclude:
"Mi auguro che questa vita di Gino Pistoni, rapida ma completa e convincente, possa
entusiasmare tanti giovani di oggi e far loro capire quanto sia bello impegnare la propria
vita per i grandi ideali della fede e dell'umanità".
Nato a Ivrea nel 1924 frequenta le scuole medie presso i Salesiani e i Fratelli delle
Scuole Cristiane, essendo già iscritto all'Azione Cattolica. In un corso di Esercizi
Spirituali presso il Castello di Bollengo nel giovedì santo del 1944 entra a far parte della
Società Operaia e scrive:
"II mio cuore oggi eleva a te un inno di lode... Ti chiedo la grazia di dividere con te
le sofferenze del Getsemani".
Nell'Italia spaccata in due dalla Repubblica nazifascista di Salò e dall'esercito italiano in
dissoluzione, Gino aderisce alla formazione partigiana e al progetto di distruggere il
ponte che immette nella Valle di Gressoney.
L'impresa è rischiosa e Gino viene colpito alla gamba sinistra dalle schegge di una
bomba.
Non potendo frenare l'emorragia, egli intinge un dito nel suo sangue e scrive sul telo del
sacchetto per i viveri: "Offro la mia vita per l'A.C. e l'Italia, W Cristo Re".
Accanto alla sua salma fu trovato l'Ufficio della Madonna e un'immagine di Gesù nel
Getsemani.
Spiritualità getsemanica
La nascita e gli sviluppi della Società Operaia che ho riassunto, derivano dal linguaggio
muto ma eloquente della statua di Gesù agonizzante nella grotta voluta da Pio XI nel
giardino dei Passionisti sul Colle Celio e dai testi dei Vangeli e della lettera agli Ebrei
che ho citato.

Non sapevamo che vi fossero altre fonti getsemaniche a cui ispirarci fino al 1984,
quando l'editrice Ares di Milano pubblicò la prima edizione italiana di uno scritto di San
Tommaso More a cui fu dato il titolo "Nell'orto degli ulivi".

San Tommaso More fu Lord Cancelliere, ossia Primo Ministro del re Enrico VIII di
Inghilterra, il quale ripudiò sua moglie Caterina d'Aragona per sostituirla con Anna
Bolena e dopo aver chiesto inutilmente alla Santa Sede l'annullamento del suo
matrimonio, separò la Chiesa di Inghilterra dalla Chiesa Cattolica Romana.
A tal fine chiese ai suoi sudditi di firmare una dichiarazione di non obbedienza ad
autorità estere (cioè al Papa) e di considerare lui stesso come capo della Chiesa
d'Inghilterra.
Sir Thomas More diede le dimissioni dalla sua carica politica e fu l'unico laico che
rifiutò di firmare la dichiarazione richiesta dal re.
Per questo fu arrestato e recluso nella Torre di Londra. Propostosi di occupare il tempo
della sua prigionia scrivendo in inglese la storia della Passione di Cristo, incominciò
dalla minuta descrizione di ciò che Gesù soffrì nel Getsemani, ma non poté continuare
perché fu processato il 1° luglio 1535, condannato e decapitato il 6 luglio.
La prima edizione in inglese di quest'opera getsemanica è del 1557.

Una seconda e più copiosa fonte di spiritualità getsemanica fu quella che


conoscemmo nel 1995 in base al libro di Jean Ladam: "La Sainte de Paray,
Margherite Marie", stampato nel 1977 con l'imprimatur del vescovo Mons. Gaidon.

Pur avendo visitato precedentemente il monastero e la cappella dove Gesù manifestò a


Santa Margherita Maria Alacoque il suo dolore per il disinteresse dei cristiani al suo
amore per cui aveva sofferto e li aveva salvati, non conoscevo le parole che Gesù le
rivolse in un venerdì del 1674 e che traduco dal francese:
"Tutte le notti dal giovedì al venerdì ti farò partecipare a quella mortale tristezza senza
che tu la possa comprendere, a una specie di agonia più atroce della morte.
E per unirti a me in questa umile preghiera che io presentai allora a mio Padre durante
tutte le mie angosce, ti alzerai fra le undici e mezzanotte per prostarti durante un'ora con
me, la faccia contro terra, sia per attenuare la divina collera invocando misericordia per i
peccatori, sia per attenuare in qualche modo l'amarezza che io provavo per l'abbandono
dei miei apostoli, che mi obbligò a rimproverarli perché non avevano potuto vegliare
un'ora con me e durante un'ora farai ciò che io ti insegnerò... È qui che io ho sofferto più
che in tutto il seguito della mia Passione, vedendomi totalmente abbandonato dal cielo e
dalla terra, carico dei peccati di tutti gli uomini. Comparso davanti alla santità di Dio,
che senza alcun riguardo alla mia innocenza ma in preda al suo furore mi faceva bere il
calice che conteneva il fiele e l'amarezza della sua giusta collera. Non esiste creatura che
possa capire la gravita dei dolori che io dovetti allora soffrire. È esattamente il dolore
che prova l'anima criminale quando compare davanti al tribunale della santità che pesa
su di lei e la sommerge nel suo giusto furore".

Un'altra ed anche maggiore rivelazione, che si riallaccia al Getsemani, viene fatta dal
Sacro Cuore a Santa Margherita Maria, che la comunica alla superiora in una lettera del
1688:
"Un giorno di venerdì, durante la santa comunione, Egli disse a questa sua indegna
serva... Io ti prometto, la grande misericordia del mio Cuore che il suo potentissimo
amore concederà a tutti quelli che si comunicheranno per nove primi venerdì del mese
consecutivi, la grazia della penitenza finale.
Non moriranno in mia disgrazia e senza ricevere i sacramenti, il mio Cuore sarà il loro
sicuro rifugio negli ultimi istanti".
San Tommaso More fu canonizzato il 19.5.1935 e Santa Margherita Maria il 13.5.1920.
Essi sono il suggello di quella che la Società Operaia vive e diffonde con il nome di
Spiritualità Getsemanica.

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