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Nicola Spinosi

Mente ironica
narrazione & interpretazione
Indice:
ferita invisibile
la visita
l'urlo
florealtà
momenti perfetti
socrate per strada
fuori luogo
due paia di sandali
perdere il filo
50 centesimi la visita
un paese da vipere
il defunto analista
la targa misteriosa
ricevimento
il titolo di strega
sorriso degli etruschi
seta
leggere, dimenticare
3 giugno 1956
il labaro viola
il matrimonio della Rita
grafomania
foto mancate
salienza
lapidi a scelta
ricamo
è lo stesso
si sorride a una pizza
gelo notturno
m.clara
essenza sublime
comunismo a pedali
something wrong
edizioni provvisorie
traduzioni
un'opera sconosciuta di thomas bernhard
il mondo secondo i rospi
don chisciotte
giova l'umore imporsi
un aiutino
Il presente testo offre il suo apporto filosofico in
modo totalmente narrativo. Il fatto che a tratti si
narri in terza persona, o in prima plurale, o in prima
singolare, rappresenta il variare dell'ironia.

Nicola Spinosi
Ferita invisibile

Essendo da escludere, come lui stesso diceva sempre, ogni evento


casuale, il morso del cane di Weller, ancora prima di essere
effettivamente inferto, deve aver avuto il suo posto nel progetto
concepito da Koller. In fondo, lui, Koller, una volta aveva detto che
il morso del cane di Weller era in verità opera sua, di Koller,
un’asserzione, questa, della cui serietà non intendo affatto dubitare.

(T.Bernhard, 1980, I mangia a poco; trad.it., Milano, 2000,


pag.63).

La compagna gli ricordò per celia un caso avvenuto


anni prima (lui avrebbe accennato una risposta al
saluto d’una bionda dagli occhi glauchi). Marciavano
in fretta su uno stretto marciapiedi e lui, distratto e
anzi disorientato dalle parole di lei, urtò con la forza
del suo passo contro una sporgenza metallica -
scooter parcheggiato - proprio all’altezza della coscia
sinistra: una bastonata. Andavano in trattoria.
„Ahia!“, fece notare Guido. Impallidito dal dolore,
era spaventato dalle possibili conseguenze (pronto
soccorso, trafile di cura e così via), eppure non
mancò di pranzare con la compagna.

Non appena divenne decoroso, si calò i calzoni per


ispezionare la sua coscia colpita, niente. Anche il
dolore era scomparso. Restò un mistero, anche dopo
ore ed ore, l’irreperibilità di tracce lividose.
Laboriosamente digeriti i cibi assunti, in serata
Guido, sempre alle prese con il mistero della
bastonata che non gli aveva segnato la coscia, fece
ritorno a casa e scoprì che la cena distava, nel
tempo. Aveva fame e si concesse un cospicuo
antipasto di yogurt con fette biscottate. Dopo cena
iniziò a dargli noia lo stomaco, esperienza per lui
rarissima. Ore insonni di fastidio, all’alba mutato in
diarrea. Liberazione.

Cerchiamo l’origine dei guai per necessità, siamo


costretti insomma dalla nostra mente a chiederci di
chi o di che cosa è „la colpa“ d’un guaio: Guido
considerò colpevole della sua nottataccia a cinque
stelle la pappa di yogurt con fette biscottate che non
gli aveva impedito altresì di cenare. Indigestione
forse da attribuire anche al pranzo in trattoria.
Malattia dei „tre emme“, avrebbe sentenziato la
nonna: „mangia meno, maiale!“. Al mistero della
bastonata che non gli aveva segnato la coscia
(„lesione chiusa“?), come causa, Guido non pensò.

Guido aveva fin lì goduto digestivamente di ottima


tolleranza, com’è naturale con qualche rara
eccezione vomitoria o diarroica, nei decenni. Aveva
mangiato dei cibi in uso in questa parte del mondo
ogni cosa senza risentirne in nessun modo: carne
cosiddetta rossa, bianca, insaccati, prosciutto crudo
e cotto, pesce, patate, verdura, frutta, pane, pasta,
formaggi latte yogurt in quantità, mozzarella e dolci
pasticcini biscotti cioccolato crema panna gelati.
Bevuto vino, alcolici vari, bibite, spremute, succhi di
frutta, caffè e così via. Tutto quanto.

Umano straccio, quel mattino, dopo il miserevole


sonno, Guido si sentiva tuttavia purificato dalle pene
notturne scontate, punizione dei suoi „eccessi“, e
com’è naturale presto si dimenticò del guaio patito,
ascritto da lui definitivamente all’incongrua pappa di
yogurt con fette biscottate; chissà perché, invece,
non a tutto quello che il suo organismo e la sua
mente avevano patito il giorno prima, inclusa la
bastonata che però non gli aveva segnato la coscia
(„lesione chiusa“?), incluso il semiserio richiamo
della compagna, che in effetti lo aveva distolto
dall’attenzione necessaria a camminare in due
affiancati su uno stretto marciapiedi infestato da
sporgenze varie.

Colpevoli, nei decenni, di numerosi cosiddetti


tradimenti consumati nella realtà esterna,
responsabili di innumerevoli desideri carnali
contemplati nella e dalla nostra realtà interiore, nel
contempo però attaccati, come talvolta accade che
noi siamo, a una donna, dotati di conseguenza di
una certa quale coda di paglia, ci troviamo ad
ascoltarla con più attenzione di quanto basti se lei
provoca in noi il ricordo d’un momentaneo flirt dello
sguardo che avremmo improvvisato in omaggio a
una bionda di nostra vaga conoscenza (e dotata di
occhi glauchi). Guido, mentre insieme alla compagna
s’affrettava verso la trattoria, occasione festosa,
ascoltava accorato quelle celie imprecise, un poco si
sentiva vittima innocente, un poco accusato
colpevole, ma in definitiva pativa di essere stato
scoperto, questa è la verità. „Non le sfugge nulla“,
pensava Guido; „non si scappa: è dotata di
telecamera sempre in funzione, niente privacy,
manco guardare posso, manco fare un cenno di
saluto“, piagnucolava interiormente. Aveva torto,
come avrebbe saputo anni dopo: il cenno scambiato
con la bionda era sfuggito a Roberta, che invece
riferiva la sua celia a una vistosa guardata diretta da
Guido a un’altra, evento quest’ultimo del tutto
dimenticato da Guido, e irrecuperabile.

Ed ecco la bastonata alla coscia sinistra, com’è il


caso di ripetere. Colpa sinergica della sporgenza
metallica e della disattenzione di Guido.
Autopunizione? Ma per che cosa? Per un suo
imprecisato e momentaneo flirt dello sguardo, anni
prima, oppure per essere lui attaccato a una donna
cui nulla sfuggiva, per esserle asservito tanto da
sentirsi in difetto soltanto per un cenno di saluto a
un’altra e per un imprecisato e momentaneo flirt
dello sguardo?

Connettiamo gli effetti di una nostra disattenzione,


concreti, con ciò che stavamo solo pensando, diamo
la colpa non al caso ma ai nostri pensieri, di cui in
ultima analisi siamo responsabili, anche se essi
scorrono a dispetto della nostra volontà. Guido
dunque connette la bastonata a quello che occupava
la sua mente un attimo prima della bastonata. E
formula l’ipotesi che la bastonata sia una punizione,
o meglio un’autopunizione causata dai suoi pensieri,
intreccianti certo il tema del sentirsi lui Guido in
difetto, su questo non c’è dubbio. Guido si sentiva in
difetto, dunque, soltanto che non sapeva bene
perché. Si sentiva in difetto di sentirsi in difetto nei
confronti della compagna, invece di esprimere
prima, analizzare dopo, il suo risentimento per
essere stato da lei scoperto mentre scambiava un
cenno con la bionda, anni prima, e per il richiamo
subìto sappiamo quando.

Sanato, Guido riprese le sue abitudini alimentari


generalisticamente „tolleranti“ come se nulla fosse
capitato, ma dopo poche sere si trovò di nuovo a
patire i sintomi, gli stessi, della serata e nottata
successive all’assunzione dell’antipasto di yogurt con
fette biscottate e della cena successive al pranzo e
alla bastonata che non gli aveva segnato la coscia
(„lesione chiusa“?). Gli stessi, più o meno s’intende.
Mal di stomaco crescente dopo una mezz’ora dalla
cena, insonnia connessa al dolore e mal di pancia
con diarrea - liberazione albale. Era divenuto, Guido,
intollerante a una parte dei cibi suoi soliti, come
scoprì nel corso dei sette otto episodi che bastarono
quella primavera a ridurre il suo peso di molti chili.
Alla carne rossa al formaggio allo yogurt al latte alla
panna alla crema e ai dolci relativi, al prosciutto agli
insaccati, quindi alla carne di maiale, perfino alla
carne di coniglio e, curiosamente, agli spinaci! Gli
restava per fortuna il resto. Oltre al lutto. Un altro
sarebbe andato a consultare un medico, non Guido,
che invece cominciò a considerare l’ipotesi che la
bastonata da lui presa alla coscia sinistra vicino alla
trattoria avesse lasciato tracce interne („lesione
chiusa“?) al posto del livido che, incredibilmente,
non l’aveva segnata. Che la bastonata (non c’è
modo migliore di definire l’urto della cosiddetta
sporgenza metallica sulla coscia sinistra di Guido, in
alto, abbastanza all’esterno) avesse colpito qualcosa
del suo „sistema nervoso vegetativo“, con la
conseguenza di trasformare i servigi del suo
apparato digerente, fin lì tolleranti, in servigi
intolleranti.
Un altro sarebbe andato a consultare un medico in
merito all’ ipotesi di un nesso tra le conseguenze
della bastonata e le cosiddette intolleranze: non
Guido, motivi la sua paura di essere preso, a causa
della sua ipotesi, per matto dal suo medico
cosiddetto di base, locupletato quest’ultimo di un
cinque euro al mese per ogni cosiddetto paziente,
fanno sessanta all’anno, bravissima persona, dotato
perfino di una certa quale classe, ma svelto, troppo
svelto, troppo ingenuo, forse, per accogliere l’ipotesi
di Guido, psiconeurologica se non metafisica.
Timoroso di essere preso per matto e di dover
sottoporsi, invece, ai detestati esami clinici, Guido.
Evitabili come la peste. Da un medico filosofico
sarebbe potuto andare a consulto Guido, se lo
avesse conosciuto, un tale medico. Da un
alternativo, cosiddetto? Su questa strada Guido
temeva di infognarsi in un qualche delirio
postmoderno a due pagato da uno soltanto, lui.
Quindi, niente.

Connettiamo correttamente un evento traumatico


alla nostra disattenzione causata forse dalle nostre
pensate pene e concludiamo, ma spericolatamente,
che l’evento traumatico risponda a modo suo a
quelle pene; ciò non bastandoci, all’evento
traumatico e misterioso (nell’assenza di tracce
lasciate sui muscoli e sulla pelle – „lesione chiusa“?),
connettiamo al buio altri eventi che riguardano il
funzionamento dell’apparato digerente. Com’è
naturale siamo tentati dal gioco d’azzardo di
connettere in definitiva le nostre cosiddette
intolleranze di oggi con le pene pensate al momento
del trauma, della botta, della bastonata, riflette
autocritico Guido.

Soltanto negli ultimi tempi, dopo tre, quattro anni di


dieta forzata e di meditazioni, s’intende saltuarie, sui
nessi tra le conseguenze della bastonata (in termini
di „lesione chiusa“ al muscolo femorale e ai nervi
connessi) e le sue „intolleranze“ alimentari, Guido si
è deciso a studiare un poco il suo caso per
alleggerire la sua ignoranza, soddisfatto tuttavia
della sua ingenua prima ipotesi che il gran mistero
dell’assenza di tracce lasciate dalla bastonata
celasse, certo al „chiuso“, una lesione al sistema
nervoso „vegetativo“, o „simpatico“, o „autonomo“.

Nei primissimi minuti, per non dire nelle primissime


decine di secondi dopo la bastonata, come s’intende
figurandosi che un corpo di sessantacinque chili in
marcia, quello di Guido, subisca un arresto totale e
concentrato su una piccola sua parte (la coscia), da
e su una barra metallica facente parte laterale di un
telaio (privo del solito „bauletto“, cioè scoperto)
avvitato posteriormente su un grosso scooter
piazzato sul suo cavalletto, oggetto non statuario,
ma poco ci manca; nelle primissime decine di
secondi dopo la bastonata, bisogna ripeterlo, Guido,
terreo, in preda al dolore, impaurito pensò che la
sua giornata avrebbe preso la direzione non della
trattoria, festosa, ma quella del pronto soccorso, e si
rappresentò la trafila, temendo di essersi „rotto“
qualcosa di serio. E infatti. Solo che, si accorse
subito Guido, lui poteva camminare, e allora perché
rimanere lì su quel marciapiedi stretto? Poteva
proseguire, svuotato di forze e gelato, ma la gamba
colpita funzionava ancora. Proseguire e semplificare,
anche a causa della presenza della compagna, non si
sa quanto consapevole di ciò che era successo a
Guido. Nessuno sa ciò che accade all’altra persona,
questa è la verità, né lo sente, soprattutto.

A tavola, pochi minuti dopo, Guido sentì che la sua


gamba andava bene, mentre ancora provava la
sensazione di freddo, di paura e di chiusura
marmorea allo stomaco, e si confidò con la
compagna in merito a quel che era successo e stava
succedendogli. Non avrebbe dovuto pranzare, Guido,
questa è la verità. Avrebbe dovuto non pranzare.
Avrebbe dovuto tollerare l’inciampo, l’arresto e le
sue conseguenze in termini di freddo, di paura e di
chiusura marmorea allo stomaco, invece non tollerò
né l’arresto né le sue conseguenze, e, approfittando
in modo sfrontato dell’eroismo del suo stomaco,
pranzò, mise al lavoro il suo apparato digerente,
ritenendosi fortunato di non trovarsi al pronto
soccorso, facendo finta di nulla.

La compagna subito si dichiarò addolorata di aver


intrattenuto e in definitiva distratto Guido, durante il
percorso a ostacoli sul marciapiedi stretto, con le
sue celie in merito, secondo la memoria di lui, allo
scambio di sguardi e cenni di saluto tra Guido e la
bionda dagli occhi glauchi; certo la compagna aveva
ragione di sentirsi addolorata e anche contrita,
infatti in certo modo la colpa della bastonata presa
da Guido era anche sua. Non soltanto del
marciapiedi stretto, della sporgenza metallica e così
via. Lo spazio tra le pareti degli edifici e le decine di
scooter parcheggiati era e resta esiguo per
camminare in due affiancati. Meglio in cosiddetta fila
indiana. Per starle accanto, Guido, com’è dovuto
tenendo la compagna dalla parte del muro, si era
esposto alla micidiale sporgenza. Per restarle
accanto e soffrire meglio le parole che in forma di
celia uscivano dalla bocca della compagna.

Post hoc ergo propter hoc, ecco la nota fallacia: se B


accade dopo A facilmente crediamo che A sia stato
causa di B. Invece la connessione causale può non
esserci, tra A e B, spesso c’è, com’è ovvio, ma
altrettanto spesso, no. Nel caso di Guido l’unico
probabile „mistero“ è l’assenza di tracce della
bastonata sulla pelle della coscia, e da esso Guido
ha iniziato a indulgere nelle sue connessioni,
connettendo, in definitiva, tutto con tutto. Si tratta
di un errore, naturalmente, non ignoto allo stesso
Guido, cultore di tempo in tempo di quel „principio“
facente da coperchio a tutte le pentole incompatibili,
come la presente, con il causalismo: la cosiddetta
sincronicità.

Intanto vediamo il „mistero“ dell’assenza di tracce


della bastonata sulla pelle della coscia (sinistra) di
Guido, o per meglio dire, com’è ovvio, sulla parte
esterna della medesima. Potrebbe essere dipesa,
tale assenza di tracce, dalla protezione che sul
momento due strati di abiti (pantaloni e soprabito)
garantivano alla parte bastonata, per quanto Guido
non ricordi se, quel giorno, lui indossava un
cosiddetto soprabito abbastanza lungo da coprirgli la
coscia sinistra, o invece un corto giubbotto.
Vogliamo riscaldarci a questo focherello?

Riluttiamo per giorni e giorni, nonostante che siamo


(congiuntivo presente) alle prese con l’idea di
consultare un medico in merito al „mistero“
dell’assenza di tracce visibili di una bastonata che
abbiamo preso, fino a quando non riconosciamo che
ormai è tardi per consultare un medico. Non
possiamo raccontare a un medico, neppure ad un
professionista non obbligato dal cosiddetto sistema
sanitario nazionale ad ascoltarci in cambio di cinque
euro per mese, sessanta all’anno o giù di lì, ma
invece pagato da noi secondo le cosiddette leggi di
mercato e quindi magari „benevolo“ ascoltatore, che
una settimana prima abbiamo preso una bastonata
senza riportarne tracce visibili, mentre temiamo che
abbia invece lasciato tracce interne più o meno
allarmanti. Sarebbe come se una donna si rivolgesse
alle autorità di polizia per denunciare un cosiddetto
stupro da lei subito mesi prima. Come se un tizio
intendesse far causa per “danni biologici” a un
prevaricatore anni dopo che la prevaricazione è
avvenuta e il cosiddetto danno biologico è registrato
soltanto nella memoria del tizio, la cui patita
„insonnia da stress“ è nota soltanto a lui, dunque
appartiene al genere narrativo, e così via
esemplificando. Serve tempismo, ciò di cui Guido,
tergiversatore, è privo.
Non possiamo consultare in ritardo un medico su
qualcosa che è registrato soltanto nella nostra
memoria e in quella di una testimone, qualcosa che
dunque appartiene al genere narrativo, oppure sulle
nostre ipotesi di connessione tra la bastonata e le
intolleranze alimentari che ci toccano da mesi in
quanto novità logicamente amarissime, ipotesi di
connessione che sembrano, anch’esse, appartenere
al genere narrativo.

E allora dobbiamo sprofondare nella narrativa,


questa è la realtà.
La visita

La Gatti e suo marito vennero a Firenze perché lei


intendeva partecipare a un convegno e lui aveva
espresso il desiderio di accompagnarla per rivedere
la città. La Gatti, amica di Guido, avrebbe
(dichiaratamente) preferito una trasferta solitaria,
con il pretesto del convegno, forse allo scopo di
smarcarsi dalla famiglia per qualche giorno nella
cosiddetta culla del Rinascimento e d’intrattenersi
con Guido senza terzi incomodi: chiacchiere libere,
per quanto possibile, confidenze e forse pettegolezzi
su amici e conoscenti. Nient’altro, almeno secondo le
previsioni e intenzioni di Guido, non attratto dalla
Gatti in quanto femmina né dai pettegolezzi di lei,
spesso vertenti anche su persone a lui poco note, e
neppure interessato a certe recenti vicissitudini
dell’azienda capitanata dall’amica.
A Guido la prospettiva di essere ingozzato per
qualche ora dalle chiacchiere della Gatti pesava,
insieme al ruolo di fiorentino che la situazione gli
avrebbe, prevedibilmente, assegnato - una
forzatura; ma dover sorbirsi anche il Gatti, un ligure
di poche parole del resto quasi ignoto, gli pesava di
più, come certezza: non senza il vantaggio, tuttavia,
d’una limitazione delle chiacchiere.

Arrivarono in auto, un venerdì sera, i Gatti; si


sarebbero fermati in un albergo vicino a San Marco,
Guido li avrebbe accompagnati in un ristorante
degno di nota a causa dell’ arredamento fuori moda
e di una certa quale serietà. Un locale non
caratteristico. Cena e poi passeggiata, aveva
progettato forzatamente Guido: San Lorenzo,
Duomo, Signoria, Santa Croce, Santissima
Annunziata e fine del „tour de la ville“, buonanotte e
alla prossima (forzatura).
Era già stanco, quella mattina aveva realizzato un
imprevidente giro di vari chilometri; in San Marco fu
costretto a guidare via „cellulare“ gli arrivanti Gatti,
che il loro „navigatore satellitare“ continuava invece
a mandare fuori strada. Da ultimo Guido si decise a
muoversi di persona incontro ai due lungo via
Cavour fin quasi a piazza della Libertà. Era ventosa,
quella fine di ottobre. Già stufo, Guido, ma anche
divertito dalla coglioneria di quel „navigatore“
(erogante indicazioni fiorentine sempre sbagliate),
mentre, finalmente seduto nell’auto dei Gatti,
suggeriva la strada giusta per l’albergo senza tener
conto dei divieti, udì la Gatti osservare che „Firenze
in questo è già meridionale“. Certo, si trova a sud di
Genova, che è a sud di Torino e così via.
Eseguita la registrazione dei Gatti, sistemati i
bagagli, occhieggiando Guido la non malvagia sala
della „reception“, e valutando la grazia
dell’ambiente, buona per un qualche futuro, i tre si
misero in marcia (forzata) verso il ristorante non
caratteristico.

Accettiamo per forza che un’amica accompagnata


dal marito in visita nella nostra città c’includa nel
suo programma, non possiamo smarcarci con
qualche scusa, infatti l’amica ce ne ha dato avviso
da mesi. Non sappiamo restare fermi nel nostro
rifiuto intimo degli scodinzolamenti telefonici di
quest’amica indigesta, che ci ritiene interessati
„complici“ delle sue beghe professionali di cui invece
non c’importa nulla. Accettiamo dunque, ma già
subito ce ne pentiamo, quando siamo confrontati
con la macchinosità invadente dell’arrivo di
quest’amica accompagnata dal marito sospettoso.
Accettiamo: perché non si può sempre inclinare
verso il no, e qualche relazione „sociale“ dobbiamo
pur tenerla in piedi, pare, anche se sappiamo con la
massima precisione che il prezzo sarà alto, come
sempre lo è stato. Il guaio vero capita tuttavia
quando non possiamo scappare. Se ci vengono in
casa, gli ospiti, non abbiamo modo decente di
respingerli fuori, se invece siamo noi in trasferta
troviamo modo di andarcene. Devo andare, diciamo.

Arrivati alla svelta, ciarlando Guido e la Gatti di nulla


(eppure a stento, nell’angustia dei marciapiedi), il
Gatti dietro, ora impegnato a rispondere a una
chiamata d’un cliente, ora invece lui accanto a
Guido, la Gatti dietro impegnata a rispondere a una
chiamata d’un cliente - serata fredda - i tre
sedettero al tavolo prenotato e diedero inizio alla
cena.
Il nemico dell’apparato digerente di Guido si
nascondeva nella „zuppa trentina“ scelta da lui per il
calore che promette qualsiasi „zuppa“ individuata nel
menù di un ristorante serio nel freddo di fine
ottobre, e anche a dispetto, tuttavia, delle
ordinazioni stucchevolmente „toscane“ dei Gatti,
ribollita bistecca alla fiorentina Colombaccio rosso:
nella forma di minuscole pallottoline di „carne di
maiale“, così la cameriera interrogata, mescolate
all’orzo, prima assunte da Guido cucchiaiando in
modo distratto e (come al solito) vorace, poi
percepite con orrore e faticosamente selezionate a
margine della scodella.

Una squisitezza consigliabile ai sani, questa „zuppa


trentina“.

Guido e i Gatti felicemente non chiacchierarono


durante la cena delle vicissitudini dell’azienda
capitanata dalla Gatti, ma d’altre sciocchezze. Non
antipatico, il Gatti, a Guido che descriveva in breve
la sua cosiddetta intolleranza replicò: ma allora non
puoi mangiare nulla!
Ma no, i cibi sono tanto numerosi, lo sappiamo,
eppure lo dimentichiamo, avrebbe potuto rispondere
Guido, se non fosse stato in pena per il suo
stomaco.
Finita la cena e due bottiglie di Colombaccio rosso,
Guido dette inizio al progettato „tour de la ville“ di
piazza in piazza, ma stanchissimo e preso alle
ginocchia dal vino bevuto. Di „secondo“ aveva fatto
sparire, con la massima sfrontatezza, del pollo lesso
con verdura. Tra piazza del Duomo e piazza
Santissima Annunziata (mentre aveva
silenziosamente deciso di tagliare Signoria e Santa
Croce) lo stomaco iniziò a dargli noia, forse
collaborando maligno con la stanchezza il freddo la
noia la forzatura dell’intera situazione „sociale“ (e
con il Colombaccio rosso). In Santissima Annunziata,
l’intestino dando il cambio allo stomaco, Guido
valutò l’ipotesi diarroica e subito decise di
congedarsi dai Gatti, oramai vicini al loro albergo.
Chiese scusa, strinse la mano a lui e scambiò un
paio di baci con lei, quindi s’affrettò verso il suo
vicino studio, prima di tornare a casa, ormai certo di
riuscir male a contrastare l’urgenza estrema di
liberarsi l’intestino. In D’Azeglio, a poche centinaia di
metri dalla sua meta, cercò con lo sguardo un
anfratto tra le siepi dove chinarsi per defecare. Gli
parve di averlo individuato e stava per procedere
all’oltraggio (come dedica al „cinque stelle“ lì
davanti), quando udì un urlo ferino venire dal buio
della piazza. Meglio resistere, decise allungando
sempre di più il passo. E la fortuna lo premiò. Sarà
stata mezzanotte.

E’ credibile che una quantità davvero irrisoria di


carne di maiale come quella assunta
dall’inconsapevole Guido insieme all’orzo cucchiaiato
dalla calda „zuppa trentina“, pochi grammi, provochi
una reazione tanto rapida e invalidante, che nel giro
di un’ora consegni Guido nelle grinfie d’una diarrea
totale? Sì: precedenti esperienze simili dovute
sempre a quantità ridicole, magari di ricotta
nascosta dentro certi „tortellini“ lo confermano a
Guido, che tuttavia, sul caso piuttosto ampiamente
descritto della „zuppa trentina“, ha molta voglia di
uscire dalla fallacia del post hoc ergo propter hoc,
malattia caricaturale del causalismo, questo
„bisogno della mente“.

E’ chiaro che fatti o eventi o fattori visibili e


testimoniabili coesistono qui (se non concorrono)
insieme a fatti o eventi o fattori invisibili, non
testimoniabili e quindi subito appartenenti al genere
narrativo. A parte la carne di maiale il mal di
stomaco e la diarrea, c’era il Colombaccio rosso, il
senso di freddo e la stanchezza, già questi ultimi due
fatti o eventi o fattori molto soggettivi;
assolutamente soggettiva, invisibile e non
testimoniabile era la sensazione di Guido di trovarsi,
lì accompagnato ai Gatti, preso in una forzatura; e il
suo risentimento alle parole della Gatti: „Firenze in
questo è già meridionale“, dove „meridionale“
significava (anche ciò è soggettivo) caotico. Ciò che
è offensivo, poiché Guido detesta udire male parole
forestiere su Firenze.

Fin qui inesplorata, risalta, nel caso descritto, la


dimensione del classico (e stucchevole) triangolo
freudiano. Dove il Gatti è padre, la Gatti madre,
Guido figlio, tuttavia non desiderante, semmai
desiderato dalla „madre“, marcata stretta dal
marito. In ciò la vera forzatura del caso, specifica,
non genericamente riferibile alla scontrosità
caratteriale di Guido. Cacciato dunque in una
situazione a tre (percepita come tale e dunque non
estranea al suo psichismo), Guido avrebbe patito,
come dire? - a vuoto, ciò che significa: senza suoi
desideri. In altri termini, Guido sarebbe stato
costretto dalla Gatti a interpretare un ruolo
nell’occasione astruso, fuori luogo, ma ugualmente
penoso.
La situazione triangolare, pur senza desideri di
Guido, quindi „a vuoto“, potrebbe del resto aver
riattivato il cosiddetto complesso fondamentale
(edipico) di Guido, riattivabile com’è ovvio in
centinaia di casi.

Le poche decine di grammi di carne di maiale


assunte da Guido a cena con i Gatti bastarono a
metterlo in crisi, dunque, così come, si perdoni
l’esempio pacchiano, un fiammifero acceso dove c’è
esca può provocare un incendio. Lo psichismo di
Guido avrebbe dunque collaborato, per esprimersi,
con la sua intolleranza della carne di maiale (senza
contare il Colombaccio rosso la stanchezza e così
via). Esagerandone la dannosità con lo scopo di
togliere Guido da quel triangolo per lui
assolutamente spoglio di desiderabilità.

L’urlo ferino udito da Guido proprio quando stava


per decidersi a oltraggiare diarroicamente, chinato in
un anfratto tra le siepi di piazza D’Azeglio, il vezzoso
„cinque stelle“ lì davanti, potrebbe, com’è ovvio in
modo tutto narrativo e „sincronicistico“ (Jung), aver
rappresentato il corrispettivo acustico, proveniente
dal buio, del mal di pancia di Guido e della sua
rabbia di imprigionato nel triangolo (a vuoto di
desideri).
L'urlo

Ci affrettiamo in solitudine, è notte, spinti dal


bisogno di liberarci l’intestino. A un tratto sentiamo
di non resistere, eppure mancano soltanto poche
centinaia di metri da casa. Il giardino D’Azeglio
sembra vuoto, l’illuminazione è discreta, non
mancano siepi dietro cui potremmo chinarci. Non ci
piace quello che vorremmo fare, ma il nostro
abituale rispetto è sequestrato dall’urgenza.
Individuiamo da lontano un buon nascondiglio, tra
una siepe e un muretto, e ci decidiamo (quasi) a
eseguire l’oltraggio, quando un alto grido
sgangherato ci spaventa. Non sappiamo da chi né da
dove viene, immaginiamo un matto, o qualcuno che
esagera la sua reazione a uno scherzo, e per
prudenza rinunciamo all’esecuzione. Allunghiamo il
passo, e la fortuna ci premia. L’urgenza intestinale
stava prevalendo sul rispetto, ma la nostra paura di
poterci trovare, malmessi, davanti all’urlatore
misterioso, ha potuto ancora di più. La paura, e se
non la paura la prudenza, ci ha rimesso in
carreggiata. Ora possiamo anche valutare la
comicità della sequenza, com’è giusto.

Nessuno era con noi, nessun altro quindi può


testimoniare la realtà (di matrice esterna) del grido,
pensiamo a distanza di molti mesi da quella notte.
Noi eravamo sicuri di averlo udito provenire dal
giardino, ma non abbiamo visto chi ne fosse
l’autore. Dobbiamo credere a noi stessi, dunque,
confortare questa credenza con la nostra certezza di
non patire di allucinazioni e con il sapere (di matti,
barboni, ubriachi, ragazzi sguaiati, ce ne sono) che
un alto grido sgangherato rientra nelle probabilità
urbane notturne. Non ci basta, mentre trova il
nostro gradimento narrativo l’idea che il grido fosse
(anche) la forma acustica esteriorizzata di un
richiamo della nostra coscienza civica, morale
(rispetto, controllo): fuori di sé, è il caso di dire.
Florealtà

Anni or sono, lungo via Scipione Ammirato, in piena


luce tornavamo tranquilli e senza fretta verso casa
quando, dove si trovano affiancate due palazzine in
stile floreale, vedemmo uno stormo di cinque o sei
grossi uccelli verdi dal capo ostentatamente
piumato, ci parve, levarsi in volo proprio dal corpo
della palazzina in stile floreale, tra le due, più
estremo, in direzione di un asilo per anziani gestito
da suore che noi sappiamo essere originarie di Paesi
lontani (alcune certo filippine). Un lampo: spariti. Ci
sembrarono pappagalli, comunque uccelli esotici.
Neanche allora qualcuno si trovava con noi, nessuno
quindi può testimoniare la realtà (di matrice
esterna) del volo da noi visto per un attimo, questo
lo abbiamo pensato quasi subito, dubitando
fastidiosamente. Perché uno stormo di uccelli esotici
a Firenze è improbabile. Non impossibile, è ovvio,
ma del “possibile” non sappiamo accontentarci.
E’ degno di nota che gli uccelli verdi dal capo
ostentatamente piumato donavano in modo perfetto
agli ornamenti della palazzina (fabbricati in ceramica
verde, a grosse foglie e festoni, alcuni; due,
metallici, somiglianti a piccoli draghi, si ergono dalla
grondaia; senza contare le balaustre, a strisce
capricciose, dei due balconi).

Di rado riceve l’attenzione dei passanti, se non di


chi, non accecato, la vede per la prima volta, o di
giovani disegnatori, o fotografi, specie da quando è
stata restaurata senza badare a spese, la palazzina
in stile floreale estremo di via Scipione Ammirato,
nota agli esperti come Villino Broggi Caraceni, e
affiancata dal Villino Ravazzini, florealmente meno
notevole. Noi la rimiriamo ogni volta.
Donavano alla palazzina, gli uccelli, e potremmo
fantasticare che gli stessi ne fossero ornamenti in
libera uscita. D’altra parte potremmo far l’ipotesi
positiva che gli uccelli appartenessero alle suore
provenienti da Paesi lontani, quelle che curano gli
anziani nell’asilo, che fossero l’espressione concreta
del loro legame con i Paesi d’origine. Avendone
l’ardire, potremmo domandare a qualche suora di
nostra vaga conoscenza che talvolta incontriamo in
giro nel quartiere se è al corrente di quegli uccelli
esotici che noi crediamo di aver visto una mattina,
anni or sono, e mai più dopo. Sarebbe
imbarazzante. Del resto gli uccelli avrebbero potuto
appartenere ai proprietari della palazzina. O essere
scappati chissà da chi e da dove.
Peccato che noi dubitiamo non poco di aver visto
qualcosa di reale (e non di floreale), come quasi
subito abbiamo iniziato a dubitare. Potrebbe essersi
trattato di un’allucinazione, tuttavia molto
gradevole, al netto del fastidio che ci dà l’ipotesi che
noi possiamo aver avuto un’allucinazione, come
visione. Una visione che, adesso ce ne accorgiamo,
è facile da descrivere, mentre le forme che ha la
palazzina, e i suoi ornamenti, ci danno molti
grattacapi descrittivi. Gli uccelli, veri o allucinati, ci
suggeriscono ora una via d’uscita tutta narrativa
dall’improbo compito di descrivere la palazzina in
stile floreale estremo di via Scipione Ammirato, se
non, in definitiva, una via d’uscita dal nostro tran
tran. Un volo in quanto augurio, dunque.

Dubitiamo poco di aver udito davvero provenire dal


buio del giardino D’Azeglio quell’alto grido
sgangherato, invece dubitiamo molto di aver visto
davvero lo stormo di grossi uccelli esotici in via
Scipione Ammirato. Ma, se dubitiamo di questa
percezione visiva, dobbiamo dubitare anche della
percezione uditiva del grido, dopotutto avvenuta in
una situazione per noi assai penosa, dato che, dopo
una serata infelice, stavamo per farcela addosso in
strada, eccitati, tutti presi dalla fretta e insieme dal
controllo. E ripetiamo: del grido si può narrare come
d’un brutale esteriorizzato richiamo in nome del
controllo che stavamo perdendo.
Momenti perfetti

Pochi pomeriggi or sono, mentre stavamo


attraversando via Tommaso Campanella proprio
dove essa sbocca in piazza Oberdan, la nostra
attenzione è stata attirata da una smilza bambina di
quattro o cinque anni appesa, un cono gelato in
mano, all’esterno della balaustra che delimita la
piccola “terrazza” con pochi tavolini di un ritrovo lì
presente. Si teneva con le ascelle al corrimano della
balaustra, appoggiata con i piedi al margine esterno
della “terrazza”, e sembrava guardare, un poco
dimenandosi, due adulti seduti lì, tra i quali “la
nonna”, non senza occuparsi del suo cono gelato, la
bambina. La nostra attenzione, attirata dalla scena
descritta, era in quel momento lontana dal farci
vedere il margine del marciapiede cui stavamo
andando incontro al termine dell’attraversamento di
via Tommaso Campanella, di conseguenza l’abbiamo
urtato e abbiamo perso l’equilibrio: saremmo caduti,
se non ci fossimo sostenuti fortunosamente con una
mano alla parete dell’edificio contro cui l’inciampo ci
aveva gettato. Abbiamo rischiato, distratti, non
soltanto di non accorgerci di un’eventuale auto o
moto in arrivo dalla piazza, ma anche di rovinare
effettivamente a terra, in ogni caso ci siamo sentiti
esposti, nel nostro goffo catapultarci contro la
parete, a una comica, misera figura. D’anziano
malfermo, nonostante la sua vociferata apparenza
“giovanile”.

La nostra attenzione era stata attirata dalla bambina


intenta non sappiamo a che cosa, per quel che
riguardava la sua mente, dunque era stata attirata
da ciò che lei poteva sentire e pensare secondo la
nostra immaginazione spontanea. Abbiamo sentito
che quello era un momento della vita della bambina
che per qualche motivo misterioso sarebbe rimasto
inciso nella sua memoria, forse come un buon
momento, un “momento perfetto” (Sarte: ne La
nausea) di quiete di sicurezza di protezione e
insieme di libertà, infatti lei si trovava fuori dal
recinto della “terrazza”, non dentro, e guardava “la
nonna”. Noi eravamo quella bambina, e stavamo
rivivendo qualche nostro “momento perfetto” avuto
con la nostra nonna, sessanta anni fa, o con altri,
non importa chi. Più semplicemente: quel momento
della bambina era tutto nostro e la scena ci era
servita in un attimo a viverlo come se noi avessimo
avuto la sua età.

In termini brutali: ecco perché l’altro giorno siamo


inciampati nel margine d’un marciapiede e abbiamo
rischiato di sbattere contro la parete di un edificio di
via Tommaso Campanella. Per disattenzione. Perché
non guardavamo dove stavamo mettendo i piedi.
Abbiamo del resto pagato un prezzo ben modesto
alla nostra disattenzione, guadagnando invece
un’esperienza di nostra squisita trasposizione.
Abbiamo poi considerato, per gioco, l’ipotesi che
quella bambina vista e guardata da noi abbia chissà
come sentito la nostra trasposizione in lei, e ora,
anzi, ci piace immaginare che i “momenti perfetti”
dei nostri primi anni dipendano sempre dallo
sguardo di adulti, anche estranei, che stanno
trasponendosi in noi bambini. Ecco perché non
sappiamo spiegarne la “perfezione”: non sono
veramente tutti nostri. E potremo viverli davvero in
pieno soltanto quando appoggeremo il nostro
sguardo su nuovi bambini per caso all’opera secondo
il nostro gusto. Ma su questo ora non possiamo dire
di più.

Non dubitiamo certo di aver visto davvero la smilza


bambina di piazza Oberdan, o che fosse appesa
all’esterno della balaustra della “terrazza” di quel
bar, che tenesse un cono gelato in mano, e così via.
Né dubitiamo di essere inciampati, né del motivo
dell’inciampo. Infatti sono in questione eventi del
tutto comuni e ben connessi, non grida sgangherate
nella notte, men che meno voli urbani di uccelli
esotici a mezzodì. Dubitiamo invece che la signora
guardata, tra gli altri, dalla bambina fosse sua
nonna, anche se potrebbe esserlo stata, com’è
ovvio. E che la bambina guardasse quelle persone.
Siamo certi, invece, che l’intera faccenda del
“momento perfetto” appartiene alla nostra mente.
Dubitare dei nostri sensi è comprensibile, quando
essi registrano eventi che non appaiono ordinari, se
non siamo affetti da psicosi né ci nutriamo di
superstizioni, né, per la verità, riteniamo che vi sia
altro magico intorno a noi, o dentro di noi, se non
quello creato dalle nostre descrizioni, magico
appartenente quindi al genere narrativo; dubitare
del non ordinario è comprensibile, ma perché non
dovremmo dubitare anche degli eventi ordinari?
Restiamo irretiti dagli eventi non ordinari, che in
definitiva potrebbero essere richiami indirizzati alla
nostra attenzione di solito vagante, mentre
trascuriamo i cosiddetti eventi ordinari, che per
essere tali lasciano che la nostra attenzione vaghi.
Non dubitiamo dell’ordinario, mentre dubitiamo del
non ordinario, è così. Ogni evento può indurci a
prendere lucciole per lanterne, invece, specie se è
ordinario. In effetti noi dovremmo credere di più alla
realtà di un grido notturno sgangherato, o di un volo
d’uccelli esotici, che non alla realtà di una bambina
con il gelato in mano e così via; e, certo, di più nella
realtà (di matrice interiore) della nostra
trasposizione in lei che non nella realtà (di matrice
esterna) di lei stessa.
Socrate per strada

Pochi giorni dopo la stesura di ciò che qui precede


camminando abbiamo visto per terra vicino ad un
cassonetto una pagina a stampa. L’abbiamo
raccolta, era tutto quel che, in quel luogo, rimaneva
di un libro (piuttosto vecchio, si direbbe) su Platone,
o, per essere prudenti, di un libro vertente anche
sull’opera di Platone, o di un articolo d’una rivista
dedicato a Platone, nel dettaglio: a un suo dialogo
„socratico“, Eutifrone.
L’abbiamo raccolta per curiosità e a causa della
nostra brama di segni, domandandoci che cosa
avrebbe avuto da dirci. Si tratta di un evento
testimoniabile da chi era con noi e confermato, se
non da quel che abbiamo narrato circa l’averla vista
e raccolta, dal fatto che la pagina si trova ancora in
nostro possesso. Non è un grido sgangherato, non
un volo d’uccelli, né una bambina sconosciuta, tutti
segni (secondo la nostra brama) irrecuperabili.
Naturalmente, che la pagina avesse (e abbia)
qualcosa da dire a noi e non fosse soltanto un ovvio
prodotto del caso (il rimanente d’un libro buttato
via) come ogni evento ordinario o non ordinario, è
una nostra attribuzione di cui siamo consapevoli,
perché non siamo affetti da psicosi né ci nutriamo di
superstizioni, né, per la verità, riteniamo che vi sia
altro magico intorno a noi, o dentro di noi, se non
quello creato dalle nostre descrizioni, magico
appartenente quindi al genere narrativo, giova
ripeterlo.
Raccogliendola abbiamo esercitato una scelta di
curiosità che altri non avrebbero compiuto;
aspettandoci da essa un segno ci siamo distinti
ancora un po’ tra i già rari raccoglitori di pagine a
stampa perdute, ed è pensabile che la nostra brama
di segni (da trasformare in simboli) sia una strada
della nostra individuazione, che ne ha bisogno.

Eutifrone, leggiamo, è un povero uomo che fa il


processo al padre non tanto per malvagità né per
ambizione, ma per cortezza di mente: perché cioè
nel suo fanatismo intollerante e nella sua sicurezza
farisaica non sa vedere la realtà nelle sue giuste
proporzioni. In fondo, egli non è in mala fede in
quanto è convinto di dover agire in quel modo per
non „contaminarsi“ convivendo con il padre. (...)
Eutifrone fornisce (...) la „grande riprova“ della
santità e giustezza del suo operato chiamando in
causa l’operato stesso degli Dei di cui parla la
mitologia. E di rimando Socrate dice testualmente:
Ma è proprio questa la ragione, o Eutifrone, per cui
sono accusato: perché, quando qualcuno mi narra
cose simili intorno agli Dei, duro fatica ad accettarle.
E per questa ragione, evidentemente, si dirà che io
sono in colpa.

Il brano riportato „corrisponde“ alla nostra brama di


segni, specie in questo periodo che ci vede alle
prese con queste note che scriviamo. Il problema sta
nel „vedere la realtà nelle sue giuste proporzioni“,
senza „fanatismo“, senza chiamare in causa una
qualche „mitologia“ religiosa o magica. Noi „duriamo
fatica ad accettare cose simili“ e cerchiamo una via:
tra il „fanatismo“ insito nelle attribuzioni irrazionali
di senso (agli eventi) e un trito realismo. Tra la
superstizione e il culto della probabilità, o del caso.
La via, come abbiamo ripetuto, è quella della
narrativa, che tuttavia può sbandare nella
„mitologia“ (superstizione), o nel realismo
(probabilità, caso). Flirtare qualche volta con la
prima, qualche volta con il secondo.

Che cosa significa, per noi, „vedere la realtà nelle


sue giuste proporzioni“?

Abbiamo notato, come molti altri avrebbero potuto,


una pagina malridotta vicino a un cassonetto
dell’immondizia, tutto qui. Qualcuno aveva buttato
via un libro, una pagina era caduta fuori, magari
quando gli addetti alla nettezza urbana avevano
vuotato il cassonetto nella loro macchina
raccoglitrice. L’abbiamo samaritanescamente
raccolta, come altri avrebbero potuto fare, perché
era una pagina di un libro (o di una rivista): non
avremmo certo raccolto, per dire, una bottiglia o un
foglio pubblicitario. L’abbiamo velocemente valutata
e messa in tasca, come non molti altri avrebbero
potuto, perché noi abbiamo rispetto per la carta
stampata specie se pare appartenere a un libro (o a
una rivista), e siamo lettori.
V’è un percorso di individuazione, qui riflesso: dal
generico „molti altri“ al meno generico „altri“,
all’ancor meno generico „non molti altri“; allo
specifico „lettori“.
L’abbiamo intascata, facendola quindi nostra,
mettendo in moto un gioco, quello che consiste nel
cercare segni, messaggi a nostro uso, in certi eventi
(anche in forma di oggetti) che ci capita di
osservare. Un gioco cui diamo l’importanza che si
merita, volta per volta, senza dimenticare che di
gioco si tratta: guardandolo „nelle giuste
proporzioni“, insomma. Incuriositi da quel che, volta
per volta, esso dà, ma anche scettici sui suoi
risultati. Ci piace, ci diverte, tutto qui.
Il percorso dell’individuazione, qui riflesso, procede:
dallo specifico „lettori“ al più particolare „cercatori di
segni“ (da trasformare in simboli); all’ancor più
particolare „giocatori al cercasegni“. Siamo adesso
nei paraggi di noi stessi, andare oltre significa ciò di
cui il presente scritto è un tentativo.

Tornati a casa, non appena possibile abbiamo letto


la pagina, senza trovare niente d’interessante,
nessun „segno“, nessun „messaggio“. La mattina
seguente, come pochissimi altri avrebbero potuto,
abbiamo riletto la pagina, trovando il brano sopra
riportato, che, come crediamo, in questo periodo ci
riguarda. Il giorno dopo, cioè ieri, abbiamo inserito
nel presente scritto il risultato della nostra trovata. Il
percorso dell’individuazione qui riflesso procede a
questo punto nei vicini paraggi di noi stessi: siamo
giocatori al cercasegni che inoltre ne scrivono.

Non ci sfugge, com’è ovvio, che il senso da noi


trovato nella seconda delle due facciate della pagina,
il senso della opportunamente detta trovata, è una
nostra costruzione, un’interpretazione forse
estorsiva, una nostra proiezione: noi abbiamo fatto
parlare quella pagina secondo le nostre esigenze
narrative approdando quindi a una trovata narrativa.
Fossimo dei cultori del Platone „socratico“, come non
siamo, avremmo letto dell’altro, pur alle prese con
uno scritto come il presente.

Abbiamo chiarito tuttavia che noi facciamo, quando


capita, un nostro gioco detto cercasegni. Cercare
segni riguarda molti, giocare al cercasegni crediamo
che riguardi pochi. Quando ne scriviamo, noi siamo
cercasegni narratori. Dal gioco alla narrativa.

Cerchiamo segni in eventi, e in oggetti in quanto


eventi, siano essi non ordinari (il grido „minaccioso“;
il volo „augurale“ di uccelli esotici) o abbastanza
ordinari (una bambina; una pagina a stampa), come
abbiamo scritto, per gioco. Nel caso di eventi in sé
non ordinari il nostro gioco (che è antichissimo)
serve a tentare di venirne a capo; nel caso di eventi
in sé ordinari, esso serve a valorizzarli, in altri
termini a trasformarli in qualcosa di non ordinario
oppure significativo (in simboli): perché?
Perché talvolta (non sempre, com’è ovvio) facciamo
questo gioco cui crediamo fino a un certo punto? E:
fino a quale punto?

Alla prima domanda possiamo rispondere, come


farebbe il nostro caro medico, che siamo dei
„nevrotici“, dunque apparteniamo alla schiera di chi
(si) crea dei problemi (qui: il problema del
„significato“) dove non ce ne sono, di chi non sa
„vedere la realtà nelle sue giuste proporzioni“ di
casualità, di causalità, di probabilità. Il fatto che il
nostro sia un gioco consapevole ci fa dire di noi che
siamo „nevrotici“: altrimenti saremmo „psicotici“.
Somigliamo a chi non può fare a meno di contare (è
un esempio) i passanti dotati di cappello, sapendo
tuttavia che ciò è vacuo.

Creiamo il problema del significato proprio perché


siamo alla ricerca di significati (se non di simboli)
forniti dal mondo intorno a noi, poiché nel mondo
interno a noi essi sono molto confusi. Non sappiamo
che cosa significhiamo noi, la nostra vita, i nostri
pensieri, il nostro lavoro, la lettura, la scrittura, i
nostri rapporti personali e così via. Non sappiamo
perché mai siamo in giro una notte, in piazza
D'Azeglio, di ritorno da una passeggiata faticosa con
ospiti venuta dopo una cena infelice che ci ha
provocato prima fastidi allo stomaco, poi
all’intestino. Non sappiamo perché mai siamo fuori
una mattina con il sacchetto della spesa in mano:
forse si tratta di una „pausa“ del nostro lavoro (che
a sua volta è una pausa interposta tra l’alba e la
notte)? Non sappiamo perché mai stiamo tornando a
casa, un pomeriggio, in piazza Oberdan, nel senso
che non sappiamo perché mai siamo usciti di casa,
al mattino.
Ecco perché giochiamo a cercasegni. Per trovare
risposte magari astruse, tuttavia non banali.

Alla seconda domanda (fino a che punto crediamo a


questo gioco?) abbiamo in parte già risposto: gli
diamo l’importanza che si merita, volta per volta,
senza dimenticare che di gioco si tratta:
guardandolo „nelle giuste proporzioni“, insomma.
Incuriositi da quel che, volta per volta, esso dà, ma
anche scettici. Ci piace, ci diverte, „tutto qui“ (come
se fosse poco!), abbiamo scritto. E abbiamo scritto,
poi, che noi siamo cercasegni narratori. Crediamo
dunque al cercasegni come gioco perché ci consente
di raccontare (anche in parole scritte) storie cui
crediamo appunto in quanto storie, in quanto
narrativa, non in quanto verità, nello stesso modo in
cui, com’è ovvio, riflettiamo sui nostri sogni,
puntando più sulla riflessione che non sul loro
significato. E’ il gioco stesso che c’interessa, molto
meno i suoi risultati. Al gioco crediamo, non ai suoi
risultati o meglio cosiddetti risultati.

In definitiva facciamo questo gioco perché è il nostro


vero unico lavoro. Il nostro lavoro è un gioco, il
nostro gioco è un lavoro.
Fuori luogo

Qualche mese fa, in un’aula universitaria,


appoggiato su un mobile contenente dispositivi
elettronici, abbiamo scorto, poco prima che iniziasse
una riunione di colleghi, un esemplare di mutande
maschili di cotone nero, del tipo „a calzoncino“. E’
una descrizione dell’evento, come riteniamo, nuda e
cruda.
L’avremmo prelevato con le opportune cautele, per
quanto sembrasse „di bucato“, allo scopo di
provarne (ma con poche speranze di riuscirci, al
cospetto di un interlocutore rigoroso) la realtà (di
matrice esterna), analoga a quella della pagina
trovata, ma la presenza di testimoni ce lo ha
impedito. Siamo disposti a mostrarci con in mano
una pagina a stampa, in pubblico, non con in mano
un esemplare di mutande maschili, ebbene sì. Si
trattava, stavolta, di un oggetto ordinario che, dato
il luogo, dava adito a un evento non ordinario. Nel
senso che tale oggetto si trovava fuori posto.
Tutti gli eventi non ordinari in definitiva sono tali
perché fuori posto, „fuori luogo“, fuori contesto e
così via. Il grido sgangherato da noi „udito“ era fuori
posto, dal momento che non ci trovavamo nelle
adiacenze di una camera di tortura, ma in una
distinta piazza fiorentina (dove del resto un giovane
olandese „ubriaco“, secondo la stampa locale,
sarebbe due tre giorni or sono caduto al suolo
insieme al lampione sul quale, per saggiarne la
solidità, s’era arrampicato alla Tarzan in presenza di
amici suoi: fratturandosi diverse ossa. Avrà urlato?).
Il volo degli uccelli esotici da noi „visto“ era fuori
posto in quanto non ci trovavamo né al giardino
zoologico né per esempio in Nuova Guinea, ma in
zona Campo di Marte, a Firenze. La concreta e
autentica pagina platonica era fuori posto e
certamente fuori contesto (il volume di
appartenenza), ma la presenza del cassonetto lì
vicino la giustificava come oggetto ordinario. Le
altrove ordinarie mutande maschili erano
certamente fuori posto e „fuori luogo“ (che significa,
ebbene sì, inopportune), in quell’aula, dunque
costituivano un evento non ordinario. Che cosa ne
giustificasse la presenza lì, noi veramente non
sappiamo né sapevamo, ma, com’è ovvio, qualche
ipotesi ci zampilla in mente. Tale lavoro e gioco,
premettiamo, farà qualche luce sull’oggetto (le
mutande maschili) e sul soggetto (il giocatore).

Cercare la giustificazione di un evento strano è già


un’interpretazione, però; tentare di spiegarlo è
legittimo, ma non obbligatorio, infatti potremmo
limitarci ad accoglierlo. Anche se ci urta. Potremmo
considerare, in particolare, che la condizione „fuori
posto“ è a sua volta un „a posto“, così come il posto
di certi personaggi è proprio quello di non averlo, e,
se l’avessero, finirebbero per svanire.
L’individuazione, rispetto alla gregarietà, è andare
„fuori posto“. D’altra parte la gregarietà è il „fuori
posto“ dell’individuazione, e così via.

Senza sforzo, abbiamo subito assegnato a quelle


mutande maschili il seguente „posto“: in quel
periodo (tardo autunno 2010) era in corso
un’occupazione studentesca, con qualche
conseguente pernottamento, da ciò il lascito: si
dorme, la notte, nonostante il fervore della „lotta“, ci
si spoglia, forse, ci si cambia, chissà, e si
dimenticano le mutande, come accade spesso in
albergo. Assegnazione, come dire? - automatica.
Uno tra i rari soggetti di genere maschile iscritti alla
facoltà, o un soggetto di genere maschile senza
specificazioni? - meglio: una persona, magari
addetta alle pulizie, come ragioniamo ora, aveva
appoggiato quelle mutande sul mobile nero
contenente dispositivi elettronici che si trova accanto
alla cattedra. Qualcuno, questa è la sola verità
dicibile, aveva appoggiato le mutande lì, maschio o
femmina. E’ un’ipotesi nuda e cruda. Senza sforzo,
in automatico, abbiamo assegnato alle mutande un
„posto“ connesso con l’occupazione, iniziando a
vestire l’evento in modo ragionevole, ma
congetturale; e abbiamo colorito tale nostra
assegnazione con la fantasia che le mutande fossero
la traccia di un che di sessuale avvenuto nei paraggi.
La „vestizione“ dell’evento era, adesso, doppiamente
congetturale: durante l’occupazione qualcuno aveva
„fatto sesso“. Le mutande ne erano la traccia.

Si potrebbe „far sesso“ in una facoltà universitaria


anche se questa non fosse occupata, però;
basterebbe volerlo e avere l’abilità o la fortuna di
trovare il come e il dove, o semplicemente lo slancio
d’improvvisare, dopotutto si tratta di edifici grandi,
molte sono le aule, lunghe le ore d’apertura, e molti
spazi, specie nel secondo pomeriggio, restano vuoti.
Fatto sta che, in trentotto anni (più quattro da
studenti) di nostra frequentazione di luoghi
universitari, anche durante le innumerevoli
occupazioni studentesche, noi non avevamo mai
visto prima, abbandonate, mutande maschili o
femminili in giro, bensì, abbandonati, sciarpe,
cappelli, giubbotti, guanti, astucci da occhiali;
naturalmente ombrelli, penne, lapis; e libri,
fotocopie, quaderni; perfino un braccialetto
d’argento, recentemente. Mai mutande.
Abbiamo visto in loco, durante l’occupazione,
coperte, sacchi a pelo e simili, tutti oggetti connessi
ai pernottamenti, dunque: perché non mutande? Il
nesso tra la presenza delle mutande in aula e un che
di sessuale avvenuto nei paraggi (durante il periodo
dell’occupazione) non soltanto non è forte, ma è
tendenzioso. E’ tendenzioso tuttavia anche
connettere le mutande, in quanto congetturale
traccia di un che di sessuale, semplicemente alla
vastità e solitudine (in certe ore) degli spazi di una
facoltà.

„Tendenziosa“: questo attributo del sostantivo


„connessione“ dev’essere spiegato con l’innegabile
tono di malignità che ha accompagnato lo zampillare
subitaneo delle nostre ipotesi, malignità di cui non
andiamo fieri: ne prendiamo atto, invece, come di
un risultato certo della nostra ricerca in merito
all’evento (certo) costituito dall’aver scorto, noi, un
esemplare di mutande maschili in un’aula della
facoltà. Malignità di un anziano (è vecchia di decine
di anni, abbiamo accennato, la nostra
frequentazione universitaria) scollegato non poco, se
non annoiato, dal fervore delle ripetitive „lotte“
studentesche. Invidia, dentro la malignità, a sua
volta interna alla tendenziosità. Invidia a carico di un
raro (com’è certo) soggetto di genere maschile (il
titolare delle mutande) che „aveva fatto sesso“ (o
magari „l’amore“) con una o più fanciulle tra le
numerosissime che quel sito „offre“.
Ci siamo abbandonati, or ora, alla narrazione, al
gioco, ed essi ci danno un’immagine di noi, ancora
una volta c’individuano. Il desiderio è uno dei motori
spontanei della nostra attività mentale. Frenato da
preoccupazioni epistemologiche. Anche quest’ultimo
è un risultato certo della nostra ricerca in merito
all’evento mutandico. Ogni ricerca in merito ad ogni
evento porta alla mente del ricercatore.
Due paia di sandali

Diversi anni or sono dovevamo acquistare un


appartamento. In località Strada in Chianti ne
visitammo uno arredato e abitato: ci pare però che
soltanto l’addetto dell’agenzia immobiliare fosse con
noi, non ricordiamo altre persone. A noi non dispiace
raccontare le nostre avventure, è ovvio, anche se
faticose e spiacevoli come sono quelle inerenti la
scelta di un appartamento da prendere in affitto o da
acquistare, esposte alla comune sgradevolezza (da
noi patita) del linguaggio degli addetti d’agenzia
immobiliare, gravate dalla nostra pigrizia, dal nostro
disprezzo per quei (nostri) limiti finanziari che
c’impongono di escludere dalla scelta case simili alle
due palazzine in stile floreale di via Scipione
Ammirato; e dalla nostra certezza che i prezzi sono
sempre esagerati.

Se la realtà (quale che sia la sua matrice) è


sgradevole, la sua narrazione può non esserlo. C’è
chi ne approfitta per mescolare le carte. La realtà
può del resto essere piacevole, e la sua narrazione
risultare penosa, ma quest’ultimo spunto esula dal
nostro interesse attuale.
Noi non mescoliamo le carte, o almeno tentiamo di
non farlo. Da un lato restano, per noi, le mutande
maschili accademiche di cotone nero, qui
rappresentanti della realtà (di matrice esterna);
dall’altro le nostre narrazioni congetturali. Parole.

L’appartamento, non vecchio, era al pianterreno di


una casetta costruita davanti a un vasto terreno così
sfacciatamente „edificabile“ da farci trascurare la
piacevole vista sulla valle, a causa dell’immediata
nostra certezza di anni e anni futuri di lavori edilizi,
com’è naturale non confermata dall’addetto
dell’agenzia immobiliare. Gli abitanti
dell’appartamento avevano un cane, se il cane non
aveva loro, come s’indovinava da una cuccia fatta di
cenci, da un osso di gomma e da una triste palla,
oggetti sparsi nella „cantina“ (se non nella nostra
immaginazione), un largo ambiente vuoto, nuovo
ma squallido, privo di finestre o finestrini; un cane
forse tenuto prigioniero là sotto, di tempo in tempo.
Alla scena ora si sovrappongono, invincibili ma
estranee, le nostre ripetute visioni di stronzi
nell’area di un giardinetto, all’Impruneta, abitato da
un grosso cane prigioniero in quello spazio ridotto,
che ci salutavano all’inizio di un’erta salita boschiva
verso il cimitero delle cosiddette Sante Marie, e
beninteso al termine della discesa dalla collina
medesima.

Mentre l’addetto dell’agenzia ci stava informando


sulla „condonabilità“ (in quanto pregio) di non
ricordiamo quale abuso, forse dell’estorto accesso
diretto dall’appartamento alla „cantina“, fatti i pochi
scalini per tornare su noi ci trovammo davanti una
trascurabile stanzetta di pochi metri quadrati. Un
ripostiglio. Luce accesa. Noi vedemmo e guardammo
per un attimo due paia di sandali (femminili) lasciati
sul pavimento. Erano fatti di poche sottili strisce di
cuoio non verniciato fissate a suole che più basse
non si può. Privi di tacco.
Non eravamo ancora spossati, doveva essere anzi,
quello di Strada in Chianti, soltanto il terzo
appartamento che visitavamo, dei trenta e più che
avremmo preso in esame (a nostra volta esaminati)
in meno di due mesi; avevamo della curiosità, com’è
logico mescolata all’indignazione dovuta all’assurdità
dei prezzi in euro che noi senza tregua
traducevamo, e avremmo tradotto, in cosiddette
vecchie lire, rinfacciandola agli addetti d’agenzia
immobiliare, per la verità in qualche rara occasione
anche disposti ad ammettere che sì, un
appartamento da trecentomila euro pochi anni prima
sarebbe costato trecento milioni di lire; non eravamo
ancora stremati, e, bisogna riconoscerlo, ci
sentivamo piuttosto presi, invece, dall’esperienza
consistente, a ogni visita, nell’immaginare un nostro
eventuale prossimo vivere in questo o quel luogo
nuovo, nuovi negozi, nuove abitudini, nuova edicola
dei giornali, nuove facce, strade, viste e così via.
Nuove o magari, se a Firenze, mai praticate.
Era in certo modo un viaggio, la visita a Strada in
Chianti, come lo sarebbero state le altre successive,
come lo erano state le precedenti. Come le
numerosissime che, ad oggi, abbiamo fatto per
trovar casa. Da e di quel viaggio abbiamo riportato
l’immagine del seminterrato a uso canino, ma senza
cane visibile, al cui squallore si sovrappone quello
della sciatteria umana vista e rivista all’Impruneta,
ma anche la nostra fantasia, nata lì per lì, di
realizzare in quella stanza una postazione claustrale
di puro ascolto di musica. E riportiamo l’immagine
delle due paia di sandali, ma senza piedi,
domandandoci subito: erano davvero femminili, o
entrambi femminili? Ci sembra che un paio fosse più
piccolo dell’altro, quindi appartenevano a due
persone diverse, questo è certo, di cui quella dotata
di piedi meno grandi poteva essere una donna, ma
anche l’altra, dopotutto: i sandali erano troppo nudi
per essere maschili, troppo sexy. Il desiderio è uno
dei motori spontanei della nostra attività mentale.
Frenato da preoccupazioni epistemologiche,
ripetiamo. E viceversa.
Non sappiamo più se in casa fosse presente
qualcuno, oltre a noi e all’addetto dell’agenzia, né se
costui ci avesse dato qualche informazione su chi ci
abitava, due ragazze con un cane, un cane con un
ragazzo e una ragazza, una persona adulta, due
ragazze e un cane: niente. Ricordiamo soltanto che
non ci piacque, quel posto, senza contare lo sguardo
torvo di qualcuno, da un balcone al primo piano,
mentre Strada in Chianti, come avevamo scoperto
occupando il tempo tra il nostro arrivo e l’ora
stabilita, pareva davvero solo un tratto di strada,
due file di case divise dal passaggio continuo di
auto, camion, moto da e per Firenze: forse
cinquant’anni fa sarà stato simpatico, ci venne da
pensare, oggi proprio no. L’appartamento era troppo
banale, a parte la nostra fantasia della stanza da
musica (raggiungibile da una scaletta „abusiva“):
davanti aveva il suo futuro segnato, come ripetiamo,
dalla certa costruzione di altre casette. Il prezzo,
logicamente, era assurdo.
Mesi prima avevamo incontrato diverse volte
un’amica di una nostra amica, che con il caldo
vestiva esiguamente e perfezionava la sua nudità
con un paio di sandali uguali a quelli che avremmo
visto e guardato (per un attimo), lasciati sul
pavimento nel ripostiglio dell’appartamento brutto,
ma caro assaettato, di Strada in Chianti. Una
ragazza piuttosto alta e formosa, florida, come si
dice? Tanta. A lei sarebbero andati bene i sandali più
grandi, tra le due paia, magari alla nostra amica
piccolina gli altri.
Senza che ce ne rendessimo conto, la visione delle
due paia di sandali lasciati (pareva in fretta) sparsi
sul pavimento, ci rimetteva in contatto con
l’ambiente, esperito per anni (fino alla nausea), dei
giovani inizianti la loro vita fuori dall’orbita della
famiglia, senza una madre che mette ordine, senza
soldi, ma con la voglia di farcela. Avevamo perduto
quel contatto, di cui la nostra amica piccolina (e la
sua amica „tanta“) erano un campione. Ora lo
riavevamo, senza rendercene conto, o meglio senza
narrarne la consapevolezza (come stiamo facendo
ora), nella forma di un urto sexy alla nostra
sensibilità.

La „tanta“ c’era parsa avere tutte le qualità per


piacerci, la vediamo ora saltellante, una sera, venirci
a salutare, su un piede solo, quello nudo; aveva
smesso per noi di abbigliarsi per lo spettacolo cui
eravamo stati invitati dalla piccolina, e dove
entrambe avrebbero danzato: aperta, priva della
solita diffidenza che i giovani provano per i vecchi
fuori posto, come noi ci trovavamo ad essere. Ma di
lei, una volta insorta l’accennata nausea, avremmo
ricordato appena il nome, e l’unico tramite per
raggiungerla, la sua amica piccolina, sarebbe
divenuto per noi impraticabile.

Non sappiamo se le due paia di sandali di Strada


(ecco che una metafora vola via, ora, da quella
brutta casa, come gli uccelli esotici dall’indescrivibile
palazzina in stile floreale di via Scipione Ammirato:
„sandali di strada“) ci avrebbero ripagato della
visita, rinfacciata giorni dopo all’agenzia
immobiliare, nel caso che, mesi prima, noi non
avessimo visto e rivisto, seminuda, l’amica in sandali
della nostra piccolina. Non sappiamo se ci avrebbero
ripagato, a prescindere da quel preciso groppo di
vicissitudini del nostro desiderio, o se invece non
fossero di per sé un suo oggetto, in definitiva
conclamato nel segno del cosiddetto feticismo. Non
siamo neppure certi, ebbene no, che i sandali
fossero due paia o un paio soltanto.
L’unica cosa che sappiamo è che eravamo stati
attratti e insieme respinti da quei sandali, dal
disordine che significavano, dalla fretta, da una
potenza femminile che ci urtava, per di più con la
sua sfrontatezza giovanile. Avevamo voglia di
praticare tutto ciò di cui erano traccia, subito
tuttavia disturbati dal nostro bisogno di ordine.
Storcevamo il viso in una smorfia da genitore in
visita alle figlie, scontento della loro trascuratezza
domestica, e insieme sentivamo l’acquolina in bocca.
Desiderio e preoccupazioni epistemologiche. Invidia.
Perdere il filo

Durante la lunga occupazione della facoltà dove, in


un’aula, abbiamo visto quelle mutande maschili, una
mattina stavamo tenendo una lezione davanti ad
alcune studentesse e un paio di studenti. Non era,
la nostra, una „trasgressione“, infatti gli occupanti
convivevano con le solite attività universitarie, e
viceversa. A un tratto si apre la porta dell’aula e,
muti, entrano alcuni pochi giovani, ragazze e
ragazzi, che, senza rivolgere ai presenti neppure uno
sguardo, tesi, parrebbe, depositano lungo la parete
opposta alla cattedra coperte e sacchi a pelo,
meglio: oggetti morbidamente arrotolati dai colori
molto casalinghi, rinvianti insieme a intimità di
camere da letto banali, ma estranee, e a quelle
emergenze che producono sfollati. Noi
c’interrompiamo e restiamo senza parole a
guardare. I giovani tornano a mani vuote alla porta,
sempre muti e senza guardare né noi né i nostri
uditori, ed escono. Dopo un attimo la porta si riapre
per una sequenza uguale alla prima. Stavolta,
riavutici dallo stupore, riprendiamo la parola e
facciamo notare ai giovani intrusi che stanno
„disturbando la lezione“. Uno, rimasto sulla porta, ci
risponde come segue: „chiami la polizia!“. „La
chiami lei, la polizia!“, replichiamo, e la cosa termina
qui.
La lezione riprende com’è ovvio con qualche nostra
difficoltà, dato che abbiamo perso il filo. Noi siamo
preparati a perdere il filo, in effetti, ma non a
vedercelo strappare.

Non ci era mai capitato qualcosa di simile, dunque


consideriamo ciò non ordinario (almeno ai nostri
occhi) al pari del nostro avvistamento delle
mutande. Anche la nostra visione del volo di uccelli
esotici di via Scipione Ammirato è non ordinaria, ma
di statuto incerto quanto alla sua matrice (esterna,
interna?), come il grido sgangherato di piazza
D’Azeglio. I dubbi circa la descritta scena del
disturbo di una nostra lezione non riguardano la sua
matrice esterna, certa e testimoniabile dai nostri
uditori in aula, ma il suo significato.
A parte qualche dettaglio, la descrizione data qui
dell’evento è nuda e cruda. Alcuni giovani, è
ragionevole credere, preparavano un’occupazione
dell’aula, prenotandola, per così dire, depositandovi
(con largo anticipo!) quel che pareva essere il
necessario per sdraiarsi, se non per dormire - per
passarvi la notte, mentre noi stavamo tenendo la
nostra lezione, tra le nove e le undici di mattina.
Tanto è vero che, durante la pausa tra la prima e la
seconda parte della lezione, usciti nel corridoio,
vedemmo un foglio attaccato alla porta dell’aula in
questione con su scritto „aula occupata“.

Due impressioni avremmo soppesato nei giorni


seguenti: che l’intrusione fosse stata indirizzata a
noi; e che avesse costituito un’azione teatrale
davvero ben realizzata. Su questa seconda
impressione non abbiamo dubbi: per caso o a bella
posta quei giovani avevano dato luogo a una scena
notevole; ci avevano disturbato, certo, ma non
potevamo fare a meno di considerare di aver
partecipato a uno spettacolo davvero di prim’ordine,
serio, senza fronzoli, breve, pungente:
professionale. Noi l’avevamo interrotto, al momento
della seconda intrusione, in realtà entrandoci con le
nostre parole e concludendolo con quel nostro
curioso controinvito rivolto allo studente che ci
aveva provocato a chiamare la polizia: „la chiami lei,
la polizia!“.
Avevamo qualche idea sul significato e la funzione
del nostro spontaneo contro invito, o contro
provocazione, e insieme ne eravamo in certo modo
affascinati. Insomma, avevamo dato il nostro
contributo alla riuscita dell’azione teatrale. I nostri
pochi uditori, invece, erano rimasti pubblico
passivo.
Avevamo rifiutato l’etichetta implicita applicataci
dallo studente dotato di parola, come spiegandogli
che non eravamo spie, quanto a lui, che ci pensasse
su. Cadendo in un’innegabile provocazione (politica,
o teatrale, o entrambe). Ci eravamo ritenuti oggetti
deliberati di tal provocazione, non casuali (come si
dice: „al posto sbagliato nel momento sbagliato“). La
nostra ormai invincibile nausea dell’„occupare“
facoltà e scuole; il risentimento contro le interruzioni
del nostro ritmo d’insegnamento, del nostro filo (che
consiste anche nella sua perdita); il rifiuto dell’invito
a tenere „lezioni in piazza“ e (anche da parte della
presidenza) „lezioni alternative“, motivato da noi con
l’argomento che per far lezione serve un assetto
preciso, non casuale, che in piazza si fa dell’altro, e
con l’argomento (provocatorio) che le nostre lezioni
sono sempre „alternative“, in quanto, avremmo
potuto precisare, le „improvvisiamo“ seguendo le
vicissitudini del desiderio e delle preoccupazioni
epistemologiche: adesso noi avevamo pagato tutto
ciò con l’intrusione di quei giovani scassatori
dell’assetto della nostra lezione. Questa la nostra
ricostruzione, di cui dubitiamo fortemente, mentre
non dubitiamo affatto dei temi di nostra pertinenza
che essa agita.

Sarebbe facile connettere narrativamente le nostre


ironiche elucubrazioni sulle mutande da noi (e da
altri) avvistate, con quelle sull’interruzione della
nostra lezione, avvenuta, questo è certo, in una
diversa aula. Non ricordiamo tuttavia se
l’interruzione sia avvenuta dopo il nostro
avvistamento delle mutande, oppure prima; quindi
dobbiamo lasciare che i due eventi e le due
elucubrazioni giochino insieme nella nostra mente
(narrativa) sullo sfondo di una nausea
„politicamente scorretta“; e sappiamo bene di aver
parlato di nausea, però molto più intima, anche
discutendo del nostro avvistamento dei „sandali di
Strada“.
50 centesimi la visita

Durante l’autunno molte scuole sono occupate, noi


non sappiamo se quest’impressione sia vera o se
contenga una nostra forzatura polemica: cadono le
foglie, si occupano scuole, facoltà universitarie. Pare
un rito. La novità innegabile dell’esperienza
dell’occupare, da parte dei giovani studenti ai loro
inizi (ma ci sono anche dei marpioni navigati), non
lo è affatto per chi, come noi, ne osserva le
manifestazioni da decenni. E ne è nauseato, come,
per la verità, l’intera faccenda del vivere gli pare
nauseante. Poche volte „uccelli esotici“ si staccano a
pro nostro dal visto e rivisto, poche volte gridi
sgangherati attirano la nostra attenzione, poche
volte c’incantano (facendoci inciampare) i „momenti
perfetti“, poche volte la pena delle incombenze
s’interrompe lasciandoci scorgere „sandali di strada“.
Ed è raro che, passando noi accanto a un cassonetto
dei „rifiuti“, ci dia il suo “assenso“ una pagina d’alto
sapere. Sappiamo talvolta trarre un volo d’uccelli
esotici da un oltraggio, come abbiamo
narrativamente fatto ragionando intorno alla buona
esecuzione teatrale dell’intrusione di quei cialtroni,
che pure aveva strappato il filo della nostra lezione:
questo è vero.

Durante l’autunno scorso, un pomeriggio,


percorrevamo via del Ghirlandaio, modesta varianza
del nostro solito ritorno a casa. In quella strada c’è,
tra gli altri pure notevoli, un edificio che
probabilmente ha un’età analoga a quella delle due
palazzine in stile floreale di via Scipione Ammirato.
Art Decò, diremmo, ma Stile floreale, Liberty e Art
Decò sono più o meno sinonimi. La facciata, color
zucchero bruciato, certo bisognosa di un restauro,
vanta poche finestre e ampi fregi scultorei e pittorici
lussureggianti, sensuali, ma molto consumati, per
loro fortuna posti all’altezza del primo e del secondo
piano. Urtiamo anche qui con la nostra difficoltà
descrittiva. Per sua sfortuna, l’edificio è adibito a
istituto superiore (non sappiamo quale), dunque la
parete a pianterreno è piena di scritte d’interesse
privato, settoriale, e anche pubblico, in nero, in
bianco e in altri colori.
L’istituto era occupato, l’autunno scorso: passando
davanti al portone aperto, noi guardammo dentro. Al
termine di una breve scalinata era stato posto un
tavolino a mo’ di „reception“, lì intorno sedevano
pochi giovanissimi, appesi in giro striscioni e
manifesti celebranti alcuni l’occupazione, con le due
stantie „k“, altri deprecanti la politica del governo
circa la scuola pubblica. In bella vista, tra il tavolino
e il termine della scalinata, un cavalletto reggeva un
avviso di cui non ricordiamo i termini precisi:
soltanto che informava gli estranei circa
l’occupazione e segnalava che gli eventuali visitatori
avrebbero dovuto pagare, per l’ingresso, cinquanta
centesimi.
Ecco, questa è nuova, ci dicemmo passando oltre.

Vecchia di una quarantina di anni, è invece


l’apparizione seguente. Un pomeriggio mi trovavo
nella „mia“ stanza situata al primo piano dell’edificio
che, in Via della Pergola, ospitava allora il mio posto
di lavoro. Era la mia ora di cosiddetto ricevimento
degli studenti. Si apre la porta e appare un mio
coetaneo, dunque un trentenne, alto sul metro e
novanta, anfibi neri, giacca mimetica, nero il colore
della sua pelle, un basco nero alla Che Guevara in
testa. Entra, s’avvicina, si siede davanti a me e mi
domanda, in americano, dopo pochissimi preamboli,
se posso dargli l’indirizzo di „un’organizzazione
comunista“. Proprio così, ed è strano, perché
l’istituto in cui ci trovavamo io e quella „pantera
nera“ non solo faceva parte di una facoltà
universitaria, di cui era sede distaccata, ma aveva
apparentemente ben poco a che vedere, qualora la
„pantera nera“ avesse letto la targa giù all’ingresso
sulla strada, con la politica in genere, con il
„comunismo“ in particolare.
Diedi con la massima calma a quel fantasmagorico
personaggio l’indirizzo del PCI, che aveva la sede
dietro la stazione centrale, forse, o laggiù in via
Paisiello, chissà, e di „Lotta continua“,
un’organizzazione che si sarebbe sciolta nel 1976 o
nel 1977 (dettaglio che fa da terminus ante quem
dell’episodio, se non è un’allucinazione), non ricordo
dove situata. Fa niente. Si alzò e se ne andò, e non
l’ho più rivisto.
L’unico testimone che potrebbe, se la ricordasse,
confermare questa strana apparizione della „pantera
nera“, Attilio, un custode dell’Istituto, invece l’ho
rivisto poche settimane or sono, fa ancora lo stesso
lavoro altrove, e mi ha festeggiato. Alla collega che
cercavo, sorpresa che noi ci conoscessimo, Attilio,
che cordialmente mi aveva accompagnato, ha detto
bofonchiando: lo conosco, lo conosco troppo bene.

Non importa, in fondo quella „pantera nera“ non


aveva affatto sbagliato indirizzo.
Un paese da vipere.

«C’est pourtant une utile chose que la vérité, ce premier des biens,
toujour inconnu par les ames qui ne sont pas fortement trompeés...»
A questo punto io smisi di leggere e cominciai a pensare. La novità di
questo concetto mi aveva vivamente colpito, che l’animo per conoscere
la verità deve essere «fortemente ingannato»; e una catena di pensieri
inaspettati, vispi ed eccitanti, mi si andava formando nella mente, tutti
generati da questa idea pessimista ma fertile e suadentissima, che «la
verità nasce dall’inganno»; finché per l’improvviso ritorno della
chiaroveggenza logica mi accorsi che trompées era un refuso, e non les
ames fortement trompées ma fortement trempées bisognava leggere,
ossia « gli animi fortemente temprati». Il mio piccolo castello di pensieri
inaspettati crollò di colpo. La pagina (...) non era più fonte di una nuova
interpretazione della verità e delle sue origini, ma rientrava nella grigia
regione delle verità ovvie.

(A.Savinio, 1941-1948, Nuova enciclopedia, Milano1977, pag.318).

Da una certa distanza scorgiamo un avviso “pro


loco”, leggiamo il nome della cittadina che
percorriamo e, di seguito, “un paese da vipere”.
Mentre ci complimentiamo con l’ignoto autore per
questo slogan “politicamente scorretto”, non senza
escogitarne qualche giustificazione tipo “qua un
tempo si doveva fare attenzione alle vipere, pensa
un po’, letterali oppure metaforiche”, ci accorgiamo
che l’avviso segnala “un paese da vivere”.
E' un lapsus dovuto non alla qualità della nostra
vista, infatti il testo è stampato in bianco su sfondo
grigio scuro e i caratteri sono grandi e
assolutamente ordinari. La nostra lettura rientra
senz’altro nella categoria “difficilior”.
In un testo “pro loco” può prevalere il facile, certo,
ma, sulle tracce del linguaggio pubblicitario,
potrebbe anche essere scelto il difficile, il curioso,
l’attraente, il provocatorio. Gli autori, stavolta,
hanno scelto il facile, noi abbiamo invece
involontariamente optato per il difficile.
Testo mutato soltanto in una lettera, la seconda “v”,
ma che sconquasso! Abbiamo prodotto senza volere
un calembour.

Detestiamo i serpenti e usiamo conseguente


circospezione in fatto di rettili, tra i quali le vipere si
distinguono tuttavia per una certa loro “dignità” di
reazione agli umani, non solo per il morso velenoso.
Fuori strada stiamo attenti a non trovarci tra i piedi
una serpe, o una vipera, sbatacchiando in giro il
bastone. D’altra parte le vipere del lapsus
potrebbero essere metaforiche, come accennato:
persone pericolose, velenose. Questa linea di ricerca
ci porterebbe a considerare preoccupazioni
personali: non che queste ultime abbiano “causato”
il lapsus di lettura, o meglio il calembour
involontario; esso invece potrebbe darci il via a
considerare le nostre preoccupazioni. Vipere da
vivere. Con ciò prendiamo posizione contro il
venerabile freudismo: lapsus, azioni difettose,
dimenticanze, sogni e sintomi nevrotici non sono per
forza effetti di chissà quali “conflitti inconsci”, ma
possono costituire, se presi in considerazione, punti
di partenza per l’introspezione.

L’unica volta che ci siamo trovati vicino ad una


vipera, o meglio a un rettile dall’aspetto
corrispondente, secondo le nostre scarse nozioni, a
quello di una vipera, notammo che l’animale,
contrariamente alla velocità di fuga dei suoi simili,
paragonabile alla nostra, si allontanava dal fruscìo
dei nostri passi (le eravamo da poco transitati
vicino, nell’erba, e stavamo tornando indietro,
perché il folto della macchia era eccessivo, come il
sole di quel luglio) con elegante morbida neghittosa
lentezza, quasi da murena. Ciò, mentre l’avevamo
scampata bella, ci causò una certa quale
ammirazione per quella vipera e in genere per le
vipere, che senz’altro situiamo, a torto o a ragione,
in una posizione a parte rispetto ai rettili che sono
presenti e abbastanza frequenti nelle campagne
toscane. Non soltanto, dunque, a causa della loro
mordace micidialità.
“Un paese da vipere” sarebbe stato, dunque, non
solo un bel titolo “trasgressivo”, ma anche l’omaggio
a una “dignità” come quella che la descritta vipera ci
aveva mostrato, o per meglio dire all’idea di dignità
e bellezza che aveva suscitato in noi.

Un “paese da vipere” è un territorio selvaggio, di


pietre, di sole, di anfratti, di scarsa presenza umana.
Dove sarebbe difficile vivere, per le persone. Subito
dopo il lapsus, prima di smascherarlo, pensammo
che il testo celebrasse un tempo lontano di vita
dura, misera, pericolosa, riproponendolo oggi. Che
fosse un richiamo a una dignità perduta, pensiamo
ora. Del resto ignoriamo tutto di questa cittadina e
dei suoi dintorni, se non che la fila d’abitati più o
meno piccoli lungo la strada provinciale è infestata
dal passaggio continuo di auto, camion, motori vari,
che gli edifici costruiti negli ultimi decenni fanno
tristezza, che tutto è amaro, a cominciare dagli
esercizi commerciali e industriali, squallido e molto
peggiore di “un territorio selvaggio, di pietre, di sole,
di anfratti, di scarsa presenza umana”. Dev’ essere
difficile viverci, per le persone.
Del resto è difficile vivere anche in città, foss’anche
Firenze, o in un paese, o in un villaggio, è triste e
penoso vivere, perché lo squallore dello “sviluppo”
ha consumato la bellezza. Individualmente, caso o
talento, ci possiamo salvare, collettivamente siamo
fottuti.
Non diremo di “amare le vipere” (alla Woody Allen),
tuttavia. L’orrore che ci fanno i serpenti, “le serpi”,
specie quando (è il loro stile) appaiono/ scompaiono
imprevisti, rimane stabile. Le vipere possiedono il
privilegio di poterci avvelenare e quella loro
“dignità”, e combattività, quindi fanno paura. Come
talvolta i lapsus. Esse sono uno dei pochi tratti di
selvaggeria rimasti, in questa parte del mondo. Giù
il cappello, quindi. Ma via, e a gambe levate!

Non era “inconscio”, il nostro rifiuto delle vipere,


umane animali e sociali, al momento del lapsus,
semmai non stavamo pensandoci: non pensiamo
tutto il tempo alle nostre rogne, pur avendole ben
presenti.

Ci aspettiamo quasi sempre la serpe, o la vipera, ma


quando la incontriamo è sempre o quasi sempre
inaspettata. Questo è il paradosso. Temiamo un
lapsus che sappia tirarci dentro quei cattivi pensieri
da cui vorremmo una vacanza, sappiamo bene che
può arrivare, ma quando capita è all’improvviso, e
morde, o, se non morde allarma, anche se lì per lì
sembra incantevole: com’era, quella domenica
mattina, “un paese da vipere”.
Il defunto analista

Guido raccontò a Solmi (in passato suo analista) un


sogno. Era morto un analista junghiano dotato di
studio/abitazione in campagna, che non pagava le
tasse, così il sogno.
Tutti sanno che al fisco si sfugge, anche in
quest’ambiente. Ai tempi cosiddetti eroici, quando la
professione non era stata regolamentata dallo Stato
(fine anni ottanta), „nessuno“ pagava le tasse,
qualcuno anche vantandosene.
Il racconto del sogno com’è ovvio potrebbe essere
stata un’invenzione di Guido; o, se non
un’invenzione, un'elaborazione narrativa di un
evento notturno effimero, sfuggente: ciò in definitiva
è il „sogno“. Che stavolta, quasi un trafiletto di
cronaca, se non un necrologio, presenta quanto
sappiamo: un analista junghiano (l’attributo già
seleziona il pubblico potenziale, già scarso, del
racconto del sogno); la sua residenza anche
professionale in campagna; il suo non pagar le
tasse; la sua avvenuta morte.
Tutti sanno che cos’è un analista: questa è bella!
Pochissimi lo sanno. Usiamo formule che funzionano
nell’ambito della chiacchiera, ma se un marziano o
un bambino iniziassero a porci domande, a chiederci
spiegazioni, cadremmo nel buio. Intervistiamo alcuni
analisti e domandiamoglielo, consultiamo un
dizionario e così via. Non è facile. Guido avrebbe
potuto tradurre come segue: un cosiddetto (o,
peggio, sedicente) analista seguace (sedicente o
cosiddetto) della scuola di Jung - e chi sarebbe
questo Jung, chi sarebbe? Anche qui il racconto, cioè
il sogno, dava per scontato che Guido, il sognatore
-narratore, lo sapesse. Sia pure. Continuiamo a far
finta di nulla, che tutto vada bene, intorno a noi e
dentro di noi. Il sogno si fidava del fatto che Guido
fosse un interlocutore privilegiato, come dire: „detto
tra noi“.
Abitava e „lavorava“ in campagna, questo analista
junghiano. Carino, un po’ scomodo per i „pazienti“,
magari. Non pagava le tasse. Qui tutti sanno che
cosa vuol dire, no? Era morto. Il suo cuore aveva
cessato di battere, non si sa perché, un medico
aveva constatato il decesso, lo avevano chiuso in
una bara e poi sepolto, o cremato, chissà.
Guido pensava (sagace) che il protagonista del
sogno, avesse a che fare con lui (Guido), che aveva
svolto per decenni la professione di „analista“, che si
era „formato“ junghianamente. E pensava che un
certo suo modo di fare l’analista („di campagna“)
fosse finito, per lui, morto e sepolto.
„Di campagna“ (traduzione sfrontata da „in
campagna“) vuol dire „alla buona“, forse, come alla
buona (per essere generosi) è non pagare le tasse,
cioè prendere il denaro pagato dai „pazienti“ senza
rilasciare una ricevuta, quindi senza dichiarare al
fisco i propri introiti.
Il sogno aveva fornito a Guido la notizia del decesso
del suo modo di lavorare come analista; così in
ritardo? Dopo sei o sette anni che aveva smesso?
Capita, del resto, che noi si apprenda in ritardo che
qualche nostro conoscente sia defunto: „Ma non lo
sapevi?“„No, davvero? E quando? Sette anni fa? Ma
pensa!“- eccetera.
Ora, a Guido questa spiegazione del sogno dava i
brividi, dopotutto. Con la morte e le tasse non si
scherza. Quindi era alle prese con il „restauro“
dell’„originale“ (ovviamente irrecuperabile): dallo
sfrontato „di campagna“ al testuale „in campagna“,
quindi. Si baloccava con l’idea carina di questo
scrutatore d’anime tra boschi e vallate, e prati. Gli
dispiaceva tuttavia che questo scrutatore d’anime
ruspante fosse morto, in nome di che? Della
correttezza fiscale? Ma va’ al diavolo! - bofonchiava
Guido.
Il richiamo all’ordine che la sua prima spiegazione
del sogno gli proponeva, questa certificazione
(onirica) che i cosiddetti tempi eroici erano morti,
finiti, l’avrebbe volentieri rispedita indietro, ma a
chi? A se stesso, dopotutto lui era l’autore del
sogno.
Intanto però l’aveva indirizzata a Solmi. Che abitava
sì in campagna, ma lavorava in città ed usava „far le
fatture“. Aveva raccontato il suo sogno a Solmi, si
può ipotizzare, per dirgli inconsapevolmente che lui
(Solmi) era „morto“, o meglio che la storia loro era
finita, chiusa. Secondo Guido, per Guido, in Guido.
Il sogno (o necrologio) aveva un aspetto gradevole,
apparentemente, nel suo segnalare una chiusura con
un passato assai discutibile, secondo Guido, suo ma
anche di molti altri analisti tra virgolette o invece
liberi dall’ombra della sedicenza; ma come richiamo
all’ordine (paga le tasse!) era mortificante. Chiudere
non è uguale a liquidare.
Analizzare „senza pagare le tasse“ potrebbe esser
tradotto come „senza occuparsi d’altro, all’infuori
dell’analisi“; neppure della „terapia“: solo
dell’analisi, nel cui ambito lo Stato, il Fisco, possono
rientrare, sì, ma come qualsiasi altra immagine. „In
campagna“ potrebbe, già l’abbiamo accennato, esser
tradotto con un esser ruspanti, non d’allevamento.
La targa misteriosa

Prima di apprendere da Yahoo!Answers che le targhe


automobilistiche inizianti con “ZA” derivano la loro
arrogan “za” da una “disposizione generale” per cui
“a spazio quadrato” sul retro delle vetture
“corrisponde targa quadrata”, e che in Italia per
adesso tutte le targhe posteriori quadrate iniziano
per ZA; prima di apprendere che quando saranno
esaurite tutte le combinazioni relative, le macchine a
targa quadrata inizieranno con ZB”, avevo scritto:

“Ho fatto caso alla frequenza dell’abbinamento tra le


targhe italiane inizianti con “ZA” e le auto
fuoristrada. La mia osservazione ha luogo a Firenze
e provincia, e solo in determinate zone di mia
frequentazione abituale, quindi è possibile che io
veda ripetutamente esemplari di uno stesso
“gruppo” di veicoli. D’altra parte non vedo auto
normali targate ZA, a parte un’anziana Fiat
Cinquecento, a due passi da casa mia, e una
strepitosa Alfa 1900 anni cinquanta, ieri. Vedo, è
superfluo precisarlo, fuoristrada targate con altre
sigle, sia che abbiano targhe del genere tutto
bianco, sia del genere biancazzurro, quello
attualmente in uso. Altro dettaglio: direi senz’altro
che prevalgano, tra le “ZA”, fuoristrada vecchiotte,
poche le nuove o recenti. Probabile è che le
fuoristrada abbiano vita più lunga delle altre: auto
vecchie, targhe vecchie (tutte bianche). Ciò
significherebbe che, com’è ovvio, ai tempi vi fossero
anche auto normali targate “ZA”.
Non sono in grado di provare quel che scrivo, e non
so niente dei criteri secondo i quali le auto ricevono
la loro targa, ma resto dell’idea che il caso o altro
abbiano dato luogo ad un piccolo mistero.
Le fuoristrada si segnalano, pur essendo ormai
numerose, più delle altre auto, ho pensato
“antisuperstiziosamente”, e anche la sigla “ZA” (a
me) pare piuttosto degna di nota, forte, dura: zac!
L’attenzione oramai è stata risvegliata, e
probabilmente seleziono, ignaro, quel che nutre la
mia piccola mania. Come ho già precisato, inoltre, è
più che probabile che io noti le stesse macchine
circolanti nei miei pochi percorsi quotidiani in città e
in provincia.

Sì, lo so, eppure resto attratto dall’idea che


transitino delle scorbutiche alte ferrigne auto
appartenenti ad una misteriosa setta “ZA”...”

Non si negherà che la spiegazione razionale del


„fenomeno“ in oggetto sia meno divertente delle
congetture superstiziose cui noi ci siamo quasi
abbandonati, di tanto in tanto giocando a delirare,
per qualche mese.
Ricevimento

“Tu credi di conoscere tuo figlio!..” - disse un padre


di ritorno da un cosiddetto ricevimento patito a
scuola. La professoressa gli aveva detto che il
ragazzo non solo rendeva poco in termini di studio,
ma che, per di più, fumava roba proibita con i
compagni al gabinetto, e, addirittura, durante
l’intervallo sputava dalla finestra nella sottostante
piazza: un disastro, quindi. “Tu credi di conoscere
tuo figlio!..” - disse alla moglie, arrabbiatissimo: non
aveva dovuto patire solo la prova di andare al
ricevimento, ma anche quella, inattesa, delle
rivelazioni in merito alla “condotta” del ragazzo.
L’accusato negò ogni addebito, assicurando di non
aver sputato, pratica che gli era nota, certo, ma che
non gli apparteneva. Si trattava di una divergenza
netta tra due referti, il dubbio restò vivo. La
professoressa, giorni dopo, domandò però
all’accusato qualcosa sullo sputatore, guarda caso,
indicandolo con il cognome dell’accusato stesso. E
così, è da pensare, quell’uomo dovette ricredersi sul
figlio: non era „uno sconosciuto“, se non per la
professoressa, almeno in riferimento al cognome. La
morale della storia è la seguente: capita che non si
sappia, qualche volta, di che cosa, di chi, si sta
parlando. Nulla di nuovo, tuttavia l’autorevolezza
(almeno di ruolo, se non personale) del parlante
tende a convincere chi ascolta.
Consiglieremmo (se potessimo) ai genitori di andare
ai cosiddetti ricevimenti portando con sé una foto
somigliante della personcina che hanno a cuore. O di
non andarci.
Il titolo di strega

“Che cosa sei, una strega?”. “Sì, una strega.”(...). ”In questa robaccia
non ci credo. Sono tutte sciocchezze. Ma dal momento che tu ci credi,
dal tuo punto di vista hai assassinato una persona.”

(I.B.Singer, 1970-1975 ,Passioni; trad. it., Milano 1979).

Durante uno scambio di ostilità telefoniche con il


marito, causate stavolta dall’unica auto di famiglia
presa da lui allo scopo di prelevare certe merci in un
lontano emporio, la moglie, rimasta a piedi, in
mattinata aveva augurato la morte al coniuge nella
forma che segue: speriamo che un tu torni. Orbene,
l’uomo nel primo pomeriggio si sente male e
defunge. In conseguenza di ciò la donna, com’è
ovvio molto colpita dall’improvvisa perdita, inclina a
sentirsi in difetto e a connettere il suo malaugurio
litigioso con la morte del marito, non solo a
tormentarsi a causa del cattivo congedo finale
reciproco. Il lutto si colora di superstizione, nel
dettaglio: di stregoneria. Non che la signora, sui
sessanta, laureata, creda davvero di essere, se non
una „strega“ capace di „malefìci“, un’assassina. E’
afflitta dal suo „post hoc ergo propter hoc“, come
quasi tutti noi, oppure da suggestioni di
„sincronicità“, che significa messa in relazione
„acausale“ (Jung) di eventi che appartengono a
„universi“ separati, ma in qualche modo (anche
lasso, anche metaforico) somiglianti: stavolta quello
delle parole e quello dei fatti. Jung propone che la
sincronicità sia un effetto di atti mentali creativi: nel
caso della vedova, tale „creatività“ è determinata dal
lutto. Quindi risulta non tanto curiosa o magari
imbarazzante, quanto invece dolorosa. Dichiara la
vedova che il rapporto tra lei e il marito, dopo una
trentina di anni, era da tempo, quando non
distaccato, irto di scambi offensivi, ma ci siamo fatti
l’idea di una parlata senza peli sulla lingua, del resto
forse da attribuire, più che ai due coniugi, alla rude
cittadina dove abita la vedova, e alla sua evidente
appartenenza non borghese. Si esprime in modo
ruvido, terra terra, e riferisce di scambi verbali, tra
lei e il defunto, di rara brutalità. La figura del
defunto, per quel poco che possiamo aver capito, è
quella di un pensionato di cagionevole salute con
l’hobby del bricolage, del tutto privo di interesse
erotico per la moglie, del resto in ciò ricambiato;
sospettabile, inoltre, di un’extraconiugalità a quanto
pare „platonica“. Insomma, il defunto era qualcuno
di cui „non sentiremo la mancanza“, caso non raro,
anche se in pochi lo riconosciamo. Il lavoro del lutto
consiste nel passaggio, più o meno lungo, più o
meno breve, dal dolore (o dal mero urto) per la
perdita, all’abitudine alla medesima, fino a non
sentirla più. Fino al restauro, o „rivalutazione“
dell’immagine del defunto („parce sepulto“); o,
beninteso, al silenzio tombale della memoria.
Stavolta l’urto (o il dolore) è complicato dal senso di
colpa (o dal sentirsi in difetto) per avere la vedova,
poche ore prima della sua morte, augurato la
medesima al marito. La donna non è una „strega“
(nessuno è o è stato una „strega“), non ha poteri
„malefìci“ (nessuno ha o ha avuto simili „poteri“),
del resto possiamo ipotizzare che il „tu morissi!“ sia
stato moneta corrente tra lei e il marito, anche nella
forma allusiva, „speriamo che un tu torni!“. Il timore
di essere una „strega“ (o il gioco luttuoso
consistente nel timore di esserlo, per la precisione) è
dunque un errore della donna, in realtà, una sua
superstizione, una narrazione superstiziosa cui,
comprensibilmente, è costretta.

Eppure: si potrebbe raccontare di tale narrazione


come di un tentativo inconsapevole della vedova di
emergere dalla sua penosa esperienza matrimoniale
con il „titolo“ di strega. Almeno quello.
Sorriso degli etruschi

Al ginnasio un nostro compagno, ribelle scanzonato


dall’erre blesa, ci prestò un libro, Sorriso degli
etruschi, autore Dino Garrone, di cui aveva detto un
gran bene. Bocciato, non abbiamo più visto il
compagno. Anni or sono, mentre visitavamo in un
paese vicino a Firenze una mostra sulla stampa
italiana durante la prima guerra mondiale, vedemmo
che era un certo Tinti, insegnante nella locale scuola
media, ad averla organizzata con i suoi allievi. Gli
scrivemmo domandandogli se, vedi caso, lui era
stato quel nostro compagno di ginnasio nei primi
anni sessanta, ricordandogli com’è ovvio Sorriso
degli etruschi. Non molte settimane dopo il Tinti ci
chiamò al telefono, sì, era lui, stessa erre blesa,
parlammo un po’: nettissima, avemmo l’impressione
che lui non si ricordasse affatto di noi. Raccontò che
abitava in campagna e che, dopo la laurea, aveva
desistito dal tentare la “carriera universitaria” per
disgusto; conseguentemente ci trovammo in
imbarazzo, e commettemmo l’errore (forse)
d’informarlo del fatto che tale identica sensazione
non aveva avuto in noi lo stesso effetto.
Naturalmente parlammo di Sorriso degli etruschi,
libro ancora in possesso del Tinti, a suo dire. Ci
promise che lo avrebbe fotocopiato e spedito al
nostro indirizzo. Invece non ne abbiamo più saputo
niente. E’ probabile che, se non ci attiviamo
altrimenti, non rimetteremo il naso nelle pagine di
Sorriso degli etruschi, edito nel 1944 da Bompiani.

Perché il Tinti non ha mantenuto la promessa?


Avrebbe dovuto mantenerla?
Non avremmo dovuto dichiararci, per parte nostra,
universitari?
Non aveva più il libro?
Oppure, come avviene, tra il dire (faccio la
fotocopia; te la mando) e il fare è intercorsa una
mareggiata?
La prossima volta (...) che il caso ci farà
„incontrare“, avremo un secondo argomento di
conversazione.
Avrebbe dovuto mantenere la promessa? Questa è
l’unica domanda di qualche interesse, almeno per
noi. Ci scopre nella tremenda fallacia del prendere
alla lettera ciò che si dice; e dell’attendere un
seguito a quel che, sul momento, viviamo. La
„promessa“ di Jacopo faceva parte del copione
„telefonata tra due ex compagni di scuola ritrovati“,
non era da prendere più alla lettera della domanda
„come va?“, cui non si risponde certo con un
dettagliato rapporto, se non si vuol annoiare
l’interlocutore. Invece noi ci avevamo creduto, che il
Tinti ci avrebbe mandato le fotocopie, anche se la
noia dell’operazione in due tempi un pochino ci
rendeva perplessi. Del resto l’eventualità di un
seguito, tra noi e il Tinti, era abbastanza scomoda.

Attendersi un seguito a quel che, sul momento,


viviamo, ostacola la nostra presa sul momento
medesimo, in nome di un futuro che naturalmente
può darsi, ma spesso non si dà. La cosa degna di
nota, stavolta, era stata il nostro incontro con il
nome Tinti, alla mostra; e la sua telefonata. Perché
aspettarsi, e in fondo temere, qualcosa di più?

Quanto al prendere alla lettera quel che si dice, si


scrive (anche sui muri!), si grida, come se
corrispondesse a „fatti“ che le parole (vedi anche „la
parola data“) designano, ebbene: gran parte di
queste pagine è dedicata a tale errore. Diremmo
meglio: guai, se quel che si dice (si scrive, si grida e
così via) dovesse corrispondere, anzi esser legato,
alla „realtà“!

Una volta Vladimir Nabokov ha scritto che la


narrativa è iniziata quando qualcuno ha gridato „al
lupo, al lupo!“ in assenza del medesimo.
Un modo di portar rispetto alla „realtà“ è usare le
parole senza far loro pagare la „colpa“ di non essere
fatti. I fatti del resto non hanno l’obbligo di
„mantenere la parola“: che si „mantenga“ da sé.
Questo non significa, almeno da parte nostra,
promozione della menzogna, o del tradimento. Non
ne hanno bisogno.
Seta

In Seta (di Alessandro Baricco; da cui un film), il


protagonista sembra certo che un’appassionata
lettera scritta in cinese gli provenga da una donna
da lui conosciuta in Oriente, e là perduta; invece si
tratta di un testo scritto dalla moglie del
protagonista stesso e da lei fatto tradurre in cinese.
Da lui altresì dato, per la ritraduzione in francese,
alla stessa prostituta cinese d’alto bordo interpellata
dalla moglie. E' costei, la mediatrice, a rivelare al
protagonista come stanno le cose.
Non avevamo mai letto Baricco, o meglio avevamo
„rinunciato“ a leggere non sappiamo più quale suo
romanzo, dopo soltanto una pagina. Abbiamo,
infatti, molta scelta di letture a nostra immediata
disposizione. Una sera, poi, seguimmo in tv il film
tratto dal racconto di Baricco (senza saperlo), e
rimanemmo incantati dall’inganno ordito da parte
della moglie del giovane protagonista, e dalla sua
riuscita (anche a nostro carico). Non solo
dall’avventura del giovane, tra Francia e Giappone,
nel lontano Ottocento. Ma che c’entra la lingua
cinese con il Giappone? Leggetevi il racconto, o
vedetevi il film.

E’ ovvio che un uomo „innamorato“ attribuisca


all’amata perduta ciò che aspetta (un segno),
sorvolando su dettagli come la misteriosa
conoscenza, da parte di lei, dell’indirizzo. Se
cerchiamo una chiave, la prima che troviamo in giro
finisce da noi forzata nella toppa - e magari
funziona!
Per mezzo del suo trucco la moglie del protagonista
osa dichiarargli la sua passione e insieme la sua
consapevolezza di averlo perduto come amante. Sta
morendo. La lettera è il suo lascito. Il suo dolcissimo
schiaffo, il suo smascheramento.
Non avremmo mai letto Baricco se non avessimo
„ricevuto“, anche noi, una lettera „scritta in cinese“
nella forma del film tratto da Seta. Ci siamo
informati e abbiamo scoperto che era tratto da
Baricco. Poi in un supermercato ci siamo imbattuti in
una piccola colonna di libri, tra i quali Seta.
L’abbiamo comprato e velocemente letto. „In cinese“
era meglio, ciò non toglie che l’idea „della moglie“,
cioè di Baricco, resta buona.
Leggere, dimenticare

Tempo fa abbiamo comprato un’edizione di seconda


mano de La scuola dei ladri (Libero Bigiaretti, 1966),
contenente vari racconti, oltre a quello che dà il
titolo al volume; abbiamo letto, preso qualche
appunto e infine riposto il libro accanto agli altri
dello stesso autore. Scoprendo un’edizione de La
scuola dei ladri (solo di questo racconto: Bompiani
1973) che avevamo dimenticato di aver letto –
“attentamente”, come dimostrano i nostri segni a
lapis sparsi nelle pagine. Grande e bianca l’edizione
appena acquistata, piccola e nera l’altra.
Abbiamo riletto un libro senza accorgercene: questo
è il punto. Stiamo perdendo, forse, anche la basilare
memoria detta di riconoscimento? Può darsi. Ieri e
ieri l’altro abbiamo riletto (però consapevolmente)
L’insostenibile leggerezza dell’essere: sapevamo di
averlo già letto, ma andando avanti ci siamo accorti
che non ricordavamo nulla, se non che si trattava di
un pastone narrativo-filosofeggiante. Questa non è
stata affatto un’esperienza nuova, ed è riferibile
anche a libri meno chiacchierati di quello di Kundera.
Così sappiamo di aver letto una volta La provinciale,
di Alberto Moravia, che la storia si svolge a Perugia,
che è ottimamente acida, ma della trama non
ricordiamo nulla.

Il racconto di Bigiaretti, fastidioso e ostile come


sanno essere gli scritti di questo maestro, spiega
come e perché un certo Dante diventa (è diventato)
un ladro, o almeno qual è la scena iniziale che lo
induce al primo dei molti furti, infantili e in seguito
professionistici. Il ragazzino coglie la madre e lo zio
in atteggiamento (furtivo) da amanti, resta colpito e
inizia a odiare lo zio (esplicitamente). Bada, non
appena può, lungi dall’esprimere con qualcuno il suo
sconcerto, a derubare lo zio di una penna stilografica
di conclamato valore. Ciò ci ha ricordato qualcosa.

Nel 1999 nostro figlio con sua madre andò in Sicilia


insieme a una coppia di amici - un ragazzo di
quindici anni e tre adulti. Una notte, a casa di
persone che avevano ospitato i quattro viaggiatori,
nostro figlio sottrasse al padrone di casa una penna
di qualche pregio, un apparecchio fotografico e
alcune videocassette - creando scandalo. Tentammo
di capire come e perché il ragazzo avesse commesso
questa stupidaggine che ci provocava molto
dispiacere, e ricavammo l’impressione che la sua
fosse stata una ritorsione adolescenziale da riferirsi
alla giornata precedente avuta da lui, unico minore,
con adulti probabilmente noiosi, e in particolare alla
cena in un ristorante, durante la quale lui si sarebbe
sentito colpito da non sappiamo più quale „ingiusta“
limitazione imposta alla sua voracità, se non dalla
debole resistenza di sua madre in rapporto all'offerta
della cena medesima da parte dell'ospite siciliano.

Ci domandiamo, e non sappiamo rispondere, se oltre


al poderoso tramonto „naturale“ della nostra
memoria e, certo, alla molta narrativa che leggiamo,
anno dopo anno, di cui abbiamo ricordato sempre
poco (a parte il „sapore“ e l’autore, se non il titolo –
poco della trama), non abbiano agito, in questa
nostra sensazionale mancanza, e assoluta, altri
motivi. Avremmo dimenticato totalmente il racconto
di Bigiaretti anche per il timore di scoprire che la
“vera” causa del furto di nostro figlio non era stata
quella, piuttosto generica, che avevamo „ricostruito“
con il suo aiuto, ma una causa analoga a quella del
furto di Dante: specifica. Il nuovo, recente acquisto,
in questa luce, sarebbe stato dunque un nostro agire
al posto del ricordare, come vuole Freud. Ora
ricordiamo: che non sappiamo. Non sappiamo se
nostro figlio fosse oppresso dalla gelosia, o confuso
dal trovarsi per la prima volta in vacanza senza suo
padre, oscuramente alle prese con l’incrinarsi del
matrimonio dei suoi genitori.

Negli anni settanta Sebastiano Timpanaro,


intellettuale multiverso, pubblicò un libro
antipsicanalitico che resta memorabile non soltanto
in Italia: Il lapsus freudiano. In questi decenni noi lo
abbiamo letto con serietà due o tre volte,
ricavandone sì un certo disappunto per come
l’autore fa a pezzettini il nostro eroe, ma anche
parecchio scetticismo sul tipo di interpretazioni che il
nostro eroe dette ai suoi tempi dei lapsus, delle
dimenticanze, insomma degli atti mancati, o azioni
difettose. L’ultima nostra lettura è recente
(primavera 2011), e corrisponde al periodo durante
il quale abbiamo scritto intorno ad un nostro lapsus
di lettura (qui: „Un paese da vipere“).
Oggi non possiamo far altro che sostenere la mera
narratività di quel che qui proponiamo in merito alla
nostra dimenticanza circa La scuola dei ladri.
3 giugno 1956

Su Reporter, periodico fiorentino distribuito


gratuitamente, ieri (giugno 2011) ho trovato un
trafiletto intitolato “Una sconfitta dolce dolce”,
sull’ultima partita del campionato 1955/56, giocata a
Genova dalla Fiorentina (con il Genoa: domenica 3
giugno 1956): quell’anno si vinse lo scudetto,
evento fuori dall’ordinario, ma nell’occasione
beccammo tre gol (a uno) dalla squadra di casa.
Ebbene, rievoca Guido, io c’ero, ma la sconfitta non
fu per niente dolce, per me. Avevo nove anni, coi
miei genitori eravamo andati brevemente in Costa
Azzurra, con la Giulietta (Alfa Romeo), anche lei
azzurra, e a ritorno, dopo essere stati a pranzare in
un ristorante sul mare, a Varazze, ci fermammo a
Marassi per la partita. Mio padre aveva l’abitudine di
collegare qualche trasferta calcistica “viola” a viaggi
di pochi giorni con la famiglia. Gli piacevano il calcio
e la guida, e sapeva sobbarcarsi tutto lo strascico
che noi probabilmente costituivamo.
Potrei raccontare che vicino al nostro tavolo
all’aperto, in quel ristorante di Varazze, pranzavano
un uomo insieme a due donne, terzetto che attirò
l’attenzione dei miei, e di conseguenza la mia.
La partita (irrilevante ai fini dell’esito del
campionato, già vinto) mi sembrò alterata da
decisioni arbitrali sfavorevoli alla Fiorentina, o,
almeno, le reazioni di mio padre all’andamento del
gioco influirono sulle mie; e senza residui, da vero
bambino, giudicai l’esperienza di Marassi
abominevole.
Non ricordo, della partita, che qualche immagine di
congestione da stadio pieno: nessun dettaglio, solo
che perdemmo malamente per tre a uno: il trafiletto
di Reporter non mi aiuta affatto.
Risalimmo in auto, alla fine, e partimmo per Firenze:
ai tempi era tutta Aurelia fino a Migliarino, sud di
Viareggio, dove s’imboccava l’autostrada per
Firenze. Un viaggio di ore e ore. Non di due e mezzo
come oggi, anche guidando senza infrangere i limiti
di velocità. Ricordo la piena luce del pomeriggio
estivo e le mie lacrime, che velavano l’incontestabile
vista di gruppi o di singoli appostati ai bordi
dell’Aurelia, intenti a motteggiare
sgangheratamente, anche sventolando a due mani
scudetti tricolori strappati, le auto targate FI.
Sarà stata pure una sconfitta da considerare “dolce
dolce”, oggi: intanto ruppe la serie di risultati utili
della Fiorentina, che durava dall’inizio del
campionato; del resto credo, riflette Guido, che
neppure ai convenuti per fare festa, lì per lì, abbia
fatto piacere che la medesima fosse guastata, prima
dall’arbitraggio, poi dai versacci dei tifosi avversari
lungo l’Aurelia.

Personalmente non ero stato “bene” durante il tour:


estraneo, sì, coi genitori (trentaquattro anni lei,
trentotto lui), non abituato a questa clausura
triangolare piena (del resto, neppure loro); avevo
sofferto, una notte in albergo, di asma; intravisto
mio padre, nella camera, privo di mutande; udito un
pomeriggio sul mare mia madre dichiarargli che lui
aveva “guidato come un dio” ; e anche patito la
dabbenaggine di lui, incline a gareggiare con vetuste
Citroen nere (“traction avant”) sui lungomare; senza
contare la misteriosa curiosità dei miei per quel
terzetto, a Varazze .
Trasferta indimenticabile. Tre a uno.

Qual è il punto?
Diffidare sempre delle rievocazioni: sono
incompetenti, evitano con la massima sfrontatezza
di entrare nel merito. Andare invece alle cronache
dell’epoca. Ai diari, se il caso è individuale,
personale. Diffidare anche di tali documenti.

Del resto, conclude Guido, oggi almeno so la data


precisa di quel tre a uno. Ed ero io l’uno.
Il labaro viola

In fatto di bandiere merita attenzione il mio rapporto


domenicale con un gran drappo viola che sventola o
non sventola fissato alla sua asta, quest'ultima
piantata sulla ringhiera di un balcone.
Il balcone si trova al primo piano di una casetta di
paese davanti alla quale io transito nel secondo
pomeriggio della domenica, mentre faccio ritorno a
Firenze dalla campagna. Il rapporto tra il drappo e
me - naturalmente anche altri potrebbero fruirne, se
potessero o volessero, se ne avessero il talento o se
ne fossero come me afflitti - è di grande interesse
filosofico e psicologico, insomma rinvia alla mente e
alla psiche. Mie - e della persona che è responsabile
dell'esposizione del drappo.
I risultati delle partite del campionato di calcio di
serie A che si svolgono nel pomeriggio non li
conosco quando transito davanti alla casetta di
paese che al primo piano espone o non espone il
drappo. Non li conosco, in particolare non so „che
cosa ha fatto“ la Fiorentina, perché non li ho saputi
né per radio né con altri mezzi (tv, internet) allo
scopo di non disturbare il mio benestare in
campagna. Neppure cerco una stazione radio, in
auto, che m'informi, le stazioni radio dedite al calcio
mi danno fastidio, e mi diverte più indovinare che
non sapere, in genere; mi diverte cercare segni che
mi suggeriscano „che cosa ha fatto la Fiorentina“.
Qualche anno fa, dunque, ho trovato il segno più
comodo, niente di astruso, un drappo esposto a un
balcone. Le prime volte transitavo lungo la
provinciale, arrivavo al paese, adocchiavo il mio
punto di riferimento, vedevo il drappo e concludevo
che la Fiorentina aveva vinto oppure pareggiato,
facile no? Non vedevo il drappo e, ahi!- concludevo:
la Fiorentina ha perso. Presto tuttavia mi accorsi che
la persona responsabile dell'esposizione del drappo,
a me ignota, da me mai vista (sul balcone non c'è
mai nessuno), poteva esporre il drappo anche se la
Fiorentina aveva perso la partita, oppure poteva non
esporlo in caso di un pareggio, insomma: mi accorsi
che di veramente sicuro non c'era niente, nel mio
strumento divinatorio, e iniziai ad interessarmi a
esso, oltre che a usarlo con più cautela che non le
prime volte, quando, arrivato a casa e accesa la tv
per vedermi „Novantesimo minuto“, avevo scoperto
che mi ero sbagliato: magari la non esposizione del
drappo era relativa a un pareggio della Fiorentina,
certo un risultato modesto, nell'era d tre punti in
palio per una vittoria, ma pur sempre meglio di una
sconfitta.
Si vede già che lo psichico e il mentale si
manifestano, in questo rapporto tra me e il drappo
(il „labaro viola“ di cui parla l'inno della squadra).
Non posso certo dire che la mente e la psiche
dell'ignoto segnalatore ora m'interessino più dei
risultati della Fiorentina, certo scottanti quando
l'avversario mi è particolarmente antipatico, ma
certo ho tentato di farmi un'idea della personalità di
tifoso dell'ignoto espositore del drappo viola. Direi
che costui, o costei, è un „romantico“, nel senso che
non bada al sodo, alla meta soltanto, ma anche a
come ci si arriva o come non ci si arriva. E' un tifoso
passionale, che espone la bandiera viola magari se
la Fiorentina ha perso bene o a causa di qualche
bruttura arbitrale, e che invece non la espone se la
Fiorentina ha pareggiato quando doveva vincere;
addirittura, forse, non la espone se la Fiorentina ha
semplicemente giocato male.
Non c'è da fidarsi di un segnalatore così, anche
perché lui o lei manifesta il suo umore di tifoso alla
cittadinanza, non vuol fare da informatore, come
invece si trova a essere per me, che a lui o lei sono
ancor più ignoto, infatti considero improbabile che
sospetti che un perdigiorno filosofeggi attorno al suo
gesto da tifoso.
Tuttavia non mi sono perso nella mente ipotetica
dell'ignoto espositore del labaro viola, cioè voglio
dire nella psiche, infatti ritorno nella mente mia, e
mi dico: transito di qui il venerdì mattina, all'andata,
se c'è il drappo non lo so, non ci guardo, probabile
che non ci sia, ma chissà. Se la domenica
pomeriggio c'è il drappo, magari potrebbe esser lì
dimenticato dalla settimana prima, è assurdo ma
non impossibile; se non c'è potrebbe esserne il
motivo un'assenza da casa dell'ignoto, dell'ignota, e
io leggerei l'illeggibile, come avviene con un orologio
fermo, che „due volte al giorno dà l'ora giusta“.
Quanto alla psiche mia, cos'è la psiche? E' un
concetto che comprende la mente, mentre la mente
è un concetto che non comprende la
psiche; quanto alla psiche, questo mio rapporto con
il drappo viola esposto in località Sieci segnala i miei
„complessi“ magnificamente.
Il matrimonio della Rita

Al termine della festa per il matrimonio della Rita,


ambiente contadino (“da vipere” - v. diverse pagine
sopra), Guido, lì invitato con la famiglia dall’ex
ragazza di servizio, ricorda di essersi “senza volere”
prodotto, al momento dei saluti, in un’incongrua
genuflessione con relativo segno della croce ai piedi
non di un’immagine “sacra”, ma di una breve stretta
scalinata fatta di pietra in cima alla quale stava,
sulla porta, una donna, con ogni probabilità la madre
della sposa. Gesto che attirò l’attenzione non solo
della stupefatta donna, ma anche dei famigliari di
lui, in particolare della madre, già piuttosto divertita
dall’occasione villereccia cui aveva partecipato.
Guido si coprì di ridicolo, attenuato dall’aver
eseguito lui, in definitiva, un gesto “devozionale”
nell’ambito “sacramentale” del matrimonio.
Probabilmente, se avesse salutato quella donna a
“pugno chiuso”, per esempio, il ridicolo
dell’incongruità sarebbe stato aggravato, e riprovato
dalla famiglia di Guido, “anticomunista”. Vi sono
errori o stranezze che funzionano, donano: dipende.
L’evento segnala l’inclusione di Guido tra i cattolici,
ma noi sappiamo soltanto che il nostro ebbe la
prima “comunione” e la “cresima” nel 1959, fine
maggio. Poco ci autorizza a ipotizzare che la papera
di Guido risalga al 1959; poco a ipotizzare che
risalga a prima di quell’anno, dal momento che la
famiglia di Guido aveva l’abitudine di indulgere poco
in prescrizioni “devozionali”; mentre sarebbe
ragionevole pensare che sia venuta dopo: Guido,
certo, si ribellerebbe all’idea di essere stato tanto
cretinetti da genuflettersi davanti alla mamma della
Rita come se costei fosse la cosiddetta Madonna,
poniamo nel 1960, a tredici anni! (...)
E’ suggestivo, d’altra parte, pensare che il nostro,
immerso nello “studio” della “dottrina” e negli
“esercizi spirituali”, in preparazione alla cosiddetta
prima comunione, nel 1959, abbia quell’anno stesso
eseguito la sua genuflessione incongrua davanti a
quella contadina, probabilmente la madre della Rita,
sua tata, non dimentichiamolo. In una sorta di
deriva “devozionale”: automatismo.

Sua tata? Ragazza “di servizio”, ma anche tata,


forse. Guido s’inventa di avere avuto una tata? E
sia. Una delle prime tre femmine della vita. A Guido,
ignoriamo del tutto a partire da quale età dello
stesso, la Rita appariva giovane, senz’altro. Era
piccolina di statura, aveva i capelli biondi, opachi.
Crespi, non era propriamente bella: paffuta, Guido
ricorda che non era brutta: dolce, tranquilla, un poco
sbiadita. Aveva la sua stanza in fondo a un corridoio,
distante dalle camere della famiglia. Dotata però di
balcone. Era abbonata a un periodico, la Rita,
fascicoletti verdini, probabilmente narrativa „a
dispense“, che il postino le consegnava dopo aver
attirato la sua attenzione chiamandola giù. Prima lei
si spenzolava dalla balaustra. Guido presente.
Avrebbe poi seguito la famiglia nella nuova casa,
1954, in una stanza meno carina della prima. Nel
1969, se non addirittura nel 1973, Guido, ormai un
giovanotto dotato di poderoso motociclo, sarebbe
andato a comprare le sigarette nel negozio della
Rita, a Follonica, stupendosi di trovarsi davanti
un’invecchiata creatura sui quaranta, pure di più, e
scambiando pochissime parole con lei, eccetera.
Corteggiata da Arturo, un ortolano di Prato Ranieri,
nord di Follonica, la Rita e lui ebbero da patire
l’ostilità del padre di Arturo, un certo Silla: pare che
si chiamasse proprio Silla. “Storia di Roma”
eccetera. Non sappiamo perché a Silla non piacesse
che suo figlio Arturo corteggiasse la Rita: avrebbe
preferito un’avvocatessa? Guido e il suo diletto
fratello minore su questa faccenda imbastivano, coi
burattini, delle belle scenette: naturale che Silla
facesse la parte del cattivo. La vinsero i due giovani.

La Rita, vista dietro il banco del suo negozio a Prato


Ranieri, quella volta delle sigarette, o dei sigari,
„arrivata“ quanto basta, non era proprio il ritratto
della felicità, ricorda Guido, s’era sbiadita, ma
naturalmente noi sappiamo che conta la felicità del
ritratto, non il contrario.
La famiglia di Guido si coinvolgeva in quest’amore
proibito da Silla, che doveva essere un tanghero,
d’altra parte gli adulti, madre, padre e nonna di
Guido, in assenza dei genitori lontani, in Casentino,
della Rita, avevano qualche responsabilità. Probabile
però che, se il cattivo si fosse chiamato Aldo, il sugo
sarebbe stato minore.

Forte legame, tanto è vero che la famiglia si mosse


in auto fino a Bibbiena, dintorni, per il matrimonio
della Rita. Non si sa perché restò rimpianta, se non
leggendaria, come lo sarebbe diventata, venti anni
più tardi, fino alla fine, la Renza. Forti legami.
La genitrice di quest’ineffabile fanciulla dai capelli
biondopachi, una secca femmina, lei, indurita dai
piaceri della miseria, meritava un omaggio speciale
da parte di Guido, cattolico romano di fresca
nomina: che prese congedo dall’intera faccenda nel
modo descritto.
Grafomanìa

Corìn Tellado, autrice di romanzi rosa, è morta nella


primavera del 2009, ne dà notizia Mario Vargas
Llosa su La Stampa (19 luglio). Corìn sarebbe
responsabile di 4500 titoli, e avrebbe iniziato la sua
carriera nel 1949, con Scommessa azzardata. Ma
vinta, se è vero che Corìn era letta in una ventina di
paesi di lingua spagnola e in diverse comunità
ispaniche. I romanzi, non superiori alle cento
pagine, una misura comunque degna di nota, erano
frutto di un lavoro continuo, dieci ore al giorno, e
uscivano dalla macchina da scrivere due per
settimana. Così Vargas Llosa.
Considerando i sessant’anni di lavoro, la Tellado
potrebbe aver sfornato settantacinque „romanzi“
l’anno di media. Probabilmente è in questione
un’addiction fantasmagorica, una mostruosità
grafomaniacale che fa impallidire anche Georges
Simenon, autore di centinaia di romanzi, non tutti
brevi, per altro. Senza contare la fatica fisica. Se la
Tellado non avesse avuto successo, con quel che ne
consegue in termini economici, probabilmente
sarebbe incorsa nelle maglie della psichiatria. Era
una scrittrice compulsiva, dunque, ma baciata dalla
fortuna. Ci domandiamo se c’è una differenza tra un
grafomane oscuro e l’altro famoso, a parte il
successo. E’ quest’ultimo a fare la differenza.

„Quella pazza sta chiusa come al solito nella sua


stanza a battere sulla fottuta macchina da scrivere”.

„No, figliuolo, ne vivrai di rendita“.


Foto mancate

Un nostro conoscente, fotografo non professionista,


narrò di esser stato invitato una volta a
documentare le nozze di un suo caro amico; di aver
scattato molto durante la cerimonia religiosa, ma di
aver scoperto, al momento di sostituire in corsa il
rullino, che l’apparecchio era vuoto e che dunque
non era stata scattata fin lì alcuna foto. Narrò il
nostro conoscente che il suo amico aveva poi
ovviato a questa sbadataggine ripetendo, lui la
sposa e i parenti, certe “pose” della cerimonia
religiosa, in accordo con il parroco e con il nostro
conoscente, stavolta dotato di rullino. Se non è vera,
com’è sospettabile, è ben trovata.
Quei due, per caso, si sono sposati due volte?
Comunque hanno divorziato, a quanto ne sappiamo,
una volta sola.
Salienza

E’ noto a tutti che Melville in Moby Dick non ha mai detto quale gamba
mancasse al capitano Achab.

(U.Eco, Milano 2003, Sei passeggiate nei boschi narrativi; pag.328).

Non ci avevamo fatto caso. Piuttosto ci torna in


mente di aver seguito, nel 2010, la polemica
sollevata su un quotidiano da un viaggiatore (non
privo di entrature giornalistiche), il quale sosteneva
di aver assistito a un episodio di prepotenza,
colpevoli due controllori, ai danni di un altro
viaggiatore „privo di entrambe le braccia“, oltre che
del biglietto. Le ferrovie, chiamate in causa dalla
lettera, dettero la loro versione: il viaggiatore
maltrattato vi era descritto come mancante di un
braccio. Il che fa pensare che Melville si sia,
semplicemente, dimenticato di specificare quale
fosse la gamba mancante ad Achab. V’è qualcosa di
saliente, talvolta, che c’impedisce l’accesso ai
particolari.
P.S. Sui muri da anni leggiamo l'acronimo A.C.A.B.,
che ci ricorda il capitano ogni volta, ma che con lui
non c'entra niente: all cops are bastard, significa.
Lapidi a scelta.

Da La Stampa (31 agosto 2008): a Fucecchio (Fi) il


Comune ha giustapposto, alla vecchia lapide in
onore dei sessanta morti ammazzati in chiesa da
bombe “tedesche” durante la seconda guerra
mondiale, una nuova lapide in onore degli stessi
defunti, infatti è risultato che non i tedeschi, ma gli
“alleati”, furono responsabili, “per errore”,
dell’eccidio. Dunque l’eventuale lettore di lapidi avrà
da scegliere tra un “falso” d’epoca e un “vero”
attuale, “revisionistico” – giustapposti. La “verità
narrativa” (tedeschi) non cede a quella
“storica”(“alleati”). In attesa d’altre scoperte,
naturalmente.

W.G.Sebald ha pubblicato un libro (2001) su “guerra


aerea e letteratura” (Luftkrieg und Literature),
tradotto con il titolo Storia naturale della distruzione,
che tratta del velo steso in Germania, anche da
alcuni scrittori, sui disastri causati dai
bombardamenti “terroristici” (Churchill) “alleati”
delle città tedesche, spiegandolo come segue: certi
autori, correggendo il loro passato in senso
antinazista, hanno finito per glissare su Dresda e sui
massacri operati dagli “alleati”, perché
sottolineandoli avrebbero dovuto apparire critici nei
confronti dei “liberatori”, ciò che sarebbe stato in
contraddizione con la loro nuova identità
“antinazista” in costruzione. E’ possibile che un
simile lavoro abbia riguardato non solo gli scrittori,
ma anche la gente comune, e non solo in Germania.
Ricamo

Un soldato italiano entra in un’isba da solo. Ha in


mano il fucile. Alcuni soldati russi, armati, stanno
mangiando. Datemi da mangiare, dice. Una donna lo
serve, lui mette in spalla il suo fucile e mangia.
Grazie. Prego.
“I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano
mossi (...). Così è successo questo fatto. Ora non lo
trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di
quella naturalezza che una volta dev’esserci stata
tra gli uomini. (...) In quell’isba si era creata tra me
e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia
che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più
del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno
per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano
portato degli uomini a saper restare uomini. (...)
Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti
eravamo, come ci siamo comportati. I bambini
specialmente. Se questo è successo una volta potrà
tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a
innumerevoli altri uomini e diventare un costume,
un modo di vivere.” (M.Rigoni Stern, 1953, Torino,
Il sergente nella neve, p.149/150).

Il testo racconta della ritirata di italiani, tedeschi ed


ungheresi (Ucraina, 1943), messi nel sacco dalle
truppe sovietiche e punzecchiati dai partigiani.
Scritto magistralmente, il libro tocca l’incubo della
sconfitta gelata degli eserciti nazifascisti, ma senza
caderci dentro. Abbiamo incontrato quest’opera
giustamente famosa soltanto quest’anno (2011) sul
banco di un rivenditore di libri usati, in un’edizione
scolastica troppo ricca di note esplicative.
Ci siamo goduti il testo, di rara efficacia narrativa,
eppure restiamo perplessi dalla mancanza, in esso,
di elementi critici. In definitiva ci pare corporativo
(evviva gli alpini!), per quanto tale difetto resti nella
dimensione affettiva, non ideologica.

Quanto alla scena su cui Rigoni ricama, ci


permettiamo di proporre che i fattori decisivi
dell’evitata carneficina siano non l’umanità ritrovata,
ma il fucile che l’italiano imbraccia quando entra
nell’isba, e le armi che i soldati sovietici, s’immagina
seduti e impegnati con il loro cibo, non hanno in
mano. Nessuno di loro intende farsi sparare
nell’attesa che un compagno veloce faccia fuori
l’italiano. Dopodiché, in effetti, l’affamato può
consumare il suo cibo in pace, nonostante che non
sia più pronto a sparare. Si tratta di uno scambio
riuscito, di un “armistizio”.
E’ lo stesso

Vediamo in tv un ragazzo colto per strada


dall’intervistatore: chi è Aldo Moro? Sembra non
saper rispondere, farfuglia d’un certo Mora, si
riprende, corregge: no, è il nome di quello che
fotografa i calciatori, intimidito ridacchia da ultimo:
è lo stesso.

Al termine del romanzo La cantina (T. Bernhard,


1976, trad.it.;pagg.126-127, Milano 1984) il
protagonista e narratore incontra una vecchia
conoscenza, per strada, i due (ultraquarantenni)
parlano un po’, quindi il secondo afferma: alla nostra
età “a uno non gl’importa più niente di niente, si è
attaccati alla vita, ma se anche la vita finisce è lo
stesso. E’ lo stesso, proprio così. E’ una questione di
età. E’ lo stesso. Anche per me in quel momento
tutto era lo stesso. Una bella espressione, chiara,
breve, che rimane impressa:è lo stesso. (...). La mia
caratteristica peculiare è oggi l’indifferenza e la
consapevolezza della equivalenza di tutto ciò che è
stato, è e sarà. Non ci sono alti valori, né valori più
elevati, né valori supremi, tutto questo è liquidato.”

Ne Il fumo di Birkenau (L. Millu, 1947, Firenze 2001;


pag.145), racconto di esperienze vissute
nell’omonimo campo di concentramento e sterminio,
troviamo:
“Cosa c’è? Cosa succede? Cosa sono questi
piagnistei? E perché è tutto chiuso?
Andò alla finestra, la spalancò. Il cielo chiaro
illuminò la camera.
Cosa c’è da frignare? – riprese il Posten <guardia>
volgendosi a Lotti.
Sua sorella sta molto male – risposi.
Sua sorella sta male? Scheiss egal <stessa merda>
– brontolò il soldato cominciando a slacciarsi il
cinturone. Scheiss egal! Scheiss egal! – brontolò
ripetendo la frase più usata del lager, quella
terribile, disperata frase che alla parola di
Cambronne conferiva la dignità di una filosofia.”
La protagonista e narratrice esce dal bordello:
”guardai il cielo. Un po’ di fumo veniva dalla parte di
Birkenau, e il vento lo portava su Auschwitz. Forse,
tra poco, Giustine stessa sarebbe passata
lentamente sulla casa dove Lotti piangeva sul gran
letto disfatto.
E tutto non era che fumo. Fumo sopra i lager, la
cittadina e il bordello, fumo sulla malvagità e
l’innocenza, la saggezza e le follie, la morte e la vita.
Tutto “Scheiss egal”.”

Un adolescente oggi può non sapere di Aldo Moro, e


dunque scambiarne il nome con quello di un tale
menzionato dai media (2010) per uno scandalo di
foto compromettenti, ma non dovrebbe dire che
Mora è lo stesso che Moro, per quanto la situazione
(intervista con telecamera) possa indurlo a
difendersi così male. V’è qualcosa di sinistramente
liquidatorio, in quell’ “è lo stesso”, non tanto per il
rilievo drammatico della fine di Aldo Moro, quanto
per l’evitamento della responsabilità di aver
commesso un errore che ciò chiama in causa. In
genere (non ci riferiamo dunque a quel ragazzo) ciò
significa che non importa, l’errore. Invece importa, e
negarlo è una manifestazione di nichilismo di
bassissima lega.
Altro è, invece, il nichilismo cui allude Bernhard,
perché pare pensato, patito, drammatico, il punto
d’arrivo ragionevole d’una esperienza lunga di vita e
di riflessione, di esposizione alla perdita della
differenza tra valori in origine sentiti diversi.
Il nichilismo cui si riferisce Liana Millu, prendendo da
esso decisamente le distanze, è dovuto alla
condizione di illibertà mortale di Birkenau, dove
tutto è „la stessa merda” (salvo la sopravvivenza).
Di meno i carcerieri, di più gl’internati, sono
giustificati, perché il loro eventuale nichilismo deriva
da una perdita totale e/o coatta di valori.
Il ragazzo colto dall’intervistatore (o meglio, l’
ignorantismo che egli rappresenta) avrebbe una (sia
pur parziale) libertà di modulare tra giusto e
sbagliato, tra vero e falso. Rappresenta un tipo
cialtronesco di nichilismo, che nuoce al nichilismo
illuminato, e al nichilismo tragico. Scansiamocene.
P.S. Una variante di „è lo stesso“ appare essere
„cosa cambia?“ Non sapremmo quale rigettare per
primo.
Si sorride a una pizza

Colto un sorriso tenero di x diretto alla pizza appena


sfornata, per merenda. Si veda: il cavolo a.
X, poco meno che quindicenne, sorride al suo piatto
pieno, non di rado.
Il sorriso rivolto ad oggetti (anche più inanimati
delle cibarie) è interessante. Dopotutto, però,
deprime.
Si sorride a una pizza, quindi la pizza è paragonabile
a una persona, o a un animale. A una pianta, cui si
parla, anche, più o meno consapevoli che stiamo
parlando con noi stessi. Non scodinzola neppure.
La pizza è un „oggetto-Sé“ (H. Kohut), in questo
senso è psicologicamente plausibile che le si sorrida
teneri. Da ciò si ricava che l’ „oggetto-Sé“ è come la
pizza?
La pizza è un „oggetto-Sé“ planetario, come la Coca-
Cola. La “fettunta” lo è localmente.

L’ „oggetto-Sé“ (Self-object) è definibile come


esperienza di avere un oggetto a disposizione, come
fosse una mano. Non è quindi detto che tale
esperienza soggettiva corrisponda ai fatti.
Il sorriso ne è una manifestazione.

L’elaborazione dell’immagine di colui che sorride alla


sua merenda in forma di pizza attiene alla realtà
della nostra mente, piuttosto contenta di ciò che ha
elaborato, ma non riesce a scalfire la realtà
deprimente di colui che sorride alla sua pizza.
Gelo notturno

In un racconto di De Maupassant, La confessione


(1884), è descritta l’eliminazione (indiretta) di un
neonato per mezzo del freddo - nella camera dove
dorme il piccolo suo padre lascia d’inverno la finestra
aperta. L’assassino, impegnato con una ragazza
povera, la madre del bambino, desidera invece
sposare una ragazza benestante.
Ne L’innocente (D’Annunzio, 1892), l’eliminazione di
un neonato con il descritto metodo è invece il
risultato di un motivo passionale: il piccolo, partorito
dalla moglie dell’assassino, non è figlio
dell’assassino, ma di un altro uomo. Non è qui
interessante l’eventuale mancanza di originalità di
D’Annunzio; meglio domandarsi quanti bambini
siano stati fatti fuori in modi simili, uno o più adulti
provocando deliberatamente loro danni letali.
“Aborti” praticati dopo la nascita?
Di notte, al buio, l’assassino lascia il neonato al
freddo per quanto crede che basti a dare il via a una
polmonite. Di notte la temperatura cala, ma,
soprattutto, il buio favorisce l’ingigantirsi
dell’ossessione egotica dell’assassino, gelosia in
D’Annunzio, bramosia sociale in De Maupassant, e
riduce le alternative al delitto.

Ci colpisce, la delittuosità dell’eliminazione dei


neonati raccontata da De Maupassant e D’Annunzio:
perché non la pratica abortiva?
M.Clara

Abbiamo raccolto in piazza Oberdan, anni or sono,


un foglio contenente la minuta di una lettera. Molte
parole sono nell’originale oggetto di cancellatura,
sottolineatura, aggiunte, frecce, ecc.
Una donna avrebbe preparato con fatica una lettera
che mostra le sue premure per un giovane uomo.
Ma qual è il rapporto tra i due, M.Clara e Luigi? Sono
parenti, amici? Luigi, sulla soglia della laurea o
appena laureato, potrebbe avere sui venticinque
anni. M.Clara invece potrebbe essere di età
maggiore, anche consistentemente, lo
congetturiamo dalla sua sintassi piuttosto antiquata:
(“Nel timore non mi trovassi in casa”; “Spero sia del
tutto inutile”; “Mi sembra ci sia la possibilità”; “Mi
davi l’impressione tu ti sentissi”: manca la
congiunzione “che”); e, in un punto, dal suo lessico:
(“Sbizzarrirsi in giratine”; “giratina”, come “girata”,
fa pensare a una non più giovane nativa di Firenze).
M.Clara forse non è la madre di Luigi, non solo per il
fatto che si firma con il suo nome e non con quello
del suo “ruolo” - vi sono certi genitori che si fanno o
lasciano chiamare dai figli per nome. Non sembra
mostrare l’ intima oggettiva autorità di una madre
nei confronti del figlio, di colui che, sia quel che sia
al presente, lei ha allevato, allattato, accudito,
nutrito, curato, toccato, udito iniziare a parlare,
visto nella scuola, nei giochi, e nella sua nudità, non
solo in senso stretto: (“Nel timore non mi trovassi in
casa, se sei qui solo per poche ore”; “Ricordati per
favore di comunicarmi l’indirizzo”; “Ho la
presunzione (credo) di conoscerti abbastanza”).
Non sentiamo la madre, ma l’amica trepidante, la
parente insicura, se non è, M.Clara, una madre che
ha perduto o sta perdendo la sua “presa”. Eppure si
propone come una sorta di madre, e sembra
senz’altro una “care giver”.
La minuta, del resto, colpisce per il fatto che il
destinatario, apparentemente al suo centro, in realtà
(la realtà della pagina) finisce con l’essere nascosto
dal protagonismo tormentato della scrivente: è lei
che attira, come personaggio.
Quanto a Luigi (“mi davi l’impressione tu ti sentissi,
in particolare l’ultima ora, un detenuto”), s’ignora se
patisca più il servizio militare “lontano da casa” o le
premure dell’assidua – cugina, amica, zia, sorella?
Chissà.

Dopo mesi che ritornavamo talvolta a queste


riflessioni, c’è venuto infine da pensare che la
curiosa firma (M.Clara), con quell’iniziale “M”
puntata, significhi pudicamente “Mamma Clara”.
Essenza sublime

One day I went to the dentist.Over the radio they said it was the hottest
day of the year.However, I was wearing a jacket, because going to a
doctor has always struck me as a somewhat formal occasion.In the midst
of his work, Dr.Heyman stopped and said, “Why don’t you take your
jacket off?” I said, “I have a hole in my shirt and that’s why I have my
jacket on.”He said, “Well, I have a hole in my sock, and, if you like, I’ll
take my shoes off.”

(J.Cage,1939-1961, Silence; Middeltown, Connecticut, 1973, pag.95).

John va dal dentista. Secondo la radio è il giorno più


caldo dell’anno, tuttavia lui indossa la giacca, perché
andar dal dottore gli è sempre sembrata
un’occasione seria. Mentre lavora, il dentista si
ferma e fa: Perché non si toglie la giacca? E John:
Ho un buco nella camicia, ecco perché. Allora lui:
Beh, io ho un calzino bucato, se vuole mi tolgo le
scarpe.
John inventa una falsa spiegazione, piuttosto
penosa, del suo abbigliamento inadatto al clima. Si
caccia da solo in una trappola: togliendosi la giacca,
mostrerà di aver mentito, farà una figura non
eccelsa; e dovrà affrontare l’altrui buco nel calzino,
insieme alla smagliatura formale della situazione.
Non togliendosi la giacca, patirà il caldo.

Anni or sono, avendo noi insistito in un paio di


occasioni (lezioni universitarie) su questo grazioso
brano, fummo richiamati all’ordine da un’attempata
„studentessa-lavoratrice“: fatico per esser presente
alle lezioni, protestò, e Lei ci propina queste storie.
La volta dopo riproponemmo il tema. Infatti
desideravamo coglierne l’essenza, intuibilmente
sublime.
John Cage, come dimostra in Silence, è un brillante
cultore dei paradossi zen.
Comunismo a pedali

Da qualche anno molte persone hanno iniziato a


percorrere i marciapiedi in bicicletta; di ogni età,
qualcuno va con cautela, qualcuno meno, anche su
bici elettriche alquanto veloci, svoltando
perentoriamente alle cantonate, così prendendo di
sorpresa chi cammina. Il fenomeno è in crescita. Ne
abbiamo letto anni fa, su un quotidiano che si
definisce “comunista”, un breve elogio che
includeva, riferendo di certi ciclisti cosiddetti radicali
in Usa, anche la tendenza a fare percorsi
contromano.
Comunismo a pedali *.
Comincia a imporsi la necessità di uscire dal portone
di casa con una certa circospezione. Una volta
abbiamo incontrato due biciclette che procedevano
sul marciapiede appaiate, un’altra due in fila indiana,
ma ecco un fatto preciso. Tempo fa sul marciapiede
una signora ultrasessantenne se ne veniva in bici, e
le abbiamo in effetti sbarrato il passo, dicendole:
questa è una prepotenza. La signora ha frenato e ha
risposto: “infatti mi sono fermata”. In breve
congetturammo che con quelle parole la signora
volesse segnalare non la sua, ma la nostra
prepotenza. Buona battuta, in fondo.
Un giovane con lo stesso vezzo, da noi richiamato
con l’argomento della nostra difficoltà di percorre
marciapiedi usati come se fossero piste ciclabili,
invece ci ha suggerito: “allora non camminare sui
marciapiedi!”. Anche questa non è male.

* Eppure nel supplemento del 13 aprile 2013 dello


stesso quotidiano leggo di una pratica ciclistica,
politicamente caratterizzata, di cento anni or sono;
per iniziativa del Partito Socialista si dette luogo, in
Emilia e in altre regioni settentrionali, a gruppi di
“ciclisti rossi” che con le loro bici potevano
raggiungere i vari centri di secondaria importanza e
portarvi materiale utile alla propaganda. Forti dei
pneumatici “Carlo Marx”, che una ditta di Milano sita
in via Cappuccini 2 forniva loro a prezzi di favore.
Something wrong

Letta un’edizione di Domani (J.Conrad, 1903; Bari


2008) con il testo originale a fronte. Iniziativa
generosa e non priva, da parte della traduttrice,
Maria Teresa Chialant, di coraggio. Sarebbe bello se
ogni traduzione offrisse la sua matrice, non sempre
facilissima da trovare, inoltre, com’è ovvio, il testo a
fronte invoglierebbe il lettore a farsi, anche lui,
traduttore. Qui la brevità del racconto, trentacinque
pagine, ha agevolato il dono, per non dire che ha
consentito di produrre un libro altrimenti esiguo.
Troviamo nell’originale, almeno cinque volte,
l’espressione “something wrong” (“qualcosa di
sbagliato”, traduce la Chialant senza sforzo), che ci
rimanda a un altro testo di Conrad, Al limite
estremo (The End of the Tether, 1902). Un
attempato comandante marittimo non rassegnato al
pensionamento nonostante la sua (segreta)
semicecità, riesce a lavorare tenendo sempre vicino
a sé un pilota malese, che, consapevole o meno,
sopperisce all’handicap. Anni or sono, cercando
significati in alcuni scritti di Conrad, ci
confrontammo anche con il suo non facile inglese, e
trovammo che il termine “magagna”, riferito dal
traduttore, Renato Prinzhofer, alla segreta cecità del
comandante, traduceva, tra la fine del nono e l’inizio
del decimo capitolo, “something wrong”.
L’espressione può considerarsi comune, lo stesso ci
colpisce il fatto di ritrovarla così copiosamente in
Tomorrow. Conrad d’altra parte è uno specialista in
fatto di magagne, un inventore e analista di
magagne, nato nello stesso anno di Freud (1856),
magagnologo monumentale.

In un dizionario inglese-italiano trovo che wrong è


un aggettivo, un sostantivo, un verbo, un avverbio,
un semantema.
Come aggettivo significa: sbagliato, inesatto, in
errore, ingiusto; peccaminoso, cattivo, illegale.
Come sostantivo significa: ingiustizia, torto;male,
peccato;danno.
Come verbo (to wrong, transitivo) significa: far torto
a, offendere, trattare ingiustamente, giudicare
male;imbrogliare, nuocere a; superare „nel
navigare“.
Come avverbio significa: erroneamente, in modo
inesatto, ingiustamente; in modo peccaminoso,
illegale.
Come semantema, cioè nei composti, significa:
peccatore, offensore, trasgressore (wrongdoer);
peccato, offesa, trasgressione (wrongdoing);
indicazione di refuso (wrongfount); a rovescio
(wrong side out).

Tomorrow racconta di un marittimo in pensione che


spera con tenacia di rivedere suo figlio, scomparso
da molti anni. Quando il figlio si presenta, il padre
non lo riconosce e si rifiuta di scambiarci anche
poche parole, perché in realtà è già “felice”, ha
infatti la sua aspettativa che l’arrivo del figlio
distruggerebbe, e gl’interessa una vicina di casa, che
lo straniero potrebbe “portargli via”.
Edizioni provvisorie

Un’opera giovanile di T.Todorov sulla letteratura


fantastica (1970) prende in considerazione, tra gli
altri esempi del genere, Manoscritto trovato a
Saragozza, di J.Potocki (1958). Di quest’opera,
all’epoca, era disponibile solo una versione
(piacevolmente) parziale, quella che noi abbiamo
conosciuto nella traduzione Adelphi. La versione
“completa” (1990) totalizza invece, tra le gustose
storielle di spiriti che i personaggi raccontano, una
prolissa serie di messe in scena macabre realizzate
da una potente congrega allo scopo di mettere alla
prova la stabilità caratteriale del protagonista,
Alfonso Van Worden. Alfonso passa l’esame, Todorov
no, abbocca, ma involontariamente suggerisce che il
“fantastico” potrebbe appartenere al genere delle
versioni provvisorie della verità.

La versione compiuta de La meccanica (C.E.Gadda,


1989) è meno gustosa della versione incompiuta,
parere personale. Gadda non c’entra, noi ci
affezioniamo alle versioni parziali e guardiamo con
ostilità a quelle definitive, forse perché richiamano
l’idea della nostra morte. Noi siamo versioni parziali
per tutta la vita.

Vedere certi film con Totò dall’inizio alla fine, o per


esempio “Un americano a Roma”, in versione
completa, è una prova difficile da reggere. Come la
nostra vita, ancora, che dovremmo saper tagliare e
antologizzare. E non è detto che non sia proprio
questo che facciamo. Forse il suicidio dipende dalla
incapacità di antologizzare la vita. Potocki (1761-
1815) si sparò un colpo.
Traduzioni

Nel film di Pupi Avati “Il papà di Giovanna”, con


Silvio Orlando, Francesca Neri ed Enzo Greggio, tra
gli altri, si racconta una storia bolognese fine anni
trenta, di cui non diremo una parola. Alcune
espressioni che usano i personaggi, come “avere dei
problemi” o “emarginato”, siamo sicuri che neanche
per sogno uscissero dalla bocca degli italiani
dell’epoca (dell’Era). Facevamo osservare a nostro
figlio che la cosa stonava, come se tra le rare
automobili circolanti nel film avessimo visto una
Panda, o come se in un “interno” avessimo scoperto
un televisore.
D’altra parte, in quanti film ambientati nel passato
non si notano simili abusi? E’ difficile, se non
impossibile, riferirsi al passato senza fargli subire
infiltrazioni del nostro presente. Così ci capita di
pensare che, quando ricordiamo i tempi andati da
molto, lavoriamo a materiali spogliati del loro abito
autentico, a ombre, oppure inavvertitamente essi
prendono un aspetto presente.
Secondo Umberto Eco (Dire quasi la stessa cosa,
Milano 2003) i film tratti da testi narrativi ne sono
“traduzioni”. Pare una buona idea per riflettere sul
tradurre in senso proprio.
Anni fa abbiamo visto il film “L’amore ritrovato”, di
Carlo Mazzacurati. Successivamente, forse un paio
di anni dopo, abbiamo letto Una relazione, breve
romanzo di Carlo Cassola (1969). Ci pareva di
riconoscere qualcosa, e temevamo di trovarci alle
prese con la zoppìa della nostra memoria di lettori
disordinati, invece nostro figlio, vedendo la foto in
copertina, ci avvertì che essa si riferiva al film di
Mazzacurati.
Pochissimi giorni dopo aver letto il testo di Cassola,
tirando su a casaccio il dvd, abbiamo rivisto la sua
“traduzione”. Non ci siamo proprio, Cassola si sarà
rivoltato nella tomba. Troppo belli, i due amanti,
troppo ben vestiti, troppo luminoso il tutto, troppo
nuova fiammante la bici del protagonista maschile,
troppo da “Mulino bianco” i trenini e le stazioncine,
troppo ridente la protagonista femminile, troppo
piacente l’affittacamere di Mario a Livorno, troppo
elegante la sua casa, e poi perché Mario nel film si
chiama Giovanni, e l’amante, Giovanna, si chiama
Maria? Inoltre: figuriamoci se una proletaria di
provincia, negli anni trenta, s’infilava in sottoveste
dentro la vasca da bagno con l’amato!
La meravigliosa lagna e rogna provinciale, i “cuori
aridi” di Cassola, la sublime sfiga - dove sono finiti?
Lost in translation. Eppure innegabilmente è una
traduzione.
Un’opera sconosciuta di Thomas Bernhard

Leggemmo sul Manifesto un articolo in ricordo di un


certo rivenditore di libri milanese. L’articolista
raccontava del suo primo incontro con il compianto,
il quale gli avrebbe indicato un libro “di Thomas
Bernhard” su la Banda Bonnot - ladri anarchici, o
anarchici ladri dei primi dello scorso secolo. Che lo
scrittore austriaco avesse scritto un libro sulla Banda
Bonnot non lo sapevamo, quindi leggemmo il resto
dell’articolo infastiditi sia dall’errore dell’autore sia
dal sospetto di una nostra falla bibliografica grave:
l’incrocio infatti tra Thomas Bernhard con la Banda
Bonnot ci sembrava tanto non credibile quanto
promettente.
Tramite Google abbiamo appreso che l’errore
dell’articolista e del giornale, grave, era dovuto
all’attenuante che l’autore del libro (La Banda
Bonnot. Morte alla borghesia!, Milano 1969) si
chiama Bernard Thomas, francese.
Il mondo secondo i rospi

A lezione privata di lingua francese, l’allievo G.


Durrell (La mia famiglia e altri animali, 1956)
sospetta, da piccolo ipocrita, che l’insegnante
nasconda talvolta un certo suo bisogno di assentarsi
dietro l’esigenza dichiarata di vedere la madre,
infatti l’allievo ritiene impossibile che l’insegnante,
così anziano, abbia ancora viva la madre. Così, una
volta che ha bisogno lui di andare al gabinetto,
chiede all’insegnante il permesso di „vederne la
madre“. Sorpreso, l’anziano conduce Durrell dalla
vecchissima donna.

Il decenne Durrell colleziona e imprigiona


tartarughe, serpenti, uccelli, insetti, non ostacolato
dalla numerosa accogliente famiglia, madre, due
fratelli e una sorella, e ha fino a tre cani. Non gatti,
in merito ai quali descrive il vezzo del suo
insegnante di lingua francese: sparare con una
carabina a piombini su quelli del vicinato, a suo
giudizio troppo malridotti. Ricaviamo una certa
soddisfazione per l’esclusione dei gatti dal leggibile
testo di Durrell. L’ipotesi che a questo piccolo umano
in vacanza a Corfù non interessassero, anzi, ci
solleva.

Il metodo (comportamentistico-narrativo)
durrelliano consiste nell’attribuire ai fatti animali,
anche degli insetti, significati umani. La natura fa da
specchio agli umani, che tendono a dimenticare di
farne parte. Ma non è Esopo, Durrell, né La
Fontaine, scrive nel Novecento. Il mondo percepito
dal serpente non è lo stesso mondo dell’umano, né
quello della mosca. Quando noi diciamo che un tale
ha „l’occhio di falco“ siamo in errore, come quando
sosteniamo che il nostro gatto faccia i suoi bisogni
fuori dall’apposita “lettiera” per dispetto – anche noi
del resto abbiamo accennato (diverse pagine or
sono) alla „dignità“ delle vipere. La vita degli animali
non è la nostra.
L’erronea congettura di Durrell in merito alla madre
del suo anziano insegnante illustra il suo metodo:
sbagliato ma piuttosto divertente.

A proposito (o sproposito): se un rospetto avanza


sulle pietre dell’aia, forse ignaro di noi e di ben tre
gatti presenti negl’immediati paraggi...

Abbiamo ripensato che non soltanto un rospo ha


percezioni diverse da quelle umane, ma che a quelle
percezioni attribuisce „significati“ la cui complessità
o brutale semplicità a noi sfugge del tutto. In breve
abbiamo ripensato che il mondo dei rospi (come
esempio) ha ben poco a che fare con il nostro, e che
dunque è un altro mondo. Tuttavia, ammettiamolo:
l’avanzata di un rospo sulle pietre dell’aia si presta
essere raccontata come se fosse il procedere
strisciante d’un umano, ignaro di presenze forse
pericolose.

La Rai intratteneva il pubblico con una trasmissione,


eravamo ragazzi, condotta da Enzo Tortora (e Silvio
Noto) che s’intitolava „Telematch“, il cui clou
secondo noi era un gioco: L’oggetto misterioso.
Appariva sul teleschermo, l’oggetto, e il pubblico
doveva indovinare che cosa fosse. Il mistero
dipendeva da tre cause: l’oggetto era settoriale,
isolato, e spaesato.
Settoriale come un „cuscinetto a sfere“, che
nessuno, non meccanico o per altri motivi al
corrente, aveva mai visto; isolato a causa della
mancanza, sullo schermo, di altri oggetti noti cui
confrontarlo, per cui non c’era modo di sapere quali
dimensioni avesse: grande come un apparecchio
telefonico, o come un gomitolo, o come il casotto di
un cane, eccetera. Settoriale, isolato, e spaesato.
Cioè decontestualizzato: prendi un cuscinetto a
sfere, ma lasci via la biella e l’albero a camme. E il
pistone.
L’oggetto misterioso poteva restare tale per
settimane, fino a quando una persona (competente
del settore) non si faceva avanti eccetera.
Una quantità d’ipotesi, intanto, veniva dal pubblico.
Il gioco (animato da Silvio Noto) ci è tornato in
mente a proposito del transito del rospetto sull’aia.
Per avvicinarci a come un altro animale vede gli
oggetti e gl’insiemi di oggetti che vediamo noi, (a
parte le simulazioni tra neurologia e computer),
possiamo pensare a quel gioco televisivo del
passato.
Con una differenza. Che nel gioco noi spettatori
credevamo di non essere misteriosi, ponendo il
mistero tutto nell’oggetto: in altri termini, come
avviene, l’umano dispone di questa funzione/finzione
che si chiama „io“: „fuori“ stanno gli oggetti.
Il rospo non soltanto „vede“ altro, rispetto a noi, ma
è immerso in un mondo che noi non possiamo che
definire misterioso, alieno.
Don Chisciotte

Scritto circa quattrocento anni or sono, è uno di quei


famosissimi testi più evocati allo scopo di esprimere
qualcosa di umano, che non letti.
Le avventure di Don Chisciotte e del suo scudiero
Sancio Panza volgarmente fanno pensare al teatro
dei burattini: mazzate che fan poco male, urli,
proclami, roba che già a sei anni non fa più neanche
ridere. In compenso il libro propone, a chi lo legga a
un’età più ragguardevole, una complessità
compositiva, una sapienza psicologica e filosofica di
cui le mazzate, gli urli, i proclami e le spiritosaggini
di scarsa presa sono in definitiva il prezzo.
Don Chisciotte, appassionato di romanzi
cavallereschi, esce dalla sua solita vita (di lettore)
per cercare “fuori” avventure paragonabili a quelle
raccontate dai suoi amati libri, armato quindi
bibliograficamente. Ha della vita un’esperienza da
lettore, mentre Sancio, lo scudiero e badante, è un
analfabeta chiacchierone. Abbiamo un lettore fuori di
testa e un analfabeta dotato di ottuso senso
comune.
Il leggere riguarda il protagonista, ma anche il
narratore, che finge di ripercorrere un testo su Don
Chisciotte scritto da un altro, un doppio del
narratore. Finita la prima parte del romanzo, nella
seconda troviamo personaggi che dichiarano di aver
letto la prima, dunque ancora lettori, mentre Don
Chisciotte oramai è divenuto anche lui un
personaggio al quadrato, come eroe
postcavalleresco.
Su uno sfondo di letteratura cavalleresca nasce
dunque un testo scritto da un tale, ripreso dal
narratore, il quale nella seconda parte, ancora
riprendendo il suo doppio, tratta della prima come
opera edita, e del suo successo. Ovunque si guardi,
si trovano scrittura, libri e letture, carta: questa è la
realtà.
Quanto alla sapienza psicologica del libro, che si
paga con ettolitri di spirito di patata, essa riguarda,
ci pare, il dispositivo di sicurezza elaborato da Don
Chisciotte allo scopo di proteggere la sua visione,
cioè le manifestazioni del suo delirio di lettore di
romanzi cavallereschi. Per smentire le smentite che
la realtà extraletteraria s’incarica di dargli, “il
cavaliere dalla triste figura” fa ricorso all’argomento
magico. Maghi invidiosi e intriganti, suoi nemici,
mascherano la sua visione, trasformando giganti in
mulini a vento, per cui la realtà da tutti visibile è
frutto d’inganno. Incantesimo. L’autoinganno di Don
Chisciotte è realtà, la realtà di tutti è inganno,
quindi. Dulcinea del Toboso, fanciulla sublime, è
mutata dai maghi invidiosi in una contadina
sgraziata. Per cui, se a Don Chisciotte si fa notare
che l’amata è tutt’altro che sublime, lui replica che è
vero, ma giustappunto la colpa è dei maghi.
Insomma Don Chisciotte forse bara e si preoccupa di
difendere il suo barare.
A parte gli eccessi donchisciotteschi, l’autoillusione e
la sua difesa caparbia riguardano molti di coloro che
errano.
Filosoficamente, d’altra parte, Don Chisciotte, con lui
Cervantes, non ha certo tutti i torti nel rifiutare che i
“mulini a vento” siano mulini a vento una volta per
tutte, come vuole Sancio, l’analfabeta. Che lo siano
è una convenzione che serve nella pratica, fuori
dalla pratica sono oggetti complessi che possono
essere definiti anche in altri modi, per esempio come
giganti.
Tempo fa in campagna, lungo un sentiero abbiamo
trovato tre barrette lunghe meno di una penna a
sfera, colorate, di materiale sintetico, elastiche e
robuste; abbiamo pensato che avessero a che fare
con il ciclismo fuori strada, precisamente con le
ruote, i raggi eccetera, solo perché di ciclisti del
genere lì ne vediamo spesso. Altrimenti, zero. A un
conoscente che pratica tale sport quelle tre barrette
non sono parse misteriose, si trattava di leve che
servono a togliere, in caso di foratura, le gomme dai
cerchi delle ruote, leggere e robuste, di cui noi,
rimasti all’età del metallo, non sapevamo niente.
Gliele abbiamo regalate.
Don Chisciotte, lettore e uomo di scarsa praticità,
forse non ha mai visto dei mulini a vento, ma non è
questo il punto: lui e Cervantes negano l’univocità
dell’oggetto, ne fanno un oggetto narrativo. Barare,
del resto, come sembra a tratti fare Don Chisciotte,
significa anche raccontarla in un altro modo.
Dulcinea: nella narrazione donchisciottesca è una
fanciulla nobile e sublime, ovviamente bellissima,
ma nei fatti appare, anche a lui, grossa, rozza,
matura assai, una lavoratrice, non una nobildonna.
Don Chisciotte è in errore, sì, forse bara, forse è
matto, ma è in errore anche chi, alla Sancio Panza,
vede solo una cosa e la scambia per la realtà.
Nel corso del 2012 si sono misurati su certa stampa
quotidiana nazionale i filosofi “postmodernisti”, che
negano il darsi di fatti non interpretabili, e quelli
“neo realisti”, che vorrebbero limitare tale tendenza,
pur senza spingersi a sostenere che vi sia qualcosa
che “è” la realtà. Non sappiamo se qualcuno ha
ricordato Cervantes. Né se qualcun altro ha pensato
alla storiella Zen; un maestro tiene in mano un
bastone e dice, rivolto all’allievo: se dici che questo
bastone esiste te lo do in testa, se dici che non
esiste te lo do in testa. Al che l’allievo trova una via
d’uscita: toglie il bastone dalle mani del maestro.
Giova l'umore imporsi

Guido sognò un certo signor Bassi, abbigliato in


modo non convenzionale, in sandali e casacca a
larghe strisce bianche e azzurre verticali di stoffa
lucida; piuttosto anziano, il signor Bassi, aveva
proclamato quanto segue: Giova l’umore imporsi.

Fa bene imporsi l’umore (buono, cattivo, neutro).


Perché no?- si disse Guido, troppo stagionato per
credere ancora alla spontaneità. Intanto però gli
venne da chiedersi: il signor Bassi aveva
sentenziato „giova l’umore imporsi“, oppure
„giova all’umore imporsi“?

Era lui (Guido), ad aver introdotto la variante? Non


importa.
Da una parte ci gioverebbe, sembra, imporre a noi
stessi d’essere sereni, allegri, (tristi, seri) e così via.
Dall’altra all’umore stesso gioverebbe imporsi, che è
il contrario.
Senza dire che il sottinteso di „imporsi“ potrebbe
essere „noi“: se c’imponiamo nelle situazioni,
l’umore ci guadagna.
L’abito fa il monaco. Indossare una maschera
umorale giova. Simulare una fede rende fedeli.
„Gente allegra Dio l’aiuta“.

Chiameremmo in causa il concetto di


imperturbabilità, come imposizione d’un umore
sereno a noi stessi. Capiti quel che vuole, Guido
deve imporsi di restare imperturbabile: se perde
l’imperturbabilità ugualmente deve restare
imperturbabile.
Un aiutino

Da piazza Oberdan escono cinque vie, una volta ad


occidente. Sull’angolo di quest’ultima, giorni or sono,
abbiamo incontrato un uomo che si muoveva verso il
tramonto con enorme difficoltà e lentezza. Ci siamo
offerti di dargli un braccio, lui ha accettato e
abbiamo così percorso una decina di metri. Durante i
minuti necessari quest’uomo pallidissimo ha
mormorato che sono eventi come il sole al tramonto,
e altro che ora ci sfugge, a farlo “andare avanti”. Nel
dire ciò abbiamo avuto l’impressione che usasse la
parola “cobre”. C’è sembrato anche di cogliere nel
suo italiano un accento “argentino”, semplicemente
perché per anni abbiamo udito tale parlata nelle
interviste televisive rilasciate dal calciatore Gabriel
Batistuta.
L’uomo ha accennato divertito al famoso “Batigol”, e
ci ha detto, azzeccandoci, che gli sembravamo “un
insegnante”; di cosa? - ha poi domandato. Di
psicologia, abbiamo risposto, e lui ha rilasciato
ironico la banalità del talento di leggere dentro le
persone.
C’è sembrato che fossimo arrivati al suo portone e di
leggere un cognome “spagnolo” sulla campanelliera,
ci siamo dunque offerti di premere il bottone, ma lui
ha cortesemente negato il permesso. Insieme, ci ha
chiesto “un aiutino”, stavolta giustamente
interpretato come richiesta di soldi, che gli abbiamo
dato.
Li ha guardati e sorridendo ha ringraziato.
Non aveva l’aspetto del mendicante, per quanto sia
difficile sostenere che i mendicanti abbiano “un”
aspetto: indossava normali abiti e un paio di scarpe
nuove (che abbiamo avuto occasione di osservare
bene, data la nostra attenzione ai suoi lentissimi
passi).
In definitiva ci ha chiesto un’elemosina.
Ricordavamo di averlo già visto, identicamente
sostenuto da un uomo nello stesso luogo, e ora
esprimiamo una certa delusione per la sua richiesta,
che ci ha indotto a ripensare quest’esperienza non
nel segno di un incontro umano degno di nota, ma
nel segno di un pensabile accattonaggio
marpionesco (dopotutto anch’esso notevole). D’altra
parte siamo stati noi ad offrirci.
Sulla traccia di questa delusione abbiamo iniziato a
domandarci se lui aveva detto “cobre” (veramente:
“cupre”), se è argentino, se abbiamo letto un
cognome “spagnolo” sulla campanelliera (abbiamo
controllato: c’è), se, infine, è vero che quello fosse il
suo portone. Tuttavia restiamo grati a quest’incerto
mendicante.

Incontrato ancora stamani, mentre si accingeva ad


attraversare la strada verso un bar, armato di
bastone. E’ persiano, ha detto spontaneamente –
non iraniano, persiano. Ha accennato a un piccione
ferito visto di recente, “paralitico anche lui”, e,
chiesto un nuovo aiutino, ci ha prospettato l’ipotesi
di inserirci nelle sue „efficacissime“ preghiere.
Per che cosa vuoi che preghi? – ha infine chiesto.
Nicola Spinosi ha trascorso sessanta anni (1952-2012) nell'ambito
dell'istruzione pubblica, dalla scuola elementare all'università,
variamente obbligato in sedi istituzionali della sua città, Firenze. Su carta
ha pubblicato alcuni libri di argomento psicologico e articoli, su riviste
italiane, di psicologia e di letteratura. Nel frattempo ha continuato a
coltivare la narrativa. Il presente testo è alla sua seconda edizione
(2020); la prima risale al 2013.
(spinnic@libero.it)

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