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Manuale Di Criminologia Clinica
Manuale Di Criminologia Clinica
Rossini, Città di Castello, 2000)
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Capitolo 1
LE TEORIE CRIMINOLOGICHE
Nel corso del tempo si sono evidenziati diversi approcci allo studio del crimine che hanno
ipotizzato le origini del comportamento criminale localizzate nella psiche dell’individuo, nel suo
patrimonio genetico, nell’ambiente sociale, nelle psicopatologie o ancora nelle diverse modalità di
attribuzione di significato alla realtà o nella capacità di adattamento alle norme. Talune scuole
criminologiche si sono attestate su posizioni critiche ponendo in discussione il rapporto stesso tra
individuo e un sistema normativo che è culturalmente e socialmente determinato e come tale non
necessariamente accettabile da tutti. Evidentemente la scelta teorica del criminologo risulta
fortemente influenzata dal suo stesso rapporto ideologico con il sistema sociale. Posizioni
consensuali e integrate degli studiosi saranno maggiormente legate ad una visione del crimine in
termini di disfunzionalità ed anomalia (ricercata in aree psicologiche, psicopatologiche e
sociologiche). Posizioni maggiormente conflittuali invece orienteranno probabilmente lo studioso
su valutazioni attinenti ai rapporti di potere tra gruppi sociali, ricercando la spiegazione del crimine
nelle dinamiche di reazione sociale, di etichettamento, di esclusione, di stigmatizzazione. In questa
breve raccolta di contenuti criminologici cerchiamo di proporre al lettore gli spunti maggiormente
significativi dei vari approcci ancora vivi nella Criminologia contemporanea ognuno dei quali offre
alcune possibili “cause” della fenomenologia criminale. In realtà sovente le teorizzazioni mostrano
semplificazioni ed esasperazioni concettuali che non corrispondono alla realtà. Il concetto stesso di
causa, applicato al comportamento umano, necessita di estrema cautela proprio in ragione degli
infiniti fattori che influenzano l’agire dell’uomo, posti su piani genetici, biologici, psicologici,
sociali e talvolta fortuiti, mediati ed organizzati, tra l’altro, dalla variabile primaria indotta dalla
razionalità e dalla libertà di scelta. La ricerca di una causa specifica dovrà quindi essere intesa come
maggiore o minore peso di una variabile all’interno di una dinamica complessa o meglio ancora
come un fattore di possibile ingerenza. Un ulteriore elemento di complessificazione è dovuto poi
alla grande diversità che intercorre spesso tra i vari crimini. Taluni comportamenti criminali
sembrano infatti essere maggiormente influenzati dalle variabili biologiche e psicologiche (es. i
crimini violenti) mentre altri appaiono maggiormente correlati a dinamiche sociali.
LE FUNZIONI DELLA CRIMINOLOGIA
L’oggetto della moderna Criminologia appare assai diversificato in ragione della grande
complessità del comportamento umano (e quindi di quello criminale). Gli elementi che assumono
rilevanza criminologica sono infatti:
i fatti delittuosi
gli autori del delitto
la reazione sociale
la vittima
la devianza (le manifestazioni non conformi ma non criminose)
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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La Criminologia opera in stretta connessione con le altre Scienze criminali che sono:
1. il Diritto penale (l’articolazione della produzione normativa penale);
2. la Politica criminale (che studia i modi per prevenire e combattere i fenomeni criminali);
3. la Penologia (lo studio della pena nelle sue applicazioni concrete);
4. il Diritto penitenziario (che progetta la fase esecutiva del procedimento giudiziario penale);
5. la Psicologia giudiziaria (che studia l’uomo come attore del procedimento penale es. interazioni
in fase processuale tra le parti);
6. la Psicologia giuridica (una branca della psicologia applicata al diritto);
7. la Criminalistica (lo studio delle tecniche dell’investigazione criminale).
La Criminologia utilizza numerosi quadri teorici e metodologici delle Scienze umane. E’ infatti una
Scienza multidisciplinare che non possiede un proprio metodo di ricerca ma che tende ad integrare
tra loro le conoscenze confluenti da molteplici discipline, tra cui: la Sociologia, la Psicologia, la
Medicina, il Diritto e l’Antropologia. Comunque non è semplicemente il frutto della costruzione di
un sapere integrato ma ha una sua autonomia scientifica prendendo in esame alcune dinamiche non
considerate dalle altre Scienze. I suoi paradigmi attuali sono il risultato di un lento processo di
costruzione che ha visto il lavoro di molti studiosi nel corso della storia. Il suo bagaglio teorico e
metodologico è quindi cumulativo essendo le sue teorie costruite sovente in derivazione l’una
dall’altra nell’ambito di una paziente opera di correzione, modifica e conferma delle
concettualizzazioni precedenti. Come ogni altra Scienza, la Criminologia ha quindi esigenza di
sistematicità e di controllabilità delle sue ricerche per garantire dignità scientifica al suo operare.
LE FUNZIONI DELLA CRIMINOLOGIA:
Gli studi criminologici trovano applicazione in numerosi ambiti, alcuni maggiormente accademici e
finalizzati allo sviluppo delle conoscenze, altri maggiormente operativi, direttamente utilizzabili in
campo sociale ed istituzionale. Le ricerche prodotte dai criminologi possono avere le seguenti
motivazioni:
1. Ricerche accademiche non direttamente finalizzate;
2. Ricerche accademiche finalizzate ad orientare la politica criminale (es. studio delle correlazioni
tra aggressività ed alcool);
3. Ricerche accademiche finalizzate alla più efficace prevenzione del crimine (es. studio dei gruppi
di tifosi per prevenire la violenza negli stadi);
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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4. Ricerche e consulenze finalizzate alla più efficace repressione del crimine (es. studio del
comportamento dei serial killer per cercare di individuare il colpevole di una serie di omicidi);
5. Criminologia clinica (o applicata) in fase processuale e di applicazione della pena.
LA CRIMINOLOGIA CLINICA O APPLICATA
La funzione primaria della Criminologia clinica o applicata è quella di integrare ed interfacciare le
Scienze criminali con le Scienze dell’uomo. La sua utilizzazione pratica è quindi soprattutto
nell’ambito della giustizia penale dove fornisce informazioni sulle dinamiche psicologiche e
sociologiche che sono alla base del comportamento criminale orientando così l’opera di
applicazione della norma da parte del giudice. Il termine “clinica” è mutuato dalla Scienza medica e
si riferisce all’insieme degli interventi del criminologo che tendono a riconoscere “curare” e
prevenire i comportamenti illegali nel singolo individuo. L’applicazione della Criminologia clinica
si estrinseca quindi nelle seguenti situazioni:
nella fase processuale: durante la quale fornisce informazioni sulla personalità dell’imputato così
che il giudice possa disporre di tali elementi conoscitivi (componenti soggettive del singolo caso)
per la migliore individualizzazione della sanzione;
∙ criminogenesi (caratteristiche individuali e sociali che hanno avuto peso nella scelta delittuosa);
∙ criminodinamica (meccanismi interiori che hanno condotto al delitto);
∙ predizione (prospettive future di recidiva o di risocializzazione efficace).
durante la detenzione: per indirizzare tecniche di trattamento risocializzativo.
L’osservazione criminologica prende quindi in considerazione i tratti di personalità del soggetto, le
caratteristiche dell’ambiente sociale dove il soggetto è inserito e il significato che psiche e ambiente
hanno avuto nei confronti del comportamento delittuoso del singolo soggetto osservato.
Abitualmente si articola in una fase diagnostica e in una fase prognostica. La fase diagnostica viene
eseguita solitamente mediante i seguenti strumenti:
∙ colloquio criminologico;
∙ reattivi mentali (di efficienza intellettiva e di personalità);
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∙ inchiesta sociale (condotta dall’assistente sociale) sull’abituale ambiente di vita del soggetto;
∙ dati documentali (curriculum criminoso, sentenza di condanna, precedenti sentenze).
La fase prognostica o predittiva rappresenta un momento di grande responsabilità etica e morale per
il criminologo poiché può generare due tipi di errore di valutazione: il falso positivo (quando si
valuta il soggetto potenzialmente pericoloso ed invece non lo è) e il falso negativo (quando si valuta
il soggetto non pericoloso ed invece esso si mostra recidivante). La valutazione prognostica del
criminologo si basa normalmente sui seguenti fattori:
∙ risultati dell’osservazione;
∙ parametri: (famiglia di origine disastrata, carriera criminosa, tossicodipendenza eccetera);
∙ ricerche criminologiche pregresse;
∙ sistemi predittivi statistici.
Per una predizione equilibrata emerge nell’esperienza clinica la necessità di un giudizio integrato
che si basi quindi sia su parametri statistici che sulle caratteristiche individuali emerse
dall’osservazione.
DIFFERENZA TRA DEVIANZA E CRIMINALITA’
Il crimine è un comportamento che viola una norma penale. Il concetto di crimine utilizzato in
questa sede intende quindi il delitto come fatto sociale (espresso dalla normativa) e non come un
fatto naturale. Per questo è necessario osservare la storicizzazione delle norme e
conseguenzialmente del crimine. Esiste così evidentemente uno stretto legame tra Criminologia e
Diritto penale (il diritto penale sviluppandosi produce nuovi crimini). Il concetto di devianza
utilizzato in questa sede è invece relativo ad una generica deviazione dalla norma sociale
(comunemente condivisa) e quindi apparentemente fuori dal campo di azione criminologico.
L’interesse criminologico in realtà non è solo quello delle leggi per il parziale sovrapporsi spesso di
devianza e criminalità. La criminologia si interessa allo studio della devianza perché essa comunque
costituisce un aspetto importante per molti crimini e talvolta il terreno da cui nascono i crimini.
Comunque non esiste una correlazione lineare tra devianza e criminalità ed un soggetto può
incappare anche in una sola delle due condizioni. Tre possibili situazioni: deviante e non criminale
(es. bere molto); deviante e criminale (es. bere molto e reagire con violenza); criminale e non
deviante (evadere il fisco, accettare raccomandazioni, eccetera).
I PARADIGMI INIZIALI
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Le origini Le leggi, scritte o tramandate oralmente, sono sempre esistite anche prima del
diciottesimo secolo, periodo in cui, secondo gli studiosi, nasce il sistema penale moderno e con esso
la Scienza Criminologica. Fino ad allora il potere assoluto del sovrano di infliggere le punizioni,
indipendentemente dal crimine commesso, aveva caratterizzato sovente l’applicazione delle norme
e largo spazio era affidato alla tortura ed alla pena di morte[1]. Certamente, anche nell’ambito di
civiltà antiche e medioevali è documentata l’esistenza di protocodici e di strutture di applicazione
delle pene anche sofisticate in alcuni intervalli temporali (es. il diritto romano), ma la discontinuità,
la barbaria e l’arbitrio di tale applicazione non consentono di riconoscere una condizione di civiltà
del diritto, prima della metà del settecento, nei termini in cui essa viene intesa attualmente. La pena
veniva infatti soprattutto intesa come sistema di mantenimento del potere e dei privilegi dei nobili,
di frantumazione del dissenso e talvolta come capriccio e, in generale, si assisteva ad un’assoluta
mancanza di coerenza delle punizioni oltre che, naturalmente, alla loro inaudita violenza.[2]
L’Illuminismo e la Scuola Classica Dalla seconda metà del settecento si sviluppa in Europa la
Scuola Classica, ad opera soprattutto di Cesare Beccaria (17381794) e dell’inglese Jeremy
Bentham (17481832). Le idee filosofiche dell’illuminismo ispirano energicamente il lavoro di
questi studiosi. Per Beccaria, ispiratore della Scuola Classica italiana, il diritto dello Stato di
applicare una sanzione al cittadino deve così rientrare nell’ambito di un contratto sociale, stipulato
tra i vari componenti di una società che rinunciano coscientemente ad una parte della loro libertà
per ottenere una convivenza civile ed il più possibile armoniosa.[3] Lo stato, in caso di violazione di
una norma, può solo applicare la pena prevista ma non può ingerire nella personalità del soggetto
che ha commesso il crimine. L’uomo che delinque è infatti ritenuto, secondo la filosofia illuminista,
un soggetto razionale, libero ed in grado di scegliere in autonomia decisionale tra il comportamento
deviante e quello conforme alle leggi. In tale contesto ideologico le norme devono essere chiare e
uguali per tutti e le pene devono essere utili alle esigenze della società (alla deterrenza in special
modo), umanitarie (la tortura e la pena di morte sono bandite), e legali (criteri prefissati e scritti in
codici penali ufficiali). La punizione inflitta ai soggetti che si sono resi responsabili di un crimine
deve in pratica seguire dei criteri retributivi in base al danno sociale provocato alla maggior parte
dei cittadini e non a quello arrecato ai potenti. Viene sempre affermato il libero arbitrio del
criminale e l’azione illegale diventa una libera scelta del soggettocriminale a cui è riconosciuta una
razionalità specifica. Il delinquente, in quest’ottica non è diverso dal non delinquente e deve essere
giudicato in base a ciò che commette e non in base a ciò che è. Tali concettualizzazioni, pur
rimanendo per certi versi in condizione di astrattismo e di difficile applicazione, contengono
elementi di grande attualità e mostrano ancor oggi vitalità all’interno del dibattito critico sul danno
sociale e sul reale obiettivo di tutela da parte dei moderni codici penali. La Scuola Classica trova in
Italia diversi seguaci tra cui Carrara, Romagnosi, Carmignani.[4] Il Carrara afferma che il crimine
non è un fatto naturale ma si configura come ente giuridico e come tale storicizzato e legato
all’esistenza di una specifica norma. Il comportamento criminale è rappresentato da una libera e
razionale scelta dell’uomo che non rispetta il patto sociale e tale scelta assume significato solo
nell’ambito di una definizione giuridica. La dottrina di fondo di Carrara si basa sul famoso sistema
tariffario[5] e sulla volontà di evitare il pur minimo abuso da parte dell’autorità anche attraverso
una codificazione certosina del diritto.
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Il positivismo e il determinismo biologico di Lombroso.
La fine del 1800 vede un crescente successo di un approccio allo studio del crimine di radice
prevalentemente bioantropologica. Tale approccio ruota intorno alla figura di Cesare Lombroso
(18351909)[6] che è considerato il più rappresentativo esponente della Scuola Positiva. Le radici
epistemologiche lombrosiane affondano nell’opera di Charles Darwin sull’origine evoluzionistica
delle specie e sui criteri dei fisiognomici e dei frenologi, studiosi del comportamento umano che già
dall’inizio del 1700 tentavano di riscontrare ricorrenze tra comportamento umano e tratti somatici e
costituzionali degli individui (particolarmente attivi in Inghilterra e Francia). Alla base del
comportamento criminale vengono poste alcune anomalie, identificabili anche somaticamente e
anatomicamente[7], di tipo innato. Il delinquente, discendente dalla particolare specie umana
dell’homo delinquens[8] è così distinguibile dal nondelinquente. La ricerca di peculiarità ataviche
nel criminale, per certi versi pseudoscientifica, ha dato voce al senso comune che osserva con
timore il diverso e che cerca rassicuranti segni predittivi di comportamenti anomali, facilmente
localizzabili e da cui ci si può così difendere. Pur con le innumerevoli critiche che gli sono state
rivolte e con l’invalidazione della maggior parte delle sue teorie, Lombroso mantiene l’indiscusso
pregio di aver donato dignità scientifica alla Criminologia, facendola conoscere come Scienza in
tutto il mondo e stimolando una grande quantità di studi sul comportamento dei criminali. La sua
opera letteraria più importante è “L’uomo delinquente”, corposo trattato di cinque volumi che ha
visto numerose edizioni e rielaborazioni da parte dell’autore[9]. Altri due fondamentali esponenti
dell’Antropologia criminale sono Enrico Ferri (18561929) e Raffaele Garofalo (18521934) che
pur negando l’importanza del libero arbitrio nella spiegazione del comportamento criminale (in
linea con Lombroso e con il positivismo), e focalizzando l’attenzione clinica sulle caratteristiche
innate dell’individuo, attribuiscono una certa importanza ai fattori ambientali e situazionali. In altri
termini, la Scuola positiva ritiene il crimine come la risultanza di predisposizioni innate nel
soggettocriminale favorite da fattori insiti nella società. La rassicurante illusione di spiegare e
addirittura prevedere il comportamento criminale in base alla localizzazione di segni esterni
(somatici, biologici, psicologici, la possibilità di distinzione certa tra il bene e il male, la
riconoscibilità del “cattivo”, hanno contribuito alla fortuna dell’Antropologia criminale per lungo
tempo come evidenziato dal contributo teorico multifattoriale del Ferri[10] particolarmente
apprezzato, in special modo in Usa e in URSS e centrato sulla responsabilità sociale dell’individuo,
categoria, quest’ultima, in contrapposizione evidente con quella della responsabilità legale
retribuzionistica della Scuola classica. Per il Ferri assume rilevanza non tanto la gravità del
comportamento quanto la pericolosità del soggetto rispetto all’organizzazione sociale vigente e tale
concezione, evidentemente acritica, introduce un prezioso elemento di arbitrio da parte dell’autorità
costituita che può convertirla in produzioni giuridichenormative aggirando faticose legittimazioni
etiche e politiche.
L’approccio sociologico allo studio della criminalità Il filone di studio sociologico, nella storia del
pensiero criminologico, è contemporaneo a quello positivistico. Alla base del suo paradigma
epistemologico e metodologico si pone la ricerca delle costanti poste su un livello di
generalizzazione più elevato rispetto a quello individuale (psicologico, psichiatrico, biologico)
analizzando le dinamiche sociali correlate al crimine. L’inizio di tale approccio è rintracciabile nella
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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prima metà dell’800 in Francia (A.M. Guerry) e in Belgio (A. Quetelet) che svolsero approfonditi
studi dei tassi di criminalità, comparando diverse forme criminali con variabili sociali e
geografiche[11]. Tali ricerche, che si basano sulla consultazione di archivi e dati ufficiali,
sfociavano nella realizzazione di “carte della criminalità” da cui deriva la definizione di Scuola
cartografica. Marx e Engels, in linea con il loro approccio filosofico e politico, evidenziano
correlazioni tra fluttuazioni economiche e tassi di criminalità e spostano l’osservazione dai fattori
individuali a quelli economici e sociali. La spiegazione dei crimine si basa sul presupposto che gli
interessi più tutelati dal diritto sono quelli della classe dominante. Marx evidenzia un’immagine
negativa del sottoproletariato forse per differenziarlo dal proletariato, classe in ascesa. Per il Emile
Durkheim, sociologo francese (1858 1817), il crimine è un fatto sociale e risiede pertanto fuori dalla
coscienza degli individui appartenendo alla dimensione sociale. Con il processo di
industrializzazione e di trasferimento di grandi quantità di persone dalle aree di campagna alle aree
urbane (tipico fenomeno del tempo) gli individui passano da un sistema culturale basato sulla
solidarietà meccanica (rurale, collettiva, redistributiva, tradizionalista) ad uno basato sulla
solidarietà organica (urbana, industriale, razionale, individualista). Tale passaggio conduce
all'anomia (mancanza o incertezza di norme, inadeguatezza delle norme). Gli individui in fase
anomica si trovano al centro tra spinte sociali e culturali contrastanti e in tali circostanze il crimine
viene favorito. Per Durkheim il crimine assolve anche ad alcune funzioni sociali: sottolineare
pubblicamente (attraverso la punizione), il confine tra il lecito e l’illecito, definire il confine
normativo e vederlo attivo, funzioni di coesione sociale ed integrazione tra i non criminali.
L’approccio sociologico allo studio del crimine giunge fino al periodo contemporaneo attraverso
l’opera di numerosi studiosi in USA ed in Europa.
L’approccio genetico
Le correlazioni tra predisposizione genetica e criminalità appaiono alquanto difficili anche se hanno
rappresentato oggetto di interminabili dispute scientifiche, alcune ancora attuali. In primo luogo il
comportamento criminale è legato alla produzione di una norma che è frutto di convinzioni sociali
mutabili. Ciò che era illegale un tempo non necessariamente lo è attualmente. I codici genetici,
viceversa rappresentano un elemento biologico immodificabile. Numerosi studi condotti su gemelli
omozigoti e sulle famiglie dei criminali hanno fornito correlazioni apparenti tra consanguineità e
crimine, fortemente inficiate però sul piano empirico dall’ovvia esposizione di persone della stessa
famiglia ai medesimi modelli sociali. Il crimine in realtà rappresenta un comportamento troppo
complesso per essere determinato ereditariamente. La storia della criminologia ha poi visto la
produzione di teorie circa la presenza di segni identificativi biologici nei criminali. Sheldon (1942),
ad esempio, notando una correlazione tra alcuni giovani criminali e una determinata struttura fisica
(mesomorfica) ha ipotizzato che tale conformazione potesse essere legata ai comportamenti
criminali. Altri studi hanno proposto una correlazione tra anomalie cromosomiche e delitto, notando
una certa prevalenza del cromosoma soprannumerario Y in alcuni campioni di detenuti. In linea di
massima le ipotesi legate all’identificabilità del delinquente su base biologica non hanno retto alle
falsificazioni essendo sovente la “dura vita del criminale” a selezionare individui particolarmente
adatti a sopravvivere in situazioni violente. Talune ricerche genetiche applicate alla criminologia si
sono comunque mostrate più verosimili orientandosi non direttamente sul crimine ma su eventuali
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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[1] Cuomo F. (a cura di), Pietro Verri (1770), Osservazioni sulla tortura, Newton editore, Roma,
1994
[2] La tortura e la pena di morte rappresentavano elementi di assoluta normalità, applicate con
sistemi barbari come il rogo, lo squartamento, la “ruota” e l’impalamento. Tra le punizioni corporali
erano contemplate azioni raccapriccianti come la bruciatura della lingua, la mutilazione degli arti e
l’accecamento.
[3] Fabietti R., (a cura di), Cesare Beccaria, Dei Delitti e delle pene, (pubblicato nel 1764), Mursia
edizioni, Milano, 1973.
[4] Carrara F., Programma del corso di diritto criminale, parte generale Vol. 1, Lucca, Canovetti,
1860; Carmignani G., Elementi del diritto criminale, Napoli, Androsio, 1854; Romagnosi G.D.,
Genesi del diritto penale, Firenze, Stamperia Piatti, 1834.
[5] Inserimento minuzioso nei codici di ogni possibile reato e contemporanea determinazione di
pene in base alla gravità di tale reato.
[6] Medico Psichiatra, definì l’ambito di studio da lui inventato Antropologia criminale e tentò di
trasferire in ambito criminologico il metodo e le basi epistemologiche della Scienza medica,
affrontando la questione criminale dal punto di vista prevalentemente clinico.
[7] Nel 1872, durante l’esame autoptico di Giuseppe Villella, brigante calabrese di 70 anni, il
medico legale del carcere, studioso amico di Lombroso, evidenziando una fossetta all’interno
dell’osso occipitale, identifica al suo interno una formazione ghiandolare “animale” rilevabile nei
crani di pazzi e criminali, che non aveva mai in precedenza trovato negli individui normali. Tale
considerazione induce Lombroso a formulare l’ipotesi di una distinzione anatomica specifica dei
delinquenti.
[8] Le caratteristiche fisiche dell’homo delinquens potevano essere, per il Lombroso, facilmente
identificate: fronte bassa, anomalie della simmetria del viso, forma e dimensioni delle orecchie, gli
zigomi sporgenti, la scarsa sensibilità neurologica al dolore eccetera. Lo studioso, pur colpevole di
un’ingenuità scientifica che lo condusse a scegliere un campione sicuramente non rappresentativo
(all’interno delle carceri), svolse un’indagine degna di nota per quanto riguarda la minuziosità e
l’impegno. Per la realizzazione della sua più famosa opera letteraria, L’uomo delinquente (1876)
Lombroso raccoglie infatti innumerevoli casi clinici misurando e descrivendo con pazienza e
puntigliosità aspetti somatici e comportamentali legati ai soggetti che riesce ad osservare ed
analizzare.
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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[9] Rispetto alla prima edizione dell’opera, dove l’autore afferma che circa il 70% dei criminali è
riconducibile alla categoria del delinquente congenito, nelle successive rielaborazioni tale
percentuale scende al 35% lasciando spazio alle categorie del delinquente folle (di interesse
psichiatrico) e del delinquente occasionale evidenziando una lodevole disponibilità da parte dello
studioso a correggere pubblicamente le sue risultanze scientifiche.
[10] Si ritiene che abbia contribuito all’introduzione dei fattori sociali nella spiegazione del crimine,
in concomitanza a quelli bioantropologici e psicologici, la nota vicinanza dell’autore all’ideologia
socialista.
[11] Ad esempio la differenza dei tassi di criminalità tra città e campagna.
ALCUNI CONTRIBUTI TEORICI SOCIOLOGICI
Teoria dell’anomia di Durkheim
Per il sociologo francese (1858 1817), il crimine è un fatto sociale la cui spiegazione appartiene
alla dimensione sociale e risiede pertanto fuori dalla coscienza degli individui. Con il processo di
industrializzazione e di trasferimento di grandi quantità di persone dalle aree di campagna alle aree
urbane (tipico fenomeno del tempo) gli individui passano da un sistema culturale basato sulla
solidarietà meccanica (rurale, collettiva, redistributiva, tradizionalista) ad uno basato sulla
solidarietà organica (urbana, industriale, razionale, individualista). Tale passaggio conduce sovente
all’anomia (mancanza o incertezza di norme, inadeguatezza delle norme). Gli individui in fase
anomica si trovano al centro tra spinte sociali e culturali contrastanti e in tali circostanze il crimine
viene favorito. Tale teoria presenta ancora spunti attuali essendo il passaggio dalla solidarietà
organica a quella meccanica presente in alcune aree geografiche.
La teoria della disorganizzazione sociale
Thomas e Znaniecki, sociologi polacchi inseriti nella Scuola di Chicago, hanno studiato i fenomeni
socioculturali connessi all’immigrazione dei contadini polacchi in USA. Nei loro studi è
abbastanza evidente l’influsso di Durkheim (anomia). La teoria della disorganizzazione sociale
ritiene l’impatto con una nuova realtà socioculturale (legata all’immigrazione) come responsabile
di un disorientamento culturale e disomogeneità culturale. Il rapporto non armonioso tra culture
diverse che si incontrano e producono disagi e tensioni disorientanti può essere quindi responsabile
di fenomeni criminali, in special modo quando una delle due culture è associata a minore forza
economica. La teoria offre comunque numerosi spunti di riflessione sul fenomeno
dell’immigrazione in Europa da parte di popolazioni con culture notevolmente diverse e condizioni
economiche disagiate.
La teoria della patologia sociale
Talcot Parson, teorico americano dello Strutturalismo considera la società come un insieme di parti
integrate, in equilibrio. La socializzazione è legata al processo di apprendimento di ruoli. Il ruolo
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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viene inteso come una serie di prescrizioni (e di aspettative di comportamento) connesse a posizioni
sociali (padre, madre, impiegato ecc.). La società viene quindi considerata da Parson come insieme
un di ruoli e alcune istituzioni sono deputate al loro apprendimento e metabolizzazione. La devianza
viene quindi intesa come una sorta di patologia sociale dovuta ad un difetto di apprendimento dei
ruoli. La devianza può essere talvolta anche considerata per Parson come patologia individuale,
quando è dovuta a patologie mentali. La visione di Parson è stata criticata come sostanzialmente
conservatrice e manca in effetti di un’efficace analisi dei conflitti e delle contraddizioni.
L’approccio centrato sui ruoli e sulle aspettative di ruolo può ancora però offrire interessanti spunti
di riflessione è induce ad un’osservazione attenta della strutturazione sociale.
La teoria dell’anomia di Merton
La teoria del numero oscuro
Sutherland, negli anni 19404749, formula una teoria sulla dimensione nascosta della criminalità.
La maggior parte delle ricerche criminologiche dell’epoca includevano infatti solo i campioni di
classi basse trascurando i colletti bianchi. L’attenzione degli studiosi e dell’opinione pubblica
americana nel dopoguerra è infatti focalizzata sul solo street crime. La teoria del numero oscuro e
dell’indice di occultamento (rapporto tra reati noti e reati commessi) evidenzia che il crimine
coinvolge non solo una minoranza deviante ma una maggioranza normale e questo necessita
l’adozione di nuovi paradigmi di studio. Le azioni illegali che vengono inserite nelle statistiche
sono solo quelle che vengono scoperte e denunciate ma forniscono una quantificazione artefatta. In
special modo i crimini commessi da persone di classe sociale elevata (white collar crime) spesso
non giungono all’attenzione della giustizia e dell’opinione pubblica. La rilevanza del numero
oscuro dipende anche dalla maggiore o minore propensione alla denuncia da parte della vittima
oltre che dalla maggiore o minore intensità del controllo rispetto a determinate categorie di crimini
o di autori.
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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La teoria delle associazioni differenziali
Per Sutherland il comportamento criminale è appreso in interazione con altre persone mediante un
processo di comunicazione, che può essere sia verbale che non verbale. Il processo di
apprendimento del crimine avviene apprende soprattutto all'interno di un gruppo ristretto di
relazioni interpersonali. I mezzi di comunicazione impersonale (cinema e giornali) sembrano a tal
fine meno efficaci. Nel processo di apprendimento sono incluse le tecniche idonee alla commissione
di un crimine e l’orientamento degli atteggiamenti del soggetto. Il soggetto in seguito orienterà
impulsi e atteggiamenti in base alle interpretazioni (apprese) favorevoli o sfavorevoli dei codici
legali. Secondo Sutherland, in pratica, un soggetto diviene criminale quando all’interno del gruppo
dove vive le definizioni favorevoli alla violazione della legge sono in eccesso rispetto a quelle
sfavorevoli. Una persona quindi diventa un criminale non solo a causa di contatti con modelli
criminali, ma anche a causa di un isolamento dai modelli “anticriminali. L’efficacia delle
associazioni differenziali nel determinare il crimine dipende dalla loro frequenza, durata, priorità (il
comportamento criminale sviluppato nella prima infanzia può influire nel corso di tutta la vita) ed
intensità.
La teoria delle subculture devianti
Choen, nel 1955 formula la teoria delle subculture devianti come prodotto del conflitto tra classi
alte e classi basse. I giovani della classe proletaria pur aspirando alle stesse mete culturali dei
giovani della classe agiata sono svantaggiati. Si sviluppa una reazione negativistica verso quei
valori che non possono raggiungere con lo sviluppo di una cultura edonistica e non utilitaristica
(spiegazione degli atti vandalici teppismo, atteggiamenti distruttivi). Si tratta di una sorta di
formazione reattiva, non un conflitto reale verso la cultura dominante ma una sua distorsione.
Le teorie delle aree naturali della criminalita’
Alcuni sociologi come Shaw, McKenzie, Burgess e Park hanno osservato la maggiore incidenza
statistica di vari crimini in alcune aree urbane identificabili, specialmente quelle soggette a forte
immigrazione e caratterizzate quindi da disorganizzazione sociale. In tal senso l’ambiente urbano
assume valenza criminogenetica quando presenta determinate caratteristiche. Gli studiosi della
Scuola di Chicago sono stati criticati per il fatto che la criminalità è presente anche in altre aree
urbane ma è più occulta e non si vede, agisce con altre modalità e con altri comportamenti
criminali.
La teoria dell’immunità differenziale
Chapman, nel suo saggio “lo stereotipo del criminale” (1975) considera che la criminalità nota non
è collegata all’effettiva commissione dei reati. Esiste infatti una discriminazione dei soggetti in base
alla classe sociale, alla visibilità pubblica ecc., operata a livello sociale. Il povero godrebbe infatti di
minore immunità ai processi selettivi della rappresentazione sociale e del controllo istituzionale
(documentato da ricerche sull’attribuzione semantica del crimine). Tale condizione distorcerebbe le
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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statistiche giudiziarie mostrando una maggiore tendenza al crimine da parte delle classi
svantaggiate.
La teoria dell’etichettamento
La teoria delle tecniche di neutralizzazione
La teoria delle opportunità differenziali di Cloward e Ohlin
La teoria risente in modo particolare dell'influenza di Sutherland. Cloward e Ohlin (1968) tentano di
mettere insieme due correnti della prima criminologia: la teoria dell'anomia di Merton e la teoria
delle associazioni differenziali di Sutherland. Secondo la teoria delle opportunità differenziali, ogni
individuo occupa una determinata posizione nella struttura sociale, sia per quanto riguarda le
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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opportunità legittime sia per le opportunità illegittime. Ereditando la concezione del consenso da
Merton, gli autori affermano che esiste un'unica meta culturale, il successo economico, che può
essere raggiunto attraverso sia le opportunità legittime che quelle illegittime. Gli individui si
trovano però ad agire in sistemi differenziali di opportunità che condizionano le loro scelte ed i loro
comportamenti. In pratica le condizioni economicosociali sfavorevoli si traducono in una
limitazione delle opportunità di affermazione e di promozione sociale. La diversa diffusione di
opportunità illegittime in una determinata area urbana determina la formazione di tre tipi differenti
di sottoculture rispettivamente denominate come "criminale" (giovani dediti a furti e rapine),
"conflittuale" (giovani dediti a danneggiamenti e vandalismo) e "astensionistica" (tossicomania,
alcolismo, associazioni in gruppi eversivi).
La teoria dello stimolo rafforzatore differenziato di Burgess e Akers
Burgess e Akers (1966) riformulano la teoria di Sutherland introducendo come determinante lo
stimolo rafforzatore. Il comportamento criminale è appreso secondo i principi del comportamento
operante e l'apprendimento avviene sia in situazioni nonsociali, che sono rafforzanti o
discriminative, sia nell'interazione sociale in cui il comportamento di altre persone è rafforzatore o
discriminativo nei confronti di quello criminale. La teoria dello stimolo rafforzatore differenziato
afferma che una situazione nonsociale può consolidare una determinata scelta, dunque estende la
nozione secondo la quale il crimine è appreso solo attraverso l'interazione sociale. Burgess e Akers,
in accordo con Glaser, riconoscono l'importanza, nel processo di apprendimento anche dei gruppi di
riferimento distanti (non direttamente in contatto con il soggetto ma “mediati” da mezzi di
comunicazione) oltre a quelli primari e a quelli con cui si è intimamente associati.
La teoria dell'identificazione differenziata
Glaser, nel 1960, riformula la teoria delle associazioni differenziali di Sutherland rifacendosi alla
teoria dei ruoli, secondo l'esposizione di George H. Mead, che consente di tradurre l'associazione
differenziale in termini di "identificazione differenziata". Glaser, nella sua riformulazione, afferma
che ai fini dell'apprendimento della delinquenza è importante l'identificazione con modelli
criminali, più che l'associazione con essi. Il fattore determinante per la criminogenesi è quindi il
processo di identificazione, inteso come processo psichico mediante il quale si tende incosciamente
a rendersi simili a certi modelli scelti come ideale del proprio Io. Nel corso di tale processo il
soggetto assume conseguentemente come propri anche i valori normativi ed etici associati a tale
modello ideale introiettato. L'identificazione non richiede un contatto interpersonale poiché può
realizzarsi anche verso modelli (reali o immaginari) con i quali non vi è stato un rapporto diretto.
L'identificazione con soggetti delinquenti può verificarsi in diversi modi: a seguito di esperienze
dirette con associazioni di delinquenti, attraverso una valutazione positiva dei ruoli delinquenziali
rappresentati dai mass media oppure a seguito di una reazione negativa a forze che si oppongono
alla criminalità. La teoria di Glaser permette così di spiegare le azioni criminali commesse da parte
soggetti che sono abitualmente inseriti in gruppi sociali non criminali.
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Capitolo 2
ALCUNI CONTRIBUTI PSICOLOGICI IN CRIMINOLOGIA
La psicoanalisi
Fra le teorie psicologiche, la psicoanalisi può considerarsi una delle prime che si è posta l’obbiettivo
di fornire un paradigma interpretativo del crimine legato alla struttura psicologica e ai meccanismi
dinamici agenti nell’uomo. L’essere umano, secondo Freud, sarebbe per sua natura antisociale e si
adeguerebbe ai dettami sociali solo per timore o per convenienza. L’antisocialità (e con essa i
comportamenti criminali) sarebbe quindi la condizione originaria comune, sempre pronta a
manifestarsi in situazioni in cui le inibizioni perdono di efficacia. Quando le pulsioni libidiche o
aggressive dell’ES riescono ad avere la meglio sulle spinte opposte verso la conformità sociale
messe in atto dal Superio, avvengono i comportamenti asociali e criminali da parte dell’individuo.
In tale ottica assume un ruolo centrale il processo di identificazione con le figure parentali,
fondamentale, in ottica psicodinamica, per la realizzazione di una struttura superegoica funzionale.
la cui Secondo la prospettiva di Alexander e Staub (1929) il crimine è interpretabile secondo una
riduzione dell’efficacia del controllo da parte del SuperIo. Secondo i due studiosi tale circostanza
darebbe vita a varie forme di criminalità in base al livello di efficacia residuale del Superio. Nella
delinquenza fantasmatica, ad esempio è ancora possibile al soggetto arginare le pulsioni antisociali
dislocandole su azioni fantastiche (es. identificandosi con un personaggio cattivo in un film). La
delinquenza colposa manifestata attraverso una condotta imprudente che provoca disgrazie può
rappresentare una forma di dislocazione più complessa che provoca ugualmente il danno desiderato
dall’ES senza dover rispondere alle controcariche superegoiche. Nella delinquenza nevrotica il
crimine rappresenta viceversa un sintomo della presenza di una situazione conflittuale profonda che
vuole essere risolta dal soggetto, come nel caso della delinquenza da senso di colpa. In tali forme di
azione criminale, come sottolineato da Reik, il soggetto sentirebbe una profonda angoscia dovuta al
senso di colpa che scaturisce dai tabù del parricidio e dell’incesto per cui il comportamento
criminale e spesso la correlata ricerca di punizione possono evidenziare il bisogno di attenuare quel
senso di colpa attraverso un crimine “questa volta realmente commesso”. La delinquenza
occasionale si verificherebbe in circostanze particolari (es. in caso di delitti passionali) quando si
delineano situazioni favorevoli allo svincolo dal controllo superegoico. Nella delinquenza normale
il Superio perde completamente la sua capacità di controllare le spinte pulsionali e il
comportamento criminale può emergere con facilità. L’interpretazione psicoanalitica del crimine
prende in considerazione anche la maturazione e l’efficacia dell’IO attribuendogli responsabilità nel
comportamento criminale quando diminuisce la sua capacità di dilazionare le pulsioni. Anche l’ES
può rappresentare un elemento significativo nella criminogenesi nella misura in cui le pulsioni
istintuali da esso prodotte risultano particolarmente virulente ed incontenibili (Ponti, 1990).
Le teorie comportamentistiche stimolo risposta
Secondo tali teorie diversi stimoli e condizionamenti ambientale, attraverso il meccanismo del
rinforzo, radicano nell’individuo quegli elementi direttamente correlati con il comportamento
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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antisociale e criminale. Nel 1939 Dollard, ad esempio, afferma che ogni forma di aggressione da
parte dell’uomo è legata ad una precedente frustrazione di un bisogno importante.
Nell’impossibilità di raggiungere il successo sociale l’individuo può porre in essere forme di
aggressività verso la società (persone, beni individuali eccetera). Il ripetersi delle frustrazioni
costituirebbe poi un rinforzo per le risposte aggressive. (Ponti, 1990).
Le teorie sulla deprivazione relativa Lea e Young nel 1984 sviluppano il concetto di deprivazione
relativa attorno al quale costruiscono un interessante quadro teorico. Gli autori riconsiderano i
fattori eziologici (patologia, povertà, razza) che però non generano direttamente negli individui una
condizione di deprivazione e quindi non possono essere associati direttamente al crimine. Tali
circostanze possono però generare un generico malcontento dovuto a un aumento delle aspettative a
fronte di insufficienti possibilità di raggiungimento delle mete. La situazione di malcontento può
generare in seguito delle rappresentazioni individuali o sub culturali di deprivazione relativa ma tale
processo è frutto della costruzione e della significazione da parte dell’individuo. La deprivazione
relativa rappresenta quindi non una mancanza materiale ma la significazione della mancanza con
caratteri negativi (presenza di un processo di significazione) che genera il malcontento. (De Leo,
Patrizi, 1999)
Le teorie personologiche I primi studi moderni sulle correlazioni tra personalità e crimine sono ad
opera dello studioso belga Etienne De Greeff. La personalità costituisce per De Greeff, una
disposizione prefissata a reagire in un certo modo ad uno stimolo e deriva dall’insieme delle
esperienze passate. De Greeff (1947), studiando la criminogenesi ha individuato dei tratti tipici
della personalità criminale, fra cui merita menzione il silenzio affettivo di alcuni delinquenti che
secondo l’autore deriva dal loro sentimento di essere stati sottoposti ad un’ingiustizia. De Greeff per
spiegare il comportamento criminale (la criminodinamica) ha introdotto il concetto di “stato
pericoloso“ che è costituito da una fase di equilibrio psichico instabile nel soggetto che precede
l’esecuzione di un crimine. L’autore formula anche il concetto di “passaggio all’atto” fase in cui la
situazione precipita e avviene l’esecuzione del delitto. Analizzando la criminodinamica degli
omicidi De Greeff nota ad esempio tre fasi identificabili che precedono l’ideazione del crimine. La
prima fase, definita del “consenso mitigato”, la fase “dell’assenso formulato” e la fase del “periodo
di crisi”. Nella fase del consenso mitigato possono emergere dei segnali che anticipano l’evento
criminale; nella fase dell’assenso formulato, si rilevano talvolta comportamenti offensivi, di tipo
legale, di tipo verbale, od omissioni; nella fase del periodo di crisi il soggetto coscientizza la
necessità di passare all’atto ed in entra nello stato pericoloso che condurrà al crimine. Un altro
interessante contributo allo studio personologico dei delinquenti è stato fornito da Pinatel (1968)
che ha individuato un nucleo centrale della personalità di taluni criminali costituito da quattro tratti
fondamentali: l’egocentrismo (che consente di ignorare i giudizi), la labilità (che consente di non
tener conto delle conseguenze del crimine), l’aggressività (che consente di effettuare talune azioni
criminali e superare gli ostacoli) e l’indifferenza affettiva (che consente di ignorare le sofferenze
della vittima)[1]. Tra i contributi più recenti riportiamo quello di Frechette e Le Blanc (1987) che
hanno delineato una sindrome della personalità criminale, rappresentata da una specifica struttura
psicologica, che in alcuni individui si sovrappone ad altre strutture di personalità, favorendo l’acting
out. La “sindrome” comprende tre tratti: l’iperattività delittuosa, la dissocialità e un notevole
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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egocentrismo. Le Blanc e Frechette affermano che nei delinquenti di spessore elevato i fattori
sociali ed ambientali ingeriscono con il comportamento ma sempre mediati dai tratti della sindrome
della personalità criminale. Yochelson e Samenow (1976) sostengono che i tratti di personalità del
delinquente sono in realtà presenti in forma attenuata in tutti gli uomini. E’ la presenza intensa di
tali tratti che determina una specifica personalità criminale. I due autori statunitensi affermano che
la mente del delinquente possiede generalmente una grande energia, e presenta della caratteristiche
ricorrenti: facilità di eccitamento, fantasie di dominio, di potere e di trionfo, paura diffusa e
persistente, sospettosità. Un’altra condizione tipica del pensiero criminale è costituita per
Yochelson e Samenow dallo “stato zero”, durante il quale nel soggetto si rilevano una scarsa
autostima ed una sensazione di disperazione unite a sentimenti di superbia e ricerca spasmodica del
potere. L’unione di questi fattori sarebbe in grado di spingere alcuni criminali verso la ricerca del
dominio e dell’illegalità. (Bandini T., Gatti U., Marugo M. I., Verde A, 1991)
[1] Le ricerche di Pinatel sono state sottoposte a verifica da Canepa (1974) che ha condotto uno
studio su un campione di delinquenti recidivi mediante colloqui e stumenti psicodiagnostici
cercando di localizzare i tipici tratti di personalità. La ricerca ha fornito poche conferme all’ipotesi
di Pinatel. Altre indagini (Favard 1985) non sono riuscite a determinare se i tratti di personalità
tipici rappresentano una particolare intensità di tratti diffusi in tutti gli individui e soprattutto se tali
tratti siano la causa o semplicemente l’effetto di una vita da delinquente.
LE TEORIE COSTRUZIONISTICHE
Le critiche al determinismo
Gli approcci criminologici basati sulla ricerca delle cause del crimine insite nell’autore (teorie
biologiche, psicologiche, psichiatriche) o nell’ambiente sociale dove l’autore è “immerso”(teorie
sociologiche) non hanno retto, nel corso della storia, alle verifiche empiriche. La possibilità di
localizzare degli elementi visibili (clinici, psicologici, sociali) nel soggetto, in grado di fornire una
predizione del suo comportamento ha costituto (e ancora costituisce) una strada sovente percorsa
dagli scienziati sociali alla ricerca di strumenti rassicuranti e generalizzabili. Nel gennaio del 1979,
presso La Maison des Sciences de l’Homme, si tenne un importante convegno a cui parteciparono
E. Goffman, T. Luckmann, J.S. Bruner, W. Hacker e R. Harré, nel corso del quale emerse la
convinzione della necessità di adottare l’azione come unità di analisi nelle scienze sociali e non
l’ambiente dove l’azione avviene o il soggetto (o gruppo) che la effettua, al fine di superare i
precedenti determinismi causaeffetto e per ridare giusta importanza al potere determinativo della
Mente nell’ambito del comportamento umano. Tale categoria (l’azione) implica il contributo
dell’interazionismo simbolico, della Teoria generale dei sistemi, del Cognitivismo e di altre
discipline psicologiche. (Vedasi a tal proposito il testo di Mario Von Cranach e Rom Harré “The
analysis of action”, Cambridge University Press, 1982). Un uomo quindi non più completamente in
balia dei condizionamenti sociali (sociologi deterministi) o di quelli inconsci (psicoanalisi) ma in
grado di organizzare una buona parte della propria realtà attraverso continue interazioni e
mediazioni con il reale. La previsione comportamentale, in quest’ottica, si indirizza verso la natura
e l’intensità di tali processi interattivi più che su caratteristiche stabili, antecedenti all’ipotetico
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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fatto, insite nell’ambiente sociale o nella personalità dell’attore. In realtà tutti i comportamenti
umani, compreso quello criminale, sono posti su piani di maggiore complessità e contemplano,
necessariamente (parallelamente agli stimoli orientanti (biologici, personologici, sociali) un’attività
di costruzione circolare (agente e retroagente) da parte dell’attore sociale e del controllo sociale,
non leggibile nei soli fattori biologici e sociali preesistenti ma ascrivibile all’attività di
interpretazione, significazione e riorganizzazione compiuta dalla mente umana. La devianza, in altri
termini, non è un’entità di fatto, iscritta nell’ordine naturale del mondo o rigidamente determinata
da strutture interne del soggetto ma è il frutto di un processo di costruzione sociale mediato da
un’attività peculiare del genere umano: il pensiero. Al delinearsi di tale approccio ha contribuito tra
gli altri Karl Popper già agli inizi degli anni 70’ proponendo la mente umana non come una sorta di
tabula rasa in balia delle stimolazioni interne ed esterne ma come una realtà dinamica in grado di
produrre ipotesi che precedono, organizzano e quindi influenzano la percezione di ciò che avviene.
La percezione, poi, induce modifiche sul processo di anticipazione del futuro mediante una
retroazione esperenziale. L’osservazione viene così reintegrata nella teoria, che si modifica
all’interno di una processualità interattiva. (De Leo G, Patrizi P., 1999)
Il costruzionismo complesso L’approccio proposto, che si riferisce alla cosiddetta “Scuola di
Roma” (De Leo G. et altri) attinge dal contributo di vari filoni psicologici:
L’Interazionismo simbolico (Mead 1934) che formula il concetto di “altro generalizzato” e che
ritiene le aspettative di comportamento dell’interlocutore in grado di orientare l’interazione (agiamo
in base alle presunte reazioni dell’interlocutore). Il processo sociale influenza quindi il
comportamento degli individui che a loro volta sviluppano il processo sociale. L’individuo tende ad
assumere il punto di vista del gruppo sociale e i significati condivisi (schemi simbolici) relativi
all’azione che sta per compiere, orientando il proprio comportamento. L’individuo è in grado così di
produrre delle anticipazioni mentali degli effetti della propria azione. Per gli interazionisti il
comportamento è definito ed orientato da una complessa rete di interazioni “..che produce
significati intorno all’azione e al suo autore che a quell’interazione partecipa con un ruolo tutt’altro
che marginale..” (De Leo, Patrizi 1999). Le tre dimensioni importanti per la criminologia
interazionistica sono: l’azione deviante che deve essere visibile e deve produrre effetti pubblici;
L’esistenza di una norma che viene violata in caso di devianza e rappresenta quindi la
precondizione indispensabile per la definizione della trasgressione; una reazione sociale intesa sia
come risposta socioistituzionale alla devianza e sia come insieme di stereotipi, atteggiamenti e
pregiudizi che precedono l’azione e ne orientano il decorso;
La Teoria sistemica (Onnis 1986) che inserisce l’azione (anche la devianza) nel contesto ambientale
e situazionale in cui si manifesta e di cui necessariamente è espressione. Il comportamento negativo
non può quindi essere interpretato senza analizzare le dinamiche del sistema di interazioni a cui
appartiene;
La Teoria dell’azione (Von Cranach, Harre’ 1982) che individua nella dinamica delle azioni (dirette
ad uno scopo) tre componenti interagenti tra loro: Il comportamento osservabile che costituisce la
dimensione manifesta dell’azione, (il suo inizio, la fine, eventuali nodi significativi, le tappe, le
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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IL DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITA’
Introduzione
La categoria nosografica definita disturbo di personalità antisociale ha rappresentato, in prospettiva
criminologica, motivo di numerose dispute scientifiche, soprattutto riguardo la sua reale capacità di
cogliere la complessità del comportamento criminale. Le categorie diagnostiche proposte si
riferiscono infatti a problematiche di cattiva socializzazione, di generico disordine di vita, di
assenza di regole ma difficilmente riescono ad esplicitare le dinamiche di passaggio all’atto
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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criminale anche in considerazione della dimensione storica della norma. Proponiamo in questo
capitolo alcuni contributi teorici che possono essere utili all’inquadramento di tale tematica
riportando integralmente alcune parti del DSMV utili alla comprensione criminologica
dell’argomento.
Manifestazioni cliniche
Il Disturbo Antisociale di Personalità è caratterizzato essenzialmente da “un quadro pervasivo di
inosservanza e di violazione dei diritti degli altri, che si manifesta nella fanciullezza o nella prima
adolescenza, e continua nell’età adulta”, (DSMIV, 1994, pag. 704). I pazienti antisociali
normalmente tendono ad essere evitati dai clinici poiché in situazione terapeutica, possono mettere
in atto comportamenti a rischio (menzogne, strumentalizzazioni) e possono giungere anche a
mettere a repentaglio l’incolumità fisica del terapeuta. In considerazione di ciò questi soggetti
spesso vengono ritenuti scarsamente trattabili dal punto di vista clinico e non è raro che alcuni
terapeuti si dichiarino non in grado di gestirli. Alcuni autori li hanno definiti in passato
“psicopatici” o “sociopatici”. Hervey Cleckley (The Mask of Sanity 1941), descrisse clinicamente
tali pazienti considerandoli non chiaramente psicotici ma aventi un comportamento caotico e
scarsamente in sintonia con le richieste della realtà e della società. Tali aspetti del loro
comportamento, secondo Cleckley consentivano di inferire una psicosi al di là della facciata.
(Gabbard, 1994). Il termine “psicopatico” cadde in disuso nei decenni che seguirono la
pubblicazione del pioneristico lavoro di Cleckley. Il termine “sociopatico” venne usato ancora per
un certo periodo, afferma Gabbard, “come riflesso delle origini sociali piuttosto che psicologiche di
alcune delle difficoltà presentate da questi individui”. Rispetto a tale considerazione, Lalli (1991, p.
219 e segg.) sembra discordare quando afferma che: “Successivamente si è cercato di dare una
connotazione più oggettiva tenendo conto soprattutto del comportamento: nasce così il concetto di
sociopatia”. Una gran parte della letteratura psichiatrica, soprattutto americana, tende sempre più a
privilegiare l’aspetto comportamentale, cioè lo psicopatico viene identificato con il sociopatico,
nella misura in cui fa soffrire la società. Non è un caso che nella classificazione adottata nel
Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM), la personalità psicopatica viene
completamente eliminata ed è sostituita dalla generica dizione di disturbi della personalità. Una
suddivisione di questa comprende la personalità sociopatica a sua volta divisa in: alcolismo,
deviazioni sessuali, reazione antisociale, reazione dissociale. Da questa classificazione degli anni 50
si sono susseguite ulteriori divisioni e sottodivisioni che non hanno comunque contribuito
efficacemente alla comprensione del fenomeno. Con l’introduzione del DSMII la diagnosi fu
definitivamente chiamata “personalità antisociale”, termine che dura tuttora. La definizione
proposta dal DSMII, appare abbastanza precisa anche se priva di criteri diagnostici: “Il termine va
riservato ad individui sostanzialmente non socializzanti e il cui comportamento li porta
ripetutamente in conflitto con la società. Sono incapaci di una significativa lealtà verso individui,
gruppi o valori sociali. Sono grossolanamente egoisti, insensibili, irresponsabili, impulsivi e
incapaci di provare colpa o di imparare dall’esperienza e dalla punizione. La tolleranza alla
frustrazione è bassa. Tendono a biasimare gli altri o ad offrire plausibili razionalizzazioni per il loro
comportamento” (M. Battaglia, L. Bellodi, P. Migone, 1992, p.1998). Gabbard (1994, p. 495 e
segg.) conferma tali valutazioni riconoscendo che con l’introduzione del DSMIII nel 1980, “il
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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I criteri diagnostici del DSMIV
“Poiché la disonestà e la manipolazione sono caratteristiche centrali del Disturbo Antisociale di
Personalità, può essere particolarmente utile”, suggerisce il DSMIV (1994, pag.705), “integrare le
informazioni acquisite dalla valutazione clinica sistematica con le informazioni raccolte da fonti
collaterali”, quindi esterne alla valutazione clinica stessa. Premesso questo, iniziamo la disamina dei
criteri diagnostici indicati dal Manuale (ivi, p. 705 e segg.).
Criterio A
“Gli individui con il Disturbo Antisociale di Personalità”, comincia il DSMIV, “non riescono a
conformarsi alle norme sociali secondo un comportamento legale (Criterio A1). Possono compiere
ripetutamente atti passibili di arresto (che vengano arrestati o meno), come distruggere proprietà,
molestare gli altri, rubare o svolgere attività illegali. Le persone con questo disturbo non rispettano i
desideri, i diritti o i sentimenti degli altri. Sono frequentemente disonesti e manipolativi per trarre
profitto o piacere personale (per es., per ottenere denaro, sesso, o potere) (Criterio A2). Possono
ripetutamente mentire, usare false identità, truffare o simulare. L’impulsività può manifestarsi con
l’incapacità di pianificare il futuro (Criterio A3). Le decisioni vengono prese sotto l’impulso del
momento, senza previdenza, e senza considerazione delle conseguenze per sé e per gli altri; questo
può determinare cambiamenti improvvisi di lavoro, di residenza, o di relazioni. Gli individui con
Disturbo Antisociale di Personalità tendono ad essere irritabili ed aggressivi, e possono essere
coinvolti ripetutamente in scontri fisici o commettere aggressioni fisiche (incluso picchiare il
coniuge o i figli) (Criterio A4). Le azioni aggressive richieste per difendere sé o gli altri non sono
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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considerate in questo item. Questi individui mostrano anche di non curarsi della sicurezza propria o
degli altri (Criterio A5). Questo può essere evidenziato dal loro modo di guidare (ricorrenti eccessi
di velocità, guidare in stato di intossicazione, incidenti multipli). Possono coinvolgersi in
comportamenti sessuali o in uso di sostanze con elevato rischio di conseguenze dannose. Possono
ignorare o non curarsi di un figlio, in modo tale da mettere il bambino in pericolo. Gli individui con
Disturbo Antisociale di Personalità tendono ad essere spesso estremamente irresponsabili (Criterio
A6). Un comportamento lavorativo irresponsabile può essere indicato da periodi significativi di
disoccupazione nonostante la disponibilità di opportunità di lavoro, o dall’abbandono di molti lavori
senza un piano realistico per ottenere un altro lavoro. Può essere presente anche una situazione di
assenze ripetute dal lavoro non giustificate da malattie proprie o dei familiari. L’irresponsabilità
finanziaria è indicata da azioni quali inadempienza ai debiti, incapacità di provvedere al supporto
dei figli, o incapacità di supportare altre figure dipendenti in modo regolare. Gli individui con
Disturbo Antisociale di Personalità mostrano scarso rimorso per le conseguenze delle proprie azioni
(Criterio A7). Possono essere indifferenti, o fornire una razionalizzazione superficiale dopo avere
fatto del male, maltrattato o derubato qualcuno [...]. Questi individui possono biasimare le vittime
per essere pazzi, senza risorse, o perché meritano il loro destino; possono minimizzare le
conseguenze dannose delle proprie azioni; o possono semplicemente mostrare completa
indifferenza. Generalmente sono incapaci di scusarsi o di riparare al loro comportamento”.
Criterio B
“Per porre questa diagnosi, l’individuo deve avere almeno 18 anni (Criterio B) [...]”.
Criterio C
Per soddisfare questo criterio, l’individuo [...] deve avere in anamnesi alcuni sintomi del Disturbo
della Condotta prima dell’età di 15 anni (Criterio C)”.
Criterio D
Rispetto ai criteri diagnostici attuali Gabbard, studioso di orientamento psicodinamico (Gabbard,
1994, p.497 e segg.) ritiene che certe difficoltà interpretative siano ancora presenti. Secondo
l’autore infatti “sebbene i tratti psicopatici siano talora più evidenti nel nuovo assetto, i criteri
riflettono ancora degli aspetti comportamentali piuttosto che psicodinamici. Queste considerazioni
psicodinamiche sono clinicamente utili perché un soggetto può essere uno psicopatico senza avere
un disturbo antisociale di personalità secondo i criteri del DSMIV. Al contrario, un individuo può
rispondere ai criteri del DSMIV per il disturbo antisociale di personalità ma non essere uno
psicopatico”.
22
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
23
Il quadro clinico
Secondo molti clinici una caratteristica peculiare riscontrabile nei soggetti con personalità
antisociale è il trasformismo. A volte possono apparire isolati come gli schizoidi, altre volte (più
frequentemente), paiono attivamente coinvolti nei rapporti interpersonali. Alternano talvolta
comportamenti aggressivi con atteggiamenti miti e remissivi a secondo delle persone con cui
interagiscono o in base a diversi intervalli temporali con lo stesso interlocutore. Raramente queste
persone sperimentano emozioni d’ansia che deriva dai sensi di colpa. Nella loro vita non sembrano
trovare posto le preoccupazioni dettate da regole morali e tendono ad “attribuire alle mancanze
degli altri i problemi i cui possono essere coinvolti, piuttosto che a proprie inadeguatezze personali”
(M. Battaglia, L. Bellodi, P. Migone, 1992, p. 1998). Lalli (1991, p. 220 e segg) elenca alcuni tratti
fondamentali della personalità e del comportamento dello psicopatico:
∙ Preponderanza nella struttura dell’essere psichico di alcune dimensioni istintuali distruttive alle
quali il paziente aderisce in maniera più o meno completa. Tale atteggiamento può essere a volte
causa ed a volta effetto di una deficitaria struttura dell’Io, istanza che regola tramite il principio
della realtà, l’interazione tra il soggetto e il mondo. Ne consegue, pertanto, un comportamento
spesso di tipo antisociale, a causa della non accettazione della norma collettiva, con conseguente
incapacità a programmarsi secondo valori socialmente accettabili.
∙ Deficitaria o anomala strutturazione del SuperIo che comporta una labilità o una mancanza
totale del senso di colpa: è questa una delle caratteristiche fondamentali che spiega gran parte del
comportamento psicopatico.
∙ Mancanza di conflitti emotivi e pertanto assenza di ansia, che rappresenta l’epifenomeno clinico
del conflitto.
∙ Tono dell’umore prevalentemente ipertimico: ipertimia che può essere vista come un
meccanismo ipomaniacale di difesa. In altri individui però, è frequente un certo atteggiamento
oscillante del tono dell’umore, con possibilità di fasi a carattere disforico.
∙ Intelligenza nei limiti della norma; a volte superiore alla norma.
∙ Distruttività sempre presente e spesso spiccata: indice di una incapacità a modulare la vita
istintiva.
23
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
24
Le manifestazioni e i disturbi associati
Secondo il DSMV (pag. 706) “Gli individui con Disturbo Antisociale di Personalità frequentemente
mancano di empatia e tendono ad essere indifferenti, cinici e sprezzanti nei confronti dei sentimenti,
dei diritti e delle sofferenze degli altri. Possono avere un’autostima ipertrofica ed arrogante [...] e
possono essere eccessivamente testardi, sicuri di sé o presuntuosi. Possono avere un fascino
disinvolto, superficiale, e possono essere piuttosto volubili e compiacenti verbalmente [...]. La
mancanza di empatia, l’autostima ipertrofica, e il fascino superficiale sono caratteristiche
comunemente incluse nelle concezioni tradizionali della psicopatia e possono essere
particolarmente distintive del Disturbo Antisociale di Personalità in ambito carcerario o forense,
dove di solito gli atti criminali, delinquenti o aggressivi non sono dirimenti. Questi individui
possono anche essere irresponsabili e sfruttatori nelle relazioni sessuali. Possono avere nella loro
storia numerosi partner sessuali, e possono non avere mai sostenuto una relazione monogama.
Possono essere genitori irresponsabili, come evidenziato dalla malnutrizione di un figlio, da una
malattia di un figlio che deriva dalla mancanza di un’igiene minima, [...]. Questi individui”, precisa
il Manuale, “possono ricevere un’espulsione con infamia dai servizi militari, possono non riuscire
ad essere indipendenti, possono impoverirsi o anche diventare dei “senzatetto”, o trascorrere molti
anni in istituzioni penali. Gli individui con Disturbo Antisociale di Personalità hanno maggiori
probabilità rispetto alla popolazione generale di morire prematuramente per causa violenta (per es.,
suicidio, incidenti, e omicidi). Gli individui con questo disturbo”, continua il DSMIV, “possono
anche presentare disforia, lamentele di tensione, incapacità di tollerare la noia, e umore depresso.
Possono avere Disturbi d’Ansia, Disturbi Depressivi, Disturbi Correlati a Sostanze, Disturbo di
Somatizzazione, Gioco d’Azzardo Patologico, e altri disturbi del controllo degli impulsi. Gli
individui con Disturbo Antisociale di Personalità hanno anche spesso caratteristiche personologiche
che soddisfano i criteri per gli altri Disturbi di Personalità, particolarmente i Disturbi Borderline,
Istrionico e Narcisistico di Personalità. La probabilità di sviluppare un Disturbo Antisociale di
Personalità nella vita adulta è aumentato se il soggetto ha presentato un esordio precoce di Disturbo
della Condotta (prima dei 10 anni) accompagnato da un Disturbo da Deficit
dell’Attenzione/Iperattività. Abusi o incuria da bambino, genitori instabili o imprevedibili, o
disciplina incoerente da parte dei genitori possono aumentare la probabilità che il Disturbo della
Condotta evolva in un Disturbo Antisociale di Personalità”.
Sul piano comportamentale, Lalli (1991, p. 221) distingue per questi soggetti le seguenti
caratteristiche:
∙ “Vivere momento per momento, senza una vera dimensione temporale;
24
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
25
solo il legame con una personalità simile: la compensazione reciproca comporta un adattamento
minimo.
∙ Rifiuto dell’autorità sia parentale che sociale con tendenza ad atteggiamenti disgregatori”;
La diagnosi differenziale
“La diagnosi di Disturbo Antisociale di Personalità”, sottolinea il DSMIV (1994, p. 708), “non
viene posta in individui al di sotto dei 18 anni di età e viene posta soltanto se sono presenti in
anamnesi alcuni sintomi del Disturbo della Condotta solo se non risultano soddisfatti i criteri per il
Disturbo Antisociale di Personalità”. Gabbard stigmatizza la stretta correlazione tra la patologia
antisociale del carattere e la tossicomania (Cadoret, 1986; Halleck, 1981; Meloy, 1988; Modlin,
1983; Reid, 1985; Vaillant, 1983). Secondo l’autore l’interrelazione tra le due condizioni è che
spesso coesistono ma che ciascuna ha una propria eziologia (Cadoret, 1986; Reid, 1985; Vaillant,
1983). L’attività criminale è inoltre spesso intimamente connessa alla tossicomania (Holden, 1986).
I delinquenti infatti in una percentuale tra il 52 e il 65 per cento, sono tossicomani. “Quando in un
adulto”, specifica il DSMIV (1994, p. 708 e segg.), “il comportamento antisociale si associa con un
Disturbo Correlato a Sostanze, non si fa diagnosi di Disturbo Antisociale di Personalità, a meno che
siano stati presenti segni del Disturbo Antisociale di Personalità nella fanciullezza e siano continuati
nell’età adulta. Quando sia l’uso di sostanze che il comportamento antisociale iniziano nella
fanciullezza e continuano nell’età adulta, si dovrebbero diagnosticare sia un Disturbo Correlato a
Sostanze che un Disturbo Antisociale di Personalità, anche se alcuni atti antisociali possono essere
una conseguenza del Disturbo Correlato a Sostanze (per es., vendita illegale di droghe o furti per
ottenere denaro per le droghe). Un comportamento antisociale che si manifesti esclusivamente
durante il decorso della Schizofrenia o di un Episodio Maniacale non dovrebbe essere diagnosticato
come Disturbo Antisociale di Personalità. Altri Disturbi di Personalità possono essere confusi con il
Disturbo Antisociale di Personalità per certe caratteristiche comuni. E’ quindi importante
distinguere tra questi disturbi in base alle differenze nelle loro caratteristiche specifiche. Comunque,
se un individuo presenta caratteristiche di personalità che soddisfano i criteri per uno o più Disturbi
di Personalità oltre al Disturbo Antisociale di Personalità, tutti possono essere diagnosticati. Gli
individui con Disturbo Antisociale di Personalità e con Disturbo Narcisistico di Personalità
condividono la tendenza ad essere brutali, disinvolti, superficiali, sfruttatori e non empatici.
Comunque, il Disturbo Narcisistico di personalità non include caratteristiche di impulsività,
aggressività e disonestà. Inoltre, gli individui con Disturbo Antisociale di Personalità possono non
essere così bisognosi dell’ammirazione e dell’invidia degli altri, e le persone con Disturbo
Narcisistico della Personalità di solito non hanno una anamnesi di Disturbo della Condotta nella
fanciullezza o di comportamento criminale nell’età adulta. Gli individui con Disturbo Antisociale di
Personalità e con Disturbo Istrionico di Personalità condividono la tendenza ad essere impulsivi,
superficiali, alla ricerca di situazioni eccitanti, avventati, seduttivi e manipolativi, ma le persone con
Disturbo Istrionico della Personalità tendono ad essere emotivamente più esagerate, e
caratteristicamente non si coinvolgono in comportamenti antisociali. Gli individui con Disturbo
Istrionico e Borderline di Personalità sono manipolativi per ottenere considerazione, mentre quelli
con Disturbo Antisociale di Personalità sono manipolativi per ottenere profitto, potere, o altre
25
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
26
Il Disturbo della Condotta
Tale disturbo assume rilevanza in quanto talvolta è prodromico a quello antisociale. “La
caratteristica fondamentale del Disturbo della Condotta”, indica il DSMIV (1994, p. 104 e segg.),
“è una modalità di comportamento ripetitiva e persistente in cui i diritti fondamentali degli altri
oppure le norme o le regole della società appropriate per l’età adulta vengono violate (Criterio A).
Questi comportamenti si inseriscono in quattro gruppi fondamentali: condotta aggressiva che causa
o minaccia danni fisici ad altre persone o ad animali (Criteri A1A7), condotta non aggressiva che
causa perdita o danneggiamento della proprietà (Criteri A8A9), frode o furto (Criteri A10A12), e
gravi violazioni di regole (Criteri A13A15). 3 (o più) comportamenti caratteristici devono essere
stati presenti durante i 12 mesi precedenti, con almeno 1 comportamento presente nei 6 mesi
precedenti. L’anomalia del comportamento causa compromissione clinicamente significativa del
funzionamento sociale, scolastico, o lavorativo (Criterio B). Il Disturbo della Condotta”, precisa il
Manuale, “può essere diagnosticato in soggetti che hanno più di 18 anni, ma solo se non vengono
soddisfatti i criteri per il Disturbo Antisociale di Personalità (Criterio C). La modalità del
comportamento è di solito presente in diversi ambienti, come la casa, la scuola o la comunità. Dato
che i soggetti con Disturbo della Condotta tendono a minimizzare i propri problemi di condotta, il
clinico”, suggerisce il DSMIV, “deve spesso affidarsi a ulteriori fonti di informazioni. Comunque
la conoscenza da parte degli informatori riguardo ai problemi di condotta del bambino può essere
limitata da un controllo inadeguato o al fatto che il ragazzo non li ha rivelati”. Il DSMIV suddivide
il Disturbo della Condotta in due sottotipi, diversamente correlati con il Disturbo Antisociale di
Personalità, a seconda dell’età all’esordio del disturbo:
Tipo con Esordio nella Fanciullezza: “Questo sottotipo è definito sulla base dell’esordio di almeno
uno dei criteri caratteristici del Disturbo della Condotta prima dei 10 anni di età. I soggetti con il
Tipo ad Esordio nella Fanciullezza sono di solito maschi, mostrano di frequente aggressioni fisiche
contro altri, hanno relazioni disturbate con i coetanei, possono aver avuto un Disturbo Oppositivo
Provocatorio nella prima fanciullezza, e di solito hanno sintomi che soddisfano pienamente i criteri
del Disturbo della Condotta prima della pubertà. Questi soggetti hanno maggiori probabilità di
26
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
27
avere un Disturbo della Condotta persistente e di sviluppare un Disturbo Antisociale di Personalità
rispetto ai soggetti con Tipo ad Esordio nell’Adolescenza”.
Il Comportamento Antisociale dell’Adulto
“Questa categoria”, suggerisce il DSMIV (1994, p. 743 e segg.), “può essere usata quando
l’oggetto dell’attenzione clinica è un comportamento antisociale dell’adulto che non è dovuto ad un
disturbo mentale (per es., Disturbo della Condotta, Disturbo Antisociale di Personalità, o Disturbo
del Controllo degli Impulsi). Gli esempi includono il comportamento di alcuni ladri di professione,
di soggetti dediti al racket, o che commerciano in sostanze illecite”.
Le caratteristiche collegate a cultura, età e genere
“Il Disturbo Antisociale di Personalità”, afferma il DSMIV (1994, pag. 707), “sembra essere
associato con uno stato socioeconomico basso e con gli ambienti urbani. Su tale categoria
diagnostica sono state sollevate preoccupazioni per il fatto che la diagnosi possa talvolta essere
male applicata ad individui in ambienti in cui verosimilmente il comportamento antisociale può
essere parte di una strategia protettiva di sopravvivenza. Nel valutare i tratti antisociali, è quindi
utile per il clinico considerare attentamente il contesto sociale ed economico in cui si manifesta il
comportamento”. “Una corposa mole di conoscenze”, scrive Gabbard (1994, p. 498), “è stata
accumulata sulla epidemiologia del disturbo antisociale di personalità (Cadoret, 1986) [...].
Individui con questo disturbo si ritrovano più comunemente in aree urbane impoverite e molti di
loro interrompono le scuole secondarie prima del diploma. C’è uno scivolare verso il basso nella
vita degli individui antisociali (Person, 1986), che tendono a guadagnare denaro e a perderlo in
maniera ciclica fino a che non “scoppiano” durante l’età media, spesso al caro prezzo di grave
alcolismo e debilitazione (Halleck, 1981)”. “Per definizione,” ripete il DSMIV (1994, p. 707), “ il
Disturbo Antisociale di Personalità non può essere diagnosticato prima dei 18 anni di età. Il
Disturbo Antisociale di Personalità è molto più comune nei maschi che nelle femmine. E’ stata
sollevata qualche preoccupazione che il Disturbo Antisociale di Personalità possa essere
sottodiagnosticato nelle femmine, particolarmente a causa dell’enfasi posta sugli item che
riguardano l’aggressività nella definizione del Disturbo della Condotta”. Su tale argomento Gabbard
afferma (1994, p. 499) che la psicopatia può manifestarsi in effetti anche nelle pazienti femmine
anche se tale disturbo si evidenzia con maggiore frequenza tra i maschi. La ragione per cui alcuni
27
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
28
clinici tendono a trascurare tale diagnosi nelle donne è da ricercare per l’autore negli stereotipi nel
ruolo sessuale.
La prevalenza
Sostiene il DSMIV (1994, p. 707) in proposito: “La prevalenza complessiva del Disturbo
Antisociale di Personalità nei campioni comunitari è circa il 3% nei maschi e circa l’1% nelle
femmine. Le stime della prevalenza in ambienti clinici variano dal 3% al 30% a seconda delle
caratteristiche predominanti della popolazione in esame. Percentuali di prevalenza anche superiori
sono associate con gli ambienti di trattamento per l’abuso di sostanze e in ambito carcerario o
forense”. Puntualizza a tal proposito Gabbard (1994, p. 499): “Si pensa che i pazienti con problemi
antisociali siano generalmente maschi, invece il rapporto maschifemmine nel disturbo antisociale
di personalità varia da 4:1 a 7,8:1 (Cadoret, 1986)”. Anche Kaplan (1993, p. 599 e segg.) conferma
tali dati: “La prevalenza del disturbo antisociale di personalità è del 3% negli uomini e dell’1%
nelle donne. [...] Nelle popolazioni carcerarie la prevalenza del disturbo antisociale di personalità
può arrivare al 75%”.
Il decorso
Per il DSMV il Disturbo Antisociale di Personalità ha un decorso cronico, ma può diventare meno
evidente o andare incontro a remissione man mano che l’individuo diventa più adulto,
particolarmente dalla quarta decade di vita. Sebbene questa remissione tenda ad essere
particolarmente evidente per quanto riguarda l’essere coinvolti in comportamenti criminali, è
probabile una riduzione dell’interi spettro di comportamenti antisociali e dell’uso di sostanze”,
(DSMIV, 1994, p. 707).
La familiarità
“Il Disturbo Antisociale di Personalità”, afferma il DSMIV (1994, p. 707 e segg.), “è più comune
tra i consanguinei di primo grado di individui con il disturbo che nella popolazione generale. Il
rischio per i consanguinei di femmine con il disturbo tende ad essere maggiore del rischio dei
consanguinei di maschi con il disturbo. I consanguinei di persone con questo disturbo hanno anche
un rischio aumentato di Disturbo di Somatizzazione e di Disturbi Correlati a Sostanze. Nell’ambito
di una famiglia con un membro affetto da Disturbo Antisociale di Personalità,” continua il Manuale,
“i maschi hanno più spesso il Disturbo Antisociale di Personalità e Disturbi Correlati a Sostanze,
mentre le femmine hanno più spesso Disturbo di Somatizzazione. Comunque, in tali famiglie, vi è
un aumento nella prevalenza di tutti questi disturbi, sia nei maschi che nelle femmine, in confronto
alla popolazione generale. Studi sull’adozione indicano che fattori sia genetici che ambientali
contribuiscono al rischio per questo gruppo di disturbi. Sia i figli adottivi che quelli biologici di
genitori con Disturbo Antisociale di Personalità hanno un rischio aumentato di sviluppare il
Disturbo Antisociale di Personalità, il Disturbo di Somatizzazione e i Disturbi Correlati a Sostanze.
I bambini adottati assomigliano ai genitori biologici più che ai genitori adottivi ma l’ambiente
familiare adottivo influenza il rischio di sviluppare un Disturbo di Personalità e la psicopatologia
28
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
29
correlata”. Gabbard (1994, p. 500), considera come taluni studi sui gemelli sembrano convincere
dell’influenza dei fattori genetici sullo sviluppo della psicopatia (Christiansen, 1977; Wilson,
Herrnstein, 1985, Yeudall, 1977). “Connessioni familiari”, scrive ancora Gabbard (1994, p. 499),
“tra psicopatia e disturbo di somatizzazione (isteria) sono state largamente documentate (Cadoret,
1978; Cloninger et al., 1984; Cloninger, Guze, 1975; Woerner, Guze, 1968)”. Secondo West (1990,
p. 217 e segg.): “Vi sono prove valide per l’esistenza di questi legami, ma siamo ben lontani dal
comprendere la relativa importanza e il ruolo incrociato dei diversi fattori biologici e sociali, e la
situazione non migliora a causa della tendenza delle varie discipline a cercare di spiegare
completamente l’intero quadro in base ai loro particolari interessi”.
I rapporti con altra patologia
I Disturbi più frequentemente osservati nelle personalità antisociali sono quelli da Abuso di
Sostanze o Alcool. In numerose ricerche si evidenzia infatti una elevata comorbidità per abuso di
droghe e per abuso di alcool. Talvolta episodi affettivi di Depressione Maggiore o Distimia possono
manifestarsi nella storia individuale delle personalità antisociali. (M. Battaglia, L. Bellodi, P.
Migone, 1992, p. 2000).
Il trattamento farmacologico
Secondo numerosi autori nel disturbo antisociale le terapie farmacologiche non si sono in mostrate
di grande efficacia. I sintomi classici di tale disturbo (ansia, depressione) sono spesso infatti
situazionali e quindi trattabili con maggior successo con approcci di tipo “counseling”, basati su
informazioni e consigli. Talvolta discreti risultati terapeutici si sono riscontrati con l’uso di farmaci
studiati per un trattamento specifico del comportamento aggressivo. I pazienti con Personalità
Antisociale, infine, non possono essere trattati in comuni reparti psichiatrici, sovente non attrezzati
per tali individui. (M. Battaglia, L. Bellodi, P. Migone, 1992, p. 2002). Afferma Kaplan (1993, p.
600) a proposito della farmacoterapia: “Se vi è evidenza di disturbo da deficit dell’attenzione con
iperattività, di tipo residuo, possono usarsi psicostimolanti come il metilfenidato. Sono stati
compiuti tentativi di alterare il metabolismo catecolaminico con farmaci e di controllare il
comportamento impulsivo con farmaci antiepilettici, specialmente se l’EEG si notano forme d’onda
anomale”. Riguardo a una terapia farmacologica di tipo sedativo, Intreccialagli (1990, p. 433)
consiglia neurolettici e carbamazepina, ma afferma che: “nel momento in cui il paziente antisociale
viene a calarsi nuovamente nel suo ambiente abituale avverte immediatamente il rallentamento del
proprio output e vi si oppone decisamente”. West (1990, p. 219) ritiene che l’unico settore in cui la
terapia farmacologica mostra efficacia e prospettive è forse quello delle sostanze sopprimenti gli
ormoni sessuali. Negli altri ambiti la psichiatria non ha per ora fornito alcuna risposta chiara.
Il trattamento psicoterapeutico
I pazienti antisociali raramente richiedono la terapia volontariamente e le sole sedute settimanali in
ambulatorio, senza un contesto istituzionale di contenimento, non sembrano essere sufficienti. Si
manifesta quindi l’esigenza di un ricovero in strutture specializzate per svolgere con successo
29
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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qualsiasi intervento psicoterapeutico, i cui eventuali risultati potrebbero però non permanere una
volta che il paziente cambia ambiente. Alcuni autori (Parsons, Alexander, 1973; Harbin, 1979)
suggeriscono la terapia familiare, altri autori (Moss, Rick, 1981), una terapia comportamentale o di
token economy, sempre se usata in un ambiente di contenimento. (M. Battaglia, L. Bellodi, P.
Migone, 1992, p. 2001 e segg.).Di un parere simile sembra essere Lalli (1991, p. 226): “La terapia
della personalità psicopatica è estremamente difficile, tanto da essere sembrata per un lungo periodo
di tempo, impossibile. Un motivo importante è costituito dal fatto che lo psicopatico non ha
consapevolezza di malattia né esperisce malessere o ansia e quindi non chiede aiuto, e se l’aiuto
nonostante tutto gli viene proposto, egli più o meno apertamente lo rifiuta”. Anche Gabbard (1994,
p. 505 e segg.): sottolinea il fatto che i pazienti con un serio comportamento antisociale non
traggono beneficio da un approccio terapeutico fondato esclusivamente su una psicoterapia
ambulatoriale (Frosch, 1983; Gabbard, Coyne, 1987; Person, 1986; Reid, 1985). La presenza di un
setting istituzionale o residenziale è auspicabile secondo l’autore per cercare di ottenere un
miglioramento anche modesto. Rispetto alla psicoterapia individuale, Gabbard (1994, p. 514 e
segg.) afferma che: “la psicoterapia individuale ambulatoriale del paziente antisociale grave è
destinata a fallire. Gli affetti saranno scaricati attraverso l’azione perché non vi è nessun ambiente
contenitivo in cui controllare tale canalizzazione. Inoltre, le menzogne e gli inganni del paziente
sono così pervasivi che il terapeuta non avrà nessuna idea di ciò che realmente accade nella vita del
paziente. Kaplan (1993, p. 600), ribadisce il fatto che i pazienti con disturbo antisociale di
personalità diventano accessibili alla psicoterapia solo se vengono immobilizzati (p. es.
ospedalizzandoli).
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Capitolo 3
Argomenti principali:
∙ Conoscenza intuitiva e conoscenza scientifica.
∙ La formulazione del problema∙
∙ Concetti di base dell'indagine scientifica
∙ Metodi di ricerca: metodi quantitativi e metodi qualitativi ∙
∙ Altri possibili approcci
∙ La ricerca in criminologia
Conoscenza scientifica e conoscenza intuitiva Nel corso della vita di tutti i giorni, per prendere
innumerevoli decisioni, si ricorre spesso all'intuizione ed in particolare al senso comune.
Quest'ultimo si avvale di metodi informali che mirano ad evidenziare l'accordo fra l'opinione di una
persona e le idee e le esperienze comuni di un ampio gruppo di soggetti. Tale strumento di
conoscenza ha due limiti fondamentali: i suoi criteri mutano da un epoca all'altra e da un luogo
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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all'altro in accordo con le idee e con l'esperienza della cultura, inoltre il metodo basato sul senso
comune non richiede che si facciano tentativi sistematici per esaminare la spiegazione teorica di una
prassi e per vedere se essa è vera. L'assenza di una teoria è una delle più importanti limitazioni di
questo mezzo conoscitivo, infatti finché una certa pratica funziona essa è seguita e la teoria su cui
essa si basa è considera vera. Al contrario, la scienza mira ad una spiegazione teorica dei fenomeni,
e la raccolta e l'elaborazione di informazioni "scientifica" si differenzia dalla raccolta e
dall'elaborazione di informazioni che ognuno di noi compie quotidianamente, per il carattere
sistematico ed intenzionale della prima. La ricerca scientifica può essere definita come "un processo
di osservazione deliberata e controllata" (Kaplan, 1964). In primo luogo occorre precisare che non
vi è un metodo scientifico, bensì vi sono diversi metodi scientifici, il cui scopo consiste nell'ottenere
conoscenze attraverso osservazioni obbiettive. Queste ultime sono quelle fatte in modo che le
persone con una percezione normale e poste nello stesso luogo e nello stesso tempo arriverebbero
allo stesso risultato. La necessità che le osservazioni siano oggettive spiega l'importanza che gli
scienziati attribuiscono alla validità dei metodi di ricerca. Essi tentano di esplicitare accuratamente
le condizioni esatte in cui sono state eseguite le osservazioni, in modo che altri scienziati le possano
all'occorrenza ripetere. Quindi il processo di produzione di conoscenza scientifica è caratterizzato
da una serie di "scelte ragionate", che il ricercatore deve di volta in volta compiere. Tali decisioni
introducono innegabilmente un elemento di soggettività, che non può essere eliminata, ma può e
deve essere resa esplicita. L'oggettività è quindi la caratteristica che contraddistingue ciò che è
scienza da ciò che non lo è, ed è ciò che fa della scienza l'unico mezzo universale per acquisire
conoscenze, perché sin dall'inizio rifiuta di considerare ogni fenomeno che non sia accessibile a
tutti. I diversi metodi scientifici, costituiscono quindi il percorso più idoneo per il raggiungimento
di verità probabilistiche e disponibili a possibili modifiche e non dei filtri magici, validi in ogni
occasione e per ogni scopo. I concetti di base della ricerca scientifica. Tutte le indagini, anche se
non sempre viene chiaramente espresso, prendono le mosse da un quesito, scaturente da
un'osservazione o da una lacuna di una teoria. Tale interrogativo potrebbe essere formulato in
questo modo: "Perché X si comporta nel modo Y?" Per poter continuare verso la spiegazione o la
descrizione dell'evento, lo sperimentatore deve tramutare il quesito in un'ipotesi di ricerca, secondo
uno schema del tipo " se… allora…". Un aspetto non trascurabile è rappresentato dal legame tra
ipotesi e definizioni operative delle caratteristiche che sono oggetto di studio. Le ipotesi devono
basarsi su caratteristiche in qualche modo quantificabili. Lo studioso, così come l'uomo della strada,
fanno ricorso a procedure interpretative che pongono in relazione concetti non osservabili e eventi
osservabili: nell'approccio scientifico, tuttavia tali procedure devono essere esplicitate ed il
ricercatore deve aver chiaro fin dal principio che tipo di relazione ipotizza tra i concetti studiati e
ciò è influenzato principalmente dallo scopo dell'indagine. Un'indagine di tipo descrittivo, a cui si
ricorre spesso in una fase iniziale della ricerca quando il ricercatore non possiede conoscenze
approfondite del fenomeno che intende studiare, si limiterà a fornire una rappresentazione il più
possibile accurata, di ciò che avviene. Invece si ricorre ad un livello di indagine correlazionale,
qualora lo studioso ipotizza una compresenza sistematica, in uno stesso evento, dei concetti studiati,
senza nessuna relazione di causa ed effetto tra loro (x ed y si presentano insieme nell'evento
comportamentale).Il livello più alto di indagine, è rappresentato dall'indagine sperimentale. In
questo caso si ipotizza una relazione di causa e di effetto tra X ed Y , e lo scopo è quello di spiegare
il comportamento in funzione di un'unica causa. Affinché tale assunzione sia valida, risulta
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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necessario condurre l'indagine nel modo più rigoroso possibile, alfine di escludere l'incidenza di
altre variabili non oggetto di studio.
La formulazione del problema
La scelta di un argomento adeguato è il primo passo che si dovrebbe compiere nel condurre una
ricerca scientifica. Alcuni autori (Ercolani ed al., 1993) suggeriscono dei criteri per l'individuazione
di un'area problematica:
1. lo stato di sviluppo teorico ed empirico della disciplina;
2. particolari interessi e preferenze del ricercatore nell'ambito della disciplina stessa;
3. osservazioni casuali che rivelano una lacuna nelle conoscenze disponibili;
4. esplicita richiesta di un committente In ogni caso, nel formulare esplicitamente un problema lo
scienziato costruisce o si avvale di una teoria di riferimento ed in base ad essa ed alle proprie
intuizioni avanza delle ipotesi di soluzione possibile.
Metodi di ricerca: approcci quantitativi e qualitativi Metodo quantitativo. La ricerca contemporanea
nel settore delle scienze sociali è impregnata di tradizioni empiriche e quantitative. Il Positivismo
logico, corrente di pensiero in cui si sosteneva che tutto il sapere deriva dall'osservazione diretta e
da inferenze logiche basate su di essa, ha rappresentato il fondamento epistemologico della ricerca
sociale durante tutto il ventesimo secolo. Alcuni metodi statistici si sono rivelati particolarmente
utili per osservare relazioni e modelli ed esprimerli con dei numeri. La statistica descrittiva illustra
questi modelli di comportamento, mentre la statistica inferenziale si avvale di argomenti
probabilistici per generalizzare da campioni a popolazioni oggetto di studio. La ricerca sperimentale
utilizza progetti di ricerca quantitativi al fine di rilevare differenze tra gruppi o classi di soggetti. Il
focus è posto sulla precisione delle misure e sul controllo di fonti d'errore esterne. Lo scopo è
quindi quello di isolare una variabile di interesse (variabile indipendente o di disegno) e manipolarla
al fine di osservare l'incidenza di tale manipolazione su una seconda variabile (variabile
dipendente). Questa procedura è agevolata dal "controllo di variabili esterne, ponendo così il
ricercatore in condizione di inferire una relazione causale tra le due (o più)variabili oggetto di
studio. Il controllo metodologico è compiuto generalmente per mezzo di due procedure che
poggiano sul principio di casualità. Si ha un campionamento casuale (random), usando soggetti che
sono stati estratti in maniera casuale da un gruppo in modo che ogni componente della popolazione
abbia le stesse probabilità di essere scelto. La selezione casuale del campione permette al
ricercatore di generalizzare i risultati dello studio dal campione alla popolazione da cui viene
estratto. La seconda procedura è la "randomizzazione", che consiste nell'assegnare i soggetti a
gruppi o condizioni sperimentali in modo tale che ogni soggetto abbia la stessa probabilità di venire
selezionato per ciascuno di essi. In questo modo le caratteristiche del soggetto sono così distribuite
casualmente in ogni aspetto salvo che per la manipolazione sperimentale o il trattamento,
consentendo al ricercatore di inferire che le differenze emerse tra i gruppi possono essere attribuite
alle variabili isolate. Nell'ambito delle scienze sociali, l'applicazione del metodo sperimentale è
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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spesso ostacolata dal fatto che si utilizzano soggetti umani. In effetti in campo sociale e clinico si
ricorre più frequentemente ad un disegno "quasi sperimentale", approccio empirico sistematico nel
quale lo sperimentatore non ricorre alla manipolazione sperimentale né all'assegnazione casuale dei
soggetti a determinate condizioni; ciò in quanto gli eventi sono già accaduti oppure perché sono
inerentemente non manipolabili. Sia nel caso in cui la ricerca utilizzi un disegno sperimentale o
quasisperimentale, la strategia più diffusa nelle scienze sociali è il confronto tra gruppi. Gruppi
indipendenti di soggetti sono utilizzati per ogni condizione sperimentale o di controllo; il disegno
più conosciuto, è quello che prevede l'uso di due gruppi equivalenti di soggetti, che differiscono
solo per il trattamento sperimentale al quale sono sottoposti e che vengono testati prima e dopo il
trattamento. Risulta così possibile valutare l'incidenza di un intervento, dato che il gruppo di
controllo rappresenta un termine di confronto. Tale disegno rende possibile attribuire gli effetti di
una manipolazione sperimentale all'intervento stesso piuttosto che a variabili estranee, purché i
soggetti siano stati assegnati alle diverse condizioni sperimentali in modo completamente casuale.
Poiché la randomizzazione non è sempre effettuabile, diviene di fondamentale importanza
considerare l'equivalenza dei due gruppi anche se i soggetti non provengono dalla stessa
popolazione. Un modo per sopperire a tale inconveniente, consiste nell'appaiare i gruppi per delle
variabili chiave come il sesso, l'età, ecc. Infine occorre precisare che tale disegno non controlla
affatto l'eventuale influenza delle valutazioni del pretest sui soggetti. Un semplice disegno
sperimentale che contempli il singolo postest può ovviare a tale inconveniente, ma in ogni caso, la
scelta di un disegno sperimentale di base non elimina il bisogno di sforzarsi a riflettere attentamente
e creativamente alle potenziali fonti di errore. I dati che scaturiscono da indagini sperimentali,
vengono analizzati usando un'appropriata statistica inferenziale. Le tecniche statistiche utilizzate per
valutare l'efficacia di un intervento o delle differenze tra gruppi, come l'analisi della varianza o il t
test, confrontano l'ampiezza delle differenze "intergruppo" e delle differenze "intragruppo" dovute
alla variabilità individuale. Il paradigma correlazionale, è basato invece su principi piuttosto diversi.
Le correlazioni dipendono dal confronto tra due distribuzioni di punteggi, ovvero punteggi
ampiamente dispersi lungo due dimensioni. Le tecniche statistiche provenienti da questa
impostazione, come la regressione multipla, sono particolarmente utilizzate nell'ambito delle
scienze sociali che usufruiscono di questionari, esami o scale, e relazioni tra variabili continue. In
ogni caso è l'impianto teorico e non la scelta dei metodi statistici che determinai tipi di assunzioni
che possono essere fatte in merito alle relazioni tra variabili.
Metodi qualitativi. Il termine "qualitativo" nell'ambito della ricerca, implica che i dati da essa
scaturenti sono sotto forma di parole e non di numeri. Mentre i dati quantitativi sono generalmente
valutati attraverso la statistica inferenziale e descrittiva, i dati qualitativi sono ridotti a categorie o
temi e valutati soggettivamente. I sostenitori di tale metodo criticano l'artificiosità e la limitatezza
degli studi sperimentali nell'ambito delle scienze sociali e, promuovono una maggiore flessibilità e
spontaneità nell'esplorazione dei fenomeni nell'ambiente naturale. Sempre gli stessi autori,
prendendo spunto dalla fisica moderna, affermano che la presenza di un osservatore altera
inevitabilmente ciò che viene osservato in modo tale che, di fatto, non è possibile scindere
l'osservatore dall'oggetto di studio. I metodi qualitativi risultano particolarmente utili nella "genesi
di categorie necessarie alla comprensione dei fenomeni umani e nell'indagine sull'interpretazione e
sul significato che gli individui attribuiscono agli eventi sperimentati". A differenza dei metodi
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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quantitativi, in cui il ricercatore registra e utilizza un piccolo insieme di variabili identificate in
precedenza, l'approccio qualitativo tenta di raggiungere una comprensione dell'individuo ricca e
profonda. I diversi metodi qualitativi sono accomunati da tre assunti principali: una visione olistica,
in base alla quale si cerca di comprendere i fenomeni nella loro interezza e complessità; un
approccio induttivo in base al quale la ricerca parte da osservazioni specifiche e si sposta verso
schemi generali che scaturiscono dai casi studiati; indagine naturalistica, dato che l'indagine
qualitativa è concepita per comprendere i fenomeni negli stati che si verificano naturalmente.
Esistono diverse tradizioni della ricerca qualitativa, ne elencheremo le principali:
Ermeneutica. Tale approccio, si basa sul presupposto che una specifica attività può essere compresa
solo se si comprende il contesto nel quale si sviluppa, piuttosto che concepirla come un'astrazione o
un insieme di relazioni causali. In ermeneutica i dati sono forniti in precedenza al ricercatore,
mentre in uno studio fenomenologico standard, il ricercatore contribuisce a creare il racconto
trascritto che di solito è stato ottenuto intervistando i partecipantisoggetti. Tale approccio, data la
sua complessità, è raramente utilizzato nel campo della ricerca sociale. Esso, infatti, richiede un
continuo rimando ai dati originari , al fine di individuarne il significato e riuscire a integrare
quest'ultimo con il valore che il ricercatore gli attribuisce.
Indagine etnografica. Tale modello comprende descrizioni antropologiche, ricerche naturalistiche,
sul campo e osservazioni dei partecipanti. Il ricercatore tenta di catturare e comprendere aspetti
particolari della vita di un particolare gruppo, allo scopo di ottenere informazioni minuziose e
complete. Tale indagine spazia dalla pura descrizione ad una vera e propria spiegazione teorica
della vita sociale e culturale. Il ricercatore inizia dei contatti profondi e prolungati con l'oggetto di
studio, cercando allo stesso tempo di mantenersi il più possibile distaccato da esso. L'etnografo
raccoglierà i dati in un diario, questi saranno registrati possibilmente in modo testuale.
Altri possibili approcci:
L'approccio misto, ossia una combinazione di metodologie quantitative e qualitative, rappresenta
spesso una buona scelta. Ne sono un esempio alcune ricerche che affiancano ad un questionario una
discussione di gruppo. Un altro possibile approccio alla ricerca, è rappresentato dalla dissertazione
teorica, che permette di aggirare l'ostacolo della raccolta dei dati, ma che spesso rappresenta
un'avventura non priva di pericoli, soprattutto per lo studioso alle prime armi, all'oscuro delle
tematiche e delle controversie in un determinato ambito teorico.
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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METODOLOGIA DELLA RICERCA APPLICATA ALLA CRIMINOLOGIA
Premessa
Occorre innanzitutto precisare che in campo criminologico si ricorre a svariati metodi d’indagine; la
scelta di una specifica metodologia è influenzata innanzitutto dagli scopi che il ricercatore si
prefigge. Il processo della ricerca non è lineare, bensì si configura come un ciclo di passi ripetuti nel
tempo. Il punto di entrata più comune è rappresentato da una qualche forma di osservazione
empirica. Il ricercatore sceglie un argomento da un infinito insieme di argomenti, in seguito,
attraverso un procedimento induttivo formula una proposta di ricerca. Il passo successivo consisterà
nello sviluppare in modo compiuto la proposta, enunciandola sotto forma di affermazione che
stabilisce una relazione tra due fenomeni. Dato che, l’asserzione è valida solo nell’ambito di una
specifica struttura teorica, spetterà al ricercatore il compito di spiegare tale proposizione alla luce di
un più vasto sistema teorico.
Sebbene i metodi criminologici siano stati usati in primo luogo per comprendere l'eziologia del
delitto, vengono altresì impiegati nello studio dei mezzi di controllo, prevenzione e trattamento
delle diverse forme di reato.
1. Statistiche di massa
Le statistiche di massa esprimono in numeri l’osservazione di fatti; privilegiano lo studio di fattori
macrosociali di generale influenzamento e non consentono l'identificazione di fattori causali e
l'evidenziazione di condizioni microsociali o personali significative.
Tale metodo risulta essere indispensabile per la conoscenza dell’estensione del fenomeno criminale
e per l’espressione delle sue caratteristiche più generali quali diffusione, frequenza, modificazioni
quantitative e qualitative, distribuzione qualitativa in ordine al tipo di reati, qualità e gravità delle
sanzioni, ecc.
criminalità effettivamente presente in un certo contesto sociale, e quella che invece risulta dichiarata
e perseguita dagli strumenti costituzionali. Esso invalida, in modo più o meno rilevante, le
statistiche sulla criminalità. L'indice di occultamento (rapporto tra fra reati noti e quelli commessi) è
influenzato da innumerevoli fattori, tra i quali:
∙ Caratteristiche del reato. Alcuni crimini è più difficile che passino inosservati (omicidi), rispetto
ad altri di cui spesso non se ne ha neppure notizia (truffe).
∙ Atteggiamento della vittima. Una delle fonti dalla quale emerge la conoscenza dei delitti commessi
è la denuncia della parte offesa, ma non tutte le vittime (o testimoni) rendono di dominio pubblico il
danno subito.
∙ Atteggiamento degli organi istituzionali. Le iniziative di questi ultimi rappresentano un'ulteriore
fonte per l'evidenziazione dei fatti delittuosi. Spesso però queste indagini finiscono, per motivi
contingenti o di scelta, col privilegiare un settore o un gruppo sociale piuttosto che un altro,.
Significativo a tal proposito è il riferimento alla "delittuosità dei colletti bianchi", caratterizzata da
un alto indice di occultamento, incrementato in parte dal mancato controllo da parte delle forze
istituzionali.
∙ Qualità dell'autore del reato. Fattori quali ceto sociale, razza, stato civile, nonché livello di
professionalità del criminale influenzerebbero la scoperta o la denuncia del crimine. In ogni caso
queste considerazioni dovrebbero far desistere dall'attribuire significato di causalità alle indagini
statistiche, nonché dall'arbitraria generalizzazione dei risultati.
In conclusione, il campo della delittuosità reale è molto più ampio di quello che convenzionalmente
si ritiene: coinvolge larga parte della popolazione e interessa gran parte dei gruppi sociali.
Per crimine si intende qualunque fatto previsto dalla legge come reato, che si manifesta peraltro con
modalità differenti in funzione della posizione sociale e dei vari status. Mentre i delitti che
costituiscono la delittuosità convenzionale sono, statisticamente parlando , appannaggio dei gruppi
sociali più squalificati, gli altri gruppi sociali commettono reati di diversa natura, che sono in genere
quelli meno perseguiti. Così ad esempio un giovane immigrato manifesterà la sua indifferenza verso
le norme rubando o rapinando in modo “convenzionale”, mentre il borghese “disonesto” esplicherà
la propria antinormatività in settori suoi propri, nelle frodi del commercio, nella corruzione, ecc.
Questi delitti “non convenzionali” avranno però la caratteristica di comparire nelle statistiche
redatte sulla scorta dei soli delitti perseguiti e giudicati, in modo poco rilevante rispetto alla loro
entità, ingenerandosi perciò la erronea convinzione che i “veri delitti” sono quelli “convenzionali”,
e che questi ultimi siano molto più diffusi degli altri.
2. Metodo sperimentale
Si ricorre al metodo sperimentale per valutare l'utilità di metodi alternativi, in special modo quando
si tenta di isolare gli effetti di uno o più fattori del comportamento umano. Se condotto in modo
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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corretto, tale metodo può fornire il controllo rigoroso di spiegazioni alternative di effetti osservati.
Il metodo sperimentale è sovente utilizzato al fine di verificare l'efficacia di un trattamento. Un
esempio è rappresentato dagli studi dell'effetto della supervisione sul recidivismo da parte di
criminali dimessi da istituzioni per minori. A tal proposito, alcuni soggetti della popolazione
oggetto di studio sono stati selezionati a caso ed assegnati alle diverse condizioni sperimentali
secondo una procedura definita "randomizzazione." Tale tecnica, consente di ridurre al minimo la
probabilità di errore dovuto a differenze individuali, attraverso l'assegnazione dei soggetti a gruppi
o condizioni sperimentali in modo tale che ognuno abbia la stessa probabilità di venire selezionato
per ciascuno di essi, eventuali differenze si distribuirebbero a caso. Il comportamento del gruppo di
controllo (suo eventuale recidivismo), che differisce da quello sperimentale soltanto per la mancata
somministrazione della variabile sperimentale(supervisione) diviene un metro di controllo per
valutare gli effetti del trattamento. Il metodo sperimentale è stato utilizzato anche per altri aspetti
della criminologia, per valutare gli effetti dell'assistenza economica offerta a criminali detenuti in
carcere, o nello studio sulla efficacia dei vari metodi di controllo di polizia. Alcune critiche rivolte a
questo metodo, riguardano la sua artificiosità, altre invece si riferiscono ai problemi etici relativi
alla liceità dell'assegnazione di soggetti ad un gruppo anziché ad un altro.
3.Metodo dell'inchiesta.
Il metodo dell'inchiesta utilizza le tecniche dell'intervista o del questionario e permette di rilevare
opinioni, atteggiamenti, valori, ecc. dei soggetti che fanno parte del gruppo campione della ricerca.
Spesso l'obiettivo di tale metodo è lo studio della natura e dell'estensione del reato nella società. Il
ricercatore, rinunciando alla manipolazione delle variabili, come avviene nel metodo sperimentale,
può accostarsi in modo più immediato a fenomeni difficilmente manipolabili tramite
un'apparecchiatura sperimentale. I vantaggi di tale metodo consistono nel poter formulare sia un
corretto disegno sperimentale sia un piano di sondaggio con finalità non dimostrative, ma
descrittive. Consente inoltre una maggiore facilità delle operazioni di campionamento, a causa di un
minor controllo esercitato sulle variabili influenzanti la situazione. In questa sede verranno discusse
due tecniche di inchiesta, quella crosssezionale e quella longitudinale. L'inchiesta crosssezionale è
quella più diffusamente usata. Fornisce dati circa l'epidemiologia del delitto, ed entro certi limiti,
sull'eziologia di un comportamento criminale. Essa comprende un campionamento di un insieme di
individui o di gruppi, in modo da poter generalizzare i risultati ad una più ampia popolazione
(detenuti dimessi dal carcere, studenti di scuola superiore, ecc.). Il campione è preso in un dato
momento, i soggetti vengono intervistati o sottoposti a questionario e i dati vengono analizzati.
Numerose critiche sono state rivolte a questa tecnica, in particolare risulta difficoltoso isolare gli
effetti del trattamento o dei programmi di prevenzione del comportamento criminale. I gruppi
selezionati potrebbero differire tra loro già in precedenza, minando in tal modo la "validità interna"
della ricerca. L'approccio longitudinale consiste nella misurazione degli attributi e del
comportamento della gente durante un dato periodo di tempo. Tale metodo è stato utilizzato per
studiare la storia e il prevalere della delinquenza a diverse età, per predire il sorgere e il tramontare
delle carriere devianti, e per analizzare la trasmissione della criminalità da una generazione all'altra.
Benché le fonti di dati ufficiali o crosssezionali permettano di fare delle stime sull'incidenza del
delitto, queste non appaiono così accurate come quelle ottenute con il metodo longitudinale, che
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segue i soggetti durante un arco di tempo abbastanza ampio. Malgrado gli innumerevoli vantaggi, il
metodo longitudinale non è certo privo di problemi. Oltre all'alto costo, si aggiunge la "mortalità del
campione", ossia la perdita dei soggetti nel tempo dovuta a morte, impossibilità di rintracciarli, calo
nella motivazione, ecc. Altro inconveniente è dovuto “all’effetto esame", cioè all'influenza che
l'intervista iniziale può avere sulle risposte successive. Inoltre, risulta spesso difficile separare gli
effetti dovuti alla maturazione avvenuta per età da quello che viene chiamato "l'effetto del periodo".
Per esempio, una diminuzione dell'uso di droga in un campione studiato per cinque anni può essere
dovuto sia alla maturità causata dall'età, sia alla scarsezza del prodotto sul mercato; è estremamente
difficile separare questi effetti senza studiare un altro gruppo. Qualora il metodo dell'inchiesta si
avvali della tecnica dell'intervista, quest'ultima può essere"strutturata", "semistrutturata" o "non
strutturata". Il primo tipo è organizzato secondo una struttura rigida, in cui sono univocamente
stabiliti sia l'argomento , sia il numero che la collocazione cronologica delle domande. Il secondo
tipo consente invece una maggiore elasticità nella conduzione dell'intervista, in relazione sia agli
argomenti, che all'interazione tra le persone: l'intervistatore deve rivolgere un certo numero di
domande specifiche, potendo poi rivolgerne altre a sua discrezione. Il questionario, viene invece
utilizzato nel caso in cui s'intende raccogliere dei dati su diverse persone sparse in una vasta area
territoriale. Di fondamentale importanza è la professionalità dell'intervistatore, che deve conoscere i
metodi che gli consentono di ridurre al minimo la sua influenza nell'interazione con l'intervistato.
Tra i fattori di distorsione si registrano tutti gli elementi della comunicazione non verbale, pause
silenzi, toni della voce, che possono condizionare le risposte dell'esaminato.
4. Indagini individuali
I metodi individuali di indagine criminologia consistono nello studio di singoli criminali o di piccoli
gruppi; mutuati dalla ricerca psicologica e medica, presuppongono che un ricercatore possa
pervenire ad una migliore conoscenza di un fenomeno mediante una intensa esplorazione. Si
diffondono per reazione allo studio di cause singole e per contro si avvalgono di un approccio
olistico. Il metodo clinico, possibile approccio allo studio dei casi, viene utilizzato nella diagnosi di
un problema personale rilevante o anormale e nella messa a punto di un programma di trattamento
adeguato. Coniuga due aspetti importanti: ricerca e trattamento, e si sofferma sui fattori
costituzionali, psicologici e sociali che caratterizzano ciascun delinquente. Le correlazioni fra
numerose indagini individuali consentono di ricavare tendenze e caratteristiche comuni. Inoltre tali
investigazioni hanno permesso di chiarire fattori assai rilevanti della condotta deviante: fattori
disturbanti familiari, caratteristiche di personalità, condizioni frustranti, tutti elementi interessanti se
inseriti in un ottica di causalità circolare.
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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quegli individui o di quei gruppi. Oltre al suo impiego clinico in criminologia, l'approccio dello
studio dei casi è stato anche usato nella forma di "storie di vita", osservazione e osservazione
partecipante. Il metodo della storia di vita comprende l'analisi di diari, biografie, autobiografie,
come pure interviste, al fine di ottenere una conoscenza profonda di singoli individui o gruppi
rappresentativi. Particolare attenzione viene riservata alla storia individuale come raccontata dal
soggetto, all'interpretazione che egli ne fornisce, nonché alle sue esperienze e al suo ambiente.
L'osservazione e l'osservazione partecipante arricchiscono ulteriormente lo studio della vita sociale
e della condotta deviante, attraverso esperienze dirette con il reato e i criminali. Di solito ciò
implica il compilare un diario dettagliato, magari comprendente anche un certo numero di interviste
molto approfondite. Altri ricercatori si avvalgono di registrazioni, fotografie, ecc. Un inconveniente
del metodo dell'osservazione e delle storie di vita, è rappresentato dall'estremo coinvolgimento
personale richiesto al ricercatore, spesso causa di sgradevoli e dannose conseguenze. Contro tutte
queste obiezioni si potrebbe ribattere con la considerazione che lo studio dei casi e l'osservazione
partecipante potrebbero essere utilizzati nella fase preliminare di ogni ricerca, al fine di arricchire
una teoria e giungere alla formulazione di ipotesi più efficaci e alla costruzione di strumenti più
appropriati.
5. Il metodo storico.
Il metodo storico in criminologia ha molti obiettivi: studiare il cambiamento nella natura e nella
diffusione del reato nel tempo o in condizioni sociali differenti; rintracciare le fonti sociali del
cambiamento delle leggi che definiscono la natura del reato; analizzare un evento o un periodo
storico per il suo interesse intrinseco; isolare una particolare forma di reato o devianza e studiare le
reazioni ad essa durante uno specifico periodo storico. Tale approccio seppure molto utile, risulta
spesso di non facile applicazione a causa di limitazioni legate alla parziale o totale indisponibilità
dei dati presenti negli archivi. Inoltre un altro inconveniente, comune allo studio dei casi, scaturisce
dalla difficoltà della scelta di un caso rappresentativo.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
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analisi dei dati, NISCarrocci, Roma, 1990.
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PONTI G., Compendio di criminologia, Raffaello Cortina, Milano, 1990.
ROBERT B.M., La ricerca scientifica in psicologia, Laterza, RomaBari, 1990.
ROSSI J.P., Il metodo sperimentale in psicologia, Borla, Roma, 1994.
IL COLLOQUIO CRIMINOLOGICO
In questo settore, infatti, il criminologo può essere chiamato ad operare professionalmente, secondo
la normativa attuale, in tre distinti momenti[1]:
a. Prima della sentenza, in fase processuale: in questa fase l’intervento professionale del
criminologo è piuttosto limitato; infatti non sono ritenuti ammissibili accertamenti peritali su
soggetti sottoposti a giudizio al fine di conoscere “l’abitualità e la professionalità nel reato, la
tendenza a delinquere, il carattere o la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche
indipendenti da cause patologiche”(art 220 c.p.p.) poiché la valutazione della personalità
dell’imputato rimane competenza esclusiva del giudice. D’altra parte è previsto (art.223 c.p.p.) che
vengano ammesse, sotto forma di “pareri delle parti”, perizie sulla personalità dell’imputato
effettuate da consulenti tecnici (tra i quali il criminologo) che il Pubblico Ministero o le parti private
hanno la facoltà di nominare
b. In fase di esecuzione della pena: il criminologo, in qualità di “esperto”, ha il compito di effettuare
“l’osservazione scientifica della personalità del condannato”, così come previsto dall’ordinamento
penitenziario, attività considerata fondamentale per formulare il programma di trattamento
individualizzato, intramurario ed extramurario.
c. Durante la detenzione: il criminologo offre una serie di interventi trattamentali risocializzativi al
condannato qualora questi ne avverta la necessità e ne faccia richiesta (colloqui di sostegno, di aiuto
psicologico,group counseling, ecc)
In pratica l’attività del criminologo clinico consiste, secondo Merzagora[2], in:
a. attività di osservazione, valutazione e prognosi, su mandato dell’autorità carceraria o giudiziaria
(ruolo tecnico istituzionale);
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b. interventi sul reo, in seguito a sua richiesta, per soddisfare bisogni di aiuto psicologico, di
chiarificazione interiore, di programmazione o di revisione dei progetti di vita, di consiglio ed anche
per effettuare attività programmate nell’ambito dell’istituzione carceraria per finalità educative
collettive, discussioni o dibattiti (ruolo terapeutico o trattamentale).
In tutti i casi descritti, il colloquio rappresenta lo strumento principale di lavoro del criminologo.
Per lo specifico contesto in cui viene realizzato e per il peculiare “mandato” che lo giustifica, il
colloquio criminologico si caratterizza in maniera particolare rispetto ad altre forme di colloquio
(clinicodiagnostico, terapeutico, di orientamento, ecc).
Definizione ed obiettivi del colloquio criminologico
Un colloquio, inteso in termini generici come “una conversazione importante, che mira ad uno
scopo determinato, oltre che al semplice piacere della conversazione”[3], può essere definito in base
a:
1. il contesto in cui si verifica
2. gli obiettivi che lo guidano
3. le caratteristiche delle persone che vi partecipano
Seguendo questi criteri possiamo definire il colloquio criminologico come “una tecnica di
comunicazione, che si svolge in una situazione istituzionale, che ha come antecedente il fatto che
l’intervistato abbia commesso un reato, e che ha come scopo quello di fornire, ad altri che hanno su
di lui autorità, informazioni sulla sua personalità in relazione alla genesi e alla dinamica del reato,
alle indicazioni per il suo trattamento, ed alla previsione del comportamento futuro.”[4] Più
precisamente con questa definizione ci riferiamo al colloquio che il criminologo svolge più nella
sua veste tecnica–istituzionale che in quella più specificamente terapeutica trattamentale.
Osserviamo come il contesto istituzionale, giuridico e ancor più quello penitenziaro, connotano di
specificità il colloquio criminologico, stabilendone la natura e gli obiettivi. In primo luogo definisce
i partecipanti, in particolar modo l’intervistato che è un soggetto che ha commesso un reato e che si
trova in una condizione di restrizione e limitazione della libertà personale. In questo senso differisce
dal cliente o paziente comunemente inteso che si rivolge volontariamente all’esperto per chiarirsi
e/o modificare una condizione di vita vissuta come problematica; nel caso del detenuto, non è il
soggetto a richiedere il colloquio del criminologo (ad eccezione dei casi in cui il condannato
richieda un intervento terapeutico o di sostegno) ma questo avviene su formale richiesta
dell’autorità giudiziaria o penitenziaria; il contesto quindi determina l’accesso al colloquio da parte
dell’intervistato, prescindendo dalla sua volontarietà, spontaneità e motivazione che rappresentano
il presupposto per molte altre forme di colloquio. Inoltre il colloquio criminologico non implicando
una “domanda” da parte di chi vi si sottopone, non presuppone nemmeno che questi si trovi in una
condizione di disagio o di sofferenza da cui voglia liberarsi, come ad esempio più comunemente
avviene per un “paziente” in un colloquio clinico. Appare evidente quindi che la natura istituzionale
del mandato determina anche gli obiettivi del colloquio criminologico che non presenta finalità
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terapeutiche ma valutative. Secondo quanto previsto dall’ordinamento penitenziario del ’75, infatti,
il colloquio (per il cui svolgimento l’art.80 prevede l’utilizzo di esperti tra i quali il criminologo
clinico) di fatto viene utilizzato per l’osservazione scientifica della personalità dei condannati ed
internati, al fine di formulare le indicazioni in merito al trattamento rieducativo (art. 13, comma 2,
o.p.). L’ art 1 della legge n.354 del 26 Luglio 1975 infatti oltre a stabilire che “il trattamento
penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della
persona”, specifica anche che “nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un
trattamento rieducativo che tenda, attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento
sociale degli stessi”. Tale trattamento, sempre secondo questo articolo “va attuato secondo un
criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”. A tale scopo il
succitato art. 13 prevede che si compia una “osservazione scientifica della personalità diretta ad
accertare i bisogni di ciascun soggetto” e “rilevare eventuali carenze fisiopsichicoaffettive e le
altre cause del disadattamento sociale”. Risulta evidente che l’obbiettivo del colloquio
criminologico nelle istituzioni carcerarie è fondamentalmente quello di studiare la personalità del
detenuto e di fornirne tramite l’osservazione scientifica, una “valutazione” sia in senso diagnostico
(riguardante la criminogenesi e la criminodinamica) che prognostico (come previsione del
comportamento futuro) che guidi l’individuazione di un trattamento rieducativo personalizzato del
carcerato. Il colloquio criminologico quindi, come lo definisce il Ponti[5] (1990, pag464) consiste
nella “relazione che si instaura nel corso di dialoghi col fine preciso di consentire all’esperto di
approfondire la conoscenza del condannato su cui deve esprimere un ‘opinione”. Questa opinione,
(la valutazione del criminologo), viene utilizzata come abbiamo detto, sia (più limitatamente) nel
campo della fase processuale e in quello delle perizie sul condannato, che in quello più ampio della
esecuzione penale[6]; in questo caso la valutazione prodotta dai colloqui servirà per formulare il
“programma di trattamento” individualizzato oppure per fornire informazioni su richiesta della
magistratura di sorveglianza in merito alle proprie competenze e decisioni.[7] La magistratura di
sorveglianza infatti utilizzerà gli esiti di tale osservazione per stabilire:
a. “le modalità di esecuzione della pena
b. la concessione o meno delle misure alternative e degli altri benefici previsti dall’ordinamento
penitenziario
c. la revoca, commutazione o conferma delle misure di sicurezza”.[8](Ponti, 1990, pag 461).
Il criminologo, attraverso lo strumento del colloquio, è tenuto a fornire al proprio committente un
profilo di personalità, del condannato e dell’internato, in una prospettiva non tanto o solo
psicologica ma, più specificamente, criminologica. Infatti dovrà essere dato rilievo all’analisi ai
seguenti aspetti:
1. la “criminogenesi” (cioè dovranno essere indagati gli aspetti individuali e sociali che hanno
contribuito alla scelta delittuosa)
2. la “criminodinamica” (i meccanismi interiori che hanno condotto all’azione delittuosa)
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3. la “pericolosità sociale” (previsione del comportamento futuro in termini di probabilità di
recidiva)
I primi due punti costituiscono la parte “diagnostica” del colloquio; secondo il Ponti[9] in questa
fase il criminologo deve indagare sui “fattori che, in quel dato soggetto, hanno giocato un ruolo
nella genesi del singolo reato, ovvero nell’articolarsi di una carriera criminale”. La valutazione
criminogenetica deve quindi fornire una lettura del “perché” è avvenuto un dato delitto, cioè
comprendere quale sono le interrelazioni tra i vari fattori (individuali, esperienziali, socio
ambientali e situazionali) che hanno contribuito al compimento del crimine osservato. La
comprensione della criminodinamica invece illustrerà “come” è stato compiuto il reato, intendendo
con questo non la modalità concreta di realizzazione ma il processo psicologico e motivazionale che
ha condotto al compimento di un progetto criminoso. Il terzo punto consiste nella parte prognostica
della valutazione, che esprime una previsione del comportamento futuro del soggetto. La finalità
prettamente valutativa del colloquio e il tipo di committenza (i giudici e l’amministrazione
penitenziaria) sono aspetti che ovviamente incidono sull’atteggiamento sia dell’esperto che del
soggetto che vi si sottopone; l’esito dell’osservazione infatti, come abbiamo visto, contribuirà a
stabilire le decisioni della magistratura di sorveglianza e in definitiva la condizione penitenziaria del
detenuto. L’intervento del criminologo è motivato, accanto all’interesse per il soggetto esaminato,
fondamentalmente da un’esigenza di difesa sociale che non va sottovalutata quando si considerino il
tipo di relazione che può instaurarsi tra i due e la tecnica del colloquio realizzabile. Il criminologo,
soprattutto, deve essere consapevole della natura e delle implicazioni del proprio mandato, in
relazione sia al proprio atteggiamento che a quello del proprio intervistato.
Contenuti ed aspetti tecnici del colloquio criminologico
Definire gli spazi e i tempi in cui possono svolgersi gli incontri tra esperto e intervistato è molto
importante a prescindere del tipo di colloquio considerato. Purtroppo il criminologo che opera in
ambito penitenziario possiede ridotte possibilità di definire, nel modo in cui ritiene più opportuno, il
“setting” ambientale che faccia da cornice ai propri colloqui. La maggior parte di questi infatti si
svolge comunemente nel carcere o al massimo negli ospedali dove è obiettivamente difficile
garantire le esigenze di riservatezza e l’assenza di disturbi e interruzioni che normalmente un
colloquio richiede. Quanto al numero di incontri con il detenuto e alla durata dei singoli colloqui,
ciò dipenderà dalle specifiche esigenze del criminologo relative al singolo caso affrontato; a tal
proposito Nivoli [10] afferma: “Un solo colloquio non è, sempre e di necessità, sufficiente ad
elaborare una diagnosi corretta e documentata sull’intervistato. In molti casi è auspicabile, se non
necessario, che il contatto con il deviante sia protratto nel tempo. Il fatto di frequentare il deviante
attraverso ripetuti colloqui permette al criminologo di raggiungere alcuni specifici obiettivi: raccolta
più completa dei dati, riduzione dello stato ansioso dell’intervistatore, rilievo di elementi non solo
statici, ma altresì dinamici nella formulazione della diagnosi del soggetto.” Un altro aspetto tecnico
del colloquio da prendere in considerazione è rappresentato dalla necessità di “fissare” quanto viene
detto durante l’interazione tra esperto e condannato, al fine e di non perdere informazioni importanti
e di poterle poi utilizzare; ovviamente si tratta di raccogliere informazioni che attengono sia alla
comunicazione verbale sia non verbale, per questo una registrazione su nastro oppure l’uso di
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appunti scritti sono entrambe modalità, a dire il vero, non ottimali in quanto possono inibire la
naturalezza dell’intervistato e non cogliere adeguatamente i messaggi comunicativi del “corpo” che
invece raggiungono naturalmente l’osservatore. Merzagora[11] propone, accanto all’ipotesi di
utilizzare la telecamera (alternativa che però riproporrebbe questioni non semplici di rispetto della
privacy), di adottare caso per caso la soluzione più adeguata, a seconda delle necessità presentate.
Quest’ultima considerazione ci introduce al tema della riservatezza cui è tenuto il criminologo nel
trattare le informazioni ricavate durante il colloquio. La situazione è resa più complessa che in altre
situazioni che implicano il segreto professionale, in quanto il ruolo del criminologo risulta
apparentemente più ambiguo: non è un giudice, ma ha un mandato dell’istituzione giudiziaria o
penitenziaria e non è in veste di terapeuta. Per Nivoli [12]: “è norma che il criminologo mantenga il
segreto su quanto potrebbe essere di danno all’intervistato.” Ma al fine di evitare “manipolazioni”
del segreto professionale, lo stesso Autore ricorda di:
o “non richiedere o accettare informazioni confidenziali che non sono utili ai fini del colloquio”
o “specificare sin dall’inizio del dialogo che non si è obbligati al segreto professionale (ed
assicurasi che l’intervistato abbia compreso)”
o “portare lo stesso intervistato e di sua volontà e dopo discussione, a “rompere” il segreto
professionale con confessioni o dichiarazioni che compie personalmente (non accettare deleghe o
“permessi a parlare” concessi dall’intervistato)”
o “ricordarsi che la trasmissione giustificata di notizie ricevute non costituisce violazione della
norma deontologica del segreto professionale”
E’ indispensabile, in tal senso, che il criminologo chiarisca bene e preventivamente all’intervistato,
la natura del suo ruolo, i motivi e gli scopi del colloquio intrapreso e l’utilizzo della valutazione che
ne scaturirà.
Le fasi del colloquio
Possiamo descrivere lo svolgimento del colloquio criminologico, distinguendo alcuni momenti:
1. fase preliminare di presentazione
2. la raccolta dei dati biografici di vita
3. l’approfondimento del reato, la situazione giudiziaria e carceraria.
4. l’approfondimento prognostico
5. la fase conclusiva del colloquio
1. Secondo Nivoli[13] “l’incontro inizia con la presentazione (presa di coscienza di essere atteso, di
trovarsi nel luogo stabilito e con la persona richiesta); prosegue con l’accoglienza formale (mettere
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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a suo agio l’interlucotore nel territorio a lui estraneo: indicare con chiarezza ove può sedersi,
deporre effetti personali, ecc.) e termina con l’invito a parlare”, a raccontarsi. Noventa[14]specifica
che in questa prima fase è anche necessario fare chiarezza con l’intervistato sugli scopi
dell’incontro e sull’uso che verrà fatto delle informazioni ottenute, in modo da far emergere e
modificare in senso più realistico e corretto le aspettative che il colloquio ha potuto suscitare nel
condannato. Questi, infatti, deve avere, assieme al criminologo, consapevolezza di ciò che si
accinge a fare; dei ruoli reciproci e dei contenuti su cui verterà il colloquio e degli ambiti che invece
non andranno trattati.[15]
2. L’indagine dei dati biografici è essenziale ai fini di una adeguata valutazione del soggetto ma è
anche un’ottima occasione per intraprendere l’interazione conoscitiva senza suscitare troppi
imbarazzi ed ansie nell’intervistato, affrontando immediatamente il tema del reato commesso.[16]
Si tratta dei contenuti del colloquio dotati di maggiore oggettività, anche se l’osservazione dei
messaggi comunicativi paralinguistici possono, anche in questo caso, trasmetterci molte
informazioni aggiuntive ai semplici dati di fatto. A tale proposito Nivoli[17] precisa che “..nel corso
del colloquio l’esame del deviante può svolgersi ai seguenti livelli:
ciò che il soggetto “dice” (modalità di razionalizzare, ecc)
ciò che il soggetto ha fatto(dati obbiettivi anamnestici, ecc.)
ciò che il soggetto sta facendo (linguaggio gestuale, ecc)
ciò che il soggetto prova affettivamente (amore, odio, ecc.)
la obbiettivazione del soggetto su un continuum (somministrazione di test, ecc)
la classificazione qualitativa del soggetto (specifiche dinamiche delittuose o vittimologiche)”
Secondo Merzagora[18] andrebbero raccolti, in linea generale in questa fase, i seguenti dati
anamnestici del condannato:
∙ data e luogo di nascita;
∙ parto e svezzamento;
∙ normalità, precocità o ritardo nello sviluppo, prime fasi di vita fisiologica (linguaggio, cammino);
∙ Notizie sulla famiglia di origine: livello di istruzione, situazione economica e sociale, occupazioni
e interessi, esistenza o meno di precedenti delinquenziali fra i familiari o di altra patologia del
comportamento;
∙ Composizione della famiglia: esistenza di fratelli, età e caratteristiche, rapporto con loro,
risentimenti e conflitti, senso di superiorità o inferiorità, ammirazione e identificazione.
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∙ Atmosfera familiare: ricordi sui genitori nei primi anni di vita, i rapporti dei genitori fra loro e dei
genitori con il soggetto, attaccamento alla famiglia, preferenza per un genitore o per un altro ,
giudizio sui genitori, disciplina familiare , la famiglia come fonte di conforto e di sicurezza;
∙ Atteggiamento nei giochi e con gli altri bambini (cooperativo, aggressivo, importuno, timido,
passivo, ecc.)
∙ Carriera scolastica: età di inizio e fine della scuola, motivi dell’eventuale interruzione della
carriera scolastica, titolo di studio conseguito, classi ripetute, rapporti con i compagni e con gli
insegnanti, atteggiamento nei confronti dello studio;
∙ Atteggiamento verso il gruppo dei pari, figure di identificazione;
∙ Ambizioni ed ideali adolescenziali e giovanili;
∙ Il servizio di leva: disciplina, frustrazioni, ecc.;
∙ Esperienze sentimentali e sessuali, legami affettivi, matrimonio, atmosfera coniugale, difficoltà,
accordo o disaccordo, separazioni o divorzi;
∙ I figli e i rapporti con loro;
∙ Malattie, infortuni, precedenti psicopatologici, loro importanza nella vita di relazione e lavorativa;
∙ Carriera lavorativa, costanza o meno nel lavoro, interessi extraprofessionali;
∙ Uso di alcol o di droghe;
∙ Difficoltà di adattamento;
∙ Scopi e aspirazioni per il futuro, ideali sociali e personali.
Questa ricostruzione della storia di vita del soggetto dovrà essere fatta ovviamente tenendo conto di
una prospettiva criminologica, che evidenzi, nel corso dell’arco di tempo considerato, i fattori
personali e sociali che possano risultare maggiormente significativi in prospettiva del delitto o dei
delitti commessi.
3. In seguito a questa prima raccolta di informazioni, può essere affrontato l’argomento “reato”. A
volte è lo stesso detenuto che desidera parlarne per potersi dichiarare innocente, espiare i propri
sensi di colpa o lamentarsi della situazione in cui si trova[19]. Proprio per impedire facili
strumentalizzazioni, è opportuno che il criminologo sia a conoscenza di tutte le informazioni che
riguardino la condizione giudiziaria attuale e precedente del soggetto esaminato. Al momento del
colloquio per Merzagora[20] andranno conosciute o investigate le seguenti aree:
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Ø Il reato: il tipo di reato; il luogo e il tempo di esecuzione, l’età del reo, la presenza di eventuali
complici; la dinamica del reato e le eventuali circostanze aggravanti
Ø La vittima: le caratteristiche della vittima e l’eventuale rapporto con il reo
Ø Il reo:
a) la sentenza o le sentenze che lo riguardano; i sui precedenti e le tappe della eventuale carriera
criminale
b) la condizione mentale del soggetto al momento del delitto; le valutazioni etiche nei confronti
del reato commesso e le reazioni del suo ambiente familiare e sociale; il suo atteggiamento al
momento dell’arresto, del processo e della carcerazione;
c) il comportamento in carcere e l’atteggiamento nei confronti dell’istituzione carceraria e verso al
detenzione, i rapporti con gli altri carcerati e con gli agenti di custodia;
d) Le prospettive del reo: progetti, prospettive e problemi legati al ritorno in libertà, al termine del
periodo di detenzione
Tutti questi elementi dovrebbero aiutare l’intervistatore a formulare una ipotesi criminogenetica e
criminodinamica del caso esaminato e quindi portare a comprendere globalmente i motivi che
hanno condotto al delitto (in che modo hanno contribuito al delitto); a tal fine Bisio[21] suggerisce
di:
a) indagare come il soggetto ha ceduto all’azione dei motivi che su di lui hanno agito;
b) determinare perché non lo hanno inibito altri motivi (sociali, individuali, morali, religiosi,
giuridici, ecc.);
c) ricercare come il soggetto è arrivato a concepire, e sotto quale aspetto, l’azione antisociale, dalla
quale si è ripromesso la soddisfazione di un interesse;
d) conoscere come è stata la preparazione e l’esecuzione del reato.
4. A queste fasi più conoscitive e diagnostiche, segue una fase di approfondimento prognostico
consistente in una valutazione “predittiva” del comportamento del reo in vista dell’ottenimento o
rifiuto di una misura premiale, di una misura alternativa o sostitutiva della pena. Il criminologo in
pratica è tenuto ad esprimere il proprio parere sulla “pericolosità” del detenuto, quindi a valutare “la
probabilità che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati”(art 203 c.p.). Una previsione
della recidiva può essere eseguita, concretamente, tenendo conto di alcuni parametri (condizioni
della persona, dell’ambiente, meccanismi psicosociali), che l’esperienza diretta e la ricerca
criminologica, hanno individuato in alta concentrazione in casi di comportamenti delittuosi reiterati.
Si tratta quindi di una valutazione di tipo probabilistico che ha il limite di non considerare
l’eventualità, sempre possibile, che, ricorda il Ponti[22]: “il soggetto esaminato modifichi la propria
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condotta, nel bene e nel male, per le più svariate e imprevedibili ragioni, anche quando la
concentrazione di fattori che favoriscono la recidiva è particolarmente elevata, o quando all’opposto
i dati parrebbero più favorevoli”. Lo stesso autore[23] descrive i principali indici di predizione
negativa utilizzabili al fine di elaborare un giudizio prognostico “integrato”. Alcuni di essi
riguardano la persona del reo, altri la sua famiglia e alla carriera criminale. Della persona possono
avere significato sfavorevole: “la bassa intelligenza, i disturbi della personalità, la
tossicodipendenza e l’alcolismo, le irregolarità e l’incostanza della carriera scolastica, le sfavorevoli
condizioni socioeconomiche, gli ideali antisociali di vita, la precocità del disadattamento,
l’inserimento in sottoculture delinquenziali, l’ambiente frequentato, certa tipologia di reati, la
concreta assenza di possibilità di inserimento, lavorativo e ancora altri mille fattori.” Rispetto alla
famiglia, che rappresenta un elemento di prima importanza nella possibilità di recidiva dei giovani
devianti, risulterà sfavorevole l’appartenenza ad una famiglia con un elevato grado di disgregazione
e caratterizzate da carenze affettive educative o esse stesse da connotazioni antisociali. Altri indici
prognostici negativi possono essere rintracciati nella carriera criminosa del reo, e in particolare, per
Ponti[24]: “l’inizio precoce dell’attività delittuosa, la frequenza e il numero delle recidive, la brevità
dell’intervallo di libertà fra successive condanne, l’omogeneità dell’indole dei precedenti reati.”
§ L’errore sistematico: la tendenza a sopravvalutare in rapporto al proprio atteggiamento mentale
(ad esempio l’ottimista può essere portato ad esprimere giudizi più benevoli)
§ L’errore di tendenza centrale: per cui l’esperto può assumere una posizione di neutralità per la
mancanza effettiva di un giudizio negativo o positivo netto.
§ L’errore di “effetto alone”, cioè la tendenza a giudicare alcune qualità condizionati dal giudizio su
altre qualità presenti
§ Errore di “contrasto”, cioè la tendenza a giudicare gli altri in opposizione al proprio modo di
essere (ad esempio l’ingenuo tenderà a giudicare l’altro come astuto)
§ L’errore di “proiezione”, cioè la tendenza a trasferire sull’altro caratteristiche proprie.
Altri aspetti del colloquio criminologico: l’atteggiamento dell’intervistato e l’atteggiamento
del criminologo
Il criminologo deve essere consapevole del fatto che l’intervistato, data la peculiare situazione in
cui si svolge il colloquio, può mostrare un atteggiamento, un modo di porsi e mettere in atto delle
strategie comunicative e relazionali, che potrebbero condizionare l’andamento del colloquio se non
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fossero riconosciute e gestite dall’intervistatore. Nivoli[26] ha descritto una serie di atteggiamenti
che il detenuto sottoposto a colloquio criminologo può assumere:
Ø Lo “sfruttamento”: il reo tenta di manipolare la situazione e il ruolo del criminologo per ottenere
benefici immediati. Quando verifica che non gli riesce, può mostrare disinteresse od ostilità verso
l’esperto.
Ø La “rivendicazione”: il reo riversa sull’intervistatore le lamentele, i disagi e le proteste legate alla
sua condizione, senza tener conto delle esigenze del colloquio e del ruolo del criminologo in quella
circostanza
Ø Il ruolo accomodante: al contrario il soggetto in questi caso si dimostra disponibile e zelante, ma
solo ad un livello apparente e strumentale
Ø La “dispersione”, atteggiamento in cui il soggetto utilizza l’estrema loquacità per eludere temi
più coinvolgenti
Ø L’“identificazione all’ideale di sé”: l’intervistato in pratica non racconta di sé come è realmente
ma di come vorrebbe essere idealmente.
Ø L’“inversione di ruolo”: il soggetto cerca di ottenere il controllo sul colloquio assumendo il ruolo
dell’intervistatore (sceglie i temi da affrontare, fa domande sul criminologo, ecc.)
Ø La “drammatizzazione”: il soggetto tende ad assumere atteggiamenti da vittima, amplificando in
modo eccessivo i propri problemi per ottenere maggiore attenzione e indulgenza
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Altre condotte particolari del detenuto quali la simulazione o il silenzio possono mettere in
difficoltà il criminologo meno esperto. Occorrerà in questi casi stabilire per prima cosa se si tratta di
silenzio o simulazione dovuti a una condizione psicopatologia (esacerbata anche dalla deprivazione
relativa indotta dalla prigionizzazione) o una comprensibile forma di riservatezza o imbarazzo, o se
invece si tratta di un atteggiamento voluto, provocatorio e di opposizione. Ad ogni modo il
criminologo dovrebbe poter controllare reazioni troppo immediate e spiegare al soggetto con
chiarezza e decisione che la menzogna o il silenzio non possono apportare nessun giovamento alla
sua condizione e che “ il ruolo dell’intervistatore è sì valutativo ma non inquisitorio”.[27] Il
criminologo, d’altra parte deve essere consapevole che anche l’atteggiamento da lui assunto può
incidere in maniera determinate sullo svolgimento del colloquio e sul comportamento
dell’intervistato. In primo luogo il criminologo deve porsi in un atteggiamento di rispetto nei
confronti del proprio interlocutore, chiarendo e attenendosi in modo corretto al proprio ruolo e alla
propria funzione; evitando interventi troppo invadenti, un atteggiamento ironico o moralistico.
Inoltre dovrà saper gestire la propria emotività (non negandola ma riconoscendola e utilizzandola in
modo proficuo), regolare la comunicazione in base alle caratteristiche culturali e linguistiche del
soggetto, non forzare le risposte mediante un atteggiamento direttivo o allusivo; non suscitare nel
detenuto una aspettativa di “complicità” che necessariamente non potrà essere soddisfatta,
favorendo l’elaborazione delle fantasie e delle false aspettative che il colloquio comporta.
BIBLIOGRAFIA
Ponti G., “Compendio di criminologia”, Cortina Editore, Milano, 1990
Merzagora I. ,“Il colloquio criminologico”, Unicopli, Milano, 1987
Nivoli G. C., “Il colloquio criminologico”, in Trentini G., (a cura di), Manuale del colloquio e
dell’intervista, Mondadori, Milano, 1980
Noventa A., “L’intervista e le storie di vita nell’analisi sociologica”, Unicopli, Milano, 1982
Bisio B., “Psicologia criminale”, Bulzoni, Roma, 1975
[1] Ponti G. , “Compendio di criminologia”, Cortina Editore, Milano, 1990, pag:458,459
[2] Merzagora I. , “Il colloquio criminologico”, Unicopli, Milano, 1987, pag 18
[3] Bingham e Moore, cit. in Merzagora, I., “Il colloquio criminologico”, Unicopli, Milano,1987,
pag 27
[4] Merzagora I., 1987, Op. cit, pag28
[5] Ponti G. , 1990, Op. cit. pag 464
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
56
[6] Ponti G. , 1990, Op cit, pag 463
[7] Ibidem
[8] Ibidem pag 461
[9] Ibidem, pag 464
[10] Nivoli G. C., “Il colloquio criminologico”, in Trentini G., (a cura di), Manuale del colloquio e
dell’intervista, Modadori, Milano, 1980, pag 10
[11] Merzagora I., 1987, Op. cit, pag.83
[12] Nivoli G. C., 1980, Op. cit. pag 1112
[13] Ibidem, pag 4
[14] Noventa A., “L’intervista e le storie di vita nell’analisi sociologica”, Unicopli, Milano, 1982
[15] Merzagora I., 1987Op. cit., pag 82
[16] Merzagora I., 1987Op. cit., pag 85
[17] Nivoli G. C., 1980, Op. cit., pag27
[18] Merzagora I., 1987, Op. cit., pag.8687
[19] Merzagora I., 1987, Op. cit., pag 89
[20] Ibidem, pag 90
[21] Bisio B., “Psicologia criminale”, Bulzoni, Roma, 1975, pag. 487
[22] Ponti G., 1990, Op. cit, pag. 470
[23] Ibidem, pag.471
[24] Ibidem, pag. 471
[25] Cit. in Merzagora, !987, op. cit, pag. 120
[26] Nivoli G.C., 1980, Op. cit.
[27] Merzagora I., 1987,Op. cit., pag. 74
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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LA PERIZIA
Secondo l’art. 220 del nuovo codice di procedura penale : “la perizia è disposta quando occorre
svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono competenze tecniche, scientifiche o
artistiche”. La perizia appartiene dunque alla fase processuale della formazione della prova, che è
un momento cardine del processo e consiste in una dichiarazione tecnica, specialistica su un
elemento di prova, rese a seguito di uno specifico incarico, affidato ad una o più persone competenti
in determinate scienze o settori. Dal fatto che è un mezzo di prova discende l’indicazione che essa
non deve consistere in ipotesi, opinioni od intuizioni, ma fornire concrete ragioni, convincimenti e
giudizi che siano idonei a far comprendere ad altri, non esperti della specifica materia, in modo
coerentemente razionale, logico e dimostrativo il perché di quel giudizio. Tutto questo comporta
che le ragioni del giudizio non possono e non debbono essere speculazioni astratte, bensì dati di
fatto e constatazioni che per la loro concretezza costituiscono una prova non confutabile del
giudizio stesso. Occorre inizialmente chiarire la questione terminologica : con i termini “consulenza
tecnica” e “perizia” ci si riferisce, rispettivamente a istituti del processo civile e del processo penale,
anche se la loro funzione è, nella sostanza, identica, entrambe consistono infatti in pareri tecnici
offerti da esperti in particolari discipline. Il termine “consulenza tecnica di parte” è invece usato
indifferentemente sia nel procedimento civile che in quello penale, per indicare la prestazione
tecnica non disposta dal giudice ma eseguita su incarico dell’imputato o della parte lesa nel
procedimento penale, ovvero le parti in lite nel procedimento civile, a tutela dei loro interessi
(Gulotta, 1987). Nell’attuale ordinamento penale possono essere disposte indagini peritali sulla
persona, in diversi ambiti. Possiamo distinguerli secondo vari parametri: 1. secondo il momento in
cui viene eseguita la perizia. Nella fase di cognizione, durante le indagini preliminari, che
consentono di verificare se sussistono o meno le condizioni per promuovere un’azione penale nei
confronti di un determinato soggetto, può essere richiesta consulenza tecnica dal pubblico ministero
; perizia, dal giudice per le indagini preliminari (G.I.P.) ; perizia dibattimentale. Nella fase di
esecuzione il magistrato di sorveglianza può disporre degli accertamenti che stabiliscano : la
presenza o la persistenza della pericolosità sociale psichiatrica al momento dell’applicazione della
misura di sicurezza dell’O.P.G. (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) ; sul condannato possono essere
richieste indagini che stabiliscano le condizioni di mente attuali o sull’internato ai fini
dell’esecuzione della pena o di una misura di sicurezza diversa da quella psichiatrica (Fornari,
1997). 2. secondo la persona che è oggetto dell’indagine peritale: l’imputato in attesa di giudizio, il
reo già condannato o prosciolto per vizio totale o parziale di mente, oppure la parte offesa o il
testimone. Se si tratta di autore di reato i quesiti sono finalizzati a stabilire l’esistenza di vizio totale
o parziale di mente nell’indagato o nell’imputato al momento dei fatti ; la maturità nel minorenne
infradiciottenne, la presenza di pericolosità sociale psichatrica e le condizioni di mente in tutte le
fasi che vanno dalle indagini preliminari, al rinvio a giudizio al dibattimento . Nella fase successiva,
può essere richiesta la valutazione delle condizioni di mente del condannato ai fini dell’esecuzione
della pena detentiva, o dell’internato in vista dell’esecuzione della misura di sicurezza. La presenza
e la persistenza di pericolosità sociale può infine essere accertata al momento dell’ applicazione
della misura oltre che in una fase successiva della prosecuzione della stessa. Il medesimo discorso
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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vale per persona internata in O.P.G. al fine di valutare l’opportunità della revoca della misura
stessa. Se si tratta di vittima di reato, si dispone accertamento psichiatrico al fine di accertare :
infermità psichica nelle vittime di reati sessuali o di circonvenzione, presenza di danni psichici in
vittime di violenze sessuali e di maltrattamenti in genere. Nei confronti di un testimone si valutano
invece l’attendibilità e la capacità di testimoniare del soggetto ; nel caso in cui si trattasse di un
minorenne è prevista la possibilità che il magistrato si avvalga di un esperto di psicologia infantile
(art. 498 c.p.p.). 3. secondo la qualificazione professionale del perito: alcune perizie dovranno
essere necessariamente eseguite dallo psichiatra, dallo psicologo o dal criminologo, altre da
un’équipe che riunisce tutte queste figure. Si elencano di seguito i principali tipi di perizia, distinti
secondo l’oggetto fondamentale dell’indagine peritale. ∙Perizia sulla imputabilità: ha come oggetto
l’accertamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato al momento della commissione
del reato. Secondo l’art. 85 c.p. “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come
reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. E’ imputabile chi ha la capacità
d’intendere e di volere”. poiché nell’individuo adulto, la causa della imputabilità può essere solo
l’infermità (art. 88 e 89 c.p.), si tratta di identificare eventuali condizioni patologiche agenti
negativamente sullo stato di mente dell’imputato (Gulotta, 1987). ∙Perizia sulla imputabilità del
minorenne: riguarda la capacità di intendere e di volere dell’imputato di età compreso tra i 14 e i 18
anni, il cui elemento caratterizzante è la maturità, desunta da un esame autonomo della personalità
del minore e non procedendo ad un esame autonomo della capacità di intendere e di quella del
volere (Coviello, Patrizi, 1989). Questo significa che raramente questo tipo di perizia avrà un
carattere psichiatrico; consiste infatti in una vera e propria perizia psicologica, mirante a valutare la
personalità del minore, la sua maturazione psichica e le sue condizioni sociofamiliari. Può essere
disposta in qualsiasi fase processuale dalla magistratura minorile, ed è preferibilmente affidata a
psicologi, criminologi clinici o a neuropsichiatri dell’età evolutiva. ∙Perizia sulla imputabilità del
soggetto intossicato da alcool o da sostanze stupefacenti: il codice penale prevede e punisce, tramite
gli artt. 91 (Ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore), 92 (Ubriachezza volontaria
o colposa ovvero preordinata), 93 (Fatto commesso sotto l’azione di sostanze stupefacenti), 94
(Ubriachezza abituale ) e 95 ( Cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti) il
soggetto che commette reato in condizioni di intossicazione abituale, cronica o acuta da alcool o
sostanze stupefacenti. Nei casi di intossicazione acuta l’imputabilità viene accertata in riferimento
all’istante in cui il soggetto ha assunto la sostanza stupefacente e non al momento in cui è avvenuto
il reato, identificando la Giurisprudenza quel momento come inizio di una serie di comportamenti
che sono sfociati nel reato. Viene poi stabilito se nel momento indicato, in cui ha assunto la
sostanza, vi fosse o meno un quadro di rilevanza psicopatologica. Se esso è assente il soggetto viene
dichiarato “capace di intendere e di volere”, che ha commesso un reato “sotto l’effetto..” di una
determinata sostanza ; se risulta invece aver assunto una sostanza alcolica o stupefacente quando già
vi era strutturato un quadro psicopatologico rilevante (psicosi o intossicazione cronica), si riferisce
la condotta alla patologia del soggetto. Nei casi di intossicazione cronica il discorso è leggermente
diverso. La Giurisprudenza afferma infatti che : “l’intossicazione alcolica che esclude la capacità di
intendere e di volere è solo quella che provoca alterazioni psichiche permanenti, cioè
l’intossicazione cronica, mentre l’intossicazione transitoria, anche se acuta e patologica, non
esclude né diminuisce l’imputabilità se non nel caso sia derivata da caso fortuito e forza maggiore”.
Il perito è dunque chiamato a stabilire se l’intossicazione è o meno cronica, in questo caso dovrà
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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rispondere al quesito se la su “capacità di intendere e di volere fosse scemata o esclusa al momento
del fatto” per cui si procede. In altre parole quello che il perito deve valutare è l’accertamento della
presenza di una cronica intossicazione e la rilevanza dello stesso sulla imputabilità del soggetto,
cosa che esclude la definizione dell’abitualità per quel soggetto di assunzione delle dette sostanze.
Soltanto il magistrato può infatti pronunciarsi, dopo aver escluso l’ipotesi di intossicazione cronica
(per la cui valutazione ha disposto la perizia) sulla base di testimonianze raccolte dalla polizia
giudiziaria, rispetto all’assunzione abituale delle sostanze da parte dell’individuo in esame. Si
prenderà quindi in considerazione, quale categoria rilevante ai fini della valutazione della capacità
di intendere e di volere, l’intossicazione solamente in quei casi in cui l’abuso di sostanze abbia
prodotto un oggettivo danno organico a carico delle funzioni psichiche dell’autore di quel reato e
solamente quando esista una chiara connessione tra il reato e quel disturbo psicopatologico. Si tenga
infatti presente che in una intossicazione cronica anche a distanza di anni compaiono i segni, sotto
forma di alterazione psichiche, della intossicazione ; lo stesso non avviene nelle assunzioni abituali
delle sostanze alcoliche o stupefacenti. La Giurisprudenza non considera rilevante, ai fini di
escludere o diminuire l’imputabilità, l’intossicazione transitoria, anche se acuta e patologica, quella
abituale e la sindrome da astinenza. In quest’ultimo caso soltanto la presenza di segni di
deterioramento organico della personalità o di destrutturazione psicotica della stessa, e la possibilità
di osservare detti segni a distanza dalla sindrome di astinenza o dalla fese acuta avranno un peso in
tal senso. ∙Perizia sulla pericolosità sociale: generalmente tale quesito è posto congiuntamente a
quello sulla imputabilità. Il perito può infatti esprimersi sulla pericolosità dell’imputato solo se
questa è connessa a cause patologiche, nel caso in cui, cioè, sia stato ravvisato un quadro do
patologia di mente tale da costituire vizio totale o parziale di mente. In tal caso il perito deve
specificare se al momento dell’accertamento peritale la patologia di mente persista, in modo tale da
rendere il soggetto socialmente pericoloso. ∙Perizia sulla capacità dell’imputato di partecipazione
cosciente al processo :è una perizia sullo stato di mente attuale, rileva l’esistenza di un qualsiasi
quadro patologico di tipo psichiatrico, che possa compromettere la partecipazione cosciente al
processo (art.70 c.p.p.). ∙Perizia sulle misure alternative alla detenzione: è un tipo di accertamento
peritale che ha per oggetto la scelta, del condannato che ne abbia fatto istanza, della più idonea
misura alternativa alla detenzione in relazione alla personalità ed alla pericolosità, al fine di meglio
favorire il reinserimento sociale (Gulotta, 1987). ∙Perizia sulla infermità sopravvenuta, sulla
capacità processuale e sulla incompatibilità con il regime carcerario: anche in questo caso si tratta di
una perizia di natura psichiatrica, che può essere disposta in tutte le fasi del procedimento penale o
su condannati, sempre nell’ipotesi da accertare che sia presente l’infermità di mente. Viene
generalmente effettuata sull’imputato che si trovi “in condizione di salute particolarmente gravi che
non consentono le cure necessarie in caso di detenzione” (art. 275 c.p.p.). ∙Perizia sull’uso
personale di stupefacenti: viene disposta quando si tratta di accertare le ipotesi di non punibilità
prevista dalla legge per chi abbia detenuto stupefacenti. ∙Perizia psichiatrica sulla vittima: si può
disporre l’accertamento delle condizioni di mente di una vittima in tre diversi casi : reati sessuali ;
maltrattamenti di minori ; circonvenzione di persona incapace. Nel primo caso si deve stabilire
l’entità della coartazione psicologica e le modalità della stessa rispetto alle condizioni soggettive
della vittima ed ai rapporti che la legavano all’agente (Fornari, 1997). In termini generici il quesito
psichiatricopsicologico riguarda la presenza/assenza di condizioni di inferiorità psichica o fisica
del soggetto passivo e l’abuso di tali condizioni da parte dell’imputato. Riguardo alle situazioni di
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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maltrattamenti e di abuso in danno di minori l’indagine peritale sarà finalizzata ad accertare la
presenza o meno di un danno biologico e/o di un danno alla salute della vittima ; ad illustrare quali
siano gli effetti psicologici, di tipo negativo, dei maltrattamenti sullo sviluppo del bambino ;
mettere in luce l’eventuale presenza di patologie di mente di uno o di entrambi i genitori (si vedano
i quesiti sulla imputabilità).Tali quesiti avranno rilevanza anche in ambito civile, rispetto all’ipotesi
di decadimento della potestà genitoriale e della dichiarazione di affidabilità o di adottabilità del
minore da parte del Tribunale per i Minorenni. La perizia sulle vittime minorenni o su minorati
psichici deve inoltre evidenziare : l’idoneità psichica a rendere testimonianza ; l’intelligenza, la
personalità e l’attendibilità delle accuse ; la presenza di mitomania o di delirio o altre condizioni
psicopatologiche che possono portare a false denunce ; l’influenzabilità da parte di persone
interessate a fare dichiarare il falso (Pacciolla, Ormanni, Pacciolla, 1999). L’ambito degli abusi
sessuali ai danni di minori è quello che più ha visto svilupparsi un’integrazione tra discipline
diverse quali la Giurisprudenza, la psichiatria e la psicologia, chiamate ad agire cercando di ridurre
al minimo il disagio della vittima e di ottimizzare gli interventi dei servizi, azione possibile solo
laddove esista la collaborazione fattiva tra esperti diversi oltre che l’utilizzo di protocolli
d’intervento uniformi. L’interdisciplinarietà psicogiuridica è infatti chiamata a pronunciarsi su
cruciali problematiche quali la verifica dell’abuso sessuale ; la presenza di suggestionabilità nel
minore ; l’analisi dei diversi indicatori d’abuso ; la percezione, la memoria e il racconto del reato
sessuale ; le sensazioni di colpa, vergogna e isolamento della piccola vittima. La perizia
psichiatrica sul testimone è infine richiesta qualora, al fine di valutare le dichiarazioni del testimone,
sia necessario verificarne l’idoneità fisica o mentale a rendere testimonianza. Nei confronti di un
testimone, minore o adulto che sia, la perizia psichiatrica è disposta solo “purché sia indispensabile
e sussistano gravi e fondati indizi che la rendano necessaria” (Cass., Sez. I, 14 marzo 1980).
L’indagine psicologicopsichiatrica avrebbe, nella fattispecie, come oggetto la valutazione non della
verità processuale, di pertinenza del magistrato, ma della credibilità clinica del soggetto, vale a dirsi
della sua attendibilità, della capacità di precisione del racconto della serenità di percezione, di
conservazione e di rievocazione. In alcune situazioni il testimone può essere nel contempo anche
vittima, in questo caso verranno accertate se ci siano o meno le condizioni morbose, di immaturità,
o di caratteristiche psichiche che possono far porre in dubbio quanto dichiarato dal soggetto. In
deroga a quanto stabilito dall’art. 220 c.p.p. che vieta la cosiddetta “perizia psicologica”, la
Giurisprudenza ammette il controllo, tramite indagine peritale, dell’attendibilità del testimone,
anche in assenza di condizioni patologiche (Fornari, 1997). Il ricorso a tale strumento avrebbe come
unico scopo quello di stabilire la credibilità e l’attendibilità delle dichiarazioni del soggetto. Si
tenga presente che attendibilità non è categoria direttamente sovrapponibile a quella della verità e
che anche una persona attendibile potrebbe dichiarare il falso. Sarà quindi compito del magistrato, e
non del perito, basarsi su riscontri obiettivi per stabilire l’esatto svolgimento dei fatti. I settori su cui
verte l’indagine peritale illustrata sono quelli delle violenze sessuali, di cui l’attuale legislazione
ammette un’ampia casistica ; quello dei maltrattamenti sui minori ; l’accertamento di tipo
psicopatologico su soggetti anziani, sulla presenza o meno di un quadro involutivo senile o di un
quadro depressivo, confusionaledemenziale; su soggetti psicotici, di cui si indagherà il contenuto
delle dichiarazioni e la possibilità che esse siano frutto di un delirio con cui può esprimersi una
personalità psicotica. Il perito Come si è già avuto modo di esporre, nel caso in cui le prestazioni
vengano richieste dal giudice nell’ambito dei processi penali, la persona assume la denominazione
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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di perito; nell’ambito dei processi civili, assume la denominazione di consulente. Con la
denominazione di consulente tecnico di parte, invece, ci si riferisce alla persona che ha il compito di
definire i pareri richiesta da una delle parti in causa, che sono il pubblico ministero, gli imputati e le
parti lese. Il collegio di due o più periti viene nominato quando le indagini e le valutazioni risultano
di particolare difficoltà o richiedano conoscenze in distinte discipline (art. 221ccp.). I periti e i
consulenti dunque svolgono le loro prestazioni su incarico dei giudici o delle parti. Negli albi dei
periti, istituiti presso tutti i tribunali sono iscritte persone fornite di speciale competenza in materie
come: la psichiatria, la psicologia, la criminologia. Poiché inoltre, il compito del perito è
necessariamente connesso a gravi responsabilità, va da sé, per ovvie ragioni deontologiche ed
etiche, nessuno si appresterà a svolgere un mandato peritale se non è dotato di un approfondito
bagaglio tecnico e di maturata esperienza clinica (Bellusi, 1991). La perizia viene dunque disposta
dal giudice per le indagini preliminari, attraverso l’incidente probatorio promosso dalle parti, o dal
giudice del dibattimento o dell’esecuzione, alla presenza del pubblico ministero e dei difensori delle
parti. Il giudice, rilevate le generalità del perito, accertata la mancanza di cause di incompatibilità o
di incapacità nel o nei periti e sottolineate le responsabilità penali relative all’incarico, formula i
quesiti ed invita il perito a rendere dichiarazione sostitutiva del giuramento di rito. Il giudice per le
indagini preliminari e il magistrato del dibattimento chiedono al perito che la risposta ai quesiti,
sotto forma di relazione scritta, sia consegnata entro un termine concordato. In tal modo sia le parti
che il committente possono prenderne visione e formulare quindi le loro deduzioni. A differenza del
precedente codice di procedura penale, il consulente tecnico e il perito sono tenuti a presenziare
all’udienza preliminare o al dibattimento ed ad esporre a voce le conclusioni cui sono giunti; in
qualità di testimoni dovranno dunque affrontare la crossexamination. Disposta la perizia, il giudice
e le parti hanno facoltà di nominare i propri consulenti tecnici in numero non superiore, per
ciascuna parte, a quello dei periti. Il perito per rispondere ai quesiti a lui formulati può essere
autorizzato (art. 228 c.p.p) a prendere visione degli atti, dei documenti e delle prove prodotte dalle
parti. Può inoltre servirsi di ausiliari di sua fiducia per lo svolgimento di attività non implicanti
apprezzamenti e valutazioni. Si tenga presente che il magistrato, Peritus Peritorum, non è
necessariamente tenuto ad attenersi alle conclusioni cui il perito è pervenuto; è però tenuto a
motivare le ragioni del suo dissenso e nel caso in cui non fosse in grado di farlo “deve far ricorso a
chiarimenti dello stesso perito o disporre nuova perizia”. Al contrario non vige l’obbligo, per il
giudice, di motivare il suo dissenso nei confronti delle consulenze tecniche di parte; esse si
ritengono infatti rifiutate se il giudice aderisce alle conclusioni prodotte dal perito d’ufficio.
L’obbligatorietà della prestazione peritale
“La prestazione dell’ufficio di perito è obbligatoria” (art. 314 c.4 cpp). Non è dunque possibile
esimersi dall’incarico per ragioni di comodo; è sempre possibile, però, far presente al giudice
l’esistenza di impedimenti, affinché egli orienti la sua scelta se riterrà valide le giustificazioni del
perito, verso un altro esperto. Circostanze che dovranno indurre il perito a sollecitare il giudice
affinché conferisca l’incarico ad altri sono:
∙ L’essere prossimo congiunto con l’imputato o con un coimputato del medesimo processo;
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∙ l’essere vincolato nei confronti dell’imputato dal segreto professionale;
∙ l’aver già precedentemente in cura l’imputato o l’aver già espresso nei suoi confronti pareri o
giudizi, anche in sede non giudiziaria;
∙ l’esser già stato privatamente interpellato come consulente o esperto dal periziando, o dalle parti
civili o dai loro avvocati, con espresso riferimento alla vicenda per cui è disposta la perizia;
∙ l’aver interessi personali di qualsiasi genere nel procedimento;
∙ il non ritenersi sufficientemente esperto in materia.
Il giuramento di verità ed obbligo del segreto
Il perito è tenuto a giurare di svolgere il suo mandato nel modo migliore, fedele e veritiero, senza
altro scopo che quello di far conoscere la verità, nel rispetto del segreto su tutte le operazioni
peritali. L’irregolare svolgimento delle operazioni peritali o il mancato espletamento delle
operazioni stesse può esporre a responsabilità penali. Il codice penale prevede poi espressamente il
reato di falso in perizia, quando il perito dia pareri mendaci o affermi fatti non veritieri (art. 373
c.p): è prevista per questo reato la reclusione da 6 mesi a 3 anni oltre che all’interdizione dai
pubblici uffici e dalla professione. Sono previste sanzioni anche per la violazione dell’obbligo del
segreto (art.226 c.p.p).
Il rapporto con il giudice
“Il giudice dirige la perizia e, se lo ritiene opportuno, vi assiste” (art.317 cpp). Il perito, in linea di
principio deve sentirsi nella veste di collaboratore del giudice, nel senso che entrambi mirano, anche
se in ruoli diversi, all’accertamento della verità. Il perito, pur mantenendo la sua autonomia tecnica
di giudizio, la sua libertà di decisione e di interpretazione dei dati acquisiti deve via via rendere
partecipe il giudice dei suoi risultati, illustrargli le conclusioni verso cui è orientato, nonché le sue
perplessità, anche in funzione delle conseguenze giudiziarie che possono derivare dalle sue
conclusioni. A sua volta il giudice dovrà informare il perito degli aspetti fondamentali e dei risvolti
del processo, dovrà inoltre fornirgli ogni utile notizia già acquisita sulla persona da esaminare.
I rapporti con i consulenti di parte
La legge dà la possibilità all’imputato ed alla parte civile di nominare loro stessi dei consulenti per
assistere alla perizia. Il perito dovrà avere sempre ben presente che solo a lui è affidato il compito di
svolgere le indagini, mentre i consulenti possono solo assistervi. In un sistema inquisitorio, come
quello utilizzato nei nostri tribunali, è del giudice l’iniziativa per la ricerca delle prove ed è sempre
lui che dispone la perizia eleggendo un proprio perito, che diviene così un suo diretto collaboratore
ed una sua emanazione, situato al di sopra delle parti. Da ciò deriva il diverso ruolo che nel nostro
sistema processuale ha la difesa, e con essa il consulente di parte: egli svolge il ruolo di osservatore
critico dell’operato del perito d’ufficio, vigila affinché egli agisca secondo scienza e secondo verità,
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bada che non compia errori, osserva le operazioni peritali con pochi poteri e pochissima iniziativa,
non può intervenire nella discussione dialettica con il perito.
La perizia psichiatrica
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Rocco), “non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la
tendenza a delinquere, il carattere e la professionalità nel reo, e, in genere, le qualità psichiche non
dipendenti da cause patologiche”. Di conseguenza la perizia sulle qualità psichiche è dunque
consentita soltanto nell’ambito psicopatologico, tramite appunto perizia psichiatrica. Questo divieto
non è valido nel processo penale a carico di minorenni (art. 9, DPR 448) e nella fase esecutiva della
pena. In particolare la perizia psichiatrica sull’autore di reato deve rispondere a due principali
quesiti:
∙ se l’imputato, al momento del delitto, si trovava, a causa di una infermità, in uno stato di mente
tale che la sua capacità di intendere e di volere era esclusa ovvero gravemente diminuita (art. 85, 88,
89 c.p.), di cui il quesito: “dica il perito, esaminati gli atti di causa, visitato (nome e cognome),
eseguiti tutti gli accertamenti clinici e di laboratorio che riterrà necessari ed opportuni (..........),
quali fossero le condizioni di mente di (nome e cognome) al momento del fatto per cui si procede;
in specie, se la sua capacità di intendere e di volere fosse, per infermità, esclusa o grandemente
scemata”.
∙ se l’imputato, a causa della sua infermità, potrà commettere altri delitti in futuro, e quindi se sia o
meno socialmente pericoloso (art. 203 c.p.), di cui il quesito: “in caso di accertato vizio di mente,
dica altresì il perito se (nome e cognome ) sia da ritenersi persona socialmente pericolosa”.
∙ quali sono le condizioni di mente dell’indagato nel corso delle indagini preliminari o dell’imputato
dopo il rinvio a giudizio, “in ogni stato e grado del processo”, di cui il quesito: “dica il perito,
esaminati gli atti di causa (.............) quali siano le attuali condizioni di mente di (nome e cognome )
e, in particolare, se sia o meno in grado di partecipare coscientemente al processo”. Il giudice può
inoltre formulare un ulteriore quesito: ∙ “dica il perito se esistano indicazioni terapeutiche e quali
esse siano”. Viene da sé che l’autore di reato sarà punibile solo se risulterà imputabile, sarà
sottoposto a misure di sicurezza solo nel caso in cui risulti socialmente pericoloso. Questo ultimo
caso comporta l’applicazione della misura di sicurezza psichiatrica, che si traduce, nei casi di vizio
parziale, nell’internamento in Casa di Cura e Custodia (C.C.C.) a seguito della pena della
reclusione, mentre in quelli di vizio totale, nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (O.P.G.), al posto
della reclusione. Di per sé, considerati da soli, il vizio parziale comporterebbe la riduzione della
pena di un terzo, il vizio totale l’esenzione totale. Per quanto riguarda il quesito sulla pericolosità
sociale, si è già sottolineato come sia correlato alla questione della infermità mentale; si risponderà
cioè a tale quesito solo nel caso in cui venga rilevato un quadro di patologia di mente che costituisca
vizio totale o parziale. In tal caso quello che il perito deve accertare è se al momento dell’indagine
peritale la patologia di mente persista e sia tale da rendere il soggetto socialmente pericoloso.
Escluso il vizio di mente, il perito non deve invece rispondere al quesito circa la pericolosità
sociale. In questo caso la formula utilizzata sarà: “l’aver escluso l’esistenza di patologia di mente
pregressa o attuale rilevante a fini forensi mi esonera dal rispondere al quesito circa la pericolosità
sociale del periziando”. La metodologia utilizzata, è di tipo clinico/criminologica, completa di
esami clinici, psicologici e psicodiagnostici; fondamentale è l’utilizzo del colloquio clinico e dei
reattivi mentali. Per eseguire l’indagine della personalità del soggetto occorre, innanzi tutto,
raccogliere, o analizzare la storia personale del soggetto, o anamnesi, così da avere presente la linea
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complessi (Passi Tognazzo, 1978). Il potere discrezionale del giudice al momento dell’emanazione
della sentenza ed ai fini dell’applicazione della pena, tiene conto dei seguenti obiettivi:
∙ esaminare la personalità del reo per valutare i motivi che lo hanno indotto a commettere il reato e
la motivazione della sua condotta; ∙ valutare il suo carattere, i suoi precedenti penali e, in genere, la
vita e la condotta anteriore al delitto, la condotta contemporanea e successiva al reato, le condizioni
di vita individuale, familiare e sociale (art. 133 c.p.);
∙ ricostruire la genesi e la dinamica del delitto e fornire delle indicazioni utili per la
programmazione eventuale del trattamento attraverso la pena detentiva o le misure alternative e per
la prognosi concernente l’evoluzione futura del caso esaminato. Definita la questione
dell’imputabilità del soggetto con disturbi psicopatologici, si dovrà valutare questi disturbi secondo
la prospettiva clinica della capacità a delinquere, allo scopo di offrire al magistrato elementi
utilizzabili per la formulazione di un programma di trattamento efficace e adeguato elle particolari
esigenze del caso individuale. La perizia psichiatrica, da un passato legato ad una pratica della
psichiatria tradizionale, basata su pregiudizi patologici, e un’attuale orientamento medicolegale
psichiatrico, riferito alla valutazione dei dati psicopatologici e attento alle interpretazioni delle leggi
penali in vigore (sulla imputabilità/responsabilità/pericolosità sociale) sta sempre più evolvendo
verso un avvenire criminologico, in quanto perizia sulla personalità unica (psicologica, psichiatrica
e medicolegale), finalizzata alla comprensione clinicofenomenologica dei processi criminogeni in
quanto motivazione e dinamica del delitto, e nel contempo finalizzata alle esigenze di trattamento,
considerato come promozione e riabilitazione della personalità.
L’imputabilità e la responsabilità penale
In fase di cognizione la perizia che viene effettuata sull’autore di reato è sempre di tipo psichiatrico.
Questo in considerazione del fatto che ogni persona viene ritenuta responsabile delle proprie azioni,
salvo i casi previsti dalla legge illustrati dall’art. 85 c.p. “ Nessuno può essere punito per un fatto
preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. E’
imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”. Regolano l’imputabilità dell’autore di reato i
successivi articoli : art. 88 c.p. “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto era,
per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità d’intendere e di volere” ; art. 89 c.p.
“Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare
grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, risponde del reato commesso ;
ma la pena è diminuita”. Questo significa che la punibilità di un soggetto deve necessariamente
derivare dall’accertamento della sua responsabilità e della sua imputabilità, dato che è punibile
soltanto chi è imputabile. Ed è imputabile soltanto chi ha la capacità d’intendere e di volere. Si
definisce capacità di intendere, quella che il soggetto aveva, al momento del fatto di comprendere il
valore e il disvalore sociale di quell’azione ; come capacità di volere quella di autodeterminare il
proprio comportamento in vista del compimento o dell’evitamento di quell’azione che si è costituita
in reato. Perché un soggetto possa essere considerato imputabile, bisogna che siano presenti
entrambe, altrimenti , mancando od essendo una delle due grandemente scemata, si dovrà
considerare l’ipotesi del vizio totale (art. 88 c.p. ) o parziale di mente (89 c.p. ) (Fornari, 1997). Un
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soggetto per essere imputabile deve rispondere a determinati requisiti sia fisici che psichici che
escludano il vizio totale di mente (art.88 c.p.), il vizio parziale di mente (art. 89 c.p.), l’ubriachezza
accidentale (art. 91 c.p.), la stupefazione accidentale (art.93 c.p.), l’intossicazione acuta da alcool o
da sostanze stupefacenti, solo se piena e derivata da caso fortuito o da forza maggiore (artt. 91 e 93
c.p.), il sordomutismo (art.96 c.p.), la cui rilevanza va determinata caso per caso e la minore età, se
compresa tra i 14 e i 18 anni e se al momento dei fatti erano incapaci di intendere e di volere (art. 97
c.p.). Secondo l’ordinamento giuridico italiano “è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso
il fatto, aveva compiuto 14 anni, ma non ancora i 18, se aveva la capacità di intendere e di volere,
ma la pena è diminuita” (art. 98 c.p.). Per il maggiorenne solo l’infermità può abolire la capacità di
intendere e di volere, mentre per l’infradiciottenne il requisito non è richiesto, ma assume centralità
il livello di maturazione del soggetto: i disturbi del carattere, dell’affettività, o qualsiasi condizione
anche ambientale che possa interferire con l’adeguamento sociale del giovane e sui processi di
socializzazione. In altre parole, a differenza dell’adulto, nei soggetti compresi tra i 14 e i 18 anni di
età, la non imputabilità consegue dunque ad una valutazione singolare, caso per caso, che accerti lo
sviluppo in senso psicosociale, rinviando alla fase evolutiva, al grado di maturità raggiunta, sia
intellettiva, sia affettiva, oltre che ad un sufficiente equilibrio morale tale da permettere una
valutazione etica delle proprie azioni, di distinguere il lecito dall’illecito, il giusto dall’ingiusto, il
bene dal male. Sia nell’adulto che nel minore si può porre l’ipotesi del vizio totale di mente, da
causa morbosa, con diversa formula di proscioglimento di quella dell’art. 98 c.p., o l’ipotesi del
vizio parziale, con ulteriore diminuzione della pena. Inoltre, per un minore riconosciuto capace di
intendere e di volere, la pena è sempre ridotta di un terzo e, nei casi opportuni, sono previsti dalla
legge altri benefici oltre ad una larga utilizzazione di misure alternative alla detenzione.
La consulenza tecnica psicologica
Approfondisce specificamente la personalità del soggetto, indagandone le potenzialità, l’efficacia
intellettuale, il tipo di intelligenza, la dotazione affettiva, il controllo, l’abilità e gli atteggiamenti
sociali. Oltre a questo cerca di studiare a fondo le complesse relazioni interpersonali che struttura un
individuo nel proprio ambiente di vita. La personalità viene, in, questo caso indagata, tramite diversi
strumenti, a seconda dell’orientamento teorico del perito. Lo strumento principale, comune a tutte le
impostazioni psicologiche, è il colloquio clinico. Secondo l’approccio psicosociale questo potrebbe
essere orientato ad approfondire e focalizzare aspetti anamnestici e clinici diversi, diretti a
conoscere la complessità dell’individuo, il suo Sé attuale, i suoi processi di costruzione dell’ identità
(Coviello, Patrizi, 1989). Un particolare tipo di consulenza tecnica psicologica è quella che viene
richiesta nel corso di una causa di separazione o divorzio, quando il giudice, venutosi a creare un
contrasto tra le parti variamente orientato circa l’affidamento all’uno o all’altro dei figli, ai fini di
pervenire ad una composizione del conflitto coniugale per determinare il migliore affidamento dei
figli, ha facoltà di avvalersi di esperti dotati di cognizioni in ambito psicologico, anche se essi non
debbono essere necessariamente degli psicologi. In questo caso la persona con queste competenze
vengono chiamate consulenti tecnici di ufficio (CTU). L’indagine viene affidata a psicologi, o a
psichiatri da soli o in collegio tra loro, soprattutto nelle situazioni in cui vi è il sospetto o si abbia
notizia dell’esistenza di una patologia mentale di uno dei due coniugi. La perizia viene avviata
dall’ordinanza di nomina emessa dal giudice, segue poi il giuramento del perito e la comunicazione
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del/dei quesiti cui il perito deve rispondere in presenza del giudice, degli attori, degli avvocati, dei
periti di parte (CTP), se sono stati nominati. Il CTU è tenuto, pena la perdita di valore della
consulenza, a rendere noto, all’inizio delle operazioni peritali, lo svolgimento delle stesse, rispetto
ai tempi, le modalità e i luoghi. Il CTU ha facoltà di avvalersi di collaboratori esperti per particolari
indagini. Il CTU deve, secondo il principio del contraddittorio, far sì che i CTP siano sempre
presenti. Nell’espletare l’incarico peritale è importante che il perito tenga sempre presente quale sia
il quesito posto dal giudice e che le conclusioni a cui lo stesso è giunto siano sempre motivate. Allo
stesso modo dovrà essere chiaro il procedimento utilizzato nell’esame degli attori e dei minori, oltre
che il loro ambiente di vita. A tale scopo, verrà illustrato il contenuto dei colloqui effettuati, i
risultati della somministrazione dei test, le informazioni ottenute tramite le visite effettuate presso il
domicilio ove risiedono i minori, le testimonianze raccolte, eventualmente presso parenti o vicini. Il
quesito, in tali casi è generalmente riferito a quale dei due genitori risulti più idoneo per
l’educazione e la crescita della prole ; nello specifico si potrà suggerire il periodo di tempo che il/i
minori possono trascorrere con il genitore non affidatario ; si consiglieranno le modalità
comportamentali più idonee, da parte dei genitori, alla particolare fase di sviluppo del minore o, a
seconda dei casi, si potrà suggerire un affidamento congiunto o alternata, piuttosto che
monogenitoriale. Il CTU, le cui azioni sono volte ad assicurare la soddisfazione degli interessi del
minore, deve offrire un approfondimento della sua condizione psicologica, del grado di sviluppo
affettivo, cognitivo delle modalità di relazioni all’interno al suo nucleo familiare. Il CTU deve
tenere presente che le parti tenderanno a identificare la sua figura con quella del giudice e a mettere
dunque in atto delle modalità difensive nei suoi confronti. Lo stile difensivo è ravvisabile del resto
in ogni situazione coatta, dove c’è un inviante e in cui manca dunque spontaneità. Uno Stile tipico è
quello di tipo Evasivo , in cui non vengono dette determinate cose e in cui si risponde cercando di
aggirare l’ostacolo ; altro atteggiamento è quello della Compiacenza e sottomissione, che dietro
un’apparente atteggiamento accomodante e a tratti sottomesso cerca stima e accettazione
nell’interlocutore, non permettendogli di arrivare a contatto con la realtà in esame. Altre persone
adottano come atteggiamento di difesa la Seduzione, con atteggiamenti tali da attirare simpatia o
compassione, in modo da portare il CTU dalla loro parte (Ciofi, 1998). A prescindere da qualsiasi
impostazione teorica di riferimento ogni CTU prevede l’utilizzo del colloquio clinico. Questo dovrà
essere abbastanza strutturato da indagare sia la struttura di personalità delle parti in causa, a partire
dalla famiglia di origine alla storia della formazione della coppia, vista dalle due angolazioni
diverse, alla nascita dei figli, al vissuto legato a tale evento, all’emergere della crisi, al fallimento
dei tentativi per risolverla. L’indagine psicologicoclinica deve estendersi anche allo “stile di vita di
entrambi i genitori, alle compensazioni adottate, alle mete perseguite, ai vissuti nei confronti dei
figli, all’inserimento sociale oltre che lavorativo. Nelle perizie psichiatriche o qualora vi fosse il
quesito relativo alla presenza di una eventuale patologia di mente in uno o in entrambi i genitori, è
opportuno riportare inizialmente il risultato dell’indagine che documenti o escluda la patologia. Si
passerà poi all’indagine degli effetti che questo disturbo ha sulla idoneità educativa del genitore che
chiede l’affidamento. Per quanto riguarda i bambini invece, più sono piccoli e più il colloquio
appare strumento inadeguato a raccogliere informazioni circa la sua personalità. Il colloquio clinico
può essere integrato dall’applicazione di reattivi mentali, usati soprattutto quando si tratta di
esaminare dei bambini per i quali può essere inopportuno l’approfondimento, nel colloquio, di certe
problematiche ansiogene quali potrebbero essere ad esempio i rapporti con i genitori. Il ricorso ai
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reattivi di tipo proiettivo risponde proprio a questa opportunità (De Leo, 1995). Queste informazioni
verranno poi integrate da quelle emerse a seguito dell’indagine ambientale dall’audizione di terzi
eventuali con cui la coppia e i minori sono in contatto. Una volta nominato dal giudice un CTU, e
soltanto in questo caso, è diritto delle parti nominare dei periti di loro fiducia, scelti a loro
discrezione tra gli iscritti ad albi oppure tra i non iscritti. Il giudice ha facoltà di non prendere in
considerazione le argomentazioni del CTP ; ma è tenuto a prendere in esame le censure che esso
eventualmente muova all’operato del consulente d’ufficio. E’ importante ricordare che il perito e i
consulenti di parte sono tenuti a collaborare, essendo l’unico fine del loro operare quello di tutelare
il o i minori e che essi si debbano adoperare affinché venga mantenuto il contatto anche con il
genitore non affidatario, avendo il minore “il diritto ad essere educato nell’ambito della propria
famiglia.
La perizia psicologica in campo penale minorile
Secondo l’articolo 98 c.p. l’imputabilità del minore di età compresa fra i 14 e i 18 anni non è
presunta, ma va verificata caso per caso, in relazione alla capacità di intendere e di volere al
momento del fattoreato commesso. Tale capacità deve essere stabilita dal giudice che procede, il
quale può avvalersi di professionisti presenti nelle strutture minorili o di esperti esterni. In
quest’ultimo caso si parla di perizia ed è finalizzata a prendere decisioni giudiziarie connesse ad
alcuni degli istituti introdotti dal nuovo processo minorile (D.P.R 448/88): la pericolosità sociale, la
rilevanza sociale del fatto (art. 17); la messa alla prova (art.28); le adeguate misure penali (art. 30);
gli eventuali provvedimenti civili (art. 32 c.4). La perizia si caratterizza così come laboratorio di
ricerca che vede il perito ed il ragazzo impegnati in un lavoro di “cocostruzione”, di racconti e
narrazioni di un evento passato, nonché di una valutazione che unisce dimensioni cliniche e
dimensioni giudiziarie (Palomba, 1991). Mentre il ragazzo infatti, è portato a rivisitare i fatti e i
percorsi mentali che hanno indirizzato ed accompagnato il suo agire, il perito osserva e segue la
ricostruzione, dotandola di senso ai fini clinici e peritali. E’ all’interno di questo laboratorio che il
perito è chiamato a valutare la responsabilità penale dell’imputato, ad esprimere una prognosi sul
suo comportamento, a formulare pareri riguardo agli interventi processuali più idonei. La
formulazione esplicita più completa in tal senso la troviamo al comma 1 dell’art. 9: “il pubblico
ministero ed il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari,
sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne l’imputabilità ed il grado di responsabilità,
valutare la rilevanza sociale del fatto nonché disporre le adeguate misure penali e adottare gli
eventuali provvedimenti civili”. In deroga a quanto stabilito dall’art. 220 c.p.p., la perizia nella
minore età è, più che una perizia psichiatrica, un accertamento di tipo psicologico, essendo centrale
la valutazione della maturità, piuttosto che di un quadro di patologia di mente. Elemento
caratterizzante la capacità di intendere e di volere è quello della maturità, desunta da un esame
completo della personalità del minore e non procedendo ad un esame autonomo della capacità di
intendere e di quella del volere. La capacità di intendere e di volere non deve essere valutata in
astratto, ma bensì in relazione al momento dei fatti e allo specifico reato commesso. (Coviello,
Patrizi, 1989). Nella stragrande maggioranza dei casi infatti, quello che il giudice chiede è
l’osservazione della personalità del minore, il carattere, la capacita di tenere presenti dei valori etici
e morali, l’attitudine a distinguere il bene dal male, il lecito dall’illecito, oltre alla capacità di
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determinare sé stessi rispetto alle proprie scelte ed ai propri comportamenti. La nozione di maturità
è poi abbastanza ampia da permettere di riferirla anche alla rete di relazioni familiari ed
extrafamiliari ed alla presenza di eventuali problematiche a tale livello, o, in senso più lato, alla sua
appartenenza ad un contesto sociale disgregato ed emarginato. In altre parole è possibile identificare
la “immaturità” del minore sia nell’esistenza di deficit di tipo biologicopsicologico, oppure in
problematiche di tipo relazionale o ancora, di tipo socio ambientale. Il perito deve inoltre valutare
se il minore in questione è provvisto di quelle generiche capacità di cui la giurisprudenza
presuppone che un minore “maturo” debba essere dotato. Tale valutazione deve necessariamente
essere riferita al momento dei fatti ed alle caratteristiche del reato commesso. Il perito viene
nominato dal giudice che sceglie tra gli iscritti negli appositi albi o tra persone fornite di particolare
competenza nella specifica disciplina (art. 221 cpp c.1). Disposta la perizia, il pubblico ministero e
le parti private hanno la facoltà di nominare i propri consulenti tecnici in numero non superiore, per
ciascuna parte, a quello dei periti (art. 225 cpp c.1). Quando non è stata disposta la perizia, ciascuna
parte può nominare, in numero non superiore a due, i propri consulenti tecnici, i quali possono
esporre al giudice il proprio parere (art. 223 cpp). Nel disporre l’incarico vengono anche stabiliti i
termini di inizio e di conclusione delle operazioni peritali e della consegna della relazione, che può
anche essere resa verbalmente in situazione di incidente probatorio e in corso di dibattimento,
costituendo mezzo di prova. I quesiti possono riguardare: ∙ l’imputabilità ed il grado di
responsabilità (art. 98 c.p.); ∙ l’accertamento del vizio totale o parziale di mente (ex artt. 88 e 89 ) ∙
la pericolosità sociale (are. 203 c.p.); ∙ la rilevanza sociale del fatto (art. 27 D.P.R. 488/88); ∙ la
sospensione del processo e la messa alla prova (art. 2829 D.P.R. 448/88); ∙ le adeguate misure
penali (art. 30 D.P.R. 448/88); ∙ gli eventuali provvedimenti civili (art. 32 D.P.R. 448/88); ∙
l’opportunità di formulare prescrizioni, di effettuare progetti di conciliazione con la vittima (art. 20
D.P.R. 448/88). Il perito è quindi chiamato ad esprimere un parere che può essere articolato su più
obiettivi di conoscenza: le capacità attive al momento dei fatti, gli sviluppi ad esso successivi e la
prospettiva futura, i nessi di funzionalità fra capacità personali e interventi processuali,
l’opportunità di interventi anche preventivi, oltre i confini delle strette esigenze di natura penale.
Queste esigenze definiscono anche la struttura interna all’agire peritale, che deve realizzare
un’articolazione idonea a rappresentare la complessità della situazione del minore, sotto il profilo
personale, familiare, socioambientale e rispetto ai fatti di cui è imputato, adottando come criterio di
sintesi, la concettualizzazione e le finalità di ordine giuridicogiudiziario. Una proposta in questo
senso prevede: ∙ l’analisi della documentazione esistente: atti processuali, relazioni elaborate da
altri esperti in occasione di eventuali precedenti contatti del minore con la giustizia, altre relazioni
presenti nel fascicolo personale come per esempio quella dei servizi sociali, ecc.; ∙ i contatti
esplorativi con gli operatori della giustizia che hanno in carico il caso ed eventualmente con gli
operatori della scuola, dell’Ente locale, ecc. che conoscono il ragazzo; ∙ gli incontri clinici con il
minore e con la sua famiglia; ∙ la somministrazione eventuale dei test; ∙ le discussioni e le
valutazioni congiunte con eventuali altri periti e con gli operatori che svolgono il caso ( De Leo,
1995). Di due ordini sono le difficoltà che si incontrano generalmente: la personalità del minore, i
suoi livelli di consapevolezza rispetto al comportamentoreato e alle conseguenze dello stesso
devono essere valutati tenendo anche presente quello che ne deriva, nei termini di risvolti pratici,
penali delle conclusioni espresse. La seconda riguarda il significato di categoria psicologiche come
quelle di maturità/immaturità, concetto difficilmente collegabile e non direttamente sovrapponibile
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a quello di capacità/incapacità di intendere e di volere. Lo psicologo deve dunque essere in grado di
confrontare le richieste giuridiche, rigidamente formulate, con un sapere fluido com’è quello
psicologico, traducendo quindi un quadro di personalità, ricco di sfumature in termini giuridici.
L’incarico
Il giudice può disporre la perizia qualora lo ritenga necessario per ottenere una conoscenza più
articolata del minore. Il perito, nominato d’ufficio, viene scelto dal giudice tra “le persone che egli
reputa idonee, e preferibilmente tra coloro che hanno conseguito la qualifica di specialista” (art. 314
c.p.p.). Nel giorno e nel luogo stabiliti il perito presta giuramento con il quale si impegna ad
assolvere all’incarico al solo scopo di far conoscere la verità e a mantenere il segreto sulle indagini
peritali. Il giudice informa il perito dell’oggetto dell’incarico e pone i quesiti; viene poi fissato il
termine per la presentazione della relazione scritta, termine generalmente non superiore ai sessanta
giorni. In caso di bisogno è possibile chiedere una proroga.
Schema di indagine peritale
Secondo l’impostazione psicosociale l’indagine della personalità del minore e la spiegazione dei
fatti di cui è imputato devono tenere conto sia dei suoi livelli di sviluppo che dei suoi rapporti
interpersonali, che del significato che il soggetto dà agli stessi. Il lavoro si articola in diverse fasi:
1. lo psicologo esamina gli atti forniti dal giudice relativi all’inchiesta giudiziaria per conoscere il
reato di cui il minore è imputato, gli interrogatori cui è stato sottoposto e le dichiarazioni che ha
prodotto, Analizzerà anche il materiale relativo alle indagine sociofamiliare, realizzata
generalmente dai servizi sociali. 2. il perito incontra il minore in diversi colloqui, nel corso dei
quali può somministrare diversi strumenti psicodiagnostici, i familiari, i genitori assieme al minore.
Può esser utile anche osservare il ragazzo nel suo ambiente di vita o, nel caso in cui fosse detenuto,
nel corso delle interazioni con i compagni e gli operatori della Sezione di Custodia Cautelare. E’
bene prevedere anche un incontro, nel caso in cui ci fosse, con l’assistente sociale che ha seguito il
minore o la sua famiglia. 3. i dati devono essere rielaborati, spiegati in termini psicologici, tradotti
in termini giuridici e trasformati in conclusioni per rispondere ai quesiti posti dal giudice.
Strumenti
Il perito, dietro autorizzazione del magistrato può espletare le indagini peritali con le tecniche e gli
strumenti che ritiene opportuni, a seconda del proprio orientamento teorico. Il colloquio clinico può
essere orientato ad approfondire aspetti anamnestici, le relazioni interpersonali, la progettualità e,
una parte rilevante per analizzare le spiegazioni e le ragioni che il ragazzo fornisce dell’azione
deviante. Si privilegiano le tecniche autodescrittive, che permettono un’autonoma presentazione del
Sé, una cosciente esposizione degli aspetti della propria vita, che hanno per il minore assunto una
maggiore importanza. Una tecnica utile può essere quella del resoconto della storia di vita, in cui si
chiede al ragazzo: “raccontami la tua storia”. Il ragazzo può, in questo modo decidere da che parte
incominciare a parlare, le aree da toccare, operando dunque una selezione che sarà per il perito
informativa dei processi emotivi e cognitivi del minore. Negli incontri successivi sarà opportuno
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invece approfondire aspetti già presentati o lasciati in sospeso dal ragazzo, utilizzando domande
dirette, volte alla conoscenza del suo ambiente di vita, all’approfondimento dei rapporti con i
familiari, delle sue relazioni extrafamiliari, della carriera scolastica, dell’attività lavorativa e del
tempo libero. Si indagherà quindi come il minore si vede, come sente di essere visto dagli altri, da
coloro cioè che sono per lui significativi. In questo modo si avrà una visione completa di come si va
costituendo la percezione che il minore ha del proprio Sé, di quali sono i processi di costruzione
della sua identità, del contributo che su di essa hanno i fedback (informazioni di ritorno) che
provengono dalle interazioni sociali. Si può quindi procedere alla rilevazione del resoconto del fatto
di cui è imputato (“Perché sei qui?”), che possa anche chiarire al minore il senso del lavoro del
perito. Le domande saranno dunque volte all’indagine di come il giovane si rappresenta
cognitivamente ed emotivamente i fatti, di come li ricostruisce e li spiega, del significato e delle
ragioni che dà al suo comportamento. A tal fine si cercherà di soffermarsi sulle intenzioni che
hanno preceduto e seguito il fatto, sulle emozioni provate, sui vissuti attuali rispetto all’azione
deviante. E’ inoltre importante indagare se il minore è in grado, e se lo era al momento dei fatti, di
rappresentarsi le conseguenze delle proprie azioni, e se se ne assume pienamente la paternità e la
responsabilità. L’ultimo incontro è di chiarificazione e permette di approfondire, di indagare sulle
potenzialità, sul “positivo” del minore, sulle prospettive di vita che si rappresenta (Coviello, Patrizi,
1989). Il colloquio con i familiari invece permette di vedere in che contesto si è sviluppata l’attuale
personalità del minore, prima ancora come si è costituito il nucleo dalla coppia in poi, quali sono gli
eventi significativi dell’infanzia del minore. E’ importante riservare una parte del colloquio per
vedere come i genitori vedono la situazione del figlio, “cosa si può fare per lui”, così da cogliere
l’esistenza all’interno del nucleo familiare di risorse sfruttabili per il lavoro da effettuare con il
minore, oltre alle capacità di cambiamento della famiglia stessa, rispetto al momento delicato in cui
viene a trovarsi il ragazzo. Gli strumenti diagnostici invece possono essere utili per rilevare
problematiche non emerse dal colloquio, soprattutto con soggetti particolarmente chiusi. A tale
riguardo esiste un ampio dibattito relativo alla reale utilità degli stessi. Se da un lato infatti se ne
sottolinea il valore oggettivo e l’obiettività della diagnosi che se ne ricaverebbe, dall’altra si teme
che il contesto peritale, non spontaneo e denso di ansie e preoccupazioni relative alla propria
posizione giudiziaria, rappresenti una situazione molto lontana da quella di taratura. È tuttavia
indubbia la possibilità che i test danno di ricavare informazioni supplementari, di approfondire i dati
già emersi in altra maniera. Tra i test usati vi sono quelli grafici. Questi strumenti utilizzano
l’attività grafica come medium di trasmissione di sentimenti, affetti, pensieri, rappresentazioni, sono
cioè finalizzati a considerare le modalità con cui il disegno e tratti specifici di esso esprimono la
personalità del soggetto (Lis, 1993). Tra questi, il più noto è sicuramente il “test del Disegno della
figura umana” di K.Machover (1949). Alla base dell’interpretazione di questo test vi è l’assunto che
il disegno della figura umana rappresenti la “proiezione” dell’immagine del proprio corpo, o ancor
meglio del proprio io. L’ambiguità dello stimolo consegna, “Disegna una persona”, lascerebbe
infatti libertà di scelta sul personaggio da rappresentare, sul suo sesso, l’età, l’espressione, la
posizione, la dimensione e così via, tanto da rendere possibile la proiezione dell’immagine di sé,
della autostima, dei propri atteggiamenti e verso l’ambiente e verso gli altri significativi che tale
ambiente occupano. Altro strumento di questo genere molto usato è il “test del disegno della
Famiglia” di Corman (1970), che permette di rilevare il modo in cui il minore vive i rapporti
affettivi con i familiari, i sentimenti, i desideri, i conflitti, gli atteggiamenti verso quelle persone che
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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più hanno avuto importanza nello sviluppo della sua personalità. Può dare informazioni utili anche
l’utilizzo del ”Reattivo delle frasi da completare” di Saks, strumento che permette di avere
informazioni clinicamente significative su quattro aree rappresentative dell'adattamento del soggetto
all'ambiente, sul tipo di rapporto interpersonale che il soggetto ha strutturato nella sua dinamica
esistenziale, nonché del concetto che ha di sé, delle proprie aspirazioni, dei propri timori, sensi di
colpa e ansie di vario genere ( Riva, 1989). Il “test dell’ Adjective Check List” invece, è un test di
personalità che si presenta come un metodo standardizzato e pratico di descrizione degli attributi
personali del soggetto (Gough, 1965). In altre parole, tale strumento tramite l’utilizzo di una lista di
aggettivi (300), permette di cogliere le modalità con cui il soggetto rappresenta se stesso, i propri
bisogni, e le proprie potenzialità.
Stesura della relazione finale
Sempre utilizzando l’ottica psicosociale la relazione di perizia può assumere questa struttura: ∙
L’incarico: modalità in cui è avvenuto, quesiti posti dal giudice, termine di consegna della
relazione, eventuale richiesta di avvalersi di un collaboratore. ∙ La metodologia: esplicitazione del
metodo utilizzato e di come si articola, numero degli incontri, strumenti utilizzati. ∙ L’anamnesi:
analisi del contesto di appartenenza del minore e della sua storia personale. Questa parte tratterà poi
diverse aree: “la famiglia”, dove si evidenzia la storia del nucleo familiare, le relazioni all’interno
dello stesso, le regole interne, la capacità di cambiamento rispetto alla fase evolutiva del minore; “la
carriera deviante”, che evidenzia i precedenti penali, se ve ne sono stati, “la scuola”, che illustra la
carriera scolastica del minore, i suoi risultati, le eventuali interruzioni; “il lavoro e la progettualità”,
che indica la capacità del minore di impegnarsi in un’attività, di formulare dei progetti realizzabili;
“le amicizie e i rapporti sentimentali”, che mette in luce quali sono le relazioni significative, per il
minore, al di fuori della famiglia. ∙ La personalità del minore. Trattazione dei processi di sviluppo
dell’identità del minore, della formazione del suo Sé, dove trovano posto i risultati dell’indagine
psicodiagnostica oltre alla spiegazione che egli da ai fatti di cui è imputato. ∙ Aspetti
pscopatologici, nel caso in cui si fossero riscontrati. In questo caso sarà opportuno sentire il parere
di esperti neuropsichiatri o medici specialisti. ∙ Partecipazione psicologica ai fatti: vengono
ricostruiti i fatti con l’ausilio del racconto del minore, si cercherà di leggerli alla luce delle
spiegazioni e delle ragioni che fornisce del suo comportamento; delle regole implicite che ha
seguito; dell’organizzazione che si è dato, degli scopi che si prefiggeva. Si indaga inoltre la
responsabilità che si assume rispetto all’azione e rispetto alle conseguenze che da essa sono
derivate. ∙ Discussione peritale: fornisce un quadro di lettura, riassuntivo e di senso delle parti
precedenti, collega i significati dell’azione con i quesiti del giudice, anticipando le risposte agli
stessi. ∙ Conclusioni: analizza gli aspetti psicologici relativi ai fatti, le implicazioni giuridiche, i
concetti psicologici relativi alle categorie giuridiche. ∙ Risposte ai quesiti (Coviello, Patrizi, 1989)
Conseguenze pratiche
Nel momento in cui il minore viene riconosciuto maturo, viene dichiarato imputabile. Tra le
soluzioni che possono essere adottate abbiamo: 1. sospensione del processo e messa alla prova (art.
28 D.P.R. 448/1988): in cui il procedimento penale viene sospeso per un periodo, nel corso del
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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quale il minore parteciperà attivamente ad un progetto, elaborato con la finalità di attivare il più
possibile le risorse del minore, a tutti i livelli, personale, familiare e socioambientale. È
indispensabile che il minore accetti la misura, in quanto richiede un suo impegno in prima persona,
per costruire, seppure con la mediazione dell’adulto, un itinerario non istituzionale di attivazione di
responsabilità, e per assumere, da protagonista, il significato delle conseguenze sociali e giudiziarie
del fatto di cui è imputato (Lo Giudice, 1990). Al termine della messa alla prova la personalità del
minore sarà valutata, l’esito positivo della stessa comporta la dichiarazione di estinzione del reato
(art. 29 D.P.R. 448/1988); 2. perdono giudiziale: è una rinuncia, per il giudice, di ricorrere alla
sanzione. Deve però rimanere un provvedimento mirato sul piano del recupero del minore, a tale
scopo può essere accompagnata da adeguati provvedimenti di sostegno e di recupero in campo
civile o amministrativo. 3. irrilevanza sociale del fatto: di fronte ad un reato privo di rilevante
disvalore sociale, vista la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento, il legislatore, ai fini
di salvaguardare il processo educativo del minore, qualora l’ulteriore corso del procedimento possa
pregiudicarlo, può dichiarare l’irrilevanza sociale del fatto. Tale sistema consentirebbe la rapida
uscita dal circuito penale dei minori che hanno compiuto reati “frivoli”, che non sono indicativi di
difficoltà di crescita del ragazzo stesso. In tali casi, una sanzione penale, porterebbe ad identificare
il minore come deviante, cosa alquanto controproducente,; mentre il ricorso alla categoria della
incapacità di intendere e di volere finirebbe con l’essere improprio oltre che fortemente
deresponsabilizzante. Nel caso in cui venga dichiarato immaturo, non sarà invece imputabile e non
potrà dunque essere né processato, né condannato, ma sarà invece prosciolto per immaturità (ex art.
98 c.p.). Se il minore è invece dichiarato socialmente pericoloso verrà sottoposto a misura di
sicurezza. In minore età questo significa il riformatorio giudiziario. Per i reati della fascia più grave,
tale misura di sicurezza può essere applicata tramite collocamento in comunità, per gli altri delitti è
applicabile la misura della libertà vigilata, sotto la forma delle prescrizioni (20 D.P.R. 448/1988) o
della permanenza in casa (Fornari, 1997). Nell’evoluzione del sistema giudiziario minorile si è
avvertita la necessità di sottolineare che la pena non deve necessariamente corrispondere alla
detenzione e che è possibile sperimentare risposte sanzionatorie che tengano conto delle esigenze
legate ai bisogni ed ai diritti del soggetto in età evolutiva. In tal modo la sanzione è intesa come un
messaggio responsabilizzante, teso ad affermare il disvalore sociale di un comportamento reato
compiuto dal minore, e la consapevolezza del danno arrecato direttamente nei confronti della
vittima e indirettamente nei confronti della società stessa (De Leo, 1995). L’introduzione delle
misure alternative alla detenzione risponde al bisogno di evitare che il minore prolunghi l’incontro
con il sistema giudiziario penale, subendo inutili traumi, e al contempo alla necessità di adottare
provvedimenti più idonei a favorire lo sviluppo di potenzialità positive presenti nel giovane. Gli
accertamenti sulla personalità del minore vanno dunque visti nell’ottica di contribuire ad una
risposta il più possibile adeguata alla personalità del soggetto ed alla particolarità del suo caso
concreto, oltre che una fonte preziosa di informazioni in quel lavoro di mobilitazione di molteplici
risorse per una adeguata reintegrazione del minore stesso nel tessuto sociale.
Bibliografia
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Capitolo 4
La mediazione penale minorile
In questi ultimi anni si è sviluppato un dibattito scientifico e culturale sul tema della mediazione in
diversi contesti della vita sociale quale quello penale, scolastico, familiare e interculturale. Il
presupposto su cui si basa la mediazione è che la vita sociale sia regolata da conflitti di diversa
origine e natura e che questi possano risolversi attraverso un terzo soggetto, scelto e legittimato
dalle parti, che in modo “neutro” favorisca una soluzione condivisa e alternativa agli interessi della
singola parte. (GuillaumeHofnung, 1995; Castelli, 1996). In questo contributo ci occuperemo della
mediazione penale minorile accennando brevemente al contesto normativo di riferimento,
soffermandoci sulle principali procedure e metodologie utilizzate nel modello anglossassone con
riferimento alla sua applicazione nel contesto italiano, delineando alcune potenzialità di questo tipo
di intervento e alcuni aspetti problematici che ne caratterizzano la sua applicazione nel nostro
Paese. Innanzi tutto l’interesse per questo settore si è diffuso fra gli studiosi e gli operatori di diversi
contesti disciplinari quali quello del diritto, della sociologia, della criminologia e della psicologia
giuridica. Inoltre si sono avviate numerose sperimentazioni sul territorio nazionale, (Di Ciò 1999,
Coppola De Vanna, Coppola De Vanna, 1999; Buniva 1999, Scali, Volpini, 1999a) che hanno
cercato di utilizzare gli spazi normativi esistenti in campo minorile, sviluppando diverse
metodologie e tecniche. Attualmente, l’obiettivo principale è quello di coordinare le esperienze per
confrontarsi sui problemi che le hanno caratterizzate in funzione della messa a punto degli standard
operativi. La cornice normativa che fa da sfondo alla mediazione penale minorile è il D.P.R.448/88
all’interno del quale è esplicitamente prevista l’opportunità della riconciliazione fra autore e vittima
di reato con l’art.28 (“sospensione del processo e messa alla prova”). All’interno di questa misura il
minore viene inserito in un percorso di responsabilizzazione centrato su alcune attività educative e
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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risocializzative. A seguito dell’analisi di fattibilità è possibile per alcuni casi, che il minore partecipi
ad un percorso di riconciliazione con la vittima del reato. Un’altra esplicita opportunità è data
dall’art.564 c.p.p. in cui, per reati perseguibili a querela, il pubblico ministero, anche prima delle
indagini preliminari, può tentare la riconciliazione tra querelante e querelato. Anche all’interno
dell’art.47 (O.P.) che regola l’affidamento in prova ai servizi sociali della giustizia è previsto tra le
misure di prescrizione che l’autore di reato si adoperi in favore della vittima. Altre misure del
D.P.R. 448/88 vengono utilizzate come spazi possibili per l’applicazione della mediazione anche se
non prevista esplicitamente. Le cornici normative sono l’art.9 (“accertamenti di personalità del
minore”), in cui la mediazione è utilizzata per valutare la responsabilità del minore e la
consapevolezza delle conseguenze della sua azione; l’art.27 (“assoluzione per irrilevanza del
fatto”), la mediazione in questo caso viene utilizzata dal giudice per la valutazione del danno
prodotto dal minore nei confronti della vittima; l’art.30 (“libertà controllata”) che è una misura
alternativa alla detenzione in cui il giudice può prevedere come attività prevalente che il minore
svolga un percorso di mediazione, dopo averne valutato la sua disponibilità insieme all’équipe di
mediazione. Entrando nel merito della mediazione penale, possiamo definirla come un’attività il cui
obiettivo è quello di ricomporre il conflitto tra vittima ed autore del reato, attraverso un mediatore
che in modo diretto o indiretto mette in comunicazione le domande e i vissuti dei due attori in
riferimento all’azionereato e ai suoi effetti sul piano giudiziario e psicologico.(De Leo, Volpini,
1999). Questa forma di intervento si è diffusa, a partire dagli anni settanta, negli Stati Uniti, in
Canada, in Australia e in nord Europa, con numerosi programmi che hanno avuto un notevole
successo. I punti fondamentali (Wright,Galaway,1989) su cui si basa la mediazione riguardano:
a) il reato inteso come conflitto tra parti;
b) il sistemaautore vittima come focus dell’intervento;
c) l’accordo tra le parti come risoluzione del conflitto;
d) la flessibilità di attuazione delle mediazione dentro e fuori il sistema penale.
a) Il reato è il risultato di un conflitto tra le parti di cui una subisce un danno che ha significati
simbolici e materiali. Questa impostazione si differenzia da quella dei tradizionali modelli di
giustizia come quello educativotrattamentale che ritiene il reato il risultato di problemi di
personalità da cui la società proteggersi o come il modello retributivo in cui il reato è una infrazione
delle regole penali che produce un danno alla società.
b) Il focus dell’intervento è centrato sul confronto fra le parti. In questo modo l’autore di reato può
confrontarsi con la vittima rendendosi conto delle conseguenze della sua azione attivandosi in senso
responsabilizzante verso di lei. La vittima può non solo comprendere i motivi del reato ma anche
comprendere meglio le proprie strategie personali e d’azione, inoltre può essere parte attiva nel
chiedere direttamente all’autore del reato cosa questi può fare per lei. L’intervento assume un’ottica
sistemica (Bocchi, Ceruti, 1985; Cirillo 1990), superando l’orientamento centrato sull’autore di
reato.
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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c) L’accordo è il principale obiettivo della mediazione, rappresenta la ricomposizione del conflitto.
L’accordo può essere relativo ad un risarcimento economico (compensation order), alla riparazione
delle conseguenze del reato (restitution) o alla riconciliazione tra vittima ed autore di reato. Il
risarcimento economico viene utilizzato per reati lievi come piccoli furti, la riparazione delle
conseguenze del reato invece consiste nello svolgimento di un’attività pertinente nei suoi significati
simbolici al danno commesso e viene svolta in favore della vittima. La riconciliazione consiste, per
quanto riguarda l’autore di reato, nel confronto diretto con le conseguenze del reato,
nell’incremento della propria responsabilità, in un ruolo più partecipe nel sistema della giustizia.
Per quanto riguarda la vittima, l’obiettivo è la rielaborazione del reato, il contenimento della paura
di subire altri reati, il recupero di un ruolo attivo nel sistema della giustizia.
Umbreit e Warner Roberts (1997) hanno analizzato la tipologia dei programmi di mediazione del
nord America e della Gran Bretagna, che si riferiscono a reati di lievi, in particolare di furto,
sintetizzando le tappe e le procedure fondamentali che li caratterizzano.
Generalmente i programmi sono caratterizzati da quattro fasi: 1) la presa in carico delle parti, 2) la
preparazione alla mediazione, 3) la fase di mediazione vera e propria 4) il followup.
1) La prima fase consiste sinteticamente nell’invio del caso da parte del Tribunale o direttamente
dalla Polizia all'équipe di mediazione. L'équipe analizza il fascicolo riguardante i verbali ed
eventuali informazioni sul minore imputato. Il caso viene quindi assegnato ad un membro
dell’équipe di mediazione, successivamente questi prende contatto sia con l’autore di reato che con
la vittima attraverso una lettera dove si chiede la disponibilità per un intervento di mediazione. I
contenuti della lettera consistono nella presentazione del programma di mediazione dove viene
annunciato un contatto telefonico successivo. Successivamente attraverso una telefonata, il
mediatore prende un appuntamento con l’autore di reato presso la sua abitazione o presso il servizio
di mediazione.
2) Comincia a questo punto la fase che prepara l’incontro di mediazione vera e propria. Il primo
incontro con il minore è basato sulle domande che riguardano i fatti legati al reato e alla sua storia
personale inoltre vengono analizzate le motivazioni che riguardano l'avere accettato il programma
di mediazione e l'atteggiamento verso la vittima.
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Il primo colloquio con la vittima è centrato sull’ascolto degli effetti che il reato ha prodotto
soprattutto da un punto di vista dei vissuti e del senso di sicurezza personale, inoltre il mediatore
fornisce delle informazioni riguardanti la storia del minore e la sua disponibilità ad un incontro di
mediazione, infine la vittima viene sollecitata a pensare alle possibili domande e alle richieste di
soluzione da fare nell’incontro di mediazione.
3) La fase di mediazione può essere svolta in forma diretta, in cui le parti scelgono di incontrarsi
faccia a faccia o in forma indiretta (mediation between) in cui le parti scelgono di non incontrarsi,
utilizzando il mediatore per comunicare fra di loro.
Il ruolo del mediatore è particolarmente importante in questa fase Umbreit (1995) propone la
combinazione di due stili: nella prima parte dell’incontro propone uno stile definito empowering
che fa emergere le domande sul reato e le proposte di accordo attraverso un ruolo di ascolto e di
eventuale stimolo in questa direzione, nella seconda parte propone uno stile definito controlling,
mirato alla definizione di un accordo vero e proprio fra le due parti, attraverso un ruolo attivo del
mediatore che raccoglie le proposte di accordo e ne favorisce una sintesi.
4) Il followup (Umbreit 1995, Umbreit, Warner Roberts, 1996) viene sistematicamente svolto per
valutare l’efficacia dell’intervento, in particolare viene valutato il differente grado di soddisfazione
tra chi ha partecipato al programma di mediazione diretta rispetto a chi ha partecipato al programma
di mediazione indiretta; viene valutata la differenza fra chi ha partecipato alla mediazione (sia
diretta che indiretta) e chi non vi ha partecipato. Vengono anche analizzati i motivi di soddisfazione
e insoddisfazione a breve e medio termine per i partecipanti. Infine viene preso in considerazione il
rapporto con il sistema della giustizia e l’opinione degli operatori della giustizia in merito al
progetto di mediazione. I risultati ottenuti fanno emergere innanzi tutto che la mediazione indiretta
è molto più utilizzata in Gran Bretagna che negli Stati Uniti e che sono rimaste più soddisfatte le
vittime che hanno partecipato alla mediazione diretta piuttosto che quelle che hanno partecipato alla
mediazione indiretta. Inoltre gli imputati generalmente rimangono più soddisfatti delle vittime.
Tendenzialmente le vittime che partecipano alla mediazione sia diretta che indiretta sono più
soddisfatte di coloro che non vi partecipano, hanno meno paura di subire altri reati e hanno una
migliore opinione del sistema della giustizia, mentre gli autori di reato risultano più soddisfatti se
partecipano al percorso di mediazione rispetto a quelli che non vi partecipano ma fra i due gruppi
non c’è una diversa considerazione del sistema della giustizia. Fra gli operatori della giustizia il
consenso alla mediazione è molto diffuso sia per gli effetti di maggior consapevolezza che si
ottengono per l’autore del reato sia per la possibilità data alla vittima di comprendere i fatti, di
potersi esprimere con le sue domande e i suoi vissuti. Il modello Anglosassone che abbiamo sopra
delineato, è stato utilizzato come punto di riferimento nell’elaborazione dell’intervento di
mediazione dell’équipe di Roma operativa dal 1997 (Scardaccione, Baldry, Scali, 1998; Scali,
Volpini, 1999b), oltre ai contributi teorici e metodologici dell’approccio sistemico e strategico,
applicato alla devianza minorile (De Leo, 1990; De Leo, 1996; De Leo, Patrizi, 1999). L’intervento
di Roma si basa sull’intervento di rete con le figure professionali coinvolte (magistrati, operatori
sociali, volontari ecc..), viene progettato per microobiettivi inseriti all’interno delle diverse fasi,
ciascuna fase può prevedere più di un incontro, anche con il servizio inviante ma soprattutto con le
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parti in causa. Si caratterizza, in fase di invio, per una particolare attenzione ai problemi di
interazione tra le esigenze, le domande della vittima e gli spazi di intervento offerti dal Processo
Penale Minorile. La mediazione essendo una nuova modalità di intervento per il contesto italiano
viene spesso vissuta dalle vittime non tanto come opportunità per sé ma come opportunità
strumentale in senso premiale per l’autore di reato. Questo vissuto è risultato particolarmente
evidente se la mediazione viene svolta durante il percorso penale piuttosto che in seguito ad una
sentenza. In questa fase dove viene fatta una prima analisi di fattibilità è importante tenere in
considerazione a che punto del procedimento penale il caso è inviato all’équipe di mediazione e
quanto tempo ha a disposizione il mediatore prima che si arrivi all’udienza. Anche durante il lavoro
di premediazione, il rapporto tra tempi processuali e tempi della mediazione sono di difficile
conciliazione, per cui è possibile (soprattutto per reati contro la persona) che con la vittima non si
ottenga una disponibilità per una mediazione durante il periodo della messa alla prova, per la
necessità di maggiore tempo di elaborazione dei fatti e dei propri vissuti prima di incontrare l’autore
di reato. All’interno di questa fase il lavoro dell’équipe è centrato particolarmente sull’analisi
dell’azione del reato (De Leo, 1991; Cranach, Harré; 1991) con particolare riferimento alla
dimensione relazionale che a preceduto, accompagnato e seguito l’interazione tra l’autore e la
vittima di reato (Becker 1963; De Leo, Patrizi 1992). In questa fase sia per la vittima che per
l’autore di reato viene anche dato ascolto all’espressione di vissuti emotivi come la rabbia, la paura,
per la prima e il senso di colpa per il secondo con il metodo delle domande riflessive e circolari
(Tomm,1991). La fase di mediazione vera e propria si è caratterizzata in questa esperienza
attraverso un percorso di mediazione indiretta inteso anche come tappa preliminare ad un incontro
faccia a faccia tra le parti. L’aspetto necessario in questa fase è il consenso informato delle parti che
incaricano il mediatore di potere riferire contenuti, interrogativi, proposte emerse nell’incontro. Da
una prima analisi di followup svolta, è possibile affermare che anche quando l’intervento non
arriva fino alla fase di mediazione vera e propria, è possibile che le parti ne traggano un qualche
vantaggio, come per esempio una riduzione di conflittualità, una maggior consapevolezza dei fatti,
un senso di potenziamento per la vittima, una maggiore disponibilità durante il percorso processuale
da parte della vittima del reato. Come è facile intuire da ciò che è emerso fino ad ora, la mediazione
penale minorile non è di semplice applicazione soprattutto perché la vittima sente che il processo
penale(Ponti, 1996) è centrato soprattutto sull’autore di reato e sente il proprio ruolo marginale sia
da un punto di vista normativo che di prassi giudiziaria. Il vissuto relativo al suo ruolo nel processo
penale minorile, la carenza di una cultura diffusa fra i cittadini e gli operatori sulla mediazione
producono dunque molte difficoltà al livello del consenso della vittima al percorso di mediazione.
Per questi motivi si sta cominciando a dibattere addirittura la compatibilità tra la mediazione penale
e il sistema della giustizia minorile (De Leo,1999) con l’esigenza di rivedere alcuni aspetti
normativi e organizzativi del sistema minorile in funzione di una reale possibilità di applicazione
della mediazione. C’è però una grande attenzione anche da parte di organismi internazionali sulle
opportunità offerte dalla mediazione come metodologia di intervento funzionale alla
responsabilizzazione del minore e ai diritti delle vittime. Recentemente il Consiglio d’Europa con la
Raccomandazione n° R (99) 19 del 15 Settembre 1999 si è pronunciato affinché la mediazione
possa entrare a far parte integrante dei sistemi della giustizia, garantendo in ogni stato e grado del
processo la possibilità di potere svolgere la mediazione, riconoscendo alla vittima un legittimo
interesse ad avere voce sulle conseguenze della vittimizzazione subita, e un legittimo interesse a
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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potere comunicare con l’autore di reato per arrivare ad un accordo o ad una riparazione, e
riconoscendo l’importanza di potenziare il senso di responsabilità dell’autore di reato offrendo delle
opportunità pratiche e funzionali per la sua futura reintegrazione e socializzazione. Viene inoltre
riconosciuto in questo documento l’importanza del ruolo dei singoli individui e della comunità nel
prevenire e gestire il conflittoreato in funzione della costruzione di un sistema della giustizia meno
repressivo e più costruttivo. In linea con l’esigenza di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica
che sembra sempre più orientata verso un modello di negoziazione della regolazione dei rapporti
sociali, piuttosto che verso un modello autoritario ed impositivo (Ceretti, 1999), anche se con
ambivalenze e contraddizioni. Anche a questo livello la mediazione può rispondere alla comunità,
rappresentata dal mediatore, la gestione del conflitto tra le parti, rivalutando così anche l’immagine
della giustizia da parte dell’opinione pubblica. L’attenzione degli studiosi e degli operatori è dunque
centrata sulle procedure, sulle metodologie, sul ruolo della vittima nella dinamica processuale, sulle
attese di giustizia dei cittadini e anche sul ruolo della mediazione rispetto alla funzione della pena.
A questo proposito, la pena intesa in senso retributivo è considerata da alcuni Autori come Eusebi
(1998) come radicalizzazione del conflitto, come risposta che ripropone la stessa frattura messa in
atto dall’autore di reato contro il diritto. L’obiettivo della retribuzione della pena secondo questo
Autore, mira alla negazione della frattura e del conflitto che emerge con il reato, mentre la
mediazione assume nei suoi presupposti e nelle sue procedure l’esistenza del conflitto fra le parti.
Attraverso la mediazione viene ricomposta la comunicazione fra autore di reato e parte lesa e
quest’ultima viene rivalutata nel proprio ruolo potendo partecipare attivamente alla ricomposizione
del conflitto, superando l’esigenza retributiva nei confronti di chi ha commesso il reato. La
mediazione penale sempre secondo l’Autore si integra bene con l’ottica risocializzativa della
risposta penale che avrebbe in questo modo un suo rafforzamento e un reale compimento rispetto
alla logica retributiva e punitiva. Anche a questo livello la mediazione senza dubbio rappresenta
potenzialmente una risorsa per la cultura del cambiamento della giustizia nel nostro paese, anche se
queste potenzialità sono difficili da sviluppare, per il consolidamento dei sistemi tradizionali di tipo
retributivo e sanzionatorio, per la apparente semplificità delle forme trattamentali e per una valenza
ancora rassicurante del sistema carcerario (De Leo,1999). Anche se ci sono delle difficoltà, vale la
pena investire nella direzione della mediazione, in termini di sensibilizzazione culturale ed
operativa rivolta chi intende operare nel settore della giustizia, non solo in campo minorile ma
anche in quello degli adulti, per favorire questa opportunità innovativa per il sistema della giustizia.
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FARMACODIPENDENZA E CRIMINALITÀ
1. LE SOSTANZE PSICOATTIVE
Com’è noto, una sostanza psicoattiva è qualsiasi elemento naturale o sintetico capace di modificare
l’attività psicofisica dell’uomo e di stimolare o deprimere il sistema nervoso centrale e periferico;
Alcune di queste sostanze possono provocare allucinazioni e modificazioni delle funzioni motorie e
del giudizio, e col tempo, possono determinare uno stato di dipendenza psicofisica. Quasi sempre
l’uso di queste sostanze rappresenta un danno per l’organismo che tenta di mantenere l’omeostasi;
qualunque modificazione esterna dell’ambiente interno è infatti destinata sempre a provocare una
reazione finalizzata al ripristino dell’equilibrio iniziale. Attualmente esiste una grande varietà di
sostanze psicotrope più o meno diffuse e più o meno legalizzate. La scelta dell’uso di una
determinata droga è dovuta in parte agli effetti che si vogliono ottenere (scelta individuale) ed in
parte alla tendenza a conformarsi alle usanze del gruppo a cui si appartiene (scelta psicosociale).
L’alcool è senza dubbio lo psicotropo più diffuso in Italia ed ha, se l’uso è eccessivo, gli effetti
collaterali socialmente più dannosi. L’abuso di alcool stordisce, toglie il senso della realtà, provoca
illusioni sensoriali, induce episodi di aggressività e disturbi psichici.
Anche l’uso dei farmaci è oggi in continuo e progressivo aumento, da un lato incrementato dalla
convinzione errata nel paziente che la terapia farmacologica fa sempre e soltanto bene
all’organismo, dall’altro lato dalla pressione di marketing delle industrie farmaceutiche. Spesso
l’efficacia della farmacoterapia è in realtà esaltata dall’effetto placebo della sostanza. Ogni farmaco
produce un effetto positivo per l’organismo (terapeutico) e contemporaneamente uno negativo
(collaterale) come ad esempio la dipendenza. Pertanto, la medicina “in pillole” non è sempre
sinonimo di benessere; il progressivo e indiscriminato aumento dell’uso dei farmaci può
rappresentare un motivo di preoccupazione per il mantenimento dello stato di salute.
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Gli stupefacenti sono sostanze chimiche naturali o sintetiche che introdotte nell’organismo
svolgono una particolare azione tossica e soprattutto, con l’uso abituale, possono indurre un forte
stato di dipendenza. Le più conosciute sono: l’oppio e i suoi derivati (morfina e eroina), la canapa
indiana (hashish e marijuana), la cocaina e i nuovi prodotti chimici sintetici (es. LSD, ecstasy). I
loro effetti sono vari: alcune svolgono azione sedativa e analgesica, altre, invece, provocano
euforia, eccitazione, stato sognante e fenomeni di allucinazione visiva.
2. LA DIPENDENZA PSICOFISICA
L’assunzione di una sostanza psicotropa provoca nella persona la comparsa di alterazioni psico
fisiche generalmente piacevoli. Qualunque sia stata la causa del primo incontro con la droga, spesso
il suo uso è destinato a ripetersi fino a diventare una vera e propria schiavitù. Infatti, col passare del
tempo, per ricevere l’effetto desiderato queste sostanze devono essere introdotte a dosi sempre
maggiori; l’organismo si abitua ad esse a tal punto che non ne può più fare a meno, se non a prezzo
di gravi sofferenze. Questo stato di dipendenza è dovuto a modificazioni metaboliche che la
tossicomania ha progressivamente creato nell’organismo. E’ infatti certo che l’abuso quotidiano di
stupefacenti e di stimolanti provoca contemporaneamente sia anomalie costituzionali (dipendenza
fisica), sia contingenti fattori di ordine psichico (dipendenza psichica). La dipendenza fisica
determina una subordinazione funzionale dell’organismo ad una sostanza la cui mancata assunzione
provoca una serie di disturbi. Tale quadro definito “sindrome da astinenza” scompare
immediatamente quando viene ripreso l’uso della sostanza. La dipendenza psichica è la
necessità/motivazione di assumere una determinata droga ed insorge quando coscientemente o
incoscientemente la persona ritiene che solo l’assunzione di quella sostanza porterà benessere
all’organismo. Questa schiavitù è correlata ad una tendenza psicologica che richiede una
somministrazione periodica della droga per ricevere l’effetto desiderato. La qualità e la quantità
delle sostanze psicoattive necessarie a soddisfare il bisogno della persona sono direttamente
proporzionali al grado di coinvolgimento e al tipo di motivazione psicofisica che hanno spinto la
persona ad assumere tali sostanze. Coloro che assumono le sostanze psicoattive vengono talvolta
suddivisi da alcuni autori in base ad una tipologia relativa al diverso grado di dipendenza:
Il consumatore occasionale: persona con esperienze saltuarie di stupefacenti, quasi sempre sotto
forma di consumo sociale e ricreativo, con la possibilità di interrompere l’uso quando ciò è ritenuto
utile e necessario. Domina in questo gruppo l’effetto piacevole ed euforizzante indotto dalla
sostanza.
Il consumatore: soggetto che pur avendo sviluppato una certa tolleranza alla droga e pur subendo un
certo grado di dipendenza fisica e psichica riesce a mantenere ancora validi interessi a livello
sociale, lavorativo e buoni rapporti interpersonali. Questo gruppo di persone è caratterizzato da stati
di irritabilità e di aggressività, da insicurezza nei movimenti e da frammentazione nelle ideazioni.
Il tossicodipendente: persona che presenta una marcata dipendenza fisica e psichica dalla sostanza.
Il contatto con la realtà in questo gruppo risulta affievolito. E’ presente agitazione psicomotoria,
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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alterazioni della coscienza, disturbi dell’ideazione di tipo delirante e allucinazioni prevalentemente
visive.
Il tossicomane: soggetto completamente dominato dal bisogno del farmaco. L’individuo investe
tutte le proprie energie nel tentativo di procurarsi la sostanza con ogni mezzo, lecito o illecito. E’
presente una forte dipendenza del soggetto dalla sostanza che viene assunta a intervalli di tempo
sempre più ravvicinati. Vi è una sensibile trasformazione della qualità delle relazioni interpersonali
a causa di gravi disturbi del comportamento, caratterizzati da violenta impulsività e da
manifestazioni a carattere isterico.
3. GLI EFFETTI PSICOFISICI
Gli effetti sintomatologici che producono le sostanze psicotrope possono variare in base:
alla natura e alla composizione chimica della sostanza assunta;
allo stato psicofisico della persona;
al ritmo delle assunzioni;
al contemporaneo uso con altri farmaci
L’assunzione ripetuta di alte dosi di sostanze psicoattive può danneggiare quasi ogni apparato
organico, specialmente il tratto gastrointestinale, il sistema cardiovascolare e il SNC e SNP. In
particolar modo si verifica un deficit cognitivo, una grave compromissione della memoria e una
modificazione degenerativa organica del cervelletto. Sono presenti tremore, insonnia, diarrea,
brividi violenti, innalzamento della pressione sanguigna, tachicardia e sudorazione. Sono molto
evidenti le alterazioni oculomotorie, le crisi compulsive, l’intensa astenia, il calo della libido con
impotenza o frigidità[1]. A livello psichico queste sostanze provocano: alterazione dello stato di
coscienza, alterazioni intellettive, scadimento della memoria, rallentamento della percezione,
disturbi dell’associazione, demenze, decadimento della sfera etica, riduzione dei poteri inibitori. E’
presente una forte labilità dell’umore con alternanza di fasi depressive ad altre di estrema irritabilità
e aggressività, ansia, allucinazioni, depressioni, psicosi paranoidee, deliri di gelosia e di
persecuzione. Inoltre sono presenti modificazioni comportamentali, disturbi della percezione
spaziotemporale, difficoltà nell’elaborazione del pensiero, calo degli interessi sociali e lavorativi,
modificazione della facoltà di attenzione, di concentrazione e dei tempi di reazione[2]. Per un
criminologo è doveroso conoscere gli effetti collaterali di queste sostanze per meglio comprendere
ed interpretare alcune modificazioni comportamentali che possono essere correlate con azioni
criminali.
4. LA DIPENDENZA E LA COMORBIETÀ PSICHIATRICA
Da quanto è emerso, l’assunzione di una determinata sostanza psicoattiva può esercitare una forte
pressione sull’uomo a scapito dei suoi valori e delle sue convinzioni. Tale fattore ha posto il
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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problema dello studio della correlazione tra personalità, psicopatologia e disturbo da alto uso di
sostanze. In particolar modo le ricerche sull’argomento cercano di spiegare come l’abuso di
sostanze psicotrope possa esacerbare sintomi psichiatrici e come, al contrario, disturbi mentali
possano predisporre all’abuso. I dati quantitativi di riferimento provengono dall’Epidemiologic
Catchment Area (ECA) Study del NIMH ed evidenziano che:
“tra tutti i soggetti che rilevavano nella vita una diagnosi di disturbo mentale ben il 14,7% avevano
in anamnesi un disturbo da abuso/dipendenza da sostanze stupefacenti ed il 28,9% in aggiunta un
disturbo da abuso/dipendenza da alcool”[3]. Ciò indica che coloro che hanno una storia di uso di
sostanze hanno un rischio di disturbo mentale 4 volte superiore a quello della popolazione generale.
Questo è dovuto a tutte le alterazioni psicologiche che sono in grado di provocare queste sostanze.
Da quanto emerge nella letteratura nei farmacodipendenti la presenza di disturbi gravi della
personalità è generalmente associata alla cronicizzazione del disagio psichico e psicosociale, alle
frequenti ricadute nel ricorso alle sostanze, al fallimento terapeutico e alla prognosi negativa,
nonché alla depressione, alla scarsa socializzazione, ai danni nell’elaborazione concettuale e nella
memoria. In particolar modo la diagnosi di disturbo da personalità antisociale nelle persone dedite
all’abuso sembra correlata a maggiori problemi di ordine legale, ai minori vantaggi sul piano
terapeutico, alla più frequente necessità di associazione della psicoterapia ad un trattamento
farmacologico.
“All’interno dei sottogruppi diagnostici troviamo poi tassi di comorbietà con disturbi da uso di
sostanze del 27.5% per la schizofrenia, del 19,4% per i disturbi affettivi, nonché del 42% per il
disturbo antisociale di personalità”[4].
Le associazioni tra il comportamento d'abuso e quello criminale possono verificarsi nello stesso
individuo o tra individui diversi. Nel primo caso è il tossicodipendente stesso a mettere in atto il
comportamento criminale, mentre nel secondo caso questi ha soltanto un ruolo di consumatore e i
comportamenti criminali vengono messi in atto da altri soggetti[5].
5.1. Relazioni tra i due comportamenti nello stesso soggetto
Tali relazioni si fondono sugli effetti comportamentali negativi che certe sostanze psicotrope
possono indurre in chi ne fa uso. Si tratta di comportamenti che finiscono con l'avere più o meno
gravi ripercussioni sul funzionamento sociale dell'individuo e che possono sfociare nella
commissione di atti disturbanti e/o reati. Questi effetti comportamentali, come accade per quelli
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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fisici e psichici, sono strettamente connessi al tipo di sostanza, alla quantità e alle diverse modalità
individuali di coinvolgimento con la stessa.
A) Vi può essere innanzitutto una correlazione diretta tra l'azione farmacologica svolta dalle diverse
sostanze psicoattive e il comportamento delittuoso. Si tratta in questi casi essenzialmente di
comportamenti violenti (danneggiamento di oggetti, aggressioni verbali, fisiche o sessuali, omicidi
non premeditati) commessi tutti in maniera estremamente impulsiva. L'insorgenza di questi
comportamenti non può però essere spiegata esclusivamente con l'assunzione delle sostanze le
quali, come dimostrato da numerose indagini sperimentali, non agiscono direttamente
sull'aggressività, ma facilitano piuttosto l'espressione di cariche aggressive già presenti
nell'individuo. Del resto, secondo le più recenti teorie criminologiche, il comportamento criminale
rappresenta un'unità complessa che emerge dall'interazione tra diversi fattori di ordine biologico,
psicologico, psicopatologico, relazionale, socioambientale e normativo; la sua manifestazione non
può pertanto, essere ricondotta, secondo una logica di determinismo lineare, a nessuno di questi
fattori presi singolarmente, né tanto meno alla loro mera sommatoria. L'alcool e alcune droghe
possono quindi soltanto agevolare la commissione di atti violenti i quali sono sempre generati da
particolari motivazioni, sia espressive che strumentali, che si costruiscono all'interno di determinati
contesti e relazioni[6]. Possono essere più facilmente attribuite all'azione esclusiva delle sostanze
quelle condotte pericolose da cui spesso derivano comportamenti gravemente lesivi dell'incolumità
propria e altrui che vanno a configurare reati colposi commessi alla guida di autoveicoli o
nell'esercizio di attività pericolose di tipo professionale (infermiere, meccanico ecc.) e domestico
(maneggio di strumenti pericolosi, bombole di gas ecc.).
B) L'esistenza di uno stato di dipendenza rimanda poi a molteplici e complesse correlazioni di tipo
indiretto tra abuso di sostanze psicotrope e criminalità del farmacodipendente. L'uso protratto di
sostanze aventi un elevato potere di determinare dipendenza psicofisica (alcool, eroina, anfetamine,
più raramente cocaina) rende estremamente difficile mantenere un comportamento socialmente
integrato laddove il bisogno incontrollabile di assumere la sostanza, per rivivere gli stati psichici
piacevoli e per prevenire la sofferenza della sindrome da carenza, fa sì che questa divenga l'unica
ragione di vita. E così, quanto più si è instaurata una dipendenza, tanto più sono presenti problemi
lavorativi, familiari e relazionali in senso ampio legati all'incapacità del soggetto di conservare gli
interessi precedenti, di ottemperare ai compiti imposti dal suo ruolo, di coltivare i rapporti affettivi e
amicali e, in definitiva, di mantenere il proprio status. Perdendo di importanza tutti i valori e le
remore dello status precedente il tossicomane viene ad assumere uno stile di vita marginale,
degradato, amorale e improduttivo che a sua volta favorisce la commissione di reati sia di tipo
violento che patrimoniale. Tali condizioni vengono peraltro mantenute e amplificate dalle
permanenti alterazioni sia fisiche che psichiche e dalle rilevanti compromissioni della struttura di
personalità che subentrano con il ripetersi quotidiano e continuo degli abusi. Difficile però, se non
impossibile, distinguere se queste degradate condizioni di vita siano da ricondursi esclusivamente
agli effetti deleteri delle sostanze o non anche a disturbi psicopatologici e di personalità preesistenti
sui quali l'alcoolismo e la tossicodipendenza possono andare ad impiantarsi. Spesso difatti, come
segnalato dalla letteratura, l'abuso di sostanze rappresenta la complicazione ed il prodotto di disturbi
nevrotici, psichiatrici o di personalità rispetto ai quali il soggetto mette in atto un tentativo di auto
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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cura, di fuga dalla sofferenza e dal disagio. Se poi il consumo della sostanza è proibito per legge e il
suo prezzo sul mercato clandestino è molto alto (eroina e cocaina) diventa pressoché inevitabile che
il tossicodipendente arrivi a procurarsi il denaro necessario al suo acquisto tramite la commissione
di una sequela di reati e che intraprenda, pertanto, uno stile di vita anche delinquenziale. Si tratta in
questo caso di reati di furto, scippo, rapina, estorsione, spaccio che tanto allarme sociale creano
soprattutto nelle grandi città. Molto spesso inoltre i tossicomani vengono ad avere una
frequentazione con ambienti di criminalità comune dove il consumo di droga, in particolar modo di
eroina e cocaina, è così diffuso e intenso da far parlare dell'esistenza non solo di una delinquenza
dei tossicomani, ma anche di una tossicomania dei delinquenti[7]. Anche la letteratura segnala il
frequente abuso di sostanze associato ad un disturbo di personalità antisociale interpretandolo come
espressione di un più generale atteggiamento di sfida, spregio delle norme e noncuranza per la
sicurezza propria e altrui. La necessità di contatti per procurarsi la droga e/o per ricettare merce
rubata, assieme alla tendenza dei tossicodipendenti a fare gruppo, per creare quella ritualità
comunitaria che caratterizza l'assunzione di stupefacenti e un legame sociale che non si può
realizzare nella società "normale," fanno sì che il tossicomane criminalizzato si confonda sempre
più con il delinquente tossicomane. L'inserimento progressivo dei tossicodipendenti nella
sottocultura criminale può essere tale da rendere, ad un certo punto, praticamente impossibile
operare una distinzione tra queste due categorie che non sia puramente teorica. Anche se è poco
diffusa si registra pure una criminalità da sindrome di carenza caratterizzata da reati compiuti in una
condizione di sofferenza angosciosa che spinge a procurarsi al più presto i soldi per la droga. Una
siffatta urgenza può portare alla parziale o completa perdita di controllo e quindi alla commissione
di atti delittuosi impulsivi, quali rapine o furti, non pianificati precedentemente.
5.2. Relazioni tra i due comportamenti in soggetti diversi
Tali relazioni si realizzano quando il soggetto dipendente da alcool o droga si trovi a rimanere
vittima di atti violenti compiuti nei suoi confronti; o anche quando i reati siano legati alle attività
illecite di produzione, traffico e distribuzione degli stupefacenti.
A) La correlazione tra abuso di sostanze psicotrope e criminalità si estrinseca anche in un ruolo
vittimogeno di queste sostanze in quanto gli effetti comportamentali negativi che inducono in chi ne
fa uso possono assumere carattere di provocazione dell'aggressività altrui esponendo quindi il
soggetto consumatore al rischio di rimanere vittima di atti violenti. L'abuso o soltanto l'uso di
sostanze può quindi portare gli individui ad essere più facilmente sia autori che vittime di
comportamenti delittuosi, così come può accadere che un unico soggetto si ritrovi in un momento
autore ed in un altro vittima di quella stessa violenza precedentemente esercitata. Spesso si verifica,
soprattutto nel caso dell'alcool, che sia l'autore che la vittima di un reato violento si trovino sotto
l'effetto di sostanze psicotrope. Per quanto concerne l'abuso di sostanze come fattore vittimogeno va
anche considerata la possibilità per il soggetto alcool o tossicodipendente di rimanere vittima di
abitudini di vita pericolose e/o di quegli ambienti degradati e delinquenziali con i quali entra in
contatto fino a diventarne a volte un vero e proprio gregario.
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B) Le sostanze psicoattive illecite hanno un'ulteriore valenza criminogena legata agli ingenti introiti
economici che gruppi criminali, più o meno rigidamente organizzati, ricavano dal loro traffico.
Particolarmente minacciose sono le organizzazioni criminali dotate di ramificazioni multinazionali
e di criteri di gestione altamente manageriali che controllano da decenni il traffico dell'eroina e più
di recente anche quello della cocaina, il cui consumo è in costante aumento. La produzione e il
commercio di queste due droghe garantiscono difatti una straordinaria moltiplicazione dei profitti
che nessun altro settore produttivo può lontanamente eguagliare. La produzione e il traffico delle
droghe leggere (siccome danno vita ad un business decisamente meno proficuo) sono invece gestiti
da gruppi criminali con una organizzazione meno strutturata, di dimensioni più piccole e meno
potenti. I grandi interessi in gioco nelle operazioni di produzione, traffico, e distribuzione delle
sostanze stupefacenti hanno portato sia ad un aumento quantitativo che ad un cambiamento
qualitativo della criminalità a livello mondiale. Non soltanto sul mercato della droga sono fiorite
nuove organizzazioni criminali più o meno pericolose, estese ed efficienti, ma l'accrescersi
rapidissimo dell'arricchimento ha prodotto il potenziamento sia dei nuovi che dei vecchi poteri
criminali un tempo fondati su attività illecite meno redditizie. Parallelamente si sono avute, e
continuano ad aversi, trasformazioni profonde nella struttura attraverso forme sempre nuove di
organizzazione dettate dall'esigenza di far fronte alla concorrenza delle altre organizzazioni
criminali e, al contempo, di sfuggire alle azioni di repressione e contrasto predisposte dagli Stati e
da apposite istituzioni internazionali. La ricchissima posta in gioco ha inoltre determinato una
criminalità sempre più efferata e violenta e la progressiva scomparsa di quei codici
comportamentali che pure un tempo venivano rispettati negli ambienti delinquenziali comuni. Negli
scontri tra narcotrafficanti per la conquista e la spartizione dei mercati, così come nella guerra in
atto tra questi e gli apparati statali, vengono oggi colpiti, con estrema ferocia e senza esitazione
alcuna, donne e bambini, magistrati ed alti esponenti delle istituzioni, giornalisti e chiunque altri sia
considerato minimamente d'intralcio. Non meno spietate sono le lotte che piccoli e medi spacciatori
appartenenti a ramificazioni delle diverse organizzazioni criminali ingaggiano tra loro per il
controllo delle aree di distribuzione locale. L'altissima concentrazione di ricchezza nelle sedi
criminali che organizzano il traffico rappresenta inoltre una minaccia per la stabilità politica, sociale
ed economica tanto dei paesi produttori, quanto di quelli dove essa viene smerciata. Nei paesi in cui
vengono prodotte le sostanze naturali, (alcuni paesi del sudamerica per la cocaina e del sudest
asiatico per l'oppio) l'economia prevalente, attorno alla quale ruotano tutte quante le altre, è quella
della droga con il risultato che anche i valori morali ne risultano fortemente condizionati. Pertanto,
sia nei paesi in cui i governi locali sono influenzati o direttamente controllati dai narcotrafficanti
tramite infiltrazioni nelle amministrazioni e nei gangli decisionali, sia nei paesi in cui li combattono
strenuamente con continue guerriglie, il vero potere si trova comunque nelle mani dei grandi trust
criminali. Per quanto riguarda invece i paesi consumatori, le ingenti quantità di denaro a
disposizione delle organizzazioni criminali vanno ad alimentare un'altra forma di criminalità meno
visibile che si infiltra nella pubblica amministrazione, mediante la corruzione, e va a minacciare lo
stato di salute dell'economia pubblica e privata, mediante il riciclaggio di denaro di illecita
provenienza e la sua successiva utilizzazione: l'immissione di denaro riciclato nei normali circuiti
economici del paese fa saltare le regole imprenditoriali della concorrenza togliendo ai soggetti che
lavorano secondo principi di onestà ed efficienza la possibilità di competere. La potenza derivante
dall'enorme ricchezza accumulata viene inoltre utilizzata per influenzare gli indirizzi politici del
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paese attraverso la creazione e l'orientamento delle clientele elettorali, così da garantire che siffatta
potenza possa essere perpetuata ed accresciuta.
6. LE TEORIE SULL’INDUZIONE ALL’AGGRESSIVITÀ
In particolar modo negli USA sono state prodotte statistiche attendibili[8] che indicano come:
l’86% dei casi di omicidio si realizzano sotto l’effetto dell’alcool;
il 37% delle aggressioni si compiono dopo aver assunto alcolici;
il 60% delle aggressioni sessuali si svolgono dopo aver ingerito alcool.
Anche se questi dati si incentrano sugli effetti dell’alcool, si può desumere che tutte le sostanze
psicoattive, se assunte in dosi eccessive, facilitano l’attivazione di comportamenti irruenti e privi di
coscienza.
Alcune teorie riguardo al rapporto fra le droghe ed i comportamenti violenti affermano[9]:
A) L’ipotesi della disinibizione: le sostanze psicoattive indeboliscono i meccanismi di controllo che
a livello cerebrale bloccano l’impulso aggressivo. Queste sostanze sono in grado di agevolare la
messa in atto di comportamenti violenti, liberando pulsioni aggressive preesistenti nell’individuo,
piuttosto che produrli autonomamente. La possibilità di passare ad atti irruenti (actingout) dipende
pertanto, dall’interazione con diversi fattori preesistenti nell’uomo: personalità di base, storia
familiare, età del soggetto, tipo di inserimento sociale, contesto ambientale.
C) La teoria della riduzione dell’attenzione: le droghe diminuiscono la messa in atto delle normali
norme precauzionali poiché riduce la percezione del rischio. L’effetto disinibente ed eccitante, unito
a diminuita criticità e minore attenzione possono predisporre comportamenti a rischio, che si
articolano lungo un ventaglio di possibilità che vanno dalla guida spericolata al mancato uso di
profilattici in comportamenti sessuali a rischio. Le sostanze psicoattive sono in grado di produrre
modificazioni delle facoltà attentive, di concentrazione e dei tempi di reazione.
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7. I RISVOLTI CRIMINOGENI E VITTIMOGENI DELLE SINGOLE SOSTANZE
Per meglio poter applicare le teorie sopra esposte è opportuno specificare le diverse forme di reati
correlati all’uso di specifiche sostanze. Alcune agiscono direttamente sui centri nervosi deputati al
controllo dei comportamenti aggressivi, altre favoriscono stili di vita antisociali che predispongono
al comportamento criminale, ed altre ancora inducono una generica condizione di disinibizione che
può tradursi in una più facile manifestazione di azioni violente.
7.1. L'alcool
L'alcolismo si configura come un complesso problema sociale oltre che medico, sia perché alla sua
patogenesi concorrono, assieme a fattori biologici e psicologici, anche fattori sociali, sia perché le
conseguenze negative che comporta sul singolo individuo a livello medico, neurologico e
psichiatrico si ripercuotono sull'intero corpo sociale. E ciò non soltanto per i costi economici diretti
e indiretti che l'alcoolismo comporta alla società in termini di spesa sanitaria o di perdita di
produttività sul lavoro; anche perché la progressiva compromissione di tutte le funzioni psichiche, e
il deterioramento dei rapporti sociali che ne deriva, possono indurre particolari alterazioni del
comportamento che assumono una netta caratterizzazione antisociale. Nonostante la dimensione del
problema, il fenomeno dell'alcoolismo non è però oggetto della dovuta attenzione né da parte dei
politici, né da parte degli operatori sociosanitari i quali appaiono quasi esclusivamente impegnati ad
affrontare le pur serie problematiche derivanti dalla diffusione delle droghe illegali. Eppure la
dipendenza da alcool dà una sintomatologia molto simile a quella degli oppiacei pur instaurandosi,
contrariamente a quest'ultima, soltanto dopo molti anni di abuso continuativo. Tra i disturbi alcool
correlati quelli che rivestono maggiore interesse criminologico sono l'intossicazione acuta, l'abuso e
la dipendenza da alcool. Gli altri raramente conducono a comportamenti criminali, mentre le forme
di criminalità tipiche dei quadri psicotici indotti da alcoolismo cronico rientrano in una competenza
più squisitamente psichiatrica. I risvolti criminologici dell'intossicazione alcolica acuta sono legati
alla sua capacità di slatentizzare o accentuare tendenze aggressive precedentemente controllate o
comunque mitigate. L'effetto depressivo dell'alcool sui centri superiori corticali indebolisce difatti i
meccanismi di controllo di ogni tipo di pulsioni, comprese quelle aggressive, provocando una
condizione di disinibizione. La comparsa di comportamenti aggressivi viene anche agevolata dal
fatto che l'alcool determina un'alterazione dei meccanismi di elaborazione delle informazioni e
quindi un'interpretazione errata dell'atteggiamento degli altri che può portare a reazioni esagerate.
L'alcool è pertanto la sostanza psicotropa che più di tutte quante le altre è in grado di produrre
quella che viene definita "violenza psicofarmacologica" e quindi di indurre criminalità diretta.
Numerose e rigorose ricerche sperimentali volte a sondare l'effetto dell'alcool sull'aggressività
hanno dimostrato che la sola somministrazione di quantità rilevanti di alcool non produce
autonomamente comportamenti violenti; il suo effetto consiste invece nel potenziare tale tipo di
comportamenti, indotti sperimentalmente da specifiche situazioni appositamente create, sia in
intensità che in durata. Negli stati di abuso e di dipendenza da alcool, caratterizzati dall'incapacità di
interrompere o ridurre l'assunzione dell'alcool, i segni di intossicazione alcolica sono presenti
durante tutto il giorno e, alla lunga, determinano una alterazione alcolica della personalità. In una
personalità via via sempre più deteriorata la tendenza alla impulsività e a comportamenti aggressivi
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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viene accentuata da profonde modificazioni dell'umore e dell'affettività, da un marcato aumento
dell'emotività, dal venir meno del senso morale che porta il soggetto a disinteressarsi delle relazioni
familiari e sociali, del lavoro, di mantenere una condotta retta e onesta. Il conseguente logorio dei
rapporti in famiglia, le violente discussioni che sorgono attorno all'abitudine del bere e alla condotta
dell'alcoolista fanno sì che questi arrivi spesso ad usare violenza nei confronti del partner e dei figli
o di altri soggetti deboli quali possono essere nipoti o genitori anziani. L'associazione tra alcoolismo
e violenza intrafamiliare è stata ampiamente evidenziata dalla letteratura che individua nell'abuso di
alcolici (soprattutto nell'autore, ma a volte anche nella vittima) un importante fattore precipitante o
concomitante di comportamenti violenti i quali possono essere di tipo psicologico (aggressioni
verbali, umiliazioni, limitazioni della libertà di movimento) o di tipo fisico (dalle percosse più o
meno gravi fino all'omicidio). L'impotenza sessuale che sopraggiunge negli stati avanzati di
dipendenza, unitamente all'insorgenza di un disturbo psicotico, può inoltre far insorgere deliri di
gelosia nei riguardi della partner con pericolose conseguenze per la sua incolumità fisica. Tali deliri
vengono peraltro alimentati dal frequente rifiuto della donna di avere rapporti intimi con uomini
riversi in un tale stato di degrado fisico da suscitare ripugnanza e che fanno spesso richiesta di
pratiche sessuali umilianti. L'abuso di alcool o droghe è stato quindi individuato come uno degli
elementi di rischio o diagnostici sia per il maltrattamento coniugale che per quello sui minori;
quest'ultimo non riguarda solo le forme attive, tra le quali va considerato anche l'abuso sessuale, ma
anche quelle più diffuse e non meno gravi dell'abbandono, dell'incuria e della discuria. L'alcool si
correla con il crimine violento anche in contesti non familiari: i reati di violenza (quali percosse,
lesioni, omicidi) sono quelli più frequentemente commessi dagli alcoolisti come risultato della
impulsività, dell'irritabilità e della tendenza alla litigiosità che finisce per danneggiare tutti i loro
rapporti sociali. L'aumento della libido e di pulsioni erotiche incontrollabili, determinato
dall'assunzione di consistenti quantità di alcool, li induce inoltre a mettere in atto comportamenti
sessuali disturbati che possono configurare reati contro la morale pubblica e il buon costume (es.
esibizionismo) oppure di violenza sessuale (es. stupro, atti sessuali con minori); in quest'ultimo caso
appare però determinante anche la distorsione interpretativa dei messaggi (di natura sessuale o così
ritenuti) inviati nel corso dell'interazione. Più tipici dei giovani che fanno uso eccessivo e smodato
di alcolici, ad esempio cominciando a bere già dal mattino, sono gli atti di vandalismo con
danneggiamento afinalistico di beni di proprietà pubblica o privata. L'alcoolista si ritrova ad essere
facilmente non soltanto autore, ma anche vittima di numerosi atti di violenza. Il ruolo vittimogeno
dell'alcool è stata evidenziato da numerosi dati raccolti in letteratura sulla elevata percentuale di
reati violenti in cui la vittima presenta tassi elevati di alcolemia. La presenza di alcool viene spesso
riscontrata sia nella vittima che nell'autore di uno stesso reato la cui messa in atto viene pertanto
agevolata dalla congiunta azione criminogena e vittimogena della sostanza. Entrambe queste azioni
si spiegano allo stesso modo in quanto l'allentamento del controllo sulle pulsioni, assieme
all'interpretazione errata dell'atteggiamento degli altri, possono portare i soggetti a mettere in atto
non soltanto comportamenti violenti, ma anche atti provocatori più o meno intenzionali, creando, in
quest'ultimo caso, situazioni per loro altamente pericolose. A volte la provocazione agita dalla
vittima consiste proprio in un comportamento violento che provoca l'aggressività dell'altro cosicché
la posizione della vittima può andare da una totale estraneità fino ad una piena partecipazione attiva
al delitto. L'alcool agisce da fattore vittimogeno anche perché riduce o annulla la possibilità della
vittima di opporre resistenza a causa dell'allentamento dei riflessi, della capacità di controllo dei
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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gesti, della diminuzione della vigilanza. Anche nei reati sessuali l'assunzione di elevate quantità di
sostanze alcoliche rappresenta un importante fattore vittimogeno laddove la vittima viene fatta
spesso bere con il preciso intento di diminuirne l'autocontrollo e quindi le resistenze sia fisiche che
psicologiche. In altri casi, invece, una donna in stato di ebbrezza può manifestare atteggiamenti
provocatori che possono essere male interpretati dall'uomo, soprattutto se anch'egli è sotto l'effetto
dell'alcool, come tacito consenso al rapporto sessuale. Lo stesso modo di trascorrere le giornate ha,
per l'alcoolista, una valenza vittimogena: le lunghe ore di permanenza nei bar, luogo dove più di
frequente nascono discussioni verbali e risse, il vagabondaggio per le strade, il rientro a casa nelle
ore notturne lo espongono fortemente al rischio di aggressioni, rapine e omicidio. Altri reati che gli
alcoolisti cronici sono pure indotti a compiere, seppur meno frequenti, sono quelli contro la
proprietà: lavorando in maniera irregolare o non lavorando affatto sono spesso indigenti e possono
essere spinti a rubare dalla necessità di acquistare le sostanze alcoliche o anche beni di prima
necessità; inoltre, venendo meno tanto il controllo sul comportamento quanto il senso morale, essi
sono portati a prendere, anche con mezzi illeciti, qualsiasi cosa vogliano ottenere. A causa di certi
effetti provocati dall'alcool (riduzione dell'attenzione, conseguente diminuzione della percezione del
rischio e di messa in atto delle normali norme precauzionali, rallentamento dei riflessi) ad esso può
essere attribuita, contrariamente ai casi di cui si è detto sopra, responsabilità certa ed esclusiva nel
determinare incidenti di diverso tipo che possono configurarsi come reati colposi: incidenti stradali
che coinvolgono solo gli ospiti delle autovetture o anche i pedoni, incidenti aerei, incidenti sul
lavoro, incidenti domestici.
7.2. L’eroina
E' la droga che trasforma quasi senza scampo chi ne dipende in un delinquente abituale perché, in
forza della sua capacità di indurre una tenacissima dipendenza e quindi di rendere il tossicomane un
cliente obbligato, è venduta a prezzi assurdamente gonfiati. La necessità dell'eroinomane di disporre
in continuazione di ingenti somme di denaro, assieme al subentrare di uno stile di vita degradato e
amorale, lo portano spesso a commettere reati che consistono non solo in una microcriminalità di
tipo esclusivamente patrimoniale (in prevalenza furti), ma anche in aggressioni violente alla persona
(scippi, rapine, estorsioni). Il bisogno assillante di denaro trasforma il tossicomane anche in una
fonte di manovalanza facilmente reclutabile da qualunque gruppo o organizzazione criminale per
qualsiasi attività, purché compatibile con il loro stato; può inoltre predisporre a forme di devianza
come la prostituzione che spesso, a sua volta, induce altra criminalità. Spesso succede che il
tossicodipendente venga inserito nella catena di distribuzione come piccolo spacciatore coartato
dalla minaccia di fargli mancare la dose quotidiana, se rifiuta, e allettato dalla possibilità di avere
dosi gratis, se accetta. Il quotidiano contatto con gli altri tossicodipendenti e la naturale tendenza del
tossicodipendente a fare nuovi proseliti lo rende difatti un soggetto ideale per operare in direzione
dell'allargamento del consumo e per garantire quindi allo spacciatore intermedio un incremento
continuo del volume di affari. Le modificazioni del carattere e della personalità tipiche
dell'eroinomane, che si traducono anche in comportamenti imprevedibili, reazioni esplosive e
irritabilità, possono pure dar vita ad atti di violenza soprattutto in casa dove forti si fanno le
difficoltà di rapporto. Frequenti sono difatti le discussioni e le liti che nascono attorno allo stato di
degrado fisico e psichico in cui riversa il familiare, ai tentativi di indurlo a disintossicarsi, alle
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incessanti richieste o sottrazioni di danaro e beni di valore fatte dal tossicomane. E' facile, pertanto,
che tali discussioni degenerino in minacce, estorsioni, percosse e lesioni di cui il tossicodipendente
può ritrovarsi però anche vittima; difatti sovente succede che tanta violenza generi reazioni
disperate nei familiari che possono arrivare, in casi estremi, anche ad ucciderlo. In un ottica
vittimologica vanno anche considerati i molti reati consumati ai danni degli eroinomani soprattutto
in quegli ambienti delinquenziali di cui egli entra a far parte. Frequenti sono i casi in cui il
tossicomane, nei panni anche di spacciatore, rimane ferito o ucciso negli scontri che si verificano tra
rivali per il controllo monopolistico delle zone di distribuzione. Il consumo di eroina, inducendo
stati di ottundimento psichico, svolge pure un ruolo rilevante nella determinazione di reati colposi
commessi alla guida di autoveicoli.
7.3. La cocaina
Questa droga, molto più delle altre, sembra esercitare un'influenza diretta sull'aggressività
slatentizzando 1e istanze aggressive preesistenti e inibendo, contemporaneamente, il controllo e il
giudizio critico. Si tratta di una sostanza utilizzata, sino ad un decennio fa, soltanto nelle classi
sociali più elevate e che attualmente si va invece diffondendo in tutti gli ambienti. Ciò in virtù del
fatto che i suoi effetti vengono considerati non soltanto innocui, ma anche in linea con le richieste di
efficienza e prestazioni elevate poste dalla nostra società. Pur non subentrando mai una vera e
propria dipendenza fisica la cocaina può comunque dare una forte dipendenza psichica che porta ad
assumerne quantità eccessive per tempi prolungati. Si fa alto, in tal caso, il rischio che si verifichino
episodi di intossicazione acuta e anche stati di intossicazione cronica che possono indurre quadri di
strutturazione paranoidea fino a veri e propri scompensi psicotici con deliri di persecuzione o di
gelosia. E' evidente come in presenza di un'ideazione paranoide possano più facilmente verificarsi
comportamenti violenti messi in atto allo scopo di difendersi. La cocaina, agendo sui centri
cerebrali che governano i comportamenti aggressivi e impulsivi, indurrebbe quindi una particolare
aggressività di tipo difensivo alimentata dalla diffidenza e dalla sospettosità. Ma comportamenti
violenti possono verificarsi anche nei primi due stadi dell'intossicazione cronica, prima che si arrivi
cioè alla comparsa del pensiero diffidente/paranoide e, successivamente, del disturbo psicotico. Il
primo stadio definito "di euforia" è caratterizzato da iperattività psicomotoria e miglioramento
delle capacità cognitive. In questa fase atti di violenza possono essere indotti da una condizione di
ipervigilanza che comporta una eccessiva tendenza ad interpretare le intenzioni altrui e a reagire in
maniera immediata; inoltre l'eccesso di euforia, la sensazione di potenza e di fiducia estrema in se
stessi possono essere utilizzati strumentalmente per compiere diversi tipi di reati, così come
possono produrre comportamenti spericolati e imprudenti che sono causano di incidenti. Il secondo
stadio, definito "disforico", è invece caratterizzato non soltanto dal calo della concentrazione e del
rendimento in tutte le attività, ma anche da una riduzione del controllo emotivo che può portare il
soggetto ad agire o a reagire in maniera violenta, esponendolo ovviamente anche al rischio di
rimanere vittima dell'aggressività di altri provocata dai suoi stessi comportamenti. Va inoltre
considerato che, potendo indurre una forte dipendenza psicologica e costando cifre abbastanza
elevate, anche la cocaina, così come l'eroina, può portare il soggetto a compiere reati legati alla
necessità di reperire in continuazione somme di denaro per il suo acquisto.
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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7.4. Le anfetamine
Anche se alcune indagini sperimentali indicano che queste sostanze potrebbero stimolare
comportamenti aggressivi, nell'uomo atti di violenza sembrano verificarsi più frequentemente nei
consumatori abituali che in quelli occasionali il che induce a ritenere che essi siano determinati non
tanto dall'azione farmacologica della sostanza stessa, quanto dalle deteriorate relazioni sociali
tipiche dell'assuntore cronico. Comportando una forte dipendenza, sia fisica che psichica, l'abuso di
anfetamine provoca difatti ripercussioni negative sul funzionamento sociale con conseguente
assunzione dello stesso stile di vita marginale e degradato dell'eroinomane.
Va però segnalato che, se assunte in dosi eccessive, il piacevole stato di eccitazione indotto dalle
anfetamine può trasformarsi in irritabilità e aggressività da cui possono pertanto scaturire
comportamenti violenti o provocatori della violenza altrui.
7.5. Gli allucinogeni, l’ectasy ed altri derivati degli anfetaminici
Il consumo di queste sostanze è sempre più in aumento soprattutto tra i giovanissimi i quali ne
fanno largo uso in momenti ricreativi che hanno luogo in particolari giorni e luoghi: esse vengono
difatti utilizzate prevalentemente durante i fine settimana nelle discoteche, allo stadio, a feste e
concerti per amplificare il divertimento attraverso prestazioni ed emozioni particolarmente intense.
Il rischio di una sempre maggiore diffusione di queste sostanze è collegata al fatto che, come già
inizialmente per la cocaina, esse non vengono percepite come vere e proprie droghe in quanto i
danni provocati compaiono soltanto dopo periodi molto lunghi di abuso e alcune di loro non sono
ancora state incluse nelle diverse tabelle delle sostanze stupefacenti. Non vi sono per queste droghe
significative correlazioni con la criminalità in quanto il loro costo è relativamente economico e non
sembrano produrre dipendenza; il loro uso rimane difatti esclusivamente limitato alle situazioni di
svago collettivo. Neanche sono mai state dimostrate correlazioni di tipo diretto tra l'assunzione di
queste sostanze e comportamenti aggressivi. Vengono segnalati soltanto rari episodi di aggressività
riconducibili alla perdita di lucidità e al senso di onnipotenza che gli allucinogeni possono indurre;
manifestazioni di aggressività e partecipazioni a risse possono pure verificarsi come conseguenza
dell'allentamento dei freni inibitori indotto dall'ectasy, ma anche qui si tratta di casi eccezionali dal
momento che la tipica condizione di disinibizione procurata dalla sostanza si traduce, generalmente,
in un migliore rapporto con gli altri, in una più intensa e piacevole socializzazione. E' pur vero però
che sull'effetto e l'intensità di queste sostanze giocano un ruolo rilevante la personalità del
consumatore, l'umore al momento dell'assunzione e, non ultimo, il contesto in cui questa avviene.
Un ambiente chiuso e rumoroso quale quello delle discoteche, con continue e stressanti stimolazioni
sensoriali, dove vengono contemporaneamente consumate bevande alcoliche, può quindi favorire
anche alterazioni comportamentali di tipo aggressivo. Una elevata correlazione diretta esiste
soltanto con la delittuosità colposa da incidenti stradali, causati da eccesso di velocità, che
avvengono solitamente al momento del ritorno a casa. Nel caso dell'ecstasy essi sono riconducibili
alla persistente eccitazione, unita ad un diminuito senso critico, che genera una falsa sensazione di
sicurezza alla guida; altre volte sono invece provocati dalla alterata prontezza dei riflessi legata alla
stanchezza che subentra una volta esauriti gli effetti stimolanti, stanchezza peraltro pesantissima se
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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si considera che il senso di energia indotto dalla sostanza porta i ragazzi a ballare ininterrottamente
per parecchie ore e spesso durante tutta la notte. Nel caso invece degli allucinogeni, dosi eccessive
possono indurre perdita del controllo e della lucidità accompagnate da una sensazione di
onnipotenza che porta il soggetto a sopravvalutare le proprie capacità, senza contare le conseguenze
negative che hanno sulla guida le distorsioni percettive tipiche di queste sostanze.
7.6. I cannabici
La relazione con la commissione di reati è pressoché inesistente, fatta eccezione per quelli colposi,
come gli incidenti stradali, determinati dalla diminuzione dell'attenzione, della concentrazione e
della prontezza dei riflessi. Il basso costo e la mancanza di un bisogno imperativo di assumerla
fanno sì che il consumatore di cannabis sia praticamente immune dal coinvolgimento con la
criminalità: egli conserva un normale funzionamento sociale e il suo status di vita precedente all'uso
o abuso di sostanze. Anche l'azione diretta delle sostanze sui comportamenti violenti è trascurabile.
Consumatori di cannabici si trovano più facilmente coinvolti in gravi atti violenti, nel ruolo di
autore o vittima, soltanto nel caso essi facciano contemporaneo uso di alcool o altre sostanze
stupefacenti. Comportamenti aggressivi possono comunque manifestarsi in fumatori abituali e
ostinati che abbiano sviluppato una dipendenza psichica. La letteratura descrive modificazioni del
carattere in corso di uso cronico di cannabici anche se questi aspetti risentono molto dell'esistenza
di precedenti problemi psicologici e relazionali che giocano un ruolo determinante nell'indurre la
persona a ricorrere all'uso massiccio di "spinelli" e da quest'uso risultano poi rinforzati e acuiti. A
tal proposito è stata segnalata una sindrome definita "demotivazionale" caratterizzata da perdita di
motivazioni sia per le attività sociali che lavorative, con un atteggiamento di fuga dai problemi
quotidiani e di ricerca del benessere esclusivamente nel fumo, un po’ come avviene per l'alcool e
l'eroina. Alcuni autori hanno pure evidenziato come il consumo intenso e protratto possa interferire
con i ritmi di sonno e veglia impedendo quindi un riposo regolare al soggetto che in forza di ciò
potrebbe divenire sempre più irascibile e reagire con comportamenti aggressivi ad ogni minima
critica o provocazione. Va inoltre segnalato che dosaggi molto alti di queste sostanze possono
indurre una intossicazione acuta caratterizzata, tra gli altri sintomi, anche da irritabilità o
manifestazioni aggressive secondarie a disturbi ideativi di tipo paranoide.
8. IL TRATTAMENTO DEI FARMACODIPENDENTI IN AMBITO PENITENZIARIO
L’istituzionalizzazione è una tappa quasi obbligatoria per il tossicodipendente e per l’alcolista, i
quali frequentemente finiscono in carcere. L’art.84 della legge 684/75 sancisce che “chiunque si
trovi in stato di custodia o di espiazione di pena e sia ritenuto dall’autorità sanitaria abitualmente
dedito all’uso non terapeutico di sostanze stupefacenti o psicotrope, ha diritto di ricevere le cure
mediche e l’assistenza sanitaria a scopo di riabilitazione”. Per una corretta impostazione di un
programma terapeutico l’intervento degli operatori deve essere necessariamente multidisciplinare
ed avvalersi delle strutture sanitarie penitenziarie e dei centri sociosanitari territoriali. Il
contenimento ed il superamento della crisi di astinenza vengono in linea generale affrontati con la
somministrazione di trattamenti medicamentosi. Vengono controllati il funzionamento dei vari
organi del tossicodipendente ed eseguiti esami di laboratorio, contemporaneamente ad una terapia
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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farmacologica metabolica, tranquillante, di sostegno e nutrizionale. In un secondo momento viene
affrontato l’aspetto psicosociale, con l’obiettivo di far si che questi soggetti riacquistino la fiducia
nelle loro capacità ed imparino a risolvere con modalità più efficaci i problemi, e di sensibilizzare il
soggetto ad aderire ad un programma terapeutico e socioriabilitativo fra quelli realizzabili in
istituto. L’analisi delle reti sociali permette agli operatori di individuare sia i membri del sistema di
appartenenza del soggetto che potrebbero essere coinvolti nel processo di aiuto, sia le risorse da
mobilitare e le strategie da mettere in atto. Una valida connessione intersistemica dovrebbe
collegare gli operatori del carcere con i servizi territoriali, con i sistemi informali (parenti, amici,
vicini) e quasi formali di sostegno (volontariato, gruppi selfhelp). Allo stato attuale la detenzione è
tra le poche concrete occasioni per effettuare un’effettiva disintossicazione, in ragione
dell’obbligato distacco dalla sostanza. Durante la detenzione è possibile realizzare la
disintossicazione ed il trattamento degli aspetti fisici delle tossicodipendenze, ma ben poco si può
fare per gli interventi psicologici e psicosociali, attualmente carenti. Ne deriva che il trattamento
nel suo complesso è incompleto, mancando una fase di riabilitazione e di reinserimento sociale[10].
Dal punto di vista criminologico l’elevata percentuale di precedenti penali dimostra chiaramente
l’inefficacia del trattamento puramente custodialistico. E’ necessario programmare nuove strategie
di intervento in favore del detenuto tossicodipendente o alcolista:
utilizzare il contratto con la giustizia per avviare un piano di trattamento fisico e psicosociale;
evitare stigmatizzazioni: la scelta di non isolare gli alcolisti dai tossicodipendenti è data
dall’esigenza di non “ghettizzare” e di non creare condizioni di privilegio rispetto ad altre categorie
di detenuti;
predisporre un trattamento individuale e specifico.
L’ordinamento penitenziario pone l’obbligo di attuare un trattamento rieducativo che tenda, anche
attraverso i contatti con il mondo esterno, al reinserimento sociale[11]. Tale modalità rieducativa
dei condannati è diretto a promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di
ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale. In questa prospettiva si auspica un sempre più
diffuso collegamento tra le strutture penitenziarie ed i servizi territoriali, in grado di garantire
globalità e continuità al trattamento, anche al di fuori della struttura carceraria. In tal modo
l’intervento penitenziario diviene più organico e globale, finalizzato all’obbiettivo ultimo, che è il
recupero attraverso l’effettiva e proficua interpretazione sociale.
Profili statistici tipici degli alcolisti e dei tossicodipendenti nelle carceri
ALCOLISTA
Sesso: maschio,
Età: 35 anni,
Scolarità: elementare,
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Attività lavorativa: disoccupato
TOSSICODIPENDENTE
Sesso: maschio
Età: 23 anni
Sostanza utilizzata: eroina
Reati: contro il patrimonio, reati comuni, contro la persona
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[1] Quadro sintetico degli effetti dell’alcool, in: Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo,
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[2] Quadro sintetico degli effetti dell’alcool, in: Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo,
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[3] Tossicodipendenza, personalità e comorbietà psichiatrica. Implicazioni cliniche, in: Medicina
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[4] Tossicodipendenza, personalità e comorbietà psichiatrica. Implicazioni cliniche, in: Medicina
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[6] De Leo G., Patrizi P., La spiegazione del crimine, Il mulino, Bologna; 1999 2° ed
98
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
99
[7] Ponti G., Compendio di criminologia, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999 4° edizione.
[8] Alcool, violenza ed aggressività, in: Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo, XXI (1)
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[9] Alcool, violenza ed aggressività, in: Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo, XXI (1)
1998.
[10] Ferracuti Franco (a cura di), Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria
forenze: carcere e trattamento, Giuffrè editore, Milano 1989.
[11] Ferracuti Franco (a cura di), Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria
forenze: carcere e trattamento, Giuffrè editore, Milano 1989.
LE ORGANIZZAZIONI CRIMINALI
La ricerca criminologica, nell'ambito del crimine organizzato, sembra essere in una condizione di
incertezza e approssimazione soprattutto per ciò che attiene agli studi di tipo qualitativo. Le ragioni
di tale condizione sono riconducibili alla natura stessa dell’oggetto di studio in primo luogo per la
segretezza e mimetizzazione dei gruppi criminali in oggetto nonché per la pericolosità connessa allo
svolgimento di studi "sul campo" che pone sovente i ricercatori in condizione rinunciataria. Le
caratteristiche adattive delle organizzazioni criminali complesse rappresentano poi un’ulteriore
elemento di difficoltà per la progettazione delle ricerche. La rapide modifiche strutturali e la loro
continua evoluzione rende infatti questi aggregati un oggetto sfuggente alle categorizzazioni e alla
stessa formulazione di ipotesi operative. Le difficoltà metodologiche si associano sovente ad una
certa inadeguatezza delle teorie criminologiche correnti. La maggior parte degli studi criminologici
assume infatti, come assunto generico di fondo, che il crimine sia prodotto di una certa
disfunzionalità dovuta a deficit di socializzazione o a “patologie individuali” o ancora a una distorta
attribuzione di significato alla realtà. Sovente, l’appartenenza a organizzazioni criminali complesse
e l’esecuzione di crimini nel loro ambito, rappresenta viceversa l’esito fisiologico di un vero e
proprio processo di socializzazione, soprattutto in talune aree geografiche dove la “cultura mafiosa”
è in grado di relegare in condizioni subculturali e di devianza la “cultura ufficiale”. L’ultimo aspetto
da considerare è la forte capacità dei grandi gruppi criminali di organizzare ed orientare il
comportamento dei singoli appartenenti attraverso un sistema sanzionatorio estremamente efficace.
Queste condizioni hanno reso il materiale scientifico disponibile di taglio criminologico
estremamente limitato, soprattutto quello riguardante le dinamiche delle organizzazioni e le
interazioni tra i loro componenti e tra le loro strutture. Molti studiosi, viceversa, hanno prodotto
numerosi scritti e saggi sull'argomento di impostazione giornalistica e sociologica, centrati
soprattutto sulle componenti antropologiche e rituali o impostati sulla semplice disamina statistica
degli “indicatori” della presenza criminale organizzata in un determinato territorio[1]. Talune
eccezioni di impostazione qualitativa si riscontrano negli studi che riportano la life history di alcuni
pentiti, unici elementi disponibili alla narrazione di questioni attinenti alla loro organizzazione.
Questi racconti, pur fornendo informazioni utili alla comprensione del fenomeno mai ottenute in
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precedenza, presentano caratteristiche che dovrebbero indurre gli studiosi ad una particolare
cautela, soprattutto in ragione del fatto che la “condizione di pentito” può indurre il soggetto a
stravolgimenti della realtà (oltre che a tentativi di depistaggio). L’interesse delle organizzazioni
criminali per il criminologo si articola sostanzialmente verso due filoni di studio: l’osservazione dei
singoli appartenenti, intesi come criminali aventi spesso delle peculiarità dovute all’inserimento
all’interno della subcultura dell’organizzazione e l’analisi organizzativa, che mira ad evidenziare le
dinamiche e le strutture (e la loro evoluzione nel tempo) del gruppo delinquenziale. Per ciò che
attiene al primo filone lo studioso dovrà dotarsi soprattutto di strumenti conoscitivi in grado di porre
in evidenza l’influenza della struttura organizzativa sulla personalità e sull’agire del soggetto, senza
dimenticare però la sua residuale capacità determinativa del proprio comportamento, per ciò che
attiene invece alla dimensione organizzativa, una possibile soluzione metodologica e concettuale è
rappresentata dall’impiego di paradigmi interpretativi mutuati da altre branche delle scienze sociali,
in particolar modo nell’ambito della Psicosociologia del lavoro e delle organizzazioni, considerando
quindi i gruppi criminali complessi come delle organizzazioni finalizzate alla produzione e
accumulazione di ricchezze in senso lato, connotate (ma solo come variabile) da aspetti di illegalità.
Questo approccio considera quindi le strutture criminali come sistemi finalizzati alla produzione
accumulazione di ricchezze impiegando in alcune fasi temporali degli imputs (risorse) e delle
tecnologie illegali.
Il comportamento individuale ed organizzativo
Esiste una correlazione intensa tra i fattori legati all’ambiente (sociale e gruppale) che favoriscono
una condotta criminosa, e quelli legati invece alle singole personalità, con possibilità di infinite
combinazioni reciproche[2]. In linea di massima, quanto più i fattori ambientali favoriscono il
crimine, tanto meno necessarie sono le componenti legate alla personalità dell’individuo.
Un’approccio alle organizzazioni criminali che ipotizzi un’assoluta capacità da parte dei gruppi di
orientare il comportamento dei singoli appartenenti appare fuorviante così come sembrano
riduzionistici gli approcci che considerano viceversa tali individui completamente liberi di
organizzare e significare il proprio agire. Nella realtà, quindi, i fenomeni di actingout criminale
devono essere intesi come frutto di una costante integrazione tra fattori individuali, di gruppo ed
ambientali. Le organizzazioni, i gruppi organizzati, anche se non scevri da segmenti irrazionali di
orientamento del comportamento, presentano però un livello di maggiore stabilità rispetto alla
finalità razionale e le eventuali dinamiche “anomale”, possono essere interpretate (e previste) come
prodotto di interazioni tra i componenti del gruppo o come stimolazioni impreviste provenienti
dall’ambiente sociale.
L’analisi del comportamento individuale
L’appartenenza di individui ad un'organizzazione criminale complessa implica due "condizioni"
sostanziali poste su diversi piani ma aventi numerose interconnessioni e reciproche influenze. La
prima condizione è riferibile alla devianza. La semplice partecipazione all'organizzazione pone
teoricamente il soggetto in una "condizione" di devianza. Tale condizione va però interpretata alla
luce del sistema di valori diffuso nell’ambiente sociale in cui il soggetto è inserito. La seconda
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condizione è riferibile al ruolo del soggetto nella compagine delinquenziale ed alle sue conseguenti
diverse motivazioni. La sua posizione gerarchica e la sua specifica attività influiranno infatti
probabilmente sul suo comportamento e sulle sue aspettative. I partecipanti, in tal senso, sono
notevolmente differenti tra loro, sia per quanto riguarda il tipo di professionalità riversato nelle
dinamiche dell'organizzazione e sia per ciò che attiene alla rappresentazione degli obiettivi
desiderati intesi come motivazione di appartenenza al gruppo criminale. E' presumibile che la
percezione del crimine possa variare notevolmente in base al tipo di suttostruttura in cui il soggetto
opera. Le organizzazioni criminali complesse infatti presentano delle sottostrutture notevolmente
differenti l’una dall’altra, alcune più esplicitamente criminali (es. i gruppi di killer) altre più
asettiche e professionali (es. le strutture dedite al riciclaggio). Ricordiamo che, per Sutherland,
alcune forme di criminalità, come ad esempio quelle condotte in ambienti economici e finanziari,
anche se incorrono in sanzioni giudiziarie, vengono spesso considerate positivamente o, al limite,
come un'azione professionale spregiudicata. Tali comportamenti criminali sfuggono allo stereotipo
del criminale e raramente incorrono nella stigmatizzazione ovvero nella sottolineatura sociale della
condizione di devianza.
L’analisi del comportamento organizzativo
La fase preliminare comune a tutti i percorsi di ricerca è rappresentata dalla definizione dell’oggetto
di indagine. Tale considerazione, solo in apparenza tautologica, trova origine, specie nell’ambito
delle Scienze sociali, dalle numerose prospettive che la medesima questione può assumere
imponendo costruzioni teoriche e metodologiche anche molto distanti tra loro. Per ciò che attiene,
ad esempio, alla specifica tematica delle organizzazioni criminali appare evidente come sullo stesso
orizzonte si possano delineare aspetti strutturali (soggetti, gruppi ed istituzioni), aspetti relazionali
(interazioni tra soggetti, gruppi ed istituzioni) ed aspetti costruzionistici (eventi). In termini
strettamente criminologici si può considerare organizzazione criminale un aggregato di individui,
stabile nel tempo e dotato di gerarchie e strutture operative, il cui fine razionale è ricercato
attraverso mezzi illegali. Anche se nel linguaggio comune le organizzazioni criminali sono spesso
assimilate a quelle mafiose, secondo la precedente definizione si possono classificare come tali
anche gruppi terroristici, alcune sette sataniche, ecotrafficanti, narcotrafficanti, contrabbandieri,
sfruttatori della prostituzione in grande stile, eccetera.
La scelta dell’approccio di studio
In tema di analisi organizzativa, la storia delle Scienze sociali ha mostrato una infinito assortimento
e contrapposizione di approcci epistemologici e di teorie interpretative che hanno, di volta in volta,
privilegiato variabili di vario genere, macrosociali, psicosociali ed individuali e che hanno
affermato la possibilità di spiegare aspetti organizzativi ognuna attraverso percorsi conoscitivi
specifici. Il notevole assortimento di contenuti interpretativi si è poi associato ad altrettanto
diversificati profili metodologici, funzionali, com’è ovvio, ai vari approcci analitici. In questa sede,
fermo restando il riconoscimento del grande contributo allo sviluppo dello studio delle
organizzazioni che tali approcci hanno indotto, si vuole proporre, nell’ambito dell’analisi
organizzativa, un’ottica di studio di tipo multidimensionale facendo eco, del resto, ad un nutrito
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gruppo di studiosi che negli ultimi anni hanno costituito a nostro avviso un vero e proprio turning
point epistemologico nella psicosociologia dell’organizzazione affermando, con forza, l’esigenza di
una costruzione della ricerca sociale in questo specifico settore “formata” da vari approcci integrati.
In pratica, la scelta operativa maggiormente proficua sembra potersi definire attraverso un impiego
sinergico di varie teorie (anche molto diverse tra loro) per tentare di ottenere un quadro
interpretativo sufficientemente esaustivo dell’oggetto di indagine mutuando, all’occorrenza,
strumenti e metodologie dalla sociologia strutturalista, dalla psicologia sociale, dalla teoria dei
sistemi, dal funzionalismo, dalla socioanalisi[3] e da altri filoni più centrati sull’individuo e sugli
stati più profondi della sua coscienza, come la psicoanalisi, il cognitivismo e l’interazionismo
simbolico. In una scelta di questo genere, in un certo senso, è riscontrabile l’insegnamento ultimo di
Karl Popper e della sua epistemologia evoluzionistica che auspica, com’è noto, una disponibilità, da
parte del ricercatore, a trovare la forza di mettere in discussione, ed eventualmente cambiare, anche
il suo quadro teorico di riferimento oltre che le sue metodologie[4]. In quest’ottica, una scelta
teorica multidimensionale, senza ovvero un aprioristico orientamento teorico unico, ma alla ricerca
di quegli approcci e di quelle categorie che di volta in volta consentono di spiegare efficacemente
taluni aspetti organizzativi, potrebbe forse rappresentare una possibile interpretazione
dell’evoluzione epistemologica auspicata da Popper. E’ evidente che tale impostazione necessita poi
di un particolare sforzo interpretativo per ricondurre ad un’accettabile visione di insieme ciò che per
opportunità si è teoricamente e metodologicamente scisso, in special modo per quanto riguarda
l’osservazione di fenomenologie complesse e disseminate in uno “spazio analitico” strutturalmente
e temporalmente articolato. L’esigenza, ad esempio, di compatibilizzare i risultati che emergono
dall’applicazione di modelli strutturali (sincronici) come nel caso dell’analisi multifattoriale, in cui
si ipotizza l’intervento contemporaneo di variabili significative per spiegare un determinato
fenomeno, e di modelli sequenziali[5] in cui le variabili, viceversa, assumono significato anche in
termini di temporalità, sequenza e retroazione oltre che di intensità (come nel caso
dell’interazionismo simbolico), impone una particolare predisposizione dell’analista alla
complessificazione e alla problematicità dell’approccio nonché alla dimestichezza con i processi
psicosociali di correlazione lineare (unidirezionale e bidirezionale) e con quelli circolari (es. teoria
dell’azione di Von Cranach).[6]
Alcuni approcci per l’analisi organizzativa
Il paradigma strutturalista
Il concetto di struttura nelle scienze sociali assume significati estremamente diversificati secondo i
vari autori che lo utilizzano nelle loro opere (Levi Strauss, Gurtvitch, Piaget, Chomsky, Parson ecc.)
[7]. Nel paradigma strutturalista, così come inteso in questo studio, la dimensione organizzativa è
sostanzialmente delimitabile concettualmente e contempla strutture organizzative osservabili ed
obiettivi razionalmente concepibili tra cui la coesione e l’integrazione del sistema. L’ottica di
osservazione privilegiata di tale paradigma è necessariamente quella intraorganizzativa,
indipendentemente dall’ampiezza dell’organizzazione stessa che con Parson giunge ad essere
l’intero sistema sociale.[8] Anche in questo paradigma, analogamente a quello sistemico, i
cambiamenti strutturali possono essere di tipo esogeno, generati ovvero da forze esterne che
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inducono un adattamento dell’organizzazione, e di tipo endogeno, correlati all’accumulo di tensioni
che non trovano efficace canalizzazione (espressione) ed inducono quindi delle modifiche,
progressive o traumatiche di alcune sottostrutture o dell’intero sistema organizzativo. Ma gli aspetti
particolarmente evidenziabili con l’approccio strutturalista si riferiscono alle divisioni dei ruoli e
delle funzioni, alla localizzazione delle aree strategiche, alla divisione della leadership, alle
dimensioni dei sottosistemi, alle reti di connessione tra sottosistemi e ad altri aspetti “geometrici”
dell’organizzazione. Spesso, questo genere di analisi predilige l’elaborazione teorica rispetto al
momento di verificazione empirica. La riflessione dello studioso “a tavolino” prende spunto dalla
realtà osservata che viene interpretata attraverso vari passaggi induttivi.[9] Tra le modalità di
rappresentazione dei risultati dell’analisi strutturale, gli schemi grafici sembrano essere
particolarmente idonei all’esplicazione delle osservazioni sulle organizzazioni, poiché la
descrizione strutturalista coglie con grande efficacia gli elementi che costituiscono un sistema ben
definito e le loro relazioni.
Il paradigma sistemico
L’applicazione della Teoria dei sistemi implica il considerare globalmente l’organizzazione come
“un’insieme di capitali, di macchine, di uomini, di strutture, di flussi informativi”[10] e di strutture
normative che interagiscono con un ambiente di cui, comunque, ad un determinato livello,
costituiscono espressione. L’analisi sistemicofunzionale è sovente legata all’osservazione degli
imputs energetici e alla produzione di outputs da parte di un sistema composto da sottostrutture
funzionali o sottosistemi (di varia complessità) che interagiscono tra loro. I fenomeni descritti con
particolare efficacia, utilizzando le teorie sistemiche, risultano essere quindi soprattutto quelli
funzionali e relazionali tra individui, tra gruppi, tra sistemi complessi ecc..[11] L’oggetto
dell’osservazione scientifica diviene così un flusso, un’interazione, una dinamica comunicazionale
(la loro efficacia, direzione ed intensità). Il sistema non può essere concepito come avulso dal
contesto nel quale è inserito e non è possibile apportare modificazioni su uno dei suoi sottosistemi
senza che tale azione non si ripercuota sull’equilibrio e sul funzionamemto del sistema stesso.[12]
Gli strumenti metodologici compatibili con questo approccio sono evidentemente di tipo
multidisciplinare (sociologici, psicosociali e psicologici) essendo le relazioni oggetto di studio
influenzate da variabili di natura macrosociale, psicosociale ed individuale.[13]Un particolare
riferimento va dedicato all’apporto teorico di Richard Scott della Stanford University che al
contrario di molti studiosi contemporanei dei sistemi aperti, osserva con attenzione le modifiche
delle strutture interne alle organizzazioni nel corso dell’interazione con l’ambiente.[14]
Il paradigma psicosociale
Queste teorie prendono in considerazione, in special modo, la dimensione umana degli appartenenti
all’organizzazione nel rapporto con la struttura a cui appartengono, con gli scopi organizzativi e con
gli altri membri del gruppo. Generalizzando, viene posta l’attenzione sulla mediazione tra istanze
individuali e finalità organizzative, soprattutto in termini di capacità di adattamento dell’individuo e
di efficacia della gestione delle risorse disponibili da parte dei detentori della leadership. Al centro
della teoria psicosociale viene così posto il gruppo (la sua cultura, le sue istanze, le sue norme ecc.)
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e gli individui che lo compongono nonché il rapporto tra le due realtà. Nell’ambito delle relazioni
intragruppo ed intergruppo l’approccio utilizza solitamente le percezioni consapevoli e quindi
giunte alla coscienza individuale e collettiva.
Il paradigma psicodinamico
Le teorie psicodinamiche applicate all’analisi organizzativa indagano soprattutto i vissuti irrazionali
degli appartenenti e tutti quegli elementi posti su piani profondi della coscienza e non consapevoli
che però influiscono, a vario titolo, sulle dinamiche relazionali organizzative. Tale ottica di
osservazione costituisce evidentemente una possibile integrazione all’approccio psicosociale
evidenziando degli aspetti relazionali non percepiti consapevolmente ed evidenziabili, quindi, con
l’utilizzo della psicoanalisi o di altre forme di psicologia individuale. Tra le teorie psicodinamiche
organizzative appare particolarmente interessante quella socioanalitica che osserva i fenomeni
collettivi inconsci nei gruppi e pone in evidenza anche gli aspetti personologici degli individui che
li compongono.[15]
Altre metodologie applicabili al modello multidimensionale
Network analysis (analisi delle reti sociali) che studia, nello specifico, le interconnessioni tra le
unità di analisi ed evidenzia la direzione, la natura e le caratteristiche dei processi comunicativi
intraorganizzativi ed interorganizzativi;
Inferenza statistica, che fornisce informazioni su ricorrenze ed ampiezza dei fenomeni partendo da
elementi numerici (quantitativi). Nel caso di esigenze previsionali, consente ad esempio di fornire
uno spunto probabilistico di base basato sugli eventi (analoghi o correlabili) accaduti in circostanze
simili nel passato, su cui poi effettuare un’analisi più avanzata sullo specifico contesto.
Analisi socioistituzionale, che studia il rapporto tra istituzioni giuridiche e politiche ed il sistema
sociali che le ospita, in termini di legittimazione e di funzionalità.[16]
Life histories, applicate ad individui correlati con l’oggetto di indagine.[17] Consentono di
evidenziare alcuni aspetti, non facilmente identificabili induttivamente, della sfera motivazionale,
emotiva ed irrazionale di soggetti appartenenti ai gruppi. L’impiego delle storie di vita, in una
preliminare ricerca di sfondo può ad esempio delineare alcune variabili della psicologia del
profondo significative nelle dinamiche analizzate dalla socioanalisi o evidenziare possibili
meccanismi di interazione “anomala” tra individui e gruppi che, com’è noto, rivestono una
posizione determinante nei meccanismi di azione singola e collettiva.[18]
L’organizzazione metodologica dell’analisi
La base di partenza analitica è costituita dalla determinazione delle strutture che sono “in campo”.
Tale osservazione può condurre ad uno schema che parte da premesse induttive (le categorie) e che
si arricchisce di elementi empirici (l’osservazione dei gruppi interessati) costituendo una griglia
strutturalista dove emergono:
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∙ i confini strutturali del sistema interessato (es. il SistemaPaese Italia);
∙ in soggetti e i gruppi interessati (es. le istituzioni, i gruppi sociali, le agenzie di controllo, i gruppi
intervenienti, gli obiettivi di azioni destabilizzanti ecc.);
∙ le interazioni tra i soggetti e i gruppi interessati (approccio sistemico), compresa la produzione
normativa specifica di contrasto;
∙ il report statistico (almeno decennale) di dinamiche organizzative avvenute in concomitanza con
condizioni storiche analoghe (es. variabili economiche.) per determinare eventuali modalità di
adattamento del sistema criminale agli stimolo provenienti dal sistema sociale;
∙ le motivazioni di base dei gruppi (es. il crimine, il potere economico, l’espansione ecc.).
Il comportamento organizzativo
La motivazione dei gruppi
La motivazione di un gruppo costituisce la spinta a raggiungere degli obiettifi prefissati che nel caso
delle organizzazioni criminali complesse sono il raggiungimento della ricchezza e del potere. Nella
determinazione della motivazione razionale di base di un gruppo occorre considerare che essa non è
necessariamente uguale per tutti gli appartenenti ad esso. Intendiamo quindi, per convenienza
analitica, una sorta di spinta motivazionale (razionale) media dell’organizzazione che coincide
solitamente con quella dell’area di detenzione della leadership dell’organizzazione stessa. E’
possibile infatti che alcuni singoli appartenenti all’organizzazione abbiano motivazioni diverse
(costituendo ad esempio delle accelerazioni o dei blocks al perseguimento dei fini organizzativi. E’
così ipotizzabile che alcuni singoli appartenenti all’organizzazione agiscano in contrasto con la
motivazione razionale dell’organizzazione e con le sue strategie e l’efficacia di tali “devianze” può
essere correlata alla natura strutturale e culturale del gruppo in cui si manifestano. In altri termini, le
peculiarità culturali e di strutturazione gerarchica di un’organizzazione criminale (es. la mafia)
possono ridurre o ampliare lo spazio tra quello che è formalmente prevedibile e quello che è
comportamentalmente possibile.
La scelta dei parametri
Uno dei primi passi per la progettazione di ricerche sui gruppi criminali è rappresentato dalla scelta
di alcuni parametri ritenuti ipoteticamente significativi per interpretare il comportamento
organizzativo. Questi elementi possono essere il frutto di rilevazioni statistiche, di studi sulla
normativa e dell’osservazione scientifica. Alcuni possibili parametri utili allo studio delle
organizzazioni criminali complesse possono essere:
∙ ampiezza dell’organizzazione (es. regionale, nazionale, transnazionale);
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∙ attività criminali svolte;
∙ tipologia ed efficacia dei sistemi comunicativi;
∙ infiltrazione nel tessuto sociale economico ed istituzionale;
∙ flessibilità strutturale;
∙ permeabilità informativa e compartimentazione;
∙ caratteristiche antropologiche dei gruppi;
∙ capacità di tesorizzazione e movimentazione dei capitali illeciti;
∙ livello di tecnologie criminali impiegate;
∙ livello di amministrazione della violenza intragruppo;
∙ livello di amministrazione della violenza verso l’esterno;
∙ livello di connessione e cooperazione con altre organizzazioni criminali;
∙ sistema di trasmissione dei valori;
∙ efficacia del sistema sanzionatorio;
∙ capacità di mimetizzazione;
∙ livelli di equilibrio intraorganizzativo (vari indicatori);
∙ livello di aggressività interorganizzativa.
Si tratta oviamente di parametri esposti a titolo esemplificativo che possono essere integrati da
ulteriori aspetti ritenuti necessari dai ricercatori.
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[1] Tale impostazione, probabilmente, necessita di contatti meno stretti e coinvolgenti con
l'universo criminale oggetto d'indagine e concerne perlopiù analisi documentali.
[2] PONTI G., Compendio di Criminologia, Cortina Editore, Milano, 1990.
[3] FRANCESCATO D., GHIRELLI G., Fondamenti di psicologia di comunità, NIS EDITORE,
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[4] CHMIELEWSKI A. J., Il nostro dovere è essere ottimisti: intervista a Karl Popper del 29 luglio
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[5] BECKER H. S., Outsiders, Saggi di sociologia della devianza. Edizioni Gruppo Abele, Torino,
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[6] VON CRANACH M., HARRE’ R., L’analisi dell’azione: recenti sviluppi teorici ed empirici,
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[7] BOUDON R., Strutturalismo e scienze umane, Ed. Einaudi, Torino, 1970.
[9] DE MASI G., BONZANINI A. (a cura di), Trattato di sociologia del lavoro e delle
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[10] DE MASI D., Manuale di ricerca sul lavoro e sulle organizzazioni, ed. Nuova Italia Scientifica,
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[11] STRANO M., Strumenti e metodologie per l’analisi delle organizzazioni criminali complesse
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[12] DE MASI D., BONZANINI A., (a cura di), Trattato di sociologia del lavoro e delle
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[13] STATERA G., Metodologia e tecnica della ricerca sociale, ed. Palumbo, Roma. 1982.
[14] SCOTT R.W., Le organizzazioni, Ed. Il Mulino, Bologna, 1985.
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[15] BRUSCAGLIONI M., SPALTRO E., La psicologia organizzativa, Ed. Franco Angeli, Milano,
1987, (pag.731)
[16] DE NARDIS P., Teoria sociale ed analisi socioistituzionale, Ed. Carucci, Roma, 1978;
[17] CIPRIANI R., La metodologia delle storie di vita, Ed. Univ. Romana, Roma, 1987. MACIOTI
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[18] VON CRANACH M., HARRE’ R., 1991, op. cit.
IL COMPUTER CRIME
L’impatto dell’informatica con il sistema sociale ha imposto (come per tutte le nuove sollecitazioni
del resto), dei processi adattivi da parte degli individui anche in ambito criminale ed ha alterato il
modo di percepire la realtà (una parte di questa realtà può essere parte di un crimine). Altra ottica di
indagine rispetto all’impiego del computer come strumento del crimine è quella relativa all’aumento
dell’efficacia dell’azione criminale (come nel caso di truffe telematiche) o di cambio dello stile
comunicativo (come nel caso dei siti di gruppi terroristici).
La spiegazione del crimine informatico Molti autori, per analizzare criminologicamente il crimine
informatico, hanno affrontato il percorso tipologico, inteso come un'elencazione di aspetti
psicologici e culturali riscontrati con più o meno frequenza in soggetti che hanno commesso un
determinato reato. Tali ricerche, effettuate evidentemente solo sui soggetti che sono incappati nelle
maglie della giustizia, si sono diffuse probabilmente anche per la relativamente semplice
costruzione metodologica di cui necessitano. La ricerca delle cause, psicologiche o sociali, che
determinano il verificarsi di un crimine, ha costituito però nella storia della Criminologia, un
impasse di difficile superamento non reggendo alle falsificazioni empiriche. Gli approcci
criminologici basati sulla ricerca delle cause del crimine insite nell’autore (teorie biologiche,
psicologiche, psichiatriche) o nell’ambiente sociale dove l’autore è «immerso» (teorie sociologiche)
non hanno retto, nel corso della storia, alle verifiche empiriche. La possibilità di localizzare degli
elementi visibili (clinici, psicologici, sociali) nel soggetto, in grado di fornire una predizione del suo
comportamento ha costituto (e ancora costituisce) una strada sovente percorsa dagli scienziati
sociali alla ricerca di strumenti rassicuranti e generalizzabili. L'approccio tipologico classico però,
se da un verso sembra fornire interessanti informazioni sui soggetti scoperti come responsabili di
crimine, mostra la sua notevole inadeguatezza criminologica nel momento in cui si osservano
soggetti con analoghe caratteristiche di quelli che hanno commesso il reato, che scelgono viceversa
un comportamento legale. Gli studi tipologici, inoltre, nulla possono dire su coloro che commettono
i crimini ma che non vengono scoperti. Questo genere di approccio appare poi a nostro avviso
notevolmente pericoloso nel momento in cui, in fase applicativa, si lancia in ipotesi predittive che
possono condurre, oltre che a posizioni scientifiche di difficile verificazione, anche a produzione di
stereotipi che conducono a disagi di tipo etico e morale. L'attenzione degli studiosi, soprattutto nel
caso di forme di criminalità nuove, dovrebbe viceversa concentrarsi sulle caratteristiche del reato e
cercare poi di spiegare il comportamento criminale degli autori non perdendo mai di vista "...i
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moventi e le disposizioni che affiorano nel corso dell'esperienza..."[1]. Una spiegazione del crimine
informatico ovvero, in cui gli aspetti psicologici, culturali e motivazionali degli attori sociali
assumono significato all’interno di un processo interattivo nel cui ambito si costruisce l'azione
deviante. Il comportamento umano, compreso quindi il comportamento criminale, viene
programmato, orientato ed interpretato attraverso un complesso processo di interazione con la realtà
circostante e in tale processo entrano evidentemente in gioco le esperienze del soggetto, la
conoscenza delle norme penali e sociali, la percezione della gravità dell’atto e della vittima, la paura
della cattura, eccetera. In quest’ottica l’unica possibile unità di analisi in Criminologia diviene
l’azione criminale ed in essa assume quindi significato non solo il soggetto e le sue caratteristiche
ma l’ambiente simbolico che circonda tale azione oltre che l’opera di attribuzione e definizione del
significato operata dall’attore/criminale[2]. Un uomo quindi non più completamente in balia dei
condizionamenti sociali (visione tipica dei sociologi deterministi) o di quelli inconsci (psicoanalisti)
ma in grado di organizzare una buona parte della propria realtà attraverso continue interazioni e
mediazioni con il reale. La previsione comportamentale, in quest’ottica, si indirizza verso la natura
e l’intensità di tali processi interattivi più che su caratteristiche stabili, antecedenti all’ipotetico
fatto, insite nell’ambiente sociale o nella personalità dell’attore. In altre parole, tutti i
comportamenti umani, compreso quindi quello criminale, sono posti su piani di maggiore
complessità e contemplano, parallelamente agli stimoli orientanti (biologici, personologici, sociali)
un’attività di costruzione circolare (agente e retroagente) da parte dell’attore sociale e del controllo
sociale, non leggibile nei soli fattori preesistenti ma ascrivibile all’attività di interpretazione,
significazione e riorganizzazione compiuta dalla mente umana. La devianza, non è un’entità di
fatto, iscritta nell’ordine naturale del mondo o rigidamente determinata da strutture interne del
soggetto ma è il frutto di un processo di costruzione sociale mediato da un’attività peculiare del
genere umano: il pensiero[3].
Alterazione percettiva del crimine e della vittima In un quadro teorico dove appare determinante
l’attribuzione di significato ai contesti ed agli eventi, un elemento di indagine importante è
costituito dalla percezione sociale del crimine. Da alcune ricerche condotte in Europa e negli Stati
Uniti è emerso come la percezione sociale di alcuni crimini informatici può risultare a tal punto
distorta da non far considerare reato, ad alcuni individui, ciò che è considerato tale dalle norme
penali o civili. Queste indagini vengono solitamente condotte somministrando questionari anonimi
a campioni di soggetti ai quali vengono presentati i più comuni atti illeciti in tema di uso del
computer. Talvolta tali illeciti vengono posti in comparazione con altre forme criminali o con
comportamenti ritenuti socialmente riprovevoli. Molti individui, pur consapevoli che alcuni
comportamenti sono un atto illegale, si giustificano dal farne uso in quanto percepiscono tali azioni
come impersonali, che non producono danni economici diretti e non causano danni evidenti alla
collettività. Le caratteristiche delle vittime elettive del computer crime (organizzazioni),
spersonificate e strutturate, sembrano facilitare tale atteggiamento. L’azione criminale, eseguita ai
danni di una vittima spersonificata e non presente nella scena del delitto (grazie alla mediazione del
computer) sembra infatti facilitare l’insorgenza/applicazione delle tecniche di neutralizzazione del
senso di colpa[4].
111
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Responsabilità penale minorile e processo di digitalizzazione sociale. Le valutazioni sugli aspetti
percettivi del computer crime assumono grande rilevanza scientifica, a nostro avviso, nell’ambito
delle ricerche sulla responsabilità penale, in special modo minorile. Il processo di
deresponsabilizzazione individuale nell’ambito della devianza giovanile, contrapposto all’univoca
tendenza verso una maggiore attribuzione di responsabilità ai giovani in svariati settori
dell’organizzazione sociale, sembra definire ancora in larga parte il quadro attuale della politica
penale minorile, fatta salva una certa controtendenza, di natura neoclassicistica, che verso la metà
degli anni 80’ ha costituito una sorta di risposta ad alcune fenomenologie emergenti portatrici di
notevole allarme sociale (criminalità organizzata ed altro) ma che ha rappresentato anche una nuova
tendenza, da parte di una porzione della comunità scientifica, in direzione di una rinnovata
attribuzione di valore e significato alla responsabilità individuale.[5] Si delinea insomma, in ambito
minorile ma anche in relazione agli adulti, un attore sociale non più completamente in balia degli
eventi e dei condizionamenti ambientali ma capace dell’attribuzione valoriale e simbolica nelle
proprie condotte di vita[6]. Tale approccio, per la sua complessificazione analitica, se da un verso
offre notevoli garanzie in termini di equilibrio scientifico (ma anche morale) legate proprio alla
complessità della sua struttura, impone delle analisi di notevole difficoltà, per l’esigenza di dover
cogliere situazioni statiche preesistenti ma anche fattori dinamici ed interattivi, e talvolta retroattivi.
Tra questi fattori, una componente forse ancora lontana in termini di penetrazione antropologica nel
tessuto socioculturale italiano ma di certa rilevanza nel prossimo futuro, è costituita, a nostro
avviso, dal processo di alfabetizzazione informatica e dalla digitalizzazione sociale in corso in vaste
aree del pianeta. L’impatto delle tecnologie informatiche e telematiche su alcune dinamiche
criminologiche sta infatti delineando l’avvicinarsi di una fase storica, in un imminente futuro, in cui
la Criminologia dovrà fare i conti, anche in tema di valutazione della responsabilità, con un
elemento nuovo: la digitalizzazione della maggior parte delle interazioni interpersonali ed
interorganizzative con la conseguente formazione diffusa specie in ambito minorile di schemi
cognitivi nuovi, indotti dall’onnipotenza virtuale e dalle nuove modalità comunicative e in grado di
filtrare ed orientare pensieri, giudizi morali e progetti di azione. Il tentativo di indagare questo
nuovo ambito emergente si articola attraverso percorsi di ricerca diversificati, e si trova,
attualmente, nella comunità scientifica internazionale, in una fase preliminare di valutazione
soprattutto epistemologica. In un’ottica psicodinamica molto semplificata, ad esempio, si
potrebbero delineare alcune ipotesi grezze sulle conseguenze che la rivoluzione digitale può
provocare sulla strutturazione dell’IO in ambito minorile e, in particolare, su una sua parziale
dissonanza con quel modello socializzativo industriale e postindustriale in cui trova ancora
legittimazione il corpo normativo attuale in tema di minori. Secondo tali ipotesi si scorgerebbero le
premesse per la formazione di alcuni tratti della personalità, in larghe aree della popolazione
giovanile, fortemente condizionati dalla logica digitale e tali tratti, essendo indirettamente in grado
di influenzare il comportamento, potrebbero mettere in discussione alcuni assunti attuali sulla
responsabilità offrendo spunto per approfondimenti scientifici oltre che per un ampio dibattito
critico. Le variabili indotte dalla digitalizzazione sociale, di cui sarebbe opportuno verificare la
rilevanza e la loro capacità di influenzare l’agire sociale, affonderebbero in pratica le loro radici in
caratteristiche personologiche acquisite e in un universo valoriale, una cui porzione è prodotta
artificialmente dagli algoritmi matematici della realtà virtuale e che si discosta dall’universo
valoriale nondigitale (e dagli stereotipi di personalità giovanile), ancora in corso di trasmissione da
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parte degli istituti di socializzazione primaria e secondaria. Altri possibili percorsi di ricerca, con
approccio maggiormente sistemico e relazionale, sembrano poi offrirsi nel campo della valutazione
della percezione sociale del crimine ed in vari ambiti vittimologici laddove, secondo quanto
suggeriscono le ricerche in corso di svolgimento[7], le variabili tecnologiche indotte dalla
digitalizzazione troverebbero fattori di interessante significatività. Da tali considerazioni appare
così facilmente ipotizzabile come la Criminologia e la Psicologia debbano trovare una via di
attualizzazione del suo paradigma di conoscenze attraverso esperienze e relative concettualizzazioni
maturate in ottica digitale, con particolare attenzione proprio alla questione responsabilità, nel cui
ambito, probabilmente, si delinea, con notevole forza determinativa, l’efficacia di questo «filtro
tecnologico» all’interno delle interazioni circolari, ma anche in contesti maggiormente individuali
come, ad esempio, nei processi di costruzione della personalità.
Gli adolescenti e il crimine su internet
La rete telematica, con la sua capacità di travalicare i limiti spaziali e temporali consente
connessioni sociali e culturali un tempo neppure immaginabili. Ma alcune di queste connessioni
trasferiscono, in termini unidirezionali o bidirezionali (interattivi), anche informazioni su attività
illegali. Come si è visto, la semplice esposizione a modelli criminali non è di per sé criminogenetica
se non integrata con alcuni sofisticati processi psicologici che conducono l’individuo alla
commissione di un atto illecito. La paura di essere punito, il significato che si attribuisce all’azione
illegale, l’interazione con altri individui ed in ultima analisi la valutazione razionale della
situazione, costituiscono fattori altrettanto importanti nella commissione dei crimini. Ma in questo
quadro un elemento di maggior rischio si può configurare nel caso di giovane età dei soggetti
esposti a modelli di comportamento deviante veicolato dalla rete sovente con genitori avulsi dalla
tecnologia digitale e di fatto impossibilitati a comprendere e percepire eventuali contesti di illegalità
a cui si è accostato il proprio figlio. In primo luogo, per molti adolescenti, la fruizione di tale
materiale avviene talvolta in solitudine[8], senza quindi la possibilità di un confronto immediato
con altri soggetti al di fuori del web (che potrebbero però anche rinforzare il significato piacevole
dell’illegalità). In secondo luogo, la condizione psicologicamente inquieta degli adolescenti e la loro
notoria ricerca di modelli di identificazione, può facilmente percepire alcune comunità virtuali
devianti (es. gli hackers) come particolarmente affascinanti specie per la loro capacità di
interloquire, attraverso il crimine, con la comunità degli adulti a livello paritetico. La produzione di
subculture devianti[9], infine, può divenire svincolata dal luogo fisico delle gangs di strada e dai
contatti face to face, mettendo rapidamente in crisi il paradigma di indagine scientifica tradizionale
oltre che le usuali strategie di controllo e prevenzione da parte degli organi istituzionali. Uno degli
aspetti di maggior interesse per i criminologi che studiano le reti telematiche è rappresentato dal
notevole volume di informazioni di contenuto illegale o dannoso veicolate da internet e che possono
essere “acquisite” da soggetti a rischio (ad esempio minori). Il fenomeno delle informazioni illegali
circolanti sul web, pur avendo delle dimensioni limitate in termini statistici, rispetto alla stragrande
maggioranza di informazioni legali immesse nella rete, rappresenta un ambito di ricerca
decisamente stimolante comprendendo, infatti, fenomenologie criminali anche di notevole gravità.
La tipologia di siti di interesse si articola infatti in diversificati settori e comprende istruzioni su
come confezionare ordigni esplosivi, tecniche per la produzione e raffinazione di droghe,
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Verso un approccio costruzionistico
In effetti, considerare la semplice esposizione a modelli devianti come causa lineare del crimine può
rappresentare un approccio riduttivo poiché, in realtà, l’individuo mantiene fortunatamente una
cospicua capacità decisionale e valutativa nei confronti del proprio comportamento pur sottoposto a
stimolazioni e ad accattivanti identificazioni con contesti illegali. Il più delle volte infatti, l’azione
criminale è frutto di un complesso processo di attribuzione di significato da parte dell’autore[12]
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che non si può considerare, anche se in giovane età, una sorta di burattino. In quest’ottica per la
spiegazione del crimine rappresentano dei fattori rilevanti i significati sociali dell’azione deviante
(percepiti dall’autore), la paura della sanzione, la conoscenza delle norme sociali e penali, mediati
ed organizzati dall’azione determinativa della mente dell’autore. Ad ogni modo, tali considerazioni
non limitano la pericolosità intrinseca di talune informazioni illegali reperibili su internet che,
acquisite da soggetti “a rischio” possono rappresentare una base di partenza importante per
eventuali percorsi comportamentali illegali o pericolosi per l’incolumità fisica di tali soggetti.
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[1]MATZA D., Come si diventa devianti, Il Mulino, Bologna, 1976, pag. 174.
[2] Teoria dell’azione (Von Cranach, Harre’ 1982).
[3] Mario Von Cranach e Rom Harré «The analysis of action», Cambridge University Press, 1982.
[4] Matza,e Sykes hanno affermato, con notevoli verifiche empiriche, che anche i peggiori
delinquenti, avendo avuto comunque una socializzazione più o meno simile a quella degli altri,
sentono delle spinte contrarie alla commissione del crimine. Questi individui riescono a portarlo
avanti, al contrario dei non delinquenti, poiché riescono ad utilizzare con efficacia delle tecniche di
neutralizzazione della loro responsabilità e del relativo senso di colpa (es. negazione della vittima,
ideale superiore ecc).
[5] PONTI G., (a cura di), Giovani, responsabilità e giustizia, Giuffrè editore, Milano, 1985.
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[6] La questione della maggior attribuzione di responsabilità ai minori trova specifica conferma
proprio nella disponibilità, offerta dal mezzo telematico, di sistemi comunicativi potenti e
transnazionali e della concreta opportunità di produrre informazione efficace da parte di soggetti
anche molto giovani che, navigando su internet ed immettendo opinioni in rete, trovano di fatto una
dignità sociale sovrapponibile in tutto a quella di un adulto.
[7] Università Cattolica del Sacro Cuore, Istituto di Psichiatria e Psicologia (Prof. Sergio De Risio),
Gruppo di Ricerca sul computer crime
[8] La sera invece di uscire con gli amici, l’hacker preferisce rimanere a casa, compiacendo i
genitori preoccupati dei pericoli esterni, della droga, dello streetcrime e recuperando
l’approvazione emotiva ed affettiva genitoriale che può rappresentare un’inconsapevole rinforzo
alla sua devianza.
[9] Choen, nel 1955 formula la teoria delle subculture devianti come prodotto del conflitto tra classi
alte e classi basse. I giovani della classe proletaria pur aspirando alle stesse mete culturali dei
giovani della classe agiata sono svantaggiati. Si sviluppa una reazione negativistica verso quei
valori che non possono raggiungere con lo sviluppo di una cultura edonistica e non utilitaristica
(spiegazione degli atti vandalici teppismo, atteggiamenti distruttivi). Si tratta di una sorta di
formazione reattiva, non un conflitto reale verso la cultura dominante ma una sua distorsione. In
generale, una subcultura deviante contempla definizioni di ciò che è lecito diverse rispetto alla
cultura dominante.
[10] Per Sutherland il comportamento criminale è appreso in interazione con altre persone mediante
un processo di comunicazione, che può essere sia verbale che non verbale. Il processo di
apprendimento del crimine avviene apprende soprattutto all'interno di un gruppo ristretto di
relazioni interpersonali. I mezzi di comunicazione impersonale (cinema e giornali) sembrano a tal
fine meno efficaci. Nel processo di apprendimento sono incluse le tecniche idonee alla commissione
di un crimine e l’orientamento degli atteggiamenti del soggetto. Il soggetto in seguito orienterà
impulsi e atteggiamenti in base alle interpretazioni (apprese) favorevoli o sfavorevoli dei codici
legali. Secondo Sutherland, in pratica, un soggetto diviene criminale quando all’interno del gruppo
dove vive le definizioni favorevoli alla violazione della legge sono in eccesso rispetto a quelle
sfavorevoli. Una persona quindi diventa un criminale non solo a causa di contatti con modelli
criminali, ma anche a causa di un isolamento dai modelli “anticriminali”. L’efficacia delle
associazioni differenziali nel determinare il crimine dipende dalla loro frequenza, durata, priorità (il
comportamento criminale sviluppato nella prima infanzia può influire nel corso di tutta la vita) ed
intensità.
[11] Glaser, nel 1960, riformula la teoria delle associazioni differenziali di Sutherland rifacendosi
alla teoria dei ruoli, secondo l'esposizione di George H. Mead, che consente di tradurre
l'associazione differenziale in termini di "identificazione differenziata". Glaser, nella sua
riformulazione, afferma che ai fini dell'apprendimento della delinquenza è importante
l'identificazione con modelli criminali, più che l'associazione con essi. Il fattore determinante per la
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criminogenesi è quindi il processo di identificazione, inteso come processo psichico mediante il
quale si tende incosciamente a rendersi simili a certi modelli scelti come ideale del proprio Io. Nel
corso di tale processo il soggetto assume conseguentemente come propri anche i valori normativi ed
etici associati a tale modello ideale introiettato. L'identificazione non richiede un contatto
interpersonale poiché può realizzarsi anche verso modelli (reali o immaginari) con i quali non vi è
stato un rapporto diretto. L'identificazione con soggetti delinquenti può verificarsi in diversi modi: a
seguito di esperienze dirette con associazioni di delinquenti, attraverso una valutazione positiva dei
ruoli delinquenziali rappresentati dai mass media oppure a seguito di una reazione negativa a forze
che si oppongono alla criminalità. La teoria di Glaser permette così di spiegare le azioni criminali
commesse da parte soggetti che sono abitualmente inseriti in gruppi sociali non criminali.
[12] Nel modello in esame le dinamiche intrapsichiche dell’individuo e le sue rappresentazioni
cognitive entrano quindi in interazione con i significati e le regole sociali e tale dinamica complessa
determina il suo agire
CRIMINOLOGIA, SETTE SATANICHE E CONTROLLO DELLA MENTE
Secondo numerose indagini condotte in ambienti scientifici ed istituzionali in Italia e nel resto del
mondo industrializzato si assiste ad una notevole proliferazione di sette di vario genere. Questa
situazione assume rilevanza in Criminologia qualora taluni crimini vengano progettati ed eseguiti
all’interno di tali organizzazioni. Il particolare clima psicologico che si rileva all’interno delle sette
e la capacità di alcuni santoni di ingerire pesantemente sui processi decisionali degli adepti, implica
a nostro avviso la necessità di dotarsi di specifici strumenti conoscitivi per cercare di interpretare i
crimini che si verificano negli ambienti esoterici. Tale processo di studio dovrà preliminarmente
orientarsi sugli aspetti antropologici ed organizzativi delle sette nonché sugli aspetti sociologici e
psicologici che favoriscono l’avvicinamento degli individui a tali realtà.
L’ingresso degli individui nelle sette
Elenchiamo una lista di variabili sociali e psicologiche che possono essere significative nel processo
di avvicinamento di un soggetto a tali organizzazioni:
Variabili sociali:
1. Processo di secolarizzazione della Chiesa Cattolica e conseguente apertura di spazio di culto per
movimenti religiosi alternativi;
2. Diffusione di ideologie ecologiste e antitecnologiche nel tessuto sociale e pronta acquisizione di
tali connotazioni ideali da parte di sette di varia estrazione, soprattutto di matrice new age;
3. Progressivo slittamento culturale dal collettivismo all’individualismo, dovuto alla crisi delle
grandi ideologie di matrice socialista, con conseguente maggiore richiesta di culti e pacchetti
valoriali riferiti alla sfera intima, emotiva e psicologica dell’individuo;
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5. Diffusa ricerca di esclusività in antagonismo schizofrenico alla ricerca di standardizzazione e
conformità.
Variabili psicologiche:
1. Antagonismo alla frustrazione di inadeguatezza sociale attraverso l’appartenenza ad un gruppo
(la setta) che volutamente ingenera negli adepti la convinzione di essere viceversa importanti,
naturalmente solo all’interno della setta stessa;
2. Carisma dei capi e complementare richiesta di potere carismatico da parte di soggetti insicuri;
5. Soddisfazione di bisogni di dipendenza e sottomissione da parte di soggetti con particolari profili
di personalità;
6. Opportunità di relazioni interpersonali (anche sessuali) per soggetti con particolari difficoltà
relazionali;
7. Solitudine e disgregazione familiare;
ASPETTI CRIMINOLOGICI DELLE SETTE
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culturali ed antropologici dei nuovi movimenti religiosi rappresentano quindi fattori che interessano
il criminologo solo “marginalmente”, nella misura in cui costituiscono l’ambiente dove il crimine
matura e viene commesso. Lo stesso condizionamento psichico degli adepti, al centro di un acceso
dibattito giuridico e sociologico, rappresenta una variabile significativa dal punto di vista
criminologico quando ad esso è correlata una forma di illegalità (es. l’acquisizione di ricchezze da
parte del santone o l’alterata percezione del crimine da parte dell’adepto). In effetti alla base della
ragione di esistere di molte sette italiane ed estere sembra manifestarsi un interesse pratico da parte
del capo carismatico o, in casi di organizzazioni molto strutturate, da parte del gruppo che detiene la
leadership. Tale interesse, che in alcuni casi può assumere connotazioni di illegalità, varia in base
alla tipologia della setta ma solitamente riguarda:
∙ acquisizione di ricchezze attraverso le quote di adesione degli adepti o, in alcuni casi, attraverso
l’espoliazione dell’intero patrimonio degli adepti;
∙ acquisizione di ricchezze attraverso la vendita agli adepti di materiale bibliografico e rituale e
l’organizzazione di corsi e seminari;
∙ soddisfazione di desideri sessuali e perversioni;
∙ acquisizione di vantaggi provenienti dalle singole attività professionali degli adepti;
Generalmente ogni tipo di setta presenta dei reati ricorrenti. Esempi di reati legati alle sette:
∙ sette transnazionali: truffe, spoliazione economica degli adepti, acquisizione di informazioni ecc.
∙ psicosette:, esercizio abusivo professione medico/psicologo, truffe.
CONDIZIONAMENTO PSICHICO E CRIMINI
Alla base della maggior parte dei comportamenti illegali che avvengono nell’ambito delle sette
(truffe, violenze sessuali, spaccio ed uso di stupefacenti, appropriazioni, eccetera) si ritrovano forme
più o meno sofisticate di condizionamento psicologico e di tecniche di coercizione, attuate con
metodi sottili, spesso di tipo suggestivo. In altri termini, i reati che coinvolgono a vario titolo gli
adepti (come autori o come vittime), sembrano essere associati ad una modifica della loro
percezione della gravità di tali reati. La partecipazione a riti illegali (ad esempio che coinvolgono
minori in attività sessuali) o la donazione dei propri averi all’organizzazione, possono apparire ad
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un’osservazione superficiale come assolutamente spontanei e non legati ad una pressione specifica
da parte del leader carismatico. Tale situazione, che rappresenta una grossa difficoltà in ambito
processuale, risulta viceversa soltanto apparente essendo infatti gli adepti sottoposti ad una serie di
tecniche di convincimento di vario genere. Nella maggior parte dei casi, l’uso della violenza per
indurre i soggetti a comportamenti conformi alle istanze del gruppo sembra essere abbastanza raro e
solitamente riservato a casi di particolare resistenza. Lo scenario proposto rappresenta a livello
giudiziario una notevole difficoltà in ambito probatorio. Le tecniche predilette dai leader delle sette
per ottenere il controllo degli adepti sono infatti di tipo prevalentemente psicologico e tale capacità
di manipolazione costituisce, di fatto, il requisito fondamentale dei vari capi carismatici e santoni
che sono al vertice delle sette di ogni genere. Spesso, questa dinamica, costituisce la forza primaria
del gruppo e una notevole tutela per il leader carismatico dagli attacchi delle agenzie di controllo
istituzionale che stentano a trovare testimonianze. Nel corso dei processi penali, pur abbondanti in
ogni parte del mondo a carico di santoni accusati di vari reati, risulta infatti sempre assai
difficoltoso, in termini probatori, dimostrare (da parte dell’accusa) il plagio e l’induzione al
comportamento, essendo tale dinamica sovente in contrasto con l’universale tendenza, nel processo
penale, verso l’attribuzione di responsabilità e il riconoscimento del libero arbitrio nelle condotte di
vita degli individui, soprattutto, in mancanza di un accertato di vizio totale o parziale di mente
dell’individuo che è stato “indotto” ad una determinata azione.
LE TECNICHE DI COMUNICAZIONE DELLE SETTE
Una interessante ottica di studio criminologico delle sette è costituita a nostro avviso dall’analisi
delle modalità comunicative intragruppo ed intergruppo. Distinguiamo a tal proposito delle
dinamiche di comunicazione interna e delle dinamiche di comunicazione esterna. La comunicazione
interna ha funzione soprattutto coesiva per il gruppo ed è caratterizzata da un linguaggio specifico,
sovente criptico, che è comprensibile integralmente solo dagli adepti. Si tratta di una fraseologia che
attribuisce un significato ad un oggetto o ad un evento utilizzando parole solitamente estranee al
vocabolario corrente (parole appositamente confezionate) o che hanno nella consuetudine un
significato diverso. Il linguaggio specifico rappresenta così la base dell’interazione tra il leader
carismatico e gli adepti di una setta. E’ importante sottolineare che secondo numerosi studi
psicologici (Piaget, Kuenne, Whorf, Osgood) il linguaggio possiede delle capacità di orientare la
percezione degli eventi, il comportamento ed il pensiero degli individui e comunque costituisce un
elemento fondamentale per l’attribuzione simbolica del proprio sé, della realtà circostante e degli
altri individui. In ambito criminologico lo studio del linguaggio degli adepti costituisce un fattore
importante per stabilire il livello di complessità dei rapporti intragruppo ed il livello di
introiettamento della cultura della setta da parte dei soggetti che giungono all’osservazione clinica.
La quasi totalità delle sette esplica dinamiche comunicative anche attraverso una ricca simbologia
(numeri, oggetti, segni grafici, animali eccetera), come documentato dai rapporti criminalistici sulle
sedi e sui luoghi abitualmente frequentati dai gruppi esoterici e satanici. La comunicazione
all’esterno rappresenta invece la modalità espressiva attraverso la quale la setta svolge azione di
proselitismo e giustificazione comportamentale (legittimazione) in ambito sociale. I canali
impiegati vanno dalla tradizionale produzione di letteratura specifica fino alla semplice
divulgazione facetoface nella sfera parentaleamicale degli adepti. Con l’avvento di internet
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numerose pagine web vengono impiegate dalle sette per diffondere le loro dottrine e tale dinamica
costituisce motivo di particolare allarme vista la diffusione e la difficoltà oggettiva di controllo del
mezzo telematico. In termini di studio, la diffusione delle sette sul web consente però nuove
opportunità di comprensione attraverso l’osservazione anche da parte di scienziati esterni ai gruppi,
ad esempio con l’analisi dei newsgroup e dei forum dedicati.
TEORIA DELLA DISSONANZA COGNITIVA
La teoria formulata da Festinger nel 1957 rappresenta uno spunto assai utile per comprendere i
meccanismi di mantenimento del consenso all’interno delle sette, anche in circostanze in cui
l’evidenza percettiva mette a dura prova le credenze esoteriche degli adepti. Per l’autore infatti, la
fatica di dover ristrutturare continuamente l’esperienza indotta dalla percezione implica nell’uomo
una certa abitudine a crearsi dei “punti fermi” (credenze e schemi di significato) che dopo essere
stati appresi non vengono più messi in discussione anche se non trovano verifiche successive. Ogni
incoerenza percepita tra i vari aspetti della conoscenza, dei sentimenti e del comportamento instaura
quindi un sentimento interiore di disagio (dissonanza cognitiva) che la gente cerca di ridurre tutte le
volte che le è possibile negando le nuove percezioni che contrastano con quelle precedentemente
apprese. La teoria di Festinger può farci capire come un qualsiasi soggetto, dopo esser diventato
"preda" degli adescatori delle sette ed aver quindi subito un condizionamento mentale, non si renda
conto delle evidenti incongruenze tra i dettami indicati dal leader della setta e gli accadimenti reali.
La dissonanza cognitiva costituirebbe così un “aiuto” all’abilità di convincimento del santone
rendendo doloroso il riconfezionamento di credenze precedentemente radicate nel soggetto. In linea
teorica, ad esempio, le sette millenariste che annunciano la fine del mondo ad intervalli regolari,
dovrebbero svuotarsi dagli adepti nel momento in cui avviene la constatazione razionale che la fine
del mondo non è avvenuta alla scadenza prefissata. In realtà, la maggior parte degli adepti (quando
non accadono tragedie tipo suicidi collettivi) accetta supinamente nuovi “step” di calendario e
giustificazioni spesso improbabili.
SETTE PSEUDORELIGIOSE COME ORGANIZZAZIONI CRIMINALI
Un interessante approccio allo studio delle sette è rappresentato da quello che considera tali gruppi
come organizzazioni criminali. In tale dimensione assumono rilevanza i seguenti elementi:
Valutazione delle caratteristiche del leader e della leadership: L’analisi delle modalità di approccio
e di strutturazione del gruppo da parte del leader costituisce un ambito di studio mutuabile dalla
Psicologia del lavoro e delle organizzazioni che può fornire un valido apporto nello studio delle
sette. In effetti, non tutti i leader delle sette sono dei truffatori anche se molti di essi hanno nel loro
vissuto un’attività lavorativa che li ha dotati di abilità di comunicazione e convincimento (es.
imbonitori di fiere) nonché di capacità nell’instaurare rapidamente legami empatici nella sfera
intima dell’interlocutore.
Flusso di potere organizzativo: L’analisi delle caratteristiche della struttura organizzativa (spesso
piramidale) rappresenta un importante ottica di ricerca. Importante è ad esempio la figura dei
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luogotenenti (con potere o “burattini”) che denota le modalità di trasmissione del potere e delle
comunicazioni intragruppo oltre che fornire importanti indicatori sulla complessità
dell’organizzazione.
ASPETTI CRIMINOLOGICI DELLE SETTE
Nell’ambito di alcuni gruppi pseudoreligiosi (specie in quelli definiti come culti distruttivi), sono
configurabili sostanzialmente due categorie di crimini: i crimini commessi ai danni degli adepti e i
crimini commessi dagli adepti (ai danni di altri adepti o di soggetti esterni alla setta) sotto l’influsso
di condizionamenti da parte del gruppo a cui appartengono.
Nella prima categoria rientrano le azioni illegali eseguite dai leader carismatici ai danni dei loro
accoliti, i quali subiscono tali azioni con vari livelli di consapevolezza.
Questi crimini si riferiscono normalmente a :
§ truffe e frodi;
§ minacce;
§ estorsioni;
§ sequestri di persona (di durata variabile);
§ sfruttamento (del lavoro e della prostituzione);
§ lesioni (procurate nel corso di rituali);
§ violenze fisiche di vario tipo;
§ spaccio di stupefacenti;
§ pedofilia;
§ abusi sessuali;
§ induzione al suicidio
§ omicidi.
Alla seconda categoria sono viceversa ascrivibili quelle azioni illegali eseguite da adepti di sette, ai
danni di altri adepti o di soggetti esterni alla setta, in un generico quadro di alterazione della
coscienza.
Questi crimini sono rappresentati da:
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§ reati familiari (es. mancato sostentamento, abbandono eccetera);
§ violenze e lesioni ad altri adepti nel corso di rituali;
§ detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti;
§ abusi sessuali
§ pedofilia
§ profanazione di cimiteri
§ maltrattamento di animali
§ furti (es. ostie nelle chiese)
§ concorso in truffe e frodi
§ furto di informazioni
§ danneggiamenti (chiese e locali)
I costrutti teorici di base utili all’interpretazione dei crimini commessi dai leader carismatici ai
danni degli adepti sono quelli usuali della Scienza criminologica nell’ambito dei reati appropriativi,
degli abusi e delle organizzazioni criminali. In altre parole l’approccio più verosimile allo studio del
comportamento di santoni e capi carismatici che commettono crimini è quello che si utilizza per i
comuni delinquenti, cercando di isolare e localizzare i vari reati “terreni” all’interno di un involucro
simbolico di tipo esoterico, creato appositamente per meglio eseguire le varie azioni criminali. Per
tali soggetti, in alcuni casi, potrebbe forse essere ipotizzata (e poi verificata con idonee ricerche) la
presenza di alcuni specifici tratti di personalità, funzionali ad esempio al mantenimento di
atteggiamenti artificiali (per lungo tempo) nel corso dell’interazione con gli adepti o all’esecuzione
di tecniche di condizionamento psichico.
Per quanto attiene all’interpretazione criminologica dei crimini commessi dagli adepti appare
invece necessaria l’adozione di un paradigma interpretativo specifico in grado di evidenziare la
duplice dimensione dell’autore (criminale/vittima) e le complesse dinamiche di alterazione
percettiva, indotte dall’appartenenza alla setta, che possono entrare in gioco in fase di progettazione
ed esecuzione del crimine.
Su questa base un possibile quadro teorico fondato sulla Teoria dell’azione e sul costruzionismo
complesso dovrebbe tenere in debita considerazione la capacità dei contesti di condizionamento
psichico di intervenire nel processo di significazione presente in ogni azione criminale, alterando
alcuni significati “chiave” di tale processo.
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Secondo gli approcci criminologici più moderni gli individui elaborano ed interpretano socialmente
le regole sociali e orientano il proprio comportamento anticipandone gli effetti (mentalmente) con
una sorta di monitoraggio che definisce lo svolgimento dell’azione. In tale ottica le dinamiche
intrapsichiche dell’individuo e le sue rappresentazioni cognitive entrano in interazione con i
significati e le regole sociali e tale dinamica complessa determina il loro agire.
La percezione del crimine e della vittima, le norme sociali di riferimento, le aspettative di reazione
sociale e altre componenti del complesso percorso di attribuzione di significato che conduce gli
individui alla commissione (o meno) di un crimine possono risultare notevolmente alterate in un
adepto di una setta, “immerso” in un contesto simbolico frastornante.
In alcune specifiche circostanze, come ad esempio in situazioni di trance nel corso di rituali
particolari, è ipotizzabile addirittura uno stato di alterazione assoluto della coscienza che pone
l’adepto in condizione di “gestione totale” da parte del leader carismatico e quindi potenzialmente
in grado di commettere crimini, anche efferati, con modestissima consapevolezza.
A tal proposito potrebbero risultare utili ricerche effettuate su adepti che hanno eseguito azioni
criminali, attraverso la somministrazione di strumenti di valutazione criminologica centrati sulla
percezione del crimine e sui livelli di consapevolezza. Le risultanze potrebbero infatti assumere
notevole valenza per comprendere le correlazioni tra condizionamento e crimini e, in Criminologia
clinica, soprattutto per quanto riguarda le valutazioni di responsabilità.
L’investigazione nell’ambito delle sette sataniche
L’attività investigativa nell’ambito dei crimini legati alle sette, così come del resto la ricerca
criminologica su tale argomento, implica l’esigenza di una notevole padronanza da parte
dell’investigatore/ricercatore, della complessa simbologia rituale che permea tali organizzazioni.
Tale simbologia (ad esempio quella numerologica nel satanismo) può infatti rappresentare un
elemento fondamentale per la comprensione di alcune dinamiche delittuose altrimenti
particolarmente intricate.
Anche i simboli grafici, come le scritte murali ritrovate sovente nei luoghi dove vengono svolti
rituali satanici, o particolari oggetti o reperti anatomici, possono assumere significati importanti per
la comprensione delle dinamiche e della valenza criminogenetica del gruppo che le ha eseguite.
Interessante a tal proposito il caso dell’omicidio di Suor Laura avvenuto a Chiavenna nell’estate del
2000. Le presunte autrici, tre giovani ragazze insospettabili, appartenenti al ceto medio, con
famiglie tranquille e normali come migliaia di altre hanno ucciso brutalmente la religiosa in un
luogo isolato.
Le ipotesi sulla correlazione tra il delitto e il mondo del satanismo sono supportate da alcuni
riscontri criminalistici:
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§ rinvenimento, nel corso di sopralluoghi, poco lontano dalla scena criminis, di alcune scritte
riconducibili a riti e sette sataniche;
§ presenza su 3 quaderni, sequestrati nelle abitazioni delle tre giovani, di scritte e simbologie
sataniche nonché di brani di scrittura contenenti linguaggi e contenuti riferibili al mondo del
satanismo;
La ritualità satanica contempla l’utilizzo di oggetti e sostanze di varia natura, spesso ricorrenti nei
vari gruppi poiché risalenti alle medesime tradizioni antiche tramandate oralmente o più
semplicemente acquisiti dalla medesima letteratura specialistica che, secondo quanto documentato
dalla ricerca sociologica, sembra essere in grande espansione e reperibile in molte librerie (anche
“prestigiose”).
Riportiamo a titolo esemplificativo una lista di questi oggetti rinvenuti e sequestrati (sotto un
albero) dai Carabinieri nel corso di un’operazione di polizia nel settembre del 2000 a Roma:
§ tre candele consumate;
§ alcuni cuori di pezza trafitti da spilloni;
§ una ciotola con uova;
§ della polvere bianca;
§ materiale cerebrale proveniente da un animale (una pecora).
Per quanto attiene ai reperti criminalistici grafici, rinvenuti sovente sui muri di chiese sconsacrate
utilizzate per riti satanici o all’esterno di chiese consacrate o in documentazione personale
sequestrata ad adepti (quaderni, diari), i segni ricorrenti sono:
§ croci rovesciate;
§ varie sequenze numeriche tra cui 666 (la grande bestia, il demonio);
§ stelle a cinque punte.
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Le competenze necessarie al riconoscimento e all’interpretazione della simbologia satanica e di altri
gruppi pseudoreligiosi sono acquisibili attraverso i testi scientifici specialistici e dalla letteratura
subculturale diffusa dalle librerie specializzate.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
MARVIN HARRIS, Materialismo Culturale, Campi del Sapere, Feltrinelli, 1979.
MACIOTI MARIA I., Religione Chiesa e Strutture Sociali, Napoli, Liguori Editore, 1974.
H. SPENCER, Principi di Sociologia, Torino, Utet, 1967.
E. DURKHEIM, Le Forme Elementari della Via Religiosa, Roma, Newton Compton, 1973.
ACQUAVIVA, PACE, Sociologia delle Religioni, Roma, NIS, 1992.
C. JUNG, Psicologia e Patologia dei Cosiddetti Fenomeni Religiosi, Roma, Newton Compton,
1994.
C. JUNG, I Fondamenti Psicologici della Credenza negli Spiriti, Roma, Newton Compton, 1994.
C. JUNG, Opere Vol. 11: Psicologia e Religione, Roma, Newton Compton, 1994.
S. FREUD, L' Isteria, Roma, Newton Compton, 1992.
S. FREUD, Comportamenti Ossessivi e Pratiche Religiose, Roma, Newton Compton, 1992.
S. FREUD, Totem e Tabù, Roma, Newton Compton, 1992.
C. BAUDOUIN, Psicanalisi del Fenomeno Religioso, Ed. Paoline.
E. FROMM, Psicanalisi e Religione, Milano, Edizioni di Comunità, 1961
M. INTROVIGNE, Il Satanismo, Torino, Editrice Elle Di Ci, 1997.
M. INTROVIGNE, Indagine sul Satanismo, Milano, A. Mondadori Editore, 1994.
M. INTROVIGNE, Il Cappello del Mago, Varese, Sugarco Edizioni, 1990.
C. GATTO TROCCHI, Le Sette in Italia, Roma, Newton Compton, 1994.
C. GATTO TROCCHI, Il Risorgimento Esoterico, Milano, A. Mondadori Editore, 1996
C. GATTO TROCCHI, Magia ed Esoterismo in Italia, Milano, A. Mondadori Editore, 1995.
D. ARONA, G. M. PANIZZA, Satana ti Vuole, Milano, Corbaccio Editore, 1995.
129
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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AMATULLI, La Chiesa Cattolica e le Sette Protestanti, Castellana Grotte (Ba), Apostoli della
Parola, 1991.
F. AMATULLI, Le Sette ci Interpellano, Castellana Grotte (Ba), Apostoli della Parola, 1992.
A. USAI, Profili Penali dei Condizionamenti Psichici, Milano, Giuffrè Ed., 1996.
Capitolo 5
I CRIMINI NELLA FAMIGLIA
Introduzione generale
I numerosi casi di violenza che si verificano quotidianamente tra le mura domestiche ci dimostrano
drammaticamente come l’idea di un luogo familiare basato su vincoli di amore e solidarietà, che
protegge i suoi membri permettendo loro di svilupparsi, socializzare e realizzarsi, sia in realtà una
visione in parte idealizzata e mistificante della famiglia. Tra individui legati da vincoli di parentela
si verificano abusi sessuali, maltrattamenti fisici, violenze psicologiche e assassinii. Evidentemente
anche nella famiglia, come in ogni gruppo sociale, esiste un certo grado di conflittualità; ma diversa
e patologica risulta la situazione familiare dove la conflittualità si trasforma in aggressione e
violenza.
La famiglia non produce solo vittime di violenza, in prevalenza donne e bambini.
E’ anche un luogo dove la violenza viene insegnata e appresa tramite modelli comportamentali e
relazionali che tendono a perpetuarsi generazione dopo generazione.
In alcuni casi la famiglia può diventare addirittura una vera e propria organizzazione criminale,
come possiamo osservare nei casi di clan mafiosi di tipo tradizionale.
“La violenza domestica si riferisce alla violenza che si verifica nei confini della famiglia ed include
tutte le forme di violenza legalmente sanzionate che un membro della famiglia può infliggere ad un
altro”[1]
La famiglia quindi costituisce, un “habitat” particolare in cui si possono sviluppare tipiche condotte
criminose[2], che il nostro sistema penale contempla attraverso i seguenti articoli:
L’art. 570 c.p. ( “violazione degli obblighi di assistenza”):
“Chiunque, abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria
all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei
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genitori o alla qualità di coniuge, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa da lire
duecentomila a due milioni. Le dette pene si applicano congiuntamente a chi: 1) malversa o
dilapidai beni del figlio minore o del coniuge 2) fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di
età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia separato
legalmente per sua colpa”
Con questo articolo vengono puniti i reati familiari a motivazione economica, così come quelli
relativi ai casi di incuria dove i genitori sono colpevoli di non prestare le cure di cui i figli hanno
bisogno; similmente, in caso di abbandono, interviene l’art.591 (“abbandono di persone minori o
incapaci”)che recita:
“Chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per
malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale
abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Alla
stessa pena soggiace chi abbandona all’estero un cittadino italiano minore di anni diciotto, a lui
affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro.
La pena è di reclusione da uno a sei anni se dal fatto deriva una lesione personale, ed è da tre a otto
anni se ne deriva la morte. Le pene sono aumentate se il fatto è commesso da un genitore, dal figlio,
dal tutore o dal coniuge ovvero dall’adottante o dall’adottato.”
I reati nell’ambito della famiglia che riguardano invece la violenza fisica e morale, ovvero i casi di
maltrattamento sia fisico che psicologico, vengono contemplati dagli art. 571 c.p. (“abuso dei
mezzi di correzione”):
“chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua
autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per
l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se dal fatto deriva pericolo di una malattia nel
corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi. Se dal fatto deriva una lesione personale, si
applicano le pene stabilite negli art.582 e 583, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la
reclusione da tre a otto anni.
e dall’art. 572 c.p. (“ maltrattamenti in famiglia”):
“Chiunque fuori dei casi indicati dall’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un
minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione
di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di
un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Se dal fatto deriva una lesione personale, si
applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da
sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni.”
Infine per i reati di natura sessuale che avvengono in famiglia si fa riferimento alla stessa normativa
che regola le violenze sessuali in genere, ovvero la recente legge del 15 febbraio,19996, n 66 che ha
avuto il merito di introdurre due grosse novità in materia: l’unificazione del reato di violenza
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carnale e quello di atti di libidine violenta in una unica fattispecie criminosa, cioè la “violenza
sessuale”, comprendente qualunque atteggiamento contro la libera determinazione sessuale della
persona; e, soprattutto, il riconoscimento, dopo tanti anni di attesa, della violenza sessuale come un
reato non più contro la morale ma contro la persona.
Gulotta[3] preferisce distinguere le condotte delittuose all’interno della famiglia, utilizzando come
criterio il tipo di vittima coinvolta:
coniuge (maltrattamento, violenza sessuale, uxoricidio)
figli (maltrattamento, violenza psicologica, patologia delle cure, abuso sessuale)
genitori (maltrattamento, parenticidio, parricidio, matricidio)
1. 1. La violenza tra i coniugi
La violenza tra coniugi è un fenomeno più diffuso di quanto non si creda. E’ vero che in questo
caso, rispetto alla violenza sui figli, la vittima essendo un adulto possiede maggiori strumenti e
possibilità di sottrarsi alle sevizie attraverso la denuncia oppure la separazione, il divorzio dal
coniuge violento; ma è pur vero che anche in questo caso la violenza avviene all’interno di un
rapporto affettivo significativo tra abusante e vittima che non può essere privo di conseguenze.
Anche in questo caso per esempio l’omertà familiare gioca un ruolo importante nella possibilità di
effettuare una rilevazione quantitativa del fenomeno appropriata. Secondi i dati ISTAT[4] il
numero di denunce per maltrattamento in base all’art. 572 si aggira ai 5000 l’anno; di queste la
maggior parte proviene dai rapporti delle forze di pubblica sicurezza e solo una piccola percentuale
è attribuibile a privati o deriva da querela di parte. Ciò ci da un’idea di quanta consistente sia il
fenomeno sommerso dei maltrattamenti che non vengono segnalati e che vengono invece
giustificati ai controlli medici come “incidenti”. E’ importante ricordare, a tal proposito, che uno tra
i principali motivi di separazione della coppia coniugale risulta essere proprio la violenza fisica e la
violenza verbale espresse dai partner, ancor prima dei problemi di natura finanziaria, della
trascuratezza della casa e dei bambini, della conflittualità con i suoceri; ancor prima dell’infedeltà,
della mancanza d’amore o dell’incompatibilità sessuale[5]. Le lagnanze per queste prime voci,
quelle relative agli episodi di violenza provengono in prevalenza dal coniuge femminile, ma non
esclude totalmente la possibilità che la vittima di maltrattamenti domestici possa essere il marito o il
convivente, come vedremo più avanti. E’ evidente però che è la donna la vittima prevalente del
maltrattamento coniugale, come risulta da una ricerca riportata da Gulotta[6], in cui su un totale di
1872 donne intervistate il 48% afferma di essere stata oggetto di violenza fisica operata solo in
piccola parte da estranei; nella maggioranza dei casi la violenza è stata infatti subita in ambito
familiare: famiglia di origine (padre, madre, fratelli), oppure dal marito, dal fidanzato, dal
convivente. Si tratta anche di episodi gravi di violenza che ha lasciato tracce fisiche nel 12% dei
casi, determinato ricoveri ospedalieri nel 2% e tentativi di suicidio nel 4% delle vittime. Anche la
violenza sessuale avviene in buona parte tra le mura domestiche e non solo a danno dei minori; una
buona percentuale degli stupri sulle donne viene compiuto da conoscenti e parenti e questi spesso
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sono coniugi o fidanzati. Anche in questi casi le conseguenze sono gravi (depressione, difficoltà
sessuali, etc) ma anche in questi casi le denunce sono scarse e il segreto familiare viene
generalmente mantenuto. Si verifica prevalentemente durante il fine settimana, quando c’è
maggiore probabilità di incontro della coppia, e in orario pomeridiano e serale; la cucina sembra
essere, nella casa il luogo dove avvengono più frequentemente le aggressioni[7]
Ma che cosa determina il fenomeno cosiddetto del “wife beating”?
Come è prevedibile gli studi si sono concentrati principalmente sulla personalità dell’uomo che
picchia la propria moglie suggrendo un’immagine un po’ stereotipata e quindi riduttiva e
insufficiente, del marito violento come di un malato di mente, di un alcolizzato o tossicodipendente
E’ evidente che tale connotazione si basa su dati reali ma parziali. Appare evidente invece che una
simile attribuzione ha anche un valore rassicurante e difensivo perché stigmatizzante e perché da
l’illusione di poter più facilmente controllare un fenomeno violento (che è temuto proprio perché
trasversale) e di poterlo relegare al di fuori della nostra esperienza e del nostro contesto di
appartenenza. Sono stati descritti in tal senso alcuni tratti di personalità del marito violento quali la
dipendenza, la passività, la sospettosità paranoide; inoltre sono state delineate anche alcune
sindromi[8] del marito che picchia la moglie: esse si baserebbero su alcuni bisogni fondamentali
che l’uomo si sforzerebbe di soddisfare anche tramite il ricorso alla violenza fisica. Ad esempio
nella sindrome di colui che “ricerca l’approvazione”il bisogno di base sarebbe la ricerca della
conferma del proprio valore e la moglie assumerebbe il ruolo di rinforzare la sua autostima. Per
questo motivo qualsiasi dissenso o scelta autonoma della compagna è vissuta dal marito come
inaccettabile attacco al suo valore narcisistico e dato il ruolo che le attribuisce, diventa vitale
evitare, anche con la violenza, ogni minaccia che metta in crisi la propria precaria stima di sé. Sono
state evidenziate anche alcune modalità di interagire tipiche della coppia in cui si verifica il “wife
beating[9]”: rigida osservanza dei ruoli familiari e coniugali; i tentativi di cambiamento o le scelte
di autonomia della moglie vengono percepite minacciosamente dal marito che teme una rottura
dell’omeostasi familiare che è in grado di garantire la sopravvivenza dei rapporti e dei ruoli in
famiglia. La violenza è ovviamente una espressione del potere all’interno di un gruppo o di una
relazione ed è uno strumento per esercitare il potere e mantenerlo. Il marito può sentirsi minacciato
nel riconoscimento del proprio potere decisionale in famiglia dato che non gli viene più garantito
automaticamente dalla società e dalla cultura il ruolo di capo famiglia; inoltre può sentirsi incapace
di competere sul piano intellettuale, professionale ed economico con la partner e può utilizzare la
forza fisica come unico mezzo per recuperare o preservare un potere ed un ruolo che teme di
perdere. In un periodo in cui i ruoli maschili e femminili si sono profondamente trasformati anche
in famiglia può esserci maggiore lotta per il potere tra i coniugi. I litigi infatti avvengono perché
non vengono rispettate le regole (esplicite ed implicite) della famiglia vengono messe in discussione
le “metaregole” cioè le regole che stabiliscono chi ha il diritto di porle. La tendenza ad attribuire
automaticamente la responsabilità del conflitto familiare alla coniuge spesso percepita in maniera
poco realistica e in base ad aspettative che ricalcano una coppia ideale, come quella dei propri
genitori. Molti litigi tra i membri di una coppia avvengono non tanto perché essi possiedono un
opinione diversa sulla realtà, cioè su ciò che avviene quanto per una diverso modo di attribuire la
causa e la responsabilità di quello che accade. Ogni persona, infatti, attribuisce intenzioni, scopi,
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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1.1.2. Le vittime[11]
Come le altre vittime degli abusi domestici, anche la donna vittima di maltrattamento coniugale
colpisce per la condizione di passività nella quale si trova. Il fatto che spesso non denunci il suo
aggressore o che, non interrompendo la relazione con lui, si esponga ai reiterati episodi di violenza
dimostra quanto sia complicato per la moglie picchiata, reagire in termini autoconservativi alla sua
situazione. In genere le donne maltrattate presentano “contusioni, spesso associate a lesioni
traumatiche ossee o a ferite lacerocontuse, più frequenti nel caso di utilizzo di mezzi di
offesa”[12], che si concentrano soprattutto sul viso (naso, mandibola, denti) e sul torace. Per di più
che oltre ai danni direttamente provocati dalle percosse queste donne tendono a soffrire
secondariamente di disturbi d’ansia, di depressione, di insonnia; tendono ad abusare di sostanze
alcoliche e tentano spesso il suicidio. Sono portate a somatizzare le proprie difficoltà (ma di testa,
allergie, etc.) e a reagire alle situazioni improvvise e inaspettate con manifestazioni di agitazione,
pianto e paura paralizzante. Si mostrano passive e rassegnate anche se possono esprimere la propria
aggressività verbalmente o tramite fantasie (di morte o di sparizione del proprio convivente per
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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esempio). Quello che temono è di perdere il controllo sulla propria aggressività, ad esempio temono
di spostarla su altri membri famigliari, soprattutto i bambini e non a caso molte madri a questo
punto denunciano il marito maltrattante al fine di tutelare almeno i propri figli; oppure l’aggressività
e la rabbia provata da queste donne possono venire dirottate verso se stesse ed allora i tentativi di
suicidio o le condotte autodistruttive possono assumere il valore espressivo di comunicare un
disagio e l’estremo tentativo di uscire da una situazione percepita senza scampo. Molti sono i motivi
infatti che rendono difficile alla moglie percossa di sottrarsi alla relazione violenta. La dipendenza
economica e materiale dal marito soprattutto se :
la donna non lavora
non può disporre di una rete sociale di sostegno formale e informale
ci sono dei bambini;
la fiducia che il marito possa cambiare e la determinazione a recuperare il rapporto;
la dipendena affettiva dalla relazione e la paura a vivere da sola;
aver sviluppato un’immagine negativa di sé, fortemente svalutata che legittimerebbe
l’uso della violenza nei propri confronti e l’accettazione rassegnata e passiva della
propria condizione.
Gelles[13] ha individuato alcuni fattori che invece faciliterebbero la reazione della vittima e/o la sua
richiesta di aiuto. In particolare inciderebbero:
la natura e l’intensità della violenza inflitta
la frequenza con cui viene inflitta
l’età dei figli
Tanto maggiore e grave è il grado di violenza subito, tanto maggiore è la probabilità che la moglie
si sottragga al maltrattamento. La frequenza degli episodi violenti invece inciderebbe sul tipo di
reazione della vittima: se hanno cadenza giornaliera o settimanale, per esempio ricorrerebbe
all’intervento della polizia; se gli episodi sono più rari il comportamento più prevedibile è la
separazione. Se i figli invece sono adolescenti la risoluzione della coppia viene ricercata perché
ritenuti autosufficienti o perché, al contrario, si ritiene vi sia il rischio di coinvolgimento di questi
negli episodi violenti. La violenza nella coppia non si manifesta però a senso unico; esistono casi di
maltrattamenti da parte del coniuge femminile verso il marito, anche se meno numerosi e non
perché esista una differenza tra i sessi nella tendenza a risolvere una tensione conflittuale con la
violenza: ad esempio non esiste differenza statistica tra i casi di uxoricidio di provenienza maschile
o femminile. Esiste una differenza solo nei mezzi utilizzati (le donne utilizzano molto di più le armi,
il tiro di oggetti) e nella forza fisica che determina una differente produzione di effetti sulla vittima
e una preferenziale designazione femminile del ruolo di vittima nei casi di conflitto violento tra due
membri della coppia.
1. 2. L’uxoricidio
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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L’omicidio del coniuge è un crimine domestico drammaticamente diffuso. Si pensi che negli Stati
Uniti, dove il numero delle vittime della violenza domestica supera quello delle vittime degli
incidenti automobilistici, degli stupri e della piccola criminalità messi insieme; durante la guerra del
Vietnam, quando morirono 39000 soldati in battaglia, ci furono 17500 morti tra donne e bambini a
causa della violenza domestica[14]. In Italia, nel biennio 19931994 si sono registrati oltre 400 casi
di omicidio e di tentato omicidio fra parenti e partner[15]. In pratica un omicidio su 5 risulta
trattarsi di un “omicidio domestico”; inoltre si è calcolato che dal 1993 al 1996 vi sia stato un
incremento dei casi di omicidi del coniuge del 13%. Nello stesso arco di tempo il numero dei
figlicidi è raddoppiato[16]. Se analizziamo gli omicidi di donne, inoltre, notiamo che il delitto viene
compiuto dal coniuge o dal convivente della vittima nel 40% dei casi, con una fascia di età a rischio
tra i 25 i 44 anni[17]. E’ anche interessante osservare come si distribuisce l’incidenza degli omicidi
domestici per area geografica[18]: il 33% (percentuale degli omicidi domestici sul tot degli omicidi)
avviene nel nord Italia, in particolare in Lombardia, Liguria e Toscana; il 17,5% al centro mentre il
6,5% al sud.
Ma quali sono i motivi per cui viene assassinato il coniuge?
Si tratta prevalentemente di moventi di natura passionale, quale ad esempio la gelosia oppure di
omicidi incorsi in seguito a lite violenta.[19] Seguono i casi in cui l’omicida presenta disturbi
psichici gravi che possono averlo indotto a commettere il delitto e i casi in cui il movente è più
strettamente strumentale: l’assassino ha agito per motivi di interesse e di denaro. In alcuni casi sono
le separazioni e i divorzi burrascosi a generare un esito drammatico quale l’uxoricidio, soprattutto
se la coppia è coinvolta in un conflitto per l’affidamento dei figli.
2 La violenza sui figli
La violenza intrafamiliare che coinvolge come vittime i figli può manifestarsi sotto forma di:
maltrattamento fisico
violenza psicologica
abuso sessuale
patologia della somministrazione delle cure
2.1. Il maltrattamento fisico:
Il maltrattamento fisico del bambino è stato riconosciuto sul piano clinico e sociale solo di recente.
Risale alla seconda metà del 1800 lo studio medicolegale di Ambroise Tardieu sulle sevizie e i
maltrattamenti infantili; mentre solo dopo il 1950 in ambito medico–pediatrico di area statunitense
(in particolare Silverman, Caffey ed altri) altri viene accettata l’ipotesi che in certi casi le lesioni
riscontrate nei bambini possano essere attribuiti alle percosse inflitte volontariamente dai i genitori;
fino ad arrivare al 1962 alla consacrazione finale tramite Henry Kempe e il suo articolo in cui viene
formalmente descritta la “battered child syndrome”, cioè la sindrome del bambino maltrattato[20].
Che cosa si intende per bambino maltrattato?
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Come si riconosce un caso di maltrattamento fisico?
Il bambino maltrattato può presentare sul corpo lesioni di vario tipi: cutanee, scheletriche,
craniche. Tra le lesioni cutanee vengono riscontrate ecchimosi, ematomi (alle labbra, agli occhi);
tagli e ferite; cicatrici (spesso in diverse parti del corpo e in diverso stadio di cicatrizzazione);
ustioni (difficile distinguere quelle intenzionali da quelle accidentali tranne nel caso di bruciatura di
sigaretta); segni di morsi. Le lesioni scheletriche sono quelle più tipiche e consistono soprattutto in
fratture delle braccia e delle gambe che difficilmente un bambino piccolo, non ancora capace di
camminare, è in grado di procurarsi da solo.
I traumi cranici consistono invece soprattutto in :
ematomi subdurali, cioè emorragie cerebrali, spesso gravi che conducono alla morte del bambino
fratture craniche che producono danni neurologici posttraumatici permanenti , ad esempio a scapito
dello sviluppo del linguaggio o della motricità.
I traumi cranici vengono prodotti soprattutto tramite oggetti contundenti o tramite scuotimenti
violenti del bambino che subisce un forte contraccolpo al capo. Il primo passo è quello di
distinguere il maltrattamento da una condizione patologica o da una condizione accidentale.
Nonostante la presenza di segni piuttosto evidenti, produrre una diagnosi di maltrattamento può
generare però incertezze e resistenze da parte dei medici, degli operatori sociali o da chiunque
venga coinvolto in simili casi. Questo spiegherebbe anche perché il numero di casi riconosciuti di
maltrattamento risulta così esiguo rispetto al fenomeno sommerso.
I motivi di tale difficoltà sono molteplici:
l’operatore che diagnostica l’abuso può temere di rimanere coinvolto in prima persona
dalle conseguenze della propria denuncia: ad esempio può rischiare che venga inoltrata
una azione legale nei suoi confronti proprio dai genitori denunciati.
può temere di mettere a repentaglio il rapporto professionale con i genitori che
ovviamente si mostreranno ostili nei suoi confronti.
può ritenere che non sia necessario un intervento in quanto non crede che possa portare
giovamenti o addirittura ritiene possa risultare dannoso.
E’ legittimo confermare un sospetto di maltrattamento quando , accanto ai segni fisici riscontarti,
possiamo anche verificare che:
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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le lesioni non sono molto recenti, quindi è intercorso un discreto lasso di tempo tra il
momento in cui si è verificato il danno e la prima osservazione medica
il bambino è portato all’osservazione del medico per motivi diversi dalle lesioni
(febbre, otite, broncopolmonite, pianto inconsolabile)
frequenti visite ospedaliere precedenti
la reazione dei genitori è inappropriata rispetto la gravità delle lesioni ed inoltre non
si mostrano collaborativi.
Insoddisfazione coniugale.
Disgregazione del nucleo familiare con assenza di uno dei coniugi.
Matrimonio successivo ad una gravidanza indesiderata.
In alcuni casi il genitore abusante è sofferente di un disturbo o di un disagio (psicosi, depressione,
tossicodipendenza, alcolismo), ma non è una condizione indispensabile al verificarsi del
maltrattamento. Più comunemente il maltrattante è stato a sua volta, da bambino, vittima di
maltrattamento.[22]
Il bambino maltrattato invece è generalmente molto giovane (in prevalenza tra i 0 e i 3 anni) e
spesso soffre od ha sofferto al momento della nascita di varie patologie più o meno gravi e più o
meno croniche.
Perché avviene il maltrattamento?
Analizzando le circostanze in cui si manifesta l’episodio violento si constata che il 90% degli abusi
fisici avviene tra le mura domestiche, in orario serale e preservale e per motivi apparentemente
banali quali ad esempio il pianto incessante e inconsolabile del bambino, l’ostinazione del bambino
a non voler mangiare, una lite tra i genitori che sfocia nella violenza sul figlio, ecc.[23] Esistono
alcune ipotesi interpretative[24] che tentano di spiegare quali sono i motivi che portano un genitore
a infliggere violenze fisiche al proprio figlio.
Ipotesi psichiatrica
Secondo questo approccio la causa principale del maltrattamento è da ricercare nelle caratteristiche
di personalità o disturbi psicopatologici dei genitori. La psicopatologia di questi adulti non sarebbe
diagnosticata e curata in quanto non chiedono o non accettano la terapia. Il fattore che genera
violenza non è tanto la patologia in sé ma l’effetto che essa produce nelle relazioni intrafamiliari
sui bisogni di cura fisica e psicologicoaffettiva dei figli.
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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Ipotesi socio ambientale
Ricerca le cause del maltrattamento nei fattori demografici, culturali, economici, sociali della
famiglia. In particolare viene attribuita importanza al basso livello economico, alle condizioni di
isolamento e mancanza di un adeguato supporto da parte di membri della famiglia estesa, alle
condizione abitative disagiate, all’elevato numero di figli.
Ipotesi della violenza ciclica
Secondo questa prospettiva il genitore abusante è stato a sua volta abusato. L’esperienza familiare
violenta crea le basi per un atteggiamento di sfiducia, diffidenza negli altri che inciderà
sfavorevolmente sulle capacità relazioni e l’apprendimento di modelli parentali violenti porteranno
ad attuare sui propri figli il medesimo comportamento violento subito.
Ipotesi della vittima particolare
Le caratteristiche peculiari del bambino designata come vittima suscitano nei genitori sentimenti di
inadeguatezza e di rifiuto, frustrazione e rabbia che diventa violenza poiché richiedono molto in
termini di risorse personali ad adulti evidentemente immaturi, impreparati ad affrontare le difficoltà
del ruolo genitoriale. Secondo H. Kempe il maltrattamento sul bambino avviene per la presenza di
quattro fattori:
a)I genitori devono avere dei precedenti di carenza affettiva o fisica e forse anche di abuso
b)il bambino deve essere visto come non attraente o spiacevole
c)ci deve essere una crisi
d) non esiste nessuna effettiva “lifeline” o possibilità di fere ricorso a fonti di aiuto immediato al
momento della crisi[25]
2.2. La violenza psicologica
E’ probabilmente la più diffusa, poiché presente, ad esempio contemporaneamente anche alle altre
forme di abuso; ma è al più difficile da individuare poiché meno visibile. Di solito è piuttosto
precoce e viene inflitta i modo regolare e sistematico sul figlio che potrà esprimere il suo disagio
attraverso sintomi quali:
1. disturbi psicomotori, disturbi alimentari e del sonno;
2. ritardi del linguaggio;
3. difficoltà nei rapporti coi coetanei;
4. difficoltà scolastiche.
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Oppure i segni del maltrattamento psicologico verranno alla luce durante l’adolescenza attraverso:
1. psicosi
2. anoressia mentale
3. tossicomanie
4. tentati suicidi
2.3 La patologia della somministrazione delle cure
Questa categoria di abusi riguarda quei casi in cui “i genitori, o le persone legalmente responsabili
del bambino, non provvedono adeguatamente ai suoi bisogni, fisici e psichici , in rapporto al
momento evolutivo e all’età”[28] Quando un genitore non è in grado di cogliere empaticamente e
rispondere adeguatamente alle esigenze specifiche che il bambino presenta in un dato momento
della sua crescita , potranno manifestarsi tre categorie cliniche:
Incuria quando le cure sono insufficienti;
Discuria quando le cure vengono fornite ma in modo non adeguato e anacronistico;
Ipercura quando vengono somministrate cure eccessive o sproporzionate ai bisogni.
Nell’ipercura vengono incluse:
La Sindrome di Munchausen per procura in cui la madre, psicotica, considera il figlio come
estensione del proprio corpo e lo sottopone a interminabili cure e ricoveri nella convinzione
delirante che sia affetto da qualche patologia fisica. Il medical shopping che consiste in una
versione meno grave della sindrome precedente poiché il genitore in questo caso soffre di disturbi
nevrotici, soprattutto ipocondriaci che vengono spostati sul corpo del figlio che viene condotto da
un medico all’altro, da un ospedale all’altro per controllo medici e analisi senza fine. Il chemical
abuse che consiste nella tendenza del genitore a somministrare al figlio sostanze chimiche,
farmacologiche e di altro tipo nella convinzione errata e delirante che ne abbia bisogno,
provocando effetti molto nocivi alla sua salute.
2.4. La violenza sessuale
La violenza sessuale all’interno della famiglia è più diffusa di quanto si creda. Secondo dati Censis
per il ‘98 vi è 1 caso di abuso circa ogni anno ogni 400 bambini; per due terzi si tratta di abusi
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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sessuali che avvengono tra le mura domestiche ad opera di famigliari o conoscenti; incide sulla
possibilità di un rilevamento attendibile di tali reati, la tendenza della vittima a nascondere la
violenza. Il particolare contesto in cui la violenza si consuma, infatti, condiziona fortemente le
possibilità della vittima di ribellarsi o di denunciare l’aggressore: l’omertà familiare, la vergogna, i
sensi di colpa e più o meno impliciti ricatti affettivi, favoriscono il segreto e, così, l’accrescere del
numero oscuro. Se la vittima di abuso sessuale è il coniuge o comunque un adulto, la legge punisce
tali reati attraverso la legge n°66 del 1996, art.609bis (Violenza sessuale):
“Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o
subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.”
Anche in assenza di violenza, viene considerata illecita, dal nostro codice penale, la congiunzione
carnale tra consanguinei, considerando una aggravante la relazione incestuosa; infatti l’ art. 564
(“Incesto”) recita:
“Chiunque in modo che ne derivi pubblico scandalo, commette incesto con un discendente o un
ascendente, o un affine in linea retta, ovvero con una sorella o un fratello, è punito con la reclusione
da uno a cinque anni. La pena della reclusione da due a otto anni nel caso di relazione incestuosa.
Nei casi preveduti dalle disposizioni precedenti, se l’incesto è commesso da persona maggiore
d’età, con persona minore degli anni diciotto, la pena è aumentata per la persona maggiorenne. La
condanna pronunciata contro il genitore comporta la perdita della potestà dei genitori.” E’ utile
ricordare che il reato di incesto fa parte dei “Delitti contro la famiglia” (Titolo XI) e in particolare
dei “Delitti contro la morale familiare”, cioè non si reprime il comportamento incestuoso di per sé,
ma solo in quanto fonte di pubblico scandalo che si “determina quando la realazione incestuosa
viene conosciuta da un numero imprecisato di persone a causa di comportamenti incauti o
addirittura ostentati oppure per la manifestazione di segni palesi incontrovertibili quali la
gravidanza o il parto”[29]. Oltre a questa condizione, deve esserci volontarietà del rapporto e
consapevolezza del vincolo di consanguineità, in caso contrario si configurerebbe incesto innocente.
[30] Se l’abuso sessuale coinvolge come vittime i minori, il reato presenta maggiore gravità in
quanto la condizione di dipendenza fisica e psicologica del bambino nei confronti dei suoi genitori
o dell’ascendente lo pone in una condizione di maggiore vulnerabilità di cui l’adulto può facilmente
approfittare grazie al ruolo privilegiato che ricopre nei suoi confronti; infatti la violenza sessuale sui
minori viola non solo la libertà di determinazione dell’individuo, nelle sue scelte sessuali, ma viola
anche la fiducia e le naturali aspettative di attenzione cura ed affetto che il bambino nutre nei
genitori, creando in lui una confusione di ruoli e di limiti che potranno avere delle importanti
ripercussioni sul suo futuro sviluppo psicoaffettivo . Questo anche in assenza di uso esplicito di
violenza o coercizione; in molti casi infatti l’abusante, proprio in virtù del suo ruolo di genitore o di
adulto di riferimento per il bambino, riesce ad ottenere con facilità il consenso (o “pseudoassenso”
sarebbe più corretto dire) da parte della sua vittima, tramite l’uso di lusinghe, promesse, ricatti o
velate minacce. Malacrea e Vassalli riportano la descrizione di Sgroi, Blick e Porter[31] delle varie
fasi dello sviluppo dell’incesto in cui fanno precedere al momento dell’interazione sessuale vera e
propria, la fase detta appunto dell’adescamento in cui “il genitore incestuoso ricerca attivamente le
condizioni per mettere in atto la seduzione , costruisce un rapporto privilegiato con la vittima e crea
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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le circostanze che gli consentono un contatto con la stessa, al riparo dagli altri membri della
famiglia. [….]I mezzi di convincimento variano da un approccio ludico e subdolo, accompagnato da
regali o altro, fino alla violenza fisica, alle minacce e alla coercizione” Anche per questi motivi la
nostra legislazione prevede una serie di articoli, appositamente formulati per i casi in cui venga
coinvolto un minore, ad es la succitata L 66 del ’96 include:
l’art.609ter (Circostanze aggravanti del reato di violenza sessuale) che prevede la pena di
reclusione dai sei ai dodici anni quando, tra gli altri casi, la violenza sessuale viene compiuta su
a)minore di quattordici anni b)minore di sedici anni quando il colpevole sia l’ascendente, il genitore
anche adottivo, il tutore; mentre la reclusione diventa da sette a quattordici anni se la vittima non ha
compiuto dieci anni;
L’art. 609quater (Atti sessuali con minorenne) che punisce con una reclusione da cinque a dieci
anni:
“..chiunque compia atti sessuali con persona che, al momento del fatto 1)non ha compiuti
quattordici anni 2)non ha compiuto sedici anni quando il colpevole sia l’ascendente, il genitore
anche adottivo, il tutore ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione , di istruzione,
di vigilanza o di custodia, il minore è affidato, o che abbia con quest’ultimo, una relazione di
convivenza…”.
La pena è aumentata se il minore non ha compiuto dieci anni.
Infine all’art. 690quinques (Corruzione di minorenne) si prevede anche che:
“Chiunque compie atti sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici, al fine di farla
assistere, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”.
Infine la stessa legge introduce un’altra novità importantissima perché prevede con l’art. 609decies
(Comunicazione al tribunale per i minorenni) che il Procuratore della Repubblica nel caso in cui
proceda per i reati descritti, ne debba dare notizia al Tribunale dei Minorenni in modo da attivare
tempestivamente gli interventi di tutela del minore contemporaneamente e in accordo con quelli
rivolti al perseguimento penale del colpevole.
Infine è previsto (art.398, comma 5bis) che , ove tra le persone interessate all’assunzione della
prova vi siano minori di anni sedici, il giudice stabilisce il luogo, il tempo e le modalità particolari
attraverso cui procedere all’incidente probatorio, quando le esigenze del minore lo rendono
necessario e opportuno.. A tal fine l’udienza può svolgersi anche in un luogo diverso dal tribunale,
avvalendosi il giudice, ove esistano, di strutture specializzate di assistenza o, in mancanza, presso
l’abitazione dello stesso minore.Le dichiarazioni testimoniali devono essere documentate
integralmente con mezzi di riproduzione fotografica o audiovisiva. Quando si verifica una
indisponibilità di strumenti di riproduzione o di personale tecnico, si provede con le forme della
perizia ovvero della consulenza tecnica.
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Riassumendo, le diverse condotte delittuose riconducibili all’abuso sessuale intrafamiliare punite
dalla Legge italiana sono:
Violenza sessuale
Incesto (congiunzione carnale/relazione tra consanguinei)
Esibizionismo (art.609 quinquies “corruzione di minorenne)
Sfruttamento della prostituzione minorile
Pornografia minorile
Questi ultimi due reati, accanto al fenomeno del turismo sessuale, rappresentano tre forme di
sfruttamento sessuale dei minori che in realtà, avvengono in maggioranza all’esterno della famiglia;
lo sfruttamento Lo sfruttamento a fini pornografici del bambino si correla però spesso con
condizioni di degrado culturale ed economiche sfavorevoli della famiglia, cosicché ci può essere la
complicità dei genitori stessi in questo tipo di reato Ma, sia nel caso dello sfruttamento della
prostituzione che in quello pornografico, difficilmente si tratta di casi singoli e d isolati; per la
maggior parte essi sono espressione di un vero “mercato “ degli abusi, in cui sono soprattutto delle
organizzazioni criminali, locali, di importazione o internazionali che regolano il traffico sessuale.
Con il famoso “Affaire Dutroix”, l’opinione pubblica europea ha acquisito consapevolezza, in
maniera traumatica, di un fenomeno fino ad allora poco conosciuto: l’esistenza di vere e proprie reti
criminali attraverso le quali il “consumo” dei bambini è promosso e organizzato. Si è poi realizzato
che non si trattava soltanto di consumo “carnale” ma di un fenomeno se possibile più grave, di
sequestro ed eliminazione fisica dei bambini, e ancor più il coinvolgimento di nomi eccellenti, di
complicità importanti che ha reso anche dubbia la reale efficacia punitiva di questi reati.[32] Anche
il turismo sessuale da qualche anno è diventato un’attività “imprenditoriale” redditizia per alcune
organizzazioni criminali che organizzano viaggi verso paesi sudamericani e asiatici per “turisti del
sesso” che, una volta rientrati nel proprio luogo di residenza, potranno voler ripetere l’esperienza,
slatentizzando quindi comportamenti pedofili e instaurando una consuetudine illecita con altri
bambini.
Quali sono i motivi dell’incesto?
Non è possibile identificare un’unica causa alla base dell’incesto. Più verosimilmente possiamo
ritenere che diversi fattori concorrano a sviluppare una dinamica incestuosa, fattori che possiamo
distinguere in: fattori interni, ambientali, socioculturali, familiari [33] I fattori interni sono quelli
attribuibili essenzialmente alle caratteristiche dell’aggressore, soprattutto in termini di personalità,
di psicopatologia o devianza. Una tipologia del padre incestuoso distingue in ( Barry, 1985): “Il
tiranno”: autoritario e dominatore, controlla i figli impedendo loro di frequentare il “mondo
esterno”, gelosissimo della figlia tanto da isolarsi e isolarla. Il razionalizzatore prova sensi di colpa
par il proprio comportamento incestuoso, per cui cerca delle giustificazioni razionali che lo possano
spiegare, come il fatto che esso esprime l’affetto che prova verso la figlia e l’intento di fornirle una
educazione sentimentale/sessuale. L’introvertito è colui che cerca nella famiglia la soddisfazione
per tutti i suoi bisogni. Il suo mondo è la propria casa nel quale si isola e che vive come un rifugio
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rispetto le pressioni e le responsabilità che i rapporti interpersonali comportano. L’alcolizzato cerca
conforto nell’alcol per le proprie frustrazioni, ha una personalità dipendente e i momenti di
intossicazione diventano un alibi per soddisfare i propri desideri sessuali con la figlia.
Fattori ambientali
Fattori socioculturali
E’ uno stereotipo poco verosimile quello per cui la famiglia incestuosa sia svantaggiata sul piano
sociale ed economico. Molti padri incestuosi sono dei professionisti affermati, cittadini rispettabili e
perfettamente integrate nella comunità. Una bassa condizione sociale e una bassa possono al limite
incidere sulla probabilità di incorrere nelle maglie del controllo istituzionale e di offrire una
maggiore visibilità sociale. Per Merzagora[34] è l’elemento culturale ad essere maggiormente
significativo, soprattutto l’appartenenza ad una sottocultura, dove la violenza è usata correntemente
e quindi accettata e perseguita anche in ambito familiare.
Fattori familiari
Sarebbe inutile considerare i fattori precedenti se si escludessero quelli relativi alle dinamiche
familiari; si tratterebbe di una famiglia “patologica”, o “disfunzionale” dove l’incesto è utilizzato al
fine di gestire il conflitto, di mantenere l’unità familiare, soddisfare in maniera contorta i bisogni
affettivi, pratici e sessuali dei membri; una famiglia “endogamica” che tende scoraggiare ogni
rapporto con l’esterno nella convinzione che costituisca una minaccia o una fonte di frustrazione e
che il gruppo famigliare soddisfi tutti i bisogni al suo interno.
2.5 L’infanticidio e il figlicidio
La violenza sui figli a volte può raggiungere gradi estremi e trasformarsi in omicidio. Avremmo
allora un figlicidio o, se il bambino è un neonato, un infanticidio. L’infanticidio e l’abbandono sono
pratiche esistite da sempre e ancor oggi drammaticamente diffuse. Spesso sono state utilizzate come
forma di controllo demografico delle nascite. Nella Grecia antica ad esempio i bambini deformi
venivano gettati dalla Rupe ; oppure nella Roma imperiale esisteva un luogo (Columna Lactaria)
dove si raccoglievano le balie per allattare i bambini che venivano abbandonati. Per quanto riguardo
l’infanticidio esso rimane ancora oggi un modo per evitare una maternità indesiderata, basti pensare
ai frequenti casi di neonati nel “cassonetto” della spazzatura. D’altra parte anche il mito abbonda di
casi di neonati abbandonati e sacrificati; pensiamo alla strage degli innocenti ordinata da Erode, al
mito di Romolo e Remo, o quello di Kronos che divora i suoi figli. Non a caso viene utilizzato
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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proprio il riferimento ad un personaggio della mitologia greca per indicare un fenomeno particolare
di figlicidio. Si indica con il nome di “complesso di Medea” una particolare situazione in cui la
madre uccide i propri figli per nuocere al coniuge, ricalcando le gesta del personaggio mitico che
uccise appunto le sue due figliolette per vendicarsi del tradimento di Giasone. Si tratta di casi in cui
si riscontra sempre una situazione di coppia conflittuale; a volte la donna è vittima dei
maltrattamenti del marito, ma quasi sempre i loro dissapori riguardano i figli, quest’ultimo diventa
l’oggetto della violenza della madre che non riesce a riversare sul marito; inoltre l’eliminazione del
figlio ha l’obiettivo di produrre sofferenza al coniuge oppure di evitare sofferenze al bambino
affinché non ripercorra le stesse vicende esistenziali della madre[35]. E’ interessante notare come
nell’omicidio in genere si può rilevare una prevalenza maschile nel sesso dell’autore dei delitti, nei
casi di omicidio di familiari non legati da vincoli sessuali, come i figli, la donna prevale in
frequenza numerica tra gli assassini. Emergerebbe cioè che tra le donne risultano elevati i reati
relativi al figlicidio e all’infanticidio caratterizzati da un forte vincolo affettivo primario tra autore e
vittima, mentre sono molto scarsi quelli relativi al parricidio, al parenticidio e al matricidio[36].
Non solo. In base all’applicazione dell’art. 88, in buona parte gli autori di questo tipo di reati
(infanticidio e figlicidio) vengono giudicati infermi di mente e quindi incapaci di intendere e di
volere.[37] Dal punto di vista giuridico l’infanticidio viene considerato con maggiore indulgenza
rispetto ad altre forme di reato, anche rispetto al figlicidio. Vengono previste attenuanti nei casi in
cui l’omicidio del bambino avvenga “immediatamente dopo il parto” ritenendo la fase puerperale
una particolare condizione della donna , fisica e psichica, transitoriamente alterata[38]. Alcuni studi
descrivono la personalità della donna infanticida come caratterizzata da depressione, distacco
affettivo, tendenza all’actingout, alterazione della realtà, ecc. ma riconoscono anche il peso in
questi reati di particolari condizionamenti ambientali che può subire la donna in determinate
condizioni sociali, culturali ed economiche in cui viene a trovarsi. Soprattutto quando vivono in
condizioni economicamente disagiate o devono affrontare da sole il parto e il puerperio, quando
hanno conflitti con il partner o hanno tenuto celata la gravidanza o ancora sono state colte
inaspettatamente dalle doglie e partoriscono senza assistenza. Molte infanticide infatti tengono
nascosta la gravidanza, per diversi motivi, la gestiscono in maniera spesso inconsapevole, quasi
negandola alla coscienza; poi partoriscono fuori casa, in solitudine e abbandonano il neonato che
muore per i traumi, per il freddo o per mancata assistenza; il ricovero delle madri in ospedale per le
conseguenze del parto consentono spesso la scoperta del reato.
La violenza sui genitori
4. 1.Il parenticidio[39]
Il parenticidio consiste nell’omicidio di entrambi i genitori da parte di un figlio. Si differenzia in tal
senso dal semplice parricidio o matricidio ma la nostra legislazione non prevede una fattispecie
criminosa specifica come invece altri paesi europei quale ad esempio la Francia, e viene fatto
rientrare nel reato di omicidio multiplo, quindi viene considerata una circostanza aggravante
dell’omicidio. Negli ultimi venti anni i casi di parricidio sono aumentati sensibilmente; c’è stata una
flessione nella seconda metà degli anni 80 ma poi il numero di parricidi è addirittura raddoppiato.
Quest’andamento non ha riguardato omogeneamente tutta l’Italia: nel Nord si concentrano la
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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maggior parte dei casi (soprattutto Lombardia , Liguria e Veneto), seguono poi le regioni
meridionali e quelle centrali. IL parenticida è generalmente di sesso maschile e di giovane età (età
media di 29 anni). Anche in questo caso varia la distribuzione geografica relativa all’età
dell’omicida: al Nord prevarrebbe il parricida al di sotto dei 25 anni mentre al Sud la maggior parte
degli omicidi viene commessa da adulti. La vita affettiva e relazionale del parenticida è
generalmente scarsa, non ha una vita di coppia o una situazione familiare stabile. E’ interessante
notare che si tratta di soggetti prevalentemente disoccupati o con un lavoro precario: solo una
piccola percentuale (il 20% circa) infatti può godere di una certa autonomia economica, svolgendo
una regolare professione. Questo dato ci introduce al problema del movente e mette in luce
l’importanza dell’interesse economico tra le ragioni che muovono tale delitto. Pensiamo al famoso
caso di Pietro Maso del 1991, e quanto proprio l’aspetto strumentale e materiale di tale omicidio
abbia sconvolto l’opinione pubblica. Pensiamo anche alla situazione di dipendenza in cui i giovani
adulti si trovano attualmente dato che si sono socialmente allungati i tempi in cui è data loro la
possibilità di rendersi autonomi dalla famiglia: frustrazioni e miti di benessere economico elevati
possono aumentare in questa convivenza forzata, le possibilità di tensione e conflitto familiare, e
l’eliminazione fisica dei genitori può rappresentare un “giusto” mezzo per ottenere ciò che si vuole
ottenere senza troppi sacrifici. C’è da precisare, a tale proposito, che i parenticidi avvengono in
famiglie appartenenti sia ad un livello economico mediobasso: padri pensionati, operai o impiegati
con madre casalinga; sia ad un livello medioalto, dove i genitori generalmente lavorano entrambi,
specie con un lavoro autonomo di tipo imprenditoriale. Le motivazioni di un parricidio però non si
esauriscono nell’interesse economico; possono esserci infatti motivi di litigiosità familiare
“cronica”, dove prevalgono i parenticidi compiuti da adolescenti e giovani al di sotto dei 25 anni ; e
motivi legati alla presenza di patologie psichiatriche gravi presenti nell’omicida. Si tratta
principalmente di sindromi schizofreniche e più raramente di depressioni gravi; può trattarsi a volte
anche di tossicodipendenza o alcolismo cronico. Questa categoria di moventi, quella in cui si può
rinvenire un disturbo patologico nell’omicida, è quella maggiormente rappresentata in termini
percentuali (30% circa). Però non si deve credere che l’omicidio avvenga in modo improvviso e
incontrollato; la dinamica dei parenticidi spesso mette in luce una lunga e attenta preparazione,
tentativi di occultamento dei cadaveri e l’utilizzo di armi ben poco casuali quali rivoltelle e armi
da punta e taglio e in minor misura corpi contundenti come martelli, bastoni ,e pietre. Le vittime
solitamente sono solo i due genitori; capita però che l’omicidio venga esteso anche ad altri membri
della famiglia, ad esempio i fratelli minori (vedi il caso Carretta), anche perché spesso il
parenticida, quando non è figlio unico, e un primogenito. Questo dato vittimologico ci introduce ad
un'altra forma di omicidio domestico che si differenzia sia dall’uxoricidio che dal parenticidio. Si
tratta di quei casi in cui un familiare uccide tutti i membri della propria famiglia, nucleare o
allargata in una unica occasione. Si potrebbe parlare “omicidio di massa familiare” che spesso si
conclude con il suicidio dell’omicida. Questi, per la maggior parte, risulta essere di sesso maschile,
ha un’età compresa tra i 2954 anni e può soffrire spesso di sindromi depressive anche gravi. Il suo
gesto può avere un significato rivendicativo, oppure rappresentare un tentativo delirante di
preservare le sue vittime (quasi sempre moglie e figli) dalle sofferenze di una esistenza e di un
mondo vissuti come minacciosi e senza vie di scampo. In Italia queste stragi familiari si verificano
in prevalenza nel mezzogiorno, soprattutto nella provincia e si intensificano a partire dal 1995.
146
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
147
Riferimenti bibliografici:
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[1] Ferracuti F. (a cura di) “Trattato di criminologia, medicina e psichiatria forense” , Giuffrè,
Milano,1988, vol VIII.
[2] Ponti G., “Compendio di criminologia”, Cortina, Milano, 1990
[3] Gulotta G., “Famiglia e violenza. Aspetti psicosociali”, Giuffrè, Milano, 1983
[4] Ibidem
147
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
148
[5] Ibidem
[6] Ibidem
[7] Ferracuti F., (a cura di), 1988, op. cit., pag 112
[8] Gulotta G., 1983, op. cit
[9] Gulotta G., 1983, Op. cit.
[10] Gulotta G., 1983, Op. cit
[11] Ibidem
[12] Ferracuti F. (a cura di), 1988, op. cit, pag111
[13] Gelles R. J., « Abused Wives », cit in Gulotta G., op. cit., pag 9394
[14] Minuchin S., “Quando la famiglia guarisce”, Rizzoli, Milano, 1993, pag 77
[15] AA.VV. “Vivere per Uccidere. Anatomia del serial killer”, Calusca Edizioni, Padova,1997,
pag 112
[16] Da “La Repubblica”, Luglio 1998
[17] Ibidem
[18] A. V. “Vivere per uccidere. Anatomia di un serial killer”, Calusca edizioni, Padova, 1997, pag
118119
[19] Ibidem
[20] Ammaniti M. et Al., “Il bambino maltrattato”, il Pensiero Scientifico, Roma, 1981
[21] Montecchi F., “I maltrattamenti e gli abusi sui bambini”, FrancoAngeli, Milano, 1998, pag 23
[22] Kempe H., Kempe R.S., “ Le violenze sul bambino”, Sovera Multimedia, Roma, 1980
[23] Ibidem
[24] Cesa – Bianchi M. (a cura di): “La violenza sui bambini”, Franco Angeli, Milano, 1993;
[25] Kempe H, Kempe R.S., 1980, op. cit., pag 42
[26] CesaBianchi M., Scabini E. (a cura di) 1993, op. cit pag157
148
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
149
[27] Ibidem
[28] Montecchi F., 1998, op. cit., pag 74
[29] Montecchi F., 1998, op. cit., pag 207
[30] Ibidem
[31] Malacrea M., Vassalli A., “Segreti di famiglia. L’intervento nei casi di incesto”, Cortina,
Milano, 1990, pag33
[32] Atti del Convegno “pedofilia e internet”, Roma 27 Ottobre 1998
[33] F. Ferracuti, (a cura di) “Trattato di criminologia, medicina e psichiatria forense” , Giuffrè,
Milano,1988.
[34] Merzagora I., “L’incesto. Aggressori e vittime, diagnosi e terapia”, Giuffrè, Milano,1986
[35] De Cataldo NeuburgerL (a cura di): “La criminalità femminile tra stereotipi culturali e
malintese realtà”, Cepam, Padova,1996
[36] Ibidem, pag244
[37] Capri P., Lanotte A. in De cataldo Neuberger L., 1996, Op. cit., pag143150
[38] Ibidem
[39] I dati riportati in questo paragrafo sono state tratte da una ricerca riportata in Piacentini F. “Il
parenticidio. Quando la famiglia produce morte”, in AA.VV “Vivere per uccidere”, Calusca Ed.,
Padova 1997, pag109119
LE DROGHE SINTETICHE
Introduzione
Le nuove droghe di sintesi rappresentano, in questo breve saggio, il terreno di incontro in un’ottica
tipicamente multidisciplinare di competenze scientifiche diversificate, criminologiche, giuridiche,
farmacologiche ed epidemiologiche. Questa area tematica, relativamente nuova poiché attinente a
fenomenologie emerse nel mondo da poco più di un ventennio (e in Italia dalla seconda metà degli
anni ’80), trova una grande attualità in tempi recenti, sia in termini di evidenza “da parte dei media”
e sia in termini di preoccupazione da parte della comunità scientifica internazionale a causa
dell’andamento esponenziale del trend di diffusione e del modesto timore nei confronti della
sostanza che la maggior parte dei consumatori sembra manifestare. Tale contesto sembra poter
autorizzare, per un futuro prossimo, previsioni abbastanza allarmistiche in termini quantitativi e
impone una maggior attenzione nei confronti di strategie preventive mirate, attuate anche mediante
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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percorsi di ricerca scientifica nei confronti delle aree sociali quelle giovanili maggiormente a
rischio. Molto probabilmente, il settore delle droghe di sintesi costituirà, nell’ambito del “pianeta
droga” quello a maggior espansione nel terzo millennio.
Aspetti criminologici
1. Generalità.
L’estasy (o MDMA) costituisce la sostanza più nota di una nuova classe di droghe sintetiche[1]
definite "entactogene" o "empatiche" in quanto, tra i vari effetti, inducono una certa facilità ed
empatia nei rapporti sociali riducendo le inibizioni culturali e provocando artificialmente una certa
intimità e un'accresciuta capacità di comunicazione. Inventata nel 1913 nei laboratori tedeschi della
Merk per ridurre l'appetito e la fatica fu successivamente sperimentata dall'esercito USA nel 1953
come stimolante ma fu rapidamente abbandonata per i "bizzarri" effetti collaterali allucinogeni
imprevedibili e talvolta estremamente pericolosi. Il suo uso, prevalentemente ricreazionale, nel
nostro Paese si osserva a partire dalla seconda metà degli anni 80', soprattutto tra i frequentatori di
discoteche e, tale diffusione, sembra essere in notevole incremento nonostante sia stata classificata
come sostanza illegale e nonostante la conclamata neurotossicità della molecola. L'elevata
pericolosità sociosanitaria dell’ecstasy, così come documentato da numerose ricerche, sembra
essere legata proprio all'espansione rapida e difficilmente controllabile (se non attraverso indicatori
secondari come ad esempio il numero degli incidenti di macchina in certi orari e in certi luoghi) del
fenomeno in diversificate aree sociali con una certa prevalenza di consumatori di età molto giovane.
Infatti, secondo qualificate fonti scientifiche, le alterazioni psicocomportamentali indotte
dall'assunzione di sostanze psicotrope sintetiche possono determinare autolesioni di tipo accidentale
di varia natura (incidenti stradali, infortuni sul lavoro ecc.) dovute principalmente al comportamento
bizzarro ed alle anomalie percettive che tali molecole inducono[2].
2. Il consumo
Il problema delle cosiddette droghe chimiche o stimolanti di sintesi si sta proponendo come
preoccupante ed attuale cosi come si può anche evincere dal notevole interesse che viene loro
rivolto da molteplici organi di stampa nazionali ed esteri. Il consumo di ecstasy ed altre droghe
sintetiche a base amfetaminica, in svariate aree del mondo, è infatti pressoché raddoppiato dal 1991
ad oggi[3], pur non avvicinandosi, quantitativamente, ad altre sostanze psicotrope con diffusione
maggiore e più strutturata (eroina, cocaina e derivati della marijuana). Tale incremento sembra
essere correlato, oltre che a naturali tendenze subculturali e di mercato illegale, anche al notevole
calo del consumo di eroina specie negli USA dovuto alla levitazione del prezzo di vendita al
minuto e al timore generalizzato del contagio da AIDS che sempre più è ascritto alle droghe
iniettabili. Secondo il Ministero della Sanità[4], infatti, la percentuale di consumo di ecstasy in
Italia sembra salire in modo vertiginoso a giudicare dai sequestri di sostanza e, in diversi ambiti
scientifici, è stato più volte affermato che, in generale, l'aumento delle droghe di sintesi sul mercato
internazionale, è stato oggetto di una notevole sottovalutazione che ha portato ad uno sviluppo
incontrollato del fenomeno, combattuto poco e male dal punto di vista sia della repressione che
150
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
151
della ricerca. L'attuale fortuna delle droghe di sintesi sembra quindi essere correlata a numerosi
fattori interagenti tra loro. In primo luogo hanno un costo contenuto rispetto alle altre sostanze più
tradizionali (una pasticca viene venduta per poche decine di migliaia di lire) e si pongono in
competizione addirittura con sostanze psicoattive di tipo legale come ad esempio i superalcolici. In
secondo luogo gli effetti dell’ecstasy sono molto evidenti, al contrario di quelli della marijuana, e
possono quindi essere percepiti anche da consumatori occasionali ed inesperti. La maggior parte
delle droghe sintetiche, infine, consentono una "trasgressione" ben limitata nel tempo con minori
rischi sociali di individuazione avendo degli effetti temporalmente definiti, fatto salvo per alcuni
effetti di "flash back" (riattivazione della sostanza con allucinazioni a distanza di molto tempo
dall'assunzione)[5] e riducendo, di conseguenza, i rischi di stigmatizzazione[6]. Alcuni tra i
principali effetti descritti nell’ambito delle droghe sintetiche a base anfetaminica, come ad esempio
la “sensazione di vicinanza agli altri, l’euforia, la fiducia in se stessi, l’aumento della percezione
sensoriale e altro ancora, sembrano sposarsi con le pressanti richieste dell’attuale social system, in
special modo per ciò che attiene alle rappresentazioni sociali diffuse in termini di adeguatezza
comunicazionale e in termini di continuo aggiornamento del sé alle stimolazioni culturali.
L’efficienza psico fisica e l’abilità nelle relazioni interpersonali costituiscono due peculiarità che
nell’immaginario collettivo corrente (occidentale e postindustriale) vengono ascritte all’uomo e alla
donna di successo e connotate, in genere, positivamente. E tale contesto, secondo quanto
documentato dai maggior esperti ed osservatori del mutamento sociale, appare in una fase di
ulteriore definizione ed esasperazione, in tutti i comparti della vita umana organizzata (lavoro,
studio, cultura, svago ecc.). In termini meramente ipoteticoprevisionali, quindi, essendo il successo
dell'ecstasi specie nel mondo notturno delle discoteche riconducibile in primo luogo alla sua
capacità di rispondere alle esigenze di molti giovani che vivono una certa difficoltà di rapporti
sociali prodotta dal nostro tempo ed essendo tale difficoltà di "comunicazione diretta" uno degli
elementi maggiormente ipotizzati per il futuro dagli scienziati sociali internazionali, si può
agevolmente presupporre che la questione delle droghe di sintesi possa rappresentare una delle
emergenze sociosanitarie di punta nel decennio prossimo. La capacità di comunicazione e
l’efficienza, in base alle tendenze delle principali strutture e dinamiche sociali, sembrano infatti
proporsi per il prossimo futuro in condizione di sempre maggior valorizzazione e con esse,
probabilmente, anche tutto ciò che a vario titolo sembra facilitarle, compresa l’illusione degli
stimolanti di sintesi. Aspetto di notevole importanza, in quest’ottica, è costituito dalla notevole
differenza, in termini psicologici, che, a nostro avviso, è individuabile tra i consumatori di ecstasy e
tra i consumatori di oppiacei e di derivati della cannabis. La differenza fondamentale è riferibile al
diverso modo di porsi nei confronti del mondo, dell’altro generalizzato, del proprio sé. Chi assume
anfetaminici di sintesi, infatti, cerca di, procurarsi una valida interfaccia con una realtà ritenuta
probabilmente irraggiungibile con le proprie forze, ma la sua trasgressione è reversibile e
temporizzata e, al termine dello sballo, c’è ancora il vecchio e caro mondo in cui si può rientrare
senza troppi guai. Assumere ecstasy (detto anche nel gergo delle discoteche giuggiola, vanessa,
bicicletta) fornisce, a basso costo, un’illusione di onnipotenza e contrasta i deficit di autostima assai
diffusi tra le fasce giovanili europee. Tale comportamento sembra andare in direzione opposta
rispetto al consumo di droghe “di fuga”, come gli oppiacei e, in misura minore, i derivati della
cannabis, il cui consumo vista anche la maggiore riconoscibilità sociale che inducono in un certo
senso implica una sorta di rinuncia alla competitività sociale e l’autoconfinazione in un recinto
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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subculturale nella cui direzione, la maggior parte delle anticipazioni mentali più o meno
consapevoli degli effetti dell’azione, configurano scenari di stigmatizzazione e criminalizzazione e,
in generale, di esclusione. Altro fattore di diversificazione importante è rappresentato dal fatto che
l’approccio agli anfetaminici di sintesi è solitamente collettivo, al contrario degli oppiacei
iniettabili, il cui consumo è, viceversa, di solito individuale o al massimo di piccoli gruppi. Già
negli anni ‘80 infatti, dall’inizio della sua diffusione in Europa, il carattere aggregativo dell’ecstasy
appare evidente e la sua immagine si diffonde attraverso delle circostanze ricreative collettive. E’ il
caso dei RAVE PARTY assai famosi in USA e successivamente importati in Gran Bretagna che si
tenevano, e si tengono, in fabbriche abbandonate e in altri luoghi non elettivamente destinati alla
socialità, attraverso uno specifico sistema di inviti (volantini, annunci di radio private, “passa
parola”). Nell’ambito dei RAVE PARTY si definiscono anche dei generi musicali in grado di
fornire spinte sinergiche alle nuove droghe sintetiche, come la HOUSE MUSIC e la TECNO
MUSIC, che contengono ritmi di circa 200 battute per minuto e, con la loro “ossessiva” frequenza,
orientano la percezione degli effetti di tali sostanze. Non si vuole affermare che una qualsivoglia
produzione artisticomusicale sia in qualche modo studiata in direzione dell’assunzione di ecstasy
ma certi ritmi ossessivi, espressione artistica della moderna società informatizzata, di fatto
assumono il carattere di uno sfondo “ad hoc” per il consumo di tali sostanze. Rispetto alle aree
sociali tradizionalmente interessate al consumo di droghe, sufficientemente conosciute nel contesto
scientifico e in quello istituzionale preposto alla prevenzione, per le droghe sintetiche sembra quindi
delinearsi un nuovo pubblico di assuntori le cui caratteristiche, viceversa, sembrano sfuggire ai
tentativi di classificazione e localizzazione statistica consueta ed alla consequenziale definizione
dell'oggetto delle campagne preventive e repressive. Quelle infatti che normalmente vengono
definite le "concause" che concorrono insieme a quelle psicologiche e relazionali a favorire
l'accostamento di un individuo alla droga (emarginazione, insoddisfazione, noia, inadeguatezza
sociale ecc.) sembrano essere soppiantate da fattori più sfumati e talvolta occasionali costituendo un
quadro che ha preso alla sprovvista le strutture preposte alla prevenzione e alla repressione del
fenomeno.
3. I fattori di rischio
Secondo il parere di una cospicua parte della comunità scientifica internazionale, l'ecstasi non porta
ad un uso frequente e regolare dato che il desiderio della sostanza (craving) sembra essere
principalmente legato all'insorgere di effetti "positivi" (buon umore, intimità, energia ecc.) e tali
effetti positivi o piacevoli diminuiscono con l'uso frequente o massivo di questa droga. Tale quadro
potrebbe indurci consequenzialmente ad ipotizzare un incremento futuro del trend di consumo di
tipo orizzontale, limitato nella quantità e frequenza da parte dei consumatori che per così dire si
autolimitano per mantenere un piacevole rapporto con la sostanza ma implementato, per ciò che
attiene all'area dei nuovi consumatori, dall'inserimento di individui che vengono in contatto con
l’area subculturale degli “abituali” e da loro apprendono come soddisfare il loro bisogno di
trasgressione assumendo un rischio minore rispetto all’uso di altre droghe. In realtà, infatti, anche se
i media sono stati, specie negli ultimi tempi, prodighi di notizie sulle reazioni negative dell'ecstasi,
di fatto queste reazioni sono molto rare. Le manifestazioni estreme degli effetti collaterali (morte,
psicosi tossica, cardiopatie), sono spesso scatenate dal precipitare di alcuni fattori come malattie
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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preesistenti o insorgono per l'assunzione di dosi eccessivamente elevate o combinate con altre
droghe o sono correlate alle condizioni particolari di alcune discoteche (temperatura eccessiva)[7].
Particolarmente diffuso sembra infatti essere, tra i consumatori di droghe sintetiche, quello che è
stato definito fenomeno di “autocura”, l’abitudine, ovvero, di assumere, nel corso di un breve
intervallo di tempo (di solito da quando la sera si giunge in discoteca fino alle prime luci dell’alba)
una serie di sostanze psicotrope in modo da accentuare gli effetti gradevoli e per diminuire gli
effetti collaterali sgraditi. Si può ad esempio assumere alcool ed ecstasy per “sballare” e dopo
qualche ora cocaina per limitare il senso di prostrazione che solitamente insorge dopo qualche ora
dall’assunzione delle prime due droghe e altro ancora. Nella maggior parte dei casi, i maggiori
rischi di patologie acute sembrano essere correlati proprio a queste assunzioni di più droghe in
contemporanea o in progressione, definite dagli addetti ai lavori come “cocktails”. Per quanto
riguarda viceversa le conseguenze a lungo termine (che rappresentano il fattore di rischio sanitario
maggiore), soprattutto per ciò che attiene al deterioramento di organi ed apparati nel caso di un uso
prolungato nel tempo di ecstasi, le valutazioni scientifiche sono assai più caute ma tendono a una
generale preoccupazione anche in considerazione della scarsezza vista la giovinezza del fenomeno
di precisi e qualificati riscontri empirici[8]. Una parte della tossicità delle droghe di sintesi sembra
inoltre essere correlata anche alla spesso approssimativa competenza di chi effettua
clandestinamente le operazioni di laboratorio, sovente in condizioni igieniche precarie e con poca
accortezza nell’identificazione ed eliminazione delle sostanze di scarto e di quelle necessarie al
processo di raffinazione (solventi, reagenti chimici ecc.) che frequentemente sono presenti nel
prodotto finale fornendogli un’elevata pericolosità “aggiuntiva”. Tra gli elementi estranei altamente
tossici, che sono stati segnalati specie dai laboratori statunitensi all’interno delle dosi di ecstasy,
quello maggiormente significativo risulta essere il piombo che è responsabile di numerose e gravi
patologie a sintomatologia diversificata. In tale ottica, quindi, il fattore di rischio principale
dell’ecstasy (a breve e medio termine), più che per l’overdose o l’incremento di psicopatologie nelle
fasce giovanili, sembra configurarsi soprattutto in termini di diffusione quantitativa di stati
temporizzati di alterazione percettiva e della coscienza in sempre più individui, localizzati nelle aree
più giovani della popolazione con intuibili ripercussioni sull'aumento statistico di fatti accidentali
traumatici.
4. La dimensione criminale
La configurazione del mercato illegale delle droghe di sintesi mostra uno scenario diversificato e
complesso al cui interno orbitano sia le grandi organizzazioni criminali internazionali[9] anche se
in misura ancora minore rispetto al traffico di altre droghe e sia gruppi meno importanti, la
maggior parte dei quali orientati al procacciamento di piccole partite per il consumo personale o per
lo spaccio localizzato in aree di ridotte dimensioni. Sembra opportuno sottolineare, in tal senso, che,
mentre per coltivare, trasportare e raffinare le droghe tradizionali di derivazione vegetale (eroina,
cocaina, marijuana) sono necessari molti ettari di terreno e organizzazioni strutturate e composte da
molte persone, per quanto riguarda le droghe sintetiche, viceversa, sono sufficienti poche nozioni di
chimica, materie prime legali e facilmente reperibili e laboratori di ridotte dimensioni (basta una
cucina di casa) rendendo il tutto notevolmente più sfuggente all'attività di investigazione. La facilità
di produzione offre quindi larghi spazi anche per le organizzazioni minori e, finora, ha
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probabilmente determinato un interesse modesto da parte delle grandi compagini delinquenziali di
matrice mafiosa[10], abituate ad agire in regime di monopolio o al massimo di oligopolio, e
consequenzialmente in difficoltà per ciò che attiene il controllo di questo mercato illegale. Il
principale luogo di produzione e distribuzione è l'Olanda seguita dalla Germania e dalla Svizzera,
ma una notevole fetta del mercato viene coperta anche da paesi dell'exURSS (Polonia, Estonia,
Repubblica Ceca) le cui fabbriche chimiche stanno attraversando una fase di notevole difficoltà
dovuta al processo di riconversione all'economia di mercato e dove alcune di esse cercano
probabilmente, in tal modo, di acquisire capitali, anche attraverso tale l'attività illegale. La grande
diffusione di sostanze prodotte artigianalmente di pessima qualità ha indotto i grandi produttori
(specie olandesi) ad apporre una specie di marchio di identificazione come garanzia del prodotto e a
diffondere una sorta di catalogo clandestino che contiene indicazioni su centinaia di tipi di ecstasy
disponibili sul mercato con marchi, forme e colori diversi in base al dosaggio e alle caratteristiche
del prodotto, che consentono ai consumatori più esperti di programmare in anticipo i tipi di effetti
desiderati. Alcuni laboratori, di modesta capacità operativa, sono stati scoperti negli ultimi anni
anche in Italia (anche se la maggior parte dell'ecstasy è ancora di importazione) e si ha motivo di
ritenere che alcuni consumatori abituali, vista anche la relativamente facile sintetizzazione delle
sostanze, producano "in casa" piccoli quantitativi di molecole simili all’ecstasy per consumo
personale. Esemplificativo in tal senso appare il caso di alcuni studenti liceali, scoperti qualche
anno fa in Emilia Romagna, mentre, in possesso di elementari nozioni di chimica e con semplici
attrezzature sottratte al laboratorio di fisica della loro scuola, erano riusciti a creare delle anfetamine
rudimentali ma efficaci distribuite poi ai loro compagni di classe. Particolarmente interessante, in
termini criminologici, appare il sistema, che sembra diffondersi rapidamente tra i produttori
artigianali di droghe sintetiche, di realizzare una produzione dinamica, in continua evoluzione per
quanto riguarda le caratteristiche molecolari delle sostanze. Tale sistema, osservato dai laboratori
che analizzano, per conto dell’Autorità Giudiziaria, i quantitativi di droga oggetto di sequestro nel
corso delle operazioni di polizia, consiste in una vera e propria tecnica elusiva nei confronti della
legge penale in vigore in tema di stupefacenti. Il meccanismo giuridico attraverso il quale si
determina l'azione legale in caso di reati concernenti le droghe è infatti costituito, de facto, dalla
presenza o meno della sostanza in esame (sequestrata) sulla tabella posta in appendice alla vigente
legge in materia di stupefacenti. La contestazione del reato avviene in tal senso quando si riscontra
una pressoché identità molecolare tra la sostanza in esame[11] e quella riportata in tabella e quindi
classificata come droga dalla legge italiana. Nel caso di identificazione di nuove droghe viene
avviato un procedimento di modifica normativa tendente all'inserimento in tabella della nuova
sostanza a cui vengono attribuite peculiarità ed effetti pericolosi e questo procedimento ha dei tempi
tecnici rilevanti. Nella fase che intercorre tra la proposta di inserimento e l'effettiva annotazione,
ogni sequestro di sostanze (analoghe a quella che ha determinato la proposta), presenta quindi ben
poche possibilità di essere perseguito in termini formali se non per tipologie di reato diverse
(produzione e somministrazione abusiva di farmaci, professione abusiva di farmacista ecc.) e
comunque di inferiore gravità. Le droghe sintetiche, in quest'ottica, offrono la possibilità, attraverso
piccole modifiche del processo di sintesi che influiscono in maniera modesta sugli effetti ma che
apportano variazioni decisive alla struttura molecolare, di impedire un'assimilazione formale con le
droghe inserite in tabella e sembrano aver suggerito l'adozione di una vera e propria strategia di
dinamica produttiva (in continua modificazione) alle organizzazioni criminali interessate al mercato
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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Saunders Nicholas, E Come Ecstasy, Universale Economica Feltrinelli/ Onde, Milano, 1997.
[1]insieme all'MDMA sono presenti sul mercato clandestino l'MDEA e l'MDA e molti altri prodotti
derivati.
[2]queste alterazioni, che talvolta si manifestano a distanza di molto tempo dall'assunzione (flash
back) consistono principalmente in attacchi di panico, paranoia, depressione, aggressività nonché in
modifiche delle percezioni acustiche e visive (allucinazioni) e del senso di realtà;
[3]secondo dati della DCSA dal 1994 al 1995 si rileva un incremento del 110,88% dei sequestri di
MDMA;
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(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
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[5] F. J.CREIGHTON et. al., (Senior Registrar, Brindle House, Cheshire, U.K.), “Ecstasy psychosis
and flashbacks”, in: The British Journal of Psychiatry, 159: 713715, 1991.
[6] H. S. BECKER, “Outsiders”, Ed. Gruppo Abele, Torino, 1987.
[7] N. SOLOWIJ, W. HALL, N. LEE (National Drug and Alcohol Centre, University of New South
Wales, Kensington, Australia), “Recreational MDMA use in Sidney: a profile of “ecstasy” users
and their experience with the drug” in: British Journal of Addiction, 87:11611172, 1992.
[8] J. A. HENRY et.al., (National Poison Unit, Guy’s Hospital, London, U.K.), “Toxicity and
deaths from 3,4 methylenedioxymethamphetamine (ecstasy)”, in: The Lancet, 340: 384387, 1992.
[9]che hanno registrato notevoli perdite nel mercato dell'eroina da quando è iniziata la diffusione
dell'ecstasy e sembra abbiano dovuto ribassare il prezzo degli oppiacei per rimanere competitivi;
[10] Il traffico dell'ecstasy prodotto in Olanda offre apparentemente dei margini inferiori rispetto
alle droghe tradizionali. Una pasticca di media qualità si può infatti acquistare "all'ingrosso" in
Olanda per circa 7000 lire e può essere venduta al dettaglio in Italia per circa 4060 mila lire. Tale
livello di guadagno è probabilmente responsabile del fatto che una vasta area di questo mercato
clandestino è ancora occupata da piccoli gruppi di trafficanti o da singoli consumatori che si
procurano direttamente le pasticche di ecstasy nelle nazioni produttrici senza intermediazioni. Si
può facilmente presumere però che l'attenzione della grande criminalità organizzata non può non
essere orientata verso un così appetibile affare visto anche il notevole incremento dei consumi
avvenuto negli ultimi anni. Com'è noto, infatti, le grandi compagini criminali di tipo mafioso
tendono ad esercitare un controllo prevalente se non assoluto su specifiche attività illegali (droga,
racket, estorsioni ecc.) in determinate aree territoriali e, comunque, ad indurre eventuali concorrenti
minori a giungere ad una sorta di compromesso. Proprio in base all'attuale modesto margine di
guadagno che deriva dall'ecstasy di importazione si può inoltre ipotizzare che la criminalità
organizzata possa cercare di produrre autonomamente la droga sintetica in laboratori direttamente
controllati oppure che possa rivolgersi a fornitori più competitivi (e con pregressi accordi criminali)
quali, ad esempio, quelli dell'ex blocco sovietico.
[11]che viene analizzata da un laboratorio abilitato di farmacologia;
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